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Wednesday, January 29, 2025

GRICE E GUASTELLA

 Saggi sulla  teoria  della  conooccnr.a. Palermo D. Contenta Sui limiti  e  l'oggetto della  conoscenza  a priori Filosofia  della  r--^nfir-ica  ])t  1-!^ 1  'i^f^fì^rT","^Eondict^^dolln. Palermo, SAGGI SULLA Teoria  della  Conoscenza. Sui  limiti  e  l'oggetto  della conoseenza  a  priori PALERMO REMO   SANDRON. Uno degl’aspetti più caratteristici del modo di pensare metafisico è lo sforzo di conoscere il reale a priori, di costruirlo. Anzi possiamo dire, d’una maniera  generale, che a-priorismo è il sinonimo di metafìsica, come empirismo è il sinonimo di positivismo, almeno del vero positivismo, cioè quello che non ammette,  rigorosamente, che i fatti, i fenomeni, e le loro relazioni. Noi vedrenio in effetto nel saggio che, mentre il presupposto su cui si fonda il modo positivo di pensare è che non dobbiamo ammettere alcuna proposizione senza prova, non essendovi altra prova che la sperimentale, cioè l’induzione, la generalizzazione dei casi osservati, e, se la proposizione è particolare, la deduzione (il  sillogismo) fondata sovra un’induzione antecedente. Il modo metafisico si fonda invece, consapevolmente o inconsapevolmente, sul presupposto contrario, cioè che vi hanno dei principii che noi dobbiamo ammettere per la loro evidenza intrinseca, senza prova, e per conseguenza indipendentemente dall’esperienza e dall’induzione, in altri termini, a priori. Non vi ha dunque questione  più importante per la teoria della conoscenza che quella sulla possibilità e sui limiti della conoscenza a priori. E siccome la metafisica si propone di stabilire resistenza delle cose e il come di quest'esistenza non i loro rapporti nascenti d’una veduta della mente che le compara l’une con l’altre, cosi questa questione può circoscriversi per noi dentro confini più determinati. Possiamo noi  acquistare delle conoscenze  a/)r/or/ suiresistenza delle cose? O, in  altre  parole: questa esistenza può formare l’oggetto d’un giudizio a priori?  L'oggetto di questo saggio è di dare una risposta a questa domanda. Perciò noi non ricercheremo innnediatamente se la conoscenza o pretesa conoscenza a priori che oltrepassano il mondo dell’esperienza, siano o no legittime. Il nostro esame  si restringe, al contrario, nel dominio della conoscenza positiva, fenomenale. Il lettore puo fare da se stesso le sue inferenze su (luelle che stanno al di là di questo dominio. Ora un pò di riflessione mostra che la nostra questione, cioè se noi possiamo formare d’un giudizio a-priori concernenti l’esistenza della cosa, non si può risolvere senza prima esaminare la natura del giudizio e la  sua classificazione. Ma gl’elementi del giudizio sono le idee, e si ha necessariamente una o un altra teorica del giudizio, se per elementi d’esso si danno le idee astratte, come fanno le dottrine da lungo tempo dominanti, oppure le idee concrete. Vi ha dunque, prima di tutto, una questione preliminare che ci s’impone: esistono o no delle idee astratte, dei concetti? È questo l’argomento  di questo saggio. Tutti i termini, se si eccettuino i nomi propri, sono generali. Vale a dire essi si applicano non ad un solo oggetto particolare, ma a qualsisia di tutti gl’oggetti appartenenti ad una classe. Ora, le parole, essendo SEGNI dell’idee, si domanda quaU siano le idee SIGNIFICATE dai nomi generali. Non vi hanno che due  risposte. L’una  è: un termine generale non significa  che delle idee particolari, cioè delle idee d’oggetti individuali e concreti; solamente, mentre un nome proprio non suggerisce allo spirito che una sola idea particolare, un nome generale può suggerire ugualmente una o un altra delle idee degl’oggetti particolari appartenenti ad una  classe. Cosi IL SIGNIFICATO di questi nomi non è generale che potenzialmente, in quanto possono  richiamarci questo o quello degli oggetti della classe; ma il loro significato attuale, appartar propriamente, è sempre particolare, in quanto non ci richiamano effettivamente che un solo o alcuni di questi oggetti. Questa teoria si chiama nominalista. Ma secondo l'altra teoria, che chiameremo concettuahsta, a un termine generale corrisponde, non delle rappresentazioni particolari, ma una  nozione generale o idea astratta, che è come la rappresentazione di ciò che gl'individui di una classe hanno di comune, negligendo i tratti particolari che sono propri a ciascuno. La grande maggioranza dei  filosofi hanno adottato la teoria concettualista: alcuni, tra cui lo stesso Mill, quantunque si siano professati nominalisti, pure in fondo hanno ammesso il concettualismo, o almeno spesso hanno esposto le operazioni del pensiero in termini che implicano quest'ultima dottrina. Cosi non esitiamo [Mill non ammette che noi possiamo  formarci  delle idee  separate  delle  proprietà  astratte  delle  cose;  egli  non  accorda allo  spirito  che  delle  rappresentazioni  concrete  e  particolari  :  ma «econdo  lui  noi  abbiamo  il  potere  di  prendere  per  oggetto  della nostra  attenzione una parte  o  un  elemento  astratto  della  rappresentazione concreta,  quantunque  ci  sia  impossibile  di  separarlo  completamente Non  è  evidentemente  che  un'altra  forma  del concettualismo. Bain  intende  per  idea  astratta  un  caso  tipico  o  uno  specimen, cioè  un  individuo  particolare,  il  quale  rappresenta  per  noi  tutti  i  casi o  individui  della  classe  ;  ovvero  un  simbolo  verbale  applicato alla  classe  (Dei  sensi  e  deW intelligenza,  .)  Qui  egli sembra  parlare  perfettamente  da  nominalista  ;  ma  altrove  (w  Logica, Introduzione,  9)  egli  ammette,  come  il  Mill,  che  lo  spirito ad  asserire  che  i  tatti  deirintelligenza  non  sono  mai  stati studiati  ad  un  punto  di  vista  rigorosamente  nominalista  ; per  cui,  accingendoci  a  dare  una  classificazione  del   giudizio fondata  esclusivamente  su  questo  punto  di  vista,  siamo obbligati  a  discutere  il  concettualismo  d  una  maniera  più larga^clie  non  abbiano  latto  fin  qui  gli  autori  nominalisti. Fra  i  pensatori  moderni  è  Berkeley  che  ha  dato  i  colpi più  forti  alla  teoria  dei  concetti;  ecco  che  cosa  dice  in  sostanza questo  filosofo.  Noi  vediamo  un  oggetto  esteso,  colorato e  in  movimento:  tutti  ammettono  che  queste  tre  qualità non  esistono  ciascuna  per  se  stessa,  ciascuna  distinta  e separata  dalle  altre  ;  ma,  secondo  i  filosofi  concettualisti,  lo spirito  può  considerare  isolatamente  ciascuna  di  queste qualità,  e  astratta  dalle  altre  due,   il   che  si  chiama  formarsi un^dea  astratta.   Cosi  lo  spirito  può  formarsi  la idea  di  colore  air  esclusione  di  quella  di  estensione,  e  Tidea di  movimento  air  esclusione  al  tempo  stesso  di  quelle  di colore  e  d'estensione.  Inoltre,  osservando  che  tutte  le  estensioni particolari  percepite  dai  sensi  hanno  questa  proprietà comune  o  questo  punto  di  somiglianza,  di  essere  estese. nbbia  il  potere  di  accordare  la  preferenza  della  sua  attenzione  all'uno o  all'altro  dej^H  attril)uti  d'un  oggetto  concrelo  (p.  e.  uno scellino  o  una  ruota  ;  noi  possiamo,  egli  dice,  dare  più  attenzione alla  rotondità  e  meno  alla  grandezza,  ma  è  imi)0ssibiie  che  noi pensiamo  alla  rotondità,  senza  pensare  a  una  certa  grandezza  o a  un  certo  colore)., Spencer,  ammettendo  che  gli  elementi  dello  spunto  non  sono^ che  le  sensazioni  e  i  rapporti  fra  le  sensazioni,  non  potrebbe  ammettere le  idee  astratte  :  tuttavia  egli  atterma  che  i  temimi  del pensiero  possono  essere  anche,  non  delle  cose  particolari  e  delle azioni  particolari  compiute  da  esse,  ma  i  caratteri  generali  delle co^e  e  delle  classi  di  cose,  considerati  separatamente  dalle  cose ste'^^^e  (V  p.  e.  PrinclpU  di  psf colorila,  §  487).  Cosi  la  sua  opmione. sembra  i>ure,  al  fondo,  la  stessa  che  (luella  di  Stu.\rt-Mill. Questo  semi-concettualismo  è  comune  a  tanti   altri  filosoll  inglesi. ma  differiscono  perchè  questo  ha  una  certa  figura,  quello un'altra,  questo  una  grandezza,  quello  un'altra,  lo  spirito  si forma  Fidea  astratta  di  estensione,  senza  una  figura  o  una grandezza  determinata.  Cosi  può  formarsi  pure  l'idea  del colore  in  astratto,  che  non  è  né  il  rosso  né  V  azzuro  né il  bianco  nò  alcun  altro  colore  determinato.  Ma  il  fatto, dice  Berkeley,  non  va  cosi.  Noi  possiamo  formarci  Tidea d'un  uomo  avente  una  grandezza,  una  figura,  un  colore determinato;  ma  non  quella  d'un  uomo  astratto,  che  non sia  né  Ijianco  né  nero  né  bruno  né  di  un  altro  colore  qualunque, né  piccolo  né  grande  né  di  statura  media.  Noi  non possiamo,  per  qualunque  sforzo  di  pensiero,  concepire  quest'idea astratta.  Noi  possiamo  considerare  la  mano,  l'occhio, il  naso,  l'uno  dopo  l'altro,  separati  dal  resto  del  corpo.  Ma (jualunque  sia  la  mano  o  qualunque  sia  l'occhio  a  cui  pen- siamo, Ijisogna  ch'essi  abbiano  una  forma,  un  colore  par- ticolari. Cosi  noi  possiamo  rappresentarci  un  colore  parti- colare e  con  una  gradazione  determinata;  ma  non  ci  é  pos- sibile di  formarci  l'idea  del  colore  astratto.  Ci  é  ugualmente impossibile  di  formarci  l'idea  astratta  di  movimento,  di- stinto dal  corpo  che  si  muove,  e  che  non  sia  né  rapido né  lento,  né  curvihneo,  né  rettilineo,  ecc.;  e  lo  stesso  deve dirsi  di  tutte  le  idee  generali  o  astratte  (Priticlpil  della conoscenza  umana,  Indrodazione), Il  ragionamento  di  Berkeley  non  é  che  un  appello  di- retto alla  coscienza  :  ci  é  impossibile,  esaminando  noi  stessi, di  sorprenderci  nell'  atto  di  avere  un'  idea  astratta.  Noi possiam  o  astrarre  in  un  senso,  in  quanto  possiamo  pensare separatamente  delle  cose  o  dei  fenomeni  che  nella  realtà sono  inseparabili.  Cosi  possiamo  considerare  isolatamente una  parte  di  un  oggetto,  quantunque  l'esperienza  non  ce la  mostri  mai  isolata,  ma  sempre  accompagnata  dalle  altre parti.  Della  stessa  maniera,  possiamo  concepire  isolata- mente un  avvenimento,  quantunque  nella  realtà  esso  sia sempre  preceduto,  seguito  e  accompagnato  da  altri  avvenimenti  determinati.  In  una  parola,  tutto  ciò  che  ha  un'esi- stenza distinta  e  una  posizione  separata  nel  tempo  e  nello spazio,  noi  possiamo  concepirlo  separatamente.  Inoltre,  ed è  quello  che  ha  più  somiglianza  con  ciò  che  i  filosofi  chia- mano un'idea  astratta,  noi  possiamo  concepire  isolatamente delle  proprietà  d'uno  stesso  oggetto,  ma  che  noi  percepiamo per  dei  sensi  differenti:  il  colore  d'un  oggetto  a  parte  della temperatura,  del  sapore,  dell'odore,  ecc.,  quantunque  nella realtà  queste  qualità  non  si  trovino  separate.  Ma  tutto ciò  che  noi  possiamo  concepire— sia  una  semplice  qualità sensibile  o  un  oggetto  conosciuto  per  un  complesso  di  qualità sensibili,  sia  un  oggetto  intero  ovvero  una  parte,  sia un  fenomeno  che  duri  un  istante  indivisibile  e  che  occupi un  posto  appena  percettibile  nello  spazio,  ovvero  un  gruppo di  fenomeni  successivi  e  simultanei— deve  sempre  essere un  oggetto  o  un  fenomeno  assolutamente  determinato,  deve avere  la  tinta  particolare  e,  per  dir  cosi,  la  fisonomia  di qualche  cosa  d'individuale. Tuttavia,  questo  appello  all'osservazione  interiore,  in  cui consiste  l'argomentazione  di  Berkeley,  quantunque  trattandosi d'un  fatto  della  coscienza,  non  possa  esservi  una prova  migliore,  può  nondimeno  lasciare  qualche  dubbio. Infatti  l'osservazione  interiore,  per  consenso  dei  migliori fra  i  psicologi  moderni,  è  un  metodo  fallace  o  almeno insufficiente;  e  per  quanto  riguarda  i  fatti  più  semplici del  pensiero,  la  coscienza  non  è  capace  di  rivelarcene chiaramente  alcuni  la  cui  esistenza  è  pure  indubitabile. Nessuno  dei  psicologi  contemporanei  seguirà  Condillac, il  quale  riduceva  tutti  i  fatti  mentaU  a  sensazioni  attuali e  riproduzioni  di  sensazioni  passate:  tutti  ammettono  invece che  vi  ha  inoltre  nell'intelligenza  un  altro  ordine  di  fatti cioè  la  percezione  dei  rapporti  che  lo  spirito  scopre  tra i  fenomeni  paragonandoli  fra  loro.  Ebbene  !  tutti  sappiamo in  che  consista  un  rapporto  di  somiglianza  tra  due  cose; ma  chi  potrebbe  rappresentarsi  il  fatto  interiore,  in  cui consiste  la  percezione  d'un  rapporto  di  somiglianza? Ma  se  l'argomento  dell'osservazione  interiore  non  basta a  convincere  di  falsità  la  teoria  concettualista,esso  ci  mostra almeno  quale  sia  la  natura  di  questa  teoria  :  il  concetto non  è  che  un'ipotesi,  non  è  un  fatto  di  coscienza,  non  è qualche  cosa  che  bisogni  ammettere  perché  sia  mai  caduto sotto  le  prese  dell'osservazione.  Che  ciascuno  faccia  attenzione a  se  stesso  nell'atto  di  pensare  :  egli  non  scoprirà che  delle  immagini  di  cose  particolari,  e  s'  egli  pensa  a qualche  argomento  astratto,  non  si  accorgerà  di  più  che delle  rappresentazioni  di  alcuni  segni  o  termini  generali, che  non  sono  essi  stessi  se  non  delle  immagini  particolari di  un  certo  ordine  di  sensazioni.  Che  alcuno  dimostri, p.  e.,  un  teorema  sul  triangolo  :  non  è  al  triangolo  astratto che  egli  penserà,  ma  a  un  triangolo  concreto  e  determinato, sia  tracciato  sulla  carta,  sia  rappresentato  nell'im- maginazione. E  s'egli  non  avrà  in  mente  alcuno  di  questi triangoli  concreti,  vorrà  dire  che  tutto  il  suo  ragiona- mento si  ridurrà  ad  un'  operazione  meccanica,  in  cui  i segni  delle  idee  terranno  il  posto  delle  idee  medesime. Prendiamo  dunque  la  teoria  dei  concetti  per  quello  che è,  per  un'ipotesi  destinata  a  dar  conto  delle  operazioni del  pensiero,  ed  esaminiamo  il  valore  di  quest'ipotesi,  in se  stessa  e  nelle  sue  conseguenze,  e  alla  stregua  dei  fatti e  delle  leggi  conosciute  dello  spirito  umano. In  primo  luogo  bisogna  far  attenzione  al  rap- porto che  noi  naturalmente  stabiliamo  tra  il  pensiero  e la  cosa  pensata.  Quantunque  l'oggetto  immediato  del  nostro pensiero  non  sia  che  un'idea,  cioè  una  modificazione  o uno  stato  di  noi  stessi,  un  fatto  puramente  interiore  che non  esiste  altrove  che  nella  nostra  coscienza  né  in  un altro  tempo  che  nel  momento  in  cui  pensiamo;  pure  ciò che  noi  intendiamo  di  pensare,  ciò  che  rammentiamo  o prevediamo  o  immaginiamo,  ciò  di  cui,  in  una  parola, affermiamo  1'  esistenza,  non  ò  già  il  nostro  pensiero stessO;.  ma  è  un  oggetto  o  un  avvenimento  già  passato  o futuro,   una  cosa  o  un  tatto  per  lo  più  esteric^re,  o,  se interiore,    un  latto  almeno  sempre  distinto  dal  fatto  at- tuale di  coscienza  con   cui    lo  pensiamo.    Ora  in   che consiste  questo  legame  del  pensiero  con  un  oggetto  fuo- ri del  pensiero  stesso  ?   Si  dirà  che  noi  abbiamo  la  co- scienza  che  il   pensiero  rappresenta  un  oggetto  esterio- re ?   ciò  equivale  a  dire  che  noi   abbiamo,   oltre  al  pen- siero, la  coscienza  d'un  oggetto  esteriore  che  corrisponde al  pensiero  ;   ma  la  coscienza  di  quest'oggetto   esteriore non    i)Otendo   essere   che   un'  idea,   la  quistione    non  lia fatto  un  passo  con  (juesta  supposizione,    e  resta  ancora a  spiegare  come  quest'idea  si  riferisca  ad  un  oggetto  este- riore. La  difficoltà  non  può  avere,  io  credo,  che  una  so- luzione. Per  un'  illusione   naturale  e  primitiva,  senza  di cui  non  si  pu(')  immaginare   come  il   pensiero   potrebbe avere  i)er  noi  un  valore   obbiettivo,   avviene  che  1'  idea s'identifica  per  noi  con  la  cosa   pensata,  e  che    nell'  atto del  pensare,  noi  non  crediamo  già  di  aver  presenti  alla mente  delle  mere  rappresentazioni,  ma   d'involgere  e  di penetrare  le  cose  stesse.    Ciò  è    tanto   vero  che  Reid,  il (luale   intendeva  di   ritornare   alle  credenze   naturah  del genere  umano,  soppresse  le  idee  come   rappresentazioni^ e  r^etese  cJie  lo  si)irito  ha  (Urettamente   coscienza  delle cose  esteriori.  E  che  questa  sia  veramente  una  credenza, naturale,  ciascuno  può   farne   l' esperienza  in  se  stesso  : se  io  j)enso,   per  esempio,   al  mio  amico  il  tale,    è   cer- to che  io  credo  di  avere  d'innanzi  alla  mente  il  mio  ami- co  stesso,  e  non  un'immagine  di  lui.  Nel  pensiero  av- viene dunfjue  come   nella  sensazione  :   le  nostre  rappre- sentazioni si   staccano   dall'  aggregato   fisico  —  psichico che  si  chiama  io,  di  cui  realmente  fanno  parte,  ci  appari- scono obbiettive,  e  prendono  jìer  noi  il  posto  delle  cose  stes- se. A  noi  non  importa  per  ava  di  spiegare  quest'  illusio- ne naturale  — lo   faremo   nel   secondo   Saggio   —.•(lucilo  che  c'importa  è  di  domandarci  se  questo  fatto gencu^ale  della  nostra  intelligenza  sia  compatibile  o  no  con l'esistenza  delle  idee  astratte.  Ora  è  evidente  che  non  lo è.  Se  nell'atto  del  pensare  noi  crediamo  di  essere  coscienti^ non  dell'idea,  ma  dell'oggetto  che  l'idea  rappresenta;  se l'idea  si  confonde  per  noi  e  si  scambia  con  la  realtà  ;  in altre  parole,  se  noi  oljbiettiviamo  e  realizziamo  le  nostre idee  ;  non  potremo  quindi  pensare  un'idea  astratta  senza realizzarla,  senza  credere  di  pensare,  non  ad  un'  idea astratta,  ma  ad  un  oggetto  astratto.  Platone  aveva  dun- ({ue  ragione  di  pretendere  che,  se  vi  hanno  delle  nozioni astratte  e  universali,  vi  saranno  degli  esseri  astratti  e  uni- versali —  è  a  ciò  che  si  riduce  in  sostanza  quasi  tutta  la sua  argomentazione  per  dimostrare  l'esistenza  delle  Idee    :ma  la  conscienza  smentisce  la  sua  dottrina,  mostrando che  se  la  conseguenza  è  giusta,  il  principio  è  falso  ;  poi- ché se  vi  fossero  le  idee  astratte,  1'  esistenza  degli  esseri astratti  dovrebbe  essere,  non  una  teoria  laboriosamente costruita  da  un  metafisico,  ma  una  credenza  naturale  del genere  umano. Noi  arriviamo  ad  un  risultato  analogo,  se  ricer- chiamo quale  potreblje  essere  T  origine  di  queste  pretese idee  astratte.  Secondo  la  massima  parte  dei  filosofi  che le  ammettono,  un'idea  astratta  non  è  che  un'idea  par- ziale :  essa  nasce  (juando  noi  rivolgiamo  l' attenzione  a ({ualche  nota  o  elemento  comune  a  molte  rappresentazioni particolari.  Essendoci  noi  formate,  p.e.,  le  idee  di  più  og- getti particolari  che  tutti  appartengono  alla  stessa  specie^ (l)  V.  il  2.  Saggio,  parte  1.  il  Supplemento  sulla  imiiuincnza  delle Idee  platoniche. (V.  Loi.KE Saoglo  JllosoficosalVintenr^ùnento  umano;  WOLE  Psicologìa  empirica  s  .  ecc.; Galluppi  Saggio  filosofico  sulla  critica  (iella  conoscenza;  Rosmini  Nuoro  Saggio  sulV origine  delle  idee;  ecc. 12 t  ascummo  tutte  le  particolarità  clie  fanno  di  ciascuna di  queste  Idee  lidea  d'un  in,lividuo  particolare  e  diverso dag  1  altri,  e  non  riteniamo  cl.e  le  note  o  elementi  comuni a   utti,  ed  e  cosi  secondo  questi  filosofi,  clie  ci  formiamo lidea  generale  della  specie.  Quest'nltima  idea  non  é  cosi secondo  essi,  che  una  parte  della  rappresentazione  del- 1  oggetto  concreto  ;  e  l'astrazione  non  altro  che  una  sepa- razione 0  una  decomposizione.  Essa  trae  un'idea  univer- sale da  un'idea  particolare,  fissando  la  nostra  attenzione sovra  uno  dei  suoi  elementi:  quindi  ta  osservare  quest'ele- mento (1  elemento  comune  a  molte  idee  particolari),  non lo  genera.  Questo  elemento  preesisteva  dunque,  secondo 1  concettualisti,  ed  era  già  contenuto  nelle  idee  particolari- ed  una  rappresentazione  concreta  non  é  che  un  fascio' una  somma  di  tali  elementi  astratti.  Ciascuno  di  questi elementi,  ripetiamolo,  esisteva  già  per  se  stesso  e  a  parte nella  rappresentazione  totale;  l'astrazione  non  fece  che iso  arlo  dagli  altri,  farlo  riconoscere  come  un  elemento distinto  e  separato.  Ora  la  rappresentazione  totale  o  con- creta  non  é  die  una  copia  esatta  dell'  oggetto  reale,  in quanto  almeno  noi  siamo  capaci  di  conoscere  gli  oo-c^etti reali  :  gli  elementi  astratti  non  potrebbero  dunque  stare nella  rappresentazione  concreta,  a  meno  che  nell'  orioi- naie,  cioè  nell'oggetto  reale,  non  si  trovassero  gli  elementi corrispondenti  ;  in  altri  termini,  un  oggetto  reale  indivi- duale non  sarà,  come  la  sua  rappresentazione,  che  un lascio  o  una  somma  di  elementi  astratti  (1).  E  se  noi  vo-   Il  Sergi  I.a  ammesso  esplicitamente  questa  conseguenza Ln  immagme  sensazionale,  un  individuo  in  <iuanto  cailc'  sotto  i sens.  o  sotto  la  rappresentazione,  è  per  lui  un  composto  cosSuo almeno  da  due  elementi,  l'universale  e  il  proprio,     quaUes  stono ^ano'  enar^r  .lùanfun,p"nonlo pr^ciroTiSS;. gliamo  attenerci  alla  credenza  naturale,  secondo  cui  l'og- getto immediato  del  pensiero  sono,  non  delle  idee  rappre- sentative, ma  le  cose  stesse,  la  conseguenza  sarà  ancora la  stessa,  anzi  risulterà  d'  una  maniera  più  immediata» Eccoci  dunque  arrivati  un'altra  volta  alla  realizzazione delle  astrazioni  :  a  una  nuova  forma  di  realismo,  che  non é,  come  quello  d'un  Platone  o  d'un  Hegel,  un  serio  sforzo per  acquistare  una  conoscenza  superiore  alla  empirica^ ma  un'ipotesi  gratuita  e  senza  genialità,  come  quello  de- gli scolastici. Diranno  i  concenttualisti  che  non  è  questa  l'origine delle  idee  astratte  ?  negheranno  che  un'  idea  astratta  sia una  rappresentazione  parziale,  cioè  una  parte  della  rap- presentazione d'un  oggetto  concreto  ?  No,  essi  non  lo  po- trebbero, senza  andare  incontro  ad  altre  difficoltà  egual- mente insolubili.  Noi  non  possiamo  concepire  altrimenti la  possibihtà  del  pensiero,  se  non  vedendo  nelle  nostre idee  delle  rappresentazioni,  delle  copie  esatte,  delle  cose stesse  :  se  il  pensiero  non  rispecchiasse  le  cose  stesse,  in che  potrebbe  consistere  la  verità,  questa  conformità  tra. il  pensiero  e  le  cose  ?  Le  idee  astratte  non  potrebbero  es- sere dunque  che  delle  rappresentazioni  o  delle  immagini; e  non  essendovi  che  degli  oggetti  concreti,  non  potrebbero che  essere  delle  rappresentazioni  degli  oggetti  concreti. Ma  non  delle  rappresentazioni  totali  o  intere,  perchè  in questo  caso  sarebbero  idee  concrete;  dunque  rappresen- tazioni parziali,  cioè  parti  o  elementi  di  rappresentazioni concrete. Noi  osserveremo  di  passaggio  che  questa  rappresentar zione  delle  cose  nel  pensiero  non  ha  niente  di  misterioso, secondo  i  più  certi  risultati  della  psicologia  moderna.  Da una  parte  una  cosa,  in  quanto  noi  la  conosciamo,  non  è che  un  fascio  di  apparenze  sensibili,  successive  e  simul- •tanee,  in  ultima  analisi,  di  sensazioni,  reali  o  possìbili (le  possibilità  di  sensazioni  di  Stuart-Mill);  e  d'altra  parte j u le  nostre  rappresentazioni  delle  cose  non  sono  esse  stes- se che  sensazioni,   riprodotte  a  uno  stato  più  debole  (1). Cosi  fra  realtà  (({uale  noi  la  percepiamo)  e  rappresenta- zione o  pensiero  non  vi  ha  altra  ditlerenza  che  tra  torte e  debole,  più  intenso  e  meno  intenso.  Per  conseguenza pensiero,  rappresentazione,  immagine,  sono  dei  termini equivalenti;  e  nò  un'idea  astratta  potrebbe  essere  altro  che una  rappresentazione  parziale  ossia  una  parte  o  elemento di  una  ra[)presentazione  concreta,  né  una  ra[)presenta- zione  concreta  potrebbe  avere  elementi  astratti,  senza  che  ^ gli  stessi  elementi  si  trovassero  nelFoggetto  rappresentato. La  dottrina  dei  concetti   adunque  conduce  inevitabil- mente alla  realizzazione  delle  astrazioni.  Ma  vi  ha  di  più; un  concetto  astratto  non  è  esso  stesso  che  una  sorta  di astrazione  reaUzzata.  Io  voglio  dire  che  le  stesse  assur- dità inerenti  all'  esistenza  di  un'  astrazione  realizzata  si trovano  ugualmente  nell'esistenza  d'un'idea  astratta.  Qual è  intatti  la  grande  inconcepibilità  di  un'astrazione  realiz- zata ?  È  di  supporre  alcun  che  di  reale  che  non  è  una  cdeterminata— mentre  tutto  ciò  che  esiste  noi  non  possia- mo concepii'lo  che  come  assolutamente  determinato— d'/zo- mo  in  sé  che  non  è  né  bianco  né  nero,  né  grande  né  pic- colo, né  bello  né  brutto,  né  in  un  luogo  né  in  un  altro,  ecc.; ovvero  Yanlmale  in  sé  che  non  é  né  bipede  né  quadrupede né  senza  piedi,  né  vertebrato  né  invertebrato,  ec3.  Ma cosa  può  essere  un'idea  astratta  se  non  (jualche  cosa  di egualmente  indeterminato,  come  sarel)l)e  appunto  l'imma- gine deW ctonio  in  se  e  deWaniniale  in  sé  ì  Se  t'osse  alcun che  di  determinato,  sarei )be  una  rappresentazione  deter- (1)  V.  Taine  J/  intcUiffcnza  y  parte  1.  l.  2.  e.  1;  I^ain.  /  sen^'.  e V  intvHìfìenza,  2.  parte  e.  1.  H  e  Appendice  D;  Spencer  Prinripa di  psf'rofoffia,  luìra.arati  4*),  (iO,  73,  OO  -110,  450-471.  eoe:;  WuNnT, Elementi  di  /ts/roloffia  ffsiolof)ica,  e.  VII.  2,  e.  XVII.  2  e  4,  e.  XIX. 1,  e<*r-::  Hine'I'  P<ivologia  del  irxgionainento,  e.  2:  «m'c:. minata;  e  una  rappresentazione  determinata  non  potrebbe rappresentare  clie  un  oggetto  determinato,  cioè  una  cosa concreta  e  particolare.  Di  qui  ^i  vede  anche  come  vadano fuori  della  quistione  alcuni  psicologi  contemporarei,  i  quali ammettono  che  l'idea  astratta  sia  qualche  cosa  di  simile ai  rittratti  di  famiglia  di  Galton,  eh'  egli  chiama  ancora ritratti  generici  (1).  Un  ritratto,  un'immagine,  potrà  ben somigliai'e  a  una  pluralità  d' individui  reali  senza  ripro- durre esattamente  le  sembianze  di  alcuno,  ed  essere  come la  media  di  tutti  (juesti  individui  ;  sarà  sem[)re  con  tutto ciò  un'immagine,  un  ritratto,  individuale  (benclié  l'indivi- duo rapi)resentato  non  esista  nella  realtà),  poiclié  l'insieme dei  suoi  tratti  e  ciascuno  di  essi  non  potrà  non  essere  un che  di  determinato,  e,  per  conseguenza,  d'individuale. ^  5.  Passiamo  ora  ad  un  altro  ordine  (U  difficoltà.  Ab- biamo già  notato  che  V  osservazione  interna  non  trova altro  nel  soggetto  jjensante  se  non  che  delle  immagini di  cose  particolari  e  dei  nomi:  é  certo  cosi  che  senza  rai> presentazioni  particolari  e  senza  nomi  non  vi  ha  pensiero. Questo  fatto  é  stato  ammesso  da  quasi  tutti  i  concettua- listi, a  cominciare  da  Aristotele.  L'anima,  dice  questo  filo- sofo, non  intende  mai  senza  immagini:  gl'intelligibili  non sono  immagini,  ma  non  sono  senza  immagini  (2).  Ora perché  un  concetto  non  si  troverebbe  mai  puro,  ma  sem])re congiunto  a  un'immagine  particolare  o  ad  un  nome  ?  Questa difficoltà  se  la  é  proposta  già  I.  Stuart-Mill.  A  questo  emi- nente pensatore  può  tarsilo  stesso  rimprovero  ch'egli  ha  fat- to ad  Hamitton,  di  \o\qv  tenere,  cioè,  un  piede  nel  nominali- (1)  V.  Galton  Le  immagini  generiche,  nella  Beoue  scienUjìque 6  sett.  1879  (2.  serie  1. 17);  Huxley  D.  Marne,  sua  rifa,  sua  filosq/ia, traduzione  francese  pag.  129;  Delboeuf//  sonno  e  i  sogni ^  \>ag.'m; Binet  Psicologia  del  ragionamento,  pag.  107;  ecc. {:!)  De  Anima  1.  3.,  e.  VII,  3:  5;  e.  VHI,  3.  De  memoria  et  remini- scentia  e.  1,  ediz.  Didot  t.  3.  pag.  494. 16  smo  e  un  altro  nel  concettualismo  :  pure  egli  é  al  fondo  (e ciò  parrà  incredibile  a  un  lettore  disattento)  un  vero  con- cettualista. Secondo  il  Mill,  noi  non  abbiamo  presenti  nel- la mente  gli  attributi  che  costituiscono  un  concetto,  se  non come  formanti,  per  la  loro  unione  con  altri  attributi,  l'idea d'un  oggetto  particolare.  Solamente,  noi  abbiamo  il  potere di  fissare  la  nostra  attenzione  sugli   attributi  costituenti il  concetto,  negligendo  gli  altri  attributi  coi  quali  li  con- cepiamo congiunti.   Ciò  va  sii.    al  punto  che  noi  pos- siamo anche,  per  un  po'  di  tempo,  non  aver  iirescnti  allo spinto  che  questi  attributi  che  costituiscono  il  concetto,  o, in  una  parola,  il  solo  concetto.  (V.  Filosofia  di  Hamilton e.  17.,  particolarmente  pag.  371  traduz.  frane.)  Ma  per- ché noi  non  pensiamo  l'idea  astratta  separatamente,  ma solo  come  una  parte  d'un'idea  concreta  ?  E'  clie  il  primo caso,  dice  il  Mill,  è  effettivamente  impedito  dalla  legge dell'  associazione  inseparabile  (pag.  364).  In  altri  termini, noi  non  abbiamo  mai  sperimentato  un  attributo  astratto, se  non  come  congiunto  o  combinato  con  altri  attributi  in  un individuo  determinato;  quindi  la  rappresentazione  degli  at- tributi generici  si  trova  indissolubilmente  associata  con  la rappresentazione  delle  particolarità  individuali.  Maè  questa una  soluzione  sufficiente  della  difficoltà  ?  Alcune  partilarità individuali,  o  (lualche  eceeità   (perchè  è  impossibile discutere  un  po'  a  fondo  la  teoria  dei  concetti  senza  im- piegare il  linguaggio  dei  realisti)  sono  costantemente  con- giunte con  gli  altributi  generici  e  specifici,  ma  non  cer- tamente sempre  la  stessa  ecceiià,  le  stesse  circostanze  in- dividuali. Nessuna  dunque  di  queste  particolarità  indivi- viduanti  potrebbe  essere  inseparabilmente  associata  al  con-  - cetto  generico  o  specifico.  Senza  dubbio,  1'  associazione per   contiguità,  in  molti  casi,  lega,  non  due  idee  paI^- ticolari  determinate,  ma  due  tipi  d'idee.  E  ciò  che   av- viene quando  dalla  presenza  di  un  fenomeno  inferiamo un  altro  fenomeno,   in    virtù   d' un    rapporto   costante che  abbiamo  osservato  nella  nostra  esperienza  passa- ta. Né  il  fenomeno  inferito  né  quello  da  cui  s' inferisce il  più  delle  volte,  per  non  dire  mai,  sono  perfettamen- te simih  ai  fenomeni  passati  tra  cui  abbiamo  sperimen- tato il  rapporto;  solamente,  appartengono  allo  stesso  ti- po. Ma  le  circostanze  individuanti,  proprie  ai  diversi  indi- vidui d'un  genere,  non  appartengono  allo  stesso  tipo,  per- che tutto  ciò  che  vi  ha  di  comune,  di  somigliante,  in  questi individui,  é  stato  separato  da  queste  circostanze  indivi- duanti, e  fa  parte  del  concetto  del  genere.  Ne  segue  che  il legame  indissolubile  del  concetto  con  l'idea  delle  circostanze .  individuanti,  cioè  col  resto  della  rappresentazione  parti- colare di  cui  il  concetto  è,  si  pretende,  una  parte,  non potrebbe  essere  spiegato  dall'associazione  per  contiguità, che  è  quella  che  può  invocarsi  in  questo  caso. Similmente,  riesce  inesplicaljile  perché  un'idea  astratta, per  lare  la  sua  comparsa  nella  coscienza,  abbia  bisogno dell  aiuto  d'un  nome.  É  l'associazione  con  un  nome  gene- rico, CI  SI  dice,  Cile  richiama  i  concetti  nella  coscienza  e h  fissa  nell'attenzione  :  non  vi  ha  infatti  pensiero  astratto senza  segni,  né  un  sistema  sviluppato  di  concetti  astratti senza  un  linguaggio  sviluppato.  Ora  quest'associazione del  concetto  con  un  nome  suppone  due  cose  :  prima  che Il  concetto  possa  essere  conservato  nella  memoria,  e  poi che  sia  capace  di  contrarre  delle  associazioni  con  le  altre Idee,  e  possa  cosi  venire  riprodotto.  Ma  se  é  cosi  che  bi- sogno VI  ha  che  il  concetto  sia  costantemente  associato con  un  nome  ?  non  basterebbero,  perché  noi  ce  lo  richia- massimo, quei  mille  legami  svariati  che  ciascuna  idea  ha con  le  altre,  per  cui  le  leggi  dell'associazione  possono  ri- produrla al  momento  opportuno  ?  perchè  solo  un  nome  e non  qualunque  altro  antecedente  mentale,  quegli  stessi p.  e.  che  richiamano  il  nome,  sarebbe  capace  di  richia- marci il  concetto  ?  La  dottrina  del  Mill  non  é,  in  verità che  il  nome  è  necessario  per  richiamarci  il  concetto.  Secondo  lui,  come  abbiamo  detto,  il  concetto  non  è  ({ualclie cosa  che  esista  nello  spirito  d'una  maniera  isolata.  Esso non  è  che  un  complesso  di  note  o  elementi  parziali  d'una rappresentazione  concreta,  e  non  esiste  che  congiuntamente alle  altre  note  o  elementi  di  questa  rappresentazione.  Sola- mente, (juesti  elementi  costituenti  il  concetto  vengono  vi- vamente suggeriti  allo  spirito,  mentre  degli  altri  non  ab- biamo che  una  coscienza  debole.  L'associazione  costante con  un  nome  o,  in  generale^  un  segno,  è  duncjue  neces- saria, non  propriamente  per  richiamarci  il  concetto,  ma per  dirigere  specialmente  la  nostra  attenzione  sul  com- plesso delle  note  parziali  di  una  rappi'esentazione  che  co-  * stituiscono  il  concetto.  Ma  la  (juistionc  è  sempre  la  stessa. Perchè  qualsiasi  altra  idea,  legata,  come  (piella  del  nome o  in  generale  del  segno,  non  esclusivamente  con  Tidea  di tale  o  tal  altro  oggetto  particolare,  ma  con  quelle,  in  ge- nerale, degli  oggetti  possedenti  l'attributo  corrispondente al  concetto,  non  sarebbe  pure  capace  di  dirigere  la  nostra attenzione  sulla  parte  della  rappresentazione  i)articolare che  costituisce  il  concetto?  (1).  La  teoria  concettualista  non  può (1)  Il  Mii.L  conviene  clie  F  ininiauinc  visuale  d'un  oiigctto  può comjtiere  lo  stesso  ulìicio  del  nome  relativamente  al  concetto  di quest'oggetto;  e  soggiunge  che  lo  stesso  può  fare  una  sensazione forte  e  molto  interessante  (p.  e.  la  soddisfazione  della  fame)  re- lativamente al  concetto  della  classe  fondata  sull'attributo  di  pro- durre questa  sensazione  (pag.  378-370).  Gontuttociò  egli  mantiene che  i  segni  sono  necessari,  non  solo  alla  conservazione,  ma  jmche alla  formazione  dei  concetti,  e  ammette  sempre,  in  pratica,  che questi  segni  sono  i  nomi  generali. Secondo  il  Mill,  il  nome  non  è  solamente  necessario  al  con- cetto perchè  è  esso  che  dirige  V  attenzione  sulla  serie  degli  attri- buti, contenuti  nella  rappresentazione  concreta,  che  costituiscono il  concetto,  ma  anche  perchè  è  1'  associazione  con  un  nome  che dà  una  unità  nella  coscienza  a  questa  serie  di  attributi;  è  quest'as- sociazione ciò  che  li  lega  insieme  nello  spirito,  con  un  legame  più forte  di  (juello  che  li  associa  al  resto dclTimmagine  concreta.  Questa proposizione  dipende  evidentemente  dalla  dottrina  dell'autore  che dunque  spiegare  perchè  i  nomi  siano  necessari  alla  forma- zione e  alla  riproduzione  dei  concetti,  più  di  quanto  i)0s.sa «piegare  perché  il  concetto  non  si  pensi  mai  isolat(j,  ma sempre  con  Timmagine  o  neirimmagine. §  (j.^  Noi  potremmo  moltiplicare  agevolmente  le  nostre obbiezioni  alla  teoria  concettualista,  ma  per  non  annoiare inutilmente  il  lettore,  non  ne  aggiungeremo  qui,  per  (luanto riguarda  i  concetti  in  se  stessi,  che  un'altra  sola.  La  psi- cologia odierna,  seguendo  lo  spirito  generale  delle  scienze Vàologiche,  di  cui  non  è  che  una  parte,  non  [)uò  vedere neiruomo  qualche  cosa  di  eccezionale  e  d'isolato,  e  come un  regno  nel  regno  della  natura  animata.  La  leciie  del- il  concetto  è  costituitn  dagli  attributi  connotati  dal  nome,  e  che di  nome  connota,  non  tutti  gli  attributi  comuni  alla  classe,  ma  solo una  porzione  determinata  di  questi  attributi.  In  effetto,  se  si  am- mette che  il  concetto  comprende  tutti  gli  attributi  della  classe,  è evidente  che,  i)er  legare  insieme  questi  attributi  nello  spirito,  ])asta la  ripetizione  delle  esperienze  in  cui  li  aÌ)l)iano  trovato  in  congiun- zione, e  che  ogni  altra  spiegazione  sarebl)e  superflua.  Si  dirà  che, frapposta  la  dottrina  di  Mill,  che  fa  dipendere  il  contenuto  dei  con- -cetti  dal  significato  convenuto  dei  nomi,  si  spiega  pure  facilmente perchè  sia  il  privilegio  del  nome  di  dirigere  la  nostra  attenzione frulla  parte  della  rappresentazione  concreta  che  costituisce  il  con- cetto. E  ciò  è  vero,  ma  solamente  ])er  i  concetti  delle  classi  com- prendenti una  i>lumlità  di  attril)uti.  Ma  Tanalisi  arriverà  infine  agli attributi  semplici,  cioè  indecomponijjili  in  altil  attributi  jiiù  sem- ]>lici,  e  bisognerà  ammettere  anche  dei  concetti  corrispondenti  a ciascuno  di  questi  attributi.  Ora  il  contenuto  di  questi  concetti non  dipende  dall'uso  dei  nomi,  come  (juello  dei  concetti  complessi ch'essi  formano  per  la  loro  combinazione;  per  conseguenza  questa dottrina  di  Mill  non  i^otrebbe  spiegare  la  necessità  dei  nomi  per la  formazione  e  la  conservazione  di  questi  concetti.  Intanto  è  su di  essi  che  deve  volgere  sovratutto  la  quistione  perchè  i  nomi generali  siano  una  condizione  necessaria  per  l'acquisto  delle  idee astratte,  poiché  sono  essi  che  costituiscono  Toggetto  proprio  della l)rctesa  facoltà  di  astrarre,  per  la  formazione  degli  altri  concetti non  occorrendo  un  atto  particolare  di  astrazione,  ma  una  semjìlice riunione  di  astrazioni  già  formate.  1  evoluzione  non  permette  che  un  fenomeno  essenzialmente nuovo  risalti  tutto  ad  un  tratto  dal  fondo  dei  fenomeni  an- tecedenti ;  e  i  fatti  dello  spirito  umano  non  possono  essere essenzialmente  differenti  dai  fatti  psichici  degli  altri  esseri sensibili,  né  essere  governati  da  leggi  diffferenti.    Cosi  i fatti  mentali  d^un  ordine  superiore  e  appartenenti  a  delle facoltà  che  si  dicono  propriamente  umane,  non  possono essere  che  uno  sviluppo  e  una  complicazione  dei  fatti  d'un ordine  inferiore  e  appartenenti  alle  facoltà  che  si  ammette che  l'uomo  ha  in  comune  con  gli  altri  animali.  La  stessa distinzione  tra  questi  fatti  o  facoltà  d  ordine   superiore  e d'ordine  inferiore  non  può  essere  che  relativa  e  sino  ad un  certo  punto  arbitraria,  per  la  stretta  continuità   che deve  ammettersi  frale  une  e  le  altre.  Ora  le  idee  astratte, in  cui  si  è  sempre  vista  una  prerogativa  dell'uomo,  costi' tuirebbero  una  di  quelle  soluzioni  di  continuità,  uno  di  quei salti,  che  non  sarebbero  compatibili  né  col  principio  del- levoluzione  né  con  1'  unità  delle  leggi  dello  spirito.  Non solo  la  comparsa  delle  idee  astratte  per  se  stesse  dovrebbe concepirsi  necessariamente  come  un  fatto  essenzialmente nuovo  nella  storia  degli  esseri  sensibili,  ma  di  più  un  or- dine complesso  di  fatti,  dipendenti  dall'impiego  di   questa specie  d'idee,  scaverebbe  un  abisso  più  profondo  ancora tra  lo  spirito  che  possederebbe  le  idee  astratte  e  quello  che non  le  possederebbe.  Nessuno  negherà,  p.  e.  che  si  pos- sono formare  dei  giudizi  senza  fare  uso  delle  idee  astratte  : gli  animali  più  inteUigenti  e  i  bambini  sono   certamente capaci  di  rammentarsi,  di  prevedere  certi  fenomeni   che loro  sono  più  familiari,  di  percepire  gli  oggetti  reali  quan- do alcuna  delle  proprietà  sensibih  di  essi  cade  sotto  i  loro sensi,  di  conoscere  le  somiglianze  e  le  differenze  delle  cose, in  una  parola,  di  fare  molti  atti  mentali  che  tutti  impli- cano il  giudizio,  e  ciò  senza  bisogno  d'impiegare  idee  ge- nerali. Gli   stessi  concettualisti  devono  anche   convenire che  la  formazione  dei  concetti  suppone  già  molti  di  questi giudizi  estra  -  concettuali.  Cosi  ecco  due  ordini^  di  giudizi essenzialmente  differenti:  l'uno  che  ha  per  termini  dei fatti  0  delle  idee  particolari  e  le  loro  relazioni;  l'altro  che ha  per  termini  dei  concetti,  cioè  dei  soggetti  ed  attributi, e  le  loro  relazioni,  le  quali  sono  esse  pure  essenzialmente differenti  dalle  prime.  La  stessa  duplicità  nel  ragiona- mento. Allo  spirito  senza  idee  astratte  si  concederà  sen- za dubbio  una  sorta  di  ragionamento:  sarà  ciò  che Leibnitz  chiamava  una  consecuzione  d"  immagini,  un passaggio  da  alcune  idee  particolari  ad  altre  idee  par- ticolari fondato  suU'  analogia.  Noi  vedremo  che  non  vi ha  in  realtà  altro  ragionamento  che  questo  ;  ma  se si  ammettono  le  idee  astratte,  il  vero  ragionamento sarà  di  una  natura  essenzialmente  differente  —  poiché allora  dovrà  ammettersi  che  alla  proposizione  generale, che  è  il  punto  di  arrivo  della  induzione  e  il  punto  di  par- tenza della  deduzione,  corrisponde  una  nozione,  parlando rigorosamente,  generale  --  e  questo  ragionamento  sarà esclusivamente  proprio  dell'uomo,  che  solo  possiede  delle nozioni  astratte  e  generaU.  Ecco  dunque  come  la  teo- ria dei  concetti  separa  violentemente  la  ragione  del- l'uomo dal  resto  della  natura,  rompendo  l'unità  della  vita psichica,  e  mettendosi  in  contraddizione  con  lo  spirito della  scienza  moderna. §  7.^  Esaminiamo  ora  i  concetti,  per  dir  cosi,  in  azione, e  vediamo  in  quale  ginepraio  inestricabile  la  teoria  con- •cettuaKsta  ha  cacciato  i  filosofi,  che  hanno  fondato  su di  essa  la  teoria  del  giudizio  e  la  sua  classificazione.  Noi incontreremo  altre  difficoltà  insormontabili  della  dottrina <ìei  concetti,  ma  il  nostro  scopo  speciale  sarà  di  aprirci la  via  ad  un'esatta  classazione  del  giudizio,  che  ci  é  in- dispensabile per  sapere  con  precisione  dentro  quali  limiti possiamo  formare  dei  giudizii  a  priori. Noi  abbiamo  imparato  sin  dalla  scuola  primaria  che un  giudizio  consiste  a  stabilire  un  rapporto  fra  due  idee. un  soggetto  e  un  attributo  :  cosi  la  dottrina  concettualista ha  dominato,  si  può  dire,  senza  rivale  nella  teoria  deli giudizio.  Ora  in  ])riino  luogo  qui  si  ripresenta  la  stessa difficoltà  che  noi  abbiamo  incontrata  nel  principio  della nostra  discussione.  11  giudizio  non  aHerma  i  nostri  concetti e  le  loro  relazioni,  ma  afìerma  dei  fatti  o  degli  oggetti reali  e  i  loro  rapporti.  Quando  io  dico:  «tutti  i  corpi  sono estesi  »,  secondo  la  teoria  concettualista  io  intendo  affer- mare che  il  concetto  deirestensione  la  parte  del  concetto deji  coriM),  e  cosi  quando  iodico:  «  i  corpi  sono  gravi  *, ia intendo  atTermare  che  io  concepisco  i  corpi  come  gravi,  che il  concetto  di  gravità  la  parte  del  concetto  di  corpo,  o  è imito  con  lui  in  una  rappresentazione,  in  una  nozione  unica. Ma  la  verità  è  che  la  proposizione  esprime  le  nostre  cre- denze sulle  cose  reali,  non  sui  nostri  concetti  e  sui  loro rapporti,  sia  di  contenenza  sia  di  unione  reciproca,  lo non  affermo  nel  giudizio  che  io  iio  certi  concetti,  e  che questi  concetti  fanno  parte  V  uno  dall'altro  o  sono  uniti (Funa  certa  maniera  ;  ma  che  certi  fenomeni  esistono nella  realtà,  che  essi  coesistono  o  si  seguono  con  un  certo ordine,  che  essi  sono  legati  da  certi  rapporti.  Stuart-Mill ha  l)en  latto  valere  questa  oljbiezione  contro  la  dottrina che  il  giudizio  consiste  a  staijilire  una  relazione  fra  i  con- cetti; (v.  Filosofia  di  Hamilton,  e.  18^^);  ma  egli  non  sembra accorgersi  che  1'  obbiezione  rovescia  di  fondo  in  colmo qualsiasi  forma  della  teoria  dei  concetti,  compresa  quella adottata  da  lui  stesso.  Tutti  i  nostri  giudizii,  dice  Mill  ^ non  consistono  che  ad  assegnare  degli  attributi.  Quando noi  facciamo  una  jìroposizione  generale,  noi  non  abbiamo nel  nostro  spirito  che  degli  attriijuti  e  la  loro  coesistenza o  incompatiijilità:  quando  diciamo  *  tutti  i  ì)uoi  ruminano  », noi  vogliamo  dire  che  gli  attril)uti  significati  dalla  voce ruminare  coesistono  invariabilmente  con  gli  attributi  si- gnificati dal  nome  bue.  (Filosofìa  di  Hamilton,  e.  22'^).  Ora se  é  cosi,  gli  elementi  del  giudizio  sono  dei  concetti.  Dire i~<  gli  attributi  significati  da  una  parola  »  non  é  che  dire «  gli  attributi  costituenti  il  concetto  significato  dalla  parola»; (lire  dunque  che  noi  non  abbiamo  nel  nostro  spirito  che degli  attributi,  è  dire  che  non  abbiamo  nel  nostro  spirito che  dei  concetti.  Poco  importa  che  questi  concetti  esistano nella  mente  isolatamente,  o  solo  come  una  parte,  più vivamente  rappresentata,  di  un  complesso  di  attributi costituenti  una  rappresentazione  concreta.  Ciò  che  importa logicamente,  ciò  che  ha  un  valore  relativamente  al  giu- <lizio,  sono  precisamente  gli  attributi  che  stanno  dentro il  concetto,  o  che  formano  il  concetto.  Intanto,  se  Taffer- inazione  non  concerne  che  dei  fatti  o  degli  oggetti  indi- viduali e  concreti;  se  il  giudizio  nnporta  la  credenza  che certi  fenomeni  concreti  e  particolari  esistono,  ed  esistono cosi  e  cosi,  ed  hanno  fra  loro  certi  rai)porti  ;  ci(')  vuol dire  che,  formando  un  giudizio,  noi  pensiamo  preci- samente a  questi  fatti  o  oggetti  individuali  e  concreti  su cui  volge  Taffcrmazione.  L'oggetto  dellaffermazione  non può  infatti  essere  altro  che  l'oggetto  del  i)ensiero,  e  l'og- getto del  pensiero  non  è  che  l'oggetto  di  cui  abbiamo  l'idea. Dunque,  se  nel  giu(Uzio  noi  non  affermiamo  che  dei  fatti o  degli  oggetti  individuali  e  concreti,  noi  non  abbiamo allora  nello  spirito  che  delle  idee  di  fatti  o  c^ggetti  indivi- duali e  concreti;  e  se  non  abbiamo  l'idea  (h  (piesti  oggetti o  fatti  concreti  e  particolari,  noi  non  possiamo  affermarli. Cosi,  affermiamo  noi  e  giudichiamo  unicamente  su  cose concrete  e  })articolari  ?  e  noi  allora  non  abbiamo  che l'idea  di  cose  concrete  e  particolari.  Ablùamo  invece  in mente  dei  concetti,  e  non  delle  cose  particolari  e  concrete? ma  allora  non  affermiamo  e  non  giudichiamo  di  queste cose  particolari  e  concrete,  di  cui  non  abljiamo  l'idea.  Il JVIill  non  ha  jjen  visto  il  punto  preciso  dove  colpisce  la sua  obl)iezione.  L'oggetto  della  credenza  o  dell'affermazione nO!i  è,  egli  dice,  il  concetto  o  una  relazione  (jualuntiue del  concetto,  ma  il  fatto  concepito.  11  fatto  è  una  cosa  e i i j[^~W^J»ffi'lgBÌi"fegWÌil!MaB>Ì  il  SUO  concetto  ne  è  sempre  un'altra,  e  il  giudizio  concerne il  fatto,  non  il  concetto.  (Filosofia  cU  Hamilton,  e.  18^  trad. frane,  pag.  398/  Ma  che  vi  sarà  nella  nostra  mente invece  del  fatto  concepito  ?  vi  sarà  il  concetto  del  fatto, o  no  ?  vi  sarà,  io  voglio  dire,  un  concetto  astratto,  o  Tidea di  un  fatto  concreto  e  particolare?  Se  non  vi  saranno che  delle  ideo  di  fatti  o  cose  concrete  e  particolari,  e falso  che  noi  non  aljljiamo  nello  spirito  cfie  degli  attributi, perché  questi  sono  astratti,  né  degli  oggetti  particolari potrebbero  stare  fra  loi^o  nella  rfìlazione  di  soggetto  ed attributo.  Vi  saranno  dunque  dei  concetti,  e  Topinione  del Mill  rientra  nella  teoria  concettualista  comune.  Ma  dice Mill:  il  giudizio  afferma  che  gli  attributi  che  formano  il predicato  sono  uniti  con  ^li  attributi  clie  formano  il  so^- getto,  non  però  nella  nostra  concezione,  ma  in  fatto; (ibid.  pag.  408);  e  si  può  dire  che  il  giudizio  afferma  che due  concetti  sono  compatibili,  ma  nel  senso  che  essi  pos- sono essere  realizzati  obbiettivamente  Vuno  a  lato  delU altro, E  dun(]ue  il  realismo  che  Mill  vuole  so- stituire al  concettualismo  ?  Questa  proposizione  :  «  il  corpo è  grave  »,  esprime  secondo  lui  ciie  due  sistemi  d' attri- buti, la  gravità  e  la  corporietà,  coesistono  e  sono  obbiet- tivamente r  uno  a  lato  deir  altro  :  ma  percliè  due  cose coesistano,  bisogna  già  che  siano  due  cose  realmente  di- stinte e  ciascuna  avente  un'esistenza  propria  (1).  Dirà  il (1)  Secondo  il  R  \in,  U\  proiuìsizioni  che  aflerinano  hi  situazione reciproca  delle  cose  neUo  spazio,  e  quelle  che  afierinano  l'inerenza di  più  proi)rietà  nello  stesso  soggetto,  non  sono  die  due  varietà distinte  delle  ])roi)osizioni  di  coesistenza.  «  Invece  d'una  certa  situa- zione locale  con  intervalli  che  i^ossono  essere  apprezzati  numeri- camente, abbiamo  (nelle  seconde)  la  coesistenza  di  due  o  più  at- tribu'i  [josti  in  uno  stesso  luogo.  Una  massa  d'oro  contiene  in  cia- scuno dei  suoi  atomi  gli  attributi  che  caratterizzano  questo  me- tallo: il  peso,  il  colore,  il  lustro,  la  durezza,  eco:»  {Logìra  lib.  1. e.  3.  21).  DuiKiue,  secondo  Hain,  il  peso  dell'oro,  il  s^o  colore  giallo.  Mill  che  noi  prendiamo  in  un  senso  proprio  ciò  ch'egli ha  detto  solo  in  un  senso  traslato  ?  Ma  se  non  si  vuo- le stare  al  senso  proprio,  le  sue  espressioni  non  di- cono niente  di  preciso,  e  convengono  egualmente  a qualsiasi  sistema,  al  realismo  cosi  bene  che  al  con- cettualismo e  al  nominalismo.  Poiché  allora  non  di- rebbero se  non  questo  :  che  la  proposizione  unisce  due termini  generali,  di  cui  ciascuno  può  fare  da  predicato, e  che  se  la  proposizione  è  vera,  deve  esservi  nella  realtà un  non  so  che,  che  corrisponde  alla  proposizione.  Noi stiamo  dunque  in  un  trilemma  che  è  fatale  per  la  teoria dei  concetti.  Q  Taffermazione  del  giudizio  ha  per  oggetto delle  cose  concrete  e  particolari,  e  noi  non  possiamo  avere nello  spirito,  quando  giudichiamo,  che  le  idee  di  cose  con- crete e  particolari.  O  l'oggetto  deiraffermazione  non  è  che una  relazione  tra  concetti,  e  allora  il  giudizio  concerne solo  dei  concetti,  e  non  ha  che  fare  con  le  cose  reali.  O infine  il  giudizio,  mediante  i  concetti,  stabilisce  una  unione o  un  rapporto  qualunque  tra  cose  reali,  e  in  questo  caso queste  cose  reali  non  possono  essere  degli  oggetti  o  feno- meni concreti  e  particolari  —  perché,  per  ipotesi,  le  idee corrispondenti  sono  assenti  dal  nostro  spirito  —  ma  dalle realtà  adequate  ai  concetti,  cioè  degU  attributi  obbiettiva- mente esistenti,  delle  astrazioni  realizzate. Si  é  visto  che  noi  crediamo  naturalmente  che,  nell'atto del  pensiero,  non  sono  le  rappresentazioni,  ma  gli  oggetti stessi,  che  ci  stanno  dinnanzi  allo  spirito.  Vi  hanno  dei filosofi  i  quali  affermano  che  questa  credenza  naturale  non c'inganna,  e  che  il  nostro  pensiero  prende  e  investe  real- mente gli  stessi  oggetti  reaU.  Secondo  noi  questa  é  una il  suo  splendore,  la  durezza,  la  fusibilità,  la  duttiUtn,  la  capacità di  essere;  disciolto  dall'acqua  regia,  sono  delle  entità  situate  in uno  stesso  luogo  e  contenute  in  ciascuna  molecola  d'oro.  Ma  se non  è  questa,  che  sarà  mai  la  realizzazione  delle  astrazioni? 26 SAGGIO  PRIMO illusione,  0  noi  non  possiamo  avere  iFinnanzi  allo  spirito che  (Ielle  idee  o  delle  rappresentazioni;  solamente  queste rappresentazioni  si  scambiano  e  si  confondono  natural- mente con  gli  stessi  oggetti  rai)presentati.  L^idea  e  la  cosa hanno,  per  esprimerci  cosi,  la  stessa  forma,  ma  luna  ha una  esistenza  subbiettiva,  l'altra  una  esistenza  obbiettiva: ora,  (juando  pensiamo,  V  idea  ci  ai)parifece  come  qualche cosa  (H  obljiettivo  e  di  reale,  che  ha  però  la  forma  stessa dell'  idea,  in  altri  termini,  noi  obbiettiamo  e  realizziamo naturalmente  le  nostre  idee.  Cosi  avviene  che  (juando  noi giudicliiamo,  ({uantunque  non  abbiamo  nello  spirito  che  delle idee,  tuttavia  IVjggetto  del  nostro  giudizio  sono  i  fenomeni o  le  cose  stesse  corrispondenti  alle  idee.  Ma  se  noi  aves- simo nello  s[)irito  dei  concetti  astratti,  come  potrebbero le  nostre  ailermazioni  avere  per  oggetto  le  realtà  ?  soltanto obbiettivando  e  realizzando  questi  concetti  astratti,  metten- do al  loro  posto  qualche  cosa  che  avrebbe  un'  esistenza obbiettiva,  ma  che  avrebbe  pure  la  stessa  forma  delFidea astratta,  cioè  una  astrazione  obbiettivata  e  realizzata. A  ciò  si  risponderà  forse  che,  (juantun(|ue  Toggetto  reale deiratlermazione  siano  gli  attributi  astratti  delle  cose,  e non  le  cose  stesse  nella  loro  concretezza,  pure  non  è  ne- cessario che  ])erciò  noi  intendiamo  di  considerare  questi attributi  astratti  come  realmente  distinti  e  separati  ;  noi non  li  distinguiamo  che  per  una  veduta  mentale  che  li sc[»ara  ciascuno  dal  resto  della  cosa  concreta  a  cui  ine- risce,  ma  senza  ammettere  perciò  che  essi  esistano  per se  stessi,  distinti  e  separati.  Ma  ragioniamo  un  poco  sulla ipotesi  della  verità  delle  nostre  credenze  naturali,  cioè sulla  supposizione  che  il  nostro  pensiero  colga  l'oggetto stesso  reale.  Abbiamo  <]'innanzi  allo  spirito  un  essere  vi- vente dotato  della  forma  umana,  in  una  ])arola,  un  uomo; noi  possiamo  fare  attenzione  separatamente  alla  testa  o ai  pie(U,  al  lato  destro,  o  al  lato  sinistro;  il  nostro  pensiero può  atterrare  separatamente  (jueste  parti,  ])erchè  esistono  separatamente.  Ma  come  potrebbe  il  nostro  pensiero  affer- rare separatamente  Tuna  dalle  altre  Yesistenza  o  la  vita o  \^  figura  umana,  a  meno  che  queste  non  siano  delle  parti realmente  distinte  ?  E  non  importa  die  la  nostra  suppo- sizione sia  falsa  ;  poiché,  come  la  verità  della  credenza che  il  pensiero  prende  le  cose  stesse,  implica  che,  se vi  hanno  idee  astratte,  esistono  veramente  delle  cose  a- stratte,  cosi  la  semplice  credenza  naturale  che  il  pensiero prende  la  realtà,  implica,  se  vi  hanno  idee  astratte,  la  cre- denza  naturale  che  vi   hanno  delle  cose  astratte. §  8.^— Passiamo  ad  un  altro  mistero  incomprensibile della  teoria  dei  concetti.  Un  giudizio,  secondo  la  dottrina comune,  afferma  che  un  ì)redicat(j  conviene  o  no  ad  un soggetto  :  ora  il  soggetto  può  essere  singolare,  ma  il  pre- dicato deve  essere  sempre  un  termine  generale,  quindi un  concetto.  Cosi  Y  esercizio  della  facoltà  del  giudizio suppone  necessariamente  che  si  abljiano  anteriormente dei  concetti.  Ma  la  formazione  di  un  concetto  alla  sua volta  suppone  che  si  siano  ì^ik  fatti  dei  giudizi.  Infat- ti supponiamo  che  noi  ci  formiamo  la  prima  volta  il concetto  di  una  nuova  classe  :  ìjisogna  perciò  che  la  no- stra memoria  ci  fornisca  una  folla  di  oggetti  appartenenti alla  classe,  e  che  noi  li  paragoniamo,  notando  le  somi- glianze che  hanno  fra  di  loro,  e  che  li  rendono  capaci di  entrare  insieme  a  far  parte  di  una  classe,  che  allora viene  rappresentata  con  un  concetto  Se  poi  vogliamo  rifor- mare il  nostro  concetto,  e  renderlo  più  compiuto  ed  esatto non  lo  possiamo  che  dopo  aver  notato  che  un  altro  fatto, I>riiiia  da  noi  negletto,  accompagna  costantemente  ciascun complesso  di  fatti,  cioè  ciascun  oggetto  particolare,  a  cui corrisponde  il  concetto.  Bisogna  dunque  aver  percepiti degli  oggetti,  rammentarceli,  paragonarli,  ecc.  Ma  non  si j)uò  concepire  un  oggetto  senza  attenuare  la  coesistenza delle  proprietà  sensibili  costituenti  quest'oggetto,  la  sua permanenza  nel  tempo,  in  una  parola,  la  coesione  di  tutto  un  gruppo  di  fenomeni,  che  sono  caduti  o  possono  cadere sotto  i  nostri   sensi,  successivi  e  simultanei.  Non  si  può rammentarlo  senza  affermare  che  esso  è  esistito  nel  pas- sato ed  è  caduto  sotto  la  nostra  esperienza.  Il  paragone di   tutti   questi   oggetti  poi   importa   Y  affermazione    dei loro  rapporti  di  somiglianza   e  di  differenza.    Dunque  in un  concetto  sono,  per  dir  cosi,  condensati  e  fissati  un gran    numero  di  giudizi.  Ora    ciascuno    di   questi   giu- dizi ha  bisogno   almeno  di  un  concetto,  T attributo.  Osi dirà  che  sono  giudizi  estra  -  concettuali,  i  cui  termini  non sono  un   soggetto  e   un  attributo,   ma  unicamente  delle idee  di   fatti  particolari  ?  Ciò   sarebbe  arbitrario,   perchè ciascuno  di  questi  giudizi  è  suscettibile  di  ricevere  la  for- ma della  proposizione,  e  di  avere  per  predicato   un  ter- mine generale.  D'altronde  Toggetto  di  questi  giudizi  non può  differire  sostanzialmente  da  quello  di   tutti  gli  altri; perchè,  come  abbiamo  visto,  in  tutti  i  giudizi  Taffermazio- ne,  la  credenza,  volge  sempre  su  dei  fatti  e  sui  loro  rap- porti. Questo  è  dunque  un  circolo  vizioso,  ed  è  impossi- bile alla  teoria  dei  concetti  di  uscirne  con  onore  :  la  for- mazione di  ogni  giudizio  suppone  dei  concetti  antecedenti, e  la  formazione  di  ogni   concetto  suppone  dei  giudizi  an- tecedenti. Forse  la  dottrina  delle  idee  innate  romperà,  co- me credeva  il  Rosmini,  questo  circolo  ?  (1)  no,  perchè  un po'  di  riflessione  mostrerà  che  i  concetti,  che  questi  giu- dizi primitivi,  anteriori  alla  formazione  dei  concetti  acqui- siti,  implicherebbero,    sono  le  nozioni  di  fatti  e  di  rap- porti tra  i  fatti,  che  non  possono  venirci  evidentemente  se non  dairesperienza. §  9.^  Andiamo  ora  finalmente  alla  classificazione  del (l)  V.  Rosmini  Xuoco  Saggio  sulVovìgine  delle  idee,  paragr.  41-45; e  confi*.  Ferrari  —  elio  su  questo  punto  è  un  rosminiano— Sa^^'iO sul  principio  e  i  limiti  della  filosofia  della  storia,  cap.  1. giudizio.  Come  si  sa,  i  concettualisti  ammettono  una  dop- pia quantità  o  contenenza  reciproca  nei  concetti.  Una  classe più   generale  contiene  un   certo  numero   di  classi   meno generali  subordinate:  tutti  i  predicati  che  possono  attribuir- si  alla  classe  pi  ù  generale,   possono   altresi  attribuirsi alle  classi  subordinate,  ma  di  più  può  a  ciascuna  di  queste ultime  attribuirsi  un  certo  numero  di  predicati  che  le  è speciale.  I  concettualisti  dicono  che  il  concetto  della  classe più  generale  contiene  nella  sua  estensione  i  concetti  delle classi  subordinate,  e  il  concetto  di  ciascuna  di  queste  ul- timo  classi  contiene  nella  sua   comprensione  il   concetto della  classe  più  generale  e  inoltre  una  o  più  note  che  gli sono  proprie.  La  contenenza  o   quantità  in  estensione   è esterna  ai    concetti,  appartenendo   essa,  piuttosto  che  ai concetti  stessi,  agli  aggregati  di  oggetti  classati  insieme, a  cui  si  riferiscono  i  concetti  ;  la  contenenza   o  quantità in  comprensione,  al  contrario,  è  una  proprietà  interna  dei concetti,  e  si  riferisce  ai  concetti  stessi  nella  loro  mutua relazione.  Cosi*  il  concetto  di  animale  contiene  in  sé  o  com- prende i  concetti  più  generali  di  essere,  di  corpo,  di  vi^ venie,  e,  oltre  di  questi,  una   o  più   note,  che  potranno essere   sensibile,   semovente,  ecc  ;   tutti  questi  concetti  o note,  comuni  e  proprie,  sono  contenuti  in  comprensione nel  concetto  di  animale,  e  quindi  appartengono  intrinse- camente a  questo  concetto  stesso.  Viceversa  i  concetti  di essere,  di  Qorpo,  di  vivente,   contengono  in  estensione  il concetto  di  animale,    il  quale   per  conseguenza,  piutto- sto che  far  parte,  per  se  stesso,  di  questi  concetti  per se  stessi,    si  riferisce   a  una   cosa  che  fa  parte  delle cose    a   cui   questi  concetti   si  riferiscono.     É  su  questa relazione  dei  concetti   che  è   fondata  la  divisione  prin- cipale dei  giudizi,   in   analitici  e  sintetici.     Quando   il concetto  significato  dal  predicato  è  compreso  nel  o  fa  parte del  concetto  significato  dal  soggetto,  il  giudizio  è  analitico^ quando  il  concetto  del  predicato  non  fa  parte  del  concetto J.t     1 del  soggetto,  ma  tuttavia  si  afferma  del  soggetto,  il  giu- dizio è  sintetico.  Far  parte  o  essere  compreso  vuol  dire  in queste  definizioni  essere  contenuto  in  comprensione.  Ma quando  è  che  il  concetto  del  predicato  è  compreso  nel concetto  del  soggetto,  cioè  quali  sono  le  note  che  un  con- cetto, capace  di  Jungere  da  soggetto,  contiene  nella  sua com[)rensione,  e  quali  sono  le  note  che  non  contiene  ? La  risposta  a  questa  domanda,  sulla  quale  pertanto  deve essere  t'ondata  la  legittimità  della  classazione  dei  giudizi in  analitici  e  sintetici,  ha  gettato  i  filosofi  in  mille  per- plessità, in  mille  difficoltà  insolubili,  in  un  laljirinto,  in  una parola,  da  cui  è  impossibile  Tuscita. Il  concetto  è,  come  si  ammette  generalmente,  il  signi- ficato di  un  nome  generale.  Ora  i  logici  distinguono  nel senso  di  un  nome  la  sua  connotazione  e  la  sua  denota-^ zione.  Un  termine  denota  ciasomo  degli  oggetti  partico- lari a  cui  esso  si  applica  :  uomOy  p.  e,  denota  ciascuno degli  esseri  particolari  che  vengono  cosi  chiamati.  In quanto  alla  connotazione  del  nome,  non  sì  potrebbe  spie- garla con  tuttala  chiarezza  necessaria  senza  pregiudicare la  quistione  antecedente;  ma  noi  diremo,  d'una  maniera generale,  che  il  nome  connota  ciò  che  si  afferma  d'un oggetto  jjer  ciò  solo  ciie  gli  si  applica  il  nome.  Ora  che si  afferma  di  un  essere  particolare,  chiamandolo  uomo  ? che  egli  deve  essere  classato  fra  gli  uomini,  cioè  che  ha un  certo  rapporto  di  somiglianza  con  altri  esseri  già  da noi  conosciuti,  e  che  siamo  soliti  chiamare  uomini.  Cosi jìrendendo  per  punto  di  partenza  che  il  concetto  è  preci- samente ciò  che  il  nome  connota,  si  dirà  che  il  concetto comprende  quelle  note  o  attributi,  che  noi  intendiamo  af- fermare di  un  oggetto  mettendolo  nella  classe  corrispondente e  dandogli  il  nome  di  questa  classe,  note  o  attributi  senza di  cui  esso  non  sarebbe  classato  e  nominato  cosi,  ma  altri- menti. A  (j\iesto  punto  di  vista,  non  tutti  gli  attributi  che si  possono   affermare  in  generale   degli   oggetti   di    una  classe,  fanno  parte  del  concetto  di  questa  classe,  ma  solo ima  porzione  determinata  di  questi  attributi.  Tanto  più  che, siccome  il  senso,  cioè  la  connotazione  del  nome  deve  essere la  stessa  per  tutti  (luelli  che  parlano  la  stessa  hni?ua,  senza di  che  non  potrebbero  intendersi  fra  loro,  cosi  nel  concetto della  classe— se  il  concetto  è  la  connotazione  del  nome— non  devono  entrare  che  quegli  attributi  che  tutti  debbono conoscere  perchè  possano  fare  un  retto  uso  del  nome. Ma  vi  ha  un  altro  punto  di  vista  affatto  differente,  se si  ha  riguardo,  piuttosto  che  alla  connotazione  del  nome, cjuale  noi  Y  abbiamo  spiegata,  alla  sua  denotazione.  Che significa  intatti  uomo,  se  non  gli  oggetti  reali  che  vengono •cosi  chiamati  ì  In  una  proposizione  che  ha  per  soggetto qualche  uomo  o  in  generale  Fuomo,  qual  è  il  soggetto  reale del  nostro  giudizio,  cioè  qual  è  Toggetto  di  cui  giudichiamo o  affermiamo  un  certo  predicato,  se  non  gli  uomini  stessi, vale  a  (hre  delle  sostanze  reali  quali  esistono  effettivamente? fJra  cosa  può  essere  una  sostanza,  se  non  il  tutto  costi- tuito dalle  sue  proprietà  o  modi  di  essere?  vi  ha  un  at- tributo che  non  appartenga  alFessere  a  cui  si  attribuisce, o  non  ne  faccia  parte  ?  Dunque,  se  ciascun  oggetto  signi- ficato dal  nome  è  il  tutto  costituito  dalle  qualità  o  attri- buti che  gli  appartengono,  il  significato  generale  del  nome, il  concetto,  non  può  essere  che  ciò  che  tutti  gli  oggetti nominati  hanno  di  comune,  vale  a  dire  il  complesso  di tutte  le  note  o  attributi,  che  i)Ossono  predicarsi  di  tutti  gli og^^Qìiì  della  classe  corrispondente. La  divisione  ordinaria  del  giudizio  in  anahtico  e  sin- tetico suppone  il  primo  di  questi  due  punti  di  vista.  Essa è  stata  introdotta  da  Kant  nella  filosofia  moderna,  ce  II corpo  è  esteso  »  è,  secondo  lui,  un  giudizio  analitico, perchè  Testensione  è  una  nota  che  fa  parte  del  concetto di  corpo  ;  ma  <r  il  corpo  è  grave  ^>  è  sintetico,  i)erchè  la gravità  non  fa  parte  di  questo  concetto.  Similmente,  <^  Fuo- mo è  un  animale  »  sarebbe  un  giudizio  analitico;  ma  «  Tuomo  è  mentale»  un  giud  zio  sintetico.  Il  giudizio  analitico è  semplicemente  dichiarativo,  in  quanto  non  fa  che  af- fennare  esplicitamente  una  nota  la  quale   trovavasi    già contenuta,  e  quindi  affermata  implicitamente,  nel  con- cetto  del   soggetto;  ma  il  giudizio  sintetico  è  amplifica- tivo, cioè  può  darci  una  conoscenza  veramente  nuova. Di  più,  dice  Kant,  il  giudizio  analitico  è  di  sua  natura necessario,  cioè  tale  che  noi  non  potremmo  concepire  che il  contrario  abbia  luogo  di  ciò  che  il  giudizio  afferma,  ed a  priori,  cioè  tale  che,  sebbene  le  nozioni  del  predicato  e del  soggetto  possano  esser  venute  dalFesperienza,  pure  si può,  senza  laiuto  delFesperienza,  conoscere  che  il  predi- cato conviene  al  soggetto.  Al  contrario  i  giudizi  sintetici sono,  tutti  secondo  altri,  solamente  una  parte  secondo Kant,  contingenti  e  a  posteriori.  Niente  di  più  giusto  che questi  due  caratteri  assegnati  da  Kant  ai  giudizi  analitici: infatti  la  falsità  di  un  giudizio  analitico,  se  vi   hanno  di tali  giudizi,  sarebbe  una  vera  contraddizione  nei  termini. Noi  facciamo  quest'  osservazione,  per  rammentarci    che potremo  servirci  del  criterio  stesso  di  Kant  per  saggiare la  sua  dottrina.  Sareljbe  però  un  errore  di  credere  che  la classazione  del  giudizio  in  analitico  e  sintetico  sia  un'inven- zione nuova  di  pianta  dello  stesso  Kant;  essa  è  infatti  un  prò dotto  naturale  della  dottrina  dei  concetti.  Cosi  questa  distin- zione si  trova  già  in  Cocke,  le  proposizioni  analitiche  o  dichia- rative di  Kant  non  essendo  altro  che  le  proposizioni  che  Co- cke chiamava  con  poco  rispetto  frivole  o  anche  verbali,  e  le sintetiche  corrispondendo  a  quelle  che  questi  chiamava  istrut- tive o  reali.  (V.  Saggio  filosofico  sulV intendimento  umano, t.  4.,  e.  8).  Di  più  il  Balmes  ha  giustamente  osservato  che  la distinzione  Kantiana  si  trova  pure,  sotto  altro  nome,  presso gli  scolastici  (v.  Balmes  Filosofia  fondamentale,  1.  1.  n. 191  e  192):  questi  distinguevano  le  proposizioni  no^ae /)er se  0  notae  ex  terminis,  e  le  proposizioni  notae  per  aliud, una  proposizione  essendo  note  per  se,  quando  il  predicato I I è  compreso  nel  significato  del  termine  che  è  il  soggetto della  proposizione,  o  in  altre  parole,  quando  è  un  elemento della  definizione  di  riuesto  termine.  Evidentemente  le  pro- IK>sizioni  notae  per  se  equivalgono  ai  giudizi  analitici,  e quelle  notae  per  alind  ai  sintetici.  In  effetto,  secondo  i  con- cettualisti, la  definizione  è  appunto  la  esplicazione  del concetto,  la  sua  decomposizione  nelle  note  parziali  che  Io costituiscono;  donde  si  vede  anche  che  il  giudizio  da  Kant chiamato  analitico  non  è  che  o  una  definizione  o  la  parte di  una  definizione. §  10.  Quando  noi  ci  domandiamo— ammesso  anche  il presupposto  che  il  contenuto  del  concetto  deve  desumersi dal  senso  in  connotazione  del  nome  corrispondente,  —  se un  giudizio  è  analitico  o  no,  cioè  se  l'attributo  fa  parte  o  no della  comprensione  del  concetto  del  soggetto,  noi  ci  tro- viamo il  più  spesso  nella  più  grande  perplessità.  Cosi  «  Toro è  un  metallo  giallo  »  è  per  Kant  un  giudizio  analitico  (v. Prolegomeni  ad  ogni  metafisica  futura,  §  2):  questi  due concetti  dunque,  metallo  e  giallo,  fanno  parte  secondo  ldella  comprensione  del  concetto  delForo.  iMa  se  il  colore giallo  è  compreso  nel  concetto  dell'oro,  noi  dobbiamo  ugual- mente comprendervi  il  suo  splendore.    La  durezza^'e  la fissità,  come  anche  la  fusibilità,  faranno  parte  ugualmente di  questo  concetto  :  e  come  non  comprendervi  ancora  che esso  è  il  più  pesante  di  tutti  i  corpi  ì  Ma  se  noi  vi  com- prendiamo queste  note,  non  vi  jia  ragione  di  escluderne la  duttilità;  e  pertanto  «  l'oro  è  duttile  »  sarebbe,  secondo il  traduttore  di  Kant,  un  giudizio  sintetico  (v.  Critica  della ragion  pura  traduzione  italiana,  Introduzione,  IV,  quarta nota  del  traduttore).  La  capacità  di  essere  disciolto  nel- Tacqua  regia  farà  pure  parte  del  concetto  delForo,  essendo essa   una  delle  proprietà  che  ci  servono  a  differenziare questo  metallo.  E  se  noi  ci  decidiamo  a  far  entrare  nel concetto  tutte  queste  proprietà,  noi  siamo  costretti  a  con- tinuare a  farvi  entrare  Tuna  dopo  Taltra  tutte  le  proprietà 34 SAGGIO  PRIMO conosciute  deir  oro.  Non  vi  ha  ragione  decisiva  per  pre- ferire una  ad  un'altra;  fermarci  ad  un  punto  qualunque sarebbe  arbitrario. Si  crederà  forse  di  rispondere  con  precisione  alla  nostra domanda,  dicendo  che  un  giudizio  è  analitico,  cioè  che  il concetto  delFattributo  fa  parte  della  comprensione  del  con- cetto del  soggetto,  quando  Tattributo  fa  parte  delFessenza del  soggetto,  o,  ciò  che  è  dire  lo  stesso  con  altre  parole, quando  rattriìjuto  è  un  elemento  della  definizione  del  sog- getto. Ma  se  vogliamo  sapere  ancora  quaU  attributi  siano capaci  di  entrare,  nella  definizione  del  soggetto,  o  siano  a lui  essenziali,  noi  ci  troviamo  naturalmente  nelle  stesse perplessità.  Cominciamo  per  determinare  che  cosa  sia lessenza  d una  cosa,  o,  ciò  che  vale  lo  stesso,  in  die  con- sista una  definizione. Fra  gli  attributi  o  proprietà  appartenenti  ad  un  genere dato,  gli  antichi  filosofi  distinguevano  come  un  piccolo  nu- cleo (sufficiente  a  distinguere  il  genere  da  tutti  gli  altri)  di proprietà  riguardate  come  primitive  e  da  cui  si  supponeva che  tutte  le  altre  derivassero;  era  questo  nucleo  che  si chiamava  propriamente  l'essenza  della  cosa,  e  definizione la  proposizione  che  Tesprimeva.  Questa  nozione,  come  ve- dremo nel  2^  Saggio  (parte  1\  Appendice  1*  al  cap.  6*>  e cap.  7»),  venne  introdotta  da  Platone  :  essa  era  uno  degFin- gredienti  della  sua  dialettica,  e  derivava  dal  suo  metodo di  divisione,  Aristotile  l'adottò  ;  e  cosi  venne  naturalmente a  fetr  parte  del  bagaglio  della  metafisica,  la  quale,  non contenta  mai  di  conoscere  Yqzi  delle  cose,  ma  aspirando a  conoscere  il  Siózi,  della  stessa  maniera  che  cerca  il  le- game intimo  che  unisce  l'antecedente  e  il  conseguente  nella relazione  causale,  cosi  vorrebbe  trovare  l'altro  legame intimo  che  unisce  le  diverse  proprietà  coesistenti  in  un oggetto  dato.  Ma  se  si  eccettui  la  geometria,  non  vi  ha nella  scienza  alcuna  di  queste  definizioni,  espressive dell'essenza  reale,  e  da  cui  tutte  le  altre  proprietà  della SUI  LIMITI  E  l/OGGETTO  DELLA  CONOSCENZA  A  PRIOIU 35 cosa  definita  possano  dedursi:  le  cose  della  natura  sono  for- nite d'un  numero  indefinito  di  proprietà,  irriduttibili  e  sen- z'alcuna  connessione  percettibile  a  priori,  e  di  cui  molte certamente  sono  ancora  sconosciute.  Cosi,  siccome  le  nuove proprietà  delle  cose  sono  state  generalmente  scoverte  per l'osservazione^  e  non  derivate  da  qualche  idea  dell'essenza, *si  venne  naturalmente  all'opinione  pressoché  universale che  le  essenze  delle  cose  ci  sono  sconosciute  :  e  l'essenza, che  per  quelli  che  introdussero  questa  nozione  era  ciò  che più  immediatamente  e  più  chiaramente  si  conosceva  delle cose,  è  divenuta,  per  conseguenza,  ciò  che  vi  ha  in  esse di  più  oscuro  ed  incomprensibile.  Alla  essenza  reale  degli antichi  filosofi,  per  un  efietto  di  questo  agnosticismo,  viene cosi  ordinariamente,  per  gli  usi  della  logica,  sostituita, presso  i  moderni,  l'essenza  logica  o  nominale,  che  do- vrebl^e  con  più  proprietà  chiamarsi  l'essenza  concettuale. È  a  questo  secondo  senso  della  parola  essenza  che  si  ri- ferisce la  distinzione  tra  gli  attributi  essenziali  e  i  non essenziali,  con  cui  ha  da  fare  una  teorica  del  giudizio. L'essenza  d'una  cosa,  in  questo  senso,  è  l'insieme  delle proprietà  che  costituiscono  il  concetto  di  questa  cosa,   o la  connotazione  del  suo  nome;  e  la  definizione,  per  con- seguenza, l'analisi  del  concetto,  o  la  spiegazione  del  senso (in  connotazione)  della  parola.  Cosi,  se  domandiamo  quali siano  gli    attributi  che  vanno  compresi  nel  concetto,  ci si  risponderà  che  sono  quelli  che  fanno  parte  dell'essenza o  della  definizione  ;    ma  se   vogliamo  sapere  quali  siano gli  attributi  che  fanno  parte  dell'essenza   o  della  defini- zione, ci  si  dirà  che  sono  quelli   compresi  nel  concetto. Tuttavia,  siccome  i  logici  concettualisti  hanno  dato  un'e- sposizione più  sviluppata  della  dottrina  della  definizione che  di  quella  del  concetto,   noi  possiamo  sperare  di  ri- schiarare la  seconda  per  la  prima. Quando  si  tratta  di  determinare  quali  siano  gli  attributi che  costituiscono  l'essenza,  o  che  devono  entrare   nella 36 SAGGIO  PRIMO SU[  LIMITI  E  l'oggetto  DELLA  CONOSCENZA   A  PRIORI definizione,  riappariscono  naturalmente  i  due  punti  di vista  sulla  comprensione  del  concetto,  di  cui  sopra  ab- biamo fatto  menzione.  La  maggior  pfirte  dei  logici  inse- gnano che  la  definizione  si  fa  per  il  genere  prossimo  e la  differenza  specifica  :  cosi  sarebbero  due  i  concetti  ele- mentari che  devono  entrare  nella  definizione.  Questa  dot- trina sulla  definizione  è  un  antecedente  naturale  della teoria  che  per  determinare  la  comprensione  del  concetto, parte  dalla  connotazione  del  nome,  quale  noi  Y  abbiamo già  spiegata.  Questa  ultima  teoria  infatti  avendo  bisogno  dì nn  minimum  di  note  per  la  costituzione  del  concetto,  trovò naturalmente  ciò  che  le  occorreva  nella  dottrina  comune della  definizione.  Ma  vi  hanno  altri  filosofi,  come  il  Bain, i  quaU  pensano  che  nella  definizione  devono  entrare  tutti gli  attributi  ultimi  o  irriduttibili  della  classe  che  sono  co- nosciuti (1).  Si  può  certamente  ammettere  come  più  con- ci) V.  Bain  Logica,  1.  l,  e.  2.  Cosi  la  mortalità  fa  parte,  secon- do Baìn,  della  essenza  dell'uomo,  e  dicendo  «ruomo  è  mortale», non  si  esprimerebbe  che  una  parte  della  defmizione  deiruomo,  es- sendo la  mortalità  un  attributo  primitivo  degli  esseri  viventi,  che non  può  dedursi  da  alcun  altro.  Ma  «  r  uomo  fa  la  cucma  »  non esprime  una  parte  della  defmizione,  perchè  quest'attributo  deriva da  un  attributo  anteriore  dell'uomo,  ch'egli  è  industrioso,  e  que- st'altro deriva  dagli  attributi  realmente  primitivi,  e  quindi  essen- ziali  che  è  intelligente  e  ha  delle  mani  (n.  16). Il  Bain  distingue,  coi  logici  antichi,  dagh  attributi  essenziali  a primitivi,  cioè  quelli  che  entrano  nella  detlnizione,  non  solo  i  pro- pri, che  derivano  da  quelli,  ma  anche  gli  accidentali.  Tuttavia un  accidente  rigorosamente  universale,  o  inseparabile,  non  diffe- risce al  fondo,  come  dice  egli  stesso,  da  un  attributo  essenziale- (n.  18),  e  deve  quindi  considerarsi  come  tale,  ed  entrare  nella  de- finizione. Secondo  il  Bain,  la  defmizione  classica  per  genas  et  (UtJeren^ tiam,  e  così  pure  ogni  altra  defmizione  che  non  esaurisce  la  tota- lità deizli  attributi  essenziali  o  irriduttibili  della  classe,  e  una  de- finizione incompleta  :  essa  serve,  non  ad  esprimere  tutta  la  con- forme all'uso  ordinario  della  definizione,  ed  anche  al  senso etimologico  della  stessa  parola  defmizione,  che  non  sia  ne- cessario di  racchiudervi  tutti  gli  attributi  della  classe,  e nemmeno  gFirriduttibili,  ma  semplicemente  quelli  che  ba- stano a  distinguere  gli  oggetti  appartenenti  alla  classe  da tutti  gli  altri  oggetti  che  esistono  fuori  della  classe,  ed è  su  ciò  che  è  fondata  la  regola  ordinaria,  secondo  cui basta  una  sola  differenza  specifica  per  formare  la  defini- zione. Ma  questo  processo  non  deve  illuderci  fino  al  punto di  credere  che  questa  capacità  di  definire  o  differenziare notazione  della  classe,  come  fa  la  definizione  completa,  ma  sola- mente a  distinguerla  da  ogni  altra  classe.  A  parte  la  dottrina  della connotazione  dei  nomi,  sulla  quale  noi  ritorneremo,  ({uesta  distin- zione del  Bain  della  definizione  completa  (che  espone  tutti  i  ca- ratteri primitivi  o  irriduttibili  della  ciassc)  e  della  definizione  in- completa (che  distingue  la  classe  da  tutte  le  altre),  si  può  ammet- tere, quantunque  sarebbe  forse  più  proprio  e  più  conforme  all'uso della  parola  definizione,  di  chiamare  piuttosto  descrizioni  le  de- finizioni complete  del  Bain,  quando  esse  comprendono  molti  ca- ratteri. Anche  per  il  Mill  è  una  definizione  incompleta  quella  che  si  fa per  il  genere  e  la  differenza  (Logica,  1.  1,  e.  8,  §  3)  :  ma  il  Mill  non si  allontana  tanto  quanto  il  Bain  da  questa  forma  tradizionale  della definizione  ;  una  definizione  completa,  per  il  primo,  non  essendo, come  per  il  secondo,  la  enumerazione  di  tutti  i  caratteri  (irridut- tibili) della  classe.  Per  il  Bain  tutti  questi  caratteri  entrano  neUa connotazione  del  nome,  e  quindi  nefia  definizione,  ma  per  il  Mill solo  un  numero  limitato  di  essi.  «  L'  uomo  è  mortale  »,  non  è  per Mill  un  predicato  essenziale,  ma  lo  è  per  Bain,  sin  tanto  almeno che  non  si  mostrerà  che  la  mortalità  è  un  proprium,  derivante  da qualche  attributo  essenziale  dell'uomo  e,  in  generale,  degli  esseri viventi.  Noi  andiamo  a  mostrare  che  la  dottrina  sulla  connotazione dei  nomi,  sulla  quale  è  fondata  questa  esclusione  della  più  parte  dei caratteri  (d'  altronde  universali  e  irriduttibili)  di  una  classe  dalia sua  essenza,  non  è  che  una  mera  finzione  dei  logici.  Non  può  farsi alcun  uso  corretto  della  parola  essenza,  se  non  per  designare  la somma  di  tutti  i  caratteri  (almeno  i  non  derivati)  comuni  a  una data  classe  di  oggetti.  una  classe  sia  la  prerogativa  esclusiva  di  quella  tale  dif- ferenza specifica  che  noi  mettiamo  nella  nostra  definizio- ne,  e  che  le  note  che  noi  scegliamo  per  una  definizione abbiano  con   la  natura  della  cosa  o  con  la   nozione  di essa  un  rap{3orto  molto  più  intimo  che  qualsiasi  altro  at- tributo conosciuto  della  cosa.   Questo  non  sarebbe  che  un pregiudizio  trasmessoci  dair antica  teoria  realista  delFes- senza  che,  come  si  sa,  ha  formato  il  punto  di  partenza di  tutte  le  ricerche  logiche  di  quest'ordine.  «  L'uomo  è  un animale  ragionevole  »,  è  senza  dubbio  una  definizione  pre- feribile a  qualsiasi  altra  dcfinizion  i  dell'uomo,  perchè  essa fa  comprendere  il  più  facilmente  quale  sia  l'oggetto  definito, il  genere  prossimo  essendo  di  quelli  di  cui  tutti  hanno  un'i- dea sufficientemente  esatta,  e  la  differenza  essendo  ugual- mente conosciuta  da  tutti  come  un  carattere  differenziale tra  il  definito  e  le  altre  specie  del  genere.  Non  è  certamente facile,  per  gli  esseri  naturali,  di  trovare  molte  definizioni simih.  Ma  che  cosa  vieterebbe  di  definire  l'uomo  altrimen- ti, prendendo  per  genere,  non  l'animale,  ma  il  vertebrato  o il  mammifero  o  qualsiasi  altra  delle  classi  d'ordine  inle- riore,  a  cui  può  essere  subordinato  l' uomo,  e  per  diffe- renza il  bimane,  p.  e.,  o  qualsiasi  altra  particolarità  della struttura  umana,   capace  a  distinguere  la  nostra  specie da  tutte  le  altre  del  genere  riguardato  come  prossimo  ? Ora  non    è  di  questa  maniera  evidente  che  qualunque proprietà  sia  generica  sia  specifica  dell'uomo  sarebbe capace  di   entrare  in   una  definizione   di   esso  ?    Ma   si crede   che   la  differenza  specifica  di  una   vera  defini- zione  logica  sia,   non  più  veramente  un   attributo  più fondamentale  nella  natura  della  cosa,  ma  un  attributo  im- plicato invariabilmente  nella  connotazione  del  nome,   e che,  per  questa  ragione,  fa  parte  della  comprensione  del concetto.  È  ciò  infatti  che  si  vuol  dire  al   fondo,  quando si  dice,  con  linguaggio  pieno  di  mistero,  che  un  attributo essenziale  è  ciò  senza  di  cui   la  cosa  finirebte  di  essere  CIO  che  è:   ciò   che  è  significa  un  uomo,  un  cavallo,  un albero,  ecc.;  e  un  attributo  essenziale  ò  cosi  ciò  senza  di cui  la  cosa  non  sarebbe  chiamata  uomo,  cavallo  o  albero. Ora,   ò  vero  che  tutte  le  note  di  una  definizione,   fatta secondo  le  regole  dei  logici,  sono  implicate  invariabilmente nella  connotazione  del  nome?  Se  fosse  cosi,  noi  chiamerem- mo invariabilmente  uomo  qualsiasi  essere,  reale  o  immagi- nario, che  avesse  insieme  con  l'animafità  l'attributo  ragFo- nevole,  e  rifiuteremmo  con  la  stessa  costanza  questo  nome  a qualsiasi  essere  non  avente  quest'attributo   Ma  un  po'  di riflessione  mostrerà  che  non  è  cosi  clie  noi  facciamo  di fatto.  Immaginiamo  infatti  clic  esistessero  dei  pappagalli, o  altri  esseri   organizzati  aventi  una  struttura  assai^  di- versa dall'umana,  i  quali  nelle  loro  parole  e  nei  loro  atti mostrassero  altrettanta  ragione  che  l'uomo  :  è  certo  che noi  non  chiameremmo  affatto  uomini  queste  creature  im- maginarie. Supponiamo  invece,  come  tante  volte  ne  è  corsa la  voce  per  il  passato,  che  si  scopra  una  razza  di  esseri, simili  in  tutto  nella  forma  e  nella  struttura  all'uomo,  ma che  non  avessero  V  uso  del  linguaggio   e  della  ragione  : è   quasi  certo   che  noi  li   chiameremmo  uomini.    E  sen- 7^  correre  tanto  con  1'  inunaginazione,  non  chiamiama forse   uomini  gì'  idioti  ?   Si  dirà  forse  che  la  definizione trasmessaci  dagli  antichi   è   insufficiente,   e  che  avreb- be bisognato  definire  1'  uomo  anzitutto  per  la  sua  figura esteriore.  Cerchiamo  dunque  di  definirlo  cosi.  Certamente noi  non  diremo,  come  Democrito  (1),  che  1'  uomo  Jia  la Jtf/nra  che  conosciamo,  se  vogliano  fare  una  definizione;. ma  determineremo  i  caratteri  della  figura  esteriore  che sono  propri  dell'uomo.  Ora  dobbiamo  noi  ammettere  che un  essere  deve  avere  precisamente  tutte  le  particolarità di  questa  forma  esteriore  per  potere  essere  chiamato  uomo?; (1)  V.  Aristotile  De  partiba^  animalUini,  iib.  1.,  e.  l,  e  Sesto Empirico  Adrcrms  Mathematicos ma  per  il  passato  è  corsa  pure  la  voce  deiresistenza  di uomini,  simili  in  tutto  a  noi,  dotati  di  i)arola  e  di  ragione, ma  con  una  coda  pelosa  fra  le  gambe,  il  che,  se  esistes- sero in  realtà,  non  c'impedirebbe  certamente  di  chia- marli uomini.  Se  dunque  non  è  il  possesso  di  tutte  le  ])artico- larità  0  attributi  della  forma  esteriore,  che  sarebbe  necessa- rio per  applicare  il  nome,  allora  Tuna  delle  due:  o  l'assenza o  presenza  della  coda  verrebbe  considerata  come  una  parti- colarità insignificante,  ma  vi  sarebbero  altre  parti  più  im- portanti della  figura  umana  che  sarebbero  considerate  come necessarie;  o  nessuna  delle  particolarità  della  forma  sa- rebbe necessaria,  ma  ciascuna  isolatamente  potreljbe  va- riare, purché  un  certo  numero  di  esse  o  la  maggior  parte restasse  invariabile.  Ora  noi  non  possiamo  ammettere  il primo  dei  due  casi,    perclie  come  si  è  parlato  di  uomini con  la  coda,  si  è  ugualmente  parlato  di  uomini  senza  testa o  aventi  la  testa  sotto  le  spalle:  non  vi  ha  dunc^ue  parte alcuna  o  carattere  della  forma  esteriore,  la  cui  presenza si  ritenga  necessaria  per  applicare  il  nome.  È  il  secondo caso  che  si  deve  ammettere  ?  ma  sarebbe  confessare  che nessuna  delle  note  della  definizione  accompagna  invaria- bilmente l'impiego  del  nome  uomo  (1).  Cosi  qualunque  sia il  numero  delle  note  che  facciamo  entrare  nella  definizione, sia  che  ci  contentiamo  di  una  sola  differenza  specifica  sia che  ne  impieghiamo  molte  allo  stesso  tempo^  non  è  mai   NcUa  connotazione  dì  uomo,  dice  Mill,  vi  lui  cortamente  una certa  forma  esteriore,  ma  sarel)be  impossibile  di  dire  qual  devia- zione dalla  forma  ordinaria  sia  sufficiente  per  rifiutare  il  nome  di uomof/.or/iVa,  lib.  1.,  e.  2..  ^  5).  Ma  cosi  dicendo  il  Mill  confessa  che l'applicazione  del  nome  non  è  fondata  sulla  partecipazione  di  certi caratteri  determinati,  ma  sovra  una  somiglianza  generale.  L'ap- plicazione del  nome  non  importa  dunque  V  attribuzione  di  certi predicati  definiti:  ma  che  diventa  ollora  la  dottrina  della  connota- zione dei  nomi  ?  Questa  oljbiezione  d'altronde  rientra  nella  difficoltà sollevata  da  una  pro]>oslzione  di  Wewell,  di  cui  appresso. ammissibile  che  le  note  della  definizione  accompagnino invariabilmente  l'applicazione  del  nome,  e  facciano  parte della  sua  connotazione.  Intanto  è  ciò  che  deve  necessaria- mente pretendere  la  dottrina  che  identifica  la  comprensione del  concetto  con  la  connotazione  del  nome,  dottrina  che  è tutto  quello  che  i  concettualisti  hanno  detto  di  chiaro  su questa  comprensione. L' imposizione  di  un  nome  o  Y  aggregazione  ad  una classe  non  implica  che  una  somiglianza  generale  del nuovo  membro  con  gli  altri  membri  conosciuti  della  classe stabilita;  non  importa  la  riconoscenza  di  un  gruppo  pre- ciso di  caratteri  speciali  definiti,  che  siano  rigorosamente comuni  a  tutta  la  classe.  Io  voglio  dire  che  se  un  buon numero  di  questi  caratteri  speciali  si  trova  ordinariamente comune  a  tutti  i  membri  della  classe,  tuttavia  nessuno  di questi  caratteri,  preso  isolatamente,  si  ritiene  come  asso- lutamente necessario  ]:)erchò  un  altro  membro  si  faccia rientrare  nella  classe.  Se  un  naturalista  conosce  una  specie per  quanto  ben  definita,  ma  poi  viene  a  trovare  un  grup- po d'individui,  che  manchino  di  uno  qualunque  o  più  dei caratteri  specifici  che  definiscono  la  specie  stabilita,  egnon  esisterà  a  classare  questi  nuovi  campioni  come  una semplice  varietà  della  stessa  specie,  purché  essi  siano  suf- ficientemente vicini  agh  individui  già  conosciuti.  Vi  hanno anche,  come  osserva  Darwin  (Origine  delle  specie,  cap.  14^), delle  classi  nella  storia  naturale,  in  cui  due  forme  situate agh  estremi  opposti  della  serie,  possono  appena  avere  un sol  carattere  comune  di  quelli  su  cui  la  classe  è  fondata, o  anche  non  avere  affatto  alcun  carattere  comune;  ma siccome  nondimeno  tutte  le  forme  della  serie  sono  connesse l'una  con  l'altra  per  una  catena  continua  di  affinità,  ciò basta  per  farle  riconoscere  tutte  come  appartenenti  alla classe.  Cosi  alcuni,  come  Wewell,  hanno  proposto  di  fon- dare la  classificazione,  non  sovra  un  gruppo  di  caratteri definiti  comuni,  ma  sul  grado  di  affinità  con  dei  tipi  che ^m-^  possano  rapi )resen tare  la  classe.  (1)  E  in  generale,  nella formazione  di  una  classe,  no'  non  incominciamo  per  ista- bilire  una  definizione,  alla  quale  contiamo  di  uniformarci strettamente  per   conoscere  Y  estensione   possibile  della (l)  MiLT.  ninntiene  contro  Wcwell  rafTcrmazionc  clic  una  classe è  fondata  sulla  definizione,  cioè  sul  possesso  di  caratteri  determi- nati. Tuttavia  eirli  ammette  che  i  caratteri,  in  ragione  di  cui  sono costituiti  i  grui>i>i  naturali,  cosi  bene  che  le  classi  artificiali,  sono, non  i  soli  caratteri  rigorosamente  comuni  a  tutti  gli  oggetti  com- presi nel  grupi)0,  ma  riuelli  che  si  trovano  tutti  nella  più  parte degli  oggetti,  e  la  più  i»arte  in  tutti  {Lor/ìca,  1.  4.  e.  7.  j^ar.  3  e  4). 11  Mill  dice  altrove  (1.  1.  e.  5.  par.  6)  che  in  questo  caso,  cioè  (pian- ilo un  nome  di  classe  viene  alTermato  d'una  sostnnza.  la  (fuale  non possiede  che  alcune  delle  proprietà  caratterizzanti  la  classe,  ciò cìie  si  afferma  non  è  il  possesso  di  un  certo  numero  di  predicati definiti,  ma  semplicemente  la  somiglianza  con  gli  altri  oggetti  de- signati dol  nome.  Quindi .  secondo  lui,  il  senso  del  nome  è  ditt'e- rente,  quando  viene  applicato  a  un  individuo  normale  (rigorosa- mente conforme  alla  definizione),  e  quando  a  un  individuo  ano- malo. 1/  ambiguità  del  termine  in  questo  caso  sarebbe  perfetta, essendo  diversa  tanto  la  denotazione  quanto  la  connotazione.  Una classe  sarebbe  dun(iue  formata.  i)rima  da  un  gruppo  d'individui rigorosamente  conformi  alla  definizione,  e  sarel)be  la  classe  pro- priamente detta  ;  poi  da  un'  appendice,  composta  dei  casi  aber- ranti, riuniti  attorno  alla  classe,  ma  fuori,  a  parlar  proi>riamente, di  questa,  quantunque  i>iù  vicini  ad  essa  che  alle  altre  classi.  Il nome  di  classe  non  si  applicherei)! )e  con  proprietà  che  al  primo gruppo.  Cosi,  se  noi  volessimo  esprimerci  esattamente,  noi  noi> dovremmo,  secondo  1  principi!  tlel  Mill,  dire,  p.  e.,  d'un  idiota; (luesto  è  un  uomo  ;  ma  l>ensi  :  (juesto  non  è  uomo,  ma  è  simile airuomof(cfr.  Loche  Saf7{//o  ecc.,  1.4.  e. 4.  par.  13  e  seg.).  Ora  siccome per  ogni  gruppo  naturale,  noi  i^ossiamo  sempre  supporre  di  questi individui  anomali  (non  conformi  rigorosamente  alla  definizione», della  classe),  ne  segue  che  ogni  nome  dì  classe  è  in  realtà  ambi- guo :  ma  allora,  Tapplicazione  di  un  nome  di  classe  non  implica  piìt Taffermazione  di  attributi  definiti,  e  non  vi  ha  più  alcun  criterio per  distinguere  la  i^roposizione  analitica  dalla  i^roposizione  sin^ letica. Il  Bain  si  propone  anch' egli  la  difficoltà  sollevata  dal  Wewell (lib.  4.  e.  3,  8),  «Noi  possiamo  immaginare,  egli  dice,  un  gruppo  tò classe;  ma  prima  stabiliamo  la  classe  per  Tapprezzamento complessivo  delle  affinità  reciproche  fra  i  suoi  membri, di  cui  alcune  forse  indefinibili  e  insignificanti,  e  delle  dif- ferenze tra  essi  e  i  membri  delle  altre  classi,  e  poi  cer- formato  da  dieci  caratteri,  ma  composto  d'individui,  nei  quali  uno o  due  di  questi  caratteri  non  sono  marcati,  benché  si  rassomiglino per  il  più  gran  numero  di  caratteri.  Noi  possiamo  anche  fare  ([uesta supposizione  estrema,  che  la  fluttuazione  è  t^le  che  alcuno  dei dieci  caratteri  non  persiste  in  tutti  gl'individui,  donde,  rigorosa- mente, noi  potremmo  concludere  che  non  vi  ha  più  un  sol  carat- tere comune,  benché  vi  siano  un  gran  numero  di  rassomiglianze*. «  La  difllcoltà  sollevata  da  Wewell,  soggiunge  il  Bain,  può  essere risoluta,  se  si  accorda  l'esistenza  d'un  margine,  d'un  intervallo vago,  d'una  transizione  incerta,  che  è  essenziale  a  dei  cosi  di  con- tinuità molto  meno  complicati  che  non  lo  è  la  distinzione  dei  grup- pi in  storia  naturale  »  (p.  e.  la  transizione  fra  la  notte  e  il  giorno, fra  lo  stato  solido  e  lo  stato  li(iuido,  fra  cui  vi  hanno  delle  gra- dazioni insensibili,  in  modo  che  è  impossibile  di  tirare  una  linea preciso  di  separazione.  È  su  casi  simili  che  si  fondava  l'antico  so- lìsma  del  sorite  o  del  cumulo,  (v.  lib  4.  e.  1,  3). Si  può  osservare  anzitutto  su  questa  soluzione  del  Bain,  che  nei casi  della  quistione  di  Wewell  non  si  tratta  d'una  transizione  in- certa o  indeterminata  :  gl'individui  anomali  il  più  spesso  vengono senza  esitazione  ricondotti  a  una  classe,  non  vi  ha  dubl)ìo  ch'es- si appartengano  a  una  specie  o  a  un  genere  dato.  Ma  anche  il fatto  d'  una  transizione  incerta  sarebbe  una  dilTìcoltà  grave  per la  dottrina  del  Bain  della  definizione  e  della  connotazione  dei  nomi: se  vi  hanno  dei  casi  tali,  che  è  dubbio  se  gl'individui  appartengano a  una  classe  data  e  se  il  nome  generale  debba  applicarsi,  ciò  pro- va che  la  classazione  e  l'applicazione  del  nome  non  implicano  l'af- fermazione di  caratteri  definiti.  La  ditlicoltà. contenuta  nella  pro- posizione del  Wewell  è  anche  per  il  Bain  più  grave  che  per  il  Mill: <piesti  infatti,  per  cui  la  definizione  o  la  connotazione  non  com- prende la  totalità  dei  caratteri  ultimi  del  genere,  potrebbe,  nella maggior  parte  dei  casi,  togliersi  d'imbarazzo,  rispondendo  che  il carattere,  per  la  cui  assenza  l'individuo  si  pretende  diifórme  dalla definizione  del  genere,  non  entra  invece  in  questa  definizione.  Ma nella  dottrina  del  Bain,  ])er  cui  tutti  i  caratteri  della  classe  entrano nella  definizione,  qualsiasi  anomalia  ne  costituisce  una  ditformità, e  si   corre  il  rischio  che  tutti  gì'  individui  nella  specie  e  tutte  le 44 n II? fi !  t I chiamo  quali  siano  i  caratteri  rigorosamente  comuni  che possano  definire  la  classe.  Perciò  dice  Linneo:  Seias  cha^ racterem  non  costiiuere  gcnus,  sed  geniis  characterem. Characterem  filiere  e  genere,  non  genus  e  charaetere, Charactereni  non  esse  ut  genus  fìat,  sed  ut  genus  no- scaiur,  (Pkilosophia  botanica,  sez.  169)  In  una  parola,  la 'formazione  della  classe  é  logicamente  anteriore  alla  sua specie  nel  genere  siano  anomali,  e  nessuno  sia  rigorosamente  con- forme alla  delinizione.  P.  e.  la  variabilità  dei  muscoli  nei  corpo umano  è  tale,  che  fra  trentasei  soggetti  studiati  da  un  anatomista, non  ve  ne  era  un  solo  «  che  non  si  dipartisse  al  tutto  dalle  regole descritte  del  sistema  muscolare  che  si  trovano  in  tutti  i  trattati d'anatomia  ».  (V.  Darwin  Onfjlne  deiruomOy  e.  4.  Noi  raccoman- diamo Darwin  all'attenzione  dei  concettualisti.  È  evidente  per  noi che  la  dottrina  dei  concetti,  come  la  dottrina  platonica  o  hegeliana delle  Idee,  deve  supporre  la  fissità  delle  specie). Noi  abbiamo  fatto  valere  la  difficoltà  contenuta  nella  dottrina di  Wewell,  contro  l'esistenza  dei  concetti  complessi,  cioè  analiz- zabili in  altri  concetti  più  semplici  :  ma  è  evidente  che  un'obbie- zione analoga  può  elevarsi  contro  i  concetti  che  non  sono  analiz- zabili. Vi  hanno  nella  natura,  secondo  l'osservazione  del  Bain,  dei casi  in  cui  esiste  una  transizione  continua  fra  un  genere  e  un  altro, in  modo  che  sarebbe  impossibile  di  tirare  una  linea  di  separazione, p.  e.  tra  il  solido  e  il  liquido,  la  luce  e  loscurità,  il  caldo  e  il  freddo. Ma  anche  nei  casi  in  cui  questa  transizione  manca  nella  realtà,  ci è  sempre  possibile  d'immaginarla  :  p.  e.  per  quanto  ben  delimitate possano  essere  le  forine  specifiche  delle  cose,  noi  possiamo  sem- pre immaginare  una  catena  di  forme  intermediarie  che  riunisca due  forme  differenti  (lualuncpie.  È  impossibile  di  dire  per  tutti  que- sti casi,  reali  o  immaginari,  dove  un  concetto  finisce  e  dove  un ^oltro  incomincia.  Tuttavia  il  concetto  è  qualche  cosa  di  fisso  e  di determinato  :  esso  è  una  parte  o  un  elemento  delle  rapr)resenta- zioni  particolari,  che  si  trova  identicamente  in  tutte  (juelle  che  sono ad  esso  subordinate.  Ma  se  è  cosi,  in  qualsiasi  rappresentazione particolare  il  concetto  o  esiste  o  non  esiste:  ogn' indeterminazione, ogn'  incertezza  sulla  sua  presenza  o  sulla  sua  assenza  è  qualche cosa  d'inconcepibile.  Se  il  solido  e  il  liquido  fossero  la  partecipa- zione di  un  solido  in  sé  e  di  un  liquido  in  sé  come  diceva  Platone, la  continuità  fra  questi  due  stati  della  materia  sarebbe  impossibile.. definizione  :  (pesta  è  fondata  sulla  nozione  della  classe  ^ non  la  nozione  della  classe  sulla  definizione. Una  definizione  dunque  non  può  pregiudicare  sulFesten- sione  possibile  della  classe.  L.a  riduzione  di  un  nuovo  cam- pione sotto  la  classe,  o  la  imposiziono  del  nome  a  questo, non  implica  la  riconoscenza,  in  esso,  di  una  somma  de- terminata di  caratteri  definiti,  ma  solo  una  somiglianza, generale  con  gli  altri  membri  conosciuti  della  classe  ;  la definizione  non  circoscrive  i  hmiti  dentro  di  cui  ci  rite- niamo abilitati  ad  applicare  il  nome,  ma  dice  soltanto  i caratteri,  tutti  o  alcuni,  che  sin  qui  si  sono  ritrovati  co- muni a  tutti  o  quasi  tutti  gl'individui  che  portano  il  nome. La  definizione  dunque  non  analizza  il  senso  del  nome,  la sua  connotazione:  essa,  per  conseguenza,  non  decompone il  concetto  nelle  sue  note  costitutive,  come  pretendono  i concettualisti,  e  non  ne  determina  la  comprensione. Ma  qui  si  eleverà  una  obbiezione.  Se  la  definizione  non- esprime  lessenza  o  la  natura  intima  dell'oggetto  definito, se  essa,  per  dirlo  con  la  parola  ricevuta,  non  è  reale,  che altro  potrà  essere  se  non  nominale,  e  che  altra  cosa  po- trà esprimere  se  non  il  senso  del  nome,  la  sua  connota- zione ?  Noi  risponderemo  che  la  definizione  non  definisce il  nome  —  o  meglio,  il  concetto,  come  vuol  dire  al  fondo questa  teoria  —  ma  gli  oggetti  reali  nominati  ;  essa  distin- gue questi  oggetti  da  tutti  gì  i  altri,  se  è  incompleta  ;  se  è completa,  ne  esprime  tutti  gli  attributi  comuni  fondamen- tali. Sotto  questo  punto  di  vista,  ogni  definizione  è  rea- le ;  ma  molte  definizioni  possono  dirsi  a  buon  dritto  no- minali, in  quanto  esse  non  hanno  altra  utilità,  airinluori di  l'arci  riconoscere  gli  oggetti  che  portano  il  nome.  Sa- rebbe però  un'improprietà  di  chiamare  nominale  una  de- finizione, il  cui  oggetto  speciale  non  sia  d'insegnarci  l'u- so di  un  nome  :  cosi  vi  hanno  in  geometria  delle  defini- zioni, che  devono  dirsi  meritamente  reali  o  essenziali  nel senso  antico,  in  quanto  esse  affermano  della  forma  geometrica  una  proprietà  immediatamente  conosciuta,  alla quale  tutte  le  altre  proprietà  si  riattaccano,  per  un  mgio- namento   puramente   deduttivo  (1). §  11.°— La  divisione  del  giudizio  in  analitico  e  sinte- tico, quale  è  stata   ammessa  da  Kant,  riposa   in  ultima (1)  Nella  dottrina  (Iella  definizione  del  Mir.L.  che  (luesfautore  dà per  nominanza,  ma  che  viceversa  è  concettualista,  ogni  defini- zione è  di  nome.  Ma  una  volta  mancata  la  ])ase  della  dottrina  dei concetti  e  della  connotazione  dei  nomi,  questa  opinione  diventa insostenibile.  La  definizione  di  nome  non  espone,  come  vuole  il  Mill, i  predicati  compresi  nella  connotazione  del  nome,  ma  insegna  l'uso del  nome,  indicando  la  classe  a  cui  questo  va  applicato.  Una  de- finizione (lunciue,  il  cui  scopo  speciale  non  sia  d'insegnare  l'uso del  nome,  cioè  a  quali  oggetti  questo  deve  applicarsi,  non  è  una flefinizione  di  nomCy  ma  di  cosa.  La  definizione  completa  del  Bain 'di  una  classe  naturale  (noi  abbiamo  già  fatto  le  nostre  riserve  su quest'uso  della  parola  definizione),  la  quale  esaurisce  la  totalità dei  caratteri  fondamentali  della  classe,  non  ha  per  oggetto  d'inse- gnarci l'uso  flel  nome,  ma  piuttosto  di  darci  una  conoscenza  .scien- tifica della  cosa.  La   definizione  geometrica  della  retta,  del  cer- chio ecc.  (che  sono  certamente  delle  definizioni  nel  senso  più  stret- to della  parolo).  non  hanno  lo  scopo  d'insegnarci  il  significato  del nome .  ma  di  segnalare  la  proprietà  essenziale,  immediatamente conosciuta,  che  verrà  in  seguito  invocata  per  la  dimostrazione  dei teoremi.  Tali  definizioni  non  potrebbero  essere  considerate  come definizioni  dei  nomi,  se  non  ammessa  la  finzione  logica  che  la  de- finizione analizzi  la  connotazione  del  nome,  questa  connotazione consistendo  in  un  gruppo  determinato  d'attributi. La  distinzione  fra  definizioni  di  nome  e  di  cosa  non  coincide interamente  con  quella  fra  definizioni  incomplete  e  complete.  La definizione  di  un  gruppo  naturale  in  un  sistema  di  classificazione artificiale,  è  una  definizione  incompleta:  ma  è  una  definizione  di cosa  e  non  di  nome,  perchè  il  suo  oggetto  è  di  indicare  il  posto che  la  classe  definita  occupa  nel  sistema.  Al  contrario  la  definizione dell'eloquenza,  «  il  potere  d'  agire  sui  sentimenti  e  sulla  condotta degli  uomini  per  mezzo  del  discorso»,  o  quella  dell'eredità,  «un patrimonio  ottenuto  per  diritto  dalla  morte  di  alcuno  »,  sono  "de- finizioni complete  ;  ma  sono  definizioni  di  nome,  perchè  non  hanno altra  utilità  che  d'insegnarci  il  retto  uso  della  parola. Il  Mill  ammette  che  le  definizioni  scientifiche,  sia  di  un  termine tecnico,  .sia  di  un  termine  comune  impiegato  in  un  senso  tecnico,  il analisi,  come  abbiaftìo  detto,  sul  presupposto  che  Timposi- zione  del  nome  implica  Taffermazione  di  certi  attributi  de- ^  terminati,  e  quindi,';clie  questi  attributi  costituiscono  il  .'senso del  nome,  cioè  il  concetto.  Ascoltiamo  infatti  il  Mill,  if  quale :  più  chiaramente  e  più  profond£m>ente  che  alcun  altro  ha  e- spostoiliondamcnto  di  questa  divisioTie.  Dopo  avere  rimpro- verato ad  Hamilton  che  questi  fa  tutti  i  giudizi  anahtici.  per- chè comprende  nel  concetto  tutti  gli  attributi  conosciuti  del genere,  egli  dice:  «Il  concetto  d'un  genere;il  mioconcetto  d'uo- •  sogliono  avere  per  oggetto  speciale,  non  di  spiegare  il  senso  di  un nome,  ma  di  segnare  dei  limiti  in  una  classificazione  scientifica •  (lib.  1,  c.S,  par.  4).  I  logici  antichi,  egli  aggiunge  giustamente,  sem- brano aver  creduto  che  la  definizione  ordinaria  (per  genus  et  dii-ferentiam)  avea  per  oggetto  di  formulare  la  classificazione  usuale e,  secondo  loro,  naturale  delle  cose.  Nondimeno  persiste  a  chia- mare tah  definizioni  definizioni  di  nome;  perchè  eiili  dice  se  l-i definizione  è  l'esposizione  completa  della  connotazione  del  nome e  già  per  ciò  stesso  sufficiente  a  fissare  i  limiti  della  classe  ed  è quindi  tutto  ciò  che  può  essere  una  definizione  (ini)  ' I  nomi  di  una  nomenclatura  tecnica  (p.  e.  della  botanica)  hanno per  connotazione,  secondo  il  Mill,  i  caratteri  per  cui  la  classe  è defimta  secondo  lo  scopo  speciale  propostosi  :  è  questa  connota- zione particolare,  egli  dice,  che  fa  il  senso  del  nome,  perchè  noi ci  fondiamo  sui  caratteri  per  applicarlo.  Se  ai  primi  caratteri  si sostituiscono  altri  caratteri  come  più  i^roprii  a  distinguere  la  spe- cie, 1  senso  del  nome  cangia,  secondo  l'autore,  quatunque  la  classe %Tr.      V^V^"^"^'^"^-  ^'  ^-  ^'  P^^-  ^^  Uomo,  egli  dice altrove  (hb.  1.  e.  7,  par.  6),  nell'uso  comune  connota  la  razionalità ma  nella  classificazione  di  un  naturalista  può  avere  una  connota- zione differente  ;  p.  e.  nel  sistema  di  Linneo  connota:  «quattro denti  incisivi  a  ciascuna  mascella,  dei  canini  solitari,  e  la  stazione retta  ».  La  parola  uomo  ha  dunque  due  sensi  differenti,  quantun- que denoti  sempre  la  stessa  cosa;  e  l'ambiguità,  aggiunge  il  Mill diverrebbe  evidente,  se  supponiamo  che  si  scoprisse  qualche  nuo- vo ammale  avente  i  tre  caratteri  di  Linneo,  ma  non  quelli  conno- tati nell  accezione  comune  del  nome  uomo.  I  Linneani  allora    se ve  ne  fossero,  o  dovrebbero  chiamare  questi  nuov  i  animali  «  uomi- ni »,  o  dovrebbero  abbandonare  la  classificazione,  e  con  essa    la sìgn.flcazione  tecnica  del  termine.  In  verità  l'esito  dell'alternativa iiiMilia'aiimiiwa» mo  p.  e.,  in  quanto  é  distinto  dalla  mia  rappresentazione mentale  d'un  uomo  individuale,  racchiude,  non  tutti  gli attributi  che  io  assegno  alluomo,  ma  quelli  soltanto  di essi  su  cui  riposa  la  classazìone,  e  che  sono  implicati  nel senso  del  nome.  L'uomo  è  un  essere  vivente  o  Tuomo  è ragionevole,  sarebbero  dei  giudizi  analitici,  perchè  gli  at- tributi vita  e  ragione  sono  del  numero  di  quelli  che  si trovano  già  nel  concetto  uomo.  Ma:  Tuomo  è  mortale, sarebbe  contato  come   un  giudizio   sintetico,  poiché,  per proposta  ai  Linncani  non  potrebbe  essere  dubbio:  essi  al)bando- nerebbero  la  definizione,  e  continuerebbero  a  fare  del  nome  uomo lo  stesso  uso  cbe  ne  facciamo  noi.  Ciò  mostra  che  non  è  sui  caratteri definiti,  come  vuole  il  Miil,  che  noi  ci  fondiamo  per  apiilicare  il nome,  e  che  è  una  pura  finzione  il  dire  con  lui  che  l'autore  di  una nuova  definizione  scientifica  cangia  il  senso  del  termine,  anche quando  le  cose  denotate  restano  le  stesse.  Ma  se  si  rigetta  (juesta finzione  logica  della  connotazione  dei  nomi,  diviene  evidente,  per la  stessa  confessione  del  Mill,  che  una  definizione  scientifica,  aven- rio  per  oggetto  speciale  piuttosto  «li  stabilir*^  una  classazione  che di  far  conoscere  fuso  di  un  termine,  è  una  definizione,di  cosa piuttosto  che  di  nome. Nella  dottrina  del  P,ain  non  vi  ha  più  distinzione  possibile  tra definizioni  di  nonij  e  di  co^a ;  il  senso  in  connotazione  del  nome <!  il  complesso  dei  caratteri  irriduttibili  della  classe  coincidendo per  quest'autore.  La  distinzione  tradizionale  non  ha  più  senso  per lui:  egli  sembra  pensare  (generalizzando  una  veduta  di  Mill  sulle definizioni  della  matematica)  che  le  definizioni  reali  si  applicano agli  oggetti  reali,  ma  le  definizioni  nominali  alle  idee,  non  essendo necessario  che  ad  esse  corrispondono  degli  oggetti  reali.  (Logica alla  fine  del  e.  1  del  lib  4).  \\  Bain  si  accorse  che  la  distinzione fra  gli  attributi  irriduttibili  di  una  classe,  supposta  dal  Mifi,  di  cui alcuni  sono  compresi  noWessen^a  o  nella  connotazione  del  nome, ed  altri  esclusi,  è  priva  affatto  di  fondamento,  ed  egli  fa  certa- mente un  uso  più  legittimo  della  parola  essen:^a.  Ma  il  suo  torto è  per  ciò  stesso  più  grave  che  quello  del  Mill,  quando  egli  ammet- te con  lui  che  i  predicati  essenziali,  che  entrano  tutti  nella  defini- zione completa,  sono,  non  reali,  ma  puramente  verbali.  È  che  il Bain  ammette  anch' egli  la  dottrina  concettuafista  della  connota- zione dei  nomi.  Questo  è  un  punto  su  cui  in  seguito  ritorneremo. (juanto  ordinario  sia  il  fatto,  esso  non  era  già  affermato nel  nome  stesso  uomo,  ma  è  stato  aggiunto  nel  predicato  ». (Filosofìa  (li  Hamilton,  cap.  18^^)  E  più  lungi  ;  «  I  nomi  de- vono essere  i  segni  dei  concetti,  e  i  concetti  il  senso  dei nomi.  Perchè  ciò  sia  vero,  bisogna  che  il  concetto  non  si componga  che  degli  altri biiti  connotati  dal  nome.  Corpo- reità, vita,  ragione  ed  altri  attributi  dell'uomo  che  fanno parte  del  senso  della  parola,  in  molo  cho  là  dove  questi attributi  non  sono,  noi  possiamo  rifiutare  il  nome  d'uo^ tao  —  (jucsti  attributi  fanno  parte  del  concetto.  Ma  la  mor- talità e  tutti  gli  altri  attributi  umani  che  fanno  il  soggetto dei  trattati  sia  sul  corpo  umano  sia  sulla  natura  umana, non  sono  nel  concetto,  perchè  noi  non  li  affermiamo  d'un individuo  per  il  solo  fatto  di  chiamarlo  uomo;  sono  al- trettante conoscenze  addizionali.  Il  concetto  uomo  non  è la  somma  di  tutti  gli  attributi  d'un  uomo,  ma  solamente degli  attributi  essenziali,  di  quelli  che  fanno  ch'egli  è  un uomo  ;  in  altri  termini,  quelli  su  cui  é  basato  il  genere uomo,  e  che  sono  connotati  dal  nome,  ciò  che  si  chiamava Tessenza  deiruomo,  ciò  senza  di  cui  l'uomo  non  può  es- sere, o  non  sarebbe  ciò  che  si  dice  che  egli  è.  Senza  la mortalità  o  senza  trentadue  denti,  sarebbe  ancora  chia- mato uomo:  noi  non  diremmo  che  egli  non  è  un  uomo, ma  diremmo:  quest'uomo  non  è  mortale,  o  ha  meno  di trenta.lue  denti  ».  {ibid). Tutto  ciò  che  dice  Mill  si  riduce  a  questo:  che  gli attributi  che  fanno  parte  del  concetto,  sono  quelli  che noi  dobbiamo  riconoscere  in  un  individuo  per  poterlo  ri- durre sotto  una  classe,  e  che  quindi  intendiamo  affer- mare di  lui  dandogli  il* nome  corrispondente.  Perchè  «  at- tributi su  cui  riposa  la  classazione  »  o  «  è  fondato  il  ge- nere »,  «  attributi  che  fanno  parte  del  senso  del  nome  » 0  «  della  sua  connotazione,  »  «  attributi  che  sono  es- senziali all'uomo  »  e  «  fanno  ch'egli  è  un  uomo  ed  è  chia- mato cosi  »:  tutte  queste  e  le  altre  non  sono  che  delle  espressioni  sinonime  di  un  solo  fatto,  il  quale  non  ò  al  t'ondo  se non l'operazione  mentale  unica,  che  noi  sotto  un  aspet- to chiamiamo  imposizione  di  un  nome,  e  sotto  un  altro riduzione  ad  una  classe.  Ora  noi  abbiamo  visto  che  non vi  ha  alcuno  dei  caratteri  definiti  speciali  alla  classe  sta- bilita, il  quale  debba  invariabilmente  accompagnare  la  ri- duzione sotto  la  classe  e  Tapplicazione  del  nome  corrispon- dente. La  divisione  Kantiana  dei  giudizi  in  analitici  e  sinte- tici pecca  dunque  nella  sua  base,  ed  è  puramente  arbitraria. Ma  a  provare  il  carattere  arbitrario  di  questa  divisione bastano  gli  esempi  con  cui  i  migliori  autori  illustrano  la teoria.  «  L'oro  è  un  metallo  giallo  »  è  una  proposizione  ana- litica secondo  Kant,  ma  «  Toro  è  duttile  »  è  sintetica  se- condo il  suo  traduttore.  «  l 'uomo  è  ragionevole  »  è  analitica secondo  Mill,  «  l'uomo  è  mortale  »  sintetica.  «  La  neve  è bianca  »  è  analitica  per  Galluppi,  «  è  fredda  »  sintetica (v.  Galluppi  Elementi  di  filosofia,  tomo  1,^  c.^  2,^  §  l(j  ;. Cosi,  applicando  il  criterio  dello  stesso  Kant,  le  prime di  queste  coppie  di  proposizioni  sono  a  priori  e  necessarie, le  seconde  a  posteriori  e  contingenti.  Ora  ammettiamo che  «  l'oro  è  un  metallo  »  sia  un  giudizio  a  priori;  ma  si può  dire  lo  stesso  di  quest'altro  :  «  l'oro  è  giallo  »  ?  Am- mettiamo ugualmente  che  la  proposizione  «l'uomo  è  ani- male» sia  a  priori;  ma  sarà  anche  a  priori  la  proposi- zione «  l'uomo  é  ragionevole  »  ?  Cosi  pure  «la  neve  è  un corpo  »  sarà  a  priori  ;  ma  lo  sarà  del  pari  «  la  neve  è bianca  »  ?  «  Non  mi  faccio  io,  domanda  Hume^,  un'idea  chia- ra e  distinta  d'un  corpo  cadente  dalle  nubi,  e  simile  alla neve  per  ogni  aspetto,  il  quale  avrebbe  il  gusto  del  sale, e  farebbe  l'impressione  al  tatto  come  la  fiamma  ?.  {Saggi sulV  intendimento  umano,  Saggio  4<^,  parte  seconda).  Per- ciò è  parso  al  Galluppi  che  «  la  neve  è  fredda  »  sia  una proposizione  a  posteriori  e  sintetica,  mentre  «la  neve  è un  corpo,  cadente  dalle  nubi,  bianco,  »  sarebbero  a  priori ed  analitiche.  Ma  non  mi  faccio  io  un'idea  chiara  e  di- stinta d'un  corpo  cadente  dalle  nubi,  a  fiocchi,  nato  dalla congelazione  del  vapore  e  freddo  come  la  neve,  e  avente tutte  le  altre  proprietà  della  neve,  salvo  il  colore,  che  sa- rebbe, p.  e.  ;  non  bianco,  ma  grigio  ?  Non  potremmo  noi immaginare  un  metallo  che  abbia  tutte  le  proprietà  del- l'oro, ma  che  non  sia  giallo  ?  non  potremmo  noi  immagi- nare che  questo  stesso  corpo  che  noi  chiamiamo  oro  e siamo  soUti  di  vedere  di  colore  giallo,  perda  in  certe  cir- costanze questo  colore,  e  ne  acquisti  un  altro  ?  ma  se  mai venisse  scoperto  l'oro  in  Quest'altro  stato,  se  si  venisse anche  a  scoprire  (e  non  vi  ha  in  ciò  inconcepibilità  alcu- na) che  quest'altro  stato  dell'oro  fosse,  non  un  caso  ecce- zionale, ma  il  caso  più  frequente,  esiterebbero  forse  i  chi- mici a  chiamarlo  egualmentete  oro  ?  Cosi  ancora  non  vi ha  impossibilità  alcuna  ad  immaginare  degli  esseri  che abbiano  in  tutto  la  forma  umana  e  tutte  le  altre  proprietà dell'uomo,  ma  che  non  siano  dotati  di  ragione;  non  è  nem- meno inconcepibile  che  i  discendenti  degli  uomini  attuali siano  sempre  di  regola  idioti,  e  solo  per  eccezione  nasca nell'avvenire  qualche  uomo  ragionevole,  come  attualmen- te (jualchc  idiota.  Tutte  queste  supposizioni  sono  cer- tamente, per  quanto  ne  possiamo  sapere,  impossibih,  e l'uomo  sarà  sempre  ragionevole,  come  l'oro  sarà  sempre giallo,  e  la  neve  bianca.  Ma  l'uomo  sarà  sempre  anche mortale,  e  l'oro  sarà  sempre  duttile,  e  la  neve  fredda.  Nondi- meno si  sostiene  che  a  l'oro  è  giallo  »  sia  una  proposizio- ne a  priori,  «l'oro  è  duttile»  a  posteriori;  «  l'uomo  è  ra- gionevole j»  a  priori,  «l'uomo  è  mortale»  a  posteriori;  <fi  la neve  é  bianca  »  a  priori,  e  é  fredda  »  a  posteriori.  Ma  per- chè mai  dunque  ?  Perchè  si  pretende  che  ragionevole  fac- cia parte  del  concetto  di  uomo,  e  mortale  no  ;  che  giallo faccia  parte  del  concetto  di  oro,  e  duttile  no;  bianca  del concetto  di  neve,  e  fredda  no.  L'uomo  non  ragionevole,  si dice,  non  sarebbe  uomo,  e  l'oro  non  giallo  non  sarebbe oro,  né  neve  la  neve  non  bianca.  Ma  né  più  né  meno, rispondiamo  noi,  che  l'uomo  non  mortale,  e  l'oro  non  duttile,  e  la  neve  non  fredda.  Se  un  essere,  reale  o  immagi- nario, somigliante  in  tutto  alluomo  ma  non  ragionevole, non  avrebbe  la  natura  umana  e  non  dovrebbe  chiamarsi uomo,  lo  stesso  deve  dirsi  di  un  essere,  simile  in  tutto  al- luomo,  ma  che  non  fosse  mortale,  o  non  avesse  due  pie- di e  due  mani,  o  avesse  certi  organi,  quali  si  siano,  diffe- renti dai  nostri.  Se  invece  si  dirà  di  quest  ultimo  che  è un  uomo,  i)erchè  non  lo  si  dirà  egualmente  del  primo? Similmente,  se  Toro  non  duttile  sarà  ancora  oro,  perchè Toro  non  giallo  non  lo  sarà  del  pari  ?  E  se  la  neve  non fredda  sarà  neve,  perchè  non  lo  sarà  la  neve  non  bian- ca? Si  definiscano  come  si  vogliano  le  cose,  o  i  concetti delle  cose,  se  vi  hanno  concetti  (e  niente  dovrebbe  essere più  facile  che  lare  una  definizione,  se  vero  che  la  defi- nizione sia  la  decomposizione  del  concetto);  si  vedrà  che, se  si  possono  trovare  dei  generi  suscettibili  di  tare  da  pre- dicati in  una  proposizione  a  priori,  non  è  possibile,  nella massima  parte  dei  casi,  che  la  difi'erenza  specifica  possa fungere  da  predicato  in  una  proposizione  ugualmente  a priori- noi  vedremo  a  suo  luogo  il  perchè  di  questa  dif- ferenza—Ma è  richiesto  dalla  dottrina  dei  giudizi  analiti-- ci,  anzi  in  generale  dalla  dottrina  dei  concetti  (se  pure  il concetto  deve  avere  una  comprensione  determinata),  che ogni  concetto  sia  capace  di  essere  il  soggetto  almeno  di due  proposizioni  a  priori,  neir  una  delle  quali  V  attributo sia  il  genere,  e  nell*altra  la  differenza  specifica.  Il  crite- rio stesso  di  cui  Kant  si  serve  per  riconoscere  il  giudizio analitico,  mostra  dunque  che  non  vi  hanno  giudizi  anali- tici, nel  senso  di  Kant,  e  che  la  dottrina  dei  logici  della comprensione  dei  concetti,  di  cui  ciucila  del  giudizio  ana- litico è  una  conseguenza  necessaria,  è  ijuindi  inammis- sibile. §.  12.^  Quando  Kant  chiama  dicJiiarativo  il  giudizio analitico,  egli  cerca  di  nobilitarlo:  il  vero  si  è  che  questi giudizi,  se  ve  ne  fossero,  sarebbero  puramente  verbali,  co- -a Irf. i I me  si  esprimono  i  logici  positivisti  inglesi,  anzi  sarebbero addirittura  delle  proposizioni  interamente  frivole,  come  di- ceva Locke.  Esse  non  avrebbero  che  la  forma  della  pro- posizione, ma  non  esprimerebbero   alcun   giudizio   reale, alcun  giudizio,    cioè,  di  cui  si  potrebbe   dire  è  vero  o  é falso.  Che  verità  o  falsità—se  pure  la  verità  consiste  nella conformità  del  nostro  pensiero  con  le  cose— potrebbe  es- servi in   queste,  chiamiamole  proposizioni,  tautologiche  : «  un  animale  ragionevole  è  ragionevole  »,  ovvero  <  un  cor- po' cadente  dalfaria  a  fiocchi  e  bianco  è  bianco.  »?  Ma  è  ciò in  realtà  che  vogliamo  dire,  quando  diciamo:    «luomo  e ragionevole  »,  «  la  neve  è  bianca  »  ?  Ciò  che  noi  vogliamo affermare  è  qualche  cosa  sui  fatti  obbiettivi,  sulfesistenza di  questi  latti,  sui  loro  rapporti  reali.  «  Ogni  uomo  è  ra- gionevole »  vuol  dire  che  esistono   certi   oggetti  o  gruppi di  fenomeni,  tali  che  loro  è  ajìplicaljile  tanto  il  nome  uomo quanto  il  nome   ragionevole;  ma  non  esistono  oggetti  o gruppi  di  fenomeni,   tali  che  il  nome  uomo  fosse  loro  ap- plicabile, ma  non  il  nome  ragionevole.  O  per  dire  la  stessa cosa  con  altre  parole,  che  i  fenomeni  della  ragione  coesi- stono invariabilmente  con  gli  altri  fenomeni  degh  uomini. Similmente,  «  la  neve  è  bianca  »  significa  che  esistono  og- getti tali  che  il  nome  neve  e  il  nome  bianco  sono  loro  ap- plicabili, ma  non  esistono  oggetti  tali  che  il  primo  nome fosse  loro  applicabile,  e  il  secondo  no.  Si  troverà  certa- mente più  plausibile  che   queste  proposizioni:  «luomo  è un  animale  »,  «  la  neve  è  un  corpo  »,  siano  analitiche  :  in- fatti noi  non  chiameremmo  uomo  alcun   essere,  reale  o immaginario,  che  non  potesse  pure  essere  da  noi  chiamato animale,  né  neve  alcun  oggettto  che  non  potessimo  dire corpo.  Tuttavia  un  po'  di  riflessione   mostrerà  clie  nem- meno questi  sono  dei  giudizi  propriamente  analitici,  cioè tali  che  per  ottenerli  bisogni  e  basti  decomporre  fidea  del soggetto,  e  cosi  trovarvi  quella  del  predicato.  Questi  giu- dizi invece  sarebbero  impossibili,  se  noi  non  mettessimo il  soggetto  in  relazione  con  qualche  altra  cosa  diversa  dal soggetto,  o,  per  parlare  il  linguaggio  concettualista,  Tidea  del soggetto  con  qualche  idea  al  di  fuori  di  essa.  Si  conver- rà infatti  che  il  concetto  di  animale   non  è  nato  che  per la  comparazione  di  certi  oggetti  naturali.   Dunque  nella sua  prima  origine  questo  concetto,  cioè  la  classe  degli  ani- mali, doveva  estendersi  a  molte  specie  di  animali  e  con- tenerle. Mano  mano  altre  specie  vennero  aggregate  al  ge- nere, perché  riconosciute  sufficientemente  affini  alle  prime. Or  bene  !  o  Tuomo  formava  parte  delle  specie  comparate insieme  quando  la  prima  volta  sorse  il  concetto  di  anima- le, e  in  questo  caso,  dicendo  «  Tuomo  è  un  animale  »,  non: facciamo   che  ricordarci  e  ripetere  il  giudizio  di  questa comparazione  da  cui  ebbe  origine  il  concetto  di  animale; o  noi  abbiamo  riconosciuto,   dopo   Torigine  della  nozione del  genere  animale,  che  Tuomo  è  un  animale^,  e  questa  ri- conoscenza non  ha  potuto  essa  pure  consistere   che   nel risultato  di  un  atto  più  o  meno  complesso  di  comparazio- ne. Dunque  questo  giudizio  originalmente  non  viene  dalla decomposizione  della  nozione  di  uomo^  ma  da  una  com- parazione della  specie  umana,  o,  se  si  vuole^,  dell'idea  della specie  umana,  con  altre  cose  o  con  le  idee  di  queste  cose, e  afferma  la  relazione  che  è  il  risultato  di  questa  compara- zione. I/operazione  mentale  che  la  proposizione  «Tuomo è  un  animale  »  implica,  non  può  dunque  differire  essenzial- mente dall'operazione   mentale  che  arriva  a  queste  altre proposizioni:  «Tuomo»  o  «  la  balena»  «é  un  mammifero  *, proposizioni  che  i  naturalisti  non   trovarono  certamente per  la  decomposizione  di  un  concetto,  ma  per  lo  studio comparativo  degli  esseri  reali.  Lo  stesso  ragionamento  puà applicarsi  alle  proposizioni  «la  neve  è  un  corpo»,  «Toro è  un  metallo»,    ecc:  esse  non  esprimono  che  il  risultata di  un  paragone.  Similmente,  l'esempio  tipico  di  Kant:  «  \\ corpo  è  esteso  »,  non  esprime  clie  il  risultato  del  parago- ne del  corpo  con  lo  spazio  vuoto,  o  che  noi  diciamo  vuota perclié  non  vi  scorgiamo  oggetti  sensibili— lo  spazio  vua to  essendo  la  sola  cosa  che  abbia  comune  col  corpo  il nome  di  esteso— E  in  una  parola,  si  esaminino  tutte  le proposizioni  che  hanno  spiccatamente  il  carattere  anali- tico, cioè  che  più  somigliano  ai  tipi  megUo  scelti  di  que- sta pretesa  classe  di  giudizi;  si  vedrà  facilmente  che  es- se non  sono  affatto  analitiche  nel  senso  che  vengano  dalla decomposizione  del  concetto  del  soggetto,  ma  che  sono tutte  il  risultato  di  una  comparazione  del  soggetto  con altre  cose  che  trascendono  la  nozione  del  soggetto  stesso. §.  13.<^  Noi  faremo  infine  un'altra  obbiezione  alla  di- stinzione ordinaria  del  giudizio  in  analitico  e  sintetico.  Essa riposa,  come  abbiamo  visto,  sulla  supposizione  che  la  com- prensione, o,  come  dicono  i  Tedeschi,  il  contenuto  del  con- cetto, sia  costituito,  non  da  tutti  gli  attributi  della  classe, ma  da  un  minimum  determinato  di  questi  attributi.  Ora, cosi  essendo^  il  soggetto  della  proposizione  non  può  indi- care che  questo  minimum  di  attributi  :  il  soggetto  di  una proposizione  gcnersCle  sull'uomo  sarà  non  l'uomo  concreto con  tutte  le  proprietà  che  si  trovano  in  quest'essere,  ma r  animalità  congiunta  alla  razionalità,  se  queste  note bastano  alla  definizione  dell'  uomo,  o,  se  non  bastano,  il soggetto  comprenderà,  oltre  di  questi,  qualche  altro  attri- buto astratto  dell'uomo.  Il  Mill  ammette  esplicitamente questa  conseguenza  della  sua  dottrina  (v.  Filosofia  di Hamilton,  e.  18  e  22).  Ogni  proposizione,  egU  dice,  afferma che  un  attributo  fa  parte  d'un  sistema  d'attributi  (anali- tica) o  coesiste  invariabilmente  con  essi  (sintetica).  Cosi, «  l'uomo  è  bipede  »,  se  questa  proposizione  è  sintetica,  vuol dire  che  l'attributo  IMpede  coesiste  con  l'animalità,  la  ra- zionalità, ecc.  Ma  se  è  cosi,  obbietta  il  Alili  a  se  stesso, perchè  la  proposizione  enuncia  i  nomi  concreti  delle  cose, e  non  i  nomi  astratti  degli  attributi  ?  Perchè  nelle  nostre proposizioni  noi  partiamo  dei  pesci  e  non  della  pisceiM, dei  corpi  e  non  della  corporeità,  degli  uomini  e  non  dell’animalità  con  la   razionalità  ecc :  ?  É,  egli  dice,   perchè «  il  principio  che  serve  di  base  al  lunguaggio  consiste  a nominare  dapprima  gli  oggetti  concreti.  »  «  Siccome   per concepire  gli  oggetti  —ed  anche  le  classi  di  oggetti  —  biso- gna uno  sforzo  ben  minore  d'astrazione  che  per  gli  at-, cosi  sono  essi  che  neirordine  necessario  delle  cose vengono  concepiti  e  nominati  in  primo  luogo,  e   che  re- stano sempri  i  più  familiari  allo  spirito  ».  Mi  sembra  che il  Mill,  con  questa  risposta,  debba  recedere  dalla  sua  as-serzione generale;  poiché  se   i  primi   nomi    ebbero  solo un  senso  concreto  e  non  un   senso  astratto,  se  essi  non indicavano  che  degli  oggetti  e  delle  classi  di  oggetti  ;  sic-  • come  le  parole  non  si  trovano  altrove  che  nelle  propo- sizioni, vi  fu  dunque  un  tempo  in  cui  il  soggetto  indicava delle  sostanze  concrete  e  non  degli  attributi  astratti,  e  in cui  perciò  la  proposizione  non  affermava,  come  vuole  il Mill,  unicamente  la   coesistenza  o  TincompatibiUtà   degli attributi.  Ma,  ciò  che  più  importa,  la  risposta  del  Mill  non tocca  il  vero  punto  della  difficoità  :  si  tratta  di  sapere  se i  soggetti  delle  proposizioni   siano  degli  oggetti   concreti o  degli  attributi  astratti.  Ora  è   evidente  che  sono   degli oggetti  concreti,  e  Kant  ha  ragione  di  dire  che  ciò  che  è nella  categoria  di  sostanza  fa  la  funzione  di  soggetto  nel giudizio.  Ed  è  tanto  più  strano  che  il  Mill  lo  neghi,  quando egli  stesso  ha  già  tanto  insistito   contro  i   concettualisti sul  fatto  che  Tatfermazione  volge  sulle  cose  reali   e  non sui  concetti  (1).  Ala  il  soggetto  è  precisamente  ci('j  di  cui ( é si  giudica,  cioè  la  cosa  reale  e  concreta.  Quindi  T'idea del  soggetto  e  Tidea  d'una  cosa  reale  e  concreta,  e  se  la proposizione  é  generale,  non  può  essere  che  l'idea  di  una classe  di  cose  reali  e  concrete  Ora  l'idea  di  un  oggetto  con- creto non  è  l'idea  di  alcune  proprietà  dell'oggetto,  astratte, cioè  separate,  dal  resto;  ma  l'idea  di  tutte  le  proprietà, poiché  l'oggetto  equivale  al  complesso  delle  sue  proprietà.Ciò  essendo,  esaminiamo  un  poco  le  proposizioni,  di  cui si  ammette  che  sono  sinteticlie,  come  queste  :  «  l'uomo  è bipede  »,  o  «  è  vertebrato  »,  o  «  ha  trentadue  denti  ».  Questi attributi  non  si  trovano  fuori  dell'uomo,  né  l'uomo  esiste senza  questi  attributi  ;  in  altri  termini,  questi  attributi  fan- no parte  del  soggetto  uomo,  e  non  si  potrebbero  predicare di  lui  se  non  ne  facessero  parte,  o,  per  parlare  senza  rea- lizzare delle  astrazioni,  se  i  due  piedi,  le  vertebre  e  i trentadue  denti  non  facessero  parte  dell'uomo.  Dunque la  proposizione  non  afferma  che  un  attributo  coesiste  con altri  attributi,  ma  che  un  attributo  fa  parte  del  soggetto, o  vi  è  contenuto.  E  siccome  invece  delle  cose  noi  abbiamo nello  spirito  le  idee,  o  le  rappresentazioni,  di  esse,  cosi a  questa  relazione  obbiettiva  fra  il  soggetto  reale  e  il  suo predicato,  deve  corrispondere  una  relazione  subbiettiva identica  fra  l'idea  del  soggetto  e  quella  del  predicato.  Sot- to questo  punto  di  vista,  le  proposizioni  sarebbero  dunque non  sintetiche,  ma  analiticlie;  ed  eccoci  arrivati  all'altra forma  della  teoria  concettualista,  quella  che,  come  ab- biamo detto,  nella  determinazione  (lei  contenuto  del  con- II  MiLf,  conviene  talvolta  clic  nella  proposizione  noi  prendiamo il  soggetto  nella  sua  estensione;  ma  questa  estensione  non  è  com- presa direttamente,  bensi  attraverso  gli  attril)uti,  cioè  la  connota- zione {Logica^  1.  1,  e.  5,  §  4).  Ora  che  cosa  può  essere  nella  nostra mente  questo  soggetto  preso  nella  sua  estensione?  La  totalità  delle cose  concrete  e  particolari  denotate  dal  nome?  ma  è  impossibile di  pensare  a  tutte.  Alcune  ?  ma  allora  il  soggetto  non  sarel)be  preso in  tutta  la  suaesteasione.  O  non  vi  hanno,  come  dicono  i  veri  nomi- nalisti, che  soli  giudizi  concreti  e  parlicolari;  o  se  vi  hnnnogiudixii generali,  il  soggetto  preso  in  tutta  la  sua  estensione  non  può  es- sere che  una  idea  generale,  un  concetto.  Ora  il  concetto  non  è  altra cosa,  dice  il  Mill,  che  la  connotazione.  In  che  duiKiue  il  soggetto preso  nella  sua  estensione,  che  noi  comprendiamo  solo  mediatii- menLe,può  ditterire  dalla  sua  connotazione,  clie  noi  comi)rendiamo immediatamente?  Misteri  del  concettualismo! cetto,  prende  per  misura  la  denotazione  del  nome  piut- tosto che  la  sua  connotazione. §  14«.  Noi  abbiamo  visto  infatti  che  la  connotazione del  nome  non  può  fornire  un  criterio  per  separare  gli attributi  di  una  classe  in  due  parti,  di  cui  Tuna  sarebbe contenuta  nel  concetto  e  Taltra  resterebbe  fuori  del  con- cetto; che  cosi  questa  separazione  è  puramente  arbitraria, e  non  vi  ha  alcuna  ragione  per  preferire  questi  o  quelli tra  gli  attributi  propri  della  classe,  facendoli  entrare  nel concetto  air  esclusione  di  tutti  gli  altri,  mentre  non  vi ha  alcuno  di  questi  attributi  che  accompagni  invariabil- mente r  applicazione  del  nome.  Ma  se  è  cosi,,non  resta altro  partito  che  di  aprire  la  porta  a  tutti  gli  attributi,  e comprenderli  tutti  nel  contenuto  del  concetto.  È  questo il  fondamento  della  seconda  teoria  concettualista  del  giu- dizio, di  cui  ora  diremo. Secondo  questa  teoria,  tutte  le  proposizioni  sono  ana- litiche, o  almeno  tutte  le  proposizioni  universali  afferma- tive categoriche,  o  se  non  tutte  le  categoriche,  quelle  al- meno che  sono  qualificative,  cioè  che  attribuiscono  una qualità  inerente  al  soggetto  per  se  stesso,  e  non  una  re- lazione del  soggetto  con  un'altra  cosa  (1).  Il  soggetto,  di- (l)  Questa  seconda  maniera  di  determino  re  la  comprensione  del concetto  non  può  essa  pure  evitare  l'incertezza  e  Tarbitrarìetà  nel- V  applicazione,  e  non  può  fornire  un  criterio  sicuro  per  decidere quali  proposizioni  siano  analiticlie  e  quali  no.  Per  mostrare  ciò  di ima  maniera  succinta,  enumereremo  alcune  forme  o  classi  delle proposizioni,  il  cui  carattere  analitico  resta  dubbio  al  punto  di vista  della  teoria. P/opo^ùiofic  ipotetirhe.  Queste  dovrebl)ero  restare  all'  infuori della  teoria,  perchè  nelle  proposizioni  analitiche  si  tratta  di  una relazione  fra  il  soggetto  e  il  predicato,  mentre  nelle  ipotetiche  la relazione  è  fra  una  proi)Osizione  e  un'altra.  Ma  una  proposizione ipotetica  ha  spesso  un'  equivalente  sotto  forma  categorica.  «Un corpo  lìcrsiste  nel  suo  stato  di  quiete  o  di  moto,  se  una  causa  este- riore non  lo  muta»:  è  una  proposizione  essenzialmente  ipotetica cono  i  propugnatori  di  questa  dottrina,  é  il  concetto  d'una cosa,  e  il  predicato  è  il  concetto  d'una  sua  proprietà,  qua- lità 0  modificazione:  come  attribuire  ad  una  cosa  una proprietà  che  non  le  appartiene,  che  non  si  concepisce come  appartenente  ad  essa  ?  Dati  due  concetti,  T  uno  di cosa  e  Taltro  di  qualità,  non  possono  unirsi  come  soggetto e  predicato  in  un  giudizio,  se  non  in  quanto  si  concepi- sce la  cosa  o  il  soggetto  come  contenente  la  qualità  o  il predicato,  o,  in  altre  parole,  in  quanto  si  ha  il  concetto  del soggetto  come  contenente  il  predicato.  Cosi  il  concetto del  predicato  essendo  sempre  contenuto  nel  concetto  del soggetto,  ne  segue  che  il  concetto  d  una  classe  deve  com- che  può  pure  enunciarsi  sotto  forma  categorica,  cosi  :  «  La  materia è  inerte  />.  Dire  che  un  corpo  è  solido,  e«iuivale  a  dire  che  se  la  mia mano  farà  pressione  su  di  esso,  io  sentirò  della  resistenza,  o  i generale,  che  questo  corpo  olfrirà  della  resistenzs,  se  una  causa esteriore  tenderà  a  mutare  la  i>osizione  reciproca  delle  sue  parti. Similmente,  dire  che  un  corpo  ha  un  certo  colore,  e(iuivale  a  dire che  se  un  fascio  di  raggi  luminosi  cade  sul  corpo,  esso  rilletterà certi  raggi  determinati.  Cosi  fra  proposizioni  ipotetiche  e  catego- riche può  stabilirsi  una  differenza  grammaticale,  ma  non  logica. Proposizioni  particolaii.  «  Alcuni  uomini  sono  dotti  »  non  jìo- trel)l)e  essere  una  proposizione  analitica,  percìièda  una  parte  dotto non  è  un  attributo  del  genere,  e  d'altra  parte  la  voce  alcuni  è  un termine  dimostrativo,  e  non  attributivo,  né  può  (juindi  niente  ag- giungere alla  comprensione  del  concetto,  di  cui  non  modifica  die l'estensione.  Se  il  concetto  «dotti»  fosse  contenuto  nel  concetto «  alcuni  uomini  »,  noi  non  itotremmo  dire  mai:  «  Alcuni  uomini  sonoignoranti».  Tuttavia  A.  Franchi  {Teorica  del  giudizio,  lett.  2,  IX), sostiene  che  questa  è  una  proposizione  analitica,  perchè  l'attributo della  dottrina  inerisce  o  appartiene  agli  uomini  di  cui  si  parla,  cosi bene  che  la  ragione,  o  qualsiasi  altro  attril)uto  del  genere,  a  tutti gli  uomini. Proposizioni  negatile.  Una  tale  proposizione  esclude  rattri])uto dal  soggetto,  non  lo  include:  come  dunque  potrebl)e  l'attributo essere  contenuto  nel  soggetto,  e  il  giudizio  essere  analitico?  Tut- tavia non  hanno  mancato  dei  filosofi .  tra  cui  citerò  il  Lindner (Compendio  di  logica  formale,  Dottrina  elementare,  2  sezione,  §  27;, il  Galluppi  (Saggio  sulla  critica  della  conoscenza,  tomo  4  «^  38. smess CO prendere  tutte  le  note  che  possono  predicarsi  della  classe. D'altronde  il  concetto  dovendo  rappresentare  la  natura o  r  essenza  della  cosa,  e  questa  natura  o  essenza  non potendo  consistere  che  nel  complesso  delle  proprietà  della cosa— poiché  una  essenza  costituita  solo  da  un  minimum di  proprietà  non  è  che  una  finzione  metafisica  (essenza reale  degli  antichi)  o  una  finzione  logica  (essenza  nomi- nale o  logica  dei  moderni)— il  concetto  d  una  classe  non può  essere  quindi  formato  che  dairinsieme  degli  attributi della  classe,  e  cosi  ogni  giudizio,  almeno  se  è  universale ed  affermativo,  non  può  essere  che  analitico  (v.  special- mente A.  Franchi  Teorica  del  giudìzio,  lettera  2^  li  -  VI, lett.  4^  X,  lett.  7^  XI,  lett.  l:>  XIX -XXI,  ecc). tomo  f)  5^  72,  ecc.  )  e  lo  stesso  Kant  (  Critica  della  ragion  pura, Analitica  trascendentale,  lib.  2,  cap.  2.  sez.  1  e  sez.  2  sul  prin- cipio), che  hanno  riconosciuto  il  carattere  analitico  anche  in  tali proposizioni,  in  quanto,  come  dice  il  primo,  il  giudizio  anahtico hnporta  che  non  si  deve  uscir  fuori  della  comprensione  dei  con- cetti, soggetto  ed  attributo,  per  vedere  la  loro  compatibilità  o  in- compatibilità. Di  fatti,  quando  diciamo  «luomo  è  un  animale»,  e «l'uomo  non  è  una  pianta»,  l'operazione  mentale  checiueste  due proposizioni  supi^ongono,  non  può  ditlerire  essenzialmente.  Aggiun- giamo elio  talvolta  le  cose  non  potrebbero  meglio  esser  definito che  per  la  negazione  di  qualche  attributo.  Se  vi  ha  un  concetto della  pianta,  come  non  includere  in  esso  l'assenza  della  sensi])ilitn, quando  i)er  il  maggior  numero  è  questo  il  carattere  distintivo  fra la  i)ianta  e  l'animale  ? Giadizi  di  relazione.  Alcuni,  come  il  Krause  e  il  Drobisch  (v.  A. Franchi,  Teorica  del  giudizio,  lettera  15,  11-Vl),  distinguono  i  giu- dizi die  affermano  una  proprietà  che  si  trova  nel  soggetto  stesso, e  quelli  che  affermano  una  relazione  del  soggetto  con  un  termine diverso  da  lui.  I  primi  sarebbero  analitici,  e  i  secondi  sintetici.  Ma questa  distinzione  è  necessariamente  incerta  ed  arbitraria  GH  at- tributi indispensaljili  per  costituire  il  concetto  d'un  oggetto,  se  si ammette  che  possiamo  formarci  di  questo  oggetto  un  concetto qualsiasi,  non  possono  non  annoverarsi  tra  i  predicati  che  danno luogo  alla  prima  classe  di  giudizii.  Ma  che  cosa  resterà  del  con- cetto dei  corpi,  se  si   tolgono  gli  attributi,  che  loro  provengono Contro  questa  dottrina  si  ripresentano  naturalmente, ma  molto  più  gravi,  le  obbiezioni  già  fatte  al  giudizio anahtico  della  divisione  kantiana.  La  distinzione,  ammessa in  tutti  i  tempi,  fra  verità  necessarie  (di  cui  V  opposto  è inconcepibile;  e  verità  contingenti  (di  cui  l'opposto  può concepirsi)  non  è  compatibile  con  questa  dottrina  :  tutti  i giudizii  divengono  necessari,  perchè  direbbe  una  contrad- dizione colui  che  negasse  un  attributo,  il  quale  già  fa  par- te del  concetto  del  soggetto.  Ogni  giudizio  infatti  per questa  dottrina  non  sarebbe  che  tautologico,  e  Tatto  del daha  relazione  con  altre  cose?  Noi  non  conosciamo  e  non  distin- guiamo 1  corpi  che  per  la  loro  azione  su  noi  stessi  (sui  nostri  sensi) (i  sugli  altri  corpi,  in  una  parola  per  le  loro  proi)rietà  relative  e una  proposizione  che  aiferma  ciascuna  di  queste  proprietà,  espri- me un  giudizio  di  relazione.Giudizi  comparatici.  Questa  sarebbe  la  specie  più  certa  dei  giu- dizi (h  relazione  :  cosi  A.  Franchi  (V.  op.  cit.  lett.  2.  11,  lett  3  VI ecc.)  esita  a  riconoscere  in  queste  proposizioni  il  carattere  anali- tico, anzi  lo  nega  addirittura.  Ma  tanti  altri  filosofi,  che  pure  non estendono  quanto  il  Franchi  la  classe  dei  giudizi  analitici,  ma  am- mettono la  distinzione  ordinaria  in  analitici  e  sintetici,  dichiarano le  proposizioni  comparative  essenzialmeate  analitiche,  perchè  la relazione  scaturisce  necessariamente  dai  termini  comparati    ed  è COSI  implicitamente  contenuta  in  (juesti  termini,  che  devono  con- siderarsi come  il  soggetto  del  giudizio.  Noi  abbiamo  visto  anche che  gh  esempli  più  tipici  delle  proposizioni  analitiche  esprimono dei  giudizi  comparativi.  Cosi  per  la  maggior  parte  dei  filosofi  che ammettono  la  distinzione  ordinaria  dei  giudizi  analitici  e  sintetici le  proposizioni  matematiche,  che  sono  la  classe  più  importante  dei giudizn  comparativi,  sono  delle  proposizioni  analitiche,  e  tra  questi lllosoh  bisogna  comprendere  anche  il  Krause.  In  seguito  parleremo più  diflusamente  di  quest'argomento  :  per  ora  notiamo  quanto  deve essere  oscura  ed  arbitraria  la  nozione  del  giudizio  analitico,  quando gli  stessi  giudizi,  che  per  alcuni  costituiscono  la  porzione  più  im- portante, la  sola  importante  quasi,  deha  classe  dei  giudizi   anali- tici, por  altri  invece  sono  i  soli  forse  fra  i  giudizi  categorici,  che devono  escludersi  da  questa  classe. Io  non  spingerò  più  oltre  questa  enumerazione,  per  amore  di brevità. I giudicare  diventerebbe  il  più  frivolo  esercizio  dello  spi- rito. Tutte  le  proposizioni,  o  alm  eno  tutte  le  proposizioni generali,  sarebbero  verbali,  come  dicono  i  logici  inglesi, e  nessuna  reale  e  istruttiva.  Ora,  era  già  diffìcile  il  cre- dere che  delle  proposizioni  come  queste  :  «  Tuomo  è  animale »,  «  è  ragionevole  *,  fossero  puramente  verbali,  e  non potessero  apprenderci  niente  più  del  senso  delle  parole. Ma  cUe  diremo,  quando  si  pretende  che  proposizioni  come queste  altre:  «Fuomo  è  un  mammifero  placentato»,  «la materia  è  grave  *,  «  è  inerte  »,  siano  anch'esse  verbali  e identiche?  (1).  Infatti,  si  volga  la  cosa  come  si  vuole,  se (3)  Il  Bain,  ammettendo  clie  tutti  i  caratteri  ultimi  di  un  genere entrano  nella  definizione,  e  che  la  definizione  non  è  che  l'analisi del  senso  in  connotazione  del  nome,  ha  fatto  un  passo  considere- vole verso  la  dottrina  che  tutti  i  giudizi  (universali)  sono  analitici. La  dottrina  presenta  anche  sotto  la  forma  del  Bain  un  aspetto  più paradossastico,  per  la  semplice  ragione  che,  presso  i  logici  inglesi, la  nozione  del  giudizio  anahtico  non  si  trova  più  involta  in  una specie  di  misticismo,  come  presso  la  più  parte  degli  altri  filosofi,  ma il  giudizio  analitico  è  chiaramente  presentato  come  un  giudizio tautologico  e  verbale. Secondo  il  Bain,  la  proposizione  :  «La  materia  è  inerte  »,  è  pu- ramente tautologica  e  verbale  .  poiché  chi  comprende  il  senso (scientifico)  di  materia,  sa  che  vi  è  contenuta  la  proprietà  dell'iner- zia (1'  espressione  di  questa  proprietà  essendo  la  prima  legge  del movimento  di  Newton  ).  Così  pure .  quando  il  naturalista  espone tutti  i  caratteri  ultimi  di  una  specie  (e  non  importa  se  questi  ca- ratteri sono  più  di  dieci  o  di  cento),  egli  non  fa  che  una  proi)Osi- zione  verbale  e  identica  :  sia  che  i  caratteri  vengano  espressi  tutti congiuntamente  (nella  definizione),  sia  ciascuno  separatamente, vi  ha  in  amendue  i  casi,  non  una  predicazione  realCy  ma  rerbale. In  verità  il  Bain  non  espone  questa  dottrina  senza  fare  delle riserve. Vi  ha  dei  casi,  secondo  lui,  in  cui  la  predicazione,  in  tali proposizioni,  ù  reale,  e  non  verbale  e  tautologica,  e  questi  casi  si riducono  a  tre  :  L  Alcuno  può  essere  imperfettamente  istruito  delle proprietà  di  una  classe  complessa,  quantunque  ne  sappia  abbastanza^ per  riconoscerla  :  le  proprietà  che  egli  ignora,  necessariamente, non  sono  per  lui  implicate  nel  senso  della  parola;  ogni  determi- nazione dunque,  aggiunta  a  ciò  che  è  già  implicato  nella  parola, questa  proposizione  :  ce  il  corpo  è  grave  )>  è  analitica,  essa non  vorrà  mai  dire  altro  che  questo  :  e  ciò  che  e  esteso,  im- penetrabile   e  grave,  è  grave  ».  Ammetttiamo  pure  che la  proposizione  dica  d'una  maniera  distinta  ciò  che  il  sog- getto diceva  d'una  maniera  indistinta,  che  in  essa  si  dica esplicitamente  ciò  che  nel  soggetto  si  diceva  solo  implici- tamente. Ma  è  vero  o  no  che,  secondo  questa  dottrina, prima  di  giudicare  che  il  corpo  è  grave,  bisogna  aver concepito  già  il  corpo  come  grave,  e  quindi  aver  cono- sciuto che  il  corpo  è  grave  ?  Ma  a  che  serve  allora  il giudizio?  Del  resto,  quand'anche  noi  avessimo,  prima  di costituirà  unairermazione  sintetica  o  reale.  Ma  questa  determina- zione nuova,  una  volta  comunicata,  compresa  e  impressa  nella memoria,  cesserà  essa  stessa  di  essere  un  predicato  reale,  e  di- verrà,  a  partire  da  questo  momento,  una  proposizione  verbale  o analitica,  poiché  non  farà  che  ripetere  ciò  che  il  nome  suggerisce o  connota  da  se  stesso,  per  ognuno  di  cui  le  conoscenze  sono  state -aumentate  in  questo  senso.  Tutte  le  proprietà  nuovamente  scover- te sono  dei  predicati  reali,  quando  per  la  T>rima  volta  si  presen- tano a  noi  ;  ma  dacché  sono  state  introdotte  nella  scienza,  esse divengono  verbali .  (Noi  vedremo  che  su  (juesta  veduta  si  fonda una  terza  dottrina  intermediaria  sui  giudizi  analitici  e  sintetici). 2.  La  proposizione  può  supporre  il  risultato  d'un' induzione  ante- riore, la  quale  ha  costatato  il  fatto  che  le  proprietà  d'  una  classe complessa  o  d'una  nozione  sono  realmente  unite  nella  natura.  Cosi delle  affermazioni  come  le  seguenti  :  «  L'  affinità  chimica  è  sotto- messa a  delle  proporzioni  definite  ;  essa  produce  calore  ;  essa  è seguita  da  un  cangiamento  di  proprietà  »,  costituiscono  una  serie di  proposizioni  verbali  o  analitiche,  le  parole  «affinità  chimica» esprimendo  (piesti  tre  tatti.  Ma  vi  ha  al  fondo  una  predicazione reale,  cioè  che  l'unione  in  proporzioni  definite  di  due  corpi  è  ac- compagnata da  una  produzione  di  calore  e  da  un  cangiameto  di proprietà.  3.  La  proposizione  verbale  può  utilmente  essere  impie- gata come  un  memento,  sia  che  si  voglia  esporre  un  fatto  cono- sciuto, sia  che  si  voglia  prenderio  come  principio  a  fine  di  tirar- ne una  conseguenza  {Logica,  \\h.  1  e.  2.  n.  9).  Riassumendo,  il  Bain ammette  che,  sotto  la  forma  di  una  proposizione  verbale  o  ana- htica,  può  contenersi  un' aflermazione  reale  o  sintetica,  e  ciò  av- viene quando  la  [)roposizione  comunica  o  rammenta  la  conoscenza fare  questo  giudizio:  «il  corpo  è  grave  ^  la  nozione  del corpo  come  "grave,  sarebbe  sempre  un  errore  di  credere che  il  senso  di  (juesta  proposizione  sia  quello  che  devono supporre  i  filosofi  che  la  ritengono  analitica.  Ciò  che  noi intendiamo  dire  effettivamente  per  (jnesta  proposizione, sia  la  prima  volta  o  no  che  noi  la  torniamo,  è  che  è  un tatto  generale  nella  natura  che  par  tutto  dove  vi  ha  ma- teria neir  universo,  riuesta  materia  è  sempre  grave;  che non  sincontra  mai  il  caso  che  vi  sia  un  corpo,  ma  npn sia  grave;  insomma  che  esiste  o  non  esiste  (lualche  cosa nella  realtà,  un  latto  o  una  legge,  e  che  è  questo  Toggetto della  nostra  affermazione.  Al  contrario,  un  giudizio  ana- (li  qualche  fatto,  di  (iiialclie  coesistenza  di  attributi.  Ma  è  eviden- te? che  1  casi  clie  il  Bain  dà  come  eccezioni,  costituiscono  invece la  regola,  e  che  l'eccezione  è  quando  una  delle  proposizioni,  che egli  chiama  analitiche,  ha  per  oggetto  di  spiegare  una  parola. Tuttavia  la  quistione  è.  si  può  dire,  senza  interesse,  quando  si  tratta unicamente  di  apprezzare  la  dottrina  dei  giudizi  analitici.  Sia  una serie  di  proposizioni,  in  cui  si  contenga  la  descrizione  di  una  spe- cie naturale,  p.  e.  deU' ossigeno,  la  enumerazione  deUe  sue  pro- prietà fondamentah.  «  La  forma  tecnica  e  corretta  di  queste  pro- posizioni sarebhe,  dice  il  Bain,  questa:  esiste  nella  natura  un  ag- gregato di  (lualità  che  sono  :  la  materia,  la  trasparenza,  lo  stato gazoso,  un  peso  speciftco  e  un  potere  di  combinazione  determi- nati,  e  cosi  di  seguito:  a  questo  aggregato  di  proprietà  si  è  ap- plicato il  nome  di  ossigeno».  Vi  ha  qui  dunque  al  tempo  stesso una  proposizione  reale  :  esiste  nella  natura  un  aggregato  di  qua- lità, ecc.,  e  una  proposizione  verbale  :  a  quest'aggregato  si  è  dato il  nome  di  ossigeno.  Il  Bain  considera  contuttociò  come  verbaU  le proposizioni  contenenti  la  descrizione  deU'ossigeno,  come  se  esse avessero  per  oggetto  principale  di  darci  la  conoscenza  dell'uso  di un  nome,  e  solo  accidentalmente  ci  dessero  la  conoscenza  di  un fatto;  altri  più  facilmente  considererà  come  oggetto  piicipale  la conoscenza  della  cosa,  e  come  accessorio  quella  del  nome.  Ma  in seguito  viene  la  quistione  :  una  proposizione  verbale  è,  in  quanto verbale,  una  proiX)sizione  analitica  o  tautologica?  Al  contrario, essa  è  una  proposizione  istruttiva  e  sintetica  ;  essa  c'istruisce  sul- luso  di  un  nome,  ci  fa  conoscere  un  rapporto  particolare  di  con- comitanza fra  una  parola  e  la  presenza  di  una  classe  determinata litico  non  può  avere  alcuna  presa  sulla  realtà,  sull'esi- stenza :  esso  afferma  che  un  oggetto,  che  può  essere  reale o  solo  possibile,  il  quale  insieme  ad  altri  attributi  abbia la  gravità,  è  grave;  ma  se  vi  siano  o  no  dei  corpi  gravi, di  oggetti  o  la  loro  rappresentazione.  «Le  proposizioni  verl)ali,  dice il  Bain,  ci  apprendono,  da  un  lato,  qual  nome  bisogna  applicare a  una  cosa  data  ;  e  dall'altra  parte  c'insegnano  il  senso  d'una  pa- rola data  ».  È  questo  dunque  che  intendono  i  logici  inglesi  chia- mando verbale  una  proposizione  :  il  Mill  definisce  le  proposizioni verbali  della  stessa  maniera.  Così  essendo,  proposizione  analitica per  i  logici  inglesi,  vuol  dire,  non  proposizione  verbale  (che  è  una specie  di  proposizione  sintetica),  ma  proposizione  identica     tau- tologica. Ora  una  proposizione  tautologica  non  è  una  proposizio- ne,  nel  senso  logico  di  questa  parola  :  essa  è  tanto  una  proposi- zione quanto  una  petalo  prlncipU  è  un  ragionamento.  La  petitio pruicipu  SI  dà  l'aria  di  essere  un  ragionamento;  così  la  proposi- zione tautologica  si  dà  l'aria  di  esssere  una  proposizione.  Essa come  dice  lo  stesso  Bain,  non  è  che  un' attenuazione  apparente,' e  non  non  ha  che  la  forma  esteriore,  vebale,  della  proposizione dib.  L  e.  2,  7):  è  in  quesLo  senso  che  può  dirsi  meritamente  pro- l)osizione  verbale.  Una  proposizione  identica  o  tautologica  è  dun- que una  proposizione  ingannevole,  sofistica,  il  cui  carattere  essen- ziale e  di  dare  l'illusione,  solauienie  l'illusione,  di  aver  affermato <jualche  cosa.  Cosi  noi  non  facciamo  mai  esplicitamente  una  pro- posizione tautologica,  ripetendo  nell'attributo,  in  parte  o  in  tutto, il  soggetto,  con  le  stesse  parole.  Tutte  le  volte  che  noi  facciamo una  simile  ripetizione,  la  proposizione,  tautologica  nella  forma, non  lo  è  affatto  nella  sostanza.  Qaod  scrip^l  scripsl,  vuol  dire  : ^lon  vi  ha  luogo  a  ritornare  sul  già  scitto.  Nei  versi. Il  papa  è  papa,  e  tu  sei  un  furfante. ecc..  in  un  sonetto  del  Berni  contro  l'Aretino,  il  papa  soggetto  non e  identico  nel  senso  al  pai)a  attributo:  il  primo  indica  la  persona, e  il  secondo  mette  in  rilievo  la  dignità.  Ma  prendiamo  invece questa  proposizione,  cfie  si  può  leggere  in  certi  trattati  elementari d'aritmetica  :  Un  numero  qualunque  divide  i  suoi  multipli.  Essa  è una  proposizione  sostanzialmente  tautologica,  poiché  dire  che  un numero  è  diviso  da  un  altro  numero,  è  lo  stesso  che  dire  che  il primo  è  multiplo  del  secondo.  Ma  l'autore  crede  di  aver  fatto  una affermazione  reale,  e  si  dà  la  pena  di  dimostrare  la  sua  proposi- zione. Una  proposizione  tautologica  impòrta  dunque  che  non  si  com- prende la  portata  delle  proprie  parole:  essa  non  è  l'espressione  di un  giudizio  identico,  o  anahtico;  vi  ha  l'espressione  abituale  del giudizio,  ma  non  vi  ha  aff'atto  giudizio. se  esista  o  no  nella  natura  una  legge  secondo  cui  la  gra- vità è  invarialjilniente  unita  alle  altre  proprietà  del  corpo, su  ciò  il  giudizio  analitico  non  afferma  né  nega.  Perci(') abbiamo  osservato  che  nel  giudizio  analitico,  a  parlar propriamente,  non  potrebbe  essere  quistione  di  verità  o di  tàlsità.  Quelli  che  estendono  di  questa  maniera  le  pro- posizioni analitiche,  non  avrebbero  altro  espediente  che di  riporre  nel  concetto  (juest' elemento  della  realtà  ch'essi hanno  tolto  dal  giudizio.  Sapere  che  ogni  corpo  è  grave sarei jbe  allora  avere  un  concetto  del  corpo,  in  cui  si  com- prenderebbe, insienìe  alle  altre  note  del  corpo,  la  gravità e  inoltre  resistenza;  ma  ciò  non  basterebbe  ancora,  j)er- chè  non  si  potrebbe  cavarne  clic  cori)i  non  gravi  non ne  esistono;  bisognerebbe  (juindi  un  altro  concetto,  in  cui il  corpo  si  concepisse  senza  la  gravità,  ma  pure  senza r  esistenza.  Cosi  V  affermazione  e  la  negazione,  la  ve- rità e  la  falsità,  non  starebbero  nel  giudizio,  ma  nel concetto  ;  in  altre  parole,  il  vero  giudizio  sarebbe  il concetto  (1).  Secondo  (luesta  veduta,  una  scienza  non  sa- reljbe  altro  che  un  catalogo  di  termini,  s'è  vero  ciie un  concetto  sia  il  significato  d'  un  termine  ;  se  non  che non  vi  sarebbero  termini  per  esprimere  i  concetti  con- siderati di  questa  maniera.  I  concetti  infatti  sarebbero espressi,  non  dai  nomi,  ma  dalle  proposizioni,  e  cosi  si trovere])be  pienamente  giustificata  i'  opinione  del  Ritter, (l)  Un  concetto  non  potrcìjbc  comprendere  tra  le  sue  note  la realtà  della  cosa  concepita.  È  celebre  1"  esempio  di  Kant  :  cento talleri,  che  esistano  o  no,  sono  sempre  cento  talleri;  è  certamenti^ diverso  che  io  li  abbia  in  tasca  o  semplicemente  nell'  immagina- zione,  ma  la  loro  idea  è  sempre  la  stessa.  L'idea,  particolare  o generale  non  fa  differenza,  non  implica  alcuna  persuasione  della esistenza  della  cosa  :  essa  è  la  semplice  apprensione  degli  scola- stici. Perciò  dicevano  gli  scolastici  che  sopra  di  essa  non  può  ca- dere errore  :  noi  possiamo  errare  nella  composizione  e  nella  diri^ sione  degl'intelligibili  (giudizio),  ma  non  nella  loro  apprensione. 3- -t: secondo  cui  le  i)roposizioni  analitiche  (e  fra  di  esse  egli comprende  delle  proposizioni  reah,  come  quelle  della  ma- tematica) espongono,  non  dei  giudizi,  ma  dei  concetti  (v. A.  Franchi,  op.  cit,  lettera  17%  IV -Vili)  (1).  Ma  se  si rigetta  questa  soluzione,  come  fondata  sopra  un  equivoco e  d'altronde  troppo  contraria  ai  presupposti  fondamentali del  concettualismo,  restiamo  forzatamente  confinati  nel- r  idem  per  idem,  a  meno  che  non  si  voglia  anmiettere che  i  soli  giudizi  reali,  capaci  di  essere  approvati  o  re- spinti o  revocati  in  dubbio,  sono  dei  giudizii  estra-concet- tuati,  di  cui  cioè,  non  i  concetti,  ma  le  idee  particolari sono  gli  elementi;  il  che  per  noi  è  certamente  vero,  ma per  il  concettualismo  sarebbe  la  confessione  della  propria disfatta. Contuttociò,  malgrado  che  la  teoria  analitica  del  giu- dizio sia  molto  meno  plausibile  che  la  distinzione   Kan- tiana,  noi  non  dobbiamo  rinunziare   a  vedere  anche   in questa  teoria  un  prodotto  naturale  della  dottrina  coricet- tuahsta.  Sotto  un  certo  punto  di  vista  anche,  questa  teo- ria è  la  forma  più  logica  del  concettualismo.  Noi  abbiamo osservato  clic  il  giudizio  analitico  non  pnò  darci  alcuna verità  suiresistenza  delle  cose  o  sull'ordine  della  natura  : cosi  se  vi  hanno  giudizi  analitici,  essi  restano  necessaria- mente confinati  nel  campo  del  possibile,  e  non  hanno  al- cun adito  nella  realtà.  L'oggetto  dunque  deiratlermazione, in  un  giudizio  analitico,  non  sono,  almeno  necessariamente, delle  cose  o  dei  fenomeni  reaU;  sono  delle  cose  possibili,  > ■che  potrebbero  non  esistere  altrove  che  nella  nostra  mente. Rammentiamo  ora  un'obbiezione  che  si  è  fatta  alla  dot- (1)  Già  Wolf  aveva  identificato  la  definizione  e  il  concetto.  «Quando una  idea  distinta  è  completa,  cioè  tale  che  non  convenga  fuorché ad  individui  d'una  medesima  specie,  e  che  si  possa  in  ogni  tempo" e  in  ogni  luogo  distinguerla  da  ogni  altra,  chiamo  tale  idea  de/ir-'- nizione»  {\\o\f  Logica,  cai),  i,  §  3(i.)  .' trina  concettualista  del  giudizio,  cioè  che  gli  elementi  del giudizio  non  potreb]3erc  essere  dei  concetti  astratti,  men- tre gli  oggetti  di  cui  si^  giudica  sono  delle  cose   concrete e  dei  tatti  particolari.  È  il  giudizio  sintetico  che  questa obbiezione   colpisce  specialmente:  il   Mill   è  costretto   a. convenire,  come  si  è  visto,  che  il  giudizio  si  esprimerebbe più  convenientemente,  piuttosto  che  in  termini  concreti, in  termini  astratti,  clie  ricordano  d^una  maniera   singo- lare il  linguaggio  degli  scolastici  realisti.  «  11  corpo  è  gra- ve »  significherebbe  secondo  lui  che  la  gravità  coesiste  colla corporeità  ;  «  i  pesci  sono  squamosi  »,  che  la  squamosità coesiste  con  la  pisceiià.  Cosi  il  giudizio  sintetico  dal  con- cettualismo ricade  nel  realismo  ;  ma  il  giudizio  analitico evita  Tobbiezione  salvandosi  nel  possibile.  Se  «  il  corpo  è= grave  »  afìerma  qualche  cosa  sull'ordine  della  natura,  la proposizione  deve  interpretarsi  come  sintetica  ;  ma  se  ri- pete soltanto  una  nota  che  già  si  era  pensata  nel   sog-- getto,  la  proi^osizione  sarà  ugualmente  vera  sia  che  esi- stano o  che  non   esistano  dei   corpi  nella  natura,  e  noi restiamo  nei  concetti. §  15.''  Abbiamo  visto  che  le  due  teoriche  concettualiste del  giudizio  di  cui  abbiamo  parlato,  si  fondano  Tuna  sulla connotazione  e  laltra  sulla  denotazione  dei  nomi.  Abbiamo visto  pure  che  la  prima,  partendo  dalla  connotazione,  per- de necessariamente  di  vista  la  denotazione,  e  arriva  logi- camente  col  Mill  a  sostenere  che  il  soggetto  del  giudizio è,  non  ridea  delle  sostanze  concrete,  ma  quella  degli  at-- tributi  astratti.  Viceversa,  la  seconda,  che  si  l'onda  sulla denotazione,  non  può  corrispondere  alla  connotazione,  che è  il  significato  comune  dei  nomi.  Per  questa  teoria,  il concetto  comprendendo  tutti  gli  attributi  conosciuti  della classe,  e  tutti  gli  uomini  non  avendo  le  stesse  conoscenze- relative  alla  classe,  ne  viene  che  il  concetto  è  necessaria- mente relativo  e  individuale,  e  si  arriva  a  questa  note- vole conseguenza,  che  il  significato  delle  parole  non  è  costante  per  tutti,  ma  variabile  secondo  gllndividui.  É  cer- tamente per  ovviare  a  questo  inconveniente  che  i  seguaci della  teoria  parlano  ordinariamente  di  un  concetto  obbiet- tivo, perfetto,  al  di  sopra  dei  concetti  variabili  dei  diversi soggetti  pensanti,  e  sarebbe  secondo  loro  con  questa  sorta di  concetti  che  avrebbe  da  fare  la  logica,  e  quindi,  sem- bra, la  teorica  del  giudizio.  Essi  parlano  del  concetto  co- me comprendente  la  somma  delle  conoscenze  relative  a un  genere  dato,  come  si  parla  della  scienza  come  il complesso  di  tutte  le  conoscenze  umane.  Ma  è  chiaro che  questo  concetto  ideale,  assoluto,  non  è  che  una  fin- zione logica,  che  non  può  niente  apprenderci  sulle  ope- razioni reali  deirintelligenza.  Metteremo  dunque  da  parte questo  concetto,  e  ci  contenteremo  del  concetto  subbiettivo, relativo  e  variabile  ?  Ma  andiamo  incontro  ad  un'altra  fin- zione. Chi  mai  pretenderà  che  tutte  le  volte  che  un  ana- tomista o  un  fisiologo  o  un  antropologista  penserà  air  uo- mo, egli  avrà  presenti  nello  spirito  tutte  le  proprietà  a lui  conosciute  dell'uomo,  cioè  tutte  le  conoscenze  generali ch'egli  ha  acquistato  sull'uomo?  Cosi  le  due  dottrine  sul concetto  non  sono  che  una  finzione  logica,  Tuna  e  l'altra  : quella  su  cui  è  fondata  la  distinzione  del  giudizio  di  Kant e  di  Mill,  suppone  che  vi  sia  un  minimum  determinato di  attributi  inerenti  al  significato  del  nome,  il  che  non  è che  una  convenzione  dovuta  principalmente  alle  dottrine tradizionali  della  definizione  ;  l'altra,  su  cui  è  fondata  la teorica  che  fa  analitici  tutti  i  giudizi  universali,  suppone •dei  concetti  che  evidentemente  non  sono  stati  mai  conce- piti da  nessuno.  Tuttavia,  al  punto  di  vista  di  quest'ultima teoria,  si  potrà  dire  che  noi  non  abbiamo  mai  nello  spi- rito tutto  il  contenuto  del  concetto,  ma  solo  qualche  parte delle  sue  note;  ma  che  nondimeno  il  vero  concetto  non- é  questo  concetto  più  o  meno  monco  e  incompleto  che attualmente  noi  pensiamo,  ma  il  complesso  di  tutte  le  note che  noi  potremmo  pensare  nel  concepire  lo  stesso  oggetto. Quest'ultima  riserva  non  potrebbe  mancare,  se  i)ure  vo- gliamo restare  nei  presupposti  più  necessari  del  concet- tualismo; perché  che  cosa  ])uò  essere  il  concetto  se  non il  significato  del  nome  generale  ?  Ma  il  significato  del  no- me non  è  ciò  che  il  nome  attualmente  e  accidentalmente suggerisce  allo  spirito,  ma  tutto  ciò  che  esso  può  sugge- rire, nei  limiti  della  sua  destinazione.  Se  dicendo  d'un oggetto  :  «  questo  è  un  uomo  »,  noi  intendiamo  accordargli degli  attributi  definiti,  come  suppone  la  teoria  concettua- lista, e  come  deve  essere  se  un  nome  è  il  segno  di  un concetto  ;  se  d'altra  parte  (juesti  attributi  costanti  signifi- cati dal  nome  non  sono  una  porzione  determinata  degli attributi  della  cosa;  ne  segue  che  è  il  complesso  di  tutti gli  attributi  che  costituisce  il  significato  del  nome  o  il  con- cetto. Quindi,  come  dicemmo,  il  vero  concetto  è  il  con- cetto compiuto,  normale,  (juello  che  non  è  mai  attual- mente nel  nostro  spirito  ;  e  il  suo  succedaneo,  il  concetto mutilato  clie  noi  realmente  concepiamo,  non  può  essere clie  una  sorta  di  concetto  simbolico,  che  non  vale  se  non come  il  rappresentante  del  primo.  Ma  se  il  concetto  real- mente pensato  non  é  che  un  simbolo,  perchè  non  am- mettere piuttosto,  immediatamente,  come  la  il  nominalismo, che  nella  nostra  intelligenza  non  vi  hanno  che  dei  sim- Ijoli  al  posto  delle  classi  a  cui  si  riferiscono  le  nostre  ope- razioni mentali  ? §  l(i.*'  Gl'inconvenienti  delle  due  teoriche  del  giudizio di  cui  abbiamo  parlato,  hanno  dato  luogo  ad  una  terza teoria  intermedia  :  si  vide  infatti  Ijen  presto  che  la  distin- zione Kantiana  del  giudizio  in  analitico  e  sintetico  era  pu- ramente arbitraria  ;  ma  dall'altra  parte  si  vide  i)ure  che, facendo  tutti  i  giudizi  analitici,  non  si  può  rendere  conto assolutamente  del  latto  della  conoscenza.  Questa  terza teoria  si  riduce  al  fondo  ad  ammettere  che  quando  per un  giudizio  acquistiamo  una  nuova  conoscenza,  il  giu- dizio è  sintetico,  ma  poi  la  nuova  proprietà  scoverta  entra  nella  comprensione  del  concetto  del  soggetto,  e  ogni j)roposizione  che  di  nuovo  la  esprime,  è  analitica.  Fu  il Krug  che  il  primo  si  mise  in  questa  via  (v.  A.  Franclii Teorica  del  giudizio,  lettera  14.  I  e  Vili)  (1),  ed  egU  è stato  seguito  da  molti  altri  filosofi  tedesclii.  «  La  differenza tra  il  giudizio  analitico  e  sintetico,  dice  ilLindner,  ana- loga a  quella  fra  le  note  essenziali  e  accidentali,  non  può andare  immune  da  una  certa  relatività.  Nel  giudizio  ana- litico si  unisce  al  soggetto  una  nota,  con  cui  esso  come concetto  d'una  classe  è  originariamente  pensato,  e  che perciò  si  è  riguardata  come  essenziale  ;  nel  sintetico  si unisce  al  soggetto  una  nota  che  prima  non  era  conosciuta, (I)  Anche  Kant  ammctre  talvolta  clic  il  contenuto  del  concetto è  variabile  e  relativo  al  soggetto  pensante  (v.  Metodologia,  e.  1. sez.  1.1),  ciò  che  avrebbe  per  conseguenza  logica  la  relatività  della dinerenza  tra  il  giudizio  sintetico  e  analitico,  cioè  che  «  un  solo  e stesso  giudizio  i)uò  essere  analitico  o  sintetico,  (.onie  dice  il  neo- kantiano Lange  (Storia  del  mate  ri  aUs  ino.  tomo  2.  parte  1.  nota  17) se(iondo  rorganizzazionc  e  linsieiue  delle  idee  del  soggetto  che giudica.  »  Ma  lidea  generale  di  questa  teoria  si  ti'ova  già  esplici- tamente in  Locke,  in  cui  vi  ha  il  germe  di  tutta  la  moderna  dot- trina dei  giudizi  sintetici  e  analitici.  Il  Locke  considera  corte  volte una  stessa  pr<ìi)osizione  come  ctipace  d'interpretarsi  come  verbale o  identica  e  come  reale  o  istruttiva,  seccando  Tidea  del  soggetto relativa  al  giudicante  (v.  p.  e.  lib.  4  e.  (>.  s  0  e  e  8.  s.  Ti).  La  com- prensione dell'idea  d'una  (iosa  è  per  lui  un  che  di  variabile  (v.  spe- <'ialmente  lib.  3.  e.  0.):  ma  egli  ammette  che  abitualmente  gli  uo- mini non  fanno  entrare  nella  loro  idea  (complessa  d'una  sostanza tutte  hi  idee  semplici  ch'essi  sanno  esistere  attualmente  in  (piesta sostanza  (v.  lib.  2,  e.  31,  *%.  8);  è  perciò  che  la  sua  dotti-ina  si  dif- ferenzia dalla  terza  forma  della  teoria  concettualista  del  giudizio di  cui  l'arliamo  nel  testo. Se  la  dottrina  dì  Locke  della  relatività  della  comprensione  dei roncetti,  e  rpiindi  della  connotazione  dei  nonn',  fosse  vera,  è  evi- dente che  tutto  il  mondo  sarebbe  una  torre  di  Habele.  I  nonn'  hnnno un  significato  comune,  ])ert!hè  essi  denotano  le  stesse  cose  ;  ma  se si  ammette  che  ciò  che  corrisponde  al  nome  generaie  è  un  con- cetto, e  questo  che  sarà  il   significato  dei   nome.  Ora  siccome  la e  con  cui  esso  si  è  pensato  posteriormente.  Ora,  tostocliò il  giudizio  sintetico  è  fatto,  la  nota  nuovamente  aggiunta al  soggetto  si  congiunge  col  gruppo  delle  sue  note  essen- ziali in  una  unita  indissolubile  ;  essa  in  certo  modo  si conosce  per  una  nuova  nota  essenziale,  ed  il  giudizio  sin- tetico diviene  in  seguito  analitico  »  (Compendio  di  logica formale,  Dottrina  elementare,  2*  sezione,  §  27) Ora  questa  teoria,  oltreché  non  evita  se  non  parte  delle difficoltà  delle  due  altre  ch'essa  vuole  conciliare,  cumu- lando invece  quelle  dell'una  e  dell'altra,  ne  presenta  di più  una  a  lei  propria;  ed  è  che  introduce  una  differenza logica  tra  giudizi,  tra  cui  non  ve  ne  ha  assolutamente alcuna.  Noi  abbiamo  visto  che  non  può  farsi  a  meno  di ammettere  una  differenza  essenziale   nel  loro  significato denotazione  o  l'estensione  è  qualche  cosa  al  di  fuori  del  concetto, e  delle  connotazioni  ditterenti  sono  dei  concetti  ditlercnti,  ne  se- guirà che  non  vi  ha  per  i  nomi  alcuna  significazione  deterniinata. I  filosofi  moderni  hanno  compreso  questa  necessità  di  fissare  il concetto,  o  la  connotazione  dei  nomi  ;  e  perciò  o  si  suppone  col Mill  un  concètto  normale,  clie  comprende  una  parte  determinata degli  attributi  del  genere,  e  si  la  di  questo  concetto  la  connota- zione usuale  del  nome  (una  connotazione  dirterente  non  potendo essere  che  un  significato  speciale  e  tecnico  del  termine)  ;  ovvero il  concetto  normale  sarà  la  nozione  scientifica  del  genere,  che comprende  tutti  i  caratteri  conosciuti  di  (juesto.  In  questo  caso, non  si  può  annue Itere  per  i  concetti  altra  variabilità  che  quella dipendente  dal  grado  <li  coltura  o  dallo  sviluppo  intellettuale  del soggetto  pensante.  Di  là,  nella  filosofia  moderna,  tre  dottrine  pos- sibili sui  giudizi  analitici  e  sintetici. i*er  altro  è  un  fatto  che  tutte  le  dottrine  moderne  dei  lodici  in- glesi, anzi  tutte  le  dottrine  moderne  in  generale,  relative  al  con- tenuto dei  concetti  (connotazione  dei  nomi,  definizione,  giudizio analitico  e  sintetico)  si  possono  riattaccare  al  Sa^/^^o  saWintcmU- mento  umano.  Locke  potrebbe  a  buon  dritto  considerarsi  come  il Y)adre  del  concettualismo  moderno:  certamente  il  concettualismo è  anteriore  a  Locke,  ma  egli  per  il  primo  (per  il  carattere  gene- rale della  sua  speculazione)  ne  espose  la  dottrina  sistematicamente e  d'una  maniera  sviluppata. tra  la  proposizione  analitica  e  la  sintetica.  Un  giudizio •cosi  detto  sintetico  deve,  almeno  quando  esso  è  d'origine sperimentale,  affermare  qualche  cosa  sulla  realtà,  sull'esi- stenza delle  cose  o  sull'ordine  della  natura  ;  ma  ciò  che il  preteso  giudizio  analitico  può  affermare,  non  può  vol- gere che  sulla  mera  possibilità  delle  cose,  sul  rapporto  fra 1  concetti  che  noi  ce  ne  formiamo.  Non  può  dunque  uno stesso  giudizio  essere  una  volta  analitico  e  un'altra  sin- tetico, perchè  non  sarebbe  lo  stesso  giudizio,  ma  due  giu- dizi affatto  differenti. Non  vi  avrebbe  che  un  solo  modo  di  considerare  la stessa  proposizione  ora  come  analitica  e  ora  come  sin- tetica: cioè  di  badare  una  volta  al  senso  che  i  logici  di- cono in  estensione,  e  un'  altra  volta  a  quello  che  essi dicono  in  comprensione.  Questa  proposizione  :  «  il  latte  è bianco  >y,  interpretata  in  comprensione  significa  che  il latte  produce  su  noi  questa  sensazione  determinata;  inter- pretata in  estensione,  significa  che  il  latte  deve  annove- rarsi fra  gli  oggetti  bianchi.  La  prima  afferma  l'esistenza d'un  fatto  reale;  la  seconda  un'assimilazione  del  latte  ad altre  cose,  una  classazione.  Questi  due  sensi  differiscono certo  logicamente,  ma  sono  due  giudizii  diversi.  Ora, di  questi  due  giudizi  quale  è  quello  che  somiglia  di  più al  tipo  degli  anahtici?  É  certamente  quello  in  estensione, perchè  non  afferma  che  una  classazione  come  quest'al- tro: «l'uomo  é  un  animale»  Noi  potremmo  conoscerlo confrontando  semplicente  tra  loro  le  nostre  idee;  perchè avendo  l'idea  del  latte  quale  lo  abbiamo  osservato,  e  l'idea degli  altri  oggetti  che  diciamo  bianchi,  noi  vediamo  su- bito che  il  latte  deve  entrare  nella  classe  di  questi .  Esso è  cosi  a  priori  e  necessario,  mentre  la  stessa  proposi- zione, interpretata  in  comprensione,  è  a  posteriori  e  con- tingente. Noi  vediamo  dunque  qui  un'  inconseguenza della  dottrina  dei  concetti;  percliè  il  giudizio  in  compren- sione potrebbe  essere  analitico,  ma  non  il  giudizio  in  esten- 'SÌont\  nel  quale  per  assegnare  Tattributo  si  esce  necessa- riamente dall'idea  del  soggetto:  ciò  è  tanto  vero  che  al- cuni, come  il  Fries  (Nuova  critica  della  ragione,  I  volume, II  libro,  III  sezione,  §  05),  hanno  ricondotto  i  giudizi  ana- litici a  quelli  in  comprensione,  e  i  sintetici  a  quelli  in estensione. ^  17«.  Noi  possiamo  ora  riassumere  con  poche  parole  i risultati  i>iù  importanti  di  questa  discussione  sulla  dottri- na concettualista  del  giudizio  e  sulle  diverse  maniere  di determinare  la  comprensione  del  concetto,  su  cui  si  fon- dano le  digerenti  i'oi-me  di  (juesta  dottrina.  Se  nel  con- cetto si  comprende  solo  una  porzione  determinata  degli attributi  della  classe,  è  questa  una  finzione,  smentita  dalla connotazione  reale  dei  nomi  ;  se  invece  si  com[)rendona tutti  gli  attributi  della  classe,  è  un'altra  finzione,  ])ereliè bisogna  ammettere  un  concetto  campato  neir  aria  che non  è  il  concetto  di  nessuno,  o  almeno  un  concetto  che non  è  mai  elfettivamente  pensato  quale  esso  è.  Se  il  ina- ino modo  di  determinare  il  contenuto  del  concetto  non  è compatibile  col  senso  in  den(jtazione  del  nome  soggetto, il  secondo  modo  non  è  compatibile  con  la  costanza  nella  si- gnificazione delle  parole,  che  non  si  tonda  su  altro  che  sul- la loro  connotazione  costante.  Se  infine  il  giudizio  sintetico conduce  inevitabilmente  alla  realizzazione  delle  astrazioni, il  giudizio  analitico  non  è  alla  sua  volta  che  un  frivolo giuoco  dello  spirito.  Un  osservazione  esatta  sulla  conno- tazione dei  nomi  ci  mostra  poi  che  il  senso  attributivo <li  un  nome  non  consiste  ad  atlermare  un  certo  numero di  attributi  definiti,  ma  solo  una  somighanza  generale deiroggetto  a  cui  si  api^ica  il  nome,  con  altri  oggetti  co- nosciuti,  che  sono  i  tipi  che  per  noi  rappresentano  una classe  data.  Quindi  ogni  opinione  sul  contenuto  o  com- prensione del  concetto  è  ])uramente  chimerica.  E  una prova  di  ({uesto  fatto  è  che  noi  non  possiamo  formare  un numero  sufficiente  di  giudizi,  aventi  i  cai*atteri  che  Kant assegna al  giudizio  analitico;  mentre  se  esistessero  i  con- cetti, col  loro  contenuto  determinato,  ogni  concetto  potreb- be essere  il  soggetto  di  almeno  due  di  questi  giudizi,  di cui  neir  uno  il  genere  e  nell'altro  la  differenza  specifica .sarebbe  il  predicato.  Tutto  ciò  dimostra  che,  al  punto  di vista  della  dottrina  dei  concetti,  non  si  può  avere  una teorica  ammissibile  del  giudizio  né  della  sua  classifica- zione,  e  che  r  ipotesi  dei  concetti  trascina  con  sé  delle nuove  difficoltà  insolubili,  quando  si  considerano  i  con- cetti nella  loro  relazione,  cioè  nel  giudizio,  difficoltà  che si  devono  aggiungere  a  (juelle  inerenti  al  concetto  asso- lutamente considerato,  di  cui  abbiamo  fatto  parola  nei primi  paragrafi.  In  seguito  noi  mostreremo  che,  soppri- mendo i  concetti,  è  facile  di  dare  una  classazione  del giudizio,  fondata  su  caratteri  essenziali  e  perfettamente definiti,  e  dedotta  dai  fatti  più  certi  della  nostra  intelli- geiìza  :  sarà  questa  un'  altra  prova  contro  resistenza  dei concetti. ji?  18^.  Ora  si  troverà  forse  sorprendente  che  una  dot- trina a  cui  ineriscono  tante  impossibilità,  (|ual  è  la  teoria dei  concetti,  abbia  potuto  prevalere  si  lungamente  nella scienza— e  prevarrà  certamente  per  molto  tempo  ancora—, insinuandosi  anche  il  più  spesso,  sotto  una forma  dissi- nmlata,  nelle  dottrine  stesse  dei  suoi  oppositori.  Quando si  ha  da  fare  con  tali  opinioni,  non  Inasta  per  condjatterle di  dimostrarne  la  falsità,  ma,  siccome  sarebbe  altamente inverosimile  di  vedere  un  fatto  fortuito  nella  loro  diffu- sione ({uasi  generale,  é  necessario  di  ricercare  come  esse al)]jiano  potuto  nascere  e  perpetuarsi.  Noi  potremmo  in (luesto  caso  invocare,  per  ispiegare  il  fatto,  la  difficoltà, su  cui  hanno  tanto  insistito  alcuni  filosofi  moderni,  di osservare  sé  stesso  mentre  si  pensa,  Timpossibilità,  anzi, di  descrivere  esattamente,  con  Taiuto  del  solo  metodo  in- trospettivo,  le  nostre  operazioni  mentali;  mentre,  da  un altro  canto,  le  parole  si  prestano  comodamente  alPosservazione,  permettendoci  di  prendere  le  operazioni  men- tali per  il  loro  lato  obbiettivo.  Ora  il  concettualismo  non è  che  il  metodo  di  assegnare  puntualmente  j&lle  idee  il valore  e  le  relazioni  delle  parole.  Ma  ciò  non  basta  per ispiegare  l'origine  del  concettualismo:  la  persuasione  del- l'esistenza delle  idee  astratte  s  impone  cosi  fortemente  allo spirito,  che  è  ben  difficile,  anche  al  nominaUsta  più  deciso, di  tenérsi  fermo  e  coerente  al  principio  che  tutte  le  idee sono  concrete  e  particolari,  e  che  di  astratto  e  di  gene- rale non  vi  hanno  che  dei  nomi;  il  più  delle  volte  si  vede anzi  nelle  idee  astratte,  non  una  semplice  ipotesi,  ma  un fatto  di  coscienza -si  sa  che  i  metafisici  confondono  spesso coi  fatti  di  coscienza  certe  credenze  naturali  o  tendenze a  credere  che  poi  la  riflessione  dimostra  semplicemente illusorie  -  Noi  vedremo  nel  2»  Saggio  che  le  concezioni fondamentali  della  metafisica  sono  un  prodotto  inevita- bile dello  spirito  umano,  basate  come  sono  sovra  sofismi  a priori  o  illusioni  naturali.  Ora  l'ipotesi  delle  idee  astratte  presenta  a  prima  vista  i  caratteri  di  una  concezione  metafi- sica- alla  forza  con  cui  essa  s'impone  naturalmente  allo  si)i- rito  alla  mancanza  assoluta  di  qualsiasi  prova  sperimentale, ao-c^iungiamo  il  vago,  l'indeciso,  che  vi  ha  in  questa  dottrma, eTuest'altra  particolarità  che  si  trova  per  il  solito  nelle  ipo- tesi metafisiche,  cioè  che  esse  non  sono  semplicemente  con- trarie ai  fatti  come  le  ipotesi  erronee  della  scienza,  ma  pre- sentano delle  impossibilità  intrinseche  e  delle  contraddizioni. Ma  le  illusioni  della  metafisica,  come  mostreremo  nello stesso  Sao'^io,  si  riconducono  tutte  finalmente,  d'una  ma- niera direto  o  indiretta,  a  certe  abitudini  mentali  comuni a  tutti  <-li  uomini,  che  sono  cosi  imperiose  e  cosi  prohMi- damente  radicate  nella  nostra  intelligenza,  che  formano, si  DUO  dire,  parte  della  nostra  stessa  costituzione  intellet- tuale. Quale  sarà  dunque  l'abitudine  mentale,  d'una  forza quasi  istintiva,  che  ha  dato  origine  alla  supposizione  delle idee  astratte?   Non  è  difficile  di  trovarla:   o  1  abitudine  // indispensabile  di  renderci  conto  del  pensiero  per  la  sua espressione  verbale.  Noi  ci  abituiamo  cosi  a  credere  che vi  lia  una  corrispondenza  e  una  equivalenza  esatta  tra la  parola  e  il  pensiero;  tanto  più  che  quando  abbia- mo interesse  di  sapere  ciò  che  ha  pensato  un'  altra persona  o  ciò  che  noi  stessi  altre  volte  abbiamo  pensato, poco  c'importerebbe  di  conoscere  esattamente  tutto  il  la- voro mentale,  in  altri  termini,  le  immagini  particolari, che  sono  passate  effettivamente  nella  nostra  mente  o  nella mente  di  quest'altra  persona;  ci  basta  di  rappresentarci la  tendenza  generale  di  questo  lavoro  mentale,  tendenza che  si  manifesta  per  T  espressione  verbale  che  ne  è  il risultato.  Cosi,  quando  vogliamo  renderci  conto,  non  del pensiero  di  questo  o  quell'individuo  particolare  in  una circostanza  particolare,  con  un  interesse  obbiettivo,  ma del  pensiero  in  se  stesso,  per  conoscere  la  sua  natura  e il  suo  meccanismo,  che  d'altronde  ci  sarebbe  impossibile di  cogliere  sul  fatto;  noi  siamo  trascinati  dall'abitudine  di prendere,  dirò  cosi,  per  oggetto  della  nostra  vista  men- tale, non  direttamente  il  pensiero  stesso,  ma  la  sua  espres- sione verbale,  e  di  credere  che  i  pensieri  e  le  parole  si corrispondono  perfettamente.  Di  questa  maniera  nasce  la persuasione  che  l'equivalente  esatto  di  una  parola  sia  un'i- dea, e  quindi  il  principio  del  concettualismo:  i  termini  so-, no  generali,  dunque  le  idee  sono  generali  (1). (1)  «  Se  tutti  gli  uomini,  dice  Voltaire,  parlassero  la  stessa  lingua, noi  saremmo  pronti  a  credere  che  vi  sarebbe  una  connessione  ne- cessaria tra  le  parole  e  le  idee  »  Elementi  della  Filosofia  di  Newton^ cap.  6)-  La  metafìsica  lia  fatto  tutto  ciò  che  ha  potuto  per  realiz- zare la  supposizione  di  Voltaire.  In  verità  la  teoria  dei  concetti  non suppone  che  vi  sia  una  connessione  necessaria  tra  le  idee  e  la  loro espressione  verbale,  ma  che  vi  sia  una  connessione  necessaria  tra le  idee  e  la  forma  essenziale  di  questa  espressione  verbale.  Essa riunisce  in  un  tutto  unico  e  indivisibile,  il  concetto,  i  caratteri  della idea  e  al  tempo  stesso  quelli  della  parola,  come  in  certi  esseri  fa- Wì Forse  si  troverà  che  noi  ci  siamo  tropjx»  tliffnsi nella  discussione  della  tec»ria  dei  concetti:  ma  bisopìa [jénsare  che  questa  teoria  non  ci  hiscia  vcilei^e  se  non attravers«j  una  nebbia  le  oj^erazioni  deirintelHtronziì,  ed  è inipjssibile  renderci  un  ccaìto  esi\tto  di  (lueste  o[>erazioni. se  prima  non  si  è  fermato  questo  punto,  che  ai  nmni  ixe- nerah  corrisi>ondono,  non  delle  idee  genoi*ali  e  astratte, ma  rielle  idee  di  latti  [articolari  e  concreti.  Ciò  che  soli- tamente si  (lice  un'  idea  generale,  non  è  dunque  che  ini nome  ili  classe,  col  corteggio  delle  rappresentazioni  asso- ciate, pronunziato  o  inteso  mentalmente,  cioè,  come  dice il  Taine,  *<  un  suono  signifìcatico,  il  quale  è  compre^,  e che  a  questo  titolo  è  dotato  di  due  proprietà.  Da  una  parte tosto  che  esso  è  i>ercepito  o  immaginato,  sveglia  in  me la  rappresentazione  sensibile,  più  o  meno  espressi^,  d'un individuo  della  classe;  questo  legame  è  esclusivo;  esso  non svegha  in  me  la  la  rappresentazione  d'un  indivivuo  cVun'al- tra  classe.  D  altra  parte,  tosto  che  io  percepisco  o  inuna- gino  un  individuo  della  classe,  immagino  questo  suono stesso,  e  sono  tentato  di  pronunziarlo;  questo  legame  è  pu- re esclusivo;  la  presenza  reale  o  mentale  d'un  individuo d'un  ahra  classe  non  lo  evoca  nel  mio  spirito  e  non  U> chiama  sulle  mie  labbra»  (Taine  L IntelUgenza,  2^^ parte, lib.  40,  e.  r,  §  I,  II). Non  vi  ha  cosi  alcuna  difficoltà  sul  significato  dei nomi,  quando  si  considerano  ciascuno  isolatamente:  il  si- gnificato della  parola  uomo  è  di  denotare  questo  o  quelli  > degli  oggetti  appartenenti  alla  classe  uomini;  il  significato volosi,  (inali  i  centauri  e  simili  mostri  della  aiilologia.  si  lliiij:(n'an<> delle  specie  ditl'ereiiti  insepara])ilniente  leprate  e  riunite  in  un  es- sere unico.  Ci<)  non  deve  semìirare  una  pura  compara/ione  retto- rica,  ma  ci  mostra  il  carattere  essenziale  della  teoria  dei  C(ìnc(^tti: si  tratta  etlettivamente  in  (piesta  teoria  di  staì)ilire  in  una  certa iruisa  un  legame  inseparal)ile  tra  le  idee  e  le  parole,"e  cii)  per  el- fetto  della  tendenza  che  ha  lo  si>irito  umano  di  credere  neres-iar/c (luelle  connessioni  tra  i  fatti  che  gli  sono  estremamente  familiari. (V.  Saprgio  2.  parte  1.) ^ della  parola  bianco  di  denotare  ({uesto  0  quello  degli  og- getti appartenenti  alla  classe  delle  cose  bianche.  Ma  che avviene  quando  due  termini  sono  in  congiunzione,  p:  e. un  sostantivo  e  un  aggettivo,  uomo  e  bianco  ?  Allora  Tuno dei  due  termini,  p:  e:  Taggettivo,  determina  o  circoscrive in  limiti  più  stretti  il  significato  dellaltro  termine,  del sostantivo.  Uomo  bianco  significherà  non  uno  qualun- que tra  gli  oggetti  della  classe  uomini  0  della  classe  bian- chi,  ma  uno  qualunque  soltanto  tra  gli  oggetti  che  pos- sono classarsi  al  tempo  stesso  tra  gli  uomini  e  tra  i  bian- chi. Tale  è  la  funzione  delFattributo  nella  proposizione  (1): bisogna  dun(|ue  guardarsi  dal  credere  che,  poiché  l'attri- buto e  il  soggetto  sono  due  nomi  distinti,  noi  nella  pro- posizione necessariamente  uniamo  due  idee  distinte.  «Al- cuni uomini  sono  bianchi»  non  esprime  la  congiunzione ileiridea  della  bianchezza  con  Tidea  di  alcuni  uomini:  ma noi,  per  questa  proposizione,  ci  rappresentiamo  certi  og- getti, a  cui  conviene  tanto  il  nome  d'uomo  quanto  (j[uello di  bianco,  e  ne  affermiamo  l'esistenza. (1)  Noi  abbiamo  distinto  nel  significato  dei  nomi  la  denotazione e  la  connotazione:  il  nome  denota  gli  oggetti  a  cui  esso  viene  ap- plicato, e  connota,  non  un  attributo  astratto  o  un  gruppo  di  attri- buti astratti,  come  vogliono  i  concettualisti,  ma  una  somiglianza dell'oggetto  con  gli  altri  oggetti  a  cui  il  nome  è  stato  dato.  Tut- tavia 11  vero  significato  del  nome  e  la  sua  suggestione,  cioè  le  rap- presentazioni (particolari)  che  esso  suggerisce.  Noi  possiamo  chia- mare questa  suggellane  del  nome  la  sua  denotazione  suhbiettiea, poiché  il  nome  non  è  associato  soltanto  con  degli  oggetti  reali  (de- notazione obhiettica  del  nome)  ma  esso  può  richiamarci  le  idee tanto  di  oggetti  reali  quanto  di  oggetti  possìbili  o  anche  semi»li- cemente  immaginari.  La  connotazione  del  nome  segna  i  limiti  della sua  denotazione  iOinio  obbietti  e  a  quanto  subbiettira:  \a\e  a  dive, il  nome  può  suggerirci  qualsiasi  rappresentazione  che  abbia  il  grado definito  di  somiglianza,  connotato  dal  nome,  con  le  cose  a  cui  il nome  è  stato  dato.  Ma  il  senso  del  nome,  quando  esso  si  unisco, con  un  altix)  per  formare  una  i^roposizione,  domanda  altre  spie- In  una  proposizione  il  soggetto  può  essere  un  termine- particolare  0  generale,  ma  lattributo è,  di  regola,  genera- le: nondimeno  i  tatti  che  noi  affermiamo,  e  le  idee  che  ne abbiamo,  sono  sempre  particolari.  Un  predicato  generale non  determina  il  fatto  affermato  d\ma  maniera  assoluta; lo  determina  genericamente,  ma  non  individualmente.  Ma ciò  non  vuol  dire  che  noi  ci  formiamo  del  fatto  delle  rap- presentazioni indeterminate  e  semplicemente  generiche; solamente,  noi  non  intendiamo  affermare  con  precisione resistenza  di  un  tal  fatto  determinato,  ma  di  uno  od  un altro  tra  quelli  compresi  in  una  classe  determinata.  Se  io affermo  che  io  morrò,  io  posso  immaginarmi  morto  sul mio  letto,  neir estrema  vecchiezza,  e  con  altre  circostanze determinate:  ma  io  non  potrei  affermare  che  il  fatto  av- verrà precisamente  cosi;  io  potrò  morire  vecchio  o  gio- vane, sul  mio  letto  e  dopo  una  lunga  malattia,  o  sulla strada  per  un  accidente  o  perla  mano  (Fun  assassino,  ecc.. Tutte  le  mie  rappresentazioni  sono  di  casi  determinati, ga/.ioni.  !1  nomo  soggetto,  dicono  quasi  t'itti  i  lo-ici,  si  prende  nelln sua  estensione  (denotazione);  ma  il  nome  predicato  si  prende  (il più  smesso  almeno)  nella  sua  comprensione.  Ciò  potrebbe  far  sup- porre cli3  la  predicazione  non  possa  avere  per  noi  altro  senso  che di  attribuire  ciò  che  il  nome  connota,  cioè  Tassimilazione,  Taggre- gazione  ad  una  classe  determinata.  Ma  non  è  cosi:  la  predicazione non  ha  en'etivamento  (piesto  senso  che  nelle  proposizioni  inter- pretate, come  si  dice,  in  estensione,  ma  non  in  quelle  che  s'in- terpretano in  comprensione.  (L'  uomo  è  mortale,  interpretata  in comprensione,  significa  che  tutte  le  volte  che  noi  conosciamo l'esistenza  di  un  uomo,  possiamo  imferirne  che  esso  morrà;  inter- I>retata  in  estensione,  significa  che  gli  uomini  vanno  aggregati  alla classe  dei  mortali).  In  che  consiste  dunque  il  senso  in  comprensione della  predicazione?  L'estensione  di  un  nome,  quando  esso  diventa predicato  in  una  proposizione,  si  restringe  nei  limiti  dell'estensione del  soggetto:  mortale,  nella  proposizione:  l'uomo  è  mortale,  non denota  più  tutti  i  mortali,  ma  solo  una  parte,  gli  uomini.  Ma  la estensione  o  la  denotazione  del  nome  soggetto  non  viene  modifi- cata per  la  sua  congiunzione  col  nome  predicato.  Tuttavia  ciò  non è  vero  che  per  la  denotazione  obbiettiva  del  soggetto  ;  ma  per  la  8t ed  io  affermo  che  uno  o  un  altro  di  questi  casi  si  veri- ficherà; ma  la  mia  mente  vaga  dall'uno  all'altro,  e  non sa  decidersi  con  sicurezza  per  questo  o  per  quello.  Io  tro- vo possibile  che  ciascuno  di  questi  casi  avvenga,  ma  du- bito se  realmente  V  uno  o  Y  altro  avverrà  :  ciò  che  io  as- solutamente escludo  è  qualsiasi  affermazione  che  mi  rap- presentasse la  serie  dei  fenomeni  che  io  chiamo  la  mia vita,  come  prolungantesi  indefinitamente.  Per  indicare (juesto  stato  del  nostro  spirito,  cioè  questo  vagare  da  una idea  airaltra,  questa  indecisione  del  nostro  giudizio,  que- sto trovare  possibile  uno  qualunque  tra  una  classe  di  fatti, ma  impossibile  ogni  altro  che  esca  fuori  della  classe,  noi diciamo  di  avere  un'idea  generica  o  astratta;  e  l'assegnare sua  denotazione  subbcettlca  il  caso  è  differente.  Uomo  ed  uomo mortale  denotano  gii  stessi  oggetti  reali;  ma  la  suggestione  di  uomo e  più  estesa  che  la  suggestione  di  uomo  mortale.  Il  nome  uomo sarebbe  anc^he  applicabile  a  degli  esseri  immaginari,  simili  in  tutto all'uomo,  ma  immortali.  La  proposizione  :  l'uomo  è  mortale,  afferma che  non  esistono  di  tali  esseri,  che  noi  non  dobbiamo  rappresen- tarci come  reali  uomini  immortali,  ma  soltanto  uomini  mortali. Adunque  la  restrizione  nella  denotazione  del  soggetto  e  del  pre- dicato,dovuta  alla  loro  congiunzione, è  reciproca:  anche  il  predicato viene  a  restringere  la  estensione  o  la  denotazione  del  soggetto,  la sua  denotazione  subbiettica,  quantunque  non  la  sua  denotazione obbiettìra.  La  suggestione  dei  due  nomi  accoppiati  nella  proposi- zione è  più  ristretta  che  quella  sì  dell'uno  che  dell'altro  separata- mente presi.  È  su  questa  restrizione  che  il  predicato  apporta  nella denotazione  subbiettiva  del  soggetto,  che  si  fonda  il  senso  in  com- prensione della  predicazione.  Vi  hanno  tuttavia  dei  casi,  in  cui  il predicato  non  può  apportare  alcuna  restrizione  alla  denotazione subbiettiva  del  soggetto  a  cui  si  unisce:  allora  la  proposizione  non ha  alcun  senso  in  comprensione.  Ciò  avviene  tutte  le  volte  in  cui il  nome  soggetto  non  sarebbe  applicabile  ad  alcun  essere  (reale  o possibile),  a  cui  il  predicato  non  fosse  pure  applicabile.  Noi  non daremmo  il  nome  di  uomo  a  qualsiasi  chimera  della  nostra  im- maginazione, a  cui  non  pottessimo  dare  anche  il  nome  di  animale: noi  non  chiameremmo  mai  corpo  ciò  che  non  potessimo  chiamare anche  esteso.  Uomo  e  uomo  animale,  corpo  e  corpo  esteso,  hanno la  stessa  denotazione  subbiettiva  ;  quella  del  soggetto  non  viene per  attributo  un  termine  generale  non  solo  è  una  neces- sità del  linguaggio,  ma  è  anche  Tespressione  o  il  simbo- lo di  questo  stato  mentale. Quando  la  proposizione  è  generale,  in  altre  parole, quando  il  soggetto  della  proposizione  è  ancli^esso  un  ter- mine generale,  questo  termine  significa,  non,  come  Tattri- buto,  uno  o  un  altro  dei  casi  d\ma  classe,  ma  la  totalità. Questi  casi,  e  quindi  il  significato  della  proposizione  gene- rale, possiamo  dividerli  in  due  porzioni  :  Funa  definita— sono  i  casi  clie  abbiamo  osservati  o  altrimenti  conosciuti—; Taltra  indefiniia—sono  quelli  che  non  abbiamo  osservati ristretta  per  la  sua  unione  col  predicato.  È  questo  fatto  che  Tu  in- travisto dagli  autori  delia  dottrina  del  giudizio  analitico.  Ma  non bisogna  dimenticare  che  la  proposizione  in  questo  caso  non  ha alcun  senso  in  comprensione,  ma  solo  un  senso  in  estensione,  la predica/ione  consistendo  nella  classazione,  ossia  nella  contenenza del  soggetto  neir  attributo,  e  non  nella  contenenza  dell'  attributo nel  soggetto,  come  vuole  (luella  dottrina.  Vi  lia  pure  un  altro  caso, nel  quale  deve  dirsi  che  la  predicazione  è  in  comprensione,  ma nondimeno  il  predicato  non  restringe  la  denotazione   subbiettiva del  soggetto.  Ciò  conviene  quando  il  predicato  appartieno  ?ieces- sarìamente  al  soggetto,  in  modo  che  sarebì)e  impossibile  di  con- cepire il  soggetto  senza  il  predicato.  Sia  ])er  esempio  la  proposi- zione: 1  raggi  del  cerchio  sono  eguali.  Eguaglianza  non  restringe la  denotazione  subl)iettiva  di  Raggi  del  cerchio .  essendo  incon- cepibile un  cerchio  che  non  abbia  i  raggi  eguali.  Allora,  come mostreremo  in  seguito,  la  predicazione  non  è  r  aiTermazione  dei- resistenza  di  un  fatto;  la  proposizione  non  atferma  che  il  soggetto esiste  d'una  maniera  determinata,  ma  atferma  un  rapporto  di  so- miglianza o  di  differenza.  Adunque  questa  seconda  eccezione  è sostanzialmente  identica  alla  prima  (al  giudizio  analitico,  in  cui non  vi  ha  alcun  senso  in  comprensione),  poiché  si  tratta,  in  amen- <iue  1  ca^i.  di  una  comparazione,  e  non  deir  affennazione  di  un fatto  o))biettivo.(V.il  cap.6).  Riassumendo,  noi  possiamo  stabilire  in generale  che  la  funzione  del  nome  predicato  nella  proposizione  può essere  duplice:  o  determinativa  (restringendo  la  denotazione  sub- biettiva del  soggetto),  o  comparativa  (non  modificando  questa  d<v notazione  .  ma  aggiungendo  il  punto  di  vista  mentale  della  com- parazione) né  conosciuti,  ma  che  intendiamo  assimilare  ai  primi.— La prima  porzione  del  significato  della  proposizione  generale non  presenta  alcuna  difficoltà;  sotto  questo  rapporto, questa  proposizione  è  un  segno,  che  ci  richiama  alla  me- moria dei  fatti  della  nostra  esperienza  passata,  o  che  ab- biamo appresi  per  un'altro  mezzo  qualunque,  Ma  la  se- conda porzione  richiede  delle  spiegazioni,  che  potranno sembrare  una  digressione  dall'argomento  di  questo  para- grafo, ma  da  cui  non  possiamo  dispensarci. Una  proposizione  generale  è  necessariamente  il  risul- tato d'una  generalizzazione  (induzione),  e  sarebbe  inutile se  non  potesse  farsene  l'applicazione  ai  casi  particolari (deduzione).  Cosi  essa  è  essenzialmente  un  momento  del processo  logico,  e  non  si  può,  per  conseguenza,  compren- derne la  funzione,  se  non  si  è  compresa  la  natura  reale di  questo  processo,  cioè  dell'induzione  e  della  deduzione. Queste  operazioni  del  nostro  spirito,  presso  i  logici  an- tichi, erano  involte  in  quella  semi  —  oscurità  die  sola  po- teva permettere  la  dottrina  concettualista.  È  nella  Logica di  Stuart  Mill  clie  se  ne  trova  per  la  prima  volta  la  spie- gazione esatta  (v.  lib.  2,^  e.  3,^  §  3—7):  noi  la  riassume- remo brevemente. La  vera  ragione,  dice  Mill,  di  credere  che  il  duca  di Wellington  morrà,  è  che  gli  altri  uomini  sono  morti,  non la  proposizione  generale  che  dice:  tutti  gli  uomini  sono mortali.  In  una  parola,  le  premesse  reali  della  conclusione sono  dei  fatti  particolari  già  da  noi  osservati.  Ogn'infe- renza  è  dal  particolare  al  particolare  :  da  ciò  che  tutti  gh uomini  che  abbiamo  conosciuto  e  di  cui  abbiamo  udito parlare,  sono  morti,  noi  concludiamo  che  anche  quest'in- dividuo morrà.  Quando  noi  crediamo  che  i  fatti  da  noi osservati  ci  danno  il  diritto  di  tirare  dalle  inferenze  per casi  nuovi,  noi  formiamo  una  proposizione  generale,  la quale  non  è  che  una  semplice  registrazione  delle  inferenze già  effettuale  e  una  corta  formula  per   farne  delle  altre Questa  formula  è  al  tempo  stesso  il  risultato  di  una  in- duzione, e  la  premessa  maggiore  di  un  sillogismo  ;  e  la conclusione  del  sillogismo  é  un'inferenza,  non  tirata  dalla formula,  ma  fatta  conformemente  alla  formula,  lantece- dente  logico  reale  essendo  costituito  dai  fatti  particolari, da  cui  la  proposizione  generale  è  stata  formata  per  indu- zione. Questi  fatti  e  gli  esempi  individuali  che  li  forni- rono, possono  essere  stati  obbliati,  ma  resta  un  annota- zione, che  non  è  in  verità  una  descrizione  dei  fatti  stessi,, ma  che  serve  a  far  distinguere  i  casi  in  cui  i  fatti,  quan- do furono  conosciuti,  parvero  garentire  la  verità  d'un'in- ferenza  data.  Nella  marcia  ordinaria  del  ragionamento,  il soUogismo  non  è  che  l'ultima  metà  del  cammino  dalle  pre- messe alla  conclusione;  e  la  premessa  maggiore  non  è che  un  luogo  di  fermata  intermediario  per  lo  spirito,  in- terposto per  un  artifizio  del  linguaggio  fra  le  premesse reali  (i  fatti  particolari  osservati)  e  la  conclusione,  come una  misura  di  sicurezza  essenzialmente  relativa  alla  sem- plice correttezza  deiroperazione.  Ecco,  in  altri  termini, come  dobbiamo  rappresentarci  Toperazione  logica.  Io  ho- osservato  dei  fatti,  tra  cui  ho  trovato  una  uniformità  di connessione;  ho  osservato,  p.  e.,  che  i  fatti  della  vita  sona stati  costantemente  seguiti  dai  fatti  della  morte:  dopo  ciò io  mi  domando  se  in  un  caso  nuovo  qualunque  che  mi viene  allo  spirito,  si  riprodurrai  stessa  connessione,  p.  e. se  il  duca  di  Wellington,  se  il  re,  se  il  papa  morranno. Dalla  uniformità  dei  fatti  osservati  di  questa  classe,  e  di più  dall'immenso  numero  degli  altri  fatti  che  mi  hanno mostrato  una  eguale  uniformità  in  tutto  il  corso  della natura,  io  mi  credo  autorizzato  ad  affermare  che  la  con- nessione avrà  luogo  ancora  in  questi  casi,  cioè,  che  an-^ che  queste  persone  morranno.  È  questa  sinora  un'inferen- za dal  particolare  al  particolare,  che  non  è  né  una  indu- zione né  una  deduzione,  non  essendovi  alcun  intervento  di una  formula  o  proposizione  generale.  Ma  io  volendo  raccomandare  alla  mia  memoria  una  nota,  un  segno,  da  so- stituire ai  fatti  stessi  che  io  posso  dimenticare,  e  al  tem- po stesso  una  formula  che  possa  mettermi  in  grado  di  fare correttamente  delle  nuove  inferenze  per  altri  casi  parti- colari,  formo  una  proposizione  generale.  Ora,   per  Tam- mirabile  artifizio  del  linguaggio,  questa  proposizione  è  un segno  che  si  applica  a  tutta  una  classe  di  fatti,  che  signi- fica cioè  non  solo  i  fatti  da  me  osservati,  ma  tutti  gli  al- tri fatti  senza  distinzione,  i  quali  appartenendo  alla  stessa classe,  si  trovano  governati  dalla  stessa  legge  della  na- tura, e  quindi  potranno  con  verità  essere  inferiti  dai  pri- mi  D'ora  in  poi,  essendo  in  possesso  di  questo  segno,  di questo   memorandum,  come  lo  chiama  il    Mill,  nei   casi nuovi  che  si  presenteranno  io  non  avrò  nemmeno  bisogno, a  parlar  propriamente,  di  fare  un'inferenza  dai  casi  par- ticolari osservati,  clie  io  potrò  avere  dimenticati;  mi  ba- sterà d'interpretare  il  mio  segno,  di  conoscere  se  il  fatto in  quistione  è  compreso  nella  significazione  della  mia  for- mula. E  quest'ultima  operazione  che  si  chiama  un  sillo- gismo: cosi  il  sillogismo,  se  si  considera  in   connessione coi  fatti  particolari,  da  cui  per  induzione  è  stata  tirata  la proposizione  generale  che  gli  serve  da  premessa  maggio- re, è  un'inferenza,  e  un'inferenza  dal  particolare  al  par- ticolare; ma  se  si  considera  insolatamente,  separato  dagli antecedenti  mentali  che  gli  danno  il  fondamento  e  la  giu- stificazione, non  é  per  niente  un'inferenza  reale,  ma  l'in- terpretazione di  una   formula,  di  un  segno.  Nel  seguito delle  operazioni  che  noi  abbiamo  descritto,  d'inferenze  reali non  vi  hanno  dunque  che  le  prime,  quelle  per  cui  si  af- fermava che  il  duca,  il  re,  il  papa  morranno.  Ma  la  pro- posizione  generale  susseguente,  che  noi  formiamo  dopo esserci  assicurati  per  esempi  particolari  che  abbiamo  il diritto  di  tirare  delle  inferenze  dai  casi  osservati  agli  altri casi  della  stessa  classe,  non  è  un'inferenza,  ma  la  forma- :zione  di  un  segno;  e  l'ultimo  momento  di  tutto  il  proces-  -X^ --^-^ /"s.  - HOy  cioè  il  sillogismo,  non  ò  nemmeno  un'inferenza,  ma un'interpreta;ZÌone  di  questo  segno.  Cos'è  dunque  una  pro- posizione generale,  per  quanto  concerne  la  porzione  m- de finita  del  suo  significato  ?  E  una  formula,  inteq^osta  per un  artifizio  del  linguaggio  ti^  le  premesse  reali  deirin- ferenza  (dei  fatti  particolari  osservati)  e  la  conclusione (altri  fatti  particolari),  per  cui  il  processo  naturale  del  ra- gionamento si  divide  artificialmente  in  due  momenti,  che si  chiamano  induzione  e  deduzione.  Senza  l'impiego  del linguaggio,  non  vi  sarebbero  due  operazioni,  una  indu- zione e  una  deduzione,  ma  una  sola,  Tinferenza  dal  par- ticolare al  particolare;  e  la  proposizione  generale  non  è che  un  segno,  la  cui  formazione  si  chiama  induzione,  e  la cui  interpretazione  si  chiama  deduzione.  Aggiungiamo  ora alla  porzione  indefinita  del  significato  della  proposizione generale  la  porzione  definita:  noi  potremo  dire  brevemen- te che  la  proposizione  generale  è  un  segno,  che  ci  ricor- da certi  fatti  particolari  della  nostra  esperienza  passata o  che  noi  abbiamo  attrimenti  conosciuto,  e  ci  avverte  ai- tempo  stesso  che  noi  possiamo  fare  certe  previsioni  su certi  altri  fatti  particolari,  mano  mano  che  questi  si  pre- sentano alla  nostra  esperienza  o  alla  nastra  immagina- zione. Vi  hanno  dei  casi  in  cui  una  pro}X)sizione  generale non  ci  ricorda  dei  fatti  osservati  o  altrimenti  conosciuti: noi  possiamo  aver  dimenticato  questi  fatti,  o  ammettere la  pi\)posizione  unicamente  sulla  fede  di  qualche  autorità che  riteniamo  competente.  Ih  questi  casi,  ciò  che  abbiamo chiamato  la  porzione  indefinita  del  significato  d'una  pro- posizione generale,  ne  costituisce  la  totalità:  la  proposizio- ne non  vale  allora  per  noi  che  come,  premessa  maggiore delle  deduzioni  che  ne  potremo  tirare,  e  l'interpretazione in  cui  Mill  fa  consistere  l'operazione  sillogistica,  è  quella che  ne  esaurisce  tutto  il  significato. §  20^  Ora  alla  nostra  conclusione,  che  tutte  le  opera,- xio  ni  doll'intelligenza  non  hanno  per  oggetto  che  dei  fatti particolari,  e  che  non  vi  hanno  idee  astratte,  ma  solo  con- crete e  particolari,  non  si  mancherà  senza  dubbio  di  fare un'obbiezione,  che  a  prima  vista  sembra  di  gran  momento. La  geometria,  si  dirà,  si  occupa  del  punto,  della  linea,  della superficie:  intanto  queste  cose  non  sono  per  niente  con- crete,  non  sono  che  elelle  astrazioni;  così,  sopi'inmere  le idee  astratte  è  sopprimere  il  rigore  della  matematica.  Noi ammetteremo  di  leggieri  che  il  punto  e  la  linea  non  sono che  delle  astrazioni,  ma  per  amore  di  esattezza,  dobbiamo fare  le  nostre  riserve  per  la  superficie.  Verso  il  princicio di  questo  capitolo  abbiamo  distinto  due  sensi  della  parola astrazione  :  per  una  parte  si  chiama  astratto  ciò  che  non può   esistere   separatamente   nella   realtà  nò  può  cadere separatamente   sotto  le  prese  dei  nostri   sensi;   noi  non abbiamo  idea  astratte  di  quasta  classe.    Ma  per  un'  altra parte  si  chiama  anche  astratto  ciò  che,  ({uantunque  non possa  esistere  separatamente  nella  realtà,  può  nondimeno essere  sentito,  e  quindi  anche  immaginato,  separatamente  : è  certo  che  in  questo  senso  abbiamo  delle  idee  astratte. Ora,  se  il  punto  e  la  linea  appartengono  alla  prima  classe delle  astrazioni,  le  superficie  al  contrario  non  apparten- gono che  alla  seconda  classe.  Noi  possiamo  infatti  pei»- cepire  attualmente   una  faccia  sola  d'un  oggetto,  e  per parlare  d'una  maniera  generale,  l'oggetto  immediato  della nostra  percezione  visuale  non  è  il  corpo  solido,  ma  la  su- perficie,  piana  o  solida,   che  perciò  i  Greci  chiamavano s;ri'^àvsia;  ciò  che  vi  ha  oltre  alla  superficie,  la  solidità,  non è,  in  tutti  i  casi,  die  una  semplice  inferenza.  Cosi,  sic- come  ciò   che  noi  percepiamo  a  parte,   possiamo  anche pensarlo  a  parte,  noi  possiamo  dunque  formarci  un'idea distinta  d'una  superficie,  quantunque  vi  sia  qualche  diffi- coltà a  separarla  dal  complesso  delle  ra[)presentazioni  che costituiscono  l'idea  totale  di  un  corpo.  In  quanto  al  punto e  alla  linea,  è  certo  in  primo  luogo  che,  (juando  parliamo di  essi,   noi  non  pensiamo  alla  linea  astratta  e  al  punto W astratto,   ma  al  sottile   tracciato  di  una   penna  o  di  una matita,  e  alla  esigua  macchia  d'inchiostro  che  il  leggiero contatto  della  penna  lascia  sulla  carta.   Ma  a  ciò  "si  ri- sponderà con  ragione  che  questi  non  sono  rigorosamente Il  punto  e  la  hnea  della  geometria,  perchè  il  geometra  de- finisce la  hnea  una  lunghezza  senza  larghezza,  e  il  punto CIO  che  non  ha  né  lunghezza  ne  larghezza  nò  una  gran- dezza  qualunque.    Però   noi   domanderemo  ai  partigiani delle  Idee  astratte,  se  le  proposizioni  della  geometria  in- dicano dei  rapporti  fra  gli  oggetti  reali.  Se  si,  e  allora  o questi   oggetti   reali  sono  dei  punti  e  delle  linee  esistenti nel  e  cose,   il  che  vale   realizzare  delle  astrazioni  ;  o  se nella  realtà   non   vi  hanno  veramente  dei  punti  e  delle linee,  come  comprenderemo  noi  che  le  proposizioni  della geometria  abbiano  un  oggetto  e  un  applicazione  reale  ?  In questo  caso,  non  bisognerebbe  dire  con  Buckle  che  queste supposizioni  dei  geometri,  (luella  p.  e.   di  linee  senza  lar- ghezza, falsano  i  risultati   del   ragionamento  geometrico- che  le  conclusioni  dei  geometri  non  fanno  che  approssi- marsi alla  verità,  ma  «  la  verità  completa  è  inaccessibile, e  non  vi  Jia  problema  di  geometria  completamente  riso- luto»?  (Buckle  Storia  della  civilizzazione  in  Inghilterra tomo  5^  cap.  XX).  Il  vero  si  è  che  le  proposizioni  geome- triche SI  applicano,  non  ad  astrazioni  irrealizzabih  e  in- concepibili, ina  ad  oggetti  reaU  o  possibili  dei  nostri  sensi, non   a  punti  e  linee,   ma  a  superfìcie  e  corpi,  e  loro  applicano  della  maniera  più  rigorosa.  Il  punto,  come  ben dice   Aristotile,    non  è  che  un  contatto,   un  contatto  fra due  0  più  superfìcie:  se  al  punto,    quale  lo  defìniscono  i geometri,   non  corrisponde    separatamente  alcun  oggetto reale  né  alcuna   rappresentazione  mentale,  possono  però esistere  e  concepirsi  dist  intamente  delle  superfìcie  che  si toccano  rigorosamente  in  un   sol  punto.  Noi  possiamo  rap- presentarci assai  bene  una  superfìcie  terminata  da  una  retta t  an gente  a  un  cerchio:  a  queste  espressioni  verbali  corrispon- dono delle  rappresentazioni  reali  distinte  da  tutte  le  altre. Ora  è  rigorosamente  vero  di  dire  che  queste  due  superficie hanno  un  sol  punto  di  contatto  comune,  e  che  questo  punto  è senza  lunghezza  né  larghezza  né  grandezza  alcuna,  in quanto  la  superficie  che  diciamo  terminata  dalla  retta non  tocca  il  cerchio  per  alcuna  parte  della  sua  lunghez- za o  della  sua  larghezza,  e  le  due  superfìcie  non  hanno alcuna  grandezza  o  porzione  comune.  Cosi  le  proposizioni in  cui  è  quistione  di  punti  si  applicano,  non  a  dei  punti astratti,  ma  a  delle  grandezze  visibiU  e  tangibili;  esse  non enunziano  in  realtà  che  delle  circostanze  relative  a  delle superfìcie  o  dei  solidi,  di  cui  questi  punti  sono  dei  punti  di contatto,  o  in  altre  parole,  dei  limiti.  Se  p.  e.  la  proposi- zione afferma  che  questi  punti  stanno  in  certe  posizioni reciproche  (poniamo,  che  si  trovano  in  una  stessa  retta), raffermazione  non  volge  in  realtà  che  sulle  posizioni  re- ciproche di  queste  superfìcie  o  solidi.  Come  le  proposi- zioni relative  ai  punti  si  applicano  alle  superfìcie  o  ai soUdi  Umitati  da  questi  punti,  cosi  le  proposizioni  relative alle  linee  si  applicano  alle  superfìcie  o  ai  solidi  limitati da  queste  linee.  Non  vi  ha  alcun  oggetto  o  rappresenta- zione che  corrisponda  rigo  rosamente  alle  parole  linea  retta o  curva  ;  ma  vi  hanno  delle  cose  e  delle  rapprentazioni distinte  che  corrispondono  alle  parole:  superfìcie  termi- nata da  linee  rette  o  da  linee  curve.  Sia  dunque  uua  su- perfìcie che  da  una  parte  è  terminata  da  una  retta,  e dall'altra  da  una  curva;  misurandola  nellFuno  e  nelF  al- tro dei  suoi  termini,  essa  si  troverà  più  breve  da  una parte  che  dalF  altra.  Questo  fatto  e  gli  altri  della  stessa classe  vengono  espressi  concisamente  nella  proposizione: la  linea  retta  è  la  più  breve  fra  due  punti  dati.  Noi  cre- deremmo troppo  fastidioso  di  dilungarci  ancora  in  que- st'analisi delle  proposizioni  geometriche:  solo  aggiungeremo che  dicendo  che  il  geometra,  nella  considerazione  delle grandezze,  astrae  dal  colore  e  le  altre  proprietà  sensibili, senza  cui  una  grandezza  non  potrebbe  esistere  né  concepirsi, ciò  che  si  vuol  dire  é  che  nelle  sue  proposizioni  generali egli  classa  gli  oggetti  al  punto  di  vista  della  loro  figura, e  non  del  loro  colore  o  altra  proprietà  sensibile,  e  che (jueste  proposizioni  si  applicano  agli  oggetti  aventi  una data  figura,  ([ualuncjue  sia  d'altronde  il  loro  colore  e  cia- scuna delle  altre  proprietà  sensibili.  Ciò  che  lorma  l'og- getto della  geometria  non  sono  duncjue  delle  figure  astratte, ma  delle  cose  reali  concrete,  aventi  queste  figure  e,  in- sieme ad  esse,  tutte  le  altre  proprietà  che  nel  mondo  reale coesistono  con  la  figura. Cosi,  le  i)roposizioni  il  cui  soggetto  é  un  termine  a- stratto,  vanno  sempre  interpretate  al  concreto:  ciò  è  vero  tanto  in  geometria  quanto  nel  cUscorso  ordinario  o  in  un altro  ramo  qualunque  delle  nostre  conoscenze  Le  pro- posizioni in  cui  si  parla  del  movhnento  o  della  vita  o deirorganizzazione,  e33.,  si  riferiscono  in  realtà  ai  corpi in  movimento  o  viventi  i»  organizzati,  eoe;  le  proposizioni in  cui  si  parla  della  giustizia  o  della  virtù,  si  riferiscono alle  persane  giuste  o  virtuose.  La  proposizione:  «La  vita é  un  lavoro  incessante  di  decomposizione  e  ricomposi- zione ciie  ha  luogo  nei  corpi  organizzati  »,  significa  che i  corpi  organizzati,  m^intre  sono  viventi,  sono  la  sede  di certi  fenomeni  indicati  daires[)ressione  <r  lavoro  incessante di  decomposizione  e  ricomposizione  »,  e  che  è  per  que- sti fenomeni  che  li  cliiamiamo  viventi  e  li  distinguiamo dai  non  viventi.  La  proposizione:  «  La  virtù  merita  pre- mio »,  significa  che  noi  proviamo  un  sentimento  di  sod- disfazione morale,  quando  osserviamo  o  immaginiamo che  le  persone  che  fanno  azioni  virtuose,  vengono  pre- miate,  e  premiate  in  conseguenza  di  queste  azioni.  Vi hanno  delle  hngue  che  mancano  di  termini  astratti,  ma non  sono  improprie  perciò  ad  esprimere  tutte  le  idee, perchè  tutte  le  proposizioni  a  termtni  astratti  possono convertirsi  in  altre  proposizioni  a  termini  concreti  Esprimendoci  in  termini  astratti,  ci  esprimiamo  con  più  con- cisione^ ma  non  più  rigorosamente.  Tutte  le  nostre  af- fermazioni,  in  effetto,  hanno  per  oggetto  le  cose  reali— poiché  la  verità  è  la  corrispondenza  tra  il  pensiero  e  la realtà— e  i  reali  non  sono  astratti,  ma  concreti.  I  termini astratti  sono  dunque  dei  simboU  comodi,  ma  non  indi- spensabih  (1). (l).  «  Le  parole  astratte,  dice  Bain,  (luantimciue  siano  impiegate  in tutte  le  lingue,  non  sono  assolutamente  indispensabili  per  la  con- versazione, né  anche  in  verità  per  la  scienza.  U  senso  che  esse  espri- mono può  infatti  essere  indicato,  quanlumine  meno  l)revemcnte, dai  nomi  generici  che  loro  corrispondono Che  significa  la  parola giustizia?  Essa  rappresenta  senza  dul)l)io  le  azioni  giuste,  ma  in- sistendo, d^ma  maniera  speciale,  sovra  un  certo  rapporto  di  tutte queste  azioni;  a  fme  di  non  rappresentare  le  azioni  giuste  che  in tanto  che  sono  giuste,  o  in  altri  termini  a  (ine  di  considerarle  esclu- sivamente al  punto  di  vista  della  giustizia.  La  i>roposizione  :  «  La giustizia  comanda  il  rispetto  »  è  la  stessa  che  (luest'altra:  «  Le  per- sone giuste  sono  rispettate.  »  Ma  la  parola  astratta  indica  qui,  con più  forza  che  ogni  altra  espressione,  questo  fatto  che  l'effetto  pro- dotto, cioè  il  rispetto,  ha  per  causa  unica  il  rapporto  che  esiste fra  tutte  le  persone  giuste  (in  altri  termini,  esso  dipende  da  ciò. che  queste  persone  sono  giuste,  che  si  è  fondati  a  chiamarle  cosi o  ad  ammetterle  in  questa  classe) I  termini  astratti  sono  dei  possenti  mezzi  di  abbreviazione;  ed è  per  questa  ragione  che  sono  stati  introdotti  in  cosi  gran  numero nel  linguaggio  ordinario.  Le  circonlocuzioni  a  cui  si  è  obbligati  dì ricorrere  per  evitarli,  Inastano  a  provare  la  loro  utilità  sotto  questo rapporto Un  esercizio  logico  importante,  destinato  a  scovrire  gli  errori che  mantiene  Fuso  delle  parole  astratte,  consiste  a  convertire  le proposizioni  presentate  sotto  ferma  astratta  in  proposizioni  equi- valenti composte  di  nomi  generali  che  non  siano  astratti  »  (Bain Logica. Classazione  dei  giudizi. Dopo  avere  stabilito  che  l'oggetto  del  nostro  pen- siero e  delle  nostre  affermazioni  sono  sempre  dei  fatti  con- creti e  particolari,  noi  dobbiamo  ora  domandarci  che  cosa è  che  affermiamo  di  questi  fatti. Noi  possiamo  dire  d'una  maniera  generale  che  le  pro- posizioni si  riducono  airaffermazione  o  negazione  delFesi- stenza  di  certi  fatti  particolari.  Per  prevenire  dei  malin- tesi, aggiungeremo  che  per  fatto  o  il  suo  equivalente  fé- nomeno  intendiamo  un  oggetto,  reale  o  possibile,  sia  dei sensi  esterni,  sia  del  senso  intimo,  o  della  coscienza.  Sa- rebbe desiderabile  di  avere  un  termine  per  denotare  ciò che  può  essere  Foggetto  immediato  d'una  sensazione  uni- ca o  d'un  atto  unico  della  coscienza  (p:  e:  un  suono,  un odore,  un  piacere,  un  dolore,  lo  stato  in  cui  un  oggetto  si presenta  alla  nostra  vista  per  un  istante  indivisibile,  ecc:), un  altro  termine  per  denotare  i  percepiti  più  semplici  in cui  ciò  che  cade  sotto  una  sensazione  unica,  ma  comples- sa, può  decomporsi  (p:  e:  i  minimi  visibili  di  cui  si  com- pone Foggetto  della  vista),  e  un  altro  termine  ancora  per denotare  i  percepiti  più  complessi  che  noi  non  potremmo M^S^SKMi»  ìMt^n'vw  abbracciare  che  per  più  sensaziont  distinte  (p:  e:  un  can- giamento o  un  gruppo  di  congiamenti).  Ma  questi  termi- ni non  li  abbiamo;  perciò  noi  indichiamo  uguakuente  con la  parola  fenomeno  gli  oggetti  appartenenti  alFuna  o  al- l'altra di  queste  tre  classi  di  percepiti.  In  generale  possiamo dire— quantunque  abbiamo  distinto  più  classi  di  fenomeni secondo  il  grado  della  loro  semplicità  o  della  loro  comples- sità—che il  fenomeno  è  Velemento  della  realtà  sensibile, al  punto  di  vista  dell'ordine  successivo  con  cui  noi  ce  ne formiamo  Tidea.  Gli  oggetti  esteriori  da  una  parte,  e  dal- l'altra parte  l'interiore  di  noi  stessi  che  noi  chiamiamo spirito,  sono  dei  complessi  di  lenomeni:  noi  non  conoscia- mo altrimenti  la  realtà  che  come  un  tessuto  di  fenomeni. Ci  si  obbietterà  forse  che  di  questa  maniera  noi  pren- diamo di  leggieri  per  accordato  che  solo  la  realtà  sensi- bile esiste,  e  che  non  vi  ha  altra  realtà;  ma  in  verità noi  non  facciamo  per  ora  questa  supposizione.  Tutti  i nostri  discorsi  familiari  e  tutte  le  proposizioni  scientifiche non  volgono  clic  sulla  realtà  sensibile:  quindi  le  più  sem- plici ragioni  di  metodo  c'impongono  di  portare  immedia- tamente la  nostra  analisi  sulle  proposizioni  che  volgono su  questa  sorta  di  realtà;  poi  le  nostre  conclusioni  po- tranno estendersi  al  sovrasensiìjile,  se  si  troverà  che  pos- siamo affermarne  qualche  cosa.  Noi  dobbiamo  aggiungere ancora  che,  quando  diciamo  di  qualche  astrazione,  p.  e.  della gravità,  che  ò  un  fatto,  ciò  deve  intendersi  come  una  ma- niera abbreviata  di  dire  che  gli  avvenimenti  concreti,  di cui  la  proposizione,  p.  e.  «la  materia  ò  gmvc  *,  è  l'espres- sione, sono  dei  fatti;  poiché  il  fatto  non  è  un'  astrazione, ma,  come  abbiamo  detto,  un  oggetto,  reale  o  possilùle,  dei sensi  0  della  coscienza. i^  2.  Per  le  proposizioni  singolari,  è  chiaro  che  esse non  affermano  so  non  l'esistenza  di  certi  fatti:  Socrate fu,  egli  fu  incarcerato,  egli  bevve  la  cicuta.  Socrate  ave- va il  naso  camuso,   afferma  che  egli  esistè  con  questa particolarità  nella  sua  figura,  non  altrimenti.  Quell'albe- ro è  verde,  vuol  dire  che  vi  ha  là  un'albero  verde,  non di  altro  colore,  a  meno  che  non  si  voglia  classare  que- st'  albero  tra  gU  oggetti  verdi,  sorta  di  affermazioni  di cui  in  seguito  parleremo  specialmente.  Negli  esempi  ad- dotti l'affermazione  è  categorica,  cioè  incondizionale  :  ma in  altri  casi  l'affermazione  è  ijiotetica.  Se  inafìfieremo  la pianta,  essa  resterà  verde;  Se  Socrate  non  fuggirà  dalla prigione,  egli  morrà.  Qui  noi  affermiamo  pure  l'esisten- za, ma  non  d'una  maniera  categorica,  ìjensi  d'una  ma- niera ipotetica,  o  condizionale  :  noi  affermiamo  che  certi fatti  avranno  luogo,  alla  condizione  che  altri  fatti  abbia- no o  non  abl)iano  luogo. Le  proposizioni  particolari  si  riducono  pure  con  facilità a  proposizioni  esistenziali.  Alcuni  uomini  sono  neri,  vuol dire  che  vi  hanno  degh  uomini  neri.  Alcuni  triangoli  sono equilateri,  vuol  dire  che  o  vi  hanno  nel  mondo  reale  dei triangoli  equilateri,  o  almeno  questi  triangoli  sono  possi- bili, cioè  possiamo  formarcene  la  concezione.  Alcuni  ani- mali sono  uomini,  significa  che  esistono  degli  uomini,  e che  essi  fanno  parte  della  classe  degli  animali.  Noi  mo- streremo in  seguito  come  una  classazione  si  risolva  nel- l'affermazione dell'  esistenza  di  certi  fenomeni;  per  ora osserviamo  che  uomini,  uomini  neri,  triangoli  equilateri, della  stessa  maniesa  che  Socrate  e  albero  verde,  non  in- dicano che  delle  presentazioni,  reah  o  possibili,  dei  nostri sensi,  e  per  conseguenza,  dei  complessi  di  fenomeni,  nel senso  che  abbiamo  spiegato  della  parola  fenomeno. In  quanto  alle  proposizioni  generali,  noi  le  abbiamo, nel  capitolo  antecedente,  risolute  in  proposizioni  esisten- ziali, ammettendo  che  una  proposizione  generale  afferma che  esistono  certi  fatti,  o  piuttosto,  certi  gruppi  di  fatti, tali  che  loro  conviene  tanto  il  nome  soggetto  quanto  il nome  predicato,  ma  non  esistono  altri  fatti,  tali  che  loro convenga  il  nome  soggetto,   ma  non  il  nome  pi^dicato. In  seguito  però  ne  abbiamo  dato  un'  analisi  più  profon- da, riguardando  una  proposizione  generale  come  un  sim- bolo, che  è  al  tempo  stesso  un  documento  dei  fatti  osser- vati (da  cui  è  stata  tirata  per  induzione),  e  una  formula per  tirare  delle  inferenze  (cioè  delle  deduzioni)  sui  casi nuovi  i  cui  antecedenti  si  presenteranno  alla  nostra  osser- vazione. Il  significato  d'una  proposizione  generale,  a  que- sto punto  di  vista,  si  risolve  dunque  nelle  affermazioni particolari,  o  meglio  singolari,  di  cui  essa  è  un  segno  e che  può  suggerirci.  Essa  è,  per  dir  cosi,  come  un  effetto commerciale:  noi  la  scambiamo,  da  una  parte,  coi  fatti osservati,  e  dall'altra,  con  quelli  che  siamo  in  grado  di predire;  il  suo  valore  non  è  che  di  convenzione,  e  il  va- lore reale  non  appartiene  che  alle  affermazioni  dei  fatti osservati  e  di  quelli  inferiti.  Questo  s(3Condo  modo  di  con- siderare il  significato  delle  proposizioni  generali  mette  in rihevo— ciò  clie  non  fa  il  primo— questo  tratto  caratteri- stico di  tali  proposizioni,  che  ò  d'indicare  una  congiunzio- ne di  due  fenomeni  o  complessi  di  fenomeni,  tale  che,  dato l'uno,  noi  possiamo  inferirne  l'esistenza  dell'altro. Siccome  sotto  il  riguardo  pratico,  che  è  il  più  impor- tante, il  significato  di  una  ])roposizione  generale  è  appunto questo,  d'indicarci  che  dalla  esistenza  di  certi  fatti  noi possiamo  concluderne  quella  di  certi  altri,  cosi  potrebbe credersi  che  il  vero  senso  di  queste  proposizioni  sia  di affermare,  non  i  fatti  stessi,  ma  la  relazione  tra  alcuni  di questi  fatti  (quelli  che  noi  possiamo  concludere)  e  le  loro condizioni  (gli  altri  da  cui  possiamo  concluderli).  «L'acqua arruginisce  il  ferro,»  significa  che,  se  il  ferro  si  mette  in prossimità  dell'acqua,  esso  farà  della  ruggine.  «L'uomo  è un  bipede  »  significa  che,  quando  noi  abbiamo  tanto  os- servato 0  altrimenti  conosciuto  d'un  oggetto,  che  ci  basti per  dire:  è  un  uomo,  noi  possiamo  inferire  la  presenza  in esso  di  due  piedi.  Potrebbe  sembrare  perciò  che,  in  quan- to alle  proposizioni  generali,  Herbart  ha  avuto  ragione  di ammettere  che  le  categoriche  sono  anch'esse,  in  sostan- za, ipotetiche.  Ma  se  si  esamina  la  cosa  più  minutamen- te, SI  vedrà  che   non  è  cosi.  Una  proposizione  generale, abbiamo  detto,  è  un  segno,   con   cui  noi  notiamo  i  fatti osservati,  e  che  ci  serve  di  Ibrmula  per  tirare  delle  in- ferenze ad  altri  fatti;  per  conseguenza  il  suo  significato  si risolve  nelle  affermazioni  particolari,  di  cui  essa  è  il  se- gno, 0  che  ci  suggerisce.  Cosi,  se  la  proposizione  d'acqua arrugginisce  il  ferro»  ci  richiama  i  fatti  osservati,  l'affer- mazione è  categorica:   l'acqua  si  è  trovata  in  prossimità del  ferro,  e  dopo  ciò  il  ferro  si  è  arrugginito.  Se  la  propo- sizione  CI  serve  in  un  caso  nuovo,  ma  reale,  l'affermazione è  ugualmente  categorica:  noi  osserviamo  l'acqua  in  pros- simità del  ferro;  ne  inferiamo:  il  ferro  farà  della  ruggine. Se  infine  il  caso,  in  cui   noi  tiriamo  l'inferenza,   é^'^non reale,  ma  semphcemente  ideale,   allora  l'affermazione   è ipotetica:   se  metteremo  il  ferro  in  prossimità  dell'acqua, il  ferro  farà  la  ruggine.  Cosi  una  proposizione   generale significa  delle  atferinazioni  particolari,  fra  cui  ve  ne  lia delle  categoriche,  e  ve  ne  ha  delle  ipotetiche.  iMa  il  senso più  importante  d'una  proposizione  scientifica  rsalvo,  co- me vedremo  in  seguito,  le  matematiche  pure)  è  il  cate- gorico: quello  che  importa,  in  effetto,  é  di  conoscere  il  corso degli  avvenimenti  reali,  di  sapere  che  i  fatti  che  abbiamo osservati  e  quelli  che  siamo  in  grado  di  predire,  si  sono svolti  e  si  svolgeranno  d'una  data  maniera  o  con  un  or- dine dato.  Potrebbe  credersi  tuttavia  che  alcune  proposi- zioni della  scienza  sono  puramente   ipotetiche,  in  quanto esse  non  si  verificano   rigorosamente  che  supposti  certi dati  ideali,  a  cui  la  realtà  non  è  mai  conforme.  Tale  é  la proposizione  sul  pendolo  ideale,  che  esso  oscillerebbe  per- petuamente, ovvero  quella  proposizione  fondamentale  della meccanica  secondo  cui,  se  non  intervenissero  delle  cause esterne,  i  corpi  continuerebbero  a  muoversi  in  linea  ree  con  una  prestezza  uniforme.  Non  vi  ha  infatti  né  è  pos- H^Wtffl-Brl^-gafc* m sibilo  al3uii  pendolo  ivalc  die  si  conrormi  alle  condizioni del  pendolo  ideale,  nò  un  corpo,  p  e.  una  palla  che  esce dal  cannone,  continua  mai  a  muoversi  in  linea  retta  e con  la  stessa  velocità.  Ma  dire  che  le  supposizioni  espres- se da  questi  proposizioni  della  meccanica  sono  vere,  ó dire  che  esse  sono  conformi  al  corso  reale  degli  avveni- menti della  natura,  ai  fatti  che  abbiamo  osservato  e  a quelli  che  siamo  in  grado  di  predire  per  il  futuro.  Co- si noi  veniamo  implicitamente  ad  affermare,  per  queste proposizioni,  che  gli  avvenimenti  reali  sono  accaduti  e accadranno  d'una  certa  maniera,  (juella  che  giustifica  le su[)i)Osizioni  della  meccanica,  ed  è  questa  la  parte  più importante  delle  affermazioni  c!ie  esse  contengono.  Noi simboleggiamo  il  seguito  dei  fatti  reali  delFosservazione con  certe  sequenze  tipiche  o  ideali,  che  formiamo  ])er r  astrazione  o  eliminazione  di  alcune  fra  le  condizioni multiple  dei  fenomeni  reali;  poi,  nellapplicazione  di  queste regole  ai  casi  concreti,  abbiamo  cura  di  restituire  ai  fatti tutte  le  loro  condizioni.  Ma  tutta  la  verità  e  V  utilità  di queste  sequenze  ideali,  astratte,  consiste  nella  lero  corri- spondenza ai  fatti  già  osservati  dei  casi  concreti  che  co- stituis!3ono  la  loro  base  induttiva,  e  ai  fatti  degli  altri casi  concreti  su  cui  possiamo  portare  delle  inferenze: r  affermazione  volge  dunque,  in  sostanza,  sulFesistenza reale,  e  non  su  delle  possibilità  o  delle  semplici  ideaUtà. Non  ho  creduto  inutile  di  toccare  questa  quistione,  })erchè alcuni  filosofi,  dopo  aver  ammesso  che  si  può  a  priori stabilire  qualche  cosa  neir  ordine  del  possibile,  ma  non neirordine  del  reale,  il  che  in  un  certo  senso  è  vero,  lianno poi  tracciata  arbitrariamente  la  distinzione  tra  i  due  or- dini, dando  per  affermazioni  sul  puro  possibile  delle  pro- posizioni che,  come  queste,  concernono  invece  resistenza reale. §  3.''   Bisogna   notare  che  noi   non   affermiamo   mai l'esistenza  d'un  fenmenoo  isolato,  ma  sempre  quella  d'un sur  09 gruppo  di  fenomeni,  successivi  o  simultanei,  mettendo  cosi ogni  fenomeno  di  cui  affermiamo  l'esistenza,  in  rapporti di  precedenza,  sequenza  o  coesistenza  con  altri  fenòmeni. Infatti  le  nostre  i)roposizioni  affermano  il  lAii  ordinaria- mente i  cangiamenti   degli  oggetti  ;   e  quand'anche  esse affermano  la  semplice  esistenza  degli  oggetti,  non  l'affer- mano come  semplici  fenomeni  fuggitivi,  ma  come  aveuna  permanenza  nel  tempo,  una  durata:  ora  siccome  noi non  conosciamo  il  tempo  che  per  la  successione,  noi  non possiamo  conoscere  la  durata  che  come  la  contemporanea di  una  successione,  e  (piindi  come  consistente  essa  stein  una   certa  successione.    Di  più,  un  oggetto   concreto, non  solo  ò  un  aggregato  di  parti  localmente  separate,  ma è  ancora  un  complesso  di  più  proprietà  sensibili,  cioè  di più  fenomeni  che  noi  percepiamo,  non  per  un  solo  senso, ma  per  diversi.  E  per   esprimere  il  fatto  d'una  maniera generale,  noi  non  affermiamo  mai  un  fenomeno  dei  nostri sensi   come  qualclie   cosa  d'isolato,  ma  o  lo  proiettiamo nel  mondo   esterno,  riconoscendovi  cosi  una  parte  di  un aggregato  fuori  di  noi,  oppure  vi  riconosciamo  una  sen- sazione nostra,  mettendolo  cosi  in  rapporto  con  quest'al- tro aggregato  che  chiamiamo  io.  Aggiungiamo  infine  che (piesto   fatto,  cioè  che  noi  non  affermiamo  mai  un  feno- meno isolatamante,  ma  sempre  in  congiunzione  con  altri fenomeni,  non  è  che  una  conseguenza  delle  leggi  dell'as- sociazione delle  nostre  idee,  (h  cui  le  nostre  conoscenze, le   nostre   affermazioni,  non  sono  al  fondo  che  dei  casi. Noi   affermiamo   un   fatto,   sia   sulla  fede   della    nostra memoria,  sia  in  virtù  di  una  inferenza.  Nel  primo  caso, un  po'  dì   riflessione  mostrerà  che  noi  non  distinguiamo un  ricordo  da  una  semplice  immaginazione,  se  non  per- chè sentiamo  che  l'idea  del  fatto  si  presenta  in  una  stretta connessione  con  le  idee  di  altri  fatti,  antecedenti,  susse- guenti 0  concomitanti.  É  cosi  che  il  fatto  rapprentato  ac- (juista  un  posto  nella  nostra  storia  personale;  ])iù  (juesto I 100 corteggio  di  associazioni  è  numeroso  e  ben  serrato,  più questa  localizzazione  è  precisa  e  sicura,  e  meno  si  è  e- sposti  a  confondere  la  memoria  con  la  semplice  imma- ginazione ;  ma  più  le  circostanze  del  fatto  sono  scarse  e debolmente  associate,  più  la  localizzazione  é  vaga  ed  in- certa,  e  meno  evidente  è  il  contrasto  fra  la  memoria  e rimmaginazione.  Se  poi  il  fatto  affermato  é  un  inferenza, come  potremmo  noi  non  affermarlo  nel  suo  rapporto  con gli  altri  fatti,  antecedenti,  susseguenti  o  concomitanti,  da cui  r  inferenza  viene  tirata?  L'oggetto  dell'affermazione non  è  dunque  mai  la  semplice  esistenza  dei  fenomeni,  ma resistenza  dei  fenomeni  con  certi  rapporti  di  successione o  di  coesistenza. §  4^  Per  coesistenza  deve  intendersi  la  simultaneità nel  tempo  o  la  coesistenza  nello  spazio.  Ma  la  coesistenza nello  spazio  non  è  essa  stessa  che  una  specie  di  simul- taneità nel  tempo,  la  quale  non  si  distingue  dalle  altre che  per  la  natura  speciale  degli  elementi  sensoriali  che entrano  nelle  nostre  rappresentazioni  di  spazio.  Ciò  è vero,  qualunque  sia  Y  ipotesi  che  adottiamo  sulF  origine delle  nozioni  spaziali. Se  noi  ammettiamo  infatti  la  teoria  nativista,  nella sua  forma  più  logica,  per  cui  la  terza  dimensione  non è  essa  stessa,  come  le  due  altre,  che  un  dato  immediato del  senso  della  vista,  noi  dobbiamo  ammettere  che  ogni punto  visibile  lia  immediatamente  il  suo  posto  determi- nato nel  campo  visuale,  in  tutte  e  tre  le  direzioni.  Que- sta posizione  determinata  è  una  differenza  sensoriale  di ciascun  punto  visibile,  cosi  bene  che  il  colore  ne  è  un'al- tra: questa  differenza  sensoriale,  che  noi  potremmo  chia- mare il  carattere  locale  (non  il  segno  locale)  di  ciascun punto  visibile,  ò  il  germe  di  tutte  le  nostre  nozioni dei  rapporti  nello  spazio.  Percepire  dunque  o  rappre- sentarsi certi  rapporti  di  spazio  fra  due  o  più  punti  (e con  noi)  non  è,  secondo  questa  teoria,  che  percepire  o rappresentarsi   simultaneamente  questi   punti,  ciascuno sur   101 col  SUO  carettere  locale  determinato,  cioè  con  la  sua  po- sizione differente  nel  campo  visuale.  Naturalmente  deve ammettersi  che  la  sensazione  della  vista  non  può  dare che  le  distanze  apparenti  :  cosi  le  distanze,  sia  assolute, sia  reciproche,  in  cui  noi  vediamo  questi  pvmti,  non  pos- sono corrispondere  alle  distanze  reali,  che  quando  essi sono  molto  vicini  a  noi  e  fra  di  loro.  Inoltre  queste  stesse posizioni  apparenti  non  possono  esserci  date  dalla  sem- pUce  sensazione  della  vista,  che  per  gli  oggetti  che  pos- sono essere  compresi  in  uno  stesso  campo  visuale,  cioè che  possono  essere  veduti  simultaneamente  dall'  occhio immobile.  Cosi,  quando  gli  oggetti  sono  lontani,  in  modo <3he  le  loro  distanze  apparenti  siano  difformi  dalle  reali, o  che  sia  anche  impossibile  di  abbracciarli  simultanea- mente nel  campo  visuale,  noi  dobbiamo  correggere  e  com- pletare le  nozioni  che  ci  vengono  dalle  percezioni  visuali, con  le  rappresentazioni  dei  movimenti  che  occorrono  per giungere  a  questi  oggetti,  e  passare  da  uno  a  un  altro di  essi.  In  tali  casi  dunque  bisogna  ammettere  che,  per formare  le  nostre  nozioni  dei  rapporti  di  spazio,  a  certe idee  di  coesistenze  si  aggiungono  anche  certe  idee  di  se- quenze. Nondimeno  noi  abbiamo  ricondotto  la  coesistenza nello  spazio  a  un  caso  della  semplice  coesistenza,  poiché, se  si  ammette  che  1'  estensione  è  un  dato  immediato  del senso  della  vista,  noi  non  potremmo  rappresentarci  degli oggetti  come  coesistenti  nello  spazio,  senza  abbracciarli in  una  rappresentazione  visuale  unica,  nella  quale  cia- scuno di  questi  oggetti  occupi  il  suo  posto  determinato, o  almeno  in  una  successione  di  rappresentazioni  visuah, in  cui  la  seguente  sia  parzialmente  identica  con  la  pre- cedente, in  modo   che  i  rapporti  tra  i  punti  propri  delle diverse   rappresentazioni   vengano   determinati  dai  rap- porti coi  punti  comuni,  e  le  posizioni  reciproche  di  tutti i  punti  rappresentati  siano  cosi  interamente  determinate. {Noi  aljbiamo  in  quest'  ultimo   caso  l'idea  di  una  coesistenza  totale  obbiettiva,  risultante  da  una  serie  subbielti- va  di  coesistenze  parziali,  nel  modo  che  indicheremo verso  la  fine  della  nota  dopo  la  seguente).  Ciò  è  vero (luand^mche  si  tratti  di  distanze  geografiche  o  astrono- miche: ci  sarebbe  impossibile,  per  esempio,  di  rappresen- tarci come  coesistenti  nello  spazio  due  regioni  della  terra situate,  poniamo,  agli  antipodi,  senza  formarci,  per  Tuno o  laltro  dei  due  processi  indicati,  Timmagine  di  un  glo- bo, che  per  noi  rappresenti  la  terra,  e  di  due  i)unti  op- posti in  questo  globo,  che  rappresentino  le  due  regioni. Io  parlo  dello  spazio  come  di  una  percezione  propria  del senso  della  vista,  malgrado  che  le  percezioni  degli  altri sensi  possano  tornire  delle  indicazioni  sui  rapporti  di spazio,  e  il  tatto  associato  al  senso  muscolare  fornisca anche  un  sistema  completo  di  nozioni  spaziali:  ciò  è  per- chè le  idee  sui  rapporti  di  spazio  che  ci  vengono  dagli altri  sensi,  non  sono,  per  noi  veggenti,  almeno  secondo la  teoria  nativista,  die  dei  segni  delle  idee  corrispondenti che  ci  vengono  dal  senso  della  vista  (ì). (1).  T.o  spazio  ciéualc  e  lo  spazio  tattile  (cioè  r  idea  olir  può formarsi  deirestensiono  un  cieco  nato,  limitato  alle  sole  esperien- ze del  tatto  e  del  senso  nuiscolare)  sono  delle  nozioni  che  non hanno  niente  di  comune  fra  di  loro  Le  idee  di  distanza,  di  ìri'an- dezza.  di  lìirui'a,  ecc.,  <iuali  risultano  dalie  i)ercezioni  della  vista, non  somiiiliano  in  niente  a  ({ueste  stesse  idee  (piali  risultano  dalle sensazioni  del  tatto  e  dalle  percezioni  sul)l)iettive  del  movimento; e  i  termini  che  denotano  la  j?randezza,  la  distanza,  la  figura,  ecc., signihcano assolutamente  tutfaltra  cosa  perun  essere  che  non  ha che  il  tatto  e  il  senso  nuiscolare.e  ]ier  un  essere  che  deve  spettini- mente  alla  vista  le  sue  idee  dell'estensione.  E  cpiesto  un  fatto  che risulta,  indipendentemente  dal  ragionamento,  dalle  osservazioni sul  cieco  nato  di  Platner  e  da  quelle  sui  ciechi  nati  operati  (No- tiamo che  lo  spazio  che  noi  chiamiamo  reale,  (luello  che  oggetti- viamo, è  lo  spazio  visuale;  i>erciò  aleuni  osservatori,  in  un  senso,  (ì  rai-i(me  di  anunettere  che  un  cieco  nato  non  ha  al- cuna coiKìscenza  dell'estensione).  I/ohblio  o  r  ignoranza  di  nue- La  diiferenza  fondamantale  tra  la  teoria  nativista  e la  empirica  consiste,  in  ultima  analisi,  nel  contenuto  o significato  differente  assegnato  alle  nozioni  di  spazio.  La seconda  teoria  traduce  l'estensione  in  termini  di  movi- mento muscolare:  secondo  essa,  dire  che  certi  punti  no in  certe  posizioni  reciproclie,  è  dire  clie  bisognano  cer- ti movimenti  per  i)assare  da  uno  a  un  altro  di  questi I)unti,  (juesti  movimenti  essendo  percepiti  per  la  sensa- zione che  accompagna  la  nostra  attività  muscolare,  e che  varia  secondo  la  (quantità  e  la  direzione  del  movi- mento (  V.  specialmente  Bain  /  semi  e  /'  liiteUl(ien.m, \-  parte,  e.  V\  ìli,  2^  e  2-  parte,  e.  V\  V,  Della  perce- zione delle  distanze  e  delle  grandezze  dei  corpi  esteriori), (vluesf  analisi  sembra  risolvere  Fidea  dell'estensione  in un'idea  di  sequenza,  mentre  lestensione  implica  eviden- sla  verifà  è  la  sorgente  principale  degli  eìTori  e  delle  conirovtM'sie suirorigin(i  delle  nozioni  di  spazio.  Io  annnetto  la  teo-la  initi- ri<Ja  i>er  lo  spazio  visuale,  e  la  teoria  em/tfrira])Qv  lo  s]!azio  tol- tile. Si(M-ome  le  nozioni  dello  spazio  tatlile  non  jossono  risuitnre che  dalie  esperienze  sui)biettive  del  moviiuento,  se  ne  è  coiicluso che  anche  <]uelle  dello  spazio  visuale  lìossono  e  devono  risultare dalle  esperienze  medesime  (v.  ciò  che  segue  nel  testo  sulla  teoria emptrtra).  Dall'altra  partalo  stesso  motivo  per  cui  si  confonde  lo spazio  tattile  con  lo  spazio  visuale,  porta  airapplicazione  della teoria  nativista  anche  allo  spazio  tattile.  L'osper  enza  ha  associato intimamente  le  idee  d.^1  tatto  con  <paelle  della  vista  :  ne  segue  che le  sensazioni  del  tatto  (con  le  pen'ezioni  muscolari  che  le  accom- pagnano) suggeriscono,  d'una  maniera  istintiva  ed  automatica,  cer- te rappresentazioni  visuali  di  spazio,  p:  e:  quella  del  luogo  della superficie  del  nostro  cori)o  in  cui  avviene  il  coiitat!:!),  <juella  della ] posizione  tempor^anea  del  memhro  che  tocca,  ecc  (Juesfe  infoi* - mazioni  del  tatto  suirestensione  visibile,  dovute  airassociazione con  le  idee  d'un  altro  senso,  si  crede,  perla  maniera  automatica con  cui  ess(ì  ce  lo  dà  .  che  ce  le  dia  immedintamente  e  per  se stesso:  se  ne  conclude  <piindi  l'indipendenza  dall'esperienza  delle informnzioni  che  il  tatto  ci  dà  suirestensione,  nel  temiu)  stesso che  ridentità  dell'estensione  tattile  con  l'esfensione  visuale.  Le  due temente  l'esistenza  simultanea;  cosi,  perchè  Tidea  delFe- stensione  nasca  dai  dati  che  essa  suppone,  bisogna  am- mettere ancora  ciie  lo  spirito  abbia  già  acquistalo  r  idea dell'esistenza  simultanea  (V.  Stuart-Mill,  Filosofia  di  Ha- millon,  traduz.  frane,  pag.  26G).  La  teoria  empirica  giuni?e dunque  allo  stesso  risultato  che  la  nativista  :  essa,  come osserva  il  Ribot  {Psicologìa  alemanna,  pag.  119),  riconduce r estestensione  all'idea  più  generale  della  simultaneità. Una  serie  interposta  di  sensazioni  muscolari,  che  noi percepiamo  prima  d' arrivare  a  un  punto  dopo  averne lasciato  un  altro,  tale  è,  secondo  questa  teoria,  la  sola particolarità  che  distingue  la  simultaneità  nello  s])azio dalla  simultaneilà  che  può  esistere  tra  un  sapore  e  un colore  0  un  sapore  e  un  odore  (Stuart-Mill  Filosofìa  di  Ha-- milton,  trad.  frane,  pag.  208). opinioni  difTt'renti  clic  io  ho  suirorigine  delle  nozioni  di  spazio  tat- tile e  su  quella  delle  nozioni  di  spazio  visuale,  faranno  compren- al  lettore  percliè  io  ho  credulo  necessario  per  lo  spazio  vi- suale, ma  non  per  lo  spazio  tattile,  di  parlare  dell'una  e  dell'altra delle  due  teorie  rivali  (visto  che  la  teoria  prevalente  nella  psico- logia moderna  è  Yemplrìca).  Nel  2.  Saggio,  parte  2,  io  dovrò  tor- nare sull'argomento  dell'origine  e  del  contenuto  delle  nostre  idee di  spazio,  e  dirò  le  ragioni  per  cui  io  non  posso  ammettere  la  teo- ria empirica  come  spiegazione  dello  spazio  visuale  :  ma  per  ora non  sarà  forse  inopi^ortuno  di  mettere  in  guardia  il  lettore  contro un  equivoco  che  i)uò  nascere  dall'impiego  delle  denominazioni teoria  empirica  e  natirista.  La  teoria  empirica,  nella  controversia sullo  spazio  visuale,  non  ha  alcun  legame  speciale  con  la  fUosotia dell'esperienza,  perchù  la  teoria  opposta,  in  <iuanto  si  applica  a questo  spazio,  non  ha  niente  di  comune  con  la  dottrina  delle  idee innate:  essa  infattisi  riduce  a  (piesta  proposizione,  che  l'estensio- ne è,  così  ])ene  che  il  colore,  un  dato  immediato  della  sensazione della  vis^a.  Quando  però  la  teoria  nativista  si  applica  allo  spazio tattile,  allora  essa  implica  realmente  l'ammissione  di  certe  idee innate,  perchè  consiste,  in  (piest'applicazione,  ad  ammettere  che le  percezioni  di  un  senso  (cioè  del  tatto)  possono  darci,  sin  dal- l'origine, delle  anticipazioni  sulle  esperienze  d"un  altro  senso  (della vista). Io  mi  dispenso  di  esaminare  particolarmente  in  che consisterebbero  le  nozioni  di  spazio  secondo  la  terza  teo- ria, la  più  comune,  sull'origine  di  queste  nozioni,  cioè quella  che  accorda  alla  vista  l'intuizione  immediata  del- l'estensione a  due  dimensioni,  ma  spiega  la  conoscenza della  terza  dimensione  per  l'esperienza:  ciò  non  solo  per la  natura  ibrida  e  inconseguente  di  questa  teoria,  ma  an- cora e  sovratutto  perchè,  essendo  essa  per  una  parte  iden- tica alla  teoria  nativista  e  per  l'altra  alla  empirica,  l'ana- lisi delle  nozioni  di  spazio,  in  conseguenza  di  essa,  non potrebbe  trovarvi  altri  elementi,  che  quelli  che  vi  si  tro- vano in  conseguenza  delle  due  altre  teorie  (1) (i)  Secondo  alcuni  psicologi,  un  rapporto  di  coesistenza  non  è un'idea  primitiva  e  irriduttibile,  ma  l'analisi  può  risolverla  in  rap- porti di  seiiuenza.  Una  rappresentaziene  di  coesistenza  è,  dice Spencer,  una  doppia  rappresentazione  di  setiuenza,  di  cui  la  secon- ila  non  è  che  la  prima  stessa  rovesciato.  «  Se  due  fenomeni  A  e B  coesistono  abitualmente  nel  miluogo  circostante,  allora,  quando il  fenomeno  A  è  offerto  ai  sensi,  lo  stato  di  coscienza  a  che  esso apporta,  è  immediatamente  seguito  da  uno  stato  b  rappresentante il  fenomeno  B.  Il  processo  del  pensiero  non  deve  tuttavia  finire  li, perche,  se  cosi  fosse,  il  rapporto  esterno  sarebbe  conosciuto  come sequenza.  Ma  il  fenomeno  B,  nel  miluogo  circostante,  essendo  cosi bene  l'antecedente  di  A  che  A  lo  è  di  B  (nò  l'uno  nò  1'  altro  non essendo  sempre  sia  antecedente  sia  conseguente  se  non  nell'ordi- ne in  cui  ne  abbiamo  esperienza)  ne  risulta  che  lo«  stato  b  esson- do stato  apportato,  la  legge  (cioè  che  la  forza  della  tendenza  che ha  r  antecedente  di  uno  stato  psichico  a  essere  seguito  dal  suo conseguente  è  proporzionata  alla  persistenza  dell'unione  tra  gli oggetti  esterni  che  essi  rappresentano)  implica  che  sarà  seguito dallo  stato  a.  Lo  stato  a  alla  sua  volta  chiama  lo  stato  /;,  ed  e •esso  stesso  richiamato  ancora  una  volta:  e  cosi  di  seguito,  sinché questo  rapporto  resta  l'oggetto  del  pensiero Visto  che  i  ter- mini del  rapporto,.  non  possono  essere  conosciuti  per  un  atto di  coscienza,  che  sia  assolutamente  lo  stesso;  di  più  visto  che  la coscienza  persistente  dell'uno  e  dell'altro  non  può  essere  uno  stato di  coscienza,  che  sarebbe  equivalente  a  una  non  coscienza,  no  se- gue che  questa  rappresentazione  dei  duo   che  pare  incessante,  è Noi  j)Ossiamo  dunque  dire  in  generale  che  non vi  ha  altro  nelle  nostre  nozioni  del  mondo  sensibile  che degli  elementi  sensoriali  con  rapporti  determinati  di  or- dine nel  tempo  (sequenze  o  coesistenze).  Ma  questa  pro- posizione non  potreb])e  aversi  per  solidamente  stabilita, senza  Tanalisi  (U  certe  nozioni,  che  a  prima  vista  posso- no sembrare,  o  sembrano  certamente,  irrisolubili  in  sem- in  reaUn  iinn  tillernoziiìno  ro]ii(la,  una  allemazione  assai  rapida ]  Ci*  produrre  Feti  otto  della  continuità,  cosi  come  le  alternative  di luce  e  di  tenel)rc,  alle  «juali  ciascuna  parte  della  retina  è  sotto- messa,  quando  e^sa  si  fìssa  soj^ra  una  fìaccola  die  gira  rapida- mente in  tondo,  producono  su  di  ossa  l'impressione  di  un  cerchio di  fuoco »  (Sj  encer  P.<froìorj/a.  tomo  I.  Legge  deirintelligen/a). nui  lo  Spencer  i>ar!a  come  se  la  coscienza  fosse,  non  la  stessa cosa  clic  i  suoi  pro|»rii  stati,  ma  uno  si^ettatore  che  guarda  cpiesti stati,  e  può,  per  un'illusione,  vederli  dive  samente  da  quel  che  sono in  realtà.  Un  punto  luminoso  che  gira  rai)idamente  in  tondo,  pro- «luce,  non  le  impressioni  successive  di  un  i)unto  che  si  muove,  ma l'impressione  sinmltonea  di   un  (terchio  di  fuoco,  perchè,  l'eccita- zione di   ciascun  punto  della  retina  i  ersisterdo  jer  qualche  tempo doi)0  che  esso  è  stato  stimolato,  i  d  i versi  punti  della  retina  si  tro- vano contemporaneamente    in  uno  stato   di  eccitazione.  Noi  non ahlìiamo  dun<pie,  in  (jiKisto    caso,  una  successione  di  stali  di  co- scienza che  |>roduce  l'impressione  della  sinuiltaneità;  la  simulta- neità è  originariamente  fra  gli  stati  di  coscienza  stessi,  e  noi  non apprendiamo  che  questa  simultaneità  subbiettiva corrisponde  a  una successione  obbiettiva,  che  rettificando  questa  esperienza  parti- colare per  altre  esperienze. Delle  rappresentazioni  di  seipienza,  sia  pure  rovesciato  .  non  ci daranno  che  l'idea  della  se(pienza,  non  mai  (juella  <lella  coesisten- za :  (iuest'analisi  della  nozione  di  coesistenza  non  èduncjue  la  spie- gazione di  ([uesta  nozione,  ma  ne  è  semplicemente  la  negazione; rssa  equivale  a  dire  che  noi  non  al)l)iamo  mai  l'idea  della  coesi- stenza, ma  sor.anto  <]iielia  della  se(juenza.  È  evidente  in  effetto  che una  coesistenza  obbiettivi)  è  una  cosa  allatto  ditlerente  da  una doppia  se<pienzo.  di  cui  la  seconda  non  è  che  la  i)rima  rovesciata. Ora  lo  stesso  Spencer  non  può  non  anunettere  che  vi  hanno  delle coesistenze  obbiettive.  Non  parla  egli  .  nel  tratto  citato  e  in tutto  il  capitolo  da  cui  è  stato  preso,  di  fenomeni  che  coesistono? Non  ha  immacrinato  la  sua  analisi  del  rapporto  di  coesistenza  (sub- ti  l)lici  rapporti  di  se(|ucnza  e  coesistenza  di  fenomeni.  Tali sono  particolarmente  quelle  di  causa  e  di  sostanza. Per  Tanalisi  delUidea  di  causa  io  rinvierò  a  Stuart-Mill (Logica,  lib.  3^,  e.  5^.)-  <^iui  mi  limiterò  a  riassumerne  il risultato,  che  è  questo:  La  causazione  è  un  ra])[)orto  uni- forme e  invariabile  di  sequenza  di  due  lenoineni  o  grupjù di  fenomeni;  la  causa  è  un  fenomeno  o  gruppo  di    feno- biettivamente  considerato),  perispiegarc  come,  gli  stati  di  coscien- za non  essendo  che  succ^essivi,  possa  esservi  corrispondenza  tra una  connessione  di  stati  di  coscienza  e  una  unione  di  oggetti  ester- ni,  (juando  questa  unione  è,  non  una  successione,  ma  una  coesi- stenza ?  Non  dice  (nel  capitolo  sul  rapporto  di  coesistenza)  che  noi siamo  ob])ligati  a  pensare  per  la  successione  la  coesistenza  ol)1)iet- tiva  ?  (Si  dirà  che  ciò  non  prova  che  Spencer  ammetta  realmente delle  coesistenze  obbiettive,  perchè  parlando  di  fenomeni  esterni, distinti  dai  nostri  stoti  di  coscienza,  egli  si  mette  al  punto  di  vista del  realisijio  volgare  -sistema  rA\Q  egli  non  ammette-unicamente per  essere  iiiìi  intelligibile.  Ma  l'autore  parla  pure  di  coesistenze tra  stati  di  coscienza.  Cosi  egli  distingue  spesso,  (piando  es]»one la  sua  teoi'ia  sulle  idee  di  spazio,  una  eccitazione  simultanea  di  più punti  della  retina— che  dà  luogo  a  una  sensazione  con)i'Osta  in cui  (toeslstono  delle  parti  difTerenti  -  dnlla  loi'o  eecitazione  suc- cessiva—che. dà  luogo  a  delle  simsazioni  successive—  In  (juesti  casi si  tratta  certamente  di  una  coesis!;enza  reale  .  perchè  i  fenomeni in  (juestione  sono  renli.e  non  semplicemente  immaginati  dal  rea- lismo volgare).  Ma  come  ]iossiamo  noi  sa]>ere  o  immaginare  che vi  ha  tra  le  cose  una  coesistenza  reale,  che  è  alcun  che  di  distinto dalla  doppia  successione  con  cui  noi  la  ]>ensiamo.  anzi  di  opposto ad  essa,  senza  formarci  una  idea  di  coesistenza,  che  non  e  la  dop- pia successione  a  cui  Spencer  l'iduce  il  rapi)orto  di  (.'oesistenza. suhbiettivamenLe  considerato?  Se  possiamo  alTermare  che  vi  ha tra  le  cose  una  coesistenza  i*eale,  ciocche  non  è  una  d<)])pia  suc- cessione di  cui  la  seconda  è  la  prima  rovesciata,  possiiuno  perciò avere  una  idea  di  coesistenza,  che  non  è  la  rappres<'ntazione  di una  doppia  successione  di  cui  la  seconda  è  la  i)rima  rovesciata.  Se invece  non  abbiamo  una  tale  idea  di  coesistenza,  non  jiossiamo nemmeno  affermare  una  ('oesislenza  reale  tra  le  cose.  Per  conse- guenza, o  Spencer  deve  ripudiare  la  sua  analisi  deiri<lea  del  rap- porto di  coesistenza,  o  deve  ammettere  die  noi  non  alTermiamo meni  che,  se  si  produce,  é  costantemente  e  invariabilmen- te seguito  da  un  altro  fenomeno  o  gruppo  di  fenomeni determinato,  che  si  chiama  effetto.  Nel  linguaggio  scien- tifico si  chiania  causa  Y  insieme  degli  antecedenti  il cui  concorso  è  necessario  perciiè  il  conseguente,  cioè  l'ef- fetto, si  produca;  ma  nel  linguaggio  familiare  si  sceglie Tuno  o  Taltro  di  questi  antecedenti,  quello  che  si  vuol mettere  più  in  rilievo,  e  lo  si  decora  del  nome  di  causa, benché  esso  non  basti  a  produrre  Teffetto   Una  sequenza reahnnnte  dei  rapporti  di  coesistenza,  ma  quando  diciamo  dì affermare  una  coesistenza,  ciò  che  realmente  affermiamo  è  una doppia  successione  di  cui  la  seconda  non  è  che  la  prima  rovesciata. In  questo  caso  egli  viene  a  togliere  il  rapporto  di  coesistenza,  non solo  dal  nostro  pensiero,  ma  dalle  cose  stesse,  cioè  dai  fenomeni obbiettivi  (le  cose  in  se  stesse  non  essendo,  secondo  Spencer,  sot- toposte ai  rapporti  di  tempo). Ma  quantunque  il  rapporto  di  coesislenza  sia,  per  noi,  qnalche cosa  di  primitivo  d' irreduttibile,  tuttavia,  lo  spirito  umano  non potendo  avere  al  tempo  stesso  che  un  piccolo  numero  di  rappre- sentazioni, sembra  necessario  di  ammettere  che  noi  non  possiamo rappresentarci  che  successivamente  le  coesistenze  complesse  della natura.  In  questo  caso  noi  dobbiamo  pensare  la  coesistenza  totale obbiettiva  per  una  successione  subbiettiva  di  coesistenze  parziali, in  cui  gli  stessi  oggetti  sono  rappresentati  successivamente  in  coe- sistenza con  oggetti  differenti.  Se  noi  p.  e.  ci  rappresentiamo  A  in coesistenza  con  B,  poi  B  in  coesistenza  con  C,  e  poi  G  con  D,  ecc:, il  risultato  di  tutte  queste  ra[)presentazionì  sarà  la  rappresentazione totale  di  A,  B,  G,  D,  ecc:  come  coesistenti. Gìò  che  è  stato  detto  suppone  che  il  nostro  spirito  può  avere  al tempo  stesso  più  di  una  rappresentazione  :  se  questo  non  si  am- mette, ridea  di  coesistenza  diviene  ines^ìlicabile,  anzi  assolutamente impossibile.  Noi  non  potremmo  rappresentarci  le  coesistenze  obbiettive  che  per  delle  coesistenze  subbiettive,  cioè  per  delle  rap- presentazione simultanee,  come  ^secondo  gli  stessi  psicologi  che ammettono  che  lo  spirito  non  può  avere  che  una  sola  rappresenta- zione alla  volta)  non  potremmo  rappresentarci  le  sequenze  obbiet- tive che  per  delle  sequenze  subbiettive,  cioè  per  delle  rappresen- tazioni che  si  seguono. invariabile  non  vuol  dire  semplicemente  una  sequenza  che nelFesperienza  passata  si  è  trovata  invariabile— a  tal  conto la  notte  sarebbe  la  causa  del  giorno,  e  il  giorno  della  notte—; ma  perchè  noi  siamo  sicuri  che  la  sequenza  sia  invaria- bile, è  necessario  che  sappiamo  che  il  conseguente  si  pro- durrà al  seguito  deirantecedente  in  tutte  le  circostanze possibili,  in  altri  termini,  che  la  sequenza  sia  incondizio- nale. Il  giorno  non  seguirà  alla  notte  incondizionalmente, ma  alla  condizione  che  il  sole  si  levi  airorizzonte:  se  questa condizione  cessasse  di  verificarsi—supposizione  che  non  è contraria  a  quanto  sappiamo  sulla  costituzione  del  mon- do materiale—,  il  giorno  cesserebbe  di  seguire  alla  notte, e  questa  potrebbe  essere  eterna.  La  notte  non  è  dunque la  causa  del  giorno,  perchè  il  giorno  non  seguirà  alla notte  in  tutte  le  circostanze  possibih:  questa  sequenza  non è  incondizionale,  e  quindi  non  possiamo  affermare  che  sia assolutamente  invariabile. Contro  questa  nozione  positiva  o  empirica  della  causa- lità si  eleva  la  sua  nozione  metafisica.  Secondo  i  metafisici, perchè  una  cosa  sia  detta  causa  di  un'altra,  non  basta  che la  prima  sia  invariabilmente  seguita  dalla  seconda,  ma bisogna  che  resistenza  della  prima  possa  spiegare  V  esi- stenza della  seconda  :  in  altri  termini,  perchè  una  cosa sia  veramente  causa  e  un'  altra  effetto,  nel  senso  meta- fisico di  queste  parole,  bisogna  che  dal  solo  confronto  delle idee  della  causa  e  dell'effetto,  e  indipendentemente  dall'espe- rienza, noi  possiamo  comprendere  che  la  causa  è  capace di  produrre  l'effetto,  e  che  data  la  causa,  l'effetto  deve  ne- cessariamente seguirne.  Per  saltare  questa  quistione  che i  metafisici  ci  presentano,  potremmo  dire  che  a  noi  basta^ di  occuparci  delle  cause  nel  senso  di  Stuar-Mill— cioè  di quelle  che  sono  i  semplici  antecedenti  invariabilmente  se- guiti da  certi  conseguenti  che  si  chiamano  i  loro  effetti—, perchè  le  cause  nel  senso  metafisico  oltrepassano  il  mon- do dell'esperienza,  mentre  il  nostro  esame  deve  limitarsi alle  conoscenze  che  noi  abbiamo  sugli  oggetti  dell*  espe- rienza, sui  tenonieni.  Ma  questa  ragione  sarebbe  insul- fìciente,  non  mancando  nel  mondo  stesso  deir  esperienza delle  sequenze,  qual  è  quella  tra  la  volizione  e  Tesecuzione del  movimento  voluto,  in  cui  i  metafisici  hanno  visto  del- le vere  causazioni,  cioè  delle  causazioni  nel  senso  me- tafisico. Il  vero  si  è  che  per  difendere  la  nozione  po- sitfva  della  causalità,  o.ccorrerebbero  degli  sviluppi,  che (|ui  non  sarebl^ero  al  loro  posto.  Io  mi  contenterò  dun- (jue  per  ora  di  rinviare  air  ultimo  paragrafo  del  capitolo citato  di  Stuart-Alill.  La  mia  difesa  di  questa  nozione  si troverà  nel  2**  Saggio,  parte  1*,  che  sarà  consacrata  al- Tesame  del  concetto  metafisico  di  causa  e  della  sua  esph- cazione  nella  storia  della  metafisica.  Risulterà  da  ({ue- st'esame  che  le  sequenze  tra  fenomeni,  in  cui  si  sono  vi- ste dell(.'  causazioni  nel  senso  metafisico,  non  sono  esse stesse  che  delle  serpenze  invariabih,  le  quali  non  difie- riscono  dalle  altre  che  pei'ché  ci  sono  molto  più  familiari; che  è  sul  tipo  di  queste  sequenze  clie  la  metafisica  si  è loggiato  il  suo  concetto  della  causazione,  in  virtù  della tendenza  del  nostro  spirito  a  ricondurre  tutti  gli  altri  fe- nomeni a  quelli  che  gli  sono  i  i)iù  familiari;  e,  per  con- seguenza, che  non  solo  tutte  le  causazioni  che  noi  osser- viamo nel  mondo  sensibile,  non  sono  che  delle  seciuenze uniformi  e  invarialjili,  ma  ancora  che  l'idea  che  gli  uo- mini hanno  avuto  della  causazione,  non  è  stata  mai,  al tondo,  che  quella  d'una  sequenza  uniforme  e  invariabile. .§  G.  Passiamo  all'idea  di  sostanza. Noi  riuniamo  i  fenomeni  in  vari  gruppi,  che  chia- miamo cose,  esseri  o  sostanze.  Questi  termini  io  li  impie- go qui  come  equivalenti,  prendendo  cosi  la  parola  sostan- za, in  questa  ricerca,  in  un  senso  più  esteso  dell'ordinario, e  che  somiglia,  più  che  a  quello  che  esso  ha  nella  scienza moderna,  a  ([uello  che  aveva  nella  filosofia  peripatetica. L'analisi  dell'idea  di  sostanza  é  dunque  per  il  nostro  scopo dell'importanza  più  alta.  Ma  affinchè  quest'analisi  sia  com- pleta, e  possiamo  mostrare  che  non  vi  ha  altro  nell'idea di  una  cosa  o  una  sostanza  che  la  rappresentazione  di coesistenze  e  sequenze  di  fenomeni,  non  basterebl)e  che gli  elementi  ultimi,  in  cui  dobbiamo  risolvere  le  cose  o sostanze,  fossero  dei  fenomeni— ])erchè  noi  abbiamo  distinto tre  classi  di  fenomeni,  secondo  il  grado  della  loro  sempli- cità o  complessità— ma  bisogna  che  siano,  se  non  dei  fe- nomeni del  grado  più  semplice,  ciò  che  sarebbe  ima  sotti- gliezza inutile,  dei  fenomeni  del  grado  medio,  cioè  quelli che  abbiamo  indicato  con  le  parole:  «ciò  che  può  essere l'oggetto  immediato  d'una  sensazione  unica  o  di  un  atto unico  della  coscienza»  (v.  il  paragr.  1"). Il  princi})io  che  deve  servirci  di  base  è  che  noi  non conosciamo  altro  delle  cose  che  le  nostre  sensazioni  e delle  possibilità  di  queste  sensazioni.  Ordinariamente  si ammette,  è  vero,  dai  filosofi  e  dagli  uomini  di  scienza che  vi  hanno,  al  di  là  di  queste  sensazioni  e  possibilità di  sensizioni,  delle  cose  in  sé,  esistenti  d'una  maniera assoluta  e  indipendenti  dai  nostri  sensi.  Secondo  i  più, queste  cose  in  sé  sono  dei  grup})i  di  atomi,  cioè  di  cor- puscoli non  aventi  altre  qualità  sensibili  che  l'estensione e  la  resistenza;  alcuni  sostituiscono  agh  Sitomì,  fisccameri' te  indivisibili  ma  estesi,  delle  sostanze  semplici  e  asso- lutamente indivisiijili  (centri  di  forza,  monadi,  ec3)  ;  altri ammettono  che  non  vi  ha  altro  di  reale  che  lo  spirito,  e risolvono  per  la  conseguenza  la  materia,  considerata  co- '  me  cosa  in  sé,  in  un  aggregato  di  esseri  spirituali;  altri infine  dichiarano  che  le  cose  in  sé  sono  assolutamente inconoscibili,  e  non  si  può  loro  attribuire  alcuno  degli attributi  di  ciò  che  noi  conosciamo.  Di  fronte  a  queste dottrine  realiste  sta  poi  la  dottrina  idealista  —  che  nella forma  che  le  hanno  dato  i  più  eminenti  tra  i  pensa- tori contemporanei  che  la  professano,  dovrel)l)e  chia- marsi   piuttosto  fcnomenista.  —   Secondo  essa,  tutte  le dottrine  sulle  cose  in  sé  non  sono  che  delle  ipotesi  desti- tuite di  qualsiasi  prova,  e  che  racchiudono  inoltre  delle impensabilità,  o  delle  assolute  impossibilità  intrinseche: tutto  ciò  che  vi  ha  di  reale  in  ciò  che  chiamiamo  il  mondo esteriore,  si  riduce  dunque,  per  essa,  alle  nostre  sensazioni e  all'ordine  con  cui  ci  sono  date,  dal  quale  noi  in- feriamo le  possibilità  di  altre  sensazioni,  cioè  altre  sensa- zioni che  noi  non  proviamo  né  abbiamo  provato  attual- mente, né  forse  proveremo,  ma  che  proveremmo  o  avrem- mo provato,  se  fossimo  o  fossimo  stati  nelle  condizioni  neces- sarie perché  i  nostri  sensi  venissero  affettati.  Naturalmente noi  non  dobbiamo  prendere  parte,  per  la  nostra  quistione presente,  per  Tuna  o  Faltra  delle  dottrine  sulFesistenza  e la  natura  delle  cose  in  sé:  noi  non  ammetteremo  che  ciò che  tutte  queste  dottrine  hanno  di  comune  :,  cioè  che  le cose,  che  che  siano  in  se  stesse,  non  sono  relativamente a  noi,  vale  a  dire  quali  noi  sogliamo  rappresentarcele,  che delle  sensazioni  e  possibilità  di  sensazioni,  in  altri  ter- mini, delle  sensazioni  attuali  o  possibili. É  evidente  in  effetto  che  qualunque  sia  la  propria  opi- nione sulle  cose  in  se  stesse,  ciascuno  non  fa  entrare  nelle sue  nozioni  abituali  sulle  cose  particolari  che  delle  sensa- zioni attuali  —  cioè  eli* egli  ha  o  ha  avuto  o  avrà  effetti- vamente—e delle  sensazioni  possibili — cioè  che  egli  avrebbe o  avrebbe  avuto,  se  si  verificassero  o  si  fossero  verificate le  condizioni  perché  queste  cose  impressionassero  i  suoi sensi.  Sia,p.e.,  una  piccola  palla  d'avorio  che  ci  sta  d'innan- zi agli  occhi.  Che  cosa  intendono  dire  tutti  —  atomisti; dinamisti,  panpsichisti  (1),  agnosticisti,  ecc.  —  dicendo  che (1)  Io  intendo  per  panpsichismo— termine  che  io  piglio  a  prestito da  un  discepolo  di  Hartmann  (v.  l'Introduzione  del  traduttore  fran- alla  Filosofìa  deW Incosciente  di  Hartmann,  pag.  XII)  —  una dottrina  che  ammette  la  materia  come  cosa  in  sé,  ma  la  risolve in  spirito  (p.  e.  la  monadologia  di  Leibnitz). vi  ha  là  una  palla,  e  che  questa  palla  è  bianca,  e  ha  una certa  grandezza?  Prima   di  tutto   che  noi  proviamo  at- tualmente la  sensazione  visuale  di  una  superficie   cur- va, d'una  forma,  d'un'estensione  e  d'un  colore  determi- nati —  noi  supponiamo,  per  più  sempUcità,  conformemen- te alla  teoria  nativista,   che  gli  attributi    spaziali  degli oggetti  sono  dei  dati  immediati  del  senso  della  vista;  par- lando conformemente  alla  teoria  empirica,  bisognerebbe aggiungere  alla  sensazione  visuale  che  noi  abbiamo  at- tualmente, le  possibilità  di  sensazioni  di  movimento  mu- scolare, che  questa  sensazione  suggerisce,  e  che  costitui- scono, secondo  questa  teoria,  le  nostre  nozioni  di  una  cer- ta grandezza  e  di  una  certa  figura.—  Ma  questa  superfi- cie che  noi  vediamo  attualmente,  non  è  che  una  porzio- ne della  superficie  sferica  che  costituisce  la  nostra  rap- presentazione visuale  della  palla  :  con  essa  coesiste  un'al- porzione  opposta,  che  noi  non  vediamo  presentemen- te, ma  che  vedremmo  se  guardassimo  la  palla  dalla  par- te opposta.  Per  conseguenza,  dicendo   che  vi  ha  là  uua ])alla,  noi  significhiamo  pure,  oltre  alla  sensazione  attuale (li  una  superficie  che  abbiamo  presentemente,  la  sensa- zione possibile  di  un'altra  superficie,  cioè  una  sensazio- ne che  presentemente  non  abbiamo,  ma  avremmo,  se  in- vece di  guardare  la  palla  dalla  parte  da  cui  effettivamen- te la  guardiamo,   la  guardassimo   dalla  parte  opposta. Di  più^  la  palla  essendo  un  oggetto  reale,   noi  non  cre- diamo che  esiste  solamente  nel  momento  in  cui  la  guar- diamo, come  le  cose  ehe  vediamo  in  sogno,  ma  che  psi- steva  anche  prima  ed  esisterà  anche  dopo:   ciò  vuol  di- re che,  in  qualsiasi  momento  del  passato  e  dell'avvenire in  cui  possiamo  asserire  che  la  palla  ha  esistito  ed  esi- sterà, se  si  fossero  verificate  o  si  verificassero  le  condi- zioni necessarie  perchè  un  tal  corpo  impressioni  i  nostri sensi,  noi  avremmo  avuto  o  avremmo  le  stesse  sensazioni  che  abljlamo  o  i)otreinino  avere  presentemente.    Inol- tre, la  palla  non  è  una  semplice  superficie  sferica,  ma  è una  sfera,  cioè  un  solido  :  ciò  significa  che   scalfendo  la palla,  rimovendone  la  parte  superficiale,  dividendola  co- me che  sia  in  parti,  e  queste  parti  in  altre  parti  ancora,  e cosi  di  seguito,  noi  avremmo  delle  altre  sensazioni  di  nuo- ^^e  superfìcie,  perchè,  come  ha  mostrato   il  Rosmini  (v. Nuovo  Saf/gio  sull'origine  delle  idee  873,  874,  87G,  957, mS;  Psicologia  1881;  Teosofìa   tomo  5'  458),   è    questua- spettativa  di  nuove  superfìcie,  che  noi   scopriremmo  pe- netrando dentro  lo  spazio  chiuso  dalla  superficie  esteriore di  un  corpo,  clie  costituisce  la  nostra  nozione  deirinterno <iel  corpo,  o  in  altri  termini,  ciò  che  la  nostra  nozione  del corpo  ha  di  più  della  semplice  nozione  della  sua  superfì- cie esteriore.    (>Jueste  sensazioni  delle  superfìcie   che  co- stituiscono la  nozione  deirinterno  del  corpo,  noi   non  po- tremmo provarle  che  successivamente;  tuttavia  la  nostra affermazione  che  ciò  che  ci  sta  dinanzi  agli   occhi  è  un corpo,  implica  Taftermazioue  deiresistenza  simultanea  di tutte  queste  .superfìcie,  per  tutto  il  tempo  in    cui  la  palla ha  esistito  ed  esisterà:  ciò  vuol  dire  che  ciascuna  di  que- ste superfìcie  noi  non  potremmo  o   avremmo  potuto   ve- derla solamente  in  qualche  momento  determinato,  ma  in qualsiasi  momento,  della  esistenza  passata  e  futura  della palla,  lo  credo  inutile  di   spingere  più  oltre  que  scanalisi, mostrando  in  dettaglio  che  le  altre  proprietà  che  noi  at- tribuiamo alla  palla,  la  durezza,  la  elasticità,  la  quiete o  il  movimento,  la  temperatura,  il  suono,  ecc.-,  non  signi- ficano se  non  che  npi  proviamo  preseutemente  o  prove- remo o  abbiamo  provato,  o  potremmo  o  avremmo  potu- to provare,  certe  sensazioni  determinate.    Solo   bisogna aggiungere  che  queste  sensazioni,  attuali  o  possibili,  e  le altre  che  abbiamo  enumerato  e  potremmo  enumerare,  noi non  le  affermiamo  solamente  di   noi  stessi,   ma  di  tutti gli  esseri  senzienti,  o  almeno  di  tutti  quelli  di  cui  ammettiamo  che  hanno  gli  stessi  nostri  sensi  e  sentono  co* me  noi. §  7^.  Tali  sono  le  nozioni  che  i  filosofì  si  formano  degli oggetti  esteriori:  delle  collezioni  di  sensazioni,  attuali  o possibih;  taU  sono  pure  quelle  che  se  ne  forma  il  volgare. Ma  vi  hanno  tra  le  nozioni  dei  filosofì  e  quelle  del  vol- gare delle  differenze  che  non  bisogna  negligere.  Anzitutto il  volgare  non  ammettala  distinzione  che  fanno  i  filosofì, tra  le  cose  jn  sé  e  le  cose  relativamente  a  noi,  cioè  ai nostri  sensi;  egli  non  sa  niente  né  di  atomi  nò  di  centri di  forza  nò  di  monadi  né  d' Inconoscibile  né  di  qualsiasi altra  ipotesi  sulle  cose  in  sé;  Fidea  ch'egh  ha  del  mondo esteriore  si  riduce  unicamente,  come  quella  di  Stuart-Mill o  di  Bain,  a  delle  semphci  sensazioni.  Ma  quest'idea  dif- ferisce da  quella  di  Stuart-Mill  e  di  Bain,  e  in  una  parola, degl'idealisti  o  fenomenisti,  nei  tre  punti  seguenti  : P  Le  sensazioni  possibili— cioè  quelle  che  non  proviamo né  abbiamo  provato  effettivamente,  ma  che  proveremmo o  avremmo  provato,  se  si  verificassero  o  si  fossero  veri- fìcate  le  condizioni  necessarie  perché  i  nostri  sensi  venis- sero affettati— non  sono,  pei  filosofì,  niente  di  reale  ;  non sono  che  delle  mere  possibilità.  Ma  per  il  volgare,  cioè per  tutti  quelli  in  cui  la  riflessione  fìlosofìca  non  ha  distrut- to la  credenza  istintiva  del  genere  umano  (alla  quale  del resto  anche  i  fìlosofì  si  conformano  nella  loro  maniera  più abituale  di  rappresentarsi  le  cose),  le  sensa::^ ioni  possibili sono  r^ali  non  meno  che  le  stesse  sensazioni  reah.  Quando egli  non  guarda  la  palla,  tutto  ciò  che  il  fìlosofo  crede,  è semplicemente  che,  se  in  questo  momento  egU  guardasse verso  la  parte  in  cui  noi  diciamo  che  Ja  palla  è  situata, egli  avrebbe  la  sensazione  di  una  certa  superfìcie  curva, bianca,  ecc.,  Ma  il  volgare  crede  invece  che  anche  quando <igli  non  guarda  la  palla,  esiste  anche  allora  questa  su- perfìcie curva,  bianca,  ecc.,  e  con  essa  tutte  le  altre  ap- parenze sensibili  che  la  palla  in  quel  momento  offrirebbe lii '  r u-ai  suoi  sensi,  se  questi  potessero  esserne  affettati.  Queste apparenze  sensibili,  di  cui  il  volgare  afferma  l'esistenza anche  quando  i  nostri  sensi  non  vengono  affettati,  non sono  che  le  sensazioni  possibili  del  filosofo,  ma  il  volgare le  riguarda  come  reali  :  esse  sono  assolutamente  identiche alle  sensazioni  che  noi  avremmo  o  avremmo  avute,  salva in  un  punto  solo,  cioè  che  le  sensazioni  si  riferiscono  a un  me  senziente,  entrano  a  far  parte  di  una  coscienza, ma  esse  sono  sciolte  da  ogni  rapporto  con  un  me  o  una coscienza,  e  riguardate  come  esistenti  d'una  maniera  as- soluta,  per  se  stesse.  La  prima  differenza  tra  Y  opinione dei  filosofi  e  quella  del  volgare  (cioè  la  credenza  istin- tiva del  genere  umano)  sul  mondo  esteriore  concerne  dun- que le  sensazioni  possibili,  e  consiste  in  due  punti,  cioè  che il  volgare  le  riguarda:  P  come  reah,  e  2^  come  assolute cioè  come  non  relative  a  un  me  senziente).  Le  altre  dif- ferenze di  cui  andiamo  a  parlare,  sono  delle  conseguenze questa  differenza  fondamentale. 2^.  La  stessa  assolutezza  che  il  volgare  attribuisce alle  sensazioni  possibili  (da  lui  riguardate  come  realtà), egli  attribuisce  pure  alle  sensazioni  attuali.  Il  volgare  non considera,  come  fanno  in  generale  i  filosofi  realisti,  la sensazione  e  V  oggetto  sentito  come  due  cose  distinte  e separate:  la  sensazione,  per  lui,  s'identifica  con  l'oggetto- sentito  (  nel  momento  della  sua  durata  e  nella  parte  in^ cui  esso  è  sentito).  L'una  e  l'altro  non  sono,  secondo  l'idea del  volgare  (cioè  la  credenza  naturale  del  genere  iTmano),. che  due  modi  diversi  di  considerare  una  sola  e  stessa  cosar considerata  soggettivamente,  cioè  come  faciente  parte dell'aggregato  che  diciamo  me,  questa  cosa  si  chiama  sen- sazione; considerata  oggettivamente,  cioè  còme  faciente parte  dell'aggregato  che  diciamo  mondo  esterno,  si  chiama oggetto  della  sensazione,  o  piuttosto— siccome  un  oggetto è  l'obbiettivazione,  non  di  una  sola  sensazione,  ma  di  un gruppo  complesso  di  sensazioni,  simultanee  e  successive — MI .una  qualità  o  uno  stato  di  quest'oggetto.  L'essere  una  sen- sazione, cioè  l'entrare  a  far  parte  dell'aggregato  me,  non é  dunque  per  questa  cosa  che  una  circostanza  acciden- tale; in  se  stessa  è  indipendente  dal  me  senziente,  ed  esi- ste, allo  stesso  modo  che  le  sensazioni  possibili  realiz- zate^ d'una  maniera  assoluta  e  per  se  stessa. 3*^,  L'identità  tra  la  sensazione  e  l'oggetto  sentito  im- porta l'identità  tra  tutte  le  sensazioni  che  i  diversi  esseri senzienti,  a  un  momento  dato,  hanno  dello  stesso  oggetto. Come  dice  Reid,  quando  più  uomini  guardano  il  sole,  essi credono  di  vedere  tutti  lo  stesso  sole  (bench'essi  non  ve- dano in  realtà  che  le  loro  sensazioni,  e  la  sensazione  di ciascuno  sia  necessariamente  un  che  di  distinto  da  quella di  ciascun  altro).  L'espressione  «  lo  stesso  oggetto  »,  come tante  altre  di  cui  mi  sono  servito  per  adattarmi  al  lin- guag'gio  comune,  non  implicano  necessarianente,  come potrebbe  credersi,  l'  ammissione  del  realismo  volgare  o di  qualsiasi  altra  forma  del  realismo  —  la  nostra  anali- si dell'  idea  di  cosa  o  sostanza  deve  essere  indipendente dall'ipotesi  delle  cose  in  sé,  perchè  quest'ipotesi,  di  cui  il volgare  non  sa  niente,  non  ha  potuto  influire  nella  forma- zione della  sua  idea  di  cosa  o  sostanza— Queste  espres- sioni hanno  un  significato  anche  nel  sistema  idealista  o fenomenista  :  esse  non  postulano  niente  altro  che  le  sen- sazioni e  le  possibiUtà  di  sensazioni,  inferite  dall'ordine con  cui  le  prime  ci  sono  date.  Ecco  dunque  che  cosa  bi- sogna intendere  per  le  parole  «  lo  stesso  oggetto  *  Per ciascun  essere  senziente  il  mondo  esteriore  non  è  che  il sistema  delle  sue  sensazioni,  attuali  e  possibili;  ma  a  questo sistema  corrispondono,  negli  altri  esseri  senzienti,  dei  si- stemi analoghi,  più  o  meno  simili  secondo  la  minore  o maggiore  differenza  dell'ambiento  in  cui  questi  esseri  vi- vono, della  loro  organizzazione,  delle  loro  abitudini,  ecc. Quando  al  gruppo  di  sensazioni,  attuali  e  possibili,  che in  uno  di  questi  sistemi  costituisco  un  oggetto  dato,  corrisponrlono  in  altri  sistemi  dei  gruppi  simili— simili  consi- derando tanto  i  gruppi  in  se  stessi  quanto  nei  loro  rap- porti con  gli  altri  gruppi  dello  stesso  sistema  (specialmente nei  rapporti  di  posizione  nel  tempo  e  nello  spazio)  —, questi  gruppi  vengono  considerati,  non  come  simili,  ma come  identici,  ed  è  ciò  che  si  chiama  lo  f^tesso  oggetto. Questa  identificazione  suppone  che  le  sensazioni  simili  e simultanee  dei  gruppi  corrispondenti  dei  diversi  sistemi siano  riguardate,  non  come  simili,  ma  come  identiche, cioè  non  come  più  cose  distinte,  ma  come  una  sola  e stessa  cosa,  in  cui  non  vi  ha  altro  di  multiplo  che  i  suoi rapporti  coi  diversi  me  o  coscienze,  di  cui  allo  stesso tempo  entra  a  far  parte. Il  processo  istintivo,  per  cui  arriviamo  alFoggettiva- zione  delle  nostre  sensazioni,  sarà  da  noi  studiato  nel  2" Saggio,  parte  2*:  ciò  che  e'  importa  per  la  quistione  pre- sente, è  di  determinare  in  che  consista  questa  oggettiva-. zione.  Riassumendo  ciò  che  a]j])iamo  detto,  possiamo dunque  dire  che  essa  consiste  in  questi  tre  punti  :  primo, noi  riguardiamole  sensaz iomi possi biìl q^oycìq  reali; secondo, tutte  le  sensazioni,  attuali  e  possibih,  noi  le  consideriamo come  indipendenti  da  qualsiasi  me  senziente;  e  terzo,  noi iden  tifichiamo  le  sensazioni  simili  che  i  diversi  esseri  sen- zienti hanno  simultaneamente  dello  stesso  oggetto.  Iden- tificando le  sensazioni  simiU  dei  diversi  esseri  senzienti, noi  non  aggiungiamo  alcuna  nuova  idea  alle  nostre  idee  di sensazioni;  noi  non  facciamo  che  scam  biarc  per  uno  ciò che  in  realtà  è  multiplo.  Riguardandole  come  indipenden- ti dal  me  senziente,  lungi  di  aggiungere  qualche  idea,  noi la  toghamo,  perchè  non  facciamo  che  astrarre  dal  rapporto necessario  ch'esse  hanno  in  realtà  con  gli  ess.eri  senzienti. Considerando  le  sensazioni  possibili  come  reali,  infine,  noi aggiungiamo  qualche  cosa  alle  nostre  idee  delle  sensazioni reali,  ma  non  è  che  altre  idee  di  sensazioni  reali.  Le  nostre idee  degli  oggetti  non  contengono  dunque  che  idee  di sensazioni  :  tuttavia— siccome  la  parola  sensazione  impli- ca un  rapporto  necessario  con  un  senziente  —  nel  segui- to della  nostra  analisi,  ciascuna  di  queste  sensazioni,  attua- li o  possibili,  i  cui  aggregati  costituiscono  gli  oggetti,  noi la  chiameremo,  non  sensazione,  ma  sensibile,  intenden- do per  questo  termine  l'impressione  che  un  dato  oggetto, a  un  momento  dato,  fa  o  può  fare  su  qualcuno  dei  no- stri sensi. §  8*^  Ora  ciò  che  dobbiamo  mostrare  è  come  (juesti sensibili  si  aggruppino  per  formare  gU  oggetti,  vale  a  di- re quale  dove  essere  il  rapporto  fra  una  varietà  di  senù- bili  perchè  entrino  tutti  a  far  parte  di  un  solo  e  stesso oggetto.  Perciò,  siccome  i  sensibili  che  costituiscono  un oggetto  possono  essere  simultanei  o  successivi,  bisogna proprorci  due  quistioni  :  primo,  qua!  è  il  modo  di  coesiste- re fra  i  sensibili  simultanei  dalla  cui  riunione  un  ogget- to è  costituito;  e  secondo,  (juale  deve  essere  il  rapporto fra  diversi  sensibili  successivi,  perchè  possano  fondersi, per  dir  cosi,  e  consolidarsi  nella  nozione  di  un  solo  e  stes- so oggetto.  Ma  siccome  per  distinguere  e  identificare  gli oggetti  noi  teniamo  conto,  non  delle  sole  proprietà  che attribuiamo  agli  oggetti  considerati  ciascuno  per  se  stes- so, ma  anche  di  quelle  che  loro  attribuiamo  considerati nella  loro  azione  mutua  gli  uni  con  gli  altri,  cosi  noi  d])iamo  allargare  la  seconda  (juistione  modificandola  in questo  senso:  a  qual  segno— chiamando  uno  stato  di  un oggetto  il  complesso  dei  sensibili  ciie  costituiscono  quest'og- getto a  un  dato  momento  della  sua  durata,  più  le  attitu- dini che  esso  ha,  a  questo  momento,  a  modificare  gli altri  oggetti  e  ad  esserne  modificato— a  qual  segno,  dico, noi  riconosciamo  gli  stati  susses^ivi  di  un  oggetto  per  de- gU  stati  di  uno  stesso  oggetto,  in  altri  termini,  quale  de- ve essere  il  rapporto  fra  questi  s^^^^/ successivi,  perchè  si riuniscano  tutti  nella  nozione  unica  di  un  solo  e  stesso oggetto. i'?l.'«iWl»»»''¥«'!iaT'?i In  quanto  ai  sensibll  simultanei,  noi  dobbiamo  distin- guere la  coesistenza  tra  i  dati  dello  stesso  senso  e  quel- tra  i  dati  di  sensi  digerenti.  La  prima  ha  luogo  note- volmente tra  i  sensibili  che  costituiscono  le  rappresenta- zioni visuale  e  tattile  di  un  oggetto.  11  modo  di  coesiste- re di  questi  sensibih  non  è  che  una  coesistenza  nello  spa- zio,  nozione  che  noi  abbiamo  già  analizzata.  Ciò  che  vi ha  di  particolare  a  questa  coesistenza  nello  spazio,  sono i  caratteri  per  cui  riconosciamo  le  parti  di  un  tutto  co- me tali,  e  che  possiamo  ridurre  a  due:  la  loro  contiguità (in  modo  da  formare  un  estensione  continua),  e  la  persi- stenza di  questa  contiguità  e,  in  generale,  dei  loro  rap- porti di  posizione  reciproca  (con  questo  secondo  caratt(> re  noi  anticiiùamo  in  un  certo  modo  sulla  seconda  (jui- stione,  questa  persistenza  essendo  uno  di  quei  rapporti ira  gli  stati  successivi  di  un  oggetto,  che,  come  vedremo, ci  fanno  riconoscere  questi  come  stati  di  uno  stesso  og- getto). Per  ispiegare  in  che  consista  la  coesistenza  in  uno stesso  oggetto  di  proprietà  sensibili  ciie  noi  percepiamo per  sensi  ditìerenti,  si  dice  ordinariamente  che  queste  pro- prietà sensibili  non  sono  che  degli  etietti  diversi  di  una stessa  causa,  cioè  delle  impressioni  differenti  che  lo  stesso oggetto  produce  sui  nostri  sensi.  Ma  siccome  Toggetto  non è  per  noi  che  il  complesso  di  queste  impressioni  differenti, attuali  o  possibih,  sui  nostri  sensi,  noi  non  possiamo  con- tentarci di  (juesta  spiegazione,  poiché  il  tutto  non  può  essere certamente  la  causa  delle  sue  parti.  Questa  spiegazione  sup- pone evidentemente,  al  di  là  delle  nostre  sensazioni,  un  ^ A' che  è  la  causa  di  queste  sensazioni:  se  non  che  in quesf  iix)tesi  resterebbe  a  spiegare  come  noi,  non  cono- scendo niente  di  questo  .Y  né  della  sua  azione  sui  nostri sensi,  sappiamo  nondimeno  che  le  impressioni  differenti dei  nostri  sensi  sono  degli  effetti  di  un  solo  e  stesso  A'. Per  rendere  conto  dunque  di  questo  fatto,  cioè  dellattri- './fi 'mi m buzione  che  noi  facciamo  a  uno  stesso  oggetto,  delle  im- pressioni che  esso  produce  sui  nostri  diversi  sensi,  noi dobbiamo  seguire  un  altro  metodo,  sostituendo  ad  AT  e  alla sua  azione  sui  nostri  sensi,  che  é  un  altro  A",  qualche  cosa di  dato  e  di  conosciuto. Vi  ha,  nel  gruppo  dei  sensibili  che  noi  chiamiamo  un oggetto,  un  nucleo,  per  dir  cosi,  centrale  e  fondamentale, costituito  dalle  sue  proprietà  visibili  e  tangibili:  Testensione, la  forma,  il  colore,  la  resistenza  e  il  grado  di  questa  re- sistenza. É  di  queste  proprietà  che  si  compone  la  nostra rappresentazione  abituale  dell'oggetto;  é  per  esse  che  abi- tualmente noi  lo  identifichiamo,  e  lo  distinguiamo  dagli altri  oggetti.  Un'  altra  circostanza  importante  è  che  é  a questo  nucleo  che  appartengono  le  qualità  dei  corpi  che ci  servono  a  spiegare  i  fenomeni;  cosi  la  fisica,  che  non lascia  alla  materia  altri  attributi  che  queUi  che  sono  ne- cesari  alla  spiegazione  dei  fenomeni,  non  le  attribuisce qualità  sensibili  che  V  estensione,  la  figura  e  la  re- sistenza. 11  nostro  nucleo  corrisponde  dunque  in  qualche sorta  a  ciò  che  si  chiamano  le  proprietà  primarie  dei  cor- pi :  sempUcemente,  a  queste  noi  aggiungiamo  il  colore,  sia perchè  l'estensione  e  la  figura  sono  anzitutto,  per  noi  veg- genti, l'estensione  e  la  figura  visibih,  e  queste  sono  inse- parabili dal  colore,  sia  perché  il  colore  è  evidentemente uno  dei  mezzi  più  importanti  di  cui  ci  serviamo  per  iden- tificare e  distinguere  gli  oggetti.  È  questo  nucleo  centrale e  fondamentale  dell'  oggetto,  che,  per  la  nostra  rappre- sentazione,  è  in  qualche  sorta  l' oggetto  stesso,  che  noi dobbiamo  sostituire  all' A"  dei  filosofi:  è  ad  esso  che  noi  do)3* biamo  riattaccare  le  altre  proprietà  sensibili  dell'oggetto— cioè  le  altre  impressioni  che  questo  fa  sui  nostri  sensi- come  degli  effetti  diversi  alla  loro  causa  comune.  Noi  am- metteremo dunque  che,  dicendo  che  un  dato  oggetto  ha un  certo  odore,  un  certo  sapore,  un  certo  suono,  un  certo grado  di  calore,  ecc.,  ciò  che  noi  vogliamo  significare  è iiiiifigiHiiriif%"a  che  lina  certa  cosa  visibile  e  tangibile,  cioè  che  noi  cono- sciamo e  ci  rappresentiamo  come  un  che  di  esteso,  di  figu- rato, di  colorito  e  di  resistente,  è  la  causa  di  certe  sensa- zioni, che  noi  abbiamo  o  potremmo  avere,  di  odore,  di  sa- pore :,  di  suono,  di  temperatura,  ecc.  Ciò  non  vuol  dire però  che  l'odore,  il  sapore,  il  suono,  il  calore,  non  sono per  noi  che  delle  semplici  sensazioni,  che  esistono  sola- mente nel  momento  in  cui  le  sentiamo  e  in  quanto  le  sen- tiamo. Il  volgare,  al  contrario,  oggettiva  queste  sensazioni, cioè,  come  abbiamo  spiegato,  egli  riguarda  le  possibili come  reali,  le  considera  tutte,*Ie  attuali  e  \e  possibili,  come indi|jendenti  dagli  esseri  senzienti,  e  identifica  quelle  di  cia- scun essere  senziente  con  le  corrispondenti  che  gli  altri provano  simultaneamente.  Ma  che  Fodore,  il  sapore,  ecc., cosi  oggetivati,  siano  riguardati,  non  solamente  come  coe- sistenti tm  loro  e  con  gli  altri  sensibiU  che  costituiscono r  oggetto,  ma  come  coesistenti  in  uno  stesso  oggetto,  ciò significa  semplicemente  che  le  nostre  sensazioni  di  odore, di  sapore,  ecc.,  vengono  riattaccate,  come  abbiamo  detto, slVoggetto  visibile  e  tangibile,  come  alla  loro  causa  comune. Naturalmente  è  con  lo  stesso  principio  che  noi  dobbiamo spiegare  la  coesistenza  della  proprietà  tangibile  del  nucleo (la  resistenza)  con  le  proprietà  visibili  (restensione,  la  figu- ra, il  colore).  È  evidente  in  effetto  che,  se  una  certa  re- sistenza clie  noi  abbiamo  sentita,  Tattribuiamo  a  un  dato oggetto,  è  perchè  sappiamo  che  noi  abitiamo  provato  que- sta sensazione,  portando  la  mano  o  un  altro  membro  sulla superficie  colorata  che  quest'oggetto  esibisce  alla  nostra  vi- ^ta.  Noi  riguardiamo  dun(|ue  in  un  certo  modo  la  resistenza come  un  efietto  della  parte  visibile  del  nucleo.  In  quanto alle  stesse  proprietà  visibili,  noi  supporremo  eh'  esse  so- no dei  dati  originali  della  sensazione  visuale  (teoria  na- ti vista):  noi  non  avremo  bisogno  perciò  di  spiegare  la coesistenza  del  colore  con  l'estensione  da  figura,  e  ve- dremo in  (jueste  tre  proprietà  tre  punti  di  vista  astratti di  considerare  uno  stesso  sensibile.  La  coesistenza  di  più i\ SUI  r.iMiTi  E  l'  oggetto  deij.a  conoscenza  a  priori 123 f  - proprietà  sensibili— cioè  che  noi  percepiamo  per  sensi  dif- lerenti— in  uno  stesso  oggetto,  non  implica  dunciue,  oltre all'idea  della  semplice  simultaneità,  che  delle  idee  di  cau- sazione: noi  aljbiamo  visto  che  questa  non  è  che  un  caso particolare  della  sequenza. .^  0.''  Sul  rapporto  che  deve  esistere  fra  gli  stati  suc- cessivi di  una  sostanza,  perchè  siano  riconosciuti  come stati  di  una  stessa  sostanza,  noi  non  possiamo  stabilire delle  regole  assolute.  Vi  ha  fra  questi  stati,  non  un  rap- porto definito  e  costante,  ma  una  tendenza  a  un  tale  rap- l)orto.  Il  rapporto  reale  fra  gli  stati  successivi  delle  sostan- ze dell'esperienza  non  può,  per  conseguenza,  essere  for- mulato in  se  stesso,  ma  solo  relativamente  a  questo ra[)porto  definito  e  costante,  a  cui  esso  non  fa  che  tendere, e  che  noi  dobbiamo  considerare  come  un  ideale,  a  cui  le sostanze:  dell'  esperienza  non  si  conformano  che  d'una maniera  approssimativa,  e  largamente  approssimativa. Per  esporre  il  rapporto  reale  nelle  sostanze  dell'esperienza, noi  supporremo  dunque  il  rapporto  ideale  realizzato  in una  sostanza  ipotetica,  che  sarà  per  noi  come  il  tipo  delle sostanze:  la  definizione  del  rapporio  ideale  in  questa  so- stanza tipo  ci  darà  in  un  certo  modo  quella  del  i^pporto reale  nelle  sostanze  dell'esperienza,  jìerchè  (juesto,  come aì>biamo  detto,  non  può  formularsi  che  in  relazione  a (|uello.  Il  nostro  metodo  somiglierà  in  (jualclie  maniera  a ({uello  che  alcuni  logici  hanno  proposto  per  sopperire  alla (hfficoltà  che  vi  ha  a  determinare  le  classi  naturali,  rife- rendosi a  certi  caratteri  definiti  :  cioè  di  sostituire  alla definizione  un  tipo,  vale  a  dire  un  caso  della  classe,  con- siderato come  possedente  eminentemente  il  carattere  della classe.  (V.  Stuart-Mill  Logica,  lib.  4'\  e.  7^  S  3). Noi  presenteremo  come  sostanza  tipo  l'atomo.  Il  carat- tere della  sostanza  tipo,  al  punto  di  vista  del  rapporto tra  i  suoi  stati  successivi,  è  l'assoluta  immutabilità,  tranne nei  suoi   ra])porti    ih  posizione  con  le  altre  sostanze.  La sostanza  tipo  conserva  sempre  le  stesse  proprieià  sensi- bili: se  potesse  essere  un  oggetto  dei  nostri  sensi,  questi riceverebbero  sempre  da  essa  delle  impressioni  identiche, e  non  percepirebbero  mai  in  essa  altro  cangiamento  che quello  della  sua  posizione  nello  spazio.  Alla  nostra  so- stanza tipo,  cioè  airatomo,  non  si  attribuiscono  altre  pro- prietà sensibili  che  V  estensione  coi  suoi  modi  e  la  resi- stenza; ma  queste  proprietà  sono  sempre  identiche  :  l'a- tomo ha  costantemente  la  stessa  forma  e  la  stessa  gran- dezza, è  insuscettibile  di  deformazione,  di  dilatazione  e di  compressione,  e  se  noi  potessimo  trattarlo  con  le  nostre mani,  ollrirebbe  sempre  ai  nostri  sforzi  lo  stesso  grado  di resistenza.  La  stessa  immutabilità,  che  compete  alla  sostan- za tipo  nelle  proprietà  che  le  appartengono  considerata assolutamente,  cioè  in  se  stessa,  le  compete  pure  nelle proprietà  che  le  appartengono  considerata  nella  sua  azione mutua  con  le  altre  sostanze  :  un  atomo  ha  costantemente le  stesse  attitudini  a  modificare  gli  altri  atomi  e  ad  esserne modificato— va  da  sé  che,  trattandosi  di  atomi,  o  general- mente, di  sostanze  tipo,  non  può  supporsi  altra  modifica- zione che  r  alterazione  del  loro  stato  di  riposo  o  di  mo- vimento, perchè,  come  aì^biamo  detto,  la  sostanza  tipo  non è  suscettibile  di  altro  cangiamento  che  della  sua  posizione nello  spazio. — 11  cangiamento  di  posizione  dell'atomo— come  di  qual- siasi altra  sostanza,  ipotetica  o  empirica— ha  una  condi- zione, la  contumìtà:  in  una  parola,  il  movimento  è  con- tlnuo.  Per  questa  continuità  s'intende,  come  si  sa,  che un  corpo  non  può  passare  da  una  posizione  ad  un  allra senza  passare  prima  per  le  posizioni  intermediarie.  IMa quésta  continuità  è  assoluta  ?  in  altri  termini,  il  corpo, *  prima  di  passare  a  una  nuova  posizione,  deve  passare per  tutte  le  posizioni  intermediarie  fra  di  essa  e  l'antica? Io  credo  col  Rosmini  (v.  Nuovo  saggio  sulVorigine  delle idee  779  -  790  e  813  -  819  e  Psicologia)  e  con r altri  filosofi,  che  ciò  è  logicamente  impossibile  e  contrad-, e  che  il  movimento  è  continuo  solo  in  un  senso relativo.  Per  questa  continuità  relativa  del  movimento bisogna  intendere,  secondo  me,  che  il  cangiamento  di posizione  di  un  corpo  si  fa  per  una  gradazione  insensi- bile, in  modo  che  ogni  cangiamento  discernibile  sia  il risultato  e  la  somma  di  piccoli  cangiamenti  indiscerni- bili: in  altre  parole,  fra  due  posizioni  successive  di  un corpo,  che  noi  possiamo  percepire  come  differenti,  s'in- terpone sempre  qualche  posizione  intermediaria  (una  o più),  in  se  stessa  distinta  certamente  da  quelle  due,  ma che  noi  non  possiamo  conoscere,  nel  momento  della  per- cezione, come  differente  da  esse  (1).  Le  posizioni  imme- (1)  he  la  continuità,  nel  senso  assoluto,  sia  o  no  da  attribuirsi al  movimento  noumeno— supposto  che  vi  sia  un  movimento  nou- meno,  cioè  che  esistano  delle  cose  in  sé  e  che  il  movimento  sia un  loro  attributo,— ciò  che  ci  sembra  evidente  è  che  noi  non  pos- siamo affatto  attribuirlo  al  movimento  fenomeno,  vale  a  dire  al movimento  come  nostra  percezione  e  rappresentazione.  In  effetto, percepire  il  movimento  d'un  corpo  non  è  che  percepire  successi- vamente questo  corpo  in  posizioni  differenti;  tutto  ciò  che  noi  per- cepiamo del  movimento  non  è  che  questo:  la  differenza  nelle  po- sizioni successive  di  un  corpo.  Ora  queste  posizioni  successi vp  non possono  formare  un'estensione  continua,  come  sarebbe  se  la  con- tinuità del  movimento  fosse  assoluta.  Fissiamo  infatti  un  punto qualsiasi  nell'estensione  del  corpo  in  movimento:  in  ciascuna  delle percezioni  elementari  successive,  da  cui  risulta  la  percezione  com- plessa del  movimento  del  corpo,  noi  vedremo  questo  punto  occu- pare un  punto  differente  dello  spazio.  Se  il  movimento  fosse  asso- lutamente continuo,  il  punto  del  corpo,  per  passare  da  uno  a  un [  altro  punto  dello  spazio,  dovrebbe  passare  prima  per  tutti  i  punti intermediari.  Ma  i  punti  intermediari  tra  un  punto  e  un  altro  dello spazio  sono  infiniti,  e  il  punto  del  corpo  non  potrebbe  percepirsi come  occupante  successivamente  due  qualunque  di  questi  punti, che  con  due  percezioni  distinte  e  successive:  dunque  la  percezione del  movimento  come  continuo,  nel  senso  assoluto,  importerebbe, in  un  tempo  finito,  un  numero  infinito  di  pervezioni  successive, ciò  che  è  impossibile  e  contraddittorio.  Di  più,  ammessa  anche g&gy^^^g^^l^^^ iiff.MiiiHa tt^sn^^siswsms^eÈmmfim^ Ì2C,diatainente  successive  clie  un  corpo  può  occupare,  sono dunque  per  noi  indifferenziabili,  quantunciue  distinte  in  se stesse;  e  per  conseguenza  noi  possiamo  assegnare,  come una  condizione  perchè  gli  stati  successivi  di  una  sostan- za siano  riconosciuti  come  stati  di  una  stessa  sostanza, che  questa  sostanza,  nei  suoi  stati  successivi,  cioò  nei jnomenti  successivi  della  sua  durata,  sia  o  possa  essere percepita,  o  come  occupante  la  stessa  posizione  nello  spazi(j, .0  come  cangiante  questa  i)Osizione,  ma  per  una  transi- zione insensibile,  in  modo  che  la  posizione  susseguente  sia per  noi  indiscerni))ile  dalla  posizione  immediatamente  pre- cedente. r  ipotesi  di  un'intìnità  di  percezioni  successive  (in  ciascuna  delle (luali  il  corpo  fosse  percepito  in  una  posizione  distinta),  la  conti- nuità assoluta  del  movimento  sarel)])e  sempre  impossi})ile.  In  ell'etto. che  le  percezioni  successive  delle  posizioni  distinte  del  corpo  siano finite  o  infinite,  vi  saranno,  nell'un  caso  come  nell'altro,  delle  per- cezioni immediatamente  successive.  Consideriamo  due  (lualunquo di  queste.  Nella  seconda  percezione  ciascun  ]>unto  del  corpo  sarà visto  occupare  una  posizione  distinta  da  quella  che  era  visto  oc- cupare nella  prima;  ma  due  posizioni  del  juinto  non  possono  essere distinte,  che  se  vi  ha  fra  di  loro  un  certo  intervallo,  per  quanto  sia piccolo;  dunque  noi  abbiamo  percepito,  per  queste  due  percezioni, non  un  cangiamento  assolutamente  continuo,  ma  nn  cangiamento in  realtà  saltuario  (quantunque  il  salto  possa  sfuggire,  e  sfugga elTettivamente,  alla  nostra  osservazione,  perchè,  come  abbiamo detto,  tra  due  posizioni  dìiterenziabili  di  un  corpo  s'interpone  sempre <iualche  posizione  intermediaria,  distinta  si,  ma  per  noi  indirleren- ziabile  da  esse).  11  movimento  non  potendo  essere  contìnuo  (nel senso  assoluto)  come  percezione,  esso  non  può  esserlo  nemmeno come  rappresentazione:  in  effetto,  formarci  una  rappresentazione perfetta  duna  cosa,  non  e  che  rappresentarcela  nel  modo  stesso in  cui  r  abbiamo  percepita. Si  crederà  forse  che,  il  movimento  non  essendo  assolutamente continuo,  cioè  un  corpo  non  potendo,  prima  di  passare  da  una posizione  ad  un'altra,  occupare  tutte  assolutamente  le  posiziintermediarie,  esso  occupi  solamente  le  posizioni  intermediarie  che -^possono  essere  distinte  le  une  dalle  altre  (cioè  ciascuna  da  quella '  clie  immediatamente  la  precede),  e  che  ciò  l)asti  per  la  nostra  no- Noi  possiamo  dunque  aggiungere  questa  seconda  con- dizione alla  prima,  che  ò,  ricordiamolo,  trattandosi  della sostanza  tipo,  Tidentità  degli  stati  successivi,  si  al  punto dì  vista  delle  sue  proprietà  sensibili,  che  a  quello  delle sue  attitudini  a  modificare  le  altre  sostanze  e  ad  esserne modificata. Una  sostanza  è  un  complesso  di  fenomeni,  simulta-nei e  successivi,  e  la  quistione  che  noi  ci  proponiamo  è quale  deve  essere  il  rapporto  tra  questi  fenomeni,  perché essi  siano  riuniti  tutti  nella  nozione  unica  di  una  cosa o  una  sostanza.  Questi  fenomeni  sono  le  apparenze  sen- sibili,  simultanee  e  successive,  che  un  oggetto  presenta zione  della  continuità  relaUca  del  movimento.  Ma  se  fosse  così, noi  non  percepiremmo  il  movimento  come  continuo,  nenuueno  in un  senso  relativo,  ma  come  saltuario,  anche  perla  nostra  osserva- zione, perchè,  come  abbiamo  già  notato,  delle  posizioni  successive distinte  di  un  corpo,  importa  delle  posizioni  successive  di  un  punto qualsiasi  di  esso  separate  da  un  intervallo,  e  quindi  delle  posizioni successive  del  corpo  che  noi  possiamo  distinguere,  imiiorta  delle posizioni  successive  di  un  suo  punto  qualsiasi,  tra  cui  possiamo osservare  un  intervallo  che  le  separa  La  vera  idea  della  continuità del  movimento  (cioè  della  continuità  velattca  che  noi  percepiamo e  ci  rappresentiamo)  dohl)iamo  ricavarla  da  altri  cangiamenti,  che chiamiamo  pure  continui,  e  che,  siccome  si  compiono  più  lentamen- te,  sono  più  facilmente  analizzabili,  quale  il  passaggio  dal giorno  alla  notte.  Considerando  insieme  l'ultimo  periodo  di  tempo con  cui  il  giorno  finisce,  e  il  primo  con  cui  comincia  la  notte,  noi abbiamo  una  successione  di  momenti,  in  cui  la  luce  va  gradata- mente diminuendo,  e  T  oscipMtà  aumentando:  tuttavia,  se  parago- niamo dei  momenti  molto  vicini,  noi  non  possiamo  osservare  fra di  essi,  sotto  (juesto  rapporto,  alcuna  ditferenza;  la  dilTerenza  non è  percettibile,  che  quando  i  momenti  paragonati  hanno  fra  di  loro una  certa  distanza.  È  in  ciò  che  consiste  dunque  la  continuità  del movimento  e  di  qualsiasi  altro  cangiamento  che  chiamiamo  con- tinuo: in  una  successione  di  stati  aventi  fra  di  loro  una  gradazione insensibile,  tale  che  la  differenza  fra  gli  stati  contigui,  o  in  gene- rale, molto  vicini,  sia  impercettibile,  e  non  possa  percei)irsi  che quella  tra  gli  stati  separati  da  qualche  altro  stato,  o  un  certo  nu- mero di  stati,  Intermediari.  Che  vi  sia  stata  una  differenza  anche 4 o  potrebbe  presentare  al  soggetto  senziente,  e  le  azioni e  passioni  di  quest'oggetto  nei  suoi  rapporti  con  gli  altri.. Uno  stato  di  una  sostanza  è,  coma  abbiamo  spiegato,  il gruppo  di  sensazioni,  attuali  e  possibili,  con  cui  essa,  a un  momento  dato,  impressiona  effettivamente  o  potrebbe impressionare  i  nostri  sensi— sensazioni  alle  quali,  poiché- le  consideriamo,  non  subbiettivamente,  cioè  come  facien- ti  parte  dell'aggregato  me,  ma  obbiettivamente,  cioè  come fra  gli  stati  contigui  o  molto  vicini,  quantunque  noi  non  l'abbianao- osservata,  noi  lo  inferiamo  dal  fatto  che  la  differenza  è  sempre osservabile  fra  due  stati  qualunque,  purché  siano  abbastanza  di- stanti: di  là  l'idea  della  continuità  del  cangiamento  nel  senso  che questo  è  stato  incessante,  che  cioè  in  due  momenti  di  seguito  la  cosa non  si  è  mai  trovata  nello  stesso  stato.  Un'altra  inferenza  che  noi facciamo  naturalmente,  è  che  la  cosa',  per  passare  da  uno  stato a  un  altro  distinto,  ha  bisogno  di  passare  prima  per  ^am"  gli  stati intermediari:  ma  quest'altra  inferenza  è  un'illusione.  Ecco,  limi- tandoci al  cangiamento  di  posizione,  come  bisogna  spiegare,  se- condo me,  quest'illusione  naturale  (vale  a  dire  quella  per  cui  cre- diamo che  il  movimento  è  assai  ut  aniente  continuo).  Noi  siamo  abi^ tuati  all'idea  clic  il  cangiamento  di  posizione  di  un  corpo  non  è mai  l)rusco,  che  fra  due  posizioni  successive  del  corpo  cUfTeren- viabili  s' interpongono  sempre  delle  posizioni  intermediarie,  tali che  le  posizioni  contigue  (cioè  immediatamente  successive)  siano incUiferenziabill:  è  ciò  che  risulta  dalle  nostre  esperienze  del  mo- vimento. Ora,  riflettendo  a  due  posizioni  successive  qualunque  del corpo,  noi  non  possiamo  non  pensare  che  esse  sono  in  se  stesse distinte  (senza  di  che  non  sm-ebbero  due  posizioni),  quantunque non  possano  da  noi  percepirsi  come  tali:  indiff ere riz labili  per  la percezione,  divengono  cosi  ditrerenziablll  per  il  pensiero.  Ne  segue che  noi  siamo  condotti  *ad  immaginare  sempre,  fra  due  posizfoni successive  qualunque  del  corpo,  altre  posizioni  intermediarie,  e che  ciò  deve  andare  all'infinito,  non  potendo  noi  mai  arrivare  ad immaginare  due  posizioni  contigue  Indifferenziablll  per  il  pensiero, poiché  queste  due  posizioni  non  sarebbero  allora  distinte,  e  quindi nemmeno  due  posizioni. Sulla  quistione  della  continuità  del  movimento,  e  sull'origine dell'illusione  naturale  che  ci  fa  credere  che  questa  continuità  sia assoluta,  noi  dovremo  tornare  nella  parte  3.  del  Saggio  2.  ii facenti  parte  deiraggregato  mondo  ederno,  abbiamo  da- to  1  nome,  non  di  sensazioni,  ma,li  sensibili-,  più  le  at- tiudm,,  che  noi  troviamo  legate  con  questi  gruppi  di  sen- T!t  ^T       'f^'^^'*^"''  '-^""a"  o  possibili,  obbiettivate, di/c?;   ?''      "  ^""^  <^^"temporanei  e  ad  esserne  mo- Wcati.  Per  conseguenza,  invece  di  domandarci:   quale stanza  o!:!,,!^  '"^''''''  '"'"  "^  ^  -—ivi  di  una  so- stanza perclie  siano  riconosciuti  come  stati  di  una  stes- uilionT^nf  ^™-/—  P'''  ^'-ramente  la  ^, tra  domani.  ."""f""'  ^  P*^''  ^l'^^^^'al- ti  a  domanda:  quale  deve  essere  il  rapporto  Ira  dei  -rup- pi .successivi  di  sensibili  e  le  attitudini"  a,l  essi  Hate  a mcKlificare  altri  gruppi  contemporanei  o  esserne  iÌì! co  ;  o  1'  ^^T'"'"  "™"''  "*^""  nozione  unica  di  una mo  dnr        ^  ^l^esta  domanda  noi  non  j^ssia- Zt^  yT"^'''''^'''  "«"  «apponendo,  ciò clic  non  e,  c!ie  le  sostanze  dell'esperienza  si  conformino .g«nente  alle  condizioni  della  sostanza  perfetta  e  oè ~to  t^  i  T;  ''""^  p""*^  ^'i  -«'-  ^ei iti  2Ì  .  "^"'  successivi  che  costituiscono  Pi- dea  della  sostanza,  sono:  1-.  I  gruppi  successivi  di  sensi- 11  ch3vono  essere  identici.  2^  Quelli  che  si  succedonoTm- S  Zio  V  H,  7"?  '^""  '^  ""'''"^  locahzzazione nulo  spazio,  o  delle  localizzazioni  dilierenti  si,  ma  <ii  una chtterenza  cosi  piccola  che  esse  siano,  per  la  nostra  osser vazione,  indiscernibili.  >  Le  attitudini,  le'gate  a  q^sS  grup- pi d,  sensibili,  a  modificare  altri  gruppi  contemporanei  o piendeia  facilmenle  che  io  non  intendo  qui  parlare  di un  Identità  assoluta,  ma  di  una  certa  identiti  relativa,  che sarebbe  superfluo  di  spiegare  circostanziatamente).  Riu- nendo una  moltitudine  di  fenomeni  successivi  in  una  no- zione unica,  e  chiamando  il  tutto  una  sostanza,  ciò  che noi   vorremmo  dire,   supposto,  ciò  che   non  è,  che  U "i nouiu  (li  sostanza  non  si  accordasse  che  alle  sostanze perfette  cioè  conformi  alla  sostanza  tipo,  non  sar(3l)]jc  al- tro se  non  che  in  (jiiesti  fenomeni,  riuniti  in  questa  no- zione unica,  si  verificano  queste  tre  condizioni. Ma  due  dì  queste  condizioni,  la  prima  e  Tultima,  nelle  so- stanze deir esperienza  non  si  verificano  mai  rigorosamen- te. Tutti  gli  esseri  sono  in  un  cangiamento  continuo,  si rispetto  alle  loro  proprietà  assolute  che  a  (fuelle  relative ad  altri  esseri  :  come  diceva   Eraclito,  niente  permane, tutto  diviene.    Se  le  sostanze  reali  si  conformassero  pie- namente alle  condizioni  della  sostanza  tipo,  ogni  cosa  do- vrei )be  avere  sempre  la  stessa  forma,  la  stessa  grandez- za, lo  stesso  colore,  lo  stesso  odore,  ecc.;  gli  esseri  viven- ti non  cangerebbero  incessantemente,  (^ome  fanno,  gli  ele- menti materiali  ciie  li  costituiscono,  né  si  svilupperebbe- ro—ciò che  vale  a  dire  (^.he  non  vi  sarebljero  più  affatto esseri  viventi—;  non  vi  sarebbe  più  cangiamento  nello  sta- to fisi(^o  dei  corpi  ;  ecc.  Nondimeno  è  evidente  che,  per identificare  gli  oggetti,  noi  teniamo  conto  anche,  e  prin- cipalmente, deiridentità  delle  i)roi)rietà;  in  altri  termini, che  il  segno  più  imi)ortante,  per  riconoscere  che  ci<')  che percepiamo  attualmente  e  la  stessa  cosa  che  ciò  che  ab- biamo percepito  in  im  temi»)  i)assato,   è  la  somiglianza tra  i  due  percepiti.  N'oi  non  possiamo  certamente  deter- minare come  regola  un  grado  di  somiglianza  fra  im  per- cepito attuale  e  dei  percepiti  anteriori,  necessario  perchi'i ridentifìcazione  sia  i)0ssibile,   né  un  grado  di  diffenmza che  escluda  questa  identificazione;  una  tale  determinazio- ne spesso  è  anche  impossibile  nei  casi    particolari.    Noi non  [>otremmo,  per  esempio,  n«3lla  lenta  distruzione  che il  tempo  ik  di  un  oggetto,  fissare  il  limite  sino  al  quale noi  consideriamo  ancora  quest'oggetto  come  lo  stesso;  noi non  potremmo  nemmeno,  nella  lenta  evoluzione  per  cui si  forma  un  essere  vivente,  fissare   un  momento  in   cui noi  i)Ossiamo  cominciare  a  considerare  quest'essere  come già  esistente,  e  riguardare  Fembrione  come  lo  stesso  es- sere che  la  pianta  o  l'animale  che  esso  diverrà  in  se<?ui- to.  Ma  (juesti  stessi  esempi  ci  mostrano  che,  per  riunire dei  percepiti  o  percepibili  successivi  nella  nozione  unica <\ì  una  cosa  o  sostanza,  uno  dei  criteri  che  ci  servono  di guida,  e  il  jììù  importante,  è  la  somiglianza  fra  questi  per- cepiti o  percepibili.  Una  cii'costanza  che  bisogna  sovra- tutto  mettere  in  rilievo  è  che,  malgrado  che  gli  esseri siano  sottoposti  a  un  cangiamento  incessante,  le  nostre -esperienze  del  loro  non  cangiamento  sono  nondimeno  in- <^omparabilmente  più  numerose  che  quelle  del  loro  can- giamento. Una  stessa  cosa,  osservata  in  due  momenti  vi- cini,  ci  i)resenta,  nella  massima  parte   dei  casi,  delle proprietà  assolutamente  identiclie.   Nella  massima  parte dei  casi,  il  cangiamento  non  è  apprezzabile  die  (piando gli  stati  dell'oggetto,  che  noi  paragoniamo,  sono  molto lontani  di  tempo  ;  cosi   l'oggetto  ci  apparisce  semi)re  lo stesso,  quantunque  esso  cangi  continuamente.  Questo  fat- to, che  il  fenomeno  del  non  cangiamento  nelle  proprietà degli  oggetti  ci  è  estremamente  più  familiare  che  quello del  cangiamento,    iia  prodotto  una  conseguenza  nella  sto- ria delle  idee  filosofiche,  che  noi  studieremo  nel  Saggio seguente  (Appendice  alla  parte  1*):  è  che  lo  spirito  uma- no, per  la  tendenza  ch'esso  ha  ad  assimilare  tutti  i  feno- meni a  quelli  che  gli  sono  i  più  familiari,  è  stato  costan- temente jKJrtato  ad  ammettere  che  i  veri  esseri,  gli  esse- ri veramente  reali,  sono  sempre  gli  stessi,  ingeneralùli e  imperibili  e  assolutamente  immutabili  (tranne  cJie    nei rai)porti  di  spazio  con  gii  altri   esseri),   e  che  gli  esseri dell'esperienza,  che  cangiano  e  divengono,  non  sono  dei veri  esseri.   Di  là  nell'antica  fisica  greca,  con  gli  atomi di  Democrito,  i  quattro  elementi  di  Empedocle  eleomeo- mene  di   Anassagora;  di  là  le  monadi  di  Herbart  e  tan- te altin3  concezioni  analoghe  della  metafìsica.  Cosi  la  no- stra sostanza  tipo,  l'atomo,  quali  si  siano  i  fatti  dell'osservazione  da  cui  la  sua  esistenza  è  dedotta  nella  scienza moderna,  non  è  stata  alForigine  che  un'ipotesi  destinata a  dare  una  soddisfazione  a  questo  bisogno  del  nostro  spi- rito di  supporre,  alla  base  delle  sostanze  cangianti  delFe- sperienza,  altre  sostanze,  più  reali,  esenti  dal  cangiamen- to—e siccome  Tincatenamento  dell'atomistica  moderna  con lantica  è  costatato  dalla  storia  (v.  Lange  Storia  del  ma- ierialismo,  tomo  2^  traduz.  frane,  pag.  101  e  segg.),  sem- bra d'altronde  naturale  di  pensare  che  questo  motivo  ha dovuto  anch'  esso  influire  sull'ammissione  dell'  ipotesi dell'  atomo  nella  scienza  moderna.  —  La  nostra  conce- zione di  una  sostanza  tipo  non  è  dunque  un'idea  arbitra- ria: per  (jucsta  concezione  d'  una  sostanza  perfetta,  ri- guardata come  possedente  eminentemente  il  carattere della  sostanza,  e  a  cui  ci  riferiamo  come  ad  un  esem- plare per  aggregare  le  sostanze  imperfette  dell'  esperien- za alla  classe  delle  sostanze,  perchè  in  essa  sola  si  ve- rificano rigorosamente  le  condizioni  che  in  queste  non si  verificano  se  non  approssimativamente;  per  questa concezione,  dico,  noi  non  abbiamo  fatto  che  imitare  il processo  naturale  dello  spirito  umano  per  cui  esso  arriva^ pressoché  fatalmente,  a  quest'idea:  che  vi  hanno  delle  so- stanze assolutamente  immutabili  ;  che  queste  sole  sono delle  sostanze  vere;  e  che  le  sostanze  cangianti  dell'espe- rienza non  ricevono  che  inqìropriamente  il  nome  di  so- stanze (V.  Saggio  2^  Appendice  alla  parte  1^). Fra  le  tre  condizioni  enumerate  della  sostanza  tipo, ve  n'  ha  una  che  si  verifica  rigorosamente  anche  nelle sostanze  dell'esperienza:  fra  i  gruppi  successivi  di  sensi- bili, la  cui  totalità  chiamiamo  una  cosa  o  una  sostanza,  o deve  esservi  identità  di  posizione  nello  spazio,  o  se  vi ha  cangiamento  di  posizione,  questo  cangiamento  deve essere  continuo,  cioè  tale  che  le  posizioni  di  due  gru]^)- pi  immediatamente  successivi  siano,  benché  differenti  se  stesse,  per  la  nostra  osservazione  indiscernibili.  Se  fra ciò  che  percepiamo  o  potremmo  percepire  a  un  momen- to dato,  e  ciò  che  abbiamo  percepito  o  avremmo  potuto percepire  al  momento  immediatamente  anteriore,  vi  fos- se nella  posizione  nello  spazio  un  intervallo  apprezzabile, senza  che  noi  potessimo  intercalare,  fra  questi  due,  altri percepiti  o  percepibili,  che  servissero,  per  dir  cosi,  di  pon- te, stabilendo  la  continuità  del  cangiamento;  noi  non  di- remmo dei  due  percepiti  o  percepibiU  che  sono  lo  stesso oggetto,  ma  che  un  oggetto  é  stato  miracolosamente  an- nientato al  primo  posto,  e  un  altro  oggetto  in  tutto  simi- le creato  al  secondo.  La  condizione  necessaria  dell'iden- 'tità  degli  oggetti  é  dun(|ue,  quando  vi  ha  cangiamento  di posizione,  la  continuità  di  questo  cangiamento.  Aggiun- giamo che,  quando  vi  ha  cangiamento  di  irjrina  o  di  gran- dezza, siccome  questi  cangiamenti  implicano,  Tuno  e  l'al- tro, un  movimento  delle  parti  costitutive  dell'oggetto,  l'iden- tità di  quest'oggetto  suppone  che  anche  questo  movimen- to si  conformi  alla  condizione  di  ogni  movimento,  la  con- tinuità (nel  senso  relativo  che  abbiamo  spiegato.) §.  10  Nella  sostanza  tipo,  cioè  nel  conq^lesso  degli  at- tributi che  la  costituiscono,    si    possono   distinguere   due parti:  Tuna  permanente— sono  le  sue  proprietà  sensibili  e le   potenze   ch'essa  ha  di  agire  sulle  altre   sostanze  e  di patire  da  esse—;  e  l'altra  variabile— la  sua  posizione  nello spazio,  i  cangiamenti  di   questa  posizione,  le  azioni  che essa  fa  attualmente  sulle  altre  sostanze  e  le  passioni  che ne   subisce— La  prima   parte,  cioè  la  permanente,   degli tittributi   si   considera  come  il  svMtratam  su   cui  si  ap- poggia la  i)arte  variabile,  e  si  cliiama  sostanza  nel  senso -stretto  (sfibstantia,  a  substare),  in  opposizione  agli  attri- buti variabili,  che  si  chiamano  accidenti.  Analogamente si  ammette  che  anche  nelle  sostanze  dell'esperienza  vi  sia una   parte  permanente,  che  serva  di  subsiratuni  al  resto, la   parte   variabile,  ed  è  a  ciò  che  si  riserba,   nel  senso ^ti^etto,  il  nome  di  sostanza  (gli  attributi  che  compcjngono iU sa(tGio  primo la  parte  varialjile,  chiamandosi  accidenti).  <Jra  non  vi hanno  che  due  elementi  nelle  cose  (considerate  come  com- plessi di  attributi,  cioè  di  astratti)  a  cui  ])0ssa  attribuirsi un  assoluta  permanenza:  Tuno  è  la  materia,  e  laltro  Tes- scnza  specifica  (cioè  Tinsieme  degli  attrilmti  che  costitui- scono la  si)ecie  a  cui  la  cosa  appartiene).  Al  punto  di  vi- sta del  secondo  di  (juesti  due  elementi,  la  permanenza  si trova  in  tutti  gli  esseri— pérch^3  noi  chiamiamo  una  cosa la  stessa,  sinclié  la  sua  essenza  specifica  non  cangia--,  ma questo  elemento  ha  l'inconveniente  di  non  determinare  in- dividualmente gli  esseri.  11  primo  elemento,  la  materia, determina  indivi<lualmente  gh  esseri,  ma,  al  punto  di  vi- sta di  questo  elemento,  la  permanenzii  non  si  trova  che in  un  certo  numero  solamente  di  quelli  che  noi  diciamo esseri  (cosi  nella  scienza  moderna,  che  cerca  Telemento permanente  delle  cose  sovratutto  nella  materia,  il  nome di  sostanza  non  viene  accordato  (juasi  esclusivamente  che ai  cor[)i  studiati  dalla  chimica,  sia  semplici  sia  composti). Né  luno  né  Taltro  di  (juesti  due  elementi  corrisponde  dun- que perfettamente  alla  esigenza  del  nostro  spirito  di  un snhstratum  permanente  nelle  cose,  su  cui  si  appoggino  i attributi  cangianti.  Nondimeno  non  è  che  tra  Tunoo Taltro  che  noi  possiamo  scegliere,  se  vogliamo  formarci un'idea  chiara  e  defhiita  di  un  simile  suìtstratam.  Cosi noi  vediamo  nella  storia  che  per  sostama  o  essenza  delle cose  si  è  intesa  ora  la  materia  ed  ora  l'essenza  specifica, secondo  che  si  è  stati  inclinati  verso  una  intuizione  ma- terialista del  mondo,  o  verso  un'intuizione  0])i30sta  in  cui ìa  forma  sia  prevalsa  sulla  materia. sono,  le  sole  idee  di  un  snbstratum  o  sostanza (nel  senso  stretto)  delle  cose,  distinta  dalle  cose  stesse, cioè  dagli  oggetti  dei  nostri  sensi,  che  noi  dobbiamo  all'è- sperienza.  Ma  i  metafisici  supix^ngono  che,  dietro  le  ap- I)arcnze  o  lenomeni  che  le  cose  ci  presentano,  sta  un  che di  sconosciuto  e  d'inconoscibile,  che  è  il  subsrtatum  di  questi  fenomeni,  e  si  cliiama  propriamente  essenza  o  sostanza, I  motivi,  precipui  se  non  sono  unici,  di  quest'ipotesi  si  tro- vano nei  due  concetti  capitali  della  metafisica,  che  noi  stu- dieremo  nelle  due  prime  parti  del  Saggio  seguente.  Essi  so- no: 1"  Quello  di  causa  efficiente  (IsL  stessa  che  noi  abbiamo chiamato:   causa   nel   senso  metafisico).  La  proposizione clie  noi  non  conosciamo  Vessenza  delle  cose,  non  è  che un  altra  maniera  di  dire  che  noi  non  conosciamo  le  cause efficienti  dei  fenomeni,  o,  come  dice  Comte,  il  loro  modo essenziale  di  produzione.  Si  suppone  che,  se  noi  conosces- simo la  costituzione  reale,  la  natura  intima,  degli  esse- ri, la  loiY)  maniera  di  agire  e  di  patire  non  ci  parrel)be più   inconqjrensibile,  coni'  essa  ci  pare  attualmente,  e  il corso  reale  degh  avvenimenti  non  ci  presenterebbe  più, come  ora,  delle  sem[)lici   secjuenze  invariabili,   ma  delle vere  cause  e  dei  veri  etìetti,  quali  l'inunagina  la  metafi- sica, cioè  tali  che  le  cause  spiegherebbero  i  loro  effetti,  e che  gli  effetti  si  vedreblje,  non  solo  che  seguono,  ma  che devono  necessariamente  seguire  alle  loro  cause  (  v.  .^  5'^). 2'^  Quello   di   cosa  in  sé:  La  scienza    ha  distrutto  l'ob- biettività delle  cose,  (juaU  il  nostro  spirito  istintivamente le  costruisce  [)er  l'obbiettivazione  delle  nostre  sensazioni: essa  ha  mostrato  che  queste  cose  non  sono  che  delle  col- lezioni di  sensazioni,  e  non  esistono  che  relativamente  al soggetto  senziente.  Ne  segue— in  virtù  della  tendenza  del nostro   s[)irito  che  spiega   l'origine  di  tutte  le  concezioni metafisiche,  cioè  di  foggiare    tutte  le  idee  che  ci  formia- mo sugli  oggetti,  sul  tipo  di  quelle  che  ci  sono  le  più  abi- tuali (v.  Saggio  seguente)— che  noi  siamo  [)ortati  ad  im- maginare un'altra  cosa,  che  prenda  il  posto  della  cosa  che la  scienza  ha  distrutto,  e  che  non  sia,  come  questa,  una collezione  di  sensazioni.  Quest'  altra  cosa,  la  cosa  in  sé, non  avendo  le  (jualità  sensibili  della  cosa  fenomeno,  per- chè (lueste  non  sono  che  sensazioni,  deve  avere,  al  loro posto,  altre  (jualità  sovrasensibili:  si  ammette  quindi  che le  COSO,  nella  loro  natura  reale,  siano  sconosciute  eJ  in- conoscibili. Nella  parte  2-'^  del  Saggio  seguente  noi  spie- gheremo d  una  maniera  più  completa  Y  origine  di  questa dottrina,  e  studieremo  le  sue  varie  forme,  che  vanno  da un  agnosticismo  relativo  alFagnosticismo  i)iii  assoluto. L'essenm  o  sostanza,  quale  la  suppongono  i  metafìsici, applicando  Tuno  o  Taltro,  o  Tuno  e  laltro,  dei  due  con- cetti capitali  della  metafìsica,  cioè  come  il  mhsiratum  sco nosciuto  dei  fenomeni,  non  è  essa  stessa,  jìor  la  natura stessa  di  quest'ipotesi,  un  fenomeno  o  complesso  di  feno- meni. NYjì  mostreremo  nel  :3'^  Saggio  che  non  vi  ha,  a  parlar propriamente,  concezione  alcuna  di  ciò  che  non  è  feno- menale,  sia  che  esso  si  supponga  conoscibile,  sia  inco- noscibile—le nostre  idee  di  ciò  che  non  è  fenomeno  o  com- plesso di  fenomeni  non  sono  delle  vere  idee  (cioè  che  noi abbiamo  realmente),  ma  delle  idee  illusorie  (cioè  che  noi crediamo  solamente  di  avere),  o,  come  dice  Spencer,  delle pseudo -idee— Qui  diremo  brevemeute  che  pensare  vuol dire  nmnnfjìnare  —  è  questa  una  conseguenza  necessaria della  non  esistenza  delle  idee  astratte,  che  noi  abijiamo provata  nel  capitolo  antecedente  —  e  che  ci(b  che  non  è sensibile  non  è  nemmeno  immaginabile,  un  immagine  non essendo  altra  cosa  che  una  sensazione  risvegliata.  Ne  seguo che  ciò  ciie  vi  ha  di  vero,  cioè  di  veramente  rappresen- tato, nelle  idee  del  sovrasensibile,  non  può  che  essere  cal- cato sull(3  cere  idee,  cioè  su  (pielle  che  abitiamo  del  sen- sibile. La  aoHtanza  o  essenza  sconosciuta  delle  cose,  sup- posta dai  metafìsici,  che  non  è  un  complesso  di  fenomeni, non  i)uò  dunque  essere  conce[)ita  — per  quanto  possiamo dire  d  un^  ipotesi  metafìsica  eh'  essa  può  essere  concepita —  che  ad  imitazione  e  sul  tipo  delle  sostanze  sensibili  e rappresentabili,  cioè  che  sono  dei  comi)lessi  di  fenomeni.  Co- si, cosa  pu(')  essere  essa  per  noi  se  non,  come  queste,  o  me- glio la  i)arte  di  (]ueste  clie  non  è  mai  caduta  sotto  la  nostra esperienza  personale,  un  (ascio  di  percezioni  possibili,  ol) 'biettivate?  Che  possiamo  noi  intendere,  dicendo  che  vi  ha, dietro  i  fenomeni  che  noi  conosciamo,  (lualche  cosa  che noi  non  conosciamo  nò  possiamo  conoscere?  Che  se  alle nostre  presenti  facoltà  conoscitive  si  aggiungessero  altre facoltà,  che  cogliessero  il  reale  in  se  stesso  e  tutto  il  reale, noi  avremmo  o  potremmo  avere  altre  percezioni  che  pre- sentemente non  abbiamo  né  possiamo  avere,  e  che  ci  da- rebbero sugli  oggetti  delle  idee  più  vere  e  più  complete di  quelle  che  ce  ne  formiamo  presentemente;  che  queste percezioni  possibili  sono  da  noi  riguardate  come  attual- mente esistenti,  come  reali,  della  stessa  maniera  che  le sensazioni  possibili  della  nostra  esperienza  presente;  che esse  esistono,  come  queste  e  come  le  sensazioni  attuali, (secondo  il  realismo  po[)olare),  indi]ìendentemente  da  ogni soggetto  percepente;  e  che  se  più  soggetti  percepenti  aves- sero simultaneamente  queste  percezioni,  quelle  deir  uno sarebbero  identiche  con  quelle  degli  altri,  nello  stesso senso  che  abitiamo  spiegato,  parlando  delle  sensazioni  che costituiscono  le  nostre  nozioni  presenti  degli  oggetti.  Ag- che,  il  tempo  essendo  la  condizione  necessaria di  tutto  ci(')  che  possiamo  rappresentarci  —  è  lui  fatto  di '  coscienza  che  non  possiamo  che  segnalare  al  lettore  :  non si  può  concepire  alcuna  cosa  che  o  come  accadente  in un  istante  o  come  avente  una  certa  durata,  o  come  sus- seguente 0  come  antecedente  o  come  simultanea  ad  altre •cose,  ecc.-— queste  percezioni  possibiU,  per  conseguenza, non  potremm()  rappresentarcele  che  come  successive  o simultanee.  Né  importa  clie  Kant  e  Spencer  pretendano che  le  cose  in  sé  sono  fuori  del  tempo,  perchè  io  (pii  non parlo  del  modo  in  cui  noi  ci  stòrziamo  di  concepire  il  sovra- sensibile,  ma  di  quello  in  cui  possiamo,  in  (jualche  ma- niera, concepirlo.  È  in  effetto  evidente,  p.  e,  che  questi stessi  fìlosofì  non  possono  non  rappresentarsi  le  cose  in «é  come  delle  esistenze  permanenti,  sia  per  opposizione al. fenomeno  fuggitivo,  sia  al  me  percepente  di  cui  esse  S(^no  rantitesi,  la  permanenza  essendo  uno  dei  caratteri distintivi  deir  oggetto,  di  fronte  al  soggetto,  allo  spirito, die  non  resta  mai  nello  stesso  stato.  Ora  la  permanenza non  è  che  una  successione— senza  di  che  non  vi  sarei)be in  essa  un  prima  e  un  poi— la  quale  non  si  distingue  dalle altre  che  perchè  i  termini  di  (jucsta  successione  non  sono differenti,  ma,  almeno  parzialmente,  identici.  Noi  possiamo dunque  concludere  che  la  sostanza  o  essenza  dei  meta- fìsici non  forma  che  un'eccezione  apparente  a  questa  legge universale  del  pensiero,  che  noi  non  possiamo  affermare uè  in  alcun  modo  rappresentarci  altra  cosa,  se  non  delle se^iuenze  e  coesistenze  di  fenomeni. §.  11.^  Ma,  che  diesi  pensi  delle  sostanze  metafisiche, è  evidente  che  le  nostre  idee  delle  sostanze  fìsidie,  cioè sensibili— le  sole  che  c'iniportino,  perchè  il  nostro  esame non  deve  volgere  che  sulle  afTermazicni  che  noi  facciamo sugli  oggetti  dell' esperienza  — non  contengono  niente  altro che  questo  :  dei  fenomeni  con  certi  rapporti  di   sequenza e  di  coesistenza.  In  effetto   la  nostra  analisi  dell'idea  di cosa  0  sostanza  ci  ha  mostrato  in  essa:  1°  delle   idee  di sensazioni,  attuali  e  passibili,  obbiettivate,  die  noi  abbiamo chiamato  sensibili,  2''  certi  rapporti   di  coesistenza  nello spazio  fra  alcuni  di  questi  sensibili,  coesistenza  nello  spa- zio  che  noi  sai)piamo  non  essere  che  un  caso  della  sein- pUce  simultaneità.  3'^  dei  rapporti  di  coesistenza  in   uno stesso  oggetto  dei  sensibili  dovuti  a  sensi  differenti,  rap- j)0rti  in  cui  non  abbiamo  trovata  altra  cosa,  oltre  all'idea della  semplice  simultaneità,  che  quella  della  causalità,  cdi  una  sequenza  uniforme  e  invariabile.  4'»  una  certa  iden- tità fra  gli  stati  successivi  della  cosa  o  sostanza,  cioè  tra i  gruppi  successivi  di  sensibili  che  la  costituiscono,  e   le attitudini,  legate  a  questi  gruppi,  a  modificare  altri  gruppi o  esserne  modificati  5«  Fidentità  di  posizione  nello  spazio fra  questi  grui)pi  successivi  di  sensibili,  o  se  vi  Jia  cgiamento di  posizione,  rindiscernibilità  delle  posizioni  dei SUI  LIMITI  E  l'oggetto  NELLA    C0N0S<:EXZA  A  PIUOIU 130 gruppi  immediatamente  successivi.  L'identità  di  cui  al  nu- mero 4^  e  Vindentità  e  V indiscernibili tà  ài  cui  al  numero  5^ non  sono  che  dei  casi  del  rapporto  di  somiglianza;  Funi- forni  ita  o  invarial3Ìlità,  che  è  un  elemento  delFidea  di  cau- sazione, non  è  anch'essa  che  una  somiglianza.  Oltre  a  dei fenomeni  e  dei  rapporti,  tra  (questi  fenomeni,  di  sequenza e  di  simultaneità,  non  vi  ha  dunque  altro,  nelle  idee  di sostanza  e  di  causa,  che  dei  rapporti  di  somiglianza.  Ora nella  somiglianza  può  considerarsi  o  la  relazione  stessa o  il  fondamento  di  questa  relazione.  La  relazione  stessa non  è  che  una  veduta  mentale  dello  spirito,  il  risultato  di un  i)aragone,  ma  non  è  niente  di  obbiettivo.  Nelle  cose stesse  che  si  paragonano  deve  esservi  qualche  cosa,  che è  la  causa  di  questa  veduta  mentale  che  noi  diciamo  una relazione  di  somiglianza  :  è  ci(')  che  al)biamo  chiamato  il fondamento  di  questa  relazione,  ed  è  cortamente  un  che <li  obbiettivo.  Ma  esso  è  racchiuso  nelle  idee  stesse  delle cose  che  si  paragonano,  e  non  aggiunge  niente  a  ({ueste idee,  non  essendo  che  una  particolarità  di  queste  cose,  che è  loro  comune.  Al  punto  di  vista  obbiettivo,  che  è  <]uello in  cui  noi  attualmente  ci  poniamo,  non  vi  ha  dunque  al- tro nelle  nostre  nozioni  delle  sostanze  —  come  anche  delle cause  —  che  delle  idee  di  fenomeni,  cioè  di  sensazioni,  at- tuali o  i)Ossibili,  e  di  rap[X3rti  tra  (]uesti  fenomeni,  di  se- quenza e  di  simultaneità. Questo  risultato,  a  cui  siamo  pervenuti,  sugli  elementi che  C(jstituiscono  le  idee  delle  sostanze,  è,  per  rargomento del  jìresente  capitolo,  della  più  grande  importanza.  É  evi- dente in  effetto  che,  se  noi  potessimo  avere  un'intuizioiìe^ esatta  e  completa,  di  tutto  il  reale  accessibile  ai  nostri sensi,  noi  non  osserveremmo  altro  che  delle  sostanze  (nel senso  lato  in  cui  abbiamo  preso  questo  termine  nel  pre- sente paragrafo  e  nei  j)recedenti)  e  dei  fenomeni  di  cui queste  sostanze  sono  la  sede,  con  certi  rapporti  di  ante- rioriti^i,  di  posteriorità  e  di  simultaneità  tra  queste  sostanze  e  questi  fenomeni.  Se  le  sostanze  si  risolvono  esse  stes- se in  fenomeni  con  certi  rapporti  di  sequenza  e  di  coe- sistenza, questa  intuizione  complessiva  del  reale  non  ci presenterebbe  dunque  altra  cosa  che  dei  fenomeni  e  dei rapporti  di  sequenza  e  di  coesistenza  tra  questi  fenomeni. Oltre  alle  sostanze  e  ai  loro  fenomeni,  con  certi  rapporti di  semplice  se(iucnza  e  coesistenza,  vi  sarebbero  ancora, é  vero,  le  azioni  mutue  tra  queste  sostanze.  Ma  noi  ab- biamo visto  che  la  causazione,  e  per  conseguenza  queste azioni  mutue,  non  sono  che  dei  casi  della  sequenza.  Cosi, siccome  una  ra])presentazione  adequata  delle  cose  non  pu('> contenere  niente  di  più  che  ciò  che  ò  contenuto  nella  loro intuizione-,  (juando  cpiesta  intuizione  è  completa  ed  e- satta  ;  noi  possiamo  tenere  come  sufficientemente  staìji- lito  che  non  vi  ha  niente  di  più,  al  punto  di  vista  obbiet- tivo, nelle  nostre  idee  sull'universo  sensibile,  che  dei  fe- nomeni e  dei  rapporti  di  successione  e  di  simultaneità  tra questi  fenomeni. §.  12.^  Qui  però  dobbiamo  mettere  in  guardia  il  lettore contro  una  generalizzazione  troppo  assoluta.  La  proposi- zione che  tutte  le  nostre  idee  sull'universo  sensibile  non contengono  niente  di  più  che  delle  sequenze  e  coesistenze di  fenomeni,  non  ò  rigorosamente  vera  che  per  la  parte di  quest'universo  aperta  ai  nostri  sensi  esterni:  per  l'altra parte,  quella  che  è  l'oggetto  del  senso  interno  o  della  co- scienza, cioè  lo  spirito,  non  potrebbe  essere  ammessa  sen- za siserva.  Certamente  lo  spirito,  in  quanto  almeno  noi Ijossiamo  conoscerlo,  non  è  anch'esso,  come  la  materia, che  una  collezione  di  sensazioni,  successive  o  simultanee  : vale  a  dire,  oltre  alle  sensazioni  propriamente  dette,  di sentimenti,  d' idee,  di  volizioni,  ecc.  Ma  tra  queste  sensa- zioni successive  e  simultanee  che  compongono  uno  spi- rito, una  coscienza,  non  vi  hanno,  come  tra  quelle  che compongono  il  mondo  materiale  e  le  unità  in  esso  esi- stenti, d^i  semplici  rapporti  di  successione  e  di  simulta- neità. Mi  sembra  al  contrario  indubitabile  che  vi  ha  tra gli  stati  0  porzioni  di  una  stessa  coscienza  un  rapporto più  intimo,  che  fa  che  essi  compongono  una  stessa  co- scienza e  non  più  coscienze  distinte  ;  un  legame  sui  ge-, che  non  trova  alcun  riscontro  negli  oggetti  del  mon- do esteriore,  e  che,  come  tutti  i  fatti  ultimi,  noi  non  pos- siamo definire,  ma  solo  esprimere  con  le  parole  :  unità  o continuità  della  coscienza.  Questo  fatto  sarà  evidente,  se si  considererà  una  rappresentazione  complessa,  costituita da  più  rappresentazioni  successive  o  simultanee,  p.  e. l'immagine  di  un  corpo  in  movimento,  o  semplicemente un'immagine  visuale  (jualunque,  anche  istantanea,  com- posta necessariamente  di  una  moltitudine  di  parti.  Non  è chiaro  che  tra  le  rappresentazioni  parziali  che  costitui- scono la  rappresentazione  totale,  vi  ha  un  rapporto  più intimo  che  non  vi  sarebbe  fra  di  esse,  se  ciascuna  rap- presentazione distinta  appartenesse  a  una  coscienza  di- stinta ?  E  qual  è  la  differenza  tra  i  due  casi,  se  non  che tra  le  differenti  rappresentazioni  vi  sarebbe,  nel  secondo caso,  un  semplice  rapporto  di  successione  o  di  simulta- neità, mentre,  nel  primo  caso  vi  ha  fra  di  esse,  oltre questo  rapporto,  un  altro  rapporto  sui  generis,  che  noi non  possiamo  indicare,  se  non  dicendo  che  tutte  queste  rap- presentazioni fanno  parte  di  una  sola  e  stessa  coscienza  ? Questo  fatto  che  il  Galluppi  (v.  Saggio  sulla  critica  della conosccn;^a  tomo  4.  e.  2.  ed  Elementi  di  filosofia  t.  3. S.)  chmma.  unità  sintetica  della  percezione  e  del  pensiero, bisogna  distinguerlo  dslVunità  metafisica  del  me  che,  con altri  metafisici,  egli  ne  deduce,  se  per  questa  seconda  u- nità  s'intende,  come  fa  questo  filosofo,  quella  d'un  sub- stratum  sconosciuto  dei  fenomeni  della  coscienza,  che  re- sta sempre  lo  stesso  nel  flusso  continuo  di  questi  feno- meni (sostanza  me).  Noi  accettiamo  il  fatto,  che  ci  sem- bra incontestabile,  ma  l'ipotesi  che  se  ne  deduce,  quella della  sostanza  me,  la  lasciamo  ai  metafisici,  riserbandoci di  spiegarne  rorigine  nel  Saggio  seguente  (Appendice  alla parte  1*,  cap.  2^).  Notiamo  per  incidtmte  che,  tacendo  di  es- sere il  sinonimo  di  sostanza  (\,  §.  (i*^),  noi  non  ab])iamo inteso  parlare  che  degli  esseri  materiali  :  lo  spirito  •—  clie d'altronde^  per  noi,  il  solo  vero  essere  di  cui  possiamo atterinare  l'esistenza  —  non  è  una  sostanza,  perché,  coniti ben  osserva  Kant  (Analitica  trascendentale,  1.  2«,  Scolio generale  al  sistema  dei  i)rincipii),  la  sostanza  importa  la permanenza,  e  questa  non  compete  che  a  ciò  che  esiste nello  spazio  (mentre  lo  spirito  è  un  divenire  continuo). In  quanto  all'unione  tra  lo  spirito  e  il  corpo,  noi  non abbiamo  nessuna  restrizione  a  tare  alla  proposizione  ge- nerale die  il  reale,  i>er  quanto  almeno  noi  possiamo  co- noscerlo, si  risolve  in  sequenze  e  coesistenze  di  fenomeni. Si  è  visto  in  questa  unione  il  mistero  per  eccellenza;  ma, qualunque  sia  il  mistero,  non  è  che  (juello  generale  della causazione,  l'unione  tra  lo  spirito  e  il  corpo  non  consi- stendo elle  nei  loro  l'apporti  di  azione  reciproca;  e  noi sappiamo  che  la  causazione,  che  che  sia  al  senso  meta- fìsico, non  ('  al  senso  fisico,  cioè  empirico,  che  un  caso della  sequenza. .^  13'*  Tra  i  fatti  di  cui  possiamo  atlermare  1'  esisten- za, ve  ne  ha  una  classe  che  è  in  un  contrasto  cosi marcato  con  tutte  le  altre,  ed  ha  una  si  grande  im[)or- tanza  intellettuale,  che  noi  dobbiamo  farne  una  divisione distinta,  opponendola  a  tutto  il  resto  :  sono  le  somiglianze^ e  le  differenze  che  esistono  tra  i  fatti.  Noidobljiamo  vedere senza  dubbi(j,  anche  in  questi  rapporti,  dei  latti  partico- lari ;  perchè  cosa  può  essere  un  rapporto  di  somiglianza di  ditlerenza,  se  non  ciuel  sentimento  speciale  che  noi proviamo,  (juando  delle  cose,  che  chiamiamo  simili  o  difìe- renti,  ci  vengono  presentate  insieme,  e  le  mettiamo  in confronto  ?  Una  somiglianza  o  una  differenza  non  è  cer- tamente una  proprietà  che  esista  nelle  cose  in  se  stesse, perchè   essa    non  esiste  né  nell'  uno  né  nell'altro  dei  due termini  del  rapporto  presi  a  parte,  e  non  esistendo  in  questi, non  i)uò  esistere  altrove  fuori  del  nostro  spirito,  poiché nessuno  immaginerà  clie  una  somiglianza  o  una  differenza sia  come  un  tratto  d'unione  interiX)sto  fra  le  due  cose  che diciamo  simili  o  differenti.  Un  rapporto  di  somiglianza  u di  difterenza  non  è  dun(|ue  qualche  cosa  di  obbiettivo,  ma una  percezione,  una  veduta  dello  spirito,  clie  mette  in  coii- fwnto  le  cose.  Se  non  pertanto  noi  ci  esprimiamo  come se  la  somiglianza  e  la  differenza  fossero  (jualche  cosa  di obbiettivo,  è  (juesta  una  circostanza  che  non  è  special», ai  soU  sentimenti  di  somiglianza  e  di  ditlerenza.  Noi  di- ciamo che  due  oggetti  sono  in  se  stessi  simili  o  differenti, nello  stesso  senso  in  cui  diciamo  che  un'azione  o  una  cosa  è in  se  stessa  ])Uona  o  bella;  noi  intendiamo  di  dire  in  questo caso  che  il  sentimento  del  buono  o  del  bello  prodotto  nel nostro  spirito,  non  è  (jualche  cosa  di  arì>itrario  e  di  va- riabile, ma  di  costante  e  di  necessario,  in  modo  che  la capacità  (H  produrre  questo  sentimento  determinato  noi la  consideriamo  come  insei)arabile  dalPazione  o  dalla  cosa stessa.  Della  stessa  maniera,  affermando  che  due  ogge^tti sono  simili  o  differenti,  noi  intemhaino  (U  dire  che  la  ca- pacità di  i>rodurre  il  sentimento  di  somiglianza  o  di  dif- ferenza è  inseparabile  dagli  oggetti  stessi;  che  vi  ha  un legame  necessario  fra  gli  oggetti  e  il  sentimento,  tale  che la  i)resentazione  o  la  rajipresentazione  dei  primi  svegli  in noi  irresistibilmente  il  secondo.  Donde  si  vede  pure  che, come  le  somiglianze  e  le  diff*erenz(3  sono  anch'iisse  dei  fatti, cioè  dei  fenomeni  del  nostro  spirito  d' una  natura  parti- colare, cosi  le  affermazioni  delle  somiglianze  e  delle  dif- ferenze rientrano  anch'esse  in  una  delle  (hie  classi  di  cui abbiamo  parlato  sin  qui,  non  essendo,  al  fondo,  cliedell(». affermazioni  di  sequenze  d'una  natura  particolare. Per  l'affermazione  di  una  somiglianza  o  una  ditlerenza non  si  afferma  niente  sull'esistenza  dei  fatti  tra  cui  si  sta- bilisce questo  rapporto:  i  termini  del  rap])orto  possono  essere  reali  o  no,  ciò  non  fa  niente  alla  realtà  del  rapporto stesso.  Che  esistano  o  no  dei  triangoli  e  degli  angoli  retti, nella  natura,  ciò  non  l'a  niente  alla  verità  della  proposi- zione geometrica  che  gU  angoli  d'un  triangolo  sono  eguali a  due  retti.  I  giudizi  della  somiglianza  e  differenza  sono- una  sorta  di  proposizioni  ipotetiche,  in  cui  noi affermiamo  che,  dati  i  termini,  vi  sarà  una  certa  rela- zione fra  di  loro.  Noi  divideremo  dunc^ue  i  giudizi  in  due classi.  Gli  uni  affermano  resistenza  delle  cose,  e  questi, come  abbiamo  visto,  non  affermano  mai  la  semplice  esi- stenza, ma  resistenza  simultanea  o  successiva,  la  coesi- stenza o  la  sequenza;  ancora  questa  sequenza  o  coesistenza essi  r  affermano  sia  d'una  maniera  categorica  sia  ipote- tica; cioè  affermano  ovvero  che  più  fatti  coesistono  o  si seguono,  ovvero  che,  dati  certi  fatti,  altri  coesisteranno con  essi  o  li  seguiranno.  I  giudizi  deiraltra  classe  non  af- fermano niente  sulFesistenza  delle  cose,  ma  semplicemente la  loro  somiglianza  e  la  loro  differenza. Sotto  questi  nomi  noi  comprendiamo  naturalmente  Ti- dentità  e  la  diversità,  la  eguaglianza  e  la  disuguaglianza,. la  maggioranza  e  la  minoranza,  ecc.  Perchè  la  somiglian- za ha  molti  gracU  :  se  le  due  cose  sono  simili  in  modo  da essere  indiscernibili,  si  ha  un  rapporto  d'identità;  la  so- miglianza assoluta  sotto  un  punto  di  vista  particolare,  p. e.  del  numero  o  della  grandezza,  si  chiama  eguaglianza. Quando  poi  una  grandezza  è  uguale  a  una  parte  d'un'altra grandezza,  noi  chiamiamo  minore  la  prima  grandezza,  e maggiore  la  seconda.  Osserviamo  che  la  somiglianza  e la  differenza  non  sono  due  fatti  distinti  e  separati,  ma  un fatto  solo,  visto  da  due  lati  :  è  lo  stesso  dire  di  due  cose che  si  somigliano  molto  o  che  differiscono  poco.  La  diffe- renza non  è  dunque  che  un  grado  minore  di  somiglianza, e  non  vi  hanno  cose  talmente  differenti  che  non  siano  pu- re simili;  p.  e.  i  nostri  stati  di  coscienza  più  differenti hanno  almeno  fra  di  loro  quella  somiglianza  che  permette ^ di  classarli  insieme,  dando  loro  gli  stessi  nomi  :  siato  di coscienza,  fenomeno,  uno,  ente,  ecc.  Noi  diremo  dunque, con  un  nome  unico,  i  giudizi  della  prima  classe  giudizi suWesistenza,  e  (luelli  della  seconda  giudizi  sulla  somi^ glianza.  Sono  (jueste  le  denominazioni  che  esprimono  con più  proprietà  la  natura  delle  due  classi;  ma  se  vogliamo marcare  la  loro  opposizione  per  Tantitesi  dei  termini  che li  denotano,  noi  possiamo  anche  chiamare  i  primi  posi- tivi, e  i  secondi  comparativi,  (1).1 (I)  La  nostra  classazione  del  giudizio  coincide  al  fondo  con  quella <li  Stuart-Mill:  secondo  quest'autore  il  giudizio  afferma  o  la  sem- rlice  esistenza  dei  fatti,  o  la  loro  sequenza,  o  la  loro  coesistenza, die  egli  distìngue  in  coesistenza  nello  spazio  e  simultaneità  nel tempo,  o  infine  la  loro  somiglianza  (Logica,  lib.  ì.  e.  5.  paragr.  5-^, cfr.  e.  3).  Il  Bain  lia  soppresso  la  categoria  dei  giudizi  che  affer- mano la  semplice  esistenza  (v  Logica,  lib.  1.  e.  3.  23),  e  noi  lo «ìhl)ianio  imitato,  perchè  resistenza  non  viene  mai  aff'ermata  iso- latnmente,  ma  sempre  con  la  successione  o  la  simultaneità:  ma non  possiamo  s^eguirc  il  Bain  nelle  altre  modificazioni  da  lui  ap- portate alla  divisione  del  Mill.  Questi  intendeva  per  coesistenza, come  abbiamo  detto,  la  coesistenza  nel  luogo  o  la  simultaneità nel  tempo:  il  Bain  accetta  la  classe  dei  giudizi  di  coesistenza,  ma suddivide  questo  in  coesistenza  nel  luogo  e  coesistenza  di  due  o attributi  in  uno  stesso  soggetto  {Logica,  lib.  L  e.  3.  20  e  21). Ora  può  essere  utile  per  uno  scopo  pratico  (p.  e.  per  l'esposizione dei  metodi  induttivi)  di  fare  una  classe  distinta  delle  proposizioni che  aifermano  la  coesistenza  di  due  o  più  attri])uti  in  uno  stesso soggetto;  ma  questa  classe  non  potrebbe  costituire,  al  punto  di vista  della  teoria  nominalista,  che  è  quello  del  Bain,  una  divisione scientifica  del  significato  delle  proposizioni,  essendo  fondata  piut- tosto sull'espressione  verbale,  che  sul  contenuto  reale  delle  aff"er- mazioni  in  essa  comprese.  È  il  concettuahsmo  che  espone  il  senso delle  proposizioni  come  aff'ermanti  delle  relazioni  fra  soggetti  ed actibuti;  ma  il  nominalismo  deve  esporlo  come  affermanti  dei  fe- nomeni—dei fenomeni  concreti,  non  delle  astrazioni -e  delle  rela- zioni tra  questi  fenomeni.  Ed  è  questo,  in  effetto,  il  principio  di- rettivo della  classazione  del  Mill,  che  ha  servito  di  base  a  quella stessa  del  Bain,  come  l'una  e  1"  altra  hanno  servito  di  base  alla mia.  Per  altro,  quand'anche  il  senso  delle  proposizioni  si  esponga Queste  due  classi  del  giudizio  si  mescolano  iu-« tiinainente  Furia  coir  altra  in  tutte  le  operazioni  deirin- telliuenza,  dalle  più  basse  alle  più  elevate  :  sono  come  la trama  e  Tordito  che  compongono  il  tessuto  del  nostro  pen- siero. Per  vedere  come  la  percezione  della  somiglianza  e della  differenza  sia  implicata  in  tutte  le  torme  deir attività intellettuale,  rinvierò  alle  opere  degli  psicologi,  special- mente di  Spencer  e  di  Bain.  Io  mi  limiterò  ad  indicare le  comi)licàzioni  più  notevoli  delle  due  classi  di  giudizi, a  fine  di  distinguerle  più  nettamente  Tuna  dall'altra. come  se  ro^-iretto  alìennatu  tosse  una  relazione  tra  eoneetti  (eioe tra  soiX«^etti  ed  attril)uti),  neinincno  in  (jucsto  easo  la  coesistenza di  (lue  o  riù  attributi  in  uno  stesso  soggetto  i.otrebbe  costituire, come  vuole  il  Bain.  una  iUri^ionc  delle  proposizioni  reali,  cioè  sin- tetiche: poiché,  anuuettendo  la  divisione  del  giudizio  in  sintetico e  analitico  il  senso  di  tutte  le  proposizioni  sintetiche  si  ricon- durebbe  come  insegna  il  ^\\\\{FiJo^qlia  iUllamiìtoa,  Del  giudizio), air  atrermazione  della   coesistenza  di  due   o  più  atrributi   in  uno stesso  so*^"— etto. Un'altra  innovazione  del  Bain  è  di  scjpprimere  la  classe  delle proposizioni  sulla  somiglianza:  (luesta  non  potrel)be,  secondo  lui, costituire  una  divisione  scicntitica  delle  proposizioni,  perche  la somiglianza  e  la  differenza  sono  implicate  in  ogni  specie  di  cono- scenza (ma  eirli  mantiene,  comi.'  una  categoria  si.eciale  di  propo- sizioni quelle  che  atlermano  l'accordo  o  la  ditìerenza  nella  tpian- tità  c'ioè  r  eiruaalianza  o  1*  ineguaglianza).  Siccome  esse  non  ci /la'nno  che  le  circostanze  fondamentali  che  dehniscono  e  costitui- scono tutte  le  nostre  conoscenze .  queste  adermazioni  sono  delle proposizioni  analitiche  o  i<lenticlie  {Lofìira.  lib.  1.  e.  3.  IfJ  e  l'^.  App. C  IV)  Conoscere  un  fatto,  dice  il  Hain,  è  al  tempo  stesso  distin- guerlo da  tutti  i  fatti  ditlerenti,  e  accordarlo  o  identificarlo  con tutti  i  fatti  simili:  la  conoscenza,  1"  idea  o  la  rappresentazione  di rm  o-aetto  concreto  è  dunque  come  r  aggregato  di  tutte  (pieste operazioni  mentali  di  diftcrcnza  e  di  concordanza  [Loqica,  Intro- <luzione  0).  Secondo  noi,  ciò  non  è  generalmente  vero  che  della conoscenza  espressa,  o  capace  di  essere  espressa,  per  mezzo  delle parole  Noi  conosciamo  il  caldo,  dice  il  Bain,  i^er  opposizione  col freddo-  la  luce,  con  le  tenebre;  la  retta,  con  la  curva  e  la  spezzata; o  da  un  altro  lato  la  conoscenza  di  una  cosa  (p.  e.  di  uno  scellino) V^  In  un  rapporto  di  somiglianza  deve  distinguersi,  co- me abbiamo  osservato,  il  rapporto  stesso  e  il  fondamento di  questo  rapporto.  Il  rapporto  in  se  stesso  è  una  veduta subiettiva  dello  spirito  che  compara  gli  oggetti,  la  costa- tazione del  sentimento  di  somiglianza  o  di  differenza  che provoca  in  noi  il  confronto  di  questi  oggetti  :  il  fonda- mento del  rapporto  è  qualche  cosa  di  obbiettivo  che  si trova  negh  oggetti  stessi,  il  loro  modo  di  esistere  die  è  la causa  per  cui  lo  spirito  ha  la  percezione  di  questo  rap- porto determinato,  cioè  prova   questo  sentimento  deter- .supi^one  la  rassomiglianza  con  altre  cose  che  in  un  gran  numero  di circostanze  ci  hanno  colpito  per  delle  proprietà  identiche.  Senza dub])io,  rapplicazione  a  un  oggetto  di  un  nome  generico  (una  no- zione generale,  secondo  i  concettualisti)  suppone  che  quest  oggetto sia  stato  riconosciuto  più  somigliante  agli  oggetti  a  cui  ilTome è  stato  dato,  che  a  tutti  gli  altri;  l'oggetto  essendo  così  assimilato ai  primi,  ed  opposto  ai  secondi.  Di  là  quella  correlatività  uni- versale di  cui  Ilaria  il  Bain:  a  ogni  classe  corrispondono  dei^^li  og- getti fuori  della  classe,  a  ogni  termine  positivo  un  termine  nei.^^ti- To,  a  ogni  alTerinazione  una  negazione.  Ma,  siccome  le  idee' dei fenomeni  particolari  non  sono  che  le  rappresentazioni  o  immai>ini <li  ({uesti  fenomeni,  così  noi  abbiamo  un'alTermazione.  un  giudizio, tutte  le  volte  che  un  seguito  di  tali  innnagini  o  rappresentazioni  è accompagnato  da  «piel  modo  particolare  della  coscienza  che  noi i^hiamiamo  credenza.  Ciò  non  implica  delle  percezioni  di  diflerenza <)  di  somiglianza,  e  intanto  è  quanto  basta  per  formare  una  co- noscenza. La  necessità  dellelemento  della  differenza  per  la  conoscenza  è per  il  Bain  un  caso  dì  ciò  che  egli  chiama  la  lerjffe  della  relatì- rità.  (V.  sulla  legge  della  relatività  Logica  Introduzione  3-4,  lib.  1. .  11-18,  e.  2.  (1,  e.  3.  1,  lib.  4.  e.  l.  2,  App.  C,  ecc.;  Le  emozioni e  la  colonia  parte  1.  e.  4.  1-5,  p.  2.  e.  13.  7-0  e  27,  App.  A,  ecc.;seiiHi  e  V intelligenza  Introduzione  ci.  in  line,  parte  2.  in  principio, e.  3.  Vili,  ecc.).  Questa  legge  del  Bain  è  una  generalizzazione  so- vratutto  di  due  ordini  di  fatti  essenzialmente  distinti:  1.  Perchè  Io spirito  provi  un  sentimento,  bisogna  che  vi  sia  un  cangiamento neliimpressione:  la  continuità  ininterrotta  d'una  stessa  impressione non  è  accompagnata  da  coscienza  (p.  e.  la  pressione  delFaria  sul nostro  corpo).  Questa  parte  della  legge  della  relatività  si  riferisce. minato,  di  somiglianza  o  di  differenza.  Una  proposizione affermante  una  somiglianza  può  dunque  avere  due  signi- ficati, secondo  che  il  suo  oggetto  è  d'indicare  il  rapporto stesso  o  il  fondamento  del  rapporto.  La  proposizione  :  «  A. é  simile  a  B  »  nel  secondo  caso  significa  che  tale  è  il modo  di  esistere  di  A,  che  se  noi  la  confrontiamo  con  B,. avremo  la  perceziono  d'una  somiglianza,  ed  è  quindi  un giudizio  positivo  o  suiresistenza  :  non  è  che  nel  primo caso  che  la  proposizione  esprime  un  giudizio  propria- mente detto  sulla  somiglianza  o  comparativo.  Cosi  in  un teorema  di  fìsica,  enunciante  dei  rapporti  quantitativi  tra fenomeni  successivi,  l'affermazione  volge  su  certe  seciuenze di  fenomeni,  e  si  ha  un  giudizio  sull'esistenza.  La  propo- sizione deve  essere  cosi  interpretata,   perchè  quello   che come  si  vede,  non  agli  stati  mentali  per  se  stessi,  ma  al  loro  rap- porto con  le  loro  cause.  2.  L'atto  di  conoscere  contiene  sempre  una coppia  di  cose  correlative  :  ogni  cosa  non  si  conosce,  secondo  il Bain,  che  per  la  sui»,  opposizione  con  altre  cose.  Noi  abbiamo  già osservato  che  quest'aspetto  della  legge  della  relatività  non  si  ap- plica, come  principio  generale,  che  alle  nozioni  generiche. 11  Bain  vede  nella  percezione  della  somiglianza  e  in  quella  della ditrerenza  due  facoltà  primitive  distinte  dell'  intelligenza  ;  noi  al contrario  non  possiamo  vedervi  che  due  aspetti  di  un  fatto  unico. ditferenza  equivale  a  un  grado  minore  della  somiglianza,  come la  somiglianza  a  un  grado  minore  della  differenza.  Così  uno  stessa rapporto  vien  chiamato  somiglianza  o  ditferenza,  secondo  che  si paragona  a  tale  o  tal  altro  rapporto.  11  rapporto  fra  un  bianco  e un  negro  è  un  rapporto  di  dift'erenza,  se  si  paragona  al  rapporto degli  uomini  bianchi  fra  loro  ;  ma  è  un  rapporto  di  somiglianza, se  si  paragona  al  rai^porto  degli  uomini  con  gli  altri  animali.  Due gradazioni  diverse  dello  stesso  colore  sono  simili,  se  si  paragonano a  due  colori  diversi;  sono  differenti,  se  si  paragonano  a  due  tinte eguali.  In  quest'ultimo  caso  noi  diciamo  che  non  vi  ha  difterenza, perchè  la  somiglianza  è  al  suo  maximum,  al  punto  di  vista  del colore.  Somigliante  e  differente  sono  dunque  due  termini  relativi, come  grande  e  piccolo  e  tutte  le  altre  applicazioni  particolari  di questa  op^posizione,  lungo  e  corto,  lontano  e  vicino,  molto  e  poco, caldo  e  freddo,  ecc.:  somigliante  e  dirterente  non  è  che  un  altro caso  della  stessa  opposizione. più  im|)orta  a  chi  emette  questa  proposizione,  ò  di  far conoscere  il  fondamento  del  rapporto,  cioè  il  modo  di  esi- stere dei  fenomeni  reah,  e  non  la  percezione  subbiettiva dello  spirito  :  questa  seconda  conoscenza  è  una  conseguen- za della  prima,  e  oltre  che  é  meno  importante  in  se  stes- sa, può  ricavarsi  naturalmente  da  quella,  senza  che  vi sia  bisogno  di  essere  espressamente  comunicata.  Ma  un teorema  di  matematica,  enunciante  dei  rappporti  fra  i  nu- meri astratti  o  delle  relazioni  metriche  tra  le  figure,  non afferma  niente  sull'esistenza  dei  fenomeni  reali  nò  sul- l'ordine con  cui  essi  si  seguono  o  si  accompagnano  :  tali proposizioni,  per  conseguenza,  devono  interpretarsi  come semplici  giudizi  comparativi  o  sulle  somighanze.  È  questo un  punto  che  verrà  chiarito  nei  capitoli  seguenti. 2^  Alla  distinzione  tra  il  rajjporto  di  somiglianza  e  il fondamento  di  questo  rapporto  corrisponde  una  distinzione nel  significato  possibile  di  tutte  le  proposizioni  che  hanno per  predicato  un  nome  generale.  Un  nome  generale  è  un di  classe:  quindi  l'attribuzione  di  questo  nome  im- plica l'aggregazione  dell'oggetto  a  cui  si  attribuisce,  a«l una  classe  determinata,  in  una  parola,  una  classazione -di  quest'oggetto.  (Jra  classare  un  oggetto  è  stabilire  che esso  ha  una  somiglianza  definita  con  gli  altri  oggetti  con cui  si  classa  ;  e  una  somiglianza  è,  come  abbiamo  visto, un  fatto  che  può  guardarsi  sotto  due  aspetti  ditlerenti, «cicò  come  un  rapjDorto  fra  gli  oggetti  comparati,  e  come il  fondamento  in  questi  oggetti  del  rapporto  che  è  il  ri- sultato del  loro  paragone.  Ne  segue  che  una  proposizione €on  un  predicato  generale  è  suscettibile  di  essere  inter- pretata in  due  significati  differenti,  cioè:  come  un'aggrega- zione del  soggetto  della  proposizione  fra  gli  oggetti  a  cui può  attribuirsi  lo  stesso  predicato^  in  virtù  di  questo  limi- to di  rassomiglianza  che  ha  con  essi  ;  e  come  l'assegna- zione a  questo  soggetto  di  una  determinata  qualità  o  mo- do di  essere,  o  in  una  parola,  del  fondamento  della  relazione  di  somiglianza,  che  permette  di  aggregarlo  tra  gli oggetti  a  cui  il  ])redicato  è  comune.  Il  primo  di  questi due  significati  si.  chiama  in  estensione,  e  cosi  interpretata la  projMDsizione  esiìrime  un  giudizio  comparativo  o  sulla somighanza  ;  il  secondo  significato  si  chiama  in  compren- sione, e  la  proposizione,  interpretata  di  questa  maniera, esprime  un  giudizio  ì)Ositivo  o  sull'esistenza  (a  meno  clie il  predicato  non  sia:  uguale  a....,  simile  a....,  ecc.).  La  pro- posizione: «  L'uomo  è  mortale  »,  interpretata  in  estensione, significa  che  Tuomo  deve  classarsi  tra  i  mortali  —  giù- dizio  sulla  somiglianza— ;  interpretata  in  comprensione, che  agli  altri  fenomeni  presentati  dairuomo  è  congiunto il  fenomeno  della  morte  —  giudizio  sulFesistenza  — .  Si  è preteso  che  tutte  le  projìosizioni  aventi  un  predicato  ge- nerale devono  interpretarsi  in  estensione,  cioè  che  il  senso della  proposizione  è  di  fare  rientrare  un  individuo  in  una classe  0  una  classe  in  un'altra.  Ma  nell'interpretazione delle  proposizioni  noi  dobbiamo,  per  le  ragioni  dette  nel numero  precedente,  ju'eferire  alla  relazione  di  somiglianza il  fondamento  di  ({uesta  relazione,  e  dare  quindi  alle  pro- posizioni con  un  predicato  generale  il  senso  in  compren- sione, a  meno  che  il  loro  oggetto  non  sia  direttamente  di staìjilire  una  classazione.  Nel  caso  i)ratico  può  essere  dub- bio se  l'oggetto  diretto  della  proposizione  è  di  classare il  soggetto  0  di  attribuirgli  la  proprietà  che  è  il  fonda- mento della  classazione.  Cosi,  quando  l'attributo  è  uno  di quei  caratteri  su  cui  sono  fondate  le  classi  degli  esseri della  natura  (animali,  piante  o  minerali),  la  proposizione potreljbe  avere  per  oggetto  sia  di  collocare  il  Soggetto nella  classe  contrassegnata  da  (piesto  carattere,  sia  di attribuirgli  il  carattere  stesso,  o  anche  con  esso  tutti  gli altri  comuni  alla  classe.  La  pro|)Osizione  :  «  L'uomo  é  un mammifero  placentato  »,  potrebbe  affermare  o  la  presenza delle  mammelle  e  della  placenta,  sia  sole  sia con  le  altre  particolarità  <leirorganizzazione  che  la  pre- senza di  questi  organi  trascina  con  essa,  ovvero  che  l'uo- mo deve  includersi  nella  classe  zoologica  dei  «  mammiferi placentati.  »  Un  caso  in  cui  è  certo  che  il  senso  è  in  e- stensione,  cioè  che  la  proposizione  deve  interpretarsi  come l'affermazione  di  una  classazione,  è  quello  delle  proposi- zioni che,  se  si  ammettesse  la  divisione  kantiana  del  giu- dizio in  analitico  e  siiìtetico,  (iovreb])ero  senza  esitare prendersi  per  analitiche.  Tali  sono  p.  e.  le  proposizioni  : L'uomo  è  un  animale.  La  vite  è  una  pianta,  L'oro  è  un metallo.  »  Queste  proposizioni  non  potrebbero  affermare l'esistenza  nelluomo,  nella  vite  o  nell'oro  del  fondamento della  loro  classazione  fra  gli  animali,  le  piante  o  i  me- talli, perchè,  se  noi  non  sapessimo  che  questi  oggetti  lianno le  proprietà  per  cui  il  nome  di  queste  classi  é  loro  ap- [ilicabile,  noi  non  daremmo  loro  nemmeno  il  nome  di  uo- mo, di  vite  0  di  oro.  L'esistenza  in  essi  del  fondamento della  classazione  che  il  predicato  indica,  è  duncpe  impli- cata nell'assegnazione  del  nome  soggetto,  e  per  conse- guenza, siccome  assegnando  il  predicato  non  deve  am- mettersi die  noi  facciamo  una  pura  tautologia,  questo predicato  deve  essere  intesò  come  affermante,  non  il  fon- damento della  classazione,  ma  la  classazione  medesima, cioè  un  giudizio  comparativo  o  sulla  somiglianza. Vi  ha  un  altro  caso,  indicato  dal  Mill  (Lof/ica,  1.  l""  e. 5^'  §  G),  in  cui  il  predicato  generale  deve  intendersi  come affermante  la  somiglianza  del  soggetto  con  le  altre  cose a  cui  il  predicato  è  comune.  È  quando  il  soggetto  è  una sensazione  o  un  altro  sentimento  semplice,  e  il  predicato il  nome  della  sua  classe.  Questo  secondo  il  Mill:  macie secondo  noi  non  è  vero  che  ad  una  condizioiie,  cioè  che il  sentimento  stesso  si  supponga  preconosciuto;  nel  caso jjratico,  che  la  sensazione  sia  comune  a  chi  jjarla  ed  a chi  ascolta.  Dicendo:  «  Questo  colore  è  bianco  »,  la  mia intenzione  non  può  essere  di  conmnicare  alla  persona  a cui  in(hco  il  colore,  una  conoscenza  sulla  natura  del  co- r    I }..    I t i  t  f tr lore  stesso;  io  non  posso  intendere  quindi  che  affermare la  somiglianza  di  (juesto  colore  con  gli  altri  compresi nella  classe  bianco.  Ma  negli  esempi  addotti  dal-Mill:  «  Il colore  che  vidi  ieri  era  un  color  bianco  »  e  «  La  sensa- zione che  provo  é  d'uno  stringimento»,  il  significato  più naturale  delle  proposizioni  è  che  ieri  vidi  un  color  bianco, non  qualche  altro  colore,  e  che  ora  provo  una  sensazione stringimento,  non  qualche  altra  sensazione,  e  non  già, come  vuole  il  Mill,  che  il  colore  che  vidi  ieri  somigliava agli  altri  colori  della  classe  bianco,  e  che  la  sensazione che  provo  somiglia  ad  altre  che  ho  provate  e  a  cui  si  è dato  il  nome  di  sensazioni  di  stringimento:  ciò  è  perché, le  mie  sensazioni  non  potendo  essere  preconosciute  che da  me  stesso,  si  deve  intendere  che  per  queste  proposi- io  voglio  istruire  gli  altri,  non  sulle  relazioni  di  so- miglianza di  queste  sensazioni,  ma  sul  fondamento  di  queste relazioni,  cioè  sulle  sensazioni  stesse.  11  Mill  non  tiene conto  della  distinzione  tra  il  rapporto  di  somiglianza  e  il fondamento  del  rapporto,  e  dà  unicamente  come  after- mazioni  sulla  somiglianza  delle  proposizioni  che  possono anche  non  aftermare  che  resistenza  negli  oggetti  del  fon- damento di  questo  rapporto.  È  ciò  che  egli  fa  pure  per un'altra  sorta  di  proposizioni,  in  cui,  come  nella  prece- dente, il  predicato  significa,  com'egli  dice,  una  rassomi- glianza generale  non  analizzabile— mentre  nella  più  parte casi  il  i)redicato  generale  significa,  secondo  lui,  la presenza  di  un  gruppo  definito  di  attributi,  dottrina  sulla dei  nomi  che  noi  abbiamo  confutata  nel  ca- pitolo antecedente.— Quest'altra  sorta  di  proposizioni  sono quelle  in  cui  il  nome  della  classe  ò  attribuito  a  un  oa'a'etto che,  (juantunque  non  abbia  che  alcuni  degli  attributi  che caratterizzano  la  classe,  deve  nondimeno  collocarsi  in  essa, perché  vi  si  avvicina  di  più  che  a  tutte  le  altre  classi— per  classi  qui  dobbiamo  intendere  specialmente  i  gruppi in  cui  vengono  distribuiti  gli  esseri  della  natura —Per  noi che  non  ammettiamo  la  dottrina  sulla  connotazione  dei nomi  di  Mill,  il  significato  di  queste  proposizioni  non  può differire  da  quello  delle  altre  in  cui  il  predicato  è  un  nome d'una  classe,  cioè  di  un  gruppo  naturale  :  in  esse,  come in  quelle,  l'affermazione  può  volgere  tanto  sul  fondamento della  relazione  di  somiglianza,  quando  sulla  relazione  stessa. La  proposizione  p.  e.  «  L'  amphioxus  lanceolatas  è  un pesce  »,  può  avere  per  oggetto  tanto  di  darci  una  nozione generica  della  struttura  di  quest'animale,  quanto  d'indi- carci il  posto  che  esso  occupa  nella  classificazione  degli animali.  Se  un  zoologo  parla  a  un  altro  zoologo,  che  co- nosce già  la  struttura  dell'  amphioxus  lanceolatm,  il  si- gnificato più  naturale  é  il  secondo;  se  a  un  profano,  che ignora  assolutamente  che  cosa  esso  sia,  il  primo. 3^  Anche  quando  una  proposizione  ha  direttamente  per oggetto  di  enunziare  una  classazione,  può  involgere  pure nel  suo  significato  dei  giudizi  sull'esistenza.  Per  citare  un esempio  di  Spencer  (Principii  di  piscologia,  §  310),  se  io ho  d'innanzi  agli  occhi  un'arancia,  e  dico:  «Questa  é un'arancia  »,  io  non  voglio  solamente  significare  che  que- st'oggetto che  percepisco  deve  classarsi  fra  le  arance,  ma anche  che  con  gli  attributi  che  io  percepisco  attualmente sono  congiunti  gii  altri  attributi  d'un'arancia,  che  io  non percepisco  attualmente,  ma  inferisco  da  queUi.  Cosi  la classazione  implica  spesso  delle  inferenze  sull'oggetto  che si  classa  :  delle  inferenze  che  stabiliscono  che  coi  fenomeni che  l'oggetto  ci  ha  presentato,  sono  congiunti  altri  feno- meni, che  esso  non  ci  ha  presentato,  ma  che  noi  presu- miamo che  potrebbe  presentarci,  perché  nell'  esperienza passata  li  abbiamo  trovato  generalmente  in  congiunzione coi  primi.  In  tali  casi  la  proposizione  enunciante  la  clas- sazione, oltre  ai  giudizi  sulla  somiglianza  costituenti  l'atto della  classazione  propriamente  detta,  esprime  pure,  per conseguenza,  altri  giudizi  su  certe  sequenze  o  coesistenze di  fenomeni. li Ciò  che  abbiamo  detto  della  classazione  è  vero  anche, e  a  più  forte  ragione,  della  ricognizione,  cioè  delFidenti- tìcazione  di  un  oggetto  come  il  tale  oggetto  individuale. La  ricognizione  ò  in  certo  modo  anch'essa  una  classazio- ne, delle  impressioni  presenti  che  ci  vengono  dall'oggetto, con  le  impressioni  passate  che  ci  sono  venute  da  esso (confr.  Spencer  ibid,  paragr.  312  e  313).  Ma  con  questa classazione  coesistono,  non  spesso,  come  nella  classazio- ne i)ropriamente  detta,  ma  sempre,  delle  inferenze  sull'og- getto, e  quindi  delle  affermazioni  sull'esistenza.  Ciò  non  è vero  semplicemente  perchè,  attribuendo  queste  impressio- ni presenti  a  un  oggetto  determinato,  noi  affermiamo  di esso,  oltre  agli  attributi  che  attuahnente  percepiamo,  altri attributi  che  non  percepiamo,  ma  potremmo  percepire,  e inferiamo  dai  primi;  ma  ancora  perchè  quest'attribu- zione suppone  che  noi  ammettiamo  che  l'esistenza  dell'og- getto attualmente  percepito  si  continua  con  l'esistenza  del- l'oggetto percepito  anteriormente.  Ciò  vuol  dire,  in  primo luogo,  che  noi  ammettiamo  che  l'oggetto  è  esistito  anche nel  tempo  intermedio  fra  le  nostre  percezioni  passate  del- l'oggetto e  la  nostra  percezione  presente;  in  altri  termini, noi  affermiamo  l'esistenza  di  altre  percezioni  possìbili  in- terposte, nel  tempo,  fra  questa  percezione  e  quelle,  e  at- tribuibili allo  stesso  og^getto.  Di  più  l'idea  dell'identità  della sostanza  implica,  come  abbiamo  visto,  oltre  alla  somi- glianza tra  i  suoi  stati  successivi,  che  la  sostanza,  in  que- sti stati  successivi,  o  ha  occupato  la  stessa  posizione  nello spazio,  o  ha  cangiato  di  posizione,  ma  d'  una  maniera continua,  L' identificazione  dell'  oggetto  implica  dunque, oltre  all'assimilazione  delle  percezioni  presenti  con  le  per- cezioni passate  venuteci  dallo  stesso  oggetto,  e  all'inter- calazione, nel  tempo,  tra  queste  e  quelle,  di  altre  percezio- ni possibili,  il  più  spesso  somiglianti,  l'affermazione  che tutte  queste  percezioni  successive  hanno  avuto  una  tale localizzazione  nello   spazio,  che  tra  gli  stati  immediatamente  successivi  dell'oggetto  che  è  il  complesso  di  tutte queste  percezioni,  vi  sia  stata  o  un'assoluta  identità  di posizione,  o  c^uel  cangiamento  indiscernibile  di  posizione, in  cui  abbiamo  risoluta  la  continuità  del  movimento  (v. paragr.  9^). 4^  Spencer  fa  consistere  il  ragionamento  nella  ricono- scenza della, somiglianza  (o  non  somiglianza)  di  due  rap- porti (Princij)ii  di  psicologia,  G^  parte,  cap.  II-VIII).  Sareb- be più  esatto  di  dire  che  il  ragionamento  consiste  a  sta- bilire, anzicchè  la  somiglianza  di  un  rapporto  con  un  al- tro rapporto,  un  rapporto  (quello  inferito)  simile  a  un  al- tro rapporto  (quello  anteriormente  conosciuto  tra  i  fatti da  cui  si  fa  l'inferenza).  La  dottrina  di  Spencer  arriva alla  confusione  tra  il  ragionamento  e  la  classificazione {v.ibid.y  §.  309,  310,  313,  ecc..)  Ma  queste  operazioni  men- tali sono  due  fatti  essenzialmente  differenti.  La  classifica- zione si  ferma  alla  riconoscenza  di  una  somiglianza  de- finita tra  il  nuovo  caso  e  i  casi  anteriormente  conosciuti tra  cui  viene  aggregato.  Nel  ragionamento,  al  contrario, la  riconoscenza  della  somighanza  non  è  ciie  un  mezzo;  il risultato  a  cui  esso  mira  è  di  stabilire  un  nuovo  fatto (che,  tranne  nelle  matematiche  pure,  non  è  una  somi- ghanza, ma  una  sequenza  o  coesistenza  di  fenomeni). Ci(")  che  vi  ha  di  vero  nella  dottrina  di  Spencer  è  che le  intuizioni  razionali  più  importanti  nel  ragionamento, (iuelle  senza  le  quali  un'inferenza  cosciente  sarebbe  im- j)Ossibile,  e  date  le  ({uali  questa  si  fa  naturalmente  e  co- me da  se  stessa,  sono  delle  intuizioni  di  somiglianza.  In un  sillogismo,  in  effetto,  la  minore,  che  è  come  il  ponte per  cui  passiamo  dal  noto  all'ignoto,  è  evidentemente  un giudizio  comparativo.  Ciò  che  ci  autorizza  a  concludere, dal  fatto  che  i  pianeti  anteriormente  conosciuti  hanno  delle orbite  ellittiche,  che  anche  1'  astro  nuovamente  sc^overto deve  avere  un'orbita  ellittica,  è  la  riconoscenza  che  (pie- st'astro  deve  a2:gregarsi  in  una  stessa  classe  coi  pianeti anteriormente  conosciuti.  Se  noi  diamo  al  ragionamento in  (juistione  la   forma  ordinaria  della  logica,  cioè  quella di  un  sillogismo,  la  minore:  «  U  nuovo  astro  è  un  piane- ta »,  va  dunque  interpretata  in  estensione,  e  non  afferma che  una  somiglianza.    Di  più  in  questo  sillogismo  anche la  premessa  maggiore  e  la  conclusione  stessa  implicano e  suppongono  delle  percezioni  di  somiglianza.   La  prima —noi  ammetteremo,  affinchè  Tinterenza  non  sia  sempli- cemente apparente,  clic  la  premessa  reale  sia  costituita, non  da  tatti  i  casi  compresi  nella  proposizione  generale, ma  da  quelli  solamente  in  cui  T  unitbrmità  espressa  da questa  proposizione  è  stata  constatata— suppone  che  tutti i  pianeti  anteriormente  conos:^iuti  siano  stati  comparati, e  trovati  concordanti  a  un  doppio  punto  di  vista,  cioè  ne- gli attributi  indicati  dal  nome  pianeta,  e  in  quello  di  ave- re un'  orbita  ellittica.   In  quanto  alla  conclusione  infine, -è  evidente  che  noi  non  attribuiamo  al  nuovo  pianeta  un  or- bita simile,  che  perchè  intendiamo  assimilare  il  suo  mo- vimento a  quello  degli  altri  pianeti  :  questa  proposizione implica  dunque  la  percezione  della  somiglianza  tra  T  or- bita assegnata  al  nuovo  pianeta  e  quelle  costatate  nei  pia- neti già  conosciuti. Vi  ha  un  caso  in  cui  la  formula  di  Spencer  é  un  espres- sione esatta  dei  fatti  :  è  quando  la  deduzione  ha  per  isco- po,  non  di  fare  un'inferenza,  cioè  di  scoprire  un  nuovo,  ma  solo  di  spiegare  questo  fenomeno  già  sco- verto, purché  però  tutte  le  circostanze  del  fenomeno,  cioè le  condizioni  da  cui  esso  dipende,  siano  anch'esse  cono- sciute. Cosi,  quando  si  conosce  già  l'orbita  d'un  pianeta, deducendo  quest'orbita  dalle  condizioni  pure  conosciute da  cui  essa  dipende  (cioè  la  massa  del  sole,  la  distanza del  pianeta  dal  sole  e  la  sua  forza  tangenziale),  non  si  fa che  riconoscere  la  somiglianza  del  modo  di  produzione del  fenomeno  col  modo  di  produzione  degli  altri  fenomeni, governati  dalle  stesse  leggi. :V. ci ''^ 5'^  Una  generalizzazione  implica  due  volte  il  riconosci- mento di  una  concordanza  tra  fenomeni,  una  proposizione generale  esprimendo  una  congiunzione  costante  fra  due tipi  di  fenomeni  o  gruppi  di  fenomeni.  «  Il  contrasto  fra l'astrazione  (cioè  la  formazione  d'un'idea  di  classe)  (1)  e l'induzione  può  esprimersi,  dice  il  Bain  (/  sensi  e  V intel- ligenza, 2*"  parte  e.  2^  V)  della  maniera  seguente:  nel- l'una è  una  proprietà  unica  isolata,  o  una  collezione  di proprietà  trattata  come  un'unità,  che  s'identifica  e  gene- ralizza; nell'altra  è  una  congiunzione,  una  unione;,  l'in- contro di  due  proprietà  distinte.  Noi  facciamo  un'astra- zione quando  mettiamo  tutte  le  riviere  in  una  classe,  e definiamo  la  proprietà  comune  a  tutte  le  riviere  :  facciamo un'induzione,  quando  diciamo  che  le  riviere  distruggono il  loro  letto,  e  depongono  delle  alluvioni  in  forma  di  delta alla  loro   foce L'operazione   dell'induzione  è   dunque della  stessa  natura,  ma  più  ardua  e  più  laboriosa,  che quella  dell'astrazione».  Questa  proposizione  però,  se  doves- se prendersi  in  tutto  il  suo  rigore,  sarebbe  esposta  alla obbiezione  che  la  dottrina  sul  ragionamento  di Spencer,  cioè  d' identificare  due  operazioni  mentali  tan- to differenti  quali  sono  l'inferenza  e  la  classificazione. Essa  non  é  rigorosamente  vera,  che  se  si  applica,  non all'induzione,  ma  alla  generalizzazione  che  non  é  al  tempo (1)  Noi  abbiamo  visto  nel  capitolo  precedente  che  non  vi  hanno idee  astratte  :  quindi  un'idea  dì  classe  non  può  essere  per  noi  che il  complesso  delle  idee  particolari  dei  casi  della  classe,  coi  loro rapporti  reciproci  di  somiglianza.  Si  obbietterà  che  di  questa  ma- niera un'idea  di  classe  è  impossibile,  perchè  non  si  possono  avere le  idee  di  tutti  i  casi  di  una  classe,  che  sono  infiniti?  Noi  rispon- deremo che  avere  l' idea  d'  una  classe  non  importa  avere  attual- mente ridea  di  tutti  i  casi  della  classe,  ma  solo  conoscerne  alcuni, che  ci  servono  come  esemplari,  ed  essere  capaci  di  aggregare  gli altri  insieme  ad  essi,  quando  si  presenteranno  alla  nostra  esperienza o  alla  nostra  immaginazione.  stosso  una  induzione.  Se  p.  e.  dopo  aver  osservato  clie ciascun  pianeta  ha  un'orbita  ellittica,  si  conclude  che  tutti i  pianeti  hanno  delle  orbite  ellittiche,  intendendo  i)er  tidtl i  pianeti  solamente  quelli  conosciuti,  e  senza  niente  })re- giudicare  sugli  altri  che  i)Otranno  in  seguito  essere  sco- verti, questa  generalizzazione  non  iin})orta  altra  cosa  che lidentiticaztoiìe  di  cui  parla  il  Bain,  cioè  la  semplice  per- cezione di  una  unitormità.  Una  generalizzazione  che  non implica  \uia  inferenza,  e  non  supi)one  (piindicheil  sempli- ce riconoscimento  di  una  somiglianza,  si  trova  pure  nell'ul- Tultima  delle  ire  torme  di  spiegazione  enumerate  dalMill, quella  che  consiste  a  ridurre  più  leggi,  prima  credute  di- stinte e  indipendenti,  ad  una  legge  luiica,  come  quan<lo il  peso  terrestre  e  Tattrazione  terrestre  furono  riunite  da Newton  nel  principio  unico  deirattrazione  universale,  (v. Mill  Lofiica,  1.  .3^  e.  12'',  §  5  e  (i). Benché  una  generalizzazione,  sia  o  no  induttiva,  im- plichi o  sia  del  tutto  il  riconoscimento  di  mia  somiglian- za, una  proposizione  generale,  se  essa  non  enunzia  che seijuenze  o  coesistenze,  non  atìerma  altra  cosa  che queste  stesse  sequenze  o  coesistenze.  Il  significato  di  una proposizione  generale  non  consiste  che  nelle  proposizioni particolari  che  se  ne  possono  ricavare,  e  alcuna  di  que- ste non  afferma  una  somiglianza,  quando  quella  non  ha per  oggetto  di  enunziare  una  uniformità  di  somiglianze. Vi  hanno  dei  casi  in  cui  una  proposizione  particolare implica  nella  sua  significazione  una  generalità.  Ciò  si  ve- rifica quando  airatfermazione  di  una  sequenza  o  coesi- stenza di  fenomeni  si  unisce  Taltra  affermazione  che  ({ue- sta  sequenza  o  coesistenza  particolare  è  un  caso  di  qual- che legge  generale  di  sequenza  o  coesistenza.  Cosi  dicen- do che  il  fenomeno  a  avrà  per  effetto  il  fenomeno  />,  non si  afferma  solamente  che  h  seguirà  ad  a,  ma  ancora  che la  sequenza  tra  a  q  h  avviene  secondo  una  sequenza  uni- forme e  in  variai  àie  tra  due  tipi  di  fenomeni,  di  cui  a  e sono  degU  esempi  particolari.  Per  conseguenza  una  tale proposizione  involge  tre  affermazioni  distinte  :  il  rapporto (di  sequenza  o  coesistenza)  tra  due  fenomeni  particolari, il  rapporto  generale  di  cui  esso  é  un  caso,  e  la  classa- zione  del  primo  rapporto  come  un  caso  del  secondo.  Se  poi diciamo,  non  che  a  avrà  per  effetto  b,  o  die  b  ha  dovuto avere  per  causa  a,  ma,  supponendo  preconosciuta  la  sequen- za tra  a  e  h,  clie  a  è  la  causa  e  b  il  suo  effetto,  allora  delle affermazioni  distinte  nella  proposizione  precedente,  la prima  viene  a  mancare,  e  non  restano  che  le  due  altre. L'affermazione  può  anciie  ridursi  ad  una  sola,  se  si  su[)- [)one  ])ure  preconosciuto  il  rapporto  generale  di  causa- zione, di  cui  la  causazione  in  (luistione  è  un  caso  parti- colare: in  (jucsta  ii)Otesi,  la  proposizione  che  a  è  la  causa di  b,  o  che  b  è  l'effetto  di  a,  non  è  che  una  sem}>lice  clas- sazione,  quella  della  sequenza  tra  a  q  b  con  le  sequenze simili  che  sono  gli  altri  casi  del  rap[)orto  generale  (U  cau-, e  non  esprime  quindi  che  un  giudizio  sulla  so- miglianza. Terminando,  io  farò  quest'avvertenza  generale,  che  ciò nei  sapitoli  susseguenti  sarà  detto  sui  giu(Uzi  di  so- miglianza, non  è  applicabile  che  (luando  questi  giudizi sono  stati  distinti  da  quelli  suiresistenza,  con  cui  essi  sono implicati,  o  con  cui  potrebbero  confondersi.  É  ciò che  bisognerà  sempre  tener  presente,  i)er  valutare  le  o))- biezioni,  che  potranno  presentarsi,  contro  le  proposizioni che  stabiliremo  sui  caratteri  speciali  a  questa  classe  di giudizi,  e  la  loro  opposizione,  al  punto  di  vista  particola- re dell'argomento  di  questo  scritto,  con  ([ucUi  di  sequen- za e  di  coesistenz Giudìzi  a  priori  e  giudizi  a   posteriori. §.  1."  La  divisione  dei  giudizi  in  a  priori  e  a  poste- riori, ngGi'osaiaeiitc  tracciata,  corrisponde  a  quella,  sta- bilita nel  capitolo  i>recedente,  in  comparativi  o  sulla  sonii- g  lanza  .3  positivi  o  sulla  esistenza.  I  rapporti  di  somi- glianza e  di  differenza  tra  le  cose  noi  possiamo  scoprirli per  il  solo  esame  delle  idee  di  queste  cose,  e  senza  biso- gno dell'osservazione  delle  cose  stesse.  Quand'anche  noi non  avessimo  mai  fa,tto  il  confronto  attuale  di  tre  oggetti, noi  iiotreinino,  consultando  i  nostri  ricordi,  conoscere,  pel- li semj)lice  conlronto  delle  rap!>resentazioni  di  questi'  og- getti, che  due  di  essi  sono  più  somiglianti  Ira  di  loro  che col  terzo,  per  il  colore,  0  per  la  forma,  o  per  la  grandezza, ecc.  Noi  ijotremmo  pure  conoscere  per  lo  stesso  mezzo (luale  di  essi  è  più  grande  e  quale  più  piccolo,  e  se  due riuniti  superano,  per  la  somma  delle  loro  grandezze,  1  a grandezza  dell'  altro,  o  le  restano  inferiori.  Similmente per  vedere  che  il  verde  non  è  il  rosso,  0  che  il  rotondo non  é  il  quadrato,  cioè  che  questi  due  colori  0  queste  due figure  sono  differenti,  noi  non  abbiamo  bisogno  d'una  com- parazione attuale  di  questi  colori  0  di  queste  figure,  ma  ci basta  la  comparazione  delle  l<jro  idee  ;  della   stessa  ina- niei'a  che  ci  basta  la  comparazione  delle  rappresentazioni di  due  rette  con  quelle  di  spazi  circoscritti  da  linee,  per vedere,   senza   bisogno  di  comparare    attualmente  delle rette  e  degli  s[)azi  chiusi  reali,  che  due  rette  digeriscono da  uno  spazio  chiuso,  ciò  che  si  esprime  con  Y  assiomi che  due  rette  non  chiudono   uno  spazio.   E  lo  stesso  po- tremmo dire  di  tante  altre  fra  le  più  semplici  verità  della matematica,  tutte  (luelle  che  si  conoscono,  come  suol  dir- si, d^vma  maniera  intuitiva,  p.  e.  che  due  grandezze  che coincidono  sono  eguali,  che  la  linea  retta  è  la  più  Ijreve fra  due  punti  dati  (cioè  che  è   più  breve  lV  una  curva  o d\uia  spezzata  fra  gli  stessi  punti),    che  due  e  due  sono eguali  a  (juattro,  ecc.  In  questi  casi  come  nei  i)recedenti, siccome  si   tratta  di   giudizi   comi)arativi,   per  percepire queste  verità  noi  non  al)biamo  bisogno  di  confrontare  le €0se  stesse,  tra  cui  si  atferma  una  somiglianza  o  una  dif- ferenza determinata,   ma  ci  basta  di  confrontare  le  idee di  (peste  cose.  Le  verità  che  si  risolvono  in  giudizii  sulla somiglianza  o  sulla  dilferenza,  possiamo  dunque,  sino  ad un  certo  imnto,  conoscerle  indipendentemente  dalF  espe- rienza, in  altri  termini,  esse  possono  formare  Toggetto  di giudizii  a  priori  ;  e  (juesti  giu(Uzii  sono  a  priori  in  que- sto senso,  che  per  istabilirli  non  è  necessaria  Tesperienza delle  cose  reali,  jKjichè  Fosservazione  degli  oggetti  stessi può  essere  sostituita  dalFosservazione  dello  idee  di  questi oggetti. Non  vi  ha  al  contrario  alcun  caso,  in  cui  Tosservazio- ne  delle  idee  iX)ssa  sostituirsi  a  quella  delle  cose  stesse, per  conoscere  resistenza  di  (jueste  cose  e  i  loro  rapporti di  sequenza  o  di  simultaneità.  La  contemplazione  di  una rappresentazione  può  apprenderci  cosi  poco  se  esista  o  no nella  realtà  la  cosa  corrispondente  a  questa  rappresenta- zione, che  la  contemplazione  di  un  ritratto  può  appren- xlerci  se  esso  rappresenta  ima  persona  reale  o  è  una  sem- 7ri plice  fantasia  dell'artista.  Similmente  ci  sarebbe  impossi- bile di  conoscere,  per  il  semplice  confronto  delle  idee  di due  fenomeni,  se  essi  siano  simultanei  o  successivi,  co- me noi  conosciamo,  per  questo  mezzo,  se  sono  simili  o ;  ovvero,  posto  che  noi  sappiamo  già  che  sono successivi,  di  sapere  quale  dei  due  è  Tantecedente  e  quale il  susseguente.  I  giudizii  positivi  o  sulFesistenza  sono  dun- (pie  sempre  a  posteriori,  in  altri  termini,  noi  non  possia- mo mai,  per  istabilirli,  dispensarci  dairesperienza,  perchè resistenza  degli  oggetti,  la  loro  sequenza  e  la  loro  simul- taneità noi  non  possiamo  scoprirla,  come  la  loro  somi- glianza e  la  loro  differenza,  pei*  Tesame  delle  rappresen- tazioni di  qussti  oggetti,  ma  abljiamo  bisogno  di  quello oggetti  stessi  reali. K  (juesta  la  tesi  che  noi  svilupperemo  nel  seguito  di questo  scritto.  Essa  differisce  dalla  ilottrina  dei  lllosoli  a- prlorlstl  o  razionalisti  sovra  tutto  in  un  punto,  cioè  che questi  ammettono  dei  giudizii  a  priori,  non  solo  sulla  so- miglianza,  ma  anche  suir  esistenza  (noi  intendiamo  na- turalmente le  parole  «  giudizii  sull'esistenza  »  nel  senso si)iegato  nel  capitolo  precedente).  Questa  ditferenza  è  di una  grande  importanza  per  la  teoria  della  conoscenza, perchè,  come  abbiamo  detto  nel  princii)io  del  primo  capi- tolo, r  impiego,  più  o  meno  esteso,  del  metodo  a  priori, applicato  alla  conoscenza  del  reale,  è  uno  dei  tratti  più caratteristici  dei  sistemi  metafisici,  e  la  metafisica  stessa è  fondata,  consapevolmente  o  inconsapevolmente,  sul  pre- supposto che  vi  hanno  delle  proposizioni  sull'esistenza,  che noi  dobbiamo  ammettere  per  la  loro  evidenza  intrinseca, cioè  a  priori.  Dimostrando  che  non  vi  lianno  giudizii  a priori  sull'esistenza,  noi  avremo  [)erciò  dimostrato  impli- citamente l'inanità  radicale  di  ogni  metafìsica.  Al  punto di  vista  logico  ed  ontologico,  la  nostra  tesi  è  dunque  es- senzialmente empirista:  ma  anche  al  punto  di  vista  psi- cologico, la  sua  contraddizione  con  l'empirismo  è  piuttoSto  apparente  che  reale.  Sceverando  la  particella  di  ve- rità, contenuta  nella  dottrina  contraria,  i  principii  fonda- mentali della  filosofia  deir  esperienza  saranno  piuttosto- rinvigoriti  che  scossi,  perchè  verrà  rischiarato  un  ango- lo oscuro  di  questa  filosofia,  verso  il  quale  mirano  prinr cipalmente  le  obbiezioni  dei  suoi  avversari,  alle  quali,  se- condo noi,  i  filosofi  empiristi  non hanno  sin  qui  risposta d'una  maniera  soddisfacente.  In  effetto,  da  una  parte,  que- ste obbiezioni  saranno  cosi  ridotte  alla  loro  vera  portata;. e  da  un  altra  parte,  si  vedrà  che  Teccezione,  su  cui  esse si  fondano,  alla  teoria  che  domanda  air  esperienza  Tori-^ gine  di  tutte  le  nostre  conoscenze,  non  è  incompatibile  coi principii  essenziali  di  questa  teoria. Per  istabilire  la  nostra  tesi,  noi  cominceremo  dalFesa- minare  le  dottrine  dei  filosofi  razionalisti  sui  giudizii  a priori.  E  ciò  che  faremo  nel  resto  di  questo  capitolo  e  nei due  capitoli  seguenti. §.  2.°  Per  dimostrare  che  vi  hanno  dei  giudizi  a  prio- ri, i  filosofi  razionalisti  si  servono  di  due  argomenti,  che noi  dobbiamo  discutere,  perché  essi  tendono  a  stabilire dei  giudizii  a  priori  anche  sulFesistenza.  L'uno  di  questi argomenti  è  che  lespcrienza  non  può  dare  origine  a  delle proposizioni  assolutamente  universali.  L'esperienza,  si  di* ce,  può  insegnarci  che  dei  fatti  si  sono  trovati  costante- mente insieme  ;  ma  questa  non  è  una  ragione  che  essi ritorneranno  sempre  a  presentarsi  insieme.  Una  previsio- ne fondata  sulPanalogia  dei  casi  passati,  non  può  essere che  una  congettura  incerta:  Tesperienza  non  può  impri- mere ai  suoi  giudizii  una  universalità  assoluta  e  rigoro- sa. Questa  universalità,  almeno,  non  può  essere  illimitata: se  si  applica  fuori  del  piccolo  cerchio  di  spazio  e  del  cor- to frammento  di  durata  in  cui  sono  confinate  le  nostre osservazioni,  la  proposizione  non  è  che  probabile;  non  ci è  permesso  di  affermare  che  i  dati  che  essa  unisce,  sono legati  in  ogni  tempo  e  in  ogni  luogo.  i6r Se  gh  avversari  della  teoria  empirista  intendono  cosi -affermare  un  fatto  psicologico,  se  essi  intendono  dire  che lo  spinto  umano  non  è  portato  a  generalizzare  le  sue  e- sperienze  con  tutta  la  forza  di  cui  la  credenza  è  capace, 1  fatti  più  familiari  provano  che  questo  é  un  errore.  «  il primo  movimento,  dice  il  Bain,  che  porta  lo  spirito  a  cre- dere, piega  piuttosto  dal  lato  d.-:ir  eccesso,  e  se  niente  è venuto  a  contrariarlo  in  tale  o  tal  caso  particolare,  esso si  porterà  con  forza   sopra  ogni  cosa  »   (Logica,  1.  2,^  e. 5,0  8).  Ciò  che  vediamo  e  conosciamo,  è  per  noi  la  mi- del  non  visto  e  dello  sconosr^iuto  :  il  re  di   Siam  ri- fiutava di  credere  alla  congelazione  dell'acfiua;  per  lungo lumanità  fu  incapace  di  ammettere  l'esistenza  de- gli antipodi.  Non  è  al  i)unto  di  vista  psicologico,   ma  al punto  di  vista  logico,  che  si  fa  Tobbiezione  ?  ^e  ci(')  che  si nega  è,  non  die  lo  spirito  umano  tiri   con  sicurezza  dai casi  osservati  delle  proposizioni  assolutamente  generali, che  egli  abbia  dei  motivi  logicamente  sufficienti  per farlo?  Ma  se  tutte  le  volte  che  noi  anticipiamo  sulle  no- stre percezioni  attuali,  oltrepassando,  con  le  nostre  affer-, ciò  che  ci  è  dato  immediatamente  nelF  osserva- zione dei  casi  particolari,  non  è  su  quest'osservazione  che noi  ci  fondiamo,  su  che  potremmo  fondarci,  se  non  sopra una  necessità  cieca  e  inesplicabile  del   nostro  pensiero  ? perdio  cosa  può  essere,  se  non  questo,  un  giudizio  a  prio- ri? Ora  è  evidente  che  questa  necessità  subbiettiva  non darebbe  alle  nostre  anticipazioni  un  fondamento  più  si- curo deiresperienza,  perchè  non  vi  sarebbe  alcuna  ragio- ne per  ammettere   che  delle  necessità  obbiettive  devono corrispondere  alle  necessità  dd  nostro  pensiero.  I  filosofi razionalisti  immaginano,  è  vero,  delle  ipotesi  per  giusti- ficare queste  pretese  necessità  del  pensiero,   dando  loro un  fondamento  obbiettivo;  ipotesi  che  noi  accenneremo  nel paragrafo  ultimo  di  questo  capitolo,  e  di  cui  discuteremo Je  più  importanti  nd  due  capitoli  seguenti.  Ma  se,  come confidiamo  tli  dimostrare,  (jucste  iiwtesi  sono  inammissi- bili ò  vana  assolutamente  rdibiezionc  contro  l'empirismo, che  1'  universalità  assoluta  d'  una  proposizione  non  può venire  dall'esperienza,  perchè  l'emi.irista  avrà  ragione  di rismndere  che,  .lualunque  sia  in  se  stesso  il  grado  di certezza  a  cui  può  aspirare  un'inferenza  generale  tirata dall'esperienza,  poiché  non  ve  n'iìa,  e  non  è  nemmen.) iwssilnle  d'immauinarne,  uno  più  alto  per  le  proposizioni che  oltrepassano  la  .costatazione  dei  latti  particolari,  esso è  i>er  noi,  quando  si  tratta  di  tali  proposizioni,  il  tii)0 della  certezza  logica,  e  il  solo  senso  intelligibile  che  [.uo avere  in  riuesto  caso  la  parola  certezza. §  3  "  Tuttavia,  quantunque  la  pretesa  che  l'esperienza non  i)uò  dar  luogo  a  proposizioni  rigorosamente  umver- sali  sia  evidentemente  illusoria,  (luesta  illusione  e  si  ge- neralmente ditìusa  tra  i  metafisici,  e  si  è  imposta  con tanta  forza  anciie  a  dei  pensatori  che,  per  lo  spinto  g;e- neralc  delle  loro  dottrine,  possono  riguardarsi  come  dei campioni  dell'empirismo  -  lo  scetticismo  di  Hume  e  le opinioni  di  Locke  sull'incertezza  delle  conoscenze  positive essendo  appunto  fondati  su  questo  presupposto-,  che  noi non  i)Ossiamo  qui  dispensarci  di  accennare  ai  motivi  psi-, da  cui  essa  si  origina. (  )ìtre  alle  verità  intuitive  (cioè  a  (luelle  date  immedia- tamente nell'osservazione  dei  latti  particolari),  vi  hanno, anche  nei  limiti  delle  propcjsizioni  sull'esistenza,  delle  ve- rità o  pretese  verità  generali  con  un  grado  tale  di  cer- tezza   che  la  maggior  parte  delle  conoscenze  induttive non  i.otrebbero  oguagliario.  Esse  sono  delle  inferenze,  e l.cr  conseguenza  anch'esse  induttive  ;  ma  queste  induzio- ni si  fondano  sulle  espei-ienze  che  ci  sono  le  più   fami- liari di  tutte.  Non  è  che  una  generalizzazione  tirata  da (mesti  fatti  i  più  familiari,  sia  logicamente  meglio  fondata di  un'altra  tirata  da  fatti  meno  familiari  :   ma  i^er  una conseguenza  delle  leggi  dell'associazione  delle  idee,  vi  lia » t tra  lo  due  si)eciedi  proposizioni  una  dìirerenzsi  psicologica, determinata  dalla  somma  disuguale  delle  esperienze.  Ora tali  generalizzazioni  tirate  dai  latti  più  lamiliari,  sono caratterizzate  da  ({uesta  circostanza,  che  tra  le  idee  che esse  uniscono,  si  è  stabilita  una  coesione  cosi  intima,  che non  solo  la  loro  certezza  ci  pare  superiore  a  quella  delle altre  proposizioni  induttive,  ma  esse  ci  sembrano  certe (Fun'evidenza  intrinseca,  vale  a  dire,  noi  siamo  disposti ad  ammetterle  indipendentemente  dalla  loro  base  logica, dalle  esperienze  passate  che  esse  generalizzano,  e  la coesione  stessa  che  noi  sentiamo  tra  le  idee,  ci  sembra nn  criterio  sufficiente  della  loro  vei^ità.  (Questo  é  al  fondo il  sofisma  a  priori  di  Stuart-Mill,  che  egli  esprime  sotto <iuesta  l'orma  :  Le  cose  ciie  non  si  possono  pensare  Tuna senza  Taltra  devono  coesistere.  Le  cose  che  non  possono essere  pensate  insieme  non  [X)ssono  coesistere.  (V.  Logica, lib.  5,<^  e.  :V'  S.  1-3;.  Ma  per  un  altro  sofisma  a  priori, che  è  (piello  stesso  da  cui  derivano,  non  solo  la  psicolo- gia razionalista,  ma,  come  vedremo  nel  Saggio  seguente la  più  parte  delle  altre  concezioni  metafìsiche  die  lo  spi- rito umano  ha  prodotte,  noi  siamo  anche  portati  a  cre- dere che  le  i)roposizioni,  che  ci  sembrano  dotate  (Fun^evi- denza  intrinseca,  siano,  per  la  loro  origine,  indipendenti rlaire.sperienza,  in  altri  termini,  a  priori  (v.  il  2**  Saggio, parte  1,"-  Appendice  2^^  al  cap  G";.  Ne  segue  che  le  gene- ralizzazioni tirate  dalle  esperienze  jùù  familiari  vengono prese  per  projDOsizioni  a  priori,  e  per  conseguenza  —  sic- come (pieste  generalizzazioni  ci  sembrano,  come  abbiamo detto,  possedere  un  grado  di  certezza  superiore  a  (luello delle  altre  —  che  il  filosofo  razionalista  trova  nel  suo  spi- rito un  tipo  di  certezza  a  cui  le  generalità  di  cui  egli  ri- conosce Torigine  empirica,  non  possono  giungere,  e  che A  ciò  che  abbiamo  detto  bisogna  aggiungere  un  altra .  1  legami  più   familiari  tra  i  fenomeni   sono per  noi  un  modello,  a  cui  tendiamo  istintivamente  ad  as- similare tutti  i  legami  in  generale  tra  i  fenomeni  —  è  Til- lusione  naturale,  a  cui  poco  ùi  abbiamo  accennato,  che dà  origine  alla  psicologia  razionalista  e  alla  più  parte delle  altre  idee  metafisiche  —  Per  un  effetto  di  questa tendenza,  siccome  questi  legami  i  più  famihari  tra  i  le- nomeni  ci  sembrano,  come  si  è  detto,  intrinsecamente  evi- denti e  conoscibili  a  priori,  noi  siamo  inclinati  naturalmente ad  attenderci  fra  tutti  i  l'enomeni,'anteriormente  al  loro  stu- dio scientifico,  dei  legami  intrinsecamente  evidenti  e  cono sciljili  a  priori.  Cosi,  quando  losservazione  dei  fenomeni  ci lia  mostrato  che  i  loro  legami  generali  mancano  di  questa evidenza  intrinseca  e  sono  puramente  empirici,  il  nostro spirito  si  trova  deluso  nella  sua  aspettativa  naturale;  ciò  che (là  luog-o  a  due  fatti,  per  lo  più  associati  Tuno  allaltro,  della nostra  intelligenza:  Tagnoticismo,  che  nega  alle  conoscenze positive,  cioè  alle  leggi  empiriche  scoverte  nei  fenomeni,  il carattere  di  vere  conoscenze,  che  attingano  il  fondo  stesso •o,  come  si  dice,  Vessenza  delle  cose;  e  uno  scetticismo,  più  o meno  risoluto,  a  riguardo  di  queste  conoscenze,  die  nega ad  esse,  sinché  almeno  non  siano  dedotte,  cioè  trasfor- mate in  conoscenze  a  priori,  una  certezza  assoluta  e  ri- gorosa (V.  Saggio  2,"  parte  1%  cap.  G.^) Ecco  dun(iuc  la  natura  e  il  valore  della  massima  dei filosofi  razionalisti,  che  T  esi)erienza  non  può  dare  origine a  proposizioni  d'un  assoluta  universalità:  essa  non  è  "che un'illazione  erronea,  dedotta,  in  virtù  dei  sofismi  a  priori <lel  nostro  spirito,  da  questo  fatto  psicologico  —  certo  in- contestabile, ma  che  non  ha  niente  di  contrario  alla  teoria dell'  esperienza  — •  che  le  induzioni  tirate  dalle  esperienze più  famihari,  ci  sembrano  d'una  certezza  superiore  a  quella delle  altre  induzioni,  tirate  da  esperienze  che  non  sono egualmente  familiari. ^  4^'  L'altro  argomento  contro  la  teoria  dell'esperienza, sul  quale  i  filosofi  razionalisti  insistono  anche  di  più  che •V sul  primo,  è  che  la  necessità  6  un  carattere  esclusivamente proprio  dei  giudizi  a  priori,  e  che  l' esperienza,  per  con- seguenza, non  i^uò  dar  luogo  a  delle  proposizioni  necessarie, ma  solo  continf/enti.  Questa  obbiezione  contiene,  come  di- remo in  seguito,  una  particella  di  verità:  ma  in  se  stesso questo  principio  generale,  che  delle  proposizioni  necessa- rie non  possono  venire  dall'esperienza,  è  un'aficrmazione si  evidentemente  erronea,  che  essa  può  confutarsi  age- volmente per  le  dottrine  stesse  degli  avversari  dell'  em- pirismo. Questi  filosofi  infatti  sono  ben  lungi  di  essere  d'ac- cordo fra  di  loro,  quando  si  tratta  di  precisare  quali  siano -le  verità  necessarie  e  perciò  indipendenti  dall'esperienza. Kant  considera  l'indistruttibilità  della  materia  come  una verità  necessaria  ed  a  priori  (v.  Analitica  trascendentale, lib.  2^  e.  2",  sez.  :3«,  III,  A);  ma  la  più  parte  degli  stessi filosofi  razionalisti  sostengono  contro  di  lui  che  questa proposizione  è  puramente  contingente  e  sperimentate.  Vi sono  stati  dei  metafisici  che  hanno  riguardato  come  verità necessaria  ed  a  priori  il  principio  che  la  materia  è  in  se stessa  priva  di  attività  ^  e  che  una  forza  attiva  non  pu() appartenere  che  ad  un  essere  spirituale  (1):  l'altro  prin- cipio della  filosofia  teologica,  quello  su  cui  è  fondato  l'ar- gomento delle  cause  finali,  cioè  che  quando  dei  mezzi  sem- brano combinati  per  raggiungere  un  certo  risultato,  bi- sogna ammettere  una  causa  intelligente,  sarebbe  anch'es- so, secondo  aluni  filosofi  (2J,  una  verità  necessaria  e  in- (1)  l\  e.  Galliippì.  V.  Saggio  filo  ^ofiro  sulla  crìtica  della  ronoscen- z-a,  t.  ().  4?.  90.  I.a  più  parte  dei  iiietalìsi  che  aininettono  (fuesto principio  — clie  è  una  delle  basi,  non  solo  della  lìlosoda  teologica, ma  deìV animismo  in  generale  (non  conie  semplice  ii)otesi  lìsiolo- gica,  ma  come  spiegazione  universale  delle  aos^e)  e  del  panpsichi- smo—devono  anunetterc  anche,  esi)licitaiuente  o  implicitamente, la  sua  apriorità,  perciiè  uno  dei  caratteri  distintivi  che  si  assegna ordinariamente  alla  causa  ejjlcicntc,  è  che  il  nesso  tra  la  causa e  l'ett'etto  deve  essere  conoscibile  a  priori. (2;  Come  Reid.  V.  Saggio  fi.  e.  0.  dipendente  dair  esperienza.  Ma  altri  filosofi  invece,  pure partigiani  delle  verità  razionali  e  della  massima  che  la necessità  è  il  carattere  distintivo  di  tali  verità,  lungi  di riconoscere  nelle  due  proposizioni  indicate  delle  verità  ne- cessarie,  non  ammettono  nemmeno  che  esse  siano  delle verità,  e  le   considei'ano  come  delle  generalizzazioni  af- frettate delle  nostre  esperienze  più  familiari.  La  massima che  non  vi  ha  azione  a  distanza  tra  i  corpi,  ma  solo  a contatto,  è  stata  assai  si)esso  riguardata,  sin  dai  promo- tori del  razionalismo  moderno,  come  una  verità  necessaria, evidente   per  se  stessa  e  superiore  air  esperienza  (v.  il Saggio  seguente,  parte  1%  cap.  :3'0;  ma  altri  filosofi  razio- nalisti hanno  i)ensato  invece  che  Fazione  a  contatto  e  Fa- zione a  distanza  sono  due  fatti  delF  osservazione,  di  cui Tuno  non  è  intrinsecamente  nò  più  nò  meno  credibile  del- laltro,  e  che  noi  dobbiamo  amnìettere  egualmente  in  virtù dellosservazione  stessa.  (Questi  esempi,  che  non  sarebbe (Ufficile  di  moltiplicai'e  —  e  sarebbe  anche  più  facile,  se  i filosofi  razionalisti  non  fossero  costretti  a  cancellare  dalla lista  delle  proi)Osizioni  necessarie  (luelle  la  cui  erroneità è  stata  riconosciuta— mostrano  almeno  che  una  proposi- zione d origine  sperimentale  pu()  avere  tutta  lapparenza d'una  proposizione  necessaria.  Ma  in  (jucsto  caso  tra  realtà ed  apparenza  non  vi  lia  una  distinzione  precisa,  e  una proposizione  apparentemente  necessaria  non  può  molto differire  da  una   proposizione  realmente  necessaria.  La necessità  d'una  proposizione  è  il  sentimento  o  la  coscienza. Glie  noi  abbiamo,  d'una  coesione  la  più  stretta  fra  le  idee che  essa  unisce.  Se  questa  coesione  fra  le  idee,  e  il  sen- timento che  se  ne  ha,  sono  al  grado  più  elevato,  tutti  si accoi'deranno  a  trovare  necessaria  la  proposizione  che unisce  queste  idee,  e  noi  possiamo  dire  che  la  proposizione è  realmente  necessaria!  Se  questa  coesione  è  minore,  la proposizione  può  sembrare  ad  alcuno  necessaria  e  ad  altri i ^V.-s^  W  --».- no,  secondo  il  tijx)  più  o  meno  elevato,  che  ciascuno  ha  potuto formarsi,  del  grado  di  coesione  sufficiente  perchè  una  pro- posizione si  chiami  necessaria,  e  noi  ixDssiamo  dire  allora che  la  proposizione  è  apparentemente  necessaria.  Tra  una necessità  apparente  e  una  necessità  reale  non  vi  ha  dunque che  una  differenza  di  grado,  e  se  l'esperienza  ha  potuto  dar luogo  a  una  coesione  si  stretta  fra  le  idee,  che  la  proposizione clie  le  unisce  sia  apparentemente  necessaria,  non  vi  ha ragione  perchè  essa  non  possa  dar  luogo  a  una  coesione più  stretta  ancora,  in  modo  che  la  proposizione  sia  real- mente  necessaria.  Negli  esemi)i  citati  e  negli  altri  simili che  si  potreljbero  aggiungere,  di  proposizioni  ricavate  dal- l'esperienza e  considerate  come  necessarie,  si   tratta   e- videntementc  di  generalizzazioni  di  esi)erienze  le  più  fa- miliari: la  ripetizione  delle  esperienze  è  stata  tanto  fre- (luente,  da  formare  tra  le  idee  un  legame  cosi  stretto,  che le  proiX)sizioni,  che  uniscono  queste  idee,  hanno  potuto sembrare  ad  alcuni  filosofi  delle  proposizioni  necessarie. Ora  se  la  frequenza  delle  esperienze  ha  potuto  determi- nare delle  proposizioni  apparentemente  necessarie,  una frequenza  delle  esperienze  ancora  più  grande  potrà  giun- gere sino  a  determinare  delle  proposizioni  realmente  ne- cessarie. Tuttavia  bisogna  osservare  che  il  principio  che  l'espe- rienza non  può  dar  luogo  a  delle  proposizioni  necessarie, è  lungi  dal  dover  essere  riguardato  come  un'opinione  pu- ramente arbitraria  di  certi  filosofi  :  al  contrario,  ciò  che abbiamo  detto  nel  paragrafo  precedente,  spiega  come  questo principio  sia  un  vero  concetto  metafisico,  cioè  un  [)rodotto delle  illusioni  naturali  dello  spirito  umano.  Noi  abbiamo detto  infatti  in  quel  paragrafo  che,  in  virtù  dei  sofismi  a priori  del  nostro  spirito,  l'intimità  del  legame  fra  le  idee fa  sembrare  intrinsecamente  evidente  la  proposizione  ciie unisce  (jueste  idee,  e  noi  siamo  inclinati  a  riguardare  una proiX)sizione,cìie  ci  sembra  intrinsecamente  evidente,  come indipendente  dairesperienza.  Ora  dire  che  tra  1(3  idee,  che unisce  una  proposizione,  vi  ha  il  legame  più  intimo,'  è  la stessa  cosa  che  dire  che  (juesta  proposizione  è  necessaria. Il  principio  che  l'esperienza  non  pu()  dar  luogo  a  delle  pro- posizioni necessarie,  deriva  (hmque  dagli  stessi  sofismi  a priori,  da  cui  l'altro  principio  della  psicologia  razionalista, che  r  esperienza  non  pu()  dar  luogo  a  delle  pi^oposizioni assolutamente  universah. §  5.0  Noi  abbiamo  accennato  che  il  principio  che  dal- l'esperienza non  possono  venire  delle  proposizioni  neces- sarie, (juantunque  lalso  come  principio  assoluto,  contiene nondimeno  una  particella  di  verità.  La  spiegazione  di  questo punto  esige  una  distinzione,  che  sin  qui  abbiamo  negletta. Benché  una  proposizione  necessaria  soglia  definirsi  quella il  cui  contrario  è  inconcepibile,  generalmente  il  termine impiegato  in  un  senso  più  largo  della  sua  definizione, tanto  i  razionahsti  quanto  gli  empiristi  dando  come  ne- cessarie delle  proj)osizioni,  il  cui  contrario  non  è  assolu- tamente inconcepibile,  ma  solamente  difficile  a  concei)ire. Ciò  mostra  quanto  sia  naturale  di  confondere  un'assoluta inconcepibilità  del  contrario  con  la  semplice  difficoltà  di concepirlo;  sicché  non  dobbiamo  sorprenderci  se  é  a[)punto su  una  tale  confusione,  come  vedremo  nel  Saggio  seguente, che  é  fondata  la  metafisica  apriorista,  cioè  quella  carat- terizzata dairapplicazione  del  metodo  a  priori  alla  cono- scenza del  reale.  Per  conseguenza,  noi  abbiamo  chiamato egualmente  necessarie  tanto  le  pr«)posizioni  il  cui  contra- rio é  assolutamente  impossibile,  quanto  quelle  il  cui  con- trario é  solamente  difficile,  ad  essere  concepito;  e  ciò  non solo  per  conformarci  all'uso  pratico  del  termine,  nella controversia  tra  i  razionalisti  e  gli  empiristi  sull'origine -delle  proposizioni  necessarie,  ma  anche  perché  questo concetto  lato  della  necessità,  che  comprende,  oltre  all'as- soluta impossibilità,  la  semplice  difficoltà,  di  concepii'e  il contrario,  ci  sarà  utile  nel  Saggio  seguente,  quando  parleremo  della  metafisica  apriorista.  È  in  questo  senso  lato delle  parole  necessità  e  necessario  che  noi  abbiamo  ri- fiutato di  ammettere  il  principio  dei  filosofi  razionalisti, Cile  l'esperienza  non  può  dare  origine  a  delle  proposizioni necessarie  :  ma  se  distinguiamo  queste  due  forme  o  gradi della  necessità,  cioè  una  necessità  assoluta,  consistente neir impossi biUtà,  e  una  necessità  relativa,  consistente nella  difficoltà,  di  concepire  ii  contrario,  e  intendiamo  per la  semplice  necessità  il  primo  di  questi  due  gradi,  cioè una  necessità  assoluta;  allora  il  principio  dei  razionalisti sarà  vero  anche  per  noi,  e  la  divisione  delle  proposizioni in  necessarie  e  contigenti  corrisponderà  anche  per  noi  a (luella  in  a  priori  e  a  posteriori. La  classe  delle  proposizioni  a  posteriori  corrisponde, come  abbiamo  detto  nel  primo  paragrafo,  a»  quelle  sull'e-, cioè  che  afiermano,  oltre  alla  semplice  esistenza, certi  rapporti  di  successione  o  di  simultaneità,  dei  feno- meni. Per  queste  proposizioni  la  possibilità  del  contrario è  sempre  concepibile,  qualunque  sia  d'altronde  lo  sforzo che  ciò  possa  costare  all'  immaginazione.  Noi  possiamo immaginare  che  i  fenomeni  avrebbero  potuto  essere  di- sposti altrimenti  di  come  li  vediamo  nel  mondo  reale;  che il  loro  ordine  potrebbe  essere  un  altro;  che  un  fatto,  anche il  i)iù  certo,  potrebbe  non  accadere  o  non  essere  accaduto. Ciò  è  chiaro  nelle  proposizioni  d'origine  evidentemente sperimentale,  per  esempio  che  la  forza  d'attrazione  é  in ragione  inversa  del  quadrato  della  distanza:  il  contrario di  tali  proposizioni  può  concepirsi  o  immaginarsi  facil- mente, quantunque  possa  essere  assolutamente  incredibile. Ma  vi  hanno  altre  proposizioni,  egualmente  derivate  dal- l'esperienza, di  cui  non  possiamo  concepire  la  possibilità del  contrario  senza  uno  sforzo  più  o  meno  grande  del- l' immaginazione  :  sono  le  proposizioni  sull'  esistenza  che rischiano  di  essere  prese  per  verità  a  priori,  e  che  i  fi- razionalisti  danno  efìettivamente  come  tali.  Di  alcune  (li  queste  proposizioni  la  possibilità  del  contrario non  solo  non  ò  assolutamente  inconcepibile,  ma  è  anche credibile,  e  questo  contrario  può  anzi  essere  ammesso  come vero  :  noi  possiamo  addurre  come  esempio  la  proposizione che  Fazione  tra  i  corpi  avviene  sempre  a  contatto,  e  non mai  a  distanza.  Ora  non  vi  ha  molta  ditì'erenza  per  la necessità  (relatlca,  cioè  per  la  difficoltà  (rimmaginare  il contrario)  tra  una  proposizione  di  questo  -enere  e  altre che  i  razionalisti  si  accordano  a  dichiarare  verità  a  priori, p.  e.  quella  che  ogni  cangiamento  deve  avere  una  causa. Anche  in  tali  casi  il  contrario  della  proposizione  può  es- sere concepito,  quantunque  con  una  <lifficoltà  ancora  più o-rande,  in  ragione  della  estrema  freciuenza  delle  esperienze che  le  hanno  dato  origine,  e  deir assenza  di  qualsiasi esperienza  centrarla.  Un  mondo  in  cui  i  fenomeni  si  se- guissero air  azzardo,  senza  un  ordine  uniforme  o  alcun Tegame  tra  cause  ed  effetti,  è  semplicemente  incredibile, ma  non  ò  assolutamente  inconcepibile  o  inimmaginabile. E  il  simile  potremmo  dire  di  tutte  le  [)roposizioni  sulFe- sistenza,  che  i  razionalisti  danno  come  esempi  di  verità necessarie  e  a  priori,  e  in  cui  gli  empiristi  vedono  delle prove  del  i)rincipio  che  Tesperienza  può  dar  luogo  a  delle proposizioni  necessarie:  la  necessità  di  tali  proposizioni non  è  mai  ansoUda,  ma  solamente  relativa. diverso  è  il  caso  per  le  proposizioni  sulla  somiglian- za. Se  due  oggetti  hanno  un  rapporto  di  somiglianza  o  di differenza,  di  eguaglianza  o  dMneguaglianza,  ecc  :,  la proposizione  «die  esprime  questo  rapporto  non  è  rela- tivamente, ma  assolutamente  necessaria;  in  altri  termini la  possibilità  del  contrario  non  è  solamente  difficile  a concepire,  ma  è  allatto  inconcepibile.  Noi  possiamo concepire  che  i  due  oggetti  non  esistano,  o  non  siano tali  quali  sono  in  realtà:  ma  se  supponiamo  che  essi esistono  e  sono  tali,  non  possiamo  al  tempo  stesso concepire  la  possibilità  che  il  loro  rapporto  sia  diftcrento. Noi  iX)ssiamo,  per  esempio,  immaginare  che  due  gruppi reali  di  due  oggetti  e  uno  di  quattro,  o  non  esistano  af- latto,  0  siano  composti  invece  di  un  numero  differente  di unità;  ma  se  supponiamo  che  essi  esistono  e  sono  com- posti di  questo  numero  determinato  di  unità,  non  possiamo al  tempo  stesso  immaginare  la  possibilità  che  i  due  gruppi di  due,  presi  insieme,  aljbiano  con  quello  di  quattro,  non un  rapporto  di  eguaglianza,  ma  di  maggioranza  o  di  mi- noranza. Quando  i  razionahsti  vogliono  illustrare  la  loro definizione  delle  verità  necessarie  (per  Tassoluta  inconce- pibilità del  contrario),  gli  esempi  di  cui  si  servono,  ai)par- tengono  per  il  solito  a  (juesta  classe  di  proposizioni.  «  Le verità  necessarie,  dico  Wewell  (Storia  delle  idee  scienti-' jìcJie,  p.  58),  sono  quelle  che  non  ci  apprendono  solamente che  la  pro|)Osizioiie  è  vera,  ma  per  le  quali  noi  riconosciamo che  essa  deve  essere  vera;  (juelle  di  cui  la  negazione  è non  solo  falsa,  ma  impossibile;  e  nelle  (juali  non  possiamo, nemmeno  per  uno  sforzo  d'immaginazione  o  per  ipotesconcepire  il  contrario  di  ciò  che  ò  affermato  ».  E  continua: «Che  vi  siano  di  tali  verità,  non  se  ne  [>U(')  dubitare.  Si possono  prendere  per  esempio  tutte  le  relazioni  (U  numeri; ti^e  e  due  fanno  cinque;  noi  non  possiamo  concepire  clie sia  altrimenti.  Noi  non  i)ossiamo  per  alcuno  sforzo  del pensiero  immaginare  che  tre  e  due  facciano  sette».  Ciò che  dobbiamo  notare  è  che  questo  non  è  vero  solamente delle  verità  matematiche  (della  matematica  pura)  che  si conoscono  intuitivamente,  ma  anche  di  quelle  cJie,  \)(òv  es- sere ammesse,  hanno  bisogno  di  una  dimostrazione.  Non solo  è  una  verità  necessaria  che  due  e  due  fanno  quattro, ma  anclie  (^iie  gli  angoli  del  triangolo  sono  eguali  a  due retti;  noi  non  possiamo  concepire  che  tra  la  somma  degli angoli  del  triangolo  e  due  angoli  retti  sarebl)e  possibile  un rapporto  differente  da  quello  che  noi  conosciamo  esistere realmente  fra  di  loro,  cioè  di  eguaglianza.  Nel  seguito  di questo  Saggio  è  in  questo  stretto  significato,  di  un'assoluta  inconcepibilità  del  contrario,  che  noi  impiegheremo  i termini  necessità  e  proposizione  necessaria, ^  ij''  Gli  arfioinenti  di  cui  i  filosofi  razionalisti  si  ser- vono per  istabilire  la  loro  dottrina,  talliscono  dunriue  il loro  scopo  :  Tuno  non  prova  afiatto  clie  vi  siano  dei  ì;'ìu> dizi  a  priori,  Y  altro  non  prova  che  vi  siano  dei  giudizi a  priori  sull'esistenza.  Ma  non  solo  la  dottrina  dei  razio- nalisti  manca  di  prove,  essa  presenta  inoltre  le  più  gravi difficoltà  intrinseche.  Cn  giudizio  a  priori  anzituttto,  nel senso  dei  razionalisti,  non  può  essere  che  una  necessita primitiva  e  inesplicabile  del  pensiero.    Di  queste  neces- sità bisogna   ammetterne   altrettante,  tutte  indipendenti Ira  di  loro,  quante   sono   le  verità   o  pretese  verità  as- siomatiche :  non   vi  ha,    i)er  le   proposizioni   che  espri- mono queste  verità,  una  condizione  generale  per  T  unio- ne del  soggetto  e  del  predicato.  Né  bisogna  lasciarsi  il- ludere dal  linguaggio  metaforico  dei  razionalisti.  Quando una   verità  o  pretesa  verità  a  priori  non  è  dedotta    da altre   verità  più   primitive,  essi   dicono  che   si   conosce intaiticaniente    SemJDra   che  questa  espressione  e  le    al- tre corrispondenti  non  siano   che  delle  figure   rettoriche,. destinate  a  supplire  in  (jualche   modo  al  difetto    radicale della  dottrina.  Sia  p.  e.  l'assioma  che  due  quantità  eguali ad  una  terza  sono  eguali  fra  di  loro.  Conosciuto  che  A  è uguale  a  B  e  che  B  è  uguale  a  C,  noi  conosciamo   che A  e  C  sono  eguali:  questa  conoscenza  i  razionalisti  la  chia- mano un'intuizione.  Ma  ciò  vuol  dire  forse  che  noi  abbia- mo la  percezione  attuale  dell'uguaglianza  tra  A  e  C  ?  Cer- tamente no,  perchè  i  razionalisti  non  ammetti »no  che  noi conosciamo  questa  eguaglianza  immediatamente,  ma  che inferiamo  da  altre  eguaglianze  conosciute.    Che   cosa vuol  dire  dunque,  in  questo  caso,  un" intuizione  ì   Lo  ab- biamo detto,  non  altro  che  una  necessità  primitiva  e  ine- splicabile del  pensiero.  Sia  che  la  conoscenza  delPassio- ma  si  consideri  come  un  possesso  innato  del  nostro  spirito  (conformemente  alla  vieta  dottrina  delle  idee  innate); sia  che  si  consideri  come  accjuisita,  ma  si  sup[)Onga  che sin  dalla  prima  volta  che  abbiamo  avuto  la  coscienza  di due  quantità  eguali  ad  una  terza,  (juesta  coscienza  è  stata indissolubilmente  legata  a  quella  dell'eguaglianza  di  que- ste due  quantità  fra  di  loro;  e  in  {juest'ultima  ipotesi,  sia che  si  ammetta,  con  la  più  parte  dei  filosofi  razionalisti, che  airorigine  noi  apprendiamo  la  verità  dell'assioma  per il  confrondo  dei  concetti  astratti,  cioè  come  principio  ge- nerale, e  che  (juando  la  riconosciamo  nei  casi  particola- ri, non  lo  facciamo  che  per  un'applicazione  di  questo  prin- cipio generale;  sia  che  si  ammetta  mvece  con  altri,  come Locke  e  Stewart,  che  nei  casi  particolari  noi  conosciamo la  verità  dell'assioma  d'una  maniera  immediata:  sarebbe sempre  im[)0ssibile,  nella  dottrina  dei  razionalisti,  di  as- segnare una  ragione  perchè  noi  uniamo  il  soggetto  della pro}>osizione  col  suo  predicato;  non  è  che  per  un  impulso cieco  e  istintivo  del  nostro  spirito,  per  una  legge  primiti- va della  nostra  vita  mentale,  di  cui  si  deve  rinunziare  a dare  una  spiegazione.  Di  queste  leggi  primitive  bisogna aiiunetterne  una  i)er  l'assioma  di  cui  abbiamo  parlato,  un'al- tra per  (juello  che  le  somme  di  quantità  eguali  sono  egua- li, altre  i)er  il  principio  di  causalità,  per  quello  della  so- stanza, ecc.:  ogni  verità  immediata  supj)one  una  legge  par- ticolare distinta;  non  vi  ha,  nella  dottiina  razionalista  con- siderata per  se  stessa,  cioè  a  parte  le  ipotesi  sussidiarie di  cui  diremo  nel  paragrafo  seguente,  alcuna  legge  supe- riore, che  comprenda  queste  leggi  particolari,  e  da  cui  esse possano  dedursi. Niente  di  più  naturale  né  di  più  semplice  della  spie- gazione, che  la  teoria  dell'esperienza  dà  di  questi  fatti, ultimi  e  inesplicabili  per  la  dottrina  razionalista.  Possono i  razionalisti  mettere  in  dubbio  che  nella  nostra  esperienza passata  si  trovano  i  fatti  particolari  che,  secondo  la  spie- gazione empirista,  servono  di   base  induttiva  alle   verità assiomatiche?  ovvero  negare  che  noi  siamo  portati  co- stantemente a  fare  delle  induzioni,  a  generahzzare  la  no- stra esperienza,  ad  estendere  al  futuro  ciò  che  sappiamo del  passato,  a  rappresentarci  Fignoto  e  il  non  sperimen- tato a  somig:lianza  del  noto  e  dello  sperimentato  ?  Hanno essi  mai  dato  una  ])rova  che  queste  verità  si  trovano  nel nostro  spirito  anteriormente  airesperienza  ?  Essi  dicono solamente  —  ma  noi  abbiamo  visto  l'erroneità  di  queste atlermazioni  —  die  Tesperienza  non  può  dar  luogo  a  delle pro[)Osizioni  necessarie  e  rigorosamente  universali.  In  ve- rità anche  la  teoria  deiresperienza  arriva  a  un  tatto,  che è  esso  stesso  ultimo  e  inesplicabile.  Perdio  ci  rappresen- tiamo il  futuro  a  somiglianza  del  passato,  Fignoto  a  so- miglianza del  noto  ?  Si  dirà  che  questo  è  un  eiìetto  delle leggi  delFassociazione  delle  idee  ?  ma  queste  non  possono ricondursi  ad  altre  leggi  superiori,  e  sono,  almeno  per  il momento,  inesplicabili.  (Questa  è  del  resto  la  condizione comune  di  tutte  le  siàegazioni  della  scienza  :  tutte  devono fermarsi  a  un  certo  punto,  al  di  là  del  quale  non  si  può andare.  Ma  la  dottrina  razionalista  non  fa  nemmeno  il primo  i)asso:  lungi  di  ricondurre  i  fatti  a  delle  leggi  ge- nerali, essa  chiude  gli  occhi  sulle  analogie  più  evidenti, e  li  considera  come  isolati  ed  eccezionali. La  teoria  delFesperienza  non  solo  rende  conto  delFori- gine  dei  fatti  mentali  che,  secondo  la  teoria  contraria,  sa- rebbero inesplicabili,  ma  dà  pure  Tunica  spiegazione  che noi  possiamo  comprendere,  di  questa  conformità  tra  il pensiero  e  le  cose,  in  cui  consiste  la  conoscenza.  Ma  se noi  ammettiamo  che  il  nostro  spirito  possiede  delle  co- noscenze sul  reale  anteriormente  alFesperienza,  se  non  è rimpressione  delle  cose  stesse  che  determina  le  nostre credenze,  com'è  che  queste  credenze  possono  essere  vere  ? Perchè  questa  coincidenza  tra  il  pensiero  la  realtà  ?  Che ragione  si  avrebbe  per  supporre  che  i  fatti  obbiettivi  de- vono corrispondere  alle  necessità  subbiettive    del  nostro spirito?  Nell'ipotesi  dei  razionalisti  la  conoscenza  non  è che  un  azzardo  fortunato;  un  errore  a  priori  sarebbe cento  volte  [ùù  probabile  che  una  verità  a  priori.  Nes- oserebbe  di  ammettere,  alla  vista  di  un  ritratto  ras- *somigliante,  che  l'autore  non  ha  mai  visto  né  altrimenti conosciuto  l'originale,  né  niente  altro  che  potesse  rappre- sentarglielo :  ma  non  vi  avrebbe  niente  di  strano  in paradosso,  che  non  si  ritrovi  esattamente  nell'ipo- tesi razionalista. Ciò  che  si  deve  notare  è  che  queste  ditticoltà  della  dot- trina razionalista  non  esistono  nella  nostra  tesi  sui  giu- dizi a  priori.  Ad  essa  non  può  rimproverarsi,  come  a quella,  l'assenza  d'una  condizione  generale,  che  spieghi l'unione  del  soggetto  e  del  predicato.  Questa  condizione,  nella  nostra  tesi,  che  noi  possiamo  trasportare  le  so- miglianze, osservate  tra  le  rappresentazioni,  alle  cose stesse  rappresentate.  Né  è  sorprendente  in  questo  caso la  coincidenza  tra  il  pensiero  e  la  realtà.  Sostituiamo  ai termini  realtà  e  pensiero  gli  equivalenti  sensazione  e  rap- presenta:^ ione,  o  meglio  sensazione  forte  e  sensazione  de- bole. Un  rapporto  di  somiglianza  o  di  difìerenza  è  un'im- pressione prodotta  nel  nostro  spirito  al  seguito  di  certe sensazioni  :  per  conseguenza,  la  coscienza  della  somiglian- za o  della  differenza  è  legata  a  queste  sensazioni,  tanto se  sono  originarie,  quanto  se  sono  riprodotte,  tanto  se  so- no allo  stato  forte,  quanto  se  sono  allo  stato  debole,  e  i rapporti  j3ercepiti  fra  le  nostre  idee  non  possono  non  corri- spondere a  quelli    percepibili  fra  gli  oggetti  stessi.  ^ %.!.''  Ciò  che  abbiamo  detto  nel  paragrafo  precedente si  applica  alla  dottrina  razionalista  considerata  nel  suo concetto  generale,  cioè  come  consistente  nella  proposi- zione che  afferma  che  i  legami  necessari  (d'una  necessità sia  assoluta  sia  relativa)  tra  le  idee  esistono  indipenden- temente dall'esperienza  e  anteriormente  ad  essa,  e  sono ima  proprietà  originaria  del  nostro  spirito.    Ma  i  filosofi razionalisti  si  limitano  raramente  a  questa  proposizione: la  più  parte  di  essi  alla  tesi  principale  ed  essenziale  del razionalismo  agginngono  delle  ipotesi  sussidiarie,   desti- nate appunto    ad  ovviare   alle  ditticoltà  di  cui   abbiamo parlato.  Queste  ditticoltà  sono  due  :  lassenza  d\ina   con- dizione generale,  che  spieghi  lunione  del  soggetto  e    del predicato  nei   diudizi   a  priori,    e  l'incomprensibilità,  in questi  giudizi,  della  coincidenza  tra  il  pensiero  e  la  real- tà.  (Quantunque  (jucste  ipotesi  sussidiarie  dei  filosofi  ra- zionalisti abbiano  tutte   per  oggetto,   in  lin    dei  conti,   di sopperire  tanto  alFuna  (pianto  all'altra  difficoltà,  tuttavia noi  possiamo    dividerle  in   due  classi,   secondo  che  esse principalmente  all'una  ovvero  allaltra. La  prima,  (luella  che  si  propone  principalmente  di  as- segnare una  condizione  generale  per  l'unione  dei  concet- ti—quasi tutti  i  iilosofì  razionahsti  ammettono  il  concet- tualismo—l'onda le  conoscenze  a  priori  su  un  legame  lo- gico tra  questi  concetti.  Il  caso  più  ordinario,  se  non  runi- co, di  questa  classe  d^ipotesi  è  quella  che  ammette  che  nei giudizi   a  priori  il  predicato  è  implicitamente  contenuto nel  soggetto,  e  che  perciò  questi  giudizi  sono  fondati  sui principii  d'identità  e  di  contradizione.  Questa  forma  della dottrina   analitica   dobìjiamo  distinguerla  dalle  due  altre che   abbiamo   discusse  nel  primo  capitolo.  L'una  di  esse ammette  che  tutti  i  giudizi,  o  almeno  tutti  i  giudizi  uni- versali categorici   affermativi,   sono  analitici,  e  suppone che  tutti  gli  attributi  conosciuti,   che   possono    predicarsi generalmente  d'una  classe,   sono  compresi  nel  concetto corrispondente  a  questa  classe.  L'altra— quella  che  si  fa rimontare  a  Kant— ammette  che  i  giudizi   analitici  sono delle  definizioni  o  parti  di  definizioni,  e  suppone  che  un concetto  comprende,   non  la  totalità  degli  attributi  cono- sciuti della  classe  ccrrispondente,  ma  una  porzione  deter- minata di  questi  attributi,  quelli  che,  secondo  i  partigiani <li  questa  dottrina,  costituiscono  la  connotazione  del  nome della  classe,  o  in  altri  terijiini,  intendono  affermarsi  di  un oggetto,  applicandogli  questo  nome.  La  terza  forma  della dottrina  analitica,  di  cui  ora  parliamo,  ditìerisce  dalla  j^ri- ma,  perchè  non  riconosce  per  analitici  che  i  soli  giudizi a  priori;  e  dalla  seconda,  perchè  ammette  che  tutti  i  giu- dizi a.  priori  sono  analitici,  e  non,  come  fa  (piesta,  una parte  solamente  di  questi  giudizi. L'altra  classe  d'ipotesi  dei  filosofi  razionalisti— (juella che  ha  i)rincipalinente  per  oggetto  di  spiegare  la  coinci- denza tra  il  pensiero  e  la  realtà —,  nella  sua  definizione  ge- nerale, consiste  in  ci(j,  che  essendo  stato  distrutto,  per  il rigetto  della  dottrina  deiresperienza,  il  contatto  tra  il  pen- siero e  le  cose,  si  cerca  di  far  rinascere  (luesto  contatto sotto  un'altra  forma.  Di  là  diverse  ipotesi,  secondo  la  re- lazione diversa  che  pu()  immaginarsi  tra  il  pensiero  e  le cose.  Noi  possiamo  concepire  o  che  l'oggetto  determina  il pensiero,  o  che  il  i)ensiero  determina  l'oggetto,  o  ii itine che  vi  ha  identità  tra  l'oggetto  e  il  pensiero.  Nel  ì^rimo abbiamo  la  dottrina  {[aWiiitaizioac  razionale,  i)v\\  la l)arola  intuizione  deve  intendersi  al  senso  proprio;  non  è una  semplice  metafora,  come  quando  tutti  in  generale  i razionalisti  dicono  di  una  verità  primitiva  a  priori  che n(ji  la  conosciamo  intaitioaniente.  Questa  dottrina  consi- ste ad  ammettere  che  noi  caviamo  le  conoscenze  razio- nali da  una  visione  dell'intelligibile:  essa  suppone  che  in questa  percezione  della  ragione  l'oggetto  intelligibile  è  im- mediatamente i)rescnte  al  soggetto  intelligente,  come  nella percezione  dei  sensi,  secondo  il  realismo  popolare,  l'oggetto sensibile  è  immediatamente  ijresente  al  soggetto  senzien- te.  É  la  dottrina  di  Gioberti,  Malebranche,  S.  Bonaven- tura, S.  Agostino,  Platone  ed  altri  filosofi  [)iù  o  meno  in- clinati al  misticismo  (1).  Nel  secondo  caso  abbiamo  Yidea- (l)  Ti'n  (luesti  lìloso!ì  non  annovei'ianii)  il  Rosmini,  iH)i'(*lir  la  sua dottrina  ileli'intui/.ionc  (lel^t^>^^v/'('  i<h'(i1e  non  lia  \m'V  o.u-iotlo  di llsmo  Hogf/eitico,  Esso  ammette  che  il  mondo  deiresperien- za  è  un  prodotto  dell'attività  del  nostro  pensiero,  e  la  sua forma  [)iù  importante  e  la  dottrina  di  Kant,  in  cui  la  realtà obbiettiva  (fenomenale)  risulta  da  due  elementi,  di  cui Funo  viene  dal  soggetto  conoscente  {la  forma  della  cono- scenza, di  cui  questo  riveste  l'oggetto  conosciuto).  Se  le leggi  dei  fenomeni  noi  j^ossiamo  conoscerle  anteriormente airesperienza,  è,  secondo  quest'ipotesi,  perchè  le  necessità obbiettive  delle  cose  conosciute  sono  un'esteriorizzazione delle  necessità  subbiettive  dello  spirito  conoscente.  L'ii)0- tesi  deiridentità  deiressere  e  del  pensiero  (sistema  di  He- gel o,  generalmente,  idealismo  oggetlico)  spiega  la  corri- spondenza tra  le  conoscenze  a  priori  (in  (jnest'ipotesi, tutte  le  conoscenze  scientifiche)  e  la  realtà,  considerando la  realtà  stessa  come  im  sistema  di  nozioni  generali,  lo- gicamente legate  fra  di  loro,  e  di  cui  il  nostro  pensiero (cioè  il  nostro  pensiero  generale)  è  una  partecipazione.  (,ìue- sta  terza  ipotesi  non  è,  al  fondo,  che  una  combinazione delle  due  prime:  come  quella  delllntuizione  razionale,  sup- j3one  la  presenza  immediata  dell'essere  al  pensiero;  come r  idealismo  soggettivo,  suppone  clie  le  cose  siano  una  pro- duzione delFattività  del  pensiero  (1). Di  tutti  i  sistemi  che  mettono  capo  in  (iueste  tre  ipo- tesi,  il  solo  che  c'importi,  per  il  soggetto  di  questo  Sag- gio, è  ({uello  di  Kant.  Noi  crediamo  clie  lo  stato  attuale- spiegiire  i  j^iiidizi  a  pi  Un  L  ma  soUìnicnte  le  i«lec  innato  (cioè  l'i- Innata  deiressere).  V.  Saiijiio  2,  i»arte  1.  Suvi «le mento  s"^^^ dottrina  di  Rosmini  sulla  sostanza  deiranima. (l)  U  carattere  essenziale  {\Q\YUleaUstno  è  apininto.  secondo  noi, di  vedere  nella  realtà  obbiettiva  un  x>rodotto  deirattività  intellet- . Secondo  (luesta  detinizione  delTidealismo,  la  dottrina  di l^erkeley,  e  tanto  meno  quella  di  Stuart-Mill  e  di  Hain,  che  nega- no la  realtà  del  mondo  esteriore  come  indipendente  dal  sol?i;•etto^ senziente,  non  sono  tuttavia  dei  sistemi  idealisti. delle  opinioni  tllosotìclie  ci  dispensi  dal  tener  conto  della dottrina  mistica  delFintuizione  razionale  :  la  tendenza  della filosofia  contemporanea  non  è  certo  al  misticismo,  ed  è ben  lontano  il  tempo  in  cui  la  grande  quistione  dei  filo- sofi italiani  era  se  noi  vediamo  in  Dio  Tessere  reale,  come pretendeva  Gioberti,  o  solamente  Tessere  possibile,  come voleva  Rosmini.  Tra  le  diverse  forme  delT  idealismo  te- desco quella  di  Kant  è  la  sola  che  eserciti  un'  influenza reale  nella  filosofia  contemporanea.  D'altronde  la  dottrina dell'identità  dell'essere  e  del  pensiero  non  potrebbe  riguar- darsi propriamente  come  un'ipotesi,  di  cui  uno  degli  scopi sia  di  sopperire  alle  difficoltà  della  dottrina  razionalista. Questa,  come  sistema  psicologico,  si  limita  ad  ammettere che  le  coesioni  tra  le  nostre  idee,  che  attualmente  ci  sono date  come  indissolubili  o  quasi  indissolubili,  sono  indipen- denti dall'esperienza  e  anteriori  ad  essa.  j\Ja  la  dottrina dell'identità  dell'essere  e  del  pensiero  eleva  tutte  le  cono- scenze generali  al  rango  di  verità  a 7)r/or?;  essa  suppone che  lo  spirito  può  tirare  la  scienza  dal  suo  proprio  fondo, riproducendo  in  se  stesso  tutta  la  realtà  per  la  sola  forza della  ragione.  Per  conseguenza  il  nostro  esame  della  dot- trina razionalista  sarà  sufiicientemente  completo,  se  a  ciò che  abbiamo  detto  in  questo  capitolo  aggiungeremo  una discussione  della  dottrina  analitica  sui  giudizi  a  priori  e di  quella  dei  giudizi  sintetici  a  priori  di  Kant.  Nel  capi- tolo seguente  parleremo  della  prima. Dottrina  aiiaìitica  dei  giii(lÌ2;i  a  priori. §.  1.^'  I/aiìtesignanC)  di  (jiiesta  dottrina  in  Italia  può considerarsi  il  Galliip[)i.  Questi  essendo  trai  nostri  mag- giori filosofi  (juello  che,  quantunque  più  lontano  di  tempo, più  vicino  a  noi  per  lo  s[)iritrj  della  sua  filosofìa,  non crediamo  inutile  di  discuterne  le  opinioni. Vi  hanno  secondo  il  Gallupjvi  due  ordini  di  verità  ge- nerali :  le  prime  sono  necessarie,  le  altre  sono  contine genti.  Per  ac(|uistare  la  cognizione  delle  verità  della  se- conda specie,  noi  non  aljbiamo  altro  mezzo  die  Tesame dei  casi  particolari,  per  conseguenza,  la  sola  esperisnza. Ma  per  le  verità  generali  della  prima  specie,  lo  spirito non  viene  in  cognizione  di  esse  per  mezzo  della  cogni- zione delle  verità  i)articolari,  ma  del  semplice  paragi^ne delle  idee  universali  ch'egli  si  è  formate. Come  si  vede,  la  teoria  del  Galluppi  su])pone  h\  dot- trina delle  idee  astratte.  Noi  ammettiamo  che  vi  hanno delle  verità,  a  cui  lo  spirito  i)uò  [)ervenire  per  il  sem- plice paragone  delle  idee  :  ma  le  idee  che  lo  spirito  })ara- gona,  non  sono  clie  concrete  e  i)articolari.  Il  risultato  di un  paragone  essendo  Tintuizione  (h  una  somiglianza  o  di : ima  differenza,  di  una  eguaglianza  o  di  una  disuguaglian- za, ecc,  in  ({uest  ordine  di  verità,  come  in  tutte  le  altre, le  prime  acquisizioni  dello  spirito  sono  delle  verità  intui- tive. Ma  (juando  lo  spirito  estende,  per  inferenza,  la  ve- rità, dai  casi  particolari  in  cui  egli  l'ha  conosciuta  d\ma maniera  intuitiva,  agli  altri  casi  particolari  in  cui  Tin- tuizione  fa  ditetto,  (jual  (3  il  fondamento  di  questa  esten- sione ?  Noi  abbiamo  potuto  trovare  in  molti  casi  partico-, per  il  paragone  delle  nostre  idee  di  certe  grandezze, che  due  grandezze  uguali  ad  una  terza  sono  uguah  fra di  loro:  noi  Tabbiamo  conosciuto  (Uuna  maniera  intuiti- va. Si  tratti  ora  di  dimostrare  nn  teorema;  noi  applichia- mo rassi(jma  che  due  grandezze  eguali  ad  una  terza  sono eguali  fra  (U  loro,  ad  un'alt l'O  caso  particolare.  In  ciuesto caso  la  verità  delFassioma  non  ò  conosciuta  più  d\ma maniera  intuitiva  ;  perché  la  dimostrazione  di  un  teorema non  consistendo  che  nelFapplicazione  degli  assiomi,  se  la nuova  verità  che  si  stabilisce  per  quest  applicazione,  fosse una  verità  intuitiva,  noi  conosceremmo  allora  il  teorema per  intuizione,  e  non  per  dimostrazione.  Se  noi  conosces- simo d\ma  maniera  intuitiva  che  due  grandezze  sono  e- guali,  noi  non  avremmo  bisogno,  per  istabilire  questa  ve- rità, di  conoscere  prima  che  le  due  grandezze  sono  eguali una  terza.  L  applicazione  d'un  assioma  è  dunque  un'in- ferenza o  una  deduzione  ;  e  la  deduzione  reale,  in  questo caso  come  in  tutti  gli  altri,  non  può  essere  che  dal  par- ticolare al  particolare  :  dai  casi  particolari  caduti  sotto la  nostra  intuizione,  a  quelli  die  non  vi  sono  caduti. Ma  secondo  il  Galluppi  la  cosa  non  avviene  cosi  :  non é  pei'  il  paragone  delle  idee  i)articolari,  è  per  il  paragone delie  idee  unicersali,  che  noi  veniamo  a  conoscere  una verità  necessaria;  se  noi  ammettiamo  che  la  proposizio- ne è  vera  in  im  caso  particolare,  ciò  avviene  perché  noi abbiamo  già  preconosciuto  la  verità  generale,  che  non lega  che  dei  dati  astratti  e  puramente  generici.  Una  verità  generale  risulta  dunque,  secondo  il  Galluppi,  dal  paragone delle  idee  generali:  ma  qual  é  il  rapj)orto  che  lo spirito  percepisce  fra  le  idee  che  egli  paragona?  (Questo rapporto,  secondojil  Galluppi,  é  un  rapporto  d'identità:  una proposizione  a  priori  è  una  proposizione  analitica,  in  cui l'attributo  é  contenuto  impHcitamente  nel  soggetto;  e  se queste  proposizioni  sono  necessarie,  é  perché  il  contrario implicherebbe  contraddizione. Una  proposizione  necessaria  è  dunque  fondata,  secondo il  Galluppi,  sulla  identità  delle  idee  :  ma  questa  identità può  percepirsi  o  immediatamente,  ciò  che  avviene  nelle veritìi  assiomatiche,  o  mechatamente,  ciò  che  avviene quando  la  verità  necessaria  é,  non  assiomatica,  cioè  evi- dente per  se  stessa,  ma  dedotta.  (Queste  verità  dedotte  che sono,  per  Galluppi,  necessarie  e  fondate  sul  princijùo  del- l'identità, noi  possiamo  distinguerle  in  due  classi:  alla  |)ri- ma  appartengono  le  proposizioni  delle  matematiche  pure, le  quali  esprimono,  come  noi  sappiamo,  dei  giudizi  com- l)arativi;  quelle  delle  seconda  classe  sono  invece,  secondo la  nomenclatura  che  nyi  abbiamo  adottato,  dei  giu(hzi  jx)- sitivi  o  esistenziali.  Il  Galluppi  ammette  dunque  delle  verità esistenziali,  che  non  sono  fondate  sull'esiierienza;  tali sono,  oltre  il  principio  di  causalità,  alcune  affermazioni  della metafisica  sull'assoluto,  che  in  sostanza  possono,  secondo lui,  ridursi  a  questa  formula:  se  qualche  cosa  esiste,  l'essere necessario  esiste;  e  oltre  a  ciò  ancora  i  i)rincipi  più  ge- nerali della  meccanica.  Galluppi  non  vuole  fondare  tutte (jneste  proposizioni  sull'esperienza  e  sull'induzione,  ma  vuole dimostrarle,  cioè  dedurle;  sia  ])erché  non  gli  jìaresse  pos- sibile di  stabihrle  col  primo  metodo,  sia  perché  credesse più  scientifico  di  stabilirle  col  secondo.  Noi  crediamo  inu- tile di  occuparci  d'una  maniera  particolare  dell(3  dottrine del  Galluppi  relative  a  questa  seconda  classe  di  proposi- zioni necessarie:  ma  la  sua  dottrina  su  quelle  della  prima, classe,  cioè  sulle  verità  della  matematica  pura,  é  per  noi, là più  interessante,  ed  è  su  di  essa  che  volgerà  specialmente la  nostra  discussione. S.  2^.  11  Galluppi  trova  assurda  la  nozione  di  un  giudizio sintetico  a  priori  :  tutta  la  sua  argomentazione  generale contro  questa  specie  di  giudizi  si  assomma  in  due  luoghi che  noi  riporteremo,  perchè  T  autore  stesso  cita  altrove (piesti  luoghi,  come  se  fossero  i  più  probanti  di  tutti.  «La distinzione  che  la  scuola  trascendentale  pone  Tra  i  giudizi analitici  ed  i  giudizi  sintetici  è  assurda.  Se  le  due  ideiì A  e  B  non  hanno  alcuna  identità  Tra  di  esse,  lo  Sjàrito non  può  riguardarle  che  come  distinte  e  senz'alcun  legame fra  di  loro;  è  impossibile  dunque  ch'egli  vi  perce[)isca  un rapporto  necessario  di  convenienza,  e  l'asserirlo  ù  un  porre una  contraddizione  nei  termini;  dire  che  le  due  idee  A  e  H non  sono  affatto  identiche  è  lo  stesso  che  dire  ch'esse  som diverse;  dire  che  son  diverse  è  lo  stesse»  che  dire  ciie  l'una non  può  affermarsi  dell'altra,  è  lo  stesso  che  dire  che  non vi  ha  alcun  rapporto  di  convenienza  Tra  di  esse;  dire  in conseguenza  che  lo  spirito  dee  percepire  necessariamente un  rapporto  di  convenienza  Tra  d^ie  idee  diverse,  è  affer- mare che  lo  spirito  \m()  [)ronunziare  una  contraddizioni) evidente.  Noi  concediamo  alla  scuola  trascendental(3  che vi  sono  nel  nostro  spirito  dei  giudizi  sintetici  a  posteriori somministratigli  dall'esperienza,  e  sono  api)unto  quei  giu- dizi che  Locke  chiama  di  coesistenza,  ina  (piesti  gimhzi sono  a  j)Osterioriy  poiché  nel  nostro  spirito  sono  contin- genti. Tutti  i  giudizi  necessari  debbono  in  idtima  analisi risolversi  nel  principio  di  contraddizione,  essi  son  dunque tutti  analitici,  ed  i  giudizi  a  priori  non  possono  essere  che necessari.  Ammettere  dei  giudizi  necessari  non  poggiati sul  principio  di  contraddizione,  è  un  assurdo  manifesto. Se  lo  spirito  non  vede  alcuna  contraddizione  neiro})i)Osto di  un  suo  giudizio,  egli  non  può  certamente  riguardarlo come  necessario.  I  giudizi  sintetici  a  jtriori  non  possono dunque  esistere  »  (Saggio  J/losq/ico  sulla  critica  della  co- noscenza, t.  1,^  55?.  115). XI: Ivi Se  fra  due  idee  non  vi  ha  un  rapi)orto  d'identità,  non vi  ha,  dice  il  Galluppi,  alcun  legame  fra  di  loro,  e  lo  spi- rito non  può  percepirvi  un  rapporto  necessario  di  conve- nienza. E  perchè  ?  Perchè  dire  che  le  due  idee  non  sono identiche,  è  lo  stesso  che  dire  clie  esse  sono  diverse  ;  e dire  clie  sono  diverse,  è  lo  stesso  che  dire  che  l'una  non può  affermarsi  dell'altra.  Ma  se  questa  ragione  fosse  va- lida, essa  proverebbe,  non  solo  che  non  esistono  giudizi sintetici  a  priori,  ma  che  non  esistono  affatto  giudizi  sin- tetici :  tutti  i  giudizi,  a  priori  o  a  posteriori,  necessari  o contingenti,  sarebbero  analitici.  Intenderemo  duncpie  che di  due  idee  non  identiche  1'  una  non  può  afCermarsi  del- l'altra con  un  giudizio  necessario  e  a  priori  i"  Ma  allora tutto  il  ragionamento  del  Galluppi  non  è  che  una  conti- nua petizione  di  principio  :  il  dunque  non  vi  sta  per  indi- care la  conclusione  di  un  raziocinio,  ma  sempUcemente la  conversione  di  una  proposizione  in  una  forma  equiva- lente. È  che  secondo  il  Galluppi  è  una  verità  evidente l)er  se  stessa  che  un  giudizio  necessario  è  un  giudizio  il cui  contrario  implica  contraddizione.  Ma  questa  pretesa verità  evidente  è  una  proposizione  puramente  gratuita. Perchè  sarebbe  una  contraddizione  di  dire,  p.  e.,  che  la somma  degli  angoli  d'un  triangolo  non  è  uguale  a  due retti  ?  È  perchè  questa  proprietà,  di  avere  gli  angoli  uguali a  due  retti,  si  trova  in  tutti  i  triangoli  che  noi  possiamo concepire,  e  perciò  essa  è  inseparabile  dal  concetto  del triangolo,  e  fa  parte  della  sua  essenza?  Non  vi  potrebbe essere  altra  ragione  per  affermare  che  la  proposizione  è contraddittoria;  una  proposizione  non  potendo  contenere una  contraddizione,  se  non  quando  il  predicato  viene  a negare  ciò  che  si  era  già  affermato  per  l'attribuzione  del soggetto.  Noi  siamo  cosi  andati  all'incontro  dell'altro  luogo del  Galluppi,  che  ci  eravamo  proposti  di  riportare.  «  Se togliendo  la  nozione  del  predicato  si  toglie  la  nozione  del soggetto,  la  prima  deve  essere  o  una  parte  della  seconda '100 SAGGIO  "PTintO o  identica  i)errettainente  con  essa;  in  questo  caso  il  giu- dizio è  necessario.  Ma  esso  è  ancora  identico  o  analitico. Se  togliendo  la  nozione  del  predicato  non  si  toglie  insieme quella  del  soggetto,  il  giudizio  non  è  identico,  ma  sinte- tico; ma  esso  è  insieme  contingente,  poiché  io  posso  am- mettere il  soggetto  senza  essere  necessitato  di  ammettere il  predicato.  Un  giudizio  sintetico  necessario  è  dunque un  assurdo»  (tomo:ì*'  §.111). Ora  una  proposizione  matematica  è,  secondo  la  dot- trina del  Galluppi  stesso,  una  verità  di  rapporto,  un  giu- dizio comparativo  (v.  t.  V  S.  81,  05,  IGl,  t.  3^  :n,  t.  4" 37,  38,  40,  ecc) .  In  un  rapporto  si  distingue  la  relazione stessa  e  il  fondamento  della  relazione.  In  ({uesta  proposi- zione: «  la  somma  degli  angoli  di  un  triangolo  è  uguale a  due  retti  »,  ciò  clie  si  atlerina  è  una  relazione  d'eguaglian- za: fra  gli  angoli  del  triangolo  e  due  angoli  retti.  La  rela- zione non  esiste  che  per  la  comparazione:  essa,  secondo il  Gallupi>i  stesso,  non  è  che  una  veduta  ideale  dello  si)i- rito,  (juando  mette  in  confronto  gli  oggetti  (v.  t.  1"  §  32, t.  3«  31,  t.  4"  32,  34,  37  e  segg,  ecc).  Cosi  l'eguaglianza con  due  angoli  retti  non  è  una  proprietà  degli  angoli  del triangolo  considerati  assolutamente  ;  è  una  veduta  dello spirito,  che  mette  in  confronto  la  somma  di  questi  angoli con  due  angoli  retti.  La  relazione  stessa  dunque  non  fa parte  dell'essenza  del  triangolo,  e  non  è  contenuta  nella sua  nozione.  Si  dirà  che  vi  è  contenuto,  se  non  la  rela- zione stessa,  il  fondamento  della  relazione?  Ma  il  tbnda- mento  della  relazione,  a  parte  la  relazione  stessa,  non  è qualche  cosa  che  lo  spirito  possa  distinguere  negli  angoli del  triangolo  o  nell'  idea  di  questi  angoli.  Il  fondamento della  relazione,  a  parte  la  relazione  stessa,  non  è  altro che  l'oggetto  stesso  o  la  sua  nozione,  non  è  una  parte  di quest'oggetto  o  di  questa  nozione.  Una  proprietà  relativa non  acquista  per  lo  spirito  un'esistenza  mentalmente  di- stinta, che  nell'atto  stesso  della  relazione  o  della  comparazione:  fuori  di  questa  relazione,  lo  spirito  non  può  di- stinguere nella  nozione  dell'oggetto  la  nozione  della  sua proprietà.  Per  conseguenza,  pensare  gli  angoli  del  trian- golo come  aventi  in  se  stessi  il  fondauiento  della  relazione che  la  proposizione  afferma,  non  è  altro  che  pensare  che essi  hanno  (juesta  relazione.  L'  attributo  affermato  dalla proposizione,  non  può  essere  dunque  il  fondamento  della relazione,  a  parte  la  relazione  stessa,  perchè  questo,  fuori della  relazione,  non  ha  un'esistenza  mentale  distinta.  Ne che  quest'attributo  non  può  essere  che  la  relazione stessa.  Ma  se  è  cosi,  la  proposizione  non  ('  analitica,  i)erchi3, secondo  il  (  Tallup[)i  stesso,  l' idea  della  relazioii(3  non  è contenuta  nelF  idea  del  soggetto.  Se,  malgrado  ciò,  egli pretende  che  è  analitica,  è  perchè  è  necessaria,  e  quando la  nozione  del  ])redicato  non  fa  })arte  della  nozione  del soggetto,  noi  possiamo,  egli  dice,  ammettere  il  soggetto, senza  essere  necessitati  di  ammettere  il  predicato.  Ma  è questo  principio  che  bisognerebbe  provare,  e  che  né  il Galluppi  né  gli  altri  sostenitori  della  stessa  dottrina  non provano  mai. i5i.  3".  Queste  due  dottrine  del  Gallui)pi,  per  ciuanti  sforzi egli  abbia  fatto  per  metterle  d'accordo,  non  possono  coe- sistere luna  con  l'altra.  Non  si  [)uò,  come  fa  il  Galluppi, sostenere  senza  contraddizione  chele  proposizioni  matema- tiche sono  verità  di  rapporto,  e  che  il  rapporto  è  una  ve- duta dello  spirito,  distinta  dalle  idee  che  sono  i  termini del  rai>porto  (v.  i  l.  i  indicati  nel  ^  precedente),  e  al  tempo stesso  che  queste  proposizioni  sono  anahtiche.  La  circo- stanza che  il  rapporto  deriva  necessariamente  dalla  na- tura delle  cose  o  delle  loro  idee  (v.  t.  V  §  81),  che  è  im- possibile di  avere  le  idee  e  non  vederne  il  rapporto  quando sono  convenientemente  paragonate  (ibid.),  non  prova  che il  giudizio  è  analitico.  11  soggetto  della  proposizione,  dice il  Galluppi,  non  è  il  soggetto  considerato  assolutamente per  se  stesso,  ma  il  soggetto  comi)arato  con  un'altra  cosa  (v.  t.  3^  §  114,  4^»  38,  5''  74,  G^  74,  ecc.);  e  il  giudizio  è' analitico,  perclir  dice,  non  in  verità  ciò  che  V  idea  è  in se  stessa,  ma  ci(')  che  l'idea  è  nel  suo  })aragone  con  un'al- tra (v.  t.  P  §  81,  95,  161,  ecc.)  Ora  in  un  giudizio  com- parativo si  trovano  tre  idee:  i  due  termini  comparati,  e  la relazione,  cioè  la  veduta  ideale  dello  spirito,  che  risulla dal  i)aragone.  Di  queste  idee  (juale  sarà  il  soggetto  della proposizione  ?  Un  termine  nella  sua  comparazione  con l'altro  termine,  dice  il  Gallu]>pi.  Ma  (juest'idea  del  primo termine  deve  [^rendersi  separatamente  dall'idea  del  rap- porto ?  in  questo  caso  l'idea  del  rapporto  non  è  contenuta neiridea  del  soggetto.  G  il  soggetto  comprende  al  tempo stesso  l'idea  del  primo  termine  e  l'idea  della  sua  rela- zione con  Taltro  ?  Ma  allora  il  giudizio  consiste  tutto  nel soggetto  ;  e  non  bisogna  dire  che  Y  attributo  é  contenuto nel  soggetto,  perchè  è  inutile  di  aggiungere  al  soggetto un  attriljuto. Ciò  che  vi  ha  di  singolare  è  che  Toperazione  dello  spi- rito, per  cui  esso  paragona  gli  oggetti,  e  percepisce  i  loro rapporti,  è,  secondo  lo  stesso  Galluppi,  una  sìntesi.  I  rap- porti, dice  egli  ripetutamente,  sono  un  prodotto  dell'attività sintetica  dello  spirito  ;  avere  due  idee  non  è  la  stessa  cosa che  conoscere  la  loro  relazione.  Perciò  si  richiede  un  atto di  comi)arazione  :  le  nozioni  dei  rapporti  sono  il  prodotto della  comparazione  ;  esse  non  vengono  dalle   sensazioni, ma  dall'attività  sintetica  dello  spirito,  la  quale  le  aggiunge agli  oggetti  sensibili.  L'avere  insieme  nello  spirito  due  per- cezioni, non   è  lo  stesso   che  paragonarle.   11  rapporto  è un'idea  dello  spirito,  la  quale  nasce  in  seguito  del  para- gone, e  non  è  altra  cosa  fuori  di  quest'idea.  I  termini  delle relazioni  sono  reali,  ma  le  relazioni  sono  solamente  idee dello  spirito.  L'azione  dello  spirito,  da  cui  nascono  le  rela- zioni, e  per  cui  queste  si  uniscono  al  soggetto  paragonato, il  Galluppi  la  chiama  sintesi   ideale  (v.  t.  3^  §.   31,  t.   4^ §.  32,  34,  37,  38,  40,  42,  44,  ecc.). Ma  se  l'operazione,  per  cui  lo  spirito  paragona  gli  og- getti, e  conosce  i  loro  rapporti,  è  una  sintesi,  cioè  un  atto con  cui  esso  aggiunge  un  nuovo  elemento,  una  nuova  idea, idee  che  gli  sono  state  date  ;  come  il  giudizio,  che  non è  se  non  un  altro  nome  per  indicare  la  stessa  operazione paragonare  e  di  conoscere  i  rapporti,  sarebbe  un'ana- lisij  cioè  un  atto  con  lui  lo  spirito  non  aggiunge  niente di  nuovo,  ma  solo  distingue  un  elemento  già  contenuto negli  stessi  dati  ?  «  La  sintesi,  dice  il  Galluppi,  ò  una  delle elementari  dello  spirito  unmno:  per  essa  noi  pa- ragoniamo le  nostre  idee  e  scovriamo  i  loro  rapporti.  La sintesi  estende  le  nostre  conoscenze:  ma  sarebbe  un  er- rore il  confondere  l'operazione  sintetica,  che  ci  dà  alcuni rapporti,  vale  a  dire  che  ci  dà  alcune  idee,  coi  giudizi  sin- tetici a  priori.  Nel  giudizio  lo  spirito  decompone  una  per- cezione complessa,  e  indi  la  ricompone  con  gii  stessi  ele- menti »  (t.  3*'  §.  114).  «Kant  ha  confuso  l'operazione  sin- tetica coi  suoi  prodotti,  che  sono  le  percezioni  dei  rapporti fra  le  idee  paragonate.  Allora  che  lo  spirito  rapporta  un termine  della  relazione  all'altro,  egli  esegue  una  sintesi, la  quale  è  il  principio  efficiente,  che  pone  un  termine  rap- portato. Lo  spirito  nel  termine  rapportato  vede  un  rap- porto, ed  esegue  con  ciò  un'analisi  ;  indi  unisce  questo rapporto  che  aveva  separato  dal  termine  rapportato,  astesso  termine,  e  compie  il  giudizio.  Lo  spirito,  prima  della comparazione,  non  aveva  che  il  termine  della  relazione; dopo  la  comparazione  ha  un  termine  rapportato  :  l'attività sintetica  ha  dunque  posto  dal  suo  fondo,  nel  termine  della relazione,  il  rapporto,  e  questo  rapporto  è  un  elemento soggettivo  aggiunto  all'  oggettivo.  Ma  nel  giudizio  lo  spi- rito non  percepisce  se  non  ciò  che  si  trova  nel  termine della  relazione  in  quanto  rapportato,  nel  che  lo  spirito  non sorte  dall'identità,  poiché  nel  termine  rapportato  è  com- preso evidentemente  il  rapporto.  Quest'osservazione  dile- gua qualunque  dubbio  su  la  soluzione  data  circa   l'utilità del  raziocinio,  e  su  V  impossibilità  dei  giudizi  sintetici  a priori.  Il  raziocinio,  si  domanda,  essendo  poggiato  su  Ti- dentila,  come  esso  è  istruttivo  ?  Abbiamo  risposto,  perchè ci  scovre  i  rapporti  diversi  delle  nostre  idee,  che  non  pos- siamo immediatamente  conoscere,  ma  questi  rapporti,  es- sendo nei  termini  rapportati,  non  si  va  fuori  della  legge deiridentità.  1  termini  non  sono  rapportati  se  non  dopo razione  sintetica  della  comparazione.  Il  raziocinio  nel  suo risultamento  scovre  dunque  un  elemento  nelle  nostre  idee, clie  la   comparazione  vi  ha  i)Osto  »  (t.  4"  .^.  38). <.)ra  come  noi  dobbiamo  intendere  questa  distinzione ira  Tatto  della  com})arazione,  che  è  una  sintesi,  e  Tatto del  giudizio,  che  è  un'analisi?  ('ome  va  che  Kant  bacon- fuso  To^icrazione  sintetica  coi  suoi  prodotti  ì  Forse  nel- Toì)erazione  di  staljilire  una  relazione  vi  hanno  due  mo- menti successivi.  Tatto  di  paragonare,  che  è  una  sintesi, e  Tatto  di  percepire  il  rapporto,  che  è  un'analisi  ^  nel  pri- mo lo  spirito  mette  in  confronto  o  in  comparazione  le  idee, rendendole  cosi  dei  termini,  non  })iù  assoluti,  ma  compa- rati o  rap[)ortati,  e  nel  secondo  scovre  quale  sia  il  loro rapporto  ?  Non  è  ciò  che  vuol  dire  il  Galluppi,  perchè  egli dice:  i  termini  non  sono  rapi)ortati  se  non  dopo  Tazione sintetica  della  com[)arazione  ;  la  comparazione  ha  posto nelle  idee  un  altro  elemento;  Tattività  sintetica  ha  posto dal  suo  fondo  il  rapporto  nel  termine  della  relazione.  Vi ha  duncjue  forse  una  do]>pia  operazione  sullo  stesso  og- getto ?  un'operazione  primitiva,  per  cui  lo  spirito  confronta le  cose  e  percepisce  il  loro  rapporto,  ed  è  la  comparazione; e  uiroperazione  secondaria,  })er  cui  lo  spirito  ritorna  o riflette  sulla  prima,  ed  è  il  giudizio  ?  Ma  la  stessa  distin- zione potrebbe  applicarsi  con  lo  stesso  fondamento  a  tutte le  conoscenze  che  noi  possiamo  acquistare  :  la  parte  del giudizio  potrebbe  ridursi  in  tutte  alla  riflessione  sulle  co- noscenze primitive.  Ora  non  è  evidente  che  il  giudizi(^ cosi  inteso  avreb))e  una  parte  molto  accessoria  nelle  operazioni  delTintelligenza  ?  il  vero  giudizio,  il  giudizio  fe- condo, sarebbe,  non  questo  giudizio,  ma  la  sintesi  i)rimi- tiva  e  originale,  essendo  questa,  anche  secondo  il  Gal- luppi, che  (f  estende  le  nostre  conoscenze  ».  D'altronde  noi saremmo  ritornati  di  (luesta  maniera  alla  teoria,  di  cui sopra  aljbiamo  i)arlato,  secondo  la  quale  il  giudizio  sin- tetico e  il  giudizio  analitico  si  distinguono,  perchè  il  pri- mo è  originale  e  primitivo,  il  secondo  è  ripetuto  e  riflesso. E  allora  la  distinzione  fra  il  giudizio  analitico  e  il  sinte- tico non  corrispondereljbe  più,  come  vuole  il  Galluppi,  a (luella  fra  il  giudizio  necessario  o  a  priori  e  il  contin- gente o  sperimentale. Il  Gallui)pi  ha  ben  compreso  (juesta  verità  :  che  tutte le  pro])Osizioni  della  matematica  i)ura  sono  comparative, (),  come  egli  dice,  delle  verità  di  rapporto  ;  che  questi  ra[)- porti  non  hanno  al  fondo  che  un'esistenza  mentale;  e che  è  dalla  natura  speciale  di  questi  rapporti  che  deriva il  carattere  particolare  di  questa  scienza,  di  essere  un  si-stema di  conoscenze  necessarie  ed  a  priori.  Ma  egli  ha avuto  il  torto  di  ostinarsi,  malgrado  ciò,  a  pretendere  che queste  proposizioni  sono  analitiche  :  é  che  egli  confonde  le due  nozioni  di  giudizio  analitico  e  giudizio  necessario.  Dire che  un  rapporto  comparativo  nasce  dalla  natura  stessa dei  termini  o  delle  idee  comparate;  che  esso  è  un  attri- buto essenziale  al  soggetto,  e  che  il  soggetto  non  può concepirsi  senza  Tattributo;  sono  unicamente  delle  ma- niere diverse  di  dire  che  questo  rapporto  è  una  cono- scenza necessaria  e  a  priori,  (Questa  è  una  ragione  per distinguere  le  proposizioni  che  ci  danno  una  conoscenza di  ({uesti  rapporti,  dalle  proposizioni  per  cui  conosciamcì dei  rapporti  d'un  altro  ordine  :  ma  non  segue  da  ci(')  che le  prime  proposizioni  siano  identiche  e  analitiche,  cioè che  Tattributo  sia  compreso  nel  soggetto,  e  che  esse  sia- no fondate  sui  principii  d'identità  e  di  contraddizione.  An- che nel  caso  in   cui  il  contrario  di  questi  'giudizi  è   assolutamente  inconcepibile,  non  si  deve  confondere,  come si  fa  ordinariamente,  Tinconcepibilità  con  la  contrad- dizione; poiché,  se  è  vero  che  tutte  le  proposizioni  con- traddittorie sono  inconcepibili,  non  è  vero  chC;,  recipro- camente, tutte  le  proposizioni  inconcepibili  sono  contrad- . (1^. §  4^'.  Il  Galluppi  ha  un'altra  ragione  per  provare  il  suo assunto:  tutti  i  rapporti  che  noi  stabiliamo  fra  gli  oggetti comparati  tra  di  loro,  si  riducono  air  identità  e  alla  di- versità, (v.  t.  4°  §  34  e  segg.).  Ciò  proverebbe  che  i  giù-  . dizi  che  hanno  per  contenuto  questi  rapporti,  sono  anali- tici e  fondati  sulFidentità.  L'eguaglianza  delle  grandezze (l)  La  natura  sintetica  dei  giiulizi  matematici  e  stata  ben  capita dal  Gio])erti.  Tali  griudizi .  eg:\i  dice,  sono  tutti  sintetici,  essendo fondati,  non  sulla  identità,  ma  sulla  relazione  («  sulla  corrispon- denza e  proporzione  reciproca  »)  delle  varie  conformazioni  quan- titative del  tempo  e  dello  spazio.  È  dairintclligibile  che  lo  spirito cava  questa  relazione,  e  «  Tanalisi  più  sottile  non  potrà  mai  farla scaturire  dap:li  elementi  quantitativi  del  tempo  e  dello  spazio,  come tali».  Nel  giudizio:  A  eguale  A,  il  concetto  d'eguaglianza  che  è nel  predicato,  <*  non  si  trova  nell'idea  del  soggetto  per  se  stessa, ma  è  una  nozione  che  lo  spirito  cava  da  se  medesimo,  secondo il  razionalismo  comune,  ovvero  dalTintelligibile,  come  noi  credia- mo ».  ( Teorica  del  soe rannat arale,  nota  24).Il  Mamiani  ammette  che  i  giudizi  necessarie  a pno/t  sono  ana- litici, e  i  giudizi  contingenti  e  sperimentali,  sintetici  (v.  Rinnoca- mento  della fllosojla  antica  italiana  parte  2.  e.  3.  Confessioni  d'un metafisico  lib.  2.  e.  3.  n.  68  e  segg.  Compendio  e  sintesi  della  pro- pria filosofia  %  16);  ma  sulle  proi)Osizioni  della  matematica  sta  nello stesso  equivoco  del  Galluppi,  cioè,  mentre  confessa  al  fondo  la loro  natura  sintetica,  egli  pretende  tuttavia  che  sono  analitiche. Nel  Rinnocamento  (in  cui  presenta  le  sue  idee  su  questo  soggetto in  una  forma  più  semplice,  è  non  involte  ancora  nelle  nebbie  neo- platoniche,  tra  cui  le  troviamo  nelle  Confessioni)  distingue  due classi  di  giudizi  analitici.  L'una  confronta  insieme  le  parti  costi- tutive d'un'idea  o  tutta  essa  idea  con  altre,  e  nota  le  relazioni  che indi  vengono  fuori.  In  questa  classe  di  giudizi  analitici  il  subbietto non  contiene  che  i  termini  della  relazione,  o  l'uno  dei  due,  essendo  è,  dice  il  Galluppi,  l'identità  nella  quantità;  e  in  generale, la  somiglianza  di  due  oggetti  è  Fidentità  di  una  parte  di un  oggetto  con  la  parte  di  un  altro.  «Con  l'astrazione  di- rigo lo  sguardo  del  mio  spirito  su  di  una  parte  delFog- getto  A,  e  su  d\ma  parte  dell'oggetto  B;  e  paragonando queste  due  parti,  dico:  A  è  in  una  parte  lo  stesso  con  B.» (t.  4^  §.  31).  È  ciò  che  secondo  il  Galluppi  facciamo,  tutte le  volte  che  diciamo  che  due  oggetti  sono  simili.  Come  si vede,  per  esprimere  questa  dottrina,  Ijisogna  impiegare un  lin^^ua^a'io  che  realizza  le  astrazioni.  Se  tutti  gli  ani- mali,  in  quanto  animali,  sono  simili,  è  che  vi  è  in  ciascu- no una  parte,  l'animalità,  la  quale  si  trova  identica  in tutti.  Un  rapporto  di  eguaglianza  o  di  somiglianza  non  si l'altro  olferto  dalla  materia  dell' attnlmto.  «L'atto  poi  d<^l  para- gonare, e  il  sentimento  che  so  ne  origina,  è  nuovo  per  intero,  ed è  un'addizione  che  Tuoni  fa  al  subbietto  del  giudizio  ». Ma  quest'  atto  o  sentimento  in  cui  consiste  la  relazione,  se  si distingue  dal  soggetto,  ed  è  lo  spirito  che  lo  aggiunge  all'idea  del soggetto,  come  va  che  il  giudizio  non  è  sintetico,  ma  analitico? La  relazione,  dice  il  Mamiani,  può  essere  chiamata  parte  neces- saria del  subl)i<^tto  per  due  ragioni.  La  prima  è  che  dati  i  termini, è  dato  sempre  il  dover  sentire  la  relazione,  quante  volto  quei  ter- mini vengano  conosciuti  in  se  e  paragonati.  La  seconda,  che  i  sul)- J)ietti,  considerati  in  astratto,  si  contemplano  neiressere  loro  com- piuto e  perfetto,  e  quindi  come  forniti  di  tutte  le  loro  attinenze reali  e  possibili.  (Uinnoramento  della  lìloso fia  antica  italiana  \yarto 2.  e.  3.  §  VII.  Confr.  Confessioni  d'un  metafisico  lib.  2.  e.  3.  j?  Ili, n.  73). Di  queste  duo  ragioni  la  prima  importa  semplicomento  che  il giudizio  è  necessario  e  a  priori^  ma  non  che  è  analitico.  Sulla  se- conda osserveremo  che,  se  un  subl)ietto  si  considera  come  fornito di  tutte  le  sue  attinenze  reali  e  possibili,  è  che  introduciamo  nella sua  nozione  il  risultato  di  tutti  i  giudizi,  che  noi  abbiamo  potuto fare,  comparandolo  con  le  altre  cose  sotto  tutti  i  punti  di  vista in  cui  una  comparazione  è  possilnle.  Ora  dopo  ciò  viene  la  qui- stione  se  questi  giudizi  siano  analitici  o  sintetici:  la  proi)osizione del  Mamiani  che  abl)iamo  segnata  con  le  virgolette,  prova  appunto ^he  sono  siiitolici. può  cosi  ridurre  airi.lentità  parziale,  nel  senso  proprio del  termino,  senza  accordare  ad  attributi  astratti  un'esi- stenza realmente  distinta. §.  50.  Le  proposizioni  deiraritmetica  e  dell'algebra  han- no dato  la  ragione  apparentemente  più  forte,  per  sostene- re che  le  verità  necessarie  sono  delle  verità  identiche  o analitiche.  Kant  avendo  dato  come  esempio  di  giudizio sintetico  a  priori  la  proposizione:  «7  più  5  ò  uguale  a  12»; gli  si  è  opposto  generalmente  che  questa  è  una  proposi- zione analitica,  perchè  7+5  è  identico  a  12.  Ma  se  noi  am- mettiamo che  un  numero  designa  unicamente  degli  oggetti concreti,  la  natura  sintetica  di  una  proposizione  che  enun- cia un'eguaghanza  numerica,  non  jmò  essere  revocata  in dubbio.  La  stessa  eguaglianza  5=5,  in  cui  potrebl^e  ve- dersi il  caso  più  chiaro  deiridentità,  è  una  proposizione sintetica,  se  ammettiamo  che  i  due  gruppi  d'oggetti,  desi- gnati con  la  stessa  parola  la  i)rima  e  la  seconda  volta, sono  realmente  distinti.  Tanto  più  quanto  si  tratta  della eguaglianza  fra  i  dati  e  la  loro  somma:  allora  i  due  mem- bri delFeguaglianza  designano  degli  oggetti,  che  differisco- no anche  nel  modo  della  loro  aggregazione,  cioè  della  lo- ro distriijuzionc  per  gruppi.  Quand'anche  7+5  e  12  de- notino gli  stessi  oggetti,  essi  li  denotano  in  due  momenti diversi,  in  cui  il  loro  modo  di  aggregazione  è  differente. 7_l_5  li  designano  quando  formano  ancora,  realmente  o mentalmente,  due  gruppi  separati;  12  li  designa  dopo  la loro  riunione.  È  di  questa  maniera  che  devono  sempre interpretarsi  le  proposizioni  che  contengono  la  valutazio- ne della  somma  di  più  numeri.  Supponiamo  tuttavia  che non  sia  cosi,  e  ammettiamo  invece  che,  il  nome  di  unnumero  designando  indifferentemente  tutte  le  quantità  u- guali  di  oggetti,  qualunque  sia  la  loro  distribuzione  per gruppi,  il  12,  che  è  nell'uno  dei  membri  dell'eguaglianza, possa  indifferentemente  indicare  sia  una  collezione  unica, sia  due  collezioni  una  di  5  e  una  di  7,  sia  un'altra  più—ralità  (juakuKiue  di  gruppi,  la  cui  somma  é  uguale  a  12. Anche  in  quest'ipotesi,  ciò  ciie  la  proposizione  atìerme- rebbe,  sarebbero  sempre  dei  rapporti  d'eguaglianza  fra cose  diverse— e  lo  stesso  naturalmente  deve  dirsi  di  qual- siasi altra  proposizione  esprimente  la  valutazione  di  una somma.— Che  cosa  si  farebbe  inlàtti,  dando  il  nome  <li  un numero  ad  una  moltitudine  di  oggetti,  qualunque  essa  fos- se? In  questo  caso,  come  in  tutti  gli  altri,  l'applicazione del  nome  non  potrebbe  essere  che  una  classazione  sotto un  punto  di  vista  particolare,  cioè  un'affermazione  di  rap- j^KDrti  deliniti  di  somighanza.  Ciò  che  vi  ha  di  speciale  a (piesto  caso,  è  che  i  rapporti  di  somiglianza,  che  unisco- no fra  di  loro  i  memljri  della  classe,  sono  dei  rapix)rti  di eguaglianza  numerica.  A  <|uesto  secondo  modo  d'interpre- tare la  i)roposizione,  che  è  il  senso  in  estensione,  noi  pre- feriamo il  primo,  cioè  il  senso  in  comprensione,  perchè (juesto,  nelle  jjroposizioni,  precede  logicamente  quello.  Ma ciò  è  indifferente  per  la  nostra  (juistione  :  interpretata  di una  maniera  0  dell'altra,  la  proposizione  è  sempre  sinte- tica, perchè  essa  afferma,  non  un'identità  pui'a  e  sempli- ce, ma  una  somighanza  definita  fra  termini  distinti. Per  ],)rovare  che  la  proposizione  di  Kant  è  analitica, alcuni  hanno  fatto  questo  ragionamento:  Il  numero  12  è quanto  agli  elementi  una  sintesi  pienamente  identica  coi numeri  7  e  5,  e  dobbiamo  riconoscere  in  quel  giudizio  una pro})Osizione  anahtica  ad  onta  di  questa  sintesi.  Che  in una  data  proposizione  il  soggetto  sia  la  sintesi  o  l'anali- si dell'attributo,  e  l'attributo  l'analisi  o  la  sintesi  del  sog- getto, ix)co  importa,  purché  l'attributo  non  contenga  nulla più  del  soggetto,  diesi  dica  7+5—12,  o  12=  r+r,,  la  pro- posizione in  sostanza  è  la  stessa.  Ora  la  proposizione  nel- l'ultima forma  mostra  cliiaramente  che  si  tratta  d'un'ana- lisi,  essendovi  la  decomposizione  o  la  risoluzione  di  un nei  suoi  elementi  (V.  Vaclierot  La  metafìsica  e la  scienza,  tomo  ^^  Conversazione  0^  e  Degerando  Storia  comparata  dei  sistemi  di  Jìlosofia,  t.  :V\  e.  l:^•.).  Su ciò  osserveremo  naturalmente  che,  se  vi  ha  qui  un'anah- si,  è  uiVanalisi  diversa  da  <|uella  che  ha  luogo  nel  giudi- zio anahtico,  secondo  i  sostenitori  di  questa  classe  di  giu- dizi. 7  e  5  non  sono  le  parti  costitutive  del  concetto  12,  le parti  costitutive  d'un  concetto,  secondo  tutti  i  concettuali- sti, essendo  il  genere  e  la  differenza.  Cosi  7  e  5  jìossono essere  gli  elementi  materiali  del  numero  12,  ma  non  gli elementi  concettuali.  Il  numero  12  si  decom[)one  in  12 unità,  le  (juali  unità  alla  loro  volta  possono  ricomporsi diversamente,  nei  due  numeri  5  e  7.  Qui  può  applicarsi dunque  la  distinzione  aristotelica  della  forma  e  della  ma- teria. Le  travi,  le  pietre,  ecc.  sono  gli  elementi  materiali della  casa,  ma  non  sono  gli  elementi  del  concetto  o  della definizione  della  casa,  perchè  questo  concetto  è  costituito sovratutto  dalla  torma,  non  dalla  materia.  Se  le  stesse  tra- vi, le  stesse  pietre,  ecc.  fossero  impiegate  in  altre  costru- zioni, sarebbe  tanto  giusto  di  dire  che  (jueste  ultime  sono identiche  alla  prima  casa,  quanto  pu(')  essere  giusto  di <lire  che  12  ò  identico  a  7  e  5.  È  identico  per  la  materia, ma  non  i)er  la  forma,  e  la  proi)Osizione  esprimente  que- sta o  qualsiasi  altra  eguaglianza  numerica,  afferma,  se  si vuole,  un'identità  nella  materia,  ma  con  una  diiferenza nella  forma,  cioè,  come  abl)iamo  spiegato,  neironline  e nella  situazione  delle  unità,  componenti  i  grup[)i  concre- ti, il  cui  i)aragone  costituisce  il  senso  reale  della  prop(j- sizione. g.  {y\  La  grande  difficoltà  della  dottrina  che  sostiene che  le  operazioni  deirintelligenza  sono  fondate  sui  prin- cijui  (Fidentità  e  di  contrai l(hzione,  è  Timpossibilità  di  com- prendere come  di  questa  maniera  un  giudizio  o  un  ragio- namento possa  essere  istruttivo.  Si  pretende  che  una  ve- rità assiomatica  non  è  che  una  verità  identica,  e  che  la dimostrazione  è  anch'essa  un'analisi,  in  cui  lo  sjùrito  non fa  che  svolgere  ci(')  che  era  già  contenuto  nelle  [)remesse. Una  proposizione  necessaria,  ci  si  dice,  é  sempre  una proposizione  identica;  soltanto,  l'identità  si  conosce  (^ra immediatamente  (senza  dimostrazione),  ora  mediatamen- te Cper  la  dimostrazione).  In  quest'ultimo  caso  vi  ha  una doppia  identità  nella  proposizione  (v.  Galluppi  Saggio  fi lo^ sofìco  sulla  critica  (Iella  conoscenza,  t.  1^'  §.  IGl,  5**37,  38, ecc.)  :  essa  è  identica  in  se  stessa,  e  indentica  pure  (par- zialmente) con  le  suo  premesse  (1).  In  quando  alle  verità (l)  Un'altra  dinicoltà  non  meno  li'Pave  della  dotti'ina  analitica è  come  vi  sia  l)isogno  d'un  ragionamento  per  riconoscere  T  iden- tità delle  idee.  Il  iriudizio  necessario,  si  dice,  e  un  iiiudizio  anali- tico, in  cui  il  predicato  è  parzialmente  identico  al  soggetto,  iterchè vi  è  contenuto:  ma  allora  come  si  può  non  percepire  immediata- mente clic  il  soggetto  contiene  il  predicato?  come  si  può  aver  bi- sogno,  per  riconoscere  T  identità  (i>arziale)  fra  le  due  idee,  della mediazione  di  altre  idee?  Siccome  una  proposizione  necessaria  non può  concludersi  die  da  premesse  tutte  e  due  necessarie,  (luelli  che pretendono  che  le  ]^roposizioni  necessarie  sono  analitiche,  e  che di  tali  proposizioni  ve  ne  hanno  delle  mediate  o  concluse,  ilevono ammettere,  almeno  per  questo  caso,  la  dottrina  del  ragionamento die  Stuart-Mill  ha  confutata  in  Ikimilton,  e  che  noi  possiamo  chia- mare la  (ìottrìna  an  aliti  a  a  del  ragionamento.  Secondo  questa  dot- trina, la  nozione  indicata  dal  termine  medio  è  compresa  in  (luella indicata  dal  termine  minore  (rapporto  atìcrmato  nella  premessa minore),  e  comprende  alla  sua  volta  la  nozione  indicata  dal  teì^- mine  rnarfrjioie  (rapporto  alTermato  nella  pì^emessa  mar/ffioie);  e dal  confronto  di  questi  due  rai^porti  ne  risulta  la  conoscenza  del terzo  rapporto,  quello  affermato  nella  conclusione,  cioè  che  la  no- zione del  termine  minoie  comprende  quella  del  termine  maggiore. 11  fondamento  del  ragionamento  sarebbe  cosi  il  principio  evidente che  una  j^arte  della  ])arte  è  una  parte  del  tutto.  Ma  come  i>ossia- mo  aver  ì^isogno  del  ragionamento  per  riconoscere,  nel  caso  par- ticolare, che  la  parte  della  parte  è  una  parte  del  tutto?  Stuart-Mill ha  ben  messo  in  luce  le  inconcepibilità  inerenti  a  questa  dottrina: è  impossibile  di  ammettere  al  tempo  stesso  che  il  ragionann^nto è  una  maniera  di  costatare  che  una  nozione  fa  parte  di  un'altra, e  che  Fuso  del  ragionamento  ha  per  iseopo  di  scoprire  delle  verità che  non  sono  evidenti  per  se  stesse.  «  Come  può  darsi,  domanda il  Mill,  che  una  verità  che  consiste  in  una  nozione  che  è  una  luirte contingenti,  n^^^n  si  è  d  accordo  su  questo  punto  dai  |u^irti- giani  della  dottrina  analitica:  ina  alcuni  ammettono  ciie anche  queste  sono  identiche;  solo  noi  non  cosciamo  la  loro identità,  sia  intrinseca,  sia  c'on  altre  verità  ap])arentemente digerenti;  non  conosciamo  la  loro  derivazione  dal  gran principio  da  cui  nascono  tutte  le  verità,  il  principio  d'iden- tità 0  di  contraddizione. Ma  se  è  cosi,  che  cosa  può  apprenderci  una  proposi- sizione  ?  e  in  che  il  ragionamento  può  estendere  le  nosti»e conoscenze  ?  Allora  una  verità  assiomatica  m^n  ta  che  al- iermare  un'idea  di  se  stessa,  e  una  scienza  deduttiva  non è  che  una  serie  di  esi)resioni  digerenti  delle  stesse  idee. Noi  siamo  forzatamente  circoscritti  ncWkìcm  per  idem:  le parole  cangiano,  ma  le  idee  restano  le  stesse.  Quando  ti- riamo un'interenza,  noi  pronunziamo  un  giudizio,  che  ab- biamo già  pronunziato  in  altri  termini  nelle  premesse;  ben più,  tutte  le  proposizioni,  ahneno  le  necessarie,  non  l'anno che  ripetere  sotto  forme  diiTerenti  <iuestji  rerità,  che  lo  stesso é  lo  stesso. (v>ucste  conseguenze  sono  talmente  inevitalàli,  che  il  più celebre  forse  dei  sostenitx)ri  della  dottrina,  il  Condillac, le  ha  espressamente  inculcate.  •  L' identità,  dice  que- st'autore, è  il  segno  al  (^uale  si  riconosce  che  una  proi)0- sizione  è  per  se  stessa  evidente;  e  si  scorge  Tidentità  quando non  si  può  tradurre  che  in  termini  che  tornino  a  (piesti: lo  stesso  è  io  stesso.  In  consegucnzix  una  proposizione  per (lì  un' altra,  non  sia  cvidt^nle  por  se  stossa  ?  Le  nozioni  sono  imm- euprosj/iono  tutto  e  due  nel  nostro  s]>irit<).  per  i»ercei)iro(li  (luali rarti  esse  si  compongono,  n(ìn  bisogna  niente  altro  elio  Ussaro  la nostra  attenzione  su  di  esso.  Noi  non  possiamo  concentrare  la  nostra coscienza  su  due  idee  del  nostro  spirito,  senza  conoscere  con  cor- Uv/.'/A\  se  runa  di  osso,  in  quanto  è  un  tutto,  comprende  l'altra  come una  parte»  (V.  Filosofia  di  llamUton,  Del  ragionament(ì). ritroveremo  nel  Taine  la  stessa  dottrina  di  Hamilton. sé  evidente  è  quella,  di  cui  si  scorge  immediateinonte  11- dentità  nei  termini  che  T  enunciano— Di  due  proposizioni una  è  conseguenza  evidente  deiraltra,  quando  dalla  com- parazione dei  termini  si  vede  che  affermano  la  stessa  co- sa, vale  a  dire  quando  sono  identiche.  La  dimostrazione dunque  è  una  serie  di  proposizioni,  in  cui  le  stesse  idee, passando  dall'una  all'altra,  non  differiscono,  se  non  perché sono  diversamente  enunciate,  e  l'evidenza  di  un  raziocinio consiste  unicamente  neiridentità  »  (Arte  di  ragionare,  lib.  V e.  1^).  Di  là  ne  segue  che  lo  studio  di  una  scienza  si  riduce  imparare  una  Ungua  :  una  scienza  ben  trattata  non  è  che una  lingua  ben  latta.  L'algebra,  dice  Condillac  è  una  vera lingua,  e  non  è  altra  cosa  che  una  lingua.  «  11  linguaggio algebrico  ia  toccar  con  mano  quale  connessione  conser- vino in  un  ragionamento  i  giudizi  l'uno  con  l'altro.  Si  vede che  l'ultimo  non  è  contenuto  nel  penultimo,  il  penultimo  in ciucilo  che  lo  precede,  e  cosi  di  seguito  in  ordine  retrogrado ed  inverso,  se  non  clie  perchè  l'ultimo  è  identico  col  penulti- mo, cioè  perchè  l'ultimo  è  compreso  nel  penultimo,  è  della stessa  natura  con  e.sso,  il  penultimo  con  quello  che  lo  precede, ecc.,  e  si  riconosce  che  questa  identità  e  connessione  for- ma tutta  la  prova  e  certezza  del  raziocinio  —  Quando  con parole  si  sviluppa  un  rag  ionamento,  l'evidenza  e  la  dimo- strazione consiste   egualmente    nella  sensibile  identità  e connessione  di  un  giudizio  con  l'altro.  Infatti  la  serie  dei giudizi  è  la  stessa,  e  non  vi  ha  che  la  sola   espressione che  cangi.  Soltanto  bisogna  osservare  che  più  facilmente si  scopre  questa  identità,  quando  si  espone  con  segni  al- gebrici» {Logica,  parte  2^,  e.  7«).  «Non  ci  eleviamo  di  co- noscenza  in  conoscenza,  se  non  perchè  passiamo  da  pro- fKDsizioni  identiche  a  proposizioni  identiche.  Ora  se  potes- simo scoprire  tutte  le  verità  possibili,  ed  assicurarcene d'una  maniera  evidente,  faremmo  una  serie  di  proposizioni identiche,  uguale  alla  serie  delle  verità,  e  per  conseguenza vedremmo  tutte  le  verità  ridursi  ad  una  sola  >.  {Arte  di ragionare,  lib.  3*'  e.  XI).  Il  suo  Trattato  delle  sensazioni non  è,  secondo  Condillac,  che  una  serie  di  proposizioni identiche  in  se  stesse,  e  il  principio  che  comprende  tutto il  sistema  può  brevemente  enunciarsi  di  questa  maniera: le  sensazioni  sono  sensazioni.  «  Se  potessimo  in  tutte  le scienze  seguire  ugualmente  la  generazione  delle  idee,  e cogliere  e  vedere  da  per  tutto  il  vero  sistema  delle  cose, vedremmo  nascere  da  una  verità  tutte  altre,  e  ritroverem- mo Tespressione  abbreviata  di  tutto  quello  che  sapremmo in  questa  proposizione  identica:  lo  stesso  è  lo  stesso  »  (Ar- te di  pensare,  e.  10).  Ma  se  tutte  le  proposizioni  d'una scienza  dimostrativa  sono  identiche,  obbietta  a  se  stesso Condillac,  non  saranno  perciò  stesso  frivole?  Le  proposizio- ni, egli  risponde,  sono  identiche,  se  esse  sono  vere;  per- chè avendo  dimostrato  che  e/ò  c/ie  non  sappiamo  è  la stessa  cosa  di  ciò  che  sappiamo,  è  evidente  che  non  pos- siamo lare  che  delle  proposizioni  identiche,  allorché  pas- siamo da  ciò  che  sapiuamo  a  ciò  ciie  non  sappiamo.  Ma «  non  è  r  identità  nello  idee  che  la  il  frivolo,  è  V  identità nei  termini  ».  Sei  è  sei  è  una  ])roposizione  identica  e  al tempo  stesso  frivola,  perchè  T  identità  è  nelle  idee  e  nei termini.  Ma  tre  e  tre  fanno  sei  non  è  una  proposizione frivola,  «  perche  Tidentità  è  unicamente  nelle  idee  »  (Linr/iia dei  calcoli,  lib.  l^  e.  .>) §.  7.  Noi  non  possiamo  passare,  dice  Condillac,  da  cii) che  sai)piamo  a  ciò  che  non  sappiamo,  se  non  perchè  ciò che  non  sappiamo  è  la  stessa  cosa  di  ciò  che  sappiamo. Noi  andiamo  dal  noto  airignoto,  perchè  l'ignoto  si  trcjva nel  noto,  e  non  vi  si  trova  che  perchè  è  la  stessa  cosa. (Lingua  dei  calcoli,  hb.  1"  e.  5^).  Ma  se  Tignoto,  risponde il  Galluppi,  è  lo  stesso  del  noto,  il  cammino  che  si  preten- de che  faccia  lo  s])irito,  andando  dal  noto  all'ignoto,  non esiste  allatto,  perchè  quest'  ignoto  è  una  clamerà  :  se  il punto  da  cui  io  parto  è  1<3  stesso  di  quello  a  cui  giung(3, non  ho  fatto  alcun  cannnino,  io  resto  immobile,  ed  il parlare  d'un  passaggio  da  un  punto  ad  un  altro  è  un  lin- guaggio visibilmente  contraddittorio.  (Galluppi^  Opera  ci-, t.  P  §  70). È  evidente  che  questa  obbiezione  colpisce  la  dottrina del  Galluppi  stesso  :  cos'ha  fatto  quest'  ultimo  autore  per risolvere  la  difììcoltà  ?  Egli  ha  ricorso  a  due  espedienti  : il  raziocinio,  dice  in  primo  luogo,  è  istruttivo,  ed  estende effettivamente  la  sfera  delle  nostre  conoscenze,  in  quanto ci  scopre  i  diversi  rapporti  delle  nostre  diverse  idee,  pa- ragonate le  une  con  le  altre.  I  triangoli  costruiti  su  basi eguali  e  tra  le  stesse  parallele  sono  uguali.  Se  un  trian- golo e  un  parallelogrammo  sono  costruiti  su  basi  eguali e  fra  le  stesse  parallele,  il  triangolo  è  la  metà  del  paral- lelogrammo ;  queste  proposizioni,  dice  il  Galluppi,  non  so- no identiche  l'una  all'  altra  ;  la  prima  scopre  il  rapporto fra  un  dato  triangolo  e  un  altro  dato  triangolo  ;  la  secon- da scopre  il  rapporto  fra  un  dato  triangolo  e  un  dato  pa- rallelogrammo ;  or  questi  due  rapporti  son  distinti  nel  no- stro pensiero,  e  perciò  formano  due  conoscenze  distinte. Non  si  può  dire  che  in  queste  proposizioni  non  si  faccia altro  che  dire  :  11  triangolo  è  triangolo,  il  parallelogram- mo è  parallelogrammo,  poiché  queste  proposizioni  identi- che non  indicano  alcun  rapporto  fra  due  figure  distinte, (t.  1°  §  81  —  V.  anche  t.  4<^  §  38,  t.  1°  IGl,  ecc.)  Ma  con questa  risposta  il  Galluppi  abbandona  la  dottrina  dell'iden- tità e  del  giudizio  analitico  ;  o  piuttosto,  dovrebbe  abban- donarla, se  fosse  conseguente.  Noi  abbiamo  esservato,  in effetto,  che  se,  come  insegna  il  Galluppi;,  i  giudizi  ma- tematici sono  verità  comparative  o  di  rapporto,  e  il  rap- porto è  una  nozione  nuova  che  lo  spirito  aggiunge  alle nozioni  dei  termini  comparati,  i  giudizi  matematici  non  pos- sono essere  analitici  o  identici,  perché  questa  seconda  dot- trina è  in  contraddizione  con  la  prima. L'altra  risorsa  del  Galluppi  consiste  nell'invocare  la  vec- chia dottrina  dei  logici  sul   sillogismo:  il  ragionamento,  egli  dice,  va  dal  generale  al  particolare,  dal  genere  alla specie  e  dalla  specie  all'  individuo.  Ma  T  idea  del  genere non  è  perfettamente  identica  con  quella  della  specie,  poi- ché v'ha  più  nella  specie  che  nel  genere,  più  nell'indivi- duo che  nella  specie;  cosilo  spunto  passa  da  nozioni  più semplici  e  generali  a  nozioni  \)i\\  complesse  e  particolari. Dunque  nella  dimostrazione  non  vi  ha  una  sola  idea,  e  il Condillac  ha  torto  di  riguardare  il  raziocinio  come  una serie  di  (Utlerenti  espressioni  di  una  stessa  idea  (t.  1^  Js?.  73 e  sgg).  (xJuesta  seconda  risposta  non  vale  j)iù  della  prima: essa  è  t'ondata  su  un  falso  presu[)posto,  cioè  che  il  sillo- gismo rappresenti  il  processo  reale  del  ragionamento,  ed é  inoltre  illusoria,  perché,  ammesso  anche  questo  presup- posto, il  ])rogresso  deirintelligenza,  nel  ragionamento,  re- sterebbe sempre  incomprensibile. §.  8.'^  Uno  dei  fondamenti  della  dottrina  analitica  sui giudizi  a  priori  é  certamente  Topinione,  per  lungo  tempo dominante  nella  logica,  clie  il  sillogismo  é  un  ragiona- mento reale,  anzi  il  tipo  universale  del  ragionamento.  E in  eiletto  rimpiego  del  metodo  sillogistico,  da  una  parte, ha  dato  la  ragione  apparentemente  più  forte  per  credere che  la  costatazione  di  una  semplice  necessità  logica,  cioè di  una  conseguenza  fondata  sui  rapporti  logici  necessari tra  le  idee  e  non  sulle  analogie  tra  i  fatti,  può  dare  un'e- stensione reale  alle  nostre  conoscenze;  e  d'altra  parte, l'oggetto  della  dottrina  analitica  dei  giudizi  a  priori  es- sendo di  tbndare  questi  giudizi  sulla  semplice  necessità logica,  questa  dottrina  trovava  perciò  uno  strumento  pro- prio e  già  preparato  nel  sillogismo,  qual  é  ordinariamente considerato  dai  logici.  Cosi  mentre,  dopo  la  disfatta  della scolastica,  si  trova  generalmente  nei  filosofi  novatori  l'ab- bandono e  il  dispregio  della  logica  formale,  noi  vediamo al  contrario  Leibniz,  die  si  avrebbe  ragione  di  riguar- dare come  il  fondatore  della  dottrina  analitica  dei  giu- dizi  a  priori  (v.  il   Saggio  seguente,   parte  1*,   cap.  6^) quantunque  egh  non  ammetta  ancora,  almeno  esplicita- mente, che  in  questi  giudizi  il  predicato  é  contenuto  nel soggetto  —,  fare  il  più  gran  conto  del  ragionamento  sil- logistico: secondo  lui,  tutte  le  verità  razionali,  anche ([uelle  che  si  chiamano  assiomatiche,  devono  essere  di- mostrate secondo  le  regole  della  logica,  cioè  col  metodo sillogistico,  sinché  si  arrivi,  come  primi  [)rincipii,  a  delle proposizioni  di  cui  si  veda  chiaramente  che  sono  delle verità  identiche  (v.  Leibniz  Nuovi  Saggi  Hitirintcndimenio umano,  lib.  4'^  e.  2^  7^  i)^  12^  17^»;  Meditationes  de  co-- gniiione,  veritate  et  ideis  (Opera  omnia,  Datens,  i.as  2us /%  pag.  17);  Teodicea,  Osserv'ò.zioni  sul  Uhro(ìi  King, TI 0    K ecc), Dei  filosofi,  i  quali  credono  che,  in  una  ])roposizioistruttiva,  l'idea  del  ]:)redicato  può  fare  parte  dell'idea  del soggetto,  non  possono  vedere  la  (hfticoltà  che  vi  ha  ad  am- mettere che  un  ragionamento,  in  cui  la  conclusione  é  con- tenuta nelle  premesse,  costituisca  ciò  non  ostante  una  vera inferenza,  cioè  un  progresso  reale  della  conoscenza.  jMa la  diiticoltà  in  se  stessa  é  talmente  evidente,  che  l'obbie- zione contro  il  sillogismo  che  esso,  considerato  come  una prova,  é  una  pura  petizione  di  principio,  é  tanto  vecchia quanto  il  sillogismo  stesso.  Questa  obbiezione  é  in  effetto, come  dice  il  Mill  (Logica,  ììh.  2^  e.  :V^  ^.  1),  un  corollario legittimo  del  teorema  del  sillogismo,  cioè  del  principio,  una- Tiimamente  ammesso  dai  logici,  che  nella  conclusione  di questo  ragionamento  non  deve  esservi  niente  di  più  di  ciò che  è  già  dato  nelle  premesse.  «Quando  si  dice: Tutti  ixM  uomini  sono  mortali, Socrate  è  uomo, Dunciuo  Socrate  è  mortale, gli  avversari  della  teoria  del  sillogismo  obbiettano  irre- futabilmente che  la  proposizione  «  Socrate  è  mortale  •  é presupposta  nell'asserzione  più  generale  «  Tutti  gli  uoiiiini  sono  mortali»;  che  noi  non  possiamo  essere  sicuri  del- la mortalità  di  tutti  gli  uomini,  a  meno  d'essere  già  certi della  mortalità  di  ciascun  uomo  individuale;  che  se  è  an- cora dubbioso  che  Socrate  sia  mortale,  Tasserzione  che gli  uomini  sono  mortali  è  colpita  della  stessa  incer- tezza; che  il  principio  generale,  lungi  di  essere  una  pro- va del  caso  particolare,  non  può  esso  stesso  essere  am- messo come  vero  sinché  resta  Tombra  d'un  dubbio  su uno  dei  casi  che  esso  abbraccia,  e  sinché  questo  dubbio non  é  stato  dissipato  per  una  prova  alìunde;  e  allora  che resta  a  provare  al  sillogismo?*  (MìW Logica  hb.  2^  e.  3^ §.  2^).  Il  ragionamento  sillogistico  non  é  dunque  un'infe- renza reale,  ma  verbale  e  apparente.  È  ciò  del  resto  che  è implicitamente  ammesso  dai  suoi  stessi  difensori,  quando insegnano,  come  fanno  generalmente,  che  la  transizione dalle  premesse  alla  conseguenza  é  giustificata  dal  sempli- ce principio  di  contraddizione,  cioè  che  il  solo  motivo  di accordare  la  conseguenza  dopo  aver  accordato  le  premesse^ è  che  vi  sarebbe  contraddizione  se  quella  si  supponesse falsa,  queste  essendo  supposte  vere.  Cosi  essendo,  sicco- me la  contraddizione  consiste  ad  affermare  e  negare  al tempo  stesso  le  stesse  cose,  si  deve  confessare  che,  negan- do la  conseguenza,  si  negherebbero  dei  fatti  che  le  pre- messe affermano,  o  se  ne  affermerebbero  che  le  premes- se negano,  e  quindi,  che  ciò  che  si  afferma  enunciando la  conseguenza,  era  già  stato  affermato  enunciando  le premesse.  Ma  ciò  vuol  dire  che,  passando  dalle  pre- messe alla  conseguenza,  il  pensiero  non  ha  fatto  che  ri- petersi^ che  non  si  é  fatto  alcun  passo  in  avanti,  e  che l'inferenza  non  é  stata  che  apparente. È  sorprendente  come  questo,  che  chiameremmo  un  pa- radosso se  non  fosse  invece  un  luogo  comune,  cioè  che verità  date  possono  contenere  in  se  stesse  altre  verità,  che sono  nondimeno  nuove  e  differenti  dalle  prime,  ha  potuto imporsi  ai  logici  sino  al  Mill.  Si  credeva  di  vedere  pie- 1 namente  realizzato  questo  caso  nelle  scienze  di  puro  ra- gionamento, in  cui,  come  nella  geometria,  tutto  un  siste- ma di  conoscenze  importanti  viene  cavato,  a  quel  che  pa- re, da  pochi  principii  semplicissimi  supposti  al  comincia- mento.  Ma  (juesta  é  un'  illusione,  dovuta  all'  impiego necessario  del  linguaggio,  e  per  conseguenza,  dei  termini genemli  :  le  verità  dimostrate,  nelle  scienze  cosi  dette  de- duttive, non  sono  provate  dalle  verità  più  generali,  cioè dagli  assiomi,  ma  dai  fatti  particolari  di  cui  queste  ultime verità  sono  la  generalizzazione.  Ogni  ragionamento,  di qualunque  specie  esso  sia,  se  è  reale,  cioè  se  costituisce un  progresso  delle  nostre  conoscenze,  è  sempre  un  pro- cesso essenzialmente  induttivo,  cioè  un'assimilazione  dei casi  nuovi  ai  casi  particolari  dell'esperienza  passata.  La vera  prova  della  mortalità  di  Socrate  non  è  che  tatti  gli uomini  sono  mortali  —  perché,  come  è  stato  detto  sopra, se  non  si  è  ancora  sicuri  della  mortalità  di  Socrate,  non si  può  essere  sicuri  della  mortalità  di  tatti  gli  uomini—, ma  che  A,  B,  C  e  tutti  gli  altri  uomini  che  sono  vissuti, sono  morti.  Se  si  dubita  infatti  che  Socrate  morrà,  non si  può  esserne  resi  certi  per  la  proposizione  che  «  tutti gli  uomini  sono  mortali  »,  percliè  sinché  è  dubbio  il  fatto particolare,  è  necessariamente  anche  dubbia  la  proposi- zione generale.  Il  dubbio  non  potrà  essere  dissipato  che per  la  enumerazione  dei  casi  particolari,  di  cui  questa  è la  generalizzazione  induttiva.  Sono  dunque  questi  casi  par- ticolari che  provano,  tanto  la  proposizione  generale  che tutti  gli  uomini  sono  mortali,  quanto  la  verità  partico- lari che  Socrate  morrà  (v.  Stuart  Mill  Logica,  lib.  2^  e. 3^  o  almeno  questo  scritto  cap.  P  §.  19^).  L'inferenza  non è  mai  dunque,  come  crede  il  Galluppi^  dal  generale  al particolare,  ma  è  sempre  dal  particolare  al  particolare. É  questa  del  resto  una  conseguenza  evidente  del  rigetto della  dottrina  dei  concetti.  Se  noi  non  abbiamo  che  delle idee  particolari,  se  non    vi  ha  altro  di  generale  che  dei meri  simlx)li,  noi  non  possiamo  ragionare  che  su  dei  fat- ti particolari,  e  Tinlerenza  non  può  andare  che  da  alcuni altri  di  questi  latti  particolari.  Ora  questo  genere  d'in- ferenza non  può  servire  di  base  alla  dottrina  anaUtica  dei giudizi  a  priori,  perchè  questa  pretende  di  fondare  le  co- noscenze razionali  sul  principio  di  contraddizione,  ma  non vi  ha  contraddizione  alcuna  a  negare  la  verità  dei  fatti inferiti  (p.  e.  che  Socrate  morrai,  mentre  si  ammette  quel- la dei  fatti  da  cui  s'inferiscono  (che  A,  B,  C  e  tutti  gli altri  uomini  che  sono  vissuti,  sono  morti).  Il  sillogismo bensi  è  fondato  sul  principio  di  contraddizione  —  quan- tunque un  fatto  si  chiaro  sia  contrastato  da  alcuni  dei più  illustri  logici  moderni  (v.  in  seguito,  §.  2G— 20)— ;  ma appunto  perciò  è  un'inferenza  apparente,  e  non  può  dare un'estensione  reale  alle  nostre  conoscenze,  come  lo  esige la  dottrina  analitica. §.  0.^'  La  dottrina  dei  concetti  non  permette  di  vedere chiaramente  ci(*)  che  vi  ha  di  paradossastico  e  d'impos- sibile in  quest'  asserzione,  che  noi  possiamo  acquistare delle  conoscenze  nuove  per  il  solo  sviluppo  di  nozioni  an- tecedenti. Quando  si  ammettono  le  idee  astratte,  si  può, appoggiandosi  su  questa  vaga  nozione:  analisi,  credere che  si  possa,  sviluppando  o  esplicando  un'idea,  come  si svolge,  p.  e.,  un  gomitolo  o  si  spiega  una  stoila  che  era ripiegata,  mettere  in  luce  altre  idee  che  vi  erano  occul- tamente, o  come  si  dice  più  d'ordinario,  imphcitamente, contenute.  Un'idea  non  può  essere  racchiusa  in  un'altra, in  un  ragionamento  o  in  un  giudizio  reale,  che  come  la scintilla  è  racchiusa  nella  selce,  cioè  per  una  semplice metafora.  Se  i  metafìsici  possono  reaUzzare  questa  me- tafora, è  per  ciò  che  vi  ha  di  vago  e  di  mistico  in  que- st'altra nozione:  il  concetto,  degna  compagna  di  quella  del- Yanalisi,  Ma  se  si  ammette  che  noi  non  pensiamo  che  per idee  concrete  e  particolari,  non  vi  avrà  più  alcun  luogo, evidentemente,  per  l'analisi,  né  nel  ragionamento  nò  nel giudizio.  Come  nel  ragionamento  —  in  cui  il  processo  reale deirinferenza  non  ha  potuto  essere  misconosciuto,  che  per- chè una  proposizione  generale  si  è  riguardata  come  l'e- nunciato di  una  nozione,  rigorosamente  parlando,  gene- rale, e  non  sem[)liccmente  come  un  segno  per  ricordarci dei  fatti  particolari  dell'esperienza  passata,  e  indicarci  ciò che  doljbiamo  attenderci,  per  l'avvenire,  nei  casi  analo- ghi —  cosi  anche  nel  giudizio,  il  principio  che  un'idea  ne contiene  un'altra  che  le  viene  aggiunta,  non  può  sem- brare plausibile  che  per  questo  semi  -  realismo,  che  dà ai  significati  dei  termini  generali  un'esistenza  mentale distinta.  Noi  possiamo  addurre  ad  esempio  le  proposi- zioni enunzianti  le  proprietà  dei  numeri  e  delle  figure geometriciie.  Queste  proprietà  non  sono  che  delle  rela- zioni (d'eguaglianza,  d'ineguagUanza,  ecc.)  fra  oggetti  di- stinti;, ma  il  concettualista  potrà  riguardarle  come  delle determinazioni  intrinseche  astratte  delle  figure  e  dei  nu- meri in  se  stessi.  Sia  la  proposizione  :  Due  più  due  fanno quattro.  Se  si  comprende  bene  che  essa  non  può  volgere che  su  dei  fatti  concreti,  si  vede  subito  che  non  afferma che  ima  relazione  tra  gruppi  distinti  di  oggetti,  i  quali sono  numericamente  eguali,  ma  distribuiti  differentemente nello  spazio  o  nel  tempo.  Ma  se  si  ammette  che  qaatti'o designa  un  concetto  astratto,  siccome  questo  concetto  è necessariamente  applicabile  a  due  più  due,  si  vedrà nella  proposizione  l'attribuzione  a  due  più  due  d'una  pro- prietà astratta  che  loro  inerisce  necessariamente,  e  per conseguenza,  nel  concetto  quattro  una  nota  inclusa  ne- cessariamente nel  concetto  due  più  due.  Cosi  pure  perla proposizione:  Il  triangolo  rettilineo  ha  la  somma  degli angoU  uguale  a  due  retti.  Essa  non  stabihsce  che  una  re- lazione d'eguaglianza  fra  i  tre  angoli  del  triangolo  e  due angoli  retti;  ma  la  teoria  concettualista  la  riguarderà  in- vece come  attribuente  al  triangolo,  considerato  per  se stesso  e  indipendentemente  da  qualsiasi  relazione,  una  de- «tómasmm^sim terminazione  astratta  acl  esso  inerente,  e  cosi  la  proposi- zione sembrerà  analitica. Non  vi  ha  in  ogni  caso  che  a  tradurre  una  proposizio- ne nelle  rappresentazioni  reali  che  essa  significa,  e  la  dot- trina analitica  non  potrà  più  fare  illusione.  Si  sa  che  una delle  proposizioni  a  cui  di  preferenza  questa  dottrina  viene espressamente  applicata,  è  quella  enunciante  il  principio di  causalità.  Ora  è  ciò  che  non  può   sembrare  possibile,. che  smchè  questo  principio  si  formula  e  si  stabilisce  ser- vendosi di  termini  astratti.  Allora  il  partigiano  della  dot- trina analitica  dirà  che  nella  proposizione  :  «  ogni  effetto é  prodotto  da  una  causa  »,  é  evidente  che  il  concetto  che la  da  attributo,  cioè  di  «prodotto  da  una  causa»,  è  dato implicitamente  nel   concetto  che  fa  da  soggetto,  cioè  in quello  di  «  effetto  »;  ovvero,  dopo  che  gli  si  ò  fatto  com- prendere che  la  difficoltà  sta  appunto  nello  spiegare  per- chè noi  riguardiamo  tutto  ciò    che  comincia  ad   esistere come  un  effetto,  forzerà  il  senso  delle  parole,  e  si  gioverà degli  equivoci,  a  cui  si  prestano  tutti  i  termini  e  special- mente gli  astratti,  per  dimostrare  che  il  concetto  di  «effet- to »  o  «  prodotto  da    una  causa  »  è  contenìito  in  qualche altro  concetto  o  in  alcuni  altri  concetti,  che  sono  alla  loro volta  contenuti  in  quello  di  «  ciò  che  comincia  ad  esiste- re» (1).  Ma  svolgiamo  il  contenuto  reale  della  proposizione; (1)  Uno  specimen  di  queste  pretese  dimostrazioni  del  principio di  causalità  può  vedersi  in  Rosmini,  Nuoco  Saggio  suW  origine delle  idee,  sez.  4.  e.  3.  art.  XXUI.  Ivi  la  dimostrazione  è  presentata sotto  la  forma  appropriata  alla  dottrina  analitica,  cioè  mostrando che  il  concetto  di  «  cominciare  ad  esistere  »  racchiude  un  altro  con- cetto,  e  questo  un  altro  ancora,  il  quale  infine  racchiude  quello di  «  avere  una  causa  ».  Naturalmente  ogni  altra  dimostrazione  di questa  o  qualsiasi  altra  proposizione  a  priori  o  pretesa  tale,  fatta da  un  partigiano  della  dottrina  analitica,  che  non  riveste  questa forma  (come  quella,  pure  del  principio  di  causalità,  che  si  trova in  Galluppi  Saggio  Jtlos.  sulla  rrit.  della  conosc.  t.  1.  e.  4.  §.  99)  è o  dovrebbe  essere  suscettibile  di  rivestirla. 'fa  ' A*' i traduciamola  in  termini  che  indichino  chiaramente  le  rap- presentazioni concrete  di  cui  essa  è  Te.spressione  somma- maria;  si  vedrà  immediatamente  che  è  un  puro  non  senso il  dire  che  essa  unisce  delle  idee,  di  cui  Tuna  è  contenu- ta neiraltra.  La  proposizione  significa  che  un  fenomeno è  costantemente  preceduto  da  un  altro  fenomeno;  che  la natura  dei  due  fenomeni  che  costituiscono  questa  sequen- za, non  è  arbitraria,  ma  che  un  fenomeno  della  classe  a è  sempre  preceduto  da  un  fenomeno  della  classe  a^  o  di una  di  un  certo  numero  determinato  di  classi:  a\  a^^  ecc.; il  fenomeno  della  classe  b  da  un  fenomeno  della  classe  b^ o  di  una  di  un  certo  altro  numero  determinato  di  classi,  ecc.; che  cosi  è  stato  sempre  in  tutti  i  casi  deiresperienza  pas- sata, 0  almeno  in  tutti  quelli  che  abbiamo  potuto  cono- scere; che  per  conseguenza  noi  ci  attendiamo  che  anche cosi  sarà  per  Tavvenire  e  siamo  certi  che  è  stato  nei  ca- si del  passato  che  non  abbiamo  potuto  conoscere;  che anche  quando  non  si  sa  quale  sia  il  fenomeno  da  cui  un fenomeno  dato  è  stato  o  sarà  preceduto,  noi  siamo  sicu- ri almeno  clic  esso  è  stato  o  sarà  tale,  che  la  sequenza tra  i  due  fenomeni  sia  conforme  alla  sequenza  tipica,  o ad  una  delle  sequenze  tipiche,  di  cui  Faltro  fenomeno  suo- le essere  il  termine  conseguente.  Non  vi  lia  altro  in  tutto ciò  che  delle  rappresentazioni  di  sequenze  di  fenomeni  e di  somiglianze  tra  queste  sequenze.  Come  dunque  Tidea deireffetto  può  contenere  Tidea  che  esso  è  preceduto  da una  causa?  la  rappresentazione  del  fenomeno  a  contiene forse  la  rappresentazione  del  fenomeno  a^  o  di  un  altro fenomeno  qualsiasi  come  suo  antecedente?  e  quelle  inol- tre delle  altre  sequenze  simili  a  cui  questa  sequenza  par- ticolare si  conforma,  e  delle  somiglianze  fra  tutte  queste sequenze  ?  quale  analisi  potrebbe  trovare  nelFidea  del  pri- mo fenomeno  le  idee  di  tutti  questi  altri  fenomeni  con quelle  delle  loro  relazioni?  Tutte  le  nostre  proposizioni non   esprimono  che  dei  raj>porti  tra  fenomeni,  e  la  rappresentazione  d'un  fenomeno  non  contiene  mai,  né  espli- citamente né  implicitamente,  la  rappresentazione  delPaltro fenomeno  o  degli  altri  fenomeni  con  cui  esso  è  messo  in rapporto,  né  quella  del  rapporto  stesso  o  dei  rapporti  che vengono  stabiliti  tra  questi  fenomeni.  Nel  caso  stesso  in cui  le  cose  espresse  dai  termini  che  si  trovano  in  una proposizione,  sono  contenute  Tuna  nell'altra,  nemmeno  al- lora la  relazione  fra  le  rappresentazioni  concrete  che  co> stituiscono  il  senso  reale  della  proposizione,  è  veramente quella  di  contenente  e  contenuto.  Quando  diciamo:  «Que- sta casa  ha  il  tetto»,  il  giudizio  non  mette  in  rapporto  la rappresentazione  di  un  tutto  e  quella  di  una  parte,  non afferma  che  la  seconda  si  contiene  nella  prima.  Questa proposizione,  evidentemente,  non  è  analitica,  ma  sintetica: essa  esprime  un  giudizio  di  coesistenza,  il  quale  afferma che  una  parte,  cioè  il  tetto,  coesiste  con  le  altre  parti,  in quei  rapporti  di  posizione  reciproca  che  noi  sogliamo  os- servare nelle  case  (1). (1)  In  verità  la  proposiziono  potrel)])(;  onclic  avere  un  altro  senso, e  per  <{uest'  altra  interpretazione  si  avreb])e  apparentemente  più raijrione  <ii  dirla  analitica.  Come  ogni  altra  pro[iosizione  di  perce- zione, essa  iHiò  signitìi.'are  latTermazione  del  fatto  reale  che  cade sorto  la  nostra  percezione,  ed  è  il  senso  che  al)biamo  dato;  ma può  anche  esprimere  la  ricognizione  o  la  classa/ione  di  ciò  che noi  percepiamo.  In  (luesto  caso  V  uso  autorizza  la  parola  analisi. Avere  analizzato  l'oggetto  di  una  percezione  complessa,  è  averne ditTerenziato  le  parti  le  une  dalle  altre,  e  avere  riconosciuto  clie cosa  fosse  ciascuna  di  esso,  cioè  averla  identilicata  con  la  tal  cosa determinata,  o  averla  aggregata  alla  tal  classe  ]»articolare.  Quanoi  possiamo  eseguire  d'una  manici-a  sufìicionte  (piesto  lavoro  d'in- terpretazione sui  dati  dei  nostri  sensi,  noi  diciamo  di  i)ercepire, p.  e.  di  vedere  o  d'intendere,  distintamente  o  chinramente.  I  con- cettualisti, dicendo  che  l'etTetto  dell'  analisi  è  di  rendere  le  nostre idee  più  chiare  e  più  distinte,  non  fanno  dunque  che  dello  meta- fore.  tolte  dai  fenomeni  della  percezione:  in  realtà  questa  distin- zione e  <iuesta  chiarifù^aziono  non  ò  che  un  processo  di  assimila- zione e  di  dirterenziazione.  «I  processi,  dice  il  Bain.  dell'assimila- Per  })resentare  ora  sotto  il  suo  aspetto  più  generale la  nostra  osservazione  suirincompatibilità  della  dottrina col  principio  che  noi  non  pensiamo  che  per  rap- presentazioni concrete  e  particolari,  basterà  di  far  notare che  la  supposizione  che,  delle  idee  die  unisce  una  propo- sizione, runa  è  contenuta  nell'altra,  suppone  alla  sua  volta che  (jueste  idee,  che  la  proposizione  unisce,  siano  quella del  soggetto  e  ({uella  del  predicato,  e  per  conseguenza,  la teoria  delle  idee  astratte,  perchè  una  di  queste  idee  alme- no, cioè  quella  del  predicato,  non  potrebbe  essere  che  astrat- ta. Noi  abbiamo  visto  nel  capitolo  2^*  che  questa  maniera di  considerare  il  senso  delle  proposizioni  non  va  al  l'on- do della  cosa,  ma  si  ferma  alla  corteccia,  (3  confonde  le parole  con  le  idee.  I  giudizi,  come  abbiamo  ivi  stabilito, affermano  delle  sequenze  o  delle  coesistenze  o  delle  so- miglianze o  delle  differenze  tra  cose  o  fenomeni.  Noi  pos- siamo cosi  abbracciare  tutti  i  giudizi  possibili  con  questo scliema  generale  "A:  B",  in  cui  "A"  e  "B''  indicano  delle  cose o  dei  fatti  particolari,  e  il  segno  «:»  la  relazione,  cioè  la  se- quenza o  la  coesistenza  o  la  somiglianza  o  ladifferenza.il giudizio  non  mette  dunque  in  rapporto  un  soggetto  e  un ziono,  della  classificazione,  della  generalizzazione,  dell'astrazione, della  definizione,  sono  i  diversi  aspetti,  i  tliversi  gradi  di  una  sola operazione  fondamentale.  L'analisi  non  è  essa  stessa  che  un  altro aspetto,  un'altra  faccia  di  questa  oi^erazione,  cosi  variata  nelle suo  foi'me  che  Proteo  stesso.»  (Logira,  tomo  2   Append.  V). Di  là  si  vedo  che  le  verità  matematiche  essendo,  comò  dico  il  Gal- luppi,  delle  verità  di  rai)porto,  cioè  non  alVermandosi  altro  per  esse che  dei  r;q>ì>orti  particolari  di  somiglianza  o  di  diltoronzo,  vi  ha  come un  ]>roscn  ti  monto  del  vero  nella  dottrina  che  tutti.'  lo  verità  neces- sario sono  analitiche.  Noi  abbiamo  visto  in  elTotli  cIkì  gli  esempi tipici  del  liiudizio  analitico,  nel  senso  Kantiano,  sono  anch'essi dei  giudizi  comparativi,  cioè  sulla  somiglianza  o  la  dilferenza.  torto  del  (ialluppi  e  degli  altri  sostenitori  della  dottrina  analitica è— oltiv^  di  non  aver  tracciato  esattamente  la  linea  <li  divisione  fra le  verità  necessarie  e  le  contingenti— d'aver  fatto  del  giudizio  ana- litico il  sinonimo  di  giudizio  identico.  K  in  questo  senso,  non  biso- gna dinionticai'lo,  che  noi  rigettiamo  i  giutlizi  analitici. predicato,  ma  due  termini  die,  essendo  l'uno  e  1  altro  par- ticolari e  concreti,  dovrebbero  piuttosto  essere  riguardati tutti  e  due  come  soggetti.  Non  essendovi  dunque'^nel  giu- dizio un  soggetto  e  un  predicato,  tanto  meno  può  esservi fra  le  idee  che  asso  unisce,  la  relazione  che  suppone  la dottrina  analitica.  Tuttavia,  volendo  conciliare  in  qualclie modo  con  la  dottrina  tradizionale  i  risultati,  che  un^esa- me  sufficientemente  profondo  dà  sul  senso  reale  delle  pro- 130sizioni,  si  potrebìje,  nella  nostra  formula  «A:  B»,  con- siderare «Ax>  come  soggetto  e  *:B'>  come  predicato,  ovve- ro «A»  e  «B»  come  soggetti  entrambi,  e  come  predicato semplicemente  «:)^.  Ma  la  rappresentazione  di  «A»  e  «B* non  contiene  quella  di  «:»,  e  tanto  meno  la  rappresenta- zione di  (tA»  quella  di  «:B'>;  anche  in  ques^ipotesi,  quin- di, la  dottrina  analitica  è  inapplicabile.  Limix)ssibihtà  di questa  dottrina  risulta  duufpie  chiaramente  da  una  vedu- ta corretta  sulla  natura  delle  idee  e  sul  significato  reale delle  proposizioni  (1). §  It).  Come  abbiamo  mostrato  nel  paragi*al'o  prece- dente,  la  dottrina  analitica,  che  essa  si  applichi  al  giu- dizio o  al  ragionamentc»  (2),  è  necessariamente  legata alla  dottrina  dei  concetti  :  è  su  di  questa  che  si  appoggia, e  con  essa  deve  cadere.  Noi  avremmo  perciò  ragione  di sorprenderci  come  uno  dei  più  geniali  pensatori  contem- (1)  Ciò  che  al)l)iaino  dettu  e  ci  rcsUi  a  dire  nel  presente  cai»itolo sulla  dottrina  analitica  dei  iriudizi  a  priori,  deve  essere  comple- tato per  ciò  che  dicemmo  nel  capitolo  i  su  quella  dei  iriudizi  ana- litici in  ^^enerale.  Sono  specialmente  applicabili  anche  alla  prima dottrina  le  osservazioni  fatte  nei  §.  12  e  li. (2)  Per  rapplicazione  della  dotti'ina  analitica  al  ragionamento, noi  intendiamo,  non  ciò  che  nella  nota  al  J5\  6.  abbiamo  chiamato la  (fottrina  euialitica  del  rafjionaiucfito,  ma  la  dottrina  più  irene- rale  che,  in  un  ragionamento,  la  conseguenza  è  contenuta  nelle  pre- messe, e  cìie  questo,  quindi,  è  un'analisi:  ciò  che  necessariamente devono  ammettere  tuiti  (luelli  die  credono  che  il  sillogismo  sia uninferenza  re(de. r. **^\ I 'iS poranei,  il  Taine,  rigetti  della  maniera  più  categorica  le idee  astratte,  e  ammetta  al  tempo  stesso  in  tutto  il  suo rigore  la  dottrina  di  Condillac  (1)  che  il  principio  d'iden- tità e  di  contraddizione  è  il  gran  principio  da  cui  deri- vano e  devono  farsi  derivare  tutte  le  conoscenze  umane; che  le  verità  formano  una  catena  continua  in  cui  non  si passa  dalFuna  all'altra  che  in  forza  dell'identità;  che  una legge  scientifica  è  una  proposizione  analitica,  la  quale  ac- coppia due  dati  di  cui  il  secondo  è  contenuto  nel  primo. Ma  la  sorpresa  cessa,  quando  si  riflette  cJie,  quantunque il  Taine  rigetti  le  idee  astratte,  egli  ammette  invece  gli esseri  astratti  :  essa  non  sparisce  cosi  sovra  un  punto  che per  ricomparire  più  forte  sopra  di  un  altro.  Per  una  sin- golarità senza  esempio  nella  storia  della  quistione  degli universali,  il  Taine  ammette  delle  entità  generali,  ma  non riconosce  che  delle  idee  particolari.  «  Ciò  che  noi  chia- miamo un'idea  generale,  una  vista  d'insieme,  non  è,  dice il  Taine,  che  un  nome;  non  il  semplice  suono  che  vibra nell'aria  e  scuote  il  nostro  orecchio,  o  l'insieme  delle  let- tere che  anneriscono  la  carta  e  colpiscono  i  nostri  occhi, nemmeno  queste  lettere  percepite  mentalmente,  o  questo suono  mentalmente  pronunziato,  ma  questo  suono  o  queste lettere  dotate,  quando  noi  le  percepiamo  o  le  immaginia- mo;,  d'una  proprietà  doppia,  la  proprietà  di  svegliare  in noi  le  immagini  degT  individui  che  appartengono  a  una certa  classe,  e  di  questi  individui  solamente,  e  la  pro- prietà di  rinascere  tutte  le  volte  che  un  individuo  di  questa classe  e  solamente  quando  un  individuo  di  questa  classe si  presenta  alla  nostra  memoria  o  alla  nostra  esperienza  ». (i)  Condillac  era  lungi  di  avere  una  dottrina  perfettamente  coe- rente sul  soggetto  delle  idee  astratte.  Egli  dice  p.  e.  nella  Lingua dei  aalcoli  1. 1.  e.  4.  che  le  idee  astratte  non  sono  che  dei  nomi  gene- rali: ma  che  si  legga,  p.  e.,  il  cap.  8.  (XdWArte  di  pensare;  si  vedrà che  egli  suppone  che  lo  spirito  abbia  il  potere  di  fare  delle  astra- zioni. l>IWl»'*»tl'IWJÌ!gì  {Llntellhjenza.L  V\  pag.  :i5),  (t  Un  nome  che  si  compren- de é  dun(iue  un  nome  legato  a  tutti  gii  individui  che  noi passiamo  percepire  o  innnaginare  d'  una  certa   classe  e solamente  agli  individui  di  (juesta  classe.  A  (juesto  titolo esso  corrisponde  alla  qualità  comune  e  distintiva  che  co- stituisce la  classe  e  clie  la  separa  dalle  altre,  e  corrispode solamente  a  questa  (juaUtà;  tutte  le  volte  che   questa è  presente,  (juello  è  presente;  tutte  le  volte  che  questa  è assente,  quello  è  assente;  quello  è  svegliato  da  (juesta  e non  ò  svegliato  che  da  essa.  Di  (juesta  maniera  esso  è  il suo  rappresentante  mentale,  e  si  trova  il  sostituto  d'una che  ci  è  interdetta.  Esso  ci  tiene  luogo  di  que- sta esperienza,  fa  il  suo  ufficio,  le  equivale  —  Artificio  am- iniraliile  e  spontaneo  della   nostra  natura  !  noi  non  r)Os- siamo  percei)ire  né  mantenere  isolate  nel    nostro   spirito le  (jualità  generali,  sorta  di  filoni  preziosi  che  costituiscono Tessenza  e  fanno  la  classificazione  delle  cose,  e  tuttavia per  uscire  dalla  grossa  esperienza  bruta,  j)er  comprendere r  ordine  e  la  struttura  interiore  del  mondo,  bisogna  che noi  le  tiiàamo  dalla  loro  ganga,  e  che  le  concepiamo  a parte»  (tomo  P,  pag.  30-37). Non  bisogna  credere  che  quando  il  Taine  parla  delle qualità  generali  come  di  altrettante  realtà  distinte,  egli non  faccia  che  delle  semplici  metafore  :  no,  vi  hanno  et- fettivamente  per  lui  delle  cose  generali,  ed  esse  sono  log- getto  della  conoscenza  generale.  «  Vi  hanno  delle  cose generali  »,  cioè  «  delle  cose  comuni  a  molti  casi  o  indi- vidui »  (t.  2'\  pag.  232);  in  altri  termini  «vi  Jianno  dei caratteri  comuni,  di  cui  la  presenza  moltiplicata  e  ri])etuta lega  fra  loro  i  diversi  individui  della  classe  »;  e  «  questi caratteri  sono  la  i^orzione  uniforme  e  fìssa  dellesistenza (Uspersa  e  successiva  »  (t.  2«  p.  230).  «  Non  siamo  noi  che li  creiamo  per  la  comodità  del  nostro  pensiero  ;  non  sono dei  semplici  mezzi  di  classare,  degli  strumenti  di  nmemo- tecnia.  Non  solo  essi  esistono  in  fatto,  fuori  di  noi,  e  spesso ben  al  di  là  della  corta  portata  dei  nostri  sensi  e  delle nostre  congetture  ;  ma  ancora  essi  sono  efficaci.  Ciascuno di  loro  y  per  se  stesso  e  per  sé  solo,  ne  trascina  con  sé un  altro  che  è  il  suo  compagno,  il  suo  antecedente  o  il suo  conseguente,  e  fa  con  esso  una  coppia  che  si  chiama una  legge  »  (pag.  237).  Ciò  che  noi  chiamiamo  una  legge generale,  non  è  dunque  per  Taine  che  un  accoppiamento di  questi  caratteri  generali  (t.  2«  p.  293)  :  luno  di  questi caratteri  ha  per  se  stesso  la  proprietà  di  essere  legato alFaltro  ;  «  basta  che  esso  esista,  perchè  Taltro  sia  il  suo compagno  >.  «  Dacché  esso  é  dato,  alcun'altra  condizione non  é  richiesta  ;  le  circostanze  possono  essere  qualunque, ciò  non  importa.  Che  esso  sia  dato  in  tale  o  tale  individuo, con  tale  o  tal  gruppo  di  altri  caratteri,  in  tale  o  tal  luogo o  momento,  ciò  é  indifferente  ;  la  proprietà  che  esso  ha non  dipende  né  dalle  circostanze  né  dalPindividuo  né  dal gruppo  circostante  degli  altri  caratteri,  né  dal  luogo,  né  dal momento;  preso  a  parte  e  in  se  stesso,  isolato  perlastrazione, estratto  dai  diversi  ambienti  in  cui  si  trova,  esso  possiede questa  proprietà.  L]  perciò  che  in  qualunque  ambiente  venga trasportato,  esso  la  conserva  con  sé.  Se  la  ha  sempre  e da  per  tutto,  é  perché  la  ha  da  sé  stesso  e  per  sé  solo; se  la  ha  senza  eccezione,  é  perché  la  ha  senza  condizio- ne. Se  tutti  i  triangoli  racchiudono  una  somma  d'angoli uguale  a  due  retti,  é  perché  il  trlam/olo  astratto  ha  la proprietà  di  racchiudere  una  somma  danwli  uguale  a  due retti.  Se  tutti  i  pezzi  di  ferro  sottoposti  airumidità  si  ar- rugginiscono, é  perchè  il  ferro,  preso  a  parte,  in  se  stesso,. e  sottomesso  airumidità,  presa  a  parte,  in  se  stessa,  pos- siede la  proprietà  di  arrugginirsi.  Se  la  legge  é  univer- sale, é  perché  essa  è  astratta.  Niente  di  sorprendente  in questa  costituzione  delle  cose.  Non  é  più  strano  di  trovare dei  compagni,  dei  precursori  e  dei  successori  a  un  carat- tere generale,  che  di  trovarne  a  un  individuo  particolare o  a  un  avvenimento   momentaneo.   Senza  dubbio  nello sparpagliamento  infinito  e  il  flusso  irrimediabile  dell'essere, questa  sorta  di  caratteri  sono  i  soli  elementi  che  siano  da per  tutto  gli  stessi  e  rinascano  sempre  gli  stessi  ;  ma  essi non  esistono  in  fuori  degF  individui  e  degli  avvenimenti, come  voleva  Platone  (1),  né  in  un  mondo  altro  che  il  no- stro ;  perchè  essi  sono  i  caratteri  degli  avvenimenti  e  de- gFindividui  che  compongono  il  nostro  mondo.  Come  gFin- dividui  e  gli  avvenimenti,  essi  sono  delle  forme  deir  esi- stenza, e  non  difteriscono  dagF  individui  e  dagli  avveni- menti che  perchè  sono  delle  forme  più  stabilire  più  dif- fuse. A  questo  titolo  noi  dobbiamo  attenderci  a  trovar loro  pure  dei  contemporanei,  dei  precedenti,  dei  conse- guenti, delle  particolarità,  delle  proprietà  personali,  e  per riuscirvi,  non  si  ha  che  ad  osservarli  per  se  stessi  e  a parte  »  (t.  2^  p.  300)  (2). Tuttavia  noi  non  abbiamo  il  potere  di  percepire  o rappresentarci  (Y  una  maniera  qualunque  queste  cose  o caratteri  generaU  (t.  P  parte  1'^  1.  1«  e.  2^  li).  «  Un^idea generale  e  astratta  è  un  nome,  niente  altro  che  un  no- me, il  nome  sirjnìjìeativo  e  compreso  d'una  serie  di  l'atti simili  0  d  una  classe  d'individui  simili  »  (t.  2^  pag.  241). «  Ciò  che  noi  abbiamo  in  noi  stessi,  quando  pensiamo  le qualità  e  carattari  generali  delle  cose,  sono  dei  segni,  e niente  altro  che  dei  segni,  io  voglio  dire  certe  immagini o  risurrezioni  di  sensazioni  visuali  o  acustiche,  affatto  si- mili alle  altre  immagini,  salvo  in  ciò  che  esse  sono  cor- rispondenti  ai  caratteri  e  (jualità  generali  delle  cose,  e (1)  Qui  il  Taine  coiiii'ivnde  IMatone  alla  maniera  tradizionale, come  se  le  Idee  platoniclie  fossero  in  im  alfro  mondo.  Ma  in  realtà le  cose  o  caratteri  i^enerali  del  Taine  non  dilVeriscono  dalle  Idee di  Platone:  sì  le  une  che  le  altre  non  sono  che  gli  elementi  astratti e  generali  del  mondo  sensibile  (V.  il  Saggio  seguente,  parte  1.,  il cap.  7.  e  il  Supplemento  sulla  immanenza  delle  Idee  platoniche). (2)  Per  (jiiesto  realismo  del  Taine  vedi  i  luoghi  di  altre  opero dello  stesso  autore,  che  noi  citeremo  nel  2.  Saggio  parte  1.  cap.  7. rimpiazzano  la  percezione  assente  o  impossibile  di  questi caratteri  e  quaUtà»  (t.  r  pag.  71).  «  Il  nome  equivale  alla  vi- sta, esperienza  o  rappresentazione  sensibile  che  non  ab- biamo e   che  non  possiamo  avere  del  carattere  astratto presente  in  tutti  gF  individui  simih.  Esso  la  rimpiazza  e fa  lo  stesso  ufficio.  Cosi  noi  pensiamo  i  caratteri  astratti delle  cose  mediante  i  nomi  astratti  che  sono  le  nostre  idee astratte,  e  la  formazione  delle  nostre  idee  non  è  che  la formazione  dei  nomi,  che  sono  dei  sostituti  »  (t.  2«  p.  245). §  IP.  Non  vi  ha  dunque,  secondo  il  Taine,  nel  nostro pensiero  altro  che  dei  nomi,  quando  noi  pensiamo  le  cose generali  o  i  caratteri  generali  ;  ed  è  un^  illusione  di  cre- dere che  vi  siano  delle  idee  generali  e   astratte  corri- spondenti ai  nomi  generali  e  astratti  (v.  t.  P  p.  G(J-71). Noi  abbiamo  bisogno,  per  uscire  dalla  grossa  esperienza bruta,  di  concepire  a  parte  i  caratteri  generali  o  astratti delle  cose  :  ma  non  vi  riusciamo  che  sostituendo  loro  dei nomi,  perchè  la  loro  rappresentazione  è  impossibile,  tutte le  nostre  rappresentazioni  non  essendo  che  immagini  di cose  particolari.  Ma  come  il  nome  può  essere  un  mezzo di  concepire  a  parte  una  cosa,  che  noi  non  possiamo  af- fatto rappresentarci  a  parte  ?  Come  il  nome  può  essere  per noi  il  sostituto  di  una  cosa,  di  cui  non  abbiamo  e  non possiamo  avere  Fidea  ?  Se  i  nomi  rappresentano  le  cose, è  perchè  vi  ha  un  legame  fra  i  nomi  e  le  idee  delle  cose per  cui  si  suggeriscono  reciprocamente,  legame  che,  per dire  le  parole  dello  stesso  Taine  (t.  2^  p.  245),  non  è  che «  un'  associazione  d' un  certo  genere  ».  Come  dunque  il nome  potrebbe  rappresentare  una  cosa,  con  la  cui  idea esso  non  è  associato,  poiché,  per  ipotesi,  quesf  idea  ci manca  ?  Noi  possiamo,  nei  nostri  ragionamenti,  non  avere per  qualche  tempo  presenti  nello  spirito  che  dei  nomi  o dei  segni,  le  idee  delle  cose  stesse  essendo  per  tutto  que- sto tempo  assenti  dal  nostro  pensiero  ;  nondimeno  noi  ap- plichiamo alle  cose  stesse  il  risultato  del  nostro  ragionamento,  operando  cosi  sui  segni  come  se  operassimo  sulle idee  stesse  delle  cose.  In  questo  caso  può  dirsi  che  il  no- me è  per  noi  il  sostituto  dell'idea  o  della  cosa  :  ma  se  noi non  avessimo  il  potere  di  sostituire  a  vicenda  i  nomi  alle idee  e  le  idee  ai  nomi,  i  nomi  non  sarebbero  il  sostituto niente,  essi  non  sarebbero  che  dei  puri  suoni.  Ma  il nome,  dirà  il  Taine,  è  un  sostituto,  precisamente  perchè ci  manca  1*  idea  ;  perchè  adempie  nella  nostra  mente  lo stesso  utticio  che  ademi)irebbe  T  idea,  se  essa  vi  jxDtesse essere  ;  i)ercliè  infine  ci()  che  la  cosa  generale  è  nella realtà,  il  nome  generale  è  nel  nostro  pensiero.  È  per  que- sta corrispondenza  fra  la  cosa  generale  o  astratta  e  il  no- me generaltì  o  astratto,  che  il  nome  è  il  sostituto  della cosa  ;  ed  è  cosi  che  noi  abbiamo  delle  conoscenze  generali. Non  vi  ila  altro  nel  nostro  spirito  che  delle  proposizioni generali  ;  ma  per  questa  sostituzione  o  corrispondenza  dei nomi  alle  cose,  una  proposizione  generale  è  una  conoscen- za generale,  cioè  una  conoscenza  delle  cose  generali.  Di questa  maniei*a  noi  veniamo  a  conoscere  le  cose  generali, quantunque  non  ne  abbiamo  Tidea. Ma  come  jjossiamo  noi  aftèrmare  che  delle  cose  gene- rali corrispondono  ai  nomi  generali,  se  non  abbiamo  af- fatto ridea  di  (jueste  cose  ?  Si  può  affermare  una  cosa  senza pensarla,  o  si  può  pensarla  senz'averne  Tidea?  La  contraddi- zione è  talmente  evidente,  che  noi  non  vi  insisteremo  di più,  perchè  la  discussione  non  potrebbe  renderla  più  chiara. S  12.  La  stessa  contraddizione  naturalmente  si  ripro- duce nella  teorica  del  giudizio  e  del  ragionamento.  Lo  sco- po del  ragionamento,  è,  secondo  il  Taine,  di  dare  la  ra- [lione  esplicativa,  di  trovare  ciò  che  egli  chiama  Vinter- mediario  esplicativo.  Una  proposizione  esprimendo  l'unio- ne di  due  dati,  un  soggetto  e  un  attributo,  vi  ha  un  per- chè, una  ragione  esplicativa,  dell'unione  di  questi  due  dati; ^  questa  ragione  o  questo  intermediario  esplicativo  è  un terzo  dato,  i)er  l'intromissione  del  quale  i  due  dati  della proposizione  si  trovano  legati.  Se  Pietro  è  mortale,  è  per- chè egli  è  uomo,  e  ogni  uomo  è  mortale  ;  se  queste  due rette  tracciate  su  questa  tabella   e  perpendicolari   a  una terza  sono  parallele,  è  perchè  esse  sono  perpendicolari  a una  terza,  e  tutte  le  rette  perpendicolari  a  una  terza  sono parallele.  Uomo,  nel  primo   caso,  e  rette  peiyendicolari a  una  terza,  nel  secondo,  sono  gl'intermediari  esi)licativi . «  Nel  caso  degli  oggetti  individuali  sottomessi  a  delle  leggi conosciute,  l' intermediario  che  lega  ciascun  oggetto  alla proprietà  enunciata,  è  un  carattere  incluso  in  esso,  più astratto  e  più  generale  di  esso,  comune  ad  esso  e  ad  altri analoghi,  e  il  quale,  trascinando  per  la  sua  presenza  la proprietà  cnunziata,  la  porta  con  sé  in  ciascuno  degl'  in- dividui a  cui  ^q\ì  appartiene  »  (t.  2",  p.  401).  Se  invece  di spiegare  un  fatto  particolare,  si  tratta  di  spiegare  una  legge generale,  o,  come  dice  il  Taine,  se  si  tratta,  non  più  (U legare  una  proprietà  a  un  oggetto  individuale,  ma  di  le- gare una  proprietà  a  una  cosa  generale  (  t.  2'*,  pag.  401), la  natura  e  il  posto    dell'  intermediario  esi^icativo  non  è differente.  «  Il  primo  dato  della  legge  contiene  l'interme- diario,  che   contiene   il   secondo.  A   un   altro   punto  di vista  il  primo  dato  è  più  complesso  dell'  intermediario, che   è    più  complesso   del   secondo.    A   un    altro   punto di  vista   ancora,   il   secondo   dato   è  più   astratto  e  più generale  dell'intermediario,  che  è  esso  stesso  più  astrat- to e  più   generale   del  primo.  Ciò  posto,  associamo  i  tre dati  a  due  a  due  :  noi  avremo  tre  copf)ie  di  dati  o  leggi. Ogni  pianeta  è  una  massa;  ora  ogni  massa  tende  ad  av- vicinarsi alla  massa  centrale  con  cui  è  in  rapporto;  dun- que ogni  pianeta  tende  ad  avvicinarsi  alla  massa  centrale con  cui  è  in  rapporto,  cioè  al  sole.  Di  queste  tre  coppie, la  prima  associa  il  primo  dato  e  V  intermediario  ;  la  se- sonda associa  l'intermediario  e  il  secondo  dato;  la  terza associa  il  primo  dato  e  il  secondo,  ed  è  la  legge  che  bi- sognava dimostrare.  Se  pensiamo  le  tre  coppie  in  quest'ordine,  noi  abbiamo  tre  proposizioni  che  loro  corrispondono, e  che  si  compongono  di  tre  idee,  associate  a  due  a  due,  come le  tre  leggi  si  compongono  di  tre  dati  associati  a  due  a  due. Di  queste  tre  idee,  la  prima,  più  comprensiva  della  se- conda, contiene  la  seconda,  che,  più  comprensiva  della  ter- za, contiene  la  terza,  e  lo  spirito  passa  dalla  più  compren- siva alla  meno  comprensiva  per  Tintromissione  di  quella di  cui  la  comprensione  è  inedia  *  (t.  2^  p.  419).  Cosi  il  ra- gionamento è  un'analisi;  e  la  dimostrazione  di  un  teore- ma non  è  che  un  analisi,  che  decompone  il  primo  dato  (il triangolo,  la  sfera,  l'ellissi,  ecc.),  per  tirarne  Tinterme- diario  (t.  2'-'  p.  421).  L'intermediario  esplicativo  e  dimo- strativo si  trova  cosi,  analizzando  i  termini  della  definizio- ne; e  Yanalisi  in  cui  consiste  la  dimostrazione  di  un  teo- rema, è  l'analisi  dei  termini  della  definizione.  «La  de- finizione contiene  il  primo  intermediario,  che  contiene  il  se- condo, che  contiene  il  terzo,  che  contiene  il  quarto,  ecc., che  contiene  la  proprietà  enunziata.  È  come  una  serie  di cassettini  rinchiusi  l'uno  dentro  l'altro;  il  più  largo  é  la definizione  prima,  e  il  più  piccolo  è  Y  ultimo  attributo annoilo  elio  si  rinvo  dimostrare);  ciascun  cassettino  più ^ruiuiu  nu  rcicjuiLiiiti  uno  più  piccolo,  e  noi  non  possia- mo toccarne  uno  che  dopo  aver  aperto  1'  uno  dopo  F  al- tro tutti  quelU  che  lo  racchiudono  »  (  tomo  2^  p.  425  ). Gli  assiomi  sono  anch'  essi  dei  teoremi,  ma  che  noi  ci dispensiamo  di  provare,  sia  percliè  la  dimostrazione  ne  é molto  facile,  sia  perchè  ne  è  molto  difficile.  Ma  essi  sono delle  proposizioni  analitiche,  in  cui  il  soggetto  contiene  l'at- tributo (t.  2^  p.  340);  la  loro  dimostrazione,  come  quella degU  altri  teoremi,  è  un'anahsi,  o  una  decomposizione  dei loro  dati;  come  gli  altri  teoremi,  essi  si  dimostrano  per la  definizione  prehminare  dei  termini  (t.  2,^  lib.  4,^  e.  2,^^ §.  2,  IV  e  sgg).  Dimostrare  una  proposizione  assiomatica è  mettere  in  luce  l'identità  latente  dei  suoi  dati  (t.  2«  p. 386);  tutti  gli  assiomi  non  sono  che  dei  casi  o  delle   applicazioni  del  principio  d'identità.  È  da  questa  sorgente unica,  che  si  espande  in  una  dozzina  di  rivi,  che  deri- vano le  innumerevoli  correnti  e  tutti  i  fiumi  della  scien- za (t.  2^'  p.  429).  Se  il  contrario  degh  assiomi  e  delle  loro conseguenze  non  può  essere  creduto  e  nemmeno  conce- pito, è  perché  esso  è  contraddittorio;  è  in  questo  senso che  gli  assiomi  e  le  loro  conseguenze  sono  delle  verità necessarie  (t.  2^*  p.  38(i).  Se  le  verità  dette  necessarie  a- vessero  la  stessa  origine  che  le  verità  d'esperienza,  non vi  sarebbe,  almeno  per  noi,  tra  i  fatti,  alcun  legame  ne- cessario ed  universale.  Noi  saremmo  ca- paci solamente  di  conoscenze  relative  e  limitate;  ma  sa- remmo incapaci  di  conoscenze  assolute  e  senza  limiti. «Per  gli  assiomi  e  le  loro  conseguenze,  noi  teniamo  dei dati,  che  non  solo  s'accompagnano  l'un  l'altro,  ma  di  cui l'uno  racchiude  l'altro.  Se,  come  dice  Mill,  essi  non  faces- sero cli^  accompagnarsi,  noi  saremo  obbligati  di  conclu- dere che  forse  non  si  accompagnano  sempre;  noi  non  ve- dremmo la  necessità  interiore  della  loro  congiunzione;  noi non  la  porremmo  che  in  fatto;  noi  diremmo  che,  i  due dati  essendo  per  loro  natura  isolati,  possono  incontrarsi delle  circostanze  che  li  separino;  noi  non  afìerineremmo la  verità  degli  assiomi  e  delle  loro  conseguenze  che  ri- guardo al  nostro  mondo  e  al  nostro  spirito.  Aia  poiché  al contrario  i  due  dati  sono  tali  che  il  primo  racchiude  il secondo,  noi  stabiliamo  per  ciò  stesso  la  necessità  della loro  congiunzione:  da  per  tutto  ove  sarà  il  primo  esso porterà  il  secondo,  poiché  il  secondo  é  una  parte  di  esso, e  non  può  separarsi  da  se  stesso. j»  (t.  2^  p.  392-393). §  13*^.  Il  cardine  di  tutta  questa  dottrina  del  Taine  é la  teoria  della  dimostrazione:  il  Taine  adotta  la  forma particolare  della  dottrina  concettualista  del  ragionamento, secondo  la  quale  questa  operazione  del  nostro  spirito  con- siste a  vedere  che  un'idea  é  contenuta  in  un'altra,  per l'intromissione  d'una  terza  idea  media,  la  quale  contiene la  prima  ed  è  contenuta  nella  seconda.  Tralasciamo  Tin- sormontabile  difficoltà  inerente  a  questa  dottrina  per  se stessa,  come  possa  farsi  che  una  verità  la  quale  consiste in  una  nozione  che  fa  parte  di  un'altra,  non  sia  evidente per  se  stessa,  6  vi  sia  bisogno  di  comparare  queste  no- zioni con  una  terza,  di  cui  si  veda  immediatamente  che è  una  parte  delluna  e  che  laltra  è  una  parte  di  essa  (V. §  iy\  nota).  A  questa  inconcepibilità  il  Taine  ne  aggiunge un'altra  che  gli  è  propria  :  egli  ammette  la  dottrina  cori' ceitaalista,  ma  non  ammette  i  concetti.  «  Di  queste  tre  idee, egli  dice,  la  prima,  più  comprensiva  della  seconda,  con- tiene la  seconda,  che  più  coni  presi  va  della  terza,  contiene la  terza,  e  lo  spirito  passa  dalla  i)iù  comprensiva  alla  me- no comprensiva  per  Fintromissione  (U  (juella  la  cui  com- prensione é  media».  Ora  che  sono  (jueste  tre  idee^  esse  so- no dei  soggetti  e  dei  predicati.  Un  soggetto  può  essere un'idea  concreta,  ma  un  predicato  è  necessariamente  una idea  astratta.  Di  queste  tre  idee  dunque,  o  due  o  tutte  e tre  sono  delle  idee  astratte.  Ma  non  vi  lianno  idee  astratte, dice  il  Taine,  non  vi  hanno  che  dei  nomi.  Come  intende- remo (hmque  questa  identità  parziale  tra  le  idee,  (questa contenenza  delFuna  nell'altra  ? E  evidente  che  questa  teorica  del  ragionamento  suppo- ne che  il  giudizio  metta  in  rapporto  due  concetti,  un  sog- getto e  un  predicato  :  se  il  giudizio  non  mette  in  rapporto dei  concetti,  ma  delle  rappresentazioni  particolari  e  con- crete,  non  potre]3be  affatto  dirsi  che  queste  rappresenta- zioni sono  luna  parte  dell'altra.  Se  il  giudizio  afferma  le sequenze,  le  coesistenze,  le  somigianze  tra  i  fenomeni, questi  fenomeni  che  il  giudizio  mette  in  rapporto,  non  so no  certamente  l'uno  parte  dell'altro.  Se  dunque  noi  pen- siamo per  rappresentazioni  concrete  e  particolari,  il  sog- getto e  il  predicato  sono  gli  elementi  della  proposizione, ma  non  sono  gli  elementi  del  giudizio.  E  delle  idee  con- tenute nel  giudizio  l'una  non  può  essere  una  parte  dell'altra;  quindi  nemmeno  le  idee  contenute  in  un  ragionamento si  comprendono  l'una  nell'altra,  e  lo  spirito  non  passa,  nel ragionamento,  dalla  più  comprensiva  alla  meno  compren- per  l'intromissione  della  media. Come  dunque  intenderemo  il  Taine,  quando  dice  che delle  tre  idee,  di  cui  consta  il  ragionamento,  la  prima  con- tiene la  seconda,  e  la  seconda  la  terza  ?  che  noi  vediamo che  la  terza  è  contenuta  nella  prima,  perché  vediamo  che (j[uesta  terza  è  contenuta  nella  seconda,  e  questa  seconda nella  prima?  Queste  tre  idee  non  sono  che  idee  astratte, e  le  idee  astratte  non  sono  che  nomi.  Dunque  il  primo nome  contiene  il  secondo,  e  questo  il  terzo  i  La  voce  Pie- tro contiene  la  voce  uomo,  e  questa  la  voce  mortale  ?, Confesserà  forse  il  Taine  che  è  un'improprietà  di  dire che  un'idea  ne  contiene  un'altra,  e  questa  una  terza  ;  ma deve  intendersi  che  questi  rapporti  di  contenenza  esistono, non  fra  le  idee  astratte,  che  noi  non  abbiamo,  ma  fra  i dati  astratti,  a  cui  corrisponderebbero  queste  idee,  se  noi le  avessimo.  Nel  ragionamento  dunque  noi  non  percepiamo successivamente  l' identità  parziale  fra  i  termini  o  fra  le idee  ;  non  percepiamo  che  un  termine  astratto  è  contenuto in  un  altro  termine  astratto,  o  che  un'idea  astratta  è  con- tenuta in  un'altra  idea  astratta  :  noi  percepiamo  l'identità parziale  fra  i  dati  astratti,  cioè  fra  le  entità  astratte  ;  per- cepiamo immediatamente  che  la  prima  entità  contiene  la seconda  entità,  e  questa  la  terza,  e  di  là  abbiamo  la  per- cezione mediata  che  la  terza  è  contenuta  nella  prima.  Ma se  queste  entità  sono  assenti  dal  nostro  pensiero,  perchè noi  non  possiamo  niente  rappresentarci  di  astratto,  come intuire  questa  identità  parziale  fra  di  loro  ?  come  conoscere che  r  una  è  contenuta  nell'  altra  ?  Se  il  ragionamento  ò fondato  suU'  identità,  la  forza  del  ragionamento  sarà  la percezione  dell'  identità  :  ma  noi  non  possiamo  percepire identità  alcuna  né  altro  rapporto  qualsiasi  fra  coso  di  cui non  abbiamo  percezione  né  rappresentazione  alcuna.  Per iji— a dir  tutto  in  una  parola,  se  questi  dati  astratti,  cose  gene- rali 0  caratteri  o  entità,  non  sono  gli  oggetti  del  nostro pensiero,  tanto  meno  possono  essere  gli  oggetti  del  nostro rarfonamento  (1). (l)  Le  dimostrazioni  che  dà  ii  Taine  dei  primi  principii  sono  fon- date su  questa  realizzazione  delie  astrazioni,  ed  esse  non  potreb- bero conservare  alcuna  pretesa  ad  essere  delle  dimostrazioni,  se si  ammette  che  noi  non  abbiamo  idea  di  queste  astrazioni.  Tutte queste  dimostrazioni  sono  foggiate  sullo  stesso  tipo  :  noi  ne  daremo qualche  esempio.  Il  Taine  vuol  dimostrare  l'assioma:  Se  a  quan- tità eguali  si  aggiungono  (luantità  eguali,  le  somme  sono  eguali.. Egli  ]>remette  una  detìnizione  dell'  eguaglianza,  secondo  la  quale eguaglianza  numerica  significa  la  presenza  (la  Tuapooaia  plato- nica) dello  stesso  numero,  mentre  ineguaglianza  significa  la  pre- senza di  due  numeri  differenti.  Siano  dunque  due  quantità  eguali a  cui  si  aggiungono  delle  quantità  eguali.  «  Secondo  l'analisi  pre- cedente,  ciò  significa  che  la  prima  collezione  contiene  un  certa numero  d'individui  o  d'unità,  che  le  se  ne  aggiunge  un  certo  nu- mero, che  la  seconda  contiene  lo  stesso  numero  d'individui  o  d'u- nità che  la  prima,  che  le  se  ne  aggiunge  lo  stesso  numero  che  alla prima,  che  nei  due  casi  lo  stesso  numero  è  aggiunto  allo  stesso numero,  e  che,  pertanto,  le  due  collezioni  finali  contengono  lo  stesso numero  aggiunto  allo  stesso  numero,  cioè  a  dire  lo  stesso  numero totale  d'individui  o  d'unità,  donde  segue,  secondo  la  definizione, che  le  due  somme  o  grandezze  finali  sono  delle  grandezze  eguali» (t.  2. 1.  4.  e.  2.  §.  2,  IV).  Se  in  questo  ragionamento  lo  stesso  numero vuol  dire  due  numeri  eguali,  la  dimostrazione  pretesa  non  sarebbe che  una  semplice  petizione  di  principio:  la  forza  probante  della dimostrazione  suppone  dunque  che  lo  stesso  numero  sia  un  nu- mero astratto  o  ideale,  uno  in  se  stesso,  ma  presente  in  tutti  i  gruppi sensibili  diversi  che  si  dicono  avere  lo  stesso  numero.  Ma  se  si ammette  che  noi  non  possiamo  concepire  quest'astrazione  realiz- zata, la  dimostrazione  è  impossibile;  la  sua  nullità  è  provata  dalle condizioni  stesse  del  nostro  pensiero. Veniamo  ora  alla  dimostrazione  dell'assioma,  del  quale  il  Taine fa  tanto  conto,  che  ogni  verità  o  proposizione  ha  la  sua  ragione esplìcatlca.  «Per  ragione  esplicativa  s'intende  uno  o  più  caratteri del  soggetto,  inclusi  in  esso  come  un  frammento  in  un  tutto,  più astratti  e  più  generali  di  esso,  e  che  essendo  legati  essi  stessi  al- l' attributo,  legano  1'  attributo  al  soggetto.  Ciò  viene  a  dire  che l'attributo  non  è  legato  al  soggetto  stesso  tutto  intero,  ma  ad  uno 1 1  «I §  14^.  Il  Taine  è  arrivato  a  questo  risultato,  che  un  si- stema di  conoscenze  reali  può  essere  fondato  sul  semplice principio  d' identità  e  di  contraddizione,  non  tanto  per  la via  psicologica,  come  Condillac  e  Galluppi,  quanto  per  la "^- o  più  caratteri  astratti  e  generali  del  soggetto  ».  Il  princìpio  del- l'induzione è  secondo  il  Taine  un  corollario  del  principio  della  ra- gione esplicativa:  il  principio  dell'induzione  sarebbe  che  un  ca- rattere generale  indica  sempre  la  presenza  di  un  altro  carattere generale  a  cui  esso  è  legato.  Questo  principio  si  dimostra  mediante il  principio  della  ragione  esplicativa,  cosi:  «Un carattere  generale è  un  attributo,  lo  stesso  in  molti  soggetti  distinti.  Ora  secondo  l'as- sioma (della  ragione  esplicativa)  esso  appartiene  non  direttamente a  tale  o  tal  altro  soggetto  distinto,  ma  indirettamente  a  tutti  per l'intermediario  di  una  porzione  che  loro  è  comune,  e  che  a  questo titolo  è  un  carattere  generale  :  dimodoché  esso  suppone  la  i)resenza di  un  altro  carattere  generale  a  cui  appartiene;  così  la  sua  pre- senza basta  per  garantirci  la  presenza  di  quest'altro.  Di  i)iù  ({u*^- st'altro  a  cui  appartiene  è  generale,  in  altri  termini  esso  gli  appar- tiene in  non  importa  qual  soggetto,  o  ambiente,  b  luogo,  o  mo- mento; in  altri  termini  ancora,  la  presenza  di  quest'altro  bosta  per trascinare  e  pertanto  per  garantirci  la  sua  presenza  ».  Se  dunque noi  p»ossiamo  generalizzare  la  nostra  esperienza,  se  supponiamo sempre  con  ragione  che  vi  ha  un  ordine  uniforme  nella  natura,  è perchè  sappiamo  che  un  carattere  generale  è  sempre  legato  ad un  altro  carattere  generale,  e  noi  sappiamo  questo  in  virtù  del  prin- cipio della  ragione  esplicativa.  Ora  che  conosciamo  l'importanza di  questo  principio,  vediamo  la  sua  dimostrazione.  Un  attributo è  comune  a  piìi  soggetti  distinti,  significa,  dice  il  Taine,  che  esso è  lo  stesso  in  tutti  questi  soggetti  distinti.  Ma  un  soggetto  distinto è  una  somma  o  riunione  di  caratteri  che  non  si  ritrovano  tutti  e rigorosamente  gli  stessi  in  alcun  altro,  per  quanto  simile  si  imma- gini. Questo  parallelogrammo  possiede  almeno  un  carattere  che gU  è  proprio,  e  lo  distingue  dagli  altri  parallelogrammi,  il  suo  posto nello  spazio.  Se  il  soggetto  è,  non  particolare,  ma  generale,  il  pa^ rallelogrammo  in  sé,  esso  avrà  pure  qualche  caretterc  proprio, che  lo  distinguerà  dalle  altre  ligure  simili.  Se  ora  un  attributo  è comune  ad  un  soggetto  e  ad  altri  soggetti  distinti,  cioè  se  è  lo  stesso in  soggetti  die  non  sono  gli  stessi,  vi  hanno  tre  ipotesi  possibili, e  tre  ipotesi  solamente.  «O  l'attributo  appartiene  direttamente  alla somma  dei  carattei'i  riuniti  (di  uno  dei  soggetti);  o  gli  appartiene (al  soggetto)  indirettamente,  sia  appartenendo  a  questa  porzione ontologica.  Condillac  e  Galluppi,  e  con  loro  la  maggior parte  dei  sostenitori  della  dottrina  analitica,  si  tanno  an-  (juesta  domanda  :  in  che  consiste  Yevidenza  di  ra- (jlone  Zea  ciò  rispondono  :  essa  è  fondata  sul  rapix)rto d'identità  fra  le  idee.  Ma  il  problema  per  Taine  invece  è anzitutto  ontologico  o  metafisico  :  in  che  consiste,  egli  do- manda, il  modo  essenziale  di  produzione  delle  cose  ?  que- sto legame  necessario,  (luesf  incatenamento  reale  delle cause  e  degli  effetti,  che  Tesperienza  non  può  mostrarci, non  mostrandoci  invece  che  delle  semplici  uniformità  di della  somma  clie  si  compone  «lei  oaratteri  assenti  nell'altro  sojx- f^^etto,  sia  appartenendo  all'altra  porzione.  Ora  le  due  i)rime  ipo- tesi sono  contraddittorie   Infatti,  danna  parte,  l'attributo  non  può appartenere  alla  porzione  della  somma  clie  si  compone  dei  caratteri assenti  nel  secondo  soggetto;  i»oicliè  allora  non  apparterrebbe  af secondo  soggetto,  perdio  questi  caratteri  vi  mancano;  ora,  per detinizione,  gli  appartiene.  D'altra  parte  l'attributo  non  può  ap- ])artenere  alla  somma  dei  caratteri  riuniti;  perchè  allora  non  ap- partcrrebl^e  al  secondo  soggetto,  poicliè  questa  riunione  vi  manca; ora.  perdelìnizione,  gli  appattiene.  Queste  due  sui>posizioni  essendo escluse,  non  resta  ciie  la  terza.  Donde  segue  che  l'attributo  a])- partiene  a  (luesta  porzione  del  nostro  soggetto  che  si  compone  di caratteri  presenti  in  esso  e  nel  secondo  soggetto,  cioè  a  dire  co- muni all'uno  e  all'altro,  cioè  a  dire  infine  generali»  (t.  2.  1.  4.  e.  3. §.  3.  HI).  Questa  è  la  dimostrazione.  Ora  perchè  l'attributo  non  po- trey)be  appartenere  una  volta  alla  somma  dei  caratteri  riuniti  del primo  soggetto,  e  la  seconda  volta  alla  somma  dei  caratteri  riu- niti <lel  secondo  soggetto?  ovvero  in  un  caso  ai  caratteri  dirVeren- ziali  del  primo  soggetto,  e  nell'altro  caso  ai  caratteri  differenziali del  secondo  soggetto  ?  Perchè  si  suppone  che  quest'attributo,  come anclie  ciascuno  di  questi  caratteri,  sia  un  attributo  o  un  carattere astratto  o  ideale,  uno  in  se  stesso  e  per  se  stesso,  quantunque  dif- fuso in  molti  oggetti  distinti.    La  forza  della  dimostrazione,  qua- lunque essa  sia,  sta  nella  realizzazione  di  queste  astrazioni:  se  si ammette  che  queste  astrazioni  realizzate  sono  inconcepibili,  non vi  ha  più  dimostrazione. Così  le  due  dottrine  del  Taine,  che  non  vi  hanno  idee  astratte, e  che  la  prova  di  una  verità  è  \\t\  analisi,  sono  incompatibili;  e  la delle  idee  astratte  porta  logicamente  con  sé  la  sop- pressione di  ogni  forma  della  dottrina  analitica. sequenze  tra  i  fenomeni  ì  Quest'incatenamento,  questo  le- game necessario,  risponde  il  Taine,  non  è  che  Tincatena- mento  e  il  legame  fra  i  principii  e  le  conseguenze  :  lega- me e  incatenamento  che  non  esiste  semplicemente  nel  pen- siero, ma  nelle  cose  stesse,  perchè  le  cose^,  considerate  nel- la loro  vera  realtà,  sono  delle  entità  astratte  e  generali, di  cui  ciascuna  corrisponde  a  una  pro|X)sizione  generale, e  che  stanno  fra  di  loro  nel  rapporto  di  principii  e  con- seguenze. La  necessità  delle  cose  non  è  dunque  che  una necessità  logica  ;  il  loro  modo  essenziale  di  produzione  non è  che  lo  sviluppo  graduale  delle  conseguenze  clie  sono  vir- tualmente contenute  nel  primo  principio;  e  il  loro  inca- tenamento reale  non  ci  è  dato  nella  successione  dei  feno- meni, clie  la  scienza  sperimentale  chiama  cause  ed  efletti, mentre  non  sono  in  realtà  che  degli  antecedenti  e  dei  con- seguenti invariabili,  ma  nella  processione  delle  entità  con- seguenze dalle  entità  principii,  di  cui  il  movimento  del  pen- siero che  deduce  le  une  dalle  altre,  è  la  riproduzione  e la  rap[)resentazione  esatta. Cosi  il  sistema  del  Taine  è  un  realismo,  in  cui  le  no- zioni astratte  e  i  rapporti  logici  tra  (jueste  nozioni  ven- gono obbietti  vati,  in  modo  che  la  connessione  e  lo  svi- luppo delle  nostre  idee  riproduca  la  connessione  e  lo  svi- luf)po  delle  cose  stesse,  in  altri  termini,  in  modo  che  il legame  logico  tra  i  principi  e  le  conseguenze  sia  iden- tico al  legame  ontologico  tra  le  cause  e  gli  effetti.  Il  Tai- ne non  si  è  proposto  il  problema  del  perchè  nella  forma in  cui  se  lo  propone  la  metafìsica  naturale  dello  spirito umano,  e  in  cui  se  lo  propongono,  quindi,  la  più  parte  dei metafìsici:  per  questi,  le  vere  cause  e  i  r^eri  effetti  non difìèriscono  dalle  cause  e  dagli  effetti  nel  senso  fìsico  o empirico,  che  perchè  vi  ha  fra  le  une  e  gli  altri  un  le- game intrinsecamente  evidente  e  necessario.  Ma  per  Tai- ne, come  per  Hegel,  come  per  Spinoza,  come  per  Platone (v.  Saggio  2,^*  parte  1,*  cap.  7"),  il  rapporto  fra  la  causa leffetto  si  confonde  e  s'identifica  con  quello  Ira  il  prin- cipio e  la  conseguenza  nel  ragionamento  deduttivo.  È quest'identità  fra  i  due  rapporti  che  viene  espressa  nella proposizione  di  Spinoza:  ordo  et  connexio  idearumìdem est  ac  ordo  et  connexio  rerum.  (1).  Il  Taine  la  enuncia più  chiaramente  dicendo  :  che  Tefìetto  è  contenuto  nella causa  e  se  ne  deduce  come  una  conseguenza  dal  suo principio  (Storia  della  letteratura  inglese,  P  V,  c.^  V.  § II,  vn);  che  la  causa  di  un  fatto  è  la  legge  da  cui  si  de- duce; e  che  la  forza  attiva  è  la  necessità  logica  che  lega il  fatto  derivato  alla  legge  primitiva  (I  Jllosqfì  classici, Prefazione).  A  questa  intuizione  ontologica  corrisponde necessariamente  la  deduzione  pura  come  metodo  scien- tifico, perchè  il  principio  non  potrebbe  assimilarsi  alla causa  e  la  conseguenza  airefietto,  se  il  primo  non  avesse sulla  seconda  un'anteriorità  di  natura,  ciò  che  non  sa- rebbe se  esso  non  fosse  che  la  generalizzazione  induttiva di  tutte  le  conseguenze  che  se  ne  possono  dedurre  ;  e  sic- come uno  dei  caratteri  necessari  delle  filosofie  costituite su  questo  tipo  è,  come  mostreremo  a  suo  luogo  (Saggio 2,0  parte  1,*  cap.  7^),  l'unita  sistematica,  il  Taine  suppone, al  vertice  del  sistema,  un  primo  principio,  immediato,  as- siomatico, che  è  al  tempo  stesso,  secondo  il  presupposto fondamentale  della  dottrina,  il  principio  primo  dell'essere e  quello  del  conoscere.  Ma  posto  ciò,  si  presenta  la  qui- stione  :  su  qual  rapporto  tra  le  idee  è  fondata  questa  ne- cessità logica,  questo  passaggio  dal  principio  alla  conse- (1)  Per  lordine  e  la  connessione  delle  idee  deve  intendersi  Tin- catenamento  dei  pensieri  (cioè  delle  proposizioni)  in  una  scienza dimostrativa,  e  per  Tordine  e  la  connessione  delle  cose  r  incate- naniento  delle  cause  e  degli  effeW  (nel  senso  trascendente  che  queste parole  lianno  nella  metafìsica  spinozista).  Naturalmente  le  co^e  di cui  parla  Spinoza,  non  sono  le  cose  fenomenali,  cioè  particolari, ma  le  astrazioni  realizzate  in  cui  queste,  nel  suo  sistema,  si  ri- solvono. guenza?  A  ciò  non  vi  ha  che  una  risposta,  quando   non si  vogliano   abbandonare   aftàtto  i   principii  della  logica comune,  e  crearsi,  come  fece  Hegel,  una  logica  a  parte  : questa  necessità  e  questo  passaggio  si  fondano  sul  prin- cipio d'identità  e  di  contraddizione.  Infatti  la  logica   for- male (ed  è  semplicemente  sul  terreno  della  logica  formale che  può  parlarsi  di  una  necessità  logica  fondata  sui  rapp(orti intrinseci  delle  idee)  non  conosce  altra  deduzione,  altro  le- game necessario  tra  il  principio  e  la  conseguenza,  altnecessità  di  ammettere  una  proposizione  dopo  averne  am- messo qualche  altra,  che  la  necessità  di  essere   conse- guente, di  evitare  la  contraddizione,  di  non  aftermare  e- splicitamente  nella  conclusione  se  non  ciò  che  si  era  im- plicitamente affermato  nelle  premesse.  Cosi  l'applicazione universale  della  dottrina  analitica,  in  Taine,  è  un  corol- lario, logicamente  tirato,  della  dottrina  metafisica  che  l'in- catenamento  necessario  del  reale  è  un  incatenamcnto  lo- gico, o  in  altri  termini,  che   il  rapporto   tra  la   causa  e Tefìetto  s'identifica  con  quello  tra  il  principio  e  la  conse- guenza: da  questa  segue  che  la  deduzione  è  il  solo  pro- cesso per  asquistare  una  conoscenza  adequata  delle  cose, e  di  là  che  tutto  il  sistema  delle  conoscenze  è  fondato  u- nicamente  sui  principii  d'identità  e  di  contraddizione §  15^  Facciamo  attenzione  a  questa  solidarietà  fra  le  con- cezioni della  metafisica.  Il  sistema  del  Taine  é  un'appli- cazione  del   principio   metafisico  di  causa  efficiente)  ma quest'applicazione  particolare  suppone  evidentemente  la dottrina  dei  concetti,  cioè  un'altra  idea  d'origine  egualmente metafìsica.  Il  Taine,  é  vero,  per  un'inconseguenza  che  noi abbiamo  segnalata,  nega  l'esistenza  dei  concetti  :  ma  essa è  supposta,  non  solo,  come  abitiamo  visto,  dal  suo  realismo, ma  dalle  sue  idee  sul  metodo  scientifico,  e  dalla  dottrina, che  ne  è  il  complemento  necessario,   che  tutte  le  verità derivano  dal  principio  l'identità  e  di  contraddizione  L'o- pinione che  é  possibile  uno  sviluppo  della  conoscenza  fondato  sul  semplice  legame  logico  delle  idee  e  indifjeridente dallesperienza^  non  é,  come  abbiamo  mostrato  e  come  il seguito  di  (juesto  scritto  mostrerà  ancora  più  completa- mente, che  un'illusione  creata  sovratutto  dalla  dottrina  dei concetti.  È  questa  dottrina  che  permette  di  supix)rre  che vi  hanno  fra  le  nostre  idee  dei  rapporti  necessari  deri- vanti dalla  natura  stessa  di  queste  idee;  che  vi  ha  una necessitai  logica  fondata  su  (jucsti  rapporti,  e  delle  cono- scenze reali  fondate  su  questa  necessità  logica;  che  il processo  reale  del  ragionamento  non  é  un'inferenza,  Ijsaui  sullanalogia,  da  fatti  particolari  dell'  esperienza  ad altri  fatti  particolari,  in  modo  che  la  possibilità  d'una  de- (hizione  senza  un'induzione  antecedente  non  sia  che  un semplice  non  senso;  ma  che  questo  processo  consiste  nella percezione  di  questa  necessità  logica,  di  questi  rapporti necessari  fra  le  nostre  idee.  K  la  dottrina  dei  concetti che  non  permette  di  vedere  d'una  maniera  chiara  quale sia  l'operazione  reale  dello  spirito,  oltre  che  nella  dedu- zione, nei  giudizi  analitici  di  Kant,  nelle  conoscenze  im- mediate della  matematica,  ecc.  Ma  quando  le  nubi  di  cui questa  teoria  circonda  le  operazioni  più  semphci  del  pen- siero, sono  state  dissipate;  quando  noi  abbiamo  compreso che  lo  spirito  non  pensa  se  non  per  rappresentazioni  con- crete e  particolari,  e  che  perciò  il  ragionamento  non  può essere  che  dal  particolare  al  particolare,  e  ogni  altra  in- ferenza (imi)ropriamente  chiamata  con  questo  nome)  non è  che  verbale  e  puramente  apparente;  quando  noi  abbiamo compreso  clic  non  vi  hanno  dei  rapporti  logici  necessari fra  le  idee,  ma  solo  dei  rapporti  necessari  tra  le  }30ssibi- lità  di  applicare  certe  forme  verbali  e  (juelle  di  applicarne certe  altre,  se  si  vuol  essere  coerenti  nell'impiego  di  questi simboli;  allora  diviene  evidente  che  non  vi  ha  alcuna  ne- cessità logica  che  possa  legare  delle  idee  distinte  (se  per necessitai  logica  s'intende  altra  cosa,  che  un'inferenza  fon- data  suir  esperienza  e  suU'  analogia),  e   che  la  necessità logica  non  può  imporci  altra  cosa  che  di  essere  coerenti nell'uso  delle  parole,  di  non  negare  per  una  forma  ver- l)ale  quello  stesso  che  per  altre  forme  verbali  abbiamo già  attermato. §  16.<*  Ma,  malgrado  i  misteri  del  concettualismo,  questa verità  che  la  necessità  logica  non  consiste  che  nella  iden- tità delle   idee,  è  di  una  tale  evidenza,  che   essa  ha  co- stretto a  confessarla   gli  stessi   sostenitori  della  dottrina che  vi  ha  una   conoscenza  reale  fondata  sulla  semplice necessità  logica,  e  a  cadere  per  conseguenza,  d'una  ma- niera o  di  un'altra,   in  una   flagrante  contraddizione.  Lo stesso  Hegel  ha  dovuto  ammettere  che  non  vi  ha  passag- gio logico  dove  non  vi  ha  identità  fra  le  idee;  ma  siccome si  passa  (se  l'inferenza  è  reale)  non  dalla  stessa  idea  alla stessa  idea   (perchè  in  questo   caso  si  starebbe  fermi,  e non   vi   sarebbe  passaggio  di  sorta),   ma  da  un'idea  ad un'altra  idea  differente  (alla  idea  contraria  secondo  Hegel); cosi  Hegel  ammette  esplicitamente  che  ciò  che  è  identico é  al  tempo  stesso  non  identico,  e  che  ciò  che  non  è  iden- tico é  al  tempo  stesso  identico;  che  vi  ha  identità  fra  l'es- sere e  il  non  essere  e  fra  tutti  i  contrari;  che  la  contrad- (Hzione  è  la  legge  fondamentale  del  pensiero  e  delle  cose. Non  si  vuol  ammettere  l'aperta  contraddizione  di  Hegel  ? ma  la  contraddizione  stessa  riapparisce  sotto  un'altra  for- ma, perchè,  se  si  ammette  che  il  passaggio  logico  è  fondato, non  sovra  un  rapporto  che  è  al  tempo   stesso  identità  e non  identità,  ma  sulla  identità  pura  e  semplice,  si  affer- ma con  ciò  che  questo  passaggio  è  dallo  stesso  allo  stesso, che  l'idea  a  cui  si  è  arrivato  è  identica  all'idea  da  cui  si è  partito.   Ora  siccome  oltre  a  ciò  si  ammette  pure  che una   nuova  conoscenza  è  stata  prodotta  da  questo  pas- saggio, e  che  il  pensiero  non   si  è  limitato  a  ripetersi, si   afferma  pure   per  ciò  stesso   che    questo   passaggio non   è  dallo  stesso  allo  stesso,   e  che  l' idea  a  cui  si  è arrivato    non   è  identica   all'   idea  da   cui  si  è  partito. E  cosi  Siamo  di  nuovo  in   faccia  alla  tesi  di  Hegel,  che le  idee  sono  al  tempo  stesso  identiche  e  non  identiclie,  e che  la  contraddizione  è  la  legge  del  pensiero.  E  se  i  »rap- porti  delle  idee  non  sono,  come  vuole  il  Taine,  che  i  rap- porti stessi  delle  cose;  se  al  passaggio  logico  da  un^idea ad  un  altra  corrisponde  il  passaggio  dell'essere  da  uno  ad un  altro  grado  del  suo  sviluppo;  allora  bisognerà  dire  an- che  questi  gradi  sono  al  tempo   stesso  identici    e non  identici,  che  Tessere,  sviluppandosi,  resta  lo  stesso  e non  resta  lo  stesso,  e  che  la  contraddizione  è  la  legge,  non del  pensiero,  ma  anche   delle  cose.  Hegel  compren- dendo che  in  un  sistema  di  questo  genere  la  contraddi- zione è  inevitabile,  pensò  di  trarne  profìtto  per  il  suo  me- todo di  dedurre  le  idee,  e  la  elev(j  a  legge   fondamentale essere.  La  dottrina  hegeliana  della  identità  dei  contra- ri non  è  che  la  supposizione  che  vi  ha  un  passaggio  lo- gico necessario  da  un  uiea  all'idea  contraria.  Questa  sup- posizione, quantunque  sia  in  se  stessa  assurda,  nel  senso in  cui  la  intende  Hegel  (cioè  che  ponendo  la  realtà  d'una idea,  noi  siamo  perciò  logicamente  necessitati  a  porre  la realtà  dell'idea  contraria),  ha  nondimeno  un'aria  di  veri- tà, in  quanto  in  realtà  le  nozioni  contrarie  si  suppongo- no e  si  richiamano  vicendevolmente,  ed  una  è,  come  di- cevano gli  antichi  fìlosofi,  la  conoscenza  dei  contrari— fat- to che  è  stato  formulato  dal  Bain  sotto  il  nome  di  legqe della  relaiirità^.Uegel  travisando  questo  fatto  psicologi- co, ammise  che  l'esistenza  d'un  contrario  suppone  logica- mente quella  dell'altro,  e  quindi,  ogni  rapporto  logico  ne- cessario non  potendo  essere  fondato  che  sull'identità,  che i  contrari   sono   identici.   Certo  il  paradosso  di  Hegel,  in questa  forma  generale,  non  è  una  conseguenza  necessa- ria del  principio  da  cui  egli  è  partito,  cioè  che  la  neces- sità che  incatena  le  cose  è  una  necessità  logica:  ma  quan- do si  parte  da  questo  principio,   si   deve  arrivare  d'una maniera  o  d'un'altra  alla  identificazione  dei  contrari— Piatone  confessava  che,  nel  sistema  delle  Idee,  Yiino  è  molti e  i  molti  sono  uno  (v.  specialmente  Filebo  14  C  e  segg.;,  e delle  contraddizioni  analoghe  i  critici  di  Spinoza  (1)  hanno mostratto  nel  sistema  di  questo  filosofo— .Identificazione dei  contrari,  che  è  una  forma  dell'incongruenza  virtual- mente contenuta  nel  principio  più  generale,  che  è  il  pre- supposto della  dottrina  analitica,  cioè  che  ogni  necessità del  pensiero  è  una  necessità  logica;  questo  principio,  sic- come la  necessità  logica  non  consiste,  come  abbiamo  det- to, che  nella  identità  delle  idee,  avendo  per  conseguenza inevitabile  d'identificare  ciò  che  non  è  identico. §.  17^  Il  confronto  di  Hegel  e  di  Taine  ci  suggerisce naturalmente  una  riflessione  sull'inanità  radicale  di  qual- siasi processo  per  acquistare  la  conoscenza  a  priori:  per- chè se  si  suppongono,  come  Hegel,  dei  metodi  nuovi,  che la  logica  non  conosce,  si  arriva  al  rovesciamento  più  evi- dente delle  leggi  dell'inteUigenza;  ma  se  si  vuole  non  al- lontanarsi dai  processi  conosciuti  che  la  logica  ammette, si  attende  da  questi  processi  un  risultato  che  è  impossi- bile che  essi  diano.  Esaminiamo  infatti  il  sistema  abboz- zato dal  Taine  alla  semplice  stregua  di  questo  principio, che  ogni  deduzione  dal  generale  (considerato  come  stret- tamente generale)  al  particolare  non  è  che  apparente,  e che  la  deduzione  reale  è  sempre  dal  particolare  al  parti- colare. Il  Taine  immagina  una  verità  suprema,  una  verità assiomatica,  dalla  quale  tutte  le  verità  più  o  meno  gene- rali, che  si  chiamano  leggi  della  natura— considerandole come  delle  semphci  nozioni  astratte,  ma  che  il  Taine  con- sidera invece  come  gli  elementi  ultimi  delle  cose,  come  i fili  di  cui  la  realtà  sensibile  è  tessuta— discendono  gradual- mente per  una  deduzione  progressiva,  che  va  sempre  da (1)  P.  e.  Bayle.  V.  Dizionario  storico  e  critico,  art.  Spinoza,  no- ta N,  §.  ni. una  verità  più  generale  a  una  verità  più  particolare.  Ora cosa  diventano  queste  verità  generali,  cosa  diventa  que- st'assioma supremo,  una  volta  che  si  riconosce  che  Tinfe- renza  reale  é  sempre  dal  particolare  al  particolare  ?  Essi non  diventano  che  Tespressione  sommaria  di  un  certo  nu- mero di  verità  particolari  preconosciute,  che  ci  servono di  fondamento  per  inferirne  altre  verità  particolari,  basan- doci sull'analogia  di  queste  ultime  con  le  prime.  Che  re- sta dunque  di  questo  legame  necessario  die  riattacca  i fatti  alle  leggi,  e  le  leggi  più  particolari  alle  più  generali, ed  è  lo  stesso  legame  invincibile  delle  cose  e  la  loro  pro- duzione spontanea?  (v.  Storia  della  letteratura  inglese,  1^  V, G^^  V,  §  li,  vu)  di  questa  necessità  logica,  che  incatenan- do i  i)rincipii  alle  conseguenze,  «conficca  nel  cuore  delle cose  stesse  le  tanaglie  d' acciaio  della  necessità  »  ?  (iljìd.) di  questa  gerarchia  di  fornmle  che  discendono  le  une  dalle altre  come  gli  effetti  dalle  loro  cause,  e  tutte  infine  dalla «indifferente,  l'immobile,  leterna,  Tonnipossente,  la  crea- trice», cioè  la  legge  suprema,  generatrice  delle  altre  leg- gi, da  cui  «derivano,  per  dei  canah  distinti  e  ramificati, il  torrente  eterno  degli  avvenimenti  e  il  mare  infinito  del- le cose»?  (V.  I  filosofi  classici,  cap.  XIV).  E  lo  stesso  or- dine di  riflessioni  si  applica  pure,  non  solo  a  Platone,  a Spinoza  e  a  tutti  gli  altri  filosofi  che  obbiettivano  il  rap- porto logico  fra  il  principio  e  la  conseguenza,  e  ne  fanno la  legge  stessa  che  governa  lo  sviluppo  dell'essere,  ma anche  a  quelli  che,  senza  realizzare  i  rapporti  logici,  e perciò  pure  i  termini  di  questi  rapporti,  cioè  le  nozioni e  generali,  pretendono  anch'essi  di  dedurre,  cioè di  dimostrare  a  priori,  certe  verità  di  fatto,  p.  e.  la  legge di  causalità  o  i  principii  della  meccanica,  o  qualche  altra pretesa  verità  che  oltrepassa  l'esperienza  e  i  fenomeni. Come  questa  deduzione  potrebbe  essere  altra  cosa  che un  sofisma  o  una  petizione  di  principio,  se  la  sola  dedu- zione^ che  la  logica  conosce  non  é  che  im'inferenza  apparente,  se  una  deduzione  senza  un'induzione  antecedente  è un  sempUce  non  senso,  e  l'inferenza  reale  è  sempre  dal particolare  al  particolare,  e  non  ha  altra  base  che  l'ana- logia ? §.  18. *'  Lo  stesso  principio,  che   l'inferenza  è  sempre dal  particolare  al  particolare,  e  consiste  nell'assimilazione casi  nuovi  ai  casi  dell'esperienza  passata,  se  esso  vie- ne applicato  agli  assiomi,  distrugge  il  fondamento    prin- cipale della  dottrina  analitica.  Questa  dottrina  non  è  an- zitutto che  uno  sviluppo  del  principio  della  psicologia  ra- zionalista, secondo  il  quale  le    verità  che  attualmente   ci sembrano  evidenti  per  se  stesse,    e  nelle  quali  lo   spirito passa,  d'una  maniera  pressoché  assolutamente   irresisti- bile, da  certe  idee  ad  altre,  sono  delle  necessità  primor- diali del  pensiero,  delle  intuizioni  dirette  e  immediate  della ragione.  Sia  l'assioma  matematico:  Due  quantità   eguali ad  una  terza  sono  eguali  fra  loro  ;  o  piuttosto  —  per  la- sciare indeciso  se  la  pretesa  intuizione  diretta   della  ra- gione sia  la  verità  astratta  espressa  nell'assioma,  o  l'in- ferenza che  si  fa  nel  caso  particolare  conformemente  alla regola  dell'assioma  —  sia  questa  inferenza  :  A  =  B  e  H  =  C, dunque  A  =  C, .  queste   lettere  potendo  rappresentare   sia le  grandezze  in  astratto,  sia  le  grandezze  determinate  di cui  è  quistione  in  un  caso  particolare.  La  psicologia  ra- zionalista, dicendo  che  la  verità  che  noi  riconosciamo  per questa  inferenza  è  un'intuizione  diretta  e  immediata  della ragione,  non  vuol  dire  già  che  noi  abbiamo  attualmente la  percezione  dell'eguagUanza  fra  A  e  C,  come  l'abbiamo quando  riconosciamo  l'eguaglianza  fra  due  grandezze  per il  loro  confronto  immediato,  p.  e.  perchè  le  vediamo  coin- cidere; poiché  se  avessimo  la  percezione  attuale  dell'egua- glianza fra  A  e  C,  la  mediazione  di  B  sarebbe  inutile,  e  noi avremmo,  non  un'inferenza,  ma  una  conoscenza  immediaEssa  non  vuol  dire  dunque  se  non  che   la  riconoscenza del  rap]X)rto  d'eguaglianza  inferito  è  naturalmente  e  necessariamente  legata  alla  conoscenza  dei  due  rapporti  di eguaglianza  dati;  che  questo  legame  è,  non  un'acquisizio- ne deirintelligenza  dovuta  alFesperienza  anteriore,  ma  una necessità  primitiva  e  irriduttibile  del  pensiero.  Ora  è  evi- *dente  che  la  dottrina  dell' esperienza  può  rendere  conto della  formazione  di  questo  legame,  e  che  perciò  l'ipotesi una  necessità  irriduttibile  e  inesplicabile  del  pensiero è  una  ipotesi  superflua  e  antiscientifica.  Ma  si  pretende che  r  esperienza  non  ha  potuto  formare  questo  legame, perchè  esso  è  necessario,  e  deve  esistere  anteriormente  al- Fesperienza.  Ora  quest'affermazione  può  essa  appoggiarsi su  prove  di  fatto  ?  si  è  data  mai  la  prova  di  fatto  che questo  passaggio  immediato  dello  spirito  dai  due  rapporti d'eguaglianza  dati  a  (juello  inferito  ha  esistito  prima  che il  nostro  spirito  avesse  acquistato  l' abitudine  di  passare dai  primi  al  secondo,  per  averli  sperimentato  più  volte in  congiunzione  ?  Questa  prova  non  ò  stata  mai  data,  né sembra  di  tale  natura  da  poter  essere  mai  data:  l'affer- mazione dunque  in  quistione,  cioè  che  si  tratti  di  una  ne- cessità naturale  e  primitiva  del  pensiero,  é  una  di  quelle anticipazioni  dell'esperienza,  che  si  ammettono  senza  prova, come  se  fossero  delle  verità  evidenti  per  se  stesse.  Noi vedremo  nel  secondo  Saggio  che  è  su  queste  anticipazi<)- ni  dell' esperienza,  a  cui,  adottando  un  termine  di  Stuart- Mill,  noi  daremo  il  nome  di  sofismi  a  priori,  che  è  fondata la  metafìsica,  e  chiameremo  quella  di  cui  parliamo  il  so- fisma a  priori  della  psicologia  razionalista,  o  più  gene-, intuizionista  (1).  Questo  sofisma^  che  è  quello  a (1)  Per  psicologia  razionalista  noi  intendiamo  quella  che  ammette i  legami  necessari  e  pressoché  necessari  tra  le  nostre  idee sono  anteriori  alFesperienza.  Ma  quando  tali  legami  sono,  non  tra certe  idee  e  certe  altre,  ma  tra  certe  sensazioni  e  certe  idee— ciò che  avviene  p.  e.  nella  localizzazione  delle  sensazioni  o  nella  loro obbiettivazione— la  dottrina  che  ammette  che  essi  sono  anteriori all'esperienza,  non  potrebbe  con  proprietà  chiamarsi  razionalista, CUI  abbiamo  accennato  nel  §  3<>  del  capitolo  precedente nella  sua  forma  generale  non  è  che  la  tendenza,  innata al  nostro  spirito,  ad  uni versaUzzare  della  maniera  più  as- soluta 1  dati  della  nostra  esperienza  più  famihare;  e  nella sua  applicazione  psicologica  -  cioè  quale  sofisma  a  priori della  psicologia  intuizionista-- ima  formularsi  cosi-  I  le- gami attuali  fra  le  nostre  idee,  o  fra  le  nostre  sensazioni e  le  nostre  idee,  di  cui  l'origine  empirica  non  è  eviden- te,  perchè  sono  dovuti  a  un'inferenza  automatica  o  inco- sciente —  cioè  le  cui   premesse    sono  assenti  dalla    co- scienza -  e  ci  sembrano  portare  in   se   stessi  la  prova della  loro   validità   obbietttiva,  noi  siamo  portati  a  ere- dere  che  lianno  sempre  esistito,  e  non  possono  non  esi- stere, nel  nostro  spirito  e  in  quello  di   tutti   gli   uomini La   dottrina   analitica   è   dunque   anzitutto  uno  sviluppo ulteriore  di  questo  sofisma  a  priori.  La  psicologia  razio- nalista comincia  per  supporre  che  vi  Iianno  delle  neces- sita primordiali  del  pensiero,  senza  cercare  di  darsi  ra^ gione  di  queste  necessità.   Ma  il  diletto  assoluto  di   va- lore scientifico  di  (luesta  ipotesi  non  le  permette  di  man- tenersi  lungamente  senza  subire  una  trasformazione  •  la trasformazione  è  che  si  rende  ragione  di  queste  necessità del  pensiero,  riducendole  a  una  necessità  logica  ;  e  sic- come non  si  conosce  altra  necessità  logica  (derivante  dai rapporti  stessi  delle  idee   e  indipendente  dall'esperienza) che  quella  fondata  sui  principii  d'identità  e  di  contraddi- zione, é  per  questi  principii  che  si  cercano  di  spiegare  le pretese  necessità  del  pensiero  delia  psicologia   razionali- perche  nessuno  riguarderebbe  i  fatti  di  cui  si  tratta  come  delle operaziom  della  ragione.  Per  indicare  dunque  nella  sua  generalità la  teoria  psicologica  che,  rigettando  la  spiegazione  empirista  dà come  originarie  allo  spirito  delle  conoscenze  o  pretese  conoscenze  in realta  avventizie  ed  acquisite,  il  termine  razionalista  non  ci  sem- bra adatto:  noi  impiegheremo  perciò,  prendendolo  dai  filosofi  in- glesi, quello  di  intuizionista. sta  (lì.  La  dottrina  analitica,  in  quanto  concerne  gli  as- siomi, si  basa  dunque  sul  rigetto  di  questo  principio  lon- damcntale  della  teoria  deir esperienza,  che  ogn^inlerenza è  dal  particolare  al  particolare,  in  virtù  deir analogia  tra il  noto  e  rignoto.  Ma  se  si  comprende  che  (luesto  i)rin- cipio  è  applicabile  anche  agli  assiomi  ;  se  si  comi)rende che  di  antecedenti  logici  della  conclusione  A  =  C  non som/già  A=:B  e  H=:C  per  se  stessi,  ma  sono  le  osserva- zioni dcir esperienza  passata,  che  ci  hanno  mostrato  Te- o-uaulianza  Ira  due  grandezze  legata  con  Teguaglianza  fra ciasemia  di  ([ueste  grandezze  e  una  terza  grandezza;  non sarà  più  ix)ssibile  di  ammettere  che  la  conoscenza  del- l'assioma riposa  sulla  semplice  percezione  di  \\n  legame logico  Ira  le  idee  che  costituiscono  Y  assioma,  (i  si  dovrà (l)  KoiNe  si  vedrn  una  coiitraddizioiiL-  in  ciò  che  noi  no.irhianio a'^li  assiomi  -enorali  sulle  egun-lianze  il  carattei'e  dì  necessità  del pensiero   mentre  riconosciamo  in  essi  (luello  di  verità  strettamente ncrc<<arle.  Ma  si  deve  riliettere  die  il  carattere  di  necessita  elio noi  riconosciomo  ad  una  verità  matematica,  (inondo  questa  e  d  m- ferenza  e  non  intuitiva,  cioè  immediatamente  conosciuta,  non  con- siste in  ciò  che  nel  nostro  spirito  le  idee  che  costituiscono  <piesta verità  siano  nere s^^aria mente  legate,  perchè  è  evidente  clie  non  e cosi   e  che  prima  di  aver  acquistato  la  conoscenza  di  un  teorema geometrico  noi  potevamo  immagintux'  che  il  contrario  della  pro- posizione fosse  vero,  e  non  la  proposizione  stessa.  La  necessita  (h una  verità  matematica,  che  è  oggetto  <r  inferenza,  consiste  seuì- plicemente  in  (piesto,  che  noi  non  i^ossiamo  fare  la  supposizione, come  lo  possiamo  semi»re  per  le  verità  della  fisica,  che  le  cose potrebbero  essere  in  un  altro  modo  di  (luello  in  cui  noi  sappiamo che  esse  sono  in  realtà:  è  (piesta  seconda  specie  di  necessita,  e non  la  prima,  che  appartiene  agli  assiomi  matematici,  m  (luanto essi  enunziano   delle    verità  inferite  .  e  non  intuitivamente  cono- sciute   cioè  percepite  dall'osservazione  diretta.  Ricordiamo  pure che  per  noi  l'apriorità  delle  verità  assiomatiche  della  matematica non  e  in  contraddizione  con  la  loro  origine  sperimentale,  la  prima consistendo  unicamente  in  (luesta  circostanza,  die  noi  possiamo conoscere  «lueste  verità  tanto  per  l'osservazione  delle  cose  sti^sse, qujmlo  per  Tosservazione  delle  nostre  idee  delle  cose. convenire  che  non  basta  il  principio  di  contraddizione per  condurci  alla  scoverta  di  questa  verità  fondamentale della  matematica  (I) §.  11)^^  Noi  abbiamo  incontrato  pareccliie  forme  della dottrina  analìtica:  in  alcune  di  queste  si  Taceva  gran conto  del  sillogismo,  e  noi  abbiamo  visto  il  Gallupi)i  ricor- rere ad  esso  per  mostrare  come  il  progresso  reale  del pensiero  fosse  possibile  mercè  il  semplice  principio  del- ridentità.  Ma  Condillac  rappresenta  invece  un'altra  forma della  dottrina  analitica,  quella  che  ripudia  il  sillogismo; anzi  metodo  analitico  significò  un  tempo  sovratutto  Tesclu- sione  del  sillogismo  dal  metodo  scientifico.  Noi  abbiamo detto  che  la  dottrina  analitica  è  uno  sviluppo  della  psico- logia razionalista:  la  dottrina  analitica  di  Condillac  è  uno sviluppo  del  razionalismo  di  Locke.  Locke  era  un  avver- sario del  sillogismo  (v.  Saggio  Jìlos,  siili  intenti,  uni  yììh, 4^,  c*^  17^):  egli  aveva  compreso  questa  verità,  che  il  sil- logismo non  è  un'inlerenza  reale,  e  che  gli  antecedenti logici  sono  sempre  delle  verità  particolari— dottrina  che Stuart-Mill  mise  per  la  prima  volta  in  tutta  la  sua  luce —, senza  però  comprendere  le  ragioni,  indicate  dal  Mill,  che mostrano  il  vero  valore  e  Futilità  del  sillogismo.  Gli  Ele- menti di  Euclide  sono  stati  sempre  a  ragione  riguardati (U  I^a  dottrina  analitica  dei  giudizi  a  ptioii  non  è  solamente metaii^ica  nel  suo  presui^posto,  cioè  che  le  verità  così  dette  assio- matiche sono  indipendenti  dairesperienza,  ma  come  tutte  le  altre ipotesi  dei  razionalisti  per  ispiegare  lorigine  dei  giudizi  a  jnioii (intuizione  razionale,  identità  delTessere  e  del  pensiero,  idealismo soggettivo  di  Kant,  ecc),  lo  è  anche  negli  elementi  stessi  che  co- stituiscono la  sua  spiegazione.  Questi  sono:  la  teoria  dei  concetti, e  il  principio  che  le  verità  l'azionali  si  fondano  sul  legame  logico  del- le idee,  principio  che  è  esso  stesso  anzitutto  un  derivato  della  teoria dei  concetti.  Ora  noi  sappiamo  la  natura  assolutamente  metalisica di  ([uesta  teorii\  (v.  e.  1.  j^.  18).  Al  punto  di  vista  psicologico,  come all'ontologico,  alTinfuorì  della  tilosolia  deiresperienza,  non  vi  ha che  la  metafìsica. come  un  modello  di  dimostrazione  rigorosa;  la  menzione esplicita  che  fa  Euclide  degli  assiomi,  per  giustificare  cia- scun passo  del  ragionamento,  è  una  precauzione  utile,  se non  indispensabile,  i)erchè,  per  quanto  sia  forte  la  nostra tendenza  a  legare  certe  idee,  noi  siamo  in  ciò  tanto  sog- getti a  delle  illusioni,  che  per  essere  sicuri  che  questi  le- gami hanno  un  fondamento  logico,  noi  dobbiamo  cono- scere a  quali  regole  generali  ci  conformiamo  nei  passag- gi del  nostro  pensiero.  L'assioma  rappresenta  il  vero  an- tecedente logico,  se  non  Y  antecedente  psicologico,  della nuova  verità  che  noi  stabiliamo  a  ciascun  passo  della  di- mostrazione, e  rincatenamento  logico  della  dimostrazione è  adequatamente  espresso  per  un  seguito  di  sillogismi, precisamente  perchè  le  premesse  maggiori  di  ciascun  sil- logismo, cioè  gli  assiomi,  occupano  il  posto  degli  antece- denti logici  reali  di  ciascun'inferenza,  che  sono  le  espe- rienze passate  di  cui  Tassioma  è  la  generalizzazione  in- duttiva. Ma  se  non  si  ammette  che,  in  ciascun  passo  che fa  la  dimostrazione,  Tinferenza  sia  fondata  sull'esperienza passata,  che  l'assioma  compendia  in  una  formula  gene- rale; allora  il  processo  sillogistico  deve  necessariamente considerarsi  come  qualche  cosa  d'artificiale,  a  cui  niente non  corrisponde  nel  vero  incatenamento  logico  delle  co- noscenze. Ora  Locke  non  ammetteva  che  l'applicazione d'un  assioma  fosse  un'inferenza  fondata  sull'esperienza passata,  da  cui  l'assioma  è  stato  tirato  per  un'induzione  : da  questo  punto  di  vista  il  processo  sillogistico  nella  di- mostrazione doveva  naturalmente  sembrargli  arbitrario, il  sillogismo  non  potendo  costituire  un  ragionamento  reale, cioè  un  progresso  nella  conoscenza,  se  non  congiunta- mente all'  induzione  antecedente  da  cui  è  stata  data la  premessa  generale.  Egli  invece  ammetteva  che,  p.  e., nell'inferenza  :  «  A  =  B,  B  =:  C,  dunque  A  :=  C  »,  l'uni- co antecedente  logico,  che  basta  per  se  stesso  a  ren- der conto  del  progresso  del  pensiero  che  stabilisce  il  ter- sui  LiMiTr  E  i/oggetto  della  conoscenza  a  priori 245 zo  rapporto  d'eguaglianza,  siano  i  due  ])rimi  rapporti  d'e- guaglianza senz'  altro   (v.  Sar/gio  filos.   snirintencL   um, lib.  4,^  e.  VII,    XII,  ecc.';  che   il  lesrame  fra  le  idee  è   un fatto  naturale  e  necessario  ;  in  altri  termini,  che  si  tratta, in  questo  come  in  tutti   gli  altri  casi  simili,   di  una   ne- cessità primordiale  e  ìrriduttibile  del  pensiero.  Vi  era  in ciò  evidentemente  l'azione  del  sofisma  a  priori  della  psi- cologia  iataizionista,    Condillac  conservò  la  dottrina   di Locke;  se  non   che  egli  volle   spiegare  ciò  che,   secondo i  principii  di  Locke,  veniva  ad  essere  una  necessità  ine- splicabile del  pensiero  ;  ed  ammise   che  le  necessità   del pensiero  di  LocivC  si  risolvono  in  una  necessità  logica,  la quale  non   può  essere   che  (juella  di  evitare  la   contrad- dizione. Ora  notiamo  la  strana  incoerenza  di   Condillac (strana,   se  la  storia  della  metafisica  non  fosse  piena  di simili  incoerenze):  egli  respingeva  come  Looke,  e  più  e- nergicamente  di  Locke,   l'inferenza  mediata,   cioè  il   sil- logismo, perchè  non  era  un  progresso  reale  del  pensiero; ii)a  al  tempo  stesso  ammetteva  che  un'inferenza  immedia- ta potesse  essere  un  progresso  reale  del  pensiero  !  Perchè cosa  è  questo  passaggio  logico  immediato  da  una  propo- sizione ad  un  altra,  giustificato  dal  principio  dell'identità, se  non  ciò  che  la  logica  formale  chiama  wninfercìua  im- mediata ?  Ora  se  ò  evidente  che  l'inferenza  mediata,  cioè il  sillogismo,  non  è  che  un'inferenza  apparente,  ciò  è  più evidente  ancora  dell'inferenza  immediata.  Vi  ha  inferenza immediata,  tutte  le  volte  die  si  passa  da  una  proposizione ad  un'altra  proposizione  equipollente,  cioè  avente  lo  stesso .senso  della  prima,  genere  di  transizione  in  cui  i  logici  se- gnalano particolarmente  certe  specie,  quali  la  conversione e  la  oboersione;  ovvero  tutte  le  volte   che  il   passaggio consiste  nella  restrizione  della  estensione   del  soggetto, scambiando  il  segno  della  generalità  in  quello  della  par- ticolarità,  p.  e.,   quando  dopo   aver  detto  :  Ogni  uomo   è mortale,  si  conclude:  Qualche  uomo  è  mortale.  Condillac non  avrebbe  avuto  senza  dubbio  diflìcoltà  a  convenire ciie  simili  inferenze  non  possono  estendere  la  nostra  co- noscenza: ma  ciò  non  Fimpedisce  di  sostenere  che  lo  svi- lupj30  della  conoscenza  consiste  in  un  seguito  di  espres- sioni ditterenti  delle  stesse  idee,  e  che  il  frivolo  nel  di- scorso consiste  nella  identità  dei  termini,  ma  non  nella identità  delle  idee. Queste  affermazioni  di  Condillac  ci  mostrano  ciregli non  poteva  avere  alcun'idea  netta  sulla  distinzione  tra un'inferenza  reale  e  un'inferenza  ai)parente:  la  stessa  os- servazione noi  dobbiamo  estendere  a  tutti  i  sostenitori. della  dottrina  analitica.  Gallui)pi  ce  ne  dà  un  esempio colpente.  Questo  filosofo  insegna  che  le  proiX)sizioni  c<juìr poUenti  non  lasciano  di  essere  istrutiice.  Fra  queste  due proposizioni:  11  sole  illumina  la  terra,  La  terra  è  illumi- nata dal  sole,  egli  vede  la  stessa  relazione  che  fra  due j)rof>osizioni  enuncianti  due  modi  diversi  di  formazione dello  stesso  numero.  Il  pensiero  è  lo  stesso,  egli  dice,  nelle due  proposizioni,  ma  il  modo  della  generazione  del  pen- siero é  differente  nella  prima  e  nella  seconda.  Ora  ciò  è un'estensione  della  nostra  conoscenza.  La  sostituzione  di un'espressione  ad  un'altra  equivalente  o  identica  nel  sen- so conduce  perciò  secondo  iui  alla  scoverta  della  verità; e  il  principio  logico  per  cui  ci  è  permesso  di  passare  da ima  proposizione  alla  sua  equipollente,  come  dalla  prima alla  seconda  delle  due  proposizioni  citate,  egli  lo  chiama «un  principio  generale  per  trovare  la  verità  ignota»,  «un principio  luminoso  che  guida  lo  spirito  indagatore  alla scoverta  del  vero».  (Sar/r/io  Jìlos,  t.  3'*  par.  i:],  Ki).  Il  fon- damento e  l'essenza  della  dottrina  anaìitìca  consiste  nella confusione  tra  l'inferenza  reale  e  l'inferenza  puramente apparente  o  verbale.  E  infatti  che  cosa  può  essere  una verità  assiomatica,  per  questa  dottrina,  se  non  un'inferen- za immediata  come  quella  da  una  proposizione  ad  un'al- tra equipollente?  Questa  confusione  si  vede  anche,  d'una maniera  palpabile,  nell<3  sforzo  di  dare  le  inferenze  imme- per  veri  ragionamenti,  cioè  per  sillogismi— il  carat- tere distintivo  dell'inferenza  reale  essendo,  per  la  più  i)ar- te  dei  logici,  la  necessità  d'una  proposizione  media— .Wolf considerava  la  conseguenza  immediata  come  un  entime- ma: p.  e.  Ogni  animale  sente,  dunque  alcuni  animali  sen- tono. (Questo,  egli  dice,  è  un  sillogismo,  in  cui  si  tralascia la  minore:  Alcuni  animali  sono  animali  (Logica^  e.  4", par.  20)  (1)  Il  Galluppi  applica  un  processo  analogo,  ma l)iù  complicato,  alle  due  proposizioni  equipollenti  di  cui sopra:  Il  sole  illumina  la  terra,  dunque  la  terra  è  illumi- nata dal  sole.  Questa  conseguenza  è,  dice  il  Galluppi,  un entimema  di  un  sillogismo  ipotetico,  in  cui  la  premessa maggiore,  che  si  sottintende,  è:  Se  il  sole  illumina  la  ter- ra, la  terra  è  illuminata  dal  sole.  E  questa  proposizione ò  alla  sua  volta  la  conclusione  di  un  altro  sillogismo,  che è  questo:  Ammessa  una  proposizione,  si  deve  ammettere la  sua  equipollente;  ma  le  due  proposizioni:  il  sole  illumi- na la  terra,  la  terra  è  illuminata  dal  sole,  sono  eciuipol- lenti;  dunque  se  il  sole  illumina  la  terra,  la  terra  è  illu- minata dal  sole.  È  impossibile  di  mostrare  d'una  manie- ra più  sensibile  la  confusione  sistematica,  che  i  sosteni- tori della  dottrina  analitica  fanno  tra  le  inferenze  appa- renti e  le  inferenze  reali. ^.  20^.  Mentre  la  dottrina  analitica  riduce  le  inferenze reali,  che  essa  crede  delle  verità  necessarie,  alle  inferen- ze apparenti  (  fondate  sul  prhicipio  d'identità  ),  noi  ritro- (1)  Ter  nitro  Woli*  non  lo,  su  «jiiosto  imnto  corno  sii.uli  altri,  che continuare  Leihnitz.  Anche  Leilmitz  che,  come  sai>piamo,  era  pure un  partiiiiano  estremo  del  sillogismo,  dà  la  forma  sillo.i^istica  alle inferenze  immediate:  cosi  egli  dimostra  le  roncersionc  delle  pro- posizioni per  mezzo  di  silloijismi  di  (Uii  uno  premessa  è  una  i>ro- posizione  identica  nei  termini  (O.s^ni  A  è  A) -ciò  die  fa  vedere,  egli dice,  rutiiità  delle  proposizioni  identiche  i>iù  pure  (cioè  anche  nei tennnii)-(V.  N.  S.  MiirintcnrL  urn.  lil).  ^.  e.  viaino  una  tendenza  tutta  opposta  in  alcuni  filosofi  con- temporanei, cioè  a  ridurre  o  assimilare  certe  inferenze  ap- parenti  a  quelle  inferenze  reali  che  vengono  ritenute  del- le  necessità  primordiali  del  pensiero.  Quantunque  queste due  dottrine  sono  in  una  certa  guisa  contrarie,  tuttavia esse  hanno  un  fondamento  comune  :  è  fassimilazione  del-" le  interenze  reali  e  delle  inferenze  apparenti;  solo,  in  un  ca- so  le  prime  sono  ricondotte  alle  seconde,  nell'altro  caso  le seconde  alle  prime.  Ora  questa  seconda  dottrina  non  è  me- no  della  prima  in  contraddizione  coi  principii  della  teoria dell  esperienza;  perchè  essa  pure  tende  a  stabilire  che  vi siano  delle  inferente  reali,  che  non  sono  fondate  suUespe- rienza  e  sulfinduzione.  Benché  gli  autori  in  cui   trovia- mo questa  dottrina  non  ammettano  sempre  questo  risul- tato di  essa,  e  alcuni  lo  rigettino  anche  esplicitamente esso  non  ne  sarebbe  meno,  secondo  noi,  una  conseguen- za logica.  Cosi,   sia  per  (luesta  ragione,  sia  per  if  rap- porto di  (luesta  dottrina  con  la  dottrina  analitica,  non sembrerà  inop[)ortuno  di  parlarne;  noi  crediamo  anzi  che sia  un  complemento  naturale  della  discussione  della dottrina  analitica. Lo  Spencer  ò  uno  degli  autori,  in  cui  noi  troviamo  la tendenza  di  cui  è  quistione  :  e^li  non  riconosce  nel  sillo- gismo (  (piale  lo  considera  la  logica  formale,  cioè  pren- dendo la  premessa  maggiore  per  una  proposizione  stret- tamentc  generale,  e  non,  come  vuole  Spencer,  per  una pro[K)sizione  indicante  una  uniformità  dell'esperienza  pas- sata) il  carattere  d^inferenza  reale  (  v.  Prineipii  di  psi-^ cokxjux,  specialmente  §.  300);  ma  non  ammette  che  il  sil- logismo sia  la  sola  forma  logica  della  deduzione,  e  que- sto carattere  cFinferenza  reale  eh  egli  nega  al  sillogismo, lo  riconosce  nondimeno  a  deduzioni  clf  egli  considera^estra- sillogistiche.  Ora  con  ciò  questo  filosofo  si  mette  neces- sariamente in  contraddizione  coi  principii  della  dottrina delfesperienza,  clfegli  generalmente  segue  nella  sua  Psicologia.  Non  può  esservi,  secondo  questi  principii,  una  de- duzione che  non  sia  fondata  sopra  un^induzione  :  ora  se è  cosi,  se  ogni  deduzione  suppone  un'induzione,  ogni  de- duzione non  può  essere  che  un'inferenza  apparente,  e  non reale,  e  di  più  non  vi  ha  alcun  vero  ragionamento  che sia  estra-sillogistico,  in  quanto  ogni  ragionamento  valido deve  essere  capace  di  passare  per  due  fasi,  di  cui  la  se- conda è  sempre  un  sillogismo,  come  la  prima  è  sempre un'induzione.  Ma  invece  secondo  Spencer  vi  hanno  del- le inferenze  reali  e  necessarie  che  egli  sembra  conside- rare come  indipendenti  dalFinduzione  (e  perciò  pure  dal sillogismo);  e  vi  hanno  inoltre  delle  inferenze  puramente apparenti  clfegli  considera  come  reali. §  2P.  Nel  primo  caso  si  tratta  degli  assiomi  matematici: Spencer  sembra  considerarli  come  delle  intuizioni  della ragione,  indipendenti  dairesporienza.  Egli  definisce  il  ra- gionamento rintuizione  di  un'eguaglianza  o  ineguaglianza, somiglianza  o  differenza,  di  rapporti.  L'inferenza  che  noi facciamo  in  questo  ragionamento  :  «  La  fermentazione della  birra  sviluppa  dell'acido  carbonico;  dunque  la  fer- mentazione in  questo  tino  di  ])irra  sviluppa  dell'acido  car- bonico »,  é  un'  assimilazione  del  rapporto  tra  i  due  fatti afìermato  nella  conclusione  ai  rapporti  simili  tra  i  fatti antecedentemente  conosciuti,  rapporti  che  sono  riassunti nella  premessa  generale.  Cosi,  quando  nella  dimostrazione di  un  teorema  geometrico  s'invoca  una  proposizione  an- tecedentemente dimostrata,  vi  lia  l' intuizione  dell'  e^ua- glianza  fra  il  rapporto  attuale  nel  caso  particolare  su  cui volge  la  dimostrazione,  e  il  rapporto  anteriormente  dimo- strato nella  proposizione  invocata.  Sin  qui  la  teorica  di Spencer  non  differisce  essenzialmente  dalla  dottrina  dei logici  moderni,  quale  si  trova  in  Mill  o  in  Bain.  Ma  quando tratta  invece  di  applicare,  nella  dimostrazione,  non  una proposizione  anteriormente  dimostrata,  ma  un  assioma f>ulle   eguaglianze  o  sulle  ineguaglianze,  l'intuizione  non è  più,  secondo  Spencci*,  (juclla  dell'  eguaglianza  o  somi- glianza Ira  il   rapiX)rto   stabilito   nel  caso  particolare  su volge  la  diiiiostrazione,  e  i  rapporti  analoghi  antece- <lenteuiente  consciuti,   e  che  si   trovano   riassunti  nella proj^KDsizione  generale  enunziante  lassioma.  «A=B,  B— C, dunque  \-C  »:  non  vi  lia  qui,  secondo   Spencer,  Tassi- niilazione  del  caso  presente  della  dipendenza  di  eguaglian- ze che  noi  stabiliamo,  ai  casi  analoghi  anteriormente  co- nosciuti  della  stessa   diix;ndenza    fra   eguaglianze,    sui (luali  r  assi(Mna  è  stato  (ondato.  11  processo  reale  del  ra- gionamento insomma  non  è:  Tesperienza  passata  mi  pre- senta (luesra  uniformità,  che  io  ho  trovato  che  due  gran- dezze eguali  ad  una  terza  sono  sempre  eguali  ira  di  loro; dunque   anche    nel  caso   presente  due   grandezze   eguali ad  una  terza  S(^no  eguali  fra  di  loro.  Invece  (jui  Y  intui- zione è,  secondo  Spencer,  ({uella  deireguagianza  ira  i  due rapporti  d^eguaglianza  A=H  e  B=^C;  questi  due  rapporti (Ucguaglianza  vengono  riconosciuti,  per  un^intuizione  di- retta dello  si)irito,  come  eguali.  «  E  siccome,  dice  Spencer, questi  due  rai)porti  (reguaglianza  hanno  un  termine  co- mune,   r  intuizione   che  essi  sono   eguali   imj^lica  quella deireguaglianza  fra  i  due  termini  restanti  A  e  C  »  (S  280 e  28G)  Sembra  dunque  che  secondo  Spencer  Tapplicazione di  un  assioma  matematico  non  sia  un'inferenza  sperimen- tale (1);  e  infatti  egli  la  chiama   un  intuizione  immediata (1)  Io  dico  sembra y  non  lotendo  l'isolvoniii  od  nttrilHiire  catc- jzoricaineiite  a  Spencer  unidoa  che  è  in  contraddizione  coi  prin- cipii  della  ì>sicologia  associazionista  e  con  la  pi-oposizione  tronera- le  tanle  voUe  emessa  dall'  autore,  che  le  verità  necessarie  sono anciiesse  dei  risaltati  da!resi>erienza  (v.  Prìncipi  di  jìsicolooia  ^, 1811,  430,  433,  ecc).  La  teorica  di  Spencer  sulle  verità  necessaire  è, come  si  sa,  un'ipotesi  che  pretende  di  conciliare  le  due  teorie  ri- vali suir  origine  di  queste  verità,  Vaprioiista  o  intuizionista  oAa empii  ista,  annnettendo  che  le  conoscenze  che  la  prima  suppone dovute  a  necessit-i'i  primordiali  del  pensiero,  sono  delle  inferenze latenti  dovute  all'accumulazione  oriranica  delle  esperienze  avitiche (§  282,   284),  e  nega  che  essa  riposi  sul   ragionamento (v.  p.  e.  §  287  fine). §  22.^*   Lo  Spencer   neir  assioma  matematico  indicato vede  un  caso  speciale  di  una  verità  più  generale,  la  più (v.  J'iincipii  (li  psicoloiiia  J*  208,  332,  430.  433,  e  Saufii  di  morale, di  scienz-a  e  d'estetica,  v.  3.  Obbiezioni  ai  Primi  principii  e  Hisi)oste, 8.  e  9).  È  una  forma  della  teoria  empirista:  ma  siccome  Spencer non  si  mantiene  sempre  fedele  alla  teoria,  e  ammette  esplicitamente che  vi  hanno  delle  verità  che  non  sono  il  risultato  deiresperienza, sia  individuale  che  ereditaria—tale  è  il  pi*incii>io  della  pei-sistenza della  forza  coi  suoi  corollari  (indisti'uttibilità  della  materia.  leg}2:e della  causalità,  ecc.—  v.  questo  Sagji:io  cap.  9.  nota  ultima  al  ??.  <>> -così  non  pare  impossibile  che  (|uesto  filosofo  si  allontani  anche in  altri  casi  dai  i)rincipii  che.  in  venerale,  etili  anuncttc  in  comu- ne con  la  lìlosofia  deiresperienza,  secondo  i  «juali  oirni  assioma matematico  dovreb])e  essere  i^cr  lui  un'inferenza  latente  dovuta alle  esperienze  ereditarie.  Nella  {(iov\ex\  i\(i\  ragionatnento  (/aanti- tatiro,  in  cui  l'autore  avrebbe  avuto  tante  occasioni  di  alludere a  (juesfipotesi  suIForìgine  degli  assiomi,  egli  non  lo  fa  mai.  mentre al  contrario  vi  allude  in  un  altro  caso,  d'unimportanza  insignifi- cante, d" inferenza  matematica,  che  non  è  però  assiomatica  (Il  caso è  questo:  Se  A  è  dMilOO  più  piccolo  che  H,  si  ]ìuò  concludere  im- mediatamente che  la  metà  di  A  è  più  grande  cìie  il  terzo  di  B.  K questa,  secondo  Spencer,  una  conclusione  immediata,  uif  inferenza latente,  la  cui  genesi  si  si>iega  peiM'ipotesi  dell'accumulazione  ere- ditaria delle  esperienze.  Mi  sembra  strano,  sia  detto  di  passaggio, che  lo  Spencer  alVermi  di  questa  ì)roposizione  matematica  che «  non  si  può  citare  ne  un  princi]ìio  generale  ne  un'espei-ienza  par- ticolare che  servano  di  i)rincipio  a  questa  conclusione»,  (juando l;i  ])roposizione  è  facilmente  dimostrabile,  e  si  possono  (juindi  ci- tare ì  principii  generali  da  cui  deriva,  che  non  sono  se  non  gli  as- siomi generali  sulle  eguaglianze,  su  cui  riposa  tutta  la  matemati- ca). Ma  non  solo  lo  Spencer  non  fa  la  minima  idlusione  a  questa ipotesi,  di  più  egli  emette  delle  asserzioni  che  sono  inconciliahìH con  (lualsiasi  forma  <lella  teoria  dell'esperienza.  A  ciò  che  è  stnto citato  nel  testo,  aggiungiamo  questo  tratto  del  .^j.  304:  «Nessuna di  (jueste  verità  (i  due  assiomi  generali  sulle  egunalianzo)  non  è attinta  jier  un'intuizione  esterna  diretta;  e  nemmeno  per  delle  espe- rienze successive  di  casi  passati,  in  cui  questa  connessione  di  fatti avreì)be  esistito,  ciò  che  dovrebbe  essere  v>erlanto  se  quej4,i  casi fossero  di  natura  da  ]>oter  essere  formulati  in  sillogismo  ».  E  più generale  che  si  possa  conoscere  per  il  ragionamento  a rapporti  congiunti  (cioè  in  cui  i  rappoi^ti  comparati,  che vengono  dati^  hanno  un  termine  comune):  egli  formula quesfassioma  generale  di  questa  maniera  :  «  Le  cose  che o-iù  dice-  11  rairionamento  doirhigegncro  clic  fi\  il  suo  ponto  a  tubo Tche  ecrli  adduce  in  esempio  nel  §.  277)  non  può  esseiv  messo  m sillogismo  «  Né  nella  sua  esperienza  nù  in  (piella  degli  alln  uomini, il  nostro  in-egnere  non  ha  trovalo  un  sol  caso  che  possa  servire di  base  alla  sua  conclusione.  Tuttavia  egli  arriva  a  questa  conclu- sione per  un  atto  mentale  che  si  può  analizzare  quantun«iue  sia complicato:  egli  riconosce  in  un  caso  particolare  (piesta  venta  ge- nerale   che  dei  rapporti  che  sono  eguali  ciascuno  a  dei  rapponi che  sono  ineguali  tra  loro,  sono  essi  stessi  ineguali».  Che  questo principio  sia  una  verità  assiomatica,  come  crede  Spencer,  o  sia unaproposizlone  dimostrabile  e  <limoslrn(a,  non  può  fare  differenza; T)erchù  se  gli  assiomi  sono  fondtiti  sull'esperienza,  vi  hanno,  tanto nelluna  supposizione  (pianto  neìlaltra,  neiresperienza  «i  casi  clie servire  di  baso  alla  conclusione  ». D'altronde   se  lappHcazione  d'un  assioma  fosse,  secondo  Spen- cer un'inferenza  latente  dovuta  allesperienza,  perchè  egli  avrebbe ri-'orso   per  ispieirare  «luest'inferenza,  alla  dottrina  che  essa  con- siste nella  percezione  delleguaglianza  fra  i  rapporti  (reguaglianzji dati  (A-1^    B-G),  e  che  la  percezione  dell'eguaglianza  di  questi rapporti  d'eguaglianza  dati  implica  la  riconoscenza  del  rapporto d'e-ua-lianza  inferito?  Questo  non  ù  evidentemente  che  un  arti- fizio per  ricondurre  le  deduzioni  della  matcMuatica  al  tipo  genende del  ragionamento,  che  consiste,  seccando  Spencer,  nel  riconoscere la  eguairlianza  o  somiglianza  fra  i  rapporti.  Ma  se  l'assioma  fosse dovuto  airesperienza,  la  conclusione  che,  se  A=B  e  H-C,  A  sarà =C    sarebbe  ridentitìcazione,  non  dei  rapporti  A  -B  e  B-G,  ma della  R'iazione  fra  i  rapporti  A-B.  B-G  e  A-G  in  (piesto  caso  par- ticolare, con  la  relazione  fra  gli  stessi  rapporti  nei  casi  (hd  espe- rienza passata,  i  quali  sono  la  vera  premessa  da  cui  si  fa  T  infe- renza  In  altri  termini,  se  l'applicazione  di  mi  assioma  nel  ragio- namento motematico  è  fondata  sull'esperienza  passata,  il  ragio- namento in  matematica  è  essenzialmente  identico  a  (lualsiasi  altro ra-ionamento,  quello,  p.  e.  per  cui  noi  concludiamo  che  la  fermen- tazione della  birra  di  questo  tino  svilupperà  dell'acido  ciuiH.mro, perchè  nell'esperienza  passata  la  fermenfaziono  della  birra  ha  co- stantemente sviluppato  dell'acido  carlmnico.  1/ assiimlazione   e sempre    in  qualsiasi  forma  particolare  di  ragionamento,  un  nssi- hanno  un  rapporto  definito  con  la  stessa,  cosa  hanno  fra loro  un  rapporto  definito  »  (§  307,  in  nota).  Altri  casi di  quest'  assioma  generale  sono,  secondo  T  autore,  de- gli assiomi  speciali   che  hanno  per  oggetto   dei  rapporti milazione  del  caso  presente  (o  dei  rapporti  nel  caso  presente,  come vuole  Spencer)  ai  casi  passati  (o  ai  rapporti  dei  casi  passati);  e non  vi  ha  ])isogno  di  alcun  artifizio  per  dimostrare  questa  verità evidente,  clie  il  tipo  del  ragionamento  è  sempre  lo  stesso. Si  dirà  :  nel  caso  deirapplicazione  degli  assiomi  l'inferenza  non sarebbe  che  latente,  e  quindi  non  vi  sarebbe  quest'assimilazione cosciente  dei  casi  presenti  ai  casi  passati.  Ma  ciò  non  può  fare differenza  ;  poiché  se  gli  antecedenti  logici  reali  d'  un'  inferenza che  noi  diciamo  Tappllcazione  d'un  assioma,  si  trovano  nell'espe- rienza, noi  possiamo,  richiamando  questi  casi,  rifare  apertamente e  coscientemente  l'inferenza  che  per  il  solito  non  è  stata  fatta  che d'una  maniera  latente  o  incocciente.  E  lo  stesso  Spencer  conviene ehe  la  cosa  va  cosi  nella  più  parte  dei  nostri  ragionamenti  della vita  ordinaria:  l'inferenza  non  viene  tirata  che  d'una  maniera  m- cosciente  e,  per  dir  cosi,  orrjanica,  ma  noi  possiamo  ripetere  sotto una  forma  cosciente  la  stessa  inferenza,  ed  è  allora,  soltanto  al- lora, che  il  ragionamento  è  una  identificazione  o  assimilazione  di rapporti.  Quando  estendendo  un  membro  noi  sentiamo  una  pres- sione, e  ne  concludiamo  che  vi  ha  davanti  a  noi  qualche  cosa  di esteso,  noi  facciamo,  dice  Spencer,  un'  inferenza  latente,  fondata sull'esperienza  dei  casi  passati.  La  circostanza  che  l' inferenza  è latente,  non  impedisce  lo  Spencer  di  vedervi,  come  in  un  altro  ca- so qualunque  di  deduzione,  un'  assimilazione  fra  il  rapporto  con- cluso e  i  rapporti  anteriormente  conosciuti.  «  Senza  la  ripetizione continua  che  ha  portato  queste  conoscenze  a  uno  stato  che  si  può chiamare  di  conclusione  orgcmica,  si  vedrebbe  ch'esse  hanno  la stessa  base  che  il  ragionamento  per  cui  noi  concludiamo  che  un triangolo  equiangolo  deve  essere  equilatero,  quando  una  volta  noi abbiamo  conosciuto  questa  coesistenza».  «L'atto  mentale  impli- cato è  un'intuizione  dell'eguaglianza  di  due  rapporti  di  tempo  di- sgiunti ;  l'uno  è  un  rapporto  generahzzato  di  coesistenza  invaria- bile, appoggiato  sopra  un'infinità  d'esperienze  senza  eccezione,  e per  conseguenza  concepito  come  necessario,  l'altro  è  un  rapporto di  coesistenza  nel  quale  un  termine  non  è  percepito,  ma  è  impli- cato dalla  presenza  del  termine  concomitante  ».  (  §  293  ).  Ben  più, secondo  lo  Spencer,  in  ogni  caso  di  deduzione,  il  ragionamento primitivo  e  diretto  è  incosciente,  e  non  vi  ha  di  cosciente  che  il ■^WBBfeiz-'riSgrr:^^  di  tempo,  invece  di  rapjxjrti  fra  grandezze:  tali  sono: Delle  cose  che  coesistono  con  la  stessa  cosa  coesistono fra  di  loro;  Se  un  avvenimento  è  prima  o  dopo  di  un  altro, e  questo  prima  o  dopo  di  un  terzo  avvenimento,  il  i)ri- mo  è  prima  o  dopo  del  terzo.  Le  inferenze  espresse  in queste  proposizioni  sono  cosi,  secondo  Spencer,  delle  in- ferenze reali,  e  le  intuizioni  che  esse  implicano,  egli  le considera  come  essenzialmente  della  stessa  specie  che quelle  per  cui  noi  conosciamo  l'assioma  matematico  (i^  293). Secondo  noi,  questi  due  pretesi  assiomi  non  sono  che delle  proposizioni  identiche.  Un  altro  caso  di  questa  ten- denza di  Spencer  a  vedere  una  estensione  reale  della  co- noscenza \k  dove  non  vi  ha  che  un  passaggio  permesso  dal semplice  principio  d'identità,  lo  troviamo  in  certe  sue  idee sull'oggetto  della  logica.  Vi  hanno,  secondo  lui,  delle  cor- relazioni obbiettive  necessarie,  che  formano  la  materia della  scienza  obbiettiva  la  più  astratta  di  tutte:  questa  scien- za è  la   Iodica.    La  logica  è  una  scienza  obbiettiva:  essa ragionamento  secoiiddiMo  e  mediato,  che  serve  a  verificare  il  primo. È  solo  in  <]uesto  secondo  stadio  che  noi  compariamo  il  rapporto, i,Mà  spontaneamente  concluso  nel  primo,  jxlla  classe  di  rapporti  a cui  viene  assimilato.  Ma  il  primo  stadio  «  è  un  atto  semplice  e spontaneo;  perchè  non  risulta  dal  ricordo  dei  rapporti  simili  pre- cedentemente conosciuti,  ma  semplicemente  dall'intluenza  che,  a desperienze  passate,  essi  esercitano  sull'associazione  delh^ idee  »  (i«?  31)0). Concludiamo  che  se  irli  assiomi  si  si^iegassero,  secondo  Spenc(U% jjer  la  teoria  deiresperienza,  anche  intesa,  non  nel  senso  ordinario, ma  con  la  modificazione  ch'eirli  intende  apportarvi,  egli  avrel)l)ti dovuto  tenersi  alla  dottrina,  semplice  e  chiara,  dellempirismo  or- dinario sul  ragionamento,  cioè  che  l'inferenza  è  sempre  lassimi- lazioiK;  o  l'identificazione  di  un  caso  nuovo  ai  casi  dell'esperienza jmssata  (che  (juesf  assimilazione  sia  conscicnte  o  incosciente  e puramente  organica):  qualsiasi  altra  dottrina,  ditl'erentc  da  questa, se  non  si  mette  (»s]tlicitamcnte  in  contraddizione  con  la  teoria  del- l'esperienza,  non  si  comprende  almeno  come  possa  accordarsi con  es>n.  non  è,  dice  Spencer,  una  scienza  delle  leggi  del  pensiero; queste  leggi  di  correlazioni  necessarie  che  formula  la  lo- gica, sono  delle  necessità  obbiettive,  non  delle  necessità subbiettive.  «  Vi  ha  una  distinzione  difficile  a  compren- dere in  ragione  del  suo  carattere  molto  astratto,  tra  la scienza  della  logica  e  la  spiegazione  del  processo  del rar/ionamento  ...  Ecco  questa  distinzione  in  poche  parole: La  logica  formula  le  leggi  più  generali  d'una  correlazione tra  esistenze  considerate  come  obbiettive;  la  spiegazione del  processo  del  ragionamento  formula  le  leggi  pii^i  gene- rali di  correlazione  tra  le  idee  corrispondenti  a  queste esistenze.  L'una  studia  nelle  sue  proposizioni  certi  legami affermati,  i  quali  sono  contenuti  necessariamente  in  altri legami  dati — questi  legami  essendo  considerati  come  esi- stenti nel  non  me,  sotto  una  forma  qualunque,  e  indipen- dentemente dalla  forma  sotto  la  quale  noi  li  conosciamo. L'altra  studia  il  processo  nel  me,  che  conosce  questi  le- gami necessari  »  (§  302). mostrare  questo  carattere  obbiettivo  dei  rap})orti della  logica,  Spencer  si  appoggia  Sjjecialmente  sui  siilo-- gismi  numericamente  definiti  di  Morgan  :  egli  sviluppa lungamente  dei  sillogismi  che  sono  delle  applicazioni  di questa  formula  :  Se  la  più  parte  dei  B  sono  C,  e  la  più l)arte  dei  B  sono  A,  dunque  alcuni  A  sono  C.  Ma  oltre questi  sillogismi,  che  sono  i  soli,  sembra,  secondo  Spen- cer, che  formulano  delle  correlazioni  obbiettive  necessa- rie (1),  vi  hanno  altre  correlazioni  di  questa  natura  che (1)  Noi  diciamo  che  questi  sillogismi  sono  i  soli  a  cui  Spencer  fa esprimere  dei  rapporti  obbiettivi  necessari  :  ma  l'esposizione  d\ (luesto  punto  della  sua  dottrina  non  ci  sembra  avere  tutta  la  net- tezza che  si  potrebbe  desiderare,  ed  è  difficile  di  essere  sicuri  <ii comi>rendere  il  vero  i^ensiero  dell'  autore  sul  sillogismo  Per  pro- vare il  carattere  ol)biettivo  delle  necessità  logiche,  egli  cita  pure la  lììju'china  di  lenons  per  fare  sillogismi.  «i'\  qui  evidente,  egli dice,  che  il  rapporto   dato  nella  conclusione  è  obbiettivo,  e  che essi  non  possono  abbbracciare.  Un  esempio  che  dà  T  au- tore è  «  quello  che  è  contenuto  in  questa  veccliia  arguzia: supponiamo  che  vi  siano  più  persone  in  una  città  che capelli  nella  testa  d\ma  persona  qualunque;  devono  esser- vi almeno  due  persone  in  questa  città  che  abbiano  nella testa  lo  stesso  numero  di  capelU.  »  «  Questo  caso,  conti- nua Spencer,  oltre  che  ci  mostra  chiaramente  resistenza di  correlazioni  obbiettive  necessarie  che,  come  abbiamo detto,  formano  la  materia  della  scienza  obbiettiva  più astratta,  ci  la  vedere  pure  che  la  logica,  considerata  co- me essente  questa  scienza,  comprende  molte  cose  che  non possono  essere  racchiuse  nelle  forme  logiche  ordinarie  » (  §.  305.  ) questo  rapporto  obbiettivo  era  ncccssariaiiiente  contenuto  in  que- sti aUri  rapporti  obbiettivi  ohe  costituiscono  le  premesse  ».  Ma  se è  cosi,   se  la  conclusione  è  contenuta  ne<*essarìamente  nelle  pre- messe, allora  il  «  tutti  »  della  premessa  maggiore  non  significa  più semplicemente  «tutto  ciò  che  è  già  conosciuto»,  come  avviene, secondo  Spencer,  nella  U^^duzione  reale  (v.  §  299) -in  altri  termini, la  i>remessa  maggiore  non  è  il  semplice  equivalente  dei  fatti  par- ticolari dell'  esperienza  passata  —,  perchè  in  questa  supposizione la  conclusione  non  sarel)be  coììtenuta  necessariamente  nelle  pre- messe ;  ma  il  «  tutti  »  signilìca  tutti  i  casi  senza  eccezione  che  sono compresi  nella  classe,  senza  escluderne  il  caso  stesso  della  con- clusione.  È  allora  soltanto  che  il  rapporto  obbiettivo  atìermato nella  conclusione  é  contenuto  necessariamente  nei  rapporti  obbiet-; tivi  die  costituiscono  le  premesse,  e  del  resto  è  di  questa  maniera che  i  logici  ordinariamente  considerano  il  sillogismo.  ^U\  nel  sillgismo cosi  considerato  l'inferenza  è,  come  Spencer  sostiene  con ragione  contro  Hamilton  (§.  300),  non  reale,  ma  apparente.  Se  dun- que le  conclusioni  ottenute  per  la  macchina  di  levons  non  sono che  delle  semplici  inferenze  apparenti,  come  potrebbero  esse  cor- rispondere a  delle  correlazioni  ohbiettice  ?  Noi  perciò  abbiamo considerato  ciò  che  Spencer  dice  a  questo  soggetto  come  detto semplicemente  in  grazia  dell'argomento,  e  non  valevole  quindi  a modificare  l'interpretazione  che  noi  abbiamo  dato  della  sua  dot- trina, attribuendogU  l'opinione  che  fra  i  sillogismi  i  soli  «  numeri- camente  definiti  »  esprimono  delle  correlazioni  obbiettive  neces- sarie. §.  23'^.  Studiando  questa  parte  della  teorica  del  ragiona- mento di  Spencer,  e  considerandola  isolatamente,  potreb- be sembrare  di  aver  da  fare  forse  con  qualche  discepolo di  Hegel.  Se  le  correlazioni  della  logica  sono  obbiettive, siccome  la  logica  (  formale  )  non  concerne  che  le  corre- lazioni fra  le  proposizioni,  e  le  proposizioni  sono  genera- li, bisognerà  dire  che  vi  hanno  delle  entità  generali,  cor- rispondenti alle  proposizioni  generali,  e  le  correlazioni  ob- biettive della  logica  saranno  le  correlazioni  di  queste  en- tità. Ma  Spencer  non  la  intende  a  questo  modo,  ed  egli non  è  un  dispepolo  di  Hegel;  egli  è  sempUcemente  un  di- scepolo, nella  sua  teorica  del  ragionamento,  di  questa  scuo- la di  logici  inglesi  che  noi  possiamo  chiamare  formalisti, perchè  il  loro  oggetto  è  precipuamente  di  sviluppare  la logica  formale,  mentre  la  logica  di  Alili  e  di  Bain  è  una logica  tutta  reale,  che  approfondisce  la  natura  delle  ope- razioni reali  della  ragione,  e  studia  le  condizioni  gene- rali della  validità  di  queste  operazioni.  Senza  dubbio,  nel- la sua  teorica  del  ragionamento,  lo  Spencer  non  ha  per oggetto  di  sostituire  e  di  aggiungere,  come  fanno  questi logici  fornialisti,  delle  nuove  formule  a  quelle  della  logi- ca tradizionale  ;  ma  è  evidente  T  influenza  delle  idee  dei promotori  di  questa  scuola  su  quelle  di  Spencer.  Questa influenza  io  la  riassumo  in  due  punti  :  la  confusione  tra un'  inferenza  reale  e  un'inferenza  apparente  ;  e  le  forme logiche  ordinarie  (induzione  e  sillogismo)  considerate,  non come  il  totale,  ma  come  una  semplice  frazione,  delle  ope- razioni del  ragionamento. Secondo  Morgan,  a  cui  (e  ad  Hamilton)  si  riattacca sovratutto  questa  scuola  di  logici  formalisti,  vi  è  una  lo- gica generale,  di  cui  la  logica  ordinaria  non  è  che  un caso  particolare.  Gli  assiomi  della  matematica,  come: A  =  B,  B  =  C,  dunque  A  =  C,  non  sono  riduttibili  alle forme  logiche  ordinarie  :  la  logica  delle  matematiche  e  la logica  ordinaria  sono   due  casi  speciali  e  paralleli   della logica  geiiemle.  I  Ibiicìainenti  del  ragionamento  (dedut- tivo) non  sono  i  pi4ncii»ii  d'identità,  di  contraddizione  e del  mezzo  escluso  :  essi  non  giustificano  i  progi^ssi  del pensiero.  Il  ragionamento  è  possibile  per  il  carattere  di iramitlciià  appartenente  alla  copula  (simtolo  generale della  relazione,  che  egli  wkAq  sostituito  alle  copula  or- dinaria «  è  >),  qualunciue  sia  il  senso  [^articolare  ili  essa.  Il senso  ddla  copula  può  essere  uno  di  questi:  ò  eguale  a, è  identico  a,  è  legate»  a,  è  il  fratello  di,  si  accorda  con, ecc.  E  il  carattere  di  transitività  può  esprimersi  per  (pie- sta  proposizione  :  Se  una  cosa  è  in  una  relazione  data con  una  seconda  e  una  tei^a  cosa,*  queste  due  ultime  so- no tra  loro  nella  stessa  relazione.  (Soi  ai  )]jinmo  già  tro- vato in  Spencer  una  variante  di  questa  lònnula).  Nella logica  iòrmale  la  copula  indica  Videntìttk:  ma  la  logica deìYidentità  e  quella  àe\Veijua(jlian:^a  non  sono  che  due casi  della  logica  generate  della  relazione.  L'assioma  del sillofiismo  e  l'assioma  matematico  sopraindicato  (se  A  =:  B e  H  — C,  A  =C),  come  anche  l'assioma  deirargomento  a foj'tiijri.'souo  delle  lorme  particolari  di  (piest  assioma  ge- nerale: La  relazione  di  una  illazione  è  una  relazione comiX)sta  delle  due.  Tutti  (jucsti  assiomi  sono  delle  ne- cessità iJi^mitive  e  irriduttibili  del  nostro  pensiero.  Così  il sillogismo  non  è  fondato  sui  principii  d'identità  e  di  con- traddizione; ma  esso  non  è  che  un  caso  della  riduzione  di due  relazioni  atl  una  sola,  o  della  conìposizione  delle  re- lazioni (V.  Liard  Lo(jici  ine/  lesi  contemporanei,  cap.  4^;  (1). (l)  Inlevans  si  riirovaiio,  in  uiraltra  foriua,  iieì  prìiK-4iMÌ  t^ssc^n- /ialmcntt'  identici.  L'unico  processo  del  ragionamento  è  la  sosti- tuzione dei  simili.  La  logica  generale  procede  per  sostituzioni, Xkcrcliè,  in  ogni  relazione,  una  cosa  è  oon  un*  altra  cosa  nello j=ftesso  rapiM3ito  in  cui  essa  è  con  una  cosa  identica,  simile  o eqiiivalente  a  questa,  e  in  un  insieme  noi  possiamo  rimi)iaz- zarc  una  parte  per  il  suo  equivalente  senza  alterare  il  tutto.  11 rnj2:ionamento  matematico  i»  un  caso  di  questa  so.stituzione.  A^-H: S   11  fondo  di  tutte  queste  affermazioni,  in  ciò  che esse  hanno,  secondo  noi,  di  erroneo,  consiste  in  questi  due punti  :  che  delle  conoscenze  dovute  all'esperienza  vengono considerate  come  delle  intuizioni  primordiali  della  ragio- noi  i>ossiamo  sostituire,  in  ogni  relazione,  H  ad  A  ed  A  a  U.  Se H— <:,  sostituiamo  A  t\U  ed  abitiamo  A=^(:.  Così  nelle  argom.onta- zioni  ordinarie  noi  possiamo  sostituire  un  tennine  ad  un  altro, (luado  sappiamo  che  entrambi  si  riferiscono  alle  stesse  identiche cose:  p.  e.  La  luna  è  il  satellite  della  terrò:  ora  la  luna  è  senza atmosfera  e  senza  mari  :  duiKiue  il  satellite  della  terra  è  senza atmosfera  e  senza  mari.  Il  sillogismo:  è  fondato  sullo  stesso  i»ro- cesso  di  sostituzione.  Sia  p.  e.  il  sillogismo:  I  metalli  sono  condut- tori deirelettricità  ;  il  sodio  è  metallo;  dunque  il  sodio  è  condut- tore deirelettricità.  Chiamiamo  Sodio  A,  Metallo  li,  e  Conduttore delTeleltricità  f\  Abbiamo  A  =  A  B,  H  --^  B  C:  nella  prima  identità a  B  sostituiamo  il  suo  eipiivalente  B  C,  abì:)iamo  A  ^^  A  B  C,  o, rinij^iaz/ando  i  simboli  per  le  parole  :  Sodio  -  metallo  sodio  :  me- talli metalli  conduttori  deirelettricità:  dunque  sodioV=  metallo sodio  conduttore  dell'elettricità  (V.  Liard  Logìr/  infilasi  e.  (>,  e levons  Mannaie  rll  JjJdìca  (Manuali  ÌIocpUì   e.  14). 11  sistema  di  levons  è  certamente  molto  ingegnoso,  tanto  \mi che  io  stesso  ì>rincii>io  della  sostituzione  può  applicarsi  alla  sfu'e- gazioiKi  del  ragionamento  per  analogia.  Tuttavia  (juesto  princ-ipio non  potreì)l3e  passare  per  una  rigorosa  generoliz/azione  scientilica, perchè  i  fatti  che  si  liuniscono  in  una  unica  formula  generale  non sono  essenzialmente  identici,  ma  dispaniti.  Dei  casi  che  si  pn^sen- tano  come  paralleh,  rieiitrtmo  al  contrario  gli  uìii  negli  altri  :  le sostituzioni  in  matematica  non  sono  infatti  flei  casi  distinti  did sillogismo  e  dall'  induzione  e  paralleli  ad  essi,  poi-chù  queste  so- slitnzioni  si  fanno  per  l'applicazione  degli  assiomi,  ({uindì  mediante sillogismi  le  cui  i)remesse  maggiori  sono  delle  induzioni. Inoltre  i>ef  le  sostituzioni  dei  termini  nella  logica  formale  il  pen- siero non  fa  alcun  j^rogn^sst»,  e  (jueste  sostituzioni  sf)no  governate dal  principio  dell'  identità  :  ma  le  sostituzioni  in  mjdematica  co- stituiscono un  vero  pwgresso  del  ]*eni<iero,  e  sono  fondate  su  delle leuii:i  reali  <ìei  fenomeni,  sulle  induzioni  ultime  ìnt/)rno  jdle  corre- lazioni generali  Irti  le  eguaglianze Boote  ha  pure  fondato  il  sillogismo  sul  prìncii»io  matematico della  sostituzione.  Egli  sostiene  che  le  leggi  ultime  della  logira sono  matematiche,  che  esse  sono  identiche  con  le  leggi  del  nu- mero, e  fa  un'esposizione  della  logica  sotto  forma  di  calcolo.  Nel- V  applicazione  al  sillogismo,  il  suo  metodo  consiste  a  coìidìuiarc ne,  e  che  delle  inferenze  puramente  apparenti  o  verbali si  mettono  allo  stesso  rango  che  le  inferenze  reali.  In quanto  al  primo  noi  ne  abbiamo  già  parlato,  e  non  oc- corre, di  ritornarvi;  ma  non  sembrerà  forse  inopportu- qualche  riflessione  suUaltro. due  equazioni  al  posto  delle  due  premesse,  per  arrivare  a  una terza  equazione  ehe  rappresenta  la  conclusione.  Siano  le  premes- se del  sillogismo  : Tutti  iili  Xs  sono  Ys,  Tutti  gli  Ys  sono  Zs, clie  noi  possiamo  leggere,  per  attaccarvi  un  senso  : Tutti  gli  uomini  sono  animali,    Tutti  gli  animali  sono  morlali. Boole  esprime  le  due  premesse  sotto  forma  d'equazioni,  così: Tutti  gli  Xs  sono  Ys  x  =  cy Tutti  gli  Ys  sono  Z<  //  =  i:^z. La  lettera  r  è  il  segno  della  iiarticolarità  :  essa  uìostra  die  gli uomini  non  sono  tutti  gli  animali,  ma  solo  una  parte  di  questi,  e che  gli  animali  non  sono  tutti  i  mortali,  ma  solo  una  parte;  che animale  è  più  esteso  di  uomo,  e  mortale  di  animale.  Boole  nella prima  e(iuazione  sostituisce  ad  y  il  suo  valore  nella  seconda  equa- zione, ed  ottiene  cosi  la  terza  equazione,  che  esprime  la  conclu- sione del  sillogismo  :  a?  —  cc^z,  cioè  :  Tutti  gli  Xs  sono  Zs,  cioè ancora:  Tutti  gli  uomini  sono  mortali  (i  due  r  indicano  che  non sono  tutta  la  classe  dei  mortali,  ma  solo  una  parte  d'  una  parte/ (V.  Liard  Logici  inglesi  cap.  5.  e  Bain  Logica  lib.  2.  cap.  2). 11  Bain  osserva  su  ({uesto  processo  di  Boole  :  Se  si  accorda  che le  condizioni  del  silloggismo  sono  state  convenientemente  espresse ilai  simboli  di  Boole,  e  che  la  riduzione  algebrica  s'applica  giu- stamente alle  proposizioni,  è  naturale  di  ammettere  che  l'assioma del  sillogismo  è  l'assioma  algebrico,  che  permette  di  sostituire ad  /y,  in  un'equazione,  il  suo  equivalente  nell'altra,  cioè  Due  quan- tità eguali  ad  una  terza  sono  eguali  fra  loro  (più,  ci  permetteremo di  aggiungere  per  essere  più  esatti,  l'assioma,  che  Aggiungendo a  (juantità  eguali  quantità  eguali,  le  somme  sono  eguali.  Quest'as- sioma, con  quelli  che  ne  derivano  :  Sottraendo,  moltiplicando,  di- videndo quantità  eguali,  ecc.,  fa  che  il  membro  dell'equazione  in cui  si  opera  la  sostituzione  ha,  dopo  la  sostituzione,  lo  stesso  va- lore ;  il  primo  assioma  fa  che  1'  equazione  sussista  ancora,  dopo la  sostituzione).  Ora  è  in  virtù  di  questi  assiomi  forse  che  Boole opera  la  sostituzione  nelle  sue  equazioni  del  sillogismo  ? Cominciamo  per  istabilire  un  principio  assai  sempUce, ma  che  è  sfuggito  a  quei  fllosofì  che  hanno  confuso  le inferenze  apparenti  con  le  reali.  Per  distinguere  queste due  sorta  d'inferenze,  bisogna  tradurre  le  forme   verbali a? ry operando  la  sostituzione. ce    /^ . Non  bisogna  lasciarsi  illudere  dai  snnboli:  (pii  —  non  è  il  segno dell'eguaglianza,  ma  è  per  un'estensione  arbitraria  del  linguaggio algebrico  che  esso  viene  impiegato.  Quali  saranno  infatti  le  cose eguali?  Non  certamente  i  termini,  cioè  le  parole,  simboleggiati  da questi  segni.  Saranno  duncjue  le  cose  reali,  che  questi  termini  de- notano] Nemmeno,  perchè  le  cose  che  corrispondono  ad  //  non sono  eguali  a  (luelle  che  corrispondono  a  c-z,  ma  sono  le  stesse e  identiche  cose,  e  per  conseguenza  non  può  esservi  sostituzione  al- <'una,  i^erchè  una  cosa  non  potrebbe  sostituirsi  a  se  stessa.  O  sa- ranno forse  i  concetti,  che  essi  significano?  Nemmeno  questi,  perchè e  non  è  che  il  segno  indeterminato  della  particolarizzazione;  quindi re  non  è  uguale  a  ry  né  //  a  e':-,  ry  polendo  essere  egualmente, non  ;r,  ma  un'altra  parte  qualuncpie  del  genere  //,  e  r^:\  non  //, ma  un'j^ltra  parte  ([ualunciue  del  genere  z.  Si  dirà  che  il  segno r  indica,  non  semi^licemente  che  uomini  è  una  parte  di  animali e  animali  una  pai-te  di  mortali,  ma  l'attributo  che,  aggiunto  ad animale,  dà  nomo,  e  quello  che,  aggiunto  a  mortale,  dà  animaleì Ma  nemmeno  in  (luesto  caso  potrebbe  parlarsi  di  sostituzione,  perchè il  concetto  //  sarebbe  lo  stesso  e  identico  concetto  che  r^z-,  e  e  z non  essendo  che  gli  elementi  di  cui  quello  è  composto.  Le  cose eguali  non  possono  essere  duncjue  né  i  termini  ne  le  cose  reali  né i  concetti  significati  da  questi  termini,  e  il  segno  r-  non  è  quin- di realmente  il  segno  dell'eguaglianza.  La  verità  è  che  (junndo Boole  scrive:  //  r^^  egli  vuol  dire  semplicemente  che  r^z  può  sem- pre sostituirsi  ad  //.  Ora  se  è  cosi,  (piando  egli  nella  equazione:  ^js =--ry,  sostituisce  ad  y  r'.-,  (jucsta  sostituzione  non  è  altro  che  l'ap- l>licazìone  particolare  del  principio  generale,  già  espresso  iiKjUesta forma:  y  r'z.  Questa  sostituzione  non  è,  in  altri  termini,  che  la conclusione  di  questo  sillogismo:  Si  può  sempre  sostituire  r'z  ad //  in  qualunque  proposizione  //  si  trovi;  ma  questa  espressione  :  v ^ry,  che  Boole  chiama  un'eciuozione,  è  una  proposizione  in  cui si  trova  //;  dunque  in  questa  espressione  si  può  sostituire  r\:-  ad  //. Cosi,  lungi  che  il  sillogismo  sia  fondato  sulla  sostituzione,  è  al  con- trario la  sostituzione  che  è  fondata  sul  sillogismo.  Se  noi  ora  do- mandiamo a  Boole  donde  sa  egli  che  //=r^-?,  cioè  che  r'z  può  sempre sostituirsi  ad  //,  egli  non  potrà  dare  al  fondo  una  ragione  che  sia dirVerente  dnlla  vecchia  massimo:  nota  notae  est  nota  rei  ipsius. 262 SAGGIO  PIUMO ^-^j' . nei  fatti  reali  e  concpeti  clic   esse  significano  :  dire  che una  proposizione  è  vera  è  dire  semplicemente  che  i  l'atti reali  e  concreti,  che    sono  da    essa  significati,   esistono realmente;  cosi  tutte  le  volte  die  la  verità  di  date  pro|XK sizioni  implica  resistenza  di  certe  cose  o   di  certi   leno- ineui,  e  resistenza  di  queste  cose  o   di  (luesti   lenonieni stessi   basta,   senzaltro,  perchè   una  nuova   proposizione sia  vera,  allora  il  passaggio  dalle  prime  proposizioni  alla è,  non  un'inferenza  reale,  ma  api)arente.  I/infe- renza è  reale,  quando  invec3  l'esistenza  dei  fatti  implicati dalla  verità  di  proposizioni  date  non  basta  per  se  stessa perchè  la  nuova  proi)Osizione,   a  cui  si    passa,  sia   vera, bisognano  perciò  altri  fatti  nuovi,   sia  d'alti^nde  che questi,  nel  nostro  pensiero,  siano  separabili  dai  primi,  sia che  siano  legati  ad  essi  d'una  maniera  inseparabile.  Fac- ciiuno  ora  lapplicazionc  del  nostro  principio  a  queste  pre* tese  inferenze  :  Se  A  è  prima  di  B  e  B  prima  di  (:,  A  è prima  di  C;  ovvero:  se  A  è    simultaneo  con  B  e  B  è  si- multaneo  con  C,  A  è  simultaneo  con  C.  L'  atiermazione delle  conseguenze  importa   forse  dei    fatti  nuovi  che  si aggiungono  ai  fatti  implicati  neUaHermazione  delle  pre- messe? É  evidente  che   no:    tuttavia    si   replicherà   che, Infatti  Ui  lettera  r'  indica  unicamente  die -:  è  i>iii  esteso  di^,  e  ciò vuol  dii'c  die  //  è  il  so<i-ixetto,  e  .-  ratttil)ato;  cosi  scrivendo-  // --= ^-,  %\  vuol  du-e  semplicemente  che  tutte  le  volte  in  cui  vi  ho  in una  proposizione  il  predicato  //,  si  può  sempre  del  sog;>etto  di  questa proposizione  i)redicare  il  predicato  di  //.  K  duiKiue  «luesta  massima die  è  il  vero  princifuo  su  (^ui  si  fondano  i  processi  di  Hoole  relativi al  sillogismo,  massima  die  non  è  se  non  una  generalizzazione  ti- rata dalle  illazioni  valide  die  noi  ab})iamo  giò  fatte  senza  Taiuto né  di  (juesta  né  di  altre  massime,  e  in  virtù  del  semplice  principdella  coerenza,  e  die  non  ha  niente  di  comune  con  gli  assiomi  su cui  è  fondato  il  processo  della  sostituzione  in  matematica. QJieste  stesse  osservazioni  possono  applicarsi  al  processo  di  so- stituzione ammesso  da  levons. è  implicata  la  coesistenza  di  A  e  di  C,  e  che  per  V  aller- mazione  di  quest'ultima  coesistenza  non  vieiìe  posto  al- cun fatto  nuovo,  che  non  fosse  contenuto  nella  posizio- ne delle  <lue  prime  coesistenze,  nondimeno  una  nuova  re- lazione viene  affermata,  (luella  tra  A  e  C,.  la  quale  non lo  era  ancora,  (juando  si  afìerma va  la  relazione  di  A  con  B e  di  B  con  C.  Cosi  neirassioma  matematico  suireguaglian- za  mediata:  «Se  A  è  uguale  a  B-  e  B  uguale  a  C,  A  e  C sono  eguali»,  per  le  due  prime  atìermazioni  le  tre  gran- dezze vengono  determinate  in  modo,  che  la  terza  affer- mazione non  importa  in  esse  alcuna  nuova  determinazio- ne, e  ciò  che  si  afferma  di  nuovo  nella  conseguenza  è un'altra  relazione,  (juella  deireguaglianza  tra  A  e  C,  re- lazione che  è  diversa  dalle  relazioni,  cioè  dalle  uguaglian- ze, tra  A  e  B  e  tra  B  e  C.  Ora  se  invece  di  uguaglianze si  tratta  di  coesistenze,  il  caso,  si  dirà,  ò  lo  stesso:  la  con- clusione non  atlerma  niente  di  nuovo  sulle  cose  stesse, ma  all'erma  una  nuova  relazione  tra  le  cose,  che  le  pre- messe non  avevano  ancora  aMermato. Io  credo  che  tra  i  due  casi,  lassioma  matematico  sulle etrua'^lianze  e  il  preteso  assioma  sulle  coesistenze,  vi  sia una  difterenza  reale:  affermando  Teguaglianza  fra  A  e  C, dopo  aver  alTerinato  Teguaglianza  tra  A  e  B  e  (juella  tra B  e  C,  si  afferma  realmente  un  fatto  nuovo,  un  fatto  sul> ])iettivo,  se  non  un  fatto  obljiettivo,  perchè  le  eguaglianze sono  dei  fenomeni  subbiettivi,  delle  percezioni,  reali  o  pos- sibili, che  si  distinguono  realmente  dalle  percezioni  dei  fe- nomeni oljbiettivi  tra  cui  le  eguaglianze  si  staljilis^ono. Dicendo  che  A  è  uguale  a  C,  io  intendo  (Hre  che  io  o  al- tri i)Otremmo  avere  la  percezione  attuale  deireguaglian- za tra  (pieste  grandezze,  facendole  coincidere  perfettamen- te runa  con  l'altra,  o  misurandole  e  trovando  che  esse hanno  la  stessa  misura,  cioè  facendo  coincidere  Tuna  e Taltra  uno  stesso  numero  di  volte  con  uria  stessa  gran- dezza. Ora  questi  fatti,  significati  dalla  proposizione:  A  è Uguale  a  C,  sono  dei  l'atti  nuovi,  che  non  sono  compresi tra  i  fatti  significati  direttamente  dalle  proposizioni:  A  è uguale  a  B,  B  è  uguale  a  C.  Ma  niente  di  simile  potreb- be dirsi  per  le  coesistenze,  perchè  una  coesistenza  o  una sequenza  non  è  un  nuovo  fenomeno,  distinto  dai  fenome- ni che  si  dicono  coesistere  o  seguirsi;  non  è  che  un  or- dine nel  tempo,  cioè  un  modo  di  esistere,  di  questi  feno- meni: ora  dato  l'ordine  nel  tempo  tra  A  e  B  e  tra  B  e  C, è  dato  già  con  ciò  stesso  quello  fra  tutti  e  tre  questi  fe- nomeni, e  quindi  pure  tra  A  e  C.  É  perciò  che  l'assioma sulle  eguaglianze  esprime  im'inferenza  reale,  mentre  il preteso  assioma  sulle  coesistenze,  o  quello  sulle  sequenze, non  esprime  che  un  inferenza  apparente. Lo  stesso  deve  dirsi  delle  proposizioni  :  «  Se  A  è  fra- tello o  camerata  di  B,  e  B  è  fratello  o  camerata  di  C, A  e  C  sono  fratelli  o  camerati  »,  e  di  tutte  le  altre pretese  inferenze,  che  si  sono  immaginate  o  possono  im- maginarsi sullo  stesso  tipo.  Se  esistono  i  fatti,  i  (piali sono  le  condizioni  percliè  le  due  j^rime  affermazioni  siano dette  vere,  questi  fatti  stessi^  senz'altro,  bastano  perchè la  terza  aMermazione  sia  detta  anch'essa  vera.  Nò  il  caso è  differente  per  la  vecchia  arguzia  menzionata  da  Spencer: vi  hanno  più  i)ersone  in  una  città  che  capelli  sulla  testa di  una  persona  qualunque,  dunque  vi  hanno  almeno  in questa  città  due  persone  con  un  numero  eguale  di  capelli. È  evidente  che  se  esistono  i  fatti,  i  quali  permettono  di dire  che  la  premessa  è  vera,  gli  stessi  fatti,  senz'altro, permetteranno  i)ure  di  dire  che  è  vera  la  conseguenza. Tuttavia  qui  vi  sarebbe  una  difficoltà  al  punto  di  vista della  teoria  concettualista:  la  premessa  non  determina con  precisione  quali  siano  i  fatti  particolari  e  concreti, con  tutte  le  loro  circostanze  individuanti,  a  cui  essa  cor- risponde. Perchè  essa  sia  vera,  è  certo  che  certi  fatti particolari  e  concreti  devono  esistere,  e  questi  fatti  non possono  esistere  d'una  maniera  astratta  e  indeterminata, come  le  entità  degli  scolastici,  ma  con  tutte  le  circostanze particolari  che  appartengono  alle  cose  concrete  e  deter- . Ma  la  proposizione  non  pone  alcuna  di  queste circostanze  particolari:  cosi  essa  non  afferma  niente  sul numero  delle  persene  che  esistono  nella  città,  sulla  loro quahtà,  e  su  tutti  i  caratteri  particolari  che  fanno  di  cia- scuna di  queste  persone  un  tal  individuo  determinato;  essa non  afferma  dunque  che  una  condizione  astratta  dei  tatti concreti,  la  quale  si  verifica  in  tutti  i  differenti  casi  pos- sibili, in  cui  la  proposizione  non  cessa  di  essere  vera La  stessa  indeterminazione  vi  ha  pure  nella  conclusione  : questa  afferma  un'altra  condizione  astratta,  alla  quale  i fatti  sono  necessariamente  sottomessi  tutte  le  volte  che essi  sono  sottomessi  alla  prima,  e  l'inferenza  é  reale,  in quanto  afferma  la  correlazione  necessaria  fra  queste  due condizioni  astratte,  la  necessità  die  la  seconda  segua  la prima. Questo  potrebbe  dirsi  al  punto  di  vista  della  teoria concettualista  :  ma  noi  sappiamo  che  una  proprietà  o  una condizione  astratta  non  è  altro  che  la  possibilità  di  appli- care ad  una  cosa  determinata  o  a  dei  fatti  determinati una  certa  forma  verbale;  perciò  la  correlazione  necessaria fra  due  proprietà  o  condizioni  astratte  non  è  altro  che la  correlazione  necessaria  tra  due  forme  verbali,  di  cui se  l'una  è  apphcabile,  l'altra  è  pure  necessariamente  ap- plicabile. «La  proposizione  non  enuncia  che  una  condi- zione astratta»:  ciò  vuol  dire  semplicemente  che  le  parole non  sono  perfettamente  determinative  ;  non  determinano d'una  maniera  assoluta  i  fenomeni  particolari  di  cui  esse sono  i  segni.  Le  parole  essendo  generali,  non  possono  e- sprimere  perfettamente  l' individuale,  ciò  che  è  assoluta- mente determinato:  applicando  la  parola  uorao,  non  affer- miamo niente  del  colore,  della  statura  e  di  tutte  le  parti- colarità infinite,  che  sono  proprie  dell'individuo,  qualunque €sso  sia,  a  cui  il  nome  viene  applicato.  Se  si  dice:  vi  ha 2fi(i là  un  uomo,  un'  infinità  di  rappresontazioni  particolari j>ossono  ugualmente  essere  suggerite  al  nostro  spirito;  è |)0ssil)ile  che  vi  sia  un  uomo  bianco  o  nero,  di  statura alta  o  di  statura  bassa,  ecc.  Qualunque  sia  di  ([uesti  ca- si possibili  quello  die  si  verifica,  la  propos  izione  è  sempre vera,  ma  perchè  la  proi^osizione  sia  vera,  uno  o  un  altro di  questi  casi  passibili  deve  verificai'si  La  parola  non determina  dunque  i  tatti  reali  da  essa  indicati;  ma  ci  pre- senta un  numero  infinito  di  jìos  sibilità,  tra  cui  si  è  in certa  guisa  lilxnù  di  scegliere.  Essa  traccia,  i>er  dir  cosi> c^mi  ui  c3i*:ihio  di  pr>>i!jilità:  uni  o  un'altra  delle  [xds- sil)ilità  comprese  dentro  il  cerchio  deve  effettuarsi,  ma nessuna  di  (luellc  che  re^stano  fuori  del  cerchio  può  effet- tuarsi, se  la  enunciazii»ue  è  vera.  Ora  se,  (jualunque  sia quella  fra  le  possibilità,  incluse  da  una  pro[X)sizione,  che si  verificili,  i  fatti  saranno  sempre  tali  che  essi  basteraimo, senz'altro,  i)erchè  una  seconda  proposizione  sia  vera,  vi ha  allora  un  passaggio  possil)ile  dalla  prima  proposizione alla  seconda,  che  noi  possiamo,  se  vogliamo,  chiamare un'inferenza,  purché  sia  convenuto  che  1*  inferenza  è  in ({uesto  caso   semplicemente  verijale  o  apparente,  e  non reale. §.  25.*'  Le  stesse  osservazioni  i)Ossono  applicarsi  al sillogismo  numericamente  definito:  La  più  parte  dei  B sono  C,  la  più  parte  dei  H  sono  A,  dunque  alcuni  A  sono C.  Supponiamo,  come  fa  Spencer,  che  la  classe  H  raj)- presenti  gli  animali  d'una  masseria,  C  i  montoni,  e  A  gli animali  malati;  ed  esponiamo  cosi  il  sillogismo  in  termini più  concreti  :  La  più  parte  degli  animali  della  masseria sono  montoni;  la  più  parte  degli  animali  della  masseria sono  malati;  dunque  vi  hamio  tra  gli  animali  della  mas- seria alcuni  montoni  malati.  Si  i)aragoni  (questa  infe- renza con  quest'altra:  Tutti  i  montoni  che  io  ho  cono- sciuti ruminavano  ;  dunque  i  montoni  della  masseria  ru- minano.   Qui  i   latti  significati   dalla   ì)remessa  e  i  fatti significati  dalla  conseguenza  sono  dei  fatti  distinti:  essi esistono  separatamente  nella  realtà,  e  noi  i)Ossiamo  rap- separatamente.  I  fatti  del  primo  gruppo  sono certamente  in  un  tal  rapporto  con  ({uelli  del  secondo  gru[)- po,  che  la  verità  dei  primi  ci  permette  di  ammettere  an- che la  verità  dei  secondi.  Ma  ciò  non  toglie  che  resistenza fatti  significati  dalla  prima  proposizione  :  «  i  montoni che  ho  conosciuto  ruminavano  >,  non  importa  i>er  se  stes- sa la  verità  della  seconda  proposizione  :  «  i  montoni  della masseria  ruminano  »;  la  verità  di  (|uesta  seconda  propo- sizione implica  l'esistenza  di  un  altro  gruppo  di  fatti,  i quali,  quantunque  siano  logicamente  legati  con  quelli  del primo  gruppo,  ne  sono  però  assolutamente  distinti.  In  (pie- sto  (!aso  perciò  l'inferenza  è  reale.  Ma  nel  sillogismo  nu- mericamente definito  di  cui  è  quistionc,  il  caso  non  è  lo stesso.  Gli  stessi  latti  implicati  dalla  verità  delle  due  pre- messe, importano  pure  per  s(3  stessi  la  verità  della  con- seguenza. Se  gli  animali  della  masseria  sono  in  tali  con- dizioni che  le  due  premesse  siano  vere,  ciò  basta,  sen- z'altro, perchè  la  conseguenza  sia  pure  vera.  I  fatti  che permettono  di  enunciare  le  due  prime  pi^oposizioni,  sono gli  stessi  fatti  che  permettono  di  enunciare  la  terza  pro- IX)sizione.  Le  duo  prime  proposizioni,  in  verità,  non  de- terminano questi  fatti  d'una  maniera  assoluta:  ma  ciò non  toglie  che  i  fatti  reali,  di  cui  esse  sono  i  segni, siano  dei  fatti  assolutamente  determinati;  poiché  le  pro- posizioni non  significano  delle  astrazioni,  le  quali  non  e- sistono  né  nella  realtà  né  nel  .nostro  pensiero,  ma  dei  fatti concreti  e  particolari.  I  fatti  reali,  di  cui  le  due  piime proposizioni  sono  i  segni,  sono  dunque  gli  animali  della masseria  con  tutte  le  circostanze  |)articolari  con  cui  que- sti esistono.  Ma  le  proposizioni  non  determinano  che  cer- te condizioni  astratte  dei  fatti  reali  significati:  ciò  vuol dire  che  esse  lasciano  aperto  il  campo  ad  un  gran  nu- mero di  possil>ilità,delle  quali  qualunque  siano  quelle  che  si verifichino,  le  proposizioni  non  cesseranno  di  essere  vere. «  La  più  parte  degli  animali  della  masseria  sono   mon- toni *:  questa  proposiziono  ci   permette  di  fare  un'infinità di  supposizioni  sul  numero  degli  animali,   sulla  propor- zione precisa  dei  montoni  con   gli  altri,   sulla  specie   di questi   altri,    sullo   stato   di   salute   o  di  malattia   e  su tutte  le  altre  condizioni  particolari   di  ciascun  individuo. La  proposizione   segna  i  limiti  dentro  cui   possiamo   fa- re delle  supposizioni  :  una  o  un'altra   di  queste  deve   ei- fettuarsi,  perchè  la  proix)sizione  sia  vera;  una  o  un'altra può  effettuarsi,  la  proposizione  restando  sempre   vera.  11 somi<]cliante  deve   dirsi  deiraltra   proposizione:  «  La   più parte  degli  animali  sono  malati  ».  Ora,  tra  le  possibilità a  cui  queste  due   proposizioni  lasciano  aperto  il   campo, qualunque   siano  quelle  clie  si  verilìchino,   in  ogni   caso saranno  già  date  le  condizioni  perchè  sia  vera  anche  la terza  proposizione:  «  Alcuni  montoni  sono  malati  ».  In  al- tri termini,  qualunque  sia  la  forma  particolare  in  cui  e- sistono  i  fatti  obbietivi  di  cui   le  due  prime   proposizioni sono  i  segni  ;  basta  che  questi  fatti  siano  tali  che   questi segni  siano  applicabili,   perchè  altri   segni,  cioè  la   terza proposizione,  siano  anch'essi  applicabili,  e  non  vi  ha  bi- sogno perciò  dell'esistenza  di  altri  fatti  distinti.  In  un  tal caso   quindi   l'inferenza  non  è   reale,  ma   semplicemente apparente. Ciò  che  vi  ha  di  particolare  a  questa  sorta  di  sillogi- smi è  che  la  verità  affermata  dalla  conseguenza  non  è, come  nel  sillogismo  propriauiente  detto,  contenuta  nella verità  affermata  dall'una  delle  premesse:  essa  è  però  c(m- tenuta  in  quella  di  entrambe  le  premesse,  se  si  prendono, non  isolatamente,  ma  congiuntamente.  Come  due  propo- sizioni, prese  congiuntamente,  possono  significare  ciò  che non  [)Ossono  nò  l'una  né  l'altra  prese  isolatamente?  Ciò avviene  per  la  proprietà  che  hanno  i  simboli  verbali  di determinarsi  reciprocamente  nel  loro  significato,  quando vengono  applicati  agli  stessi  oggetti.  I  significati  delle  pa- role 0  si  addizionano  l'uno  all'altro,  o  si  determinano  l'uno con  l'altro.  «Un  amico  e  un  vicino  di  casa»  è  un  esempio del  primo  caso;  «un  amico  vicino  di  casa»  un  esempio  del secondo.  La  parola,  abbiamo  detto,  traccia  come  un  cer- chio di  possibilità,  includendo  quelle  comprese  dentro  il cerchio  (di  cui  una  o  un'altra  deve  etlettuarsi  perchè  l'e^ nunciazione  sia  vera),  ed  escludendo  quelle  che  restano  fuo- ri del  cerchio.  Ora  quando  due  nomi  si  predicano  dello stesso  soggetto,  noi  abbiamo  necessariamente  due  cerchi di  possibilità  che,  per  dir  cosi,  s'intersecano:  le  possibihtà incluse  nel  solo  spazio  proprio  a  ciascuno  dei  due  cerchi, vengono  escluse  dall'altro  cerchio,  e  non  restano  che  quel- le comprese  nello  spazio  comune  ai  due  cerchi.  È  cosi che  i  significati  delle  parole  (ciò  che  ordinariamente  si  di- ce: i  concetti)  si  determinano  reciprocamente.  Ora  lo  stesso che  per  i  nomi  avviene  per  le  proposizioni,  quando  esse si  applicano  simultaneamente  alle  stesse  cose.  Ciascuna di  due  proposizioni,  presa  isolatamente,  ci  presenta  un campo  hmitato  in  cui  è  racchiuso  un  numero  infinito  di possibilità,  fra  cui  la  nostra  immaginazione  può  scegliere; ma  riunendo  le  due  proposizioni,  il  campo  delle  possibili- tà diviene  più  limitato  di  quello  che  era  proprio  all'una  o all'altra  per  sé  sola.  In  questo  modo  avviene  che  un'in- ferenza (apparente),  la  quale  non  è  giustificata  né  dall'una né  dall'altra  delle  premesse  prese  isolatamente,  lo  è  tutta- via dalle  due  premesse  prese  congiuntamente  (1). (1)  Questo  non  operò  che  uno  dei  modi.  Anche  nei  veri  sillogi- smi per  giustificare  la  conclusione  occorrono  due  premesse  ;  ma in  essi,  come  insegnano  i  logici,  i  fatti  affermati  nella  conclusione sono  compresi  nel  significato  della  sola  premessa  maggiore,  la  mi- nore non  servendo  che  a  far  vedere  che  vi  sono  compresi. Può  sembrare  strano  che  delle  inferenze  le  quali,  per  essere fatte,  esiggono  un  certo  esercizio  dell'ingegno,  siano  ciò  non  per- tanto apparenti  o  verbali,  mentre  al  contrario  delle  inferenze  che L'illusione  creata  dal  concettualismo,  o  piuttosto sorgente  dalla  stessa  fonte  da  cui  il  concettualismo,  di credere,  confondendo  le  parole  con  le  idee,  che  quando vi  ha  un  passaggio  da  date  proposizioni  a  qualche  altra noi  non  facciaiiu)  per  il  solito  che  duna  maniera  i»iiranientc  mec- canica, sono  reali.  La  (ìiffìeoltà  in  (jiiesti  casi  (rinferenza  consìste nella  adequata  interpretazione  dei  siml)oli:  la  interpretazione  dello forme  verbali  può  esiirere  in  certi  casi  il  concorso  dello  facoltà l»iù  elevate  deirintelliizenza,  come  noi  vediamo  nelle  quistioni  con- troverse della  -iiirisprudenz^iì,  in  cui  non  si  tratta  che  dinteri>re- tare  le  parole  del  leiiislatore. Del  resto  non  si  potrel)be  attermare  senza  riserva  che  il  silloiii- smo  numericamente  definito  sia  un'  inferenza,  non  reale,  ma  aj)- ]»arente  Ciò  ci  seiid>ra  vero  del  sillojjrismo  clic  Spencer  adduce l>er  esempio,  ma  non  di  (luclli  a  cui  Morgan  applica  proprianu^nte la  designazione  di  sii  lori  ì^iìit  a  ^/uantità  nume  rict  unente  (/cfinita. (juesti  sillo.LTismi  lianno  luogo,  ([uando  sono  dati  dei  numeri  esatti. W  e.,  in  KM^i  casi  di  non  importa  che  cosa  (siano  10(i  animali  <lella masseria  )  7o  sono  A's  (  montoni  ),  e  (»)  sono  Ys  { malati  )  ;  dunque almeno  Ti»  -!-  <J()  --  ii>0  =-  30  A's  (montoni)  devono  essere  Vs  (malati). In  questo  caso  non  i>uò  dirsi  che  vi  sia  uaa  semplice  inferenza  ai»- X>arente,  i>erchè  ]  er  trovare  il  numero  'M)  Insognano  delle  inferenze reali.  (Questo  numero  esatto  non  può  trovarsi  senza  fare  delle  o[»e- razioni  sui  numeri  dati;  ocn  (lueste  operiizioni  imi-licano  l' ai>pli- cazione  degli  assiomi  mateuìatici  sulle  eguaglianze,  e  perciò  delle inferenze  reali. In  verità  il  sillogismo  a  quantità  numericamente  detinita,  sotto la  t'orma  api>arente  del  sillogismo,  non  è  che  un  vero  problema  di matematica,  di  cui  le  premesse  presentano  i  dati,  e  la  conseguenza dà  la  soluzione.  Es,so  non  dillei'isce  da  un  altJ'o  problema  <iualun- que  di  aritmetica,  se  non  percliè  i  dati  del  problema  possono  ve- nire esposti  in  due  proposizioni,  presentando  cosi  una  somiglianza con  le  «lue  premesse  del  sillogismo. K  evidente  clic  né  i  sillogismi  a  «juantità  numericamente  delì- nita  né  quelli  (die  Morgan  chiama  a  (jaantltà  tìCKjtosta  non  sono dei  veri  sillogismi  :  le  regole  del  sillogismo  non  possono  applicai'si ad  essi.  Bisognerebbe  rìserbare  il  nome  <li  sillogismi  a  quelle  in- ferenze in  eui  vi  ha  l'applicazione  di  un  principio  generale  a  <jual- clie  caso  i>articr>lar.^  :  è  a  questa  specie  d'inferenza  che  si  api>li- cano  di  tutto  punto  le  massime  e  le  regole  odinarie  sul  sillogismo. D'altronde  (piesta  specie  d'inferenza  merita  di  occupjuv  un  posto proposizione  distinta,  vi  sia  necessariamente  un  i)roaresso i^ale  del  f>ensiero  e  una  vera  inferenza;  questa  illusione, dico,  è  tanto  naturale  al  nostro  spirito,  che  gli  stessi  i)ro- rnotori  della  vera  teoria  del  ragionamento,  la  nominalista, non  ne  sono  stati  del  tutto  esenti.  11  Mill  e  il  Bain  si  sono  an- eli essi  lasciati  sedurre  da  questa  falsa  analogia  tra  le  infe- renze puramente  apparenti  della  logica  formale  e  le  inferen- ze  i-eali  della  matematica.  Per  evitare  la  difficoltà  che  il  ra- gionamento sia  una  semplice  petizione  di  principio,  e  siàe- gare  al  tempo  stesso  T  intromissione  d^ma  seconda  pro- posizione (la  premessa  minore),  per  cui  un'inferenza  me- diata sì  lUstingue  da  un'  inferenza  immediata,  il  concet- distinto  fra  tutte  le  inferenze  di  cui  è  tjuistione  o  può  essere  (jui- stione  nella  logica  formale,  perche,  se  essa  si  considera  non  lùù isolatamente,  ma  in  connessione  con  l'induzione  anteriore  di  cui la  ^u^Milessa  maggioi^e  è  il  risultato,  noi  abbiamo  il  tipo  a  cui  oimi inferenza  reale  legittima  può  ricomlursi.  Mn  niente  di  tale  può  dirsi di  t^tte  le  altre  inferenze  apparenti  della  logica  formale,  e  non  imi)or- ta  se  abbiano  una  sola  o  due  premesse.  Queste  ijderenze'con  due  pre- messe, le  (juali  non  sono  dei  veri  sillogisnn',  nel  senso  che  è  stato delìnito.  potrebl>ero  cMh\xunv^\  pseuclo  -sillogismi   'Hdi  sono  oltre i  silligismi  numericamente  definiti  di  Morgxuj.  i  sillogismi  con  pre- messe singolari,  e  i  sillogismi  ilK>tetici,  di  <Mn  il  sillogismo  <lis-iun- tivo  e  il  dilenuna   non  sono  che  dei  casi  particolari  (confr.  fìain lib.  1.  e.  3.  ."^(i-sa,  lib.  -1.  e.  1.  Ì'I).  Alcuno  di  (piesti  tipi  non  si  con- forma al  principio  fondamentale  del  sillogisnic»,  ch'ù  espresso  nel (Uctam  ile  omni  et  de  nullo;  alcuni  mm  si  coidbrmano  neimneiio alle  regoki  del  sillogismo:  così  nel  sillofjisnio  numericamente  de- funto SI  conclude  da  premesse  entrambe  pai-ticolari,  nel  ^illoiii^mo ipot^idico  non  vi  hanno  che  due  termini,  e  nel  sillof/ismo  disgiun- tivo con  una  [n^niessa  negativa  si  ha  una  conchisione  aUermati\  a Si  potrebl>cro  i)ure  Hcondurre  alla  stessei  categoria  dei   i»seudo- sillogismi  le  inferenzxr  di  cui  ^  stata  <iuistio-ne  :  Se  A  è  i^rima  <ii  H e  H  lìrima  di  C,  A  é  prima  di  G,  .Se  A  è  fratello  di  H  e  H  ù  fratello di  C.  A  e  C  sono  fratelli,  ecc.,  e  in  generale  tutte  le  inferenze  ap- parenti a  doppia  prem^sa,  clie  non  sono  dei  veii  sillogisnn*.  11  Itain riconditce  alcuni  di  (luesti  tipi  all'inferenza  immediata,  i*erclié,  co- me vodi^emo  appresso,  un'inferenza  mediata  é  jM-r  lui  un'inferenza, non  ai)])arente,  ma  reale. 5  I '  -i il tualismo  mette  da  parte  il  senso  in  estensione  delle  pro- posizioni, e  non  vi  considera  se  non  il  senso  in  compren- sione. Se  non  die,  mentre  secondo  una  delle  dottrine  con- cettualiste  che  noi  abbiamo  incontrate,  cioè  la  dottrina analitica  (quella  di  Hamilton),  i  concetti  si  considerano come  inclusi  V  uno  nell*  altro,  nella  dottrina  di  Mill,  che noi  possiamo  chiamare  sintetica,  si  considerano  invece còme  associati  l'uno  all'altro.  Secondo  questa  dottrina,  la maggiore  atlerma  la  coesistenza  di  due  attributi  o  gruppi di  attributi,  di  quello  indicato  dal  termine  medio  e  di  quello indicato  dal  termine  maggiore;  la  minore  alla  sua  volta afferma  che  Y  attributo  o  gruppo  d' attributi  indicato  dal termine  minore  coesiste  con  quello  indicato  dal  termine medio;  e  di  là  Tinferenza  che  Tattributo  o  gruppo  d'attri- buti indicato  dal  termine  minore  coesiste  con  quello  indi- cato dal  termine  maggiore.  11  fondamento  del  ragiona- mento è  perciò  secondo  il  Mill  questo  principio  :  Due cose  che  coesistono  con  una  terza  coesistono  tra  di  loro, ed  egli  trova  che  questo  principio  rassomiglia  d'una  ma- niera sorprendente  all'assioma  matematico  :  Due  grandezze eguali  ad  una  terza  sono  eguali  fra  di  loro. È  singolare  che  il  Mill  obbietti  al  dictam  de  ornai  et  de rndlo  ((jnidquid  de  omnibus  valet,valet  etiam  de  quibusdam et  de  singidis;  quid(/uid  de  nullo  valet,  nec  de  quibusdam et  singulis  valet)  di  essere  fondato  sulla  dottrina  reali- sta, cioè  sul  sistema  metafisico  che  considera  gli  univer- sali come  delle  entità  per  sé  esistenti  (Logica,  libro  2^ cap.  2^  ),  senza  accorgersi  che  questa  obbiezione  colpi- sce con  una  forza  ben  maggiore  la  sua  propria  teoria. Sia  il  vecchio  esempio  di  sillogismo  :  L' uomo  è  mor- tale, Pietro  è  uomo,  dunque  Pietro  è  mortale.  11  fonda- mento di  questo  sillogismo  è,  dice  il  Mill,  che  delle  cose che  coesistono  con  un  altra  cosa  coesistono  fra  di  loro. Ora  quali  sono  queste  cose  che  coesistono  ?  Sono  i  con- cetti: mortale,  uomo,  Pietro  ?  No,  perchè',  dice  il  Mill,  le cose  di  cui  è  quistione  nelle  proposizioni,  non  sono  i  no- stri concetti,  ma  i  fatti  su  cui  i  nostri  concetti  devono  es- sere fondati  (Filosofia  di  Hamilton,  cap,  ld'',trsiduz Arane, pag.  419  ).  Questo  è  conforme  alla  dottrina  dell'autore, secondo  cui  il  giudizio  afferma,  non  i  rapporti  tra  le  idee, ma  i  rapporti  tra  gli  oggetti.  Ma  se  queste  cose  che  coe- sistono non  sono  dei  concetti,  che  cosa  possono  essere  ? Niente  altro  che  delle  astrazioni  realizzate.  Gli  attributi connotati  dal  termine  Pietro  coesistono,  secondo  il  Mill, con  gli  attributi  connotati  dal  termine  uomo,  e  questi  coe- sistono con  quelli  connotati  dal  termine  mortate.  Se  essi coesistono,  ciascuno  di  essi  esiste  per  se  stesso  separata- mente dagli  altri,  ed  è  realmente  distinto  dagli  aitri.  Ma queste  cose  che  coesistono,  dirà  il  Mill,  non  sono  già  de- gli attributi  astratti,  ma  dei  fatti  concreti  e  reali,  che  pos- sono ciascuno  essere  V  oggetto  d' una  percezione  distinta dei  nostri  sensi,  e  che  a  questo  titolo  possono  considerar- si come  sensazioni  attuali  o  possibili.  E  infatti  egli,  rispon- dendo ad  un'obbiezione  dello  Spencer,  dà  quest'interpetra- zione  al  suo  principio.  «  L'assioma,  egli  dice,  potrebbe essere  espresso  cosi  :  Due  tipi  di  sensazioni,  di  cui  cia- scuno coesiste  con  un  terzo  tipo,  coesistono  l'uno  con  l'al- tro. »  Ma  questa  interpetrazione  non  può  salvare  il  prin- cipio. L'essenza  del  ragionamento  deduttivo  è,  come  ben dice  il  Bain  a  proposito  dell'assioma  di  Mill  (Logica,  lib. 2^.  Assioma  del  sillogismo),  l'applicazione  a  un  caso  par- ticolare d'un  principio  generale.  Ora  essa  non  corrispon- de all'assioma  del  Mill  cosi  interpetrato.  Pietro  è  un'in- dividuo del  genere  uomo  :  i  due  termini  non  designano due  ordini  distinti  di  fatti  o  di  sensazioni,  in  modo  che  si possa  dire  che  le  une  sono  unite  alle  altre.  Le  proprietà particolari  di  Pietro  non  sono  dei  fenomeni  distinti  dalle proprietà  ch'egli  ha  comuni  con  gli  altri  uomini,  ma  ne sono  una  determinazione  particolare,  queste,  senza  le  dif- ferenze individuali,  essendo  indeterminate  ed  astratte:  sic-  che  Tare  di  queste  dilTerenze  individuali  qualche  cosa  di (hstinto  in  se  stesso  dai  caratteri  generaU  della  specie  e di  coesistente  con  essi,  è  precisamente  realizzare  delle astrazioni.  L^  assioma  del  Mill  suppone  dunque  necessa- riamente ciò  che  egli  non  vuole  ammettere,  ciò  che  «un attributo  sia  una  cosa  reale,  obbiettivamente  esistente». (Lof/ica  lib.  2^  e.  2^  in  nota). SeiX)ila  dottrina  del  Mill  si  considera,  non  isolatamen- te, ma  in  relazione  alle  altre  parti  della  sua  dottrina  del sillogismo,  vi  liann(ì  anche  contro  di  essa  obbiezioni  di un'altra  natura.  Noi  abbiamo  già  notato  la  continua  oscil- lazione del  Mill  tra  il  nominalismo   e  il  concettualismo  : quesfincorrenza  che  si  trova  in  tutta  la  filosofìa  del  IMill si  ritrova  naturalmente  nella  teoria  del  sillogismo.  11  Mill ha  Ibrmulato  per  il  primo,  d'una  maniera  al  tempo  steso chiara  e  profonda,  secondo  il  costume  di  questo  emi- nente pensatore,  la  teoria  nonu'nabsta  del  ragionamento, secondo  la  ciuale  Y  inferenza  è  sempre  dal  particolare  al particolare;  ma  a  lato  di  questa  teoria  e  malgrado  di  es- sa, si  trova  pure  in  lui  un  ritorno  alla  teoria  concettua- lista  del  ragionamento,  che  ha  dato  luogo  alla  dottrina di  cui  abitiamo  parlato.  Ora  le  due  dottrine  del  ragiona- mento di  Mill,  la  nominalista  e  la  concettualista,  sono  in- compatibiU  Tuna  con  l'altra.  E  infatti  che  cosa  sono  questi attributi  fra  cui  l'assioma  del  sillogismo  indica  la  coesi- stenza? Gli  attributi  la  cui  coesistenza  è  affermata  nella maggiore,  sono  rigorosamente  gli  stessi  che  quelli  la  cui coesistenza  è  alfermata  nella  conclusione,  o  no  ?  Gli  at- tributi umanità  e  mortalità,  di  cui  la  maggiore  afferma la  concomitanza,   sono  rigor( osamente  (jli  stessi  attributi (eadeni  numero)  che  la  minore  e  la  conclusione  afferma- no poi  di  Pietro?  Se  Tinferenza  è  dal  particotare  al  par- ticolare, questi  attributi,  o  i  fatti  espressi  da  questi  attri- buti, non  possono  essere  rigorosamente  f/li  stessi.  Secon- do il  Mill,  noi  non  inferiamo  che  Pietro  morrà  da  ciò  che ii 5 y- in  generale  ogni  uomo  deve  morire,  ma  da  ciò  che  tutti gli  uomini  conosciuti  sono  morti.  Se  è  dunque  quest'ultima verità  die  nella  nostra  mente  occupa  il  posto  che  nella espressione  verbale  del  ragionamento,  nel  sillogismo,  oc- cupa la  premessa  maggiore,  le  cose  la  cui  coesistenza  è affermata  nella  premessa  maggiore  ideale  sono  numeri- camente distinte  da  quelle  la  cui  coesistenza  è  affermata nella  minore  e  nella  conclusione— l'umanità  e  la  mortali- tà che  si  trovano  in  Pietro  sono  numericamente  distinte dalla  umanità  e  dalla  mortalità  che  si  sono  trovate  ne- ali  altri  uomini,  non  sono  una  sola  e  stessa  cosa  —  Ma se  è  cosi,  l'assioma  che  Due  cose  che  coesistono  con  una terza  coesistono  fra  di  loro,  assioma  che  secondo  il  Mill é  cosi  evidente  come  l'assioma  analogo  della  matematica  (e perci(')  deve  interjjretarsi  nel  suo  senso  strettamente  lette- rale), ò  ina[)plicabile,  e  lo  Spencer  gli  obbietta  giustamente c.lfeali  confonde  l'esatta  rassomiglianza  con  l'identità  as- soluta  (V.  Princij)ii  di  psicologia,  t.  2^*.  35.  201).  Per  ri- guardare gli  attributi  come  rigorosamente  gh  stessi,  es- si devono  prendersi,  non  come  indicanti  dei  fatti  parti- colari, ma  come  degli  attributi  astratti  e  generali,  per  con- cei)ire  i  (juali  si  fa  astrazione  dagl'individui  particolari  in cui  essi  si  trovano.  In  (juesto  caso  l' assioma  è  applica- bile; ma  vi  lia  allora  nel  sillogismo  un'inferenza  che  non è  dal  particolare  al  i)articolare,  e  questa  inferenza  è  rea- le, almeno  se  l'assioma  del  sillogismo  si  considera  una proposizione  sintetica,  come  l'assioma  matematico  a  cui il  Mill  lo  paragona.  Allora  non  sarà  più  vero,  come  vuo- le il  Mill,  che  ogn'inferenza  è  dal  particolare  al  partico- lare. Se  poi  l'assioma:  Due  cose  che  coesistono  con  una tei*za  coesistono  fra  di  loro,  è  una  proposizione  analitica, cioè,  secondo  il  Mill,  identica  e  puramente  verbale,  allora l'assioma  è  completamente  inutile,  perchè  il  Mill  vi  ha  ri- corso per  non  ammettere  che  il  ragionamento  è  fondato sul  sem[)lice  principio  d'identità  e  di  contraddizione,  e  sai- S!S= vare  per  questo  mezzo  il  sillogismo  dall'accusa  di  essere una  petizione  di  principio  (1). §.  27^  A  queste  obbiezioni  contro  lassioma di  Mill  pos- siamo aggiungere  altre  obbiezioni,  che  non  sono  partico- (1)  Il  MiLL  accorda  in  verità  agli  avversari  del  sillogismo  clie> «  in  ogni  sillogismo,  considerato  come  un  argomento  provante  una conclusione,  vi  ha  una  petitio  principu  »  {Logica  lìb.  2.  e.  3.  §.  2). Ma  contuttociò  egli  respinge  il  cUctam  come  principio  del  sillogi- smo, perchè,  il  cUctum  essendo  una  proiX)sizione  identica,  in  questo caso  «  il  sillogismo  sarebbe  certamente,  come  spesso  si  è  detto . una  sollenne  futilità»  (lib.  2.  e.  2.  §.  2)  Sembra  dunque  che  l'intro- duzione dell'assioma  dell'autore  abbia  per  oggetto  di  salvare  il  sil- logismo, non  dall'accusa  di  essere  una  petizione  di  i)rincipio,  ma da  quella  di  essere  una  futilità.  Ma  ci  pare  difficile  di  vedere  una distinzione  reale  tra  futilità  e  petizione  di  principio.  Locke  chia- mava frivola  una  proposizione  in  cui  lo  stesso  si  predica  dello  stesso, cioè  in  cui  l'attributo  è  contenuto  nel  soggetto:  un  ragionamento frivolo  o  futile  sarà  così  un  ragionamento  in  cui  lo  stesso  si  prova per  lo  stesso,  cioè  in  cui  la  conclusione  è  contenuta  nelle  premesse, vale  a  dire  una  petizione  di  principio. Ammettere,  come  si  fa  generalmente,  che  il  sillogismo  è  fon- dato  sul  principio  di  contraddizione,  è  riconoscere  che  esso,  con- siderato come  costituente  una  prova  per  se  stesso,  è  realmente una  petizione  di  principio.  Se  in  effetto  si  ammette  che  è  una  con- traddizione di  negare  la  conclusione  dopo  aver  affermato  le  pre- messe, è  perche  il  principio  generale,  che  fa  da  premessa  maggiore, si  considera  come  l'equivalente  di  tutte  le  verità  particolari  che esso  abbraccia,  e  quindi  la  verità  affermata  dalla  conclusione  come una  parte  di  quelle  affermate  dalla  premessa  maggiore.  Ora,  sic- come è  appunto  perchè  la  verità  affermata  dalla  conclusione  è  una delle  verità  affermate  dalla  premessa  maggiore,  che  questa proposizione  è  una  prova  di  quella,  ne  segue  che  una  cosa  è  la  prova di  se  stessa,  e  che  il  ragionamento  è  un  circolo  vizioso. Questa  obbiezione  contro  il  sillogismo,  clie  esso  non  è  che  una petizione  di  principio,  è,  come  abbiamo  detto,  tanto  vecchia  quanto la  teoria  stessa  del  sillogismo.  Nel  sillogismo,  dice  Aristotile,  può trovarsi  la  difficoltà  di  cui  è  quistione  nel  Me  none .  dove  si  dice che  o  non  s'impara  niente,  o  non  può  impararsi  che  quello  che già  si  sapeva.  Alcuni,  egli  aggiunge,  risolvono  questa  difficoltà, dicendo  che  ciò  che  si  preconosce  (ciò  che  Mill  chiama  gli  ante- cedenti logici  reali)  non  sono  già  tutte  le  cose  contenute  sotto  la !i lari  ad  esso,  ma  sono  comuni  a  tutte  le  dottrine  che  vo- gliono fondare  il  sillogismo  sovra  un  assioma,  cioè  sovra un  principio  smteiieo  e  reale,  e  non  sul  semplice  princi- della  coerenza,  cioè  d'identità  o  di  contraddizione.  E prima  di  tutto,  se  fare  un  sillogismo  è  applicare  un  as- sioma, lapplicazione  di  quest'assioma  al  sillogismo  parti- <iolare  che  facciamo,  suppone  essa  stessa  un  altro  sillo- gismo, e  questo  un  altro  ancora,  e  cosi  alFinfinito.  Di  più, l'assioma  essendo  una  proposizione  sintetica,  ammettere la  contraddittoria  della  conclusione  non  sarebbe  essere incoerente,  ma  negare  una  verità  di  fatto  :  cosi,  se  io  di- co: «  Ogni  uomo  è  mortale,  Pietro  è  uomo,  ma  egli  non è  mortale  »,  non  vi  ha  in  ciò  contraddizione  alcuna;  non è  una  contraddizione  di  dire  che  quest'uomo  non  è  morta- le, dopo  aver  detto  che  ogni  uomo  senza  eccezione  è  mor- tale! Se  il  Mill  poteva  credere  di  sfuggire  a  questa  con- seguenza della  sua  dottrina,  ò  perchè  effettivamente  il  suo preteso  assioma:  Due  cose  che  coesistono  con  una  terza coesistono  fra  di  loro,  non  è  che  una  specie  di  proposi- zione identica,  il  cui  contrario  implica  perciò  contraddi- zione: ora  cosi  essendo,  l'assioma,  come  abbiamo  detto, ^  completamente  inutile,  e  la  difficoltà  che  se  il  sillogismo è  fondato  sopra  una  proposizione  identica  come  il  dictura, non  può  essere  che  una  sollenne  futilità,  non  viene, per  questo  mezzo,  risoluta.,  come  abbiamo  osservato,  per  risolvere  questa  dif- generalità,  ma  soltanto  quelle  tali  cose  particolari  che  erano  già a  nostra  conoscenza  (È  la  teoria  di  Mill,  la  nominalista).  Aristotile, in  quanto  a  lui,  respinge  questa  soluzione,  e  ammette  invece  che, prima  di  fare  il  sillogismo,  in  un  certo  modo  si  può  dire  che  la €osa  si  sa, in  un  certo  altro  modo  che  s'ignora:  si  sa  inquanto  si conosce  nel  generale,  ma  assolutamente  s'ignora  (li  la  teoria  con- cettualista,  con  tutte  le  sue  perplessità  ).  Noi  troviamo  in  questo luogo  notevole  [Analit.  poster,  lib.  I.  e.  I.  0  e  seg).  riunite  fattele <3ontroversie  moderne  intorno  alla  teoria  del  racrionamento. fìcoltà,  che  il  Mill  ha  iimnaginato  la  sua  seconda  teoria del  ragionamento,  ciucila  che  aljbiamo  chiamato  concet- tifalifita:   ma  questa  era  superflua,  perdio  la  sua  prima teoria,  cioè  la  nominalista,  dava  la  vera  soluzione  della difficoltà.   Come   inferenza  reale,  il  ragionamento  va  dal particolare  al  particolare:  il  ti\)0  generale,  a  cui  ogni  ra- gionamento si  riduce,  è  Y  inferenza  fondata  sulFanalogia di  casi  particolari  distinti,  e  il  vero  antecedente  logico,  la premessa  reale,  sono  i  fatti  particolari  delFesperienza  su cui  rinferenza  è  fondata.  Ma  è  necessario,  per  controlla- re le  inferenze  spontanee  che  noi  facciamo  da  certi  i)ar- ticolari  ad  altri,  di  considerare  la  nostra  premessa  come strettamente  generale,  in  quanto  un'inferenza  fondata  sopra una  i)remessa  che  non  si  può  generalizzare,  non  può  es- sere un'inferenza  logicamente  valida.  In  altri  termini,  il sillogismo  non  rappresenta  per  se  stesso  il  processo  reale del  ragionamento  ;   ma   ogni    ragionamento   valido  deve esser  capace  di   poter   passare,  nella  sua   enunciazione verbale,  per  due  momenti,  di  cui  il  sillogismo  ò  il  secondo, Finduzione  essendo  il  primo:  Tinduzione  e  il  sillogismo  non sono  dunque   due   ragionamenti,   ma  due  momenti  della enunciazione    verbale  di  un  ragionamento  reale,  tutte  le volte  in  cui  noi  ragioniamo  mediante   idee  reali,   e  non semplicemente  mediante  simboli,  cioè  nude  forme  verbali. Ma  se  il  sillogismo  si  considera  per  sé  solo;  se  esso  non si  riii.'uarda  in  connessione  con    Y  induzione  antecedente di  cui  esso  è  il  complemento;  allora  ro[)erazione  del  no- stro s[)irito  non  è  un  ragionamento  reale,  ma  Tinterpre- tazione  d'una  formula,  d'un  segno.  Una  proposizione  ge- nerale, lo  sappiamo,  non  è  che  un  segno,  che  noi  dobbia- mo tradurre,  all'occasione,  nelle  verità  particolari  signifi- cate ;    e  applicare   una   proposizione  generale  a   un  ca- so particolare,   cioè  fare   un  sillogismo,   non  è   che  fare una  di  queste    traduzioni.  11  solo  senso  di  cui  sia  suscet- tii)ile  il  principio  unanimamente  ammesso  dai  teorici  del sillogismo,  che  la  conclusione  è  contenuta  implicitamente nelle  premesse,  è  che  la  verità  espressa  nella  conclu- sione la  parte  delle  verità  significate  dalla  premessa  mag- giore, ma  che  ciò  non  diviene  manifesto  che  <lopo  un processo  d'interpretazione  di  questa  })roposizione— la  mi- nore che,  come  insegnano  i  logici,  fa  vedere  che  la  con- seguenza è  compresa  nella  maggiore,  non  è  che  un  mo- mento,  il  solo  che  debba  essere  posto  es[)ressamente,  di questo  processo— Ora  quest'operazione  non  suppone  alcun assioma,  né  sperimentale  né  intuitivo;  non  suppone  che la  riconoscenza  d'una  verità  (che  è  a  priori,  perchè  non è  ciie  r  intuizione  di  rapporti  di  somiglianza),  cioè  che l'interpretazione  è  esatta,  in  altri  termini,  che  l'applicazione dei  segni,  fatta  nella  circostanza  [)resente,  è  conforme all'uso  regolare  di  essi. Fare  un  sillogirmo  non  è  dunque  a})plicare  un  assioma generale  del  sillogismo:  né  ì\  di  et  ara  de  oì  ani  et  de  nallo, né  il  principio  nota  notae  est  nota  rei  ipsiits,  di  cui  (juello del  Mill  non  è  che  una  trasformazione,  non  sono  gli assiomi  del  sillogismo,  non  è  su  di  essi  che  la  sua  vali- dità è  fondata.  Essi  non  sono  che  l'espressione  astratta dell'operazione  sillogistica,  la  descrizione  del  processo  in cui  il  sillogismo  consiste.  Né  dicendo  che  il  sillogismo  è fondato  sul  prinncipio  d'identità  e  di  contraddizione,  si vuol  dire  che  queste  massime  sono  degli  assiomi  di  cui il  sillogismo  è  l'applicazione  ;  perchè  le  sole  i)roposizioni che  meritino  il  nome  d'  assiomi,  sono  (pielle  clie  rias- sumono ii  risultato  d'  una  esperienza  uniforme,  e  vi ha  applicazione  di  un  assioma  tutte  le  volt(i  che  è  (jue- sta  esperienza  uniforme,  (h  cui  1'  assioma  è  1'  espres- sione, che  garantisce  la  verità  dell'aiTermazione  in  un  altro caso  particolare.  Che  il  sillogismo  é  fondato  sul  principio d'identità,  vuol  dire  semplicemente  che  la  verità  delle  pre- messe im[)licando  l'esistenza  di  certi  latti,  gli  stessi  fatti Ijastano  immediatam<3nte  perche  la  conclusione  sia  vera; e  che  esso  ò  fondato  sul  principio  di  contraddizione,  non significa  se  non  che  la  negativa  della  conclusione  sarebbe in  contraddizine  con  le  premesse,  cioè  che  la  verità  di questa  negativa  implicherebbe  o  escluderebbe  l'esistenza di  fatti,  la  cui  esistenza  è  invece  esclusa  o  implicata  dalla verità  delle  premesse  (1). §.  28.^  Noi  abbiamo  combattuto  la  dottrina  di  Mill  sul- l'assioma del  sillogismo,  perchè  essa  tende  a  stabilire  che il  sillogismo  sia  un'inferenza  reale  e  non  apparente,  e quindi  a  mettere  in  dubbio  e  ad  oscurare  Taltra  dottrina dello  stesso  Mill  che  l'inferenza  è  sempre  dal  particolare al  particolare.  La  stessa  ragione  vale  per  quella  del  Bain. Questi  non  è  soddisfatto  dell'assioma  di  Mill,  ma  sostiene, d'una  maniera  più  categorica  che  il  Mill  stesso,  che  il princi[)io  di  contraddiziono  non  basta  a  giustificare  la transizione  dalle  premesse  alla  conseguenza,  e  che  questa transizione  è  fondata  sovra  un  assioma  reale  e  sintetico, Ei?li  adotta  come  assioma  il  dictum  de  omni  et  de  nullo, che  esprime  però  sotto  una  forma  modificata,  e  trova  aii- ch'egli  che  l'assioma  del  sillogismo  è  analogo  all'assioma matematico.  «  Il  dictum,  egli  dice,  semìjra  avvicinarsi prossimamente  ad  una  semplice  regola  di  consistenza; la  necessità  di  qualche  cosa  di  mediato  fa  sola  tutta  la differenza.  Due  termini  identici  ad   un  terzo  sono    iden- fl)  U  Mir.L  non  ammetle  che  il  sillogismo  sia  fondato  sul  prin- cipio (li  contraddizione,  porcile  a  negare  la  conclusione  non  vi  ha, egli  dice,  una  contraddizione  nei  termini,  e  bisognerebbe  un  altro sillogismo  per  mostrare  che  <iuesta  negativa  della  conclusione  è in  contraddizione  con  una  delle  premesse.  Ciò  è  vero,  ma  vuol  dire semplicemente  che  una  contraddry.ione  non  è  necessariamente  una contraddizione  nei  termini,  e  che  due  proposizioni  congUuitamente possono  escludere  qualche  altra  proposizione  che  né  l'una  nò  Taltra separatamente  escludono.  Se  poi  ciò  che  non  è  una  contraddizione nei  termini  debba  o  no  chiamarsi  una  contraddizione,  sarebbe una  semplice  quistione  di  parole,  che  per  noi  non  avrebbe  nessu- na importanza. tici  fra  di  loro  ;  ciò  suppone  un  passo  avanti,  ed  esige  u- na  giustificazione.  Alcuno  non  vorrebbe  ammettere  un'in- ferenza anche  cosi  evidente  come  questa  :  Gli  uomini  so- no mortali,  i  re  sono  uomini,  i  re  sono  mortali;  senz'aver verificato  anteriormente  per  degli  esempi  la  specie  par- ticolare di   transizione  che  quest'argomento   racchiude.  » E  più   lungi  :   <^  Il  dictum  suppone    un'  operazione  discor- siva, un  progresso  del  pensiero,  e  la  legittimità  di  questo progresso  non  può  essere  provata  che  per  un  appello  al- l'esperienza. Il  dictum  ha  gli  stessi  caratteri  che  la  se- conda formula  sopra  indicata  (quella  di  Mill)  :  Le  cose  che coesistono  con  una   terza  coesistono  fra  di  loro;  e  che l'assioma  matematico  :  Delle  cose  che  sono  eguali  ad  una terza  sono  eguali  fra  loro»  {Logica,  lib.  2,^^  Ass.  del  sillogi- smo). Cosi  secondo  il  Bain  il  fondamento  del  sillogismo, non  solo  ò  della  stessa  natura  dell'assioma   matematico, ma  è  come  questo  un  principio  induttivo.  Noi  incontria- mo qui  uno  di  quegli  sviluppi  esagerati  della  dottrina  del- l'esperienza, che  talvolta  si  trovano  negli  empiristi  inglesi: essi  si  sforzano  di  spiegare  per  questa  dottrina  delle  cose che   non  hanno  alcun  bisogno  di    essere   spiegate.  «  Noi siamo  tanto  esposti,  dice  il  Bain,  ad  incontrare  degli  er- rori dissimulati  sotto  le  forme  di  linguaggio  più  plausibi- li e  più  usuali,  che  non  dobbiamo  aver  confidenza  in  nes- suna di  esse,  senza  ricorrere  al  cont  rollo  di  molte  espe- rienze reali  (cioè,  come  ha  detto  nel  luogo  già  citato,  sen- za  verificare  per  degli   esempi  la   specie  particolare  di transizione  che  l'argomeuto  racchiude).  »  Senza  dubbio,  se l'operazione  é  puramente  meccanica,    come  é  il  caso  per la  macchina  di  levons,  se  essa  si  riduce  ad  una  semplice manipolazione  di  nomi,  noi  ci  regoliamo  sopra  altri  sil- logismi che  già  abbiamo  fatti,  e  in  cui  badavamo  al  sen- so delle  parole,  e  non  ci  limitavamo  a  combinarle  mec- canicamente. Noi  ci  fondiamo  allora  certamente  sugli  e- sempi  e  sull'esperienza   anteriore:  ma  quali  sono   qui  le esperienze  e  gli  esempi,  su  cui  vcrillcliianio  o  abbiamo verificato  anteriormente  la  specie  particolare  di  transizio- ne che  Fargomento  racchiude?  Sono  dei  sillogismi:  ora (luesti  sillogismi  anteriori  non  possono  essere  l'ondati  sul- lesperienza  e  sull'induzione,  nel  senso  in  cui  qui  il  Bain lo  pretende. La  dottrina  del  Bain  va  naturalmente  incontro  alle  ul- time obbiezioni  che  abitiamo  latte  contro  quella  del  Alili. Noi  ripresenteremo  Tuna  sotto  la  forma  di  un  dilemma. Se  r  operazione  particolare  di  un  sillogismo  è  V  applica- zione dell'assioma  del  sillogismo,  considerando  quest'  as- sioma come  una  proposizione  strettamente  universale,  al- lora quest'applicazione  stessa  è  già  un  sillogismo,  e  (juindi la  transizione  che  V  argomento  sillogistico  raccliiude  non può  venire  spiegata  di  «piesta  maniera.  Se  invece  l'assio- ma del  sillogismo  non  è  considerato  come  una  proposi- zione strettamente  universale,  ma  come  l'equivalente  della totalità  delle  esperienze  passate;  se  cosi  l'applicazione  del- l' assioma  del  sillogismo  al  sillogismo  che  noi  Tacciamo presentemente  è  una  semplice  inferenza  dal  particolare al  particolare  (  come  sarchile  dai  sillogismi  tatti  nel  pas- sato al  sillogismo  presente  )  ;  siccome  è  evidente  clie  qui l'inierenza  sarebbe  della  stessa  natura  che  quella  conte- nuta in  un'  altra  deduzione  (jualunciue,  non  si  vede  per- chè tutte  le  operazioni  di  deduzione  in  generale  non devono  essere  spiegate  della  stessa  maniera  che  que- sta operazione  particolare  <li  deduzione,  che  consi- ste a  giustificare  la  validità  di  un  sillogismo  fondan- dosi suir  assioma  generale  del  sillogismo.  La  tesi  che r  inferenza,  nel  sillogismo,  non  è  fondata  sui  princi- pii  d'  identità  e  di  contraddizione,  ha  poi  nel  Bain  una strana  conseguenza  che  essa  non  aveva  nel  Alili.  Secondo il  liain  le  sole  verità  necessarie  sono  le  })roposizioni  fon- date su  (juesti  principii  :  ma  l'assioma  del  sillogismo  è  un principio  sintetico  ed  induttivo  ;  esso  è  anche,  non  una J» legge  del  pensiero,  ma  una  legge  delle  cose,  perchè  al fondo  di  quest'assioma,  come  di  (luelli  della  matematica  e come  del  principio  di  causalità,  vi  ha  l' assioma  più  fon- damentale dell'  unilbrmità  della  natura  (  Logica,  lib.  2^, e.  V,  9-11).  L'assioma  del  sillogismo,  su  cui  la  transizione di  quest'argomento  è  fondata,  non  è  perciò  secondo  Bain una  verità  necessaria.  Ne  segue  che  la  transizione  che l'argomento  racchiude,  non  ha  niente  di  necessario,  e  che la  negativa  è  concepibile:  se  Pietro  è  un  uomo  e  ogni uomo  è  mortale,  non  e  necessario  che  Pietro  sia  mortale; noi  possiamo  concepire  che  le  premesse  siano  vere,  ma la  conseguenza  sia  falsa. .^.  20^'.  La  conclusione  di  (piesta  nostra  escursione  nel dominio  della  logica  è  una  conferma  di  una  delle  verità più  salienti  che  emerge  da  tutto  il  capitolo,  cioè  che  non vi  ha  altra  inferenza  reale  che  quella  dal  particolare  al particolare,  fondata  sull'analogia,  e  ogni  altra  inferenza non  è  reale,  ma  apparente  o  puramente  verbale.  Daijue- sto  principio  risulta  l' inanità  di  ogni  tentativo  per  cono- scere la  realtà  fondandosi  sul  semplice  legame  logico  del- le idee,  la  pretesa  implicazione  reciproca  delle  idee  risol- vendosi imicamente  nella  possil^ilità  di  applicare  simul- taneamente diverse  forme  verìjali,  perchè  gli  stessi  IVitti che  ne  giustificano  alcune,  ne  giustificano  pure  qualche altra.  Un'inferenza  reale  legittima  è  qutìUa  che  può  rive- stire la  forma  (U  una  induzione  valida  seguita  da  un  sil- logismo regolare.  Ogni  altra  inferenza  è  necessariamen- te illegittima.  Se  pretende  fondarsi  sull'esperienza  e  sul- l'analogia, ma  non  può  ricondursi  alla  forma  tipica  di  una induzione  seguita  da  un  sillogismo,  in  altri  termini  se  non è  possibile  di  formulare  una  legge  generale,  garantita  dal- l'esperienza, vera  per  tutta  una  classe  di  fatti,  di  cui  tan- to i  casi  da  cui  s'inferisce,  quanto  quelli  su  cui  s'inferi- sce, sono  degli  esempi  particolari,  allora  l'inferenza  non è  rigorosa,  non  è  una  vera  prova.  Se  invece  vuol  fondarsi,  non  sulFesperienza,  ma  sul  preteso  legame  logico  delle idee,  siccome  questo  non  può  dare  che  delle  inferenze apparenti  o  verbali,  allora  la  pretesa  inferenza  reale  non può  essere  che  o  una  petizione  di  principio  o  un  sofisma. È  questa  Falternativa  in  cui  sono  strette  le  dottrine  che pretendono  far  uscire  la  conoscenza  del  reale  dalla  sem- plice deduzione:  sia  che  esse,  uniformandosi  ai  principii della  logica  ordinaria,  riconoscano  che  ogni  legame  lo- gico,  indipendente  dalF  esperienza,  non  può  che  basarsi sui  principii  d'identità  e  di  contraddizione;  sia  che  abban- donino completamente  i  principii  della  logica  comune, per  seguire  quelli  di  una  logica  nuova,  d'invenzione  dei loro  autori;  in  ogni  caso,  le  loro  pretese  deduzioni,  se  non :sono  delle  petizioni  di  principio,  saranno  dei  sofismi,  e se  non  sono  dei  sofismi,  saranno  delle  petizioni  di  princi- pio. Questo  risultato  collima  con  quello  che  è  stato  l'ogget- to principale  del  capitolo,  cioè  che  le  conoscenze  imme- diate non  possono,  più  che  le  mediate,  derivarsi  da  una semplice  necessità  logica,  in  altri  termini,  che  le  propo- sizioni evidenti  per  se  stesse,  vale  a  dire  a  priori,  o  pre- tese tali,  non  sono  fondate,  come  vuole  la  dottrina  ana- litica, sui  semphci  principii  d'identità  e  di  contraddizione, nei  quaU  si  risolve  ogni  necessità  logica.  Il  primo  di  que- sti risultati  distrugge  la  base  (ÌQÌYapriorisrao  come  metodo scientifico,  l'altro,  come  teoria  psicologica — tra  le  ipotesi su  cui  si  appoggia  questa  teoria,  la  dottrina  analitica,  co- me la  meno  apertamente  contraria  ai  dati  del  senso  co- mune, essendo  la  più  accettata  e  la  più  accettabile  — .  Ciò che  poi  si  deve  notare  è  che  entrambi  questi  risultati  so- no delle  verità  che  seguono  necessariamente  dal  rigetto della  dottrina  dei  concetti  :  se  non  vi  hanno  che  idee  par- ticolari, ogn'inferenza  non  può  andare  che  dal  particolare al  particolare,  e  delle  idee  che  unisce  una  proposizione runa  non  può  essere  contenuta  nell'altra.  Noi  avremmo potuto  dunque  presentarli  come  dei  semplici  corollari  di quello  ottenuto  pel  primo  capitolo,  e  il  lettore  è  ora  più in  grado  di  vedere  che  non  è  arbitrariamente  che  abbia- mo cominciato  questo  scritto  per  l'esame  del  concettua- lismo.  11  seguito  di  questo  primo  Saggio  e  il  Saggio  terzo mostreranno,  del  resto,  d'una  maniera  più  completa,  il legame  intimo  che  vi  ha  tra  l'apriorismo  e  il  concettua- lismo, e  per  conseguenza,  tra  l'empirismo  e  il  nominali- smo. «I» Dottrina  di  Kant  sui  giudizi  sintetici a  priori .^  1.*^  Abl)iaiiio  (letto  che  Kant  lia  introdottola  distin- zione dei  giudizi  in  analitici  e  sintetici.  INlentre  tutti  i  giu- dizi analitici  sono  a  priori,  tutti  i  giudizi  l'ondati  suirespe- rienza  sono  sintetici,  ma  vi  hanno  anche  dei  giudizi  sin- tetici a  priori,  cioè  affatto  indipendenti  dair  esperienza. Secondo  Kant,  come  secondo  gli  altri  filosofi  razionalisti in  generale,  vi  Jianno  due  criteri  i)er  distinguere  i  giu- dizi a /)r/on  dagh  empirici:  la  necessità  e  la  rigorosa universalità  sono  proprie  dei  primi,  e  non  appartengono mai  ai  secondi.  «  La  esperienza  ne  insegna  che  qualche cosa  esiste  in  un  modo  o  nelFaltro,  ma  non  che  essa  n(jn possa  essere  altrimenti.  Se  dunque  c'incontriamo  in  una proposizione,  nel  pensare  alla  quale  riconta  insieme  al pensiero  la  di  lei  necessità,  essa  sarà  un  giudizio  a  priori», «  In  secondo  luogo  luniversalità  che  imprime  ai  suoi  giu- dizi Tesperienza,  non  è  mai  assoluta  e  rigorosa,  ma  solo sui)posta  e  relativa,  e  propriamente  indica  od  esprime  : questa  o  quella  regola,  per  quanto  ajjbiamo  appreso  si- nora, si  trova  senza  eccezione.  Ma  se  il  giudizio  è  pen- sato come  assolutamente  universale,   siccJiè  non  si  ammetta  come  possibile  la  minima  eccezione,   allora  esso non  proviene   dalla  esperienza  »,   «  ma  da  una  sorgente aifatto  particolare,  cioè  la  facoltà  di  conoscere  per  anti- cipazione». «Dunque la  necessità  e  Tassoluta  universali- tà sono  gTindizi  sicuri  della  cognizione  a  priori,  e  sono cosi  fra  loro  strettamente  accoppiate,  che  non  può  Tuna disgiungersi  dall'altra  ^.  «  Che  poi  si  diano  simili  giudizi necessarie   strettamente  universali,   quindi  a  priori,  e veramente  inerenti  alVintendimento  umano,  nulla  di  più agevole  che   il  provarlo.   Chi   ne  volesse  infatti  esempi dalle  scienze,   non  ha  che  a   trascorrere  gli  assiomi  (le proposizioni)  della  matematica,  e  ne  rileverà  in  tutti.  Chi poi  fosse  vago  di  averne  dall'uso  più  volgare  dell'  inten- dimento, la  proposizione  che  enuncia  che  ogni  mutamen- to dipende  da  una  causa,  potrà  servirgli  di  esempio.  E  in verità  in  questa  proposizione  il  concetto  d'una  causa  im- porta si  evidentemente  quello  d'una  necessità  del  legame con  un   efletto,   e  della  stretta  generalità   della  regola, eh'  esso  disparirebbe  completamente  se,  come  fa  Hume, si  volesse  derivato  dal  frequente  legame  di  ciò  che  segue con  ciò  che  precede,   e  dall'  abitudine  (per  conseguenza dalla  necessità  subbiettiva)  d'associare  le  rappresentazioni che  noi  acquistiamo  cosi.  Ma  non  è  già  d'uopo  ricorrere a  simili  esempi,  onde  provare  vera  la  esistenza  dei  prin- cipii  puri  a  priori  nella  nostra  cognizione;  giacché  si  po- trebbero persino  dimostrare  indispensabili  alla  possibilità della  stessa  esperienza.   Donde  mai  questa  ricaverebbe infatti  la  propria  certezza,  ove  già  empiriche  fossero  per se  stesse,  quindi  avventizie,  le  regole,  giusta  le  quah  pro- cede ;  e  come  ammettere  che  in  tal  caso  queste   regole avessero  valore  di  principii  e  dileggi  primitive?»  (Criti- ca della  ragion  pura,  Introduzione,  II). Kant  ammette  dunque  che  i  primi  principii,  che  ser- vono di  fondamento  aUa  conoscenza  sperimentale,  sono dei  giudizi  sintetici  a  priori.  Inoltre  vi  hanno,   secondo lui,  delle  scienze  costituite  interamente  da  questa  sorta di  giudizi:  tali  sono  le  matematiche.  Se  alcuno  non  vo- lesse accordargli  questa  proposizione  nella  sua  generalità, Kant  vuole  almeno  che  la  limiti  alle  matematiche  pure; ma  oltre  queste  scienze,  egli  parla  anche  di  una  fìsica pura  o  razionale.  Questa  comprende  le  proposizioni,  che stabihscono  la  permanenza  della  stessa  quantità  nella materia,  l' inerzia  dei  corpi,  r  eguaglianza  dell'  azione  e reazione  nella  comunicazione  del  movimento,  ecc.:  tali proposizioni  sono  d'  origine  evidentemente  sperimentale, ma  Kant  le  dà  per  dei  giudizi  sintetici  a  priori  come quelli  della  matematica  pura.  Noi  abbiamo  tralasciato  le ragioni  per  cui  Kant  dimostra  la  natura  sintetica  di  tutti questi  giudizi,  perchè  noi  non  dobbiamo  mettere  in  rilievo i  punti  in  cui  ci  accordiamo  con  lui,  ma  quelli  in  cui  ne differiamo. Stabilita  l'esistenza  dei  giudizi  sintetici  a  priori,  Kant si  propone  la  quistione  :  come  sono  possibili  questi  giu- dizi ?  È  questo  il  problema,  di  cui  la  Critica  della  ragion pura   deve  darci  la  soluzione. §  2.0  Come  la  maggior  parte  dei  filosofi  moderni,  Kant ammette  che  noi  non  conosciamo  le  cose  stesse,  ma  i fenomeni,  cioè  le  apparenze  delle  cose  :  ma  ciò  che  vi  ha in  lui  di  particolare  è  che  egli  vuole  spiegare  l'origine  e le  leggi  di  questo  mondo  subiettivo  dei  fenomeni,  e  vuole spiegarli,  non  per  le  proprietà  delle  cose,  delle  quali  non abbiamo  alcuna  conoscenza,  ma  per  la  natura  del  sog- getto conoscente,  cioè  del  nostro  spirito.  Kant  distingue negli  oggetti  dell'esperienza,  cioè  nei  fenomeni,  la  materia e  la  forma  :  la  materia  ci  viene  offerta  a  posteriori,  se- condo le  impressioni  che  fanno  le  cose  sulla  nostra  sen- sibilità; ma  la  forma  si  trova  già  preparata  nell'animo  a priori,  niente  potendo  essere  oggetto  della  nostra  cono- scenza senza  ricevere  questa  forma.  La  forma  è  cosi  un elemento  soggettivo;  è  il  modo,  determinato  dalla  nostra facoltà  conoscitiva,  in  cui  le  cose  devono  apparirci.  Que- st'elemento l'ormale  delle  nostre  conoscenze  è  doppio:  vi hanno  le  forme  della  sensibilità  e  le  forme  dell'intendi- mento.  Le  forme  della  sensibiltà,  che  Kant  chiama  an- che intuizioni  pure,  sono  lo  spazio  e  il  tempo.  Se  gli  og- getti sensibili  sono  estesi,  se  ogni  cosa  o  fenomeno  este- riore ha  una  certa  localizzazione,  ciò  è  perché  lo  spazio è   una   forma  della  nostra   sensibilità.   Cosi  ancora,  se tutti  gli  avvenimenti,  comparati  fra  di  loro,  sono  simulta- nei o  successivi,  se  vi  ha  un  prima  e  un  dopo,  se  ogni fenomeno  occupa  una  posizione  nel  tempo,  é  che  questo é  pure  una  forma  della  nostra  sensibilità,  e  noi  non  pos- siamo conoscere  niente,   nò  noi  stessi  nò  le  altre  cose, senza  rivestirlo  di  questa  l'orma.  L'estensione,  la  succes- sione non  sono  dunque  nelle  cose  stesse:  se  noi  potessi- mo conoscere  qualche  cosa,  per  esempio  noi  stessi,  indi- pendentemente  dalle  condizioni   della  nostra  sensibihtà, quelle  stesse  modificazioni,  clie  ora  ci  appariscono  come cangiamenti,  ci  darebbero  invece  una  conoscenza,  in  cui non  avrebbe  alcuna  parte  la  rappresentazione  del  temilo né  quella,  per  conseguenza,  del  cangiamento.  Le  forme deirintendimento,  che  Kant  chiama  categorie,   sono  dei concetti,  i  più   universali  di  tutti,  con  cui  noi  pensiamo necessariamente  le  cose.  La  sostanza,  la  causa,  ecc.  sono delle  forme  del  pensiero  o  delle  categorie  :  se  nel  mondo dell'  esperienza  vi  hanno  delle  sostanze,   cioè  delle  cose (tenomeniche)   die  perdurano  in  mezzo  al  cangiamento delle  loro  modificazioni;  se  vi  ha  nei  fenomeni  un  inca- tenamento  di  cause  e  d'eftetti;  ciò  é  perché  noi  non  pos- siamo altrimenti   conoscere  le  cose   che  secondo   queste forme  del  nostro  pensiero.    Ora  si  comprende  facilmente che  lo  spazio  e  il   tempo  essendo  le  forme  della  nostra sensibilità,  gli  oggetti  sensibili  o  i  fenomeni  debbano  ne- cessariamente apparirci   nello  spazio   e  nel   tempo:    ma come  noi  ritroviamo  nei  fenomeni  stessi,  cioè  nedi  o«r- getti  dell'esperienza,  le  forme  del  nostro  pensiero?  Ciò avviene  perché  quest'ordine  o  questa  congiunzione  dei fenomeni  é  il  prodotto  e  l'opera  del  nostro  pensiero  :  é  il pensiero  stesso  che  costruisce  il  mondo  dell'esperienza  coi materiali  che  gli  vengono  offerti  dalla  sensazione.  Ciò che  noi  ci  rappresentiamo  in  congiunzione,  siamo  noi stessi  che  lo  abbiamo  congiunto:  questa  congiunzione  delle rappresentazioni  o  dei  fenomeni  è  una  sintesi,  cioè  un effetto  dell'attività  del  nostro  intendimento.  L'attività  del- l'intendimento di  cui  questa  sintesi  è  l'opera,  é  una  facol- tà cieca  ed  incosciente  dello  spirito,  che  Kant  chiama immaginazione  produttiva  :  questa  sintesi  dell'immagina- zione produttiva  ha  delle  regole  a  priori,  che  sono  in ultima  analisi  le  categorie,  o  i  concetti  puri  dell'intendi- mento. Le  categorie  dunque  dettano  leggi  a  priori  ai  fe- nomeni, e  quindi  a  tutta  la  natura  che  non  è  che  il  loro complesso;  poiché  i  fenomeni,  che  non  sono  che  semplici rappresentazioni,  non  soggiacciono  ad  alcuna  legge  di accoppiamento,  tranne  a  quella  che  detta  la  facoltà  con- nettente. Questa  facoltà  é,  come  abbiamo  detto,  la  im- maginazione produttiva;  e  siccome  la  sua  sintesi  dipende dalle  categorie,  cosi  debbono  a  queste  soggiacere,  rispetto al  loro  congiungimento,  tutte  le  percezioni  possibiU,  cioè tutti  i  fenomeni  della  natura.  Cosi  viene  risoluto  il  pro- blema proposto  da  Kant:  Come  sono  possibili  i  giudizi sintetici  a  priori  ì Non  vi  hanno,  dice  Kant,  che  due  casi,  dove  si  possa immaginare  un  accordo  tra  la  rappresentazione  sintetica e  i  suoi  oggetti  :  quando  cioè  l' oggetto  rende  la  rappre- sentazione unicamente  possibile,  o  questa  unicamenl'oggetto.  Nel  primo  caso  abbiamo  una  conoscenza  em- pirica: ma  questa  non  può  darci  niente  di  necessario  né di  assolutamente  universale.  Le  nozioni  che  hanno  questi caratteri  sono  anticipate,  o  indipendenti  dall'  esperienza, e  per  esse   vale  dunque  il  secondo  caso,   quello  cioè  in i  H cui  la  rappresentazione  determina  a/)r?or tToggetto  stesso (Analitica,  par.  14  e  27).  I  giudizi  sintetici  a  priori  non contengono  che  le  condizioni  formali  di  ogni  esperienza possibile  :  essi  hanno  luogo  quando  riferiamo  agli  oggetti delFesperienza  le  condizioni  formali  si  deirintuizione  pu- ra 0  anticipata  che  della  sintesi  delFimmaginazione  pro- duttiva. Niente  non  potendo  essere  oggetto  d'esperienza che  non  sia  conforme  a  queste  condizioni  formali  o  sub- biettive  della  conoscenza,  cioè  alle  forme  della  sensibilità e  deirintendimento,  di  là  il  valore  obbiettivo  dei  giudizi sintetici  a  priori.  {Analitica  1.  2^  e.  2°  sez.  2^). §  S.*'  Una  discussione  del  sistema  di  Kant  sarebbe  qui fuori  di  luogo:  noi  toccheremo  un  solo  lato  della  quistio- Be,  e  vedremo  che  un  tentativo  come  quello  di  Kant,  in cui  si  cerca  alle  nostre  conoscenze  un  fondamento  altro- ve che  nell'esperienza,  non  può  avere  successo,  perchè  è intrinsecamente  impossibile  e  contraddittorio. Kant  presuppone,   come  punto  di  partenza  delle  sue ricerche,  la  conoscenza  di  fatti  mentali  eh'  egli  non  può avere  attinto  se  non  dairesperienza.  Egli  ammette  che  lo spirito  umano  ha  certe  facoltà,  e  stabiUsce  dei  principii generali  su  queste  facoltà  :   egli  dice,  p.  e.,    che  i  giudizi necessari  ed   assolutamente  universali   sono  a  priori,  e che  alcun  giudizio  ricavato  dairesperienza  non  può  avere questi  caratteri.    Questa  proposizione  è   certamente  per lui  d'una  universalità  assoluta:  senza  di  ciò  la  sua  Cri- tica non  avrebbe  un  fondamento  scientifico.  Notiamo  che il  senso  della  proposizione  di  Kant,  al  punto  di  partenza delle   sue  ricerche,   non  può  già  essere  che  l'esperienza non  può  logicamente  giustificare  la  necessità  e  l'universa- lità rigorosa  d'un  giudizio:  non  si  tratta,   a  questo  mo- mento, che  di  costatare  certi  fatti  psicologici.  Egli  trova che  vi  hanno  dei  giudizi  necessari  ed  universali,  e  quin- di a  priori,  senza  sapere  ancora  quale  sia  il  fondamen- to della  legittimità  di  questi  giudizi:    egli  non   ammette ^1! dunque  la  necessità  e  l'universalità  di  questi  giudizi  che come  un  fatto  dato  dello  spirito  umano.  Cosi  pure  la mancanza  di  questi  caratteri  nei  giudizi  empirici  non  è -ammessa  da  lui  che  come  un  altro  fatto  psicologico.  Ora come  sa  Kant,  se  non  lo  sa  per  l'esperienza,  che  tutti  i giudizi  empirici  mancano  della  necessità  e  dell'universa- lità rigorosa?  Ma  se  questa  proposizione,  ricavata  dal- l' esperienza,  è  essa  stessa  d'  una  universalità  assoluta, allora  la  proposizione  è  necessariamente  falsa,  e  non  c'è bisogno  di  confutarla,  perchè  si  confuta  da  se  stessa. §  4.^*  Secondo  Kant  e  tutti  i  Kantiani  vecchi  e  nuovi, la  stretta  universalità  non  compete  che  a  ciò  che  provie- ne dall'  elemento  formale  o  subbiettivo  della  conoscenza. Ora  ciò  suppone  la  ix^rsistenza  e  l'inalterabihtà  di  quest'e- lemento formale.  Se  io  so,  dice  il  Lange,  che  la  struttu- ra del  mio  occhio  è  la  causa  di  questo  fatto,  che  i  colori acquistano  per  il  contrasto   una  vivacità  particolare,  io concluderò  tosto  che  il  fatto  deve  essere  sempre  cosi  in tutti  i  casi.  Prima  di  sapere  che  il  fatto  ha  questa  causa, il  mio  giudizio  relativamente  a  questo  fatto   non  poteva essere  apodittico,  ma  semplicemente  assertorio:  io  ix)teva congetturare  che  fosse  sempre  cosi,  ma  non  ix)teva  sa- perlo.   Cosi  se  io  so  che  un  telescopio  ha  delle  macchie nei  suoi  vetri,  io  so  pure,  avanti  d' averlo  provato,  che queste  macchie  appariranno  in  tutti  gli  oggetti  sui  (juali io  lo  dirigerò  (Lange  Storia  del  materialismo  voi.  2^  part.  1* cap.  P).    Con  questi  esempi  il  Lange  vuol  provare  che la  più  grande  generalità,  nella  nostra  conoscenza,  appar- tiene  a  ciò  che  è  determinato  dalla  natura  del  nostro  in- tendimento: ma  vediamo  le  supposizioni  che  essi  impli- cano. Perchè,  nei  casi  indicati,  io  possa  fare  delle  previ- sioni sicure  e  generali  sul  modo  come  mi  apppariranno gli  oggetti,  non  devo  io  prima  supporre  che  la  struttura del  mio  occhio  e  il  telescopio  non  cangino,  e  non  cangi nemmeno  l'efficienza  di  queste  cause  nella  determinazione dei  fenomeni  della  visione  ?  Evidentemente,  se  io  ammet- tessi che  la  struttura  del  mio  occhio,  con  le  funzioni  ad essa  legate,  potrebbe  cangiare  da  un  momento  air  altro,, io  non  potrei,  dopo  aver  compreso  che  i  fenomeni  del contrasto  dei  colori  dipendono  dai  miei   occhi  e  non  dai, colori  stessi,  concluderne  che  anche  per  Tavvenire,  in  tutti i  casi,  i  colori  mi  appariranno,  per  il  loro  contrasto,  d'una vivacità  più  grande.  Ma  donde  io  so  che  questa  struttura. e  queste  funzioni  non  cangeranno?  lo  non  lo  so  che  per le  lezioni  dell'esperienza,  la  quale  mi  ha  appreso  ciie  vi ha  della  costanza  nella  struttura  di  un  essere  organizzato e  di  tutte  le  parti  della  sua  organizzazione,  e  nelle  fun- zioni determinate  da  queste  strutture.  Similmente,  se  dopo aver  osservato  che  il  t^.lescopio  ha  delle  macchie,  io  pre- vedo che   queste   macchie  appariranno   negli  oggetti  sui quali  io  lo  dirigerò,  ciò  suppone  che  io  sappia  che  le  mac- chie persisteranno  nel  telescopio  dopo  il  momento  della mia  osservazione.   Questa  ò  un'  inferenza   fondata  sovra un'esperienza  costante,  la  quale  m'insegna  che  gli  oggetti materiali  tendono  a  persistere  nello  stesso  stato,  e  che  non vi  ha  in  essi  cangiamento  senza  una  causa  esteriore  ade- quata. Ciò  suppone   inoltre  che  io  sappia  che  questi  due fatti,  macchie  nel  telescopio,  macchie  negli  oggetti  osser- vati, sono  uniti  da  un  legame  costante:  è  questa  un'altra. nozione  che  io  non  posso  aver  attinto,  egualmente,  se  non dall'esperienza. Facciamo  ora  l'applicazione  di  ciò  che  precede  alle  for- me della  conoscenza.  Noi  non  possiamo,  dice  Kant,  ren- dere ragione  della  proprietà  che  ha  il  nostro  intendimen- to di  effettuare  a  priori  la  sintesi  dei  fenomeni  median- te le  categorie  soltanto,  e  non  con  altro  modo  e  numero delle  medesime  che  1'  attuale,  come  né  anche  del  perchè possediamo  appunto  queste  funzioni  dei  giudizi,  e  non  al- tre, o  perchè  lo  spazio  ed  il  tempo  siano  le  forme  uniche, d'ogni  nostra  intuizione  possibile  {Analitica  §.  21.  fine).  '"'s.''w'N^"-« ^^~--'^,       ^ Egli  ammette  la  possibilità  clie  delle  forme  dell'  intuizio- ne o  delle  forme  dell'  intendiuiento,  diverse  dalle  nostre attuali,  abbiano  luogo  (Analitica,  L  2"",  e.  :?^,  sez,  ^^  IV, Postulato  della  necessità).  Supponiamo  dunque  che  vi  sia un  cangiamento  nella  struttura  del  nostro  spirito:  che  al- tre forme  dell'intendimento,  p.  e.,  si  sostituiscano  alle  at- tuali,  che  la  sintesi  dell'immaginazione  produttiva  abbia luogo  secondo  altre  regole,,  e  non  più  secondo  le  catego- rie attuali.  Allora  l'universalità  assoluta  dei  nostri  giudi- zii,  che  noi  fondiamo  sulle  forme  attuali  della  nostra  intelli- genza, si  troverebbe  in  fallo:  noi  affermiamo,  in  un  giudizio universale,  che  le  cose  avverranno  sempre  cosi  in  tutti i  casi,  perchè  supponiamo  che  le  forme  del  nostro  pen- siero ce  le  mostreranno  sempre  della  stessa  maniera.  Se queste  forme  potessero  cangiare,  noi  non  potremmo  dire che  le  cose  ci  appariranno  sempre  ed  in  tutti  i  casi  co- si. A  ciò  risponderà  forse  un  kantiano  die  la  nozione  del cangiamento  non  essendo  applicabile  clic  ai  fenomeni  o alle  apparenze,  ma  non  alle  cose  stesse,  l'ipotesi  d'un  can- giamento nella  struttura  del  nostro  spirito  non  ha  senso. Ma  questa  obbiezione  non  tocclierebbe  il  fondo  della  qui- stione,  perchè  noi  possiamo  modificare  la  nostra  ipotesi: noi  supporremo  dunque  che  possa  esservi  nelle  forme  del- la nostra  conoscenza,  non  un  cangiamento  propriamente detto,  ma  quella  modificazione  o  difterenziazione,  qualun- que essa  sia,  corrispondente  a  ciò  che  degli  esseri  sen- sibili, condizionati  a  questa  forma  dell'intuizione  che  è  il tempo,  conoscono  come  cangiamento.  Le  conseguenze dell'  ipotesi  sarebbero  sempre  le  stesse  :  non  vi  sarebbe alcun  giudizio  assolutamente  valevole  per  tutti  i  casi,  le apparizioni  dovendo  necessariamente  differire  secondo  la differenza  del  punto  di  vista,  cioè  delle  forme  della  nostra inteUigenza.  Ora  chi  può  insegnarci  la  persistenza  di  que- ste forme,  se  non  l'esperienza?  donde  sappiamo  noi,  nel caso  presente,  che  vi  ha  della  costanza  nella   struttura del  nostro  spirito,  come,  nel  easo  precedente,  nella  strut- tura del  nostro  occhio,  se  non  dalPesperienza  ? Inoltre,  quando  Kant  stabilisce  le  condizioni  universa- li di  ogni  esperienza  possibile,  quando  egli  suppone  che un  giudizio  sintetico  abbia  uu  valore  universale  nel  mon- do dei  fenomeni,  egli  non  parla,  senza  dubbio,  esclusiva- mente della  sua  propria  esperienza  personale,  del  proprio mondo  di  fenomeni  subbiettivo  o  individuale.  «  L'  univer- so, dice  il  nco— kantiano  Lange,  è  un  prodotto  dell'orga- nizzazione del  genere  nei  tratti  generali  e  necessari  di ogni  esperienza.  ..  La  realtà  è  il  fenomeno  per  il  genere, mentre  Y  apparenza  illusoria  è  un  fenomeno  per  Tindivi- duo,  fenomeno  che  non  diviene  un  errore  se  non  perchè gli  si  attribuisce  la  realtà,  cioè  a  dire  V  esistenza  per  il genere»  (Op,  clL  t.  2\  parte  4^  e.  4^.)  Il  mondo  dei  fe- nomeni di  cui  Kant  vuole  spiegare  Torigine,  la  conoscen- za di  cui  egli  ricerca  gli  elementi,  è  dunque  il  mondo  dei fenomeni  e  la  conoscenza,  non  di  un  individuo  particola- re, ma  del  genere  umano.  Kant  sa  che  le  regole  neces- sarie deir esperienza  degli  altri  uomini  sono  identiche  al- le regole  necessarie  della  sua  propria  esperienza,  perchè sa  che  lo  spirito  degh  altri  uomini  è  costituito  come  il  suo, che  le  stesse  forme  della  conoscenza  sono  comuni  a  lui ed  agli  altri.  Ma  chi  può  avere  insegnato  questo  a  Kant, se  non  ancora  l'esperienza  ?  La  validttà  obbiettiva  (V  un giudizio  universale  suppone  dunque  questa  condizione:  che le  forme  della  conoscenza  siano  qualche  cosa  d'invaria- bile, sia  in  ciascun  individuo,  sia  in  tutti  gl'individui  del genere;  e  la  cognizione  che  (juesta  condizione  si  verifica non  potendo  essere  attinta  altrove  che  neiresperienza,  è perciò  vano  il  tentativo  di  Kant  di  fondare  altrove  che neUesperienza  stessa  la  legittimità  delle  conoscenze  uni- versali. §.  5.^'  Secondo  Kant,  il  fondamento  della  leggi ttimità dei  principii  universali  è  che  essi  non  fanno  che  riferire agli  oggetti  conosciuti  le  condizioni  formali  della  cono- scenza :  cosi  il  principio  della  causalità  è  obbiettivamente valevole,  perchè  l'idea  della  causalità  è  una  regola  del- l'attività sintetica  del  pensiero,  di  cui  la  natura  fenome- nale è  un  risultato.  Ne  segue  che  un  principio  tale  non è  applicabile  che  nei  hmiti  della  conoscenza  fenomenale, e  non  abbiamo  alcun  diritto  di  estenderlo  al  di  là:  ne segue  ancora  che,  ogni  progresso,  logicamente  valido,  nella conoscenza  non  essendo  che  l'applicazione  di  alcuno  di questi  principii  rigorosamente  universali,  non  vi  ha  cosa alcuna,  che  non  sia  l'oggetto  d'una  percezione  attuale,  di cui  noi  possiamo  logicamente  ammettere  l'esistenza,  se non  sia  legata  coi  fatti  conosciuti  dell'esperienza,  in  virtù delle  leggi  di  ogni  esperienza  possibile.  In  una  parola  non è  possibile  alla  nostra  conoscenza  di  oltrepassare  l'espe- rienza e  il  mondo  dei  fenomeni.  Kant  ha  esplicitamente ammesse  queste  conseguenze  delle  sue  presupposizioni:  «  I giudizi  sintetici  a  priori,  egli  dice,  non  possono  estendersi oltre  la  sfera  degli  oggetti  subordinati  ai  sensi;  ed  hanno valore  unicamente  nelle  cose  che  possono  essere  comun- que presentate  dall'esperienza  ».  (Conclus.  delVestet,  tra- seendent,  2*  ediz.)  «  Le  categorie  non  sono  d'altro  uso  alla cognizione  delle  cose,  che  altrettanto  solamente  che  queste sono  considerate  come  oggetti  della  esperienza  possibile  » {Analitica  §.  22  fine,  2^  ediz.)  «  Dove  giunge  la  percezio- ne, con  quanto  ne  dipende  in  conformità  delle  leggi  em- piriche, ivi  giunge  pure  il  nostro  sapere  intorno  all'esi- stenza delle  cose.  Se  non  si  parte  dalla  esperienza,  e  non si  progredisce  giusta  le  leggi  della  connessione  empirica delle  apparizioni,  é  vana  ogni  speranza  di  poter  indovi- nare 0  conoscere  l'esistenza  di  qualche  cosa  »  (Analitica, Uh.  2^,  e.  2^,  sez.  >,  IV,  Postulato  della  effettività),  Msl  se è  cosi,  è  vana  la  pretesa  di  Kant  di  ricercare  gli  elemen- ti della  conoscenza  fenomenale  e  l'origine  di  questi  ele- menti, le  cause,  subbiettive  ed  estra  -  subbiettive,  di  cui la  natura  fenomenale  è  un  effetto,  il  modo  di  Ibrmazione, in  una  parola,  di  (|uesto  mondo  delle  nostre  apparizioni. Kant  ammette  che  delle  cose  esteriori  obbiettivamente esistenti,  quantunque  per  noi  sconosciute,  e  che  egli chiama  noumeni,  ci  forniscano,  agendo  sui  nostri  sen- si,  ÌSi  materia  della  nostra  conoscenza;  ed  egli  crede di  avere  scoverto  le  leggi  necessarie  e  il  processo  dei- Tatti  vita  del  nostro  spirito,  per  cui,  con  questa  materia, è  formato  il  mondo  deiresperienza.  Kant  ammette  dunque necessariamente  l'esistenza  di  qualclie  cosa  che  non  fa parte  delKesperienza  i)Ossibile  ;  egli  ammette  ancora  un'at- tività o  un'etticienza  causale,  una  legge,  al  di  fuori  della cerchia  dei  fenomeni;  egli  fa  un  uso  illegittimo  delle  ca- tegorie, applicandole,  non  ])iii  alle  apparizioni  soltanto,  ma anche  alle  cose  in  se  stesse.  Spoglieremo  noi  i  noumeni di  tutto  ciò  die  proviene  dalle  forme  della  nostra  cono- scenza? ma  allora  del  noumeno  non  resterà  che  un  puro niente,  una  [jarola  interamente  vuota  di  senso.  «  Secondo Kant,  dice  uno  storico  a  lui  favorevole,  il  Buhle,  spazio,. tempo,  grandezza,  realtà,  sostanza  ed  accidente,  causali- tà,  unione  di  parti  per  formare  il  tutto,  possibilità  ed  im- jiossibilità,  necessità,  contingenza,  esistenza,  apparenza,, forza,  azione,  passione,  riposo,  sono  principii  soggettivi della  nostra  sensibilità  o  del  nostro  intendimento,  che  non appartengono  oggettivamente  alle  cose.  Che  cosa  è  dun- (lue  la  cosa  in  se  stessa,  che  ammette  Kant,  e  sulla  quale riposano  tanti  punti  del  suo  sistema,  come  la  realtà  og- gettiva della  conoscenza,  la  spiegazione  del  libero  arbitrio e  la  soluzione  delle  antinomie  cosmologiche,  se  questa cosa  non  esiste  oggettivamente  in  alcun  tempo  né  in  al- cun luogo,  se  non  ha  né  grandezza  né  realtà,  se  non-  é né  sostanza  né  accidente,  né  causa  né  effetto,  né  tutto  né parte,  né  possibile  né  impossiìjile,  né  positiva  né  nega- tiva, né  necessaria  né  contingente,  se  non  é  nò  esistenza né  apparenza,  se  non  ha  alcuna   azione  né  alcuna  pas- cri-' sione  e  non  é  nemmeno  in  riposo  ì  »  (Stor.  della  filos.  mod, t  G,  del  criticismo).  L'ammissione  dei  noumeni  è  certa- mente in  contraddizione  col  principio  di  Kant  che  non possiamo  ammettere  l'esistenza  di  alcuna  cosa,  se  non partendo  dalFesperienza,  e  progredendo  giusta  le  leggi empiriche  della  connessione  dei  fenomeni,  principio  che, come  abbiamo  visto,  é  una  conseguenza  di  (luesialtro, che  la  giustificazione  della  conoscenza  universale  é  che il  pensiero  stesso  dà  le  leggi  alle  cose  conosciute.  La  stes- sa contraddizione  si  presenta,  quando  é  quistione  del  pro- cesso con  cui  lo  spirito  costruisce  la  natura  fenomenica, dell'azione  deirintendimento  che  determina  l'ordine  con i  fenomeni  ci  appariscono,  della  sintesi  dell'iinmagi- nazione  produttiva,  dei  concetti  puri,  degli  schemi,  che sono  le  regole  di  questa  sintesi.  Quest'attività  del  pensie- ro, di  cui  il  mondo  dei  fenomeni  é  il  prodotto,  é  essa  stes- sa qualche  cosa  di  fenomenale  o  di  ultra  —  fenomenale  ì Nel  primo  caso  essa  non  può  spiegare  TojMgine  del  feno- meno, perché  essa  stessa  fa  parte  di  quest'ordine  di  ap- parizioni che  si  tratta  di  spiegare.  Nel  secondo  caso  noi non  abbiamo  alcun  mezzo  di  conoscerla  né  di  dimostrar- ne l'esistenza,  perché  essa  non  fa  parte  dell" esperienza  pos- sibile, né  ha  alcun  legame  coi  fatti  conosciuti  dell'esperienza, in  conformità  delle  leggi  della  connessione  empirica  dei  fe- nomeni, che  sole  ci  permettono  d' inferire  l'esistenza  di  qual- che cosa.  Inoltre  tanto  quando  si  ammette  che  le  leggi  dell'in- tendimento detei^minano  le  congiunzioni  dei  fenomeni  o  la loro  forma,  quanto  quando  si  ammette  che  le  cose  in  sé  de- terminano la  materia  di  questi  fenomeni,  noi  abbiamo  un'ap- plicazione illegittima  del  principio  di  causalità,  un'estensione di  questo  concetto  al  di  fuori  dei  limiti  del  mondo  dei  feno- meni. Quest'azione  delle  cose  in  sé,  da  una  parte,  e  que- st'attività dell'intendimento,  dall'altra,  essendo  supposte  le cause  dell'ordine  fenomenale,  vi  ha  necessariamente  in questi  casi  l'ammissione  di  una  connessione  causale,  che '-ifr--r 3non  è   una  connessione  tra   fenomeni,  e  che  quindi  non può  essere  il  prodotto  della  sintesi  del  pensiero. §.  6.^  I  discepoli  di  Kant  hanno  fatto  vari  tentativi  per eliminare  dal  criticismo  queste  contraddizioni  :  ma  esse sono  troppo  inerenti  ed  essenziali  al  sistema,  i)erché  ciò sia  possibile.  È  impossibile  di  sopprimere  la  cosa  in  sé, senza  trasformare  completamente  il  sistema  di  Kant.  Pri- ma di  tutto,  ciò  che  vi  ha  di  essenziale  nel  criticismo,  è il  principio  della  subbiettività  della  nostra  conoscenza.  Se dunque  vi  ha  qualche  cosa  al  di  fuori  del  soggetto  cono- scente, cioè  di  me  stesso  (e  vi  hanno  almeno,  oltre  di  me stesso,  altri  esseri  che  sentono  e  che  pensano),  io  non  posso conoscere  questo  qualche  cosa,  secondo  Kant,  che  rivesten- dolo delle  forme  della  mia  sensibilità  e  del  mio  pensiero. Questo  qualche  cosa  che  esiste  fuori  di  me,  questi  altri esseri  che  sentono  e  che  pensano,  esistono  quali  io  me  li rappresento,  nelle  forme  determinate  dalle  mie  facoltà  co- noscitive ?  Se  si,  e  allora  le  forme  della  mia  sensibilità  e del  mio  pensiero  hanno  un  valore  obbiettivo,  e  non  pura- mente subbiettivo:  i  rapporti,  in  cui  io  mi  rappresento  i differenti  stati  di  ciascuno  di  questi  esseri,  e  questi  esseri differenti,  fra  di  loro,  sono  reali,  e  non  sono  Topera  del mio  pensiero;  V  ordine  e  la  regolarità  dei  fenomeni  sono nelle  cose  stesse,  e  non  vi  sono  stati  posti  da  me  stesso, o  dalla  natura  del  mio  proprio  spirito.  E  clic  resterà  al- lora di  tutto  Tedifizio  della  Critica  Kantiana?  Ammette- remo perciò  invece  che  questi  essesi  fuori  di  me,  e  quest'es- sere stesso  che  io  chianio  me,  non  esistono  nel  modo  in cui  io  me  li  rappresento  ?  Ma  ciò  è  ammettere  che  vi  hanno dei  noumeni  differenti  dai  fenomeni:  questa  distinzione tra  il  fenomeno  e  il  noumeno,  e  perci(')  resistenza  del  nou- meno, è  dunque  un'ipotesi  inevitabile  neirideaUsmo  Kan- tiano.   V Vi  ha  oltre  di  ciò  una  dottrina  in  Kant  che  sembra logicamente  legata  con  lammissione  dei   noumeni  :   è  la distinzione  tra  fa  forma  e  la  materia  della  conoscenza. Questa  spiega  perchè  noi  non  possiamo  conoscere  a /)r/o- ri  le  leggi  particolari  della  natura,  ma  solo  le  modalità generali  della  congiunzione  tra  i  fenomeni,  quale  il  prin- cipio della  connessione  tra  la  causa  e  T  effetto;  la  cono- scenza delle  uniformità  particolari  tra  i  fenomeni  essendo d  altronde  per  Kant  fondata  sulFesperienza.  Ma  se  la  ma- teria della  conoscenza  non  sopravvenisse  allo  spirito  dal di  fuori,  non  si  comprenderebbero  questi  Hmiti  imposti air  attività  del  pensiero  nella  formazione  del  mondo  dei fenemeni,  e  sarebbero  perciò  stesso  inesplicabili  i  limiti corrispondenti  che  lo  spirito  incontra  nella  conoscenza  a priori  di  questo  mondo.  Se  non  si  ammette  dunque  la  cosa in  sé,  bisogna  abbandonare  la  distinzione  tra  la  forma  e la  materia,  tra  Y  a  priori  e  Va  posteriori:  da  Kant  si  passa a  Fichte,  il  quale  sopprime  il  noumeno  Kantiano,  ma  am- mette al  tempo  stesso  che  la  natura,  senza  distinzione  di forma  e  di  contenuto,  è  unicamente  il  prodotto  dell'attività del  pensiero,  e  che  questo  sviluppa  dal  suo  propri<)  fondo il  sistema  intero  della  conoscenza. Un  kantiano  moderno,  conformemente  alla  tendenza essenzialmente  materiahsta  e  punto  idealista  della  filosofia contemporanea,  é  piuttosto  nell'ipotesi  trascendente  delFef- ficienza  dei  concetti  puri  dell'intendimento  che  deve  tro- vare un  intoppo.  Cosi  il  Lange  vuol  sostituire  l'organizza- zione ai  concetti  puri  dell'intendimento  di  Kant  :  la  sintesi a  priori  non  è  più  per  lui  dovuta  all'azione  coordinatrice dell'intendimento  puro  sui  dati  dei  nostri  sensi,  ma  piut- tosto, sembra,  al  concorso  spontaneo  di  questi  dati  stessi secondo  leggi  determinate  dalla  nostra  organizzazione.  Le categorie  di  Kant  gii  sembrano  «  una  personificazione  alla maniera  di  Platone  »  ;  questi  concetti  non  sono  l'origine dell'a  priori,  essi  ne  sono  tutt'al  più  l'espressione  più  sem- phce.  Ma  se  non  si  ammette  questo  platonismo,  tutta  la critica  delta  ragion  pura  si  risolve,  dice  il  Lange,  in  una pura  tautologia  :  la  sintesi  a  priori  ha  la  sua  causa  nella sintesi  a  priori,  e  T  esperienza  deve  essere  spiegata  per le  condizioni  generali  deir  esperienza  possibile.  Se  la  de- duzione trascendentale  deve,  in  luogo  di  questa  tautologia, dare  un  risultato  sintetico,  bisogna  necessariamente  che le  categorie  siano  ancora  qualche  cosa  oltre  che  esse  costi- tuiscano le  condizioni  generali  deiresperienza.  È  ciò  che bisogna  cercare  in  Kant,  che  le  chiama  concetti  ^  stipiti della  ragion  pura:  ma  T  autore,  in  (juanto  a  lui,  li  rim- piazza per  Torganizzazione.  La  dottrina  d'un  pensiero />z«ro, d'un  intendimento  Ubero  interamente  dairinfluenza  dei  sen- si, sembra  giustamente  al  Lange  una  delle  delx)lezze  più deplorevoli  del  sistema  kantiano.  La  sintesi  delle  impres- sioni non  presuppone,  egli  dice,  la  categoria  della  sostanza; al  contrario  la  sintesi  sensoriale  delle  impressioni  è  la base  sulla  quale  solamente  una  categoria  della  sostanza potrà  svilupi)arsi.  Non  sono  i  concetti  stessi  che  esistono avanti  Tesperienza,  ma  solo  delle  disposizioni  tali  che  le impressioni  del  mondo  esteriore  sono  tosto  riunite  e  coor- dinate conformemente  alla  regola  fornita  da  questi  con- cetti. Forse  si  troverà,  un  giorno,  il  fondo  dell'  idea  di causalità  nel  meccanismo  del  movimento  riflesso  e  dell'ec- citazione simpatica:  allora  avremo  la  Ragion  pura  di  Kant tradotta  in  fisiologia,  e  resa  cosi  più  evidente  (V.  Storia del  rnaterialisnio  t.  2*^  parto  1*  e.  V  e  note  25,20,37). A  questa  trasiormazione  del  kantismo  si  presenta  na- turalmente lo  stesso  dilenmia  che  noi  dianzi  abbiamo op[X)sto  al  sistema  originale  di  Kant.  Come  bisogna  inten- dere quest'  organizzazione,  in  cui  Lange  vuol  trovare  la base  della  sintesi  a  priori,  delle  condizioni  generaU  di  ogni esperienza  possibile  ?  E  l'organizzazione  fìsica,  fenomenale  ? Ma  questa  suppone  già  le  leggi  generali  del  fenomeno,  le condizioni  di  ogni  esperienza  possibile  :  essa  non  può  spie- gare rordine  dei  fenomeni,  perchè  essa  stessa  è  parte  di quest'ordine  che  si  tratta  di  spiegare.  Sarà  invece  il  lato trascendente  dell'organizzazione  fisica,  fenomenale,  la  «co- sa in  sé  del  cervello  »  ?  (v.  t.  2«  nota  00  alla  .3*  parte). Ma  non  si  può,  secondo  i  principii  del  criticismo,  conce- pire la  cosa  in  sé,  non  si  può  provarne  \  esistenza.  Noi non  possiamo  concepirla,  perchè  le  nostre  concezioni  sono limitate  dalle  forme  subbiettive  dell'intuizione  sensibile  e del  pensiero  ;  noi  non  possiamo  provarne  resistenza,  per- chè ogni  prova  riposa  su  dei  principii  che  non  sono  che l'espressione  delle  condizioni  generali  dell'esperienza  pos- *  sibile,  e  questi  principii  non  possono  applicarsi  che  nei limiti  di  questa  esperienza  stessa. Per  altro  questo  compromesso  tra  i  principii  della  Cri- tica della  ragion  pura  e  queUi  della  psicologia  fisiologica sembrerà,  dopo  l'iflessione,  non  altro  che  una  combina- zione puramente  arbitraria,  che  non  soddisfa  alle  esigen- ze, i>er  cui  le  i]:>otesi  metafisiche,  rimaneggiate  in  uno  spi- rito di  eclettismo,  erano  state  unicamente  create.  Tanto la  cosa  in  sé,  quanto  la  efficienza  d'un  principio  subìjiet- tivo  sulle  forme  o  sull'ordine  con  cui  i  fenomeni  ci  vegono presentati,  sono  delle  veri  i|30tesi  metafisiche:  vale a  dire,  esse  sono  destituite  affatto  di  prove,  e  non  si  è inclinati  ad  ammetterle  che  in  virtù  delle  tendenze  me- tafìsiche dello  spirito  umano.  Queste  tendenze,  come  mo- streremo nel  Saggio  2,''  si  riducono,  nella  loro  origine, all'influenza  di  forti  abitudini  mentah,  inse[)arabili  dall'e- sercizio della  nostra  intelligenza.  Noi  non  ammettiamo  la cosa  in  sé  che  per  l'abitudine  di  obbiettivare  le  nostre sensazioni:  tutta  la  forza  e  il  valore  dell'ipotesi  si  ridu- ce a  ciò,  che  per  essa  è  soddisfatto  questo  bisogno  dell'ob- biettività che  ha  il  nostro  spirito.  Similmente  l'ipotesi  kan- tiana, che  le  forme  o  l'ordine  con  cui  ci  vengono  dati  i fenomeni,  hanno  le  loro  catise  nel  soggetto  conoscente, non  deve  la  sua  forza  e  il  suo  valore  che  alla  tendenza generale,  di  cui  essa  è  un  caso,  che  ci  porta  ad  elevare la  nostra  attività,  sia  interna  sia  diretta  sul  mondo  esteriore,  a  tipo  di  spiegazione  universale.  Questa  tendenza proviene  anch'essa  dairinfluenza  di  una  forte  abitudine mentale,  poiché  i  fatti  che  servono  di  base  alla  spiega- zione, come  quelli  che  servono  di  base  a  qualsiasi  altra spiegazione  metafìsica,  non  sono  che  dei  fenomeni  del- la nostra  esperienza  più  familare,  la  spiegazione  me- tafisica consistendo  appunto  a  ricondurre  tutti  i  feno- meni a  quelli  che  ci  sono  i  più  familiari  (v.  Saggio 2»  parte  1^).  Cosi  se  all'attività  del  pensiero,  come  prin- cipio  determinante  Tordine  e  la  regolarità  dei  fenomeni,  si* sostituisce  il  meccanismo  delFazione  riflessa,  con  cui  solo il  fisiologo  ha  qualche  familiarità,  o  Fazione  delle  cosa  in sé  del  cervello,  di  cui  alcuno  non  ha  mai  conosciuto  né immaginato  niente  di  simile,  l'ipotesi  cosi  modificata  non corrisponde  più  alle  condizioni  e  allo  scopo  d'un'ipotesi metafisica  :  essa  non  riduce  più  i  fatti  al  tipo  di  qualche fatto  dei  più  familiari  della  nostra  esperienza  quotidiana, e  non  è  più  quindi  una  spiegazione.  Da  un  alto  canto,  è più  soddisfacente  per  il  nostro  bisogno  dell'obbiettività,  di riguardare  con  Spencer  il  nexus  dei  fenomeni  come  il  cor- relativo di  un  nexus  obbiettivo  delle  cose  in  se  stesse,  an- ziché di  riguardarlo,  con  Kant  e  coi  suoi,  come  il  pro- dotto di  un  principio  subbiettivo.  Ma  ciò  che  Kant  perde- va da  questa  parte,  lo  guadagnava  dall'altra,  perchè  egli dava  una  spiegazione  di  questo  nexus  dei  fenomeni:  al contrario,  la  perdita  di  Lange  è  senza  compenso,  perchè la  sua  ipotesi  sull'origine  di  questo  nexus  non  è,  come abbiamo  detto,  una  spiegazione. Del  resto,  sia  che  col  vecchio  kantiano  Sigismondo Beck  (in  cui  Fichte  riconosceva  il  suo  precursore)  si  sop- prima l'azione  della  cosa  in  sé  nella  produzione  del  mon- do dei  fenomeni;  sia  che  col  neo— kantiano  Lange  si  sop- prima l'azione  dei  concetti;  non  si  é  fatto  niente  ancora per  ehminare  la  contraddizione,  inerente  al  sistema,  di estendere  al  di  là  del  mondo  dei  fenomeni  la  nozione  di  r:  l'oggetto  della  conoscenza  a  priori 305 causa,  che,  sec^ondo  i  principii  del  criticismo,  non  serve che  a  completare  il  cervino  delle  conoscenze  fenomenali. Se  si  sopprime  la  cosa  in  sé,  non  si  ta  che  riportare  sui concetti  la  parte  di  causalità  che  a  quella  veniva  attri- buita; se  si  sopprime  l'attività  dell'intendimento  o  dei  con- cetti, la  parte  di  causalità  attribuita  a  questi  viene  ripor- tata sulla  cosa  in  sé:  ma,  in  ogni  caso,  ricercare  con  Kant l'origine  e  la  produzione  del  mondo  dei  fenomeni,  significa mettere  in  rapporto  questo  mondo  dei  fenomeni  con  qual- che esistenza  trascendente,  mediante  un  legame  che  non può  essere  che  quello  di  causalità,  qualunque  sia  d'altronde il  nome  con  cui  si  voglia  designarlo  (1). (l)  Non  bisogna  tacere  che  il  Lange  non  lui.  in  fin  dei  conti, più  rispetto  per  la  cosa  in  sé  che  pei  concetti  dell'intendimento puro.  «  Noi  non  sappiamo  realmente,  egli  dice,  se  una  cosa  in  sé esiste.  Noi  sappiamo  solamente  che  Tapplicazione  logica  delle  leggi <Iel  nostro  pensiero  ci  conduce  alFidea  di  una  qualche  cosa  d' in- teramenle  lìroblematico,  che  noi  ammettiamo  come  causa  dei  fe- nomeni,  dacché  abbiamo  riconosciuto  che  il  nostro  mondo  non può  essere  che  un  mondo  della  rappresentazione.  Si  domanda  : ^h^  ove  restano  ora  dunque  le  cose  ?  la  risposta  sarà  :  Nei  fenomeni. Più  la  cosa  in  sé  si  volatizza,  e  si  riduce  a  una  semplice  rappre- sentazione,  più  il  mondo  dei  fenomeni  acquista  della  realta.  Esso comprende  in  generale  tutto  ciò  che  noi  chiamiamo  T-ealc.  I  feno- meni sono  ciò  che  il  senso  comune  chiama  cose.  11  filosofo  chia- ma le  cose  fenomeni,  per  indicare  che  esse  non  sono  semplicemente (lualche  cosa  di  situato  esteriormente  in  faccia  di  me,  ma  un  pro- dotto delle  leggi  del  mio  spirito  e  dei  miei  sensi»  (t.  2,  p.  58  tra- duzione francese). Ecco  dunciue  Lange  arrivato,  come  già  altri  criticisti  prima  di lui,  al  puro  fenomenismo:  il  concetto  problematico  e,  come  egli dice  seguendo  lo  stesso  Kant,  puramente  UnutaUco  della  cosa  in se  non  pone  niente  di  contrario  a  (juesta  dottrina;  nessun  fenome- nista  vorrà  contestare  la  possibilità  di  qualche  altra  forma  della esistenza  al  di  fuori  del  mondo  dei  fenomeni  che  noi  conosciamo. Certamente  ilfenomenìsmo  è  il  risultato,  a  cui  uno  spirito  logico, ì>rendendo  le  mosse  dai  principii  della  Critica  della  ragion  pura, è  facilmente  condotto.  Kant  si  avvolgeva  in  una  contraddizione Riassumiamo.  Secondo  Kant,  ogni  principio  ri- gorosamente universale,  che  dà  un'estensione  alia  nostra conoscenza,  è  un  giudizio  sintetico  a  priori)  e  un  giudizio sintetico  a  priori  ha  un  valore  obbiettivo,  in  quanto  ò  il pensiero  stesso  che  determina  il  suo  oggetto.  Un  principio necessario  ed  universale  dunque,  o  un  giudizio  sintetico a  priori,  non  ha  valore  che  nei  limiti  del  mondo  delle apparizioni,  in  (guanto  queste  sono,  riguardo  alla  l'orma, insolubile  (iiumdu,  avendo  posto  come  i)iincii>io  che  la  nosti'a  co- noscenza è  puramente  fenomenale,  si  domandava  poi  donde  ci l>rovenisse  «jiiesf  oggetto  fenomenale  che  noi  conosciamo,  il  che supponeva  che  si  potesse  conoscere  ((ualche  cosa  al  di  là  del  fe- nomeno. Il  Lange  poteva  dunque  felicitarsi  di  avere  sl)arazzato  il kantismo  da  una  patente  contraddizione,  quando  egli  rigettava l'atfermazione  categorica  d'una  cosa  in  sé  e  la  dottrina  dell'inten- dimento  puro  che  produce  la  sintesi  delle  impressioni  sensibili,  o l'ordine  dei  fenomeni.  Ma  cìie  resta  allora  di  Kant?  Non  resta  che ciò  che  questo  tilosofo  ha  di  comune  col  vecchio  Protagara  :  l'uo- mo è  la  misura  di  tutte  le  Qose. Il  fenomenismo  criticista  non  è  il  fenomenismo  dei  gi'andì  lilo- sofi  em|>iristi  inglesi:  noi  potremmo  chiamare  (piello  di  un  Mill  o di  un  Hain  un  fencmienismo  ohbiettLro^  e  (piello  dei  neo  -  ktjntiani un  fenomenismo  .<uhf*fettir(j.  La  categoria  nonèi»iùper  Lange  un concetto  deirintendiinento  puro  anteriore  alla  conoscenza  empi- rica :  ma  essa  è  semi»re  una  forma  subbiettiva  di  cui  lo  spirito  ri- veste i  dati  dei  sensi.  L'ordine  dei  fenomeni  dunque  non  è  niente di  reale  e  di  assoluto,  ]>erchc  quest'ordine  non  è  che  una  forma della  mia  conoscenza:  la  connessione  dei  fenomeni  non  esiste  che per  lo  spirito  connettente.  Vi  furono  realmente  prima  di'  me  degli esseri  che  sentirono  e  che  pensarono?  ve  ne  sono  simultaneamente a  me?  ve  ne  saranno  dopo  di  me?  Il  prima,  il  dopo,  il  simulta- neamente iianno  un'  esistenza  reale,  ol)biettiva?  No,  secondo  i  Kan- tiani: il  tempo  non  è  niente  fuori  di  me;  1'  ordine  non  è  nei  fatti conosciuti,  ma  nel  soggetto  conoscente  ;  gli  altri  esseri,  quali  io  li conosco,  non  sono  che  un  prodotto  della  mia  facoltà  conoscitiva; l'oggetto  conosciuto  non  esiste  per  se  stesso,  ma  pel  soggetto  co- noscente. È  questa  impossibilità  di  uscire  dal  proprio  me,  quest'aj)- l^erenza  universale  senza  poter  alTerrare  aUuina  realtà,  che  è  la conseguenza   inevitaì)ile  del  Ivantismo.  L  ciò  che  Fichte  dichiara determinate  dal  pensiero.  Ne  segue  ciie  alcuna  connes- sione fra  le  cose  non  è  conoscibile,  se  non  è  una  connes- sione tra  apparizioni,  in  quanto  questa  viene  determinata dall'attività  connettente  del  pensiero.  Ne  segue  ancora  che r  esistenza  di  cosa  alcuna  non  è  conoscibile,  se  questa cosa  non  appartiene  al  mondo  dei  fenomeni,  o  delle  ap- parenze; poiché,  da  una  parte,  noi  non  abbiamo  altro  di  dato die  i  fenomeni  o  le  apparenze,  e   dallaltra  parte,  niente nei  termini  più  espliciti  (v.  Destina:: Ione  deWuoìno,  in  line  della  2. parte):  egli  vuol  ricondurre  per  la  credenza  l'elemento  della  realtà che  sfugge  allo  conoscenza,  ma  cpiesto  è  semplicemente  confessare rinsufìicienza  del  sistema.  (V.  la  stessa  opera,  parte  3.  Noi  dob- biamo ammettere,  secondo  Fichte,  che  le  apparizioni  che,  nello spazio,  si  mostrano  simili  a  noi  stessi,  sono  realmente  degli  esseri simili  a  noi,.i>erchè  la  coscienza  morale  ci  ordina  di  riguardarle come  creature  libere,  indipendenti  da  noi  ed  esistenti  perse  stesse, <»  di  rispettare  la  loro  libertà.  Percorrendo  sino  infondo  la  via  su' cui  Kant  aveva  fatto  i  primi  passi  con  la  Critica  della  ragioff. jfratira,  ciò  che  il  kantisiuo  ha  distrutto  o  i*eso  pro])lematico,  Fichte lo  ristabilisce  a  titolo  di  credenza,  fondata  sulla  coscienza  della legue  morale:  l'esistenza  di  altri  me  al  di  fuori  del  suo  proprio  e la  realtà  del  mondo  esteriore,  come  l'esistenza  di  Dio  e  l'immor- t(dilà  dell'anima.  Un  tale  processo,  applicato  in  tutto  il  suo  rigore, conduce  ad  abbracciai'e  nel  dominio  della  credenza  tutto  ciò  che oltrepassa  il  fenomeno  immediato  della  coscienza  — poi  che,  dacché si  tratta  di  passare  dalla  rappresentazione  alla  cosa  rappresentala, <piaiHr  anche  questa  non  fosse  che  uno  stato,  passato  o  futuro! della  nostra  propria  coscienza,  nasce  la  ditììcoltà  che  tutto  ciò  che noi  ci  rappresentiamo,  non  ce  lo  rappresentiamo  che  nel  modo determinato  dalla  forma  della  nostra  facoltà  l'appresentativa  — K €iò  che  fa  esplicitamente  Renouvier  { Saggi  di  critica  generale, Saggio  2.  parte  2,  segnatamente  §  14  e  IG),  ritornando,  dopo  aver ^attraversato  il  criticismo,  olla  lìlosofia  del  senso  comune  o  delle credenze  naturali.  Senza  duJDbio,  è  vero  in  un  senso  di  dire  che  è per  un  otto  di  credenza  che  noi  oltrepassiamo  il  fenomeno  imme- diato della  coscienza,  in  quanto  il  pensiero  non  può  uscire  da  se stesso  e  portarsi  sulla  cosa  pensata,  per  conseguenza  la  coinciden- za tra  il  pensiero  e  la  realità  non  è  che  un  postulato,  e  ogni  nostra o.onoscenza  riposa,  in  ultima  rmalisi,  sopra  un  atto  di  fede  nel  va- può  essere  inferito  se  non  in  virtù  d'una  connessione  con ([ualche  cosa  di  dato,  e  noi  non  possiamo  conoscere  altra connessione  che  tra  fenomeni  o  apparenze,  in  quanto ({uesta  è  prodotta  dall'attività  sintetica  del  pensiero. Ma  dire  che  gli  oggetti  che  noi  conosciamo  non  sono che  apparenze,  è  dire  che  vi  hanno  oltre  di  essi  delle realtà  di  cui  essi  sono  le  apparenze  :  quindi  è  dire  ancora che  vi  ha  una  connessione  tra  queste  realtà  e  ({ueste  ap- lorc  renle  delle  nostre  facoltà  conoscitive  (v.  il  caiutolo  ultimo  di questo  Saggio).  Ma  quest'atto  di  fede  nel  criticismo  diventa  irra- c;ionevole,  poicliè,  se  si  ammette  clie  tutto  ciò  clic  noi  conosciamo, lo  conosciamo  nel  modo  determinato  dalla  nostra  facoltà  cono- scitiva, resta  sempre  possibile,  è  vero,  clic  vi  siano  al  di  fuori  del- le nostre  rappresentazioni  delle  cose  conformi  a  queste  rappresen- tazioni, ma  questa  conformità  diviene  un  fatto  fortui-to  e  assoluta- mente incomprensibile,  perchè  la  conformità  tra  il  pensiero  e  le cose  noi  non  possiamo  comprenderla  altrimenti  che  come  un  ef- fetto delle  impressioni  delle  cose  stesse  -  cioè  dei  fenomeni  reali— sul  soggetto  pensante). Secondo  Stuarfc-Mill  il  mondo  materiale  non  è  niente  allinfuori delle  sensazioni,  e  si  può  dire  clie  il  reale  per  lui  non  consiste  che nelle  sensazioni,  o  per  usare  una  parola  a  cui  è  stato  dato  un  senso più  generico,  nei  sentimenti  degli  esseri  senzienti.  Ma  l'ordine  con cui  queste  sensazioni  si  presentano  (ciò  che  noi  chiamiamo  le  leggi della  natura)  è  qualche  cosa  di  reale,  di  obbiettivo:  le  loro  con- nessioni, le  serie  distinte  che  esse  formano  (di  cui  ciascuna  costi- '  tuisce  un  me  distinto),  non  che  i  rapporti  fra  queste  serie,  esisto- no indipendentemente  dalla  mia  conoscenza.  Si  è  obbiettato  a  ({ueslo sistema  rimpossil)ilità  di  affermare  resistenza  di  altri  spiriti  al  di fuori  òcì  proprio:  quest'obbiezione  nasce  da  una  comprensione  ine- satta del  sistema.  Io  osservo  che  certe  sensazioni  appartenenti  al gruppo  che  io  chiamo  il  mio  corpo,  sono  in  rapporti  costanti  sequenza  o  di  antecedenza  con  altri  sentimenti  appartenenti  alla serie  che  io  chiamo  il  mio  spirito:  emozioni,  volizioni,  pensieri, ecc.  (notiamo  che  questi  rajìporti  non  sono,  rigorosamente  parlando, costanti,  che  se  alle  sensazioni  reali  si  aggiungono  le  passibilità (U  sensazioni).  Fondandomi  sull'esperienza  di  questi  rapporti,  tutte le  volte  che  mi  si  presentano  altre  sensazioni  simili,  o  che  io  sono autorizzato  ad  ammettere  delle  possibilità  di  altre  sensazioni  si- parenze.  Ora  se  è  cosi,  noi  conosciamo  delle  cos9  che  non sono  apparenze,  e  delle  connessioni  che  non  sono  connes- sioni tra  semplici  apparenze,  determinate  dalla  virtù  con- nettente del  pensiero.  Inoltre  dire  che  Fattività  del  pen- siero determina  le  apparizioni  in  quanto  alla  loro  connes- sione, è  dire  che  vi  ha  qualche  cosa  (il  pensiero  connettente) prima  e  al  di  là  del  mondo  delle  apparizioni:  di  più  è  dire che  fi*a  questa  qualclie  co.sa  e  il  mondo  delle  apparizioni mili,  appartenenti  ai  grupi>i  che  io  chiamo  corpi  simili  al  mio,  io ne  inferisco  che  esse  sono  legate  per  gli  stessi  rai>porti  di  sequenza e  dì  antecedenza  con  altri  sentimenti  simili  a  riuelli  che  io  chiamo stati  del  mio  spirito.  Questi  altri  sentimenti  che  io  inferisco,  non fanno  parte  della  mia  coscienza;  essi  sono  gli  stati  di  altre  coscienze, di  altri  spiriti  simili  al  mio.  Ma  ciò  non  toglie  niente  alla  validità delle  mie  inferenze:  io  non  ho  potut.0  osservare  i  rapporti  su  cui queste  inferenze  si  fondano,  ne  verificarle  direttamente,  che  nei limiti  della  nu'a  esperienza  personale,  cioè  della  mia  propria  co- scienza ;  ma  è  nella  esperienza  personale  di  ciascuno  che  si  tro- vano, in  ultima  analisi,  gli  antecedenti  logici  di  tutte  le  conoscenze che  egli  può  acquistare.  Se  io  ho  appreso  per  la  mia  esperienza personale  che  certe  possibilità  di  sensazioni,  che  noi  chiamiamo (lei  fatti  del  mondo  materiale,  sono  in  un  rapi>orto  costante  con certi  stati  di  coscienza  o  fatti  del  mondo  spirituale,  io  sono  auto- rizzato ad  inferirne  che  lo  stesso  avviene  al  di  là  dei  limiti  della mia  esperienza  personale,  cioè  al  di  fuori  della  mia  propria  coscienza. L'operazione  induttiva,  cosi  bene  che  i  dati  da  cui  essa  parte,  sono ]>recisamente  gli  stessi  che  se  io  credessi  alla  realtà  della  materiji, cioè  se  io  realizzassi,  come  fa  il  realista  naturale,  le  possibilità di  sensazioni  (confr.  Mill  Filosofìa  di  Hamilton,  cap.  12.  e  Appen- dice ai  cap.  M.  e  12.  nota  penultima).  Questa  inferenza,  la  (juale  mi conduce  all' affermazione  di  altri  esseri  fuori  di  me,  è  legittima, perchè  i  rapporti  sovra  cui  essa  si  fonda,  sono  dei  rapporti  reali, obbiettivi:  ma  un  kantiano  non  iniò  fare  legitLiinamentc  <piesta  in- ferenza, perchè  l'antecedenza  e  la  sequenza,  il  tempo,  la  causalità, in  una  parola,  l'ordine  dei  fenomeni,  non  è  che  un  prodotto  del  suo j.ensiero,  una  forma  della  sua  conoscenza,  un'apparenza  insomma «e  non  una  realtà.  1/ oggetto  conosciuto  è  per  Mill  indipendente dal  soggetto  conoscente;  ma  i^er  un  kantiano,  e  tanto  più  per  un kantiano  fenonìenista,  l'oggetto  conosciuto  non  è  niente  di  asso- vi  Jia  una  connessione,  che  non  pu('>  essere  Teffetto  dellat- tività  del  pensiero,  perclié  questa  connessione  non  è  altro che  la  stessa  attività  del  pensiero.  Noi  aljbiamo  cosi  delle conoscenze  sulle  cose  e  sulle  connessioni  tra  le  cose,  che non  sono  limitate  al  inondo  delle  apparenze  :  se  (jueste conoscenze  fossero  scientifiche  o  rigorose,  dovrebìjero  es- sere il  i)ortato  di  principii  necessari  e  strettamente  uni- versali,  e   (juindi  di  giudizi  sintetici  a  priori.  Ma  questi luto,  esso  non  e  che  relativo  al  soggetto  conoscente.  Sinché  il  sog- getto conoscente  e  l'oggetto  conosciuto  sono  una  sola  e  stessa  cosa (la  coscienza  che  ciascuno  ha  degli  stati  del  suo  proprio  me),  non vi  ha  una  difhcoltà  seria  :  ciò  che  io  (come  oggetto  conosciuto)  sono relativamente  a  me  stesso  (come  soggetto  conoscente),  sarà  una realtà  in  confronto  di  tutto  ciò  che  io  posso  essere  relativamente ad  altri  soggetti  conoscenti.  Ma  (juando  si  stabilisce  un  rai)i>orto (p.  e.  di  anteriorità  e  posteriorità)  fra  esseri  distinti,  dove  sarà  la realtà  ?  Il  tempo  non  è,  secondo  Kant,,  che  una  forma  del  mio  senso interno;  la  causazione,  la  reciprocità  d'azione,  ecc.  non  sono  che categorie  del  mio  intendimento;  in  una  parola,  non  vi  ha  alcun rapi^orto  reale  tra  i  fatti  stessi,  e  lordine  che  noi  attribuiamo  alle cose  non  è  niente  al-  di  fuori  della  nostra  rappresentazione.  Un  es- sere organizzato  difterentemente  da  noi  potrebbe  loro  attribuirne un  altro:  (juale  sarà  la  verità  1  Per  ciascuno  ù  rero  ciò  che  (jU pare:  ecco  la  formula  che  riassume  il  criticismo  fenomenista.  Per Kant,  che  ammetteva  i  noumeni^  la  verità  era  inaccessibile;  per un   kantiano  che  li  rigetta,  la  verità  non  esiste.  Senza  dub])io, Protagora  era  più  logico  di  Kant  e  dei  suoi  discepoli,  (juando  di- chiarava ugualmente  vere  tutte  le  apivarenze,  tutte  le  opinioni:  noi riconosciamo  che  vi  ha  in  questa  audace  tesi  dell'antico  sofista un  carattere  veramente  .^q/ìstlco  (nel  senso  tradizionale  della  pa- rola), ma  è  una  conseguenza  logica  del  lìrincipio,  ammes.so  ugual- mente dai  kantiani,  che  l'oggetto  conosciuto  non  è  che  relativa- mente al  soggetto  conoscente    La  verità  è  la  corrispondenza  fra il  pensiero  e  le  cose,  fra  la  rappresentazione  e  gli  oggetti  rappre- sentati, aequatlo  rei  et  intcì/ectas:  se  questa  corrispondenza  non esiste,  la  verità  non  esiste,  non  vi  ha  i)iù  distinzione  tra  il  vero  e il  falso,  e  tutte  le  opinioni  sono  egualmente  vere  (ed  egualmente false). Xoi  non  potremmo  tropiuì  insistere  su  questa  din'erenza  tra  il E  l'oggetto  dell.v  conosg  :nza  a  priori 3giuilizi  non  hanno  valore  che  unicamente  nei  limiti  de! mondo  delle  apparizioni,  perchè  non  vi  lia  die  un  caso,  se- condo Kant,  in  cui  un  giudizio  sintetico  a  priori  è  pos- sibile: (juando  è  il  pensiero  che  determina  l'oggetto  co- nosciuto. Per  conseguenza  o  non  è  vero  che  sia  questa che  dice  Kant  la  condizione  della  validità  dei  giudizi  sin- tetici a  priori,  o  non  è  vero  che  le  conoscenze  di  cui  so- pra abbiamo  parlato,  le  quali  non  potrel)bero  essere  che fenomenisuio  di  un  empirista  e  (|uello  di  un  criticista.  Per  Mill  le cose  risolvendosi  in  sensazioni,  la  verità  è  l'accordo  fra  le  rapi>re- sentazioni  e  le  sensazioni  :  quando  i  rapporti  di  sequenza  o  di  coe- sistenza, che  noi  ci  ra])i>resentiamo  fra  le  sensazioni  (nostre  e  de-gli altri),  corrispondono  al  loro  ordine  reale,  vi  ha  verità;  la  verità è  assoluta,  i^erchè  quest'ordine  è  assoluto,  non  è  relativo  al  sog- getto conoscente.  Ma,  per  un  kantiano,  cosa  può  essere  la  verità? «  F/universo  (sono  parole  di  Lange  che  in  parte  abbiamo  già  citate) è  non  solo  una  rappresentazione,  ma  la  nostra  l'appresentazione, un  prodotto  dell'organizzazione  del  genere  nei  tratti  generali  e  ne- cessari di  ogni  esperienza,  un  prodotto  dell'individuo  nella  sintesi che  .lisi»(ìne  liberamente  del  suo  oggetto.  Si  i)uò  dunque  dire  che la  realta  è  il  fenomeno  ])er  il  genei'e,  mentre  l'apparenza  illusoria è  un  fenomeno  per  l'individuo,  fenomeno  che  non  diviene  un  er- rore, se  non  perchè  gli  si  attribuisce  la  realtà,  cioè  a  dire  l'esisteza i»er  il  genere  ».  Ma  queste  proposizioni  di  Lange  possono  sem- braj'c  un'inconseguenza  in  un  darwiniano:  esse  su|>]^ongono  che la'  specie  sia  rigorosamente  delimitata;  che  vi  siano  delle  essenze o  delle  Idee,  degli  stampi  insonmia  su  cui  la  natura  modella  co- stantemente gl'individui  ;  che  unatlìnità  e  una  distinzione  di  si)ecie sia  <jualche  cosa  di  reale,  mentre  le  altre  relaziinii  fra  gli  esseri sono  qualche  cosa  di  semplicemente  ideale.  Per  un  criticisla  che non  ammette  la  fissità  delle  specie,  la  verità,  se  essa  è  il  prodotto dell'organizzazione,  non  può  essere  (die  variabile  e  individuale  co- me l'organizzazione  stessa.  Ma  sia  qualsivoglia  la  definizione  della verità  per  un  kantiano:  tutte  le  volte  che  per  (juesta  parola  s' in- tcìnde  altra  cosa  che  la  conformità  della  rappresentazione  con  gli oggetti  rai)presentati,  non  si  conserva  che  il  nome  solo  della  ve- rità. E  allcM'a  non  si  può  parlare  che  ]ier  equivoco  di  vero  e  di  fal- so, di  rappresentazione,  di  conoscenza,  ecc.:  gli  stessi  stati  sub- biettivi,  che  noi  chiamiajno  certezza,  opinione,  dubbio,  afferma- :,-iirai;r'i;.flai;;i„TSt«t,a 3i2   :) londdte  su  giudizi  sintetici  a  priori,  abbiano  un  valore obbiettivo  La  spiegazione  di  Kant  dei  giu.lizi  sintetici a  priori  implica  perciò  contraddizione:  ma  questi  giudizi non  sono  possibili  che  alla  condizione  voluta  dalla  s'^piei.^a- zione;  dunque  non  vi  hanno  giudizi  sintetici  a  priori.  Ora, siccome  secondo  Kant  non  possono  immaginarsi  che  due casi,  in  cui  possa  esservi  coincidenza  fra  la  conoscenza sintetica  e  il  suo  oggetto— o  il  pensiero  determina  rono^et- zione,  ncKOzione,  ecc.,  un  fenoiiienisla  KiuUiiuio  non  ruò  provarli ohe  mettendosi  in  controdtlizione  con  le  sue  idee  speculative.  Ma a  die  si  riducono  aUora  queste  i«lee  speculative,  ch'e.Lrli  è  obbli- gato di  smentire  ad  ogni  momento  nei  casi  particolari?  Esse  non hanno  per  lui  stesso  un  vjdore  reale,  ma  semplicemente  nominale: non  sono  delle  idee.  ma,.  (!ome  dice  Spencer,  delle  pseudo— idee. Ora  non  sarà  privo  d'interesse  il  domandarci  cosa  può  divenire per  Lange  la  spiegazione  del  giudizio  sintetico  a  prioii  (la  (|ui- stione  fondamentale  della  Critica  della  rar/lon  pura),  dopo  che egli  ha  rigettato  l'azione  coordinatrice  dell'intendimento  ])ur()  sulle impressioni  dei  sensi.  La  spiegazione,  noi  lo  sappiamo,  era  questa per  Kant:  il  giudizio  sintetico  a /^/yo/y*  è  possibile,  perv-hé  è  il  pen- siero stesso  clie  determina  l'esperienza,  vale  a  dire  la  forma  o l'ordine  con  cui  i  fenomeni  ci  ai>iìariscono.  Ter  T.ange  non  è  il  pen- siero che  determina  1' *'S!)erienza,  e  non  è  nemmeno  lespericnza che  determina  il  pensiero,  il  giudizio  essendo  a  priori  :  come  spie- gare dunque  la  loro  coincidenza?  Kant  emette  incidentalmente  la congettura  che  le  due  sorgenti  della  conoscenza  umana,  i  sensi  e rintendimento,  provengono  forse  da  una  l'adice  comune  :  <]uest'i- dea,  secondo  il  Lange,  può  ben  contenere  la  vera  soluzione  del problema  trascendentale  (v.  Star,  del  inater.  t.  2.  parte  1.  e.  1.  p.  38 trad.  frane:  e  cfr.  e.  2.  pai.'  SVI)  -sarebbe,  al  fondo,  la  spiegazione spinozista  della  coincidenza  tra  l'essere  e  il  pensiero —.  Ma  se non  vi  ha  die  il  fenomeno,  se  il  noumeno  non  esiste,  (fuesta  \\\- dice  comune  defila  percezione  sensitiva  e  del  pensiero  non  può  es- sere die  una  chimera.  La  spiegazione  di  un  kantiano  fenomenista come  Lange  del  giudizio  sintetico  a  priori  non  si  riduce  che  a (piesto  :  le  categorie  essendo  le  forme  della  nostra  conoscenza, queste  forme  ilevono  ritrovarsi  egualmente  in  tutte  le  fasi  di  (jue- sta  conoscenza,  tanto  nella  percezione  sensitiva  (conoscenza  pre- sentativa  )  (pianto  nel  pens'ero  (conoscenza  nippi'esentativa  ).  Ma to,  e  vi  ha  una  conoscenza  a  priori;  o  l'oggetto  determina il  pensiero,  e  vi  ha  una  conoscenza  emi)irica — eliminato il  primo  caso,  non  resta  che  il  secondo,  e  bisognerà  dire che,  in  tutti  i  casi,  Toggetto  determina  il  pensiero,  e  non vi  ha  cognizione  che  non  sia  fondata  suiresperienza. §.  8/^  Ora  dobbiamo  esaminare  particolarmente  la  dot- trina di  Kant  rapporto  alle  proposizioni  deUa  inatemati- oa  pura.  Premettiamo  una  riflessione  che  sin  qui  non  ci è  stata  necessaria  :  è  die  il  sistema  kantiano  ha  bisogno, come  di  una  presupposizione  indispensabile,  della  teoria concettualista.  Le  categorie,  gli  sc/iemi  (che  nascono  dal- l'unione delle  categorie  con  le  forme  della  sensibilità),  le intuizioni  pure,  ecc.  non  sono  che  delle  astrazioni,  e  nien- te di  ciò  è  possibile,  se  si  nega  l'esistenza  delle  idee  astrat- te. Inoltre  la  dottrina  dei  giudizi  sintetici  a  priori  è  fon- data sulla  distinzione  dei  giudizi  a  priori  in  analitici  e sintetici:  orj,  come  si  è  spiegato  nel  capitolo  precedente, i  giudizi  analitici  suppongono  necessariamente  l'ipotesi  dei concetti.  Posto  ciò,  noi  cominceremo  per  un'osservazione sul  rapporto  tra  i  giudizi  analitici  e  i  giudizi  sintetici  a priori  della  matematica.  Noi  abbiamo  visto  che  le  propo- sizioni, in  cui  si  riconosce  più  chiaramente  il  tipo  dei  giu- dizi analitici  kantiani,  non  sono  che  delle  classazioni,  e non  affermano  che  delle  somiglianze.  Cosi  l'esempio  di Kant:  Il  corpo  è  esteso,  assimila  il  corpo  allo  spazio,  cioè all'intervallo  tra  i  corpi  in  cui  non  percepiamo  alcun  o questa  non  è  una  spiegazione  reale;  è  una  di  (pielle  spiegazioni apparenti  o  illusorie,  che  consistono  a  ripetere  in  termini  diilerenti il  fatto  stesso  che  si  tratta  di  spiegare.  Il  fatto  die  si  tratta  di  spie- gare è  che  le  due  fasi  della  conoscenza,  la  presentativa  e  la  rap- presentativa, sono  (secondo  la  dottrina  dei  giuilizi  sintetici  a  pilo- ri) subordinate  alle  stesse  leggi  o  alle  stesse  forme:  dire  che  ciò avviene  perdiè  (pieste  sono  le  leggi  o  le  forme  della  conoscenza in  generale,  non  è  una  spiegazione,  ma  semplicemente  una  tau- tologia. getto  sensibile.  A  (juesta  specie  di  giudizi  analitici,  che sono  affermativi,  Kant  ne  aggiunge  un'altra,  i  negativi. Is'el  giudizio  analitico  affermativo  si  attribuisce  al  concet- to, dice  Kant,  ciò  che  già  in  esso  si  pensava  ;  nel  nega- tivo si  esclude  da  esso  ciò  che  è  opposto  al  medesimo  (A- nalitica,  lib.  2,*^  e.  2,''  sez.  2,^  in  principio).  Eliminando  la terminologia  concettualista,  noi  diremo  che  la  prima  spe- cie di  proposizioni  esprime  Tinclusione  in  una  classe,  o un  assimilazione,  la  seconda  Tesclusione  da  una  classe,  o una  differenziazione.  L'uomo  è  un  animale,  é  un  esempio della  prima  specie  ;  L'uomo  non  è  una  pianta,  della  se- conda. Ora  tutti  i  giudizi  della  matematica  pura,  come appresso  mosti*eremo  in  dettaglio,  non  affermano  anch'es- si che  delle  somiglianze  o  delle  differenze,  come  le  pro- posizioni che  Kant  chiama  analitiche  :  p.  e.  5  4-7=  12, afferma  un  rapporto  d'eguaglianza,  cioè  una  somiglian- za determinata;  La  retta  è  la  linea  più  breve  fra  due  })un- ti  dati,  afferma  un  rapporto  d'ineguaglianza  definita,  cioè una  differenza  determinata.  Le  proposizioni  della  mate- matica pura  e  le  proposizioni  analiticiie  di  Kant  sono  dun- que costituite  essenzialmente  sullo  stesso  tipo:  le  prime sono  indipendenti  dall'esperienza  e  necessarie  nello  stesso senso  e  per  la  stessa  ragione  che  le  seconde.  Secondo Kant,  l'apriorità  dei  giudizi  matematici  viene  dalla  circo- stanza, che  le  nozioni  su  cui  volgono  questi  guidizi,  sono delle  nozioni  anticipate,  o  date  a  priori.  Le  proposizio- ni della  geometria  descrivono  le  proprietà  dello  spazio  e delle  sue  determinazioni  ;  e  la  ragione  per  cui  è  possiijile l'apriorità  di  queste  proposizioni,  è  che  lo  spazio  è  un'in- tuizione a  priori  o  anticipata.  11  numero  è  ugualmente una  nozione  pura  o  a  priori,  non  essendo  che  una  deter- minazione del  concetto  intellettuale  puro  o  categoria  della quantità,  mediante  le  condizioni  formali  dell'intuizione  ;  e {X5rciò  le  proposizioni  sintetiche  sui  rapporti  numerici  sono anch'esse  a  priori,  Kant  suppone  dunque  che  l'apriorità. del  giudizio  dipende  dall'apriorità  delle  nozioni  su  cui  esso volge:  ma  ciò  non  è  vero,  perché  i  suoi  pretesi  giudizi analitici —- che  in  realtà  sono  anch'essi  dei  giudizi  sinte- tici, i  (juali,  come  abbiamo  visto,  affermano  delle  relazioni della  stessa  natura  che  quelli  della  matematica  —  sono  se- condo lui  dei  giudizi  a  priori,  e  non  per  tanto  le  nozioni che  entrano  in  essi,  cioè  i  termini  delle  relazioni  afferma- te^ possono  essere,  secondo  lui  stesso,  semplicemente  em- piriche, come  nella  proposizione  che  ci  è  servita  di  esem- pio: L'uomo  è  un  animale.  Come  dunque  l'apriorità  e  la necessità  dei  giudizi  pretesi  analitici  non  suppongono  che gli  elementi  di  questi  giudizi  siano  delle  idee  o  delle  in- tuizioni pure,  cosi  1'  apriorità  e  la  necessità  dei  giudizi matematici  non  suppongono  che  gli  elementi  di  questi  giu- dizi sono  delle  idee  o  delle  intuizioni  pure.  Il  carattere  di- stintivo ammesso  da  Kant  Ira  i  giudizi  sintetici  a  priori della  matematica  e  i  giudizi  analitici,  cade  con  la  teoria <lei  concetti.  I  giudizi  matematici  si  fondano,  per  lui,  sul- l'intuizione sensitiva,  quantunque  pura,  mentre  al  con- trario i  giudizi  analitici  si  fondano  sul  solo  esame  dei  con- cetti. Ma  s'  è  vero  che  noi  non  pensiamo  che  per  rap- presentazioni concrete;  se  perciò  le  proposizioni  che  Kant chiama  analitiche  non  esprimono  che  il  risultato  d'una comparazione  fra  oggetti  dell'intuizione  sentitiva;  è  evi- dente che  anch'esse  si  fondano  su  questa  intuizione,  della stessa  maniera  che  le  proposizioni  della  matematica. Questa  identità  di  natura  dei  giudizi  matematici  coi giudizi  pretesi  analitici  e,  in  generale,  con  tutti  quelli  che si  limitano  ad  affermare  le  somiglianze  e  le  differenze, apparirà  con  più  evidenza,  se  l'esame  porterà  sui  primi principii,  cioè  sulle  premesse,  della  matematica,  anziché, come  suol  fare  Kant,  sulle  proposizioni  derivate.  \\  chiaro che  la  quistione  sull'origine  della  conoscenza  matematica- volge  su  questi  principii  primitivi:  lo  stesso  Kant  ne  con- viene, quando,  per  mostrare  il  carattere  sintetico  dei  giùdizi    matematici,  dice  che,   quantunque  la   dimostrazione matematica  procede  in  virtù  del  principio  di  contraddizio- ne, come  richiede  la  natura  di  ogni  apodittica  certezza,  le premesse  però  non  possono  essere  provate  e  riconosciute mediante   questo  principio,   e  una   proposizione   sintetica non  può  altrimenti  sta])ilirsi,  in  virtù  del  principio  di  con- traddizione, che  presupponendo  qualche  altra  proposizione sintetica  (Introd,  V),  Tuttavia  Kant  crede  che  il  carattere sintetico  delle  proposizioni  aritmetiche  si  manifesti  con  più evidenza,  quando  si  opera  su  numeri  elevati;  mentre  Leibnitz aveva  già  mostrato  che  ogni  proposizione  sui  rapporti  nu- merici può  venire  dimostrata,  prendendo  come  premesse  gli assiomi  generali  sulle  eguaglianze  e  delle  proposizioni  parti- colari su  eguaglianze  numeriche,  di  cui  ciascuna  enuncia che  un  dato  numero  più  Tunità  è  uguale  al  numero  die  im- mediatamente  segue  il  i)rimo  nella  serie  ascendente  dei numeri.  Cosi,  oltre  gli  assiomi  generali  sulle  eguaglianze, le  proposizioni  deiraritmetica,  su  cui  deve  portarsi  Tesame per  risolvere  la  quistione  sull'origine  e  la  natura  di  queste conoscenze,  sono  delle  proposizioni  come  queste:  24-1  ==3, «3+1  =?4,  ecc.*.  È  dunque  all'esame  di  tali  proposizioni   e delle  altre  veramente   assiomatiche  si  deiraritmetica  che della  geometria,  che  Kant  avrebbe  dovuto  limitarsi:   ciò gli  avrebbe  forse  mostrato  che  la  sua  ipotesi  non  è  pro- pria a  dare  una  spiegazione  del  carattere  particolare  dei giudizi  matematici,  e  che  non  vi  ha  una  grande  distanza tra  questi  giudizi  e  quelli  che  egli  chiama  analitici.  Il  fatto che  Leibnitz  e  tanti  altri  filosofi  non  vedono  nelle  propo- sizioni  indicate  sui  rapporti   numerici  che  delle  semplici definizioni,  è  già  un  indizio  che  queste  proposizioni  non difleriscono  essenzialmente  dalle  analitiche  di  Kant:  e  in efìetto  non  vi  ha,  nelle  une  come  nelle  altre,  clie  la  sem- plice percezione  d'una  somiglianza  definita  (da  una  parte, p.  e.,  dell'uomo  con  gli  altri  animali,  o  del  corpo  con  lo spazio;  e  dallaltra,  di  un  gruppo  di  oggetti  e  un  altro oggetto  isolato  con  un  altro  gruppo  eccedente  il  primo  d'una unità).  Le  premesse  assiomatiche  della  geometria,  oltre  gli assiomi  sulle  eguaglianze,  sono  alcune  poche  proposizioni, delle  più  semplici,  che  si  chiamino  assiomi  o  definizioni, di  cui  ciascuna  enuncia  una  proprietà  primitiva  di  qualche forma  geometrica,  p.  e.  della  retta,  del  piano,  delle  paral- lele. Queste  ultime  proposizioni  lianno  ordinariamente la  più  grande  analogia  con  le  analitiche  di  Kant.  P.  e.  l'as- sioma della  retta:  «  Due  rette  non  chiudono  uno  spazio», non  afferma  se  non  che  due  rette  sono  affatto  difierenti da  uno  spazio  chiuso  da  linee,  ed  è  quindi  della  stessa specie  che  le  proposizioni,  che  Kant  chiamerebbe  analiti- che negative:  «Luomo  non  è  una  pianta»,  «Il  quadrato non  è  rotondo  ».  Se  invece  enunciamo  quest'assioma  nella forma  che  gli  danno  i  geometri  moderni:  «Due rette  che coincidono  in  più  di  un  punto  coincidono  interamente»,  si può  mostrare  facilmente  la  sua  analogia  coi  giudizi  ana- litici affermativi.  È  all'intuizione,  secondo  Kant,  che  noi dobbiamo  la  conoscenza  dell'assioma  :  ma  è  evidente  che l'intuizione  è  uno  stato  puramente  passivo  del  nostro  spi- rito, e  non  potrebbe  darci  per  se  sola  alcun  giudizio.  La verità  è  che  l'operazione  dell'inteUigenza  è  qui  delle  più semplici  :  essa  si  limita  a  riconoscere,  esaminando  gli  og- getti dell'intuizione,  che  due  linee,  se  esse  sono  rette  e  se si  toccano  in  più  di  un  punto,  cioè  se  possono  classarsi tanto  fra  le  rette  quanto  fra  le  cose  che  coincidono  in  più di  un  punto,  devono  classarsi  pure  fra  le  cose  che  coin- cidono interamente  ;  se  invece  non  coincidono  interamen- te, allora  o  non  sono  rette,  o  non  coincidono  in  più  di  un punto.  Tutta  l'azione  del  nostro  spirito  si  riduce  dunque ad  esaminare  se  le  linee  di  cui  abbiamo  l'intuizione,  sia- no 0  no  delle  «rette»,  siano  o  no  «delle  cose  che  coincido- no in  più  di  un  punto»,  siano  o  no  delle  «cose  che  coin- cidono interamente  »  :  ad  esaminare  cioè,  in  linguaggio concettualista,  se  gli  oggetti  della  nostra  intuizione  possono  o  no  ridursi  sotto  questi  concetti  ;  in  linguaggio  nomi- nalista, se  essi  possono  o  no  chiamarsi  con  queste  deno- minazioni e  includersi  in  queste  classi.  L'operazione  in- tellettuale non  è  cosi  che  una  complicazione  di  quella  più semplice,  che  dà  luogo  ad  una  proposizione  analitica. Ciò  che  non  deve  tralasciarsi  di  notare  è  che  i  carat- teri di  necessità  e  di  apriorità,  che  si  trovano  nelle  propo- sizioni della  matematica  i)ura,  sono  comuni  a  tutte  le  pro- posizioni che  non  atiermano  se  non  delle  somiglianze  o delle  ditlerenze.  Queste  proposizioni,  come  abbiamo  detto nel  capitolo  3*\  sono  necessarie,  nel  senso  che  noi  non  pos- siamo ammettere  che  il  contrario  di  ciò  che  affermiamo potrebbe  o  avrebbe  potuto  aver  luogo.  Questa  possibilità del  contrario  è  sempre  ammissibile  per  le  proposizioni  che affermano  V  esistenza  delle  cose,  le  sequenze  o  le  coesi- stenze dei  fenomeni  ;  noi  sappiamo  che  vi  ha  nella  natura una  legge,  secondo  cui,  nella  comunicazione  del  movimento, un  corpo  ne  guadagna  altrettanto  (juanto  Y  altro  ne  per- de; ma  possiamo  immaginare  che  la  natura  avrebbe  i)0- tuto  essere  costituita  altrimenti.  Cosi  per  ogni  altra  pro- posizione atlermante  una  sequenza  o  una  coesistenza  : ma  se  noi  conosciamo  che  due  cose  hanno  tra  loro  un rapporto  determinato  di  somiglianza  o  di  differenza,  noi possiamo  ammettere  bensi  che  queste  cose  avrebbero potuto  non  esistere  con  le  proprit3tà  che  esse  effettiva- mente hanno,  ma  non  che,  essendo  come  esse  sono,  il loro  rapporto  potrebbe  essere  diverso.  Nel  3^  capitolo abbiamo  pure  parlato  dell'  altra  [)articolarità  dei  giudi- zi sulle  somiglianze  e  le  differenze:  è  che  essi  sono,  in un  certo  senso,  a  priori,  vale  a  dire  che  noi  possiamo  an- ticipare suiresperienza  delle  cose  stesse,  limitandoci  alle- same  delle  idee  di  queste  cose.  L'esame  delle  idee  di  due fenomeni  non  ci  apprenderà  mai  niente  sull'esistenza  di questi  fenomeni  o  sull'ordine  con  cui  essi  si  sono  succe- duti o  si  succederanno;  ma  noi  possiamo,  paragonando,   L'orrGrrro  della  conoscenza  a  piuoui». 319 non  le  cose  stesse  mentre  ci  sono  presenti,  ma  semplice- mente le  loro  rappresentazioni,  apprendere  i  loro  rapporti di  somiglianza  o  di  differenza.  Cosi,  sia  che  noi  diciamo  che la  retta  è  più  breve  della  spezzata  e  della  curva  fra  gli stessi  punti,  sia  che  diciamo  che  tal  gradazione  di  un colore  è  più  carica  che  tal  altra  gradazione  dello  stesso colore;  sia  che  affermiamo  1'  eguaglianza  di  due  più  uno con  tre,  sia  che  paragoniamo  il  colore  del  cielo  a  quello del  zaffiro;  i  nostri  giudizi  sono  necessari  ed  a  priori  egual- mente e  nello  stesso  senso.  Questi  caratteri  di  necessità e  di  apriorità  delle  proposizioni  matematiche  non  dipendono dunque  dalla  circostanza  che  esse  volgono,  come  vuole Kant,  su  nozioni  jnire  o  indipendenti  dallesperienza,  ma da  quella  che  esse  non  enunciano  che  delle  somiglianze  o differenze  determinate.  Un  esempio  evidente  di  questa  ve- rità ci  è  offerto  dall'assioma  sull'eguaglianza:  Due  cose eguali  ad  una  terza  sono  eguali  fra  loro.  Quest'assioma non  si  appUca  soltanto  alle  pretese  intuizioni  jntre,  cioè alle  grandezze  geometriche  e  ai  numeri.  Se  noi  sappiamo che  due  copie  sono  esattamente  rassomiglianti  allo  stesso originale,  possiamo  inferirne  che  le  due  copie  sono  esat- tamente rassomiglianti  fra  di  loro.  Quantuncpie  ogn'idea di  comparare  le  cose  sotto  il  punto  di  vista  della  quantità sia  assolutamente  assente  dal  nostro  spirito,  noi  non  fac- ciamo in  questo  caso  che  un'applicazione  dell'assioma  sr)- praindicato;  e  tuttavia  gli  oggetti  rapportati  non  sono  og- getti d'un'intuizione  pura,  ma  empirica.  La  necessità  e  a- priorità  degli  assiomi  matematici  non  deriva,  per  conse- guenza, da  ciò  che  essi  sono  fondati  sulla  intuizione  pura o  anticipata,  ma  dalla  natura  particolare  dei  rapporti  die essi  affermano. §.  1)«.  La  spiegazione  di  Kant  dei  giudizii  sintetici  a priori  della  matematica  è  dunque  completamente  illuso- ria; essa  non  tende  a  spiegare  altro  che  questo:  come  dei giudizi  ricavati  da  un'intuizione   anticipata  o  puramente ideale  siano  poi  applicabili  agli  oggetti  reali  deiresperien- za.  Ciò  dipende,  come  abbiamo  detto,  dalla  natura  dei  rap- porti studiati  dalla  matematica,  che  non  sono  che  delle  so- miglianze e  delle  differenze:  Kant  ere  le  invece  che  dipen- da dalla  circostanza  che  questi   giudizi  sono  ricavati  da un'intuizione  pura,  alla  quale,  trovandosi  in  essa  le  con- dizioni formali  dell'  esperienza,  devono  necessariamente corrispondere  le  proprietà  degli  oggetti  d'ogni  esperienza possibile.  Crediamo  necessario  di  esporre  la  dottrina  di Kant  con  le  stesse  parole  dell'autore  :  «  La  geometria  è una  scienza  che  determina  le  proprietà  dello  spazio  sin- teticamente, e  ciò  non  ostante,  a  priori.  Ora  perchè  sia possibile  una  tale  cognizione  dello  spazio,  in  che  dovrà consistere  la  di  lui  rappresentazione?  Dev'essere  in  origi- ne un'intuizione,  giacché  da  un  semplice  concetto  non  pos- sono ricavarsi  proposizioni  che  oltrepassano  questo   con- cetto; ciò  che  non  per  tanto  accade  in  geometria.  Ma  que- sta intuizione  deve  trovarsi  in  noi  stessi  a /)r/or/,  cioè  in- nanzi qualsivoglia  percezione  di  oggetti,  e  deve  per  con- seguenza essere  intuizione  pura,  e  non  empirica  Le  pro- posizioni geometriche  infatti  sono  apodittiche,  cioè  con- giunte con  la  coscienza  della  loro  necessità,  e  principii  di questa  fatta  non  possono  essere  dei  giudizi  dell'esperien- za né  derivarne.  Ma  come  può  trovarsi  nello  spirito  stes- so un'esterna  intuizione,  la  (juale  preceila  gli  oggetti  me- desimi,  e  nella  quale  deliba  essere  a  priori  determinata l'idea  di  questi  oggetti?  Certo  in  verun'altra  maniera,  tran- ne solo  che  tale  intuizione  sia  inerente  al  soggetto  come disposizione  formale  dello  stesso  ad  essere    affetto  dagli oggetti,  ed  a  riceverne  cosi  l'immediata  rappresentazione cioè  l'intuizione,  per  conseguenza  come  forma  del  senso esterno.  È  questa  dunque  la  sola  spiegazione,  perla  qua- le comprendere  la  possibihtà  della  geometria  come  cogni- zione sintetica  a  pirori  »  (Estetica  traseendent,  §.  3,)  — <^ Poiché  le  proposizioni  della  geometria  sono    conosciute SUI  i.imit:  i:  l  oì  ietto  n::ij..v  (^o\osr:;.:N/c v  a  priori 3sinteticamente  a  priori  e  con  apodittica  certezza,  io  do- mando: donde  (|uesta  scienza  pren<le  (picste  proposizioni, e  su  di  che  si  appoggia  il  nostro  intendimento,  per  giun- gere a  verità  i\i  valore  si  assolutamente  necessario  ed universale?  Non  vi  hanno  che  due  mezzi,  i  concetti  o  le intuizioni;  ma  questi  due  mezzi,  come  tali,  ci  sono  datio a  priori  o  a  jtosteriori.  Né  dai  concetti  empirici,  né  da ciò  su  cui  essi  si  fondano,  cioè  dalla  intuizione  empirica, 1)U<>  essere  fornita  una  proposizione  sintetica,  che  non  sia sperimentale;  ma  una  proposizione  sperimeniale  non  può mai  raccliiudere  la  necessità  ed  assoluta  universalità,  le (luaU  costituiscono  tuttavia  il  carattere  essenziale  di  tutte le  proposizioni  geometriche.  Quanto  al  primo  e  unico mezzo  di  acquistare  queste  cognizioni,  vale  a  dire  per semplici  concetti  o  per  intuizioni  a  priori,  è  cliiaro  che da  soli  concetti  non  può  ricavarsi  alcuna  cognizione  sin- teti;:^,  ma  soltanto  una  analitica.  Sia  pure  la  proposizione che  due  linee  rette  non  [xossono  chiudere  uno  spazio,  e che  non  si  può  quindi  con  esse  costruire  una  figura;  e proviamoci  di  derivarla  dai  concetti  della  linea  retta  e del  numero  due.  Oppure  sia  quest'altra,  che  per  mezzo di  tre  linee  rette  si  può  costruii'e  una  figura,  e  cercate ugualmente  di  ricavarla  da  questi  concetti.  Tutti  i  vostri slorzi  saranno  inutili;  e  sarete  costretti  di  ricorrere  alla intuizione,  come  ha  fatto  semjU'ela  geometria.  Voi  dunque vi  date  un  oggetto  in  intuizione:  ma  di  ([uale  specie  è questa  intuizione?  è  una  intuizione  pura  o  « />r/or/,  o  una intuizione  empirica  ?  Se  fosse  empirica,  non  potrebbe  cer- tamente venirne  mai  una  proposizione  universale,  molto meno  una  projxDsizione  apodittica,  percliè  l'esperienza  non può  somministrarne.  Dunque  dovete  darvi  il  vostix)  oggetto a  priori  in  una  intuizione,  e  fondarvi  la  vostra  proposi- zione sintetica.  Ora  se  non  fosse  in  voi  una  facoltà  di avere  delle  intuizioni  a  priori,  se  (juesta  condizione,  sub- iettiva quanto   alla  forma,  non  fosse  al  tempo  stesso  la condizione  a  priori,  sotto  la  quale  unicamente  \)\\ò  darsi Foggetto  di  questa  esterna  intuizione;  se  infine  quest'og- getto, p.  e.  il  triangolo,  tosse  qualclie  cosa  in  sé  e  senza rapporto  al  vostro  soggetto:   come  potreste  dire,  in  tutti questi  casi,  che  quanto  è  necessario,  nella  vostra  condi- zione subbiettiva,  per  la  costruzione  di  un  triangolo,  deb- ba con  uguale  necessità  convenire  al  triangolo  in  se  stesso  i Giacché  ai  vostri  concetti  (di   tre  linee)  nulla  potete  ag- giungere di  nuovo  (la  figura),  che  dovesse  perciò  trovarsi necessariamente  neir  oggetto,   se   questo  oggetto  è  dato prima,  e  non  niediante,  la  vostra  cognizione.  Se  dunque lo  si)azio  (e  cosi  pure  il  tempo)  non  fosse  una  pura  tor- ma della  vostra   intuizione,   clic  contiene  le  condizioni  a priori,  sotto  le  quali   soltanto  delle   cose  possono  essere per  voi  degli  oggetti  esteriori  (chj  non  sono  niente  in  se stessi,  o  senza  queste  condizioni  subbiettive).  voi  non  po- treste niente  pronunziare  a  jtriori  e   sinteticamente  su questi  oggetti  y>  (  Estet.   trascemL  §  8  )  —  Il  principio  che tutti  i  fenomeni  sono  grandezze  estensive  é  quello  «  clie rende  applicabile,  in  tutta  la  sua  precisione,  agli  oggetti deiresperienza  la  matematica  pura:   il   che   non  sarebbe per  sé  evidente  senza  questo  principio,   e  ha  dato  anche occasione  a  molte  contraddizioni.    La   visione   empirica non  può  aver  luogo  tramie  mediante  la  pura  (dello  spa- zio e  del  tem[)0)  :  il  perché  vale  per  quella,  senza   ecce- zione, ciò  che  di  questa  dice   la  geometria  ;   né  regge  il pretesto  che  non  corrispondano  gli  oggetti  dei  sensi  alle leggi,  per  le  quali  si  costruisce   nello  spazio   (come  alla divisibilità  degli  angoli  o  delle  linee  all'infinito).  Giacché per  tal  guisa  s  impugnerebbe  pure  ogni  valore  obbiettivo allo  spazio  e  a  tutte  le  matematiche  :  né  più  si  saprebbe perchè  né  sin  dove  esse  sono  applicabili  ai  fenomeni.  Ciò che  rende   possibile  V  apprensione  di  questi,  quindi   ogni esperienza  esterna  e  qualsiasi  conoscenza  degli  oggetti della  medesima,  é  la  sintesi  degli  spazi  e  dei  tempi  :  e  ciò che  provano  le  matematiche  nel  loro  impiego  puro  a  tal sintesi  ha  eziandio  valore  necessario  nella  esperienza.  Le obbiezioni  che  sono  state  mosse  incontrario  si  risolvono in  meri  cavilli  di  una  ragione  falsamente  erudita  :  la  quale avvisa,  in  modo  erroneo,  far  liberi  e  separare  dalla  con- dizione formale  della  nostra  sensibilità  gli  oggetti  dei  sen- si: e,  (juantunque  non  siano  che  mere  apparizioni,  li  rap- presenta otterti  air  intelletto  quali  oggetti  per  se  stessi. Nel  qual  caso  certamente  nulla  si  potrebbe  dire  dei  me- desimi sinteticamente  a />r/or/,  per  conseguenza  mediante i  concetti  puri  dello  spazio  ;  e  non  sarebbe  possibile  la scienza  che  determina  tali  concetti,  cioè  la  geometria  > (Analit.  L  2,""  e.  2,^^  se^s.  ^*,  Ass,  delliatuizione), ^.  W\  I  luoghi  citati  contengono,  in  sostanza,  tutto  ci('> che  si  trova  in  Kant  sulla  spiegazione  delia  possibihtà  dei giudizi  sintetici  a  priori  della  matematica;  e  per  quanto concerne  la  geometria,  cui  specialmente  Fautore  ha  di  mi- ra, la  dottrina  di  Kant  si  riduce  a  dire  che  la  geometria può  essere  una  scienza  a  priori,  perché,  lo  spazio  essen- do un  elemento  formale  -  della  conoscenza,  noi  possiamo avere  un'intuizione  a  priori  delle  determinazioni  dello  spa- zio, e  i  giudizii  ricavati  da  questa  intuizione  a  priori  pos- sono applicarsi  agli  oggetti  che  ci  vengono  otferti  dall'e- sperienza, in  quanto  niente  può  essere  oggetto  dell'espe- rienza, che  non  sia  conforme  a  questa  condizione  forma- le della  conoscenza.  Secondo  questa  dottrina  di  Kant,  la grande  obbiezione  che  i  Ivantiani  fanno  alla  teoria  empi- rista é  la  seguente:  «Donde  sappiamo  noi  e  possiamo  sa- pere che  le  linee  reali  rassomigliano  perfettamente  alle  li- nee immaginarie  ?  »  (  Cohen  ap.  Lange  Stor,  del  mater, voi.  2^.  parte  1*.  e.  V\)  Due  linee  rette  prolungate  all'in- finito non  possono  circoscrivere  uno  spazio.  Noi  non  pos- siamo fare  alcuna  esperienza  a  questo  riguardo  nel  sen- so volgare  della  parola.  Secondo  Mill  l' immaginazione rimpiazza  qui  l'intuizione  esteriore  ;  ma  donde  sappiamo noi  che  i  quadri  della  nostra  inmiaginaziono  si  compor- tano esattamente  come  le  cose  esteriori?  «  Donde  sappia- mo noi  che  due  linee  rette  ideali  si  comportano  assolu- tamente come  le  linee  reali?  Kant  risi>onde:  È  che  stabi- liamo quest'accordo  noi  stessi....  L'intuizione  dello  spazio, con  le  proprietà  che  gli  appartegono  necessariamente,  è un  prodotto  del  nostro  spirito  nell'atto  dcUesperienza;  ed ecco  perché  essa  appartiene  egualmente  e  necessariamen- te ad  ogni  esperienza  possibile  come  ad  ogni  intuizione dell"  innnaginazione  »  (  Lange  voi.  2'\  parte  1*.  e.  1'*.) Una  quistione  analoga  si  era  proposta  il  Locke  nel capitolo  sulla  realtà  della  nostra  conoscenza.  La  cono- scenza consistendo  per  lui  nella  percezione  della  conve- nienza o  disconvenienza  delle  nostre  proprie  idee,  era  na- turale di  domandatasi  come  una  tale  conoscenza  possa istruirci  sulla  realtà  delle  cose  stesse.  Per  quel  che  riguar- da le  conoscenze  matematiche,  ecco  come  i*ispon<le  alla (juistione:  «11  matematico  esamina  la  verità  e  le  proprie- tà ciie  api:rartengono  a  un  rettangolo  o  a  un  cerchio,  con- siderandoli solamente  quali  sono  in  idea  nel  suo  spirito; {)erchè  torse  egli  non  ira  mai  trovato  in  vita  sua  alcuna di  queste  figure,  che  tosse  matematicamente,  cioè  a  dire precisamente  ed  esattamente,  vera.  Il  che  non  nnpedisce j>ei^nto  che  la  conoscenza  ch'egli  ha  di  qualsiasi  verità o  proprietà  che  appartenga  al  cerchio  o  ad  ogni  alti*a  fi- gura matematica,  non  sia  vera  e  certa,  anche  a  riguar- do delle  cose  realmente  esistenti,  perchè  le  cose  reali  non entrano  in  questa  sorta  di  proposizioni,  e  non  vi  sono  con- sidei'ate,  se  non  altrettanto  che  esse  convengono  realmen- te con  gli  archetipi  che  sono  nello  spirito  del  nmtemati- co.  È  vero  dell'idea  del  triangolo  che  i  suoi  tre  triangoli sono  eguali  a  due  retti  ?  La  stessa  cosa  sarà  pure  vera d'un  triangolo,  in  qualunque  luogo  esso  esista  realmente. Ma  clie  ogni  altra  figura  attualmente  esistente  non  sia esattamente  conforme  all'idea  del  triangolo" ch'egli  ha  nel- lo spirito,  essa  non  ha  assolutamente  niente  da  lare  con questa  [)roposizione.  E  per  conseguenza  il  matematico vede  certamente  che  tutta  la  sua  conoscenza  toccante  que- sta sorta  d'idee  è  reale;  perchè  non  considerando  le  cose se  non  altrettanto  che  esse  convengono  con  queste  idee ch'egli  ha  nello  spirito,  egli  è  sicuro  che  tutto  ciò  ch'egli sa  su  queste  figure,  mentre  non  hanno  che  un'esistenza ideale  nel  suo  spirito,  si  troverà  pure  vero  riguardo  a queste  stesse  figure,  se  esse  vengono  ad  esistere  realmen- te nella  materia  :  le  sue  riflessioni  non  volgono  che  su queste  figure,  che  sono  le  stesse,  ovunque  e  di  qualunque maniera  esse  esistano». Che  la  risposta  di  Locke  contenga  o  no  una  soluzione  sod- disfacente della  difficoltà  proposta  dallo  stesso  autore,  essa calza  ad  ogni  modo  alla  domanda  dei  Kantiani:  Donde  sap- piamo noi  che  le  linee  reali  rassomigliano  esattamente  alle linee  ideali?  Ma  se  le  linee  reali  non  rassomigliassero  esat- tamenta  alle  linee  ideali  che  il  matematico  ha  nello  spirito, esse  non  sare])bero  delle  linee  di  quella  specie  determinata di  cui  parla  il  matematico:  se  sono  di  quella  specie  deter- minata, le  linee  reali  non  possono  non  rassomigliare  esat- tamente alle  linee  ideali.  Che  esistano  o  no  nella  realtà delle  Unee  conformi  alle  linee  ideali,  agh  archetipi,  come  dice Locke,  che  sono  nello  spirito  del  matematico,  è  questa  una quistione  assolutamente  estranea  alla  matematica,  perchè le  proposizioni  di  questa  scienza  non  affermano  niente  sul- l'esistenza. Se  per  l'osservazione  delle  immagini  mentali  di certe  linee,  veniamo  a  conoscere  una  proprietà  di  questa  s[)e- cie  di  linee,  noi  non  concludiamo  già  che  esistano  nel  mondo esterno  delle  linee  aventi  tale  proprietà:  se  vi  saranno  nella realtà  delle  linee  conformi  a  quelle  che  noi  ci  rap[)resen- tiamo,  la  nostra  osservazione  ideale  varrà  anche  per  (pieste linee  reali;  ma  se  le  linee  della  realtà  saranno  differenti dalle  nostre  linee  ideali,  una  proposizione  fondata  sull'os- servazione delle  seconde  non  riguarda  le  prime  né  punto né  iK)co.  Siano  queste  proposizioni  :  Due  rette  non  iX)ssono chiudere  uno  spazio;  Un  triangolo  rettilineo  ha  la  somma degli  angoli  eguale  a  due  retti;  ovvero  Y  assioma,  su  cui la  "seconda  proi)Osizione  è  fondata:  Per  un  punto  non  può passare  che  una  sola  parallela  ad  una  retta  data.  Secondo Kant  il  valore  e  Tuniversalità  di  (juesti  giudizi  dipende  da ciò,  che   gli  oggetti  dall'  intuizione  empirica  sono  con<li- zioriati  dalle  condizioni  stesse  delFintuizione  pura  o  antici- pata, perchè  in  quesf  ultima  si  trovano  le  condizioni  for- mali di  ogni  esperienza  possibile,  e  che  perciò  dei  giudizi fondati  suir  intuizione  a  priori  o  anticipata  si  api)licano agli  oggetti  reali  deiresperienza.  In  altre  parole,  dipende da  ciò?  che  i  triangoli  e  le  rette  deiresperienza  sono  ne- cessariamente conformi  ai  triangoli  e  alle  rette  delFintui- zione  anticipata  0  a /)r/or/,  triangoli  e  rette  che  il  matematico costruisce  egli  stesso,  sia  neir  immaginazione,  sia  sulla carta,  e  che,  secondo  Kant,  egli  costruisce,  in  tutti  i  casi, a  priori,  cioè  conformemente  alla  visione  pura,  e  senza averne  imprestato  il  modello  da  alcuna  esperienza  (v. Disciplina  della  raijion  pura).  Ma  sia  che  le  rette  e  i  trian- goli ideali  del  matematico  siano  i  modelli  di  quelli  deire- sperienza, come  vuole  Kant,  sia  che  quelli  deiresperienza siano  i  modslli  delle  rette  e  dei  triangoli  ideali  del  mate- matico,  come  vuole  la  dottrina  delF  esperienza  ;  sarebbe sempre  un  non  senso  di  dire  che  gli  uni  potreb  bero  dif- ferire dagli  altri.  Se   le  rette   e  i  triangoli   reali  fossero costituiti   secondo  un   altro   tipo  che  le  rette  e  i  triango- li costruiti  dal  matematico,  non  sarei jbero  più  né  rette  né triangoli,  nel  senso  in  cui  il  matematico  intende  queste parole:  è  dunque  un  non  senso  di  domandare  con  Kant: perché  quanto  è  necessario  nella  nostra  condizione   sul)- biettiva  i)er  la  costruzione  di  un  triangolo,   deve  conve- nire necessariamente  al  triangolo  stesso  ?  ovvero  coi  kan- tiani :  perché  le  linee  reali  rassomigliano  esattamente  alle linee  ideali,  che  il  matematico  ha   nello  spirito?   Ciò  che lèa» domandano  i  kantiani  é  perché  tutte  le  rette  deir  espe- rienza sono,  come  le  rette  che  il  matematico  ha  nello spirito,  incapaci  di  chiudere  uno  spazio;  ma  se  noi  potes- simo avere  la  nozione  corrispondente  a  ({ueste  parole: «  due  rette  che  chiudono  uno  spazio  »,  è  cliiaro  clie  queste pretese  rette  sarebbero  abusivamente  chiamate  con  (juesto nome;  che  (juesto  nome:  rette y  applicato  ad  esse,  verrebbe preso  in  un  senso  differente  dall'  attuale  ;  e  che,  ad  ogni modo,  queste  supposte  linee,  sia  che  vengano  chiamate rette  o  no,  formerebl^ero  una  classe  di  linee  distinta  da (juclla  delle  rette  attuali,  e  costituita  secondo  un  tipo  at- fatto  differente.  Ora  se  queste  supposte  linee  diventasse- ro per  noi  un  oggetto  d' esperienza,  ne  seguirebbe  forse che  la  proposizione:  Due  rette  non  possono  chiudere  uno spazio,  perderebbe  il  suo  valore  universale-  ?  No,  perchè la  proposizione  sarebbe  sempre  vera  per  tutta  la  classe delle  rette  della  nostra  intuizione  attuale:  le  nuove  linee supposte  non  sarebbero  comprese  in  ( questa  classe  deter- minata, poiché  esse  sarebbero  costituite  sopra  un  altro tipo,  e  la  proposizione  quindi  non  si  riferirebbe  che  alle prime,  e  non  avrebbe  niente  a  fare  con  le  seconde. Vi  hanno  dei  geometri  moderni,  i  tiuali  ammettono  la possibilità  di  spazi  costituiti  (Jitferentemente  dal  nostro,  o in  altri  termini,  di  sistemi  di  forine  geometriche  dill'erenti dal  sistema  che  noi  attualmente  conosciamo.  Riemann ammette,  p.  e.,  Uà  possibilità  di  uno  spazio,  in  cui  due  ret- te finiscono  per  incontrarsi  dalle  due  estremità.  Nei  si- stemi di  questi  geometri,  la  parola  retta  non  designa propriamente  una  retta  della  nostra  intuizione,  ma  la  li- nea della  più  breve  distanza  fra  due  punti.  Cosi  in  uno S[>azio  difiérente  dal  nostro,  quale  potrer)lje  supporsi  se- condo Riemann,  le  pretese  rette  chiudenti  uno  spazio  sa- rebbero, non  ciò  che  noi  attualmente  chiamiamo  rette,  ma, secondo  una  definizione  arbitraria  della  parola,  le  linee della  più  breve  distanza  fra  tutte   quelle  che  potrebbero condursi  in  questo  sup[)Osto  spazio  (lin'erento  dal  nostro. L*esistenza  di  questo  si)azio  non  toglierebbe  perciò  Tuni ver- salità  deirassionia:  Due  rette  non  chiutlono  uno  spazio;  pelu- che quest'assioma  non  si  riferisce  che  alle  rere  rette,  nra le  pretese  rette  del  nuovo  spazio  supposto,  (pialunque  sia la  loro  analogia  con  le  vere  rette,  cioè  con  le  nostre,  sa- rebbero sempre  una  classe  diiìerente  <li  linee,  die  non  a- vrebbero  con  le  nostre  rette  se  non  un'identità  di  noma. L'ipotesi  di  questi  geometri  è  la  |)iù  pro[)ria  a  i*ar  ve- dere l'inanità  della  spiegazione  di  Kant  dei  giudizi  sinte- tici a  priori  della  geometria.  11  ibndamento  della  possibi- lità e  del  valore  di  <|uesti  giudizi,  della  loro  necessità  ed universalità,  è,  secondo  Kant,  che  lo  spazio  o))biettivo deve  necessariamente  conformarsi  allo  spazio  subbiettivo studiato  dal  matematico;  che  le  rette,  le  parallele,  i  trian- goli, ecc.  dell'esperienza  si  conformano  necessariaiuente alle  nozioni  che  noi  ci  formiamo  a  priori  della  retta,  del triangoli^,  delle  parallele.  Nell'ipotesi  dunque  di  uno  spazio obbiettivo  differente  dal  subbiettivo,  o  di  un  sistema  di forme  reali  differente  dal  sistema  di  forme  ideali,  di  cui il  matematico  lia  la  nozione,  il  valore  e  l'universalità  <li questi  giudizi  dovrebbe,  secondo  Kant,  venir  meno.  Ma ciò,  con)e  abbiamo  visto,  non  ò  vero:  dunfpie  Kant  non spiega,  come  si  era  pro[)Osto,  la  possibilità  di  questa  classe di  giudizi  sintetici  a  priori. ^.  11,*'  Sembrerebbe  da  ci(")  che  precede  che  le  proposi- zioni della  geometi'ia  fossero  delle  proposizioni  analitiche: delle  rette  che  chiudessero  uno  spazio  non  sarebbero,  aì>* biamo  detto,  delle  vere  rette,  perchè  a  queste  pretese  rette sarebbe  applicaljile  non  la  nostra  nozione  della  retta,  ma un'altra  nozione.  Dunque  l'attributo  di  non  chiudere  uno spazio  è  una  condizione  della  nozione  della  retta  :  due  rette che  non  chiudesseso  uno  sj)azio  non  sarebbero  delle  rette, cioè  sarebbbero  una  nozione  contraddittoria,  e  la  pi*0[>()- sizi<')ne:  Due  rette  non  possono  chiudere  uno  spazio,  è  una proposizione  analitica,  fondata  sul  principio  di  contrad- dizione. In  verità,  se  l'attributo  atìermato  in  una  propo- sizione geometrica  fosse  una  qualità  intrinseca  e,  per  dii' cosi,  un  elemento  astratto  della  forma  geometrica  a  cui la  proposizione  si  riferisce,  allora  il  giudizio  che  questa esprime,  dovrebbe  essere  certamente  analitico.  Spieghia- moci più  chiaramente:  rattril)uto  affermato  in  una  pro- posizione geometrica  è  propriamente  un  rapporto  di  so- miglianza o  di  differenza  definita,  di  eguaglianza  o  di  ine- guaglianza, ecc,  e  questo  rapporto,  il  quale  non  esiste  che nella  comparazione  degli  oggetti,  non  è,  al  fondo,  che  un sentimento,  uno  stato  particolare  del  nostro  spirito,  vale a  dire  un  che  di  distinto  e  separato  dai  termini  stessi  del rapporto,  cioè  dalle  forme  geometriche  come  oggetti  della nostra  intuizione.  Ma  se  invece  quest'attributo  si  consi- dera, non  come  una  relazione,  ma  com3  una  certa  pro- prietà astratta,  inerente  nel  soggetto  per  se  stesso,  e  che sarebbe  il  fondamento  della  relazione,  allora  quest'attributo verreblje  riguardato,  conformemente  alla  dottrina  dei  con- cetti, come  un  elemento,  una  qualità,  che  fusa,  per  dir cosi,  e  combinata  con  le  altre  proprietà  della  forma  geo- metrica, costituirebbe  questa  Torma  stessa  come  essa  ci viene  presentata  nell'intuizione  o  rappresentata  nell'im- maginazione. In  questo  caso  la  proposizione  enunciante l'attributo,  cosi  considerato,  sarebbe  necessariamente  ana- litica, ixjiché  una  forma  geometrica  che  non  fosse  dotata deirattrii)uto,  sarebbe,  come  abbiamo  visto,  non  ({uella  che è  il  soggetto  dellla  proposizione,  ma  un'altra,  e  ({uindi  il concetto  della  forma  geometi'ica,  di  cui  si  tratta  nella  pro- ]_x»sizione,  contiene  l'attribato. Vi  ha  dunque  contro  la  spiegazione  di  Kant  un  dilem- ma inevitabile  :  se  l'attributo  si  considera  come  una  qua- lità assoluta  della  forma  geometrica  di  cui  si  tratta,  e  pm* dir  cosi,  come  un  elemento  costitutivo  di  quest'oggetto  del- la nostra  intuizione,  allora  la  proposizione  non  è  sintetica a  priori,  ma  analitica,  e  la  spiegazione  di  Kant  è  super- flua. Se  invece  Tattributo  non  è  contenuto  neirintuizione o  rappresentazione  spaziale  designata  dal  soggetto,  ma  è qualche  cosa  di  sovraggiunto  ad  essa,  p.  e,  come  noi  am- mettiamo, una  relazione  che  non  esiste  se  non  per  la comparazione  del  soggetto  con  altre  cose  ;  allora  la  pro- jxjsizione  è  sintetica,  ma  non  vi  ha  altra  sintesi  ciie  quella della  rappresentazione  della  forma  geometrica  con  la  re- lazione che  il  pensiero  le  aggiunge.  Ora  la  spiegazione di  Kant  non  dà  ragione  di  questa  sintesi.  Kant  ci  spiega come  uno  degli  elementi  che  (questa  sintesi  riunisce,  cioè Toggetto  deirintuizione,  ci  è  dato  per  anticipazione;  che esso  è  qualche  cosa  di  necessario  e  di  a  priori  ;  die  di- pende dalle  condizioni  Ibrinali  della  conoscenza  :  ma  egli non  avrebbe  dovuto  spiegare  questo  ;  egli  avrebbe  dovuto spiegcire  la  sintesi  di  quest'elemento  con  l'altro  elemento del  giudizio,  cioè  con  la  relazione;  come  questa  sintesi possa  essere  anticipata  o  a  priori;  com'essa  derivi  dalle condizioni  l'ormali  della  conoscenza.  Prendiamo  questa proposizione  :  la  linea  retta  è  la  più  breve  ira  due  puntii dati,  cioè  essa  è  più  breve  della  spezzata  e  della  curva  : vi  ha  qui  una  relazione.  d'ineguagUanza  definita,  e  i  ter- mini di  questa  relazione,  cioè  la  retta,  la  spezzata  e  la curva  ;  e  il  giudizio  é  sintetico,  perchè  aggiunge  alla  rap- presentazione dei  termini  la  rappresentazione  della  rela- zione. Sia  che  noi  facciamo  un  giudizio  anticipato,  con- frontando queste  linee  per  la  sola  inmidginazione,  sia  che Tesperienza  ci  presenti  queste  linee  reali  in  congiunzione con  questo  stato  del  nostro  s[)irito  in  cui  consiste  la  per- cezione della  loro  relazione;  le  rappresentazioni  o  i  feno- meni, tra  cui  vi  ha  una  sintesi  o  una  congiunzione,  sono., da  una  parte,  certe  determinazioni  dello  spazio,  dall'altra, certe  i)ercezioni  di  relazioni.  Ora  non  é  V  apriorità  del primo  elemento  di  questa  sintesi  che  Kant  avrebbe  do- vuto mostrare,  ma  l'apriorità  della  stessa  sintesi  dei  due. elementi. Facciamo  infine  un'altra  osservazione  su  questa dottrina  dei  giudizi  sintetici  a  priori  della  matematica. Quest'espressione  :  giudizi  a  priori,  può  prestare  all'equi- voco: prima,  può  significare  che  per  questi  giudizi  noi anticipiamo  sull'esperienza^  estendendo,  anteriormente  a questa,  agli  oggetti  del  mondo  esteriore  ciò  che  abbiamo trovato  vero  di  oggetti  ideali,  chenoi  abbiamo  concepito secondo  le  condizioni  formali  dell'intuizione,  senza  pren- derne il  modello  dagli  oggetti  reali  dell'esperienza.  Non  è che  in  questo  senso  della  parola  a  priori,  che  la  teoria  di Kant  tende  a  spiegare  la  possibihtà  dei  giudizi  sintetici  a priori  della  matematica.  Ma  proposizione  a  priori  ha  un altro  senso  ancora  :  essa  significa  una  proposizione  gene- rale che  non  é  fondata  sulla  generalizzazione  di  alcuni, casi  particolari,  cioè  sull'estensione,  per  analogia,  a  tutti i  casi  nuovi  di  ciò  clie  si  è  trovato  vero  i)er  i  casi  ca- duti sotto  l'osservazione.  Ora,  in  questo  senso,  i  })rincipii della  matematica  sono  o  no  a  priori  secondo  Kant?  sono o  no  delle  generalizzazioni  ottenute  per  la  induzione?  È (juesto  un  punto  oscuro  nella  teorica  Kantiana,  e,  se  si approfondisce  un  poco,  è  impossibile  di  salvare  questa teorica  da  una  evidente  contraddizione.  Secondo  i  principi generali  della  Critica,  l'induzione  non  potreblje  fornire  della I)roposizioni  apodittiche,  quali  sono  secondo  Kant  le  pro- posizioni della  matematica:  queste  per  conseguenza  devo- no essere  assolutamente  indipendenti  dall'induzione.  Ma, secondo  Kant,  la  conoscenza  dei  principii  della  matema- tica non  deriva  che  dall'  intuizione  ;  e  l' intuizione  non può  avere  che  un  oggetto  concreto  e  singolare.  L'intui- zione per  se  stessa  non  può  dunque  niente  darci  di  uni- versale; immediatamente  essa  non  ci  dà  che  delle  cono- scenze [)articolari.  Ora  come  generahzziaino  noi  queste conoscenze  particolari?  come  ne  ricaviamo  delle  propo- sizioni universali,  quali  sono  gli  assiomi  della  matemati- ca, se  non  è  i)er  un'induzione  ?  Sia  per  es.  l'assioma  che per  un  punto  dato  non  può  passare  che  una  sola  paral- lela ad  una  retta  data  (le  parallele  essendo  definite:  due rette  situate  nello  stesso  piano,  che,  prolunirate  indefini- tamente,   non   s' incontrano   mai).    È    air  intuizione  che noi  dobbiamo,   secondo   Kant,  la  conoscenza  di  questa proposizione.    Ma  è   evidente   che   V  intuizione   non    può darci    la  proposizione   in   tutta  la  sua   generalità,    ma solo   dei  dati  particolari,  da  cui  noi  possiamo  inferirla, ragionando,  per  analogia,  da  questi  dati  deirintuizione  a tutti  gli  altri  casi  della  stessa  specie,  di  cui  non  ci  è  possi- bile, almeno  per  il  momento,  Tintuizione.  Io  tiro  o  immagino una  parallela  alla  retta  data  clic  passa  per  il  punto  dato, e  quindi  laccio  i>assare  per  lo  stesso  punto  un  numero  iii- de.inito  di  altre  rette,  di  cui  alcune,  ma  soltanto  alcune, asservo  che  vanno  ad  incontrare  la  retta  data.  L'intuizione per  la  sem[)lice  immaginazione  può,  è  vero,  sostituire  Tin- tuizione  effettiva,  ed  estendere  cosi  ad  altre  delle  rette  che passano  per  il  punto  dato,  la  mia  osservazione  che  esse incontrano  la  retta  data.  Ma,  senza  contare  che  né  la  mia intuizione  efiettiva  né  la  mia  intuizione  immaginaria  può comprendere  ttitte  le  rette  che  possono  passare  per  il  punto dato,  il  loro  numero  essendo  mfinito;  è  evidente  che  Tim- maginazione  non  può  estendere  Tintuizione  reale  che  sino ad  un  certo  punto.  La  vista  deirimmaginazione,  come  quella dell'occhio,  non  può  seguire  due  rette  che  sino  ad  una  certa distanza  :  noi  non  possiamo  prolungarle  indefinitamente, né  nella  realtà  nò  nella  semplice  immaginazione;  noi  non possiamo  né  vedere  né  immaginare  delle  linee  che  abbiano al  dì  là  di  una  certa  lunghezza.  Lungi  dunque  che  F  in- tuizione possa  mostrarci  la  verità  della  proposizione  nella totalità  dei  casi  compitesi  nella  sua  estensione,  essa  non può  nemmeno  mostrarcela,  rigorosamente,  in  un  sol  caso particolare.  Qui,  come  da  per  tutto,  non  è  che  Finduzione quella  che  può  stai  )ilire  una  verità  generale. Kant  salta  a  piò  pari  questa  difficoltà  ;  sembra  anche di'  egli   r  abbia  appena  intraveduta.    Ma   ascoltiamo   lo stesso  autore:  «  La  conoscenza  filosofica  è  la   conoscen- za  razionale   per   concetti,    ma   la   conoscenza   matc- njaticjx  è   la    conoscenza   razionale    per   la   costriuione dei  concetti.    Ora,  costruire   un   concetto   è  esporre   a priori  r  intuizione   che   gli  corrisjionde.   Per   la  costru- zione di  un  concetto  bisogna  dunque  una  intuizione  non empirica,  che  abbia  per  conseguenza,  come  intuizione,  un oggetto  unico,  ma  die,  nondimeno,  come  costruzione  d'un concetto  (duna  rappresentazione  generale), deve  esprime- re nella  rappresentazione  qualche  cosa  di  universalmen- te valevole  per  tutte  le  intuizioni  possibili  che  apparten- gono a  questo  concetto.  Cosi  io  costruisco  un  triangolo, allorché  espongo  un  oggetto  che  corrisponde  a  questo  con- cetto, 0,  ijer  mezzo  della  semplice  immaginazione,  in  intui- zione pura,  o,  se^ondj  rimmaginazionc  ancora,  sulla  car- ta, in  intuizione  empirica,  ma  nell'uno  e  l'altro  caso  per- iettamentc  a  priori,  senza  averne  preso  1'  esemplare  da alcuna  esperienza.  La  figura  particolare  descritta  ò  em- pirica, a  serve  nondimeno  a  esprimere  il  concetto  senza l)regiudizio  per  la  sua  generaUtà,  perchè  in  questa  intui- zione empirica  non  si  considem  mai  che  l'azione  di  co- struire un  concetto,  al  quale  molte  determinazioni  ([).  e. quella  della  grandezza,  dei  iati  e  degli  angoli)  sono  affat- to indifferenti,  e  si  la  per  conseguenza  astrazione  da  que- ste differenze  che  non  cangiano  il  concetto  del  triangolo- La  conoscenza  filosofica  non   considera  dunque  il  par- ticolare che  nel  generale,   e  la  conoscenza   matematica il  generale  che  nel  i>articoIare,   e  anche  nel   singolare, quantunque  tuttavia  a  priori  e  per  mezzo  della  ragione; di  tal  sorta  che,  come  il  singolare  é  determinato  da  cer- te condizioni  generali  della  costruzione,  cosi  l'oggetto  del concetto  a  cui  questo  singolare  corrisponde  solamente  co- me schema,  deve  essere  concepito  determinato  universal- mente. »  {Metodologia  trascendentale,  e.  1".  sez.  l-\  )  E. |! un  po'  pili  lungi  :  «  La  filosofia  si  attiene  seuipliceinente ai  concetti  generali  ;  le  matematiche  non  possono  nilare  con  questi  semplici  concetti,  ma  esse  si  affrettano  di ricorrere  airintuizione,  nella  quale  considerano  il  concet- to in  concreto,  quantunque  tuttavia  non  empiricamente,  ma semplicemente  in  una  intuizione  che  esse  propongono  o costruiscono  a  priori,  e  nella  quale  ciò  che  risulta  dalle condizioni  generali  della  costruzione  deve  valere  i)ure  ge- neralmente per  l'oggetto  del  concetto  costruito  »'. Ma  si  domanda:  come  tacciamo  noi  a  sapere,  in  vma figura  particolare  che  abbiamo  sotto  gli  occhi  o  nelFim- maginazione,  se  una  i)roprietà  determinata  risulta  dalle condizioni  generali  della  costruzione  del  suo  concetto,  o appartiene  soltanto  a  questo  caso  particolare  ?  Riconosce- re che  una  proprietà  appartiene  in  generale  air  oggetto del  concetto  costruito,  e  iìipende  dalle  condizioni  genera- li della  costruzione  di  questo  concetto,  e  non  invece  da una  di  quelle  determinazioni  particolari  inditt'erenti  al  con- cetto, da  cui  si  la  astrazione  perchè  questo  non  ne  è  mu- tato; è  precisamente  generalizzare,  fare  un'induzione,  in- ferire da  qualche  caso  particolare,  esibito  neirintuizione, a  tutti  i  casi  compresi  nel  giro  dello  stesso  concetto.  Sia . da  dimostrare  la  proposizione  (è  l'esempio  stesso  di  Kant) che  gli  angoli  del  triangolo  sono  eguali  a  due  retti.  Noi facciamo  astrazione,  egli  dice,  da  tutte  le  determinazio- ni particolari  della  figura  che  non  mutano  il  concetto  (p. e.  quelle  della  grandezza,  dei  lati  e  degli  angoli):  ma  chi ci  permette  di  fare  quest'  astrazione  ì  di  stabihre  che  la proprietà  dimostrata  per  questa  figura  particolare  non  è legata  a  queste  determinazioni  particolari  che  non  can- giano  il  concetto  X  E  che  noi  sappiamo  che  la  stessa  di- mostrazione può  aver  luogo  per  un  altro  triangolo,  (pia- lunque  ne  sia  la  grandezza,  i  lati  e  gli  angoli.  È  la  stes- sa considerazione  che  ci  autorizza,  nel  corso  della  dimo- strazione, a  l'are  rapplicazione  dei  teoremi  antecedenti,  i Mi *l quali  essi  stessi  non  sono  stati  dimostrati  che  sopra  una figura  particolare.  Ma  infine  la  dimostrazione  arriva  agli assiomi  ;  fra  di  cui  a  quello  di   Euclide  che  non  è  che un'altra  espressione  dell'  assioma  di  cui  sopra  abbiamo parlato,  cioè:  che  due  rette  inclinate  1'  una  verso  l'altra, o  in  altri  termini,  che  formano,  con  una  trasversale,  la somma  degli  angoli  interni  minore  di  due  retti,  prolunga- te .  finiscono  per  incontrarsi.  Come  sappiamo  noi  che  la proprietà  d'incontrarsi  appartiene  in  generale  all'oggetto del  concetto:  due  rette  inchnate  l'una  verso  l'altra?  cIkj risulta  dalle  condizioni  generali  della  costruzione  di  que- sto concetto,  e  non  dalle  determinazioni  particolari  dell'e- sempio esibitoci  nell'intuizione  ?  Ciii  ci  autorizza,  dopo  aver verificato  questa  proprietà  nei  casi  particolari  dell'intui- zione, a  stabilire  ch'essa  non  è  legata  alle  determinazio- ni particolari  indifferenti  al  concetto,  p.  e.  la  (Ustanza  o il  grado  d'inclinazione  delle  rette  osservate  sia  nella  vi- sione reale  sia  nell'immaginaria  ì  Sono  certamente  i  ca- si particolari  osservati  che  ci  autorizzano,  secondo  il  prin- cipio dell'analogia,  ad  estendere  a  tutti  gli  altri  casi  della stessa  specie  il  risultato  della  nostra  osservazione  :  noi possiamo  dirlo,  ma  Kant  non  lo  può,  percliè  egli  nega che  l'induzione  possa  stabilire  delle  proposizioni  necesj^i- rie  e  rigorosamenie  universali  (1). (I)  Non  è  forse  imitilo  di  riportare  altri  luoghi  di  ICaiif,  coiiii>r(>- vanti  che  tale  è  elfettivamente  la  sua  dottrina,  cioè  che  le  i>rop()- sizioni  della  matematica  si  fondano  sull'intuizione,  per  conseguenza sullOsservazione  dei  casi  particolari.  >^(^\V IntroOuz .  della  Crii,  (iella rafj.  intra,  V,  (2.  ediz.),  egli  dice:  «Il  concetto  di  12  nori  è  alTatto I»ensato  per  ciò  solo  che  io  concei^isco  (juesta  unione  di  7  e  di  5; ed  io  pos.^0  decomporre  il  mio  concetto  in  altrettanti  numeii possibili  quanti  io  vorrò,  senza  clie  perciò  io  vi  trovi  il  numero  12. Risogna  dunque  lasciare  (juesti  concetti,  e  ricorrere  a  un'intuizione clie  corrisponda  alTuno  dei  due  numeri,  come  alle  cinque  dita  della Tìiano,  o  (come  Segner  lia  Tatto  nella  sua  aritmetica)  a  cinciue  punti,  L'obbiettività  dei  giu.lizi  sintetici  a  priori,  la  possibi- lità di  applicarli  agli  oggetti  (bllesp^rienza,  è  fon  lata,  S3- condo  Kant,  su  di  ciò  clic  Tesperienza  stessa,  cioè  la  sin- tesi dei  fenomeni,  si  fa  secondo  le  regolo  di  cui  questi  giudizi e  agprìLinuere  succossivnnionte  al  concetto  di  sette  le  ciiKiue  unità date  in  intuizione.  Perchè  io  prendo  aUorn  il  numero  sette,  e  ri- correndo alle  mie  dita  comc^  ad  aUretlante  intuizioni  per  sip:nifì- (!are  il  numero  cinque,  io  ag*2iunK0  successivamente  a  sette,  stac- candole dall'immagine  totale  che  le  rappresentava,  le  unità  che io  aveva  prima  riunite  in  intuizione,  col  mezzo  delle  mie  dia\,  per formare  il  numero  cinque,  e  io  vedo  risultare  da  questa  operazione cotnplessa  il  numero  12.  Per  l'addizione  di  7  a  5  io  ho  in  verità  l'i- dea d'una  sounna-^74-5,  ma  non  l'idea  che  questa  somma  è  uguale al  numero  12.  La  proposizione  aritmetica  è  dunque  sintet'ca:  ciò che  si  vede  più  chiaramente  ancora  (piando  si  prendono  numeri [«iù  grandi;  gli  è  allora  evidente  che.  di  (jualunciue  maniera  noi rivolgiamo  i  nostri  concetti,  non  ]tossiafno  mai  formare  lasimma per  il  solo  mezzo  della  decomposizione  dei  nostri  concetti,  senza ricorrere  all'intuizione  ». }se\VKstetica  tixisccndentaìc,  dello  spazio,  a.  4:  «Tutti  i  i>rin- cipii  della  geometria,  p.  e.  clic  «lue  lati  di  un  triangolo  presi  in- sieme sono  più  grandi  del  terzo,  n<ìn  saranno  mai  dc^vati  con  cer- tezza ai>odittica  dai  concetti  generali  ili  linea  e  di  triangolo,  ma dalla  intuizione,  ila  una  intuizione  a  priori  ».  -  "ScWAnalit.  tra<ren- (lentcde.  r.  :\  Si 4.  di  tutti  i  jninripi  delV  intendimento  juiro:  «l princq>iì  della  matematica  non  fanno  i  arte  del  sistema  dei  prin- cipi dell'intendimento  puro,  perché  essi  non  sono  presi  che  dalla intuizione,  e  non  dai  concetti  dell'intendimento».-  E  più  oltre, nello  stesso  cap.,sez.  3:  «Vi  hanno  dei  principi  puri  a  priori  che  io non  posso  i)ropriamonte  attrihuire  all'intendimento  puro,  perchè essi  non  derivano  da  concetti  puri,  ma  da  intuizioni  pure  (<|uan- tunque  per  l'intermediario  dell'intendimento),  mentre  l'intendimento è  la  facoltà  dei  concetti.  Le  matematiche  hanno  dei  principii  di (juesto  genere;  ma  la  loro  applicazione  all'esperienza,  per  conse- guenza il  loro  valore  obbiettivo,  e  anche  la  possibilità  di  una  tale conoscenza  sintetica  a  piiof^t  (la  sua  deduzione)  riposa  tuttavia  sem- pre sull'intendimento  puro.  È  per  <iuesta  ragione  che  io  non  farò entrare  nei  miei  principii  quelli  delle  matematiche,  ma  bensi  (luelli su  cui  si  fonda  la  loro  possibilità  e  il  loro  valore  obbiettivo  a  priori, e  che  possono  in  conseguenza  essere  riguardati  come  il  principio <\'\  quelli  delle  matematiche,  andando  dai  concetti  all'intuizione, sono  resprcssione:  la  coincidenza  del  pensiero  con  l'oggetto è  possibile,  o  (piando  l'oggetto  determina  il  p3nsiero,  o  quan- do il  pensiero  determina  Foggetto;  ma  solo  in  cpiesto  se- condo caso  noi   possiamo   avere  dei   giudizi    necessari  e e  non  dall'intuizione  ai  conciati i  ».  (Confi-onta  con  (juesto  luogo  la nota  susseguente)--Xella  Metodofor/ia  trascendentale,  e.  1.  sez.  1. Kant  divide  le  proposizioni  sintetiche  a  priori  in  due  classi:  le  tror- scendentali,  che  sono  per  semplici  concetti  (sulle  quali  volge  la  co- noscenza,///o.so//.ca),  e  le  matematiche,  che  sono  fondate  sull'in- tuizione. Le  citazioni  che  potremmo  aggiungere  sono  al)bondardi, ma  le  riteniamo  supcrtlue. Kant  parla  come  se  la  semplice  vista  l)astasse  a  farci  conoscere la  verità  di  una  proposizione  matematica;  certamente  egli  non  nega che  il  ragionamento  vi  abl^ia  la  sua  parte,  ma,  come  tutti  gli  av- versari dell'empirismo,  non  comprende  questa  semplice  verità,  che ogni  deduzione  suppone  un'induzione  anteriore.  Cosi  la  sua  si>ie- gazione  ci  abbandona  precisamente  al  punto  in  (Uii  una  spiegazio- ne diventa  necessaria,  vale  a  dii'e  quando  arriviamo  alle  genera- lità più  alte  della  scienza  (Noi  abbiamo  già  osservato  che  Kant  ebbe il  torto  di  non  vedere  chiaramente  ch'era  necessario  di  distinguere con  i'iuw  i  i^rinn  })rincipii  delia  matematica,  sui  (juali  doveva  por- tare il  suo  esame,  e  le  proposizioni  derivate).  La  sua  spiegazione è  si  poco  propria  a  dar  conto  di  questi  princi]>ii  generali,  che,  quando egli  incontra  gli  assiomi  la  cui  natura  sintetica  è  la  meno  conte- stabile, vale  a  dire  gli  assiomi  sulle  eguaglianze,  egli  non  sa  de- cidersi a  riconoscere  il  loro  carattere  sintetico  «Un  piccolo  numero di  principii  supposti  dai  geometri.  iUcc  ueW Introduzione,  V.  n.  /., sono  in  verità  analitici,  e  rii^osano  sul  principio  di  contraddizione; ma  i)ure  non  servono,  come  ]>roposizioni  identiche,  che  all'inca- tenamento  del  metodo,  e  non  hanno  alcun  valore  come  princiiùi. Tali  sono  p.  e.  gli  assiomi:  a=:-a,  un  tutto  è  uguale  a  se  stesso,  o (a4-b)>  a,  cioè  il  tutto  è  più  grande  della  parte.  E  tuttavia  questi assiomi  in  se  stessi,  quantunque  valevoli  secondo  semplici  concet- ti, non  sono  ricevuti  nelle  matematiche  che  perchè  essi  possono essere  rappresentati  in  intuizione.  Ciò  che  ci  fa  generalmente  cre- dere che  il  predicato,  in  questa  sorta  di  giudizi  apodittici,  si  trova già  far  parte  del  nostro  concetto,  e  che  il  giudizio  è  per  conseguenza analitico,  è  semplicemente  l'ambiguità  dell'espressione.  Noi  siamo obbligati  ce  aggiungere  un  certo  predicato  a  un  concetto  dato,  e questa  necessità  tiene  già  ai  concetti.  Ma  la  quistione  non  è  questa  : Che  dobbiamo  noi  aggiungere  per  il  pensiero  a  un  concetto  dato? 3:^8 strettamente  generali.  Kant  ha  stabilito,  analogamente  a questo  principio,  che  noi  possiamo  applicare  agli  oggetti reali  deiresperienza  i  giudizi  l'ondati  suirintuizione  pura o  anticipata,  perché  gli  oggetti  reali  delFesperienza  pro- ma  (iiicst'aitra:  Che  vi  i)eiisiarno  noi  realmente.  (iuantun(iiie  oscu- ramente? Si  vede  allora  clie  il  predicato  aderisce  necessariamente a  questo  concetto,  non  già  come  concei)ito  nel  concetto  stesso, ma  col  mezzo  di  un'intuizione  che  deve  aggiungervisi».  hi  questo luogo  sono  contenute  due  asserzioni  contradittorie,  che  non  si  vede come  possano  conciliarsi:  secondo  la  prima,  questi  assiomi  sono l)roposizioni  analitiche,  secondo  lultima,  sono  ]>roposizioni  sinte- tiche- Se  il  pensiero  di  Kant  dovesse  desumersi  da  «piesto  solo  luogo, si  sarehbe  fondati  ad  attribuirgli  almeno  la  st«.'ssa  esitazione  risjHnto ai  grandi  assiomi  delle  matematiche  :  due  grandezze  uguali  ad  una terza  sono  uguali  fra  loro;  aggiungendo  grandezze  eguali  a  gran- dezze eguali,  le  sonane  sono  eguali.  Infatti  la  natura  sintetica  di queste  i>roposizioni  è  più  evidente  che  quella  delle  proposizioni  in- dicate da  Kant.  Ma  altrove  Fautore  sembra  più  esplicito:  «Per  quel che  riguarda  la  quantità,  cioè  la  i-isposta  alla  quistione:  Qual  è  la grandezza  di  una  cosa?,  bisogna  osservare  che  sotto  (juesto  rap- porto non  vi  ha  propriamente  alcun  assioma .  (juantunciue  molte di  (juesta  sorta  di  proposizioni  siano  sinteticamente  e  ìnnnediata- mente  certe  (indemonstrabilia):  perchè  che  l'eguale  aggiunto  all'e- guale o  tolto  dair  eguale  dia  1'  eguale,  sono  queste  delle  proposi- zioni analitiche,  poiché  io  sono  immediatamente  certo  dell' iden- titìi  della  produzione  duna  quantità  con  l'altra,  invece  che  gli  as- siomi devono  essere  dei  principii  sintetici  a p/ 70/ «.  Al  contrario  le proposizioni  evidenti  esprimenti  i  rai>porti  numerici,  come  le  pro- l^osizioni  geometriche,  sono  in  verità  assolulamente  sintetiche,  ma non  generali,  e  non  possono,  precisamente  per  questa  ragione,  chia- marsi assiomi,  ma  solamente  formule  numeriche.  Che  7-^5=12  ncm vi  ha  là  nienie  d'analitico QuantmKjue  (fuesta  proposizione  sia sintetica,  essa  non  è  tuttavia  che  una  proposizione  singolare» {Analit,  1.  2.  e.  2.  sez.  3). Il  Lange  riconosce  la  natura  sintetica  delle  in'oposizioni  che  qui Kant  dichiara  analitiche.  «  Le  proposizioni  matematiche,  dice  (lue- st'autore,  dacché  esse  sono  dimostrate  per  l'intuizione,  svegliano tosto  la  coscienza  della  loro  generalità  e  della  loro  necessità. Così  p.e. per  mostrare  che  7  e  5  fanno  12,  io  mi  servirò  dell'intuizione,  facen- do un'addizione  di  punti,  di  lineette,  di  piccoli  oggetti,  ecc.  In  que- sto caso,  l'esperienza  m'indica  solamente  che  i  punti,  lineette,  ecc. ^ U t cedono  dairintuizione  pura.  Ma  con  ciò  la  necessità  e  la stretta  universalità  di  questi  giudizi  non  è  spiegata  ancora: non  è  dimostrato  come,  le  condizioni  generali  deir  intui- zione pura,  di  cui  gli  assiomi  sono  Tespressione,  non  prò determinati  m'hanno  (luesta  volta  condotto  a  (luesta  somma  pre- cisa» «  Lix  generalizzazione  rapida  e  assoluta  di  ciò  che  si  e  visto una  volta»  non  può,  spiegarsi  che  per  «la  convinzione  che  tutti  i rapporti  numerici  sono  indipendenti  dalla  struttura  e  dalla  dispo- sizione dei  corpi  contati».  «La  proposizione  che  i  rapporti  nume- rici sono  indipendenti  dalla  natura  degli  oggetti  contati  e  essa stessa  una  verità  a  priori.  È  facile  di  provare  che  essa  e  inoltre sintetica»  (Stor.rfel  materiale ^.  2,  p.  1,  e.  l,pag.  17-18 trad.  Iranc.) ora  la  lìroposizione  di  cui  parla  il  Lange  non  è  che  l'assioma  fonda- mentale •  a  grandezze  eguali  aggiungendo  grandezze  eguali  le  som- me sono  euuali,  con  gli  assiomi  secondari  che  ne  derivano,  come: da  grandezze  eguali  togliendo  grandezze  eguali  i  resti  sono  eguali, occ  V  il  primo  assioma  che  ci  autorizza,  dopo  aver  verificato  in un  caso  particolare  che  7 -5--=  12,  ovvero  che  7-1^8,  a  stabilire  m generale  che  in  un  altro  caso  qualunque  7  -  n  saranno  pure  eguali  a p>  e  7  il  offuali  ad  8.  Di  qui  si  vede  ancora  che  le  sole  proposi- 'zìòni  generali  indimostrabili  della  scienza  dei  numeri  sono  gli  as- siomi fondamentali  sulle  eguaglianze  _ Kant  dichiara,  corno  si  è  visto,  analitiche  (lueste  propos.ziom  : ma  la  cosa  si  ammetterà  difncilmente,  dopo  che  si  è  gin  ammesso che  queste  altre  proposizioni  :  2il^.3,  3-M^4.  ecc.  (che  sono  le  sole formule  numencìie,  per  usare  il  linguaggio  di  Kant,  che  non  pos- sano dimostrarsi)  non  sono  analitiche .  ma  sintetiche.  K  mteres- s-ìnte  per  l'apprezzamento  della  dottrina  Kantiana,  non  che  della »  one  onerale  dei  giudizi  in  analitici  e  sintetici,  di  confron- tare emione  <li  Kant  con  quella  di  allri  niosofi  .  i  quah,  come Bain  affermano  che  le  proposizioni  sintetiche  della  mate.iiatica sono'precisamente  (pielle  che  il  primo  ritiene  analitiche  (gh  assio- mi delle  eixuaijlianze),  e  viceversa. Noi  abbiamo  accemiato  che  il  rilìuto  di  Kant  ad  ammettere risolutamente  il  carattere  sintetico  di  queste  proposizioni,  proviene dalla  sua  dottrina  che  i  giudizii  sintetici  della  matematica  si  spie- ga o  ver  la  semplice  intuizione.  Kant  poteva  credere  ohe  alcuna hiduzione  alcuna  inferenza  da  certi  casi  agli  altri,  non  e  neces- saria per  istabilìre  gli  assiomi  particolari  della  geometria  come questi  •  due  rette  non  chiudono  uno  spazio:  una  retta  che  ha  più di  un  punto  in  un  pinno.  giaco  intoramonto  nel  piano.  Infatti,  purcedendo  dal  pensiero,  sia  tuttavia  possibile  la  coincidenza li-a  li  pensiero  che  le  conosce  e  la  cosa  conosciuta.  Se- condo Il  principio  kantiano  della  spiegazione  dei  giudizi sintetici  a  priori,  vi  dovrebbero  essere  dei  principii  intel- lettuali o  dei  concetti,  determinanti  « /.rwrHe  condizioni generali  dell'  intuizione  pura  dello  spazio  o,  in  generale degli  oggetti  delle  niatematiclie  pure;  dei  princijii  che  se- condo unespressione  di  Kant,  andrebbero  non  dalla 'in- tuizione ai  concetti  (come  le  generalizzazioni  dell' espe- rienza), ma  dai  concetti  alla  intuizione  (1). che  noi  possiamo  rappresentarci  le  due  rette,  o  la  retta  e  il,.iano no.  conoseinnio  intuitivamente,  in  ojrni  caso  particolare,  la  verità' d.  quest,  nssmnii.  Ma  vi  ha  almeno  un  assioma  nella  ^-eometria (Oltre  nue.l.  sulle  eguaglianze,  comuni  con  la  scienza  de?  numer rei  .,uale,1  bisogno  dellin.lu/.ione  si  ronde  evidente  :  è  quello  delle parallele.  Alcuni  geometri  mo.lerni  ritengono  quesfass^oma  speH- mentale  e  contingente,  e  non  a  priori  e  necessario  come  gli  altri- ma  Kant  non  potrehl>e  essere  del  loro  avviso,  perchè  quest  ass  o- mo,  appartenendo  .juanto  gli  altri  alla  nostra  intuizione  pura  o forma^,  non  può  essere  meno  degli  altri  necessario  ed  a  priori rll  A'     ?•?'",'  "'^  ^'^''''  •"^'  Vnm-Àx^W  sintetici  delPintendimento puro  iAnaht  I.,  r.,,e^.S)  dei  principii  mcacmmri,  che  Kantdi- sfmgue  da.  dinamici.  Essi  corrispondono  alle  categorie  dello  quan- tità e  della  qualità,  e  sono:  il  principio  .leoli  assk.nu  deWinUU- ^o/if.Ogn.  fenomeno  ò  una  grandezza  estensiva  (é  un  a^rgregato <^.  part.,;  e  .  prmcipio  Mie  cmUelpa.ioni  della  percezioi{e:\^mi .  fenomcn.  .1  reale,  oggetto  della  sensazione,  ha  ..na  quantità  in- tens.va    cioè  un  grado.  E  su  questi  principii,  .seirnata.iiente   su quello  degli  assiomi  dell'intuizione,  che  si  fonda. -secondo  Kant apphcabil.t;,  doUe  matematiche  agli  oggetti  delPesperienza   o  iì loro  valore  obbiettivo.  Ma  il  principio  degli  a.ssiomi  dellintuizione non  d.ce  altro  se  non  che  ogni  i.e.-cezione risulta  «da  una  sintesi ?r.!.' H  ",•"  ?"'  ^''''  omogeneo  .,  in  altri  termini,  che  ogni  og- df  nonr     '?   ""°"'  '  '^«'•-^'^Pito  come  un  aggregato  o  una  sommi, d.  pa.t,  date,  s,  rapporto  allo  spazio  che  rapporto  al  tempo.  Kant non  ha  la  pretensione  di  dedu.-re  da  questo  principio  gli   assiomi delle  matematiche:  pure  ci  sembra  evidente  che  i  presupposti  della n..,     ."""m"""''?'  ""°^™«  '''   '^'"'^••P"  «  di  concetti,  i qual.  dovrebbero  al  tempo  stesso  essere  la  so.-gente  degli  assioini Dopotutto  ciò  potrà  sembrare  sorprendente  che, mentre  Kant  riesce  cosi  poco  a  rendere  conto  delle  pro- posizioni della  matematica,  siano  nondimeno  (lueste  pro- posizioni il  cavallo  di  battaglia  dei  kantiani,  nella  loro polemica  contro  l'emipirismo.  Per  noi  é  evidente  che,  delle due  classi  in  cui  Kant  divide  le  proposizioni  sintetiche  a priori,  cioè  le  matematiche  e  le  trascendentali,  il  suo  si- stema é  affatto  improprio  a  spiegare  quelle  della  prima: non  é  perciò  che  esso  era  stato  inventato.  É  dalle  obbie- zioni di  Hume  contro  il  princieio  di  causalità  ciie  Kant prese  le  mosse,  come  lo  confessa  egli  stesso:  per  altro sono  le  leggi  della  natura,  non  sono  le  proposizioni  della matematica,  che  un'ipotesi  metafisica  si  propone  di  spie- gare. E  tuttavia  è  a  questa  classe  di  proposizioni  che  pos- sono più  giustamente  applicarsi  i  caratteri  che,  secondo Kant,  distinguono  i  giudizi  sintetici  a  priori.  Le  proposi- izioni  della  matematica  pura  sono  etì'ettivainente  necessa- rie, cioè  tali  che  la  possibilità  del  loro  contrario  non  i)o- trebbe  concepirsi,  ed  anche,  in  un  senso,  a  priori;  ma nelle  ttltre  proposizioni  che  Kant  classifica  fra  le  sinteti- che « /;7'<or/,  non  vi  ha  alcun  carattere  particolare  che possa  giustificare  1^  loro  separazione  dalle  proposizioni a  posteriori  o  empiriche,  e  questa  separazione  è  sempli- cemente arbitraria.  Per  i  principii  della  fìsica  che  Kant chiama  i)ura,  quali  la  ]jersistenza  della  quantità  della  ma- teria e  l'eguaglianza  dell'azione  e  della  reazione  nella  co- .munieazione  del  movimento,  si  è  opposto  genei''almente a  Kant  che  esse  sono  delle  proposizioni,  non  a  priori, ma  si)erimentati:  e  di  fatti,  se  es.se  venissero,  come  cre- de Kant,  dal  fondo  stesso  dello  spirito  umano,  non  avreb- bero dovuto  essere,  come  sono  state  in  realtà,  il  jiortatdelle  n.atematiclie, e  contenere  la  regole a/;/(o/7  della  « sintL'.si  del moltiplice»,  da  cui  risulta  la  percezione  di  oggetti  tali,  ciie  questi assiomi  possono  loro  applicai'si. U2V  -N^-N^  >^  w  > di  una  lenta  evoluzione  scientifica,  ma  il  patrimonio  co- mune di  ogni  uomo  c/ie  viene  in  (jiiesto  mondo.  Per  il principio  di  causalità,  è  una  dottrina  concorde  degli  av- versari deirenpirismo  che  esso  è  una  conoscenza  innata o  una  necessità  del  i>ensiero,  e  non  un  })rodotto  deirespe- rienza.  Ma  bastei^bbe  la  credenza  quasi  generale  nel  li- bero arbitrio  per  escludere  la  supposizione  di  una  neces- sità del  pensiero,  che  ci  porti  ad  attribuire  ad  ogni  avve- nimento una  causa  determinante.  Di  più  vi  sono  stati  dei filosofi,  come  tutta  la  scuola  di  Epicuro,  che  hanno  am- messo una  simile  indeterminazione  anche  nei  tatti  del mondo  materiale:  Kant  ha  bel  chiamare  impudente  Epi- cuiX)  ixìr  questa  sua  dottrina,  il  tatto  stesso  che  essa  è stata  anmiessa,  costituisce  una  pix)va  contro  la  teoria  Kan- tiana che  vede  nella  causalità  una  l'orma  o  una  legge  ne- cessaria del  soggetto  conoscente.  D'altronde  questa  distin- zione tra  i  tatti  del  mondo  moi'alc  e  quelli  del  mondo  ma- teriale non  sarebbe  ammissibile  che  al  i)unto  di  vista  del- Tuomo  moderno  che  partecipa  più  o  meno  alla  coltura scientifica  :  non  sarebbe  un'ironia  di  dire  che  il  selvaggio, o  semjJicemente  Fuomo  superstizioso,  il  quale,  in  tutti  i fenomeni  della  natura  che  sorpassano  la  sua  stretta  ca- pacità di  comprendere,  vede  Teffetto  della  volontà  capric- ciosa di  agenti  spirituali,  creda  alFincatenamento  delle cause  e  degli  eftetti,  cioè  all'ordine  uniforme  o  al  deter- minismo universale,  nei  tatti  del  mondo  materiale? Quanto  ai  due  criteri  di  cui  Kant  si  serve  per  distin- guere questa  sorta  di  proposizioni  dalle  sperimentati,  noi abbiamo  notato  che,  per  ciò  che  concerne  Tassoluta  univer- salità, si  possono  lare  due  quistioni  distinte,  quella,  per dir  cosi,  del  fatto,  e  quella  del  dritto.  Alla  prima  cpiistio- ne,  cioè  se  gli  uomini  sogliono  effettivamente  riguardare come  assolutamente  universali  delle  proposizioni  indiscu- tibilmente ricavate  dalFesperienza,  noi  aljbiamo  già  rispo- sto nftermativamentc:  alla  seconda,  cioè  se  alle   gencralizzazioni  delFesperienza  si  ha  il  diritto  di  accordare  una universalità  rigorosa,  la  precedente  discussione  ci  autrj- rizza  a  rispondere  pure  affermativamente,   perchè  ci  ha dimostmto  l'insuccesso  di  ogni  tentativo,  come  (luello  di Kant,  di  fondare  fuori  delFesperienza  la  legittimità  delle nostre  conoscenze.  In  quanto  all'altro   criterio,  è  chiaro che  le  jn^oposizioni  che  Kant  chiama  traHcendeaiali,  non possono  affatto  aspirare  alla  necessità  dei  principii  della matematica.  Sarebbe  per  noi  certamente  incredibile  che un'eccezione  al  principio  di  causalità  avesse  luogo:  ma quantunque   sappiamo   con   certezza  che  tutti  gli  avve- nimenti sono  subordinati   a  questo   principio,    noi    pos- siamo tuttavia  immaginare  che  il  contrario  potrebl)e  ac- cadere di  quello  che  sappiamo  che  eftettivamente   acca- de. Lo  stesso  Kant  ne  conviene:  «Una  proposizione  sin- tetica della  ragion  pura  e  trascendentale  è  ben  lungi,  egli dice,  dall'essere  cosi  evidente  che  la  proposizione  che  due (i  due  fanno  quattro  ».    «  La  filosofia  non   ha  assiomi,  e non  le  è  permesso  d'imporre  puramente    e   semplice- mente i  suoi  principii  <i  priori,  ma  deve  applicarsi  a  giu- stificare a  loro  riguardo  i  suoi  diritti  con  fondata  ed  oi)- portuna  deduzione»  (Discipl.  della   ragion  pura  ncll'aso do(jrn.,  Assiomi),  Kant,  servendosi  d'un  termine  giuridico, cliiama  dedazione  la  giustificazione  dell'aiìplicazione  agli oggetti  d'  un   principio  a  priori,  o  in   altri  termini,  una spiegazione  che  valga  ad   assegnare  il  fondamento  della legittimità  di  un  tale  principio  (Analit,  Princ,  d'una  de^ duz.    trascendent.    in  (jener,),   L^na  proposizione  a  priori trascendentale,  come  il  principio  di  causalità,  non  potrebbe dunque,  secondo  Kant,  ammettersi  senza  una   dedazione o  giustificazione.    «  Non  ])Otrebbe  darsi  in  fatti,  egli  dice, che  i  fenomeni,  tra  cui  noi  stabiliamo  il  legame  di  causa- lità, fossero  di  natura  tale  che  l'intendimento  non  li  tro- vasse d'accordo  con  le  condizioni  della  sua   unità,  e  che tutto   tosse  in    un  tale  di  stato  di   confusione  che,   nella successione  delle  apparizit^ni,  niente  non  fornisse  materia alla  regola  della  sintesi;  che  non  vi  l'osse  niente  per  con- seguenza che  si  accordasse  con  la  nozione  di  causa  e  di effetto,  sicché  infine  questo  concetto  fosse  chimerico  e senza  il  minimo  fondamento?»  (iv/j.  La  necessità  ineren- te al  principio  di  causalità  non  è  dunque,  per  confessio- ne dello  stesso  Kant,  una  necessità  assoluta,  che  impe- disca sinanco  (Fimmaginare  la  possibilità  del  contrario: vi  ha  senza  dubbio  una  differenza,  sotto  questo  rapporto, fra  la  legge  della  causazione  e  una  legge  empirica  che non  è  un  prodotto  spontaneo  dell'esperienza  più  familiare, ma  il  risultato  di  un'investigazione  scientifica.  Nel  secondo caso  le  idee  non  sono  cosi  strettamente  legate  fra  di  loro come  nel  primo:  ma  Tesperienza  non  è  incapace  di  for- mare dei  legami  cosi  stretti  fra  le  nostre  idee.  Delle  pro- posizioni incontestabilmente  fondate  salPesperienza,  come il  preteso  principio  che  ogni  azione  mutua  fra  i  corpi suppone  il  loro  contatto,  e  che  non  vi  ha  azione  a  distanza, sono  stati,  noi  V  abl)iamo  già  osservato,  spesso  ricevuti come  dei  principi  necessari:  la  frequente  ripetizione  delle esperienze  arriva  in  questo  ed  altri  casi  analoghi,  cosi Ijene  come  in  quello  della  causalità,  ad  associare  cosi  for- temente le  idee,  che  non  t)Otrebbero  (tueste  venir  separate senza  una  grande  difficoltà. §  14'\  Kant  ha  avuto  ben  ragione  di  pretendere  che un  principio  a  priori  non  potreljbe  anunettersi,  come  oì> biettivamente  valido,  senza  una  giustificazione  o  una  de- duzione conveniente.  Una  tendenza  subbiettiva  a  credere non  potrebbe  i)er  se  stessa  provare  la  legittimità  della  cre- denza. Neir  ipotesi  delF  esistenza  delle  idee  o  dei  giudizi a  priori,  non  vi  Jia  niente  che  si  possa  opporre  alla  sup- posizione di  giudizi  a  jtriori  falsi  ed  illusori.  Questa  su^)- posizione  ò  stata  di  fatto  ammessa:  <<  Vi  ha,  dice  il  Lan- ge,  <lelle  nozyjni  a  priori  erronee,  come  delle  nozioni  a priori  in  generale.  11  più  spesso  T  errore  a  priori  non  è un'idea  incoscientemente  acquisita  per  T  esperienza,  ma un  idea  che  ci  è  necessariamente  imposta  dall'organizza- zione  fìsica  e  psicologica  delFuomo,  avanti  ogni  esperien- za particolare;  un'idea  che  per  conseguenza  si  manifesta sin  dalla  prima  esperienza,  senza  T intervento  delFindu- zione,  ma  che  è  rovesciata  con  la  stessa  necessità  per  la forza  d'idee  a  priori  più  profondamente  radicate,  dacché una  certa  serie  d'esperienze  ha  dato  la  preponderanza  a queste  ultime  ». Sembra  che  le  dottrine  che  Kant  ha  esposto  nella  Dia- lettica  trascendentale,  non  siano  state  senza  influenza  su questa  opinione  del  Lange.  Come  Kant  ha  ricercato  nel- Y  Analitica  i  principii  a  priori  delle  nostre  nozioni  sul  mon- do reale  (dell'esperienza),  cosi  nella  Dialettica  egli  ricer- ca i  principii  a  priori  delle  nostre  nozioni  metafìsiche, che  sono  per  lui  delle  illusioni  naturali  dello  spirito  uma- no. Kant  ha  avuto  torto  di  vedere  nei  principii  della  me- tafisica delle  idee  a  priori,  date  con  la  struttura  stessa del  nostro  spirito:  questi  principii  non  sono  dovuti,  come tutti  gli  altri,  che  all'impressione  delle  cose  sopra  di  noi, e  se  essi  sono  naturali  allo  spirito  umano,  ciò  è  percliè, il  punto  di  vista  in  cui  l'uomo  è  collocato  nella  na- tura, si  presenteranno  a  lui  necessariamente  quelle  espe- rienze familiari,  di  cui  le  tendenze  metafisiche  sono  il .  Tuttavia,  se  si  ammette  1'  esistenza  di  nozioni ingenite  nella  nostra  intelligenza,  sembra  che  le  creden- ze o  tendenze  a  credere  su  cui  volile  la  metafisica  naturale dell'uomo  (cioè  i  prodotti  spontanei  della  sofistica  a  priori nostro  spirito,  di  cui  i  sistemi  della  storia  sono  degli sviluppi  e  delle  applicazioni  diff*erenti— v.  il  Saggioseguen- te  — )  meritino,  più  che  qualunque  altra,  di  essere  com- prese fra  queste  nozioni.  In  questo  caso,  noi  avremmo  ef- fettivamente ciò  che  Lange  chiama  degli  errori  a  priori: V  esperienza  rovescerebbe  queste  idee  a  priori  che  sono erronee,  mentre  essa  confermerebbe  le  id^ee  a  priori  che sono  vere.  Cosi,  in  tutti  i  casi,  è  sempre  l'esperienza  che (leve  decidere,  in  ultimo  appello,  sulla  verità  o  sulla  tal- sita  di  un'  idea:  non  vi  ha  di  tatti,  come  abbiamo  visto, air  infuori  delF  esperienza  stessa,  alcun' altra  dedazione  y che  possa  dare  un  fondamento  alla  realtà  delle  nostre  co- noscenze. r'  per  quesf  osservazione  che  termineremo  il  nostro esame  della  dottrina  di  Kant  e,  in  generale,  delle  dottri- ne dei  razionalisti.  Nei  capitoli  seguenti  stabiliremo  di- rettamente la  nostra  tesi,  die  è  quella  che  abbianio  enun- ciata nel  [)rimo  paragrafo  del  capitolo  terzo. "^^S^^M óoccooooooo  i  a>c<x:c<^^  Esame  delle  proposizioni  matematiclie e  di  altre  classi meno  importanti  di  proposizioni  a  priori. S.  l\   Le  proposizioni   delle  matematiche   pure   sono state  sempre  considerate  conie  il  tipo  delle  verità  di  ra- fy/oAie,  cioè  necessarie  ed  a  pintori:  noi  dobbiamo  occupar- ci con  un'attenzione  porticolare  dell'origine  e  della  natu- ra di  queste  proposizioni,  non  essendovi  torse  una  quistio- ne  più  importante  per  la  teoria  della  conoscenza.  Si  trat- ta di  stabilire,  per  dei  principii  generali,   quali   siano  le forze  della  ragione  a  priori,  su  (juali  soggetti  noi  possia- mo acquistare  delle  conoscenze  indipendenti  dall'esperien- za. La  quistione  ha  anche  un'importanza  speciale  per  l'ar- gomento del  Saggio  seguente,  cioè  l'origine  e  lo  sviluppo delle  nozioni  metafisiche:  l'intiuenza  dello  studio  delle  ma- tematiche sulle  concezioni,  e  particolarmente  sui  metodi, dei  metafisici  è  un  fatto  provato  dalla  storia  (v.  Saggio  2*\ parte  1^>  cap.  0^);  è  il  successo  del  metodo  deduttivo  in queste  scienze  che  ha  dato  sovratutto  occasione  a  pensa- re che  si  potrtìbbe  costruire  a  priori  la  scienza  dell'uni- verso reale  cosi  bene  che  quella  dei  numeri  e  delle  figu- re. L^na  ricerca  minuziosa  sull'origine  e  sulla  natura  dellevidenza  particolare  alla  matematica  non  sarà  dunque uno  sterile  esercizio  del  pensiero  e  una  vana  micrologia, ma  una  preparazione  indispensabile  alla  soluzione  delle quistioni  fìlosoficiie  a  cui  il  nostro  spirito  non  cesserà  mai d'interessarsi,  sul  valore  e  sui  limiti  delle  nostre  conoscen- ze, sulla  legittimità  dei  metodi  proposti  per  perfezionarle, e  sui  principii  che  governano  lo  sviluppo  della  intelligen- za umana. Gli  empiristi  hanno  avuto  torto  di  negare  Y  apriorità delle  matematiche  pure,  che  é  la  particorità  più  saliente per  cui  esse  si  distinguono  dalle  scienze  naturali  e  da  tutte le  altre  scienze  in  generale:  ma  (juesta  apriorità  delle  pro- posizioni delle  matematiche  non  deve  intendersi  in  un  senso che  escluda  Torigine  empirica  o  induttiva  delle  premesse di  queste  scienze.  Essa  consiste  unicamente  in  ciò,  che  le osservazioni,  di  (]ui  queste  premesse  sono  le  generalizza- zioni, non  hanno  bisogno  di  essere  fatte  sulle  cose  stesse, ma  basta  di  contemplare  le  idee  di  queste  cose.  Per  sa- pere che  due  e  due  fanno  quattro,  clie  due  rette  non  pos- sono chiudere  uno  spazio,  che  la  retta  è  la  linea  più  breve fra  due  punti  dati,  ecc.,  non  c*è  bisogno  di  osservare  delle collezioni  di  oggetti  reali,  nò  delle  rette  materiali:  Inasta airuopo  di  rappresentarci  due  coppie  di  oggetti  e  delle  li- nee rette.  Cosi  pure  basta  di  rappresentarci  distintamente tre  grandezze  eguali  in  una  situazione  conveniente,  per verificare lassioma  che  due  grandezze  eguali  ad  una  terza sono  eguali  fra  loro.  La  scuola  empirista  non  ha  negato (piesta  i)roprietà  delle  verità  evidenti  per  se  stesse  della matematica:  il  Mill  specialmente  ha  mostrato  che  essa basta  per  rispondere  alle  obljiezioni  della  scuola  intuitiva contro  Torigine  empirica  o  induttiva  di  ([ueste  verità.  Le nostre  impressioni  di  forma,  dice  il  Mill,  hanno  questa proprietà  parttcolare  «  clie  le  idee  o  immagini  mentali  ras- somigliano esattamente  ai  loro  prototipi  e  li  rappresentano adequatamente  per  Tosservazione  scientilica.  Di  là  e  dal carattere  intuitivo  delF  osservazione,  che  in  questo  caso si  riduce  alla  semplice  ispezione,  segue  che,  cercando  di concepire  due  linee  rette  che  chiudono  uno  spazio,  non possiamo  evocare  a  questo  fine  nelFimmaginazione  le  due hnee  senza,  per  quest'atto  stesso,  ripetere  Tesperienza  scien- tifica che  stabilisce  il  contrario  »  (Logica  lib.  2«  e.  5^  §  6). Oltre  alFobbiezione  che  si  fa  airorigine  empirica  degli  as- siomi perchè  hanno  per  essi  Tinconcepibilità  della  nega- tiva,  «  si  dice  che  se  il  nostro  assenso  alla  proposizione che  due  linee  rette  non  possono  chiudere  uno  spazio  pro- venisse dai  sensi,  non  potremmo  essere  convinti  della  sua verità  che  per  un'osservazione  attuale,  cioè  vedendo  o  toc- cando le  linee  rette;  mentre,  in  fatto,  essa  è  riconosciuta vera  solo  pensandovi  ».  Di  più  per  quesf  assioma  parti- colare si  può  aggiungere  che  «la  sua  evidenza,  in  virtù della  testimonianza  attuale  degli  occhi,  lungi  di  essere  ne- cessaria,  non  può  nemmeno  essere  ottenuta  cosi  j»  :  che due  rette,  «  prolungate  airinfìnito,  dopo  la  loro  intensezione, non  s'incontreranno  mai,  e  continueranno  a  divergere  Tuna dall'altra  j>  c(  non  può  provarsi  in  un  caso  particolare  per un'  osservazione  diretta  »,  perchè  non  si  possono  seguire le  linee  all'infinito.  A  queste  due  obbiezioni  «si  sarà  ri- sposto d'una  maniera  soddisfacente,  se  si  tien  conto  d'una delle  proprietà  caratteristiche  delle  forme  geometriche,  che le  rende  atte  ad  essere  figurate  nell'  immaginazione  con una  chiarezza  ed  una  precisione  eguali  alla  realtà  ;  in altri  termini,  della  perfetta  rassomiglianza  delle,  nostre idee  di  forma  con  le  sensazioni  che  le  suggeriscono. Noi  siamo  perciò  in  istato,  prima,  di  farci  (almeno  con un  po'  di  pratica)  delle  immagini  mentali  di  tutte  le  com- binazioni possibili  di  linee  e  d'angoli,  che  rassomigliano alle  realtà  cosi  esattamente  che  quelle  che  si  potrebbero tracciare  sulla  carta;  e  in  seguito,  d'  esperimentare  geo- metricamente su  queste  immagini  cosi  sicuramente  che sulle  realtà  stesse;  atteso  che  queste  pitture,  se  esse  sono  sufficientemente  esatte,  manitestano  tutte  le  proprietà  che sarebbero  esibite  dalle  realtà  a  un  momento  dato  e  per  una semplice  vista.  Ora  in  geometria  è  di  queste  proprietà  che noi  abbiamo  ad  occuparci,  e  non  di  ciò  che  non  potrebbe essere  mostrato  per  delle  immagini,  Fazione  mutua  dei corpi  gli  uni  sugli  altri Queste  considerazioni  distrug- gono pure  l'obbiezione  l'ondata  suirimpossilnlità  di  seguire ocularmente  le  linee  prolungate  air  infinito.  Perchè,  ben- ché per  vedere  attualmente  che  due  linee  date  non  s' in- contrano mai,  sarebbe  necessario  di  seguirle  air  infinito, noi  possiamo  tuttavia  sapere,  senza  di  ciò,  che,  sedesse  s'in- contrassero, 0  se,  dopo  essersi  allontanate,  cominciassero a  ravvicinarsi,  ciò  dovrel)be  accadere,  non  ad  una  di- stanza infinita .  ma  ad  una  distanza  Unita,  Supponendo dunque  che  è  cosi,  noi  possiamo  trasportarci  in  immagi- nazione a  questo  punto,  e  rappresentarci  mentalmente  ra[)- parenza  che  presenterebbero  là  le  due  linee,  apparenza a  cui  dob'biamo  fidarci  come  assolutamente  simile  alla  real- tà. Ora,  sia  che  noi  consideriamo  (juesta  pittura  imma- ginaria, sia  clie  ci  rammentiamo  le  generalizzazioni  d'os- servazioni oculari  anteriori,  è  sempre  la  testimonianza deiresperienza  che  c'insegna  che  una  linea  retta  che,  do^Kj essere  stata  divergente  da  un'altra  retta,  comincia  a  rav- vicinarsene, produce  sui  nostri  sensi  l'impressione  che  si designa  per  l'espressione  di  linea  curva,  e  non  per  quella di  linea  retta  «  (Logica).  «  Quando  si  tratta <li  numeri,  di  lince,  di  figure,  e  generalmente  in  tutti  i  casi in  cui  l'idea  d'un  oggetto  ne  è  la  rappresentazione  com- pleta, noi  possiamo  naturalmente  apprendere  dall'ini  ma- gine  tutto  ciò  che  avremmo  appreso  dall'oggetto  stesso, contemplandolo  tale  quale  esso  esiste  al  momento  preciso in  cui  la  pittura  mentale  l'ha  riprodotto.  Noi  non  appren- derenmio  mai,  limitandoci  a  guardare  della  polvere  da  can- none, ch'ossa  fareljbe  esplosione  al  contatto  d'una  scintilla, e  per  conseguenza  la  contemplazione  dell'idea  della  poi- !-..* I vere  da  cannone  non  ce  l'insegnerebbe  nemmeno.  Ma  basta di  vedere  due  linee  rette  per  vedere  che  esse  non  possono chiudere  uno  si)azio,  e  per  conseguenza,  la  contemplazione delle  loro  idee  ci  mostrerà  la  stessa  cosa  »  (HI).  :V^  e. 24<^  §  2). Il  Bain  ripete  l' osservazione  del  Mill  :  «  Si  è  soliti  di osservare,  egli  dice,  e  con  ragione,  a  proposito  degli  as- siomi matematici  in  generale,  che  gli  oggetti  a  cui  si  ap- plicano, cioè  le  grandezze  e  le  l'orme,  sono  di  tal  natura da  essere  rappresentate  il  più  facilmente  i)Ossibile  nella nostra  immaginazione  :  dimodoché  noi  possiamo  lare  un gran  numero  d'esperienze  ideali,  senza  contare  le  compa- razioni che  noi  compiamo  pure  d'una  maniera  concreta  sulle cose  reali».  (Logica  lib.  2*^  e.  V.  n^'  (S). §.  2**.  Sembra  che  né  il  liain  né  il  Mill  abbiano  com- preso la  vera  ragione  perché  le  immagini  mentali  delle grandezze  e  delle  l'ormo  possono  sostituire  le  grandezze e  le  torme  reali;  perché  noi  possiamo  si)erimentare  su queste  immagini  cosi  sicuramente  che  sulle  cose  stesse  ; perchè  infine  quelle  rappresentano  queste  adequatamente per  r  osservazione  scientifica.  Ciò  avviene,  dicono  essi, perchè  le  grandezze  e  le  l'orme  i)Ossono  essere  facilmente immaginate;  perdio  le  idee  rassomigliano  esattamente  alle cose  stesse.  «Noi  non  saremmo  autorizzati,  dice  il  Mill, a  sostituire  l'osservazione  deirimma£]^ine  mentale  all'osser- vazione  dell'oggetto  reale,  se  non  avessimo  imparato  per una  lunga  esperienza  che  le  proprietà  della  realtà  sono fedelmente  rappresentate  neirinnnagine;  i)recisamente  co- me noi  saremmo  autorizzati  a  descrivere  secondo  la  sua immagine  fotocrrafica  un  animale  che  non  abbiamo  mai visto,  ma  non  tuttavia  prima  d'aver  appreso  i  )er  l'esperienza che  l'osservazione  d'un'immagine  simile  equivale  comple- tamente all'osservazione  dell'originale  »  (lib.  2^^  e.  5^  §  5). Cosi  sembra  che  noi  abbiamo  bisogno  dell'esperienza per  sapere  che  l'idea  d'una  linea  retta  rappresenta   una,«^,-.^p»n>IÌ«. linea  retta,  e  non  una  linea  spezzata  o  curva.  Noi  abbia- mo bisogno  di  sapere  che  la  Ibtografia  rappresenta  ade- quatamente  Toriginale,  per  essere  in  grado  di  descrivere coscienziosamente  quest'originale   sulFosservazione  della sola  immagine,  perchè  qui  le  nostre  proposizioni  sareb- bero esistenziali.  Esse  stabilirebbero  che  esiste  un  anima- le rea,le,  avente  una  tale  forma  esteriore  o  una  tale  strut- tura. Ma  una  proposizione  geometrica  relativa  alla  retta non   stabilisce   sulla  retta  niente  di  simile.  La  quistione qui  sollevata  dal  Mill  corrisponde  alla  difficoltà  dei  Kan- tiani: donde   sappiamo  che  le  linee  ideali  si  comportano come  le  linee  reali?  I   Kantiani  rispondono:  È  che  stabi- liamo  quest'accordo  noi  stessi.  Mill  risponde   invece:   lo sappiamo  per  Tesperienza.  Nella  quistione  presentata  sot- to questa  forma  vi  ha  un  equivoco:  la  vera  quistione  non è:  perché  sappiamo  che  le  linee  reali  rassomigliano  esat- tamente alle  linee  ideali?  ma  è  invece:  perciiè  noi  attri- buiamo alle  linee  o  alle  formi  reali  i  mutui  rapporti  che noi  apprendiamo  dall'osservazione  delle  linee  o  forme  idea- li? Il  Mill  nella  sua  risposta  ad  una  critica  si  approssima alla  vera  soluzione.  Il  W'ewell  aveva  obbiettato  che  non si  vede  perchè  la  rassomiglianza  C(jn  gli  oggetti  reali  sa- reljbe  considerata  come  particolare  alle  idee  di  spazio.  A cui  il  Mill  risponde  :  La  particolarità  non  è  che  di  grado. Nessuno   potrebbe   rappresentarsi   un   colore  o  un  odore d'una   maniera  cosi  distinta  e  completa  che   una  retta  o un  triangolo.  «Nondimeno  proporzionalmente  al  loro  grado possibile  di  esattezza,  i  nostri  ricordi  degli  odori  e  dei  co- lori  possono   essere  dei  soggetti  d'esperienza,   cosi   bene che  quelli  delle  linee  e  degli  spazi,  e  possono  autorizzare delle  conclusioni  che  saranno  vere  dei  loro  prototipi  este- riori. Una  persona  in  cui,  sia  naturalmente,   sia  per  l'e- sercizio del  senso,  le  sensazioni  di  colore  sono  molto  vi- ve e  distinte,  potrà,  se  gli  si  domanda  (juale  di  due  fiori turchini  ha  un  colore  più  carico,  dare  una  risposta  soddisfacente  sulla  sola   fede  dei  suoi  ricordi,   quand'anche non  li  avesse  mai  comparati,  e  nemmeno  visti  insieme; vale  a  dire   che   essa  potrà   esaminare  le  sue  immagini ^  <  mentali,  e  trovarvi  una  proprietà  degli  oggetti  esteriori. Ma  in  quasi  nessun  caso,  tranne  per  le  forme  geometri- che semplici,  ciò  può  farsi  col  grado  di  sicurezza  che  dà la  vista  degli  oggetti  stessi»,  (lib.  2^  e.  5^  §  5,  in  nota). Il  Mill  non  avrebbe  dovuto  che  generalizzare  l'osservazio- ne contenuta  in  questa  sua  risposta:  noi  possiamo,  per osservare  i  loro  attributi,  sostituire  alle  cose  le  immagi- ni mentali  di  esse,  quando  noi  vogliamo  conoscere  i  loro rapporti  comparativi,  le  loro  somiglianze  e  differenze,  non la  loro  esistenza  o  l'ordine  con  cui  i  loro  fenomeni  hanno luogo  nel  tempo  o  nello  spazio.  Come  una  verità  cosi  sem- plice non  è  stata  compresa?  È  che  la  sua  applicazione generale  suppone,  come  vedremo,  che  si  sia  già  rinunzia- to alla  dottrina  delle  idee  astratte,  e  clie  si  cerchi  sem- l)re  il  senso  delle  proposizioni  nelle  idee  concrete  che  esse significano.  Se  una  verità  sui  numeri  e  sulle  forme  geo- metriche può  essere  stabilita  per  la  sola  contemplazione  del- le idee,  ciò  è  perchè  la  scienza  dei  numeri  e  la  geometria non  concernono  l'esistenza  dei  fenomeni  reali,  le  loro  se- quenze e  le  loro  coesistenze,  ma  si  limitano  a  considera- re i  rapporti  comparativi  dei  loro  oggetti,  le  eguaglianze e  le  ineguaglianze,  le  somiglianze  e  le  differenze.  É  per- ci(')  che  la  sola  contemplazione  delle  nostre  idee  delle  li- nee può  insegnarci  che  una  retta  ò  la  più  breve  fra  due punti  dati  (ineguaglianza  definita),  che  due  rette  non  chiu- dono uno  spazio  (differenza  fra  due  rette  e  uno  spazio chiuso  da  linee  ),  ecc.  Non  è  perchè  quando  si  tratta  di numeri,  di  linee  o  di  figure,  l'idea  d'un  oggetto  ne  è  la rappresentazione  completa,  ma  non  quando  si  tratta  di  fe- nomeni fisici.  Le  rappresentazioni  del  numero,  della  gran- dezza,  della  forma  e  della  posizione  delle  cose,  che  forma- no l'oggetto  della  matematica  pura,  bastano  a  rappresentarci  tutti  i  lenomeni  fisici,  almeno  al  punto  di  vista  delle proprietà  delle  cose  che  noi  diciamo  obbiettive,  che  è  quel- lo sotto  cui  le  considera  specialmente  la  scienza.  Noi  pos- siamo, dice  il  Mill,  contemplando  le  idee  delle  rette,  sape- re che  queste  non  possono  chiudere  uno  spazio,  ma  non possiamo,  contemplando  Tidea  della  polvere  da  cannone, sapere  che  (juesta  farebbe  esplosione  al  contatto  di  una scintilla.  Ciò  è,  secondo  lui,  prima  perchè  la  rappre- sentazione della  retta  è  più  somigliante  che  quella  della polvere  da  cannone  ;  e  ancora  perchè  le  rappresentazioni <lelle  torme  geometriche,  se  esse  sono  esatte,  rappresenta- no tutte  le  proprietà  che  sarebbero  esibite  dalla  realtà  a un  momento  dato  e  per  una  semplice  vista,  e  la  geome- tria si  occupa  appunto  di  queste  [)roprietà,  mentre  Fazio- ne mutua  dei  corpi  gli  uni  sugli  altri,  di  cui  si  occupano le  scienze  fìsiche,  non  potrebbe  essere  mostrata  per  delle immagini.  Per  le  proprietà  geometriche  Tosservazione  ha un  carattere  intuitivo,  si  riduce  alla  semplice  iihspezione, ma  non  per  le  proprietà  fisiche.  Ma  percliè  ciò?  Sarebbe per  avventura  perchè  le  proprietà  fisiche,  le  azioni  mu- tue dei  corpi  gli  uni  sugli  altri,  provengono  da  qualità occulte,  inaccessibih  airosservazione  dei  nostri  sensi?  o forse  vi  ha  un'osservazione,  che  non  si  riduce  alla  sem- plice intuizione,  alla  inspezione  attenta  delle  cose?  Noi  non potremmo  conoscere,  per  la  semplice  inspezione  di  due rette,  ciie  esse  non  chiudono  uno  spazio,  senza  vedere  o pensare  le  due  rette  in  rajjporto  con  uno  spazio  chiuso  da linee;  noi  non  protremmo  conoscere  che  la  retta  è  la  li- nea più  breve  fra  due  punti,  se  non  osservassimo,  nel^  i realtà  o  neirimmaginazione,  il  suo  rapporto  con  la  spez- zata e  con  la  curva.  Della  stessa  maniera,  la  semplice  in- spezione della  polvere  a  contatto  con  la  scintilla  non  c'in- segnereljbe  che  la  polvere  farà  esplosione;  ma  bisogna osservare  perciò  il  rapporto  di  sequenza  tra  i  due  feno- meni. Semplicemente,  per  conoscere  clie  due  fenomeni  so- I i i no  in  un  rapporto  di  sequenza  o  di  coesistenza,  noi  dob- biamo osservare  le  cose  stesse;  ma  per  conoscere  i  loro rapporti  di  somiglianza  o  di  differenza,  basta  di  osserva- re le  idee  delle  cose.  A  questo  punto,  è  vero,  la  quistio- ne:  come  sappiamo  che  le  linee  e  le  grandezze  ideali  si comportino  come  le  reali?  rinasce  sotto  un'altra  forma: chi  ci  autorizza  ad  attribuire  agli  oggetti  reali  i  rapporti di  somiglianza  e  di  differenza  che  noi  scopriamo  nelle idee  di  questi  oggetti  ?  É  questa  certamente  un'anticipazio- ne sull'osservazione  delle  cose  stesse  :  ora  è  sull'esperienza che  noi  ci  fondiamo  facendo  quest'anticipazione,  o  vi  ha  qui una  necessità  del  nostro  pensiero  indipendente  dall'  espe- rienza? Noi  riserviamo  la  risposta  a  questa  quistione  [)er un  momento  più  opportuno, §  3,°  Oltre  all'apriorità,  intesa  nel  senso  che  abbiamo spiegato,  le  proposizioni  della  matematica  pura  hanno anche  un  altro  carattere:  esse  sono  delle  verità  necessa- rie. Verità  necessarie  non  vuol  dire  che  esse  sono  d'una certezza  e  d'una  generalità  assoluta,  perchè  in  questo  senso ogni  verità  scientifica  e  provata  sarebbe  necessaria.  Le verità  della  fisica  ci  apprendono  che  le  cose  sono  cosi, ma  non  che  esse  devono  essere  cosi,  e  perciò  si  dicono verità  contingenti  ;  al  contrario  una  verità  necessaria  ci apprende  non  solo  che  le  cose  sono  d'una  certa  maniera, ma  che  esse  devono  essere  di  questa  maniera.  La  ditte- renza  fra  questi  due  ordini  di  verità,  al  punto  preciso  in cui  deve  farsi  la  loro  separazione,  è  forse  alquanto  sotti- le,  ed  è  stata  trascurata  da  alcuni  filosofi  moderni  ;  ma Hamilton  la  giudicava  tanto  importante,  eli'  egli  negava una  competenza  nelle  quistioni  filosofiche  a  clii  non  fosse capace  di  percepirla  nettamente.  E  in  realtà,  al  punto  di vista  della  storia  delle  idee  filosofiche,  questa  ditìcrenza è  certamente  d'un'importanza  capitale.  I  filosofi  della  scuola intuitiva  hanno  particolarmente  insistito  su  di  essa,  senza però  tracciare  con  giustezza  la  linea  di  divisione  tra  i  due ordini  di  verità,  e  ne  hanno  fatto  1'  obbiezione  principale contro  la  teoria  deiresperienza.  «  L'esperienza,  (3ice  We- ^vell,  non  può  fornire  il  minimo  fondamento  alla  neces- sità d'una  proposizione.  Essa  può  osservare  e  notare  ciò che  è  accaduto,  ma  non  può  nò  in  un  caso  qualunque  né in  un'accumulazione  di  casi  trovare  una  ragione  perciò che  deve  accadere.  Essa  può  vedere  degli  oggetti  gli  uni a  lato  degli  altri,  ma  non  vedere  perché  essi  devono  es- sere sempre  così  iuxta-posti.  Essa  trova  che  certi  avve- nimenti si  succedono,  ma  la  successione  attuale  non  dà la  ragione  del  suo  ritorno;  essa  vede  gli  oggetti  esteriori^ ma  non  può  scoprire  il  legame  interiore  che  incatena  in- dissolubilmente il  futuro  al  passato,  il  possibile  al  reale. Apprendere  una  proposizione  per  esperienza  e  vedere  ch'es- sa é  necessariamente  vera,  sono  due  operazioni  intellet- tuali completamente  ditl'erenti  »  (Storia  delle  idee  scien- tifiche, t.  1,^  p.  G5).  Ma  quest'  obbiezione  contro  l'origine empirica  o  induttiva  della  matematica,  tirata  dalla  neces- sità delle  verità  matematiche,  ha  lo  stesso  fondamanto  che quella  tirata  dalla  loro  apriorità:  è  che  si  misconosce  la differenza  tra  i  giudizi  esistenziali  e  i  giudizi  comparativi. Le  proposizioni  della  matematica  sono  necessarie  per  la stessa  ragione  per  cui  sono  a  priori:  è  perchè  sono  delle proposizioni  sulla  somiglianza. Per  esprimere  questo  carattere  di  necessità  d'una  prò- ])Osizione,  si  dice  o  rdinariamente  che  la  sua  negazione  é impossibile,  o  che  il  suo  contrario  è  inconcepibile.  In  ve- rità quest' inconcetnbilità,  a  parlar  propriamente,  non  ha luogo  che  per  le  proposizioni  evidenti  per  se  stesse:  é impossibile  di  concepire  che  due  e  due  non  siano  eguali a  quattro,  clie  la  retta  non  sia  la  linea  più  breve  fra  due punti  dati,  che  due  rette  chiudano  uno  spazio.  Ma  quando una  verità  si  conosce,  non  d'una  maniera  intuitiva,  ma per  inferenza,  non  vi  ha,  in  senso  stretto,  l'incocepibilità  del contrario,  o  l' impossibiUtà  dellla  negazione— noi  diremo 'é appresso  la  ragione  di  questa  differenza— É  evidente  che prima  della  dimostrazione  di  un  teorema,  i  due  lati  del- l'alternativa, che  esso  sia  vero  e  clie  esso  sia  falso,  sono egualmente  ammissibili:  cosi,  sinché  abbiamo  dei  dubbi sul  rigore  della  dimostrazione,  la  supposizione  che  il  teo- rema sia  falso  é  ancora  possibile.  Ma  quando  noi  siamo certi  della  verità  espressa  nel  teorema,  noi  non  possiamo ammettere  la  possibilità  del  contrario  di  questa  verità:  per le  verità  della  fisica,  al  contrario,  anche  le  più  certe,  que- sta possibilità  è  sempre  ammissibile.  Noi  siamo  sicuri  che un  acido  arrossa  la  tintura  di  tornasole,  o  che  un  cor- po in  movimento,  s'  egli  non  comunicasse  parte  del  suo movimento  ad  altri  corpi,  continuerebbe  a  muoversi  con una  prestezza  uniforme:  ma  nello  stesso  momento  che  vi crediamo  con  una  certezza  assoluta,  noi  possiamo  imma- ginare che  il  contrario  potrebbe  aver  luogo.  Non  trove- remmo alcuna  ripugnanza  ad  immaginare  un  mondo  in cui  questo  contrario  avreijbe  luogo  :  noi  possiamo  anche ammettere  clie  l'ordine  attuale  dei  fenomeni  riposi  sulla semplice  volontà  arbitraria  dell'autore  della  natura,  e  che questi  avrebbe  potuto  stabilirlo  d'una  maniera  affatto  dif- ferente, e  potrebbe  sospenderlo  e  mutarlo  a  suo  benepla- cito. Noi  potremmo  ancora  concepire  come  possibile  un mondo,  in  cui  tutti  i  fenomeni  si  succedessero  all'azzardo, cioè  senz'alcuna  legge  costante  nella  loro  successione.  In questi  casi  si  tratta  di  sequenze  tra  i  fenomeni;  e  non  ci costerebbe  niente  d'immaginare  che  un  fenomeno  potrebbe <3ssere  seguito  da  fenomeni  differenti,  e  non  da  quelli  da cui  in  realtà  esso  è  costantemente  seguito.  Lo'stesso  deve dirsi  per  le  coesistenze.  Forse,  in  ultima  analisi,  noi  non possiamo  immaginare  niente  di  assolutamente  nuovo,  di cui  non  avessimo  già  avuto  la  sensazione;  ma  noi  pos- siamo riunire  e  combinare  d'ogni  maniera  questi  dati  della sensazione;  la  nostra  immaginazione  può  idealmente  in- vertire e  mutare  in  tutti  i  modi  l'ordine  reale  con  cui  ci  sono  stati  preseiìtati.  I  rapporti  tU  ordine  non  derivano dalla  natura  stessa  dei  fenomeni,  quale  ci  è  data  nella intuizione  o  nella  rappresentazione  di  ciascuno  di  questi; noi  possiamo  supporre  che  il  rapporto  sia  diiferente,  men- tre i  fenomeni  sono  ancora  gli  stessi:  ma  se  si  tratta  in- vece, non  d'un  rapporto  d'ordine,  ma  duna  eguaglianza o  d'una  ineguaglianza,  d'una  somiglianza o  d'una  dillerenza, noi  non  potremmo  concepire  che  uno  di  questi  rapporti cangi,  senza  che  siano  cangiati  i  fenomeni  stessi  tra  cui esiste  il  rapporto.  Cosi  noi  possiamo  ignorare,  e  forse  an- clie  dubitare,  dopo  una  dimostrazione  che  non  ci  semljra rigorosa,  che  gli  angoli  d'un  triangolo  rettilineo  siano  eguali a  due  retti  :  ma  se  ammettiamo  che  lo  sono,  non  possia- mo supporre  che  avrebbero  potuto  non  esserlo,  non  po- tendo noi  concepire  die  il  rapporto  tra  gli  angoli  d'  un triangolo  e  due  angoli  retti  cangi,  sinché  il  triangolo  è un  triangolo  e  i  due  angoli  retti  due  angoli  retti.  È  in questo  senso  che  tutte  le  verità  della  matematica  pura sono  verità  necessarie.  (Confr.  caj).  3'^  §  4«  e  W'), Ora  dobbiamo  mostrare  con  qualche  dettaglio  che  le proposizioni  matematiche  consistono  tutte  in  giudizi  com- parativi, cioè  in  affermazioni  di  rapporti  di  somiglianza, e  che  è  per  questa  ragione  che  esse  sono  necessarie  ed a  priori.  Cominceremo  per  la  scienza  del  numero. §.  4.*>  Ogni  proposizione  dell'aritmetica  e  dell'algebra staljilisce,  al  fondo,  delle  eguaglianze  o  delle  ineguaglianze. (xJuando  nel  calcolo  aritmetico  si  mette  il  segno  =  fra  i dati  dell'operazione  proposta  e  il  risultato  di  quest'opera- zione, ovvero  quando  nel  calcolo  algebrico  questo  segno si  pone  fra  due  espressioni  distinte,  ciò  che  si  afferma non  è  semplicemente,  come  si  ix)trebbe  credere,  che  vi hanno  due  espressioni  diverse  iVuna  stessa  quantità,  nel senso  che  la  differenza  consisterebbe  unicamente  nelle espressioni  ma  la  cosa  espressa  sarebbe  identica;  al  con- trario, ciò  che  si  afferma  sono  delle  relazioni  fra  cose  realmente  distinte.  Fra  7+5  e  12  non  vi  ha  identità  assoluta, ma  solo  egualianza  :  7+5  designa  due  gruppi  di  oggetti . ma  12  designa  un  gruppo  unico;  e  la  proposizione  7+5=12 afferma  che  i  due  primi  gruppi  presi  insieme  sono  nume- ricamente eguali  al  terzo  gruppo.  7+5  e  12  possono  anche denotare  gli  stessi  oggetti,  7+5  prima  della  loro  riunione in  un  gruppo  unico,  e  12  dopo  questa  riunione  :  ma  la  di- sposizione di  questi  oggetti,  il  loro  modo  di  aggregarsi  sa- rebbe diverso  prima  e  dopo  la  riuninione.  11  risultato  della somma  potrebbe  anche  considerarsi  come  rappresentante, non  un  gru[)po  unico,  ma  due  grup])i  formati,  l'uno  d'una decina,  l'altro  di  due  unità,  perchè  in  un  sistema  razionale di  numerazione  la  valutazione  di  una  somma  di  numeri per  il  numero  totale  può  essere  riguardata  come  l'afferma- zione dell'equivalenza  tra  la  soimna  data  e  un'altra  somma diversamente  formata  secondo  un  metodo  generale,  e  che si  esprime  per  il  nome  del  numero  o,  in  generale,  il  suo segno:  nel  sistema  decimale,  p.  e.,  quest'ultima  somma consiste  nell'addizione  di  un  numero  di  unità  semplici  e di  numeri  d'aggregati  costituiti  ciascuno  da  una  delle  })0- tenze  successivi  di  dieci.  Della  stessa  maniera  IX^  —  ~^^ afferma  l'eguaglianza  numerica  fra  quattro  grup[)i  di  cin- ({ue  oggetti  ciascuno  e  un  gruppo  unico  di  venti  o  (kie di  dieci.  Cosi  ancora  in  questa  eguaglianza:  (:}+2)''=*r^ +2  (3.2)+2~,  la  quantità  indicata  nei  due  mem])ri  del- l'eguaglianza è  in  un  senso  la  stessa,  ma  la  struttura  in- terna, per  dir  cosi,  di  questa  (juantità  (come  si  potrebbe rappresentare  sensibilmente  per  mezzo  di  i)untini  segnati sulla  carta)  differisce  nelle  due  espressioni:  il  modo  di  ag gregarsi  delle  unità,  i  gruppi  che  esse  formano  per  la  loro riunione,  e  i  gruppi  di  second'  ordine  formati  da  questi gruppi,  non  che  quelli  di  un  ordine  più  complesso  ancora costituiti  da  questi  gruppi  di  gruj^pi,  sono  diversi.  Sicco- me noi  abitualmente  valutiamo  i  gruppi  di  (luantità,  affer- mandone l'equivalenza  con  un  dato  numero,  cioè  con  un mm^imi&.^Mìs^j..-.. aggregato  formato  secondo  il  sistema  decimale,  V  eaua- glianza  suindicata  può  interpretarsi,  non  come  un  rap- porto immediato  di  eguaglianza  fra  i  due  membri,  ma come  un'equivalenza  delluno  e  dell'  altro  allo  stesso  nu- mero o  aggregato  del  sistema  decimale.  La  tbrmula (a  -^  b  )  ^  =  a  ^  +2  a  b  -i-  b  ^  è  poi  una  proposizione generale,  che  indica  un'infinità  di  equivalenze  della  stes- sa classe.  Cosi  pure  la  formula  (a  -}-  b)  (a  —  b)  =  a- —  b  2  non  indica  un'  identità  reale  fra  due  espessioni diverse^,  ma  delle  equivalenze  fra  gruppi  di  quantità realmente  distinti  :  essa  dice  che  la  somma  di  due  nu- meri, a  (ì  b,  ripetuta  tante  volte  quante  sono  le  unità contenute  nella  differenza  fra  questi  due  numeri,  è  u- guale  ad  un  numero  il  quale,  aggiunto  a  b^-,  sarà  ugua- le ad  a  2.  Similmente  la  formula tv i^  -  ^^^,     significa   che il  numero,  il  quale,  ripetuto  tante  volte  quanto  sono  le  uni- tà di  b,  è  uguale  ad  a,  se  invece  si  ripete  tante  volte quante  sono  le  unità  di  ò  e,  sarà  uguale  ad  a  e  ;  il  che ancora  indica,  non  un'identità  assoluta,  ma  delle  ugua- glianze fra  quantità  e  gruppi  di  quantità  realmente  distinte. Dagli  esempi  citati  si  vede  facilmente  di  quale  specie particolare  sia  l'eguaglianza  con  cui  ha  da  fare  la  scien- za dei  numeri:  si  tratta  sempre  al  fondo  dell'eguaglianza numerica  fra  un  aggregato  o  un  certo  gruppo  di  aggre- gati e  un  altro  gruppo  distinto  di  aggregati.  Tale  eviden- temente è  il  ra[)porto  che  si  afferma  quando  si  fa  un'ad- dizione: in  quanto  alla  molti[)licazione,  essa  non  è  che  un caso  dell'addizione,  e  l'elevazione  a  potenza  un  caso  del- la moltiplicazione.  Per  le  operazioni  poi  che  sono  le  in- verse di  queste,  la  loro  definizione  mostra  che  esse  si  ri- conducono alle  operazioni  dirette  corrispondenti.  La  sot- trazione non  differisce  dall'addizione,  se  non  perchè  ci<") che  è  un  dato  per  la  prima  è  un  quesito  perla  seconda, e  ciò  che  è  un  quesito  per  quella  è  un  dato  per  questa. Ma  sia  che  si  tratti  di  addizionare  7  e  5,  sia  di  sottrarre I 7  da  12,  il  risultato  dell'operazione  non  dice  altro  se  non che  5  aggiunto  a  7  ò  uguale  a  12.  Ciò  che  la  sottrazio- ne è  relativamente  all'addizione,  la  divisione  é  rapporto alla  moltiplicazione,  e  l'estrazione  di  radice  alla  elevazio- ne a  potenza.  Cosi  affermare  che  un  numero  è  formato per  mezzo  di  altri  numeri,  qualunque  sia  l'operazione  di cui  questo  numero  è  il  risultato,  è  sempre  affermare  che una  quantità  (o  gruppo  di  quantità)  ò  uguale  ad  un  altro gruppo  distinto  di  quantità. Ora  tutte  le  volte  che  il  segno  dell'  eguaglianza  viene impiegato,  si  stabilisce  o  semplicemente  che  un  numero è  formato  per  mezzo  di  altri  numeri,  ovvero  che  un  nu- mero, avendo  un  certo  modo  di  formazione,  ha  pure  un altro  modo  distinto  di  form  azione  ;  tutte  le  volte  almeno che  questo  segno  indica  realmente  un'eguaglianza,  e  non una  yera  identità  (nel  qual  caso  la  proposizione  non  po- trebbe essere  istruttiva,  ma  puramente  verbale  e  tauto- logica). Perciò,  fatta  questa  riserva,  ogni  eguaglianza,  va- le a  dire  ogni  scrittura  impiegata  nell'aritmetica  o  nell'al- gebra in  cui  entra  il  segno  dell'eguaglianza,  esprime  o  l'e- guaglianza numerica  fra  una  quantità  e  un  gruppo  di quantità,  o  la  coesistenza  di  due  di  queste  eguaglianze.  Se in  un  membro  à<ò\X eguaglianza  entra  una  sola  quantità, ciò  che  si  stabilisce  è  che  un  numero  è  formato  per  mez- zo di  altri  numeri,  facendo  un'operazione  qualunque  so- pra di  questi;  e  allora  ciò  che  si  afferma  è  un'eguaglian- za della  natura  che  abbiamo  indicata.  Se  invece  in  amen- due  i  membri  dell'e^t^a^ton^a  entrano  più  quantità,  si  sta- bilisce che  uno  stesso  numero  può  avere  due  modi  distin- ti di  formazione,  cioè  che  esso  può  formarsi  tanto  per un'operazione  su  certe  quantità  quanto  per  un'altra  ope- razione su  certe  quantità:  allora  traducendo  le  operazio- ni inverse,  notate  nella  espressione,  nelle  operazioni  di- rette corrispondenti,  si  vede  che  ciò  che  si  afferma  è  una coesistenza  di  eguaglianze  della  natura  che  aljbiamo  in-  3sa (licata— noi  abbiamo  già  fatta  questa  traduzione  delle  ope- razioni inverse  nelle  dirette  nella  interpetrazione  deg  li esempi  di  Ibrmule  algebriche  che  sopra  abbiamo  ripor- tato—In una  e(/ua(jUan^a  ciascuna  delle  quantità  per  cui il  numero  viene  immediatamente  formato,  pu(')  essere  in- dicata, non  direttamente,  ma  indirettamente,  cioè  per  il suo  modo  di  formazione  per  altre  quantità,  e  queste  alla loro  volta  per  il  loro  modo  di  formazione  per  altre  quan- tità, e  cosi  di  seguito. Non  solo  le  proposizioni  particolari,  ma  ancora  le  prò- i:)Osizioni  generali  deiraritnìetica  e  dell'algebra  non  affer- mano altro  che  dei  rapporti  di  eguaglianza  dello  stesso genere  di  quelli  di  cui  abbiamo  parlato,  ovvero  una  coe- sistenza, o  più  propriamente  dipendenza,  fra  questi  rap-^ porti  di  eguaglianza.  Un  teorema  infatti  c'insegna  gene- ralmente che  certe  quantità  o  gruppi  di  (juantità  sono  (a non  sono)  la  somma  o  la  diHerenza  o  il  prodotto  o  il  quo- ziente o  la  potenza  o  la  radice  di  altre  quantità  o  grup- pi di  (juantità,  ovvero  clie  uno  stesso  numero,  avendo  un certo  modo  di  formazione,  ha  pure  un  altro  modo  distin- to di  formazione.  Quest'ultima  classe  di  teoremi  si  espri- mono spesso  simbolicamente,  ci(3è  in  linguaggio  algebri- co, e  allora  ha  luogo  ciò  che  si  chiama  una  formula  al- gebrica. Una  formula  algebrica  è  una  coppia  di  espres- sioni unite  dal  segno  deireguaglianza,  in  una  parola  una specie  del  genere  eguaglianza,  e  noi  abbiamo  già  detto in  generale  quali  siano  i  rapporti  che  vengono  afferma- ti in  una  eguaglianza. L'oggetto  principale  dell'algebra  è  la  risoluzione  delle e(iuazioni.  Un'e(|uazione  è  anch'essa  wn eguaglianza,  ed esprime  quindi  anch'essa  un'eguaglianza  o  coesistenza  di eguaglianze  nel  senso  che  abbiamo  detto:  ma  in  essa  en- trano, a  lato  di  quantità  cognite,  delle  quantità  incognite. Le  equazioni  perciò  enunciano  che  certi  rapporti  di  egua- glianza sussistono,    ma  alla  condizione  che  le  incognite I abbiano  certi  valori,  che  si  tratta  di  determinare.  L'equa- zione X  -  +  b  :=!  a  X  propone  il  quesito:  quale  deve  es- sere il  valore  di  x,  perchè  l'eguaglianza  indicata  sussist'^- La  risoluzione  dà  il  valore  (o,  piuttosto,  i  valori)  di  x: essa  risponde  che,  sostituendo  ad  x  tale  quantità  deter- minata, l'eguaglianza  indicata  sussiste,  ma  sostituendovi altre  quantità,  ^^ssa  non  sussiste.  11  processo  per  risolve- re le  equazioni  è  di  sostituire  ad  esse  successivamente altre  equazioni,  finche  l'incognita  si  ottenga  isolata;  cioè sostituire  altre  eguaglianze  alle  eguaglianze  date,  il  che importa  ad  ogni  passo  1'  affermazione  della  dipendenza reciproca  fra  queste  eguaglianze.  Ma  se  le  ecjuazioni  si risolvono  immediatamente  per  l'applicazione  di  formule generali,  aUora  le  regole  generali  di  queste  soluzioni  so- no anch'esse  dei  teoremi  che,  come  una  parte  degli  altri, affermano  una  dipendenza  fra  eguaglianze:  fra  le  egua- glianze indicate  nelle  equazioni  e  (luelle  indicate  nelle formule,  che  danno  i  modi  di  formazione  dei  valori  nu- merici delle  incognite  per  le  quantità  conosciute.  (Queste eguaglianze  affermate  sono  sempre  al  l'ondo^  come  abbia- mo detto,  delle  eguaglianze  fra  quantità  o  gruppi  di  quan- tità e  altri  gruppi  di  quantità. Per  concludere  diremo  che,  come  il  calcolo  non  è  clic uno  sviluppo  dell'addizion  e,  cosi  tutte  le  })roposizioni  par- ticolari emesse  dal  calcolatore,  non  che  tutti  i  teoremi generali  della  scienza  del  calcolo,  si  risolvono  nell'affer- inazione  elementare  dell'addizione,  che  certe  ({uantità  o gruppi  di  (juantità  sono  eguali  ad  altri  gruppi  di  (]uan- tità.  Queste  quantità,  che  l'aritmetica  esprime  con  le  ci- fre e  l'algebra  indica  con  le  lettere,  non  designano  primi- tivamente che  delle  collezioni  di  cose  reali  e  concrete,  aven- ti certi  rapporti  di  prossimità  nello  spazio  e  nel  tempo;  e ciò  che  si  afferma  è  l'eguaglianza  numerica  fra  più  col- lezioni distinte  e  una  collezione  unica  o  altre  collezioni distinte.  Ma  più  ordinariamente  il  numero  designa,  non 364 SAGGIO  PRIMO delle  collezioni  reali,  cioè  delle  quantità  discrete,  ma  la misura  di  quantità  continue:  allora  la  grandezza  continua si  considera  antifìcialmente  come  separata  in  tante  unità distinte,   equivalenti  ciascuna  alla  unità  di  misura  (1). §  5,°  Se  vi  ha  più  pericolo  di  misconoscere  il  caratte- re sintetico  della  scienza  dei  numeri,  delle  proposizioni della  geometria  invece,  il  cui  oggetto  è  la  misura  delle grandezze,  è  più  facile  di  misconoscere  Y  apriorità  (nel senso  in  cui  noi  la  intendiamo)  che  il  carattere  sintetico. «  La  matematica  concreta,  dice  A.  Comte,  ha  un  carat- tere tilosofico  essenzialmente  sperimentale,  fisico,  tenoinr- nale;  mentre  quello  della  matematica  astratta  è  puramente logico,  razionale... .  La  parte  concreta  di  ogni  quistione matematica  è  necessariamente  t'ondata  sulla  considerazione del  mondo  esteriore,  e  non  potrebbe  mai,  qualunque  pos- sa esservi  la  parte  del  ragionamento,  risolversi  per  un semplice  seguito  di  operazioni  intellQttuali.  La  parte  astratta al  contrario,  quando  essa  è  stata  dapprima  ben  esattamente *, n S (1)  1  matematici  preferiscono  per  il  solito  la  seconda  nozione  del numero,  cioè  quella  secondo  cui  il  numero  designa  la  misura  di grandezze  continue:  è  ciò  infatti  che  il  numero  rappresenta  il  ])iìi ordinariamente,  come  abbiamo  osservato,  quando  esso  viene  im- piegato nel  calcolo.  «Noi  osserveremo,  dice  d'Alembert,  die  un numero,  secondo  la  defmizione  di  Newton, none  propriamente  che un  rapporto.  Per  intendere  ciò  bisogna  notare  che  ogni  grandez- za che  si  compara  ad  un'altra,  è  o  più  piccola  o  più  grande  o  egua- le ;  che  cosi  ogni  grandezza  ha  un  certo  rapporto  con  un'  altra  a cui  si  compara,  cioè  ch'essa  vi  è  contenuta  o  la  contiene  d'  una certa  maniera.  Questo  rapporto  o  questa  maniera  di  contenere  o di  essere  contenuto  è  ciò  che  si  cliiama  numero  »  (Enciclopedia, ArithmeUqae).  Ma  è  evidente  che  questa  delìnizione  non  potrel)- be  applicarsi  se  non  d'una  maniera  forzata  là  dove  è  (piistione  di quantità  discrete,  p.  e.  il  numero  degli  animali  di  un  gregge  o  de- gli uomini  di  una  compagnia.  Ora  la  prima  e  più  semplice  nozio- ne del  numero,  quella  che  ci  dà  immediatamente  la  nostra  espe- rienza sensibile,  ci  viene  dai  casi  di  quest'ordine,  cioè  dai  casi  in cui  si  tratta  di  quantità  discrete:  e  noi  dobbiamo  ridurre  le  nozio- ni più  complesse  alle  più  semplici,  e  non  viceversa. •V separata,  non  può  consistere  che  in  una  serie  di  deduzioni razionali  più  o  meno  prolungata.  Perchè  trovate  una  volta le  equazioni  d'  un  fenomeno,  le  determinazioni  delle  une per  le  altre  delle  quantità  che  vi  si  considerano,  per  quante difficoltà  d'altronde  po.ssano  spesso  presentare,  è  unica- mente di  competenza  del  ragionamento.  È  airintelligenza che  appartiene  di  dedurre,  da  queste  equazioni,  dei  risul- tati che  vi  sono  evidentemente  compresi,  quantunque  d'una maniera  forse  molto  implicita La  parte  concreta  delle matematiche  si  compone  della  geometria  e  della  mecca- nica razionale  »  {Lez,3^  t,  P).  «La  geometria  dev'essere  con- siderata come  una  vera  scienza  naturale,  solamente  ben più  semplice  e  per  conseguenza  molto  più  perfetta  di  qua- lunque altra La  superiorità  scientifica  della  geometria ^iene,  in  generale,  a  ciò  che  i  fenomeni  che  essa  consi- dera sono,  necessariamente,  i  più  universali  e  i  più  sem- plici di  tutti.  Non  solo  tutti  i  corpi  della  natura  possono evidentemente  dar  luogo  a  delle  ricerche  geometriche, cosi  bene  che  a  delle  ricerche  meccaniclie,  ma  di  più  i fenomeni  geometrici  sussisterebbero  ancora,  quand'anche tutte  le  parti  dell'universo  fossero  supposte  immobili  »  (Le:;. 10,^  t.  P)  (1). In  realtà  il  carattere  della  geometria  è  cosi  differente da  quello  della  meccanica  razionale  e  di  ogni  altra  scienza fìsica,  quanto  può  esserlo  il  carattere  dell'aritmetica  o  del- l'algebra: la  geometria  non  è  né  più  razionale  nò  più  spe- li) Quantunque  A.  Comte  insista  lungamente  su  questo  punto, che  lo  scopo  della  geometria  è  di  conoscere  le  relazione  metriche delle  grandezze  (relazioni  che  non  possono  essere  che  delle  com- parazioni che  noi  facciamo  tra  queste  grandezze),  egli  p-arla  tut- tavia di  fenomeni  geometrici,  legati  gli  uni  agli  altri,  come  se  si trattasse  di  fenomeni  fisici,  obbiettivamente  esistenti  e  distinti  real- mente gli  uni  dagli  altri,  che  si  seguono  o  si  accompagnano;  lin- guaggio che,  se  dovesse  essere  preso  alla  lettera,  sarebbe  sempli- cemente una  realizzazione  di  astrazioni. ^(i()  rimentale  di  ({ueste   ultime.   Come  le  proposizioni  della scienza  del  calcolo,  le  i)roposizioni  geometriclie  si  dedu- cono, in  virtù  del  solo  ragionamento,  da  un  piccolo  nu- mero di  principii  evidenti  per  se  stessi;  e  questi  principii, siano  essi  comuni  alla  scienza  del  numero  e  alla  geome- tria, siano  soltanto  speciali  a  questa,  sono  tutti  egualmente sperimentali,  in  quanto  sono  dei  principii  induttivi,  ma non  lo  sono  nel  senso  delle  scienze  iisiche,  perchè,  per ottenerli,  basta  di  chiuderci  in  noi  stessi,  e  non  è  neces- sario di  osservare  come  avvengano  i  fenomeni  del  mondo esteriore.  Questa  circostanza  deriva  dalla  natura  essen- zialmente identica  dei  rapporti  che  sono  T  oggetto  della geometria,  e  di  queUi  che  sono  Toggetto  della  scienza  dei numeri.  La  ditlerenza  apparente  tra  le  due  scienze  dipende solamente  dal  carattere  più  astratto,  o  più  simbolico,  delle proposizioni  sui  numeri,  e  i)iù  concreto  delle  proposizioni geometriche  :  mentre  il  calcolo  volge  su  dei  puri  simboli, la  geometria  sintetica,  al  contrario,  volge  su  delle  intui- zioni concrete;  ma  le  nostre  nozioni  sui  numeri  sono  del resto  fondate  sovra  i  dati  della  percezione,  altrettanto  che quelle  sulle  forme  e  sulle  grandezze.  «  È,  dice  il  Baùi,  il tratto  caratteristico  della  geometria  elementare  di  ricor- rere senza  cessa  a  delle  figure,  il  cui  impiego  dà  alla  scienza Fapparenza,  ma  soltanto  Fapparenza,  d\ma  scienza  spe- rimentale ed  induttiva»  {Lofjica  1.  v.  e.  1.  n.^  14). L' oggetto  principale  della  geometria  è  di  conoscere  i rapporti  metrici  fra  le  grandezze,  rapporti  che  si  risol- vono in  relazioni  di  eguaglianza  o  ineguaglianza  definita (^  >  <),  fra  una  grandezza  o  somma  di  grandezze  e un  altra  grandezza  o  somma  di  grandezze.  I  termini  di queste  relazioni  di  eguaglianza  o  ineguaglianza  essendo delle  linee,  angoli,  superlicie  o  solidi,  distinti  gli  uni  dagli altri,  e  die  noi  abbiamo  sott  occhio  nella  figura  che  serve ad  illustrare  il  teorema,  non  si  può  pretendere,  come  nel- l'aritmetica o  l'algebra,  che  qui  si  tratti  di  una  mera  identità,  e  che  quindi  la  proposizione  sia  analitica.  Il  teorema di  Pitagora,  che  dice  clie  il  quadrato  deiripotenusa  dì  un triangolo  rettangolo  è  uguale  alla  somma  dei  quadrati  dei cateti;  o  l'altro  corrispondente  relativo  al  triangolo  ottu- sangolo, secondo  cui  il  quadrato  opposto  all'angolo  ottuso è  uguale  alla  somma  dei  quadrati  degli  altri  due  lati,  più due  volte  il  rettangolo  di  uno  di  questi  lati  per  la  proie- zione deir  altro  su  di  esso  ;  o  (juello  secondo  cìii,  in  un triangolo,  il  quadrato  di  un  lato  opposto  ad  un  angolo  acuto, X)iù  due  volte  il  rettangolo  di  uno  degli  altri  lati  per  la proiezione  delF  altro  su  di  esso,  sono  eguali  alla  somma dei  quadrati  di  questi  altri  due  lati;  questi  teoremi,  dico, non  si  scambierebbero  per  proposizioni  identiche,  (cioè  af- fermanti una  mera  identità)  cosi  facilmente  come  la  pro IwDsizione  che  7  e  5  fanno  12.  Similmente,  una  proposizione che  stabilisce  una  proporzione  tra  grandezze  estese,  p.  e. fra  i  lati  omologhi  di  due  triangoli  equiangoli,  non  corre lo  stesso  rischio  di  passare  per  puramente  identica  che un'  altra  proposizione  che  stabilisce  una  proporzione  fra numeri,  p.  e.  Vo  =  ^/o»  "^  cui  si  pretende  di  non  trovare altro  che  due  espressioni  diverse  (U  una  sola  e  stessa  cosa. Tuttavia,  trascinati  dalle  abitudini  derivate  dal  lingung gio,  potremmo  riguardare  la  relazione  metrica,  clie  è  l'at- tributo della   proposizione,  come  una   proprietà  assoluta della  grandezza,   una  determinazione  che  appartenga  a questa  considerata  per  se  stessa.  I'.  allora,  se  il  soggetto si  considera  come  rappresentante  la  grandezza  concreta con  tutti  i  suoi  attributi,  la  proposizione  potrebbe  i)render- si  per  analitica,  l'attributo  sembrando  contenuto  nel  sog- getto. Se  o\  contrario  il  soggetto  si  considera  come  rap- presentante un  semplice  attributo  (quello  che  ne  costitui- i:^e  l'essenza  nominale),  distinto  dall'altro  in  cui  consiste 3 a  determinazione  metrica,  si  potrel>l)e  vedervi  invece  una proposizione  di  coesistenza,  affermante   l'unione   dei   due attributi.  Quando  una  proposizione  en\mcia  clic  da  certe relazioni  fra  certi  elementi  delle  figure  dipendono  altre  re- lazioni fra  altri  clementi,  si  troverà  forse  più  facilmente ancora  che  si  tratti  d\ina  coesistenza.  Cosi  lo  Spencer {Princ,  di  psicoL  §  290)  nel  teorema  :  In  un  triangolo  al maggior  lato  è  opposto  il  maggior  angolo,  vede  un  rap- porto di  coesistenza  fra  il  maggior  lato  e  il  maggior  an- golo. «Questo  rapporto,  egli  soggiunge,  non  è  semplice- mente quello  di  coesistenza  :  è  un  rapporto  di  coesistenza in  certe  posizioni  ris[)ettive  ».  Ma  è  certo  die  il  teorema non  stabilisce  che  certe  rette  esistono  insieme  con  certi angoli,  o  si  trovano  simultaneamente  nelUo  spazio,  con una  certa  posizione  rispettiva:  questo  intanto  é,  alla  let- tera, il  senso  delle  parole  di  Spencer.  L^esistenza  e  la  coe- sistenza delle  rette  e  degli  angoli  é  un  dato,  cioè  una  sup- posizione, del  teorema,  jjerchè  1'  esistenza  del  triangolo stesso  è  un  dato;  ma  queste  affermazioni  esistenziali  sono affatto  indipendenti  dall'affermazione  espressa  nel  teorema stesso.  Esso  afìerma  evidentemente,  non  una  coesistenza tra  grandezze,  ma  una  coesistenza  o  dipendenza  tra  rela- zioni d'ineguaglianza  definita,  di  cui  queste  grandezze  sono dei  termini.  Si  può  pretendere,  continua  lo  Spencer, 'che in  (jucsto  caso  come  negli  altri  casi  simili,  i  termini  della relazione  dovrebbero  essere  riguardati  piuttosto  come  rap- porti tra  grandezze  che  com3  grandezze  stesse.  «Per  di- lucidare questa  quistione,  esaminiamo  il  teorema:  L'an- golo che  misura  una  semicirconferenza  è  un  angolo  retto. Qui  la  parola  «  semicirconferenza  »  indica  dei  rapporti quantitativi  definiti— una  curva  di  cui  tutte  le  parti  sono equidistanti  da  un  punto  dato,  e  di  cui  le  due  estremità sono  riunite  da  una  linea  retta  che  passa  per  questo  pun- to. Le  parole  «angolo  che  misura  una  semicirconferenza  ^ indicano  altri  rapporti  quantitativi;  negativamente  quan- titativi, se  non  positivamente  quantitativi  (1).    E  la  cosa (1)  Secondo  Spencer  una  proposizione  geometrica  die  concerne soltanto  la  posizione,  senz'alcun  rapporto  metrico,  è  negativamen- te fjuantitativa.  V.  Classcuìone  delle  scienze,  tamia  I. •fi: i3 I affermata  è  che  con  questo  gruppo  di  rapporti  quantitati- vi coesiste  (luest'altro  grupjìo  di  rapporà  quantitativi,  di cui  la  parola  «angolo  retto»  indica  l'esistenza  fra  le  due linee  che  lo  racchiudono.  »  In  conclusione,  secondo  lo  Spen- cer, questa  proposizione:  L'angolo  che  è  nella  semicircon- ferenza è  retto,  afferma  la  coesistenza  dei  «rappjjrti  che costituiscono  l'angolo  nella  semicirconferenza  »  coi  «  rap- porti che  costituiscono  un  angolo  retto  ».  Ora  non  è  evi- dente che  le  espressioni  di  Spencer,  se  andassero  prese alla  lettera,  impliclierebbero  una  realizzazione  di  astrazio- ni ?  i  «  rapporti  che  costituiscono  l'angolo  nella  semicir- conferenza» hanno  forse  un'esistenza  propria  e  separata dai  ((  rapporti  che  costituiscono  l'angolo  retto  »  ì  Ma  se non  devono  essere  prese  alla  lettera,  non  vi  ha  altro  in esse  che  un'espressione  tortuosa  del  .fatto  che  l'angolo  che è  nella  semicirconferenza  ha  quelle  relazioni  metriche determinato  che  noi  inchcliiamo  con  le  parole  a/Kjolo  retto. Il  teorema  non  afferma  dunque  che  un  rapporto  d'egua- glianza, il  fatto  che  la  parola  retto  indica  non  essendoaltro  che  un  tale  rapporto,  come  risulta  dalla  definizione dell'angolo  retto:  che  si  legga  infatti  in  Euclide  la  dimo- strazione di  questo  teorema  (lib.  3^  prop.  31);  si  vedrà  che ciò  che  si  dimostra  è  che  l'angolo  in  quistione  è  uguale al  suo  angolo  conseguente.  Se  una  proprietà  astratta  non deve  mai  considerarsi  come  avente,  né  realmente  nò  men- talmente, un'esistenza  distinta,  ma  risolversi  sempre  in  una relazione  fra  termini  concreti  (ammenoché  noi  non  vo- gliamo rinunziare  a  tradurre  le  parole  nelle  idee  che  esse significano);  tanto  meno  sarà  permesso  di  trattare  una determinazione  quantitativa  come  qualche  cosa  che  può esistere  o  pensarsi  all'infuori  di  una  relazione.  Che  una  de- terminazione metrica  sia  l'espressione  di  un  rapporto  fra due  grandezze  date,  o  che  essa  esprima  la  misura  di  una grandezza  in  modo  che  l'altra  con  cui  essa  viene  para- gonata non  sia  particolarmente  indicata;  il  fatto  è  sempre  che  una  determinazione  tale  non  [)iiò  acquistare  un'e- sistenza mentalmente  distinta  che  per  la  comparazione  di certe  grandezze  con  altre  grandezze.  Se  si  considera  una proposizione  enunciante  una  proprietà  metrica  o  come analitica  o  come  Faffermazione  di  una  coesistenza  (nel senso  di  cui  abbiamo  i)arlato),  si  dimentica  questo  fatto evidente,  o  si  rinunzia  volontariamente  a  rendere  conto del  pensiero  per  il  i)ensiero  stesso  e  non  i)er  la  sua  espres- sione verbale. Secondo  alcuni  autori,  l'eguaglianza  applicata  alle  gran- dezze estese  non  è  altro  che  la  coincidenza  sensibile:  quan- do noi  diciamo  che  due  grandezze  sono  eguali,  noi  voglia- mo dire  che  esse  coincidono  o  pjssono  coincidere.  Eucli- de  stesso  definisce  Teguaglianza:  la  coincidenza  visil)ile delle    grandezze   est(?se.  ^Nla   dice   ì)ene  il  Mill:  «  LY^gua- glianza  di  due  grandezze  geometriche  non  può  differire essenzialmente  da  ([uella  di  due  pesi,  di  due  gradi  di  ca- lore o  di  due  intervalli  di  tempo,  cose  a  cui  questa  pre- tesa definizione  deireguaglianza  non  converrebbe  affatto. Nessuna  (U  queste  cose  può  essere  ai)plicata  Funa  sull'al- tra in  modo  da  coincidere,  e  pertanto  noi  comprendiamo perfettamente  ciò  che  vogliamo  dire  quando  le  chiamia- mo eguali.  Delle  cose  sono  eguali  in  estensione,  in  peso, quando  costatiamo  fra  di  loro  ima  somiglianza  completa neirattrilmto  che  vi  consideriamo.  Applicando  degli  oggetti run(j  suir  altro  nel  primo  caso,   cosi  ìjene  che  pesandoli per  mezzo  d'una  bilancia  nel  secondo,  noi  non  facciamo che  porli  in  una  posizione,  in  cui  i  nostri  sensi  possono riconoscere  il  diletto  d'esatta  rassomiglianza,    che   senza di  ciò  ci  sarebbe  sfuggito»  {Logica,  lib.  :^'*.  e.  24  par.  7). La  coincidenza  non  è  dunque  che  un  mezzo,  il  più  sicu- ro, per  costatare  o  percepire  l'eguaglianza  fra  le  grandez- ze  estese;  ma  non  può  essere  nemmeno   l'unico   mezzo. Quando  noi  facciamo  coinci<lere  due  grandezze,  noi  non ne  con(^dudiamo  soltanto  che  esse  sono  eguali  nel  momento  in  cui  coincidono,  ne  concludiamo  anche  che  erano  e  sa- ranno eguali  prima  e  dopo  la  coincidenza.  Noi  facciamo cosi,  perchè  sappiamo  che  ordinariamente  gli  oggetti  con- servano, almeno  d'una  maniera  approssimativa,  la  stessa grandezza,  cioè  restano  eguali  a  se  stessi.  Conosciamo  noi ciò  unicamente  perchè  abbiamo  misurato  più  volte  gli stessi  oggetti  in  tempi  differenti?  ma  questo  suppone  la conoscenza  che  l'unità  di  misura  stessa  abbia  conservato una  grandezza  determinata,  cioè  sia  restata  uguale  a  se stessa  É  chiaro  dunque  che  la  nostra  conoscenza  delle eguaglianze  suppone  necessariamente  almeno  un  mezzo di  accertarci  che  una  grandezza  è^  uguale  a  se  stessa  in due  momenti  diversi,  indipendente  dall'applicazione  delle grandezze  l'una  sull'altra;  e  che  cosi  l'eguaglianza  delle grandezze  estese  e  la  loro  coincidenza  non  possono  essere una  sola  e  stessa  cosa. §.  ()^\  Si  ammetterà  facilmente  che  i  teoremi  della  geo- metria, che  hanno  per  oggetto  le  relazioni  metriche  delle grandezze,  sono  delle  proposizioni  comparative  ;  ma  si  tro- verà forse  più  difficoltà  ad  ammettere  lo  stesso  per  i  teo remi  che  non  hanno  quest'oggetto.  I  geometri  moderni dividono  la  scienza  in  due  campi:  la  geometria  della  m/- sura  e  la  geometria  di  posizione.  Alla  prima  appartengo- no i  teoremi  che  considerano  le  relazioni  di  grandezza, cioè  le  relazioni  quantitative  fra  grandezze  estese;  alla seconda  i  teoremi  che  considerano  i  rapporti  di  posizione scambievole  delle  figure  e  dei  loro  elementi.  Le  pro})rietà dunque,  che  sono  l'oggetto  dei  teoremi  di  quest'ultima  spe- cie, sono,  non  delle  proprietà  metriche  o  quantitative,  ma grafiche  o  descrittive  (V.  tra  altri  Reye  Lezioni  di  geo^ metria  di  posizione,  Introduzione,  e  Ballzer  Elementi  di matematica,  parte  J%  §  /,  0.) Alcuni  dei  teoremi  di  posizione  (1)  stabiliscono  che  fra (1)  Noi   ìntondiauìo  la  rarola  in  un  senso  più  loto  di  quello  in E  l'oggetto  della  conoscenza  a  priori 373 certi  punti,  lince  e  superfìcie   certi   rapporti  di  posizione sono  0  non  sono  possibili  ;  come  :    Un   poligono  regolare può   essere    inscritto   o   circoscritto  ad  un  cerchio;  Due cerchi  non  possono  segarsi  in  più  di  due  punti;  ecc.  Ma la  più  parte  si  propongono  un  altro  quesito,  clie  noi  pos- siamo formulare  di  questa  maniera:  in  un  sistema  di  pun- ti, linee  e  superfìcie,  da  dati  rapporti  di  posizione  recipro- ca, inferire  altri  di  questi  rapporti.  Come  esempi  di  que- sta seconda  classe,  la  più  importante,  dei  teoremi  di  po- sizione, rammentiamo  il  teorema  di  Pascal  :  In  .ogni  esa- gono  inscritto  in  una  curva  del  secondo   ordine,  i  punti d'incontro  dei  lati  opposti  sono  in  linea  retta;  e  quello  di Brianchon  :  In  ogni  esagono  circoscritto  ad  una  curva  del secondo  ordine,  le  diagonali  che  congiungono  i  vertici  op- posti si  tagliano  in  uno  stesso  punto.  A  prima  vista  potreb- be sembrare  che  queste  proposizioni,  stabilendo  che  certi punti  e  linee  sono  in  certe  posizioni  rispettive,  ciò  che  si afferma  sia  una  coesistenza,  quella  specie  di  coesistenza che   Alili  chiama  ordine  nel  luogo,  {Logica,  lib.  P  e.  5'» .^  G :  confr.  lib.  3^  e.  24^  §  4).  Tale  sarebbe  laffermazione, se  la  proposizione  stabilisse,  d  una  maniera  assoluta,  che certe  cose  si  trovano  in  una  certa  posizione  scambievole^ ma  le  nostre  proposizioni  non  lo  stabiliscono  che  condizio- nalmente. Ora  date  le  condizioni,  cioè  date  le  grandezze  coi rapporti  dati  di  posizione,  il  sistema  si  trova  interamente  de- terminato, e  ciò  die  dipende  dalle  condizioni  o  dai  dati,. cioè  i  rapporti  dimostrati,  è  quindi  implicitamente  conte- nut(j  nei  dati  stessi.  Che  si  costruisca  la  fìgura:  s  inscri- va un  esagono,  p.  e.,  in  un  cerchio,  e  si  prolungliino  i cui  ordinariamantc  rimpiegano  i  f>:eo  metri:  (luamlo  tra  forme  me- tricamente determinate  il  teorema  stabilisce  dei  rapporti  di  posi- zione, esso  potrebbe  classarsi  fra  i  metrici:  ma  noi  i>referiamo  di vedervi  un  teorema  di  posizione,  poicliè  il  suo  ogi^etto  non  è  di stabilire  dei  rapporti  quantitativi,  ma  dei  semplici  rapporti  di l'osiyione. r lati  opposti  sino  ai  punti  d'incontro  ;  queste,  nel  primo teorema,  sono  le  condizioni  date;  ma  per  queste  condizio- ni la  fìgura  si  trova  assv)lutamente  determinata,  con  tut- ti i  rapporti  di  posizione  scambievole  fra  i  suoi  elemen- ti,  tra  di  cui  quelli  stessi  fra  i  punti  d' incontro  dei  lati opposti.  Cosi  per  il  secondo  teorema:  circoscritto  un  esa- gono ad  un  cerchio,  e  congiunti  i  vertici  opposti  con  le diagonali,  questa  circostanza,  che  le  diagonali  si  taglia- no in  uno  stesso  punto,  non  è  un  fatto  nuovo  che  si  ag- giunge ai  precedenti;  il  teorema  dimostra  appunto  che  es- sa  vi  è  necessariamente  compresa.  E  evidente  dunque che  le  proprietà  della  fìgura  che  il  teorema  suppone  co- me date,  e  le  proprietà -che  il  teorema  dimostra,  non  po- trebbero avere,  nello  spazio,  un'esistenza  distinta  e  sepa- rata. Ma  esse  non  possono  averla  nemmeno  nel  nostro pensiero;  poiché,  una  proprietà  astratta  non  essendo  per se  stessa  un  oggetto  distinto  del  pensiero,  le  nostre  nozioni sulle  forme  sono  anch'esse  delle  idee  concrete,  e queste  non  possono  essere  che  delle  copie  o  rappresen- tazioni delle  forme  reali  che  esistono  nello  spazio.  Qui  noi ci  troviamo  dunque  in  presenza  di  questa  difficoltà:  una proposizione  generale  afferma  sempre  una  uniformità,  un rapporto  costante  fra  più  fatti  distinti  ;  riducendo  a  due questi  fatti,  essa  afferma  che  il  secondo  dipende  dal  pri- mo, e  gli  è  invariabilmente  congiunto.  Un  teorema  geo- metrico non  può  dunque  esso  stesso  affermare  che  una di  queste  uniformftà,  o  congiunzioni  costanti  di  fatti  di- stinti: ma  non  per  tanto  in  questo  caso  il  fatto  è  uno  so- lo; la  condizione  e  ciò  che  è  condizionato  non  sono  due fatti,  ma  uno  stesso  fatto,  se  per  fatto  noi  intendiamo  ciò che  può  essere  separatamente  l'oggetto  d'una  percezione distinta  dei  nostri  sensi.  Intanto  si  deve  ammettere  che alle  proprietà  distinte  fra  cui  il  teorema  stabilisce  una connessione,  corrispondono  dei  fatti  realmente  distinti:  bi- sogna dunque  cercare  altrove  questi  fatti  distinti  che  ven- gono posti  in  connessione. Kainineiitiaino  brevemente  il  risultato  di  una  prece- dente ricerca:  un  attributo  astratto  non  è  che  il  legame d'una  cosa  con  una  denominazione  generale,  la  sua  ca- pacità di  riceverla;  denominazione  a  cui  non  corrispon- de altro,  come  Tatto  distinto,  che  una  relazione  definita di  somiglianza  dell'oggetto  a  cui  si  applica,  con  una  cer- ta classe  di  oggetti.  Che  cosa  sono  dunque  le  pro[)rietà o  attributi,  ira  cui  il  teorema  di  Brianchon  stabilisce  una connessione  ì  Sono  anzitutto  delle  denominazioni  che  noi possiamo  applicare  alle  grandezze,  da  cui  la  figura  è  co- stituita, sia  considerate  assolutamente,  sia  considerate  nei rapf)orti  scambievoli  di  posizione;  le  parole  esaf/ono,  cir- costn'ito,  cnrva  del  secondo  ordine,  diagonali,  ecc.  indican- do la  (jualità  di  queste  grandezze  o  la  loro  posizione  ri- spettiva. Il  teorema  stabilisce  die,  tutte  le  volte  che  noi possiamo  applicare  queste  denominazioni:  un  esagono,  cir- cosar  ilio  ad  una  curca  del  secondo  ordine,  i  vertici  op- posti del  (piale  sono  congiunti  dalle  diagonali,  noi  possia- mo anche  dire  che  queste  diagonali  si  tagliano  in  un  sol  pun- to. Ala  se  si  domanda  quali  siano  i  l'atti  clie  corrispon- dono a  (jueste  denominazioni  distinte,  e  su  cui  esse  sono l'ondate,  si  deve  rispondere  che,  in  questo  caso  come  in tutti  gli  altri,  bisogna  distinguere  nelle  parole  un  doppio significato:  esse  indicano  i  latti  obbiettivi,  cioè  gli  ogget- ti delle  nostre  percezioni  e  delle  nostre  rappresentazioni, e  li  classano  al  tempo  stesso.  Ora,  come  abbiamo  detto, i  fatti  obbiettivi  indicati  non  sono,  in  questo  caso,  distin- ti: le  parole  che  enunziano  i  dati  o- le  supposizioni  del  teo- rema, e  quelle  che  enunciano  ciò  che  dipende  da  queste supiX)SÌzioni  e  che  il  teorema  deve  dimostrare,  non  indi- cano due  fenomeni,  che  siano  ciascuno  T  oggetto  di  una percezione  o  una  rappresentazione  distinta.  Ala  queste parole  significano  pure  delle  classazioni  :  alle  denomina- zioni distinte  corrispondono  degli  atti  mentali  distinti,  per •cui  noi  classiamo  le  grandezze  a,  cui  esse  si  applicano, sia  considerate  assolutamente,  sia  considerate  nei  loro rapporti  scambievoli  di  posizione;  e  questi  atti  mentali  si risolvono,  come  si  sa,  in  affermazioni  di  somiglianze  de- finite. Cosi  una  proposizione  della  geometria  di  posizione afferma,  come  qualsiasi  altra  proposizione  generale,  una uniformità,  una  dipendenza  o  connessione  tra  più  fatti distinti  :  ma  questa  connessione  non  è  tra  fenomeni  ob- biettivi distinti,  come  nelle  proposizioni  suiresistenza,  ma solamente  fra  denominazioni  distinte,  da  una  parte,  e  dal- Taltra,  se  noi  vogliamo  andare  al  di  là  delle  [)arole,  fra i  rapporti  distinti  di  somiglianza,  che  costituiscono  le  clas- sazioni su  cui  queste  denominazioni  sono  fondate. I  rai)porti  di  somiglianza  in  cui  si  risolvono  queste classazioni,  non  sono  i  soli  che  siano  implicati  in  un  teo- rema di  posizione.  Siccome  il  teorema  non  è  vero  in  un sol  caso  particolare,  ma  in  tutti  i  casi,  noi  dobbiamo  ag- giungere, come  per  tutte  le  proposizioni  generali,  un  alti-a somiglianza,  cioè  Tuniformità  che  ci  permette  di  genera- lizzare. Infine,  i)er  ima  gran  parte  di  proposizioni,  ve  ne ha  un'  altra  ancora  che  non  si  deve  negligere  :  i  nume- rosi teoremi  in  cui,  come  in  (pielli  che  abbiamo  citati, si  dice  che  più  rette  si  tagliano  in  uno  stesso  punto  o più  i)unti  si  trovano  in  una  stessa  retta,  contengono  i)ure evidentemente  Taftcrmazione  di  una  concordanza  nella I)Osizione  dei  punti  o  delle  rette  che  vi  si  considerano. Questa  osservazione  potrebbe  estendersi  a  tanti  altri  casi; ma  noi  non  ne  parliamo  che  in  linea  secondaria,  sembran- doci che  questo  non  sia  un  carattere  generale  delle  pro- posizioni geometriche  di  posizione. In  conclusione,  l'analisi  delle  proposizioni  della  geo- metria di  posizione  non  ci  dà  altre  affermazioni  reali che  di  soMìiglianza  ;  risultato  a  cui  si  deve  pervenire, d'una  maniera  o  d'un'altra,  tutte  le  volte  che  una  propo- sizione non  è  esistenziale.  Ogni  affermazione  essendo  laf- termazione  di    qualche  fatto,   una  proposizione  non  può che  affermare,  in  senso  lato,  resistenza  di  certi  fatti  :  se questi  fatti  non  sono  dei  fenomeni  sensibili,  esterni  ed obbiettivi,  non  possono  essere  che  dei  fenomeni  interni  e subbiettivi.  Ora  il  solo  fenomeno  interno  o  suljbiettivo, con  cui  abbiamo  da  fare  nella  conoscenza  obbiettiva,  è  la percezione  o  il  sentimento  di  somiglianza  che  ci  proviene dalla  comparazione  degli  oggetti.  Una  proposizione  geo- metrica dunque,  non  affermando  niente  suUesistenzadel- le  forme  o  delle  grandezze  stesse,  non  può  affermare  che resistenza  di  somiglianze  (o  differenze;  tra  queste  forme o  grandezze. §  7.<^  Se  le  conoscenze  che  ci  danno  le  matematiche pure  non  consistono  che  in  giudizi  comparativi  o  rap- porti di  somiglianza,  lo  stesso  deve  dirsi  delle  generaliz- zazioni più  elevate  in  cui  rientrano  tutte  le  verità  par- ticolari, che  si  chiamano  assiomi,  e  in  generale  di tutte  le  premesse  ultime  di  queste  scienze.  Per  la  geo- metria, si  trova  in  Euclide  la  lista  di  questi  princrpii  : si  è  osservato  che  alcuni  assiomi  della  lista  possono  dimo- strarsi, sicché  fra  i  principii  sulla  dipendenza  tra  egua- ghanze,  il  nome  di  assiomi  non  conviene  in  verità  che  a queste  due  proposizioni:  Due  grandezze  eguali  ad  una  terza sono  eguali  fra  di  loro;  Se  a  grandezze  eguali  si  aggiun- gono grandezze  eguali,  le  somme  sono  eguali  (1).  Non  ci (l)  Tutfci  <4:li  aUri  assiomi  generali  della  matematica,  comuni  al- la scienza  dei  numeri  e  alla  geometna,  oltre  i  due  grandi  assio- mi sulle  eguaglianze,  possono  dedursi  da  iiuesti  :  ma  bisogna  os- servare che  la  dimostrazione  degli  assiomi  secondari  suppone,  ol- ire di  (juesti  due  assiomi  primari,  altre  due  premesse  egualmen- te primitive  e  indimostrabili,  cioè  :  t.  la  parte  è  minore  del  tutto; e  2.  ogni  grandezza  è  o  uguale  o  maggiore  o  minore  d'  unnUra grandezza  qualsiasi.  Quest'  ultima  proposizione  è  certamente  an- (•iressa  rvale,  e  non  rerhale,  esprimendo  delle  nozioni  di  rappor-ti fra  le  grandezze,  che  sono  evidentemente  altra  cosa  che  le  no- zioni delle  grandezze  stesse  rapportate.  (Il  Mill,  Logica  L  S.  e.  24. 1 a-. occuperemo  per  il  momento  della  quistione  se  altri  assio- mi invocati  da  Euclide  siano  delle  proposizioni  reali  o  pu- ramente verbali;  tralasceremo  pure  quella  se  nel  seguito delle  sue  dimostrazioni  non  vengano  sottintesi  altri  prin- cipii evidenti  per  se  stessi,  che  mancano  nella  lista  degli assiomi;  ma  aggiungeremo  che,  oltre  agli  assiomi  gene- rali, ve  ne  hanno  dei  particolari,  ciascuno  dei  quali  enuncia una  proprietà  di  qualche  forma  geometrica,  che  deve  ser- vire di  punto  di  partenza  nella  dimostrazione.  La  geome- tria elementare  non  può  fare  a  meno  di  due  di  questi  as- siomi particolari,  Y  uno  relativo  alla  retta,  che  Euclide esprime  in  questa  forma:  «  Due  linee  rette  non  possono chiudere  uno  spazio  >^,  ma  a  cui  i  geometri  moderni  danno quest'altra  forma  più  generale:  «Due  rette  che  coincidono in  due  punti  coincidono  interamente  »  ;  e  V  altro  relativo al  piano,  cioè,  secondo  Euchde,  che  «  Una  retta  che  Jia due  punti  in  un  piano  giace  interamente  nel  piano  ».  Oltre a  ciò  le  ricerche  dei  geometri  moderni  sulla  teoria  delle parallele  hanno  messo  in  chiaro  che  vi  ha  bisogno,  per fondare  questa  teoria,  d'  un  assioma  speciale  :  quesf  as- sioma è  stato  poco  felicemente  scelto  da  Euclide,  e  i  geo- metri moderni  gliene  hanno  generalmente  sostituito  un altro,  che,  espresso  sotto  una  forma  o  sotto  un'altra,  sta- §5,  in  nota,  dimostra  alcuni  degli  assiomi  secondari,  deducen<loli dai  due  assiomi  primari  sulle  uguaglianze:  ora  si  guardi  attenta- mente la  dimostrazione,  e  si  vedrà  che  essa  sottintende  le  duo  al- tre premesse  assiomatiche  e  primitive  che  abbiamo  detto.)  Seni- la  seconda  delle  due  proposizioni  assiomatiche  che  abbiamo  ag- giunto ai  due  assiomi  primari  sulle  eguaglianze,  si  dà  ({ueslo  si- gnificato,  che  non  solo  ogni  grandezza  deve  essere  con  un'  altra qualunque  in  uno  di  questi  rapporti:  eguale,  minore,  maggiore,  ma ancora  che  non  può  essere  se  non  in  uno  solo  di  (piesti  rapporti  ; allora  l' altro  assioma  :  la  parte  è  minore  del  tutto,  può  pure  de- dursi d'  una  maniera  indiretta  dagli  assiomi  primari  della  mate- matica,  se  fra  questi  si  comprende  pure  il  terzo  assioma  indica- to, nel  senzo  che  è  stato  indicato. hilisce  elio  «  Per  un  punto  non  può  passare  che  una  sola retta,  la  ijuale  non  incontri  un^  altra  retta  data,  situata nello  stesso  piano  ».  Come  si  vede,  mentre  gli  assiomi irenerali  enunciano  dei  rapf)orti  metrici,  cioè  delle  egua- glianze, questi  assiomi  particolari  al  contrario  sono  le  più semplici  delle  proposizioni  geometriche  di  posizione  o  gra- fiche. Inoltre  nella  geometria  vi  hanno  delle  definizioni, come  quella  del  cerchio,  che  non  danno  semplicemente  il senso  di  un  nome,  ma  che  contengono  laffermazione  d'una proprietà  fondamentale  (F  una  forma  geometrica,  cioè  di un  rapporto  di  misura  Ira  i  suoi  elementi,  artermazione che  essendo  reale  e  no!i  semplicemente  verbale,  potrel)])e pure  considerarsi  come  ima  specie  di  assioma  (1). (Quantunque  per  le  premesse  ultime  della  scieny.a  dei numeri  non  si  sia  latto  un  catalogo  completo,  come  per (juelle  della  geometria,  è  evidente  clie  queste  i)remesse  sona sia  identiche  sia  analoghe  a  quelle  della  geometria. Il  procedimento  <lel  calcolo  consiste  essenzialmente  in (I)  Noi  diciamo  cIjc  le  (letini/ioni  realf  della  ii-eoinetrin  potreb- bero considerarsi  come  una  s])ecie  di  assiomi,  in  <|uanto  sono, <:ome  «juesti,  delle  i>roposizioni  )  cali  e  j^'imitive  .  cioè  indimo- strabili. Del  resto  la  distinzione  fra  gli  assiomi  e  le  definizioni rii)Osa  sopra  un  fondamento  logico,  ed  è  aì>l)astanza  yìrccisa.[/  assioma  stabilisce  una  uniformità,  un  acco])piamento  invaria- ))ile  tra  due  fatti,  in  modo  clie,  il  primo  essendo  dato,  il  secondo se  ne  ]»ossa  infei'ire.  Ma  la  delìnizione  non  serve  come  i)rincipio per  fare  delle  inferenze,  cioè  j-er  passare  da  un  fatto  dato  air  al- tro che  gli  è  costantemente  legato:  la  definizione  del  cerchio,  ]).  e, non  lia  Io  scopo  di  al)ililarci  a  fare  lillazione:  <iuesta  ligura  data' è  un  cendno,  dun<iue  i  suoi  raggi  sono  eguali.  11  geometra,  sup- ponendo che  la  lìgui'a  data  è  un  cerchio,  ha  sui>posto  già  che  ha i  raggi  eguali.  Le  definizioni  duncjue,  quantun(]ue  siiuio  proj^osi- ziorn  /vah\  non  sono,  a  pai'lar  ]>ropriamente,  delle  [«remesse  del- la geoìuetria  come  gli  assiomi:  esse  enunciano  una  proprietà  i>ri- miMva  di  una  forma  geomctri(!a  .  la  ((uale  fa  riconoscere  (juesfjX forma,  e  alla  (juale  sdiranno  legate  tutte  le  altre  iiroprietà  che  ver- ranno» dimostrate una  successione  di  sostituzioni,  fatte  in  virtù  dei  due  as- siomi fondamentali  sulle  eguaglianze  :  Quantità  eguali  ag- giunte  a  quantità  eguali  danno  quantità  eguali;  Due  (]uan- tità  eguali  ad  una  terza  sono  eguali  fra  loro.  Cosi,  nella risoluzione  delle  equazioni,  le  sostituzioni  che  si  fanno  ag- giungendo o  togliendo  una  stessa  quantità  ai  due  memljri dell'equazione,  moltiplicandoli  o  dividendoli  amen  due  per la  stessa  quantità,  hanno  luogo  in  virtù  del  primo  assio- ma: ma  quando  nell'uno  dei  membri  deirequazione  si  so- stituisce ad  una  quantità  il  suo  equivalente,  si  applicano tutti  e  due  gli  assiomi;  in  virtù  del  primo  si  ammette  che, per  la  sostituzione,  il  valore  del  membro  deir  ecjuazione in  cui  essa  si  fa  non  viene  alterato,  e  in  virtù  del  secondo si  ammette  che  Tequazione,  cioè  T  eguaglianza  di  questo membro  con  Taltro,  sussiste  ancora  dopo  la  sostituzione, (ili  stessi  principii  governano  le  operazioni  deirarit- metica.  Le  operazioni  sui  numeri  elevati  si  eseguiscono col  metodo  della  divisione  in  operazioni  parziali,  metodo che  suppone  delle  sostituzioni  successive,  ciascuna  delle quali  ha  luogo  in  viriù  dei  principii:  Quantità  eguali  ag- giunte a  (luantità  eguali  sono  eguali;  Due  (pianittà  eguali ad  una  terza  sono  eguali  fra  loro.  Siano  da  addizionare certi  numeri:  per  mettere  sotto  gli  occhi  del  letbjre  un esempio,  siano  (>072  Secondo  la  regola,  ciascun    numero 7847 =  11819 si  considera  come  composto  di  tanti  numeri  parziali,  le unità  di  ciascuno  dei  quali  sono  di  diverso  oi'dine,  il  che è  esattamentó  conforme  alla  nozione  del  numero  nel  si- stema decimale;  e  si  fanno  le  somme  parziali  delle  unità dello  stesso  ordine,  sostituendo  cosi  ({ueste  sonuue,  i)rese insieme,  ai  numeri  dati,  o  jùnttosto  a  tutte  le  [larti,  prese insieme,  in  cui  i  numeri  dati  si  sono  considerati  comdecom|)Osti.  Questa  sostituzione  è  giustificata  dairassioma che  (Quantità   eguali   aggiunte  a    ciuantità   eguali   danno quantità  eguali.  Ma  allo  stesso  tempo  le  unità  dello  stesso ordine  che  si  trovano  in  queste  somme  parziali  vengono esse  stesse  sommate,  quando  il  risultato  della  somma  delle unità  di  un  certo  ordine  contenendo  unità  d'ordine  su- periore, queste  ultime  si  riportano  per  unirle  alla  somma delle  unità  del  loro  ordine.  Che  il  risultato  cosi  ottenuto sia  eguale  alle  somme  parziali  primitive  prese  insieme,  ò ancora  una  conseguenza  dall'  assioma  che  Quantità  eguali aggiunte  a  quantità  eguali  sono  eguali;  ma  che  esso  possa sostituirsi  a  queste  somme  parziali  nel  rapporto  d'equivalen- za che  lega  queste  ultime  ai  numeri  dati,  e  venga  perciò  ri- conosciuto eguale  a  questi  numeri,  ciò  avviene  in  virtù dell'assioma  che  Due  quantità  eguali  ad  una  terza  sono eguali  fra  loro. Mercé  la  divisione  in  operazioni  parziah,  le  operazio- ni sui  numeri  di  più  cifre  si  riconducono  a  quelle  sui numeri  d'una  sola  cifra;  e  l'aritmetica  suppone  come  co- nosciuti i  risultati  dell'addizione  e  moltiplicazione  di  due qualunque  di  questi  ultimi  numeri.  Ciò  però  non  vuol dire  che  essi  non  siano  suscettibili  di  essere  dimostrati; poiché  per  tutta  la  serie  dei  numeri,  ammesso  che  cia- scun numero  della  serie  si  forma  per  l'addizione  del  mi- merò immediatamente  inferiore  e  dell'unità,  si  possono dimostrare  tutti  i  differenti  modi  di  formazione  di  cia- scuno per  l'addizione  di  numeri  minori.  Si  può,  p.  e.  di- mostrare che  7+5=  12,  ragionando  di  questa  maniera  : 5=  l-f-4;  aggiundendo  ({uantità  eguah,  7+5=  7+1+4; ma  7-f  1=  ^;  aggiungendo  quantità  eguali,  7+1+4=  8+4; e  siccome  due  quantità  eguali  ad  una  terza  sc»no  eguali  fra loro,  7+5=  8+4.  Della  stessa  maniera  si  dimostra  che 8+4=  0+:^,  e  quindi,  perché  due  quantità  eguali  ad  una terza  sono  eguali  fra  loro,  7+5=  0+3;  e  dimostrato  si- milmente che  9+:]=  10+2,  si  dimostra  infine  che  7+5= 10+2  o  12,  queste  due  ultime  espressioni  essendo  assolu- tamente identiche  di  senso  nel  nostro   sistema  di  nume-  i razione.  Aggiungiamo  che  (jucste  proposizioni   stesse,  le quali  stabiliscono  l'eguaglianza  fra  un  numero  e  il  numero immediatamente  inferiore  più  l'unità,  non  sono  tutte  u- gualmente    primitive  :    se  quelle   che  concernono  i  pnmi dieci  numeri  devono    ritenersi   come  primitive,   le  altre al  contrario  possono  ritenersi  come  derivate.    Cosi   che 1^+1=15  può  a  buon  diritto  considerarsi   come  una  ve- rità dedotta;  infatti  14  non  significando  altro  per  noi  che una  decina  e  quattro   unità,  e  15  non   significando  altro che  una  decina  e  cinque   unità,   conosciuto  che  4+1=5, noi  ne  possiamo  inferire  che,  aggiungendo  ai  due  membri di  questa  eguaglianza  una  stessa  quantità,  cioè   una  de- cina, l'eguaglianza  non  viene  alterata.  Però  non    dobbia- mo concluderne  che  queste  sole  verità  immediate  sulle  e- guagUanze  numeriche,  che  sono  il  minimum  indispensa- bile alla  dimostrazione,    siano   evidenti   per  sé  stesse,  e non  vi  siano  altre  conoscenze  immediate  ed  evidenti  del- la stessa  maniera  sulle  eguaglianze  numeriche  :  al  contra- rio, é  chiaro  che   noi    conosciamo  die  due   e  due  fanno (luattro  e  che  tre  e  due  fanno  cinque  d'una  maniera  cosi intuitiva  come  conosciamo  che  quattro  e  uno  fanno  cinque. Come  dunque  le  premesse  della  geometria  si  riducono agli  assiomi  sull'eguaglianza  più  altre  poche  verità  par- ticolari ugualmente  evidenti  per  se  stesse,  assiomi  o  de- finizioni,  ciascuna   delle   (juali   enunzia  una  proprietà  di (jualche  forma  geometrica;  cosi  le  premesse  della  scienza dei  numeri  si  riducono  agli  assiomi  dell'eguagUanza,  che essa  ha  comuni  con  la  geometria,  più  alcune   poche  ve- rità  particolari,   che    potrebbero  pure  in  un  certo  senso chiamarsi  assiomatiche,  per  le  quali  conosciamo  le  som- me dei  numeri  più  piccoli  (1).  La  quistione  dunque  sulla (1)  Noi  faremo  qui  un'osservazione  analoga  a  (juella  fatta  sulle dctlnizioni  geometriche.  Le  proposizioni  sui  rapporti  numerici,  o per  impiegare  il  linguaggio  l\ì  Kant,  le  formule  numeriche,  che  so- natura  flelle  conoscenze  niateniaticlie  vol^e  in  sostanza sulla  natura  di  queste  i)Oclie  proposizioni  primitive:  sono esse,  per  conseguenza,  che  noi  dobbiamo  particolarmente esaminare.  Cominceremo  per  istabilire  il  loro  carattei*e sintetico. §.  S^.  In  quanto  agli  assiomi  sulle  eguaglianze,  per  non misconoscere  il  carattere  reale  o  sintetico  di  queste  pro- posizioni, basta  non  dimenticare  queste  due  verità:  Pri- mo, che  un  rapporto  d'eguaglianza  è  esso  stesso  un  tatto allo  stesso  titolo  che  un  tatto  sensibile  qualunque,  in quanto  TaiTermazione  d'un  rapporto  di  tale  natura  non  é che  l'affermazione  clie  in  circostanza  date  noi  avremo  o }jotremmo  avere  certe  percezioni  definite,  che  noi  cliia-miamo  d'eguaglianza.  E,  secondo,  che  i  termini  d'un  rappor- to d'eguaglianza  sono  delle  cose  concrete,  realmente  distinte le  une  dalle  altre.  Se  in  due  (juantità  eguali  non  si  vedono che  due  designazioni  diverse  d'uno  stesso  numero  astratto, allora  sarà  tacile  di  trovare  nell'assioma.  «Due  quantità eguali  ad  una  terza  sono  eguali  1  ra  di  loro  »,  una  proposizio- ne analitica,  imphcata  in  questa  nozione  del  numero  e deireguaglianza  numerica  (1).  Cosi  la  geometria,  per  il no  delle  veritì»  primitive,  non  meritano  rro]>ritniiente  il  nome  di assionn' :  ma  ciò  è  per  un'altra  ragione  che  le  definizioni  iieome- triche.  È  die  la  generalizzazione  contenuta  in  queste  proposizioni, non  e  una  verità  ultima,  che  non  possa  dedursi  dagli  assiomi  sulle eguaglianze,  lo  voglio  dire  «die,  se  noi  i^ossiamo  annuettere  in  un caso  i>articolare  la  verità  di  alcuna  di  queste  ]>roposizioni.  noi  ])0s- siamo  generalizzarla  in  virtù  degli  assiomi  generali  sulle  egua- glianze. Se  io  prendo  per  accordato,  p.  e.,  clietiuattro  oggetti  par- ticolari più  un  altro  oggetto  che  stanno  a  me  d'innanzi,  sono  egua- li a  cin(iue,  io  ])osso  perciò  staì)ilire  in  generale  che,  in  tutti  i  ca- si, «juattro  più  uno  sono  sempre  eguali  a  cinque,  in  virtù  dell'as- sioma che  Le  somme  di  quantità  eguali  sono  eguali. (1)  K  co>i.  p.  e.,  che  fu  Ilelmholtz.  V.  Berne  scientifìf/ue  sei'.  3. t.  i4  !>.  46.  Notiamo  il  fatto  che  Ilelmholtz  crede  cìie  gli  assiomi «lell'aritmetica  si  ricavino  dalla  nozione  stessa  dei  numeri,  perchè Ili  .seguito  ci  sarà  utile  di  tenerlo  presente.  <..-~^-N.--%^^'w^ SUO  carattere  più  concreto  o  meno  simbolico,  si  i)resta più  facilmente  all'  esame  di  questi  assiomi.  Dire  che  la prima  grandezza  è  uguale  alla  terza,  è  attermare  1'  esi- stenza 0  la  possibilità  di  certe  percezioni  all'occasione  del- la comparazione  di  queste  due  grandezze;  altre  percezio- ni,  distinte  da  (|ueste  prime,  anch'esse  reali  o  possibiU, e  occasionate  dalla  comparazione  fra  la  seconda  grandez- za e  la  terza,  si  affermano  dicendo  che  la  seconda  é  ugua- le alla  terza;  infine,  quando  si  conclude  che  la  prinTa  è uguale  alla  seconda,  si  affermano  altre  percezioni  del- la stessa  natura,  distinte  tanto  dalle  prime  (juanto  dal- le seconde.  La  cosa  é  evidente  (juando  le  eguaglianze  af- fermate tra  le  grandezze  che  si  mettono  in  rapporto,  so- no percettibili  d'una  maniera  immediata,  o  intuitiva.  Ma anche  quando  le  uguaglianze  non  sono  percettibili  d'una maniera  intuitiva,  cioè  quando  il  rapporto  d'eguaglianza che  si  stabilisce  fra  due  grandezze  non  corrisponde  a  una percezione  d'eguaglianza  ottenuta  dalla  comparazione  di- retta  delle  due  grandezze,  anche  allora  non  è  meno  ve- ro che  a  questo  rapporto  non  corrisponde  altra  cosa  che delle  percezioni  attuali  o  possibili  d'eguaglianza,  e  che  le inferite  sono  realmente  di.stinte  dalle  "date.  Dire  che  la grandezza  A  è  uguale  alla  grandezza  B,  se  quest'eguaglian- za non  s'intuisce  immediatamente,  è  dire  che  A  e  B  han- no lo  stesso  rapporto  con  un'altra  grandezza  con  cui  so- no state  misurate;  così  l'eguaglianza  affermata  in  questo caso  si  risolve  nelle  percezioni  d'eguaglianza  ottenute  nel- le operazioni  della  misura.  Ma  quando  ammettiamo  che [perciò  A  e  B  avranno  pure  lo  stesso  rapporto  ari  un'altra imita  qualunque  di  misura  diversa  dalla  prima,  noi  tac- ciamo un'  inferenza,  e  i  Mii  inferiti  sono  realmente  di- stinti dai  fatti  costatati  nell'  operazione  della  misura  an- tecedente, vale  a  dire  le  percezioni  d'eguaglianza  inferi- te sono  altre  dalle  percezioni  d'eguaglianza  da  cui  s'infe- riscono. Questa  semplice  inferenza  ò  naturalmente  dovuta  airassioma  che  Due  grandezze  eguali  ad  una  terza  so- no eguali  fra  loro.  Simile  è  il  caso  quando,  dopo  aver  co- statato che  A  e  B  hanno  lo  stesso  rapporto  con  una  cer- ta unità  di  misura,  e,  B  e  C  lo  stesso  rapporto  con  la stessa  unità  di  misura  o  con  un  altra,  noi  ne  inferiamo che  A  e  C  avranno  sempre  lo  stesso  rapporto  con  una grandezza  qualunque  presa  ])er  unità  di  misura.  I  rap- porti inferiti  implicano  sempre  dei  fatti,  cioè  delle  perce- zioni comparative,  distinti  dai  fatti,  cioè  dalla  percezioni comparative,  dati.  Similmente  altro  è  percepire  T  egua- glianza fra  grandezze  separate,  rapportate  l'una  con  l'al- tra a  due  a  due,  altro  è  percepire  Teguaglianza  fra  le  som- me di  queste  grandezze  dopo  la  loro  riunione.  E  Fassio- ma  «  Le  somme  di  grandezze  eguali  sono  eguali  i>,  è  una pro|)Osizione  sintetica  per  le  stesse  ragioni  che  lassioma «  Due  grandezze  eguali  ad  una  terza  sono  eguali  tra  loro». In  (guanto  agU  altri  assiomi  geometrici  suUeguaglianza, quelli  che,  come  il  Bain  {Logica  lib.  5^  e.  1^  (j),  negano che  r  eguaglianza  fra  le  grandezze  sia  un  fatto  distinto dalla  loro  coincidenza,  negano  anche  naturalmente  il  ca- rattere reale  o  sintetico  della  loro  pro}X)sizione  «  Due  gran- dezze che  coincidono  sono  eguah  ».  Noi  abbiamo  detto  le ragioni  per  cui  (juesta  opinione  non  ci  sembra  ammissibile. Più  [)lausibile  })are  T  opinione  del  Bain,  quando  egli contesta  il  carattere  di  proposizione  reale  all'assioma  d'Eu- clide, che  \^olf  ha  laboriosamente  dimostrato:  La  parte è  minore  del  tutto.  Però,  ben  considerando  la  cosa,  si  tro- verà che  anclie  questa  proposizione  è  reale  o  sintetica, altro  essendo  l'intuizione  passiva  di  un  tutto  e  di  una  parte, ed  altro  la  percezione  d'un  rapporto  d'ineguaglianza,  quale viene  affermato  nell'assioma.  Nondimeno  quest'assioma d'  Euclide  presenta  una  difficoltà  reale  :  cioè  come  possa intendersi,  senza  fare  una  proposizione  identica,  che  la parte  è  minore  del  tutto,  mentre,  come  noi  stessi  abbia- mo ammesso,  una  gran.lezza  si  dice  minore  d' un'altra,   i:  r;o::i:;zTTO  dem.a  conosci-nza  a  Piuofu 3S5 ;> (luando  la  prima  è  uguale  a  una  parte  della  seconda.  Noi crediamo  che  questa  difficolta  si  risolva  cosi:  l'assioma d'Euclide  è  certamente  una  proposizione  affermativa,  ma essa  implica  delle  proposizioni  negative  corrispondenti, cioè  che  la  parte  non  è  uguale  né  maggiore  del  tutto,  e sono  queste  che  danno  all'assioma  un  significato  reale. Intatti  nei  numerosi  casi  in  cui  Euclide  si  serve  dell'as- sioma nella  prova  per  l'assurdo,  mostrando  che  da  una certa  ipotesi  seguirebbe  che  la  parte  sarebbe  uguale  al  tutto o  mnggiore,  l'assioma  realmente  invocato  è  che  la  parte non  potrebbe  essere  uguale  né  maggiore  del  tutto.  Quando invece  egli  si  serve  dell'assioma  nella  prova  diretta,  cioè ({uando,  dopo  aver  detto  che  una  grandezza  è  uguale  a una  parte  d'un'altra  grandezza,  soggiunge  che  quindi  essa è  minore  di  tutta  la  grandezza,  egli  non  fa  in  realtà  alcun uso  dell'assioma,  non  facendo  alcuna  inferenza  reale,  perchè dire  che  una  grandezza  è  minore  d'un'altra,  è  precisa- mente dire  che  la  ])rima  è  uguale  a  una  parte  della  se- conda. Il  Bain  nega  egualmente  il  carattere  di  proposizioni reali  o  sintetiche  agli  assiomi  particolari  della  geometria, che  enunciano  una  proprietà  d'una  determinata  forma geometrica:  «  Due  rette  non  chiudono  uno  spazio  »,  è  per lui  una  proposizione  identica  o  puramente  verbale:  che due  rette  chiudessero  uno  s[)azio  sarebbe,  egli  dice,  una contraddizione.  Il  Bain  considera  la  proposizione,  non  come un  assioma,  ma  come  un  corollario  della  definizione  della retta,  la  quale,  secondo  lui,  è:  «  quando  due  linee  sonO' tali  clie  esse  non  possono  coincidere  in  due  punti  senza confondersi  l'  una  con  F  altra,  esse  sono  chiamate  linee rette»,  (hb.  2^  e.  5'^  4;  lib.  5^  e.  1,  G).  E  nel  fatto  Tassioma d'Euclide  non  è  che  un  caso  particolare  di  quest'assioma più  generale  che  i  geometri  moderni  ordinariamente  gli sostituiscono:  «  se  due  rette  coincidono  in  più  di  un  punto, esse  coincidono  interamente  ».  La  proposizione  negativa «  Due  rette  non  chiudono  uno  spazio  »  non  è  che  Tequi- valcnte  della  i)i*oposizione  aflermativa  «  Due  rette  che lianno  in  comune  i  due  ])unti  che  le  limitano,  coincido- no»; ed  è  questo  latto  che  si  dimostra  effetti vamente  per rap[)licazione  dell'assioma,  (piando  questo  viene  invocato (v.  Euclide  lib.  1,'^  i)rop.  4^^).  Ora  che  questa  proposizione o  r altra  più  generale  di  cui  essa  è  un  caso  particolare, debba  })iù  correttamente  esprimersi  sotto  la  forma  di  un assioma  o  sotto  (juella  di  una  definizione,  è  inditTerente per  la  (piistione  se  la  proposizione  sia  sintetica  o  anali- tica, perchè  è  evidente  che  dare  ad  una  proposizione  reale la  forma  della  definizione,  non  basta  perchè  essa  diventi verbale  o  analitica.  Vi  ha  certaniente  un  aspetto  sotto  cui la  proposizione  può  semìjrare  semplicemente  verbale:  que- ste due  espressioni,  «  Due  rette  clie  coincidono  in  più  di un  punto  »,  e  «  Due  rette  che  coincidono  interamente  », non  designano  dei  fatti  reali  distinti,  ma  un  solo  e  stesso fatto,  a  cui  conviene  tanto  la  ])rima  (|uanto  la  seconda designazione.  Se  la  prima  designazione  è  applicabile,  i  fatti obbiettivi  sono  tali,  che  ciò  basta,  senz'altro,  perchè  la seconda  sia  pure  applicabile,  e  non  vi  ha  bisogno  perciò deir  esistenza  di  nuovi  fatti  reali  distinti.  Due  rette  che coincidessero  in  più  di  un  punto,  ma  che  non  coincides- sero interamente,  sarebbero  un  non  senso;  non  sarebbe possiljile  alcuna  rappresentazione  reale  corrispondente  a queste  parole.  Ma  le  stesse  osservazioni  sono  applicabili, come  abbiamo  visto,  a  tutte  le  proposizioni  geometriche di  posizione.  Non  ci  sareljbe  possibile  alcuna  intuizione  o rappresentazione  di  oggetti  nello  spazio,  in  cui  si  tro- vassero i  rap[)orti  che  la  proposizione  suppone  come  dati, ma  non  si  trovassero  quelli  che  essa  dimostra.  La  coe- sistenza necessaria  affermata  in  tali  proposizioni,  non  è quella  di  due  fatti  reali  distinti  e  separati,  ma  quel- la di  due  proprietà  astratte  dello  stesso  fatto,  cioè,  al  fon- do,  delle  possibilità  di  venirgli  applicate  due  denomina- 1  \ i-r srr  [.iMiT[  i:  i/oggktto  dktj.v  conoscenza  a  imiioiìi 387 zioni  distinte.  Ma  da  ciò  non  segue  che  le  pro])Osizioni della  geometria  di  posizione  siano  semplicemente  verba- li; perchè  quantunque  ciò  che  è  dato  e  ciò  che  è  inferito non  siano  dei  fatti  obbiettivi  distinti  e  sej^arati,  sono  non- dimeno delle  relazioni  differenti  sotto  cui  gli  stessi  fatti obbiettivi  possono  considerarsi,  e  queste  relazioni  sono anch'esse  dei  fatti  di  un  certo  ordine.  In  generale,  noi  lo sapi)iamo,  le  proposizioni  della  matematica  pura  non  af- fermano r  esistenza  o  la  simultaneità  o  la  sequenza  di fenomeni  obbiettivi,  ma  delle  relazioni  di  somiglianza  o di  thfferenza  tra  questi  fenomeni,  e  delle  dipendenze  tra queste  relazioni;  e  noi  abbiamo  visto,  in  particolare,  che in  una  [)roposizione  geometrica  di  posizione  vi  ha  alme- no un  minimum  di  affermazioni  reali  di  questa  natura, le  quali  consistono  a  stabilire  clie,  se  certi  oggetti  pos- sono entrare  in  certe  classi  date,  essi  230ssono  per  ciò stesso  entrare  pure  in  certe  altre  classi.  Ora,  facendo  l'ap- plicazione di  (juesto  principio  alla  proposizione  in  quistio- ne,  si  vedrà  che  essa  è  sintetica,  perchè  afferma  una unione  di  fatti  distinti  di  una  natura  particolare,  cioè  di relazioni  distinte  di  somiglianza  definita  :  essa  stabilisce che  Due  linee  che  possono  classarsi  tanto  fra  le  rette quanto  fra  le  cose  che  coincidono  in  più  di  un  punto,  po- tranno per  ciò  stesso  classarsi  pure  tra  le  cose  che  coin- cidono interamente. Ma  ciò  non  basterebbe  al  Bain  per  chiamare  sinteti- ca e  reale  la  proposizione,  poiché  per  luilasempUce  per- cezione della  somiglianza  o  della  differenza  fa  parte  del  - la  nozione  stessa  della  cosa,  e  (juindi  un  giudizio  affer- mante delle  semplici  somiglianze  o  differenze,  egli  non lo  considera  che  come  anahtico  o  identico.  Cosi  mentre il  Mill  avea  classato  i  significati  delle  proposizioni  in  af- fermazioni della  coesistenza,  della  sequenza  e  della  somi- glianza (oltre  quelle  della  semplice  esistenza),  il  Bain  non amm(3tte,  come  abbiamo  già  detto,  la  terza  classe,  cioè delle  proposizioni  sulla  somi«ilianza,  parche  questa  costi- tuisce, secondo  lui,  un  predicato  identico  o  verbale,  e  al- la somiglianza  di  Mill  sostituisce  la  quantità  oTeguaglian- za.  AUi  le  osservazioni  precedenti  sulle  proposizioni  del- geometria  di  posizione  mostrano  che  vi  ha  una  lacu- na nella  classazione  del  Bain  :  queste  proposizioni  non dei  rapporti  metrici  o  quantitativi,  delle  egua- glianze ;  in  quale  classe  devono  esse  rientrare  ?  Il  Bain non  parla  mai  di  tali  proposizioni:  esse  non  possono  clas- sarsi fra  le  proposizioni  di  coesistenza,  perchè,  da  una parte,  sarebbe  inesatto,  come  noi  abbiamo  osservato,  di anniiettere  che  esse  aftermano  quella  specie  di  coesisten- za che  VÀW  chiama  ordine  nel  luogo,  e  d'altra  parte  con- tentarsi di  ammettere,  come  la  talvolta  il  Bain  per  certe proposizioni,  che  la  coesistenza  atlermata  è  una  coesisten- za di  attributi  nello  stesso  soggetto,  è  rinunziare  ad  un'a- nalisi rigorosa  del  vero  contenuto  delle  proposizioni.  La coesistenza  nel  tempo  o  nel  luogo  presenta  un'idea  chia- ra: ma  cosa  vuol  dire  coesistenza  d'attributi,  se  non  si vogliono  realizzare  delle  astrazioni?  Vuol  dire  semplice- mente che  certe  forme  verbali  si  possono  applicare  simul- taneamente, riferendosi  allo  stesso  soggetto:  ma  si  tratta sapere  quali  siano  le  rappresentazioni  reali  corrispon- alla  predicazione  di  queste  forme  verbali.  Se,  come abitiamo  detto,  nelle  proposizioni  della  geometria  (U  posi- zione le  affermazioni  reali  si  risolvono  in  relazioni  deli- nite  di  somiglianza,  che  non  è  eguaglianza,  l'eguaglianza o  la  quantità  A  una  categoria  troppo  stretta  per  contenere tutte  le  proposizioni  della  matematica,  e  bisogna  ritornare per  questa  parte  alla  classazione  di  Mill,  cioè  mettere  la somiglianza  al  posto  della  eguaglianza  o  della  quantità. Perché  il  Bain  vede  in  una  specie  della  somiglianza  (cioè l'eguaglianza)  un  predicato  reale,  e  non  nelle  altre  specie  ? 11  criterio  ch'egli  sembra  seguire  è  clie  una  verità  d'in- ferenza è  reale  o  sintetica,  mentre  una  verità  intuitiva  è verbale  o  analitica:  infritti  tra  i  principii  della  matema- tica egli  non  riconosce  come  sintetici  cJie  i  due  assiomi generali  sulle  eguaglianze,  i  quali  costituiscono  secondo lui  il  solo  fondamento  induttivo  della  scienza  (1).  Ma  que- sto criterio  non  può  servire  di  base  a  una  classazione <lelle  proi)Osizioni  quale  il  Bain  se  Ve  proposta.  Si  tratta di  classare  le  proposizioni  per  la  natura  dell'attribuzione che  esse  contengono.  (Quando  è  quistione  delle  atlerma- zioni  sulla  coesistenza  e  la  sequenza,  il  Bain  vede  forse una  differenza  tra  quelle  che  sono  immediatamente  cono- sciute e  (juelle  che  non  si  conoscono  che  per  un'illazione  ? La  distinzione  che  egli  fa  tra  le  affermazioni  sulla  somidian- za,  classando  le  une  fra  le  sintetiche  e  le  altre  fra  le  a- nalitiche,  è  dunque  arbitraria.  Se  d'altronde  si  ammette che  la  percezione  di  un  rapporto  di  somiglianza  è  un  fattodistinto   dalla  percezione  o   rapr)resentazione  dei  termini (1)  11  Baili  vuole  che  rass;ìoma  (ielle  parallele  sia.  non  un  assioma, ma  un  teorema  dì  una  (lilllcile  dimostrazione  (1.  V,  e.  I,  fi):  intanto <iuesta  dinKìstrazione  non  è  Sfata  mai  data,  e  i  geometri  più  mo- derni si  accordano  a  pensare  che  la  proj^osizione  è  indimostral.)ile. Sareìjbe  stata  eei'tamente  un'  incoerenza  nel  I^ain  di  conservare (fuesta  proposizione  nella  lista  degli  assiomi  o  premesse  reali  della matematica,  dopo  averne  cancellato  tutle  le  altre  all' infuori  dei due  assiomi  generidi  sulle  eguaglianze.  Cosi,  conformemente  ai  suoi l^rincipii,  Tassioma  delle  parallele  non  potreljbe  essere  pei*  lui  clie o  una  proposizione  ver])ale  o  un  teorema. Notiamo  pure  che,  se  il  ciM'terio  del  Bain  per  dividere  le  ])ropo- sizioni  sulle  somiglianze  in  due  classi,  le  analitiche  e  le  sinteticlie, ò  realmente,  come  sembra,  (juello  che  noi  indichiamo  nel  testo, (luesto  critcì'io  è  necessariamente  ar])itrario,  perchè  alcuni  mate- matici dimostrano  ciò  che  altri  ammettono  come  assiomatico,  p.  e. la  proposizione  che  la  linea  retta  è  la  pii^i  breve  fra  due  punti  dati. Cosi  euii  è  condotto  a  certe  asserzioni  singolari,  come  (|uesta:  che «  tre  ed  uno  fanno  quattro  »  è  una  proposizione  verbale  e  analitica, mentre  «  due  e  <Jue  fanno  quattro»  è  reale  e  sintetica  (essendo  fon- data, com'egli  dice,  sui  grandi  principii  induttivi  della  matemati- ca- v.  lib.  V,  e.  I,  7). di  questo  rapporto  (quantunque  il  primo  latto  possa  essere indissolubilmente   legato  al   secondo),  non    vi  ha   alcuna ragione  per  negare  la  natura  sintetica  di  questo  predicato, §.  9J*  In  ([uanto  alle  definizioni,  il  loro  carattere  ana- litico potrebbe  sembrare  sufficientemente  provato  dal  fatto stesso  che  sono  delle  definizioni  ;  pei'ché  noi,  si  dirà,  non appliclieremmo  p.  e.  il  nome  di  cerchio,  là  dove  non  tro- vassimo Teguaglianza  dei  raggi,  e  (piindi  quest\ittiùbuto  è implicato  nel  significato  del  soggette^.  Noi  andremo  diretta- mente al  l'ondo  della  quistione,  e  domanderemo  se  Tintiuzio- ne  o  la  rappresentazione  di  un  cerchio  contenga  la  percezio- ne del  rai)i)orto  d'eguaglianza  tra  i  suoi  raggi.  Ora  è  evi- dente clie  non  la  contiene  :  per  conseguenza,  affermando del  cerchio   ch'esso  ha  i  raggi  eguali,    noi  facciamo  una proposizione  sintetica,  i)erchò  il  soggetto  della  proposizione non  sono  che  i  cerciii,  reali  o  possibili,  deirintuizione  (e non  una  pretesa   nozione  astratta  del  cerciiio\  e  Fegua- glianza  di  cui  si  tratta  nellattributo,  non  ò  che  la  perce- zione clic  noi  abbiamo  o  potremmo  avere  (H  questo  rap- porto, paragonando  fra  loro  i  raggi  di  uno  di  questi  cer- chi. Gli  antichi  vedevano  a  buon    dritt(-)  nelle  definizioni geometriche  delle  definizioni  reali  o  essenziali,  in  quanto esse  non  c'istruiscono  semplicemente  sul  senso  d'un  no- me, ma  ci  danno  un  fatto,  cioè  una  relazione,  fondamen- tale, a  cui  gli  altri  latti  o  relazioni,  di  cui  la  forma  geo- metrica d -finita  è  il  soggetto,  si  riattaccano  per  la  dimo- strazione, venendo  attribuito  in  vii-tù  di  cpiesta  relazione .    Sono  anche   questa  specie   di  definizioni    che alla  metafìsica  Tidea  di  defìnizione  essenziale,  non trovandosi,  al  di  fuori  della  geometria,  degli  oggetti  (li  cui le  altre  proprietà  siano  legate  a  qualche  proprietà  logica- mente primitiva,  i)er  una  connessione  necessaria  e  visi- bile a  priori  (se  questa  connessione  è  possibile  nella  geo- metria, ma  non  nelle  scienze  di  fatto,  ciò  si  deve  al  me- todo speciale  delle  matematiche,  che  è  interamente  dedut  \m tivo,  e  alla  natui'a  speciale  di;l  loro  contenuto,  ciò"'  dei rapporti  stu<liati  da  (lueste  scienze).  Sdirebbe  duncpie  vero di  dire,  in  (piesto  senso,  che  p.  e.  l'eguaglianza  dei  raggi é  contenuta  nelFessenza  del  cerchio,  ma  bisogna  guardarsi dal  concluderne  die  perciò  (juest'attriljuto  non  è  che  ana- litico: la  conseguenza  sarebbe  i;"iusta  se  \ essenza  di  cui si  tratta  fosse  Vessenza.  nominale,  .secondo  la  dottrina  che la  defìnizione  è  l'esposizione  del  senso  del  nom'3,  e  che (iuesto  è  costituito  da  una  porzione  determinata  degli  at- tributi della  classe.  Ora  il  senso  del  nome  cercliio  nono ])er  noi  che  di  designare  certe  intuizioni,  reali  o  possil)ili, dei  nostri  sensi,  cioè  certe  superfìcie  di  mia  forma  par- ticolare: la  relazione  d'eguaglianza  che  noi  percepiamo  o possiamo  percepire  fra  certi  elementi  di  (jueste  superfì- cie, è  un  fatto  che  ha  un  legame  necessario,  sia  nella re;dtà  sia  nel  nostro  pensiero,  Q,on  ({ueste  intuizioni  dei nostri  sensi,  ma  che  ne  è  completamente  distinto,  e  che, per  conseguenza,  non  fa  [)arte  dei  senso  del  nome  cerchio. Per  le  premesse  della  SMenza  dtn  numeri,  il  Bain  fa come  per  quelle  della  geometria  :  non  attribuen  lo  il  ca- rattere di  proposizioni  reaU  che  ai  sijli  assiomi  generali eguaglianze,  egli  lo  nega  alle  verità  assiomatiche [)ariicolari,  che  per  l'aritmetica  volgono,  come  a])biamo detto,  su  certe  eguaglianze  numeriche  conosciute  d'  una maniera  immediata.  Noi  abbiamo  visto  die  tutte  le  egua- glianze numeriche  sono  ca})aci  di  essere  dimostrate,  una volta  che  di  ciascuni^  della  serie  dei  numeri  si  ammetta come  conosciuta  la  sua  eguaglianza  col  numero  immedia- tamente inferiore  più  l'unità;  e  che  la  dimostrazione  con- siste in  un  seguito  di  sostituzioni  fatte  in  virtù  dei  due assiomi  fondamentali  sulle  eguaglianze.  Il  Bain  ammette che  le  sostituzioni  siano  giustificate  dagli  assiomi;  ma  egli crede  che  le  altre  [)remesse,  cioè  l'eguaglianza  di  ciascun nuiiKUY»  al  numero  immediatamente  inferiore  più  l'unità, siano  delle  proposizioni  [juramente   verljali  o  analitiche.che  non  espongono  altro  dio  la  definizione  del  nome  del numero.  Già  il  Leibnitz  ed  altri  al  seguito  di  lui  avevano ammesso  che  queste  proposizioni  l'ossero  delle  verità  [ju- ramente  identiche  ;  ma  dimostrando  tutte  le  eguaglianze numericlie  mediante  (pieste  proposizioni,  essi  ne  conclu- devano che  tutte  le  verità  sui  numeri  fossero  unicamente fondate  sul  princi[)io  d'identità.  Infatti,  se  si  ammette  che nella  dimostrazione  si  sostituisce  a  un  numero  il numero  immediatamente  inferiore  più  uno,  o  viceversa  a numero  più  uno  il  numero  imme.iiatamente  superiore, non  si  fa  altro  che  sostituii'e  al  definito  la  definizione  e alla  definizione  il  definito;  diventa  inutile  di  ricorrere  in.)l- tre  alle  proposizioni  generali  sintetiche  sulle  eguaglianze, e  tutta  la  dimostrazione  non  diviene  che  una  sostiUizione di  proposizioni  identiche  le  une  alle  altre,  in  cui  non  si  fa altro  che  mettere  al  [)Osto  di  alcuni  nomi  altri  nomi  aventi  lo stesso  senso.  Hitorniaino  alla  somma  di  7+5:  5  ha  lo  stesso senso  che  1+4;  dunque  7+5  ha  lo  stesso  senso  che  7+1+1, e  questo  lo  stesso  senso  che  8  +  4  ;  e  questo  lo  stesso senso  che  8+1+3,  che  ha  lo  stesso  senso  chel)+:],  ecc.  (1). M)  11  Leiluiilz  nello  siin  diinostmzioiic  invoca  l'assionia  clic  su- stitucntlo  cose  eguali  rcguatrlianza  resta.  (.V.  Saont  1.  ;.  e.  7).  Ma il  (;alliip[)i,  ilimnstrando  secondo  i  principii  di  F.eibnitz  la  no-^tra proi)osizione  7h-5-^-|2.  spiega  nettamente  come  la  dimosti-azione  non suppone  clic  il  diritto  di  sostituire  vicendevolmente  la  delìnizione il  (.UiWmio  {Scu li  ILO  sulla  ci  ìt.  della  runosc.  t.  H.  §  Ut;  v.  a.  t.  1.^  7S). Con  ciò  però  egli  sì  mette  in  contraddizione  con  se  stesso:  infatti avendo  opposto  a  Condillac  che,  se  nella  dimostrazione  non  vi ha  che  una  sola  idea  che  si  trasf,>rma  sotto  diverse  espressioni, non  si  comprende  come  il  raziocinio  porti  all'estensione  delle  nostre conoscenze  {Op.  cit.  t.  1.  §  70),  egli  cerca  di  evitare  questa  diflicoltà, cheèpm'e  inerente  alla  sua  propria  dottrina,  mostrando  che  il  ra- ziocinio ordinariamente  procede  dal  generale  al  particolare  (t.  1.  § 73,  75,  78,  eoe).  Ma  se  nella  dimostrazione  della  proposizione  in  qui- stione  non  vi  ha  che  una  sostituzione  tra  il  defuiito  e  la  definizione, non  vi  ha  allora  alcun'  a  pplicazione  di  un  i)i'incipio  generale,  e  l'in- ferenza <"'  necessariamente  api^arente,  e  non  reale: Bain  unisce  dunque  due  idee  incompatibili,  quando sostiene  che  la  sostituzione  tra  il  numero  immediatamente inferiore  più  l'unità  e  il  numero  immediatamente  superiore sia  unicamente  una  sostituzione  tra  la  definizione  nomi- nale e  il  definito,  e  che  tuttavia  una  dimostrazione  otte- nuta mediante  ([ueste  sostituzioni  sia  Tapplicazione  di  as- siomi, cioè  di  princii)ii  sintetici.  La  conseguenza  della  pri- ma di  queste  due  dottrine  è  di  bandire  dal  calcolo  ogn'in- ferenza  reale,  e  di  non  far  consistere  il  progresso  della  di- mostrazione che  in  inferenze  apparenti,  che  si  limita- no a  dare  un'espresione  ditferente  allo  stesso  jjensiero.  E ■allora  bisognerà  rinunziare  necessariamente  al  valore sintetico  o  reale  di  tutte  le  proposizioni  sui  numeri,  e  la scienza  dei  numeri  non  potrà  darci  altro  che  delle  j pro- posizioni verbali.  Se  si  accorda  che  i  ragionamenti  del- la matematica  conducono,  come  di  altri,  a  stabilire  del- le  nuove  verità,  Ijisogna  anche  accordare  non  meno  l'u- no cJie  Taltro  (U  questi  due  punti:  che  le  sostituzioni  del calcolo  sono,  non  sostituzioni  di  espressioni  diverse  ma equivalenti  d'una  stessa  cos:i,  ma  delle  inferenze  reali,  o, ciò  che  vale  lo  stesso,  che  i  principii  generali  o  assiomi, su  cui  queste  sostituzioni  sono  fondate,  sono  delle  pro])0- -sizioni  sintetiche;  e  che  lo  stesso  carattere  sintetico  appar- tiene eii'ualmente  a  tatie  le  formule  ivunerichc  (come  le chiama  Kant),  cioè  a  tutte  le  pro[)Osizioni  particolari  sui rapporti  tra  numeri S.  10^^  Noi  dobl)iamo  ora  mostrare  che  i  principii  della matematica  sono  tutti  dei  giudiz^i  comparativi,  affermanti delle  eguaglianze,  o  piuttosto,  d'una  maniera  piìi  generale, delle  somiglianze  definite,  e  che  le  matematiche  pure  non presuppongono  alcuna  verità  suiresistenza. Secondo  il  Mill,  le  verità  particolari  che,  insieme  alle verità  generali  sulle  eguaglianze,  costituiscono  le  premes- se della  matematica,  implicano  delle  affermazioni  esisten- ziali. Di  queste  verità,  quelle  che  sono  o  [)OSSono  considerarsi  come  definizioni,  digeriscono  dalle  altre  definizio- ni, in  quanto  non  spiegano  semplicemente  il  senso  di  un nome,  uia  Tanno  pure  la  su[)[)Osizione  che  esistono  nella realtà  degli  oggetti  corrisjxjndenti  alle  definizioni.  Intatti, dice  il  Min,  «  sarei )be  evidentemente  impossibile  di  de- durre alcuna  verità  di  geometria  da  una  {proposizione che  indicasse  solamente  la  maniera  di  cui  s'intende  im- piegare un  segno  particolare».  «Vi  ha  dunque  una  di- stinzione Ideale  tra  le  definizioni  di  nomi  e  (luelle  che si  chiamano  a  torto  definizioni  (U  cose  ;  ma  (juesta  dif- ferenza consiste  in  ciò,  che  (jueste  enunciano  tacitamente, nello  stesso  tempo  che  la  significazione  di  un  nome,  un punto  di  fatto,  (^uest'  asserzione  tacita  non  è  una  delini- zione,  è  un  postulato.  La  definizione  è  una  semplice  pro- posizione identica,  che  non  insegna  niente  altro  ch(^.  Fuso della  lingua,  e  dalla  quale  non  si  })uò  tirare  alcuna  conclu- sione l'elativa  a  dei  fatti.  Il  [)Ostulat«>  che  T  accompagna, al  conti'ario,  afferma  un  fatto  che  pu(')  condurre  a  delle conseguenze  più  o  meno  importanti  ;  esso  afferma  Y  esi- stenza attuale  o  })0ssil)il(ì  di  cose  clie  {possiedono  la  com- binazione d'attributi  dichiaraata  dalla  delìnizione;  e  que- sto fatt(j,  se  è  i*eale,  può  essere  il  fondamento  di  tutto  un edifìzio  di  verità  scientifiche»  (1.  1'^^  e.  8'  §  5). Il  Mill  fa  un'obbiezione  alla  propria  dottrina:  Non  ò vero  che  esista  un  cerchio  a  raa'gi  esattamente  eguali:  i postulati  implicati  nelle  definizioni  non  sono  dun(iue  com- l)letamente  veri.  «  Vi  ha  dunque  qualche  difficoltà  a  con- ce[)ire  che  le  conclusione  lùù  certe  rii)Osano  su  i>remesse, che,  lungi  di  essere  certamente  vere,  non  sono  certamente vere  in  tutta  l'estensione  che  comi)orta  la  loro  enuncia- zione», (l.  1.'»  e.  8."  .^  G).  Ma,  risponde  l'autore  a  quest'ob- biezione, vi  ha  altrettanta  verità  nel  postulato,  quanta  ne bisogna  {ìer  portare  ciò  che  vi  ha  di  vero  nella  conclu- sione. Le  definizioni  devono  essere  considerate  corno  le nostre  prime  e  più  evidenti  generalizzazioni  relative  alle figure  quali  esse  esistono  negli  oggetti  naturali.  «(Queste generahzzazioni,  in  ({uanto  generalizzazioni,  sono  i)erfet- tamente  esatte.  I^'  eguaglianza  (U  tutti  i  raggi  è  vera  di tutti  i  cerchi,  altrettanto  che  essa  è  vera  di  un  cerchio, ma  essa  non  è  completamente  vera  d'  alcuno;  essa  non lo  è  elle  d'una  maniera  molto  approssimativa,  e  cosi  a|)- prossimativa  ciie  la  suj)|)psizione  che  essa  è  assolutamente non  trascinerebbe  nella  pratica  alcun  errore  di  qual- che importanza.  (v>uando  ci  accade  d'estendeiv)  queste  in- duizioni  0  le  loro  conseguenze  a  casi,  in  cui  l'errore  sa- rebbe apprezzai  )ile, noi  correggiamo  le  nostre  conclu- sioni combinandovi  nuove  proposizioni  relative  all'af)erra- zione  ».  11  carattere  di  rigore  o  di  certezza  i>articolare attribuito  alle  matematiche  è,  dice  percii")  il  Mili,  un'illu- sione, la  (juale  non  si  mantiene,  se  non  supponendo  che ciueste  verità  si  rapportano  ad  oggetti  puramente  ideali, mentre  esse  si  rapportano  invece  agli  oggetti  realuKMite esistenti  nella  natura.  Le  asserzioni  sulle  (juali  i  ragiona- menti si  fondano  non  corrispondono,  in  geometria,  ì)iù esattamente  che  nelle  altre  scienze  ai  latti;  ma  noi  .S77>- jfoniamo  che  essi  vi  corrispondano,  per  poter  tirare  le conseguenze  che  derivano  dalla  su})posizione.  «  Io  trovo dunque  esatta  in  sostanza  l'opinione  dì  Dugald  -  Stewart, clic  la  geometria  è  fondata  su  delle  ipotesi  ;  che  è  a  ci<"> che  essa  deve  la  certezza  particolare  che  la  (hstinguerebbe, e  che  in  ogni  scienza  si  [uiò,  ragionando  su  dell(i  ipotesi, ottenere  un  insieme  di  conclusioni  cosi  certe  clu;  quelle della  geometria,  cioè  a  dire  cosi  rigorosauKMite  crjncor- danti  con  le  ipotesi,  e  forzanti  cosi  irresistibilmente  l'as- sentimento, a  condizione  die  le  ipotesi  sian(j  vere  >•.  (1.  2'^ e.  5<>  §  1). Ora,  ammettiamo,  coinè  vuole  il  Mill,  che  le  [)rop(jsi- zioni  della  geometria  siano  i|)0teticlie:  l'affermazione  di una  proposizione  ipotetica  implica  forse  l'atìermazione  cate- gorica dell'ipotesi?  Dire:  «se  vi  lia  un  pendolo  nelle  con-  (ìerai'si  come  definizioni,  dineriscono  dalle  altre  definizio- ni, in  quanto  non  spieirano  seniplicemente  il  senso  di  un nome,  ma  lanno  pure  la  sui)[)Osizione  che  esistono  nella realtà  de^uli  oii'getti  corrispondenti  alle  definizioni.  Intatti, dice  il  Min,  «  sarei )be  evidentemente  impossibile  di  de- durne alcuna  verità  di  i^eometria  da  una  i)roposizione che  indicasse  solamente  la  maniera  di  cui  s'intende  im- piegare un  segno  particolare».  «Vi  ha  dunque  una  di- stinzione real(i  tra  le  defhiizioni  di  nomi  e  ({uelle  che si  chiamano  a  torto  definizioni  di  cose  ;  ma  <juesta  dif- ferenza consiste  in  ci('>,  che  (lueste  enunciano  tacitamente, nello  stesso  tempo  che  la  signific^azione  di  un  nome,  un punto  di  latto.  Quest'asserzione  tacita  non  è  una  defini- zione, è  un  postulato.  La  definizione  è  una  sem})lice  pro- posizione identica,  che  non  insegna  niente  altro  che  Fuso della  lingua,  e  dalla  quale  non  si  può  tirare  alcuna  conclu- sione relativa  a  dei  tatti.  Il  postulat«>  che  T  accompagna, al  contrario,  all'erma  un  fatto  che  può  condurre  a  delle conseguenze  i)iii  o  meno  importanti  ;  esso  atlerma  Y  esi- stenza attuale  o  possiljile  di  cose  che  {possiedono  la  com- binazione (T  attriljuti  dichiaraata  dalla  definizione;  e  que- sto tatto,  se  è  ideale,  può  essere  il  tbndainento  di  tutto  un edifìzio  di  verità  scientifiche»  (1.  ì^  e.  8'  §  5). Il  Min  ta  un'obbiezione  alla  })ropi-ia  dottrina:  Non  è vero  che  esista  un  cerchio  a  raa'd  esattamente  euuali;  i postulati  implicati  nelle  definizioni  non  sono  dunque  com- pletamente V(3ri.  «  Vi  ha  dunque  qualche  difficoltà  a  con- cepire che  le  conclusioni  più  certe  rii)Osano  su  premesse, che,  lungi  Od  essere  certamente  vere,  non  sono  certamente vere  in  tutta  Testensione  che  comporta  la  loro  enuncia- zione». (1.  1."  e.  S.^'  ^  G).  Ma,  risponde  Fautore  a  quest'ob- biezione, vi  ha  altrettanta  verità  nel  postulato,  quanta  ne l)isogna  per  portare  ciò  che  vi  lia  di  vero  nella  conclu- sione. Le  definizioni  devono  essere  (considerate  come  le nostre  prime  e  più  evidenti  generalizzazioni  relative  alle figure  quali  esse  esistono  negli  oggetti  naturali.  «  (^)ueste generalizzazioni,  in  (juanto  generalizzazioni,  sono  j^erlet- tamente  esatte.  L'  eguaglianza  (H  tutti  i  raggi  è  vera  di tutti  i  cerchi,  altrettanto  che  essa  è  vera  di  un  cercliio, ma  essa  non  è  completamente  vera  d'alcuno;  essa  non lo  è  che  d'una  maniera  molto  approssimativa,  e  cosi  ap- prossimativa che  la  su])ppsizione  che  essa  è  assolutamente vera  non  trascinerebbe  nella  pratica  alcun  errore  di  qual- che importanza.  Quando  ci  accade  d'estendere  c[ueste  in- duizioni  o  le  loro  conseguenze  a  casi,  in  cui  l'errore  sa- rebbe apprezzai  )ile, noi  correggiamo  le  nostre  conclu- sioni combinandovi  nuove  proposizioni  relative  all'aberra- zione ».  11  carattere  di  rigore  o  di  certezza  jiarticolare attribuito  alle  matematiche  è,  dice  perciò  il  Mill,  un'illu- sione, la  (juale  non  si  mantiene,  se  non  su[)pon(3ndo  clie (jueste  verità  si  rapportano  ad  oggetti  puramente  ideali, mentile  esse  si  rapportano  invece  agli  oggetti  i*ealm(3nte esistenti  nella  natura.  Le  asserzioni  sulle  (juali  i  ragiona- menti si  l'ondano  non  corrispondono,  in  geometria,  più esattamente  che  nelle  altre  scienze  ai  tatti;  ma  noi  .S7^y>- poniamo  ciie  essi  vi  corrispondano,  per  poter  tirare  le conseguenze  die  derivano  dalla  sui)|)Osizione.  «  Io  trovo dunque  esatta  in  sostanza  l'oinnione  di  Dugald  -  Stewart, che  la  geometria  è  fondata  su  delle  ipotesi  ;  che  è  a  ci('> clieessa  deve  la  certezza  i)articolare  che  la  (Ustinguerebbe, e  che  in  ogni  scienza  si  i)uò,  ragionando  su  delie  ipotesi, ottenere  un  insieme  di  conclusioni  cosi  certe  ch(3  quelle della  geometria,  cioè  a  dire  cosi  rigorosamente  concor- danti con  le  ipotesi,  e  l'orzanti  cosi  irresistibilmente  l'as- sentimento, a  condizione  che  le  ipotesi  siano  vere  ».  (1.  2'^ e.  5<^  §  1\ Ora,  ammettiamo,  conio  vuole  il  Mill,  che  le  pro[Kjsi- zioni  della  geometria  siano  ipotetiche:  l'affermazione  di una  proposizione  ipotetica  implica  forse  l'affermazione  cate- gorica dell'ipotesi?  Dire:  «se  vi  ha  un  pendolo  nelle  condizioni  ideali  o  astratte  supposte  dalla  teoria,  esso  oscil- lerà uniformemente  per  un  tempo  infinito  ^  non  implica Taffermazione  che  un  pendolo  tale  esista.  Cosi  dire:  «se vi  ha  un  cerchio  conforme  alla  definizione  geometrica,  la sua  circonferenza  avrà  il  rapporto  ^  col  suo  diametro  *, non  implica  nemmeno  latiermazione  che  un  sinnle  cer- chio esista.  Dunque  1  affermazione  di  questa  proposizi(jne geometrica  non  suppone  come  premessa  un'affermazione relativa  all'esistenza  reale  di  cerchi  conformi,  sia  rigoro samente,  sia  approssimativamente,  alla  defuiizione.  Sia pure  qual  si  voglia  Tinterpretazione  d'  una  proposizione geometrica.  S'interpreterà  ngoi-osamente  ?  essa  non  sarà vera  che  d'un  cerchio  ideale;  dunriue  evidentemente  non supporrà  alcuna  affermazione  deiresistenza  di  cerchi  reali. S'intei'preterà  d'una  maniera  approssimativa,  non  avendo per  soggetto  che  i  cei'chi  ideali  della  natura?  IVIa  nò  an- che in  questo  caso  vi  è  implicata  un'affermazione  relativa all'esistenza  dei  cerchi  reali.  Una  i)ro[>osizione  geometrica non  stabilisco  che  rapporti  comparativi,  vuoi  fra  le  cose, vuoi  fra  le  loro  idee  :  questi  rapporti  dipendono  certamente dalle  idee  o  dalle  cose;  se  si  vuole,  l'attributo,  cioè  il  rap- porto, non  è  affermato  del  soggetto  che  per  ipotesi,  cioè alla  condizione  che  il  soggetto  esista.  Ma  l'esistenza  del soggetto  non  è  posta  perciò  :  questa  esistenza  è  forse  af- fermata per  un  altro  atto  del  pensiero,  ma  non  per  quello che  afferma  il  rapporto,  e  il  giudizio  esistenziale  e  il  giu- dizio comparativo  sono  due  giudizi  logicamente  indipen- denti, r  anmiissione  dell'  uno  dei  due  non  implicando  af- fatto Tammissione  dell'altro. Il  Mill  per  provare  che  una  conseguenza  non  può  ti- rarsi da  una  definizione  per  se  stessa,  ma  solo  da  un'as- serzione tacita  suir  esistenza,  legata  alla  definizione,  mo- stra che  nel  primo  caso  una  conclusione  Axlsa  seguirebbe da  premesse  vere.  «  Un  dragone  è  una  cosa  die  soffia delle  fiamme;  Un  dragone  é  un   serpente;  Dunque   qualche  serpente  soffia  delle  fiamme».  La  premessa  reale  in questo  caso,  dice  il  Alili,  non  è  la  definizione,  ma  la  sup- posizione tacita  dell'  esistenza  dell'  oggetto  definito.  Ed  è vero  :  ma  la  conclusione  qui  essendo  una  proposizione esistenziale,  essa  non  poti'ebbe  seguire  che  da  un*  altra afiermazione  esistenziale.  Al  contrario,  le  proi)Osizioni dimostrate  della  geometria  essendo,  non  proposizioni  esi- stenziali, ma  solo  comparative,  j)erc]iè  le  premesse  do- vrebbero essere  esistenziali  ?  Se  nelle  scienze  di  fatto  è impossibile,  come  nella  geometria,  di  dedurre  nuove  ve- rità da  una  definizione,  ciò  non  è  perchè  nelle  definizioni geometriche  è  implicata  un'asserzione  tacita  sull'esistenza, ma  non  nelle  definizioni  degli  esseri  reah;  ma  perché  co- me dice  lo  stssso  Mill  (1.  l.o  e.  8.^  §  4),  le  proprietà  di- stintive delle  cose  non  nascono  l'una  dall'  altra,  in  altri termini,  non  può  stabilirsi  fra  di  loro  una  connessione  a priori,  come  fra  le  proprietà  delle  figure  geometriche;  il che  non  é,  come  abbiamo  osservato,  che  un  caso  di  que- sta circostanza  più  generale,  clie  la  geometria  è  una scienza  a  priori  e  deduttiva,  mentre  le  scienze  degli  es- seri reaU  sono  sperimentali  ed  induttive. Quand'anche,  aggiunge  il  Mill,  si  ammetta  che  la  de- finizione geometrica,  p.  e.  del  cerchio,  non  postuli  l'esi- stenza di  cerchi  reali,  e  sia  semphcemente  la  descrizione della  nostra  nozione  di  un  cerchio  ideale,  essa  postulereb- )je  sempre  la  esistenza  reale  di  quest'  idea,  prenderebbe per  accordato  che  lo  spirito  può  formare  e  forma  la  no- zione di  un  oggetto  corrispondente  alla  definizione.  Den- tro questi  limiti,  cioè  che  la  definizione  implica,  non  l'e- sistenza o  la  possibilità  dell'oggetto  definito  nell'universo reale,  ma  la  semplice  rappresentabilità  di  quest'  oggetto, la  dottrina  di  Mill  potrebbe,  in  un  certo  senso,  ammet- tersi. I  matematici  dicono  qualche  volta  che  una  defini- zione geometrica  deve  mostrare  la  possibihtà  della  cosa definita,  e  i  leibniziani,  d'una  maniera  generale,  distin- imMiguevano  la  definizione  reale  dalla  definizione  nominale, ammettendo  che  la  i)rima  mostra  questa  possibilità,  ciò elle  non  la  la  seconda.  Questo  vuol  dire  semplicemente che  una  definizione  geometrica  (  noi  sa{>piamo  che  sono queste  definizioni  clie  hanno  dato  ai  metafìsici  Y  idea  di definizione  l'eale  o  essenziale)  non  è  una  pura  torma  ver- bale senza  significazione  reale,  un  semplice  non  senso, come  sarel)l»e  p.  e.  la  definizione  del  hil/neo  rettilineo  : «  una  fi£i'ura  terminata  da  due  linee  rette  »  ;  ma  che  ad essa  corrispondono  delle  vere  idee,  delle  ra[)presentazio- Tii  etìettive,  (3  che  ciò  deve  essere  evidente  dairenunciato stesso  della  proposizione.  Ma  il  Mill  pretende  che  Tailer- mazione  lY^ale  contenuta  in  una  definizione  geometrica  e un  alìermazione  esistenziale;  che  il  l'atto  che  essa  aiìcrma (nel  tempo  stesso  die  spiega  il  senso  di  un  nome),  e  che è  il  i)unto  di  partenza  dei  ragionamenti  del  geometra,  è resistenza,  se  non  di  certe  forme  geometriche,  delle  rap- presentazioni almeno  di  queste  torme.  Ora  esaminiamo r  atto  mentale  inq)licato  nella  riconoscenza  del  latto  che r  oggetto  definito  è  possibile,  o  che  vi  hanno  delle  forme rappresentaijili  conformi  alla  definizione.  «  Il  cerchio  è una  curva,  i  cui  punti  sono  equidistanti  da  un  punto  in- terno che  si  chiama  centro»;  «  L'ellissi  è  una  curva,  in cui  la  somma  delle  distanze  di  ciascuno  dei  suoi  punti  da due  punti  fissi  che  si  chiamano  fuochi,  è  costante  ».  Cia- scuna di  queste  proposizioni  contiene  due  idee  distinte  : r  intuizione  (U  una  certa  figura  geometrica,  e  quella  di una  certa  relazione  fra  certi  elementi  di  (juesta  figura (  della  eguaglianza  della  distanza  da  un  centro  di  tutti  i punti  del  cerchio,  o  piuttosto,  della  circonferenza,  e  della eiruadianza  delle  sonime  delle  distanze  dai  due  fuochi  di ciascun  punto  della  curva  che  termina  relUssi).  Dire  che vi  hanno  degli  oggetti,  reali  o  possibili,  conformi  alla  de- finizione, è  dire  che  vi  hanno,  sia  nell'universo  reale,  sia nel  mondo  <lelle  nostre  rappresentazioni,  delle  figure,  aventi  fra  certi  loro  elementi  le  relazioni  che  di  essi  afferma la  definizione.  Ma  questo  non  vuol  dire  alla  sua  volta  se non  che  in  certe  figure,  che  noi  osserviamo  nel  mondo reale  o  semplicemente  che  noi  ci  rappresentiamo,  para- gonando reciprocamente  certi  loro  elementi,  noi  i)ercepia- mo  fra  di  essi  queste  relazioni.  Ora  queste  relazioni  so- no delle  relazioni  di  somiglianza:  dunque  il  fatto  afferma- to nella  definizione  non  è  l'esistenza,  sia  di  ou'aetti  reali, sia  di  rappresentazioni  nostre  di  oggetti  possibili,  ma  è che  tra  certe  cose,  realmente  esistenti  o  sem[)licemente rappresentabili,  vi  lianno  dei  rapporti  determinati  (U  so- miglianza. (v!ui  noi  [)Ossiam(j  osservare  come  la  coscienza  della necessità  sia  unicamente  legata  alle  nostre  affermazioni sulla  somiglianza,  e  non  mai  a  (juelle  suiresietenza.  Che esistano  dei  c<3rchi  nel  mondo  reale  non  è  una  proposi- zione necessaria;  ma  le  ] >roposizioni  geometriclie  sul  cer- chio sono  necessarie,  percliè  esse  sarebbero  egualmente vere,  quand'  anche  non  fossero  mai  esistiti  né  potessero mai  esistere  nella  realtà  dei  cerchi  conformi,  sia  rigoro- samente, sia  approssimativamente^  alla  definizione.  Cosi ancora  che  esista  la  rappresentazione  di  un  cerchio  geo- metrico, che  lo  spirito  umano  aljbia  la  facoltà  di  formar- sela, è  una  proposizione  anch'essa  contingente  :  noi  ])0s- siamo  supi)orre  facilmente  la  possibilità  del  contrario,  tan- to più  che  noi  sappiamo  che  gli  uomini  non  j^ossiedono tutti  allo  stesso  grado  la  facoltà  di  rappresentarsi  le  for- me dello  spazio.  Ma  la  definizione  del  cerchio  é  una  pro- posizione necessaria,  perchè  essa  afferma  semi)licemente una  somiglianza  definita  tra  i  raggi  del  cercliio,  senza niente  decidere  nò  suiresistenza  di  cerchi  reali  nò  su  quel- la delle  nostre  rappresentazioni  di  cerchi  possibili. §.  11**.  Quando  dice  che  le  vere  premesse  della  geo- metria sono,  non  le  definizioni,  ma  i  postulati  in  esse  sot- tintesi, il  Mill  suppone  che  i  postulati  siano  delle  proposizioni  esistenziali.  Ma  nemmeno  questo  ci  sembra  vero. I  postulati  (nel  senso  rigoroso  in  cui  Euclide  impiega  que- sta parola)  sono  le  pia  semplici  delle  proposizioni  geome- triche  di   posizione,   appartenenti   alla   classe   di   queste proposizioni   che   stabilisce    che   certe   torme   possono  o non    possono   avere  certi  rapporti  di  posizione.  Il  postu- lato relativo  alla  retta  dice  che  per  due  punti  può  passa- re una  retta  (e  una  sola);  il  postulato  relativo  al  cerchia dice  che,  dato  un  punto,  ad  un  intervallo  dato  ria  questo punto,  in  un  piano,  può  passare  una  circonferenza  (e  una sola),  avente  questo  punto  per  centro.   Queste  proposizio- ni sono  analoghe  ai  teoremi:  Per  due  rette  che  si  taglia- no può  passare  un  piano,  e  uno  solo  ;  Da  un  punto  dato si  può  condurre  un  piano,  e  uno  solo,  parallelo  a  un  pia- no dato  ;  l?er  quattro  punti,  non  situati  in  uno  stesso  pia- no, può  passare  una  slei*a,  e  una  sola;  e^c.  Tutte  queste proposizioni  non  concernono  per  niente  resistenza   reale di  oggetti  nelle  condizioni  proposte.  Supponiamo  infatti  che in  un  caso  o  in  tutti  i  casi  vi  fosse  un'impossibilità  fisica a  descrivere  un  cerchio,  avente  per  centro  un  punto  da- to, e  a  im  intei'vallo  dato;  forse  allora  il  postulatosi  tro- vere!jl>e  falso  ì  L'impossibilità  dell'operazione  materiale  non toglierebbe  niente  alla  possibilità  ideale  ammessa  nel  pò stulat(^.    Ciascuna  (U  (jueste  proposizioni  afferma  sempli- cemente che  non  vi  ha  alcuna  incompatibihtà  nelle  con- dizioni proposte  ;  che  il  loro  concorso  è  idealmente   pos- sibile ;  che  qualclie  cosa,  ma  una  sola,  può  essere  confor- me alla  definizione   della   retta,  del  cercliio,  del  piano,  o della  sfera,  i  suoi  rapporti  di  posizione  essendo  al  tempo stesso  conformi  ai  rapporti  enunciati  nella  proposizione; che  cei'ti  attributi,  quelli  p.  e.  di  essere  un  cerchio,  di  es- sere  situato  in  un  piano  dato,  di   essere  a  un  intervallo dato  da  un  punto  dato,  possono  coesistere  in  un  soggetto, ma  in  un  solo.  Ora  la  coesistenza  in  un  soggetto  di  certi attributi,  di  certe   proprietà  astratte,  non  è  altro,  noi  lo m sapi)iamo,  ch(3  la  possiljilità  per  una  cosa  di  ricevere  delle denominazioni  distinte,  di  cui  ciascuna  è  ai>plicabile  a  tutta una  classe  di  oggetti,  e  quindi  ancora  la  suscettibihtà  che ha  questa  cosa  di  entrare  al  tempo  stesso  in  più  classi distinte.  Ma  tutto  ciò  che  ciascuna  di  queste  classazioni distinte  implica,  non  sono  che  delle  relazioni  deiìnite  di somiglianza:  (piello  dun(iue  che  queste  proposizioni,  iiì ultima  analisi,  affermano  è  la  possibilità  o  Timpossibilità della  coesistenza  in  uno  stesso  soggetto  di  certi  rapporti definiti  di  somiglianza.  Le  proposizioni  di  posizione  indi- cate enunciano  che  una  figura  di  una  specie  determinata [vuò  trovarsi  in  certi  rapporti  determinati  di  [)Osizione,  e negano  al  tempo  stesso  che  altre  figure  della  stessa  spe- cie possano  trovarsi  negh  stessi  rapporti  di  posizione:  ma un'altra  varietà  dello  stesso  genere  negano  semplicemen- te che  delle  figure  di  una  specie  determinata  possano  tro- varsi in  certi  rapporti  determinati  di  posizione.  V.  e.:  Due cerchi  non  possono  segarsi  in  più  di  due  punti;  questa proiH-)sizione  afferma  che  (juando  due  figure  possono  clas- sarsi tra  i  cerchi,  non  possono  classarsi  tra  le  figure  che si  segano  in  più  di  due  punti,  e  viceversa  (pianolo  posso- no entrare  in  questa  seconda  classe,  non  possono  entrare nella  prima.  Tutto  questo  genere  di  proposizioni  geome- triche di  posizione  afferma  dunijuc  cfie  la  coesistenza  di certi  rapporti  definiti  di  somiglianza  è  possibile  o  è  impos- sibile, mentre  un  altro,  il  più  importante,  della  stessa  clas- se di  proposizioni  (di  cui  abbiamo  parlato  al  §.  0^)  affer- ma invece  che  una  tale  coesistenza  è  necessaria. Il  Mill  ammette  pure,  come  il  Bain,  che  la  proposizio- ne che  enuncia  la  formazione  di  un  numero  per  il  nume- ro immediatamente  inferiore  più  l'unità,  può  considerarsi come  la  definizione  del  primo  numero;  ma  questa  defini- zione implica,  secondo  lui,  come  (luelle  della  geometria, Tafiermazione  d'un  punto  di  fatto.  Il  punto  di  fatto  p.  e. la  cui  affermazione  è  contenuta  nella  definizione  di  tre SSK wiiÌKnlaiiM^@Ms^^^ÌgB9^^^^MHnn mmm  {3=2+1),  è  che  un  gruppo  unico  di  tre  oggetti  può  essere ottenuto,  riunendo  a  un  gruppo  di  due  oggetti  un  altro oggetto  unico,  già  separato.  In  generale,  dice  il  Mill,  «ciò che  il  nome  di  numero  connota  è  la  maniera  in  cui  degli oggetti  del  genere  dato  devono  esssere  agglomerati  per formare  quest'insieme  particolare.  Se  si  tratta  d'un  am- masso di  sassi,  e  se  noi  lo  chiamiamo  due,  questo  nome implica  che  per  formarlo  bisogna  aggiungere  un  sasso  ad un  altro  sasso.  Se  noi  lo  chiamiamo  tre,  è  che  per  pro- durlo bisogna  riunire  uno  ed  uno  ed  un  sasso,  ovvero aggiungere  un  sasso  ad  un  aggregato  del  genere  due,  già esistente.  (,}uello  che  chiamiamo  quattro  ha  un  più  gran numero  ancora  di   modi   caratteristici  di  formazione Ogni  proposizione  aritmetica,  ogni  enunciato  del  risultato d'un'operazione  aritmetica,  è  Tenunciato  dell'uno  dei  modi di  formazione  di  un  numero  dato.  Vi  si  afferma  che  tale aggregato  avrebbe  potuto  essere  formato  per  la  riunione di  più  altri,  o  per  la  separazione  di  certe  parti  da  un  al- tro, e  che  per  conseguenza  si  potrebbe  per  il  processo  in- verso riprodurre  questi  altri  aggregati».  (Lor/ica  lib.  3^. e.  24«.  §.  5). Noi  abbiamo  seguito  l'idea  del  Mill  che  il  totale  d'una somma  e  i  suoi  dati  designano  degli  oggetti,  che  fanno sui  nostri  sensi  delle  impressioni  distinte,  per  una  diffe- renza d'ordine  e  di  posto.  Ma  non  possiamo  seguirlo  più oltre  in  una  via  che  conduce  a  misconoscere  la  differen- za fra  una  proposizione  esistenziale  ed  una  comparativa. Per  far  comprendere  in  che  noi  rigettiamo  le  asserzioni del  Mill,  mettiamo  in  rapporto  il  luogo  citato  con  la  sup- posizione d'un  autore  citato  dallo  stesso  Mill  {Filosofia  di Hamilton  e.  G^).  Immaginiamo,  dice  quest'autore,  un  mon- do costituito  di  tal  maniera,  che  tutte  le  volte  che  due  e due  oggetti  si  volessero  riunire  in  un  gruppo  unico,  un altro  oggetto  apparisse  improvvisamente,  introducendosi nel  gruppo  totale.  In  un  tal  mondo  sarebbe  falso  che  due e  due  fanno  quattro,  ma  due  e  due  farebbero  invece  cin- que. Ciò  proverebbe,  secondo  il  Mill,  che  noi  possiamo concepire  il  contrario  di  una  proposizione  pretesa  neces- saria. Ma  se  «  due  e  due  fanno  quattro  »  vuol  dire  che  due- e  due  sono  eguali  a  quattro,  e  non  che  riunendo  due  og- getti e  due  oggetti  si  ottiene  un  totale  di  quattro,  sarebbe sempre  vero,  anche  nel  mondo  immaginario  di  cui  si  fa la  supposizione,  che  due  e  due  fanno  quattro  e  non  fanno cinque.  La  proposizione  è  dunque  necessaria  nel  primo senso,  contingente  nel  secondo:  è  necessaria,  quando  e- sprime  un  giudizio  comparativo,  sopra  un'eguaglianza  nu- merica; contingente  quando  esprime  un  giudizio  esisten- ziale, sull'ordine  con  cui  i  fenomeni  appariscono  nella  na- tura. Una  proposizione  sulla  formazione  di  un  numero  ó capace  dell'uno  e  dell'altro  senso:  i  due  sensi  sono  stret- tamente legati  nella  nostra  mente,  ma  per  prendere  nella sua  jjurezza  la  vera  portata  della  proposizione  matema- tica, bisogna  separare  le  due  affermazioni.  Che  nel  nu- mero degli  oggetti  reali  vi  sia  una  costanza,  almeno  re- lativa,  in  modo  che  riunendo  due  gruppi  di  due  oggetti ciascuno,  noi  siamo  sicuri  di  ottenere  un  gruppo  di  quat- tro, è  una  verità  dell'esperienza  più  familiare,  ma  che  non ha  niente  da  fare  con  l'aritmetica.  Se  di  questa  maniera si  pu(')  dimostrare  sensibilmente  a  un  bambino,  dopo  che egli  ha  imparata  la  numerazione,  che  7  più  5  fanno  12, facendogli  contare  p.  e.  il  gruppo  di  i3allQ  ottenuto  per  la riunione  di  due  gruppi  di  palle  già  contati,  uno  di  7  e l'altro  di  5;  ciò  è  buono  per  il  bambino,  che  non  sarebbe capace  di  comprendere  una  dimostrazione  rigorosa.  Ma una  tale  dimostrazione  ò  tanto  aritmetica,  quanto  sarebbe geometrica  la  dimostrazione  della  proposizione  che  gli  an- goli del  triangolo  sono  eguali  a  due  retti,  misurando  gli angoli  per  mezzo  del  quadrante. §.  12.*"   Sembra  che  il  calcolo  non  avrebbe  scopo  al- cuno, se  non  vi  fosse  una  costanza  nei  rapporti  numerici,  0  in  generale  quantitativi,  dei  fenomeni  reali  :  cosi la  geometria,  se  nella  natura  non  vi  fosse  una  costanza nelle  forme  e  nelle  grandezze.  Come  questa  persistenza è  intimamente  legata  alle  più  semplici  nozioni  delle  rela- zioni matematiche  dei  numeri,  cosi  essa  è  legata  alle  più semplici  nozioni  della  geometria.  Affermare  un'  egua- glianza fra  grandezze,  tutte  le  volte  che  essa  non  è percettibile  d'una  maniera  immediata,  è  affermare  che esse  avranno  lo  stesso  rapporto  air  unità  di  misura. Ciò  suppone  la  possibilità  di  misurare  le  grandezze:  ma  que- sta operazione  alla  sua  volta  suppone  che  le  grandezze  e l'unità  di  misura  non  cangino  durante  il  tempo  dell'ope- razione.  L'  Helmholtz  ha  fortemente  insistito  su  questo punto  nei  suoi  scritti  sugli  assiomi  geometrici  (v.  Revue scientifìque).  «  Non  si  può  par- lare delle  grandezze,  egli  dice,  che  se  si  conosce  qualche metodo  pratico  secondo  cui  si  possano  comparare,  divi-dere, misurare.  Ogni  misura  dello  spazio,  ogn'idea  di  gran- dezza adattata  allo  spazio,  suppone  dunque  la  possibilità del  movimento  di  elementi,  di  cui  la  forma  e  le  dimensio- ni devono  essere  tenute  per  invariabiU.  »  (  Ree.  seleni., artic.  del  IG  giugno  77,  VII.)  Perciò^,  secondo  lui,  la  geo- metria è  fondata  sulla  supposizione  che  vi  siano  dei  cor- pi solidi,  e  che  essi  possano  spostarsi  liberamente  senz'al- terazione della  loro  forma  e  delle  loro  dimensioni.  L'Hel- mholtz  considera  come  un  assioma  geometrico  il  prin- cipio enunciante  il  fatto  d'esperienza  ammesso  in  questa snpposizione:  ma  se  egli  intende  per  ciò  clie  esso  sia  una premessa  della  geometria,  sareblje  questo  certamente  un errore.  Si  deve  accordare  ad  Helmholtz  che  una  propo- sizione affermante  una  relazione  metrica  fra  grandezze non  avrebbe  senso,  se  non  vi  fosse  un  metodo  pratico qualunque  di  compararle:  affermare  p.  e.  una  eguaglian- za fra  due  grandezze,  é  aflermare  l' identità  di  risultato della  loro  misura.  La  proposizione  dunque  che   atferma questa  relazione  metrica,  contiene  la  suppo  sizione  che  del- le operazioni  di  misura  siano  eseguite,  nelle  condizioni  in cui  una  tale  operazione  è  possibile.  Potrebbe  quindi  dii*si, a  questo  riguai'do,  che  una  verità  geometrica  è  una  pro- posizione semplicemente  ipotetica.  Ma  come  noi  abbiamo sopra  osservato,  la  verità  di  una  proposizione  ipotetica non  im[)lica  la  verità  della  supposizione:  un  principio  dun- (jue,  che  esprima  d'una  maniera  generale  la  supposizio- ne contenuta  in  tutte  le  particolari  proposizioni  geome- triche, non  è  ima  premessa  della  geometria.  Se  il  prete- so assioma  di  Helmholtz  avesse  una  funzione  logica  ana- Ioga  ai  veri  assiomi  della  geometria,  la  verità  del  suo contrario  sareblje  incompatibile  con  la  verità  delle  pro- posizioni geometriche  ;  mentre  è  evidente  che,  se  tutte  le volte  che  le  grandezze  cangiassero  di  posto,  la  loro  for- ma e  le  loro  dimensioni  venissero  sensibilmente  alterate, non  ne  seguii*ebbe  perci(')  che  i  teoremi  della  geometria finirebbero  necessariamente  d'essere  veri,  e  diverebl^ero Ma  vi  hanno  casi  in  cui  la  possibilità  dello  spostamen- to delle  figure  senza  cangiamento  della  loro  forma  o  di- mensioni sembra  una  vera  i^remessa  di  una  proposizio- ne geometrica.  1^]  quando  un'eguaglianza  viene  dimostra- ta per  una  sovrapposizione  immaginaria  delle  figure,  co- m'è il  caso  nella  1*  proposizione  d'  Euclide.  Questa  [)ro- posizione  è  d'un'importanza  speciale,  perchè  mentre  essa non  suppone  dei  teoremi  antecedenti,  i  teoremi  susseguen- ti, al  contrario,  si  appoggiano  sopra  di  essa.  «  La  (piar- ta  proposizione,  dice  il  Bain,  implica  questa  supposizione, che  una  figura  può  essere  sollevata  e  rivolta  senza  che cangi  di  forma  »  E  THelmlioltz  d'una  maniera  più  gene- rale: «  La  base  d'ogni  dimostrazione  nel  metodo  euclidia- no  consiste  a  stabilire  la  congruenza  di  linee,  d' angoli, di  figure  ])iane,  di  solidi,  ecc.  Per  rendere  questa  con- gruenza evidente,  si  suppone  che  si  ap[)lichino  le  figure geometriche  le  une  sulle  altre,  senza  cangiare  beninteso le  loro  forme  e  le  loro  dimensioni.  »  «  Quando  noi  voglia- mo dare  il  carattere  d'  una  necessità  logica,  rondandoci sulla  possibilità  di  trasportare  cosi  le  figure,  senza  can- giare la  loro  forma,  in  tutte  le  parti  dello  spazio»,  que- sta possibilità,  secondo  Helmholtz,  implica  «  una  propo- sizione non  ancora  dimostrata».  Perciò  «ogni  dimostra- zione fondata  sulla  congruenza  resta  appoggiata  sopra un  fatto  puramente  sperimentale  ». Ora  non  è  vero  che  la  4»  proposizione  (rEuclide  e  le altre  la  cui  dimostrazione  è  analoga,  suppongano  la  ve- rità di  questo  fatto  sperimentale,  di  questa  affermazione esistenziale,  che  gli  oggetti  estesi  possono  cangiare  di  po- sto senza  cangiare  la  loro  forma  e  le  loro  dimensioni.  La dimostrazione  non  ha  bisogno  di  alcun  processo  materia- le di  questa  sorta,  die  consista  a  prendere  una  grandezza, e  trasportarla  sopra  di  un'altra.  Basta  ad  essa  di  supporre che  è  [KDSsibile,  per  una  figura  data,  una  figura  esattamente eguale  nella  forma  e  nelle  dimensioni,  ma  in  un'altra  po- sizione qualunque:  è  questo  il  postulato  implicitamente ammesso,  ed  esso  non  ha  che  fare  coi  fatti  del  mondo reale,  o  con  Tesperienza,  nel  senso  stretto  in  cui  Helmholtz intende  questa  parola.  Dati  i  due  triangoli  A  B  C,  D  E  F, aventi  due  lati  AB  ed  A  C  uguali  a  due  lati  DE  e  D  F, e  Fangolo,  compreso  fra  i  lati  eguali,  eguale,  Euclide  sup- poiie,  a  prenderlo  alla  lettera,  che  il  triangolo  A  B  C  si adatti  sul  triangolo  D  E  F,  in  modo  che  il  punto  A  si ponga  sul  punto  D  e  la  retta  A  B  sulla  D  E;  e  dimostra che,  per  conseguenza,  i  due  triangoli  devono  coincidere perfettamente,  e  sono  quindi  eguali.  Ma  siccome  ABCprima  della  sovrapj^xDsizione  e  A  B  C  dopo  la  sovrappo- sizione sono  degli  oggetti  di  due  percezioni  distinte;  e  sic- come la  supposizione  che  questi  oggetti  siano  due  stati successivi  d'uno  stesso  triangolo  materiale  è,  com'è  facile mostrare,  inutile  alla  dimostrazione  del  teorema;  cosi  ciò  AM) C    B' E FC' che  Euclide  supiX)ne  è,  in  realtà,  che  un  altro  triangolo (per  la  parola  altro  noi  intendiamo  ciò  che  è  l'oggetto d'un'altra  percezione^,  esattamente  eguale  ad  A  B  C,  e che  noi  chiameremo A^  B^  C^  indicando con  le  stesse  lettere  i vertici  corrispondenti dei  due  triangoli,  si trovi  in  certi  rapporti di  posizione  con  D  E  F, cioè  gli  sia  sovrap- posto, in  modo  che  il lato  A^  B'  stia  sul  lato DEeilpuntoA^  coincida  col  punto  D.  Siccome  la  A^  B^  è uguale  alla  1)  E,  perchè  l'una  e  l'altra  sono,  per  ipotesi, uguali  alla  A  B,  ne  seguirà  che  il  punto  B^  coincide  col punto  E,  e  tutta  la  retta  A^  B^  con  tutta  la  retta  D  E;  e siccome  l'angolo  B^  A^  C^  è  uguale  all'angolo  E  D  F,  per- chè uguali  tutti  e  due  a  B  A  C,  anche  la  A'  C^  sarà  so- vrapposta alla  D  F,  e  il  pxmin  O  coinciderà  col  punto  F, perchè  queste  due  l'ette  sono  amendue  uguali  alla  A  C,  e quindi  uguali  fra  di  loro  Vev  conseguenza,  siccome  due rette  i  cui  punti  estremi  coincidono  coincidono  interamente, anche  il  lato  B'  C  coinciderà  col  lato  E  F,  e  anche  gli  al- tri angoli  coincideranno  con  gli  altri  angoli,  e  i  due  trian- goli coincideranno  perfettamente,  e  saranno  eguali.  Ma  il triangolo  A^  B^  O  è,  per  ipotesi,  eguale  ad  ABC;  dun- (jue  anche  A  B  C  e  D  E  F  sono  eguali.  Siccome  il  po- stulato non  è  vero  soltanto  del  triangol(ì  A  B  C,  ma  di ogni  altro  triangolo  qualunque  nelle  condizioni  date;  sic- come, similmente,  a  D  E  F  possiamo  sostituire  un  altro triangolo  (lualuncjue  nelle  condizioni  date  ;  cosi  la  con- clusione può  estendersi,  per  parità  di  ragionamento,  dal caso  particolare  ihmostrato,  a  tutti  gli  altri  compresi  nella proposizione,   come   avviene  nella  dimostrazione  di  tutti gli  altri  teoremi.  Cosi  la  diiiiostpazione  della  4^  proposi- zione non  è  né  più  sperimentale  né  meno  rigorosa  che quella  delle  altre:  la  j)remessa  particolare  che  essa  im- plica non  concerne  che  delle  possibilità  ideali,  e  come  tutti i  postulati  e  tutte  le  premesse  delle  matematiche  pure  in generale,  afferma  dei  rapporti  comparativi  fra  oggetti  rap- presentabili, uìa  niente  suUesistenza  o  sull'ordine  dei  te- nomeni  reali. §.  l.>  Noi  dobbiamo  infine  proporci  la  quistione  se  i risultati  delle  ricerche  di  alcuni  moderni  matematici,  che sono  conosciute  sotto  il  nome  generale  di  metamatematica o  metageometria,  possano  infirmare  quelli  a  cui  noi  siamo pervenuti  sulla  natura  e  Torigine  delPevidenza  matema- tica. La  quistione  si  hmita  per  noi  ai  sistemi  di  geome- metria  (htterenti  dal  nostro,  che  si  pretende  di  costruire in  uno  spazio  a  tre  dimensioni  come  il  nostro.  Le  nozioni di  questi  sistemi  essendo  incompatiljili  con  le  nozioni  geo- metriclie  ordinarie,  può  sembrare  che  il  fatto  stesso  del- l'esistenza di  tali  speculazioni  contraddica  al  carattere  di verità  necessarie,  che  noi  abbiamo  riconosciuto  alle  pro- posizioni geometrice. I  geometri  malerni  fondano  generalmente  la  teoria  delle parallele  sull'assioma  che  «  per  un  punto  dato  pu(')  passare una  sola  parallela  ad  una  retta  data  >,  le  parallele  essendo definite  «  delle  rette  situate  nello  stesso  piano,  che  prolun- gate non  s'incontrano  mai  ».  Ora  se  noi  paragoniamo  (jue- st'assioma  agli  aitri  assiomi  speciali  della  geometria  ele- mentare, come:  <<due  rette  che  coincidono  in  più  di  un  punto coincidono  interamente»,  «due  grandezze  che  coincidono sono  eguali  »,  ecc.,  si  vede  che  esso  riposa  sovra  un  ge- nere ditler.mtedi  evidenza.  Questi  altri  assiomi  sono  d'una verità  iritaitiva:  tutte  le  volte  che  vediamo  o  immadniamo due  grandezze  che  coincidono,  noi  abbiamo  al  tempo  stesso Tintuizione  della  loro  eguaglianza;  tutte  le  volte  che  voglia- mo immaginare  due  rette  che  coincidono  in  più  di  un  jumto. noi  non  possiamo  immaginarle  che  coincidenti  in  tutta  la loro  estensione.  Ma  se  noi  guardiamo,  con  gli  ocelli  del corpo  o  con  quelli  deirimmaginazione,  due  rette  alquanto inclinate  Tuna  verso  Taltra,  non  è  necessario  che  noi  ve- diamo al  tempo  stesso  che,  prolungate,  esse  s'incontrano, poiché  la  loro  posizione  rispettiva  potrebbe  essere  tale,  che quest'incontro  avrebbe  luogo  in  un  punto,  dove  la  nostra vista  o  la  nostra  immaginazione  non  })Otrebbe  seguirle. Per  quest'  assioma  dunque  1'  evidenza  non  é,  come  per gii  altri,  intuitiva,  ma  è  semplicemente  d' inferenza.  Di là  i  tentativi  ripetuti,  ma  senza  successo,  per  dimostrare la  proposizione  :  di  là  pure  il  fatto  che  il  suo  contrario  non è,  nel  senso  stretto,  inconcepibile,  come  il  contrario  degli altri  assiomi  speciali  della  geometria,  e  quindi  anclie  la possibilità  di  metterla  in  discussione.  Parve  a  Lobatclie- \vsky  che  tosse  arbitrario  (Pangeometria,  nel  princii)io) di  ammettere  quest'assioma;  ed  egli  mostrò  che  si  poteva, senza  arrivare  ad  alcuna  contraddizione,  costruire  un sistema  di  geometria  non  euclidiana,  partendo  dalla  su[)- posizione  che  per  un  punto  può  passare  tutto  un  fascio di  rette,  che,  prolungate,  non  incontrino  mai  una  retta data,  situata  nello  stesso  piano.  Si  sa  che  F  importante teorema:  la  sonuna  degli  angoli  d'un  triangolo  rettilineo é  uguale  a  due  retti,  si  dimostra  per  mezzo  dei  teoremi delle  parallele.  Lobatchewsky  dimostra,  non  che  la  som- ma degli  angoli  d'un  triangolo  è  uguale  a  due  retti,  ma che  non  supera  due  retti;  e  poi,  che  se  in  un  triangolo rettilineo  qualunque  questa  somma  é  uguale  a  due  retti, essa  lo  sarà  in  tutti  i  triangoli  rettilinei.  La  pangeometria (v.  pag.  73  trad,  ital.)  pretende  dunque  di  dimostrare  che la  proposizione  oixlinaria  sulla  somma  degli  angoli  d'un triangolo  «  non  è  una  conseguenza  necessaria  delle  nostre nozioni  sullo  spazio:  non  vi  è  che  l'esperienza,  la  quale possa  confermare  la  verità  di  (juesta  supposizione  [>.  e. €on  la  misura  effettiva  dei  tre  angoli  d'un  triangolo  rettilineo  ».  Fortunatamente  risulta  da  queste  misure  effet- tive dei  triangoli,  come  anche  dalle  osservazioni  astrono- miche, clie  Tassioma  delle  parallele  e  i  teoremi  della  geo- metria eucHdlana  sono,  almeno  approssimativamente, veri. Se  i  matematici  trascendentalisti  avessero  avuto  un'i- dea più  giusta  sui  processi  logici  dello  spirito  umano,  essi non  avrebbero  probabilmente  contestato  la  legittimità  del- Tassioma  ordinario  delle  parallele.  Quest'assioma  non  è, lo  abbiamo  riconosciuto,  una  verità  intuitiva,  ma  un'in- ferenza; il  nostro  punto  di  partenza  per  arrivare  alla  ge- neralizzazione della  i)roposizione  è,  (|ui  come  altrove^ Tesperienza:  solo,  |)er  la  natura  speciale  dei  rapporti  che sono  l'oggetto  della  geometria,  non  è  necessariamente un'esperienza  obbiettiva;  ci  ì)asta  l'esperienza  o  l'osserva- zione tutta  subbiettiva  di  oggetti  ideali,  o  semplicemente p<3ssibili.  Ma  se  l'assioma  delle  parallele  è  un'inferenza  e, nel  senso  che  abbiamo  detto,  una  verità  d'esperienza,  gli assiomi  (jenerali  delle  matematiche  sulle  eguaglianze  sono anch'essi  delle  inferenze  e  delle  verità  d'esperienza  nello stesso  senso.  Non  vi  ha  duncjue  motivo  per  rigettare quello,  (juando  si  ammettono  questi,  essendo  anch'  esso d'altronde  elTettivamente  indubitabile,  mentre  i  dubbi stessi  dei  metageometri  non  sono  che  puramente  specu- lativi (1).  Ma  i  matematici— anche  quelli  che  come  i  ma- (I)  Alcuni,  come  il  Mill  {Logica  lih  3.0  e.  24  $^  7),  hanno  iwoi>osto di  mettere  da  parte  Tassioma,  e  di  definire  le  parallele  ]>er  la  equi- distanza, fcnidando  unicamente  su  questa  delìni/ione  la  teoria  delle parallele  K  possiìjile  infatti  dimostrare  i  teoremi  delle  parallele, senza  invocare  altro  principio  die  «juello  ammesso  nella  dellnizione indicata:  il  lettore  che  conosce  gli  elementi  della  ij:eometria,  può trovare  facilmente  la  dimostra/ione,  lo  gli  abbrevierò  il  lavoro,. indicandogli  la  via  che  io  stesso  ho  seguita.  Prima  ho  dimostrato che  nelle  parallele  le  perpendicolari  condotte  all'una  delle  due  dal- l'altra sono  anche  perpendicolari  a  quest'altra;  poi  le  relazioni  me- tematici  trascendentalisti,  hanno  dei  punti  di  contatto evidenti  con  certe  dottrine  odierne  della  scuola  empirista (v.  Stallo  La  materia  e  la  fisica  moderna  e.  lo"")  —  non sono  familiari   con  questa  nozione  che  gli  assiomi  gene- triche  degli  angoli  formati  con  una  trasversale;  e  doi>o  di  queste,, dimostrato  prima  che  la  somma  degli  angoli  d'un  triangolo  è  uguale a  due  retti,  sono  passato  alle  proposizioni  reciproche,  cioè  che  se le  relazioni  metriche  degli  angoli  formati  con  una  trasversale  sono queste,  le  due  rette  sono  parallele.  Infine  ho  dimostrato  (juesto  teo- rema, che  due  rette  che  non  s'incontrano  mai  sono  parallele  (cioè equidistanti  —  per  dimostrarlo  mi  sono  servito  della  stessa  dimo- strazione con  cui  negli  Elementi  di  Baltzer,  i^arte  4,  ??  2,  7,  III,  si dimostra  che  «  se  in  im  triangolo  la  somma  degli  angoli  è  18<>,  anche nelle  parallele  la  somma  degli  angoli  interni  sarà  180''  ».— );  e,  come corollari  di  quest'ultimo  teorema,  l'assioma  ordinario  delle  paral- lele (  vale  a  dire  che  per  un  punto  può  passare  una  sola  retta che  non  incontri  mai  un'altra  retta  data)  e  quello  d'Euclide,  cioè l'XI  (Erra  dunque  il  Taine  quando,  dopo  aver  dato  una  dimostra- zione,  ch'egli  crede  rigorosa,  della  ecpiidistanza  delle  i)arallele, soggiunge  tuttavia  che  l'assioma  ordinario,  di  cui  nega  il  carat- tere assiomatico,  non  può  dimostrarsi.  V.  L' Inleìllgenza  pai'te  2.. 14.  e.  2.  §  II,  V). Ma  la  dellnizione,  su  cui  la  dimostrazione  sarel)be  fondata,  è .«soddisfacente?  si  può  ammettere  senza  prova  la  possil^ilità  delle parallele  così  deiìnite  ?  in  altri  termini,  si  può  anmiettere  senza  |»rova che  due  lince  situate  nello  stesso  piano  ì)Ossono  al  tem]to  stesso avere  queste  due  proprietà,  di  essere  rette  e  di  essere  equidistanti  ? Perchè  questa  linea  equidistante  da  una  retta  data  sarebbe  una, retta,  e  non  jn'uttosto  una  curva,  come  p.  e.  nel  sistema  non  eu- clidiano  di  \\o\\QìV.  {\ .  Recue phìlo^ophìque  sec.  semestre  1870,  Tan- nery  La  (jeometria  fniniaf/inana  y  pag.  443).  Io  credo  die  si  può ovviare  a  quest'inconveniente,  deducendo  la  equidistanza,  ammessa nella  delìnizione,  da  un  principio  più  generale  e  più  assiomatico, ])reso  dalle  esperienze  più  familiari  che  noi  abbiamo  della  conver- genza e  divergenza  delle  rette.  Tale  principio  potrebhc  essere  c]ue- sto:  Se  una  retta  è  in  due  punti  disugual- mente distante  da  un'altra  retta,  le  due rette  sì  allontanano  continuamente  in  una direzione,  e  si  avvicinano  continuamente nell'altra,  sicché  eSvSe  restano  situate  luna dalla  stessa  parte  dell'altra.  Posto  (juesto rali  sulle  eguaglianze  sono  ancir  essi  delle  verità  ac(iui- site  e  (F  esperienza:  quando  essi  applicano  uno  di  questi assiomi,  credono  che  si  tratti  d'una  necessità  puramente assioma,  oun  altro  onalofro.  (lefìniremino  scmplicciiientoleptirnllelf^ secondo  il  desidei-atiun  di  d^Memhert  (FJcincntl  dijìlo^qfia,  ScJuari- mento  suffli elementi  (U  geoiaetj /a):  anta  una  retta,  s'innalzino  sn due  punti  (luaUimpie  di  essa  e  suHo  stesso  lato  due  perpendicolni-i uguali;  la  retta  che  con^iunire  le  estremità  di  (luestc,  si  cliianni/^a- rallela  alia  retta  data.  Da  (piesta  deHinzione  si  potrii  dedurre,  me- diante l'assioma,  che  le  parallele  (cosi  definite)  sono  eciuidistanti. Io  ci-edo  che  non  si  possa  contestare  il  cai^attere  assiomatico del  principio  indicato:  esso  ha  anche,  sembra,  un  vonta^i'^io  sul- Tassioma  onlinario  Per  tutte  le  rette  che  noi  vediamo  o  possiamo immaginare,  noi  osserviamo  che  quando  una  ronvor^a^  alciunnto verso  un'altrji,  la  convergenza  va  sempre  crescendo  da  un  lato, mentre  la  divergenza  va  sempre  crescendo  dall'altro:  al  contrario, non  di  tutte  le  i*ette,  reali  o  inmioginarie,  che  cominciano  a  con- vergere, noi  possiamo  osservare  che  esse  finiscono  per  incontrarsi. Al  nostro  assioma  si  opporrà  forse  che  le  esperienze  familiari  su cui  esso  è  fondato,  non  hanno  un  rigore  .sulììciente  ;  la  compara- zione delle  distanze  dei  punti  di  una  retta  da  un'altia  implicimdo, prima,  lapprezzamento  della  linea  piàbwveche  va  da  ciascun  punto d'una  i-ettii  allaltra,  e  i^oi,  la  comparazione  di  (jueste  linee  le  i)iù brevi  fi*a  di  loro.  II  rigore  dun<pie  del  principio  supporrebbe  che tutte  queste  comparazioni  si  fossero  fatte  d'una  maniera  rigorosa. Ma  simili  obbiezioni  potrebbero  farsi  alle  esperienze  su  cui  è  fon- dato l'assioma  che  due  grandezze  eguali  ad  una  terza  sono  eguali fra  loro  La  costatazione  dell'eguaglianza  fra  due  grandezze  sup- porreblxi  un  appi-ezzamento  esatto  delle  dimensioni  delle  linee  e degli  angoli,  fatto  coi  mezzi  ]>iìi  sieui'i  che  noi  conosciamo  <li  ese- guire una  misura.  Ma  non  è  misurando  le  grandezze  che  noi  siamo l)ervenuti  alla  conoscenza  (k'IFassioma,  i^Tchè  l'operazione  della misura  suppone  precisamente  la  conoscenza  dell'assioma.  Onesto è  ottenuto  duii<{ue  mediante  un  ]>rocesso  più  prinu'tivo,  e  necessa- riamente ]>iù  grossolano,  per  apprezzare  le  relazioni  fra  le  gran- dezze: iier  esso,  come  ]»el  nostro  assioma,  noi  siamo  ridotti  alla testimonianza  dei  sensi  (ai  <|uali,  beninteso,  possiamo  sostituire l'immaiiinazione)  Si  ['enserà  loi'sc  che  e  facendo  coincidere  le  gran- dezze che  noi  arriviamo  alla  conoscenza  dell'assioma  sulle  egua- glianze: ma  ((uesto  mezzo  sui>pone  che  durante  1' o]>ertizione  .  in cui  noi  facciamo  successiviunente  coincidere  tre  grandezze  a  due a  due,  (lueste  non  cangino;  ora  sapere  ciò  è  avere  una  conoscenza logica,  che  leghi  le  eguaglianze  date  alle  eguaglianze  in- ferite; essi  non  pensano  che  in  questa  inferenza,  come  in •tutte  le  altre,  noi  ci  fondiamo  unicamente  sulFosservazio- ne  anteriore.  L'Helmholtz  è  certamente  di  (juest'opinione (V.  Rev.  scient,  ser.  2^  t.  12^'  p.  1197— 119v8,  ser.  3^  t.  14^ p.  4G-48  )  ;  e  lo  stesso  A.  Comte,  come  abbiamo  visto, ammetteva  die  la  matematica  astratta  ha  un  carattere puramente  logico,  ed  è  as.solutamente  indipendente  dal- Tesperienza  (1). Quando  i  metageometri  dicono  che  gli  assiomi  e  i  teo- remi d'Euclide  «  ben  potrebbero  non  essere  che  approssi- mativamente veri  »,  non  vi  ha  nella  loro  asserzione  un  as- soluta inconcepibilità,  in  quanto  questa  non  si  trova,  a parlar  propriamente,  che  nel  contrario  delle  verità  che noi  conosciamo  d'una  maniera  intuitiva,  mentre  per  quel- le che  conosciamo  per  inferenza,  cioè  per  induzione  o  per deduzione,  si  può,  prima  della  prova,  dubitare,  e  quindi supporre  la  possibilità  del  contrario.  Tuttavia  anclie  per tali  verità  il  contrario  è,  in  un  certo  senso,  inconcepibile. di  eguaglianze,  che  non  può  essere  ottenuta  per  mezzo  della  coin- cidenza. L'assioma  ordinario  delle  parallele,  non  conc^ernendo  dei  rapporti quantitativi  fra  grandezze,  non  mostra  cosi  ])ene  come  la  i^rojìo- sizione  che  gli  abbiamo  sostituita,  che  esso  ha  un  fondamento  analo- go a  quello  degli  assiomi  generali  della  matematica  e  un  valore logico  eguale.  Al  contrario  la  nostra  proposizione,  stabilendo  an- ch'essa delle  n^lazioni  metriche,  ha  più  punti  di  contatto  con  questi, e  fattala  comparazione,  ne  risulta  che  non  si  può  logicamente  dubi- tare del  rigore  dei  teoremi  sulle  parallele,  a  meno  che  questi  dubbi non  si  vogliano  estendere  a  tutta  la  matematica. (I)  Aggiungiamo  al  luogo  citato  nel  §  5.  (t.  1.  lez.  S).  quest'altro luogo  della  Le^.  4:  «Quando  ci  proponiamo  di  valutare  un  numero sconosciuto  di  cui  il  modo  di  formazione  è  dato,  esso  è,  per  il  solo enunciato  stesso  della  quistlone  aritmetica,  già  defunto  ed  espresso sotto  una  certa  forma;  ed  evalutandolo,  non  si  fa  che  mettere  la sua  espressione  sotto  un'altra  forma  determinata,  a  cui  si  è  abi- tuati a  rapportare  la  nozione  esatta  di  ciascun  numero  particola- re .  l'acendolo  rientrare  nel  sistema  regolare  della  numerazione  ». Un  discepolo  di  Condillac  non  parlerebbe  altrimenti. li i  in  quanto,  })er  le  proposizioni  che  concernono,  non  resi- stenza, ma  la  somiglianza,  una  volta  che  noi  sappiamo che  la  cosa  è  cosi,  noi  non  possiamo,  come  abbiamo  più volte  osservato^  immaginare  che  essa  potrebbe  essere  al- trimenti. Come  comprenderemo  dunque  le  altre  asserzio- ni dei  metageometri,  che,  senza  elevare  dei  dubbi  suiresat- tezza  delle  proposizioni  geometriche,  abbassano  queste ftf*oposizioni  dal  grado  di  verità  necessarie  a  quello  di contingenti  ì  «  Dentro  il  cerchio  della  nostra  esperienza, dice  Baltzer,  ha  realmente  luogo  la  geometria  ordinaria, com'è  stata  formata  dai  Greci  (in  cui  gli  angoli  del  trian- golo e  gli  angoli  interni  delle  parallele  sono  eguali  a  due retti),  ma  in  sé  potrebbe  anche  valere  un  altro  caso  della geometria  astratta,  che  è  stata  ideata  da  Gauss,  Lobat chewsky  e  Bolyai  per  tutti  i  casi.  »  {parie  4*,  Prefazione) €  Tutti  i  tentativi  per  dimostrare  questa  proiX)sizione  (che gli  angoli  del  triangolo  sono  eguali  a  180^)  dovevano  ne- cessariamente riuscire  vani,  perchè  in  sé  è  pure  ammis- sibile ripotesi  contraria,  cioè  che  in  un  triangolo,  e  quin- di anche  nelle  parallele,  la  somma  degh  angoli  interni  sia minore  di  180"  »  {parte  ^*,  §  2,  7,  IV),  Sarebbe  dunque possibile,  sembra,  che  la  somma  degli  angoli  di  un  trian- golo l'osse  minore  di  18i>:  questo  è  Tal tro*  caso  della  geo- metria astratta,  di  cui  la  nostra,  la  euclidiana,  non  è  che uno  dei  casi.  Ma  quando  il  Baltzer  dice  che  nel  cerchio della  nostra  esperienza  vale  quest'ultimo  caso,  parla  solo dei  triangoli  reali,  ed  esclude  i  triangoli  possibili  ?  No certamente,  perchè  egli  dimostra  che,  se  in  un  triangolo la  somma  degli  angoli  è  uguale  a  due  retti,  lo  sarà  pure in  tutti  gli  altri  triangoli,  cioè  in  tutti  i  triangoli  possibili. Ma  se  in  tutti  i  triangoli  possibili  la  somma  degli  angoli è  uguale  a  due  retti,  come  sarebbe  possibile  che  in  un triangolo  questa  somma  fosse  minore  di  due  retti  ?  quali sono  dunque  i  casi  in  cui  varrebbe,  non  la  prima  propo- sizione, ma  la  seconda? Forse  questi  casi  si  troveranno  nei  sistemi  geometrici diflerenti  dal  nostro,  che  alcuni  matematici  moderni  hanno costruito  con  un  metodo  puramente  analitico,  senza  fon- darsi sopra  alcun  dato  intuitivo  (1).  Beltrami  ha,  come  si :sa,  studiato  con  questo  metodo  una  certa  superfìcie,  eh  egli chiama  pseudosfera  :  questa  superfìcie  non  è  possibile  di rappresentarsela;  essa  non  ha  di  pensabile  che  la  sua  de- finizione analitica,  ma  air  infuori  della  stessa  relazione analitica,  non  vi  ha  niente  che  vi  corrisponda,  sia  nella realtà,  sia  neir  immaginazione.  La  geometria  di  questa superfìcie  è  conforme  all'  altro  caso  della  pangeometria di  Lobatchewsky  :  se  essa  fosse  chiamata  piano,  e  le  sue linee  geodesiche  (linee  della  più  corta  distanza  fra  due  pun- ti) rette,  essa  sarebbe  identica  alla  planimetria  non  euchdia- na.  (Per  avere  un'idea  di  questa  superfìcie,  v.  Helmholtz Assiomi  della  geometria,  Tannery  Ree.  pJu'los.  novembre 187(j  e  giugno  1877,  Milhaud  Rei\  p/dlos.  giugno  88,  Ca- linon  la  stessa  rivista  giugno  89,  ecc.) Dalla  possibilità  di  costruire  analiticamentente  dei  si- stemi geometrici  difl'erenti  dal  nostro,  se  ne  è  concluso espresamente  che  le  nostre  nozioni  geometriche  sono  con- tingenti ed  empiriche  (nello  stesso  senso  in  cui  è  empi- rica una  verità  di  fatto).  «Gli  assiomi,  dice  Helmholtz,  su  cui il  nostro  sistema  geometrico  è  basato,  non  sono  delle  ve- rità necessarie,  dipendenti  solamente  dalle  leggi  irrcfra- (l)  Quaiuranclie  si  ammetta  la  possibilità  di  sistemi  ireometrici differenti  dal  nostro,  di  spazi  ciwin,  come  dicono  i  metagreometri, è  chiaro  che  anche  in  questo  caso  grli  assiomi  e  i  teoremi  della  i?eome- tria  eucUdiana  sarel^bero  sempre  d'  una  verità  universale.  Se  si ammette  che  il  nostro  spazio  è  piano,  la  retta,  cioè  la  linea  più breve  fra  due  punti,  di  uno  spazio  cuvoo  non  sarebbe  una  retta nel  nostro  senso;  e  quindi  i  triangoli  rettilinei  dello  spazio  psea- dosferico  non  sareblìero  ciò  che  noi  intendiamo  per  triangolo  ret^- tilineo.  Sarebbe  dunque  sempre  universalmente  vero  che  gli  angoli d'un  triangolo  rettilineo  sono  eguali  a  due  retti. il 11  irìiliiWnlli SUI  Cimiti  i:  i/oììgetto  deij.a  conoscicnìlv  a  priori 417 gabili  del  nostro  intendimento.  Al  contrario  diversi  sistemi di  geometria  possono  svilupparsi  analiticamente  con  una consistenza  logica  perfetta.  I  nostri  assiomi  sono  in  realtà l'espressione  scientifica  d'un  tatto  d  esperienza  generalis- simo, cioè  che  nel  nostro  spazio  i  corpi  possono  muoversi liberamente  senza  alterazione  della  loro  forma  ».  Ne  segue che  il  nostro  spazio  é  uno  spazio  di  curvatura  costante. Ma  il  valore  di  (juesta  curvatura  non  può  essere  provato che  per  misure  dirette  (1).  Lo  stesso  Tannery  della  Revuc p/illosop/ii(jue,  quantunque  non  decisamente  favorevole alle  speculazioni  dei  metageometri,  sembra  opinare  che queste  speculazioni  hanno  provato  la  natura  empirica  e contingente  delle  nozioni  geometriche.  11  concetto  dello spazio,  egli  dice,  è  formato  dair  associazione  di  nozioni distinte,  e  ciuest'associazione  non  è  necessaria.  Ogni  pro- posizione sullo  S])azio  è  dunque  contingente.  La  nozione della  retta  è,  come  quella  del  nostro  spazio,  un  complesso di  nozioni  logiche  distinte,  la  cui  origine  o  almeno  la  cui associazione  è  empirica  (perchè  alla  proprietà  comune  con la  geodcsica  dello  spazi(ì  pseudosferico  si  deve  unire  la pro})rietà  ditìerenziale  della  retta  reale,  ed  è  solo  res[>erien- za  che  può  provare  che  (iueste  due  proprietà  at)par(engo- no  alla  stessa  linea  —  Ree.  jt/u'l.  giugno  1H77). (\)  l\  fatto  (Iella  possibilità  dello  spostamento  delle  grandezze seriz"  alterazione  è  espresso  dai  inatnnatici  trascendentalisti  con la  foniiula  che  il  nostro  spazio  lia  uk  coeffULente  dì  curcataia  co- !<tante.  Perclit'  sopra  una  superlìcie  data  le  ligure  possano  spostarsisenza  alterazione  delle  dimensioni,  la  condizione  è  che  il  coeffi- ciente di  curvatura,  cioè  l'inverso  del  prodotto  del  più  grande  per il  più  lìiccolo  raggio  di  curvatura,  sia  costante  su  tutta  l'esten- sione della  superlìcie.  La  formula  suindicata  assimila  dunque  lo spazio  a  (jueste  superlìcie.  (Qui  noi  troviamo  già  la  realizzazione di  rpiest'astrazione:  lo  spazio,  che  si  è  a  buon  dritto  rimproverata ai  concetti  della  metageometria.  V.  Stallo  La  inateria  e  la  fisica jnodcina  cap.  13).  Secondo  i  metageometri.  come  la  possibilità  dello §.  14^  Quello  che  simili  opinioni  perdono  di  vista  é la  natura  comparativa,  e  non  esistenziale,  delle  nostre proposizioni  sullo  spazio;  di  più  esse  trattano  le  astrazio- ni come  fossei^o  delle  cose  reali,  o  almeno  degli  oggetti distinti  del  nostro  pensiero.  Si  suppone  die  lo  spaziose  le sue  forme  siano  dati  al  geometra  come  dei  fenomeni  d\m altro  ordine  sono  dati  al  fisico  o  al  naturalista;  che  la geometria  abbia  per  oggetto  di  trovare  le  leggi  dei  Jeno^ meni  geometrici  nel  senso  stesso  in  cui  le  scienze  fisiche hanno  per  oggetto  di  trovare  le  leggi  dei  fenomeni  fisici. Si  parla  come  se  lo  scopo  della  geometria  fosse  di  farci conoscere  la  natura  dello  spazio  in  cui  vaiamo,  le  pro- prietà e  la  costituzione  di  questo  spazio  e  delle  sue  forme spostamento  delle  ligure,  ossia  la  costanza  nel  coenicienle  di  cur- vatura, determina  una  nozione  generica  dello  spazio,  cosi  il  valore di  <piesto  coeflìciente  di  curvatura  determina  questo  o  quello  fra gli  s].azi  ])ossi])ili.  Il  vidore  di  questo  coetììciente  nel  nostro  spazio è  0,  ossia  il  nostro  spazio  Spiano;  ma  possono  anche  esistere  altri s[.azi  (Hirl,  con  viilori  diiVerenti  del  eoellìciente  di  curvatura,  sia lujjsitivi  (spazio  sferico),  sia  negativi  (spazio  pseudosferico).  Cia- scuno di  questi  spazi  può  formare  l'oggetto  di  un  sistema  dhlei^ente di  geometria.  Il  nostro  s]ìazio  è.  secondo  Helmoltz,  una  varietà  a tre  dimensioni,  conirruente  rajjjtorto  a  se  stessa,  e  piana.  (La  con- gruenza è  la  possibilità  dello  spostamento  delle  figure).  Ciascuna di  (jueste  tre  ])roprietà  dello  spazio  viene  dehnita  da  certi  assiomi o  postulati,  suirinsieme  dei  quali  è  fondata  la  geometria  ordina- ria o  eaclidiana.  La  planarità  del  nostro  spazio  é  determinata  da due  di  questi  assiomi  o  postulati:  1.  Fra  due  i)unti  non  vi  ha  che una  sola  retta  (una  linea  della  più  breve  distanza)  possibile.  2.  Per un  i>unto  può  passare  una  sola  parallela  a  una  vetta  data.  Il  primo assioma  distingue  lo  spazio  piano  e  lo  spazio  pseudosferico  dallo sferico;  il  secondo  distingue  lo  spazio  piano  dallo  spazio  pseudo- sferico. Quando  i  metageometri  dicono  clie  il  nostro  spazio  è  i)iano, non  intendono  escludere  assolutamente  che  esso  possa  essere  pseu- dosferico o  anche  sferico.  La  proposizione  che  il  nostro  si)azio  po- trebbe forse  essere  pseudosferico  non  è  che  un'  altra  espressione della  proposizione  di  Lobatchewsky,  che  per  un  punto  possono  pas- sare più  parallele  ad  una  retta  data.  In  quanto  alla  proposizione detcriniriate,  il  loro  modo  di  esistere.  Come  ayyr/or/ (|ual- siasi  ordine  tra  i  lenomeni  della  natura  sarebbe  su[)i)oni- bile,  ma  Tosservazione  soki  ])uò  decidere  a  quale  di  (que- ste supposizioni  sia  conforme  il  corso  reale  degli  avveni- menti, cosi  si  ])retende  che  noi  possiamo  l'ormarci  a />r/o- ri  la  nozione  di  ditl'ei'enti  spazi  o  sistemi  geometrici  [)0s- sibili,  ma  la  sola  osservazione  decide  a  (juale  di  <iueste possibilità  sia  conforme  il  nostro  sistema  geometrico,  o  lo spazio  reale.  Un  ordine  di  osservazioni  ci  fa  conoscere che  il  nostro  è  uno  spazio  a  curvatura  costante;  un  altro ordine  d'osservazioni  che  esso  non  è  uno  sj^azio  sferico  ; un  altro  inline  che  esso  non  è  nenmieno  pseudosferico, ma  piano.  Ciascuno  di  questi  risultati  è  espresso  da  un assioma  geometrico;  gli  assiomi  geometrici  Iianno  dun- que per  oggetto  di  staljilire  una  determinazione  dello  spa- zio, un  suo  modo  di  com[)ortarsi,  una  legge  fondamentale dei  Huoi  fenomeni. Ciò  che  si   deve  rigettare  in    queste   asserzioni  non  è senqjlicemente  la  grossolana  realizzazione  dell'astrazione che  esso  è  l'orse  sierico,  è  qiicsfji  una  suii|>usizioiic  i»iù  forzata  aii- €ora  che  quella  di  Lobatcliewsky.  essendo  la  ue-zazionedeirassiouia che  due  reUe  non  ]H)ssono  chiud<.'i'e  uno  spazio.  t,)ui  si  può  costa- tare [>iii  chiaramente  il  le.uanie  della  i:eouieti*ia  trascendentale  con lopinione  che.  mentre  {ili  assiomi  generali  della  matematica  sono ivuramente  loniei  o  razionali,  e  quindi  necessari,  al  conti'ario  quelli <lella  ireomelria  sono  sperimentali,  e  «piindi  «-onlinirenti,  ciò  die in  altri  termini  è  la  stessa  ]»roposizione  di  A.  Gomte  .  che  la  ma- tematica astratta  e  una  scienza  i>uramente  razionale,  mentre  la geometria  fa  parte  della  matematica  conci'eta,  ed  è.  come  la  mec- canica, una  scienza  fisica  e  s[>erimentjde.  i,)uesta  dottrina  si  ap- pogijria,  come  ab])iamo  detto,  sul  fatto  che  il  calcolo  non  voliie  ch<^ su  dei  siml)Oli,  ma  la  creometria  su  delle  intuizioni  concrete,  ed  è. quindi  i>iii  facile,  per  la  iireometria,  <li  riconoscere  lori.uine  em]>i- rica  delle  sue  generalità.  Ma  per  gli  assiomi  generali  delle  mate- matiche si  continua  iu\  ammettere  roi»ìnione  comune  che  (piesti fiono  d'una  necessità  }>uramente  logicji  e  indipendenti  djdl"  es])e- rienza. «  lo  spazio  »,  che  esse  presentano  immediatamente  :  sen- za ricercare  se  questa  realizzazione  si  trovi  solamente nel  linguaggio,  o  sia  piuttosto  inerente  alle  concezioni stesse,  dei  metageometri,  supporremo  che  questa  parola «  lo  spazio  »  sia  un'espressione  compendiosa  per  designare le  forme  date  o  rappresentate  nello  spazio,  e  ciò  che  si dice  delle  proprietà  o  della  natura  di  un  certo  si)azio determinato,  debba  intendersi  delle  forme  geometriche determinate  che  sono  possibili  in  questo  spazio,  cioè  in questo  sistema  di  forme  geometriche.  IVIa  anche  cosi  in- tese, siffatte  proposizioni  misconoscono  il  vero  significata degli  assiomi  e  dei  teoremi  della  geometria,  perchè  ten- dono a  riguardarli  come  giudizi  esistenziali,  che  c'istrui- scono sulle  qualità  e  la  natura  delle  forme  determinate che  si  trovano  nel  mondo  della  nostra  esperienza. Abbiamo  già  osservato  in  più  di  un  caso  che  (juando le  proi)Osizioni  matematiche  si  riguardano  come  esisten- ziali, una  conseguenza  inevitabile  è  di  riguardarle  pure come  verità  contimi eniì,  essendo  questo  il  carattere  di ogni  giudizio  sull'esistenza.  Questi  tre  punti  di  vista  dun- cjue  della  matematica  trascendentale,  di  considerare  le verità  geometriche  come  sperimentali,  come  contingenti, €  comcì  esistenziali,  non  ne  fanno  in  realtà  che  uno;  ed €SSOè  legato,  come  già  notammo,  all'abuso  delle  astrazioni che  fanno  i  matematici  trascendentalisti.  Qui  noi  ci  tro viamo  in  presenza  (F  un  apparente  paradosso,  cioè  che delle  opinioni  risolutamente  empiriste  sulle  nostre  facoltà conoscitive  vengono  appoggiate  sovra  speculazioni  emi- nentemente trascendenti.  Si  suppone,  come  abbiamo  det- to, che  degli  spazi  differenti  o  dei  sistemi  differenti  di geometria  siano  egualmente  possibili  a  priori,  e  di  là  si conclude  che  solo  lesperienza  può  decidere  quali  di  que- ste possibilità  sia  divenuta  un'attualità.  Qual  é  lo  spazio in  cui  viviamo  ?  è  T  osservazione  del  mondo  reale  che deve  rispondere  a  questa  domanda,   e  la  risposta  viene formulata  negli  assiomi  geometrici.   Ecco   come  questi assiomi  diventano  al  tempo  stesso  esistenziali,  contingenti e  sperimentali.  II  cardine  della  ciuistione  è  dunque  se  sia vero  che*  degli  spazi  o  dei  sistemi  di  torme  geometriche ditì'erenti  dal  nostro  siano  possibili,  cioè  pensabili,  per- ché qui  non  può  trattarsi  di  un  altra  specie  di  possibilità. Su  questo  terreno  i  metageometri  si  sono  trovati  neces- sariamente di   fronte  alle  dottrine   kantiane.    Kant,  spie- gando Tapriorità  delle  proposizioni  geometriche   per  Ta- priorità  dello  spazio,  aveva  anch'  egli  perduto  di  vista  il significato  puramente  comparativo  di  queste  proposizioni,, accostandosi  al  punto  di  vista  che  vede  in  esse  una  sorta  di verità  esistenziali.  Trovando  egli  il  fondamento  della  sin- tesi, contenuta  nelle  proposizioni  a  yjr/or/,  in  una  funzione dello  spirito,  il  quale  esso  stesso  deve  congiungere  ciò  che- poi  si  rappresenta  come  unito,  la  sintesi  delle  proposizioni geometriche  è  fondata  per  lui  sulla  sintesi  anteriore  che  co- stituisce le  rappresentazioni  dello  spazio.  Quindi  una  propo- sizione geometrica  non  può  essere  per  Kant  che  la  traduzio- ne in  una  sintesi  di  concetti  della  sintesi  contenuta  nelle rappresentazioni    spaziali  ;   e   Y  oggetto  proprio  di  (jucste^ proposizioni  non  è  una  comparazione  reciproca  delle  for- me geometriche  o  dei  loro  elementi,  ma  la  descrizione-di queste  forme,  la  conoscenza  della  loro  costituzione  e  delle leggi  secondo   cui  le   proprietà,   inerenti  a  queste  forme considerate  assolutamente,  vanno  accoppiate.  Se  la  cono- scenza geometrica  è  a /)r«ori  ed  è  necessaria,  se  noi  pos- siamo in  geometria  formare  delle  proposizioni  d'una  uni- versalità assoluta,  ciò  avviene,   secondo   Kant,  perchè  le nostre  rappresentazioni  geometriche,    cioè  spaziali,   sono costituite  secondo  una  forma  determinata  dalle  condizio- ni interne  della  nostra   facoltà  intuitiva,  e  non  possono mai  allontanarsi  dal  tipo  prestabilito.  Ecco  dove  Kant  si trova  in  contraddizione  con  la  geom.etria  trascendentale: mentre   egli   fa  dipendere   il   carattere    necessario   e  a usi priori  delle  nozioni  geometriche  ordinarie  dairimpossilji- lità  in  cui  siamo  di  rappresentarci  delle  forme  geometri- che ditlerenti,  al  contrario  i  metageometri  dalla  possibi- lità di  rappresentarci  queste  forme  differenti  ne  conclu- dono il  carattere  empirico  e  contingente  delle  nozioni geometriche  ordinarie.  Quantunque  la  tesi  di  Kant  non sia  per  se  stessa  più  vera  deirantitesi  dei  metageometri, tuttavia  nella  quistione  particolare  se  sia  o  no  possibile la  rappresentazione  di  forme  differenti  dal  sistema  geo- metrico ordinario,  è  certo  die  i  principii  fondamentali e  lo  spirito  generale  della  filosofìa  empirista  danno  ra- gione air  idealista  trascendentale  contro  i  metageometri empiristi.  Su  questa  quistione,  la  tesi  kantiana  appartiene al  lato  vero  ed  empirista  del  criticismo:  è  Timpossibihtà per  il  pensiero  di  oltrepassare  i  dati  fenomenali  od  intui- tivi, la  necessità  di  restare  circoscritto  e  condizionato  dai "limiti  e  dalle  condizioni  stesse  dell'intuizione  sensibile.  Noi che  al)biamo  si  lun£>amente  dimostrato  che  non  esistono idee  astratte,  e  che  non  si  pensa  che  unicamente  per rappresentazioni  concrete,  non  jìossiamo  esitare  a  chia- mare parole  vuote  di  senso  delle  pretese  nozioni  a  cui non  corrisponde  alcuna  intuizione  (1). {[)  Beltrami  liti  rapi>resentato  i  punti,  linee  e  superllcie  dello  spa- zio pseiuloslcrico.  ]>roiettan(loli  sulPintemo  d'una  8U[)erflcie  sferi- ca del  ?iostj'o  spazio,  i  punti  della  (piale  corrispondono  ai  inintl jnlìnitainente  lontani  dello  spazio  pseudosferico,  in  modo  che  le  linee iieodetiche  di  cjuest"  ultimo  sono  rappresentate,  nelTinterno  della sfera,  da  rette.  Secondo  llelmlioltz,  noi  perveniamo  di  questa  ma- niera a  rapprcsentarcc  lo  spazio  ]>seudosferico.  Eiili  suppone  che un  osservatore  del  nostro  mondo  sia  trasportato  nel  mondo  i>seu- dosferico.  «  Dopo  la  sua  entrata  nella  pseudosfera,  quest'osserva- tore continuerebbe  a  riguardare  i  rairiri  luminosi  o  le  sue  linee  di visione  come  linee  rette,  così  l)enc  che  nello  spazio  ]>iano,  e  come ^sse  lo  sono  in  realtà  nella  rapi>resentazione  sferica  dello  spazio pseiidosferico.  I/inunagine  visuale  degli  oggetti  nella  pseudosfera r^li  farebbe  dunque  la  stessa  impressione  che  se  egli  si  trovasse  al Un  carattere  speciale  della  matematica,  e  più  propriamente del  calcolo,  è  ciie  alle  cose  stesse  vengono  sostituiti  dei contro  Mella  sfera  mp^rcj^erihUiva  di  HoUraini.  Gli  sonil)rerel)be  oìic ^'li  oì-^iretti  più  lontani  lo  attorniassero  a  una  distanza  finita,  p.  e. (li  cento  piedi.  Ma  se  si  i^ortasse  sino  ad  essi,  li  \edreì)l)e  esten- dersi dinnanzi  a  sé,  e  i^iìi  in  profon<lifà  cìie  in  supei-ficie  :  dietro di  lui  al  contrario  si  restrin^^ei'ei)l>ero.  Se  e-iii  avesse  visto  due  li- nee rette,  clie  ixli  i>aressero  pai'allele  sino  a  «juesta  distanza  di  cento piedi,  «love  il  mondo  finisce  per  lui,  avvicinandosi,  riconoscerebbe clie,  per  «juesta  estensione  dejili  o^^'retli  che  si  avvicinano,  esse  si allontanano  tanto  più  quanto  più  euli  si  avanza:  dietro  di  lui  al  con- trario la  loro  distanza  seml)rerebl)e  diminuire,  in  modo  che  esse parrel)l>ero  di  i>iù  in  i»iù  divergenti  e  lontane  luna  dallaltra.  Due linee  rette  clie  .  <lalla  i>rima  posizione,  iili  fossero  juirse  tai-diaisi in  un  solo  e  slesso  punto  dietro  di  lui  a  una  distanza  di  cento  p.iedi, fare])l>ero  ancora  lo  stesso,  ed  e^rli  avrebbe  un  l>eir  avvicinarsi, non  attinprerebbe  mai  il  punto  d'intersezione  ». Con  (juesta  supi»osizione,  secondo  Helmholtz.  noi  ci  rupin  esini- ti(itiìi)  lo  spazio  pseudosfeiico.  Non  ne^^a  ei^di  clic  la  rappresenta- zione sui»poniia  un  elemento  sensoriale:  «  i-er  l'espressione  di  rap- ]>reseidarsi.  eiili  dice,  o  di  essere  in  irrado  di  lì,i:urarsi  ciòclie  av- viene, io  intendo  la  facoltà  d'immaiiinare  la  serie  intera  delle  im- pressioni sensoriali  die  si  ]>roverebbero  in  questo  caso  ».  La  defi- nizione di  llelmlioltz  è  ^riusta,  ma  alla  condizione  die  noi  suppon- gliiamo  die  le  nostre  impressioni  sensoriali  siano  la  riproduzione esatta  di  ciò  die  noi  diciamo  Poiiiietto  esteriore.  Se  (|uesta  corri- spondrMiza  fra  la  natura  deiro.Hixetto  e  le  percezioni  dei  nostri  sensi non  esiste,  noi  possiamo  «svolirere»  (comejiii  di<*e)  (juanto  voj:rliamo «la  serie  delle  impressioni  sensoriali  die  esso  ci  fornirebbe  ».  non avremo  mai  la  rappresentazione  di  questop^pretto.  I/inconoscibile, che  la  più  i>arte  dei  filosotì  attuali  e  lo  stesso  llelmlioltz  ammet- tono come  la  causa  e  l'oir^^ctto  esterno  delle  nostre  sensazioni,  è l»er  noi  irrappresental)ile  ed  inescogitabile,  quantunque  noi  svoliriamo continuamente  la  serie  delle  impressioni  sensoriali  die  esso  ci  for- nisce. Al  fondo,  per  concei>ire  un  oguetto  esteriore,  noi  non  facciamo nitro  die  obbiettivare  le  nostre  percezioni  :  se  cpieste  percezioni  sono varie  e  tali  clic  non  potrebbero  al  temito  stesso  attribuirsi  alio  stesso oggetto,  noi  ne  scegliamo  (lualcunaela  realizziamo,  alfesclusione delle  altre.  Cosi  un  oggetto  visiliile  presentandoci  diverse  apparenze secon.lo  la  distanza  da  cui  lo  guardiamo,  è  l'apparenza  che  essa simboli  e  il  nostro  pensiero  ordinariamente  non  va  al  di  là di  questii  simboli  medesimi.  (1)  Le  parti  più  elevate  della ci  presenta  quando  siamo  in  prossimità,  che  noi  obbiettiviamo.  L'os- servatore dumpie  del  mondo  pseudosferico  non  potrebbe  compor- tarsi altrimenti,  in  presenza  bielle  apparenze  cangianti  e  contrad- dittorie che  gli  presenterebbero  gii  oggetti  della  pseudosfera,  s'egli volesse  farsi  un'idea  della  natura  reale  di  questi  oggetti.  Egli  pen- serà che  (pieste  apparenze  cangianti  e  contraddittorie  non  potreb- bero essere  tutte  degli  stati  delf  oggetto  reale  in  un  solo  e  stesso momento  della  sua  esistenza,  e  si  domanderà  a  «juale  di  (lueste percezioni,  o  se  non  a  nessuna  di  esse,  a  quale  delle  immagini  che egli  i)0trà  mentalmente  costruire,  attribuirà  la  realtà  obl)iettiva. S'egli  non  ]>erverrà  a  rispondere  a  «luesta  domanda  d'una  maniera soddisfacente,  che  gli  desse  un'interpretazione  coerente  delle  ap- parenze del  mondo  strano  in  cui  egli  si  è  smarrito,  concluderà  o  che le  forme  reali  degli  oggetti  sono  per  lui  inconoscibili,  o  che  non  vi hanno  forme  reali,  ma  che  le  forme,  in  (piel  mondo,  sono  puramente relative  al  punto  di  vista  dellosservatore Se  ])oi  (piest'osservatore  volesse  considerare  le  forme  a  lui  esi- bite, non  più  come  fisico  o  come  filosofo,  ma  semplicemente  come geometra,  la  «piistione  della  realtà  di  (jueste  forme  non  avrebbe più  importanza  per  luì:  la  geometria  considerando  una  forma  per se  stessa  e  nella  maniera  determinata  in  cui  esiste  o  può  esistere in  un  momento  indivisibile  della  durata,  l'oggetto  del  suo  studio come  geometra  sarebbe  l'apparenza  presentata  da  un  oggetto  a un  momento  determinato,  considerata  singolarmente.  Siccome queste  forme  apparenti  non  si  allontano  mai,  considerata  ciascuna per  se  stesso,  dal  tipo  eacUd/ano,  così  la  sua  geometria  non  potrelibe essere  che  eacUdiana.  Se  dunque  i  fenomeni  osservati  nel  mondo Xìseudosferico  sarel)bero  fìlmicamente  dilTerenti  dai  nostri  (in  (juanto si  seguirebbero  in  un  ordine  dilferente),  non  esisterebbe,  al  con- trario, per  l'osservatore,  differenza  alcuna  al  jamto  di  vista  ])ura- mente  fjeonieti'fjo.  Svolgendo  perciò  la  serie  delle  impressioni  sen- soriali che  il  mondo  pseudosferico  fornirebbe  al  nostro  osservatore, noi  non  ci  rappresentiamo  lo  spazio  pseudosferico,  per  la  semplice ragione  che  nemmeno  egli,  lo  stesso  osservatore,  se  lo  rappresen- terel>be. (l)  «La  perfezione  del  linguaggio  dell'aritmetica  e  dell'algebra consiste  nella  sua  ajtpropriazione  completa  ad  un  uso  puramente meccanico.  .  .  Ogni  operazione  sui  simboli  corrisponde  a  un  sillo- gismo, l'appresenta  un  passo  d'un  ragionamento,  relativo,  non  ai nostra  conoscenza  non  potrebbero  fare  a  meno  di  un  si- stema api)ropriato  di  simboli:  quando  si  è  un  po' appro- fondita la  natura  del  pensiero,  si  vede  che  il  linguaggio  e in  generale  i  segni  non  sono  solamente  i  mezzi  per  co- municare le  idee,  ma  sono  anche  indispensabili  alle  ope- razioni più  elevate  deirintelligenza.  La  matematica  ne  è il  migliore  esempio.  11  carattere  eminentemente  simljolico del  ragionamento  matematico  non  dipende  semplicemente dal  sistema  di  segni  estremamente  semplici  e  precisi  che questa  scienza  ha  a  sua  disposizione,  ma  è  t'ondato  sulla natura  stessa  delle  nozioni  che  tanno  l'oggetto  di  questa scienza.  Già  anzitutto  le  nozioni  quantitative  non  sono fissate  che  per  mezzo  di  simijoli,  non  i)Otendo  noi  immagi- nare le  cose,  al  i)unto  di  vista  della  quantità  o  della  gran- dezza, d'una  maniei'a  cosi  adequata  e  precisa,  per  Fuso del  ragionamento,  come  al  punto  di  vista  della  (pialità. Inoltre,  un  rapporto  di  eguaglianza  non  essendo  altra  cosa €he  la  percezione  di  questa  eguaglianza,  tutte  le  volte  che noi  non  possiamo  ettettuare,  sia  nella  realtà,  sia  per  Tiui- maginazione,  una  comparazione  attuale  fra  le  grandezze, o  immediatamente  ira  di  loro  o  con  l'unità  di  misura  co- mune,  il  rapporto  affermato  non  ò  rappresentato  d'  una maniera  ade(iuata,  ma  d'una  maniera  più  o  meno  simbo- lica (confr.  cap.  8^'  S  2%  Lo  stesso  deve  dirsi  per  le  egua- glianze dei  numeri.  Non  c'è  bisogno  di  aggiungere  clie  le quantità  incognite  che  entrano  nel  calcolo  sono  necessa- riamente delle  nozióni  simboliche.  Ma  questo  processo  non deve  fare  <limenticare  che  ai  simboli  corrispondono  delle cose,  reali  o  possibili,  e  che  ai  rapporti  tra  questi  simboli siinholi,  ma  alle  coso  che  essi  clesiuiiaiio.  Ma  sìccuino  si  e  avuto il  mezzo  di  creare  una  forma  tecnica,  mediante  la  (fuale  si  è  si- curi di  trovare  la  conclusione  del  raiiionamento,  si  può  i)erfetta- mente  arrivare  allo  s(.*oi)o  senza  pensare  ad  altro  che  ai  simboli». Mill Logica  lil).  IV  e.  VI  j^  (>. corrispondono  dei  rapi)orti  fra  queste  cose  —  queste  cose essendo  gli  oggetti  di  i)ercezioni  che  noi  abbiamo  avuto  o avremo  o  potreuniio  avere  in  date  condizioni—.  Esso  sa- rebbe completamente  vano,  se  ai  simboli  non  si  potessero finalmente  sostituii^e  delle  percezioni,  attuali  o  possibili  :  è per  la  possibilità  di  questo  scambio  che  i  simboli  hannc» un  valore.  Noi  abbiamo,  in  un  capitolo  precedente,  para- gonato le  nozioni  astratte  e  generali  a  degli  effetti  com- merciali, il  cui  valore  è  puramente  convenzionale,  il  va- lore reale  non  appartenendo  che  alla  moneta  e  alle  merci con  cui  essi  possono  scambiarsi.  A  ciie  bisognerà  dunque paragonare  una  nozione  astratta,  cioè  una  combinazione di  simboli,  a  cui  non  corrisponde  intuizione  alcuna?  ad un  effetto  cambiario,  che  nessuno  vorrà  accettare  per  pa- gamento. Un  l)anchiere  potrebbe  averne  piene  le  casse, non  sarebbe  perciò  più  ricco  d'un  centesimo.  Tutte  le  spe- culazioni metaempiriche,  che  esse  siano  chiamate  meta- matematiche  o  metafìsiche  o  con  qualsiasi  altra  parola  che si  potreljbe  foggiare  con  lo  stesso  prefìsso,  si  trovano  nello stesso  caso.  Le  s'^ienze  di  fatto  non  sono,  come  la  mate- matica, soggette  a  (juesta  illusione  di  dare  un  valore  reale a  ciò  che  non  ne  ha  che  uno  convenzionale  :  è  che  que- sta sostituzione  completa  dei  simboli  alle  cose  non  avviene che  nella  matematica.  Si  è  detto  che  la  mitologia  è  una malattia  del  linguaggio  :  quantunfjue  non  sia  forse  conve- niente ad  un  non  matematico  di  esi»rimersi  su  (lueste  ma- terie in  una  forma  cosi  decisa,  noi  diremo  che  la  meta- matematica,  (juesta  mitologia  dei  matematici,  è  una  ma- lattia del  linguaggio  matematico  (1). (1)  Noi  non  do))l)iamo  per  altro  rinunziare  a  vedere  anclie  nelle speculazioni  metageometriclie .  come  in  tutte  le  speculazioni  me- taempiricbe  in  generale,  un  prodotto,  assai  indiretto  in  verità,  delle illusioni  naturali  del  nostro  spirito.  Abbiamo  accennato  die  il  fon- damento su  cui  riposano  le  speculazioni  sulla  pangeometria,  sullo spazio  pseudosf'erico.  ecc.,  è  la  dottrina  comunemente  ricevuta  die 42f; .^  15.^  Il  carattere  di  necessità  e  di  apriorità  che  ap- partiene alle  matematiche  pure,  è  legato  col  latto  che  que- ste scienze  escludono,  sia  dalle  loro  premesse,  sia  dai  loro risultati,  qualsiasi  proposizione  esistenziale,  che  non  può essere  che  contigente  e  sperimentale,  e  non  v'  includono alti'e  verità  che  dei  rapporti  comparativi.  Le  verità  diquest'ordine  sono  logicamente  indipendenti  dalle  esisten- ziali, ma  esse  i)Ossono  ibrmare,  anzi  (ormano  necessaria- mente, dei  punti  di  partenza  per  la  inferenza  di  queste: di  là  il  i^osto  delle  conoscenze  comparative  nella  economia del  sapere  umano.  Cosi  le  matematiche  sono  logicamente indipendenti  dalle  scienze  che  hanno  per  oggetto  Tordine dei  tcnomeni  reali;  mentre,  al  contrario,  le  seconde  sup- pongono la  conoscenza  delle  prime.  Gli  autori  di  classa- zioni  delle  scienze  assegnano  il  loro  posto  alle  matema- tiche,  Ibndandosi   sulla  generalità  o  sulla  semplicità  più ^'li  assiomi  della  inateniatica  sono  fondati,  non  sulla  generalizza- zione dell' esperienza,  ma  soprn  una  necessità  pui'amente  logica; donde  i  tentativi  di  dimostrare  il  principio  della  teoria  delle  paral- lele, e  il  riliuto,  dopo  l'insuccesso  di  questi  tentativi,  di  riconoscere in  esso  il  carattere  assiomatico.  Ora  la  dottrina  clic  gli  assiomi  ma- tematici si  fondano  sopra  una  necessità  logica,  non  è  che  un  caso «li  (iuella  più  generale  che  tale  è  il  fondamento  di  tutte  le  verità dichiarate  necessarie,  e  questa  alla  sua  volta  non  è,  come  sapiùamo, che  una  trasformazione  di  quello  che  abbiamo  chiamato  il  sofisma a  priof'i  della  psicologia  intuizionista.  Il  legame  della  metageome- tria con  questa  dottrina  Hlosofica  sembra,  nel  fatto,  incontestabile, llelmholtz  crede,  come  abbiamo  visto,  che  i  princii)ii  comuni  delle matematiche  derivano  dalle  «  leggi  irrefrag(d)ili  del  nostro  inten- dimento ».  e  che  essi  si  ricavano  dalla  nozione  stessa  del  numero e  <leireguaglianza  numerica.  Le  idee  filosofiche  di  Riemann  sono analoghe  al  principio  su  cui  sono  fondati  i  sistemi  di  Platone,  di Spinoza,  di  Hegel,  di  Taine,  ecc.  (i>rincipio  che  collima  con  la  dot- trina analitica  dei  giudizi  a y>/YO/x  spinta  alle  sue  conseguenze  ul- time): egli  ammette  che  «la  connessione  delle  cose,  o  la  maniera di  cui  la  natura  tira  dehe  conseguenze,  corrisponde  all'incateha- inenlo  logico  dei  concetti  nel  i>ensiero  ». grande  del  loro  oggetto,  ed  anche  Aristotile  attribuiva  a questa  circostanza  la  superiorità  logica  che  le  distingue (v.  Metafisica,  lib.  XIII,  e.  3,^  G).  Ma  vi  ha  un'  altra  ra- gione più  decisiva  perciiè  esse  deljbano  occupare  il  primo posto  in  una  distribuzione  delle  scienze,  che  voglia  segui- re l'ordine  di  dipendenza  fra  le  conoscenze:  è  (juesta  re- lazione generale,  che  noi  abbiamo  indicata,  fra  le  cono- scenze comparative  e  le  esistenziali. Noi  abbiamo  visto  che  la  matematica  ha  })er  oggetto dei*  rapporti  di  somiglianza,  ma  dei  rapporti  (iejìnitl  di somiglianza  :  questi  sono  o  delle  classazioni  o  delle  egua- lianze.  D'  una  maniera  generale  possiamo  dire  che  ogni verità  importante,  consistente  in  rapporti  comparativi,  si riduce  a  stabihre  delle  classazioni  o  delle  eguaglianze  :  è che  soltanto  queste  due  specie  di  relazioni  Jianiio  un'im- poi'tanza  per  la  previsione  dei  fenomeni  reali;  poiché,  da una  parte,  la  conoscenza  dcirordine,  cioè  delle  uniformità, della  natura  suppone  Tesatta  nozione  delle  classi,  e  dal- l'altra parte,  in  quest'ordine,  tutti  i  rapporti,  dai  più  evi- denti ai  più  riposti,  implicano  delle  relazioni  quantitative. i:^  10.^'  Non  vi  ha  altra  scienza,  oltre  le  matematiche pure,  che  abbia  per  oggetto  dei  rapporti  necessari  e  co- noscibili a  priori  Potrebbe  sembrare  forse  che  tale  sia la  logica  formale:  ma  questa  concerne  i  rapporti,  non tra  le  cose,  ma  tra  le  proposizioni,  in  quanto  vi  ha  una dipendenza  fra  la  verità  di  ciu'te  asserzioni  e  r[uella  di certe  altre,  giusta  le  regole  della  coerenza  o,  come  dicono i  logici  inglesi,  della  consistenza,  che  sono  i  principii  d'i- dentità e  di  contraddizione.  La  logica  formale  dunque, non  essendo  governata  che  da  questi  [)rincipii,  si  aggira neìYidera  per  idem,  e  rinferenza,  in  cjuanto  è  l'oggetto  di (luesta  parte  della  logica,  non  è  che  un'inferenza  appa- l'cnte,  pei*  cui  la  conoscenza  non  fa  alcun  vero  progresso. Le  necessità  con  cui  ha  da  fare  la  logica  formale,  si  ri- ducono quindi  a  (jnella  di  evitare  la  contraddizione;  non sono  delle  connessioni  necessarie  tra  fatti  distinti,  o  tra verità  distinte:  cosi  esse  restano  fuori  dell' argomento  di questo  capitolo,  in  cui  non  si  tratta  che  delle  necessità subiettive  che  rappresentano  delle  necessità  obbiettive (benché  i  fatti,  che  queste  legano,  siano  in  |)arte  anch'essi subbiettivi),  e  che,  come  tali,  costituiscono  dei  giudizi  e delle  conoscenze  reali. Le  verità  necessarie  e  a  priori,  che  si  trovano  fuori della  matematica,  sono  generalmente,  non  d'inferenza,  ma intuitive;  e  si  riducono  quasi  tutte  (quelle  che  non  si  limi- tano ad  enunciare  che  A  somiglia  a  B  o  ne  differisce)  al- l' alTermazione  di  cassazioni  o  esclusioni  da  classi.  Noi potremmo  chiamare  questa  sorta  di  verità  delle  proposi- zioni analitiche,  intendendo  con  ciò  di  conformarci  aira])- plicazione  più  abituale  di  questo  termine,  purché  non  si dimentichi  che  una  proposizione  analitica  non  vorrà  già dire  per  noi  l'espressione  di  un  giudizio  in  cui  l'attributo è  contenuto  nel  soggetto,  come  pretcn.jono  i  concettualisti, ma  una  proposizione  d'una  conoscenza  intuitiva,  che  non implica  altro  se  non  delle  classazioni  o  esclusioni  da  classi. Questa  sorta  (U  proposizioni  non  sono,  a  gradi  diversi, che  una  complicazione  della  semplice  affermazione  in  cui non  si  pone  altro  che  la  somiglianza  o  la  difl'erenza  fra due  cose.  Il  caso  più  semplice  è  il  giudizio  di  percez^ione; p.e.:  «Questa  cosa  che  io  vedo  é  un  pomo  »  Bisogna  av- vertire die  questa  proposizione,  come  tutte  quelle  dello stesso  genere,  può  avere  due  sensi  dilìérenti.  Dall'  im- pressione che  fa  sulla  mia  vista  la  superficie  del  pomo, io  posso  inferirne  che,  con  questa  proprietà  particolare che  é  r  oggetto  della  mia  sensazione  attuale,  coesistono tutte  le  altre  proprietà  del  pomo,  che  io  ho  trovate  costan- temente associate  con  la  prima.  Questo  é  un  giudizio  esi- stenziale, che  é  perci('>  contingente  a  a  posteriori.  La  })ro- posizione  indicata  non  é  dunque  necessaria  ed  a  priori, se  non  in  quanto  essa  esprime  che  la  cosa  percepita,  date I tanto  le  sue  proprietà  che  io  percepisco  attualmente,  quanto quelle  che  sono  oggetto  d'inferenza, deve  classarsi  tra  ipomi. Noi  abbiamo  un  caso  alquanto  più  complesso,  se  il  soggettoè,  non  particolare,  ma  generale;  p.e.:  «L'uomo  é  un  animale.» Tali  proposizioni  potrebbero  considerarsi  come  le  enuncia- zioni di  dipendenze  fra  due  classazioni.  Noi  dobbiamo  qui  ri- petere l'osservazione  antecedente:  «L'uomo  é  mammifero  » può  esprimere  sia  che  l'uomo  ha  quelle  particolarità  dell'or- ganizzazione che  si  trovano  in  un  mammifero,  sia  che  esso, avendo  già  conosciuto  che  egli  ha  queste  particolarità,  deve classarsi  tra  i  mammiferi.  (  Confr.  e.  1^  §  12,  e  e.  2*^,  § 14,  2^).  Vi  ha  un  caso  speciale,  di  cui  dobbiamo  fare  men- zione,  perchè  potrebbe  tirarsene  un'  obbiezione  contro  la teoria  nominalista.  È  quando  l'attributo  non  può  denotare altri  oggetti  all'  infuori  di  quelli  stessi  che  sono  denotati dal  soggetto.  Sia  p.  e.  questa  proposizione  :  «  Gli  oggetti colorati  hanno  un'estensione  visibile  *.  Non  vi  hanno  al- tri oggetti  che  abbiano  un'  estensione  visibile  tranne  gli oggetti  colorati,  il  colore  e  1'  estensione  visibile  essendo d'  altronde,  non  gli  oggetti  di  due  percezioni  distinte,  ma di  una  sola  e  indivisibile  percezione,  in  modo  che  noi  non potremmo  separare  queste  due  qualità  se  non  per  un'as^ra- zione.  Tuttavia  la  proposizione  non  enuncia  altro  che  del- le classazioni  di  oggetti  concreti  con  altri  oggetti  concre- ti: essa  significa  che  ogni  oggetto,  il  quale  può  classarsi sia  fra  i  bianchi  sia  fra  gli  azzurri  sia  fra  i  rossi  ecc., può  anche  classarsi  sia  fra  i  lunghi  sia  fra  i  corti,   sia fra  i  larghi  sia  fra  gli  stretti,   sia  fra  gli  alti  sia  fra  i bassi,  ecc. Un  altro  caso  di  affermazioni  disgiuntive  di  classazione si  ha  nelle  proposizioni  di  divisione,  cioè  nelle  quali  si divide  un  genere  nelle  sue  specie.  Alcuni  concettualisti vi  hanno  visto  una  sorta  di  giudizi  analitici,  in  cui  il  sog- getto viene  decomposto,  non  secondo  la  comprensione,  ma secondo  V estensione.  Ma  in  realtà  esse  non  enunciano  se non  che  tutti  i  particolari,  i  quali  si  classano  sotto  il  ge- nere, si  classano  altresì  sotto  Tuna  o  Taltra  delle  specie. (Queste  proposizioni  sono  necessarie  ed  a  priori,  quando non  implicano  alcun'atlermazione  sull'esistenza .  «r  Una  se- zione conica  è  un'  ellissi,  un'iperbole  o  una  parabola  »  : qui  si  tratta  di  oggetti  semplicemente  possiljili,  quindi  la proposizione  è  necessaria.  Ma:  «  I  vertebrati  sono  mam- miteri,  uccelli,  rettili  o  pesci  »  ;  la  proposizione  è  contin- gente e  s[)erimentale,  perchè  implica  Tatlbrmazione  che queste  classi,  e  soltanto  queste,  dei  verteìjrati  esistono.  Una divisione  di  oggetti  reali,  la  (pale  esaurisca  tutti  i  pos- sibili,  come  ({uesta  :  «  Gli  animali  sono  verteìjrat  i  o  in- vertebrati »,  è  necessaria,  soltanto  se  non  implica  Tafter- niazione  che  tutti  i  membri  della  divisione  esistano  eflet- tivamente.  La  dieresi  di  Platone  trattava  i  reali  come  i I^ossibili  :  questo  filosofo,  come  spiegheremo  nel  2^  Sag- gio (  parte  l-',  cap.  7"  ),  i)retendeva  di  possedere  un  me- todo, per  cui  si  i)Oteva,  i)er  la  semplice  divisiono  progres- siva dei  concetti,  partendo  da  un  concetto  primitivo,  il più  universale  di  tutti,  la  cui  realtà  era  data  a  priori, pervenire  alla  scoverta  di  tutte  le  specie  reali  (  Idee  )  com- j)rese  sotto  (juesto  concetto,  e  quindi  alla  conoscenza  a priori  di  tutto  il  reale. Noi  possiamo  considerare  come  un  altra  varietà  delle proposizioni  analitiche  (di  classazione)  quelle  che  atl'erma- no  la  dipendenza  fra  due  termini  correlativi:  «  Il  superiore sui)|:>one  Tinleriore  »,  <^  Il  monte  sup[>one  la  valle  »  Desi- gnare un  oggetto  per  un  nome  implicante  una  correlazio- ne, è  assimilare  quest'oggetto  ai  termini  omologhi  di  una data  classe  di  coppie  di  correlativi,  il  che  suppone  che roggetto  è  considerato  in  correlazione  con  un  altro,  il  qua- le alla  sua  volta  può  essere  assimilato  agli  altri  termini a  sé  omologhi  delle  coppie  di  correlativi  della  classe  data, ed  essere  designato,  quindi,  per  il  nome  opposto.  Cosi  Tat- fermazione  contenuta  in  una  proposizione  come  quelle  che abbiamo  citate,  é  che  se  un  oggetto  riceve  il  nome  d'un correlativo,  un  altro  oggetto,  con  cui  viene  paragonato e  che  noi  ci  ra|)presentiamo  simultaneamente  con  esso, deve  ricevere  il  nome  deiralti'o  correlativo.  La  proposi- zione dunque  non  esprime  che  una  dipendenza  necessa- ria Tra  due  classazioni.  Il  principio  hegeliano  che  gli  O])- ])Osti  si  implicano  reciprocamente,  e  che  data  l'esistenza dell'uno  è  data  per  ciò  stesso  quella  dell'altro,  può  riguar- darsi come  una  generalizzazione  del  latto  contenuto  nelle cori'elazioni  di  cui  abbiamo  Ciarlato,  con  la  pretesa  di  esten- dere, per  questo  mezzo,  alle  conoscenze  sull'esistenza  la stessa  connessione  necessaria  ed  a  jtriori  che  si  trova  in questa  classe  di  giudizi  sulla  somiglianza. I  gruppi  indicati  di  proposizioni  analiiic/tc  sono  uno sviluppo  dell'atlei'mazione  di  somiglianza;  un  altro  grupjMj, che  si  potrebbero  chiamare  proposizioni  analitic/te  ncf/ative, es[)rimono  invece  delle  affermazioni  di  differenza.  Noi  con- siderereuio  soltanto  (juelle  il  cui  soggetto  è  un  termine  ge- nerale. Tali  sono  }>.  e.:  «L'uomo  non  ò  un  bruto»,  «Il cerchio  non  è  quadrato  ».  (Queste  proposizioni  non  enun- ciano, come  abbiamo  già  detto,  che  delle  esclusioni  da classi,  cioè  che  gU  oggetti  che  ai)partengono  all'una  delle classi  (uomo,  cerchio,  ecc.)  devonr)  essere  esclusi  dall'al- tra classe  0>i'uto,  (juadrato,  ecc.).  Il  senso  della  i)roposi- zione  è  al  l'ondo  lo  stesso,  se  invece  di  dire:  «Il  cerchio non  è  quadrato,  noi  diciamo:  «  l'na  cosa  non  i)uò  essere cerchio  e  (piadrato  »,  cioè  la  llgura  circolare  e  la  figura quadrata  sono  due  attributi  non  compatibili  nello  stesso soggetto.  Non  bisogna  vedere  in  una  simile  proposizione im  giudizio  esistenziale  negativo,  cioè  la  negazione  del-l'esistenza di  un  cerchio  quadrato:  ciò  di  cui  si  neghereb- be l'esistenza  in  questo  caso,  sarebl)e  un  impossibile  lo- gico, vale  a  dire  una  cosa  di  cui  non  possiamo  formarci nozione  alcuna  (Impossihiìe,  dice  W  oli*,  est  ciijm  nullani notionera  formare  posswnus).  Ma  noi  non  possiamo  port lì ì -tare  alcun  giudizio  su  ciò  di  cui  non  possiamo  avere  al- cuna idea:  quindi  non  possiamo,  a  parlar  rigorosamente; negarne  l'esistenza,  ix)ichè  perciò  bisognerebbe  pensarlo e  averne  l'idea.  Ciò  in  realtà  che  una  simile  proposizio- ne enuncia  non  è  duncjue  che  delle  esclusioni  da  classi: cioè  che  tutti  gli  oggetti  possibili,  vale  a  dire  che  noi  pos- siamo rappresentarci,  a  cui  convenga  il  nome  di  quadrato,, o  in  altri  termini,  appartenenti  alla  classe  dei  quadrati,, non  possono  far  parte  della  classe  dei  cerchi;  e  vicever- sa tutti  gli  oggetti  possibili,  cioè  rappresentabili,  apparte- nenti alla  classe  dei  cerchi,  non  possono  far  parte  della classe  dei  quadrati.  Quando  noi  non  possiamo  rappresen- tarci alcun  oggetto,  il  quale  appartenga  al  tempo  stessa a  due  classi  date,  i  nomi  delle  due  classi  si  chiamano  at- tributi incompatibili;  tali  sono:  uoìao  e  bruto,  cerddo  e quadrato,  tutto  bianco  e  tutto  nero,  ecc.  Se  invece  noi possiamo  rappresentarci  che  uno  stesso  oggetto  apparten- ga alluna  e  all'altra  di  due  classi  distinte,  comeKjuadra- io  e  grigio,  o  ^fìlosofo  e  j^oeta,  i  termini  che  indicano  que- ste classi  sono  degli  attributi  ditlerenti,  ma  non  incompatibili. Due  attributi  digerenti  possono  non  mai  trovarsi  uniti  nella realtà,  p.  e.  moneta  e  combustibile;  ma  da  ciò  non  se^ue che  i  due  atti'ibuti  siano  incompatibili,  nel  senso  logico  di questa  parola,  una  moneta  combustibile  non  essendo  un impossibile  logico,  cioè  una  cosa  irrappresentabile.  Cosi la  proposizioìi.  :  <c  Lna  moneta  non  è  combustibile  »,  è  una proposizione  esistenziale,  die  nega  l'esistenza  di  certi  latti; ma  la  proposizione  :  «  Un  cerchio  non  è  quadrato  »  è  com- parativa e  non  esistenziale,  perchè,  come  abbiamo  detto, un  impossibile  logico,  cioè  un  impensabile,  qual  è  un  cer- chio quadrato,  non  può  essere  oggetto,  rigorosan^ente  par- lando, né  di  atì'ermazione  né  di  negazione. Alle  proposizioni  che  abbiamo  indicate  aggiungeremo infine  quelle  che  enunciano  una  defìninizione  :  esse  com- binano l'atiermazione  di  una  somiglianza,  cioè  l'inclusio- * ne  in  una  classe,  con  quella  di  una  ditlerenza,  cioè  l'e- sclusione da  una  classe.  Uno  dei  termini  della  definizione, il  genere  prossimo,  dà  la  classazione  della  cosa  definita; l'altro  termine,  la  differenza  specifica,  indica  clie  essa  dif- ferisce, in  un  eerto  punto,  da  tutte  le  altre  cose  apparte- nenti alla  classe,  e  che  tutte  queste  altre  cose  differisco- no, in  questo  punto,  da  essa,  e  non  possono  comprendersi nell'altra  classe  indicata  da  questo  secondo  termine.  No- tiamo che  una  proposizione  che  avesse  per  attributo  la sola  differenza  specifica,  come  «  L'uomo  è  ragionevole  », sarebbe  piuttosto  l'espressione  di  un  giudizio  esistenziale che  di  un  giudizio  analitico  o  di  classazione:  ma  quando lo  stesso  attributo  viene  a  far  parte  di  una  definizione, noi  abbiamo  una  proposizione  analitica  (nel  nostro  senso), perchè  la  forma  stessa  della  proposizione  ci  indica  che il  suo  scopo  non  é  di  far  conoscere  che  l'uomo  possiede la  ragione  (affermazione  esistenziale),  ma  di  distinguere l'uomo,  assegnando  come  nota  differenziale  questa  pro- prietà, elle  si  suppone  già  conosciuta  anteriormente  alla definizione. §  17/^  Non  crediamo  inutile  di  presentare  ora  sotto una  forma  più  generale  un'osservazione  che  ci  è  occorso di  fare  più  d'una  volta;  ed  è  che  per  distinguere  le  verità necessarie  dalle  contigenti,  e  vedere  che  le  prime  sono  un sinonimo  di  .giudizi  comparativi  o  sulla  somiglianza,  bi- sogna accuratamente  separare,  nel  senso  di  una  propo- sizione, ogni  affermazione  esistenziale  che  può  esservi implicata.  Se  io  dico:  «questo  colore  è  simile  a  quest'al- tro »,  è  evidente  che  la  mia  affermazione  è  necessaria  ; ma  se  iodico  invece:  «il  colore  di  questo  fiore  esimile  al colore  di  questa  carta  »,  la  mia  proposizione,  quantunque enunciante  una  somighanza,  potrebbe  non  sembrare  ne-^ cessar ia  :  ciò  è  perchè  questa  carta  e  questo  fiore  potreb- bero avere,  non  questo  colore  determinato  che  effettiva- mente hanno,  ma  un  altro,  e  la  coesistenza  di  questo  co- mmmtiàf loro  con  lo  loro  altre  [)roì)rietà  essendo  una  verità  esi- stenziale, non  è  roggetto  di  un'  airermazione  necessaria. Vi  hanno  anclie  dei  casi  in  cui  la  proposizione  enuncia un  ra[)porto  comparativo,  p.  e.  un'eguaglianza,  e  tuttavia non  ò  che  contigente:  ciò  è  perchè  essa  non  ha  per  og- getto di  esprimere  il  risultato  di  ima  comparazione,  ma una  se(]uenza  unitbrme  tra  fatti,  di  cui  il  conseguente  si trova  costantemente  con  Y  antecedente  in  un  rapporto comparativo  determinato.  Cosi  sarebbe  un  errore  di  ve- dere dei  giudizi  comparativi  nelle  proposizioni  che  stabi- liscono che,  in  ogni  comunicazione  del  movimento,  Tazio- nò  è  uguale  alla  reazione;  che,  nella  ritìessi(3ne  della  lu- ce, Tangolo  di  riflessione  è  uguale  all'angolo  d'incidenza; ecc.:  (jucsti  teoremi  non  si  limitano,  come  (pielli  della  ma- tematica pura,  a  staljilii'o  s(implicomente  dello  eguaglian- ze, senza  niente  atlermare  sull'esistenza  dei  l'enomeni  rea- li, ma  invece  stabiliscono  una  leggo  della  natura,  un  raj)- porto  di  seciuenza  unilbrme  tra  fenomeni  reali,  e  sono  quin- di dei  giudizi,  non  comparativi,  ma  esistenziali. i:?.  18."  I  risultati  a  cui  siamo  pervenuti  sulla  natura  e l'origine  delle  conoscenze,  della  matematica  pura  e,  in  gè- nerale,  delle  verità  necessarie,  ci  hanno  posto  a  un  punto di  vista  centrale,  da  cui  possiamo  vedere  che  vi  ha  un lato  di  verità  in  tutte  le  dottrine  stabiUte  sullo  stesso  sog- getto. La  dottrina  che  vede  in  esse  delle  proposizioni  ana- litiche ha  un  lato  vero,  in  quanto  vi  ha  realmente  un'iden- tità di  natura  ira  tutte  queste  proposizioni  e  quello  che Kant  chiama  analitiche,  essendo  tutte,  come  queste  ultime, dei  giudizi  comparativi,  a  cui  [)Ossiamo  pervenire  per  il semplice  esame  delle  nostre  idee:  l'errore  di  questa  dot- trina è  di  credere  che  queste  proposizioni  siano  fondate sui  principii  d'identità  e  di  contraddizione,  e  che  basti  de- '  comporre  il  soggetto  per  trovarvi  il  predicato.  La  dottrina Kantiana  dei  giudizi  sintetici  a  priori  ha  ragione  di  ve- dere nell(^  proposizioni  matematiche  dei  giudizi,  non  ana- L litici,  ma  sintetici,  e  dei  giudizi  a  priori:  l'errore  di  Kant è  di  credere  che  essi  siano  fondati  sulle  forme  a  priori della  conoscenza,  e  propriamente  dell'intuizione.  La  dot- trina empirista,  nella  sua  forma  ordinaria,  ha  ragione  di animettere  che  ogni  verità  d'inferenza  non  può  essere  che un'induzione,  cioè  un'estensione  dell'esperienza  passata:  ma essa  ha  più  o  meno  misconosciuto  la  differenza  fra  i  giu- dizi sulle  sequenze  e  le  coesistenze  e  quelli  sulle  somi- glianze e  le  differenze;  non  ha  compreso  abbastanza  che per  quest'ultima  classe  di  giudizi  l'esame  delle  nostre  rap- presentazioni può  sostituire  quello  delle  cose  rappresentate. E  in  generale  l'errore  di  tutte  le  dottrine  dominanti  è  di non  aver  compreso  clie  è  a  questa  circostanza  speciale  ai giudizi  comparativi,  e  per  cui  essi  si  destinguono  dagli esistenziali,  a  questo  fatto  si  ovvio  dell'osservazione  in- teriore, che  si  deve  la  distinzione  dei  giudizi  in  a  priori e  a  posteriori,  in  necessari  e  contingenti.  Si  sarebbe  quasi tentati  di  dire  come  Condillac:  (1)  Bisogna  che  questa  sia una  verità  assai  semplice,  perchè  alcun  filosofo  non  lab* bia  conosciuta. (1)  Logica,  parte  II,  e,  IX. ?;^^zira2r^ il GAP.  VII. Dottrina  dei  filosofi  empiristi sulle  verità  necessarie. §  l*^.  Dopo  di  avere  stabilito  che  la  distinzione  tradizio- nale di  due  ordini  di  verità,  le  necessarie  e  le  contingenti, è  in  un  senso  fondata,  e  che  le  prime  equivalgono  ai  giu- dizi comparativi  e  le  seconde  ai  giudizi  esistenziali,  ci  resta a  difendere  la  nostra  proposizione  contro  alcune  dottrine contemporanee,  che  essendo  sostenute  dai  rappresentanti più  illustri  della  scuola  empirista,  non  ci  sarebbe  possibile di  passare  sotto  silenzio. I  partigiani  più  risoluti  della  teoria  empirista,  nei  limiti in  cui  essi  hanno  ammesso  delle  verità  necessarie,  hanno ordinariamente  cercato  di  spiegarle  per  le  leggi  dell'asso- ciazione  delle  idee.  «  Vi  Jia  delle  idee,  dice  lames  Mill,  che per  la  frequenza  o  la  forza  dell'associazione,  sono  si  stret- tamente combinate  ch'esse  non  possono  più  essere  sepa- rate. Se  runa  esiste,  le  altre  esistono  a  lato  di  essa,  a  di- spetto degli  sforzi  che  si  possono  fare  per  separarle  ».  John Stuart  Mill  adotta  la  dottrina  del  padre,  e,  come  gli  asso- ciazionisti  inglesi  in  generale,  spiega  per  la  legge  di  associazione  inseparabile  tutte  le  necessità  del  pensiero.  La nostra  incapacità  di  Ibrmare  una  concezione  nasce  sempre, egli  dice,  da  ciò  che  noi  siamo  l'orzati  di  formarne  una contraddittoria  alla  prima,  ed  è  da  un  associazione  inse- parabile fra  le  idee  che  noi  vi  siamo  forzati.  Noi  fnon  ix)s- siamo  concepire  un  quadrato  rotondo,  perché,  nella  nostra esperienza,  accade  costantemente  che  a  un  momento  in cui  una  cosa  comincia  ad  essere  rotonda,  essa  cessa  di essere  quadrata,  di  sorta  che  il  cominciamento  d'una  im- pressione é  inseparabilmente  associato  alla  cessazione  del- laltra.  Noi  non  p<jssiamo  concepire  che  due  e  due  facciano cinque,  perché  un'associazione  inseparabile  ci  forza  a  con- cepirli come  facienti  quattro,  e  non  si  può  concepirli  come facienti  al  tempo  stesso  quattro  e  cinque,  perché  quattro e  cinque,  come  il  rotondo  e  il  quadrato,  hanno  fra  di  loro nella  nostra  esperienza  dei  rapporti  tali  che  Tuno  é  asso- ciato alla  non  esistenza  attuale  dell'  altro.   Noi  non  pos- siamo concepire  che  due  linee  rette  chiudano  uno  spazio, perchè  le  parole  chiudere  uno  spazio  significano  che  esse si  ravvicinano  e  s'incontrano  una  seconda  volta,  mentre r  immagine   mentale  di  due  linee  rette  che  si  sono  una volta  incontrate  é  inseparabilmente  associata  alla  rappre- sentazione della  loro  divergenza  definitiva.  In  tutti  questi ed  altri  casi  analoghi,  noi  non  avremmo  alcuna  difficoltà. a  riunire  le  due  idee  che  si  suppongono  incompatibili,  se- la  nostra  esperienza  non  avesse  dapprima  associato,  d'una maniera  inseparabile,  Tuna  di  esse  a  quella  che  contrad- dice r altra.  (Filos.  di  Hamilton,  cap.  VI,  traduz.  frane pag,  82-83). I  partigiani  della  scuola  intuitiva  hanno  obbiettato  con- tro questa  spiegazione  delle  verità  necessarie,  che  essa non  spiega  come  altre  associazioni,  pure  cosi  frequenti  ed uniformi,  non  producono  lo  stesso  sentimento  di  neces- sità. Noi  abbiamo  sempre  visto,  dicono  questi  avversari dell'associazionismo,  che  una  pietra  s'immerge  nell'acqua^ I  1* e  non  abljiamo  mai  visto  ciie  essa  vi  galleggi  ;  tuttavia niente  e'  impedisce  di  concepire  che  una  pietra,  lanciata neir  acqua,  resti  a  galla.  La  percezione  del  fatto  che  il fuoco  brucia  non  è  certamente  meno  frequente  dell'altro che  due  parallele  non  chiudono  uno  spazio  :  tuttavia  noi non  stentiamo  a  concepire  degli  esseri  umani,  che  resta- no in  una  fornace  ardente  senza  essere  bruciati.  Il  Mill risponde  a  questi  fatti  obbiettati  alla  sua  dottrina,  che  es- si trovano  la  loro  spiegazione  nelle  associazioni  contra- rie. Quantunque  noi  non  abbiamo  mai  visto  un  uomo  re- stare nel  fuoco  senza  essere  bruciato,  il  soggiorno  nel fuoco  non  é  inseparaljilmente  associato  con  la  distruzio- ne, perché  noi  abbiamo  visto  molti  altri  oggetti  immer- si nel  fuoco  resistere  alla  sua  azione.  La  concezione  d'un uomo  nel  fuoco  e  non  bruciato  non  oltrepassa  i  limiti  del- la facoltà  essenziale  dell'  iminaginnzione,  che  consiste  a cangiare  (leggiermente  in  questo  caso)  le  combinazioni mentali  degli  elementi  che  l'  esperienza  ci  fornisce.  Le associazioni  realmente  irresistibili  sono  quelle  che  non sono  state  mai  controbilanciate  da  associazioni  contrarie. Cosi  noi  non  abbiamo  visto  una  pietra  galleggiare,  ma abbiamo  l'abitudine  costante  di  vedere  delle  pietre  o  al- tri corpi,  che  hanno  la  stessa  tendenza  a  sommergersi, restare  in  una  posizione  clie  essi  abbandonerebbero,  se non  vi  fossero  mantenuti  da  una  forza  invisibile.  La  som- mersione della  pietra  non  é  che  un  caso  della  legge  di gravità,  e  noi  siamo  abituati  a  vedere  la  forza  della  gra- vità controbilanciata.  Tutti  i  fatti  di  questa  natura  che noi  abbiamo  visto  e  inteso  rapportare,  sono  prò  tanto  de- gli ostacoli  alla  formazione  dell'associazione  inseparabile che  c'impedirebbe  di  concepire  una  violazione  della  legge del  peso.  La  rassomiglianza  è  un  principio  d'associazio- ne cosi  bene  che  la  contiguità;  e  per  quanto  contraditto- ria  una  supposizione  possa  essere  alla  nostra  esperienza in  Iute  materia,  se  la  nostra  esperienza  in  alia  materiaci  offre  dei  tipi  che  presentano  una  rassomiglianza,  lon- tana anche,  col  preteso  fenomeno,  quale  esso  sarebìje  se fosse  realizzato,  le  associazioni  formate  sott(j  l'influenza di  questi  tipi,  impediranno  in  generale  le  associazioni  spe- cifiche di  prendere  un'  intensità  e  una  forza  cosi  irresi- stibile, che  la  nostra  immaginazione  non  ix)ssa  più  figu- rarsi la  supposizione  sotto  ima  forma  calcata  sull'uno  o Taltro  di  questi  tipi  (  Filos.  di  Hamilton,  cap.  XIV,  trad. frane,  p.  :U7-318). Gli  stessi  critici  hanno  fatto  un'altra  obbieziiìne,  diret- ta contro  l'origine  sperimentale  delle  verità  necessarie  :  la proposizione  che  la  tangente  tocca  il  cerchio  in  un  sol punto,  lungi  di  essere  il  risultato  deiresperienza  imiforme, ne  riceve,  dicono  essi,  una  smentita,  perchè  le  tangenti e  i  cerclii  dell'esperienza  si  toccano  per  più  di  un  punto, si  fondono  in  una  parte  apprezzabile  della  loro  estensione. Cosi  le  linee  retto  che  res|)erienza  ci  presenta  sono,  non delle  linee  i)erfettamente  rette,  ma  delle  linee  che,  ([uan- tun(iue  sufficientemente  rette  per  uno  scopo  pratico,  sono, in  realtà,  leggermente  spezzate:  ora  due  di  (jueste  lineepossono  chiudere,  e  chiudono  talvolta,  uno  spazio.  A  noi non  importa,  per  la  quistione  presente,  di  apprezzare  il valore  di  <iuesta  obbiezione  contro  la  teoria  empirista;  ma vogliamo  riferire  la  risposta  del  Mill,  per  vedere  se,  se- condo lo  stesso  autore,  possano  trovarsi  nei  principii  geo- metrici indicati  le  condizioni  che  e^li  inedesimo  ha  asse- guato  alla  formazione  di  un'  associazione  inse[)arabile. tr  Ben^diè  l'esperienza,  dice  dunque  il  Mill,  non  presenti linee  cosi  ii'reprensibilmente  rette  eh*  esse  non  possano chiudere  il  i)iù  piccolo  spazio,  essa  ci  offre  delle  serie  di linee  di  meno  in  meno  larglie,  di  meno  in  meno  fles- suose, sene  di  cui  la  linea  retta  della  definizione  è  il  li- mite ideale.  L'osservazione  fa  vedere  che  più  le  linee  so- no vicine  a  non  aver  più  né  larghezza  nò  flessuosità,  più la  loro  attitudine  a  chiudere  uno  spazio  si  avvicina  a  zero.  La  conclusione  che,  se  non  avessero  assolutamente nò  larghezza  nò  flessuosità,  esse  non  cliiuderebbero  affat- to spazio,  è  una  corretta  inferenza  induttiva  da  ({uesti fatti,  conforme  al  7nefodo  delle  variazioni  concomitanti  j>. Similmente,  «quand'anche  non  vi  fossero  nell'esperienza altri  cerchi  che  quelli  che  ditTeriscono  d'una  maniera  ai)- prezzabile  dall'ideale  geometrico,  i  nostri  sensi  ci  appren- derebbero sempre  che,  nella  misura  in  cui  un  cercliio  e una  retta  si  avvicinano  alla  definizione,  1'  estensione  del loro  contatto  si  avvicina  ad  un  sol  punto  ».  (  Logica  lib. 2^  e.  5<^  §  4  in  nota,  e  Filos,  di  Hamilton  cai».  1 1^  trad. frane  p.  :U8,  in  nota)!'  Ma  perchè  in  questi  casi,  doman- deremo noi  al  Mill,  le  associazioni  contrarie,  relative  ai cerchi  e  alle  rette  approssimative,  non  impediscono  alme- no la  formazione  dell'associazione  inseparabile,  sulla  qua- le è  secondo  lui  fondata  la  necessità  delle  pi*0[)Osizi<:)ni geometriche  di  cui  si  tratta  ? §  2'  «  Io  sono  convinto,  dice  il  Mill,  che  in  tutti  gli esempi  di  fenomeni  invariabilmente  uniti  che,  malgrado ciò,  non  creano  delle  necessità  del  ])ensiero,  si  trovereb- be che  manca  qualcuna  delle  condizioni  le  quali,  secon- do la  teoria  psicologica  dell' associazione,  sono  neces- sarie per  l'ormare  un'  associazione  realmente  insepara- bile »  (Filos.  di  Hamilton,  trad.  frane,  pag.  .'J2Ò,  cap. XIV).  Ora  la  (juistiono  è  appunto  se  vi  sia  mai  nella  real- tà alcun  caso,  in  cui  tutte  <jueste  condizioni  si  verifichino, in  modo  da  dar  luogo  ad  una  proposizione  strettamen- te necessaria.  Non  vi  ha,  noi  lo  ammettiamo,  a  priori alcuna  ragione  assegnabile  perchè  questo  caso  non  p( is- sa aver  luogo;  la  (luistione  è  puramente  di  fatto  :  vi  han- no in  realtà  dei  casi,  in  cui  il  legame  che  l'assiociazione istabilisce  tra  le  nostre  idee,  diviene  cosi  forte  che  l'asso- ciazione è  assolutamente  inseparabile,  e  la  proposizione, per  conseguenza,  è  necessaria? «  É  strano,  dice  lo  stesso  filosofo,  che  tutti  gli  avversari  della  teoria  psicologica  fondata  sull'associazione  ab- biano basato  il  loro  principale  o  il  loro  unico  argomento per  confutarla  sul  sentimento  della  necessità  ;  in  effetto se  vi  ha  nella  nostra  natura  un  sentimento  che  le  leggi d'associazione  siano  evidentemente  capaci  di  produrre,  è questo.  Secondo  la  definizione  di  Kant,  e  non  ve  ne  ha migliore,  il  nectissario  è  ciò  la  cui  negazione  é  impossi- bile. Se  noi  troviamo  che  è  ad  ogni  modo  impossibile  di separare  due  idee,  noi  abbiamo  tutto  il  sentimento  di  ne- cessità che  lo  spirito  umano  può  avere.  Quelli  dunque  che negano  die  Y  associazione  j^ossa  produrre  una  necessità del  pensiero,  dovrebbero  sostenere  che  due  idee  non  sono mai  talmente  legate  insieme  che  esse  siano  realmente  in- separabili. Ma  quest'affermazione  contraddice  l'esperienza più  volgai'c.  Quante  persone  che,  per  essere  state  spaven- tate nella  loro  infanzia,  non  i}Ossono  mai  trovarsi  sole nell'oscurità  senza  provare  invincibili  terrori  !  Quante  per- sone  che  non  possono  rivedere  un  certo  {X)sto  o  pensare a  un  certo  avvoìimento  senza  che  si  risveglino  in  loro vivi  sentimenti  di  dolore  o  dei  ricordi  di  sofferenza!  Se i  fatti  che  hanno  creato  queste  forti  associazioni  negli  spi- riti di  alcuni  individui  fossero  stati  comuni  a  tutti  gU  uo- mini dalla  prima  infanzia,  e  se  fossero  stati  completamen- te obbliati  dopo  la  formazione  delle  associazioni,  noi  a- vremmo  una  necessità  del  pensiero,  una  di  quelle  neces- sità che  si  riguardano  come  prove  d'una  legge  obbiettiva, e  d'una  connessione  mentale  a  priori  fra  le  idee  ».  (Filos. di  Hamilton  cap.  XIV,  trad.  frane,  p.  -'514). Gli  esempi  citati  dal  Mill  ci  mostrano  in  verità  dei  ca- si di  associazione  che  sembra  inseparabile  fra  una  per- cezione e  un  sentimento  o  anche  fra  un'idea  e  un  senti- mento: per  non  parlare  degli  altri  casi  in  cui  un'associa- zione inseparabile  si  forma  fra  percezioni  e  movimenti, noi  aggiungeremo  il  più  eclatante  forse  tra  quelli  in  cui certe  sensazioni  suggeriscono  irresistibilmente  certe  idee. Estendendo  un  membro,  noi  non  possiamo  provare  la  sen- sazione della  resistenza,  senza  pensare  alla  presenza  di un  oggetto  esteso  e  visibile  :  quest'  esempio  ci  mostra  al tempo  stesso  il  legame  indissolubile  o  quasi  fra  la  sensa- zione di  resistenza  e  l'idea  dell'estensione  visibile,  e  quel- lo fra  la  sensazione  stessa  e  l'idea  d'un  oggetto  reale  e- steriore.  Ma  vi  hanno  parimenti  dei  casi,  in  cui  l'associa- zione formi  un  legame  assolutamente  indissolubile,  non fra  una  sensazione  e  un'idea,  ma  fra  un'  idea  e  un'  altra idea,  in  modo  che  fossimo  incapaci  di  pensare  Tuna  sen- za l'altra,  e  incapaci  pure,  per  conseguenza,  di  fare  la supi^osizione  che  i  due  fatti  pensati  ix^trebl^ero  esistere l'uno  senza  dell'altro?  perchè  è  soltanto  a  questo  con(H- zioni  che  noi  possiamo  avere  una  proposizione  stretta- mente necessaria. Io  credo  che  non  vi  sia  alcun  esempio  di  una  neces- sità o  di  un  legame  indissolubile  di  questa  natura,  do- vuto alla  forza  dell'associazione;  e  che,  nel  fatto,  nessuna proposizione,  esprimente  una  coesistenza  o  una  succes- sione tra  fenomeni,  costituisca  una  verità  strettamente necessaria.  Quantunque  la  sensazione  della  resistenza  ci suggerisca  iri-esistibilmente  l'idea  dell'estensione  visibile, Videa  della  resistenza  non  è  perciò  legata  a  quella  dell'e- stensione visibile,  in  modo  che  le  due  idee  siano  insepa- rabili, e  che  noi  non  possiamo  pensare  la  prima  senza  la seconda.  In  effetto  nessuno  pretenderà  che  il  legame  tra questi  due  fatti,  il  sentimento  della  resistenza  in  noi,  e  la presenza  fuori  di  noi  di  un  oggetto  esteso  che  ci  occasio- ni questo  sentimento,  sia  una  verità  necessaria,  e  che  noi non  possiamo  immaginare  che  avremmo  potuto  essere  or- ganizzati in  maniera  che  questo  stesso  sentimento  fosse prodotto  m  noi  da  cause  atìàtto  ditìerenti.  Ma  per  mo- strare che  alcuna  proposizione  esistenziale  non  può  arri- vare al  grado  di  verità  necessaria,  basta  l'esempio  delle due  proposizioni  più  universali,  che  esprimono  i  legami più  generali  fra  le  nostre  idee,  di  cui  tutti  gli  altri  posso- no considerarsi  come  delle  determinazioni  particolari.  L'u-na  è  il  principio  clie  ogni  fenomeno  è  costantemente  con- dizionato da  antecedenti  invariabili;  Taltra  la  credenza  elle le  nostre  sensazioni  si  riferiscono  a  un  mondo  esterio- re,  o  in  altri  termini,  che  esse  fanno  parte  di  aggre- gati che  noi  chiamiamcj  oggetti  reali  ed  esteriori.  La esistenza  d'  un  mondo  esteriore  è  si  lungi  dall'  essere una  verità  necessaria,  ch'essa  non  è  nemmeno  una  verità, a  quel  che  ne  pensa  lo  stesso  Alili;  e  la  grande  maggio- ranza dei  filosofi  moderni,  quand'anche  essi  non  giungano come  Mill  alla  negazione  assoluta  del  mondo  esteriore, non  respingono  meno  di  lui  la  credenza  spontanea,  in  con- formità della  ([uale  noi  ol>biettiviamo  le  nostre  sensazioni, e  consideriamo  l'estensione,  la  figura,  ecc.  come  attributi di  oggetti  reali  esistenti  fuori  di  noi.  Ascoltiamo  ora  lo stesso  Mill  sul  principio  di  causalità  :  «  Ogni  persona,  egli dice,  abituata  all'astrazione  e  all'analisi  arriverebbe,  io  ne sono  convinto,  se  essa  dirigesse  a  questo  fine  lo  sforzo delle  sue  facoltà,  dacché  questa  idea  fosse  divenuta  fa- miliare alla  sua  immaginazione,  ad  anunettere  senza  dit- iicoltà  come  possibile  nell'uno,  per  esempio^  dei  numerosi firmamenti,  di  cui  Y  astronomia  siderale  compone  l'uni- verso, una  successione  degli  avvenimenti  tutta  fortuita  e non  obbediente  ad  alcuna  legge  determinata»;  «e  di  fatto, continua  il  Mill,  non  vi  ha  nò  nell'esperienza  nò  nella  na- tura del  nostro  spirito  una  ragione  qualunque  di  credere che  non  sia  C(5^i  in  qualche  parte  »  (Logica,  lib.  o^\  e.  21'^). Noi  facciamo  le  nostre  riserve  sullo  scetticismo  di  quest'ul- tima proposizione,  contraria  evidentemente  alla  pratica uniforme  di  tutti  gVi  uomini  di  scienza:  ciò  che  noi  vo- gliamo mostrare  non  è  che  il  principio  di  causalità  non sia  una  verità  assolutamente  universale,  ma  che  esso  non è  una  verità,  in  senso  stretto,  necessaria  ;  e  la  citazione di  Mill,  a  cui  si  potrebbe  aggiungere  tutto  ciò  che  gli  scettici  hanno  detto  contro  (juesto  principio,  vàie  come  prova che  la  negazione  di  esso  può  essere  perfettamente  concepita. §  3^.  È  innegabile  che  una  proposizione  basata  sulle esperienze  più  familiari  si  distingua  dalle  altre  per  una sorta  di  necessità:  ciascuno  sentirà  la  differenza  che  vi ha,  sotto  questo  rapporto,  fra  queste  due  proposizioni:  I corpi  in  movimento  comunicano  per  l'urto  il  movimento agli  altri  corpi  ;  e  :  I  corpi  si  attraggono  in  ragione  in- versa del  quadrato  della  loro  distanza.  Vi  ha  nella  specie di  proposizioni  di  cui  la  prima  è  un  esempio,  un  legame cosi  stretto  fra  le  idee,  che  esse  hanno  in  ciò  la  più  gran- de somiglianza  con  quelle  che  sono  rigorosamente  neces- sarie—noi vedremo  anche  nel  Saggio  seguente  che  que- sta somiglianza  fra  le  due  specie  di  proposizioni  ha  una importanza  particolare  per  la  spiegazione  dei  concetti  del- la metafisica.—  Nondimeno  la  necessità,  tutta  relativa, delle  proposizioni  che  non  sono  che  delle  generalizzazioni dell'esperienza  più  familiare,  non  raggiunge  mai  il  grado delle  proposizioni  strettamente  necessarie:  il  legame  fi*a le  idee  non  diviene  mai  cosi  forte  da  renderle  assoluta- mente inseparabili,  e  noi  possiamo  sempre  concepire  la fMDssibilità  del  contrario.  Noi  ripeteremo  un  esempio  già citato,  il  quale  é  assai  proprio  a  mostrarci  la  differenza tra  una  verità  assolutamente  necessaria,  come  quelle  della matematica,  e  una  verità  familiare,  che  non  ha  se  non questa  necessità  relativa  che  può  essere  spiegata  per  la associazione  delle  idee.  Cercando  di  mostrare  che  il  con- trario di  una  proposizione  matematica  può  essere  conce- pibile,  si  è  supposto  il  caso  di  «  un  mondo  in  cui,  tutte le  volte  che  due  coppie  di  oggetti  sono  poste  in  prossimità l'una  dell'altra,  o  esaminate  insieme,  un  quinto  oggetto  è immediatamente  creato,  e  portato  sotto  l'esame  dello  spi- rito al  momento  in  cui  egli  unisce  due  e  due  ».  Noi  ab- biamo osservato  che  anche  in  un  mondo  siftàtto  due  e  due sarebbero  sempre  eguali  a  quattro,  benché,  in  un  certo senso,  laggregato  totale  l'ormato  dalla  riunione  di  due  og- getti a  due  oggetti  sarebbe,  non  quattro,  ina  cinque;  e  che la  supposizione  mostra  che,  se  il  contrario  della  proposi- zione aritmetica  che  atlerma  un'eguaglianza,  è  inconcepi- bile, il  contrario  della  proposizione  fisica,  strettamente  le- gata con  la  prima,  e  che  afferma  una  seipienza,  può  con- cepirsi— quantunque  in  (luesto  caso  non  possa  invocarsi alcuna  ditl'erenza  nella  frequenza  delle  esperienze,  Tespe- rienza  dell'una  di  queste  due  verità  essendo  stata  per  noi sempre  congiunta  con  quella  dell'altra  — .  Ora  se  vi  ha  una verità  fondata  suirunitbrme  esperienza  d'ogni  momento, é  certamente  (luesta  persistenza  numerica  degli  oggetti, questo  fatto  die  l'aggregato  totale,  risultante  dalla  riunione di  più  aggregati  minori,  è  uguale  alla  loro  somma.  Ma se  una  verità  familiare  come  questa  diilerisce  ciò  non  per tanto  da  una  verità  necessaria,  allora  bisogna  convenire che  tra  le  verità  necessarie  e  le  contingenti  vi  ha  una  dif- ferenza di  specie,  e  non  una  semplice  differenza  di  grado, dovuta  alla  frequenza  più  o  meno  grande  delle  esperienze  (1). '{)  Un  esenii'ìo  «r  inconccpilìilità  della  negativa  dovuta  all'asso- ciazioTie,  il  (iiialr  -^i  trova  in  quasi  tutti  gli  associazionisti,  è  Tini- possibilità  di  concepire  separatamente  il  colore  e  l'estensione.  Ha- milton obbiettava  giustamente  che  questa  incapacità  del  nostro pensiero  è  una  i^^ova  che  queste  due  proprietìi  degli  oggetti  ci  sono date  primitivamente  e  indissolubilmente  unite  (per  quanto  è  lecito dire  di  due  astrazioni  clie  esse  son(ì  indissolubilmente  unite)  in  una percezione  unica  del  senso  della  vista.  Se  il  colore  è  assolutamente inconcepil)ile  separatamente  dall'estensione,  ciòl)asta  a  dimostrare la  nullità  radicale  della  teoria  così  detta  empirista  sull'origine  delle nozioni  di  spazio:  perchè  la  teoria  supi>onendo  un  momento  in  cui ij  colore  esiste  nello  spirito  senza  l'estensione,  suppone  una  cosa che  è  per  noi  assolutamente  inconcepibile,  cioè  un  non  senso,  poiché una  cosa  inconcepibile  e  un  non  senso  sono  dei  termini  perfetta- mente sinonimi.  Quest'  argomento  acquista  una  forza  particolare contro  lo  Spencer,  per  cui  il  criterio  della  verità  consiste  nella  in- concepibilità della  negativa. In  altro  esempio  d'inconcepibilità  della  negativa  dovuta  aU'as- sui  iJMiri  l:  l'oggetto  della  conoscenza  a  piuori 4i7 §  4"  11  tentativo  di  spiegare  per  1'  associazione  delle idee  una  verità  necessaria  (  nei .  casi  in  cui  si  tratta  di una  necessità  assoluta,  come  nelle  verità  intaitice  della matematica^  è  al  fondo  contradcUttorio  in  se  stesso.  Uno dei  motivi  della  dottrina  degli  psicologi  intuizionisti,  se- condo la  quale  delle  proposizioni,  non  aventi  elfettivamen- te  che  ima  necessità  semplicemente  relativa  o  approssi- sociazione  è,  secondo  Mill  (/«'//os.  di  Hamilton,  e.  VI),  limpossibi- h'tà  di  rappresentarci  il  tempo  e  lo  s]»azio  come  liniti.  Ova  questa proposizione:  «  il  tempo  e  lo  spazio  sono  inHiiiti  »,  può  avere  <lue sensi.  Essa  può  enunciare  o  l'assenza  di  limiti  dell'insieme  degli oggetti  contenuti  nello  sjtazio  e  della  serie  dei  fenomeni  contenuti nel  tempo,  ovvero  semi>ìicemente  l'assenza  di  limiti  dello  sj^azio e  del  tempo  considerati  in  se  stessi.  Nel  ])imiìio  senso  In  iu'oi»osizione, come  vedremo  nel  li  Saggio  ]>arte  III.  lungi  <li  essere  necessai'ia, è  al  contrario  inconcei)ibile.  peivhè  essa  ammette  l'esistenza  d'ini infinito  attuo  le,  cioè  una  cosa  di  cui  non  abbiamo  alcunidea.  e  che implica  delle  conti*j\ddizioni  insolubili.  In  (pumto  jtoi  al  tempo  e allo  spazio  considerati  in  se  stessi,  cioè  fncendo  astrazione  dalle cose  estese  e  successive  i*ealmente  esistenti,  noi  dobbiamo  certa- mente concepirli  come  illimitati.  Ma  il  tempo  e  lo  s]>azio  in  ({uesto senso  non  sono  niente  di  reale:  essi  non  haimo  che  un'esistenza puramente  ideale,  non  sono  <*lie  delle  semitli<*i  possibilità  di  posi- zioni ]>er  le  cose  e  per  gli  avvenimenti.  L'atfermazione  deirinflnità del  tempo  e  dello  spazio,  in  <|uesto  senso,  non  implica  <lunque  Paf- fermazione  d'alcuna  realtà  o  alcun  giudizio  esistenziale,  iH'rche queste  nozioni  non  voigono  sul  reale,  ma  sul  p(^)ssil)ile.  «  Il  tem[>o è  intinito»:  ciò  vuol  dire  semplicemente  che.  data  una  siuM'e  di  fe- nomeni successivi,  di  (lualuncjue  lunghezza  essa  sììl  vi  ha  sempre posto,  prima  e  dopo  ([uesta  seiMe,  per  nitri  jtvvenimenti  possibili: in  altri  termini,  che  noi  possiamo,  in  iden,  ]>rolungare  la  serie  in- definitamente, (iioè  quanto  vogliamo.- «  Il  temiM»  è  infinito»,  «lo spazio  è  inhnito  »,  sono  dun(iue  una  specie  di  i)ostulati,  come  (piello della  geometria  che  «  una  retta  può  essere  prolungata  indefinita- mente», e  gli  altri  che  si  trovano  innanzi  al  I  libro  d'Eu('lide.  Onesti ]iostulati  sono,  in  un  senso,  delle  i»roi>osizioni  necessarie,  in  quanto la  possibilità  ideale  che  essi  enunciano  è,  in  un  senso,  necessaria. Attermare  la  necessità  di  una  di  queste  possibilità  ideali,  è  sem- plicemente alVermare  l'assenza  di  qualsiasi  incongruenza  o  impos- sibilità intrinseca  nella  nozione,  altermazione  che  è  necessn riamente m ) #1 mativa  — ma  che  questi  psicologi  confondono  con  le  pro- fKDsizioni  assolutamente  necessarie— sono  indipendenti  dal- Tesperienza,  è  certamente  la  difficoltà  che  noi  proviamo a  pensare  separatamente  le  idee  che  sono  gli  elementi  di queste  proposizioni^  (  v.  Saggio  2^',  parte  P,  Appendice 2^  al  cap.  6*^).  È  evidente  in  effetto  che  per  affermare  che esse  provengono  dall'  esperienza,  noi  dobbiamo  pensare vero,  come  sarebbe  necessarioinente  vera  ralferinazione  contraria^ se  si  trattasse  invece  di  una  no/ione  composta  di  elementi  incom- ]>atibili.  La  necessiti!  dell" infinità  del  tempo  e  dello  spazio,  nel  se- condo siirnifìcato  di  questa  espressione,  si  spiega  dunque  altrimenti che  i>er  le  leprgi  dellassociazione.  Se  invece  essa  s'intende  nel  primo significato,  cioè  che  il  reale  non  ha  limiti  né  nel  tempo  nò  nella spazio,  in  (luesto  caso  si  è  «-ertamente  fondati  a  dire  che  questa tendenza  pressoché  irresistibile  ad  oltrepassore  ciuolun(]ue  limite immaginabile  (tendenza,  per  altro,  che  non  esiste  ì>ropriamente  che per  i  limiti  nel  tempo,  non  i>er(]uelli  nello  spazio)  e  una  conseguenza dell'associazione  delle  idee;  ma  «juesta  tendenza  jirodotta  dall'as- sociazione può  cosi  poco  dar  luogo  a  delle  proposizioni  necessarie. che  essa  dà  luogo,  al  contrario,  a  delle  j^roposizioni  necessaria' mente  false. LoS])eneer.  i»ei  suoi  Piinripii  di  Psicoloffia,  dà  pure  degli  esempì di  proì>osizioni  necessarie  dovute  alTesperienza.  Nella  teorica  del ragionamenti)  (  voi.  Il  ]>.  VI),  dopo  aver  diviso  questo  in  quantitatico  e (juaìitatiro  ^  suddivide  il  secondo  in  perfetto  ed  imperfetto.  Un ri\S'ìoni\ mento  perfetto  é  quello  la  cui  conclusione  è  una  verità  ne- cessaria, cioè  di  cui  la  negazione  sarebbe  impossibile.  Quantunque quest'ultima  distinzione  sia  ivi  fondata  sul  carattere  dei  rapporti comi>arati,  che  nei  ragionamento  perfetto  sono,  secondo  l'autore, eguali,  mentre  nell'imperfetto  non  sono  clie  simili  (§  297),  tutta- via la  dottrina  generale  di  Spencer  sulT  inconcepibilità  della  ne- gativa é  che  questa  —  quando  non  deriva  da  una  necessità  pri- mordiale del  pensiero  —  è  fondata  sulla  frequente  ed  uniforme ripetizione  dell'esperienze,  sia  nell'individuo  sia  nella  specie.  Cosi, siccome  egli  considera  come  dovute  all'esperienza  le  verità  enun- ciate nei  suoi  ragionamenti  «jualitativi  perfetti,  sembra  che  per  lui la  necessità  di  queste  verità  sia,  in  ultima  anahsi,  fondata  sulle leggi  dell'associazione. Noi  al)biamo  visto  che  i  ragionamenti  qualitativi  perfetti,  che (jueste  idee  Tuna  separatamente  dairaltra:  dobbiamo  in- latti concepire  il  tempo  in  cui  il  legame  ira  (lueste  idee non  si  era  ancora  ibrmato,  e  immaginare  che,  in  con« dizioni  empiriche  ditlerenti,  questo  legame  non  si  sareb-. be  formato,  ma  si  sarebljero  formati  invece  altri  legami incompatibili  con  esso;  ciò  che  è  pensare  le  due  idee  sen- za il  loro  legame,  e  disgiungerle  Tuna  dalFaltra.  Ora  se Si>encer  chiama  a  r((pporfi  concinni/,  y.  e.  «so  A  coesiste  con  B e  H  con  C.  A  e  C  coesistono»,  «se  A  prei.'ede  H  e  H  precede  C,  A precede  C»,  ecc.  non  costituiscono  delle  inferenze  reali,  e  che  perciò tutta  la  necessita  della  conseguenza  si  riduce.  i>er  essi,  alla  neces- sità di  evitare  una  contraddizione.  In  quanto  a  (luclli  a  rapporti (Hxgìanti,  alcuni  esempi  addotti  dall'autore  (v.  VI  parte  e.  VI)  co- stituiscono delle  inferenze  reali,  ma  queste  inferenze  non  sono  delle verità  strettamente  necessarie,  cioè  il  cui  contrario  è  assolutamente inconccitiblle  uno  di  questi  esempi  consiste  nel  legame  fra  la  causa e  l'effetto,  e  mi  jiltro  in  (piclio  fra  la  sensazione  di  resistenza  e  la l)resenza  di  (pialche  cosa  di  esteso  (cioè,  secondo  noi,  di  visibile). Al  contrario  i  due  alti'i  esempi  che  egli  adduce  (v.  ;'/v6</),  se  sono delle  verità  necessarie,  non  sono  delle  inferenze  reali,  e  sì  ridu- cono al  fiiK)  generale  delle  proposizioni  così  dette  analitiche.  «Onesta massa  di  corda  coesiste  con  due  estremità  die  si  scopriranno  svol- gendola»: (juesta  proposizione  è,  secondo  Sjìoncer,  una  deduzione fonriata  sovra  «  un  rapporto  generalizzato  di  coesistenza  invaria- bile,  appoggiato  su  d'un'inlìnità  di  esperienze  senza  eccezione,  e per  conseguenza  conceiwto  come  un  rap])orto  necessario  ».  cioè  che «ogni  sostanza  tangibile  coesiste  necessariamente  con  due  estre- mità ».  Ma  la  proposizione  né  è  un  risultato  dell'esperienza,  nò  è l'atl^rmazione  di  una  coesistenza.  Noi  non  i)ossiamo  concepire  una corda  che  come  una  lunghezza  finita  (l'inllnito  attuale  essendo  in- concepibile).  e  non  possiamo  concepire  una  lunghezza  fniita  che come  avente  due  estremità.  Una  lunghezza  illimitata  essendo  in- concepibile e  ripugnante,  una  corda  che  non  avesse  due  estremità sarebbe  un  non  senso.  La  proposizione  è  dunque  analitica,  ed  essa non  i)uò  implicare  altre  aftermazioni  reali  ehe  di  somiglianza,  cioè di  classazione:  della  corda  svolta,  qualunque  sia  la  lunghezza  di cui  ce  la  rappresentiamo,  con  gli  altri  oggetti  aventi  due  estremità. In  altri  termini,  l'affermazione  contenuta  nella  proposizione  (in <juanto  essa  non  è  puramente  identica)  è  che,  qualunque  sia  la lunghezza  della  corda  che  noi  immaginiamo,  noi  possiamo  dare  a due  idee  sono  in  realtà  indissolubilmente  legate  fra  di  lo- ro, se  questo  legame  è  tale  da  produrre  una  assoluta  ne- cessità del  pensiero,  e  non  soltanto  una  necessità  relati- va o  approssimativa,  quale  è  il  caso  per  quelle  proposi- zioni; allora,  la  nostra  im[>otenza  a  separare  queste  idee non  essendo  più  relativa  o  a[)prossimativa,  ma  assoluta, noi  siamo  del  tutto  incapaci  di  conce]>ire  che  il  legame (lue  punti  oaduepai'ti  <ìella  luiii:lK;//.a  iimuni^MiiaLa  il  iioiiic  tJiestre- mitn.  classandoli  con  ltIì  altri  punti  o  con  le  altre  pai-ti  dellr  altre i;Tandezze  osservate,  a  cui  abbiamo  dato  lo  stesso  nome. Andiamo  alFaUro  esempin.  «Se  entrando  in  una  camera,  io  vedo die  unu  sedia,  che  io  aveva  situati!  in  un  ]>osto,  si  trova  ora  in un  altro,  e  una  conclusione  necessario  che  essa  ha  attraversato uno  spazio  intermediario:  è  inconcer>ibile  che  essa  sia  giunta  nella l»osizione  ]>resente  senza  essere  pass;\ta  per  le  ]>osizioni  interme- diarie fra  la  sua  situazione  ori.irinale  e  la  sua  situazione  attuale». Vi  ha  qui  secondo  Spencer  raft'ermazione  di  una  successione,  che si  fonda  suUesi^erienza  :  invece  secondo  noi  si  tratta  anche  in  (jucsto caso  di  una  proposizione  (aiaìitica,  nel  senso  ^ilmeno  della  propo- sizione in  cui  essa  è  strettamente  necessaria.  Si  è  già  osservato  che noi  riconosciamo  per  (mo  smesso  oggetto  delle  ]»resentazioni  distinte e  successive  dei  nostri  sensi,  alla  condizione  che  o  non  vi  sia  stato cangiamento  negli  attril)uti  imi>Iicanti  delle  relazioni  si>aziali,  o  che vi  sia  stato,  sotto  questo  rapporto,  un  cangiamento,  ma  risultante dall'  accumulazione  di  una  serie  di  cangiamenti  ciascuno  per  se stesso  indiscernibile.  Ne  segue  che  ^Tsedia.  da  noi  veduta  in  due posizioni  dilferenti.  non  sarebbe  da  noi  chiamata  la  stessa  sedia, se  noi  non  supponessimo  che  essa  ha  attravei-sato  le  posizioni  in- termediarie. Se  fossimo  costretti  ad  escludere  la  supposizione  t\i queste  ]»osizioni  intermediarie,  noi  non  diremmo  più  che  loggetto visto  nel  secondo  ]tosto  e  lo  Messo  che  (jucllo  visto  nel  iwimo;  ma che  l'oggetto  del  primo  posto  è  stato  distrutto,  e  un  altro  in  tutto simile  è  stato  creato  nel  secondo.  Ora  il  fatto  di  un  cominciamento assoluto  e  di  un  annichilamento  assoluto  di  un  corpo  è  certamente una  delle  cose  più  incredibili;  ma  nondimeno  (M  sembra  che  ogni persona  abituata',  come  dice  Mill,  all'astrazione  e  all'analisi,  non lo  troverà  inconcepibile;  questa  persona  vedrà  chiaramente  la  dif- ferenza fra  una  proposizione  cnunciante  un  simile  fatto  e  delle  i^ropo- sizioni  assolutamente  inroncei)ibili,comerhedue  e  due  fanno  cinque o  che  due  rette  chiudono  uno  spazio.  Cosi  se,  nella  proposizione non  si  è  formato  se  non  nel  corso  deir  esperienza,  che anteriormente  a  (juesta  esso  non  esisteva,  e  che  in  con- dizioni empiriche  differenti  esso  non  esisterebbe,  ma  esi- sterebbero invece  dei  legami  differenti  incompatibili  con esso;  perchè,  ripetiamolo,  concepire  ciò,  rappresentarselo/ sarebbe  rompere  il  legame  attuale  Ira  le  idee,  e  pensar- le separatamente  Tuna  dall'altra,  ciò  che  è  in  contraddi- zione con  ripotesi. Ne  segue  che  il  tentativo  di  spiegare  le  verità  neces- sarie per  la  forza  dellassociazione  timpirica  arriva  logi- camente al  risultato  di  negare  resistenza  di  verità  neces- sarie. Ed  è  di  questa  maniera  clie  la  intendono,  al  tondo, gli  associazionisti.  «  Non  vi  ha,  dice  Mill,  proposizione  di cui  si  possa  dire  che  ogn'intelhgenza  umana  deve  eter- namente e  irrevocabilmente  crederla.  Piti  proposizioni  a cui  questo  privilegio  era  accordato  con  la  piti  grande  con- fidenza, hanno  già  trovato  degl'increduli.  *Le  cose  che  si è  supposto  non  poter  mai  essere  negate  sono  innumere- voli; ma  due  generazioni  successive  non  si  accordereb- bero a  formarne  la  lista».  (Logica,  1.  3«,  e.  21).  Cosi  il Bain,  d'accordo  col  Mill,  non  accorda  l'esistenza  di  altre verità  necessarie  che  quelle  fondate  sui  principii  d'identi- tà e  di  contraddizione:  per  lui  verità  necessaria  e  propo- che la  sedia  ha  atti'aversato  le  ])Osizioni  iiUvrmediai'ie,  non  si  vedrà l)iù  il  semplice  enunciato  di  una  condizione  necessaria  dell'identità della  sedia,  ma  invece  Taffermazione  deiresistanza  di  questi  feno- meni intermediari  che  hanno  formato  il  legame  fra  le  due  presen- tazioni successive  dei  nostri  sensi,  allora  certamente  la  proposi- zione, in  questo  signillcato,  non  sarà  più  cauditica,  ma  non  sarà nemmeno  strettamente  necessaria. Ci  si  perdonerà  d'avere  insistito  cosi  lungamente  sucpiesto  sog- getto, che  ha  per  noi  la  sua  importanza;  la  quistione  se  Tassocia- zione  empirica  possa  formare  fra  le  idee  dei  legami  assolutamente indissolubili,  e  determinare  per  conseguenza  delle  proposizioni, nel  senso  stretto,  necessarie,  essendo  per  noi  connessa  con  le  qui- stioni  più  importanti  della  teoria  della  conoscenza. sizione  idtìntica  (o  puramente  verbale)  sono  termini  per- fettamente equivalenti.  (Logica,  t.  1",  Primi  princ.  della logica.) Noi  dobbiamo  aggiungere  all'osservazione  antecedente rimpotenza  in  cui  sono  gli  associazionisti,  di  spiegare  per il  loro  principio  la  necessità  delle  proposizioni  matemati- che. Intatti,  se  la  frequenza  delPesperienze  può  sembrare di  fornire  una  spiegazione  plausibile  delle  conoscenze immediate  delta  matematica,  lo  stesso  non  potrebbe  (J irsi per  le  conoscenze  defivate.  Si  può  certamente  invocare Tesperienza  d'ogni  momento  per  la  proposizione  clie  due e  due  fanno  quattro  o  ciie  due  rette  non  chiudono  uno spazio;  ma  le  proposizioni  che  la  tangente  non  tocca  il cerchio  che  in  un  punto,  che  la  somma  degli  angoli  d'un triangolo  è  uguale  a  due  retti,  e  in  una  ])arola,  un  teore- ma qualuncjue  della  geometria  o  dellalgebra  non  enun- ciano delle  verità  d'un'esperienza  cosi  familiare  come  mol- te proposizioni  sulle  cose  di  fatto,  le  quali  nondimeno  sono> contingenti,  mentre  le  prime  sono  necessarie.  Cosi  noi  ri- troviamo negli  empiristi  inglesi,  sotto  una  forma  più  ge- nerale, le  opinioni  dei  metageometri  sulla  contingenza  e sul  valore  limitato  delle  verità  matematiche.  «L  assioma: «  due  cose  eguali  ad  una  terza  sono  eguali  tra  loro  »,  non è,  dice  il  Bain,  una  verità  identica:  cosi  essa  non  è  una verità  necessaria»  (Logica,  lib.  2^  e.  5^,  4;  v.  anche  G). Il  Mill  cita,  approvandolo,  un  autore  anonimo,  per  mo- strare che  dei  principii  contrarii  alle  verità  più  familiari della  matematica  avrebbero  potuto  divenire  perfettamen- te concepibili,  anche  con  le  facoltà  che  abbiamo,  se  que- ste fossero  coesistite  con  una  costituzione  differente  della natura  esteriore.  La  citazione  comincia  per  la  supposizio- ne, da  noi  più  volte  menzionata,  di  un  mondo  in  cui  una quinta  cosa  è  immediatamente  creata  tutte  le  volte  che  si uniscono  due  e  due:  Fautore  ne  conclude  che  non  è  in- concepibile che  due  e  due  facciano  cinque  ;  ma  noi  abbiamo visto  die  egli  confonde  con  la  verità  matematica  e  com- parativa una  verità  fìsica  ed  esistenziale  che  è  con  essa strettamente  legata.  «  Si  potreijbc  pure  sui)porre,  continua l'autore,  un  mondo  in  cui  due  linee  rette  chiuderebbero uno  spazio.  Immaginate  un  uomo  che  non  ha  mai  avuto Tesperienza  di  due  linee  rette  i)er  T  intermediario  di  un senso  qualunque,  i)Onetelo  tutto  ad  un  tratto  sopra  una -ferrovia  che  s'estende  in  lontananza  su  di  una  linea  per- fettamente retta  a  una  distanza  indelinita  nei  due  sensi. Egli  vedrebbe  le  rotaie,  le  ]3rime  linee  rette  ch'egli  aves- se mai  viste,  toccarsi  in  apparenza,  o  almeno  tendere  a toccarsi,  a  ciascun  limite  deirorizzonte,  e  ne  concludereb- be, a  difetto  d'ogni  altra  esperienza,  ch'esse  chiudono  uno spazio,  (piando  sono  pi*olungate  abbastanza  lontano.  L'e- sperienza sola  potrebbe  disingannarlo.  In  un  mondo  in  cui ogni  oggetto  fosse  rotondo,  alla  sola  eccezione  di  una  fer- rovia retta  inaccessibile,  tutti  crederebbero  che  due  linee rette  chiudono  uno  spazio.  In  (piesto  mond(j,  per  conse- guenza, rimpossibilità  di  conceiàre  che  due  linee  rette possono  chiudere  uno  spazio,  non  esisterebbe»  (\\  Filos. (li  Hamilton  cap.  (>*\  Conl'r.  cap.  14*',  verso  la  fine). In  realtà  in  questo  mondo,  in  cui  non  esistessero  al- tre linee  rette  che  le  rotaie  di  una  ferrovia  inaccessibile, non  sarebbe  vero  i)er  nessuno  che  due  linee  rette  posso- no chiudere  uno  sj^azio,  quantuncpie  potrebbe  essere  ve- ro clie  nessuno  avesse  l' idea  di  linee  rette.  Il  Alili  come chiunque  altro  chiama  un'illusione  della  prosprettiva  quel- la di  una  ])ersona  die,  gettando  gli  occhi  sopra  una  via lunga,  vede  convergenti  i  due  lati  che  in  realtà  sono  pa- ralleli :  ora  Y  illusione  non  consiste  in  ciò  che  le  forme geometriche  percepite  sembrano  avere  proprietà  diiferenti di  quelle  della  stessa  specie,  ma  in  ciò  die  gli  ogget- ti sembrano  avere  delle  forme  geometriche  d'un'altra  spe- cie di  quelle  die  essi  hanno  in  realtà.  (Queste  linee  che l'occhio,  i)er  un'illusione,  vede  convergenti,  egli  non  le  percejàsce  come  parallele  nò  come  pertettamente  rette:  quin- di,  se  noi  non  potessimo  rettificare  quesf  illusione,  noi non  ne  inferiremmo  già  che  due  parallele  convergono  o che  due  rette  jxDssono  chiudere  uno  spazio,  ma  che  le  li- nee, che  noi  guardiamo,  non  sono  parallele  ne  rette.  La stessa  osservazione  vale  per  Taltra  citazione  che  la  il  Mill della  Geometria  dei  visibili  di  Reid,  in  cui  questo  filoso- fo sostiene  che,  se  noi  avessimo  il  senso  della  vista  ma non  il  senso  del  tatto,  ci  semljrerebbe  che  ogni  linea  ret- ta prolungata  deve  ritornare  infine  su  se  stessa,  e  die due  linee  rette  prolungate  devono  incontrarsi  in  due  i)un- ti.  L'i[Kìtesi  di  Reid  riposa  sulla  teoria  che  noi  non  i)er- cepiamo  immediatamente  per  la  vista  la  terza  dimensio- ne dello  spazio.  Supponiamo  che  ([uesta  teoria  sia  vera^ e  che  Reid  fosse  i)erciò  fondato  ad  asserire  che  ad  un  uo- mo, limitato  al  solo  senso  della  vista,  le  rette  sembrereb- ì)ero  ritornare  su  se  stesse.  Non  ne  seguirebbe  che  que- st'uomo attribuirebbe  alle  rette  geometriche  proprietà  dil- ferenti  da  ({uelle  che  noi  ad  esse  attribuiamo,  ma  che  quel- le linee  che  noi  vediamo  rette,  egli  non  le  vedrebbe  tali, ma  di  tutt'altra  forma. §  5"  Conformemente  alla  dottrina  che  non  vi  ha  al- tra necessità  nelle  j)roiX)sizioni  che  quella  fondata  sul I)rincipio  di  contraddizione,  o  in  generale,  sui  principii  del- la conseguenza,  il  Mill  sostiene  che  i  teoremi  della  ma- tematica sono  delle  verità  necessarie,  solo  in  (juanto  de- rivano necessariamente  dalle  loro  premesse.  1  risultati delle  matematiche,  egli  dice,  e  in  generale  delle  scienze deduttive,  ^  sono,  senza  dubbio,  necessarie  in  questo  senso ch'essi  derivano  necessariamente  da  certi  [)rincipii,  chia- mati assiomi  e  definizioni  ;  cioè  a  dire  eh'  essi  sono  cer- tamente veri,  se  questi  assiomi  e  definizioni  lo  sono;  per- chè la  })arola  necessità,  anche  presa  in  questo  senso,  non significa  niente  di  più  che  certezza».  Noi  sappiamo  cli-i secondo  il  ]Mill  (questo  carattere  di  necessità  e  di  certezza  |)articolare  attribuito  alle  proposizioni  della  geometria. è  un'illusione,  perchè  alcune  delle  premesse  su  cui  (|ue- ste  proposizioni  si  fondano,  cioè  le  ipotesi  implicate  nelle definizioni,  si  allontanano  sempre,  più  o  meno,  dalla  ve- rità (  V.  e.  G'^  §  10  ).  Non  occorre  di  ritornare  su  (] uesta opinione  del  Mill,  di  cui  abbiamo  sufiicientemente  discus- so il  fondamento  su  cui  essa  è  appoggiata,  cioè  la  dot- trina che  una  definizione  geometrica  implica  la  supposi- zione deir  esistenza  di  oggetti  reali  corrispondenti  alla  de- finizione. Noi  abbiamo  visto  che  non  è  vero  che  questa pro[)Osizione  esistenziale  sia  una  premessa  della  geome- tria. Ma  quand'anche  l'argomento  del  Mill  fosse  proban- te contro  l'esattezza  e  il  rigore  delle  pi'oposizioni  geome- triche, sarebbe  sempre  un/r/noratio  clcticld  come  obbie- zione contro  il  carattere  (fi  necessità  che  si  attribuisce  a queste  proposizioni  ;  poiché  la  necessità  matematica  non consiste  in  ciò  che  le  proposizioni  di  questa  scienza  sia- no più  rigorosamente  vere  che  quelle  delle  altre  scienze e  più  esattiimente  conformi  ai  fatti,  ma  nella  incapacità del  nostro  spirito  di  sup[)orre  come  j)Ossibile  il  contrario di  ciò  die  enuncia  una  pro[)0si/jone  matematica  già  ri- conosciuta come  vera,  mentre,  [)er  le  proposizioni  meglio stabilite  delle  scienze  fisiche,  questa  possibihtà  del  con- trario può  essere  sempre  supposta.  \\  questo  il[)untoclie il  Mill  perde  di  vista  nelle  sue  considerazioni  su  (juesto soggetto  (hb.  2"  e.  .l'^  e  G"):(iuaiìdo  si  tratta  degli  assiomi, egli  può  spiegare  la  coscienza  della  necessità  per  la  leg- ge dell'associazione  inseparabile  ;  ma  questa  spiegazione essendo  inapplicabile  alle  proposizioni  dimostrate,  egli  non lascia  perciò  altra  necessità  a  queste  ultime  che  quella della  dinixstrazione  stessa,  cioè  il  sentim3nto  della  con- nessione necessaria  fra  le  [)reiiiesse  e  la  conseguenza, che  accompagna  ciascun  passo  del  ragionamento.  «  (Quan- do si  di!e  che  le  conclusioni  della  geometria  s^no  delle verità  necessarie,  la  necessità  consisti),  egli  «lice,  unica- 450 SAGdlO  PRIMO niente  in  ciò  che  esse  derivano  regolannerite  dalle  sup- posizioni da  cui  sono  dedotte Il  solo  senso  nel  quale le  conclusioni  di  una  ricerca  scientifica  qualun(]ue  pos- sano essere  dette  necessarie  è  che  esse  seii'uono  Icitti- mamente  da  qualche  supposizione,  la  (juale,  nelle  condi- zioni della  ricerca,  non  è  da  mettere  in  quistione.  È  per conseguenza  in  (jucsto  rapporto  che  le  verità  derivate  di ogni  scienza  deduttiva  si  trovano  con  le  induzioni  o  sup- posizioni su  cui  la  scienza  è  stabilita,  e  che,  vere  o  fal- se,  certe  o  dubbiose  in  se  stesse,  sono  sein[)re  ritenute certe,  relativamente  allo  scopo  particolare  della  ricerca  >'. Cosi  non  vi  lia,  secondo  il  iNIill,  alcuna  ditlerenza,  (juan- to  alla  necessità,  fra  le  matematiche  pure  e  quelle  bran- che delle  scienze  naturali  che,  per  le  matematiciie,  sono divenute  deduttive.  Siano  }).  e.  queste  due  proposizioni  : il  teorema  della  geometria  che  stabilisce  che,  nel  cerchio, il  diametro  ha  con  la  circostanza  il  rapporto  ;r,  e  il  teo- rema della  fìsica  che  stalàlisce  che  il  pendolo  ideale  ese- guisce intoi'no  alla  verticale  una  serie  indefinita  di  oscil- lazioni della  stessa  am[>iezza  e  della  stessa  durata.  Le due  i)roix3sizioni  sono  [)er  AJill  egualmente  necessarie, perchè  seguono  con  la  stessa  necessità  dalle  loro  premes- se: la  i)roi)Osizione  fisica  dai  principii  della  meccanica  su cui  la  teoi-ia  del  pendolo  è  fondata,  e  dalla  supposizione d'un  pendolo  nelle  condizioni  ideali  supposte  dalla  teoria; e  la  i>roposizione  geometi'ica  dagli  assiomi  della  geome- tria e  dalla  supposizione  di  un  cerchio  coiTispondente  al- la definizione.  Se  la  seconda  jn'oposizione  sembra  più  ne- cessaria della  prima,  è  <juesta,  secondo  lui,  un'illusir>iie, derivata  da  ciò,  die  mentre,  per  la  proposizione  fisica,  si tiene  conto  della  circostanza  che  non  vi  hanno  nella  real- tà dei  pendoli  esattamente  conformi  al  pendolo  ideale,  al contrario,  per  la  |)roposizione  geometrica,  si  mette  da  par- te la  circostanza  che  non  vi  Jianno  nemmeno,  nella  real- tà, dei  cerchi  esattamente  conformi  al  cerchio  della  defìnizione.  Noi  sappiamo  invece  che  la  diiìerenza  fraledue proposizioni  è  reale,  e  che  si  ha  ragione  di  chiamare  ne- cessar/a  la  geometrica  e  eontiiKjcnte  la  fisica,  in  quanto noi  possiamo  immaginare  facilmente  che  la  costituzione della  natura  avrebbe  potuto  essere  ditìerente  dall'  attua- le,  e  elle  un  potere  soprannaturale  potrebbe  cangiare  o sospendere  le  leggi  a  cui  il  pendolo  obljedisce  e  tutte  le altre  leggi  del  mondo  fisico,  mentre,  al  contrario,  noi  pos- siamo ignorare  quale  sia  il  i'a})porto  fra  il  diametro  e  la circonferenza,  ma  non  possiamo  allatto  supporre  che  il diametro  potrebbe  avere  con  la  circonferenza  un  rappor- to diverso  da  quello  che  noi  conosciamo  che  esso  ha. .^.  G^^  Quando  il  Alili  obbietta,  contro  l'esistenza  di  ve- rità strettamente  necessarie,  che  molte  proposizioni,  a  cui è  stato  accordato  il  privilegio  di  non  poter  essere  affatto negate,  hanno  poi  trovato  deglincreduli,  egli  pensa  a  certe induzioni  spontanee  dell'esperienza  [)iù  familiare,  ricevu- te come  verità  evidenti  per  se  stesse,  come  queste:  che niente  non  pu(')  essere  fatto  da  niente,  che  gli  antipodi  non possono  esistere,  che  una  cosa  non  può  agire  dove  essa non  ò,  ecc.  IMa  la  necessità  di  queste  e  simili  proposizio- ni non  è  che  quella  sorta  di  necessità  relativa  che  i)uò sola  derivare  dalla  forza  dell'associazione:  queste  sono delle  proposizioni  esistenziali,  e  noi  al)biamo  visto  che  la necessità,  nel  senso  stretto,  non  può  appartenere  che  alle proposizioni  comparative,  (juali  le  cosi  dette  analitiche  e quelle  della  matematica  pura.  Lo  stesso  Mill,  (v.  Filos,  dì Hamilton  e.  (')")  distingue  tra  ciò  che  è  nel  senso  stretto inconcepibile  e  ci(')  che  è  semplicemente  incredibile,  e conviene  che  la  negazione  delle  i)roposizioni  citate  non era  propriamente  inconcepibile,  ma  era  o  sembrava  in- credibile. Cosi  i  partigiani  della  scuola  intuitiva  gli  hanno opposto  che  egli  non  avrebbe  potuto  citare  un  sol  caso, in  cui  si  sia  provata  la  verità  o  anche  la  possibilità  di  un inconcepibile  nel  senso  proprio.  INla  io  non  so,  dice  il  Mill,  ({uale  risposta  potrebbe  darsi  alla  quistioiie  :  si  è  inai  pro- vato che  una  cosa  che  era  o  sembrava  inconcepil^ile  l'os- se vera  o  t)Ossibile  ?  «  la  (piale  i^otesse  impedire  di  repli- care che  ciò  che  si  chiamava  inconcepibile  non  era  niente di  più  che  incredibile;  in  ettetti,  poiché  T  inconcepibilità presenta  gradi  numerosi,  che  vanno  da  una  <1ebole  diffi- coltà a  un'impossibilità  almeno  temporanea,  non  vi  ha una  linea  precisa  tra  ciò  che  è  assolutamente  inconcepi- l)ile  (se  vi  ha  niente  di  tale)  e  ciò  che  è  totalmente  incre- dil)ile,  nò  anche  tra  ci(')  che  è  in(X)ncepibile  })er  ima  per- sona data  e  ciò  che  è  semplicemente  incredibile  per  essa  ». L'autore,  ris[>ondendo  cosi,  è  senza  dubbio  coerente  alla sua  dottrina,  che  s[)iega  le  verità  necessarie  per  un'as- sociazione inseparabile:  secondo  questa  dottrina  intatti non  vi  potrebbe  essere  una  linea  i)recisa  di  se[)arazione ira  i  due  ordini  (U  [)roi)Osizioni.  Ma  siccome  gli  avversari hanno  ben  ragione  di  sostenere  che  tra  i  due  ordini  di proposizioni  vi  ha,  non  una  ditlerenza  di  grado,  ma  una ditlerenza  s[)ecifica  ("(juantunque  alcun  hlosolb  della  scuola intuitiva  non  abijia  mai  tracciato  esattamente  la  linea  di separazione),  cosi  i  casi  citati,  e  che  si  potrebbero  citare, di  proposizioni  in  un  tempo  ricevute  come  innegabih  e<l evidenti  [)er  se  stesse,  e  in  un  altro  tempo  trovate  false o  dubbiose,  non  possono  provare  ([uest'assorzione  di  Mill, che  <f  non  vi  ha  punt(ì  pro[)Osizione  di  cui  si  possa  dire che  ogn'intelligenza  umana  deve  eternamente  e  irrevoca- bilmente crederla». .^.  7'\  Gli  associazionisti  inglesi  i30trebbero  difficilmen- te liberarsi  dalla  taccia  di  esagerazione  neirapplicazione ch'essi  hanno  l'atto  della  teoria:  non  solo  i  princii)ii  intui- tivi delle  matematiche  e  le  altre  [)roposizioni  reali  imme- diatamente conosciute  per  il  semplice  esame  delle  idee, ma  anche  quelle  che  vengono  chiamate  le(jffl  del  pensiero, cioè  i  principii  d' identità,  di  contraddizione  e  del  mez- zo c^scluso,  devono,  secondo  loro,  spiegarsi  per  l'associazione  (1).  La  teoria  associazionista  è  certamente  il  i)iù gran  progresso  che  abbia  mai  l'atto  la  psicologia,  perchè è  il  primo  tentativo  di  ricondurre  tutti  i  l'atti  dello  spiri- to a  leggi  precise  e  generali  :  ma  gli  associazionisti  ingle- (I)  stila  l'I  Mill,  (lUMiitiinque  esili  se  debba  considerare  «iuesti principii  come  delle  necessità  innate  del  pensiero,  o  come  dei  ri- sultati deir  esperienza,  suscettibili  di  essere  modidcati  dair  espe- rienza stessa  {Ff'ìos.  di  Haniiltofi  e.  0.  e  21.),  tuttavia  è  verso  que- st'ultima opinione  cl)e  seml)ra  inclinare.  Ecco  cosa  dice  nella  Lo- gi\'a  lib.  2.  e.  7.  «Questa  proposizione  (il  principio  di  contraddizio- ne) è  fondato  su  (juesto  fatto  che  la  credenza  e  la  non  credenza sono  due  stati  dello  spirito  dilterenti  che  si  escludono  nuituamente. K  ciò  che  e'  insegna  la  più  semplice  osservazione  su  noi  stessi. E  se  noi  estendiamo  al  di  fuori  Tosservazione,  troviamo  ]>ure  che luce  ed  oscurità,  rumore  e  silenzio,  movimento  e  riposo,  eiznaprlian- za  ed  inei^uai^^lianza,  prima  e  poi,  successiont^  e  sinuiUaneità.  ogni feno'meno  positivo  e  il  suo  negativo  sono  dei  fenomeni  .listinti, rontrastati  di  tutto  punto,  e  di  cui  l'uno  è  sempre  assente^  (juando l'altro  è  presente.  Io  considero  il  principio  in  «luistione  come  una generalizzazione  di  tutti  <{uesti  fatti». E  in  verità,  se  i  principii  d'identità  e  di  contradchzione  fossero delle  necessità  ol)biettive,  cioè  delle  leggi  delle  cose,  non  si  po- trebbe evitare  di  considerarli  come  delle  generalizzazioni  dell'espe- rienza. Ma  essi  non  sono  /cv/ry^ delle  cose,  perche  una  Icf/f/c  sui>- pone  l'accoppiamento  <li  due  fatti,  o,  quand'anche  si  ammetta  la teoria  concettualista,  almeno  di  due  attributi  o  di  due  nozioni distinte,  mentre  è  evidente  che,  dicendo  che  «se  A  è  lì,  A  è  H» (principio  d'identità)  o  che  «  se  A  è  H.  A  non  è  non  H  »  (principio di  conti  addizione  )  noi  non  facciamo  che  ritornare  puramente  e semplicemente  soi^ra  una  stessa  e  unica  nozione.  E  in  generale, una  ])roposizione  che  abbia  una  portata  obl)iettiva  .  alìerma  che certi  fenomeni  esistono,  e  che  essi  esistono  in  un  certo  ordine: se  la  pi'oposizione  è  negativa,  vuol  dire  che  noi  rifiutiamo  di  am- mettere l'esistenza  di  certi  fenomeni  o  di  certe  combinazioni  di fenomeni.  Ma  (piali  sono  i  fenomeni  o  combinazioni  di  lenomeni che  noi  alìermiamo,  (|uando  diciaincì  ciie  se  una  i^roposizione  è vera  .  è  vera  anche  la  sua  equivalente  ?  e  (juali  sono  quelli  che noi  rifiutiamo  di  ammettere,  quando  neghiamo  ciie  le  contratldit- torie  possano  essere  tutte  e  due  vere?  Glie  modiilcazione  avver- rebbe secondo  noi  nella  natura,  se  supponessimo  che  (]ueste  i>re- si  .sono  andati  sino  a  pretomlere  che  non  vi  l.anno  •ilti-c leggi  -nentali,  e  che  tutti  i  fatti  sono  spiegabi  p  l' 1  ti sole  legg..  (VI. Mill Dissertai  J  e  .//LI.sST III,  lOo  e  seg.;   (Questa  dottrina   esclusiva,  incontrandosi fese  lopi  delle  cose  .,on  esistessero  ?  Si  prelcndc  che  è  resierieii^-, -ore  ..esenti  al  tenn^o 'stesso  i„\;LZoT;r  «^^l^roln e  e  .dente  che  quando  la  ne,a.ionc  di  c.ualche  cosa  veTe  forni  U^ d  ^tr  di '"u;:  r:,u!"r  '^""'-'  "--«^ gene  •'  Wone  s,,'  f^" ?""''^^"t'  »«"  l"'Ssouo  nascere  per islisiiiiil Lh  w       :"  f  '' "  ""Possil.ile  (tranne  forse  per  alcuMo «juelli  •^•licIIaeclv-elcl.iamaore-anismiseni'n,„...^n;>  i  "-"'""  ''' ;liaPl.'ondereda,lesperien.a-criTe:n  o'     'ii   ":rr.3-r ^Mia.  avrebbe  l,iso,M.ato  che  noi  fossimo  stati  in  ."lo  di    .rei  H nozione  d.  una  coso  che  fosse  «1  tempo  stesso  luce  et,    eh  e movnnento  e  in  riposo,  e  in  una  parola,  .li  un  J^,'tto    lev  "    ! :;    ^""'."  «t<-^-  'le?li  attributi  -ontraddittóri.  xi";  per  '  i     ; rn SSe'chc',''.;"'''"'   '•""  '^"^  "'-'^'•-^'  -.rrispo.u  en  e      ; esistei   x"tt        r'     '  ""  """  «^^«^"t'-a'l.lixione  rea/e  non  può n:fvem."oT:;:.:vr'resi';;!::;;'V:r°''^^ •.l>hiM,Yì^   ^  leMsten/n  della  contrnddìziono  /va/c    Voi i  os^-me  ';n:ni':',r''v^'''-'^'''' •"  <--'-^  c-e  mS la  no,.a.  o  e  d  ir  "i    e.^di ",3"'''''^  >o.--.,,csprin,a  pere.ò ^i^ii  LMSLLii/a  (Il  (|ualelie  rosa,  perdio  ri  ^n-<.i»i».  .•,.. possibile  tanto  di  nirern.are,uanto  .li  negare  '.'[.^t,.n  io  si,; a.lat  o,.ensaro.  Co.i  ne.^ando  una,.roposixione  eont  uld     o   ' egualmente  che  ne^^amlo  un  .-en-hio,p,a,irato  o  un  I.i     òó  r eUi  i r"rol'"'n'"';  """  r'"-^   --.-nilicaté     a  e' si  n    Va,'       ^"^""f'^   <^'"^  a"oste  parole  abbiano  un Scon  la  tendenza  della  scienza  moderna,  che  non  può  ac- cordare air  uomo  una  posizione  privilegiata  nel  regno  della natura,  e  nei  tenomeni  deiranima  umana  non  può  vede- re che  razione  delle  stesse  leggi  che  governano  tutta  la natura  animata,  ne  è  sorta  quindi  la  necessità,  per  la  teo- ria associazionista,  di  spiegare  per  le  sole  leggi  dellas- sociazione  tutti  i  fenomeni  della  vita  psichica  in  generale. Cosi  in  virtù  di  una  felice  applicazione  del  principio  del-l'eredità, SI  è  cercato  di  spiegare,  al  punto  di  vista  della teoria  deirevoluzione,  tutto  ciò  che  vi  ha  d'innato  o  di istintivo  nella  vita  psichica  degli  animali,  per  l'accumu-lazione organica  delle  esperienze   avitiche.    Quantunque 1/ esi>res8ioiie  corretta  del  principio  di  contraddizione  non  è dun«iiie  clic  una  cosa  non  ])uò  essere  e  non  essere  al  tempo  stesso, o  che  un  nttributo  positivo  e  il  suo  negativo  non  possono  coesistere al  tempo  stesso  nello  stesso  sogiz-etto,  ma  sem])]icemente  che  due Itroposizioni,  di  cui  T  una  nega  ciò  clic  l'altra  alìerma,  non  pos- sono essere  tutte  e  due  vere.  È  dalla  obbiettivazione  illusoria  di questo  principio  e  degli  altri  dello  stesto  ordine,  implicata  nelle f(H'mule  comunemente  impiegate  per  enunciarli  (formule  clie  per idtro  il  Min  non  impiega),  che  è  venuto  naturalmente  il  tentativo di  derivarli  dairesi)erienza;  ed  anche  qui  questo  tentativo  non  ha mancato  di  conduri-e  al  solito  risultato  di  negarne  la  necessità  e r  universalità  assoluta.  Il  Mill  trova  a  ridire  sull' otTerma/Jone  di Hamilton  che  il  princii)io  di  contraddizione  e  le  altre  legge  del pensiero  siano  d'unapplicazione  universale,  e  che  noi  siamo  obbli- gati di  crederli  veri  anche  al  di  là  deiresperienza,  cioè  cidi  fenomeni. Egli  ammette  che  queste  leggi  sono  universalmente  vere  per  i  fe- '^oineni,  ma  non  è  sicuro  della  loro  verità  per  i  noumeni  (se  essi esistono):  la  inapplicabilità  di  questi  principii  ai  noumeni  viene, secondo  lui.  da  ciò  che  noi  non  abbiamo  il  dritto  di  estendere  al <li  là  'Ir^ir  esperienza  e  del  mondo  fenomenale  una  legge  che  noi non  abbiamo  riconosciuta  vera  se  non  dentro  questi  limiti.  (f7/05. di  Hamilton  e.  21,  e  Logica  1.  2.  e.  7.  §  4).  Si  può  accordare  certa- mente al  Mill  che  queste /cY/r/ó  ^cZ/)c'/^sfero  non  possono  applicarsi ai  noumeni:  ma  ciò  è  perchè  noi  non  possiamo  applicarli  clie  agli oggetti  del  nostro  pensiero,  mentre  i  noumeni,  a  dispetto  deir  e- timologia,  non  sono  degli  oggetti  del  nostro  pensiero. M2  non  si  possa  per  (jucsto   mezzo   rendere   conto  di  tutti  i fenomeni,  contbrmemente  alle  esigenze  della  teoria  asso- ciazionista  esclusiva  (i;,  la  trasmissione   ereditaria  delle acquisizioni  mentati  è  almeno  un'ipotesi  plausibile  e  che facilita  lo  studio  dello  psicologo  (coni'v.  Bain  Emozioni  e volontà,  1^  parte,  e.  2-,  UH):  ma  qualunque   sia  l'utilità di  quest'ipotesi  per  la  spiegazione  degli   altri   fatti  dello spirito,  non  pare  che  sin  (jui  se  ne  sia  tirata  ([ualche  luce per  le  (piistioni  controvei'se  relative  alla  nostra  conoscenza. Lo  Spencer  dà  quest'ipotesi  come  un  compromesso  tra  le due  teorie  rivali,  (juella  che  ammette  dei  principii  innati o  delle  necessità  congenite  al  pensiero,  e  l'altra  che  spie- ga gli  stessi  tatti  per  Tesperienza.   Ma  mi  sembra   un'il- lusione di  credere  che  la  teoria  dell'esperienza  possa  tirare (]ualche  forza  dalla  sua  alleanza  con  questa  ipotesi:  le  dif- ficoltà, reali  o  apparenti,  della  teoria  non  sono  di  natura tale  che  l'ipotesi  possa  darne  una  soluzione.  (Quando  p.  e.  i filosofi   razionahsti   affermano  clie  l'esperienza   non  può darci  delle  verità  necessarie,  e  che  perciò  noi  abbiamo  il lX)ssesso  di  (pieste  verità  sin  dall'origine  della  nostra  vita mentale,  non  è  certamente    sull'osservazione   dei   piccoli bambini  che  essi  intendono  di  fondare  la  loro  afterma- zione:  ora  è  unicamente  in  (juesto  caso  che  l'ipotesi  po- trebbe risolvere  la  difficoltà.  Ma  le  difficoltà  della  teoria dell'esperienza  sono  di  tutt'altra   natura:   alcune  di  esse non  sono  che  apparenti,  e  si  fondano,  come  a)  ubiamo  vi- (1)  Il  Danviu  vede  a  buon  dritto  no«^r  istinti  dogi"  insetti  neutri (come  le  formiche  e  le  api  operaie),  ohe  sono  i  i^iù  portentosi  fra tutti  quelli  Clio  si  siano  osservati,  un  caso  dimostrativo  contro  la dottrina  che  tutti  gl'istinti  non  sono  che  delle  al)itudini  ereditarie. Siccome  gl'individui  i  quali  soli  lasciano  una  discendenza,  lirin- dividui  fecondi,  mancano  di  questi  istinti,  quindi,  nella  loro  for- mazione, la  trasmissione  ereditaria  degli  efletti  dell'esercizio  o  del- l'abitudiue  non  può  avere  avuto  alcuna  pai'te{V.  Orinino  delle .aporie,  negl'intinti). : sto,  SU  certi  preconcetti  metafisici,  o  anche  direttamente su  certe  anticipazioni  dell'esperienza,  spontanee  e  natura- li al  nostro  spirito.  Alcune  altre  invece  sono  reali,  ed  esse colpiscono,  piuttosto  che  la  teoria  stessa,  certe  a[)plicazio- ni  che  si  è  preteso  di  farne.  Ora  le  difficoltà   inerenti   a queste  applicazioni  della  teoria  dell'esperienza  non  vengo- no per  niente  diminuite  dairi[)Otesi  della  trasmissione  ere- ditaria. Si  e  preteso  p,  e.  che  la  teoria  dell'esperienza,  con questa  modificazione,  potesse  rendere   conto   dell'origine delle  nozioni  di  s[)azio  inegUo  die  la  teoria  stessa  inter- pretata al  senso  ordinario:  ma  le  difficoltà   della   teoria genetica,  come  mostreremo  nella  2*  parte  del  Saggio  se- guente, sono  delle  difficoltà  intrinseche,  delle  vere  impos- sibilità logiche,  che  alcuna  ipotesi  sussidiaria,  per  conse- guenza, non  potrebbe  risolvere.  Non  è  meno  inutile  di  ri- correre a  ([uest'ipotesi  per  rendere  conto  di  (luelle  verità, necessarie  [)er  cui  la  spiegazione  empirica  si  trova  real- mente in  difetto,  cioè  che  sono  necessaire  nel  senso  stretto della  parola:  questa  spiegazione  n<'jn  ne  sareljlje   raffor- zata, che  se  la  ditferenza  tra  una  proposizione  necessaria (in  senso  stretto)  e  una  i)roposizione  contingente  potesse essere  l'eHetto  d'una  massa  più  o  meno  grande  d'esperien- ze, e  non  dipendesse  invece,  come  abbiamo   stabilito   nei calatoli  precedenti  e  in  questo  stesso  ca^iitolo,  dalla  natu- ra differente  del  contenuto  di  queste  pro[)Osizioni.  Per  le verità  comparative,  le  quali  sono  necessarie  [)er  il  fatto stesso  che  sono  comparative,  noi  non  al)))iamo  alcun  bi- sogno dell'ipotesi:  essa  potrebbe  valere  i)er  le  verità  esi- stenziali ;  ma  noi  abbiamo  visto  die,  nel  l'atto,  non  vi  han- no verità  esistenziali  strettamente  necessarie  (w  special- mente i  §  2''  e  3^  di  questo  capitolo). §.  8^  Il  padre  della  filosofia  empirista  odierna,  David liume,  ha  visto  e  stabiUto  esattamente  la  distinzione  fra le  due  classi  dei  giudizi,  che  i  rappresentanti  più  recenti di  (juesta  filosofìa  hanno  misconosciuto.  Vi  hanno,  socondo  Home,  due  classi  di  giudizi:  Tuna  concerne  le  relazio- ni delle  idee,  l'altra  le  cose  di  latto.  Le  proposizioni  ma- tematiche appartengono  alla  prima;  esse  esprimono  una relazione  tra  le  figure  o  tra  i  nimieri.  Tali  proposizioni si  scoprono  per  mezzo  di  semplici  operazioni  della  mente, ed  in  nulla  dipendono  dalle  cose  che  esistono  nell'univer- so. Quand'anche  non  vi  l'osse  cerchio  né  triangolo  nella natura,  i  teoremi  dimostrati. da  Euclide  conserverebbero sempre  parimenti  la  loro  evidenza  e  la  loro  eterna  veritcu Ma  le  cose  di  latto  sono  d'un'evidenza  ditlerente.  L'opposta di  ciascun  tatto  rimane  sempre  possibile  :  esso  non  implica contraddizione,  e  (luindi  si  concepisce  cosi  facilmente  e  di- stintamente come  se  fosse  vero.  Le  proposizioni  di  questa seconda  classe  non  sono  mai  ottenute  a  priori  (Saggio  i^. Hume  sembra  credere  clie  le  [>roposizioni  della  mate- matica, e  in  generale,  (jnelle  concernenti  relazioni  fra  le idee, siano  fondate  sul  i)rincipio  di  contraddizione;  il  die è  certamente  un  errore.  (  )ltre  a  ciò  il  fondamento  della classazione  è  in  lui  espresso  d'una  maniera  poco  precisa: cosi  egli  si  è  esposto  a  non  essere  compreso.  Ma  non  vi ha  dubbio  che  i  suoi  giudizi  sulle  relazioni  fra  idee,  i ([uali   sarebbei-o  sempre  veri,  (juaiKranche  non  esistesse alcun    oggetto  corrispondente  alle  idee,  non  siano  i  i>iu- 1  • (lizi  non  esistenziali,  essendo  opposti  ai  giudizi  concernen- ti cose  di  fatto,  cioè  esistenziali.  Quantunque  perciò  egli abbia  mancato  d'indicare  cliiarainente  che  questi  rapporti ira  le  idee  sono  dei  rapporti  comparativi  (non  in  verità fra  le  idee,  ma  fra  le  cose  stesse,  le  quali  non  sono  ne- cessariamente reali,  ma  possono  essere  semplicemente possibili),  tuttavia  egli  ha  tracciato  esattamente  la  linea di  separazione  fra  le  due  classi  dei  giudizi,  e  ha  ben  vi- sto che  alcun  giudizio  esistenziale  (  concernente  cose  di fatto)  non  può  essere  necessario  né  a  priore  (1).  Notiamo che  lo  scopo,  a  cui  Hume  fa  servire  la  sua  divisione  dei giudizio,  è  lo  stesso  che  il  nostro,  quello  di  determinare i  hmiti  della  conoscenza  a  priori,  mostrando  che  alcuna (1)  Huxley,  nel  suo  libro  su  D.  Ilunie,  (parte  II,  cap.  VI,  traduz. iranc.  pag.  163-160),  critica  questa  dottrina,  ma  mi    sembra  ch'egli H non  l'abbia  compresa  esottauicnte.  Naturalmente  i  suoi  attacclii sono  diretti  sovratutto  contro  l'apriorità  delle  proposizioni  mate- matiche. Che  bisogna  intendere,  egli  dice,  per  quest' asserzione che  le  proposizioni  di  questa  specie  si  scoprono  per  la  sola  ope- razione del  pensiero,  e  non  dipendono  in  niente  dalle  cose  che esistono  nell'universo  ?  Le  nostre  idee  dei  numeri  e  delle  figure  e delle  loro  relazioni  sono,  come  tutte  le  altre,  copiate  sulle  nosti'e- sensazioni,  e  ciò  che  noi  chiamiamo  universo  non  è  che  la  somma delle  nostre  sensazioni.  Supponete  che  non  si  produca  niente  nel- r  universo  che  rassomigli  alle  impressioni  della  vista  e  del  tatto: qual  idea  potremmo  avere  d'una  linea  retta,  e  a  più  forte  ragione d'un  triangolo  e  delle  relazioni  dei  lati  d"un  triangolo?  Cosi  pure senza  l'esistenza  nell'universo  d'impressioni  corrispondenti  all'af- fermazione della  somiglianza,  è  evidente  che  quest* afiermazione sarebbe  impossibile,  e (juindi  anche  l'assioma:  «  Due  quantità  egua- li a  una  terza  sono  eguali  fra  loro»,  che  non  ne  è  che  un  caso- particolare. Senza  dubbio  nessuno  contesterà  a  Huxley,  e  tanto  meno  un seguace  di  Hume,  che  le  idee  su  cui  volge  la  matematica  derivano dall'  esperienza  (  proposizione  tuttavia  che  non  é  vera,  in  sensa stretto,  se  non  dentro  certi  limiti  ;  poiché  è  evidente  che,  purché si  fossero  già  ottenute  dall'  esperienza  le  nozioni  più  elementari sulla  forma  e  sulf  estensione,  basterebbe  la  dethiizione  p.  e.  del cercliio  o  dell'ellissi  per  darci,  anche  in  difetto  d'esperienze  spe- cifiche,  la  nozione  di  queste  figure  geometriche.  Confr.  Bain  Lo- gica 1.  V.  e.  I.  n.  5).  Quando  Hume  dice  che  le  proposizioni  della matematica  non  dipendono  dalle  cose  che  esistono  nelf  universo, egli  non  vuol  dire  già,  come  suppone  Huxley,  clie  noi  potremmo formare  queste  proposizioni  anche  se  non  esistessero  nell'esperien- za le  sensazioni,  che  sono  gli  originali  delle  idee  su  cui  esse  vol- gono, o,  ciò  che  vale  lo  stesso,  anche  se  non  esistessero  nella  na- tura gli  oggetti  corrispondenti  a  queste  sensazioni;  ciò  che  egli vuol  dire  è  semplicemente  che  la  verità  dell'affermazione  conte- nuta in  una  proposizione  matematica,  è  logicamente  indipendente dalla  verità  o  falsità  dell' offermazione  deh' esistenza  di  oggetti reali,  a  cui  questa  proposizione  si  riferisca.  (È  ciò  che  viene  spie- «iu SAGGIO  PrUMO conoscenza  simile  non  è  possilMle  sulle  cose  di  fatto  cioè suU'  esistenza.  Ciò  basta  per  giustificare  I'  empirismo  al punto  di  vista  logico,  cioè  come  metodo.  In  effetto  il  me- gato  Halle  pnrole  die  se^niono  iinincliotaniento  :  «\o„  vi  fosse  nò cerchio  ne  triangolo  nella  natura,  lo  verità  .liniostrate  .la  Euclide non  con,servere.,l,oro  mono  „er  sempre  la  loro  certezza  e  la  loJo evi.lenza».  )  Cu.  e  perché  tali  proposizioni  non  concernono  resi- stenza n,a  solamente,  come  noi  abbiamo  si'io-alo,  delle  relazioni .  .  ^onnuhanxa  a,,|  dilTonza.  La  r.uistionc  o  dun,|ue.  non  se  le  i  lee che  unisce  una  proposizione  matematica  «lerivino  .lallesperienza ma  se  r  esr.orionza  sia  necessaria  per  -iustificare  T  afrermazionJ del  rapporto  che  è  Io-etto  di  una  fale,.roposizione.  Noi  abbia- mo .nostrato  che  non  lo  è,  perchè,  i^er  conoscere  i  rai>porti  .li  so- m.^'lianza  e  di  dilToronzo.allaos.servnzione  delle  cose  stesse  si  può sostituire  <|uella  .Ielle  i.leo  di  queste  cose A  .|uesf  asserzione  di  Iluine  che  Fen-lenza  delle  cose  di  fatto e  mleriore  a  .juella  delle  relazioni,r  i.iee,  si  puù  risi,onderc  a-- euinge  Huxley,  che  un  gran  numero,li  cose  di  fatto  non  sono  che mie  relazioni  d  idee.  Se  io  dico  che  il  rosso  non  rassomS^  al bleu,  10  |,ronunz.o  un  giu.lizio  su  una  relazione  .lideo  ma  s.^tratta anche  qu,  .li  una  cosa,li  fatto.  Anche  un  ricor.lo  an^r ma,S tempo  stes.so  che  una  cosa  .li  fatto,  una  relazione  d'idee  TercTè esso  espnme  una  .dazione  tra  l'avvenimento  die  ci  ricordiamo  e .1  tempo  presento.  In  questi  casi  il  .-ontrario  è  inconcepibit  come nelle  venta  matematiche. 11  .contrario  .lei,.rimo  di  .juesti  esempi  .^  certamente  inconcepi- bile; ma  1  esempio  o  precisamente  un  .^-'indizio  che  Ilume  avrebbe escluso  dalla  classe  di  quelli  concernenti  cose  di  fatto  pere  lònJn antenna  niente  sull'esistenza,  e  non  vi  avrebbe  visto  che  una  rela zioi.e  tra  i.lee.  In  quanto  al  giudizio  iin,.licato  in  un  ricordo  iltro contrario  sarebbe,  non  inconcepibile,  ma  semplice,,  rntr,nc  e, bile:  se  no.  ncoi-diamo  vivamente  e  chin.-araentc  un  Atto,n  n^' ^leaen/a  die  il  fatto  e  accaduto  realmente  è  certnmonfo,v ^rSi  r  d.Tii  i?r  ^'^r  ^"^  ^-'-•  t^"  no  sIl;: iiiiinoginaie  che  il  fatto  avrebbe  potuto  non  accadere  n^^oin^a mente  o  non^fìn^a  .T,iv.>^it  .  «'  '-aucic  assoiuta- iiit^nte  ©accadere  d  un  altra  maniera.  Il  ^nudizio  imnlicntn  in  .,n rorr„umf  tfr  "''5^    -  adotSoTclas  : queHi  Ì,l  e  còseTrTT""  -Momento  a  classario  tra etnlr^qu^rii  ^.'.iL'tdS  VlZ""'toclo  a  priori  e  il  metodo  a  posteriori  non  si  disputano  le conoscenze  sui  rapporti  comparativi  tra  gli  esseri— in  essi, cioè  in  quelli  fra  essi  che  sono  suscettibili  di  uno  studio scientifico,  il  regno  del  primo  di  questi  due  metodi  è  in- contestato—, ma  le  conoscenze  sugli  esseri  stessi,  le  loro proprietà,  la  loro  azione  mutua,  e  in  una  parola  il  loro esistere  e  il  loro  modo  di  esistere. r    'firMiioiiiiM   yii  limi IMipiM^m0>Ì ^J^JAU^JJ^A  Fondamento  psicologico  della  necessita e  apriorità  dei  giudizi  sulla  somiglianza. §  1.^  La  necessità  di  un  giudizio  non  consiste  in  altro <ihe  in  una  unione  inseparabile  fra  le  idee:  che  i  giudizi ^comparativi  sono  necessari  significa  dunque  che  vi  ha  una unione  inseparabile  fra  le  idee  dei  termini  del  rapporto  e quella  del  rapporto  stesso.  L'intuizione  ò,  piuttosto,  il  sen-timento della  somiglianza  (e  àdVintensità  o  grado  di  questa somiglianza),  che  è  la  base  e  l'elemento  di  tutti  i  rapporti comparativi  (somiglianza  e  differenza,  identità  e  non  iden- tità di  specie  o  di  genere,  eguaglianza  e  ineguagUanza, maggioranza  e  minoranza,  ecc),  è  indissolubilmente  legato alla  presenza  nella  coscienza  dei  termini  comparati:  di là  la  necessità  di  questa  classe  di  giudizi.  E  in  effetto  quando noi  diciamo  die  due  oggetti  hanno  fra  di  loro  un  rapporto di  somiglianza  o  di  differenza,  ciò  che  vogliamo  dire  è che  i  due  oggetti,  essendoci  presentati  insieme,  producono in  noi  il  sentimento  particolare  della  somiglianza  o  della differenza;  in  altri  termini,  il  rapporto  fra  i  due  oggetti non  ò  altro  che  questo  sentimento  particolare,  in  quanta è  prodotto  da  (juesti  oggetti.  La  rappresentazione  del  rap- porto fra  i  due  oggetti  non  può  essere  dunque  altro  che la  rappresentazione  del  sentimento  come  prodotto  da  essi, vale  a  dire  rappresentarseli  come  essenti  in  quel  deter- minato rapporto,  è  rappresentarseli  come  producenti  nella coscienza  quel  sentimento  determinato.  Ma  noi  non  pos- siamo rappresentarceli  come  producenti  in  noi  ([uesto  sen- timento,  a  meno  che  in  quest'atto  stesso  le  loro  rappre- sentazioni non  ce  lo  producano.  Come  dunque  la  perce- zione, o  il  sentimento  forte,  di  una  somiglianza  o  di  una differenza  nasce  dalla  j)resentazione  dei  termini  del  rap- porto, cosi  l'idea,  o  il  sentimento  debole,  di  questa  somi- glianza 0  di  questa  differenza  nas^e  dalla  rappresentazione di  questi  termini  medesimi.  È  impossibile  che  la  percezione di  termini,  i  (juali  hanno  tra  loro  un  rapporto  determinato, ci  dia  la  x)ercezione,  cioè  il  sentimento,  non  di  questo  rap- lX)rto,  ma  di  un  altro  differente  :  della  stessa  maniera  é impossibile  che  l'idea  di  questi  termini  ci  dia  l'idea,  cioè ancora  il  sentimento,  non  di  questo  rapporto,  ma  di  un altro  differente.  Cosi  vi  ha  un  legame  invariabile  fra  la coscienza  dei  termini  e  la  coscienza  del  rapporto,  tanto se  questi  termini  sono  attualmente  percepiti,  quanto  se essi  sono  semplicemente  rappresentati.  Ne  segue  che  non jKDtendo  noi  rappresentarci  i  termini  del  rapporto  come aventi  un  rapporto  differente  da  quello  che  effettivamente hanno,  il  contrario  del  giudizio  che  afferma  (questo  raj)- porto  non  i)uò  essere  concepito,  e  questo  giudizio,  quindi, è  necessario.  Sia  p.e.  la  proposizione;  L'uomo  è  un  animale: essa  afferma  una  certa  somiglianza  fra  l'uomo  e  gli  altri  es- seri animati.  È  impossibile  di  confrontare  nella  realtà  l'uomo con  questi  esseri  senz'  avere  il  sentimento  della  loro  somi- glianza: della  stessa  maniera  è  impossibile  di  comparare  le loro  idee  senz'avere  lo  stesso  sentimento.  Noi  non  possiamo dunque  concepire  che  luomo  non  sia  un  animale,  per  la  sem- plice ragione  che  la  rappresentazione  dell'uomo,  confrontata A con  le  rappresentazioni  degli  altri  esseri  animati,  desta  ne- cessariamente in  noi  il  sentimento  di  questa  somiglianza  che permette  di  aggregarlo  nella  loro  classe,  e  non  può  destare  il sentimento  di  una  differenza  tale  da  doverlo  escludere  da questa  classe.  Similmente  noi  non  possiamo  concepire  il contrario  della  proposizione  che  due  rette  non  chiudono  uno S[)azio,  cioè  che  esse  differiscono  da  uno  spazio  chiuso, perchè  per  pensare  che  non  ne  dilferiscono,  le  rappresen- tazioni di  due  rette  e  di  spazi  chiusi  dovrebbero  produrre in  noi  un  altro  sentimento,  e  non  quello  della  differenza che  è  invariabilmente  legato  con  (iueste  rappresentazioni. Cosi  pure  ò  impossibile  di  concei)ire  che  due  più  due  non siano  eguali  a  (juattro,  perchè  le  rappresoli tazioiii  di  due più  due  e  di  ({uatiro  dovrebbero  perciò  unii'si  cui  senti- mento della  disuguaglianza,  mentre  esse  sono  costante- mente  unite  con  quello  dell'uguaglianza.  Le  rappresenta- zioni dei  termini  del  rapporto  non  possono  produrci  un altro  sentimento  di  rap[)ort()  die  quello  [)r()dotto  dai  ter- mini stessi  :  cosi  noi  non  possiamo  pensarli  che  nel  ra}> porto  che  essi  hanno  in  realtà. ì:;n.  2".  Ma  quando  il  rapporto  che  noi  |)ensiamo  iion può  essere  conosciuto  d'una  maniera  intuitiva  come  negli esempi  ri[)ortati;  quando  p.  e.  noi  pensiamo  un'eguaglian- za, che  non  si  conosce  immediatament(3  o  per  una  sem- plice intuizione  come  quella  di  due  [)iù  due  e  di  quattro, ma  che  si  conosce  soltanto  per  dimostrazione,  come  è  il caso  in  tutte  le  eguaglianze  enunciate  nei  teoremi  geome- trici; sarà  vero  anche  allora  che  pensare  un  rapporto, p.  e.  d'eguaglianza,  è  avere  il  sentimento  o  l'intuizione  di un'eguaglianza  fra  termini  pre^senti  nel  nostro  pensiero? Potrebbe  sembrare  che  no;  perchè,  se  non  fosse  possibile di  pensare  un'eguaglianza  fra  angoli  o  linee  o  superficie che  alla  condizione  di  avere  il  sentimento  o  l'intuizione dell'eguaglianza  fra  (jueste  grandezze  nel  momento  che ce  le  rappresentiamo,  allora  ({uest'eguaglianza  non  sarebbe  una  verità  di  dimostrazione,  ma  una  verità  d'intuizio- ne. Vi  ha  (lui  dunque  una  difficoltà  reale,  che  pere)  non  è insolubile. Per  fissare  la  nostra  attenzione  sopra  un  caso  concre- to, prendiamo  p.  e.  la  proposizione  che  in  un  trian^rolo che  ha  due  angoli  uguali,  i  lati  opposti  a  questi  angoli sono  uguah.  Siccome  quest  eguaglianza,  almeno  quando si  tratta  d'un  grande  triangolo,  p.  e.  d'un  campo  triango- lare, non  può  essere  intuita  per  l'immediato  confronto  dei due  lati,  dire  che  questi  sono  eguali  non  è  altro  che  dire che  essi  hanno  lo  stesso  rapporto  con  una  misura  comu- ne. Un  rapporto  d'eguaglianza  non  può,  in  ultima  anali- si, indicare  altra  cosa  che  delle  percezioni  d'eguadianza che  abbiamo  effettivamente  avuto  o  che  potremmo  li  vere: ma  nel  nostro  esempio  come  in  tutti  gli  altri  in  cui  il rapporto  non  è  immediatamente  percepito,  esso  invece d'indicare  la  percezione  unica  deireguaglianza  immedia- ta, indica  tutte  le  percezioni  d'eguaglianza  che  sono  im- plicate nellbperazione  della  misura.  Siccome  l'eguaglianza enunciata  non  ha  senso,  in  questi  casi,  che  relativamen- te all'operazione  della  misura,  cosi  concepire  quest'egua- glianza non  può  essere  che  formarsi  una  concezione  delle eguaglianze  percettibili  implicate  nell'operazione  della  mi- sura.  Ora  è  evidente  che,  per  pensare  queste  ultime  egua- glianze, noi  non  possiamo  rappresentarci,  con  una  preci- sione rigorosa,  i  termini  fra  cui  corrono  tali  rapporti; perchè  ciò  sarebbe  rappresentarci,  con  una  precisione  rigo- rosa, tutta  roi)erazione  della  misura,  cioè  le  grandezze  "(la misurare,  la  grandezza  che  serve  a  misurarle,  e  l'applicazio- ne successiva  di  quest'ultima  sulle  due  prime  Se  fosse  pos- sibile di  rappresentarci  tutto  ciò  con  una  precisione  rigo- rosa, (luestamensurazione  ideale  equivarrebbe  ad  una  men- surazione  reale,  e,  per  cpiesta  sola  operazione  mentale,  noi potremmo  conoscere  allora  il  rapporto  enunciato  nella proposizione  d'una  maniera  cosi  intuitiva   come  lo  cono- I sciamo  per  roperazi(jne  reale  dalla  misura.  Tuttavia  noi non   possiamo  pensare  questo  rapporto  che  come  consi- stente in  certe  eguaghanze  percettibili  ossia  intuitive,  e non   possiamo  pensare  alcuna  di  queste   eguaglianze  se non  per  un  sentimento  di  rapporto  d'eguaglianza  datocida  due  termini  presenti  nel  nostro  pensiero.  Ciò  è  neces- sario, perchè  la  rappresentazione  d'un  rapporto  d'egua- glianza non  può  essere  che  la  percezione  o  il  sentimento di  questo  rapporto  allo  stato  debole,  e  nò  possiamo  con- cepire che  questo  sentimento  si  produca  indipendentemen- te dalla  presenza  nella  coscienza  dei  termini  del  rapporto, né  come  esso  possa  essere  la  percezione  di  un  rapiX)rto fra  termini  dati,  se  non  è  prodotto  dalla  presenza   nella coscienza  di  questi  termini  stessi.  Noi  dobbiamo  dunque ammettere  ciie  anche  in  questi  casi  noi  ci  rappresentia- mo i  rapporti   obbiettivi  per  dei  rapporti  corrispondenti intuiti  fra  le  nostre  rappresentazioni:  le  coppie  dei  termi- ni ideali  dei  rapporti  presenti  nel  nostro  pensiero  rappre- sentano le  coppie  dei  termini  reali  dei  rapporti  che  pos- sono essere  obbiettivamente  percepiti,  ma  non  li  rappre- sentano  adequatamente  ;  i  primi  termini  e  le  loro  egua- glianze,  piuttosto  che  le  rappresentazioni,  nel  senso  psi- cologico della  parola,  dei  secondi  e  delle  loro  eguaglianze, ne  sono  semplicemente  i  simboli.  Lo  Spencer  mostra  come una  gran  parte  delle  nostre  concezioni   scientifiche   non sono  che  simboliclie  (Pruni  pHndpìi,  e    2^)  ;  e  noi  stessi' abbiamo  già  osservato  che  le  nostre  nozioni  quantitative sono  generalmente  più  o  meno  inadequate  e  simboliche, essendoci  impossibile  di  rappresentarci  le  cose,  al  punto di  vista  della  quantità,  d'una  maniera  cosi  precisa  come ce  le  rappresentiamo  al  punto  di  vista  della  qualità. Il  carattere  simbolico,  e  perciò  in  un  certo  modo  ar- bitrario,  delle  nostre  concezioni  delle  eguaglianze,  e  in generale,  dei  rapporti  comparativi,  che  non  si  conoscono d'una  maniera  immediata  o  intuitiva,  fa  che  le  proposizioni  enuncianti  questi  rapporti,  non  hanno  per  sé,  rigo- rosamente parlando,  rinconcepibilità  della  negativa.  Non- dimeno anche  queste  proi30sizioni  sono  necessarie,  nel  sen- so die.  una  volta  conosciuta  la  loro  verità,  noi  non  pos- siamo supporre  che  le  cose  potrebbero  andare  diversa- mente,  come  lo  iX)ssiarao  sempre  per  le  verità  esisten- ziali,  anche  le  più  evidenti.  E  la  ragione  è  che  noi  non IX)ssiamo  rappresentarci  un  rapporto  di  somiglianza  che come  dipendente  necessariamente  dalla  natura  dei  ter- mini del  rapporto  stesso,  tutti  i  rapporti  tali  esistenti  nel nostro  pensiero,  o  che  rappresentino  adequatamenteirap- porti  obbiettivi,  o  che  ne  siano  semplicemente  i  simboli, essendo  semi)re  concepiti  in  una  connessione  necessaria coi  loro  termini. .^  3.  Latto  dunque  dello  spirito,  quando  esso  percepi- sce 0  pensa  un  rapì)orto  comparativo,  è  una  vera  azio- ne riflessa  del  cervello,   nel  senso  più  proprio  della  pa- rola: i  termini  del  rapporto,  quando  essi  sono  presentati d'una  maniera  conveniente  ai  nostri  sensi  o  rappresen- tati nel  nostro  pensiero,  ci  destano  irresistibilmente  e  fa- talmente il  senso  del  rapporto;  la  coscienza  del  rapporto non  può  avere  per  condizione  che  la  coscienza  dei  ter- mini, ed  essa  è  tale,  se  questi  termini  sono  tali;  il  rap- porto sentito  non  i)Otrebbe  cangiare,  a  meno  che  i  ter- mini non  cangino.  È  una  necessità  primitiva  e  irredut- della  nostra  costituzione  mentale,  un  atto  prlma-r riamente  automatico  della  nostra  intelligenza,  e  noi  non dobbiamo  sorprenderci  se  le  necessità  acquisite  del  pen- siero, dovute  allassociazione  o  alFabitudine,  quelle  che  si sono  chiamate  delle  azioni  secondariamente  automaticJte, non  possono  competere  per  la  loro  forza  con  (juesta  ne- cessità, che  è  ingenita  al  pensiero  stesso. Ciò  che  abbiamo  detto  siùega  pure  perché  le  verità comparative  possono  essere  conosciute  a  priori.  Allonta- nate le  ipotesi  sussidiarie  dei  razionalisti  per  ispieirare  la possibilità  dei  giudizi  a  priori  (  dottrina  analitica,  teoria deirintuiziono  razionale,  ecc.),  la  quistione  sull'esistenza di  questi  giudizi  si  riduce  a  sapere  se  esistono  o  no  fra le  nostre  idee  delle  connessioni  primitive  e  non  derivate dair  esperienza.  Per  le  verità  esistenziali  non  vi  ha  nel nostro  spirito  alcuna  connessione  simile:  cosi  i  giudizi  che hanno  per  oggetto  queste  verità  sono  tutti  a  posteriori. Noi  non  potremmo  mai  indovinare  per  la  semplice  con- templazione deir  idea  d'una  cosa  se  questa  cosa  esiste  o no  nella  realtà  :  similmente  é  invano  che  noi  ricorrerem- mo alla  contemplazione  delle  idee  di  due  fenomeni  per apprendere  se  il  primo  suole  o  no  precedere,  seguire  o accompagnare  il  secondo.  Ciò  è  perché  non  vi  ha  nella nostra  organizzazione  psichica  alcun  atto  primariamente automatico  che  associi  il  sentimento  della  realtà  alla  ra})- presentazione  di  un  fenomeno,  o  (juesta  rajjpresentazione a  quella  di  un  altro  fenomeno  antecedente,  susseguente o  concomitante.  La  contemplazione  delle  sole  idee  ci  ba- sta al  contrario  per  vedere  se  due  oggetti  sono  simili  o difterenti,  per  conoscere  che  il  bleu  non  é  il  rosso,  che tal  gradazione  d'un  colore  é  più  carica  che  tal  altra,  che la  retta  é  più  breve  della  spezzata  e  della  curva,  ciie  due e  due  sono  eguali  a  quattro  e  sono  minori  di  cinque,  ecc- Cosi  i  giudizi  sulla  somiglianza  possono  essere  a  priori, perché  T  osservazione  delle  cose  può  essere  sostituita  da (juella  delle  loro  idee.  E  la  ragione  è  che  la  coscienza  di un  rapporto  di  somiglianza  essendo  invariabilmente  le- gata alla  coscienza  dei  termini  del  rajjporto,  essa  deve accompagnarla,  tanto  se  questi  termini  appariscano  nel- la coscienza  a  titolo  di  realtà,  cioè  di  sensazioni  forti,  (pian- to se  vi  appariscano  a  titolo  d'idee,  cioè  di  sensazioni  de- boli. 11  legame  é  lo  stesso  nell'un  caso  e  neiraltro,  e  cicV che  è  vero  delle  nostre  idee  si  trova  necessariamente  ve- ro delle  cose  stesse. i:>  4°  Ma  qui  sorge  naturalmente  una  (piistione  :  (juando  noi  confrontando  le  nostre  rappresentazioni,  scopria- mo fra  di  loro  un  certo  rapporto  di  somiglianza,  cioè  ot- teniamo  da  questo  confronto  un  certo  sentimento  di  so- miglianza,  noi  atlermiamo  subito  che  le  cose  corrispon- denti alle  rappresentazioni  hanno  lo  stesso  rapporto,  cioè che  lo  stesso  sentimento  sarà  ottenuto  dal  confronto  di ^jueste  cose  stesse.  Noi  dunque,  passando  cosi  dal  rappor- to sperimentato  fra  le  idee  al  rapporto  non  ancora  spe- rimentato fra  le  cose,  facciamo  una  vera  anticipazione suiresperienza  futura.  Ora  si  domanda  :  per  lare  questa anticipazione,  cioè  per  sapere  che  i  rapporti  fra  le  idee corrispondono  ai  rapporti  fra  le  cose,  ci  fondiamo  noi  sul- lesperienza  del  passato,  la  quale  ci  mostra  costantemen- te questa  corrispondenza,  ovvero  agiamo  in  virtù  di  una necessità  del  pensiero,  anteriore  e  indipendente  dair espe- rienza stessa  ?  Noi  crediamo  che  è  la  seconda  supposi- zione che  è  la  vera,  e  che  questo  fatto  costituisce  un'ec- cezione alla  teoria  deir  esperienza,  l'unica  eccezione  per altro  che  vi  sia,  pc»ichè  è  su  questo  fatto  che  riposa  in  defi- nitiva il  carattere  a /)r/or/ di  tutte  le  conoscenze  razionali. Sia  p.  e.  la  proposizione:  due  più  due  sono  eguali  a  quattro, e  supponiamo  un'intelligenza  che  venga  a  conoscere  per la  prima  volta  questa  verità,  per  il  confronto  delle  solo idee.  Se  si  conviene  che  questa  è  una  verità  necessaria nel  senso  più  stretto,  e  che  il  suo  contrario  è  inconcepibile, deve  ammettersi  pure  che  quest'intelligenza,  non  potendo concepire  che  due  coppie  di  cose  reali  fossero  ineguali  a quattro,  non  aveva  la  possibilità  di  dubitare  clie  il  rap- porto fra  le  cose  reali  dellesperienza  potesse  diflerire  dal rapporto  che  essa  veniva  a  scoprire  fra  le  sue  idee;  e  che essa  era  forzata  quindi,  anteriormente  alle  lezioni  dell'espe- rienza, ad  estendere  alle  cose  stesse  ciò  che  le  era  stato  ap- preso dalla  contemplazione  delle  sole  idee.  Tuttavia  si  sup- r)orrà  forse  che,  quantunque  questa  credenza  spontanea che  i  rapporti  percepiti  fra  le  nostre  idee  corrispondono ai  rapporti  percepibili  fra  le  cose,  non  sia  un  risultato  del- l'esperienza, l'esperienza  possa  almeno  giustificare  in  se- guito quest'anticipazione  che  noi  facciamo  spontaneamente sull'esperienza  stessa.  Anche  questa  supposizione  sarebbe, secondo  nt»i,  un  errore;  perchè  il  sentimento  del  rapixDrtO' essendo  indissolubilmente  legato  alle  idee  dei  termini  del rapporto,  ogni  verificazione  sperimentale  deiraftermazione si3ontanea  di  cui  si  tratta,  sarebbe,  se  ben  si  riflette,  im- possibile. Infatti  questa  verificazione  implica  che  noi. ci rappresentiamo  fedelmente  per  la  memoria  i  rapporti  per- cepiti, tanto  in  realtà  quanto  in  idea,  cioè  i  termini  di  questi rapporti,  si  i  reali  che  i  rappresentati,  in  connesione  con le  percezioni  dei  rapporti  stessi.  Ora,  rappresentarci  una somiglianza  o  una  differenza,  o,  ciò  che  vale  lo  stesso, la  percezione  di  una  somiglianza  o  di  una  differenza,  non essendo  altro,  come  abbiamo  visto,  che  percepire  attual- mente questa  somiglianza  o  questa  differenza  fra  le  no- stre  rappresentazioni;  siccome  la  rappresentazione  dei  ter- mini di  uno  di  tali  rapporti  produce  necessariamente  nel nostro  pensiero  la  percezione  di  questo  rapporto;  ne  segue che  noi  non  potremmo  altrimenti  rappresentarci  nella  me- moria questi  termini  che  col  rapporto  determinato  che percepiamo  fra  le  loro  rappresentazioni,  e  la  credenza nella  veracità  della  memoria  non  è  qui  che  un  caso  par- ticolare di  questa  credenza  spontanea  nella  corrispondenza dei  rapporti  rappresentati,  cioè  percepiti  nel  pensiero,  coi rapporti  reali,  cioè  percepiti  o  percepibili  fra  le  cose  stesse. Questa  corrispondenza  fra  il  pensiero  e  la  realtà  deve ammettersi  dunque  senza  prova  :  essa  è  un'affermazione primitiva  e  indimostrabile,  un  postulato  indispensabile  della nostra  intelligenza. §.  5.°  A  ciò  che  è  stato  detto  nel  paragrafo  precedente,, dobbiamo  aggiungere  un'altra  osservazione:  quando  noi diciamo  che  due  oggetti  sono  simili  o  differenti,  noi  non intendiamo  di  dire  semplicemente  che  la  presentazione  a «•!»la  l'iippresentazione  di  questi  oggetti  ci  produce  attual- mente il  senso  della  somiglianza  o  della  differenza  ;  ma che  la  somiglianza  e  la  differenza  appartiene  realmente agli  oggetti  stessi.  Siccome  un  rapporto  di  somiglianza  e di  differenza  non  è  niente  di  obbiettivo,  die  possa  esistere iuori  della  nostra  coscienza,  questa  proposizione,  che  la somiglianza  e  la  differenza  appartengono  realmente  alle cose,  non  significa  altro  se  non  che  le  slesse  cose  pro- ducono in  noi  costantemente  e  necessariamete  la  perce- zione degli  stessi  rapporti.  (  )raquest'ari'ermazione implicata in  tutte  le  nostre  affermazioni  di  rapporti  di  somiglianza  e  di ditl'erenza,  è  ugualmente  spontanea  ed  ugualmente  incapace di  una  verificazione  sperimentale;  o  piuttosto  essa  non  può essere  sottoposta  a  questa  verificazione,  se  non  si  ammette la  veracità  della  memoria  dei  rapporti  che  abbiamo  perce- pito, e  quindi  il  postulato  della  corrispondenza  dei  rapporti rappresentati,  cioè  intuiti  fra  le  nostre  idee^  coi  rapporti intuiti  0  intuibili  nella  realtà,  cioè  fra  le  cose  stesse.  Noi vediamo  dunque  che  (|uesto  postulato  è  implicato  in  tut- te le  affermazioni  sulle  somiglianze  e  sulle  differenze,  e che  tutte  le  conoscenze  che  hanno  per  oggetto  (juesti  rap- porti possono  riguardarsi  come  dedotte  dalF  esperienza, ma  purché  si  ammetta  come  un'  altra  premessa  questo postulato.  Come  infatti  Fesperienza  può  dimostrare  Tuni- Ibrmità  delle  nostre  percezioni  di  somiglianza,  ma  alla condizione  che  si  prenda  per  accordato  questo  principio indimostrabile;  cosi  è  sull'osservazione  che  si  fondano  le verità  sulla  somiglianza  che  noi  apprendiamo  per  il  solo pensiero— sulFosservazione  delle  idee  se  non  su  quella  del- le cose—,  e  ciò  che  in  esse  oltrepassa  la  semplice  osser- vazione, non  è  che  l'applicazione  alle  cose  di  ciò  che  ab- biamo osservato  nelle  idee,  fatta  in  conformità  di  questo principio  incUmostrabile.  Tutto  ciò  che  postulano  i  nostri giudizi  sulla  somiglianza,  è  dunque  contenuto  in  questo j)Ostulato;  ed  esso  non  è  una  conoscenza  a  priori,  ma  la conoscenza  a,  priori,  a  cui  si  riduce  tutto  ciò  che  vi  ha •di  a  priori  nelle  nostre  conoscenze. .^  ()''  La  nostra  proposizione  che  le  conoscenze  sulle somiglianze  possono  ottenersi  a  priori,  non  deve  inten- dersi nel  senso  che  tutte  queste  conoscenze  sono  eflètti- vamente  ottenute  cosi.  L'  apriorità  dei  giudizi  sulla  so- miglianza non  consiste  che  nella  possibilità  di  conoscere i  rai)porti  tra  le  cose  per  la  comparazione  delle  idee  di (jueste  cose.  Óra  quando  la  comparazione  di  due  cose  non ìjasta  ad  istruirci  sul  grado  preciso  della  loro  somiglian- za (  come  avviene  nella  più  parte  dei  casi  in  cui  si  trat- ta di  rapi)Orti  fra  grandezze),  la  com])arazione  delle  lo- ro idee  potrà  istruircene  ancora  meno.  Di  più,  per  quan- to vivamente  noi  ci  rappresentiamo  gli  oggetti,  le  nostre rappresentazioni  non  raggiungono  mai  il  grado  di  nettez- za e  di  distinzione  che  sarebbe  necessario  })erchè  una comparazione  ideale  equivalesse,  in  tutti  i  casi,  ad  una comparazione  reale.  Cosi  in  molti  casi  le  nostre  conoscen- ze sulle  somiglianze  sono  altrettanto  emi)iriche  quanto quelle  sulle  sequenze  o  sulle  coesistenze.  (Quelle  stesse  di queste  conoscenze  che  sono  a  j)riori,  cioè  che  noi  possia- mo ricavare  dal  semplice  esame  delle  idee,  non  sono  tut- te egualmente  indii)endenti  dairesperienza.  Bisogna  distin- guere tra  verità  intuitive  e  verità  (T inferenza.  L'indi])en- denza  assoluta  daires])ericnza  non  ai)partiene  che  alle  pri- me: tali  sono  le  proposizioni  cosi  dette  analitiche,  e  tra  i principii  della  matematica  ;  le  proposizioni  più  semplici sulle  eguaglianze  numeriche  che  la  scienza  dei  numeri non  può  a  meno  di  supporre  come  immediatamente  co-,  e  alcuni  assiomi  della  geometria,  (juali  (juelli della  retta  e  del  piano,  e  quelli  che  il  tutto  è  maggiore della  parte,  e  che  due  grandezze  che  concidono  sono  egua- li (sono  quei  principii  che  il  Bain  dichiara  analitici).  La conoscenza  di  una  di  queste  verità  in  un  caso  particola- re è  sempre  immediata,  non  è  mai  un'inferenza  che  noi  tiriamo  dai  casi  anteriormente  sperimentati  a  un  nuovo  caso. Per  essere  certi  che  due  grandezze  date  che  coincidono sono  eguah,  noi  non  abbiamo  bisogno  di  fondarci,  né  con- sapevolmente né  inconsapevolmente,  su  questa  premessa che  in  tutti  i  casi  che  abbiamo  anteriormente  conosciuti^ due  grandezze  coincidenti  ci  sono  parse  sempre  eguali; ci  basta  perciò  di  vedere  o  d'immaginare  la  coincidenza di  queste  due  grandezze  particolari,  perche  noi  non  i30s- siamo  percepire  né  in  alcun  modo  rappresentarci  due  gran- dezze come  coincidenti,  senz'avere  la  coscienza  immediata,, cioè  r  intuizione,  della  loro  eguaglianza.  Similmente,  se noi  sappiamo  che  due  fiorini  e  due  fiorini  fanno  quattro fiorini,  non  è  una  conclusione  dall'esperienza  passata,  che ci  ha  appreso  che  due  coppie  d' oggetti  danno  costante- mente un  totale  di  quattro;  noi  abbiamo  l'esperienza  pre- sente di  questa  verità,  paragonando,  tanto  nella  semplice immaginazione  quanto  nella  realtà,  due  coppie  separate di  fiorini  con  quattro  riuniti.  Al  contrario,  quando  nella dimostrazione  di  un  teorema  noi  invochiamo  uno  degli assiomi  generali  sulle  eguaglianze,  noi  conosciamo  l'egua- glianza particolare  che  ne  concludiamo,  non  intuitivamente, ma  per  una  deduzione  fondata,  come  qualsiasi  altra,  sopra un'induzione  antecedente,  cioè  sopra  una  generalizzazione dell'esperienza  passata.  Questi  assiomi  dunque,  sui  quali sono  fondate  le  inferenze  nella  scienza  dei  numeri  e  nella geometria  metrica,  sono,  in  quanto  costituiscono  la  base di  queste  inferenze,  dei  principii  induttivi  e  sperimentali, come  sono  induttive  e  sperimentali  le  verità  particolari che  se  ne  inferiscono.  Cosi  le  verità  a  priori  sulle  somi- glianze, quando  non  sono  intuitive  ma  d'inferenza,  sono a  priori  in  un  certo  senso,  in  un  altro  sono  a  posteriori  : sono  a  posteriori  in  quanto  riposano  sull'induzione,  come le  verità  sperimentali  propriamente  dette;  e  non  sono  a priori  che  in  quanto  le  osservazioni,  su  cui  le  induzioni sono  fondate,  non  hanno  bisogno  di  essere  fatte  sulle  cose I  '' I ti Sn  Stesse  esteriori,  ma  basta  che  siano  fatte  sulle  idee  di  queste cose.  Noi  abbiamo  visto  che  le  verità  di  questa  classe,  cioè le  inferite,  sono  delle  concezioni  simboliche:  un  giudizio comparativo  intatti,  in  cui  le  rappresentazioni  sono  per-- rettamente  adequate  alle  cose  rappresentate,  non  può  non essere  una  conoscenza  intuitiva  (Ij. §.  7^  Prima  di  finire  questo  capitolo,  dobbiamo  ritor- nare su  alcune  osservazioni  già  fatte  nel  capitolo  >,  ma di  cui  ora  il  lettore  è  più  in  grado  di  giudicare  la  verità. La  dottrina  razionalista  contiene  due  gravi  difficoltà  in- trinseche, che  i  filosofi  di  questa  scuola  cercano  vanamen- te di  risolvere  per  le  ipotesi  sussidiarie  ch'essi  aggiungono alla  loro  tesi  principale.  L'una  è  che  bisogna  ammettere altrettante  necessità  del  pensiero  indipendenti  quante  sono le  conoscenze  supposte  a  priori,  cioè  propriamente  quante sono  quelle  fra  di  esse  che  non  possono  dedursi  da  altre conoscenze  più  generali.  L'altra  è  l'armonia  prestabilita che  essa  suppone  tra  lo  spirito  e  le  cose,  il  carattere  for- tuito e  l'inesplicabilità,  nei  giudizi  a  priori,  della  coinci- tra  il  pensiero  e  la  realtà.  La  nostra  propria  tesi, che  non  ammette  altri  giudizi  tali  che  quelli  sulle  somi- glianze, è  esente  da  queste  difficoltà,  e  non  ha  bisogno  di ricorrere  ad  ipotesi,  come  quelle  dei  razionalisti,  senza base  e  inconcepibili.  Essa  non  suppone  altro  d'innato  nello spirito  che  la  facoltà  di  parcepire  un  rapporto  di  somiglian- za, altra  necessità  del  pensiero  ciie  il  legame  tra  la  pre- senza nella  coscienza  dei  termini  di  questo  rapporto  e  il sentimento  del  rapporto  stesso.  In  questo  caso  la  corri- ci) Il  termine  conoscenza  intuìtica  ha  due  sensi  :  in  uno  vuol  dire conoscenza  Immediata,  e  si  oppone  a  conoscenza  dedotta  o  d'in- ferenza; è  in  questo  senso  che  lo  abbiamo  usato  nel  testo.  Nell'altro significa  che  nel  pensiero  vi  ha  la  rappresentazione  adequata  della cosa  pensata,  e  in  questo  senso  intiUUro  si  oppone  a  Minbolico. Le  conoscenze  matematiche  che  sono  intiUtice  in  questo  secondo» senso,  lo  sono  necessariamente  anche  nel  primo. S9BB 1  spondenza  fra  il  pensiero  e  le  cose  non  ha  niente  di  mi- sterioso: il  sentimento  del  rapporto  essendo  invariabilmente legato  alla  presenza  dei  termini  del  rapporto  nella  coscien- za, il  rapporto  è  ugualmente  sentito  tanto  se  questi  ter- mini sono  presenti  alla  coscienza  come  presentazioni  dei sensi,  (pianto  se  lo  sono  come  rappresentazioni  delFimma- ginazione,  e  i  rapporti  osservati  tra  queste  rappresenta- zioni non  possono  non  corrispondere  a  quelli  osservabili tra  le  cose  rappresentate  (Cont'r.  cap.  3^  §  6*').  In  ultima analisi,  le  proposizioni  necessarie  ed  a  priori  sono  tali, perchè  le  verità  che  esse  enunciano,  non  volgono  sulle cose  stesse,  sulla  realtà  obbiettiva,  ma  non  sono  che  delle vedute  del  nostro  spirito.  Non  vi  ha  tra  i  fenomeni  che noi  chiamiamo  del  mondo  esterno,  alcuna  connessione  tale, che  Tapparizionc  deir  uno  nella  coscienza  sia  invariabil- mente legata  all'apparizione  dell'altro  :  se  cosi  fosse,  la connessione  tra  questi  due  fenomeni  sarebbe  subbiettiva, e  non  obbiettiva.  È  dunque  perchè  il  rapporto  di  somi- glianza è  subbiettivo  e  non  obbiettivo,  che  esso  può  co- stituire una  necessità  del  pensiero;  ed  è  per  la  stessa  ra- gione che  noi  possiamo  apprendere  in  noi  stessi  le  veri- tà 0  le  leggi  che  corcernono  quest'ordine  di  rapporti.  L' inconcepìliflit/i  della  negativa e  il  postulato  universale. Noi  abbiamo  visto  nel  capitolo  antecedente  che vi  hanno  dei  principii  intuitivi  o  immediatamente  cono- sciuti, che  noi  dobbiamo  ammettere  senza  prova:  il  cri- terio della  validità  obbiettiva  di  questi  principii  è  che  la loro  negazione  sarebbe  per  noi  inconcepibile.  Ora  qui  si presenta  naturalmente  una  quistione:  non  potremmo  noi estendere  ad  altre  proposizioni  lo  stesso  criterio  ?  non  po- tremmo,  in  virtù  di  questo  stesso  criterio,  ammettere, senz'  altra  prova,  la  validità  oìjbiettiva  d'  una  credenza, fondandoci  sulla  jjersistenza  con  cui  questa  credenza  è presente  nella  nostra  coscienza?  non  j30trebbe  di  più  questo criterio  essere  il  criterio  unico  della  verità,  il  postulato universale,  in  modo  che  la  prova  di  una  verità  partico- lare non  consista  in  altro,  in  definitiva,  se  non  a  mostrare che  la  negazione  di  questa  verità  sarebbe  incompatibile con  Taffermazione  di  qualche  altra  verità  più  fondamen- tale, la  cui  persistenza  nella  coscienza  è  assoluta,  e  la  cui negazione  ò  per  conseguenza  impossibile  ?  Lo  Spencer  am- mette tale  dottrina:  Tinconcepibilità  del  contrario  è  secon- do lui  il  criterio  unico  della  verità,  e  il  postulato  universale  è  che  noi  dobbiamo  ammettere  come  vere  le  propo- sizioni il  cui  contrario  è  inconcepibile.  Questo  criterio  ga- rantisce secondo  lui  la  verità  delle  credenze  naturali  die i  discepoli  di  Berkeley  si  sforzano  di  negare:  di  più  è  sullo stesso  criterio  che  si  basano  le  generalità  più  alte  della scienza;  e  siccome  queste  generalità  sono  le  premesse  ul- time della  conoscenza  umana,  oltre  i  fatti  particolari  e  im- mediati delFesperienza,  la  cui  verità  é  del  pari  garantita dallo  stesso  criterio,  cosi  è  su  di  esso,  in  definitiva,  che è  fondata  tutta  la  certezza  delle  nostre  conoscenze. Lo  Spencer  comincia  per  istabilire,  sul  fondamento  del suo  postulato  universale,  il  principio  della  persistenza  della materia:  noi  non  possiamo  concepire,  secondo  lui,  che  la materia  possa  crearsi  o  distruggersi,  ed  è  perciò  che  am- mettiamo che  la  quantità  della  materia  è  inalterabile^  che essa  non  può  accrescersi  né  diminuire. A  ciò  potrebbe  obbiettarsi  prima  di  tutto  che^,  quan-^ tunque  la  creazione  e  Tannientamento  della  materia  siano- dei  fatti,  non  solo  difficili  ad  essere  creduti,  ma  anche  ad essere  immaginati,  tuttavia  una  proposizione  enunciante questi  fatti  non  è  assolutamente  inconcepibile,  come  è  p. e.  la  proposizione  che  due  e  due  fanno  cinque  o  che  due rette  chiudono  uno  spazio.  Secondo  i  principii  degli  stessi sostenitori  della  dottrina  dcir  associazione  inseparabile, mancano  in  questo  caso  le  condizioni  per  la  formazione ili  im  legame  indissolubile  fra  le  idee,  cioè  l'assenza  di associazioni  contraddittorie  (1).  «  Nella  nostra  esperienza giornaliera  vi  ha,  dice  Mill,  tutto  ciò  che  bisogna  per  im- maginare Tannientamento  della  materia.  Noi  vediamo  un annientamento  apparente,  quando  Tacqua  si  evapora  o  il combustibile  si  consuma  senza  lasciare  residuo  visibile.  IL fatto  non  potrebbe  presentarsi  a  noi  sotto  una  forma  più palpabile  se  Tannientamento  fosse  reale.  Il  volgare  di  tutti (1)  V.  Stuart  Min  Filosofia  lU  Hamilton  e.  XIV.  ^^^*-^>-v_''S.'- /i  paesi  ha  un  tipo  esatto  sul  quale  può  formare  la  sua concezione  deirannichilamento  della  materia,  e  per  con- seguenza non  ha  difficoltà  a  farsene  un'  idea  perfetta  ». (Filos.  di  Hamilton  e.  XVI,  pag.  :M2  trad.  frane). Se  non  che,  secondo  Spencer,  la  necessità  delle  pro- posizioni che  la  materia  non  si  crea  né  si  annienta,  non é  fondata  suir  associazione  empirica  delle  idee  :  esse  ap- partengono invece  a  un'  altra  classe  di  proposizioni  ne- cessarie 0  aventi  per  sé  V  inconcepibilità  della  negativa. Queste  s^jno  per  lui  fondate,  non  suUesperienza,  ma  so- pra una  necessità  primordiale  del  pensiero;  in  altre  pa- role,  esse  sono  delle  conoscenze  a  priori,  nel  senso  più stretto  di  questo  termine.  La  ragione,  secondo  Spencer, per  cui  noi  dobbiamo  necessariamente  ammettere  la  per- sistenza della  quantità  della  materta  è,  lo  sappiamo,  per- ché noi  non  possiamo  concepire  la  creazione  e  lannien- tamento  della  materia  :  ma  ])erchè  non  possiamo  conce- pire questa  creazione  e  (jucsf  annientamento  ì  ci(')  é  se- condo Spencer  perché  noi  non  possiamo  concepire  il  nien- te. «  Il  pensiero,  egli  dice,  é  una  posizione  di  relazioni. Non  si  possono  porre  relazioni,  e  per  conseguenza  pensa- re, quando  Tuno  dei  termini  relativi  é  assente  dalla  co- scienza. \\  dunque  impossibile  di  })ensare  che  qualche  co- sa divenga  niente  per  la  stessa  ragione  per  cui  é  impos- sibile di  pensare  che  niente  divenga  qualche  cosa;  e  (|ue- sta  ragione  é  che  niente  non  può  divenire  un  oggetto  di coscienza.  L'annientamento  della  materia  é  inconcepibile per  la  stessa  ragione  per  cui  la  creazione  della  materia é  inconcepibile;  e  la  sua  indistruttibilità  diviene  cosi  una conoscenza  a  priori  dell'ordine  più  elevato,  non  come  ri- sultato d'una  lunga  serie  d'esperienze  gradualmente  or- ganizzate in  un  modo  di  pensiero  irrevocabile,  ma  come data  nella  forma  di  tutte  le  esperienze  qualsiansi  ».  {Primi principii  ^  5."J).  Lo  Spencer  non  si  dissimula  l'obbiezione a  cui  questa  dottrina  naturalmente  va  incontro.  «  Sembra  assurdo  di  dire  che  una  proposizione  non  può  essere concepita,  quando  Tumanità  tutta  intera  la  professione  di concepirla,  e  la  grande  maggioranza  degli  uomini  crede ancora  di  concepirla  »  (  ibìcL)  Ma  «  la  dottrina  comune- mente ammessa  che  la  materia  è  stata  creata  dal  niente, non  è  mai  stata,  egli  risponde,  concepita  realmente,' ma solo  simbolicamente;  cosi  pure  Tannientamento  della  ma- teria non  é  stato  concepito  che  simbolicamente,  e  si  è presa  a  torto  una  concezione  simbolica  per  una  conce- zione reale»  (ìbkl). §  2*\  È  evidente  che  non  è  necessario  di  concepire  il niente  per  concepire  una  perdita  assoluta  o  un  nuovo acquisto  di  materia:  un  cangiamento  nella  quantità  della materia  non  Im  bisogno  di  altre  condizioni  per  essere pensato  che  un  altro  cangiamento  qualunque.  Rappresen- tarsi un  cangiamento  è  semplicemente  rappresentarsi  de- gli stati  successivi  digerenti  :  cosi  pensare  un  cangiamento nella  quantità  della  materia  non  è  che  pensare  due  stati: successivi  delle  cose  in  cui  la  quantità  della  materia  sia digerente.  Tuttavia  quando  Spencer  dà  la  legge  delFindi- struttibilità  della  materia  per  una  conoscenza  a  priori  e per  una  verità  necessaria,  la  sua  tesi  non  ha  la  stessa aria  paradossale,  che  quando  egli  atlerma  che  i  medesimi caratteri  di  necessità  e  di  apriorità  convengono  al  prin- cipio deirindistruttibilità  del  movimento  f§  56).  La  mas- sima che  Tessere  non  può  venire  dal  niente  né  ridursi in  niente  ha  avuto  sempre  del  credito,  fondata  com'essa è  sulla  generalizzazione  di  fatti  dei  più  familiari,  e  in conformità  di  questa  massima  gli  antichi  llL^sofì  greci ammettevano  generalmente  Teternità  e  Timmutabilità  della sostanza,  che  per  loro  non  era  al  fondo  che  il  principio materiale.  Ma  la  legge  della  persistenza  del  movimento, lungi  di  poter  invocare lappoggio  delle  nostre  esperienze più  familiari,  queste  le  sono  anzi  apparentemente  contra- rie. Sinché  la  scienza  non  c'insegna  il  contrario,  noi  dob-1/ biamo  credere  necessariamente  che  il  movimento  si  crea, perchè  ogni  essere  animato  sembra  di  avere  il  potere  di crearne  ad  ogni  momento,  e  che  il  movimento  si  anni- chila, perchè  noi  vediamo  che  ogni  corpo  in  moto  si  ral- lenta continuamente  e  finisce  per  ritornare  in  riposo.  Lo Spencer  non  può  naturalmente  dissimularsi  questa  obbie- zione ;  ma  egli  dà  la  soUta  risposta  :  «  La  distruttibihtà del  movimento  non  è  stata  mai  concepita  (quantunque  i Greci  non  abbiano  potuto  mai  disfarsi  di  questa  nozione, ed  essa  si  sia  im[)0sta  sino  a  Galileo);  essa  è  sempre  stata una  pura  forma  verbale,una  pseudo— idea»  (§  .jG;  confr.§  55). La  ragione  per  cui  non  possiamo  concepire  la  crea- zione e  Tannichilazione  del  movimento  è  la  stessa  per  cui non  possiamo  concejjire  la  creazione  e  F  annichilazione della  materia;  cioè  che  noi  non  possiamo  concepire  il  nien- te (§  5G).  Ma  nel  caso  del  movimento  Targomonto  non  è cosi  specioso  come  in  quello  della  materia  :  è  cliiaro  che della  stessa  maniera  si  potrebbe  provare  che  tutto  ciò  che è  suscettibile  della  nozione  di  quantità  non  può  essere  an- nientato ;  che  la  S(jmma  p.  e.  di  vita  o  di  benessere  o  di intelligenza  o  di  moralità,  ecc.  è  indistruttibile  nel  mondo; che  alcuna  porzione  di  ciascuna  di  ({ueste  cose  non  può sparire  in  un  punto  senza  che  riapparisca  in  un  altro  il suo  equivalente  quantitativo.  Anzi  por  una  china  inevita- bile si  arrivereblDC  alla  tesi  di  Parmenide,  clic  non  vi  lia alcun  cangiamento  nella  natura,  e  non  esiste  che  Tessere unico  ed  immutabile,  perchè  se  si  considera  come  una creazione  e  un'annichilazione  un  cangiamento  nella  (juan- tità  del  movimento,  non  vi  ha  ragione  per  non  considerare ogni  cangiamento  qualsiasi  come  una  creazione  ed  una annichilazione. §  3^.  Evidentemente  T  indistruttibilità  del  movimento non  potrebbe  riguardarsi  come  una  conseguenza  del  prin- cipio che  T  essere  non  può  venire  dal  niente  e  non  può annichilarsi,  se  non  considerando  il  movimento,  non  come mmm-.i iriMMa IIBiMùlilMIIIIBI  un'astrazione,  ma  come  una  realtà,  cioè  supponendo,  come  quei  cartesiani  di  cui  parla  Leibnitz  (X.  S.  salV Interni, ipn.  1.  2"  e.  21  §  4  e  e.  23  §  28),  che  quando  il  movimento passa  da  un  corpo  ad  un  altro,  è  rigorosamente  lo  stesso movimento  (idem  numero)  che  si  trasferisce,  come  se  esso fosse  qualche  cosa  di  sostanziale,  e  «  rassomigliasse  a  del sale  disciolto  nell'acqua  ».  Ora,  non  solo  sareÌ3be  assurdo di  pensare  che  il  movimento  guadagnato  da  un  corpo  sia individualmente  la  stessa  cosa  che  il  movimento  perduto da  un  altro  corpo,  ma  ancora  essi  differiscono  in  tutti  i punti  in  cui  un  movimento  può  differire  da  un  altro,  la velocità  e  la  direzione  cangiando  continuamente  nelloscambio  dei  movimenti.  «Che  si  cominci^  dice  il  Lange, per  risolverci  il  i)roblema  del  i)arallelogrammo  delle  forze, se  si  vuol  farci  credere  alla  persistenza  della  cosa.  O  una forza  che  agisce  con  T  intensità  x,  nella  direzione  ab,  è pure  incontestaJjilmente  la  stessa  cosa,  (juando  la  sua  a- zione  s'è  fusa  con  un'altra  forza  in  una  risultante  dell'in- lensità  //  e  della  direzione  a  d  ì  Si  certo,  la  forza  primi- tiva è  ancora  contenuta  nella  risultante,  ed  essa  continua a  perseverarvi,  quand  anche  nelFeterno  turbine  dell'azione e  della  reazione  meccanica,  l' intensità  primitiva  x  e  la direzione  a  h  non  riapparissero  mai.  Dalla  risultante  io posso,  j)ei'  cosi  dire,  estrarre  la  forza  i)rimitiva,  se  io  sop- primo la  seconda  forza  componente  per  mezzo  d'una  forza uguale  d'una  (Urezionc  opposta,  (jui  dunque  io  so  ciò  che devo  intendere  o  no  per  conservazione  della  forza.  Io  so, e  bisogna  che  io  sappia,  che  l'idea  di  conservazione  non è  che  una  concezione  comoda.  Tutto  si  conserva,  e  niente si  conserva,  secondo  il  punto  di  vista  al  quale  io  mi  pon- go nella  contemplazione  dei  fenomeni.  La  verità  sta  uni- camente negli  e(iuivalenti  della  forza  che  io  ottengo  per il  calcolo  e  l'osservazione  »  (Storia  del  materialismo  v.  2^^ parte  2*  e.  2*^). L'affermazione  stessa  che  la   quantità  del  movimento (ciò  che  comunemente  si  dice  il  momento)  è  costante, non  è  una  espressione  rigorosamente  adequata  dei  fatti: essa  non  è  vera,  se  non  in  quanto  si  considera  come  po- sitivo il  movimento  verso  un  lato,  e  come  negativo  quello verso  il  lato  opposto,  e  questo  si  sottrae  cosi  dal  primo, nel  calcolare  la  quantità  del  movimento  dopo  l'incontro di  due  corpi.  Ma  questa  è  una  finzione,  due  movimenti in  senso  contrario  essendo  evidentemente  amendue  reali e  positivi  allo  stesso  titolo.  Ben  più,  la  scienza  moderna distingue  le  energie  attuali  e  le  energie  potenziali:  quando un  mobile  viene  proiettato  m  alto,  lottando  cosi  contro la  forza  del  peso,  viene  un  momento  in  cui  la  forza meccanica  si  esaurisce;  la  perdita  di  movimento  da  una parte  non  è  compensata  dalla  produzione,  da  un'  altra parte,  di  movimento  o  di  calore  o  di  un'  altra  manife- stazione qualunque  dell'energia.  Ma  il  corpo  acquista una  nuova  posizione  vantaggiosa  rispetto  alla  gravita- zione: esso  può,  cadendo,  .restituire  col  suo  movimento in  basso  l'energia  perduta  nella  sua  ascensione.  In  que- sto caso  si  dice  che  l'energia  attuale  del  movimento  viene compensata  dall'energia  potenziale  della  situazione;  che la  prima  viene  accumulata  e  tenuta  in  riserva  mentre che  il  corpo  persiste  nella  nuova  situazione  acquistata, per  essere  poi  restituita  nel  ritorno  verso  la  situazione primitiva.  Ma  il  fatto  è  che  nello  scambio  incessante  fra le  energie  attuali  e  le  energie  potenziali  vi  ha  cessazione o  generazione  di  movimento;  che  al  movimento  si  sosti- tuisce il  riposo,  e  al  riposo  il  movimento;  che  non  è  che una  semphce  metafora  di  dire  che  l'energia  del  movimen- to perduto  si  trova  accumulata,  immagazzinata  e  tenuta in  riserva  nel  corpo  in  riposo.  La  scienza  moderna  sup- pone che  è  dal  movimento  di  attrazione,  dovuto  alla  si- tuazione primitiva  degli  elementi  i  quali  attualmente  com- jjongono  la  massa  del  nostro  sistema  solare,  che  è  nato, mediante  l'urto,  il  calore,  e  di  là  tutte  o  la  maggior  parte  delle  Ibrze  che  esistono  attualmente  nella  terra  o  in generale  in  questo  sistema:  queste  forze  dunque  sono^ state  letteralmente  tirate  dal  niente,  perchè  il  loro  ante- cedente non  fu  del  movimento  meccanico  o  un'altra  ma- nifestazione qualunque  delFenergia,  ma  semplicemente  la posizione  iniziale  dei  corpi  o  delle  molecole. Ma  anche  limitandoci  al  caso  più  semplice  della  co- municazione del  movimento,  cioè  quando  un  corpo  ne  urta un  altro  e  il  movimento  perduto  dal  primo  ha  per  equi- valente totale  il  movimento,  verso  la  stessa  parte,  acqui- stato dal  secondo,  la  proposizione  che  il  momento  o  la quantità  del  movimento  resta  la  stessa,  non  deve  darci riilusione  di  credere  che  vi  sia  un'identità  o  anclie  sem- plicemente un  eguaglianza  nei  fenomeni.  11  momento  o  la quantità  del  movimento  non  è  die  il  prodotto  della  massa per  la  velocità  :  ma  la  massa  non  si  misura  che  per  la spesa  di  una  forza  esteriore  necessaria  per  indurre  nel corpo  un'  accelerazione  data.  La  valutazione  della  quan- tità del  movimento  suppone  cosi  la  valutazione  della  massa, e  la  valutazione  della  massa  suppone  alla  sua  volta  la valutazione  della  quantità  del  movimento.  L'affermazione che  la  quantità  del  nìovimento  è  costante  implica  l'after- mazione  che  la  massa  è  costante;  ma  l'aftermazione  che la  massa  è  costante  implica  alla  sua  volta  l'atfermazione che  la  quantità  del  movimento  è  costante.  Sarebbe  que- sto adunque  un  circolo  vizioso,  se  si  volesse  vedere  in queste  due  proposizioni  altra  cosa  che  una  maniera  di esprimere  certi  rapporti  costanti  tra  le  velocità  nello  scam- bio dei  movimenti.  La  velocità  perduta  dal  corpo  A  sta alla  velocità  acquistata  dal  corpo  B  nel  rapporto  di  2  ad 1  :  ciò  si  verifica  una  volta;  noi  siamo  fondati  ad  inferire che  tutte  le  volte  che  il  corpo  A  comunica  del  movimento al  corpo  B,  questo  rapporto  sussiste.  Di  più  quando  è  il corpo  B  che  comunica  il  movimento  al  corpo  A,  lo  stesso rapporto  sussisterà  tra  la   velocità   accjuistata  da  A  e  la velocità  perduta  da  B.  Ancora,  se  il  rapporto  delle  velo- cità scambiate  tra  i  corpi  C  ed  A  è  quello  di  3  a  2,  il  rap- porto delle  velocità  scambiate  tra  A  e  B  essendo  di  2  ad 1,  noi  siamo  fondati  ad  inferire  che  il  rapporto  delle  ve- locità scambiate  tra  C  e  B  sarà  di  3  ad  L  Nello  scambio dei  movimenti  avviene  come  nello  scambio  delle  merci  : ima  data  quantità  di  velocità  acquistata  o  perduta  da  un corpo  ha  per  equivalente  un'altra  quantità  data  di  velo- cità perduta  o  acquistata  da  un  altro  corpo,  della  stessa maniera  che  una  quantità  data  di  una  merce  ha  per  e- quivalente  un'altra  quantità  data  di  un'altra  merce.  La massa,  nella  fìsica,  non  è  che  relativa,  come  il  valore  nella economia  politica  :  il  rapporto  delle  masse  di  due  corpi non  è  che  il  rapporto  inverso  delle  velocità  che  i  due  corpi possono  scambiarsi.  Ciò  che  nel  movimento  corrisponde a  un  dato  immediato  dell'esperienza,  è  dunque  la  velocità soltanto,  ma  non  la  massa;  e  le  leggi  (luantitative  del  movi- mento non  sono  che  i  rapporti  quantitativi  delle  velocità. Ora  come  nello  scambio  delle  merci  una  quantità  dell'una non  si  sostituisce  alla  stessa  quantità  dell'altra,  ma  ad  una quantità  equivalente,  cosi  nello  scambio  delle  velocità  tra  i corpi,  una  quantità  di  velocità  di  un  coppo  non  si  sostituisce alla  stessa  quantità  di  velocità  dell'altro,  ma  ad  una  quantità equivalente.  Ne  segue  che  il  principio  della  indistruttibilità del  movimento,  nei  limiti  in  cui  esso  si  verifica  strettamente, non  esprime  un'eguaglianza  (juantitativa,  ma  solo  un  equi- valenza,  tra  i  movimenti,  cioè  tra  le  velocita,  che  si  suc- cedono :  esso  non  afferma  se  non  che  vi  hanno  dei rapporti  costanti,  secondo  cui  le  velocità  dei  corpi"  possono reciprocamente  sostituirsi.  D'una  maniera  analoga,  la  legge della  conversione  e  della  trasformazione  dell'energia  non afferma  che  delle  equivalenze,  cioè  dei  rapporti  costanti, nello  scarnino  o  nella  sostituzione  reciproca  dei  differenti stati  dei  corpi  che  noi  chiamiamo  energie:  tanto  di  mo- vimento meccanico  si  scambia   costantemente  con  tanto di  calore  e  con  tanto  di  elettricità,  altrettanto  di  calore scambiandosi  pure  costantemente  con  altrettanto  di  elet- tricità, ecc.  Se  dunque  la  legge  della  conservazione  della forza  non  afferma  che  dei  rapporti  qnantitativi  costanti nello  scambio  incessante  dei  fenomeni,  come  s'intenderà che  questa  legge  non  ò  che  una  conseguenza  del  princi- pio assiomatico  che  Y  essere  non  può  crearsi  e  non  può annientarsi?  Ci  sembra  in  verità  che  si  avrebbe  la  stessa ragione  di  provare,  in  virtù  di  questo  preteso  principio, che  il  valore  delle  merci  deve  conservarsi,  che  esse  con- tinueranno perpetuamente  a  scambiarsi  con  gli  stessi  raj)- porti,  perchè,  si  potrebbe  dire,  se  il  valore  di  una  merce aumentasse,  allora  (lualche  cosa  verrebbe  dal  niente,  e se  qu-^sto  valore  diminuisse,  allora  qualche  cosa  divente- rebbe niente. §  4.^  Deve  notarsi  [)erò  in  favore  deirargomentazione <ii  Spencer  ciregli  considera  il  movimento  come  la  ma- nifestazione di  queir  entità  misteriosa  che  si  chiama  la Forza,  e  che  cosi  il  principio  della  conservazione  delFe- nergia  non  esprime  per  lui  dei  s(;mplici  rapporti  costanti tra  i  fenomeni,  ma  un  attributo  di  questa  entità.  La  dot- trina della  conservazione  della  forza  sembra  aver  sugge- rito anche  a  parecchi  pensatori  moderni  Tidea  che  la la  forza  sia  un  quid  in  l'uso  nella  materia,  come  del  sale discìolto  neir  acqua.  Una  volta  che  si  è  sostantificata quest'astrazione  :  «  la  forza  »,  cioè  la  capacità  di  produrre del  movimento,  una  mera  possibilità,  siccome  noi  non abbiamo  altro  tipo  per  rappresentarci  una  sostanza  che la  materia,  sembra  allora  una  cosa  naturale,  non  semljra più  un  mistero,  che  questa  forza  sia  immutabile  e  per- manente, che  essa  non  possa  venire  dal  niente  nò  ridursi in  niente,  precisamente  come  Tesperienza  più  familiare ci  ha  appreso  della  materia.  Cartesio,  che  considerava Dio  come  la  forza,  deduceva  dalla  immutabilità  di  Dìo rimmutabihtà  della  quantità  del  movimento:  ora  si  sostan- sé tifica  ugualmente  la  forza,  ma  invece  di  divinizzarla  si  ma- terializza, e  dopo  ciò  sembra  logico  di  dedurre  Findistrut^ tibilità  del  movimento  dalla  indistruttibilità  di  quest'altra specie  di  materia  (I). (1)  Lo  Spencer  non  è  il  solo  che  pretenda  di  fondare  la  legge della  conservazione  dell'energia  sul  principio  che  niente  può  crear- si né  distruggersi;  quest'idea  si  legge,  al  contrario, in  una  molti- tudine di  scritti  sia  filosofici  sia  scientifici.  Anche  degli  autori  che non  pensano  d'  altronde  a  realizzare  la  forza,  cioè  che  non  am- mettono delle  forze  trascendenti  distinte  dalle  loro  manifestazioni: fenomeniche,  si  esprimono  nondimeno  dalla  stessa  maniera  come se  anch'essi  fossero  incosciamente  guidati  della  vaga  concezione della  forza  o  del  movimento  come  qualche  cosa  di  separabile,  o di  sostanziale.  P.  e.  S.  Robert  {Co^'  è  la  forz-aì,  nel  libro  di  Bal- four— Stewart  Comerc-azione  delV energia,  bibl.  scient.  internaz., in  frane,  pag.  199;,  dice:  «La  somma  di  tutte  le  potenze  di  un  si- stema lasciato  a  se  stesso  è  costante In  cfletto  la  ragione  non può  ammettere  che  qualche  cosa  possa  annientarsi  o  essere  tirata dal  niente».  Lo  stesso  Stallo  (quantunque  sia  un  avversario  deciso di  questa  metafìsica  che  i  fisici  fanno  senza  saperlo,  come,  per dirla  con  Hegel,  il  borghese  gentiluomo  faceva  della  prosa  senza saperlo),  dice  {La  materia  e  la  finca  moderna,  trad.  frane,  p.  47): «  In  un  senso  generale  questa  dottrina  (  della  conservazione  della energia)  rimonta  all'aurora  dell'intelligenza  umana.  Essa  non  è che  r  applicazione  di  questo  semplice  principio  :  niente   non  put> venire  da  niente.» Il  principio  degli  antichi  filosofi  greci,  che  l'essere  non  può  ve- nire dal  niente  ne  ridursi  nel  niente,  e  che  non  vi  ha  veramente né  generazione  né  distruzione  (è  ad  esso  che  pensa  lo  Stallo,  di- cendo che  la  dottrina  della  conservazione  dell'energia  rimonta all'aurora  deirintelligenza  umana),  non  implicava  alcuna  nozione meccanica  determinata  -  noi  esamineremo  il  senso  e  lo  porta- ta di  questo  principio  nel  Saggio  II,  Appendice  alla  parte  I.  — 1  Greci  erano  necessariamente  nell'  illusione,  creata  dalle  ap- parenze giornaliere,  che  ci  mostrano  ad.  ogn'  istante  una  distru- zione completa  del  movimento,  senza  lasciare  alcun  equivalente osservabile  :  cosi,  nella  piena  maturità  della  loro  filosofìa,  tutti sentivano  la  necessità  di  ammettere  una  sorgente  permanente  del movimento,  che  per  gli  spiritualisti  (come  Platone  ed  Aristotile)- era  il  principio  spirituale  o  animico,  e  pei  materialisti  (gh  epicu- rei) era  il  peso  degli  atomi.  La  legge  d'inerzia,  nel  senso  della  fi- Spencer  non  considera  la  ibrza  come  un  (luid  in- fuso nella  materia;  ma  non  è  meno  evidente  perciò  ch'e- gli la  considera  come  una  sostanza.  «  La  l'orza  come  essa esiste  fuori  della  nostra  coscienza  non  è  la  forza  come  noi sica  moderna  .  non  fu  mai  sospettata  dagli  anfichi.  Aristotile  di- mostra elio  una  forza  Unita  non  vniò  muovere  che  i>er  un  tempo finito,  basandosi  sul  princii>io,  che  in  realtà  è  conforme  alle  pri- me lezioni  doUesperienza,  che  una  forza  maj?iiiore  muove  per  un tempo  maggiore,  e  una  forza  minore  per  un  tempo  minore.  (P/ì//ò*. vni.  X  ech'z.  Didot).  lìen  più.  questo  filosofo  ammette  che  un  cor- po spinto  non  si  muovo,  in  virtù  della  spinta,  che  sinché  è  tocca- to dal  corpo  che  lo  spingo,  o  che  cosi  la  continuazione  del  movi- mento suppone  ad  ogn"istante  una  .nuova  impulsione.  (  Phijs.  IV, vili,  5,  Vni,  X.  5).  Platone  è  della  stessa  opinione:  la  continuazione del  movimouto  d'un  corj'O  lanciato  avviene,  secondo  lui,  perchè questo  fende  laria,  la  quale,  ripiegandosi  attorno  di  esso,  lo  spin- ge di  dietro  (  Timeo  HO  a).  Aristotile  adotta  la  stessa  teoria:  egli suppone  i>uro  che  è  la  reazione  continua  dell'  ambiente  che  sola mantiene  il  movimento.  1  commentatori  d'Aristotile,  pur  dunitan- do  della  sua  teoria,  non  gli  contestano  però  la  necessità  d' un' im- pulsione senza  cessa  rinnovellata  per  la  continuazione  del  movi- mento (V  Martin  Timeo  voi.  H  pag.  543,  nota  173  §  li).  AgU  anti- chi .  nei  loro  tentativi  per  ispiegare  1'  accelerazione  nella  caduta dei  gravi,  non  venne  mai  in  mente  che  essa  potesse  essere  dovu- ta air  azione  continua  della  forza  del  peso  e  alla  conservazione della  velocità  ac(iuistata.  La  nozione  di  rapporti  quantitativi  pre- cisi nei  fenomeni  del  movimento  non  poteva  esistere  ancora  in  ciuci- lo stato  primitivo  della  scienza:  gli  oyùcurei  pare  che  immnginas- sero  che  un  cori)0  sottile  può  trasmettere  il  suo  movimento  a  un altro  corpo  più  grosso  o  più  denso,  indipendentemente  dalla  mas- sa, e  questo  a  un  altro  più  grosso  o  più  denso  ancora,  la  somma del  lavoro  meccanico  moltiplicandosi  gradualmente  invece  di  re- stare la  stessa  (  v.  Lange  Stor.  del  material,  voi.  1  nota  71  parte I;  confr.  nota  72). U  Hain  (  Lofjicay  1.  HI,  e.  IV,  17;  fa  l'onore  ad  Hamilton  di  ave- re duto  per  il  primo  l'espressione  del  principio  della  conservazio- ne della  forza  :  ma,  in  realtà  .  la  concezione  di  quest'autore  era analoga  a  quella  degli  antichi  filosofi  ionici,  e  non  implicava  più di  questa  alcuna  nozione  meccanica  {v.  Saggio  2.,  Append.  alla la  conosciamo.  Per  conseguenza  la  forza  di  cui  affermia- miamo  la  persistenza  è  la  forza  assoluta  di  cui  abbiamo vagamente  coscienza  come  correlativo  necessario  della forza  che  noi  conosciamo....  Le  manifestazioni  che  soprav- vengono in  noi  e  fuori  di  noi  non  persistono;  ma  ciò  che  per- siste è  la  causa  sconosciuta  di  queste  manifestazioni.  In  altri termini  affermare  la  persistenza  della  l'orza  non  è  che  un'al- tra maniera  di  affermare  una  realtà  incondizionata  senza cominciamento  né  fine Esaminando  i  dati  che  implica  una teoria  razionale  dei  fenomeni,  noi  troviamo  ch'essi  pos- sono tutti  ricondursi  al  dato  senza  di  cui  la  coscienza  è impossibile  :  l'esistenza  permanente  d' un'Inconoscibile  co- me correlativo  necessario  del  Conoscibile...  Le  verità  as- siomatiche della  scienza  fisica  suppongono  inevitabilmen- te l'Essere  assoluto  come  loro  base  comune...  Noi  non possiamo  edificare  una  teoria  dei  fenomeni  interni  senza supporre  l'essere  assoluto;  e  a  meno  di  suppore  l'essere assoluto,  l'essere  che  persiste,  noi  non  possiamo  costruire una  teoria  dei  fenomeni  esterni  »  (§  00). La  forza  è  dunque  per  lo  Spencer  l'essere  assoluto,  e la  sua  persistenza  è  la  permanenza  dell'  essere,  di  cui tutti  i  cangiamenti  di  forma  nell'universo  sono  delle  ma- nifestazioni, e  che  resta  costante  sotto  tutte  le  forme  (§  101). La  persistenza  della  materia  e  quella  del  movimento  non sono  che  delle  maniere  diverse  di  affermare  la  persisten- za della  forza,  cioè  deU'essere  assoluto,  perdio  non  sono parte  1.)  L'idea  di  Hamilton  di  ricondurre  il  principio  di  causali- tà aU'impossibilità  di  concepi/^e  un  cominciamento  assoluto  dell'os- sere  ha  dovuto  avere  dell'  influenza  suU'  idea  corrispondente  di Spencer:  la  metafisica  del  secondo  può  riattaccarsi,  su  questo  punto come  su  tanti  altri,  a  quella  del  primo.  Ma  con  lintroduzione  del principio  odierno  della  conservazione  dell'  energia,  mediante  cui la  legge  di  causalità  è  messa  in  rapporto  col  principio  che  niente non  può  venire  da  niente,  lo  Spencer  ha  certamente  apportato una  moditicazione  felice  alla  dottrina  di  Hamilton. V  I J.  JJi^b'B'-J^^-^gj^ m che  dei  corollari  di  (juesto  principio  (§  54,  57,  185,  ecc.). Esso  è  il  principio  primo,  di  cui  le  generalità  più  elevate della  scienza  sono  le  conseguenze,  e  l'ideale  di  questa  sa- rà compiuto,  quando  essa  diventerà  un  aggregato  orga- nizzato di  deduzioni  dirette  e  indirette  tirate  dalla  persi- stenza della  forza  (§  193).  In  quanto  alla  stessa  persisten- za della  forza  (che  non  è  che  un'altra  espressione  per  di- re: la  permanenza  della  realtà  assoluta  ed  inconoscibile), questa  «è  una  verità  ultima,  che  non  può  avere  prova' induttiva Deve  esservi  un  principio  che,  essendo  la  ba- se della  scienza,  non  può  essere  stabilito  dalla  scienza Se  noi  riconduciamo  i  principii  derivati  a  quelli  di  più  in più  larghi  donde  si  deducono,  non  possiamo  mancare  d  ar- rivare infine  a  un  principio  più  largo  di  tutti  gli  altri,  che non  può  ricondursi  ad  alcun  altro  nò  dedursi  da  alcun altro....  Questo  principio,  che  alcuna  dimostrazione  non può  dare,  è  la  persistenza  della  forza  »  (§  59).  La  persi-^ stenza  della  forza  ci  é  dunque  conosciuta  d'una  maniera immediata:  noi  raffermiamo  necessariamente,  per  rim{>os- sibilità  in  cui  siamo  di  pensare  che  qualche  cosa  divenga niente  e  che  niente  divenga  qualche  cosa,  e  la  sua  nega- zione è  inconcepibile.  f§  61).  (1) (l)  Il  metodo  seientilìco  propugnato  da  Spencer  è  dunque  essen-^ zialmente  deduttivo;  l'induzione  non  può  avere  per  lui,  tra  i  pro- cessi della  scienza,  che  un  posto  secondario.  È  ciò  che'risulta   in- dipendentemente dal  suo  ideale  della  scienza come  una  catena  di deduzioni  tirate  dal  principio  della  persistenza  della  forza  dal  suo^ criterio  dell'inconcepibilità  della  negativa  e  dalle  dottrine  psicolo- giche che  ne  sono  la  conseguenza.  Questo  essendo  il  criterio  uni- versale della  verità,  ne  segue  che  le  premesse  ultime  delle  nostre conoscenze  devono  essere  dei  principii  intuitivi,  cioè  a  priori  I logici  moderni,  come  Mill  e  Bain,  hanno  mostrato  che  ciò  che  noi chiamiamo  un'induzione  rigorosa,  non  è  che  una  vera  deduzione di  cui  una  delle  .premesse  è  la  grande  induzione  del  principio  di causalità.   Ma   questo   principio  è  secondo  Spencer  una  verità  « pnori,  sia  die  debba  riguai^arsì  come  l'ctTetto  di  una  necessità i s §  5*\  Questa  realtà  assoluta  ed  inconoscibile,  di  cui ?7  senso  indefinito  forma  la  base  della  nostra  intelligenza (§  31)  (1),  rappresenta  due  parti  nella  metafìsica  di  Spen- cer. Vi  hanno,  come  si  sa,  due  problemi  capitali  in  me- ta/ìsica  :  quello  del  mondo  reale  o  esteriore,  e  quello  delle cause.  Primo:  vi  hanno  delle  cose  esteriori,  al  di  fuori delle  nostre  sensazioni,  e  rjuali  attributi  noi  dobbiamo  loro assegnare  ?  Secondo  :  quali  sono  le  cause  efficienti  dei  fe- nomeni ?  Le  scienze  positive  ci  danno  la  conoscenza  delle loro  successioni  uniformi,  e  chiamano  cause  gli  antece- <lenti,  ed  effetti  i  conseguenti  di  queste  successioni  uniformi: ma  le  cause  ricercate  dalla  metafisica  non  sono  di  que- st'ordine; essa  cerca  la  spiegazione  o  il  perchè  di  queste sequenze  stesse  che  le  scienze  positive  ci  fanno  conoscere. La  dottrina  delF inconoscibile  di  Spencer  risponde  a  que- ste due  ([uistioni  della  metafisica. La  risposta  alla  prima  ({uistione  è  che  esistono  delle  co- se esteriori,  ma  sono  jx^r  noi  inconoscibili  :  il  sistema  di Spencer  è  il  realismo,  ma  il  realismo,  egli  dice,  frasjiguraio. La  realtà  non  sono,  come  crede  il  realismo  volgai*e,  gli oggetti  estesi,  colorati,  ecc.  che  ci  mostmno  i  sensi  :  tutto ciò  non  è  che  relativo  alla  nostra  sensibilità  ;  ma  laffer- primordiale  del  pensiero,  sia  come  un  risultato  dell'eredità  orga- nica delle  esperienze  ancestrali  (Nei  P/incipU  di  psicologia  la  co- noscenza dell'assioma  di  causalità  è  considerata  come  una  co?i- clu^ione  orr/antca  dovuta  alla  riiM3tizione  continua  delle  esperienze— V.  8  295  e  confr.  §  293,  verso  il  principio—;  nei  Primi  principii  in- vece esso  è  dato  come  corollario  di  una  verità  a  priori  nel  senso stretto  .  cioè  assolutamente  indipendente  dall'esperienza,  qual  è  il principio  della  persistenza  della  forza  — v.  Jl  Conoscibile,  Persi- stenza delle  reiasioni  tra  te /o/'.?e—) L'induzione  non  ha  dunque luogo  secondo  Spencer  che  nelle  verità  che  non  sono  suscettibili duna  prova  rigorosa.  Non  è  una  singolarità  questa  in  un  rappre- sentante  della  tilosofìa  sperimentale]  o,  come  oggi  si  dice,  positiva  ? (1)  V.  il  nostro  paragrafo  seguente  e  la  quinta  nota  allo  stesso '  paragrafo. inazione  di  questa  relatività  importa  raffermazione  d'una realtà  assoluta  esistente  fuori  della  coscienza.  Come  sono relative  le  sensazioni,  cosi  sono  relativi  (al  soggetto  cono- scente) i  rapix)rti  Ira  le  sensazioni;  ma  questa  proposizione suppone  che  esistano,  fuori  della  coscienza,  delle  condi- zioni di  manifestazione  obbiettiva,  che  sono  simbolizzate da  questi  rapporti.  «  Vi  ha  (jualche  ordine  ontologico  don- de nasce  Y  ordine  fenomenale  clie  noi  conosciamo  come spazio,  vi  ha  qualche  ordine  ontologico  donde  nasce  lor- dine  fenomenali^  che  noi  conosciamo  come  tempo,  e  vi ha  qualche  jiexus  ontologico  donde  nasce  il  rapporto  fe- nomenale che  noi  conosciamo  come  differenza  ».  (rrin- Cf'pii  (](  psicologia  ^  U5). In  quanto  al  problema  delle  cause,  Spencer  non  aspira in  verità  a  conoscere  le  cause  ultime  delle  cose  :  le  cause ultime   si  celano  nelle  profondità  dell' Inconoscibile.  Ma noi  conosciamo  tanto,  secondo  lui,  di  quest'  Inconoscibile quanto  ci  basta  a  darci  ragione  delle  uniformità  più  ge- nerali del  conoscibile.  I  principii  fondamentaU  della  scienza, per  cui  questa  spiega   tutti  i  fenomeni,  hanno  secondo Spencer  im  perché  :  questo  perchè  é,  come  abbiamo  visto, la  persistenza  dell'  essere  assoluto  e  inconoscibile,  di  cui tutto  ciò  che  è  nella  coscienza  e  tutto  ciò  che  è  fuori  della coscienza  non   è  che  una  forma  e  una  manifestazione, r  impossibilità  clie  V  essere  venga  dal  niente  e  si  riduca nel  niente.   Questo  princifùo,  che  è  il  fondamento  della nostra  conoscenza,  è  necessario  ed  evidente  per  sé  stesso; esso  non  è  un  risultato  dell'  esperienza,  ma  una  nozione a  priori,  e  comunica  la  stessa  apriorità  alle  altre  leggi che  se  ne  deducono.  Cosi  i  legami  generali  tra  i  fenomeni, da  empirici  e  contingenti,  quaU  sono  per  la  scienza,  sono trasformati  in  razionali  e  necessari;  ciò  che  è  un'applica- zione dell'  idea  metafìsica  di  causalità  efficiente,  (v.  Sag- gio 2^  parte  1-^  capo  G^ §.  (j'\  Ora  qual  é  la  garanzia  di  tutte  queste  afCermazioni  sull'Inconoscibile,  su  cui  i  primi  principii  della  scien- za, cioè  le  nostre  nozioni  più  generali  sul  conoscibile,  so- no fondati?  È  secondo  Spencer  la  persistenza  assoluta della  nozione  dell'Inconoscibile  nella  coscienza,  «  Noi  ve- gliamo che  l'esistenza  positiva  dell'assoluto  è  un  dato  ne- cessario della  coscienza;  che  sinché  la  coscienza  dura, noi  non  possiamo  un  solo  istante  sbarazzarci  di  questo dato  ;  e  che  allora  la  credenza  che  vi  ha  il  suo  fondamen- to ha  una  certezza  superiore  a  tutte  le  altre  »  (Pr.  prine. §.  27),  «Poiché  la  sola  misura  della  validità  relativa  delle nostre  credenze  é  la  resistenza  ch'esse  oppongono  agli sforzi  che  si  fanno  per  cangiarle,  ne  risulta  che  quella che  persiste  in  tutti  i  tempi,  fra  tutte  le  circostanze,  e  che non  può  cessare  a  meno  che  la  coscienza  stessa  non  ces- si, possiede  il  più  alto  valore».  (§  2(i).  Cosi  è  la  credenza -stessa  che  é,  secondo  Spencer,  la  prova  della  sua  propria verità  (\):  la  conoscenza  dell'oggetto  egli  la  cerca  nel  sog- getto, e  non  nell'oggetto  stesso,  e  il  suo  metodo  presenta al  più  alto  grado  la  più  grave  difficoltà  dell'apriorismo, di  cui  abbiamo  parlato  nel  capitolo  3^  (§  0).  Sinché  non possa  stabilirsi  un  rapporto  comprensibile  fra  la  nozione jC  il  suo  oggetto,  la  validità  obbiettiva  della  nozione  resta necessariamente  per  noi  qualche  co^a  di  problematico. Questa  osservazione  è  particolarmente  applicabile  alla deduzione  dei  primi  principii  della  scienza.  Noi  dobbiamo, secondo  Spencer,  ammettere  la  persistenza  della  forza  e gli  altri  principii  che  ne  sono  secondo  lui  i  corollari,  per- ché noi  siamo  incapaci  di  concepire  il  niente.  Ma  che rapporto  può  esservi  tra  questa  nostra  incapacità  e  le leggi  della  natura  di  cui  i  principii  indicati  sono  l'enun- ciazione? Per  qual  caso  una  nozione,  che  non  è  se  non il  risultato  di  una  limitazione  del  nostro  spirito,  può  cor- ei) V.  MiLL,  Logica,  HI).  \\,  cap.  VH,  §  3  verso  la  fine  e  lìb.  HI, e.  XXI,  §  1. 500 sag:5io  primo rispondere  alle  cose  reali  e  l'approsentai'le  ?  Non  vi  ha  [>er noi  altra  comunicazione  possibile  Ira  il  pensiero  e  le  cose che  Tesperienza:  se  questa  comunicazione  si  rompe,  la coincidenza  tra  il  pensiero  e  la  realtà  diventa  un  mistero, 0  piuttosto  un  felice  azzardo;  e  Ijasta  ciò  perchè  sia  vano ogni  tentativo  di  fondare  la  certezza  delle  nostre  conoscen- ze altrove  che  suiresperienza  stessa. Tuttavia  a  questa  obbiezione  e  ad  altre  della  stessa natura  che  potrebbe^  farsi  alle  dottrine  di  Spencer,  egli ha  una  ris[X)sta  perentoria  :  tutte  queste  proposizioni suir  assoluto,  egli  dice,  devono  ammettersi  in  virtù  del criterio  deirinconcepibilità  della  negativa.  Noi  dobbiamo atlermarle  per  la  semplice  ragione  che  la  loro  negazione è  impossibile.  Le  proposizioni  contrarie,  p.  e.  che  non  vi ha  un  mondo  esteriore  indipendente  dalla  nostra  sensi^ Ijilità,  che  la  materia  o  la  forza  non  sono  persistenti^ sono  assolutamente  inconcepibili.  Se  alcuno  crede  di  con- cepirle, questa  è  un'illusione  :  esse  non  sono  delle  idee^ ma  delle  pseudo  —  idee,  cioè  delle  pure  forme  verbali  a cui  non  corsisponde  in  realtà  alcuna  nozione  (1). (l)  UiiJ^^ndo  Spencer  dà  resistenza  del  mondo  esteriore  o  anche r  indistruttil)ilità  della  mnteria  per  delle  proposizioni  il  cui  con- trario è  inconcepibile,  quantunque  questa  opinione  sia  seconda noi  erronea,  è  tuttavia  un'  erroneità  che  potrebbe  i>assare  inos- servata, essendo  un'abitudine  dei  filosofi  razionalisti  di  scambiare per  assolutamente  necessarie  delle  proposizioni  necessarie  solo  re- lativamente, vale  a  dire  il  cui  contrario  è  non  inconcepibile,  ma solo  ditticile  ai  essere  concepito,  ciò  die  basta  peixiiiè  esso  sia alTatto  incre<libile  o  si  abbia  almeno  una  ripugnanza  naturale  a crederlo.  Ma  ciò  che  è  im  evidente  paradosso  è  di  pretendere  che anche  la  persistenza  della  forza  sia  una  proposizione  che  ha  per  sé quest'inconcepibilità  del  contrario,  mentre  è  un  fatto  incontestabi- le che  ih  un*  epoca  non  lontana  gii  stessi  uomini  di  scienza  cx)n- cepivano  e  credevano  questo  contrario,  ed  esso  é  tuttora  conce- I)ito  e  creduto  dalla  immensa  maggioranza  degli  uomini,  cioè  da tutte  le  persone  estranee  alla  scienza.  Ma,  dice  Spencer,  il  contra- rio della  persistenza  della  forza  non  è  stato  mai   realmente  con- I Ma  se  vi  ha  proposizione  a  cui  convenga  il  nome  di pseudo— idea,  è  appunto  una  proposizione  che  si  riferisce all'assoluto,  o  in  generale,  al  sovrasensibile.  Tutte  le  pre- tese nozioni  che  Spencer  ci  acoorda  deiresistenza   ultra- cepito,  ma  si  è  creduto  soltanto  di  concepirlo;  in  altri  termini,  gli uomini  non  si  sono  mai  formata,  di  questo  contrario,  un'idea  iva- le,  ma  solo  illasona,  o,  com'egli,  dice,  una  pseudo  idea.  Così,  una proposizione  che  contraddice  a  quella  della  persistenza  della  for- za, è,  secondo  Spencer  .  cosi  vuota  di  senso,  come  lo  sarebbe  la ])roposizione  che  affermasse  clie  due  linee  rette  chiudono  uno spazio,  o,  per  citare  degli  esempi  dello  stesso  autore,  che  una  sfe- ra è  ad  angoli  uguali  o  che  uno  dei  lati  d'  un  triangolo  è  uguale alla  somma  degli  altri  due  lati  (  v.  Piinc.  di  psicoL  ^  i'J7  e  474), Basterebbe  (luesta  comparazione  per  mosti^arc  quanto  vi  ha  di  esor- bitante nella  dottrina  di  Spencer.  Non  vi  ha  alcuna  immagine  pos- sibile nella  nostra  mente  che  corrisponda  alle  parole  «due  rette che  chiudono  uno  spazio  »,  «  una  sfera  ad  angoli  eguali  »,  «  un  trian- golo di  cui  un  lato  è  uguale  alla  somma  degli  altri  due  »:  esse  so- no dunque  delle  vuoto  forme  verbali,  e  le  cose  che  signillcano,  o piuttosto,  non  avendo  esse  alcun  signilìcato  reale,  che  tendono  a signillcare,  sono  assolutamente  inconcepii)ili;  i>er  conseguenza,  se alcuno  pretendesse  di  concepirle,  q  facesse  professione  (Wcn^^^y- le  (confr.  la  1.  nota  al  s^  0  di  questo  capitolo),  egli  non  avrebbe nel  suo  spirito  delle  idee  reali,  ma  illusorie,  o.  come  dice  Spencer, delle  psendo  —  idee.  Ma  quantumiue  quelli  che  non  conoscono  o non  ammettono  il  principio  della  persistenza  della  forza,  si  rai-pre- sentino  i  fenomeni  d'una  maniera  che  non  è  conforme  alla  scien- za e  alla  verità,  le  loro  rappresentazioni  erronee  sono  certamen- te altrettanto  reali  quanto  le  rai'presentazioni  vere  di  chi  è  stato istruito  dalla  scienza  moderna,  guando  1'  incontro  di  due  coriù che  si  muovono  in  senso  contrario  e  Y'on  velocità  inversamen- te proporzionali  alle  loro  masso,  determina  la  cessazione  del  lo- ro movimento  .  vi  ha  una  contraddizione  ap]Uìrente  al  principio della  persistenza  della  forza,  che  si  risolve  ammettendo,  come  han- no scoverto  i  fisici  moderni,  che  la  forza  meccanica  perduta  è  sta- ta sostituita  da  una  quantità  equivalente  di  calore.  Cosi,  (juando, anteriormente  a  (lucsta  scoverta,  si  credeva  che  la  forza  mecca- nica, in  cpiosto  caso,  fosse  assolutamente  perduta,  cioè  senza  che la  sua  perdita  fosse  compensata  da  un  nuovo. actpiisto  di  calore o  d'un' altra  forma)  qualunque  dell'energia,  si  anunetteva  una proposizione  che  era  realmente  in  contraddizione  col  i^rincipio i  fenoiiienale  sono  delle  imi30ssibilità  psicologiche.  Gli  ele- menti della  coscienza  sono,  secondo  lo  stesso  Spencer,. delle  sensazioni  e  dei  rapporti  fra  sensazioni,  queste  sen- sazioni i)otendo  essere  o  allo  stato  forte  (sensazioni  pro- priamente dette)  o  allo  stato  debole  (rappresentazioni  o immagini).  Dunque  il  nostro  pensiero  è  necessariamente circoscritto  tra  i  dati  dei  nostri  sensi,  e  noi  non  possiamo concepire  niente  di  soprasensibile.  In  verità,  non  segue da  questa  teoria  che  noi  non  possiamo  pensare  se  non ciò  che  possiamo  sentire:  i  dati  della  sensazione  noi  pos- siamo combinarli  in  un  ordine  diverso  da  quello  in  cui  li abbiamo  sperimentato,  e  avere  cosi  dei  pensieri  che  non sono  una  copia  delle  presentazioni  dei  nostri   sensi  ;   ciò della  persistenza  della  forza-(]uaiitiin(iiie  i  dotti  pensassero  che  il fatto  fosse  conciliabile  con  (jiiello  della  conservazione  della  forza meccanica -(  confr.  Hain  Lonlca  1.  Ili  e.  IV  n.  10  e  17).  Era  questa una  proposizione  vuota  ili  senso,  una  pura  forma  verbale,  a  cui non  corrispondeva  alcuna  rappresentazione  reale  ?  È  assolutamen- te inimmaLrinal)ile  die,  dopo  l'urto  dei  due  corpi,  non  vi  sia  al- cun aumento  di  temperatura  né  nei  corpi  stessi  nò  nel  loro  am- biente,  nò  r  apparizione  di  altri  nuovi  fenomeni  o  di  elettricità  o di  magnetismo  o  di  un'altra  manifestazione  «lualuncpie  dell'ener- gia? Non  i)ossìamo  noi  immaginare  che,  ilopo  1'  urto  e  la  cessa- zione del  movimento,  i  due  corpi  e  il  loro  ambienle  si  trovino  an- cora nelle  identiche  condizioni  termiche,  elettriclie,  ecc.,  in  cuf si  trovavano  primn  ?  È  ciò  che  sostiene,  in  sostonza.  lo  Spencer quando  atferma  che  il  (-ontrario  della  persistenza   della  forza   è inconcepibile.  O  dirà  egli  che  «fueste  cose,  (juantunque   possano immariinat\ù,  non  possono  pertanto  conrepìrsl  f  Vi  sono  dei  filo- sofi che  ammettono  che  noi  possiamo  concepire  ciò  clie  non  pos- siamo immaginare;  ma  nessuno  ha  mai  preteso  .  per  quel  eh'  i(» sappia,  che  ciò  che  possiamo  immaginare  non  lo  possiamo  con- cepire, e  sarebbe  strano  che  il  primo  a  pretenderlo  fosse  un  filo- sofo, come  Spencer,  per  cui  gli  elementi  dell'intelligenza  non  so- no che  sensazioni  e  rapj^orti  tra  sensazioni. Le  ritlessioni  precedenti  riguardano  il  principio  della  pei^isten- za  della  forza  nel  suo  significato  empirico,  cioè  come  formulante delle  relazioni  tra  fenomeni;  in  (pianto  al  suo  sii>nìncato  metaem- pinco  o  trascendente,  varrà  cìù  cUq  segue  nel  testo che  ci  è  impossibile  è  avere  dei  pensieri  che  non  si  ri- solvano finalmente  in  elementi  sensoriali  (1).  Ciò  di  cui non  possiamo  formarci  un  ìmmar/ ine  (cioè  una  sensazione risvegliata  o  un  complesso  di  sensazioni  risvegliate),  o  copia- ta fedelmente  sui  dati  dei  nostri  sensi,  o  ottenuta  per  una riunione  più  o  meno  libera  di  questi  dati,  non  può  essere un  oggetto  del  nostro  pensiero.  Ora  Tlnconoscibile  nò  è un  dato  dei  nostri  sensi,  nò  noi  yjossiaino  l'ormarcene alcuna  immagine,  combinando,  per  quanto  liberamente,. 1  dati  dei  nostri  sensi:  i  suoi  attributi,  p.  e.  la  sua  per- manenza —  per  cui  non  dobbiamo  intendere  una  durata nel  tempo,  perchè  il  tempo  non  è  che  un  lenoincno  sub- biettivo  —,  Tordine  ontologico  che  corrisponde  a  ciò  che noi  conosciamo  come  tempo,  quello  che  corrisi>onde  a ciò  che  noi  conosciamo  come  spazio,  e  il  nexus  ontolo- gico che  corrisponde  a  ciò  che  noi  conosciamo  come  dif- ferenza, escono  ugualmente  dalla  sfera  dei  nostri  sensi e  della  nostra  immaginazione.  Ne  segue  che  ci  è  assolu- tamente impossibile  di  pensare,  o  di  concepire,  alcuna  di queste  cose,  e  cosi  tutte  le  pretese  nozioni  suirinconosci- l)ile,  che  V  autore  accorda  al  nostro  spirito,    sono,  non (Ij  L'  imi)ero  che  1'  uomo  ha  sul  piccolo  mondo  del  proprio  in- tendimento è  lo  stesso,  dice  Locke  (Saggio  su/V intendimento  am. li)).  II,  e.  II,  i^  2),  di  quello  che  esercita  nel  gran  mondo  degli  es- seri visibili.  Come  tutta  la  potenza  che  abbiamo  sul  mondo  este- riore si  riduce  a  comporre  e  a  dividere  i  materiali  clic  sono  a nostra  disposizione,  senza  poter  produrre  la  minima  particella  di nuova  materia,  cosi  noi  non  possiamo  formai'c  nel  nostro  inten- dimento alcuna  idea  semplice,  ma  solo  delle  idee  complesse,  ri- petendo.  comparando  e  unendo  insieme,  con  unn  varietà  pres- so(diè  inlìniln,  le  idee  semplici  che  ci  vengono  dai  sensi  e  dalla riflessione  {per  riflessone  Locke  intende,  come  si  sa,  la  coscienza che  il  nostro  spirito  ha  dei  suoi  propri  atti,  ciò  in  cui  nessun sensista  potreblie  rilìutare  di  vedere  una  sorgente  reale  delle  nostre idee;  il  torto  di  Locke  e  semplicemente  di  non  aver  couipreso  che tutti  gli  atti  di  ('ui  lo  spiiMto  può  avere  coscienza,  si  riducono,  in sostanza,  a  sensazioni  o  sentimenti;. ri04 delle  idee,  ma  delle  pseudo  —  idee,  cioè  delle  pure  forme verìjali,  a  cui  non  corrisponde  alcuna  nozione  reale. Lo  Spencer  è  quindi  costretto  ad  abbandonare  i  prin- €ipii  della  dottrina  deir  esperienza  anche  nella  quistione sullurigine  delle  idee:  le  sue  dottrine  ontologiche  lo  condu- cono fatalmente  ad  ammettere  una  classe  d'idee  che  non ci  provengono  dai  sensi,  (jupste  idee  non  possono  essere che  dei  dati  originali  deirintelligenza;  essi  devono  trovarsi in  noi  sin  dall'alba  della  coscienza.  Cosi  noi  troviamo  in Spencer,  sidl  idea  deir  Inconoscibile,  delle  proposizioni che  hanno  V  analogia  [)iii  colpente  con  quelle  sulle  idee innate  di  una  parte  dei  metafisici  che  sostengono  questa dottrina  (quelli  che  la  deducono  dal  concetto  che  la  so- stanza dell'anima^  consiste  nel  pensiero),  p.  e.  di  Rosmini sull'idea  dell'essere.  (V.  N.  S.  suirorigine  delle  idee,  §  481, 521,  53'S,  G2:WJ2j,  ecc.  Confr.  il  mio  Saggio  seguente,  l'A/)- pendlce  alla  parte  1^  e.  2^  verso  la  fine,  e  il  Supplemen- to sulla  dottrina  di  Rosmini  sulla  sostanza  delVanimo). L'idea,  o  piuttosto  il  sentimento,  dell'essere  assoluto,  cioè dell'Inconoscibile,  non  solo  è  un  dato  ultimo  della  coscien- za (Primi  principii  §  G5)  e  un  elemento  mentale  ultimo (§  2G),  ma  è  un  elemento  permanente  del  pensiero,  e  non può  mai  essere  assente  dalla  coscienza  (§  2G,  27,  10,  GÌ,  ecc); è  come  il  l'ondo  della  coscienza  stessa  (§  45)  e  il  suhstra- tum  comune  di  tutto  ciò  che  è  in  essa,  e  l'autore  lo  chiama «la  materia  bruta >  o  «  la  sostanza  i)ura  del  pensiero,  a cui  diamo  pensando  differanti  forme  ^>,  «  la  sostanza  indif- ferenziata della  coscienza,  che  riceve  delle  condizioni  nuo- ve in  ciascun  pensiero».  <•  la  coscienza  incondizionata  »  ecc. (§  2G  e  GÌ).  Né  è  solamente  la  nostra  coscienza  che  è costituita  cosi,  ma  è  impossibile  d'immaginare  una  co- scienza che  fosse  costituita  altrimenti  C§  G2).  Videa  innata dell'Inconoscibile  porta  naturalmente  con  so  quelle  degli attributi  la  cui  atìermazione  è  inseparabile  dall'afferma- zione deirinconoscibile  stesso,  cioè  che  è  oa'a'etivo,  che  è  5o; persistente,  che  è  il  subsiraium  delle  cose  fenomenali,  ecc. Ma  perchè  lo  Spencer,  nei  suoi  Principii  di  psicologia, non  fa  alcun  cenno  di  questa  classe  d'idee,  a  cui  egli  ò obbligato  di  ricorrere  nei  Primi  principii  ì  CI).  Non  vi  ha niente  che  possa  dimostrare  più  chiaramente  la  contrad- dizione radicale  fra  le  sue  dottrine  ontologiche  e  i  prin- cipii della  filosofia  dell'esperienza,  di  cui  egli  è  meritamente ritenuto  come  uno  dei  più  grandi  antesignani  (2). §  7.^  Quando  gli  psicologi  intuizionisti  presentano  co- me dati  originali  della  coscienza  delle  nozioni  dovute  al- l'esperienza e  all'associazione,  non  vi  ha,  nella  più  parte -dei  casi,  nelle  loro  dottrine  un  errore  evidente  ;  perchè (|ueste  nozioni  sono  eftettivamente  dei  dati  costanti  d'ogni coscienza  umana,  ed  essi  non  hanno  che  il  torto  di  pren- dere per  necessità  primordiali  del  pensiero  delle  neces- sità semplicemente  derivate  (ci('>  che,  come  sappiamo,  è l'effetto  d'un'illusione  naturale  del  nostro  spirito).  Ma  ciò che  vi  ha  di  particolare  alla  dottrina  di  Spencer,  è  che ciò  che  essa  presenta  come  dati  originali  della  coscienza, sono  delle  nozioni  che  questa,  il  più  delle  volte,  ignora completamene.  L'affermazione  di  una  realtà  assoluta  in- conoscibile, lungi  di  essere  una  credenza  naturale  del  genere umano  (come  dovrebbe  essere  pertanto,  se  fosse  vera- mente un  dato  originale  della  coscionza),  è  l'ultima  risposta che  la  metafisica  dà  ai  più  ardui  problemi  dell'inteUigenza umana,  dopo  averne  cercato  vanamente  una  soluzione positiva.  L'uomo  non  esordisce  già  per  affermare  1'  esi- (1)  Una  contraddizione  analoga  vi  lia  fra  i  Primi  principii  e  i Principii  di  sociologia:  secondo i  Primi  principii,  è  il  senso  della realtà  assoluta  e  inconoscibile  clic  Ibraia  la  base  delle  credenze reliiiiose  (v.  §  14,  27,  34,  45,  00,  101,  ecc.);  ma  di  ciò  neppure  una parola  nei  Principii  di  sociologia,  dove  l'autore  studia  le  origini della  religione  (parte  I,  tomo  I). (2)  Dopo  aver  parlato  di  questa  dottrina  di  Spencer  sull'idea  del- rinconoscibile,  noi  ci  troviamo  più  in  grado  di  rispondere  a  un  rim- stenza  d'una  realtà  indeiinita  al  di  là  delle  apparenze  che gli  mostrano  i  sensi;  le  realtà  per  lui,  sinché  non  ha  rice- vuto le  lezioni  dei  metafìsici,  o  d'una  filosofia  critica  che  i loro  sistemi  hanno  preparato,  non  sono  che  le  presentazioni dei  sensi  stessi.  Similmente  egli  non  comincia  per  Tatlerma- zione  di  cause  superiori  alla  sua  concezione  e  senz  alcuna analogia  con  quelle  deiresperienza;  ma  in  possesso  di  gene- ralizzazioni incoscienti  tirate  dai  fatti  più  familiari,  cerca istintivamente  di  ricondurvi  gli  altri  fatti,  rappresentane provero  che  potrebbe  venirci  mosso  sulla  nostra  interpretazione della  sua  dottrina  sulle  proposizioni  a  priori,  (quella  dei  Primi  prtn- ctpu  sulla  persistenza  della  forza,  V  esistenza  d'  una  realtà  asso- luta, ecc.).  Quest'apriorità  noi  la  comprendiamo  nel  senso  stretto  e tradizionale,  cioè  come  se  queste  proposizioni  fossero  assolutamen- te indii>endenti  dalfesperienza,  sia  personale  sia  avitica.  Ma  ci  si potreblìe  obbiettare,  e,  come  vedremo,  non  senza  qualche  ragione, che  lo  Spencer  non  dà  le  sue  proposizioni  a  priori  come  tali  che  per rindividuo,  mentre  per  la  specie  sarebbero  a  posteriori,  esultando dalla  eredità  organica  delle  esperienze  ancestrali.  Questa  seconda interpretazione,  in  effetto,  ha  il  vanta^^gio  di  mettere  di  accordo  la dottrma  dei  Primi  prinripii  con  quella  dei  Prinripii  di  psicologia e.  generalmente  delle  altre  opere  dell'autore  :  ma  la  quistione  è appunto  se  (piest'accordo  sia  possibile,  o  non  vi  sia  inveire  tra  le due  dottrine  di  Spencer  un'aperta  contraddizione,  che  l'autore non  ha  fatto  niente  y>q^v  risolvere. Già  prima  di  tutto,  per  la  proposizione  che  cMmi)orta  di  più,, cioè  la  persistenza  della  forza-che  è  quella  sulla  cui  apriorità  insi- ste speci(dmente  lo  Spencer-,che  (piest'apriorità  debba  intendersi nel  senso  antico  e  rigoroso,  e  non  come  il  prodotto  delle  esperien- ze ereditarie,  è  ciò  che  seml)ra  risultare  dalle  dichiarazioni  esiìli- cite  dellautore.  Nel  capitolo  sull' «indistruttibilità  della  materia  », proposizione  che,  come  sappiamo,  è  un  corollario  del  principio della  persistenza  della  forza,  e  impresta,  per  conseguenza,  la  sua apriorità  a  quella  di  questo  principio,  dice  :  «  L'indistruttibiiità  del- la materia  è,  rigorosamente  parlando,  una  verità  a  priori  »  (s  53). E  un  po'  prima  (nello  stesso  paragrafo):  «  L'annientamento  della materia  e  inconcepil)iIe  per  la  stessa  ragione  per  cui  la  creazione della  materia  è  inconcepibile  ;  e  la  sua  indistruttibilità  diviene  c<osi una  conoscenza  a  priori  dell'ordine  piìi  elevato,  non  rome  risul- dosi  p.  e.  tutti  i  fenomeni  come  degli  effetti  di  cause  ana- loghe alla  sua  propria  volontà,  o  spiegando  per  Timpulsione tutti  i  movimenti  ch'egli  osserva  nella  natura.  Egli  crede cosi  di  conoscere  le  cause  efficienti,  perchè  ciò  in  cui  la  cau- sa efficiente  si  distingue  da  un  semplice  antecedente  di  una sequenza  invariabile,  è  che  essa  spiega  la  produzione  del- Tettetto,  ciò  che  quello  non  può  fare,  e  noi  crediamo  di avere  spiegato  un  fatto,  quando  lo  abbiamo  assimilato  a un  altro  fatto  che  ci  è  molto  familiare.  La  sola  idea  di causa  efficiente,  come  la  sola  idea  di  cosa  in  sé,  che  sia tato  d'una  lunga  serie  d'esperienze  gradualmente  organizzate  in un  modo  di  pensare  irrecocahile,  ma  come  data  nella  forma  di tutte  le  esperienze  gualsiansi.  » Ma  delle  prove  più  forti  si  hanno  nello  ragioni  clie  lo  Spen- cer assegna  alla  inconcepibilità  della  negativa  della  persia stenza  della  forza  e  dei  suoi  corollari.  Uuella  su  cui  V  autore insiste  di  più  è,  lo  sappiamo,  P  impossibilità  di  concepire  che niente  divenga  qualche  cosa  e  (pialche  cosa  divenga  niente  . che  deriva,  alla  sua  volta,  dalla  impossibilita  che  niente  sia  un oggetto  del' pensiero.  «  V incapacità  che  c'impedisce  di  concepire c?ie  la  materia  dicenga  non  esistente  è  la  conseguenza  diretta della  natura  stessa  del  pen<iero.  11  pensiero  è  una  posizione  di relazioni.  Non  si  può  porre  relazione,  e  per  conseguenza  i)ensare, quando  l'uno  dei  termini  relativi  è  assente  dalla  coscienza  K  dun- <pie  impossibile  di  pensare  che  qualche  cosa  divenga  niente  per  la stessa  ragione  per  cui  è  impossibile  di  i»ensare  che  niente  divenga qualche  cosa;  e  questa  ragione  è  che  niente  non  può  divenire  uu oggetto  di  conscienza  »  (s  53).  E  un  po'  dopo  (nello  stesso  para- grafo): «  La  forma  del  pensiero  rende  impossibile  che  noi  abbiamo r  esperienza  della  materia  /tassante  cdla  non  esistenza,  poiché <iuest' esperienza  implichereblìe  la  conoscenza  d'una  relazione  di cui  l'uno  dei  termini  non  sarebbe  rappresentalnle  nella  coscienza  >>. E  parlando  della  «  continuità  del  movimento  »  (§  56)  :  «  r3ire  che  il movimento  è  creato  o  annientato,  dire  che  niente  diviene  cpialche cosa  o  qualche  cosa  diviene  niente,  è  stabilire  nella  coscienza  una relazione  fra  due  termini  di  cui  l'uno  è  assente  dalla  coscienza,, ciò  che  è  impossibile.  La  natura  ste^<a  dell' intelligenza  smenti- sce la  supposizione  che  si  possa  concepire  (ancora  meno  cono- scere) il  coìninciamento  o  la  cessazione  del  morimento  ».  La  stessa idea  è  ripetuta,  quantumpie  in  una  foi'ma  alquanto  differente,  per la  persistenza  della  forza  (in  un  luogo  che  citeremo  in  seguilo,  §  rii). -^>naturale  al  nostro  spirito,  è  dunque  calcata  suiresperienza e  sui  fenomeni  ;  tutte  le  altre  sono  un  prodotto  della  col- tura, e  il  più  tardo  è  quella  d'una  causa  o  d'una  cosa  as- solutamente inconoscibile  e  irrappresentabile.  Qui  noi  toc- chiamo il  punto  più  debole  del  criterio  dell'inconcepibilità della  negativa.  Quale  di  queste  due  proposizioni  ha  per  se rinconcepibihtà  della  negativa?  quella  che  dice:  ciò  che mi  presentano  i  sensi  sono  degli  oggetti  reali,  permanenti, indi[)endenti  dai  sensi  stessi  ;  o  quella  che  dice  :  al  di  là delle  apparenze   che  i  sensi    mi  presentano  .  vi   ha  una Se  il  vero  principio  primo  di  Spencer,  da  cui  sì  deduce  la  i^ei*- sisten/a  della  forza  coi  suoi  corollari,  cioè  che  niente  non  i»U()  di- ventare qualche  cosa  ne  qualcìje  cosa  niente,  fosse  un  risultoto deiraccumulazionc  or.iianica  delle  esjterienze,  le  necessitn  del  pen- siero su  cui  esso  è  fondato,  sarel)hero,  non  delle  necessità  primor- diali, ma  ac(]uisite  e  derivate  dalFesperienza  (avitica).  Queste  sono: clie  pensare  è  sta])ilirc  delle  relazioni  ;  e  che  niente  (  vale  a  dire r  uno  dei  termini  della  relazione  che  noi  dovremmo  stabilire  per pensare  che  qualche  cosa  diventi  niente  e  niente  qualclie  coso) non  è  rappresentabile.  Ora  è  evidente  che  né  l'uno  né  l'altro  di questi  due  fatti  potrebbe  sj^ìetrarsi  come  un  prodotto  deiraccumu- lazionc delle  esperienze  che  i  nosti'i  antenati  hanno  avuto  della persistenza  della  forza,  della  materia,  e  in  una  parola,  delFessere reale.  Supponiamo  che  la  natura  fosse  costituita  in  modo  che  essi non  avessero  avuto  le  esperierienze  di  (piesta  persistenza,  ma  aves- sero avuto  invece  delle  esperienze  allatto  contrnrie.  Forse  il  pen- sare avrel)be  cessato  di  essere  un  i^orre  delle  relazioni?  vi  ha  l;"i evidentemente  un  fatto  che  è  dell'  essenza  stessa  del  pensiero, cioè  della  facoltà  rappresentativa,  e  noi  non  possiamo  immaginare alcun  cangiamento  della  natura  esteriore  e  delle  sue  leggi,  che potesse  avere  per  eHetto  di  cangiarlo.  0  forse  il  niente,  in  que- st'ipotesi, sarebbe  divenuto  rappresentabile?  Lo  Spencer  non  dice nei  luoghi  citati  perchè  il  niente  è  irrappresentabile:  egli  l'afferma come  una  verità  evidente  i>er  se  stessa:  noi  dobbiamo  duncpie supporre,  per  la  sua  atVermazione,  le  ragioni  più  ovvie.  Queste sono,  evidentemente,  cl.e  una  rappresentazione  è  qualche  cosa  di reale,  di  positivo,  e  non  può  quindi  rappresentare  che  un  oggetto anch'esso  reale  e  positivo.  La  rap])resentazione  essendo  un'  im- magine della  cosa  rappresentata,  il  niente  non  potrebbe  essere rapi>resentato  che  dal  niente  ;  ma  allora  non  vi   sarebbe  rappre- ^ realtà  indefinita  e  inconoscibile  ?  Non  la  prima,  perché Spencer  la  rigetta  ;  non  la  seconda,  perchè  il  senso  co- mune la  ignoi^a.  Sarà  dunque  un'affermazione,  che  queste due  affermazioni  differenti  hanno  in  conmne  ?  Ma  non  vi ha  alcuna  affermazione  comune  alle  due  :  io  voglio  dire, non  vi  ha  alcun  oggetto,  la  cui  esistenza  sia  affermata  si dal  realismo  naturale  che  dal  realismo  trasformato,  e  la cui  realtà  perciò  possa  essere  giustificata  dal  criterio  del- rinconcepibilità  della  negativa,  o  della  persistenza  della credenza     L'oggetto  che  il  realismo   naturale  alferma,  è sentazione,  né,  per  conseguenza,  cosa  rappresentata.  L"  irrappre- sentabilità del  niente  è  dunque  un  fatto  che  è  una  conseguenza necessaria  della  natura  stessa  della  facoltà  rappresentativa,  non meno  che  quello  che  pensare  è  stabilire  delle  relazioni.  Del  resto lo  Spencer  stesso  dà  esplicitamente  questi  due  fatti  per  una  con- seguenza della  «natura  stessa  del  pensiero,  della  «sforala del  pensiero)»  {Uddì,  della  «natura  stessa  dell'intelligenza  »  (§  5f)— w  i  luoghi  citati,  i  tratti  in  corsivo)  :  cosi  essendo,  siccome  delle esperienze  avitiche  differenti  avrebbero  potuto  determinare  delle coesioni  differenti  fra  dei  pensieri  particolari,  ma  non  mutare  il liensiero  stesso  nella  sua  essenza,  l'impossibilità  di  concepire  che niente  diventi  qualche  cosa  e  qualche  cosa  niente,  non  potrebbe originarsi  dalle  esperienze  avitiche  della  persistenza  della  forza, della  materia,  ecc.,  e  noi  dobbiamo  intendere  per  questa  imix)S8Ì- lìilità  una  necessità  psichica  primitiva  e  assolutamente  indipendente dall'esperienza Un'  altra  ragione  che  lo  Spencer  assegna  alla  inconcepibilitii della  negativa  della  sua  proposizione  fondamentale,  cioè  la  per- sistenza della  forza,  è  il  legame  necessario  dell'idea  della  persi- stenza con  quella  che  non  può  mai  essere  assente  dalla  coscienza, vale  a  dire  l'idea  dell'Assoluto  o  dell'Inconoscibile -noi  sappiamo in  effetto  che  la  Forza  non  è  altm  cosa  che  la  realtà  assoluti!  e inconoscibile  —  L'  autore  considera  evidentemente  la  persistenza della  forza  come  implicata  neirintuizione  continua,  ch'egli  accor- da allo  spirito,  dell'essere  assoluto;  in  altri  termini,  in  questa  in- tuizione, quest'essere  ci  è  dato,  secondo  lui,  con  l'attributo  della persistenza.  Cosi  nel  §  26  l'idea  che  è  la  sostanza  della  coscienza e  non  può  mai  esserne  assente,  cioè  quella  dell'  Assoluto,  è  chia- mata «un  sentimento  di  ciò  clie  esiste  d'una  maniera  persistea- te  e  indipendente  dalle  condizioni».  Nel  s  CO  il  «dato  senza  di  cui «-^    ^  ^    ^Nj'^ un  oggetto  colorato,  esteso,  esistente  nel  tempo  e  nello spazio,  ecc.:  ma  l'oggetto  che  afferma  il  realismo  trasfor- mato, è  un  oggetto  senza  colore,  senza  estensione,  l'iiori del  tempo  e  dello  spazio,  ecc.  Lo  Spencer  non  può  avere che  una  risposta  a  questa  difficoltà  :  Taffermazione  di  una realtà  indetinita  è  un  elemento  deiraffermazione  di  una realta  definita,  estesa,  colorata,  ecc  ;  il  realismo  trasfor- mato non  sostituisce  un  altro  oggetto  air  oggetto  affer- mato dal  reahsmo  naturale,  ma  conserva  un  elemento della   credenza  e  del  suo  oggetto,   il  senso  (runa  realtà, la  coscienza  r  iiiii)ossibile  »—  dato  per  cui  dol)l)iaino  intendere l'idea,  sempre  j>resente  alla  coscienza,  deirAssoluto,  della  quale  lia parlato  nel  ??  20— è  «resistenza  pcnnanente ù.\\\\\nQOwos<Q;\h\\Q,  co- me corrolativo  necessario  del  Conoscibile».  Nel  §  40  afTerma  che «non  possiamo  formarci  una  nozione  anche  indennità  dell' asso- lutamente reale,  eccetto  come  assolutamente  persistente  ».  E  nel S  05  dice:  «Allermare  un'esistenza  al  di  là  della  coscienza  è  alt'er- mare  che  vi  ha  in  fuori  della  coscienza  qualche  cosa  che  persi- ste; perchè  la  ]tersistenza  non  è  niente  di  più  che  l'esistenza  con- tinuata, e  non  si  può  concepire  1'  esistenza  altrimenti  che  come continuata  »  (come  si  vede  dal  contesto,  questa  qualcìie  cosa  m fuori  della  <  o^cienz-a  non  è  che  la  Forza,  e  la  i>ersistenza  di questa  qualche  cosa  la  persistenza  della  Forza).  Siccome  la  no- zione dell'Assoluto  o  deirhiconoscibile  non  pui'»  i>rovenire  dalla senzazione  nò  essere  un'induzione  dairesi>erienza,ciòche  è  il  mo- tivo per  cui  l'autore  ne  fa  un'  idea  innata  e  sempre  presente  alla coscienza;  l'attrilnito  della  persistenza  essendo  compreso  in  que- sta nozione  stessa,  lunione  di  quesf  attributo  col  suo  so;?getto non  può  essere  un  risultato  dell'esperienza,  sia  individuale,  sia avitica,  e  la  proposizione  che  alferma  la  persistenza  dell'Assoluto, cioè  della  Forza,  è  necessariamente  un  giudizio  a  priora  nel  sen- so stretto  e  tradizionale.  Talvolta  questa  proposizione  è  dedotta, invece  che  dalla  irrappresentabilità  del  niente,  dalla  persistenza assoluta  dell'idea  dell'Inconoscibile  nella  coscienza.  «Noi  abbiamo visto  (nel  §  20)  che  il  potere  sconosciuto,  di  cui  non  si  può  con- cepire il  cominciamento  né  il  fine,  è  presente  nella  coscienza  come una  materia  bruta  che  riceve  uua  forma  nuova  in  ciascun  pen- siero. La  nostra  incapacità  di  rapprensentarci  i  suoi  limiti  è semplicemente  il  riscontro  della  nostra  incapacità  di  mettere  fme al  .soggetto  che  pensa  sinché  continua  a  pensare».  (J^  61).   Ma  nel  oli sopprimendo  gli  altri  elementi,  vale  a  dire  Fattribuzione a  questa  realtà  delle  forme  definite  sensibili,  di  cui  la  cre- denza, per  un'illusione,  la  riveste.  «  Noi  abbiamo  coscienza del  relativo  come  d'un'esistenza  sottomessa  a  delle  con- dizioni e  a  dei  limiti:  è  impossibile  di  concepire  queste condizioni  e  questi  limiti  separati  da  qualche  cosa  a  cui essi  danno  la  forma;  la  soppressione  di  queste  condizioni e  di  questi  limiti  è  la  soppressione  delle  condizioni  e  dei  li- miti solamente.  Per  conseguenza  deve  esservi  un  residuo, una  concezione  di  qualche  cosa  che  rieinine  il  loro  con- tratto che  segue  (nello  stesso  ??),  questo  concetto  si  fonde  con l'altro,  che  la  ragione  della  incapacità  di  concepire  i  limiti,  cioè il  cominciamento  e  il  fine,  della  forza  è  l' impossibilita  di  rap- presentarsi il  niente.  «Nei  due  capitoli  precedenti  noi  abbiamo considerato  (luesta  verità  fondamentale  (la  persistenza  della  forza) sotto  un  altro  aspetto.  Noi  al)biamo  visto  che  l'indistruttibilità della  materia  e  la  continuità  del  movimento  sono  in  realtà  due corollari  dell'  impossibilità  di  stabilire  nel  pensiero  una  relazione tra  qualche  cosa  e  niente.  Ci(')  che  noi  chiamiamo  lo  stabilimento d'una  relazione  nel  pensiero,  è  il  passaggio  della  sostanza  della coscienza  da  una  forma  ad  un'altra.  Pensare  (jualche  cosa  dive- llente niente  imi)licherebbe  che  questa  sostanza  della  coscienza, avendo  esistito  sotto  una  forma  data,  non  prenda  più  forma  o cessi  di  essere  concepita.  Così  r  incapacità  di  concepire  la  di- struzione della  materia  e  del  movimento,  è  l'incapacità  di  soppri- mere la  coscienza  stessa.  Ciò  che  noi  abbiamo  trovato  vero  d^lla materia  e  del  moviménto  nei  due  capitoli  precedenti,  è  ajortiori vero  della  forza,  vale  a  dire  dell' elemento  di  cui  si  formano  le concezioni  della  materia  e  del  movimento  ».  (Qui  la  persistenza della  forza  si  deduce,  al  solito,  dalla  irrappresentabilità  del  niente: ma  di  questa  irrappresentabilità  del  niente  si  dà  una  spiegazione diversa  da  quella  che  ne  abbiamo  dato  noi.  Sopra,  noi  l'abbiamo Si)iegato  per  la  necessità  che  ogni  rai)presentazione  sia  qualche cosa  di  positivo:  qui  l'autore  la  spiega  per  l'impossibilità  di  ri- gettare dalla  coscienza  la  sostanza  della  coscienza  stessa.  Ma  le due  spiegazioni  non  si  contraddicono:  la  seconda  non  esclude  che la  ragione  per  cui  non  possiamo  rapprentarci  il  niente  sia  che ogni  rappresentazione  è  necessariamente  qualche  cesa  di  positivo; solamente  aggiunge  che  questa  qualche  cosa  di  positivo  deve essere  una  determinazione  dell"  idea  di   esistenza  assoluta   che  è torno,  ed  é  questa  qualche  cosa  crindefinito  clie  costituisce la   nostra   concezione   dellassoluto L'impulsione   del pensiero  ci  porta  inevitabilmente,  di  là  dallesistenza  con- dizionata, all'esistenza  incondizionata.  Da  ciò  la  nosti^ ferma  credenza  a  questa  realtà,  credenza  che  la  critica metafìsica  non  può  scuotere  un  sol  momento.  Si  può  ve- nire a  dirci  che  questo  ixìzzo  di  materia  che  noi  riguar- diamo come  esistente  fuori  di  noi,  non  può  essere  real- mente conosciuto,  che  noi  possiamo  solamente  conoscere le  impressioni  che  esso  produce  su  di  noi  ;  ma  noi  siamo la  sostanza  della  coscienza).  Secondo  il  {^  (il  (lunqiie,  la  ragione ultima  della  necessità  in  «-ui  siamo  di  afTermare  la  i)ersistenza della  forza,  è  la  permanenza  deir  essere  assoluto  nella  coscienza. Sulla  quale  deduzione  dobbiamo  osservare  che,  siccome  non  vi ha  alcun  rapporto  concepibile  fra  questa  permanenza  e  le  esi>e- rienze  del  fatto  che  si  pretende  dedurne,  essa  non  può  essere  spie- jcrata  per  l'accumulazione  organica  dell'esperienze,  i)iù  che  l'idea stessa  dell'assoluto  o  rimpossibilità  di  rai)presentarsi  il  niente;  e quindi  la  proposizine  che  se  ne  dà  come  una  conseguenza,  cioè la  persistenza  della  forza,  non  può  essere  che  una  proposizione  a jn'ìori  nel  senso  antico  e  rigoroso  del  termine. Ma  l'argomento  più  decisivo  dell'apriorità,  in  questo  senso,  del princii»io  fondamentale  di  Spencer,  e  questo  tratto  del  §  susse- guente: «Il  postulato  al  quale  siamo  arrivati  da  persistenza  della forza)  è  anteriore  alla  dimostrazione,  anteriore  alla  conoscenza definita;  esso  è  cosi  antico  che  la  natura  stessa  del  nostro  spirito. La  sua  autorità  si  eleva  al  di  sopra  di  ogni  altra  autorità;  perchè non  solo  esso  è  dato  nella  costituzione  della  nostra  propria  coscienza/ ma  è  impossibile  d'immaginare  una  coscienza  costituita  in  maniera da  non  darlo.  Poiché  il  pensiero  non  implica  che  lo  stabilimento delle  relazioni,-  si  può  facilmente  concepire  ch'esso  si  eserciti quando  le  relazioni  non  sono  state  ancora  sistematizzate  nelle nozioni  astratte  che  chiamiamo  spazio  e  tem[)0;  si  può  concepire una  specie  di  coscienza  che  non  contenga  i  principii  detti  aprtorC che  implica  l'organizzazione  di  queste  forme  di  relazioni.  Ma  non si  può  concepire  che  il  pensiero  prosiegua  la  sua  opera  senza  certi elementi  tra  i  quali  le  sue  relazioni  possano  essere  stabilite;non  si  può dunciue  concepire  una  coscienza  che  non  implichi  l'esistenza  con- tinua come  dato  fondamentale.  La  coscienza  è  i)0ssibile  senza tale  o  tal  altra/o/7na  particolare,  ma  è  impossibile  senza  contenuto.forzati,  per  la  relatività  del  pensiero,  di  pensare  che  que- ste impressioni  sono  in  relazione  con  una  causa  positiva^, e  allora  apparisce  una  nozione  rudimentaria  d'un'esistenza reale  che  le  produce.  Se  si  prova  che  ogni  nozione  d'un'e- sistenza  reale  implica  una  contraddizione  radicale,  che  la materia,  di  qualunque  maniera  la   concepiauKj,  non  può Il  solo  principio  che  oltrepassa  T esperienza,  perchè  le  serve  di base,  è  dun(iue  la  persistenza  della  forza».  11  luogo  citato  esclude della  maniera  più  assoluta  che  il  ]trincipio  della  persistenza  della forza  sia  un  risultato  delFaccumulazione  organica  delle  esi>erienze. Allora,  in  eiTetto,  i)rima  che  quest'accumulazione  fosse  già  un fatto  compiuto,  avrebbero  esistito  delle  coscienze  di  cui  il  prin- cipio in  quistione  non  sarebbe  stato  un  dato,  e  cpiindi  sarebbe possil)ile  d'  hnniagìnurc  una  cosricnz-a  co'^tituìta  in  maniera  da non  darlo.  Notiamo  che  in  questo  luogo,  specialmente  se  si  mette in  rapporto  col  §  antecedente,  del  «luale  è  una  conclusione  (basta di  confrontarlo  coi  tratti  citati),  si  trova  anche  la  conferma  della giustezza  dei  nostri  argomenti  precedenti.  I  fatti  dello  spirito «la  cui  lo  Spencer  deduce  il  suo  principio  fondamentale,  cioè  che il  pensiero  è  una  posizione  di  relazioni,  che  il  niente  non  è  rap- presentabile,  e  che  r  idea  dell'  essere  assoluto  è  continuamente ])resenle  alla  coscienza  (ciò  che  qui  è  chiamato  il  contenuto  del- la coscienza  è  evidentemente  ciò  che  altrove  ne  è  detto  la  so- stan^a.  vale  a  dire  l'idea  dell'assoluto),  non  possono,  come  ab- biamo osservato,  essere  un  eltetto  delle  esperienze  avitiche,  per- chè qui  sono  dati  come  dei  fatti  necessari  implicati  nella  costi- tuzione di  qualunque  coscienza,  e  non  solamente  della  coscien- za modificata  dall'  esperienza  ancestrale.  Ialine  possiamo  osser- vare che  la  proposizione  con  cui  termina  la  nostra  citazione, si  può  a  buon  dritto  intendere  come  un'affermazione  esplicita  che il  principio  della  persistenza  della  forza  è  assolutamente  indipen- dente dall'esperienza,  anche  avitica,  tanto  più  se  si  bada  all'anti- tesi tra  «  il  solo  principio  che  oltrepassa  1'  esperienza  »  e  «  i  prin- cipii detti  a  priori  »  di  cui  prima  ha  parlato  («detti  a  priori  »  si- gnificherebbe :  impropriamente  chiamati  così,  perchè  se  sono  tali per  l'individuo,  non  lo  sono  per  la  specie). Come  si  vede  dalla  citazione  precedente,  l'idea  dell'assoluto  non potrebbe  riguardarsi,  più  che  il  principio  della  persistenza  della forza  che  se  ne  deduce,  come  un  risultato  delle  esperienze  eredi- tarie. Quest'os3ervazione  serve  a  completare  ciò  che  abbiamo  detto nel  testo  su  quest'idea;  ma  essa  ha  anche  un'  importanza  diretta essere  la  materia  quale  è  effettivamente,  la  nostra  con- cezione si  trasforma  e  non  è  distrutta;  resta  il  senso della  realtà,  separata  per  quanto  è  possibile  dalle  l'orme speciali  sotto  di  cui  era  prima  rappresentata  nel  pensiero. Quantunque  la  filosofia  condanni  l'uno  dopo  Taltro  ogni tentativo  di  concezione  dell'assoluto  ;  quantunque,  per  ob- perla  dottrina  deirautore  sulle  vro[>osizioni  a  jn  ìort  (iiidix)eiulen- teniente  da  (juanto  si  riferisce  al  inMiicipio  della  persistenza  deUa forza).  L'idea,  sempre  presente  alla  coscienza,  dell"  assoluto  non è  ciò  clie  irli  scolastici  chiamavano  nnei  se  in /tUrc  a /}prensioiic,\Q.\e a  dire  una  rappresentazione  senz'  alcun'  affermazione  :  ques'  idea al  contrario,  secondo  S])encer,  é  insepai'aì)ile  dalla  credenza  al- l'esistenza reale  del  suo  o^i^etto.  Ciò  r  provato  già  dai  luoirlii  ci- tati in  cui  la  persistenza  della  forza  è  data  come  una  verità  im- plicata neir  elemento  permanente  della  coscienza,  o  che  se  ne deduce,  poiché  «piesta  iM^:)iiosizione  enunciando  una  legiiG  della natura  reale,  essa  non  alTerma  semplicemente  il  legame  del  pre- dicato col  soggetto,  l'esistenza  del  soggetto  restando  ii)Otetica.  ma anche  la  realtà  del  soggetto  stesso.  In  alcuni  di  questi  luoghi,  che nell'idea  sempre  presente  che  la  coscienza  ha  dell' assoluto  sia compresa  la  sua  esistenza,  è  anche  alTermato  duna  maniera  espli- cita :  noi  abbiamo  visto,  in  elTetto,  che,  secondo  il  «^  (50.  il  «dato senza  di  cui  la  coscienza  è  impossibile»  è  «l 'esistenza  permanente d'un  Inconoscibile  >»,  e  che,  secondo  il  i^  02.  «non  si  può  concepire una  coscienza  cìie  non  implichi  1'  esistenza  continua  come  dato fondamentale».  Ma,  indiii>endentemente  dai  luoghi  che  si  riferiscono alla  persistenza  della  forza,  che  all'  idea  ]>ermanente  dell'  Incono- scibile sia  congiunta  la  credenza  nella  sua  realtà,  risulta  da  ipielli in  cui  quest'idea  è  chiamata  un  «.senso»  o  un  «sentimento»  o  una «coscienza»  dell'essere  assoluto  (§  2(),  pag.  9i  trad.  frane.  :  «  una coscienza  positiva  (luantunque  vaga  di  ciò  che  oltre])assa  la  co- •scienza  »:  pag.  00:  «il  senso  della  realtà»:  pag.  102:  «  un  senti- mento sempre  presente  d'esistenza  reale  »;  «  un  sentimento  di  ciò che  esiste  d'una  maniera  persistente  e  indij-endente  dalle  condi- zioni»; §  31,  pag.  120:  «  (jucsto  senso  indefinito  d' un  esistenza  ul- tima che  fa  la  base  della  nostra  intelligenza  »;  §  60,  pag.  202  :  «  una coscienza  vaga  dell'essere  assoluto»;  ecc.);  ed  è  detto  esplicita- mente nei  seguenti:  «L'impulsione  del  pensiero  ci  porta  inevita- bilmente, di  là  dall'esistenza  condizionata,  all'esistenza  incondizio- nata; e  questa  rimane  sempre  in  noi  come  il  corpo  d'un  pensiero 41  cui  non  possiamo  dare  forma.  Da  ciò  la  nostra  ferma  credenza bedirle,  noi  neghiamo  Tuna  dopo  Taltra  tutte  le  idee  a misura  che  si  producono  ;  siccome  non  possiamo  bandire tutto  il  contenuto  della  coscienza,  resta  sempre  al  fondo un  elemento  che  passa  sotto  nuove  forme.  La  negazione continua  d'o^^ni  forma  e  d'ogni  limite  particolare  non  ha altro  risultato  che  di  sopprimere  più  o  meno   completa- .^Ua  realtà  obbiettiva,  credenza  che  la  critica  metafisica  non  può scuotere  un  sol  momento  »  (§  2(>)  «  La  nostra  concezione  dell'incon- dizionato essendo  letteralmente  la  coscienza  incondizionata,  o  la sostanza  pura  del  pensiero,  a  cui  diamo  pensando  ditferenti  forme, .ne  segue  die  un  sentimento  sempre  presente  d'esistenza  reale  fa la  ])ase  della  nostra  intelligenza.  Poiché  noi  possiamo  in  atti  intel- lettuali successivi  disfarci  di  tutte  le  condizioni  particolari  e  rim- piazzarle con  altre,  ma  non  possiamo  disfarci  di  questa  sostanza indifferenziata  delia  coscienza,  che  riceve  delle  condizioni  nuove in  ciascun  pensiero,  resta  sempre  in  noi  un  sentimento  di  ciò  che esiste  d'  una  maniera  persistente  e  indipendente  dalle  condizioni. Nello  stesso  tempo  che  le  leggi  del  pensiero  c'interdicono  di  for- .mare  una  concezione  (definita)  d'esistenza  assoluta,  esse  c'impe- discono egualmente  di  disfarci  della  concezione  (indefinita)  d'esi- stenza assoluta,  poiché  questa  concezione  non  è,  noi  veniamo    di vederlo,  che  il  rovescio  della  coscienza  di  sé.  infine,  poiché  la  sola .misura  (iella  calidità  delle  nostre  credenze,  è  la  resistenza  che esse  oppongono  a  fili  sforzi  che  si  fanno  per  cangiarle,  ne  risulta che  quella  che  persiste  in  tutti  i  tempi,  fra  tutte  le  circostanze, e  die  non  può  cessare  a  meno  che  la  coscienza  stessa  non  cessi, possiede  il  più  alto  calore  »  (ibid.).  «  Esaminando  le  operazioni  del pensiero,  noi  abbiamo  visto  come  ci  è  impossibile  di  disfarci  della coscienza  d'una  realtà  nascosta  dietro  le  apparenze,  e  come  da (piesta  impossibilità  risulta  la  nostra  indistruttibile  credenza  a  que- sta realtà»  (ibid.).  Benché  non  si  possa  conoscere  l'assoluto  in alcuna  maniera  e  ad  alcun  grado,  se  si  i)rende  la  parola  conoscere al  senso  stretto,  noi  vediamo  pertanto  che  1'  esistenza  positiva dell'assoluto  é  un  dato  neces.sario  della  coscienza;  che  sinché  la coscienza  dura,  noi  non  possiamo  un  solo  istante  sbarazzarci  di questo  dato;  e  che  allora  la  credenza  che  vi  ha  il  suo  fondamento ha  una  certezza  superiore  a  tutte  le  altre  »  (^.^  27).  Citiamo  ancora il  §  45,  in  cui  l'autore  identifica  il  «  fondo  primordiale  che  la  co- scienza implica»  col  «postulato»  d' «  una  Forza  inconoscil)ile  »; o  il  §  40,  in  cui,  dopo  avere  stabilito  clie  il  reale  per  noi  é  ciò  che persiste  nella  coscienza,  dice  che  «noi  abbiamo  coscienza  d'una mente  tutte  le  forme  e  tutti  i  limiti,  e  di  arrivare  ad  una concezione  indefinita  deirinforme  e  'leirillimitato In  o- concetto  vi  ha  un  elemento  che  persiste.  É  impossi- bile che  quest  elemento  sia  assente  dalla  coscienza,  ed  è impossibile  che  vi  sia  presente  affatto  solo.  L^una  o  Tal- tra  alternativa  implica  la  non  coscienza,  l'una  per  man- realtà  assoluta  superiore  alle  relazioni,  prodotta  dalla  persistenza assoluta  in  noi  di  qualche  cosa  che  sopravvive  a  tutti  i  can<^ia- menti  di  relazione  ».  Poiché  Pidea  dall'assoluto  non  può  mai  essere assente  dalla  coscienza,  ed  è,  per  conseguenza,  innata,  e  la  sua innatezza  non  può  essere  un  effetto  dell'  accumulazione  ori?anica delle  esperienze  (perchè,  come  abbiamo  visto,  non  si  può  concepire- una  coscienza  che  non  implichi  questo  dato  fondamentale);  a  que- sfidea  essendo  unita  la  credenza  nella  sua  obbiettività,  ne  segue che  la  proposizione  che  alìerma  l'esistenza  dell'assoluto,  è,  ugual- mente che  quella  che  afferma  la  persistenza  della  forza,'' una proposizione  a  priori  nel  senso  stretto,  vale  a  dire  indipendente affatto  dall'esperienza,  si  individuale  che  avitica. Ora,  prima  di  finire,  noi  dobbiamo  aggiungere,  per  amore  del vero,  che,  quantunque  dall'insieme  deU'esposizione  della  dottrina, contenuta  nei  PrinU  prijicipii,  sulle  proposizioni  a  priori  che  ser- vono di  fondamento  alla  nostra  conoscenza,  risulti  chiaramente P  impressione  della  verità  della  nostra  interpretazione,  cioè  che queste  proposizioni  sono  a  priori  nel  senso  stretto  e  tradizionale, non  mancano,  in  questa  esposizione  stessa,  delle  frasi  isolate,  che tendereh])ero  a  mettere  in  dubbio  questo  risultato  e  a  provare l'interpretazione  contraria.  Nel  capitolo  sun'«  indistruttibilità  della materia»  l'autore  dice:  «Quest'ultimo  fatto  fcioè  che  il  contrario della  proposizione  è  inconcepibile)  solleva  naturalmente  la  qui- stione  se  noi  abbiamo  per  garanzia  di  questa  credenza  fondamen- tale un'autorità  superiore  a  quella  d'un' induzione  cosciente.  L'e- sperienza prova  che  l'indistruttibilità  della  materia  è  una  legge assoluta  nel  cerchio  dell'  esperienza.  Ma  le  leggi  angolate  della esperienza  generano  delle  leggi  assolute  del  pensiero.  Non  ne risulta  che  questa  verità  ultim.a  deve  essere  una  cognizione implicata  nella  nostra  organizzazione  mentale  ?  Noi  andiamo a  vedere  che  una  risposta  affermativa  è  inevitabile. E  alla  fine  dello  stesso  paragrafo:  «Un'osservazione  attenta,  mo- strando che  i  pretesi  annientamenti  (della  materia)  non  hanno  mai avuto  luogo,  lia  confermato  a  posteriori  la  conoscenza  a  priori, che,  secondo  la  psicologia,  /  isulta  da  una  legge  d'esperienza  contro  canza  di  sostanza,  laltra  per  mancanza  di  forma La nostra  concezione  delFincondizionato  essendo  letteralmente la  coscienza  incondizionata  o  la  sostanza  pura  del  pen- siero, alla  quale  noi  diamo  pensando  differenti  forme,  ne segue  che  un  sentimento  sempre  presente  d'esistenza  reale forma  la  base  stessa  della  nostra  intelligenza.  »  (§.  2G). Noi  potremmo  osservare  prima  di  tutto  che,  se  que- sta concezione  d'una  realtà  assoluta  e  indefinita  non  può mai  trovarsi  sola  nella  coscienza,  ma  sempre  con  qual- che forma  definita  che  noi  non  possiamo  a  meno  di  as- sociarle, noi  siamo  allora  fatalmente  condannati  airillusio- ne  di  pensare  Y  assoluto  come  relativo,  di  assegnare  al primo  degli  attributi  che  non  appartengono  se  non  al  se- condo,  in  una  parola,  di  confondere  Tessere  fenomenale la  gitale  non  può  mai  elevarsi  un'esperienza  contraria  ».  Questi sembrano  degli  accenni  alla  dottrina  dei  Principii  di  psicologia, che  le  proposizioni  a  priori  sono  tali  pei*  l'individuo,  ma  non  per la  specie,  derivando  dalla  trasmissione  ereditaria  dell'esperienza ancestrale.  Ma  sinché  non  ci  si  mostri  come  essi  ])ossan()  conci- liarsi col  complesso  della  dottrina  esposta  nei  Pi  imi  principii,  woi saremo  in  dritto  di  mantenere  che  questa  seconda  dottrina  è  in contraddizione  con  la  prima:  semplicemente  dovremmo  completare la  nostra  affermazione,  soggiungendo  che  la  contraddizione  non  e solo  tra  1  Primi  principii  e  i  Principii  di  psicologia,  ma  negli  stessi Primi  principii.  Il  fatto  è  che  l'autore,  do[>o  un  omaggio,  a  ]>arole, al  suo  principio  psicologico  con  cui  egli  pretende  conciliare  la  dot- trina apriorista  e  la  empirista,  ha  costruito  in  realtà,  trascinato dalle  sue  premesse  ontologiche  e  metodologiche,  una  teoria  sulle verità  ultime  interamente  aprioristica,  e  che  non  l'uò  assolutamente mettersi  d'accordo  con  quel  principio.  1  motivi  di  (luest'incoerenza sono  ovvii.  L'idea  dell'Inconoscibile  non  ])otendo  derivarsi  dai  sensi, egli  è  obbligato  a  vedervi  un  possesso  ingenito  dello  spirito,  che, per  la  stessa  ragione  per  cui  non  può  essei*e  acquisito  ]>er  l'indi- viduo, non  può  esserlo  nemmeno  per  la  specie.  Da  un  altro  canto, siccome  non  si  può  immaginare  una  reale  irrappresentai )ilità  de- rivante dall'esperienza,  per  appoggiare  la  sua  pi'oposlzione  fonda- mentale sul  criterio  dell'  inconcepibilità  della  negativa  culi  deve «cercare  quest'irrappresentabilità  nella  natura  stessa  del  jicnsiero; ma  allora  gli  diventa  impossibile  di  trovare  a  <iuesta  proposi/ ione iina  origine  empirica  (pialuiKpie. con  r  essere  reale  (1).  Il  tentativo  dunque  di  Spencer  di dissolvere  queste  forme  illusorie,  sotto  cui  la  realtà  asso- ta  apparisce  necessariamente  alla  coscienza  dell'  uomo^, sia  nella  credenza  del  realismo  naturale,  sia  nella  reli- gione, e  di  prendere  questa  realtà  indefinita  allo  stato  di'; purezza,  è  cosi  dichiarato  impossente  ed  illegittimo  dal criterio  stesso  dell'  inconcepibilità  della  negativa,  o  della persistenza  della  credenza:  non  si  deve  affermare  che  l'as- soluto esiste  senza  condizioni  e  forme  definite  rappresen- tabili, per  la  ragione  che  noi  non  possiamo  concepirlo  sen- za di  queste. Ma  questo  è  un  punto  accessorio,  e  noi  dobbiau:io  piut- tosto fermarci  sopra  un  altro  più  importante.  Non  vi  ha,, sembra,  altra  maniera  intelligibile  di  comprendere  la  dot- trina riferita  di  Spencer,  che  questa  :  clic  le  nostre  no- zioni delle  cose  constano  di  due  elementi,  uno  dato  nel— Fintelligenza  stessa,  cioè  la  nozione  della  realtà  assoluta e  indefinita,  e  un  altro  avventizio  dato  dai  sensi,  cioè  le proprietà  sensibili  delle  cose.  Naturalmente  noi  non  [X)s- siamo  dare  qui  un  analisi  della  percezione,  e  deirorigine delle  nozioni  degli  attributi  che  noi  assegniamo  agli  og- getti materiali  :  ma  per  discutere  la  dottrina  di  Spencer,. (l)  È  ciò  (Mie  eonres>ja  \n  stesso  ontoi^e  «  Hicoiioscioino  tutto  ciò che  vi  lia  «li  ben  durevole  nei  tentativi  continui  clic  si  fanno  per formare  una  concezione  di  ciò  cìie  è  inconcepibile È  possibile, ed  ancìie  i»robabile,  die,  sotto  le  loro  forme  più  astratte,  delle idee  di  (jnest'  ordine  continue) anno  sempi*e  ad  occultare  il  fon<lo della  coscienza.  È  probabilissimo  clie  si  sentirà  sempi'e  il  ])isoiino di  dare  una  forma  a  (juesto  senso  indelìnitod'un'esistenza  ultima, che  fa  la  base  delia  nostra  intelligenza.  Noi  saremo  sempre  sot- tomessi alla  necessità  di  considerarla  come  ^((ci^e/ie  mnniera  d'es- sere, cioè  di  rappresentarcela  sotto  qtialclic  forma  di  pensiei'o,  si vaga  «die  essa  sia»  Xotinmo  il  cUmax  contenuto  in  (lueste T>ro])osizioni.  L'autore  comincia  per  dare  la  cosa  come  possibile, poi  la  dà  comt  prohaì ale,  ]>oi  come  probahilissinia,  ma  infine^ vince  la  logica,  e  Unisce  iter  atlermarla  categoricamente).  noi  non  ne  abbiamo  alcun  bisogno,  perchè  quest'  analisi si  trova  nella  Psicologia  dello  stesso  autore.  In  generale, per  combattere  le  sue  dottrine  ontologiche,  non  si  ha  ad opporre  a  Spencer  che  lo  stesso  Spencer  :  come  all'  eroe sedotto  dagl'incanti  della  maga,  di  cui  narra  il  poeta,  si deve  a  questo  filosofo,  sedotto  dagl'incanti  di  questa  ma- ga che  è  la  metafisica,  mostrare  se  stesso  in  uno  spec- chio, quello  delle  sue  opere.  Dove  mai  lo  Spencer,  nei  suoi Principii  di  psicologia,  costruisce  le  nozioni  degli  ogget- ti percepiti  con  altri  elementi  che  i  dati  della  sensazione  ? quando  mai  la  sua  analisi  arriva  a  qualche  altro  elemen- to diverso  da  questi  dati  stessi  ?  «  Levate,  diceva  Herder (sulla  cosa  in  sé  di  Kant),  ad  una  ad  una  tutte  le  pellico- le che  formano  la  sostanza  bulbosa  della  cipolla,  e  ciò  che resterà  sarà  questa  pretesa  cosa  in  sé  >^.  Lo  stesso  deve dirsi  di  questa  nozione  di  una  realtà  assoluta  e  indefini- ta che  si   pretende  restare  delle   nostre  idee  delle  cose, dopo  che  si  sono  spogliate  delle  qualità  sensibili.  Che  co- sa potrà  restare  della  nostra   concezione   di  un   oggetto esteso,  colorato,  duro,  odoroso,  ecc.,  dopo  che  si  sono  sop- presse tutte  le  rappresentazioni  venuteci  dai  sensi  ?  Tut- ti gli  attributi  dell'oggetto  non  hanno  altro  per   contenu- to che  delle  sensazioni:  ciò  non  è  stato  mai  posto  in  dub- bio per  il  colore,  la  durezza,  l'odore,  ecc.;  in  quanto  al- l'estensione, essa  risulta,  secondo  Spencer,  dall'associazio- ne delle  sensazioni  del  movimento  muscolare  con  le  sen- sazioni specifiche  degli  organi  della  vista  e  del  tatto;  per altri  invece  l'estensione  visibile  è,  come  il  colore,  un  da- to originale  della  sensazione  visuale,  congiunto  e,  per  dir cosi,  fuso  indissolubilmente  col  colore   stesso.  Di   questi attributi,  alcuni  indicano  dei  fenomeni   sensibiU  che  per noi  non  esistono,  anche  al  punto  di  vista  delle  credenze naturali,  se  non  nel  momento  stesso  della  sensazione,  e attribuendo  agli  oggetti  tali  attributi,  noi  vogliamo   dire semplicemente  che  essi  ci  occasionano  certe    sensazioni. Altri  attributi  invece  designano  dei  fenomeni  sensibili  che, per  la  credenza  naturale,  non  esistono  semplicemente  nel momento  della  sensazione,  ma  sono  permanenti,  e  ap- partengono all'oggetto  stesso,  o  i)iuttosto  lo  costituiscono. Tali  sono  Y  estensione,  il  colore,  ecc.  Ma  attribuendo  la permanenza  e  Tobbiettività  a  questi  fenomeni  sensibili,  che non  sono,  come  gh  altri,  che  delle  sensazioni  nostre,  noi facciamo  ciò  forse  appicciccandole  alla  pretesa  nozione  di un  oggetto  reale,  permanente,  indefinito,  nuda  per  se  stessa di  ogni  forma  sensibile  ì  V  operazione  del  nostro  spirito nella  concezione  degli  oggetti  esteriori,  come  abbiamo  spie- gato nel  capitolo  2^  può  indicarsi  brevemente  cosi:  1-  noi consideriamo  questi  fenomeni  sensibili,  i  quali  in  verità non  esistono  che  per  la  nostra  sensibilità,  come  indipen- denti da  qualsiasi  relazione  a  noi  stessi,  cioè  dalle  loro condizioni  subiettive  2«  ai  fenomeni  sensi bih,  che  sono stati  realmente  per  noi  delle  sensazioni  attuali,  noi  ag- giungiamo, come  concomitanti,  come  antecedenti,  come conseguenti,  le  sensazioni  possibili,  cioè  che  noi  potremmo o  avremmo  potuto  avere,  se  fossimo  posti  o  fossimo  stati posti  nelle  condizioni  convenienti  ;  ma  queste  sensazio^ ni  possibili  noi  le  consideriamo,  non  come  fenomeni  pu- ramente possibiU,  ma  come  fenomeni  reali,  e  s' intende che  questi  ultimi  fenomeni  sensibili,  che  in  se  stessi  non sono  che  delle  possibilità,  ma  a  cui  noi  attribuiamo  la  realtà, vengono  riguardati,  del  pari  che  i  primi  a  cui  li  aggiun- giamo, come  indipendenti  da  qualsiasi  condizione  subbiet- tiva.  Gli  oggetti,  quali  noi  ce  li  rappresentiamo,  non  sono cosi  che  degli  aggregati  di  fenomeni  sensibili,  cioè  di  sen- sazioni attuali  e  di  sensazioni  possibili  realizzate.  CJie  cosa resterà  dunque  della  nozione  di  un  oggetto,  dopo  aver  sop- presso tutte  le  rappresentazioni  di  senzazioni  ?  ciò  che  re- sterà del  bulbo  della  cipolla  dopo  aver  levate  tutte  le  pel- licole. ()  i)retenderà  forse  lo  Spencer  che,  oltre  le  sensa- .sazioni  che  costituiscono  la  nostra  idea  deirestensione,  oltre  r  ordine  fra  le  sensazioni  che  noi  chiamiamo  succes- sione, oltre  le  particolarità  distintive  di  queste  sensazioni che  ci  danno  Fimpressione  della  diUerenza,  ci  formiamo noi  la  rappresentazione  radimentavia  d'un  ordine  ontolo- gico corrispondente  a  ciò  che  noi  conosciamo  come  spazio, d'un  ordine  ontologico  corrispondente  a  ciò  che  conosciamo come  tempo,  d'un  nexas  ontologico  corrispondente  a  ciò che  conosciamo  come  differenza,  e  d'  un  quid  indefinito come  substratum  di  tutte  queste  relazioni  ontologiche,  e che  queste  rappresentazioni  rudimentarie  formano  parte integrante  della  nostra  rappresentazione  di  ciò  che  noi  chia- miamo un  oggetto  esteriore  ?  O  ammetterà  invece  che  le nostre  rappresentazioni  degli  oggetti  sono  costituite  uni- camente di  rappresentazioni  di  sensazioni,  ma  che  il  senso della  realtà  indefinita  è  un  elemento  delle  sensazioni  stesse  ? che  ogni  sensazione  di  colore,  di  resistenza,  ecc.  contiene la  concezione  della  realtà  indefinita,  assoluta,  permanente, che  la  scienza  chiama  materia  e  forza,  e  che  la  religione chiama  Dio?  (1)  Tra  lo  psicologo  Spencer  che  c'insegna Questa  sarebbe  i)ertanto  la  sola  maniera  (Vin tendere  la  dot- trina sulla  concezione  deirinconoscibile,  che  la  inetterel)be  d'ac- cordo col  sensismo  dei  Prùicìpii  di  psicologia,  e  la  salverebl)e  dal rimprovei'o  dì  essere  una  forma  della  teoria  delle  idee  innate- se però  questa  dottrina  si  prestasse  ad  una  tale  interjiretazione.— Es- sendo un  elemento  di  ciascuna  sensazione,  (juesta  concezione  sa- rebbe anche  necessariamente  un  elemento  di  ciascuna  idea  (per- chè un'idea  è  una  sensazione  risvei^liata),  e  così  non  si  troverebbe mai  assente  dalla  coscienza.  Ma  la  dottrina  non  si  presta  ad  essere interpretata  così,  per  più  ragioni  di  cui  due  mi  sembrano  le  più importanti: 1.  L'atto  mentale  per  cui  apprendiamo  l'assoluto,  non  è  una  sen- sazione o  una  parte  di  una  stmsazioae  propriamente  detta  (cioè allo  stato  forte),  perchè  l'autore  parla  sempre  di  (piest'atto  men- tale come  di  un  pensiero  o  una  rappresentazione  (v.  §  26).  Egli  lo chiama  i>upe,  è  vero,  un  .>on<o  o  un  sentimento  dell'  assoluto  ; ma  per  questo  senso  o  sentimento  evidentemente  eirli  non  in- tende  altra  cosa  che  la    rappresentazione   stessa    Voglio   dire  : che  non  vi  ha  aUro  nell'inteUigenza  che  rappresentazioni di  sensazioni  e  di  rapporti  tra  sensazioni,  e  il  metafisico eiJTli  non  ammette  due  sfati  di  coscienza,  una  sensazione  (sta- to forte)  e  una  rappresentazione  (stato  debole);  ma  uno  solo,  la  rap- presentazione ;  se  la  chiama  anche  senso  o  sentimento,  è  perchè (luesta  non  è,  come  le  altre  rappresentazioni,  una  coi)ia,  ma  uno stato  di  coscienza  originale,  e  perchè  implica  la  convinzione  del- l'esistenza   reale  dell'oggetto  rappresentato. 2.  L'atto  mentale  ])er  cui  apprendiamo  l'assoluto  è  la  coscienza d'un  oggetto  esteriore,  una  coscienza,  come  dice  l'autore,  di  qualche cosa  che  oltrepassa  la  coscienza.  Ne  segue  che  ({uest'atto  non  può  es- sere che  una  rappresentazione,perc]iè  non  è  chenella  rappresentazio- ne clie  il  fatto  della  coscienza  è  qualche  cosa  di  distinto  e  separato dall'oggetto  di  cui  abbiamo  coscienza.  Esso  non  può  essere  una  sen- sazione o  un  elemento  della  .sensazione,  perchè  la  sensazione  non oltrepassa  la  coscienza,  in  altri  termini,  noi  non  abbiamo  coscien- za, nella  sensazione,  clie  della  sensazione  stessa.  II  volgare,  è  vero,, crede,  per  un'illusione  naturale,  che  la  senzazione  sia  la  coscien- za d'un  oggetto  esteriore;  ma  per  lo  Spencer,  come  per  tutti  i filosofi  i  quali  non  ammettono  che  la  sensazione  inviluppi  real- mente l'oggetto  esteriore,  questa  obbìetttc azione  della  sensazione non  può  essere  data  immediatamente  nella  sensazione  stessa,  ma non  può  essere  che  il  risultato  d'un  processo  psicologico,  il  quale implica  che  a  «piesta  si  aggiungano  altri  elementi  mentali  distinti da  essa.  Ora  l'atto  mentale  per  cui  si  apprende  l'assoluto  non  po- trebbe essere  un  elemento  solamente  della  sensazione  già  obbiet- tivata,  e  divenuta  cosi  la  coscienza  d'un  oggetto  esteriore,  in  se- guito ad  un  processo  psicologico  e  per  l'aggiunzione  di  altri  ele- menti mentali  distinti  dalla  sensazione  stessa.  In  questo  caso,  in effetto —,  a  parte  la  difìicoltà  di  comprendere  perchè  a  (piest'ele- mento  della  sensazione  si  conserva  ancora  una  portata  obbiettiva, quando  alla  sensazione  stessa  si  è  già  restituita  la  sua  portata  reale,, cioè  puramente  subbiettiva— quest'  elemento  della  senzazione  non sarebbe,  sin  dallorigine  e  per  se  stesso,  la  rappresentazione  d'un oggetto  esteriore.  Esso  sarebl)e  (piindi.  all'origine  e  per  se  stesso, tutt'altra  cosa  che  una  concezione  dell'assoluto;  perchè  l'assoluto- non  è  al  fondo,  per  Spencer,  che  la  realtà  oggettiva,  di  cui  noi  non sappiamo  altro  se  non  che  è  un  quid  al  di  fuori  del  soggetto,  e per  conseguenza,  tolta  la  coscienza  dell'obbiettività,  non  resta  più niente  d'una  concezione  dell'assoluto.  Cosi  non  sarebbe  più  vero< allora  che  la  concezione  dell'assoluto  è  un  elemento  mentale  che non  può  mai  essere  assente  dalla  coscienza,  e  costituisce  la  sostan- za della  coscienza  stessa. Spencer  che  va  sino  ad  ammettere  la  dottrina  delle  idee innate  o  qualche  cosa  di  simile  a  questa  dottrhia,  esite- remo noi  a  seguire  il  primo,  e  a  riconoscere  che  il  se- condo,  come  tutti  i  metafìsici,  falsa,  a  profitto  delle  sue ipotesi,  i  dati  della  coscienza,  dandone  come  elementi  per- manenti delle  nozioni  che,  al  contrario,  non  vi  si  trovano mai,  e  che  è  impossibile  che  vi  si  trovino? §.  8.^  Il  criterio  deirinconcepibilità  della  negativa  non non  è  che  una  nuova  forma  del  criterio  del  senso  coiimne o  delle  credenze  naturali  del  genere  umano,  adc»ttato  dalla scuola  scozzese.  Cosi  le  obbiezioni  che  possono  farsi  al- Tapplicabilità  di  questo  criterio,  possono  l'arsi  alFapplica- bilità  del  criterio  di  Spencer.  Il  fatto  prova  che  è  imi)0s- sibile  che  un  filosofo  si  attenga  fedelmente  a  queste  cre- denze, per  quanto  naturali  e  dichiarate   necessarie.  Ha- milton  accusava  (juasi   tutti  i   filosofi  di   fare  un  doppio giuoco  Còl  fatti  di  coscienza:  d'invocare  la  testimonianza di  questa  come  un'autorità  senz  appello  (juando  ne  hanno bisogno  per  istabilire  le  loro  opinioni,  e  di  rigettarla  quan- do loro  non  piace    Questa  maniera  di  procedere   rovina egli  dice,  Tautorità  della  coscienza  —  cioè  delle    ailerma- zioni  spontanee  e  naturali  del  nostro  spirito,  che  sono  ciò-^ che  i  filosofi  intuizionisti  chiamano, /'a^^/  di  coscienza—, perdio  se  si  ammette  che  la  sua  testimonianza  è  falsa  in un  caso,  non  vi  ha  ragione  per  ammettere  che  essa  de- ve essere  vera  in  un  altro.  L'osservazione  di  Hamilton  è particolarmente  vera  dei  filosofi  che  hanno  fatto  dellau- torità  delle  credenze  naturali  il  criterio  della   verità:  né Reid  nò  lo  stesso  Hamilton  nò  alcun  altro  difensore  delle credenze  naturali,  e  Spencer  meno  di  ogni  altro,   hanno seguito  in  tutti  i  punti  queste  credenze.  Ciò  sarebbe  im- possibile a  un  filosofo,  queste  nozioni  formate  spontanea- mente dairintelligenza  lasciata  in  baha  di  se  stessa  (m- tellectus   sibi  permissus),   e  dichiarate   per   esagerazione delle  credenze  irrcsistiì)ili,  essendo  nel  disaccordo  più  assoluto  COI  risultati  più  incontestabili  della  scienza     L  af- fermazione spontanea  del  nostro  spirito,  quella  che  pu(') invocare  per  sé  Fautorità  delle  credenze  naturali    e  fon- darsi sul  criterio  della  persistenza  della  credenza    è  che esistono  degli  oggetti  estesi,  colorati,  ecc.,  e  che  questi  og- getti stessi  sono  presenti  alla  coscienza  nell'atto  della  sen- sazione.  Ma  non  vi  é  stato  alcun  filosofo,  sia  nella  scuola scozzese,  sia  fuori  di  questa  scuola,  che  abbia  ammasso integralmente  la  verità  di  quest'affermazione.  Questi  due clementi   della  credenza    naturale,  cioè  P  che  le    nostre sensazioni  s'identificano  con  gli  oggetti  stessi,  e  2^  che  il colore  e  le  altre  proprietà  sensibili  cosi  dette  secondarie sono  degh  attributi  reali  di  questi  oggetti,  vengono  riget- tati  da   tutti  i  difensori  delle  credenze  naturali.    Cosi^'in quanto  al  primo  punto,  secondo  Reid,  la  sensazione  non e  se  non  un  fatto  subbiettivo,  che  ci  suggerisce,  per  una legge  inesplicabile  del  nostro  spirito,  la  concezione  d  un oggetto  esteriore,  che  non  ha  con  essa  alcuna  somiglianza- secondo  Hamilton,  la  sensazione  coglie  immediatamente' non  l'estensione  o  altra  proprietà  dell'oggetto   esteriore stesso,   ma  l'estensione   dell'organo  senziente,    in  quanto questo  viene  affetto  dall'oggetto  esteriore  (opinione   ana- loga a  quella  di  Rosmini);  secondo  Galluppi,  la  sensa- zione coghe  lo  stesso  oggetto  esteriore,  ma  senza  perce- pire  alcuna  delle  sue  proprietà  reali,  le  proprietà  sensi- bili non  essendo  che  un'apparenza  puramente  subiettiva e  1  oggetto  restando  sconosciuto  in  se  stesso.  In  quanto  al secondo  punto,  alcuni  distinguono  tra  proprietà  primarie e  proprietà  secondarie:  le  prime  appartengono  realmente ai  corpi,  ma  le  seconde  non  sono  che  semplici  sensazioni Ma  le   proprietà  primarie  non   si  risolvono,   in  ultima analisi,  che  nelle  nozioni  dei  rapporti  di  spazio   (esten- sione figura,  posizione)  (1;;  e  queste  non  sono  che  sem- (1)  Anche  VimpenetrabilLtà.  Che  significa  infatti  clic  la  materia  è impenetrabile,  se  non  che  due  porzioni  di  materia  non  possono  oc- plici  nomi  astratti,  a  cui  non  corrisponde  più  niente  di rappresentabile,  se  si  separano  dagli  altri  elementi  senso- riali, con  cui  sono  indissolubilmente  congiunte  nelle  espe- rienze dei  nostri  sensi  da  cui  esse  hanno  avuto  origine. Ne  segue  che  le  proprietà  primarie  sono  inconcepibili senza  alcune  delle  secondarie,  e  non  possono  esistere  se- paratamente da  queste;  quindi  se  tutte  le  proprietà  secon- darie non  esistono  che  nei  nostri  sensi,  è  impossibile  che  le primarie  esistano  negh  oggetti  stessi  (1).  Per  conseguenza eupare  lo  stesso  spazio  ?  E  questo  che  vuol  dire  se  non  che  è  una legge  della  natura  che  due  porzioni  distinte  di  materia  occupano sempre  due  posizioni  distinte  ?  Non  vi  ha  dunque  altro  neir  idea (XeW impenetrabilità  se  non  che  le  idee  di  posizione  e  di  differenza nella  posizione. 0  In  termini  più  concreti:  Testensione,  la  figura  e  la  posizione noi  non  i^ossiamo  rappresentarcele  che  congiuntamente  agli  altri dati  della  sensazione  visuale  o  tattile  da  cui  queste  nozioni  deri- vano, cioè  il  colore  o  la  resistenza  ;  senza  il  colore  o  la  resistenza l'estensione  coi  suoi  modi  non  è  che  un'astrazione,  che  non  si  può concepire  come  reale,  anzi,  se  si  ammette  che  non  vi  hanno  idee astratte,  che  non  si  può  assolutamente  concepire.  Quindi  V  esten- sione, la  figura  e  la  posizione  non  possono  esistere  che  col  colore o  con  la  resistenza,  e  separatamente  dal  colore  e  dalla  resistenza non  sono  che  un  non  senso  :  ma  si  ammette  che  il  colore  e  la  re- sistenza  non  esistono   che  relativamente  al  soggetto  senziente  • dunque  uon  può  ammettersi  che  r  estensione,  |la  figura  e  la  po- sizione esistano  indipendentemente  dal  soggetto  senziente.  Non posso  esprimermi  ;  più  chiaramente    su  quest' argomento,   per- chè la  quistione  del  mondo  esteriore  qui  non  posso  che  sfiorarla- si  troveranno  più  sviluppi  nella  \l  parte  del  Saggio  II,  dove  questa quistione  sarà  trattata  ex  professo.  Tuttavia  aggiungerò  che   se- condo me,  la  vera  base  dell'antireahsmo  è  la  dottrina,  insegnata •dalla  fisica,  che  il  colore  non  appartiene  agli  oggetti  stessi     ma non  e  loro  attribuito  cne  per  un'illusione.  Ciò  che  impedisce  di  ri- conoscere questo  fatto  è  che  i  psicologi  moderni  ammettono  ge- neralmente sulle  nozioni  di  spazio  la  teoria  che  dà  ad  esse  spe cialmente  per  contenuto  le  esperienze  del  tatto  e  del  movimento muscolare.  Ma  se  si  comprende  che  il  uero  spazio,  quello  che  noi obbiettiviamo,  non  è  che  lo  spazio  visuale,  cioè  che  Fidea  dell'e- stensione, della  figura,  ecc.,  in  qnanto  noi  1'  attribuiamo  ai  corpi  altri  filosofi  rifiutano  Tobbiettività  tanto  alle  proprietà /;r/- marie  quanto  alle  secondarie,  e  cosi  il  realismo  entra nella  sua  fase  che  possiamo  chiamare  metafìsica,  in  cui invece  dei  corpi  che  osserviamo  nell'universo  visibile,  si parla  di  monadi,  dlnconoscibile  e  di  altre  entità  metaem- piriche,  che  non  sono  esse  stesse  —  sia  detto  per  ora  per incidente— meno  inintelligibili  che  le  proprietà  primarie separate  dalle  secondarie.  Cosi  tutti  i  filosofi  realisti,  e  ira di  essi  anche  quelli  che  si  danno  espressamente  per  di- fensori della  credenza  naturale,  fanno  coi  iatti  di  co- scienza il  doppio  giuoco  di  cui  parla  Hamilton  :  in  questa credenza  fanno  due  parti,  ammettono  Tuna  e  rigettano l'altra;  ma  se  Tautorità  della  credenza  non  è  un  motivo  suf- ficiente per  non  rigettare  la  seconda,  come  potrà  essere un  motivo  sufficiente  per  ammettere  la  prima  ? Ma  la  quistione  in  questi  termini,  almeno  per  le  forme metafisiche  della  dottrina  realista,  non  è  nemmeno  posta esattamente.  Non  si  può  dire,  rigorosamente,  che  le  affer- mazioni dei  realisti  metafisici  siano,  o  contengano,  una parte  dellaffermazione  del  realismo  naturale.  Il  significato <i'un"affermazione  deve  desumersi  dai  fatti  o  dagli  oggetti concreti  e  particolari  di  cui  affermiamo  l'esistenza,  perchè le  nostre  affermazioni  non  sono  delle  astrazioni,  ma  esse non  si  riferiscono,  come  abbiamo  spiegato,  che  al  concreto e  al  particolare.  Per  conseguenza  un'affermazione  ò  total- mente o  parzialmente  identica  a  una  parte  di  un'altra  af- fermazione, (juando  gli  oggetti  o  i  fatti  affermati   dalla stessi,  non  è  che  un  aspetto  sotto  cui  si  considera,  per  un'astra- zione, la  sensazione  della  vista,  di  cui  il  colore  non  è  che  un  al- tro aspetto:  se  si  riflette  inoltre  che  Berkeley  e  gli  altri  avversari del  realismo  (p.  e.  il  Hain)  hanno  sovratutto  fondato  la  loro  nega- y.ione  sulla  teoria  tattile— muscolare  dello  spazio  ;  non  si  troverà forse  un  paradosso  il  dire  che  la  nostra  fede  nella  ìx^altà  della  ma- teria è  stata  distrutta  da  Newton,  quando  provò  che  il  colore  non è  una  propi'iern  dei  corpi  stessi. prima,  o  una  i)arte  di  questi  oggetti  o  di  questi  fatti,  sono una  parte  di  quelli  affermati  dalla  seconda.  Ma  le  monadi, r  Inconoscibile,  ecc.,  die  noi  non  abbiamo  mai  visto  né conosciuto,  ed  esistenti  forse  nello  spazio  intellir/ibile,  o in  un  non  so  che  che  corrisponde  allo  spazio  che  noi  co- nosciamo,  0  anche  non  aventi  alcuna  relazione  che  ab- bia il  minimo  rapporto  con  lo  spazio,  sono  degli  oggetti interamente  distinti  e  che  non  hanno  niente  di  comune con  gli  oggetti  che  noi  chiamiamo  corpi,  che  si  presentano ai  nostri  sensi,  che  noi  possiamo  osservare  nello  spazio visibile,  clie  hanno  una  figura,  un  colore,  ecc.  Dunque un'  affermazione  che  dice  :  esistono  le  monadi,  l' Incono- scibile, ecc.,  non  è,  nò  contiene,  una  parte  dell'afferma- zione che  dice  :  esistono  degli  oggetti  estesi,  colorati,  ecc., e  questi  oggetti  sono  quelli  che  sono  immediatamente  pre- senti alla  nostra  coscienza  nella  sensazione.  Ne  segue  che il  realista  metafisico  non  ha  alcun  dritto  di  rivendicare per  la  sua  propria  dottrina  la  forza  o  la  persistenza,  qua- lunque essa  sia,  della  credenza  naturale  :  cosi,  quando  egli invoca,  in  favore  di  questa  dottrina,  il  criterio  della  forza o  della  persistenza  della  credenza,  il  suo  argomento  non è  che  un  equivoco;  la  forza  e  la  persistenza  non  appar- tengono che  alla  credenza  naturale— e  rigettando  questa credenza,  egli  riconosce  che  esse  non  giungono  sino  alla irresistiijilità— ;  ma  la  sua  dottrina  è  interamente  distinta dalla  credenza  naturale,  non  la  ripete  nò  in  tutto  nò  in parte,  non  ha  con  essa  che  una  semplice  analogia.  (Que- st'analogia Ijasta,  è  vero,  perché— per  un  effetto  della  ten- denza del  nostro  spirito,  che  è  la  base  di  tutte  le  conce- zioni metafisiche,  ad  assimilare  tutte  le  nozioni  che  ci  for- miamo delle  cose,  alle  nozioni  che  ci  sono  le  più  abitua- li—qualche cosa  della  forza  della  credenza  naturale  si  ri- fletta sulla  dottrina  del  metafisico;  ma  questa  forza  impresta- ta alla  credenza  naturale  è,  in  conseguenza  della  sua  origine medesima,  inferiore  a  quella  della  credenza  naturale  stessa. ;  ! ^   il e  non  può  giungere  quindi  alla  irresistibilità,  perchè,  co me  riconosce  il  metafisico,  nemmeno  questa  è  irresistibile. Dirà  il  realista  metafisico  clie,  benché  la  sua  dottrina  non s^ imponga  allo  spirito  con  una  forza  assolutamente  irre- sistibile, questa  forza  nondimeno  è  sempre  tale  che  essa non  cessa  perciò  di  essere  un  criterio  della  verità  di  questa dottrina?  Eghnon  può  dirlo  senza  mettersi  in  contraddizione con  se  stesso,  perchè  egli  ha  respinto  il  realismo  naturale, quantunque  questo  s'imponga  allo  spirito  con  altrettanta  for- za, ed  anche  con  una  forza  maggiore.  Concludiamo  sul  cri- terio deirinconcepibihlà  della  negativa.  Se  l'inconcepibili- tà della  negativa  deve  intendersi  nel  senso  rigoroso,  non può  appartenere  al  realismo  trasformato,  perchè  esso  non ha  che  una  evidenza  d'imprestito,  dovuta  al  suo  rappor- to col  realismo  naturale,  e  Spencer,  respingendo  il  rea-- lismo  naturale,  ha  riconosciuto  che  questo  non  ha  nem- meno esso  stesso  r  inconcepibilità  della  negativa.  Se  in- vece r  inconcepibilità  della  negativa  non  deve  prendersi che  per  una  maniera  iperbolica  di  esprimere  la  forza  con cui  una  credenza  s'impone  al  nostro  spirito,  siccome  que- sta forza  non  è  stata  un  criterio   sufficiente  per*  ammet- tere il  realismo  naturale,  tanto  meno  può  esserlo  per  am- mettere il  reahsmo  tras! ormato.  11  criterio  deir  inconce- pibilità della  negativa  non  può  dunque  in  niun  caso  sta- bilire il  realismo  trasformato  di  Spencer  né  qualsiasi  al- tra forma  della  metafisica  reahsta. Ma  non  solo  il  criterio  deirinconcepibilità  della  nega- tiva non  può  fondare  il  realismo  trasformato  di  Spencer o  qualsiasi  altra  forma  del  realismo  metafisico,  esso  for- nisce anche  un  argomento  decisivo  contro  la  legittimità di  tutti  questi  sistemi.  Il  realismo  naturale,  quantunque in  contraddizione  coi  fatti  ben  interpretati,  presenta  al- meno al  nostro  spirito  una  concezione  intrinsecamente intelligibile  e  coerente  ;  ma  le  dottrine  dei  realisti  meta- fisici (  come  mostreremo  nella  2^  patje  del  Saggio  2^  e nel  Saggio  3^  )  sono  tutte  inintelligibili  e  contraddittorie. Ciò  proviene  dal  fatto  stesso  che  sono  delle  dottrine  me- tafisiche —  metafisiche  nel  senso  stretto,  cioè  aventi  per oggetto  delle  entità  sovrasensibili—Neir ultima  epoca  del- la scolastica  si  chiamava  il  rasoio  di  Occam  il  princi-^ pio  su  cui  era  tbndato  il  nominalismo  di  questo  filosofo, cioè  die  entia  non  sani  multipììcanda  praeter  necessita- tem.  Ma  il  vero  rasoio,  che  recide  sin  dalla  base  qual- siasi nozione  metafisica,  o  in  generale,  metaempirica,  è il  nominalismo  stesso,  questa  proposizione  che  non  esi- stono idee  astratte,  e  che  noi  non  pensiamo  che  per  rap- presentazioni concrete  e  particolari.  Infatti,  se  è  cosi,  pesa- re e  irnraatjinare  sono  due  termini  perfcittamente  equivalen- ti, e  ciò  che  è  inininiag inabile,  nel  ([ual  caso  si  trovano,  per confessione  dei  loro  stessi  sostenitori,  tutte  le  supposte  entità metafisiche  o  in  generale  metaempiriche,  è  assolutamen- te impensabile  e  inintelligibile.  (  Confr.  e.  2«  §  10«  pag. 13(>  e  il  §Gn]i  questo  capit.  pag.  501-503).  Di  più  esso  è  an- che contradittorio,  perchè  come  potremmo  noi  formarci, o  piuttosto  credere  di  formarci,  un  concetto  di  ciò  che  è allatto  inconcepibile,  se  non  per  il  vano  sforzo  di  riuni- re in  un'idea  unica  delle  idee,  in  effetto,  incompatibili  ?  è per  questa  incompatibilità  che  dalFunione  di  elementi  cia- scuno necessariamente  immaginabile  e  sensibile— termi- ni anch'essi  equivalenti,  perchè  noi  non  possiamo  imma- ginare se  non  ciò  che  potremmo  sentire  —  può  risultare il  concetto  deirinimmaginabile  e  sovrasensibile.  (Confr.  il paragr.  seguente  e  la  2^  nota  allo  stesso  paragr.).  Ogni pretesa  idea  di  un'entità  metafisica,  o  in  generale  meta- empirica,  non  è  dunque  che,  come  dice  Spencer,  una pseudo  -  idea,  cioè  una  pura  sequela  di  forme  verbali,  a ciascuna  delle  quali  separatamente  corrisponde  qualche nozione,  ma  senza  che  all'  insieme  corrisponda  nozione alcuna.  Ne  segue  che  questa  realtà  assoluta,  indefinita  ^ inconoscibile,  di  cui  ci  parla  Spencer,  con  tutti  gli  attributi  di  cui  egli  ci  accorda  la  conoscenza,  lungi  di  avere per  sé  rinconcepibilità  della  negativa,  è  al  contrario,  es- sa stessa  che  è  inconcepibile.  Ma  se  noi  dobbiamo  am- mettere una  proposizione  perché  la  sua  negativa  é  incon- cepibile, é  evidente  che,  per  la  stessa  ragione,  noi  dob- biamo respingere  una  proposizione  perché  é  essa  stessa  che è  inconcepibile.  Dunque  non  solo  noi  non  siamo  obbliga- ti ad  ammettere,  iria  siamo  anche  obbligati  a  respingere, le  proposizioni  di  Spencer,  in  virtù  del  criterio  dello  stes- so Spencer. Cosi  il  criterio  della  inconcepibilità  della  negativa  è inapplicabile  alla  quistione  del  mondo  esteriore,  nel  senso almeno  in  cui  lo  applica  Spencer;  perché,  da  una  parte, tutti  gli  uomini  di  scienza  sono  d  accordo  a  respingere  la credenza  popolare,  e  i  difensori  delle  credenze  naturali  non meno  degli  altri;,  ciò  che  prova  che  questa  credenza  non ha  per  sé  rinconcepibilità  della  negativa;  dall'altra  parte, lo  stesso  criterio,  non  solo  non  é  favorevole,  ma  é  anche contrario,  tanto  al  realismo  trasformato  di  Spencer,  quanto alle  altre  forme  del  realismo  che  i  filosofi  hanno  sostituito alla  credenza  popolare.  Ma  noi  abbiamo  visto  inoltre  che il  criterio  deirinconcepibilità  della  negativa  non  può  nem- meno servire,  come  pretende  Spencer,  a  fondare  le  gene- ralità più  alte  della  scienza:  noi  possiamo  dunque  conclu- dere, come  hanno  obbiettato  a  Spencer  i  rappresentanti della  filosofia  empirista,  che  il  suo  postulato  universale  è inapphcapile  nelle  controversie  filosofiche  importanti,  nelle quali  (i^M  pretende  di  applicarlo,  e  che  cosi  esso  viene  a mancarci  nei  soli  casi  in  cui  potrebbe  venire  invocato  (v. Mill  Logica  lib.  2*^  e.  7.") §.  9.*^  Doix)  aver  mostrato  che  il  criterio  deirinconce- pibilità della  negativa  é  inapplicabile  alla  quistione  del  mondo esteriore,  e  non  può  servire  di  fondamento,  come  crede Spencer,  ai  principii  della  nostra  conoscenza,  resta  a  do- nifindarci  quale  sia  il  valore  di  questo  criterio  in  se  stesso: i rinconcepibilità  della  negativa  deve  ammettersi  o  no  come una  prova  della  verità  ?  Perchè  questa  nuova  quistione  non si  aggiri  nel  vago,  noi  dobbiamo  cominciare  per  fissare il  senso  dei  termini  d'  una  maniera  precisa.  Quando  si vuol  fare,  come  Spencer,  deirinconcepibilità  del  contrario il  criterio  unico,  il  postulato  universale  su  cui  sono  fon- date tutte  le  nostre  conoscenze,  si  é  obbligati  a  impiegare questa  espressione  in  un  senso  alquando  vago  :  cosi  lo Spencer,  quantunque  una  proposizione  inconcepibile  sia secondo  lui  una  forma  verbale  alla  quale  in  realtà  non  cor- risponde rappresentazione  alcuna,  e  faccia  cosi  d'inconcepi- bile il  sinonimo  esatto  di  assolutamente  irrappresentabile  o inimmaginabile,  tuttavia  nelFapplicazione  del  criterio  non  è poi  sempre  fedele  a  questo  significato  della  parola.  Quando egli  dice,  osserva  il  Mill,  che  allorché  io  ho  freddo  io  non posso  concepire  che  io  non  senta  il  freddo,  ciò  non  può  vo- ler dire  che  io  non  posso  concepirmi  (cioè  immaginarmi) non  senziente  il  freddo,  perché  è  evidente  che  io  lo  posso. E  in  verità  lo  Spencer  è  obligato  ad  accordare  rinconce- pibilità del  contrario  non  solo  ai  latti  della  coscienza  at- tuale, ma  a  quelli  ancora  che  noi  ammettiamo  sulla  fede della  memoria;  poiché,  a  meno  di  abbandonare  intera- mente il  terreno  dellesperienza,  e  di  pretendere  che  lo  spi- rito può  tirare  tutto  il  sistema  delle  conoscenze  dal  suo proprio  fondo  (opinione  che  non  è  certamente  quella  di Spencer),  si  devono  ammettere  come  premesse  della  scien- za, oltre  i  principii  generali,  come  il  principio  di  causa- lità, la  conservazione  della  forza,  ecc.,  anche  i  fatti  parti- colari deiresperienza,  e  questi  noi  non  li  ammettiamo  che sulla  fede  della  memoria.  Ora  é  evidente  che  noi  possiamo sempre  immaginare  che  un  fatto,  qualunque  sia  la  cer- tezza che  noi  ne  abbiamo,  non  sia  in  realtà  accaduto. Noi  intenderemo  dunque  la  parola  inconcepibile  sempre nel  senso  rigoroso;  inconcepibile  sarà  per  noi  non  ciò <5he  é  semplicemente  incredibile,  ma  ciò  di  cui  non  ci  ò i  '*., ì possibile  di  formarci  alcuna  immagine  o  rappresentazione, ciò  che  noi  non  possiamo  pensare,  quantunque  possiamo enunciarlo  verbalmente.  Non  è  certamente  in  questo senso  che  le  nostre  credenze  naturali  possono  vantare; per  se  Tinconcepibilità  della  negativa  :  infatti,  come  ab- biamo visto,  tutti  i  filosofi,  anzi  in  generale  tutti  gli  uo- mini di  scienza,  le  rigettano  in  tutto  o  in  parte,  e  gli stessi  campioni  di  queste  credenze  se  ne  allontanano  in punti  importanti,  anzi,  a  parlar  propriamente,  non  sono esse  stesse  che  difendono,  ma  altre  opinioni  che  hanno- con  esse  un  grado  maggiore  o  minore  di  somiglianza. L'inconcepibilità  reale  o  assoluta  si  verifica,  secondo  noi, in  tre  casi: 1^-  L'impossibilità  assoluta  di  legare  un'idea  ad  altre- idee  può  essere  dovuta  alla  circostanza  che  queste  ultime si  trovano  invece  indissolubilmente  legate  con  un'idea contraria  alla  prima.  È  impossibile,  p.  e.,  di  pensare  che due  più  due  siano  ineguali  a  quattro,  perchè  l'idea  contra- ria alla  ineguaglianza,  cioè  l'eguaglianza,  si  trova  inse- parabilmente legata  con  le  idee  di  due  più  due  e  di  quattro. 2^  Delle  proposizioni  contraddittorie  offrono  un  caso-* distinto  d'inconcepibilità.  È  impossibile  di  affermare  e  di negare  al  tempo  stesso  una  stessa  cosa:  tuttavia  alcuna^ può  ammettere  al  tempo  stesso  delle  proposizioni  contrada dittoriCj,  p.  e.,  affermare  nel  generale  ciò  che  egli  nega nel  particolare,  o  viceversa.  Questo  avviene  perchè,  le  o- perazioni  del  ragionamento  volgendo  tanto  su  dei  simboli verbali  quanto  su  delle  rappresentazioni  reali,  si  può,  per non  aver  verificato  esattamente  il  senso  dei  simboli,  non, aver  coscienza  della  contraddizione. 3^  Ordinariamente  si  confonde  con  una  contraddizione una  forma  verbale  nella  quale  degli  attributi  opposti  o« semplicemente  incompatibili  fra  di  loro  vengono  dati  come congiunti  in  uno  stesso  soggetto;  p.  e,  un  quadrato  ro- tondo  o  un   corpo  tutto   bianco -e  tutto   nero.   È  questa. specie  d'inconcepibiUtà  che  i  leibniziani  chiamavano  idee illusorie,  e  che  Spencer  chiama  pseudo-idee:  noi  pos- siamo infatti  credere  di  avere  nello  spirito  una  nozione reale,  quando  non  abbiamo  invece  che  una  pura  forma verbale,  alla  quale  non  corrisponde  alcuna  rappresenta- zione. Tutte  le  nozioni  metafisiche  o  metaempiriche,  nel senso  stretto  di  queste  parole,  appartengono  a  questa  classe d'inconcei^ibilità.  Due  rette  che  chiudono  uno  spazio  (lo spazio  sferico  dei  metageometri)  e  un  quadrato  rotondo sono  dei  non  sensi  dello  stesso  genere.  L'Idea  platonica, che  è  al  tempo  stesso,  come  osserva  Aristotile,  singolare e  generale,  o  uno  e  molti,  come  si  obbietta  lo  stesso  Pla- tone, è  una  riunione  di  attributi  opposti  e  incompatibili fra  di  loro,  e  quindi  un  inconcepibile  come  un  quadrato rotondo  o  un  corpo  tutto  bianco  e  tutto  nero.  La  nozione dell'infinito  attuale  (il  solo  infinito  pensabile  non  essendo che  in  potenza)  può  essere  un  altro  esempio  della  stessa ^classe  d'inconcepibilità  (1). Ora,  in  uno  di  questi  casi,  in  cui  l'inconcepibilità  è  as- soluta, possiamo  noi,  fondandoci  sul  solo  criterio  dell'in- concepibilità,  concludere  la  verità  del  contrario  ?  Mill  e Bain  rispondono  negativamente.  Questi  autori  non  hanno xlistinto  che  due  casi  d'inconcepibilità,  che  sono  ixjue  primi che  noi  abbiamo  enumerato  :  ciò  che  per  noi  è  il  terzo  caso (1)  «  È  quando  si  tratta  delle  verità  necessarie  per  identità,  dice il  Bain,  elle  V  inconcepibilità  del  contrario  si  presenta  al  suo  ma- jcimum.  Tuttavia  anche  allora  non  è  impossibile  di  concepire  il contrario,  ciò  si  è  veduto  spesso  Nella  religione  spesso  si  sono  mes- se innanzi  flagranti  contraddizioni  che  il  volgare  accetta  con  en- tusiasmo». (L0.9.  hi),  n,  e.  V,  6).  Nei  casi  a  cui  allude  il  Bain.  .se  noi ammettiamo  la  distinzione  fatta  nel  testoj,  non  si  tratta  propria- mente di  contraddizione,  ma  di  attributi  incompatibili  che  si  affer- mano insieme  dello  stesso  soggetto.  È  appena  l)isogno  di  osser- vare die  <]ueste  tlairranti  contraddizioni  non  sono  slate  conce  pile, ina  solo  verl)almente  anmiesse. d'inconcepibilità,  rientra  nel  primo  per  Mill,  e  per  Bain nel  secondo  (1).  Ora,  siccome  essi  non  negano  che  Tin- concepiijilità  sia  un  criterio  nel  secondo  caso,  cioè  quando si  tratta  d'una  contraddizione,  cosi  la  quistione  non  può (l;  II  Bain  lia,  secondo  me.  ragione  di  non  aver  distinto  l'uno dall'altro  i  due  ultimi  casi  d'inconcepibilità  che  noi  abbiamo  enu- merati; e  nel  llnguaprprio  ordinario,  infatti,  non  si  fa.  come  abbiamo notato,  alcuna  distinzione  fra  di  essi.  Un  quadrato  rotondo  nel  lin- i^'uaggio  ordinario  si  chiamerebbe  semplicemente  una  contraddi- zione: ma  '5i  potrebbe  dire,  come  fa  Mill,  che  l'espressione  non  è logicamente  corretta,  perchè  «non  vi  ha  contraddizione  che  tra  una rappresentazione  positiva  e  la  sua  negativa».  La  nozione  negativa di  quadiccto  non  è  rotondo,  ma  non  rjiiadrxdo:  cosi  vi  sareblìe  con- traddizione unicamente  quando  si  predicano  dello  stesso  soggetto l'attributo  positivo  e  il  suo  negativo,  p.  e.  quadrato  e  non  quadrato. Questa  distinzione  è  certamente  conforme  alle  a])itudini  ordinarie dei  logici,  a  cui  anche  noi  ci  siamo  conformati  nel  testo.  I  logici distinguono,  come  si  sa,  diversi  casi  deiropi)osizione,  e  l'opposi- zione dei  contraddittori  non  è  che  uno  di  questi  casi.  Ma  si  può domandare:  la  distinzione  fra  gli  attributi  che  noi  abbiamo  chia- mati opposti  o  incompatibili,  e  gli  attributi  contraddittori,  corri- sr>onde  a  una  distinzione  reale  nelle  cose,  o  è  soltanto  relativa  al- l'uso delle  parole?  Io  credo  che  la  seconda  proposizione  sia  la  vera, poiché  un  termine  negativo  non  è  al  fondo  che  una  designazione generica,  conveniente  a  ciascuno  degli  attributi  positivi  che  sono incompatibili  con  l'attributo  designato  dal  termine  positivo  corri- spondente; o  in  altre  parole,  il  significato  di  un  termine  negativo  è di  denotare  le  cose  che  hanno  alcuno  di  questi  attributi  incompa- tibili: non  bianco  è  il  nome  di  tutti  gli  oggetti  neri,  grigi,  cerulei,, o  aventi  un  altro  colore  ({ualunque  differente  dal  bianco;  non  qua- drato è  il  nome  di  tutti  gli  oggetti  triangolari,  pentagonali,  o  aventi un'altra  ligura  qualunque  ditTerente  dal  quadrato.  Cosi  una  propo- sizione che  nega  un  attributo  di  un  soggetto,  è  al  fondo  una  pro- posizione che  qtrerma  che  il  soggetto  ha  alcuno  degli  attributi  in- compatil)ili  con  questo,  ma  senza  determinare  (jaalc;  e  la  ])ropo- sizione,  sia  che  essa  abbia  la  forma  affermativa,  sia  che  a])bia  la forma  negativa,  è  sempre  un'  ajrernicu ione,  solo  nel  primo  caso l'oggetto  deiraffermazione  è  più  determinato,  nel  secondo  più  in- determinato. (Aristotile,  nel  trattato  De  interpretatione,  chiama  i termini  negativi,  p.  e.  non  homo,  infiniti;  e  i  platonici  riconduce- vano  l'opposizione  deiresT^cre  e  del/io/i  esset-e  e  di  tutti  i  contrari. volgere  che  sul  primo  caso  :  quando  delle  idee  sono  indis- solubilmente legate  Ira  di  loro,  la  inconcepibilità  della  ne- gativa, cioè  la  nostra  incapacità  di  separare  queste  idee, è  un  criterio  della  verità  ?  Alla  quistione  se  un  legame  in- dissolubile fra  le  nostre  idee  sia  una  prova  della  verità, si  potrebbe  aggiungere  la  quistione  corrispondente,  se  Tim- possibilità  di  congiungere  certe  idee  sia  una  prova  di  falsità o  dlmpossi])ilità  reale.  Ma  questa  seconda  quistione  rientra a  quella  dai  finito  (determinato)  e  dell'm/^/itYo  (indeterminato),  co- me anche  a  quella  dell'ano  e  del  molti  —  notiamo  che  i  contrari delle  due  aoOTOiy  17.1  erano  contaddittori,  essendovi  tra  loro  un'op- posizione senza  medio—). A  questo  punto  di  vista,  la  distinzione  ammessa  nel  testo  fra una  contraddizione  e  un'asserzione  che  congiunge  in  uno  stessa soggetto  degli  attributi  opposti  o  incompatil)ili,  svanisce  in  uua semplice  distinzione  verbale.  Non  vi  hanno  dunque  propriamente che  due  casi  d'inconcepibilità:  in  un  caso  la  proposizione  è  incon- cepibile perchè  le  rappresentazioni,  che  i'suoi  termini  esprimono, sono  per  se  stesse  opposte  o  incompatibili,  e  non  vi  ha  perciò  al- cuna rappresentazione  che  corrisponda  a  questi  termini,  applicati congiuntamente;  esso  comprende  i  due  casi,  distinti  nel  tosto,  del- la contraddizione  e  della  semplice  opposizione  o  incompati])ilità, e  si  può  in  ([uesto  caso  dire  indifferentemente  che  l'inconcepibilità è  dovuta  ad  una  contraddizione,  o  che  è  dovuta  alla  opposizione o  incompatibilità  delle  nozioni.  Nel  primo  caso  d' inconcepibilitì», invece,  questa  contraddizione  o  incompatibilità  non  è  direttamente fra  le  nozioni,  che  si  tenta  di  congiungere,  prese  per  se  stesse,  ma fra  una  dì  queste  nozioni  e  un'altra  nozione,  che  è  necessariamen- te congiunta  con  quelle  a  cui  si  tenta  di  congiungere  la  [ìrima.  Che un  corpo  sia  quadrato  e  rotondo,  è  un'inconcepibilità  dovuta  alla contraddizione  o  alla  incompatibilità  degli  attributi  stessi  :  qua- drato e  rotondo  si  escludono  direttamente  e  considerati  per  se  stes- si. Ma  nella  proposizione  che  abbiamo  riportato  come  esempio  del- l'altro caso  d'inconcepibilità  :  «  Due  più  due  e  quattro  sono  inegua- li »,  la  contraddizione  o  opposizione  non  è  direttamente  fra  ineguale e  due  più  due  e  quattro,  ma  fra  ineguale  ed  eguale,  e  l'idea  del- l' eguaglianza  non  può  congiungersi  a  ({uelle  di  due  più  due  e  di quattro,  perchè  invece  con  queste  sì  trova  necessariamente  con- giunta l'idea  dell'eguaglianza .nella  prima,  perchè  rimpossibilità  di  formare  un  le-ame fra  certe  idee  non  potrebbe  derivare  se  non  dalla  circo- stanza che  questo  sarebbe  incompatibile  con  qualche  altro legame  necessario  o  indissolubile  esistente  fra  le  nostre  idee. §  10.0  Le  obbiezioni  di  Mill  e  di  Bain  contro  il  criterio <leirmconcepibilità  della  negativa  hanno  di  mira  la  dottrina di  Spencer  (e  quella  analoga  di  Wewell),  per  cui  è  questo il  criterio  unico  della  verità  o  il  postulato  universale  :  fra queste  obbiezioni  sceglierò  quelle  che  mi  sembreranno  fare al  nostro  caso.  Cominciamo  da  Mill.  «  Noi  non  abbiamo, egli  dice,  il  dritto  di  atlermare  che  una  cosa  ò  impossi- bile, percliè  la  sua  possibilità  è  inconcepibile;  vi  ha  perciò due  ragioni  :  primo,  ciò  che  [)are  inconcepibile  per  noi,  e, in  quanto  noi  siamo  personalmente  in  quistione,  ciò  che può  esserlo  realmente,  non  deve  questa  inconcepibilità  che ad  un  associazione  forte.  Quando,  in  una  lunga  esperienza, noi  abbiamo  avuto  spesso  una  sensazione  particolare,  o un'impressione  mentale,  senza  che  mai  una  certa  altra  sen- sazione o  impressione  abbia  cessato  di  accompagnarla  im- mediatamente, si  stabilisce  fra  le  due  idee  un'aderenza  si intima,  che  noi  non  possiamo  più  pensare  la  prima  senza pensare  la  seconda;  esse  sono  intimamente  combinate.  E a  meno  che  qualche  altra  parte  della  nostra  esperienza non  ci  presenti  dei  casi  che  ci  aiutino  a  disgregare  le  due idee,  la  nostra  incapacità  d'immaginare  l'uno  di  questi  fatti senza  l'altro  diviene,  o  può  divenire,  una  credenza  che l'uno  non  i)uò  esistere  senza  l'altro.  Tale  è  la  legge  dell'As- sociazione inseparabile,  questa  legge  del  nostro  intendi- mento di  cui  pochi  pensatori  hanno  compreso  tutta  la  po- ^^"^-a Come  questo  fatto  non  si  produce  che  perché  le nostre  facoltà  di  percezione  sono  determinate  dai  limiti della  nostra  esperienza,  gl'Inconcepibili  tendono  sempre  a divenire  dei  Concepibili,  a  misura  che  la  nostra  esperienza si  allarga.  Non  vi  ha  bisogno  di  andare  a  cercare  altro esempio  che  quello  degli  antipodi.  I  primi  pensatori  non potevano  concepirne  la  realtà  materiale  :  senza  dubbio  si concepiva  che  una  persona  potesse  trovarsi  agli  antipodi, e  lo  spirito  poteva  rappresentarsela  con  la  testa  in  basso e  i  piedi  in  alto,  ma  non  si  concepiva  che  fosse  possibile che  essa  vi  si  tenesse  senza  cadere,  a  meno  che  non  fosse inchiodata  o  incollata  per  i  piedi.  Vi  era  in  questo  caso un'associazione  inseparabile,  quantunque  non  indissolubile; e  sinché  essa  ha  durato,  vi  é  stato  un  fatto  reale  che  si chiamava  inconcepibile,  e  clie  per  questa  ragione  non  si esitava  a  credere  impossibile.  A  diverse  epoche,  inconce- pibilità analoghe  hanno  impedito  di  ammettere  delle  nuove verità  scientitiche.  Il  sistema  di  Newton  ha  dovuto  lottare contro  di  esse,  e  noi  non  abbiamo  il  dritto  di  assegnare un'origine  o  un  carattere  differente  a  quelle  che  esistono ancora,  perchè  l'esperienza  die  sarebbe  capace  di  farle  ces- sare non  ha  ancora  avuto  luogo.  Se  qualche  cosa  che  noi non  possiamo  attualmente  concepire  venisse  ad  esserci  mo- strata, noi  saremmo  tosto  capaci  di  concepirla;  noi  sarem- mo anche  esposti  a  cadere  nell'errore  opposto,  e  a  credere che  la  sua  negazione  è  inconcepibile.  Vi  ha  molti  casi  nella scienza di  cose  che  erano  altra  volta  inconcej)ibili,  che si  è  appreso  penosamente  a  concepire,  che  sono  entrate a  poco  a  poco  nei  legami  d' un'associazione  inseparabile, al  punto  che  i  dotti  hanno  finito  per  pensare  che  queste cose  sole  erano  concepibili,  e  che  le  ipotesi  contrarie,  che gli  uomini  avevano  credute,  e  che  una  grande  maggio- ranza forse  crede  ancora,  erano  inconcepibili L'incon- cepibiUtà  non  é  dunque  che  un  puro  stato  subbicttivo  na- scente dagli  antecedenti  intellettuali  d'un  individuo  o  del- l'umanità in  generale,  a  un'  epoca  particolare  :  essa  non può  dunque  apprenderci  le  possibilità  della  natura  •—•  Ma in  secondo  luogo,  anche  supponendo  non  solo  che  l'incon- cepibilità non  è  una  conseguenza  dell'esperienza  limitata, ma  che  vi  ha  nello  spirito  delle  incapacità  di  concepire, •che  fanno  parte  dello  spirito  stesso,  e  che  non  ne  possono essere  separate,  questo  non  ci  autorizzerebbe  a  concludere elio  ciò  che  noi  siamo  incapaci  di  concepire  non  può  esi- stere. Una  tale  conclusione  non  sarebbe  legittima  se  non altrettanto  che  noi  potessimo  sapere  a  priore  che  siamo stati  creati  capaci  di  concepire  tutto  ciò  che  può  esistere; che  l'universo  del  pensiero  e  quello  della  realtà,  il  Micro- cosmo e  il  Macrocosmo  (come  si  diceva  una  volta)  sono stati  fabbricati  in  maniera  da  corrispondersi  mutuamen- te... .  »  (tilos.  di  Hamilton,  e.  VI). Lo  Spencer  dice,  per  corrobare  la  validità  del  criterio dell'inconcepibilità  del  contrario,  che  questa  rappresenta «  il  prodotto  netto  delle  esperienze  fatte  sino  a  questo giorno»;  ma  a  ciò  obbietta  il  Mill:  «  L'uniformità  deiré- sperienza  è  probante  a  gradi  molto  differenti;  in  alcuni casi  essa  è  fortissima,  in  altri  debole,  in  altri  essa  meri- ta appena  il  titolo  di  prova.  Una  esperienza  invariabile, dalla  culla  della  razza  umana  sino  alla  scoverta  del  pò- tasio  fatta  da  Humphry  Davy,  in  questo  secolo,  avea  di- mostrato die  tutti  i  metalli  cadono  al  fondo  dell'acqua. Una  esperienza  uniforme  sino  alla  scoverta  dell'Australia attestava  che  tutti  i  cigni  erano  bianchi Io  sostengo dunque,  prima,  che  l'uniformità  dell'  esperienza  è  lungi di  essere  un  criterio  della  verità;  e  in  seguito  che  l'in- concepibilità è  ancora  meno  un  criterio  di  questo  criterio. L'uniformità  dell'esperienza  contraria  non  òche  una  delle numerose  cause  d'inconcepibilità.  Una  delle  più  comuni è  la  tradizione  venuta  da  un'epoca  in  cui  la  conoscenza era  meno  avanzata.  La  semplice  abitudine  di  vedere  un fenomeno  prodursi  d'  una  certa  maniera  basta  per  far parere  inconcepibile  un  altro  modo  di  produzione  »  (Lo- fjica,  hb.  2,^  e.  7^. Il  Bain  fa  delle  riflessioni  analoghe  a  quelle  del  Mill. «  Si  può  accordare  senza  dubbio,  egli  dice,  che  l'impres- sione costante  delle  cose  reali  è  una  delle  sorgenti  della credenza;  ma  non  è  la  sola  nò  la  più  considerevole...  Gli elementi   reaU  della  credenza  sono:    V^   l'istinto   che   ci porta  a  credere  che  ciò  che  è  sarà;   2'>   l' influenza  delle nostre  emozioni   vive  e  delle  nostre   affezioni....    Queste due  influenze  saranno  più  tardi   messe  in   tutta  la  loro luce  come  le  cause   principali  dell'  errore   e  dei  sofismi. Bisogna  pure  tener  conto  di   questa  circostanza  che,  in ragione   dei   limiti  della  nostra  esperienza,   la  forza  del legame  non  rappresenta  la   ripetizione   reale  dei  fatti,  a meno  che  noi  non   siamo   posti  in   modo   da  incontrare questi   fatti    tutte  le  volte  che  si  producono.  Ciò  che  è  il più  familiare  per  la   natura  può   non  essere  ciò  che  è  il più  familiare  per  noi.  Noi  non  consideriamo  sempre  l'uni- verso dall'alto  d*un  punto  di  vista  centrale  e  dominante.  Il miglior  esempio  che  possiamo  darne  è  l'importanza  eccessi- va che  noi  siamo  disposti  ad  attribuire  a  un  tipo  particolare di  causalità,  la  volontà  umana,  perchè  ci  è  più  familiare degU  altri.  Ne  risulta  che  noi  crappresentiamo  la  volontà come  il  tipo  naturale  ed  essenziale  dell'attività,  quantunque, in  fatto,  non  sia  che   una  forma  rara  ed  anche  eccezio- nale dell'azione  e  della  causalità In  riassunto,   allor- ché si  considerano  le  differenti  influenze  che  concorrono a  tonnare  le  nostre  convinzioni,  la  circostanza  unica  che Spencer  mette  avanti  è  talmente  dominata   dalle   altre, che  la  vivacità  della  credenza  e,  per  conseguenza,  1'.  in-^ concepibilità  del  contrario,  non  possono  più  essere  consi- derate come  un  criterio  di  certezza  ».  (Lofj.  t,  r*  Append. D)  (l). j:^  11.  11  lettore  si  è   accorto   facilmente   che  il  nerbo i\ {[)  Huxley,  i  cui  principii  filosofici  soikì,  i)cr  il  fondo,  identici  a quelli  dì  Mille  di  Hain,  si  conlbi'nia  inire  a  questi  autori,  rigettando il  criterio  deli'inconcepibilitn.  «U  fatto,  egli  dice,  che  il  contrario  di una  credenza  è  inconcepil)ile,  è  forse  una  presunzione  in  favore) della  verità  di  (luesta  credenza,  ma  non  ne  è  certamente  una  prova» (V.  D.  nume,  sua  cita.  ecc.  parte  II  cop.  VI,trad.fronc.  pag.  iGiJ-170. hi 540  deHargomentazione  di  Mill  e  di  Bain  consiste  in  questo  : vi  hanno  e  vi  sono  state  delle  credenze  o  incapacità  di credere  pressoché  irresistibili  di  cui  la  scienza  ha  rico- nosciuta la  falsità;  queste  credenze  o  incapacità  di  cre- dere non  sono  dovute  che  a  delle  forti  associazioni  fra  le nostre  idee;  dunque  noi  non  siamo  fondati  ad  ammettere che  un'associazione,   anche  inseparabile,   fra  le  nostre idee,  determinante  una  credenza  irresistibile,  possa  essere per  se  stessa  un  criterio  della  verità  e  della  falsità;  o  per riassumere  l'argomento  con  una  frase  dello  stesso  Mill: a  meno  che  non  esistano  degVidola  tribus  (che  sono  fon- dati su  ciò  che  il  Mill  chiama  dei  sofismi  a  priori,  e  sono tutti  dovuti  alle  strette  associazioni  fra  le  nostre  idee  ), la  credenza  non  può  essere  una  prova  concludente  della sua  propria  verità  {Log,  lib.  2^\  e.  7*).  È  facile  di  preve- dere la  risposta  che    un  discepolo  della  scuola   intuitiva può  fare  a  quest'argomento  :  queste  incapacità  di  credere di  cui  la  scienza  ha  riconosciuto  la  falsità,  non  sono  state delle  inconcepibilità  assolute;  la  cosa  che  si  negava  sem- brava incredibile,  ma  non  era  assolutamente  inconcepi- bile. Ma  a  ciò  Mill  e  Bain  replicherebbero:  Non    vi   ha una  differenza   specifica,  ma  una  semplice  differenza  di grado,  fra  ciò  che  è  soltanto  incredibile,  e  ciò  che  è  as- solutamente inconcepibile  o  inimmaginabile.  L'inimmagina- bilità  presenta  dei  gradi  numerosi,  che  vanno  da  una  de- bole difficoltà  a  una  impossibilità  almeno  temporanea,  e non  vi  ha  hnea  precisa  di  separazione  tra  ciò  che  è  as- solutamente inimmaginabile  e  ciò  che  è  totalmente  incre - dibile,  nemmeno  tra  ciò  che  è  inimmaginabile  per  una  per- sona data  e  ciò  che  è  semplicemente  incredibile  per  essa. Se  un'  associazione  empirica  fra  due  idee  non  avente  la forza  che  la  renderebbe  affatto  irresistibile,  non  permette d'immaginare  facilmente  la  separazione  dei  due  fatti  cor- rispondenti,   si  è  fondati  a  credere  che    un'  associazione empirica  più  forte,  prodotta  da  una  ripetizione  ancora  più incessante,  convertirebbe  questa  difficoltà  in  una  impos- sibihtà  condizionale,  impossibilità  che  non  potrebbe  ce- dere che  innanzi  ad  una  esperienza  contraria,  che  le  con- dizioni della  nostra  esistenza  terrestre  possono  non  per- mettere. E  se  un'associazione  mentale  di  due  fatti,  trop- pò  poco  forte  perchè  la  rappresentazione  della  loro  sepa- razione sia  impossibile,  può  ancora  creare,  e,  se  non  vi ha  associazioni  contrarie,  crea  sempre  più  o  meno  diffi- coltà a  credere  che  i  due  fatti  esistano  separati  ;  se,  se- condo i  tempi  e  i  luoghi,  questa  difficoltà  acquista  spesso la  forza  d'un'impossibihtà  ;  un'associazione  che  è  abba- stanza forte  per  rendere  la  separazione  inimmaginabile  può sicuramente  creare  un'impossibilità  di  credenza,  non  per un  tempo  e  un  luogo,  ma  che  durerà  sinché  durerà  l'e- sperienza che  ha  dato  nascita  all'associazione  (V.  Mill  Fi- los,  di  Hamilton,  e.  IX,  trad.  frane,  pag.  172-173,  in  nota). Ora  data  questa  gradazione  continua  e  questa  variabilità nella  forza  dei  legami  formati  dall'associazione;  dato  per conseguenza  che  ogni  linea  di  separazione  tra  i  casi  di una  forte  tendenza  a  credere  e  quelli  di  una  necessità assoluta  di  credere,  tra  i  casi  di  una  difficoltà  di  conce- pire e  quelli  di  un'impossibilità  di  concepire,  non  potrebbe essere  se  non  arbitraria  ;  sarebbe  un'incoerenza  di  non volere  che  si  accordasse  ai  primi,  fondandosi  sulla  forza con  cui  la  credenza  ci  s'impone,  un  valore  obbiettivo  (vi- sto che  esistono  degYidola  tribus),  e  di  volere  che,  sullo stesso  fondamento,  si  accordasse  ai  secondi. È  evidente  cosi  che  tutta  la  forza  dell'argomentazione di  Mill  e  di  Bain  s'incardina  nella  dottrina  dell'associa- zione inseparabile,  nella  dottrina,  cioè,  che  la  forza  di un'associazione  empirica  può  arrivare  al  punto  che  que- sta divenga  assolutamente  indissolubile,  e  che  tale  è  l'ori- gine delle  necessità  del  pensiero.  È  su  ciò  che  è  fondata il  primo  argomento  contenuto  nella  prima  citazione  di Mill:  ora,  se   ben  si  riflette,  questo  è  il  solo    argomenta -  « j forte,  il  secondo  non  è  clie  una  vaga  generalità,  che uno  scettico  potrebbe  impiegare,  con  la  stessa  ragi(V ne,  contro  il  valore  di  ogni  conoscenza  umana.  Se  vi fossero,  dice  Mill,  nello  spirito  delle  impossibilità  di concepire  inseparabili  dallo  spirito  stesso,  noi  non  potrem- mo concludere  che  ciò  che  siano  incapaci  di  concepire non  può  esistere,  perché  ciò  supporrebbe  che  noi  sai)es- simo  a  j)riori  che  siamo  stati  creati  capaci  di  concepire tutto  ciò  die  può  esistere;  che  il  mondo  del  pensiero  e quello  della  realtà  sono  stati  fabbricati  in  maniera  da  cor- rispondersi mutuamente.  Ma  è  precisamente  su  questa supposizione  a  priori,  che  il  mondo  del  pensiero  e  quello della  realtà  si  corrispondono  mutuamente,  che  si  fonda  la conoscenza  umana:  il  pensiero  non  può  uscire  da  se  stesso, e  confrontarsi  immediatamente  con  le  cose;  credere  alla realtà  della  nostra  conoscenza  implica  un  atto  di  fede  nelle nostre  facoltà  conoscitive.  Cosi  la  nostra  credenza  nella veracità  della  memoria,  il  Mill  ne  conviene,  è  un  fatto ultimo:  noi  l'ammettiamo  senza  prova,  perchè  tutte  le prove  che  se  ne  potrebbero  dare  suppongono  già  la  cre- denza stessa.  Ora  questa  fede  nella  memoria,  e  nelle  no- stre facoltà  conoscitive  in  generale,  non  implica,  altrettanto che  la  fede  nella  validità  di  qualsiasi  necessità  primitiva del  pensiero,  la  supposizione  a  priori  che  il  mondo  del  pen- siero e  il  mondo  della  realtà  sono  stati  fabbricati  in  modo da  corrispondersi  mutuamente  ?  (1)  Del  resto,  ammettendo (l)  Ciò  che  può  esservi  di  umuiìssil^ile  nei  (Uil)bi  di  Mill  sulla  va- lidità di  una  necessità  innata  del  pensiero,  è  che  la  sua  corrispon- denza con  una  necessità  obbiettiva  sarebbe  inesplicabile,  e  siccome noi  dubitiamo  naturalmente  della  possibilità  d'un  fotto  quando  ve- <iiamo  die  questo  fatto  non  può  spiegarsi,  la  inesplicabilità  di  questa corrispondenza  metterebbe  in  sospetto  la  sua  stessa  realtà,  e per  conseguenza  il  valore  obbiettivo  della  necessità  del  pensiero. Questo  stesso  però  non  avrebbe  luogo  che  nelF  ipotesi  dei  razio- nalisti: per  noi  non  vi  ha  altra  necessità  innata  del  pensiero  che che  ciò  che  noi  siamo  incapaci  di  concepire  non  esiste, non  affermiamo  perciò  che  noi  siamo  capaci  di  concepire tutto  ciò  che  esiste,  ma  che  noi  abbiamo  il  dritto  di  re- spingere una  proposizione  che  non  presenta  alcun  senso. Un'  inconcepibilità  (se  è  assoluta)  e  un  non  senso  sono dei  termini  perfettamente  equivalenti:  Tinconcepibile  non  è un  oggetto  del  pensiero,  ma  l'assenza  di  qualsiasi  oggetto del  pensiero,  non  è  la  rappresentazione  di  qualche  cosa, ma  di  nulla,  e  noi  abbiamo  il  dritto  di  dire  che  ciò  che è  inconcepibile  non  esiste,  se  pure  abbiamo  il  dritto  di  dire <ilie  il  nulla  non  esiste. §  12^  Il  Mill  conviene   al  fondo  che   V  inconcepibilità assoluta  porta  con  se  Timpossibilità  assoluta   di  credere, e  rinconcepibilità  della  negazione,  quindi,  la  necessità  as- soluta dellatrermazione.  E  nel  fatto,  se  ci  è  impossibile  di pensare  due  fenomeni  Y  uno  in   congiunzione  con  Taltro, ci  è  per    ciò    stesso   impossibile  di   affermare   che  i  due fenomeni  sono  congiunti;  e  se  ci  è  impossibile  di  pensarU Tuno  separato  dall'altro,  ci  è  del  pari  impossibile  di  affer- mare che  essi  sono  separati.  La  cosa  è  evidente,  sia  che si  aderisca  o  no  alla  dottrina  di  Spencer  che  la  creden- za non  è  che  la   persistenza  di  un   legame  fra  le  nostre idee:  qualunque  sia  l'opinione  che  si  ammetta  sulla  na- tura e  sull'origine  del  fatto  psicologico  che  noi  chiamia- mo credenza  o  affermazione,  sarà  sempre  impossibile  di credere  o  affermare  una  cosa  che  non  si  può  pensare  (1). le  conoscenze  intuitive  sulle  somiglianze  ottenute  i^er  la  semplice comparazione  delle  idee:  ma  iu  queste  conoscenze  la  coincidenza tra  il  pensiero  e  la  realtà  si  spiega  cosi  naturalmente  che  in  (juelle fondate  sulla  memoria  e  sull'induzione,  o  in  una  parola,  suU'espe- rienza  (v.  e.  8  g  3  e  7). (1)  Il  Mill  si  esprime  talvolta  come  se  mettesse  in  dubl)io  che rinimmaginabilità  porta  con  se  Timpossibilità  di  credere.  Nella  Lo- gicai. Ile.  7  dice:  «Spencer  può  credere  di  concludere  legittima- mente dairinimmaginal)ile  airincredibile,  perchè  egli  sostiene  che la  credenza  non  è  che  la  persistenza  d' un'idea» E  nella  7'7/os. _1 Ora  se  è  cosi,  se  ciò  che  è  inconcepibile  di  una  maniera assoluta  è  anche  incredibile  di  una  maniera  assoluta,  è una  contraddizione  di  dire  che  Tinconcepibilità  della  ne- gativa non  è  un  criterio  della  verità.  L' inconcepilità della  negativa  sopra  un  oggetto  dato  è  necessariamen- te un  criterio  della  verità  per  ciascuno  che  trova  que- sta inconcepibilità  nel  proprio  spirito  ;  può  non  essere un  criterio  per  chi  non  ve  la  trova.  Se  Mill  non  può concepire  la  negazione  d'  una  proposizione  data,  egli non  può  fare  a  meno  di  credere  assolutamente  e  illi- mitatamente alla  verità  di  questa  proposizione,  e  perciò- gli  basta  questo  motivo  unico  che  la  negativa  è  per  lui inconcepibile:  egli  non  può  fare  questa  riserva  che  non- dimeno la  proposizione  può  non  essere  vera,  perchè  allo- ra la  sua  credenza  non  sarebbe,  come  è  nel  fatto,  asso- luta e  illimitata.  Ma  se  è  cosi,  Mill  ammette  col  fatto  che rinconcepibilità  è  un  criterio  della  verità,  e  la  massima contraria,  ch'egli  afferma  speculativamente,  viene  a  ne- garla praticamente  nei  casi  particolari.  L' autore  può dissimularsi  questa  contraddizione,  perchè  egli  si  suppone personalmente   fuori   di   quistione  :    ma   egli   non    ha   il di  llamUton  e.  (ì  (doro  aver  distinto  c\ò  che  è  assolutamente  in- concepibile e  ciò  che  è  semplicemente  incredibile):  «  Un  inconce- pibile nel  senso  proprio  della  parola— ciò  che  lo  spirito  è  incapace di  far  entrare  in  una  rapxìresentazione— può  nondimeno  essere  un oggetto  di  credenza,  se  noi  vi  attacchiamo  un  senso,  ma  non  può dirsi  che  questa  credenza  sia  r.elfetto  dell'  inteUigenza  »,  «  perchè noi  non  ci  formiamo  immagine  mentale  di  ciò  che  crediamo».  Questa credenza  che  non  è  1'  effetto  dell'  intelligenza  non  può  essere  che una  credenza  semplicemente  verbale:  quistionare  se  siffatta  cre- denza meriti  o  no  questo  nome  sarebbe  una  pura  logomachia.  Ma altrove .  come  nel  capitolo  suU'  Associazione  inseparabile,  il  Mill ammette  senza  riserva  clie  l' inconcepibile  è  per  ciò  stesso  incre- dibile: egli  sostiene  in  quel  capitolo  che  un'associazione  msepara- bile  crea  una  necessità  del  pensiero,  accettando  la  definizione  di Kant  che  «  il  necessario  è  ciò  di  cui  la  negazione  è  impossibile  (V.  anche  il  luogo  citato  del  cap.  IX  pag.  172-175). dritto  di  fare  questa  supposizione,  perchè  il  filo-sofo  è  un uomo,  e  non  può  guardare  le  cose  dcirumanità  da  un: punto  di  vista  sovraumano.  Se  vi  hanno  delle  necessità del  pensiero  permanenti  e  inerenti  allo  spirito  umano, Mill  non  può  non  trovarle  nel  proprio  spirito;  se  tutte le  necessità  del  pensiero  non  sono  che  modificabili  e transitorie,  vi  troverà  almeno  quelle  che  appartengono- al  suo  tempo  e  al  suo  luogo.  Ma  in  tutti  i  casi  egli  deve ammettere  praticamente  che  queste  necessità  del  suopensiero  sono  un  criterio  della  verità,  mettendosi  cosi  in contraddizione  col  suo  principio  speculativo. Questa  contraddizione  fra  la  pratica  e  la  speculazione,. 4ra  i  casi  particolari  e  la  massima  generale,  è  inerente  a questo  punto  di  vista,  dal  quale  si  considerano  le  necessità del  pensiero  come  qualche  cosa  di  variabile  e  di  relativo. Se  queste  necessità  si  considerano  invece  come  perma- nenti  e  insite   all'intelligenza  umana,  non  avrebbe   più senso  il  dire  che  esse  non  sono  un  criterio  della  verità,, perchè  il  filosofo  non  potrebbe  più  immaginare  che  si  tratta semplicemente  delle  necessità  del  pensiero  degli  altri  uo- mini, e  non  delle  necessità  del  suo  proprio  pensiero.  Tale è  dunque  il  fondamento  delFopinione  di  Mill  e  di  Bain,  il carattere  transitorio  e  relativo  delle  necessità  del  pensiero. «  Una  semplice  disposizione  a  credere,  dice  Mill,  anche supposta  istintiva,  non  garantisce  la  verità  dell'oggetto  di questa  credenza.  È  vero  che  se  la  credenza  fosse  per  noi una  necessità  irresistibile,  sarebbe  inutile  di  appellarne,, poiché  sarebbe  impossibile  di  modificarla;  ma  non  ne  se- guirebbe che  essa  fosse  vera Ma  in  fatto  questa  neces- sità permanente  non  esiste.  Non  vi  ha  punto  proposizione di  cui  si  possa  dire  che  ogn  inteUigenza  umana  deve  eter- namente e  irrevocabilmente  crederla.  Molte  proposizioni a  cui  questo  privilegio  era  accordato  con  la  più  grande confidenza  hanno  già  trovato  assai  increduli.  Le  cose  che si  è  supposto  non  poter  mai  essere  negate  sono  innumerevoli;  ma  due  generazioni  successive  non  si  accordereb- tero  a  formarne  la  lista  ».  (Lorjica  L  3,^  e.  21).  Ma  noi abbianolo  visto  invece  che  vi  hanno  delle  proposizioni  di cui  si  ha  ogni  dritto  di  dire  che  «  ogn'intelligenza  umana deve  eternamente  e  irrevocabihnontc  crederlo.  Tali  sono i  principii  immediati  delle  matematiche  pure;  noi  non  pos- siamo fare  nemmeno  per  immaginazione  la  supposizione che  un'intelligenza  umana  possa  non  crederli  :  noi  abbiamo visto  che  gli  sforzi  diretti  in  (juesto  senso  ^  cioè  tendenti a  farci  immaginare  delle  condizioni  tali,  che  il  contrario di  una  proposizione  intuitiva  della  matematica  diventasse ammissibile,  sono  fondati  so[)ra  un  ecjuivoco,  il  più  ordi- nariamente sulla  confusione  della  pura  proposizione  ma- tematica con  qualche  proi)Osizione  fisica  o  esistenziale  le- gata strettamente  con  essa.  Qualsiasi  necessità  reale  del pensiero  partecipa  al  privilegio  che  Alili  non  accorda  se non  al  principio  di  contraddizione  :  il  contrario  di  una  ve- rità che  ci  è  data  per  una  necessità  reale  del  pensiero,  non solo  noi  non  possiamo  concepirlo,  ma  non  possiamo  nem- meno immaginare  che  possa  mai  essere  concepito  (confr. Ftlos.  (Il  Hamilton  e.  VI,  trad.  frane,  pag.  81-82). §  13."  E  non  solo  le  necessità  del  pensiero  nel  senso proprio  del  termine  sono  assolutamente  costanti;  ma  anche quelle  che  sono  state  chiamate  impropriamente  cosi,  quelle che  portano  con  sé,  non  T  impossibilità,  ma  la  difficoltà, di  concepire  il  contrario,  non  la  irresistibilità  della  cre- denza, ma  una  forte  tendenza  a  credere,  sono  dotate  di una  permanenza  quasi  eguale.  Questo  punto  ha  un'im- portanza particolare  per  l'argomento  del  Saggio  seguente, cioè  1'  origine  e  lo  sviluppo  delle  nozioni  metafìsiche  :  in effetto  è  a  questa  classe  di  necessità  del  pensiero  che  ap- partengono i  sofismi  a  priori  di  Mill,  sui  quali  è  fondata ogni  concezione  metafisica,  o  piuttosto  il  vero  sofisma  a priori  consiste  essenzialmente  neir accordare  senza  prova, e  anche  malgrado  la  prova  contraria,  un  valore  obbiet- tivo  a  queste  forti  tendenze  a  credere  o  difficoltà  a  con- cepire. É  la  permanenza  di  queste  tendenze  che  dà  del- l'unità alla  storia  della  metafisica  :  senza  di  essa,  questa storia  sarebbe  per  noi  un  enigma  indecifrabile  ;  noi  non potremmo  nemmeno  comprendere  i  concetti  metafisici  di un'altra  epoca,  perchè  questa  possibilità  di  comprenderli suppone  che  la  tendenza  che  ha  dato  loro  origine  si  trova pure  nel  nostro  proprio  spirito.  È  per  questa  permanenza che  la  metafisica  non  è  legata,  come  si  è  creduto,   a  un periodo  transitorio  dello  sviluppo  dello  spirito  umano,  ma è  inerente  a  questo,  e  costituisce  un  fenomeno  generale dell'intelligenza  umana  :  è,  aggiungiamolo  pure,  per  questa permanenza,  che  una  concezione  metafisica  di  genio  ha un  valore,  in  un  certo  senso,  assoluto,  perché  l'illusione su  cui  essa  è  fondata,  il  bisogno  dello  spirito  che  essa  è -  destinata  a  soddisfare,  non  esiste  per  certe  persone,  per certi  tempi  e  per  certi  luoghi,  ma  è  un'illusione  naturale, un  bisogno  permanente  della  nostra  intelligenza. Il  Mill  ammette  talvolta  in  un  caso  particolare  la  per- sistenza di   queste  inconcepibilità   relative.  «  Gli   uomini istruiti  sanno,  egli  dice,  per  i  loro  propri  studi,  o  credono sull'autorità  della  scienza,  che  è  la  terra  che  si  muove  e non  il  sole,  ma  ve  ne  ha   probabilmente  pochissimi  che concepiscano  abitualmente  il  fenomeno  altrimenti  che  come un' ascensione  e  una  discesa  del  sole.    Certamente   non vi  si  potrebbe  riuscire  ehe  per  un  lungo  esercizio;  e  non è  probabilmente  più  facile  per  noi  oggi  che  non  lo  era per  la  prima  generazione  dopo  Copernico^,  (Log,  l.  2^  e.  7«). Tuttavia  generalmente  egli   suppone  che  queste  che  noi diciamo  inconcepibilità  relative  si  modifichino  sempre  nello sviluppo  della  coltura,  che  la  scienza  pervenga  sempre  a trionfarne,  e  arriva  anche  talvolta  a  sostituire  ad  esse delle  inconcepibilità  contrarie.  Questa  opinione  ci  sembra in  generale  erronea  :  la  scienza  può  distruggere  la  cre- den'za,  ma  non  la  inconcepibilità,  o  più  propriamente,  la difficoltà  a  concepire.  Il  Mill  credeva  che  la  vittoria  della teoria  di  Newton  sui  suoi  primi  oppositori  avesse  trionfato definitivamente  della  massima  che  un'  azione  a  distanza fra  i  corpi  è  impossibile,  e  che   non  vi  lia  altra   azione che  a  contatto:  ma  i  fatti  lo  hanno   smentito,  e  questa massima  gode  presso  i  fisici  contemporanei  lo  stesso  fa- vore  quasi  che   godeva  air  epoca  di  Newton.    Egli  vede anche  nei  principii  della  meccanica  un  esempio   di  una, per  dir  cosi,  reversione  d'inconcepibilità  operata  dalla  scien- za. «  Che  un  corpo  una  volta  in  movimento  continuerà  a muoversi  nella  stessa  direzione  e  con  la  stessa  prestezza, a  meno  che  non  sia  influenzato  da  una  nuova  forza,  era, egli  dice,  una  proposizione  che  si  ha  per  lungo  tempo  a- vuto  la  più  grande  difficoltà  ad  accettare.  Essa  sembrava smentita  da   un'  esperienza  delle  più  familiari,  che  ci  ap- prende che  è  della   natura   del  movimento  di  rallentarsi gradualmente  e  di  fermarsi  infine  da  se  stesso.  Tuttavia quando  la  dottrina  opposta  fu  fermamente  stabilita,  i  ma- tematici, come  osserva  il  dottor  Wewell,  si  misero  tosto a  credere  che  delle  leggi  si  contrarie  alle  prime  apparenze, e  che,  anche  dopo  essere  state  pienamente  dimostrate,  non avevano   potuto   divenire  famihari  al  mondo  scientifico che  dopo  più  generazioni,  erano  «  d'una  necessità  dimo- strativa che  le  faceva  essere  come  sono  e  non  altrimenti  >, ed  egli  stesso,  senza  osare  di  «  affermare  assolutamente  » che  tutte  queste  leggi  «  possono  essere  rigorosamente  rap- ]X)rtat  3  a  un'  assoluta  necessità  della  natura  delle  cose  », riconosce   questo  carattere  alla  legge  che  io  ho  citato. «Quantunque,  dice  egli,  la  prima  legge  del  movimento sia  stata,  storicamente  parlando,  scoverta  dall'esperienza, noi  siamo  ora  posti  ad  un  punto  di  vista  che  ci   mostra che  essa  avrebbe  potuto  essere  costatata  indipendentemen- te dall'esperienza  >>.  (Storia  delle  scienze  induttive),  Qual esempio  più  colpente  di  questo  dell'influenza  dell'associa- zione ?  I  filosofi,  pel*  generazioni,  trovano  una  difficoltà straordinaria  a  congiungere  insieme  certe  idee;  alla  fine vi  riescono;  e,  dopo  una  sufficiente  ripetizione  dell'opera- zione, immaginano  dapprima  che  vi  ha  un  legame  natu- .rale  tra  queste  idee;  poi  provano  una  difficoltà  che  au- mentando di  più  in  più,  finisce  per  divenire  una  impos- sibihtà  di  disgiungerle».  {Lor/.  1,  2^  e.  5^  §  G). Il  Mill  qui  non  comprende  la  vera  ragione  di  questa «  trasformazione  della  credenza  »:  non  è  per  l'abitudine  di congiungere  le  idee  unite  dalla  prima  legge  del  movimento, per  essersi,  dopo  una  sufficiente  ripetizione  dell'operazione, familiarizzati  con  essa  sino  al  punto  da  diventare  impos- isibile  una  disgiunzione  di  queste  idee,  che  i  matematici riguardano  questa  proposizione  come  upa  verità  necessa- ria. Il  fatto  èr  spiegato  meglio  altrove  dallo  stesso  Mill.  In ogni  tempo,  egli  dice  (parlando  del  sofisma  a /^r/o/-/ dellaragion  sufficiente),  i  .geometri  si  sono  esposti  al  rimpro- vero di  voler  provare  i  fatti  del  mondo  esteriore  per  mezzo ili  ragionamenti  sofistici,  per  evitare  di  appellarne  alla testimonianza  dei  sensi....  Essi  credono  più  scientifico  di stabilire  questi  principii  cosi  che  per  la  prova  dell'  espe- ;rienza.  (Log.  1.  5*^   e.  3^  §  5).  Il  sofisma  della  ragion  suf- Jìciente,  come  tutti  gli  altri  tentativi  di  dimostrare  ie  ve- rità di  fatto  (le  quali  riposano,  non  sulla  dinìostrazione, ma  sull'induzione),  non  è  che  un  caso  del  metodo  a  priori, applicato,  non,  come  fanno  i  filosofi  radicalmente  aprio- .risti,  a  tutto  il  sistema  delle  conoscenze  umane,  ma  a  qual- che branca  particolare,  e  specialmente  ai  principii  della meccanica— noi  vedremo  nel  Saggio  seguente  che  la  ri- costruzione a  priori  della  realtà  é  una  delle  manifestazio- ni generali  del  modo  di  pensare  metafisico,  e  come  questa manifestazione  si  riattacca  alla  tendenza  fondamentale imetafìsica  o  sofistica  a  priori  del  nostro  spirito— Del  ri- manente noi  dobbiamo  aggiungere  che  se  la  difficoltà  di concepire,  dovuta  alle  prime  apparenze,  non  è  sufficiente per  fare  respingere  le  leggi  scientifiche  del  movimento,. essa  è  sufficiente  almeno  per  far  trovare  incomprensibili i  Tatti  enunziati  in  queste  leggi:  quando  si  dice  che  la  co- municazione del  movimento  per  l'impulsione  (questo  fatto per  noi  il  più  familiare  della  natura  esteriore)  è  un  mi- stero,  che  r  azione  a  contatto  è  cosi  inesplicabile  come Fazione  a  distanza,  questo  non  è  che  un  effetto  della  con- traddizione delle  leggi  del  movimento,  scoverte  dalla  scien- za, con  le  suggestioni  spontanee  prodotte  dalle  prime  ap- pai^enze. Il  Bain  pensa  come  il  Mill  che  le  inconcepibilità  sono qualche  cosa  di  variabile  e  di  relativo  ai  tempi,  ai  luoghi,  alle l>ersone.  «  È  in  gmn  parte,  egli  dice,  la  nostra  educazione clie  decide  ciò  clia  noi  possiamo  concepire  e  ciò  che  non  pos- siamo concepire.  La  prova  ne  é  che  delle  verità,  che  pas- savano per  inconcepibili  a  certe  epoche  e  in  certi  paesi, divengono  concepibilissime  con  un'educazione  differente, ed  anche  si  sono  a  tal  punto  fissate  negli  spiriti,  che  è il  contrario  di  queste  verità  ciie  è  ora  inconcepibile.  I Greci  ammettevano  che  la  materia  è  eterna,  ch'essa  esi- ste per  se  stessa:  molti  moderni  pretendono  che  l'esisten- za per  sé  della  materia  è  assolutamente  inconcepibile.  Vi ha  dei  filosofi  che  pensano  che  l'azione  dello  spirito  è  la sola  origine  concepibile  del  potere  motore,  della  forza motrice  :  altri  riguardando  al  contrario  l'azione  dello  spi- rito sulla  materia  come  assolutamente  inconcepibile,  hanno inimaginato  delle  ipotesi  speciali  per  risolvere  la  difficoltà — p.  e.  Malebranclic  con  la  sua  teoria  dell'intervento  di Dio,  e  Leibnitz  con  la  sua  armonia  prestabilita  (1).  Newton (1)  11  disaccordo  dei  lìlosolì  suirazione  della  volontà,  consideraci ora  come  il  l'arto  più  cliiaro,  ed  ora  come  il  più  inesplicabile,  ha suggerito  al  Mill  oneste  riliessioni:  «  1/ inconcepibile  e  il  concepi- hilc  e  una  circostanza  tutta  accidentale,  e  clie  dipende  interamente dalla  esperienza  e  dalle  abitudini  di  pensiero  degli  uomini;  degrin- dividui  possono,  per  conseguenza  di  certe  associazioni  d'idee,  es- non  poteva  concepire  la  gravitazione  senza  l'esistenza d'una  sostanza  intermediaria  :  teoria  oggi  abbandonata  ^ (Log,,  1.  2,«  e.  5,«  0). Noi  osserveremo,  in  primo  luogo,  su  questo  ragiona- mento del  Bain,  che  tanti  secoli  d'insegnamento  della  dot- trina cristiana  non  hanno  potuto  fare  che  la  creazione della  materia  dal  niente  finisse  di  sembrare  un  mistero incomprensibile,  il  che  prova  che  l'insegnamento  e  l'edu- cazione possono  cangiare  le  nostre  credenze,  ma  non  le inconcepibilità  o  le  semplici  difficoltà  di  concepire  del  no- stro spirito.  Se  alcuni  filosofi  hanno  appoggiato  il  dogma incapaci  di  concepire  una  data  cosa  qunlancjue,  e  divenire  in seguito  capaci  di  concepire  molte  cose,  per  (luanto  inconcepibili avessero  potuto  sembrare  dapprima;  e  gli  stessi  fatti  clie  per  una persona  determinano  nel  suo  spirito  ciò  die  è  concepi])ile  o  no,  de- terminano pure  quali  sono  nella  natura  le  sequenze  che  gli  parranno si  naturali  e  plausibili  che  non  hanno  bisogno  d'altra  prova  che l'evidenza  della  loro  luce  propria,  indipendentemente  da  ogni  espe- rienza e  da  ogni  spiegazione.  Per  qual  regola  decidere  fra  una  teo- ria di  questo  genere  e  un'altra?  1  teorici  non  ci  rinviano  ad  alcuna evidenza  esteriore;  ciascuno  di  loro  fa  appello  ai  suoi  sentimenti subbiettivi Essi  elevano  all'altezza  d'una  legge  primitiva  deFin- telligenza  umana  e  della  natura  una  successione  particolare  di  fe- nomeni che  sembra  loro  più  concepibile  e  più  naturale  delle  altre solo  perchè  è  loro  più  familiare  »  {Log.  1.  Ili  e.  V  ??  9). Secondo  noi  una  concezione  metafisica  non  è  ({ualche  cosa  di cosi  arbitrario  ed  accidentale  come  (jui  il  Mill  sembra  credere  :  basta a  provarlo  la  persistenza  di  certe  alce  madri,  di  certi  tipi  generali, nella  storia  della  metafisica  (animismo -nel  senso  che  il  Tylor  dà a  questa  parola—,  ilozoismo,'  spiegazione  di  tutti  i  fenomeni  fisici per  l'impulsione,  concezione  del  reale  come  sostanzialmente  im- mutabile, realizzazione  dei  concetti  unita  al  metodo  deduttivo,  ecc). 11  metodo  che  noi  impiegheremo  nel  Saggio  seguente,  per  renderci conto  delle  concezioni  dei  metafìsici,  sarà  di  ridurle  a  dei  tipi  dì più  in  più  generali,  mostrando,  per  ciascuno  di  questi  tipi,  il  con- cetto fondamentale  che  gli  serve  di  base,  e  deducendo  questi  con- cetti fondamentali  da  certe  credenze  o  tendenze  a  credere  istinti- ve, comuni  a  tutti  gli  uomini,  e  che  costituiscono  la  metafisica  iia- tarale  del  nostro  spirito religioso  su  degli  argomenti  razionali,  questi  argomenti sono  tirati  quasi  unicamente  dalla  necessità  di  evitare un  altra  inconcepibilità  (la  quale  d'altronde  è  una  incon- cepibilità assoluta  e  non  una  semplice  ditìicoltà  di  con- cepire), quella  deirinflnito  attuale.  In  secondo  luogo,  perquel  che  riguarda  Fazione  della  volontà,  la  concepibilità o  inconcepibilità  di  questo  fatto  non  è  (lualche  cosa  di puramente  accidentale  ed  individuale,  come  pensa  il  Bain  : esso  presenta  etl'ettivamente  alFintelligenza  umana,  per dir  cosi,  due  l'acce  opposte;  dall'una,  sembra  il  latto  più evidente  e  più  naturale,  dalFaltra,  il  più  oscuro  ed  inespli- cabile. Noi  spiegiieremo  altrove  (Saggio  2^  parte  1%  e.  4^) questo  fenomeno  psicologico,  per  cui  i  (atti  più  familiari del  nostro  spirito  ci  sembrano  da  una  parte  i  più  evidenti di  tutti  e  tali,  non  solo  da  non  aver  bisogno  d  altra  pro- va, come  diceMill(Lo^.  1.  3«  e.  5^  §  0,  1.  e),  che  l'eviden- za della  loro  luce  propria,  ma  ancora  da  poter  comunicare questa  luce  a  tutti  gli  altri,  «  servendo  di  spiegazione  ulti- ma delle  cose  in  generale  »  (Mill  ibid.);  ma  dall'altra  parte ci  paiono  invece  i  più  misteriosi  di  tutti  e  i  più  ribelli  ad ogni  spiegazione.  Per  ora  accenneremo  solamente  che  que- sto doppio  aspetto  in  cui  gli  stessi  fatti  ci  appariscono, non  è  che  una  conseguenza  del  modo  differente  in  cui  ce  li rappresentiamo  :  Tidea  che  la  scienza  ci  dà  di  questi  fatti è  tutt  altra  da  quella  che  abbiamo  attinto  immediatamente dalle  osservazioni  più  familiari.  Quando  ci  sembrano  i più  misteriosi  di  tutti,  è  perchè  ce  li  rappresentiauìo  se- condo l'idea  che  ne  dà  la  scienza;  quando  ci  sembrano  i più  evidenti,  è  perché  li  concepiamo  nel  modo  suggeri- toci spontaneamente  dalla  nostra  esperienza  giornaliera  ; ma  siccome  (per  servirci  di  un'altra  frase  di  Mìlì'—ìbìdem—) «le  suggestioni  della  vita  di  tutti  i  giorni  sono  più  forti che  quelle  della  riflessione  scientifica  »,  il  secondo  modo di  concepirli  non  ò  mai  soppiantato  interamente  dal  pri- mo, e  la  loro  evidenza  prescientifìca  persiste  sempre,  per conseguenza,  a  lato  dell'aspetto  misterioso  in  cui  la  scienza ce  li  presenta.  A  ciò  aggiungeremo,  per  quanto  concerne l'azione  volontaria,  che  ciò  che  prova  che  l'evidenza  e  il mistero,  attribuiti  a  questo  fatto,  non  sono  qualche  cosa di  accidentale  e  di  relativo  all'individuo,  è  che,  mentre nessuna   scuola  filosofica  ha  insistito  quanto  la   spiritua- lista sull'incomprensibilità  dell'azione  mutua  fra  lo  spirito -e  il  corpo,  l'evidenza,  superiore  a  quella  di  qualsiasi  altro fatto  dell'esperienza,   dell'azione  dello  spirito  sul  corpo  è ^l   tempo  stesso  il   concetto  fondamentale  su   cui  questa scuola  è  basata,  senza  di  che  essa  non  eleverebbe  questo modo   particolare  di   causazione  a  tipo  universale   della causazione   e  a  spiegazione   radicale  di  tutti  i  fenomeni. Lo  stesso  autore  dell'armonia  prestabilita  dichiara  espres- samente  che  l'idea   più  ciùara  della  potenza  attiva  ci  è data  dalle  operazioni  del  nostro  spirito,  e  che  se  questa -si   trova  anche   nei  corpi,  essa  non   appartiene  già  alla materia,  ma  alle  entelechie  (cioè  alla  monadi),   che  spno analoghe  allo  spirito  (N,  S.  sulVint,  urm  1.  2^  e.  21^).    In quanto   a  Malebran  che,  egli   deduce,  è  vero,   la  dottrina che  Dio  è  la  causa  universale,  dalla  sua  onnipotenza,  e non  dall'evidenza  superiore  dell'azione  volontaria  :  ma  le .prove,  con  cui  un  metafisico  dimostra  il  suo  sistema,  non sono  necessariamente  i   motivi  reali   di  questo  sistema; ed  è  difficile  a  credere  che  la  filosofia  di  Malebranclie  sia fondata  su  un  semplice  concetto  della  teologia  positiva,  e .non  su  quello   che  è  la   base  della   filosofia  teologica  in generale,  cioè  l'assimilazione  delle  forze  della  natura  alla nostra  attività  umana,  o  semplicemente  animale.  Il  disac- "  cordo  dei  filosofi  sull'evidenza  e  il  mistero  dell'azione  vo- lontaria non  è  dunque  che  apparente  ;  e  questo  fatto,  ben interpretato,  lungi  di  provare  la  variabilità  delle  neces- sità (relative)  del  nostro  pensiero,  ne  prova,  al  contrario, la  persistenza. Ora  che  conclusione  si  pu(')  tirare  da  questa  persistenza  (Ielle  necessità,  tanto  assolute  quanto  relative,  del  i3en- siero,  per  la  quistione  presente  sulla  validità  del  criterio deirinconcepibilità  della  negativa  ?  Da  una  parte  essa  mo- stra più  apertamente  la  contraddizione  die  vi  ha  a  re- spingere la  validità  del  criterio  ;  poiché  le   necessità  del pensiero  essendo  generali  e  permanenti,  Mill  e  Bain  ne partecipano  come  tutti  gli  altri  uomini,  e,  trattandosi  di necessità  assolute  che  impongono  una  credenza  irresisti- bile, essi  non  possono  quindi,  senza  incoerenza,  respin- gerne teoricamente  il  valore  obbiettivo,  quando  pratica- mente sono  costretti  ad  animetterlo.  Ma  dallaltra  parte, se  vi  hanno  delle  necessità  assolute  del  pensiero  deriva- te dall'associazione  delle  idee;  se  vi  ha  pericolo  che  que- ste necessità  assolute  siano  delle  illusioni  come  quelle  neces- sità relative  di  cui  la  scienza  ha  scoverto  l'erroneità;  il male  sarà  più  grave  ancora  di  quello  che  possa  temere Mill  o  Bain,  perché,  una  necessità  del  pensiero  non  po- tendo modificarsi,  Tillusione  sarà  senza  rimedio.  Cosi,  lun- gi dairesserci  liberati  dalla  contraddizione  e  dalla  perples- sità, noi  vi  ci  troviamo  più  che  mai  inviluppati:  le  con- traddizioni e  le  perplessità  sono  nel  fatto  inevitabili,  sin-- che  si  mantiene  la  dottrina  deìVassociazione  inseparabile. §  14«  Queste  perplessità  (ì),  queste  contraddizioni  ine- (1)  Noi  abbiamo  vista  in  una  note  antecedente  l'incertezza  di  Mill sulla  quistione  se  un'associazione  inseparabile  o  un'inconcepibilità del  contrario  (che  per  Mill  è  la  stessa  cosa)  produca  o  no  una  cre- denza irresistibile:  un'altra  incertezza  simile  noi  la  troviamo,  quando egli  determina  la  nozione  stessa  dell'associazione  inseparabile,  (♦ra il  Mill  chiama  inseparabile  un'  associazione  che  sarà  tale  sinché delle  esperienze  contrarie  non  la  diseiolgano  (v.  p.  e.  il  1.  e.  della Filos.  di  Hamilton  pag.  172-173);  è  questa,  secondo  noi,  la  vera  no- zione dell'associazione  inseparabile.  Ma  ora  invece  ammette  che, non  solo  delle  esperienze  contrarie,  ma  anche  le  operazioni  del  pen- siero possono  disciogliere  un'associazione  inseparabile;  cosi  nel  e. XI  della  Filos.  eli  Hamilton,  sul  principio,  distingue  l'associazione inseparabile  dall'associazione  indissolubile.  «Non  si  vuol  dire  per stricabili,  in  cui  la  dottrina  deirassociazione  inseparabile getta  fatalmente  i  filosofi  empiristi  che  la  sostengono,  non sono  che  un  altro  aspetto  della  contraddizione  radicale di  questa  dottrina  coi  principi!  fondamentali  della  filoso- fia dellesperienza.  Il  canone  fondamentale  di  questa  filo- sofìa é  che  non  bisogna  niente  ammettere  senza  j)rova (la  prova  non  essendo  altra  cosa  che  una  detluzione  fon- data sopra  un  induzione  antecedente  )  :  ma  se  vi  ha  in noi  una  necessità  del  pensiero  che  e'  impone  irresistibil- mente la  ci^edenza,  o  che  questa  necessità  sia  congenita allo  spirito,  o  che  sia  il  prodotto  d'un'associazione  empi- rica, ogni  prova  sarebbe  vana;  sarebbe  inutile,  come  di- ce Mill,  di  appellarne,  perchè  sarebbe  impossibile  di  mo- dificarla. Ma  non  ne  seguirebbe,  come  aggiunge  lo  stes- so autore  conformemente  ai  principi!  deirempirismo,  che la  credenza  fosse  vera.  E  nel  fatto  i  risultati  della  dot- queste  parole  (associazione  inseparal)ile)  che  l'associazione  deve inevitabilmente  durare  sino  alla  line  della  vita,  che  alcuna  espe- rienza susseguente,  alcuna  operazione  del  pensiero  non  possa  di- Si-ioglierla;  ma  solamente  che.  sinché  questa  esperienza  o  <iuesta o])erazione  del  i>ensiero  non  avrà  luogo,  lassociazionc  resterà  ir- resistibile ;  che  ci  sarà  impossibile  di  pensare  1'  uno  dei  suoi  ele- menti separato  dall'altro».  Ma  come  chiamare  irresistibile  un'as- sociazione che  un'operazione  del  pensiero  può  disciogliere?  Non sembra  (juesta  una  sconfessione  della  dottrina  dell'  associazione insei)arabile1  Se  è  «luesta  la  nozione  dell'associiazione  insei^arabile, noi  siamo  presti  ad  al)bandonare  tutte  le  obi)iezioni  che  al>ì)iamo fatte  contro  (piesta  dottrina;  ma  Mill  deve  abbandonare  pure  la pretesa  di  spiegare  per  un'associazione  inseparabile  la  necessità  dei principii  intuitivi  della  matematica,  perchè  è  evidente  che  noi  non ]»ossiamo  immaginare  alcuna  operazione  del  pensiero  che  i>os8a valere  a  disciogliere  il  legame  fra  le  idee  di  cui  consta  il  giudizio espresso  in  (juesta  proposizione:  due  e  due  fanno  cpiattro.  Sono  questi i  legami  iva  le  nostre  idee  che  soli  meritano  il  nome  d' insepara- bili: se  si  ammette  che  un'associazione  empirica  può  diventare  in- separaììile  sino  a  (juesto  punto,  allora  rinasce  la  nozione  dell'as- sociazione inseparabile  contro  la  quale  ab])iamo  fatte  lejìostre  ol^ Iniezioni,  e  con  essa  l'applicabilità  di  queste  obbiezioni  "stesse. trina  empirista  sono  la  negazione  di  molte  di  queste  cre- denze irriflesse  che  tendono  ad  imporsi  con  la  forza  più grande  al  nostro  spirito,  credenze  che  non  sono  che  l'o- pera dell'associazione  spontanea  d^Ue  idee  :  cosa  che  ne- cessariamente deve  rendere  sospetta  ogni  associazione relativamente  o  assolutamente  irresistibile,  in  cui  non può  vedersi,  invece  che  una  convinzione  fondata  su  Te- sarne e  delle  prove,  che  un  prodotto  fatale  dell'  attività istintiva  dell'  intelledas  sili  permissiis.  Ne  segue  che  il canone  fondamentale  della  filosofia  dell'esperienza  non  può «ssere  applicabile  d'una  maniera  universale,  se  non  alla condizione  che  non  vi  siano  fra  le  nostre  idee  delle  as- sociazioni assolutamente  inseparabili  (1).  Ora  noi  ab- biamo visto  in  un  capitolo  antecedente  che  questa  con- dizione fortunatamente  si  verifica;  che  nel  fatto  l'asso- ciazione non  può  stabilire  fra  le  nostre  idee  alcuno  di questi  legami  assolutamente  indissolubili,  tali  da  deter- minare la  irresistibilità  della  credenza.  Cosi  si  dissipa  qu6*,- st'ombra  di  dubbio  che  le  illusioni  naturaU  del  nostro  spi- rito (illusioni   per  altro  che  noi  possiamo   correggere) (l)  Un  critico  di  Mill,  appartenente  alla  scuola  intuizionista,  pro- testa contro  la  dottrina  dell'associazione  inseparabile,  che  deter- mina necessariamente  la  credenza,  ed  esorta  la  gioventù  a  scuo- tere l'influenza  di  questa  dottrina,  e  ad  apprendere  che  è  il  nostro -dovere  di  fondare  le  nostre  credenze  sovra  un  giudizio  antecedente, e  «di  basarle  sull'esame  delle  realtà  e  delle  attualità».  11  Mill  si lagna  di  non  essere  compreso,  e  risponde  che  egli  è  un  missiona- rio delle  stesse  idee  (Filos.  dì  Hamilton  e.  14,  trad.  frane,  pag.  314, in  nota).  Ma  Terrore  del  critico  è  perdonabile:  è  un'incoerenza] quando  si  è  un  missionario  di  queste  idee,  di  ammettere  al  tempo stesso  la  loro  inapplicabilità,  un'  associazione  irresistibile  produ- cendo necessariamente  una  credenza  che  non  è  fondata  «esclusi- vamente su  delle  prove»,  come  vuole  il  Mill.  Ciò  è,  mutati^  mu- tandis,  come  se  un  moralista,  convinto  die  l'uomo  non  è  capace se  non  di  azioni  egoistiche,  predicasse  nondimeno  la  morale  del- l'evangelcf:  Amate  il  pi'ossìmo  c-ome  voi  stessi. ^ proiettano  sul  criterio  della  inconcepibilità  della  negativa, e  noi  evitiamo  le  contraddizioni,  in  cui  lo  spirito  non  può non  cadere,  quando  pensa  di  scuotere  questa  fede  neces- saria che  noi  dobbiamo  avere  nelle  nostre  facoltà  cono- scitive. Non  vi  ha  altra  necessità  del  pensiero,  altra  inconce- pibilità della  negativa,  che  nei  giudizi  immediati  sulle  so- miglianze e  sulle  ditTerenze  :  il  reale,  l'esistente,  non  può essere  attinto  che  dalla  prova,  e  questa  non  può  essere che  una  deduzione  rigorosa  fondata  sovra  un'induzione anteriore.  Ma  con  tutto  ciò  una  necessità  del  pensiero (anche  dentro  questi  limiti)  non  è  sempre  una  contrad- dizione ai  principii  della  dottrina  dell'esperienza  ?  Questa contraddizione  in  realtà  è  più  con  la  lettera  che  con  lo spirito  di  questa  dottrina.  Ciò  è  perchè  il  postulato,  a  cui si  riduce  ogni  anticipazione  suU'  esperienza  contenuta  in tutte  le  nostre  conoscenze  veramente  a  priori  e  necessa- rie, è  uno  di  quei  postulati  che  noi  dobbiamo  ammettere senza  prova,  per  la  ragione  che  ogni  prova  implica  già l'ammissione  di  questi  postulati. §  15.<^  Vi  hanno  tre  facoltà  fondamentaU  nell' intelli- genza :  sono  la  memoria,  la  comparazione,  e  la  facoltà di  concludere  o  di  tirare  delle  inferenze.  Ogni  ragiona- mento, ogni  prova  o  esame  dei  fatti,  suppone  1'  esercizio in  comune  di  queste  tre  facoltà  associate,  facoltà  che  noi non  distinguiamo  che  per  una  specie  di  astrazione,  per- chè ogni  operazione  dell'intelligenza  suppone  il  concorso di  tutte  e  tre.  Prendiamo  un  sillogismo,  un  sillogismo  con- siderato,  non  come  lo  considera  la  logica  formale,  cioè come  un'inferenza  puramente  verbale,  ma  come  un'infe- renza reale,  nella  quale  perciò  i  veri  antecedenti  logici sono  i  fatti  delF  esperienza  passata,  di  cui  la  maggiore  è l'espressione  generale.  La  maggiore  enuncia  dunque  que- sti fatti  deiresperienza  passata  (e,  per  essere  esatti,  insie- me a  questi  fatti,  esprime  pure  la  riconoscenza  che  essi /  •* -^sono  tali,   che  noi  ci  crediamo  autorizzati  a  tirare  delle su  altri  latti  non  ancora  sperimentati):  ora  que- sti tatti  deiresperienza  passata  noi  non  li  ammettiamo  che sulla  lede  della  memoria.  JMa  oltre  la  memoria,  la  mag- giore  suppone  anche  la  facoltcà  della  comparazione:  infat- ti è  per  avere  scoverta  Tunitormità,  cioè  la  somiglianza, tra  questi  tatti  dellesperienza  passata,  che  noi  possiamo riassumerli  in  una  formula  generale.  La  minore  del  sil- logismo non  esprime  pure  che  una  comparazione  :   essa afìerma  die  il  caso  presente  ha  una  somiglianza  defini- ta, per  gli  attributi  che  noi  ne  conosciamo,  coi  casi  del- Fesperienza  passata  che  sono  stati  registrati  nella  mag- giore. La  conclusione,  infine,  afferma  che  il  caso  presen- te deve   somigliare  ai  casi  passati   anche  per  T  attributo che  noi  ancora  non  abbiamo  direttamente  conosciuto,   e che  quest  attributo  gli  appartiene.  (Confr.  e.  2^  §  14^' n.*^  4<>). È  evidente  che  quest'ultima  affermazione  è  altra  cosa  che una  comparazione  o  un  atto  di  memoria:  è  per  quest  af- fermazione che  si  manifesta  la  terza  facoltà,  quella  di  con- cludere, o  di  tirare  delle  inferenze. Ora  ciascuna  di  queste  tre  facoltà  ha  il  suo  postulato, o  piuttosto,  l'ammissione  della  veracità  di  ciascuna  di  que- ste tre  facoltà  non  è  che  un  postulato;  noi  non  possiamo provarla,  ma  dobbiamo  ammetterla  senza  prova.  Noi  am- mettiamo che  i  fatti  che  la  memoria  attualmente  ci  sug- gerisce lianno  in  realtà  esistito  nel  passato;  noi  ammettia- mo che  le  somiglianze  che  il  nostro  pensiero  percepisce sono  le  somiglianze  reali  delle  cose;  infine  noi  ammettia- mo che  abbiamo  il  dritto  di  tirare  delle  inferenze  dal  no- to air  ignoto,  dal  passato  air  avvenire.  Tutto  ciò  noi  lo ammettiamo  senza  prova;  essi  sono  dei  postulati,  e  tutti insieme  costituiscono  il  ix)stulato  universale,  che  noi  dob- biamo aver  fede  nelle  nostre  facoltà  conoscitive,  che  il pensiero  e  la  realtà  si  corrispondono,  che  la  verità  esiste, che  rintelligenza  può  conoscere  e  le  cose  possono  essere  <M3nosciute.  Che  la  fede  nella  veracità  della  memoria  sia un  postulato  è  un'affermazione  che  non  può  essere  sog- getta a  discussione  né  ad  equivoco:  ma  per  gli  altri  po- stulati una  semplice  affermazione  non  basta,  e  qualche sviluppo  sembra  necessario. Per  il  postulato  della  facoltà  deirinferenza  noi  accette- respressione  che  ne  dà  il  Bain,  seguendo  i  filosofi della  scuola  scozzese:  «  Ciò  che  è  accaduto  uniformemente nel  passato  accadrà  nell'av  venire  ».  (Lofj.  App.  D).  L'e- non  è  rigorosamente  esatta,  perchè  tutte  le  no- stre inferenze  non  riguardano  Favvenire  ;   noi  inferiamo i  fatti  passati,  che  non  abbiamo  conosciuti  diretta- mente ;  è  sempre  sulla  nostra  esperienza  passata  che  in definitiva  noi  ci  fondiamo  per  inferire,  ma  le  nostre  infe- renze  possono  avere  per  oggetto   tanto  dei  fatti   passati quanto  dei  fatti  futuri.  Nondimeno  noi  accettiamo  la  for- mula di  Bain,  perchè  ci  sembra  difficile  di  trovarne  una migliore.  Ora  ciò  che  è  necessario  di  osservare  illativa- mente a  questa  formula  è  che  essa  è,  non  una  proposi- zione categorica,  ma  una  proposizione  ipotetica:  essa  non dice:  «  vi  ha  uniformità  nella  natura  »,  perchè  in  questo caso  noi  comprenderemmo  nel  postulato  delle  affermazio- ni, che  noi  non  dobbiamo  ad  un  jjostulato,  ma  alla  nostra- esperienza.  Che  la  nostra  esperienza  passata  ci  ha  otìer- to  delle  uniformità,  questo  non  è  un  jMDstulato,  cioè  una conoscenza  a  priori,  ma  una  conoscenza  dovuta  aU'osser- vazione:  il  postulato  si  limita  a  dire  che,  se  r  esperienza passata  presenta  delle  uniformità,  noi  possiamo  estendere queste  unilòrmità  anche  air  avvenire.  (1)  Alcuni,  come  il (1)  ì:  per  non  aver  fatto  con  cura  questa  distinzione  cìie  il  Hain si  è  esposto  ad  essere  mal  compreso.  Taluno,  come  il  Fiorentino nelle  sue  Lezioni  di  Filosofia  (parte  I,  e.  XIV ;,  ha  capito  il  Rain come  se  per  lui  il  principio  dell'uniformità  della  natura,  ed  anclie quello  della  causalità .  fosse  una  conoscenza  indipendente  dalla esperienza.  Invece  eizli  dice  esplicitamente  che  questa  conoscenza. mo Galluppi,  hanno  preteso  che  questa  proposizione  che  il  fu- turo rassomigha  al  passato  non  esprime  che  un  latto  d'e- sperienza, perché,  dicono  essi  al  tondo,  Tesperienza  pas- sata ha  verificato  le  previsioni  che  noi  abbiamo  fatto  in- ferendo dal  passato  allavvenire.  Ma  il  fatto  che  le  nostre inferenze  si  sono  verificate  per  il  passato  non  dimostra che  per  l'avvenire  le  inferenze  che  noi  tireremo  ancora secondo  le  stesse  regole  si  verificheranno  del  pari,  a  me- no che  non  si  ammetta  il  postulato  che  il  futuro  rassomi- glierà  al  passato,  o  in  termini  più  generali,  che  noi  pos- siamo tirare  delle  inferenze  e  passare  dal  noto  alFignoto. Questa  credenza  non  ha  dunque  altro  principio  che  se- stessa.  «  Se  noi,  dice  il  Bain,  crediamo  di  aver  trovato una  prova  che  la  dimostra,  non  facciamo  in  realtà  che porla  in  principio  sotto  un'altra  forma  », 1/ l'I come  tutte  le  altre,  deriva  daircsperienza  (v.  p.  e.  1.  II  e.  V  10,  e- Introduz.  17,  18).  É  vero  però  che  alcune  sue  frasi  ten<ìerebbero  a far  supporre  che  egli  consideri  ipiesto  principio  come  una  credenza ciecamente  istintiva  e  un'ipotesi  anteriore  all'esperienza,  e  che  la esperienza  non  abbia  per  luì  che  un'  influenza  negativa,  ten- dente a  contenere  dentro  certi  limiti  questa  foga  istintiva  dello spirito  a  supporre  da  per  tutto  delle  uniformità.  Ma  è  chiaro  che- questa  stessa  foga  istintiva  dello  spirito  non  potrebl)e  risultare dalle  sole  leggi  dello  si)irito  stesso,  senza  il  concorso  delle  impres-  . sioni  della  realtà,  che  gli  hanno  presentato  delle  ripetizioni  e  delie- uniformità. È  pure,  sembra,  per  non  aver  distinto  esattamente  ciò  che  nel princìpio  deiruniformità  della  natura  è  un  dato  puramente  speri- mentale e  ciò  che  non  è  se  non  un  postulato,  che  Huxley  dice: «  il  princìpio  di  causalità  è  il  simbolo  verbale  d'un  atto  automatico» il  quale  è  estralogico,  e  sarebbe  illogico,  se  V  esperienza  non  ve- nisse costantemente  a  dargli  ragione  ».  (v.  D.  Jlume  ecc.  parte  li e.  VI).  Ma  né  ciò  che  Huxley  chiama  un  atto  automatico  esiste- rebbe (com'egli  stesso  ammette)  senza  l'esperienza  dell' uniformità, né  la  verificazione  dell'esperienza  può  togliere  al  principio  ciò  che vi  ha  in  esso  di  semplicemente  postulato  :  come  distinguere  dun- que nella  credenza  al  principio  questi  due  momenti,  l'estralogico e  il  logico  ì II tt '1 11 !( Ili II. lì li, II I' i; II II II"', jiii'; Ir; III  ir ll'ili' I'  ir '  IF' MI il Come  il  postulato  della  facoltà  di  concludere  ammetto che  le  inferenze  tirate  regolarmente  dal  pensiero  corrispon- dono  agli  avvenimenti  reali,  cosi  il  postulato  della  facoltà di  comparare  ammette  che  le  somiglianze  e  le  differenze percepite  dal  pensiero  corrispondono  alle  somiglianze  e  alle differenze  reali  delle  cose.  Noi  dobbiamo  rammentarci  i risultati  a  cui  siamo  pervenuti  sul  fondamento  del  carat- tere particolare  delle  proposizioni  della  matematica  pura, ]3  in  generale,  delle  proposizioni  necessarie  ed  a  priori, le  quali  tutte  non  affermano  che  delle  somiglianze  e  delle differenze.  Tali  verità  sono  necessarie,  in  quanto  l'idea  o impressione  della  somiglianza  è  inseparabilmente  legata alle  idee  dei  teroaini  comparati;  esse  sono  aprioriy  in  quanto lo  spirito  può  acquistarne  la  conoscenza  per  la  semplice contemplazione  delle  sue  proprie  idee^  estendendo  alle  cose i  rapporti  eh'  egli  ha  scoverti  fra  le  idee  di  queste  cose. Questa  corrispondenza  dei  rapporti  percepiti  nel  pensiero, cioè  fra  le  idee,  coi  rapporti  percepibili  fra  le  cose  stesse, come  anche  questo  legame  necessario  fra  l'idea  o  impres- sione del  rapporto  e  le  idee  dei  termini  rapportati,  si  spiega semplicemente  per  la  circostanza  che  la  percezione  delle somiglianze  e  delle  differenze  non  è  che  una  vera  azione riflessa  del  cervello  :  cosi  essa  è  costantemente  provocata nella  coscienza  dalla  presenza  in  essa  dei  termini  del  rap- I)orto,  e  di  più  la  percezione  o  il  sentimento  del  rapporto avviene  tanto  se  i  termini  comparati  sono  delle  cose  pre- sentate ai  nostri  sensi,  cioè  delle  sensazioni  forti,  quanto se  sono  delle  semplici  idee  di  queste  cose,  cioè  delle  sen- sazioni delx)li.  Ne  segue  che  tutto  ciò  che  vi  ha  di  a  priori nelle  proposizioni  matematiche,  e  in  generale  in  tutte  le proposizioni  necessarie  ed  a  priori,  non  è  che  l'ammissione di  questo  postulato  :  che  le  somiglianze  e  le  differenze  per- cepite dal  pensiero,  cioè  fra  le  nostre  idee,  corrispondono alle  somiglianze  e  alle  differenze  reali,  cioè  percepibili  fra cose  stesse,  L'ammissione  di  questa  corrispondenza  fra 6r>2il  pensiero  e  la  realtà,  non  solo  e  un'anticipazione  delFe- sperienza,   ma   non  potrebbe  essere  nemmeno  verificata ;  perchè  questa  verificazione  implicherebbe la  fede  nella  veracità  della  memoria  dei  rapporti  già  per- cepiti, e  siccome  in  generale  p  >nsare  un  tal  rapporto  non è  che  percepire  il  rapporto  stesso  fra  le  nostre  rappresen- tazioni (l'idea  0  impressione  del  rapporto  non  potendo  es- sere prodotta  che  da  termini  presenti  attualmente  nella coscienza),  quindi  la  fede  nella  memoria  implica,  in  questo, caso,  il  postulato  che  i  rapporti  sentiti  fra  le  nostre  ra})- presentazioni  corrispondono  ai  rapporti  sentiti  fra  le  cose stesse.  Infine,  quando  noi  diciamo  che  i  rapporti  attual- mente percepiti  (sia  fra  le  idee  sia  fra  le  ca.se)  corrispon- dono ai  rapporti  reali  esistenti  fra  le  cose  stesse,  (siccome un  rapporto  di  somiglianza  o  di  differenza  non  è  niente al  di  fuori  della  nostra  percezione)  noi  vogliamo  dire  che la  i)ercezione  del  rapporto  non  è  arbitraria  e  accidentale, ma  è  costantemente  legata  alla  presenza  dei  termini  del rapporto  nella  coscienza,  che  gli  stessi  termini  ci  [)rotlu- cono  costantemente  gli  stessi  sentimenti  di  rapporto.  Que- sta costanza  delle  percezioni  dei  rapporti,  implicata  in  ogni affermazione  di  somiglianza  e  di  differenza,  e  anch'essa una  supposizione  anteriore  alfesperienza  e  elio  Tesperienza non  può,  rigorosamente,  verificare;  perche  questa  verifi- cazione implicherebbe  la  fede  nella  veracità  della  memr»ria dei  rapporti  percepiti,  la  qual  fede  non  ò  che  un  caso  del postulato  che  i  rapporti  perce[)iti  fra  le  rappresentazioni corrispondono  ai  rapporti  percepiti  o  [)ercepibili  fra  le  cose stesse.  Ora  questi  risultati  noi  dobbiamo  a[)plicarli  a  tutte le  affermazioni  di  somiglianza  e  di  ditlerenza,  le  quali,  oltre che  sono  l'oggetto  esclusivo  delle  matematiche  pure  e  di ogni  altra  verità  cosi  detta  razionale,  costituiscono  anche un  momento  necessario  di  qualsiasi  operazione  della  nostra intelligenza. Ogni  ragionamento  implicando  la  costataz  ione  di  cert^ uniformità,  fra  oggetti  di  cui  una  parte  almeno  sono  as- senti dalla  coscienza,  le  comparazioni  dalle  quali  risulta la  costatazione  di  queste  uniformità,  implicano  il  postulato che  i  rapporti  (di  somiglianza  e  di  differenza)  percepiti nel  pensiero,  o  fra  le  nostre  rappresentazioni,  corrispon- dono ai  rapporti  percepiti  o  percepibili  fra  le  cose  stesse. Di  più  il  ragionamento  suppone  la  costanza  di  questi rapporti,  cioè  che  gli  stessi  termini  ci  producono  costan- temente le  stesse  impressioni  di  rapporto.  Supponiamo  in- fatti (per  quanto  una  tale  supposizione  può  essere  intelli- gibile) che  le  nostre  percezioni  di  questi  rapporti  non  si  pi^- ducessero  più  d'una  maniera  regolare,  che  il  simile  ci  sem- brasse differente  e  viceversa;  allora  ci(j  che  attualmente chiamiamo  ordine  della  natura  ci  sembrere  bbe  invece  un disordine,  perchè  la  percezione  dell'ordine  o  dell'uniformità non  consiste  che  in  percezioni  di  somiglianze.  Allora  tutte le  nostre  classazioni,  tutte  le  nostre  previsioni  dei  feno- meni futuri,  sarebbero  false  o  impossiljili;  l'ordine  della natura  non  sareì)l)o  cangiato,  semplicemente  noi  non  jx)- trcmmo  più  com[)renderlo.  Tutti  i  nostri  ragionamenti suppongono  dunque  la  regolarità  delle  nostre  percezioni dei  rapporti  di  somiglianza;  ma  questa  supposizione  non potrebbe,  come  abbiamo  detto,  essere  sperimentalmente verificata,  a  meno  che  non  si  ammetta  il  postulato:  che i  rapporti  percepiti  fra  le  nostre  idee  corrispondono  ai  rap- porti percepiti  o  i)crcepibili  fra  le  cose  stesse. Questo  postulato  è  dunque  implicato  in  ogni  ragiona- mento, in  ogni  prova:  al  fondo  esso  è,  unitamente,  per  le nostre  percezioni  di  somiglianza,  ciò  che  i  due  altri  postu- lati, quello  della  memoria  e  quello  dell'  inferenza,  separa- tamente, sono  per  tutte  le  altre  nostre  percezioni.  Dentro i  limiti  delle  percezioni  di  somiglianza,  esso  sostituisce  il postulato  della  memoria,  percliè  noi  non  ci  rammentiamo una  somiglianza  già  percepita  per  la  retcntività  e  la  revivi- scii)ilità  della  percezione  già  provata,  come  avviene  per I  5éà le  altre  percezioni,  ma  semplicemente  perchè  la  rappi^- sentazione  delle  cose  simili  già  percepite  produce  attual- nella  nostra  coscienza  il  sentimento  della  soQiiglian- za.  Dentro  gli  stessi  limiti,  esso  sostituisce  il  postulato  del- l'inferenza, perché  per  conoscere  cjual  percezione  di  rap- porto ci  produrrà  la  presentazione  di  dati  oggetti,  noi  non abbiamo  bisogno  di  fare  un'inferenza,  ma  ci  fidiamo  alla inspezione  attuale  delle  rappresentazioni  di  questi  oggetti. Cosi  la  natura,  con  mezzi  apparentemente  più  semplici (una  pura  azione  riflessa)  ha  ottenuto,  per  questa  classe di  percezioni,  ciò  che  per  le  altre  non  ha  potuto  ottenere che  con  mezzi  apparentemente  più  complicati,  quelli  che costituiscono  il  meccanismo,  ignoto  nei  suoi  ultimi  elementi, della  memoria  e  della  inferenza  (1). §.  16  Se  ora  ci  domandiamo  che  ragione  abbiamo  noi di  ammettere  la  validità  obbiettiva  di  questi  tre  postulati, o,  in  una  parola,  del  postulato  universale  della  corrispon- denza fra  il  pensiero  e  le  cose,  la  risposta  sarà  semplice  ; ragione  è  che  noi  non  possiamo  fare  a  meno  di  am- metterli, se  pure  non  vogliamo  rinunziare  all'uso  del  pen-, e  ridurci  allo  stato  di  vegetali  (come  dice  Aristotile contro  quei  sofisti  che  negavano  il  princiiùo  di  contraddi- zione). Noi  possiamo  certamente,  d'una  maniera  specu- lativa,  e  in  ultima  analisi,  solo  verbalmente,  elevare dei   dubbi   sul   valore   delle   nostre   facoltà  conoscitive  ; (1)  E  appena  bisogno  di  oggiungerc  che  ciò  che  noi  diciamo  nel testo  sui  rapporti  di  somiglianza  si  riferisce  a  quelli  che  sono  co- nosciuti d'una  maniera  intuitiva  o  immediata:  quando  il  rapporto viene  invece  conosciuto  per  inferenza,  allora,  come  abbiamo  detto nel  capitolo  precedente,  noi  non  ci  facciamo  una  rappresentazione adequata  dei  termini  rapportati,  ma  le  nostre  rappresentazioni  sono simboliche.  In  (]uesto  caso  la  congiunzione  delle  nostre  idee  è  go- vernata dalle  leggi  generali  dell'associazione,  e  il  meccanismo  del- l'inferenza è  lo  stesso  che  in  ogni  altro  caso  qualsiasi  d'inferenza, in  cui  si  tratti,  non  di  somiglianze,  ma  di  altri  fenomeni  qualunque. ma,  ogni  esercizio  del  pensiero  implicando  la  ricono- scenza di  questo  valore^,  noi  non  lo  possiamo  senza  av- vilupparci in  inestricabili  contraddizioni.  Queste  facoltà sono^  è  vero,  per  noi  la  sorgente  di  persistenti  illusioni:  ma noi  possiamo  correggerle,  ben  più,  noi  possiamo  studiare il  meccanismo  della  loro  produzione  (V.  il  Saggio  seguente). Dicendo  che  noi  dobbiamo  ammettere  necessariamente  la corrispondenza  fra  il  pensiero  e  le  cose,  per  queste  cose non  intendiamo  altro  che  i  fenomeni:  cioè  da  una  parte  i nostri  fenomeni  interni  o  subbiettivi,  da  un'altra  parte  quelli della  natura  esteriore,  che  si  risolvono  in  sensazioni  reali e  possibilità  di  sensazioni.  Per  quelli  che  pensano  come Mill  e  Bain,  come  per  il  realismo  volgare,  le  cose  non  sono che  le  presentazioni  dei  nostri  sensi:  noi  non  possiamo  af- fermare altra  realtà,  al  di  là  della  sensazione  o  del  feno- meno, perchè  da  una  parte  la  credenza  spontanea,  che  fa delle  nostre  sensazioni  delle  cose  poste  fuori  di  noi  e  in- dipendenti dal  soggetto  senziente,  è  stata  irrevocabilmente distrutta  dalla  riflessione  scientifica;  e  d'altra  parte  le  con- cezioni filosofiche  che  si  tenta  di  sostituire  a  questa  credenza spontanea,  né  c'impongono  immediatamente,  com'essa,  l'as- sentimento, nò  possono  essere  giustificate  per  mezzo  di  "pro- ve (v.  Saggio  seguente  parte  2^),  ben  più,  esse  sono,  come abbiamo  detto,  intrinsecamente  inintelligibili  e  contrad- dittorie. Il  postulato  della  corrispondenza  Tra  il  pensiero  e  la realtà,  cioè  l'aftermazione  supposta  in  ogni  atto  del  pen- siero, che  l'intelligenza  può  conoscere  e  le  cose  possono essere  conosciute,  implica  che  i  fenomeni  sono  assoluta- mente intelligibili,  e  che  vi  ha,  o  piuttosto  può  avervi, una  coincidenza  assoluta  fra  la  conoscenza  e  l'oggetto conosciuto  (aequatlo  rei  et  intellectas).  Cosi,  non  solo  lo scetticismo  propriamente  detto,  ma  anche  il  criticismo,  la dottrina  dell'Inconoscibile  e,  in  generale,  tutte  le  forme dell'agnosticismo  contemporaneo,  sono  in   contraddizione r con  questo  postulato.  Il  criticismo  perché  —  a  parte  i  li- miti che  il  noumeno  oppone  alla  nostra  conoscenza  —  il postulato  suppone  al  temjxD  stesso  l'opposizione  e  la  coin- cidenza tra  la  conoscenza  e  la  cosa  conosciuta.  Per  Kant la  cosa  conosciuta  non  è  che  il  i)rodotto  del  nostro  pen- siero; Fordine  con  cui  le  cose  ci  appariscono  non  è  in esse,  ma  in  noi.  I  neo-kantiani  che  abbandonano  la  cosa in  sé,  arrivano  necessariamente  alla  conseguenza  die l'oggetto  non  esiste  assolutamente  e  per  sé,  ma  relativa- mente al  soggetto  conoscente.  Cosi  il  criticismo  é  la  nega- zione della  dualità  della  conoscenza  e  dell'oggetto  cono- sciuto,  dell'indipendenza  del  secondo   dalla  prima  (1).  In (1)  Potrebbe  sembrare  che  la  dottrina  di  Mill  e  dì  Rain  sul  mondo esteriore  implica  anch'essa  la  negazione  della  diudità  della  cono- s^^enza  e  della  cosa  conosciuta  e  della  indipendenza  di  questa  da (pit'lla:  ma  mettendosi  al  punto  di  vista  del  sistema,  si  vedrà  clie non  è  cosi.  Le  cose,  cioè  le  presentazioni  dei  nostri  sensi,  non  sono (•ertamente,  in  «luesto  sistema,  indipendenti  dol  soggetto  senziente, ma  esse  sono  indipendenti  dal  soggetto  conoscente;  una  presenta- zione dei  nostri  sensi,  una  sensazione,  non  è  una  conoscenza,  ma ò  l'oggetto  conosciuto;  la  conoscenza  incomincia  là  dove  incomin- cin  la  rappresentazione,  il  giudizio,  ciò  che  è  suscettibile  di  ve- rità o  di  falsità.  La  proposizione  che  non  può  esservi  verità  o falsità  (e  quindi  nemmeno  conoscenza;  nella  sensozione,  si  trova del  resto  generalmente  ammessa,  a  cominciare  da  Aristotile.  Tut- tavia secondo  la  dottrina  comune  che  considera  la  sensazione  come la  rappresentazione  di  un  oggetto  esteriore  distinto  da  essa,  po- trebbe avere  ancora  un  senso  il  dire  che  la  sensazione  è  una  co- noscenza: ma  nella  dottrina  di  Mill  e  di  Hoin  non  potrel)be  avere alcun  senso,  perchè  in  essa  non  solo,  come  nel  realismo  popolare, la  sensazione  s'identifica  con  la  cosa,  ma  non  vi  ha  altra  rosa  che la  sensazione  stessa.  Ora  ])er  questa  dottrina  le  cose,  cioè  le  pre- sentazioni dei  nostri  sensi,  i  fenomeni,  sono  indipendenti  dal  sog- getto conoscente,  ed  hanno  un'esistenza  assoluta,  in  quanto  l'or- dine con  cui  essi  avvengono  è  qualche  cosa  di  reale  e  di  (\ssoluto; non  è  una  foi-ma  del  nostro  ]>ensiero  come  per  Kant,  ma  esiste  in- dil>endent('mcnte  da  ogni  rapporto  con  un  soggetto  conoscente. (Gonfr.  e.  V,  la  nota  al  §  0). m7 quanto  alla  dottrina  dell'inconoscibile  in  se  stessa,  indi- I)endentemente  dalla  sua  alleanza  con  le  dottrine  kan- tiane, parrà  forse  esorbitante  l'asserzione  che  essa  con- traddice pure  al  postulato  necessario  dell'intelligenza; perché,  si  dirà,  affermare  che  la  nostra  conoscenza  é  li- mitata, non  è  invalidare  il  valore  reale  di  questa  conoscenza. Ed  è  vero  :  cosi  quelli  che  pensano  come  Mill  e  Bain,  non negano  che,  al  di  là  dei  fenomeni,  possa  esservi  qualche cosa  che  sfugge  assolutamente  alla  nostra  conoscenza.  Ma quelli  che  ammettono  che  la  realtà  che  noi  conosciamo, il  fenomeno,  non  é  che  la  semplice  apparenza  d'una  realtà sconosciuta,  invalidano  necessariamente  il  valore  reale  diquesta  conoscenza.  Perché  intatti  essi  trovano  necessaria la  supposizione  di  questa  realtà  sconosciuta  che  serva  di fondamento  ai  fenomeni  ?  Perché,  secondo  loro,  la  realtà fenomenale  é  inintelligibile,  e  ci  mostra  per  questa  sua inintelligibilità  che  essa  non  é  una  vera  realtà,  ma  una semplice  apparenza;  perché  le  idee  ultime  della  scienza  sono contraddittorie,  e  noi  ci  troviamo  di  fronte  a  delle  alter- native d'inconcepibilità  in  ciascuna  delle  concezioni  fon- damentali che  cerchiamo  di  formarci;  perché,  in  una  pa- rola,, la  nostra  non  é  una  conoscenza,  ma  un  simulacro (U  conoscenza  (V.  Spencer  Primi  princ.  e.  2*^  e  :>,  e  Du- Hoys  Reymond  /  limiti  della  filosofìa  naturale  nella  Rev. scienti/:  2^  ser.vol.  7^  10  ott.  1874).  Si  replicherà  tuttavia  che queste  asserzioni  dei  fautori  della  dottrina  dell'Inconosci- bile non  sono  essenziali  alla  dottrina  stessa  ;  che  si  può ammettere  che  lo  spirito  umano  può  formarsi  una  conce- zione perfettamente  chiara  e  coerente  della  realtà  feno- menale, tanto  nelle  sue  parti  quanto  nella  sua  totalità,  e che  anche  in  questo  caso  nondimeno  il  bisogno  di  oltre- passare questa  realtà  sareljbe  legittimo,  perché  una  co- noscenza assoluta  delle  cose  implica  la  conoscenza  dell'es- senza, e  il  fenomeno  non  é  l'essenza  ('non  é  l'essenza,  per- chè la  percezione  sensibile  non  ci  dà  la  realtà  assoluta, ^ cioè  ogg(3ttiva,  e  perché  i  legami  tra  i  fenomeni  non  sono (Ielle  vere  causazioni,  cioè  efficienti,  ma  delle  semplici  uni- formità di  sequenza).  Certamente,  in  quest'ipotesi,  limitare la  conoscenza  non  sarebbe  invalidarla;  se  non  che,  non si  avrebbe,  allora,  alcuna  ragione  di  limito  re  la  conoscenza, perchè  non  si  avrebbe  alcuna  ragione  di  affermare  un'es- senza al  di  là  del  fenomeno.  L'intelli<?enza  umana,  senza dubbio,  non  si  è  mai  appagata  del  fenomeno,  e  ha  sem[ìre cercato  qualche  cosa  al  di  là— è  reftetto  delle  illusioni  na- turali del  nostro  spirito,  che  noi  vedremo  all'opera  nel Saggio  seguente,  e  di  cui  la  dottrina  dell'  Inconoscibile  è una  conseguenza  pressoché  inevitabile,  dojX)  che  la  fallacia di  ogni  pretesa  conoscenza  ultrafenomenale  è  stata  rico- nosciuta —  Ma  gli  stessi  risultati  a  cui  siamo  pervenuti  in ({uesto  Saggio,  dimostrano  l'inanità  di  qualsiasi  aflerma- zione  d'un'esistenza  superiore  ai  fenomeni.  Da  una  parte, infatti,  una  tale  esistenza  non  potrebbe  essere  provata  dal- l'esperienza, perché,  partendo  dai  fenomeni,  l'inferenza  non può  arrivare  che  ad  altri  fenomeni  (1);  ma  dall'altra  parte, (1)  Noi  non  possiamo  concludere  da  un  fatto  o  un  oggetto  un  altro fatto  o  un  altro  oggetto,  se  non  perchè  abbiamo  trovato  nell'espe- rienza passata  una  congiunzione  costante  (di  coesistenza  o  di  se- quenza) tra  la  classe  di  fatti  o  di  oggetti  a  cui  appartiene  il  primo, e  quella  a  cui  appartiene  il  secondo.  Ora  neir  esperienza  ]»assata un  fenomeno  non  può  aver  avuto  una  congiunzione  costante  che con  un  altro  fenomeno.  Dunque  i  fatti  o  gli  oggetti  che  noi  possiamo concludere  dai  fenomeni  non  possono  essere  che  altri  fenomeni. L'argomento  può  am-he  essere  esi>resso  sotto  un'altra  forma  Una cosa  che  è  oggetto  di  prova  e  non  di  conoscenza  immediata,  non può  essere  stabilita  che  per  una  deduzione  (sillogismo)  fondata  sovra un'induzione  antecedente.  Questa  induzione  antecedente  è  una  pro- posizione generale,  che  abbraccia  in  una  stessa  formula  tanto  le cose  dell'esperienza  passata  clie  costituiscono  il  punto  dì  partenza dell'induzione,  (luaiito  le  cose  che  ne  costituiscono  il  punto  d'ar- rivo, tra  le  altre  quella  che  è  l'oggetto  della  deduzione  susseguente. Cosi  la  cosa  dedotta  deve  essere  dello  stesso  genere  che  le  cose che  servono  di  punto  di  [mrtenza  aU'  induzione  antecedente  :  ma queste  non  sono  che  fenomeni  ;  dunque  anche  (|uella  non  può  es- sere che  un  fenomeno. essa  non  potrebbe  nemmeno  essere  conosciuta  d'una  ma- niera intuitiva  0  dedotta  a  priori,  perchè,  come  abbiamo mostrato,  la  realtà,  l'esistenza,  non  può  essere  l'oggetto  di una  conoscenza  a  priori  (1).  Noi  vediamo  dunque  che  mo- strare l'impossibilità  di  ogni  conoscenza  a  priori  sul  reale non  è,  come  avrebbe  potuto  credersi,  mortificare  le  aspi- razioni più  alte  dell'intelligenza,  è,  al  contrario,  giustifi- carle. Perchè,  da  un  canto,  quest'impossibilità  implica  che non  vi  ha  alcuna  ragione  che  ci  forzi  di  oltrepassare  il conoscibile  ;  e  dall'  altro  canto,  che  esista  o  no  un'  altra realtà,  nei  limiti  della  nostra,  cioè  della  fenomenale,  noi dobbiamo  ammettere  che  la  nostra  conoscenza,  quella  che le  facoltà  umane  possono  attingere,  è  completa  ed  assoluta» Nei  fenomeni,  che  sono  le  sole  cose  di  cui  possiamo  affer- mare l'esistenza,  non  vi  è  altro  a  conoscere  che  l'ordine regolare  con  cui  essi  si  presentano,  le  loro  sequenze  co- stanti—e questa  è  la  sola  causalità  che  abbiamo  il  dritto di  ammettere;  ora  noi  possiamo  conoscere  queste  se- quenze e  quest'ordine;  dunque  la  conoscenza  umana  è,  vir- tualmente, illimitata.  Un  empirismo  incompleto,  inconse- guente, rinchiude  in  limiti  stretti  l'intelhgenza;  ma  il  vero empirismo,  l'empirismo  rigoroso,  assoluto,  rovescia  questi limiti,  perchè  non  riconosce  niente  al  di  là  dell'esperienza. (1)  Dicendo  che  un'  esistenza  trascendente  non  può  essere  de- dotta a  priori,  noi  contempliamo  anche,  e  principalmente,  Tipo- tesi  che  questa  esistenza  s'inferisca  dalla  empirica,  ma  per  un'in- ferenza dì  natura  non  induttiva,  cioè  in  virtù  d' una  connessione evidente  per  se  stessa  o  dimostrabile,  che  vi  sia  tra  la  prima  e la  seconda.  Una  tale  connessione  sarebbe  una  conoscenza  a  priori;: e,  siccome  questa  conoscenza  avrebbe  per  oggetto  r  esistenza,  e non  dei  rapporti  comparativi,  cosi  la  sua  impossibilità  è  una  con- seguenza necessaria  dei  risultati  a  cui  siamo  pervenuti  sui  limiti €  l'oggetto  della  conoscenza  a  priori. pag. pag. pag. pag. pag. pàg. pag. pag. pag. pag.pag.pag. pag. pag. pag. 15  1. 25  1. 2t)  1. 27  1. 2y  1. a2  ]. ]. 43  i. 80  1. 81  1. 82  1. CAP.    I- Z>f  anima  1.  8.»  c.  VII,  3:  5; dalle  realtà noi  obbiettiamo non  si  può  concepire una  0  più  note è  mentale pan. 9-' 33 21 1 25e26Cocke m 20 21 pen. 21 98  1.  ult. lOi  1.    1^ 123  1.     IH 125  1.    U J.  pen. 140  1.    27 t.  4.,  e.  8{V.  1.  4.  e.  1,  3) più  stesso y.nche  esteso, Ciò  conviene CAR.     II. fenmenoo di  primitivo  d'irreduttibile sostanze  :  dell'esperienza (l)  ile  la  continuità pervezioni  successive senza  siserva pag.  163  1.    1(5      agnoticismo GAP.   III. GAP.    IV, .  192  1.  6 pag.  196  1.  33 pag.  201  1.  8 pag.  210  1.  13 pag.  'iiód  1.  21 pag.  '^ò\)  1.  Jl pag.  ii74  1.  13 che  risulla è  non  involti;  ancora tutte  altre (v.  in  seguito  i^  20-20) l'unita  si.^tematica 11  sillogismo  :  è  fondato iucorrenza GAP.    V. pag.  293  1.  26-27  le  leggi  dell'intendimento pag.  32'>  1. pag.  339  i. l. pag.  341  1. .  382  1. pag.  395  1. pag.  411  1. pag.  456  1.   J. p 1. pag.  515  1. pag.  524  1. pag.  5:i9  1. 7 7 12 12 21 pen. il 11 9 dall'intuizione  empirica non  può,  spiegarsi iStor.  del  materiale ipotesi  metafisica  si  propone CAP.    VI. in  circostanza  date che  essi  vi  corrispondano sicché  esse GAP.   vii- circostanza è  t'ondato ditfeuza GAP.    IX. 31  Benché 32-33  estensione  figura, 32  in  favore) CORRIG De  anima  1.  3.,  C.  VII,  Z,  5; delle  realtà noi  obbiettiviamo si  può  percepire una  0  più  altre  note mortale Locke 1.  4.,  e.  8 —  V.  1.  4.,  e.  1.,  3  —) più  spesso anche  esteso. Ciò  avviene di  primitivo  e  d'irriduttibile sostanze  dell'esperienza U)  Che  la  continuità percezioni  successive senza  riserva agnosticismo che  risulta e  non  involte  ancora tutte  le  altre (V.  in  seguito  §  26-23) l'uuità  sistematica 11  sillogismo  è  fondato incoerenza i  concetti  puri  e  le  funzioni dell'intuizione  empirica può  spiegarsi »Stor.  del  material. in  circostanze  date che  esse  vi  corrispondano sinché  esse circonferenza fondata differenza "  Benché estensione,  figura, in  favore Sono  stati  omessi  molti  altri  errori,  che  il  lettore  aorà  notato e  corretto  facilmente  da  se  stesso. /i INDICE Gap.  I. Gap.  II. Gap.  III. Gap.  IV. Gap.  V. .  VI. .  VII. Gap.  Vili. Gap.  IX. Errata  - L'ipotesi  dei  concetti pag.    3 Glassazione  dei  giudizi pag.  93 Giudizi  a  priori  e  giudìzi  a  posteriori, Dottrina  analitica  dei  giudizi  a  priori  Dottrina  di  Kant  sui  giudizii  sintetici  a  priori  pag.  287 Esame  delle  proposizioni  matematiche  e  di  al- tre classi  meno  importanti  di  proposizioni a  priori pag.  347 Dottrina  d<-l  filosofi  empiristi  sulle  verità  ne- cessarie   pag.  437 Fondamento psicologico  della  necessità  e  aprio- rità dei  giudizi  sulla  somiglianza.  L' inconcepibilità  della  negativa  e  il  postulato universale pag.  483 GORRIGE pag.  570 Scuola  Tipografica  del  Boccone  det  Povero --PALERMO. i II /J s-:.  Y.   0032146515 à '-"X w s X/  f->>' *.  I '%'  -:<'>.— .  ""i«im   *" F n,w,357 •,1  •  J*»rti?- iW VOLUME  2  pt 1 ^'  -^-J :<--->>- ;.>^ ffe   TiSivl-4-. ^'.r  f ^  ."^>^ m m* \\   - ;\'-.'-l ut  the  riti»  xit  %\ixv  ^0vh 4   1  n  Vi  ^'ì^ ©tttctt  itttcnttituoit'sltr  -♦- il f :l i Pi \  SOLLA  KOeiA  OELLA  CONOSCENZA FILOSOFIA  IIELLI  MmmA T-^^'^^l^ ir-»l^l        III    jf^  ^~^n«^^ll'^|IIIMI«' PALERMO Remo  Sandron  — Il,nI I LA  CAUSA  EFFICIENTE Tomo  Peimo O CD O 3SC65 CAPO  I (\vrsE  K3i]Min(^iii:  i:  c^vrsi:  :Mi:TAi::MPP.n('iii v^   1.  <  Fi,u,nii;nii(>('i   mi   lunno  clic  {jn'iidc  un    !<al('i(l<»- sc(>})i()  pei-  un  tcloscopio:  c^Ii  credi'  di  scmh'ui'It  ;ii  di  fuori e  coiisjuTa  a  coii- di  lui  d(\i!,ii  <>,i;,\L'(*tli  inlcrcssantissiuii teii)[)laili  tutta  la  sua  attcn/ioiu'.  Su})i)(>niaiu<)  clic  ci;li sia  rincliiuso  in  un  locale  stretto.  Da  un  Iato  ci»Ii  lia una  piccola  tiucstra  clic  uli  api'c  sul  di  tìioii  una  prosjx't- tiva  contusa  e  limitata  :  da  un  altro  lato  si  trova  il  tubo col  (piale  (\i;ii  s'imina.u'ina  vedere  in  lontananza,  e  (piesto tubo  è  solidamente  incastiato  ne!  muro.  K.^li  j)i'o\a  uii piacere  i>ai'ticolare  a  <;'uardai'e  cosi  fuori  della  sua  camera. Questo  2)unto  di  vista  l'attira  più  clic  la  ])iccola  linestra; (\i;li  si  sforza  senza  eessa  di  com])letare,  ])er  rpiesta  via, la  sua  conosc(Miza  d'una  lontananza  meravigliosa.  Tale  è il  metalisico,  clic  sd(\i;iia  la  stretta  finestra  deires])erien- za,  e  si  lascia  illudere  dal  kaleidosco])io  dove  si  svolge  il mondo  delle  idee  (nel  senso  kantiano).  Ma  (piamlo  ei:,li coinpi'cude  il  suo  errore,  (piando  indovina  1'  essenza del  suo  kaleidosco])io,  (pu'sto  stì'Uìiiento  non  icsta  meno \wv  lui,  mal,i;ra(lo  l'eccesso  della  sua  delusione  .   un  o<;- i I, ^•{•tto  (li  \i\';i  cniiositn.  K^uli  non  si  <!oinaiì<lji  più  :  cìie sono  .  clic  sii;]iilican()  le  mciaviuliosc  iininauini  clic  io Aedo  bene  là  lontano?  ma:  qua!  e  1' oii;ani/zazione  ùel tulx)  cìic  le  produce  ?  l*oti-el>be  <Iarsi  ailuìnjue  clic  vi si  trovasse  nna  siHucntc  di  con<»sccnza  torse  cosi  ore/iosa clic  lo  sarel)i)e  rosserva/ione  per  la  piccola  linestia  >  (1). (^^iieste  parole  deirrnitore  della  S7or/f/  </<"/  ììnticrìftiì^hio in<licano  snll'u-ienteniente  1*  aru'ojneiJto  di  onesto  Sau'i^io. Io  mi  pn>ponu<»  dii  jicercare.  «jnantnìHpu'  in  nn'altra  \  ia clic  qnel'a  se^nita  da  Kant  (alla  cni  «lialtHtica  ti'ascen- dentale  allnd»  "i  LaiiLiC  nel  Inouo  citato),  il  processo  di t'oriìia/ione,    il   meccanismo  .    di    ciò    clic  <pirsto    iilosoto •li 1 1  a 1^/ nm rcìtza   ìi'^ì'sccik l'I della    nostra   ragione Ciò  che  io  cei'co  è,  in  altri  termini  .  i'  origine  e  lo  svi- hi})[)o  dei  coijcetti  melalisici  .  vale  a  dire  come  nasce pìesta  tendenza  clic  ci  s()ini;e,  d'nna  mani(n*a  qnasi  ir- resistibile .  a<l  oltre[)assare  il  momlo  delT  es])i*rienza  .  a nn  al  di  là  dei  fenomeni  e  dei  ra})p<nti  costanti con  cui  (jnesti  ci  \'enu<nio  picsentati,  e  come  ne  nascono, alla  loro  xolta,  le  varie  l'orme  deteinnnate  sotto  cni  ci a[>paiisce  qnest'al  di  là  dei  ienonieni.  che  è  ro«i,\L»"etto  <li questa  tendenza  iiì.uan natrice  dello  s[)irito  nmano.  Fra il  modo  in  cni  io  tratlerò  la  ipn'stione  e  il  modo  in  cni la  tratta  Kanl  nella  sna  dialettica  trascendentale,  vi lìa  sovratutto    nna    ditterenza    di    metodo  :    è    (piella    tra 1 i'utpinsufo e   il    raziinHiìisìifo.    Kant    vede    nei    concetti fondamentali  della  metalisica  delle  idee  piirc  o  a  priori, e  li  drdiu(  più  o  meiH)  artiticiosaimnite  dalla  semplice costitn/ione  d<!ia  nostra  ra,u,ione  :  secondo  me  .  con  le leii.ui  dello  spirito,  cioè  con  ({nelle  deirassociaziom-  delle idee,  cooperano  alla  ]n(Mlnzioiìe  di  (pu'sti  c<mcetti  le  im- p](<<i(>ni  del  mondo  nh1»ietti\'o,  si<*cliè  essi  sono,  come tntti  .uìi  altii.  nna  elal»orazione  cIm'  il  nostro  spirito  fa  dei (1)   L;ni.uc  Storia  (fel  itiatcrutlismo.   yìA.    II.   cjq».   T <«> dati  dell'  espeiienza.    Tuttavia  .    siccome    \v   im])i-essioni obbiettive  da  cui  deiivano  (pU'sti  concetti  sono    comuni u ecessaiiamente  ad  oiini uonn).  e  non  si  ])nò  noìi  a\'erl( se  si  i^narda  il  nn)inlo  dal  ]ninto  di  vista  iri  cni  1*  nomo è  collocato  .  noi  jjossiamo  attribnire  la  loi'o  origine  nni- canHMite  al  fattore  siilihicffiro.  e  considerarli  come  dei  ])i'o- dotti  inevitabili,  fatali.  «Iella  nostra  organizzazione  intel- lettnale. Non  solo  i  concetti  fondamentali  della  metalisica  sono j)ro<lotti  necessaii  det»  c'ostitnzionc  del  nosti'o  s])i- .  lìia  vi  Ila  anche  nna  <*ei'ta  costanza  nelle  foinie  di- Ncrse  che  essi  prendono  nel  loi'o  s\ilnppo.  La  st<H-ia  della metalisica  non  semina  presentai'ci  al  primo  colpo  «Tocchio che  nn.a  scn'ie  di  so^ni  e  di  pai'adossi  arbitrala,  jportcnfa ci  ììiìracHÌd  philosopÌHn'Uììf  soìunia ufiiiiH  :  o.  come  dice  lìa- cinie.  nna  snccessi<nie  (ì'idipJa  thcdiri.  i  sistemi  di  lilosotia t\ssendo  «come  altrettante  ])rodnzioni  teatrali,  che  i  di- versi tilosoli   hanno  messo  jdla   Ince,  e  s<nio  venuti  a  rap- ])res<Mìtare  ciascuno  alla  sna  xoita  .  ])rodnzioni  che  pre- sentano ai  nostri  sii.nardi  altrettanti  mondi  immai;inari, e  Neramente  fatti  [)er  la  scena  />.  TiittaNia  noi  non  tar- diamo ad  accorgerci   che   \i   ha   in   tutte  le  e])oche.  nella stona  «Iella  metalisica  .  nn  ceito  numero  di  concezioni determinate,  o  almeno  di  tembnize  o  di  tipi,  di  cni  i  di- versi sistemi   non  sono  che  delle  nnxliticazioni  particolari V    ( lell e   combinazioni  :   sembra   i he  lo  spirito  nmano  nella ricerca  tilosoiica  non  abbia  che  il  potere  di  sceuiiere.  di <'o,mbiiiare.  di  esei».uire  delle  variazioni  sovra  (hiti  temi,  ma che  nna  leii.<;(%  sn])eriore  a  (pialnmpie  arbitrio  imh'\  idnale, lo  ricondnca  <'ontinnainente  a  nn  ninnerò  limitato  di  so- luzioni, che.  p(  r  il  foinh),  sono  sempre  le  stesse.  «  L*in- vestiuazione  .  dice  uno  scrittore  inulese  (1)  rassomiuiia alla    corsa    d'un  cane  da    caccia:  (\uli  si   muove  per  suo (1)  Tuckcr.   citMto  «hi    .Maialst'y  ncHu    Flsiolofi'in  dvllo  s/tiììfo. 1 })i'<>|>i-io  shiiicio  :  ma  la  pt'sta  cli'ci»]!  sciiiio,  e  ])vv  con- sc.mu'iixa,  il  caniniiiio  eli"  c.uli  ])('rc()n'(',  iioii  sono  stati ti-acciati  (la  lui.  »  1/  iiivciizioiic  nu'tatisica  r  così  circo scritta  tataliiu'iitc  dentro  liniiti  certi  dalla  natura  stessa e  dalle  disposi/ioni  intiiìie  della  nostra  intelli.i;('n/a  :  è nella  struttura  dello  spirito  umano  (du'  sono  se;;nate  le tracce  ])rescritte  anticipatamente  allo  slancio  del  meta fisico,  e  (Toetlie  ha  detto  una  ]n-otonda  verità,  (piando Ila  para.uonato  il  metalisico  a  un  animale,  cui  uno svilito    maliiino    costringe    ad  ^a^uirarsi    in    un    cerchio fatale. Il  meto(h)  che  noi  cercheremo  di  seiiuire  nella  no- stra ìicerca  consistei'à  essenzialmente  in  una  i^'enera- li//azione  ])ro.uì"essiva.  Noi  i'idurr«'nio  tutti  i  concetti nu'talisici  che  ci  ])resenta  la  stoiia  a  un  certo  numero di  toinie  o  tipi  costanti  e  .^emM-ali,  e  ([ueste  ad  altre pili  ^eneiali  ancora  :  ])oi  mostrerinno  couìc  (pieste  t'ornu' o  ti])i  generali  di  metahsica  sono  dei^li  sviluppi  o  delle api)lieazioni  ditterenti  di  (vrti  coni'etti  fondamentali  co- muni ad  o,uni  metatisica  o  almeno  alla  ])iii  parte  dei  si- stenn  metatìsici  ;  intine  dedurremo  (piesti  concetti  fon- damentali da  una  t(Mi(h'nza  naturale  e  pressoch('  irresi- stibile della  nostra  intelliii'eiiza,  dimostrata  dai  fatti  ])iii ovvii  e  spiei^ahile  facilmente  per  le  IviXìXi  conosciute  dello spirito.  (,>iiesti  concetti  fondamentali  comuni  ai  diversi sistemi  nu'tatìsici  e  la  tendenza  sp(uitanea  della  nostra iiitelliucnza  (hi  cui  essi  derivano,  i)oss()no  considerarsi come  la  ìHciafixicfi  indurale  dello  s[)ii"ito  umano,  di  cui la  metatisica  dei  tilosoti  ('  uno  svilup])o  in  uno  o  in  un altro  senso  determinato. L '1 i    ricerca    che    noi    ci   pro[>oniamo    na    ])er   noi    un h doi)i>io  intei'esse.  L'uno  al  juinto  di  vista  della  psicolo- <^ia  e  della  storia  del  pensiero  umano.  E  iiicontestahile infatti  che  la  metatisica  sartddte  sempre  un  fatto  (runa im])ortanza  di  ])riìno  ordine,  (piando    anche  non  si  coii- r)      — si(h*rasse  (come  nella  teoria  dei  tre  stati  di  A.  Conmte) come  una  fase  transitoria  dello  svilu}>])o  dello  spi- rito umano.  Oi'a  cpiest' importanza  aumenta,  se  si  am- mette, come  noi  crediamo,  ch'essa  ('  un  fenonu'uo  per- manente del  nostro  sj)irito,  il  ])i'0(lotto  inevitabile  di  una tendenza  naturale,  cheta  ])arte  della  costituzione  stessa della  nostra  intelli,^enza.  Ma  la  nostra  ricerca  ha  anche e  sovratutto  un'interesse  teoiico,  al  juinto  di  vista  «Iella teoria  della  conoscenza.  Se  si  mostrerà  che  i  concetti metatìsici  sono  il  ])rodott^  di  una  tendenza  ])uramente suhhiettiva,  ('  evidente  che  (pn^sti  concetti  non  ])otraniio ])iii  pretendere  ad  alcun  valore  obbiettivo.  Come  se  si mostrerà  che  una  percezione  dei  sensi  ('  ]>rod()tta  da cause  subbiettive,  da  un'alterazione  deL^ii  or.i;ani  do\  uta a  stiuìoli  imramente  interni,  si  proverà  al  tem^x»  stesso il  carattere  subbiettivo  di  (piesta  ])ercezi(me,  e  saia  \i\- no  di  supporre  d(\uli  o,u<^etti  reali  che  le  corrispondano. La  (piistione  :  che  cosa  ('  la  metatisica  ?  «piale  ('  la  sua essenza  ?-  (•i(')  che  non  (^  che  un'altra  manieia  di  formu- lare l'o^^etto  della  nostra  ricerca  :  (piai  e  la  li-enesi  dei concetti  metafisici  ?il  mec(*anismo  della  loro  [)roduzi(uu'? — ('  una  di  (pielle  (piistioni  che  un  positi visnu»,  che  \  noie avere  coscienza  di  se  stesso,  non  ])uò  nei;li,i;'ere  lU'  con- tentarsi  di   stiorare.    K  impossibile  di   saj)ere    che    cosji   è 1>< >siti\ismo,   se  non  si   sa   che  cosa   ('  metalisica,   e   vice versa  :  sono  due  contiari  senza  medio,  di  cui  l'atfeinia- zione  o  la  negazione  dell'uno  ('^  la  nei^azione  o  1*  aifer- mazione  dell' altio.  Ora  ('  una  rei^ola  della  lo.^ica  che (piando  si  detinisce  un  conc(4to,  si  detinisca  simultanea- mente il  concetto  contrario  (1),  ci(')  che  i  tilo>soti  antichi formulavano  col  ])rincij>io  che  ìiìI((  c  Ìk  sricìfCd  dei  ((tn- frari  —  princi[>io  perfettamente  esatto  se  si  tratta  di  con- trari   senza    medio. —  Conu-    sarebbe    j)ossibile  di    a\cr(^ (1)   V.   hn'uì    Lof/ica.   1.    IV.   e.    I.    [ —  H r  i<lr;i  lU'lhi  liUT  Sdì//  jivcrc  T  i«U*«i  dell'  oscurità,  (Iella retta  senza  ({Uella  della  curva,  della  salute  senza  (|uella della  nijihittiji.  e  viceversa  ì  Cosi  è  impossibile  di  sapere in  che  consiste  il  modo  di  j)ensare  j)ositivo,  senza  sa- liere in  che  consiste  il  modo  di  pensare  nietatisico,  e viceveisa.  Auiiinnuiamo  che  il  ])ositivistn,  il  (luale  non ha  esaminato  suilicientemente  «jucsta  (piistione:  che  co- sa è  la  nietalìsica  ì  in  che  essa  consiste  ?  quale  è  la  sua <;(*nesi  ?  non  solo  uojì  pu<>  avere  una  coscienza  cìiijìra del  sisteuìa  e  d.el  metodo  che  e.L»li  [)rofessa,  ma  è  ditti- cile  che  vi  si  atten.i;a  strettamente  e  coerentemente. lè  la  conseguenza  uv\  pensiero,  conu'  nella  condotta. )er 1 non   \)\U)  seuuiì'e  ciie  dall'  ;i])plicazione  costante  di  ])rin- cipii   n'enerali,  e  non    da    un    concorso   iortuito    <!'  idee    o tlal   loii>  svilujipo  spontaneo,  senza   previsione  e,  per  < così,   senza   inteiliu'enza. lir !  I la  un  preconcetto,  (juasi  universalmente  aiìnnoso. il   quale   non  ci   permetterehhc  di  conj])rendei-e  con  esat- tezza la  portata  e  la  siuniticazione  del  problema  che noi  ci  pro[>oniamo  :  [K'rchè  oltrepassiamo  V  esjK'rienza  ? quale  è  r  orii;iìie  della  metailsica  e  delle  sue  diverse torme  ?  La  dottrina  della  limitazione  necessai'ia  tlella ostra   facoltà   di    conoscere  è    divenuta    da    .^ran    temp<> n un lU( »ii<)    comuni e    ammesso    ^'enc 4        ^ rali Mente    che    noi non  possiamo  conoscei-e  Tessenza  o  la  natura  intima  di alcuna  cosa:  che  le  vere  cause  o  il  perchè  di  oi^ni tatto    st'u.u.uono   e    st*ui»i;i ranno    sempii'    alla    nòstra  c<mi- •1 Cile    CIO     che     nelle     cose    ( II o  scon(»sciuto  e   nicono- prensione  :  in  una  |)arola «•onoscihile  riposa  M)vra  un  tond scibile.  A  questo  punto  di  vista  noii  vi  sarebl>e  niente di  più  semplice  che  la  soluzione  del  ])roblcma  che  noi ci  pr(q»oniamo:  non  sembra  intatti  naturale  che  lo  spi- rito umano,  prima  che  l'esperienza  dei  proprii  insuccessi «ili  facesse  actprisrare  la  coscienza  dei  limiti  iiu'vitabili di'lla   sua   conoscenza,   si  sia  accanito  alla   ricerca  di  qiie- /   — ste  essenze  e  di  ({ueste  ca.use  .misteriose  delle  cose  .  da cui  dipendono  i  lenomeni  e  ixVi  riletti  che  V  esperienza ^li  rivela  ?  Se  non  che  la  supposizione  <Ii  <jueste  essenze e  di  (jueste  cause  sconosciute  dei   lenomeni,  inaccessibili dia  nostra   esperienza,   non  è  essa  ste sa  che  un  prodotro lott< della  tendenza   metalisica   del   nostro  si>irit(K  e  così,  lunu'ì che  (piesta  su[)[>osiziom'  p(»ss i  dare  una  soluzione  al  nostro problema,  è  al  contrario  c<nnpresrt  in  (|Uesto  problema stesso,  vale  a  dire  la  (juistione  cenciaie  i-ìw  noi  ci  pi'o- poniamo  :    perciìè    oltrepassiamo    V  esjjerienza  !    contiene (piest' altra   come   una    parte:    'perche    suppo-iiamo    delh esstnize  intime  e  aelle  cause  ultnne  niconoscunli  .  cioè inaccessi^Mli  alla  nostra  esperienza  ?  (^Jueste  essenz<'  e queste  cause  inconoscibili,  non  essendo  oi^ucili  di  espe- rienza, non  ci  sembrano  un  risultato  «ìeiresperienza  <'he perchè  le  deduci.nno  <ia  essa  in  \iiTn  delia  tendenza metatisica  del  nosi  ro  spirito,  che  è.  come  abhiam(>  detto, naturale  e  pressoché  irresistibile. La   nu^tatisica.,  \\ì    quanto    ha    per   ou",i;"etto    la    com»- scenza   della   natura  .    voi!i,'e  jn'incipaiimnite  su    due    qui- lu. stioni. latino :i    l )i'in !il l )i';>    ibrmnlai'si    col     vesv)    < lei loeta F Oeiix     {jlli     {>:'!:i!(      )-<'l*ni!!     CO^ÌIOSCC!"!'     '.'.tll-^US L'  uomo    domanda >ei {']\v    o    la    spieLi,azione    dei     le- nomeni che  lo  ciiTonilano:  la  scienza  .uli  apprende  i  rap- porti costanti  iVji  «paesti  (èmuneni.  ma  ciò  non  i^li  dà ancorji  questo  j)erchè  o  questa  s[>ii\iiazione  circoli  do- mandava. L  (pu'sto  perchè   queste  cause  che  la  scienza non  ]>uò  da]-e.  ì'Ììì'  as]>lra  iinzitutto  a  conoscere  !a  meta- fisica :  è  ciò  che  il  j>osi( ivismo,  m-lla  sua  l'orma  pili  or- dinaria,  dichiara  anzitutto  inconoscibile.  Ma.  special- mente nella   tì!<)so!i::   moderna,   vi  ha   un'altra  (piistione elle  ha   [)reso  un  im[K)rtanza  e^unale  a  (pu'iia  de!!«'  caus(,n, —  N ò  !m  (piisti<n)('  del  mondo  cstcrioi-c.  Vi  ìia  .  al  di  fuori d(\u!i  esscii  senzienti,  un  mondo  materiale  indi|>en- <lente  dalle  loio  sensazioni  ?  K  se  vi  lia,  ma  le  pro- prietà sensibili  dei>li  oi;\uetti  materiali  non  sono  elie  re- Ijitive  ai  m>stri  sensi  .  che  e(»sa  sono  questi  o,u„u(*tti  ma- teriali  in  se  stessi,   cioè  indipendentemente  dalle  nostre sensazioni I a   [)iu  i)ai te  d ei   concetti   metatisici  .    il    cui ou^ctto  non  è  la  conoscenza  deH<'  rcrc  cause  <lei  teno- nfeni  .  lianno  quello  della  conoscenza  della  natura  reale deuli  oii^ctti   materiali.  Quando  il    i)ositivismo  oi'dinario dici naia  ( he   1 essi'iiza   ( [eli e    cose    V    mconosci hil( esso non  atlerma  solamente  V  inconoscihilità  delle  rcrc  cause dei  fenomeni,  ma  anche  <juella  della  natina  reale  de.uli Oii'Li'etti  materiali.  (^)ueste  sono  duiujue  le  <lue  sorbenti princi])ali  delle  itlee  del  sovrasensihile  —  che  si  ])i-etenda. conoscerlo  o  se  ne  altermi  1"  ass<iluta  inconoscihilità  —  : la  ricerca  del  rcnt  perchè,  delle  rcrc  cause  <lei  leno- nieni,  concepite  come  distinte  dalle  sem[)lici  condizioni o  antecedenti  costanti:  e  quella  di'lla  natura  reale  deuli o^U",U(*tii  materiali,  concepita  come  distinta  (hilie  pro[)rietà che  manifestano  ai  nostri  sensi,  t^fuesto  Sa,u.ui<>.  pt'i'  r<»n- se.uuenza.  a\rà  due  pjirti,  neìruna  delle  (piali  studieremo l'oriiiine  e  lo  svilunno  dei  «'oncetti  metatisici  relativi  alla (piistione  delle  rcn'  cause,  e  nell*  altra  di  (|uelli  relativi alla  quisiioiie  del  mondo  esteriore,  delle  cftsr  in  s'/'.  A (pU'ste  due  'parli  sarà  necessario  di  a,u".u,iu]i!H"erne  una terza,  che  siudieià  la  metalisica  nelle  scienze  dello  spi- rito :  nella  psicologia,  nelTetica.  nella  iilosotìa  del  <ìritto. (»>uesta  «livisione  non  <Mnrisponde  solamente  alla  divt-r- sità  <ieir  Olivetto  a  cui  si  riferiscono  i  <*oncetti  me- tatisici,  ma  anche  a  «piella  del  i>rocesso  della  loro  [)ro- «luzione.  In.i'atti  la  tendenza  metalisica  <lello  spirito  li- mano, nei  tre  campi  principali  in  cui  essa  si  manifesta, quantunque  sia  al  fondo  unica  e  la  stessa,  assume,  come vedremo,  delle    forme    differenti.    I^a    jnima    jiarte    avrà. i) per  o<^\uetto  la  metalisica  come  ricerca  delle  rcrc  causc^. a  cui,  contormamloci  al  linuua.u.uio  di  molli  filosoti.  noi (biremo  il  nome  di  c((ìisc  cfficicnii, ^^  2.  La  nozione  di  causa,  nel  sÌL>niticat(>  in  cui  (piesta parola  si  pi-ende  nelle  scienze  positixc,  è  stata  lucida- mente (\sposta  nella  Loi;ira  di  St.  Mill.  (I.  ili.  e.  \ ):  in ([uesto  senso,  la  causazione  si  (h^Hnisce:  ìiiì  i'((i/jK>rf()  in- rdriahìlc  dì  scquciìzn.  1  fenomeni  si  succedom»  secomlo  le.u.ui inviolahili:  certi  fatti  sui-cedono  e  succtMhnanno  senijire  a certi  altri  fatti,  l/antecedente  imariabile  è  chiamato  la c(()(sn:  il  consci» uente  invariahile  è  chiamato  V elìcilo:  e  la niversalità  <lella   leuuc  di  causazione  consiste  in  ciò  che u ciascun  consemiente  è  Usuato  di  (piesta  maniera  con  <pial- clie  antecedente  o  (pialche  ii,iUi)ì)o  (T  antecedenti  [)arti- colari.  (jjuaiumpie  sia  il  fatto,  s'esso  ha  comincialo  ad esistere,  è  stato  j, receduto  da  (pialche  fatto,  al  (piale  è invariabilmente  Iellato.  Ksiste  per  ciascun  fenomeno  una nbinazione  di  cose  o  di  fatti,   una    riunione   di   circo- c(n stanze  date,  Dositive  e  ih ative  .   di   cui   1*  a\  \ cihinento è   semi>re    s(\u'uito    dall' avvenimento    del    fenomeno.    La causa  è  la   somma   delie  condizioni.   i)ositive  v    nei;ative, 1 )rese  insieme,   i 1  totale  delle  contingenze  di  o.uiii  natura.,   essendo  realizzate conseuiu*nte   {V  eifelto)  st\uue invarialìiìmente.  (,)uantun(pie,  nel  lin-ua^i;\uio  più  ccnnune, si  scelpi  \)vv  il  solito  (pialcuna  di  (pieste  condizioni  .  di (piesti  antecedenti   dvW  api>arizione   del    fenomeno  .    e   hi ;i  decori   co 1   nome  di  causa,  è  innidimeno   alla    totalità di  (juest(^  condizioni,  il  cui  concorso  ('  il  vero  antece- dente invariabilmente  se^uuito  dal  fenomeno,  che  con- viene con   })ro[ni(^tà   il   nome  di   causa   del   fenomeno. (^)uando  (hdiniamo  la  causa  (runa  cosa:  «d*  antece- dente al  siunito  del  quale  ({Uesta  cosa  accade  invaria- ì>ilinente»  (pieste  espressioni  non  iMpiivali^ono  a:  «  l'ante- eedente  al  st^uuito  del  (piale  (pu-sta  cosa  ('  accaduta  in- variabilmente neiresperienza  ])assata  ».  Perclu-  a  (piesta —  10 n m ultima  tonila  della  dctiuizioiu' l)ir/i<>iu'   ]>ÌH    volte    mossa    roi (che  al  toml()  (,areM)e  applicabile    V  ol>- itro    la    dottrina    di    Iliitìie la   vera  tlottniia  ( Iella   eausa)  elie  a  «pie- sto  conto  la   notte  sar< la   eausa   della   no 1)1)('  la  eausa  del  giorno,  e  il  iiionio rte.    Penile   vi   sia    un    ia]>poito  di    eau- azione  tia  d\w  tenomeni Uisouiia   elle   la   loio  scijuenza sia  a ziona nelle,   nello  stesso  tem})o  eUe  nivana l>il. nieoiK li- Ic.    La   eansa  d/un   fenomeno  pu- }  ( lunciue  essere  < le- tinita  :   T  ant<M-edente  o  la    liunione  ( r  antecedenti  di   cui il   irnomeno    è    w ivariahil mente    e    nic(nnh:ion((nnviiJ( I. fi il con  sriiue  lite 1 OS( urità    della    m)rte    è    invan id)ilmente SI ..aita   dalla   luec  del   -iiuno  .   ma   ijuesta    se(iuenza    non ('  inco'iidizionaìc il  i^ioi-no  se.uuirà  alla  nott<'.  ma  cioaccai ha / tnrciir \   sole  si   levi   all'orizzonte.   Se   i 1   sol e  cessasse  e li,  ciò  ( Ile.   ner  (juanto  sa])piamo,   può  essere   per- t'ettameìite    eompa notte  sa.ieldK'  o  pò tihile    con    le    le.u.ui    <lella    materia condizioni.   (trebheessere  eterna.   La   liunione    ( bill la li li  cui  il   uiorno  è  il  conseguente  invanaoin sono resistenza  <li'l  sole  (o  d*un  cor])o  luminosi )  s imile) la Sì t nazione  < lei   Ìuo*.'<)  della   terra    in   cui    noi    siamo, !>* r  cui  onesto  si   trova   a.iia portata   «Iella   luce  del    sole ()nni  alila  condizione  (  superllua.  e  senza  cpieste   co n di- zioni  il   'jiorno non  avrebbe  luo.^o. Non  ì'  dunnue  la  notte causa   dei   uiorno.   ma   « la   riunioiH'    di    «pieste    com li- zioni  :    percue  e la    riunione  di   <p*^'^^<'  c(mdizioni,  e  non >ììiìlz'nnH(ì('    del la   nott  •,   r  antecedente  invanalule  e    ///co bill giorno. St.   Min  a'4-uiun.!L!:e  ( Ile  Pantecedeiite  che  non  è  inva- na cu le  che  c/>//f//'://>////////c///c,   e ioè  che   non    sarà    se,i;uito dal   consemiente  se    non    a <'ircosranza   esista,   non  e che  un   tatto  si,i  stato  st ral< Ila    condizione    che    una    terza rantece<lente  invariabile.    i>en- niore  seunito  da   un  altro  tatto. ;e  r  esjx'rienza   generale    ci    a])preiu ile    ci 1   esso    j)o trebl )e non   esserne  sem])r<>  seguito,   o  se Tesi jcrieiiza ite ssa   e tale  ch'essa   lascia   un   posto    alla    jM>ssibilità    che    i    casi 1 conosciuti  non  ra]>presentano  torse  esatramente  tutti  i casi  ])ossibiM,  r  antecedente  n///  (jnì  ìururhtbili'  mm  è ]>ri\so  ])er  la  causa;  e  perchè  ?  ])erc]iè  noi  n<ni  siamo  si- curi  che  esso  sia   rantec(Mlente  hìv<ti'ì((hUi\ Il  h\!L>.am(^  tra  la  causa  e  1"  eifetto  non  è  dnn(|ue  . nelle  scienze  ]»ositive.  clic  un  rajijHuto  nnitbiìue  o  iina- l'iabih'  di  successione  :  A  è  la  causa  di  1),  \uol  dire  che H  \  iene  unitbrmemente  o  invarial)ilmente  dorso  di  A. A  è  ]>rima  .  I>  è  (h>])o,  ecco  tutto.  Dopo  di  A  (\sisre  co- stantement'.'  \\  .  (iuantiinque  mm  sia  vero  uiiualmente che  prima  di  i>  esista  costantemente  A  .  ]ierchè  uno stesso  fenomeno  non  è  dovuto  sempre  alle  stesse  cause. Ma  ])oichè  runa  o  .'altra  di  un  ci'rto  numero  definito di  cause  de\'e  esistere  percliè  un  certo  feninueno  \\  esista, noi  possiamo  esprimej-e  la  lei'.ue  di  causalità  di  <|uesta maniera:  Oiini  a\venimento  è  unifornuMnente  semuto  (hi (jualche  alti'o  avvenimento:  o.uni  a^^enimtMlto  è  unifor- memente jnceedulo  dall'  uno  i)  l'allro  di  un  certo  nu- mero dehnito  di  avveidmenti  (t).  Ma  nel  rappoil*;  di causazione  non  vi  ha  a.ltro  che  una  se«juenza  i!i:i:orme tra  (Ine  ti}n  di  tenomeni  o  ^rupju*  di  fenomeni:  il  r*'ìio- imnio  o  urupjJO  di  l'enomeni  antecedente  è  la  ea.usa  .  il fenonnuio  conseu'uente  è  retfetto. vN  ;>.    11   roiiiju'to  più   elevato   della    scienza   consiste  a scoprire  (pieste  nnifoi'inità  invaì'ial)ili  o  lei;i;i  natnradi nella  successione  dei  fenomeni.  Fra  le  h\u".ui  naturali  della scipienza  (hi  fenomeni  sono  le  ])in  generali,  (pielle  a  cui s})esso  viene  limitata  l'applicazione  i\v\  nome  di  ìv<i<f(  dclUt ìt<(fnr<(,  che  si  dicono  propriamente  dei  ledami  causali. Costatare  le  cause  <'  \h'\'  la  scienza  costatare  le  le.uiii  \n\\ ti'enerali  delia  successiime  dei    tenomeni:    essa   non  cerca niente  al  di  là  di  (pieste  uniformità  di  seipienza.  Spiegare un   fatto  ('  per  essa  mostrare  come  esso  si  conlbrma   nella (1 )    V.    iJnni.    1 li \' _IIHIHHI  III  r  F," I H i sua  1)14 >( lazi (»n<*  a< 12  — 1  alcuna  o  a<l  alcune  di  queste  unitoi- uiità  (li  siMpKMiza  o  lc;;;iii  .^cncraìi  della  natuia  :  u  tatto della  caduta  dei  .mavì  è  spiegato,  uiostnnnlo  che  esso  è un  caso  di  questa  le.^^e  t)iù  uciH'iale  <lella  natuia.  secon itano  ^li   ani  verso  uli  altri,  cioè  si  atti- il (lo CUI  1  corpi   ir •  >  r:i  V rauo  recinroraiiiente  con  una   tor/a  che  e  m  raiiioue  i 11- versa   del  ipiadìato  d( Ila  loro  distanza.  Il   nìoviuuMito  dei piani  ti  <•  spiegato  niosti'ando  che  alla  sua  ])roduzioiie  con- ine le.u.ui    distinte    della    natnia  :    la    ic.u.ue  della ttrazione  uìiiversaU  .  e  la   It'uiic  d'inerzia, conono  ( unn  nazione  o  a l! ilonat o  a  se secondo  cui  un  corpo  m  movimento.  ao.>ain stesso.  continnerel>l)i>  a  muoversi  in  linea  retta  con  una prestezza  uniforme.  Alla  ])roduzione  di  ((Uesto  tenomeno concoireiìd;»  delle  cause  distinte,  esso  si  s'pie^a  derermi- namio  le  :<\Li..ui  delle  <-ause  distinte  che  lo  producono:  se una  di  queste  cause,  il  sole  come  esci-citante  un'attra- zione su]  })ia  leta.  a.uisse  sola,  il  ])ianeta  cailrel»l)i'  sul sole:  Si'  l'altra  (ausn.  rim})u]sio:ie  imi)ressa  al  [)ia  leta.con- sidera.to  ct>;ne  un   proiettile,  a.^isse  sola,   il  ]>ianeta  sca])- >( rel>i>e  ner  la  tani;"ente:  ( lalla composizioiu' u:  queste  ( \nv forze  diifcrenti  (j)'r  non  piii'ìare  di  altri  eleaienti  clic nel  fatto  i-endono  la  s[)ieu:iZÌone  pili  complicata)  risulta  il movimento  del  pianeta,  conformemente  alla  le.!4-.i;(*  j^cneraU^ della  composizione  delle   forze. Ma   oerclii'  ^  i  ìia  un'attrazione  reciproca  tra    i  cor^ji, t'orza  elle  è  in  ragione  inversa  del  <juadiato  della con   una distanza  ?  K  percìiè  un  corpo  in  mo\  imento.  abbandonato a  se  stesso.  <-io('  non  sottomessoairaziom'  di  altri  cor})i,  coii- tinuereljlK-  a  luuoversi  in  linea  retta  con  una  [)restezza  uni- forme? La  scienza  non  rispondea  (pu-ste  domande:  tutta\  ia ('  una  tendenza  miturale  dello  spirito  umano  di  rivoliicre oneste  domande.    Fra  la  mutua  situazione  dei Il   se ac sso cor])i  ad  una  distanza  deteninnata.  e  il  mo\  imento  di  at- trazione che  lU'  ('  l'effetto,  il  nostro  spirito  non  vede  al- cuna connessione    ni'('v>is(iri((:   a    priori.    t)iuttosto  che  un 13 movimento  di  (piesta  st)ecÌ4\  (pialsiasi  altro  avvenimento avrehhe  sembrato  u;i.ualmente  ]>otenu'  seguire:  il  non  can-,i;iamento  nello  stnto  dei  cori)i,  a  priori,  sembrerebbe  anzi più  ]>lausibile  else  il  loro  movinumto  di  attiazione.  La j)arola  xple^j^tzìoìiv  ha  dumpu',   nelle  scienze  ])(>sitive.   un siputicato  tutto  ])articoiare  :  nel  senso  più  ordinano  (iella ilelli ])aroia.  xjnci/arc  una  cosa   vuol    dire    tar   compren(ier( 1    di fa ih la ragione  dell'esistenza  di  (piesta  cosa,  rendere  conto  del perch('  la  cosa  sia  necessariamente  così  e  non  altrimenti, e  cosi  .'^picf/firc  un  fenomeno  [>er  le  sue  caus<*  sarchi seii'nare  a  (piesto  fenonunio  delk'  cause  < )(' lis- ti tal natura,  chi il  fatt()  che  un  tale  eifetto  deve  seuuire  da  cause  tali  sem- bri una  cosn  miturale  ed  e\idente.  Ma  al  contrario  la  scienza spie,na  i  fenomeni,  sostituendo,  come  su(»l  dirsi,  al  mistero ciie  essa  sj)ieoa,  un  altro  mistero  che  esso  stesso  resta  ine- st)licato.  Non  (•  semt)licemente  la  le.U'.^e  dell' attrazione  o (pU'Ua  della  continuazione  uniforme  del  movimentoim[)res- so  ad  un  mobile,  che  ha  i>er  noi  un  carattere  misterioso:  (' sotto  (piesto  as[)etto  che  si  [)resentauo  tutti  i  fatti  ultimi che  sono  la  spiei;azione  de.i;li  altri  fatti.  Una  sensazione  si lU'oduce  nel  nostro  s])irito  al  s(\i;uito  (leira{)plicazione  di uno  stimolo  esteriore  a^li  ori^jini  esterni  dei  nostri  sensi: spiegare  il  fatto  sarebbe  per  la  scienza  sco[)rire  tutti  «;rin- termediari  fra  i  due  fenomeni  estremi,  Papplicazione  dello stimolo  esteiiore  e  la  sensazione;  e  mostrare  come  in  (pie- sta serie  di  fenomeni  ciascun  cons(\ji,'uente  v  le.lAato  al  suo autece(h'nte  da  (pialche  uniformità,i»euerale  di  se(pienza o  le«;;L!.e  di  causaziime.  Fra  (pu'ste  uniformità  più  .ucnerali di  se(iuenza,  in  cui  deve  risolversi  il  fatto,  ve  ne  ha  una (die  è  c(Uisiderata  couu'  il  mistero  i)er  eccellenza  :  ('  (piella che  le.ua  Tultimo  antecedente  tisico  col  fatto  |)sichico, cioè  con  la  sensazione.  Come  un  caui>iamento  materiale (verisimilimnite  un  movimento  molecolare)  incerte  cellule della  sostanza  nervosa  produce  una  sensazione  o  un  pen- siero ?  La   i)roduzi(nu'  d(n  f(numieni  ])sichici  da  certi  feuo- Il  - m Ué % lìU'in  hsici,  i'  \ —  ]4 ict'vcrsa  qiu'ìla  di  (-(MtitV'  iioiiu-iii  tisici  ( lai IVuomciii  psicliici,  sniibra  un  fatto  cosi  incoini>rciis]i>iic, ]w  tra  i  (lue  ordini  di  triioiiicni   vi  ìia tante,  ma  non  un   rappoito  di  cau- clic  si  (*  aninusso  ( na   concomitanza  cos u sazio scicn ne.    Non    si    è    rìHettuto   cln-    una    cjuisazione  ] )e la za   non  è    che    una    sc<juenza   costr.nte,    e  ( he se  aiU' ;(M|Ucnze    <*os tanti    tra     i     fenomeni     tìsici    e    i    tenomeni psicliici  si neua   ii   nome  di   causazioni   perc.ie  (lueste  s< <|uenze  ci  s<'m 1- men brano  incoinin-ensihili.  si  ih-ve  ne.i;ailo  (\uua Mn'ch( te  a  tutte  le  s(M|Ucnzi*  costanti  tra  i  tenouK'Ui,  | tutte  ((ueste  sequenze  ri   sembrano.   [)\n  o  meno,   mcom- ])rensibili.   Da   per  tutto  la  spiepizio nohieni  ci  condm-e  i stenosi,  eil  è  a]>punro  in  (juesti  fatti  ultind  a tinalmente  (piesta   spiepizioiK ne  scientilica   dei  fe- jìline  a   certi  fatti  inesplicabili  e  mi- cui  arriva •he  consistono  le   unitor- mità   pili    universali    della    setpienza    tra  i  tenomeni 1 leuami   u'cnei'a li   tra   le  cause  e  uii  etfetti.   Così   la   spie.ua- scientilica   non  s( )( Idisfa   il   bisouno  clic  lia   il  nostro s])iriro  di  una  spieuazione:  i  le.^ami  osservabili  tra  le  causi e  uli  effetti  non  soddisfano  il  desiderio  espresso  (bd  poeta: Fiu'lix  «mi   potiiit   ì'cruin   coiiiiosccrc  cjnissjis li Lun.ui  di  sembrarci  y/cccs'Nv/r/,  questi  !ei»ami  ci  semDra- iio  arbitrari  :  lun.ui  di  sembrarci  evidenti,  ci  sembrano misteriosi;  lunii,i  di  send>rarci  naturali,  ci  sembrano,  per nsai-e  le  es])ressioni  di  Bacone,  strani  ed  inverisinnli  e c(nne  altrettanti  articoli  di   ì'vdv.   Ne    se.i>ue  che,  al   di  là ostatati'   dalla  scieiizr.    speriim'Utale,    lo  spi- e  cause  ( dell rito  si   foìina  la  nozione  di  un  altro  «genere  di  cause:  sono (jiieste  delle  cause tali,  tra  cui  e  i  Uno  ettetti.  se  esse  fos- sero com )sciute.  lo  spirito  vedrebbe  nn  U\uame  necessarie una  ra-i<HM  pei  cui  si  potrebbe  comprendere  perche  un tale  efletto  ne  seiiue  necessariamente  piuttosto  clu'  un altro,  delle  cause  insomma  che  spie.uberebberc»  n>(iììué>ute 15 iL^li  eft'etti  e  non  ne  sar(d)bero  sem})licemente  dei^li  ante- cedenti invariabili,  in  modo  che  il  lepime  tia  la  causa  e il  suo  etfetto  fosse  una  cosa  naturale  ed  evidente  ]>er  se stessa,  e  inni  un  fatto  misterioso  ed  incomprcMisibile,  che noi  amuH'ttiamo  (piasi  mal.^rado  la  nostra  ra.uione  e  come un  articolo  di  i'viU^  rivelato  dalla  es})ei-ienza. vN  4.  È  dopo  Ilume  che  la  distinzione  fra  i  due  ordini di  caus{'  cominciò  ad  ammetteisi  esplicitamente  da  «piasi tutti  i  liìosoti.  [/analisi  dell'idea  di  causazi<me.  clie  la risolve  in  una  se(pienza  invariabile  tra  (bie  fenoineni,  si deve,  come  tutti  sanno,  a  Hume  :  e^li  delinlsce  la  causa: un  oiiut'tto  (cioè  un  fatto)  tabnente  seuuito  <la  un  altro oi>;^etto  (<la  un  altro  fatto),  che  tutti  .uli  o-.iictti  simili  al primo  siano  sc^i^uiti  da  o,u\u(*tti  simili  al  se<'ondo.  (^)uesta detbiizione  è  «juella  delle  cause  em])iriclie.  delle  <-ause  nel senso  scientitico:  ma  Ilume  sui)j)one  inoltre  delle  cause sconosciute  inaccessibili  airesperienza.  i  le.uami  tia  <'ui  e  i loro  ettètti  sarebbe  qualche  cosa  di  più  clu-  un  semplice rapporto  di  sequenza  invariabile.  (^)uesto  le.uamee.  secom o Hun le,  (pia lei \v  cosa  ( rindetinibile  :   uondiTnem»  e*;li  i>li  at- tribnisce  dei  caratteri  che  bastami  a  distiniiuei-e  il  concett<> l; •Ili (h'ile  supposte  causazioni  m  cui  esso  si  trova  (la  ((Ueiio delle  causazioni  che  noi  conosciamo.  Mentre  infatti  in ([ueste  ultime  caiisazi<uii  il  rapi»orto  tra  la  causa  e  Tef- fetto  non  pu<)  (^ssei'e  conosciuto  che  pei'  la  s(>la  esjxnienza, nelle  ])rinìe    invece    noi    conosceremmo    a    priori,    < hdla sem[)lice  contem])lazione  delle  cause,  se  essa  fosse  ])ossi- bile,  .j;li  effetti  che  esse  sarebber()  proinie  a  ])roduire. inoltre,  nu'ntre  le  causazioni  conosciute  s(mo  incompren- sibili e  nnsteiiose,   le  sconosci! lite  invece  sai'cbbero  intel li.uibili  (se  noi  potessimo  conoscerle),  e  servirebbero  a  farci coin]U"eiidere  le  altre.  Sono  soltanto  (pieste  cause  inacces- sibili all'esperienza  che  Ilume  considera  come  cause  vera- mente produttrici  dei  fenomeni,  tra  le  (piali  e  i;ii  efletti  vi 1 la  una  vera  connessione  causa le:  1 e  causi' e  iili   etTetti   del- E  ti 1 'M IH rrspcrii'iizìi  uli  scDilnaiio  invece  (IVììIì  avveniinciiti  «scuci- ti e  staccati  li'li  imi  (la.uii  a]ti*i:cssi  si  sc^unono,  ma  senza  cìic noi  ossi'i'viaino  il  niìninio  Ic<;ainc  tra  di  loro:  noi  li  w- diaiiio.  ])cr  <lii'  c<>sì,  in  coniiinnzionc,  ma  non  niai  in  con- ììcssionc  >.  La  definizione  di  Ilnme  della,  causa  non  c<)n- viene  duìjque  a  (jiU'ste  cause  sconosciute,  di  cui  eiiii  tut- tavia sui)|>one  costantemente  l'esistenza,  ed  esse  formano, ]»er  conseguenza,  una  specie  distinta  dalle  <*ause  (*ono- scinte,  dalle  cause  nel  senso  scientifico,  ])ei'  cui  è  fatta la  sua  detiinzioue. Così  la  [)iù  parte  dei  pensatori  elle  sono  venuti  <lopo di  ìlume  iianu!»  ammessa  la  distinzione  tra  le  due  s])e- cie  di  cause  :  i  iilosojì  di'lla  scuola  scozzese  cliiamavano le  une  cause  //.s/cAc  e  cause  imtd fi^'n-hv  o  cause  cfficictiti le  alti-e.  Tra  le  cause  lisiclw  e  i  loro  effetti  non  vi  ha che  un  iap[)orto  di  s^MpuMiza  invaria))ile:  ma  tra  le  causi' metatisiclie  o  enii'ienti  e  i  loio  effetti  lo  sj)irito  scopre  (o scoj)rirehl>e  se  le  com)sc(^ssi')  un  !(\i;ame  naturale  e  iw- cessario.  1/  o^^ctto  delle  scienze  della  natuia,  dicono (piesti  fìlosoiì,  n  )n  è  di  scoprir/  i  Icfffmn  nccessdrì  o  le cause  ('lìicicnfi  dei  fenomeni,  ma  le  Imo  cause  /isiclic  :  così le  scienze  tisiclie  non  possono  mai  mettere  in  luce  la causa  ì'caic  (efficiente)  di  un  sol  fenomeno  della  natuia, ma  solo  le  le.u'.u'i  che  redolano  (piesti  fenomeni,  per  ([ue- ste  [)arole  di  cause  e  di  effetti  nelle  operazioni  della  na- tura noi  non  intendia.mo  veramente  che  dei  s(\i;ni  e  le cose  annunziate  da  (piesti  sei;ni. A.  Comte,  formulando  nettamente  il  j)ensiero  di (piasi  tutti,i;ii  uomini  di  scienza,  ('  su  ((uesta  distinzio- ne che  si  fon(hi,  })er  separale  le  ricerche  che  sono  scii'ii- tificlie  ed  accessibili  alla  nostra  intelligenza,  e  (jiielle  ('he mm  1<»  sono.  L'uomo  comincia,  secondo  Tointe,  per  voler com[)rendere  le  cause  intime,  il  modo  essenziale  di  pro- duzione dei  feiìomeni  :  (piesta  curiosità  caiatterizza  lo stato  teol(\i»ico  e  h»  stato  metatisico  del  .pensiero  umano. 17 Ma  nello  stato  positivo,  lo  s])irito  innano  rinunzia  infine a  «  (pieste  ricerclie  inaccessihili,  i)er  restrin.^ersi  oramai alle  semplici  le<»<ri  dei  fenomeni,  astrazion  fatta  dalle  lo- ro cause  propriamente  dette.  »  (1)  «Ciascuno  sa  in  eftetf(ì che,  nelle  nostre  spie.nazioni  positive  (cio(''  nelle  sci(Uize d'osservazione)  anche  le  più  perfette,  noi  non  abbiamo affatto  la  pretensione  di  esporre  le  cause  u-eneratrici  dei fenomeni,  ixu'clu'  noi  non  faremmo  niai  allora  che  rin- culare la  diftìcoltà  ;  ma  solo  d'analizzare  con  esattezza le  circostanze  della  loro  ])roduzi(Uie,  e  riattaccaile  le  une alle  altre  per  relazioni  noriìudi  di  successione  e  di  so- nii.^iianza.  »  (2)  A.  Comte  s'interdice  la  i)arola  ('(tìisa, e  non  parla  che  di  le<>i;i  di  successione  :  la  ]>arola  c<///.s7^ senz'altro  si.i»nifica  per  lui  ciò  che  i^ii  scozzesi  chiama- vano ('((use  meta Ji  si  e  he  o  vfficicntL Ma  la  distinzione  fra  le  due  specie  di  cause  si  ti'ova assai  chiaramente  anche  in  molti  filosofi  anteiiori  a  1  lu- me. Locke  credeva  che  la  conoscenza  della  natura  mm potesse  mai  divenire  una  c(Uioscenza  seienfijirtf,  perche' il  nostro  spirito  non  ]>U(^  scoi)rire  tra  i  fatti  alcuna  con- nessione necessaria.  «Quantumpie  le  cose  abbiano  un  le- game costante  e  re<>'olai"e  nel  corso  oìdinario  della  iia- tura,  tuttavia  siccome  (piesto  leiL»ame  non  ])U()  essere  ri- conosciuto nelle  idee  stesse,  clie  non  sembrano  avere alcuna  dipendenza  necessaria,  noi  non  ])ossiaino  attri- buire la  hn-o  coniu'ssi(Hie  ad  altro  che  alla  deternnna- zioiie  arbitraria  d'un  ai^cnte  tutto  sa.i>.uio  che  le  ha  fatte essere  ed  a.uire  così  per  delle  vie  che  (*  assolutamente impossibile  al  nostro  (h'bole  intendimento  di  couipicn- dere.  \'ì  ha  in  alcune  delle  nostre  i(U'e  delle  relazioni  e d(u  le.uaini  che  sono  così  visibilmente  racchiusi  nella natura  (Udle  iiU'e  stesse,  che  noi  non    potremmo    conce- (1)  T.  IV.  Icz.  51. (2)  T.  I,  lez.  1. *> —  18  — 19 1^* I! }J pire  ciri'ssi'  ne  i)(»ssaii<)  ('sscrc  scpìU'ati'  da  (lualsiasi  po- tere. 1^  non  è  die  :»  riguardo  di  queste  idee  elle  noi possiamo  essere  sicuri  d^iua  luauieia  eerta  e  universale. Cosi  ritlen  di  un  trian-olo  rettilineo  porta  neeessaria- niente  con  se  ì\'-;ua.i;iianza  dei  siu)i  an,u<)ìi  a  due  retti, (•  non  potreiinno  eonee])ire  elie  lu  relazione  e  la  connes- sione di  <iueste  due  idee  possa  essere  can«;iata  o  dipen- da <la  un  ]>otere  arbitrario  clie  Vhi\  fatta  così  a  sua  vo- lontà o  ravrel)l>e  potuto  tare  altrimenti.  Ma  la  coesione e  la  continuila  delie  purti  della  materia,  la  maniera  di cui  le  sensazioni  <lei  colori,  dei  suoni,  ecc.,  si  ])roduco- no  in  noi  pei-  impulsione  e  per  movinu'iito.  le  re-^ole  e la  lomunicazione  d<'l  movimento  stesso  .  essendo  delle cose  in  cui  non  potremim)  sco])rire  alcuna  connessione naturale  con  (lualche  idea  clie  abbiamo,  noi  non  ]>ossia- m«»  attribuirle  che  alla   vobmtà  arbitraria  e  al  buon  pia- eiare  <1cl   sa.u.uio  arcliitetto  deiruniverso (piando  noi troviamo  che  delle  cose  a-iscono  re-olarmente,  cosi  lun- o-i  clic  si  estendono  le   nostre  osservazicnii,  noi  possiamo Concludere  cli"essea.i>iscono  in  virtù  (runa  WiX'^v  che  bu'o  è prescritta,  ma  che  pertanto  ci  è  sconosciuta:  nel (piai  caso ancorché  le  cause  a-iscano  i'e,u(»laiiuente  e   .ì;1ì  ettetti   ne seguano  costautenu'iite,  tuttavia  come  noi   non  potremmo sco])rire  per  le  nostre  idee  le  loro  connessioni  e  le  loro  di- pemU'Uze,  noi  mui  possiamo  averne  che  una  conoscenza sperimentale  (la  (luale  mm  è,  secomh)  Locke,  una  ccniosceii- 7AXsvieìifiJìrii).  Da  tutto  ciò  r  tacile  di  vedere  in  (inali  tenebre siamo  immersi,  e  (luanto  la  conoscenza  che  possiamo  avere di  ci<)  che    esiste  ('    imperfetta  e    superticiale...     l   nostri pei'cepisc(nìo  o.iiiii    .uioriio  dinerenti    effetti,  di  cui noi  abbiamo  sin  là   (cioc'  sino    ai    casi    particolari    speri- uuntati)  una   conoscenza  scitxitini  (ma  inni  perfeiin.  v'mw razionale)  :  ma  i)er  le  cause,  la  maniera  e  h\  certezza  della huo  produzione,  noi  (h>bbiamo  risolverci  ad  ionorarle.»  (l) (1)    !SifUUÌ'^  Sftirinl.    >nn..    l.    IV.    e.    IH.    ^N   -'-^  o  21>. Quaii(h>  Locke  parla  di  eause  e  d'  ettetti  tra  cui  non  si pim  scoprire  alcuna  connessione,  e<»li  intende  i)arlai'e  di cause  //n'/c//c,  di  antecedenti  di  se([uenze  invariabili:  in- vece, (luando  dice  che  i  nostri  sensi  perce])iscoiio  diffe- renti ettetti,  ma  non  mai  le  cause  di  (piesti  effetti  .  il senso  della  parola  causa  ('  diverso;  essa  indica  delle  cause efficienti  .  cin('  tra  cui  e  i  loro  effetti,  se  esse  fossero  co- nosciut(%  ])otrehbe  scoprirsi  una  conn(\ssione.  In  Locke noi  vediamo,  conu^  in  llum.e,  lo  scetticismo  sul  rai)}>orto uniforme  fra  le  cause  fmìvlìc  e  i  loro  effetti  coniiinuto con  ro])inione  che  le  cause  ('(ficicnti  sono  inacc(\ssibili  alla nostra  conosctMiza. Hei'kelev    distin,i;ue    i;ià,    coiìic    ]m)Ì    fece    Heìd,    le eause   fisiche  e  le  cause  )iU'f(( fisiche.  Noi   non   vediamo  nei fenomeni  sensibili  alcun  poteì'(^  o  attività:  essi  non  sono la  causa  .u'ii  uni  de^^ii  altri  ;  essi   non  hanno  tra  loro  che dei  rappoi'ti  dì  se^L'iii  a  cose  sii^niticate,   non  di  cause  ad effetti.   (l*riuei}>ii).   Hisoona  distiiii^uere  la  fìsica  e  la  me- tafisica :    (piesta    rimonta    sino  alla    causa   i-eah^,_/'<>;/. v  et lìì'incipiHìu  :  \)vr  <|uella  la  parola  causa  ha  un  senso  dif- ferente. I  fisici,  i   iiKM-canici,  hanno  abbastanza  spie^i^ato le  cose,    (pian(h>   le    hanno    ric(m(h)tte    ai    principii    più sem])liei,    alle    le.U'.^i.    Le    cause    sono  in    (pu\sto    caso  le soru'enti  della  conoscenza,    non  (h'IT  esistenza  :  la    causa d'un   fenomeno  (^  la    rehizione    costante  di    (piesfo  feno- meno ad  un  altro.   La   fisica  non    attin,ue  che  ^ii    effetti apparenti,  le  cause  seconde  ;  ma  le  cause  reali,   le  cause veramente  attive,  fanno  V  og<i:etto  della  nu'tafisica.  Il  fi- sico osserva  le  serie  o  le  successioni  delle  cose  sensibili: considera   le  le,i;'i;"i  secondo  cui  (\sse  sono    legate,   il    loro ordine  :  dà  il   nome  di  causa  a  ciò  clu'  precede,  (Tettetto a  ciò   che    se<;ue.   (I>e  Motu),   La    tìsica  o    la    nuM-canica scopre  il  come  delle  cose  :  il  perchè  deve  essere    doman- dato alla  nu'talisica.   fSiris). In     Malebranche    la    distinzioiu'    tra   la    vera    causa 20 21 e  la  causa  oeca.^ionale  corrispoiide  tn  ideiiteniente  della lìianiera  più  esatta  alla  nostra  distinzione  tra  la  eausa ettieiente  e  Tanteeedente  invariabile.  «Causa  vera,  diee Malebranehe,  è  una  eausa  tra  la  (piale  e  il  suo  effetto lo  spirito  percepisce  un  le,i;anie  //^rcs'svnv'o  »  (1).  Perciò Dio  solo  è  una  vera  causa,  perchè  vi  lia  un  le.uanie necessario  tra  la  sua  volontà  e  1*  esecuzione  di  ([uesta volontà:  ma  i  fenomeni  non  sono  cause,i>'li  uni  de,i;li  altri, perchè  lo  s])irito  non  percepisce  lìiai  fra  loro  un  h'ifume necessario.  L'avvenimento  che  noi  chiauiiamo  causa,  non è  che  Toccasioìie  per  cui  Dio  si  determina  a  ])roduri'e  lo avvenimento  che  noi  chiamiamo  <'i'fètto  :  fra  questi  due avveìiimenti  iiou  \i  lia,  a  parlar  pro[niamenfe,  un  rap- porto causale,  ma  uììa  semi)lice  setpuMiza  invarhibile. TI  sisteimi  (li  Leihnitz  deirarmonia  ])resfabilita  sop- piìiiic,  noli  meno  l'adicnlmenfe  che  (pu'llo  dei  carfesiani delle  cause  occasionali,  o.uni  causazione  effirienfe  tra  i  fe- nomeni. Uno  dei  princi])ii  fondamentali  della  filosofia  di Leibnitz  è  il  principio  della  ra.^ion  sufficiente  o  determi- nante, cioè  «  che  alcun  tatto  non  pof  rebbe  trovarsi  vero  o esistente,  alcuna  enum-iazione  vera,  senza  che  vi  sia  una ragione  suflicienfe  perchè  ci(^  sia  così  e  non  altrimenti  »,  (2) o,  in  altri  termini,  senza  che  vi  sia  «(pialche  cosa  che  possa servire  a  rendere  ra«;i<uu'  a  priori  i)erchè  ci(^  esiste  così piuttosto  che  di  oi^ni  altra  maniera  »  (J^).  Ora  Leil)nitz non  t!o\:i  nelle  modificazioni  (h'ifanima  alcuna  ragion sufficiente  che  [u)ssa  si)it\t;are  i  movimenti  del  corpo  clie ne  sono  le  conseguenze,  né  nei  movimenti  del  corpo  al- cuna iji.uion  suliiciente  che  possa  spiegare  le  modificazioni dell'aniiìia  :  donde  ne  s(\i>ue,  seccnnlo  lui,  che  i  due  or- dini di  fenomeni  non  possono  essere  cause  gii  uni  degli (1)  Nie.  della  cer.,   1.   VJ.  parte  IT,   e.   III. (2)  MoìKidol  :^2. (8)   S(t(/f/i  sffll((  hoìifà  di   Dio  ecc.,   parte   I.    i4. Il; altri,  perchè  una  vera  causa  deve  contenere  una  ragion  suf- ficiente dell'effetto.  Di  più  come  T^nbnitz  nega  un'azione reale  deiranima  sul  corpo  e  del  corpo  sull'anima,  perchè non  vede  alcuna  connessione  intelligibile  tra  le  cause  men- tali e  gli  effetti  tisici  o  tra  le  cause  tìsiche  e  gli  effetti mentali,  così  ancora  egli  nega  un'azione  reah^  dei  corpi gli  uni  sugli  altri,  perchè  neppure  tra  le  cause  e  gli  ef- fetti egualiiH-nte  tisici  vede  una  connessi(Mie  intelligibile, cioè  tale  che  lo  spirito  possa  scoprire  nella  causa  (pialche cosa  che  ])ossa  s])iegare  l'efilètto.  che  possa  servire  a  ren- dere  ragione  a  ])riori  perchè  (pu^sto  eflètto  ne  segua  piut- tosto che  (pialche  altro.  Ma  per  ispiegare  (luest'apparenza dell'azione  reciproca  fra  gli  esseri,  T.eibnitz  non  trova  soddi- sfac(mte  il  sistema  delle  cause  occasionali,  il  princi])io  della rauion  suftìciente  esigemh),  secondo  lui.  che  le  affezioni delle  cose  possano  derivarsi  dalla  natura  delle  cose  stesse  (1), e  per  conseguenza  che  i  fenomeni  siano  spiegabili  i)er  la natura  e  le  tVnze  che  Dio  ha  dato  alle  creature  (2).  Leibnitz (1)  .{ìu)n((dr.  ciìca  ((sscrt.  thcot'.   Stdhl.    II. (2)  Il  sistema  delle  cause  occasicuiali,  se  esso  fosse  vero, sarebbe,  dice  Leibnitz,  un  miracolo  perpetuo.  Alcuni  cre- dono che  il  nnracolo  non  sia  che  un'ecccv.ione  alle  regole o  leggi  generali  che  Dio  ha  stablite  aibitrarianiente.  Ma non  tutto  ci(^  che  avvi(Mu^  ])ei'  leggi  generali  si  fa  senza miracolo  :  «  se  la  legge  non  è  fondata  in  ragi()ni  .  e  non serve  a  spiegare  l'avvenimento  per  la  natuia  delle  cose, essa  non  j)U(>  essere  eseguita  che  ])er  miracolo  ».  «  Se  Dio avesse  risoluto  di  far  esistere  continuamente  (puilche  av- venimento che  fosse  poco  conforme  con  (piesta  natura, non  ne  avrebbe  fatto  una  legge  (h'ila  natura,  ma  avrebbe risoluto  di  fare  un  miracolo  per])etuo,  e  di  mettervi  sem- pre la  mano  egli  stesso,  per  produrre  ci(^  che  sarchi»  e  al di  so]H'a  delle  forze  (Telia  natura.  Ya\  è  ci()  clic  accadve)>\>e nel  sistema  delle  cause  occasionali,  se  l'anima  e  il  corpo s'accordassero  sempre,  senza  che  la  loro  natura,  e  ci(>  che vi  si  piu)  concepire,  li  portasse  a(T  accordarsi:  cioè  se  l'au- toma del  corno  non   lo  ])ortasse   a   fare  ci(')  che  l'anima. »>»> ri;L;*'tta  dmHjUt'  ripott^si  di  ^Malclnaiic'lic.  peiclir  questa  (li- st ru,u;mMi  uà  1  sia  si  attività  iu\uii  esseri  ereati  :  ma  ei;'li  è  (Vac- vuole,  e  se  il  seguito  iiatui'al»'   delle  ])ereezi<)iii  continue delTaniina    n(ui    la    portasse   a    ]'ap])n\sentarsi  eio  che  si passa  nel  e<)r]M).    Ma    eeeo  un   esen!j)i()  più  facile  clic  ri- scliiarei'à  ancora   nieiiiio  la   diifei'enza  clie  vi   iia  tra   una leiiiic  di   natura  e  una   re<»()la    ucnerale  la  cui  esecuzione l'ichiedereldu'   dei  miracoli    continui.   Se   Dio  tacessi'  una letiue  che  portasse  che  otiiii  coino  IìIkto,  o  che  non  è  im- pedito,  deve  tendere  ad  andai'e  da  se  stesso  circolarmente intorno  a   un  dato   centro,    e    <-iò  jjer    coi»se<iuenza  senza elle  tosse  jjossihile   di  concepire   ]ier  qual  mezzo  e  come la  cosa  si  fai-ebhe;  io  dico  cIk'  questa  !e.u>i"e  non  ])oti-el)l)e essere    eseguita    che  ])er   miracoli    continui,    non  essendo contorme  alla   natura  del  movimento  dei  cori)i,  che  porta che  un  corpo,  mosso  in  linea  curva,  continua  il  suo  mo- vimento nella   retta  tan^icnte,  se  niente  non  l'impedisce. Una  tale  le.u.ue  di  movimento  circolare  non  sarebbe  dun- que naturale,  su]q>osto  che  la  natura  del  c(n-po  tosj;e  tale <|u;d  è  al  ])resente.  Così  noìi  basta,  per  evitare  i  miracoli, elle   Dio  taccia   una  certa   le.u'^e,    s'egli  non  dà   alle  crea- ture una  natuia  cat)jice   d'eseiinire    i    su(»i   ordini»  (^V/r/f// sìdìa   lundà  <ìi    Pio  ecc..  ])arte   I  li,  855,  e  ///s'/>.  f///c  (>///>/V.c. ili'ìV itili,  iìeì  Uh.  (ìvUa  ((nKt^cilhc kìi'ì<><o  ed  Dutenst.  II.  ]).  1. pa.u.  11)1  )(^>U('st(M'h('L('ibnitz(li(-('sulh\(lifterenzatia  una  le,!»- «•e  della  natura  e  un  miracolo  perpetuo,  ho  voluto ri])ortarlo perchè  mi  sembra  assai  pi()[)i'io  a  far  comiu-endere  la  dif- ferenza   tra    una    causazione   efficiente  e  una  semì)licese- <pienza   uniforme, o  a  dir  me,ulio,  tra  il  princii>io  dei  me- tatisici  della   causalità  efHciente  e  la  (h>ttrina  deiLili  emi)i- risti  ])er  cui  una  causa.zione  non  è  altni  cosa  che  una  se- quenza   unifornu'.    1/  opinione,  cond)a1tiìta    da   Leibnitz, secondo  <aii  un  fatto.  ])erchè  sia  naturale  e  non  miracoloso, basta  che  sia  confoime  alle   regole   o   leggi   generali  che Dio  ha   stabilito  arbitiai'iamente.  è  la  prima  es]>r(»ssione della   dottrina  empirista  sulla  causalità  :   basta  di  estrarla dal  suo  in\iluppo  teologico,  per  (ttenere  la  dottrina  stessa di   Min.    Invec(%    (jUjindo    I.eibnitz   esige    che,   perchè   un fatto  non  sia   miracoloso,  debba  essei-vi  tia   le  condizioni del   fatto  e  il  fatto  stesso,  non  semì>iicemente  un  rap])orto costante,  ma  anche  una  conn(\ssione  intelligibile,  razionale, egli  non  fa  altra  cosa  che    enuiu;iare    il    principio    della causalità  etHciente. —  23 cordo  con  lui  nel  neii.are  ogni  reale  azione  recii)roca  tra  gli esseri;  così  non  gii  resta  altra  ipoti^sichedi  lasciare  alle  cose un'attività   s(Mn])licemente  interna,  immaiuMite.  Ogni  so- stanza semplice  ha  dumpu'  in  se  stessa  la  causa  e  la  ragione dei  ])ropri  cangianuMiti  :  essa  è  un  che  d'animato,  o,  ])ifi  pro- ])riamente,  un'anima;  ma  Dio  ha  costituito  le  sostanze  in maniera   tah*   che,  ciascuna    s\  ilnj)pandosi  indipendente- mente dalle  altre,  e  tirando  unicanuMite  dal  pi'(>pi*io  fondo tutto  ciò  che  le  accade,   vi   ha   nondimeno  tra    le  modifi- cazioni delle  diverse  sostanze  una  corrispondenza  o  un'ar- monia, che  ])roduce  Fappai'enza.  ma  soltnil')  l'apparenza, di   inrazione  reci])roca   tra   le  cose.    \'i  hanno  dinujiie  an- che ])ei'  Leibnitz   due  spcM-ie  di  causazi<>ni  :   le  causazioni Jisic/tc    (ciò    che    noi    chiamiamo   azione    di    una    cosa   su di   uìì'altra).  in  cui  non   vi   ha   tra  la  causa  <*  l'etfetto  una connessione  pei'    s(*    stessn    intelligibile,    e  rìiv   non   s<uio che  sem])iici   uniformiti  di  seipienzi:  e  le  causazioni  mc- f(rfì>^Ì(It('  o  effìch'ììiì.  poste  al   di   là  dei   tènonu'ni,  in    Di*»  e nelle  monadi,    (ili   stat^i  successivi  della   monade  «lerivano intelligibilnuMite   dagli   stati  antecedeiti.  hanno  in  (pu'sti la   ragion  sutHciente  che   li  s{»iega,  che   basta  a  determi- nare j)erchè  essi  devono  <'sistere  così  e  non  altrimenti  :  in- quanto a   Dio,  quantunque  la  su  i  azioni'  creitrice  sia  per m>i   incomprensibile,   vi  ha   nondisueno  tra   (piestn   Causa sujU'eììia   e  i   siuu  effetti   una   connessione  tabnente   intel- ligibile,  che  è  da   Essa   che   (piello  clic   avesse   un'intelli- genza  sufHciente,   df'duirebbe  a   prioi'i   tutti   i   t'ciMMueni. Ma  non  lusoiiU'i  credere  che  In  distinzione  tra  i  sem- plici  antecedenti  a  cui  i  fenom;^ni  seguono  costantemente e  le  cause  efticienti  dei  fenomeni  a])p'iitenga  solt:int(>  ai tilosoli  che  abbiamo  ricordato  e  ad  alcuni  altri.  <,)uesta distinzione  è  stata  sempre  presente  allo  spiiito  di  ogni metatìsico,  ch'egli  l'abbia  o  no  formulata  d'una  maniera es])licita  e  netta  :  se  il  metafisico  cerca  le  cause  delle cose  al   di   là  deir<'sperienza  e  dei  femumnii,    ciò  è   [)er- —  24  — 25  — r:w i']w  W  seiiiKMize  lìiiitonni,  vhv  si  osservano   tra    i    teiio- lìHMìi,  non  bastane»  a  soddisfnrc  il   biso-no   di   causalità du'  lia   il  nostro  spirito.  Al  di  là  (lei  fenomeni  il  nietatisu-o rerea  delle  eanse,    el«e    non    siano    seuìplieeniente    degli mìteeedenti  invariabili,   ma  elie  spie-liino  la  natura  del- l' HV-tK».   o  ronteno-ano  la   laonni   suilieiente    perche    mi tale   effetto  ne  se-ua   piuttosto  ebe  un   altro:   disile  eause tra  eui  e  -li  ettetti   vi   sia   un   le-ame    naturale    e    neees- s,;nio     una*  nnnH'ssinnc.   tìmiu    dire  Illune,  e  ncm  una  sem- ^,]\,,.  rn,Hiinn:ioH<'.  Tra  i  tìlosoti  -ivei,  la  distinzione  tra  le due  specie  <li  cause  ('  indicata  diiaramente  in  un  luo-o  di Plntniìc.  \r1  y\\  d^'lla  Repubblica  Platone  imma-ina  de-li lumiini   imp.i.i;i<Hnin   in   una  caverna,  nella  i\m\\i'  si  dise- o-uano  le  ombre  de-ii  o.u-etti  clic    ì>assano    al    di    tuori  ; lur<ir  otnbre  sono  i  fenomeni,  e  <p^<'^ti  pri-iomen  siamo,\,,;     in    .pianto    mm    abbiniììo    delle    cose    clie    una  cono- .seen/a  empiiira   o  lenomeiiale.    Tutta    la    nostra    scienza iK'lia   i  averna,  cioè  tutta  la  conoscenza  speriim'iitale,  con- siste a   iliseerm  re  ì(-  ombre  clic  passano,  a   ricordarsi   m,,„.,],.  online  ^Hcste  so-liono  precedersi  o  seouiisi  o  ap- pnrire  >:iiiultaneamente.  e  a   divenire  abili   così  a    ì)resa- ojiv  il    futuro   secondo    il    passato    (1).    1    fenomeni    sono delU'  ombre,  delle  apparenze  senza  realtà,  appunto  per- vhi   noi   li    vediamo    se-uirsi    e    accompa-narsi    eostante- mente,   ma   nmi   ììc   vedianu)  il    percbc- ;    ma    nel    imnnlo,MU'   cose   reali   (cioè  delle    bU'c).   di   mi    i  tViKUneiìi  -(Mio K-  ombK,   niente   non   esiste  senza   un   perche;  la  ra-ione vrde  coìììc  .incute  (•(»«•   pi  ()(r(h>no  le   une  (hdle  altre   se-,.ond(>  dei    h'-ami    necessari,    e    la     <Unh'ffirn    v    la     vera MÌen/a  .    perche  scopre  questi   le-ami   necessari  .    mentre 1n    eonoseen/a    ^|Miin.e,,t  ale  non  e  «-he  nunimiiom'.  perche \u,,uest(>  nuMlo,li   (MUioseere  non    vi    ìia    aleuna     ra-u)ne i>   Iei;anu'   necessario   (2). (1)  iv'.  !..  r>p>  i-i\. {•2}  V.   il  cnp.  VII  di  <nu'st(»  Sa-.uio  <)  7  e  seji- I §  5.  Così  i  metatisici  e  i  positivisti  sono  d'accordo  a supporre  un  altro  genere  di  cause,  ditterenti    da    (luelle che  ci  rivela  T  esperienza  :   le  cause   dell' esperienza,   le cause  >'/c//c,  non    sono  clie  gli  antecedenti  di  secpienze invariabili;  fra  (lueste  cause  e  i  loro    effetti    non    vi    ha un  ìtexus,   un  legame  necessario  e  per  se  stesso  evhU'nte, non   vi    ha    niente    nella    natura    della    causa    che    possa spiegare  la  natura  deireftetto.  >bi  (pu'ste  cause  supposte, ehe  "restano  al  dì  là  deiresperieiiza,   le  cause  nwiajisivhe o  rifìcienti,   sono  (pialche  cosa  di  più    che    (U-gli    antece- denti di  secpienze  invariabili  :  tra  (lueste  cause  supposte e  i  loro  effetti  non  vi  ha   una  semplice  congiunzione,  ma mia  connessione,   un  legame  necessario  e    per   se    stesso evidente,  e  una   volta  conosciute  (pieste  cause,   noi  mm conosceremmo  sempliceim'iite  che  un  tale  effetto  ne    se- gue,  ma  ciunprenderemmo  y>crc//c   un  tale  effetto,  ])iut- tosto  che  un  altro,  derc    seguirne.    La    differenza    tra    i metafisici  e  i   positivisti  i  che  i  tarimi  pretendono  di  co- noscere delh'  cause  di   (luesto  genere,    cio('    lueidjisirhc  o efiricnti:  ma  i  secondi  le  dichiarano  inconoscibili,  e  am- mettono che  solo  le  cause  dell'altro  genere,   le  .//x/c//c, cioè  -li  antecedenti   invarialuli.  sono  accessiìnli  alla  no- stra Conoscenza.  Tuttavia  anche  i  positivisti  suppongono, al  di  là  del  genere  di  cause  (die  ci   rivela    1'  esi)erienza, un  genere  differente  di   cause:  noi  non    le    cimoseiamo, ma  '^r  le  ronosce^xiwo.    uoi  percepiremmo  il  Ici/awv  nars- sarìo  tra  cpieste  cause  e  i  hu'o    (>tf(>tti  :    le    secpienze    co- stanti tra   i  fenomeni,  attualmente  misteriose,  verrebbero spiegate:   mentre  noi   mm  conoseiaim>  attualim-nte  se  non come  \   femmieiii    si    seguono,    noi    conosceremmo    alhna perchè  essi   si  segmmo  così:   mentre   noi   non  vediamo  at- tualmente gli  avvenimenti  che    in    nnifiiìHKÌone .    noi    b vedremmo  allora   in   cnniìexsione.   Quamh)  A.   Comte  dice rhe  noi   non   eonosciamo  PcxNcy/c^/  (h'ile  cose,  (-li  intende- dire  lo  stesso    che  <iuaii(h)  egli  dice    che  noi   nmi    eom^- % —  2()  — 27 scialilo  il  nnxlo  cssarzinìe  di  proihcioiiv,  o  \v  ('(Uisc  ijcìh'- nilrici,  (Un  irnoììU'iii  :  Ve>iseìr:(t  (IHle  cose,  i<e  ìtoi  hf  co- uosccssiìiH),  ci  (larcl)l>c  ai>]miito  qiK^sta  pjn'ticobnità.  che è  iicììn  nntnia  delle  cause  tisiclie,  la  (|iiale  sj>in/l(('irhhe il  loro  modo  d'azioiK'  e  i  loi'o  eftetti:  ci  farebbe  couipreii- d(M'e  ])ercliè  le  cose  acuiscono  e  patiscoìio  ììiutuaineiite Ih  1    modo  che   noi   costatiamo   per  res]>erieiiza. Ma    <|ni    si     ])reseiita    iiatiiralmeiite    una    (inistlone  : resperieiiza.   dice  A.  (^)mle,  non  ci  fa  conoscere  clic  <lelle cause   lisl('/((\   de.uli   antecedenti   di   sequenze  iiivariabili  ; non   v]   1ia  caso  in  cui   una    causa    lìividfì^U'n,    una   causa (fotcntfriri',   sia   stara   <>.u-m*tto  di   osservazione.   (1ie    cosa jMoverà  dun(iue  resistenza    di  ({ueste    cause    (fencniirici o  ('lììcìcììiì  :^  die  cos;i    pioverà   che   vi   ha   altro,   nella  na- tuia   de.iili   esseii   ol>'oiettivi,   i'he  delle  sem])]ici    se(pienze invariabili?  che   vi    ha   mi    ì)kuÌ(>  csscnzidlc  dì  produzUnic che  è  <|ualche  cosa   di   pili  di    una   siMiuenza   invariabile  ? in  altri   termini,   che  esiste  nella    !iatura    delh'    cause  ti- siche  U5ia   pa.rticolari{à,   la   «piale,  conosciuta,   ci   spie-he- l'cbbe   i   loro  effetti   e   il   loro   mod(i  (razione,  e  perciò  che esiste  nelle  cose  una  cssacd  che    V  esi^eiienza    non    può fai<-i   conoscere  ?    È  evidente  che  <pu'sta  su})posizione  non ]mò  invocai'c  la   minima   prova.    La    lo«i.ica    non    conosce altra   piova  che  una    deduzioiìe    tirata    da    un'  imluzione antecedente,  cioè  da  una  generalizzazione  deirespeiienza. i  iiitr   le   volte  che   uu   fatto  non   ci    e    conosciuto    imme- diatamente  per  i   sensi   o  per  la  .coscienza,  noi  lo  amniet- liniiK.   hci-  un'infeienza.  e  <piest'intèrenza    è  fondata    sul h'Uame  co<iaiiU'  rìiv   resperieiiza   ha   costatato  tra  «piesto fatto  e  (juaìche  alti'o.   Conoscint:!   immeiliatamcntc   resi- stenza  «li    A.    i!   <|uale  è   ìiìi    tatto  della    nostra   es[)erienza attuale,   noi   ne  inferiamo  l'esistenza  di  H:  <piesto  H  i)ar- tic<>lare  non   è  ancora  c:ì<]uto  sotto  1;i  nosti-a  osservazicaie, iii;i   r  es])erienza   [)assata   ci    ha    mostrato    un    lepime    co- stante  Ila    i   due   tii)i   di    latti    A    e    15.    Noi    ammettiamo nel  caso  attuale  che,  se   A   esiste,    H    (\sisterà    pure  .    in viìtù  di  questa  pi'0])osizioiie  «generale,  che  è  uirinduzioiie della  nostra  esperienza  i)assata  :    Tutte    h'    volte    che    si presenta   A,  esso  è  seguito  o   accoìupa.u'iiato    (hi    B.    La proi)osizione  i»enerale,  in  virtù  della  quale  noi  facciamo un'iìiferenza.  deve  essere  una   generalizzazione  ri«i.(n()sa, di  cui  tanto  i  casi  passati,  dai  «piali  abbiamo  tirato  l'in- duzione,  «pianto  il  caso  attuale,  al  «piale  noi  estendiamo rimluzione.  s<uio  dei  casi  particolari;  i  casi  passati   e   il caso  attuale  devono  essere  «h'ila  stessa    natura  .    peidiè essi  possano  essere  compresi  in  una  stessa  formula  gene- rale. Questo    A    deve    essere    speciticamente    identico    a tutti  .uii   A  deires])erienza   passata:  «piesto  1>  «hve  ess«'re sp«'citi<-amente  identico  a  tutti   i    H    «lelT  esperienza    ])as- sata;  intine  il   ra]>porto  tia  «piesto    A    e    «piesto    1>    deve essere  lo  stesso  «*he  tutti   i   rai>])orti   .i-ià   costatati    \)rv   la es])erienza   tia   il   tipo  di  fenomeni    A   e    il    ti|)o    di    f.'uo- meni    H.   lai   femuneno  del  tipo  A   è  la  causa   (fisica)    di un  fenomeno  del  ti])o  1>:  noi  abbiamo  sperimentati  «pu'sti due  ti])i  di  fenomeni  in  «pu^sto  iai)poi'to  di  «-ausa  e  ìVì'^- feto:  ne  concludiamo  che,  un  certo  A  essendo  dato,  un  certo U  <h^ve  se.uuirne  come  effetto  di   A.   Ma  se  noi  mui  aves- simo osservato  che  H    se<»ue    A    e    ne    è    un    effetto .    su che  potremmo  fondarci  ]>er  ammettere  resistenza  di  I>  ? Noi  ])«)ssiaino  ])ure,  inve«-e  «F  inferire   resistenza   di un  fenomem)  (h'terminato  nella   sua  sijecie  o  nel   su«)  .ue- nere,  inferire  resistenza   di   «pialche    fèn«)nieno  che   lesta indeterminato   nella   sua   natura.    ('«)sì,  (hit«>  il   fenomeno A.   n«)i   possiamo  inferirne  eia-  esso  deve  avere  una  «-ausa, senza  «letcu-minare  «piale  sia  «piasta    causa.    Ma  anche  in ouest«>  «'aso    il    tenomeno    iiiferit«),  la  causa  «li    A.    viene identitìcat«)  ai  f(Mi(Uiieni  deires])«M'ienza  ]»assata.  in    \  iiTÙ di  cui  noi  fa<'ciam«)  rinferenza  :  esso   v    una    causa,    «-ioe un  antec«Ml<'nt«^  invariabile  di  A,  i*«l  «   per  (piest«)  «-arat- tere  i<lentico  alle  cause,  cioè  a.Liii  antece«le:itì  invai  iabili, —  28 —  29  — die  l'espeiieuza  lia  da  per  tutto  costatato  nei  feiioiìieiii. Se  l** (esperienza  passata  non  avesse  costatato  eìte  ogni fenonieno  ha  un  antecedente,  di  cui  esso  è  il  conse.i^uente invariabile,  in  virtù  di  che  cosa  i)otreninu>  noi  aiuniet- tere  V  esistenza  di  (pialclie  tenomeno  cìie  sia  la  causa di  A  ? M.M  (omc  noi  abbiamo  costatato  ])er  resj)erienza  che ogni  h'iioiii!'!)!»  lin  una  causa  Jisicd^  cioè  \\ì\  antecedente 4IÌ  (Ili  esso  e  iì  conseguente  invariabile,  abbiamo  egual- mente costatato  che  ogni  tenomein»  ha  una  cansa  ììuìh- fisi('((,  cioè  un:i  <*;nisa  la  cui  n;itura  può  spiegare  la  na- tura <lcir  ettètto,  una  causa  tra  cui  e  Tettètto  vi  ha  una r(nnir>iÌ(Hi(>  e  un  legame  ttecesi^drio  1^  No.  perchè  noi  non abbiiiìMo  mai  (  onosciuto  una  causa  nictu/isica,  uiui  causa efìcicHtc  o  (i(Hi')'((tri('C  :  ìun\  vi  ha  tèn<mieno  di  cui  noi abbiamo  potuto  costatare  il  legame  con  una  causa  tale; iiou  vi  ha  tenomeno  di  cui  noi  conosciamo  il  ìhoìIo  cs?- sen:i((le  dì  produzione,  le  cause  ejfìcioifì  o  (/ciiendrici. Che  cosa  proverà  dun([ue  l'esistenza   di   tali  cause  f A  ciò  si  risjM>!i(lerà  clu*  se  l'esperienza  non  può  co- statare r  esistenza  di  ([Uesto  .r  che  è  ])osto  al  di  là  del- r  esjHuienza,  essa  ci  fa  conosceic  però  i  linufl  della  no- stra conoscenza  :  dalla  liìniiozionc  del  conoscibile  n(»i coìuli'.dinnio  necessariamente  che  vi  ha  (jualche  c(>sa  che /"  ìiìnif((,  <']ie  esiste  un  Inconoscibile.  Ugni  problema  ri- soluto ci  conduce  intine  a  un  problema  ins<»lubile  ;  una spiegazione  ci  inette  sempre  in  presen/n  deirinesplicato; ì;i  spiegazioni  non  può  andare  airinhnito,  essa  <leve  fer- marsi in  (|ualclie  punti»,  essa  deve  arrivare  a  ((ualche t'urto  nliinio.  e  <juesto  è  necessariamente  inesplicabile. (^uest'arg(»mento.  che  in  una  tbiina  piii  sviluppata  juiò leggersi   in    Sj)encer  (1),  si    trova    brevenuuite    riassunto (1)  Pì'ituì  pì''nH'ipiì  v\  2S. ili  Little  <li  (lucstii  iiìaiiiom  :  Tn  oj^ni  scienza  positiva si  ( arrivato  a  un  tatto,  a  un  fciionuMio,  al  di  là  del (iiialc  non  si  è  potuto  andare. Certaiucntc  la  spicjiazioi»'  "<•"  I"""'  andare  airintinito: spie-are  è  (le<lurre,  e  la  deduzione  suppone  dei  priueipii venerali   da   cui   si   parte.   (,)uesti  priueipii  sono  !e  propo- sizioni   più    ii-enerali    elle    riassumono    T  esperienza  :«  a .piesTi  priueipii  i  l>iù  -enerali  elle  si  rieerl.a  -insfainente il  titolo  <li  Icmil  ''''""   ""'"'"•  ^^'  i"  spie-azione  andasse iiil"inlÌHÌto.  non   vi  sarel)l)ero  dei  priueipii.  non  vi  sanli- bero  leit.ai  della   natura  :   una   spie.uazione  elle  non  si  IVr- iiiasse  in  (|ualelie  punto  sarebbe    dun.pu-  una  eontiaddi- zion.'.    1   piiini    priueipii    sono  senza    dulibio   inesi.lieabili, nel  senso  elie  è  iini>ossibile  di  dedurli    da    luineipii    iiiii j-vuerali  :  ma  eiò   prova   la   liuiitazion..    della    eonoseeliza sperimentale  '?  Pereli(>  (piesta  limitazione  tosse  peieiò  pn.- vata.  bisomierebbe,)rovare  prima  elle  (piesti  .-he  per  noi sono  dei  priueipii  ultimi,  son..  inveee,  nella  natura  delle cose,  (pialelie  cosi  di  ilerivato  ;   che  vi  ha  .pialclie  cosa,li  anterior.'  <lie  potrelibe  siiie-arli  :   deessi    liaiino    una ra-itm  sutlìcieute,    quautumpie  noi  non    possiamo  cono- scerla. Non  è  duii()ue  dalla  UmiUizione  ìM  conoscibile  <lie si  eouelude  l'esistenza  di  <pi<ilrhe  co.w  eh'  lo  liwila  :  al contrario  (>  perchè    noi    .'i    siamo    già    formato  un  <-eito tipo  ideale  della  conoscenza,  che,  dopo  aver  <-oiitVontato «niesto  tipo  con  la  .•onoseeiiza  sperimentale  e  aver  nevato onesta  iuade.piata  a  «piello,  noi  concludiamo  <die  la  .-ono- scenza  sperimentale  è  insutticieiite,  perchè  es.sa  non  può attiniiere  a   (luella    eono.scenza    a    cui    noi    uatnialmeiite aspirhinio.  «  N«m  si  conosce,  non  si  sente  una  mancanza, un  limite,  che  (luamU.  si  va  al  di  là  di  (piest<.  limite Così  la  conoscenza  non  è  limitata  e  impertetta.  che  p.'i- chè  si  para-oua  con  l'idea  di  una  scienza  nnn.usale  e perfetta.  E  n<m  si  è  suftieientemente  esaminato  questo so-etto,  se  s'innora  che  desi-nare  un  «--etto  .ome  tiiiito —  80  — 81 O  limitiito  tornisce  la  prova  della  presenza  reale  deiriu- tinito  e  deirillimitato.  perchè  non  si  pnò  assegnare  nn limite  se  non  in  quanto  si  porta  nella  propria  coscienza rilliniitato  »  (1).  (^nest'' idea  <lella  scienza  i)ertetra,  al  cni cont'r<nito  la  conoscenza  s])erinientale  ci  sembra  limi- tata. i{\wM'illi)nit((f<p  che  ixnfhouo  nclUt  coHcienzit,  non è  che  l'idea  metatìsica  della  causa.  Noi  aspiriamo  na- turalmente a  conoscere  <l(^lle  cause  ciie  non  siano  dei semplici  antecedenti  in\'ariabili,  delle  cause  clie  spie- ghino gli  effetti,  e  con  cui  gli  effetti  abbiano  un  legann^ necessari(»  :  ma  l'esperienza  non  (*i  oltre  ([ueste  cause o  (jnesti  legann  ne(*essari,  essa  non  <i  offre  che  delle  se- ([uenze  uniformi;  è  da  ciò  clie  noi  concludiamo  che  la nostia  conoscenza  è  imperfetta  e  limitata.  Così  noi  siamo ritornati  alla  ([uistione  antecedente  :  che  cosa  ci  prova che  vi  hanno  in  realtà  (h'ile  cause  meta /me  he  j  debile  cause epieienti  o  ifeuerutriei,  la  (*ni  natura  spie<fherehhe  la  na- tura dell'effetto,  e  tra  cui  e  gli  effetti  vi  ha  un  le(/(()He nece>isarioj  e  non  una  semplice  sequenza  invariabile  ?  Noi ammettiamo  che  il  nostro  s})irito  si  forma  naturalmente (pu'sta  nozione  della  causa  :  ma  possijimo  noi  amnu'ttere che  questa  nozione  ha  un  vah»re  obbiettivo  ?  Se  noi  am- mettiamo ciò,  noi  lo  ammetttM'cim)  senza  prova,  percliò non  vi  ha  altia  [)rova  che  una  de(hizione  fonihita  sovra un'imluzione  antecedente;  ora  (|uesta  })rova  in  ({uesto  caso è  im[)ossibile.  Noi  aiunietteremo  (hunpie  la  verità  di  <[ue- 8ta  [)roposizione  ri  ìinuno  delle  emise  mefdjisiehe  o  effi- cieniì,  unicanuMite  j)ercliè  abbiamo  una  tentU'Uza,  più  o meno  forte,  a  crederla  vera. Ma  (piante  cose,  clie  noi  abbiamo  una  tendenza  natura- le a  credere,  sono  state  nondinuMio  riconosciute  false  I  Chi ueglierà  che  la  nostra  credenza  naturale  sia  di  ammettere elle  i  colori,  gli  odori,  ecc.  ineriscono  nei  coipi  ed  esistono I (1)   He^cl    Loij.   ftitrofÌKz.,  ^  (50. realmente  fu<ui  di  noi  f  questa  cre(U^nza  non  è  meno  natu- rale di  (piella  per  cui  si  ammettono  delle  cause  efficienti o  i»eiieratrici  oltre»  i»li  antecedenti  invariabili  che  noi  costa- tiamo  per  l'esperienza.  Tutti  nondimeno  riconoscono  che i  colori,    gli    od(U'i,  ecc.,  non   sono  che  (h'ile  nostre  sen- sazioni,    e   n(m  esistono  clic  nel   nostro    spiiito.   Sai'cbbe facile  di  aggiungere  altri  esempi  simili,  i  quali  mostrano clic  una   tendenza  subbiettiva  a  credere,  j)er  (pianto  essa sia  forte,  n(m  può  per  se  stessa   essere   una   prova  della verità  (hdla  cre(U^nza  :  noi  ci  linnteremo  a  ricordaine  uno solo,    il  (piale   lia  la   i)iù  sfretta  c(ninessione  c(m  la  (pn- sti(nu'  i)resente.   I   positivisti    ric(un>scono  che   Tnouio  ha una  temhuiza  naturale  ad  assimilare  il   m<nhf  e.^xeu:ì(fle  di pì'oduzione  di  tutti  i   fenenneni,  in  altri  termini    tutte  le tbrze   intime    (U'ila    natura,   alla  sua   propria    attività,    e ciedere  di  comprendere  (lueste  forze  intime,  (pu'st()  mo(l() essenziale  di  ])roduzi(UU\  (pian(h>  egli  ha  dotato  tutti  gli a<»enti  naturali  di  una  forza   e   di    una    vita   analoga  alla sna.  «Tale  è,  dice  Comte,  rorigine  spontanea  della   tilo- sotia  teologica,  di  cui  il   vero  spirito  elementare  c(nisiste a  spiegare  la  natura  intima  (hù  fenomeni  e  il   loro  mo(h> essenziale  di  pro(bizi(me,  assimilan(h)li,  per  (pianto  ('  pos- sibile, agli  atti  prodotti  dalla  volontà  umana,  secondo  la nostra  ten(h'nza  prinunuliale  a   riguardare  tutti  gli  esseri quali  si  siano  come  viventi  (runa  vita   analoga  alla    no- stra, e  d'altnmde  il  più  spesso  snix'riore,  a   causa  (h'ila hu'o  più  grande  energia  abituale»....  Questa  disposizione fcmdamentale  è  talmente  esclusiva,  «che  ruomo  non  ha potuto  veramente  rinunziarvi,  che  cessan(h>  di  tener  (be- tro  a  (pu^ste   ricerche   inaccessibili,  per  restringersi  alla determinazione   delle  leijiii  d(M  fenomeni,  astrazion  fatta dalle   loro   eunae»,,.    Tuttavia    (pu'sta    «teiuh'iiza    inevi- tabili   della    nostra    intelligenza    verso    una    filosofia    ra- dicahnente    teoh)gica  »   persiste    anc(ua,    (»  si    manifesta «  tutte  le    volte   che   noi   vogliamo    [lenetrare,    a  un   titolo  (inaliiiKiue,  sino  alla  natura  iutiiiia  dei  tt'uouu^iii, secondo  la  disposizione  oeuerale  eìie  earatterizza  neees- sariaìnente  tutte  le  nostre  speculazioni  luiinitive».  Al- lorcliè  anclie  o.ìì:ì>ì  lo  spirito  uìuano  tenta  di  oltrepas- sare i  limiti  inevitalnli  della  conoscenza,  «e.i»li  ricade involontariamente  di  nuovo,  tosse  a  ri.i»uardo  dei  feno- meni meno  complicati,  nel  cerchio  primitivo  delle  sue al)errazi(mi  spmitanee,  perchè  e.ii'li  riprende  uno  scopo  ed un  punto  di  ])artenza   necessariaììU'ute  analo;;hi  »...   (1). (Questa  tendenza  natuiale   del   nostio    ])ensiero,    che costituisce  <^  il   vero  spirito  .generale  <li  o^ni  tilosotia  teo- logica o    lìietatisica  »  (2)  (mI  è  il    punto    di    i)artenza  ne- cessario  deirintelli.u-enza   umana,  i}^)  i)unto  di  ì)artenza  a cui,  mal<»rado    Tintluenza  di    un'educazi<me  conveniente, e  mal.urado  le  più  sa.uii'c  ])i"ecauzi<un  continue,  mm  si  ri- torna che  tro[>po  spesso  (4)  —  <iuesta  tendenza  a  credere, con  tutta  la  sua  forza  e  la  sua  persistenza,  non,uaran- tisce,  secondo  Comt(%  la  veiità  della  credenza  :  essa  n<m ha  seciuido  lui  alcun   valore    ohhiettivo,  e  non  è  che  un semplice    fatti»    subbiettivo    del     nostro    s]>irito.     Perchè dun(iue  la  nostra  temlenza  ad  amiìiettere  delle  cause  et- h«-ienti,  al  di  là  de.uii  antecedenti  costanti   delP  osserva- zione,  non  sarebbe  anch'essa   un  semplice  fatto  subbiet- tivo f  ]K  rchè  in  «jucsto  caso  il  fatto  stesso  della  creden- za sarebbe  una  ])rova  sufticiente  della  validità    obbietti- va di  qm'sta  credenza  ? vN  ().  Se  Tosservazione  n<m  ci  ott're  alcun  esempio  di causa  ettìciente,  sembra  clie  si  dovr(0)l)e  concluderne  che la  nozione  di  causa  etticiente  (se  (juesta  nozione  si  trova [1}  T.  IV,  loz.  r>i. (2)  T.  III.  le/>.   10. (8)  T.  1.  loz.  1. (4)  T.  IV.  l(  z.  51. 33 nel  nostro  spirito)  (1)  non  è  ch'rivata  dalTesperienza.  ma è  una  credenza  istintiva,  una  necessità  priiuordiale  ed innata  del  nostro  pensiero.  Per  ora  noi  non  i)ossiamo dare  la  soluzione  di  (jnesta  ditlicoltà  :  direìuo  soltanto che  una  ricerca  psicoloi;ica  sul T idea  di  causa  elììciente deve  necessarianuMìte  supporre  che  «pu'sta  idea  è  couu' tutte  le  altre  di.  ori,t;in(^  empirica.  Aitèriìiare  cITessa  è una  necessità  x>i'ii^i<>i'diale  del  pensiero  è  semi)licemente affermare  ch'essa  è  un  fatto  ines[>licabile,  ciò  che  ren- derebbe la  nostra  ricercji  i)i'iva  di  oi'i'-etto.  Noi  su])po- niamo  duncpie  che  essa  può  spiegarsi,  ed  è  (|uesta  la quistiime  che  noi  ci  projxniiamo  :  (piai  è  1'  orÌ!L;ine  della nozioìu'  di  causa  eftìciente  f  <'ome  (pu*sta    nozione  —  che (1)  Dji  ciò  che  r  osserva zi<nic  inni  ri    mostra    elie    ch'Ile  sc- iiieiii  ili  eonffitntzionc,   e  non   mai   in  cotnirssioiU'  .     Ilnme   ne  roii- cludeva  clie  noi  non    abbiamo    alenila  idea  di    mia    <iumessione cansale  che  sia  «[luilche  c«»s{i  di  jjin  di  mia  sequenza    invariabile. Ma  la    conclusione  di    Hiime    era  in    contraddizione    con   la   sua premessa:   come  Hume  avrebbe  ]M)tuto    trovare   che   i     fenomeni sono   semplicemente  in  conjiiunzioiK;,  e  non  mai  in  connessione, s'ejrli  non  avesse  avuto  l'idea  di  una  connessione  <'he  è  ([ualche cosa  di  pili  che  una  semplice  c«ni^iunzione  i   Del  resto  lo  stesso Hume  confessa,  dopo  aver  riassunto  la  sua  analisi    «lelTidea  di causalità  in  detìnizioni  che   corrispcuidono  a  (piella    di    Mill    di sequenza  invariabile,  che  vi  è  qualche  cosa  che  è  sfuojrita  alla sua  analisi    (questa    «tualche  cosa,    appunto  che    una    causazione ethciente  ha  di  più  di  una  semidice  seqiienzji  invariabile).  «Que- ste  detìnizioni,  e«»li    dice,    sono    ]>rese    da    circostanze    straniere  alla  natura  delle  cause  ;  è  un  inconveniente  senza  rimedio  :  non vi  ha  mezzo  di    giungere  a    una    detinizione    più    esatta,    e  noi non  potrennno  determinare  «[uesta  circostanza  che  legale  cause a^di  ettetti.  Non  solo  noi  non    aldìiamo  idea  di    questa    connes- sione  ;  noi  non  sappiamo  nemmeno  ciò  che  desideriamo  di  cono- scere, quando  ci  sforziamo  di  concei)irla  ». 8 —  :54  - :-jr) l\'siH'ru'iì/n  ('  incapaci' (li  -iiistitìcaiv  -  si  sviluppa  iion- dinu'iio  aairi'spcricìiza,  scroiulo  W  ìi--i  couosciutt'  del nostro  spinto?  Questa  quistioue  uou  i'  che  un  easo  della iislioue  venerale  che  torma  To-uetto  di  (pu'sto  Sa-'- oio:  perciic'  oltrepassiamo  T  esperienza  ?  perchè  vi  ba una  metaiisica  ?  Noi  abbiamo  visto  intatti  che  se  lo  spi-^ rito  umano  cerca  le  vere  cause  (h'i  fenomeni  al  di  la U'i  fenomeni  stessi,  è  perchè  non  si  eontenta  delle  se- 4iuenze  invariabili,  ma  dtunanda  (pialche  eosa  di  più, ^i-ioè  d<'lle  cansjizioui   ellicienti. A  M'ivsta  ricerca  del]-ori-ine  dell'idea  di    causa  etti- dente  è    applicabile  ci<>  che  abbiamo    (h'tto  nel   P'  para- orafo  sulla   ricerca  dell'ori-ine  dei  concetti   lìietatisiei  in nvuerale.    Kssa   non   ha    solamente  per  noi    un    interesse storico  e   psicoh>.uico  (per  ispiepire  i    concetti    metafisici die  ci   presenta   la   stu'ia,  e  !a   mrta finirà   nuiundv  da  cui essi  derivano),  ma  aiìche  e  sovratutto  un  interesse  dimi- matico.   11  carattere  illusorio  (h'IKidea  di  eausa  eftidente diverrà   più    evidente,   se  uoi    se;>prireììio  il    meceanismo di  (pu'st"illusi(me.    In  altri   termini,  sarà  allora   più  ciun- ph'tamente    dimostrato    du     (pu'sta    tendenza  .    naturale aUo  spirito  umano,  (rimma-inare  ddle    cause   tali  e  dei teo-ami   tra  «lueste    cause  e  -li    effetti  che  siano    (piah-he (mL  di   più  che  le    stMiuenze    invariabili    eostatate    dalla esperienza,  non  ha  alcun   valore    obbiettivo;  che  (piesta apparenza  di    mistero  v\w  il    nostro    siùriti»  trova    natu- ralnmnte  nelle  -eneralizzazioni  della   seienza  .  mm  è  ì'\vì^ un  semplice  fatto  psieolooiro.  di  una  sionitlrazioue  pura- mente   subbiettiva  ;  e  che  è  ille-iiittimo  di    eonchuUune die  la  emioseenza  speriun'utale  è    uecessariaimude    lind- tata,  e  che    T  ordine    fencmienale,    eonoseiuto  dall'espe- rienza,   riposa  su  (pialdie  («sistenza   ultrafenomenale,  die Pesperienza   mm  può  conoscere.   I/idea  di   causa  enicien- te  non  è.  è  vero.  Tunica  ra-ione  per  cui  si   amnu'tte  la linutazioiu'  della  conoscenza   sperinu'ntale  e  un'esistenza iiltrafeuiunenale  che  la  limita  ;  ma  i  lisultati  a  cui  sa- remo pervenuti  in  (piesta  i)rima  [)arte,  saranno  comi)le- tiiti  (hi  (pielli  a  cui  ])ei*verrem(»  ndhi  secomhi. Nel  sistema  di  A.  Comte  V  origine  della  meta  tisica resta  in  realtà  senza  s])i esazione.  Per  metatisica  noi  non intendiamo  ci(')  che  intende  lo  stesso  (Vnite,  che,  come si  sa,  la  distinii'ue  (hilla  tilosotia  teologica,  e  la  fa  con- sistere essenzialmente  nella  realizzazione  (h^lle  astrazio- ni. Noi  chiamiamo  metafisico  o^ni  modo  di  pensare  dif- ferente radicalmente  dal  positivo,  cioè'  dalla  tilosotia (leires])erienza  :  la  metatisica  (''  duncpie  ])ei"  noi  il  i»..Mie- re,  di  cui  la  tilosotia  teologica  e  la  tih»sotia  metatisica di  Comte  sono  delle  specie.  Così,  dicendo  die  Comte non  s])ie<>a  Torioine  della  metatisica,  noi  non  vogliamo dire  solamente  che  ei;li  non  s])i(*i;a  ])erdiè  il  metatisico realizza  le  asti'azioni,  e  che  neoli^'e  altre  forme  di  tilo- sotia differenti  dalla  teologica  e  non  meno  caratteristica- mente metatisiche  che  la  realizzazione  delle  astrazi(>ni  — sono  dei  })unti  che  noi  esaminei*emo  più  o]>portunamente altrove  (1)  —  ;  ma  sovratutto  che  non  spiega  (juesto  fatto dello  spirito  umano,  che  ('  la  manifestazione  \n\\  col- pente (h'ila  sua  tendenza  ad  oltrei)assare  i  femuneni,  e che  e^li  consideia,  al  tondo,  come  la  base  sì  (U'ila  tilo- sotia teohn»ica  die  della  metatisica.  La  tilosotia  nietafi- sica  non  ('  t)er  Comte  che  una  moditìcazione  (h'ila  tilo- sotia teologica  :  per  conseguenza  anclT  essa  ('  s])ie<>ata, in  ultima  analisi,  ]>cr  (piesto  slancio  ])riniordiale  dello vS])irito  umam»,  che  costituisce  la  tilosotia  teologica,  per cui  esso  personifica  le  forze  della  natura,  assiiiiilan(h)le alla  volontà  umana,  e  cretle  così  di  comprendere  le  cau- se (/encrftfrici  o  cfivicnti  dei  fenomeni,  il  hu'e  ìtanlo  ex- scìiziffJe  (li  pr(P(h(:i(>n('.  Così  Tautoi'e  riduce  talvolta  i  tn* stati  a  due,    riunemh)  in  un    concetto    unici)  la    tilosotia. 1)    V.    Cìl]».    VII,    VN    I — teologica  e  la  metafisica,  e  distiii<»iieii(l<>le  ciitiaiìibe  per mi  carattere  comune,  clie  contrappone  a  (piello  della  tì- losotìa  positiva.  «Il  vero  spirito  -enerale  di  o<;ni  filoso- fia teologica  o  metafisica  consiste,  e-li   dice,   a  prendere ])rincipio,  nella  s]>iepizi<me  dei  fenomeni  del  mondo esteriore,  il  nostro  sentimento    immediato  dei    fenonn^m nmani;  mentre  al  contrario    la    filosofia    positiva  è  sem- pre caiatterizzata,  non    meno    profondamente,    dalla  sn- lM)rdina/ione  necessaria  e  razionale  della  concezione  del- rmmx)  a  (piella  del  nunido  »  (1).  Ora  ciò  che  (N>mte  non spiega  è    percliè  Tnomo,    animato    dair  aìiibizione  di  co- noscere   il    m(f<h>    esscn:i((ìc  di  produziotte  dei    fenoìiieni, le    cause    (jenendricl   o    ejfirivnfi,    crede    di    pervenire  a (piesta  conoscenza,  prendendo  i)er    irrincipio    della  spu- o-azione  dei  fenomeni  del  mondo    esteri<ne  il    suo    senti- mento immediato  dei  fenomeni  umani,  o   in    altri  tenui- ni,  assimilando    le    forze  della    natura    alla    sua    attività volontaria.  «Al   principio    delle  sue    ricerche  in  tutte  le scienze,  lo  spirito  uuuuio  è  sovratutto  animato  ibiir  am- l)izi(me  di  penetrare  Ves^ieica  delle  cose,  e  d^irrivare  alla nozione  ultiuia  <-he  le  spicfiJn  universalmente.  K.u'li  non  si sentirebbe  sutficienteuiente  stimolato,  se  non  siproi)ouesse ì«  i  ìììoblriiìi  infiniti»  (2).  La  filosofia  teologica  «  si  trovava ]>erfettameute  adattata  alla  natura   o(Mierale  della  m)stra dcbolt^  intelli.uenza,  che  le  più  sublimi  soluzioni  ottenute senz/  alenila    attenzione    i)rot\m(hi  e    sostenuta    potevano esclusivamente    interessare.    V\  è    possibile    (».t;'*>i,    sottorinduenza    di    un'educazione    conveniente,    iV  attaccarci vivamente  alla  ricerca  delle  semplici  le.u.i'i    dei    fenome- ni, astrazion  fatta  dalle  loro  m/rsr»  (3):  ma  «le  (pnstio- ni  più  radicalmente  inaccessibili  ai  nostri    mezzi,  la  na- (1)  T.  Ili.  lez.  40. (2)  Littrè   Della  filos.  posit.   in   Fnanm.  di,iìlos.   yjo.v/7.,  p.  3.5. (3)  Coluto  V.   IV.   loz.  51. tuia  intima  deoli  esseri,  Porioine  e  il  fine  di   tutti  i  fe- nomeni, sono  precisamente  <iuelle  ehe  la    nostra    mtelli- o-enza  si    propone    sopratutto  in  (piesto  stato  primitivo, tutti  i  problemi  veramente  solubili  essendo  (piasi  consi- derati come  indeoni  di    meditazioni  serie.  Se  ne    conce- pisce   facilmente  la    ra<>ione,    perche  è  V  esperienza  sola che  ha  potuto  fornirci  hi  misura  delle  nostre  forze  ;  e  se l'uomo  non  avesse  dapprima  cominciato  per  averne  una opinione  esa sviata,  esse  non    avrebbero  mai    potuto  ac- (juistare  tutto  lo  sviluppo- di  cui  sono  capaci  »(1).  Così  se- condo Comte  Tori-ine  della  fll(»sofla  teolo.uiea  (N  indivetta- mente,  anche  (U'ihi  filosofia  metafisica  è  in  (piesta  ambi- zione   che  ha  rm)mo,  nmi  sottinnesso  alla  disciplina  delle positive,  di  voler    conoscere  le    cause  intime    e generatrici,  le  cause  efjhientj,  dei   fenomeni:  eoli  cre(h' di  ])ervenire  a  (luesta  conoscenza,    assimila luh)  le    forze della  natura  alla   vohmtà  umana  :  e  nmi  pu(>    rinunziaTH' a    (piesf  assimilazione,  se    non    rinunziando  alla    riceri^a delle    cause    (eftU'knH),  <'    restri ii.uen(h>si  a    (piella    delle le--i  dei  feiionieni,  cioc^  delle  uniformità  di  successione. Ma^la  causazione  che  si  mostra  neoli  atti  volontari  (U'I- Puomo  non  ('  essa    stessa  che    una    semplice  unitcuinita -di  se(iuenza;  nmi  si    vede  in    (piesti    atti    P  azione  della causa    intima    o    emciente  :    come    dumpie    pim    nascere r  illusione  che  .    trasportando    (jucsta    seipieiiza  di  fen(>- meiii,  che  noi  chiamiamo  azione  vohmtaria,  in    tutto  d (hmiinio  della  natura,  noi  comprendiamo  così,    non  più le  semplici  leiii^i  o   rapporti    costanti  di    successione  dei feiionu^ni,  ma  ia  loro  natura   intima  e  le    loro    van^e  .  il loro  modo  essenziale    di  produzione  ?  Perchè  (piesto  rap- porto costante  di  se(nienza  che  noi  vediamo  nelP  azione volontaria,  ci  sembra,  non  un  semplice  rapporto  costante (1)  V.   I,   Ir/.   1.  Vedi  pure  i   liio-ìii  citjiti  nel  ])ara«;i'af(»  p^'f*" .cedente,   verso  In  line. i 3S 39 <li  s(M|n('iiza,  ma  un    modo    cssciizijih*  <li  produzione  dei feiiouieni  ?  percliè  vi  vedijuno  l^ìzioue,  non  <r una  causa ^  ma  d'una  eausa    nictdjisicd,  o,  come  diee  Conite, .i;"eneratiiee  ?    perchè,  in  una    parola,  ìjì    volontà    umana ci  sembra   una  causa  etticieiite  ?  E  (juesto  fatto   che  non >spic^a  A.  Coni  te.  K  evich'ute  che  se,  trasteien(h>  la  no- stra attività  volontaiia  nelle  forze  <lella  natura,  noi  sen- tiamo soddisfatto  il  bisogno  che  ])i(>viamo  di    conoscere le  cause    eftìcienti    o  il    modo    essenziale    di    proibizione «lei  fenomein,  se  noi  ])ren«bamo  natuialmente  la   volontà pei'  una  causa    etticicMite,     quest'eri'ore  deve  essei'e  fon- dato   sulla     natura     stessa    delle    (bu*     nozioni  .    che    noi ('OììfoinUaiììo  runa  con   l'altia.   L'azione    volontaria   «leve somigliare,   più  che  tutte  le  altre  unifoiinità  di  sequenze che  ossci'viamo  nei    fenomcnj.   al  ti])o  <-he  ci   siamo    for- mato del    rapporto  tia   la    <*ausa    intima   o    etticiente  e  il suo  effetto,  alia   nozione  del    nostro  sniiito  che  corrisixju- de  a  queste  parole  :  il   ììhhIo  vx^cììz'Ktìc  ili  proiììizUnìv  (Un fchoNK  ni.    Pei'chè  è  certo    che,  (juantun(|ue  noi    non  co- nosciamo il    nunìo  essenziale  (li  prodìcione  di  alcun  feno- meno,  noi  dobbiamo  avei*e  una  certa   nozioiu'  di  ciò  che noi   iiiciamo  ìh(hÌi)  essenziale  di  produzione  :  noi  dobbiamo in  che  esso  difteiisce  (hi  un  sem])lice  ra])])oito  inva- riabile di  se(|uenza;  se  non  fosse  così,  come  sa])remmo  noi elle  i  rapporti  invariabili  (b  se(pi(Miza  tra  i  fenomeni  non s(ìno  il  loro  nutdo  essenziale  di  prodìtzione  ?  Ora  (juesto  ca- rattei'(\  o  (jualche  cosa  di  s(uni,!u.iiante  a  <|uesto  carattere, j>er  cui  il   mo(h)  essenziale  di   ])roduzione  o  Tazione  (Udla causa  etticiente  si    distininue   dal    sem])lice    ia])])oito    in- variabile (b    successione,  deve    trovarsi,    almeno   aj)pa- i-entemente,   nelTazione   volontaria,   t>erch('  l'uomo   ])ossa ca(h'i"e  naturalmente  nell'errore  di  cnMlere  che  la  volon- tà e  una    causa    etticiente,  e    che    nell'azione    volontaria vi  ha,  non  un  semj)lice  rapt)orto  unifoi'ne'  di    successio- ne, ma   un  mo(h>  essenziale  (b  pro(bizione  dei  fenomeni. i| His()"iia  (IniKinc  clic  l;i  volouh'i  iilihin  i\ii':iilÌMÌtM  iiatiUii- le  col  tipo  che  noi  ci  formiamo  della  causa  efiiciente:  e lo  stesso  (h've  dirsi,  non  solo  della  volontà,  ma  di  tutto ci^)  che  i  metaiisici  hanno  immaginato  per  dare  una  sod- (bsfazione  al  loro  biso«;no  di  conoscere  le  cause  efjieienii. Fra  tutte  «pieste  forme  sotto  cui  la  metafisica  si  (' rappre- sentata la  causa  efiiciente,  com])resa  la  nozione  che  A. Comte  e  i  ])ositivisti  si  formano  di  (piesta  causa — senza la  (piale  nozione  non  potrebbero  distin.u'uere  le  eanse dai  semplici  juitecedenti  di  siMpumze  invariabili  -.  deve esseivi  una  nota  comune  :  ('  di  (piesta  che  noi  cerchia- uio  di   renderci  conto. L'ouuetto  di  (juesta  i)rima  pai'te  ('  dumiue  di  spie- .i;arci  (pu'sta  t(Mid(Miza  naturale  del  nostro  spirito,  che  ci spin-v  ad  imma«>inare,  ai  di  là  delle  cause  empiiiche (condizioni  dei  fenonunii),  delle  (-ause  e/'/ieirnfi  v  \u\  mo- do essenzi(fle  di  produzione  delle  cose,  che  è  (pialche  co- sa di  diverso  (hilU^  semplici  uniformità  di  seciuenza  che si  j)ossono  oss(M-vare  tra  ì  fenomeni.  Noi  ci  spie-here- ììio  (juesta  tendenza,  ricontbic(Midola  a  (|ualche  fatto  or- dinario della  nostra  esperienza  psicolo.^ica.  e  pei-  (piesto fatto  inter])reteremo  le  differenti  forme  sotto  cui  la  no- zione di  causa  efiiciente  ('-  apparsa  nella  storia  del  pen- siero umano,  in  altri  termini,  le  dilferenti  concezioni metatìsiclie  a  cui  lo  spìrito  umano  (-  i)ervenuto  nella  ri- cerca (h'ile  cause  efiicienti.  Noi  prenderemo  ]>er  punto (H  partenza  le  nozioni  più  abituali  e  ])iù  sjxmtanee  che lo  spirito  umano  si  ('^  formato  su  (jiieste  cause,  e  .guar- dando al  hn-o  punto  di  contatto,  al  carattere  comune  in cui  esse  si  somi.;;liano,  ridurremo  il  fatto  che  si  1  ratta i\\  s])ie<i.are  a  ci(')  che  vi  ha  in  esso  di  essenziale,  e  ])o- trtmio  così  facilmente  ricondurlo  a  (pialche  fatto  più  .i»e- Tierale  (h'I  nostro  spirito:  di  là,  inalidendo  un  cammino ccmtrario,  potivmo  rendei'ci  ra.i»ione  delle  nozioni  meno e  meno  sp(mtanee  sulle    cause    efficienti    che  ci —  40  — presenta  la  stoiia  della  iiietafìsiea,  interpretando,  per Aia  deduttiva,  (piesti  tatti  mediante  i  risultati  <;'ià  otte- nuti per  la  \  ia  induttiva.  È  solo  a  (piesta  condizione elle  il  nostro  metodo  può  essere  sperimeiitale:  la  nostra base  devono  essere  i  dati  della  storia,  ina  noi  dobbiamo spieiiarli  per  le  i^eneralità  otteìiute  per  1'  osservazione psicologica.  La,i;('neialità  ultima,  a  cui  ci  condurranno  i fatti  studiati  in  (piesta  j)rima  parte,  e  per  cui  cerche- remo di  s})i(\i;arli.  s[)ie;;liei'à  forse  eii^ualmente  (pielli  clic studieremo  nelle  due  [jarti   seuiUMiti.  L'  ANTK()rO:M()iniS3[() La  filoso fia  Uolo(jica, §  1.  (,)uesta  tendenza  spontanea  dell'uomo,  che  ca- ratterizza secondo  Comte  lo  stato  primitivo  del  pensie- ro, ad  «  erigere  se  stesso  a  ti]>o  universale  »,  e  ^^  tra- sportare involontariamente  il  sentimento  intimo  della propria  namra  air  universale  spiegazione  radicale  di tutti  i  fenomeni  »,  è  certamente  quella  che  ha  creato  le prime  nozioni  metafìsiche  dello  spirito  umano,  applicato alla  ricerca  delle  cause.  Questa  tendenza  è  quella  che colpisce  più  immediatamente  il  pensatore,  quando  la sua  attenzione  si  rivolge  verso  quest'ordine  di  fatti  : così  prima  di  Comte  essa  era  stata  già  segnalata  da Hume  (1),  da  Reid  (2)  e  da  tanti  altri  pensatori  sì  ostili che  favorevoli  alle  concezioni  teologiche.  Molti  osser- vatori hanno  richiamato  l'attenzione  su  questo  fatto, che  i  selvaggi    suppongono  un'  anima  o  uno  spirito  da (1)  Storia   iHftHraU'  dvUa  iclif/ionr   111. (2)  V.   S((!/{/i  Sìdlc   facollù    alfìvc  .     Sa.u.uio     1   e.    II   e    Sa-.ni(> IV  e.  111. —  42  — per  tutto  ove  vedono  un  iiiovinu^.nto  o  (junlelie  altro  tc- noineno  che  non  possono  spiegare.  Cosi  g"li  autori  che •  più  recentemente  lianno  fatto  un  oggetto  del  loro  stu- dio delle  origini  della  civiltà,  hanno  considerato  V  ani- misnio  (1)  delle  religioni  primitive  conie  una  filosofia naturale,  grossolana  ed  infantile,  fondata  su  questa  di- sposizione dello  spirito  dell'uomo  primitivo.  L'animi- smo, dic^'  Tylor,  sviluppandosi  in  una  dottrina  d'esseri spirituali,  animanti  e  controllanti  l'universo  in  tutte  le sue  parti,  non  è  insomma  che  una  teoria  delle  cause personali,  che  si  trasforma  in  una  filosofia  generale  del- l'uomo e  della  natura  (2).  «L'uomo  primitivo  ha  model- l.ito  gli  esseri  spirituali  sull'idea  che  s'è  fatta  della  sua anima  propria,  e  in  secondo  luogo  egli  si  è  proposto di  spiegane  i  fenomeni  naturali,  partendo  da  questo princii)io  SI  ingenuo  ed  infantile  che  la  natura  è  real- mente animata  in  tutte  le  sue  parti.  Se,  come  dice  ilpoeta,  colui  è  veramente  felice, (^ui   ijotiiit    rcrmii   coiìik^scc-I'c  caiissas. (Il  Ì»(M"  ntiìwhuno.  tcniiiih'.  in  <[iu*st«)  scmisj».  introdotto  ]>iM)rtii- uauMMitc  (lui  Tylor.  s'intende  \x\  crcMlen/ii  che  nmniette  elie  l'aninui è  lina  sostanza  distinta  <lal  corpo  e  separabili'  da  ess<».  e  che  attri- Iniisee  la  causa  dei  fenomeni  natnrali  a  deUe  anime  (sjjiriti.  demo- ni o  divinità)  <litfuse  neUa  natura  e  eonceinte  ]nii  o  men»»  p^'r a!»aio.nia  a  quella  deiru«nno.  Dando  alla  ]mv<da  questo  nuovo  si- ;initicat<K  il  Tylor  ha  soddisfatte»  a  un  hiso.iinc»  reale  (hdla  ter-minologia lilosotica.  ])erchè  la  ]»ar(»la  .ynrihialismo  l- tvop]H>  stret- ta per  poter  comi>ren(U're  le  <-redenze  primitive,  anzi,  più  .liC'ue- raìmente.  antiche,  analo-he  air«Mlierno  sistema  spiritualista.  l*er l'uonn»  ]>rimitivo.  e  anche  per  la  ]nìi  parte  dei  tìlosoti  antichi  . l'anima  dell'iunno  e  tutti  -li  altri  esseri  che  si  concei>iscono  sul ti]M.  di  essa,  non  (•  una  sostanza  s^nrituale  (nel  senso  mod<'rno). ma  materiale  aneli'  essa  .  come  il  corp«i.  (luantumpie  ditfereiitc j)iii  o  meno  dai   cor]M  ordinari. (2)    L<i  rh'iUzzHzione  priìniticK.  t.    II   e.    WII    sulla   line. 4;^ le  tribù  grossolane  dell'  antichità  possedevano  almeno questa  felicità,  eh'  esse  potevano  spiegarsi  d'una  ma- niera soddisfacente  la  causa  di  tutti  i  fenomeni.  Per esse  in  effetto,  gli  esseri  spirituati,  folletti  e  gnomi, fantasmi  e  mani,  demoni  e  divinità,  erano  le  cause  vi- venti, ])ersonali,  della  vita  universale  «I  primi  uomini trovavano  per  tutto  una  spiegazione  facile,  i  misteri della  natura  non  erano  loro  cosi  nascosti  come  lo  sono a  noi»,  dice  Giacomo  Bòhnie,  il  mistico.  Ciò  è  |)erfet- tamente  vero,  si  potrebbe  ris})ondere,  se  si  ammette  che questi  uomini  j)rimitivi  credevano  alla  filosofia  animista della  natura,  che  sopravvive  ancora  oggi  nello  spirito del  selvaggio.  Essi  potevano  attribuire  a  degli  si)iriti. aiiìici  o  ostili,  tutti  i  fenomeni  della  natura;  tutto  ciò che  loro  accadeva  di  bene  o  di  male  durante  la  vita; essi  vivevano  in  relazione*,  costante  e  amichevole^  con  le anime  viventi  e  i)ossenti  dei  loro  antenati,  cogli  spiriti del  ruscello  e  dei  boschetti,  con  (pici li  del  piano  e  d(Mla montagna.  Essi  conoscevano  bene  il  possiMite  soie  pie- no di  vita  che  versava  su  loro  la  sua  luce  e  il  suo  ca- lore. Essi  conoscevano  pure  il  gran  mare  vivente,  che veniva  a  s[)ezzare  le  sue  onde  terribili  sulla  costa  ;  essi conoscevano,  infine,  ([ueste  grandi  individualità,  il  cielo e  la  terra,  che  producevano  e  che  i)roteggevano  tutte cose.  Perchè,  conu*  il  corpo  umano,  nel  loro  pensiero, viveva  e  agiva  in  virtù  dello  spirito  o  dell'  anii-ìia  che lo  abita,  cosi  tuttociò  che  si  passa  lud  mondo  loro  sem- brava sottomesso  alla  influenza  di  altri  s[)iriti.  L'  ani- mismo costituì  dapprima  sem[)licemente  la  spiegazione filosofica  della  vita  umana;  esso  hnì  per  prendere  una tale  estensione,  che  fornì  bentosto  la  spiegazione  Hlo- sotica  di  tutti  i  fenomeni  naturali  »  (1).  L'  antro j)onior- fismo  dell'uomo  ])rimitivo  è  dunepie    complicato    con  la (1)  Tylor   1j<i  cirilizzaz.  priniit.  t.    li   e.    XV. 44:     - 45 \  Jr idea  che  egli  si  forma  dell'  anima  umana  :  cosi  molti vedono  in  quest'idea  il  punto  di  partenza  della  conce- zione animista  della  natura.  Si  è  quindi  contestata  la verità  della  dottrina  di  A.  Comte,  secondo  cui  il  puro  feti- cismo, cioè,  come  og'g'i  si  direbbe  e  come  egli  al  fondo voleva  dire,  il  naturismo,  è  lo  stato  primitivo  e  sponta- neo del  pensiero  umano.  La  prima  concezione  d'  essere soprannaturale,  che  si  possa  scoprire,  dice  Spencer,  è quella  dello  spirito  d'un  uomo  morto  :  il  feticismo  non è  una  credenza  primitiva,  manna  fase  secondaria  della concezione  del  sovrannaturale.  Gli  esseri  sovrannatu- rali sono  al  principio  gli  spiriti  degli  uomini  :  poi  di- venii'ono  <i'li  a<>*enti  a  cui  si  asse<i*nano  le  forze  degli oggetti  esteriori,  cioè  spiriti  feticci;  essi  arrivano  a  po- polare il  cielo,  a  stal)ilirsi  nel  sole,  la  luna,  le  stelle, che  essi  muovono.  Non  si  ha  la  tendenza  a  supporre gratuitamente  l'animazione  dell'  oggetto  materiale  ;  è solo  quando  si  vede  un'apparenza,  un  movimento,  un rumore  insolito  in  un  oggetto,  che  si  forma  IMdea  che esso  è  abitato  da  uno  spirito.  Ciò  a  cui  s'indirizza  ve- ramente l'adorazione  del  feticista  sono  gli  s[)iriti  invi- sibili che  abitano  o-H  oa-getti  :  altre  volte  il  culto  degli oggetti  materiali  proviene  da  un  equivoco  occasionato dall'omonimia  o  da  altre  forme  del  linguaggio,  da  pro- posizioni accettate  in  nome  dell'  autorità,  e  che  non  si potrebbe  evitare  di  mal  interpretare.  Quale  rassomi- glianza possiamo  noi  trovare  fra  1'  uomo  e  una  mon- tagna? o  fra  l'uomo  e  l'alba  del  giorno?  se  queste  co- se vengono  personificate,  non  i)uò  essere  por  una  ten- denza si)ontanea  dell'uomo  a  personificare  le  forze  della natura.  L'animale  sa  differenziare  le  cose  animate  dalle cose  inanimate:  è  il  movimento  spontaneo  che  gli  serve di  segno.  L'uomo  primitivo  deve  distinguerle  più  net- tamente che  gli  animali  :  un  oggetto  inanimato  non sveglierà  l'idea  di  vita,  se  non    quando  esso,  in   chec- chessia differisca  d'altronde  dalle  cose  viventi,  manife- sti la  spontaneità  caratteristica  degli  esseri  viventi. Cosi  p.  e.  i  selvaggi  prendono  per  viventi  gli  oggetti d'arte,  che  sono  forniti  di  un  movimento  api)arente- mente  spont.ineo,  un  orologio,  una  bussola,  ecc.  J^a condotta  insolita  d'un  oggetto  inanimato  suggerisce  al- l'uomo primitivo  l'idea  d'un  essere  animato;  l'idea  dei- Fazione  volontaria  prende  nascita;  e  la  nozione  vaga d'animazione  così  svegliata  diverrà  evidentemente  una nozione  più  definita,  secondo  che  lo  svilupf)0  della  teo- ria spiritista  fornisce  una  causa  specifica  alla  (piale  si può  attribuire  la  condotta  anormale  dell'oggetto.  I  dop- pi dei  morti  pullulando  da  per  tutto,  essendo  capaci d'ai)parire  e  disparire  a  loro  grado,  agendo  di  maniere impossibili  a  prevedere,  sono  riguardati  come  le  cause di  tutto  ciò  che  sembra  strano,  inatteso,  inesplicabile. Tutti  i  uìo  vi  menti  apparentemente  spontfinei,  tutti  i  fe- nomeni che  non  sono  abituali',  si  attribuiscono  all'azio- ne degli  spiriti  :  (jnesta  (juantità  innumerevohMl'uomini senza  corpo  sono  degli  agenti  sempre  disponibili,  degli antecedenti  che  l'intelligenza  rapporta  a  tutte  le  azioni ambienti  che  reclamano  una  spiegazione.  A  misura  che la  dottrina  degli  spiriti  si  sviluppa,  noi  troviamo  una soluzione  facile  di  tutti  i  cangiamenti  che  i  cieli  e  la terra  non  cessano  di  presentare.  Le  nubi  che  s'ammas- sano e  che  svaniscono,  le  stelle  filanti  che  si  mostrano  e dispariscono,  la  superficie  dell'acqua  che  perde  subito  il suo  splendore  sotto  l'alito  d'un  vento  leggiero,  le  me- tamorfosi degli  animali,  le  trasmutazioni  di  sostanze, le  tempeste,  i  terremoti,  le  eruzioni  di  vulcani,  tutto aiviene    spiegabile. V.  S]»eiu'er  Prine.  di  sovAoloifia,  voi.  I,  in  isi)ecio  (]k'V  lo im»]H»sizioiii  citate)  paj.-.  lOS,  148,  188,  187-181),  30:^-S(m.  S81),  1:V1- 47(),  )()(),  )()!),  r)9."ì-.")!H).  (>1().  vvv.  rraduz.   rr:ni<'. if$mMiBt^^m-t^^^^si0saKiiàiiim 4()  — J-* Le  obbiezioni  di    Speiu-er  contro  la  dottrina  che   il fetieisnio  è  una    credenza    8i)ontanea  e    primitiva,    che uomo   primitivo  personitica   naturalmente    tutti  g'ii   a- g-enti  naturali,  tntte  le   forze   della    natura, sono    certamente   di    molta    aravità.    In    molti  casi,  sembra  i)iù raa'ionevole    di    ammettere  che    le  nozioni    feticiste    so- no   (jualche    cosa    di  secondario,    clie    esse  non  si  svi- lu}>pano  se  non  sulla    ])ase    di    (jualche   concezione  più spontanea    e    naturale.    Tna    foresta,    una    momag'na, una    fonte,    un    sasso,    ecc.    non    verranno    immedia- tamente   personihcati  :    essi    saranno   prima    considerati come  un'al)itazione    di    (jualche   spirito,    ovvero  avran- no qualche  altra  relazione    col    culto  deg'li    s})iriti,  e   il culto  che  primitivamente  non    viene    indirizzato    se  non allo  spirito,  finisce  ])er    riportarsi    sullo    stesso    og'getto TTiateriale.  La  ])i(4ra  che  serve  di    altare  per  il    sacrifi- zio, finisce  per    attirare    l'adorazione,   che  in  principio non  è    rivolta  che  allo    s|)irito  o  alla    divinità  a    cui  si sacritica;  le  offerte  date  al  mare    per    propiziarsi   il  dio del  mare  finiscono  per  considerarsi  come  dovute  a  que- sto stesso    elemento  :  il  fuoco  che    viene    impiegato  nel sacrifizio  o  le  preghiere    (hdla    litiirii'ia  diventano  degli 02'2'^*tt'  di  culto  e  degli  esseri    divini,  così    bene  che  la immagine  del  dio   finisce   ])er    confond(»rsi,    nelT  adora- zione del  credente,  col  dio  stesso  di  cui  è  1'  immagine. T  ì malintesi  occasionati    dal    linguaggio    avranno    pure, come  vuole  Spencer  .    apportato  il   loro    contributo  alla massa  generale  delle  concezioni  feticiste.  K  dunque  ve- risimile  che  in    molti  casi  la    divinizazzione    degli    og- getti naturali   presupponga  il  culto  di    esseri    spirituali distinti    dalla    materia   di  cui  si    può    ammettere    con Spencer    che  la    prima  id(^a  è    stata    quella    delT  anima delTuomo  — .  Ciò  però  non    impedisce  che  in    altri    casi sia  potuto    av'venire  il    processo    contrario,  cioè   che  il culto  di  divinità    spirituali,    separate  da    ogni  oggetto della  natura,  si  sia  svolto  da  un  culto  precedente  di oggetti  naturali,  animati  e  divinizzati.  Il  negro  della Costa  d'oro  dà  agli  spiriti  feticci  il  nome  generico  di wong  :  egli  dice:  un  wong  abita  questa  riviera,  que- st'albero,  quest'  amuleto  ;  ma  il  più  spesso  si  contenta di  dire  :  ([uesta  riviera,  quest'  albero,  quest'  amuleto  è un  wong  (1).  Gli  spiriti  che  risiedono  in  questi  oggetti sono  distinti  dagli  oggetti  stessi  e  allo  stesso  tempo  si confondono  con  essi  (2).  Qualche  cosa  di  analogo  si  os- serva nel  politeismo  classico.  Ordinariamente  si  dice che  esso  era  una  religione  naturalista,  un  culto  delle forze  della  natura,  ma  questa  nozione  non  è  rigorosa- mente esatta.  Poseidon  è  cosi  bene  distinto  dal  mare <*he  esso  viene  ad  assidersi  nell'assenìblea  deir01imj)o; tutti  i  fiumi  della  terra  (cioè  le  loro  ])ersonalità,  i loro  spiriti),  secondo  Omero,  si  riuniscono  nell'Olimpo alla  grande  assend)lea  convocata  da  Giove,  tutti  pren- dono posto  nei  seggi  politi.  Ma  da  un'altra  parte  le  di- vinità sono  identificate  con  gli  oggetti  naturali.  Giove, il  dio  del  cielo,  è  identificato  col  cielo  stesso,  e  noi  tro- viamo anche  nel  linguaggio  le  tracce  di  questa  iden- tità (p.  e.  sub  love  vivere^  per  dire:  vivere  all'aria  aper- ta). La  stessa  confusione  fra  il  cielo  e  il  dio  che  go- verna il  cielo  si  trova  da  per  tutto  presso  i  {)oi)oli  pri mitivi.  In  questo  caso,  come  in  tutti  (juelli  in  cui  si tratta  delle  grandi  divinità  della  natura,  sembra  più verosimile  di  anunettere,  non  che  un  essere  spirituale, originariamente  senza  relazione  con  l'oggetto  naturale, (1)  Tyìor  Olì.  cif..   t.   il.   e.    XV. (2>  Anche  dei  tilosoti  clic,  come  Pljit(Hic.  clistiiiiiiKUio  nctt:i- iiientc  Dio.  ci(M'  raiiiiiia  <lcl  nioiulo,  dal  inoiiih»  stesso  clic  ne è  solauicutc  il  corpo,  considerano  tahcdta  qnest'  idtimo  come la  divinità   stcssji.   V.   p.  e.    h'pinowifh'  i>7()  ( U77  a. —  48  — si  è  in  seguito  fissato  in  ciuest'oo:getto,  ma  che  l'essere spirituale  è  stato,  air  origine,  lo  stesso  og-ge  tto  naturale personificato,  o,  a  dir   meglio,  T  anima,  la    personalità di  quest'oggetto,  che,  distintasi  dal  corpo  (per  un'esten- sione del  dualismo    che  la    dottrina    avìmista    comincia per  ammettere  nell'uomo),  è  divenuta  di    più    in  più  in dipendente  dal  suo  inviluppo    materiale,  e    si  è    conce- pita   d'una    maniera    sempre  più    antropomorfistica  (1). Ciò  che  può  sembrare  una  prova   della  tesi  di  Spencer, che  il  punto  di  partenza  delle  idee  sul    sovrannaturale fu  la  nozione   dello  spirito  d'un    uomo     morto,  è  il  ca- rattere   completamente    antropomorfo    degli    esseri     so- vrannaturali.  «L'uomo  dice  Tylor,    attribuisce  si  ordi- nariamente   ai    suoi  dei  la    forma    umana,  le    passioni umane,  la    natura    umana,    che  noi    possiamo  a    bella prima  dichiarare  che    l'uomo  è  un    antro pomorfita,  un antropopatita,  e,  per  completare  la  serie,   un  antropofì- sita.   K  uno  dei  più  forti  argomenti  della  teoria  secondo cui  la  concezione  deiranima  umana  è  la  sorgente  e  la origine  delle    opinioni    relative    agli  spiriti  e  alle  divi- nità in  generale.  Anche  le  possenti  divinità,  su  cui  ri- posano le  funzioni  più  vaste  dell'universo,  sono  model- late sull'anima    umana;  noi    vediamo  che  i  loro    senti- menti e  le  loro  simpatie,  il  loro  carattere  e  le  loro  abi- tudini, la  loro  volontà  e  i  loro  atti,  la    sostanza  di  cui sono    composti  e  la    forma    che    rivestono    in    mezzo    a tutte  le  loro  adattazioni,  a  tutte  le  loro  esagerazioni,  a tutte  le  loro  modificazioni,  si  modellano,  in  una  grande misura,  su  dei  caratteri  imprestati  allo  spirito  umano,  (2). Tuttavia  il  Tylor  non  ne  conclude,  come   Spencer,  che (1)  V.  (loblct  «rAviclln    /yi(f('(f  <//   Pio  aeeondo  V antropoloffia e  ìa  storia,   p.   K^l-187.  ^ (2)  Tylor  op.,'ìt..   t.   11.   e.   XVI. 49 tutti  gli  spiriti  e  divinità  non  sono  originalmente  che delle  anime,  o,  come  dice  Spercer,  dei  doppi  di  uomi- ai,  ma  solamente  che  1'  uomo  primitivo  concepisce  gli spiriti  di  cui  anima  la  natura,  per  analogia  con  la nozione  che  si  è  formata  del  proprio  spirito.  L'  an- tropomorfismo delle  religioni  sarebbe  certamente  meno grossolano,  se  V  uomo  non  vedesse  nei  suoi  dei  che le  cause  dei  fenomeni;  ma  T oggetto  della  religione  non è  di  speculare  sull'essenza  degli  dei,  ma  di  stringere con  essi  delle  relazioni  pratiche.  Il  credente  vuole  in- fluire sulla  loro  volontà  con  la  preghiera,  spera  di  ecci- tare la  loro  compassione  e  cerca  di  propiziarseli  con  doni e  con  adulazioni,  ripone  in  essi  la  sua  confidenza,  ne fa  gli  oggetti  della  sua  riconoscenza,  del  suo  amore  e della  sua  collera  ;  più  attribuisce  ad  essi  una  natura che  gli  sia  facile  di  evocare  nella  sua  immaginazione, più  si  sente  circondato  della  loro  presenza  e  per  conse- guenza della  loro  protezione;  tutto  ciò  lo  spinge  a  do- tarli dei  suoi  motivi  di  agire,  delle  sue  passioni,  della sua  indole,  della  sua  forma  stessa,  per  poter  vivere  con essi  in  una  unione  più  intima.  In  realtà  le  idee  che  si riattaccano  evidentemente  al  culto  degli  antenati,  o,  più generalmente,  degli  uomini  morti,  sono,  nelle  antiche religioni,  inestricabilmente  legate  con  quelle  che  si  riat- taccano non  meno  evidentemente  al  culto  delle  forze della  natura.  Questi  due  ordini  d'idee  derivano  da  due sorgenti  originalmente  indipendenti,  ma  finiscono  per confondersi  per  l'azione  incessante  di  un  sincretismo  e di  un'assimilazione  posteriore,  come  delle  correnti  ori- ginariamente distinte  che  confondono  le  loro  acque  in uno  stesso  letto  V  ovvero  si  deve  ritornare  alle  idee  di Evemero,  e  ammettere,  come  dice  il  poeta  .  che  una sola  è  la  stirpe  degli  uomini  e  degli  dei  ?  (1)  L'idea  di  as- (1)  Pindaro  Nem.   VI,   1. 50  - segnare  ai  feuoiueiii  della  natura  delle  cause  analo^-he aira  nostra  propria  attività,   tutte  le  volte  che  si  trovi  o creda  di  trovarci  in  questi  fenomeni  qualche  circostanza che  possa  suo-erir.-  la  nozione  della  vita  o  (juclla  della volontà,  sovratutto  il  inoviinento  spontaneo,   nasce  così naturahnente  nello  spirito  umano  come  quella  di  vedere nel  pr(>])rio  essere  una  dualità,  una  sostanza  anima  di- stinta    e    separata   dalla    sostanza    corpo  :    questi    due principii  della  filosofia  spiritualista  o,  più  o-eneralinente, animista  seinhrano  e-ualmente  primitivi;  perchè  subor- dinare il  primo  al  secondo?  (1)  D'altronde,   che  si  am- metta  o  no  l'ipotesi  esclusiva  di  Spencer,    ciò    non  fa niente  alla  quistione  fondamentale  :    V  idea    di    Comte, nei  suoi  tratti  più  oei, orali,  resta  sempre  vera:  lo  stato primitivo  della  coitur»  è.  nelTun  caso  e  nell'altro,  carat- terizzato da  (jucsta   tciidtmza  naturale  che  ha  l'uomo,  e clic  allora  può  manifestarsi   con   tutta   la    sua    energia, a  spie^-arc  i  fenomeni  della  natura  assimilando  le   loro cause  "alia   sua   prc.prJM   attività.   Ne  lo  Spencer  lo  neo-a.«Oft'ni  atto  volontario,  e-li   dice,  è  per  l'uomo  primitivo la  ])rovn   che  esiste  in  lui  una  sor.uente  di  forza...  Quan- di   I/osscrvM/ioMr    sriiil.ra    vouivvuMiVV   ^pu'sf  opinioiu^   coiKÌ- liaiite.   clK'   vtMh.,„.ll;i  tisic.latna  .'iM'lla  iK'crolatria    due  sor^rtMiti lU-llr  n-li-i.Mii   i  uiialiiH'ììti'   primitiv»'  v   iiiaiiM-iHlriiti     1'  una   dal- l'altra.  «Srinhra  dir   in   Clona   il  cult n  dr^rli  antenati    sia  venuto a   innestarsi   sovra   un   naturisn.o   anteriine.   Fra   i   INdinesi,   si  è potuto  stat.iliic  elle   il   <nlt«.  «h'i   nnn-ti  .   ori-inario  de-li   areipe- la^rhi   orientali,   lia   rieoperto   .|ua   e   là  Tantiea  venerazione  niito- lo-iea   della   natura  .    mentre   im.u  è  i\n»s\   penetrato  n.dle     isi>le più  oeeidentali  della  Mieronesia».   «  In  Siberia,  seeondo  Castreii. esistevano  delle   jiopolazioni  ehe  veneravano  ;l:1ì  o<i.i:<'tti  naturali. ma  n(Mi  avevano  mai  sentito  parlar?  de.^^li  spiriti  ».   ((ioblet  d'Al- viella   1/  i'frn  '/<    />''>  i^eeondo  ranfropoloffiu  e  la  storia,    pa.u;.    p   HO). —  51  — do  produce  del  movimento,  e«:li  percepisce  il  senti- mento concomitante  dello  sforzo.  Questo  sentimento dello  sforzo,  antecedente  percepito  dei  cang-i amenti  pro- dotti daini,  diviene  Tantecedente  concepito  dei  movimenti non  prodotti  da  lui...  Al  principio  Tidea  delle  forze  musco- lari, considerate  come  antecedenti  d'avvenimenti  insoliti CMC-  M  pris>èiuu  .ittwii.w  ^tv-..  ..V,....,,  insie- me delle  idee  associate.  Gli  sforzi  che  suppone  per  in- duzione,  li  rio'uarda  come  ])rodotti  da  esseri  simili  a lui.  Col  tempo,  la  concezione  dei  doppi  dei  morti,  cre- duti autori  di  tutti  i  canoriamenti,  ad  eccezione  dei  più familiari,  si  modifica.  Essi  divengono  meno  grossolani, ma  alcuni  ingrandiscono  per  divenire  personaggi  più importanti,  che  tengono  in  loro  potere  degli  ordini  di fenomeni  che,  relativamente  regolari  nel  loro  corso, sua'geriscono  la  credenza  ad  esseri  che  sono  al  tempo stesso  troppo  più  possenti  deiruomo  e  più  costanti  nei loro  modi  dì  azione.  In  sorta  che  l'idea  di  una  forza messa  in  azione  da  questi  esseri  si  stacca  a  poco  a  poco dall'idea  dello  spirito  di  un  uomo  morto  . §  2.  La  teoria  animista,  nella  sua  dop])ia  funzione di  spiegare  i  fenomeni  della  vita  e  di  fornire  al  tempo stesso  una  spiegazione  antropomorfistica  della  natura in  generale;  questa  teoria,  che  costituisce,  come  dice Tylor,  la  filosofìa  grossolana  e  infantile  dei  ])opoli  pri- mitivi', è  pure  il  fondo  della  maggior  parte  delle  con- cezioni metafisiche  dello  spirito  umano  in  uno  stato avanzato  di  culturn.  Vi  hanno,  dice  Aristoti'ie  (2),  tre scienze  speculative  :  la  fisica,  la  matematica  e  la  teo- log-ia.  La  scienza  del  sovrasensibile,  la  metaempinca, in"" questa  divisione  delle  scienze,  si  limita  dunque  alla (1)  Princìfni  Hi  socinìinfin,   v.    l\.   V^^•»^' (2)  Mei,  l.    XL    VII.  H. 52 teologia  :  il  concetto  di  metafisica  (i^el  nostro  senso)  e quello  di  teologia  sono  così  per  Aristotile  equivalenti. Una  tale  definizione  della  metafisica  non  può  convenire certamente  che  alla  metafisica  quale  la  comprende  Ari- stotile, ma  è  approssimativamente  della  stessa  maniera che  i  più  l'hanno  compresa  p  la  comprendono  tuttora. L'oggetto  della  metafisica  sono,  secondo  Kant,  le  due idee  di  Dio  e  dell'anima:  così,  deducendo  queste  due idee,  egli  intende  dedurre  i  principi!  fondamentali  della metafisica  o,  com'egli  dice,  della  dialettica  naturale della  ragione  umana  (1).  Questa  nozione  della  metafi- sica è  senza  dubbio  troppo  stretta,  e  non  potrebbe convenire,  e  nemmeno  rigorosamente,  che  alla  metafi- sica scolastica  dei  suoi  tempi.  Non  è  meno  vero  però che  la  metafisica  di  tutti  i  tempi  si  riduce  sommaria- mente alle  due  idee  assegnate  da  Kant,  le  altre  idee trascendenti,  oltre  le  prime  che  l'uomo  ha  concepite (cioè  Dio  e  l'anima)  non  essendo,  nella  storia  del  pen- (1)  Oltre  le  idee  dì  Dio  e  deiraiiirna.  vi  hanno  pure  per Kant  le  /(/<'<•  coHniologiclic,  sulle  ([iiali  volgono  le  a  ti  t  uioniie  deWa raiiion  ]>ura.  Ma  esse,  «lice  Kant,  non  oltrepassano  il  fenomeno, o  il  mondo  sensibile.  I^e  idee  non  diventam»  tritHceialenti,  se non  in  «pianto  noi  ]M>niam«»  l'incondizionato  eompletaniente  al di  fuori  del  mondo  sensibile,  e  i  nostri  eoner'tti  hanno  un  o*i;<;etto puramente  intelligibile.  Fra  tutte  le  idee  eosm(do«iiehe  è  cpiella che  dà  nascita  alla  «juaita  antinomia  (di  cui  la  tesi  afterma, e  l'antitesi  nega,  un  essere  assohUamente  necessario!  che  ei  spinge ad  arrischiare  ([uesti»  passo.  Così  essa  è  legata  all'idea  deXV Eììs realissumiiu  o  Ideale  della  ragion  pura  (i<lea  di  Dio).  Osservaz, Jfìti((/e  su  liitta  VaìituiOìnia  dilla  raf/ion  pura  (Crltiea  della  rag. pura,  Dialetliea  trascendentale  1.  11.  eap.  II.  sez.  IX,  IV).  Nella sez.  o.  del  1.  1.  delhi  Dialettica  trascendentale  (Sistema  delle idee  trascendentali,  in  nota,  2.  ediz.)  Kant  dice  più  esplicitamente che  la  metafìsica  ha  per  oggetto  le  idee  di  Dio  e    dell'  anima. siero  umano,  che  degl'incidenti  transitori,  mentre  queste costituiscono  la  sua  metafisica  perenne,  e  sono  còme un  fondo  immutabile,  sotto  le  onde  cangianti  della  su- perficie. L'attività  dell'uomo,  o  più  generalmente  dell'essere animato,  si  distingue  per  due  caratteri  :  la  spontaneità del  movimento  e  la  manifestazione  di  uno  scopo  o  di un  disegno.  Cosi  questa  è  la  doppia  funzione  dell'ele- mento spirituale,  o,  piuttosto,  animico,  nella  economia della  natura  :  esso  è  considerato  come  principio  del movimento,  e  al  tenìpo  stesso  come  causa  di  ciò  che nei  fenomeni  può  riguardarsi  come  la  manifestazione di  un  piano  o  di  un  disegno,  in  altri  termini  (quando i  concetti  della  metafisica  acijuistano  più  precisione)  come principio  della  finalità  della  natura,  di  ciò  che  si  chia- mano le  cause  finali. È  sovratutto  nella  filosofia  antica,  (quando  i  prin- cipii  della  meccanica  sono  ancora  ignorati,  che  l'ele- mento animico  viene  considerato  come  principio  di  mo- vimento. Due  cose,  dice  Platone,  ci  fanno  credere  all'e- sistenza degli  Dei  :  la  prima  è  che  l'anima,  ciò  che  muove se  stesso,  è  la  causa  prima  di  tutti  i  movimenti  che avvengono  nel  mondo  matf^riale;  l'altra,  l'ordine  che  si osserva  nel  movimento  degli  astri,  e  in  quante  altre cose  sono  soggette  alla  potestà  dell'intelletto,  il  quale dispose  il  tutto  (l).  «  Il  movimento  che  muove  se  stesso (quello  dell'anima)  è  il  primo  nell'ordine  della  genera- zione e  della  potenza  ;  ogni  altro  gli  è  secondo.  Infatti quando  una  cosa  produce  del  cangiamento  in  un'altra, e  questa  in  un'altra  ancora,  e  cosi  di  seguito,  vi  ha mai  tra  queste  cose  un  primo  motore?  e  come,  essendo mosso  da  un   altro,    sarebbe  il    primo  che    si    muove? (1)  Leggi j   Ma  ({uaudo  ciò  che  muove  se  stesso  produce  del  can- giamento in  uu  altro,  e  questo  in  un  altro  ancora,  e così  nasce  un'infinità  di  movimenti,  il  principio  di  tutti questi  movimenti  sarà  altro  che  il  movimento  di  ciò che  muove  se  stesso  ?  Se  esistessero  tutte  cose  insieme in  riposo,  come  osano  dirlo  la  più  parte  di  (luelli  che studiarono  la  natura,  qual  movimento  si  produrre  per il  Tìrimo?  certamente  quello  che  muove  se  stesso.  Il principio  adun(|ue  di  tutti  i  movimenti,  il  primo  movi- imMito  che  si  produce  nelle  cose  che  sono  in  riposo,  il priìììo  inovimento  che  si  è  prodotto  nelle  cose  che  si muovono,  è  quello  che  muove  se  stesso:  esso  è  neces- sariamente il  più  antico  e  il  più  possente  di  tutti  i cano-iamenti,  ma  (piello  che  ò  mosso  da  altra  cosa  e ìiìuove  altre  cose,  non  è  che  il  secondo.  Ora  s^  noi  ve- d<'ssimo  (juesto  movimento  in  (gualche  cosa  di  materiale, fiiialt'  proprietà  attribuiremmo  a  questa  V  Diremmo  che essa  vive,  se  essa  muove  se  stessa.  Ma  quaìulo  ammet- tiamo l'anima  in  qualche  cosa,  non  diciamo  pure,  che questa  cosa  vive?  Cos'i  muovere  se  stesso  é  la  defini- zione dell'essenza  di  ciò  che  ha  nome  anima,  ed  è  stato dimostrato  che  l'anima  è  il  primo  princi[)io  della  vene- razione e  del  movimento,  della  corruzione  e  del  riposo, in  tutti  ;>'li  esseri  presenti,  passati  e  avvenire»  (1). Noi  vediamo  che  (pii  Platone  propone,  quantunque esprimendolo  in  una  forma  meno  precisa  che  il  suo  suc- cessore Aristotile,  l'argomento  che  conclude  alla  neces- sità di  una  prima  causa  motrice  per  l'impossibilità  di una  serie  infinita  di  cause.  Anassagora  avea  pure  cer- tamente in  vista  di  evitare  questa  difficoltà,  quando ammetteva  che  all'orlo  ine  esistevano  tutte  le  sostanze mescolate  insieme  ed  in  riposo,  e  rintelligenza  mise  il (1)  Lrijiii  A'.   SlU  (l  —  SiM>  a. -  55  — tutto  in  moviuìento,  e  iniziò  il  processo  della  separazione di  queste  sostanze.  Cosi  tra  i  suoi   predecessori  Aristo- tile (1)  non  attribuisce  propriamente  di  avere   ricercato la  causa  motrice  che  ad  Anassagora,  ed  anche  ad  Em- pedocle, evidentemente  perchè  le  forze  motrici  di    que- sto, cioè    l'odio  e    l'amore,  essendo  dei     principii  spiri- tuali, o  più  propriamente  animici   (secondo    l'animismo |)rimitivo,  cioè  semimateriali),  e  dei   principii  inconver- tibili negli    elementi  materiali    ed  egualmente    primor- diali che    essi,  erano  propri  a  servire    da  cause  prime, benché  Empedocle  stesso  non  ne  avesse  fatto  quest'uso, non    essendosi    proposto    il    problema    di    (untare    il   re- o-resso  all'infinito  nelle  cause.   In  verità  Aristotile  pensa che  il    princi[)io    motore    potrebbe  anche    attribuirsi  ad altri  filosoti,  oltre  ad  Anassagora  e  ad  Empedocle  (2)  : ma  è  notcivole  che  tutti  i  suoi  predecessori  che,  secondo Aristotile,    hanno    ricercato,  o  a  cui  può  attribuirsi  di avere  ricercato,  il  principio  del  movimento  .    non    han- no trovato  (juesto  j)rincipio  cIkì  nello  spirito    o  in  altri (1)  V.  Met.  1.  1.  ni.  12-14.  IV.  2-<;.  V.  i2-i:>.  \  il.  :i. (2)  A  qiK'lli  <li<",  comò  Piiniiciiidc  nella  seconda  i>art<'  <lcl  suo poema,  anmiettoiio  come  elementi  primordiali  il  fuoco  e  «lualche altra  sostanza,  i'i  quanto  si  servono  «Id  lU'imo  ctune  se  uli  attii- luiissero  una  natiira  motrice  {Mct.  1.  1.  ili.  11):  e  allo  stesso l*armenide  ed  anche  a<l  Ksiixlo.  in  ([uantt»  semì»ran<»  porre  TA- m«»r(^  com<'  principio  (l.  I.  iV.  1).  Di  queste  due  opinioni  la  pri- ma (ciot'  (pudla  di  cui  e  (piisticme  md  e.  Ili.  Ili  non  o  mon- zicMiata  Uid  e.  VII.  H.  in  cui  vendono  indicate  le  dottrine  dei lìlosoli  (Ile  hanno  ammesso  una  causa  motrice;  e  in  quanto  alla seconda,  cioè  cpudla  di  cui  nel  e.  IV.  1,  Aristotile  in  (piesto luo.uo  n<Mi  aticrma  catci»ori<*amente  che  .i-li  autori  di  cui  si  tratta hanno  licercato  il  principio  del  nu)VÌmento.  Nel  e.  V.  12-13.  dove riassunu-,  eli»  che  ha  detto  d(dle  ricendie  dei  suoi  predecessori sulla  causa  nudrice.  e^li  mm  indica,  evidentemente,  che  le  dot- trine di   Anassagora  e  di    Empedocle. 5«  - —  57 agenti  analoghi  (p.  e.  Tamicizia  e  la  discordia  di  Em- pedocle, o  l'amore  di  Parmenide),  immaginati  commesso sul  tipo  della  nostra  attività  umana  o  animale  (1).  Fra quelli  che  hanno  assegnato  un  principio  del  movimento Aristotile  non  conta  Platone,  perchè  prende  alla  lettera le  allegorie  del  Timeo  (delle  quali  in  seguito  avremo occasione  di  esporre  il  significato),  in  cui  Platone  im- magina una  creazione  dell'  anima  nel  tempo  e  un  mo- vimento  caotico  degli  elementi  materiali,  anteriore  al- l'esistenza del  cosmos  e  dell'anima  stessa. Dai  luoghi    citati  d'Aristotile  non    bisogna  conclu- dere che    Anassagora,  Enipedode  e  gli  altri  a  cui  egli aceeiìDa  in  questi' luoghi,  siano  i  soli  che,  prima  di  lui, abbiano  sfMegato  il  movimento  per  un  agente  spirituale: le  indicazioni  che  noi  troviamo  su  ciò  nella    Metafisica devono  essere  compiotate  con  quelle  che  Aristotile  stesso ci  dà  nel    Dr     Anima.  Nella   Mpfa fisica  Aristotile  rifiuta a  (pielli    che  non  hanno  ammesso  una  pluralità     di  so- stanze eo-uaimeutt'  [)riiiionliali  l'onore  di   avere  ricercato la  causa  del  movimento,   perchè  i  fisici  che,  ammettendo \i\\   prin-ipio    unico,  consideravauo  Telemento    aniuìico da  essi  supposto  nella  natura  come  Tagente    essenzial- mente   motore,  non    proponevano    un'ipotesi  che    fosse propria  a  dare  una  soluzione  radicale  alla  quistione  della origine  ]>rinia     del   uiovimento,   lelemenlo  animico  con- vertendosi,  sfu'oudo  loro,   lìegli   altri   elemetìti.   e    questi (1)  \'.  i  liioirlii  citati  iiolh'  «Ino  in»to  ])roro<i<Miti.  e  special- mnite  Met.  1.  I.  VH.  :>•  H  f'ioro  di  Paniiriiido.  «li  cui  ii;  ^V^''. ì,  !  H!  11.  liio;:o  citato.  «^  aniiiiato.  couw  l'altro  dei  suoi  (lue elementi,  (mI  e  rt>iisidrrato  come  l'elemento.  i»er  dir  vnM,  i»iù spirituale  (V.  Zellcr  Filoni,  dei  Grn'i  t.  2.  529).  Noi  non  sappiamo »e  vi  errtuo  altre  <lottrin«\  a  cui  l'indicazione  di  questo  luo^o d'Aristotile  deve  essere  riferita,  oltre  che  Ji  quella  di  Parme- nide:   in   o«rni   <aso  (pieste  dottrine  ci   sono    seonoseiute. reciprocamente  in  quello,  sicché  nessuno  di  essi  poteva considerarsi    come    un    principio    assolutamente  primo. Del  resto    il  principio    essenzialmente    motore    era,  per tutti  i  fisici,  e  in  generale  per  tutti  i  filosofi,  1'  anima, «  L'animale,  dice  Aristotile  (1),  sembra  differire  dall'ina- nimato per  due    caratteri,  il  moto  e  il  senso  :    così  dai nostri  maggiori  riceviamo  questi  due  caratteri  sull'ani- ma. Alcuni  dicono  sovratutto  l'anima  essere  il  movente, ma  perciò  credono  necessario  che  l'anima  stessa  sia  in movimento  ».    Ciò  che  dobbiamo  prima  di    tutto  notare su  questo    luogo  d'Aristotile   è  che  egli  non  parla    ({Xii semplicemente  dell'anima  come  principio  dell'essere  vi- vente,   ma  ancora    come  principio  diffuso  nella    natura inanimata.  E  in  effetti  egli  adduce  come  esem[)i  di  que- st'opinione, che    l'anima  è  sovratutto    il    movente,  ma perciò  è    necessario  che  essa  stessa  sia  in     movimento, la  dottrina    di  Leucippo  e  di  Democrito  che    identifica- vano Tanima    cogli   atomi  di  fuoco  (facendo  perciò  del fuoco,  anche  come  elemento  della  natura  inanimata,  uu principio  animico  ed  essenzialmente  motore)  (2),  quella dei  Pitagorici,  che  dicevano  l'anima  essere  quei  corpu- scoli che  fluttuano  nell'aria  o  ciò   che  li  muove  (parlando così  perchè  questi  corpuscoli  sono  sempre  in  movimen- to),  e  quella  dei  Platonici  che  definivano  l'anima  ciò che  muove  se  stesso  (definizione  che  coini)rendeva  anche l'anima    del  mondo)  (4),    concludendo  su    (juesti  filosofi che  «  essi  tutti  sembrano  aver  creduto  esser   sovratutto pro[)rio  dell'  anima    il  movimento,  e  tutte  le  altre  cose il)   De  an.  1.    I.   II.  2. (2)  Ibid.    S.    Cfr.    su  «(uesta  dottrina  di   Democriti)    ciò   che diremo  nel  t^S  13. (3)  Ihid.  4. (4)  Ibid. —  58 f -  59  - esser  mosse  dall'anima,  questa  da  se  stessa  »  (1),  e  ag- giungendo come  altro  esempio  Anassag^ora  che  «  dice che  ciò  che  muove  è  l'anima,  e  se  qualche  altro  ha  pen- sato l'universo  esser  mosso  dall'intelligenza  »  (2).  Un'al- tra osservazione  importante  è  che,  quantunque  Aristo- tile nel  luogo  citato  di<*a  solamente  di  alcuni  che  hanno ammesso  che  Tanima  è  sovratutto  il  movente  (e  che  per- ciò essa  stessa  deve  essere  in  movimento),  tuttavia,  in sostanza,  egli  attrii)uisce  quest'opinione  pressoché  alla totalità  dei  suoi  predecessori  che  hanno  parlato  delTa- nima.  E  intatti,  quando  è  (juistione  degli  altri  che  hanno definito  V  anima  i)er  V  altro  dei  due  caratteri  ricevuti suH'aimiia  dai  predecessori,  cioè  il  senso  o  la  conoscenza (ai  (tiiali  tutti  attribuisce  di  aver  identificato  l'anima coi  principii  dell'universo),  dicedi  essi  in  generale:  «E come  hanno  o[)inato  dei  jìrincipii,  cosi  hanno  afif'ermato deiranima  :  non  è  infatti  contro  la  ragione  ch'essi  hanno collocato  l(f  causa  del  moto  nella  natura  dei  princi/pìi  ^>  (S). E  poi,  confutando  Topinione  di  quelli  che  fanno  del- l'anima un'armonia:  «Inoltre  non  è  ]ìroprio  dell'armo- nia lì  lìiuovere  :  ma  all'anima  tutti,  per  così  dire,  at- tribuiscono massimamente  questo  »  (4).  Così  noi  possiamo afT(M-niare,    secondo  Aristotile,  che  quasi    tutti  i  filosofi il)  (-Questa  |n<>|M)sizit)iHi  iKHi  (levo  riferirsi  solanieiitc  ai  lìlo- soti  di  mi  ]»arla  iiimi('<liataiii<'nt«'  i)riiiia.  «  (ijuauti  dicono  l'anima t^K^scrciò  fhr  muove  sr  stesso  ».  cioè  i  platonici,  ma  a  tutti  ([uclli «li  cui  ha  parlato,  cioè  anche  a«;li  atomisti  e  ai  ]nta,norici.  Nel primo  caso  non  direì»he  svnibvaiìo.  pei'chè  è  una  dottrina  clu'  1 platonici  prof<'ssano  es])licitamente  :  questa  parola  mostra  che la  ])rop<»sizioiie  è  una  semi>lice  deduzione  «l'Aristotile,  ciò  die Ri  comprende  perf«^ttam<'nte.  se  n(d  la  riferiamo  anidie  a.^li  ato- misti <*  ai   pita.i>;ori<'i. (2)   Ih'ul.   :^ (S)   Ihìd.   10. (4)  V.    IV.  S. greci  anteriori  aveano  riguardato  l'anima  come  la  forza motrice  per  eccellenza,    e  che  quelli  fra  di  essi,   m  ge- nerale, che  aveano  ammesso  lo  spirito  come  un  princi- pio dell'universo  (cioè  una  o  un'altra   forma  della  filo^ soHa    teologica),    è  sovratutto    come  causa  motrice  che l'aveano  fatto  servire  alla  spiegazione  dei  fenomeni.  Le indicazioni    particolari  sui    filosofi  teologici,    contenute nell'esposizione  storica  del  I  libro  del  De  annua,    con- fermano questo  concetto  che  risulta  dalle    proposizioni generali.    Oltre  che    ad    Anassagora  e    ai    Platonici,  la dottrina  che  assegna  al  principio  spirituale   del  mondo la  funzione  di  causa  motrice  (e  che  perciò  riguarda  (luesto principio    come    esso    stesso  necessariamente    in    movi- mento),   è  attribuita  :    a  Talete,  che    anch'egli    sembra aver  ammesso  che  l'anima  «è  infusa  nel  tatto,   per  cui forse  ha  opinato  che  tutto  è  pieno  di  dei  e  di  demoni  »  (1) -  questi,  dice  Aristotile,  pare  che  abbia  creduto  che  Ta- nima  è  un    ì)rincipio  motore,    attribuendo    Tai.ima  alla pietra   (cioè  alla  calamita)   perchè  muove  il    ferro  (2)-; a  Dioovne  d'Apollonia,  che  identificava  l'anima  cosmica con  iTiria,    la  più  sottile  di  tutte  le  sostanze  e  il  prin- cipio di  tutte    le  cose  -«e  perciò  disse  l'anima    cono- scere e  muovere:  conoscere,  perchè  è  il  prineipio.   e  di (,U(^sto  constano    le  altre  cose    (secondo  la    massima  di molti  fidci  che  il    simile  si  conosce  dal  simile)  ;     ed  es- sere motrice,  perchè  è  ciò  che  ri  ha  di  pia  solide  -^   (/>)-; ad  Eraclito,  .-he  vedeva  nel  fuoco,  come  Diogene  d\\i>ol- Ionia   neiraria.  al  tempo  stesso  l'elemeiUo  primitivo  e  il principio  animatore  deiruniverso-il  fuoco  infatti,  dice Aristotile    su  (questa  dottrina,    «  è  costituito  di    parti  le più  sottili  ed  è  assai    più  incorporeo  che  gli    altri    ele- (1)  C.  V.   17. (2)  C.   II.  If. (8)  C.  II.  l'i. ~  60  — menti  ;  si  muove  inoltre,  e  muove  in  primo  luogo  le  altre cose^  (1)—;  ^d  Alcraeone,  di  cui  Aristotile  assimila  l'o- pinióne a  quelle  dei  filosofi  precedenti,  perchè  e^ii  ve- deva una  prova  dell'immortalità  dell'anima  nell'  essere essa  sempre  in  movimento,  come  gl'immortali  (cioè  le divinità,  i  corpi  celesti)  (2).  Naturalmente  Alcmeone deduceva  il  movimento  continuo  dellanima  da  ciò  che essa  è  la  forza  motrice  del  corpo  animato,  conforme- mente al  concetto  che  Aristotile  attribuisce  a  tutti  quelli che  aveano  fatto  dell'anima  un  principio  motore,  cioè che  è  impossibile  che  una  cosa  ne  muova  un'altra,  se non  è  essa  stessa  in  movimento  (3);  concetto  che  era  una conseguenza  assai  ovvia  del  dopjf/'o  materialismo^  che  è la  forma  [)riiiiitiva  deiraniinismo. 11  principio,  a  cui  tendono  le  dottrine  di  tutti  (juesti filosofi,  che  l'anima  è  la  causa  del  movimento  nella  ma- teria, sviluppato  d'una  maniera  [)iii  rigorosa  (più  rigo- rosa ancora  che  nella  dottrina  di  Platone),  costituisce il  fondamento  principale  del  sistema  metafisico  d'Ari- stotih».    I!   Dio  fV  Aristotile  è    essenzialmente    il     primo {!)  (\  Il  11  I.,i  (lottrina  «li  cui  pjirhi  Aristotile  h  eviden- ti'iin'Ute  4iu*lla  di  Eraclito,  quaiituihpic  questi  non  sia  noiuinato, e  dica  seruplicernonte:  «  ad  alcuni  (l'auiiua.)  sembra  essei*e  fuoco». Infatli  i[UÌ  »^  quistionc  dti  tilosnti  che  identiticano  V  anima  col ])riiìei]ii(»  o  i  |)rinci])ii  di  tutte  le  cose,  caì  Eraclito  ì'  il  s(d<».  per quaiif'»  'IO  sappiamo.  <d»e  lia  identificato  l'anima  c<d  fuoco,  e  li;» visto  ni  t(m*sto  il  primo  priru'ipi»».  ((Questa  dottrina  poi  è  ojiposta  sì quella  «h  l)rmo<rito  —  clir  ancireiili  idcntitìcjiva  l'anima  col fuoco.'  vedeva  in  esso  »/«o  dei  principii)  —  Cfr.  sulla  dottrina «li  l-ra(  lito  il  ^  l'>  '•  Eraclito  dice  die  1'  iinima  è  in  un  riuss4» continuo  :  cuì  che  si  nmove  infatti  deve  conoscersi  da  ciò  che .si  muove  (seciMido  la  massima  su  indicata  dei  tisici  e  l'o[»iniono di    Eraclito  che  tutto  è   m    movimento). ri)  C.    II.    17. (:H)  V.  e.  II.  s. 61 motore  :  questa  concezione  fondamentale  della  sua  me- tafisica non  è  che  l'idea  dei  primi  filosofi  greci,  e,  pos- siamo   dire   generalmente,    degli    stadi    primitivi    della cultura,  che    l'anima  ha,  essa  sola,  la  capacità  di  pro- durre del    movimento  spontaneo,    fatta  servire  alla  so- luzione della  difficoltà  acni  dà  luogo  T  applicazione  del principio    di  causalità    alla    totalità    dei    fenomeni,  per l'impossibilità  di  concepire  la  serie  ascendente  delle  cause d^un  effetto  dato    come  illimitata.  Il  movimento  per  i  fi- losofi greci    essendo  press'a  poco  l'equivalente    di  can- giamento,   l'impossibilità  di   un  incatenamento    causale in  cui  ciascuna  causa  sia  l'efiPetto  d'una  causa  antece- dente,   si  traduce    per  Aristotile  nell'impossibilità    che, nella  serie    dei  movimenti  cosmici,    ciascun  movimento sia  prodotto  da  un  movimento  anteriore.   Una  serie  in- finita di    cause  essendo    impossibile,  Aristotile    ne  con- clude che  è    necessario,  ri:nontan(i.>    continuamente  da un   movimento  a  un  altro  nioviinento  anteriore,  di  fer- marsi a  qualche  movimento  primitivo,  che    non  è   esso stesso  causato  da  un  movimento  anteriore  (1).  Egli  trova questo  movimento  primitivo  in  quello  dei  corpi  celesti: nella  serre  fenomenale,  è  questo  movimento,  secondo  lui, che  costituisce  il  primo  anello  dell'incatenamento  causale, a  cui  è  legato,  come  ultimo  anello,  qualsiasi  effetto  osser- vabile nella  natura  (2).  Rimontando,  secondo  lui,  la  serie ascendente  delie  condizioni  di  qualsiasi  cangiamento  che si  produce  negli  esseri  mutabili  e  terrestri,  si  arriva  in fine,  come    condizione  prima,  ai  cangiamenti    periodici delTambiente,    i   quali   sono  determinati  dai    movimenti (1)  V.  Phìjs.  1.  Vili.  e.  V,  Mei.  1.  II.  e.  II,  DeeoeloX.  111. e.  11.  3,  ecc. (2)  V.  Phys,  1.  Vili.  VII-IX  :  il  juimo  dei  movimenti  e  il movimento  di  traslazione,  e  dei  movimenti  di  traslazioue  il  pri- mo è  il  circolare  (cioè  quello  dei  corpi  celesti). —  «2    - circolari  dei  corpi  celesti.  Sono  (questi  cang-iainenti  pe- riodici   le  condizioni    ultime  della   generazione  e    della corruzione    deg-ji  esseri  (1)    e  di  oo-ni  altro    movimento che  si  produce  sulla  terra  (2).  (tIì  stessi  esseri  animati, dice  Aristotile.  ìio!i  producono  del  movimento  spontaneo che  in  apparenza:  (juesto  movimento  che  sembra  spon- taneo, è  preceduto  da  qualche  altro,   il  <iuale,  a  dir  vero, Tìon  è    uu  nimiiiicuto    di   traslazione,  ma     è  sempre  un movimento  (cioè  un  cangiamento),  quantnnfiue  di  iiiì 'al- tra natura.    K  cosi,    rimontando  la  serie  de<i-li     antece- denti, si  arriva  pure,   per  i   mo\  iuumti   debili  esseri  ani- mati, ai    can<>iameìiti    delTambiente,  e  quindi  ai   movi- menti   dei  corpi    celesti,    come    antecedenti  ultimi    (3). Quest'o>«('rvnzioTie  d'Aristotile  è  certamente  notevole  in quello  stato   primitivo  della  fisiolotj;-ia  :   ma  tanto  è  vero che  le  su^'iiestioni  della  vita  di   tutti  i  .adorni   sono  più foni  che  quelle  della  ritles.^ione  scientitìca,  che  è  precisa- mente questo  movimetìto  spontaneo  dell'essere  animato, di  cui   ha  riconosciuto  il  carattere  illusorio,   il  fatto  ch(^ eodi  sceti'lie  come  principio  di  una  spiedi-azione  radicale di   tutti   i  canudamenti   feìiomenali,  e  a  questo   principio sospende,    ])er  usare    la  sua  stessa  es|)ressione,    il   cielo e  tutta    la  natura    (4).   i   movimenti    circolari   dei    corpi celesti  si   producono  perchè  questi  sono    dej>di  esseri   a- nimati  (ó;  :  cosi  le  Intellig-enze  che  animano  ((uesti  corpi, sono  le  cause  prime  di  tutti  i  movimenti  didla  natura  (H). Queste  Intelliii'enze,    che  sono  le  cause  jnduìe  di  tutti  i (1)  Ih-  gf'„.  et  rorr.   1.    Il     e.    X    e    XI.    />>'   focìtt   1.    II.   e. }tef.    1.  Xll.   t.   t'cc. {2\  \ .    iH'ta    pt'iiultinm. (H)  V.    /Vm/.s-.   i.    Vili      11.   .'>.    VI.   7. <4)  Met.   1.    XII     VII.  5. ^5)  V.    Ih'  ^ui^ìo   ].   II.  .    li.    Ihitf.   .  XII.  (M-C. .»i)  J/W.     i.     Xll.    r.     VI    IX. IH. 63 cangdainenti,  non  subiscono  esse  stesse  alcun  can^^da- mento  dall'azione  delle  altre  cose:  come  cause  assolu- tamente prime,  esse  non  subiscono  V  azione  di  alcun principio  a  loro  straniero  ;  ben  più,  esse  sono  esenti  del tutto  da  (jualsiasi  cangiamento  (1).  Se  esse  cangdassero, bisog-nerebbe  cercare  le  cause  dei  loro  cang  iamenti,  e poi  le  cause  di  queste  cause,  all'iniinito  ;  e  noi  non avremmo  trovato  ancora  le  eause  assolutamente  prime di  tutti  i  cangdamenti.  Per  altro,  l'immutabilità  delle Intelliii'enze  celesti,  oltreché  deidva  dalla  loro  funzione di  cause  priìfte,  è  pure  necessaria  per  ispieg'are  l'immu- tabilità dell'  ordine  dell'universo,  e  la  costante  unifor- mità dei  movimenti  del  cielo,  di  cui  (jueste  Intellig'enze sono  il   principio  (2). Cosi  rintuizione  spontanea  (hdranimismo  primitivo, che  l'anima  è  la  forza  motrice,  diviene  in  Aristotile l'arg-omento  della  causa  prima,  che  ha  per  conseguenza l'idea  deirimmutabilità  assoluta  di  Dio.  11  concetto  della divinità  entra  così  in  una  nuova  fase  i)iù  trasc(uidente  (3), di  cui  non  vi  ha  niente  di  simile  né  neiranimismo  pri- mitivo né  in  g-enerale  nella  filosofia  teologdca  anteriore, ma  che  per  noi  è  divenuta  una  forma  inseparabile  da questo  concetto,  |»assando  da  Aristotile  nella  filosofia cristiana,  e  da  questa  nella  moderna. L'idea  che  Dio  è  il  principio  del  movimento  della materia  è  contenuta  implicitamente  nella  concezione, sì  g'enerale  nella  filosofia  antica,  della  divinità  come anima  del  mondo.  Com'è  la  nostra  anima  che  muove  il nostro  corpo,  così  il  corpo  dtdl'universo  è  mosso  dalla sua  g'rande  anima. Spiritus  intus  alit,    totamque    infusa  i)er  artus Mens  agitai  moleuì. (1)  Mft.   I.   XII.    VI-IX.    /'////x.   1.    Vili.   V— X.   ecc. (2)  Met.  1.   XI.   II.  S.    /V///.V.    1.   \  ili.   VI.  SA),   X.  i\,  n-v. (3)  V.   ^  Ti. i4 65  - i_ Se  tra    le    grandi    scuole    tìlosotìche    greche    gli   Stoici sono  i  soli  di  cui  si  riconosce  generalmente   che  la  di- vinità ('  per  loro  Taninìa  del  mondo,  è  unicamente  per- chè la    moderna    filosotìa    teologica  non  ha    avuto,   per questi  filosofi,  le  stesse  ragioni  che  per  altri  di  prestare ad  essi  i  propri  concetti.    TI   Dio  d'Aristotile  non  è    an- chesso    che  l'anima    cosmica:  il  cielo  e  gli    astri  sono degli  esseri  animati  (Ij  ;  le  sostanze  divine,  cause  prime del  movimento  e  di  tutti  i  fenomeni,  sono  le  intelligenze che  il   animano,  e  il  loro  modo  d'azione  sulla  materia  è assimilato  a    quello  dell'anima  negli  esseri   viventi  (2). L'identità  del  Dio  di  Platone  con  la  sua  anima  del  momlo non  può  contestarsi  che  f)er  un'interpretazione  arbitraria del  sistema    delle  Idee,    che  vede    in  queste  i  pensieri della  divinità   (cioè    del    Dio  supremo),   e   riguarda  per conseguenza  come  la  divinità  (nel  senso  moderno  della parola)  l'Idea  che  contiene  e  produce  tutte  le  altre,  cioè la  più  generale  (ò)\  concetto  dell'assurdità  più  evidente, quando  si  è  compreso  il  vero  significato  delle  Idee  pla- toniche. I  Neoplatonici  sono  1  soli  che  hanno  ammesso, oltre  all'anima    del    mondo,  dei  principii    superiori,    ri- guardati come  delle  ipostasi  anteriori  dell'essere  divino; ma  cosi  essi  hanno  presentato  alla  storia  della  filosofìa un  enigma    insolubile  —  se  si  considerasse    la  loro  filo- sofìa come  una  spiegazione  del  mondo,  e  non,  quale  è stata    realmente,  come    un  sincretismo  delle    tradizioni filosofiche,  mediante  un'interpretazione  più  o  meno  ar- bitraria dei  sistemi  anteriori,  e  specialmente  del  plato- nismo—  :  cioè  in  che  questi  principii  superiori,  ch'essi aggiungono    all'  anima,    possano  avere    qualche  utilità (1)  V.  De  eoelo  1.  II.   II.  f>,  XII.  2,  8,  1.  e. (2)  V.   Met.    1.   /.   III.   13,   De  eoelo  1.  II.   XII.    4,  De  anlm motu  VI.  ecc. (3)  V.  e.  VII. per  una  maggiore  intelligenza  dei  tenonieni.  I  Neopla- tonici e  gli  Stoici  danno  espressamente,  come  Platone ed  Aristotile,  l'anima  cosmica  per  la  forza  motrice  della materia  (1)  ;  i  primi  adottando  le  dottrine  platoniche •ulTanima,  i  secondi  ritornando  alle  idee  dei  più  an- tichi filosofi  (2),  e  identificando,  commessi,  lo  spirito  con Velemento  materiale  più  attivo,  ma  con  un  concetto  più rigoroso  della  causa  motrice,  che  essi  ancora  non  hanno, d  che,  fra  i  predecessori  di  Aristoule  e  di  PI  atonia  noi non  troviamo  che  in  Anassagora.  Il  concetto  della  di- vinità come  anima  del  mondo  si  trova  anche  in  germe (come  quello  dell'anima  come  causa  motrice)  in  questi più  antichi  filosofi  che  ammettevano  delle  dottrine  teo- logiche, ed  è  già  maturo  in  quelli  tra  di  essi  in  cui la  filosofia  teologica  prende  una  forma  più  sistematica, come  Diogene  d'Apollonia,  Eraclito  ed  Anassagora  (3); infine,  noi  possiamo  aggiungere  Socrate,  il  quale  con- cepisce   evidentemente  il    rapporto  fra  Dio    e  il  mondo (1)  Por  iili  Stoici  V;  Stul).  Ecl.  l.  178  e  cfr.  ()«;ereau  Sag- gio sul  sìst.  filoH.  degli  Stoici  specialiiionte  e.  3.  pan.  53-60.  Pei Ncoplatonici  v.  Simon  Storia  della  scuola  dWlesaandria  special- mente t.   1.  1.  2.  e.  3. (2)  V.  sopra  pajj^.  57-60. (3)  V.  §  6  — Aristotile  (De  An.  1.  1.  11.  5  e  13)  ilice  eh© Anassagora  ora  identilìca  il  nous  con  l'anima  e  ora  li  distingue, in  quanto  ora  seniì)ra  aceordjire  al  nous  le  funzioni  dell'anima in  generale,  ed  ora  solamente  «piella  dell'intelligenza.  Del  resto il  nous  (V  Anassagora  ì^  sì  cliiarameiite  immanente  nel  mondo, che  esso  si  fraziona  nei  diversi  esseri  animati,  dei  «piali  costi- tuisce l'anima  (V.  Fr.  5  e  6  Muli,  e  Arist.  Z>c  a/i.  1.  I.  II.  5): questa  dottrina  prova  anche,  come  osserva  bene  Aristotile  (l.  e), che  Anassagora  riguarda  il  no?/A*  come  eipiivalente  all'anima — In Met,  l.  I.  III.  13  Aristotile  paragona  Anassagora,  rapporto  agli altri  Jìsici,  ad  un  uomo  sobrio  tra  gente  ubbriaca,  per  aver  detto che  vi  ha  nella  natura,  come  itegli  animali^  un  intelletto  causa del  cosmos  e  di  tutto  l'ordine. m per  analogia    a  quello  tra    l'anirna  umana    e    il    corpo umano  (1).  L'idea  clic  Dio  ìv  l'anima  del  mondo  è  cosi . generale    presso    «ci' I^' l'ani  come  presso  i    Greci  :  è  la dottrina  della  scuci. i   e  e  (Iantina  {2),  della  nijàya  (8),  della vanesika  (4),    della  sànkhya  teista  (5),  e  in  una    parola di  tutte  quelle  che  ammettono  la  spieorazione  teolog'ica,. sia  nella  forma  panteistica,   sia  nella  dualistica.  Natu- ralmente r  anima  unirorsale  o  suprema  {Paramàtmà)  è la  t'orza  motrice  deli'  universo.   <^  Mentre  il  dio    veglia, dicono  le  Leggi  di  Mann,    il  mondo  vive  e  si  muove  ; quando  il  suo  spirito  è  iti  riposo,  l'universo  pure  passa e  si  svanisce  così  lun-amente  ch'eg'li  sonnecchia    nella sua  beatitudine;  la  folla  deg-li  esseri  terrestri  agenti  va- cilla: In  spirito  stesso,  destituito  di  og-ni  azione  deter- minata, si  stanca.   K  .illora  gli  esseri  sono  immersi  af- fatto nel  fondo  di  (|Uest'al)isso  (fi),  perchè  queg'li  che  è In   vita  di  ogni  esistenza  sonnecchia  dolcemente,  privato della  sua  forza....,  É  cosi  che  scambiando    alternativa- men:e  il  sonno  e  la  veglia,    costantemente  egli  fa  na- scere alla  vita  tutto  ciò  che  ha  il  movimento  e  tutto  ciò che  non  ì"ha,  poi  Tanuienta  e  resta  immobile»    (7).  La proposizione^  che  condensa  il    Vedanta    è    che    Dio   è  la causa  efficiente  del  tutto  così  bene  che>  la  causa    mate- (1)   V.   Seiiof.   MfMiiornl».   l.   1.  e  4. il)   V.   Colcbnuikr   S(nj(ji  nidìa   lìlos.   iir(fV IìhL.    W'aA.    tVnìic, \y,i^^.   I«ri-is7.    11M»-2(MI.  ecc. (li)   V.   Colei».    (>//.   i'it.   p.  .V2-58  (nota   di    Pauthicr)   e  5H. (4)  Coli'bi-.    (>t>.  rit     pali,   "t'»^  (nota   di    Pauthier). (5)  V.  Colchr.   Op.  cif,  p.  28,84. (>!  f:  !n  stati»  del  monde»  prini}»  della  ereazione,  ehe  h  stillo oi-,  descritto  così  :  «  .Altra  v(»lta  tutte»  questo  inondo  era  tene- broso .  scojioscinto  .  n(»n  si«initicat(»  .  non  svelato,  vuoto  e  indi- scornilnle.  come  ><•   tulio  l'osse  stato  Hnc<»rH  ininierso  nel  sonno». (7)  Dal  1.  libro  didle  Lcf/gi  di  Mmui.  V.  Schlegel  La  /<»- //////   r   hi   filifsofitt  fltijV  fìifiiani,  1.    t.  11. —  67  — fiale  (1):  un' upanisade  (2)  dichiara  che  «  tutto  quest'u* ni  verso,  procedente  dal  soffio  (prana,  cioè  da  Brahma), si  muove  nel  senso  del  movimento  che  gli  e  stato  im- presso; quelli  che  conoscono  questo  soffio  d'impulsione primitiva,  divengono  immortali  ».  (3)  «I  NyàyìkaSy  dice un  indianista,  credono  che  lo  Spirito  e  la  Materia  sono eterni  ;  il  primo  godente  della  vita  e  del  pensiero  ;  la seconda  inanimata  e  passiva,  e  non  muoventesi  che  per r  impulsione  che  riceve  dallo  Spirito La  materia  è incapace  d'  azione,  d'onde  è  evidenie  che  i  movimenti deiili  oo-p'etti  materiali  sono  causati  da  uii  essere  diffe- rente  da  (|uesti  ogg-etti  »  (4).  La  dottrina  dell'anima  del mondo,  come  dice  A.  Comte,  non  è  che  del  feticismo generalizzato  e  sistematizzato  —  non  è  strano  che  la filosofia  teologica,  (|uando  prende  sovratutto  per  oggetto la  spieg'azione  dei  fenomeni,  ritorni  al  suo  punto  di  [par- tenza,  in  cui  lo  spirito  umano  si  metteva  spontanea- mente per  il  suo  slancio  istintivo  verso  le  cause,  e  dal (luate  forse  essa  non  si  sarebbe  mai  allontanata,  se  non fosse  stata  mai  altro  che  una  filosofia,  cioè  una  spiega- zione dei  fenomeni— .È  naturale  dunque  che  le  ra- g-ioni su  cui  si  fonda  la  dottrina  deiranima  del  mondo siano  quelle  stesse  su  cui  è  fondato  il  naturismo  pri- mitivo. «  I  Zi  o  jìotenze  sovrannaturali,  osserva  il  Sayce sulle  credenze  degli  antichi  Baì)iIonesi,  erano  semplice^ ménte  tutto  ciò  che  manifesta  della  vita,  e  il  criterio iìvììa  rifa  è  il  movimento*.  E  precisamente  il  c»iterio  di 11)  V.   (N.lebrooke  ]»a<r.   llìH-l89,    11^-200,  2S7-2SÌ»,   ecc. (2)  liC  nptnììsddi,  trattati  teolojrici  a]»parteiu*uti  ai  qiiattro Veda,  sono  una  delle  sor«ienti  e  la  ]>rincipale  aut<»rità  della  tì- losofia  vedantiiui. (Si  V.  Colebiooke.  Stt'fiuì  aitila  ./f/o.v.  deijì'/nd.,  trad.  fraiu*., ]».    171   (efr.   )».  1H4). (4)  V.  (\»l»'br(»ok<'.  Sai/f/i  Mulìa  iìlo$,  deqVTìid,,  trad.  frane., ])»ji".  r>2-58.   nota   «li    Pauthier. 68 —  69  — r IH !.,-V cui  si  serve  Platone  (nel  luo^o  citato  sul  principio  del paragrafo)  per  dimostrare  l'esistenza  d'  una  divinità, d'un'aniiiia  cosmica. Nella  tilosotìa  teologica  moderna  la  funzione  di  Dio come  principio  motore  passa  in  seconda    linea,    ed    ha un'importanza  di  gran  lunga  inferiore  a  quella  di  prin- cipio delle  cause    tinali.    Oltre   che    ai    progressi    della meccanica,  ciò  si  deve  evidentemente  a  questo  fatto,  che Dio  è  concepito  come  troppo  separato  dal  mondo,    per- chè possa  muovere  la  materia  come  l'anima  muove    il proprio  corpo.  La  concezione  di    Keplero  —  pertanto    sì naturale  quando  si  cerca  sovratutto  nel  sistema    teolo- gico uua  soddisfazione  al  bisogno  istintivo  di  conoscere le  ca?^.se---che  «l'universo  è  un  tutto  armonioso  di   cui Dio  è  r  anima*,  è  ben  lontana  dallo    spirito    generale della    tilosofia    teologica    moderna:    questa    concezione seiiìbrerebbe  ai   |)iù  una  degradazione  dell'  Assoluto,   ed è  infatti  incompatibile  coi  concetti  moderni,    risultanti da  questo  processo  di   dimnlropomorfizzazioììP    progres- siva della  divinità,  (li  cui  parleremo  nel  §  5'».  Di  più  il dogma  della  creazione  ha  per  effetto  chB<.  per  il  filosofo moderno  la  quistione  dell'origine  prima  del  movimento rientra  in  (luelìa  dell'origine  prima  dell'universo  mate- riale in  generahs  l*  atto  «li    creare  il    inovimiMito    della materia  non    potendo    distinguersi    che    per    astrazione dall'atto  di  creare  la  materia  stessa.  Contuttociò,  anche nella  filosofia  teologica  moderna,  il  priìno  motore  è  sem- pre Dio.  Secondo  S.   Tonnnaso,    la    dimostrazione    dal moto,  che  egli  prende  dalla  Fisica  d'Aristotile,  è  la  via prima  e  più  manifesta  per  dimostrare  1'  esistenza  divi- na (1).  Dopo  la  costituzione  della  meccanica  non  pote- va più  essere  quistione  della  dottrina  del  primo  motore nella  forma  aristotelica  :  ma  la  dottrina  ammessa  dalla più  parte  dei  filosofi  moderni,  che  ogni  movimento  della materia,  almeno  della  inanimata,  è  dovuto  alla  trasmis- sione del  movimento  di  altra  materia,  lungi  di  scuotere il  principio  su  cui  era  fondata  la  dottrina  aristotelica, non  faceva  anzi  che  rinvigorirlo,  perchè  nella  teoria impulsionista  si  vedeva  la  prova  più  evidente  di  questo principio,  cioè  che  la  materia  non  può  muoversi  da  se stessa,  e  che  il  movimento  deve  venirle,  per  conseguen- za, da  qualche  cosa  di  distinto  da  essa,  che  natural- mente non  può  essere  che  lo  spirito.  Cosi  i  filosofi  teisti moderni  si  sono  accordati  ad  ammettere  che  la  materia è  passiva  ed  assolutamente  inerte,  e  che  la  impulsione, almeno  primitiva,  del  suo  moto  non  può  esserle  data che  da  Dio,  il  quale  crea  dapprima  la  materia,  poi  le imprime  il  movimento,  per  un  atto,  come  dice  il  Lau- ge  (1),  che,  almeno  in  ispirito,  può  separarsi.  E  la  dot- trina di  Cartesio,  di  Gassendi,  di  Hobbes,  di  Newton, di  Locke,  degli  occasionalisti,  di  Berkeley,  ecc.  :  Leib- nitz  si  unice  anch'egli  al  coro  generale  (3),  benché  non si  veda  perchè  nel  suo  sistema,  che  fa  della  materia qualche  cosa  di  vivente  e  di  attivo  (dottrina  delle  mo- nadi),  vi  sia  bisogno  ancora  della  cìiiqaenaude  (come Pascal  chiamava  l'azione  di  Dio  nel   sistema  cartesia- (1)  ò'umma  pars  I,  qiKiest.  II,  art.  III. (1)  Sfar,  del  mutcrinl.,  t.   !..  i)artc  2.,   e.  li. (2)  Seooiidu  (Jassondi,  <»li  utoirii  liaimo  una  facoltà  naturale iuterna  di  muoversi,  ma  riinimlsioiie  prima  di  questo  movimento 4^.  stata  (lata  ad  essi  (bi  Dio.   V.   Lange,   Stor.  del  matcr.,   t.  1., }>arte  o.,    e.   1. (8)  V.  Considerazioni  sai  prineipii  di  vita  e  sulle  nature  pla- stiche (l)utens.  tomo  2..  parte  1.,  pag.  41)  :  la  massima  che  un ('{}v\m  non  può  nnioversi  che  p(ir  l'urto  allontana  i  motori  parti- colari, nui  ci  porta  al  primo  motore,  perchè  la  materia  essendo indifferente  in  se  stessa  a  ogni  movinn^nto,  o  al  riposo,  e  pos- sedendo ]»ertanto  sempre  il  movimento  con  tutta  la  sua  forza  e direzione  .  esso  uou  ])uò  esservi  stato  messo  che  dall'  Autore ste^^so  della  materia. —  70  -  no)  -  a  parte  la  pretesa  necessità,  di  cui  qui  non  è  qui- stione,  di  spiegare  l'  armonia  presUbilita  e   la   finalità delle  leo'où  del  movimento-.  Più  recentemente -anzi  e an  concetto  che  si  trova  g-ià  in  germe  in  alcuni  dei  fi- losofi  citati  (notevolmente  in  Berkeley) -questa  dottrina si  è  fondata  sulla  teoria  rolizionale  della  causazione,  se- condo la  quale  la  volontà  è  la   sola   causa    vera,    cioè efficiente,  di  cui  abbiamo  esperienza,   le  altre  cause  co- nosciute  non  essendo  che  semplici  antecedenti  di  sequen- ze invariabili,  e  quindi  noi  dobbiamo  concepire  tutte  le cause  efficienti  sul  tipo  della  nostra  volontà.  E  in  effetto il  solo  tondatnento  che   la    dottrina   possa    avere    nella scienza  moderna.    Infatti  se  il  movimento  volontario  è una  causazioiìo  nello  stesso  senso  delle  causazioni   tìsi- che, cioè  una  semplice  sequenza  invariabile,  non   vi  ha motivo  di  accordare  alla  volontà  il  ])rivilegio  di  essere una  causa  produttrice  di  movimento,    mentre  gli    altri agenti  non  sarebbero  capaci  che  di  trasmetterlo,  essendo da  una  parte  un'  applicazione   inevitabile  del  principio della  conservazione  dell'energia  che  la  volontà  non  può creare  della  forza,  ma  solo  dare  una  nuova  forma  alla forza  già  preesistente,  e  da  un'altra  parte  degli  agenti puramente  tisici  avendo  in  comune    con    la    volontà    il l)otere  di  trasformare  la  forza  latente  in  forza  visibile, cioè  m   movimento  meccanico.  Ma  se  è  così,  non  vi  ha ragione  -  se  causa  vuol    dire    antecedente    di    una    se- qu'enza  invariabile  -  di  vedere  in  un   essere    spirituale il  solo  principio  che  possa  spiegare  l'origine  del    movi- mento; poiché,  ammessa  anche  la  necessità  di  una  causa prima  del  movimento,  resterebbe  a  provare  che  questa causa  è  necessariamente  un  principio  spirituale,  e  l'e- sperienza non  potrebbe  fornirci    alcun    argomento    per assegnare  questa  funzione  a  un  principio  spirituale  piut^ tosto  che  ad  uno  non  spirituale  ^1).  Per   fare    ciò    non (1)  Cfr.  Stuart-Mill  Saggio  sul  teismo,   \  parte  .   Arjioii.cut delhi  causa  prima ^  71  - potrebbe  darsi  che  una  ragione,  cioè  che  lo  spirito  è la  sola  causa  efficiente,  e  per  conseguenza,  tra  le  causeempiriche  del  movimento,  esso  solo  è  una  vera  causa, e  le  altre  non  sono  che  semplici  antecedenti,  che,  per essere  seguiti  dall'effetto,  hanno  bisogno  dell'intervento d'una  vera  causa,  cioè  d'uno  spirito.  Qui  noi  vediamoun  aspetto  di  un  fatto  del  più  grande  valore  per  com- prendere la  natura  intima  e  portare  un  giudizio  sulla validità  obbiettiva  della  filosofia  teologica,  e  che  mo- streremo sotto  altri  aspetti  nel  ^  7'^,  cioè  che  la  base logica  indispensabile  di  questa  filosofia,  e  in  gene- rale di  ogni  metafisica,  in  quanto  essa  è  una  spie- gazione della  natura,  è  il  concetto  di  causa  effi- ciente, distinta  dal  semplice  antecedente  di  una  se- quenza invariabile. L'importanza  dell'idea  che  il  principio  motoreè  lo  spi- rito, come  fondamento  della  filosofia  teologica,  anche  nella storia  moderna,  naturalmente  aumenterebbe,  sei  concetti di  cui  parliamo  al  principio  del  sS  Pi,  cioè  quelli  dell'a- nima del  mondo  e  degli  astri  ed  altri  analoghi,  si  classas- sero in  questa  filosofia,  come  sembra  più  conforme  alle loro  affinità  reali.  K  evidente  infatti  che  gli  agenti  di cui  si  tratta  in  questi  concetti  sono  più  pro]>ri  a  servire da  cause  del  movimento  che  il  Dio  (h^X  teismo  moderno, del  c|uale  sono  destinati  a  supplire  all'insufficienza,  come principio  esplicativo  dei  fenomeni. ^  3.  Oltre  a  fornire  la  causa  d(4  movimento,  la  fun- zione della  divinità,  come  principio  esplicativo,  si  ridu- ce in  sostanza  a  una  spiegazione  teleologica  dei  feno- meni. Questa  seconda  funzione  nella  filosofia  moderna ha,  come  abbiamo  notato,  un'importanza  di  gran  lunga superiore  alla  prima,  e  alcuni  tra  i  più  eminenti  dei pensatori  moderni,  e  che  il  più  profondamente  hanno esaminato  le  basi  della  filosofia  teologica,  hanno  visto nelle  cause  finali    il    fondamento    unico    della    teologia ~  72  - naturale  (1).  Come  abbiamo  visto  nel  paragrafo  prece- dente, questo  concetto  non  è,  storicamente,  esatto  :  ciò che  è  vero  è  che  il  punto  di  vista  teologico  e  quello  te- leologico sono  cosi  naturalmente  legati  fra  di  loro,  che noi  non  possiamo  concepirli  scompagnati  l'uno  dall'altro, anche  nello  stadio  primitivo  e  prescientifico  della  cultura. Da  una  parte,  infatti,  la  sola  forma  chiara  e  intelligi- bile della  dottrina  delle  cause  finali  è  quella  che  vede in  esse  dei  fini  di  un  essere  intelligente,  che  concepisce coscientemente  un  disegno,  e  lo  realizza  volontariamente nella  materia  —  l'oscuro  concetto  di  una  teleologia  mco- sciente  o  immanente  di  Aristotile,  di  Hegel,  di  Scho[)e- nauer,  ecc.  non  è  che  un  succedaneo,  e  tira  tutta  la  sua vis  esplicativa  dalla  sua  analogia  con  quello  più  natu- rale e  più  spontaneo  di  una  finalità  co.^ciente  e  trascen- dente—  .-ora  tra  le  diverse  specie  della  filosofia  antro- pomorfistica  la  più  naturale  di  tutte  (2)  e  la  più  propria a  realizzare  questo  concetto  di  una  finalità  intelligente e  cosciente,  è  evidentemente  la  teologica.  Da  un'  altra parte,  se  si  ammette  da  per  tutto  nella  natura  razione continua  di  uno  spirito,  o  di  spiriti,  analoghi  al  nostro, e  dotati  di  un  intelligenza  superiori*  alla  nostra,  si  può non  ammettere  al  tempo  stesso  che  questi  spiriti    intel- (1)  V.   «jiiesto  parnur..   in   scibili to.   e   il   pai-aj^r.   csemn'iite. (2)  Xon  ì*  ditticik'  di  coinprciKh'rc,  aiiclie  non  ronsi^lcrando la  tilosotia  tiMilojiica  clic  come  una  scni|>licc  spicjja/.ionc  dei  fe- nomeni. iMTchè  lìcli'  uonn»  primitivo  la  tendenza  s))ontanoa  del nostro  spirito  ad  assimilale  1'  azione  delle  cause  dei  feiHuneiii naturali  alle  nostre  ])ropii<'  a/ioni  dia  luo«io  a  «questa  tilosotìa piuft<>sto  che  all'ilozoisnu»  (nel  senso  stretto  del  termine.  ]>ercli(> alcuni  sistemi  a  cui  esso  si  est«5ndc.  non  sont»  in  realtà  che  dolio forme  della  tilosotìa  teolo^iica).  Basta  la  ritl(;ssione  che  Tilcjzoi- smo  contraddico  della  maniera  piii  assoluta  alla  distinzione  si ovvia  dolI'animat<>  o  doirinanimato,  ciò  che  ;;li  dà  un  caì-attoro )ùù  artificioso  .  <die  suppone  un  Liradt»  di  cultura  nndto  [)ifi avanzato. —  73  - • iigenti  agiscono  con  disegno  e  per  uno  scopo,  e  non dare,  quindi,  dei  fenomeni,  in  un  senso  lato,  una  spie- gazione teleologica?  Noi  non  dobbiamo  dunque  esitare  a riconoscere  una  forma  della  dottrina  delle  cause  finali, più  0  meno  plausibile  o  chimerica,  più  o  meno  sapiente o  grossolana,  tutte  le  volte  che  si  parla  di  una  prov- videnza, di  una  saggezza  che  governa  l'universo,  di  una ragione  che  presiede  all'ordine  del  mondo,  o  che  si  esalta la  sapienza  delle  potenze  trascendenti  che  dominano  la natura,  anche  quando  noi  non  troviamo  invocato  V  ar- gomento delle  cause  finali  per  dimostrare  l'esistenza della  divinità  (1).  E  vero  però  che  bisogna  distinguere (1^  Si  ò  affermato  elio  il  «^onootto  dello  cause  finali  ò nato  con  Socrate.  È  certo  che  Socrate  por  provare  resisten- za della  divinità  si  è  servito  dell'  argoni*3nto  delle  <-auso  fi- nali  nella  stessa  forma  in  cui  è  usato  nella  filosofìa  moder- na ;  {)  noi  non  sappianu)  che  altri  1'  abbia  fatto  prima  di lui.  Ma  da  ciò  si  devo  concludere,  p.  e.  conio  il  prof,  ('hijip j)elli.  (die  «  il  concetto  teleoloji;ico  della  natura  balena  la  prima volta  nel  pensiero  Socratico,  come  un  rispecchiamojito  esteriore» •della  coscienza  etica  svelata  al  mondo  iir*^<'<>  dal  fi^jlio  di  Fona- rota  »  ^  (('hìjtppolli  Interpretaz.  pantcist.  dì  P/(itone,  pa;^.  H'^).  11 l>rof.  Chiapponi  non  ii^iiora  che  vVnassagora  ha  dotto  che  «  il Nous  ordinò  tutte  le  cose  che  dovevan(>  ossero,  e  ({uolle  cll(^  fu- rono 0  che  sono  e  che  sar;iiino  »  (Fr.  (>.  e  12  Muli.),  e  che  Ari- stotile affoi'iua  ch'egli  ha  crorcato  la  causa  del  bene  e  del  bello, e  che  perciò  ha  ammesso  noli'  universo  un' intoliiirenza  «causa del  cosuios  (idi  tutto  Fonlino  »  {Met.  1.  1.  III.  12-14).  Jl  ])rof. Chiapponi  8a  j)iir(5  (die  Eraclito  parla  della  prudenza  (die  «io- verna  il  mondo  (Diog.  Laert.  IX,  1.  e  Pluf.  De  Is.  et  Osir,  e. 77);  d(d  Xq'vqc  oomune  a  tutti  «^li  esseri  (Sesto  ade.  MiUli.  VII 138 — il  XÓYOC  *^  oomune  a  tutti  <;li  esseri,  evidentemente,  i>or(di(> tutte  ìv  cose  non  sono  che  un'  obl>icttivaziono  della  ragiom^)  : della  bellissima  armonia  che  Dio  j>ro(luco  j»ov  la  niesc(danza  dei 4M)ntrari  (Pluf.  De  an.  jrrocreat.  e.  27  e  Arist.  Eth.  JVie.  Vili.  I): ^,ho  dice  che,  (xuantunepie  gli  uomini  considerino  alcuno  cose  c(>- 74 due  maniere  di  spiegare  le  cose  per  le  cause  finali.  In un  caso  è  partendo  dalla  considerazione  delle  cose  che si  va  air  applicazione  del  concetto  delle  cause  finali, perchè  sono  le  cose  stesse  che  suggeriscono,  più  o  meno vaì^amente,  con  più  o  meno  forza,  Tidea  di  un  essere, ag-ente  con  un  piano  e  per  uno  scopo  —  anche  ad  uno spirito  non  superstizioso  ne  prevenuto  ciecamente  in  fa- vore rli  eerte  dottriiip  filosofiche —.  Nell'altro  caso  l'esi- stenza delle  cose  e  il  loro  modo  di  essere  non  si  legano all'idea  d'un'azione  intelligente,  con  un  piano  e  per  uno scopo,  che  d'  nn?i  maniera  puramente  arbitraria  ;  se  si applica  la  spiegazione  teleologica,  non  è  che  una  con- seguenza del  preconcetto  che  la  natura  è  fatta  o  domi- nata da  una  causa  n  da  cause  intelligenti.  Ma  questa  difPe- iiie  dei  mali,  ojiiii  cosa  per  Dio  ^  Ì)o11ji  o  liiiista  iSehol.  l^enet. a,!  fììnd.  TV.  4— efr.  Ipocrato  j^^p^,  ^f^j^xYjC  <'•  l^^  *^li<' ^'i>^''^''**^^'^ c-oiii.'  un  ?jrMlO^:irj'^lÓC  Jl  *''^*"*"  ]»(MÌ8ant('  che  t^'  il  i»riii('iino  attivo i\v\h\  natura\ Proclo  iti  Ttm.  ]).  101):  ecc.:  e  che  Diogene  (V  A- ]M)ìlonia  dice,  in  uno  dei  t'iannnenti  clic  ce  ne  restano,  che  m la  sostanza  primitiva  non  fosse  intellijiente,  essa  ncm  potrebbe distribuirsi  in  modo  clic  tutto  fosse  fatto  con  misura,  come  la estate  e  riuverm».  il  giorno  e  la  notte,  le  piogge,  i  venti  rd  il buon  tempo,  e  tutte  le  altre  cose  che.  chi  vorrà  riflettervi,  troverà esser  costituite  della  maniera  più  bella  (Fr.  4  Muli.).  Senza  in- sistere su  Anassagora  —  per  lui  sarebbe  invece  \n\\  opportuna un'altra  nota  su  quelli  che  gli  attribuiscono  la  stessa  scoverta che  il  ('hiai>peMi  attribuisce  a  Socrate  —  md  ci  limiteremo  a  do- mandare: senei  frammento  di  Diogene  non  vi  ha  una  forma  del- l' ar<»-omento  delle  cause  finali  :  e  se  le  jn-oposizioni  di  Eraclito ìinìi  iin]dicano  al  temi)o  stesso  «piesti  due  concetti  .  che  questo princiino  intelligi'utt^,  che  nel  suo  sistema  corrisponde  a  ciò  che uni  «'hiamiamo  Dio,  si  serve  <lella  sua  intelligenza,  ciot^  agisce !«ccondo  mi  piano,  e  che  i  segni  di  <iuesto  jùano  sono  visibili ncirordine  della  natura  (bench^  egli  non  aflermi  es]dicitamcnte, c<mie  Socrate  e  Diogene  il'ApoUonia.  che  quest'ordine  prova  la intelligenza  del  suo  nnt^re). ¥ il -  75  — renza,  quand'anche  potesse  serviread  una  divisione  abba- stanza netta,  non  potrebbe  fornirci  un  criterio  per  distin- guere tra  i  pensatori—barbari  o  inciviliti— che  vedono  nei fenomeni,  o  in  una  parte  di  essi,  l'effetto  di  cause  intelli- genti e  agenti  con  uno  scopo,  quelli  la  cui  spiegazione deve  dirsi  per  le  cause  finali,  e  quegli  altri  per  la  cui  spie- gazione dovrebbe  essere  inventato  un  altro  nome  —  chi studia  i  concetti  trascendenti  come    fenomeni    naturali dello  spirito  umano  non  può  vedere  che  delle  differenze accessorie  nel  grado  più  o    meno    avanzato  di   cultura di   (juesti    pensatori,    o  nel!'  elaborazione  più   o    meno sapiente,  o  nell'  aspetto  più    o    meno    imponente  debile loro  dottrine  (perchè  non  ci  si  permetterebbe  di  chiamare dottrine    anche    le  credenze  del  selvaggio  e  dell'  uomo primitivo,    (|U'indo    (]uesto    nome   si   dà    alle    credenze deir  uomo  incivilito,  quantunque  non  siano  più  razio- nali?)— Quando  il  selvaggio  attribuisce  tutti  gli  avveni- menti che  hanno  per  lui  qualche    grado    d'  interesse   o che  gli  sembrano  in  qualche  modo  straordinari,  alle  in- tenzioni ostili  o  benevole  degli  s[)iriti  feticci  o  altre  di- vinità,  non  si  dirà  che  egli  spiega   i    fenomeni    per  le cause  finali  ;  ma  chi  non  riconoscerà    una    spiegazione per  le  cause  finali  quando   Bossuet  vede  nella   succes- sione dei   fatti  storici  la  realizzazione  d'un  certo   pinno della  Provvidenza,  quantunque  questa  spiegazione  non sia  meno  chimerica  né  meno  arbitraria  di  quella  ?  Tut- tavia tra  queste  due  applicazioni  del  concetto  teleologico, (|uella    che    sembra  avere  una  certa  base  nei  fenomeni stessi  che  si  tratta  di  spiegare,  e  (juella  che    è    intera- mente arbitraria,  è  giusto  di  non  riconoscere  che  nella prima  un  valore  filosofico,  quantunque  anche  la  seconda derivi  in  parte  dal  bisogno  di  una  spiegazioRe   dei    fe- nomeni, e  sia  quindi  anch'essa  una  manifestazione  della metafisica  naturale  del  nostro  spirito. Per  indicare  le  applicazioni  filoì^pfiche  più  importanti —  76  — della  spiegazione  teleologica,  cominceremo  distinguendo col  Janet  due  specie  di  finalità,  quella  d'uso  o  di  appro- priazione, e  quella  di  piano.  Noi  esporremo  questa  di- stinzione con  le  parole  stesse  di  quest'autore:  e  Nell'una e  nell'altra  ri  ha  sistema,  e  ogni  sistema  implica  coor- dinazione :  ma  nell'  una  la  coordinazione  giunge  a  un effetto  finale,  che  prende  il  carattere  d'uno  scopo;   nel- r  altra  la  coordinazione  non  ha  quest'  effetto Nella finalità  di  piano,  quando  l'ordine  è  realizzato,  sembra che  tutto  sia  finito:  mentre  nella  finalità  d'uso  quest'or- dine stesso  è  coordinato  a  qualche  altra  cosa,  che  è l'interesse  dell'essere  vivente  >^  (1).  Il  tipo  della  finalità d'iiso  o  d'appropriazione  è  la  finalità  interim  degli  esseri organizzati  —  interna,  perchè  lo  scopo  è  riposto  nell'es- sere stesso,  e  non  nella  sua  utilità  per  mi  altro:  — essa consiste  in  questo  fatto  generale  della  natura  organica — interpretato  per  un'assimilazione  delle  opere  della  natu- ra a  quelle  dell'industria  umana  —  che  ogni  organo  è utile  air  organismo,  e  una  moltitudine  di  organi  e  di funzioni  concorrono  a  una  st(^-ssa  azione  definitiva,  e tutti  insieme  a  un  risultato  unico,  cioè  la  conservazione delTorganismo  stesso  individuale  e  della  sua  specie.  Gli esempi  di  questa  sorta  di  finalità  (la  struttura  dell'  oc- chio, deir  orecchio,  degli  organi  del  movimento,  ecc.) sono  i  più  probanti,  o  che  hanno  più  aria  di  esserlo, frn  tutti  (juelli  enumerati  nei  trattati  di  teolot/ia  fisica o  in  altre  opere  analoghe  che  cercano  di  stabilire  sui fatti  una  o  un'altra  forma  della  filosofia  teologica  ;  e possono  ridursi,  almeno  i  più  importanti,  a  due  cate- gorie :  rapj)ropriazione  di  ciascun  organo  alla  sua  fun- zioni' V  la  cooperazione  funzionale  degli  organi;  e  gl'i- stinti degli  animali  (benché  in  questo  secondo  caso, r  analogia  con  le  opere  dell'  industria   umana    essendo [1)  J.iiurt    Le  eause  finali,  pai;.  247 MH 77  - più  lontana,  altre  forme  della  spiegazione  antropomor- fìstica  (1)  sembrino  più  naturali  che  la  spiegazione  teo- logica ordinaria).  È  su  quest'ordine  di  fatti  che  si  fonda il  prototipo  degli  argomenti  delle  cause  finali,  cioè  quello di  Socrate  (2).  Ed  è  pure  di  questa  sorta  di  finalità  che (1)  V.   art.   II. (2)  Seiiof.  Memorab.  1.  I.  e.  IV.  Socrate,  per  dimostrare  l'esi' •tenza  (leo;li  Dei,  doinaiida  al  suo  inte>riocutore  {Aristodemo)  : «  Ti  sembrano  più  ainmiraì)ili  quelli  che  hanno  fatto  fvgnvG  sen- Ru  Kcnso  e  senza  movimento,  o  queUi  che  cose  animate,  dotate d'intellitrenza  e  di  movimento  j  —  Quelli  che  cose  animate,  ri- «pose;  sempre  che  siano  fatte,  non  da  una  specie  d'accidente, ma  per  conoscenza!  —  Ma  delle  cose,  ri pijiliò  Socrate,  di  cui  non può  <^iudiearsi  per  «piai  fine  esistano,  e  di  (luelle  altre  ehe  hanno visibilmente  utilità,  quali  o;iudiehi  essere  opera  di  accidente  . e  quali  di  conoscenza  i   ^>  .i^iusto  eh<'  <iuanto  è  fatto  per  uti- lità sia  opera  di  conoscenza,  rispose  Aristodemo.— Non  ti  sem- bra dunque  che  il  primo  che  formò  jili  uomini,  per  utilità  loro fibbia  apprestato  degli  organi  per  cui  sentissero  tutto:  gli  occhi, vale  a  dire,  per  vedere  gli  oggetti"  visibili,  gli  orecchi  per  udire ciò  che  ])uò  essere  udito  \..,.  Oltre  a  ciò  non  ti  sembra  questa opera  <ii  i)rovvidenza,  che  essendo  la  vista  una  cosa  assai  deli- catji,  sia  stata  guernita  di  palpebre,  che,  come  porte,  (pialora deliba  adoperarsi,  si  aprono,  e  nel  sonno  i)oi  si  chiudono?  E  che, affinchè  non  possano  nuocerle  i  venti,  le  abbia  fatto  nascere  co- me un  riparo  di  peli,  e  l'abbia  assicurato  con  le  ciglia,  come con  una  grondai, i,  da  tutto  ciò  che  è  sopra  gli  occhi,  ])erchè neppure  il  sudore  che  cola  dalla  fronte  possa  nuocerle!....  E  che tutti  gli  animali  abbiano  i  denti  dinnanzi  adatti  a  tagliare,  ed i  molari  a  stritolare  ciò  che  ricevono  tagliato  ?....  Cose  fatte  con tanta  avvertenza  puoi  chiamare  in  dubbio  se  siano  piuttosto opera  di  accidente  che  di  provvidenza  l  —  Io  no,  per  Dio,  ri- si)ose  Aristodemo;  anzi  in  tal  maniera  considerandole,  mi  sem- brano lavori  di  un  artelìce  sapientissimo  e  amante  delle  crea- ture viventi. —  E  quell'avere  ispirato amore  di  propagarsi, ed  alle  madri  amore  di  allevare  il  parto,  ed  ai  tigli  un  sommo desiderio  di  vivere  e  sommo  timor  di  morire  ?  Senza  dubbio  an- -  78  - purhiuo,  principalmente  o  nnche    esclusivamente,    quei filosofi  moderni,  che,  come  abbiamo  accennato  al  prin- cipio del   paraurafo,  vedono  nelle  cause  finali  il  fonda- mento unico  della  teologia  naturale.  Kant  dice  (1):   «Le cose  della  natura  che  noi  non  troviamo  possibili  se  non come  filli    (cioè  ^li    esseri    organizzati)    (2)    formano    la principale  [.rova  della  contingenza  dell"  universo,    e  il solo  argomento  clie  conduca  il  senso  comune  e  i  filoso- fi a  riattaccare  il   mondo  ad  un  essere  esistente  fuori  di esso  ed  intelligente».  E  Stuart-Mill  :  «È  nella  struttura e  le  operazioni  della  vita  animale  e  ve^^'etale  che  i  segni di   piano  sono  i  jììù  evidenti.  Senza  questi  segni  è  pro- babile che  la parte  pensante  deirumanità  non  avrebbe mai  trnvatn  n<''    fenomeni    della    natura    alcuna    |)rova 4eiresistenza  d'un   Dio.  Ma  dacché  dalTorganizzazione dea-li  esseri  viventi  fu  inferita  l'esistenza  d'un  Dio,  al- tre  f>arti  della  natura,    come    la    struttura   del  sistema solare,   parvero  pure  fornire  delle  testimonianze    più    o meno  i)rol)anti  iu   a[)poggio    di    «piesta    credenza  «    (H). L'altra   forma  della   finalità  di  appropriazione,  cioè là   finalità  esterna  (vale  a  dire  quella  in    cui    una    cosa si  considera  come  iiie/zo  per  un'  altra,  come  fatta   per 1a  sua  utilità),  non  ì^n   nei  fatti  stessi  un  appoggio  così forte  come  Viììfenia.   L"ai>proj>riazione  del   mondo  ester- clit' qiu"itc  seinhnino  opiTc  di  tnh*  {irtoticc.  che  :il»l»isMU'li\)erMto di    t'jirc  csi.«iterc  «leuli   <*sscri   aiiinuiti  ». Ii';irtj<nn<M»t(».  in  questa  t'orma  nidiineiitaria  \\\  «ni  e  pnv tentato  da  Socrate,  è,  im  r  l'etiolo^i»  della  tilosòtia  teolojiiea,  iii- ti Tritamente  i»iri  interes.saiite  che  j^li  sviluppi  sapienti  dei  mo- derni :  ai>punto  jiereliò  non  stippóne  delle  «-onosc'enze  scientifiche, €H8o  «"^  r  espressione  piti  fedele  di  uno  dei  motivi  del  teismo, qualt;  ert'etti vilmente  ha  potufo  eoTitrihnire  alla  sua  f(»riiiazione. (1)  Critica  del  ffiìfdizio,  $  74. P)  V.   la  HteM'.x  n])er^,  pamifii  e  notev<dmente  %  Hi. 4'^)  ^'iy^po  'snil  teAHìHO,   seconda  parto. —  79  — no  ai  bisogni  dell' organismo,  invece  che  come  uu  ag- giustamento dell'ambiente  all'organismo,  può  interpre- tarsi copie  un  aggiustamento  dell'organismo  stesso   al- l'ambiente, ed  è  così  infatti  che  è  interpretato  dal  dar- winismo. Ma  se  si  ammette  la  spiegazione  per  le  cause finali,  il  concetto  di  una  finalità  esterna  è    così    ovvio che  quello  di  una  finalità  interna  :    se    infatti  è  un'In- telligenza che  ha  prodotto  tanto  gli   organismi    quanto il  loro  ambiente,  uon  vi  ha  ragione  perchè   essa  si  sia Astretta  ad  adattare  sempre   1'  organismo    all'  ambiente preesistente,  senza  mai  modificare  l'ambiente  stesso  per adattarlo  all'  organismo  che   doveva    esservi    collocato. Di  più  noi  non  possiamo  concepire  le  operazioni  di  un essere   intelligente    che    come    indirizzate  a    uno    scopo ultimo  che  ci  sembri  avere  un  valore  per  se  stesso,  cioè come  fatte  nell'interesse  di  qualcuno:  ora  (juesto  (jual- cuno  nell'interesse  di  cui  gli  organismi  sono  stati  fatti, noi  non  possiamo  supporre  che  siano  gli  organismi  stessi, eccetto  l'uomo;  i  vegetali  non  hanno  interesse  di  sorta, perchè  non  sentono,  e  V  esistenza  dei  bruti  è  ai    nostri occhi  troppo  miserabile,  perchè  noi  possiamo  attribuirle un  gran  valore  per  se  stessa,  e  vedervi  uno  scopo  ultimo dell'azione  creatrice.  Così  la  filosofia  teologica  ha  sem- pre ammesso  Dio  e  l'uomo  come  fini  ultimi  della  crea- zione. Come  una  città  e  tutte  le  cose  che  sono  in  essa sono  fattt^  per  i  cittadini,  così  l'universo  e  tutto  ciò  che  è in  esso  sono  stati  fatti,  dicevano  gli  Stoici,  per  gli  dei e  per  gli  uomini  (1):   e  i  teologi  cristiani  ora  dicono  che Dio  ha  creato  il  nmndo  per  la  sua  gloria,   ed   ora  che rha  creato  per  la  sua  bontà,  cioè  per  amore  degli  uo- mini. Di  questi  due  concetti  sul  fine  ultimo  della  crea- zione, che  tutte  l^  cose  sono  fatte  per   l'uomo,   e  che (1)  V.  Cic.  De  nat.  JJeor.  II.  t»2.    Cfr.    f7>/W.    11.    5H,     Dio- Laert.  VII.  1H8,  ecc. ;s-"W*'r'à^'.--  "Sviife^ —  80  — 81 sono  fatte  per  Dio  stesso,  il  primo  è  suggerito  dall'os- servazione degli  stessi  fatti  (non  essendo  che  1'  esage- razione d'un  fatto  reale,  dopo  avergli  impresso  la  forma comune  della  spiegazione  teleologica,  cioè  aver  trasfor- mato il  risultato  in  uno  scopo)  ;  mentre  il  secondo  im- plica delle  idee  troppo  trascendenti  per  potersene  for- mare una  rappresentazione  chiara  ed  ovvia  —  oltre  che sembra  in  contraddizione  con  la  dottrina  della  bontà infinita  di  Dio  e  con  quella  della  sua  infinita  perfezione (è  in  questo  caso  che  è  particolarmente  applicabile  l'ob- biezione di  Spinoza  che,  se  Dio  agisce  per  un  fine,  egli desidera  necessariamente  qualche  cosa  di  cui  è  privo, e  per  conseguenza  non  è  perfetto)  — .Così  l'antropomor- fisino,  come  spiegazione  teleologica  dei  fenomeni,  ha  per conseguenza  naturale  1'  nntropocemt risma.  Quest'  antro- pocentrismo è  espresso  nella  forma  più  ingenua  e  più naturale  nel  discorso  che  Cicerone  mette  in  bocca  allo stoico  (1).  A  vantaggio  di  chi  è  stato  fatto  l'universo? Degli  alberi  e  delle  erbe,  che  sono  privi  di  senso?  Ciò è  evidentemente  assurdo.  0  forse  delle  bestie?  Ma  non è  più  verisimile  che  gli  Dei  abbiano  lavorato  tanto  per degli  esseri  muti  e  inintelligenti E  chi  vorrà  credere che  la  terra  produca  i  suoi  frut^ti  per  le  bestie,  le  quali del  resto  non  sanno  né  seminare,  né  arare,  né  racco- gliere questi  frutti,  né  conservarli?....  Le  bestie  stesse anzi,  furono  create  ad  uso  dell'  uomo.  E  invero  a  che altro  servono  le  pecore  se  non  a  vestire  l'uomo  con  la loro  lana?  E  la  fedele  guardia  dei  cani,  l'arte  che  hanno di  accarezzare  il  padrone,  l'odio  degli  stranieri,  il  sot- tile odorato,  la  destrezza  nella  caccia,  che  altro  signi- fica se  non  che  furono  fatti  ad  uso   degli    uomini? E  a  che  altro  é  buono  il  porco  se  non  ad  essere  mangiato? l'anima,  dice  Crisippo,  gli  é  stata  data  invece  di  sale? Si per  non  putrefarsi.  E  i  pesci,  e  gli  uccelli,  da  cui  ne veng^ono  dei  piaceri  sì  variati,  che  sembra  che  la  Prov- videnza sia  stata  epicurea?  (1)  Se  il  teleologista  spiega così  resistenza  degli  esseri  organizzati,  cioè  di  quelli che  Kant  chiama  i  tini  della  natura,  a  più  forte  ragione applicherà  questa  spiegazione  alla  natura  inorganica, la  cui  finalità  non  potrebbe  essere  che  esteriore.  N<m é  naturale  infatti  che  l'adattamento  dell'uomo  al  mondo in  cui  vive,  sia  interpretato  invece  dal  teleologista  come un  adattamento  del  mondo  stesso  all'  uomo  ?  E  anche là  dove  non  esiste  l'ombra  d'un  adattamento  qualsiasi, potrebbe  egli  confessare  che  non  vi  ha  uno  scopo,  senza mettersi  in  contraddizione  col  principio  del  governo provvidenziale  dell'universo,  o  con  quello  della  saggezza e  potenza  infinite  dell'essere  da  cui  é  governato  ?  Cosi il  teologo  fisico  non  esiterà  ad  affermare  che  anche  le grandi  forze  della  natura,  troppo  lontane  o  trop[)0  in- docili perché  V  uomo  possa  mai  sperare  di  dominarle, sono  state  fatte  per  suo  uso  e  servizio.  Lo  scopo  per cui  la  luna  é  stata  creata,  é,  dice  Fénelon,  di  rischia- rarci durante  l'assenza  del  sole  ;  secondo  gli  Stoici,  il giorno  è  stato  fatto  per  poter  accudire  alle  nostre  fac- cende,  la  notte  per  riposare  (2);  le  rivoluzioni  degli astri  in  generale,  oltre  che  alla  coerenza  dell'universo, servono  a  dare  agli  uomini  lo  spettacolo  più  bello,  e  a metterli  in  grado  di  conoscere,  misurando  il  loro  corso, la  maturità,  la  varietà  e  le  vicissitudini  delle  stagioni  (3). Secondo  lo  stesso  Fénelon,  l'acqua  é  stata  fatta  per  dis- setare gli  uomini  e  le  campagne  aride;  l'oceano  per  so- stenere i  vascelli;  ecc.  Questo  modo  di  spiegazione  spesso ha  dato  luogo  a  riflessioni,   non  solo    chimeriche,    ma (1)  De  nat.    Deor.  1.   Il (1)  V.   Op.  clt.  1.   II.  53  e  62-64. (2)  Cic.   Op,  cit.  II.  53. (3)  IMd.  II.  62. —  >52  - frivole  e  puerili.  Secondo  Benianliiio  Saint-Pierre,  «  i cani  sono  cFordinario  di  due  tinte  opposte,  Tuna  chiara e  l'altra  scura,  affinchè  in  qualunciue  luog-o  siano  nella casa,  essi  possano  essere  visti  sui  mobili,  col  colore  dei quali  si  confonderebbero Le  pulci  si  i>-ettano,  da  per tutto  dove  sono,  sui  colori  bianchi.  Quest'istinto  è  stato joro  dato  affinchè  possiamo    pigliarle    più    facilmente». Questa  forma  della  dottrina  delle  cause  finali  nella  lilo- sotia     moderna    è    caduta    in    disuetudine    (quantunque Tvnnt  labbia  risuscitata,    imprimendole  il  carattere  pie- tista delia  sua  Hlosotia  pratica,  cioè  dichiarando  che  lo scopo  ultimo  del   Creatore  non  è  la  felicità  dell'uomo, ma  la   uuaalità).   Tuttavia  non  si   può  non  riconoscervi, anche  nelle  sue  applica/ioni   [)iù  esa^'erate,  uno  svilup- po naturale  v  log-ico    dei    [>riucipii  di    (questa    dottrina. h^nitropocenfrismo  non  è  evidentemente  che  una  forma particolare  iMVarftt'opomorfisnio.  Attribuendo  alle  forze costituitive  della  natura  di  agire  con  intellig-enza  e  per un.,  scopo,   uoi  as>imiliamo  il  modo  d' azione  di  (lueste forze  al   nostro  modo  d"  azione   umano;    e  ciò  facciamo perchè  è  questo  che  noi  .'omprendiamo  il  più  facilmente, essendoci  necessariainente  il  i^iù  faìniliare.  Perla  stessa raa-ione  nn\   dnbbiaìiio  attribuire  ad    esse,    come    scopo ultimo,  uno  scopo  nostro,  umano,    perchè  è  questo  che noi  siamo  abituati  a  considerare  come   interessante   ed avente  un  valore  per  se  stesso,  e  che  noi  comprendiamo il  più  facilmente,  i)erchè  è  un'idea    con  cui  siamo  fa- miliarizzati; cosi  all'essere  più  elevato  noi  attribuiamo il  fine    più  elevato  che  l'uomo  possa  proporsi,   cioè  la felicità  o,  più  ueueralmente.  il  bene, delle  creature  umane. L'esempio  più  colpente  della  finalità  di  piano  sono i  movimenti  dei  corpi  celesti.  Per  -li    antichi    era    una prova  deir  esistenza  della    divinità    superiore    anche    a quella  dedotta  dagli  esseri  organizzati  —  fatto  che  sem- bra iìì  coìitraddizione  con  le  proposizioni  citate  di  Mill —  83   - e  di  Kant— .Ciò  è  evidentemente  perchè  i  fenomeni più  grandiosi  della  natura  sono  i  più  propri  ad  ecci- tare i  sentimenti  associati  al  concetto  del  divino.  Inol- tre era  un'  idea  suggerita  naturalmente  dalla  credenza popolare  della  divinità  degli  astri.  Noi  abbiamo  visto che,  secondo  Platone,  due  cose  ci  fanno  credere  all'  e- .sistenza  degli  dei  :  l'uria  è  che  l'anima  è  la  causa  pri- ma del  movimento,  e  l'altra,  Vordint  che  si  osserva  nel movimento  degli  astri  e  —  proposizione  accessoria  —  in quante  altre  cose  sono  soggette  alla  potestà  dell'intel- letto, che  dispose  il  tutto.  Poco  dojjo  l\),  ritornando sullo  stesso  concetto,  dice  :  che  non  si  potrà  mai  avere •vera  pietà  verso  gli  dei,  se  non  si  è  convinti  delle  due cose  di  cui  ha  jjarlato,  l'anima  essere  il  principio  delle cose  generate  e  ciò  che  regge  tutti  i  corpi,  e  «  la  dimo- strata negli  astri  intelligenza  degli  esseri».  Nel  File- bo  (2)  fa  domandare  da  Socrate  se  si  deve  dire  che quest'universo  è  retto  da  una  forza  irrazionale  e  che asisce  a  caso,  o  che  è  governato  da  una  mente  e  una sapienza  ordinatrice;  e  rispondere  da  Protarco  che  con- fessare che  tutto  è  governato  da  una  mente  è  degno deirasi>efcto  del  mondo,  del  sole,  della  luna,  degli  astri, e  delle  loro  rivoluzioni.  Poi  Socrate  dice  [ò)  che  vi  ha nell'universo  molto  Illimitato,  sufficiente  Limite,  e  una causa  non  io'nobile  ad  essi  ])resente,  che  ordina  e  di- spone  gii  anni,  i  tempi  deiranno  e  del  giorno,  e  i  mesi, e  che  si  chiama  a  buon  dritto  mente  e  sapienza.  Il  simile che  in  Platone  vediamo  negli  Stoici.  Secondo  Cleanto, la  nozione  della  divinità  nello  spirito  umano  j>roviene da  quattro  cause:  il  presentimento  delle  cose  future;  il terrore  che  c'incutono  i  fulmini,  le  tempeste,  i  terremoti, (1)  Leygi  im7  d. (2)  2X  d-e. (I^)  FU.  30  e. -  84  - e  altri  avvenimenti  straordinari  e  terribili;  le  comodità della  vita  che  si  raccolgono  in  gran  copia    (argomento delle  cause  finali  nel  senso  antropocentrico);  e  l'ordine e  la  reo'olarità  dei  movimenti  degli   astri,    che    per    se stessi  dimostrano  non  essere  opera  del  caso,  ma  e^sservi una  mente  che  li  governa  (n.  E  nel    discorso    che    gli U  pronunziare  Cicerone,    lo    stoico  dice:  «Il    senso    e l'intelligenza  degli  astri  sono  dimostrati  dal  loro  ordine e  la  loro  costanza.  Niente  intatti  può  muoversi  con  or- dine e  con  numero  senza  intendimento.....     Ragioni    le quali  chi  ben  ponderi,  sarà  ignorante  ed  empio,  se  ne- gherà esservi  gli  Dei  »    2).  Questo  concetto   campeggia Tn  tutto  il  discorso  dello  stoico  ;    riapparisce,    diversa- mente lumego-iato,  nei  e.  21,  35,  3S,  56,  61,  ecc.;  e  già, comiiR-iaiido  a  parlare    dell'esistenza    degli    Dei,    egli aveva  detto  che  ciò  non  ha  bisogno  di  lungo  ragiona- mento, perchè  che  vi  ha  di  rosi  evidente,    alzando  gli occhi  e  contemplando  le  cose  celesti,    che  esservi  qual- che  divinità  di   una  mente  eccellente  che  regge   queste cose-^  Co)  Delle  idee  che  ricordano    (juesta    prova    della divinità    si    trovano    anche  nelle  antiche    religioni    più evolute -ciò  che  dimostra  la    continuità  tra  i   concetti della    tìlosotia  teologica  popolare  e    prescientifica    e    di quella  dei  metafisici-,  e  in  una  forma  anche   più    vi- cina al  concetto  moderno,  cioè  in  cui  l'ordine  dei  mo- vimenti dei  corpi  celesti  è  attribuito,  non  a  delle  divinità che  sono  loro  proprie  e  li  animano,  ma  alla  divinità  su- prema   Presso  i  Caldei,   Belo  fissa  le  stelle,    stabilisce ìa  dn.iora  del  sole  e  dei  pianeti,   «afiinchè  essi  conoscano i  loro  limiti  e  non  possano  allontanarsene».  Presso  gli Egiziani  è  Osiride  che  «  mantiene  l'ordine  nell'universo» (1)  V.  Cicer.  De  Nat,  Bear.  II.  5  e  III.  7. (2)  De  Nat,  Deor.  II.  e.  16. (3)  II.  2. —  85  — e  che  ha  tracciato  al  cielo  e  alla  terra  «  la  via  donde essi  non  si  allontanano  >  (1).  «  Dimmi,  o  Ahura  !  do- manda il  Zend-Avesta,  chi,  se  non  tu,  fa  crescere  e  de- crescere la  luna?  chi  ha  aperto  le  loro  vie  al  sole  calle stelle?  chi  ha  fatto  la  luce  benefica  e  le  tenebre?  i mattini,  i  mesi  e  le  notti  ?  »  (2)  E  un  inno  del  Rig  Veda dice  :  <^  Il  sole  e  la  luna  si  muovono  in  successione  re- golare, afiinchè  noi  possiamo  credere,  o  Indra  >^  (3)  E- videiitemente  è  questo  stesso  il  concetto,  o  uno  dei  con- cetti, espresso  nelle  parole  del  salmista,  che  i  cieli  nar- rano la  gloria  di  Dio. La  finalità  di  plano  è  suscettibile,  per  se  stessa, d'un'estensione  assai  più  grande  che  la  finalità  d'uso — il  cui  valore  esplicativo  sembra  circoscritto  nel  dominio della  vita  e  dell'organizzazione  — .  Ogni  ordine  potendo inter|)retarsi  come  la  realizzazione  d'un  piano,  e  que- st'interpretazione essendo  la  più  conforme  alle  tendenze spontanee  del  nostro  spirito,  ogni  altra  regolarità  della natura  suggerisce,  così  naturalmente  che  (jiiella  dei grandi  fenomeni  del  cielo,  l'idea  di  piano  e  d'intelli- genza :  se  la  suggestione  è  meno  viva,  è  perchè  pochi fenomeni  destano  in  noi,  come  quelli,  (juesto  sentimento del  sublime,  eosi  vicino  al  sentimento  religioso,  forse ])erchè  è  uno  stesso  elemento,  il  terrore^  che  è  alla  base. dell' uno  e  dell'altro.  Fra  gli  altri  esempi  di  finalità  di piano  possiamo  indicare  in  primo  luogo  le  forme  rego- lari che  la  natura  sembra  ricercare  in  alcune  delle  sue produzioni,  p.  e.  i  cristalli  e  gli  esseri  viventi.  Uno  dei fatti  da  cui  Ippocrate  conclud(^.va  che  «  erudita  è  la  na- tura, quantunque  non  abbia  imparato  »,   era  la  simme- (1)  V.  (loblet  d'AlvieHa    L'idea  di  Dio  ecc.  p.  185  e  1^7. (2)  V.  Max-Miiller  La  seienza  della  religione ^    IV. (8)  Goì)let  (PAlviella   Op.  eit.  p.  ISS. -  86  - tria  dei  corpi  or^aniz/.ati  (1).  Schelliii-'  (2),  dopo  aver parlato  della  «  o-eometria  sublime  >  che  osservano  i  corpi celesti  nelle  loro  rivoluzioni,  soogiun^e  :  «  La  natura ÌA  dove  agisce  liberamente,  in  ciascuna  transizione  dallo stato  indeterminato  allo  stato  fìsso,  crea  anche  allora spontaneamente  delle  forme  regolari.  Questa  reg-olarità apparisce  nelle  cristallizzazioni  d'un  ordine  elevato Come  spieg-are  tutto  ciò,  se  non  si  ammette  che   esiste una  produttività  incosciente,  ma  originariamente   della stessa  natura  che  l'attività  cosciente,  e  di  cui  non  pos- siamo vedere  che  il  semplice  rifiesso  nella  natura?  >.  Più recentemente  si  ^  anche  parlato  dell'  architettura    degli atomi,  (juesti  sono  stati  paragonati  a  degli  oggetti  ma- nitatti,  e  si  è  vista  nella  supposta  regolarità  delle  loro forme  una  prova  della  creazione  della  materia.  Un  altro se^nio  di  finalità  di  piano  che  si  è  visto  negli  esseri  or- ganizzati è,  oltre  alla  sinìuietria  delle  loro  forme,    1"  u- nità  di  diseg-no  in  esseri  differenti,  cioè  la  loro  distri- buzione in  gruppi,    in    ciascuno    dei    quali    si   n^alizza variamente  uno  stesso  tipo  definito.    Questa  sembra  ad Agassiz  una  prova  dell'esistenza  di  Dio  superiore  anche a  (luella  della  finalità  d:icHO  dei  loro  organi.    Che  degli esseri  aventi  degli  attributi  si  diversi,  e  viventi  in  cir- costanze sì  differenti  si  conformino  costantemente  a  dei tipi  generali  identici;  p.  e.  che  tutti  gli  animali,  in  tutte le  posizioni  geografiche,    nella    successione  di  tutte    le epoche    geologiche,    siano  costruiti   sui  quattro  grandi piani  di  struttura  stabiliti  da  Cuvier  ;    è    un  risultato, egli  dice,  che  è  impossibile  di  attribuire  alle  sole  forze fisiche,  a  meno  'ù\e  esse  non  abbiano  immaginato  questi (1)  V.   (irtleno    Di'  plaritis   HippomuttÌM  et   Platonis  1.  9.    r.   8. in  tìne. (2)  Inirodtiz.  al  Saggio  d'un  sistema  della  natura.  (Scritti  fi- losulìti  tradotti  da  Héiiard,   paj^.  :^H2-368). -  87  - piani,  e  non  lì  abbiano  poi  impressi  nel    inondo    mate- riale  come  una  forma  dentro  cui  la  natura  fonderel)be ormai  costantemente  tutti  gli  esseri  (1).  Ogni  regolarità nei  fenomeni,  in  cui  non  si   vede  una  conseguenza  ne- cessaria delle  leggi  meccaniche,  dimostra,  |>er  il   teleo- logista,  un  disegno  e  uno  scopo.   Come  infatti  i  movi- menti disordinati  degli  elementi  della  materia,    in   cui non  vi  ha  altra    regolarità,    inerente    alla    loro    natura stessa,  che  quella  delle  leggi  del    movimento,    possono dar  luogo  a  delle  successioni  regolari  che  non    potreb- bero dedursi  da  (pieste  leggi  ?    p.    e.    a  delle  serie  cir- colari e  costanti  di  avvenimenti,    quali    le  rivoluzioni planetarie,  o  i   fenomeni    evolutivi    della  materia  orga- nizzata,    in  cui  si   vede  l'essere  nella  sua  maturità   ri- produrre il  germe  da  cui  e*  incominciato  il  suo   svilup- po, e  la  stessa  serie  regolare  di  stati   ripetersi  di  gene- razione in  generazione?  (Jueste  regolarità  nella  succes- sione dei  fenomeni  non  (essendo  una    conseguenza,    ne- cessaria delle  leggi  dell    urto   e  del  movimento,  le  sole che  siano  essenziali  alla  materia,  o  deve  ammettersi  che siano  semplici  effetti  dell'azzardo,  o  che  una   mente  or- dinatrice dirige  i  movimenti  della  materia,  preordinan- doli a  questo  scopo.  Così   il  teleolo^iista  divide  tutte    le azioni  della  natura  in  due  campi:    l'uno    è  il  dominio del  meccanismo,  e  l'altro  delle  cause  finali.  Questo  mondo, dice  Platone,  è  nato  dal  concorso  della    mente  e  della necessità.  Vi  hanno  due  specie  di  cause,  1*  una  neces- saria e  l'altra  divina:  le  cause  prime    sono  quelle    che producono    con    intelligenza  il    buono    e    il    bello    (cioè quelle  della  specie  divina);  quelle  che    sono    mosse  ne- cessariamente da  altre  cose  e  muovono  necessariamente altre  cose,  sono  delle  cause  seconde,  dei  mezzi  di    cui (1)  Ajrassiz   Della  speeie  e  della  idassifieaz,  in zoologia,  eap.  1. IV.   V.   VI.   VII,   ecc. —  88  ~ -  89 Dio  si  serve  per  realizzare,  per  (luanto  è  possibile.  TI- dea  deirottirno  (1).  Kant  oppone  continuamente  il  mec- canismo eia  finalità  come  le  due  sole  forme  possibili  in cui  noi   possiamo  rappresentarci  il  modo  di   produzione delle  cose.  Vi   hanno  delle  cose  la  cui  produzione  è  pos- sibile secondo  lei>'^i   puramente    meccaniche;    ma    altre produzioni   della  natura  non  sono  j)ossibili,  almeno  per noi,  secondo  leii'fi'i   puramente   meccaniche.    Per    queste yal(%  almeno  subhiettivamente,  oltre  al  meccanismo  della nriturM.  determinato    dalle    sole    leg'gi    del    movimento, un'altra  spcn-ie  di  causalità,  cioè  (|Uella   delle  cause  ti- nnii,  relativamente  alle  quali  le  leg'gi   delle  forze    mo- trici non  sarebbero  che    delle    cause    intermediarie    (2). La   tinalità  d'una  cosa  (cioè  la  sua  produzione  per  delle cause  finali)  e  la  contingenza  di  questa  cosa  sono  due concetti  che  si   implicano  reciprocamente:  da  una  parte il  concetto  di  una  cosa  di  cui  ci   rappresentiamo    V  esi- stenza o  la  forma  come  possibile  sotto  la  condizione  di un   fine,  è  inscparal)ile  dal   concetto    della    contingenza delia  <*osa   (:>)  ;  e  da   un'  altra   parte  il  concetto  della  fi- nalità della  natura   nelle  sue  produzioni  è   un    concetto necessario  al  giudizio  umaììo  .    che   si    applica    a    tutto ciò  che  vi   ha  di  coiitingcuite  nelle  leggi  particolari  della natura,  cioè  che  non   può  dednrsi  dalle  sue  leggi  gene rali   (che  sono  quelle  della  materia  e  del  movimento)  (4). Secondo  Lachelier,  la  nostra  credenza  nel  corso  uniforme della  natiirn   implica  due  princiini  :    «luello    delle  cause (»fHcienti   e  <jUello  delle  cause  tìnali.   A  non  considerare che  le  leggi  del   movimento,   non   vi   ha  alcuna    ragione perchè  gli   ('Irnienti  della  materia  continuino  ad  aggrup- (1)  IMato.    Tiw.  Hi  (•  —  «•,    i><  M.  r.s  o  —  Gì»  lì. IJ)  V.    Critica  del  ijiiuliziu  vV   HJ),  71,  72,  7S,  74,  7rì.  77,  SI,  ecc. |S)  V.    Crii,  fh'l  (tiìuì.  ^.  74,   HO.   72,   7S,   ecc. 4)  Crii.   (h'I  ffittd.   ^.   7.'>, 'f parsi  nello  stesso  ordine,    perchè  l'  insieme  delle  dire- zioni e  delle  velocità    dei    loro    movimenti  sia    tale    da riprodurre  a  punto    designalo    le    stesse    combinazioni. se  noi  abbiamo  confidenza  nella  stabilità    dell'  or- dine del  mondo,  è  perchè  sappianìo  già  che  esso  è  l'in- teresse supremo  della  natura,    e    che    le    cause    di    cui sembra  il  risultato  necessario  non  sono  che  i  mezzi  sag- giamente concertati  per  istabilirlo    (1).    E    Janet    dice: L'esistenza  stessa  delle  leggi  nella  natura    yi^gU    parla qui  evidentemente  delle  leggi  altre  che  quelle  del    mo- vimento) è  un  fatto  di  finalità.  Noi  possiamo  infatti  con- cepire che  i  fenomeni  potrebbero  prodursi  in  modo    da non  permettere  alcuna  previsione  certa  per  l'avvenire, e  non  vi  ha  alcuna  ragione  perchè  essi  non  si    produ- cano così,  se  si  suppongono  all'origine  degli    elementi puramente    materiali,  in  cui  non    preesisterebbe    alcun principio  iV  ordine  e  d'  armonia.    Il  solo  fatto    dell'  esi- stenza  d'un  ordine  qualun(jue  attesca  l'esistenza  dun'al- tra  causa  che  la  causa  meccanica,  poiché  questa  è  in- differente a  produrre  alcuna  combinazione  regolare.  Se nondimeno  tali  combinazioni  esistono,    e    sono  esistite da  tempi  infiniti,  è  dunque  che  la  materia  è    stata    di- retta o  si  è  diretta  da  se  stessa,    nei   suoi    movimenti, in  vista  di  produrre  (luesti  sistemi,  queste  combinazioni e.  questi  piani  da  cui  risulta    l'  ordine  del    mondo  :    ciò che  equivale  a  dire  che  la  materia  ha  obbedito  a  un'al- tra causa  che  la  causa  meccanica  (2).  Quest'opposizione tra  il  meccanismo  e  le  cause  finali  è  suggerita  natural- mente dall'azione  umana,  che  è  il  tipo  della  finalità  e il  fatto  d'esperienza  da  cui  ne  è  venuta  l'idea:  danna parte  il  mondo  esteriore  con  le  sue  leggi    indii)endenti dalla  volontà  uma\ia,  da  un'altra  i)arte  l'uomo,  che  non [1)  Del  fondamento  dslV induzione. (2)  .Taiiot   Le  cause  finali.  1.  1.  v    '). 1  — può  a^'ire  su  di  esso  che  iniziando  nuove  serie  di  mo- vimenti,  che  una  volta  incominciati,  si  continuano  e si  trasuieitono  secondo  le  loro  le^'g'i  fatali.  Quest'oppo- sizione corrisponde  pure  a  qu(»]la  del  necessario  e  del contingente  :  il  necessario  è  in  contraddizione  col  vo- lontario,  e  le  tendenze  istintive  del  nostro  spirito,  da cui  si  orifrinano  i  concetti  metafisici,  ci  conducono  a  iden- teficare  il  necessario  col  meccanico,  e  il  non  necessario, 0  il  contingente,  col  volontario.  Infatti,  come  vedremo più  chiaramente^  nel  se<i'uito  di  questo  scritto,  lo  spirito uniruio  ha  due  tipi  della  causalità  etticiente,  ai  quali tende  spontaneamente  ad  assimilare  tutte  le  azioni  della natura  :  l'uno  è  11  movimento  meccanico,  trasmesso  per l'urto,  e  r  altro  l'azione  volontaria.  Di  (questi  due  tipi di  a/.ionc  '»  nel  primo  che  noi  vediamo  realizzata  l'idea di  necessità  —  che  è  il  carattere  distintivo  d(»lla  causa- zione ('fti-iente— ;  ni^ll'azione  volontaria  .  essendo  an- ch'tvssa,  secondo  le  nostre  credenze  istintive,  una  cau- sazìoììf»  officiente,  vi  ha  un  momento  che  noi  conside- riamo in  (jualclie  modo  come  necessario,  è  la  succes- sione del  movimento  all'  atto  della  volontà  che  lo  co- manda; ma   Ta/ione  stessa,  nella  sua  totalità,  è  per  noi 1  antiti^si  del  necessario,  la  credtmza  naturale  dell'uomo ♦^nì  teiif)m(Mìi  iiitiMiii  della  volontà  non  essendo  il  de- t«Tiìn!ii>!no.  uìa  il  lil)ero  arbitrio.  Xoìì  v\  ha  dubbio che  «jiiando  il  teleolo^ista  oppone  il  meccanismo  alla tìnalità.  l'idea  che  la  parola  m(H*canismo  su^'^erisce  im- mediatameurc  al  suo  spirito  non  sia  il  meccanismo  di Democrito  e  di  Cartesio,  quello  del  movimento  trasmesso per  l'urto:  dei  <iu<'  doiiiinii  in  cui  e^'li  divide  tutte  le azioni  della  natura,  quello  del  meccanismo  e  quello defilo  cause  finali,  l'azione  fìsica  a  distanza  deve  pren- dere posto,  per  lui,  nel  secondo  piuttosto  che  nel  primo. Il  fenomeno  dell'  azione  a  distanza  non  è,  in  fatti,  ne- cessario —  necessario,  nel    senso    metafisico,    si^'nitiea  : ^-ì f'tì II il  cui  opposto  è  inconce})ibile,  o  almeno  difficile  ad essere  concepito— .Che  necessità,  in  questo  senso,  vi  ha in  effetto  che  una  molecola  di  materia,  per  la  semplice presenza  di  un'altra  molecola,  acquisti  una  tendenza  a muoversi  verso  di  essa?  Le  leggi  del  movimento -cioè del  movimento  che  si  trasmette  per  impulsione  —  sono, dice  d'Alembert,  di  verità  necessaria:   ma  (luella  della gravità,  supposto  che  essa  non  abbia    l'impulsione  per causa,    non    potrebbe   essere  in  alcun  senso    di    verità necessaria;  la  caduta  dei  corpi  pesanti,  in  (juesta   sup- posizione,  sarebbe  la  conseguenza  di  una  volontà   im- mediata e  particolare  del  Creatore,  e  senza  (juesta    vo- lontà espressa  un  corpo  posto  nell'aria  vi  resterebbe  in riposo  (1).  Così  Clarke  afferma  che  i  principii  matema- tici della  filosofia  (cioè  le  teorie  di  Xewton)    sono    con- trari a  quelli  dei   materialisti,   perchè  «mentre  i  mate- rialisti suppongono  che  la  struttura  dell'universo    può essere  stata  prodotta  dai  soli  ])rincipii   meccanici    della materia  e  del   movinìento,   della  necessità  e  della  fata- lità, i   principii  matematici  della  filosofia  fanno    vedere al  contrario  che  lo  stato  delle  cose  non  ha  potuto  essere prodotto  che  da  una  causa  intelligente^  e  libera»  (t>).  E il  matematico  Cotes  nella  prefazione  alla  II  edizione  dei Principii  di  Newton,  ponendo  la  gravità  come  una  pro- prietà primitiva  della  materia,    aggiunge  una  fili|q)ica contro  i  materialisti,  che  fanno  tutto  nascere  per  neces- sità,  mentre  il  sistema  di    Newton    fa    tutto    provenire dalla  volontà  del  Creatore,  e  osserva  che  le  leggi  della natura  offrono  numerosi  indizi  del  disegno  più  saggio, ma  nessuna  traccia  di  necessità  (8).  A.  Comte  ha  notato giustamente  che  la  filosofia  teologica,  anche  neirinfanzia (1)  Prine.  delle  eouose.    XVI. (2)  Lettere  tra  Clarke  e  Leibnitz.  Seconda  Replica  di  Clarke,  I. (8)  V.   ìjHìì^ei  Stor.  del  material,  t.    1.  parte  8.  e.  8. -  92  - dello  spirito  umano,  pur  costituendo  una  spiegazione  uni- versale dei  fenomeni,  non  si  applicava  ai  fenomeni  più  fa- familiari,  i  quali  sono  stati  sempre  riguardati  come  sog- o-etti  a  leirs'i  naturali,  invece  di  essere  attribuiti  aliavo- lontà  arbitraria  degli  agenti  soprannaturali  (1).  Quando  il filosofo  teologico  moderno  divide  i  fenomeni  in  necessari  Q> contingenti,  e  spiega  tutto  per  le  cause  finali,  tranne  i  feno meni  necessari,  egli  fa  precisamente  come  il  suo  antenato selvaggio  o  barbaro,  perchè  le  successioni  di  fenomeni che  ci  sembrano  necessarie,  sono  appunto  (pielle  che  ci sono  ^'  pin  familiari  {2).  Quando  il  Pelle-Uossa  non  com- prende, osserva  un  autore  che  ha  studiato  i  costumi  di queste  popolazioni,  dice  che  è  uno  spirito  (3).  Il  uon è  cosi  che  fa  pure  il  metafisico  incivilito  V  -  notiamo che  il  comprensibile,  come  il  necessario,  non  è  per  noi che  ciò  che  ci  è  //  pia  familiare  (4)—.  La  differenza  tra il  selvaggio  e  il  metafisico  incivilito  è  che  il  primo spiega  immediatamente  per  l'azione  degli  spiriti  i  fe- nomeni particolari:  il  secondo  ammette  ordinariamente che  i  fenomenti  ubbidiscono  a  delle  leggi  costanti,  ma quando  non  comprende  (pieste  leggi,  o,  ciò  che  è  lo stesso,  quando  esse  non  gli  sembrano  necessarie  (perchè non  si  tratta  delle  successioni  di  fenomeni  che  ci  sono le  pili  familiari),  egli  fa  conie  il  selvaggio,  le  spiega per  l'azione  di  uno  spirito,  che  produce  nella  natura dei  fenomeni  eh'  egli  giudica  al  di  sopra  delle  forze della  natura  stessa.  1/  intenzione  dello  spirito  è  per  lo più  ostile,  secondo  il  selvaggio;  secondo  il  metafisico incivilito,  benevola  :  di  più  la  spiegazione  teleologica del  secondo  non  è  ordinariamente  cosi  chimerica   come (1)  Corso  di  fìhts.  /tosit.  ed.    i.   voi   4.   ]>.  491. (2)  V.  e.  4. (3)  N      (ioblct  d'Alviella  L'idea  di  Dio  ecc.  p.  OS, (4)  \'.  cap.  4. —  93  — quella  del  primo.  Tale  è  la  costituzione  della  natura  e più  ancora  quella  dello  spirito  umano,  che,  purché  cer- chi in  questa  direzione,  egli  non  potrà  mancare  di  tro- vare nelle  leggi  stesse  dei  fenomeni  i  segni  d'un  piano intelligente:  egli  li  vedrà  sia  in  quf^sto  fatto  sorpren- dente, che  le  leggi  della  natura  contengono  spesso  dei rapporti  metrici  i  più  semplici  e  i  più  regolari  (p.  e. l'eguaglianza,  la  proporzionalità,  la  ragione  inversa  al quadrato,  ecc.),  e  sembrano  tali  da  rendere  i  fenomeniil  più  fadlmente  intelligibili  ;  sia  in  altre  circostanze proprie  ad  alcune  di  queste  leggi  che  gli  suggeriranno pure,  vivamente  o  debolmente,  l'idea  di  uno  scopo  odi una  coordinazione  interessante  per  se  stessa  e  voluta  ; sia  infine  nel  fatto  stesso  che  sono  delle  leggi,  perchè la  leo'ire  implica  un  ordine  e  una  reoolarità,  e  questi sono  contingenti,  cioè  non  sono  una  conseguenza  neces- saria dell'essenza  stessa  dei  fenomeni  —  non  si  può  in- fatti concepire  che  i  fenomeni  avrebbero  potuto  foruìare un  chaos,  più  chaotico  di  quello  che  alcun  mitologo abbia  nìai  immaginato,  cioè  senz'alcun  ordine,  senz'al- cuna  legge  senz'alcuna  uniformità  nelle  loro  sequenze e  nelle  loro  coesistenze  ?— dunque  .  ne  concluderà  il teler^logista,  quest'ordine  e  questa  regolarità  non  possono spiegarsi  che  per  una  Mente  ordinatrice  e  regolatrice. Malgrado  l'opposizione  sì  naturale  tra  il  meccani- smo e  la  finalità,  la  tendenza  a  spiegare  teleologica- mente  tutto  ciò  che  non  è  necessario,  sviluppata  con conseguenza,  non  può  non  oltrepassare  il  limite  fra questi  due  dominii  in  cui  i  teleologisti  dividono  ordi- nariamente le  azioni  della  natura.  E  ovvia  infatti  la riflessione  che  le  stesse  leggi  del  movimento,  anche  di quello  derivante  dall'  impulsione,  non  sono  nemmeno esse  necessarie,  benché  l'impulsione  stessa  sia  necessaria-- per  essere  tali  esse  dovrebbero  essere  una  suggestione dell'esperienza  più  familiare,  e  non,  come  sono  state  in 94  - —  95 realtà,  liolle  scoperte  scientifiche  (1)  —  :  ne  segue  che la  spiegazione  teleologica  deve  applicarsi  anche  a  (que- ste leggi.  D'altronde  è  solo  il  necessario  nel  senso  stretto, vale  a  dire  ciò  il  cui  contrario  è  aftatto  inconcepibile, che  è  assolutamente  in  contraddizione  col  volontario  : ora  ({Uesta  necessità  nel  senso  stretto  non  può  trovarsi inai  nelle  verità  esistenziali,  e  tutte  le  leggi  della  na- tura sono  delle  verità  esistenziali  (2).  Per  conseguenza, non  VI  Iì;ì  legge  della  natura  a  cui  la  spiegazione  te- leologica non  sia  a[)plical)ile.  Cosi  molti  filosofi  moderni hanno  spiegato  |)er  le  cause  finali  inche  le  leggi  della nieccniìica.  Secondo  Malebranche  Dio  scelse  «jueste  l(?ggi perchè  sono  le  più  semplici  —  cioè,  conni  abbiamo  ac- cennato, contcmgono  i  rapporti  metrici  più  semplici,  e soììo  le  [)iù  proprie  a  produrre,  con  mezzi  i  |)iù  uiìi- tormi,  nn  iinimnisa  varietà  di  fenomeni  Avendo  ri- sol  ut<>  di  produrre  per  le  vie  ])iù  semplici  (juesta  varietà intinita  di  crf^ature  ciu»  noi  ammiriamo.  Dio  ha  voluto che  i  ror[)i  si  muovessero  in  linea  retta,  perchè  questa liìjoa  è  la  più  sem}>Iice  ^>.  E  prevedendo  il  loro  urto, ha  stabilito  la  leg'ge  generale  della  comunicazione  dei mo\  imenti:  e  (jueste  due  leggi  naturali,  che  sono  le  più sem[)Iici  di  tutte,  bastano,  i  primi  movimenti  essendo saggiamente  distribuiti,  per  produrre  il  mondo  (juale n*»i  lo  vediamo  (o).  Dio  segue  sempre,  nelT  esecuzione dei  suoi  disegni,  le  vie  più  semplici,  perchè  sono  le  più sagge  e  quelle  che  l'onorano  di  più  (4).  La  contingenza f^ 11)   V.  cap.   IV. |2l    V.   il  Saji^rio    1. (8)  Malebruiitlu'  Jiieerva  dclhi  ver*  Se/narim.  XV.  (Risp.  alla 4.  prova)  .  1.  U.  paitt»  2.  v.  4.  .  Concersaz,  svila  meta/.  XXV, XXVII,  ecc. (4)  iHalehranelic  Jhdit.  erht.  VII.  ii.  15.  V,  XI.  n.  V^,  Kle, della  cer.  Schinrhn,  XV.  (RÌ8p.  alla  4.  i>rc)va).  Sehiarim,  VI, :^,  parte  2.  e.  >.   Concers.  untila  meta/.  IX.  X  e  XI,  ecc,^ delle  leggi  del  movimento  e  la  loro  dipendenza  dal  prin- cipio delle  cause  finali  era   una    delle    tesi    favorite    di Leibnitz  e  della  sua  scuola.  Il  pensiero  di  Leibnitz  su ciò  può  riassumersi  con  queste  parole  dell'autore  stesso: «  La  saggezza  su])rema  di    Dio    gli    ha    fatto    scegliere sovratutto  le  leggi  del  movimento  le  meglio  aggiustate e  le  più  convenienti  alle  ragioni  astratte  o  metafisiche... Ed  è  sorprendente  che  per  la  sola  considerazione  delle cause  efficienti  o  della  materia  non  si  potrebbe  rendere ragione  di  (jueste  leggi  del   movimento,  scoverte  al  no- stro tempo,  e  di  cui  una  parte  è  stata  scoverta  da    me stesso.  Perchè  io  ho  trovato  che  vi  bisogna  ricorrere  alle cause  finali,  e  che  queste  leggi  non  dipendono  dal  i)rin- cipio  della  necessità,  come  le  verità  logiche,  aritmeti- che e  geometriche,  ma  dal  pruìciph    (iella   convenienza, cioè  della  scelta  della  saggezza.  Ed  è  una  delle  i)iù  ef- ficaci e  delle  più  sensibili  prove  dell'  esistenza    dì    Dio per  (luelli  che  possono  aj)i)ro fondi  re  queste    cose  ^     (1). Leibnitz  pretendeva  anche  che  dal  solo   concetto    della materia  si  dedurrebbero  delle  leggi  del  movimento  dif- ferenti dalle  reali  (2),  e  che  esse  produrrebbero  gli  effetti più  assurdi  e  più  irregolari,  e  sarebbero  assolutamente contrarie  alla  formazione  di   un    sistema    (3).     «  Fra    le rettole  generali  che  non  sono  assolutamente  necessarie, Dio  scelse  quelle  che  sono  più  naturali,    di    cui   è  i)iù facile  di  rendere  ragione,  e  che  servono  pure  il  più  fa- ll) Prìne.  della  nai.  e  della  ijraz.  n.  11.  V.  anche  TeiMlieeu Prefazione,  Sayyi  sulla  bontà  di  Dio  ere.  parte  S.  n.  S4rì-:^r>(), Esame  del   W   Malebraiielie,  eee. (2) V.  Lettera  sulla  quistioiie  se  l'essenza  del  eorin»  eoiisistc iieiresteiiHionc  (Duteiis  t.  2.  p.    1.   1».  280).  (3)  Leibnitz  a  Fontenelle  {Lettere  e  opaseoli  di  Leibnitz  ed. da  Foucher  de  Careil,  1«54.  p.  227)  e  Pise,  di  mrtafis.  {iVuove  leì^ tere  e  opnsc.  ed.  da   V.  de  C.  1S57.   p.  S5H).   - cilmeiite  a  rendere  ragione  di  altre  cose.  E  ciò  che  è senza  dubbio  il  più  bello  e  che  vale  il  meglio  ».  I.e  vie di  Dio,  egli  aggiunge,  ripetendo  il  concetto  di  Male- branche, che  è  uno  degli  argomenti  preferiti  dai  teleo- logisti,  sono  le  più  semplici;  perchè  il  saggio  fa  in  modo, il  più  che  si  può,  che  i  mezzi  siano  pure  jini  in  qual- che maniera,  cioè  desiderabili,  non  solo  per  ciò  che  essi,  ma  ancora  per  ciò  che  essi  mno  (l).  Ma  Tappli- cazione  più  notevole  del  principio  delle  cause  finali  in fisica  è  il  concetto  di  una  economia  di  forze  e  di  tempo che  la  natura  prenderebbe  per  regola  nella  produzione dei  fenomeni.  Tolomeo  avea  dato  come  spiegazione  del fatto  che  i  raggi  della  luce  ci  giungono  in  linea  retta, che  essi  passano  da  un  punto  ad  un  altro  per  la  via più  breve,  e  per  conseguenza  nel  minor  tempo  possi- bile; con  (luesto  principio  erano  state  spiegate  pure  dagli antichi  le  leggi  della  riflessione  della  luce  ;  Fermat  lo generalizzò,  estendendolo  a  quelle  della  refrazione.  Leib- nitz  spiegava  queste  leggi,  e  tutte  le  legai  dell'ottica in  generale,  per  un  principio  analogo,  cioè  che  la  luce segue  sempre  la  via  più  facile  {la  via  pia  facile  era  de- finita quella  in  cui  il  prodotto  della  via  percorsa  per  la resistenza  dell'ambiente  è  un  minimum)  (2)  :  questa spiegazione  fa  vedere,  secondo  lui,  Futilità  delle  cause finali,  perchè  mostra  che  dalla  considerazione  di  esse possono  ricavarsi  certe  verità  arcane  e  di  gran  momento, che  sarebbe  difficile  di  ricavare  dalle  cause  efficienti, la  natura  dei  raggi  della  luce  non  essendoci  cosi  co- nosciuta da  poter  rendere  ragione  per  le  cause  efficienti delle  leggi  che  essi  osservano  nella  riflessione  e   refra- (1)  Saggi  nulla  bontà  di  Dio  ecc.  $.  208. (2)  De  unico  opl.,  catoptr,,  dioptr.  prine.  Duteus  111. Il zione  (1).  Questa  legge  di  economia  fu  elevata  da  Mauper- tuis  a  legge  fondamentale  della  meccanica,  formulandola nel  suo  principio  della  minore  azione,  in  cui  egli  vedeva Tunica  prova  delTesistenza  di  Dio,  fondata  sull'ordine della  natura.   <'  Ecco  questo  principio  si  saggio,  sì  degno dell'  Essere  supremo.   Quando   avviene   qualche  cangia- mento nella  natura,  la  quantità  d'azione  ini[)iegata   per questo  cangiamento  è  sempre  la  più  piccola  cht^  sia    possi- bile (r«a;/o?ie  si  definisce  come  una  (juantità  proporzionale al  prodotto  della  massa  per  la  v(  lecita  e  perle  spazio). È  da  questo  principio  che  noi  deduriamo  le    leg^'i    del movimento  tanto  nell'urto  dei  cori)i  duri  quanto  in  (jnello dei   corpi  elastici.   É  determinando  bene  la   quantità    di azione  che  è  allora  necessaria  per  il   cangiamento    che deve  accadere  nella  loro  ])restezza,  (\  supponfMido  (juesta quantità  la  |)iù  picc(>la  che  sia   possibile,    che   noi   sco- priamo (jueste  leggi  generali,  secondo  cui  il  movimento si  distribuisce,  si  produce  o  si  estingue.  Non  solo  questo principio  corrisponde  all'idea  ch(i  noi   abbiamo   dell'Es- sere supremo,  in  <|uanto  egli  deve  agire  sempre  della maiìiera  più  saggia,    ma     in  (juanto  ancora  egli    deve sempre  tenere  tutto  sotto  la  sua  di[)endenza  »  (2).  Eulero difende  il  principio  di  Maupertuis  ;    ne  fa   delle    nuove applicazioni,  mostrando  ch(^  «  nel  movimento  dei    corpi celesti,  e  in  generale  nel  movimento  di  tutti  i  corpi  at- tirati verso  i  centri    di    forza,    se  a  ciascun    istante    si moltiplica  la  massa  del  corpo  per  lo  spazio    percorso  e per  la  prestezza,    la    somma  di  tutti  questi  prodotti    è sempre  la  minore»;  vede  in  esso,  come  Maupertuis,   il (1)  V.  Aiiiniadvers.  circa  a.ssert.  aliq.  Thcor.  nie«l.  Stahl. n.  III.  (Duteiis  t.  2.  parte  2.  pa<^.  134),  Risp.  alle  ritiessioui  su alcuni  puuti  della  filos.  di   Descartes,  imi  (Dut.   t.  2.  parte    1. pa<;.  252),  ecc. (2)  Maupertuis  Saggio  di  cosmologia. 7 —  ìks  — principio,  e  non  una  eoiisoi>-ueiiza,  delle  legnai  dei    mo- vimento,    anzi    «  la  ìe^-^'e  ])ÌLi  universale  della    natura che    eonoseiamo    distintamente  »  ;    e^    lo    considera    an- ch'eoli   come  una  vc^rità  fondata  sulle  cause    finali    (I)- La  sj)ie^azione    teleologica    delle    le<i'<ii    del    movi- mento,   tacendo  cadere  le  barriere  tra   il  dominio  delle cause  finali  e  quello  del  n)eccanismo,  ha  per  conse^ucMiza restensionc  di  (juesta  spieii'azione  a   tutte  le  le.u'^i'i  della natura  in  <:'enerale.   K  ciò  che  troviamo  naturalmente  in Leibnitz  e  in  Alalebranche.  Le  verità  della  ra<>-ione  sono, dice  Leibnitz.  di  due  sorta  :  le  une  sono  as8olutanu^,nte necessarie;  tali  sono  (juelle  la  cui   necessità    è    lo<»"ica, ireometrica  o  metafisica.   Le  altre  possono  chiamarsi  pò- sitive,    perchè  sono  le  li'.i4\u"i  che  ha  piaciuto  a    Dio    di dare  alla  natura,  o  ne  di])endono.  Noi  le   ai)prendianio o  per  res[)erienza,  o  a  |)ri(n-i  perla  considerazione  della convenienza  che  le  ha   fatto  sce^uliere.  Così  si   può  dire che  la  necessità  fisica  è  fondata  sulla    necessità    morale, cioè  sulla  scelta  del  sa^^uio  dciina  della  sua    sai»-o-ezza; e  tanto  Tuna  quanto  l'altra  (bevono  essere  distinte  dalla necessità  geometrica  (cioè    assoluta).    Questa    necessità tìsica  è  ciò  che  fa  l'ordine  della  lìatura,  e  consiste  nelle lea*a'i  a'enerali  che  ha  piaciuto  a   Dio  di  dare  alle   cose dando  loro  l'cjssere.  Dio  non  le  ha  dato  senza  ragione, ma  vi  è  stato  })ortato  da    ra*»ioni   ^^'enerali    del    bene    e dell'ordine,  che  in  alcuni   casi   possono  essere  vinte  da rag-ioni  superiori  (2).    Secondo  Malebranche,    le    legg'i della  natura  dipendono  dalla  volontà  di  Dio,    ma  egli non  le  ha  stabilito  che  perchè  l'ordine  richiede  che  sia (1)  .laiict    Lv  cansc  fnKtli,    Appcndicf,    VI,   pjtii.  ÌH5  e  seg. (2)  Diacorso  (Iella  eonformitù  della  fede  eon  la  ruijìone^  ^,  2. V.  aiiclu'  De  natura  ipsa  (Dutcìis  t.  2.  parte  2.  p.  51),  S(ff/f/i  sulla bontà  di  Pio  ecc.  ò.  2(IS,  Ji*is/f,  alle  ohhiez.  delVaat,  del  libro  della conose.  di  se  stesso    (Diitcìis    t.    2.    parte    1.   pag.    1(»0-101),    cce. —     — cosi  (l).   Dio  non  comunica  la    sua    potenza    alle    crea- ture   che    stabilendole    cause   occasionali    per    produrre certi  effetti,  in  consegìcenza  delle  leggi  ch'egli  si    fa   per eseguire  i  suoi  disegni  (Vana  maniera  uni  forme  e  costante, per  le  rie  più  semplici,  più  deg'ue  della  sua  sagg'ezza  e dei   suoi  altri   attributi    (non    si    dimentichi    che    per Malebranche  le  leggi  della  natura  non  sono    che    delle regole  che  Dio  segue    (quando    agisce,   [n-oducendo  un fenonieno  alToccasione  di  un  altro  ).  E  in  generale,  un filosofo  teista  che  ammette  la  contingenza    delle    leggi della  natura,  se  egli  vuole  spiegare  d'una  maniera  qua- lunque (jueste  leggi  .    che  altro  può  vedere  in   esse    se non  la  manifestazione  d'un    piano  razionale?  I  fenome- ni sensibili,   dice  Berkeley  (per  cui  i  fenomeni   non   sono delle  cause,  ma  dei  segni  gli  uni  degli  altri),  non  for- mano solamente  un   magnifico  spettacolo,  ma  ancora  il discorso   meglio  seguito,   più  interessante  ed  istruttivo. Le  idee  dei  sensi  (cioè  le  sensazioni)  non    sono    in   no- stro potere  come  (juelle  deirinnnaginazione  (benché  ad esse  non  corrisponda  una  realtà  esteriore).  Nella  nostra esi)erienza  sensibile  noi    ci    troviamo    in    presenza    dei segni  d'una  ragione  più  larga,  d'una  volontà   t)iù   fer- ma,   che  quelle  che  si  rivelano  nelle  costruzioni    arbi- trarie della  nostra  immaginazione  :   noi     v'  incontriamo il  potere  supremo  che  si   rivela    per    le    leggi naturali imposte  ai  fenomeni  sensibili.  Noi  ci  troviamo    così    in comunicazione  permanente  con  l'Intelligenza  suprema. E  lo  stesso  che  il  mistico  Berkeley  pensa,  in  sostanza, l'empirista  Locke,  che  attribuisce  le  leggi  della  natura, secondo  lui  arbitrarie,  non  alla  volontà  solamente,   ma anche  alla  saggezza  dell'   «  architetto  dell'universo  >  (o). (1)  Meditdz.  erist.,  7.   u.   IS. (2)  Meditaz.  erist,,  5. (3)  V.   Siuiiiio   sairintead.    ani.    speeiabiiente  1 §.  28  0  21>.   e.   IV.   ^.    t.   <'t<'- IV r. Ili aa^fmmmmmmm -  100  - Il  carattere  di  mistero,  di  cui  le.  le.i>'<>i  dei  fenomeni naturali  gli  sembrano  rivestite  -ed  è  perciò  che  esse sono  riguardate  come  contingenti  e  come  arbitrarie  — sollecita  lo  spirito  umano  a  cercare  una  spiegazione qualsiasi,  che  possa  attenuare  in  (|ualche  modo  (juesto nìistero  :  e  dove  può  trovare  un  tipo  per  una  tale  s[)ie- gazione,  se  non  in  se  stesso,  dacché  fuori  di  se,  cioè nella  natura,  tutto  gli  seml)ra  incomprensibile  e  miste- rioso'-^ Il  fatto  stesso  che  vi  hanno  delle  leiiiii  nella natura,  cioè  che  i  fenomeni  si  svolgono  con  un  corso uniforme  .  sembra  aiirdresso  c«inti!ii:('nte  ed  arbitrario, perchè  rincom|)rensibilirà  delle  singole  uniformità  par- ticolari rende  pure  incompi-ensibile  la  legge  generale d'  uniformità  che  esse  costituiscono  :  così  la  lea'a'e  im- plicando,  come  abbiannì  notato,  un  ordine  e  una  rego- larità, t|U(\sto  fatto  stesso  entra  naturalmente  nel  domi- nio della  spiegazione  teleologica.  Berkeley  dice  :  I  fe- nomeni, nella  loro  regolarità,  sono  un  lingtiaggio  per cui  l'autore  della  natura  si  i-ivela  a  noi.  Questa  stessa regolarità  dei  Menomimi  impedisce  alla  j)iii  parte  degli uomini  di  riconoscere  la  causa  libera  di  (jut^sti  feno- meni. Essi  sono  pronti  a  pi-oclamare  rintervento  (T  un essere  superiore,  dacché  Tordine  della  natuta  pai-e  so- speso, e  non  pensano  che  <juest' ordine  è  la  prova  i)iù certa  della  saggezza  e  della  bontà  del  ('reatore.  H  Ma- lebranche :  Dio  non  agisce  per  leggi  generali  che  per rendere  la  sua  condotta  uniforme,  e  farle  portare  il  ca- rattere della  sua  immutabilità  (1).  Un  essere  saggio  a- girà  per  delle  volontà  particolari,  allorché  alcune  vo- lontà generali  bastano?  e  se  una  condotta  uniforme, costante,  regolata  j)uò  formare  un'opera  degna  di  lui, seguirà  una  condotta  bizzarra,  caiigiant(3,  sregolata,  e che    indica    dell'  incostanza  e  dell'  ignoranza  in   quello (1)   Conversaz,  sulbi  metaf.   X.    XVI. ^1 -  101    - che  la  segue?  (1)  Per  Leibnitz  il  corso  uniforme  della natura  è  un'armonia  prestabilita,  conc(itto  che  implica per  se  stesso  l'idea  di  i)iano  e  d'intelligenza. L'ultima  applicazione  del  concetto teleologico  di  cui fareuìo  menzione,  è  la  dottrina  che  il  mondo  reale  è  il  mi- gliore dei  mondi  possibili.  Questa  dottrina  che  si  trovanel- la  lllosofia  cristiana  del  nu^dio  evo,  nei  neoplatonici,  negli stoici,  è  una  conseguenza  logica  del  concetto  che  Dio è  l'assoluto,  cioè  che  tutti  gii  attributi  ch'egli  possiede, implicanti  una   perfezione  (la  potenza,  la  saggezza,  ecc.) li  possiede  a  un  grado  assoluto  o  infinito.  In  Malel)ran- che  e  sovratutto  in    Leibnitz  essa  diviene   una    spiega- zione della  natura  la  più  generale  e  la  piìt  radicale  che sia  possibile.   In   questi    filosofi    infatti    questa    dottrina non  pretende  solamente,  come  la  spiegazione  teleologica ordìiìaria,  di   rendere  ragione  di  certi  caratteri  generali delle  cose  (l'appropriazion-e,  l'ordine,  ecc.),  ma  di   asse- p-nare  utia  causa  che  determini   rigorosamente    V  essere e  il  modo  di  essere  delle  cose  stesse,  ciò  che  deve  fare una    vera    spiegazione.    Se  il  mondo    esiste    cosi  e  non altrimenti,  se  gli   esseri   e  i  fenomeni   che  lo  costituisco- no souv)  precisamente  (juesti  che  osserviamo  e  non  altri potremmo  immaginare  in  loro  luogo,  è  perchè  ciò è  il    me^'lio,   e  Dio  non   poteva  mancare  di   scegliere    il meglio  (2;.  Questo  concetto,  che  è  Tulrimo  limite  a  cui possa  spingersi  la  spiegazione  teleologica,  cioè  che  cia- scuna cosa  esiste  ed  esiste  cosi   perchè  ciò  è  il  meglio, si  trova  già  in   Platone,  ma  sarebbe  dilticile  di  diresino a  (|ual   punto  la  spiegazione  teleologica    sia    anche,  in Platone,  una  spiegazione  teologica  (3). Questa    rapida    rassegna  delle  applicazioni  più  im- (1)  Meditaz.   rrìsi.    XI.   n.    i:^. (2)  V.   cai»-    VI,   §    i  e >. (H)  V.  <Mi>.  VII.  §  i:^.  :^.  e  v>  Ki. "     'UHI -     - portanti  della    dottrina    delle    cause    finali    basterà    per mostrarti    che    essa    ha    eostiluito  una  spieg-azione,  nel senso  stretto,  amvei'Hcde  della  natura.  Questa  spie^'azio- ne,   unita  a  rjuella  di  cui  abbiamo  parlato  nel  parao-ratb precedente,   forma  l'insieme  di  ciò  che  possiamo    chia- mare la  sph'iiazione  teologica  doi  fenomeni.   E   in    questa che    dobbiamo    riconoscere  la  vera  base  di  o^-ni    forma •della    iilosofìa    teoloo-ica,   poiché  è  certo    che    lo  spirito umano  non  ha  mai  concepito  delle  cause,    poste    fuori del  campo   delTosservazionJ»,   che  i)er  servire  da  spieo-a- zione  de<i'li  eft'etti,  cioè  dei  dati  dell'osservazione    st(^ssa sS  4.  Gli    aro-omenti    per   provare  V  esistenza  di   Dio si  distiiiiiuono  in  a  in-iorì  e  a  i)!)sterlori.  Noi  chiamiamo a  /posteriori  le  prove  di   natura  induttiva,  cioè  che  con- cludono dai  dati  dell'esperienza  a  Dio  fondan(h>si  su  (jual- che  uniformità  che  l'esperienza  stessa  ha  costatat;^  tra i    fatti.  Chiamiamo  invece  a^trìori    (pielle    che    non    si fondano  su  qualche  principio    stabilito    induttivamente, ma  su  [)retesi   le,i>-ami   lodici   fra  le  ide(%  che   non  sareb- bero il   risnltato  di  una  o-cMieralizzazione  di  leo-ami  co- statati tra    i    fatti,    ma    sarel)bero    intrinseci    alle    idee stesse;  sia  che  (pieste  prove  prendano  j)er  punto  di   par- tenza qualche  dato  dell'osservazione,  sia  che  deducano r  esistenza  di   Dio  da  semplici    concetti,    iìidipendente- mente  da  qualsiasi  dato   empirico.   É  una    conseg-uenza dei  principii  della  teoria   della    conoscenza    esposti    nel Sa^'o'io  1»  che  tutte  le  prove  di  questo  o-^nere  sono  ne- cessariamente  sofistiche:  noi  abbiamo  visto  infatti,    da una  parte,  che  non  vi   ha  alcuna    deduzione    possibile, che  sia  altra  cosa  che  un'applicazione  a  casi  particolari di  una  proposizione  gcMierale  stabilita  da  un'  induzione precedente;  e  da  un'altra  parte,   che  un  iiiudizio  a  prio- ri, cioè  una  verità  che  deve  ammettersi  come   evidente^ per  se  stessa,  non  può   avere    per    oggetto    l'esistenza delle  cose  né  i  loro  le<>'ami   reali  di  sequenza  o  di   coe- 't sistenza,   ma  solo  dei  rapporti  che  lo   spirito    stabilisce comparandole  fra  di  loro,  cioè  le  loro   somig'lian/e  e  le loro  differenze.  Cosi  non  vi  ha  alcun  leaanìe    infrinseco fra  le  idee  (cioè  non  risultante  da  una  o'cneralizzazione dell'osservazione)  su  cui   |)ossiamo  fondarci   \n^r  passare dall'esistenza  d.'una  cosa  a  quella  di   un'altra,   o  per  i- stabiliiv  d'una  maniera  qualsiasi  l'esistenza  di  qualche cosa  :  questa,  come  oo'iii  altra   verità  sul   reale,   se    non è  un  dato  immediato  dell'osservazione,  non  [uiò  stabilirsi che  induttivanumte,  e  oi>-ni   pretesa  prova  non  induttiva non  può  (^.ssere  che  un   poralo,i»MS'no.    L'iuduzrone  non  è solamente  l'unico  ])rocesso  legittimo  per  concludere  una proposizione  vera,   ma  è  aiudie  l'unico  proc(^sso   naturale per  cui   il  nostro  spirito  conclude  una  proposizione  ijual- siasi,  ch'essa  sia  certa  o  ipotetica  o  anche  assolutamente erronea.  Generalmenle-  le  pretese  dimostrazioni  a  priori dell'esistenza  di   ((ualche    cosa  o  di   (jualche    leu'o-e    del n^ale  noli  sono  clie  dei  sofismi  artifiriali,    incapaci    picr se  stessi    di    detcMMiiinare    una   convintone,    (piantunciue possano  sembrare  convincenti   a   chi   è  convinto  u'ià,  per altri     motivi,    di   ciò  che  essi   pretendono  dimostrare.   E vero   però  che  nel    determinare  le  nostre    credenze    ao-i- sce.   accanto  alla   induzione   loo-ica,    un    processo    inco- sciente di   assimilazione  di  tutti   i  tatti   e  di  tutte  le  idee che  possiamo  formarci   sn   di   essi   ai   fatti  e  alle  hh'e  che ci  sono  più  familiari -roo-o-etto  di  questo  Sa-oio  è  ap- punto di  mostrare  come  tutti  i  concetti  metafisici  risul- tano da  quest'  attività  incosciente  ed  extra-logica  della nostra  intelli.i>'enza -.  Ora  i   risultati  di  questo  pr..c(^sso incoscio  di  assimilazione,  che  soli  si   rivelano    alla    co- scienza,  e.  s'impon-ono  naturalmente  come  delle  verità evidenti   per  se  stesse,  cioè  a  priori:  vi  hanno,   per  con- sei4-uenza,  dei  sofismi,  che  non  sono  artiftntfi,  ma    na- turali, e  che   potrebbero    costituire  o-U  cl(nn(mti   di   una dimostrazione  a  priori  sull'esistente,  che  sarebbe  un  mo- -    104  — tivo    reale  di  crcdoiiza,  .spec-ialineiite  sul  terrouo  che   è il  campo  propri')  di  (|U('.sti  solisiiii,  cioè  (vuoilo  della  me- tafisica.  Ma  la  metafisica  istintiva  dello  spirito  umano Cloe    la    hlosoHa    teolou'ica,  (;  in  i^'enerale,  o<i-ni    forma dell' antropomorlismo,   ha  (piesto    vanta,i^-^-io    sulle    altro forme  di   metafisica,  che  il  processo  di  assimilazione  \n- cosci(»nte,  di  cui  essa  è  il   risultato,   riprodotto  alla  luce delia  coscienza,  è  un'induzione  loo-jc-x,  cioè  un'inferenza induttiva  (con  che  non  intendiamo  aftermarc;  che  questa sia  concludentei:  cosi,  (|nantun«jue  W.  proj)osizioni  a  cui dà  luo<i'o  questo  processo  incoscient(5,  possano  [)rendersi, e  siano  state   effetti vament(;    prese,   per    verità    eviflenti per  se  stesse,  cioè  a  priori,   pure  la   loro  origine;  indut- tiva è  facilmcmte  riconoscihih;,  e  (jueste  proposizioni,  che formulano  i   niotivi   re<di  didla  lilosoHa   teoloo-ica,    sono stabilite    ordinariamente  come    conclusioni    di    ra^^iona- menti   induttivi.   Xe  seuui^  che  la  distinzione  tra  'Hi  ar- goiiKMiti  (I  ifìHferiori    ed  <(  jn-ìuri    (^juivale,    nnche    m'Ha quistionc  deireslstcnza  di   Dio.   a  (juella  fra   i   ra^-iona- menti  ndhimii,  cln^  sono  o   possoiio  essere  i  v.'ri    ni)!  ivi della  credenza.   <'  i   solisini   |)uramcnt,e  arfitiriaU,   che    si danno  T  Mria   <li   dimostrarla  d'una   maniera    apodittica, ma    che  in   r<'a!tà  non  conti-ibuiscono   f)er    niente  a  sta- bilirla.   Le   basi   reali   <lella   lil')soli:i   teologica    noi     le    ri- conosceremo dunijue   n(;i    primi,   cioè   ne^-rindutt i vi. Fra  essi  bisogna  dare  il  primo  posto  a  (juello  delle cause  "^nali.  Quantuntpu^  alcuni  abbiano  considerato  co- me evidente^  |)er  se  stessa  o  a  pi'iori  la  proposizione  u"e- nerale  su  cui  si  londa  quest'ariiomcnto,  cioè  che  (pianrlo in  un  o<i\u'etto  si  vede  (|ualche  cosa  come  un  adatta- mento di  mezzi  ad  uno  scop.),  qu^'sto  deve.  i\:^^(\\\\  l'o- pera di  un  autore  iiuellii^'ente  ;  <>-(5iuM-almente  la  i)ropo- sizione  è  ri^-uardata  come  un  risultato  (h^lTesperienza, e  r  ar<>omento  esposto  come  un'induzione,  basata  sul- l'anaIo<4-ia  fra  certc^  produzioni  della   natura  e  i  prodotti —  lOo  — dell'arte  umana.   Mill  lo  formula  come  esso  è  stato  for- dalla    [)iù    parte    dei    pensatori    che  se  ne  sono serviti,  così:  «Le  cose  che  uno  s|.irito  intelli<i'ente    ha fatto  in  vista  d'un   fine  hanno  j)er  carattere,  ci  si  dice, certe  qualità.  L'ordine  della   natura,  o  «pialche    <>M*ande parte    di    quest'  ordine,    presenta    (]ueste    <pialità    a    un g'rado  rimarchevole.   Da   (piesta  .«'rande  somi^'lianza  ne- o-li   effetti    abbiaìuo    il    dritto  di    coiu-ludere    che    esiste una  somiglianza  nella  causa,  e  di  credere  die  delle  cose che  la   potenza  dell"  uomo  non  i)Otrebbe    fare,    ma    che somigliano    alle    opere    dell"  uomo   in   tutto    eccetto    che nella  potenza,   devono   j)uie  essere  l'opera  d"  un'  intelli- genza,  armata  d"  uoa  prìtenza    più    grande    ciìe    ([Uella dell'uomo»   (1).   Il    valore  deirargonnmto,  come  abbiamo accennato  nrl   para'4a-af  >   precedente,  è  stato  anche  am- messo da  al'/aiìi   d(M   più  eminejui   e  dei   più  critici  fra  i mod(M-ni,  che  hanno  sottoj)Osto  a  un    esame    se- vero le  basi  del   teismo,  e  hanno  respinto  come  di  niun valore  tutti  i^li  altri  aru'onu^aiti   per  provare    1'  esistenza della  divinità.   L'argonumto  delle  cause  finali,  secondo questi   filosofi,   non  conclu<le  con  una.  certezza    assolula, ma  è  sufficiente  per  una  conclusione  probal>ile,  e  costi- tuisce la  base  unica  della  teologia   naturale,   llume   nei suoi     Dudoijhi    snìl((    re/if/ioite  ìtnfundc  fa  dire  a    Filoiu' (che  rappresenta  le  idee  dell"  autore,  e  rifiuta  conu».  as- solutamente vane  le  altre  prove  dèil'  esistenza  di    Dio)  : «La    beltà  e  i  rapì)orti     Ielle  cause  finali   ci   colpiscono con    una    forza    si     irresistibile,   che  tutte  le  obbiezioni paiono  (e  io  credo  che  lo  sono  effettivamente)  delle  pure cavillazioni  e  dei   veri  sofisiiii  (2) L'Essere  divino si  scopre  e  si   manifesta    nell'  inesplicabile    nu'ccanismo (1)  S(({j!/irt  sul  frisino,    l  fturlr.    Arf/outrnlo  dei  su/ ni   di  piujio indurii. [2)  VnvXv    \. e  raiinnirabilc  struttura  della  natura.   Un  oo-^c^tto,  un disi-no.  unMntonziono  colpisce  da  per  tutto  il  pensatore più'u'rossolano  e  più  disattento;  ed  alcun  uomo  non  pò trehbe  darsi  ad  assurdi  sistemi  sino  al  punto  da    riget- tare (luest'idea  in  oomìì  tempo:    La  natura  non  fa  niente iarano K  evidente  che  le  opere  della  natura  hanno una  torte  analo-ia  con  le  produzioni  dell'arte;  e  secondo tutte  le  reiiole  della  saiia  loo-ica,  dacché  noi   ar-'omen- tiamo  su  (jueste  materie,  dobbiamo  inferire   che  le  loro cause  ha^mo  pure  un'analo.u'ia  proporzionale  »   (1)   Kant, che  riduce  a  tre  le  prove  della  rao-ione  teorica  p;'r    di- mostrare resistenza  di   Dio,  cioè  TontolouMca,  la  cosmo- loo-ira  e  la   Hsico-teolo-ica,  dopo  aver  dimostrato    l' as- sohita  ìiìipossibilità  delle  altre  due,  dice  della  flsico-teo- loo-ica  (cioè  (|U.dla  delle  cause  Hnali):   k  la  più   antica, la'più  chiara  e  la  più    coiit'onne    alla    rao'ione    umì.uii. Vivifica  lo  studio  della   natura,  della  stessa  maniera  che tira   la  sua   e-^istmiza  di  ([Uesto  studio,  e  up  riceve  delle forze   nuove.    Le  conoscenze  naturali,  che  essa  estende, elevano  la  fed«'  in  un  autore  supremo   siuo  a  una    per- suasione irresistibile.   Sarebbe  dunque'-  non  solo  privarci di   una  cousolazioue,   ma  anche  tentare  l'impossibile,  il pretendere  di  toii'liere  (|ualch(^  cosa  all'autorità  di   (pie sta  prova  ci).   Kant  distinii'ue  la  teolo.o-ia  trascendentale e  la  teologia  naturale:  la  prima  stal)ilisce  un  essere  pri- mitivo, ma  scMiza  determinarlo  come  essere  intellig-ente, ed  è  fondata  suii'li   aro-omenti   oiitoloo-ico  e  cosmoloo'ieo; solo  la  seconda  stabilisce  un'intelli-'enza  suprema,  e  fra le    prove    della  ragione  teorica,   non  ha   altra  base  che (1)  l»art«'    TuttJivii»   sectnìilo    Filoii.'    P  ar.-oiiiouto    non t-oiirliulc   elle   con    pro\m\>ilitM.    V.    la    stessa   o]M'i-a   sulla  line. (2)  Crii,   (it'llo    n((/.    /mni  .     I>i<delt,    frast'cndcnf.,  l.  2.  e.  3. sez.  ♦?.   Dcirimpossihilifò  della  prova  fisii'o-tcolofjiea. I'  * la  fisico-teolooiea  (1).  Stuart  -  Mill  (che  naturalmente non  accorda  alcun  valore  agdi  aro-omenti  a  ])riori)  dice: Il  mondo,  per  ciò  solo  che  esiste,  non  è  una.  testimo- nianza in  favore  delTesistenza  d'un  Dio:  se  ci  fornisce deo'l'indizi  che  ci  i»ortano  a  credervi,  è  per  (gualche  cosa che  vi  vediamo  che  rassoniiolia  a  un'adattazioin'  ad  un fine.  L'aro'oiiiento  del  piano,  secondo  me,  farà  sempre tutta  la  forza  del  teismo  naturale  (2;. Mfi  la  (luislione  non  è  per  noi,  come  per  oli   autori citati,  di  cercare  (|uali  i)rove  dell' esistenza  della    divi- uità  abbiano  del   valore  al  ì)unto  di   vista  scientitico,  e sino  a   (jual   punto,   ma  (juali  siano  ìiataruli,  e  costitui- scano dei   motivi   reali  della  filosofia   teolooica.   Per  con- seo-uenza  noi   non    possiamo    vedere  la   base    unica    del teisuìo    nella    prova  delle  cause  finali,  neo-liu^endo    o  ri- o-ettando.   come  e.-si,   (juella  cdie  dimostra  la  diviniti   co- me causa   motrice.   Si   ha  certamente    rag-ione  di   negare a  (piesta  prova  (pialsiasi   valore  scienti1ic(ì,  l'esperienza non   dandoei   alcun   dritto  di   vedere    nella    volontà    una causa  originaria   de!   movimento,   piuttosto  che  in    altri agenti   puramente  fisici   (.^5).   Ma  essa  è  cosi  chiara,  cosi antica  e  di  un  uso  quasi  cosi  generale    presso  i   tilosoti teisti,  che  (juella  delle  cause  hnali;  e  noi   possianu»  an- che aggiungere,  come  Kant,  cosi  confo r ine  alla  ragione umamP,  se^x^.r  ragione  intendiamo  la  facoltà  di   perce- pire l'evidenza  intri!iseca  delle  proposizioni,  in  opposi- zione all'  esperienza,  che  non  conosce  che  le  verità  di (1)  Ihid.   sez.   7. (2)  Snijuio  sul  teismo.  I  parto,  An/ow.  della  eaasa  in-ima  in line  e  Anjom.  del  eonsetUim.  (jener.  in  principio.  V.  anche  .1/- qom.  dei  sef/ni  di  piano  nella  natura,  in  cui  stabilisce  la  pi-oì»a- lùlità  iloiraro-omento  —  CtV.   lo  citazit»ni    <lello    stesso    Mill   e    di Kant  verso  il  lu-incipio  del  paragr.   i)r<M-o(lente. (8)  V.   Mill   O}).  eit.   I   pjirte  Arf/om,  della  eaasa   prima.  CUr. il   vS  2.   di   (piesto  ca])itol<>  verso  la  tino. ^mmeas^m 109 —   lOS fatto.  È  in  effetti  un  risultato  inevitabile  di  questo  pro- cesso incosciente  di  assimilazione  di  cui  sopra  abbiamo parlato,  che  noi  dobbianìo  ricondurre  oo-iiì  causa  che fa  incominciare  un  movimento  alla  volontà,  che  è  l'an- tecedente più  familiare  dei  movimenti  che  incomincia- no, e  non  semplicemente  si  trasmettono.  In  questo  caso, come  in  (piello  delle  cause  finali,  la  proposizione  che risulta  da  (juest'assimilazione  incosciente,  ci  sembra  e- vidente  intrinsecamente,  e  può  quindi  ri^'uardarsi  come una  vcu-ità  a  priori  :  ma  essa  può  esporsi  pure  sotto forma  di  argomento  induttivo  o  anaiouico,  T  assimila- zione di  cui  si  tratta  essendo,  nnclie  in  <|Uesto  caso, un'induzione.  P<'rò.  (piantuiuiue  Tariiiuiìento  sia  per  se stesso  induttivo  o  analogico  .  esso  è  prcH-cduto  il  più delle  volte  da  un  ragionamento  a  jìriori.  <liniostrante  la necc>sità  di  un'oriijine  del  inoximento,  dando  cos'i  luo^'O all'arii-omento  della  causa  j)rima.  <juale  lo  troviamo  nei filosofi  i»reci,  e  seu'natamente  in  Aristotile. L'  arii'omento  (bdla  causa  prima  si  fon<la  in  primo luog'o  sull'impossibilità  di  una  catena  infinita  di  cause. Se  noli  esistessero  che  delle  cause  naturali,  ouiii  avve- nimento su[)porrebbe  come  causa  un  avvenimento  ante- riore, questo  un  altro,  e  così  di  sei^iiito  all'infinito;  \\ì:\ una  serie  infinita  di  cause  è,  si  dice,  loiiìcamente  im- possibile ;  dunque  liiso^na  ammettere  che  la  serie  è  fi nita,  per  conseaut'iiza  che  vi  ha  una  causa  che  inco- mincia tutta  la  serie,  ma  che  è  essa  stessa  senza  causa. I^'arii'omento  picsenta  due  forme  distinte.  L'una  è  quella che  conoscevano  uii  antichi,  e  conclude  semplicemente a  una  causa  i)rima  del  movimento  (ci;':  che  ha  l)iso;L»no di  una  causa  non  essendo  che  il  cani;"iamento,  e  ouni caniiiamento  |)otentlo  ricondursi  al  movimento);  sia  che stabilisca,  con  Aristotile,  una  sorbente  permanente  di movimento,  sia  che  ammetta,  con  Anassagora,  una  causa motrice  che,  all'  origine  del  cosmos,  ha  fatto    incomin- ciare il  movimento.  La  s(H*onda  forma  è  nata  nella  fi- losofia cristiana,  e  conclude  a  un  creatore,  cioè  a  una causa  che  non  ha  fatto  solamente  incominciare  il  mo- vim(mto,  ma  anche  la  materia.  Per  questa  conclusione^, in  verità  non  bast;i  l'inqjossibilità  di  una  serie  infinita di  cause,  ma  è  necessario  un  jìrincipio  [)iù  g'enerale  di cui  essa  è  un  caso  particolare^  cioè  l'imjjossibilità  del- l'infinito attuale:  da  questa  si  deduce  rimpossil)ilità  di una  durata  infinita  del  mondo  nel  passato,  e  da  essa  la necessità  di  una  causa  che  g*li  abbia  dato  origine.  Nel- Tnna  e  nelTaltra  delle  due  forme,  il  ragionamento  che concluch*.  a  una  causa  prima  non  è  un  semplice  sofisiìia artificidle:  esso  dà  una  soluzione,  v(U'a  o  erronea,  a  una dilticoltà  reale,  quantunque  (jucsta  soluzioni»  non  sia meno  imbarazzante  in  se  stessa  che  la  difficoltà  che  si propoK»  di  evitare.  Noi  ci  troviamo  in  ])i-(  senza  del  caso più  colpente  di  (|uesto  fenomeno  singolare  del  nostro spirito,  che  Kant  chiama  le  antinomie  della  rag'ion pura  — cioè  d<dl(^  alternative  di  |)roposizioni,  di  cui  sem- bra che  sia  necessario  <li  ammettere  o  V  una  o  1'  altra, mentre  non  è  possibile  di  ammettere  né  f  una  né  l'al- tra—  .Secondo  Kant,  le  antinomie  sono  insolubili  al  punto di  vista  comune,  che  ammette  la  reallà  obbiettiva  dei fenomeni  esteriori,  cioè  la  loro  indipendenza  dal  sog- getto percepente  :  esse  si  risolvono,  riconoscendo  che  i fenomeni  non  sono  cose,  ma  percezioni.  E  una  quistione che  appartiene  alla  2^  parte  di  questo  Sa<^g'io:  ci  basti per  ora  la  soluzione  di  Kant.  Per  ora  ciò  che  c'inq)orta è  di  osserv^are  che  l'argomento  della  causa  prima,  (|uan- tuncjue  il  suo  punto  di  partenza  sia  un  ragionamento  a priori,  non  é,  nel  punto  essenziale,  che  nn  argomento induttivo.  Ammettiamo  infatti  che  sia  necessaria  una causa  prima:  ma  perchè  questa  causa  prima  deve  essere la  divinità?  perchè  deve  essere  un  agente  cosciente  e personale,  e  non  un  oggetto  senza  personalità  e  senza,  ' 110 111 coscienza?  Evidentemente,  se  la  funzione  di  causa  prima non  sembra  [)oter   attribuirsi  che  a  un  aocnte  cosciente e  personab',  non  è  che  per  l'una  o  per  l'altra  di  queste due    rao'ioni  :  sia  ])erchè  Io  spirito  è  la  soia   causa    che possa    dare    un    con^inciamento    assoluto  al    movimento (nella  forma  dell'argomento  della  causa  prima  impieii'ata dai   filosofi   o-reci):  sia  perchè  la   volontà  è  la  sola  causa che    possa   causare  senza  essere  causata,  lo  spirito    es- sendo   dotato  di   libero   arbitrio  .  mentre  tutto  il   resto  è soi:-2"etto    a    un    determinismo    inflessibile    (1).    Nell'uno e     nell'altro  caso  vi  ha  Un   ra.iiiona  mento,  cosciente    o incosciente,   per  analo<;'ia,  e  i)ropria!iiente   quest'assimi- lazione delle  operazioni  della  natura  a  «luelhidelluomo. che  è  il  tratto  essenziale  per  cui   A.  Comte  definisce  la filosofia  teologica,  Notiamo  che,  delle  due  forme  dell'argo- mento della  causa   prima,  una  sola,    quella    imi)iei>-ata dai  filosofi  o-reci  e  che  conclude  a  un  primo  motore,  può riguardarsi    come    un    ra<>ionamento    naturale,  e  come l'espressione  di  un  motivo  reale  della  filosofia  teologica. L'altra,  supponendo  la  dottrina  della    creazione,    non può  essere  un  motivo   della    teologia    naturale,    perchè questa  è  la  filosofia  istintiva  dello  spirito  umano,  e  una filosofia  ha  per  iscopo  la  spiegazione  dei  fenomeni;  ora una   spiegazione  suppone  che  il  fatto  per  cui  si  spiega sia  più  intelligibile  che  quello  che  si  tratta  di  spiegare; per  conseguenza  un  mistero  .  (|ual  è  la  creazione,  non potrebbe    servire    di  base  a  una    s])iegazione,  e  quindi nemmeno  a  una  filosofia  :  d'  altronde  è  un  fatto  incon- testabile che  la  dottrina  della  creazione  non  fu  all'ori- gine che  un  dogma  religioso,  e  solo  in  seguito  si  cercò di    appoggiarla  su  argomenti  razionali.  Cosi,  se  rifiet- (1)  Vedi,  per  «xiitista  seconda  ragione.  Kant  Dialett.  traxcfn- denl.  1.  2.  e.  2.  sez.  2.  Terza  opposiz,  delle  id.  tntseendcitt.  Cfr. Ken(nivier  Nnoca  Momidologia,  o.  parte.  H8  e  <>1). i tiamo  inoltre  che  fra  le  prove  dcill'esistenza  di  Dio  quelle delle  cause    finali  e  della  causa  prima  sono  le  s^le  che s'  incontrino  a  tutte  le  epoche  e  pr(\sso  (juasi    tutti  i  fi- losofi che  hanno    seguito  il  sistema    teologico,    le   altre non  essendo  che  particolari  a  certe   epoche  e  a  certuni di  (|uesti  filosofi;  noi  giungiamo  a  questo  risultato  non inatteso  :  che  i  ragionamenti   naturali  [)er  provare  l'esi- stenza della  divinità  non  sono  altra  cosa,  sotto  un  altro aspetto,  che  le  due  funzioni  della  divinità,  come  prin- cipio esplicativo  dei  fenomeni,  di  cui  al)biamo    i)arlato nei  due  paragrafi  precedenti.  Le  prove  di  un'ipotesi,  in effetto,   non  ])otrebbero  essere  altra  cosa    chi*  i  fatti    di cui  (|uest'ipotesi  serve  a  dare  una  spiegazione,  provare un'ipotesi  per  i  fatti  —  e  potrebbe  esservi  altra  provaV  - e  s[)iegare  i  fatti  i)er  l'ipotesi  non  essendo  che  due  lati d'una  stessa  operazione  mentale,  che  si   possono  distin- guere per  astrazioiu^  nu^itre  in  realtà  sono  indivisibili. Sembrerà  strano  che  mentre  le  prove  realmente  con- vincenti   deir  esistenza    della  divinità  sono  induttive  o analc>giche,  consistendo  essenzialmente  in  un'  assimila- zione delle  cause  dei  fenonu'ni  della  natura  alla  volontà umana  e  alla  sua  catisazione  ;  a  queste  prove    naturali i  metafìsici  abbiano  sì  s|)esso  preferito  dei  sofismi  arti- ficiali  [)retesi  dimostrativi,  ma  privi  in  rc^altà  della  mi- nima forza  probante,  come  sono  in  generale  i  ragiona- menti a  priori,  (juando  si  tratta  della  dimostrazione  del reale.  Questo  fatto  si  spiega  anzitutto  |)er  due  cause  ge- nerali: 1"  (j)uesta  forma  di  metafisica  che  noi  chiamere- mo filosofia  apriorista,  e  di  cui  parleremo  nel  capitolo  VI. Essa  eleva  a  tipo  unico  di  certezza  la  certezza  matema- tica o,  come  si  dice  anche,  metafisica,  cioè  intuitiva  o dimostrativa,  non    lasciando    alle    verità    induttive    che una  semplice  probabilità.  L'  esistenza  di  Dio,  che  non può  essere  una  semplice  verità  probabile,   deve    essere dunque  dimostrata —-2^  La  filosofìa  teologica,  per  questo 112  - processo  di,lisantro,.oii.orti'///>azione  progressiva,  di  cm parleremo    nel    para-rato  seguente,  g'iiinge  a.  conciati di  Dio  essere  p.-rfettissiino  (cioè  intinito  in  ciascuno  dei suoi    attributi)  e  creatore  della  materia.  Ora    gli    arg-o- n.enti    naturati  deir  esistenza  di  Dio    (cioè    .,uelli    delle cause  Hi.ali  e  .lei  primo  motore)  non  potrebbero  provare  ne l'uno  né  raltro  di  «luesti  due  concetti  (1).  Cosi  agli  aro-o- menti naturali  saranno  preferiti  dei  sofismi  artiiical.  che avranno  l'aria  di   provare    anche  qu-,sti  :    fra    essi  i  più accetti  saranno  dei  ra-ionainenti  a  priori,    i-erche    dei sofismi  induttivi   non  potrebbero    simulare    una  conclu- sione rigorosa  come  fanno  necessaria  nenti^  i   deduttivi- Con  «lu^ste  cause  generali  concorrono  delle  cause    i)ar- ticolari:  sono  delle  suggestioni  dei  concetti  .Iella  filoso- fia teologica,  che  determinano  la  scelta  di  certi    generi d"  ar..-onmi,ti,  che  ottengono  la  preferenza    sugli    altri, non  perch.-'.  abbiano  una  maggiore  forza  probante,  ma perchè    s'  incontrano    della  maniera  più  ovvia  al  punto di    vista    .lei   sistema,  di  cui  sono  cosi  le  conseguenze, invece   di    essere  le  ragioni  su  cui  esso  è  fondato.   Ciò potrà  essere  chiarito  da  un  esame  dei   due  argomenti  a priori  più  importanti,  cioè  rontologico  ed  il  cosmologico. L'ont.>logicoèun  argomento  che  pretende  (Z»mos<mre r  esistenza  di  Dio  i)er  un  ragionamento    che    mostri   al teinijo  stesso  che  Dio  è,  un  ess.u-e  assolutamente  necessa- rio. Un  essere  necessario  signilica  un  essere  la  cui  esi- stenza è  una  verità  necessaria,  cioè  tale  che  la  negativa implicherebbe  un'  imi.ossibiiità  logica  e  una  contraddi- zione; e  per  assolutamente  necessario  deve  intendersi  che la  sua  esistenza  é  necessaria  (nel  senso  spiegato),  non condizionatamente,  cioè  dato  che  un'altra  cosa   esista, ma  senz'alcuna  coudizione.  Ciò  importa  prima  di  tutto che  r  argomento  ontologico  deve   essere  interamente  a (1)  V.  il  ^  seguente, «  lo priori,  cioè  non  (Uvvr  supporre  alcun  dato  (Mui)irico.  come tanno  o^li  altri   ar*;'oìnenti  a  priori   (p.  e.  il  cosnioh\uico. <li  cui   parleremo  in  seg'uito):  infatti   ('mi)irico  r   il  sino- nimo di  conting-ente,  come  il  suo  contrario,  cioè   neces- sario,  è  il   sinonimo    di   a  priori  ;    cosi  se    la    necessità dell'esistenza  di  Dio  sui)ponesse  un  dato  empirico,  essa non   sarebbe  una  necessità  assoluta,    ma   condizionale. Inoltre  V  argomento  ontologico  non  deve  dedurre   l'esi- stenza di   Dio  da  quella  di  qualche  altra   cosa,    perchè una  cosa  assolutamente  necessaria  non   i)Otrebl)e   essere dedotta  che  da  una  cosa  pure  assolutamente  necessaria: ma  secondo  il  teismo  non  può  esservi  niente  di  assolu- tanumte  necessario  che  Dio    stesso,    perchè    ogni    altra cosa  dii)ende  dalla  stia  volontà  e  dalla  sua  onnipotenza. Cosi,  secondo  le  esigenze  dell'argomento  ontologico.  Dio deve    essere    assolutamente    necessario    cioè  la  sua  esi- stenza deve  essere  una  verità  assolutaimmte  necessaria), considerato  per  se  solo,  vale  a  dire  senza    metterlo    in rapporto    con    qualsiasi    altro    essere  :  è  eie  che  si  diee quando    si    afferma  eh'  egli  ha  in  se  stesso    la    ragione della  sua  esistenza.   L'  argonuMito    ontologico  è  csf)osto dai  diversi  autori  che  lo  impiegano  in  forme  div(M-se.  e talvolta  differentissime:  piuttosto  che  il  nome  di  un  ar- gomento particolare,  esso  è  quello  dì  tutta  una    cUsse di    argomenti,  costruiti  su  uno  stesso  tipo,  di  cui    eio ehe  precede  può  passare  per  la  definizione  generale.  La foruìa  impiegata  da  Cartesio  i)UÒ  servire  da  esemplare: eg'li    lo    formula    press' a  poco  così:  Per   Dio  s'intende l'essere  perfettissimo:  ora  l'essere  perfettissimo  non  ]»ut» non    esistere,  i)erchè  l'esistenza  è  tma  perfezione;  così d,re  che  Dio  non  esiste,  è  dire  che   all'essere  perfettis- simo manca   una   perfezione  ;  ma  ciò  è  una   contraddi- zione nei  termini;  dunque  Dio  esiste,  ed  esìste  necessa- riamente. Se  tanti  pensatori  eminenti  hanno  potuto  es- sere soddisfatti  da  ragionamenti  cosi  evidentemente  so- -    114    — listici,  ('  pere he  l*aru'Oni(Mìt()   outolo.uiro,   udir,  sue  varie forme,  dìx  ima   risposta  a   una  <|UÌstione  uatiiralissinìa  e lati   i   i)resu[)posti  della  ti- (JU fisi  inevitabile  nel  teismo.  ( [osotia   ai)rioi-ista,  c\n\  eonu v<'flremo.  è    stata   seguita )iu  <>  meno,   < lalla   più  parte  dei   metatisici.  alnuMìo  mo 1 derni.   Lo  sc'Oj)0    di    Cartesio    e hanno  annnesso  una    o deu'li    altri    lilosofi  elie un'altra    {'^n'u\:\    dellaruoinento ontdouieo.  non  è  tanto  di  provare  e//<' Dio  esiste  <|naut di  m(»strare  /wrcliì-  l)i(^  esiste:  in  altri  termini  essi  in tendfUìo  asseu'Jiarc e  he  fa   e  he  Dio  esi la   raii'iom'  e.  per  dir    eosi,  la  eausa sta.   in  modo  ehe  la  sua  esistenza  ìi on rtjsti  un   fatto  inesplicabile,  ma abbia  aiud)'essa  la  sua La  tìlosolia    aj.riorista  spie.-'a    i    tntti    mo- strando ch'essi  sono  di^ìucibili  a  priorie  nec 'ssari  :  <|ue: ;piei;-;r/ion: IVO     ( la sta  stessa   spieu-azione  è  npi)licata   al   fatto    prinnt cui  derivano  tutti   uli   altri.   Se  (juesso  fatto  restasse  ine; he   tutti     «ili    .altri    resterel)bero  inesplicati, filosofi   aprioristi  e  al  tempo  stesso  teisti  hanno l )licato.  a  ne rene  1 dedotto  tutto  fla   Dio,   facendone  la  base  della   spie.ii'ayao- ne  uni\"ersale,  dei   fenomeni   (1). loo-ico  dimr.stra  chi»,   jKOchè  esi- L'arii'omento  cosmo ;te   il    mondo,  devecsistere  un  ess< re  (ISSI  fi  aia  numide,  ìf^'ccs sarin  (nel  sensi»   spie;i'ato    poeo  la)  che  ne  sia  la  causa, e  questo  è  Dio.  E^^so    è dall'  arii'onien stato    suuiierìto  evidentemente to  ontolouico:   infatti   il   concetto  di  essere assohffcuHCHfr  necessario    sup|)one  che  si  sia  ])roposta  la (juistione:   jx'rchè  esiste   Dio?  e  che  ( 'ssa  SI  sia  riso luta eonfornu'meute alla oliizione <»•«» nerale    della    filosofia apriorista.  cioè  rispomleiido  che  l'esistenza  di  Dio  è  un?i aria    e,    ijuind;.   a   priori  —  ({uesti  due   ca vtu'ita   neces.s seiido   iiìdivisibili  -  ;    risposta  che  uon  è  altra r atteri  es cosa  che  rarii'omento  (Uitologico, L'arii'omento  cosniolo- ilì  V.  ] H'V  pili   ;im pi   svilii]»i»i   siiir;irnuiiM'Ut<»  on1nloiii<  <►    A/f- IKHilìri    ni  ('((jt.     \'I.   %   0 <sas^9sm.  jiiiBiBjiiuiiiui 115  — U'ico  è  stato  esposto  pure  sotto  formo  differenti,  che  non hanno  che  <juesto  di  couìune, di  conclude  l'e  dall'esisten- za di  quahdie    cosa    (|Uella   di   un  essere    assolìitauiente da  ciò  che  i'  essere  jìssoUitamentc   neces- necessarh),  e urlo  ììon  può  essere  il   mondo,  perchè  (piesto  è  conti n- U'eiUe.   che  esso  deve  essere   i ma  causa  del   mondo,  al  di fuori    del    mondo    stesso.    Noi    possiamo  joh nd(!r e  come torma  tipica  (juella  im})i(»^ata  da  Leibnitz,  che  può  for- mularsi  co>i  :  Non  vi  ha  aJcuna  cosa  di  cui  mni  vi  sia una  ra;_:'ion  sufficiente.  ci(»è  una  ra^ioìio  che  determini perchè  la  co: dev perei a\  t're u H'   e."^>o   s >u u a  sia  cosi  o  non  altrimenti.  Cosi  ruuiverso na  ra.iion  sufficiente,  cioè  die  deternìini i;i  cosi  e.  non  altrimenti.  Ma  (juesta  ra;Li'ion fticiente  d<d  mondo  non  j)uò  trovarsi  nel  mondo  stesso,,  da  una  parte,  esso  non  è  assolutan!ente>  neces- sario, ma  contin;:'ente  (infatti  >i  può  concepire  che  esso ])olrebbe  es.serc»  dilfereiìte  da  quello  che  è);  e.  da  un'al- tra parte  <piantun<jue  lo  .>tato  presente  del  mond(»  ab- bia la  sua  raiiione  nelb»  stato  pi-eced«mte,  e  onesto  in n   altro  ancora,  e  così  di   seguito,    rimontando   sempre 11 dall'effetto  fenomenale  alla  causa  feiiomenah'.  si  potrà andare  allMnlìnito.  m)n  si  troverà  mai  una  rai:ione  i  he non  abbia  l)isou'no  di  lUì'altra  ra<.i'ione  anteriore  e  per ^conse<'uenza,  benché  ciascun  termine  della  scM'ie  abbia una    ì•a^ion    sufficiente    nel    termine^    anteriore,   la  serie Iciina   ragion sufficiente,   cioè  che  de- 'ssa  sia  COSI  e  non  altrimenti).    Dinnjue intera  non  avrà  a termini   perchè  ( tutta   la   serie   (sia   finita   sia  inlinita)   deve  t\\  ovr  la  sua. re  fuori  (bilia  serie,  che  abbia  la  sua io  che  vale  la  stessa  cosa,  ehe rau'ione  in   un  (»ssi raiiioiK^  m  se  s tesso,  o,  ( àa  ((ssffÌHfdìfteufr   ìtercssario:  (piest'essere  è  Dio   (1) ••  (irV.  I^cilmitz  Prììic.  'ìrlln  ind .  r  ilrlln  fivdzììi  1 -X.  A  n'unadr . rircd  assrrf.  uli(f.  'Jlicor.  tìinl.  Sfah/ .  \\>utvMS,  t.  II.  i».  II.  p.e:.  i:»2). Sn^ij/i  snììd   hónHi    dì     />!(»  <m-c.    {tjo-tr    1.    7.    MoìHtilol.   H<>  :>S  .     (>s (Foik'Imt  de   ('jo'oii    Uilmilz,    Dcsiut l'ics  f    Spi sii-raz.  sit Sjti iior.ii i(o:.ti. ]>.   21;")).   ('(•(• 116  - 117  — Come  si  vede,  rar*;'oinento  eosiìiologico  è  diverso  e  in- dipendente (in  (|iiello  della  causa  prima.  (Questo  si  foitda suirimj)ossibilità  logica  d'nna  serie  intiiìita  di  eause;  ma i'ar^onìeiito  eo.smolo^ieo  non  snppone,  benehè  Kant  io  af- fermi —  V.  Dialett.  traHccnfL  I.  *J.  e.  o.  sez.  ó.)  che  una serie  infinita  di  cause  è  im[)Ossil)i]e,  coiìcludendo  da  ciò la  necesisità  di  una  causa  prima.  Leibnitz,  esponendo Tar^omento,  suppone  quasi  senìpre  che  la  serie  delle cause  fenomenali  j)un  essere  infinita  (1).  Clai'ke,  che  fa uso  pure  di  una  forma  del T argomento  cosmolog-ico.  re- spinge una  serie  infinita  di  cause  coìne  assurda,  ma  ciò non  perchè  sia  intiiìita  (poiché  uiìa  successione  infinita non  è,  egli  dico,  coiìtrad<littoria  conu*  si  pretende),  ma perchè  tutta  la  serie  non  avrebbe  una  causa  lìè  inte- riore né  esteriore  (mentn*  «  tutto  ciò  i*h(*  esiste  deve avere  una  causa  delia  sua  esistenza,  una  ragione  per cui  esiste  piuttosto  cho  non  esiste    )  (2). L'  argomento  cosnìologico  ci  presenta  questo  fatto singolare  (singolare  jxm*  modo  di  dire,  j)erchè  in  seguito incontreremo  un  altro  esempio,  anche  più  (i\  idente,  dello stesso  fatto),  ch(^  una  consegiu'iiza  del  teismo  è  data coniti  il  |)rincipio  stesso  su  cui  il  teismo  è  fondato.  Il principio  rhe  Leibnitz  ha  chiamato  di  ragion  sufficiente (e  che  è  il  fondamento  di  quest*  arg*omcnto)  noti  è  né un'induzione  dell'esperienza  ne  una  verità  (realmente  o apparentemente)  (evidente  per  se  stessa  :  ciò  che»  è  un'in- duzione dellespej'ienza,  e  che  sembra  un  principio  evi- dente per  se  stesso,  è  che  ogni  avvenimento  deve  avere una  causa  (sia  che  per  causa  s'  intenda  uììa  causa  ef- ficiente,  sia  un  semplice  antecedente  a  cui  esso  seg*ue (1)  V.  M<nuuUÀ.,  Anuéiudr,  circa  (isacrf,  aliq.  Thaor»  jucU^ SUthL.    Osscfroz.  su   Sjtimtza.   vvv, \'2)  \  .  'J'raffnlo  th'N'csis/cnzit  r  itcìjli  aUtihu/i  ili  />io.  vu\t.  :\, (<-fr.   e;)]».   2.). \\\ inva.riabilm<,>nte)  :   ma  da  (juesto  principio  non  può  con- chnlersi  che  il   mondo  stesso,  cioè  l'insieme  di  tutti  gli avvenimenti,  devo  avere  una  causa.    Che  ogni  cosa,  e non   solamente  ogni  ((rrnìimento.  abbia  una  ragione  che la   determiiìi  e  possa   spiegarla,  non  è  vero  che  se  si  am- mette il  teismo  e  la  i)ossibilità  di  dimostrare  l'esistvnza di  Dio  assolutamente  a  priori   (cioè  per  rargomento  on- tologico).  É  solanu'nte  allora  che  ogni  cosa  in  geupralf avrà  una  ragion  sufHciente,  cioè  che  determina  perchè essa  è  così  piuttosto  che  altrimenti,  o,  come  dice  Clarice, per  cui  essa  esiste  piuttosto  che  non  esiste;  perchè  so- lamente allora  .    noii   solo  ogni  avvenimento  avrà    una causa  (in  un  avvenimento    anteriore)  .    ma   avrà  anche una  causa  la  serie  intera  degli  avvenimenti    (compreso il  loro  subtratum   permanente),     e  (juesta    stessa   causa avrà,  come  dice  Clarke,  una  caum  intcriore  (cioè  la /?c- vpssifà  ((ssolnta,  che  nessun  materialista  ha  mai  pensato di  attribuire  al  mondo  stesso).  Tuttavia  la  r/.s*  probante dell"  argomento  cosmologico  non   sta  sohimente  in    una est(Misione  illegittima  del  principio  di  causalità  e  in  un soti>ma  di  confusione  tra  il    i>rinciiMO    stesso    e    (|uesta .Mia  estensione  illegittima  —che  Leibnitz  ha    formulata col  svuì  princii)io  di   ragion    sufficiente^      .     l>enchè    non si   abbia   alcun  diritto  di  pretendere  che  le    inclinazioni del  nostro  si)irito  diano  k'ggv  alle  cose  stesse  .    non  vi ha  dubldo  che,    se  le  cose  si  conformassero  al  sistema dei  metafisici  che  ammettono  il  principio  di  ragion  suf- ficiente e  rargomento  cosmologico  che  ne  è    1"  applica- zione,  rak'  a  dire  resistenza  di  una  eausa  prima  e  una ragione  capace  di  spiegare  (piest*  esistenza  stessa;    ciò non  sarebbe  più  soddisfacente  ]»er  la  nostra  intelligenza che  una  successione  infinita   di  avvenimenti  senza  una causa  esteriore     \n  causa  interiore  la  lasceremo  ai  meta- fisici).  Nel   primo  caso  tutto  sarebbe    spiegato,    mentre nel  secondo  caso   vi   ha    necessariamente    (jualche    cosa ns che  rosta  s(Mi/a  s|)ii\ii'a/^i>"»ne..  e io  e  lì  e  Mi  lì   chi  a  ma  ìc  cnl- locaziovi  prhhitivi'.  81  potrebbe,  ])(*r  conscuiKMiza.  essere tentati  di  vendere,  con  Kant,  neirarii'oniento  eìsnioloui- eo,  non  un  .>einj>liee  sofìsnìa,  ma  un  raijìoììamenfu  natu- rale (1):  ma  là  (lr»ve  il  ravattere  artilieiale  dell'ai-.i^oniento il)    V.    Ctn'iftf    fh'lin   )(<(/.    i>»(r>(    l>'nih'il.    Ir'n<ct'ii ({fili.  1.  -J.  <•.  :>. ><'/,, ;.  e  se/.  .'ì.  S(  con*]»»  Kniit.  l'^sx-ic  ;i>soint  .-oiK-iirr  i!r<('s>;irio 0  niridcn  ìihIì>ì»oi!>jìI>ì!ì'  (1('1!:i  niuiniu".  «li  cui  iioìi  si  piiT»  i.n»\  ;n<- l;i  rcMlln  ol>Ui.-tt/\:i.  <iit:Mit  ur,«[iH*  hi  i;ii;ioiir  ci  oimIIuì  iiji|'('ri<»s;i- mei  to   (li   :!iiìii»ottovìo  <V.    i   1.     <'   '-tV.    Crìi.   <ìrì  f/i"< Ms so    r :r.i«li<'    il    >(»i;L;<tH>   <li    iiir;mt  iiH>mi;i    «lfli;i    r;iiii<ni(',    chu' «li r/.  \À.  LXXVh <_'    < CUI line   [Hi>]H)sizinni   <'im'   sciiiIumih»  ("LiiKilinciit**   ii(.'C<'ss;iri<' riiiKi    1«>   MtVcniin    r  i";ilii-;»   1(»  uv'j^-.i.  {hìalrll.  IrasrrmhHf.   I.  '_'.  e.  li. scz.   2.    (Jinnhf   uftpoy/iziom).    i}n\    iM»i    \«'<1Ììmiio   In    ni:niif'<'st;i/ioin' Uiic    i;i    ii!l  I  il    l;i    -n:i  (li;j!('ttic:i l. (Il    ini.'i tt'iìd <Miy::i    < li    1 \jnit.   n^scr\:i Tl'Jisr» inl('iir;il(\    :!«!    clrV.nc    In    iiict  ;HÌ>Ìr;i    del    s'.lni    rciiiin    ;i    J1M'ì:i- fisirn    ii:ìf;i!-Ml<'   «Irllo   spirito    tniin !!o.    T'u*  iil(^;i     iiM\  itnlnlc    «i<'l rsjuioiH-.   clic   noi   <!siiiM»   toi'/;;1i   ;h1   animcTtcr»'.    Im'Ii Ili'   I I  «-n:i  oi»- hiottività LiUCllZ!» loL:.ii pr<»l^l<'nìntic5?.  nfni  i>4>tT;:*i»bo  osscir  che  uua  c'»T!<e- <li    un   j»rinri|tin  eli?'  ci  s'ìmiimmh*  couic  »'\  iilfiitc  jicr S<' tcs>o   (le    |u-n}>(»si/.ioi>i    (Iclir    ;i!lr«'    i  i'«'     ;Mit  in(»Jiiic I'oìmI nio i«»|ua    U!i   |Ui!Hij>;o   <h    tiu<'>t<»   ^cih re.    rioi'    1.1    rc.iltù    ;(ssnlnt:i  <lc! lllOiK lo  olci-i»»!*'!.    .M;i.   roiiK'  jih'ù.-iiMo   visto,    il    i:iui<Hi;mi('nto  IMI- ui    >i    cojicIihIc    Trsscrc    ;is:*o hitMUKMitc   lìcccssjo'io  e    loud.-ito   >ul ju-incnuo  <li    i"iL: mente,    conn'   « iiunner.i   «ioii    siitVieiente  .     cl:e   esso   sin    inxoenlo   esji!i<ir:i- l:i    l.eiUnit/   e   «In   ('!ni-k«-.   «•   no,   «•   «{unlun([n<'  >ì;ì  in 1/   l'oi-niulnrlt»  :   «u-i   «jU«'<!o   pi-iìieipi»»  ihmi  poi  r<'l.lM'  nveiM- «l<Minn   ]»reic>n   n<l   «•ss«'i«'   v.^unr» —  Del   resto   Kant  . ilat o  eonu'  «'vnh >o, 111  «•   p«'r  se  ste n'erinnn<l«»  clu-    1*  a r^ouieiito  cosuioloiiiiro  e un  «  i-n.uionnjnentonntJnnl«-  '>.  cn«le  in  coni  i-nbli/ione  con  >e  st<'s>o. Ile   culi    nllennn    i»ur«-   {Uìulctl.   /rffsmnlfjif.    1.   J.   <• .).    s« z.  Ti.) che   «'sso   non   e  fi e   «lie   «(Ueslo zinne   «lr>llo   s|nrito   scolasti«o le    rm-'^onicnto   ont«>!i:i;i<'o  sotto  niTnlt  in  roinin nj-l»iti-ario  .    «'    non   i'  «-Ih-  «  unn   sempli«-<'   inn««\n (  Ij'ai'Lionu'nto  eosniolo^ico  «'  l'nr ». lioiiwnto   on tolo'^ leo   so tto   inTnltra    toruin.   jjcivliè  iier  i<ìentiticnre eon I> IO 1 esselH'    ÌIS-.0 liitni nenie    n«'<-essniio.    e{> !icliis«>   «Ini    primo. ìHSW 119  - si  tnos tra  della  maniera,  più  palpabile,  è  «piamb)  si  tratta li   provare  che  Tesscu-e  assoluta ìin^nt e  iu»c essano  e Dio. etoe  un  ess ere  dotato  d'intelli.u-e]./?!   (^  di  volontà  (1).  Se biso"ue)-obbe  pro\  nre  clic  Dio  è   un  « ;scrc    ns>oliitnment«'    neee-- sano:   mn   «-io  e he  pi-o\  a  «jucsto  i'  nppnnto  rnr-«nu«':it  «»  ont<.l.>.ui««». C^uest'  osservnzi om'   « li   Knnt    i'   senza   dubbio  liiustn  .    p«'rch<'   un lulnmenle   n«-cossnrio     non    pn«» essere   ns>o che    un   essere    In    «Mli    e ]ui«uà:   ««K^ì.   ì dovreblu-   l'nr   vedere  e Voler    dire     nllr.i    «-o.-n isleìizn    «   ì mn    Ncritn    n«'ce>snrin «•un- >er« hv   1  ( nr'j.'tHiUMrn»   eosnio 1  o  'J. ICO he  r esistenza   « li    l.)i o    e poti* bile  faro  che   1'  ara:onicnr<ì  untol<>A'i<'<>' l'osse  eon\  !n'-«'llte. l:il«'.  ciò  ehe  n«ui K     (>\iib'nte   che    se rar«i<»niento  e«>;^ m(d«;"i«-o   mm   «'   che    T  ni-.^o nneiito  onl«do.uico  svi- ato,   e  «(U«'si«)  «'.  una  «  seinpnc«'  iinu) vazione  tbdh»  spirin»  >eola stici)  ».   «-io*'  un  puro  s<disnia  a ra''ionani«'iit«>   tmhnudc,   ma «H titleinle.  «pudìo   n«)n   i>no  «-ssere  un \v    v^^Wi'    an(dr"^so.    e ra'j.M>H(' « 1)  Tra una     sem]di«-e     inn«»\ le    1 ;l     pili    lortc >ro\<'   < una     s()!;i.    elle    «' nzioiM'    <l«dl«»    spirilo    se<d;isvieo  ». li    cui    si    *'    fntl«>   ns«»    larenio     iiHMizi«»ne    «li luni.ata    «la    ("lnrk«'    iTrnlL     .h-ll'  r^isl.   r .tnln   svilupi drilli   iillrì(>.   (li    l>i<>'   <' .i   e    nceeiinn In    i\;\   Lvilmilz   [Tritti firlì H 111 f.  c  ddla  iiraz..  '.).).   Questa    pruv.i  e lentt-menle   dairai-.Li«>!>iciito   <«»sni« Locke    {Siii/i/io   tiKlI'iitl.    inn lift di)>"ii< I.    IV stai  a   ì>ui-.'   i.iipi«\u'*'it;i   ni- l(.'^i«M)  :   e->a    si    \  r«>\  a  '^i; 1(1).    ed    «'    unn    d,i   <pudl« die   Slunrt-Mill   onminn    ne (>     Sii rh':tiio »ni le    1.    J/-- joni 1 ni! ;ln     JU' o\n    SI    «•«> mdinle   «he    In l«-v e   a\'ere   u, li    ;ill  libili  i    «lidio    spirilo,    prem tsi un   aì-iiomcnto  (die e   pu«>   s«'m altri,    non   e puut<»   r  itba   « tniilo   p.r«dii'   l"«'>p«'rienza    con1«'riii; nii'c  «die  «lallo  spiriOi hrare    jdù    jdaiisildh'     «li     Innli ino  a<l  un  ««'rio «1 e\'e    esserx  1 una    ^omiiiliaiiza     fra     la     causa .  «{Manto   ]i«*r« i«' Si    tomi  a    si <l(d    «• iiìui    \  a.^a    ana <dli    «die   haiim» Inoiii   «Mm   «-«'rii    pr«Mbdli    sjMUitamu   «li     «iimsO.     ]»r(>- di    assimilazi«)n«'   inco!^«dcn na turale  «bd    n«>stro   s)nri (o.   S«'   noi  «lomamlianu»  p«»r(dH-  lo  siurit»* ]>rovenir«-   <di<'   «lallo    spirito.     ( in« turale   <bd!e   ct)>i'   la    ca:ir>:!    <!«-v«- e>> re  s«'m pre    [MU    ec<( llente   «bdr«'tilctt«>».    in-r  «-«mseoiu-nza    r«'s>eiv    primi- ivo   «lev<'   p«)ssedere   m I    i»iù Ito ji.rajlo   b'  p:'rtezioni   «li  tulli  -li r      iS —      1-il lìial-rado  V  impossibilità  cvidiMìtc  di  costituire  questa seeoi»(Ia  parte  (leUaro-ouieuto  altriineuti  che  con  sofismi ]>uram(Mite  artitìeiali.  Kaut  può  affermare  eìu'  esso  è  un rao'ionamento  naturale,  è  percliè  e<i'li  disti n^-ue  .  come abbiamo  ^•isto,  una  r^'olo^ia  ^/mvr/^f/^^/^fr//^  U'he  ammette un  essere  priiiiitivo.  ma  senza  aceonbiriili  -li  attributi deirintelliii'enza  e  della  volontà,  e  lo  eonelude  con  oli aru'omentì   ontolouieo  e   eosmolooìeo)  .    e    una    teolou'ia esecri  :    t'  chi*  se  rrtb'tlo  avi3.ssr  <piJilcLic  pcitV'zitmc  che    non  si novMssr  )>mv   iit'll;»   cmiism  .    «  l)i>«>^»iert'l»b«'  <lir«'  <Ih'  «|iM'st;i   per- tV'zioiM'   non   saiM'Ulu'   st;ita   pnulottji   <bi    niente  »     (V.     Chiike    0/>. /'/.   e.   U.i.    La   srLMUMla   ra^iojie  è  una   f'oi-nia     s(>ttile  e,     jm-i-    ilir eosì.    impalpabile    drl    piiiu-ipi'»   «•Im-    1"  csscic    non    i»n«.    venire   «lai niente  {«'Ih'  era    ra>>it>nia   «Ir-ii    antielii  Fi-^ici  -n'ci.  e  sÌLtni1ìeava vhv.   ìu   realta,   nirnt»'  na^cr  ne  prrisre  —  nel lM/>//''/^f/*Vvw///r/   />///•- tr    /    ve<lr<Mnn   eonie   qneslo    prin<-ipi<»       -b    altri     «-oncctti     anah»- olii    «Icrivano   dalla    s(»JÌNtica    natnrair   «lei    nosl  io    -pirite     da     cni si   «»ii'j.inano   i   <-onr«'i(i   ni('tali>i«i    in   iicnrral»').  I/appli<'azione  di questo  prineìì»io  nlln  creazione,   so  esso  si  prende  nel  senso  pro- ]>rin,    non    >ai'eld»c    nn   >ciMplicc    imhi   senso,  ma  mi'apcrta  cont  rad- ilizionc  :     ma    si   rvviìt-   di    ailennair    in   «inahdie   modo   il    mistero della    ci'eazi<»iir   dal    niente    pm-   la    metafora    elie    l'essei-c  «'   le  per- fezioni   delle   cose   <-reate   >on(»   nna    /ttt/trri/taziour    deli"  essere    e delie   p«'i-tezioni   del  «reatore;   i-osi  l'essere,  in  <inal(  lie  modo,  non verreldx'  dal    niente.    In   «[nanto     al     principie    «lie     «nell'ordine naturale    delle    cose    la,  cansa    deve   essere    sempie    più     ec<-ellente eliP   l'i'rtetto»,  i-   nn   altro  «s<'mpio   di    «pusto     va.i;o    antiopomor- tismo   (-he   si    ve<U'   talvolta    in  «ci-ti    concetti   dei    metafisici,  e  (do- n<in  più»   avere   una    sor.L^cnte   divei-sa    clie^  i  sistrmi  s<diiettamenle jtntropomortìstici   di   cni    palliamo   in   <pn's[o  capit«do.  Percdie   in- fatti   1:»    cansa    «leve    ess^-n*   >empre      pii»     eceelleiite     iUdV  ett<'tto  i Kvident«-mente   pendiè   la   cansa.    in   «lualcdie   modo  .    coman<la  .    <• l'etletto.    in   «pialche   modt».    nldddisce.   ed  (•  nna  sn-.m-stione  d^  Ila nostra   <-sperienza   «pndidiana   d<d.   rai»poi-ti    de.nli     nomini    fra     di loro   e   con    iili    altri   esseri    clic   «|n(  Ilo   (die   comanda    deve    essi're s<-mpre  /fin  tvovllrnh    di    «piello   <die   iil»l»idisce. naUtrale  (che  annnette  un  autore    intelligente    delT  uni-, ed  ha  per  i)rova,  tra  qutdle  della  ragione  teorica, la  tisico-teoloiiicaj.   Ma  (juesta  distinzione  non  ha  alcun fondamento  uè  storico  ne  psicologico,  e  non  jjuò  basarsi che  sul   jrocesso  arbitrario  con  cui  egli  pretende  dedurre ridea  di  Dio   {V  idoale  della  raijfOìì  pura)  dalle  semplici le'"»i  della  ragione     base  di  cui  questa  distinzione  stessa mostra  riìisussistenza,   poiché  è  la  confessiojie  imj)licita di  Ivant  che  h\  sua   penosa  deduzione  non  ha  raggiunto il  suo  Oiiu'etto  .  che  doveva  essere,   non   il  semplice  cns origiimnam  che  egli  deduce,  ma  il  Dio  del  teismo,  cioè un  autore  intelligente  dell'  universo,  (|uesto,  conie  dice e-^di  stesso  .  essendo  il  solo  concetto  che    e'  interessa-  . Kant,  dopo  aver  mostrato  nella    Critica  della  ra(jf(jii jtf/ra  che  gli  argomenti  a  prii^ri  (cioè  Tontologieo  e  il  co- smologico) sono  assolutamente  inconcludenti,  e  che  Tar- gonu'.tito  tìsico-teologico.  quantuiKjue  concliula  con  vero- somi"'lianza.   non  prova   Dio  secondo  il  concetto  del  tei- Siilo   modtM-no   (cioè  come    intinitatnente   perfetto  e  come creatore),  nella   Critica  della  ragion  pratira  fonda   Vosi- stenza  di  Dio  sopra  una  j)rova  dedotta  (bilia  legge  mo- rale, che,  se  non   la  dimostra   rigorosamente  al  punto  divista  d(dla  ragione  speculativa,   basta  a   stabilirla  come oo'o'etto  di  una  fede  ra'ùonalv  pratica.  Il   |ninto  di   par- tenza  di  (juesta   prova  è  la  dottriu'i  del  sor rafKf  bene.  La ragion  nratica  ci  asseu'iia  come  scopo  ultimo  il  sor  ratio bene,  cioè  l'accordo  della  moralità  con  la   felicità;  dun- 4ue.  noi    dol)biamo  ammettere  che  la  sua    realizzazione è  j>ossibile.    Ma  quest'  accordo,  (jtiest'  armonia  perfetta, della,  moralità  con  la  felicità  noi  non    lassiamo    conce- pirla come  un   risultato  delle  semplici   leggi  del   mondo sensibib-.  ma  essa  supi)one,  (dìuoìo  per  noi,  una  causa iìitelligente  e  morale  della  natura,  che  preordini    Funi- verso  a   ([uesto  scopo.  Così  1'  esistenza  di  Dio  è  uu  po- stulato della  ragion  pura  pratica.    Poiché   è    un    dovere ^'2'2 —  i2a  - por  noi  «li  lavorare  alla  realizza/ione  del  .sovrano  bene, è  una  necessità,  che  (lei"i\a  da  (questo  dovere,  di  sup- porre la  possibilità  di  «inest(ì  sovrano  hcMie,  il  (piale, non  essendo  possibile  ehe  alla  coinli/icìne  delTesistenza di  Dio,  le^a  insepai'abihnente  al  dovere  la  suj)posizione di  <juest"esistenza.  vale  a  dire  che  è  nìorabnente  tkmh's- sario  <r  aniiMctterc^  T  esistenza  di  Dio  (1.  In  sostanza, Kant  noi!  la  che  elevare  a  [irova  (h'IT  esistenza  di  Dio il  seiìtinuMìto  (die  <juest'  esistenza  è  desiderabile;  sen- timento, come  dice  Miil  {'2).  (die,  j»osto  s(4to  foiina  «Var- goniento^  eiò  che  accade  spesso,  esprime  ingi^nuanuMUe  la tendenza  dello  sj)irico  nmai:o  a  ci'cdere  ciò  cin^  li'li  è a  u.ì;"  radiavo  le  .  \\  evidente  che  l'accordo,  la  j)r(>porzione, tra  la  virtù  e  la  t'elieità  è  una  proposizione  che  n<m  ha meno  bisoi^no  <li  (»ssere  pi'ovata  che  T  esistenza  di  Dio che  essa  serve  a  prf>var(\  Kant  dà,  al  fondo  .  «|ue<ta |>roposizioiu'  come  una  cr<Mlenza  naturale  e  primitiva del  nostro  spirito,  come  una  smMa  ^\\  (jiaili?:*'»  sini'tivu  a priori  (.'») — come  se  volesse  dai'e  una  j)ro\a  j»alpal)ile delTobbiezione  dei  suoi  critici  che  un  ^u'imbzio  sintetico a  priori  non  poti'ebhe  essere  che  uìiafferinazione  pu- ramente lii'atuita  — .  Tu  verità  Kant  non  dà  esfilicita- mente  <pn*sta  crerlenza  come  un  (Lato  innncMliato  d(dla coscienza,  ma  la  (UmIucc  (bi  un  preteso  dovere  :  jxdclu'ì noi  abbiamo  il  (hnci'e  di  realizzare  il  sovram»  bene, cio(''  Tai'monia  della   virtù  con   la    felicità,  n(d  (hd)l)i;imo ai nmettere  che  essa   ('   ])ossibile.   Ma  ipiest'  artifizio   n OH toiilie  (die  in  realtà  «'lili  din  la  credenza  come  imme- diata,  m''  liiova  moho  a  l'afforzare  il  suo  aru'omento  : la  deduzione  della  ci'edenza  dal   doverti,  come  (jua.lsirtsi '_'.      S( «'  II, (1)  C/if.   ilrihi   ttn/.  j^ra!..    1.    jnirrt;.    I.    2.   <• (2)  Sf(f/f/Ìo   .<:tff    Trìs'ino,    1.    piurc,    Arf/Oin.    drììti (S)    \'.    CrìL    ihihi    rat/,     iirnlii'n,     1.    )»jirt<'.     L    1.    e r. /.    V cn.u'ìrnzii lUT.K- *'jS %ì altra  deduzione  che  non  sia  sofistica,     non    ('    che  nun petizione  di   privici pi( l)ene  . il   dovere  di. realizzare  il  sovrano ;e  noi   sentissimo   realmente  di   avere  (|Ue>(o    ( 1 1 vere,  porterebbe  imnauliatamente  con  s(''  la  credenza della  possibilità  <li  (juesta  realizzazione:  e  da  un  altro canto,  dalla  non  esistenza  hdla  creilenza  nrd  possiamo conchnU're  che  il  dovei-e  ('  impossibile,  come  Kant, dalla   pretesa   esistenza     del    sec(mdo,     conclude   k-ìm-    ha il  ria.     1/  arii'omeiito  di    Kant    dà    luo^o   a prima  e  iiecess una  (b>manda  assai  naturale:  (juale  possa  essere  lo  scopo di  (piesta  strana  inversione  loo-ica,  che  dà  come un» rauioiK^  dell'esistenza   di   Dio  ciò  che    non   ('•    stMto    mai rii:uardat(^»,   e  inni  polrebl )(•  essere  l'iii'iiardato  altrimenti, h he  come   una    conse^iu^e.za   di   <(Uest;i   esist(Miza:   ]»erciH Kant  non  (li;\   inime( turale  e  necessaria ([Uella,   non   meno   incei liatainente  come  una  ci'edenza    na- r  esistenza    stessa   di     Dio     anziché ta,  deirarmonia  tra  la  virtù  e  la felicità.  Senza  dnhbio.  se  e-li  lia  accordato  alla  secon- da (piesto  caratt(M"i^  i ma,  ò  jx^ichè  e he   inni    av  rebh.e  ;u  c(n-dato  alla  t)ri- w  è  un'idea   ch(^    si    presenta    natural- mente allo  spirito  umano  .    (pi!indo    non   si    contenta   di accettare  il  «lo vere  come  un  dato  immediato  «Iella  co- scienza imo-ale,  ma  pretende  di  asseii'narne  un  fonda- mento V.  un   perchè.    I.a  dottrina     kantiana,    « lei liene  non  ('  ( he    un     cifth'ìninusìiht    dissi m tilat o ;ov"raiio (llU'>l.'< dottrina  .    cernie  i   sistemi   di   (Uica   francamente  ei ideit n»- 111: fé itici,   ha   p(n-  iscopo  —  (piantumjue    Kant   non    h.  co; ssi m ti     deve  essere   il   fondo  del     su(^>     pensieri ~  d l    valore  d(d  dovere  da   ([Ualcin^  cosa  il  cui  va- rie ri  vare   i lore  sembri   più  evidente  intrinsecamente  e    | nn    im*oii- tes tabile,   cio('  la    felicità  (1).   Kant  ])(msa,  al  fondo,  dir ])oich(>  il   doverv'  ci   (' incontestabile,    esso  « dato  come  un    che    di    un     valore b^A ess ere    accompau'nato    dalia (1)    \.    \\\    [>iirlr    m    (li    «[licslo    S;i.u,Li H». 124  - L*r»Mleuza  del  suo  accordo  con  la  fclifità,  perchè,  se  uou fosfse  così,  il  suo  valore  non  ci  sembrerei be  incontesta- bile. Così  rai-ii'oinent^  di  Kant  ìion  è  rhc  nun  variante del  vecchio  ar^onn'nto  dei  teoloiri.  che  la  leuiife  inorale suppone  un  le<»ìslatore  —  ar«>'oniento  die  im[)lica  (sia che  si  dica  o  si  sottintenda)  che  1' obl)liii'azione  morale dipernle  dal  premio  e  dalla  [)Uiìi/ione  dis|)osti  da  (pitvsto legislatore —  I).  Tuttavia  lo  sco|)o  di  Kant  non  è  tanto di  dare  un  fondamento  airobbli^azione  morale,  quanto di  realizzare  ["ideale  il'un  ordine  morale  nel  mondo.  A questo  punto  di  vista,  il  suo  argomento,  quantunque privo  di  qualsiasi  valore  lou'ico,  ne  ha  senza  dubbici uno  psicologico  evidente,  essendo  1'  espressiom*  di  uno dei  motivi  i-eali  che  contribuis**ono  a  mant(mere  la  cre- denza air  esistenza  della  divinità,  nella  parte  mialiorc^ del  *ienere  uìiiano,  quantun(pn'  lu'ssuno  abbia  mai  j)en- sato.  prima  di  Kant,  a  vedervi  una  [)rova  di  <[U(^st'esi- st<'nza.  Ma  benché  le  cause  inorali  «bdle  opinioni  siano, come  osserva  Mill  (2),  le  più  potenti  di  tutte  nella  più parte  de^li  uomini,  non  è  ammissibile  che  la  credenza stessa  nasca  unicamente  da  motixi  di  (luesto  i'*en(n'e, s(nìza  r  influenza  simultanea  di  alti'i  motivi  che  a^'i- scano  direttann'nte  sull  int(^lli;^-enza.  K  (dò  che  bastano a  dimosti'arc»  I"  (v^istenza  di  ])ensatori  .  che  .  come  p.  e. Aristotile  .  hanno  ammesso  la  filosofia  teoloirica  come pura  speculazione,  senza  annettervi  alcun  sentimento reli^'ioso  .   e  T  analo;i'ia   e\  ideante  di   «piesta   filosofia   con (1)  ^^iiiiinh»  K;Mit  scrivrv!)  l;i  ('t'iUca  tìr/ìff  ruf/ioii  jnira,  Sein- ttra  rlir  c^Ii  iioii  coiHM'pis.s»'  ancor;)  1"  jn\iioiiieiito  hmh'.mIc  clic  in questa  t'orma  :  Trsistcn/a  «li  Dio,  c^li  <li<r.  deve  <'ssci'<*  postulata fOiiM'  i;i  ron<li/,ioin'  «Iella  jMJssihilità  «h'ila  l'orza  oòftlu/ufot-in  «Icilc jciigi  morali,  (('ri/,  «hlln  ntf/.  futru.  Pìalrtl.  /roscrm/.  I.  II.  {-.';). *.z.    Vili. (21    /joijira,    I,   .").    e.    1.    ^   S. -  125 le  altre  forme  dell'antropomorfismo    di    cui    parleremo ne«'li  articoli  seguenti  :    del  resto  il  motivo  a    cui    cor- risponde  rar^omento  di  Kant,  cioè     il  sentimento  ch'egli ha  messo  sotto  forma  d'ar^'omento  »,  non  ha  potuto  in- fluire sulle  prime  oriiiini   dei  concetti  teoloi>ici,    le    n- li<>ioni  inferiori,  come  osserva  Tylor  (1),  essendo  sepa- rate dalla  morale,  e  solo  i  popoli  progrediti  concependo la  divinità   come  autrice  d'  un  ordine  morale    nell'  uni- verso.   Kant,   i)er  accordare  al  suo    ar.i;oment(»    morale una  forza   probante  che  ne<>a  all' ar^iomento  fisico-teolo- gico, non  ha  che  una  ra^^ione  decisiva  :  che  solo  il  pri- mo, e  non   il   secondo,   può  })rovare  la  perfezione   asso- luta della  divinità  (l'onnipotenza,  ronniscienza,  la  bontà infinita,  ecc.)  (2;.  M.'i  eiò  è  un'altra  j)rova  che  esso  non può  essere  la  vera  base  della  teologia  rwiturale:  ])oiché questi  concetti  non  ai)pariscono  che  ad  un  certo  «^'rado dello  sviluppo  delle  idee  sulla  divinità,    di     cui  non  si può  rompere  la  continuità  coi  irradi  inferiori.  Infine  noi dobbiamo  osservare  sull'aro  omento  di  Kant  che,  quan- d'anche esso  fosse    nafaraU'  .    non    contraddirebbe    .'dia l)ro|)Osizione  che  noi    abbiamo    cercato    di    stabilire    in questo  para^Tafo,  cioè  che  le  sole  basi   razionali    della filosoHa  teologica  sono    la    [)rova    delle    cause    finali    e quella  del  primo  motore:  che  cosa  è  esso  infatti  se  nmi un  caso  della  prima  di  queste  due    prove,    applicata  a un    ipotetico  ordine  morale,  invece  che  alTordine,  sino ad  un  certo  punto  reale,  del  mondo  tisico  ?  Perchè  noi dobbiamo  preferire  l*  idea    di  un  Dio  autore  della    pro- porzione fra  la   moralità  e  la  felicità  alla  dottrina  bud- dista del   Karma,    secondo  cui  questa  proporzione   è  il risultato  spontaneo  deiriucatenamento  fatale  delle  cause e  deoli  effetti,  se  non  in  virtù  di  quest'argomento  (abbia (1)  'fvlor,   Cìrilìzzdz.  /irimif..  <a]).    XVII. <2)    V.    Crif.  '/<'//''   l'^fy-  /triffirn.   ]»arlc    1.   l.   2.   <•.  2.    \  U. -  120 127  - «'s.<()  un  valore  obbiettivo  o  seiiipliccincìitc^  siibbicttivo) cììr  ToriliiK^  suppone  uu  ordinatore?  Forse  tvix  ì^onfiìff tiHH-ali'  e  Vintlìne  fisii'o  vi   ha  (jUesta  (lift'ereir/a,   che  nel I lu-lu ;tibil e    en( pruno  easo  la  eoneiusione  seniora  jiiu  irresis uv^l  secondo  :  ma  <iuestM  è  uìia  dift'eren/a  illusoria,  che dtu'iva  dal  vanta^uio  reale  della  piova  fisica  sulla  prova iH'H'dh'.  Noi  troviamo  inHiiitamenie  più  i>aradossastica la  dottrina  bud<lista  che  la  dottrina  t(;i>tica,  perchè  eom- {)rendia]no  dir  la   j)rop<»i"/a"one  tra   la    moralità   e  la   t'eli- <!itM  non  e  ch<'  un  ipotesi,  che  mni  può  essere  acc<*ttat;i L'ome  \"erisimile  se  non  come  una  consei^non/a  del  tei- smo :  iììa  se  essa  t'osse  un  «lato  dell'  osservazione;  come ]"  ordine  fisico,  o  una  credenza  naturale  e  necessaria vome  \uoU^  Kant  .  l;i  «lottrina  teistica  ci  semlu'tii-ebbe cassai  j)iii  ardita  che  (piellri  buddista,  in  cui  non  •>'edi'em •mo  (*h(;  la  constatazione  pni*a   e  sein|)lice  (hn   tatti. Ciò  a  cui   si  dovono  in  i:ran  |)arte  le  pi'o\i;  sofisticlhì ilell 'esistenza   di   Dio,   cioè    1*  incaj)acità  (hdle  prove  na- turali  .'1   dimostrarlo  come   Ti^sscre  dssnhif n    o    /// fin  il <K  e pure  il  moii\-o  principale  dtd  parados-;*»  psicologico  che o^uest*  esistenza  non  è  un  o^'aetto  di  pro\?i.  ma  unn crtMhmza  imtiirale  e  una  \ crità  inluiti\a.  V.  ciò  che  può vedersi  dni  termini  stessi  con  cui  (piesla  dottrina  è  l'or- ;'ttuulata  dai  suoi  sostcuiitori.  Secondo  ÌMax-Miiller,si  trova, alla  radice  di  tutte  h'  reli,i:ioni.  una  facoltà  distivita  dello spirito  umam),  indipendente  dai  sensi  <>  dalla  rai^ione. anzi  spes-^o  in  antaii'onismo  e  in  contraddizione  con  <*ssi. e  clie  si  cliianm   la   facoltà    di    p(n-cepire    1"  //?/////7o    (1). tutti    i     l'atti   della  coscienza   si    rias- •>econdo    (.'ousi mono  in  un  tatto  permanente,  sempro  presente  uidla coscienza,  e  che  consiste  a  percepire  al  tem[)0  stesso  : W  tìiìito  (eh'e;;li  chiama  anche  relativo,  contingente,  ecc.), Yinfinittf  (che  chiama  anche  assoluto,   necessario  .   ecc.) (1)    \.    ^I;i\-.M  filli  r.    Lk   srienzd   ilrlln    /r/ifjionr.    1 y e  il  rajìporto  tra  i  due  (cioè  che  il  finito  ha  per  causa  e  pe4- substratum  V  iiifìnifo).  I  nostri  ontolooisti  (secondo  i (piali  .  non  solo  noi  conosciamo  Dio  immediatamente, ma  lo  vediamo),  invece  die  deir/////y///o  j)reterivano  par- bii'e   ìAìAV ('iìf<\   (WW ((><snhit'i.    ecc.,  termini ancl 1  ossi,  come li V  iufiiì'di),  più  appropriati  (per  usare  la  distinzione  ( Kant)  ai  concetti  della  teolo^àa  intHcciìdonUtlo  che  a (|U(dli  della  teoloiiàa  iìattiralc  Per  onesta  dottrina,  come pei  tre  aru'onuniti  precedcMiti.  la  (jiiistione  nmi  i)uò  es- sere per  noi   che  di   cercare  lo  scoj)o  i\    cui    essa    mira. esse \\{\(\  evidente  che  non  ])uò  ess'^re  il  risultato  di  un'os- servazione j)NÌcolou'ica  sincera  <'  senza  ])reoccupazione. Si'mbr(U'à  strano  di  dire  che  essa  non  si  comprende  die percdiè   può  guardarsi   sotto  due  aspetti  in  (Oialche  inod(« traddittori  :    la    proj)osizione   che    resistenza     <li    Dio COÌl non  ha  bisoi^no  di  ossero  provata,  non  (^  m  realta  che l'enunciato  di  una  certa  maniera  <li  j)rovare  (juest'esi- st(Miza.   Noi    possiamo   distin.uut'ro  due    forno?   in    (picsta )n   è  che  un  travestimento  del  xecchio hittrin 1/u na  m arii'omc^nto  (Ud  consenst»  uni\-ersale.    Per  dare' a   (pu^sto \\\\   aspetto  ]>iiì   ro'JoìH dista,   dalla    uni  versali!  i  della  ere denza  non  si  conclude  immediatamente  cln^  essa  è  xcra. ma  (die  è  naturale  ed  istintiva:  ciò  prova,  continua  l'ar- .2^omento,  che  ess;b  è  necessariamente  vera,  perchè  un'af- termazione  immediata  d(dla  coscienza  non  può  mettersi in  dubbio,  ma  deve  ammettersi  come  lUia  verità  assi(»- matica.  I. 'altra  forma  della  (butrina  è  una  conseuuen'/a de.uii  ai\i:'onH'nti  a  priori.  Alcuni  di  <piesti  argomenti, <piali  i  più  u>ati  (li  tutti,  cioè  rontoloa'ico  e  il  cosmi)- lo<zico,  aàungono  lo.i»-i  cani  ente  a  (piesto  risultato,  che ja  proposizione  che  essi    pretendono    dimostrare,    è in realtà  (nidente  per  se  s tessa.  Se  il  concetto  di  Dio  im- plica qucdlo  della  sua  esistenza,  come  vuole  l'arpunento ontolooieo,  ciò  importa  che  noi  non  possiamo  pensare Dio   che  come  esistente:   ma  se  è  così,  l'argomento  on- —  128  - 129  — lologico  uoii  V  una  (liiiiostra/Joiio,  ma  la  semplice  enun- ciazione d'una  lìecessità  inìmediata  del  pensiero  (1).  In quanto  all'  ar<4omento  eosmolo^ico,  noi  ahbianjo  visto ch<^  la  sua  vis  [n-obante  non  sta  ehe  in  (|Tiesto  fatto:  ehe ia  nostra  intellii^'enza,  in  virtù  delh»  sue  tendenze  spon- tanee, trova  più  *oddist'aeente  il  concetto  che  il  mondo ha  una  ra<^ion  sufficiente  in  una  causa  che  ha  la  6Uu ra^^ion  sufficiente  in  s(*  stessa,  anziché  (juello  che  esso esiste  puramente  e  semplicemente,  e  non  vi  ha  alcuna ragion  sufficiente  che  spieghi  la  sua  esistenza.  Cosi anche  l'arg-omento  cosmoloo-ico  non  è  un' int'erenz« — e  come  potreldx»  essere  un'inferenza  un  aruomento  non induttivo  ?— ma  la  enunciazione»  di  una  tendenza  (se- condo i  suoi  fautori,  di  una  necessità)  inunediata  e primitiva  <lél  })ensiero,  cioè  iìon  risultante  da  alcuFi  pro- cesso loo-ic-o.  Dalla  pi-o[)osizione  che  1'  esistenza  di  Dio è  una  verità  evidente  per  sii  stessa  si  puù  ()a.ssare  a quella  che  questa  verità  è  seinfire  presente  al  nostro spirito,  sia  per  I  internn^diario  della  dottrina  delle  idee innate,  sia  di  quella  deirintuizione  razionale.  La  dot- trina delle  idee  innate,  che  è  fondata  sovratutto  >ul concetto  che  l'essenza  dell'  anima  consiste  nel  pensie- ro i2),  cercando  dcdle  idee  che  [)ossano  essere  un  patri- monio ori^-inario  dello  spirito,  Je  trova  naturalmente nelle  verità  evidenti  per  se stesse  o  pretese  tali.  La dottrina  (h^ll'intuizione  razionale  ha  [)er  o<4-g"etto  di  spie- gare la  coiiu-idenza  del  [»ensi(;ro  e  della  realtà  nella  co- noscenza a  priori  di  J)io  e  in  o^ni  conoscenza  a  j>riori ili  generale,  ammettendo  una  percezione  immediata  del Vero  stes.so  obbiettivo  o  delle  verità  in  Dio  (P^)  —  la  dot- trina di  Cousin  della  partecipazione  a  una  Jiagione  un4- (1)  V.  Apft.  ai  (Uff).   G.  v>  fi.  noti!   ultiuiji. (2)  V.    Appenri.   alla  partr    t.    e.   2.   \S   !». i^\  (^fr.   Samiìo   L   e.   'ò.   ^  7. versale  non  differisce  che  verbalmente  da  quella  della visione  in  Dio— .Nell'ipotesi  di  questa  percezione  d'un oggetto  che  è  col  soggetto  percepente  in  un  rapporto invariabile,  il  più  semplice  è  di  ammettere  che  essa  è permanente,  tanto  più  che  la  trasformazione  delLargo- mento  cosmologico  in  verità  intuitiva  arriva  natural- mente alla  formula  che  la  percezione  del  contingente,  o del  suo  sinonimo  il  finito,  implica  quella  del  necessario, 0  del  suo  sinonimo  V infinito. §  5.  Il  risultato  dei  paragrafi  precedenti,  cioè  che la  base  della  filosofia  teologica  è  in  un  processo  indut- tivo, che  consiste  essenzialmente  ad  assimilare  le  cause dei  fenomeni  e  il  loro  modo  d'azione  all'uomo  e  all'at- tività umana,  può  essere  dissimulato  da  un  processo  in certa  guisa  contrario,  a  cui  si  confermano,  nella  loro evoluzione,  i  concetti  teologici,  che  consiste  in  ciò,  che pio  e  il  suo  modo  d'azione  si  vanno  disassimilando  pro- gressivamente dall'uomo  e  l'azione  umana,  e  può  essere chiamato  ([Uindi,  come  è  stato  chiamato  infatti,  ìadisan- tropomorfizzazione  della  divinità.  Questo  processo  dì  di- santropomorfizzazione  progressiva  può  considerarsi  so- vratutto sotto  due  aspetti.  L'  uno  ci  mostra  una  diffe- renziazione crescente  tra  il  sovrannaturale  e  il  naturale. Al  principio  gli  esseri  soprannaturali  sono  degli  agenti fisici  :  quantunque  si  sottraggono  ordinariamente  ai nostri  sensi,  essi  possono  apparirci,  quando  loro  piace, e  mostrarsi  per  ciò  che  essi  sono,  cioè  come  persone visibili  e  tangibili.  La  persona,  il  sustrato  fisico  dello spirito,  si  va  mano  mano  smaterializzando,  e  finisce  per diventare  una  sostanza  spirituale,  cioè  un  quid  inacces- sibile ai  sensi  e  all'immaginazione.  Una  trasformazione analoga  avviene  nello  spirito  stesso,  cioè  nelle  qualità mentali  degli  agenti  soprannaturali  :  queste  diventano sempre  di  più  in  più  sovraumane,  e  finiscono  anche  per perdere  questa  condizione  di    ogni  coscienza   empirica, 9 —   ÌHi)  — —  131   — anzi  più  <4(Mi(!rul mente    di    o^iii    coscienza    (!onee|)ibile, che  è  la  composizione  di  stati  multipli  e  successivi.  E, in  una  parola,  se  misi  [)erniette  quest'altro  neolooi^nio, una  ( / i.s f'e nome lu'zzdZfOHf  crescente,   i)er  cui  riperfisico  si mette  in  un'antitesi  sempre  i)iù  radicale  col  fisico,  sino all'opposizione  completa  d(;l  pensiero  moderno,     in  cui un  o^'uetto  nu'.tfiHsico,   nel  senso  stretto,  cioè  sovrasen- sihile,    non  è  semplici;mente  ciò  cho    non   è    sotto[)osto alle  lea'ii'i  del   mondo  empirici),    ma    ciò    di    cui    Jion  è nemmeno  possibile  di  t'ormarsi  alcuna  ra|)})resentazione propriamente    detta,     cioè   alcuna    imma<i'ine.    L'  altro as})etto  sotto  cui  può  considerarsi  \inUsnntropijinorfizza- 2/o?^e  della  divinità  può  riassumersi  così:  dal  concetto  della divinità  si  vanno  sop})rimendo  tutti  iili  attributi  delTuomo cbe  si  riguardano  come  imperfezioni,  ecfuelli  che  si  rii>'uar- dano  come  j)erfezioni  \i\  ven^-ono  conferiti  in  un  i»'rado vsempre  più  eccellente,  sino  al   più  alto  cbe  sia  |)0ssibile di  concepire.  Così  da<i'li  esseri  soprannaturali  delle   re- lia'ioni  inferiori,  so^aetti  all'  errore,  all'  in<j:anno  e  alle passioni  più  grossolane  dell'umanità,  e  cbe  possono  es- sere intimiditi,  feriti,   vinti  e  sottomessi  da<rli    uomini, si  «'iun^e  infiiu'  al   Dio  onnisciente,  onnipotente,  infini- tamente buono  e  infinitamente  santo  del    cristianesimo o  del  vedantismo  o  del  deismo  dei  moderni  filosofi.    In questa  evoluzione  del  concetto  del  diviiu)  ciò  che  c'im- porta è  la  fase  ultima,  e  propriamente  due  caratteri  che essa  ci  presenta:  l'uno  è  che  Dio  viene  concepito  come esente  dal  cangiamento  e  dalla  successione;    l'altro  che esso  diviene  l'assoluto  o  V  infinito^  cioè  che  il  suo  con- cetto si  compone  di  lutti  *i'li  attributi  dello  spirito   che sono  t)iudicati  delle  perfezioni,  elevati  ad  un  grado  as- soluto o  infinito.  Questi  due  caratteri  del  concetto  mo- derno e  più  evoluto  della  divinità  costituiscono,    sulla base  della  teolog'ia  naturale^  che  è  essenzialmente,  come abbiamo  visto,  una  spiegazione    antropomorfistica    del- h V  origine  del  movimento  e  della  finalità,  una  sorta  di sovrastruttura,  che  nasconde,  agli  occhi  di  molti  filosofi, la  base  stessa,  e  che  noi  possiamo  chiamare  con  Kant la  teologia  ir  ascendentale. Dei  due  elementi  della  teologia  trascendentale,  il primo,  cioè  1'  esenzione  della  divinità  dal  cangiamento e  la  successione,  è  quello  in  cui  si  manifesta  sovratutto quest'  aspetto  della  disautropomorfizzazione  del  divino che  noi  abbiamo  chiamato  una  disfenomenizza?:lone.  Il proprio  dei  concetti  metafisici  nel  senso  stretto  è,  come abbiamo  detto,  che  essi  trascendono,  non  solo  1'  espe- rienza, ma  anche  l'immaginazione.  Per  (pianto  i  filosofi antichi  avessero  esaltato,  e,  come  suol  dirsi,  jmrificato il  concetto  popolare  della  divinità,  il  loro  dio,  in  un senso,  è  ancora  un  fenomeno,  come  il  dio  della  religione popolare  :  esso  resta  un  oggetto  di  rap[)resentazione,  se non  d'esperienza,  possibile,  perchè  non  racchiude  ancora l'inconcepibilità  di  una  coscienza  che  non  si  svolge  nel tempo  e  non  è  composta  di  stati  successivi.  Il  Dio  di Platone,  cioè  1'  anima  del  mondo,  è  esente  dal  ])iacere e  dal  dolore  (1),  ma  partecipa  alla  niemoria,  al  ragio- namento, alla  preveggenza,  ecc.  (2).  Egli  è  sì  lungi dall'essere  immutabile,  che  il  suo  attributo  essenziale  è un  movimento  spontaneo  e  continuo  (3):  la  sua  menta- lità stessa  consiste  in  movimenti  :  l'anima  dell'universo conduce  tutte  le  cose  che  sono  nel  cielo,  nella  terra  e nel  mare  coi  suoi  movimenti,  che  si  chiamano  volere, considerare,  prevedere,  deliberare,  ecc.  (4);  i  movimenti del  cielo  sono  affini  ai  movimenti  dell'intelligenza  che lo  governa  (ó).  Questa  fenomenalità  dell'intellio-enza  di- (1)  Fileho,  38. (2)  Lvugi'  K90-S1)7,  IJphiOht.   l)Sl-{)82,   ecc. ^;^)  V.   Lt'(/f/i  895-8ÌHJ,    Timeo  30-S7.  ecc. (4)  Leyfjì,  HJ)G-81»7. (5)  Lec/ffi,  K07-S!»S. -  133  - —  132 vina  si  ritrova  nella  filosofia  greca  anche  dopo  Aristo- tile :  secondo  g'ii  Stoici    Dio  non  conosce  il  futuro   per una  visione  immediata,  come  secondo  i  teologi  moderni, ma  lo  arguisce  dal  presente,  secondo  le  leggi    dell'  in- catenamento  causale  (1).  La  dottrina  della  non  succes- sìvitcà  della  coscienza  divina  fu  introdotta  da  Aristotile, che  dal  concetto  di  Dio  come  causa  prima  deduceva  la sua  assoluta  immutabilità  (2).  Con  ciò  egli    faceva  en- trare la  filosofia  teologica  in  una  nuova  fase,    che  noi possiamo  chiamare  la  fase  metafisica,    in    un    senso  di questa  parola  certamente  troppo  stretto,  ma  abbastanza giustificato  dal  carattere  ordinario  dei  concetti     metafi- sici, che  è  la  loro  irrappresentabilità,  lo  sforzo  di  riunire in  un' idea  unica  degli  elementi    incompatibili,    che    è impossibile  di  pensare  insieme,  quantunque  ciascuno  a parte   sia  pensabile.  È  evidente  che  una  coscienza  non successiva  è  uno  di  questi  concetti.  Noi  possiamo  con- cepire un  essere  immutabile  (come  il  Dio  d'Aristotile  o del  cristianesimo  e  del  deismo  moderno),  ma  ci  è  impos- sibile di  concepirlo  come  dotato  d'  intelligenza,    di  ra- gione e  di  volontà.  UnMntelligenza,  cioè  una  rappresen- tazione adequata  del  reale,  che  non  è  composta  di  stati successivi,    è  una  contraddizione  nei    termini;    perchè, da  una  parte,  il  reale  è  una  successione  di  fatti,    e   i rapporti  tra  le  cose  che  più  cointeressa  di  conoscere  (p.  e. '    quello  di  causa  e  di  effetto  o  di  mezzo  e  di  fine)  impli- cano la  successione;  e,  da  un'altra  parte,  non  compren- diamo come  la  successione  reale,  cioè  tra  le  cose  stesse, possa  essere  rappresentata  altrimenti  che  per  una  suc- cessione ideale,  cioè  tra  le  rappresentazioni.  La  contrad- dizione è  ancora  più  palpabile,  quando  si  parla  di  una ragione  che  vede  al  tempo  stesso  le  premesse  e  le  con- (1)  V.  Oiiereau.  Sistema  filos.  flegli  Stoiei,   pag.  256-257. (2)  V.  §  2.  p.  63. seguenze.  Il  rapporto  tra  premesse  e  conseguenze  im- plica un'anteriorità  e  posteriorità,  non  solo  logica,  ma anche  cronologica,  o  piuttosto  l'anteriorità  e  posterio- rità logica  non  è  che  una  specie  dell'  anteriorità  e  po- steriorità cronologica  :  percepire  il  rapporto  tra  le  pre- messe e  le  conseguenze  —  e  dov'è  questo  rapporto  se non  nello  spirito  che  lo  percepisce  V  —  non  è  in  effetto che  inferire,  e  inferire  vuol  dire  passare  dal  noto  al- l'ignoto, da  ciò  che  si  sapeva  a  ciò  che  non  sì  sapeva. Il  teologo  ammette  che  Dio  non  ragiona,  ma,  senza passare  da  una  verità  ad  un'  altra,  vede  nondimeno, egli  dice,  queste  verità  nella  loro  dipendenza  logica, conosce  runa  come  principio  e  l'altra  come  conseguenza: ma  conoscere  la  dipendenza  logica  tra  le  verità,  se  non è  eseguire  realmente  l'operazione  logica  che  va  dall'una all'altra,  è  almeno  rappresentarsi  quest'  operazione  lo- gica, ciò  che,  r  operazione  logica  essendo  composta  di atti  successivi,  significa  rappresentarsi  una  successione, e  per  conseguenza,  avere  una  successione  di  rappresen- tazioni. Altre  contraddizioni  ci  si  mostreranno  se  guar- diamo la  ragione  nel  suo  lato  pratico,  cioè  come  con- cepente un  disegno  e  preordinante  dei  mezzi  ad  uno scopo  (ciò  che  è  una  delle  due  funzioni  assegnate  alla divinità  come  principio  esplicativo  dei  fenomeni).  Que- st'operazione implica  almeno  tre  momenti  distinti  :  l*' la  concezione  e  la  volizione  dello  scopo  2«  la  scelta dei  mezzi  appropriati,  ciò  che  implica  alla  sua  volta dei  tentativi,  delle  esitazioni,  delle  eliminazioni,  ecc., circostanze  incompatibili  con  una  ragione  esente  da cangiamento  3^  la  volizione  dei  mezzi  scelti.  Senza  in- colfarci  in  analisi  prolisse  e  non  necessarie,  osserveremo solamente  (oltre  alla  impossibilità  accennata  di  rappre- sentarsi il  rapporto  tra  il  mezzo  e  lo  scopo  altrimenti che  per  una  successione  di  rappresentazioni),  che  l'esi- stenza del  2*^  dei  tre  momenti  indicati  è  indispensabile —  184 Li.') ntìiiicliè  rappropriazione  dei  mezzi  allo  scopo  possa  at- tribuirsi a  ima  potenza  razionale  —  in  un  cliset>no  che non  sarebbe  il  risultato  della  scelta  e  della  delibera- zione,  e  cIh'  non  sarebbe  lUMiiineiio  tonnato  da  Dio, perchè  eterno  come  Dio  stesso,  piuttosto  che  1'  opera della  ragione,  noi  vedremmo  quella  d'  un  istinto  o  di un  accidente  fortunato  —  ;  e  che  il  volere  è  un  processo, ed  è  quindi  evidentemente  impossibile  di  concepire  un atto  di  volere  eterno,  perchè  una  serie  di  cangiamenti non  può  concepirsi  come  eterna.  Alle  inconcepibilità  di una  coscienza  che  non  consiste  in  atti  successivi  la  teo- logia cristiana  aggiunge  l'altra  più  patente  di  una  du- rata che  non  si  compone  d'  istanti  successivi.  In  Dio, dicono  i  teologi,  non  vi  ha  ne  passato  né  futuro,  ina un  eterno  presente.  Nella  sua  durata  o,  più  propria- mente, nella  sua  eternità^  non  si  deve  concepire  alcuna successione  :  essa  è  indivisibile,  infinita  e  sempre  pre- sente tutta  intera  {tota  sinuU).  E  un  presente  immobile, indivisibile  ed  infinito,  un  istante  che  racchiude  tutta l'eternità.  Noi  abbiamo  qui  evidentemente  la  contrad-dizione nella  sua  forma  più  aperta,  V  attribuzione  allo stesso  soggetto  di  due  attributi  opposti,  il  massimo  ed il  minimo,  la  durata  infinita  e  l'esistenza  che  si  esau- risce in  un  istante  indivisibile.. L'altro  elemento  della  teologia  t rascende/ntale,  cioè l'esaltc^zione  di  tutti  gli  attributi  divini  sino  all'infinito, è  talmente  caratteristico  nella  forma  più  evoluta  della filosofia  teologica,  ch'esso  viene  considerato  ordinaria- mente dai  metafisici  moderni  come  ciò  che  vi  ha  di ])ro])rio  e  di  essenziale  nel  concetto  della  divinità.  Se- condo i  filosofi  teologici  Dio  si  definisce  V essere  perfet- tissimo^ o  anche  V infinito  o  V assoluto.  «  Dopo  aver  for- mato, dice  Locke  (1),  per  la  considerazione  di  ciò  che (1)  Snyyio  HuWhatnd.  nm.,  1.  2.  «'.  2S.   §   :«. proviamo  in  noi  stessi,  le  idee  d'esistenza,  e  di  durata, di   conoscenza,  di   potenza,  di   |)iacere,  di  felicità  e  di molte  altre  (|ualità  (»  potenze  che  è  i)iù  vantaggioso  di avere  che  di  non  avere,  (piando  vogliamo  formare  l'idea più  conveniente  dell'  essere  supremo  che  ci  è    possibile d'  immaginare,  noi  estendiamo  ciascuna  di  (pieste  idee per  mezzo  di  quella  clui  abbiamo  dell'  infinito,    e  con- o'iuuii'endo  tutte  (Uiest(^  idee  insic^nui,    ci    formiamo    la nostra  idea  complt^ssa  di  Dio».  Tale  è  elfettivamente  il processo  per  cui   la   teologia    trasc-endentah'-    giunge    a! suo  concetto  della  divinità  :   la   stoffa  per  cpiest'  idea    è j)resa  in  noi  st(vssi    (antroj)onìorfismo)  :    il    lavoro    della teolou'ia  trascendentale  consiste  a  soj)prinHM-e  certe  (pia- lità  della  natura  umana,  che  è  servita  da  tipo  primitivo, conservando  quelle  che  è  pia  rantaggioso  di  arerc  chr  di non  arere,  ed  esttnnlendo  ciascuna  di  (piestc»  per  nu'zzo dell'idea  dell'infinito,  cioè  facendo  della   potenza  la  i)0- tenza  infinita   (onnii)otenza),  della  conoscenza   la  coim- scenza  infinita  (onniscienza),  della  saggezza  la  sagg(v.za iiìfinita,    o,    come  si  dice  più  ordinariamente  .    assolu- ta, ecc.  Tra  i  ìnisteri  della  teologia  (piclli  che   passano ])er  dottriìU'  filosofiche  (essendo  troppo  intinìamente  le- o'ati  al  concetto  moderno  della  divinità  per  non   essere accettati  aiu-he  dal  deismo),  sono  dovuti   in  gran  j)arte a  (|uesto  processo.   Noi  indicheremo:    l"  TI  dogma  della creazione^  dal  niente.   K  un'  applicazione  dell'  idea    del- l'infinito alla  causalità.  Se  Dio  non  avesse  creato  anche la  materia,  le  cose  non  sarebbero  prodotte   interamente da  lui,  e  ((uindi  la  sua  causalità  non  sarel)l)e  assoluta, illimitata.  2"  (Quello  della   ubiquità    o    onnipresenza    di Dio.   Dio  è  presente  in  ogni  cosa,   perchè  opera  tutto  in tutto,  e  vi  è  presente  tutto    intero,    perchè    è    sempli- ce. Egli  essendo    infinito,    mentre    il   mondo    è    limita- to, è  presente  anche    nello  spazio  fuori    del  mondo.  La presenza    simultanea     in   nìolte    cose    (conseguenza  del .-^'«atìsf  _-watij*.i!i«b^  affis».--%  j*i  .-S*.  JK principio  preteso  assiomatico  che  iiicnite  può  agire dove  non  è)  è  già  un  mistero  per  se  stessa:  1'  on- nipresenza moltiplica  questo  mistero,  e  vi  ag'giuiig'e quello  dell'  infinito  attuale.  3'^  La  semplicità  di  Dio  (il più  straordinario  dei  misteri  della  teologia  razionale). Dio  è  semplice,  perchè  è  spirito  —  la  semplicità  che.  si attribuisce  allo  spirito  serve  a  spiegare  la  sua  incorrut- tibilità e  immortalità  — .  Ma  Dio  non  è  solamente  sem- plice come  l'anima:  la  sua  semplicità  è  assoluta  o  infi- nita. Dalla  sua  essenza,  dicono  i  teologi,  d(we  esclu- dersi ogni  composizione;  la  sua  semplicità  non  ammette composizione  :  di  materia  e  forma,  di  sostanza  e  acci- denti, di  genere  e  differenza,  di  essenza  ed  essere.  Dio fa  tutto  con  un  fiat  unico,  vuole  tutto  con  un  atto  di volontà  unico,  conosce  tutto  con  un  atto  intellettuale unico,  ecc.  In  lui  non  vi  ha  moltii)licità  d'idee  distinte: egli  pensa  tutte  le  cose  con  un'idea  unica,  che  è  l'idea di  se  stesso  ;  con  questa  <*onosce  anche  tutte  le  cose, perchè  conoscendo  con  essa  perfettamente  la  sua  pro- j)ria  e>senza,  conoscer  anche  tutti  i  modi  iiì  eui  (juesta essenza  è  partecipabile,  e  (|uindi  tutte  le  cose,  che  ne sono,  in  vario  modo,  delle  partecipazioni.  Quest'idea  con cui  Dio  intende  sé  e  le  altre  cose,  non  si  distingue  dalla sua  stessa  essenza  :  in  Dio  gli  attributi  non  si  distin- guono dalla  sostanza  né  fra  di  loro;  in  lui  il  conoscere, il  volere,  l'operare,  ecc.  sono  la  stessa  cosa,  e  ciascuno di  questi  atti  è  la  stessa  cosa  che  il  suo  essere. Come  si  vede  sovratutto  da  Ibi  semplicità,  questo processo  di  esaltazione  di  tutti  gli  attributi  di  Dio  sino all'  infinito  ha  pure  per  risultato  (|uesto  tratto  caratte- ristico dei  concetti  metafisici,  che  è  1'  assoluta  irrap- presentabilità. Tuttavia  esso  non  raggiunge  questo  ri- sultato che  in  alcune  delle  sue  aj)plicazioni  :  1'  onni- scienza, l'onnipotenza,  la  creazione  stessa  non  oltrepas- sano la  nostra  facoltà  di  concepire,    <iuantunqne  oltre- 1:i7  -- passino  certamente,  almeno  le  due  ultime,  quella  di comprendere.  L'  altro  processo  della  teologia  trascen- dentale di  cui  abbiamo  parlato,  cioè  la  soppressione del  cangiamento  e  della  successione,  è  immediatamente un  salto  nella  regione  dell'irrappresentabile:  questo  di cui  parliamo  non  è  che  un'idealizzazione,  sino  all'  e- stremo  limite  possibile,  dei  concedi  dell'antropomorfismo primitivo,  che,  per  quanto  sia  grande  il  contrasto  tra il  finito  e  r  infinito,  non  introduce  sistematicamente neir  idea  del  sovrannaturale  una  nuova  difterenza  es- senziale (al  punto  di  vista  gnoseologico)  che  lo  separi dal  fenomeno,  (jual  è  quella  tra  l'immaginabile  e  l'inim- maginabile. I  processi  da  cui  risultano  i  concetti  della  ufologia trascendentale  essendo  in  opposizione  con  quello  della teologia  naturale,  poiché  il  secondo  è  un'assimilazione delle  cause  dei  fenomeni  naturali  all'  uomo,  nìentre  i primi  ne  sono  una  disassimilazione,  è  evidente  che  sa- rebbe impossibile  di  spiegarli,  se  al  motivo  fondamentale della  filosofia  teologica  e  delle  altre  forme  dell'antro- pomorfismo non  si  aggiungessero  dei  motivi  secondari. Per  r  uno  di  (luesti  processi,  cioè  la  soppressione  dal concetto  della  divinità  del  cangiamento  e  della  succes- sione, il  motivo  è  ovvio,  e  noi  lo  abbiamo  già  indicato parlando  del  sistema  teologico  d'Aristotile.  È  la  funzione della  divinità  come  causa  prima,  l'applicazione  del  con- cetto teologico  alla  soluzione  della  difficoltà  a  cui  dà luoiio  rincatenamento  causale  dei  fenomeni  in  una  con- siderazione del  mondo  esclusivamente  naturalistica,  per l'inconcepibilità  di  un  regresso  all'infinito  nelle  cause. Se  Dio  fosse  soggetto  al  cangiamento,  se  la  sua  esi- stenza si  svolgesse,  come  qucdla  degli  agenti  personali dell'  esperienza,  in  una  successione  di  stati  differenti, ciascuno  di  questi  stati  sarebbe  un  avvenimento  di  cui si  dovrebbe  cercare  la  causa    (sunponianu),    negli  stati 18S 139 preciHÌeuti),  e  i)oi  la  eausa  di  (|iicsta  causa,    e  così  di seguito  :  così    non    si    farebbe    che    trasportare    in    Dìo (juesta  stessa  difficoltà  di  una  serie  infinita  di  cause  che si  voleva  evitare  nel  mondo,  e  non  si  avrebbe  ancora la  causa  prima  di  tutti  <^\\  avvenimenti.  Il  concetto   di causa  prima,  logiceamente  seg-uito,  conduce  all'  idea  di un  Dio,  non  solo  esente  dal  can^'iamento  .    ma    esente assolutamente  da  una  successione  (|ualsiasi,  cioè  al  di fuori  del  tempo  e  della  durata  (come  consistente  in  una serie  di   njoiiienti  successivi).   I.'  inconcepibilità    di  una serie  infinita  di  cause    non    è   infatti  che  un  caso    del- l'inconcepibilità dell'infinito  attuale.  È  evidente  dunque che  quando  la  filosofia  cristiana  deduce  dall'aro-omento della  causa  prima    che    Dio    non    è    semi)licemente    un primo  motore,  ma  un  creatore,  essa  non  fa  che  spin^-ere sino  alla  sua  conse«>uenza  ultiinri  il  i)rincipio  posto    da Aristotile  ;  una  serie  infinita  di  cause  ed  d'  effetti    non iuìplicando  in  sostanza  altra  difficoltà  loo-ica  che  quella implicata  in   una  serie  reale  infinita,  e  (piindi  anche  in una  durata  infinita  del  mondo  nel  passato.    Ma    non  è meno  evidente  che  questa  conseguenza  ci  mette  in  pre- senzn  di  una  difficoltà  analoga  a  (juella  che   Aristotile risolve  col  suo  concetto  dell'inniiutabilità  divina:  se  la durntn   infinita  del  mondo  è  impossibile  perchè  implica una  successione  reale  infinita,    non  sarà  anche  impos- sibile, per  la  stessa  ragione,  la  durata  infinita  di  Dio? Così,  come  il  concetto  di  Dio  come  causa  prima,    cioè come  primo  motore,  non  imo  evitare  la  difficoltà  di  una serie  infinita  di  cause  e  d'efPetti,  che  nella  supposizione die  in  Dio  stesso  non  vi  sono  cause  ed  effetti,  per  con- seguenza, avvenimenti,  e  che  egli  è  esente  dal  cangia- mento ;    della    stessa  maniera  il  concetto    di  Dio   come creatore  non  può  evitare  la  difficoltà  di  una  durata  in- finita del  mondo  nel  passato,  che  nella  supposizione  che iu  Dio  stesso  non  vi  ha  durata,  che  la  sua  esistenza  non y è  una  serie  di  momenti,    e    ch'egli  è  esente    assoluta mente  dal  tempo  e  dalla  successione.  Le  quistioni  a  cui rispondono  questi  concetti  della  teologia  trascendentale, non  sono,  secondo  noi,  fittizie;  sono  delle  difficoltà  reali, a  cui  lo  spirito  umano  non  può  evitare  di  cercare  una soluzione,    e  che  ai)partengono  all'  argomento  della  2^^ parte  di  (piesto  Saggio.  Così,  (piaiìtuncjue  le  soluzioni delia   teologia  trascendentale  abl)iano  il  difetto  evidente di  evitare  delle  inconcepibilità  con  altre  inconce})il)ilità, talvolta  più  ])al])abili,    essa  è,    per  questa  parte,  una vera  filosofia,   in  (pianto  risponde  a  dei   j)roblemi  reali, dati  nella  natura  stessa  della  nostra  intelligenza,    e  le sue  contraddizioni,   per  (pianto  egualmente    manifeste, non  sono  gratuite  come  i  misteri    della    teologia    dom- matica.   Aggiungiamo  ehe  essa    è    anche,    senq)re    per ([uesta  parte,  una  vera  metafisica,  perchè  la  pseudo-idea dell'infinito  attuale  (quindi  aiu'ora  i   problemi  a  cui  dà luogo  quest'idea  e  le  soluzioni  di  (|uesti  problemi)  è  il risultato  inevitabile  d'un'ìllusione  naturale,    (piella  che ci  si)inge  ad  obl)iettivare  le  nostre  sensazioni,  e  il  ca- rattere essenziale  dei  concetti  metafisici,  nel  senso  pro- prio della  parola,  è  di  essere  uno  sviluppo    dell-:    illu- sioni naturali  del  nostro  spirito. Il  concetto  che  Dio  è  V  infinito  o  l"  assoluto,  non essendo  evidentenìente  che  quello  che  alla  divinità si  deve  attribuire  ogni  ])err'ezioiu5  ed  escluderne  ognim- perfezione,  spinto  alle  sue  ultime  conseguenze  logi- che (ed  anche  illogiche),  l' idea  filosofica,  cioè  mo- derna e  più  evoluta,  della  divinità  è  costituita  in sostanza  da  questi  tre  elementi:  I'^  l'idea  data  dalla teologia  naturale,  (piale  ipotesi  destinata  alla  spiega- zione dei  fenomeni,  e  precisamente  del  movimento  e della  finalità  (1)  ;    2"  quella  che  Dio  è  la  causa  prima; (1)  Fra  trli  nttrilmti  dclhi  diviiiitri  clic  si  riattaccMiio  alTele- iiieiito   della  teolooia  naturale  (quautiiii<iue  il  politeismo  sia  eer- «**-^*«>(Wf*ia!WiBa«s»EBEaasEì«:raaB»feaara«5^Eff —  uo e  o^  il  concetto  che  abbiamo  detto,  che  a  Dio  si  deve attribuire  ogni  perfezione  ed  escluderne  oo-n'imperfe- zione.  Non  è  difficile  di  dimostrare  che  questo  concetto, spinto  sino  all'idea  trascendentale  dell'  assoluto  o  V  in- finito, può  fondarsi  meno  ancora  che  quello  di  Dio  causa prima  e  gli  altributi  divini  che  vi  si  riattaccano,  sui principii  essenziali  della  filosofia  teologica,  se  questa si  considera  come  una  spiegazione  del  mondo,  basata su  un  processo  induttivo,  e  consistente  ad  assiniilare le  cause  dei  fenomeni  naturali  alla  nostra  attività. Questa  dimostrazione  è  stata  fatta  da  Hume  e  da Kant,  e  dopo  di  loro  da  Stuart-Mill,  che  ha  sviluppato logMcamente  un  sistema  di  teismo  fondato  unicamente sulle  prove  induttive.  A  dir  vero  questi  filosofi  consi- derano come  base  unica  della  teologia  naturale  l'argo- mento delle  cause  finali  ;  ma  la  considerazione  di  Dio come  causa  del  movimento  non  modificherebbe  certa- mente il  risultato  della  loro  critica.  (,)uesto  è  che  dalle taiiioiitr   i»iù   naturai'   airuoino  che  il  !ii«»iM)t(*i>ino),  possiamo  fare rii-iitrarc  aiicìie  l'unità.  «Se  il  iiioiiotoisiuo.  dico  Mill,  può  essere preso  pel   rapprestMitaute  del  teismo  «l'una  maniera  astratta,  mm ^  tanto  ]>ereliè  esso  t*  il   cenere  di  teisnjt»  elie  prolessa^.jo  le  raz- ze ]»iii  incivilite  della   sj.ecie  umana,    <iu:into    perelie    e  il    s(do teismo  ehe  può  prevalersi  d'un  fondamento  seu^itiliec».   Tutte  le altre  teorie  elie  attril>niseono  il   «;over!io  dell'  universe»    a    degli esseri  sovrannaturali,    sono  incompatibili  così  bene  con  la  per- manenza di  ([uesto  governo  a  traverso  una  serie  e(»ntinua  d'aii- teeedenti  naturali  secondo  leggi  fisse,    che    con  la   relazione  di dipendenza  mutua  clic    unisce  ciascuna  di  queste  serie    a    tutte le  altre,  vale  a  dire  inconq)atibili  coi  due   risultati  piìi  generali della  scienza».  {Samiio  sui  teismo,  1.  parte,  //   teismo,  Cì'r.Kniìt Crii,  della  ntf/.  /nwa.  Dialett.  trascead.  Uh.  2.  cap.  S.  sez.   VI). Tuttavia  allo  stabilimento  del  mon<>teÌ8mo  ha  dovuto  anche  con- tribuire il  processo  jier  cui  spieghiamo    in    seguito    il    concetto dell'assoluto:   ma  e  un  punto  su  cui  crediamo  iuutih;  d'insistere. -   141  — prove  su  cui  è  fondata  la  teologia  naturale  non  risulta né  il  concetto  della  creazione  (causalità  infinita  di  Dio) né  quello,  in  generale,  deirinfinità  degli  attributi  divini. La  prova  fisico-teologica  potrebbe    dimostrare    tutto    al più  un  architetto  del  mondo,  di  cui  la  potenza  sarebbe limitata  dalla  natura  della  materia  che  egli  lavora,  ma non  un  creatore  del  mondo,  all'  idea    del  quale    tutto  è sottomesso  (1).  É  evidente  che  1'  argomento    del    primo motore  non   aggiungerebbe  niente  su   di  ciò  alla    forza dell'  argomento    fisico-teologico.    In  quanto   all'  infinità degli  attributi  divini  in  generale,  è  impossibile  di  con- cluderla partendo  dal  mondo,   perchè  per  ispiegare  un effetto  si  deve  assegnare  una  causa   proporzionata,   in altri  termini  non  si  deve  attribuire  a  questa  causa  niente di  più  di  quanto  richiede    V  effetto  :    ora  il  mondo  non ci  mostra  che  degli  effetti  limitati,  imperfetti  ;    non    si ha  dunque  alcuna  ragione   di    concluderne   una    causa infinita,  assolutamente  perfetta.  Dall'ordine,  dalla  fina- lità e  dalla  grandezza  che  troviamo  nel  mondo  possiamo concluderne  una  causa  saggia,   buona,   possente,  ecc., ma  non  infinitamente  saggia,  infinitamente  buona,    in-finitamente possente,  ecc.  Per  affermare  che    il    mondo suppone  un  Dio  dotato  di    questi   ultimi  attributi,  cioè un    essere    infinito,    perfettissimo,    come    suo    autore, bisognerebbe  che  noi  conoscessimo   che    questo    mondo è  il  più  grande*,  di  tutti  gli  effetti  possibili,  in  altri  ter- mini che  esso  è  il  più  perfetto  di  tutti  i    mondi    possi- bili. Ciò  importerebbe  che  noi  avessimo  comparato  que- sto mondo  con  tutti  i  mondi  possibili,  e  per  conseguenza che  conoscessimo  tutti  questi  mondi  possibili,  cioè   che (1)  Kant  Dialett.  traseendent.  l.  2.  e.   3.    sez.    6.    Cfr.    Mill Samrio  sul  teismo,  2.  parte  Gli  attributi,  e  1.  parte  Argom.  della causa  prima. 142  — -  u: o avessimo  J'  oniiiscieiiza  (1).  La  verità  di  queste  ol)])ie- zioiii  di  Hiiiiie  e  di  Kant  contro  la  creazione  e  1'  inli nità  degli  attributi  divini  é  stata  riconosciuta  anche dai  filosofi  spiritualisti  (2)  :  essi  ne  hanno  concluso  che le  prove  induttive  sono  insutihcienti  per  dimostrare  la divinità,  e  che  la  dimostrazioiu'  deve  essere  completata per  altri  argomenti  (iiuesti  sarel)l)ero  gli  argomenti  a priori  ;  noi  abbiamo  visto  (;i)  che  la  teologia  naturale non  può  fondarsi  su  (piesto  genere  di  prove).  La  dot- trina delP  infinità  degli  attril)uti  di  Dio  non  solo  non risulta  dnll'osservazione  del  mondo,  ma  è  anche  incom- patibile coi  suoi  dati  più  evidenti.  P^ssn  lia  dato  luoo«o al  problema  insoliil)ile  di  conciliare  l'esistenza  del  male con  la  bontà  e  la  })Otenza  infinite  del  Creatore.  Ha  Dio la  volontà  d'impcnlire  il  male,  senza  averne  il  })otere? egli  dunque  non  è  onnipotente.  Ha  il  [)otere  senza  averne la  volontà?  dun(jue  manca  di  bontà.  Gli  sforzi  che  si sono  fatti  per  risolvere  questo  problema,  non  implicano solamente,  diceMill,  un'assoluta  contraddizione  al  imnto di  vista  intellettuale,  essi  ci  offrono  con  eccesso  lo  spet- tacolo rivoltante  d'una  difesa  gesuitica  di  mostruosità morali  »  (4).  Tutti  gli  argomenti  degli  a])ologisti  delle perfezioni  infinite  di  Dio  si  riducono  in  sostanza  o  a sacrificare  1'  onnipotenza  per  salvare  la  bontà  infinita, 0  a  sacrificare  la  bontà  infinita  per  salvare  l'onnipo- tenza. Ora  si  suppongono  delle  possibilità  e    delle    im- (1)  Huinc  Sayyio  11.  o,  Dittloy/ii  $nUa  relig.  ndturale  \  \n\vU^,e  Kant  Crit.  della  ray.  pura  Dialctt.  trascend.  1.  2.  e.  S.  sex.  (>. e  7.  e  Orit.  della  ray.  pratira  ijarte,  L,   1.  2.  e.  2.  VII. (2)  \.  .laiict  Le  cause  ptutìi,  p;i«^.    144-14;"), (3)  Paragr.  4. (4)  Saggio  sul  teismo,  2.  parte.  Gli  attributi.  Vedi  aiiclu'  Arili il  sa<;oi(»  La  statura  e  Hunic  i  Dialoghi  sulla  relig.  naturale parte  X  <•   XI. possibilità  indipendenti  dal  [)otere  divino,  delle  neces- sità a  cui  il  creatore  non  |)oteva  sottrarsi.  E  una  rinun- zia implicita  all'onnipotenza,  perchè    V  im})ossibile    per un  onnipotente  non  può  significare  che  V  inimmagina- bile, e  il  necessario  ciò  il  cui  contrario  è  inimmagina- bile,    ma  non  vi  ha  alcuna  legge  del  reale    (compresa questa  stessa  che  il  reale  è   sottomesso    a    delle    leggi) che  sia  necessaria  o  impossibile  in  (juesto  senso,  per  la semplice  ragione  che  le  leggi  del  reale    non    sono    che delle  sequenze  e  delle  coesistenze,  e  la  negativa  di  una sequenza  o  di  una  coesistenza  è  sempre  inuiiaginabile. Altre  volte  si  riconosce  che  Dio  avrebbe  i)0tuto   creare un  mondo  es(Mite  dal  male  fisico,  cioè  dal  dolore,  (»  dal male  morale,  ma  si  j)arla  di  altri  beni,  di  altri  tini  del creatore,  che  sarebbero  stati  incompatibili  con  la  esen- zione da  questi  mali,  p.  e.  dell'  ordine  e  dell'  armonia del  mondo,  necessari  alla  sua  ])erfezion(;.    Allora  è    la bontà  infinita  che  viene  sacrificata  all'onnipotenza  (sui)- posto  che  un'incompatibilità  di  tini  non  sia  in  contrad- dizione con  l'onnipotenza  stessa).  La  natura  umaìia  non sarà  mai  capace  di  concepire  un  bene  che  non  si  risolva in  soddisfazioni  per  qualcuno.    Questo  ])reteso  bene  me- tafisìco,  cioè  la  perfezione  del  mondo,  a  cui  il  bene  fi- sico e  il  bene  morale  vengono  sacrificati,    se  non  con- siste in  soddisfazioni  per  le  creature,  consisterà  dunque in  una  soddisfazione  per  il  creatore;  ciò  che  implica  che questo,  infliggendo  a  quelle  il  male  fisico  e  il  male  mo- rale, le  ha  sacrificato  alla  sua  soddisfazione  personale, e  per  conseguenza  (per  non  dire  altro)  che  la  sua  bontà none    infinita.    L'attributo    dell'onnipotenza    presenta anche  altre  difficoltà  indi})endenti  dal  problema  dell'ori- o-ine  del  male.  Sembra  che  l'idea  di  un  essere  onnipo- tente  sia  incompatibile  con  (juella  di  un  essere  che  preor- dina dei  mezzi  ad  un  fine,  sicché  (|uest'attributo,  lungi di  concludersi  dalle    ]>rove    della    filosofia   teologica,  è 144  — —  145 escluso  anzi  dalla  principale  di  queste  prove,  cioè  quella delle  cause  finali.  Lo  stesso  Paley,  in  ammirazione  d'in- nanzi alla  struttura  sapiente  dell'  occhio,  non  può  im- pedirsi di  farsi  questa  domanda  naturale:    Perchè  l'in- ventore di  questa  meravioliosa  macchina  (che   è    onni- potente) non  ha  dato  agli  animali  la  facoltà  di    vedere senza  impieg'are.  questa  complicazione  di  mezzi  V  (1)    E un  punto  su  cui    ha    insistito    particolarmente    il    xMill. «Non  (\  egli  dice,  andare  tro[)po  lungi  dire  che    ogni indicazione  di  piano   nel  cosmos    è    una    prova    contro Tonnipotenza  dell'essere  che  ha  concepito  il    piano.   In effetto,  che  s'intende  per  piano?  L'invenzione:  Tadat- tazione  di  mezzi  ad  un  fine.   Ma  la   necessità    d'  essere abile,  d'impiegare  dei  mezzi,  è  una  conseguenza   della limitazione  della  potenza.  Perchè  ricorrere  a  dei  mezzi quando  per  ottenere  lo  scopo  non  si  ha  che  a  parlare?.... Quale  saggezza  si  troverà  nella  scelta  dei  mezzi,  quando i  mezzi  non  hanno  altra  efficacia  che  quella  che  tengono dalla  volontà  di  quello  che  li  impiega,  e  quando  la  sua volontà  avrebbe  potuto  dotare  altri   mezzi  della    stessa efficacia?....  Dunque  le  prove  della    teologia    naturale implicano  nettamente  che  l'autore  del  cosmos,    quando ha  fatto  la  sua  opera,  subiva  una  limitazione,  ch'egli era  obbligato  di  piegarsi  a  delle  condizioni  indipendenti dalla  sua  volontà,  e  di  giungere  ai  suoi  fini  per  delle disposizioni  che  queste  condizioni  comportavano  >  (2).  In verità  potrebbe  dirsi  contro  il  ragionamento  di  Mill  che lo  scopo  del  Creatore  non  era  l'utilità,  il  risultato,  del- l' opera,  ma  1'  opera  stessa  ;  che  il  bene  dell'  universo, l'oggetto  ricercato  nella  creazione,  non  sono  i  fini  a  cui le  cose  sono  adattate,  ma  1'  adattamento   stesso,    cioè delle  cose  in  cui  vi   ha  della  finalità,  che  manifestano (1)  Paloy   Teolor/ia  naturale,  cap.   II. 2)  Saggio  snl  teismo,   2.   i>arte. un   piano,  una  coordinazione  ingegnosa  di  mezzi  ad  un fine.  Dio,  secondo  questo  punto  di  vistM.  avrebbe  fatto l'arte  per  l'arte;    san  bbe  la  spiegazione    estetica    della creazione;  Dio,    come  dice  Eraclito,   giocherebbe  crean- do   il    mondo.     Ma    è    (evidente    che    1'  umanità,    presa in    massa,     non    accetterebbe    una    tale     spiegazione  : essa    non     i)otrebbe    vedervi    che    un'  ironia    verso    la creazione    e    verso    il    creatore.    Se    1' accettasse,  alla difficoltà  evitata  ne  subentrerebbe  un'altra,    perchè   un Dio,    per    cui    la    creazione  '  non  fosse  che  un    giuoco, l'uomo  non  lo  troverebbe  ne  saggio  né  adorabile,  e  non lo  chiamerebbe  che  per  un'altra  contraddizione  V  essere perfettissimo.  Fra  tutti  gli  attributi    infiniti    della    divi- nità,  oltre  all'eternità  (che,  almeno  in  (juanto   eternità ab  ante,  è  una  conseguenza  logica  del  concetto  di  causa prima),  non  ve  ne  ha  forse  che  un  altro  che  possa  riat- taccarsi alle  ragioni   della    filosofia    teologica,    cioè    la saggezza  assoluta  (in  cui   possiamo  comprendere  anche ronniscienza).  Essa  non  è  richiesta  da  una  s[)iegazione teleologica  del  mondo,    ma    è    una    condizione    perchè questa  spiegazione  sia  conjpleta  ed  esauriente,  poiché  è chiaro  che  non  ])otrebbe  essere  tale  che  nella    suj)iìosi- zione  che  i  nuv/zi  impiegati  siano  assolatamente    i     più idonei  ad  ottenere  gli  scopi.  L'attributo  di  cui  possiamo renderci  conto  il   meno  di  tutti,  al  punto  di  vista  della teologia  naturale,  è  l'onnipotenza:  per  vedere  che  que- st'attributo non  può  avere  alcun  rapporto  con  una  spie- gazione qualsiasi  dei  fenomeni  (e   quindi    alcuna    base filosofica),  basta  di  riflettere  che  ad  una  causa  supposta, perchè  la  supposizione  abbia  un  valore  esplicativo  qua- lunque,  bisogna  attribuire  dei  modi  d'  azione   definiti, quelli  che  noi  comprendiamo,    e    che  per  conseguenza possono  farci  comprendere  il  perchè  dei    fenomeni    che si  tratta  di  spiegare.  Ora  evidentemente   noi    non    pos- sianìo  comprendere  un  modo  d'  azione  di   cui    non    ab- 10 —  146 —  147 bituno  esperienza  o  che  non  imniaginiamo   sui    tipo    di ciò  di  cui  abbiamo  esperienza  :  cosi  ad  nna  causa  per- sonale noi  non  possiamo  attribuire  (per  ispiegare   i   fe- nomeni) che  razione  motrice,  mentre  la  teologia    tra- scendentale le  aitribuisce  indistintamente  tutti    i    modi d'azione  concepibili    ed    anche    inconcepibili.    Se    nelle prove  su  cui  è  fondata  la    teologia    naturale    non    tro- viamo alcuna  base  per  l'infinità  degli  attributi    divini, è  invano  che  ricorreromiiio,  per    supplire  a    questo    di- fetto,  alle  altre  prove  della  divinitcà  che,    senza  essere dei  motivi  reali  della  filosofìa  teologica,    sono  tuttavia qnalche  cosa  di  più  che  semplici  sofismi  artificiali.  L'ar- o-omento  della  causa  prima,  quand'anche  se  ne  conclu- desse  la  creazione  dal  niente,  non  potrebbe  servire  di  base alTonnipotenza—  perchè  una  potenza  che  produce  degli effetti  che  nessuna  causa  naturale    potrebbe    produrre, non  è  necessariamente  una   potenza  illimitata  — ;   meno ancora  ìUT  onniscienza,  alla  bontà    infinita,   ecc.,    che non  hanno  il  minimo  rapporto  con  la  capacità  di    pro- darre anchv3  la  materia.    L'argomento  cosmologico  può riguardarsi  come  un  argomento  iialiirale,    sinché  con- clude all'esistenza  di  un  essere  necessario,  quantunque per  dimostrare  che  quest'essere  necessario  è  un  essere personale,  uon  possa  servirsi  che  di  sofismi    artificiali. Si  potrebbe  per  conseguenza  credere  di  trovare  un  fon- damento naturale  all'idea  di  essere  infinito  o  assoluto, se  quest'idea  avesse  qualche  legame  con  quella  di  essere necessario.  Ma  non  possiamo  ammettere    la    possibilità di  alcun  legame  simile,  poiché  in  tal  caso  l'  essere  in- finito sarebbe  dimostrabile  a  priori    (poiché   un    essere necessario  è  quello  la  cui  esistenza  potrebbe  dimostrarsi a  priori)  (1),  mentre  noi  sappiamo  che  non  vi  ha  alcuna (1)  V.  ^   L  la  nota  a  pag.  118.  Cfr.  pag.  113. dimostrazione  a  priori   dell'esistente  (1).    Kant  afferma, è  vero,  che  il  passaggio  dall'  idea  di  essere  necessario a  quella  di  essere  infinito  è  naturale  al  nostro    spirito, (juantunque  non  vi  sia   fra  le    due    idee    alcun    legame reale:  ma  in  questo  caso  la  proposizione  Vessere  neces- sario h  un  essere  infinito    dovrebbe    sembrarci    evidente per  se  stessa  (perché  ipiesto  è  il    carattere    dei    sofismi naturali),  mentre  gli  autori  stessi  che  hanno  impiegato r  argomento    cosmologico    non  hanno  preteso  che    e^^sa sia  tale,   ma  hanno  cercato  di  dimostrarla.  Tutte  le  altre prove  della  divinità,  oltre  le  indicate,  non  essendo  che dei  sofismi  interamente  artificiali,  noi  giungiamo  dun- <jue  forzatamente  a  (juesta  conclusione:   che  la  filosofìa teolóuica,  come  fìlosofia,  cioè  come  dottrina  che  ha  ])er iscopo  l'intelligenza  dei  fenomeni,  non  ha  alcuna  base pel  concetto  dell'essere  infinito  o  assoluto;    che  (luestoconcetto,  in  qualche  modo,  no!i  fa  parte  di  questa  filo sofia  ;    e  che  esso  é,    al   punto  di  vista  filosofico,    cioè puramente  teorico,  assolutamente    inesplicabile.  Questa conclusione  parrà  a  ìnolti  un  paradosso,    o  an.*he  una confessione  dell'  impotenza  del  nostro  metodo  :    ma  noi non  dobbiamo  dissimulare  le  conseguenze   delle    nostre prenìesse. Vi  sono  degli  autori  i  quali  suppongono  che  l'idea dell'essere  infinito  o  assoluto  sia  così  naturale  allo  spi- rito umano  come  le  più  semplici  verità  sulle  grandezze e  sui  numeri.  Essa  sarebbe,  secondo  gli  uni,  un  dato immediato  della  coscienza,  un  patrimonio  originario  del nostro  spirito;  secondo  altri  noi  conosceremmo  l'esistenza dell'essere  infinito  per  un  ragionamento  che  ha  la  sem- plicità e  l'evidenza  intuitiva  d'un  assioma,  sia  deducen- dola immediatamente  dall'  esistenza  del  finito,  sia  ve- dendo (ciò  a  cui  basta  pure  un  semplice  sguardo  dello a)  V.  il  Saggio   1.  spirito)  che  essa  è  racchiusa  neiridea  stessa  dell'essere iuhMito.  A  (luesti    autori    dobbiamo    ao<>iungere    anche Kant,  secondo  cui  l'idea  deire??.s  realissimuìtì  (cioè  del- l' essere    che  racchiude  oo*ni    realtà,    ooui    perfezione). (juantiuKiue  ci  sia  impossibile  di  dimostrarne  il    valore obbiettivo,  è  data  nella  costitu/.ione    stessa  del    nostro spirito,  come  un  prodotto  spontaneo  delle    legM^i    della ra^'ione,     derivante  necessariamente  dalla  sua  t'orma  e indipendente  da  oo*ni  esperienza.  Ma  il  tatto   prova  che l'idea  dell'essere  infinito  —  cioè,  in  termini  meno  astratti, di  Dio  come  dotato  di   perfezioni  intinite  —  luno-ì  di  es- sere un'idea  innata,  o    una    di  (luelle    a  cui    lo  spirito umano  è  portato  naturalmente  e,  per  dir  così,  di  primo acchito  .    non  è    che  il  termine  di  arrivo  di    un    lun^o pro^Tesso,    i  cui   ^radi  sono  seg-nati    nella    storia    reli- o'iosa  dell'umanità,  e  che  è  consistito  in  un'esaltazione continua  del  concetto  del   divino,   che  andando  da  una sublimità  a  un'altra    più  sublime,    e    accumulando  su- j)erlativi   su   superlativi,   non   ha  trovato  inhne  un  punto di  fermata,  che  perchè  sarebbe  assolutamente    impossi- bile all'immaoinazione  umana  di    oltrepassarlo.    Anche (juando  il  su[)erlativo  influito  apparisce   nell'evoluzione delle  idee  reli<i-iose,   non  |ìerciò  tutti  .i^li  attribuii    della divinità  ven^i4'ono  elevati   in  un  colpo   all'  intìnito.    Non biso.i4'na  credere  che  l'uomo  è  partito  dall'idea  oenorah» che  Dio  è  l'intìnito  o  l'assoluto,  e  quindi  ne  ha  dedotto ch'eg-li  dev'essere  onnisciente,  onnipotente,  onnipresen- te, ecc.  :  al  contrario,  dopo  aver  spinto,  l'una  dopo  l'al- tra,    le  perfezioni  di  cui  aveva  dotato    la    divinità,  al g-rado  più  superlativo  possibile,    cioè  all'  infinito  o  al- l'assoluto, egli  trovò,  generalizzando,    che  tutti  gli  at- tributi di  Dio  sono  infiniti  o  assoluti,    e  compendiò  in- fine questa    proposizione    nella    foriìiula    astratta    della filosofia  teologica   moderna  che  Dio  è  1'  infinito  o  1'  as- soluto. I  Greci,  anche  nel  pieno  sviluppo  della  loro  me- tafisica, sono  cos'i  lontani  dall'identitìcare  Dio  con  l'in- finito, che  secondo  i   loro  ^Josoti  l'infinito  è  il  principio che  essi  oppongono  alla  divinità,  cioè  la  materia.  D'al- tronde il  concetto  di   Dio  come  infinito  o  assoluto,  preso rigorosamente,  è  incompatibile  col  politeismo  —  a  meno che  non  si  attribuisca  a  una  divinità  suprema    un    po- tere illimitato  su  tutte  le  altre,    nel    qual    caso   non  si avrebbe  in  realtà  che  una  dottrina   monoteista-perche la  potenza  della  divinità   suprema    troverebbe    necessa- riamente un  limite  nell'indipendenza,    qualunque  essa fosse,  anche  nel  loro  semplice  esistere,  che  si    accorde- rebbe alle  altre.  Tuttavia  noi  troviamo  nei  Greci  Zeus l'ottimo,   il  grandissimo,  l'altissimo,  oniìiveggente,  on- nipresente ed  anche  onnipotente  —  quantun(iue   T  onni- potenza,  ili  un  senso  rigoroso,  sia  incouìpatibile,    come aì^binm^  osservato,    con    un    sistemai   poVaelsta    -.  Zeus certamente  non  si  è  e'evat  >  die    gradatnm-n-e    d:d    li- vello del  qro^Holmio  (per  usare  la   parola    ricevuta)    an- tropomoriismo  dei  popoli  primitivi,  come  basta  a    pro- varlo la  contraddizione  tra  ((uesti  attributi  e  qtu^lh  che eo-li  ci  mostra  in  azione   nei    miti    che    lo    riguardano. Nel   dualismo   persiano  abbiamo  Ormuzd,  //  HÌ(jnore   on- rmcimìU,  quantun(iue  egli   non  sia  il   primo    principio, e  la  limitazione  della  sua   potenza  per  una  potenza  an- ta-onista  sia  il  tratto  caratteristico    di    questo    sistema teolo-ieo;  e  un  antico  inno    vedico    attribuisce    1' onni- vegii-enza  e  V  onnipresenza  a  Varuna,     che   non  è  che unTdelle  divinità  che  hanno  acquistato    un    posto    i)iu elevato  tra  o-H  esseri  sovrumani  degli  antichi  Arii  del- l'India (li.   Presso  i  Greci  l'eternità  o   almeno  l'immor- talità-che  è   verisimilmente    il    primo    degli    attributi (1)  V  Ahix-Miiller  Ln  scìntzn  dello  reliulone,  IV.  Cfr.  Go- l>let  d'Alviella  IM'ien  dì  Pio  wr.  <•.  3.  ^  2.  Le  società  diclne dciiV  fiido-Euì'Oiìvi. '•     N —  150  - infiniti  di  cui  1'  uomo  abbia  rivestito  gii  esseri  sovran- naturali —  è  o.ià  il  carattere    distintivo    della    divinità, prima  che  essi    avessero    oltrepassato    le    idee    infantili deirantropomortìsmo  primitivo.  Alcuni    di    questi    attri- buti che  per  noi  costituiscono  il  concetto  di  Dio  o  r],]- Tassoiuto,  sono  stati  anche   dati  a  persoungoi^  ^.\^^,1011 sono  stati  rio-uardati,  non  solo  come  Tassoluto,  ma  nem- meno come  divinità,    (juantunque  dotati  di   i)oteri    so- prannaturali.   Così    r  onniscienza  è  attribuita  a  Budda dai  suoi  seg'uaci  anche  durante  la  sua  vita;  e  del  resto essa  è  una  prerogativa  che  i  sistemi  teologici  e   filoso- fici indiani  accordano  in  g-enerale  all'uomo //6^yv/Vo  (fra altri  poteri  trascendenti,    di  cui  alcuni  simili    ad    altri attributi  infìnifi  della  divinità,    p.  e.  la  volontà  irresi- stibile)    1).    Anche  (piando,  nel   mondo  antico,  nasce  il concetto  deir  assoluto,    per    un'elaborazione   metafisica delle  idee  della  relig-ione  i)opolare,  ((uesf  assoluto    non è  ancora  quello  della  filosofia  teologica  modc^-na.  Hrah- ma,  che  è  certamente  (a  parte  il    Dio    del    monoteismo g-iudaico-cristiano),    la  j)iii  assoluta  fra  le    divinità    del mondo  antico,  manca,  se  non  di  altro,   della  causalità infinita:  egli  è  il  creatore  di  tutti  gli  esseri,    nia    non li  ha  creato  dal  niente  ((iuantun(iue,    del   resto,    abbia ronnìpotenza,  T  onniscienza,    V  immensità.    V  ubitjuità, ecc.,  e  in  una  parola  (piasi  tutti  g'ii  attributi    del    Dio del  cristianesimo    e    del    deismo    moderno).   (Hi    Stoici, evidentemente  sotto  Tintiuenza  dello  stesso  motivo,  cioè di  elevare  l'idea  del  divino  sino  al   punto  a  cui  l'imma- ginazione umana  piu)  giung-ere,  svilupparono  il  concetto dell'assoluto  in  un  altro  senso  che  la  filosofìa  teoh^gica moderna  :  Dio  essendo  per  loro  il  mondo,    è  di  questo che  fecero  l'essere  perfettissimo,  dichiarando  che,  fra U)  V.   Coleln-ooke  Smjyio  sulla  Filos.  de{/V  Indiani,    tv.ìdnz. dì  Pauthici-  i)a,u.  M2-S8.    19H-19S.   244,  2n7,  27H. 151 tutti  gli  attributi  possibili,  esso  possiede  tutti  quelli  che vale  meglio  avere  che  non  avere,  e  che  è  la  migliore, la  più  eccellente  e  la  più  bella  di  tutte  le  cose  che  esi- stono e  che  possono  concepirsi  (1). Questa  elevazione  continua  del  concetto  del  divino, che  è  uno  dei  lati  più  facili  ad  osservare   della    evolu- zione delle  idee  religiose,  risulta,  come  abbiamo  notato, da  due  principii  direttivi  :  l'uno  che  non  bisogna  dare alla  divinità  che  quelli  fra  gli  attributi    umani    che    si giudicano  delle  perfezioni,  o,  come  dice  Locke,  (Quelle qualità  che  è  più  vantaggioso  di  avere  che  di  non  avere; e  r  altro  che  di  questi  attributi  0  qualità  bisogna    for- marsi la  più  alta  idea  possibile,  ciò  che  conduce,  i)resto 0  tardi,  al  concetto  della  loro  infinità.  Avendo  visto  che il  secondo  dei  due  principii,    nella  sua  forma  più  con- seguente, cioè  il  concetto  che  Dio  è  l'infinito,  non  pu(') fondarsi  sulle  basi  teoriche  della  filosofia  teologica,  resta a  domandarci  se  il  i)rimo  almeno  lo  può.  Essendo    evi- dente che  la  divinità,    come    principio    esplicativo    dai fenomeni,  deve  dotarsi  d'un'intelligenza  e  d'una  potenza incomparabilmente  superiori  alle   umane,    se    non  infi- nite, la  quistione  è  se,  in  virtù  dei  principii  della  filo- sofìa teologica,    come  pura  speculazione,    l'uomo  può attribuirle  pure  le  altre  qualità  ch'egli    loda    nei    suoi simili,  quali  sono  le  qualità  morali.  Anche  (ini  la  nostra risposta  non  può  essere  che  negativa.  La  natura,    am- mettendo che  essa  provi  l'esistenza  di  uno  o  i)iù  esseri divini,  non  presenta  alcun  indizio   per    attribuire    loro la  bontà    piuttosto    che    la    malvagità    o    1'  indifferenza morale.   «  Al  fondo,  dice  Mill  .  pressoché  tutto   ciò    che fa  condannare  gli  uomini  a  morte  0  alla    prigione,    lo ritroviamo  negli  atti  della  natura Tutto  ciò    che    si detesta  abitualmente  quando  si    parla    del    disordine    e (1)   V.   Oo-ercau  Sisfema  filos.  defili  Stoici,   [la.iz;.   ^^i-^}:^. 152 delle  sue  conseguenze,  è  precisamente  una  sorta  di   ri- scontro delle  vie  della  natura.  Non  vi  ha  anarchia,  non reg'inie  di  terrore,  che  non  siano  sorpassati,  al    triplice punto  di  vista  delTingiustizia,  delle  rovine  e  della  morte, da  un  uragano  o  un'epidemia»  (1).  La  bontà  della    di- vinità,   se  ve  ne  ha  «jualche  traccia  nella  natura,   non potrebbe  cercarsi  che    ihm    segni    di    i)iano    che    questa seml)ra   mostrarci,  e  propriamente,  la  bontà  non  poten- do riferirsi  che  agli  esseri  senzienti,    di    questa    parte del   piano  che  è  relativo  a  (juesti  esseri.  Ciò  vuol  dire, in  altri  termini,  che  deve  cercarsi  negli  adattamenti  che si  osservano  nell'  organizzazione    degli    esseri    viveiui, e  in  quelli  del   momlo   esteriore^    a    questi    esseri    stessi (supponendo,  come  fanno  i  teleologisti,  che    non  sono o'ii  ora*anismi  che   si  sono  adattati  all'  ambiente,.  ma  è ([Uesto  che  è  stato  adattato    ad    essi).    Ma    tutti    (]uesti adattamenti  oon  tendono  che  alla  conservazione  degl'in- dividui o  delle  specie  :    gli  stessi  teleologisti,  che  pre- tendono fondare  la  loro  dottrina  sui  risultati  degli  studi biologici,  sarebbero  sor[)resi  di  trovare  un  adattamento, o  il   [ìerfezionam'ento  di  un  adattamento  già  noto,    che non  mirasse  a  rendere  j)Ossibile  o  a  facilitare    l'  uno  o l'altro  di  quc^sti    du  '    s.' )p'.    Dìì^]:\    t?l  oologia    che    egli osserva  nei>*li  esseri  organizzati  .    e  nel    resto  della  na- tura  nei  suoi  rapporti  con    essi,    T  uomo    può    dunque concluderne  un  creatore,  che  abì)ia  per  iscopo  l'esisten- za e  la  durata  i)er  un  certo  tempo  di  (juesti  esseri,  ma non   che  questo  creatore  sia  buono;  perciò  dovrebbe  at- tril)uirgli   j)er  iscopo,     non    la    loro  semplice  esistenza, ma  la  loro   felicità  o  la  loro  virtù  o  qualsiasi  altro  og- getto, se  ve  ne  ha,   in  cui  gli  uomini  hanno  fatto  con- sistere il  bene.   E    vero    certamente    che    è    una    conse- •  o-uenza    naturale    dell'amore    istintivo    della    vita    che l'uomo  consideri  la  propria  esistenza  e  quella  dei  suoi (1)  Suf/i/i  snìlti  re/if/ionc.    La  iiatìn-a. 153  — simili  come  un  bene  per  se    stessa.    Ma    non    è    ugual- mente certo  ch'egli  consideri  come  tale  anche  l'esistenza d(M  bruti   ^ciò  che  sarebbe  necessario  perchè    l'  idea    di un  creatiu-e  buono  potesse  essere  suggerita  dalla    fina- lità degli  esseri   organizzati).  (,)uest'esistenza,  piuttosto, deve  sembrare  alla  più  parte  degli    uomini,    non    solo senza   valore,    ma  odiosa  e  miserabile»,   niente  essendo più  naturale  che  1'  illusione  di  giudicare    un    modo    di esistenza  felice  o   infelice  secondo  che  esso  sarebbe  per noi  stessi  un  oggetto  di  desiderio  o  di  avversione.  Un'os- servazioiui  che  non  poteva  sfuggire  ai ì)rimi  filosofi  teo- loo'ic-i   la  cui  attenzione  si  fissò  sui  segni  di  i)iano  negli esseri  organizzati,  è  che  una  parte  di  questo  piano    è destinata  alla   lotta  e  alla  distruzione  reciproca.  La  sa- pienza della  natura  nel!"  organizzazione  d'un    animale che  lo  rende  pro])rio  al   regin\e  carnivoro,    non  è  meno ammirabile  che  in  ipiella  dell'  occhio  o  dell'  orecchio    o di  (lualsiasi  altro  degli  esempi  favoriti  dei  teleologisti. .Se  o-rintestini  d'un  animale,  dice  Cuvier,  sono  organiz- zati  hi  maniera  da  non  digerire  che  della  carne  e  della carne  recente,  bisogna  pure  che  le  sue  urnscelle   siano costruite  per  divorare  una    preda  ;    le    su(>    zampe    per prtmderla  e  Incerarla:   i  suoi  denti   per  tagliarla  e  divi- derla; il  sistema  intero  dei  suoi  organi  del    movimento per  cacciarla  e  raggiungerla  :    i  suoi  organi   dei    sensi per  vederla  da  lontano  ;    bisogna    anche  che  la  natura abbia  posto  nel  suo  cervello  l'istinto  necessario  per  sa- per nascondersi    e    tcMulere    delle    pieghe    alle    sue    vit- tinie Sotto  iiueste  condizioni  generali  ne  esistono  di particolari  relative  alla  grandezza,  alla  specie,  al  sog- giorno della  preda,  per  cui  l'animale  è  disposto  ;  e  da ciascuna  di  (pieste  condizioni  particolari  risultano  delle modificazioni  di  dettaglio  nelle  forme  che  derivano  dalle condizioni  generali»  (l).  Cuvier  continua  mostrando  gli ^l)h^xalU'  ricolnz.   tirila  super/.  (h'I  f/Ioho.  (  Pi-iiicipio  ilcllji ileteniiiuazioiM-  delle  ossa   fossili  dvì  quadriiiuMli). -  154  —  ' adattaniemi  infiniti  in  tutte  le  parti  dell'organismo,  che sono  richiesti  da  queste    condizioni    del    regime    carni- voro. Non  sarebbe  una    delle    applicazioni    meno    forti dell' arg-omento  fisico-teolog'ico  :    ma  (lual    è  lo  scopo  di tutto  ciò  se  non  di  fare  dell'animale  un  predone^  feroce e  sang-uinario?  L'idea  del   «padre  che  è  nei  cieli  »   non è,  evidentemente,  sugg-erita  dallo  spettacolo  della  natura organizzata:  non  sarebbe    chiamato    uu    padr.),    senza aggiungere  dei  termini  della  più  profonda  riprovazione,un  uomo  che  armasse  i  suoi    figli    gli    uni    contro    gli altri,  ordinando  loro  di  farsi  una  guerra  senza  pietà,  e mettendolo  come  condizione  alla  loro  esistenza.  Se  dal- l'organizzazione degli  esseri  animati  si  volesse  conclu- dere, non  solo  un   piano  intelligente,    ma  anche  un'in- tenzione benevola  .  sembra  che   dovrebbe  giungersi    al concetto  —  che  tuttavia  non  si  trova    in    alcun    sistema teologico,    ne  popolare  né  filosofico  —  di  un  creatore  e una  provvidenza  differenti  per  ciascuna  specie  differen-te :  il  dio  del  gatto  non  potrebbe  esserci  quello  del  topo, il  dio  del  lupo  quello  dell'agnello,  ecc.    L' antropocen- trismo, cioè  il  considerare  che  fa  Tu  .ino  sé  stesso  come il  fine  della  creazione,  lungi  di  potere  spiegare   1'  idea della  bontà  del  creatore,  ha  bisogno  invece   di    esserne spiegato,  perchè  è  un  punto  di  vista  che.  evidentemente, non  potrebbe  nascere  dalla    semplice    osservazione    dei fenomeni.   Il  Miil  (i),  quantunque  non  ammetta  che  l'u- nico o  principale  scopo  del  creatore  abbia  potuto  essere la  felicità  dell'uomo  e  degli  altri  esseri  viventi,    pensa non  per  tanto  che  un  indizio  delle  sue  intenzioni  bene- vole pare  essere  fornito  dal  fatto  che  il  i)iacere    «  sem- bra il  risultato    del    giuoco    normale    del    meccanismo, mentre  la  pena  nasce  naturalmente    dall'intervento    di qualche  oggetto  esteriore  nel  giuoco  del  meccanismo,  e (1)  Sdf/uio  ani  teismo,  (ili   jittrilmti. 155  - sembra  essere,  in  ciascun  caso  particolare,  l'effetto  d'un accidente».  Ciò  mostrerebbe  che  l'autore  del  meccani- smo ha  voluto  il  piacere  delle  sue  creature,  mentre  la pena  non  entrerebbe  nel  suo  piano,  ma  sarebbe  un  ri- sultato fortuito  prodotto  senza  mezzi  im|)iegati  apposi- tamente e  senza  intenzione  (1).  Ma  contro  questa  con- clusione vi  ha  un'obbiezione  assai  ovvia  (che  del  resto non  è  sfuggita  allo  stesso  Mill),  cioè  che  il  piacere  e la  sofferenza  stessi  sono  dei  mezzi  in  vista  dello  scopo unico  che  ci  sia  possibile  di  attribuire  alla  natura,  la conservazione  dell'individuo  e  della  specie.  E  evidente infatti  che  se  il  piacere  non  fosse  legato  alle  azioni  che tendono  a  conservare  l'organismo,  ma  a  quelle  che  ten- dono a  distruggerlo,  siccome  è  una  legge  naturale  degli esseri  senzienti  di  cercare  il  jjiacere  e  di  fuggire  la  sof- ferenza,  essi  cercherebl)ero  sistematicamente,  n.on  gli stati  che  tendono  a  conservarli,  nia  quelli  che  teiulono a  distruggerli,  e,  per  conseguenza,  la  loro  specie non  potrebbe  sussistere,  (^uest'  obbiezione,  è  vero, suppone  che  questa  legge  per  cui  gli  esseri  sen- zienti cercano  il  i)iacere  e  fuggono  la  sofferenza,  sia un  fatto  necessario  e  indipendente  dalla  volontà  del creatore,  mentre  invece  potrebbe  ammettersi  che  è  an- ch' essa  un  caso  di  finalità,    un  adattamento  per  cui   i (!)  Il  Mill  inaici!  pure  altri  fatti  c-lio  sun«;<'rii*cl)ber(>  V'uWtì. che  il  creatore  ha  voluto  il  piacere  dvUv  creature,  cioi'  :  che «press(»chc  tutte  le  cose  danne»  del  ]uacer','  «l'una  specie  o  d'un'al- tra»;  che  «il  semplice  eser<'i/io  delle  l'acidtà  tisiche  e  nicinali è  una  sor<;ente  «li  piacere  che  n<Hi  si  esaurisce  mai  »;  e  <he  «le cose  stesse  ju-ocurano del  jùacere  in  «luauto  soddisfano  la  curio- sità e  danno  il  sentim(^nto  sì  gradevole  dell'ac^iuisto  <lella  coiio- sceuza  ».  Ma  '  evidente  che  ([uesti  tatti  nmi  sono  <'1h'  d<*i  casi del  fatt(»  licnerale  (he  ci  siamo  limitati  a  nuìuzionare  nel  testo, cioè  il  let-ame  tra  il  piacere  e  l'esercizio  luuniale  delle  funzioni <lell'on;anismo. —  156  - desideri  e  le  avversioni  de/li  esseri  senzienti  veng-ono diretti  al  risultato  di  ottenere  la  più  gran  somma  di st/iti  tendenti  alla  eonservr..done  dell'  or;ianisnio  e  pia- cevoli. Ma,  qualiui'iue  sia  il  valore  dell' obbiezione  in se  stessa,  essa  vale  al  punto  di  vista  del  filosofo  teolo- g'ieo  :  questi  diffieilnuMite  eerchereblx^  di  sj)ie.a-are,  teleo- log'ieanìente  o  di  un'altra  maniera  qualsiasi,  questo  fatto cos)  familiare  che  il  piacere  è  un  og-o^etto  di  desiderio e  la  soft'ereiiza  un  o^•^etto  di  avversione,  perchè  la  spie- o-azionc  teolog'ica,  come  abbiamo  osservato,  e  in  gene- rale ogni  spiegazione  metafisica,  non  si  a|)i)lica  ai  fatti molto  familiari,  che  ci  sendìrano  naturaluìente  evidenti per  se  stessi,  per  conseguenza  necessari,  e  non  aventi bisogno  di  alcuna  sj)iegazione  (1).  Se  il  congegno  dei mezzi  e  dei  fini  che  si  osserva  nella  natura,  non  indica la  bor.tà  del  suo  autore,  mero  ancora  può  indicarne gli  altri  utlribcUi  moran.  Lr.,  giustizia  divina  iioii  si  mo- stra certamente  ne  nel  regno  animale  in  generale,  in cui  è  una  legge  che  il  ])iù  debole  sia  la  preda  del  più forte,  uè  nella  società  umana  in  particolare,  in  cui,  se ciò  non  avviene  sem])re,  si  deve  ai  freni  artificiali  dello (1)  Lo  stfsso  Mill  (lice:  «  Dosidcrnrc  mi;i  cosn  tr(»v;nnh)l;i ^^JHh'Volt'.  <'  odijinie  un*  j«!tr;i  trovandobi  disaji.iiradovoh',  sono due  fenomeni  in.s(*[>;ìr;il»ili  <»  piuttosto  (hie  ]KU-ti  «l'uno  stesso  fe- nomeno, due  mnniere  ditferenti  di  nominare  uno  stesso  fatto  i)si- eoloj;ie(»  :  pensare  a  un  o.u;.u;«'tto  eome  desiderabile  .  a  meno  <di<; non  si  desid;'ri  i»er  le  sue  eanseiinenze.  ;>  pensare  ad  esso  eome ]»iaeevole.  è  una  sola  e  stessa  eosa.  E  desi<lerare  una  cosa  senz« elle  il  desiderio  sia  proporzionato  all'  id;'a  di  )>iaeere  ehe  vi  si le.ua.  «'  un'impossibilità  tìsi<'a  e  metatìsiea».  {Utilitarisuto  eap.  4.). l^iso'oia  eontessare  ehe  hi  tendenza  a  considerare  eome  neeessu- rio  il  fatto  elle  ^li  esseri  senzienti  cereant»  il  piacere  e  fuggono la  sotferenza.  deve  essere  molto  naturale  al  nostro  s])irito,  <|uando lo  stesso  Stuart-Mill  \i>  considera  come  tale,  malgrado  il  suo  em- pirismo e  la  su!i  avversione  alle  verità  necessarie. —  157 stato  sociale  e  a  una  vittoria  della  coltura  sugl'impulsi primitivi  della  natura  umana.  Il  regno  della  giustizia liei  mondo  esigerebbe  che  la  sorte  che  tocca  a  ciascuno fosse  la  conseguenza  morale  delle  sue  azioni  :  è  ciò  che si  verifica  completamente  nel  sistema  di  Platone,  in  cui il  carattere  buono  o  cattivo  di  ciascun  essere,  il  posto che  gli  è  assegnato  nel  mondo,  e  tutti  gli  eventi  che gli  apporta  la  fortuna^  sono,  in  ciascuna  delle  vite  che attraversa  .  la  conseguenza  delle  sue  vite  anteriori  ;  e in  parte  nella  religione  cristiana,  in  cui  le  ingiustizie di  (juesio  mondo  saranno  compensate  nell'altro,  ma senza  che  il  creatore  possa  es  ;ere  giustificato  da  una responsabilità  che  rende  vana  ogni  altra  giustificazione, cioè  la  distribuzione  ineguale  della  virtù  e  del  vizio  in (piesta  vita.  Il  fatto  stesso  che  i  filosofi  teologici,  per realizzare  il  regno  della  giustizia,  trovano  necessario di  fare  intervenire  un'altra  o  altre  vite,  prova  che  essi non  lo  ve(h)no  realizzato  in  (juesta,  e  che  la  loro  idea della  giustizia  divina  non  è  venuta  dall'esperienza.  Le ])asi  induttive  della  filosofia  teologica  non  danno  diin(|ue alcun  fondamento  né  alla  bontà  né  agli  altri  attributi morali  della  divinità.  Vi  ha  appena  bisogno  di  aggiun- gere che  (juc^sto  fondamento  non  potrebbe  trovarsi  nem- meno sia  nel  concetto  della  causa  prima  sia  in  (juello dell'essere  necessario  concluso  dall'  argomento  cosmo- logico. Noi  possiamo  quindi  concludere  che,  conside- rando la  fìlosotia  teologica  come  semplice  sistema  teo- rico, cioè  destinato  a  una  maggiore  intelligibilità  dei fenomeni,  non  solo  noi  non  possiamo  spiegarci  il  con- cetto che  Dio  è  l'infinito,  cioè  che  possiede  tutte  le  per- fezioni, o,  come  dice  Locke,  tutte  le  qualità  che  è  più rantaggioso  di  avere  che  di  non  av^rc,  ad  un  grado  in- finito, ma  nemmeno  quello  che  egli  possiede  queste  qua- lità ad  un  grado  qualunque,  salvo  la  potenza  e  l'intel- ligenza. È  necessario    dunque    di    considerare    (jualche -  158  - altro  lato  della  tìiosofia  teologica,    senza  di  che  questi concetti  resterebbero  incouìprensibili. Nessuno  potrebbe  pretendere  che  la  tìlosoiia  teolo- gica, almeno  nelle  sue  forme  popolari  —  che,  del  resto, hanno  influito,  più  o  meno  largamente,  anche  su  quelle dei  pensatori  più  indipendenti — -non  sia  che  un  puro prodotto  delle  facoltà  razionali  dell'uomo,  cioè  una  dot- trina rivolta  unicamente  a  soddisfare  V  intelligenza,  e che  si  comprende  pienamente  come  una  manifestazione delle  tendenze  metafìsiche  del  nostro  spirito.  È  evidente ch(*  un'interpretazione  dei  fenomeni,  fondata  su  queste tendenze,  deve  essere  il  sustrato  delle  religioni  anche più  infantili  perchè  i  sentimenti  e  le  pratiche  relativi agli  esseri  soprannaturali  suppongono  già  la  credenza ad  esseri  soprannaturali,  ed  è  impossibile  di  non  rico- noscere in  questa  credenza,  (jiiahimiue  ipotesi  si  faccia sulle  sue  origini,  uno  dei  casi  defila  tendenza  generale dell'uomo,  manifesta  in  tutta  la  storia  del  pensiero,  ad assimilare  a  sé  stesso  le  forze»  della  natura,  e  a  trovare in  (juest'assimilazione  una  spiegazione  radicale  dei  fé nomeni.  Ma  non  è  meno  evidente  che  questi  sentimenti e  queste  pratiche,  una  volta  nati,  dovevano  necessaria- mente reagire  sulle  idee  da  cui  si  originavano,  dando alle  misteriose  forze  della  natura,  già  personificate,  dei caratteri  meno  appropriati  alla  loro  funzione  di  cause esplicative  dei  fenomeni,  che  a  quelle  di  arbitri  del  de- stino umano  e  di  esseri  con  cui  l'uomo  era  posto  in  re- lazioni analoghe  a  quelle  coi  suoi  simili,  e  che  cercava di  propiziarsi  con  mezzi  egualmente  analoghi.  Non  è difficile  di  comprendere  come,  in  conseguenza  di  questo lato  emozionale  e  pratico  dei  suoi  rapporti  con  le  po- tenze sovrannaturali,  l'  uomo  finisca  per  attribuire  ad esse,  fra  le  qualità  umane,  quelle,  e  quelle  sole,  che  è più  vantaggioso  di  avere  che  di  non  avere,  cioè  eh'  egli è  org^oglioso  di  possedere  e  che  loda  nei  suoi  simili.  È —  ir39  - ovvio  d'innnaginare  le  due  cause  che  hanno  contribuito sovratutto,  se  non  unicamente,  a  questo  risultato.  L'una è  l'idea,  di  cui  nessuna  è  più  naturale  al  punto  di  vista antropomorfistico,  che  la  lode,  così  efficace  per  rendersi amici  gli  uomini,  non  lo  sarà  meno  per  propiziarsi  gli Dei.  L'  altra,  V  inclinazione*,  innata  a  credere  vero  ciò che  si  desidera.  Sicconu^  le  qualità  che  noi  lodiaino  sono, in  generale,  quelle  che  ci  sono  utili,  sono  esse  che  l'uo- mo desidera  nei  suoi  dei,  e  che  finisce  quindi  per  loro attribuire.  Queste  stesse  cause  spiegherebbero  pure  il concetto  dell'essere  infinito  o  |)erfettissimo,  cioè  1'  in- grandimento sino  all'infinito  di  queste  (jualità  lodevoli che  sono  state  attribuite  alla  divinità?  E  ciò  che  pa- recchi hanno  inclinato  a  pensare,  o  che  potrebbe  dednrsi da  ciò  che  altri  hanno  pensato.  S.  Girolamo  chiama fatili  adulatores  quelli  che  attribuiscono  a  Dio  l'onni- scienza (1)  ;  e,  per  non  citare  che  i  più  autorevoli,  è così,  cioè  per  l'adulazione  della  divinità,  che  Mill  spie- ga l'attributo  dell'onnipotenza  (2),  e  Hume  non  sarebbe alieno  dall 'ammettere  questa  stessa  spiegazione  per  tutti gii  attributi  infiniti  in  generale  (3).  Da  un'  altra  parte Kant  sostiene,  e,  sembra,  non  senza  ragione,  che  un autore  lei  mondo,  (lotato  d'  a/na  sovrana  perfezione, non  potrebbe  essere  dimostrato  da  nessuno  degli  argo- nu^nti  teorici,  ma  solo  dal  suo  argomento  morale —  che  prova  Dio  ])er  la  necessità  di  una  causa  che metta  in  armonia  la  felicità  con  la  virtù — .Questa causa,  egli  dice,  deve  essere  onnisciente,  a  fine  di  pe- netrare nelle  mie  più  secrete  intenzioni  in  tutti  i  casi possibili  e  in  tutti  i  tempi;  onnipotente  a  fine  di  far  toc- care alla  mìa  condotta  le  conseguenze    che    merita  ;    e (1)  Comment.  hi  Habac.  cay».  I. (2)  Suf/glo  sul  teismo,   Conclusione. (8)  Dialoyhi  shUk  relig,  naturale,  \nivtv  XI.così  pure  onnipresente,  etema,  ecc.  (1).  Siceoiiu;  la  i)rova morale  di  Kant  non  è,  come   abbiamo    notato,    ehe    la tendenza  a  credere  vero  ciò  che  desideriamo  messa  sotto forma  d'argomento,  cosi,  seg'uendo  il  suo  j.ensiero,    si <>-iuni;eRd)bo  naturalmente  alia    conclusione    clie    V  ori- o'ine'del  concetto  deirintinità  degli  attributi  di  Dio  deve cercarsi  precisamente   in    questa    tendenza.    Ma    e    evi- dente che,  anche  unendo  queste  due  spieg'azioni  1'  una air  altra,    non  si  avrel)be  ancora  una  spieoazione    sod disfacente,  perchè  si  escluderebbero  senza  ragione  altri fattori  che  possono  reclamare  giustamente  la  loro  parte nel   risultato.  Non   vi  ha,   si  può  dire,   alcun    elemento, in  questo  rapporto  ideale  cl)e  lega  l'uomo  coi  suoi  dei, che  non  lo  s[)inga  ad  esaltare  semi)re  di  più    le<    perfe- zioni di  cui  li   ha  rivestiti.  Il  sentimento   della    propria dipendenza  e  della  superiorità  incomi>arabile  della    po- tenza a  cui   si   sente  sottomesso;   il  terrore  inspirate-   da questa  potenza,  misteriosa  in  se   stessa    altrettanto    che nei  suoi  linìiti;  lamore,  la  venerazione,  Tanunirazione; tutti  i  sentinuMiti   che  entrano  in   (luesto  complesso  che chiamiamo  il  sentimento  religioso;  coopereranno  con  la speranza  di  propiziarseli  rendendo    loro    gli    onori    più sul  limi  e  il  timore  di  offenderli  formandosene  un    con- cetto non  abbastanza  elevato,  e  col  desiderio  che  i  suoi sovrani  e  protettori  siano  tali  da  poter  dargli   tutto  ciò a  cui  egli  aspira,  da  una  caccia  abbondante    alla    giu- stizia assoluta  nell'universo.  Il  risultato  tinaie  sarà  ne- cessariamente, come  abbiamo  osservato,    che    tutti   gli attributi  della  divinità  saranno    elevati    sino    al    grado massimo  che  sia  possibile  di  concepire,  cioè  sino  airin- finito  o  all'assoluto.  Gli  stessi  attributi  che  per  se  stessi uon  sarebbero  una  perfezione  e  un'eccellenza,  lo  diven- gono   per    ciò    solo    che    sono    attributi    della    divinità: (1)  Crii,  della  rmj.  /uut.   1.  i»arto.   1.  L>.  e.  2.   VII. quindi  devono  essere  innalzati  come  gli  altri  al  grado supremo,  cioè  devono  essere  concepiti  anch'  essi  come infiniti  ed  assoluti.  Così  la  semplicità,  essendo  un  at- tributo  di  Dio  (oltre  che  è  il  distintivo  dello  spirito,  che è  più  nobile  della  materia),  deve  essere  necessariamente una  perfezione  :  i)er  conseguenza  anche  la  semplicità di  Dio  è  infinita  o  assoluta  (con  tutti  i  non  sensi  che, come  abbiamo  visto,  implica  (juesto  concetto).  A  questo punto  il  filosofo  prenderà  rutti  questi  attributi  infiniti "'li  ven<>:ono  trasmessi  dal  teologo,  e  ne  estrarrà  la sua  formula  pretenziosa  che  Dio  è  l'infinito  o  l'assoluto. É  la  sola  parte  che  spetta  al  filosofo  in  questa  (dabo- razione  dell'idea  dell'assoluto. Se  per  metafisiccf  intendiamo  le  dottrine  che  deri- vano dalle  illusioni  naturali  o  sofismi  a  priori  ddìii  wo- stra  intelligenza  (ciò  che  solo  ci  permette  di  riunire in  un'  idea  unica  dei  fatti  aventi  in  comune  dei  carat- teri definiti  e  risultanti  da  uno  stesso  processo  dello  spi- rito umano),  il  concetto  dell'assoluto,  nel  senso  in  cui io  prendiamo  qui,  non  è,  bisogna  confessarlo,  un  con- cetto metafisico.  Ma  se  non  lo  è  in  se  stesso,  lo  è  cer- tamente in  una  sua  applicazione,  con  cui  si  cerca  di attenuare  il  mistero,  che,  in  conseguenza  di  questo  con- cetto stesso,  ha  inviluppato  il  rapporto  tra  Dio  e  il mondo.  Dio,  dicono  i  filosofi  teologici  moderni,  è  l'om- nitudo  realitatis:  egli  possiede  al  più  alto  grado  tutta  la realtà  e  tutte  le  perfezioni  di  tutte  le  co^e,  e  1'  essere e  le  perfezioni  delle  creature  non  sono  che  delle  i^ar^eci- pazioni  limitate  dell'essere  e  delle  perfezioni  infinite  del creatore.  Cosi  tutte  le  cose  preesistono  in  un  certo  modo in  Dio,  perchè  ogni  perfezione  di  qualsiasi  creatura  pree- siste ed  è  contenuta  in  Dio,  quantunque  non  nella  sua realtà  difettiva,  ma  eminentemente.  Eia  dottrina  espressa nei  celebri  versi  di  Dante  : Nel  suo  profondo  vidi  (die  s'iuterua. Legato  con  amore  in  un  volume, Ciò  che  per  l'universo  8Ì  squaderna. 11 1(^2  — —  163  — Storieameiite,    ({uesta  dottrina    è    il     risultato    di     uno dei  tentativi  dello  spirito  eclettico,   ripetuti  nella  storia della   filosofia,  d'  innestare  la    dottrina    j)latonica    delle hktv.  nel  sistema  teolo<>'ieo.  1/ ovtoj^  ov,   il  iravTcXcòr  ov •di   Platone,  cioè  le  Idee,   in  rui  si  riassumeva  la  realtà •di  tutti   li'li   esseri   fenomenali,    e  che  erano    ri<iuardate al  tem[)o  stesso  ronu^  V  essenza    di    cui   le   cose  indivi- duali  partecii)avano,  e  come  il   paradiunia    di    cui    esse erano  delle    copie,    interi)retato   alla    manii;ra    teistica, diventava   1"  Essere  supremamente  reale,  infinito,  che, contenendo  in  se  stesso  tutte    le    perfezioni    e    tutte    le realtà,   le  comunicava,  d'una   maniera  limitata,  a^li  es- seri finiti  cIk;  e.uli  creava  dal    niente,   ed  era  Tessere  in sé  e  il   prototipo  universale,   di  cui   tutte  le  cose,    cia- scuna  nella  misura  dei  suoi  attributi  limitati,  erano  dei simulacri  e  delh^  parteci[)azioni  imj)erfette.  Ma  (juest'as- sociazione  arbitraria  dMdee  che  non  avevano  fra  di  loro alcun  le^iame  naturale,  aveva,  al   fondo,  per  iscopo  di applicare  là  dove  meno  sembrerebbe  possibile,  cioè  alla creazione  dal  niente,    il    princi})io  che  niente    nasce    e niente  i)erisce,  e  che  ciò  che  vienc^  nuovamente  all'esi- stenza preesiste  perciò  in  certo    modo    ed  è    contenuto, ili  un*altr;i   maniera  di  esistere,  in  ciò  che  lo  precede  (1). Questo  princij)io,  come  vedremo  neirAp|)endice  a   que- sta [)arte  1*,  deriva  dalla  stessa  sor<>"ente  da  cui  il  con- cetto di  causa  efficiente  e  le  sue    diverse    applicazioni, e  noi  ])ossiamo    per    conseguenza    riguardarlo    a    buon dritto  come  un  vero  concetto  metafisico.  La  sua   appli- cazione alla  creazione  dal  niente  è  certamente  una  delle meno  naturali  e  delle  meno  intellio-ibili  che    sia    possi- bile di   fariKi  :   ma  ciò  importa  che  noi  possiamo    consi- derare questa   dottrina    come    metafisica    a    un    doppio punto  di  vista,   vale  a  dire  in  quanto  deriva  dalle    il- / (1)  Cfr.   v^    t..   l;i   nota   a   \nv^.    IV.K lusioni  naturali  del  nostro  spirito,  e  in  (guanto  è  una di  quelle  idee  o  pretese  idee  trascendenti  che  caratte- rizzano la  metafisica,  cioè  che  noi  dichiariamo  netta- mente inconcepibili,  ma  che  il  metafisico  pretende  che si  possono  pensare,  (quantunque  non  si  possano  iin.- mcuf  filare. ^  ().  La  distinzione  [)iii  ovvia  tra  i  diversi  sistemi teolo^'ici  (almeno  tra  quelli  che  ammettono,  d'una  ma- niera più  o  meno  ri^'orosa,  il  j)rincit)ro  dell*  unità  di Dio)  è  (juella  del  (lualisìno  e  del  panteisìito.  Questi  due ti[)i  generali  della  filosofia  teolog'ica  (i)ervenuta  al  li'rado di  dottriiia  scientifica),  alla  loro  volta,  presentano  cia- scuno una  distinzione.  ìion  meno  importante,  cioè  <(uella dei  sistemi  antichi  e  dei  sistemi  moderni.  La  dottrina della  creazione,  che,  tra  i  sistemi  moderni,  ha  eserci- tato la  i)iù  profonda  influenza  anche  sulla  più  parte  di quelli  che  la  rit.''ettano,  ha  dato  sì  al  dualismo  che  al panteismo  moderno  un  carattere  così  differente  da  quello del  dualismo  e  del  panteismo  antico,  che  l'introduzione di  (|uesta  dottrina,  con  la  modificazione  generale  che ne  è  risultata  nella  concezione  del  ra])porto  fra  Dio  e il  mondo,  costituisce  senza  dubbio  il  cangiamento  })iii radicale  che  si  possa  osservare  nelTevoluziom'  delle  idee teoloii'iche. Nella  filosofìa  teologica  antica,  sì  dualistica  che panteistica,  il  principio  materiale  è  riguardato  cf)me altn^ttanto  primitivo  che  il  principio  s])irituale,  cioè divino.  Nei  sistemi  dualisti  si  annnettono  due  esseri primitivi  distinti,  Dio  come  causa  motrice  e  ordinatrice, e  la  materia.  \ei  sistemi  panteistici  Dio  è  al  tempo stesso  la  causa  personale  e  intellig'ente  dei  fenomeni della  ìiatura,  e  la  sostanza,  cioè  la  materia,  di  cui  le cose  sono  fatte.  Nella  massima  parte  di  (juesti  ultimi sistemi  Dio  è  identificato  con  la  materia  pi'imordiale, di  cui  tutte  le  altre  sostanze  sono  delle  trasformazioni.  Il  panteismo  stesso  nei  sistemi  antichi  non  è,  ordina- riamente, senza  un  eerto  dualismo.  Nella  filosofia  antica in  generale  Dio  non  è,  come  notammo,  che  l'anima  del mondo.  Cosi,  come  nell'uomo  l'anima  è  rig-uardata  come un  essere  distinto  dal  corpo,  per  un'estensione  naturale di  questo  dualismo  antropologico,  Dio,  nell'universo,  è riguardato  come  un  essere  distinto  dal  corpo  dell'  uni- verso stesso,  di  cui  è  il  principio  animatore  e  vivifica- tore. Questo  rapporto  di  Dio  col  uìoiido  è  d'altronde  il più  proprio  a  conciliare  1'  una  con  V  altra  le  sue  due funzioni  capitali  come  principio  esplicativo  dei  feno- meni, cioè  quelle  di  causa  ìtfotrice  e  di  causa  ordina- trice. Se  r  anima  del  mondo  non  fosse  un  essere  esi- stente per  sé  e  distinto  dal  m(>ndo  stesso,  V  ordine,  le cause  finali,  non  avrebbero,  in  (juest'  ij)otesi,  una  spie- g'azione  altrettanto  soddisfacente  che  l  origine  del  mo- vimento. In  effetto  la  spiegazione  teleologica  non  ha  per tipo  l'attività  che  noi  esercitiamo  sul  nostro  proprio corpo,  ma  quella  che  esercitiamo  sul  mondo  esteriore  : l'artefice  non  può  essere  la  sua  opera,  il  demiurgo  del mondo  deve  essere  distinto  e  separato  dal  mondo  stesso. E  ciò  che  si  verifica  nella  dottrina  dei  filosofi  antichi dell'  anima  nel  mondo  :  essa  spiega  i  movimenti  spon- tanei dell'universo,  facendo  di  (juesto  un  tutto  vivente e  animato;  e  spiega  pure  il  suo  ordine  o  la  sua  finalità, facendo  della  sua  anima  un  essere  distinto  ed  esistente per  se  stesso,  che  ag'isce  sul  suo  corpo  come  noi  agia- mo sui  corpi  esteriori.  Questa  dualità  di  un'anima  e  di un  corpo  dell'universo  esiste  anche  nei  sistemi  pantei- sti :  la  differenza  è  che,  mentre  nei  sistemi  dualisti  l'a- nima e  il  corpo  sono  coeterni,  nei  sistemi  panteisti  il corpo  è  proceduto  dalT  anima,  questa  essendo  identifi- cata con  l'elemento  materiale  primitivo,  da  cui  tutti  gli altri  (costituenti  il  corpo  del  mondo)  si  fanno  nascere per  una  trasformazione    successiva.    Questo    panteismo è  fondato  così  su  due  concetti,  che  la  scienza  e  la  filo- sofia moderna  hanno  abbandonati,  ma  i  più  familiari all'antichità  :  la  materialità  dell'anima,  che  è  la  forma primitiva  dell'  animismo  ;  e  la  convertibilità  reciproca degli  elementi  materiali,  riguardati  come  delle  forme diverse  rivestite  successivamente  da  una  stessa  sostanza. Per  questa  estensione  all'universo  dei  concetti  sull'uo- mo, che  costituisce  1'  essenza  della  filosofìa  teologica, l'anima  divina  del  mondo  è  riguardata  anch'essa  come materiale;  tra  i  diversi  elementi  materiali,  essa  è  iden- tificata con  quello  che  sembra  il  più  attivo  di  tutti,  e di  questo  si  fa  lo  stato  originale  di  tutta  la  materia, in  modo  che  sia  al  tempo  stesso  il  materiale  con  cui  il mondo  è  stato  costruito  e  il  principio  demiurgico  che lo  ha  costruito. Le  osservazioni  precedenti  si  applicano  della  ma- niera più  esatta  alla  filosofia  teologica  dei  Greci.  Noi abbiamo  il  tipo  del  dualismo  antico  nei  sistemi  di  Anas- sagora, di  Platone  e  di  Aristotile  :  nel  vn  2^  abbiamo  già osservato  che  in  questi  sistemi,  come  in  tutti  gli  altri, Dio  è  l'anima  del  mondo,  cioè  un  principio  il  cui  ra])- porto  con  l'  universo  è  assimilato  a  quello  dell'  anima umana  col  corpo  umano.  Lo  stoicismo  e  i  sistemi  af- fini ci  danno  il  tipo  del  panteismo  antico.  Il  mondo, dicono  gli  Stoici,  è  un  essere  vivente  di  cui  Dio  è  l'a- nima (1).  Dio  è  la  Mente  dell'  universo  (2),  la  Provvi- denza che  governa  il  mondo  (3),  il  VO'JC  o  il  Xó^og  che penetra  ogni  cosa  (4),  ed  è  il  principio  motore  e  ordi- natore del  tutto  (o).  Il  mondo  somiglia  all'  uomo,  e  la (1)  Philod.    De  /fietaf.   e.   11. (2)  Seuccji  Nat.  qu,  prol.,   IH. (3)  Philod.    De  pletat,,    v.   11,    Dioj,'.   VII.   138. (4)  Diogene  VII.  138,  Cleanth.  Hymn.  in  Jov.  v.  12-13  M.,  wa-. (5)  V.  §  2.  pao.  0.5  e  §  3.   pa-'.  84. —  Provvidenza  airaniina  umana  (1).  Neil'  uomo,  T  anima è  un  soffio  ealdo,  diffuso  in  tutto  l'  or<4'anismo,  le  cui parti  ne  sono  tutte  penetrate,  quale  con  più,  quale  con meno  abbondanza  (2).  Come  la  nostra  anima  nel  nostro corpo,  così  r  aninui  dell'universo  è  diffusa  nel  corpo dell'universo  (3)  :  Dio  scorre  per  tutta  la  materia,  vome il  miele  per  i  fnvi  (4)  ;  egli  stesso  è  una  materia  (5), più  sottile  e  più  attiva  delle  altre  (6),  che  penetra  tutte le  parti  del  vasto  organismo  cosmico,  e  agisce  su  di esse  per  impulsioni  continue  (7).  Dio  o  l'  anima  del mondo  è  uif  essenza  ignea,  un  fuoco  artista,  che  pro- cede con  ordine  alla  geiu'razione  delle  cose  (S).  L'uni- verso, il  mondo  ordinato,  è  stato  preceduto  da  uno  stato in  cui  tutto  era  fuoco,  e  ritornerà  ad  uno  stato  in  cui tutto  sarà  fuoco.  Ciò  è  lo  stesso  che  dire  che  il  mondo è  stato  preceduto  da  uno  stato  in  cui  tutto  era  Dio,  e sarà  seguito  da  uno  stato  in  cui  tutto  sarà  Dio.  Dio, il  fuoco  artista,  ha  costruito  il  mondo,  trasformando gradatamente  una  parte  della  sua  sostanza  nelle  altre forme  della  materia;  e  quando  il  f/rcuKic  anno  sarà  com- piuto, egli  lo  distruggerà,  riassorbendolo  nella  sua  i)ro- pria  sostanza,  cioè  riconvertendo  le  altre  forme  della materia  nel  fuoco  primitivo,  nell'ordine  inverso  a  (piello in  cui  ne  sono  procedute.  Poi  seguirà  un'altra  costru- zione del   moiìdo,   seguita  alla  sua  volta,  dopo  un  altro (1)  Fhitnno   ConuH.  Xot,  M. (2)  l)i«»«r.    \ii.   13S  e  15(>,   (IsdciM)   ////>/>.    et    PIat,     Piar.    III. 1,    Phit.   Piar.   I.    IV.    Ili     S.   vw. i'A)    Diog-,    Vìi      IHS.   AthoiiJijLJ.   e.   <>..   ('<•(•. (4)  Tertull.    Pe  anim.  44. (5)  IMiitarco  Ooìum,  JVol.  4S. ((>)  V.  St«)b.  »/.  I.  ;5JH,  Neiiies.  Xaf.  hom.  p.  1()4  (Ed.  Math.). ecc.  Cfr.  ^S  2.  pa«i.  65  e  5i). (7)  V.   Otjereau  Sist.  filos.  (let/li  Stoici  ]».  68  v  72. (K)   Diujii.   Vii.   156,   Plut.   Piar.  ph.   1.   I.    VII.   17. I    'i grande  anno,  da  un  altro  riassorbinn^ito  nel  fuoco,  e cosi  di  seguito  all'  infinito,  in  modo  che  V  eternità  si compone  di  un'alternanza,  sempre  riproducentesi,  di  due stati  successivi,  V  uno  iìi  cui  non  esiste  che  Dio  solo, e  l'altro  in  cui,  oltre  a  Dio,  esiste  un  mondo,  cioè  un corpo  di  cui  Dio  è  l'anima  (l).  La  parte  razionale  del- l'anima umana  non  è,  come  1(5  altre  cose,  una  trasfor- mazione della  sostanza  di  Dio,  ma  una  ])arte  della  sua pura  essenza,  una  scintilla  del  fuoco  divino  (2).  (^uan- tunciue  per  gli  Stoici  Dio  non  sia  propriamente  che l'anima  del  mondo,  essi  chiamano  Dio  anche  il  mondo stesso,  cioè  il  tutto  costituito  dall' anima  e  dal  corjìo. Questa  deificazione  degli  oggetti  stessi  per  una  esten- sione del  carattere  divino  attribuito  originariamente allo  spirito  che  li  anima,  non  ha  niente  di  sor})rendente, e  si  osserva  anche  nelle  religioni  popolari.  È  cosi  p.  e. che  gl'Indiani  dell'America  del  Nord  adorano  il  cielo, quantunque  il  vero  oggetto  della  loro  adorazione  non sia,  almeno  originariamente,  il  cielo  stesso,  ma  V  Oki, cioè  la  divinità  o  il  demone,  che  risiede  nel  cielo  (8). Lo  stesso  dualismo  che  negli  Stoici,  e  fondato  su- o'ii  stessi  concetti,  troviamo  negli  antichi  fisici  che  han- no  costruito  una  nn^tafisica  teologica  in  forma  |)antei- stica.  Il  [)rincipio  da  cui  essi  i)artono  è  che  1'  anima cosmica  è  disila  stessa  natura  che  l'anima  umana,  ed  è costituita,  come  questa,  dall'elemento  materiale  più  sot-, da  cui  tutti  gli  altri  provengono  per  una  conden- sazione progressiva.  Sembrano  credere,  dice  Aristotile, che  il  fuoco  o  l'aria  siano  animati,  perchè  il  tutto  deve essere  della  stessa  natura  che  le  i)arti    4).  Ciò  vuol  dire (1)  V.   OiifH-ejiu   j).  TiS  (*  6r)-7(). (2)  Eiisch.    Pvep.  ec.    XV.    15.  5.  (Mcaiith.  /rymn.  in  Joc.  v.  4. M.,  Sencra  A>..  66,   12.   Epict.    Diss..   I.   14,  6.  ei^-. (8)  V.  Tyh)r  di',  prim..  cap.   XVI.    Cfr.  t^S  1.  p.  47. (4)   De  un.  1.  1.   V.  21 '-SK9K —  168  — che,  secoiulo  essi,  l'anima  non  potrebbe  trovarsi  nelle parti,  cioè  neiili  esseri  viventi,  se  non  si  trovasse  pure nel  tutto,  da  cui  la  ricevono,  come  ne  ricevono  jili  altri elementi  che  li  costituiscono  (1).  Così  Aristotile  continua alludendo  alla  loro  oj)inione  che  g*li  esseri  divengono animati    ])vv    comprendersi     in    loro    (jualche    cosa    del r TTcfy'.syov,  cioè  delPambiente,    o  dell'atmosfera.  Secondo Dioo(Mu»  d'Apollonia,  una  |)rova  che  1'  intelligenza  ap- ])artiene  al   primo  j)rinci))i()  di  tutt(i  le  cose,  cioè   all'a- ria, è  che  gli  animali   vivono  per  il  respiro,  da  cui  pro- viene ad  essi  1"  anima  e  Tintelligenza  (2).    L'  aria,  per lui,    è  ciò   fhe  il   fuoco  per  gli    Stoici,   la  sostanza  pri- mordiale di  cui  le  cose  sono  state  fatte,  jier  la  sua  tra- sformazione parziale  negli  altri  elementi  della  materia, e  la  })otenza  demiurgica  che    le    Im    fatte.    Nel    nunido attuale,   (juest'aria  intelligente  regge  e  governa  tutte  le cose,    penetrando    dapertutto,    in  modo  che  non  vi  ha alcuna  cosa  che  non  ne    ])artecipi    (8)  :    la    sua    intelli- genza spiega  perchè  tutto  nel  mondo  avvenga  con  mi- sura, |).  e.   le,  stagioni,   e  ogni  cosa  vi  sia  ordinata  della maniera   più  bella  che  sia  possibile  (1).   L'anima  di  tutti gli  animali  è  aria  :    è    per    essa  che  vivono  e   sentono, e  da  essa  ricevono  la   loro  intelligcMiza  (5).    T/ aria    per Diogene  d' A})ollonia -- come  i)er  tutti  i  fisici   che   am- mettono un  solo  ])rincipio    il     nome    che    essi    danno    a questo  i)rinci[)io    -ha   due    significati    distinti:    quando egli  dice  che  tutto  è  aria,  (|uesta  parola  designa  la  so- stanza comune  di  tuttci  le  cose,  che  egli  identifica,  come gli  altri   fisici  unizzanti,    con   T  elemento  primitivo,    ri- (1)   (MV.   Platone   Fiirho  2!»  n-'M)   h. (21   Fr.  r>.    Mullach. (H)  /V.   (i.    Mullacli. (4)  Fr.  4.  . (.">)   Fr.   <;. ^1 169 guardandolo  come  persistente  e  sempre  identico  mal- grado le  nuove  forme  che  esso  riveste;  ma  in  altri  casi aria  non  può  voler  dire  che  questa  sostanza  particolare che  noi  chiamiamo  cosi,  cioè  1'  elemento  primordiale nella  sua  forma  primordiale.  E  evidente  dalle  proposi- zioni citate  che  questa  sostanza  a  cui  egli  attribuisce riutelligenza,  e  che  nel  suo  sistema  equivale  a  ciò  che noi  chiamiamo  Dio.,  è  1'  aria  nel  secondo  sig'nificato, ch'egli  oppone  per  conseguenza  al  resto  dell'  universo, che  sarebbe  come  il  corpo  di  cui  l'aria  è  l'anima. Un'osservazione  analoga  vale  per  Eraclito,  la  cui fisica  è  servita  di  modello  a  quella  degli  Stoici.  Era- clito considera  il  fuoco,  come  ciascuno  de«ii  altri  fisici unizzanti  la  sostanza  che  eleva  ai)rimo  principio,  come r  omogeneo  primitivo  che  è  il  j)unto  di  partenza  del- l'evoluzione del  mondo,  e  come  la  sostanza  comune  di tutte  le  cose,  perchè  quest'omogeneo  [)rimitivo,  secondo le  idee  oscure  di  questi  fisici,  trasformandosi  nelle  altre sostanze,  resta  nondimeno  essenzialmente  identico  (1). Al  tempo  stesso  il  fuoco  è  per  Eraclito  la  sa])ienza (YV(Ó[17j)  (2)  o  il  sa [) lente  (^povoòv  (3),  ypóvqiov  (4)  )  che governa  l'universo,  il  logos  (5),  Zeus  (6)  o  la  divinità  (7), e  in  una  parola  il  principio  demiurgico  di  tutte  le  cose  (8) e  —  ch'egli  si  sia  servito  o  no  di  (juesto  termine       l'a- (1)  (vfr.    AppeìifL  e.   1.   vN  4. i2ì   Diog.  ijaert.   IX.   1.,  in   Mnllach  Framni.  55. (8)  Plut.    De  Is.   7H. (4)  ITippol.   Eefuf.  IX.  10. (5)  Sesto  Math.  VII.  12<)  o  s(i«i..  Stob.  Fel.  I.  5S,  I.  178.  ecc. (6)  Cloni.   Paeduij.  1.  IK)  e,   Strab.   1.  6   pa«;-.    ^    (in    Mullach Fr,  85). (7)  CUem.    Co/iort,  42  e.   Seste»  lìfath.  l.  e.  ecc. (8)  Proclo  in   Tini.   101,   Sinici.    P/nf.s,  i\  a  e  S  a..   Stob.    />/. I.   58. ì        ',<   I TT 170  — —  171  — iiima  del  mondo  (1).  Certamente  questo  sistema  è  un panteismo,  perchè  Dio  è  la  sostanza  primordiale  di  cui l'universo  è  una  trasformazione:  ma  tra  Dio  e  il  mondo, oltre  a  questo  rapporto  d'identità,  vi  ha  al  tempo  stesso un  rapporto  d'opposizione,  perchè  questo  fuoco  che  è riguardato  coinè  ZtHis,  come  demiuro-o,  come  lo^-os,  ecc., non  è  il  fuoco  come  sostanza  comune  di  tutte  le  cose, ma  il  fuoco  come  sostanza  particolare,  come  uno  degli stati  o  delle  forme  della  materia  universale.  Le  propo- sizioni di  Eraclito,  sia  riferiteci  dai^li  autori  antichi  sia contenute  nei  suoi  stessi  frammenti,  non  lasciano  alcun dubbio  su  (luesto  significato  della  sua  dottrina.  L'ani- ma,  ci  si  dice,  è  per  Eraclito  il  soffio  o  il  vapore  con cui  e<>"li  costruisce  tutto  il  resto  '2)  —  nella  sua  fisica l'aria  e  il  fuoco  non  sono  due  elementi  distinti,  come nella  tisica  posteriore,  ma  un  solo  e  stesso  elemento  — . Per  quest'anima  biso^-na  intendere  il  principio  animico, cioè  la  sostanza  che  è  la  sorerente  della  vita  e  il  su- strato  della  coscienza,  tanto  nell'  uomo  e  negli  esseri animati  in  generale,  (|uanto  nel  mondo,  considerato  an- ch'esso come  un'essere  animato  (8).  La  nostra  anima  è (1)  IMul.  Pine.  IV.  li.  N«Miirs.  Xat.  hom.  v.  2.  p.  '2S.  Tcixlo- rrto  t.    IV.   pnu.   ^<2l^   ecc. (2)  Arist.  De  Au.  I.  I.  II.  l«i.  Ctr.  IMut.  Pìm'.  IV.  S  e  Xc- iiH's.    ynt.   hoiit.  e.   2.   1».   2S. (S)  l*s.  Pliitjìrco  e  Xciiicsio  dicono  in'ttaniciito  clic  spcoikIo Eniclito  rjiiniiiM  dei  iikumIo  c  vapore.  Tuttavia  non  si  potveì>he attenuare  che  Eraclito  lia  parlato  «li  niraninia  <h'l  mondo,  «[uan- tunque  sia  indnbitahile  ch'ejrli  ha  ammesso  in  sostanza  questa dottrina.  P.  (pudla  che  «ili  attri^)aisce  al  fondo  lo  stesso  Aristo- tile nel  bioi^o  cita-tt)  e  i>oco  in-ima  (/>r  (ui.  1.  I.  e.  H.  10-11,  in eni  dice  <die  ]>er  Eraclito  l'anima  «^  fuoco):  secondo  ([uesti  luo- ghi infatti  Eraclit»)  lia  identiticato  i'  anima  col  i>rimo  i)rincii>io («•iot^  con  tutto  il  fuoco  esistente  nell'universo),  imn  ha  detto Bemidicemente  ch'essa  «^  forniata  della  sostanza  cli'egli  rij»uarda della  stessa  essenza  che  quella  dell'universo  (1),  ne  è una  particella  staccata  dal  tutto  (2)  :  la  ragione  ci  viene dall'  atmosfera,  da  cui  la  prendiamo  per  la  respirazio- ne (8).  L'anima  deg'li  esseri  viventi  essendo  fuoco,  e  il fuoco  esteriore  essendo  l'anima  cosmica,  fuoco  ed  ani- ma sono  per  P>ficlito  dei  termini  equivalenti,  e  per  de- scrivere la  conversione  reciproca  degii  elementi,  dice  : le  anime  si  trasformano  in  acqua,  e  1'  acqua  in  terra; dalla  terra  viene  l'acqua,  e  dairaccjua  l'anima  (4).  L'e- quivalenza tra  fuoco  ed  anima  si  vede  pure  nelTespres- sione  «la  regione  del  brillante  Giove  »  (5)  (per  denotare il  mezzodì,  la  regione  della  luce),  e  nella  proposizione che  '<  il  fulmine  g'overna  tutte  le  cose  »  (())  (in  cui  è applicata  all'  anima  cosmica  la  stessa  immagine  di  cui <-om<'  primo  priiK*ii)io.  Più  espli<'ito  ancorji  è  il  1uol»;o  del  De  Ah. 1.  I.  e.  V.  17  s«iq.,  in  cui  Aristotile  ])arla  di  «pielli  <'lie  hanno infuso  l'anima  neiruniv<'rso.  la  dottriiut  ivi  menzionata  che  nel fu<K'o  vi  ha  l'jinima  non  jjotendo  api>artenere  evidentemente  che ad  Eraclito,  (.'he  ({uesti  ha  ammesso  un'  anima  cosmica  e  V  ha identiticato  col  fuoco  <[uale  stato  particcdare  «Iella  nmteria  .  ri- sulta ]mvo  dairindicazione  di  Sesto  Emi)iri<M)  {Muth.  l.  e.)  <-he il   Zc[>LéyOV    (cioè   l'atmosfera)   e  dotato  di   j"a.«;ione. (1)  Plut.  Plae.   IV.  3.   Xemes.   Xai .  hom.  e.  2.  j).  2S.  Teodor. t.  4.   p.  S22. (2)  Plut.    De   /s.  7»).   Sesto  3fath.   VII.   l.  e.    Vili.  2SJ).  Teo- «lor.    1.   e.    <'cc. (3)  Sesto  Malh.  VII.  l.  e.  Ofr.  il  luo-o  citato  d'  Arist.  De mi.  l.  I.  e.  V.  21,  in  cui  si  parla  dell*  ojùnione  che  ^^li  (esseri animati  divenj;ono  tali  per  eoniprendersi  in  lon»  qualche  cosa del  TTSptSyOV.  Allo  stesso  ordine  «l'idee  si  riferiscon<>  le  proi>o- sizioni  di  Eraclito  sull'identità  fra  .^di  Dei  e  .uli  uomini  (v.  Mul- lach  Fr.  iVl  e  auiiotaz.)  e  sul  cammino  delle  anime  nella  via verso  l'alto  e  <piella  verso  il  liasso  (v.   St<d).    bJcl.  I.  lH)j;i. (4)  Franila.  59   Mullach. (.5)  Fr.  85  M. (f>)  Fr.  50  M. 172 17H i si  serve  altrove  per  l'anima  umana,  dicendo  che  questa va  volando  per  il  corpo  come  il  fulmine  per  le  nubi)  (1). Per  questa  diffusione'dell'anima  nell'universo  e  la  sua distinzione  dall'  universo  stesso  .  Eraclito  può  dire  che tutto  è  pieno  di  anime  e  di  dei  (2)  .  una  pluralità  d'  i- postasi  divine  non  essendo  incompatil>ile,  come  vediamo in  tutte  le  dottrine  antiche,  con  l'  unità  dell'anima  co- smica (H). (1)   Fr.   71    M. Bisojiiia   (M>iit'n>i»tiii-c   le  in-(»p(>si/i<Mii  «li  Kra(lit(»  siill:i  ragione clic-  <M»V('rna  il   mondo,    col    liio-c  del   Cralilo  in  cui  e  <iuistiono dcirctimoloiiia   di   OÌ7.aiOV,   e  (die,   per  la   parte  (die    c'interessa, \mh  riassumersi   così  :   Secondi»  (iiudli   clie  ammett(Mìo  che    tutto i'   in  movimento  (cioi'  .^-li  eraclitici)    vi   ha  alcun  che  (il  iuoeo)  che uoverna   tutte   le  cose,   scorrendo  e   ]>enetrando  da  per  tutti»,  jx-r- ehè  è   l'cdemento  i»in  sottile  e  piìi  vedo 'e  :   così  esso  è  eiò  per  e  ni si  jicncrano   tutte   le  cose   oenerate  .   e     in    una    ]»arola    la    causa (Platone    Cratilo  \V1   d-ti:>   a).    Secondo   le    comezimii    semimate- rialiste sull'anima   di  «[uasi   tutti   i  tilos(»tl   antichi,    l'anima  co- smica  non  potrebbe  a-ire  sulla   materia  (he  i»er  contiguità  e  per impulsione,   come   un   corpi»  su  altri   corpi.    Il    Zelìer    (Fiìos.     dei Greci  1.   voi..   4.   ed..  pa,n.  591)  dà  inopportunamente  questo  luogo del   Cratilo  come   una   prova   della    dottrina     di     Eraclito    che     il fiUKo  ì'   l'essenza  universale  e   la   sostnnza  di  tutte  le  eose  :   in- vece esso  è  evidentemente   un'altra  testimonianza   in   favore  del dualismo  di   iiuesto  tilosofo.   il   fuoco  di  eui  (ini  si  trjitta  essendo una   sostanza  particolare.    rÌLiuarilata   come  il  princi]>ii»  attivo    e foiniatore  ilell' uni  verso. (2)   Diog.    1\.   7   e  Arist.    De  part.   aniìiud.   l.   l.  e.   V.  (Didot pag.  227). (S)  Alcuni  esi)ositori  dei  tilosotì  di  cui  abbiamo  parlato,  cer- <'ano  di  attribuir  loro  un  panteismo,  secondo  essi,  più  rigoroso, oscurando,  invece  di  metterlo  in  luce  come  noi  abbiamo  cereato di  fare,  questo  coneetto  fondamentale  dei  loro  sistemi,  elie  Dio, la  <-aiisa  intelligente  dei  fenomeni,  è  identieo,  non  a  tutto  l'uni- verso materiale,   ma  a  una  sostanza  particolare,  considerata  come M Il  solo  esempio  di  un  panteismo  senza  dualismo  che ci  presenti  la  filosofia  o-reca  è  il  sistema    di    Xenofane. hi  forma  i.rimordiale  didla   materia  e  come  il    sHÌ^stratum    della eoseienza  cosmica.   Così,   secondo  W  7aAWv  i  Fri  ma  periodo,  vnp.  2. §  1.   sulla  line),   in   Eraclito  la   forz;^.   organizzatrice    del    mondo, come  soggetto  attivo  (cioè  la   ragione  o  la   divinità)  .    noìi    è  di- stinta dal  mondo  stesso  e  dall'ordine  del  mondo.  E,  mi  semlua, prestare  gratuitamente  ai   lilosoti  antichi   una  confusione  d'idee, cdie  noi   mm  dovremmo  attribuire   ad  essi  che  quando  cib    fosse assolutamente  inevitabib'.   Nmi  vi  ha   dubbio  che  Eraclito,  come tutti  i  tib.sofi  anticlii,    teisti  o  panteisti,    per  cui  la   divinità  è Panima  del   mondo,   chiami    Dio  tanto  questa  quanto    il    mondo stesso  (ci(M^   il  composto  dell'anima  e  del  corpo),   e  riguardando il  nnuido  come  una  persona,  gli  attribuisca  talvolta,  per  conse- .rucnza,  quest'attività  organizzatrice  che.  secondo  lui,    m)n  ap- partiene propriamente  che  all'  anima  del   mondo.    (E  ciò  che  fa nella  celebre  proposizione  in  cui   paragona  l'Aeon  a  un  fanciullo che  giuoea.  V.  Fr.  44  Muli.  L'Aeon.  cioè  il  tempo  o  l'eternità, non  imo  essere  che  1'  universo,  e  il  giuoco   dell'  Aeon    l'  azione demiurgica  e  ordinatrice.  Così  alenili  autori,  alludendo  a  questa proposizione  di  Eraclito,   invece  del  giuoco    dell'  Aeon,  parlano del  giuoco  di  Zeus  o  del  Demiurgo).  Ma  questa    deificazione    e persmiilieazione  del  mondo  è  naturalissima,    dal    momento  che Eraclito  lo  riguarda  come  un  essere  animato,    ed  essa  non  im- porta aifjitto  una  confusione  del  mondo  stesso  con  la  sua   forza organizzatrice,  cioè  con  1'  anima  del  mondo.   Questa  intei-preta- zimie  di  Eraclito)  non  è  in  sostanza   che    una   riproduzio..  •    del rimprovero  d'Ippolito  (inspirato  evidentemente    dall'  avversione dei  padri  della  chiesa  contro  la  filosofia  greca)  che  Eraclito  ha riunito  nel  mondo  i  due  attributi  opposti  di  creatore  e  di  cosa creata.  Questo  rimprovero  si  fonda  sovratutto  sull'equivoco  oc- casionato dal  doppio  impiego  della  parola  Dio  e    sinonimi    (ap- plicati, come  abbiamo  detto,  ora  all'anima  del  mondo,  e  ora  al mondo  stesso).  È  ciò  che  si  vede  della  maniera  più  chiara  dove Ippolito,  per  appoggiare  la  sua  interpretazione,  riporta  i  tram- menti  di  Eraclito  che  nella  collezione  di  MuUach  portano  i  nu- meri 86  e  87    (  «  Dio  è  giorno  e  notte,  està  e  inverno,  guerra  e  — Il   Dio  di  Xeiiofaue  è  ìniinocìiataineiite  il  inondo,  consi- derato come  un  essere  aiiiii>ato  e  [)ersonale.  Et>li  «  vede ]»}ic(*.  faine  v  sazietà  »  ecc.  \.  jmt  ([lU'sta  )»r(>iM>sizi(»iie  Ai»pen«l. e.  1.  vN  r>.  1».  XX XIX.  (^ui  per  Dio  iioii  si  può  iiiteiideie  clic  il mondo  st«'sso.  o  piuttosto  la  sostanza  <iel  in<>n(lo.  clic  rivestendo ontinuanK'nte  t'oruie  contrarie,  resta  semine  identica  a  se  stes- mh).  In  altro  e((uivoco  che  può  dar  Iuoìì'o  a  umi  tale  interpre- tazione e  quello  occasionato  dall'ainluLiiiità  dei  termine  fuoco  e siuJMiimi  (diMiotanti  ora  la  materia  comune  «li  tutte  le  cose  e ora  questa  forma  particolare  della  mat«'ria  clic  Israelite»  ideiiti- tìea  con  la  divinità).  11  Z(dler  cade  «[iialclie  V(dta  in  quest'e- quivoco, p.  e.  interpn-tandi»  il  Fr.  4S  Mullacli  (Clii  imo  nascon- dersi .  dice  Kra(dito  .  dal  fuoco  <'lu'  \ìì:ì'ì  non  perisce  i  Secoiulo il  Zeller  «[Uesto  fuoco  (die  mai  non  perisce  —  e  a  cui  Kra(dit<> attrilmisce  T  onni\  eo^cnza  —  non  può  ess4'i-<'  <dH'  il  fuo<'o  c<mie essenza  universale  formante  la  sostanza  di  tutte  le  cose.  Ma perfdiè  non  deve  <*ssere  invece  il  solo  fiUM'o  «lu'  l"h-a(dito  d(»ti <li  coscienza  e  di  milione,  cioè  il  fuoco  come  l'orma  particolare della  materia  e  anima  d(d  momlo  ì  Percliè  questo  fuoco  perisce. trasfi»rniamlosi  continuamente  in  altre  forme  della  materia  t  Ma mal.urad(>  ;ì1ì  scambi  incessanti  tra  le  parti  di  (pu'sto  fuoco  e jjli  altri  elementi  didla  materia  .  pere  liè  Kijudito  non  potreldx' parlare  dedla  sua  permanenza  .  come  noi  parliamo  .  malgrado dejsli  .scamòi  materiali  analoulii.  dcdla  permanenza  <li  un  essere vivente  t  ) Secondo  il  Zeller.  Kracdito  lia  identificato  la  forza  ornaniz- zatricM'  d<d  mondo  .  non  s(do  col  mondo  stesso  .  ma  aiudie  con rortline  d(d  mondo.  K  certo  (die  ak'uue  proposizioni  di  Eraclito, prese  strettamente  alla  lettera  .  iniidieliereì>l)ero  una  tale  iden- titieazi(»ue  :  ma  si  tratta  evidentemente  di  semplici  traslati.  (  lie nessuno  oserebl)e  di  prendere  strettamente  alla  lettera,  l*.  e. Kra(dito  (diiama  Zeus  il  TTOAeji.O^  (l;j  ouerra)  .  cioè  qu(^sta  (q>- poriizione  mutua  d(dle  cose,  (questo  passai;iiio  continuo  da  un contrario  all'altro,  che  è  secondo  lui  la  legiic  universale^  e  fon- damentale della  natura  (V.  Append.  e.  1.  ^  .>.).  3Ia  è  chiaro che  il  ^OASjJwOC  qui  desijiiia,  non  la  lo<:^<*;e  (hdla  natura  in  astrat- to,  ma   la  natura  stessa   in  cui  questa  1(;.u;k*'  '^i    realizza  .    e    (die —   — tutto  intero,  ode  tutto  intero,  pensa  tutto  intero»  (1)  : il  substrattim  della  coscenza  cosmica  è  V  universo  ma- teriale nella  sua  totalità,  non  un  elemento  particolare, ri<^uardato  come  la  sostanza  anima  e,  per  conse^-uenza, come  la  divinità  nel  senso  proprio  della  parola.  Il  pan- teismo di  Xenofane  si  conforma  dun(iue  al  tipo  del  pan- teismo antico,  in  (pianto  la  materia  è  riguardata  come un  principio  cosi  primitivo  che  lo  spirito,  e  Dio  è  con- cepito come  un  essere  materiale.  Ma  ne  differisce  in quanto  V  anima  del  mondo  non  è  distinta  dal  mondo stesso,  e  opposta  ad  esso  come  una  sostanza  separata ed  esistente  per  se  stessa.  Questa  non  è  una  deviazione soltanto  dal  ti])o  del  panteismo  antico,  ma  da  quello della  tilosotia  teoloo-iea.  antica  in  <4'enerale,  per  cui,  come abbiamo  osservato,  la  divinità  non  è  che  l'anima  del mondo.  Un  panteismo  come  (juello  di  Xenofane.  in  cui runiverso  è  considerato  come  un  essere  animato,  ma senza  che  la  sua  anima  veni^-a  sostantificata,    può    pa- f'\ così   in  ([iiesta   deifiejizione  d(d    TTOÀcjXOC  non   alduamo  e  he   (pie- sta    estensione     (hdT  attributo    d(dla     divinità     dall'  anima     del mondo    al     mondo  stesso  .    naturalissima,   c(nne     alduamo  detto, in     tutti     i     filosofi    (die     hanno     fatto     d(dla     divinità     1'  anima d(d   imuido.   Jn   altri   casi    la    divinità     c(m    cui    s'  identifica     (per semplice  figura   rettorica)  l'ordine  del    momb».   è  la   divinità    md senso  pnqu'io  .   cioi'   il    loiios    o   1'  anima   d(d   nnuido  :    p.    e.  mdla pr(q»osizi(Uie,   (die   St(dK'o  (AV7.    I.    17S)    attribuisce    ad     Kra(dito. che   il    lon'os  è  il   i'iiUì   e   bi    necessità.     Ma   se    un    filosofo    teista iiKKlerno  dicesse  che  Dio  è  la  le«»«»('  (bd  imuido,  ne  concluderemmo forse  che  e«;li   (bulica   l'ordine  (bd   mondo,   e  fa   una  s(da  e  st(^ssa cosa  d'un  essere  personale  e   d'una   semplice  astrazi(Mie  ì  Si  dirà clu;  Eraclito,  mni  era   un  teista,    ma   un   panteista  :   ma    ei(>    (he noi  attermiamo  è  appunto  (  lu^  il  panteisim»  di  Eraclito  (^  di  ([nasi tutti  i  pant(dsti  anti(dii   mni   differisce  dal    t(dsmo,    (die    per(diè Dio  è  identificato  con  la  forma   primordiale    della    materia  .    di cui  tutte  le  altre  sono  (bdle   trasf(»rniazi(uii. (1)   Framm.  2.    Mullach. —  ì76  - rere  una  concezione  non  lueno  naturale,  anzi  più  forse, che  la  concozio.u.  dualista,  che  oppone  l'anima  del  mon- do al  mondo  stesso  come  una  sostanza  .list.nta  e  sepa- rata. Non  è  strano  tuttavia  che  la  concezione  dominante «ia  stata  la  secon.la,  la  dualità  che  essa  introduce  nel- luniverso,  presentandosi,  della  maniera  pili  ovvia,  come una  conseo-uenza  della  dualità    analoga    che    la    teoria animista  ammette  nell'uomo  e  neoli  altri  esseri  viventi, e  onesta  teoria  essendo  i'accon.pa-namento  quasi  inva- riabile della  filosofia  teologica.  E  verisimile  che  lo  s.esso Xenofane  non  si  sarebbe  allontanato  dal   punto  di  vista ordinario,  se  le  basi  del  suo  sistema  fossero  state    uni- camente quelle  della  filosofia  teologica.    Il   dualismo  in questo   filosofo    sarebbe   incompatibile    con    la    dottrina fondamentale  della  scuola  eleatica,  di  cui  fu  l'iniziatore, cioè  I-unità  e  l'immutabilità  della  sostanza.  Da  per  tutto dove  rivoloe  i  suoi  sguardi,    Xenofane  vede  risolversi tutte  cose  in  una  sola  e  stessa  essenza,  sempre  identica a  se  stessa  (l).    Una    delle    applicazioni    più    ovvie    di questo  principio,  che,  sviluppato  in  tutto  il  suo  rigore conduceva  alla  negazione  della  realtà  della  molUphctà e  del  cau-i amento,  era  la  soppressione  della  differenza fra  il  cosciente  e  il  non  cosciente,    la    sostanza    unica che  circola  in  tutti  gli  esseri  non  potendo  passare  dal- l'uno all'altro  di  questi  due  stati  senza  il  cangiamento più  radicale  nella  sua  essenza.  Il  monismo  di  Xenotane non  nasce  dunque  al  punto  di    vista   della    spiegazione teoloo-ica:    ciò  è  tanto  vero  che  nei  suoi  successori    ri- troviamo lo  stesso  monismo,  ma  senz'alcuna  mescolanza d'idee  teologiche  (2). Gli  stessi  tipi  di  panteismo  e  di  dualismo  che   tro- viamo nella  filosofia  greca,  ritroviamo  pure  in  sostanza (1)  Sesti!  Eiripirieo  Pyirh.   1.  224. (2)  Cfr.  Appena,  e.  1-  ^  6. -   177  — nella  filosofia  indiana.  Dio  è  in  generale,  pei  filosofi indiani  come  pei  filosofi  greci.  V  anima  del  inondo  (1); e  il  priiicii)io  materiale,  anche  secondo  i  primi,  è  eter- no e  primitivo  come  il  principio  spirituale,  sia  che  que- sto s'identifichi  con  la  forma  primordiale  della  materia (sistemi  panteisti),  sia  che  si  facciano  dello  spirito  e della  materia  due  esistenze  distinte  ed  egualmente  pri- mordiali (sistemi  dualisti).  Nel  mnkhya  t(!ista  (sistema di  Patandjnli)  si  amiimttti  uiranima  sui)rema,  Dio,  coe- terno al  principio  materiale  (Prakriti),  ed  ordinatore  del mondo  {•!).  Il  iii/ai/a  e  il  cuii^eaika  ammettono  l'eternità deir  anima  e  degli  atomi:  quella  è  il  principio  motore e  ordinatore  degli  elementi  materiali  (3).  Questi  sistemi rappresentano  il  dualismo,  e  corrispondono,  tra  i  siste- mi greci,  a  quelli  di  Anassagora,  di  Platone  (^  di  Ari- stotile :  il  panteismo,  corrisfiondente  ai  sistemi  degli Stoici  e  dei  finici  loro  j)redecessori,  è  rappresentato  dal sistema  vedantino,  che  è  la  tìlo.sotìa  ortodossa  de"rin- diani.  ScH-ondo  i  Vedaiitini,  Dio  è  al  tempo  stesso  la causa  efficiente  e  la  causa  materiale  dell'  universo  (4)  : nella  loro  cosmo^ii'onia,  come  in  quella  dei  filosofi  teo- log'ici  greci  per  cui  il  principio  divino,  cioè  s{)irituale, non  è  originariamente  distinto  dal  principio  materiale, le  cose  vengono  per  una  trasformazione  di  sostanza, non  per  una  ereazione  assoluta,  dalla  sostanza  divi- na (5).  Dio  è,  rispetto  all'  universo,  come  un  vasellaio (1)  V.  §  2.  p.  r)fi.()7. (2)  V.    C()leì>r.     Filoa,    deffV  fnd.    tviid.    trMiic    di    Pauthirn- lìii<^.  22-28  e  M. (3)  V.  Colebr.  trad.  di  Pautìiier  pai^.  52-58.  5(i .   71-75,   177. (4;  Colebrooke  Saggi  siilla  fiìos.    dcf/P  Itìd,    tijid.    fraur.    di Pautliier  pa^.  173,  199,  288. (5)  Cfr.  Appendici'  alla  parte  1..  jki.h".    LXXV  .  spec-ialineiite nota  2. 12 -  178  - è  ai  suoi  vasi  di  terra,  e  al  t(^iii})0  stesso  come  la  terra «li  eui  qiie>ti  vasi  sono  fatti  (1).  P>rahnia  ha  prodotto il  mondo  })er  una  trast'onnazione  di  una  parte  del  suo essere,  simile  a  (|ueila  elie  subisce  il  latte  per  cano-iar- si  in  latte  ea^-liato,  e  l'acqua  per  cangiarsi  in  ghiaccio  (2). Alla  dissoluzione  del  mondo  ali  elementi  rientrano  Tuno nell'altro  neirordiiu'  inverso  a  (juello  in  cui  al  princi- pio sono  usciti  l'uno  dalTaltro  (per  la  volontà  di  15rah- nia),  tiiudiè  tutto  sia  riassorbito  nella  causa  suprema  e infinitamente  sottile,  che  è  l'rahma  .  l'anima  univer- sale {iì).  ^>uesto  movimento  alternativo,  per  cui  lìrahma emette  da  se  il  mondo  e  poi  lo  fa  rientrare  nella  sua propi-ia  sostanza  .  «lon  ha  cominciamento  ne  fine  :  la <luiata  dell'  universo  è  un  alternarsi  continno  di  due periodi.  T  uno  in  cui.  oltre  a  lirahma  .  esiste  il  mondo (il  i/i(pnf(t  (U  linilniKt),  e  1'  altro  in  cui  esiste  Brahma solo  senza  il  nH>ndo  (la  //o//r  <li  Itmlnna  i.  ('Ome  il  ra- o'iio  proietta  il  suo  filo  e  lo  ritira  (<jiU'sto  filo  esseiìdo formato  dalla  sua  sostanza),  come  le  fnant(5  escono  dalla, terra  e  vi  ritornam»,  così  il  mondo  si  (n^olvt»  dall'anima universale  e  di  dissolve  in  essa  (4).  In  quanto  alle  ani- me individuali,  esse  non  sono  delle  modificazioni  di Hrahma,  come  le  altre  cose,  ma  delle  porzioni  di  Brah- ma stesso,  che  entrando  nel  seno  delle  modificazioni materiali,  hannc»  trovato  la  loro  individtialità  (^  limita- zione, come  l'etcn'e  è  limitato  dal  vaso  che  ne  conticnie un?t  certa  parte,  senza  aver  subito  modifìcazioiui  (;  dif- fejrire  dall'etere  esteriore  (;'»).  (tIì   Stoici   avrebbero  vi>to il  I   (Nih'l)!-.    I».   2SS. (2)   Koniuiiul  Sftftii  'li  fi/os.   ituf.   in    I^rr.  philos.   l.  .').  p.  hi7  e. CoJt'ÌH'ookr   p.   17s. (o)    KrjiiiHiul    in    ffcr.  fthif.    t.   5.    p.    170  «•   ('oI«'l>rook('   p.    ISO. (4)   V.  Colrlnnuk»-  1».    Hì7.   17s.   VMK  2SS. (51   I\«'iiiiaini   in   Nrr.  phil.   t.  fi.   p.    171. 179  — l'espressione  esatta  della  loro  propria  dottrina  nella  pro- posizione dei  Vedantini,  secondo  cui  le  anime  indivi- duali, rapporto  all'  anima  universale,  sono  conu^  delle scintille  che  escono  da  un  braciere  e  vi  rientrano  (1). Senza  dubbio  il  sistema  vedantino  è,  in  un  senso,  un monismo  ri<i'oroso,  in  fjuanto  ammette  che  Dio  solo  è reale  e  il  mondo  è  una  semplice  apparenza.  Ma,  a  parte questa  dottrina,  che  noi  studieremo  nell'Appendice  (2), è  evidente  che  vi  ha  in  (juesto  sistema  lo  stesso  duali- smo ch(5  nei  sistemi  panteisti  greci  :  Hrahma,  come  ani- ma del  mondo,  è  distinto  dal  mondo  stesso,  come  nel- r  uomo  r  anima  si  distingue  dal  corpo,  e  se  Dio  e  il mondo  vengono  infine  identificati,  (juesta  identificazione è  fondata,  conu*  lu'l  i)anteismo  dei  filosofi  greci,  sul concetto  che  le  div(M-se  sostanze  materiali  sono  una  ti-a- sformazione  della  sostanza  divina  (conce])ita  anch'essa conu'  mat(;riale),  dalla  (juale  vengono  e  nella  (|Uale  ri- tornano in  una  sei-ie  infinita  di  evoluzioni  e  di  disso- luzioni. Qtiesta  raj)ida  escui'siom*  storica  ci  mostra  che  la filosofia  teologica,  (|uale  la  troviamo  in  un'epoca  ante- riore al  cristianesimo  o  in  una  civiltà  esente  dall'  in- fluenza del  cristia!H'simo,  è  fomlata  su  (|Uattro  principii, di  cui  due  sono  comuni  alla  forma  dualistica  e  alla panteistica,  e  gli  altri  due  particolari  alla  secomia.  I prinn*  sono  :  la  distinzione  e  o|)posizione  fra  Dio  e  il mondo,  e  il  concetto  che  la  materia  è  eterna  e  primor- diale egualmente  che  lo  spirito,  (ili  altri  :  la  materia- lità della  sostanza  anima  (negli  esseri  viventi  cosi  bene che  nell'universo),  e  la  conversione  reciju-oca  degli  (^Uv menti  materiali.  Questi  due  ultimi  sono  tro[)po  incom- patibili coi  concetti  della  scienza  moderna,  ])er  j)otervi (1)  V.  ('oh')»nM>ko  p.   1S()-1S2.    \\\\\-2m. (.2)   V.   r.    1.  v\  S. 180 vedere  altra  cosa  che  dei  prodotti  naturali  di  uno  stadio inferiore  della  coltura.  I  due  primi  invece  devono  con- siderarsi come  le  condizioni  t^'enerali  di  ogni  filosofìa teologica  che  abbia  di  mira  sovratutto  la  spiegazione dei  fenomeni.  La  distinzione  e  opposizione  tra  Dio  e  il mondo,  come  abbiamo  notato,  oltre  ad  essere  una  con- seguenza logica  della  teoria  animista,  è  l'idea  più  na- turale al  })unto  di  vista  teleologico,  che  assimila  il  rap- porto fra  Dio  e  il  mondo  a  «piello  fra  un  artefice  e  la sua  opera.  L'  eternità  e  primitività,  della  materia  è  il presupposto  ili  qualsiasi  spiegazione  che  la  filosotia  teo- logica possa  dare  dei  fenomeni,  poiché  essa  non  potri^b- be  consistere  in  altro  che  in  un'assimilazione  delTatti- vità  produttrice  dei  fenomeni  all'attività  umana,  e  (jiie- sta  suppone  una  materia  preesistente,  su  cui  possa  eser- citarsi movcMidola  o  altrimenti  modifìcamlola.  Nel  para- grafo precedente  abbiamo  i^ià  osservato  che  la  creazione della  materia  non  può  concludersi  dalie  prove  reali  del teismo,  corrispondenti  alle  du(^  funzioni  della  divinità come  principio  esplicativo  (Un  fenonuMii,  cioè  come  causa motrice  e  ordinatrice.  Da  tutto  ciò  seguirebbe  —  poiché i  principii  su  cui  si  fonda  il  panteismo  antico  sono  le- o-ati,  come  abbiamo  detto,  a  uno  stadio  inferiore  della cultura — che  la  forma  naturale  «Iella  filosofìa  tipologica, appro[)riata  a  tutti  i  gradi  dello  sviluppo  dello  spirito umano,  sarebbe  un  dualismo  conie  quello  che  Sluart-Mill deduce  dalle  prove  del  teismo,  cioè  un  sistema  che  am- metterebbe due  princi[)ii  coeterni  ed  egualmente  primi- tivi, Dio  e  la  materia. Tuttavia  la  filosofia  teoloirica  moderna  non  si  con- forma (juasi  mai  a  (|uesto  tipo.  Dualisti  e  panteisti, meno  (jualche  eccezione  isolata,  sono  d'accordo  sul  prin- cipio che  non  vi  ha  altro  essere  primitivo  che  Dio  (conce- pito come  immateriale),  e  che  la  materia  ne  deriva.  I  dua- listi, (juando  rigettano  il  dogma  della  creazione,  non  negano  perciò  la    creazione    e,r    nihilo,    ma  solanu^ite  la creazione  nel  tempo.  I    panteisti    negano    la    creazione ex  niìtilo,  ma,  ad  eccezione  del  solo  Spinoza  —  che,  come i  panteisti  antichi,  fa  dello  spirito  e  della  materia    du(^ attributi,  egualmente  primitivi,  delTessere  divino  -  non nea-ano  che  la  materia  deriva    da    Dio,    cercano    sola- mente  un  altro  lìiodo  di  derivazione.    Senza    dubbio    il concetto  della  derivazione  della  materia  da  Dio    è    |)iù proprio  a  unrt  si)iegazione  teologica  assolutamente  uni- versale che  «luello  della  materia  còeterna  a  Dio  ed  egual- mente primitiva.    Quest'  ultimo   non  é  compatibile    con una  tale  spiegazione  che  a  due  condizioni  :   1'  una,  che si  ammetta  che  il  cosmos.  il  mondo  ordinato,  ha  avuto un  cominciamento  :    e  1"  altra  che  si  tolga  alla  materia qualsiasi  attività,  e  si  faccia  di  Dio  l'agente  universale, come  nel  sistema  delle  cause  occasionali,  in   cui,  <|uan- do  un  corpo  ne  urta  un   altro,  è  Dio  che,   all'occasione deir  urto,  produce  il  movimento  del    corpo   urtato.    Al contrario  il  concetto  che  la  materia  deriva  da  Dio  rende» possibile  un'  applicazione  universale    della    spiegazione teologica,  anche  ammettendo,  come  facevano  molti  filo- sofi antichi  <'  come  hanno  fatto  in  generale  i  filosofi  cri- stiani, che  la  forma   attuale  del  cosmos  e  la    fornìa    co- stante dell'universo  materiale,  e  lasciando  la  loro   atti- vità agli  esseri  creati,    che    Dio    indirizzerebbe  ai    fini ch'egli  si  é  proposti,  dando  loro,  nel  crearli,  una  natura appropriata.  Non  è  però  verisimile  che  tale  sia   il    mo- tivo di  (juesto  concetto.    L'estensione  della  spiegazione teologica  che  esso  rende  possibile  ([).  e.   V  api)licazione della  dottrina  delle  cause  finali  alla  forma    del    cosmos nell'ipotesi  che  (juesto  non  abbia  avuto  cominciamento o  il  suo  cominciamento  sia    simultaneo    a    quello    della materia)    é  .    in  un  senso,  ancora  una  spiegazione,    in quanto  consiste  in  altre  assimilazioni    delle    cause    dei fenomeni  naturali  alla  nostra  attività.  Ma  una  tale  spie- il' g-azionc.  non  ])otivl>b(',  iiciiiineiio  per  un  nionieiito,  dare riliusione  di  avere  una  spie<>azione  reale,  cioè  che  renda veramente  più  comprensibile  il  fatto  si)iei>-ato.  Per  eiò l)isoi:iuM*(^bl)e  ciie  la  produzione  della  mat(5ria  non  tosse, come  è  nel  tatto,  assolutamente  iin*oìn])reiisibile.  Noi non  dobbiamo  dun(|U('  esitare  ad  affermare  clie  il  con- cetto della  derivazione  della  materia  da  Dio  non  hapotuto  esser  nato  al  punto  di  vista  della  spieuazìoin». dei  fenomeni,  e  che  i  motivi  della  filosofia  teolot>-ica, come  filosofia,  cioè  come  interpretazione  razionale d(n  fatti,  non  potrebbero  rendere  conto  della  sua oriii'ine. Ciò  è  evidente  |)er  la  dottrina  della  creazione  e.r ìii/iilo.  Essa  all'origine  non  è  stata  stabilita  a  titolo  di dottrina  filosofica,  ma  di  doirma.  di  <-redenza  reli<i'iosa. In  seguito  si  è  cercato  di  appoi>-Liiar(^  la  credenza  su arii'omenti  razionali,  ma  questi  non  sono  tali  da  |)oter essere  riguardati  conn*  dei  motivi  reali  della  credenza stessa.  Il  solo  che  dobbiamo  pr(md(M'e  in  consid(M*azione è  (lUello  che  conclude  alla  necessità  di  un'origine  del- Tuniverso  per  Timpossibilità  logica  di  una  durata  in- fiiìita  nel  passato  (1).  Ma,  come  abbiamo  visto,  questa im]>ossibilità  log'ica  non  è  evitata  che  sostituendovene un  altra  più  evidente,  cioè  l'idea  inintelligMbile che  la durata  infinita  di  Dio  non  è  una  durata,  ma  un  eterno presente,  un  istante  indivisibile  (2).  Il  motivo  reale  della dottrina  della  creazione  e.j'  niliUo  lo  abbiamo  indicato nel  ])arag'rafo  precedente:  è  Tapplicazione  alla  efficien- za causale  della  divinità  del  conc(»tto  dell'infinito  o  del- l'assoluto (:^),  concetto  che,  conn^.  abbiamo  spiegato,  non (1)   V ^^   t.   paj-.  Ulil. M r Isa deriva  dalFelemento  filosofico  della  teologia  naturale, ma  dal  suo  elemento  |)uramente  religioso,  cioè  emozio- nale e  pratico. Il   j)anteismo  moderno  nasce  ordinariamente  per  oj)- posizi(nie  alla  dottrina  della  creazione   e,r'   vihUo,    Si    è detto  che  la   base  del   panteismo  è  il    in'inci|)io    che    dal niente  niente  si  fa.  In  verità  questo  j)rincii>io  non   i)uò essere  la   base  del   panteismo  in    generale,    poiché    |>er concluderne  il   panteismo  piuttosto  che  il   duulismo,    oc- corre evidentemente  tma  seconda   j)remessa  :    è    il   prin- ciino,   che  i   panteisti   antichi   igiìcn-axano  e  che  Spinoza non  ammette,    ma   che  è  annnesso  dalla    \\\\\   parte    dei panteisti  moderni,  che  la  materia   non  è  un  essere    pri- mitivo,   nìa   deriva  da    Dio.    Negando    la  dottrina   della creazione  e.r  ìiHiiln  (ciò  che   in   sostanza  è   il    significato del    principio  che  dal   niente  niente  si   fa),    ma    ammet- tendo con  essa  che  la  materia   deriva   da    Dio.    alla   in- comprensibilità della   creazione  c.r    iiìhilo    il     panteismo moderno  non   i)uò  che  soslitnire  altre  incomprensibilità. La  foriìiula  geneiale  in   cui  |miò  riassumersi  (juesto  pan- teismo,  fondato  sulla  negazione  della  creazione  r.r  nìhilo e  al   tempo  stesso  suU'aflermazione  che  la  materia  deri- va da   Dio,   è-  che   Dio   (concepito    come    immateriale)     è la  sostanza  unica,  e  le  cose  non   ne  sono  che  dei   modi di  essere.  Il    rappoi-to  tra  Dio  e  le  cose,  pi-.- conseguenza, sarebbe  (juello  fra  la   sostanza   e  i  suoi  modi  di  essere: così   Dio,   ci-eando  le  cose,   non  creerebbe  delle  sostanze (conn»  nella  dottrina  della  creazione»  (^.r  ìfihilo),    ma  fa- rebbe euKu-gere  dalla  sua  sostanza  dei    modi    di    essere di   (piesta  sostanza   stessa.    \\\   <ìuesta   dottrina   la    causa- lità di   Dio  è  ÌHfìnif((  o    (issolafd    come    in    (|Uella    della creazione»  ex  uihilo  (1),  poiché  Dio,  creando,  non  dà  tma (1)    V.   lKirav,r.    jniM-rd.    pan.    I:i5, -.* -  184  — nuova  forma  a  una  materia  pree.sistcnte,  i-ouu;  nei  .si- stemi dualisti  antichi,  ma  le  cose  ereate,  cioè  i  modi  di essere  della  sostanza  divina  .  sono  ])rodotte  int(?^'ral- mente  da  Dio,  eioè  e<ili  ne  è  la  causa  totale,  la  condi- zione unica  della  loro  esistenza,  senza  il  concorso  di altre  condizioni  a  lui  esteriori  e  da  lui  indi[ìendei!ti. Da  un'altra  parte  il  concetto  che  Dio  è  la  sostanza  delle cose,  che  non  ne  sono  che  dei  modi  di  essere,  salva l'attributo  deir  immutabilità  divina  (incomijatilnle  col panteisnìo  antico,  in  cui  il  niondo  è  una  trasformazione di  Dio),  perchè  la  sostanza  suol  esserci  rii^'uai-data  come un  dir  (li  permanente  e  di  (\sente  dal  cambiamento  .  a cui  non  sarebbero  sotto)>osti  che  uli  accidenti  .  cioè  i modi  di  essere.  Il  ^i'ilive  im-onveniente  di  (juesta  dot- trina è  di  realizzare  ciò  che  mm  è  secondo  essa  che un'astrazione.  Dio  in  questa  forma  di  panteismo  non l)uò  essere  che  <|ualche  cosa  d'indeterininato  e  di  astratto, ])erchè  tale  è  la  sostanza  concej)ita  sej)aratamente  dai modi  di  essere:  cosi,  distinguendo  Dio  dal  iinnido  e attribuendoceli  un'esistenza  |)er  sé.  nel  tempo  stesso  che lo  riu'iiarda  conìe  la  >osianza  delle  cose  .  essa  ne  fa necessariamente  un  indeterminato  reale,  un'  astrazione realizzata. 1/  esenijMo  |»iii  illustre  di  (juesto  tipo  di  pnnteismo è  il  sistema  di  (Giordano  lirum».  Dio.  seciuido  il  J)runo, è  la  sostanza  unica  o,  com'egli  lo  chiamn.  1  [Jno.  che  è ciò  che-  resta  di  costante  in  tutti  i  cangiamenti  dell'u- niverso, e  ciò  che  \'i  ha  d'identico  in  tutti  i:!i  esscjri differenti.  Tutto  ciò  che  noi  \'ediamo  di  differente  lU'U'Ii o*^\U'etti  non  è  .  ei:li  dice  .  ch.e  un  diverso  volto  di  una nuMlesima  sostanza,  \'olto  labile,  mobile  e  corruttibile di  un  immobile,  |)erseverante  eil  eterno  essere.  L'  [''no è  il  punto  di  coincidenza  di  tutte  le  opp(Ksizioni  :  india sua  essenza  semplicissima  s'identificano  tutte  le  contra- rietà  e  tutte  le  difterenze  delle  cose.  Esso  è  in  un  modo —  185  — implicito  tutto  ciò  che  le  cose  sono  in  un  modo  esjdi- cito  :  tutto  ciò  che  nell'universo  esiste^  disperso  e  di- stinto, è  unitamente  e  indifferentemente  nellTno  ;  Dio è  tutto,  ma  tutto  in  lui  è  il  medesimo,  senza  differenza e  senza  distinzione  (1).  Dio  è  indifferentcMnente  materia, torma,  anima,  ecc.,  ma  senza  essere  per  se  stesso  uè materia  uè  forma  uè  anima,  ecc.  :  (\ìì'1ì  è  la  radice  co- mune della  sostanza  sjurituale  e  della  cor|)orale,  dcdla formai  e  dcdla  materia,  (h-c.  .  e  le  contiene  iiulistinta- mente.  come  lo  spazio  le  fiiiiire  che  lo  circoscrivom»  ('2), E  evidente  che  (jUcsto  Dio  non  è  che  l'astrazione  su- prema considerata  come  la  su[)reina  realtà.  LTno  è  il fondo  immobile  (^  da  jx^r  tutto  identico,  alla  cui  su])er- licie  si  disei>-nano  tutti  i  canuiamenti  e  tutte  le  difte- renze  de^'li  esseri  :  Bruno  b»  conc(?pisce dumjue  come un  indeterminato,  di  cui  tutti  (juesti  cnnuiamenti  e tutte  (jueste  differenze  sono  delle  determinazioni  varia- bili e  divergenti.  Quest'  indeterminato  .  separatamente dalle  sue  determinazioni  .  non  potrebì)e  esserci  per  noi che  un'  astrazione  mentale  :  ea"li  ne  fa  un  essere;  reale ed  una  j)ersona  .  identilicaiidolo  con  1'  int(dliu-enza  su- prema {V  intcUetto  che  e  fftttn)  (o)  .  e  dandoi>'!i  tutti  adi attributi  che  la  filosofia  teolo^dca  nu)derna  attri))uisce alla  divinità. Mn  non  vi  ha  forse  sistema  panteista  in  cui  (piesta realizzazione  di  una  semplice  astrazione  sia  cosi  evi- dente come  in  (juello  del  tìlosofo  siciliano  Vincenzo  Mi- celi. Il  Miceli  riiJ'uarda  come  sostanza  del  mondo  la prima  persona  della  Trinità,  eh"  e<ili  chiama  l'Onnijio- tenza.  Il   mondo  non  è  che  ronnijxJtenza  stess?i.  estrin- (1)  Ci'v.^A/tfìnHl.  r.  1.  §  i>. (2)  V.    /fr   la   musa,   ftruiri/tio  rf   innt  <m1ìz.    Wagner,  pJiin.  *J<>4 e  2S(). (H)  V.    Del  jiiiiic,   ('(Ufsa  ri   mio.  '1.   dialoiio.    |»a,u.  -')>»). —  18(j  — seeaiiientc  considerata.   Il   reale  è  una  t'orza  sempre  at- tiva, un  essere  vivente  (ens  rtvìun),  la  cui  essenza  con- sisre  in  una  continua   mutazione  di    stato    (1).    In    essobiso,i»-na  distint>uere  due  elennniti,  o   piuttosto  due  iati, l'uno  estrins(H*o,   che  è  (jueilo  ciie  percepiscono  i  sensi, e  l'altro  intrinseco,  die  non  è  accessibile   che   all'intel- ligenza.  1/ intrinseco  è    Dio    stesso,    cioè    la    sostanza, l'estrinseco  il   mondo,  cioè  i   modi  di  essere.   La    distin- zione tra  l'intrinseco  e  l'estrinseco,  tra  Dio  e  il  mondo, eipiivale  a  (|uella  tra   il   costante  e  il   variabile.   Di  <|ue- sta   Forza  s 'm|)re  attiva  che  costituisce  il  reale,  il  senso non   perceiHsce  che  <ili   stati  cani;'ianti   e  difterenti,   ])er- chè  esso  non   vede  che   il   lato  estrinseco  delle  cose.  Ma al  di   sotto  del  cangiamento  e  della  differenza,   l'intelli- ji-enza  vede  Tidentità:    (vssa  compreiìde  che    intrinseca- mente l'Esserci  vivo  è  sempre  identico  a  se  sti^sso,  esente dal  canii'iamento  (^  da  (jualsiasi   differenza;   che  u'ii  stati distinti  .    successivi  o  simultanei,    delln   Forza  infinita, che  costituiscono  i  diversi  esseri   o  fenomeni,  sono  nel- l'intrinseco   la   st<'ss;i   cosa:  che  la   Sostanza,   nelle  con- tinue novità,  è  semj)re  la  stessa,   come  la  sostanza  del- l'act^ua  è  sempre  la  stessa,  (piantunque  continue  e  sem- pre nuove  siano  V  onde  ('2).     Non    bisoi>-na    imma,i>"inare che   neir  F'.ssere  vivo  vi  siano  <lue  cose,    cioè    una   so- stanza come  sustrato  della  t'orza,   e  una  t'orza  inerente a  «questa  sostaìiza.  In  realtà  la  sostanza  non  si    distin- ^'ue  dalla  t'orza,  cioè  da  un'  azione  incessante,    da  Uìia continua  mutazione  di  stato.  SolamenKi  in  (juesta  forza, (1)   V.    Di   (Jinvniiiii    F/tmiiK.   tli   fìlos.   inn'ilmmi   iirlhi    rivista La    filosofia,    l^ih-nno   1S!M).   fjisc.    1.   pjjji.    HO. ('Jl  V.  Mi<'i!li  Siu/iiio  storico  ili  an  si  strina  iurta  fisico  iit'I  vo- liiiiir  «li  Di  (Jiovaimi  //  Miceli  Xaovi  DiahHjhi,  jm;;.  115-n<>.  e Di  (Jioviimii  Fraonn.  di  filos.  tnievliana  ih'IIm  rivistsi  i-itata,  spc- f'ialrncnt»'   f:«<c.    1.   ]kì'^.   ♦U-T.^   <•    fa<c.   l.^    pa-.    129-11^(1. 5«? —   187  — in  <juesta  azione  o  mutazione  continua,  biso<>'na  distin- ^'uere  l'intrinseco  e  l'estrinseco:  nell'estrinseco  t\ssa  è sem])re  diversa,  nel!'  intrinseco  è  sempre  la  stessa  (1  ). Si  potrebbero  le.ii'<>'ere  delle  pagine  intere  di  Miceli  o d(M  suol  discepoli  senza  pensare  ch(*.  l'intrinseco  e  V  e- strinseco,  la  sostanza  e  i  modi  di  essere,  siano  «jualche cosa  di  più  che  d^^^ili  elementi  puramente  concettuali ch(5  per  astrazione  si  disting'uono  nell'Essere  vivo.  Ma ad  un  tratto  s'inconti'ano  d(ille  proj)osizioni  come  i\\w,- sta  :  che  la  Forza  infinita  (cioè  la  sostaiìza)  è  il  Padre della  pc^rpetua  novità  (cioè  del  mondo)  e  della  Sapienza infinita  o  del  Figlio  (che  è  generato,  ci  si  dice,  dalla semplice  Forza  intinita,  separatamente  dalla  perpetua novità)  (2).  ()\i\  non  i>nò  essm'vi  dul)bio  che  i  due  ele- menti non  siano  distinti  realnuuite,  ma  soltanto  concet- tualmente. Che  si  tratti  di  una  distinzione  reale  e  non di  una  semplice  astrazione  mentale»,  è  evidente  d'  al- tronde «juando  all'elemento  intrinseco  o  sostanziale  ven- gono attril)uite  limmutabilità,  la  siMiiplicità,  l'infinità, la  perfezione  assoluta,  la  necessità,  ed  in  una  parola tutti  gli  attributi  che,  secondo  la  filosofia  teologica  mo- derna,  costituiscono  il  concetto  di  Dio.  Ciò  non  può avere  per  iscopo  che  di  identificare  quest'elenuMito  con la  divinità,  e  di  distiniiuere  da  essa  V  (demento  acci- deìitale  ed  estrinseco. Se  si  ammette  ch(^  Dio  è  la  sostanza  <lelle  cose,  e si  vuol  fare  al  tempo  stesso  di  lui  un  essere  assolnta- mente  determinato,  e  non  un  indeterminato  reale,  di cui  le  proprietà  differenti  delle  cose  sono  le  det(MMnina- zioni,  non  si  può  che  ritornare  all'  idea  del  |)aiìteismo antico,  che  il  mondo  è  una  modificazione  di   Dio,    una (D   Di   (iiovaniii   Framin.  c«-c.  .    rivista    citata,   fase  1.   pai;. ()S  HI. (2)    Di   (lifjvanui.   ìhid.   fase.  2.   pai;.  trasformazione  della  sua  sostanza.    Allora  bisog-na  am- mettere o  che  la  sostanza  divina  si  è  trasformata  inte- ramente nel  mondo,  eiò  ebe  sionificberebbeche  Dio,  crean- do il  mondo,  si  è  annicbilato:  o  c-be  si  è  trasformata  nel mondo  solamente  una  parte  di  questa  sostanza,  ciò  che sarebbe  distruggere  la  semplicità  e  riiimnitabilità  che, secondo  la  Hlosotìa  teologica  moderna,    sono  essenziali al   concetto  di  Dio.   Ma  queste  conseguenze  non    sareb- bero inevitabili    che    se    i    concetti    metafìsici    avessero quella  consistenza  logica,   la  eiii   assenza,  al   contrario, e  il  loro  carattere  (,uasi  generale.  Cosi  il  metafìsico  dirà che  Dio,  modifìcand.>si  per  produrre  il   mondo  .  nò  si  è annicbilato  ne  ha   ceduto  al   mondo  una  parte  della  sua sostanza;  ch'egli   non   ha  perduto,   malgrado  ((uesta  mo- difìcazione,  la  sua   iuìmutabilità  e  la  sua   semplicità;   e che  ciò  ('  i)erchè  la   sostanza  divina,  (juantunque  unica e  semplicissima,    esiste  simultaneamente  in    <hu'    stati, neir  uno  senza  modifìcazione,    in   cui  è  Dio  stesso,    il Creatore,  e  nellaltro  modifìcata,  in  cui  è  l'universo,  le cose  create.   È  su  ipiesto  concetto  cdu»   è   fondato    il    si- stema di   Lamennais.  Creare,  per  Dio,  è,   dice    Lamen- nais.   limitare  la  sua  pr(>i>ria  sostanza.  Le  diverse  crea- ture non   sono  (he  Dio  stesso,  variamente  limitato.  Cosi le  proprietà   degli   esseri   finiti  non  sono  che  le  proi)rietà stesse  della  sostanza  infinita,  cioè  la  Potenza,  rintelli- genza  e  1"  Amore  (costituenti   le  tre  persone    della    Tri- nità), illimitate  in   Dio,  limitate  nelle  creature.    Ogni forza,  (pialunque  sia,  è  una  parteci]>azione  della  potenza di  Dio,  un'espansione  del   Padre,  un  dono  ch'egli  fa  di se  stesso.  Ogn"  intelligenza,  ogni  forma,    a  qualunque stato  e  a  (jualunque  grado  di  limitazione  si  conce])isca, è  una  partecipazione  dell'  intelligenza,  della   forma  di- vina, un'  espansione  del  Figlio,  un  dono  eh'  egli    fa  di se  stesso.  Ogni   vita,  sotto  ((ualunque  modo  esista  e    si manifesti,  è  una  partecii)azione  della  vita  divina,  un'e- -  189  — spansione  dello  Spirito,  un  dono  eh'  egli  fa  di  se  stes- so »  (1).  Gli  esseri  partecipano  pure  alT  unità  divina, allo  stesso  grado  in  cui  partecipano  alla  sostanza  divina e  alle  sue  proprietà.  «  Non  è  una  mediocre  gioia  per r  intelligenza  di  scoj)rire  così,  non  solo  il  suggello  del Creatore,  ma  lui  stesso  nella  sua  opera,  di  contemplare Dio,  secondo  tutto  ciò  ch'egli  è,  al  seno  dell'universo in  cui  si  esj)an(le  incessantemente,  di  ritrovarlo,  in  un certo  senso,  tutto  int(M*o  in  ciascuim  degli  esstn-i  realiz- zati dalla  sua  onnipotenza»  (2).  Ma,  i)artecipandosi  alle creature,  la  sostanza  divina  non  prova  alcun  cangia- mento, non  si  divide  e  non  perde  la  sua  unità  assoluta. La  stessa  sostanza,  lo  stesso  essere^,  sussiste  simulta- neamente a  due  stati  diversi.,  l'uno  illimitato  e  l'altro limitato:  indi' uno  di  ([uesti  stati  è  Dio,  nell'  altro  le creature  (S).  Così,  (juantunque  la  creazione  non  importi alcuna  produzione  d'essere  o  di  sostanza,  la  quale  in sé  è  impossibile,  gli  esseri  creati  sono  essenzialmente separati  da  Dio,  e  la  natura  di  Dio  è  essenzialmente differente  da  ([uella  della  creatura,  benché  la  sostanza della  creatura  non  sia  radicalmente  che  la  sostanza  di Dio  (4). Sarebbe  incomprensibile  come  delle  idee  sì  oscure e  sì  poco  naturali  abbiano  potuto  essere  preferite  a quella  si  ovvia  dell'anima  del  mondo  dei  filosofi  antichi, se  noi  sup[)onessimo  che  gli  autori  che  le  hanno  messo innanzi  non  cercavano,  senz'altra  preoccupazione,  che la  spiegazione  più  soddisfacente  dei  fenomeni  .  e  non tenessimo  conto  dell'infiuenza  della  tradizione  e  dell'au- torità anche  sugli  spiriti  che  se  ne  sono  in  parte  eman- (1)  Abbozzo  (Vuna  iilosofi(t,  t.   1.  pai^.  .S8S. (2)  Ibid.  pag.  3-U). (3)  Ibid.  pag.  KM),   112,  33S.  occ. (4)  Ibid.  pag.  106  e  112. '  !    cipati.  (McstMiitiuenza  ha  fatto  si  clie  il  principio  con- tenuto nella  dottrina  della  creazione  e.r  ììUìHo,  die  Dio è  il  solo  essere  i)riinitivo  e  la  materia   deriva    da    Dio, continuasse  ad    ammettersi    come    un    presupposto    che non  era  da  mettere  in    quistione,    anche    dopo    che    la forma  tradizionale    in    cui    era    dato    (piesto    principio, cioè  la  dottrina  stessa  della  creazione  e.v  iiihilo,  veniva rio-ettata.  Supposti  al  tempo  stesso  questi  due  principii, che  Dio  è  la  causa  e  la   soro-ente  unica  di  tutte  le  cose, e-  che  una   produzione  di  sostanze  è  impossil)ile,    se  si ammettono  di   più  i  co.icetti  della  tilosolia  teologica  mo- derna, incomi)atil)ili   con   la  forma  antica  del  panteismo, della  immaterialità  di  Dio  e  della    sua    immutabilità    e semplicità,  si  ha  come  conse<>-iienza  che   Dio    (conside- rato come  immateriale),   è  la  sostanza  unica,    e   che  le cose  non   hanno  alcuna  sostanzialità  :   (|Ueste  allora  non possono  riguardarsi  che  come  dei   modi   di  essere    della sostanza  divina.  Hn'  osservazione  che  non    è    forse    da ne«:-ligere  è  che  molti  dei  panteisti   moderni    (quali    .u'ii autor?  die  ci   hanno  servito  di  esempio)   sono    stati    dei preti  o  dei  frati,  nutriti  di  dommatismo  teolo-'ico,   che ha  dato  la   prima  pieoa  al  loro   si)irito.    Avremmo    cosi poca   rai:'ione  di  soriu-enderci  che  il   panteismo  di  (4i(»r- dano  Bruno  o  di  Miceli  o  di    LanuMinais    non    sia    che una  trasformazione  della  dottrina  della  creazione  c.r  ??/- fìHn,    clic  di   trovare  strano  che  il    dopna    della    rom^u- stanziazìonf  di  Lutero  non  sia  che  una  leg'--i<u-a  variante del  dolina  cattolico  della  (raHsf(sf<nizìazioìie.    I    rappre- sentanti del   panteismo  moderno  —  o,  più  propriamente, della  forma  del  panteismo  moderno  di  cui    ])arliamo  - sono  stati  certamente  deg'li  arditi  pensatori  :  ma  perchè non  fosse  altro  che  un'interpretazione  razionale  dei  fe- nomeni, la  loro  filosotia  non  dovrebbe  muoversi  nelTor- hita  della  tilosofta  teoloo-ica  ordinaria,    mentre  essa  ne accetta  invece,   ad  eccezione  della  creaziom^  r.r  tìihilo, tutti  i  concetti  ibudammiiali,  di  cui  alcuni  non  si  spie- gano che  per  l'influenza  dei  dogmi  religiosi,  non  po- trine })uramente  filosofiche. ha  però  nella  filosofia  moderna  un  tipo  di  pan- teismo, in  cui  si  ammette  la  derivazione  della  materia da  Dio,  e  che  tuttavia  si  Sj)iega  per  semplici  motivi filosofici,  e  indipendentemente  dall'intluenza  del  dogma e  del  tr<idizionalismo.  Sono  i  sistemi  ])anteistici  che soro'ono  sulla  bas^»  d'  una  tilosoMa  .  che  risolve  tutto  il ridale  nello  s|)irito,  respingendo  il  dualismo  ordinario tra  lo  spirito  e  la  materia.  (Questa  filosofia  comprende du(i  tipi  distinti,  che  studi(;remo  nei  j)aragrafi  st\i:ii(mti, cioè  il  iKinpsiclìì^^ìno  e  V idodlisììnf.  Sono,  come  vedremo, due  varietà  della  filosofìa  aiitropomortìstica  .  ma  iinj)li- caiio  runa  e  l'altra  una  certa  soluzione  della  ((uistionc del  mondo  esteriore,  che  sovverte  o  trasforma  radical- mente le  concezioni  del  realismo  naturale,  su  cui  sono gli  altri  sistemi  panteisti  di  cui  abbiamo  par- lato precedentemente.  La  dottrina  che  noi  chiamiamo jjcnfpsichisino  accetta  la  credenza  del  i*ealismo  naturale che  ii'li  oaa'i^tti  esteriori  sono  ijidipeiìdenti  <lal  soii^ctto conoscente  (mentre  secondo  V idealisìno  essi  non  esistono chi'  nella  perccr/iom»  o  nel  pensiero,  sia  iiìdividuale  sia universale  o  assoluto)-,  ma  secondo  (juesta  dottrina  tutti jiiesti  oggetti  non  sono  che  spirito.  ])erchè  essa  ammette che  la  materia  è  un  semi)lice  fenomeno^  e  ch(;  la  realtà corrispondente  non  è  che  spirito  {{).  (,>uesta  dottrina  è er  se  stessa  indipendente  da  (pialsiasi  forma  «Iella  filo- sofia teologica:  ma,  se  si  unisce  alla  filosofia  teologica, essa  conduce  logicamente  al  panteismo  .  perchè  in  un sistema  pluralista,  ammessa  (jiiesta,  dottrima,    1'  azione (1)    \.    «[lU'Sto   sli'ssu   cMpil.    yV  15. —  192  — reciproca  tra  le  cose  diventa  incomprensibile  (1).  Questa incomprensibilità  dell'  azione  reciproca  tra  sostanze  di- stinte in  un  sistema  panpsichista  ha  dato  litogo  a  due soluzioni  della  dilHcoltà  :  Tuna,  fondata  sul  dog-ma  della creazione,  è  V  armonia  prestabilita  di  Leibnitz  —  solu- zione evidentemente^,  illusoria,  perchè  non  fa  che  sosti- tuire a  un  mistero  un  altro  mistero  non  nnmo  inintel- lio-ibile  —  ;  l'altra,  puramente  razionalista,  è  il  monismo, che  assorbe  tutti  uli  spiriti  individuali  in  uno  spirito unico,  in  modo  che  le  a/ioni  apparentemente  trascen- di^nti  di  (|U(;^ti  spiriti  individuali  gli  uni  sugli  altri  non siano  in  realtà  che  delle  azioni  immanenti  dello  spirito universale.  In  alcuni  sistemi  panpsichisti  il  monismo  è indipendente  dalla  tilosolia  tecdogica,  conie  in  quello  di Schopenauer  :  in  altri  è  legato  con  questa  lilosofìa,  e diviene,  per  conseguenza,  panteismo. Un  sistema  panpsichista  e  al  tempo  sXqì^^o panteista, in  cui  il  monismf),  per  confessione  dello  stesso  autore, ha  per  iscopo  di  s|)ieg'are  l'azione  reciproca  degli  esseri, è  quello  di  Hartmann.  Come,  domanda  Hartmann,  la volontà  dell'individuo  può  ag'i re  sulle  volontà  degli  ato- mi cerebrali  ?  come  può  essere  in  istato  di  comunicare e  d'entrare  in  conflitto  direttamente  con  le  volontà  d'al- tri individui  psichici?  La  possibilità  di  questi  rapporti, di  questi  conflitti  non  si  comprende,  egli  dice,  che  ve- dendo nei  diversi  esseri  individuali  altrettante  funzioni differenti  di  un  solo  e  stesso  essere,  e  sovratutto  di  un essere  incosciente.  La  sostanza  Comune,  che  loro  serve di  radice  metafisica,  permette  il  commercio  delle  vo- lontà individuali;  sul  fondo  comune  d'una  sostanza  in- cosciente le  funzioni  distinte  trovano  il  legame  neces- sario alla  loro  azione  reciproca,  e  nel  tempo  stesso  un terreno  conveniente  per    isviluppare    le    loro    coscienze (1)   V.  questo  stesso  capit.  §  10,  pag.   170, 193   — distinte  (1).  «  Un  dualismo  serio  sopprime  la  causalità reciproca  degl'individui,  la  quale  è  un  fatto  d'esperienza nel  tempo  stesso  che  una  legge  a  priori,  e  le  sostituisce la  concezione  inferiore  deiroccasionalismo  o  dell'armo- nia prestabilita La  causalità,  intesa  nel  senso  del- l'influsso fisico,  conduce  necessariamente  aU'assorzione degl'individui  come  fenomeni  nel  seno  della  sostanza unica  e  assoluta»  (2).  «Supponiamo  che  la  separazione fenomenale  degl'individui  sia  altra  cosa  che  una  sem- plice pluralità  di  funzioni  nel  seno  dell'  essere  che  ne è  il  principio.  Ammettiamo  che  quest'essere  non  sia  iden- tico, e  che  la  diversità  delle  funzioni  riposi  sulla  diversità delle  sostanze;  non  vi  sarebbero  più  allora  tra  gl'indivi- dui delle  relazioni  reali,  e  intanto  l'esperienza  dimostra  il contrario.  Uno  dei  più  grandi  meriti  del  gran  Leibnitz  è stato  di  riconoscere  francamente,  espressamente,  la  veri- tà di  questa  proposizione,  malgrado  le  conseguenze  mor- tali pel  suo  sistema  individualista  che  ne    derivano che  ammette  la  pluralità  delle  sostanze,  deve confessare  che  tali  monadi  non  solo  non  potrebbero  avere finestre  per  cui  possa  penetrare  in  esse  almeno  qiiest'in- tìusso  ideale  di  cui  parla  Leibnitz,  ma  ancora  che  niente fa  comprendere  come  queste  sostanze  indipendenti  le ufl-e  dalle  altre,  che  non  hanno  niente  di  comune  fra di  loro,  possano  essere  riunite  da  un  legame  metafisico qualunque.  Ciascuna  di  esse  dovrebbe  piuttosto  rap- presentare per  se  stessa  un  mondo  isolato.  Per  suppor- re un  legame  metafisico,  capace  d'  assicurare  il  com- mercio di  queste  sostanze,  bisognerebbe  spiegare  prima, ciò  non  è  facile,  qual  rapporto  reale  unisce  la  sostanza nuova,  che  formerebbe  questo  legame,  alle  altre  so- . Vedere  in  questa  comunicazione    una    funzione (1)  Filos.  delVineose.  t.  2.  e.  HI.    traci,    frane,    pa.ij.    47-48. (2)  md.  t.  2.  e.  Vili.  pag.  238. 13 — reciproca  tra  le  cose  diventa  incomprensibile  (1).  Questa incoili prensibilità  dell'  azione  reciproca  tra  sostanze  di- stinte in  un  sistema  panpsichista  ha  dato  htogo  a  due soluzioni  della  difHcolt^ì  :  Tuna,  fondata  sul  dog-ma  della creazione,  è  V  armonìa  prestabilita  di  Leibnitz  —  solu- zione evidentemente  illusoria,  perchè  non  fa  che  sosti- tuire a  un  mistero  un  altro  mistero  non  nnmo  inintel- lio'ibile  — ;  l'altra,  puramente  razionalista,  è  il  monismo, che  assorbe  tutti  gli  spiriti  individuali  in  uno  spirito unico,  in  modo  che  le  azioni  api)arentemente  trascen- denti di  (iU(;>ti  spiriti  individuali  gli  uni  sugli  altri  non siano  in  realtà  che  delle  azioni  immanenti  dello  spirito universale.  In  alcuni  sistemi  j)anpsichisti  il  mon'mno  è indipendente  dalla  tilosotia  teologica,  come  in  quello  di Schopenauer  :  in  altri  è  leg'ato  con  questa  lilosofìa,  e diviene,  per  conseguenza,  panteismo. Un  sistema  panpskhista  e  al  tempo  sìQì^ho panteista, in  cui  il  monismi),  per  confessione  dello  stesso  autore, ha  per  iscopo  di  spieg-are  l'azione  reciproca  degli  esseri, è  quello  di  Hartmann.  Come,  domanda  Hartmann,  la volontà  dell'individuo  può  ag'ire  sulle  volontà  degli  ato- mi cerebrali  V  come  può  essere  in  istato  di  comunicare e  d'entrare  in  conflitto  direttamente  con  le  volontà  d'al- tri individui  psichici  ?  La  possibilità  di  questi  rapporti, di  questi  confiitri  non  si  comprende,  egli  dice,  che  ve- dendo nei  diversi  esseri  individuali  altrettante funzioni differenti  di  un  solo  e  stesso  essere,  e  sovratutto  di  un essere  incosciente.  La  sostanza  eomune,  che  loro  serve di  radice  metafisica,  permette  il  commercio  delle  vo- lontà individuali;  sul  fondo  comune  d'una  sostanza  in- cosciente le  funzioni  distinte  trovano  il  legame  neces- sario alla  loro  azione  reciproca,  e  nel  tempo  stesso  un terreno  conveniente  per    isviluppare    le    loro    coscienze (1)   V.  questo  stesso  eapit.  §  W',  pag.   170. -    193   — distinte  (1).   «  Un  dualismo  serio  sopprime   la    causalità reciproca  degl'individui,  la  quale  è  un  fatto  d'esperienza nel  tempo  stesso  che  una  legge  a  priori,  e  le  sostituisce la  concezione  inferiore  deiroccasionalismo  o  dell'armo- nia prestabilita La  causalità,  intesa  nel  senso    del- fisico,  conduce  necessariamente  aU'assorzione degl'individui  come  fenomeni  nel    seno    della    sostanza un'Ica  e  assoluta»  (2).  «Supponiamo  che  la  separazione fenomenale  degl'individui  sia  altra  cosa  che  una  sem- pluralità  di  funzioni  nel  seno  dell'  essere    che  ne è  il  principio.  Ammettiamo  che  quest'essere  non  sia  iden- tico, e  che  la  diversità  delle  funzioni  riposi  sulla  diversità delle  sostanze;  non  vi  sarebbero  più  allora  tra  gl'indivi- dui delle  relazioni  reali,  e  intanto  l'esperienza  dimostra  il contrario.  Uno  dei  più  grandi  meriti  del  gran  Leibnitz  è stato  di  riconoscere  francamente,  espressamente,  la  veri- tà di  questa  proposizione,  malgrado  le  conseguenze  mor- tali pel  suo  sistema  individualista  che  ne    derivano che  ammette  la  pluralità  delle  sostanze,  deve confessare  che  tali  monadi  non  solo  non  potrebbero  avere finestre  per  cui  possa  penetrare  in  esse  almeno  quest'in- flusso ideale  di  cui  parla  Leibnitz,  ma  ancora  che  niente fa  comprendere  come  queste  sostanze  indipendenti  le ufl<3  dalle  altre,  che  non  hanno  niente  di  comune  fra di  loro,  possano  essere  riunite  da  un  legame  metafìsico qualunque.  Ciascuna  di  esse  dovrebbe  piuttosto  rap- presentare per  se  stessa  un  mondo  isolato.  Per  suppor- re un  legame  metafìsico,  capace  d'  assicurare  il  com- mercio  di  queste  sostanze,  bisognerebbe  spiegare  prima, e  ciò  non  è  facile,  qual  rapporto  reale  unisce  la  sostanza nuova,  che  formerebbe  questo  legame,  alle  altre  so- stanze. Vedere  in  questa  comunicazione    una    funzione (1)  Filos.  deWhicose.  t.  2.  e.  IH.    trad.    frane,    pa-.    47-4H. (2)  Thid.  t.  2.  e.  VITI.  pag.  238. 13 —  !94   - dell'assoluto  o  T  assoluto  stesso  è  provocare  quest'os- servazione,  che  se  il  rapporto  reale  di  questo  preteso assoluto  con  le  altre  sostanze  non  pare  più  inintelli- gibile che  quello  di  ([ueste  sostanze  fra  di  loro,  è  per- chè airinimaginazione  piace  dotare  quest'  assoluto  del potere  di  realizzare  de<ili  effetti  incomprensibili.  L'  a- zionedeirassoluto  sulla  moltitudine  deg-li  altri  esseri  non si  concepisce  che  se  il  i)reteso  assoluto  cessa  di  essere una  sostanza  realmente  limitata  dalla  moltitudine  delle altre,  e  si  trasforma  in  una  sostanza  infinita  che  com- prende realmente  e  per  conseii'uenza  abbracia  nel  suo seno  le  altre  sostanze  come  de^li  elementi  del  suo  es- sere totale.  Ma  allora  le  sostanze  multi[)le  sono  spo- gliate della  loro  in(li[)end(Mizn  .  della  loro  sostanzialità, e  non  sono  più  che  i  momenti  di  un  solo  e  unico  as- soluto    1/  influsso  tisico  o  la  causalità  delle    monadi non  ])otrebbe  altrimenti  sostenersi,  ma  si  spiega  facil- mente nella  dottrina  che  identitìca  la  })luralità  e  l'u- nità al  seno  dell'essere  unico»   (1). (^lesto  motivo  del  panteismo  panpsichista,  cioè  di spiegare  l'azione  reciproca  degli  esseri,  incomprensibile questi  esseri  sono  delle  sostanze  spirituali  distinte, non  r  meii<)  evidente  in  T.otze,  che  alla  dottrina  delle monadi  (nel  senso  leibnitziano)  unisce  una  concezione monistica,  secondo  cui  gli  esseri  semplici  che  costitui- scono il  mondo,  n^-n  sono  separati  dall'Infinito  o  dal- l'Assoluto, ma  esistono  in  lui  stesso,  e  ne  sono  degli stati.  «  Il  corso  della  natura  tisica  non  può  essere  con- siderato come  qualche  cosa  di  distinto  da  questa  so- stanza generale  delTassoluto,  dall'essenza  di  Dio I fenomeni  del  mondo  non  si  producono  nel  vuoto,  di  tal sorta  che  tra  due  esseri  che  agiscono  l'uno  sull'altro, non  vi  sia  bisogno  d'alcun  intermediario,  e  che  mentre (1)   fh'uL  t.  2.   e.    VII.   im-.   200-201. —  195  — razione  si  trasporta  dall'uno  all'altro,  essa  si  trovi  un solo  istante  come  sospesa  tra  questi  due  esseri;  quest'a- zione si  perderebbe  nel  niente,    se   lo    spazio    interme- diario tra  questi  due    esseri    finiti    non    fosse    riempito dall'ubiquità  di  (juello  che  li  ha  creati  per  la    sua    po- tenza. Alcun'  azione  nel  mondo  non  può   dunque    pas- sare da  un  essere  a  un  altro  senza   ritornare    nel    pas- saggio alla  ragione  generale  del  mondo  che  li  riunisce tutti  e  due  »   (1  ).   «  Perchè  le  cose  possano  essere  in  rap- porto reciproco  ed  operare  le  une  sulle  altre,  non  gua- dagniamo niente  sopprimendo  la  loro  immanenza  (cioè la  loro  esistenza  nell'Infinito)    .  (2).   «Non  havvi  forma di  meccanica  superiore  capace  di  mostrare  che  un    tal modo  d'operare  (reciproco  tra  le  varie  cose)  debba   es- sere l'attributo  di  diversi  esseri  presi  a  due  a  due;    se esiste,  deve  essere  una  disposizione  reale,    che  non  si può  considerare  metafìsicamente    che    come    un'  azione deW  Idea  del  tutto    (cioè  delT  Assoluto,    in  cui    tutte  le cose  esistono)  :  tale  idea,    attiva  in  tutti  gli    elementi, loro  prescrive  manifestazioni  reciproche,  le  quali,  senza di  essa,  non  potrebbero  nascere,  come  necessarie,  dalla semplice    nozione  e  natura   di    tali    elementi»    (3).    «Il corso  del  mondo  è  incomprensil)ile  per   un    j)luralismo, il  quale  da  una  moltitudine  originaria  di    elementi    in- differenti gli  uni  agli  altri    spera    far    nascere,    per    il semplice  comando  di  leggi  .    e    come    supplemento,    la necessita  di  tener  conto  gli  uni  degli  altri.   Senza  1'  u- nità  del  Reale,    che  è  ed  abbraccia  tutte  le  cose,  e  de- termina la  loro  esistenza  e  la   loro   natura,    la    nascita delle  cose  in  un  luogo  e  temi)o  determinato  non  è  com- prensibile »   (4). (1)  Psicolof/ia  fisiolof/lea  trad.   ti'jiiic.   pni;.    Uìri-KiO. (2)  yfetitfisU'n  trad.  frane.   i)a.n.   li^o. {'M  Mct.  pao.   IK). (1)  Mtt.  i)a,u.  517. —  196  — Delle  forme  dell'  idealismo  la  più  propria  ad    assu- mere il  carattere  o  almeno  la  sembianza  d'una  dottrina panteistica,  è  V  idealismo  og'g'ettivo,    che  considera  le cose  come  dei  pensieri  d'uno  spirito  universale.  L'idea- lismo oggettivo  di  Schelling  e  di  Hegel  non  è,  a  parlar propriamente,  una  dottrina  panteista,    per  la  semplice ragione  ch'esso  non  è,  a  parlar  propriamente,  una  filo- sotia  teologica.  La  filosolìa  teologica  è  una  specie  della filosofia  volizionale,  cioè  essa  consiste,  come  la  più  parte delle  altre    forme    della    spiegazione   antropomorfìstica, ad  assimilare  il  modo  reale  della  produzione  dei    feno- meni all'azione  volontaria.  Ma  l'idealismo,  al  contrario delle  altre  forme  delT antropomorfismo,  prende  per  tipo della  sua  spiegazione,  non  la  nostra  azione  volontaria, cioè  l'attività  che  il  nostro  spirito  esercita    sulle    cose, ma  lattività  puramente  interna  del  pensiero,  e  propria- mente, nei  sistemi  di  Schelling  e  di  Hegel,   la  sua  at- tività logica.  Vi  ha  tuttavia  un  elemento  in    questi    si- stemi, che  costituisce  un  punto  di  contatto  con  la  fìlo- sofìn   volizionale:  è  la  loro  teleologia,    perchè  la  teleo- loo-ia    immanente  o  trascendente,  è  sempre  un' assimi- lazione,  per  quanto,  nel  primo  caso,  possa  essere  vaga, del  modo    reale    di  produzione    delle    cose    alla    nostra attività  volontaria  ed  esteriore.    Se    per  questa  ragione noi  consideriamo  i  sistemi  di  Schelling  e  di  Hegel  come panteisti,  abbiamo  evidentemente  anche  in  questo  caso un  panteismo,  che,  come  quello  dei  sistemi panpsiehisti, deriva  la  materia  da  Dio,   ed    è    nondimeno,    non    un risultato  indiretto  del  dogma  della  creazione  ex  nifdlo, ma  il  prodotto  d'  una  speculazione  puramente  raziona- lista e  rivolta  unicamente  airintelligenza  dei  fenomeni. Affermando  che  la  filosofia  teologica  antica  riguar- da il  principio  materiale  come  altrettanto  primitivo  che il  principio  divino,  facendone  un'essere  distinto  da  Dio e  coeterno  con  esso,  o  considerando  Dio  come  materiale _  197  - e  facendone  derivare  le  altre  cose  per    una    trasforma- zione della  sua  sostanza,  noi  non  abbiamo  tenuto  conto di  un'eccezione  importante:    è  la  dottrina  dei    neopla- tonici alessandrini,  in  cui.  come  nella  filosofia  teologica moderna,  la  materia  è  un  principio  derivato,  e  Dio  è  il solo  essere  primitivo   e    la    sorgente    unica   di    tutte    le cose.  Questa  e<-cezione  richiede  da  noi  una  spiegazione, sembrando  infirmare  il  concetto,    che  abbiamo   dedotto dai  motivi  della  filosofia  teologica,  che  questa,  sinché accetta  la  dualità  di  spirito  e  di  materia  data  nel  rea- lismo naturale,  non  può    ammettere   il    principio    della derivazione  della  materia  da  Dio    che    i.er    V  intìuenza del  dogma  e  del  tradizionalismo,  e  non  come   dottrina jmramento  razionale .    non    avente    altro  scopo    che    la spiegazione  dei  fenomeni.  Questo  principio  infatti,   nei neop'^latonici  alessandrini,  non  può  essere  dovuto  all'in- tìueir/a  del  dogma  della  creazione,  per  cui  lo    abbiamo spieoato  nei  panteisti  moderni.  Ma   da    ciò    non    segue ch'esso  non  sia,  anche  in  questi  filosofi,  una  dottrina ammessa  unicamente  in  forza  della  tradizione  e  dell  au- torità. Non  è  questa  sola  dottrina,    è  il   sistema   intero dei  neoplatonici,  che  sarebbe  incomprensibile    come    il risultato  di  una  ricerca  indi;.<-.Hlent.',  non  avente  a.tro oo-.etto  die  un'interpretazione  razionale  dei   fenomeni. Questo  sistema  non  è,  in  sostanza,  che  un'  interpreta- zione teistica  del  sistema  di    Platone.    Se   essi    sovrap- pronevano  all'  Anima  del    mondo  -  che    evidentemente sarebbe  bastata  a  una  spiegazione    teologica  de.  feno- meni -  il  Nous,  e  al  Nous  l'Uno,  e  facevano  procedere queste  tre  entità  l'una  dall'altra,    è  perchè  Platone  fa derivare  l'Anima  del  mondo  e  tutte  le  altre  cose   dalle Idee  e  le  Idee  dall'Uno,  ed  es.si  comprendevano  le  Idee platoniche  come  i  pensieri  della  divinità,  il  cui  insieme costituiva  la  ragione  divina,  mentre  per  Platone  sono, come  vedremo,  gli  attributi  generali  delle  cose,  r.guardati  come  sostanze,  ma  esistenti,  malgrado  la  loro  so- stanzialità, nelle  cose  stesse  (1).  Questa  interpretazione delle  Idee  platoniche,  quantiin(iue  la  ])iii  lontana  dal si^aniticato  reale  della  dottrina  primitiva,  è  tuttora  la più  accettata,  ed  è  stata  sempre  quella  che  hanno  pre- ferito <^'r  in  ter  preti,  che  hanno  cercato  nel  platonismo, non  un  fenomeno  storico,  ma  la  verità,  r|uale  essi  sono stati  disposti  ad  annnetterla  :  i    neoplatonici    piovevano (1)  V.  cai».   ^'11-  v^  ''--•  <'  Siipplciii.   H. Platon»'  non  fa  «lerivarc  solamente  tutto  1(3  hlcc  dallTno. ma  ancljc  tutte  1<^  Idoc  ])in  particolari  dalle  Idee  jun  ^(^nerali (V.  ca)».  \li.  y>  111-22):  la  derivazioni'  stessa  di  tutte  le  Idee dallTno  n(»n  e  clic  un'a])plicazione  del  principio  clie  le  Idee  jdù paiticohui  derivam»  sempre  dalle  pili  i^euerali,  l'Uno  o  il  IJcue essendo  esso  stesso  un'Idea,  che  non  ditterisce  dalle  alti'  che pereliè  «^  la  ]>iù  generale  .  e  tutte  le  altre  ne  sono  dei  casi  o «Ielle  forme  particolari.  Ma  mentre  la  dottrina  clic  tutte  le  Ideo derivano  <lal  IJene  o  «lallTno.  si  trova,  in  Platone  e  nell'espo- sizion<'  che  Aristotile  fa  del  suo  sistema,  della  maniera  ]>iiì  espli- cita (y.  cap.  VII.  vN  1-A),  non  ijossiann»  invece  attribuiriili  la  dot- trina «he  le  I«l«'<'  \nh  partic<dari  «lerivan«)  semi>r«^  <lall«;  più  gene- rali, che  i)er  un  lavor«)  «littìeile  «1*  interpretazi«)ne,  «die  sareìd)e im}n)ssi]>ile  «li  atteiulersi  «lai  n«'«>plat«niici,  in«'apaci  «li  entrare nel  ver«>  spirit«j  «l<'l  sist«'ma  «lelh'  I«lee.  ]»er  la  semplice  ra«»;i«>ue che  ne  fraint<'ndevano  .  i>er  partit«>  pr<'s«>  .  i  «Mini-etti  più  es- senziali. P«'r  ess«;re  «'oen'nti  alla  l«)r«)  inter])r(dazioiK',  «l«dle  l«lee  .  i n«'oi>lat<)uici  avrebbero  «l«>vuto  riu,uardarc  anclu?  l'iin»  o  il  Hene come  un  peusier«>.  Invece  «li  ci«">  essi  l«)  <'onsideran«)  come  «pial- <  h«'  cosa  «li  puram«'nte  «»bbiettiv«),  c«)me  Plat«)n«'!  «'ousi«Ierava tutte  le  I«lee  in,i;en<u'ale.  (Questa  «d)biettività  «l«>veva  essere pr«>vata  per  loro  «lai  fatt«>  stess<»  ch«'  l'  Tuo  «>  il  15ene  pro«luce le  Ide«'.  Infatti  >in  pensiero  non  «'  mai  riguardat«i  come  la  causa produttrice,  nel  senso  stretto,  «li  altri  pensieri  (evidenteiuente perchè  ii«)i  non  osserviann»  unii  fra  i  iK'usieri  una  se«iuenza  iu- variabile.  tale  che  un«)  sia  c«>stantement«'  se^uit«>  «la  un    altro). 199 trovarla  tanto  più  naturale,  che  era  la  sola  che  si  pre- stasse alla  loro  opera  di    sincretismo,    permettendo    di fare  rientrare  la  dottrina  platonica  nelle  tradizioni    pe- renni   relia-iose  e  filosofiche,  dell'  umanità.    Data    V  in- terpretazione teistica  della  dottrina  delle  Idee,    la  deri- vazione platonica  di  tutte  W  cose  dalle  Idee  diventava naturalmente,  nel  sistema  neoplatonico,  una  derivazione di  tutte  le  cose  dalla  divinità.  A  dir  vero  Platone,  nel- l'nltima  forma  della  sua  filosofia,  fa  della  materia  un principio  distinto  e  cosi  primitivo  che  le  Idee  stesse,  e non  riconduce  a  queste  che  le  sole  /-o/'m^Mlelle  cose  (l). Ma  i  neoplatonici  non  potevano  non   riconoscere  che  la dottrina  intera  di  Platone  suppone  che  si    riconducano alle  Idee    non  le  sole  forme  delle  cose,  ma  le  cose  stesse nella  loro  totalità    l'orina  o  materia)  (2).   Se  nell'ultima forma  della  sua  filosofia  Platone  a-uiunov  alle  Idee  la Tnateria  come  un  principio  distinto   e    indi])endente    da (isse    questo  concetto  noiì  nasce  al   punto    di    vista    del suo 'proprio  sistema,  ma  ha  per  iscopo,  conie  vedremo, di  fondere  questo  sistema  con  ciucilo  dei  Pita-orici  (.)). D'altronde,  anche  dopo    V  introduzione  di  (piesto  con- cetto    le  Idee  sono  ancora   rio-uardate  come  la  sor-ente unica  d'o-ni  realtà,  la  materia  facendosi  consistere^  nello spazio,    e  identificandosi  col  non    cv^sere    (4).    Un'  altra considerazione  che  non  biso-na  tralasciare  è  che  la  ri- duzione della  materia  a  un    principio    distinto    e    indi- pendente dalle  Idee   era    tropppo  connessa    col    si-mh- cato  reale  della  dottrina  primitiva  delle  Idee,  per  poter (1)  V.  Supid.  C,   II.   B. (2)  V.  Supi^lem.  V.  II.  B.  <'arto  1S5-1)^<;. (:^)  V.  Su]>plem.  C.  II.  B,  cMrt.'  W^-im. (4)  V.  Sui»pl«^nì.  C.   II.   H. 2(X)  - —  201  — essere  iiìantenuta  nell' interpretazione  teistica.  Essa  sup- poneva infatti  una  distinzione  reale,  e  non  soltanto   lo- gica, tra  la  forma  e  la  materia:  distinzione  che  era  un caso  del   realii^mo  platonico,   in  cui  le  astrazioni  erano considerate  come  deo-li  esseri  esistenti  per  se  stessi.  Se i  neoplatonici,  per  essere  fedeli  alla  dottrina  delle  Idee, come  essi  la  interpretavano,  volevano  derivare  da   Dio le  foruK'  delle  cose  in  -enerale  —  comprese   (luelle    che non   hnììììo  nvnto  cominciamento,    <inali    il  mondo    e    i corpi  celesti  -,  essi  non   potevano  non  derivare  da  Dio anche  la   materin,    a  n.eno  che  non   ne    avessero    fatto un'entità    distinta    realmente    dalla    forma    ed    esistente per  se  stessa.  Ora   (juesto  nel   loro  sistema    sarebhe    in- comprensibile,  perchè,   interpretando  le  Idee  nel    senso teistico,  esso  non  è  fondato  più,  come  (juello  di  Platone, su  una    realizzazione    sistematica    delle    astrazioni.    Un altro  punto   che,    nella    dottrina    di    Plotino,    richiede qualche  spieo-azione,  è  che  l'universo  materiale  è  fatto procedere  immediatamente  dalla  terza  ipostasi  della  di- vinità, cioè  dalPAnima  del   mondo,   e  dalla  seconda  ipo- stasi, cioè  dal  Xous.  solo  mediatanumte,  vale  a  dire  in quanto  la  terza  ipostasi,  alla  sua  volta,  è  fatta    proce- dere dalla  seconda.  Evidentemente  è  più  conforme  alla dottrina  platonica   l'opinione  di  Proclo  che  fa  procedere l'universo  materiale  immediatamente  dalla  seconda  ipo- stasi,  perchè  le  Idee  di   Platoiìe  nel    sistema    neoplato- nico sono  rappresentate   dal    Nous,    e    la    dottrina    dei neoplatonici  che  l'universo  materiale  procede    da    Dio, non  è  che  1'  interpretazione    teistica    della    dottrina    di Platone  che  tutte  le  cose  derivano  dalle  idee.  Tuttavia Plotino  uon  è  infedele  a  Platone  che  per  essere  più conseguente  ai   principii  del    sistema    platonico,    (luali -li  li  comprende.  Vi  hanno    in    Platone    due    dottrine sulle  cause  delle  cose,  che,  nell'interpretazione  teistica delle  Idee,  diventano  incompatibili  :  V  una   ch^  tutte  le cose  derivano  dalle  Idee,    e    l'altra  che  l'Anima    è   la causa  universale  di  tutti  i  fenomeni  (l).  Fra  la  causa- lità  universale  delle  Idee  e  quella  dell'  Aniiua  non    vi ha  alcuna  contraddizione,    sinché  le  Idee    sono    imma- nenti,  cioè  non  sono,    come    ammetteva    Platone,    che gli  attributi  generali  delle  cose,  sostantificati,    ma  esi- stenti nelle  cose  stesse.  L'  Anima  è  la  causa  nel  sen.'>o ordinario  della  parola,  cioè  etìiciente;  le  Idee  sono  cause in  un  altro  senso,    cioè,    non  in  quanto  producono    le cose,  ma  in  quanto  ne    costituiscono    1'  elemento    vera- mente reale,  a  cui  si  deve  il  loro  essere  e    la    loro   es- senza. Ma  quando  le  Idee  diventano  trascendenti,  come nell'interpretazione  neoplatonica,  esse  non  possono   es- sere che  delle  cause  produttrici  delle   cose  :    allora,    se tutte  le  cose  sono  prodotte  dalle  Idee,  non  si  comprende più  come  l'Anima  possa  essere    anch'essa    una    causa produttrice.  Plotino  cerca  di  risolvere  questa  difrtcoltà, intercalando  fra  le  Idee  e  le  cose  l'  Anima,    come    ])ro- dotta  dalle  prime  (cioè  dal  Nous)    e    producente    le    se- conde :  così  le  Irlee  sono    ancora  le    cause    delle    cose, ma  delle  cause  remote,    la    cui    efficienza    non    ginnoe alle  cose  che  per  l'intermediario  dell'Anima.  Anche  o-o-i o'I'interpreti  trascendentalisti  delle  Idee  ]>latoniche  fanno dell'Anima  del  mondo  nn  entità  intermediaria,    ammet- tendo che  è  per  mezzo  di  essa,  e  non  direttamente,  che le  Idee  agiscono  sul   mondo,    e  formano  le  cose  a  loro immagina.  È  il  concetto  di  Plotino,  al  di  fuori  del  (piale non  ne  resterebbe  che  un  altro  nell'interpretazione  tra- scendentalista :  togliere  all'Anima  ogni  efficienza   reale (nel  senso  metafìsico),    e    ridurre  la  sua  causazione    a una  semplice  sequenza  invariabile. vS  7.  La  base  della  filosofia  teologica,    come  d'  ogni altra  ipotesi  metafisica  sulle  cause,    è    V  idea  di  causa (1)  V.  cap.  VII.  ^  7.  pa-.   U8-145  o  Supplciu. I). —  202 —  208 efficieiftc.  Una  causa  efficiente    si    distin^^'ue,    come    ab- biamo visto,  dal  semplice  antecedente  di  una  sequenza invariabile,    per    (juesti    caratteri  :    1"    In    una    causa- che  non  è  che    una    semplice    sequenza    inv^nria- bile  il  legame  tra  la  causi  e  1'  effetto  ci  sembra  più   o meno  misterioso,   in  modo  che  noi   crediamo  che   il    no- stro bisoo-no  di  conoscere  il  jìerchè  resti  ancora    insod- disfatto :   in   una  causazione  efficiente,  al  contrario,  la causa  deve  darci  una  spieo-azione  radicale,  soddisfacente, dell'effetto,   in   modo  che  non   resti   uìii  hio^o    alla    do- maiìda  :   perchè  V  2«  In  una  semplice  sequenza  invaria- bile la  ca[)acità  della  causa  a  produrre  l'effetto  noi  non che  come  un  dato  dell'esperienza,  mentre in  una  causazione  che  creiliamo  (efficiente  essa  ci  sem- bra evidente  per  se  stessa,  in   uìodo  che  noi  siamo   di- sposti a  credere  che   potremmo    conoscerla    indipenden- temente dalT  es[)erienza,  e   per    il    semplice    confronto dell'  idea  della  causa  e  di  (piella  dell'effetto.    :3'>    Nelle causazioni  efficienti  tra  la  causa  e  l'effetto  deve  esservi un  leg-ame  necessario,   nuMitre  nelle  semplici    seciuenze invariabili  (juesto  leoame  ci  sembra  conting-enre  e  quasi arbitrario  (1).  (,)uesti  caratteri  distintivi  della  causa  ef- ficiente credendo  di    riconoscerli    nella    nostra    volontà, come  causa  dei  nostri  propri  movimenti  e   delle    modi- che,  per  mezzo  di  essi,  produciamo  nel  mondo esteriore  (2),  ne  segue  che,  vedendo  nei  fenomeni  della natura  degli  effetti  di  volontà  più  o  meno  analoghe  alla nostra,  noi  crediamo  di  scoprire  le  cause    efficienti    di (|uesti  fenomeni.  Ciò  spiega  la  possibilità  della  filosofia teologica,    malgrado  1'  insufficienza  delle  prove  su  cui essa  è  fondata,  e  le  prove  negative  che  V  insieme    del- l'esperienza oppone  alle  ipotesi    di   questo  genere.   Che il  motivo  reale  della  filosofìa  teologica  sia  il  bisogno di  conoscere  il  perchè,  le  cause  efficienti  dei  fenomeni (e  non  le  sole  condizioni  empiriche  che  determinano  la loro  apparizione),  è  evidente  sovratutto  nella  filo- sofia moderna.  E  facile  infatti  di  mostrare  che,  al punto  di  vista  del  ])ensiero  moderno,  le  prove  su  cui essa  si  basa  non  ])otrebbero  essere  conckulenti  che nella  supposizione  che  1'  idea  di  causa  efficiente  ha  un valore  obbiettivo  e  che  la  spiei>'azione  volizionale  dei fV'nomeni  è  una  spiegazione  j)er  le  cause  efficienti.  E  ciò che  farcino  in  questo  j)aragrafo  specialmente;  ])er  la ])rova  delle  cause  finali  (in  cui  i  j)iù  acuti  tra  i  ])ensa- moderni  hanno  visto  la  vera  base  della  filosofia teologica  (r),  rinviando  a  ciò  che  abbiamo  de,tto  su (juella  del  primo  lìiotore  sulla  fine  del  2"  paragrafo. Senza  i)retendere  di  esaurire  1'  argoineiìto,  ci  liuiitere- mo  alle  considerazioni  più  im|)ortanti,  che  mi  sembrano le  seguenti  : l'^^  Vi  hanno  certamente  pochi  pensatori  nello  stato presente  della  coltura,  che,  non  ammettano,  quahuniue siano  del  resto  le  loro  idee  filosofiche,  questo  postulato necessario  di  ogni  ricerca  scientifica  -  e  che  non  è  d'al- tronde che  il  riassunto  di  tutta  l'esperienza  umana—: che  il  corso  della  natura  è  uniforme,  che  tutti  i  feno- meni devono  essere  riattaccati  a  degli  antecedenti  na- turali, a  cui  sono  legati  secondo  leggi  di  sequenza  in- variabile, costatate  dall'osservazione.  Cosi  una  spiega- zione metafisica  dei  fenomeni,  cioè  per  delle  cause  tra- scendenti,  non  potrebbe  oggi  tener  luogo  della  loro spiegazione  fisica,  cioè  per  delle  cause  fenomenali,  ma solo  aggiungersi  a  questa,  do})o  che  essa  è  com|)leta  : io  voglio  dire  che  un  filosofo  può  credere  necessario di  fare  appello  infine,  per  una  spiegazione  radicale  delle (1)  V.  cap.  1.  ^  3-5. (2)  V.  «piestu  ciiiàt.  §  22. (1)  V.   ^  :?.   1).  7S  0  §   t.   \).   105-1117. tr-J cose,  a  deg'li  agenti  iperfisici,  ma  eg-li  sa  che  il  loro intervento  non  deve  interrompere  la  continuità  delTin- catenamento  delle  cause  naturali,  e  che  ogni  fenomeno non  (leve  essere  spiegato  immediatamente  che  per  altri fenomeni.  P.  e.  Vanimiiita,  che  spiega  i  fenomeni  della vita  per  un'azione  incosciente  dell'anima,  o  1'  ilozoista, che  spiegn  tutti  i  movimenti  della  materia  per  gli  stati psichici  delle  molecole,  sa  che  una  tale  spiegazione  non esime  dalTobbligo  di  assegnare  a  ciascun  fatto  biolo- gico o  a  ciascun  movimento  delle  condizioni  fìsiche  de- terminate,  e  troverebbe  assurdo  di  contentarsene  per rendere  conto  del  singolo  fenomeno,  quantunque  1'  in- sieme dei  fenomeni,  secondo  lui,  non  possa  compren- dersi che  per  essa.  Similmente  Videalista,  che  spiega  il mond;)  delT  esperienza  ])er  Fattività  del  pensiero,  non pretenderà  che  la  sua  sjìiegazione  possa  sostituire  .  in tutto  o  in  parte,  il  determinismo  scientifico  dei  feno- meni :  come  Kant,  egli  non  farà  appello  all'attività  del pensiero  che  per  rendere  conto  dei  legami  più  generali dei  fenomeni;  o  se,  come  Hegel,  ne  dedurrà  tutti  i  fatti generali  della  natura  ed  anche  i  fenomeni  storici  più importanti,  egli  saprà  almeno  che  la  sua  costruzione logica  non  deve  escludere  il  metodo  ordinario,  che  de- duce i  fatti  dai  loro  antecedenti.  Cosi  pure  il  realista dialettico  (1),  che  spiega  il  mondo  dei  fenomeni  realiz- zando le  astrazioni  e  introducendo  fra  esse  un  incate- namento  logico  continuo,  non  penserà  che  la  sua  spie- gazione metafisica  renda  inutile  o  invalidi  la  spiega- zione scientifica,  che  rende  conto  dei  fenomeni  per  le loro  condizioni  fenomenali  :  come  Spinoza,  egli  ammet- terà due  ordini  di  cause  :  V  incatenamento  delle  cause fìsiche,  per  cui  ogni  fenomeno  è  legato  a  un  altro  feno- meno precedente  secondo  una  legge  di  sequenza  inva- li) V.  cap.  VII riabile;  e  quello  delle  cause  metafìsiche,  al  di  fuori  del tempo  e  della  successione,  e  che  non  è  altra  cosa  che l'incatenamento  logico  delle  astrazioni  realizzate.  E  il simile  che  farà  il  filosofo  teologico,  che  non  vorrà  met- tersi in  contraddizione  con  le  esigenze  del  pensiero moderno:  eali  non  vedrà  mai  in  un  fenonuMio  che  un effetto  delle  leggi  inviolabili  che  governano  il  corso  dei fenomeni,  e  non  applicherà  la  spiegazione  teologica  che  a ({uesto  corso  considerato  nel  suo  insienui  e  alle  sue  leggi generali  per  cui  la  scienza  spiega  i  singoli  fenomeni. Ma  così  essendo,  è  evidente  che  qualsiasi  ipotesi  meta- fìsica, avente  per  oggetto  una  s[)iegazione  causale  delle cose,  non  può  avere  altra  base  che  1'  idea  di  causa  ef- fìciente.  Perchè  infatti  il  nu'tafisico  immaginerà  delle cause  metaempiriche,  s'egli  conviene  che  ogni  fenomeno particolare  deve  spiegarsi  per  delle  causo  naturali,  cioè empiriche?  Semplicemente  perchè  trova  che  queste  non sono  delle  cause  efficienti.  L'esperienza  non  gli  presenta che  dei  semplici  antecedenti,  che  egli  vede  costante- mente seguiti  dall'effetto,  ma  senza  comprendere  perchè ne  siano  seguiti  ;  la  cui  capacità  a  produrre  quest'  ef- fetto egli  non  può  ammettere  che  come  un  dato  dell'os- servazione; e  che  non  gli  sembrano  avere  con  esso  che un  legame  contingente  ed  arbitrario.  Egli  invece  aspira a  conoscere  delle  cause  che  diano  una  soddisfazione coijipleta  al  suo  bisogno  di  spiegazione,  la  cui  capacità a  produrre  l'effetto  gli  senìbri  evidente  intrinsecamente, e  che  abbiano  con  esso  un  legame  necessario  ;  in  una parola  delle  cause  efficienti,  e  non  dei  semplici  antece- denti di  sequenze  invariabili.  Supponiamo  dunque  che egli  non  ammetta  il  principio  che  i  fenomeni  devono avere  delle  cause  efficienti  ;  in  altri  termini  che  egli comprenda  che  V  idea  di  causa  efficiente  non  ha  alcun valore  obbiettivo,  e  che  causa  vuol  dire  semplicemente  : Pantecedente  in  una  sequenza  invariabile.    Allora   non —  206  — vi  sarà  più  alcuna  ra<>ioue  che  lo    autorizzi    ad    oltre- passare r  esperienza.  Una  causa  infatti,    quando  è^  og- getto d'inferenza  e  non  d'osservazione  diretta,  non  Tani- rnettiamo,  evidentemente,  che  per  ispiegare  i  suoi    ef- fetti. Ora  la  parola  spiegazione  ha  due  significati,  cor- rispondenti ai   due  significati  della  parola  causa;  in  un senso  spiegare  un  fatto  è  assegnare  le   sue    cause   effi- cienti ;    in    un  altro  senso  assegnare  gli    antecedenti  a cui  esso  segue  cont'onnernente   alle    leggi    di    sequenza invariabile  tra  i  fatti.  Se  non  vi  hanno  cause  efficienti, r  unica  spiegazione  dei  fenomeni  sarà  dunque  la  spie- gazione nel  secondo  senso.  Noi  spiegheremo,   per  con- seguenza,    un  fenomeno,  assegnandogli    degli   antece- con  cui  esso  è  legato  da  rapporti  di  sequenza  in- variabile; (luesti  antecedenti  li  spiegheremo  egualmente, assegnando  loro  degli  antecedenti  ulteriori,  con  cui  essi sono  legati  da  rapporti  della  stessa  natura:    e    così    di seguito  air  intìnito,  perchè  un  antecedente  deve  essere seinpre  spiegato  da  antecedenti  ulteriori.  Ora  nella  no- stra spiegazione,    nel  nostro  regresso  dai  fenomeni    ai loro  antecedenti  e  da  (juesti  ad  altri    antecedenti    ulte- riori, noi  non  incontreremo  mai  un    agente    iperfisico  : spiegare  infatti  per  noi  non  è  che  rendere  conto  di  un fenomeno  pei  suoi  antecedenti  conformemente  alle  leggi di  sequ(;nza  invariabile  tra  i  fenomeni,    e  (luesti  ante- cedenti sono  sempre  delle  cause  naturali  —  perchè,  come abbiamo  detto,    lo  stesso    metafisico    conviene    che   un intervento  di  agenti  iperfisici  non  deve   mai    interrom- pere la  continuità  dell'incatenamento  delle  cause  natu- i-ali  — .  Noi  non  potremmo  adunque  ammettere  un  agente iperfisico  che  se  (juesta- spiegazione  non   fosse   per    noi soddisfacente.  Ma  per  non  esserlo,    spiegare    dovrebbe significare  per  noi,  non  semplicemente:    assegnare   gii antecedenti  dei  fenomeni  conformemente  alle    leggi    di sequenza    invariabile    costatate    dall'osservazione;   ma ^  207  — anche  :  assegnare  un  perchè  a  queste  leggi  stesse,  sco- prire degl'intermediari  esplicativi  che  facciano  compren- dere perchè  tali  antecedenti  siano  seguiti  invariabil- mente da  tali  conseguenti.  Ciò  è  dire  in  altri  termini che  causa  dovrebbe  significare  per  noi  una  causa  ef- ficiente, e  non  semplicemente  un  antecedente  in  una sequenza  invariabile. Tuttavia  gli  agenti  iperfisici  della  spiegazione  vo- lizionale  hanno  un  vantaggio  su  (pielli  delle  altre  spie- fondata  sull'analogia,  l'analogia  stessa,  indipendente- mente dal  principio  di  causalità  efficiente,  è  una  ra- per  concludere  l'esistenza  di  tali  agenti.  Ma  cpie- sta  ragione,  fondata  sulla  se^niplice  analogia  e  indipen- dente dal  principio  di  causalità  efficiente,  non  ])Otrebbe costituire  una  prova  sufficiente:  essa  non  j)otrebl)e  ele- varsi all'altezza  di  una  vera  [)rova  che  supponendo  che i  fenomeni  devono  avere  delle  cause  efficienti,  e  che»  la volontà  è  l'unica  causa  efficiente  possibile  dei  fenomeni che  si  tratta  di  spiegare.  E  ciò  che  mostreremo  per  l'ar- gomento delle  cause  finali,  che  è  la  prova  fondata  sul- l'analogia,  su  cui  si  basa  principalmente  la  filosofia teologica. Noi  supporremo  prima  che  il  teleologista  ammetta che,  qualunque  sia  la  spiegazione  ultima  delle  cose, ogni  fenomeno  non  deve  spiegarsi  innnediatamente  che per  delle  cause  naturali,  che  Dio  non  agisce  mai  mira- Golosamente,  e  che  non  vi  ha  alcuna  eccezione  alle leggi  generali  che  governano  il  corso  dei  fenomeni, quantunciue  questo  dipenda,  in  tutto  o  in  parte,  da  una volontà  superiore.  Per  vedere  che,  in  questa  supf)osi- zione,  l'argomento  delle  cause  finali  non  potrebbe  co- stituire una  vera  prova  senza  il  principio  di  causalità efficiente,  basta  di  confrontare  le  opere  della  natura  con quelle  dell'uomo,  dalla  cui  analogia  con  le  prime  il  teleologista  conclude  che  anche  queste  devono  avere  per causa  un  autore  intelligente  e  agente    per   uno    scopo. Alla  vista  di  un  orologio,  di  un  edifìzio,  ecc.,  noi  con- cludiamo che  sono  1'  opera    di    un    autore    intelligente, noi  sappiamo,  in  virtù  del  principio  di  causalità nel  senso  positivo,  che  ogni  fenomeno  deve  avere  delle condizioni  che  ne  sono  gli    antecedenti    secondo    leggi di  sequenza  invariabile.   La  sola  condizione,  il  solo  an- tecedente, che  res[>erienza  ci   mostra  legato  con  tali  ef- fetti, è  l'azione  di  uiì  essere  intelligente,  cioè   dell'uo- mo. Così,  se  noi  non  ammettessimo  che    la    causa    del- l'orologio, della  casa,  ecc.  è  mi  uomo,  siccome  noi  non possiamo,    in    virtù   c\(AV  esperienza,   assegnarne   altre cause,  la  produzione  dell'orologio,  della  casa,    ecc.  re- sterebbero inesplicate,    noi  non  le  avremmo  sottoposte alln  \eo'<rG  «enerale  della  causalità.    Ma    le  opere  della natura,    p.  e.  la  formazione  degli    organi   degli    esseri viventi,  hanno,  [>lm-  ipotesi,  delle  condizioni  o   antece- denti fisici,  con  cui  sono  legate  da  leggi  invariabili  di seiiuenza;  a  questi  antecedenti  noi  dobbiamo  assegnare altri  antecedenti  egualmente  fisici,    e    cosi    di    seguito nìThìHìiito,  senza  che  noi  potessimo,  in  questo  regresso da  antecedenti  ad  antecedenti  ulteriori,  incontrare  mai una  causa  intelligente,  che  non  potrebbe  essere  che  un agente    iperfisico.    Se    causa    vuol    dire    semplicemente l'antecedente  dato  il  quale  un  fenomeno  invariabilmente si  produce,  noi  abbiamo  dunque  soddisfatto    il    nostro bisogno  di  causalità  senza  assegnare  altre  cause  se  non fisiche:  l'ipotesi  di  un  autore  intelligente  non  sarebbe necessaria  come  nel  caso  delle  opere  dell'uomo,  perchè nn'ipotesi  non  è  tale  che  quando  senza  di  essa  vi    sa- rebbe un  hiatus  nell'incatenamento  delle  cause  e  degli effetti,  in  altri  termini  quando  senza  di    essa    non    po- tremmo ricondurre  i  fenomeni  alia  legge  universale  della causalità.  Ammesso,  ciò  che  supponiamo  per  ora  che  il teleologista  ci  accordi,  che  i  fenomeni    hanno    sempre delle  condizioni  naturali  a  cui  sono  legati  da  leggi    di sequenza  invariabile,  noi  immagineremo  che  queste  con- dizioni naturali  dei  fenomeni  in  cui  egli  vede  la  mani- festazione di  un  disegno    intelligente    (p.    e.    di    quelli deirorganizzazione)  siano  state  già   assegnate    comple- tamente. Allora  sono  possibili  due  ipotesi.    T/una    che, dopo  aver    asse^^nato    queste    condizioni    naturali,    noi non  vedremmo  più,  nel  meccanismo  per  cui   si    produ- cono   questi  fenomeni,    niente    che    potesse    suggerirci l'idea  di  un  disegno  e  di  un'azione  per    uno  s.^opo  :  è ciò  che  accadrebbe,    p.   e.,   pei  fenomeni  dell"  organiz- zazione, se  noi  ammettiamo  la  teoria  di   Darwin.    L'al- tra che,  dopo  aver  assegnato  queste  condizioni  naturali, noi  traveremmo  che  il  modo  di  produzione  di  qut^sti  fe- nomeni è  ancora  tale  da  poter  essere  considerato  come una  disposizione  di  mezzi  per  raggiunger?    uno   scopo Questo  accadrebbe  pei  fenomeni  dell'organizzazione,  se noi  trovassimo  che  l'appropriazione  degli  organismi  alle condizioni  della  loro  esistenza  è  un  fatto  primitivo  del mondo  vivente,  cioè  che  non  può  essere  riguardato  come la  conseguenza  di  altri  fatti.  Lo  stesso  potrebbe  accadere ancora,  se  trovassimo  che  essa  è  un  risultato  di  fatti  più primitivi,  cioè  naturalmente  :    che    1'  universo  tìsico    è governato  da  certe  date  leggi;  che  esso  è  costituito  da certi  dati  elementi;  che  questi  elementi  all'inizio  -  cioè a  un  certo  momento  della    durata    passata    del    mondo da  cui  prenderemmo  le  mosse  per  ispiegare  il  suo  stato presente  —  avevano  una  certa  distribuzione  nello  spazio, ed  erano  animati  da  certe  date  forze.  Infatti  il  complesso propriazione  degli  organismi,  cioè  di  queste  date  leggi del  mondo  fisico,  di  questi  dati  elementi  che  lo    costi- tuiscono, di  questa  loro  distribuzione  nello  spazio  e  di queste  forze  da  cui  erano  animati  al  momento  iniziale, 14 -  210 potrebbe  essere  tale  da  suggerire  l'idea  di  una   combi- nazione di  mezzi  per  raggiungere  il    risultato.    Fra    le ipotesi  possibili  sulle  condizioni  naturali   dei   feno- meni biologici  e  deg-li  altri  su  cui  si  fonda  l'argomento -delle  cause  finali,  sceglieremo  la  più  favorevole  a  que- st'argomento, cioè  la  seconda,  e  ragioneremo  su  di  essa. In  quest'  ipotesi  i  dati  ultimi   da    cui    ..i    dedurrebbero questi  fenomeni  sarebbero,    o    semplicemente  le    leggi della  natura  (come  nel  caso  che  l'appropriazione  degli org-anismi  fosse  un  fatto  primitivo  del  mondo  vivente), 0  le  leggi  della  natura  e    inoltre    l'esistenza    delle    so- stanze "elementari  date  che  costituiscono  l'universo,  con le  loro  proprietà  statiche  (le    loro    proprietà    dinamiche essendo  comprese  tra  le  leggi  della  natura),    e  la  loro distribuzione  nello  spazio  e  le  forze  da  cui  erano    ani- mate al  momento  iniziale.  Ammettiamo  che  causa  vuol dire  semplicemente:  l'antecedente  in  una  sequenza  in- variabile. Dei   dati  che   abbiamo    indicato    alcuni    sono necessariamente    senza    causa:    le    sostanze   elementari con  le  loro  proprietà  statiche  (perchè    noi    supponiamo che  il  teleologista  ci  accordi  che  l'uniformità  del  corso della  natura  non  soffre  assolutamente  alcuna  eccezione). La  distribuzione    di    (pKiste    sostanze    nello    spazio    nel momento  che  noi  consideriamo  come  iniziale  può  essere spiegata,    ma  supponendo   una    certa    distribuzione    di esse  nello  spazio  a  un  altro  momento  iniziale  più    lon- tano; questa  non  può  essere  spiegata  che  ugualmente, e  COSI  di  seguito  air  infinito;  sicché  anche  la    distribu- zione iniziare  delle  sostanze  elementari    nello    spazio    è necessariamente,  in  ultima  analisi,  un  fatto  ultimo  di uoii  M   può   assegnare    una    causa.    Le    leggi    della natura  sono  delle  sequenze  costanti  tra  fenomeni  :  esse potrebbero  avere  una  causa,  perchè  possiamo  supporre che  queste  sequenze  non  siano  immediate,    ma  tra  gli antecedenti  e  i  conseguenti  s'interpongano  delle  azioni sconosciute,  che  siano  cosi  le  cause  delle  sequenze  stesse. Le  forze  da  cui  g-li  elementi  erano  animati  al  momento iniziale  potrebbero  pure  attribuirsi  a  un  agente  o  a degli  agenti  sconosciuti,  purché  il  modo  d'  azione  di quest'agente  o  di  questi  agenti  si  accordi  col  determi- nismo che  lega  questo  stato  dell'universo  agli  stati  i)re- cedenti.  Noi  possiamo  supporre  dunque  che  certe  leggidella  natura  (p.  e.  quelle  della  natura  organizzata,  nel caso  che  ra[)propriazione  degli  organismi  sia  un  fatto primitivo  del  inondo  vivente),  o  tutte  le  leggi  della  na- tura indistintamente  e  anche  le  forze  da  cui  all'  inizio gli  elementi  costitutivi  dell'  universo  erano  animati, siano  degli  effetti  di  una  causa  iperfisica  intelligente, che  se  ne  serve  come  di  mezzi  per  realizzare  i  feno- meni dell'organizzazione  e  tutti  gli  altri  in  cui  il  teleo- logista vede  la  traccia  di  un  disegno  e  di  uno  scopo. Ma  questa  supposizione,  ammesso  che  la  causa  non  è che  l'antecedente  di  una  sequenza  invariabile,  non  [)0- trebbe  pretendere  tutto  al  più  che  a  una  semplice  ve- rosimiglianza. La  base  dei  nostri  ragionamenti  per  cui concludiamo  l'esistenza  di  qualche  causa,  è  il  principio che  ogni  fenomeno  deve  avere  una  causa.  Quando  dal- l'esistenza di  un  fatto  inferiamo  l'esistenza  d'  un  altro fatto  come  sua  causa,  noi  non  ci  fondiamo  solamente sulle  esperienze  particolari  che  ci  hanno  mostrato  che  il primo  fatto  costantemente  ha  avuto  per  causa  il  secondo, ma  anche  sull'insieme  dell'esperienza,  che  ci  prova,  da una  parte,  che  ad  ogni  fenomeno  dobbiamo  assegnare una  causa,  e,  da  un'  altra  parte,  che  non  vi  ha  altra causa  o  combinazione  di  cause,  tranne  il  secondo  fatto, che  sia  capace  di  avere  il  primo  per  effetto.  Essendo certi  di  queste  due  premesse,  cioè  che  bisogna  supporre una  causa  per  rendere  conto  del  primo  fatto,  e  che  il secondo  fatto  è  l'unica  causa  che  possa  renderne  conto, noi  ne  tiriamo  la  conclusione  necessaria  che  il  secondo fatto  esiste  a  titolo  di  causa  del  primo.  Ma  se  la  prima mmm émmk "'rr  '.-8 di  queste  due  premesse  ci  viene  a  mancare,  vale  a  dire se  noi  non  siamo  obbligati  a  supporre  una    causa    per rendere  conto  del  primo  fatto,  l'inferenza  por  cui  sta- biliamo l'esistenza  del  secondo  fatto  none  più  una  con- clusione necessaria  :  quest'  inferenza   non    può    duiìque avere  che  un  grado  minore  di  evidenza,    ciò   che  vuol dire  che  non  abbiamo  la  prova  completa,  rigorosa,  del- l' esistenza  del  secondo  fatto.    Ora    è    ciò   che    avviene precisamente  nel  nostro  caso.  Come  abbiamo  detto,  am- messo che  i  fenomeni  non    devono    spiegarsi    immedia- tamente che  per  delle  cause  naturali,  noi  non  possiamo supporre  un  autore  intelligente  e  agente;  per  uno  scopo che  come  causa  delle  leggi  della  natura   e    delle    forze da  cui  all'inizio  gli  elementi  erano   animati.    Evidente- mente qui  la  prima  delle  due  premesse  ci  viene  a  man- care,    perchè  niente  ci  forza  a  supporre  una  causa    né per  le  une  nò  per  le  altre.  Il  principio  di  causalitrà  esige che  i  fenomeni  abbiano  delle  ^ause,  ma  non  che  le  ab- biano anche  le  leggi  dei  fenomeni.  In  quanto  alle  forze che  animavano  gli  elementi  allo  stato  dell'universo  con- siderato come  iniziale,    esse  sono  già  state   sottomesse alla  legge  universale  della  causalità,  assegnando    loro, come  agli  altri  fenomeni,  una  causa  naturale    (vale    a lo  stato  precedente  dell'universo,  che  alla  sua  volta ha  la  sua  causa  naturale  nello  stato  ad  esso  precedente, e  cosi  di  seguito  all'infinito,    perchè  è  ciò  che  esige  il corso  uniforme  dei  fenomeni).    Qualunque    sia    dunque l'analogia  tra  i  fenomeni  della  natura  e  i  prodotti  o  le azioni  di  un  essere    intelligente,    e    qualunque    sia    la forza  dell'  argomento  fondato  su  quest'  analogia  ;    sup- posto che  i  fenomeni    devono    sempre    spiegarsi    imme- diatamente per  delle  cause  naturali,    quest'  argomento non  potrà  mai  raggiungere  il  valore  d'una  vera  prova, perchè  la  prova  vera,  completa,  dell'  esistenza  d'una causa  è  che,  se  essa  non  si  ammette,   è  impossibile  di sottoporre  i  fenomeni  alla  legge  universale   della   cau- -  213  — salita,  ciò  che  noi  abbiamo  già  fatto,  contentandoci delle  sole  cause  naturali.  Ciò  però  non  è  vero  che  se causa  vuol  dire  unicamente  :  l'  antecedente  di  una  se- quenza invariabile.  Ma  supponiamo  invece  che  per  sod- disfare all'esigenza  del  principio  di  causalità  noi  dob- biamo assegnare  ai  fenomeni,  non  solo  degli  ant(»ce- denti  a  cui  essi  seguono  invariabilmente,  ma  ancora delle  cause  efficienti  :  allora  1'  argomento  delle  cause finali  acquista  un  altro  valore,  e  noi  comprendiamo come  il  teleologista  possa  trovarlo  decisivo.  Egli  infattti potrà  dire  :  Assegnando  ai  fenomeni  le  loro  cause  na- turali, noi  non  abbiamo  fatto  che  sostituire  dei  misteri ad  altri  misteri  ;  i  fenomeni  dell'  organizzazione  e  gli altri  che  ci  mostrano  le  a])parenze  d'un  disegno,  cosi bene  che  le  leggi  e  gli  antecedenti  da  cui  li  abbiamo dedotti,  restano  in  sostanza  inesplicati,  e  domandano ancora  un  perchè,  una  causa  reale.  Questa  causa  deve essere  di  tal  natura  che  possa  spiegare  realmente,  ra- dicalmente, l'eftetto;  la  sua  capacità  a  produrre  l'effetto deve  essere  evidente  intrinsecamente;  e  deve  avere  con esso  un  legame  necessario.  Ora  la  natura,  anche  dopo che  noi  sappiamo  che  i  suoi  fenomeni  si  producono  se- condo delle  regole  uniformi,  non  cessa  di  esibirci  (ielle apparenze  di  disegno  —  il  teleologista  ignora  o  pretende di  avere  confutato  le  teorie  che,  come  quella  di  Darwin, fanno  svanire  completamente  queste  apparenze.  Ma l'unica  causa  che  possa  far  comprendere  realmente  degli effetti  in  cui  si  vedono  delle  apparenze  di  disegno,  la cui  cai)acità  a  produrre  questi  effetti  sia  evidente  in- trinsecamente,  e  che  abbia  con  essi  un  legame  neces- sario, è  una  causa  intelligente.  Dunque  la  causa  reale, immediata  o  mediata,  di  tutti  i  fenomeni  della  natura o  di  quelli  di  essi  in  cui  si  vedono  più  spiccatamente le  tracce  d'un  piano,  è  necessariamente  una  causa  in- telligente. Per  negare  questa  conclusione,  bisogna  non ammettere  o  che  i  fenomeni  hanno  delle  cause  efficienti lì'lllWlililil Mi"  (e  non  semplicemente  de^li  antecedenti  a  cui  seguone invariabilmente),  o  che  una  causa  intellig-eiite  è  la  sola causa  etìficiente  possibile  di  effetti  in  cui  si  vedono  delle tracce  di  piano.  La  priuìa  di  queste  due  cose  non  si pu;')  mettere  in  dubbio,  perchè  sarebbe  dubitare  del principio  stesso  di  causalità  (le  vere  cause  essendo  le cause  efficienti)  La  seconda  nemmeno,  perchè',  la  causa efficiente  è  una  causa  il  cui  legame  con  l'effetto  si  vede per  il  semplice^  ])aragone  delle  idee,  e  noi  vediamo,  pa- ragonando col  pensiero  delle  cause  non  intelligenti, (lualunque  esse  siano,  e  degli  effetti  in  cui  si  manife- stano i  segni  di  un  piano,  che  non  vi  ha  tra  questi  e quelle  alcun  legame  possibile.  L'argomento  delle  cause finali  è  dun(|ue  così  una  dimostrazione  rigorosa,  e  che Reid  abbia  avuto  ragione»,  o  no  di  considerarlo  come una  verità  a  priori,  esso  ha  almeno  questi  due  carat- teri delle  verità  a  priori,  la  necessità  e  l'evidenza  in-, che  è  il  più  alto  grado  di  evidenza  che  si possa  desiderare. Forse  si  penserà  che  alPargomento  delle  cause  fi- nali non  deve  domandarsi  niente  di  più  che  questa semplice  probabilità  che  esso  ha  senza  il  principio  di causalità  efficiente;  che  è  così  che  in  sostanza  è  stato sempre  considerato;  e  che  la  pretesa  che  esso  concluda con  certezza  assoluta  non  è  che  un'esagerazione  di  al- cuni metafisici.  Ma  il  concetto  di  un  agente  iperfisico qual  è  quello  a  cui  si  conclude  con  l'argomento  delle cause  finali,  è  di  tal  natura  che  esso  non  potrebbe  sta- bilirsi che  su  prove  d'una  certezza  assoluta,  e  che  non ha  più  alcuna  credibilità  se  queste  prove  sono  sempli- cemente probabili.  Ciò  è  perchè  una  semplice  proba- bilità sarebbe  sopraffatta  dalle  probabilità  contrarie  che l'insieme  dell'esperienza  oppone  all'ipotesi  di  un  ag-ente simile.  Se  noi  ammettiamo  che  l'argomento  delle  cause non  ha  altro  valore  che  quello  che  gli  resta  sup- posto che  la  causa  non  è  che  1'  antecedente  di  una  se- quenza invariabile  e  che  tutti  i  fenomeni  devono  si)ie- garsi  immediatamente  ])er  delle  cause  naturali,  la  con- clusione di  quest'  argomento  non  si  fonda  più  né  sul- l'esigemza  di  sottomettere  i  fenomeni  alla  legge  di  cau- salità nel  senso  positivo  né  su  quella  di  spiegarli  per le  cause  efficienti;  non  le  rimane  dunque  che  la  forza  (juest'argomento  analogico,  cioè  che  l'esperienza  aven- doci mostrato  che  una  causa  intelligente  ha  per  effetti delle  cose  in  cui  troviamo  un  ai>'ii'iustamento  di  mezzi ad  un  fine,  altre  cose  in  cui  noi  vediamo  qualche>  cosa di  simile  a  un  tale  ag'g'iustamento  devono  attribuirsi a  una  causa  simile.  Ma  (|uest'argomento  analogico  ha di  fronte  a  sé  una  moltitudine  di  argonì(Miti  simili  che costituisce  un  fascio  formidabile  di  prove  contrarie. Per  un'induzione  tirata  dalTanaloaia  tra  certi  fenomeni della  natura  e  quelli  che  hanno  per  causa  gli  spiriti intelligenti  dell'esperienza,  il  teleologista  suppone  uno spirito  :  che  non  è  congiunto  ad  un  corpo,  e  i  cui  stati non  dipendono  da  cause  somatiche;  i  cui  ])ensieri  non sono  preceduti  da  percezioni  dei  sensi  e  modellati  su (jueste;  le  cui  conoscenze  non  derivano  (lall'esjìericnza; i  legami  tra  le  cui  idee  non  sono  fornìati  dalle  leggi di  associazione  per  cui  spi(»ghiamoi  legami  sinìili  negli spiriti  conosciuti;  che  agisce  inìmediatameute  sul  mondo esteriore,  e  non,  come  gli  s{)iriti  conosciuti,  per  mezzo dei  movinìenti  di  un  corj)o  organico,  eseguiti,  alla  loro volta,  mediante  un  meccanismo  a])propriato,  seiìza  del (piale  sarebbero  imj)ossibili;  che  produce  gli  atti  esterni appropriati  alle  sue  volizioni,  senza  che  questa  appro- priazione sia,  come  negli  ageriti  intelligenti  conosciuti, risultato  dell'esercizio  e  dell'abitudine;  ecc.  Ciascu- na di  queste  supposizioni  è  contraddetta  da  un*  indu- zione fondata  su  un'esperienza  più  costante  che  quella su  cui  si  fonda  l'induzione  del  teleologista.  Se  la  con- clusione del  teleologista  si  fondasse  sul  ])rincipio  di causalità  efficiente,  nel  modo  in  cui  abbiamo    detto,    le 216  — prove  eoiitiarie  costituite  dalla  improl  abilitcò,  di  ciascuna di  queste  supposizioni  e  delle  altre  simili  che  avremmo potuto  aii^i'i ungere,  dovrebbero  cedere  alla  forza  di  una dimostrazione  a[>odittica.  In  generale,  questa  improba- bilità consiste  in  ciò,  che  si  suppone  che  dei  fatti,  ana- loghi a  certi  fatti  dell'esperienza  che  noi  sappiamo  es- sere prodotti  costantemente  da  certe  cause,  o  non  hanno causa  o  hanno  delle  cause  diffcM'enti.  Ora  non  vi  ha alcun  principio  assiomatico  che  ci  forzi  ad  ammettere che  gli  stessi  fatti  devono  avere  sempre  le  stesse  cause, come  l'assioma  di  causalità  ci  forza  ad  ammettere  che gli  stessi  fatti  de\ono  avere  sempre  gli  stessi  effetti (l'esperienza  mostrandoci  che  degli  effetti  identici  pos- sono essere  dovuti  a  cause  differenti).  Al  contrario  la conclusione  del  teleologista  si  fondere))be  sopra  uu  prin- cipio assiomatico  (<juello  di  causalità  efficiente),  e  non potrebbe  rigettarsi  che  mettendosi  in  contraddizione  con questo  principio  (jjerchè  la  causa  efficiente  assegnata sarebbe  la  sola  causa  efficiente  possibile  capace  di spiegare  gli  effetti  ^lati).  Dunque  la  conclusione  del teleologista  non  potrebbe  essere  scossa  dalle  prove  con- trarie,  perchè  non  vi  ha  altro  genc^re  d'  evidenza  che non  debba  cedere  a  un'evidenza  assiomatica.  Ma  se non  si  dà  invece  a  questa  conclusione  che  il  valore  di semplice  j)robabilità  che  le  resta  nella  supposizione  che non  vi  hanno,  oltre  agli  anteced(mti  di  sequenze  in- variabili, delle  cause  efficienti,  e  che  i  fenomeni  devono essere  sempre  spiegati  immediatamente  per  debile  cause naturali,  sembra  difficile  di  credere  che  in  questo  caso possa  resistere  alla  forza  delle  prov(^  contrarie  ten- denti ad  escludere  la  possibilità  dell'  altra  causa  che essa  vuole  stabilire.  Per  una  giusta  stima  della  forza di  queste  prove  comparativamente  a  quella  dell'  argo- mento teleologico,  bisogna  guardarsi  dall'influenza  in- conscia del  principio  di  causalità  efficiente,  che  anche dopo  che  si  è  escluso  come    base  di    quest'  argomento, può  avere  per  effetto  di  falsare  il    risultato  della    com- parazione, facendo  stimare  troi)po  alto  il  valore  di  esso e  troppo  basso  invece  quello  di  alcune  delle  prove  con- trarie. Se  volete  farmi  ammettere  un'anima  del  mondo, mostratemi  in  qualche  parte  dell'universo,  dice  il  fisio- logo, il  cervello  corrispondente  a    quest'  anima.    Ma    è un^  fatto    tuttavia    che    noi  troviamo    più   evidente    che delle  cose  in  cui  vediamo  un'  appropriazione  di    mezzi ad  un  fine  devono  essere  gli  effetti    d'  un'  intelligenza, anziché  che  i  pensieri  di  quest'intelligenza   dovrebbero avere  delle  cause  somatiche  come  quelli  di  tutte  le  in- telligenze conosciute.  È  che    la    prima    di    queste    due causazioni  ci  sembra  evidente  intrinsecamente,  mentre la  seconda  non  l'ammettiamo  che  costretti,  per  dir  così, dall'esperienza,  e  malgrado  le  tendenae   spontanee    del nostro  spirito  (che  rifugge   dall'  ammettere    un   legame causale  che  non  è  di  un'  evidenza  intrinseca).    Ora  ciò è  lo  stesso  che  dire  che  la  i)rima    ci    pare    una   causa- zione efficiente,    e  la  seconda   una    semplice    sequenza invariabile,    l'evidenza  intrinseca  essendo,    come  sap- piamo, uno  dei  caratteri  j.er  cui  la  prima  si   distingue dalla  seconda.   La    stessa    osservazione   dovrà    ripetersi naturalmente  se  invece  del  cervello   corrispondente    al- l'anima del   mondo,  si  tratterà  dei  nervi  e  dei    muscoli corrispondenti  ai  movimenti  ch'essa  imprime  nella  ma- teria. Un'altra  circostanza  può  impedirci  di  stimare    al suo  giusto  valore  1'  improbabilità  che  i  legami    fra   gli stati  psichici  o  fra  essi  e  le  azioni  tìsiche  di    cui    sono le  cause,  che  negli  esseri  intelligenti  conosciuti  lo  psi- cologo spiega  per  1'  esperienza  e  le  leggi    dell'  associa- zione, nell'intelligenza  supposta  dal    teleologista    siano senza  causa  ed  esistano  spontaneamente  e  da  se  stessi  : è  che  molti  legami  simili,  cioè  i  più  familiari  fra  tutti, sembrano  al  non  psicologo,  anche  negli  esseri    intelli- genti conosciuti,  comprendersi  perfettamente  da  se  stessi, e  non  aver  bisogno  della  spiegazione  dello  psicologo naturalmente  il  nietafisieo  preferisce  l'opinione  del  non psicolog-o  (è  ad  essa  che  si  riduce  in  sostanza  la  dot- trina delle  verità  a  priori),  perchè  la  metafìsica  non  è che  la  sistematizzazione  delle  illusioni  naturali  del  nostro spirito — .  Per  conseg'uenza  noi  non  sentiamo  il  l)iso«*no di  domandarci  :  Perchè  nelT  intellio-enza  ipercosmica r  idea  del  fine  è  legata  con  le  idee  dei  mezzi  appro- priati V  Perchè  essa  produce  deo-H  atti  esterni  perfet- tamente ag'giustati  alle  sue  volizioni?  Queste  ed  altre connessioni  dello  stesso  genere  che  noi  supponiamo  tra o-li  atti  di  (|uest'intelligenza,  non  ci  sembra  necessario che  abbiano  un  perchè,  assimilandole  noi  prontamente alle  connessioni  simili,  che  osserviamo  tra  i  nostri  pro- pri atti,  e  che  ci  sembrano  perfettannmte  naturali  e tali  da  com|)rendersi  per  se  stesse  senza  bisogno  di un  perchè.  Ora  (|uesto  fatto,  che  le  connessioni  più familiari  della  nostra  esperienza  psicologica  ci  sem brano  spiegarsi  da  se  stesse  e  non  aver  bisogno  di  una spieg'azione  ulteriore,  non  è  che  un'altra  manifestazione del  fenomeno  naturale  della  nostra  intelligenza,  di  cui l'espressione  compendiosa  è  1'  idea  di  causa  efficiente. In  una  tale  connessione  infatti,  trovandosi  in  essa  i caratteri  che  distinguono  la  causazione  efficiente  da una  semplice  sequenza  invariabile,  l'uno  dei  due  termini connessi,  o  almeno  il  sog-getto,  in  quanto  esiste  in  que- sto stato,  si  considera  naturalmente  come  la  causa  ef- ficiente dell'altro  termine.  In  (juesto  caso  dunque,  come nel  precedente,  l'apparente  evidenza  intrinseca  di  certe sequenze,  in  confronto  all'evidenza  puramente  speri- mentale di  altre  —  differenza  di  evidenze  che  non  è  che la  differenza  stessa  tra  la  causazione  efficiente  e  la srrnplice  sequenza  invariabile  —  ha  per  efletto  di  ele- vare il  valore  dell' induzioìie  del  teleologista  in  confronto a  quello  delle  induzioni  che  la  contraddicono.  Ma  se coTìiprendiamo  che  questa  evidenza  intrinseca  che eleva  il  valore  della  induzione  del  teleologista  e   dimi- 219 unisce  quello  di  alcune  delle  induzioni  contrarie,  è  pu- ramente apparente,  e  non  è  che  un  aspetto  dell'illusione radicale  della  nostra  intelligenza  a  cui  è  dovuta  l'idea di  causa  efficiente  ;  allora  noi  dobbiamo  assegnare  a ciascuna  di  queste  induzioni  un  valore  proporzionato alla  sua  base  empirica,  e  in  questo  caso  la  vittoria spetterà  difficilmente  a  (piella  del  teleologista.  Si  potrà pretendere  anche  che  essa  non  potrebbe  resistere  a  una sola  delle  induzioni  contrarie.  Consideriamo,  p.  e.,  quella che  conclud»*.  che  ogni  fatto  psichico  deve  avere  delle cause  somatiche.  La  prova  che  se  ne  tira  contro  la  con- del  teleologista  è  fondata  sullo  stesso  principio che  (jucsta,  cioè  che  dei  fatti  dello  stesso  g'enere  che altri  che  noi  sappiamo  per  esperienza  essere  prodotti costantemente  da  una  causa  determinata,  devouo  essere pure  degli  effetti  d'una  tal  causi.  Dal  leganu^.  supposto costante  tra  un  certo  effetto  e  una  certa  causa  il  teleo- logista conclude  che,  poiché  esiste  l'effetto,  deve  esi- stere anche  la  causa  :  da  una  premessa  sinìile  l'avver- sario del  teleologista  conclude  che,  poiché  non  può  esi- stere la  causa,  non  può  esistere  nemmeno  l'effetto.  Le due  conclusioni  hanno  un  valore  equivalente,  se  si  sup- pone che  le  due  premesse  hanno  un  valore  e(|ui va- lente. Ma  la  premessa  dell'  avversario  del  teleolog'ista ha  un  valore  superiore  che  quella  del  teleologista,  per- chè i  fatti  conosciuti  di  cui  esse  sono  la  generalizza- zione, autorizzano  questa  generalizzazione  più  nel  caso della  prima  che  in  quello  della  seconda.  Noi  sappiamo infatti  —è  il  dato  su  cui  si  fonda  la  premessa  dell'av- versario del  teleologista  —  che  i  fatti  psichici  di  tutti gli  spiriti  conosciuti  hanno  delle  cause  somatiche.  Ma noi  non  sappiamo  egualmente  che  tutte  le  cose  cono- sciute in  cui  vediamo  un'  appropriazione  di  mezzi  ad un  fine  hanno  una  causa  intelligente  :  il  dato  su  cui si  fonda  la  premessa  del  teleologista  è  solamente  una certa  parte  di  queste  cose,  le  opere  dell'uomo  e  quelle, —  220  — se  si  vuole,  degli  altri  esseri  intelligenti  dell'esperienza; in  quanto  all'altra  parte,  la  più  considerevole,    essa    è in  quistione;  non  è  un  dato  per  il  teleologista,    ma  la conclusione  a   cui    egli    vuole    arrivare.    Noi    possiamo dunque  stabilire  che  l'argomento  delle  cause  finali,  se non  conclude  con  certezza,    non   può  concludere    nem- meno con  probabilità.  Esso  deve    prendere    necessaria- mente per  massima  :  o  tutte  o  niente.  Se  si  fonda    sul principio  di  causalità  efficiente,    esso  può  aspirare    ad essere  considerato  come  una  dimostrazione  rigorosa,  e per  conseguenza  di  una  certezza  irresistibile  :    se    sup- pone invece  che  non  vi  hanno  altre  cause  che  gli    an- tecedenti di  sequenze   invariabili,     come    aigomento    è probabile,  ma  come  conclusione  non  lo  è,  perchè  questa conclusione  è  rovesciata  dagli    altri    argomenti    proba- bili che  la  contraddicono.  Il  valore  dell'  argomento  di- pende dunque  interanKMite  da   quello    del    principio    di causalità  efficiente:  esso  può  essere  reale,  se  questo  è obbiettivo;  non  lo  è,  necessarianuMìte,  se  questo  è  pura- mente subbiettivo. Questa  conclusione  e  stata  però  dedotta  dalla   sup- posizione che  non  vi  ha  alcuna  eccezione  al  corso  uni- forme della  natura,  e  che   i    fenomeni    devono    sempre spiegarsi  immediatamente  per  delle  cause  naturali.  Ma vi  hanno  forse  pochi  teleologisti  che  facciano  realmente questa  supposizione.  Come  abbiamo  osservato,  l'animi- sta,   1' ilozoista,  r  idealista,    il  realista  dialettico,    ecc. troverebbero    assurdo    di    far    intervenire    bruscamente degli  agenti  iperfisici,  che  interrompessero   l' incatena- mento  regolare  dei  fenomeni  secondo  le  leggi  uniformi costatate  dalla  scienza:   ma  quest'  assurdità  non  esiste per  In   pin  parte  dei  filosofi  teologici.  Quegli  stessi  che riducono  al  minimum  le    intervenzioni    sovrannaturali, ammettono  quasi  sempre  la  creazione  nel  tempo,    e   il più  spesso  anche  i'  origine  sovrannaturale  della  vita   e delle  specie  viventi.  Nell'ipotesi  di    questi    filosofi,    la dipendenza  del  valore  dell'  argomento  teleologico  da quello  del  principio  di  causalità  efficiente  non  si  può dimostrare  col  ragionamento  precedente,  ma  non  esiste meno  perciò,  nò  è  meno  facile  di  dimostrarla.  E  evi- dente infatti  che  questa  causa  iperfisica  che  si  fa  inter- venire nella  creazione  del  mondo,  della  vita,  delle  spe- cie viventi,  ecc.  non  v  una  causa  nel  senso  positivo della  parola.  La  causa  in  (juesto  senso  e:  un  cangia- mento, date»  il  quale,  per  una  legge  di  sequenza  inva- riabile, segue  immediatamente  un  altro  cangiamento  - la  causa  deve  essere  un  cangiamento,  e  1'  effetto  deve seguirla  immediatamente,  perchè  non  si  può  ammmet- tere  che  un  fenomeno  non  cominci  ad  esistere,  dacché la  totalità  delle  sue  condizioni,  cioè  la  sua  causa,  si  è a'ià  realizzata—.  Ma  la  causa  sovrannaturale  a  cui  si attribuisce  la  produzione  del  mondo,  della  vita,  delle specie  viventi,  ecc.  non  è  un  cangiamento  né  precede nel  tempo  l'eftetto,  in  modo  che  ijuesto  le  segua  imme- diatamente :  infatti  secondo  la  filosofia  teologica  moder- na Dio  è  assolutamente  immutabile,  e  gli  atti  della  vo- lontà ed  intelligenza  divina  (che  sarebbero,  a  parlar propriamente,  le  cause  della  produzione  del  mondo, della  vita,  delle  specie  viventi,  ecc.)  sono  eterni  ed  im- mutabili come  Dio  stesso.  Ma  non  essendo  una  causa nel  senso  positivo  della  parola,  cioè  come  antecedente di  una  sequenza  invariabile,  questa  causa  che  si  sosti- tuisce alle  cause  naturali  in  qual  senso  può  essere  una causa  V  Semplicemente  come  causa  efficiente,  perchè l'intelligenza  umana  non  si  forma  che  queste  due  idee della  causa.  Il  filosofo  teologico  può  considerare  come causa  la  sua  causa  iperfisica,  quantunque  vi  manchino i  caratteri  della  causa  nel  senso  positivo,  perchè  vi trova  invece  quelli  della  causa  efficiente  :  se  non  \  i trovasse  né  gli  uni  né  gli  altri,  egli  non  potrebbe  con- siderarla come  una  causa.  Il  valore  dell'argomento  delle cause  finali  dipende  dunque  anche  in    questo    caso    da —  222  — mJ  dU  ^ quello  dell'idea  di   eausa    efficiente.    Se    il    teleologista può  sostituire  alle  eause  naturali   la    sua   causa    iperfi- siea;  se  egli  può  credere  di  soddisfare  all'esig-euza   del principio  di  causalità  assegnando  ai  fenomeni  una  causa ehe  non  è  un  antecedente  di  una  secjuenza  invariabile; e  perchè  nel  significato  della  parola  causa  egli    fa    en- trare promiscuamente  gli  antecedenti    di    sequenze    in- variabili e  le  cause  efficienti.  Se  gli   si    mostrasse    che l'idea  di  causa  efficiente  non  ha  valore  obbiettivo,  causa significherebbe  allora  per  lui   unicamente  l'antecedente di  una  sequenza  invariabile,    e    non   potrebbe    credere di  avere   assegnato    una    causa    quando    non    ha    asse- gnato un    antecedente    di    sequenza    invariabile.    Così, ammesso  che  causa  vuol  dire  1'  antecedente  di  una  se- quenza invariabile,  la  conclusione  del  ideologista,  quan- do essa  pretende  che'  il  suo  agente  iperfisico  prenda    il posto  delle  cause  naturali,  è  in  contraddi/ione  con  l'as- sioma su  cui  si  fondano   le    nostre    conoscenze    d'  infe- renza più  certe  sul  reale,  cioè  col  principio  di  causalità: essa  non  potrebbe  conciliarsi  con  (jnesto  principio,  che ammettendo  che  vi    hanno    delle    cause    che    non    sono degli  antecedenti  ili  sequenze    invariabili,    e    che    non possono  essere,  per  conseguenza,  che  delle   cause    effi- cienti. Il  nostro  presupposto  che  una  cosa  che  è  consi- derata come  causa,  se  non  corrispondi^  all'  idea  di    an- tecedente di  una  sequenza  invariabile,  devo    corrispon- dere a    quella    di    causa    efficiente    (le    cui    note  sono, come  sappiamo,  che  la  causa  spieghi  radicalmente  l'ef- fetto, e  che  abbia  con  esso  un  legame   evidente  intrin- secamente e  necessario),  è  provato,  come  vedremo  nel corso  di  questa  parte  prima,  dalla  storia    della    metafi- sica. Questa  ci  mostra  infatti  che  lo  spirito  umano,  tutte le  volte  che  ha  immaginato  delle  cause  nel  senso    non positivo,  cioè  che  non  sono  state   degli    antecedenti    di sequenze  invariabili,  ha    sempre    cercato  di    realizzare l'idea  di  causa  efficiente  (con  le  note  distintive  che  abbiamo  indicato),  quantunque  non  abbia  potuto  farlo  mai che  d'una  maniera  più  o  meno  approssimativa.  Questo fatto  si  spiega  d'  altronde  per  lo  sviluppo  psicologi- co dell'idea  di  causa.  Noi  vedremo  in  un  capitolo  se- guente  che  la  causa  della  scienza  positiva  —  che  è un  antecedente  di  una  sequenza  invariabile,  nella  quale mancano  i  caratteri  delia  causazione  efficiente  —  e  la causa  della  più  parte  dei  sistemi  metafisici  —  che  ha  i caratteri  distintivi  della  causa  efficiente,  ma  non  è  l'an- tecedente d'una  sequenza  invariabile — sono  due  difi'eren- ziazioni  dell'idea  primitiva  di  causa,  che  riunisce  i  ca- ratteri dell'una  e  dell'altra  (cioè  che  è  al  tempo  stesso una  causa  efficiente,  con  le  sue  note  distintive,  e  un antecedente  di  una  sequenza  invariabile).  Questo  è  il concetto  che  lo  spirito  umano  (sì  individuale  che  col- lettivo) si  forma  spontaneamente  della  causa.  E  [K>rciò che  noi  possiamo  considerare  come  causa  tanto  (juella della  scienza  positiva  (juanto  (juiflla  del  metafisico;  ma ciò  che  né  fosse  un  antecedente  di  una  sequenza  in- variabile né  avesse  i  caratteri  della  causa  efficien- te, san^bbe  troppo  dittbrme  dal  nostro  concetto  natu- rale della  causalità,  per  poter  essere  considerato  come una  causa. 2*^  Un  carattere  generale  per  cui  gli  agenti  sup- posti dalla  metafisica  difieriscono  dagli  agcniti  supposti dalla  scienza,  è  che  il  modo  d'azione  che  si  attribuisce ad  essi,  non  è  stato,  come,  in  tutti  i  casi,  quello  che si  attribuisce  a  questi,  costatato  già  negli  agenti  del- l' osservazione.  La  loro  capacità  di  agire  nel  modo  in cui  si  suppone  che  agiscano,  non  ha  dunque  alcuna prova  basata  sull'esperienza  :  essa  non  si  ammette  che per  la  sua  evidenza  intrinseca,  ciò  che  è  lo  stesso  che dire  che  tali  agenti  sono  considerati  come  cause  effi- cienti. La  verità  di    quest'  osservazione    si    vede    della (1)  Gap.  IV.    V.  sptM'ialinonte  ^  11. maniera  più  chiara  negli  agenti  della  filosofia  volizio- nale,  e  sovratutto  in  quelli  della  filosofia  teologica. Spiegando  i  fenomeni  della  natura  per  una  volontà,  il metafisico  deve  preconoscere  che  la  causa  da  lui  asse- gnata ha  la  capacità  di  produrre  gli  effetti  ch'egli  vuole spiegare  per  essa  :  ma  che  questo  genere  di  cfiusa, cioè  la  volontà,  abbia  realmente  la  capacità  di  produrre questo  genere  di  effetti  che  le  si  attribuisce,  è  impos- sibile di  costatarlo  negli  agenti  volontari  delFesperien- za,  quantunque  debba  ammettersi  necessariamente  come qualche  cosa  di  preconosciuto.  Il  metafisico  suppone: r»  Che  la  volontà  possa  produrre  radicalmente  il  mo- vimento,  cioè  esserne  la  causa  totale,  e  farlo  nascere dal  niente  ~  è  su  questa  supposizione  che  è  fondato r  ariiomento  deir  esistenza  di  Dio  come  principio  mo- tore— .  Questo  potere,  lungi  di  potersi  costatare  negli agenti  volontari  conosciuti,  si  sa  che  è  impossibile  che loro  appartenga,  perchè  sarebbe  contràrio  alla  legge della  conservazione  dell'  energia.  2^  Che  la  volontà, come  semplice  fatto  psichico,  possa  produrre  degli  ef- fetti nel  mondo  fisico.  Anche  questo  potere  non  è  stato costatato  negli  agenti  volontari  conosciuti  :  in  essi  la volizione,  come  tutti  gii  altri  fatti  psichici,  deve  essere accompagnata  da  concomitanti  fisici,  e  questi,  se  noa sono  la  causa  totale,  come  vogliono  alcuni  psicologi, dei  fenomeni  fisici  che  seguono  alla  volizione,  ne  sono o  possono  esserne  una  concausa,  senza  il  cui  concorso questi  fenomeni  non  si  produi-rebbero.  3'^  Che  la  volontà per  se  stessa  sia  una  causa  sufficiente  della  sua  realiz- zazione, cioè  che  per  il  solo  fatto  della  volizione,  e senza  bisogno  dell'azione  d'un  meccanismo  appropriato e  di  altre  condizioni,  possano  prodursi  degli  atti  esterni conformi  alla  volizione  stessa.  Ma  negli  agenti  volon- tari conosciuti,  la  volontà,  per  quanto  ne  sappiamo, non  produce  mai  immediatamente  gii  atti  voluti.  Ciò che  la  volontà  produce  immediatamente  è  un  atto  auto- —  225 raatico  (reccilazione  di  certi  centri  nervosi)  che  non  ha alcuna  conformità  con    l'azione  voluta  :    se    (piesta    si produce,  è  perchè  quest'atto  automatico  trascina  al  suo seauito  una  serie  di  altri  atti  automatici,    in    un    mec- canismo  che  esiste  e  funziona  indipendentemente  dalla volontà,  e  a  cui  essa  non  ha  fatto  che    dare    il    primo impulso,  senza  volerlo  e    senza    saperlo.    Che    1'  effetto volizione  sia  un'azione  conforme  ad  essa,  non  di- pende dunque  dalla  volizione  stessa,   ma  dal  meccani- smo :  se  questo  non  esistesse  o  fosse    distrutto    o    alte- rato, la  conformità  tra  la  volizione  e  l'azione  non  esi o  cesserebbe  di  esistere.  Intanto  il  filosofo  vo- lizionale  amìnette,  come  una  cosa  che  va  da  sé,  che  la volizione,  negli  agenti  volontari  che  egli  suppone,  deve avere  per  effetto  un'azione  conforme  alla  volizione  stes- sa :  ciò,  negli  agenti  volontari  conosciuti,  lungi  di  sem- brare necessario,    può    considerarsi    invece    come    una coincidenza  felice,  perchè,  se  in  essi   non  si  trovasse  il meccanismo    appropriato    che    la    natura    ha    aggiunto provvidenzialmente  alla  volontà,  questa  potrebbe  pro- durre degli  effetti  nel  mondo  fisico,    ma   questi    effetti non  sarebbero  le  azioni  volute.  Se  il  filosofo  volizionale prendesse  per  principio  di  non  attribuire  ai  suoi  agenti volontari  ipotetici  che  quelle  capacità  di.  produrre    de- terminati effetti  che  sono  state    costatate   negli    agenti volontari  conosciuti,    egli  non  potrebbe  ammettere  che le  loro  volizioni  devono  avere   nel    mondo   fisico    degli effetti  conformi  alle  volizioni  stesse,    che  se   in    questi aa-enti  si  verificassero  le  condizioni,    che  negli    agenti conosciuti  sono  necessarie  perchè  esista    la    conformità le  volizioni  e  gli  atti   esterni    che    esse    producono. Alle    condizioni    fisiche    di    cui    abbiamo    parlato    (cioè l'esistenza  di  apparecchi  organici  appropriati),    dobbia- mo aggiungere  naturalmente  anche  le  psichiche.  Negli agenti  volontari  conosciuti,    la    possibilità  di    eseguire le  azioni  ordinate    dalla    volontà    è    il    risultato    di    un adattamento  progressivo  dell'individuo,    che  esig-e  dei tentativi  ripetuti  e    la    fissazione    dei    successi    ottenuti per  mezzo  dell'  abitudine.    È  certo  infatti  che    abbiamo imparato  ad  eseguire  anche  le  azioni  che   ora    ci    sem brano  le  più  naturali  (e  che  perciò  saremmo  tentati  di- credere che  non  abbiano  bisog'no  di  essere  state  apprese), come  abbiamo  imparato  a  scrivere,  a  nuotare,  a  suo- nare uno  strumento,  ecc.  —  è  un'osservazione  che  non abbiamo  creduto  inutile  di  fare,  poiché,  come  notammo, è  perchè  lo  assimila  prontamente  a  queste  nostre  azioni che  ci  sembrano  le  più  naturali,  che  il  filosofo  volizio- naie  trova  non  meno  naturale  il  modo  d'azione  dei  suoi agenti    ipotetici.    Cosi,    tutte    le    condizioni    indicate mancando  negli  agenti  supposti  dalla  filosofia    volizio- nale,  questa,  supponendo  che  la  loro  volontrà  ha  per  se stessa  il  potere  di  realizzarsi,    cioè    di  produrre    de"ii effetti  conformi  alle  sue  volizioni,  attribuisce  a    questi agenti  un  modo  d'azione  che  non  è  stato  costatato  negli agenti  conosciuti,    non  meno  che  quando  suppone  che la  loro  volontà  può    produrre    radicalmente    del    movi- mento, o  che,  come  semplice  fatto  })sichico,  può  essere causa  di  effetti  fisici. Ora  il  filosofo  volizionale  deve  preconoscere,  come abbiamo  detto,  che  la  volontà  è  capace  di  produrre  que- sti effetti  ch'egli  attribuisce  alle  sue  volontà  ipotetiche, perchè  nessuno  immaginerebbe  una  causa  per  ispiegare degli  effetti  dati,  s'egli  non  sapesse  già  che  questo  ge- nere di  causa  è  capace  di  produrre  questo  genere  di effetti.  Su  che  si  fonda  dunque  questa  preconoscenza del  filosofo  volizionale  che  la  volontà  è  capace  di  pro- durre radicalmente  del  movimento,  eh'  essa  può,  come semplice  fatto  psichico,  produrre  degli  effetti  fisici,  e che  basta  per  sé  sola  a  determinare  degli  atti  esterni conformi  alle  sue  volizioni  ;  se  queste  capacità  della volontà  di  produrre  tali  effetti  non  sono  state  costatate I 1 1 negli  agenti  volontari  conosciuti  V  Certamente  questa preconoscenza  si  fonda  sulle  esperienze  del  modo  di aziono  di  questi  stessi  agenti  volontari  conosciuti,  per- chè queste  esperienze,  prima  di  essere  esaminate  al lume  della  scienza  e  della  riflessione  psicologica,  sug- geriscono la  conclusione  che  la  volontà,  anche  negli agenti  conosciuti,  ha  queste  capacità  di  produrre  gli effetti  indicati,  che  il  filosofo  volizionale  le  attribuisce nei  suoi  agenti  ipotetici.  Ma  dacché  si  riconosce  che  i fatti  d(»bitamente  interpretati  non  autorizzano  ((uesta conclusione,  la  supposizione  che  la  volontà  è  realmente una  causa  propria  a  produrre  tali  effetti,  quantuncjue continui  ad  ammettersi  come  qualche  cosa  di  prcn-ono- sciuto,  viene  a  mancare  di  ogni  ])as(^  induttiva;  e  al- lora su  qnal  ragione  si  fonda  il  filosofo  volizionale  per ammetterla?  Egli  l'ammette;  come  una  verità  che  non ha  bisogno  di  prova,  })er  la  sua  evidente  intrinseca.  E infatti  le  nostre  esperienze  familiari  del  modo  di  azione de<>'li  aulenti  volontari  non  solo  ci  suggeriscono  queste conclusioni  :  che  la  volontà  può  dare  un  cominciamento assoluto  al  movitnento,  clie  può  .  couie  semplice  fatto psichico,  determinare  dei  cangiamenti  fisici,  e  che  è proj)ria,  per  se  stessa,  a  produrre  delle  azioni  esterne conformi  alle  volute;  ma  ce  le  suggeriscono  d'una  ma- niera automatica,  in  modo  che  ciascuna  di  esse  ci sembra  una  verità  evidente  per  se  stessa.  Così,  che  la volontà  abbia  realmente  la  capacità  di  produrre  gli  ef- fetti indicati,  è  una  proposizione  cIìc^  non  si  ha  alcun dritto  di  ammettere,  sr  si  respinge,  come  criterio  della verità,  questa  ap[)arente  evidenza  intrinseca  delle  pro- posizioni che  non  sono  che  delle  suggestioni  della  no- stra esperienza  più  familiare,  grossolanamentte  inter- pretata. Se  invece  si  ammette,  come  fa  la  filosofia  vo- produrre  questi  effetti,  non  lo  si  può  che  fondandosi sull'evidenza  intrinseca  della  proposizione.  Ma  una  causa la  cui  capacità  a  produrre  l'effetto  è  evidente  intrinse- camente, è  una  causa  efficiente,  perchè  noi  sappiamo che  è  questo  uno  dei  caratteri  che  distinguono  la  causa efficiente  dal  semplice  antecedente  di  una  sequenza  in- variabile. Per  conseguenza  dire  che  la  capacità  della volontà  di  produrre  questi  effetti  sembra  evidente  intrin- secamente e  che  si  ammette  perchè  sembra  evidente  in- trinsecamente,  è  lo  stesso  che  dire  che  la  volontà  si considera  come  la  causa  efficiente  di  questi  effetti,  e che  si  annnette  che  essa  è  capace  di  produrli  perchè  se ne  considera  come  causa  efficiente  Ora  è  certo  che  se non  si  ammettesse  che  la  volontà  è  capace  di  produrre questi  effetti,  non  si  supporrebbero  delle  volontà  ipo- tetiche che  li  proilucono  realmente  nell'universo.  Ne che  la  filosofia  teologica  e  le  altre  forme  della filosofia  volizionale  mancherebbero  di  base,  se  la  volontà non  si  considerasse  come  causa  efficiente  (1). 3<>  Vi  hanno,    dice  Hume,    in  questa  piccola  parte dell'universo  che  noi  conosciamo,  «quattro  principii  d'or- dine   cioè  di   finalità,  di  appropriazione  di  mezzi  ad  un fine):  riutelligcnza,    1'  istinto,   la  generazione  e  la  ve- getazione. L'esperienza  ri  mostra  che  tutti  (juesti  prin- cipii sono  cause  di  effetti  simili  (cioè  di  oggetti  o  di  feno- meni in  cui  vediamo  dell'ordine  o  della  finalità)  —seco noscessimo  l'universo  in  tutta  la  sua  estensione  e  in  tutta la  sua  varietà,  scopriremmo   forse    altre    cause    di    tali effetti  -.  Sarebbe  duniiue  un'induzione  altrettanto  fon- data di  riguardare  uno  o  un  altro  di  essi    come    causa generale  dell'  ordine  o  della  finalità  nelT  universo,  e  il teleologista  non  potrebbe  giustificare  la  sua    parzialità quando  ne  preferisce  uno  agli  altri,    spiegando    il    co- smos  per  l'intelligenza  piuttosto  che  per  l'istinto  o  per la  generazione  o  per  la  v^egetazioi.e  (2). (1)  C'fr.  cap.   IV.   \S.  !• (2)  Huiiie   Dialoghi  sulht  religione  naturale,   parte    VII. 229  — Di  questi  quattro  principii    d'  ordine    di    cui    parla Hume,  ne  metteremo  due  da  parte,  cioè  la  generazione e  la  vegetazione:    essendo  le  cause  osservabili  dei    più importanti  tra  i  fenomeni  che  vuole  spiegare  il  teleolo- gista,  esse  non   potrebbero    fornirgli    una    spiegazione, perchè  egli  cerca  per  questi  tViiomeni  altre   cause,    da a«'»'iuno*ere  alle  osservabili.  Noi  ci   limiteremo    dunque a  domandare  al  teleologista  perchè  ciò  che  egli  chiama la  finalità  deve  spiegarsi  per  l'intelligenza  piuttosto  che per  r  istinto.    L'  argomento  teleologico   è    un    ragiona- mento fondato  sull'analogia:  le  opere  della  natura,    si dice,  somigliano  a  quelle  dell'  intelligenza  ;  dunque  la causa  dei  fenomeni   naturali  è  un'intelligenza.    Ma  con un  ragionamento  simile  potrebbe  dirsi  :    le  opere  della natura  somigliano  a  quelle  dell'istinto-,  dunque  la  causa dei  fenomeni  naturali  è  un  istinto  (risiedente  nella  na- tura stessa  o  in   qualche    forza    animale    esteriore    alla natura).  Sembra    anche    ch(     il    secondo    ragionamento sarebbe  più  concludente  del  primo:  esso  si   fondendìbe infatti  sovra  un'analogia   più  grande,    le    azioni    della natura  essendo   uniformi,    fatali    e  non  imparate    come quelle  dell'istinto.  Ma  dice  il  tebiologista  :  noi  non  pos- siamo spiegare  la  finalità  per  1'  istinto,  perchè  sarebbe spiegare  1'  oscuro  per  il  j)iù   oscuro.    I    fenomeni    della natura  in  cui  vediamo  della  finalità,  esiggono  una  spie- gazione perchè  per  se  stessi  sono  incomprensibili  :  così essi  non  potrebbero  spiegarsi  che  per  qualche  cosa  che possa  comprendersi  da  se  stessa.    Ora  tale  è.  solamente l'azione  dell'intelligenza.  L'azione  istintiva,    lungi  di potere  spiegare  la  finalità,    è  essa  stessa  uno  dei    casi di  finalità  che  si  tratta  di  spiegare.  Questo  caso  non  ha bisogno  di  essere  spiegato  meno  degli  altri,  perchè  non è  meno  degli  altri  incomprensibile  :  esso  è  anzi  il     i)iù imcon)prensibile  di  tutti,    perchè  è  il  più   sorprendente (gli  atti  dell'istinto  essendo  i  fenomeni  che  somigliano di  più  agli  atti  dell'intelligenza,  e  ciò  che  ci  sorprende nella  finalità  della  natura  essendo  che  delle  cause  non intelli<>"enti  producano  de^li  effetti  che  noi  non  possia- mo comprendere  che  come  prodotti  da  cause  intelli- o-enti)  (1).  Ma  in  che  consiste  quest'incomprensibilità dell'istinto,  per  cui  il  teleologista  rifiuta  di  vedere  in esso  una  spiegazione  della  finalità?  Forse  in  ciò  che noi  non  conosciamo  bene  il  processo  per  cui  si  compie r  azione  istintiva?  Evidentemente  no,  perchè  noi  non al>l)iamo  alcuna  ragione^  per  ammettere  che  i  fenomeni tlevono  essere  prodotti  dalle  cause  il  cui  modo  d'azione ci  è  più  conosciuto  anziché  da  (|uelle  il  cui  modo  d*a- zione  ci  è  meno  conosciuto,  (quando  d'  altronde  cono- sci;! mo  eg'ualmente  l'esistenza  di  (|ueste  cause  e  il  loro iegaiiK»  costante  con  gli  e+Tctti  che  si  tratta  di  spiegare. Il  telc()loi>-ista  trova  dunciue  P  azione  istintiva  incom- prensihile  perchè  non  vi  ha  in  essa  né  previsione  dello scopo  né  scelta  cosciente  dei  mezzi  che  lo  realizzano, ed  egli  non  comj)rende  un'azione^  indirizzata  ad  un  fine che  (juaiido  vi  ha  coscienza  di  (juesto  fine  e  dei  nnv.zi impiegati  per  raggiungerlo,  in  una  parola  (|uando  (jue- st'azione  è  prodotta  dall'i ntellig-^niza  (2).  Cosi  il  ragio- namento del  teleolog'ista  si  riduce  in  sostanza  a  (juesto: (1)  .Jaiict  Lr  rausc  fiindi  pajr.  12."):  «  Pr(M:isaiiu>nt(*  perchè «liK'sti  atti  istintivi  della  natura  umana  soiu)  analoghi  ai  teno- nu'ui  della  natura  in  «ienoralc  «li  <ui  cerchiamo  la  spicu, azione, non  ì»  «la  essi  clu'  noi  <lol)l)ianìo  |>artire  i>er  ispiegare  «ili  al- tri: perchè  sare.»be  allora  spiejuare  ohscìa'ifrn  per  ohsenrìnn  », Viiìl.  r>l()  :  «  Vi  Ila  in  effetto  nella  natura  tre  modi  di  azione, il  meccanismo,  1'  istinto  e  il  pensiero.  Di  questi  tre  modi  due solamente  ci  sono  conosciuti  d'una  maniera  distinta:  il  niecca- nismo  e  rintellij::enza.  L'  istinto  è  ciò  che  vi  ha  di  più  oscuro, di  \n\i  inesplicato l'istinto  è  essenzialmente  una  qualità  oc- culta :  scej^lierlo  per  far  <*omprendere  la  tìnalità,  «[uando  e  esso Htesso  il  caso  di  tìnalits^  più  incomprensibile,  non  è  s])ieii;are ohscunun  per  oòscnrins  /    V.  Jaiiet  Ihid.  pa^.  ali,  .541,  ecc. A la  finalità  non  si  comprende  che  come  un  effetto  del- rintelligenza;  ma  l'istinto  non  è  l'intelligenza;  dunque la  finalità  non  può  spiegarsi  per  l'istinto,  ma  deve  spie- garsi solamente  per  l'intelligenza. Questo  ragionamento  non  è  una  petizione  di    prin- cii)io  né  qualche  altro  dei  sofismi  artificiali,    con  cui  i metafisici  cercano  di    dare    una    base    fittizia    alk^    loro teorie,  fondate  unicamente  sui  sofismi  a  priori    o    illu- sioni naturali  del  nostro  spirito.  P]sso  è  la  costatazione di  fatti  psicologici  evidenti,  ed  esprime  il  motivo  reale della  dottrina  del  teleologista.  Una  spiegazione  radicale infatti,  qual  è  quella  che  cerca  di    dare    una    dottrinametafisica,  deve  avere  per  oggetto  di  dissipare  o   atte- nuare il  mistero  in  cui  la  spiegazione  scientifica  sembra che  lasci  avvolta  la  produzione    dei    fenomeni.    Questo deve  essere  dunque  l'  oggetto  della  spiegazione    che  il teleologista  cerca  di  dare  di  ciò  che  egli  chiama   la    fi- nalità. Ma  perchè  esso  si  raggiunga,  bisogna  che  il  fatto che  serve  di  spiegazione  non  sembri  anch'  esso  un  mi- stero, ma  si  creda  di  comprenderlo  per  se  stesso,  senza bisogno  di  spiegazione  ulteriore.  Ora  é  un  dato  incon- testabile della  nostra  esperienza  intima  che    un'  azione in  cui  noi  vediamo  un'  appropriazione  di  mezzi    ad  un fine,  se  si  compie  con  intelligenza  (cioè  con  previsione del  fine  e  con  scelta  cosciente  dei  mezzi),  noi  crediamo di  comprenderla;  se  si  compie  altrimenti,  p.  e.  per  istinto, ci  sembra  incomprensibile.   Questo    secondo    noi    è    un fenomeno  psicologico  da  cui  non  può  tirarsi  alcuna  con- clusione sulla  natura  reale  dei  due  modi  di  azione  :  se razione  intelligente  ci  sembra  comprensibile  e  Fazione istintiva  misteriosa,  è  semplicemente  perchè  la  prima  è un  fatto  che  ci  è  molto  familiare,    mentre    la    seconda non  lo  è,  e  i  fatti  più  familiari  sono  i  soli  che  noi  cre- diamo di  comprendere  e  che  ci  sembra  che  possano  spie- gare gli  altri  fatti,    se  noi  riusciamo  ad  assimilarli  ad essi.  Ma  il  nostro  scopo  attuale  non  è  di  dare  la  ragione  di  questo  fenomeno  psicologico  né  di  decidere  se esso  abbia  o  no  mi  significato  obbiettivo:  per  ora  non c'importa  che  di  costatarlo,  e  di  notare  il  suo  rapporto con  r  idea  di  causa  efficiente.  Noi  sappiamo  che  una delle  differenze,  inseparabili  del  resto  Tuna  dall'  altra, tra  la  causazione  efficiente  e  la  semplice  sequenza  in- variabile, è  che  nella  prima  noi  crediamo  che  il  legame tra  la  causa  e  1'  effetto  sia  intelligibile  per  se  stesso, mentre  nella  seconda  ci  sembra  un  mistero.  Che  signi- fica dunque  che  noi  crediamo  di  comprendere  V  azione intelligente,  ma  l'azione  istintiva  ci  sembra  misteriosa? non  altro  che  nella  prima  troviamo  una  causazione  ef- ficiente,  e  nella  seconda  una  semplice  se<iuenza  inva- riabile. Noi  vediamo  così  sotto  un  terzo  aspetto  che  la base  deir  argomento  teleologico  è  1'  idea  di  causa  effi- ciente. Infatti  quest'argomento  non  potrebbe  essere  con- cludente,  se  si  ammettesse  che  i  fatti  che  la  dottrina delle  cause  finali  spiega  per  l'intelligenza,  potrebbero spiegarsi  anche  per  l'istinto;  e  il  teleologista  non  esclu- de quest'ipotesi  che  perchè  la  spiegazione  che  egli  cerca è  una  spiegazione  per  le  cause  efficienti.  La  causa  ef- ficiente della  finalità,  in  virtù  delle  tendenze  spontanee del  nostro  spirito,  egli  non  può  trovarla  che  nell'intel- ligenza :  se  la  causa  della  finalità  significasse  per  lui degli  antecedenti  a  cui  certi  fatti  seguono  invariabil- mente,  egli  troverebbe  questa  causa  egualmente  nel- l'istinto, e  la  spiegazione  per  l'istinto  (supposto  che  egli non  avesse  altro  scopo  che  di  spiegare  i  fenomeni)  gli sembrerebbe  così  soddisfacente  che  quella  per  1'  intel- ligenza. Ciò  che  abbiamo  detto  in  questo  paragrafo  deve essere  completato  per  ciò  che  diremo  nei  due  paragrafi ultimi  del  capitolo  :  ivi  troveremo  un'  altra  prova,  da aggiungere  alle  considerazioni  precedenti,  nella  teoria psicologica  sull'idea  di  causa  che  chiameremo  :  il  con- cetto di  causalità  dell' antropomorfismo. '-?$' lyanimismo come  spiegazione  dei  fenomeni  biologici. ^  8.  8i  dice  animismo,  come  si  sa,  la  dottrina  che l' Jinima  è  il  princij)io  della  vita  organica.  Questo  signi- ficato della  ])arola  animismo  si  <leve  distinguere  da  quel- lo in  cui  Fusa  il  Tylor  e  in  cui  noi  stessi  l'abbiamo usata  nei  paragrafi  precedenti,  cioè  come  denotante  la credenza  che  il  soggetto  dei  fenomeni  psichici  è  una sofifancd  (cioè  una  cosa  permanente  come  gli  oggetti che  occupano  lo  spazio),  e  che  tali  sostanze  possono  esi- stere, ed  esistono  effettivamente,  separate  da  cor^^i  orga- nici. T  (lue  significati  non  difieriscono  solaiìiente  nella connotazione,  ma  nnche  nella  denotazione  non  coincidono che  imperfeitamente,  poiché  se  rnmanità,  in  generale, ha  visto  in  (juesta  sostanza  che  è  il  soggetto  dei  feno- meni ])schici,  anche  il  principio  della  vita  organica, molti  fih)sofi  spiritualisti  moderni,  a  cominciare  da  Carte- sio, hanno  avuto  un'altra  (h)tti*ina;  di  più  si  può  ammet- tere che  Panima  è  il  ])rinci])io  (h'ila  vita  organica,  an- che ammettendo  che  essa  non  e  una  sostanza,  ma  il semplice  complesso  dei  fenomeni  psichici.  La  dottrina che  l'anima  è  il  principio  ch'Ila  vita  organica  non  è  per se  stessa  una  spiegazione  antropomorfistica  dei  fenomeni biologici  —  (luesta  su])pone  che  si  faccia  deiranima  la causa  produttrice  dei  movimenti  vitali  e  V  operaia  del- riugazizzazione  del  proprio  corpo — ;  ma  essa  lo  diviene facilmente,  perche,  da  una  ])arte,  il  corpo  vivente  è  emi- nentemente la  sede  di  (jnei  fenonìeni  che  seiìibrano  re- chimare  più  energicamente  una  spiegazione  antroxmmor- ^1 '-A' —  86  — iìstica,  cioè  la  spontaneità,  aliiiciio  apparente,  del  movi- mento, e  una  struttura  e  delle  azioni  indirizzate  ad  un line;  e  da  uiraltra  parte,  Fani  ma  individuale  e  Tao-ente che  si  olire  della  nianiera  più  ovvia  e(nne  principio  di lina  tale  spiegazione,  esscMulo  un  adente  conosciuto,  men- tre ooni  altro  non  sarebbe  clic  ipotetico. Ma  (luiuituniiue  ranimismo,  nel  senso  stretto,  si«»ni- ticlii  la  dottrina   che  ammette  c<nue   causa  dei  lenomeni Inoloo'ici  Tanima  stessa,  cioè  il  soow.etto  cosciente  clie  è il    ìììc    deir  ori>anismo,    noi    esten<UM'eiuo  ({uesto  nonu', n(ui  essendovene  uno  ])iii  conveniente,    anche    alle    dot- trine per  cui   le  cause  dei  tenoun^ii  biologici   sono  de^ii ji<jjenti  pure  coscienti  e  risiedenti  neiroroanismo  stesso, ma  distinti  dairanima,  dal  me,  di  (iuest'(u<»anismo.  Que- st'altra forma  deiranimismo  è  necessariamentcMina  spie- gazione   antropi)uu>r1istica,    perchè    se    (juesto    principio vitale  o  ([uesti  princi[)ii    vitali,    che,  oltre   airanima,   si ammettono  risiedere  nelForoanismo  e  viviticarlo,  vendono dotati  di  coscienza,   nou  é  evidentemente    che    i)er  assi- milare le  operazicuii  di  (jucsti  priìici])ii    alle   nostre  pro- l)rie  azioni  coscienti,  volontarie.    Fra    (juesf  altra  tVn-nni dell'aninùsmo  e  la  prima,  cioè  Tauiuiisiuo  nel  senso  stret- to, vi  ha  (pu'sta    dilterenza   lilevante,   che  in  (juclla  V  a- gente    che    serve  da    priucij>io    di     spiegazione    è    ipote- tico, mentre  in  (juesta   ip(>tetica  è  solauu'ute  l'azione  che irli  si  attribuisce.  Non<limeno  noi    riuninMiio  in   un    cmi- cetto  comune  (jucste  due  spiegazioni    dei    fenomeni  bio- lotrici,  costitueuih)  Tuna  e  Taltra  una  forma    deterunnata deirantropomorlismo,    clie    si    <listin<»ue    dalle    altre  per questi  due  caratteri  :  che    la    spicci-azione  non  si  applica che  a  una  cat(\u-oria  [jarticolare  di  fenouu'ui  (i  biologici); e  che  r  agente  che  serve  da  princiino  di  ({uesta   spiega- zione ncm  è  trascendemle  (<*ome  uella  sjnegazione  teolo- gica), ma  immanente,    cioè    risiedente    nelFessere    stesso che  ò  la  sede  dei  fenomeni. I 87 §  9.  I  fatti  per  cui  i  fenomeni  luoìogici  sembrano particolarmente  pro})rii  a  ricevere  una  spiegazione  an- tropcmiorlìstica,  s(mo,  come  abluamo  osservato,  (|uesti due  :  la  spontaneitii  (almeno  apparente)  dei  movimenti vitali,  e  il  loro  aggi  usta  nu^nto  ad  uno  sco])o.  Un  esemino di  animismo  diretto  particolarmente  alla  spiegazione  della spontaneità  dei  movinuMiti  vitali,  lo  troviamo  nei  hlosoh greci.  Seconch)  Aristotile,  uno  dei  caratteri  per  cui  i  suoi predecessori  aveano  determinato  la  natura  dell'anima,  è che  essa  è  il  i)rincipio  dei  movinu^nti  dv]  corpo,  che  essa produce  essendo  essii  stessa  in  nu>vim(Mit(),  e  comuni- cando al  corpo  il  moviuiento  proprio  (1).  Platone,  dando una  forma  rigorosa  a  (piesto  concetto,  attriì)uisce  all'a- nima un  movimento  spcnitaneo  —  ciò  che  costituisce  la essenza  stessa  di  <j[uesta,  che  egli  dehnisce  :  ciò  che muove  se  stesso  —  e  spiega  i  movimenti  del  corpo  vi- vente per  la  trasmissione  dei  mt)vimenti  dell'aniuia,  come (jnelli  dell'univei'so  materiale  jier  la  tiasiìiissione  di  ipielli dell'anima  cosuiica.  Questa  spiegazione  dei  movimenti degli  esseri  animati  .^e:nbra  ad  Aristotile  ti'opj)o  mecca- nica—  egli  la  paragona  alla  fantasìa  di  un  autore  ccmiico che  Dedalo  a  ve  a  a  dato  il  movimiMito  a  una  Venere  di legno,  infondendole  dell'aigento  vivo  —  ;  ma  é  evidente che  essa  é  costruita  sul  ti])o  delle  spiegazioni  antropo- morlistiche,  assimilacelo  l'anima  a  un  uomo  o  un  aniniale, e  il  modo  in  cui  essa  mette  in  nu)vinuMito  gli  organi  del corpo,  a  (lucilo  in  "ui  l'mmio  o  1'  aniiuale  mette  in  mo- vinu^nto  gli  oggetti  esteriori.  A  dir  vero,  l'oggetto  pre- cipuo di  (queste  dottiiiu'  non  eia  di  spiegare  i  rnoA'imenti vitali  indij)endenti  dalla  volontà  assimilandoli  ai  mo- vimenti volontari  —  ciò  che  costituisce  l'essenza  dell'ani- nnsmo  come  spiegazione  antropomortìstica  dei  fenomeni (1)  V.  Aristot.  De  mi.  1.  I,  e.  II  e  III. —  ss  — 89 Inoloo-ici  —,  ma  iniittosto  di  spiovalo  i  lìiovÌTiienti  vo- lontari stessi  al  punto  di  vista  del  dualismo  primitivo, che  fa  deiranima  e  del  corpo  due  sostanze  distinte,  tutte  e due  materiali.  Ma  (pu'sta  s[)ie«'azione  dei  movimenti  vo- Icmtari  era  anelie  api)li(ata  certamente  ai  movimenti Aitali  indipendenti  dalla  volontà.  E  ciò  che  si  vede  evi- dentemente nella  dottrina  di  Platone,  <iuando  ammet- te che  l'anima  é  in  un  movimento  continuo  —  ciò  che non  può  avere  altro  scopo  che  di  spie.iiare  il  movimento continuo  che  caratterizza  la  vita  —,  e  la  divide  in  tre parti,  a  Ilo»;  «piandole  nelle  tre  parti  del  corpo  che  ri<;uarda come  centri  delle  funzioni  vitali  —  per  ispie<;are  come  i movimenti  in  cui  consistono  (jueste  funzioni,  possano essere  prodotti  dai  movimtMiti  deiranima  — .  Questa  spie- gazicme  animista  dei  movinicnti  vitali  assume  una  forma sistematica  nella  dottrina  de.i»li  Stoici  :  ranima  si  dittòn- de  e  ])enetra  in  tutte  \v  ])arti  deiror<»anismo,  tenendole unite  fra  di  loro  e  promuovendo  tutte  U'  funzioni  della vita;  essa  ha  la  i>otenza  di  muovei'c  se  stessa,  e  ])roduce tutti  i  movimenti  vitali  dando  loro  Piiiipulso  col  proprio movimento  (1). Ma  ranimismo  assunu*  più  proj)rianu'nte  il  carat- tere <li  una  spieuazione  antrojxmiortistica,  (piando  am- mette che  ranima  produce  i  fen<Mueni  vitali  con  cono- scenza e  con  intenzione.  Allora  esso  ha  i)rincipalmente per  isco[)o  di  spiegare  la  finalità  di  (jucsti  fenoiiu^ni  . 1  rappresentanti  di  <juesta  forma  deiranimismo  sono  so- vratutto  Stalli  e  i  suoi  seguaci  (tra  i  quali  possiamo  anclie c<nnprendere  alcuni  dei  (ìsiolo<;i  della  scuola  riffdisfd  di Montpellier)  (2).  Secondo    Stalli   ranima  è  il  principio  di (1)  V.   ()«r('i-oau  Sa.u.i;i(>  sul   sist.   tilosof.  (lenii   Stoici,   e.  IV. (2)  V.  liCiiioinc,    //  rittflisiHO  v  Panimismo  di  Stdhly  pai»;.  195  e seguenti. I #1 tutti  i  fenor.ìimi  della  vita,  (^  lì  pioduce  con  intelligenza e  vohmtà,  (piantumiue  non  ne  abbia   coscienza.  I  movi- menti del  corpo  devono  avi^-e  una  causa  spirituale,  pei'- che  la  causa  del  movimento  non  può  essere  che  imma- teriale  — e   infatti    la    materia    e  incapace  di  movimento spontaneo—;  di  più,  i  movimenti  vitali  manifestamh)  una meravigliosa  appropriazi(me  di  mezzi  a  tini  determinati, (luesta  causa  deve  essere,  n(ui  solo  spirituale,  ma  anche intelligente.    ^)ra    Tanima    e  il  solo  agente  conosciuto  in cui  si  ritrovino  (jucsti  caratteri  :  dun(pu'  la  causa  di  tutti i  movimenti  vitali  e  Tanima,  (luella  stessa  che  è  il  sog- getto (h'ila  nostra  ragione  e  la  causa  dei  nostri  movimenti volontari.  (\>si  è  Taniina  che,  come  fa  muovere  i  muscoli volontari,  ta  pun^  respirare  i  polmoni,   battere  il  cuore, circolare  il  sangue,  seceriuM'e  il  fegato,  digerire  lo  stomaco; separa  (hìl  sangue  gli  umori  corrotti  e  li  rigetta  al  di  fuori; fa  succedere  il  sonno  alla  veglia,  il  riposo  al  movimento. E  essa  clic  si  costruisce  il  proprio  corpo,   e  dopo  uscito dal  seno  materno,  lo  c(mserva,   lo  sviluppa,  lo  n^staura continuamente  con  tutti  gii  atti  che  compcmgono  la  nu- trizione, lo  cura  e  lo  guarisce  nelle  malattie.  È  essa,  in una  parola,  clu'  governa  e  compie  tutte  le  funzioni  del- Porgauismo,  producendo  con  la  vohmtà  tutti  i  movimenti delle  sue  parti,  ([uelli  che  si  c(msiderano  come  automatici n(m  meno  cìie  ciuelli  che  si  chiamano  volontari.  Quando abbiamo  detto  che  Tanima  produce  i  fem>meni  della  vita c(ui  intelligenza  e  vohmtà,  si  deve  dare  a  (pu^stt^  parole tutta  Testensione  di  cui  sono  suscettibili  :  roggetto  (Wlla vcdontà  deiranima  sono  gli  scopi  ultimi  a  cui  le  funzioni della  vita  sembrano  indirizzate,  ch>ò  di  realizzare  la  forma elle  costituisce  il  piano  speciale  delPorganismo,  e  dopo  la Ibrmazione  di  (|uest' organismo,  di  conservarlo  e  pres(4-- varlo  dalla  corruzione  e  dalla  nunte;  i  nu^zzi  che  la  na- tura sembra  adoperare  in  vista  di  (luesti  scopi,  s(mo  To- nerà deirintelli-enza  e  (WlPartilìzio  sapiente  deiranima. 90 —  91 Per  conseo Renza  Stalli  attribuisce  airaiiiina  una  cono- scenza naturale  <lella  struttura  del  corpo,  più  completa cht^  qui^lla  di  (pialsiasi  anatomista,  la  scienza  della  tisio- lo<;ia,  della  patologia  e  della  terapeutica,  l'arte  maravi- jjliosa  di  diri,i;ei'e  con  la  più  sapiente  economia  tutte  le funzioni  deiroroanismo,  e  (pu'lla  deirarcliitettura  e  della fabbricazione  dell' organismo  stesso.  Questa  intelligenza incesciente  che  governa  le  funzioni  oiganiclie  l'autore  la chiama,  XÓYOC,  ^'  la  (listinone  dal  XoY'.au.óc:  il  XoYtajxó? è  una  cono.^cenza  ritlessa,  i azionata;  il  XÓYOC  ^'  ^^i^*i  ^'^^- noscenza  istantanea,  intuitiva,  che  non  si  tonda  sul  ra- gionamento, ed  è  indipendente  (bill'esperienza  e  dai  sensi. L'aTìima,  nell'amministrazione  della  vita  organica,  é  sog- gettii  purea  degli  errori — allora  al  Xó^og  ^'ssa  sostituisce  il Xo^il^ióc  —  •  questi  sono  le  cause  delle  malattie,  e  quindi della  morte.  (1) Fra  i  precursori  di  Stahl  non  vi  hanno  solamente  dei mìstici,  come  Van  Helmont  e  Paracelso  (2)  (il  cui  archeo  non (1)  V.  Jjciiioine.    //  ciliilismo  e  Vun'unisnio  di  Stalli. (2)  11  modo  di  oponu-i^  dell' jirclieo  di  Paracelso  sonno lia  jicr- lettaiiieiite  a  (quello  di  un  fabbro.  Secondo  Paracelso  il  pane  e  la carne  contenzioni)  y^ìh  l'occhio,  il  naso,  il  fegato,  ecc.;  nei  succhi della  terra  si  trovano  nascosti  il  iiore,  le  foglie,  ecc.:  l'archeo tira  dagli  alimenti,  j)er  via  di  separazione  e  di  reiezione,  ciascun membro  e  ciascuna  i»arte  del  corpo  vivente,  come  uno  scultore, dice  Bacone,  togliendo  da  una  massa  grossolana  di  legno  o  di pietra  tutto  il  superfluo,  ne  tira  così  la  forma  d'una  foglia,  d'un tìore,  d'un  occhio,  d'un  naso,  ecc.  Notiamo  la  curiosa  analogia ron  la  dottrina  di  Anassagora  delle  omeomerie  (particelle  simi- lari deirac([ua.  della  pietra,  dell'osso,  della  carne,  ecc.)  che  al ])rincii)i()  erano  tutte  mesc(date  insieme,  e  del  X(ms  che  intro- duce l'ordine  nel  mondo,  ojierandone  la  segregazione.  —  La  dot- trina degli  archei  non  è  un  animismo  che  in  un  senso  lato;  ma differisce  dall'anima  di  Stahl  che  percliè  le  operazioni  di  cui non  abbiamo  coscienza,  che  (pu\sti  attribuisce  al  nostro me,  si  attribuisc(nio  invece  a  un  me  distinto  dal  n*)stn)),  ma anche  degli  scienziati  seri,  <iuali  Harvey  —  (piantun;pie le  sue  scoverte  abbiano  deteiininato  la  prevalenza  della ccmcezioue  meccanica  della  vita — e  Borelli  —  malgrado die  sia  statoli  capo  della  scuola  iatro-matemativa,—\\  prin- cipio fecondatore,  dice  Harvey,  e  in  tutti  gli  esseri  lo  stesso o  di  una  natura  c(nisimile;  è  ipialche  cosa  di  divino,  ana- logo al  cielo,  all'arte,  all'intelletto,  alla  jU'ovvidenza.  Egli scrive  un  capitolo  che  ha  per  titolo  ovum  non  cvst  opus, nferi  sed  anima',  e  s^nega  lo  svilui)po  deirem]>rione  at- tribuendo un'  anima  all'  uovo  stesso,  e  conformandosi all'avviso  del  poeta  :  Spiritu,^  intus  alit,  totanìpie  infnsa per  art  Ufi  Me  uh  af/itat  mole  ni. Borelli  in  un  luogo  della  sua  celebre  opera  De  moiu animalinm  assunu^  a  provare  che  è  ])ossibile  che  il  moto del  cuore  sia  prodotto  da  una  facoltà  animale  conosci- tiva. Egli  induce  che  1'  anima  conoscitiva  è  il  principio dei  movimenti  del  cuore  dall'  accelerazione  e  rallenta- mento della  circolaziiuie  per  gii  aifetti  dell'animo  :  l'una e  l'  altra  variazione  della  pulsazione  è  prodotta,  egli dice,  dall'apprensione  e  dalla  persuasione  che  sono  fa- coltà dell'anima  conoscitiva;  dunciue  il  movimento  àA cuore  è  prodotto  da  una  facoltà  senziente  ed  appetente, e  non  da  un'  ignota  necessità.  1'ra  i  tisiologi  eminenti che  indipendentemente  da  Stahl  hanno  aìnm-sso  delle idee  analoghe  alle  sue,  dobbiamo  anche    ricordare  Hoff- Leibnitz  i>arla  di  alcuni  settatori  di  Van  lle:m>nt  e  di  alcuni  peri- patetici, fra  cui  (liulio  Scaligero,  che  ammettt'vani»  che  l'animu si  fahbrica  il  i>roprio  cor])o  (V.  Leibnitz  Coìiddenizioni  sul  prhi- eipil  di  vita  v  shIIc  nuture  plastiche,  ed.  Dutens  t.  11  parte  1 pag.  43).  Sono  dei  ])n'cursoni  più  diretti  dell'animismo  di  Stahl. il 92  — 93 iiiaun,  che  aiìniietteva  mi  fluido  vitalt^  diffuso  in  tutto l'or^auisiuo,  e  attribuiva  a  tutte  le  i)articole  di  ([uesto fluido  un'idea  determinata  deirori;anisnìO  intero,  seeondo la  <iuale  esso  forma  il  corpo  e  lo  conserva  per  il  suo  mo- vimento. Tra  il  noiosi  deiranticliità  Stahl  vede  un  suo  precurso- re nello  stesso  I])pocrate,  pretendendo  clu^  la  natura  di  cui parla  ({uesf  autore,  clie  erudita  senz'aver  imparato,  la tutto  ciò  che  e  conveniente,  sia  la  ra<;ione  cht»  opera senza  coscienza.  Ma,  come  dice  Galeno  (1),  Ip])ocrate  non determina  che  cosa  sia  (|uesta  natura,  di  cui  celebra  e ammira  sem])re  la  potenza  in  ciascuno  dei  suoi  trattati  : ciò  che  *x\\  si  poti'cbbe  attribuire  e,  non  la  personiticazione di  (juesta  forza  formatrice  e  medicatrice  eh'  e,i»li  cliiama la  natura,  ma,  couu'  nei  sistemi  di  tìnalità  immanente  o incosciente,  p.  e.  in  Aristotile,  (luesta  vai»a  assimilazione (elle  è  aneli'  essa  una  forma  dell'antropomortismo)  delle operazioni  della  natura  a  (incile  dell'  uomo,  consistente a  suppone  clic  anche  la  natura  opera  per  nn  tìne,  (pian- tunque  senza  conoscenza  e  senza   intenzione    (2).    Come (1)  De  placitis  lli])i)ocrjitis  ot  Platonis,  1.   IX,  e.  Vili. (2)  Questa  stcssji  vjijìji  assiinilazioiie  delle  operazioni  della  na- tura a  ((uelle  dell'  uomo  vi  ha  pure  in  eerte  dottrine  vitaliste, che  ammettono  delle  forze  ])lastielie  o  formatrici  dell'ornanismo, ji^enti  secon«lo  un  piano  definito  ma  prive  di  eonoseenza.  attri- buendo, come  «lice  un  autore^,  a  ciò  che  non  e  considerato  che come  della  materia  estremamente  l'arefatta  (o  anclie  come  im- mati^riale,  ma  senza  sensibilità  e  senza  coscienza)  delle  ]>ro])rietà e  un'azione  che  api)arteii<;()n<>  alla  ]>otenza  e  all'inteHijicnza  j)iii elev.ata  (v.  Hevue  scientitì([ue,  année  7.  ikijl».  ()4).  K  un  antroi)o- nu)rtìsmo  sottile,  come;  si  vede  della  maniera  i>iìi  evidente  nella dottrina  di  C'udworth,  che  assimila  il  modo  di  azione  della  sua ììntura  phtstiea  aj^li  atti  conformi  a  uno  scopo  che  noi  ese- iiiiiamo  automaticamente  in  forza  dell'  a])itudine,  e  alle  azioni istintive.  Tali  dottrine  devono  distinjiuersi  senza  dubbio  dallo animisnu)  (anche  nel  senso  lato),  ma  non  può  dirsi  che  siano  con esso  s<^nza  analoiji.'i. esempio  di  tendenze  animiste  (aventi  un  carattere  netta- mente antropomortistico  e  tele(do,i;ico)  nell'anticliità,  si  i)uò citare  invece  Galeno  stesso.  Nel  suo  opuscolo  Jh'fonuafione foeinum  egli  ri,i>;etta  l'opinione  che  questa  avvenni  senza provvidenza,  e  dichiara  clie  nelle  parti  materiali  non  ha ti'ovato  alcuna  i'a,<;'ione  efticHce  a  s])ie«;are  la  formazione de<;li  animali.  E.iA'li  pi*o})ende  ])iutt()sto  a  ciedere  o  che i  singoli  oi'gani  siano  stati  costruiti  da  alti'ettante  anime che,  formatili,  li  goveinano,  o  clie  tutto  il  coi'po  sia  stato formato  da  un'anima  coiìiune  che  goveina  tutto  l'orga- . Ciò  che  ])erò  lo  l'cnde  dubbioso  é  il  non  cono- sclere  noi  (juest' anima  o  ([ueste  anime,  che  esistei*ebbero a  lato  della  [)arte  ])rincipale  della  nostra  ragione,  cioè <juella  di  cui  abbiamo  coscienza. Un  animismo  più  o  meno  vicino  a  (|uello  di  Stahl non  ha  mancato  di  sostenitori  fra  i  moderni  tìlosotì  s])i- ritualisti  —  benché  la  più  parte  <li  essi  si  tengano  al punto  di  vista  cartesiano,  che  spic^ga  i  fenomeni  bicdo- gici  meccanicaiin^nte,  e  n(ni  vede  nell'anima  che  il  sog- getto dei  fatti  di  coscienza  —  Noi  non  ricordei'cmo  che Kosmini  e  Gioberti. Rosmini  attiibuiscr  all'anima,  come  dotata  di  senso e  di  appetito,  la  formazione  v  lo  sviluppo  deirembrione, i  ])rocessi  della  nutrizione  e  della  rì])roduzione  degli  or- gani, e  tutti  i  movimenti  dell'organismo  che  si  com])io- no  d'una  maniera  secondo  noi  automatica  (1).  Egli  di- stingue la  ]>ropria  dottrina  da  (piella  di  Stahl,  ])erché essa  non  si)iega  le  funzioni  della  vita  per  l'anima  l'azio- nale e  i  suoi  attributi,  cioè  la  conoscenza  e  la  volontà, ma  per  l'anima  sensitiva  e  gli  attributi  di  <iuesta,  cioè il  senso  e    1'  istinto    animale  (2).  Ma    ((uesta    distinzione (1)  Pnìcol.   172-173,   1090.   17SJ).   171)1,   1703.    1S17,   1818-1850, 1857-1858.   1880-18S1,   1800-1013,   lOfJO.   1080,  2130,  2147,   ecc. (2)  PhìcoI.  308-113.   Vi'v.  parte  2.  1.   II.  e.    IX. I'». -^  94  è  fondata  sopra  una  i)si.%')lo;j,ia  (•hitnerica,  e  svanisce necessarianionte  (*onì('  un'  ombra,  come  tutte  le  distin- zioni arbitrarie  di  (piesta  [)sicolo<;ia.  Anclie  l'anima  sen- sitiva di  Rosmini  conosce  e  vuole,  anch'essa  a«»isce  per uno  scopo  (1)  :  la  vera  diiterenza  fra  le  due  dottrine  è nella  natura  de«;ii  sc()i)i  a  cui  tende  l'azicnie  dell'anima. L'anima  razionale  di  Stalli  vuole  il  bene  deirori»anisnio, e  cerca  i  mezzi  più  opportuni  i)ei'  ra i»\ui ungerlo  :  l'istinto animale  di  Kosuiini  è  incaiì:;cc  di  scopi  lontani,  e  non tende  che  alla  soddisfazione  iuinuMliata  del  senso  ;  ])ro- duce  1  lììcnimcnti  che  a])portano  del  luacere,  ed  evita oo-ni  stato  che  apporta  della  sottcrcnza  (2)  ;  se  la  più parte  dei  movimenti  vitali  hanno  per  line  ultimo  il  bene dell'or<»anismo,  e  l'ctt'ctto  d'un'armonia  prestabilita  dal Creatore,  che  ha  le,i;ato  oidinarinmente  il  ])iacere  alle azioni  utili,  e  la  sotfcrenza  alle  azioni  dannose  (8).  L'in- (1)  PnieoL  1S():MS05,  ISIO.  ISIS-ISÓO.  1.S5S-1S(;0,  18I>S-1870. 1890-1898,  1987-1944,  1984-1981).  2()57-20(>l.  2087.  218()  e  nota, 2138,  2147,  2150-2158,  ^178-2175,  2184,  2208-2210,  ecc. (2)  Ph'u'oI.  1098-1100,    1801-1810.  1818-1850.   18(>;)-1870.  1888. 1893.    1899.    1985-1944.    1957.    1984-19Si;.    2054.    2057-20ai.  2»)88, 2098-2094,  218()  nota.  2188.  2158.  2188-2184,  2208.  occ.  La  Io,iìjì;o del  sentimento  fondamentale  (cioè  dell'anima  sensitiva)  è  di  at- tegjiiarsi  nel  modo  piiì  jj^radevcde  o  meno  penoso  che  j;li  è  possi- bile (V.  Pshol.  472,  474.  1090.  1985-1980.  2081.  ecc.)  Atteggiarsi nel  modo  ]»iii  »!;radev<de  o  meno  ]>enoso  e  ])ei'  il  sentimento  fon- damenta le  prodnrre  nel    cor]>o    «ili  stati   che     «ili   riescono  i  ])iiì gradevoli  o  i  meno  penosi,  perche  il  vin-\m  fa  parte  d(d  sentimento fondamentale,   vi  è  contennto.   il  sentito,  cioè  il  corpo,   non    esi- stendo che  nel  sentimento,  e  il  senziente  e  il  sentito,   l'anima  e il  corpo,  essendo    i    dne  ])oli    opiM)sti,    ma  indivisil^ili.  di  nn'esi- stenza  nnica.  che  è  appnnto  il  sentimento  (V.  il  mio  stndio  snlla Dottrina  di  Rosmini  sìfircsscHZd  dvlln  materia). (3)  Paii-oì.  407.  417.  1888,  1893.  1985-1944,  2130  nota,  2158.  ecc. -li il 95 coscienza  (U^lle  azioni  vitali  dell'anima  t^i  spie<;a,  seccni- do  llosmini,  per  (bie  ra<;ioni  :  perche  la  coscienza  appar- tiene all'intelli<;enza  e  non  al  senso  :  e  perchè  le  fun- zioni organiche,  nelle  diverse  parti  del  corpo,  posscuio essere  piodotte  da  piincipii  sensitivi  imlipendenti,  sino a  un  certo  punto,  dal  })rincii)io  sensitivo  dominante, cioè    dall'  «mima    ])i'opriaìuente  detta  (H). Gioberti  attribuisce  anch'e!L>li  i  fenonuMii  vitali  a  una azione  istintiva  dell'anima,  di  cui  non  abì)iamo  coscienza (2):  in  virtù  dell'istinto  l'anima  fabbrica  il  suo  corpo  «co- me l'ape  fa  l'arnia  e  l'uccello  il  suo  nido»  (3).  Ma  l'istinto di  Gioberti  somi<i:lia  ])iii  che  (j nello  di  Hosmini  al  XÓYOC  di Stahl,  perchè  esso  è,  secondo  il  nostro  lilosofo,  una sorta  di  ragione  intuitiva,  un'iutelligenza  implicata,  fa- tale ed  incosciente  (4). Ma  più  che  le  o])ini<uii  dei  tilosoti  di  questa  scuola hanno  i)ei'  noi  interesse  h^  idee  essenzialnuMite  aftini  — nialurado  la  concezione  meccanica  e  le  tendenze  mate- rialiste  della  scienza  contemporanea  —  di  pnrecchi  scien- ziati e  tilosoti  del  nostro  tempo,  che  partecipano  al- l'odierno movimento  s(*ientitìco,  e  di  cui  alcuni  devono contarsi    tra   i    suoi    rappresentanti    più    eminenti.    Fia (())  r.  A»s'/V.  190.S-1909.  «Sembra,  <lice  l'antore,  che  anche  i diversi  sistemi  e<l  orfani  ])rincipali  del  corjjo  umano  godano  di nna  vita  speciale  loro  ])ropria...  (^nanto  meno  ]h)Ì  tali  sensioni ((inelle  dei  loro  ])rinci]ni  sensitivi)  sono  subordinate  a  (pud  jjrin- cipio  senziente  che  costituisce  l'individuo  animale,  tanto  i>in  si sottra j;«i()no  alla  coscienza   intellettiva». (2)  V.   Pr(»t(do.i.àa  v.   II.   pai--.  82. (3)  Ivi  pa.n-.  20. 4)  V.  i  luo«j!.lii  citati  e  cfr.  il  i)ai-a,i'r.  17  di  <[uesto  capitole». Per  «ili  sjnritualisti  fnincesi  ch(^  ammettono  I'  animismo  (come spiegazione  antrojxnnortistica  dei  fenoìiienti  vitali)  V.  Lemoine up.  citata  cap.   IX. —  96  — —  97 essi  dobbiamo  daiv  il  piiiuo  hiOi>o  a  AVuiidt,  clie  si  ])ro- fessj!   aj)e:taiii(Mite  animista,    (luaiitumjuc  non   consideri Panima  come   una   sostanza,   come  tacevano  ^i!,]i  animisti antichi.  T^'oi«;a]iizzazione  fìsica,  dice  V/nndt,  è  una  crea- zione dello  sj)irito,  aliìieno  in  (jua.nto  essa  si  conforma  a (iei  lini.   Solo  la  supposizione  che  Io  s\'ilnppo  psicliico  lui ereato  il  cor])o  rende  comprensibile  il  fatto  della   finalità di  tutti  i  fenomoni  della  vita.   Ecco  (]u:d  è  il  fondamento (b'  (jucsta  lìnalità  :  nna  parte  dei  fenomeni  (h-lla  vita,  le azioni  volontarie  coscienti,  emanano  immediatainente  da motivi  diretti  verso  uno  scopo;  l'altra  part{',    più  consi- <b^revo]e,    si    compone  dei  residui,   pei-  dir  così,   pietri- ticati  d'azioni  antei'iori,  emanate  anch'esse  da  motivi  di- retti verso  uno  scopo.  L'abitudine  di  ripetere  dei  movi- menti, clic  ciano  jniiuitivamente  fondati  su  un'intenzione eosfiente,   ha  per  effetto  di  l'endei'Ii  iniine  puramente  in- coscienti e  meccanici:  e  (piesti  movimenti  in  ori^i^ine  vo- lontari, che  l'abitudine  ha   lìieceanizzati,  ])er  la  trasmis- sione (M-eibtaria  d(ù  cai'atteri  ac<]nisiti,  si  trovano  nei  di- scendenti sin  (hil  prim-ipio  lìu'ccanici.  ì]  così  che  si  sj>ie<;a rori^L-im'  (b'ile  azioiii  ritiesse  :  che  esse  siano  dei  residni di  movimenti   volnti  resi  abituali,  dv]W  azioni   volontarie divenute  stabili  e  meccanichts  lo  mostia  il  loio  carattere di  finalità,  che  ci  <là  una  prova  della  i)iesenza  in  orioiue di  lappresentazioni  de^nli  scoj)i,  le  (piali  ai;ivano  come  mo- tivi.  In  tutti  i  casi  in  cui  un  movimento  meccanico  ])re- senta    netlamente    il    caiattere  di  finalità,  noi  dobbiamo ammettere  ch'esso  tira  la  sua  origine  dalle  azioni  volon- tarie, })ercliè,  nello  st;ito    attuale  della  scienza,  è  uiiica- ine:ite  lo  svilui)po  della   volontà  clic  provoca,  ne«^li  ani- mali, dei  movinu'iiti  conformi  a  uno  sco])o  (]). Come  (piella  di  Wundt  e  come  le  moderne  in  <,^ene- rale,  la  più  parte  delle  altre  dottrine  animiste  contempora- nee si  propongono  specialmente  di  spiegare  la  lìnalità  del- \i\  natura  organica.  L'intelligenza  incosciente  clic  presiede alla  formazione  dei  tessuti  corporali,  e,  dice  Murpliy.   la stessa  intelligenza  che  diviene  cosciente  nello  si)irito.  La intelligenza  che   forma  le  lenti  dell'  occhio,  è   la    stessa intelligenza  c]ie,   nello  spirito  dell'uomo,    comprende   la teoria  (Ielle  lenti;  l'intelligenza  che  scava  le  ossa  e  le  pen- ne dell'ala  degli  uccelli  ])er  combinare  la  leggerezza  con la  forza,  (^  la  stessa  intelligenza  che,  nello  spirito  dell'in- '»-e<niere,  ha  immaginato  la  costruzione  di  pilastri  di  ferro scavati  come  (pieste  ossa  e  ([ueste  penne.  Wallace,  espo- nendo (piesta  dottrina,  crede  dalla  sua  parte  che  varreb- be meglio  di  sostituire  a  (luesta  intelligenza   incosciente e  iiup(''rs(niale  delle  intelligenze  coscienti  e  personali  (1). Delboeuf  non  solo  ammette  che  le  azioni  riflesse  e  tutti i  movimenti  automatici  che  si  compiono  utdl'organismo,  so- no delle  azioni  originariamente  volontarie,  che  l'abitudine ha  macchinalizzate,  e  che  si  sono  trasmesse  così  ai  discen- denti (2),  ma  nella  produzione  dei  fenornc^ni  biologici  ta anche  intervenire  una  sensibilità  e  un'intelligenza  attuali. La  nutrizione  (cioì'  la  funzù)ne  (kdla   reintegrazione  dei tessuti  dopo  il  parziale  consumo  della  loro  sostanza)  e  la evoluzione  dell'ovulo  sono  detiMininate  (hi  un  bisogno  sen- tito, da  un  desi(h'rio  (3);  la  divisioiu^  del  lavoro  t1siol()gica è  una  divisi(me  del  lavoro  nel  senso  umano,  l'(nganismo essendo  un'associazione  voìontaviu,  in  cui  ciascun  membro della  comunità  — che  e  dotato  di  sensibilità,  d'intelligen- (l)   V.   Wuudt    hlcmcnfi  (1  />SH'oh(/i((  fìsiolof/icd  c'.\]ì.    XXL    2, cai».  XXIV.  2.   Contpcndio  di  psico/o(jia  vS  li.   10,  ^S  1J>.  5  a,  ecc.) (1)  V.  llcvuo  scioiit.  ser.  L  t.  VIL  pag.  H07. (2)  V.    Jjft  materia  hrnta  e  la  materia  cicente,  \nig.  10(5,  119- 120,  127,   lU).  17L  17(). (8)  Ivi  p.  79.  132. —  98 n za  e  (li  libero  arbitrio  —  si  è  adattato  a  una  funzione  par- ticolare, lavorando  anelie  per  ^H  altri,  e  chiedendo  che,  in cambio,  anche  gli  altri  lavorino  per  lui  (1). 11  naturalista  americano  Cope  spiega  l'evoluzione  or- ganica pei'  una  forza  di  crescenza  determinata  a  propa- irarsi  in  tale  o  tal  altro  senso  dal  desiderio  o  Timmagi- nazione  deiranimale.  L'intelligenza,  egli  dice,  è  l'origine del  meglio,  mentre  la  selezione  naturale  (di  Darwin)  è  il tribunale  a  cui  sono  sottoiìiessi  tutti  i  risultati  ottenuti per  la  forza  di  crescenza  (2). Sectondo  il  ])rof.  Vignoli  tutte  le  funzioni  della  vita sono  accompagnate  e  determinate  da  un'attivitn  psichica: la  stessa  facoltà  psichica  che   opera    n(\gli   atti  coscienti dell'uomo  e  degli  animali,  opera  pure,  in  una  forma  in- <*osciente,  ma  essenzialmente  identica,  nelle  loro  funzioni ckf  ordinariamente  si  considerano  come  puranunite  tisio- logiche,  e  in  (]uelle  corrispondenti  dei  vegetali,   e  si  ri- trova anche  in  esse  coi  suoi  tre  attributi  fondamentali  di senso,  volontà  ed  intelligenza  (la  quale   si  nmnifesta  da l)er  tutto  come  coordinazione  spontanea  di  mezzi  ad  un fine).  Nei  vegetali  Fattività  psichica  ha   sempre  operato d"una  maniera  incosciente;  ma  negli  aninndi   le  funzioni che  or(f   sono   dovute  a  un'attività    psichica  incosciente, furono  (iWoyiifinv  degli  atti  anch'essi  coscienti.  Le  azioni riflesse  e  tutti  gli  atti    uppdrvniemeììie    automatici  che  si compiono  nell'organismo  animale,  hanno  un'origine  ana- loga a  (lucila  che  l'autore,  con  molti  altri,  attribuisce  a tutti  gl'istinti — noi  ritroviamo  lo  stesso  c(mcetto  che  ab- binììin  già  trovato  in  Wundt  e  in  Delboeuf — :  s(nio  delle abitudini  contratte  dagli  antenati  per  la  ripetizione  fre- (luente  di  atti  coscienti,  che  per  ([uesta  ripetizioiu'  stessa divennero  x)oi  incoscienti,  e  si  trasmisero  così  per  eredità (u-ganica;  nei  discendenti    persiste   ancora   l'attività  psi- (1)  Ivi  p.  171. (2)  Ecvite  (ics  cours  scicntifiqiies. 99  — chica  origini. ria,  ma  manca  la  coscienza.  Gli  orgjini  che era  si  formano  (nello  svilup])o  embriologico)  per  una  forza incosciente,  (iuaiìtun<iue  st^npre  psichica,  si  formarono alPori(/ine  ])er  un'attività  psichica  esercitantesi  con  co- scienza. Questa  ('  il  fattore  ])recipuo  dell'evoluzione  del mondo  vivente-  l'aìnmale  uKulilìca  continuamente  il  pro- ])iio  organisuH)  per  un  esercizio  s]>ontiineo  e  conscio  dei suoi  oigani  ;p)pr(>})iiaio  ;dle  condizioni  successive  della sua  esisteìziì;  e  queste  modiiicazioni  riappariscono  per (eredità  nei  (iiscentU'iiti,  e  si  listano  nella  specie.  Di  là questo  meraviglioso  adattamente  degli  oiganismi  ai  loro bisogni  e  riìhisione  a  cui  esso  dà  luogo  di  cause  timili pi'ecoucepite  (^  pi'cstahilite  ciie  ])re^iedettero  alla  crea- zione degli  organismi  stessi.  !1  carattere  teleologico  (' in- lU'gabile  in  tutti  i  fenomeni  degli  esseri  organizzati;  ma esso  si  s])iega  \n^v  la  volontà  e  l'intelligenza  di  questi  es- seri stessi,  V  non  per  una  volontà  e  un'intelligenza  so- pramon(hnie  (1). (1)  V.  Lriiffi'  fomlameutulv  (ic/l'infellif/cnza  nel  ir(/no  animah', specialmente  i  cnpit.  Ili  -  VI  -  llartin;niii  T'  ti(»pp«>  lontaiu»  da una  spieo-azione  naturalistica  dei  Ibnonicni  per  poterlo  (M,n.in-endc- re  tra  i  lìlosotl  di  cui  i'  4UÌstionc  nel  Kisto.  Noi  abbiamo  parlato (y,^  «))  del  SUO  sistema  come  di  una  torma  della  tìlosofìa  te(do<«;ica, perche  esso  è  nmi  si.ic-azionc  -(Mieralc  del  mondo,  il  cui  prin- cipio non  ditlcrisce  essenzialmente  dal  Dio  <lel  teisnio  (l'Incoscien- te ha  la  a«in<'zza  assoluta,  l'onniscienza,  l'onnipotenza,  l'oninpre- senza.  ecc.-v.  Filos.  deirincosc.  parte  HI. e.  Vili  e  XII), e  ne  par- leremo aneora  (^  15)  come  di  una  torma  del  panp.^ic/nsiHO,  perche l'incosciente,  cdtre  ad  essere  la  causa  ottìciente  tli  tutti  i  feno- meni, è  anclie  Vin  .sr  della  materia,  che  per  conse.iiuenza  si  ri- sidve  anch'essa  in  sinrito.  Ma  è  (evidente  cIm'  la  base  di  .pi<'«to sistema,  su  cui  poi  l'autore  costruisce  il  suo  panteisnn.  e  il  suo panpsichismo,  è  un'interpretazione  animista  dei  ienomeni  bi(do- ^ici.  come  pub  vedersi  dando  uno  s-uardo  alle  due  prime  i)arti dcdla   sua   opera  bmdamentale,   che  eomiHUi-ono  la  fcnowenolofjìa 100 —  101 Altre  (lottriue  non  si  preoccupano  del  eamttere  te- leolodeo  della  natura  vivente,  ma  ciò  non  deve  impedirei deiriiicoscieute.    La   fouo.iiouolo.una    (l(>ll'Ineoseiente    coiiipremlo <iuei  fatti  stessi  a  cui  si  h  applicata  la  spie-azione  aiiinusta  :   la lori.iazi(»ne  dell'oriianisiìH.,  la  virtù  lucdicatrice  della  natura,  l'at- tività dei  centri  del  midolle»  spinale  e  dei  gangli,  l'istinto,  i   le- nonieni,  secondo  l'autore,    istintivi    dello   spirito  umano,  ecc.;  e <iuesti  fatti  sono  spiegati  della  stessa  maniera  con  cui  li  spiega l'animismo  (p.  e.  l'anima  si  costruisce  il  suo   corpo,  come  nella dottrina  di  Stalli).  Il  concetto  di  un'attività  psichica  incosciente, in    Hartniann  come  in  tanti  altri   autori  di    cui    aìd>iamo  parlato «,  di  cui    parlerenìo.    nasce    naturalmente    sul  terreno  della  spie- gazione animista.   L'incosciente  di   Hartmann  non  è  che  l'istinto, interpretato    come    il    risultato    di    un   atto  razionale,   di  cui  l'a- «ronte  non  ha  coscienza:  h  l'azione  dell'istinto  o  di  alcun  diedi analogo   che   egli    vede   in   tutti    i  fatti  di   cui  è  ciuistionc  nella feuomenohf/in  delVineosekiHc.  Quest'atto  razionale  da  cui,  secondo lui.  risulta  l'istinto,  pare  necessariamente  all'autore  un  atto  in- cosciente, perchè  tale  lo  dimostra  l'esperienza  (supposto  che  esso si  dia  realmente)  nei  pretesi  fatti  istintivi  dello  spirito  umano, e  perchè  sarebbe  troì)po  strano  d'interiu'etare  le  azioni  istintive degli  animali  o  delle  piante  attribuendo  loro  una  ragione  espli- cita e  cosciente,  superiore,  come  supporrebbero  i  suoi  eftetti,  alla ragione  stessa  dell'uomo.  Quest'atto  gli  sembra  inoltre,  non  solo incosciente  per  l'individuo,  ma  assolutamente  incosciente,  perchè, se  non  f(»sse  cosi,  dovrebbe  appartenere  ad  un'altra  coscienza,  e quindi  non  sareì»be  un  atte»  dell'individuo  stesso,  ciò  che  impor- tereblu-  un'azione  divetta  di  uno    spirito   su   di    un  altro  (vale  a dire  iin'intluenza  unmedidta,  non  per  l'intermediario  di  manife- stazioni esteriori  e  sensibili),  che  l'autore  trova  inconcepibile  e che  sareììbe  effettivamente  un  vero  mistero-è  il  motivo  per  cui Leibnitz  ha  negato  l'azicme  reale  di  una  monade  su  di  un'altra— . (V.  Filos.  dell'lncosc.  voi.  IL  e  Vili  traduz.  frane,  pag.  223-224). Questa  ragione  incosciente  deve  essere  di  i^iìi  intuitiva  e  non  di- scorsiva, perchè  essa  agisce  d'una  maniera  istantanea,  non  esita, ed  è  indipendente  dall'esperienza.  Essa  deve  avere  inoltre  la  sag- gezza assiduta,  perchè  l'istinto  (a  quanto  dicono  i  toleologisti)  è di  vedere  anche    in    esse    delle    forme    dell'  animismo   e della    spiegazione    antropomortistica.    Tale    è    ciuella    di Hewald  Hering,  die  per  ispiegare  il  tatto  die  sembra  il più  caratteristico  e  forse  il  più  fondamentale  della   ma- teria   vivente,    cioè    l'eredità,    aunnette    nella    materia organica   una   memoria    incosciente,    sulla    (piale    è    ba- sata   la    forza    riproduttiva  di  cui  è  dotato    l'essere    vi- vente.   Haeckel    aderisce  all'ipotesi  di  Hering  :  tutte  le molecole    organiche,    o    più    propriamente  tutte  le   pla- siidìde,    possiedono    secondo    lui    della    memoria  ;    (pie- st'attività    manca    alle    altre  molecole,  ed  è  (luesta   pro- prietà che  distingue  l'organismo  vivente  dai  corpi  inor- ganici privi  di  vita.  «  Noi  siamo  convinti,  egli  dice,  che, infallibile,  e  sceglie  sempre  i  mezzi  i  più  appropriati  allo  scopo. C%,n  ciò  abbiamo  già  fatto  un  bm.ii  tratto  di  via  i)er  avvicinarci agli  attriluiti  della  divinità:   il  resto  è   una   conseguenza  neces- saria dell'elevazione  dell'Licosciente   a   principio  di  una  spiega- zione  universale   del   mondo.    L'  incosciente   deve    avere    l'onni- scien7.a,  perchè  la  sua  intelligenza  deve  abbracciare  tutte  le  con- nessioni   dei   fenomeni    che   costituiscono   l'ordine   e   lo  svilui>po dell'universo;  la  sua  unità  (monoteismo  e  panteismo)  risulta  dalla connessi(me  di  tutti  i  fenomeni  e  dalla  suindicata  impossibilità che  uno  spirito  agisca  su  di  un  altro.  (V.  Fil.  dell'incosc.  voi.  II e.  VII  trad.  frane,  pag.  200-201  e  e.  VIIL  i)ag.  238).  Ma  quest'in- grandimento iperbolico  dell'intelligenza  incosciente  non  può  dis- simularci la  sua  umile  origine  :  essa  non  è  che  l'istinto  animale, interpretato  come  ragione.  È  una  ragione  istintiva  come  il  Xó^O^ di  Stalli -che  l'autore  ha  dimenticato  di  contare   fra  i  precur- sori del  suo  concetto  dell'incosciente  -.  Quest'incoscieiite-la  cui applicazione  immediata  è,  non  doblùamo  dimenticarlo,   una  spie- gazione  animista  dei  fenomeni  biologici  -  non  è  al  fondo  che  \o stesso    XÓYOC  di  Stahl,  elevato  a  i)rincipio  di  spiegazione  gene- rale di  tutti  i  feimmeni,  e  deitìcato  per  l'esaltazione  all'intinito dei  suoi  attributi,    onde   servire  alla  spiegazione   teleologica  ra- dicale  e  universale  della  vita  e  del  mondo. —  102  — senza  l'ipotesi  di  ima  mcnioiia  iiicoscicMitc  della  materia vivente,  le  più  iiii^xn-taiiti  fmizioui  della  vita  sono  insom- ma inesplieaì>ili.  La  capacita  <li  avere  debile  idee  e  di  for- mare dei  concetti,  il  ])otere  del  pensiero  e  della  coscienza, dell'esercizio  e  deiralntndiiie,  <lella  nutrizione  e  della  ri- produzione, ri}>osa  sulla  funzione  della  mcMuoria  incoscien- te, la  cui  attività  Ila  un  valore  intinitautente  ])iii,i»rande che  (piella  della  me  ììioria  cosciente  »  (1)  Preyer  vuol  estesa questa  memoria  incosciente  a  tutta  la  inateiia,  perchè nei  cor])i  viventi  la  materia  non  ])uò  possediMe  altre  forze che  n<M  corpi  non  \  ixcntì.  «  Per  mettere  d'  accordo  coi fatti  della  fisica  e  della  chimica  i  fenomeni  dell'eredità, V  Tìecessario  d'attiilmire  a  oi»iii  materia  umi  sorta  di meiiu)ria,  come  alcuni  hanno  .i;ià  fatto.  Una  ])ersistenza delle  j)iù  piccole  particole  neirordiiu'  e  la  disposizione iìi  cui  sono  state  ])oste  il  pili  spesso  dalle  forze  esteriori, e  una  tenih'nza,  che  cresce  con  la  ri[)etizione,  a  ripren- dere sempre  la  stessa  situazione,  anche  allorché  le  forze esteriori  non  ai^iscono  j)iù  con  l'intensità  origliale,  tale è  il  primo  i^rado  di  ([uesta  meiìioi'ia».  (2)  (ini  T  animismo si  confondi*  con  Tilozoismo,  e  noi  antici])iamo  sul  sogget- to dell'articolo  seguente. vS  10.  L'assimilazione  dei  movimenti  vitali  indipen- denti dalla  volontà  e  dalla  cos<'ienza  ai  movimeiiti  (coscienti e  volontari — che  costituisce,  come  abbiamo  detto,  r(»s- senza  delTanimismo,  conu*  s])iegazione  antropomortìstica dei  fenomeni  biologici  —  conduce  tàcilmente  all'ipotesi che  rindividuo  vivente  e  senziente  contiene  come  sue parti  altri  indivi<lui  inferiori  i)ure  viventi  e  seiiziiMiti,  le cui  coscienze  sono  distinte  dalla  coscienza  centrale  del- rindivi<luo  totale,    cioè    dairanima  deiranimale  propria- (1)  Psiitoìo(/i((  cellulari',  tvud.  fnnic.  ]).  44. (2)  Le  forze  dei  corpi  vireìiti  in   Ucììi.  scioitif.  t.  VIL   ser.  3. —  lOS  — ^ niente  detto.  Noi  abbiamo  visto  che  seroudo  Rosmini  i  di- versi sistemi  ed  ors-aiii  del  corpo  umano    jiodono  d'una vita  speciale  loro  propria,  ed  liauno  dei  principii  sensitivi indipendenti,  sino  a  un  certo  punto,  dal  principio    su- premo che  costituisce  l'individuo  animale.  Sec<)ndo  Led)- nitz  o,nni  orj-anismo  contiene  altri  or.i'anismi  interiori,  cia- scuno''sottoposto  a  una  numade  dominante,  e  (luesti  simil- mente de.!ili  altri,  e  così  di  seguito  all'inlinito  :  il  concetto animista,  cioè  lo  sforzo  di  assimilare  i  movimenti  automa- tici dell'ori-anismo  a  ((uelli  volontari,  non  è  stato  forse  sen- za intìuenza  su  (piesta  dottrina  (1).  Questa  plu.alità  d'indi- vidui animati  inferiori    ccmtenuti  nell'individuo  animale non  è  in  certi  casi  die  una  forma  di  (piella  specie  dell'ani- mismo che  spiega  la  vita  organica  per  uji  principio  psiclii- «•o  distinto  dall'anima;  invece  di  un  principio  unico,  se  ne ammettono  più.  È  così  nella  dottrina  di  Vaii  Hebnont,  clie, oltie  M'on-hco  principale  risiedente  luMla  milza,   nicari- cato  di  foruiare  il  corpo    e    di  pi'esiedere  a  tutte  le  sue funzioni,  ammetteva  pure  un  gran  numero  di  «rc/zet  su- bordinati, preposti  ciascuno  a  uu  organo,  a  una  tunzione, a  una  parte,  anche  minima,  <lei  c<u-,)o  umano.  Dei  con- cetti simili  non  furono  sconosciuti  all'antichità  classica. Secondo  Piatirne,  (1)  l'organo  genitale  nell'u<.uu.  e  l'utero nella  donna   sono  degli  animali  avidi  di  generare  ;  e  A- reteo  atferina  c(m  lui  che  l'utero  nella  donna  è  come  un  am- male  vivente  dentro  un  altro  (3).  Galeno  (4)  parla  dell'opi- (1)  Come  osserva  Loiiioiiie  {opera  cUalu  pag.  KiO-lGl.  Leil.- uitz  annncttova  l'a.diuisn.o  di  Stahl.  «alvo  una  differenza  neces- sitata dal  suo  moi.iio  sisten.a.  cioè  clie  l'ani.aa,u...  aK.scc  real- nunte  sul  eorpc.  ...a  tra  le,  idee  e  «li  appetiti  dell  annua  e  gh stati  del  eor,.o  elu,  ne  sono  «li  effetti,  non  vi  lia  tcro  legame causale,  ma  seniilicemente  armoniii,.iestal)ilita. (1)  Timeo  91  a-d. (3)  Delle  eause  e  del  seijni  dei  mali  aeiitl,  1.  II.  e.  XI. (i)  De  formatione  foetunm. —  104  — nione  di  alcuni  medici,  che  consideravano  oi»ni  muscolo come  un  essere  animato,  clie  percepisce  la  volontà  del- Panima  centrale  deiranimale,  e<l  eseuuisce  i  movimenti da  essa  voluti.  E<;li  stesso  non  tiova  (piesta  ipotesi  in- verisimile,  perchè  noi  muoviamo,  e^^li  dice,  conveniente- mente le  nostre  membra  senza  conoscere  i  muscoli  ne  i nervi  di  (piesti  muscoli.  S(mo,  al  tondo,  delle  dottrine analo«i'he  a  quelle  dei  tìsiolo<»i  o  iìk)sotì  moderni,  che I)er  ispie«;are  la  tinalità  (U\i>li  atti  automatici  dei  centri nervosi  interiori,  ammettono  una  coscienza  o  delle  co- scienze distinte  dalla  ìupsfra^  cioè  dalla  cerebrale,  di  cui sarebbero  sede  i  centri  del  midollo  spinale  ed  anche  i gangli  del  sistema  del  gran  simpatico.  Un'altra  estensione del  dominio  della  coscienza,  che  deve  evidentemente comprendersi  nella  stessa  classe  che  i  concetti  precedenti, è  la  dottrina  deiranimazione  delle  piante.  Essa  è  d'al- tnmde,  quantunciue  Stahl  si  sia  riiìutato  di  ammetterla, una  conseguenza  iiievitabile  del  sistema  animista.  Così per  l'anima  delle  ^jiante  non  si  spiegano  solanuMite  i  te- TioTueni  della  vita  vegetale  che  somigliano  ai  movimenti degli  animali  ordinaria  inclite  considerati  come  coscienti, (p.  e.  i  fenomeni  di  locomozione  spontanea  delle  spore  delle alghe  e  di  altre  piante  interiori  o  (piello  della  sensitiva elle  ripiega  le  sue  foglie,  «  spaventata,  come  dice  Hart- mann, dal  passo  del  viaggiatore»),  ma  anche  quelli  i  cui analoghi  negli  animali  stessi  sì  riguardano  d'ordinario come  puiaiiKMite  tisiologici.  Secondo  un  autore  il  grano di  frumento  sogna  del  suo  tiore  futuro  (cioè  si  rappre- senta precedentemente  la  forma  ch^  col  suo  sviluppo tende  a  realizzare)  (1)  ;  secomh)  un  altro  è  2)er  piacere agi' insetti  o  per  sottrarre  il  prezioso  germe  alla  raj^acità degli  uccelli  che  il  tìore  o  i  frutti  si  ornano    dei    colori (1)  Lotze  Psicologia  fisiologica  trad.  frane,  pag.  124. —  105    - X^iù  seducenti  (1);  un  terzo  afferma  che  la  foglia  che  muo- vendosi sul  proprio  i)icciuolo  si  orienta  in  modo  da  fruire il  meglio  possibile  della  diretta  azione  dei  raggi  luminosi, compFe  un  atto  intelligente  (2);  un  altro   che   le   piante rampicanti  cercano  degli  appoggi,  sene  accorgono  (piando li  hanno  trovati,  e  scelgono  ipielli  che  loro  convengono di  pili,  con  la  sicurezza  infallibile  deiristinto,  che  è  umi ragione  intuitiva  ed  incosciente  (3).  E  in  una  parola,  in tutti  i  fenomeni  della    vita   vegetale  che  si  vede  un  ca- rattere teleologico,  e  per  conseguenza  un'attività  psichica che  ne  è  il  principio.  Gli  autori  moderni  che  ammettono (pieste  dottrine,    possono    contare   fra    i   loro   precursori Plinio,  Platone,   Democrito,  Empedocle,  Anassagora,  e insino  all'autore  del  Manava-Dharma-Sastra  (4).   Il  risul- tato ultimo  a  cui  giunge  (piesta  estensione,  al  di  là  dei limiti  consueti,    del    dominio  della  coscienza,  è  di  attri- buire un'attività   psichica    agli    elementi  stessi  degli  or- o-anisnu,  sì  animali  che  vegetali.  Huet  attribuisce  ad  ogni (1)  V.    Delboeuf   La    materia    bruta    e    la    materia    riccntc, pao-.  178. (2)  V.   Fa«»«ii   Priucipii  di  psicologia,  v.   E  e.  IV. (8)   HartiiKiiin  Filosofia  (Iciriìtcoscirntc,  tviul.  frane,    voi.   lE pjiLi..  1)9-100  e  115. (4)  Natnrahncntc  tra  lo,  credenze  dei  pupoli  ininiitivi  o  imu-o proorediti  troviamo  anelie  (inolia  deiraniniaziono  e,  por  dir  eosì, di^ìVnmarnzzazionc  dello  i>iante.  «  Nnnioroso  sono  le  lejjj-endo  clic attribniseono  a  eorti   nomini    la    laeoltà    di    eonii)rondoro  il  Im- cruaooic,  dello  piante,  e  reeiproeamente.    Il  trattato  d'agneoltnra d'Ibn-al-Awam  eonsiolia  d'intinn^riro  oli  al]»eri  elio  non  vogliono prodnrro  dei  IVntti.   Si  devo  batterli   le-germonte,    dicendo  loro che  si  ta-lieranno  so  continnano  a  non  frnttaro.  Così  pnre,  presso gli  Slavi  "li  Boemia,  si  gridava  la  sera  agli  albori  del  giardino  : Germogliato,  albori,  germogliato,  se  no  vi  Hcorticlierò  ».  (Goblet d'Alviella  L'idea  di  Dio  secondo  Vantropologia  e  la  storia,  pag.  56). —  106  — molecola  or<;aiiira,  oltre  alT istinto  e  alla  facoltà  di  essere impressionata,  un  senso  della  sua    unità  clie  costituisce una  specie  di  amore  di  se  o  della  propria  conservazione, delle  simpatie  e  delle  repulsioni,  e  il  s(Mìtimento  dei  suoi legami  naturali  con  gii  altri  eh^nenti  organici  (J).  Mau- pertuis  accorda    anche  alle  molecole  organiche  (e  in  ge- nerale a  tutti  gii  elcMìienti  della    itiateria)  In   memoria   e l'intelligenza,  e  spiega    per    (pieste    la    formazione  degli organismi  (2).  Questi  concetti    si    pretende   ora    fondarli sull'osservazione,  ceicando  di  provare,  per  un'argomenta- zione elle  rammenta   il   cìinndo    di    certi    antichi    solisti, che  la  psiche  deve    estendersi   (pianto  la   vita,  e  che  bi- sogna attribuirla  anche  alle  cellule  e  alle  molecole  stesse del  protoplasma.   Noi  non  posshuno  uè  dobbiamo  discu- tere   (piesta    dottrina,    come    nemmeno  le    altre    <li    cui abbiiuììo  parlato  —  noi  non  vogliamo  clic  ricordarle,  per mostrare  (pianto  sia  forte  la  tendenza  del  nostro   sj)irito ad  assimilale  tutti  i  fenomeni    alle    nostre  azioni  volon- tarie e  coscienti —  ;  segnaleremo  solamente  una  circostan- za, che  non  è  certo    un    indizio    di    sobiietà    scientitìca, cioè  il  legame    di    (piest'ipotesi,  nei  suoi  rap])resentanti più  celebri,  con  speculazioni  ilozoiste  o  pau])sichiste  (8). §  11.  L'animismo  consistendo  essenzialmente  per  noi nella  spiegazione  antroi)omortistica    d(M    fenomeni  biolo- gici per  un  principio  inerente  nell'essere  vivente  stesso, noi  dobbiamo  anche  vedere  un'applicazione  del  concetto animista    in    certe    dottrine    sull'istinto    aninuile,  che  lo spiegano  riconducendolo    all'  intelligenza.    Noi    abbiamo già   incontrato  una   forma    di    ([uesta    spiegazione    (piella (1)  V.  Leve(|ue  Scienza  delVhn'iiiihile,  ])a«i,.  52. (2)  Cfr.  ^  18. (3)  V.    Haeckel    Psicolof/ìa    eelìnhnr  e  Wuiidt   Elem.  di  pai- eoi,  fisiolof/.,  V.   I,   CJlp.   I.   1. ~  107  — che  potrebl>e   chiamarsi    la    ronif(f    mefafi^ica    md    senso stretto  —  nelle  dottrine^  di  Hartmann  e  di  Gioberti,  clie ve(h)no  nell'istinto  un'intelligenza  intuitiva  edincosdente. Una  dottrina  meno  apertamente  nu-tafisica,  ma  piii  con- forme ancora  alh^  tendenze  spontanee  del  nostro  spirito  su cui  i  concetti  metatisici  sono  fondati,   (^  (piella  che  vede nell'istinto  (piesta  intelligenza  stessa  di  cui  ai>biamo  co- scienza e  che  osserviamo  in  noi  stessi  e  negli  altri  uomini. Questa  dottrina  e  stata  sostenuta   dal  Rorario,  da   Mon- taigne, (hi  Giorgio  Leroy,  ecc.:  noi  la  riassumeremo  nella fonila  che  le  ha  dato  Erasmo    Darwin.   L'istinto,  (piesta pretesa  facoltà  cieca,  innata  e  necessaria,    non  i  che  una (pialità  occulta  come    (pie Ile    degli    scolastici  :    le    azhmi degli  animali,  adattate  evidentemente  a   dei  lini    deter- minati,  sono  troppo  somiglianti  alle  azioni  vohmtarie  e intelligcmti  dell'  uomo,   per  poter  essere  P  elf  etto  di    un principio  ditferente.  Se  per  istinto  s'intende  il  principio di  certe  azioni  (h\gli  uomini  e  degli    animali,    che    non sono  state  diivtte  (hii    loro    appetiti,    nmi    ajiprese    per esperienza,  non  de(h)rte  da  osservazione  o  (hi  tradizi(me, l'istinto  non  esisti'  :  le  azioni  degli  animali,  che  si  attri- buiscono a  (piesta  pretesa  forza  (h'IÌ' istinto,    scmo  tatte invece    c(m    uno    scopo  che  essi  si  prop(mg(mo    coscien- temente, (piello  di  provvedere  ai  loro  bisogni,  o  a  (iiielli delle  pi'ole,  o  agrinteressi  della  cmiiunità,  e  i  mezzi  che  essi mettono  in  opera  per  (piesti  scopi,  e  che  uguagliano  spesso (pialmnpie  sforzo  (all'ingegno  e  del  sapere  nmano,  sono, come  negli  atti  dell'mmio,  il  frutto  dell'osservazione  e  del raziocinio.  Ciò  che  vi  ha  (rinnato  nell'animaie  è  la  sua  co- stituzione per  cui  certe  cose  gii  riescono  piacevoli  e  certe altre  dolorose,  e  rimpulso  (die  lo  spinge  verso  le  une,  cioè il  desiderio,  e  clic  lo  allontana  (hille  altre,  ciot^  l'avver- sione :  r  esperienza  gii  scopre  (piali   azioni  sono  proprie a  procurargli  delle  sensazioni    gradevoli    o    ad    evitargli delle  sensazioni  moleste,    r    mediante    ripetuti    sforzi    e 108 tentativi,  iinpiim  ad  eseguire  (lueste  azioui.    Alcune   di queste  azioni  sono  state    apprese    dal    feto    prinui    della nascita  :  di  (luelle  che  non    sono    il    risultato    della    sua propria  esperienza  e  del  suo  proprio  raziocinio,    alcune sono  iuse<i:nate  airaniinale  dalla  sollecita  industria  della madre,  altre  le  apprende  da  se  stesso  imitando  <>li  altri animali  della  sua  specie.   Molte  nozioni  e    arti,    comuni ora  a  tutta  una  specie,  furono  un  tempo  delle    acipiisi- zioni    nuove    e    delle    seoverte   individuali,    apprese    dai contemporanei  e  poi  tiasmesse  per    tradizicme    dair  una all'  altra  generazione,  anche  mediante  una  sorta  di  lin- ^••ua<><ào.  Così  le  emii^razioni  degli  uccidi i,   che  si  attri- buiscono  a  un  preteso  istinto  necessario,    dovettero  es- sere la  priììin  volta  intraprese,  con  la  sola  direzione  del- l' accidente,    da  (pialcheduno  dei  più  avventurosi    della specie  :  e  (juindi  gli  uni  le  appresero  dagli  altri,    come è  accadalo  agli  uomini  per  le  scoverte  relative  alla   na- vigazione. Se  conoscessimo    bene    la    storia    degl'  insetti costituiti  in  società,  c<mie  le  api,  le  vespe,  le  formiche, troveremmo  che  le  loro  arti  non  sono  sempre  state  uni- formi e<l  invariabili  come  ora  api)ariscono,  lìia  che  ])resso <luegU  animali,  egualnuMite  che  presso  di  noi,   le  arti  e li   loro    perfezionamento    furono    il    prodotto    successivo dell'esperienza  e  della  tradizione;  benché  non  ])Ossa  ne- garsi che  il  loro  raziocinio,  in  confronto  a  (luello    dello uomo,  sia  circoscritto  a  minor  nunu-ro  d'idee,  iaipiegato ili  minor  numero  di  oggetti,   ed  esercitato  con    energia minore  (1).  Condillac  amiììctte  al  fondo  la  stessa  spiega- zione, quantunque  cerchi  al  tempo  stesso  di  rendere  conto del  carattere  meccanico  deiristinto,  riconducendolo  alla abitudine.  «  L'  istinto  non  e  egli  dice,  clie   1'  abitudine, priva  di  ritiessione.   fn  verità  è  rijlettemlo   che    le    bestie racquietano^  ma  siccome  esse  lianno  pochi  bisogni,  giunge (1)  E.  Darwin  DclVistbito. —  109  — presto  il  teiiiix)  in  cni  liauuo  già  fatto  tutto  (inolio  <-lie la  rillessionc  lia  ])oti!to  loro  apprendere.  Non  resta   pin loro  elle  a  ripetere  tutti  i  sionii  le  stesse  cose;  esse  de- vono d-.in([ue  n.ni  avere  intìne  elle  delle  abitudini,  esse devono  essere  liniitr.te  all'istinto  »  (1).    Delle  opnnom  si- miii  si  ritrovano  tutto-.a  in  autori  eontemp<»">"*'''  P-   *"• in  Clen.en:'.a  Kover,   ehe    vede    nell'  istinto  una    «  loj^iea de-li  animali,  meno  attiva  elie  <iuelhì  dell'uomo,  ma  pm iiiiallil)ile  »,  «  una  raj-ione  elie  le  i)ar(.le  non  smarriseono» (eome  avviene  iuguli  uomini,  sovratutto   in    «inelli    intel- lettualmente   più   eoitivati),    doii.le  «  la  sieurezza    d.    vì<> rl,r  xi  vìwimu  l'istinto  e  la  sua.  superiorità  a  certi  n-uan.i sull'inti'llisfnza  »  (2). Xou  sembrerà  forse  arriseliiata  la  supposizione  elle tale  ha  dovuto  essere,  nel  suo  eoiieetto  fondamentale,  la interpi-tazione  dej.li  atti  istintivi  debili  animali  nei  tempi prescieiititiei  :  infatti  il  se!va.u-io  e  l'uomo  primitivo iji-nora,  <'ome  di<-e  Tyl.u-  (3),  una  distii.zi<.iie  ra.li.ale  tra io  stat..  psehie.)  .lell'  uomo  e  .|uello  delle  bestie,  igno- ranza a  cui  sono  dovuti  in  j;ran  parte  la  .Tedeiiza  nella n.etempsieosi  e  il  eulto  de-li  animali  (-t).  Ma  .•li.'eel.."  sia (Il   CDiiilillac    TrnUiilo  det/li  iinìm-ili.   Il    l)iirt('.  e.   ^. IL')   L<i  mslU„z!o„r  dd  monilo,  l.ajj.   tU.   V.  aml.c  il^l  sulla line.   IK'I-  la  sìiic.!i»:i.  dciristiato  di    lloiscl. (3)  T.  I.  V.  XI. (41  «11  a.m  civili/./.at..  tTc.lo,-Ue -li  aainiali  ..n,pn^n.l..iH,  il s„„  U>iKua-i...  S.  il  c-aue  lu.a  ri«i...a.lo.  ! j..n-  H.-n^/./.a.  s.hm.u.I.. il  (!a,ncia.Ìalc;  se  la  sci:,ìi.ua  resta  ni.ita.    i-'V  pi-rizia.  see..n.l.. i  ue-a-i.  imre'aè  sa  .'he  se,.arlas...  si  fai-.a.l.e  lavorare.  Il  l'elle- l{„.ssa  <M..,versa  .-..1  s„o  eavall..  e..i..e  .-on  um.  .lei  suo.  i.areuti. e  l'Arabo  pensa  ohe  (-(^rti  cavalli  i...ss..uo  l.-f.}jev..  il  tloraiio.  <il. iu.li.'cui  .Ielle  Isol.v  Filii.i.in.^.  .luau.lo  iucoutian..  ui.  alliìrat..rc, lo  sui.i.lican..  .U  uou  fare  loro  «lei  male  .   i  Mal-asci  .  .luau.lo l.rcii.lo.i..  un  l-aleuotto,  predano    la    madre    d'  allontanarsi.  -  bi —  110  - di  ciò,  s('Tiil)ra  die  questo  eoncetto  si  trovi  i»isi  ue^ìi  anticìii filosoti  .';Teci:  Aristotile  almeno  fa  menzione  <li  alcuni  <-he dubitano  (vista  la  tinalità   de<»li  atti   istintivi    delle    be- stie) se  sia  i)er  intelli.JAenza  o  per    qualelie   altra  t'aeoltji che  operano  i  ra<;ni,  le  tbrinielie  e  altrettali  animali  (1). Gli    Stoici    ammettono    certamente    questa     spiegazione dell'istinto.  L'animale,  secondo  essi,  ha  una  coscienza, un  sentimento  confuso  e  imnuMliato,  della  propria  costi- tuzione :  sapendo,  (bieche  è  nato,  a  (piai  uso  le  sue  mem- bra sono  appropriate,  e<>li  non  esita    nella    scelta    degli organi,  ed  eseguisce  destramente  tutti  i  movimenti  ne- cessari alla  soddisfazione  dei  suoi  bisogni;  e  discernendo con  una  sorta  d'intuizimie  iai)ida  se  un   oggetto   è  pro- prio o  no  a  conservare  la  sua  costituzione,  se  si  armo- nizza con  essa  o  la  contraria,    ricerca    senza  ingannarsi ciò  che  rè  tavorevole,  e,  fugge  ci(^  che  Vi  nocevole.  È così  che  si  sx3Ìegano  tutte  le  azioni  degli  animali   e    dei bambini  (2).  È  agli  Stoici  che   allude    Virgilio    quando, in  ammirazione  (hivanti  ai   lavori    delle    api,    ricorda    i fìlosoti  che  hanno  (h'tto  esse  (i]>ihì(s  parfem  dìriìtae  men- /;,v  (3) — opinione  ch'egli  considera  cvidentenumte  come  la sola  che  sia  capace  di  spiegare  le  loro  azimii.  —  Questa interpretazione  (h'gli  atti  istintivi  degli  animali  ha  pure crede  pure  che  gli  animali  lianuo  fra  loro  le  stesse  relazioni  che «'li  uomini.  Gli  abitanti  di  15orn(M)  sostengono  clie  le  tigri  hanno un  sultano  e  una  corte.  Secondo  il  viaggiatore  Crevaux,  i  Pelli- Kosse  s'  immaginano  che  le  bestie  lianno  i  loro  stregoni  »  ((io- blet  d'Alviella,  L'idea  dì  Dio  ecc.,  pag.  55). (1)  Physica  11.  Vili,  6.  V.  a.  i)er  ([uesta  spiegazione  dello istinto  nei  più  antichi  pensatori  greci,  i  versi  di  Epicarmo  in Diogene  Laerzio,  111,  16. (2)  V.  Ogerean,  Il  sistema  filosofico  de(jli  Storici,  pag.  84  e 174-17H. (3)  G(^orgichc.   l.    IV. —  Ili    — inspirato  Plutarco  nel  dialogo  che  ha  x)er  titolo  :  ìrratio' naVui  raiione  idi.  Fa  anche  la  sua  parte  all'intelligenza, nella  spiegazione  dell'istinto,  il  c(mci4t() -moderno  se- condo cui  gli  atti  istintivi  degli  animaii  sono  delle  azioni al  princii)io  intelligenti,  che  tiniscono,  in  forza  dell'abi- tudine,  per  trasformarsi  in  automatiche,  e  si  trasmet- tono così  i)er  eredità  organica.  Potrebbe  domandarsi  se il  fatto  elio  la  dottrina  che  spiega  sosì  tiiiii  gl'istinti, trova,  malgrado  delle  ditticoltà  che  s(nnbrano  insormon- tabili (1),  un'accoglienza  sì  larga  i)i'esso  i  tìlos(ìti  con- tempoianei,  non  sia  dovuto  anch'esso,  in  parte,  a  (juesta tendcniza  del  nostro  spirito  ad  assimilare,  i)iii  che  ('  pos- sibile,  tutte  le  azicmi  della  natura  alle  nostre  proprie azi(mi  volontarie  e  intelligenti. -.^xt-  3- L' ilozoismo. §  12.  Se  l'ilozoismo  s'intc^ide  nel  senso  lato  in  cui  è preso  ordinariamente,  cio('  come  una  dottrina  che  unisce alla  materia  un  principio  psichico,  non  vi  ha  una  divisio- ne netta  fra  esso  e  la  filosofia  teologica.  Quando  trovia- mo la  dottrina  dell'anima  del  mondo  nei  filosofi  greci,  p. e.  in  Erastito,  in  Platone,  negli  Stoici  o  nei  Neoplato- nici, o  anche  in  alcuni  padri  della  Chiesa,  come  Teofìlo  e Taziano,  (2)  che  pensavano  che  il  Santo    Spirito  è  dif- (1)  V.    Darwin.    Origine  delle  s/jeeie,  Def/Pi.^dinfi,  e  ci'r.  il  mio Saggio  L  pag.  1<J2.  nota. (2)  S(MM)ndo  S.  Teotìlo,  lo  S])irito  di  Dio  contiene  e  tiene conserta  tutta  la  natura,  come  i  chicclii  dclhi  melagrana  sono invilu]»]»ati  dalla  s-c(»rza  esteriore  e    dalle    pelliccde  (Ad  Avtohj- —  112  — fuso  in  tutto    r  universo,    governando  e   vivificando  il tutto,  noi  vi  riconosciamo  senza  alcuna  esitazione  una forma  della  filosofia  teologica  :  ma  quando  la  ritrovia- mo nel  Cusano,  nei  teosofi  (Paracelso,  Cornelio  Agrip- pa, Roberto  Fludd,  ecc.),  nei  filosofi  italiani  della   rina- scenza   (Giordano    Bruno,    Cardano,    Telesio,  ecc.),  in Berkeley   (che   nella   Sirìs  ne    fa    la     causa    di    tutti    i movimenti  che  avvengono  nell'universo^,  in  Rosmini,  in Gioberti,  (nella  Protologia},  in  Fechner  ecc.,  noi  non  vi vediamo  invece  che  dell'ilozoismo,  quantunque  si  trat- ti,   al    fondo,    di   una    stessa    dottrina.    Lo   stesso  deve dirsi  della  dottrina   dall'anima   degli  astri  :  noi  non  la chiameremmo  una  forma  della  filosofia  teologica,  ma  piut- tosto   dell'  ilozoismo,    quando  la    troviamo,  insieme  al teismo  cristiano,  o  almeno  in    un'  epoca  di  teismo  cri- stiano, in  Origene,  negli  scolastici,  in  Giordano  Bruno, in  Keplero  (che  spiega  per  le  anime  dei  pianeti  l'ordine e  la  regolarità  dei  loro  movimenti),  e  anche  dopo  New- ton,  in  Giuseppe  De  Maistre,  in  Goethe,    in    Fechner, ecc.  ;  e  tuttavia  le  opinioni  di  questi   autori  non   diff*e- riscono,  in  sostanza,  dalla  credenza  popolare  degli  an- tichi Greci  e  dalla  dottrina    conforme  di   molti  dei  loro filosofi,  che,  riguardando  gli  astri  come  esseri  animati, vedeva  nelle  loro  anime    delle    divinità.  In    questi  casi noi  non  abbiamo  altra  ragione  per    negare  ai    concetti moderni  il  nome  di  teologici,  che  le    abitudini  del  lin- "•uao-2'io  della  filosofia  moderna,    secondo  cui   Dio  non può  designare  che  il  prim-ipio  primo  dell'universo.   IMa evidentemente  la   loro    natura  e  i   motivi  su    cui    sono basati  non  differiscono  da  quelli  dei   concetti    teologici eum  1.   1.  Tiiziaii»  «liio  :   «Lo  Spirito  ò  nello,  «tellc,  iieRli    angeli nelle  piante,  nelle  ae«iue.   negli  nomini,  negli  aniniali:  qnantnn que  sia  uno  e  lo  stesso,    con'.ione  pure  in  se   delle    dift'cren»»" (Tatiani  Assirii  Ornilo  ad  Gt-mcos).(considerati  carne  spiegazione  filosofica  della  natura):  es.i sono  destinati  egualmente  a  spiegare  ror.g.ne  dei  mo- vimenti della  materia  e  la  finalità  che  sembra  osservar., nei    fenomeni.  Nel    teismo    moderno  Dio  è  troppo  sepa- rato  dal    mondo  per    dare    una    soddisfazione  adequata al    bisogno  del    nostro    spirito  su  cui  e    fondata  la  fiU^- sofia    teologica.  Noi  non    comprendiamo  come  Dm  agw sce  sulla  .natcria,    come  la  mette  in    '--™-*«';^^; la  plasma,    come  realizza   in    essa  .    pian,  che  ha  con- cepito   nJì    non    abbiamo  che    due  tipi    per  rappresen- tarci  V  azioiu.  d'un   essere    personale   sulla  ^  "-  -a    <. assimilare  cosi  le  azioni  della  natura  a    quelle  dell  uo- '  e  (  t  che  costituisce  l'essenza  della   spiegazione  teo- ròo-i  a)  ;  o  quest'essere  agisce  dal  difuori,  con.e  un  ai^ Ifice  (Demiurgo),  ma  in   queste  caso    bisognojM,e^  " tribuir  -li  degli  oro-ani  materiali  ;    esclusa    quest  ipotesi, ."•  nmi    possiamo    comprendere  la  sua  azione  che  ain- ttendo\-h'eg.i    agisca    ^^^1  di    dentro,  come    'anii^^ sul  corno    È  a    quest'  incapacità  de.    concetti    teologici :;ii::.rdi  reaniare  d'una    maniera    adeqiuUa    a  te. denza    del    nostro    spirito  a    una    spiegazione    antiopo '    rfiltica,  su  cui  tuttavia  i  concetti  teologie,  s.noon dati    che  si  deve  certamente  se  il  m.st.c.s...o  si  accom t^a  cosi   spesso    col    panteismo,    che   riavv.c.na   Dio ':r''::ndo,    J  co„    concezioni    a.iimiste    estrateo iog.ch (animismo  biologico,  ilozoismo,  ecc.  :  ^^^J^^^ cui  un'intuizione  profondamente  ^-l^^''^,  f  ^'  .^^^I è  il  prodotto  delle  disposizioni  innate  della  lo.o  na.ura ^   ...totn  niPc.-iiiico  de   a  trad.z.o.ie  e mentale,  e  non  un  r.sultato  mecca...co  ac dell'abitudine,  non   possono    contentarsi  d.  un  Do  lo tano  dal  mondo,  il  cui  modo  di  agire-  e  troppo  difforme da   quello    dell'homo,  perchè   possa   essere   compre  o  e ?mma.^inato.    Talvolta   questo  bisogno  di    colmare  1  in- tervalCfra  Dio  e  il  mondo  dà  luogo  a  una  vera  rina- celta  del  politeismo.  È  ciò  che  vediamo  in  Franklin. —  114  — che  ammetteva,  oltre  all'essere  supremo,  delle  divinità create  particolari,  ciascuna  delle  quali  «  è  sapiente  e buona  oltremodo  e  ha  potenza  grandissima,  e  fece  per sé  un  sole  glorioso,  corteggiato  da  un  bello  e  ammira- bile sistema  di  pianeti  »  :  è  a  questo  «  Dio  particolare, che  ha  creato  e  signoreggia  il  nostro  sistema  »,  che noi  dobbiamo  indirizzare  le  lodi,  1'  adorazione  e  tutti gli  onori  divini  (1).  In  questo  caso  sarebbe  difficile  di decidere  se  a  una  tale  concezione  si  deve  rifiutare  il nome  di  teologica,  perchè  Dio  per  un  filosofo  moderno significa  r  Assoluto,  o  si  deve  accordarglielo,  perché l'autore  vede  in  queste  anime  dei  sistemi  solari  gli  og- getti unici  del  sentimento  religioso  (senza  contare  che la  loro  potenza  e  la  loro  sfera  d'azione  sono  superiori di  gran  lunga  a  quelle  delle  divinità  omeriche). Per  distinguere  d'una  maniera  più  netta  l'ilozoismo e  la  filosofia  teologica,  noi  intenderemo  dunque  per  ilo- zoismo una  dottrina  che  attribuisce  la  sensibililà  e  la percezione  a  tutti  i  corpi,  anche  inorganici.  In  verità  que- sta definizione  se  ci  dà  un  segno  praticamente  sicuro  per distinguere  queste  due  forme  della  spiegazione  antro- pomortìstica,  non  ci  offre  alcun  criterio  per  una  distin- zione più  profonda  sull'  essenza,  suU'  origine  e  sullo scopo  dei  due  sistemi.  Questo  criterio  e  questa  distin- zione secondo  noi  non  esistono.  Il  legame  di  una  delle due  concezioni  con  certi  sentimenti  con  cui  1'  altra  é incapace  di  associarsi,  non  può  costituire  fra  di  esse una  differenza  essenziale.  Ciò  non  é  perchè  non  ci  da- rebbe un  criterio  d'un'applicazione  universale,  come  si vede  negli  esempi  precedenti.  Non  vi  ha  dubbio  che  è questo  carattere  che  noi  abbiamo  specialmente  di  mira quando  si  tratta  di   classare  una    dottrina  fra  le  teolo- (1)  V.  Franklin  ArticoU  di  fede  ed   atti  di    religione  (tra  gli Scritti  minori  mccolti  i»  tradotti  da  P.  Rotondi). —  115  — giche  :  anche  quelle  in  cui  esso  é    assente,  noi    non  le includiamo  in    questa    classe  che  per  la    loro    analogia con    quelle  in  cui  è    presente.  Ma  una    differenza    fon- data su  questo    carattere,  anche  se    fosse  di  un  valore generale,  sarebbe    estranea  alla  natura  dei  due  sistemi come  dottrine  filosofiche,  cioè  come  spiegazioni  dei  fe- nomeni.   Potrebbe   credersi    che    V  ilozoismo  (nel  senso definito)    non  sia    proprio  a    spiegare    che  i    movimenti spontanei  della  materia,  cioè  quelli  che  non  si  possono spiegare  per  l'impulsione,  mentre  la  filosofia    teologica avrebbe  anche  e  sovratutto  per  oggetto  una   spiegazio- ne   teleologica    dell'  universo.  Ciò  importerebbe  inoltre una  differenza  radicale  nella  natura  mentale  degli  agenti supposti  dalle  due    filosofie:    l'intelligenza   non  appar-  ^ terrebbe    che  a    quelli    della    filosofia   teologica,    quelli dell'  ilozoismo    sarebbero    limitati    alla    sensibilità.    Ma queste  distinzioni  non  corrispondono  alla  realtà  storica: l'ilozoismo  può  pure  servire  di  base  a  una  spiegazione teleogica,    e    attribuisce  talvolta  all'  anima   della   mate- ria le  facoltà  più   elevate    dell'intelligenza  umana,  ed anche  come  vedremo,  della    sovrumana.   Fra  i  due  si- stemi non  vi  hanno  che  differenze  di    grado,  e  non  di natura.    Essi  non  sono  l'uno  e  l'altro  che    una    spiega- zione dei  fenomeni  per  delle  cause  più  o    meno    perso- nali. Gli  agenti  personali  dell'ilozoismo  non    di  «ferisco- no,  al  fondo,  da  quelli  della    filosofia  teologica  (se  noi cerchiamo  delle  distinzioni  d'un'  applicazione  generale) che  per  il    grado    minore   della    loro    potenra  e  la  loro sfera  d'azione  più  limitata. L'ilozoismo  non  è  solo  una  spiegazione  antropo- morfistica  dei  fenomeni  fisici,  ma  dà  anche  una  risposta alla  quistione,  considerata  come  il  più  imbarazzante dei  problemi  filosofici:  donde  viene  il  pensiero  e  la  sen sibilità.  Du-Bois  Reymond,  nel  suo  discorso  al  congresso di  Lipsia,  segna  due  barriere  insormontabili  alla  nostra 116 conoscenza  della  natura  :  Tuna  è  l'essenza   della  mate- ria e  della  forza,  l'altra  l'origine  della   coscienza.   Con la  prima  impressione  di  piacere  e  di  dolore,  che  provò, r  essere  più  semplice  all'inizio  della  vita  animale  sulla terra,  il  mondo,  egli  dice,  divenne  doppiamente  incom- prensibile (1).  Questa  soconda  barriera  della  conoscenza della  natura  sembra    allontanata,  se  non    affatto    supe- rata, quando  si  suppone  che  la  sensibilità  e  la  coscien- za non  vengono,  per  dir  cosi,  dal  niente,  ma  si  trovano negli  animali  perchè  preesistono  negli    elementi  di  cui essi  sono    formati,  e  vi    sono    esistite  sempre  sin  dalla origine  della  materia.  Quest'altro  aspetto  dell'ilozoismo sarà  da  noi  studiato  nell'Appendice  a  questa  l^'^  parte,  dove mostreremo    come  esso  derivi    (considerate  sotto  questo aspetto),  insieme  alle  ipotesi  rivali  sull'origine  della  vita e  della  coscienza,  dalla  stessa   tendenza   spontanea  del nostro  spirito  a  cui  è  dovuto  il  concetto  di    causa    effi- ciente, coi  sistemi  filosofici  che  ne  sono  le  applicazioni. Forse  si  crederà  che  l'ilozoismo,  come  spiegazione causale  dei  fenomeni  fisici,  non  deve  essere  riguardato come  una  forma  dell'antropomorfismo,  perchè  esso  non assimila  le  azioni    della    natura  alle    azioni  dell'  uomo, ma  a  quelle  degli  animali  in    generale,  e  a  quelle  dei bruti  più  che  a  quelle    degli   uomini.  Ciò  che  vi  ha  di vero  in  quest'obbiezione  è  che  le  facoltà  psichiche,  che l'ilozoismo  assegna  alla  materia  bruta,  non  sono,  ordi- nariamente, quelle   proprie   dell'  uomo,  ma    quelle  che egli  ha  in  comune  con  gli  altri    animali.  Ma  noi    man- terremo con  tuttociò  che  l'ilozoismo  consiste   essenzial- mente in  un'  assimilazione  delle    azioni    della  natura  a quelle  dell'uomo,  perchè  è  per   quest'  assimilazione  che (1)  Du-Bois  Reymond  /  limiti  della   filosofia  naturale   iieUa Mevue  scientifique  II.  serie  voi.   7.   '" l'ilozoista  trova  nella  sua  ipotesi  una  spiegazione  (nel senso  metafisico)  dei  fenomeni,  una  realizzazione  del- l'idea di  causalità  efficiente.  Ciò  sarà  chiarito  nel  se- guito di  questo  capitolo  e  nei  seguenti.  Anche  quando l'ilozoista  spiega  i  fenomeni  per  l' istinto  della  materia, questa  spiegazione  non  gli  sembra  soddisfacente  che per  l'analogia  cl^e  gli  atti  istintivi  degli  animali  hanno con  le  azioni  intelligenti  e  volontarie  dell'  uomo  e  con altri  fatti  della  vita  psichica  umana.  L'istinto  animale, del  resto,  ha  bisogno  di  essere  interpretato,  e  l' ilozoi- sta  r  interpreta,  come  l'animista  (1),  della  maniera  più possibilmente  antropomorfistica. L'ilozoismo,  dice  Kant,  è  la  tomba  della  scienza  della natura.  Per  la  più  parte  degl'ilozoisti,  almeno  moderni, questo  rimprovero  non  è  meritato,  perchè  essi  non  fanno agire  il  principio  psichico  capricciosamente,  ma  spiegano solamente  per  esso  le  uniformità  dei  fenomeni  fisici,  consi- derando i  movimenti  della  materia  bruta  come  delle  rea- zioni, più  o  meno  volontarie,  con  cui  essa  risponde  alle  ec- citazioni esteriori,  cioè  agli  antecedenti  fisici  dei  movimenti stessi.  L'ilozoismo  non  è  dunque  incompatibile  col  punto di  vista  scientifico  più  di  quanto  lo  sia  la  filosofia  teo- logica o  qualsiasi  altra  spiegazione  metafisica.  Il  Lan- ge  considera  come  materialismo  puro  un  sistema  ilo- zoista  che  non  ammette  niente  al  di  là  della  materia, e  in  cui  tutti  i  fenomeni  esteriori  si  conformano  rigo- rosamente alle  leggi  meccaniche,  e  non  chiama  ilozoi- smo che  quello  che  stabilisce  che  il  meccanismo  della natura  è  modificato  dal  suo  contenuto  psichico  secondo leggi  non  meccaniche.  (2)  Questa  differenza  al  nostro punto  di  vista  non  può  avere  la  stessa  importanza  che (1)  V.  l'art,  x^i'Gcedeiite. (2)  Storia  del  iiiaterialisiuo.  v.  I  nota  S7  della  parte  IV. —  118  — per  Lange.  Vi  ha  senza  dubbio  un  abisso  fra  una  dot- trina fantastica,  secondo  cui  degli  agenti  personali  in- terrompono arbitrariamente  1'  incatenamento  regolare dei  fenomeni,  e  un'altra  dottrina  che,  malgrado  le  sue ipotesi  sulle  cause  ultime  delle  cose,  rispetta  Tintegrità di  quest'incatenamento.  Ma  ciò  non  deve  impedirci  di riguardare  una  dottrina  della  seconda  specie  come  ilo- zoismo ed  anche  come  una  forma  dell' antropomorfismo, se,  come  fanno  generalmente  i  filosofi  che  animano la  materia,  tra  la  causa  e  l'effetto  puramente  materiali s' intercala  invariabilmente  (o  anche  in  certi  casi)  un intermediario  di  natura  psichica,  e  il  rapporto  tra  l'im- pressione materiale  ricevuta  e  la  reazione  a  questa  im- pressione si  spiega  per  il  fatto  spirituale  intercalato. Noi  crediamo  del  resto  che  se  un  ilozoista  non  ammette la  spiegazione  meccanica  dell'  universo,  purché  egli riconosca  che  i  fenomeni  fisici  sono  incatenati  fra  loro da  leggi  invariabili — che  il  principio  psichico  non  può modificare,  ma  di  cui  è  solamente  un  intermediario  espli- cativo—,  non  ne  segue,  come  pare  che  voglia  il  Lange, che  quest'ilozoismo  non  sia  compatibile  col  punto  di  vista scientifico,  per  quanto  almeno  può  esserlo  un  concetto metaempirico  :  secondo  il  Lange  la  natura  meccanica di  tutti  fenomeni  è  una  verità  scientifica,  e  una  condi- zione sine  qua  non  della  intelligibilità  delle  cose;  secondo noi  non  è  che  una  dottrina  filosofica,  che,  invece  che  sui fatti  obbiettivi,  potrebbe  avere  la  sua  base  dove  1'  ha l'ilozoismo  stesso,  cioè  in  certe  tendenze  subbiettive  del nostro  spirito. Nei  due  paragrafi  seguenti  ricorderemo  gli  auto- ri più  celebri  che  ammettono  V  ilozoismo,  e  alcune  del. le  loro  proposizioni  più  notevoli,  come  nell'  articolo precedente  abbiamo  fatto  per  V  animismo  biologico. Il  nostro  scopo,  qui  come  nell'articolo  precedente, non  sarà  di  fare  un'  esposizione  storica   della    dottrina, 119 ma  di  mostrare,  con  esempi  numerosi,  quanto  sia  forte la  tendenza  del  nostro  spirito  ad  assimilare  le  azioni della  natura  a  quelle  dell'uomo,  e  a  trovare  in  quest'as- similazione una  spiegazione  radicale  dei  fenomeni  (o, ciò  che  è  lo  stesso,  le  loro  cause  efficienti).  Tuttavia, quantunque  dei  due  aspetti  sotto  cui  può  considerarsi l'ilozoismo  (cioè  come  spiegazione  antropomorfistica  dei fenomeni  e  come  risposta  alla  quistione  dell'origine  della coscienza),  il  primo  solamente  entri  sull'  argomento  di questo  capitolo,  nella  nostra  esposizione  noi  non  potremo separarlo  interamente  dall'  altro,  sia  per  evitare  delle ripetizioni  inutili  (qnando  ritorneremo  suU'  ilozoismo nell'Appendice),  sia  perchè  non  si  potrebbe  escludere l'influenza  dell'uno  dei  due  motivi  del  sistema,  anche quando  le  proposizioni  d'un  autore  non  ci  indichino  e- splicitamente  che  l'altro. §  13.  S'è  vero  che  Talete  è  il  padre  della  filosofia, l'ilozoismo,  nel  senso  in  cui  l'abbiamo  definito,  e  cosi  an- tico che  la  filosofia  stessa,  perchè  Talete  non  ha  sola- mente animato   la   natura,    ma    ha  dato  un'anima   agli stessi  oggetti  particolari.  Quando  egli  dice  che  tutto  è pieno  di  dei  e  di  demoni  (1),  noi  non  abbiamo  che  una forma  della  filosofia  teologica;  questo  animismo  diviene ilozoismo  quando,  per  ispiegare  la  forza  attrattiva  del- l'ambra e  della  calamita,  attribuisce  un'anima  a  questi corpi,  e  vi  vede  una  prova  che  tutto  è  animato  (2).  Ma il  vero  rappresentante  dell'ilozoismo,  nella  filosofia  greca, è  Empedocle  :  egli  attribuisce  la  sensibilità  e  il  pensiero a  tutti  gli  elementi  (3),  e  immagina  due  elementi  parti- (1)  V.  Arist.  De  an.  1.  I  e.  V  17  e  Diog.  Laert.  1.  27. (2)  V.  Arist.  De  an.  1.  II,  14  e  Diog.  Laert.  1.  24. (3)  V.  in  MiiUach  Fragni,  pliilos.  graoeor.  versi  298  e  .378  e 8ég.  e  cfr.  Arist.  De  anima  colari  di  natura  essenzialmente  psichica  (quantunque concepiti  anch'essi  come  materiali,  conformemente  alle idee  dell'animismo  primitivo),  di  cui  fa  le  forze  motrici della  materia  :  sono  l'amore  e  l'odio,  Tuno  causa  del- l'avvicinamento e  della  riunione  delle  sostanze  (noi  di- remmo del  movimento  di  attrazione),  l'altro  dell'allon- tanamento e  della  separazione  (noi  diremmo  del  movi- mento di  repulsione)  (1).  Forse  la  prima  di  queste  due concezioni  (la  sensilità  e  il  pensiero  attribuiti  a  tutti  g-li elementi)  ha  per  iscopo  di  spiegare  T origine  di  questi fenomeni  negli  esseri  viventi;  la  seconda  (l'odio  e  l'a- more) è  destinata  evidentemente  a  spiegare  i  movimenti della  materia.  Fra  gl'ilozoisti  greci  dobbiamo  anche  con- tare Parmeride  e  Democrito,  quantunque  non  abbiano fatto  servire  l'ilozoismo,  come  P^mpedocle,  a  una  spie- gazione amtropomorfistica  dell'universo.  L'uno  attribui- sce il  senso  e  la  conoscenza  ai  due  elementi  (con  cui  e^li spiega  il  mondo  apparente  dell'esperienza)  (2);  l'altro agli  atomi  di  fuoco,  che  identifica  col  principio  psìchico, e  che  essendo  diffusi  da  per  tutto,  rendono  tutto  ani- mato e  cosciente  (8).  In  Democrito  una  spiegazione  schiet- tamente antropomorfìstica  sarebbe  in  contraddizione  col suo  materialismo  e  col  suo  meccanismo;  tuttavia  egli  vede nel  principio  psichico,  cioè  negli  atomi  di  fuoco,  la  forza motrice  dei  corpi  ch'esso  anima  (4),  a  cui  questi  atomi danno  il  movimento,  essendo  essi  stessi  in  movimento continuo  (5).  Democrito  concilia  quest'animismo  col  suo (1)  V.    in   MuUacli   i  versi  (ì?  e  sgìtìt.,    79  e  Kegjr.,  125-126, 145  e  seix^..  189  e  setr^.,  8  ecc. (2)  Teofrarlc»   De  sensu  3  segg. (3)  V.   Plutarco  Placita  IV,  4,  Arist.  De  aii.  1.  II,  1  12.  Arist. De  respirat.  e.  4.  eoe. (4)  Ar.  De  aii.  I.  II,  2  -  3  e  11  -  12  e  III,  9. (5)  V.  i  luojrhi  citati  nella  nota  preced. Il  I  meccanismo,  spiegando  la  mobilità  degli  atomi  psichici (cioè  di  fuoco)  per  la  loro  sottigliezza  e  la  loro  figura sferica  (1). Passando  alla  filosofìa  moderna,  noi  sorvoleremo  sui mistici,  quali  Paracelso,  Roberto  Fludd,  Van  Helmont, Enrico  Morus,  ecc.,  e  non  parleremo  che  dei  veri  filo- sofi. Fra  questi  ricorderemo  in  primo  luogo  quello  in cui  il  meno  avremmo  potuto  attenderci  di  trovare  dei concetti  simili.  E  il  padre  stesso  della  filosofia  sperimen- tale, l'autore  del  Xuoro  On/aìiOj  malgrado  che  egli  abbia segnalato  con  tutta  la  forza  e  la  chiarezza  desiderabili queste  illusioni  naturali  dello  spirito  umano  (idola  tribus) che  tendono  senza  cessa  delle  imboscate  alla  nostra  ra- gione, e  non  abbia  mancato  d'indicare  fra  di  esse  «il pregiudizio  per  cui  s'immagina  che  le  operazioni  della natura  rassomigliano  a  quelle  dell'uomo  ».  Secondo  Ba- cone, l'antecedente  di  ogni  movimento  dei  corpi  è  la percezione.  <  Esiste  in  tutti  i  corpi  naturali  una  certa  fa- coltcà  di  percepire  e  anche  una  sorta  di  scelta  in  virtù della  quale  si  uniscono  con  le  sostanze  amiche  e  fug- gono le  sostanze  nemiche Mai  un   corpo  avvicinato ad  un  altro  corpo  non  lo  cangia  e  non  è  cangiato  da esso  se  questa  operazione  non  è  preceduta  da  una  per- cezione reciproca.  Un  corpo  percepisce  i  pori  nei  quali s'insinua;  percepisce  l'urto  di  un  altro  corpo  al  quale cede.  Quando  un  corpo  essendo  ritenuto  da  un  altro  corpo, .questo  viene  ad  allontautarsi,  il  primo,  ristabilendosi, percepisce  quest'allontanamento.  Esso  percepisce  la  sua soluzione  di  continuità,  alla  quale  resiste  durante  qual- che tempo.  Infine  la  percezione  si  trova  da  per  tutto. La  percezione  che  l'aria  ha  del  freddo  e  del  caldo  è  si delicata,  che  il  suo  tatto  a  questo  riguardo  è  più  fino del  tatto  umano,  che  si  riguarda   ordinariamente  come (1)  V.    De  Anima  T,   II.  12. —  122 la  misura  del  caldo  e  del  freddo»  (1).  «È  evidente,  egli, dice,  altrove,  che  ogni  uomo  che  conoscesse  le  2)assio7ii^ gli  appetiti  e  i  processi  primitivi  della  materia,  avrebbe per  ciò  solo  una  conoscenza  generale  e  sommaria  dei  fatti passati,  presenti  e  futuri»  (2).  Egli  distingue  diverse specie  di  movimenti  (dovute  naturalmente  ai  diversi  ap- petiti o  passioni  della  materia).  «Il  movimento  di  fuga è  quello  per  il  quale  i  corpi,  in  virtù  di  una  certa  an- tipatia, fuggono  o  mettono  in  fuga  le  sostanze  nemiche, se    ne    separano    e    rifiutano  di  mescolarsi   con  esse Si  dice  che  la  cannella  e  altre  sostanze  odorifere,  essendo poste  presso  le  latrine  e  i  luoghi  fetidi,  ritengono  più ostinatamente  il  loro  odore,  perchè  allora  esse  si  rifiu- tano alla  loro  emissione  e  alla  loro  mescolanza  con  le materie  fetide»  (3).  Quando  i  corpi  seguono  lalinea  retta, è  per  un  movimento  di  fretta.  Vi  ha  pure  il  movimento tendente  all'inerzia  o  l'orrore  per  il  movimento.  Quando si  muovono  i  corpi  condensali,  «essi  non  cessano  di  la- vorare per  ricuperare  il  loro  riposo,  che  è  il  loro  stato naturale,  cioè  tendono  con  tutta  la  loro  forza  a  non  più muoversi;  e  quanto  a  quest'ultimo  punto,  per  ottenerlo, non  mancano  d'attività;  essi  tendono  a  questo  scopo  con molta  leggierezza  e  rapidità,  come  annoiati  e  impazienti d'ogn'indugio  a  questo  riguardo»  (4).  Il  modo  d'agire dei  corpi  può  anche  essere  modificato  dalle  abitudini  che hanno  contratte  (facoltà  che  si  può  comparare  col  primo grado  di  meìnoria  di  cui  parla  il  Preyer  (5):  i  cristalli sono  dell'acqua  congelata,  la  quale  è  restata  si  lunga- mente in  questo  stato,  che  ne  ha  preso  l'abitudiìie. (1)  De  clignlt.  et  augum.  scientier.  l.   IV.  verso  la  fine. (2)  Della  saggezza  degli  antiehi  XT. (3)  V.   Organo  1.  II,  ^  48. (4)  V.   Organo,  1.   11,   $  48. (5)  V.  il  $  9  sulla  line. —  123  — L'ilozoismo  è  molto  diffuso  tra  i  filosofi  italiani  del rinascimento.  Secondo  Telesio,   il  caldo  e  il  freddo  sono delle  nature  agenti,  sussistenti  per  se  stesse,  che  si  con- tendono il  dominio  della   materia.   Questi   due  principii sono  forniti  di  senso  :  e  infatti   donde  verrebbe  questo negli  animali,  se  esso  non  fosse  già  negli   elementi  da cui  sono  costituiti  ?  Il  caldo  e  il  freddo  sono  in  continua battaglia  fra  di  loro  per  concquistare  ciascuna  parte  della materia,  si  respingono,  si  guardano  Tuno  dall'altro,  ecc.  : il  senso  è  loro  necessario,  affinchè  possano  combattersi, e  avvertire  ciascuno  la  vicinanza  dell'avversario.  Il  moto è  inseparabile  dal  senso  :  tutti  i  corpi,  in  quanto  si  uìuo- vono,  sentono.  Essi  sentono  anche  il   mutuo  contatto  e se  ne  dilettano,  ed  hanno  avversione  per  la  loro  sepa- razione (1).  Campanella  segue  su  questo  punto  Telesio, e  attribuisce  agli   elementi    della   materia  la  vita  e   la sensibilità.  Ciò  che  lo  prova  è  che  essi  sono  le  cause  ma- teriali degli  esseri  viventi  e  sensitivi;  perciò  devono  es- sere essi  stessi  viventi  e  sensitivi.  Inoltre  l'ordine  dei fenomeni,  le  simpatie  e  antipatie  delle  cose,  le  loro   at- trazioni e  repulsioni,  suppongono  la  percezione  e  l'ap- petito   negli    oggetti    materiali    (2).    Secondo    Giordano Bruno,   «  l'intelligenza  è  una  certa  forza  divina,  inerente in  tutte  le  cose,  con  l'atto  di  conoscenza,  per  cui  tutte le  cose  intendono,  sentono  e  in  un  modo  qualunque  co- noscono». Vi  ha    «un   moto   naturale   da   principio    in- terno» che  conviene  a  tutti  i  corpi  «che  senza  contatto sensibile  di    altro  corpo  impellente  o  attraente  si  muo- vono».   Questo   principio   interno   è   l'anima,   perchè  la materia  è    sempre   unita   alla  formi,    ed   ogni  forma  è un'anima.   «  Nel  ferro  è  come  un  senso,  il  quale  è  sve- (1)  V.  Fiorentino  bernardino  Telesio  sovratutto,  v.  1,  p.  ^27, 268,  269,  283,  v.  11,  pag.  14,  127;  ecc. (2)  De  sensu  reìmm  e  Defensio  libri  de  sensv  re  rum. —  124  — gliato  da  una  virtù  spirituale  che  si  diffonde  dalla  ca- lamita, col  quale  si  muove  a  quella,  e  la  paglia  all'ambra e  generalmente  tutto  quel  che  desidera  e  ha  indigenza si  muove  alla  cosa  desiderata  e  si  converte  in  quella al  suo  possibile,  cominciaìido  per  v^oler  essere  in  quel mef^esimo  loco».  Cardano  (se  merita  di  essere  nomi- nato a  lato  di  costoro)  ammette  anch'egli,  come  Bruno, che  ogni  forma  è  un'anima,  e  per  conseguenza  tutti  i corpi,  anche  i  più  insensibili  in  apparenza,  sono  animati e  sentono.  Una  prova  è  che  tutti  sono  capaci  di  movi- mento, e  il  movimento  non  può  spiegarsi  che  per  una forza  immateriale.  Cardano  ripete  pure,  come  Bruno,  la proposizione  di  Talete  :  la  calamita  vive;  essa  attira il  ferro,  perchè  questo  è  il  suo  pascolo. Fra  i  pensatori  posteriori  a  Cartesio  deve  essere  ri- cordato anzitutto  Spinozna,  che  vede  nell'estensione  e nel  pensiero,  cioè  nella  materia  e  nello  spirito,  due  ma- nifestazioni della  sostanza  unica,  inseparabili  l'una  dal- l'altra. Cosi  egli  ammette  che  tutti  gli  esseri  sono  in  di- versi gradi  animati,  cioè  partecipi  del  pensiero  o  della mentalità  (1).  Nel  sistema  di  Spinoza  l'assimilazione  delle azioni  della  natura  a  quelle  dell'uomo  è  più  lontana  che negli  altri  sistemi  antropomorfìsti  :  il  pensiero,  in  esso, non  è  l'antecedente  del  movimento,  ma  è  identico  con questo  e  gli  è  simultaneo.  Ma  ciò  non  deve  impedirci  di vedervi  una  forma  della  spiegazione  antropomorfistica, l'attività  di  una  materia  vivente  (anche  nell'ipotesi  di Spinozna]  essendo  più  analoga  alla  nostra  che  quella  di una  materia  senza  vita,  ciò  che  basta  perchè  ci  sembri più  comprensibile. Il  celebre  anatomista  Glisson  (contemporaneo  di  Spi- noza) sostiene  che  ogni  sostanza  è  di  una  certa  natura (1)  Kthica  parte  II.  Scolio  alla  propos.   18. 125  — vitale,  ed  è  dotata  di  tre  facoltà  primitive,  la  percezione, l'appetito  e  l'energia  motrice  (1).  La  materia  non  è  dun- que inerte,  ma  attiva  e  vivente:  ogni  sostanza  tira  le sue  modificazioni  dal  suo  proprio  fondo,  avendo  la  virtù di  agire  su  se  stessa  e  di  svilupparsi  per  la  sua  propria energia.  La  percezione  naturale^  ch'egli  attribuisce  alle sostanze  materiali,  «  rappresenta  se  stessa,  le  sue  cause e  i  suoi  effetti,  e  tutte  le  influenze  delle  altre  cose,  le loro  confederazioni,  cooperazioni,  consensi  e  dissen- si, ecc.  ».  I  fenomeni  fisici  si  spiegano  per  le  facoltà  psi- chiche della  materia  :  p.  e.  la  coesione  tra  le  particole materiali  si  spiega  perchè  queste,  percependo  l'utilità  che godono  dalla  loro  unione,  amano  o  appetiscono  questa unione,  e  si  sforzano  per  ^conseguenza  di   conservarla. Baerhjiane,  per  ispiegare  i  fenomeni  chimici,  torna  alla teoria  di  Empedocle  dell'odio  e  dell'amore  :  l'affinità  è  la (ptXia  (li  Empedocle,  le  combinazioni  chimiche  sono  do- vute a  un  desiderio  di  riunione. In  Robimet  e  in  Maupertuis  (quest'ultimo  sotto  il pseudonismo  di  dottor  Baumann)  noi  vediamo  l'ilozoismo alleato  (come  nella  più  parte  dei  suoi  sostenitori  contem- poranei) coi  primi  saggi  della  dottrina  evoluzionista.  Se- condo Robinet,  tutto  è  vivente  nella  creazione;  tutti  gli esseri  nascono  per  generazione  e  si  riproducono,  tutti  sono oro-anizzati:  la  materia  bruta  non  esiste;  non  vi  ha  anima e?  '  ... senza  corpo  né  corpo  senza  anima.  Le  parti  costituenti della  natura  inorganica  sono  dei  germi  viventi  che  portano in  loro  il  principio  della  sensazione,  benché  non  abbiano coscienza  di  se  stessi;  i  più  piccoli  corpuscoli  sono  dotati, non  solo  di  sensibilità,  ma  anche  d'intelligenza.  Robinet, nel  tempo  stesso  che  fa  agire  il  principio  spirituale  della (1)  Nel  libro  che  ha  irer  titolo  De  natura  suhstantiae  ener- getica seu  vita  natnrae  ejnsque  trihifs  primiH  facnltatihus,  jìeree- ptiva,  appetitiva,  motica.  materia  sul  suo  sustrato  fisico,  vede  nei  fenomeni  esteriori il  risultato  delle  pure  legg'i  fisiche,  e  fa  derivare  tutti  i  fe- nomeni psichici  dai  movimenti  che  avvengono  negli  or- gani (1).  Perciò  il  Lange  considera  questo  sistema  come  un materialismo  puro,  e  non  come  un  ilozoismo  (2).  La  ve- rità è  che  Robinet,  ammette  al  tempo  stesso,  come  molti ilozoisti  contemporanei,  una  spiegazione  materialista  dei fenomeni  psichici  e  una  spiegazione  spiritualista  dei  fe- nomeni fisici,  senza  vedere  la  contraddizione  fra  le  due concezioni. li  D.r  Baumann  attribuisce  agli  elementi  o  atomi  il  de- siderio, l'avversione,  la  memoria  e  anche  qualche  grado d'intelligenza.  Egli  enumera  tre  ipotesi  sulla  formazione (leu li  esseri  organizzati:  o  gli  elementi  bruti  e  senza  intel- ligenza,,  per  il  loro  concorso  fortuito,  hanno  formato rnnlverso  ;  o  Dio  o  altri  esseri  distinti  dalla  materia hanno  impiegato  gli  elementi  della  materia  come  l'ar- chitetto impiega  le  pietre  nella  costruzione  d'un  edifizio; o  infine  gli  elementi  della  materia,  dotati  d'intelligenza, si  uniscono  e  si  ordinano  da  se  stessi  per  realizzare  i  dise- gni del  Creatore.  E  l'ultima  ipotesi  che  ammette  l'auto- re (3).  La  memoria  delle  molecole  spiega  l'eredità  biolo- gica ;  la  loro  intelligenza  rende  conto  della  possibilità di  una  divergenza  dal  tipo  primitivo,  e  quindi  di  questa varietà  di  forme  che  osserviamo  nel  mondo  vivente  (4). Le  proprietà  psichiche  deg4i  elementi  della  materia  spie- gano l'origine  della  coscienza  negli  animali. Diderot,  che  nei  Pensieri  sull'interpretazione  della  na- (1)  Cfr.  Laiige    Stor.   del    iiuiterialisuiu  t.   I,  parte  IV,  e.   I trad.  frane,  pag.  819-321. (2)  V.  Storia  del  materialismo,  il  luogo  citato  e  la  nota  37 della  parte  IV  citata  nel  paragr.  precedente. (8)  Soui-y,  St.  del  Mater.   in  Rev.  phil.  t.  II. (1)  Diodorot   Pensieri  sKirinferj)retaz.  (lelln  ìtatura. 127 tura  espone  le  idee  del  D.r  Baumann,  facendo  intravedere quanto  queste  gli  sembravano  seducenti,  nel  Sogno  di  D'A- lembert riprende  l'ipotesi  per  proprio  conto.  Ma  una  modi- ficazione gli  sembra  necessaria.  Le  molecole  sensibili  e viventi,  la  cui  apposizione  successiva  costituisce  l'uomo o  l'animale,  hanno  ciascuna  un  me  prima  di  questa  riu- nione; da  tutti  questi  me  come  può  risultare  un  me,  una coscienza  unica?  Per  ispiegare  questo  fenomeno,  bisogna ammettere,  negli  esseri  organizzati,  la  continuità  della materia,  invece  che  delle  molecole  distinte  e  separate  (1). Goethe,  un'altro  precursore  della  dottrina  dell'evolu- zione, è  anch'egli  un  ilozoista.  In  verità  l'ilozoismo  non  è nel  gn-an  poeta  un  sistema  filosofico  preciso  e  definitivo,  ma è  certamente  una  tendenza  predominante  del  suo  spirito, quantunque  espressa  sotto  forme  variabili  e  imperfetta- mente definite.  Talvolta  egli  credeva  di  scoprire  nella  na- tura una  potenza  misteriosa  che  egli  chiamava  un  genio  o un  demone:  non  era  un  essere  divino,  perchè  sembrava mancare  d'intelligenza,  ne  un  essere  diabolico,  perchè  si benefica,  e  nemmeno  un  essere  quale  vengono rappresentati  gli  angeli,  perchè  spesso  sembrava  provar piacere  a  fare  del  male  (2).  Ma  altre  volte  egli  si  rappre- sentava la  natura  come  animata  nei  suoi  elementi  primi- tivi, dando  a  questi,  come  Leibnitz,  il  nome  di  monadi  o anime.  Egli  ammetteva  allora  dift'erenti  classi  di  queste monadi,  da  quelle  degli  elementi  della  materia  sino  alle dei  mondi.  Di  queste  monadi,  egli  dice,  le  une sono  deboli  e  non  sono  proprie  che  a  un'esistenza  infe- riore, mentre  altre  sono  forti  e  possenti.  Queste  hanno la  potenza  di  attirare  e  di  sottomettere  tutti  gli  elementi inferiori    che    sono  alla  loro    portata,  e  di  formare  una (1)  V.   Lange  Stor.  del  mater.,   t.   I.  parte  IV.  e.   I,  traduz. frane,  i)ag.  321. (2)  Willni  Fìlos.  (fJetn.  da   furnt  <(d  [{enei  pianta,  un  animale,  un  astro,  in  una  parola  un  or- ganismo, di  cui  esse  divengono  1'  anima,  e  di  cui  por- tano in  se  stesse  il  piano,  o,  come  dice  l'autore,  Videa e  Vintenzìone,  Le  monadi  inferiori  servono  alle  superiori, non  ])er  scelta  e  per  loro  propria  soddisfazione,  ma  per- chè lo  devono  e  sono  forzate  d'obbedire  il). Noi  non  parliamo  degli  autori  di  secondo  ordine,  e non  ricordiamo  che  i  più  celebri. §  14.  La  storia  della  scienza  non  presenta  forse un  periodo  in  cui  la  dottrina  dell'  animazione  univer- sale della  materia  sia  stata  cosi  diffusa  come  nel  nostro tempo.  E  notevole  che  questa  dottrina  si  faccia  strada sovratutto  fra  i  rappresentanti  delle  tendenze  scienti- fiche moderne  e  i  campioni  del  materialismo  :  ma  il fatto  si  comprende  facilmente,  se  si  riflette  sovratutto che,  nel  declinio  delle  dottrine  teologiche,  questa  ten- denza innata  del  nostro  spirito  ad  assimilare  quanto  più le  forze  della  natura  alla  nostra  propria  attività deve  cercare  la  sua  soddisfazione  sotto  un'altra forma.  Noi  faremo  perciò  una  menzione  particolare  di queste  idee  contemporanee,  perchè  vi  ha  in  esse  la prova  più  evidente  della  proposizione  di  A.  Comte,  che tutte  le  volte  che  lo  spirito  umano  tenta  di  oltrepassare la  semplice  determinazione  dei  rapporti  di  sequenza  e di  coesistenza  tra  i  fenomeni,  esso  ricade  involontaria- mente di  nuovo  nel  cerchio  primitivo  delle  sue  aber- razioni spontanee. La  più  parte  delle  dottrine  attuali  che  prendono il  nome  di  monismo,  non  sono  in  realtà  che  ilozoi- smo [.a  psiche  è  secondo  i  loro  autori  cosi  neces- saria a  spiegare  la  natura  che  essi  non  vedono  una via  di   uscita    tra   il  dualismo   ordinario  (che  la   mette (1)  Estorniaim,   Oovversazlorìi  di  Goethe,  voi.  II,  trad.  frane. \ì.  338  e  segg. fuori  delle  cose)  e  il  loro  sistema  (che   la   mette   nelle cose  stesse).  Fra  queste   dottrine   moniste   noi   daremo il  primo    posto  a    quella  di  Haeckel.    Noi    troviamo   in la  più  ampia  conferma  di  un'osservazione  pre- cedente :  nel  pensiero  degli  attuali  sostenitori  della  dot- trina ilozoistica,  una  spiegazione  fisico-chimica  o  mec- canica di  tutta  la  natura  non  esclude  una  spiegazione del  modo  essenziale  di  produzione  dei fenomeni.    Secondo    Haeckel  la    scienza    non    ammette nel  suo  dominio  che  delle  forze  fisico  -  chimiche,  o  più strettamente,  meccaniche,  ed  egli  cerca  una  spiegazione per  le  due  principali   funzioni    morfologiche della  vita,    1'  eredità  e    l'  adattamento.  Ma  questa  s^/e- gazione  meccanica—^  la  perigenesi  delle  plastidule,  o    il movimento  ondulatorio  ramificato,  che  è  l'essenza   della vita,  considerata  nella  sua  evoluzione  sulla  terra  -  è  in ultima  analisi  essa  stessa  spiegata  dalle  facoltà  psichi- che che    Haeckel    attribuisce    alle    plastidule    (molecole protoplasmiche).    Il    movimento    ondulatorio    ramificato risulta,  egli  dice,  dalla  forza  riproduttiva  delle  plasti- dule, e  questa  forza  è    sinonimo   della    memoria    delle plastidule.  Noi  abbiamo  visto  che,  secondo  lui,  senza  la ipotesi  di   una    memoria    incosciente    della    materia  vi- vente, la  nutrizione,  la  riproduzione  e,  in  una   parola, le  più  importanti  funzioni  della  vita  sono  insomma  ine- splicabUi.  Questa  facoltà  della  memoria  incosciente    di- stingue r  organismo  vivente  dai  corpi  inorganici  privi di  vita,  ma  il  senso  è  una   facoltà  più    universale  che appartiene    a    tutta    la    materia.    Ciò    risulta    secondo Haeckel   dalla    teoria   dell'evoluzione.    «Se   una    certa quantità  d'atomi  di  carbonio  s'è   combinata  al  principio una  certa  (luantità  d'atomi  d'idrogeno,  d'ossigeno, d'azoto  e  di  zolfo,  per  creare  una  unità,  una  plastidula, noi  possiamo  considerare  l'anima  della  plastidula,  cioè la  somma  generale  delle  sue  proprietà  vitali,    come  .il 9 --  130  — prodotto  necessario  delle  forze  di  tutti  questi  atomi  riu- .  Allora,  al  punto  di  vista  monistico,  noi  possiamo chiamare  questa  somma  di  forze  atomiche  l'anima  del- l'atomo. Dall'incontro  fortuito  e  dalle  combinazioni  mul- tiple di  queste  anime  atomiche  sempre  costanti  e  sem- pre incommutabili,  nascono  le  anime  multiple  e  molto variabili  delle  plastidule,  che  sono  i  fattori  molecolari della  vita  organica».   «  ()oni  vita  psichica  si  riduce   fi- nalmente a  queste  due  funzioni  elementari  ;  sensazione e  movimento,  eccitazione  da  una  parte,  movimenti  ri- flessi dall'altra.  La  sensazione  semplice   del  piacere    e del  dispiacere,  il  movimento  semplice  dell'attrazione  e della  repulsione,  sono  gli  elementi  unici  di  cui  si  com. pone,  per  una  serie  infinita  di  combinazioni  complesse, ogni  attività  psichica.  L'  odio  o  1'  amore  degli    atomi,' l'attrazione  o  la  repulsione  delle  molecole,  il  movimento e  la  sensazione  delle  cellule  e  degli  organismi  cellulari, il  pensiero  e  la  coscienza  dell'uomo,  sono  dei  gradi  di- versi d'uno  stesso  processo  psicologico  evolutivo»  (1). «Senza  l'ipotesi  di  un'anima  dell'atomo  i  fenomeni  più volgari  e  più  generali  della  chimica  non  si  spiegano.  Il piacere  e  il  dispiacere,  il  desiderio  e  l'avversione,  la attrazione  e   la    repulsione,    devono    essere    comuni    a tutti  gli  atomi;  perché  i  movimenti  degli  atomi  che  de- vono aver  luogo  sulla  formazione  e  la  dissoluzione   di una  combinazione  chimica  qualunque,    non    sono    spie- gabili che  se  noi  loro  attribuiamo  una  sensibilità  e  una volontà.  Altrimenti  su  che  riposa  al  fondo  la    dottrina chimica,  generalmente  ammessa,  della  affinità  elettiva dei  corpi,  se  non  sulla  supposizione  incosciente  che  in realtà  gli  atomi,  che  si  attirano  e  si  respingono,  sono di  certe  tendenze,  e  che,  seguendo  queste  sensa- Il  Ber.,   zioai  e  impulsioni,  essi  possiedono  pure    la   volontà    e la  capacità  di    ravvicinarsi    o    di    allontanarsi    gli    uni dagli  altri  V»   (1).  Il  lettore  deve  notare  il  senso    parti- colare che  hanno  qui  le  parole    «  spiegare  »,    «  spiega- bile »,    «inesplicabile»,   che  noi  abbiamo  sottolineate: la  spiegazione  cercata  non  è  qui    una    spiegazione    nel senso  scientifico  della  parola,  non  consiste  a  mostrare che  una  legge  particolare  dei   fenomeni    è  un   caso    di una  legge  più  generale    o    della    combinazione    di    più leggi  più  generali,  senza  che  queste  leggi  più  generali siano  in  se  stesse  meno  misteriose    del    mistero    stesso che  si  tratta  di  spiegare.   Spiegare    un    fatto    qui    vuol dire  assegnargli  una  causa  efiìciente   o   metafisica,    o, come  diceva  Leibnitz,  una  ragion  sufiiciente  :  noi  dob- biamo comprendere  j^erchè  gli  atomi    si    uniscono    e    si separano,  si  avvicinano  e  si  allontanano  gli  uni    dagli altri;  è  perchè  ne  hanno  il  desiderio  e  la  votontà.  Con queste  ipotesi  Haeckel    intende    rovesciare    le    barriere della  conoscenza  della  natura  :  al  motto  di  Du-Bois  Rey- mond  :  Ignoriamo  e  ignoreremo,  egli  oppone  il    motto contrario  :  Conosciamo  e  conosceremo.    La    conoscenza cercata  è  quella  di  ciò  che  A.  Comte    chiama    il    modo essenziale  di  i^roduzione  dei    fenomeni;   e   il   mezzo    per ottenerla  è  una  spiegazione    modellata    al    fondo    sullo stesso  tipo  che  la  spiegazione  teologica.  «  Sicuramente, dice  lo  stesso  Haeckel,    noi  non  abbiamo  più  le  ninfe e  le  naia^di,  le  driadi  e  le  oreadi,    che  per    gli    antichi Greci  animavano  le  sorgenti  e   i    fiumi,    popolavano  i boschi   e    le    montagne:    esse    sono    svanite,    da  lungo tempo,  con  gli    Dei    dell'Olimpo.    Ma   gl'innumerevoli spiriti  elementari  delle  cellule  (e  naturalmente  anche  de- gli atomi)  rimpiazzano  (jucsti  semidei  concepiti  ad  im- magine dell'  uomo  »  (2)  (e  avrebbe  potuto  aggiungere  : e  sono  essi  stessi  concepiti  ad  immagine  dell'uoinoì. (1)  Fsic.  celiai.,  trad.   rraiir..  ]>;<,«;.    M». (2)  Pslc.  celi.,  paj;.  Naeg'eli  ammette  presso  a  poco  le  stesse  idee  di  Haeckel, e  per  g-li  stessi  motivi.  «  Come  tutti  gli  org'anismi  non consistono  e  non  sono  formati  che  delle  materie  che s'incontrano  nella  natura  inorganica,  va  da  se  che  le forze  inerenti  a  queste  materie  entrano  pure  nella  loro formazione».  «E  necessario  che,  poiché  da  per  tutto nella  natura  le  forze  e  i  movimenti  non  derivano  che dalle  particole  materiali,  le  forze  e  i  movimenti  dello spirito  dipeadauo  pure  dalla  materia,  in  altri  termini eh'  essi  siano  egualmente  composti  delle  forze  e  dei movimenti  generali  della  natura,  e  che  essi  siano  con questi  ultimi  in  rapporti  di  causa  e  d'effetto  ».  «Questo fatto  che  i  fenomeni  inorganici  più  semplici  sono  così inaccessibili  nella  loro  essenza  che  i  fatti  più  compli- cati del  cervello  umano,  ci  apre  la  via  che  può  condursi a  una  concezione  unica  della  natura.  Partiamo  dal  co- nosciuto, che  in  questo  caso  si  trova  essere  il  fenomeno intellettuale  complicato,  per  farci  un'  idea  di  ciò  che non  sappiamo  ancora  »,  «  Negli  animali  superiori  la  sen- sazione è  manifestamente  legata  ai  movimenti  per  ir- ritazione.  E  così  negli  animali  inferiori,  e  noi  non  ve- diamo perchè  sarebbe  altrimenti  nelle  piante  e  nei  corpi inorganici».  «Consideriamo  i  rapporti  di  due  molecole d'elementi  chimici  differenti  (p.  e.  una  molecola  d'  os- sigeno e  una  molecola  d'idrogeno)  che  si  trovano  a  una debole  distanza  1'  una  dall'  altra.  Ciascuna  d'  esse  con- siste, secondo  la  chimica  attuale,  in  due  atomi  non  di- visibili, ma  sicuramente  composti.  Grazie  alla  sua  coni posizione,  l'atomo  possiede  diverse  proprietà  e  forze; esso  esercita  per  conseguenza  diverse  eccitazioni  (attra- zioni e  repulsioni)  sugli  altri  atomi.  Le  due  molecole in  quistione  conoscono  e  risentono  di  differenti  maniere la  loro  presenza  reciproca,  esse  agiscono  l'uua  sull'altra di  diverse  maniere  nel  senso  attrattivo  e  repulsivo». «  Se  ora  le  molecole  possiedono  qualche  cosa    che   rassomiglia,  quantunque  da  lungi,  alla  sensazione,  (e  noi possiamo  dubitarne,  poiché  ciascuna  d'esse  risente la  presenza,  la  qualità  determinata,    le   forze    speciali dell'altra,  tende  a  muoversi  per  rispondere  a  questa  sen- sazione, entra  realmente  in  movimento  secondo  le  cir- costanze, e  diviene  per  così  dire  vivente;  poiché  infine tali  molecole  sono  gli  elementi  che  causano    il  piacere e  il  dolore  negli  animali)  se,  dico  io,  le  molecole  risen- tono qualche  cosa  che  rasomiglia  alla  sensazione,  sarà della  soddisfazione  se  esse  possono  seguire  la    loro    at- trazione o  la  loro  repulsione,  la  lore  simpatia  o  la  loro antipatia,  del  dispiacere  se  esse  sono  forzate  a  un  mo- vimento contrario,  né  della  soddisfazione  né  del  dispia- cere se  esse  restano   in    riposo.    E    poiché    le    molecole agiscono  le  une  sulle  altre  per    più    forze    attrattive   e repulsive  ineguali,  alcune  di  (lueste  tendenze  sono  sod- disfatte dal  movimento  che  ne  risulta,  le   altre    contra- riate. Queste  diverse  sensazioni  devono  necessariamente differire  di  qualità  e  d'intensità,  secondo  che  esse  hanno causa  la  gravitazione  universale,  la  repulsione  ge- nerale deir  elasticità  e  del  calore,  1'  attrazione  e  la  re- pulsione elettrica    e    magnetica,    o    1'  affinità    chimica. Gli  organismi  più  semplici,  se  io  posso  esprimermi  così, che  noi  conosciamo,  le  nìolecole  degli  elementi  chimici e  delle  loro  combinazioni,  sono  dunque  messi  in  movi- mento al  tempo  stesso  da  diverse  sensazioni  qualitative e  quantitative,  che  costituiscono  la  sensazione  generale di  piacere  e  di  dolore».   «Se  noi    riguardiamo    lo    spi- rito, nella  sua  accezione  più  generale,  come  1'  espres- sione immateriale  d'un  fatto  materiale,    come    l'inter- mediario tra  la  causa  e  1'  effetto,  noi   ne    troviamo    da per  tutto  la  traccia  nella  natura.  La  forza  intellettuale é  il  potere  che  hanno  le  particole  materiali  d'  agire   le une  sulle  altre,  il  fatto  intellettuale  é  la  realizzazione di   quest'  azione  che    consiste    in    piovimento,    cioè    in 134  — spostamento  delle  particole  materiali  e  delle  forze  che loro  sono  inerenti,  conducente  immediatamente  a  un altro  processo  intellettuale.  Uno  stesso  legame  immate- teriale  riunisce  cosi  tutt-i  fenomeni  materiali.  Lo  spirito umano  non  è  altro  che  lo  sviluppo  più  elevato  su questa  terra  dei  fatti  intellettuali  che  vivificano  e  che animano  da  per  tutto  la  natura»   (lì. Zoellner  ammette  pure  che  «  il  lavoro  degli  elementi della  materia  è  accompagnato  da  una  certa  sensibi- lità... Si  può  giudicare  cosi  debole,  cosi  insignifi- cante che  si  vorrà  il  grado  di  questa  sensibilità,  ma secondo  me  è  indispensabile  di  ammetterne  l'esistenza, se  si  vuol  comprendere  l'esistenza  dei  fenomeni  di  sen- sibilità che  l'esperienza  permette  di  costatare  nella  na- tura... Se  degli  organi  e  dei  sensi  più  sviluppati  e  più ci  permettessero  di  osservare  la  maniera  di  ag- gregarsi e  la  regolarità  dei'  movimenti  che  eseguiscono le  molecole  di  un  cristallo,  quando  quest'ultimo  è  pro- fondamente ferito  in  qualche  parte,  noi  troveremmo senza  dubbio  che  decidiamo  alla  leggiera  e  facciamo  una pura  ipotesi,  quando  affermiamo  che  i  movimenti  prò dotti  in  questo  cristallo  non  sono  assolutamente  accom- ])agnati  da  alcuna  sensibilità».  Tutti  i  cangiamenti  lo- cali della  materia,  che  essi  si  producano  nei  corpi  or- ganici o  nei  corpi  inorganizzati,  si  riconducono  alla legge  seguente:  «tutta  l'attività  degli  esseri  della  na- tura è  determinata  dalle  sensazioni  della  pena  e  del  pia- cere, in  modo  che  i  movimenti  prodotti  in  una  sfera  de- terminata di  fenomeni  sembrano  destinati  a  realizzare un  fine  incosciente,  a  ridurre  al  minimum  la  somma  delle sensazioni  penose»   (2). Passando  dagli  scienziati    ai   filosofi,    cominceremo per  ricordare  Uerberweg,  quantunque  appartenga  alla (1)  /  limiti  della  scieììza.  V.   Nevue  seieut.,  II  ser.,  t.  14. (2)  Natura  delle  eomete. 135 generazione  precedente.  Ueberweg  non  ammetteva  gli atomi,  ma  il  pieno  assoluto  e  la  continuità  della  ma- teria,  e  attribuiva  a  questa  materia,  in  tutte  le  sue parti,  la  proprietà  d'essere  dapprima  messa  in  movi- mento dalle  forze  meccaniche,  poi  d' acquistare  degli stati  interni,  che  sono  provocati  dai  movimenti  mec- canici,  ma  reagiscono  su  di  essi.  Gli  stati  interni della  nostra  materia  cerebrale  sono  le  nostre  rappresen- tazioni; la  rappresentazione  degli  organismi  inferiori  e della  materia  inorganica  è  una  semplice  sensazione  ele- mentare o  un  debole  analogo  della  sensazione.  1/  ipo- tesi della  sensibilità  di  tutta  la  materia  spiega  l'origine dei  fenomeni  psichici  nel  cervello  dell'uomo  e  degli animali  (Ij. Czolbe,  filosofo  risolutamente  materialista  (pure della  generazione  precedente],  ammette  una  specie di  anima  del  mondo,  composta  di  sensazioni  invariabil- mente unite  alle  vibrazioni  degli  atomi  :  queste,  nello organismo  umano,  si  condensano,  aggruppandosi  in modo  da  produrre  l'  effetto  d'insieme  della  vita  della anima.  Egli  ritiene  la  sua  ipotesi  indispensabile  a  un materialismo  coerente;  senza  di  essa  l'origine  della  co- scienza sarebbe  inesplicabile  (2). Noiré  designa  anch'egli  la  dottrina  col  nome  di  mo- nismo.  Il  dualismo,  per  ispiegare  l'origine  della  coscienza, e  l'attività  e  l'ordine  che  si  manifestano  nel  mondo  fisico, suppone  un  principio  separato  dalla  materia;  questo  prin- cipio, cioè  lo  spirito,  il  monismo  lo  unisceallamateyìa  stes- sa. «  La  prima  scintilla  della  sensazione  animale  non  è  ca- duta dal  cielo  come  per  un  miracolo;  essa  non  ha  potuto accendersi  ed  alimentarsi  che  ad  un  focolaio  preesistente di  sensazioni  simili.  Dall'assoluta  incoscienza,  mai  la (1)   V.  Lanj^e   Storia  del   materialismo,    voi.   II,     i>arto    IV, e.  III. (3)  V.  Lauge  Storia  del  materialismo^  voi.  II,  parte  I,  e.    II. —  136  —  coscienza  a  un  grado  qualunque    non   avrebbe   potuto iiscire.--In  ogni  essere  s'incontra  una  facoltà  analoga  a quella  che  costituisce  lo  spirito  dell'  uomo,  e  di  cui  lo spirito  umano  è  la  più  alta  manifestazione.  Schopenauer chiamava  questa  facoltà  col  nome  di  volontà-,  noi  la  de- signiamo con  quello  di  sentimento.  La    coscienza    ne  è l'attributo  essenziale.— Come  non  vi  ha  che  iina  specie di  movimento,  così  non  vi  ha  che  una  specie  di  senti- mento; le  differenze  sono  semplicemente  delle  differenze di  grado».   «Ogni  cosa  nel  mondo,  sino    all'atomo,  è per^sè  un  soggetto,    per  gli  altri  un  oggetto».    «Scio penetro  al  fondo  del  più  rudimentario  degli  esseri,    se io  riesco  a  sentire  come  esso  sente,  esso  non  mi  appa- risce che  come  me,  come  volere,  coscienza,  libertà.  Se io  lo  considero  al  contrario  dal  di  fuori,  se  io  contem- plo me  stesso  dal  punto  di  vista  d'un  osservatore  stra- niero,  tvitto  neir  essere  è  movimento,  necessità,   puro effetto'  di  rapporti  con  lo  spazio  e  con   un    passato    in- commensurabile di  forza  » .  «  Ciascun  essere  è  una  mo- nade di  cui  l'essenza  intima  è  di  natura  esclusivamente spirituale   (appercezione   e   volontà),    di    cui    il    corpo è  una  materia  in  movimento,  un  composto  meccanico, che  deve  la  sua  forma,  la  sua  grandezza,  all'azione  del principio  spirituale,    al    quale   è  associato  (1)  ».   Noire ammette   una   finalità  nella  natura  :  egli  vede   in  ogni essere  una  causa  finale,  una  forma  che  ciascun  essere ricerca   laboriosamente  a   traverso  delle  trasformazioni senza  fine,  la  realizzazione  d'una  idea  di  cui  esso  solo racchiude  il  secreto,  benché  questo  secreto  sfugga  d'or- alla  sua  conoscenza  distinta.  Il  mondo  gh  ap- parisce pure   come  un  essere,  come  un  vasto  me.  Cosi in  Noiré  r  ilozoismo,  quale  lo  abbiamo  visto  nella  più parte  degli  esempii  precedenti,  si  avvicina  di  più  ai  con- cetti  animisti  e   teologici    (2). 1)  Pensiero  monistico. )  V.  Nolen   II  monismo   in   AUmwjna,    nello   Meme  phi- losophique,   In  madama  Eoyer  l' ilozoismo  è  legato  alla  conce- zione particolare  ch'essa    si    forma    della    natura  degli atomi.  L'atomo  non  è,  come  si  ammette  ordinariamente, una  sostanza  solida,  dura,  inerte  e  puramente  passiva; esso  è  perfettamente    fluido,    elastico    e   dotato    di  una forza  espansiva,  che,  se  non   incontrasse    ostacolo,    fa- rebbe occupare  a  un  sol  atomo  tutto   lo   spazio.  L'uni- verso è  assolutamente  pieno,  non   vi   ha   vuoto   fra   un atomo  e  un  altro  :  in  virtù  della    loro    forza   di   espan- sione, che  li  fa  lottare  per  appropriarsi  ciascuno  la  più gran  parte  di  spazio    che   gli   è   possibile,    gli  atomi  si limitano    mutuamente  per  dei  contatti   assoluti,    eserci- tano una  pressione    gli    uni    sugli    altri,  e  si   muovono reciprocamente,  respingendosi  gli  uni  con  gli  altri.  Tale è  la  sorgente    di   tutta  l'energia    motrice    spiegata  nel- l'universo (1).  Gli  elementi    ultimi    della    materia  sono dunque    attivi,    automotori:  (2)  oltre  alla  tendenza  in- a  diffondersi,  a  diluirsi  nello  spazio,  alla  forza indefinitamente  espansiva,    di    cui  li  dota,  l'autrice  at- tribuisce ad  essi  la  proprietà  di  muoversi  da  se  stessi, automaticamente,  nel  senso  della  minore  resistenza  (3), e  spiega  anche  le  decomposizioni  e  ricomposizioni  chi- miche per  l'azione  automatica   degli    elementi  tendente a  realizzare  le  combinazioni    in    cui    essi    trovano    più  (1).  Ora    l'attività,    il    movimento  spontaneo degli  elementi    della   materia  suppone  in  essi  una  vita, un'anima,  una  coscienza.  Degli  elementi    solidi,    inerti e  puramente  passivi,  come  quelli  dell'atomismo  ordina- rio,   esigono    l'intervento    d'una    forza    esteriore,    d'un (1)  La   costituzione    del    mondo,    v.    sovratutto  Introduzione cap.  14  e  15,  e  parte  I  cap.  4,  7,  8. (2)  V.  Introdnz.  cap.    14,    15,   IH,    parte  I  e.  5,  6,  7,  8,  ecc. (3)  V.  pa<r.  9(>,  128,  130,  132,  305,  608,  «10,  «17,  ecc. (1)  V.  Parte  III,  e.  40. —  138  — voòc,  che  loro  distribuisca  il  movimento  e  la  vita  (1). L'atomo  automotore  e  vivente  basta  a  se  stesso,  e  può da  se  solo  spiegare  il  mondo  per  le  sue  attività  dina- miche (2);  ma  bisogna  anche  attribuirgli  delle  attività psichiche.  Se  gli  atomi  non  fossero  delle  individualità coscienti,  essi  non  avrebbero  alcun  motivo  di  muoversi e  di  agire  :  si  può  sostenere  che  ogni  forza  ha  uno scopo  più  o  meno  vagamente  cosciente.  Lo  scopo  delle forze  atomiche  è  di  occupare  il  più  grande  spazio  pos- sibile, di  estendervisi  all'esclusione  di  tutte  le  altre forze  (3).  Ciascun  atomo  è  un  me  vivente,  cosciente della  sua  esistenza,  e  cosciente  delle  azioni  e  reazioni spontanee  ch'egli  esercita,  avente  la  sensazione  passiva, più  o  meno  intensa,  dei  limiti  vfiriabili  che  risultano per  lui  dalle  pressioni  di  tutti  i  suoi  vicini,  e  dei  mo- ch'egli  compie  difendendo  contro  di  loro  la  sua parte  di  spazio  (4).  L'atomo,  non  solo  sente,  ma  anche vuole,  secondo  dei  motivi  percepiti,  che  determinano  i suoi  movimenti  (quando  dunque  l'autrice  parla  delle azioni  automatiche  degli  atomi,  ciò  non  vuol  dire  che esse  sono  incoscienti  o  involontarie, ma  che  non  sono precedute  da  deliberazione  e  da  scelta,  e  si  producono fatalmente)  :  la  volontà  e  la  forza  sono  i  due  attributi dell'entità  sostanziale  (5).  L'autrice  attribuisce  anche agli  atomi  :  le  sensazioni  dei  loro  contatti  e  delle  va- riazioni di  pressione  dei  loro  piani  (gli  atomi  hanno  la forma  di  poliedri)  e  quelle  degli  ostacoli  che  limitano  la loro  espansione  (6),  la  percezione    del   mondo  esteriore (1)  Introdìtzhnc,  ]>a<j.  7-8.  Cfr.  cap.  IV. (2)  Pag.  13. (3)  Pag.  74. (4)  Pag.  75. (5)  Pag.  75. (6)  Pag.  92. —  139  — delle  variazioni  delle  loro  relazioni  spaziali  con  gli  og- getti esterni  (1),  la  facoltà  di  comparare  le  sensazioni ricevono  simultaneamente  (2),  l'intelligenza  (3), libertà  (4),  la  coscienza  della  loro  unità,  della  loro identità  e  della  loro  perpetuità  (5j  :  essa  li  chiama  (in- sieme agli  altri  esseri  propriamente  detti,  cioè  che  non sono  solamente  degli  oggetti,  ma  anche  dei  soggetti) dei  fuochi  ottici  di  conoscenza  (6)  e,  ad  imitazione  di Leibnitz,  degli  specchi  più  o  meno  fedeli  in  cui  si  ri- flette un'immagine  più  o  meno  completa  del  cosmos visto  da  un  punto  dello  spazio  e  del  tempo  (7).  Tutti gli  atomi  hanno  la  stessa  essenza,  e  possiedono  ciascuno tutte  le  virtualità  dell'essere;  ma  essi  differiscono  per dei  gradi  diversi  di  attività  mentale  e  fisica.  Vi  hanno tre  sorta  di  atomi,  i  materiali  o  pesanti,  gli  eterei  e  i vitaliferi.  Lo  stato  iniziale  della  sostanza  cosmica  è l'atomo  etereo;  le  altre  due  sorta  di  atomi  derivano  da questo.  Alcuni  atomi  eterei  hanno  ceduto  ad  altri  parte della  propria  sostanza  :  i  primi  sono  divenuti  cosi  atomi materiali,  e  i  secondi  atomi  vitaliferi.  Gli  uni  e  gli altri  hanno  essenzialmente  le  stesse  proprietà,  fisiche  e psichiche,  degli  atomi  eterei,  che  negli  uni  sono  state solamente  indebolite,  negli  altri  invece  esaltate.  Le  tre sorta  di  atomi  si  distinguono,  fisicamente,  per  la  mag- giore o  minore  quantità  della  loro  forza  espansiva; psichicamente,  per  la  vivacità,  il  numero  e  la  varietà più  0  meno    grandi    delle    loro  sensazioni,  la  coscienza (1)  Pag.  10. (2)  Pag.  92. (4)  Pag.  10  e  13. (5)  Pag.  80. (6)  V.  pag.  80  e  92. (7)  Pag.  80. #*^ -più  0  meno  netta  dei  loro  stati  successivi  e  dei  loro d'azione,  la  inag^^iore  o  minore  libertà,  almeno apparente,  delle  loro  reazioni  motrici.  Gli  atomi  vitali- feri  sono  le  anime  delle  cellule  :  sono  essi  che  comuni- cano ai  corpi  viventi  le  loro  proprietri  speciali.  Negli organismi  superiori  la  coordinazione  gerarchica  delle molecole  viventi  e  coscienti,  cioè  delle  loro  cellule,  le fa  sentire,  pensare,  volere  all'  unisono,  dando  a  questi esseri  l'illuslohe  della  loro  unità  ontologica.  Ogni  stato di  coscienza  realizzato  negli  esseri  viventi  non  è  che un'evoluzione  più  complessa  dello  stato  di  coscienza degli  atomi  eterei,  che  si  attenua  negli  ato- mi materiali,  ma  si  esalta  negli  atomi  vitaliferi.  L'uni- verso, cosi  concepito,  apparisce  nella  sua  meravigliosa unità:  non  vi  hanno  tra  gli  esseri  differenze  qualitative, ma  solo  quantitative;  non  vi  ha  che  una  sola  forza, animante  una  sostanza  unica,  increata,  indistruttibile e  sempre  identica  a  se  stessa  (1).  Noi  dobbiamo  aggiun- o-ere  che  l'autrice  è,  come  Haeckel,  un'avversaria  della teoria  deirinconoscibile  :  la  forza  motrice  dell'universo non  è  un'incognita,  come  vuole  A.  Comte  ;  l'essenza delle  cose  non  è  impenetrabile  (2).  È  una  prova  che l'ilozoismo  ha  per  oggetto  di  conoscere  le  cause  effi- cienti, perchè  1'  inconoscibile,  al  punto  di  vista  obbiet- tivo, non  è  che  le  cause  efficienti,  il  modo  essenziale  di produzione    dei    fenomeni  (3). Delboeuf  attribuisce  agli  elementi  della  materia  la sensibilità,  l'intelligenza  e  il  libero  arbitrio:  e  infatti la  vita  e  la  coscienza  e  — aggiunge  l'autore  ripetendo Epicuro  —  il  libero  arbitrio  non  possono  venire  dal niente;  quindi  devono  trovarsi  negli    elementi    primor- (1)  V.  Introd.  cap.  15  e  1(>,  parte  I,  cap.  5.  6,  7. (2)  V.  Prefazione. (3)  V.  il  cap.  V  (li  questo  Saggio. s r- MateWdttMiuìbiatgB -TP-?- —  141 diali  (1)    Clie  un  elemento  abbia  affinità  per  un  altro,  eie vuol  dire  che  lo  desidera  ;    se    si    separa  da  quello  con cui  è  unito  per  entrare  in  un'altra  combinazione,  e  per- chè questa  è  per  lui  più  attraente  (2).  Il  demiurgo  del- l'universo   è    l' inteli ig-euza;    non   un'intelligenza   sopra- mondana,  ma  quella  degli  elementi  della  materia  e  le altre  più  complesse  che    risultano  dalle  fusioni  d.   que- ste intelligenze  elementari  (3).  L'universo  non  e  sotto- messo a  leggi  fatali,  perchè   noi    non  possiamo  negare che  vi  ha  in  noi  il  lil)ero  arbitrio,    e    questo  dobbiamo estenderlo  agli  elementi    di    noi  stessi  e  di  tutto  l' uni verso  (4).  Questi  elementi  al  principio  erano  Ithcr,,  cioè vivevano  indipendenti,  ed  erravano   a  capriccio  o  piut- tosto all'azzardo.  Ma  nei  loro  incontri  la  loro  sensibilità fu  impressionata,    e    applicarono   la  loro   intelligenza  e la  loro  libertà   a   fuggire   gli    urti    disaggradevoli  e  a ricercare  gl'incontri  aggradevoli:  ebbero  dei  desideri  e dei  timori^  delle  simpatie  e  delle  antipatie,  degli  amori e  deo-li  odi:  acqaistarono   delle   ahitmlmi,    e   queste  Hono ciò  de  chiaMiamo  le  loro  leggi  (5).  Inoltre  all'individua- lismo primitivo  succedeva    lo    stato  di  società-,  gh  ele- menti si  associarono    in   gruppi   rti    più  in  più  stabili, facendo  ciascuno  il  sacrifizio  d'una  parte  della  propria libertà,  ma  compensato  da  una  più  grande  resistenza  e una  più  grande  indipendenza  dell' insienie;  queste  riu- nioni eram,  il  prodotto  della  libertà   e   dell'iute  hgenza e  si  formavano  in  vista  del  bene   della   comunità.  Cosi uacquero  le  molecole  organiche,  e  poi  per   la   loro   as- ^l)  V.  La  mutrria  hnita  e  la  materia  ricente,  v-  -11.  l«li-  1«»' 170-171. (2)  Irì,  i>ii};-  21  <'  ^''2. (S)  V.  ici,  Voiinidcrazioid  flitalì. (i)  Iti. (5)  Ivi,  l>ag.  Iti*)-  172. ^51 —  142  — sociazione  i  corpi  organizzati  (1).  Queste  ultime  asso- ciazioni ebbero  per  base  il  principio  della  divisione  del lavoro:  ciascun  membro  della  comunità  concentrò  le  sue attitudini  su  una  funzione  determinata,  che  esercitò  a vantaggio  di  tutti,  domandando  che  in  cambio  gli  altri compissero  per  lui  le  funzioni  ch'egli  abbandonava  (2). Come  si  vede,  l' ilozoismo  di  Delboeuf  è  un  antro- pomorfismo nel  senso  stretto,  che  attribuisce  agli  ele- menti della  materia  le  stesse  qualità  psichiche  che  os- serviamo 0  crediamo  di  osservare  in  noi  stessi  e  negli altri  uomini. Noi  faremo  infine  menzione  di  Roisel,  in  cui  si  può osservare  una  curiosa  fusione  del  materialismo  atomi- stico moderno  coi  concetti  tradizionali  della  filosofia teologica.  Egli  chiamagli  atomi  (in  opposizione  alle  cose composte  e  derivate)  essere  assoluto,  l'infinito,  la  causa prima,  l'essere  necessario  :  l'onnipotenza  e  l'onniscienza sono  egualmente  dei  predicati  dell'atomo.  L'onnipotenza è  iii  potenza  virtuale  infinita  degli  atomi  :  è  che  tutte le  attività  le  quali  si  manifesfano  nei  composti  partico- lari costituiti  dagli  atomi,  esistono  in  potenza  nell'atomo stesso.  L'onniscienza,  è  la  conoscenza  infinita  che  ha l'atomo  :  è  che  gli  atomi  sono  al  tempo  stesso  i  mate- riali, gli  operai  e  gli  architetti  dell'  universo.  L'  atomo non  rifiette,  non  ragiona,  la  sua  conoscenza  è  imme- diata o  istintiva  :  s'egli  ragionasse,  sarebbe  soggetto all'errore.  La  conoscenza  nell'atomo  non  è  prodotta dalla  presenza  d'un  oggetto  esteriore  :  essa  esiste  in  lui senza  cause  anteriori  o  esteriori  a  se  stessa,  come  l'e- stensione e  la  potenza,  con  cui  essa  è  in  una  correla- zione perfetta,  di  tal  sorta  che  la  potenza  non  agisce senza  la  conoscenza,  né  la  conoscenza  senza  la  poten- za, e  l'una  e  l'altra    non    agiscono    che    in    conformità delle  leggi  eterne,    che   fanno    egaalmente  parte   degli attributi  della  causa.  La  conoscenza  illimitata  dell'ato- mo dà  la  ragione  generale  di  tutti  gl'istinti    particolari L'istinto  esiste  nell'animale,  nel  vegetale,  nel  minerale stesso.    La    gravitazione,    l'affinità    chimica,  la   coesio- ne, ecc.  sono  delle  attività  istintive  degli  elementi  ma- teriali. L'apparizione,    la    conservazione,    lo   sviluppo  e la  riproduzione  dei  vegetali   non    si    compiono  che  per degli  atti  istintivi  :  sono    gli    elementi   costitutivi    della pianta  che  possiedono    questi    istinti,  e  fanno  tutto  ciò che  bisogna.  Negli  animali  e  nelle  piante  si  trova  cosi una  scienza  innata  delle  condizioni  della  loro  esistenza. L'istinto  presiedendo  all'origine   di   tutti    i  movimenti, quelli  anche    che,    per    conseguenza    della  mobilità  dei corpi,  paiono  non  avere  per  causa  che  una  forza  cieca, hanno    tuttavia    nell'azione    che  li    produce  una  causa essenzialmente    razionale.    Niente  non  si  muove   all'az- zardo neiruniverso,  e  l'istinto  che  rappresenta  la  cono- scenza e  l'attività  delle  cause  prime  negli  esseri  contin- genti, è  il  principio  di  tutte  le  loro  evoluzioni  (lì. (1)  Uì,  1».  178-17A. (2)  Cfr.  imragr.  H. (1)  Roisel  La  sostanza,  v.    specialiiiiuentc   11   parte  e,   li,    e e.  VII. - — 1*^ 144 —  145 u^xt.    ITT. Il  panpsichismo. §  15.  DìilFilozoisiiio  che  artVrnia  V  unione   indissolu- l)ile  (Iella    materia  e    dello    spìrito,  noi    ])assianio  ad  nn aliio  tipo  di  metafisica,  aitine  ma  essenzialmente  distin- to, che  nel  suo  concetto  ^-enerale  non  ha  un   nome  sta- lùlito,  e  che  noi    chiameremo    punimchhmo.    Questo    si- steìua  atterma  che  la  materia  non  esiste,  ma  che  tutto  è spirito  :  che  ciò  che  ci  a])])arisce  come  mondo  materiale non  e  in  se  stesso  che  un  mondo  di  esseri  psichici;  che non  vi  hanno  in  realtà  particole  di  materia  e  movimenti, ma  in  luo^o  di  essi  spiriti  e  fenomeni  psichici.  Biso«»:na distinguere  duiupu^  il  jxinpxichismo,  da   una  parte,    dal- Vihtzoismo,  e  dall'altra,  di\\V itì^^dUtiìiio  e  dal  fcnoìnenir^mo. 11   pan])sichista  non  ammette  seììiplicemente,  come  l'ilo- zoista,  che  lo  s]urito  è  dn   i)er  tutto;  uia  che  non  vi  ha clic  lo    spirito,  e    tutto  il    reale    si    risolve  in    esso.   Da un'altra    i)arte  e«>li  non    ammette    che    tutto  il    reale  si risolve  nello  sjurito,  perchè  cred(^  come  il    femmienista e  r  idealista  subbiettivo,  che  i;li    oggetti    materiali  non esistono  che  in  (pianto  li  percepiamo,  o,  c(une    P  ideali- sta   obbiettivo,  che  sono    delle    rappresentazioni  di   uno spirito  universale;  ma  percht',  lascian(h)  a  (luesti  oggetti un'esistenza  indiiM-iidente  dal  soggetto  conoscente,   egli atteruia  che  non  s(Mio  materiali  che  in   api)arenza,  men- tre iìi  realtà  non  sono  che    spirito.    11    panpsichismo  ha un   posto  assai  largo   nella    metatìsica    moderna,    sovra rutto  nel  peiiodo  più  recente,  per  la  cresciuta  coscienza delle  ditticoltà  del   realismo    ordinai'io  :    esso  v    ammesso Leibnitz,    Schopenaner,   Maine   de    13iran,    Rosmini, Gioberti  (nella  seconda  foruia  (Mia  sua  filosofia),  Lotze, Wundt,  Hartmann  (che  pino  cimserva  alla  m  iteria  una certa  obbiettività),  Clifford,  Wallace,  Taim-,  Uenouvier, ecc.  Molti  (hù  sistemi  a  cui  si  suole  applicale  il  nome un  po'  vago  di  din^nni^fl  non  s(uio  iu  verità  clic  ixiap^i- c///s'//:  noi  vedremo  (piai  (^  il  punto  di  contatto  vile  il dinamismo  propriauuMite  detto  ha  voi  i)anpsichisiuo. Il  panpsiclnsmo   e   anzitutto    una    soluzi(nie  del  ])ro- blema  del  nunub)  esteri(ne.   Alla   (piistione  :    che    cosa    (^ la  materia  ?  dopo  che  (^  stata    riconosciuta  la    subbietti- di  tutte  le  sue  (pialità.  non  si  pm)  ris])oudere  alti'o, si   vuol  dire  (pialche  cosa  di  pensabile,  se  non  che  essa è  spirito.  Ciò  ì'  perchè  noi  non  possiamo  concepir.'  alti'a cosa  che  la  materia  e  lo  spirito:  la  mat(MÌa.  cioè  la  cosa estesa,  colorata,    resistente,    ecc.;  e  lo  spiiito,   cioè  un complesso  di  sensazioni,  di  sentimenti,  di  volizioni  e  inuna  parola  di    fenomeni    psichici.   Ne  segue    che,    do]M) che  si  è  riccmosciuto  che  l'estensione,  il  colore,    la   resi- stenza e  tutti  gli  altri  attributi  che  costituiscono  il  nostro c(mcetto  della  materia,   non    esistono  che    relativamente al  soggetto  senziente,  lum  resta  altra  cosa  che   lo  spinto, che  si  possa    cimsiderare  cernie  cosa  in  sé,  cioè  a  cni  si possa  attribuire  uiresistenza  assoluta,   indipiMidente  dal soggetto  senziente.  In  altre  parole,  se  niente  del  nostro d(^-lla  materia  —  cioè  di    queste    apparizi(nii  che noi    chiamiamo    c(upi  —  appartiem»    alla    materia    in    se,  la  materia  in  se  stessa,  se  noi  l'ammettiamo  e  vo- formarc(nu^  un  (Muicetto,  non  più»   essere  che  cm che  noi  possiamo  unicamente  c<Micepir(M)ltre  alla  materia, cioè   complesso  di  fencuìieni  psichici,  spirito.  (Questo  è  il motivo  precipuo  d(3l  panpsichismo:  perci(^  (piesto  sistema appartiene  sovratutto  all'argomento  della  sec(m(la  ]>arte  (luesto  Saggio,  in  cui  parleremo  (h'ile  dottrine  sul  nnui- do  esteriore.  Tuttavia  noi  (h)bbiamo  dirne  (pialche  cosa anche  in  (piesta  parte,  perchè  esso  dà  pure  una  risposta alla  (luistione  delle  cause  (^tficienti,  essendo  evidentemente 10 14H  — UT  — aiK-lresso  mia  t'orma  (k-iraiitroponioitisiiio,  cioò  un'assi- lìiilazione  (li  tutte  le  forzi*  della  natura    air  attività  <lel- Tuonio,  quautuu<iu(%  vouw  Tilo/oisuio,  a  (luclla  parte  dei- Fattività   dell'uomo  elie  e,uli  ha  in  eoiuuue  eon  i-ii  altri animali.   (Questo  secondo   m<»tiv<)  <lel  panpsichismo,  eioè una    spie.uazione  antropouiortistiea  della   natura,  è  i^cne- ralmente  h\uato  al  priiìU),  che  lo  suppone,  hrfatti  per  am- nu'ttere  che  i   corpi  in  se  stessi  sono  spirito,  hisoi;na  pie- suppone  che  i  tenoiueni  tisici,  che  s<mo  «;li  o.i;.i»etti  dei  no- stri sensi,  sono  accompa<;nati  costantemente  da    fenomiui,  di  cui  sono -ili  ettetti  e  le  iuanitestazi<mi.  il  punto di  [jai-tenza  del  panpsichisiuo  è  lo  stesso  che  (pu'Uo  delTilo- zoismo:  la    torza    tìsica  è    identica  alla   t'orza   di  cui  sola abbiamo  coscienza  :  i    cani;iaiuenti  del    mondo    tìsico  ri- velano   un*  attività   [isichica  che  ne  è  la  causa:  e  ix-i'ciò non  vi  ha    corpo    senza    spirito.   Ma    ì'ilozoista  si    t'eriua. qui:  il   pani)sichista  a-»iiiun;;('    che  il    corpo  è    un' ai)i)a- renza,  e  il   reale  non  è  che  lo  spirito. v\  IH.   (^)ueste  osservazioni  sono    am[)iamente    conter- mate  dalla    storia    del  paupsichisnu),    a    coiuinciare    dal suo  fondatore,  cioè  da   Leibnitz.  Le  monadi  per  I.eibnitz non  s(nio  sohuuenti"  la  cosa  in  se  «Iella   materia,  la  realtà che   ci    ap[>arisce    come   estensione  impenetiabile,  colora- ta, ecc.,  ma  anche  la  tbrza,  cioè  l'attività  ìuotrice.  la  cau- sa etticiente  (h'I  movinu'Uto.  Jn   un  senso  lato,  si  ha   ra- gione di  chiamare  la  (h)ttrina  delle  monadi    un    dinami- smo, percln^'  ancìTessa    sostantitica  la  foiza,  (juantumiue non  vi  v(Mbi,  come  i  <linannsti  nel  senso  sti-etto.  un'entità misteriosa,    ma    la    riconduca    allo    s[)irito.     Pcm-    i'en(h'r conto  delle  le,ui;i  della   natura  mm   basta,  dice    Leibnitz, hi  nozi(uie  <lella   materia:    biso.i;iia   a.u\i;iun<;('i"ne  una    nu^- tatisica  .    quella    della  forza    (1).     La    sostanza    corporea (1)  JSist.  nuovo  dello  coihhhìckz.  dcllv  sosf.  imI.  Duti-ns  r.  II p.  1.  50.  Letf.  al  p.  Botint.  ed.  Diit.  II.  L  21)2,  Pe  ipsa  na- tura site  de  ri  iììsita  7.  An'uiindv.  eirea  Theor.  Med.  Staiti.  IH verso  il   i>riiK-.  ed.   1).   t.    II.   ]».    II.    1:U   .nifi  —  i:"2  su,   vvv. n non  c(msiste  ueirestensi<me,  come  vogliono  i  Cartesiani, perchè  il  movimento  e  le  sue  leogi,  clie  implicano  un'attivi- tà in  (piesta  sostanza,  non  possono  ricavarsi  dall'estensione che  è  incapace  di  azione  (1).  Essa  non  consiste  nemme- no nell'estensiime  e  nella    resistenza  :    (pieste  non  costi- tuisc(mo  che  la  massa  o  materia  prima,  cosa    essenzial- mente passiva,    mentre  il    moto  e    l'azione  in    -enerale mm    possimo    derivarsi    che  da  una    sostanza  attiva  (2). Alla  materia  nuda,  cioè  all'estensi(me  e  alla    resistenza, biso-na  a-- inno-ere  damine  la  forza,  la  causa  del  nM>to: al  principio    passivo  il    principio    attivo  (3).    Cosi  la  so- stanza ccuiHuea  è  costituita  (hi  due  elementi:  la   materia pruna  o  nuda,  che  l'autore  riconduce  alla    poivnzu    pa^- fiinf,  e  la  tbrza  o  pofenzd  uttivn  primitiva,  ch'e<»li  i<len- titica  c(Mi  la  forma    aristotelica    (4).    La  forza  o    potenza attiva    primitiva  è   una    cosa    sostanziale  e    persistente, come  la    potenza  passiva  primitiva  o   materia  prima:  h' forze   derivate  o    impeti    sono    delle    modincazi(mi    acci- (1)    fA'tl.    se    ress,    del  eorpo  consiste  aeiresteas.   Dut.    II.   1. 2:^rì-2;^(>,  /v  i/>-'«f  ^^<ff-  ^••''*^'  f^''  '''  '*''•  ii*  ^^^'''-  "  ^ **' I    287,    Lett.  al  p.    Des-lìosses  SI   hi-,   1707  iiitìiie.   ecc. ri)  /V  '/>v^<  >''• ed.    Dut.  t.   II,    p.   I.  20,    Elespons.  ad  Stahl.  ohserr.  wd   XXI.   7. Comment.  de  an.  hrator.   I  —  V.   ecc. (S)  De  prìwa  phil.  emead.  Dut.  II.  I.  20,  Cohuh.  de  an.  hrn- for  1- V,  Lett,  se  lU'Ss.  del  eorpo  eonsiste  neWesteus.  Dut.  II.  L 285- 2S(;.    rA'tt.    a    Fomher.    Dut.   IL   L   2S7,   Lett.  sai  earfesian. Dut.   IL   L  2HS,   De  i/)!i((  ^f^fl-  •*>*'''^'  ^'''  ^^  ^**^'  ^^'  ^'^*^'' (4)  Teodie.  Prefaz.  ed.  Jnc(iues  10-20.  Es.  dei  prine.  di  .}fa- lehr  Dut.  II.  1.  20S.  /i.V>/.s^  r/r/  rf/////f'/-.  t  oiu-uo  1710.  II.  ('omm. de  aa.  hrator.  l  -  V.  Mt.  al  y>.  lioncet  1007.  Dut.  IL  L  202, Lett  sai  eartes.  Dut.  IL  1.  20S.  Lett.  al,>.  Prs  -  liosses  U  tei.- br.  1700.  Dut.  II.  l.  200.  20  sett.  1712.  Dut.  IL  l.  S02  -iù.  10 ao.  171.0.  Dut.  II.  L  :n4.  M-  ipsa  aat.  sire  dt^  ri  ius.  11.  12,  Am- madr.  eirea   Theor.   Med.   Stahl.    IH.   ecc. -7" r^ U8 149 (leiitali  e  variabili  (Iciruiia,  eoiiie  le  tì<;iiiv  lo  sono  del- l'altra (1).  Nel  concetto  del  corpo  la  forza  è  anche  più essenziale  della  materia,  ed  esso  può  <lefinirsi  una  forza estesa  cioè  diffusa  per  il  luo<;o  o  i)artil)ile  (2).  La  forza che  noi  ar<;uianio  dal  movimento,  non  ci  è  conosciuta solamente  pta*  i  suoi  effetti,  restan(h)  sconosciuta  in  se stessa  :  sarebbe  <()sì  se  non  avessimo  un'  anima,  e  non hi  conoscessimo  (3).  Quantun^ine  nella  materia  tutto  si faccia  meccanicamente,  i  princij)ii  de]  meccanismo,  cioè le  le^<;i  generale  del  movinu'iito,  ven,i;<)no  da  uìia  sor- gente pili  alta  che  la  materia  stessa  :  essi  dimo>trano Hesistenza  di  sostanze  incor])oiee,  spirituali  (-J-).  Ciò  è perchè — oltre  (die  le  leggi  del  movimento  manifestano una  finalità  e  non  possono  attiibuirsi  che  alla  scelta della  Saggezza  suprema — il  fatto  stesso  del  movimento non  si  spiega  immediatamente,  cioè  non  rimontando alla  causa  generale  della  natura,  che  per  le  aninu',  per le  mcuiadi  (5).  T^a  forza,  il  [)rinci])io  attivo  della  so- stanza cor])orea,  è  ranima  o  la    monade    (H)  :    è   essa  la (1)  lù'spoìis.  nd  Stilili,  ohsi'rc.   \u\  XXI,  8  -  t. (2)  tJiìist.  ad  Hofmann  27  sctt.    h\S)\). (3)  Kjiist.  nd   lU'rliìHjhnii  cil.   Eni  ni.   \).  iul . (4)  ^V.  S.  HidViìit.  tnn.  1.  1.  e.  1.  cil.  .Ijh-ciucs  t.  lì.  p.  25, Hepl.  a  Bdjjle  sul  sist.  delVunn.  ftì^stah.  Dut.  II.  1.  S4,  A's.  del prine.  di  Malchr.  Dut.  11.  I.  208-201).  hJinst.  ud  JIoffnHuui  27 sett.  imm.  Aììittutdc.  t'ircjt  Theor.  Mcd.  Stuhl.  111.  Dut.  II.  II.  182. J^cspoHS.  ad  Sfa  hi  ohsercc  ini   XXI.  S,   <'c*c. (5)  /ù'f)l.  a  liat/lt'  sul  sist.  iklV  arièi.  prrst.  Dut.  ILI.  SS-.S4, Leti,  al  p.  /}es-  I^osses  1  s(;tt.  170().  ud  25,  Uespoiis.  ad  Stahl. ohserr.  ad  XXI,  28,  «»cc. (t>)  Teod.  Prefaz.  <m1.  Jjumi.  li)  -  20.  Sist.  nanco  della  nat.  e della  eomuììieaz.  delle  sost.  Dut.  ILI.  ."SO,  A'.v.  dei  prine.  di  Ma- lebr.  Dut.  IL  I.  20S  -  20i),  Leti,  n  Motitntort  4  u<»v.  1715.111,  A'- pist.  ad  Va<iììer.  IL  I)\U.  IL  I.  22H.  (Vuntnent.  de  an.  bnttor.  \, Upist.  al  p.  Des-  liosses  14  febhr.  1700.  Dut.  IL  I.  20(>.  De  ipsa nat.  sire  de  ri  ins.  1  i  -  12,  Uespons  ad  Sfhal.  ohserr.  ad  XXI.  '^.   ori-. '«I sorgente  del  movimento  e  delF  azione  in  generale  (1). Per  provare  l'esistenza  dell'anima,  come  sostanza  di- stinta dalla  materia,  air  argomento  che  i  fatti  psichici non  potrebbero  essere  modificazioni  della  sostanza  ma- teriale, Leibnitz  preferisce  quest'altro  :  che  la  materia è  puramente  passiva,  e  per  conseguenza  il  movimento e  il  pensiero,  che  sono  delle  azioni,  de^'ono  venire  da (lualche  altra  cosa  (2).  Il  movimento  prova  che  (jueste anime  o  monadi  sono  contenute  in  ogni  parte  della  ma- teria, perchè  esso  non  può  essere  dovuto  che  a  un  prin- cipio attivo,  e  (luesto  deve  essere  un  soggetto  perce- pente. 1  principii  del  moto  essemh»  diffusi  (hi  per  tutto nella  materia,  per  conseguenza  anche  le  anime  sono  dif- fuse (hi  per  tutto  nella  materia  (3). Spesso  Leibnitz  presenta  il  suo  sistema  come  se  esso fosse  un  ilozoismo  piuttosto  che  un  panpsichismo.  Noi  ab- biamo visto  infatti  che  la  sostanza  corporea  è  composta deUa  materia  e  della  forza,  e  che  la  forza  è  l'anima  o  la monade,  Leilmitz  ci  rappresenta  duuipie  le  mcmadi  come se  esse  costituissero  n<m  tutta  la  realtà  esteriore,  ma  sola- mente la  parte  inteina,  psichica,  di  (piesta  realtà.  Così egli  diceche,  per  costituire  la  sostanza  corporea,  alla  mate- ria prima  si  aggiunge  Tanima  o  la  monade  (4-);  che  (juesta fa  passare  alKatto  e  compie  (juclla,  la  (piale  per  se  stessii non  è  che  una  potenza  passiva  (5);  clie  il  corpo  è  composto (1)  Stt/.  sulla  boutadi  Dio  ecc.  v^  32S.  Sist.  uuoro  de  la  uat. e  della  eomuuieaz.  delle  sost.  Dut.  IL  L  5S.  Counu.  de  au.  brutor, I  -  V.    Rrspous.  ad  Stahl.  obserr.  ad   XXI.  '^,  ot-r. (2)  fJs.    dei  priue.  di  Malebr.  Dut.   IL   L  207-201). (S)   Resp.  ad  Stahl.  observ.  ad    XXL    7.    Courm.    de  au.  bru- tor.   Ili  -  VllL (4)  Comuì.  de  au.  brutor.  I  -  V.  De  ipsa  uat.  sire  de  ri  ius.  11-12. (5)  Respous.  ad  Stahl.  obserr.  ad  XXL  '^.  Ltit.  al  p.  Des- Bosses  14  tel)ì)r.  1700.   Dut.  IL  I.  200. 150 ^-  irn 4lella  massa  v  dcU'auima  (1)  o  di  materia  e  di  spirito  (2) (intendendo  ìiatuialmente  per  anima  o  per  spirito  la monade)  ;  elle  le  anime  o  monadi  sono  unite  (8)  o  so- vra«»giunte  (-I-)  alla  materia  nuda  o  pura;  ehe  sono  dis- seminate (5),  sparse  (H),  iiinneise  (7),  nella  materia;  ecc. In  tutti  i  luo<;hi  in  cui  i  corpi  sono  ri«;uardati  come composti  della  materia  pura  e  delle  anime  o  nìonadi, troviamo  il  concetto  che  la  materia  è  il  princii)io  ])u- ramente  passivo,  e  il  ])rin(*ip'io  attivo  sono  It^  anime  o monadi  (8).  Le  monadi,  in  (pianto  sono  ri<;uardate  come l'elemento  clie,  a^'^iunto  alla  materia  ])ura,  costituisce la  sostanza  corporea,  ven;i;ono  chiamate  euielevltie  (9)  o fornu'    10),  termini  di  cui  Leibnitz  fa  i  sinonimi  di  for- (1)  hs.  (ki  /jrhimp.  di  Malrhr.   Dut.   II.   1.  2()8-2(M>. (2)  l)f  i/jsa   )H(t.  sii' e  de  ri  ins.   12. (3)  Li'tt.  a  Jfoiifìitort   A  nnv.   1715,    III. (4)  Epist .  (id  Vuijner.  4  i^iu*;.  1710.  11,  Connn.  de  an.  òrutor.  V. (5)  K/)ist.  ad   Vfifjner.  4  gin.i;.  1710,  II. (H|   Connn.  de  nn.  hrutor.   VI,   Vili. (7)  Siat.  ììuoco  ilelln  tud.  e  della  eo)nnnienz.  delle  sosf.  Dut. II,    I,  51. (81  AV.  dei  prine.  di  Mulehr.  Dut.  II.  I.  208  -  20J).  Letf.  a Moìitmort  4  nov.  1715.  III.  hJpist.  ad  Vaf/iter.  4  ;ììuj;.  1710.  I  -  II, (^omin.  de  an.  hrufor.  I  -  IX,  Jjett.  al p.  Des  -  Bosaes.  14  t'cbbr.  170(>. Dut.  II.  I.  200.  1  sctt.  1700.  ad  25  v  ad  20.  De  ipsa  iiat,  sire  de ri  itts.  11-12.  Jù'spons.  ad  Stahl.  obserc.  ad  XXI.  ^  -  \,  Teod. Prefaz.  ed.  Jacq.   II.   10-20.  eie. (0)  Risp.  a  Bai/le  sai  sist.  deWann.  prentab.  Dut.  II.  I.  88 <5  80.  hJpist.  ad  Vaf/ìwr.  4  ^iu<^.  1710.  I-II.  Conint.  de  aa.  biu- tor.  V  -  XII.  Leff,  al  p.  Des-  Bosses.  14  IVbbi-.  1700  e  1  sett.  1700 ad  25  «•  ad  20.  De  ipsa  nat.  sice  de  ci  ièis.  11-12,  Besf).  ad,  Stahl. obserc.  ad   XXI.  ^-  5  e  7.  Teod.  Prefaz.  vd.  iJac(|.  li,   10-20,  ecc. (10)  Sist.  nuovo  della  nat.  e  della  eomnnieaz.  delle  sost.  Dut.  II. I.  50,  51,  h\\.  De  ipsa  nat.  sire  de  vi  ins.  12.  Satpji  salla  bontà di  Pio  ecc.  s^  32:^, ci il fi ^1 E^' I ze  il),  le  entelechie  o  formi'  sostanziali  dei   Peri]>atetici^ interpret^ite  in   un  senso  che  le  riabiliti,  essemh),  secon- do lui,  le    forze    i)rimitive    delle    sostanze    cori)oree  ;2). Quaiitunciue  non    tutte  le    volte  in  cui  le    mona<li    sono chiamate  entelechie  o  forme,  ap])arisca  es]dicitaiììente  il che  la    sostanza    cori)orea    risulta  dal    concorso delle  forme  o  entelechie,  cioè  (U^lle  monadi,  e  della  ma- teria pura,  esso  ci  è  naturalmente  su.i'.t'-erito    dalTappli- stessa    di  (piesti  termini,  la    forma,  di  cui    V  en- telechia è  una  specie,  essench)  il    correlativo    della     ma- teria,  con  cui    lu'lla    tìlosolìa    aristotetica    c:)stituisce    la realtà  individuale,  il  xlnoìo.  Talvolta    i8),    chiaiìiando  la, monade  entelechia  del  c(U'pi),   Leibnitz  intende  per  <|ue- sto  corjx)  il  corpo  orL»anico  di  cui  essa    è    Tanima  .    cioè hi  monade  dominante  (per  esempio  Tanima  o  uuniade  do- minante delFuomo  sarebbe  rentehM-hia  del  <-orpo  umano): a  (luesto   punto  di  vista   la    sostanza    cuniposia    .opposta alla    sostanza    semplice,    cioè  alla    monade  )  é  un  essere vivente  costituito  di    un^inima   e   del    suo  cor])o  or-ani- (,o  (4)  — queste  sostanze  nnn/xfsfc  essendo  ^li  elementi  di (1)  Sisl.  nuovo  della  mtt.  e  della  eom.  delie  sosf.  Dut.  II.  I.  50. Bepl.  a  Baule  sul  sist.  deWarin.  prest.  Dut.  II.  I.  >^:^.  A^*-  '/''' prine.  di  Maletrr.  Dut.  II.  I.  20S.  h)jist.  ad  Tf/r/ //<•/•.  4  o in-.  1710.  II. Vonun.  de  an.  bnitor.  V-IX.  Kpisl.  al  p.  Des  -  Bosses  14  iVb- br.  170(>.  Dut.  II.  I.  20(».  De  ipsa  nat.  sire  de  ri  ins.  11-12, Anintadc.  eirea  Theor.  Med.  Stahl.  Dut.  II.  IL  i:H2.  Besp.  ad Stahl.  obserr.  ad  XXI.  ^.  Dut.  II.  II.  154.  X.  S.  salV  int.  iun . 1.   II.   e.   XXI,  ^  I,    Teod.    Brefaz.  ed.  Jacq.  ]».   10-20,   ecc. (2)  Sist.  nuoro  della  nat.  e  della  eoin.  delle  sost.  Dut.  II.  I.  50, Ks.  dei  prinv.  di  Maletn'.  Dut.  II.  I.  20S.  Leti,  a  Montmort  \  u^>- vciub.  1715.  III.  Leti,  al  p.  Bonret  1007.  Dut.  ILI.  2(>2.  Leti, snl  eartesian.  1H05.   Dut.   ILI.  20S.  ecc. ('^)  P.  e.  nella  Monadol.   I.  04-05. (4)  Epist.  al  p.  Des-  Bosses  10  a-.  1715.  Dut.  IL  I.  :^1L  Lt'ti- a  Montìnort  4  iiov.  1715.   III. 152  — 153   — tutto  il  nioiido  (lei  corpi,  percliè  la  materia,  secondo Leibnitz,  è  or<>anizzata  in  tutte  le  sue  parti,  e  anche quella  che  crediamo  inor<;anica  è  in  realtà  composta  di corpi  oro-anici  (1).  Qui  l'opposizione  dell' entelechia  e del  principio  materiale  si  riduce  a  quella  della  monade dominante  e  delle  njonaili  doniiuate,  perchè  il  corpo or<::anico  unito  a  una  monade  non  è  che  un  aii'iiiviiiito di  altie  monadi  infeiioii.  Così,  se  fosse  possibile  d'  in- teipretare  in  (jucsto  senso  tutti  i  luo«j;hi  in  cui  le  mo- nadi sono  chiamate  toize  o  entelechie,  e  in  cui  i  c(upi si  riguardano  come  composti  <lelle  anime  o  monadi  (piali forme  o  entelechie  e  della  mateiia  prima,  si  potrebbe credere,  con  (piesta  inter])i'etazi(nu%  di  salvare  l'autore da  una  contraddizione,  almeno  ap])arente,  (jnella  di  am- mettere (jualclie  cosa,  cioè  la  materia  pura  o  nudji,  ol- tre alle  monadi,  nieìitic  la  rvixìtk  materiale,  e  tutta  la realtà  in,i;enerale,  non  ('  costituita  p(M"  lui  che  di  mo- nadi. Ma  ci(')  ('  evidentemente  impossibile,  sovratutto per  tre  ragioni.  1"  La  materia  prima  (^  detinita  come  Te- stensiom"  e  la  resisteir/;i  pi-ese  j)er  se  stesse,  senza  le vite  o  anime.  cio('  le  monadi,  che  vi  sono  unite  (2).  2.^ Sono  tutte  le  monadi  in  ;;('nerale  che  ven«»()no  ri«;uar- date  come  forme  o  entelechie  (8),  ci()  che,  se  il  principio (1)  MoiHKfol.  <)l-72.   Diit.   II.  I.  2S. (2)  hJii.  dei  itrittc.  di  MuUhr.  DiU.  II.  I.  2US  -  2()U.  Lctt.  a Montwoì't  4  in>v.  171.").  III.  A/>/.s/.  ad  Vmjner.  1  .iiiu.u.  1710,  II, Connn.  de  tnt.  brutor.  I  -  \  .  Dr  ipsit  ttal.  sice  de  vi  ins.  11,  Jùsp. ad  Stohl.  oharrv.  ad   XXI.   7. {'M  MoHndol.  U.  1?S.  IH.  Diit.  11.  I.  22,  ibid,  50.  Diit.  2«, A7k^  nuoto  di'lln  Hfif.  e  dvllit  conim.  dvlle  sost.  Dut.  II.  I.  50  e  5:S, Ji'rpL  n  lidìfli'  sui  sisf.  dvlPiiriH.  prcst.  Dut.  11.  I.  SS.  h))ist.  ad VaUìur.  \  -.ilio.  1710.  II.  De  ipsa  nat.  sire  de  vi  ins.  11-12,  Hesp. ad  Stiild.  ohsere.  ad  XXI.  7.  Teod.  Prefnz.  Jacci.  1!)  -  20  (cfr.  De ijìsa   èH(l,  si  ve  de  ci  ins.    ì^),  ecc. materiale  di  cui  ciascuna  monade  è  la  forma  o  Pentelechia fosse  un  corpo  organico  aggiunto  a  (piesta  monade,  impor- terebbe il  concetto  assurdo,  che  è  impossibile  di  attribuire a  Leibnitz  ((luantmnpie  ([uesto  sembrerebbe  il    senso  di certi  luoghi)  (1),  che  ad  ogni  monade,  cioè  ad  ogni  ele- mento ultimo  della  materia,  é  sottoposto  un  corpo  orga- nico, \'al(^  a  dire  altra  mat(MÌa,  risolubile  in  altre  monadi o  altri  elementi  ultimi,  a  ciascuno  dei  (piali  è  sottoposto un  altro  corpo  organico,  risolubile  come  sopra^  e  così  di seguito.  8*^  L'anima  o  mornuU»    dominante  del   corpo  or- ganico non  ])otr(d)be  essere  considerata  (hi    Leibnitz  co- me la  forza  inerente  alla  materia.    Fra  l'anima  e  il  cor- po nel  sistema  di  Lei])nitz  non  vi  ha    azione    recipi-oca, ma  armonia  prestabilita  :  l'anima  agisce  dalla  sua  parte, e  il  corpo  (hdla  sua.  È    (piest'attività    inerente  al  cori)o e  indipendente  thill'anima  che  l'entelechia  deve  si)iegare: le  entelechie,  (piali  principii  attivi  dei  corpi,  non  posso- no essere  dunque  le    anime,  coim^    opposte  ai  corpi  oi- ganici  (per  esempio  il  principio  attivo  del  corpo  umam» non  ])u<')  essere  l'anima  umana),  ma  le  monadi    costitu- tive dei  corpi  stessi,  di  cui  S(nio  il  lato  interno,   psichi- co. Contrapponendo  l'entelechia  o  forza  aUa  materia  pri-, Leibnitz  non  intende  contrappone  una    monade  ad altre    nu)nadi,  ma  i  due    lati,  il    visibile  e    l'invisibile, (hdl'essenza  corporea,   la  materia  in    movimento,  che  ci apparisce,  da  una  parte,  e  (hi  un'altra  l'attività  ])sichica, che  noi  ne  concludiamo,  e  che  ci  spiega  il  movimento.  Ci(> vi  ha  al    fomh)    del  suo    pensiero  ((piantumpie    egli professi  la  dottrina  che  non  vi  hanno  elementi  ultimi  della massa,    percht^  il    continuo    non    pm)    constare  di   pun- ii)   h)jist.  ad    Vaf/ner.    1   oiu;^.   1710.   IV.    Dut.   II.   1.  227.    fJ- pist.   al  p.    Des-Bosses   H   marzo    170!).    Dut.   II.   I.  2H'^,    Leti,  a Dangieourt  11  sett.  171H.  I. iìAi ìrA ti  (1)  V  v]w  iu\  <)<ini  eU'iiìrnto  dell'essenza  invisibile,  cioè ad  <>;;ni  monade,   eoi  risjxnide  un  elemento   nelF  essenza visiì»ile,  e  vhv  il  movimento  di  (piesto  é  prodotto  dalTat- tività  di  ({nello.  Così  e«>*li  attiibnisec^  ad  o^ni  j)unto  della mat<MÌa   un  movimento  pj()])i'io,  la  eui  sor<i.ente  è  nella enteleeliia,    cioè  nella  monade,  eoi  rispondente  a  (piesto punto  (o,  come  dice  Fautore,  «di  eui  questo  punto  è  il punto  di   vista,  »  (espressione  elie  si)ie,i;lieremo  in  se^ui- to)  (2)  :  il   movimento    di    un  corpo  oi\i>anieo  risulta  dal eoneorso  di  tutte  le  entilt»ehie  eorrispondenti    ai   diversi punti  di  (juesto  eorpo  (3).  Senza  dul)l)io  la  proposiziinie  che i  corpi  sono  eomi)psti  della  mat(nia  ])rima  e  delle  monadi come  torz(e  o  enttdeeliie,  presa  sti'ettamente  alla  lettera, è  in  contraddizione  con  la  d(»ttrina  stessa  delle  luonadi, percli(' sembra  considerare  la  materia  prima  come  uiTaltra realtà,   mentre  secondo  (pu^sta  dottrina  tutto  il  ridale  si risolve  nelle  monadi.  K  (nidente  che  dei  due  elementi  che Leibnitz  distinguile  nella  sostanza  coiporea,  e<^li  non  pu(') ammettere  ciune  reale  che   V  entelechia,  cio('  V  anima  o la  monade,  e  la  materia    prima  non  pu(')    essere    per  lui ie  un  teiKuueno,  vale  a  dire  uif aj)j)arenza.   Ma  in  (pie- sta    interpretazione,    che  ci  ('    imposta    necessariamente (hiirinsieme  della  tilosotia    leibniziana,  noi    andiamo  in- contro ad   un'altra  ditticoltà  :  v  che  T  attività    delle    mo- nadi non  j)U('>  essere,  nel  senso  ri^(n*oso,  una  tbrza,  cioè una  causa    epcìeuie   (nel    nostro    senso)    del    movimento della   materia.    I   movimenti  dei  corpi,  cìie  si  pretendono sj)ie<;are  per  Fattività  delle  monadi  corrispondenti,  sono dei  fenomeni,  cio(''  delle  })ercezioni,  di  altre  monadi  ;  ma fra  una  monade  e  un'altra  non  vi  ha  azione    reale,  ma (1)  V.  (Ht.   Dut.   II.   II.  55. (2)  V.   I^cpl.   H    lìttyle  sul  yifsf.  (irir((nn.  prestah.  I).  II.  1,  83. (8)  Cfr.  ((/  />.   Dt's-lJosst's  17  iiiaizo    170H  D.  11,   1.  2(il>. —  155  — semplicemente  armonia  prest^ibilita.  E  anche  (piesto  è evidente:  ma Cii')  non  togliti  che  assimilanih)  al  movi- mento umano  o  animale  il  movimento  .^ponUineo  della materia  inanimata  —  ikìì  vedremo  in  seguito  come  e  per- che' Leibnitz  ammetta  (piesta  spanta neità—i)vv  la  sup- I)osizione  di  uno  stbrzo  cosciente,  di  uiFattività  psichica, come  antecedente  anche  di  (piesto  movimento,  e«»li  trovi in  (luest/assimilazione  (pialche  cosa  come  una   spiei-azio- •  •    • ne  del  fenomeno  (nel  senso  ordinario  e  non  scientihco della  parola  spiegazione)  (1),  e  ve(bi,  per  conseguenza, in  (piest'antecedente  supi)osto  (pialche  cosa  c(mie  una causa  eniciente,  perche^  la  causa  eniciente  ('  un  antece- dente che  spief/a  un  fenomeno,  e  non  semi)licemente  a cui  (piesto  se<>ue  invariabilmente. Altre  volte  la  dualità  fra  la  entelechia  o  forza  (^  la materia  prima  prende  in  Leibnitz  un'  altia  forma.  K  il reale  in  se  ste8«*o,  la  stessa  monade,  che  viene  ri«;uar- (hita  come  composta  di  una  materia  prima  e  di  una  en- telechia, (piesta  essendo  ancora  il  sinonimo  di  forza  o potenza  attiva,  e  (piella  di  potenza  puramente  i)assiva. Per  comprendere  (luesta  (h)ttrina  di  Leibnitz,  è  necessario tener  conto  di  eerte  sfumature,  di  certe  (\sitazioni  nel concetto  della  monade,  che  sono  la  forma  in  cui  si  mani- festa, in  (piesto  sistema,  una  contrad(bzione  secondo  noi inerente  alla  essenza  stessa  del  i)anpsichisnu). Il  panpsichismo  (^  una  risposta  alla  (piisti(me  :  in che  consistono  <x}\  o-«»etti  esteriori  ?  Questa  (piistione  si presenta  (runa  maniera  pressoché  inevitabile  dopo  che la  ritlessione  scientifica  ha  distrutto  il  concetto  primiti- vo e  sp(nitaneo  dalla  cosa,  che  noi  ^-ostruiamo  istintiva- numte  per  robbiettivazione  delle  nostre  sensazioni  (pro- c(^sso  a  metà  incosciente,  che  studieremo  nella  2^'  i)arte). Ci(>  ('  perch(^  il  nostro  spirito  ha  una    rii)u.i'iianza    (piasi (1)  V.  capit.  I.  vS  8. 156  — invincibile  ad  ammettere  che  i  corpi  non  sono,  secondo la  profonda  analisi  di  Stnart-Mill,  che  delle  sensazioni attuali  (>  povssibili;  ma  in  virtù  della  tendenza  naturale (che  spiega  secondo  noi  tutti  i  concetti  meta  tìsici)  ad assimilare  tutte  le  nostre  idee  a  cpielle  che  ci  sono  le più  abituali,  noi  cerchiamo  di  sostituire  al  concetto  di- strutto (h'iia  coi^a  qualche  altro  concetto  sonìi^i;'liante, che  conservi  agli  oggetti  un'  esistenza  per  se,  indipen- dente dalle  nostre  sensazioni.  Le  monadi  di  Leil)nitz,  la Volontà  di  Schotenauer  e  tutti  gli  altri  concetti  analoghi dei  inetatisici — anzi  in  generale  tutti  i  ccmcetti  trascen- denti della  cosa  in  sé  —  non  sono  «lumpie  che  dei  succe- (la nei  del  concetto  primitivo  della  cosa,  del  corpo  ;  tale è  il  loro  scopo  e  la  loro  funzicme  :  così  la  cre<tibilità  e il  valore  di  <piesti  concetti  è  in  ragione  diretta  (a  parità delle  altre  circostanze)  della  loro  somiglianza,  dei  loro punti  di  contatto,  col  concetto  primitivo,  con  Tidea  del corpo  <lell:i  ciedenza  naturale.  Ora  sembra  che  il  con- cetto (h^l  panj)sichismo,  preso  in  tutto  il  suo  rigore,  uon abbia  i)iù  alcuna  somiglianza,  alcun  punto  di  contatto, col  concetto  naturale  del  "orpo,  di  cui  deve  essere  il succe<laneo — per  (|ueste  parole  preso  in  iìdio  il  suo  riifore io  voglio  dire  :  se  si  fa  della  mtmade  o  altre  entità  ana- loghe un'essenza  puramente  s[)irituale,  una  semplice  se- rie <li  stati  j)sichi(i,  di  sentimenti,  percezioni,  appetiti, ecc. — Se  il  filosofo  che  ammette  le  monadi  (  uel  senso leibnitziano;  o  altre  entità  analoghe  si  contenta  di  que- sti sKccedaìiei  del  corpo  della  credenza  naturale,  è  per- chè egli,  coscientenu^nte  o  incoscientenu^nte,  al  ccuicetto delTessenza  spiri tuak'raggiunge  delle  determinazicmi  che non  le  apjjartengono  e  che  non  sono  che  dei  residui  della i(h'a  del  corpo.  Ciò  è  perchè,  l'idea  dello  spirito  essendo associata  d'una  maniera  (piasi  indissolubile  a  quella  di uii  sustrato  corporeo,  noi  ncm  possianu)  pensare  a  una .esistenza  puramente  psichica  senza  che   questo   pensiero —  157  — ci  suggerisca  (pu^llo  di  un  corpo  o  di  qualche  cosa  di  si- mile, a  cui  essa  inerisca  —  di  là,  C(mie  vedremo  iu4rAp- pendice,  il  concetto  della  sostanza  spirito. — Anche  (pian- do il    i)anpsichista    afferma    recisamente    che  le    essenze spirituali  ch'egli  mette  al  posto  della    materia    (uKUiadi, volontà,  tendenze, ecc.)  non hannoalcuna  relazi(uie spaziale, non  s(mo  delle  sostanze,    e   n(Ui    c(msiston(»  che  in  puri feuouHMii  psichici  —  ci(>  che  deve  fare  se  è  conseguente, perchè  il  presupposto  del  suo    sistema  è  clu^    non   vi  ha altro    (rintelligibile  e  di    certo  che  il    fatto    psichico  —  ; insieme  alle  essenze  sinrituali  si  disegua  anche  allora  in- nau/i  alla  sua  immaginazioiu'  (]ualche  cosa  conuMin  cor- po che  fa    da    snhstratnm  ;  al    suo    pensiei'()    cosciente  e (MUifessato  se  ne    unisce    un  altro  a    metà    incosciente  e juui    (MUifessato,  che  lo    mette  in    contraddizione  secreta con  se  vSt(\sso,  ma  senza  di  cui  la  sua  ii>otesi  gli  sembre- rel)be    meno    soddisfacente.  Ma  non  tutti  i    panpsichisti amnu^tono  il    concetto    rigoroso    defilo    si)irito,    che  non vede  in   esso  che  la    serie  (U-i    fatti    dell'  esjxMienza    in- terna, e  non  gli  dà  che  gli    attributi    che  conveng(mo  a (piesti  tatti:    un  esempio  è  M.  de  Hiraii,  che  attribuisce risolutamente  alle    monadi  la    posizioiu'    nello    s])azio.   L evi(Uuitenu'nte  un  vestigio  del  (pialche  cosa  coinè  un  cor- po che  tà  da    substratum.  Fra    i    due  casi    estremi,    del paupsichista    conseguente  in  cui  il  (lualche  cosa  come  un corpo  resta  un  pensiero    sul)cosciente  e    non    contessato che   non    imprime    ìiiente    di    sé    nelle    (h)ttrine    eh'  egli apertanuuite  professa,  e  di  (pu'llo  in   cui   esso   giunge   a una  (h>ttrina  costante  e  precisa  c>?e  afferma  dello  spirito (h\gli  attributi  che  non  convengono  che  alla   materia,  vi hanno  dei  gradi  intermediari  che  sarc^bbe  dittìcile  di  de- finire :  è  in  uno  di    (pu'sti  che  si  trova    Leibnitz,    come si  vedrà  confrontan(h)  talune  delle  sue  proposizioni  con talune  altie. In  alcuni  luoghi  noi    troviamo  in    Leibnitz    una   de- ^"f^a'JilWJlL'iiiWiailMI'iiWlUi'^li —  15S  — tenninazioiu'  n^^'orosji  dell;»  iiioiuult*  comi'  pura  essenza spirituale.  «  Niente  altro  eonoseo,  e^li  diee,  nelle  monadi 8e  non  percezioni  ed  appetiti  ».  Non  solo  la  moditieazione della  monade  consiste  unicamente  nella  percezione  ed appetito,  ma  le  monadi  stesse  non  sono  altio  che  i)er- cezioni  ed  appetiti  (1).  Le  monadi  non  smio  in  un  luo«j;-o: non  lianno  sito  tra  di  loro;  non  vi  ha  tra  di  esse  alcuna o  distanza  spaziale,  e  dire  che  sono  con.ulobate in  un  punto  o  <lisseminate  nello  spazio,  è  usare  di  certe finzioni  del  nostro  spirito,  (juanih)  pretendiamo  d'inima- <»inare  le  cose  che  possono  soltanto  inten(h*rsi  (2).  I^e monadi  non  sono  parti  <lei  corpi,  non  li  compou.t'ono, non  sono  iniiredienti,  ma  solo  reijuisiti,  <lella  matei'ia  (3). ]^' estensione  e  la  materia  non  sono  che  tenonuMii,  cioè percezioni  de^li  esseri  senzienti  (4):  lo  spazio  è  Tiudine dei  fenomeni  coesistenti  (5). Il  t'ondo  (h*l  pensiero  di  Leihnitz  noi  lo  vediamo, senza  dubbio,  in  ({uesti  ed  altri  luo,uhi  simili.  Ma  non  è meno  iuduhitahile  clie  non  è  (piesta  la  maniera  abituale in  cui  e^li  si  rappresenta  le  ìuonadi.  1/  i(h*a  (-he  (h)- vremmo  t'ormarci  di  (pieste  secondo  la   più  i)arte  <UMle  sue (1)  Moitidhtl.  15-17.  Dut.  11.  I.  TZ,  Lt'ff.  al  /).  JJcs  -  h'ossrs 24  -culi.  171:^.  Dut.  11.  l.  805.  25  a-.  171S.  Dut.  SOJJ.  IH  a-.  1715. Dut.  H14.    Lcft.  ((   D((Hf/k'OHrt  11  sett.   171(ì.   Dut.   Ili,  5(M). (2)  V.  h'pisf.  al  />.  fh's  -  /iossrs  21)  uia.;;.  e  Ki,i;iu«;.  1712.  VA'r. Bisfj.  alla  :-*.  He  fili  ca  <//  Clark  12.  A>/.s7.  al  p.  Des  -  liosses  :M) api'.  17(ll>.  Dut.  li.  I.  2S5.  Ucspons.  ad  Stahl.  obncrc.  ad  XXI.  !♦ (raiiiuu)  \\<n\  «•  \\\  \\n  lu<)<i<)). (3)  A>/.s'/.  al  p.  DcH-  JtofiscH  15  tVl»l»..  1712.  Dut.  II.  I.  2t»5. Hi  jriumu»  1712.   Dut.  21)9.  24  \j^vnn.  171S.   Dut.  Sl>4. (4)  h'pisf.  al  ft.  Drs  -  liosses  15  t"('ì»l>r.,  21>  uia.u..  U>  uiuji.. 20  sett.  «•  10  ott.  1712  (DtU.  II.  I.  2H4-2i>5.  2M7,  2i>S  -  201).  SOS) e  altrove. (5)  Kpisf.   al  />.    /Mv-  fiosscs  1<5   oiu-.    1712.    Dut.    II.    I.   20.S. 159 proposizioni,   è  clie    esse    sono    <pialche  cosa    come    dei punti  animati,  cioè  senzienti  e  semoventi,  elle  hanno  dei rapporti  di  spazio  o  alcun  che  di  analo«»(),  e  che  non  dif- feriscono dalle  monadi  o  centri  di  forza  dei  semplici  di- namisti  che  perchè  son()   anche    (h)tate    di    sentinu'uto  e di    vohmtà.  Quest'idea    ci    è   irresistibilmente    su<i\i»'erita di\\  rapporto  fra  le  mmiadi  e  la    mateiia.    Leibnitz    cen- sidera  abitualnuMite  i  corpi  come    comj)osti    delle  mona- di,  elle  ne    siuio   i»li    elementi    ultimi,    indivisibili.   E.i»li chiama   i  corpi  i  coìHjxtsfì   o    le    sosffanc    composte,  e   le monadi  le  xu^iunzi'  semplici,  (1)  Le  monadi  sono  le  s(}sUni- ze  i<eìììpliei  che  enlraiup  nei    eoìnpo.^fi,  cioè  nei  corpi   (2j; ne  sono  ^^Viiu/redienfi  (8);  sono  <»ii  elemeìtti  delle  cf>sr  (4), i   veri  nioìììi  della  unluni  (5),    (U^';ii    (domi    di   s<hsf(nr:a, cioè  delle  unità  vere  e  ])rive    assolutamente    i    i)arti   (<)), i  primi  priiieipii    ((ssolnfi  della    eompffsizione  delle  eose  e come  (/li   elementi    ultimi    delT  antdis'i    delle    s(isi((n:e  (1. I  corpi  rixnltan(f  da  un  nunuMo   infinito    di    monadi,  cioè di    sostanze    semplici  .    indivisibili    (S)  :    ne     sono     de.uli a(jqre(iati  (9),  o  delle  riunifuii  (10),  e  perciò  son(»   chia- (1)  Monadnl.  1-5  e  0.  (Dut.  II.  1.20  o  21).  Priììc  della  uaf. e  della  t/raz.  1  -  S.  Ifesp.  ad  Sta  hi.  ohsere.  ad  XXL  7.  I^eff.  a Da(/uu'onrf  11   sett.   171().   1.  ecc. (2)  Moaadftl.   I. (S)  Monadol.  0.    A>/.s7.  al  /;.    I>es-  linsses^'l.^  lua-.  17U).    Dut. II.   I.  SIO.  ecc. (4)  Mona  dal.  '^. (ìy)  MoìHtdol.  S. ((>)  JSisl.  della   tuff,  e  della  eoumtt.  delle  sosl.    Dut.    IL    L  5S. (7)  flnd. (5)  Kf)ist.  al  />.  Des-  /iosses  11  marzo  170(>  (Dut.  IL  I.  2«)S). IH  ott.  1700,  11)  niaizo  1700.  SO  apr.  1700  (Dut.  2S5;.  Leti,  a  Dan- y'H'oarf  11  sott.   171(5.   1.  ecc. (0)  Moaadol.  2.  Leti,  a  Arnfddd  2;i  lujirzo  lUMO  (Dut.  ILI. 4(ì).  JiYisl.  al  p.  Des-  liosses  SI  lu.ul.  1700  f.DiU.  IL  L  2S7).  2J> uiao.   1712,  20  uia-.   171()  (Dut.  Sii*).   e<'c. (10)    Prine.  della   Hai.  e  della  f/nc:.    1. —  lf)0  — —  1()1 -I mati  efiseri  per  aff(/re(fa:ìone  (1),  I  corpi  sono  (M\v  mol- t'iindini,  h*  monadi  Je  unità  che  compou^-oiio  queste moltitudini  (2).  Ciò  elie  ])rova  V  esistenza  delle  nionadi è  che  non  vi  sarebbero  iW\  («omposti  se  non  vi  fossero delle  sostanze  semplici,  non  vi  sarebbero  delle  moltitu- dini se  non  vi  t'ossero  delle  uiìità  :  ora  i  composti  o  le moltitudini,  cioè  i  corpi,  esistoui»  ;  dunciue  esistono  le sostanze  semplici  o  le  unitiY,  cioè  le  monadi  (8).  Il  si- o:nificato  di  (piest:  aro-omento  é  che  o^ni  c'orpo  essen(h> divisibile,  esso  è  un  composto— è,  come  dice  Fautore,  nna collezione  o  un  ammasso  di  pjirti  airinfinito  — e  il  com- posto suppone  deoli  elementi  ultiiin'  che  lo  comjmnoano e  <'he  siano  ass(>lutamente  semplici,  cioè  senza  parti: <piesti  sono  le  monadi  (4).  Queste»  rapporto  di  com])osto e  componenti  che  Leibnitz  stabilisce  fra  la  materia  e le  monadi,  spieoji  un'  iui possibilità  lo-ica  del  suo  sistema, <die  è  una  delle  fornu'  più  visibilmente  inconcepibili della  pseudo-idea  d' intìnito  attuale.  La  minima  por- zione di  materia  contiene,  seccunh)  Leibnitz,  un  nu- mero intinito  di  monadi  (.>):  ciò  è  evidentemente  per- chè, il  corpo  essendo  divisibile  alPinfinito,  se  esso  è  com- posto   di    (^leiì.enti    ultimi    indivisibili,    supposto    che    la (1)  fJfHst.  al  n.    Ih's     liosfu's  11  marzo   17(H)  (I)iit.  2i\l   (^ 31  lii-l.  170J>  (I),it.  2S7)  e  20  sett.   1712  (Dut.  308). (2)  Prlm^,  della  nat.  e  della  (jraz.  1  .  Sì^t,  nuoto  della e  della  eoman.  delle  sosf.  Dut.  IL  L  50,  58  e  55,  JCpisf.  al p. Bosses  W  marzo  170J)  v  81  liiol.   i7o<,  (i),it;.  287)  ecc. (8;   Prine.  della  nat.  e  della  ipaz.  1,  Leti,  a  Arnauld    28 zo  IHJM)  (Dut.   II.   I.  4<i),  Hesp.  ad  Stakl.  ohserv.  7,  ecc. (4)  V.    *S7.s/.    nuoto    della  nat.  e  della  eomunieaz.    delle I>ut.  IL   I.  50  e  58. (5)  MonadoL  <;s  -  <>{)  (Dut.  IL  L  28),   Prhie.   della  nat.  e gruz.  8.    L)jist.  al  p.   Des  -  Bosses  U  febbr.   170H  (Dut.  IL  I. IH  utt.   17(M;  (Dut.  27(»),  81  lu-l.  1709    (Dut.    287),    20   sett (DiU.  808),  ecc. 2H8), nat. Des- inili'- sost. della 2(>(>). 1712 materia  sia  assolutaiiu'iite  continua,  (luesti  devono  essere in  numero  intinito.  Ma  ((uesto  m.^ionamcnti)  supponi- che  il  continuo  non  sia  un  semplice  fencnucno  subbiet- tivo  .  ma  risulti  dalla  Ju\ta-posizione  delle  monadi.  A dir  vero  Leibnitz  non  accetta  fra  le  sue  dottrine  coufea- x((ie  il  concetto  che  il  continuo  risulta  dalla  juxta-])osi- zione  delie  monadi — (piesto  concetto  a  cui  tende  da  o.^ni parte  la  dottrina  che  il  corpo  è  un  a.i:.-.ui'ei;ato  <li  lìiouadi, non  è  Che  una  suu\u(*stione  oscura  dell'idea  subcosciente di  un  substratum  corporeo  o  (piasi  corporeo,  che  accom- ])ai;-na  la  sua  coiK-cvjone  della  monade.  Riconoscendo che  il  continuo  non  jhiò  constare  di  i)unti,  e.!Lì.li  ne  de- duce talvolta 'che  la  iuat(MÌa  non  è  un  continuo:  la  lìiassa (  la  materia  risulta  dalle  nionadi,  ma  non  è  un  i-ontinuo couie  lo  spazio  o  la  uiandezza  «••eometiica  :  è  invece  un discreto,  una  moltitudine  com]M>sta  in  (dio  <li  unità,  cioè di  eleiìU'nti  indivisibili,  in  numero  intinito,  mentre  il continuo  non  lia  paiti  che  iìt  poivuzn  (1  .  Da  altra  ])arte, per  la  stessa  ra,i;ione,  e.uii  ne,i».a  che  la  moiiade  sia  un ])unto.  ciò  che  non  to«>lie  che  la  ijnma.i;ini  come  alcun cIm'  di  simile,  chiamandola,  un  punto  ntcfffjisictt  o  di  s<>- sf(in:((  (2).  Nelle  lettere  al  j)adre  Des- l>osses,  iu  cui  ve- diamo successivamente  tutti,uli  aspetti  sotto  cui  Leibnitz concepisce  le  iìiona«li,  (pn^ste,  in  relazi<Mie  alla  massa  che esse  costituiscono,  sono  ]>ara fonate  ripetutamente  a  dei punti  (8),  anzi,  nella  strana  i[K)tesi  <lel  rìnvido  s<>st<(ìt- :;i(iìv  (cir(\uli  imma.i;ina  ])er  conciliare  la  teoria  delle  mo- nadi   con    la    credenza    comune    della    realtà    <lei   cori>i.  e (1)  Ejiìst.    (d  lì.    Des-  Bosses   81     Iii.-l.    170«l   Diit.    II.    L  2S7, Leti,  a    Danijieourt  11   sctt.   171<>.    1. (2)  /SV.s7.    nuoto    della  nat.  e    della  eotnnnie.    delle   sosl.    Dut. IL  L  58. (8)  V.    h))ist.  al  p.  Des-  Dosses  21  lii-.  1707  (Dut.  IL  I.    2S0). 1()   marzo   1701),   80    apr.    1700    (Dut.   2S5),    15   fobbr.  1712    (Dut. 2i)t   <'   2!)5).  ti 1()2  — —  I(ì3  — t^ì ;pi(\L!;;n*('  co iitoi-iiK'inciitc   alle  sue    (lottriiit*  i!  do.uiìia  cat- t()li<-<)  della  transiistauziazioue  I  sono  considerate  eoiiie  veri }ninti,  a  cui  a. u.^iii udendosi  il  rinculo  sost((H:Ì((h\  li  uiiisee tra   di   loro  e  eostituisee  con  essi   il   eoiitiiiuo  (T  ). 1/  idea    elle    le    monadi    hanno    una    posizione  lU'lì o spazio  o  qualche  cosa  di  analo.u'o  n(Ui  è  una  dottrina  co- >;tante  e  risolutaiuenti'  coiìfessata  coiìie  (juella  che  il  corpo è  un  auureuato  di  monadi.  Ma  è  evidente  che  quantun- i\\\v  j)rotessi  esplicitamente  la  dottrina  contraria,  è  così <-lie  per  il  solito  si  rappresenta  le  nnuiadi.  «  Ciascuna monade,  dice  culi  in  un<>  dei  riassunti  del  suo  sistema, che  fa  il  centro  d'  una  sostanza  composta,  è  ciycaììihftn da  una  massa  c(»m])osta  di  un'  infinità  <li  altre  monadi, che  costituiscono  il  corpo  jnopiio  di  (piesta  monade  cen- trale ».  (-f)  Il  can.uiamento  di  luo.u'o  <h'lle  monadi  o  alcun che  di  siuìile  è  implicitaììienti-  ammesso  in  uno  de,i»ii  ar- liomeìiti  di  cui  tiene  mauuioi'  conto  e  in  realtà  i)iù  torti, con  cui  stahilisce  la  teoria  delle  ìuonadi  (-(Mitro  la  (h>t- trina  pi"evalent(^  di  Cai-tesio  secon(h)  cui  la  matei'ia  con- diste neirestensioiu'.  Quest'ar.iionuuito  mette  in  luce  una ditticoltà  i-eale  della  (h)ttiina  (T  una  materia  continua  e periettainente  uniforme,  e  noi  (h>hl>iamo  vedervi  uno (h'i   veli   motivi   (h'ila    monadoh^uia,    perclu*    una    conce- zione trascendente  della  cosa  ni  se  delia  materia,  ({ual  e la  (h)ttrina  di  Leihnitz  .  i)resu])iM)ne  la  ne,i»azi(nie  (U'I rcalisiifif  n((fnn(l(\  e  (piesta  una  critica  delle  due  ipotesi opposte  che  jx^ssono  farsi  sulla  materia  dopo  che  si  (' sop]>ressa  V  obbiettività  (h'Ue  (pialità  sec(ui(hirie,  cioè (|uella  di  una  materia  continua  e  jieifettamente  uniforme, e  r  altra  di  corpuscoli  sepai'ati  da  uno  sjiazio  vuoto.  La dittìcoltà  di  cui   si  tratta  ('  T  impossibilità  di  concepii'e  il (li   V.    /'>>/.s7.   al,).    Di's-  lios:<rs  15  tVl»l»r.  1712  e  2H  m\\%.  ITKJ fDiit.  ;VJO), (2)   l> IIIM-.     « Idi; \   iiat.   e   I Icll; rjiz movimento  in  una  massa  c(uitinua  e  i)erfettamente  omo- <»eiu^a  :  Leibiiitz  mostra  cìie,  ludTiiiotesi  della  continuità della  materia,  per  conceinre  il  movimento  ('  necessario rappresentarsi  <»li  stessi  luoghi  occupati  successivamente da  p(nzi(uii  di  materia  (pialitativamente  dittereiiti:  (piindi. neirass(uiza  di  diiterenze  (pialitative,  in  una  materia  con- tinua il  movimento  ('  inconcepibile  (1).  I/aut(U'e  ne  con- clude che  tra  le  diverse  ])arti  della  materia  bisogna  am- mettere delle  dirterenze  (pialitative  —  donde  il  celebre deir/r/f')^///f/  ilcifViììiìhceì'HihUi  —e  che  (jueste Ile  moditicazioni  delle  monadi  (2).  Lo  stessso principio consistono  ih concetto  è  ripetuto  nella   M(Hiadolo<iia  .  dove  dice  :   «  Se le  sostanze  semplici  non  differissero  per  le  loro  (pialità, noi poi< i  potrebbe  osservarsi  alcun    cani>iamento    in •1 'Ile cose che  ciò  e he  ('  nel  composto  non  ])uò  venire  che  da- rinoredienti  sem])lici,  e  se  le  monadi  fossero  senza  (pia- lità,  non  ])otrebbero  distin.uuersi  runa  dalTaltra,  perche non  differisc(mo  nemmeiK»  per  la  (juaiitità,  e  ])er  colise- li U( iiza,  il  pieno  essendo  supposto  .    ciascun luo.i;- o    non riceverebbe  semi)re  lu 1   movimento  che  T  e(piivaleiite  di CIO    ( he  aveva  ])]'ima,  e  uno  stato  di  cose  san bl] )e  indiscer- nibile dair  altro  »i:3).  Leibnitz  imma-ina  evideiit(Mneiite che  nelle  diverse  ])arti  deirestensi(me  esistono  delle  mo- nadi differenti  (differenti  per  i  loro  stati  intrrni),  che  (pie- nte monadi  scambiano  la  loro  ])osiziom',  e  che  nel  im>- vinieiito  della  materia  le  stesse  posizioni  sono    occui)ate (1)   Sulla   iuconccpibilità   del   moviiiiciito  in  nnn  lìiatcria  con- \\\v    suUr    impossibilità    logiche tinua    ed    iiinforiiH',     e    in    .liciicr delle  (lue  ipotesi   oi.postc  (U'I   realismo  naturale.  «Iella  eoutiuuità Iella   <liseoutiuuità   (lolla   mat(n'ia,   eoutVoiUa    il    mio    opuseoU» e   < su Ila     Dot  fri  un     dì     Jioainhiì    s nll  'essenza    (iella    ìttateria.     lo    vi vitoniei'o ])iù  ampiaiiu'.nte   nella   li    parte  di  <[Uesro  Sa.n-iio. (2)    /><•  i/>K't   aifitra  sire  ia^'ifn   V.^. (S)    Moiunioì.  \K B—  ](U  — succt'ssivanu'iitt'  da  monadi  (littVivnti.  La  i)osizioui^  delle iii<>iia<li  nello  spazio  è  pnre  snpposta  in  nn'  altro  ari^o- mento,  e^nalniente  derisivo,  contro  la  dottrina  eartesiana della  materia — nel  (juale  glossiamo  vedere,  come  nel  pre- cedente, nno  dei  pnnti  di  parttMiza  della  teoria  delle  mo- nadi. —  Esso  è  t'ondato  snl  tatto  incontestabile  che  V  e- stensione  non  è  un  concreto  ma  un  astratto,  e  che,  per c(niseu,nenza,  farne  nn'esistenza  pei*  se  è  idealizzare  niTa- strazione.  «  (^)nelli,  ei;li  dice,  che  v<^ji.iiono  che  V  esten- sione st<'ssa  sia  una  s(»stanza  .  rovesciano  V  ordine  delle parole  così  bene  che  <lei  ])ensieri.  Oltre  T  estensione  bi- sogna a  vele  nn  soi^o-etto  clic  sia  esteso,  cioè  a  dire  una sostanza  a  cui  apparten<;a  «Tessere  ri[)etuta  o  continuata. Perchè  V  estensione  non  siiinilica  che  una  ri])etìzione  o moltiplicità  continuata  di  ciò  cln^  è  ditt'uso,  una  pluralità, continuità,  e*  coesistenza  delle  parti  :  e  per  conse<;uenza essa  non  basta  ]K'r  is])ienare  la  natura  stessa  della  so- stanza ditt'usa  o  ripetuta,  di  cui  la  nozione  è  anteriore a  quella  della  sua  ri[)etizioiu*  ».  (1)  (^uale  potrebbe  e  sere, secondo  Leibnitz,  <piesta  sostanza,  se  non  quella  che  e<»ii unicamente  ammette,  vale  a  dire  la  Sostanza  semplice, la  monade  ?  Certo,  sarebbe  ditlicile  di  dire  se  e  sino  a qual  punto  e<;li  avrebbe  att(»rmato  esplicitamente  la  sup- l>osizione  implicitamente  ammessa  nei  ra.i;ionamenti  pre- cech'Uti,  cioè  che  le  monadi  hanno  relazioni  locali  ed  e- sistono  m^llo  spazio.  Forse  non  vi  lia  anclie  <pii  che  mia su<;\i::estione  oscura  dell'  idea  più  o  meno  incosciente  <li un  substratnm  corpore<^  o  quasi  corporeo  de*^li  stati  in- terni delle  monadi.  Ma  essa  <li viene  una  dottrina  espli- cita in  (pielle  stesse  lettere  al  padre  Des-Bosses  clie  con- ten«iono  le  projiosizioni  più  rigorosamente  panpsichiste che  noi  tro\iamo  in   Leibnitz.   L'estensione,  dice  in  una (1)   Lctt.  IS  oiuoiu»  imi   Dut.   II.  1.  2:^7.  Cfr.  Es.  dei  priiic. (li    Mnlchr.    Dut.    II.   1.  '>05. —  165  - di  «pieste  lettere  «è  alle  cose  continuate  o  ripetute  come il  numero  alle  cose  nunuM'ate  :  vale  a  dire,  1<(  s(>sf((n:(( seìììpìicc,  ijìKinfìiìUinv  non  ahhid  tir  sv  csfrusionCj  lui  ìion- dimeno  poi^izi(>ni\  che  è  iì  f(>n<hiìm'nf(t  (h'iresf('n>ii(>n(%  l'e- stensione essendo  la  simultanea  continua  ripetizione della  posizione,  come  diciamo  che  la  lineji  è  pro(h)tta dallo  scoirere  del  punto  ».  (1)  Ap])resso  l'autore  ne.iL^'herà enei\i;i  cani  ente  che  le  ìiionadi  abbiano  ])osizione  (2)  : l'idea,  venuta  i)er  un  istante  a  inaila,  sarà  res])inta  nuo- vamente n(*;i,ii  strati  subcos(*ienti  del  suo  pensiero. La  dottrina  che  la  monach'  è  costituita  di  entelechia e  di  materia  prima — che  si  trova  anch'essa  nell'episto- hirio  al  ])adre  Des-Hosses  —  si  le|>a  evidentemente  alla ]H'oposizione  ultimamente  citata.  La  materia  ])rima,  dice rautore,  «è  la  i)otenza  passiva  ])rimitiva^>  il  principio della  r<\sistenza,  che  consiste,  non  nell'estensione,  ma nella  condizi<me  delF  estcmsione  (8)  e  compie  V  ent(*- lechia  o  ])otenza    attiva    primitiva  in  modo  che    ne  ven- <Xi\  la  sostanza  perfetta,  cioè  la  monade.  Tale  mate- ria persiste    e    aderisce    alla    sua    entelechia,   e    così    da molte  momnli  risulta  la  materia  seconda  (cioè  la  materia pro[)riamente  detta)  con  le  forze  derivate,  le  azi(mi,  le passioni,  che  non  sono  se  non  (Miti  per  a<;;L;re«;azi<me  »  (4). EvidentcMuente  la  materia  prima  ch'Ila  monade  non  è che  la  sua  proprit^tà  di  avere  una  posizione  :  (piesta  ma- teria i)rima  è  la  condizione  dell'  estensione  perchè  (se- condo la  proi)osizione  sopracitata)  l'estensione  è  «  la  si- multanen  continua  ripetizione  della  ])osizione  »  ;  essa  è anche  la  comliziime  dell' impenetrabilità,  perchè  <piesta (1)  Lcff.  al  1».    />/'s  -  Jìoases  -1    lui;li(>  1707   D.    II.    I.  2Sn. (2)  V.   n.   2  ]K    ir)S. (S)  ('tv.  Leti,  al  p.  Dcs-Iiosscs  15  fcbUr.  1712:  latteria  piiiuina ^  la  ('(nidizionc  doircsti^isioue  0  della  resistenza. (1)   Ep.   al   1».    Des-Hosses  11   marzo  1701)   I).   II.   1.  2r)S. —  166 pr<)l)ri(^tji  (Iella  materia,  cioè  rimpossibilità  che  più  por- zioni (listiiitc^  (li  materia  oceupiiio  simultaueameute  lo stesso  spazio,  risulta  da  questo  tatto  elementare,  ehe eiaseuua  monade  ha  una  posizione  distinta,  ineomuniea- l>ile  allo  stesso  tempo  ad  altre  monadi.  1/  enteleeliia della  uionade  è  il  suo  contenuto  interno  o  puranuuite l)sieliieo,  eiuisiderato  eoiue  t'orza,  come  causa  del  luovi- mento.  Secondo  (piesta  conceziiuie  della  monade,  che avvicina  il  suo  sistema  alT  ilozoismo,  Leibnitz  può  tro- v^ire  ueir  attività  psicliica  delle  monadi  una  ('((i(s((  cffi- vìvììii\  nel  senso  stretto,  del  lìiovinu'nto,  percliè  (juesto  non è  pili  un  sciu})lice  fenomeno  subbiettivo,  ma  si  risolve  nei caniiiamenti  <li  [M)sizione  delle  monadi,  e  fra  un  caiiiiia- mento  di  ])osizione  <li  una  monade  e  il  suo  stato  iuterno che  lo  deteri^ina,  non  vi  ha  semplice  aiinonia  presta- l)ilita.  ma  azione  reale,  trattamlosi  di  due  modiiìcazi<nii di  una  stessa  monade.  iì\\\  la  spiegazione  antropomorti- stica  si  ai)plica  dun(|ue  in  tutto  il  suo  ri,i;-ore.  L'autore continua  a  i)arlare  della  nuiterUi  prima  delle  luonadi, anche  dopo  le  proposizioni  in  cui  atterìua  che  esse  n<m lianno  jjosizione  e  non  ccnisistono  che  in  percezioni  ed appetiti  :  (1)  allora  (|uesto  teiiuine  riceve  necessarianuMite nn  senso  foizato,  clie  non  può  avere  altro  scojx)  che  di adattare  al  nuovo  ])unto  di  vista  una  formula  nata  a  un punto  di  vista  radicalnu'ute  digerente    2). (1)  Ep.  al.   p.   Dcs-Hosses  20  sott.  1712  D.   II.   1.  :U)2. (2)  Nel  concetto  rijiorosiMiiciitc  spiritualista  della  monade, la  materia  i)rima,  cioè  il  prinei]>io  dell'  estensione  e  della  resi- st<'nza.  non  ])nò  essere  che  «[nestjj  ]>roprietà  della  monade,  con- siderata come  sempliee  serie  di  junrezioni  e  di  api»etiti  .  ehe  è il  fondamento  del  fenomeno  materia.  Sn  ciò  l'iintore  non  ei  dà elio  r  indicazione  <'h<'  la  materia  i)rinm  e  la  ]>otenza  ])assiva delle  monadi.  (Oft.  omn.  Dnt.  II.  I.  ]>.  o()2.  Cfr.  p.  22S.  Epist. ad  Vaiiiiernm  4  «-inuno  171(1  IV  in  tìne).  Siee<nne  altrove  accenna —  167 Sembrerebbe  che  fra  tutti  i  sislemi  panpsicìn'sti  il .sistema  di  Leibnitz  sia  cpiello  in  cui  vi  avrebbe  meno rai»ione  di  cei-care  una  s])iei:.azione  ;introp(Mìioiiistica  del movimento  .   Leibnitz  è  un  iìnpnh^i<H(i><l<i,   cì<k-  amiuette all'idea  (die  la   materia  deriva   dalla   confusione  «Ielle  i>ereezi<uii delle  m<»nadi  Unite.  (p<'r  eni  esse   si   a]>parist'on«>  come   un  mondo di  OiiH'ctti  estesi   e  dotati  delle  altre  pr<»prietà  sensil»i!i —v.  Teod . V^  124  e  Uei>lica   a    lìavle  sul  sist.   «leli'arm.   i>restab..    D.    II.  i».  1. 88,  oefr.  Billin^cr  Dilueidation.  pliilosoi>li.   v\  245  eilato  in    I).    IL ]>.    1.   227):   e  sieeonn\   d'altra   parte,   rieomlnce   l'uno  all'  altro    i tr<'  concetti   «Iella   confusioiH'   delle  pei'c<'zioni  delle  monadi.  <l<'lla loro  passività  e  della    loi'o     limitatezza    o    impci*fc/i(Mic    f.Monad 51-52    1).    IL   1.  2<).    Kepi,   a    Bayle    sul    sist.    d.    ai-m.    prcst.    D. IL  1.  8S.  Ep.  al  1».  I)i's-B.)SM's  II)  oiu-.  1712    D  il.    IL    1.    22.1):    noi ])ossiamo  «lare  alla  sua   in<licazi«»n«'  rinterpr«'tazi«)ne  clic   la  ma- teria i)rima  «'  la   limitazi«)ne  «Ielle  nì«»nadi  .   i>er    cni     non    hanno «lei  r«'ale.  clu;   una   percezione  confusa.    Noi   ]M»ssiamo   inoltre  sii]»- porre  ehe,   ve«lend«)  n«'lla   limitazione  «Ielle  monadi   (p<'i'  cui  «'ss<' m)n  hanno  che  una  rappresentazi«)ne  confusn   «h'il'univ crso  il   fon- «lament«»  «Iella  materialità,  «doì'  «lei  loro  ajjpaiin'  <<nne  un  mon«lo  «li «•«)ri>i,   «'i-li   rì.iiuar<la   all<>  st«'ss«»  tenijK»  il   rohir  «h-lla     limitazion«' di     cìjiscuna    m«>na«le    (p<'r    cui    la    sua    imnia.ninc    confusa    «l«d- runivers«)  ha    una    «>    un'altra   forma)  come    il    fomlann-nto   di'lla l«)ealità,   ci«>«'  «leira])parire  «li  «'ssa.  «»  i»intt«»sto  «lei  suo  fenomem», in    uno  0  in   un  altr«>  i>unto  «lello   si>azi«>.    11    ])unto    dello    spazi«» eorrisi)«m«h'nte  a   una   mona<le  «',   «lie»'   L<'ihnitz.   il   imnt<>  «li  vista seeon«l«)    cui    essa    si    rai>i>r«'senta    1*  uni vers«>.  (Sist .   nm>vo  «U'ila nat.  e  «Iella  e«>m.   «Ielle  s«>st.    I).    ILI.  5:'>.  \U^\A.  a  Bayle  sul   sist. «hdl'arm.   ])r«5st.    D.    IL   1.   x:\).   O-iii   m«nm«l«'    infatti    ha     la    rap- pres«uitazi«)ne  «l<drint«'r«)  universo,  ma  scc«nido  nn   ccito  punto  «li vista.  (M«>na«l«>l.  58-51).  Princ.  «U'ila  nat.  «'  «h'ila  -raz.  :^  «'  12.  L<'tt. a«l    Arnauld    21^   niarz*)    llilM).     K««i»l.    a    Bayle    sul    sist.   d.    arni. l»rest.   I).    IL    L8(),    \i\s\).    alla    IV.    U«'i»l.    «li    ('lark«*iM.   Lett. a     l)an.u,ie«»urt   11    sett.    171(1    L,    Te«Mli«'.    vN    21H    «'    v>  H57,    «'<•«•.): <iuest«)  fa   (he  la  suji   rai>pr«'sentazion«'  sia  «leformata  in  nn  sens«) o  in   un  altr«>,  eh«'  p.  «'.  essa  ha  una  ]M'r«'«'zi«ni«'  piìi  confusa  «h'ile 1()S vlìv  il  m<)viiìi('iit(»  di  mi  (oi-jm)  r  s('in[)i'('  dovuto  all'urto di  altii  COI])!.  Ora — stando  alle  tcudcuze  spoiitaucc  <leì iiosti-o  spirito  —  il  ìMoviuH'iito  pei'  Furto  ci  sembra  an- eli* esso,  come  l'azione  volontaria,  un  tatto  elìe  si  com- prende [)er  se  stesso,  e  ])i'opi'io  non  meno  di  (piesta (<*ome  vetlremo  nel  capitolo  sei;uente)  a  servire  da  sjìie-,i;azione  inii\ crsale  dei  tenomeni  tìsici:  è  solamente  (piando non  possiaiìio  spie^ailo  per  V  urto  elle  il  movimento  ci semina  s|)ontaneo,  e  clie  noi  ceicliiamo  di  spiccicarlo  as- similandolo alTazione  volontaria.  Ma  Leibnitz  aiìimetteva al  tempo  stesso  e  che  il  mo\  imento  e  s(Mnpre  dovuto all'ulto  e  elle  esso  è  sem])re  spontaneo.  Per  com})reiidere come  le  monadi  siano  delle  forze,  in  altri  termini  come il   pani)sicliisiuo  per  Leibnitz  non  sia  solamente  una   so- ]>:n*ti  <-ÌM'  <'liÌ!mi;i  più  loiitMiic  .  r  iiicih»  coiifiisa  di  quelle  clic '  clii.Miii;!  i>iii  \iciiH'.  il  imiito  di  vista  «li  una  uiouinlc  a  un  uu»- iiu'Uto  <lato  e  il  puutt»  tl<*ll<)  spazio  clic,  ]»cr  is])ic]narc  la  sua ra]»prcsciilazi«mc  dciruuivci'so  in  «questo  luumcuto,  luu  dobbiamo •  suppone  cjuuc  punto  di  ]u-os]u'ttiva.  Il  luojz,o  clic  in  un  dato nioiiicnto  attribuiamo  a  una  nuuuidc .  o.  ciò  clic  vale  !(  stesso, il  punto  di  \ista  che  le  assi'^nianu».  e  dun<[ue  determinato  (se le  monadi  u<mi  <onsist«uio  clic  in  percezioni  ed  a])petiti)  «bilia natura  «Ielle  su«'  p«'rc«'zioni  in  <|U«*st«>  nuuuento.  «-he  le  rai>presen- tano  una  o  un'altra  pr«>spcttiva  «b'IT  univers«>.  Secon«b>  «juesto c«»nc«'tto  .  «|uan<b»  immaginiamo  cli«'  la  momub*  cangia  «li  ]>osi- zi«mc  .  la  realtà  clic  «-orrisiMUHb'  a  «incsta  immilline  è  che  essa «aniiia  le  siu'  ]n'r«'«'zi(uii  in  mo«b>  cln'  runivci'so  e  rai>]>reseutato a  un  imnto  «li  vista  «litier«'ntc.  Allora  «lire  ch«'  essa  T'  una  forza. cìi«'  «'  la  «-ausa  «b'I  pro]»rio  movim«'nt«>  «>  «bd  punto  «bdla  materia cÌH'  le  «-orrisjMMKle,  si^nitì«'h«'i*à  «-lu'  «[u«'sto  can:Liiameut«)  (bdle su«'  p«'rc«'ZÌ«Mii  «'  sp«>ntan«M>.  «•h«'  «•  «lovut«>  JiUa  sua  pr«>i>ria  atti- vità. Così  la  spi«'fj.azi«>n«*  antr«)poni«ntistica  «bd  m«>viment«>  prende un'  altra  t'orma,  la  s«da  «-lu'  >ia  l«>;iica  in  un  ]Knii>sichismo  ri- j»«u*oso  .  «'  «lu'  .  ««uiK'  \  «'«li«'m«»,  e  iK'rtV'ttanK'utt'  c«)ut'«)rme  alle '  dottrine  «li    Lciluiitz. —  1H9 luzione  del   problema    del    mondo    esteriore,    ma    anclie una  teotia  sulle  cause,  una  spie<»azione  antropomortìstica dei  fenomeni  tisici,  noi  (b)bbiamo  dunipie  ris])ondere  alla quistione  :  perchè  il  movimento,  (luantumpie  dovuti)  al- Turto,  sembri  nondimeno  a   Leibnitz  si)ontaneo. La  risposta  che  si  ])resenta  a  prima  vista  è  che  «pu'- sta  è  una  ccmseouenza  della  dottrina  (hdl' armonia  pre- stabilita. Sec(md<)  (piesta  dottrina  i»ii  stati  susse<iuenti di  ciascuna  sostanza  sono  (b'terminati  unicamente'  dai suoi  stati  precedenti  e  (bilia  leo<»e  interna  che  rei^-ola  il suo  sviluppo.  Ci()  si  applica  i)ure  alle  posizioni  succes- sive, ciot^  ai  movimenti,  di  ciascun  i)unto  della  materia. ci(>  che  avviene  in  un  punto  della  materia  essendo  la manit'estaziime  fenomenale  di  ciò  clic  avviene  nella  mo- nade di  cui  (jiiesto  punto  (*  il  punto  di  vista.  Leibnitz ammette  duiKpie  che  le  posizi(mi  susseonenti  ijercorse da  ciascun  punto  della  materia  sono  determinate  dalle posizi(mi  che  (luesto  i)unto  ha  i)rece(b'ntemente  ])ercorse e  (bilia  le.ii-.i-'e  interna  che  re,i;ola  la  serie  (U'ile  sue  i^osi- zioni    successive,  cioì'   il  suo  movimento  (Il  C'osi  il   mo- (1)   Niente  u«>n  ac«a«le  in  un  corpusc«)l«K  «lic«'  Leibnitz.  «  n«'m- nu'n«»  por  l'urto  dei  corpi  circ«>stanti,   ch«'  mm   sc-na   «la   «•{«>  «he ^  o-ià  interno,  e  che  ne  p«>ssa  turbare  Tonline N«ni  vi  ha  <b'lbi  viob'uza  ludle  s«»stanze  «die  al  «li  fu«>ri,  «■  n«'ll«'  a).- parenze.  E  ci«)  «'  si  v«'ro  che  //  wonnivHto  dì  //na/siasi  /jnulo  rhr si  possa  prendere  nel  mondo  .  si  fa  in  ana  linea  d'  una  natura determinata,  e/te  questo  punto  ha  preso  una  volta  per  tutte,  e  ehe niente  non  (jli  farà  mai  laseiare.  VA  v  «pudb)  che  io  cr«Mb»  p«»t«r dire  di  pili  precis«)  e  di  più  «'hiar«»  per  «leoli  spiriti  oeometri«i. «piaiituiKiue  «lueste  sorte  «U  linee  «»ltrepassin«»  intinitamente  «luelb' che  uno  spirit«>  fìnit«)  pu«>  c«)m]»ren«lere  ».  È  neirentelechia,  a-- giunoi'  l'autore,  di  «-ni  «piesto  punt«)  è  il  punt«»  «li  vista,  eh.'  si tr«)va  pr«»priamente  la  s]Mnitaneità  :  «  rentil«Mdiia  «'sprinu'  la  cuiva prestabilita  stessa,  «li  s«)rta  «-lu'  in  «iuest«»  sens«»  nient«'  vi  ha  di vi«dento  a  su«»  ri<;uar«b)  ».  (Kepi.  aRa.vle  sul  sist.  «bill'  arni, prest.   I).   IL  1.  S3). -  170  — 171    - ìiioviint'uto  (li  un  corpo  r  s(miij)1('  spoiitiuico,  v  non  è dovuto  che  a  cause  interiori:  Furto  di  corpi  esteriori è  l'antecedente  costante,  ma  non  la  causa,  del  movimento; tra  4|uest'  antecedente  e  il  movimento  che  lo  se^^ue  non vi  ha  connessione  causale,  ma  semplicemente  armonia j)restal)ilita. Ma  se  la  spontaneità  del  movinuMito  non  tosse  che una  conseguenza  della  (h)ttrina  (h'ITarmonia  prestabilita, essa  non  ])otrel)l)e  essere  una  [)r(Mnessa  della  (h)ttrina delle  monadi.  Infatti  la  <lottrina  deiraiinonia  prestabilita è  essa  stessa  una  conseguenza  della  dottrina  delle  mo- nadi. Ammettendo  che  non  vi  hanno  che  esseri  spiri- tuali,  oiiiii  azione  mutua  tra,i;li  esseri  diviene  necessa- liamente  incomprensibile.  Noi  non  coìni)rendiaiìio  <he uno  spiiito  ai^isca  su  di  un  altro  che  per  rintermediario di  fenomeni  esteriori  e  sensibili,  la  parola,  il  movimento, ecc.:  ma  Fazione  immediata  del  pensieio  sui  pensiero, della  volontà  sulla  volontà,  in  una  parola  del  puro  spi- rito sul  |)iiro  s])irit(>,  se  dovessimo  ammetterla  come  un fatto,  non  [)oti-ebbc  essere  \ìvv  noi  che  un  lìiistei'o  ine- splicabile. Ora  una  seijuenza  che  ci  send)ra  incompren- sibile,  noi  non  possiamo  considerarla  come,  causazione vera,  cioè  etticiente  (se  si  tratta  <li  una  re((uenza  imme- me<liata,  fra  i  cui'  termini,  i)ei'  conse^uejiza,  non  i)os- siamo  sup])ori'e  deur  inteiinediaii  (»s])licativi  )  :  perchè causa  etiiciente  si;i.nitica  un  fatto,  a  cui  non  solo  un  altio fatto  se^ue  invariabilmente,  ma  che  s])ie«:,a  quest'  altro fatto,  lo  fa  c(Hìi])rendere.  Così  il  pani>sichismo,  a  meno che  m)n  vo<;lia  rinunziare  alT  idea  <li  causa  efhciente, deve  optare  fra  due  ipotesi  :  o  il  monismo,  ne<;ando  ogni distinzicme  reale  fra  gli  esseii,  e  ammetten(h)  un  essere spirituale  unico,  che  è  la  sostanza  di  tutto  ciò  clie  esiste — è  r  ipotesi  che  ha  scelto  Schopenauer,  e  a  cui  inclinano alcuni  discepoli  moderni  di  Leibnitz — ;  o  un  sistema  che, ammettendo    una    pluralità  di  esseri  distinti,  nega  ogni azioiu'  reale  fra  gli  esseri  creati  (il  Creatore  fa  eccezione perchè  onnipotente  e  imperscrutabile)  —  è  T  ipotesi    che ha  scelto  Leibnitz,  c(mformandosi  aUa  iilosotìa  teologica (udinaria.— Ne  segue  che   se    la    spontaneità   del    movi- mento è  un  semplice  coiollario  deirarmonia  prestabilita, ipiesta  essendo  alla  sua  volta    un  corollario    della  teoria delle    monadi,    Leibnitz  si  aggirerebbe  in  un  circolo  vi- zioso, (piando  prova  resistenza  disile  monadi  per  la  spon- taneità del  mtìvimeiito  — perchè  è  a  ci(»  che  si  riduce  la potenza  attiva  della  materia—;  e  noi  mni  ]>otremmo  ve- dere in  (juesta  prova   un  motivo  reale  della  teoria    delle monadi,  uè  considerare  (pu'.sta  t(M)ria  c(nne  una    si>iega- zione   antroponKU-tistk'a    d(d    movimento.    Ma    siccome    e evi(h'nte  che  rautore  hi  considera  come  tale  (1),  noi  (h)b- biamo  ammettere  ch'(^gii  ha  avuto  uiraltra   raghme.  in- dipemhMite   dalla  teoria  (hdle  monadi  e  dalle  sue  conse- guenze, per  riguardare  il  movimento  come  spontaneo,  e non  vedere  nell'urto  una  causa  sutticieute,  perfettamente esplicativa,  (h'I  fenomeno. Xià  fenomeni  che  lo  spirito  umano  trova  i  più  propri a  servire  da  si)iegazione  universale  delle    cose,    si    ven- tica  spesso  (pu-sto  ap])arente  para(h>sso  (che  noi  spieghe- r(^mo  nel  cap.    IV),  <'ioè  che  essi   ci    sembrano    al    tempo stesso  i  più  intelligibili  e  i   più  misteriosi  di  tutti  i  tc^no- ineiii.   In    (luanto  alla  c(nnunicazione  del   movimento  ì>er rurto-che,  comò  abbiamo  notato,  è  uno  di  tali  feinnueìn— rio    che  vi  vediamo    sovratutto    di    misteri(»so    è   la    con- servazione inih'tìnita   del    movimento    impresso,    questo lato  della  legge  (Finerzia  (die  ta  che  il  movimento  una  volta ÌHc(nninciato,   lu^r  assenza  di  cause  esteriori   ritardanti, deve  continuare  per  un   tempo    inlinito  e  con    la    stessa velocità.   L' incinnpnmsibilità  di  (piesto   fatto    (la    (piale, secondo    noi,    non  è  che  un  fenonuMio  psicologic(»,    che (1)  V.   i»a-.   14J)-151. h  % 1*^- —  172  — non  ])n)va  alcuìi  mistero  relè  nel  fatiti   stesso)  si  8i)ieoa facilmente  per  la  sua  conti  addizione  con   le    sni»'<^estioni spontanee  delle  nostre  esperienze  più  familiari.  Xoi   ve- diamo ciascun  corpo  clie    si   muove   rallentarsi    uiadual- nuMite  e  infine  ritornare  in  (piiete  :  ne  concludiamo  istin- tivamente che  il  movimento  va  perdendosi   mano   luano e  linisce  per  isparire  interamente  (1).   Da  (juesta' incom- l^rensibilità  della  continuazione  indefinita  del  movinuMito che  il  corpo  urtante  ha  iuipiesso  nel  corpc»  urtato,  alcuni ne   hanno  concluso   che    V  urto  può    essere  la  causa    del cominciauu'uto  del  movimento,  ma  la  sua  continuazicuie deve   avere    un'altra    causa,  cioè  una  causa  misteriosa, una   fhr:((,  lichiedente  nel  corpo  che  si  nino  ve,  e  h\  <-ui azioiu^  continua  spie<^a  la  continuazione  del  movimento. Ma  siccome  sar*d)he  assurdo  di    dividere    il    movimento in  due  tempi,   nel  primo  dei  (piali  esso  sarebbe    dovuto air  nrto  del  corpo  esteriore,  e  nel  secondi»  alla  torza  ri- sie<lente  nel  corjx)  stesso  che  si  muove,  altri  ne    hanno inferito,  con  più  logica,  che  T  uito  non  è  la  causa,    ma P  occasioue    del    moviiuento  :  che  tanto  la  continuazione (juanto  il  <-oiuinciameìito  di  (piesto  sono  do\'uti  alila   rìs ui^ìfd,  cioè  risiedente  nel  corjx)  che  si  muove:  che  Furto non  fa  che  svegliarne  T  attività,  e  il  moviiuento  che  lo seguile  è  Tettètto  di  (piest'attività  che  si  si)ìe">a  continua- mente (2).  (^lesta  è  1*  ojMnionc^  di    Leilenitz,    salvo    che per    lui    la    ris    insiffi    n<ui  è  una    (pialità    occulta    o    nn essere    misterioso   inerente  nel  corpo  che  si  muove,  ma la  tVnza  <li  <*ui  abbiaiuo  coscienza,  e  la  sola,  oltre  l'urto, che    ci    sembii    intelli<;ibile,  cioè  lo  spiriti»,  che  anima  il ccupo.  e  Uì  mette  in  moximento. (^lesta  i)roposizione  e  le  deduzioni    ])recedenti    sono (1)  Ct'r.  i-aj».    IV. (2)  Vìi'.    Stewart    Eleni.    «lolla    tìlos.  dello  spir.   um.    vo\.   1. e.  I.  sezione  "J. 173 pienamente    confermate    (hii    testi  dell"  autore.  C'osi    <\ì;1ì dice  :  «  Bisogna  sapere   che   ai    corpi    non    si    dà    nuova forza,  ma  soltanto  si  determina  e  si  moditica   da.uli  altri ([uella  in  essi  esistente».   (1)  «  L'ultima  ra.i»ione  del  moto nella    materia  è  la  forza  impressa    nella    creazione,    che inerisce  in  ciascun  corjx),  ma  che  variamente  nella    na- tura viene  limitata  e  ristretta   per  il  coutlitto  stesso  dei corpi....  Una   sostanza  creata  non   liceve  da  un'altra    so- stanza creata  la  forza  stessa  di    a.«i.ire,  ma    solo  i    limiti e  la  deti^rminazione  (U'I  suo  sforzo  preesistente,  «>   della sua    virtù  di  a.t;ire».    (2)    Ciò    che    prova    resistenza    di quella   r/.s'  insifd  nei  corpi,  è  sovratutto  la  pioprietà    che essi    hanno  di  conservare  il  movimento  ricevuto.    lu  <*iò che  è  meramente  passivo  (cioè,    come    sappiamo,    nella materia    nuda,    senza  la  forza  o  entelechia)  «non   vi  ha, e.uli  dice,  alcuna  capacità  di   ricevere  e  rifcncrc  il   lìiovi- mento».  (3)   E  altrove  più  chiaramente  :  «  Ciuanto  è  certo che  la  materia  non  comincia  da  se  stessji  il  movimento, altrettanto  lo  è  che  il  corpo  conserva  chi  sé  rimp«'to  che ha  una  volta  ac(pustato,  ed  è  costante  nella  sua    le.u.ui*'- rezza,    ossia    fa    sforzo    l)er  ])eiseverare  in  (piesta  stessa via  <li  can,t;iamento  successivo,  in  cui  è  una  volta  entrata. Le  (piali  attività  e  ent(Oechie  non   |)otendo  esseic    modi- ficazioni della  materia  piima  o  della   massa,  cosa    essen- zialmente [)assiva,  si  deve  .giudicare  perci(^  che  deve  tro- varsi  nella  sostaiiza  corj)orea  un'entelechia  prima,  un  pii- mo  insomma  capace  di  attività,  cù)è  una  forza  motrice  pri- mitiva,  che  a<;-^iun,i;en(h)si  all'  estensì(nie  o  a    ci('»    che  è puramente    <;eometrico,  e  alla    massa  o  a  cii^  che   vi  ha di  puramente  materiale,  agisce  incessantemente,    ma    è diversamente    modificata    nel  suo  sfoi'zo  e  il   suo  iin])eto (1)  hp.  al  />.    /V.s- />V).v.sr.s'  li)  a.ii.   1715   Dut.   IL  L  'Mi. (2)  Ih'  fH-inia,  pliìl.  ntwiuL   D.   IL    I.   20. (H)    A/>.   (Hi   lìofmmni  27  sett,  lHi)H   D  IL   L  2t;(l. da^li  Ulti  (Iri  (M»ri)i  ».  1)  Questa  forza,  ai^i::iiiuo;e  Fautore,  è analoga  airaninia  de<;li  esseri  viventi,  ed  è  una  sostanza, elle  e,i;ii  chiama  la  monade  (2). Come  ahlnamo  */ih  osservato,  la  monatle  non  può  es- sere, nel  senso  ri«;(>roso,   una  forza,  eioè  una  eausa   cjfi- cicHfc  del  movimento,   perchè  un   movimento  che  si  pi"e- tende  un  effetto  delTattività  <li  eerte  monadi,  nt)n  è  che un  semplice  fenonu'uo,   un:i   percezione,   di  alti-e  monadi. Confoiniemente  alla  dottrina    delF  armonia    prestahilita, una  monade  non  ]>uò  essere  causa  che  delle  sue  proprie moditicazi(mi  .    per    conse^ueuza,  nel    concetto  riu'orosa- mente    spiritnalista    della    monad(%    che    dei    suoi    pro])ri stati    interni,    percezioni    o   appetiti.    Così    noi    abbiamo accennato  in  una  notti  precedente  che  la  proposizione  che la   miMiadt'  è  caus;i   del    nnyvimento.  del  trasporto  da   un punto    a    un  altro    dello  spazio  del  punto   disila    materia che    le    corrispcmde,    non   può  avere  che  un  sii;- nifi cato, ])erfettamente  coerente  in  un  panì)sichismo  i'i;;-oroso,  cioè che  essa  can.u'ia,    per  virtù  propria,  le  sue  percezioni  in modo  da  rappresentarsi  V  universo  a  un  altro  ])unto   di vista.    Il  concetto  antropomortìsti«'o  della  causa,    nel   si- stema di   Leibnitz,    ci    si    m<»stra    <li    là    sotto    un    altro aspetto,  cioè  in  quanto  esso  è  applicato,   non  alla  s[)ie- ^azi<>ne  u-eneiale  dei    fenonu'ui   tisici,   ma  a  quella    de^ii stati  interni  dv\U'  monadi,  dei   fenoìneni  psichici   che  le costituiscono. PotrebÌK'  seuìbiai-e  clu^  in  un  sistema  che  neua  la realtà  della  materia,  e  non  ammette  altro  di  reale  che  il fatto  psichico,  non  vi  sia  più  luo^o  a  parlare  di  spie<;"a- ziom*  anti'opomortistica,  di  un'  assimilazi(me  di  tutti  i fatti  reali  ai  fatti  umani,  allo  scopo  di  comprenderne l' incatiMiamento  causale.   Se  si  ammette  che  tutti   i  fatti (1)  f>r   i/fstt    Hfff.   sirr   de    ri   hìs.    II. (2)  fhiiL    11-1*2. 175 reali  senio  dei  fatti  ])sichici  —  dottrina  che  non    ])uò    es- sere che  una  risposta  alla  (piistione  del  nunido  esterioi-e — essi  si  sono  *^\ì\  assimilati  ])er  ciò  stesso  ai  fatti  umani  : allora,    (lualundue    sia    il  fatto  che  si  ])renda  come  tipo (h'ila    causazicme,    facendolo  servire  da  spie.uazione  uni- vei'sale  di   tutti  i  fatti,  esso  sarà  necessariamente'  un  fatto umano:  sicché  parrebbe  che  non   vi  sia  motivo  d    \ edere nella  scelta  di  un  fatto  i>iuttosto   che    di    un    altio    mia conseiiuenza  <lella  tendenza  del   nostro  spiiito  ad  assimi- lare  tutte  le  azioni   reali  all'azione    umana,    ad    elevare questa  a  tii)o  universale  della  causalità.  'l'nttavia  anche questa   scelta,  in  (piesti  sistemi,   può  essere,  ed  è  ettètti vameiite,   una   manifestazione   di   (jucsta   tendenza.    Tra  i fatti    che  (juesti  sistemi  considerano  <-ome    psichici,    \'e ne  ha   una   i)arte  .  le  sensazioni  esteriori  .  che  noi  siamo abituati  a  consideiare  cernie  fatti  oì)biettivi,   tìsici.    op])o- nendoli.   per  consci^uenza,  ai  fatti  nostri,  ai  fatti  umani: cosi,  in  (pu'sti  sistemi,    la    tendenza    a    una  spiegazione anti'opennortistica    delle  cose  si    manifesta    in    ciò.  che  i fatti  che  essi  elevano  a  tipo    universale    <li    causazione, facendoli  servire  alla  spit\i;azione  di  tutti,nli  altri,   sono ])resi  fra  <juelli  che    noi    sogliamo    consideiare    come    u- mani,  come  nostii,  e  n<m  fra  (|uelli  che  so.uliamo  consi- derare come  tisici.    K  ciò  che  si   vede    cenciai UM'Ute    nei sistemi   nfcfdfisiri  che  ne'ì'ano  la   realtà  del   mondo  mate- riale  o  la   sua    esistenza    indi])endente    dallo    s])irito.     In tali  sistemi   i   fatti  che  si    fanno    seivire    da    sjne.uazione universale  delle  cose,  si   riducono  a  <lue  :  Fattività    inte- riore del   pensiero  (sistemi   idcdlisH)   (1)    e    l'azione  della volontà. 11  fatto  HìHdìKf,  che  Leibnitz  eleva  a  tipo  di  sjjie^ua- zione  universale  dei  fatti  jjsichiei  che,  secondo  lui,  costi- tuiscono il   reale,  cioè  le  nnmadi,  è  Fazione  della  vohnità. (1)  V.  ;utic.  V —  176 Le  iii(»iia(lì  coiisistoiio,  coiiH'  sa|)])iaìiio,  in  percezioni  ed appetiti,  e  l'appetito  è  nelle  nionadi  infeiioii,  eioè  nella iiiiiiiensa  ina,u"^ioran/a  delle  monadi,  ciò  ehe  nella  nio- natle  dominante  delT  nom<»  è  la  volontà  (1).  La  monade (e  s])eeialmente,  come  vedremo,  le  monadi  interiori)  è nno  s[jeeelno  (lelTuiiiverso,  eiaseuua  secondo  il  sno  |>unto di  vista  :  una  rappresentazione  del  moiulo,  che  can;i;ia secondo  i  canii'iamenti  del  mondo  stesso  e  (pu'lli  del punto  <li  vista  della  monade  (2).  Kidncemlo  V  essenza della  monade  alla  rappresentazione  delT  universo,  Leil)- nitz  crede  di  ti'ovarvi  una  s])ie^azione  delTarmonia  pre- stabilita :  tutte  le  ìnonadi  essendo  delle  ra[)j>resentazioni dello  stesso  universo,  è  questa  la  ia<;ione  j)er  cui  esse si  accordano  tra  di  loro:  basta  che  una  mona(h^  sia  sta- ta una  volta  e  al  cominciamento  una  i'ap[)i'esentazi<uie delTuni verso  secondo  il  suo  punto  di  vista,  perchè  essa lo  sia  pei])etua mente,  lo  stato  se,uuente  <li  nnji  monade essendo  una  cousei;uenza  del  suo  stato  [jrecedente.  (8) Le  monadi  dunque  cangiano  spontaneamente  i  loro stati,  cioè  le  loro  rajipresentazioni  «leiruin'verso,  secondo una  le;4.i;e  inteiiia  uniforme,  (piantumjue  intinitamente complessa,  la  cui  formula  si  otterrebbe — è  ciò  almeno  che send>ra  supporre  la  s])iei»azione  ])r(M*edente  deirarmonia i)restabilita — combinando  le  lei^iii  tlei  cani>'iamenti  delFu- niverso  con  (pu*lle  dei  can^uiamenti  del  punto  di  vista delle  monadi  (4).  Ma  i  cangiamenti  delle  rap))resentazioni (1)  V.   Comm.  de  an.  hrutor.    XII. (2)  \'.  Mintali.  ri()-;")7.  ()S .  77.  l*rhH'.  de/la  tnil.  e  della  (jraz. *>,  12,  li.  /ù's/toiis.  ini  Sfa/ti.  ohscrruf.  ìu\  Wi.  2,  Lettera  a  Duii- f/ìeourt  11  sett.  17115.  lupi,  a  liat/fr  sul  sisf.  delV  arm.  presta- fììl.    I).    II.    1.  S{\.    J/is'jjo>:/a  alla  I\    rrplìea  di  Clarke  1)1,  ecc.). (S)  Jì*isf>.  alla  I  V  replica  di  Clarhe  ili.  Lett.  a  Dafjineoart. 11  sett.   17PJ.   1.  ecc. (1)  V.  lìepl.  a  Tiajjle  sul  sisf.  dell'arm .  prestah.  e^  Safjf/i  sulla bontà  di    />io  ecc.   ^    iOA  .   <•  (  tV.   il    [H'iiiio    scritti»    ed.    Diit. —   177   - delle  monadi  non  sono  sem]>licemente  s])ontanei,  ma aiu-lie,  in  nn  senso,  volontari  :  la  momnle  è  uno  spec- cliio  delPuniverso,  ma  uno  specchio  viveide,  cioè  dotato di  attività  (1).  Il  prim-ipio  interno  dei  cangiamenti  della mona<h%  cioè  al  quale  è  (h)vuto  il  passa .ii'<;io  da  una  i>er- cezione  ad  un'  altra,  è  V  aj)petito  :  dalle  j)ercezioni  del momento  precedente  la  mona<le  ])assa  alle  ])eicezioni  del moììiento  suss(^<;u(Mite,  peichè  tende  a  (pieste  jHMcezioni, percliè  le  desi<lera,  [)er<'liè,  in  celta  .uuisa,  le  vuole  (2) Essa  non  va  alle  nuove  percezioni  pei*  una  conoscenza e  uir  a])plicazione  della  formula  sapiente  clic  re,i»<)la  i can<;iamenti  della  sua  ra])])i-esentazione  dell*  univeiso  ; vi  va  «ristinto,  per  il  semplice  im])ulso  di  un'apiK'tizione incosciente  ;  j)erchè  ten(h^  al  bene  e  rifuii^e  dal  male, e  h*  percezi<mi  re,i»<Oate  sono  sentite  da  essa  come  un bene  e  le  percezioni  sregolate  <*ome  un  male  (S).  La s})ie^'azion(*  <li  Leibnitz  delle  ])ercezioni  delle  numadi  lia dei  ])unti  di  contatto  con  l'iclealismo  (che  spiega  le  ])ei-- cezioni  esteriori  })er  Fattività  del  j>ejisiero),  jKM-chè  una volta  cIh'  le  j)ei*<'ezioni  si  fanno  nascei'c  sj)ontaneamente [)vv  Fattività  dello  spirito,  esse  vendono  necessaiiamente assimilate  al  jxmsiero.  Ma  (piesta  sj>iei;azione  si  ciistin^u** da  (pu'lle  ])roj)rie  dei  sistemi  idealisti,  percliè  la  paite ])i"incipale  è  ass(\i>-nata  alla  volontà.  L'ultima  ])arola  «Iella ])jij;'.  88  (lii<><;<>  citato  u  p.  UJII  in  iiotji.  Ciò  pvvò  non  )M»trcbl»c  jq»- ]>licarsi  strcttjinientc  clic  alh'  monadi  inferiori.  \'.  ciò  clic  diremo in   se«iuito). (1)  Prièie.  ile  Ila  ani.  e  il  ella    ijraz.  S. (2)  Moìiitd.  11-15  <'  7!>.  Prièie.  tiella  naf.  e  dilla  f/raz.  2-'A, Risjè.  alla  I  y  repl.  ili  (Harhe  \V>,  Ciìunnenf.  ifean.  hrulia'.  XII. Kpist.  al  p.  Des-Iiosses  2'A  n^x-  17l;>.  Animadr.  einta  'Ilieor.  MììI. Stitlìl.  JII.  Jì*espoìts.  ad  Slahl.  ahsercat.  ad  XXI.  1-2.  Liti,  a Datìifieourt   11   sett.    171(>,   ecc. (8)  V.    Prine.   della   aat.  r  ili'lla  f/raz.  :?. .1 2 17S filosofia  (li  Lcilmitz,  come  di  o<»ni  altra  forma  della  fi- losofia aiitro|)omorfìsta  (ad  ecceziom*  dvW  idealismo)  è che  r  azione  volontaria  è  il  tipo  unico  di  o;^ni  azione reale,  clic  la  causa  univeisale,  il  principio  <li  futfo  ciò che  esiste,  è  la  volontà.  Così  il  sistema  di  Leihnitz  e più  vicino  di  «pianto  sembrerebbe  a  prima  vista  a  (pie.uli alfii  sisteiui  panpsichisti  (Schopenaueì',  M.  de  Birran, A\'uinlt  .  Wallace,  ecc.)  che  ved(mo  nella  volontà  o  in (jualche  cosa  di  analogo  questa  essenza  spirituale  che  è, secoiìdo  il   panpsichismo,  1'///  sv  della  materia. Un^)sservazione  più  im])ortante  che  dobbiamo  taie  su (pU'sta  spie^azi(nu'  v<>lizionale  de^li  stati  interni  delle monadi  fé  per  cui  la  line  <lella  nostra  es])osizione  della dottrina  di  L<Mbnitz  si  legherà  vìA  comiiu'iamento)  è  cJie essa  non  è  che  una  versione,  in  lin<4ua,i;\t;io  ri^^orosamente panpsicliista,  della  formula  che  la  ìuonade  è  una  tVnza, una  causa  elììciente  del  movimento.  L'  essenza  del  pan- psichismo consiste  in  ([uesta  proposizione  che,  come  dice Clilford.  ciò  clic  si  chiama  Tuniverso  materiale  è  la  i)it- tura  in  uuo  s[)irito  umain»  delTuniveiso  i-eale  debili  ele- menti psichici.  Xe  se»»ue,  nel  sistema  di  Leibnitz,  che  il monde»  reale  delle  mona<li,  costituito  di  puri  fatti  psi- chici,  e  il  luomlo  tisico  fenomenale  si  ciurispondono perfettanu'iite  :  che  per  o,i>ni  avverimento  del  prime»  vi ha  un  avveninuMit<»  viiniralvute,  <piantun((ue  di  natura diversa,  uel  seconih),  e  viceversa  :  in  modo  che  le  serie debili  avvenimenti  che  succe(h>no  in  uno  dei  due  moiuli, siano  coiue  la  tiaduzione,  in  un  linunaiiiiio  <litferente, (Ielle  serie  debili  avvenintenti  che  succedono  nell'altro  (1). Ciò  si  veritica  (U'ila  maniera  i»iù  esatta  per  le  monadi  in- feriori, che    non   hanno  altia  funzione    che  di  costituire (1)  CtV.  Taiiio.   I/intclli-.   p.    I.   1.    IV.  v.  2.    V  e  p.   II.  1.  11. e.   1.   VII   \\i\X\\   tiiiivlc. 179 Vin  se  della  materia.  È  a  <iueste  monadi  che  si  ai)i)lica strettamente  l'espressione  che  la  monade  ('  uuo  specchio delTuniverso  :  esse  non  hanno  ni  ra!L5;ione,  che  non  ap- partiene che  alle  monadi  piii  elevate,  m''  la  ('<nìse('ì{:i(mr ])uramente  emjnrica  che,  nelle  monadi  dominanti  de^li animali,  imita  la  l'anione,  ni  la  memoria,  su  cui  (pu*sta consecuzione  ('  fondata:  (1)  le  loro  oscure  ])ercezioni  non lasciano  in  esse  alcun  eco  (2);  esse  hanno  sensaziiuu',  ma non  lud  sens(»  stretto,  rappresentazioni.  Ciò  (^  provato dairinva riabilità  della  loro  azione  esteriore  (perchè  esse sono  le  fòrze  animatrici  della  mateiia)  che  mostra  che non,  vi  ha  in  esse  alcun  [)ensiero  ni  alcuna  traccia  del- l'esperienza passata.  Così  il  se<i:uit(»  delle  percezi<uii  di una  di  (jueste  monadi  —  cio(%  non  tenendo  cont<»  dejL»li appetiti  che  deteriiiinano  il  passa,u:i»io  da  una  ])ei-cezione a  un'altra,  dei  suoi  stati  interni — (»,  j)ossiamo  suppoilo, un  se<;uito  di  prospettive^  (h'ITuniverso,  clic  cangiano  se- condo i  cani;'iamenti  dell'universo  stesso  e  (pu*lli  del  i)unto di  vista  della  monade.  La  nuuiade  è  sempre  una  iaj)pre- sentazione  dell'universo,  ma  a  un  punto  di  vista  stMiipie ean<;iante  —  la  ragione  di  ciò,  come  Aedremo  in  seguito, (m1  movimento  incessante  di  o^iii  [)articola  (h^lla  mateiia — : per  conse,i>,uenza,  (piando  la  monade  passa  da  uno  stato ad  un  altro,  ci('>  che  definisce  i  due  stati  e  la  loi'o  diffe- renza, V  che  la  monade  nel  ])rimo  stato  si  rai>pr(^^enta l'universo  a  un  punto  di  vista,  nel  secondo  stato  se  lo rappresenta  a  un  altro  punto  di  vista.  Ma  il  ])unto  d\ vista  di  una  monade,  a  un  momento  (hito,  coirispeuide  al punto  dello  spazio  occupato,  in(piestomom(*nto,  dal  punt(» materiale  che  (^  il  fenomeno  di  (piesta  nu)nad(i  (3).  hun- (pie  la  posizione  del  punto  materiale,  a   un  tal  momento, (1)  V.    Moiijid.  11».  l'(»,  2J>,  L*riuc.  «Iella  iiat.  «-  «Iella  ;;raz.  \  e  5. (2)  V.    IM'inc.   «Iella   nat.  e  «libila   <;raz.    t. (3)  V.   la   ii«»ta   (2)  a  [«aj;.    \m. ISO e  lo  stato  intc'iiio  della  inoiia<U',  cioè  la  sua  prospettiva (leirnniverso,  allo  stesso  ihoinento,  si  coi  rispondono  per- tettaiiìente,  e  Tnno  dei  due  l'atti  dà  e  indiea  T  altro,  ed è  alla  sua    volta   dato  e   indicato  dall'altro.   Kd  è  «-osi  clie o-li  avvenimenti  <lel  mondo  tisico   fenimuìiah'   rapin-esen- tano  .uli  avvenimenti  del   mondo  r<'ale  delle  monaili,  poi- ché  i    i)rimi    ìH)n    sono  che    ilei  cangiamenti  di  posi/ioni nello  spazio,  cioè  dei  movimenti,  e  i  secondi  tlei  cani»ia- menti   de.uli  stati   interni  delle  lììonadi,  cioè  delle  ìoi'o  ]>er- cezioni.   La  cosa   in   sé  del    fenomeno   movimento  è  <lun- que  il   can«:,iamento  delle  ])erc<'zioni  delle  monadi.   t)i'a  se la  mona<h'  è  realmente  la  causa  del  movimento,  essa  deve esserla»  del   movimento  n^xa   in  .sr,  <li   <'ui  il  movimento  vi- sihiie  è  l'apparenza.  Ma  la  nnmade  è  causa  <h'l  ìuovimento jK'r  1(1  sìu(   nfhnifà,   poiché  è  evidente  che  (juainh)   l.eih- nitz  spie.ua   i   movimenti  della    materia  p<'r  le  anime  rise- «h'uti  in  questa   mateiia,   ei!.li   assimila   (jucsti  movimenti ai  movimenti   volontari.    Ne    se.uue  che  la  rosn  in  sr  ihd movimento,  cioè  il  can.uiamento  (h*lle  percezioni  delle  mo- nadi, deve  essere   Teliètto  (h'ila    loro  volontà,  o  <li  qnal- che  cosa   di  analo.u'o.  che.   secomlo   Leihnitz.  è  1' api)etito. Cosi  la   spie.uazi<nu'  antrojMMìioitistica    del     nn^vimento    si trastorma  in  una  spie«»azione    volizionale  dei  cangiamenti interni  «Ielle  mona<li. in  riassunto,  il  com-etto  che  la  monade  è  la  (*ausa del  movimento  si  sviluppa,  nel  sistema  di  Leihnitz,  in  tre sensi  diiterenti.  11  contenuto  iìnmv(ìi<tio  di  (piesto  concetto è  una  su,u<»('stione  della  pn'tesa  spontaneità  del  movi- mento, cioè  che  lU'l  corpo  che  si  muove  vi  ha  «pialche cosa  come  uno  sforzo  cosciente,  e  (piindi  un'anima  che ne  è  la  t'orza  motrice.  >hi  si<-c(une  la  monade  m)n  ])uò  es- sere la  causa  che  «Ielle  sue  ])i«)prie  moditicazioni,  «juest'i- dea  si  traduce  ne<-essariamente  in  due  altre.  L'una  che coriisp<m(h'  a  «piesta  sj)ecie  d'ilozoismo  incos<'iente  che  è una  delle  due  facce  della  teoria  delle  monadi,  eioé  che la   UìOìiade  è  causa  del  movimento  in  «pianto  can.uia  s])on- ISI taneamente  la  sua  |>osizione  nello  s[)azio  (({nella  della  sua luaierin  prima).  L'altra  elie  coriisponde  al  paiipsicìiismo rigoroso  che  è  l'altia  faccia  della  teoria,  cioè  che  la  mo- nade è  causa  del  movimento  in  «pianto  è  la  causa  roìon- t((ri((  «lei  caiijiiiaim'nto  «lei  su«)i  stati  interni,  che  è  Vin  se del  movimt'uto.  K  «pi«'st«>  il  solo  si<:.'niti«-at«>  «-hiaro  e  lo<;ic«) (per  «piant«)  «piesti  ttMinini  possono  a])])li«'arsi  a  una  con- eezi«)ne  m«'tatisica)  die,  secomh)  i  ])rincipii  coHfessaii  «li Ijeihnitz.  ])uò  av«'i'«'  la  sua  formula  «-he  la  inona«l«'  è  una f«)rza.  Ma  sicuram«'nte  «'uii  non  troverehhe  in  «]U«^st'i<lea un  ;L;ran  \al«n-e  esplicati v«>,  s«'  essa  f«)sse  scompagnata  «lai su«)  inviluj)po  rapj)r«'sentativ«)  «'  sensihile,  ci«)è  eh«'  la  causa dei  nujvimenti  «lei  «•()rj)i  che  noi  redianto^  «lei  fenontcni, è  l«)  sforzo,  Toscura  v«)lontà,  «Ielle  imniadi,  che  sono  i  i>rin- ci[)ii  animatoli  «li  «piesti  e«)rpi. ^  17.  I  sist<'mi  «h'i  panpsi«*histi  moderni  «i  mostrano, come  la  monodolo<;ia  «li  Leihnitz,  che  il  pan[)sichismo ii«)n  è  solamente  una  risposta  alla  «piistiom^  «lei  m«>iì«lo esteriore,  ma  aiudie  una  teoria  sulle  cause,  una  spie^^a- zione  antropom«)rtìsti«*a  «hù  fenomeni  fisici.  La  ])r«)va  più evi«lente  «li  «piest«)  fatto  è  la  «lottrina  «li  Maine  «h'  I^iran, che,  <*ome  S«'liop«'nauer  e  prima  «li  lui,  lia  amm«'sso, come  si  sa,  «die  la  vohnità  è  la  sostanza  «li  tutte  h»  cos«'. Se«*«>n«lo  «piesto  fil«)sofo  noi  ahhiaiiio  neiratt«)  v«)lontari«>, ei«)è  nel  fatto  di  esperi«^nza  cln*  l'atto  «li  vol«)ntà,  «'onu* eausa,  è  sei»iiit«»  «lai  m«>vim«*nt«)  «l«d  «•orp«),  «m)!!^'  eff«'tt«», la  per«'«'ZÌoiie  immediata  «l«d  legame  «ausale:  nuMitre  ^ii altri  fatti  non  «-i  mostraiu)  «die  le  «-onuiunzioni  «>  le  se- «luenze  uniformi  «1«m  f«'n«)m«'ni,  «'  in  «pu'sto  fatt«>  sol«)  <h«' noi  vetliimo  l'azi«)n«'  «li  una  (-((nsa  ('Jfìcienfc.  C«>sì  la  vo- lontà è  per  n«>i  il  sol«)  tip«)  «die  ahhiamo  jier  «'om'epire la  eausa  ettici«'nte,  e  n«)i  «l«)hl)iamo  ])erci<)  ne«*«*ssariannmt«' assimilart'  alla  nostra  v«)l«)ntà  tutte  le  ('((nsc  efficienti^ tutte  le  forze  «Iella  natura   (1). (1)  Cfr.  ^21. —  1S2  — Scliopt'iiaiuT  (•oinl)att('  (jiiesta    dottrina    della    causa-zione del  suo  prederessoiv.  Noi  non  riconosciamo  aft'atto, ciili  dice,  il  vero  atto  della  volontà  immediata  come  (piai- elle  cosa  di  distinto  dairazi<)ne  <lel  corpo,  e  i  due  come ledati  dal  rapporto  causale;  al  contiario  i  due  non  fanno che  uno,  e  sono  indivisibili.  DalTum»  airidtro  non  vi  ha successitme;  essi  sono  simultanei.   Essi  formano  una  sola e  stessa    cosa,    pei'cepita  doj)piamente  (1).   E  altrove  :   Il soiiuetto  conoscente  conosce  il  suo  c<u])o  di  due  maniere «lifiei-enti,   una  prima   volta  indirettamente,  come  rai)pre- sentazione;  e  poi  come  qualche  cosa   che  è  direttamente conosciuto  da  ciascuno,  e  desi«»nato  col  nonu'  di  V(>lontà. <\uni  atto  reale  della  sua   vohnità    e    lU'llo    stesso    tempo e  infallihilmente  un   movimento  del  suo  colpo;   e^li  non può  volere  etfettivamente  un  atto  senza  vederlo  prodursi tosto  come  movimento  del  coi])o.   I/atto    <li    volizione  e l'azione  del  corpo    non    sono    <lue    stati  differenti,  cono- sciuti ohbiettivamente  e  Iellati  chd  piincipio  di  causalità; essi  non  sono  tra  di  loio  nel   rapi)oi'to  <li  causa  e  di  ef- fetto: sono  una    sola    e    stessa  cosa  che  ci  è  data  di  due maniere  differenti,   una   volta  immediatamente,  e  un'altra volta  nell'intuizione    e    \)vv  rintemlimento.  T^'azione  del colpo  mni  è  che  Tatto  ohhiettivato    (cioè    divenuto    per- cettibile airintuizione)  della  volontà  (2).  Ciò  è  vero  tanto delle  azioni  del   nostro  corjio  «pianto  delle  azioni  di  tutti i  corpi  in  iiviierale.   Ma   è  evidente  con  tutto  ciò  che  all- eile Schopenauer  vede  nella   volontà,  non  solo  la  cosa  in se  dei  corpi,  ma  anche    la    ra picnic    esplicativa   dei    loro movinu'Uti,  assimilando  tutte    le    forze  della   natura    alla nostra    })ropria    tbrza    umana    e    cosciente,   che  è  la  sola cireiili  crede  di  comprender(\  «  Se  si  è  riconosciuto  che (Il   //  mondo    ('otn(t    coìontà  r  rtf/^fpn'fientazioitc.    tnul.   frane. ^ voi.   II.   pau,.   ."ìS. (2)   Ibid.   V.   J.  1.   II.   par.   IS. —  1<S3  — è  la  propria  volontà,  To.iA.t'vtto  più  immediato   della   ])i-o- ]nia  coscienza,   che    costituisce  Tessenza  intima  del   ])ro- prio  fenomeno  (cioè    d(0    pi'oi)rio   corpo  e  delle  sue  azio- ni): ciò  diverrà  la  <-hiave  per  la  conoscenza  deiressenza intima    della    natura  intera,    se    si    riporta  così  a  tutti  i fenomeni    che    rmuno    conosce,    non    immediatamente  e mediatamente    al    tempo    stesso,  come  fa  per  il  ])roprio feiunueiio,  ma  solo  indirettamente,  i»er  un  sol  lat<»,  (piello della   rapi)resentazioìie.   Non  è  soltanto  nei  fenoiìieni    in tutto  simili  al  suo  ])roprio,  nei'li  uomini  e  m\nli  animali, clTe'ili  ritroverà,  c(une  essenza  intima,    (piesta    vohuità, questa    stessa    volontà:  ma  un    \)o'    più   di  ritìessione  lo ciuidurrà  a  riconosctMv    che   Puniversalità  dei  fenoiiu'iii, sì  variati  nella  ra])pres(Mitazione,  hanno  una  sola  e  stessa essenza,  la  sola  che  .j^ii  è  intimamente,   immediatamente e  mi\ii.lio  <roi!.ni  altia   conosciuta,  «piella   inlìne  <'he  nella sua  manifestazione  più  a]>]Kn"ente    ])orta    il    nome  di   vo- lontà.   A>///  I((   rcdrà    itclla  fovzn  c//c    fu  crescere  e  raje- tare  Ut  pìi(ììi(t,  e  crisiaììizzare  iì  miner(tìe:  che  (ìiriije  Vnijo c(il((ììuf(fi(>    rerso    il    nord:    neìUi    c(tmmo:ioìie    che    prova iftKOtdo  (lite  ìueinìi  etero<ieneì  fiinni/<Ht(f  a  coutatlo:  cifli  la ritroverà    nelle    affinila  elettive    dei    cory>/,   nuinifesfiintesi Hotfo  fornuf  di  attrazione  o  di  rexpnlsione,  di  coìnhinaziitne o  di  decowposi:i<pne:  e  sino  nell((  ^iravità    che    (u/isce  con tanta  potenza  in  tutta  la   materia,  e  <ittira  la  pietra  verso l((  terni,  come  la  terra   verso  il  sole.   \\  rillettendo  a  tutti (piesti  fatti  che,  oltrei)assamh>  i  femuneiii,  mù  arriviamo alla  cosa  in  sè»(l).  «Spinoza  dice  che,  se  fosse    dotata di  coscienza,  la  pietra,    (piando    uirimpulsione  la   fa   vo- lare attraverso  lo  spazio,    «'l'ederebbe    volare  <li  sua   pro- juia   vohmtà.  Ed  io  a.u-iun.i'O  che  la  pietra    avrebbe    ra- gione. T/impulsione  è  riouardo  ad  essa  ciò  che  il  motivo < (1)  //  mondo  come    roìonlà    e    nfjjjjvrscttfitzioiit',   inni,    i'rìuw. voi.   1.   ]m«;.   17(>. misimt»ikai„^*^^-'^if:.vt  ^ ^.  i»-;;«."-^'.i;'KSJa ]S4  — è  ri,i»u;n(l<)  ;i  me;  e  ciò  vìw  nella  pietra  ap2)arisee  eoiiie coesione,  eoiiie  peso,  come  peiseveranza  nel  movimento a(M|UÌsito,  è  i(l(Mitieo  nella  sua  essenza  eon  ciò  elle  io riconosco  in  me  come  volontà,  e  ciò  che  essa  pnie  ri- conoscerebbe [)er  volontà,  se  essa  ac(jnistasse  la  facoltà (li  conoscenza  ».  (1)  «  L'essenza  di  o^^iii  energia,  latente o  atti \ a,  nella  natura,  è  identica  con  la  volontà  ».  (2 «  Sinora  si  riconduceva  il  concetto  di  volontà  a  (juello di  forza:  io  fò  il  contrario,  è  il  concetto  di  forza  che sussumo  a  (juello  di  volontà  »  (8). JSchopenauer  vede  lu'lla  volontà  la  causa,  non  s<»lo del  movimento,  n^.i  anche  della  timilità  nella  natura (quantunque  e.i»li  alfermi  che  ([uesta  tinalità  è  [)uramente fenomenale).  (Tristinti,  e^^li  dice,  dimostrano  della  ma- niera })iù  chiaia  che  dei^li  esseri  possono  lavorare  con  la determinazi<uìe  ])iù  decisa  i)er  un  risultato  ch'essi  non coniKscono,  di  cui  non  haìino  alcuna  rai)i)resentazio]n^ E  cosi  elle  pj'oceih'  pure  la  natuia  pei-  piodurie  ^ii  or- f»anismi,  e  peiciò  Fautore  <letinisce  la  causa  tinaie  nella natuia  un  motivo  che  a.uisce  sciiza  essere  conosciuto  (4). L'i<lea  di  tlne  essendo  inseparabile  <lal  concetto  di  atto volontaiio,  Schoj)en;iuei'  estende  (|uest'i(h'a  anche  a.lle azioni  tisiche  in  cui  non  si  ve<h'  niente  di  teleolouico. ''  Questa  chiave  che  abbiamo  per  comprendere  la  inituni della  cosa  in  se,  e  <'he  la  conoscenza  immediata  (h'ila nostra  propiia  essenza  ha  sola  i)otuto  «hirci,  noi  d(»b- ))iamo  apjìlicarla  ei;iialiiu'nte  a  questi  fenomeni  del  mondo inoruanico.  che  fra  tutti  differiscono  il  piii  da  noi.  Get- tiamo uno  sguardo  investi«»atore  su  tutti  (juesti  fenomeni  : noi  vtnlremo  rimj)ulso  irresistibile  con  cui  le  ac(pu'  cor- (1)  ibid.  p.  '2{y^. {2}  IWuì.  1».  17S. (1^)  Il.id.  i».  17l>. (4)   Ilud.   voi.   II.   p.  r>b)  e  501. 185  — rono  verso  «;li  abissi-  la  caparbietà  c(ni  cui  la  calamita persiste  a  ritornare  verso  il  polo  nord  ;  lo  slancio  del ferro  quando  vola  verso  (piesta  calamita;  l'intensità  con cui  i  poli  tendcmo  a  riunirsi  neUa  corrente  elettrica,  e che  una  resistenza  non  fa  che  accrescere,  come  per  hi vivacità  (h'i  desideri  umani;  noi  vedremo  ancora  il  cri- stallo  formarsi  <piasi  istantaneamente  e  con  una  icgola- rità  di  tìgura,  che  evidentemente  non  è  che  una  ten- denza verso  più  direzioni,  tendenza  ener<4Ìca  e  precisa, che  una  soliditicazi<nie  subita  è  venuta  a  prench're  e tìssare;  noi  vedremo  pure  la  scelta,  con  la  (piale  i  coipi sottratti  ai  le<;ami  (h'ila  solidità  e  messi  in  libertà  allo stato  fluido,  si  cercano  o  si  fu,i;;i;(>no,  si  uniscono  o  si se])arano;  intine  noi  sentiremo  direttamente  ])er  noi  stessi (juanto  un  fai'dello,  di  cui  il  nostro  corpo  impedisce  la tendenza  verso  la  lìiassa  terrestre,  fa  pressione  e  si  a]>- pogi^ia  con  insistenza  sulh*  nostre  spalle,  s(*guendo  così la  sua  unica  aspirazione  :  (pian(h)  noi  avremo  attenta- mente meditato  tutto  ciò,  non  ci  costerà  [)iii  un  i;i'ande sforzo  (rimma<;'inazione  ])er  riconoscere,  anche  a  una covsì  «>:ran(U'  distanza  (hdla  nostra  propria  natura,  (luesta cosa  che,  in  noi,  ricerca  il  suo  scopo  rischiarandosi  della conoscenza,  ma  che  (]ui,  nelle  più  [)allide  delle  sue  ma- nifestazioni, non  ha  che  delle  tendenze  cieche,  sorde, unilaterati  e  invariabili;  per  conseguenza,  come  il  chia- rore delTaurora  mattinale  porta  il  nome  di  luce  solare ugualmente  che  gli  splendidi  raggi  del  mezzodì  —  così (juesta  cosa,  essendo  (hi  \wv  tutto  identica,  (k^ve  j)ortare (jui,  come  là,  il  nome  di  volontà,  perch('  (pu\sto  mmie designa  l'essenza  intima  di  ogni  cosa  in  (piesto  mondo, la  sostanza  unica  d'ogni  fenomeno»  (1).  —  La  tendenza piincipale  della  volontà,  negli  esseri  dotati  di  conoscenza. (1)   Ihìd.,   voi.   I,   p.   VM). ISH ò,  in  ();;in  iii(li\  i^liio,  la  propria  coiiscrvazioiu',  v  \v  tor- ìiie  sotto  cui  questa  ttMideiiza  apparisce,  si  riassumono a  rercare  ed  a  inseguire,  o  a<l  evitale  e  t'u,u\i;'ire,  secondo le  occasioni.  (Queste  st(^sse  t'oiint^  le  ritroviamo  ai  ^radi più  hassi  deirol)l)iettivazione  della  volontà,  nelle  azioni meccaniche  dei  corpi.  «  Qui  la  tendenza  a  cercarsi  simostra  sotto  toiina  di  ^gravitazione  ;  la  volontà  di  tii<;- ^ire  è  la  recezione  del  movimento;  la  mobilità  dei  corpi, al  seguito  di  pressione  o  di  urto,  o^uetto  principale  della meccanica,  non  è  al  tondo  clic  la  maniera  in  cui  essi esprimono  la  loi'o  tendenza  alla  conservazione.  In  ett'etto, i  corpi  essendo  impenetrahili,  la  mobilità  è  il  solo  uiezzo per  essi  <li  <*onseivai'e  la  loro  <*oesione,  e  ])ei'ciò  la  loro esist<Miza  del  momento.  Il  colico  uitato  o  compresso  sa- rebbe tritato  dal  corpo  uitante  o  conii)rimente,  se  non si  sottiaesse  alla  sua  tbrza  <'on  la  tu^a  a  tine  d\  salvale la  propria  coesione;  <piaiulo  non  può  fu^^^^ire,  esso  è sclnac<*iato  effettivamente.  J  corpi  elastici,  [)resi  in  (piesto senso,  sarebbero  i  corpi  più  co/v/</<//o.v/,  che  cercano  di respingere  il  nemico,  o  almeno  di  far  cessare  il  suo  in- seifuinuMito  (1)  ». Ma  non  solo  Schopenauer  ri<;uarda  la  volontà  come la  causa  etiiciente  di  lutti  i  fenomeni  tisici,  (\ì;1ì  sostiene anche,  in  sostanza,  come  M.  de  Hiran,  che  nelTatto  vo- lontario, e  in  esso  solo,  noi  abbiamo  res])eri(Miza  della causazione  etticiente,  che  è  di  là  che  noi  tiriamo  questa nozione,  e  ch<*  è  perciò  che  dobbiamo  elevare  la  volontà a  tipo  di  tutte  le  forze  della  natura.  I  movimenti  del nostro  corpo,  ])ercepiti  per  i  sensi  esterni,  <»  la  succes- sione costante  di  (piesti  movimenti  al  se<»'uito  di  certe im|)ressioni  esteriori  determinate  sarebbero  j)er  noi,  e<»'li dice,  un  mistero    incomprensibile,    esattamente  come    le (1)  fòi(L,  voi.  II,  j).  448. 1S7 successioni  uniformi    di    tutti,uli    altri    can<»iamenti  <lel mondo  esterno,  se  la  coscienza  (U^lla  nostra  voUmtà  non ci    (h^sse  la  cliiave  di  questo  mistero,  svelan(h)ci  il  mec- canismo intimo    delle    nostre    azioni,    e    perciò    «li   tutte (luelle  della  natura  esteriore.  «  Per  il  so<;<;ett<)  puramente conoscente  il  suo  proprio  corpo  è   una    rappresentazione come  tutte  le  altre,   un  o«;\i>-etto  fra  .ì;1ì  og^'etti;  a  questo punto  di  vista    le    azimii,   i  movimenti    di    (pu'sto  corpo non  ^ii  sono  altrimenti    conosciuti  che  i  can<;iamenti   di tutti    .il;1ì    altri   o<;'<;etti  d<*irintuizione,  e  ^ii  resteiebbero così  stranieri  e  così  incomprensibili,  se  la  loro  si<;ni1ica- zione    non    «;li    fosse    svelata    d'una    tutt'altia    maniera. E,i»li   vedrebbe  i  suoi  atti  seguire  i  motivi  clie  si  presen- tano (cioè    certe    impressioni  esteriori)    con    la    c(»stanza. d'una    le^^A'e    naturale,    esattamente   cinne  i  can«i,iamenti de<;ii  altri  o«>;L»-etti    si    i)resentano  al  seguito  di  cause,  di eccitazioni  o  di  motivi.    Ma    non    potrebbe  comprendere rintluenza  dvì  motivi  (esteriori)  più  <li  <iuanto  compremla rincatenamento  de;:,ii  altri  eftetti  con  le  h)ro  cause.   L*es- senza  intima  e  incompresa  di  cpieste  manifestazioni  e  di (pieste  azioni    del    suo  cor[)o  e«;li  la  chiamerebbe  Ui;ual- nu^nte  una  forza,  una  (pialità  o  un  carattere,  secondo  elle oli  piacerebbe,    ma    senza    meglio    c<mipren(h'rla  })erciò. Ora,   non  è  co*ì  :    al    c(mtrario,    V  individuo,  il  soo^t^to conoscente,  possiecU^  la  parola  deireiiii;ina,  e  (juesta  pa- rola è  la  Volontà.  Questa  parola,  <iuesta  ])arola  sola,  gli dà  la  chiave  per  conoscere  se  stesso  come  fenomeno  ;  è essa    che    gli    rivela  la  sua    significazione,  e  gli  svela  il meccanismo  intimo  del   suo  essere,  delle  sue  azioni,   dei suoi  movimenti  (1)  ».  «  Se  noi  facciamo  rientrare  il  cmi- cetto  di  f<uza  in  ciuello  di  volontà,  noi   riccmduciamo  in fatto  un'incognita  a  cpialche  cosa  di  eminentenuMite  co- nosciuto, alla  sola  cosa  che  ci  sia  realmente,  immcMliata- (1)  Ihid.  voi.   I,  HI).  II,  par.  IH. —  188  — meute  e  iuteiiormeiite  coiio.sciiita  »  (1).  «  Noi  partiaiiìo <la  ciò  rlie  ci  è  il  più  inmicdiataiiiciitc  e  il  ])iii  coiiiple- tamcnte  conosciuto,  da  ciò  clic  ci  e  affatto  laiiiiliaic  e vicino,  per  comprendere  ciò  <lie  non  conosciamo  che  da lmi<;i,  per  un  sol  lato  e  Ì7idirettaìiìent(^  :  è  il  fenomeno più  ener<iico,  più  si<iniHcativo  e  più  chiaro  che  deve  ser- virci a  spiegare  il  fenomeno  meno  perfetto  e  meno  ener- gico. Salvo  il  lìiio  coipo,  io  non  conosco  tutti  <;li  altri oggetti  che  [)ei-  un  sol  lato,  ({nello  della  i'ap[)resentazione; la  loro  essenza  resta  per  me  un  profondo  mistero,  anche (piando  io  conosco  tutte  le  cause  dei  loro  cangiamenti. Non  è  che  per  la  comparazioiu'  di  ciò  che  avviene  in me,  (piando  il  mio  corpo  effettua  un'azione  sotto  Tiin- pero  d'un  motivo,  ciò  che  è  Tessenza  intima  dei  cangia- menti che  determinano  in  me  le  cause  esteriori,  cln*  io posso  rendermi  conto  della  maniera  in  cui  i  corpi  inani- mati cangiano  in  virtù  di  cause,  e  non  ('  che  così  che io  posso  comprendere  la  loro  essenza  intinm  ;  conoscere solamente  la  causa  (Tun  feiionu'uo  (cioè  il  sno  antece- dente costante)  non  mi  a[)])rende  niente  altio  che  la  re- gola della  sua  manifestazione  nel  tempo  e  nt^llo  spazio (cio('  una  semplice  uniformità  di  se(pu'nza).  K  (questa com})arazione  mi  è  possibile,  perché  il  mio  corpo  é  l'u- nico oggetto  di  cui  i()  non  conosco  solamente  un  lato, quello  della  rap])resentazioiie,  ma  anche  Taltro  lato,  chia- mato volontà  (2)  ».  «  I)(d)l)iamo  imiiarare  a  c(uicepire  la natura  j)artendo  da  noi  stessi,  e  non,  al  contralio,  (cer- care di  comi)renderci  ])arten(lo  dalla  natura.  È  ci<'>  che conosciamo  immediatamente  che  deve  spiegarci  ciò  che non  conosciamo  che  mediatanu'nte,  e  non  al  contrario. Comprendiamo  noi  meglio  forse  il  movimento  della  palla provocata  da   un  urto,  che  il  nostro  proprio   movinu^nto 18i) provocato  chi  un  motivo  ?  Altri  possono  crederlo  :  io  af- fermo che  è  il  c(Hitrario  »  (1).  Kvi(lentement(»,  (piando raut(ne  dice  che  noi  troviamo  neiresperienza  delle  nostre j)rojn'ie  azioni  volontarie  lesole  causazioni  che  comj)ren- diamo  e  di  cui  ccuiosciamo  l'essenza  e  il  meccanismo intimo,  mentre  le  (causazioni  delTesperienza  esterna  sono per  se  stesse  incomprensibili,  e  lo  l'estei'ebbeio  s(^  non fossero  s])iegate  i)er  mezzo  delle  i)rime,  egli  nffeiina,  sotto un'altra  forma.  In  (h)ttrina  stessa  di  M.  de  Hiran,  una causazione  che  si  comj)rend(^  e  che  ])U(')  s})iegare  le  altre clic  non  si  comprend(nu),  o  di  cui  conosciamo  l'essenza e  il  njcccanisiìio  intimo,  significan(h>  uv  \)\h  w  meno  che una  causazione  efticiente,  come  ciò  che  noi  diciamo  una semplice  se(]uenza  invariabile  significa  ])recisamente  una causazione  che  ])er  se  stessa  non  si  comj)rende,  e  che lia  Insogno  (noi  ci'cdiamo)  d'un  intxMinedijirio  es])licativo. La  stessa  riduzione  delle  forze  del  mondo  fisico  al- l'attività esteriore  dello  s})irito,  che  abbiamo  trovata  in Leibnitz.  in  M.  de  Biian  e  in  Scho])enauei',  la  ritiovia- mo  })ure  nei  pan})sichisti  posteriori.  Uno  di  (|uesti  ('* Rosiìiini.  Egli  fa  consistere  la  cosa  in  s('  del  coipo  in un  essere  spirituale,  che  chiama  il  prinripio  ((prjHtrco  ; ma  :i  diflerenza  degli  altri  ])an])sicliisti,  vuol  conciliare <|uesta  dottrina  col  lealisnu)  natuiale.  Pei(*i(')  egli  attri- buisce al  corpo  le  pi'0])iietà  che  gli  atti'ibuisce  il  l'cjdi- smo  ordinario  ;  ma  (|uesto  coi'])o  non  esiste  alti'ove  che in  un  j)rÌHripi(>  .vc>/sv7//'o,  cio('  in  un  altro  essei'c  spiri- tuale, come  l'oggetto  o,  come  dice  l'autore,  il  teiinine, di  una  sua  ])ercezi(nH*  ])ei*manente  (HeìithìHnilo  fomla- ìueninle).  Ogni  coij)o  non  ('  (hnnpie  che  il  jx'icepito del  su(ì  ])rinci])io  sensitivo  ;  esso  non  esiste  che  mdla ])ei'cezione  e  per  la  ])ercezioiH'  di  (juesto  piincijno  sen- sitivo, e  non  ('  che  il    contenuto  di    (pn*sta    peicezione  } (1)  Voi.    1.    p.   180. (2)  Voi.    1.   p.  202. (1)   Voi.    II.   1».  2111. .    N 190 ma  essn  (-    inTiiuiucntc,  e    pririò    aiicìic  il  corpo  r  per- Tiiaiieiite.   Il    principio    sensitivo  di  un    corpo  non  e  sol- tanto il  so;;<>vtto  pci'cipicntc  in  cni  il  coipc»  incsistc  co- me suo  percepito,  ma  è  anclie  il   principio  animatore  di <piesto  corpo,  rnnione  delTanima  e  del  corpo  consisten- do appunto  in  questa   percezione  permanente  die  la  pri- ma Ila  del  secondo  (1).   Senza    dubbio  il    motivo    princi- pale per  cui   HiKsmini  ammette  l'esistenza  di  (pu'sti  i)rin- cipii  sensitivi  <lei  corpi,  è  di   conciliare  la    tenomenalitri della   materia  col   realismo  naturale:   ma  un  altro  motivo é  <'lie  e<»ii  mm  trova,  alTin  fu(»ri  di  un  i)rincii)io  sensiti- vi», altra  causa    ammissibile  del    movimento.    Una    t'orza bruta  e  insensitiva,  risie(b'nte  neirinterm»  della  materia, non  è,  e<;li  dice,  clic  uirentità  astratta,  una   (pialità  oc- culta come  «pielle  dei^li  scolastici  :  (piamranclie    (piest'i- potesi  non  tosse  intrinsecanuMite  assui'da,  essa  dovrebbe sempre  respin,i;ersi,   perchè  mancante  della  prima  condi- zione di   un'ipotesi  le«»ittima.  «inella  di  assegnare,  come dice  Newton,    una    rcnt    ranxti  .   cioè  una    causa    la    cui esistenza  è  ^\k  stata  costatata  p^'r  r<)sservazione.  1/ipo- tesi  di  un  prin<*ii)io  sensitivo  e  spirituale  è    runica    clic sod<list'accia  a  (jucsta  condizione,   perchè    noi   mm    cono- sciamo altro  acidite,  se  non  ranima,  che  possa  determi- nare spontaneamente  un  movimento  (2).   L'autore  attri- buisce ai  principii  animatori  dei  i-oipi  le    forze    attratti- ve, a  cui  ric(mduce    tutte  le    fmze    tisico  -  cliimiclie    che non  possono  ricondursi  alla  semplice  inerzia  deUa  mate- ria e  alla   tiasmissi<me  (Ud  movimento  per  rimpnlsione; al    princii)io    corporeo    non    attiibuisce    immediatamente (1)  V.  su  (lueste  dottrine  di     Uosiniiii   il    mio    opuscolo   Pot- tr'nin  (li   l^onìnini  milV  essenza  della   ohi  feriti. (2)  V.    Psieoloffia  822,  902,   12r,0.   ls5(),     ISSI.    18S2    nota    2. 188S,    Teosofia   V    1S8,  2:^7.  ecc. timmim 191 che  la  conservazione  (hd  movimento  (h)vuta  alT  inerzia della  materia,  ma  mm  la  forza  motrice  clie  principia  un movimento  (1). Anclie  Gioberti,  nelle  sue  opere  postume,  è  un  pan- psicliista.  La  dottiina  di  Gioberti,  in  (lueste  opeic,  si avvicina  ai  sistemi  idedlisfi,  di  cui  parleremo  in  seguito, perclìè  e«»ii  ammette  che  il  pensiero  è  Tessenza  di  tutte le  cose  ;  ma  essa  é  un  i)anpsichismo  (nel  nostio  senso), poiclié  secondo  <pu'sta  (h>ttrina  tutti  <;li  esseri,  tutte  le forze  deUa  natura,  sono  (Udle  forze  spiiituali,  (h'ile  ani- me (2).  Anche  Gioberti  (bimpie  ricon(hu-e  le  foize  (hd mondo  tìsico  all'attivitiV  esterioi'c  (hdlo  spirito:  ma  nella sua  dottrina  <piest'  ipotesi  serve  a  spie.uai'c,  jiiii  che  la spontaneità  del  movimento,  la  tìnalità  dei  fenomeni,  che non  potrebbe  essere  che  una  manifestazione  deirintelli- genza.  il  pensiero  costituisce  V  essenza  di  tutte  le  cose, ma  ne.uli  esseri  digerenti  esso  si  trova  a  .ura<li  dittèrenti di  sviluppo.  I  ^radi  inferiori  (Udlo  svilup])o  del  pensiero sono  pure  pensiero  o  intelli«;enzji,  ma  uiT  intellii»enza iniziale,  implicata  v  che  ncm  ha  coscienza  di  sé.  Il  .ura- (h)  più  basso  (hdlo  svilupiM)  (hd  pensiero  é  V  istinto  (1^). L'  istinto  ha  una  conoscenza  confusa  (h'ilo  sco]>o,  e  lo C(mse«>ue  fatalmente,  perchè  non  è  lil>ero.  ().i»ni  fcuza  è istintiva;  l'entelechia  psicdiica  opera  i)er  istinto,  (piando è  solo  sensibile,  e  (h)r]ne  la  coscienza  (4).  La  vita  e  Pi- stinto  essen(k>  azioni  ordinate  e  teleol(j<;i(  he,  non  i)os- sono  venire  altron(h'  che  (hi  un'  intelligenza  inconscia, fatale  e  inv(duta.  Questa  intelli,i»enza  è  T  anima,  P  inte- riorità di  o-ni  immade.'Essa  si  sviluppa  e  passa  per  va- (1)  V.   P(»i)Uscolo  citati»  su   Rosiuini,   fascicoli»   Il   i>a.ii.   «>-7. (2)  Protoloijla  ed.   Napoli  t.    Il    lH-2(),   17:^.  U»7.  2l<).  SIS,  ecc. (S)  Ihid.  t.   n   p.  24. (1)  Ihid.  t.   11  p.  20. —  192  — rii  <'Ta(11,  elle  rispondono  ai  varii  ordini  dt*llt*  forze  niec- lanidie,  lìsi<*lu',  cliiniiclie,  vegetative,  animali,  sensitive, razionali  (1).  Come  dalle  azioni  dei  nostri  simili,  essen- do ordinate  e  tele<»loi;iclie,  noi  argonn^ntiamo  in  essi  il pensiero,  così,  lo  stesso  ordine  teleolo«^ieo  splendendo in  tntte  le  parti  della  natura,  si  deve  eonelndere  elle  lo spirito,  il  pensieio,  è  V  interiorità  di  tutte  le  cose,  di tutte  le  forze  della  natuia.  II  solo  divaiio  <'lie  corre  tra Tuomo  e  ^li  altii  esseri  è  che  in  questi  la  mentalità  è istintiva  e  fatale,  mentre  nelF  uomo  è  cosciente  v  libe- ra (2).  Dei  i;radi  inferiori  della  mentalità  non  possiamo follila  lei  un'idea  c<uicreta,  ma  solo  ap])rossimativa  e  ana- logica. Il  soglio,  in  cui  ranima,  concentrata  tutta  nella sua  int(MÌosità,  si  crea  fatalmente  un  mondo,  e  un  mon- do ordinato.  ]K'r  la  virtù  plastica  delPimma^inazione,  e il  sonnamludismo,  dove  il  soi^uo  produce  una  serie  di operazioni  esteriori  spesso  dittìcili  e  ordinatissime,  con una  jH'ecisione  clie  vince  <{uanto  si  })uò  faie  nella  ve<;lia, ci  danno  una  notizia  ai)[)rossimativa  si)eiimentale  e  con- cretai della  interiorità  delle  forze  cosmiclie  e  delFessenza deiristinto  (;^). Lotzt*  <là  come  prova  del  suo  pan])sicliismo,  non  so-lamente che  Tessere  s})irituale  è  il  solo  che  possa  essere concepito  come  reale,  ma  anche  clie  è  il  solo  di  cui  si possa  com})rendere  il  modo  di  azi<me.  Questi  motivi della  dottrina  di  Lotze  si  ve(h)no  suHicientemente  nei due  tratti  seguenti  :  «  L'idea  di  un  essere  inerte,  passi- vo, di  cui  i  caratteri  sono  T impenetrabilità  e  l'estensio- ne, dotato,  nella  sua  inerzia,  di  forze  sottomesse  a  delle leggi  costanti,  è,  per  la  nostra  intelligenza,  nn'idea  af- il)   Pao-.  44. (2)  I»a-.  (54. (3)  V'A^jr.  3:^-84. 198 fatto    inc(niii)rensil)ile  :    noi    non    possiamo    ccmcepirc  in che  c(msiste  Tessere  (Tun  elemento  così  deiinito,  ne  co- me Tesistenza   [)uò  appartenergli  sotto  (piesta  torma.  La nostra  intelligenza   non  si  fa  assolutamente    alcuna    idea <li    (|uest' essere    mort<»,  immobile,  che  a  ]n'ima  vista  ci sembrava  sì  facile  a  conce])ire,  i)erchè  esso   si    presenta a  noi,  al  di  fuori,  come   un  juinto  di    legame    molto  co- modo per  i  din'erenti   rap])orti  che  sono    T  oggetto   della scienza  :  noi   non  abbiamo    uiT  intuizione    positiva  e  im- mediata  che  di   ciò  che  è  vivente   <*    attivo  :    è    ciò    solo che  (Muiiprendiamo,  con  ciò   solo    possiamo    simpatizzare perchè  ne    ])enetriaìiio    T  essenza  :   la    materia  ò    scMupre per  noi   una  tìgura  straniera,  (iuantumiue  sia  assai  bene e  assai  rigorosamente  «letinita  per  le  (h'ttMininazioni  della forma,  della  situazicnie,  del   movimento  e  degli  altri  mo- <li  (Tazione  che  vi    si  legano,  la    materia    lesta     semi)re per  noi,  in  tutte  le  nosti'c  intuizioni,  una  sostanza  osck ni,  vhi' si  muove  in  una  brillante  rete  di   relazioni,   sottoposte  a delle  leggi  che    noi    conosciamo    in  gran    parte  e  che  ci permettono  spesso  di  predire  i   fcMumieni,  le  forme  clTes- sa  prenderà,  senza  potere  tuttavia    <lissii)ai'e  le    tenebre che  la   nascondono  in   se  stessa  ai   nostri   sguaidi.    La  ti- sica è  il  pili  grandioso  sviluiqx»  di  (jiiesta    scienza    cirra rem,  che  ci   [MMiiiette  solamente  <li  conoscere  i   <'aratteri cst(MÌori,    non    T  essenza   (h^Toggetto  ».    1)  «  Noi  abbiaiiu) cercato  già    più    volte  di    mostrare    eh"  ò    im])ossibile  di (•(uiiprendere  un   principio  morto,   di   compremh'it»  il  suo modo    d'aziime.    Quest'idea    d'una    sostanza    inerte  può servirci  nei  nostri  calcoli,  nei  nostri  studii  sui  fenomeni, ma  come  credere  che  essa  corrisiM)nda  a  quah-he  c(»sa  di  ob- biettivo ?  Allora  di  due  cose  Tnna  :  o  ciò  in  cui  non  vediamo alcnmi  tra<-cia  di  vita  spirituale  non  è  per  noi  che  un  feiio- (1)    Psieol.  Jisloiof/h'a   Xv.id.   Iniiie.   l)J>j^^.   r>2. l:^ li)4  — meno  senza  si^staiizM,  o  noi  dohhijniio  jniiniettcìc  che  vi  si nasroiidc  tuttavia  una  vita  spirituale.  L'idealismo  non  lia mai  j)otuto  tare  trionfare  la  ])ii)nai[>otesi:  il  mondo  esteriore ha  per  se  stesso  trop[>a  l'ealtà  pei*  essere  mai  riu»uardato eonie  una  puia  creazione  della  nostra  im ma. il» inazione  : noi  siamo  dumpu'  ohhliuati  di  eeicare  la  l'a^^ione  della sua  esistenza  peinianente  in  un  principio  s])irituale  clie lo  vivilica  e  che  solo  può  essei'c  riguardato  conu'  un  es- seie  indipemlente»  (1).  K  evidente  che  (piando  Tautore dice  che  un  essei-e  inerre  (h>tato  di  forze,  e  che  non  ha per  caratteri  che  rimpiMietrabilità  e  T  estensione,  è  in- comprensihile,  che  la  iH)stra  intelli.uenza  n<m  si  fa  alcu- na i<U*a  di  un  tale  essere,  che  noi  non  ne  penetiiamo Tessenza.  che  la  matei'ia  è  sem[)re  per  noi  una  figura stranieia.  che  è  una  sostanza  oscura,  ecc.,  (pU'ste  pro- ])osizi<uii  si^nilicano  al  tem[)o  stesso  due  concetti  :  che la  materia,  (piale  la  (h'iinisce  la  tisica,  non  ])U('>  conce- ])irsi  c(une  la  reale  (ci(>  che,  come  vedremo  inaila  2-'  parte di  ([uesto  Sanzio,  è  jx'ifetta mente  vero)  ;  e  che,  come dice  Fautore  nel  secoinh)  tratto  citato,  non  si  pu('>  com- prendere il  suo  modo  (Tazione.  ma  solamente  ([ue]|(>  (h'ilo spirito.  I/<>[>j>osizione  tra  la  materia,  [)rincipio  inerte, morto,  e  lo  spirito  .  principio  attivo  e  vivificatore,  ci dice  abbastanza  che  (pu'sto  modo  (Taziime  dello  spirito, che  solo  comprendiamo  (e  che  per  con  sequenza  cU've spie«iare  tutti  ^li  altii  modi  d'azione  ch'Ila  natura),  è sovratutto  il  nìod(»  (h'ila  sua  azione  esteiiore,  come  prin- cipio (h'ila  nostra  propiia  foiza  e  di  tutte  le  forze  co- smiche. Questo  fatto,  chv  il  i)anpsicliismo  non  ('  solo  una dottrina  sulla  cosa  in  sé  della  materia,  ma  anche  una s])ie^Uazione  antioponM)rtistica  dei  fenomeni  tisici,  si  ])U(^ osservare  facilmente  in   tutti   «;ii  altii  autori  che  ammet- (1)  IhiiL  e.    Ili   vS   l. '.«laMWiÉi —  195 tono  ([uesto  sistcMua,  altn^tanto  che  nei  filosofi  precech'uti  : in  Wundt  che,  come  M.  de  Hiran,  vech*  nell'azione  volon- taria il  tii)o  d'ogni  causalità  e  rori<niue  stessa  di  (\nv- st'idea  (1).  e  ammette  che  oi»ni  movimento  (h'ila  materia è  la  manifestazione  di  un  istinto  (2)  (ri«;uardando  l'azio- ne istintiva  come  un'azione  (h^lla  volontà  in  cui  non  vi Ila  una  scelta  fra  diversi  motivi)  (8):  in  Wallace  che. come  M.  <h^  Kiran  e  Schopenauei*,  lisolve  la  materia  nella forza,  e  la  forza  nella  volontà:  in  Henouvier  che  attri- buisce alle  moinub*  dei  sentimenti  attivi  di  ^(///vrc/oy/f' e  di rcjnihitpnc  corrispondenti  alle  attrazioni  e  rej)ulsioni  (h*lle molecole  (4):  in  Taine  t>er  cui  il  lato  interno,  l'in  sé,  (h'I movimento  (h'i  coij)i  è  (pialche  cosa  (b'  analog(>  alla  sen- sazione muscolare  che  accompa,i»na  i  nostii  ])ropri  niovi- nuMiti  (5):  (H'c.  In  tutte  le  foiine  del  sistema  noi  vediamo tutti  i  moviuH'nti  della  natura  assimilati  più  o  meno  al movimento  volontario.  Evich'iitemente  (piesto  scopo  <h'l I)anpsichismo  d\  foriiir(%  oltre  alla  cosa  in  se,  una  spie- gazione causale  (h'i  fenomeni  tìsici,  assimilan(h)li  al  movi- (1)  «  l/i<lca  «li  (((firifà  in  jioncralc  ci  (•  uuicjniiciito  loriiitji  «lidi»' nostre  |>r()]>ri('  azioni  volontaiic.  ed  e  trasmessa  da  esse  a  de.nli onLietti  esteriori  in  movimento»  (Wnndt  hJlrin.  dì  /tsirolof/ia  fisio- ÌOf/i(u«  e.  20  v^   1    sul   ]>rinei]MoL (2)  V.   la   stessa   o]>era   e.  24  v>  •^. (S)  V.   la   stessa  oix'ra  cap.   XX J.   2. (4)  V.  Xnoia  J[oiHHÌolo(/ia  XIII.  'tuttavia  Henonnier  non vede  nel  ra])|M)rto  tra  la  volizione  <'  il  lìiovimento  elie  un  caso «leirarmonijì  ju-estabilita,  e  biasima  M.  de  Biran  di  aver  dato al  v(dere  «  la  funzione  «li  un  ancnt»'  inlern(»  o]>erjinte  un'azione esterna»  (Ibid.  nota  2(5).  Anelie  Ivcnouvier  trova  roTÌ<»ine  delh» idea  di  eausa  nell'atto  della  volontà,  nm  lìel  suo  esercizio  interno: (ibid.  nota  27.  not;i  24,  artie.  4,  eee.)  «'  la  seeonda  delle  due  fornu* (l(dla  te(U'ia  voliziomde  della  causalità  di  cui  palleremo  nell'art.  VI. (5)  V.   V fnteìlìiicuzn  ]»arte   II.   liì).    IL   e.    I.    VII. im iiKMito  volontario,  r  il  motivi  jh'I'  cui  M.  de  Hiraii,  Sdiopeua- \wr  V  altri  panpsicìiisti  tanno  consistere  la  cosa  in  se  nella volontà  piuttosto  che  in  altri  fenomeni  psichici.  Ma  anche (luando  non  fa  della  volontà  Tessenza  di  tutte  le  cose,  il panpsichismo  è  sempre  una  spie«;a/ione  volizi<male  del unnido,  couie  l'ilozoismo,  con  cui  ha  Tattinità  più  intima, e  la  tilosotia  teolo^uica. Non  vi  ha  dubbio  che  (jucsta  spiegazione  volizionale del  pani)sichismo  non  è  che  Tondna  di  una  spie^nazione. Tia  i  fatti  j)sichici  e  i  fatti  tìsici  non  vi  ha  in  <piesto  si- stema alcun  legame  causale  possibile,  ma  semi)licemente un  parallelisiìio.  Per  o^iii  fatto  tisico  vi  ha  un  fatto  psi- chico che  <;li  corris])onde,  e  viceversa;  ma  i  due  fatti  inni sono  che  un  fatto  s<»lo.  conosciut<>  jn'r  due  vie  ditferenti, una  volta  pei*  i  sensi  esterni,  e  uiTaltra  pei*  la  coscienza; la  coscienza  ci  dà  la  i-ealtà.  i  sensi  cstei'ui  il  fciunttenOj cioè  l'apparenza,  di  <pu'sta  realtà.  Allora  sul  rapporto  tra il  movinu'uto  e  la  volizione,  o  altio  fenomeno  psichico <pialsiasi  che  il  ])an])sichismo  dà  come  ra^^ione  esplicativa <lel  movimento,  non  vi  hanno  che  due  ij)otesi  possibili  : o  il  primo  dei  due  fatti  è  il  p<n'(iUcUt  <lel  secondo,  il  fe- nomeno di  cui  quest<>  è  la  lealtà  -  è  ri[M)tesi  di  Scho- [)enauer  —  ;  o  il  pnìdlìcUt  <lel  movimento,  la  sua  realtà, mm  é  la  volizione  o  l'altro  fatto  analoi;()  che  si  assegiie- icbbc  come  siderazione  del  movimento,  ma  un  fatto  suc- cessivo, naturalmente  scmj)i('  psichico,  determinato  dalla volizione  o  dal  suo  analo<;<) — è  ri})otesi  di  Leibnitz. — Nel l)iimo  caso  il  fatto  ]>sichico  che  si  dà  come  ra.uione  espli- cativa <lel  movimento,  non  ne  ])uò  essere  la  causa,  per- chè ciò  (Mpuvarrebbc  ad  essere  la  causa  di  se  stesso,  esso e  il  movimento  essemlo  un  fatto  solo,  consideiato  sotto due  aspetti  ditferenti.  Nel  secomlo  caso  (piesto  fatto  psi- <-hico  è  una  <ausa,  ma  non  del  movimento  stesso,  ma  di un  altro  fatto  che  non  ha  col  movimento  la  più  lontana analogia,    il  concetto  biella   fenomenalità    del  movimento, —  197  — qualumiue  sia  il  rapporto   che  il   panpsichista   (se  il  suo panpsichismo  è  rigoroso)  stabilisce  tra  il  movimento  stesso e  la  tendenza  psichica  al  movimento,  è  lU'cessariamente incompatibile  col  concetto  che  ([uesta  è  la  <-ausa  di  (pudlo, poiché  dei    due  tatti  implicati  in    un  rappcnto  di  causa- zicme,  Tuno,  cioè  l'etfetto,  non  esiste  più  in  cpiesta  (h)t- trina.  Nondimeno  cpiesto  punto  di  contatto  che  il.pani)si- chismo  ha  con  l'ilozoismo,  (pu^sta  rappresentazione^  della materia  non  come  inerte  e,  per  dire  le  parole  di   Lotze, morta,  ma  vivihcata  <la  uno  spirito,  è  (pianto  basta  pei' dare  un  sembiante  di  soddistazione  al  bisoono  innato  che ha  rintelli<;enza  umana  di  conoscere  le  muse  (cioè  le  cause eiììcienti  e  non  i  semplici   antecedenti  dei  fenomeni).  Ciò è  perchè  conosctMC  la  causa  efficiente  di  un  fenomeno  e avere  la  spiegazione  di  (pu'sto  fenomeno    (nel  senso  po- polare e  metafisico  della    parola    spie-azione)  non    s(mo che  due  lati,  o  piuttosto,  due  espressimn  diftèrenti,  di  uno stesso  tatto  nuMitale,  e  spiegare  un  fenomeno  (in  (lU(^sto senso  della  parola)  è  assimilarlo  a  un  altro  fem>nuMio  che ci  sembra  intelligibile  pei-  se  stesso.  Ora    rappresentarsi i  corpi  in  movimeìito  come  viventi,  animati,  è  assimilare più  o  meno  il  loro  movinu'uto  al  moviun'Uto  volontario; e  tra  i  movinu-nti  che  non  possiauìo  spiei»are  per  l'urto, è  (puvsto  il  solo  che  <-i  sembra  intelli<»ibile. -<^xt-  S. L'  idealismo. §  18.  Vi  ha  certamente  iin' immensa  distanza  tra  la filosofia  o-rossolana  dell'uomo  primitivo,  che  spiega  tutti gli  avvenimenti,  che  egli  non  comprende  altrimenti, attribuendoli  a  spiriti,  folletti,  demoni  o  divinità,  e  la dottrina  delle  monadi  di  Leibnitz,  quella  della  Volontà —  198 di  Schopenauer,  e  le  altre  affini  appartenenti  allo  stesso o-enere,  a  cui  abbiamo  dato  il  nome  di   panpsichismo  ; ma  tanto  la  prima,  quanto  le  ultime,    non    meno    che tutte  le  altre  che  noi  abbiamo  incontrato  passando    da (juella  a  (lueste,  possono,  in  ultima  analisi,  ricondursi sotto  lo  stesso  concetto  comune  :  è  che  esse,    fra  le  di- verse forme  della  nostra  attività,  è  Tattività  volontaria, come  determinante  un  can;j;iamento  nel  nostro    proprio corpo  o  nel  mondo  esteriore,  che   prendono    come   tipo delle  cause  efficienti  dei  fenomeni  naturali.   Ma  noi  dob- biamo far  menzione  ancora  di  un'  altra  forma  di    spie- orazione  antropomorfistica  dei  fenomeni,  la  quale  prende per  tipo  r  uomo,  non  come  dotato  di  attività  esterna, come  at^^ente  volontario,    ma    come    dotato    di    attività- puramente   interiore,   come   semplice    essere    pensante. Questa  specie  del  <>-enere  antropomorfismo  non  si  ricon- duce alla  formula  di  A.  Comte  :   la  tendenza  dello  spi- rito umano,  che  quest'autore  pone  all'origine  della  fi- losofia teologica,  o  anche,  in  generale,   della  filosofia nìetatìsica,  non  potrebbe,  rigorosamente,  rendere  ragione di  questa  forma  di  filosofia  a  cui    noi    alludiamo;    tut- tavia essa  ha  il  rapporto  più    intimo    con    la    tendenza di  cui  parla  A.  Comte,  perchè,    in  (juesta  filosofia,    è ancora  suir attività  umana  che  viene  modellata  la  spie- o-azione  universale  dei  fenomeni.  Questa  filosofia  è   Vi- (lealismo:    beninteso  che  noi  dobbiamo    dare    a    questa parola  idealismo  un  certo  senso  definito,  perchè  non  è in  tutte  le  dottrine   a   cui  suol  darsi  questo  nome,   che si  può  riconoscere  una  manifestazione    di    (|uesta    ten- denza a  spiegare  i  fenomeni,    assimilando    alla    nostra attività  umana  il    loro    modo   essenziale   di  produzione. Noi  intenderemo  dunque  per  idealismo  una  dottrina  in cui  la  natura  viene  spiegata  per    V  attività    immanente del  pensiero,  cioè  per  1'  attività  dello    spirito,  non  sul proprio  corpo  o  sul  mondo  esteriore,  ma  sulle  proprie 199 rappresentazioni.  Cosi  ([uantun(|ue  ordinariamente  siano chiamati  idealisti,  ]).  e.,  tanto  Fichte,  quanto  J.  Stuart. Mill  o  A.  Bain,  invece,  iu»l  senso  ])iù  ristretto  che  noi diamo  qui  alla  parola  idealismo,  questa  denominazione conviene  al  primo,  m\\  non  può  coìivenire  ai  due  altri. Poiché  quantunque  tanto  il  primo  (pianto  i  due  altri neo'hino  la  realtà  del  mondo  esteriore,  e  risolvano  la natura  nel  sistema  delle  no>tre  percezioni,  pure  vi  ha fra  di  essi  una  gran  differenza,  ed  è  che  il  ])rimo  si)ieg-a questo  sistema  di  percezioni,  ((uesta  natura,  consideran- dola come  la  creazione  e  l'opera  di  noi  stessi,  come  il prodotto  dell'attività  s))ontanea  del  me,  del  nostro  ])en siero,  e  perciò  noi  lo  ehiamiamo  un  idealistit  :  mentre i  due  altri  considerano  (piesto  sistema  di  j)ercezioni come  dato,  non  come  prodotto  da  noi,  dalla  nostra  at- tività pensante,  e  perciò  noi  non  li  chiamiamo  idcaltsti. Il  tipo  della  metafisica  idealista,  in  (piesto  senso,  bi- soo-na  cercarlo  nel  movimento  filosofico  tedesco,  che  va da  Kant  sino  ad  Hegel  :  i  rappresentanti  di  questo movimento  filosofico,  sia  che  Tacciano  del  mondo  este- riore un  fenomeno  subbiettivo  (idealismo  subbiettivo  : Kant  e  Fichte),  sia  che  ammettano  la  realtà  iXvX  nnmdo esteriore,  ma  risolvendo  le  cose  in  pensieri  (idealismo obbiettivo:  Schelling-  ed  Heg-el),  tutti  ammettono  egual- mente che  il  mondo,  fenomenale  secondo  gli  uni,  reale secondo  gli  altri,  è  una  j)roduzione  delT  attività  del pensiero  (1). (1)  Se  si  (love  stare  jdl'etiiuolonia,  aiiclie  l'idealisiiio  saicMte un  ]>anpsiclnsni()  (nieno  tutta.viji  quella  forma  «leiridcalisino  die ainiiiette  l'esistenza  di  qiialehe  eosji  iinli]»eiMl<*iit«'  dalla  ra|»i>re- seiitazione,  eoiiie  p.  e.  il  eritieisiiio  in  «pianto  aninu'tr»'  l'esi- stenza reale  della  eosa  in  se).  E  eiò  natnralnuMit»'  «*  vero  non s<do  nel  senso  ristretto  elie  noi  aldnanio  dato  jilla    pai*<>la    idea- 200 §  15.  Kant  è,  come  abbiamo  detto,  un  idealista  sub- biettivo  :  le  cose  che  noi  chiamiamo  esteriori  non  esistono lisnio  .  iiin  jnulii'  nel  scuso  ]>iiì  lurido  che    viene  (bit(»  ordiiiariji- iiiente  a  questa  parola:  |>.  e.,   Berkeley.  Stuart-Mill.  Haiii  sareb- l»er()  aneli' essi   j>aii]»si<']iisti.    Ma  il   scuso  ehe  noi    a)»l)ianu)    dato alta  parola  paui)siehisuH»  n<»n  è  tanto  laro;o  ([uanto  importerebbe .retiiuolo^ia  :   noi   ab))ianio  eliiauiat<>  iKini>sieliisnio   (piella   forma di   UH'tatìsiea  .   il   eui   carattere  essenziale  ^  di   vedere  nella   ma- teria  un  tiMuuucno,   la  cui  cosa  in  se  (^  spirito.   11    ]»anpsicliismo nasce  dalla  quistione  :   <iual    «'  fuori   di   noi  la    realtà    che    corri- 8i>on«lc  a  «luesto  fenomeno  (h'ila   nostra  percezione  che  noi  cliisi- niiamo  materia  i  Tuttavia,   oltre  che  alla   ricerca  della    cosa    in se,   questi)  sistema   è  pure   le.uato  a  <iuella   delle   cause  etHcienti, in   «luauto  a   nessuno   verrebbe   in   mente  di    supjjorre    un    essere sjnrituale   là   dove  i   suoi   sensi   non  percepisccnio  clic  nn    corpo, se  nei  fi'nonn-ni  di  questo  corpo  sensiì)ile  ei;li  ncMi  credesse  di  ri- com»scere  ulcun  clic  che   lo  nutorizzasse  ad  attribuire  questi  fe- m)mt«ni   ali*  aziom*  di   «pmhhe  esere  spirituale,   secondo    V  analo- <lia  dell'azione  del   proprio  spirito  sul  i>roprio  corpo.   Perciò  noi abìdamo  considerato   il   panpsichismo  .    in  «pianto   esso    è    lejiato alla   quistione  delle  cause    ettìcienti,    come    una    manifestazione della   mastra   teiHh'Uza   ad    elevane    l'attività     volontaria    che    si es<'rcitM   sul   no.-i rn  proi>rio  corpo  t»  sul   mondo  esteriore,   a  tipo della   produzione  <li   tutti   i   t'enomeni.    \j' idealismo  invece,   come abbiamo  detto,  eh'va  a   ti]M)  «Iella  produzione  delle  cose    V  atti- vità  interi«»re  del   pensien»  .   non  la   sua  attività  esteriore  .   (cioè l'azione  «h'ila   volontà   s»ii  corin).   In    «puinto   alla   «piistione    del monito   esteri(»re,  mentre  il  /nnipsichismo    è  anzitutto  nna    soln- zitme  dctermiimta  <li   questa  (juistioue.  Videaliamo  invece  semì»ra concilialule  c«m  qualsiasi   siduziom'.   Esso  i>u«»  nejiare  con  Fichte il  mon«lo  esteriore  .    ]ui«>   ammettere  con  Kant  «lette   cose   in    sé s«-onosciut«-  .   \mh  «-«m    He<i«d    ricon«)sc(u-e    la    ob])iettività    ch«'    il sens«)  c«niiuu«'  acc«»rda  alh"  api»ar<'nz<^  sensit)ili.   può  essere  dina- mista  c«m  S«h«dlino,   ecc.   Ciò  «-he  ò  indispensabile  a  un  sistema i«lealista   non  <•  che  «iuest«»  risultato  della  critica  del  realismo  — che  ri«lealista   subbiettivo  ammette  nella  sua  iutej»rità.   ma   l'i- dealista obl)iettiv«»  preten«l«*  c«)nci Ilare  col  realisnm  stesso— che le  cose  non  esiston«)   in<lipen<lentemente    dalla  rappresentazione, e   m)n   son«»  esse  stesse  che  rajjpresentazioni. 201 per  lui  indipendemente  dai  nostri  sensi,  al  di  fuori  del nostro  spirito  ;  esse  non  sono,  com'  egdi  dice,  che  feno- meni (apparizioni)  o  rappresentazioni.  Al  di  là  dei  feno- meni egli  suppone  un  fondamento  reale  dei  fenomeni, una  cosa  in  se  ch'egli  chiama  noumeno:  ma    egli    non intende  affermare  positivamente  l'esistenza  dei  noumeni, il  concetto  del   noumeno,    per    la  filosofia  teoretica  al- meno,  non  è  che  problematico  (1).    Sin  (jui  la  dottrina di  Kant  non  differisce  gran  fatto  da  quella    di    Mill    o di  Bain  :  se  la  sua  filosofia  si   fosse    limitata    a    (luesta dottrina,  essa  non  sarebbe  un  idealismo,  nel  senso  che noi  abbiamo  dato  a  questa  parola;  ben    più,    essa   non sarebbe  una  metafisica,  ma  un  puro  empirismo.  Kant  e un  metafisico,  perch'  egli  non  si  contenta  di    accettare questo  mondo  dei  fenomeni  come  un  dato  ultimo,  di  cui dobbiamo  limitarci  a  costatare,  le  leggi,  cioè  le  unifor- mità  di  seciuenza  e  di  coesistenza,  e  al  di  là  del   quale non  dobbiamo  cercare  niente  di  più;  al    contrario    egli vuole  spiegare  questo   mondo    dei    fenomeni,  egli  cerca la  ragione  perchè  questi  fenomeni    sono    governati   da queste    leggi    o    da    queste    conformità    che  noi    osser- viamo in  essi.  La  metafisica  di  Kant  è    un    idealismo, perchè  questa  ragione,  questo  fondamento  dell'  ordine dei  fenomeni,  si  trova,  secondo   lui,    nell'  attività   del pensiero. La  nostra  conoscenza  secondo  Kant  è  circoscritta nell'esperienza  ;  ma  egli  distingue  nell'  esi)erienza  due elementi,  la  forma  e  la  materia.  La  materia  dell'espe- rienza sono  i  dati  dei  nostri  sensi,  e  noi  possiamo  sui>- porre  che  essi  siano    delle    impressioni    in    noi    o   delle (1)  V  Aliai  l.  IL  e.  Ili,  iMMidam.  della  distinz.  di  tutti gli  ogj^etti  in  tVMiom.  e  noum.  Cfr.  Sc«>lio  alPantìb.  dei  c«H,cetti ritiessi,   verso  la  line. 202 apparenze  delle  cose  in  8Ò  .sconosciute  :  la  forma  com- prende l'ordine  o  i  rapporti  reciproci  in  cui  ci  vengono presentati  questi  dati  dei  sensi,  questi  materiali  della conoscenza.  Questa  formd  delTog-getto  della  nostra  co- noscenza non  è  dovnita  all'  azione  in  noi  delle  cose esteriori  sconosciute,  dei  noumeni,  ma  si  trova  prepa- rata nel  nostro  spirito  stesso,  e  g'ii  è  ing-enita,  niente potendo  essere  oggetto  della  nostra  conoscenza,  senza ric(;vere  qu(;sta  forma.  La  forma  è  cosi  un  elemcMito puramente  soggettivo;  è  il  modo  det(M*minato  dalla  na- tura delle  nostre  facoltà  conoscitive,  in  cui  le  cose  de- vono essere  da  noi  rappresentate.  La  forma  è  l'elemento comune  o  permanente  della  nostra  conoscenza  ;  la  ma- teria è  r  elemento  variabile  :  ciò  che  vi  ha  di  a  priori nella  nostra  conoscenza  ap})artiene  alla  forma,  ciò  che vi  ha  di  a  posteriori  alla  mat(iria.  Nella  nostra  cono- scenza,  e  (juindi  anche  negli  oggetti  di  questa  cono- scenza,  vi  ha  un  duplice  elemento  formale:  vi  hanno le  forimi  dell'  intuizione  sensibile  e  le  forme  del  pen- siero. Le  forme  dell'intuizione  sensibile,  che  Kant  chiama anche  intuizioni  pure,  sono  lo  spazio  e  il  tempo.  Se gli  oggetti  sensibili  sono  (»stesi,  se  ogni  oggetto  o  fe- nomeno esteriore  è  in  un  certo  luogo,  ciò  è  perchè  lo spazio  è  una  forma  della  nostra  sensibilità,  e  noi  non possiamo  perciò  percepire  altrimenti  i  fenomeni  che nello  spazio.  Se  tutti  gli  avvenimenti,  comparati  fra  di loro,  sono  o  simultanei  o  successivi,  se  ogni  fenomeno occu{)a  una  posizione  nel  tempo,  in  una  parola  se  vi ha  nelle  cose  che  noi  conosciamo  un  prima  e  un  poi, una  successione  e  una  durata,  ciò  e  pure  perchè  il tempo  è  una  forma  della  nostra  intuizione  sensibile,  e noi  non  possiamo  conoscere  niente,  né  noi  stessi  né  le altre  cose,  senza  rivestirlo  di  questa  forma.  La  succes- sione, il  prima  e  il  poi,  V  ordini*  dei  fenomeni,  non  è dunque  nelle  cose  stesse,  non  è  che  subbiettivo  :  indi- —  2m  — {)endentemente  dallo  spirito  che  conosce,  non  vi  ha  al- cuna successione,  alcuna  simultaneità,  alcun  ordine  nei fenomeni  stessi.  Questa  dottrina  sul  tempo  è  della  più grande  importanza  nel  sistema  kantiano,  perchè  senza questa  subbiettività  del  tempo  le  forme  del  pensiero, di  cui  ora  passeremo  a  parlare,  non  potrebbero  ajìpli- carsi  ai  fenomeni,  ai  dati  della  sensibilità.  L'  applica- zione delle  forme  del  pensiero  ai  fenomeni  consiste  es- senzialmente nel  determinare  a  priori  i  loro  rapporti nel  tempo  (e  col  tempo)  (lì. Che  il  tempo  è  una  forma  dell'  intuizione  sensibile è  duiKiue  la  ragione  perchè  i  fenomeni  appariscono  nel tempo  :  ma  la  ragione  per  cui  essi  ci  appariscono  nel tempo  in  certi  rapporti  reciproci  determinati,  deve  cer- carsi, non  nelle  forme  della  sensibilità,  ma  nelle  forme del  pensiero  o  dell'  intendimento.  Per  esempio,  perchè vi  ha  questa  uniformità  generale  nella  successione  dei fenomeni,  che  noi  chiamiamo  legge  della  causalità? Questa  quìstione  ha  una  suprema  importanza  pcir  Kant, perchè  le  ricerche  scettiche  di  Hume  sulla  causalità furono  lo  stimolo  più  energico  delle  ricerche  dell'autore del  criticismo,  furono  esse,  com'egli  dice,  che  lo  risve- u'iiarono  dal  suo  sonno  dogmatico.  A  questa  ((uistìone Kant  risponde  :  se  vi  ha  una  higge  di  causalità,  cioè una  uniformità  di  sequenza  nei  fenonumi,  ciò  non  è già  perchè  vi  ha  nelle  cose  stesse  un  nexus  o  una  forza secreta  da  cui  derivano  le  congiunzioni  costanti  che noi  osserviamo  nei  fenomeni  :  ciò  che  potrebbero  essere le  cose  in  se  stesse  ci  è  assolutamente  sconosciuto,  e la  loro  esistenza  stessa  non  è  che  problematica.  Questa ragione    della    uniformità    di    sequenza    dei    fenomeni (1)   V.   SclieiiiJit.   (lei   concetti   iiitoll.   imri   e    Dcduz.  dt'i  colie. intcU.  i»uri  v>  24  e  2.")  II  ediz. n t I  ^ K —  204  — Kant  non  la  trova  nelle  cose  stesse,  ma  in  noi,  nel nostro  pensiero  :  la  causalità  si  trova,  e  non  si  può non  trovarsi,  negli  oggetti  conosciuti,  perché  è  una forma  dell' intendimento  del  soggetto  conoscente.  Ugual- mente se  negli  og'getti  conosciuti  vi  hanno  delle  so- stanze e  degli  accidenti,  cioè  delle  cose  che  perdurano nel  cangiamento  incessante  delle  loro  modificazioni, ciò  è  perchè  la  sostanza  e  l'accidente  sono  delle  forme del  nostro  intendimento,  secondo  le  quali  soltanto  noi possiamo  avere  delle  conoscenze.  Della  stessa  maniera, se  vi  ha  negli  oggelti  dell'esperienza  una  reiprocità  di azione,  se  le  cose  conosciute  agiscono  e  reagiscono mutuamente  fra  di  loro,  ciò  è  perchè  la  reciprocità  di azione  è  una  forma  del  nostro  intendimento.  La  neces- sità e  la  contingenza,  l'unità  e  la  pluralità,  ecc.,  sono pure  delle  forme  del  nostro  intendimento  :  esse  si  tro- vano negli  oggetti  conosciuti,  perchè  noi  siamo  forzati dalla  natura  della  nostra  facoltà  conoscitiva  di  rappre- sentarci gli  oggetti  sotto  queste  forme. Le  forme  dell'  intendimento  risiedono  originaria- mente nel  pensiero  stesso:  nel  loro  })rincipio  esse  sono dunque  dei  concetti  intellettuali  puri,  cioè  indipendenti dall'  esperienza  e  anteriori  all'  esperienza.  Questi  con- cetti intellettuali  puri,  cioè  la  causa  e  1' effetto,  la  so- stanza e  l'accidente,  la  reciprocità  d'azione,  l'unità,  la pluralità,  ecc.,  Kant  li  chiama  categorie.  Se  questi  con- cetti puri  dell'  intendimento  si  trovano  realizzati  nel mondo  della  nostra  esperienza,  ciò  è  perchè  noi  non possiamo  altrimenti  conoscere  le  cose,  avere  un'  espe- rienza,  che  secondo  queste  forme  del   nostro    pensiero. Ora  si  comprende  facilmente  che,  lo  spazio  e  il tempo  essendo  le  forme  della  nostra  sensibilità,  gli  og-getti sensibili  o  i  fenomeni  debbano  necessariamente apparirci  nello  spazio  e  nel  tempo:  ma  come  noi  ritro- viamo nei  fenomeni  stessi,  cioè  negli  oggetti  dell'espe- rienza, le  forme  del  nostro  pensiero  ? I  fenomeni    sono  per  se    stessi   dei    dati  dei    nostri sensi  :  come  senzienti,  noi  siamo  semplicemente   passi- vi. Ma  come  dati  dei  sensi,  i  fenomeni  sono  isolati   gli uni  dagli  altri,  senza  rapporti  reciproci  :  i    rapporti  re- ciproci   o  la  congiunzione  dei  fenomeni,  non  è  un  dato dei  sensi,  cioè  della  nostra  receptività,  ma  un  [)rodotto della  nostra  attività,  e  la  nostra  attività,  quali  soggetti conoscenti,    consiste  nel    pensiero  o  nell'intendimento. L'ordine  dei   fenomeni,  il  modo  della  loro  congiunzione, è  così  il   risultato  delle  forme  del  nostro  ])ensiero.  (,)ue- sta  congiunzione  dei  fenonuMii,  per  cui  essi  hanno  dei rapporti  reciproci,  Kant  la  chiama  col  nome  di  sintesi, per  indicare  che  questi  rapporti  recii)roci,  quest'ordine dei  fenomeni,  sono  un  prodotto  della  nostra  attività.  E il  pensiero  stesso  che  costruisce  il   mondo  dcH'esixn'ien- za  coi  materiali  che  gli  vengono  offerti  dalla  sensazio- ne :  i  sensi  non  danno  che  i  materiali  isolati  e,  per  dir cos'i,  dispersi,  ma  la  forma,  l'ordine  d(ii  fenomeni,  è  il prodotto  e  l'opera  del  nostro  pensiero.  L'attività   intel- lettuale, come  facoltà  che  effettua  la  sintesi,    cioè   che produce  le  congiunzioni  o  l'ordine  dei  fenomeni,  è  una attività  che    sfugge    alla    nostra    coscienza,  e    Kant    la chiama  immaginazione  produttiva:  egli  la  chiama  i)ro- duttiva  per    distinguerla  dalla    facoltà  i)er  cui    avviene la  riproduzione  dei  fenomeni;  l'immaginazione  [jrodut- tiva  ci  presenta  originariamente  i  fenomeni,   in  un  or- dine determinato;  l'imnìaginazione  riproduttiva  ci  rap- presenta questi    fenomeni,    dopo  che  essi  ci  sono    stati già  presentati.  Così   1'  immaginazione    riproduttiva  non ha  importanza  per    ispiegare  la    sintesi  o  i    legami  dei fenomeni  nell'esperienza  ;  ma  essi    sono    spiegati   dalla immaginazione  produttiva.  L'immaginazione  produttiva effettua  a    priori  la    sintesi  dei    fenomeni,  e  in    questa funzione  essa  si    conforma  a  delle   regole  a  priori,  che sono  i    concetti    ]mri    dell'intendimento  o  le   categorie. ^TV- nwgsftff  aiii  ■iaìì'iijy-T  II 20(;  — 207 L'iimnag'iiiazione  produttiva  costruisce  il  inondo  dell'e- sperieiiza,  eoi  materiali  dati  dai  sensi  e  nelle  forme dell'intuizione  sensibile:  ma  i  rapporti  e  i  legami  che essa  introduce  tra  i  fenomeni,  dipendono  dai  concetti puri  dell'intendimento.  «La  sensibilità,  dice  Kant,  dà delle  forme,  e  l'intendimento,  delle  regole».  Cosi  è  lo intendimento,  sono  i  suoi  concetti  puri,  che  danno  delle leo-o'i  ai  fenomeni  :  i  concetti  intellettuali  puri,  le  cate- g'orie,  si  ritrovano  nell'esperienza,  perchè  sono  esse  che determinano  il  modo  in  cui  si  presentano  i  fenomeni nell'esperienza.  «  Le  regole,  se  sono  obbiettive,  si  chia- mano leg'gi.  Quantun(|ue  noi  aj^prendiamo  molte  leggi per  l'esperienza,  queste  leggi  non  sono  tuttavia  che delle  determinazioni  particolari  di  leg*g*i  ancora  supe- riori, fra  cui  le  più  elevate  a  cui  tutte  le  altre  sono sottomosse')  procedono  a  priori  dall'intendimento  stesso, e  non  sono  imprestate  dall'esperienza,  ma  al  contrario danno  ai  fenomeni  la  loro  legittimità,  e  devono,  pc^r questa  ragione  stessa,  rendere  l'esjX'rienza  possibile.  Lo intendimento  non  è  dunque  semi)licemente  una  facoltà  di farsi  delle  regole.  comj)arando  dei  fenomeni  ;  esso  è  la legislazione  per  la  natura».  «L'ordine,  la  regolarità dei  fenomeni,  ciò  che  noi  chiamiamo  natura,  è  dunque la  nostra  opera  propria  :  noi  non  ve  la  troveremmo,  se non  vi  fosse  prima  stata  messa  da  noi,  dalla  natura del  nostro  spirito»    (1). Le  leggi  più  universali  dei  fenomeni  (p.  e.,  la legge  della  causalità)  sono  per  conseguenza,  secondo Kant,  conosciute  a  priori.  Vi  hanno  così  delle  conoscen- ze reali  a  priori  (g'iudizi  sintetici  a  ])riori),  cioè  indi- pendenti dall'esperienza,  e  anteriori  all'esperienza.  L'o- rigine dei  giudizi  sintetici  a  priori  si  trova  nelle  fornie (1)   AiiMlit.   1.    l.   e.    II,    si'z.   :>.    1    ('<liz.) della  sensibilità  e  nelle  forme  dell'  intendimento.  Il  ca- rattere dei  giudizii  sintetici  a  priori  è  la  necessità  con cui  essi  s'impongono  al  nostro  spirito  ;  questa  necessità non  si  trova  mai  nelle  conoscenze  dovute  all'  esperien- za. Il  fondamento  dei  giudizi  sintetici  a  priori,  per  par- te dell'intendimento,  si  trova  nei  concetti  intellettuali jmri  o  categorie.  I  giudizi  fondati  su  (juesti  concetti  so- no necessari,  perchè  questi  concetti  sono  inerenti  al nostro  intendimento  stesso,  e  le  funzioni  del  nostro pensiero  si  esercitano  naturalmente  secondo  (|uesti  con- cetti. Kant  divide  così  l'  illusione  comune  a  tutti  gli avversari  della  filosofia  em|)irista,  di  credere  ingenite allo  spirito  delle  al)itudini  mentali,  delle  associazioni d'idee,  la  cui  origine  è  certamente  dovuta  all'fisperien- za,  ma  che  i)er  la  rip(itizione  sono  divi^nute  così  neces- sarie,  che  ci  sembrano  aftVitto  naturali  ed  (essenziali alla  nostra  intelligenza.  Questi  concetti  essenziali  della nostra  intidligenza,  cioè  le  categorie,  Kant  ])retende  d(»- durli  dalle  funzioni  o  forme  generali  del  giudizio  (p. e.  la  categoria  di  causa  e  di  effetto  si  deduce  dalla forma  del  giudizio  ipotetico,  la  categoria  di  sostanza e  di  accidente  dalla  forma,  del  giudizio  categorico,  ecc.). Così  se  v^i  hanno  nel  nostro  intendimento  questi  dati concetti  puri  o  categorie,  è  perchè  vi  hanno  (jueste  da- te forme  del  giudizio  (il  categorico,  ri[)otetico  e  il  di- sgiuntivo, l'affermativo,  il  negativo  e  1"  intìnito,  eco: l'esistenza  di  tali  categorie  è  spiegata  dall'esistenza  di tali  forme  del  giudizio. Nella  Critica  della  ragion  pura,  come  punto  di  par- tenza delle  sue  ricerche,  l'autore  presenta  la  quistione  : Come  sono  possibili  i  g'iiulizi  sintetici  a  priori  ?  cioè  : com'è  possibile  che  delle  conoscenze,  indipendenti  dal- l'esperienza e  ad  essa  anteriori,  si  riferiscano  nondime- no ag'li  oggetti  dell'esperienza,  ed  al)l)iano  un  xalore obbiettivo  V  La    soluzione    del    problema    è    che  le   idee w lì 208 fondamentali  di  queste  conoscenze  a  priori,  cioè  lo  ca- tegorie, quantunque  non  derivino  dall'esperienza,  sono esse  però  che  determinano  gli  oggetti  dell'esperienza  e rendono  questa  possibile. Non  bisogna  credere  tuttavia  che  il  problema  fon- damentale di  Kant  sia  stato  in  realtà  quello  di  spiegare la  possibilità  dei  giudizi  sintetici  a  priori.  Un  filosofo non  segue  necessariamente  nell'esposizione  del  suo  si- stema r  ordine  stesso  con  cui  questo  si  è  formato.  Il sistema  criticista  è  una  teoria  della  conoscenza,  per  la semplice  ragione  che  gli  oggetti  conosciuti  non  insisto- no per  Kant  che  nella  conoscenza.  Mn.  ciò  che  Kant vuole  anzitutto  spiegare,  come  tutti  i  metafisici,  sono gli  oggetti  stessi  della  conoscenza,  la  natura,  le  leggi e  l'ordine  dei  fenomeni. Pa'co  il  punto  di  j)artenza  del  sistema  di  Kant.  Gli oggetti,  ciò  che  noi  chiamano  il  mondo  esteriore,  non sono  che  il  sistema  delle  nostre  percezioni  sensibili. Questo  sistema  delle  nostre  i)ercezioni  ha  un  fondanum- to  obbiettivo  in  una  realtà  esteriore?  Noi  supj)oniamo, oltre  dei  fenomeni,  cioè  delle  nostre  percezioni,  una cosa  in  sé  sconosciuta:  nia  l'esistenza  di  (|Uesta  cosa  in  sé è  problematica,  noi  non  lassiamo  attenuarla.  Ma  se  non vi  ha  di  certo  e  di  conosciuto  che  dei  fenonu^iii,  se  non vi  ha  che  il  sistema  delle  nostre  percezioni,  come  com- prendere ch(^  queste  percezioni  costituiscono  appunto  un sistema?  [)erchè  queste  uniformità,  (piesf  ordine  sor- prendente, (juesti  legami  secondo  cui  i  fenomeni,  cioè le  nostre  percezioni,  si  seguono  e  si  accompagnano? Dov'  è  il  iu\\us  che  determina  questi  accoppiamenti, queste  congiunzioni  dei  fenomeni  ?  Cjual  è  la  virtù  secreta cheta  dell'insieme  delle  nostre  percezioni  un  tutto  pieno di  ordine  e  di  regolarità,  un  sistema,  un  mondo?  Ciò che  vi  ha  di  pnrticolare  nel  modo  in  cui  si  presenta  a Kant  il    i)roblema  di  spiegare  la    natura,  è  che  per  gli —  209  — altri  metafisici  la  natura  è  un  tutto  costituito  di  cose reali  o  oggettive,  per  Kant  è  un  sistema  di  fenomeni, cioè  di  percezioni  sensibili.  Il  perchè  dell'ordine  e  delle leo'o-i  di    questi    fenomeni,    cioè  di    (lueste    percezioni, Oc?  • Kant  non  lo  cerca  nel  mondo  delle  cose  reali,  delle cose  in  sé,  poiché  le  cose  in  sé  sono  assolutamente  sco- nosciute, e  la  loro  esistenza  stessa  è  problematica.  Que- sto perché  lo  cerca  in  noi  stessi,  nella  nostra  attività pensante:  l'opera  di  Kant  è  reahnente  un'oi)era  di  ge- nio, perché  egli  ha  scoperto  una  nuova  via,  ha  trovato una  soluzione  nuova  al  problema  delia  nu^tatisica,  equesta  soluzione  non  è  arbitraria,  ma  è  una  di  (pielle che  si  ])resentano  naturalmente  e  inevitabilmente  al pensiero  umano,  dopo  che  la  natura  ha  cominciato  a considerarsi,  non  come  un  aggregato  di  cose  in  sé,  ma conu^  un  aggregato  di  fenomeni  o  di  semplici  percezioni sensibili. Tuttavia  la  soluzione  di  Kant  non  è  che  una  forma nuova  dell' antropomorfismo.  I  metafisici  realisti,  Leib- nitz,  Malebranche,  ecc.,  aveano  spiegato  la  regolarità e  l'ordine  della  natura,  vedendovi  l'opera  di  una  sag- gezza suprema.  Per  Berkeley  le  cose  non  erano,  come per  Kant,  che  dei  fenomeni,  cioè  delle  semplici  ])erce- zioni;  ma  anch' egli,  in  quest'ordine  e  regolarità  con cui  i  fenomeni  ci  vengono  presentati,  vedeva  V  opera della  più  sublime  intelligenza.  I  fenomeni,  n(^lla  loro regolarità,  sono,  dice  Berkeley,  un  linguaggio  per  cui l'autore  della  natura  si  rivela  a  noi:  nella  nostra  espe- rienza sensibile  noi  ci  troviamo  in  presenza  dei  segni d'una  ragione  più  larga,  d'una  volontà  più  ferma  che quelle  che  si  si  rivelano  nelle  costruzioni  arbitrarie  della nostra  immaginazione  (Priaclpu).  Il  rapporto  del  kantismo con  la  filosofia  teologica  può  compararsi  al  rapi)orto  dello animismo  di  Stahl  con  le  spiegazioni  anteriori,  teologi- che o  ilozoiste,  deirorganizzazione  :  non  è  più,  secondo 14 210  — Stahl,  un    dio  o   un    archeo,   a  noi    esteriore,  l'artefice della  nostra  oroanizzazione  :   questo  artefice  siamo  noi stessi,    l'anima  che  è  il    sog-o-etto    del    nostro  pensiero  e della  nostra  coscienza.  Così  per  Kant  non  è  un  dio,  non  è un  principio  ilarchico  il  demiurg-o  che  ha  prodotto  que- st'ordine della  natura  che  noi  osserviamo  :  quest'ordine è  l'opera  di  noi  stessi;  il    nostro    spirito  è    l'architetto interiore  che  costruisce  il  mondo  della  nostra  esperien- za. Il  mondo  è  un  poema  <>»randioso  creato  dalla  nostra intelli^-enza  :  i  concetti  intellettuali  puri,   le  categorie, sono  come  le  regole    estetiche    che  il    poeta  si   propone di  osservare,  o  piuttosto  come  il  disegno  dell'opera  che, nella  mente  del  poeta,  precede  l'opera  reale,  e  lo  guida costantemente  nella  composizione  del  suo    poema.  Ecco la  quistione  di  Kant  ;  Come  le  sensazioni,  che  sono  le lettere  o  le   sillabe  di  cui  il  cosmos,  questo  poema  del nostro  spirito,  è  composto,  potrebbero  formarlo,    per  il loro  concorso  spontaneo,  senza  l'azione   dell'intelligen- za?   Questa    quistione  è   sotto    un'altra    forma  la  nota quistione    della    filosofia    teologica:    Come  dei  caratteri tipografici,    gettati  a    caso,    avrebbero    potuto    formare l'Eneide?  (li L'idea  di  considerare  l'idealismo  kantiano  come una  specie  di  antropomorfismo  solleverà  forse  un'obbie- zione :  se  la  natura  viene  concepita  come  un  complesso di  tenomeni,  cioè  di  semplici  percezioni  attuali  o  possi-  ' bili,  queste  non  esistendo  fuori  del  nostro  spirito,  la  na- tura stessa  sarà  allora  un  fatto  subbiettivo,  e  per  con- seguenza un  fatto  umano.  Spiegare  la  natura  per  il pensiero  sarà  cosi  spiegare  un  fatto  umano  per  un  altro fatto  umano;  mentre  l'essenza  dell'antropomorfismo  con- siste nell'assimilare  ai  fatti  umani  quelli  che  non  hanno (1)   V.   Kousseau  Eìnilio,  1.   IV. 211  — con  essi  una  somiglianza  reale.  Quest'obbiezione  non potrà  essere  completamente  risoluta  che  in  seguito:  noi mostreremo  che  la  metafisica  ha  la  tendenza  a  ricon- durre ai  fatti  più  familiari  della  nostra  esperienza  quelli che  sono  meno  familiari.  Ogni  concezione  antropomor- fistica  delle  cose  si  conforma  a  questa  tendenza,  perchè, tra  tutti  i  fatti  della  nostra  esperienza,  la  nostra  pro- pria attività  è  necessariamente  quello  che  ci  è  più  fa- miliare. La  nostra  attività  interna,  il  pensiero,  è  per noi  altrettanto  familiare  che  la  nostra  attività  sulle  cose esteriori:  ciò  fa  comprendere  perchè  l'idealista  spiega le  leggi  o  l'ordine  con  cui  si  presentano  le  nostre  per- cezioni sensibili  per  la  nostra  attività  pensante.  Che  i fenomeni  si  presentino  secondo  delle  leggi  e  un  ordine determinato  può  essere  anch'esso  un  fatto  familiare  della nostra  esperienza  ;  ma  noi  abbiamo  l'abitudine  di  con- siderare queste  leggi  e  quest'ordine  al  punto  di  vista del  realismo,  come  leggi  ed  ordine  di  un  mondo  di realtà  obbiettive.  Se  dal%punto  di  vista  del  realismo  si passa  al  punto  di  vista  opposto,  che  considera  le  cose come  dipendenti  dai  nostri  sensi  e  non  esistenti  al  di fuori  dello  spirito,  allora  queste  leggi  e  quest'ordine dei  fenomeni,  per  quanto  possano  essere  abituali  nella nostra  esperienza,  vengono  rappresentati  tuttavia  sotto un  aspetto  che  non  ci  è  per  niente  familiare.  Cosi  se noi  spieghiamo  queste  leggi  e  quest'ordine  dei  fenomeni (considerati  come  un  semplice  sistema  di  percezioni)  per la  nostra  attività  pensante,  noi  ci  conformiamo  alla tendenza  della  metafisica,  che  è  di  spiegare  per  i  fatti che  sono  a  noi  familiari  quelli  che  non  lo  sono.  E  questa spiegazione  è  essenzialmente  calcata  sul  tipo  dell'an- tropomorfismo, perchè  il  fatto  familiare  che  ci  serve  a spiegare  gli  altri  fatti,  è  una  forma  della  nostra  attività umana. Kant  ci  mostra  questa  tendenza  a   ricondurre   tutti —  212  — 218 i  fatti  a  quelli  che  ci  sono  i  più  familiari,  non  solo  in quanto  egli  spie-a  le  le-gi  dei  fenomeni  per  l'attività del  pensiero,  ma  ancora  in  quanto  e-li  cerca  di  s])iegarle per  le  forme  di  quesfattività  del  pensiero  che  ci  sono più  familiari.  Se  le  categorie  non  sono,  com'egli  pre- tende, le  forme  ingenite  e  necessarie  del  nostro  pensie- ro es^e  sono  certamente  i  concetti  e  le  funzioni  più familiari  della  nostra  intelligenza  :  le  forme  genenili del  giudizio,  a  cui  egli  riconduce  le  categorie,  se  non sono"^  in  realtà  le  forme  essenziali  dell'attività  interna giudicatrice,  sono  almeno  le  forme  generali  della  espres- sione verbale  del  giudizio,  e  per  conseguenza  dei  fatti mentali  estremamente  familiari,  più  familian  forse  che le  forme  stesse  del  giudizio,  perchè  l'osservazione  delle parole  ci  è  più  abituale  che  quella  dei  pensieri   (lì. Noi  dobbiamo  intìnedomandjirci  sel'ipotesi  metafisica di  ivdut  non  si  lega  alla  ricerca  delle  cause  efficienti.  Noi qui  tocchiamo  ad  una  contraddizione  del  criticismo,  da cui  è  impossibile  di  liberare  questo  sistema.  L'azione, la  causalità,  non  e  per  Kant  che  una  categoria,  una forma  del  nostro  pensiero,  a  cui  noi  possiamo  attribuire un  valore  obbiettivo,  ma  nei  limiti  dell'esperienza  o  del mondo  fenomenale,  per  la  ragione  che  ([uesta  forma  e una  delle  condizioni  anticipate  della  possibilità  di  una esperienza  (lualsiasi.  Al  di  fuori  del  fenomeno  e  dell'e- sperienza,  le  categorie  non  possono  più  avere  alcun valore  obbiettivo.  Ma  è  un  fatto  incontestabile  che Kant  attribuisce  un'azione  o  un'efficienza  all'intendi- mento e  alle  categorie  nella  formazione  del  mondo  dei fenomeni  o  dell'esperienza  (2).  Ora  quest'attività  o  effi- cienza dell'intendimento  e  delle  categorie  è  un  fenoine- (1)  (^fr.   il  Sajij;.    1.   «np.    L   pj»n«;;r.   tS. (2)  V.  Amil.  1.   1.  r.   11.   P^tra-r.   14.  15.  2i,  2i\  (11  oA.).  ec<-. no,  cioè  un'apparenza,  o  è  una  realtà?  Nel  primo  caso essa   non    può   spiegare  il  mondo  dei  fenomeni,  perchè essa  stessa  fa  parte  di  questo  mondo  dei  fenomeni  che si  tratta  di  spiegare.  Nel  secondo  caso,  parlando  di  una azione,    di    una   efficienza,  dell' intendi  mento  e  dei  suoi concetti,  non  si  attribuisce  indebitamente  alle  categorie un  valore  obbiettivo,  al  di  fuori  dei  limiti    in   cui  que- sto valore  può  esser  loro  attribuito?  Questa  contraddi- zione è  troppo  essenziale  al  sistema,  perchè  essa  possa esser  tolta  senza  snaturarlo  :    noi    dobbiamo  ammettere che  l'efficienza  dell'intendimento  e  dei  concetti  intellet- tuali puri    è    per    Kant  reale  e  non    fenomenale,  quan- tunque perciò  Kant  si  metta  in  contraddizione  con  altri principii  del  suo  sistema.  Se  quest'efficienza   non  fosse recale,  la  spiegazione  della  formazione  dell'esperienza  e della  possibilità    dei    giudizi    sintetici    a    priori  sarebbe semplicemente  illusoria.  Il  pensiero  o  V  intendimento  è dunque  per  Kant  una  vera  causa  efficiente  nella  forma- zione del  mondo  dei  fenomeni;  e  cosi  noi  ritroviamo  in Kant,  sotto  un'altra  forma,  la  distinzione  tra  la  causa- lità fisica  o  semplice  uniformità   di    sequenza  e  la  cau- salità metafisica  o  efficiente.    Nel    mondo  dei  fenomeni, la  causalità  è  una  semplice  uf.iformità  di  sequenza  :  la causa  e  l'efltetto  fenomeni    sono    congiunti,    non  per  la virtù  propria  della  r-ausa,  ma  per  l'attività  sintetica  del pensiero  che  li  ha  congiunti.   Quest'azione  sintetica  del- l'intendimento   poi    non    è    una    semplice  uniformità  di sequenza,  una  congiunzione  senza  connessione;  ma  noi vediamo  qui  il  nexus,  la  natura  della  causa  è  tale  che essa  spiega  l'eftetto  :  Kant  non    si    limita  a  costatare  il modo  con  cui  i  fatti  si  seguono  e  si  accompagnano,  ma egli  crede  di  comprendere  il  modo   essenziale  della  loro produzione  (1).  • 1)  Cfr.  SaiAu.   1,  ^ap-   V,  par.  1-7. 214 §  20.  Il  sistema  di  Kant  è  un  idealismo  dimezzato, perchè  esso  non  spiega  completamente  i  fenomeni  per l'attività  del  pensiero,  ma  solo  le  le^gi  generali  delle loro  connessioni,  la  forma,  mentre  la  materia  è  data, non  prodotta  dal  pensiero.  I  grandi  sistemi  idealisti  usciti dal  Kantismo,  sia  «  che  facciano  delle  cose  delle  sem- plici percezioni  nostre  (idealismo  subbiettivo  :  Fichte), sia  che  conservando  loro  robbiettività,  ne  facciano  delle rappresentazioni  di  un  pensiero  eterno  e  universale  (idea- lismo obbiettivo:  Schelling-  ed  Heg-el),  sono  invece  un idealismo  assoluto,  perchè,  secondo  questi  sistemi,  le  cose sono  prodotte  interamente  (senza  distinzione  di  forma e  di  materia)  dall'attività  del  pensiero,  sia  individuale, sia  universale. Il  carattere  speciale  di  quest'idealismo  assoluto  dei successori  di  Kant  è  il  metodo  filosofico:  la  ricostruzione a  priori  della  realtà,  lo  sforzo  di  questa  filosofia  di  traspor- tare  alla  conoscenza  del  mondo  reale  il  metodo  di  deduzio- ne pura  della  geometria  (1),  con  la  pretesa  di  dedurre  da un  principio  unico  tutto  il  sistema  delle  conoscenze sull'uomo  e  sulla  natura,  sviluppando  gradualmente,  a partire  da  questo  principio  unico,  tutto  il  contenuto  della (1)  Hegel  biasima  Spinoza  di  aver  applicati)  alla  tilosotìa  il metodo  .sxeometrico  :  «piesto  metodo  eoiivieiie,  egli  dice,  alle  scienze deirintendimento,  ma  non  alla  tìlosotìa  (scienza  della  ragione). Certamente  vi  ha  una  gran  differenza  tra  il  metodo  deduttivo della  geometria,  il  quale  non  t^  che  l'applicazione  ])iiì  notevole del  sillogismo,  fondato  sul  principio  deìVidentità,  e  il  metodo deduttivo  di  Hegel,  che  eleva  la  contraddizione  a  legge  fonda- mentale del  pensiero  e  delle  cose.  È  nondimeno  verisimile  che ne  ad  Hegel,  né  ai  tìlosotì  anteriori  che  gli  apersero  la  via,  sa- rebbe venuta  l'idea  di  costituire  una  scienza  universale  con  un metodo  puramente  deduttivo,  se  essi  non  avessero  trovato  nella geometria  l'esempio  di  una  scienza  già  costituita  unicamente  con un  tale  metodo. 215 scienza,  per  una  progressione  logica  continua,  in  cui  cia- scuna conseguenza  ottenuta  diviene  immediatamente  il principio  di  un'altra  conseguenza.  Questo  metodo  non ha  il  valore  di  un  semplice  mezzo  per  arrivare  alla  spie- gazione del  mondo,  ma  è  esso  stesso,  per  se  stesso  e  non pei  suoi  risultati,  che  costituisce  una  spiegazione  del mondo.  Nei  sistemi  idealisti  di  cui  parliamo,  questo  la- voro di  ricostruzione  della  natura  che  avviene  nel  pen- siero riflesso  del  filosofo,  non  è  che  l'imitazione  esatta, la  riproduzione  cosciente,  dell'attività  spontanea  dello spirito  che  ha  costruito  questa  natura.  La  formula  più espressiva  di  questa  filosofia  è  il  detto  di  Schelling:  «F^i- losofare  sulla  natura  è  creare  la  natura»;  detto  che  un hegeliano  commenta  cosi  :  «  Se  queste  parole  paressero troppo  ambiziose,  si  possono  tradurre  per  queste  :  filoso- fare sulla  natura  è  ripensare  il  gran  pensiero  della  crea- zione, è  riprodurre  dal  fondo  dello  spirito  per  il  j)ensiero le  idee  creatrici  della  natura».  In  altri  termini,  le  cose non  esistono  che  nel  pensiero,  nella  conoscenza,  e  l'es- sere non  è  che  un  sistema  di  pensieri,  di  conoscenze  : la  filosofia  è  la  riproduzione,  nella  coscienza  riflessa  del filosofo  idealista,  di  questo  sistema  di  pensieri,  e  la  suc- cessione logica,  l'incatenamento  di  (jueste  pensieri  nel sistema  filosofico,  rappresenta  la  successione  logica,  l'in- catenamento degli  stessi  pensieri  nel  sistema  primitivo da  cui  l'essere  è  costituito.  La  forza  che  produce  il  mondo non  é  dunque  altra  cosa  che  l'attività  logica  dello  spi- rito che  produce  la  scienza;  e  il  meccanismo  intimo  della produzione  delle  cose  non  è  altro  che  il  metodo  per  cui il  filosofo  passa  di  conoscenza  in  conoscenza. Questa  spiegazione  idealista  del  mondo,  che  assimila il  modo  essenziale  di  prodazione  dd  fenomeni  all'attività logica  dell'intelligenza  umana,  suppone  necessariamente che  il  mondo  reale  si  risolva  in  idee,  in  rappresentazioni. ^iòW idealismo  obbiettivo^  che  hitende  di  conciliare  la  spie- 21() 217 gazione  idealista  con  la  realtà  del  mondo  esteriore,  ciò non  è  possibili^  che  per  la  identificazione  delle  cose  con le  idee,  per    la  dottrina  deir  identità  dell'essere  e  del pensiero.  La  dottrina  dell'identità  dell'essere  e  del  pen- siero costituisce  così  una  spieg-azione  del  inondo,  in  quan- to lo  sviluppo  dell'essere  si  considera  come  identico  allo sviluppo  del  pensiero,  applicando  nel  senso   più  stretto la  massima  di  Spinoza:  orda  et  eonnerio  idearuni  idem est  ac  ardo  et  connexlo  reviim,  in  modo  che  quest'ordine o  questo  sviluppo,  delle  cose  al  tempo    stesso  che-  delle idee,  viene  concepito  sul  tip:>  di  questa  forma  familiare di  azione  umana,  che  abbiamo  chiamato  l'attività  logica. Alla  spiegazione  idealista  del  mondo,  nei  sistemi  dell'/- dealismo    obbiettivo  (Schelling    ed   Hegel),    è    legata  la realizzazione  delle  astra/.ioni,  cioè  dei  concetti  o  dei  ter- mini generali.  Il  metorlo  o  la  forma  con  cui  si  sviluppa la  conoscenza  filosofica  della  natura,  che  è  la  stessa  cosa che  il  metodo  o  la  forma   con  cui  si   sviluppa  quest'at- tività originaria  del  pensiero  di  cui  la  natura  è  il  pro- dotto, essendo  un  metodo  puramente  deduttivo,  e  la  de- duzioiu»  volgendo  per  sua  natura  su  nozioni  astratte,  su principii   generali,    ne   segue   che  queste  idee  creatrici, queste  nozioni,   che  sono  le  fila  di  cui,  per  dir  cosi,  la natura  è  tessuta,  non  sono  che  delle  idee  astratte,  delle nozioni  generali.  Ora  essendovi  identità  tra  Tessere  e  il pensiero,  tra  la  conoscenza  e  l'oggetto  conosciuto,  le  no- zioni astratte  e  generali  si  identificano  perciò  con  degli esseri  astratti  e  generali,  con  delle  entità  alla  scolastica,  e così  ridealismo  obbiettivo  è  al  tempo  stesso  un  realismo, nel  senso  ehe  (|uest'uUim?i  parola  ha  nella   filosofia  del medio  evo.  La  natura  sensibile,  adunquvi,  per  l'idealismo obbiettivo,  è  la  manifestazione  fenomenale  di  un  sistema di  nozioni  astratte  e  generali,  di  cui  ciascuna   s'identi- fica col    suo   oggetto   del   pari  astratto    e  generale,   cioè con  una  forma,  un  tipo,  una  qualità,  un  fatto  generale,  e le  quali  sono  tutte  legate  l'una  all'altra  da  un  filo  logico continuo,  in  modo  che  queste  nozioni  si  concepiscano  in un  ordine  tale,  che  le  antecedenti  siano  sempre  le  pre- messe logiche  di  quelle  che  immediatamente  le  seguono, e  le  conseguenti  siano  sempre  le  conseguenze  logiche di  quelle  che  immediatamente  le  precedono.  Nel  pen- siero del  filosofo,  che  ripensa  queste  idee  creatrici,  vi  ha tra  queste  idee  un  rapporto  di  anteriorità  e  di  posterio- rità che  è  al  tempo  stesso  logico  e  cronologico  :  ma  nel pensiero  del  pensatore  eterno,  nell'atto  eterno  del  pen- siero di  cui  la  natura  è  la  creazione,  o  come  dice  Schel- ling, la  espressione  obbiettiva,  il  rapporto  di  anteriorità e  posteriorità  fra  le  idee  non  può  essere  cronologico, ma  logico  soltanto. Questa  forma  dell'  idealismo  possiamo  noi   conside- rarla come  un:i  risposta  alla  grande  quistione  della  me- tafisica, quella  delle  cause  efticienti  V  Pare  a  prima  vista che  si  debba  rispondere  di  no.  La  filosofia,  dice  Schelling, oltrepassa,  come  le  matematiche,  il  punto  di  vista  del- l'incatenamento  causale  :  un  fenomeno   non  vieut   spie- gato trovandone  la  causa  in  un  altr.i  fenomeno,  ma  tro- vando  il    principio  donde    derivano  tutti  i  fenomeni.  E in  verità  una  causa  essendo  un  avvenimento    che    pre- cede un  altro    avvenimento,    sarebbe   un  errore  il  dire, nel  senso   stretto,  che  la  filosofia  di  cui  parla  Schelling, si  propone  In  ricerca    delle   cause.   Le  idee  non  sono  le cause  efficienti  dei  fenomeni,  ma  piuttosto  la  loro  essenza; le  idee  sono  la  realtà  assoluta,  di  cui  il  mondo  sensibile è  in  un  certo  molo  l'apparenza.  Le  idre  non  sono  nem- meno cause,  nel    senso   stretto,   di    altre  idee,  essen-lovi fra  loro   una   successione    logica,    ma  non  cronologica. Questa  filosofia  contempla  le  cose  sub  specie  aetendtatis  : agl'individui,  ai  fenomeni  transitorii,  sostituisce  le  specie, le^  forme   generali,   le  leggi  eterne  dell'esistenza,  astra- zioni che  essa  realizza  al  tempo  stesso  che  trasforma  le -  218 cose  in  pensieri.  P^ssa  proietta  il  mondo  sensibile  in  una regione  libera  da  tutte  le  forme  della  sensibilità,  in  una regione  extra  -  spaziale  ed  extra  -  temporale,  in  modo  che le  cose  perdono,  per  questa  proiezione,  questa  sorta  di dimensione  che  si  chiama  il  tempo.  Come  il  mondo  delle Idee  è  un'immagine,  al  di  fuori  del  tempo,  del  mondo dei  fenomeni,  così  l'incatenamento  delle  Idee  è  un'im- magine, al  di  fuori  del  tempo,  dell'incatenamento  dei  fe- nomeni. Il  nexus  delle  idee  è  un  nexus  causale;  ma  la successione  cronologica  è  soppressa  e  non  resta  che  la successione  logica. Le  considerazioni  che  precedono,  è  bene  di  no- tarlo,  non  rendono  conto  che  d'  una  maniera  incom- pleta, e  per  così  dire,  a  metà,  dei  grandi  sistemi  idea- listi tedeschi  succeduti  al  kantismo.  Vi  ha  in  questa filosofìa  un  principio  fondamentale  ch'è  per  se  stesso  in- dipendente dalla  spiegazione  idealista  del  mondo  :  è  la identificazione  della  ratio  essendi  con  la  ratio  cognoscendij cioè  della  derivazione  ontologica  delle  cose  con  la  de- rivazione logica  delle  conoscenze  nella  dimostrazione. Questo  principio  può  legarsi  facilmente  con  l'idealistno, come  effettivamente  è  avvenuto  nella  filosofia  tedesca  ; ma  esso  costituisce  anche,  insieme  alla  realizzazione  dei termini  generali  che  e  con  esso  strettamente  connessa, la  base  su  cui  si  fondano  i  sistemi  di  Platone,  di  Spi- noza e  di  altri  filosofi  che  non  sono  affatto  idealisti,  nel senso  che  noi  diamo  alla  parola  idealismo  Tcioè  una spiegazione  del  mondo  per  l'attività  immanente  del pensiero).  In  un  altro  capitolo  studieremo  nella  sua generalità  questa  forma  di  metafisica  caratterizzata dalla  realizzazione  dei  termini  generali  e  dalla  identi- ficazione del  principium  essendi  col  principium  cognO' scendi^  cioè  la  studieremo  per  se  stessa,  indipendentemente dalla  sua  alleanza  con  Videalismo.  Noi  vedremo  che  il punto  di  vista  di  questa  forma  di  metafìsica  non  ha  per se  stesso  niente  di  comune  con  1'  antropomorfismo,  quan- tunque anch'esso  sia  legato,  ma  d'un'altra  maniera,  alla ricerca  delle  cause  efficienti.  Allora  la  metafisica  di  Schel- ling e  di  Hegel  ci  apparirà  sotto  un  altro  aspetto.  Il principio  di  questi  sistemi  è  l'identità  del  pensiero  e  del- l'essere :  noi  qui  li  abbiamo  veduti  dal  lato  del  pen- siero, allora  li  vedremo  dal  lato  dell'essere. Noi  abbiamo  passato  in  rivista  le  forme  generali, sotto  cui  l'antropomorfismo  si  è  manifestato  nella  spie- gazione della  natura.  Questa  tendenza  ad  assimilare  il modo  di  produzione  di  tutti  i  fenomeni  alla  nostra  pro- pria attività,  sembra  così  caratteristica  dello  stato  me- tafisico del  pensiero  umano,  che  noi  potremmo  conclu- dere, applicando  alla  metafìsica  stessa  ciò  che  un  meta- fisico, Schopenauer,  dice  di  se:  «Dai  tempi  più  antichi si  è  considerato  l'uomo  come  un  microcosmo.  Io  ho  ro- vesciato la  proposizione,  e  mostrato  che  è  il  mondo  che è  un  macrantropo  ».  Quest'attività  dell'uomo,  a  cui  viene assimilato  il  modo  di  produzione  di  tutti  i  fenomeni,  è la  sua  attività  psichica  :  nella  piìi  parte  dei  sistemi  an- tropomorfisti  la  forma  esterna  di  quest'attività,  cioè  l'a- zione volontaria;  nell'idealismo  la  sua  forma  interna,  cioè il  pensiero.  Noi  vedremo  in  seguito  perchè  crediamo  di spiegare  i  fenomeni  assimilando  il  modo  della  loro  pro- duzione a  un  modo  dell'attività  dell'uomo,  e  perchè  que- sto è  una  forma  della  sua  attività  psichica. 220    - .'i  xt.  e, //  concetto  di  causalità   dell'antropomorfismo ^  21.  Vììi  che  prova  dì  iiianiera  a  non    lasciar  luo<;o a<l   alcun    dubbio  che    V  uomo,    assimilando  i    fenomeni della    natura  ai    suoi    propri  atti,  crede  di  scoprire  così le  caH>i('    efficienti  e  di    comprendere,  come  dice  Comte, il  modi)  essen:i(ile  di  produzione  di    (piesti    fenomeni,  è una  teoria  psicolo<»ica  suirori^ine  della  nozione  di  e<(ì(sa efficiente,  che  è  prevalsa  in  tutte  le  gradazioni  (U'ila  scuo- la   spiritualista,  dacché  la    curiosità  dei    tilosotì  si  è   ri- volta verso  le  ricerche  di  cpiesto  genere,   lo    i)arlo  della teoria,  secondo  la  quale,  mentre  la  natura  esteriore  non ci  presenta  che  delle  semi)li<'i  successioni   regolari  <li  te nomeni  senza  mai  scoj)rirci  l'ettìcienza  causale  o  il  nexus che  leua  di  antecedenti  ai  conseguenti,  noi  troviamo  in- vece  uiui  vera    effi(ieii:<i    caiixale, non    delk-    st'iiiplici nniforiiiità  di    scqueiizii .  m'Ha    nostra    attività  niiuuia  o pniaiiicntf    animale,  sia  nel    movimento    volontario   sia nelle  azioni  interiori  dello  spirito;  e  elle  eosì  è  la  coseieiiza dfUa  nostra  projìria    attività  che  ci  dà  immediatamente l'idea  di  eausa  etticiente,  ehe  per  analojiia  estendiamo  in sefiuito  ai  fenomeni  del  mondo  esteriore.  Si  può  ben  di- re e];e  (jiu-sta    dottrina  nasee    contemporaneamente   alle ricerclie  della  tilosotìa  moderna  sulla  natura  e   1'  ori<;ine delle  nostre  conoscenze,  percliè  <;ià  se  ne  trova  il  j^ernie, com'è    stato  più    volte    osservato,  nel    Sagfiio  di    Locke suU'inteiidimento  umano:   «Se  noi  vi  tacciamo  attenzio- —  221   — ne,  e-li  di<-c  nel  capitolo  Della  Potenza  (1),  i  corpi  non ci  forniscono,  p*'r  niezzo  ilei  sensi,  un'idea  così  chiara e  così  <listinta  .Iella  potenza  attiva  c<.me  .luella  che  ne abbiamo  i>er  la  riflessione  .he  tacciamo  sulle  operazumi del  n.>stro  spirito.  Sic.-ome  of-ni  potenza  ha  rapp..rto  al- l'azi.)!!.-,  e  n.)n  vi  hanm.,  io  credo,  '1^'  <1"<'  *">''^=i  '^'^- 7AMÙ  .li  .-ui  abbiamo  l'idea,  <io.'  ì>n,mre  e  miion-re,  ve- .lia.uo  .h....l.'  <-i  viene  l' idea  pii.  .listiuta  .l.-lh-  potenze eh.'  pr.>du.-i.n.)  «lueste  azi.mi.  In  quanto  al  pensuMO,  i,..,rt)i  n..n  ce  ne  danno  alcuu'idea,  .'  non  <•  .'he  per  mez- zo .Iella  ritlessi.>ne  (cioè  .l.'11'..sservazion.'  i^it,eri.)r.")  .'he noi  l'al>biamo.    Noi    non    abbiamo    nemmeno  per   mezzo del  .'orpo,  al.un'i.lea.lel  .'inninciament.»  .h'I  m.>viment.> Noi  n.m  abbiamo  l'i  .Ica  .lei  .•ominciament.>  del  n>o- vimento  .'h.-  per  mezzo  della  riH.'ssi.me  .-h.'  fa.-.'iamo  su,lueU.>  che  avviene  in  noi  stessi  .pian.lo  v.'.liamo  per,'sperienza  .h.'  volen.lo  sempli.ementc  mu.)V.'re  .h-lle parti  del  nostr.>  .orpo  .he  eran.>  prima  iu  rijMyso .  noi possiamo  mu..verle.  Sicché  mi  sembra  .1..'  1.'  op.-razi.nn dei  .'orpi  che  noi  osserviamo  per  mezzo  .l.'i  sensi  non,i  .lann.»  .-he  un'idea  molto  in.pertetta,  em.>lto  ..scura  .h'ila p.,tenza  attiva;  poichì'  i  ..orpi  non  p..t.ebber..  tbrnir.i •dcun'i.lea  in  se  stessi  della  potenza  di  .-omin.'iar.'  una azi..ne,  sia  pensier..,  sia  moviniento.  »  In  questo  lm>-o l'autore  sembra  las.iare  ai  corpi  .pialche  sorta  <li  atti- vita  :  ma  altrove  è  più  esclusivo  :  la  potenza  attiva, eoli  di.e,  è  l'attributo  propri.,  .legli  spiriti,  e  la  potenza passiva  (luello  dei  corpi  (2). Leibnitz  nei  N.  Saf/fii   (8)  conviene   con    l.oche   che ridea  più  chiara  della  potenza  attiva  ci  viene  dallo  spi- (1)  L.  II,  e.  XXI,  parjijLii'.   K (2)  C.  XXI II,  par.  28. (S;  L.  II,  e.   XXI. —  22:^  — uto.  «  Così  essa  iiou  è,  e^li  dice,  che  nelle  eose  ehe  han- no deirftnah>ixia  con  lo  spirito,  eioè  nelle  entelechie  (die sono  le  potenze  attive  delle  monadi)  :  percliè  la  materia non  denota  propriamente  che  la  potenza  passiva.  »  Al- trove dice  :  «  Nell'ordine  della  conoscenza  come  nell'or- dine della  realtà  le  (*08P  spiritnali  sono  anteriori  alle materiali,  perchè  noi  percepiamo  più  interiormente  Pa- nima,  che  ci  è  intima,  che  il  corpo,  come  lianno  osserva- to Platone  e  Descartes.  La  forza,  voi  dite,  noi  n<m  la  cono- scianM)  elle  J)er  i  suoi  efit'etti,  e  non  in  se  stessa.  Io  ri- spondf>  (he  sarebhe  così,  se  noi  non  avessimo  un'anima, e  non  la  conoscessimo»  (1).  E  altrove:  «È  in  noi  stessi che  troviamo  le  semenze  dì  ciò  che  apprendiamo,  cioè le  idee  e  le  verità  eterne  che  ne  nascono  ;  e  non  è  sor- prendente se,  avendo  la  coscienza  di  noi  stessi,  e  tro- vando in  noi  l'essere,  l'unità,  la  sostanza,  Wizione,  noi »ld>iamo  l'idea  di  tutte  queste  cose  »  (2). In  Berkeley  la  dottrina  ha  ^ìh  la  sua  torma  mo- derna :  e<»li  aiferma  che  la  vohmtà  è  la  sola  causa  di cui  abhiaiììo  fjualche  esperienza,  e  perciò  eoli  non  aiu- mette  *  li,  vi  sia  alcun'  altra  causalità,  alcun'  altra  j)o- tenza,  che  nell'attività  volontaria.  L'idea  di  causa, e*i;li  dice  nel  De  Moiu^  ci  è  foruiùt  dalla  coscienza  della nostra  attività  personale,  della  vohmtà  ;  l'  attività appartiene  esclusivamente  aUo  spirito,  e  i  fenomeni sono  dei  segni,  non  delle  cause,  di  altri  fenomeni.  È per  metafora  che  si  è  potuto  parlai-e,  a  proposito  dei corpi,  di  sforzi  o  di  tendenze.  Noi  non  conosciamo  chia- ramente ed  evidentemente  nei  corpi  che  la  tìgura,  il  mo vimento  e  le  proprietà  sensibili  :  se  oltre  a  queste  qua- lità si    vuol    ammettere  in    essi  un    principio  del    movi- I 223 mento,  noi  ccmfessiamo  che  esso  è  una  qualità   occulta, e  che  perciò  iu)n  conosciamo  il  principio  del  movimento Queste  parole  forza,  peso,  gravitazione,  non  desi- gnano delle  (pialità  tìsiche:  levate  dai  coipi  l'estensione, la  solidità,  la  tìgura,  non  resta  più  niente  ;  parlare  di qualche  altra  (pialità  è  rocem  prof  erre  et  nihil  eoneipere. Del  resto  tutti  i  matematici  si  accorcbmo  a  ricono- scere che  i  corpi  sono  inerti,  egualmente  indittèrenti  al rii)oso  e  al  movimento  :  è  l'anima,  la  cosa  pensante,  che ha  il  potere  di  mettere  il  corpo  in  movimento.  Bisogna duncjue  attiibuire  allo  spirito  il  j)rincipio  del  iìU)VÌmento, e  considerale  le  cose  non  pensanti  ionie  semplicemente mobili  ed  ineiti. La  teoria  volizionale  della  causazione  era  dunciue stabilita  prima  delle  speculazioni  di  Huuie  sul  princi})io di  causalità:  enei  fatto,  <iuando  Huuie  vuol  dimostrare che  la  nostra  idea  di  un  rapporto  di  causazione  si  ridu- ce per  noi  a  ({nella  di  una  uniformità  <li  se(iuenza,  e  che noi  non  abbiamo  alcun'idea  di  un  legame  ne(*essario  o di  una  causa  eftìciente  .  egli  si  vede  «obbligato  di  com- battere (jnesta  dottrina,  secondo  cui  la  coscienza  ci  at- testa che  la  volontà  è  una  causa  efficiente,  e  l'  idea stessa  di  causa  etticiente  «  deriva  (hdla  riflessione  (nel senso  lockiano  <li  (|uesta  parolai,  poiché  essa  nasce  in noi  meditando  sulle  operazioni  dell'anima,  e  sull'im])ero che  la  volontà  esercita  tanto  sugli  organi  del  corpo  <he sulle  facoltà  dello  spirito»  (1). La  tecuia  volizionale  acquista  una  ben  più  grande importanza  dopo  di  Hume  :  è  (piesta  teoria  che  i  <lifen- sori  «delle credenze  naturali  del  genere  umano  »  oppon- gono alla  dottrina  empirista  fondata  dallo  scettico  in- glese, secondo  la  <iuale  noi  non  abbiauìo  nozione  dd  cause (1)  Kpist.  àAÌ  Berliiigium,  p.  (577,  ed.  Erdiiiaini. (2)  Lettf-nt  ad  Hau.scbius  8ul  idatoiiisnio.  p.  455  ed.  Erdmaiiii. (1)   Hunie  Sanj^H»   VII. 224—  225 <- eifìcieriti,  e  la  causazione  non  è  altro  che  una  successione invariabile  di  fenomeni.  Reid,  come  ablnamo  visto,  con- viene con  Huine  che  i  fenomeni  esteriori  non  ci  mostra- no elle  le  ser|uenze  regolari  dei  fenomeni,  e  che  le  scien- ze fisiche,  anclie  supponendole  ])ervenute  alPultima  per- fezione, non  potrebbero  mettei'e  in  luce  la  causa  efficiente di  un  solo  fenomeno  della  natun».  M;i  ben  altro  è  il  ca- so per  i  fenomeni  deirattività  umiuia  :  «  Quando  io  os- servo, egli  <Iice,  lo  sviluppo  di  una  [)ianta,  dal  germe in  cui  essa  era  nascosta  sino  alla  maturità,  io  so  che  deve esservi  una  causa  capace  di  produire  (|uest'  effetto,  ma non  vedo  uè  la  causa  né  il  modo  della  sua  azione.  Al contiario,  in  certi  moti  del  mio  coi|)o  e  in  certe  dire- zioni del  mio  j>ensiero,  io  so  ikmi  solamente  che  ([uesto effetto  ha  bisogni)  di  uua  causa,  ma  eziandio  che  io  sono <juesta  causa  ;  io  ho  la  coscienza  di  ciò  che  io  fo  per produrlo.  Ciò  donde  seiid)ra  derivare  non  solo  il  C(m- cetto  di  una  causa  (erticiente),  mi  il  concetto  più  chiaro che  noi  possiamo  formarci  deirattività,  o  dello  sviluppo della  [)i)tenza  attiva,  è  la  coscienza  delhi  nostra  propria attività.  —  Il  solo  concetto  distinto  che  io  posso  fVu'mar- mi  della  potenza  attiva  si  è  che  essa  è  in  un  essere  l'at- tributo in  virtù  del  (piale  egli  ])uò  fare  certi  atti,  se  lo vuole.  —  Se  dunque  alcuno  afferma  che  un  essere  può essere  la  causa  efticiente  d'un'azione,  ed  aver  la  potenza di  ])iodurla,  sebbene  esso  non  possa  ne  concepirhi  né volerla,  egli  parla  una  lingua  che  io  non  comprc^ido  af- fatto. —  Mi  sembra  duncpie  molto  propabile  che  gii  esseri dotati  di  (pialche  grado  d'intendimento  e  di  volontà  pos- sono soli  posseder  la  potenza  attiva  e  che  gli  casseri  ina- nimati sono  puramente  passivi  e  non  hanno  alcuna  at- tività reale  »  (1). 1^ lacobi,  che  in  Germania  difende  le  credenze  natu- rali contro  di  Kant  e  di  Fichte,  come  Reid  in  Inghil- terra contro  di  Hume,  dice  :  Se  l'uomo  non  fosse  che  un essere  pensante,  s'egli  non  fosse  di  più  attivo,  agente al  di  fuori,  egli  non  avrebbe  l'idea  di  causa  e  di  effetto. È  l'esperienza  intima  che  facciamo  della  nostra  forza, della  nostra  libera  causalità,  che  ci  dà  l'idea  di  causa, e  ci  fa  supporre  delle  forze  da  per  tutto  dove  noi  ve- diamo un'azione  (1). Ascoltiamo  infine  un  altro  fra  i  difensori  delle  cre- denze naturali,  M.  de  Biran,  filosofo  al  cui  nome  è  le- gata, più  che  a  quello  di  qualsiasi  altro,  la  dottrina  vo- lizionale.  «  La  nozione  di  potere  o  di  legame  necessario deriva  unicamente,  dice  quest'autore,  dalla  coscienza interna  del  nostro  potere  di  agire  o  dal  sentimento  della nostra  propria  causalità  appercepita  nei  movimenti  vo- lontari, e  per  conseguenza  in  tutti  i  nostri  atti  liberi. Il  potere  e  l'energia,  cause  donde  procedono  questi  mo- vimenti, è  un  fatto  che  noi  conosciamo  immediatamente, certissima  scientia  et  damante  coscientia;  fatto  interiore sui  generis,  distintissimo  da  tutti  gli  avvenimenti  natu- rali che  l'esperienza  comune  può  rappresentare  ai  sensi o  all'immaginazione  come  legati  gli  uni  agii  altri  in  un certo  ordine  abituale  di  successione;  e  come  (questo  rap- porto di  successione  differisce  (toto  genere)  da  quello  di causalità,  ripugna  di  dire  o  di  pensare  che  l'abitudine 0  l'esperienza  ripetuta  possa  creare  il  principio  (di  cau- salità), o  trasformare  gli  effetti  in  cause,  il  contingente in  necessario  »  (2).  «  Un  essere  che  non  avesse  mai  fatto sforzo  non  avrebbe  in  effetto  alcuna  idea  di  forza  né per  conseguenza  di  causa  efficiente;  egli  vedrebbe  i  mo- (1)   Facoltà  attice.  Siigj^io  I,  e.   V. (1)  L'idealismo  e  il  realismo. (2)  Op.  filos  pubbl.  da    Cousin,  t.  IV,  p.    28H-290  (Opin.  di Hume  sulla  natura  e  V origine  d^lla  nozione  di  causalità)- 15 226 viineiiti  succodersi,  una  palla,  p.  e.,  colpire  e  cacciare innanzi  a  sé  un'altra  palla,  senza  concepire  nò  poter applicare  a  questo  seguito  di  movimenti  questa  nozio- ne di  causa  efficiente  o  forza  agente  che  noi  crediamo necessaria  perchè  la  serie  possa  cominciare  e  continuar- si »  (l).  La  forza  di  cui  noi  abbiamo  T appercezione  interna immediata  o  la  coscienza  «  serve  di  tipo  esemplare  a tutte  le  nozioni  generali  e  universali  di  cause,  di  forze, di  cui  ammettiamo  l'esistenza  reale  nella  natura»  (2). Una  credenza  necessaria  e  invincibile  ci  forza,  dopo  che abbiamo  preso  la  causa  o  la  forza  in  noi  stessi,  dove  ci è  data  immediatamente,  a  trasportarne  una  simile  al  di fuori  a  degli  esseri  che  non  possiamo  conoscere  imme- diatamente (3).  «Una  forza  motrice,  distinta  da  noi,  dalla nostra  volontà,  non  può  concepirsi  in  se  stessa,  ma  solo sul  modello  della  nostra  volontà  attiva  »   (4l Noi  non  citeremo  altri  rappresentanti  della  stessa tendenza  filosofica;  ci  contenteremo  di  dire  con  Mill  che la  teoria  volizionale  è  divenuta  da  qualche  tempo  uno dei  baluardi  della  scuola  intuizionista  (5,.  Eppure  que- sta teoria  sembra  difficilmente  compatibile  con  una  opi- nione generalmente  ricevuta  sulla  comunicazione  tra l'anima  e  il  corpo.  Se  questa  comunicazione  è,  come  si pretende,  il  più  impenetrabile  tra  i  misteri  che  noi  siamo obbligati  ad  ammettere  sulla  fede  dell'esperienza,  se  l'a- zione della  volontà  sugli  organi  del  movimento  è  quindi assolutamente  incomprensibile,  sembra  se  ne  debba  con- cludere che  tra  la  volizione  e  il  movimento  eseguito  non 11)  T.  4,   p.  ;^53  (Dottr.  fitos.  di  Leibnltz), (2)  T.  ?>,   \u  5  (DelVnppercezloìie  immediata). (S)  T.  3,  pzg.  156  (Distinz,  tra  i  fatti  psieol.  e  fìsiol). (4)  T.    S,  p.   334   (Aota  sa   certi  passi   di   Malebranche   e   di Boss  net). (5)  MiU  Filos.   di  Hamilton  traci,  frane.  pa<r.  350. 227  — vi  ha  un  legame  necessario,  che  i  due  fatti  sono  in  con- giunzione ma  non  in  connessione,   e  che  noi  non  cono- sciamo la  volontà  come  causa  efficiente.  Infatti  noi  ab- biamo distinto  la  causazione  metafisica  o  efficiente  dalla causazione  fisica  o  semplice  sequenza  uniforme  per  que- sto carattere,  che  nel  primo  caso  noi  comprenderemmo perchè  un  tale  effetto  seguirebbe  da  una  tale  causa,  (nel- l'ipotesi che  noi  prendessimo  conoscenza  di  qualche  causa efficiente),  mentre  nel  secondo,  cioè  nella  causazione  fi- sica, noi  sappiamo  solamente  che  tale  effetto  segue  da tal  causa,  ma  non  ne  comprendiamo  il  perc/iè.  In  verità quest'obbiezione    potrebbe    anche    dirigersi    contro    noi stessi  :  noi  infatti  abbiamo  ammesso  che  se  l'uomo  eleva naturalmente  la  propria  attività  a  tipo  di  tutti  i  feno- meni della  natura,  ciò  avviene  perchè  egli  crede  così  di comprendere  questi  fenomeni  e  di  scoprirne  le  cause  ef- ficienti; ma  se  la  sua  stessa  propria  attività  è  per  l'uomo ciò  che  vi  ha  di  più  incomprensibile,  allora  assimilando gli  avvenimenti  del  mondo  esteriore  ai  suoi  propri  atti, lungi  di  comprendere  meglio  questi   avvenimenti,   egli non  farebbe  che   spiegare   ohscarum  per  obscurius,   né potrebbe  quindi  per  questo  mezzo  credere  di  fare  alcun passo  nella  ricerca  delle  cause  efficienti,  se  come  abbia- mo stabilito,  è  tutt'uno  comprendere  le  sequenze  dei  fe- nomeni e  conoscerne  le  cause  efficienti.  Noi  risolveremo più  tardi  questa  difficoltà,  per  quanto  essa  ci  riguarda: per  ora  c'importa  solamente  di  notare  che  alcuni  filosofi, anche  della  scuola  delle  credenze  naturali,  vi  hanno  visto un'obbiezione  insolubile  contro  la  teoria  volizionale,  nel senso  almeno   in   cui   essa   è  stata  ammessa  dai  filosofi precedenti,  e  per  conseguenza  essi   non  hanno    trovato una    causa    efficiente    nel    movimento    volontario,    ma soltanto  nell'attività  puramente   interiore   dello   spirito. Di    là   una  modificazione  della   teoria  volizionale,   che noi    esporremo   con  le   parole   di  uno  di   questi  filosofi. «aUTtwrrnaa In  niuna  parte  deirordine  tìsico,  e  al  di  fuori  di  noi, dice  Deg'erando,  noi  vediamo  delle  cause  efficienti.  Noi vi  scopriamo  una  successione  di  fenomeni  più  o  mena generale  e  costante,  e  diamo  a  questi  fenomeni  il  nome di  effetti  e  di  cause,  perchè  la  generalità  e  la  costanza di  questa  successione  ci  fanno  supporre  qualche  legame nascosto  ma  reale  fra  di  essi;  questo  legame,  da  un'al- tra parte,  ci  è  impossibile  di  percepirlo.  Nell'azione stessa,  che  esercitiamo  sui  nostri  organi,  nulla  perce- piamo di  più;  noi  vediamo  che  il  nostro  braccio  si  muove quando  abbiamo  voluto  muoverlo;  noi  non  vediamo  in alcun  modo  che  esso  si  muove  perchè  l'abbiamo  voluto, aè  come  accade  che  esso  ubbidisca  ;  che  sopravvenga una  paralisi,  l'ubbidienza  cessa,  senza  che  potessimo  ve- der di  più  come  e  perchè  essa  ha  cessato.  Questo  legame non  è  altra  cosa  che  il  profondo  e  impenetrabile  mistero dell'unione  dell'anima  e  del  corpo,  e  dei  rapporti  del morale  col  fisico.  Ma  se  si  penetra  più  avanti,  se  l'uomo rimasto  solo  con  se  stesso  si  racchiude  nel  santuario  della sua  coscienza;  la  scena  cambia,  i  veli  cadono,  l'azione  si spiega,  il  rapporto  si  scopre;  l'anima  presente  insieme  nella potenza  che  comanda,  nell'azione  che  ubbidisce,  perce- pisce la  leva,  distingue  la  molla;  perchè  essa  vede  che la  volontà  si  determina  pel  suo  proprio  moto,  che  è  l'a- nima che  comanda  a  se  stessa.  Finalmente  essa  contem- pla una  causa  (efficiente),  causa  senza  dubbio  ancora molto  imperfetta  e  limitata;  ma  essa  ne  tira  questa  no- zione feconda  di  causalità,  che  trasportata  in  seguito  per le  deduzioni  della  ragione  alla  cima  della  scala  degli esseri,  vi  si  svilupperà  in  tutta  la  sua  estensione  e  in tutta  la  sua  maestà.  Che  se  nei  gradi  inferiori  della  scala e  nei  fenomeni  della  natura  sensibile,  noi  supponghiamo eziandio  delle  cause,  quantunque  non  ne  conosciamo  al- cuna che  meriti  questo  nome,  che  altro  è  ciò  se  non  una consequenza  di   questa  disposizione  ordinaria  che  abbiamo  a  trasportare  sulla  scena  del  di  fuori  i  fenomeni del  nostro  interno,  ed  a  rivestire  delle  nostre  proprie  mo- dificazioni gli  oggetti  posti  fuori  di  noi  ?  Cosi  noi  ci rappresentiamo  nella  natura  degli  agenti  simili  a  noi. Vedete  nell'infanzia  della  coltura  questo  giuoco  dell'im- maginazione prodursi  con  tanta  semplicità  ed  energia  ! Vedete  come  allora  l'uomo,  pieno  della  coscienza  delle sue  forze,  anima  i  venti,  i  fiori,  le  meteore,  presta  a queste  cose  delle  cause  spontanee,  e  popola  l'universo di  geni  !  Galluppi  cerca  pure  nel  sentimento  della  nostra attività  interiore  la  nozione  della  causa  efficiente  ;  ma egli  la  trova  non  solo  nella  volontà,  ma  anche  e  sovra- tutto  nell'attività  intellettuale  e  nelle  connessioni  neces- (1)  La  teoria  volizionale  moditieata,  quale  è  formulata  nel luogo  citato  (li  Degerando,  si  trova  già  in  Bossuet.  Quest'autore, nel  suo  Trattato  del  libero  arbitrio,  dice  che  è  l'atto  interno  del volere  che  è  una  vera  azione,  ma  non  il  movimento  volontario, non  avendo  noi  alcuna  idea  dell'azione  motrice  dell'anima.  Se tuttavia  noi  chiamiamo  la  volontà  causa  del  movimento,  è  per- cll^  ordinariamente  si  dà  il  nome  di  causa  a  «ciò  che  una  volta posto,  si  vede  tosto  seguire  un  certo  effetto  »  (in  altri  termini, la  volontà  «^  un  antecedente  costante,  non  una  causa  eftìciente, dei  nostri  movimenti).  Quelli  che  attribuiscono  ai  corpi  delle virtfi  attive  o  delle  v(a-e  azioni,  non  ne  hanno  alcima  idea  di- stinta: ma  «  essendo  abituati  a  trovare  in  noi  una  vera  azione, cioè  la  volontà,  congiunta  ai  movimenti  che  noi  facciamo,  tra- sportiamo ciò  che  è  in  noi  ai  corpi  che  ci  circondano  ». 1  Cartesiani,  i  quali  non  vedevano  negli  agenti  materiali,  e nello  spirito  stesso  come  agente  sulla  materia,  che  delle  cause occasionali,  non  potevano  riconoscere,  nel  mondo  dell'esperienza, altra  torma  di  attività  reale  che  (quella  interna  dello  spirito.  Non pare  che  essi  estendessero  sino  a  «questa  la  loro  teoria  delle  cause occasionali  :  per  altro  è  evidente  che  non  avrebbero  i)otuto  ne- gare allo  spirito  un'attività  reale,  senza  negare  al  tenijio  stesso la  dottrina  del  libero  arbitrio. K ^ 230 231 sarie  del  pensiero.  Cosi  eg-li  scrive:  «Sì  domanda:  1.^^  Ab- biamo noi  una  nozione  della  causa  efficiente?  2.o  Questa nozione  può  essere  derivata  dai  sentimenti  ?  3.°  Vi  sono dei  fatti  nella  natura  i  quali  si  mostrano  a  noi  in  con- ne^ssione,  non  già  solamente  in  congiunzione  ?  Io  ho  la coscienza  di  aver  composta  quest'opera  :  essa  riguardata come  un  insieme  di  conoscenze  è  una  cosa  che  non  esi- steva nel  mio  spirito  prima  che  io  l'avessi  composta;  essa è  dunque  un  effetto.  Io  l'ho  composta  con  l'esercizio della  facoltà  meditativa  del  mio  spirito;  il  mio  spirito  è dunque  l'agente  che  l'ha  composto;  esso  ne  è  dunque  la causa  efficiente.  Le  conoscenze  di  cui  quest'opera  è  com- posta sono  in  connessione  tra  di  esse  :  le  ultime  illazioni suppongono  quelle  che  le  precedono  e  da  cui  derivano, queste  ne  suppongono  delle  altre  da  cui  derivano,  fin- ché giungiamo  alle  prime  illazioni,  che  derivano  da  al- cune premesse.  La  composizione  dunque  di  una  scienza quale  che  siasi,  di  un  trattato  scientifico,  di  un  discorso, è  sufficiente  a  somministrarci  la  nozione  della  causa  ef- ficiente e  dell'effetto,  ed  a  presentarci  dei  fatti  in  con- nessione. Ma  che  dico  io  ?  è  a  ciò  sufficiente  un  sem- plice raziocinio  :  il  sentimento  del  raziocinio  è  il  senti- mento del  me  che  ragiona,  del  me  che  deduce,  del  me che  pone  in  lui  una  conoscenza.  Nel  raziocinio  lo spirito  percepisce  una  connessione  fra  l'illazione  e  le premesse  :  senza  questa  percezione  egli  non  direbbe dunque.  Non  solamente  il  raziocinio,  ma  qualunque  giu- dizio necessario  ci  può  somministrare  la  nozione  di  un agente  che  produce,  e  quella  della  connessione  neces- saria ha  due  fatti.  Quando  lo  spirito,  meditando  su  l'i- dea del  circolo,  vede  immediatamente  l'uguaglianza  dei suoi  raggi,  egli  ha  il  sentimento  del  me  che  agisce  nel giudizio,  decomponendo  e  ricomponendo,  e  che  perce- pisce la  connessione  tra  il  predicato  e  il  soggetto.  Hume ammette  che  lo  spirito  percepisce  necessariamente  le  ve- rità matematiche  che  consistono  nelle  relazioni  delle  sue idee;  ma  ciò  non  è  forse  ammettere  nello  spirito  dei  fatti in  connessione?  Un  rapporto  è  una  percezione  in  noi, e  questa  percezione  è  un  effetto  necessario  dello  spirito, il  quale  paragona  le  sue  idee.  Ma  non  abbiamo  noi  bi- sogno di  allontanarci  dai  primi  istanti  della  nostra  esi stenza  intellettuale,  per  ritrovare  i  dati  necessari  per  la nozione  della  causalità.  Il  sentimento  dei  primi  atti  del- l'attività intellettuale  è  a  ciò  sufficiente.   Lo  spirito  af- fetto da  una  moltitudine  di  sentimenti,  incomincia  subito dal  decomporre  questo  fascetto  d'impressioni,  ed  il  priuìo effetto  di  quest'azione  sono  alcune  idee  sensibili.  Ora  vi è  una  connessione  necessaria  fra  l'azione  dell'analisi  e l'esistenza  di  una  certa  porzione  di  òentimenti,  distinta e  separata   dall'insieme   che   in  noi  si  trova;  quella  co- scienza più  viva  di  alcuni  oggetti  è  un  prodotto  neces- sario dell'azione  dell'analisi,  che  concentra  su  di   essilo sguardo  dello  spirito.  La  divisione,  o  un  pensiero  diviso dagli  altri,  è  un  effetto  necessario  dell'atto  intellettuale che   divide.    Similmente    la  formazione  di  un'idea  com- plessa, quale  che  siasi,   è  un  effetto  necessario  dell'a- zione combinata  dell'analisi  e  della  sintesi.  Lo  spirito  ri- trova  dunque   la   nozione  della  causa  efficiente  e  della connessione  necessaria  nel  sentimento  della  propria  at- tività intellettuale,  e  tutta  l'armata  delle  obbiezioni  di Hume  é  distrutta  »  (1).  È  notevole  che  tutte  le  volte  che Galluppi  vuol  difendere  contro  di  Hume  la  conoscenza diretta  dell'efficienza  causale  e  d^-lle  connessioni  neces- sarie tra  i  fatti,  egli   ricorre  sopratutto  ai    rapporti    ne- cessari tra  le  idee  e  alla  connessione  logica  tra  le  pre- messe e  laconclusione.  Osserviamo  che  l'applicazione  delle idee  di  Galluppi  sulla  conoscenza  diretta   della   causa- lità alla  spiegazione   universale   dei    fenomeni   sarebbe (1)  Cialliippi  Sayyio  filosofico  t.  4,  e.  8,  piiragr.  20. f I  Videalismo,  di  cui  una  delle  forme  più  importanti  con- siste ad  identificare  Io  sviluppo  reale  dell'essere  allo  svi- luppo logico  del  pensiero  (1). Quantunque  la  più  gran  parte  dei  pensatori,  che ammettono  la  teoria  volizionale  della  causazione  o  qual- che altra  forma  della  dottrina  che  trova  nella  coscienza della  nostra  propria  attività  l'origine  e  il  tipo  della  no- zione della  causa  efficiente,  siano  degViìituìzhìiisti,  cioè dei  filosofi  che  vogliono  fondare  sull'intuizione  immediata della  realtà  la  legittiuiità  di  certe  nozioni  di  cui  la  filo- sofia empirista  contesta  il  valore  reale  o  in  cui  almeno essa  non  vede  dei  dati  originali  ed  immediati  della  co- scienza; da  ciò  non  si  deve  concludere  che  tali  dottrine sul  principio  di  causalità  siano  proprie  esclusivamente alla  scuola  intuizionista.  Anche  molti  pensatori  che  rap- presentano una  tendenza  filosofica  affatto  contraria,  am- mettono delle  dottrine  simili.  Noi  abbiamo  visto  come nel  padre  delbi  filosofia  sensista  si  trova  già  il  germe di  (jueste  teorie.  A  Locke  possiamo  aggiungere  Con- dillac,  egli  dice  :  «  Vi  ha  in  noi  un  principio  delle  nostre azioni,  che  sentiamo,  ma  non  possiamo  definire  :  esso  si chiama  forza.  Noi  siamo  egualmente  attivi  rapporto  a tutto  ciò  che  questa  forza  produce  in  noi,  o  al  di  fuori di  noi.  Noi  lo  siamo,  p.  e.,  allorché  riflettiamo,  o  allor- ché facciamo  muovere  un  corpo.  Per  analogia  noi  sup- (1)  Mji  (ralliipjM.  oltn^  olio  nella  coscienza  doli'  attività  in- teriore dello  spirito,  trova  la  conoscenza  diretta  della  causa  ef- fìcient»;  nel  sentimento  di  un  fuori  di  noi  che  ci  nioditìca  nella percezione.  (V.  (4alluppi  Suff.  fìlos.  t.  2.  par.  74,  t.  4  .  par.  21, t.  5,  i)ar.  105,  ecc.).  (^uest'iilea  di  (ralbippi  è  lej^ata  alla  sua  dot- trina della  percezione,  secondo  la  (piale  vi  ha  in  cpu^sta  un'in- tuiziiMie  iniJiiediata  deiro;ii;etto  esteriore,  e  di  i)iù  la  coscienza di  una  connessione  necessiria  fra  la  sensjizione  e  ra.:»ente  esterno causa  della  sensazione. poniamo  in  tutti  gli  oggetti  che  producono  qualche  can- giamento, una  forza  che  conosciamo  ancora  meno(l)». In  Condillac,  come  in  Locke,  la  teoria  non  s'incontra che  allo  stato  embrionale;  ma  in  alcuni  dei  sensisti  po- steriori noi  la  troviamo  completamente  sviluppata.  Cosi in  Lamoriguiere.  che  ammette  quella  forma  di  essa  che trova  la  nozione  della  causa  efficiente  nella  sola  attività interiore  dello  spirito.  «E  in  noi  stessi,  egli  dice,  che troviamo  l'idea  di  causa.  Essa  deriva  dal  sentimento  del rapporto  fra  un'azione  dell'anima  e  un  cangiamento  del- l'anima. L'idea  di  causa  ci  viene  dunque  primieramente dal  sentimento  della  nostra  propria  forza  unito  al  senti- mento delle  modificazioni  che  sono  prodotte  da  questa forza.  Essa  ci  viene  dal  sentimento  di  un  rapporto  fra cose  che  sono  in  noi  (2)». Il  nostro  Gioia  ammette  invece  l'altra  forma  della teoria,  quella  che  vede  il  tipo  della  causazione  nel  mo- vimento volontario  :  «  Io  non  posso  dubitare,  egli  scrive, della  realtà  delle  nostre  proprie  azioni  :  io  sento  dentro di  me  che  io  posso  muovere  e  che  io  muovo  il  mio  corpo o  diff^erenti  parti  del  mio  corpo,  che  io  posso  traspor- tarmi e  che  mi  trasporto  da  un  luogo  ad  un  altro;  che io  posso  vincere  e  che  vinco  la  resistenza  di  differenti corpi  duri.  Da  queste  azioni  che  io  sento  o  di  cui  io  ho in  me  la  coscienza^  deduco  la  nozione  generale  di  causa e  d'efffetto.  Io  chiamo  causa  ciò  che  racchiude  in  sé  il principio  dell'azione:  io  chiamo  effetto  ciò  che  risulta immediatamente  dall'azione.  Quest'effetto  é  un  cangia- mento che  io  produco  nel  mio  corpo,  o  in  differenti  parti del  mio  corpo,  e  per  il  mio  corpo  nei  corpi  ai  quali  esso si  applica,  e  per  questi  sopra  altri  ancora,  ecc.  ecc.  Questo cangiamento  é  dovuto  all'attività  o  alla  forza  motrice  di (1)  Trattato  delle  sensazioni  parte  1,  ca|).  2. (2)  Lez.  di  filos.  t.  2,  lez.  12. -  234  — cui  ranima  è  dotata;  io  pongo  dunque  nella  forza  mo- trice dell'anima  il  principio  di  tutti  i  cangiamenti  ch'essa produce  in  me  o  fuori  di  me,  e  do  a  questo  principio  il nome  generale   di  causa La    coscienza   della   mia forza  motrice  e  degli  effetti  ch'essa  produce  mi  fa  ri- guardare gli  esseri  che  mi  attorniano  come  altrettanti agenti  che  esercitano  gli  uni  sugli  altri  delle  azioni  ri- nascenti, donde  risultano  in  questi  esseri  mille  cangia- menti d'eftetti  diversi.  Io  non  riguardo  questi  cangia- menti sotto  il  rapporto  puramente  ideale  di  concomitanza o  di  successione^  ma  sotto  la  relazione  intima  ed  essen- ziale della  causa  e  d^ìVeffetto,  dell'agente  e  del  paziente, dell'essere  modificato  e  dell'essere  modiftcatore,  della  for- za e  del  suo  prodotto  ». La  teoria  volizionale  della  causalità,  come  era  op posta  dagli  avversari  di  Huiiie  alla  sua  analisi  dell'idea di  causa,  cosi  è  stata  opposta  dagli  avversari  di  Mill  al- l'analisi più  netta  che  ne  ha  fatto  questo  filosofo.  J.  Her- schell  dice:  «  Malgrado  tutti  i  tentativi  fatti  da  certi  me- tafisici  per  rovesciare  la  teoria  del  rapporto  fra  la  causa e  Teftetto,  e  per  sostituirle  quella  di  successione  rego- lare e  incondizionale,  resta  evidente  che  la  concezione di  un  rapporto  più  reale  e  più  intimo  esiste  cosi  profon- damente nello  spirito  umano  come  quella  dell'esistenza d"un  mondo  esteriore;  ed  è  una  cosa  strana  a  dire  che il  trionfo  di  questa  verità  abbia  potuto  essere  riguardato come  un  progresso  di  gran  valore  nel  dominio  Idea  tìlo- losofìa.  Al  momento  in  cui  mettiamo  la  forza  in  opera per  imprimere  il  movimento  alla  materia,  o  per  nece- tralizzare  un'altra  forza,  la  coscienza  immediata  d'uno sforzo  apparisce,  e  ci  dà  la  convinzione  intima  di  potere e  di  causazione  (efficiente)  in  ciò  che  riguarda  il  mondo esteriore.  »  «  Nel  senso  mentale  di  sforzo  che  può  ap- prezzare ogni  uomo  che  compie  un  atto  di  volontà,  e  che proviamo  allorché  passiamo  dalla  determinazione  di  fare una  cosa  alla  sua  esecuzione,  noi  troviamo  la  concezione di  una  causazione  (efficiente)  immediata  e  personale  che non  si  può  negare.  » Fra  gli  autori  contemporanei  che  ammettono  la  teoria volizionale  della  causalità,  bastei*à  di  ricordare  Wundt e  Renouvier,  alle  cui  dottrine  abbiamo  accennato  in  un paragrafo  precedente  (1). §  22.  Un  esame  introspettivo  applicato  alle  cono- scenze che  noi  abbiamo  dei  vari  rapporti  di  causazione tra  i  fenomeni,  ci  mostra  che  la  teoria  volizionale  e  le altre  forme  della  dottrina  che  vede  nella  nostra  propria attività  il  tipo  e  la  sorgente  dell'idea  di  efficienza  cau- sale, non  sono  prive  affatto  di  una  base  psicologica.  Con- frontiamo infatti  questa  proposizione  :  «  la  nostra  volontà ha  il  potere  di  muovere  le  nostre  braccia  »  con  quest'al- tra :  ^<  i  corpi  hanno  la  forza  di  attirarsi  in  ragione  in- versa del  quadrato  della  loro  distanza»,  o  con  un'altra qualsiasi  che  esprima  una  di  queste  conoscenze  sulle leggi  della  natura  che  noi  dobbiamo  unicamente  agl'in- segnamenti  della  scienza.  E  evidente  che,  quantunque le  dee  proposizioni  confrontate  non  indichino  Tuna  e l'altra  che  dei  rapporti  costanti,  delle  sequenze  uniformi tra  certi  fenomeni,  e  quantunque  perciò,  al  punto  di  vista obbiettivo,  possa  non  esservi,  e  secondo  noi  non  vi  è certamente,  alcuna  differenza  tra  la  successione  regolare della  volizione  e  del  movimento  e  un'altra  qualunque delle  successioni  regolari  o  rapporti  di  causazione  che noi  conosciamo  nella  natura;  la  cosa  però  cangia  d'a- spetto, se  noi  portiamo  la  quistione  sul  terreno  psicolo- gico, cioè  se  noi  esaminiamo,  non  più  in  ch<^.  possano distinguersi  le  due  sequenze  di  fenomeni  considerate  in se  stesse,  ma  invece  se  vi  sia  una  differenza  nell'impres- (1)  V.  $  17,  pag.  sione  che  le  due  conoscenze  fanno  nel  nostro  spirito.  Ora in   ciò  vi    hanno   certamente  fra  i  due  rapporti  di  cau- sazione   delle   differenze    importanti.    1.^  Il  legame  fra la    volizione    e    l'esecuzione   del  movimento   voluto  ci sembra   affatto  naturale,  mentre  il   rapporto  tra  la  esi- stenza   simultanea    di   due  corpi  a  una  certa  distanza reciproca  e   il    movimento  di  attrazione  dei   due   corpi Tuno  verso    V  altro    ci    pare    semplicemente    arbitrario. Noi  avremmo  difficoltà  a   concepire   un   mondo,    in   cui tutte  le  volte  che  gli  uomini  avessero  la  volontà  di  muo- vere un  membro,  ne  muovessero  invece  un  altro:  al  con- trario noi  immaginiamo  facilmente  che  la  natura  avrebbe potuto  essere   costituita   in   modo   che  da   queste  stesse condizioni  da  cui  attualmente  segue  un  movimento  di  at- trazione, ne  seguisse  invece  un'altra  specie  di  movimen- to, p.  e.  di  repulsione,  ovvero  l'assenza  di  qualsiasi  nuovo movimento;  quest'ultima  ipotesi  sembrerebbe  anche  più naturale   di    quella  che   si    verifica   nel    mondo   reale.  I primi    newtoniani    dichiaravano    che    la   scoverta    della legge  della  gravità  dimostrava  che  le  leggi  della  natura non  soiK»  d' un'esistenza  necessaria,  ma  dipendono  uni- camente dalla  volontà  e  dalla  libertà  del  Creatore.  Per questa  legge,  della  stessa  maniera  che  per  le  altre  leggi della  natura  che  ha  scoverto  la  scienza,  noi  costatiamo semplicemente  che  i  fatti  si  succedono  cosi,  ma  non  ve- diamo che  devono  succedersi  cosi  e  non  altrimenti.  Nean- che il  legame  ti  a    la  volizione   e   la  f)roduzione  del  mo- vimento voluto  ci  sembra,  a  dir  vero,  strettamente  ne- cessario,  cioè   tale   che    il    contrario   sia    assolutamente inconcepibile.  Ciò  è  perchè  la  proposizione,  come  tutte quelle  che  concernono  l'esistenza  (e  non  semplicemente dei  rapporti  di  somiglianza  o  di  differenza)  è  di  origine empirica,  e  una  proposizione  empirica  non  è  mai  stret- tamente  necessaria.    Inoltre   l'esperienza   ci   obbliga  ad ammettere  che  vi  hanno  dei  casi  in  cui  le  membra  non 'dói ubbidiscono  al  comando  della  volontà.  Tuttavia  in  (|uesti casi  noi  pensiamo,  non  che  la  volontà  non  abbia  natu- ralmente  il  potere  di  produrre  il  movimento  voluto,  ma che  vi  hanno  delle  circostanze  che  contrariano  l'esercizio di  questo  potere,  degli  ostacoli  che  impediscono  la  sua manifestazione,  senza  che  esso  sia  perciò  meno  naturale. Cosi  io  credo  che  chiunque  vorrà  paragonare  queste  due proposizioni,  l'una  che  afferma  che  «la  materia  ha  jjer sua  natura  il  potere  di  attirare  la  materia»  (o  se  non  es- sa, qualsiasi  altra  delle  proposizioni  che  noi  non  abbiamo apprese  che  per  gl'insegnamenti  della  scienza),  e  l'altra che  afferma  che  «  la  volontà  ha  per  sua  natura  il  potere di  produrre  il  movimento  voluto  »,  non  esìsterà  a  rico- noscere, purché  sia  sufficientemente  abituato  all'osser- vazione psicologica,  che  la  seconda,  quantunque  non  sia rigorosamente  una  proposizione  necessaria,  si  accosta, assai  più  che  la  prima,  a  una  proposizione  necessaria. 2".  Esaminando  l'idea  della  volizione  e  quella  della  ese- cuzione del  movimento  voluto,  ci  sembra  che,  per  la semplice  inspezione  delle  idee  dei  due  fatti,  noi  vediamo che  l'uno,  come  effetto,  conviene  all'altro,  come  causa, che  è  conforme  alla  ragione  che  da  tal  causa  segua  tal effetto,  e  ripugnante  che  ne  seguisse  un  effetto  differente. Fra  le  idee  dei  due  fatti  vi  ha,  direbbe  Locke,  convenienza; noi  siamo  portati  a  credere  che,  indipendentemente  dal- l'esperienza, potremmo  scoprire,  per  il  semplice  para- gone delle  loro  idee,  il  rapporto  da  cui  i  due  fatti  sono legati  nell'ordine  reale  delle  cose.  Niente  di  simile  per la  legge  dall'attrazione  :  noi  non  l'ammettiamo  che  come un  fatto  positivo  che  l'esperienza  ci  obbliga  ad  ammet- tere; noi  non  troviamo  alcun  legame  razionale  tra  la causa  e  l'effetto;  e  lungi  di  credere  che  nell'idea  della causa  vi  sia  qualche  cosa  che  possa  suggerirci  a  priori l'idea  dell'effetto,  siamo  anzi  inclinati  a  pensare  che  l'at- trazione, considerata  come  proprietà  primitiva  della  materia,  è  qualche  cosa  di  assurdo  e  d'inconcepibile.  3'*  La produzione  del  movimento  per  la  volontà  ci  sembra  un fatto  che  si  spiega  da  se  stesso;  la  causa  ci  fa  compren- dere il  suo  effetto,  e  per  ispiegare  questo  non  chiediamo niente  di  più.  Al  contrario,  il  rapporto  tra  l'esistenza  si- multanea delle  molecole  materiali   a   delle  distanze  de- terminate e  la   loro   attrazione  reciproca  ci  sembra  che abbia  bisogno  di  una  spiegazione;  che  occorra  un  inter- mediario tra  i  due  fatti,  tra  cui  l'esperienza  ha  costatato una  relazione  uni  torme,  perchè  questa  relazione  divenga intelligibile;  e  che  quest'intermediario  debba  essere  tale, che  il  suo  rapporto  col  fenomeno  che  si  tratta  di  spiegare sia  uno  di  quei  rapporti  di   causazione  che  si  spiegano da  se  stessi,  e  che   producono  sul   nostro  spirito  quella stessa   impressione  particolare  per   cui,  come  abbiamo visto,  la  legge  di  causazione  che  lega  la  volontà  al  mo- vimento si  distingue  da  quella  della  gravitazione  uni- versale e  da  qualsiasi   altra   legge  della  natura  di  cui dobbiamo  unicamente;  la  conoscenza  alle  scoverte  e  agl'in- segnamenti della  scienza.  In  conclusione  quali  sono  i  ca- ratteri psicologici  per  cui  il  rapporto  costante  tra  la  vo- lizione e  la  produzione  del  movimento  voluto  si  distin- gue dalle  altre  leggi  di  causazione?  Sono  appunto  i  ca- ratteri psicologici  per  cui  avevamo  già  distinto  la  cau- sazione metafisica  dalla  causazione  fisica^  la  causalità  ef- ficiente dalla  semplice  uniformità  di  sequenza.  Se  vi  hanno dunque  cause  efficienti,  la  volontà  è  una  causa  efficiente; se  vi  ha  una  differenza  reale  tra  una  causa  efficiente  e un  semplice  antecedente  invariabile,  l'attività  volontaria differisce  essenzialmente  dalle  uniformità  di  sequenza  or- dinarie, e  non  può  mettersi  allo  stesso  rango  con  esse. Ciò  che  abbiamo   detto  dell'attività  dello   spirito   come forza  motrice  può  ugualmente  dirsi  della  sua  attività  pu- ramente interiore:  se  vi  hanno  dei  fatti  che  sono  in  con- nessione e  non  semplicemente  in  congiunzione,  noi  non . 239 possiamo  al  certo  supporre  una  connessione  tra  fatti  che sia  più  intima  e  più  intelligibile  del  nexus  che  lega  le idee  successive  le  une  alle  altre  nello  spirito  che  ra- giona. Quello  che  la  teoria  volizionale  della  causazione  e  le altre  teorie  affini  hanno  ben  compreso  è  che  sarebbe  im- possibile  di  rendere   conto  della  nozione  di   causa  effi- ciente, se  la  esperienza  non  ci  offrisse  qualche  tipo  sul quale  noi  modelliamo  la  nozione  generale.  Se  noi  infatti sappiauìo  che  gli  antecedenti  invariabili  che  noi  osser- viamo nelle  sequenze  della  natura  non  sono  delle  cause efficienti,  e  supponiamo  perciò  che  le  cause  efficienti  si trovano  al  di  là  e  restano   occulte   alla  esperienza  sen- sibile, noi  dobbiamo  formarci   una  certa  nozione  gene- rica, ma  definita,  di  questa  qualche  cosa  che  resta  al  di là;  noi   dobbiamo  sapere  in  che  una  causa  efficiente  dif- ferisca da  un  semplice  antecedente  di  una  sequenza  in- variabile. Ora  donde  ci  sarebbe  venuta  questa  nozione? Se  noi  sappiamo  che  le  cause  osservabili,  cioè  le  condi- zioni costanti  degli  effetti  della  natura,  non  sono  quelle che  producono  questi  effetti,  perchè  non  li  spieyano,  ed essi  esiggono  perciò  qualche  cosa  di  più,  delle  cause  inos- servabili capaci  di  sjnegarli  (ed  è  cosi  che  nasce  l'idea di  cause  efficienti  poste  al  di  là  dell'esperienza),  noi  dob- biamo sapere  almeno    che  cosa  intendiamo  dire  con  le parole  :  una  causa  che  può  spiegare  l'effetto.  Se  noi  non avessimo  mai  conosciuta  una  causa  che  avesse  spiegato  il suo  eff*etto,  se  la  nostra  intelligenza  non  avesse  mai  avuto l'esperienza  di  questo  fatto  mentale  che  si  chiama  spie- gazione di  un  effetto  per  la  sua  causa,   su  qual  fonda- mento immagineremmo  noi  che  esistono  delle  cause  ca- paci di  spiegare  i  loro  effetti  ?  ben  più  che  senso  potrem- mo noi  legare  alle  parole  :  una  causa  capace  di  spiegare il  suo  effetto  ?  Inoltre,  se  non  vi  fosse  alcun  rapporto  tra certi  fatti  della  nostra  propria  attività  e  la  nozione  della causalità  efficiente,  come  comprenderemmo  noi  questa tendenza  dello  spirito  umano,  di  cui  parla  A.  Comte, a  spiegare,  assimilandoli  a  questi  fatti,  tutti  i  fenomeni della  natura  ?  È  certo  che  l'uomo  non  potrebbe  credere di  scoprire  le  cause  efficienti  dei  fenomeni  esteriori,  o, com*'  dice  Comte,  il  loro  mnrln  essenziale  di  produzione, quando  immagina  che  sono  prodotti  da  volontà  analoghe alla  sua,  s'egli  non  credesse  che  la  sua  volontà  è  essa stessjì  niia  causa  efficiente,  e  che  egli  comprende  il  modo essenziale  di  produzione  delle  proprie  azioni  di  cui  la sua  volontà  è  la  causa. Non  vi  ha  dubbio  adunque  che  in  certi  fatti  dell'at- tività umana  noi  troviamo  l'idea  di  cause  efficienti  e  di connessione  tra  fenomeni.  Ma  questa  distinzione  fra  una causa  efficiente  e  un  semplice  antecedente  invariabile, fra  una  connessione  e  una  semplice  congiunzione  tra  fe- nomeni, ha  un  valore  obbiettivo?  Precisiamo  prima  di tutto  la  quistione.  Noi  abbiamo  visto  che  la  nozione  di un  rapporto  tra  una  causa  efficiente  e  il  suo  eifetto  si distingue  da  quella  di  una  semplice  uniformità  di  se- seijuenza  per  tre  caratteri.  Primo,  tra  la  causa  efficiente e  il  suo  effetto  vi  ha  un  legame  necessario^  ciò  che  manca fra  l'antecedente  e  il  conseguente  di  una  semplice  sequen- za invariabile.  Questa  necessità  del  legame  in  una  causa- zione efficiente  significa  al  fondo  che  una  proposizione  che enunciasse  una  causazione  tale,  sarebbe  una  proposizione necessaria.  Verità  o  proposizione  necessaria  è,  nel  senso stretto,  quella  il  cui  contrario  è  inconcepibile:  tuttavia  la più  pacte  dei  filosofi  considerano  anche  come  necessarie delle  verità  o  pretese  verità,  il  cui  contrario  non  è  assolu- tamente inconcepibile,  ma  solamente  difficile  a  concepire. Nessuna  verità  sul  reale,  sull'esistente,  potendo  essere strettamente  necessaria,  e  una  causazione  efficiente  es- sendo una  verità  sul  reale,  sull'esistente,  il  primo  ca- rattere distintivo  della  causazione  efficiente  si   riduce Ji-^ So. dunque  a  questa  necessità  relativa,  che  consiste  in  ciò, che  il  contrario  di  una  verità  non  si  concepisce  che  con un  certo  sforzo,  con  una  certa  difficoltà.  Noi  supponiamo che  il  contrario  di  una  causazione  efficiente,  se  questa fosse  conosciuta  e  rappresentata,  non  potrebbe  coiu*epirsi che  con  difficoltà,  mentre  il  contrario  di  una  semplice sequenza  invariabile  è  cosi  facile  ad  immaginare,  anzi talvolta  più  facile,  che  la  realtà  stessa,  essendovi  delle sequenze  invariabili  (p.  e.  l'attrazione  universale),  la  cui negativa  ci  sembrerebbe  più  naturale,  meno  strana,  del fenomeno  reale,  che  noi  troveremmo  certamente  in  veri- simile, se  non  fossimo  costretti  ad  ammetterlo  come  vero. Ora  questa  prima  differenza  fra  una  causazione  efficiente e  una  semplice  sequenza  invariabile  non  è  evidentemente che  subbiettiva.  Essa  non  consiste  che  in  un  legame  più o  meno  stretto,  più  o  meno  forte,  fra  le  nostre  idee. Quando  vi  ha  una  tale  associazione  fra  due  idee,  che  la prima  chiama  la  seconda  d'una  maniera  irresistibile,  noi diciamo  che  vi  ha  là  una  verità  assolutamente  neces- saria :  più  forte  è  la  tendenza  della  prima  idea  ad  evo- care la  seconda,  più  la  verità  di  cui  le  due  idee  sono  gli elementi,  si  avvicina  ad  una  verità  assolutamente  ne- cessaria. Secondo,  noi  siamo  inclinati  naturalmente  a  credere che,    trattandosi  di  una   causalità  efficiente,    i)Otremmo scoprire  il  rapporto  tra  la  causa   e  l'effetto   per  il  solo paragone  delle  idee,  mentre  una  semplice  uniformità  d sequenza  è  una  verità  di  cui  nessuno  penserebbe  a  ne gare  l'origine  empirica.   Ma  anche  questa  è  una    diffe- renza puramente  subbiettiva.  Vi  ha  certamente  una  ten-. denza   naturale  a   credere  che  certi   rapporti   di  causa- zione (qual  è  quello  tra  la  volontà  e  il  movimento)  ab- biano un'evidenza  intrinseca,  o,  ciò  che  vale  lo  stesso, siano  conosciuti  a  priori  o  d'una  maniera  intuitiva:  ma tutti  coloro  che  hanno  riflettuto  su  queste  materie  am- 242 243  — metteranno  indubbiamente  che  sarebbe  un'ipotesi  oziosa quella  di  ricorrere  a  delle  necessità  primordiali  del  pen- siero per  ispie^are  delle  conoscenze  di  cui  l'esperienza rende  conto  perfettamente.  Ma  quand'anche  una  unifor- mità di  sequenza  fosse  conosciuta  a  priori,  ciò  importe- rebbe forse  una  differenza  obbiettiva  fra  essa  e  le  uni- formità di  sequenza  conosciute  per  l'esperienza?  La  dif- ferenza non  concernerebbe  che  l'origine  di  queste  cono- scenze, e  non  sarebbe  evidentemente  che  psicologica. Fra  le  tre  differenze  per  cui  abbiamo  distinto  la  cau- sazione ethciente  da  una  semplice  sequenza  invariabile, non  sarebbe  dunque  che  la  terza  che  avrebbe  un'impor- tanza al  punto  di  vista  obbiettivo.  Se  si  ammette  che  la causa  eftìcìente  è  (jualche  cosa  di  più  che  Tantscedente di  una  semplice  sequenza  invariabile,   ciò   equivale  ad ammettere  che,  mentre  la  prima  spiega  il  suo  effetto,  e non  vi  ha  perciò  bisogno,  per  rendere  intelligibile  il  le- game fra  essa  e  l'effetto,  di  una  terza  cosa,  cioè  di  un intermediario   esplicativo,   al    contrario   il   secondo   non spiega  il  suo  effetto,  vale  a  dire  il   suo  conseguente,  e vi  ha   perciò    bisogno,    affinchè   il  legame  tra  l'antece- <lente  e  il  conseguente  sia  intelligibile,  di  supporre  l'in- tervento di  una  terza  cosa,  cioè  di  una  causa  efficiente che    possa    servire    d'intermediario    esplicativo.    Se    in- vece la  differenza   tra   una   causa   efficiente  e   un   sem- plice   antecedente    di    una  sequenza  invariabile   non   è che  subbiettiva,  non  vi  ha  piìi  luogo  allora  a  supporre l'intervento  di  un  intermediario  esplicativo,  cioè  di  una ipotetica  causa  efficiente,  sia  d'altronde  conoscibile  sia inconoscibile,  allo  scopo  di  spiegare  quelle  uniformità  di sequenza  v\u^  non  sembrano  portare  in  se  stesse  la  pro- pria spiegazione.  Infatti,  se  si  crede  di  aver  bisogno  di ao-iriunsere  alle  cause  costatate,    vale  a  dire  agli  ante- cedenti  di    sequenze  invariabili,    altre   cause   supposte, cioè  le  efficienti,  quali   intermediari  esplicativi,  ciò  av- r viene  perchè  si  ammette  che  una  vera  causa  produttiva deve  non  solo  essere  seguita  invariabilmente  dal  suo  ef- fetto, ma  avere  altresì  la  capacità  di  farlo  comprendere, di  spiegarlo,  mentre  un  semplice  antecedente  di  una  se- quenza invariabile,  che  non  spiega  il  suo  effetto,  non  è una  vera  causa  produttiva  di  quest'effetto;  in  altri  ter- mini perchè  si  ammette  che  una  vera  causa  produttiva è  realmente  qualche  cosa  di  più  di  un  semplice  antece- dente di  una  sequenza  invariabile,  e  che  vi  ha  una  dif- ferenza ontologica,   e  non  psicologica  soltanto,   tra  ciò che  noi  consideriamo  come  una   connessione  causale  e ciò  che  consideriamo  come  una  semplice  uniformità  di sequenza.  Così  ecco  la  quistione  sola  importante  al  punto di  vista  obbiettivo:   questa  credenza  naturale  al  nostro spirito,  secondo  cui  ammettiamo  che  quelle  uniformità di  sequenza  che  non  ci  sembrano  evidenti  per  se  stesse, e  che  perciò  noi  non  consideriamo  come  niente  altro  di più  che  delle  semplici  uniformità  di    sequenza,   devono essere  spiegate  mediante  altre    uniformità  di   sequenza che  ci  sembrano  evidenti  per  se  stesse  (o  che,  quantun- que sconosciute,  supponiamo  che  ci  sembrerebbero  tali se    le   conoscessimo),    e   che    perciò   consideriamo   come qualche  cosa  di  più  che  delle  semplici  uniformità  di  se- quenza, chiamando  gli  antecedenti  cause  efficienti;  (jue- sta  credenza,  si  domanda,  ha   o  no   un  valore  reale?  e la  tendenza  che  ne  segue  a  spiegare  certi  fatti  per  certi altri  fatti,  corrisponde  a  una   necessità  obbiettiva  nella natura  delle  cose,  o  è  una  semplice  necessità  subbiettiva del   nostro  spirito  senza  rapporto  con  la  verità? Noi  non  saremo  che  più  tardi  in  grado  di  dare  una soluzione  completa  di  questa  quistione  :  per  ora  ci  ba- sterà di  osservare  che  la  teoria  che  vede  nel  movimento volontario  la  sorgente  e  il  tipo  unico  dell'efficienza  cau- sale, e  le  dottrine  affini  sul  principio  di  causalità,  non possono  giustificare  il  valore  obbiettivo,  nel  senso  che noi  abbiamo  indicato,  della  nozione  di  causa  efficiente. 244 L'insufficienza  della  teoria  volizioiiale  si  mostra  al j)riino  colpo  d'occhio  in  ciò  che  essa  pretende  di  fondare sopra  l'esperienza  di  un  sol  caso  un  principio  universale. Questa  obbiezione,  che  essa  non  può  spiegare  l'univer- salità del  principio  di  causazione,  è  stata  fatta  a  questa dottrina  da  filosofi  della  stessn  scuola  intuizionista  (1). In  verità  quelli  che  sollevavano  questa  obbiezione  pen- savano che  essa  poteva  dirig-ersi  contro  tutte  le  dottrine che  fondano  questo  principio  sull'esperienza:  essi  l'appli- cavano contro  la  teoria  volizionale,  in  quanto  vedevano in  essa  una  forma  della  dottrina  sperimentale  sull'ori- gine del  principio  di  causalità.  Ma  contro  la  teoria  vo- lizionale l'obbiezione  regge,  anche  respingendo  la  tesi di  questi  suoi  avversari  che  l'esperienza  non  può  ser- vire di  base  ad  alcun  principio  universale.  K  evidente che  se  noi  ammettiamo,  sulla  fede  dell'esperienza,  come le2-2'e  universale  della  natura,  il  principio  della  causa- zione  fisica  (uniformità  di  sequenza),  è  perchè  gli  uomini hanno  osservato  che  tutte  le  classi  dei  fenomeni  della natura  si  conformano  a  questa  legge.  Una  esperienza  non meno  uniforme  sarebbe  necessaria  per  istabilire  il  prin- cipio della  causazione  metafisica  (cause  efficienti)  come lei>'ae  universale  :  ma  la  teoria  volizionale  dall'osserva- zione  di  un  sol  caso,  che  potrebbe  essere  semplicemente eccezionale,  pretende  inferire  l'universalità  della  legge. (1)  F.  e.  Hamilton— citato  du  Mill  Filos.  ili  HaìHÌlton,  trail. fraiu*.  p.  352  in  u(>ta.  —  ('oiisiu.  pur  faccmlo  adesioni'  alla  dot- trina di  Biran  suirorij^inc  dcdla  nozione  di  forzji  o  causa  cttì- cicntc,  trova  nondimeno  che  essa  non  può  spiegare  runiversalità e  necessità  del  principi»».  «  Senza  dubbio.  e.Lili  di<-e.  il  principio di  causalità  non  si  svihqjperebhe,  se  prima  una  nozi<nie  positiva di  causa  individuale  non  ci  fosse  data  nella  vcdontà:  ma  una  no- zione iiìdividuale  <'  contin.ncnte  che  precede  un  ju-incipio  neces- sario, non  lo  spiega  e  non  può  tenerne  1u<vìì;<>.  »  (I*rcfaz.  al  r.  4 ilelle  o]>er«'  di  Biran.  p.  XXXIV). -  245 Ora  la  teoria  voliziouale,  non  potendo  giustificare  l'u- niversalità del  principio  delle  cause  efficienti,  non  può nemmeno  giustificare  l'obbiettività  di  questa  nozione. Ciò  è  una  conseguenza  dell'osservazione  precedente.  Noi abbiamo  osservato  che  se  vi  ha  una  differenza  obbiettiva tra  la  causa  efficiente  e  il  semplice  antecedente  di  una sequenza  invariabile,  e  che,  ammettendo  il  valore  reale della  nozione  di  causa  efficiente,  bisogna,  dapertutto  dove noi  non  vediamo  che  sequenze  uniformi  di  fenomeni, supporre,  oltre  questi  fenomeni  stessi,  delle  cause  efficienti come  intermediari  esplicativi.  Ora  ciò  suppone  l'applica- zione universale  del  principio  delle  cause  efficienti.  Se noi  ci  limitiamo  a  non  ammettere  altre  cause  efficienti che  quelle  di  cui  costatiamo  l'esistenza  })er  l'osservazio- ne, senza  supporne  anche  là  dove  non  possiamo  costa- tarle per  l'osservazione  stessa,  allora  la  causa  efficiente non  differisce  che  psicologicamente  dal  semplice  antece- dente di  una  sequenza  invariabile.  Accordiamo  alla  teoria volizionale  che  la  volontà  è  la  causa  efficiente  dei  nostri movimenti,  perchè  tra  essa  e  il  suo  effetto  vi  ha  un  legame naturale  e  necessario,  mentre  nelle  ordinarie  uniformità di  se(|uenza  non  vi  ha  tra  l'antecedente  e  il  conseguente alcun  l'agame  simile.  Se  il  rapporto  di  causazione  effi- ciente che  esperimentiamo  nel  movimento  volontario,  dif- ferivsce  dai  rapporti  di  causazione  che  osserviamo  nelle ordinarie  uniformità  di  se(|uenza,  al  punto  di  vista  ob- biettivo e  non  al  semplice  punto  di  vista  psicologico  (cioè solo  per  la  differente  iujpressione  che  l'uno  e  gli  altri producono  sulla  nostra  intelligenza),  ciò  è  in  quanto  noi consideriamo  la  volontà  come  una  spiegazione  sufficiente dei  nostri  movimenti,  senza  supporre  niente  di  altro, mentre,  per  {spiegare  le  uniformità  ordinarie  di  sequen- za, noi  ammettiamo  il  bisogno  dell'intervento  di  un'al- tra cosa,  vale  a  dire  di  un  intermediario  esplicativo.  Ma se  noi  non  ci  crediamo  autorizzati  a  supporre  questi  in- 246 termediari  esplicativi  là  dove  no\  non  costatiamo  che delle  semplici  uniformità  di  sequenze,  se  noi  non  am- mettiamo altre  cause  efficienti  che  le  nostre  volizioni  che producono  i  nostri  uìovimenti,  allora,  chiamando  la  no- stra volontà  una  causa  efficiente  e  le  altre  cause  sem- plici antecedenti  di  sequenze  invariabili,  noi  non  deno- tiamo, per  questa  differenza  di  denominazione,  una  dif- ferenza obbiettiva  tra  le  cose,  ma  solo  una  differenza psicologica  tra  le  nostre  idee.  Per  conseguenza,  la  teoria volizionale,  non  potendo  giustificare  la  estensione  della nozione  di  causa  efficiente,  dall'atto  volontario,  in  cui noi  ne  abbiamo  l'esperienza,  agli  altri  fatti  della  na- tura, non  riesce  a  dare  un  valore  obbiettivo  a  questa nozione,  non  può  stabilire,  in  altri  termini,  sopra  una base  solida  che  la  differenza  tra  una  causa  efficiente, quale  è  la  volontà,  e  un  semplice  antecedente  di  sequenza invariabile,  quali  sono  le  altre  cause  delTesperienza,  è obbiettiva  o  ontologica,  e  non  semplicemente  subbiettiva 0  psicologica. Cosi  ciò  che  vi  ha  di  certo  nella  teoria  volizionale e  teorie  affini  sul  principio  di  causalità  non  è  che  un fatto  psicologico  :  cioè  che  vi  ha  una  classe  di  sequenze uniformi  che  producono  sulla  nostra  intelligenza  un'im- pressione particolare;  che  in  ([ueste  sequenze  noi  pos- siamo chiamare  gli  antecedenti  cause  efficienti  (perchè vi  troviamo  i  caratteri  che,  al  punto  di  vista  subbiettivOj distinguono  una  causazione  efficiente  dalle  ordinarie uniformità  di  sequenza):  e  che  nella  nostra  propria  at- tività noi  troviamo  gli  esempi  di  tali  sequenze  e  di  tali cause.  Possiamo  noi  contentarci  di  costatare  questo  fatto psicologico,  considerandolo  come  un  fatto  isolato,  come un  fatto  ultimo  e  inesplicabile  della  nostra  intelligenza? Evidentemente  no  :  noi  dobbiamo  procedere  più  oltre; costatato  il  fatto,  noi  dobbiamo  cercarne  la  ragione. A.  Comte,  che,  come  la  teoria  volizionale  della  cau- 247 sazione,  trova  nella  volontà  umana  il  tipo  su  cui  noi  ci formiamo  naturalmente  la  concezione  di  tutte  le  forze 0  cause  efficienti  della  natura,  non  risolve  la  nostra  qui- stione  :    perchè  noi  consideriamo   la  volontà   come  una causa  efficiente  e  non  come  un  semplice  antecedente  in- variabile? Ecco  che  cosa  troviamo  su    ciò  nel  Corso  di filosofia  positiva:  «  Quantunque  si  sia  giustamente  segna- lato, dopo  lo  slancio  speciale  del  genio  filosofico,  la  dif- ficoltà fondamentale  di  conoscere  se  stesso,  non  bisogna tuttavia  attaccare  un  senso  troppo  assoluto  a  quest'os- servazione generale,  che  non  può  essere  che  relativa  ad uno  stato  già  molto  avanzato  della  ragione  umana.  Lo spirito  umano  ha  dovuto  in  effetto  pervenire  a  un  grado notevole  di  raffinamento  nelle  sue   meditazioni    abituali prima  di  potere  sorprendersi  dei  suoi  propri!  atti,  riflet- tendo su  se  stesso  un'attività  speculativa  che  il  mondo esteriore  doveva  dapprima  sì  esclusivamente  provocare. Se  da  una  parte  l'uomo  si  riguarda  necessariamente  al- l'origine come  il  centro  di  tutto,  egli  è  allora  da  un'altra parte  non  meno  inevitabilmente  disposto  ad  erigersi  pure a  tipo  universale.  Egli  non  potrebbe  concepire  altra  spie- gazione primitiva  a  qualsiasi  fenomeno  che  di  assimilarlo, per  quanto  sia  possibile,  ai  suoi  propri  atti,  i  soli  di  cui egli  possa  mai  credere  di   comprendere   il  modo  essen- ziale di  produzione,  per  la  sensazione  naturale  che  li  ac- compagna direttamente».  Niente  di  più  giusto  di  questa osservazione  di  Comte,  che  è  necessario  che  l'uomo  sia pervenuto  ad  un  grado  avanzato  di  coltura,  perchè  esso possa  sorprendersi  dei  suoi  propri  atti,  e  farne  quindi  l'og- getto della  sua  attività  speculativa.    Questa    incapacità primitiva  dell'uomo  di  sorprendersi  dei  suoi  propri  atti e  questa  disposizione  primitiva   ad   erigersi  a  tipo  uni- versale non  sono  che  due  aspetti  d'uno  stesso  fenomeno: se  l'uomo  primitivo  credesse  di  vedere  un  mistero  nella sua  propria  attività,   egli    non    la  eleverebbe  a  spiega 248  —  zioiie  iiniversak*  delle  cose.  Ma  qui  sta  appunto  la  qui- stione.  Perchè  l'uomo  vede  naturalmente  nei  propri  atti dei   fenomeni    perfettamente    naturali,    che    non    hanno bisogno    di    essere    spiegati,    e    che    possono   servire  di spieg-azioiic  inii versale  degii  altri  fenomeni?  Ciò  avviene, dice  Comte,  per  la  sensazione  naturale  che  li  accompagna cUrHtainevtc  :    in    altri    termini,  (se  ben  comprendiamo) perchè  dei  propri  atti,  che  si  conoscono  per  la  coscienza, si  ha  o  si  crede  di  avere  una  conoscenza  più  diretta  e imniediata  che  delle  cose  esteriori,  che  si  conoscono  per vrìi  nru.uii    dei    sensi.  (1)  Sforzandomi    di    comprendere il  pensiero  dell'autore,  io  non  trovo    che    questo    senso alle    sue    parole:    T  uomo  sapendo    di    conoscere  i  suoi pro]n-i  atti  il  più  direttamente  possibile,  crede  perciò  di conoscerli  intinìamente  nella  loro  natura  (nei  loro  modo essenziale  di  produzione),  più  intimamente  almeno  che i  ftMìomeni  esteriori,  di  cui  sa  di  aver  una  conoscenza più  indiretta.  Vi  sarebbe  molto  da  dire  (ammesso  che  sia questo  il  pensiero  dell'autore)  intorno  al  legame  che  Com- ic stabilisce  tra  questi  due  fatti  :  il  sapere  di  conoscere una  cosa  direttamente,  e  l'illudersi  di  conoscere  Vessenza di  questa  cosa.   Ma  accordando  anche  all'  autore  che  il primo  fatto  sia  una  ragione  sutlrtciente  del  secondo,  re- sta semf»re    che    il    suo     ragionamento   manca  di   base, perchè  non  è  aunnissibile  che  l'uomo  primitivo,  l'uomo naturale,  creda    di    conoscere  i  suoi   propri    atti    d'una ili  K  nello  stesso  senso  elie  seminano  pure  doversi  eoni- l.ren.lere  queste  i>:irole  di  colore  oseuro  di  MiU:  «  Primitivaniente la  tiiidenza  o  T istinto  d(\uli  uomini  è  di  assimilare  tutte  le azi<ini  elle  essi  osservano  nella  natura  alla  sola  di  eui  essi  ab- biano mvrttaineatv  ronasrenza,  alla  propria  attività  volontaria.» (A.  Comfe  i'  il  f^ositirisiuo,  trad.  frane.,  p.  W).  Mill  non  ignora, e<»me  vedremo  a  suo  luo,n(>.  la  vera  ragione  del  fatto,  ma  «[Ui parla  da  discejiolo  di  A.  C'omte. 249   - maniera  più  diretta  e  immediata  che  le  cose  esteriori. Il  filosofo  può  credere  cosi,  non  l'uomo  della  natura. Il  filosofo,  per  cui  l'oggetto  diretto  della  percezione sensibile  non  è  la  cosa  in  se,  ma  una  rappresentazione  più o  meno  fedele,  più  o  meno  ingannevole,  di  questa  cosa, può  ammettere  che  la  coscienza  sia  una  conoscenza  più diretta  che  la  percezione  sensibile:  ma  l'uomo  della natura  identifica  le  sue  sensazioni  con  gli  oggetti;  egli crede  che  i  suoi  sensi  colgano  direttamente  e  immedia- tamente le  cose  stesse;  gli  oggetti  familiari  che  lo  cir- condano, che  s'  imprimono  fortemente  sui  suoi  sensi,  e che  egli  può  guardare  e  toccare  a  suo  agio,  non  pos- sono essere  da  lui  considerati  come  oggetti  di  una  co- noscenza nuMio  diretta  e  meno  intima  che  i  suoi  propri atti,  visti  alla  luce  debole  e  incerta  della  coscienza. Noi  non  faremo  altre  considerazioni  a  questo  pro- posito :  solo  osserveremo  che  la  soluzione,  che  A.  Comte dà  alla  nostra  quistione,  suppone  che  vi  sia  nelle  cose un'essenza  occulta,  un  modo  essenziale  di  produzione inaccessibile  airesperienza,  in  altri  termini,  suppone  la realtà  delle  cause  efficienti.  Noi  abbiamo  già  visto  che questo  filosofo  non  può  se  non  gratuitamente  ammet- tere la  realtà  di  questa  nozione,  perchè  non  avendo noi  avuto  mai,  secondo  la  sua  stessa  dottrina,  esperienza di  una  causa  efficiente,  ma  solo  di  antecedente  costanti dei  fenomeni,  è  impossibile  dare  una  prova  dell'esistenza delle  cause  efficienti.  Sicché  la  nozione  di  cause  effi- cienti sconosciute  essendo  altrettanto  subbiettiva  <|uanto quella  della  volontà  come  causa  efficiente,  ne  segue  che la  soluzione  di  A.  Comte  della  nostra  quistione  :  perchè noi  consideriamo  la  volontà  come  una  causa  efficiente? non  va  certamente  al  fondo  delle  cose:  una  soluzione radicale  della  quistione  dovrebbe  infatti  farci  compren- dere, non  solamente  l'origine  di  una  nozione  particolare che  gli  uomini  si  sono  formata  intorno  alle    cause  effi- 250 cienti,  quale  è  rassimilazioiie  del  modo  essenziale  di produzione  dei  fenomeni  esterni  agli  atti  della  volontà umana,  ma  quella  di  tutte  le  nozioni  dello  spirito  u- mano  relative  alle  cause  efficienti,  comprese  queste cause  efficienti  sconosciute,  questo  occulto  modo  essen- ziale di  produziniie  delle  cose,  che  Comte  ammette  senza prova,  in  virtù  forse  della  stessa  tendenza  istintiva  a cui  si  deve  la  prima  nozione  sulle  cause  metaempiriche nello  stato  primitivo  del  pensiero  umano. E  adunque  questa  tendenza  primordiale  del  nostro spirito,  di  cui  tutte  le  nostre  concezioni  relative  alle cause  efficienti  sono  delle  manifestazioni,  che  noi  dob- biamo cercare  di  mettere  in  luce  :  compresa  una  volta questa  tendenza  nel  suo  carattere  o:enerale,  noi  potremo comprendere  allora  ciascuna  delle  sue  manifestazioni. Ma  intanto  il  nostro  punto  di  partenza  noi  non  possiamo trovarlo  che  in  queste  manifestazioni  particolari  ;  non è  che  l'esame  dei  casi  particolari  che  può  condurci  alla nozione  generale,  alla  legge.  In  questo  capitolo  noi  ab- biamo studiata  una  classe  di  questi  casi  particolari; nel  capitolo  seguente  ne  studieremo  un'  altra  :  dopo  di ciò,  paragonando  queste  due  classi  di  fatti,  cercheremo il  loro  punto  di  contatto,  il  loro  carattere  comune  ;  e dopo  aver  messa  cosi  in  evidenza  questa  nozione  ge- nerale che  noi  cerchiamo,  potremo  in  seguito  sostituire al  metodo  induttivo  il  metodo  deduttivo,  e  spiegare,  ri- conducendoli a  questa  nozione,  gli  altri  fatti  dello  stesso ordine  che  la  storia  del  pensiero  filosofico  presenta  alla attenzione  dello  studioso  dello  spirito  umano.LA   FILOSOFIA  MECCANICA   O  IMPULSIONISTA ^S  1    Tra  i  feuoiiioni  puramente  fisici  non  ve  ne  ha che  un  solo  che  al)bia  servito    alla  spiegazione  univer- sale della  natura  :  è  il  fenomeno  dell'impulsione,  la  co- municazione del  movimento    da   un    corpo  ad  un  altro che  avviene  dopo  la  collisione  di  due  corpi.  Cosi  e  del più  grande  interesse,  per  la  nostra  quistione  del  valore e  dell'origine   della   nozione   della   causa  efficiente,  d. mettere  in  confronto    con  la   spiegazione  antropomorfl- stica  dei  fenomeni  la  spiegazione  meccmiicci  (designando con  questo  nome  la  dottrina  che  spiega  tutte  le  azioni fisiche  per  il  movimento  propagato  per  mezzo  dell  im- pulsione),   essendo  queste  le  due  grandi  so  uzion.  che io  spirito  umano  ha  dato  spontaneamente   al  problema delle  cause  efficienti. La  spiegazione  meccanica  occupa  nella  stona  della filosofia  un  posto  che  è  solo  inferiore  per  importanza alla  spiegazione  antropomorfistica.  Nella  filosofia  greca, essa  fu  in  verità  preceduta  da  alcuni  rudimentari  ab- bozzi di  fisica,  e  non  divenne  una  spiegazione  sistema- tica e  universale  della  natura  che  ad  un  certo  grado dello  sviluppo  del  pensiero  speculativo,  con  Leucippo e  Democrito,  rappresentando,  con  que.st'ultuno,  la  fer- ina più  matura  della  fisica  degli  antichi  Greci.  Ma mentre  gli  altri  sistemi  di  fisica  anteriori  o  contempo- 252ranei  caddero,  il  sistema  ineccanico  di  Leucippo  e  De- mocrito sopravvisse,  e,  con  la  scuola  di  Epicuro,  co- stituì, per  un  lungo  periodo  storico,  l'unica  concezione naturalista  del  mondo,  di  fronte  alla  concezione  teolo- gica, rappresentata  dalla  scuola  rivale  degli  Stoici.  Dopo un  lungo  ecclissi  che  coincideva  con  Fecclissi  di  ogni filosofia  indipendente,  la  concezione  meccanica  del  mondo ricomparve,  alla  rinascenza  del  pensiero  filosofico,  e mediante  Cartesio  e  gli  altri  grandi  pensatori  suoi  con- temporanei, ottenne  (ma  alleata  il  più  spesso  alla  con- cezione teologica,  e  non  sua  rivale  come  nei  meccanisti antichi)  un  dominio  incontrastato  sugli  spiriti  emanci- pati dal  giogo  del  peripatetismo  scolastico,  ii  dominio della  concezione  meccanica  fu  per  qualche  tempo  scosso dal  trionfo  definitivo  delle  dottrine  di  Newton;  ma  la rorcnte  scoverta  della  conversione  mutua  delle  forze fisiche  dopo  che  V  etere  aveva  acquistato  dritto  di  cit- tadinanza nella  fisica  moderna  per  la  vittoria  dell'  ipo- tesi delle  ondulazioni  suH'  ipotesi  neuwtoniana  delle emanazioni  nella  spiegazione  dei  fenomeni  della  luce) ha  occasionato  un  ritorno  alla  spiegazione  meccanica, cioè  impulsionista,  di  tutti  i  fenomeni  fisici,  che  la  più parte  dei  fisici  contemporanei  inculcano  sotto  il  nome di  teoria  dell'Unità  delle  forze  fisiche;  dottrina  secondo la  quale  tutti  i  fenomeni,  in  cui  si  vedeva  già  la  ma- nifestazione di  varie  forze  distinte  e  indipendenti,  si spiegano  unicamente  per  l'azione  di  cause  agenti  d'una maniera  meccanica,  considerandoli  come  effetti  dei  mo- vimenti della  materia  ponderabile  e  di  quelli  di  questa sostanza  inipalpabile  e  imponderabile  chiamata  etere, da  cui  i  corpi  si  suppongono  circondati. È  il  fenomeno  della  gravità  che,  nella  storia  del pensiero  moderno,  costituisce  il  campo  principale  di battaulia  nelle  lotte  combattute  prò  e  contro  la  teoria meccanica.  Gli  antichi  meccanisti,  Democrito  ed  Epicuro, non  vedevano  nel  peso  una  diftìcoltà  :  essi  non  cercavano di  spiegarlo,  ritenendolo  evidentemente  come  un  fatto perfettamente  intelligibile,  che  non  avesse  bisogno  di essere  spiegato  ;  anzi  Epicuro  lo  faceva  servire  alla spiegazione  radicale  di  tutti  i  fenomeni,  come  un  comple- mento necessario  della  teoria  meccanica,  credendo  di trovare  in  esso  la  prima  sorgente  o  la  causa  prima  del movimento,  che  già  la  filosofia  antropomorfistica  avea cercato,  con  Platone  ed  Aristotile,  nell'attività  di  un principio  spirituale.  Ma  nei  moderni  (e  noi  mostrerenm in  seguito  il  perchè  di  questa  differenza),  la  gravità  è considerata  come  il  più  oscuro  di  tutti  i  fenomeni  della fisica,  ed  è  a  spiegare  questa  proprietà  della  materia e  i  fenomeni  che  vi  si  riattaccano,  che  sono  stati  diretti i  più  grandi  sforzi  dei  moderni  filosofi  e  fisici  mecca- nisti. All'epoca  in  cui  apparve  la  grande  scoverta  di Newton,  i  fenomeni  di  cui  questa  dava  la  chiave  erano attribuiti  immediatamente  a  cause  meccaniche.  La  filo- sofia cartesiana  spiegava  la  gravità  così  bene  che  i movimenti  planetari  con  la  ipotesi  dei  vortici,  vedendo nel  movimento  dei  corpi  pesanti  verso  il  centro  della  terra l'efietto  della  spinta  dei  corpuscoli  eterei  (1):  alcun  fi- losofo 0  fisico  eminente  non  ammetteva,  in  queir  epo- ca, la  possibilità  di  cause  di  un'altra  natura.  Così prima  che  la  teoria  dell'attrazione  universale  potesse definitivamente  stabilirsi,  essa  dovette  lottare  lunga- mente per  vincere  la  ripugnanza  che  si  aveva  ad  am- mettere un'azione  che  non  fosse  a  contatto:  i  carte- siani e  gli  altri  avversari  di  questa  teoria  vedevano  in essa  un  ritorno  alle  qualità  occulte  del  peripatetismo scolastico;  quegli  stessi  che  accettavano  la  teoria  come un  fatto  provato  dall'osservazione,  pensavano  non  meno (1) Materia  sottile.  V.  Priìw.  della  jìlos,   i  pai-te,  dei  suoi  avversari  che  una  vera  azione  a  distanza  fosse per  se  stessa  incomprensibile  ed  anche  assurda.  Le  pre- venzioni contro  l'azione  a  distanza  non  cessarono  dopo la  vittoria  definitiva  della  teoria  di  Newton  :  non  si contestò  più,  come  aveano  tatto  i  suoi  primi  oppositori, il  valore  della  legete  come  semplice  generalizzazione  dei fenomeni  dell'  esperienza,  ma  si  sono  continuamente proposte  delle  ipotesi  per  ispiegare  questa  legge  mec- canicamente, considerandola  come  un  effetto  sia  del- l'urto di  corpuscoli  solidi  sia  della  pressione  d'un  flui- do (1),  ovvero  la  si  è  ammessa  come  un  fatto  ultimo,  ma (1)  Diamo  jiu  cenno  delle  ipotesi  di  Le8}i«i;e  (astronomo  e fisico  j^inovrino  del  principio  del  secolo  passato)  e  del  p.  Secchi sulla  jiravità.  Ijesaj;e  suppone  che  lo  spazio  h  costantemente attraversato  da  corpuscoli  piccolissimi  moventisi  con  una  rapi- dità eccessiva  e  in  tutte  le  direzioni.  Se  vi  fosse  un  atomo  unico (di  materia  comune),  esso  sareìjbe  urtato  egualmente  da  questi corpuscoli  in  tutti  i  sensi,  e  perciò  resterebl)e  in  ri])OSo.  perchè gli  effetti  degli  urti  ricevuti  da  lati  opposti  si  neutralizzereh- hiiViK  Invece  due  atomi  sarehl>ero  s])inti  1'  uno  verso  1'  altro, perclic  si  servirebbero  reciprocamente  di  riparo,  in  modo  che le  loro  superfìcie  situate  di  rimpetto  non  sarebbero  \nh  colpite nella  dirczi«>ne  della  linea  che  le  congiungerebbe,  e  perciò  gli ettetti  degli  urti  ricevuti  in  «enso  contrario  non  essendo  neutra- lizzati, questi  s]»ingerebbero  i  due  atonii  l'uno  verso  l'altro. II  Secchi  sui»pone  che  ogni  molecola  jionderabile  è  un  centro 4li  moto  permanente,  che  mette  in  agitazione  la  massa  illimitata di  etere  da  cui  è  circ(»ndata.  e  la  conforma  in  maniera  che  la densità  minima  al  centro  va<la  crescendo  verso  la  circonferenza. Supponiamo  due  nudecolc  .  cioè  due  c^'utri  di  agitazione,  in due  punti  qualun([ue  di  quc^sto  miluogo  etereo  così  costituito  : runa  di  queste  nudecole  incontrerà  dal  lato  dell'altra  degli  strati di  etere  meno  densi  che  dal  lato  opposto,  e  quindi  una  resi- stenza minore  al  movimento.  Ne  seguirà  che  le  due  molecoU^ tenderanno  ad  avvicinarsi  l'una  all'altra,  perchè  ciascuna,  ur- taiàdo  due  strati    di    etere    di    densità  ineguale,  si  sposterà  più come  un  fatto  la  cui  possibilità  resta  incomprensibile, quantunque  1'  esperienza  ci  obblighi  ad  ammetterne  la esistenza.  Lo  stesso  che  per  l'attrazione  universale,  è naturalmente  accaduto  per  tutte  le  altre  azioni  a  di- stanza, sia  attrattive  sia  ripulsive;  esse  hanno  in  co- mune con  quella  lo  svantaggio  di  non  essere  delle  azioni meccaniche,  cioè  a  contatto,  e  perciò  o  si  sono  affatto respinte,  cercando  di  spiegare  i  fenomeni  rispettivi  per delle  azioni  meccaniche,  ovvero  si  sono  ammesse  come dei  fatti  di  cui  la  possibilità    e    il    modo  di  produzione sono  inesplicabili. I   sostenitori    della    dottrina    dell'unità    delle    forze fisiche  non  pretendono  che  le  diverse  azioni  apparente- mente non  meccaniche  siano  state  spiegate  d'  una  ma- niera definitiva  :  gli  autori  stessi  di  <iueste  spiegazioni non  le  danno  come  verità  dimostrate,  ma  come  sem])lici ipotesi  ;  e  fra  le  diverse    ipotesi  destinate    alla    spiega- zione di  un  dato  fenomeno,  p.  e.  della  gravità,  non  ve n'è  ancora  alcuna  a  cui  i  fisici  di  questa  scuola  si  siano accordati  a  dare    la    preferenza.  I  meccanisti  non  sono d'accordo  che  sul  principio   della   loro    teoria,  cioè  che l'attrazione  universale    e    le   altre  attrazioni  apparenti, quali    la    coesione  e  1' affinità  chimica,    e    in   generale tutte  le  azioni  fisiche,  non  possono  esser    prodotte   che dal  lato  dello  strato  in  cui  la  densità  è  minore  che  dal  lati»  di quello  in  cui  la  densità  è  maggiore,  ciune,  quando  un  corp.» urta  tlue  altri  di  masse  ineguali,  più  si  sposta  dal  lato  del minore  che  del  maggiore. L'ipotesi  di  Secchi  è  analoga  a  una  congettura  di  Newtcm. il  quale  neirultima  edizione  dell'Ottica  proporne,  questo  proì>len»a: se  non  vi  ha  attorm.  dei  corpi  u.l  nìiluogo  etereo  sempre  di più  in  più  denso  secondo  la  distanza,  e  perciò  causa  dell'attra- zione,  «ciascun  corpo  sforzand<Ksi  di  andare  dalle  parti,nu dense  del  miluogo  alle  più  rarefatte.  » - —  256 257  — da  cause  meccaniche,  che  si  possa  d'altronde  o  no  spie- g-are  distintamente  il  meccanismo  da  cui  risulta  ciascuno di  questi  fenomeni.  Questo  principio  ha  necessariamente per  loro  un  grado  di  certezza  superiore  alle  diverse  ipo- tesi con  cui  si  cerca  di  realizzarlo,  perchè  non  è  che l'applicazione  di  una  i)retesa  verità  evidente  per  s« stessa,  vale  a  dire  che  1*  impulsione  è  la  sola  azione tìsica  tra  i  corpi  che  ci  sia  intelligibile,  donde  segue che  tutte  le  azioni  apparentemente  diverse  da  essa  de- vono ad  essa  ricondursi,  a  meno  di  restare  per  sempre inintciiigibili. Questa    pretesa  verità   evidente  per  se  stessa  è  an- che riconosciuta  in  un  senso  dalla  più  parte    di    coloro che    iKMi    aiiiniettono    la    teoria    meccanica.   Si   afferma infatti    da    essi    che  V  attrazione  e  ogni   altra  azione  a distanza  è  appunto  e  sarà  sempre  un  fatto  inintelli.uibile. Ura  se  si  cerca  la  ragione  di  tale  affermazione,  non  se ne    troverà    altra    che    questa,    che    l'attrazione  e  ogni altra    azione   a    distanza    sembra    inintelligibile   perchè non    si    può    ridurre   all'impulsione,  che  è  il  solo  feno- meno   tisico    che    sembri    intelligibile.  Ciò  in  cui  i  non meccanisti  si  accordano  ancora  coi  meccanisti  è  la  sup- posizione che  i  fenomeni  dell'attrazione  e  gli  altri  feno- meni tisici  diversi  dall'impulsione  sono  degli    effetti,   le cui    vere   cause   sfuggono  all'  oss(irvazione  :    alle   cause tisiche  dei  secondi  i  primi  sostituiscono  delle  cause  iper- iisiche,  le  forze,  ed  è  evidente  che  essi  non  hanno  altra ragione  per  ammettere  l'intervento  di  queste  cause  oc- culte,   se  non   la    pretesa  inintelligibilità  dei  fenomeni, che  s'  inìmagina  che  queste  cause  renderebbero   intelli- gibili, se  esse  potessero  essere  da  noi  conosciute. Ciò  che  è  importante  per  il  nostro  argomento  non è  di  discutere  la  validità  delle  ipotesi  meccaniche  sul- Tattrazione  o  in  generale  sulle  azioni  a  distanza  (qui- stione  per  la  quale  d'altronde  non  avremmo  alcuna  com- petenza), ma  di  segnalare  le  affermazioni  dogmatiche,  che i  meccanisti  prendono  per  base,  e  che  vengono  accettate, dentro  certi  limiti,  da  quelli  stessi  che  non  ammettono la  spiegazione  meccanica.  La  forma  assiomatica  di  que- ste affermazioni  e  l'unanimità  con  cui  vengono  accettate mostra  che  il  fondamento  della  teoria  meccanica  si  trova in  una  tendenza  istintiva  del  nostro  spirito,  tendenza che  noi  dobbiamo  sforzarci  di  mettere  in  evidenza,  per il  rapporto  che  essa  ha  con  la  nostra  quistione  dell'ori- gine dell'idea  di  causa  efficiente. L'affermazione  che  serve    di    base  alla   teoria  mec- canica, e  che  è  sino    ad    un    certo    punto    ammessa  dai suoi    stessi    avversari,    è    come  abbiamo  detto,  (|uesta  : che  r  impulsione  è,    un    fatto    intelligibile  in  se  stesso, mentre  ogni  altra  azione  tra  i  coipi  non  lo  è,  e  non  i)0- trebbe  divenir  tale  che  mediante  un  intermediario  espli- cativo. Secondo  i  meccanisti  questo  intermediario  espli- cativo è  accessibile  ai  nostri  mezzi  di  conoscere,  e  non è  altra  cosa  che  il  fatto  stesso  dell'impulsione;  secondo gli  altri,  esso  è  al  di  là  delle  nostre  facoltà  conoscitive, ma  non  esiste  meno  per  ciò;  è  una  forza  occulta  nella sua  natura  e  nel  suo  modo    di    azione,    di  cui    noi  non abbiamo  esperienza,  nìa    che  dobbiamo    anmiettere    per intendere  la    possibilità  delle    azioni    o   dei    movimenti di  cui  abbiamo  esperienza.    Noi    possiamo  sostituire  ai termini    «  intelligibile  in  se  stesso  »    ed    «  intermediario esplicativo»    il  termine    «  causa  efficiente  »,    e  tradurre cosi  :  L'urto  di  un   corpo  è  la  causa  efficiente   del  mo- vimento del  corpo  urtato;    esso    produce    (juesto   movi- mento, e  non  ne  è  il  sem])lice  antecedente;  ma  in  ogni altra  azione  fra  i  corpi,  p.  e.  nelle  azioni  cosi   dette  a distanza,  le  condizioni    date    le  quali  avviene  il  movi- mento, non  sono  le  cause  che  producono  (juesto   movi- mento, ma  semplici  antecedenti  di  esso,  a  cui  e$so  se- gue regolarmente.  Che  queste  condizioni  siano  la  causa 17258 efficiente  che  produce  il  movimento,  è,  secondo  gli  uni e  gli  altri,  intrinsecamente  impossibile  :  perciò,  dicono  i meccanisti,  una  vera  azione  a  distanza,  o  in  generale ogni  azione  fisica  che  non  possa  ridursi  all'impulsione, è  impossibile  e  assurda,  e  bisogna  necessariamente  am- mettere che  rimpulsione  è  la  causa  unica  che  produce tutti  i  movimenti.  Secondo  i  non  meccanisti,  un'azione a  distanza,    o,  in    geiuM-ale,  irriduttibile  all'iinpulsione, non  è  impossibile  perchè    è    un    fatto  costatato  dall'os- servazione,   ma  è  impossibile  e  assurdo    che    nei    feno- meni di  <iuesta  natura  le  condizioni  osservabili  del  mo- vimento   siano  le  cause  immediatamente    produttrici   di questo  movimento  ;  per  conseguenza,    dovendo   ammet- tersi qualche   causa    ])roduttrice  o  efficiente    del    nmvi- mento,  e  questa  causa  non  essendo  l'impulsione,  è  ue- eessario,  secondo  essi,  di  supporre  che  il  movimento   è prodotto  da  forze  occulte,  la  cui  natura  e   il  cui  modo d'azione    ci    sono    affatto   sconosciuti.  Dall'impossibilità di  spiegare  i  movimenti    per    1'  impulsione,  i  non  mec- canisti inferiscono  ch'esso  è  dovuto  a  cause  occulte,  le forze:  dalla  inintelligibilità  di  queste /by^e,  i  meccanisti inferiscono  la  lu^cessità  di    attribuire   il    movimento  al- l'impulsione. La  supposizione  comune  che  serve  di  base cosi  ai   meccanisti    che    ai    non    meccanisti,  è  che   una causa    produttrice  di  un  movimento   è   qualche  cosa  di più  che  la  condizione  o  l'insieme  delle  condizioni,  date le  quali    il    movimento    accade    invariabilmente;    o,  in generale,  che  la  causa  etticiente  di  un  fenomeno  è  qual- che cosa  di  più  che  le  condizioni   o   gli  antecedenti  da cui  il  fenomeno  è  invariabilmente  seguito.    Ma    se    noi ammettiamo  che  la  causa   di  un   fenomeno  non  è  altra cosa  che  l'insieme  delle  condizioni  o  antecedenti  a  cui il  fenomeno  segue  invariabilmente,  in  altri  termini  che la  distinzione  tra  causa  efficiente  e  antecedente  d'  una sequenza  invariabile  non  ha   alcun  valore  reale,   e  che 259 perciò  assegnare  la  causa  d'un  fenomeno  non  è  niente di  più  che  costatare  le  condizioni  precise  date  le  quali noi  vediamo  il  fenomeno  accadere  invariabilmente;  al- lora non  vi  ha  più  alcuna  ragione  per  ammettere  che l'azione  a  distanza,  o  in  generale  ogni  azione  tra  i corpi  distinta  dall'impulsione,  è  incomprensibile  e  as- surda per  se  stessa;  non  vi  ha  più  quindi  necessità  di supporre,  per  intenderne  la  possibilità,  l'intervento  di un  intermediario  esplicativo,  conoscibile  o  inconoscibile; e  noi  non  siamo  più  costretti  nell'atternativa,  pretesa inevitabile,  o  di  spiegare  tutte  le  azioni  tra  i  corpi  per l'impulsione,  o  di  ricorrere  a  delle  forze  misteriose  e trascendenti,  che,  come  dicono  i  meccanisti,  sono  efi'et- tivamente  delle  supposizioni  inintelligibili  e  delle  parole vuote  di  senso. Siccome  la  dottrina  filosofica  attualmente  predomi- nante è  che  tutti  i  fenomeni  indistintamente  sono  egual- mente incomprensibili,  e  che  l'esperienza  non  ci  presenta alcun  esempio  di  efficienza  causale;  noi  dobbiamo  giu- stificare la  nostra  asserzione  che  l'impulsione  viene  na- turalmente considerata  come  una  causa  efficiente.  In  ve- rità quest'asserzione  potremmo  crederla  sufficientemente giustificata  dall'esame  comparativo  che  ciascuno  può  fare delle  sue  proprie  nozioni  dei  diversi  modi  di  azione  fisica tra  i  corpi  :  ma  noi  preferiamo  delle  prove  più  obbiet- tive. Noi  mostreremo  dunque  con  esempi  che  i  più  e- minenti  pensatori  si  sono  accordati  a  ritenere  che  l' im- pulsione è  la  sola  azione  fisica  che  possa  essere  consi- derata come  una  causa  produttrice  del  movimento,  o, ciò  che  vale  lo  stesso,  che  la  propagazione  del  movi- mento per  l'impulsione  è  in  se  stessa  intelligibile,  men- tre ogni  altra  azione  fisica  tra  i  corpi  non  lo  è,  e  ha bisogno,  per  divenirlo,  di  qualche  intermediario  espli- cativo. Perciò  sarà  anche  mostrato  al  tempo  stesso  che questo  è,  in  ultima  analisi,  il  fondamento  della  teoria meccanica,   come  spiegazione  universale  della  natura. liBnrTiiiivT  TTiiirr'^''^'"-' 2^0 §  2.  Cominciando  da  colui  che  è  stato  dotto  il  pa- dre della  filosofia  niodenia,  cioè  da  Cartesio,  osservia- mo il  rapporto  fra  la  teoria  meccanica,  di  cui  fu  il principah»  promotore»,  e  il  suo  metodo  filosofico.  Il  prin- cipio fondamentale  della  filosofia  cartesiana  è  in  questa regola  del  suo  metodo:  «  credidt  me  prò  regnici  generali sumere  posse  orane  quod  valde  dilucide  et  distincte  con- cipiebam^  rerum  esse».  Per  questa  regola  il  criterio della  verità  era  riposto  nelT  evidenza  intrinseca  d'  una proposizione  piuttosto  che  nei  fatti  di  esperienza  che  si potevano  addurre  in  suo  ap{)oggio.  Il  meccanismo  car- tesiano, la  proposizione  che  l'impulsione  è  l'unica  azione fisica  tra  i  corpi,  non  è  clit»  un'  applicazione  di  (jnesto criterio  :  questa  i)roposizione  non  è  il  risultato  di  una generalizzazione  scientifica,  ma  un  principio  ammesso a  priori  ;  Cartesio  trova  la  comunicazione  del  movi- mento [)er  l'impulso  intelligibile,  e  perciò  rammette, trova  ogni  altra  azione*  fra  i  corpi  inintelligibile,  e perciò  la  respinge  (  1). Oli  altri  filosofi  eminenti  dell'epoca,  tutti  partigiani del  meccanismo,  iìotì  procedono  altrinuMiti.  Hobbes  am- mette l'impulsione  come  causa  unica  del  movimento, [)erchè  ogni  aitia  causa  gli  sembra  impossibile:  «causa motus,  egli  dice,  nulla  esse  potest  in  corpore  nisi  conti- guo et  moto  »  (2).  Spinoza,  in  una  sua  lettera  ad  Olden- bourg,  disapprova  Boyle  che  avea  cercato  di  |)rovare speriiìientalinente  che  tutto  nella  natura  si  fn  meccani- camente (cioè  per  iiìipulsione)  :  egli  pensava,  come  os- serva Leibnitz,  che  (|uesta  conclusione  avrebbe  dovuto prenderla  invece  per  princi])io,  che  si  può  rendere  certo per  la  sola  ragione,  e  non  mai  per  le  esperienze,  qua- li)  V.   Prine.  (idÌH  filos.,   i  parto,   ii.    1!»S,   n.  2()S.   «•(•«•. (2)    De  corpore.  v.  9.   art.   7. —  261  — lunque  numero  se  ne  faccia  (1).  Per  riconoscere  l'im- portanza al  punto  di  vista  della  nostra  tesi  di  questo concetto  degli  autori  citati  e  di  altri  che  noi  citeremo in  seguito,  che  il  legame  tra  questi  due  fatti,  il  movi- mento come  effetto  e  l' impulsione  come  causa,  è  una verità  razionale,  cioè  necessaria  e  a  priori,  bisogna  te ner  presente  che  uno  dei  caratteri  della  causa  efficiente è  il  legame  necessario  tra  essa  e  il  suo  effetto,  e  che  si sup[)one  anche,  il  più  spesso,  che  questo  legame  deve essere,    oltre    che    necessario,    conoscibile    a  priori  (2). (1)  \'.  S]>iii(>/.a,  Opcrn.  «mÌ.  Car.  H<'nii.  UriuL.  voi.  2.  Kpist. VI.   e  JiCibnitz   .V.   *S'.  sulVììit.   un.   1.  \  e.   12   verso  la   tino. (2)  Anche  MalcUraiiflu',  «piautviiiqiu'  «licliiari  ripotutanicntc/ che  l'urto  iu»ii  e.  come  tutte  le  altre  cause  naturali,  chu  uum semplice  causa  on'asiottìdc  del  movimento,  ammette  ìU)n(linuMio anchN'iili  che  la  <Mununicazione  del  movimentc»  i»er  l'urto  è  una veritu  a  ]»riori.  e  che  noi  non  <lohbiamo  ammettere  altra  azione fisica  che  quella  deirimpulsiom*.  perchè  t>  la  sola  di  cui  ahìuanH» delle  ith'e  chiare  e  (Ustìnte.  o  in  altri  termini,  la  sola  che  ci sia  intellioihile.  (-osi  nelle  l^eijiii  f/enent/i  della  comunìcdzione dei  ntoriìuetili,  (2  parte,  n.  IH)  dicc^  :  «  Se  non  si  vuol  ra«iionare dei  corpi  <'  «Ielle  h>ro  proprietà  che  sulle  idee  chiare  che  noi ne  possiamo  avere,  non  si  attribuirà  mai  alla  mati'ria  altra forza  o  altra  azione  che  «[uella  che  essa  trae  dal  suo  movimento». E  \w\  e.  S.  ]>arte  2  d<'l  .Metodo  {Uicerca  della  verità):  «L'im- penetrabilità d«^i  corpi  fa  <  hiaram(^nte  com'e])ire  che  il  movi- mento si  può  comunicare  per  impulsicuie,  (noi  incontreremo  an- (oiiì  più  volte  «lucst'idea  che  la  comunicazione  d«'l  movimento  per Turto  deriva  dall'impenetrabilità  della  materia)  e  resjK'rienza prova  senz'aldina  oscurità  <*he  effettivamente  si  comunica  jier «(uesta  via.  Mn  non  vi  ha  alcun  raffionametito  uè  alcuna  es]>e- rienza  che  dimostri  chiaramente  il  movimento  d'attrazione.  Così m»u  bisogna  fermarsi  ad  altra  comunicazione  del  movimento che  a  quella  che  si  fa  ]»er  impulsione,  poiché  «questa  nuniiera  è certa  e  iucontestabile.  e  vi  ha  dvAV  oscurità  nelle  altre  che  si potrebbero  immaj;inaie.   Ma  quando  si  potesse  anclie  dimostrare —  262  — Come  i  meccanisti  del  nostro  tempo  vogliono  ban- dite dalla  fisica   le   forze,  a  cui  i  non  meccanisti  attri- buiscono le  cause  dei  movimenti  (di  (luelli  almeno  che non  sono  prodotti  da  un'impulsione  osservabile),  cosi  i cartesiani  e  gli  altri  avversari  della  scolastica  facevano la  o'uerra  alle  qualità  occulte.  Le  qualità  occulte  d'  al- lora, come  le  forze  d'oggi,  erano  le  cause  sconosciute dei  fenomeni,  e  gli  scolastici  le  ammettevano  in   virtù dello  stesso  principio  per  cui  i  fisici  moderni  ammettono le  forze    e   i    filosofi  l'Inconoscibile,    cioè    in    virtù  del principio  che  i  fenomeni    devono    avere  delle  cause  ef- ficienti :    siccome   l'esperienza  non  ci  dà  delle  cause  di questa  natura,  se  ne  conclude,  non  che  esse  non  esistono,,na  che  noi  non  possiamo  conoscerle.  Se  i  cartesiani  e o-li    alili    avversari    della    scolastica    credevano    che  la ^pieoazione  meccanica  dei  fenomeni  eliminava  le  qua- lità occulte,    è   che   essi    pensavano  che  l'impulsione  e una  causa  efficiente,  e  che  era  inutile  di  supporre  delle cause  efficienti    sconosciute,  quando    si    aveva  già  una causa  efficiente  conosciuta.  Non  si  aveva  da  scieghere che  tra  l'impulsione   e   le  qualità  occulte,  fra  la  causa efficiente  conoscibile  e  le  cause  efficienti  inconoscibili  : l'alternativa  sembrava  inevitabile,  e  1  cartesiani  respm- o-evano,  come  abbiamo  detto,  l'attrazione  newtoniana perchè  essi  vi  vedevano  un  ritorno  alle  qualità  occulte o-ià  bandite  della  filosofia  peripatetica. che    vi    Im    nelle    cose    puia.uente    covi.orali    altri    v.in.-.i.n  «lei,„„vi.neuto  ehe  l'incontro  dei  eorv.i.  «ou  M  potrebbe  rajr.onevol-,„ente  ricettare  q«e«to  ;  si  .leve  anche  fer.narvisi  preferibilmente ad  ogni  altro,  poiehè  esso,>  il  più  chiaro  e  il  pin  evidente...... Se  l'impnlsiono  non  ^  per  Mal-'hranche  che  una  cansa  oecasw- nale  (eio^  un  semplice  anteeede.ite  invariabile).  ^  tuttavia  tra tutte  le  cause  occasionali  a  cui  «li  etfetti  della  natura  potreb- bero attribuirsi,  quella  ehe  più  somiglia  ad  uua  causa  et^cwnte. —  263 Quest'alternativa  s'impose  allo  stesso  Newton  :   era evidente  secondo    lui    che    la    legge    della    gravità  non dava  la  cfiusa  del  fenomeno,  ma  solo  gli  effetti  di  (juesta causa;  semplicemente  egli  non  decìdeva  se  questa  causa fosse  l'impulsione  di  una  materia  sottile  o  qualche  forza immateriale  di  una  natura  sconosciuta.   «  Io  ho  spiegato sin    qui,    egli    dice    nei    Principu,  i  fenomeni   celesti    e quelli  del  mare  per  la  forza  della  gravitazione,  ma  non ho  assegnato  in  alcuna  parte    la   causa  di  questa    gra- vitazione.   Questa    forza    viene    da    qualche    causa  che penetra  sino  ai  centri  dei  sole  e  dei  pianeti,   senza   di- minuzione della  sua  attività,    essa    agisce  non  secondo la  quantità  delle  superficie  delle  particole  su  cui  agisce, come  fanno  le  cause  meccaniche,   ma  secondo  la  quan- tità della  materia  solida,  e  la  sua  azione  si  estende  da tutte  le  parti  sino  alle  distanze  più  grandi,  descrescendo sempre  in  ragione  duplicata  delle  distanze...  Io  non  ho ancora  potuto  inferire  dai  fenomeni  la  ragione  di  queste proprietà  della    gravità,   e  non  immagino  ipotesi  »    (1). E    w^W  Ottica:    «Io    non    ricerco    qui    a    quale    causa efficiente    siano    dovute    queste    attrazioni.    Quella   che io  chiamo  attrazione    può    essere    prodotta  per  impulso o  per  qualche  altro  mezzo  a  noi  sconosciuto.  Per  questa parola  attrazione  qui  non  intendo   indicare  se  non  una qualche  forza  per  cui  i  corpi  tendono  l'uno  verso  l'altro, qualunque  sia  d'altronde    la    causa  a    cui   questa  forza debba   attribuirsi»    (2).    E   nella  III    lettera   a    Bentley: «  Non  si  può   comprendere    come   una  materia   bruta  e inanimata    possa,    senza    l'intervento    di    qualche   altra cosa   non   materiale,    agire    so|)ra    un'    altra  materia   e modificarla,    senza  essere  in  contatto  con    essa.   Questo intanto  è  quello    che  bisognerebbe  supporre,  se  si  am- (1)  Prln.  matem.  della  fi los.  natur.  Seolio  ^rener.  vorso  hi  liue. (2)  Ottiea  Qiiest.  28. —  264  — mettesse  che  la  gravità  è  inerente  ed  essenziale  alla materia  come  voleva  Epicuro.  Era  questo  uno  dei  mo- tivi che  io  aveva  per  pregarvi  di  non  attribuirmi  l'opi- nione della  g-ravita  innata.  Pretendere  che  la  gravità sia  innata,  inerente  ed  essenziale  alla  materia,  di  guisa che  un  corpo  agisca  sopra  un  altro  a  distanza,  a  tra- verso il  vuoto,  senza  1'  interposizione  di  qualche  cosa, per  il  cui  mezzo  l'azione  e  la  forza  possano  essere  tra- smesse dall'uno  all'altro,  nìi  pare  un'assurdità  sì  gran- de, che  essa  non  può,  io  credo,  cadere  nello  spirito  di alcun  uomo  che  abbia  qualche  competenza  in  filosofìa. La  gravità  deve  venire  da  un  agente  che  operi  costan- temente secondo  certe  leggi  ;  ma  se  questo  agente  sia materiale  o  immateriale,  io  lasciai  nella  mia  opera  ai lettori  il  considerarlo». v>  f).  Quando  nella  scuola  di  Newton  si  cominciò  ad ammettere  che  la  gravità  è  una  proprietà  primitiva  ed essenziale  delia  materia,  si  poneva  non  pertanto  una differenza  tra  (juesta  proprietà  e  quella  di  dare  e  di ricevere  rinquilsione  :  quest'ultima  proprietà  sembrava appartenere  necessariamente  alla  materia,  mentre  la prima  era  evidentemente  dovuta  all'arbitrio  del  Crea- tore. Il  matematico  Cotes,  nella  prefazione  della  II  edi- zione dei  Principii  di  Newton,  ammetteva  la  gravità come  una  forza  fondamentale  di  ogni  materia  :  ma  egli opiKììieva  il  sistema  newtoniano,  che  fa  derivare  le  leggi della  natura  dalla  volontà  e  libertà  di  Dio,  al  sistema dei  materialisti  che  fanno  tutto  nascere  per  necessità  e niente  per  la  volontà  del  Creatore.  Non  è  la  necessità che  egli  vede  nelle  leggi  delia  natura,  ma  bensì  le prove  del  disegno  più  saggio.  1/  idea  di  una  causa  ef- ficiente distinta  dai  fenomeni  osservati  non  è  dunque abbandonata  dai  newtoniani  che  ammettono  il  peso come  pro])rietà  essenziale  della  materia;  semplicemente a  una  spiegazione  meccanica  si  sostituisce   una  spiega- —  265 zione  antropomorfìstica.  Anche  Newton  non  compren- derebbe l'azione  a  distanza,  se  invece  di  «  una  materia bruta  e  inanimata»  si  trattasse  di  una  materia  vi- vente ed  animata? Quando  Locke  scrisse    il    Saggio  sull'intendimento umano,  egli  ammetteva  la  teoria  meccanica  in  tutta  }a sua  estenzione  :  così  nel  1.  2,  e.  8,  par.  11  alla  quistione  : qual  è  la  ma-nìera    onde    i    corpi    producono    in    noi   le idee?    rispondeva:    «È  evidente  che  è  per  impulsione, perchè  (juesta    è    la    sola    maniera  in  cui  noi  possiamo concepire  che  i  corpi  possano  agirei.    In    seguito   egli abbracciò  la  dottrina  di  Newton,  ma  non  abbandonò  il principio  che  l'impulsione  è  la  sola  maniera  d'agire  dei corpi  che  sia  concepibile.  Nella  risposta  alla  II  letteradel  vescovo  di  Worcester  (col  (juale  agitava  la  quistio- ne :  se  la  materia  può  pensare),  egli  dice  :   *  Io  confesso che  io  ho  detto    {nel    Saggio   nalV  intendi m.  umano)  che il  corpo  opera    per    impulsione,    e  non   altrimenti.  Così era  il  mio  sentimento  quando  lo  scrissi,  e  ancora  pre- sentemente io  non  potrei  concepire  un'altra  maniera  di agire.  Ma  poi  io  sono  stato  convinto    dal    libro   incom- jmrabile  del    giudizioso    sig.    Newton  che  vi  ha  troppa presunzione  a  voler  limitare    la    potenza  di  Dio  per  le nostre  concezioni  limitate.  La  gravitazione  della  materia verso  la  materia  per  delle  vie  che  mi  sono  inconcepibili è  non  solo  una  dimostrazione  che  Dio  può,  quando  gli piace,  mettere  nei  corpi  delle  [)otenze  e  maniere  d^'agire che  sono  al  disopra  di  ciò  che  può  essere  derivato  dalla nostra  idea  del  corpo,  o  spiegato  per  ciò  che  noi  cono- sciamo della  materia;  ma  è  ancora  una  ])rova  inconte- stabile ch'egli  lo  ha  fatto  eiHettivamente  »•.  Quantunque l'opinione  di  Locke  sia  che  noi  non  possiamo  in  gene- rale  scoprire    alcuna    connessione    tra    i    fenomeni,    né comprendere    come    le    cause    producano    i  loro    effetti, tuttavia  egli  pensa  che  vi  ha  molta  differenza  a  (juesto 266 riguardo  tra  la  produzione  del  movimento  per  T impul- sione e  altre  azioni    dei    corpi,  quali  la  loro  mutua  at- trazione o  la  maniera  in  cui  essi  producono  in  noi  delle sensazioni.  Noi  non  possiamo  affatto  comprendere  come i  corpi  siano  capaci  di  esercitare  queste  ultime  azioni;  ma «  iioi  possiamo  comprendere  molto  bene  che  la  grossezza, la  figura  e  il  movimento  d'un  corpo  producano  del  can- giamento   nella    grossezza,    nella    figura    e    nel    movi- mento d'un  altro  corpo.  Che  le  parti  di  un  corpo  siano divise  in  conseguenza  dell'intrusione  di  un  altro  corpo, e  che  un  corpo  sia   trasferito  dal  riposo  al  movimento per  l'impulsione  d'un  altro  corpo,  queste  cose  ed  altre  si- mili ci  paiono  avere  qualche  legame  Tuna  con  l'altra  »  (1). A  Leibnitz  la  pretesa  virtù  attrattiva  dei  newtoniani sembra  «  un  rinnovellamento  delle  chimere  già  bandite  » «  Noi  disapproviamo,  egli  dice,  il  metodo  di  quelli  che suppongono,  come  facevano  già  gli  scolastici,  delle  qua- lità irragionevoli,  cioè  a  dire  delle  qualità  primitive  che non   hanno    alcuna    ragione  naturale,  spiegabile  per  la natura   del  soggetto  a  cui  questa  qualità  deve   conve- nire. Noi   accordiamo  e  sosteniamo  con  essi  (coi  newto- niani), che  i  grandi  globi  del  nostro   sistema  sono  at- trattivi fra  di  loro;  ma  siccome  sosteniamo  che  ciò  non può  accadere  che  d'una  maniera  spiegabile,  cioè  a  dire per  un'impulsione  dei  corpi  più  sottili,  non  possiamo  am- mettere che  l'attrazione  è  una  proprietà  primitiva  essen- ziale alla  materia,  come  questi  signori  lo  pretendono  »  (2). Non    vi    ha    secondo    Leibnitz   altra   causa   intelligibile di  un  fenomeno  fisico  che  l'impulsione  :   ^  Io  non  voglio, dice  nelle  sue  Osservazioni  contro   Stahl,    sovvertire  le eccellenti  dottrine  dei  moderni  filosofi,  per  cui  si  è  o'iu- (1)  L.  4,  e.  XI.  par.  13. (2)  Opera  Dut.,  t.  2,  p.  I,  p.  330.  Leti,  a  Boin-ijuit  J  ag.  stamente  stabilito    che  niente  si  fa  nei  corpi  che  non consti  di  ragioni  meccaniche,  cioè  intelligibili  )^.  E  nella risposta  alle  osservazioni  di  Stahl  :   «  Tutto  nella  natura deve    farsi    meccanicamente,  e  la  ragione  di  ciò  è  che tutto  deve  farsi  nei  corpi  in  modo  che  sia  possibile  di spiegarlo  distintamente  per  la  loro  natura,  cioè  per  la grandezza,  la  figura  e  le  leggi  del  movimento».  Al  co- minciamento  delle  osservazioni  contro  Stahl  egli  stabi- lisce  che   la   teoria   meccanica  è  una  conseguenza  del principio    di   ragion  sufficiente.   «  Uno  dei  principii  del ragionamento  (è  cosi  che  questo  scritto  comincia)  è  che non  vi  ha   niente    senza    ragione,    cioè   che  non  vi  ha alcuna  verità  della  quale  chi   intende  perfettamente  la cosa  non  possa  dare  la  ragione È  una  conseguenza di    questo    principio    che   ogni  affezione   delle    cose,   e tutto  ciò  che  avviene  in  esse,  può  derivarsi  dalla  natura e  dallo  stato  delle  cose  stesse  ;  e,  in  ispecie,   che  tutto ciò  che  avviene   nella    materia  nasce  dallo  stato  prece- dente della  materia  per  le  leggi  dei  cangiamenti.  Ed  è ciò  che  vogliono  o  devono  volere  quelli  che  dicono  che tutto   nei  corpi  può  spiegarsi  meccanicamente.  Suppo- niamo che  alcuno  ponga  nella  materia  una  certa  virtù di  attrazione  primitiva  o  misteriosa  (àppr^TOv),  egli  pec- cherà contro    questo  gran  principio    del  ragionamento. Confesserà  infatti  non  potersi  spiegare,  neppure  da  un onnisciente,  come  avvenga  che  la  materia  attragga  altra materia,  e  questa    a    preferenza   di   quella.  E  in  realtà egli  ricorrerà  tacitamente  al  miracolo;  1'  attrazione  in- fitti in  questo  caso  non  si  potrebbe  spiegare  altrimenti se  non  supponendo  che  Dio  stesso,  al  disopra  della  na- tura della  cosa,  per  una  provvidenza  particolare  fa  che la  materia  che  deve  essere  attratta  tenda  verso  un'altra materia.    Ma    se   la  spiegazione   deve   ricavarsi    d'una maniera  intelligibile  dalla  natura  stessa  della  cosa,  essa si  deriverà  da  ciò  che  si  concepisce  in  questa  distinta- T      I —  268  —mente,  così  uella  materia  dalla  figura  e  dal  moto  in  essa esistente;  e  allora  si  vedrà  che  l'attrazione  apparente non  è  altro  in  realtà  che  una  occulta  impulsione  »  (1). Un'attrazione  non  derivante  dall'impulsione  non  può essere  secondo  Leibnitz  che  o  un  miracolo  o  una  qua- lità occulta.  Alcuni  credono  che  il  miracolo  non  è  che una  eccezione  delle  le^'ori  g-enerali  che  Dio  ha  stabilite arbitrariamente  ;  ma  non  tutto  ciò  che  avviene  per  leggi generali  si  fa  senza  miracolo.  «  Il  carattere  dei  mira- coli è  elle  non  si  potrebbero  spiegare  per  la  natura  delle cose  create.  E  perchè  se  Dio  facesse  una  legge  che  por- tasse che  i  corpi  si  attirassero  gli  uni  gli  altri,  non  ne potrebbe  ottenere  l'esecuzione  che  per  dei  miracoli  per- petui». «Cosi  non  basta  per  evitare  i  miracoli  che  Dio faccia  una  certa  legge,  s'egli  non  dà  alle  creature  una natura  capace  d'eseguire  i  suoi  ordini  :  è  come  se  al- cuno dicesse  che  Dio  hn  ordinato  alla  luna  di  descri- vere liberamente  nell'aria  o  nell'etere  un  cerchio  intorno ai  globo  della  terra,  senza  che  vi  sia  né  angelo  nò  in- telligenza che  la  governi,  ne  orbe  solido  che  la  porti, né  turbine  o  orbe  liquido  che  la  trascini,  ne  peso,  ma- gnetismo o  altra  causa  spiegabile  meccanicaì nenie  che l'impedisca  d'allontanarsi  dalla  terra  e  d'andarsene  per la  tangente  del  cerchio.  Negare  che  quello  fosse  un miracolo  sarebbe  ricorrere  alle  qualità  occulte,  assolu- tamente inesplicabili  e  screditate  oggi  con  molta  ragio- ne». «  Lo  stesso  sarebbe  se  qualcuno  dicesse  che  Dio  ha dato  ai  corpi  delle  gravità  naturali  e  primitive,  per cui  ciascuno  tende  al  centro  del  suo  globo,  senza  essere 11)  V<m1ì  anche  In  rispostu  jjIIsi  IV  nplica  di  Chiike,  nel  j»a- raur.  ti»,  in  eni  parauona  l'attrazione  alla  declinazione  deuli atomi  «li  Kpicuro.  peirht'^  eonii^  quella  è  una  violazione  del principio  «li  lauion  sutticieute  ;  e  confronta  la  lettera  ad  Hart- sockiM-   (fp.  onnt.  e<l.    Uutens,   t.    II.   p.   11.   paj^.  H2. -  269  — spinto  da  altri  corpi  :  questo  sistema  a  mio  avviso  a- vrebbe  bisogno  di  un  miracolo  perpetuo,  o  almeno  del- l'assistenza degli  angeli  ».  «  Bisogna  mettere  una  distanza infinita  tra  l'operazione  di  Dio  che  va  al  di  là  delle forze  delle  nature,  e  le  operazioni  delle  cose  che  seguono le  leggi  che  Dio  loro  ha  dato,  e  che  egli  ha  reso  ca- paci di  seguire  per  le  loro  nature,  quantunque  con  la sua  assistenza.  K  perciò  che  cadono  le  attrazioni  pro- priamente dette  e  altre  operazioni  inesplicabili  per  le nature  delle  creature,  che  bisogna  fare  effettuare  per miracolo,  o  ricorrere  alle  assurdità,  cioè  allo  (lualità occulte  scolastiche,  che  ora  si  cominciano  a  s])acciare sotto  lo  specioso  nome  di  forze,  ma  che  ci  riconducono nel  regno  delle  tenebre.  È  hweiiia  fruge  glamlibuH vesci  »  (1).  Noi  abbiamo  già  notato  la  differenza  fra  queste due  dottrine  sulla  natura  del  miracolo  :  quella  combat- tuta da  Leibnitz  si  fonda  sopra  un  principio  che  è  as- sai vicino  alla  teoria  dell'empirismo  moderno  sulla  legge di  causalità,  perchè  essa  ammette  che  una  legge  della natura  non  è  altra  cosa  che  una  congiunzione  costante tra  due  fenomeni.  Leibnitz  respinge  questa  dottrina, perchè  una  causa  non  deve  essere  secondo  lui  un  sem- plice antecedente  di  una  sequenza  invariabile,  ma  deve ancora  spiegare  l'effetto,  o  contenerne  la  ragion  suf^ ficiente.  Ma  una  causa  che  spiega  l'effetto  o  ne  contiene la  ragion  sufficiente  è  una  causa  efpdente,  nel  senso  in cui  noi  intendiamo  questa  parola  :  risulta  dunque  dalla polemica  di  Leibnitz  contro  la  dottrina  che  considera l'attrazione   come   un    tatto    primitivo,   che  secondo  lui (1)  Sagyl  sulla  bontà  di  Dio  ecc.  11  parte  207.  Oy>.  omnia c«l.  Dutens,  t.  2,  p.  1,  pa-.  101  (Hisp,  alle  ohbiez.  di'lVaut.  del Uh.  della  eoriose.  di  se  stesso),  pa-.  77  (Leti.  alVaut.  drlla  storia delle  opere  del  sapienti  ecc.;,  i»aj^.  167  (Risposta  alla  4  Heplu-Ai di  Clarice,  nel   vS  48). '>: ciò  che  costituisce  la  superiorità  della  teoria  meccanica su  questa  dottrina  è  che  quella  ci  dà  le  cause  efficienti dei  fenomeni,  mentre  questa  non  ci  darebbe  che  i  sem- plici antecedenti  di  cui  i  fenomeni  sarebbero  un  seguito costante. Tuttavia,  quantunque  Leibnitz  dica  espressamente che  una  causa  meccanica  è  una  causa  efficiente,  e  la sola  causa  efficiente  che  vi  sia  nel  modo  fisico  (1),  si potrebbe  ragionevolmente  dubitare  s'egli  dà  veramente a  questa  parola  il  senso  in  cui  noi  la  prendiamo.  E infatti  secondo  la  sua  dottrina  dell'armonia  prestabilita, tra  una  causa  esterna  finita  e  un  cangiamento  che  ne segue  in  un'altra  cosa  distinta,  non  vi  ha  che  una  sem- plice coincidenza,  e  non  un  vero  rapporto  di  causalità, ciascun  essere  sviluppando  spontaneamente  dal  proprio fondo  tutte  le  sue  modificazioni.  Sembra  dunque  che vi  sia  qui  una  contraddizione  in  Leibnitz  :  ma  essa  si spiega,  se  noi  ricordiamo  che  l'armonia  prestabilita, nel  sistema  di  questo  filosofo,  è,  come  abbiamo  detto, una  conseoueiiza  del  suo  panpsichismo,  e  che  il  pani)si- chismo  è  un'ipotesi  destinata  a  risolvere,  non  il  pro- blema della  causa  efficiente,  ma  quello  della  cosa  in  sé. Quando  Leibnitz  cerca  nella  natura  esteriore  le  cause efficienti,  egli  trova  nella  causa  meccanica  una  causa efficiente  :  ma  quando  egli  cerca  la  cosa  in  sé  corrispon- dente al  fenomeno  materia  e  trova  che  questa  non  é che  spirito,  allora  gli  sembra  impossibile  che  un  es- sere agisca  sopra  un  altro  essere,  e  arriva  alla  dottrina dell'armonia  prestabilita.  Il  seguito  di  questo  scritto rischiarerà  d'una  nianiera  più  completa  questa  difficoltà del  sistema  leibnitziano. -  271  — Nella  polemica  che  ebbe  luogo  tra  Leibnitz  e  Clarke, uno  dei  soggetti  di  controversia  fu  naturalmente  l'at- trazione. La  prima  cosa  che  noi  incontriamo  di  notevole per  questo  riguardo  nelle  Repliche  di  Clarke,  é  lo  stesso pensiero  di  Cotes,  che  il  materialismo  è  direttamente combattuto  dai  prlncÌ2)ii  matematici  della  filosofia  (é  il titolo  dell'opera  fondamentale  di  Newton).  «Allorché  io ho  detto,  (é  cosi  che  Clarke  spiega  una  sua  affermazione antecedente)  che  i  principii  matematici  della  filosofia sono  contrari  a  quelli  dei  materialisti,  io  ho  voluto  dire che  mentre  i  materialisti  suppongono  che  la  struttura dell'universo  può  essere  stata  prodotta  dai  soli  principii meccanici  della  materia  e  del  movimento,  della  neces- sità e  della  fatalità,  i  principii  matematici  della  filosofia fanno  vedere  al  contrario  che  lo  stato  delle  cose  (la costituzione  del  sole  e  dei  pianeti)  non  ha  potuto  essere prodotto  che  da  una  causa  intelligente  e  libera»  (1). All'obbiezione  di  Leibnitz,  che  l'attrazione  sarebbe  un miracolo  perpetuo,  ecco  cosa  risponde  Clarke  :  «  Se  un corpo  ne  attirasse  un  altro,  senza  l'intervento  d'alcun mezzo,  sarebbe,  non  un  miracolo,  ma  una  contraddizione, perché  sarebbe  supporre  che  una  cosa  agisce  dove  non é»  (2).  «  Gli  é  affatto  irragionevole  di  chiamare  l'attrazione un  miracolo,  e  di  dire  che  é  un  termine  che  non  deve  en- trare nella  filosofia,  quantunque  noi  (i  newtoniani)  abbia- li) KÌ5ipi»stji  alla  IV  replica  di  Clarke,  ii,  92.  124.  AuimjKi- vorsiotu's  circa  assertioiies  aliquas  Stahlii  Dutcìis  t.  II  p.  IJ p.  l:S2e  p.  l:U,  Uespoiisiouei^  jkI  Staliliaiias  observatioiics  ad  XXI (n.  1),   Mimadol.  ii.  79,  ecc. (1)  Repliciì  t^  (U  Clarke,  1.  Quando  si  attribuisce  la  neces- sità alle  cause  meccaniche,  e  le  altre  leg^i  della  natura,  riuali  la gravità,  si  fanno  invece  riposare  sulla  semplice  libertà  del  (Crea- tore, ciò  eipiivale  ad  att'ermarc  che  le  cause  meemniche  s(»no delle  cause  efticienti,  e  che  le  altre  non  sonc^  che  de.a;li  antece- denti di  seiiuenze  invariabili.  Infatti  il  carattere  della  causa  ef- ficiente t"^  questo  lejiame  necessario  che  si  ammette  tra  essa  e l'ettetto. (2)  liepl.  4  di  Clarke.   — ino  si  spesso  dichiarato,  d'una  maniera  distinta  e  forma- le, elle,  servendoci  di  questo  termine,  non  pretendiamo esprimere  la  causa  che  fa  che  l  corpi  tendono  V ano  verso Valtro^  ma  solamente  l'ettetto  di  questa  causa,  o  il  feno- ìnono  stesso  e  le  le^g'i  o  le  pro])orzioni  secondo  cui  i  corpi tendono  l'uno  verso  l'altro,  (piali  si  scoprono  per  l'espe- rienza, qualunque  ne  possa  essere  la  causa  »  (1).  «  Se  noi diciamo  che  il  sole  attira  la  terra,  a  traverso  d'uno  spazio vuoto,  cioè  che  la  terra  e  il  sole  tendono  l'uno  verso  l'altro (qualunque  ne  possa  essere  la  causa)  con  una  forza  che è  in  rao-ioiì  clìrottn  delle  loro  masse  o  delle  loro  o-rau- dezze  e  densità  |)rese  insieme,  e  in  rag'ione  inversa  del quadrato  della  loro  distanza;  e  che  lo  spazio  che  è  tra questi  due  corpi  è  vuoto,  cioè  che  non  vi  ha  niente che  resista  sensibilmente  al  movimento  dei  corpi  che  lo traversano;  tutto  ciò  non  è  che  un  fenomeno  o  un  fatto attuale  scoverto  per  l'esjx'rienza.  E  vero  senzn  dubbio che  (piesto  fenomeno  ìion  è  prodotto  senza  mezzo,  cioè senza  una  causa  capace;  di  produrre  tal  effetto.  I  filosofi possono  duncjue  ricercare  (piesta  causa,  e  cercare  di  sco- prirla, se  ciò  loro  è  [)ossibile,  sia  che  sia  laeccanica  o  non meccanica.  (Qui  l'autore  sembra  ammettere  la  possibilità dì  nna  causa  naturale  e  conoscibile  non  meccanica).  Ma se  essi  non  possono  scoprire  questa  causa,  ne  segue  che V effetto  stesso  o  il  ftuiomeno  scoverto  per  l'esperienza — che  è  tutto  ciò  che  si  vuol  dire  per  le  parole  attrazione  e gravitazione — ne  segue,  io  dico,  che  questo  fenomeno  sia meno  certo  e  meno  incontestabile?  Una  qualità  evidente deve  essere  chiamata  occulta,  perchè  la  causa  immediata ne  è  forse  occulta^  o  noìi  è  st^ta  ancora  scoiarla  f  Quando un  corpo  si  muove  in  un  cerchio,  senza  allontanarsi  per la  tangente,  vi  ha  c(*rtamente  qualche   cosà   che  ne  lo (1)   Ht'ijl.   .>  (//   Cìarke,   llO-lU).  ~ t impedisce  :  ma  se  in  qualche  caso  non  è  possìbile  di spiegare  meccanicamente  la  causa  di  quest'eftetto,  o  se essa  non  e  ancora  stata  scoverta,  ne  segue  che  il  feno- meno sia  falso  ?  Questa  sarebbe  una  maniera  di  ragio- nare assai  singolare»  (1).  (Qui  invece  l'autore  pare  che suppong-a  che  la  causa  dell'attrazione  o  è  meccanica, e  in  (questo  caso  potrà  in  seg^uito  essere  scoverta,  o  non è  meccanica,  e  in  quest'altro,  caso  resterà  sempre  una causa  occulta). §  4.  Se  in  Inghilterra,  andandosi  al  di  là  del  pen- siero di  Newton,  la  gv^yiiii  innata,  inerente  ed  essenziale alla  materia  divenne  ben  presto  una  dottrina,  inconte- stata, questa  dottrina  invece  sollevò  delle  proteste  con- tinue tra  i  matematici  e  fisici  del  continente.  Hu\  ghens trova  assurdo  il  principio  dell'attrazione  newtoniana,  e dice:  «Le  cause  di  tutti  gli  effetti  naturali  devono  con- cepirsi meccanicamente  (per  rationes  mechanicas),  se non  vogliamo  abbandonare  ogni  speranza  di  comi)ren- dere  qualche  cosa  nei  fenomeni  fisici  »  (2).  Bernouilli chiama  la  supposizione  di  una  facoltà  attrattiva  «  ri- voltante per  gli  spiriti  abituati  a  non  ricevere  in fisica  che  dei  priucipii  incontestabili  ed  evidenti»,  e adotta  la  teoria  cartesiana  dei  vortici,  modificando- la. Eulero  nella  Lettera  68  ad  una  principessa  d' Ale- magna  scrive  :  «  Poiché  è  certo  che  considerando  due corpi  qualunque  l'uno  è  attirato  verso  l'altro,  si  do- manda la  causa  di  questa  tendenza  mutua  :  è  su  ciò che  i  sentimenti  sono  molto  divisi.  I  filosofi  inglesi  so- stengono che  è  una  proprietà  essenziale  di  tutti  i  corpi d'attirarsi  mutuamente,  che  è  come  una  tendenza  na- turale che  tutti  i  corpi  hanno  gli  uni  j)er  gli  altri,  in virtù  di  cui  i  corpi  si  sforzano    di    avvicinarsi    mutua- (1)  Ucpl.   o  di  Clarkr,   11S-12S. (2)  Travtatus  de  In  mine. 18 274  - 275 mente,  oome  se  fossero  dotati  di  qualche  seiitimf^fféf^  o desiderio.  Altri  filosoft  ri^j^-uardano  questo  sentimeuto come  assurdo  e  contrario  ai  principii  di  una  filosofi^ ragionevole».  «Gli  uni  dicono  che  è  la  terra  che  atti- ra i  corpi  per  una  forza  che  le  appartiene  in  virtù  della sxia  natura;  gli  altri  dicono  che  è  l'etere  o  altra  ma- teria sottile  e  invisibile  che  spinsTe  i  corpi  in  ìiasso,  di sorta  che  l'eifetto  è  nondimeno  lo  stesso  nell'uiio  e  Tal- iru  caso.  L'ultimo  sentimento  piace  di  più  a  quelli  che amaiì'^  'lei  principii  chiari  nella  filosofia,  poiché  non vedono  come  due  corpi  lontani  limo  dall'altro  possono agire  l'uno  sull'altro,  a  meno  che  non  vi  sia  qualche cosa  tra  loro  >.  «Supponiamo  che  avanti  la  creazione del  mondo  Dio  non  avesse  creato  che  due  corpi  lontani ruuo  dall'altro,  che  non  esistesse  fuori  di  loro  assolu- tamente niente,  e  che  questi  corpi  fossero  in  riposo  ; sarebbe  possibile  che  l'uno  si  avvicinasse  all'altro,  o che  avessero  una  tendenza  ad  avvicinarsi  ?  come  Vuno sentirebbe  V altro  da  lontano  f  come  potrebbe  avere  un  de- siderio d'  avvicinarsene?  Sono  delle  idee  che  rivoltano: ma  dacché  si  suppone  che  lo  spazio  fra  i  corpi  è  riem- pito d'una  materia  sottile,  si  comprende  subito  che  se questa  materia  può  agire  sui  corpi  spingtmdoli,  l'effetto sarebbe  lo  stesso  come  se  essi  si  attirassero  mutuame*nte  * . Così  Eulero  non  concepisce  che  due  possibilità  sulle cause  dell'attrazione:  o  il  meccanismo  o  l'antropomor- fisnìo:  se  non  si  vuole  l'uno,  si  deve  accettare  l'altro. E  che  queste  sono  quasi  esclusivamente  le  due  forme  im- mediate sotto  cui  lo  spiritto  umano  concepisce  le  cause efficienti.  Io  pre^-o  il  lettore  di  confrontare  questo  luogo d'Eulero  con  gii  ultimi  che  ho  citati  di  Leibnitz  e  con rjuelli  di  Secchi  e  Saigey  che  citerò  appresso,  oltre  quelli degl'  ilozoisti,  già  citati  nel  2^  capitolo,  articolo  3^'  (1). Oltre  queste  due  supposizioni  sulle  cause  dell'attra- zione, quella  della  impulsione  d'un  miluogo,  ch'egli adotta  (1),  e  quella  della  materia  dotata  di  sentimento e  di  desiderio  (alla  quale  si  potrebbe  fors'anche  aggiun- gere quella  di  Dio  che  spinge  immediatamente  i  corpi gli  uni  verso  gli  altri)  (2),  Eulero  non  concepisce  che  una terza  supposizione  :  cioè  che  la  causa  dell'attrazione sia  una  forza  inconoscibile  ed  inintelligibile,  una  qua- lità occidta.    «  Sembra    più    ragionevole,    segue    egli    a (l^   K   puro  sotto  r  uiiH  o  l'altra  di  queste  duo  tonno  cho   i <Troci  coìuepivauo  la  causa  di  quei  feiionieni  attrattivi  <di«-  loro prosontava  iumiodiatauuaitc  l'ossorvazioue.  Noirattraziouo  oser- citata  dalla  calamita  e  dall'  ambra  Taloto  vedova  un  segno  ohe tutto  era  aniuìato  (v.  e.  2,  §  13).  Empedocle,  Platone.  Democrito, p]picuro  spioj^aui»  invece  gli  stessi  fenomeni  per  l'azione  di  una corrente  di  materia  sottile  che  trascina  verso  «[uesti  corpi  quelli che  sembrano  attratti  da  essi  (V.  Martin  lì  Timeo,  v(d.  Il  no- ta 173,  ^  2.  Lauge  Stor.  del  mater.  voi.  1.  parto  1,  e.  5  vers«» la    tino,    Timeo    di    Locri    102,    a.    b.  Lucrozii»   De  rer.  nat.   VI v.  1000  e  seg..  ecc.). (1)  In  verità  tra  le  cause  materiali  anclu^  la  trazione  sombra ad  Eutero  una  causa  concepibile  dell'attraziono  (una  causa  na- tuialmente  dello  steszo  valore  che  il  sentimeut<»  e  il  desiderio della  materia,  ci<»t'  una  causa  che  sarebbe  eupnee  di  spiegare  Vef- fetto,^ii,i"AAO  impossibile,  essa  esistesse).  I  filosofi  inglesi,  egli  dice nella  Lettera  .51,  «convengono  che  non  vi  ha  m^  cordo  no  alcuna dello  macchino  di  cui  ci  serviamo  ordinariamente  per  tirare,  di cui  la  terra  ]K>ssa  servirsi  per  attirare  a  st"^  i  cor])i  o  c;iusarvi il  peso  ;  ancora  meno  sco[»rono  qualche  cosa  tra  il  sole  o  la  terra, di  cui  si  possa  credere  che  il  sole  si  serva  per  attirare  la  terra. 8e  si  vedesse  un  carro  seguire  i  cavalli  senza  che  vi  fossero attaccati,  e  non  vi  si  vedesse  nò  corda  no  altra  cosa  propria  a mantenere  qualche  comuuicazicuie  tra  il  carro  e  i  cavalli,  non si  direbbe  che  il  carro  fosse  tirato  dai  cavalli  :  si  sarebbe  piut- tosto portato  a  credere  che  il  carro  fosso  spinto  da  qualche, forza,  quantunciue  non  se  ne  vedesse  niente,  a  monochè  non fosse  il  giuoco  di  qualche  strega.  Tuttavia  i  signori  Inglesi  non abbandonano  il  loro  sentimento  ». (2)  V.  nella  stossa  lettera  il  tratto  che  precode  l'ultimo  «itato —  276 scrivere,  d'attribuire  rattrazione  dei  corpi  a  un'azione che  l'etere  vi  esercita,  (juantunijue  la  maniera  ci  sia sconosciuta,  che  di  ricorrere  a  una  (jualità  inintelligi- bile. Gli  antichi  filosofi  si  sono  contentati  di  spiegare  i fenomeni  del  mondo  per  questa  sorta  di  qualità  ch'essi hanno  chiamate  occulte,  dicendo  [).  e.  che  l'oppio  fa dormire  per  una  qualità  occulta  che  lo  rende  proprio  a conciliare  il  sonno:  era  dire  niente  del  tutto,  o  piuttosto era  voler  nascondere  la  propria  ignoranza;  si  dovrebbe dunque  pure  riguardare  come  una  (jualità  occulta  l'at- trazione, in  (|uanto  la  si  dà  per  una  proprietà  essen- ziale dei  corpi  ». D'Alembert  trova  esorbitante  l'affermazioiìe  di  Co- tes  che  la  gravità  è  così  essenziale  alla  materia  come l'impenetrabilità  e  l'estensione:  se  l'attrazione  è  una legge  primitiva,  essa  non  può,  egli  dice,  avere  per causa  che  la  volontà  di  un  essere  sovrano  J).  Le  leggi del  movimento  sono  di  verità  necessaria  ;  ma  le  leggi del  peso  sono  contingenti,  e  dipendono  dalla  volontà del  Creatore;  supposto  però  che  la  gravità  non  possa spiegarsi  per  V  impulsione  (2).  Quest'azione  a  distanza tra  due  corpi  e  la  ragione  secondo  cui  avviene  sono egualmente  incom})rensibili  (8).  Vi  haìino  due  sorte  di <!ause  capaci  di  produrre  o  cangiare  il  movimento.  Di queste  cause  noi  conosciamo  le  une  diretteamente  :  esse si'  riducono  all'impulsione,  la  (juale  risulta  dalla  impe- netrabilità    dei    corpi .    Ma  le   altre   cause  non  ci  si (1)  PritH'.  ilrlìe  rotiosrrnzr  umunc  XVII. (2)  Ivi   XVI. (:5)  Ivi   XVII. (4)  Anche  Eulero  atteniui  clu^  «miii  forza,  cioè,  o^iii  causa capace  di  caii;iiare  Io  stato  <lei  corpi  (e  saitpiaiiio  cbe  non  vi ha  altra  causa  tale  che  l'urto)  deriva  dalla  iiniM'iietrabilità  delia materia.  (V.  Lettera  77  ad  fuìd  jtri uri/tessa  iV  Aleììuigna).  Sie- eonie   riiiipencitrahilità   si  riguarda  roni<'  contenuta  nella  nozione 9 ^Zi  l fanno  conoscere    che    per    i    loro  effetti  :  così  è  la  gra- vità (1). I  filosofi  più  eminenti,  anche  nella  patria  di  Newton, hanno  continuato  a  pensare  che  non  vi  ha  altra  azione possibile  se  non  a  contatto,  o  almeno  che  una  vera azione  a  distanza  è  inconcepibile.  Reid  crede  che  uno dei  motivi  che  hanno  fatto  respingere  la  credenza  della percezione  immediata  dei  corpi,  e  adottare  in  sua  vece la  dottrina  filosofica  delle  idee  rappresentative,  è  Topi- nione  che  nella  percezione  vi  ha  un'a/.ione  degli  og- getti sullo  spirito  0  di  questo  su  (juelli,  e  che  per  con- seguenza bisogna  che  vi  sia  una  specie  di  contatto  tra lo  spirito  e  ciò  che  egli  percepisce  immediatamente. Ueid  noli  nega  la  legittimità  della  conseguenza,  perchè gli  sembra  evidente  che  una  cosa  non  può  agire  dove non  è,  ma  contesta  invece  la  verità  della  premessa, cioè  che  vi  sia  azione  tra  lo  spirito  e  gii  oggetti.  «Io convengo,  egli  dice,  che  una  cosa  non  può  agire  im- ìnediatamente  ove  essa  non  è.  perchè  io  penso,  con Newton,  che  noi  non  concepiamo  un  potere  che  non apparterrebbe  ad  una  sostanza.  Segue  di  là  che  ogni impressione  suppone  la  presenza  d'un  agente,  ed  è  an- cora un  punto  che  io  accordo.  Ma  resta  a  provare  che nella  percezione  gli  ogaetti  agiscano  su  noi  o  che  noi ao-ianio  su  loro.  Ora  è  ciò  che  non  mi  sembra  punto evidente  per  se  stesso,  ciò  di  cui  non  ho  mai  incontrato prova  e  che  ini  pare  inammissibile  >. La  niassinìa  che  ogni  azione  deve  essere  a  contatto, non  che  il  principio  i)er  cui  si  pretende  dimostrarla  che .stessa  d<dla  materia.  arìVnnare  che  i  fenomeni  dell'impulsione derivano  (cioè  si  «Icducono)  dall' impenetrahilità,  equivale  a4 affermare  che  «incsti   fenomeni    sono    delle    verità  necessarie  ed a  priori. (1)  Prine.  delle  eorioseenze  umane,  una  cosa  non  può  agire  dove  non  è,  non  sono  eviden- temente che  una  generalizzazione  dell'azione  meccanica tra  i  corpi.  Queste  massime  sono  state  talmente  accre- ditate presso  i  filosofi,  che  noi  le  troviamo  dove  meno dovremmo  aspettarcele.  Hume  (anche  Hume  !)  ha  detto: «  Tutti  gli  oggetti  che  sono  considerati  come  cause  ed effetti  sono  contigui.  Nulla  può  agire  in  un  tempo  o  in un  luogo  in  cui  non  esiste,  per  ([uanto  piccola  sia  la distanza  che  lo  separa.  Noi  possiamo  dunque  conside- rare la  relazione  di  contiguità  come  essenziale  a  (juella di  causa  ».  Dugald-Stevvart  osserva  su  queste  proposi- zioni di  Hume:  «  Sebbene  questa  massima  (che  una  cosa non  può  agire  che  nel  luogo  e  nel  tempo  in  cui  esiste) deve  essere  ammessa  per  le  cause  efficienti^  che,  come tali,  hanno  un  legame  necessario  coi  loro  effetti,  non  vi ha  ragione  di  applicarla  alle  cause  fisiche,  di  cui  non sappiamo  niente  altro  se  non  che  sono  i  precursori  o segni  di  certi  effetti  naturali  ».  Egli  conviene  che  i  fi- losofi in  generale  hanno  pensato  diversamente  «  Essi hanno  manifestato  della  ripugnanza  anche  in  fisica  a chiamare  un  avvenimento  la  causa  d'un  altro,  quando i  due  avvenimenti  erano  separati  dal  minimo  intervallo di  spazio  o  di  tempo.  Quando  si  tratta  d' impulsione^ essi  non  si  fanno  scrupolo  di  dire  che  l'urto  è  la  causa del  movimento  di  un  altro  corf>o,  ma  hanno  qualche ripugnanza  a  dire  che  un  corpo  è  la  causa  del  movi- mento di  un  altro  corpo  collocato  a  qualche  distanza da  esso,  a  meno  che  non  vi  sia  fra  questi  due  corpi  un legame  stabilito  con  l'aiuto  di  qualche  mezzo...  Questa distinzione  fra  il  movìuìento  prodotto  dall'urto  e  gli altri  fenomeni  della  natura  si  fonda  in  gran  parte  sul- la confusione  delle  cause  efficienti  e  fisiche».  Dugald- Stewart  non  ammette  che  l'urto  sia  una  causa  efficiente, perchè  secondo  la  dottrina  della  scuola  scozzese  la  na- tura non  ci  presenta  mai  una  vera  connessione  causale; 279 ma  perchè  eg^li  suppone  che  il  rapporto  di  contiguità deve  trovarsi  nell'  azione  delle  cause  efficienti  o  metafi- siche ?  Siccome  la  nozione  che  egli  si  fa  di  cause  me- tafisiche e  oltrepassanti  l'esperienza  non  può  avere  in definitiva  la  sua  base  che  nell'esperienza,  noi  abbiamo il  dritto  di  ammettere,che  ciò  è  perchè  egli  si  forma  la concezione  delle  cause  metafisiche  dei  fenomeni  fisici sul  tipo  dell'azione  meccanica  piuttosto  che  su  quello di  qualsiasi  altra  azione  fisica. Hamilton,  1'  altro  eminente  rappresentante  della scuola  del  senso  comune,  dice  :  Una  azione  a  distanza può  bene  esserci  imposta  come  fatto,  ma  la  sua  possi- bilità non  resta  perciò  meno  inconcepibile.  Galluppi pensa  che  la  comunicazione  del  movimento  per  l'impul- sione è  una  verità  necessaria  e  a  priori,  di  cui  egli pretende  di  dare  la  dimostrazione  (1).  «Ma  che  cosa dobbiamo  pensare,  si  domanda,  dell'attrazione?  In questa  i  corpi  non  operano  gli  uni  sugli  altri  per  im- pulso. Intendendo  per  attrazione  il  moto  naturale  di  un corpo  verso  di  un  altro,  l'attrazione  è  un  fatto  primi- tivo di  cui  ignoriamo  la  causa»  E  continua  citando,  e  na- turalmente approvandolo,  un  tratto  di  d'Alembert,  in  cui questi  vuol  mostrare  che  non  potrebbe  scoprirsi  a  priori alcuna  ragione  per  cui  un  corpo  tosto  che  non  è  soste- nuto sia  obbligato  a  discendere  (2).  Rosmini  dice:  «  Niente mi  prova  la  necessità  di  ammettere  attrazione  fra  corpi distanti,  e  m'induce  a  negarla  la  ripugnanza  che  mi par  giacere  nel  suo  concetto»  (3). Nei  filosofi  ultimamente  citati  il  principio  che  è  la base  della  teoria  meccanica,  cioè  che  Timpulsione  è una  causa   efficiente    del    movimento    e    la    sola   tra   le (1)  Saggio  filos.,  t.  VI,  par.  IM). (2)  VI,  93. (3)  Psicologia  593. —  280  — azioni  fisiche  che  sia  intelligibile,  non  si  trova,  per  dir cosi,  che  d'una  maniera  incosciente;  ma  esso  è  espresso della  maniera  più  esplicita  in  queste  parole  che  Cuvier scrive  nella  sua  Storia  del  progresso  delle  scienze  na- turali :  «Una  volta  usciti  dai  fenomeni  dell'urto,  noi non  abbiamo  più  idea  netta  dei  rapporti  di  causa  e  di effetto.  Tutto  si  riduce  a  raccogliere  dei  tatti  particolari e  a  ricercare  delle  pro[)Osizioni  generali  che  ne  abbrac- cino  il  più  gran  numero  possibile.  E  in  ciò  che  consi- stono tutte  le  teorie  tisiche,  e  a  (jualunque  generalità sia  stata  portata  ciascuna  di  esse,  si  è  trop[)o  lungi ancora  dal  ricondurle  alle  leggi  dell'urto,  che  sole  po- trebbero cangiarle  in  vere  spiegazioni  ». ^  5.  I  meccanisti  del  nostro  tempo  non  dichiarano meno  nettamente  dei  meccanisti  antichi  che  il  vero  mo- tivo della  loro  dottrina  e  di  assegnare  le  cause  produt- trici dei  movimenti  che  le  leggi  generali  a  cui  la  scien- za riconduce  i  fenomeni  fisici  lasciano  nel  mistero,  e  di spiegare  cosi  queste  leggi  generali  che  senza  di  ciò resterebbero  incomprensibili.  Ascoltiamo  il  p.  Secchi  : I  fisici  ora  cercano  di  conoscere  la  causa  della  gravità, quantuu(iue  la  nessuna  necessità  di  conoscerla  e  la grande  difficoltà  dì  assegnarne  un  origine  ragionevole  l. distolsero  sino  a  poco  tem[)o  fa  da  queste  speculazioni  (1). «  lY'r  noi  è  assurdo  (salvo  sempre  come  si  è  detto  il caso  d'intervento  degli  enti  spirituali)  che  il  moto  nella materia  bruta  abbia  altra  origine  che  dal  moto.  Noi rigettiamo  quei  principii  detti  forze ^  che  non  sono  né spirito  né  materia,  dei  quali  non  è  stata  mai  })rovata l'esistenza  :  essi  ci  sembrano  mere  astrazioni  realizzate. Noi  cerehertmio  di  ridurre  tutti  i  fenomeni  a  mero  scam- bio e  comunicazione  di  moto  e  assumeremo  questo  scam- bio come  un  fatto  primitivo  la  cui  spiegazione  sta  nella (1)    Unità  (fr/ìr  forze  fìs,,  8  odiz.,   1.   IV,  e.  4. 281 natura  della  materia»   (1).  Ai  critici  che  gli  obbiettano che  la  comunicazione  del   moto    anche  a  contatto  è  un fatto  pure  misterioso,  egli  risponde:   «Noi  lo  riceviamo come  un  fatto,  e  a  questo  come  pi ìi  facile  a  comprendersi cerchiamo  ridur  l'altro  che  dicesi  da  essi  fatto  a  distan- za »  (2).  La  spiegazione  meccanica    dei    fenomeni  fisici può  solo  permettere  secondo  il   p.  Secchi  di  fare  a  meno di  (juesti  agenti    oscuri    e    metafìsici    che    si    chiamano forze.  Parlando  della  coesione,  dice  :   «  Quel  legame  per- tanto o  è  formato  da  forze  astratte  operanti   a  vera  di- stanza ovvero  dall'azione  dì  un  mezzo.  Le  prime  sono  per noi  inconcepibili  perchè  la  piccolezza  delle  distanze  non toglie  l'essere  loro  assurde  e  perciò  resta  la  seconda  »  (o).» (L'alternativa  è  inevitabile  :  o  il  meccanismo  o  le /brze). «  Uno  studio  più  profondo  delle  proprietà  della  materia ha    mostrato    che    le    forze    che    costituiscono  i  corpi   e danno    loro    una    forma  determinata  e  dìconsì  comune- mente attrazioni    molecolari    non    dipendono  da  legami materiali  posti    fra    le    parti    costituenti  ne  da  principii astratti  la  cui  azione  a  distanza   è   assurda,  ma  che  de- vono considerarsi  semplicemente  come  effetto  dei  movi- menti di  cui  sono  dotate  le  masse  elementari  e  dell'in- fluenza del  mezzo  in  cui  sono  distribuite  »  (4).   «  La  sua esistenza  (dell'etere)    ci    ha    suggerito    congetture  sulla struttura  interna    dei  corpi   per  fare  a  meìio  delle  forze astratte  aunnesse  finora   per    ispiegare  i  fenomeni  della coesione  dei  corpi  :  queste,  lo  prevediamo,  incontreranno grande  opposizione  da  ])arte  di  quelli  che  seguaci  delle vecchie  scuole  pretendono    che    nei  corjn  vi  sia  alcuna cosa  di  più  che  materia  e  moto,  e  credono  grcive  errore (1)  raifà   (MC.   1   odiz..   e.    1.   par.   2. (2)  l^tiifà  <'('(*.,  odiz.  />.    I.    i.   e.    l. (8)  rtiilà  Vii'.,  15  (mIìz..    1.    L   e.   o. (4)  K«liz.  '^.   V.  2.   ]).  S71,  Conclusione. '"^^ -   282  — -  283 negare  le  forze,    che    essi    poi    non    sanno  dirci  in  che consistano.  Come  per  ispiegare  certi  fatti,  invece  della causa  occulta  detta  lorrore  del  vuoto  che  era  una /'or.a ai  suoi  tempi,  noi  ammettiamo  la  pressione  atmosferica, cosi  presentemente  mediante  l'etere  crediamo  potersi  spie- gare lììoìti  di  (luei  fenomeni    che    vengono   attribuiti  a cause    egualmente    occulte  »   (1).    La    teoria  atomica  «e indipendente  dalla  teoria    delle    forze    che  determinano runione  di  questi  atomi,   perchè  restar  può  ad  arbitrio di   ciascuno   l'immaginare  o  che  essi  siano  determinati al  moto  da  cause  occulte  e  potenze  intrinseche,  ovvero che  tutte  le  loro  unioni  si  compiano  per  l'azione  estrin- ^eca    di    un    mezzo    in    movimento.    Il   fornirli  dt  forze astratte  è  certamente    la    cosa    più    comoda,  ma  in  più luoghi  abbiamo  veduto  la  complicazione    che  porta  un tale  sistema,    e    l'infinito    numero  di  forze  che  bisogna ammettere.    Per   dir    poco,  è  quasi  mestieri  applicare  aquesti  atomi    una    certa  intelligenza  per  arrivare  a  sa- pere se  debbano  agire  o  no;  e  qualche   cosa  che  li  av- visi che  sta  presente  il  soggetto    su    cui    esercitare  1  a- zione!  Questa  forza  poi  che  cosa  è?-  Come  non  si  esau- risce  mai  ?  Come  è  che  stando  essa  sempre    in   attività e  disposta    ad    agire    su    tutti  i  corpi,  quando  gliesene presentano  due  insieme,  sull'uno  agisce  e  sull'altro  no  .^ Ha  essa  intelligenza  da  scegliere?  Potremmo  di  leggieri moltii>licare    queste    domande  sicuri    dì    non    averne  ri- sposta,  e  perciò  inutilmente,  quindi  sarà  miglior  partito cercare  di  svolgere  il  concetto  delle  forze  supponendole derivate    dal    moto  di  cui   è  animata    la    materia»  (2). \i  luoghi   citati   dell'opera    di    Secchi  se  ne  potrebbero ao-giungere  molti  altri  ;  ma  ci  contenteremo  di  un  solo, in  cui  l'autore  ritorna  sulla  supposizione  dell'animazione della  materia,  considerandola  come  la  sola  causa  imma- ginabile (se  pur  non  vogliasi  ricorrere  all'azione  diretta  di Dio  (1)  o  a  quella  di  altri  enti  spirituali  separati)  capace di  spiegare  le  azioni  fisiche  che  non  possono  o  non  vo- gliono ricondursi  alla  comunicazione  del  movimento per  l'impulsione.  «Abbiamo  già  detto  altre  volte  che una  forza  attrattiva  in  istretto  senso,  cioè  come  princi- pio attivo  risedente  nelle  molecole  e  operante  a  traverso un  vuoto  assoluto,  a  noi  riesce  inconcepibile,  percìiè  tale azione  dovrebbe  esercitarsi  dai  corpi  a  distanza,  il  che è  assurdo  e  l'esser  le  distanze  grandi  o  piccole  non muta  la  difficoltà.  Se  poi  guardiamo  la  cosa  in  concreto, dovremmo  ammettere  nelle  medesime  molecole  e  -  nel medesimo  tempo  forze  attrattive  e  ripulsive,  e  operanti con  certa  scelta,  le  quali  da  positive  verso  un  corpo diventino  negative  verso  un  altro,  e  spesso  verso  lo stesso  corpo  a  diverse  distanze,  o  a  mutate  temperature, o  per  la  presenza  di  un  altro  corpo;  dei  quali  effetti  è piena  la  tisica  e  la  chimica.  Cosi  dovrebbero  moltipli- carsi questi  principii  nei  singoli  atomi  in  modo  prodi- gioso, e  dotarsi  di  una  certa  facoltà  di  sapere  quando occorra  attrarre  o  respingere  e  a  tale  o  tal  altra  di- stanza e  in  certa  direzione  !  Queste  sono  cose  inconce- pibili e  assurde  :  e  d'altra  parte  l'esperienza  mostra  che a  mano  a  mano  che  si  conosce  la  vera  causa  dei  feno- meni tali  supposte  tendenze  svaniscono  ogni  dì  più  »  (2). Noi  insistiamo  su  quesra  opposizione  tra  la  teoria meccanica  e  la  dottrina  delle  forze^  opposizione  che,  nella fisica  moderna,  corrisponde,  come  abbiamo  notato,  alla lotta  dei  filosofi  ineccanisti,  all'epoca  del  rinascimento della  filosofia,  contro  le  qualità  occulte  degli  ultimi scolastici,  e  a  quella  degli  avversari  di   Newton  contro (li   1   <^iiiz.,  cap.  2,   par.   10. (2)  1  ediz.,  e.  4,  par.  2. (1)  V.  5  cdiz.,   V.  2,  p.  262. (2)  1  ediz.  e.  4.   par.  8. 284 l'attrazione  nniversale  che  essi  condannavano  come  una qualità  occulta.  I  meccanisti  del  nostro  tempo  si  accor- dano a  pensare,  non  meno  che  i  loro  predecessori  del- l'epoca di  Cartesio  e  di  Newton,  che  la  spiegazione meccanica  dei  fenomeni  è  la  sola  che  possa  bandire dalia  tisica  queste  cause  occulte  che  si  chiamano  forze. «  Non  si  potrebbe  dubitare,  scriveva  Lamé,  che  l'inter- venzione dell'etere  (la  quale  permette  di  spiegare  mec- eanicaniente  i  fenomeni  fisici)  troverà  il  secreto  o  la vera  causa  degli  effetti  che  si  attribuiscono  al  calorico, airelettricità,  al  magnetismo,  all'attrazione  universale, alla  coesione,  alle  affinità  chimiche;  perchè  tutti  questi esseri  misteriosi  e  incomprensibili  non  sono  al  fondo che  delle  ipotesi  di  coordinazione  utili  senza  dubbio alla  nostra  ignoranza,  ma  che  i  progressi  della  scienza fÌTv'rnìiììn  dì  detronizzare»   (1). 8aigey  nel  suo  libro  La  fisica  vioderna,  che  è  una esposizione  popolare  delle  odierne  dottrine  meccaniche: «  Ciascuna  volta  che  un  movimento  ci  apparisce  come la  continuazione  o  la  trasformazione  di  un  altro  movi- mento, noi  possiamo  passarci  dell'idea  di  forza,  e  noi flovremmo  riservare  questa  nozione  per  i  movimenti  di cui  l'origine  ci  resta  assolutamente  nascosta  »  (2).  «  La nostra  ipotesi  bandisce  le  etità  fallaci,  (forze)  di  cui  la fisica  può  essere  imbarazzata  »   «  Quando  un  movi- mento d'una  certa  specie  è  rimpiazzato  da  un  altro  di specie  dift'erente,  la  ragione  di  questo  cangiamento  ci sfugge  d'ordinario,  ed  è  a  causa  di  quest'ignoranza  che abbiamo  ricorso  alla  nozione  di  forza;  noi  diciamo  che una  forza  si  manifesta  e  produce  tal  effetto,  perchè  non possiamo  capire  i  movimenti    anteriori  da  cui  quest'ef (l)    Tror.   ntaletnat.  (teWvldstii'ìtà. (o)   1».  285 fetto  risulta.  —  La  nozione  di  forza  fisica,  dovrebbe duncjue  disparire,  se  gli  elementi  della  meccanica  mo- lecolare fossero  conosciuti»  (1).  — S.  Robert  «Secon- do (luesta  maniera  di  vedere  (la  spiegazione  meccanica) ciò  ehe  noi  chiamiamo  forza  non  esisterebbe  nella  na- tura; la  forza  sarebbe  semplicemente  la  trasmissione  di movimento.  Noi  saremmo  cos'i  liberati  da  queste  forze a  cui  certi  fisici  attribuiscono  non  so  qual  esistenza speciale,  riguardandole  come  degli  elementi  costitutivi dell'universo»  (2). — Chevrier  :  «Dopo  avervi  mostrato come  (juesta  bella  teoria  dell'unità  delle  forze^  fisiche (che  attribuisce  all'  urto  la  causa  di  tutti  i  movimenti) bandisce  le  entità  ìuisteriose^  le  cause  occidte  che  oscurano la  scienza^  io  non  ho  bisogno  di  dirvi  che  la  fisica  at- tuale non  ha  affatto  la  pretensione»    d'aver    risoluto   né (1)  P.  219.  — Diamo  in  (j^uestii  Jiota  un  tratto  del  libro  ili  Sai<;ey vìw,  ('orrispoiuU'  ai  due  ultimi  che  abitiamo  citati  del  p.  Svrvhì.  «  Se lo  mcdecidc  si  juJi-tauo  le  une  verso  lo  altro  in  virtù  di  una causa  (lic  è  in  esso,  come  venite  a  dire^  elie  esse  som»  iiu'rti  i Esse  soììo  attive  al  contrario,  e  tutti»  V  editizio  cln'  voi  av<!>te elevato  sulTitlea  d'inerzia  cndla  sin  dalla  sua  base.  —  Che  saiir dunque  se  dalla  <»ravità  noi  passiamo  airaftìnità  chimica  i  Se  le m(dec(de  si  scelgono  in  virtù  d'un  |>rincii»io  che  ^  in  C/Sse.  esse hanm»  duiuiu(»  un'iniziativa  propria,  esse  hanno  delle  v<dontà, dei  ca]n'icci  !  La  chimica  diviene  h»  studio  delle  passioni  mole- colari. X(»i  andiamo  a  trovarvi  delle  simpatie  e  deoli  odii.  de- i^l'istinti  vili  e  dei  nobili  sentinn^nti,  delle  tenerezze  le«;ittime <*  dejjli  ardori  coli>evoli,  dei  matrimoni  telici  e  «Ielle  unioni  di- scordi, delle  sojde  inimicizie^  e  delle  lotte  <'h(^  scoppian<>  !  Ecco «ijl'idilli  e  i  dranimi  ehe  ci  presenta  la  cliinjica,  se  noi  allog^jiamo nelle  molecole^  un  ]>rinci])io  re}>ulsivo  e  un  principio  attrattivo, come  si  allo«i<;ia  talvolta  io  spirito  del  bene  e  lo  spirito  del nelle  anime  umane  »  (i>.  141). (2)  Cosa  ('  la  forzii  ì  nel  volume  Balfour-Stenrart  (^onnerrn- zionr  delVeìì enfia,  di  risolvere    mai    d'una    maniera   completa  il   problema l'uni  verso»  (1). E  come  da  una  parte  si  abbraccia  la  teoria  mecca- nica per  eliminare  le  cause  occulte  dei    fenomeni  fisici cioè    le    forze,    così    dall'altra    parte    si    abbracciano  le forze,  perchè  una  spiegazione  meccanica    dei   fenomeni si  ritiene  impossibile.  Hirn,  avversario  della  teoria  mec- canica e  difensore  delle    forze   considerate  come  entità reali  distinte  dai  fenomeni,  divide  gli  scienziati  moderni ili  due  campi  opposti.   «Noi  possiamo,  egli  dice,  ricon- durre  ;i  due  proposizioni  antagoniste  l'enunziato  della quistione  (sulla   natura    delle    forze    fìsiche    in  tutta  la sua  nettezza.  1.'^  Il  movimento    della   materia  non   può nascere  ehe  da  un  movimento  anteriore  d'un'altra  parte di  materia,  e  che  per  contatto   immediato  di  materia  a materia.    2."    Il    movimento    della    materia    non    nasce mai    direttamente    e    per    contatto    immediato.    Esso   si deve   sempre    all'azione    d'un    elemento    specificamente distinto  dalla  materia,  che   quest'  elemento  ne  sia  d'al- tronde separabile  o  no.  Queste  due  affermazioni  sì  op- poste dividono  e  divideranno    ancora    gli    scienziati  in due  campi  ;  la  prima    ha    oggi  per  sé  1'  immensa  mag- gioranza. Si  è  creduto    fare    una   semplificazione  e   un progresso    considerevoli    sostituendo   alla    forza,    essere mistico  e  incomprensibile,    si    dice,  il  movimento   della materia...»   {2> Questa  pretesa  della  teoria  meccanica  di  sostituirsi  al- le forze,  di  eliminarle  perchè  rese  inutili  da  essa,  è  per noi  la  prova  più  concludente  del  fatto  che  l'impulsione è  ritenuta,  secondo  questa  teoria  (ed  anche,  in  un  certo  sen- so, secondo  gli  avversari  di  questa  teoria),  una  causa  efitì- (1)    I/uitltà  delle  forze  fìsiche  in   Hec.  seleni.,  scr.   1.  t.  6. (*J)   I.n  no:,  ili  forza  mila  scietì^a  moiL,   Kev.  scii'iit.,  str.  :s. t.  10,  p.  i:^i. 287 ciente  del  movimento,  una  causa  che  è  capace  di  spie- gare i  suoi  effetti,  di  farne  comprendere  la  ragion  suf- ficiente, e  non  che  è  semplicemente  un  antecedente  a cui  questi  effetti  seguono  d'  una  maniera  invariabile. Infatti,  se  noi  supponiamo  che  i  fenomeni  fisici  sono dovuti  alle  forze,  cioè  a  cause  sconosciute  inaccessibili all'esperienza,  ciò  avviene  perchè  noi  crediamo  che, oltre  le  cause  fisiche  di  questi  fenomeni,  cioè  oltre  gli antecedenti  delle  sequenze  invariabili  che  ci  presenta l'esperienza,  vi  hanno  delle  cause  efficienti  di  questi  fe- nomeni, alle  quali  l'esperienza  non  può  attingere;  e  se noi  crediamo  che  queste  cause  efficienti  dei  fenomeni sono  altra  .cosa  che  le  loro  condizioni  empiriche  a  cui essi  seguono  invariabilmente,  è  perchè  noi  non  troviamo alcuna  connessione,  alcun  legame  necessario  e  intelli- gibile fra  queste  condizioni  e  i  fenomeni  che  loro  se- guono, in  una  parola  perchè  le  leggi  generali  a  cui  la scienza  riconduce  i  fenomeni  fisici,  ci  sembrano  incom- prensibili. Per  conseguenza  una  spiegazione  di  questi fenomeni  che  pretende  di  rendere  inutile  la  supposizione delle  forze  e  di  sostituirle,  è  una  spiegazione  che  pre- tende di  far  conoscere  le  cause  efficienti,  di  scoprire  la connessione  o  il  legame  necessario  tra  i  fenomeni,  di dare  la  ragion  sufficiente  delle  leggi  dell'  esperienza, che  senza  di  essa  (cioè  di  questa  spiegazione)  restereb- bero incomprensibili. Per  altro  i  meccanisti  contemporanei  dichiarano, non  meno  esplicitamente  dei  loro  predecessori,  che questo  è  il  presupposto  della  loro  dottrina,  cioè  che l'impulsione  è  un  fatto  dhe  si  comprende  da  se  stesso, mentre  ogni  altra  azione  fisica  è  inconiprensibile  ed anche  assurda  a  meno  che  non  si  riconduca  all'impul- sione. Per  mostrare  ciò,  ai  tratti  riportati  del  p.  Secchi ne  aggiungeremo  qualche  altro  di  altri  autori.  Challis dice  :  «  Quando  un  corpo  è  messo  in  movimento  senza lì —  288  —  contatto  apparente    ne    pressione    d'un    altro    corpo,   si può  tosto  concludere  che  il  corpo  che  pressa,  (luantun- (jue  invisibile,  esiste,  a  meno  d'essere  disposti    ad   am- mettere che  vi  hanno  delle  operazioni  fisiche  che  sono e  saranno  incomprensibili  per  noi»    (1).   Moigno  :   «Ciò che  è  certo  è  che  i  corpi  non  si  attirano...  Se  l'attrazione esistesse,    sarebbe  un  miracolo  perpetuo   (cioè  un  fatto superiore  alla    nostra    ragione,    incomprensibile)»    (2). Baltour-Stewart  :   «  T/ ipotesi    di    azione  a  distanza    può essere   fatta    i)er    rendere  conto  di  qualche  cosa  ;  ma  è impossibile  (come  Newton  l'indicava,  or  è  lung'O  tempo, nella  sua  celebre  lettera  a  Bentley)  per  qualcuno  «che lia  in  materia  filosofica  una   facoltà  di  pensare  compe- tente »   di  ammettere    un    istante    la    possibilità  di  una tal  azione  »  (3..  Naville:  «la  comunicazione  del  movimen- to per  via  d'iuìpulsione   o    di    contatto  è  la  sola  che  ci sia  intelligibile  perchè    essa    si    deduce   dall'idea  stessa della  materia   di    cui    l'essenza  è  d'occupare  l'estensio- ne »  (4)    Taine  (trattando  la  quistione   se   ogni  fatto    o leo-co    ha    la    sua    ragione    esplicativa):    Probabilmente tuul  i  cang-iamenti    fisici    si    riducono  a  dei  movimenti che  hanno    per    condizioni    altri    movimenti.  Se  questa riduzione  fosse    vera,    tutti    i    problemi  concernenti  un corpo   effettivo   (|ualunque    sarebbero    problemi  di  mec- canica, e  tutto  negli    oggetti    reali    avrebbe  la  sua  ra- gion d'essere  (vale    a    dire    potrebbe  spiegarsi)  (5).  Né razione  a  distanza  ha  cessato  di  sembrare  assurda  an- che a  quelli    che    non    pretendono   del   resto  ricondurre tutti  i  fenomeni  fisici  all'impulsione:  basterà  di  citare (1)  Phil.   unu/.,  4  sei-.,    voi.   XXXI.   ]».  4<>7. (2)  Disserti»/,  suiressenzii  della  materia. {'^)  Ij'unicerso  inrisibile,  ^  ediz..  p.  100. (4)  Orig.  lìellafis.  inod.  in  Her.  srienUf.^  2  ser.,   t.  8,  p.  1081. (.5)  Taine,    1/  Ì7ttflliyenza,  Il  parte,  iib.  4,  e.  :^,  par.  :^,  H. Spencer,  che  dice  «  positivamente  inconcepibile»  la  con- cezione che  la  materia  agisce  sulla  materia  a  traverso lo  spazio  assolutamente  vuoto  (1),  e  Du  Bois-Reymond, che  nel  suo  celebre  discorso  al  congresso  scientifico  di Lipsia  ha  affermato  che  «la  concezione  di  forze  agenti a  distanza  a  traverso  il  vuoto  è  in  so  inintelligibile  e  an- che contraddittoria  »  (2). §  6.  Fra  le  affermazioni  contenute  nei  tratti  degli autori  che  abbiano  citati,  ve  ne  ha  una  che  è  impor- tante di  esaminare,  perchè  potrebbe  spargere  qualche dubbio  sul  fatto  che  abbiamo  voluto  costatare,  cioè  che il  motivo  per  cui  si  ritiene  indispensabile  di  ricondurre all'impulsione  tutti  i  fenomeni  fisici,  a  meno  di  credere che  questi  sono  e  saranno  per  sempre  inintelligibili,  è che  l'impulsione  è  la  sola  fra  le  condizioni  generali  del movimento,  che  sia  considerata  come  una  causa  efficiente. L'affermazione  di  cui  parliamo  è  che  nell'azione  a  di- stanza vi  ha  un'impossibilità  intrinseca,  che  essa  è  in- concepibile, assurda  e  contraddittoria.  Come  abbiamo detto,  quest'impossibilità  intrinseca  dell'azione  a  distanza si  è  preteso  dimostrarla,  ponendo  come  premessa  il  prin- cipio che  una  cosa  non  può  agire  dove  non  è.  Ma questa  dimostrazione,  come  tutte  le  pretese  dimostra- zioni di  una  cosa  di  fatto,  di  cui  la  sola  esperienza può  stabilire  la  verità  o  la  falsità,  non  può  essere  che o  un  sofisma  fondato  sull'equivoco  o  una  petizione  di principio.  In  fatto  quando  si  dice  che  una  cosa  non può  agire  dove  non  è,  di  che  sorta  d'azioni  s'intende parlare?  La  parola  azione  ha  due  sensi  differenti:  vi  han- no delle  azioni  immanenti,  p.  e.  io  mi  muovo,  e  delle azioni  transeunti,  p.  e.  io  muovo  un  corpo  differente da  me.  Se  si  tratta    di    azioni    immanenti,    è   certo  che (1)  Primi  principii,  paragr.   18. (2)  V.   H<n\  scient..  II  ser.,  t.  7.  pag.  :VM*. 19 290 una  cosa  non  può  ao-ire  dove  noa  è,  p.  e.  io  non  posso muovermi    dove   non   sono,  e  la  rag-ione  è  che  il  modo di  essere   non    può    esistere    separatamente  dall'essere, l'accidente  dalla  sostanza.  Ma  non  vi  ha  alcuna  impos- sibilità di  questa  natura,    che  proibisca  di  pensare  che una  cosa  può  esercitare  un'azione  transeunte  dove  essa non  è,  cioè  determinare,  mediante  un  suo  proprio  can- giamento  o   anche   per   la   seìiiplice   presenza,  un   can- giamento  qualsiasi  in  una  cosa  situata  in  un  altro  posto che  quello  in  cui  essa  è.  Che  un  og-getto  determina  per mezzo    di    un    suo    cangiamento  o  per  la  sua  presenza un  cangiamento  in  un  altro  oggetto,  vuol  dire  sempli- cemente che  il  cangiamento  di  questo  secondo  oggetto segue  costantemente    alla    presenza    o    al    cangiamento del  primo  oggetto:  una  tale  sequenza  può  essere  incom- prensibile o  inesplicabile,  ma  non  contraddittoria  e  in trinsecamente  im[)Ossibile,  perchè  noi  possiamo  in  ogni caso  formarcene  una  concezione  chiara  e  distinta,   ciò che  non  potremmo    se  vi   fosse  impossibilità  intrinseca o  contraddizione.  La  proposizione  dunque  che  una  cosa non    può    agire  dove;  non  è,  è  necessaria  e  tale  che  la sua  contraria  implica  contraddizione  o  impossibilità  in- trinseca,   ma  (juando  si  tratta  di  azioni  immanenti  :  se da  questa  proposizione  si  vuol  concludere  che  è  ugual- mente contraddittorio  o  intrinsecamente  impossibile  che una    cosa    eserciti   un'azione  transeunte  sopra  un'altra cosa  che  non  è  nel  luogo   in   cui   essa  è,  cioè  che  non è  in  contatto    con    essa,    allora    si    equivoca    sul    senso della  parola  azione,  passando  nella  conseguenza  all'a- zione transeunte,    mentre    nel    principio    si    parlava  di un'azione  immanente.    Se    invece    per    il    principio  che una  cosa  non  può  agire  dove  non  è  s'intende,  non  solo che  una  cosa  non   può   fare  delle  azioni   immanenti  al di  fuori  di  sé,  ma  ancora  che  essa   non   può  fare  delle azioni  transeunti,  cioè  determinare  dei  cangiamenti,  in —  291  — un'altra  cosa  che  non  è  a  contatto  con  essa,  allora  la dimostrazione  si  risolve  in  una  petizione  di  principio, pretendendosi  di  dare  come  il  risultato  di  una  prova  ciò che  immediatamente  si  assume  come  un  postulato. Una  cosa  di  fatto  non  può  stabilirsi  né  confutarsi a  priori,  per  delle  ragioni  puramente  logiche  :  quando si  afferma  che  l'azione  a  distanza  è  intrìsecamente  im- possibile,  che  è  un'  inconcepibilità,  un'assurdità  o  una contraddizione,  è  a  temere  che  si  confonda  con  un'im- possibità  logica  ciò  che  è  semplicemente  una  ripugnanza, senza  dubbio  naturale,  ad  ammettere  un  fatto.  Per  mo-,strare  la  cosa  d'una  maniera  più  chiara,  bisognerà  de- terminare il  senso  di  questi  termini  :  contradditorio,  as- surdo, inconcepibile. Niente  di  più  facile,  a  prima  vista,  ehe  il  determi- nare il  senso  della  parola  contraddittorio.  Contraddittoria è  una  proposizione  in  cui  si  nega  e  si  afferma  al  tempo stesso  una  stessa  cosa:  è  questo,  nel  senso  più  stretto, il  significato  della  parola  contraddizione,  ed  è  evidente che  r  azione  a  distanza  non  può  essere  contraddittoria in  questo  senso.  Ma  v'è  un  altro  caso  per  cui  si  è  di- scusso se  si  deve  o  no  considerarlo  come  una  contrad- dizione: è  quando  a  uno  stesso  oggetto  vengono  al  tempo stesso  dati,  non  due  attributi  di  cui  l'uno  è  la  nega- zione deiraltro,  come  quadrato  e  non  quadrato  (nel  qual caso  ci  tratterebbe  di  una  contraddizione  nel  primo  sen- so),  ma  due  attributi  di  cui  l'uno  è  incompatibile  con r  altro,  senza  esserne  però  la  negazione  diretta  :  p.  e. quadrato  e  rotondo,  o  tutto  bianco  e  tutto  nero.  Quan- tunque sia  controverso,  come  abbiamo  detto,  se  in  tali casi  si  tratti  di  una  vera  contraddizione,  è  certo  tuttavia che  nel  linguaggio  ordinario  delle  cose  come  un  qua- drato rotondo  e  un  oggetto  al  tempo  stesso  tutto  bianco e  tutto  nero  passano  per  contraddizioni  belle  e  buone; noi  possiamo  perciò  conformarci  all'uso  comune,  e  chia- 293 mare  contraddittorio  un  concetto,  quando  esso  è  costi- tuito di  elementi  incompatibili  fra  di  loro.  Ma  quando è  che  questi  elementi  sono  incompatibili  fra  di  loro?  è^ come  abbiamo  detto  nel  Saggio  V  (1),  quando  ci  è  im- possibile di  farci  la  rappresentazione  concreta,  l'imma- gine, di  un  oggetto  di  cui  potessero  predicarsi  gli  at- tributi che  noi  diciamo  incompatibili.  A  parlar  propria- mente, una  cosa  avente  degli  attributi  incompatibili, come gli  esempi  che  abbiamo  recati  di  un  oggetto  al  tempo stesso  quadrato  e  rotondo  o  tutto  bianco  e  tutto  nero, non  può  essere  pensata,  ma  solo  espressa  con  parole  ; noi  possiamo  comporre  insieme  i  nomi  di  questi  attri- buti incompatibili,  ma  a  questi  nomi  cosi  riuniti  non corrisponde  alcun  pensiero,  non  corrisponde  almeno  al- cun pensiero  concreto,  voglio  dire  alcuna  rappresenta- zione o  immagine  di  un  oggetto  concreto.  Lo  spirito  u- mano  ha  avuto,  o  piuttosto  ha  creduto  di  avere,  molte nozioni  che  sono  contraddittorie  in  questo  senso  ;  ma, evidente  che  l'azione  a  distanza  non  appartiene  a  questa genere  di  nozioni.  Che  due  cose  distanti  agiscono  l'una sull'altra  vuol  dire  semplicemente,  come  abbiamo  detto, che  r  una  mediante  un  suo  proprio  cangiamento  0  per la  sua  semplice  presenza  determina  un  cangiamento  nel- l'altra; cioè  che  al  cangiamento  o  alla  presenza  dell'una segue  il  cangiamento  dell'altra,  e  che  questa  sequenza non  è  un  caso  fortuito,  ma  avviene  secondo  una  legge o  una  regola  invariabile  di  sequenza  tra  i  fenomeni. E  chiaro  che  noi  possiamo  avere  la  rappresentazione o  r  immagine  dei  fatti  concreti  corrispondenti  alla  no- zione di  azione  a  distanza,  (juale  noi  l'abbiamo  espressa in  termini  generali  :  l'azione  a  distanza  non  è  dunque per  niente  una  nozione  contradditoria,  cioè  composta  di elementi  incompatibili.  Noi  dobbiamo  nondimeno  osserva- (1)  V.  p.  431-432.  Cfr.  p.  rì2i>  e  532-533. re  che  se  per  azione  a  distanza  non  s'intende  una  semplice sequenza  invariabile,  ma  s' intende  invece  che  il  corpo agente  a  distanza  sia  la  causa  efficiente  del  cangiamento determinato  nelT  altro  corpo  distante,  allora  1'  azione  a distanza  potrebbe  benissimo  essere  considerata  come  una nozione  contraddittoria,  cioè  composta  di  elementi  in-, compatibili  :  infatti  ci  sarebbe  impossibile  di  rappresen- tarci un  caso  concreto  di  un  rapporto  di  causazione  tra fenomeni  fisici,  in  cui  della  causa  potesse  dirsi  al  tempo stesso  che  essa  è  distante  dall'effetto  e  che  è  una  causa efficiente  0  produttrice  di  quest'  effetto.  Ma  in  questo senso  dire  che  l'azione  a  distanza  è  una  nozione  con- traddittoria sarebbe  semplicemente  enunziare  il  fatto  che noi  abbiamo  voluto  costatare,  cioè  che  lo  spirito  umano non  può  considerare  come  causa  efficiente  un  corpo agente  a  distanza,  ma  solo  un  corpo  agente  a  contatto €  d'una  maniera  meccanica. Passiamo  ora  al  vocabolo  «assurdo».  Assurdo  è  in  pri- mo luogo  ciò  che  è  contraddittorio:  nui  in  secondo  luogo assurdo  è  anche  ciò  che,  senza  essere  contraddittorio  in se  stesso,  è  in  contradddizione  con  qualche  verità  assio- matica. Cosi  i  geometri  dicono  di  aver  dimostrato  una proposizione  per  1'  assurdo,  quando  essi  hanno  mostrato che,  facendo  una  supposizione  contraria  alla  proposi- zione, si  cade  in  contraddizione  con  qualche  assioma  : in  verità  nelle  dimostrazioni  per  l'assurdo  basta  per  mo- strare r  assurdità  di  una  supposizione  di  far  vedere che  essa  è  in  contraddizione  con  un  teorema  già  dimo- strato, ma  siccome  non  si  potrebbe  negare  una  propo- sizione dimostrata  senza  contraddire  agli  assiomi  che sono  le  premesse  ultime  di  ogni  dimostrazione,  cosi  1' as- surdità consiste  in  ogni  caso  ad  essere  in  contraddizione con  qualche  assioma.  Per  sostenere  dunque  che  l'azione a  distanza  è  assurda,  bisognerà  ammettere  (per  non tornare  sul  caso,  di  cui  abbiamo  già  parlato,  in  cui  l'as- >^»Ke~™»*fe--?»Ì»'*" 294 surdità  consista  in  una  contraddizione  intrinseca)  che l'azione  a  distanza  è  in  contraddizione  con  una  verità  as- siomatica. E  in  fatto  quelli  che  dichiarano  assurda  l'a- zione a  distanza  ammettono  come  verità  assiomatica, cioè  evidente  per  se  stessa,  che  ogni  azione  deve  essere a  contatto.  Ma  questa  pretesa  verità  assiomatica  non  è che  r  espressione  della  tendenza  naturale  del  nostro spirito  a  ricondurre  ed  assimilare  tutti  i  fenomeni  fisici all'azione  meccanica;  e  così  quest'assurdità  che  si  tro- va neir azione  a  distanza  non  è  al  fondo  che  un'  altra manifestazione  del  fatto  che  noi  cerchiamo  di  mettere in  evidenza,  cioè  che  T impulsione  è  la  sola  tra  le  azioni fìsiche  che  sia  naturalmente  considerata  come  causa  ef- ficiente, e  quindi  pure  come  il  solo  intermediario  espli- cativo possibile  che  possa  rendere  ragione  di  tutte  le altre.  Se  la  nozione  di  causa  efficiente  ha  un  valore  ob- biettivo, cioè,  come  abbiamo  altra  volta  spiegato,  se questa  tendenza  psicologica  a  spiegare  le  sequenze  re- golari tra  fenomeni  di  cui  non  consideriamo  1'  antece- dente come  una  causa  efficiente,  per  quelle  di  cui  con- sideriamo r  antecedeute  come  causa  efficiente,  ha  un valore  logico  e  noi  dobbiamo  seguirla,  allora  bisog^na ammettere  che  il  principio  del  meccanismo  è  una  verità assiomatica,  che  una  vera  azione  a  distanza  è  realmente assurda.  Se  al  contrario  la  nozione  di  causa  efficiente non  ha  un  valore  obbiettivo,  se  tra  una  causa  efficiente e  un  semplice  antecedente  di  una  sequenza  invariabile non  vi  ha  una  differenza  reale  ma  solo  psicologica, allora  la  pretesa  evidenza  a  priori  del  principio  del meccanismo  è  un  sofisma  a  priori^  e  la  pretesa  assurdità dell'azione  a  distanza  una  conseguenza  di  questo  sofisma. Il  nostro  oggetto  non  è  per  ora  di  risolvere  questa quistione,  ma  solo  di  trovare  un  dato  necessario  per  questa soluzione,  vale  a  dire  qual  è  il  carattere  generale,  che distingue  le  sequenze  uniformi  in  cui  consideriamo  l'an- —  295  — tecedente  come  causa  efficiente,  da  quelle  in  cui  non  lo consideriamo  come  causa  efficiente.  È  solamente  dopo aver  compreso  questo  carattere  generale  che  potrà  ve- dersi se  la  tendenza  del  nostro  spirito  ad  assimilare  e ricondurre  le  sequenze  del  secondo  genere  a  quelle  del primo  ha  un  valore  logico,  o  s(i  è  soltanto  un  fenomeno psicologico,  da  cui  è  necessario  di  tenersi  in  guardia  per evitare  di  scambiare  le  leggi  subbiettive  del  nostro  pen- siero con  le  leggi   obbiettive   della  natura  reale. Passando  infine  alla  parola  <  inconcepibile»,  noi  di- stingueremo con  Stuart-Mill  due  sensi  di  questo  termine. Vi  ha  un'inconcebilità  assoluta,  e  vi  ha  un'inconcepibilità relativa,  che  non  è  unMnconcepibilità  propria,  ma  una difficoltà  a  concepire,  o  piuttosto  a  credere.   Una    pro- posizione è  assolutamente  inconcepibile  quando  ci  è  af- fatto impossibile  di   formarci  effettivamente  il  pensiero corrispondente  alle  parole  di  cui  la  proposizione  è  com- posta. L'assolutamente  inconcepibile  è  dunque  un  non senso:  noi  non  possiamo  averne,  a  parlar  propriamente, un'idea,  ma  solo  (come  dice  Spencer)  una  pseudo-idea, o  (come  dice  Wolf)  un'idea  illusoria,  cioè  possiamo,  per illusione,  credere    di    avere   un'idea  determinata  corri- spondente alle    parole  pronunziate  o  scritte,  mentre,  in realtà,  a  queste  parole  non  corrisponde  alcun' idea.  Vi hanno  parecchi  casi  di  questa  specie  d'inconcepibilità. Il  primo  caso  è  quello  di  una    contraddizione  in   senso stretto:   noi    possiamo    concepire  separatamente,    come inerenti    al    soggetto,  i  due  attributi  di  cui  1'  uno  è  la negazione  dell'altro,  ma  non  possiamo  concepirli    come inerenti  simultaneamente.    A    ([uesto  caso    si    deve  ag- giugero  l'altro,  a  cui,  come  abbiamo  detto,  si  dà  jmre comunemente    il    nome    di    contraddizione:  è  quando   a uno  stesso  oggetto  si  attribuiscono  due  predicati  incom- patibili. Noi  abbiamo  visto  che  in  questo  caso  è  impos- sibile di    formarci    la    rappresentazione    di    un    oggetta —  29G  — concreto  a  cui  convengano  simultaneamente  i  due  pre- dicati. Da  questo  secondo    caso    bisog-na    infine   distin- guerne   un   terzo  :  è  quando  ci  è  impossibile  di  legare runa  all'altra  due  rappresentazioni,  non  perchè  vi  sia tra  di  esse  una  incompatibilità,  diretta   e    meno    ancora una  contraddizione  in  senso  stretto,  ma  perchè  l'una  di queste  rappresentazioni   è   inseparabilmente  legata  con una  terza  che  è  contraddittoria  o  inconpatibile  con  l'al- tra. Come  esempio  di  questo  terzo  caso  d'inconcepibilità assoluta  può  servire  la  proposizione:  2 +-2  =  5.  Eguale a  5  non  è  direttamente  incompatibile   con   2  +  2,   degli attributi  incompatibili  dovendo    appartenere  allo  stesso genere,  come  rotondo  e  quadrato,  che  appartengono  al genere  figura,  tutto  bianco  e  tutto  nero  al  genere  colore, nomo  e  cavallo    al    genere  animale  o  corpo  :  ma  2  +  2 ^z=;5  non  appartengono    allo    stesso    genere,   perchè   il primo  indica  degli  oggetti    assoluti,  mentre  il  secondo indica  un'eguaglianza  cioè  una  relazione.    Se   noi   non possiamo    legare   l'idea   di    eguaglianza    con  le  idee  di 5  +  2  e  di  5,  è  perchè  le  idee  di  2  +  2    e  di  5  sono  in- separabilmente legate  con   un'  idea  che  è  incompatibile €on  quella  di  eguaglianza,  cioè  con  l'idea   della    rela- zione di  mao'giore  e  minore.  È  in  questo   terzo  caso  di inconcepibilità  assoluta  che  dovrebbero  rientrare,  se  ve ne  fossero,  le  inconcepibilità  derivate  da    ciò    che    i   fi- losofi   inglesi    chiamano    un'  associazione    inseparabile, cioè  una  necessità  assoluta  di  pensare   determinata    da un'esperienza  invariabile  :  ma  si  può  dubitare  se  Tespe- rienza    e   le    leggi    dell'associazione  delle  idee  possano determinare  un'assoluta    necessità  di  pensare  e  quindi un'assoluta  inconcepibilità. Come  il  terzo  caso  d'inconcepibilità  assoluta  deriva da  una  necessità  assoluta  di  pensare,  cosi  quella  che noi  abbiamo  chiamato  inconcepibilità  relativa  derivada una  necessità  relativa  dì  pensare.  Tina  proposizione  con- 297 trarla  a  un'  altra  assolutamente   necessaria  è  una   pro- posizione assolutamente  inconcepibile;  una    proposizio- ne contraria  a  un'altra  relativamente  necessaria  è  una proposizione    relativamente    inconcepibile.    Vi    ha    una necessità  relativa  di  pensare  e   una  corrispondente  in- concepibilità relativa,  quando  vi  ha  tra  alcune  idee  un legame  che  non  è  cosi  forte  da  impedire  che  esse  siano separate,  ma  che  è  nondimeno  tale  che  noi  non  possia- mo   separarle   senza    uno    sforzo    mentale.  Di  là  segue una  difficoltà  analoga  a  congiungere  con  una  di  queste idee  un'altra  che  è  incompatibile  con  alcuna    di  quelle che  le  sono    legate.    Questa    difficoltà  a  disgiungere  le idee   porta    con    sé    una   difficoltà  a  credere   che  i  fatti rappresentati  da  queste  idee  non  siano  congiunti  real- mente nella  natura;  e  la  corrispondente  difficoltà  a  con- giungere le  idee  porta  con  sé  una  difficoltà  analoga  a credere  che  i  fatti  rappresentati    da    queste  idee    siano congiunti  realmente  nella  natura.  Un  esempio    classico di  questa  specie  d'inconcepibilità,  portante  con  sé  una difficoltà  a  credere  che  non  era  giustificata  da  prove,  è quella  che  aveva  per  oggetto   gli   antipodi.  E  evidente che  gli  antipodi  non  erano  inconcepibili  nel  primo  senso, cioè    di   una    inconcepibilità    propria  ed    assoluta.     «  Si poteva,  dice  Stuart-Mill,  figurarseli  nell'immaginazione; si  poteva   rappresentarli    per  la  pittura  e  modellarli    in argilla.    Lo   spirito  poteva  riunire  le  parti  delle  conce- zione; ma  non  poteva  figurarsi  che  questa  combinazione esistesse    nella    natura.  L'incapacità  proveniva    da    ciò che  l'esperienza  avea  prodotto  negli  spiriti  una  tendenza possente  ad  attendersi  la  caduta  d'un  corpo  che,  senza proprietà  adesiva,  si  trovasse  in  contatto  con  la  faccia inferiore  d'un  altro  corpo.  Senza  dubbio  si  concepiva  che una  persona  potesse  trovarsi  agli   antipodi,  e  lo  spirito poteva  rappresentarsela  con  la  testa  in  basso  e  i  piedi in  alto,  ma  non  si  concepiva  che  fosse  possibile  di  tener- 2^ visi  senza  cadere,  a  meno  d'essere  inchiodato  o  incollato perì  piedi».  La  inconcepibilità  dell' azione  a  distanza é  unMnconcepibilità  della  stessa  natura.  Noi  possiamo perfettamente  rappresentarci  dei  corpi  che,  coesistendo nello  spazio  I'  uno  con  1'  altro,  si  muovono  per  andare Tuno  verso  l'altro,  e  con  una  forza  tanto  maggiore quanto  più  i  corpi  sono  vicini  :  ma  come,  nel  caso  degli antipodi,  vi  ha  una  difficoltà  naturale  a  concepire  e  a credere  il  fatto  (difficoltà  che  tuttora  persiste  in  uno s})irito  senza  coltura),  perchè  l'associazione  delle  idee determina  una  forte  tendenza  ad  attendersi  che  un  corpo, quando  non  vi  fosse  niente  che  lo  trattenesse,  dovrebbediscendere  nella  direzione  che  va  dalla  nostra  testa  ai nostri  piedi;  così,  nel  caso  dell'  attrazione,  vi  ha  una difficoltà  analoga  a  concepire  e  a  credere  il  fatto,  per- chè l'associazione  delle  idee  determina  una  tendenza press'a  poco  egualmente  forte  ad  attendersi  che  niun cangiamento  debba  avvenire  nello  stato  di  un  corpo per  l'influenza  di  un  altro  corpo  distante,  e  a  figurarsi, quando  un  corpo  passa  dalla  quiete  al  movimento,  la presenza  di  un  altro  corpo  in  contatto  immediato  con esso  o  ad  esso  congiunto  per  qualche  legame  materiale,che  lo  spinge  a  tergo  o  lo  tira. Una  necessità  assoluta  di  pensare  e  la  corrispon- dente inconcepibilità  assoluta  sono  necessariamente  per noi,  che  che  iw  dica  il  Mili,  un  criterio  del  vero  e  del falso;  essendoci  impossibile  di  non  credere  o  di  mettere in  dubbio  ciò  che  noi  non  possiamo  tare  a  meno  di  pen- sare, e  di  credere  ciò  che  siamo  affatto  impossibilitati  a pensare.  Ma  una  semplice  tendenza  a  credere,  per  quanto naturale,  derivante  da  una  necessità  relativa  di  pensare e  dalla  corrispondente  inconcepibilità  relativa,  non  può essere  una  prova  della  verità.  Oltre  all'  esistenza  degli antipodi  vi  hanno  tante  altre  verità  che  sono  state  pro- vate e  che  vengono  generalmente  ammesse,  quantunque —  299 a  priori  sembrassero  incredibili  perchè  aventi  contro  di sé  questa  specie  d'inconcepibilità  di  cni  parliamo.  La  ten- denza irresistibile  del  nostro  spirito  ad  obbiettivare  le nostre  sensazioni  porta  certamente  con  sé  un'inconcepi- bilità relativa  della  proposizione,  ammessa  nondimeno  da tutti  i  filosofi,  che  il  colore  e  le  altre  proprietà  sensibili  dei corpi  esistono  solamente  nel  nostro  spirito,  e  non  negli oggetti  esteriori.  Né  vi  ha  dubbio  che  la  tendenza,  ri- sultante da  questa  inconcepibilità  relativa,  ad  ammet- tere la  credenza  volgare  su  questo  soggetto,  e  non  la dottrina  filosofica,  non  sia  né  meno  forte  né  meno  na- turale che  quella  ad  ammettere  che  ogni  azione  tra  i corpi  é  per  contatto,  e  nessuna  a  distanza    l). (1)  Min  l)iasiiiia  Ilaiiiiltoii  di  aA^er  introdotto  un  toi'zo  si'uso «lolla  ])aTola  iiu*oiieei)il)ilità,  differente  al  tempo  stesso  da  quella elie  noi  abbiamo  chiamato  inconcepibilità  assoluta  e  da  quella che  ab)>ianio  chiamato  inconcepibilità  relativa.  Haìnilton  dice che  noi  non  j)ossiamo  «concepire  la  possibilità»  di  una  cosa, «[uando  non  possiamo  «concepire  la  cosa  come  il  conseguenti»,  di una  causa».  Tutte  le  verità  ultime  della  scienza,  tutti  i  l'atti ultimi,  sono  per  Hamilton  inconce})ibili  in  questo  senso,  che  per- ciò sembra  a  IMill  una  perversione  completa  del  significato  della parcda  :  noi  non  lassiamo  concepire  la  loro  possibilità,  ({uantun- «pie  siamo  obbligati  ad  ammetterli  come  fatti,  ]>erchè  non  pos- siamo concepirli  come  una  conseguenza  di  ([ualche  causa.  Ma questo  che  a  Mill  sembra  un  terzo  senso  deirinconcei)ibilità  ci pare  identico  al  «econdo  senso,  a  ciò  che  ablviamo  chiamato  in- concepibilità relativa.  Così  quando  Hamilton  dice  ehe  «  la  pos- sibilità dell'azione  a  distanza  è  ijiconcepibile,  quantunque  essa ]K)ssa  esserci  imyiosta  come  un  fatto  »,  egli  vuol  dire  certamente che  noi  non  possiamo  concepire  l'azione  a  distanza  come  la conseguenza  di  qualche  causa,  cioè  che  non  vi  ha  alcuna  causa ejfìcicnte  immaginabile  a  cui  V  azione  a  distanza  possa  venire attriì»uita  come  un  effetto.  Ma  dicendo  così  Hamilton  non  si allontana  dal  secondo  senso  della  parola  inconcepibile.  L'incon- cepibilità   relativa   dell'azione    a    distanza    e    l'assenza    di    una ^'^J —  300  — —  301  — Si  potrebbe  non  pertanto  cercare  di  giustificare  la pretensione  deli'  inconcepibilità  anche  relativa  ad  eri- gersi a  criterio  del  vero  e  del  falso  per  la  ragione  che una  necessità  del  pensiero  corrispondente  a  un'  incon- cepibilità rappresenta,  in  ultima  analisi,  il  risultato  del- l'esperienza: è  con  questa  ragione  che  Spencer  ha  pre- teso giustificare  il  criterio  dell'  inconcepibilità  della negativa,  che  per  lui  è  l'unico  criterio  della  verità.  Ma «bisogna,  dice  ottimamente  Bain,  tener  conto  pure  dì questa  circostanza,  che,  in  ragione  dei  limiti  della  nostra esperienza,  la  forza  del  legame  non  rappresenta  la  ri- petizione reale  dei  fatti,  a  meno  che  noi  non  fossimo posti  in  modo  da  incontrare  questi  fatti  tutte  le  volte che  si  producono.  Ciò  che  è  il  più  familiare  per  la  na- tura può  non  essere  ciò  che  è  il  più  fajiiliare  per  noi. Noi  non  consideriamo  sempre  l'universo  dall'alto  di  un punto  di  vista  centrale  e  dominante  »  (2).  Per  vedere  che ciò  che  è  il  più  familiare  per  la  natura  può  non  essere ciò  che  è  il  più  familiare  per  noi,  basta  confrontare  il gran  numero  di  fenomeni  d'  attrazione  che  conosce  la scienza,  col  piccolo  numerò  che  ne  può  conoscere  il  fan- ciullo e  l'uomo  senza  cultura.  Questi  si  riducono  quasi unicamente  all'  attrazione  esercitata  dall'ambra  e  dalla calamitata,  fenomeni  che  si  osservano  con  la  più  vìvsl curiosità,    perchè   riguardati  d'  una  natura  singolare  e causa  otìicieute  che  possa  farcela  coiiipreiulere,  uon  sono  che due  aspetti  d'uno  stesso  fatto.  Tutti  i  fatti  inesplicabili,  cioè di  cui  non  possiamo  ininia «binare  la  causa  efficiente,  sono  rela- tivamente inconcepiì)ili  ;  (ifiindi  tutti  i  fatti  uitimi  sono  relati- vamente inconcepibili.  Questo  fentuneno  psicologico,  che  ha  l'a- ria di  un  paradosso,  è  stato  ben  conosciuto  da  Bacone,  il  quale dice  clie  le  interpretazioni  della  natura,  all'opposto  delle  anti- cipazioni delV esperienza,  «  sembrano  strane,  incredibili,  malso- nanti  e  come  altrettanti  articoli  di  fede». * (2)   Lof/ica  t.  1.  Appendice,  D. assolutamente  eccezionale.  I  fenomeni  dell'  attrazione universale,  della  coesione,  dell'affinità  chimica,  per  non parlare  degli  altri  fenomoni  di  attrazione  dovuti  all'  e- lettricità  e  al  magnetismo,  non  contano  per  nulla  nel- r  esperienza  dell'uomo  che  si  limita  a  raccogliere  pas- sivamente le  impressioni  degli  oggetti  circostanti.  La frequenza  di  questi  fenomeni  nella  natura,  supposto  che essi  non  possano  ricondursi,  come  vogliono  i  msccanisti, all'azione  a  contatto,  non  sarebbe  inferiore  a  quella  dei fenomeni  d'impulsione  e  di  trazione:  tuttavia  l'inlluenza di  questi  ultimi  nel  determinare  le  associazioni  delle nostre  idee  resterebbe  sempre  estremamente  più  grande che  quella  dei  primi,  perchè  essi  sono  i  soli  che  ci  col- piscono ad  ogni  momento  nella  nostra  esperienza  gior- naliera. Quanto  le  nostre  necessità  di  pensare  e  le  no- stre inconcepibilità  (le  relative)  potrebbero  essere  diffe- renti, se  noi  fossimo  gli  spettatori  continui  delle  trasla- zioni dei  grandi  corpi  dell'universo  e  delle  piccole molecole,  come  lo  siamo  di  quelle  degli  oggetti  familiari che  ci  stanno  d'attorno  !  Allora  l'inconcepibilità  dell'a- zione a  distanza  potrebbe,  non  solo  disparire,  ma  anche essere  sostituita  da  un'  inconcepibilità  contraria,  cioè avente  per  oggetto  1'  azione  a  contatto.  Se  infati  noi ammettiamo  le  idee  della  fisica  moderna  sulla  costitu- zione molecolare  della  materia,  non  vi  ha  alcuna  con- tiguità reale  fra  le  parti  di  un  corpo  che  ci  sembra continuo:  la  contiguità  percepita  dai  nostri  sensi  non  è dunque  che  apparente  ;  ma  allora  ogni  contatto  tra  i corpi  potrebbe  essere  illusorio,  e  ogni  apparente  azione a  contatto  potrebbe  essere  in  realtà,  come  del  resto molti  fisici  credono,  una  azione  a  distanza.  La  teoria meccanica  è  stata  sottoposta  a  una  critica  fatta  coi  cri- teri della  filosofia  dell'  esperienza  nell'opera  di  Stallo La  materia  e  la  fisica  moderna  :  non  sarà  inopportuno di  citare  quest'  autore,  dopo  averne  citati  tanti  che  in-—  802  — culcano  i  principii  di  questa  teoria  come  verità  evidenti e  necessarie.   «  La  stessa  percezione,  egli   dice,    primi- tiva,    sommaria    ed    incompleta  dei  dati  dei  sensi  (che secondo  lui  ha  dato  luogo  air  ipotesi  della  solidità    as- soluta   della    materia   nei    suoi  elementi  costitutivi)  ha fatto  nascere  quest'altra  ipotesi  che  ogni  azione  fisica  è dovuta  a  un  urto.  La  sola  azione  mutua  tra  icorpi  che sia  direttamente  apprezzabile  dalla  vista  e  il  tatto,  è  il cangiamento  per  collisione  nel  loro  stato  di  riposo  o  di movimimento.  L'urto  è  dunque  la  più  antica  e  la  più  fa- miliare di  tutte  le  azioni  osservabili  di  un  corpo  su  di un  altro.  Quando  1'  urto  si  produce  tra  due   solidi    mo- ventisi  con  prestezze  differenti,  o  (ciò  che  è  lo  stessoì  tra un  solido  in  movimento  e  un  altro  solido  in  riposo,  l'os- servatore   ordinario  non  vede  niente  di  più  che  lo  spo- stamento d'un  corpo  per  l'altro  e  il  trasporto  diretto  di movimento.  Questo  spostamento  e  questo  trasporto  sono supposti    immediati,  e  i  corpi    sono    supposti    assoluta- mente  rigidi.    Ma  quost' osservazione  del  fatto  è  tanto grossolana  quanto  l'interpretazione  ne  è  inesatta.   Uno studio    più   attento  dei  fenomeni  mostra  che  non  vi  ha alcuno  spostamento  immediato;  che  non  vi  ha  trasporto diretto  di  movimento;  che  i  corpi  non  sono  assolutamente rigidi;  che  l'urto  dei  solidi,  semplice  in  apparenza,  forma tutta    una    serie    molto  complessa  di  circostanze,  com- prendente non  solo  1'  azione  e  la  reazione  diretta,   ma pure  la  compressione  e  l'espansione  alternativa,  la  ten- sione e  il  rilassamento  dei  legami  di  coesione  e  di  cri- stallizzazione,    la    trasformazione    dei  movimenti  retti- linei in  movimenti  vibratori,  dei  movimenti    di    trasla- zione in  movimenti  molecolari,  lo  spiegamento  e  1'  as- sorbimento dell'energia:  in  breve,  dei  cangiamenti,  mo- mentanei, se  non  durevoli,  di  tutte  o  quasi  tutte  le  pro- prietà dei  corpi  fra  i  quali  l'urto  si  produce.  In  presenza di    tutto   ciò,  che  domanda  la  teoria    atomo-meccanica, —  308  — parlando  di  non  ammettere  tra  i  corpi  altra  azione  mu- tua che  l'urto?  Essa  domanda  che  le  prime  impressioni rudimentarie  e  non  ragionate  del  selvaggio  senza  cultura siano  per  sempre  la  base  di  ogni  scienza  possibile»  (1). Ma  la  quistione  del  valore   dell'  inconcepibilità  (re- lativa) come  criterio  del  vero  e  del  falso  non  è,  nel  caso dell'azione  a  distanza  come  in  una  gran  parte  degli  altri casi,   che   un    aspetto  della   quistione    fondamentale    se la  nozione  di  causa  efficiente  abbia  o  no  un  valore  ob- biettivo.   Ciò  è  perchè    1'  inconcepibilità    (relativa)  e  la corrispondente  necessità  (pure  relativa)  di  pensare  non sono,  nel  caso  dell'azione  a  distanza  come  in  una  gran parte  degli  altri,  che  uno  degli  aspetti  di    questo   feno- meno del  nostro  spirito,  di  cui  il  concetto  di  causa  ef- ficiente è  l'espressione  astratta.  Perchè  intatti  l'azione a  distanza  è  inconcepibile?  Noi  abbiamo  visto  che   ciò è  perchè  non  vi  ha  alcun  legame  tra  l'idea  della  presenza di  un  corpo  o  di  un  suo  cangiamento  e  (|uella  di  un  can- giamento nello  stato  di  un  altro  corpo  distante  separato dal  primo  per  un  intervallo  vuoto;  mentre  vi  ha  invece un  legame  molto  forte  fra  1'  idea  del  movimento  di  un corpo  e  quella  di  un  altro  corpo  che,  mettendosi  in  con- tatto con  esso,  lo  spinga  o  lo  tiri  —  il  (juale  legame  se non  è  tale  da  determinare  un'inseparabilità  assoluta  tra le  due  idee  e  quindi  una  necessità  assoluta  di  pensare, basta    però  a  determinare    una   difficoltà  a  separare    le due    idee  e  quindi  una  necessità  relativa  di  pensare—. Ora  dire  che  non  vi  ha  alcun  legame  tra  l'idea  delPan- tecedente  e  quella  del  suo  convegnente  equivale  a  dire che  il  primo  non  è  considerato  4;ausa  efficiente   del    se- condo; come  dire  che  fra  l'idea  dell'antecedente  e  quella del  conseguente  vi  ha  un  forte  legame    che    determina una  necessità  di  pensare  equivale  a  dire  che   quest'  an- (1)  Stililo.    7j(i  tnaterid  e  la  ^fìsictt  moderna,  cai».  11. —  304  — tecedente  è  considerato  causa  efficiente.  Infatti  il  carat- tere distintivo  della  causa  efficiente  (che  la  differenzia dal  semplice  antecedente  di  una  sequenza  invariabile) è  appunto  il  leccarne  necessario  fra  la  causa  e  l'effetto, e  questo  non  può  essere  che  un  legame  mentale,  perchè nel  reale  stesso,  indipendentemente  dal  nostro  pensiero,, non  vi  ha  necessità  ne  possibilità,  ma  solamente  realtà. CAPO  IV. origine  e  sviluppo dell'idea  di  causa  efficiente §1.1  principi  su  cui  è  fondata  la  filosofia  meccanica costituiscono  la  prova  più  concludente  contro  la  teoria volizionale  della  causalità.  Poiché  l'  impulsione  è  na- turalmente anch'  essa  considerata  come  una  causa  effi- ciente, cade  og'ni  pretesa  di  considerare  la  volontà  come il  fatto  unico  che  ci  dà  la  percezione  della  causa  effi- ciente e  perciò  come  il  tipo  unico  di  questo  modo  di causazione.  Se  non  vi  fosse  che  un  fenomeno  unicoy come  pretende  la  teoria  volizionale,  a  cui  gli  uomini attribuissero  il  carattere  di  causa  efficiente,  all'opposto di  tutte  le  altre  cause,  che  verrebbero  semplicemente riguardate  come  gli  antecedenti  di  sequenze  invariabili, non  sembrerebbe  forse  tanto  incalzante  la  quistione  : quale  sia  questo  carattere  essenziale  che  si  trova  in  questa sequenza  unica,  il  cui  antecedente  è  una  causa  efficiente, e  non  si  trova  nelle  altre  sequenze,  i  cui  antecedenti non  sono  cause  efficienti.  Ma  giacché  noi  conosciamo più  sequenze  di  diversa  specie  in  cui  si  manifesta  que- sto rapporto  di  efficienza  causale,  noi  vediamo  subito che  deve  trovarsi  egualmente  in  tutte  queste  sequenze una  circostanza  comune,  per  cui  esse  si  distinguono dalle  altre  sequenze  in  cui  non  si  manifesta  alcun  rap- 20 #::porto  di  efficienza  causale.  Si  sarà  forse  contenti  di  dire che  <iuesta  circostanza  comune  che  si  trova  nelle  prime sequenze  e  non  si  trova  nelle  sei-onde,  è  appunto  ((uesto carattere  o  questo  complesso  di  caratteri,  i)er  cui  la  no- zione di  causa  efficiente  si  distingue  da  quella  di  sem- plice antecedente  di  una  sequenza  invariabile?  Ma  questi caratteri  sono  puramente  lìsicologici:  essi  non  apparten- o-ono  alle  sequenze  considerate  obbiettivamente,  ma  con- siderate rapporto  al  sog-getto  conoscente;  in  altri  termini essi  sono  delle  circostanze  che    accompaonano    non    le sequenze  stesse,  nia  le  nostre  concezioni  di  queste   se- quenze. Queste  circostanze,  come  abbiamo  detto,  si  ri- ducono alle  tre  seguenti:  !"•  La  causa  efficiente,  si  dice, all'opposto  di  un  semplice  antecedente  di  una  sequenza invariabile,  ha  con  Teffetto  un  rapporto  necessario.  Ciò si2-nifìca  ch(5  quando  noi  concepiamo  una  sequenza    in- variabile  di  cui  consideriamo  l'antecedente  come  causa efficiente,  la  nostra  concezione  è  accompagnata  da  un certo  sentimento  di   necessità,    sentimento    che    manca net'-li    altri    casi.  Ora  la  necessità  non  consiste  in  altra cosa  che  in  un  forte  legame  tra  le  nostre  idee,  legame di  cui  la  forza  è  tale  nei  casi  estremi,  cioè  (|uando   la necessità  è  assolata,  da  rendere  le  idee    assolutamente insepara])ili  :  la  necessità  dunciue,  ch'essa  sia  assoluta 0  relativa,  non  è  che  un  fenomeno  mentale;  la  sua  pre- senza o  la  sua    assenza   non  è  un    carattere    distintivo delle  cose,  ma   delle  idee  di  queste    cose.  2*>  Una  legge della  natura,  una  se(iuenza  invariabile  tra  fenomeni,  di cui  Tantecedente  è  considerato  causa  efficiente,  ci  sembra intelligibile  ed  evidente  per  se  stessa:  le  altre  leggi,  cioè le  altre  se(pienze  iuvaria))ili,  ci  sembrano  incomprensibili ed  ines[)licabili,  sinché  almeno  non  siano  state  ricondotte alle  prime.  Ora  la  comprensibilità  e  l'incomprensibilità non  sono  anch'esse  se  non  fenomeni  mentali:  togliete  il soggetto  intelligente,  e  non  vi  sarà  più  differenza    tra  il comprensibile  e  l'incomprensibile.  III.  Noi  abbiamo  una tendenza  a  credere  che  le  sequenze,  il  cui  antecedente è  considerato  come  causa  efficiente,  sono  delle  conoscenze puramente  razionali,  cioè  a  priori  :  che  questa  apriorità sia  reale  o  illusoria,  si  tratta  sempre  d'un  carattere  sub- biettivo,  appartenente  alle  nostre  concezioni,  e  non  alle cose  concepite.  Così  tutti  i  caratteri,  che  l'analisi  della nozione  di  causa  efficiente  può  fornirci  per  distinguere  le sequenze  invariabili  di  cui  1'  antecedente  è  consideratocausa  efficiente,  dalle  altre  sequenze  invariabili,  non consistono  che  in  un'impressione  determinata  che  le prime  fanno  sul  nostro  spirito  a  differenza  delle  seconde: ora  non  dobbiamo  noi  ammettere  che  questa  differenza di  effetti  mentali  abbia  un  perchè  nelle  sequenze  stesse, cioè  che  vi  sia  una  circostanza  determinata,  che  trovan- dosi nelle  prime,  e  non  trovandosi  nelle  altre,  fa  che solo  le  une  a  differenza  delle  altre, siano  proprie  a  pro- durre nel  nostro  spirito  tali  effetti  determinati  ?  Cer- chiamo questa  circostanzza  comune  nei  due  gn-andi  tipi di  efficienza  causale  che  ci  presenta  la  storia  del  pensiero, vale  a  dire  l'azione  volontaria  e  la  comunicazione  del movimento  per  l'impulsione. Se  astrazion  facendo  dai  caratteri  puramente  men- tali, cioè  la  intelligibilità,  la  necessità  e  l'apriorità,  vera 0  supposta,  del  rapporto  tra  la  causa  e  l'effetto,  noi  cer- chiamo in  che  la  volontà  e  l'impulsione,  come  cause  del movimento,  differiscono  dalle  altre  cause,  che  sono  con- siderate, non  come  cause  efficienti,  ma  come  semplici condizioni  o  antecedenti  a  cui  il  movimento  segue  inva- riabilmente, noi  non  troviamo  che  una  circostanza  co- mune per  cui  le  prime  si  distinguono  dalle  altre:  la  pro- duzione del  movimento  per  la  volontà  o  per  l'impulsione sono  delle  sequenze  regolari  di  fenomeni,  in  cui  non può  scoprirsi  niente  di  più  che  nelle  altre  sequenze  re- golari di  fenomeni;  semplicemente  esse  ci  sono  assai  più —  308  — familiari  che  tutte  le  altre,  questa  è  tutta  la  differenza. Questi  modi  di  produzione  del  movimento  possono  nella natura  non  avere  più  importanza  degli  altri,  essi  pos- sono essere  anche  dei  fenomeni  rari  ed  eccezionali;  ma per  la  nostra  esperienza  di  tutti  i  giórni  essi  costitui- scono la  regola,  noi  siamo  infinitamente  più  abituati  ad essi  che  a  tutti  gli  altri.  È  per  questa  grande  familia- rità che  l'azione  volontaria  e  l'azione  meccanica  ci  sem- brano intelligibili  in  se  stesse,  e  tali  da  non  aver  bi- sogno di  spiegazione  e  da  poter  servire  anzi  di  spiega- zione a  tutti  gli  altri  fenomeni  della  natura. Una  sequenza  di  fenomeni,  che  ci  è  molto  familiare, ci  sembra  spiegarsi  da  se  stessa;  noi  non  ne  domandiamo il  perchè,  poiché  essa  sembra  portare  in  se  stessa  la sua  ragion  sufficiente  (1):  in  quanto  alle  altre  sequenze, noi  sentiamo  il  bisogno  di  spiegarle,  e  come  ?  assimi- landole e  riconducendole  a  quelle  che  ci  sono  molto familiari;  se  quest'  assimilazione  ci  è  impossibile,  esse ci  sembrano  inesplicabili  e  misteriose.  Non  vi  ha  forse un  fenomeno  psicologico  più  importante  per  la  teoria della  conoscenza  e  per  la  intelligenza  della    storia    del pensiero. Non  bisogna  credere  che  T  atto  volontario  e  l'  im- pulsione siano  i  soli  fenomeni  intelligibili  e  che  portano in  se  stessi  la  propria  spiegazione:  tutti  i  fenomeni  fa- miliari sono  tali,  solamente  non  ve  n'è  alcun  altro  che sia  proprio  come  i  due  primi  a  servire  da  intermediario esplicativo  universale  per  gli  altri  fenomeni.  Noi  abbiamo visto  che  delle  forme  dell'attività  interiore  dello  spirito, (1)  «  Assiduitate  «iiiotidiaua  et  oonsuetiiaine  ociiloruni  as- suesciiiit  animi:  iieque  adniirantur,  ncque  requirunt  rationes  earuni rerum  quas  semper  vident.  perinde  (luasi  novitas  non  magm quam  magnitudo  rerum  debat  ad  exquirenda8  cau.sas  excitare  ». Cicero  De  Natura  deorum.  II,  95. -   309  — come  l'attività  costruttrice  dell'immaginazione  e  l'atti- vità razionale  che  lega  le  conclusioni  alle  premesse, sembrano  anch'esse  dei  fenomeni  intelligibili,  in  cui  i  con- seguenti hanno  con  gli  antecedenti  una  connessione  evi- dente e  naturale,  e  che  l'intelligibilità  che  troviamo  in questi  fenomeni  è  la  base  di  una  spiegazione  del  mondo (l'idealismo).  Or  è  chiaro  che  tali  azioni  interne  dello  spi- rito non  sono  meno  familiari  che  la  sua  azione  esterna  sul mondo  dei  corpi,  e  che  noi  possiamo  perciò  attribuire  an- che in  questi  casi  l'intelligibilità  del  fenomeno  alla  sua familiarità.  In  quanto  alle  azioni  puramente  fisiche,  ri- cordiamo che  Locke  trova  la  divisione  di  un  corpo  per la  intrusione  di  un  altro  un  fatto  cosi  intelligibile  come l'impulsione  (1):  anche  qui  la  familiarità  del  fenomeno spiega  perfettamente  la  sua  intelligibilità.  La  trazione, che  tra  le  azioni  fisiche  è  pure  una  di  quelle  che  ci  sono più  familiari,  non  ci  sembra  anch'essa  meno  intelligibile dell'impulsione,  nò  meno  capace  di  servire  da  interme- diario esplicativo.  Se  potessimo  supporre, come  dice  Eule- ro (2),  che  il  sole,  per  attirare  la  terra,  si  serve  di  una corda  o  di  alcun  altro  dei  mezzi  di  cui  noi  ci  serviamo per  tirare,  ovvero,  come  dice  Galileo,  (3)  che  ciò  che  ob- bliga la  luna  a  seguire  la  terra  è  che  questi  due  globi sono  legati  insieme  con  una  catena  o  infilzati  ad un'asta (ammettendo,  come  i  primi  astronomi,  che  i  movimenti dei  corpi  celesti  siano  circolari);  è  certo  che  queste  sup- posizioni,  se  esse  fossero  possibili,  spiegherebbero  i  fe- nomeni dell'attrazione  d'una  maniera  non  meno  Intelli- (1)  V.  e.  Ili  ^  :^. (2)  V.  e.   Ili  ^  4. (8)  Didloghi  sui  mussiìni  sisteìuì,  giornata  terza,  nota  1 — n;;ta importante    in    cui    Galileo,    precorrendo    Xewton,    ideutitica  al peso  dei  corpi  terrestri    l'attrazione  che  la  terra  esercita  vei;so la  lumi — . 310 gihile  che  l'ipotesi  deirimpulsione  di  corpuscoli  invisibili. La  coesione  non  sarebbe  spieg-ata  meno  intelligìbilmente, se  potessimo  supporre,  come  dice  il  p.  Secchi  (1),  dei  le- gami materiali  fra  le  molecole,  o  se  l'atomistica  moderna potesse  ammettere,  come  l'antica,  che  i  corpi  solidi  sono costituiti  di  atomi  terminanti  ad  uncini,  che  s'intralciano gli  uni  negli  altri;  noi  comprenderemmo  allora  perfetta- mente perchè,  spostando  alcuna  delle  parti  costitutive  di un  solido,  tutte  le  altre  devono  seguirla.  Lo  stesso  sarebbe se  potessimo  annnettere  che  questo  solido  è  realmente  con- tinuo, e  non  costituito  di  molecole  separate,  come  vuole la  fìsica  moderna;  anche  allora  cesserebbe  di  essere  un mistero  perchè  tutte  le  altre  parti  costitutive  del  corpo siano  obbligate  a  seguire  quelle,  che  qualche  forza esteriore,  ad  esse  applicata,  ha  per  effetto  immediato  di muovere.  La  coesione  non  è  un  mistero  che  nell'ipotesi delle  molecole  separate;  essa  è  perfettamente  intelligibile in  quella  della  continuità  assoluta  :  perchè  ?  perchè una  simile  azione  esercitata  tra  masse  separate  non  è per  noi  un  fatto  familiare,  mentre  è  un  fatto  familia- rissimo,  esercitata  tra  le  parti  di  una  massa  continua. É  perciò  che  il  meccanista  sente  il  bisogno  di  spie- gare la  coesione  tra  le  particole  che  costituiscono  un corpo  sensibile,  ma  non  sente  alcun  bisogno  di  spiegare la  coesione  tra  le  parti  che  costituiscono  un  atomo  : egli  considera  quest'ultima  come  un  fatto  perfettamente intelligibile  e  che  si  spiega  da  se  stesso,  perchè  tali  ci sembrano  i  fenomeni  che  ci  sono  molto  familiari,  e  la coesione  tra  le  parti  di  un  continuo  è  uno  di  questi fenomeni.  Notiamo  che  il  mistero  che  la  teoria  della costituzione  molecolare  dei  corpi  introduce  nella  coe- sione, si  estende  necessariamente  anche  alle  due  altre azioni  tisiche  che   per    l'intelligibilità  abbiamo  parago- (1)  V.  e.  Ili  v^  5. -  811   — nate  all'impulsione,  cioè  la  trazione  e  la  divisione  di un  corpo  per  l'intrusione  di  un  altro,  per  il  rapporto che  questi  fenomeni  hanno  con  la  coesione  -  Oltre  la coesione  tra  le  parti  dell'atomo,  vi  ha  un  altro  fenomeno indipendente  dairimi)ulsione  che  l'antica  hlosotìa  mec- canista ammette  come  primitivo,  cioè  come  intelligibile per  sé  stesso,  e  non  aveste  bisogno  di  spiegazione  :  è, lo  abbiamo  già  detto,  il  peso  (1),  fenomeno  che  forniva ad  Epicuro  la  spiegazione  dell'origine  prima  del  mo- vimento. Che  un  corpo  debba  cadere  all'ingiù,  (piando non  vi  ha  niente  che  lo  trattenga,  è  un  fenomeno  dei più  familiari,  e  perciò  sem])rava  ai  meccanistì  greci una  cosa  perfettamente  naturale  e  che  si  com[)rende  da (1)   (Pulite  (lice:   «   .,   i  farti  più  s<Miipli«i  e  inù  (mhiiuiiì   som» 8tati    sempre    riuuanhiti    (-(Miie    soo^etti  a  le>^i;i  natnnili   iiiveee d'essere  attrilmiti    alhi    volontà    arbitraria  «le-li   a-vuti   sopraìi- naturali.  L'illustre  A.   Smith   lia    p.   e.   molto   telireineiite   (»sscr- vato,  liei  suoi   sao-.-i  lìlosoliei.  elu^  non  si  trovava,  il.  aleuu  tempo lu'  iu  aleuu  paese,   iiu   dio  per  il  i^^so.    K  eosì    in    -«^uere,    anche a  ri-'uardo  dei   so.i^'-etti    pili    complicati,    verso    tutti    i   l'encuueui assa^  eleiueutari  e   assai  familiari  i»erche  la  i>ertetta  invariabilità delle  loro  relazioni  ettettive  abbia  dovuto  sempre    c<»lpire  sikmi- tjmeameute  l'osservatore  meno  iu-ei»arato  »,    (%>mte    conclude  da questo  fatto  «  che  il   -erme    «dcnuMitare    della    tìlosoiia     positiva è  certamente  così  primitivo    al    ton(h)  che  ([uello   della    tib)s<»1ia teido-ica  stessa,   quautumiue    uou    abì)ia   i)otuto  svilupparsi   che ìmdt(M)iii  tardi»,  [Cor^o  dì  p.  posit.  v.  IV,  le/.   Tìl).  Sarebbe  forse invece  più  "iusto  di   vedervi  non  il  -«M-me  «Iella  filosofia  iM^sitiva. ma  piuttoslo  «tiiello   di  una    lilosolia  d'un'indole  opposta,  ed  es- senzialmente identica  alla  tilosolìa  tc^do-ica  nel  suo  ininci]no  fon- damentale,  che  è  di  mm  <-ontentarsi   dei  rai^porti   -cnerali   tra  i fenomeni,    ma   di    cercarne   //  mo(h    rssn^-ialr  tii   in-nduzioiie.   se- guemhMinesta  tendenza  del   nostro  spirito,   per  cui  <-rediamo  na- turalmente che  i   fatti  i)iii  familiari   si  comprendono  da  se  stessi, e  che  tutto  il  resto  deve  essere  s]ne.oa.to  i»er  mezzo  di  (luesti  fatti. mmmtmmBmemmmmmtm •se  stessa  :  a  noi  sembra  invece  un  fenomeno  per  se  stesso incomprensibile,  e  che  ha  bisogno  d'  un  intermediario esplicativo,  perchè  la  scienza  moderna  l'ha  ricondotto all'attrazione  universale,  che  è  un  fenomeno  che  non  è per  niente  familiare  (1). §  2.  I  rappresentanti  più  insigni  della  filosofìa  em- pirista hanno  perfettamonte  compreso  quest'  importante fenomeno  psicologico.  Bain  dice  :  «  I  fenomeni  che  ci  sono familiari  ci  sembrano  non  aver  bisogno  di  spiegazione *e  anche  poter  servire  alla  spiegazione  di  tutti  i  fatti  che possono  loro  essere  comparati».  «L'azione  volontaria, in  ragione  della  sua  familiarità,  è  stata  lungo  tempo riguardata  come  si  semplice,  che  serviva  per  ispiegare tutte  le  altre  azioni  »  ^2).  E  altrove  :  «  E  perchè  il  peso non  può  essere  assimilato  all'impulsione  prodotta  da  un urto,  da  un  colpo,  che  si  è  disposti  a  considerarlo  come misterioso.  In  fatto  nondimeno  non  vi  ha  più  mistero •da  un  lato  che  dall'altro.  L'attrazine  a  srrandi  distanze   111  verità  .  prima  ancora  the  il  peso  venisse  ricondotto all'attritzionc  universale,  esso  avea  ^ià  cessato  di  essere  il  feno- meno familiare  della  nostra  es])crienza  «giornaliera.  Quando  si con«)bbe  clic  i  gravi  non  cadono  (iWingih,  ma  verso  il  centro della  terra,  il  peso  cominciò  a  divenire  incomprensibile,  perchè noi  non  siamo  familiari  che  col  fatto  che  i  corpi  cadono  all'in- giù,  cioè  nella  direzione  dalla  Jiostra  testa  ai  nostri  piedi  :  la inconcepibilità  dc<;li  {nitijMMli  si  riduceva  al  fondo  alla  inconi- prensil)ilità  di  <piesto  fatto  che.  in  quel  lato  del  globo,  i  gravi invece  di  diseeiulere  dovevano  salire  (cioè  andare  nella  dire- zione dai  nostri  piedi  alla  nostra  testa),  c<»iitrariamente  alle nostre  esperienze  più  familiari.  Così  la  tendenza  a  spiegare  nieccanicamente  il  jk'so  e  anteriore  alla  scoverta  deirattrazione universale,  perchè  anche  prima  di  questa  scoverta  il  jieso  era già  divenuto  incomprensiliile  per  se  stesto,  benché  non  così  mi- sterioso come  dopo. (2)  Hain  Lof/ica,  t.  2.   I.  'A.  e.   12,   n.   h). è  una  forma  della  produzione  della  forza;  la  repulsione a  distanze  vicine  ne  è  un'altra  forma.  L'ultima  ci  è  più familiare:  ecco  tutto»  (1).  Stuart  Mill  nel  capitolo  della Logica  che  ha  per  titolo  Spiegazione  delle  leggi  della  ria, tura,  dopo  aver  mostrato  che  spiegare  un  fatto  partico- lare è  stabilire  la  legge  o  le  leggi  di  causazione  di  cui la  sua  produzione    è   uno  dei  casi,  e  che  spiegare  una legge  della  natura  è  indicare  un'altra  o  delle  altre  leggi, di  cui  essa  non  è  che  un  caso  particolare,  e  da  cui  essa potrebbe  dedursi,  dice  :   «  La  parola  spiegazione  è  qui presa  nel  suo  senso  filosofico.  Spiegare  una  legge  della natura  per  un'altra  è  solamente,  come  suol  dirsi,  sosti- tuire un  mistero    ad    un    altro  ;  il  corso   generale  della natura  non  ne  resta    meno    misterioso,   perchè  noi  non possiamo   di    più    assegnare  un  perchè   alle    leggi    più generali  che  alle  leggi  parziali.  La  spiegazione  può  ìnet- tere  un  mistero  divenuto  familiare  e  che  per  conseguenza sembra   non  essere  più  un  mistero,  al  posto  di  un  altro che   è   ancora   strano  per    noi-,  e   nel  linguaggio  usuale questo  é  tutto  ciò  che  s' intende  per  ima  spiegazione.  Mail processo  di  cui  si  tratta  qui  fa  spesso  tutto  il  contrario; esso  risolve  un  fenomeno  che  ci  è  familiare  in  un  altro che  noi  conosciamo  poco  o  punto;    come  p.  e.    allorché il  fatto  volgare  della  caduta  dei  corpi  pesanti  è  ridotto alla  tendenza  di  tutte  le  molecole  materiali  le  une  verso le  altre.  Bisogna  dunque  non  mai  perdere  di  vista  che quando,  nella  scienza,  si  parla  di  spiegare  un  fenomeno, ciò  vuol  dire  (o  dovrebbe  voler  dire)  assegnare  a  questo fine,  non  un  fenomeno  più  familiare,  ma  solamente  un fenomeno  più  generale,  di  cui  il  fatto  a  spiegare  è  un esempio  parziale,  ovvero  alcune  leggi  di  causazione  che lo  producono  per  la  loro  azione  combinata  o  successiva, e  per  le  quali,  per  conseguenza,  le  sue  condizioni  pos- (1)  L.  3,  e.  XII.  7. —  314  - sono  essere  deduttivaiiiente  determinate  ».— Osserviamo che  la  spiegazione  metafisica  (cioè  quella,  non  solo  dei metafisici,  ma  anche. di  quei  fisici  che  sono  sordi  al- l'ammonimento di  Newton  :  Fisica,  guardati  dalla  me- tafisica !)  è  una  spiegazione,  non  nel  senso  filosofica (cioè  scientifico),  ma  nel  senso  popolare,  come  la  causa- lità metafisica  non  è  il  concetto  scientifico,  ma  il  con- cetto popolare,  della  causalità  — . Stuart  Mill  non  ha  mancato  di  assegnare  quest'ori- o-iiie   alla  teoria  volizionale  della  causalità  e  alla  spie- gazione   del    mondo    che    corrisponde    a    questa  teoria, tl.a  successione  del  volere  e  del  movimento,  egli  dice, è  una  delle  sequenze    più    dirette  e  più  istantanee  che ci  oft'ra  l'osservazione,    e    di    cui    Tesperienza  ad   ogni istante  ci  è  familiare  sin  dall'infanzia,  più  familiare  che alcuna    successione    d'avvenimenti    esteriori    al    nostro corpo  e  sovratutto  che  alcun  altro  caso  d'apparente  ge- nerazione (e  non  di  semplice   comunicazione)  di    movi- mento.   Ora  è  una    tendenza    naturale    dello    spirito   di cercare  a  facilitarsi  la  concezione  dei  fatti  che  non  gli sono    familiari   assimilandoli    ad    altri  che  lo  sono.  Per conseguenza,  i  nostri    atti    volontari  essendo    per  noi  i casi  di  causazione    più    familiari  di  tutti,  sono  sin  dal- l'infanzia   e    nella  gioventù    presi    spontaneamente  per tipi  della  causazione  in  generale,  e  tutti  i  fenomeni  sono supi)Osti  prodotti  direttamente  dalla  volontà  di  qualche essere  senziente  >.  Questa  tendenza  spontanea  dell'intel- ligenza, continua    il    Mill,    a    spiegarsi  tutti    i    casi  di causazione    assimilandoli    agli    atti    d'agenti    volontari simili    all'uomo,    costituisce    la    filosofia  istintiva   dello spirito  umano    nella    sua    prima  fase,   prima  che  si  sia familiarizzato  con  le  successioni  invariahili  tra  i  feno- meni esteriori  ;    e    anche    dopo,    «  le    suggestioni  della vita  di  tutti  i  giorni   essendo  più  forti  che  quelle  della riflessione    scientifica,    la    filosofia    instintiva   originale tìiàsmssài^^a^mem 315  — conserva  il  suo  terreno  sotto  i  rampolli  ottenuti  dalla coltura,  e  li  impedisce  costantemente  di  radicarsi  profon- damente nel  suolo.  È  di  questo  substratum  che  si  ali- menta la  teoria  che  io  combatto  (cioè  la  teoria  secondo la  quale  «  la  produzione  d'un  avvenimento  per  causa di  una  volizione  porta  con  sé  la  sua  spiegazione,  nuMitre l'azione  della  materia  sulla  materia  esige  qualche  cosa di  più  per  essere  spiegata,  e  non  è  concepibile  che  sup- ponendo l'intervento  di  una  volontà  tra  la  causa  ap- parente e  il  suo  effetto  apparente»).  La  sua  forza  non risiede  negli  argomenti,  ma  nella  sua  alleanza  con  una tendenza  tenace  dell'infanzia  dello  spirito   umano»  (l). (1)  Lo<z:.  1.  :^,  (-'iip.  5,  pjinigr.  J).— In  queste  parole   di    Mill, ili  cui  si  sente  l'intluenzji  della  teoria  dei  tre  stati  di  A.  C'onite, teoria  a  cui  il  iìlosofo  inglese  aderisce,  vi  hanno  delle  asserziimi che  non  mi  sembrano   vere   se  non   ristrette  dentro  certi  limiti. Il  Mill  parhi  di  ([uesta  tendenza  ad  assimilare  i  fenomeni  della natura  ai  nostri  atti   volontari,  e  a  credere  che  quest'assimila- zione costituisce  la  spiegazione  <li  <iuesti  fenomeni,  come  se  essa fosse  propria  particolarmente  dairinfanzia    dello    sjnrito   umano (sia  nella  vita  della  specie  che  in  (piella  dell'individuo).  h>  non so  se  <iuesta  tendenza  sia  più  forte  nella  nostra  infanzia  e  nella nostra  gioventù    che    nella    nostra  età  matura  ;   ma  ^  certo  cho essa  si  manifesta  con  più  energia  nei  primi  stadi  della  civiltà, energia  che  i  progressi  della  coltura  hanno    per    eftetto   d'inde- l)olii-e.    Ciò    non    pertanto    non    hisogna  concluderne  che  questa tendenza  sia  particolarmente  propria  di  un  grado  piuttosto  che di  un  altro  dello  sviluppo  dello  si)irito  umano;  essa  non  e,  come ammette  il  Mill,    che    un    caso    della    tendenza    generale  che  ci ^i)in<'-e  ad  assimilare  i  fatti    che    non  ci  sono-  familiari   a  quelli 1 che  lo  sono,  e  a  credere    che    quest'assimilazione   costituisce  la spiegazione  di  questi  fatti,  spiegazione  che  è  la  sola  che  possa farceli  conqu-endere;  ora  non  vi  ha  motivo  per  ammettere  che (piesta  tendenza  generale  apjiartenga  i>articolarmente  all'  infan- zia dello  spirito  umano,  e  manchi,  o  vada  indeholendosi,  nella sua  maturità.  I  progressi  della  coltura  possono  avere  i)er  risul-   .X'    .VI'" Bacone  aveva  anch'egli  insistito  su  questa  apparente intelligibilità    dai    fatti    familiari  e  la   tendenza  a  spie- tato di  neutralizzare  questa  tendenza  nei  suoi  effetti,  ma  la tendenza  stessa,  malgrado  tutto,  persiste  e  persisterà  sempre  in tutta  la  sua  forza,  essendo  un  fatto  naturale  e  inevitabile  dello spirito  umano.  Un  filosofo  può  ben  segnalare  questo  fatto  come un'illusione  naturale;  egli  non  può  sottrarre  il  suo  spirito  a quest'impulso  istintivo,  quantunque  possa  riconoscere  che  sa- rebbe un  errore  il  seguirlo,  come,  per  usare  il  paragone  di  Kant, l'astronomo  stesso  non  ])uò  imi)edire  che  la  luna  gli  sembri  più grande  al  suo  levarsi,  benché  egli  non  sia  punto  ingannato  da quest'apparenza  —  Vi  ha  un'altra  affermazione  di  Mill  che  noi non  possiamo  aujmettere  iu  tutta  la  sua  generalità  :  è  che  l'atto volontario  viene  preso  spontaneamente  come  tipo  unico  della causazi(Mie  in  generale.  Se  Comte  pensava  così  (quantunque  an- ch'egli,  come  abbiamo  visto,  fosse  costretto  ad  ammettere  delle eccezioni  alla  sua  regola)  è  perchè  egli  ignorava  l'origine  della spiegazione  rolieionale  dei  fenomeni,  vale  a  dire  questa  tendenza naturale  del  nostro  spirito  a  spiegare  i  fenomeni  che  non  ci sono  familiari,  assimilandoli  a  quelli  che  lo  sono.  Ma  Mill  che conosceva  assai  bene  questo  fatto  psicologico,  non  avrebì)e  do- vuto ripetere  Comte;  tanto  più  che  egli  afferma,  contro  la  teo- ria volizionale  della  causalità,  che  delle  successioni  j)uramente fisiche  e  materiali,  se  esse  sono  divenute  familiari  al  nostro spirito,  vengono  anch'esse  considerate  come  perfettamente  na- turali, e  lungi  d'aver  bisogno  di  spiegazione,  servono  alla  spie- gazione delle  altre,  e  anche  alla  spiegazione  ultima  delle  cose in  generale.  I  Greci  potevano,  egli  dice,  nell'assimilazione  di fatti  tìsici  ad  altri  fatti  tìsici  trovare  la  specie  di  soddisfazione mentale  che  produce  ciò  che  noi  chiamiamo  una  spiegazione, soddisfazione  che,  secondo  i  fautori  della  teoria  v(dizionale, noi  non  potremmo  procurarci  ora  che  rapportando  i  fenomeni  a una  volontà.  L'umido,  l'aria  o  i  numeri  (Talete,  Anassimene,  i Pitagorici)  avevano  sulla  loro  intelligenza  assolutamente  la  stessa virtù  di  loro  rendere  intelligibile  quello  che,  senza  di  ciò,  era per  loro  inconcepibile,  e  davano  la  stessa  soddisfazione  ai  bi- sogni   della    loro    facoltà    pensante.  Quantunque    questi   esempi hln«««tMÉ6twii»j.>->.>..«,. ..^„„.^,^,  ^,^„ i -  317 gare  tutti  gli  altri  fatti  assimilandoli  ad  essi  ;  e  non  è questo  il    minore  dei    suoi  titoli  per    esser   nominato  il non  ci  sembrino  bene  scelti  (perchè  l'umido  o  l'aria  erano  con- siderati come  il  sustrato  permanente  delle  cose  e  non  come  la ragion  sufficiente,  o  la  causa  efficiente,  degli  avvenimenti,  e  in quanto  ai  numeri  pitagorici,  non  si  vede  in  che  essi  potessero essere  utili  alla  intelligenza  dei  fenomeni)  ciò  non  toglie  nondime- no che  la  proposizione,  che  essi  servono  ad  appoggiare,  non  sia perfettamente  vera.  Il  Mill  va  anche  sino  a  considerare  come un  fatto  accidentale  e  individuale,  e  non  come  un  fatto  neces- sario e  generale  dello  s[)irito  umano,  (questa  capacità  che  si trova  neir  azione  volontaria  a  spiegare  i  fenomeni  che  possono esserle  assimilati  e  a  fjirceli  parere  più  intelligibili.  Dopo  aver parlato  di  Leibnitz,  il  quale  «  lungi  di  ammettere  che  la  volontà sia  la  sola  specie  di  causa  avente  l'evidenza  interna  della  sua efficacia,  e  ch'essa  sia  il  legame  reale  tra  gli  antecedenti  e  i conseguenti  tìsici,  voleva  qualche  antecedente  tìsico,  natural- mente e  per  se  efficiente,  per  servire  di  legame  tra  la  volizione stessa  e  i  suoi  eftetti  »,  e  dei  cartesiani,  a  cui  sembrava  incon- cepibile l'azione  dello  spirito  sulla  materia,  e  che  lu-etendevano che  fosse  inqjossibile  che  un  fatto  materiale  e  un  fatto  mentale potessero  essere  causa  l'uno  dell'altro,  conclude:  «L'inconcepi- bile o  il  concepibile  ò  una  circostanza  tutta  accidentale,  e  che dipende  interamente  dalle  esperienze  e  dalle  abitudini  di  pen- sare degli  uomini  :  degl'individui  possono,  per  conseguenza  di certe  associazioni  d'idee,  essere  incapaci  di  concepire  una  data cosa  qualunque,  e  divenire  in  seguito  capaci  di  concepire  molte cose,  per  quanto  inconcepibili  avessero  potuto  sembrare  dai>prima; e  gli  stessi  fatti  che  per  una  persona  determinano  nel  suo  s]>i- rito  ciò  che  è  concepibile  o  no,  determinano  jmre  quali  sono nella  natura  le  sequenze  che  gli  parranno  sì  naturali  e  idausi- bili  che  non  hanno  bisogno  d'altra  prova  che  l'evidenza  <lella loro  luce  propria  indipendentemente  da  ogni  esperienza  e  da, ogni  spiegazione  »  (e  tali  i>erciò  da  poter  fornire  gl'intermediari esplicativi  alle  altre  sequenze).  Non  vi  ha  regola  di  decidere fra  una  teoria  di  questo  genere  e  un'altra  ;  ciascun  teorico  fa- cendo appello  ai  suoi  sentimenti  subbiettivi  ;  ciascuno  elevando 318 padre  della    filosofìa    empirista.    «Quando  (gli    uomini) incontrano  dei  fatti  rari,  essi  vogliono,  egli  dice,  asse- ti leg^o  (leiriutelli«^oiiza  umana  e  della  natura  la  successione particolare  di  fenomeni  che  «ili  sembra  più  concepibile  e  più naturale  delle  altre,  solo  percll^  <^li  è  la  più  familiare.  {Lo- (jtca,  l.  8.  ca}).  5,  jiara^r.  \)).  Similmente  altrove,  parlando  della nmssima  che  una  cosa  non  ]>uò  a«;ire  dove  non  è.  e  della  pre- tesa assurdità  dell'azione  a  distanza,  che  impedì  allo  stesso Newton  di  ammettere  la  pravità  come  una  ju'oprietà  essenziale della  materia,  dice  :  11  fatto  dell'azione  a  contatto  «  pareva naturale  e  affatto  semplice  a  Newton,  perchè  era  familiare  alla sua  immatrinazione,  mentre  l'altro  per  la  ragione  contraria  "li semlu-ava  tropjM»  assurdo  per  essere  ammesso.  Noi  siamo  fami- liarizzati con  l'uno  e  l'altro  fatto  :  noi  li  trovijimo  eguabnente inesplicabili,  ma  egualmente  facili  ;i  credore  ».  {Lofjica,  l.  V. e.  'ò.  paragr.  8.  Cfr.  il  mio  S(if/f/io  i."  pag.  548-."i41M.  Sonc»  altre affermazitmi  che  non  possiamo  jimmettere  senza  fare  delle  ri- serve. La  concepibilità  o  la  inconceinbilità  di  determinate  pro- posizioni, r  apparente  intelligibilità  o  inintelligibilità  di  deter- minate successioni  di  fenomeni,  non  sono  relative  a  certe  epoche o  a  certi  individui,  ma  accom]>agnano  costantemente  lo  spirito umano  in  tutti  i  tempi  e  in  tutte  le  condizioni.  Dato  il  inmto di  vista  da  cui,  in  <[uanto  uomini,  siamo  obbligati  a  liuanlare  la natura,  ([ucste  successioni  di  fjitti  che  sono  talmente  familijiri da  parere  intrinsecamente  evidenti.  (^  da  determinare  <juei  lega- mi così  stretti  tra  le  nostre  idee  che  danno  luogo  alle  proposi- zioni le  cui  contrarie  si  dicono  inconcepibili,  sono  invariabil- nuMite  le  stesse  per  tutti  gl'individui,  a  tutte  le  epoche  e  in tutte  le  condizioni.  L'immo  dovrebbe  cessare  <li  essere  ciò  che è  o  la  natura  esteriore  dovrebbe  cangiare,  prima  (he  al  posto di  queste  sequenze  di  femnneni  potessero  sostituirsi  delle  se- quenze diverse  tali  da  poter  determinare  delle  conceinbilità  e delle  inconcepibilità,  e.  mi  sia  lecito  di  dir  così,  delle  intellioi- bilità  e  delle  inintelligibilità,  diverse  dalle  attuali.  Ben  può l'uomo  di  scienza  abituare  sino  ad  un  certo  punto  il  suo  pen- siero a  nuove  sequenze  di  fenomeni  diverse  da  quelle  con  cui res]»erienza  (luotidiana  lo  mette  continuamente  in  c(>ntatto,  ma 319   — lutamente  spiegarli  ;  ed  essi  credono  riuscirvi  rappor- tandoli e  assimilandoli  ai  fatti  più  comuni  ;  quanto  a questi  fatti  sì  comuni,  essi  non  sono  affatto  curiosi  di conoscerne  le  cause,  ma  le  ammettono  puramente  e semplicemente,  riguardandoli  come  altrettanti  punti  ac- cordati e  convenuti Noi  crediamo  anche  che  niente  non  ha  più  nociuto  alla filosofia  che  questa  disposizione  naturale  che  fa  che  le cose  frequenti  e  familiari  non  hanno  il  potere  di  sve- gliare e  di  fissare  l'attenzione  degli  uomini,  e  eh'  essi le  riguardano  con)e  di  passaggio,  poco  curiosi  di  co- noscerne le  cause,  di  sorta  che  vi  ha  molto  meno spesso   bisogno    di  eccitarli  ad  istruirsi  di    ciò  che  essi ignorano  che  a  fissare  la  loro  attenzione  sulle  cose  co- nosciute  »   (Ij.  E    altrove,    dopo  avere    stabilito    che    il queste  nuove  sequenze  non  cesseranno  mai  di  sembrargli  strane e  incomprensibili  in  se  stesse  e  tali  da  esser  nec(Nssario,  per c<nnprenderle,  l'intervento  di  (|ualche  interìne<liario  esplicativo, perchè  (sono  i)arole  dello  stesso  Mill)  le  suggestioni  della  vita di  tutti  i  giorni  saranno  sempre  piìi  forti  cIkì  quelle  della  ri- flessione scientilica.  «Quand'anche,  come  dice  un  ;nitore  che  noi citeremo  un  po'  più  giù.  si  dessero  ai  fancinlli  dell'avvenire  i Princlpii  di  Newton  per  primo  libro  di  lettura,  l'attrazimie  tra le  molecole,  i>er  cui  la  scienza  spiega  la  caduta  dei  corpi  pe- santi, sarà  sempre  meno  familiare  che  la  caduta  del  corpo  ju-i- mitiva  :  essa  parrà  sempre;  <|uindi  oscura  e  misteriosa,  e  la  Cìi- duta  primitiva  non  ha  cessato  di  senil»rare  intelligibile  se  non in  ([uanto  la  legge  generjile  per  cui  viene  spiegata  le  ha  comu- nicato e  seguiterà  sempre  a  comunicarle  la  lu-opiia  inintelligi- bilità. In  ([uanto  alla  incomprensildlità  dell'  azione  volontaria noi  mostreremo  più  giù  perchè  questa  successione  di  fenomeni, quantu<iue  non  abbisi  cessato  di  essere  una  delle  inii  familiari, sembri  nondimeno,  sotto  un  certo  aspetto,  aver  perduto  la  sua intelligibilità  primitiva  :  e  vedremo  che  si  tratta  di  una  di «[uelie  eccezioni,  che,  come  si  dice,  confermano  la  regola. (1)  N.  Organo  1.  1,  Afor.   110). mito  di  Cupido  simboleggia  la  legge  più  universale  della natura,  dice  :  nella  «  ricerca  delle  cause  naturali  vi  ha un  termine  in  cui  bisogna  saper  fermarsi,  e  doman- dare o  cercare  qual  è  la  causa  d'una  forza  primordiale o  d'una  legge  positiva  della  natura  non  è  meno  man- care di  tìlosofia  che  non  domandare  o  cercare  quelle delle  cose  che,  essendo  subordinate  ad  altre,  sono  su- scettibili di  spiegazione.  Così  è  con  fondamento  che  i saggi  dell'  antichità  suppongono  che  Cupido  è  senza padre,  cioè  senza  causa.  Ora  quest'osservazione  su  cui insistiamo  qui  è  tutt'altro  che  indifferente;  io  oserò  an- che dire  che  ve  n'è  poche  così  importanti,  perchè  niente non  ha  più  contribuito  a  snaturare  la  filosofia  che  la ricerca  che  ha  per  oggetto  il  padre  e  la  madre  di  Cu- pido :  io  voglio  dire  che  la  più  parte  dei  filosofi,  invece di  ammettere  puramente  e  semplicemente  i  risultati deir osservazione  relativamente  ai  principii  delle  cose, di  prenderli  per  così  dire  quali  la  natura  li  presenta, di  adottarli  come  una  sorta  di  dottrina  positiva  che  non si  è  obbligati  di  provare  e  di  cui  non  si  deve  doman- dare la  prova,  e  come  delle  specie  d'  articoli  di  fede fondati  sull'esperienza  stessa,  hanno  voluto  dedurli  da certe  osservazioni  puramente  grammaticati,  dalle  regole della  dialettica,  da  piccoli  corollari  matematici  (1),  dalle nozioni  comuni  e  da  altre  sorgenti  simili  che  non  sono a  parlar  propriamente  che  i  prodotti  variati  degli  scarti dello  spirito  umano,  piccole  risorse  a  cui  esso  si  ag- grappa, allorché  si  getta  fuori  della  natura.  Cosi  ogni uomo  che    studia  la    natura  deve    avere    costantemente (1)  È  la  tìlosotìa  diìnostvativa  o  apriorista.  Noi  vedremo  in sejjuito  il  rapi)orto  di  <j[uesta  di  tìlosotìa  con  la  tendenza  di  eni  ora parliamo  (ehe  c'03tituÌ8ce  la  metafìsica  spontanea  del  nostro spirito)  a  spiegare  tutti  i  fenomeni  per  quelli  che  ci  sono  i  più familiari.321  — presente  allo  spirito  questa  verità,  che  Cupido  non  ha né  padre  né  madre,  verità  che  l'impedirà  di  perdersi  m congetture  tanto  vaghe  quanto  inutili,  e  di  prendere  le parole  per  le  cose.  Quando  lo  spirito  umano  vuol  ge- neralizzare,  egli  va  sempre  troppo  lungi;  egli  abusa delle  proprie  forze,  e  dopo  aver  passato  il  termine  che la  natura  gli  ha  segnato,  egli  ricade  nelle  sue  idee  più familiari^  e  ritorna  così  al  punto  donde  è  partito:  per- chè, vista  la  debolezza  e  i  limiti  naturali  dell'  intendi- mento, le  idee  che  gli  sono  più  familiari,  quelle,  io  di- co, che  può  rappresentarsi  facilmente,  concepire  tutte insieme  e  legare  per  dei  rapporti  essendo  ordinariamente quelle  che  lo  colpiscono  e  lo  affettano  di  più,  ne  segue che  quando  è  pervenuto  a  queste  proposizioni  univer- sali a  cui  r  esperienza  stessa  l'ha  condotto,  egli  non vuole  contentarsene  e  fermarvisi  ;  ma  allora  cercando qualche  verità  più  conosciuta  che  quelle  che  egli  vuole assolutamente  spiegare,  prende  le  proposizioni  che  lo hanno  di  più  affettato  o  sedotto,  e  s'immaii^ina  trovarvi delle  spiegazioni  più  soddisfacenti  e  delle  dimostrazioni più  rigorose  che  nelle  proposizioni  universali  che  egli avrebbe  dovuto  ammettere  puramente  e  semplicemente.  >•> {Dei  principii  e  delle  origini)  (1). (1)  Tra  i  tilosoti  contemporanei  il  fatto  psicologico  di  cui parliamo  ò  stato  esposto  ottimatiiente  anche  da  Clifford  (  V.  Lo scopo  e  ffli  strìimcnti  -del  lavoro  scientifico  in  Rev.  seicnt.  2.  ser. t.  8.  ]).  518-51})).  Oomandandosi  che  cosa  sia  spiegare  un  fatto, l'autore  comincia  per  presentare  come  esempio  di  spiega/Jone quella  della  legge  dell'accrescimento  della  pressione  dei  gaz proporzionalmente  alla  diminuzione  del  volume  mediante  l'ipo- tesi che  un  gaz  si  compone  d'un  numeri  enorme  di  [)iccole  mo- lecole sempre  in  movimento  e  ui-tantisi  fra  di  loro,  (si  mostra  in questa  spiegazi(me  che  il  numero  degli  urti  d'una  folla  di  molecole di  (lucsto  genere  contro  le  pareti  del  vaso  in  cui  sono  con- tenute,  varierchbc  esattamente  coiu»'.  si  vede  variare  la  pressio- 21.^-.'  .^,_k.' JJ"B'X:..iJX«^5^ ~  322  — Dopo  il  gìh  dettò  la    nozione  di  causa   efficiente  ci sembra   perfettamente    spiegata,  e  non  è   quindi  senza ne).  I  fatti  per  cui  quella  le^ii^"  viene  spiegata  sono  dei  feno- meni ben  familiari  e  della  nostra  esperienza  giornaliera.  È  un fatto  ì)en  noto  e  familiare  quello  d^in  corpo  che  urta  in  una supertìcie  e  poi  riml)alza:  noi  sappiamo  per  la  nostra  esperienza giornaliera  che  quando  la  distanza  ò  metà  minore,  non  bisogna al  eorjK)  che  un  tempo  metà  minore  per  ritornare.  Al  contrario la  proj>orzione  rigorosa  tra  la  ])ressione  e  la  densità  ò  per  noi un  fatto  relativamente  strjino  e  poco  familia-e.  «La  spiegazione lu-esenta  il  fatto  sconosciuto  e  poco  familiare  come  composto  di ciò  che  è  conosciuto  e  familiare  :  e  tale  h,  mi  sembra,  il  vero Benso  (Iella  parola  spiegazione  ».  Non  è  sempre  necessario  che un  f(^nonieno  sia  spiegabile.  «  Perchè  un  fenomeno  sia  suscettibile di  s]>iegazione,  esso  deve  decomporsi  in  elementi  più  semplici  che ci  siano  già  familiari.  Ora  in  primo  luogo  il  fenomeno  può  esso stesso  essere  semplice,  e  per  conseguenza  indecomponiì)ile;  e  in secondo  luogo  esso  può  decomporsi  in  elementi  che  siano  per  noi così  poco  familiari  e  così  poco  maneggiabili  che  il  fenomeno  pri- mitivo.—È  una  spiegazione  del  movimento  della  luna  il  dire  che è  un  corpo  che  cade,  ma  che  va  sì  i)resto  ed  e  sì  lontano  che  cade dall'altro  lato  della  terra,  facendone  il  giro  invece  di  arrivarvi, e  clic  ([uesto  movimento  continua  senza  cessa.  Ma  non  ò  una  spie- gazione il  dire  che  un  corpo  cade  in  virtìi  della  gravitazione.  Ciò vuol  dire  che  il  movimento  del  corpo  può  decomi)orsi  nei  mo- vimenti di  ciascuna  delle  sue  molecole  verso  ciascuna  delle  mo- lecole della  terra,  con  un'  accelerazione  in  ragione  inversa  del quadrato  delle  distanze  tra  loro.  Ma  quest'attrazione  tra  due molecole  sarà  sempre,  mi  sembra,  meno  familiare  della  caduta del  corpo  primitivo,  <xuand'anche  si  desse  ai  fanciulli  dell'  av- venire Newton  per  primo  libro  di  lettura.  L'  attrjizione  essa stessa  può  si)iegarsi  i  Le  Sage  <lice  che  vi  ha  una  grandine ])erpetua  <li  inccole  moleccde  d'etere  innumerevoli,  in  tutte  le direzioni,  e  cbe  le  due  molecole  materiali  si  ri])arano  mutua- mente da  (questa  grandine,  e  sono  così  spinte  l'una  verso  1'  al- tra. È  <]uesta  una  spiegazione  :  essa  \mò  essere  vera  o  falsa* L'attrazione  può  essere  un  fatto  semplice  primitivo  ;  o  può  com- —  323  — sorpresa  che  leggiamo  in  Mill  delle  parole  come  le  se- guenti :  Per  certe  scuole  «  la  nozione  di    causalità   im- porsi di  fatti  semplici  assolutamente  differenti  da  tutto  ciò  che noi  conosciamo  sin  qui  ;  e  nell'una  o  l'altra  di  queste  ipotesi, non  vi  ha  spiegazione.  Noi  non  siamo  dunque  in  dritto  di  con- cludere che  l'ordine  dei  fatti  può  sempre  spiegarsi  »  È  evidente che  Clifford  dà  alla  parola  spiegazione  uno  solo  dei  due  sensi distinti  da  Mill,  il  senso  popolare,  che,  come  abbiamo  notato, è  identico  a  <iuello  metatisico. Lo  Stallo  nell'opera  già  citata    La    materia   e    la  fisica  mo- derna, in  cui  egli  presenta  la  teoria  atomo-meccanica    come  un prodotto  delle  illusioni  naturali  dello  spirito  umano,    riconosce pure  il  fatto    psicologico  su  cui  qui    insistiamo,  e  se  ne    serve per  ispiegare  l'origine  di  (piella  teoria.  Nel  brano   già    citato  è così  che  egli  spiega  l'origine  dell'ipotesi  che  ogni    azione  tisica è  dovuta  a  un  urto.  E    poco    prima    avea    detto  :  «  11  progresso della  nostra  conoscenza  riposa  sull'anologia  — su    una  riduzione dello  strano  e  dello    seonosciiito  ai    termini   del   familiare  e  del coìioseitito—ln  un  certo  senso  è  vero,  come  lo  si  ò  detto  spesso, che  ogni  conoscen?5a  è  riconoscenza,  L'  uomo    stabilisce  costan- temeule  delle  comparazioni,  dice  Pott  (Ulc.  etimol.)   tra  il  nuo- vo che  si  presentH  a  lui  e  l'antico  ch'egli  già   conosce.  Lo  svi- luppo del  linguaggio  mc^stra  che  è  così.  Il    grande    agente   del- l'evoluzione del    linguaggio  è    la    metafora,  il    passaggio  d'  una parola  dal  suo  senso    ordinario  e    ricevuto  a  un    altro   analogo. Questo  trasporto  del  nome  designante  una  cosa  conosciuta  e  fa- miliare a  una  cosa  sconosciuta  e  inaccosturaata  è  il  tipo  dell'o- perazione che  la  lo  spirito  tutte  le    volte  che    aborda  dei  feno- meni nuovi  e  strani.  Egli  assimila  (piesti  fenomeni  ai  fenomeni conosciuti  ;  riduce  ciò  che  è    straordinario  e  raro  ai   termini  di ciò  che  è  ordinario  e  comune.  Ciò  che  si  presenta  dapprima  ai sensi  è  nello  stesso  tempo  il  fatto  più  antico  e  il  più  persistente nella   coscienza,  e  resta    così    fissato  come  essente  il  più  fami- liare.» È  perciò,  secondo  l'autore,  che  si  suppone  che  la  parti- cola solida,  l'atiuno.  è  l'elemento  primo  d'ogni    esistenza  mate- riale ;  perchè  la  forma  solida  ò  la  prima  conosciuta  e  la  più  fa- miliare. 11  che  non  ci    sembra  esatto,    poiché  potrebbe  ammet- plica  una  sorta  di  lo  «airi  e    misterioso  che  non  esiste  né può  esistere  tra  un  fatto    fisico  e  un    altro    fatto    fisico tersi  che  la    forma    gazo -sa  iioii  ò  cosi    familiare  eonie  la  forsolida  ( [cerchi',  come  osserva  l'autore,  (jiiella  forma  non  è  riguar- data sul  i)rinei[)io  come  nuiteriale,  e  le  parole  designanti  vento o  soffio,    animus,    spiri tus,   Geist,   gliat,  ecc.  sono,  anche  nelle lingue  dei  popoli  civilizzati,  i  termini  che    designano  1'  opposto fondamentale  della    materia);  ma  come    negare  che  la  forma  li- quida è  ed  è  stata  ugualnu^nte  familiare  sin  dall'infanzia  dello spirito  umano  ?   ^la  ciò  in  cui,  secondo  me,    1'  autore  merita anche    meno   di    essere    approvato,  è  che  egli    vuol    ricondurre questa  tendenza  dello  spirito  a  spiegare  i  fatti  che  non  ci  sono familiari    aasimiland(di  a    <iuelli  che  lo  sono,   ad    un'  altra  ten- denza  secondo    lui    \n\\    fondamentale,    cioè    a    identificare    con l'ordine   di   genesi    delle    nostre  idee   sulle   cose   l'ordine    di  <»'e- ncsi  delle  cose  stesse.   La  supjjosizione   della   identità  di  questi due    ordini    (supposizioiu;    di   cui    egli   mostra    un    esempio    nel principio   di   Spinoza  che   l'ordine   e   la   connessione   delle    idee sono    gli    stessi    che    l'ordine    e    la    connessione    delle    cose)    h una  di  (pielle  che.    implicitamente  o    esplicitamente,  si  trovano alla  base  di    ogni    speculazione    metafisica  o    ontologica,  e  che l'autore  chiama  errori  strutturali  dell'intelligenza.  Noi  pensiamo invece  che  il  fatto  primordiale  è  la  tendenza  a  spiegare  i  feno- meni che  non  sono  familiari  assimilandoli  a    quelli  che  lo  scmo (fatto  istintivo  comune  a  tutti  gli  uomini),  e  che  la  supposizio- ne (propria  di  alcuni  tìhhsofi)  che  l'ordine  e  la  genesi  delle  cose corris]>onde  all'ordine  e  alla  genesi  delle  idee,  non  ne  ò,  come mostreremo  nel  cap.  7,  che  una  conseguenza  indiretta.    Quando Stallo  considera  come  due  conseguenze  d'una  stessa  supposizio- ne il    principici  di    Spinoza  die    1'  ordine  e  la  connessione  delie idee  corrisiM)ndono  all'ordine  e  alla  connessione  delle  cose  (prin- cipio che  è  realmente  il  fondamento  di  tutta  una  tendenza  filo- sofica e  non  del  solo  sistema  spinozista),  e  la  tendenza   a  spie- gare i  fatti  poco  familiari  e    nuovamente    acquisiti   alla    n(»stra conoscenza,  assimilandoli  ai  più  familiari  e  \m\  anticamente  co- nosciuti, egli  scam])ia  una  vaga  anah)gin  con  una  identità  reale. Nel  princijjio  di   Spinoza  si  tratta  d'un  ordine  logico,  d'un'an- —  325  — al   seguito  del    quale    accade    invariabilmente  e    che  si volirarmente  la  sua  causa  :  e  di  là  si    conclude teriorità  e  d'una  posteriorità  logica  tra  le  idee  (l'ordine  clie  vi ha  tra  le  premesse  e  le    conclusioni),  e  si    sui)pone  che    questo stesso  ordine,  questa  stessa  anteriorità  e  p<»steriorità,  esista  tra le  cose  stesse,  ])erclie  s'identifica  il  rap])orto  reale  tra  hi  causa e  l'ett'etto  col  rai)i)orto  lo(jieo  tra  il  principio  e  la   conse,gue:iza. Ma  nell'altro  caso  non  può  trattarsi  che  d'un'  sinteriorità  e  pi»- steriorità  cronolofjiea,  non  loffiea.'Yi  poi,  perchè  una  supposizione meritasse  il  nome  di  errore  strutturale    dell'  intelligenza  (e  tale dovrebbe  essere  realmente  una  supiK)sizione  che  fosse  il  fonda- mento e  l'origine  di  ogni  speculazione  metafisica  o  ontologica), non  basterebbe    che  tutte  le    nozioni    metafìsiche  o   ontcdogiche potessero    ricondursi  a<l    essa,  se  non  fosse  inoltre    mw  di  ([uei preconcetti  che  tutti  gli  uomini,  filosofi  o  no,    ammettono  come dei  principii  evidenti  i)er  se  stessi.  Ma  tale  non   è  sicuramente la  supi)osizione  che  l'ordine  della  genesi  delle  cose    deve  corri- spondere all'ordine  della  genesi  dei  concetti,    uè   ([nella  j»iìi  ge- nerale della  (luale  Stallo  semlira  considerarla  come  un  caso  jiar- ticolare,  e  la  quale  egli  riguarda  come  il  fondamento  ultimo  di ogni  speculazione  metafisica,  cioè  «che  vi  ha  una  corrispondenza fissa  tra  i  concetti  e  la  loro    filiazione  da   una    parte  e   le    cose e  la  loro  dipendenza  mutua  dall'altra.»  Quale  il  fatto  psicolo- gico naturale,  costante,  necessario  da  cui  dipende  (Questa  fatale illusione  dello  spirito  umano,  questo  errore  strutturale  della  no- stra intelligenza?  «Quest'errore  fondamentale,  risponde  Stallo, è  in  gran  parte  dovuto  a  un'opinione  fallace  sulla  funzione  del lini» uaji l'io  nella  f(»rmazione  e  la  fissazione  dei  concetti.   All'  in- }£rosso,  i  concetti  sono  la  significazione  delle  pari>le;  (piesta  circo- stanza  che  le  parole  designano  originariamente  delle  cose  o  almeno de<'*li  ooii'etti  di  sensazione  e  la  loro  azione   mutua  sensibile  ha dato  nascita  a  certe  sui>posizioni  ingannevoli  »  (quelle  che  l'au- tore chiama  errori  strutturali    dell' intellig(mza).   Anche  noi  am- mettiamo che  tutte  le  nozioni  metafisiche  non  sono  che  uno  svi- luppo di  certi  errori  strutturali  dell'intelligenza  :  ma  questi  se- condo noi  sono  dei  fenomeni  connaturati  allo  spirito  umano,   dei fatti  permanenti,  necessari,   istintivi,  degli  errori  che  tutti  aiu- —  326   - alla  necessità  di    rimontare  più    alto,  sino  alle  essenze e  alla    costituzione    intima   delle   cose,    per    trovare  la mettianio  o  siamo  inclinati  ad  anunettere  come  delle  verità  evi- denti per   se  stesse.    È  un   fatto   istintivo  t^uest'obbiettivazione spontanea  delle  nostre  sensazioni,  cpiesta  eostruzione  di  un  mondo materiale  indipendente  da^j^li  esseri  senzienti,  formato  di  oggetti aventi  grandezza,  forma,  colore  e  tutti  gli  tiltri  attributi  che  non appartengono  se  non  alle  sensazioni  stesso,  mondo  di  cui  nondi- meno tutti  gli  uomini  ammettono  o  hanno  la  più  forte  tendenza ad  ammettere  la  realtà  come  una  verità  evidente  per  se  stessa.  È un  fatto    istintivo    ([uesta   tendenza    ad   assimilare   le  sequenze tra  i  fenomeni  che  non  ci  sono  familiari  a    q^i^^^^  ^'^^  1^  sono; ed  è  ammesso  o  si  ha  una  forte    tendenza  ad    ammettere   come una  verità  evidente  per  se  stessa  che  una  delle  prime  sequenze si  spiega  e  si  comprende  quando  è  assimilata  a   qualcuna  delle seconde  e  che  invece  è  inesplicìibile  e    incomprensibile  tutte  le volte  che    quest'  assimilazione  non  è    possibile.  È  da   questi  ed altri  simili  errori  ammessi    come  verità  evidenti   per  se   stesse, da  questi  ed  altri  simili  fatti  istintivi  (che  noi   d'altronde  cer- cheremo (li  dedurre  dalle    leggi   generali    dello  spirito)  che   de- riva tutta  la    metafisica  ;  è  solo    così  che  noi    possiamo    vedere in  essa  una  fase  necessaria  della    evoluzione    naturale  del  pen- siero umano.  Noi  sentiamo  quanto  sarebbe  artificiale  una  teoria che  vedesse  in  questo  prodotto  naturale  dello  sviluppo  del  pen- siero, al  cui  punto  di  partenza  si  trovano  le  illusioni  naturali  di cui  abbiamo  parlato,  una  semplice  conseguenza  di  certe  opinioni fallaci  sulla  funzione  dei   termini  generali. — Daltronde    sarebbe impossibile  di  ricondurre,  se  non  d'una  maniera  troppo  forzata, tutti  i  sistemi  e  tutte  le  nozioni  della  metafisica    alla    supposi- zione «  che  vi  ha  una    corrispondenza    fissa    tra  i    concetti  e  la loro  filiazione  da  una  parte,  e  le  cose  e  la  loro  dipendenza  mu- tua dall'altra.  »  Su  questa  supposizione  propriamente  non  è  fon- dato che  il  sistema  di  Hegel  e  gli  altri  sistemi  congeneri,  cioè quelli  che  realizzano  le  nozioni  astratte  e   generali,  e    introdu- cono fra  di  esse  un  incatenamento  logico  continuo,  in  modo  che la  genesi  o  lo  sviluppo  della  conoscenza  s'  identifica  con  la  ge- nesi o  lo  sviluppo  delle  cose  stesse.  Ma    siccome  Stallo  è  stato -  327  -  causa  vera,  la  causa  che  non  è  solamente  seguita  dal- l'effetto, ma  che  lo  produce.  »  E  altrove  ^<Era  impossi- bile che  si  pervenisse  in  una    fase  molto    primitiva  del progresso    del    pensiero    umano,  a  questa    convinzione che  la  conoscenza  delle  successioni   e   delle  coesistenze dei  fenomeni  è  la  sola  che  ci  sia  accessibile.  Gli  nomi ni  non  hanno  mai    cessato  di    sospirare  presso   qualche altra  conoscenza  né  di  credere  che  vi  siano  perveimti, e  che,  una  volta  acquisita,  essa  si  trova  essere,  di  qual- che maniera  indefinibile,  infinitamente  più    preziosa  che una  semplice  conoscenza  di  successioni  e  di    coesisten- ze. »  Ciò  che  ci  sorprende  in  queste  parole  di  iMill  è  che egli  trova  il  legame,   che  si  ammette  tra  la  causa  effi- ciente e  il  suo    effetto,    misterioso  e   tale  che  non    può esistere  fra  un  fatto  dell'esperienza  e  un  altro,  e  crede indefinibile  la  maniera  in  cui  la  conoscenza  delle  con- nessioni   costituite  da    questo    legame,    differirebbe   da quella  di  una  semplice  congiunzione  tra  fenomeni  (senza connessione).  E  tuttavia  il  Mill    non    ignora  i    caratteri un  hegeliano,  così  l'hcgoUiuiismo  è  restato  per  lui  il  ti]>o  unico di  <pialsinsi   mctatìsica.   verificandosi  in  (luesto  caso  ciò  che  egli chiama  il    terzo   errore    strutturale    dell' iutelligeuza.    per  cui  i femniu^ni  più  l'aniiliari  e  più  anticamente   conosciuti    divengono il  tipo  a  cui  si  riconducono  tutti  gli  altri— Prima  di  finire    que- sta nota,    aggiuìigerò    che  questa   tendenza  del  nostro  spirito  a riguardare  i  tatti    familiari  come    int(dligibili  per  se   stessi  e.  a ricondurvi  tutti  gli  altri  per  is])iegarli,  è  stata  più  o  meno  bene intravista  da  tanti  altri  filosofi  ((piantuniiue  non  ne  abbiano  ri- conosciuta tutta  la    portata),    fra  cui    basterà   d'indicare   Male- branche,^K/^.    della  ver.  1.  2.  p.  2.  e.  2.),   Condillac   (Say.  orig. conose.  umane.  Del  met.  e.  1.),    Degenerando  [Star,  campar,  dei sist.  di  jìloH.  —  opera  che  contiene  molte  giuste  e  utili   conside- razioni sulla  natura  della   speculazione  metafisica  -  1.  ed.  t.  2. p.  501),  Schopenauer  (Il  mondo  eome  voi.  e  rappresent.  trad.  frane. ^^^SS^SMSSSK -  328^^  ^ per  cui  il  leg-ame  ch'egli  dichiara  misterioso  e  indefini- bile può  definirsi  ;  e^li  sa  ciò  che  distino^ue  la  connes- sione tra  la  causa  efficiente  e  il  suo  effetto  da  una  sem- plice sequenza  invariabile,  cioè  la  capacità  delJa  causa a  spiegare  l'effetto  e  la  pretesa  conoscibilità  a  priori  e il  leg-ame  necessario  ;  e  sa  pure  che  questi  caratteri noi  li  attribuiamo  naturalmente,  o  sianìo  inclinati  ad attribuirli,  a  certe  sequenze  tra  fenomeni  che  non  si distinguono  dalle  altre  che  per  la  loro  grande  familia- rità, quale  quella  tra  la  Volizione  e  il  movimento  vo- luto, che  serve  di  base  alla  più  parte  delle  spiegazioni metafisiche  (1). (1)  V.  Log.  1.  3.  e.  V.  par.  \),  Filos.  di  Hamilt,  cap.  XVI, cap.  XXVI,  cap.  XXVIU  verso  la  tino,  ecc.  In  (questi  luoghi riconosce  che  i  partigiani  delle  cause  efficienti  (e  della  vo- lontà come  causa  efficiente)  attribuiscono  ad  esse  i  caratteri  in- dicati. A  dir  vero,  egli  non  definisce  mai  il  concetto  di  causa efficiente,  non  dice  mai  in  che  si  distingue  da  quello  di  un  sem- plice antecedente  di  una  seiiuenza  invariabile.  Di  più  egli  è lungi  dal  riconoscere  che  questo  concetto  non  è  un'  invenzione dei  metafisici,  ma  h  il  concetto  spontaneo  che  lo  spirito  umano si  torma  della  causalità.  Nella  sua  profonda  analisi  della  causa- zione, che  la  riduce  a  una  semplice  sequenza  invariabile,  ciò di  cui  egli  non  sembra  accorgersi  è  che  la  sua  analisi  si  applica alla  nozione  scientifica  della  cautsazione,  non  alla  nozione  six>n- tanea  e  popolare.  È  come  (luando  analizzando  il  concetto  di ittateria,  ch'egli  riduce,  come  si  sa,  a  sensazioni  e  imssibiiità di  sensazioni,  egli  pretende  che  nell'idea  volgare  e  naturale  dei corpi  non  vi  sia  altro  che  questo.  Mill  è  certamente  il  più  gran- de rappresentante  dell'empirismo  dopo  Hunie  :  questi  mette  in confiitto  i  risultati  della  rifiessione  filosofica  con  le  credenze naturali,  e  giunge  ciosì  allo  scetticismo  ;  il  primo  nega  la  diffe- renza fra  gli  uni  e  le  altre.  Per  salvarsi  dallo  scetticismo,  non ì)Ì8ogna  negare  questa  difterenza,  ma  spiegare  l'origine  delle ultime,  ciò  che  mostrerà  al  tempo  stesso  che  esse  non  lianno alcun   valore  obbiettivo. IftaMflMiMtegaeKiifa-M! —  329  — §  3.  Qualunque  la  filosofia  oggi    predominante    re- leghi esclusivamente  le  cause  efficienti  nella  regione  del- l'inconoscibile, e  faccia  cosi  dell'efficienza  causale  ossia del  rapporto  tra  la  causa  efficiente  e  il  suo  effetto  qualche cosa  che  differisce  ^o^o  .(^e/zere  da  qualsiasi  rapporto  cau- sale conosciuto  cioè  da  qualsiasi  sequenza  tra  fenomeni (ed  è  perciò  che  l'efficienza  causale  può  sembrare  un  le- game misterioso  e  indefinibile)'^  ciò  non  pertanto  un  po' di    riflessione    renderà    evidente    che,   benché  lo  spirito umano,  a  un  certo  grado  dello  sviluppo  della  nozione  di efficienza    causale,    pervenga    naturalmente  a  non  am- mettere se  non  delle  cause  efficienti  assolutamente  me- taempiriche,  vale  a  dire  tali  che  l'esperienza  non  potrebbe esibirne    alcun  esempio  ne  alcun  tipo,    pure  la  nozione stessa  di  queste  cause  metaempiriche  non  può  avere  la sua  base  e  la  sua  radice  che  nelle  idee  delle  causazioni empiriche  e  fenomenali  che  noi  conosciamo.  Noi  abbiamo già  osservato  che  la  dottrina  positivista  sulle  cause    ef- ficienti,    secondo  la  quale  queste  sarebbero   reali,    ma inaccessibili  alla  nostra  conoscenza,  è  logicamente  priva di  base  e  contraria  ai  principi  fondamentali  della  filosofia dell'esperienza:  se  l'esperienza  non  ci  presenta  ehe  delle semplici  sequenze  invariabili,  se  non  vi   ha  alcun   caso in  cui  noi  possiamo  osservare  la   efficienza    causale    o, come  dice  Comte,  il  modo  essenziale  di  produzione  dei fenomeni,  che  cosa  proverà  che,  oltre  agli  antecedenti delle  sequenze  invariabili  che  noi  osserviamo,  vi  hanno ancora    delle    cause    efficienti  V   che  vi  ha  un'  efficienza causale,  un  modo  essenziale  di  produzione,  distinto  da una  semplice  sequenza  invariabile  di  fenomeni,  che  è  il solo  rapporto  causale  di  cui  noi  abbiamo  potuto  costatare l'esistenza  V  E  donde  avrebbe  potuto  venirci  la  nozione di  efficienza  causale  o  di  modo  essenziale  di  produzione distinto  dal  semplree  rapporto  di  sequenza   invariabile, e  quella  di  causa  efficiente  distinta  dal   semplice   ante- —  330  — cedente  di  una  tale  sequenza,  se  non  vi  ha  nella  nostra esperienza  alcun  rapporto  di  sequenza  che  ci  abbia  dato l'impressiono  di  un'efficienza  causale,  alcun  antecedente che  ci  abbia  dato  l'impressione  di  una  causa  efficiente? Questa  dottrina  adunque  lascia  la  nozione  di  causa  effi- ciente ing'iustificata  e  ingiustificabile  al  punto  di  vista  on- tologico, inesplicata  e  inesplicabile  al  punto  di  vista  psi- cologico,  ed  essa  non  sembra  ammissibile,  che  sinché si  rig-uarda  questa  nozione  come  una  cosa  si  naturale che  non  occorre  discuterne  il  valore  o  ricercarne  l'ori- gine ;  il  difficile  è  di  comprendere  la  necessità  di  una tale  discussione  e  di  una  tale  ricerca,  ma,  compresala una  volta,  diviene  evidente  che  l'idea  di  causa  efficiente (qualunque  sia  il  suo  valore  obbiettivo)  non  può  avere  la sua  sorgente  che  nell'esperienza,  a  meno  di  supporre che  in  questo  caso  particolare  lo  spirito  proceda  ecce- zionalmente per  un  cammino  diverso  da  quello  che  egli seg-ue  neir  acquisizione  di  tutte  le  sue  altre  idee.  Ne segue  che  qualsiasi  causa  efficiente  nìetaempirica  lo spirito  umano  concepisca,  conoscibile  o  inconoscibile, per  quanto  si  suppong-a  differente  dalle  cause  efficienti empiriche,  deve  in  ultima  analisi  modellarsi  sul  tipo  di queste,  perchè  la  nozione  di  causa  efficiente  non  ne  è orig-inariamente  che  una  g-eneralizzazione,  e  j)erciò  i caratteri  che  definiscono  la  nozione  g-enerale  di  causa efficiente  (caratteri  che  devono  ritrovarsi  in  tutte  le  forme e  applicazioni  particolari  di  essa,  anche  le  più  lontane dalla  sua  origine)  non  possono  essere  altra  cosa  che  i caratteri  comuni  alle  nozioni  di  queste  cause  efficienti empiriche  particolari  da  cui  essa  è  stata  dedotta. Ora  una  causa  efficiente  empirica  non  essendo  che l'antecedente  di  una  sequenza  molto  familiare,  per  con- seguenza sono  le  particolarità  proprie  alle  idee  delle sequenze  molto  familiari  che  costituiscono  i  caratteri essenziali  per  cui  l'idea  di  causa  efficiente  si  definisce, 331 o  per  cui  una  eausa  efficiente  si  distingue  da  un  sem- plice antecedente  di  una  sequenza  invariabile.  La  prima particolarità  è,  come  abbiamo  detto,   che   le   sequenze familiari  sembrano  perfettamente  naturali  e  comprensi- bili per  se  stesse,  in  altri  termini  che  i  loro  antecedenti sembrano  spiegare  (nel  senso  popolare  della  parola  spie- gazione) i  loro  conseguenti,    o  esserne   la  ragion   suffi- ciente,    mentre  al  contrario  le  sequenze    non    familiari sembrano    strane    e   incomprensibili,  e  pare  che  vi  sia bisogno  per  comprenderle  dell'intervento  di  un  interme- diario esplicativo,  per  cui  esse  possano  venire  ricondotte e  assimilate  ad  alcuna  delle  sequenze  più  familiari.  Così il  primo  carattere  del  nexus  tra  la  causa  efficiente  e  il suo    effetto,    che    distingue  una  causa  efficiente  da  un semplice  antecedente  di  una  sequenza  invariabile,  è  che la  causa  efficiente  non  si  limita  a  esser  seguita  costan- temente dall'effetto,  ma  spiega  quest'effetto  o  ne  è  la  ra- gion sufficiente,  ed  è  anche  capace  di  servire  da  inter- mediario   esplicativo  di  quelle    sequenze    invariabili    il cui  antecedente  non  è  una  causa    efficiente,    cioè    non spiega  il  suo    conseguente  o  non  ne   è  la  ragion    suffi- ciente, ma  ha  con  questo  un  semplice  rapporto  di  con- giunzione senza  connessione—Un  altro  carattere  del  nexus tra  la  causa  efficiente  e  il  suo  effetto  è  la  necessità:  non solo   noi   sappiamo  che  la  causa  è  seguita    dall'  effetto, ma  sentiamo  che  essa  deve  esserne  seguita.    La    neces- sità, come  abbiamo  notato,  non  è  propriamente  che  una modalità  dei  nostri  giudizii,  e  non  è  che  per  una  sorta di  metafora  che  si  trasporta  alle  cose  stesse  :  noi  diciamo un  fatto  necessario,  come  diciamo  una  cosa  bella  o  un'a- zione buona  ;  questi  attributi  sono  relativi    al   soggetto percepente  e  giudicante,    e   non    avrebbero    significato senza    questa    relazione.  Attribuendoli  alle  cose  stesse, noi  vogliamo  dire  semplicemente  che  l'impressione  del soggetto  percepente  e  giudicante  non  è  arbitraria  e  ac- -  332  - cidentale,  ina  che  essa  è  costante,  e  che  noi  ci  atten- diamo naturalmente  da  tali  cose  che  esse  devono  pro- durre tali  impressioni.  Cosi  il  legame  necessario  tra  la causa  e  l'effetto  si  riduce  al  sentimento  di  necessità  che accompagna  il  nostro  pensiero,  quando  noi  giudichiamo che  tal  causa  sarà  seguita  da  tale  effetto.  Questa  neces- sità, che  noi  sentiamo  nel  nostro  pensiero  e  che  traspor- tiamo nelle  cose  stesse  che  ne  sono  l'oggetto,  consiste, come  abbiamo  detto,  in  uno  stretto  legame  fra  le  nostre idee,  che  può  giungere  sino  al  punto  da  rendere  queste idee  affatto  inseparabili,  quando  diciamo  che  la  neces- sità è  assoluta  :  nel  nostro  caso  in  verità  la  necessità non  è  assoluta,  cioè  tale  che  il  contrario  sia  assoluta- mente impensabile,  ma  è  il  più  alto  grado  di  necessità che  possa  trovarsi  in  un  legame  tra  idee  formato  dal- l' esperienza  per  le  leggi  dell'  associazione.  È  evidente che  questo  grado  di  necessità  deve  accompagnare  quelli che  sono  stati  formati  dalle  sequenze  più  familiari.  Noi abbiamo  visto  che  le  sequenze  familiari  producono  delle associazioni  si  forti  tra  le  nostre  idee,  ehe  il  nostro  pen- siero non  può  se  non  con  difficoltà  dare  al  fenomeno conseg'uente  un  antecedente  diverso  dall'abituale:  è  cosi che  noi  pensiamo,  o  siamo  naturalmente  inclinati  a  pen- sare,  che  è  necessario  (e  i  filosofi  hanno  spesso  dichia- rato che  è  una  verità  necessaria)  che  il  movimento  della materia  inanimata  deve  essere  causato  da  un  movimento anteriore  di  un'  altra  materia  a  contatto,  che  la  causa che  fa  cominciare  un  movimento  nella  materia  non  può essere  che  lo  spirito,  che  1'  appropriazione  di  mezzi  ad un  fine  non  può  essere  che  l'opera  di  un'  intelligenza, ecc.  Se  la  ripetizione  frequente  delle  esperienze  può  a- vere  la  conseguenza  di  rendere  inconcepibile  il  conse- guente senza  l'  antecedente  familiare  e  di  far  sembrare necessario  che  esso  si  produca  al  seguito  di  questo  solo antecedente,  a  più  forte  ragione  potrà  avere  quella   di -  333 rendere  inconcepibile  l'antecedente  senza  il  conseguente familiare,  e  far  sembrare  necessario  che  questo  si  pro- duca al  seguito  di  quello,  poiché  gli  stessi  effetti  possono essere  determinati  da  cause  differenti,  ma  le  stesse  cause determinano  sempre  gli  stessi  effetti. Alla  necessità  del  rapporto  tra  la  causa  efficiente e  il  suo  effetto  è  legato  un  altro  carattere,  cioè  che  questo rapporto  sembra  una  conoscenza  razionale,  indinpendente dall'esperienza,  in  una  parola  una  conoscenza  a  priori.  Si sa  in  eft'etto  che  la  più  parte  dei  filosofi  vedono  nella  ne- cessità di  una  proposizione  la  prova  che  questa  proposi- zione non  è  un  risultato  dell'esperienza,  ma  una  cono- scenza a  priori — ciò  che,  come  mostreremo  altrove,  non  è un  semplice  pregiudizio  filosofico,  ma  una  credenza  natu- rale—.Questo  carattere  dell'apriorità,  dell'evidenza  razio- nale, sembra  talmente  proprio  al  nexus  tra  lac.iusa  efficien- te e  il  suo  effetto,  che  Hume  e  i  filosofi  scoz^josi  hanno  ne- gato la  possibilità  di  conoscere  le  causefficieenti,  perche  in- dipendentcmiente  dall'  esperienza,  cioè  a  priori,  non  si potrebbe  prevedere  che  una  data  causa  sarà  seguita  da un  dato  effetto.  Ora  il  proprio  delle  sequenze  familiari è  che  esse  sembrano  conoscibili  a  priori,  per  la  loro evidenza  intrinseca  e  indipendentemente  dall'esperienza. Lo  stesso  Hume  dice:  «Quando  si  tratta  di  avvenimenti coi  quali  ci  siamo  familiarizzati  sin  dalla  nostra  nasci- ta.... noi  siamo  inclinati  a  crederci  capaci  di  scoprire questi  effetti  per  il  semplice  uso  della  ragione,  senza invocare  il  soccorso  dell'  esperienza.  Noi  ci  facciamo anche  illusione  sino  a  credere  che,  (quando  non  facessimo che  comparire  a  questo  mondo  all'ora  che  è,  noi  potrem- mo pertanto  giudicare,  al  primo  colpo,  che  una  palla essendo  spinta  contro  un'  altra,  la  metterebbe  in  movi- mento,  e  pronunciare  su  ciò  con  certezza,  senz'  aver bisogno  d'attendere  l'avvenimento».  '1)  E  in  effetto,   nel (1)  Saggio  4. nBRWMMPMPIM") —  834  - cap.  3.  abbiamo  citati  parecchi  autori,  i  quali  pensano la  comunicazione  del  movimento  da   un    corpo    ad un  altro  per  mezzo  dell'impulsione  è  una  verità  a  prioche  si  può  conoscere,  come  dice  Hume,  «  per  il  semplice uso  della  ragione,  senza  invocare  il  soccorso  dell'espe- rienza». I  sostenitori  della  teoria  volizionale  della  cau- sazione   ammettono   pure  che  noi    abbiamo    immediata- mente la  coscienza  del    potere    della  nostra    volontà    a mettere  in  movimento  le  nostre  membra  (1),  e  i  loro  av- versari,  come  Hume  e  Mill  (2),  mostrano  contro  di  essi che  questo  potere  si  conosce  come  tutti  gli  altri  fatti  per l'esperienza,  e  non  anteriormente  ad  essa,  come  suppone la  dottrina  che  la  volontà  è  una  causa  efficiente.il  Mill  con- viene tuttavia  che  è  «una  credenza  naturale  all'uomo  » che  esso  si  conosce  indipendentemente  dall'osservazione e  che  noi  ne  abbiamo  direttamente  coscienza  come  vuole la  teoria  volizionale  (3).  E  ciascuno,  io  credo,  potrà  os- servare in  se  stesso  che  è  veramente   cosi,  cioè    che    ci sembra  che  la  prima  volta  che  abbiamo  voluto,  avremmo potuto  prevedere,  anteriormente  all'  esperienza,  che  le nostre  membra  avrebbero  eseguito  l'azione  voluta,  come ci  sembra  che  la  prima  volta  che  abbiamo  visto  un  corpo urtarne  un  altro,  avremmo  potuto  prevedere,  anterior- mente all'esperienza,  che  il  corpo  urtato  si  sarebbe  messo in  movimento.  Lo  stesso  che  dell'impulsione  e  del   mo- vimento volontario  può  dirsi  di  tutte  le  sequenze  molto familiari  :  tutte  quelle  che  hanno  un'importanza  qualsiasi al    punto  di  vista  filosofico,  hanno  trovato    dei    filosofi che,  conformandosi  alla  tendenza  spontanea  del   nostro spirito,  hanno  negato  1'  origine  empirica  delle  proposi- (1)  V.  cap.  2.  $    21. (2)  Hume  Saggio  7,  Mill  Log,  1.  8.  e.  5.  J  9  e  Filos  di  Ha- inilton  e.  16. (3)  Mill  Filos.  di  Hamilton  e.  16.  trad.  frauc.  pag.  351. 335  — zioni  corrispondenti.  Cosi  secondo  la  scuola  scozzese  e altri  filosofi  è  una  verità  a  priori,  e  non  una  genera- lizzazione dell'esperienza,  il  principio  su  cui  è  fondato l'argomento  teleologico  (cioè  che,  come  abbiamo  detto sopra,  l'appropriazione  di  mezzi  ad  un  fine  non  può essere  che  l'opera  d'un'intelligenza,  o,  come  dice  Reid, che  «i  segni  evidenti  dell'intelligenza  e  del  disegno nell'effetto  provano  un  disegno  e  un'intelligenza  nella causa»)  (1).  Ciò  che  implica  che  è  una  verità  a  priori, e  non  una  generalizzazione  dell'esperienza,  che  l'essere intelligente  ha  il  potere  di  coordinare,  nel  suo  pensiero, dei  mezzi  ad  un  fine,  e  di  effettuare  nella  rc^altà  questa coordinazione  (2). (1)  Keid  Saggi  sulle  facoltà  intellett.  Sjijrjrio  H.  v.  6,  Gnlluppi Saggio  filos.  t.  5.  par.  61,  ecc. (2)  In  UH  scuso,  è  vero  che  una  se<iueuza   il  cui  antecedente ^  considerato  come  causa  efficiente,  ^  una  conosc:niza  a  priori, anteriore  all'esperienza.   Quelle  che  Bacone  chiama  anticipazioni dtW esperienza,  non  sono,  quando  è  <iuistione  delle  cause  dei    Ic- nomeni,  che  queste  se(iuonze  spinte  al  più  alto  <;rado  di  oeucraliz- zazione,  cio^  applicate  alla  spicKaziom^  universale  della  natura. È  possibile  ehe  le  le.iigi   primitive  delhi  natura,  le  vere  l(^}i.i;i  di causazione,  siano  tutte  delle  accpiisizioni  laboriose  della  scienza: ma    una    sequenza  il  cui    antecedente   <>    considerato    come    una causa  efficiente  non  può  essere  una  scovcrta   scientifica  :    le    co- noscenze di  iiuest' ordine    sono    anteriori    alla    scienza,  e  fanno parte  del  patrinuinio  comune  di  o.i^ni  intellij;enza  umana;  la  loro evidenza  ^  una  luce  che  illnwina  ogni    uomo  che  cieue  in  questo modo.   11  poeta  dice:  felice  chi  può  conoscere  le  cause  delle  cose  ! ma  non  :  chi  può    conoscere  le  leggi  secondo   cui   le  cause    sono legate  agli  effetti.  La  capacit;\  di  una  data  causa  a  produrre  un dato  effetto  si  presuppone  conu'  <[ualche  cosa  di  anticii)atanH^nte n(»to,  come  la  matematica  presuppone  la  conoscenza  degli  assi(»- mi  ;  il  problema  della  scienza  non  ò,  secondo  il  poeta,  e  secondo il  primo  impulso  che  porta  l'uomo  alle  ricerche  scientifiche,  (juello di   costatare  le  leggi  di  causazione  che  governano  la  successonei MMM —  336  — §  4.  Ora  noi  siamo  in  o^rado  di  rispondere  ad  una obbiezione,  la  quale  è,  crediamo,  il  più  forte  ostacolo che  impedisca  di  riconoscere  Tori^ine  empirica  della nozione  di  causa  efficiente,  quale  noi  l'abbiamo  esposta. Se  la  causa  efficiente,  secondo  la  prima  idea  che  lo spirito  se  ne  forma  spontaneamente,  non  è  altra  cosa che  r  antecedende  di  una  sequenza  molto  familiare, qual  è  il  fondamento  della  dottrina  dominante  che  tutte le  sequenze  tra  fenomeni,  anche  le  più  familiari,  sono inesplicabili  e  incomprensibili,  dottrina  alla  quale  noi stessi  ci  siamo  conformati  nel  1  cap.  di  questo  scritto? Questa  dottrina  non  è  soltanto  ammessa  da  quelli  che relegano  le  cause  efficienti  nella  regione  dell'Inconosci- bile :  così  tutti  i  filosofi  ci  dicono  che  la  comunicazione tra  lo  spirito  e  il  corpo  è  il  mistero  più  incomprensibile che  ci  presenti  la  natura,    non    esclusi   quelli  che  spie- dei  feuonieiii  —  (lueste  non  sono  un  problema,  si  hanno  per  pre- conoHciute  —ma  quello  di  rimontare  da  un  effetto  dato  aUa  causa o  al  concorso  di  cause  che  lianno  dovuto  produrlo,  secondo  i legami  tra  le  cause  e  gli  effetti  anticipatamente  conosciuti.  Non mancano  anche  oggi  dei  tìlosotì  che  parlano  come  se  essi  am- mettessero ancora,  senza  alcuna  restrizione,  quest'idea  così  na- turale ai  primi  al])ori  «Iella  ricerca  scientifica.  Essi  dicono  che il  metodo  della  scienza  consiste  ad  andare  sia  dalle  cause  agli effetti  (il  metodo  che  Gioberti  chiama  ontologico),  sia  dagli  effetti alle  cause,  come  se  le  leggi  delle  connessioni  tra  le  cause  e  gli effetti  fossero  delle  cose  fuori  (juistione,  e  che  s'inten<lono  da  se stesse.  L'  idea  che  (questi  lìlosoti  si  formano  del  metodo  speri- mentale ^  sì  confusa  che  lo  identificano  con  l'ultimo,  quello  che va  dagli  effetti  alle  cause,  mentre  il  metodo  sperimentale,  nel senso  più  stretto,  va  piuttosto  dalle  cause  agli  effetti,  realizzando certi  fenomeni  per  vedere  quali  altri  feiu>meni  ne  seguiranno.  11 vero  carattere  distintivo  del  metodo  sperimentale  è  che  per  esso le  leggi  di  causazione  non  sono  un  assioma,  come  per  il  metodo aprioristico  e  metafisico,  ma  il  problema  che  la  scienza  si  pro- pone di  risolvere,  per  la  sola  osservazione  e  senza  alcuna  anti- cipazione sull'esperienza. —  337  - g-ano  tutti  i  fenomeni  assimilandoli  agli  atti  della  nostra volontà,  né  quegli  altri  che  vedono  in  questi  atti  sttvssi runico    tipo    che  abbiamo  per  formarci    l'idea  di  causa efficiente.    Né    l'attività    interiore    dello    spirito    sembra meno  misteriosa    dell'azione    dello    spirito    sul    corpo  a quelli  stessi    che    vedono    in    questa    attività    l'esempio più    perspicuo    di    una    efficienza    causale,    o    di    una connessione    tra    fenomeni    che   è    (lualche    cosa  di   più che    una    semplice    congiunzione:  così   il    Galluppi  non cessa  di  ripetere  che  il  come  della  nostra  attività  inter- na è  un  mistero,  che  noi  ignoriamo  come  si  ])roducano (luesti    atti    dello  spirito,  ai  ì\\va\\  non  pertanto  egli   ri- corre costantemente    per   mostrare  contro  di  Ilume  che noi  abbiamo  la  conoscenza  diretta  di  cause   efficienti  e di   una  connessione    tra    fenomeni   che  non  è   una    simu- plice  conu-innzione  (1).  Tutine  (|uegli  stessi  tìlosoti,    che eonsiderano    V  impulsione  come    una    causa    efficiente, e    come   la   sola   causa   efficiente    concepibile  del  movi- mento   (almeno    tra    le    azioni    puramente    fisiche)  .    di- chiarano   che  il    conu-    della    comunicazione    del    movi- mento   nella    collisione    tra    due    corpi    è    anch'esso  un mistero,  e  che  l'impulsione  è  così  incomprensibile  che (lualsiasi    altro    fenomeno.     Locke,    p.    e.,    dice:       Ui- g'uardo  alla  co.niinicazione  del  movimento,  per  cui  un corpo  perde  altrettanto  movimento    che  un  altro  ne  ri- ^.yve noi  non  concepiamo  altra  cosa  per  ciò  che un  movimento  che  passa  da  un  corpo  ad  un  altro  corpo, il  che  è,  io  credo,  così  oscuro  e  così  inconcepibile  che la  maniera  in  cui  il  nostro  spirito  mette  in  movimento o  ferma  il  nostro  corpo  per  il  pensiero  >>....  (2).  E  d  A- lembert    domanda:    Abbiamo    forse    un'idea    i)iù    netta (1)  V.  t.  1,  par.  105.  t.  2,  par.  77.  t.  5.   par.  1  t.  t»7.  .•<•<• (2)  L.  2.  capo  2:?.  i>ar.  2S. 00 —  3:]H  -^ della  virtù  per  la   <iuale  i  corpi  si  urtano  che  di  (luella per  cui  si  attirano?  (b. Quando  un  filosofo  afferma  che  un  fenomeno  è  la eausa  efficiente  di  un  altro  fenomeno,  (p.  e.  la  volizio- ne del  movimento  delle  ìiostre  membra',  ma  che  il  modo come  la  causa  produce  T  effetto  è  incomprensibile,  e^li enunzia,  in  sostanza,  una  vera  contraddizione.  Noi  non concepiamo  infatti  ahra  differenza  tra  la  causa  fisiaj, (come  dicono  oli  Scozzesi)  e  la  causa  metxtfisica  o  ef- ficiente, se  non  che  mentre  tra  la  [)rima  e  il  suo  effetto la  connessione  è  soltanto  mediata,  cioè  vi  ha  bisoo'iio di  un  anello  intermedio,  di  un  ìììtprniexliarìo  espìicati- vo,  per  passare  dalla  causa  all'effetto,  invece  tra  la causa  efficiente  e  il  suo  eff(»tto  la  connessione  è  imme- diata, (bdla  causa  si  i)assa  tosto  all'effetto  senza  biso- g-no  dell'intervento  di  questa  terza  cosa,  che  noi  chia- miamo un  int(M-niiMÌiario  esplicativo.  Ma  dire  che  è  in- comprensibile come  il  movimento  delle  nostre  membra si  produca  al  seii'uito  della  volizione,  è  dire  che  vi  ha tra  i  due  fenonuMii  una  terza  cosa  da  noi  i<:cnorata  che li  mette  in  una  connessione  mtMliata,  una  terza  cosa che,  se  noi  pot(vssimo  conoscerla,  sarebbe  1'  intermedia- rio esplicativo  della  sequenza  tra  (juesti  due  fenomeni, che,  per  difetto  di  (juesta  conoscenza,  ci  resta  attual- mente incomprensibile.  NelTassenza  di  (juesta  terza  cosa il  movimento  non  se.i>-uirebbe  alla  volizione;  e  noi  ])os- siamo  concepire  o  che  la  volontà  sia  soltanto  la  causa remota  del  movimento  del  corpo,  agendo  su  questa terza  cosa  la  (juale,  do])o  aver  subita  quest'azione, agisca  essa  stessa  sul  cori)o  e  sia  la  causa  prossima del  movimento  — nel  qual  caso  sarebbe  l'azione  di  que- sta terza  cosa,  e  non  la  volizione,  la  causa  efficiente del  movimento —  ;  ovvero  che  la  volontà   concorra   essa (l)    k'Irìn,   (li   fì/os.    XVII. —  339 stessa  direttamente  alla  produzione  del  movimento,  ma  ' vi  sia  pure  simultaneamente  bisogno,    perche    esso    sia prodotto,    del    concorso  di  questa  terza  cosa  —  nel  (|ual caso  la  volontà  non  sarebbe  nemmeno  la  causa  efficiente del  movimento,  perchè    la    causa    deve    contenere  tutto cièche   è   sufficiente    per    produrre    l' effetto.  —  L'affer- mare che  un  fenonunio  è  la  causa  efficiente  di  un  altro fenomeno  e  al  tempo  stesso  che  noi  non  comprendiamo come    il    secondo    fenomeno  si   |)roduca    al    seguito   del primo,  è  cosi  contraddittorio    come    l'affermare    che    la sequenza    tra    due   fenomeni  si  comprende  da  se  stessa senza  bisogno  d'un  intermediario  esplicativo,  e  al  tempo stesso  che  l'uno  di  questi  due  fenomeni  non  è  la  causa efficiente    dell'  altro.    Conu^    esempio  di  (juesta   seconda specie  di  contraddizione  ricordiamo  la  dottrina  di   Leib- nitz  sulla  comunicazione  del  movimento  per  rim[)ulsio- ne  :  mentre  egli  trova  la  sequenza  tra  l'impulsione  e  il movimento  perfettamente  naturale    e    intelligibile  in  se stessa,    egli    nega    allo    stesso    tem])o    qualsiasi    azione reale  di  un  corpo  su  di  un  altro,  e  annnette  che  il  corpo che  ha  ricevuto  l'impulso  si  muove    per    l'energia  j)ro- pria  a  lui   innata    (^    non    perchè    la   forza  gli  sia  stata comunicata  dal  corpo  impellente,  .|uest'apparente  comu- nicazione del  movimento    non    essendo    che    l'effetto    di un'armonia  i)restabilita.  Leibnitz  non  é  meno  incoerente, quando,  dopo  aver  negato  allo  spirito  l'efficacia  di  pro- durre i   movimenti    d(d    corpo,    eleva    non    pertanto   nel suo  sistema  l'azione  volontaria  a  si)iegazione  universa- le delle  cose,  la  dottrina    delle   monadi   fondandosi  sul- l'idea che  non  vi   ha  altro  principio  attivo,  altra  forza motrice,  che  l'anima,  ed  essendo  (piindi  una  forma  della spiegazione    volizionale,    altrettanto  che  la  dottrina  del- l'armonia prestabilita,  che  fa  dell'azione  della   divinità l'intermediario  esplicativo    di    tutti    i    fenomeni.   E  evi- dente che  sotto  questo  riguardo  nel  sistema  delle  cause Bmsji —  340  — occasionali  vi  ha  la  stessa  contradrlizioiie  che  in  ({uello deirarnionia  prestabilita.  E  questa  contraddizione  esiste al  fondo  nelle  dottrine  di  tutti  i  filosofi  che,  mentre  di- chiarano che  l'azione  della  volontà  è,  come  o^^iii  altra forma  delTazione  reci[)roca  tra  lo  spirito  e  il  corpo,  il {)iù  incomprensibile  dei  fenomeni,  se  n(»  servono  al  temj)o stesso  come  di  spieo-azione  di  tutte  le  altro  azioni  della natura.  Tutte  queste  contraddizioni  dei  sistemi  tilosofici non  sono  che  le  manifestazioni  di  una  sorta  di  antinomia della  intellig'enza  umana,  per  cui  le  s(Mjuenz(^  che  ci  sono le  più  familiari,  ci  si  mostrano  al  tempo  stesso  sotto due  aspetti  contrari,  come  le  i)iii  intelli\ii'ibili  di  tutte e  come  le  più  misteriose. E  uno  dei  più  strani  e  nondiiiKnio  d(»ì  |)iù  costanti fenomeni  dello  spirito  umano,  che  la  scienza,  mentre fa  comprendere  (juei  fatti  che  nei  periodo  prescienti  fico sembrano  i  più  sorpremb^iti  e  incompr(Misibili,  rende al  contrario  sorprcMidenti  e  incomprensibili  (quelli  che nel  periodo  prescientifico  —  sia  nella  storia  della  specie» che  deirindividuo  —  sembrano  i  j)iù  naturali  ed  intelli- gibili. Noi  conosciamo  si  bene,  dice  d"  Aleml)ert,  le cause  dell'arcobaleno,  e  i^'noriamo  ])erchè  una  pietra cade!  Gli  ecclissi,  i  terretnoti,  la  fol<iore,  tutti-  i  fen<^- meni  della  terra,  del  cielo  o  dell'atmosfera,  che  Tuomo della  natura  ria'uarda  come  misteriosi,  e  attril)uisce perciò  a  delle  azioni  soprannaturali,  finirono  o  finiranno senza  dubbio  di  essere  dei  misteri  per  la  scienza:  il peso,  la  coesioni;  dei  corpi  solifli.  la  comunicazione  del movimento  per  l'urto,  l'attività  intervia  dello  spirito  e la  sua  azione  sul  ci^rpo,  tutti  i  fenomeni  in  una  parola che  l'uomo  riguarda  naturalmente  come  jxM-fettamente intelligibili  e  non  aventi  l)isoii'no  di  spi  equazione,  di- ventano per  la  riflessione  scientifica  dei  misteri  impe- netrabili. La  scoverta  dell'attrazione  universale,  men- tre svelava  il   meccanismo  dei    movimenti    celesti,  ren- —  341  — deva  incomprensibile  la  caduta  d'una  ])ietra  :  perciò  si disse  di  Newton    ch'eg'li    aveva  scoverto  o-lj  abissi  del- l'io-noranza    umana.    Perchè    la    caduta  dei  gravi,  que- sto fenomeno    dei    più    familiari    e  i)erciò  intelligibilis- simo   nel    periodo    prescientitico,    diviene    incomprensi- l)ile    sottoj)osto    alla    riflessione    scientifica'?    Noi    l'ab- biamo   detto:    perchè    esso    viene    ricondotto    all'attra- zione universale    tra    le    molecole,    fenomeno    che    non ci    è    [)unto    familiare.   È    sopratutto    ])er    (|uesto    risul- tato   costante    della    scienza  di    ricondurre    i    fenomeni che    ci    sono    molto    familiari  ad  altri    che   non    lo   sono niente  del  tutto,  che    i    fatti  naturalmente  intelligibilis- simi.   i>erchè    familiari,    diventano    incomprensibili   per o-ji    8i)irivi    che    hanno    ricevuto    grinsegnamentì    della scienza.  In  verità  (juesti  fatti  non  ])erdono  interamente, nel   i)eriodo  scientifico,  la  loro  intelligil)ilità    i)rimitiva, le  su<>'<''estioni  della   vita  di  tutti  i  giorni  esseiìdo,  come dice  Mill,   più  forti  che  (luelle  della    riflessione    scienti- fica. (Questi  fenomeni  ci    presentano  cosi  due  facce  op- poste :  noi  cHMliamo  di   comprenderli  assai  bene,  sinché li  o-uardiamo  alla  Iuvp  che  illamina  of/ni  uomo  che  viene in  (/ffcsfo  mondo,  la  quale  ce  li    mostra  sotto  il  loro  a- spetto  consueto:  ma  ci  sembra  di  non  compremlerli  più quando  li  guardiamo  al   lume   della    riflessione    scienti- fica,   che  ce  li    mostra    sotto  un    aspetto    nuovo  ed    in- solito. Ci  sembra  che  (juesto  fatto  abbia  bisogno  di  essere dimostrato  in  particolare,  e  comincereino  perciò  dall'e- sann'nare  V iìn'oìHprcffsihilifà  della  jìroduzione  del  movi- mento per  la  volizione. §  5.  La  volontà  cessa  di  essere  riguardata  come causa  erticiente  del  movimento  delle  nostre  membra,  o, ciò  che  è  lo  stesso,  la  produzione  del  secondo  di  questi fenomeni  al  seguito  del  primo  diventa  incomprensibile, dacché    si  è    riconosciuto    che  i    fenomeni    in    realtà  si \ì —  342  - -  843 prodiu-ono  in  un  modo  ditferente  dall'idea  primitiva  che r  uomo    naturalnienre  se    ne    forma.    Noi    dobbiamo  in primo  luooo  osservare  che  la  generalizzazione  spontanea della  eostante  sequenza  tra  la  volizione  e  il  movimento non  è,  come  tutte  le  altre  induzioni  volgari    tirate  dalle esperienze  più  familiari,  che  una  semplice  generalizza- zione empirica,  mancante  della  precisione  e  del    rigore di  una  vera  legge  scientifica.  I  limiti  a  cui  noi  vediamo sottoposta  Terticacia  della    volontà    hastereb])ero  a  con- cluderne, dopo  che  la  riflessione  si  è  porrata  su  questo soggetto,  che  le  condizioni    delTazione    volontaria  sono più    complesse  di  ciuelle  che  la    generalizzazione  empi- rica comprende,  e  che  ((uesta  ci  lascia  in  un'ignoranza completa  sulle    vere    leggi  e  il   processo    reale   secondo cui  i  fenomeni  si  producono.  Perchè  le  membra  del  pa- ralitico non  obbediscono  al  comando  della  volontà  come quelle  dell'uomo  sano?  Ciò    indica  che   vi    hanno  al  di fuori  della  volontà  altre  condizioni,  dalla  cui    presenza o  assenza  dipende  che  il  movimento  si  produca  o  no  al seguito  della  volizione.    Anche  nello  stato  di    sanità,  i limiti  tra  cui  Timpero  della  volontà  è  circoscritto,  per cui,  mentre  la  volizione  può  muovere  certi  organi,  non può  muoverne  invece  certi  altri,  ìion  indicano  forse  an- ch'essi che  vi  hanno  certe  condizioni  dalla  cui    presen- za o  assenza  dipende  l'efficacia  o  Tinetìficacia  della  vo- lontà sopra  un  organo  determinato,  condizioni  cIkj  re- stano al  di  là  della  legge  empirica    volgare  sulla  rela- zione tra  la    volontà  e  il    movime,ntoV  (1)    D^lle    rifles- sioni di  (luest'ordine,  tendenti  a    mostrare  che  le  leggi e  il  meccanismo    dell'  azione    volontaria  restano  ignote alla  generalizzazione  empirica  volgare,  bastano  per  con- cluderne che  la    volontà  non    può  essere  la    causa   effi- ciente del  movimento  delle  nostre  membra,  perchè  essa (1)  Cfr.  Hume  Saggio  7.  parte  1. o  non  ne  è  la  causa  immediata  o  non  ne  è  almeno  la  cau« sa  completa  ;  e  che  la  produzione  dell'uno  di  questi  fe- nonìeni  al  seguito  dell'altro  non  è  uìì  fatto  che  si  com- prende perfettamente^  da  se  stesso,  come  sembra  natu- ralmente allo  s[)irito  che  non  ha  ancora  sottoposto  que- sto fatto  alla  rifiessione  scientifica.  Ma  v*ha  di  ])iù  :  ciò che  la  scienza  ci  apprende  di  (juesto  tneccanismo  del- r  azione  volontaria,  di  cui  le  riflessioni  precedenti  ci fanno  sos})ettare  l'esistenza,  senza  poter  determinarne la  natura,  ci  mostra,  non  solo  che  la  produzione  del movimento  al  seguito  della  volizione  noìi  è  un  fatto  che si  comi)rende  da  se  stesso,  ma  ancora  -he,  i  fatti  par- ziali in  cui  il  fatto  totale  si  deconqjone  essendo  essi stessi  incomfM-ensibili,  la  si)iegazione  seientifica  di  (pie- sto  fatto,  lungi  d'introdurre  degl'intermediari  esplica- tivi che  lo  facciano  comprendere,  lo  rende  assolutamente incomprensibile. Si  sa  in  efF(^tto  che  la  volontà  non  agisce  diretta- mente sulle  nostre  membra,  e  che  l'azione  di  un  mec- canismo a[)i)ropriato  è  necessaria,  affinchè  il  moviiiìento ordinato  dalla  volontà  sia  eseguito.  Se  le  parti  che  co- stituiscono questo  meccanismo  non  fossero  nello  stato normale,  se  esse  non  avessero  accumulato  della  forza per  lìiezzo  della  nutrizione  (poiché  la  volontà  potrebbe far  prendere  un'altra  forma  alla  forza  già  preesistente, ma  non  crearla),  il  movimento,  (piantunque  ordinato dalla  volontà,  non  j^otrebbe  prodursi.  Il  volere  non  può che  dare  la  prima  impulsione  a  questo  meccanismo  : fra  la  volizione  e  la  })roduzione  del  movimento  voluto si  pone  una  serie  numerosa  di  azioni  intermediarie,  la (piale  si  svolge  d'  una  maniera  puramente  automatica e  all'insaputa  della  coscienza.  Si  amnu^.tte  dai  fisiologi che  le  prime  parti  che  entrano  in  attività,  al  s.'guito della  volizione,  sono  dei  gruppi  di  cellule  di  sostanza nervosa,  situate  nella  porzione  anteriore  delln  corteccia —  nu —  345 (ie<i"lì  cMiiìsferì  cerebrali;  di  là  l'azione*  si  |)ropag'a,  per mezzo  di  eerti  nervi,  ad  altri  centri  motori  subordinati, ed  indi  ad  altri  nervi,  dai  (juali  eccitati  un  gran  nu- mero di  muscoli  si  mettono  in  contrazione,  ed  è  cosi che  è  finalmente  determinato  il  risultato  ultimo,  cioè l'esecuzione  del  movimento  voluto.  S'ia'nora  di  che  na- tura  sia  il  cani>'iamento  materiale  che  ha  luou'o  nei centri  nervosi  e  nei  ni'rvi  motori  mentre  essi  sono  in funzione  :  ma  si  suj)j);me  che  esso  consista  in  un  mo- vinuMito  n»olecolare.  Se  dunijue  la  volontà  produce  di- retramentc  (|ualche  movimento,  esso  non  è  certamente il  movinn'nto  voluto  «Ielle  membra,  ma  un  altro  mo- vimento che  uou  ha  con  (picsto  alcuna  somiiilianza, ci  oc  un  movimento  molecolare  in  (jualche  parte  del- la corteccia  cerebrale  :  ora  è  evidente,  che  la  vo- lontà non  potrebbe  sp/(\(/ar('  l'eft'etto  |)iii  mediato  e  più  lon tano.  cioè  il  movimento  delle  membra  che  essa  concepi- sce e  vuole,  se  non  in  ijuanto  essa  potesse  spiegare  lo effetto  prossimo  e  immediato,  cioè  il  movimento  mole- colare cht'  essa  non  concepisce  né  vuole.  In  questa  ca- tena di  tcMiomeni  successivi,  che  va  dalla  \olizione  al movimento  voluto,  non  vi  ha  un  legame  tra  i  due  anelli estremi,  se  non  in  (pianto  gli  anelli  intermediari  sono legati  fra  di  loro  e>  con  l'uno  e  l'altro  di  questi  estremi. Non  si  può  passare  da  un  estremo  all'  altro  senza  fare tutti  i  passi  intermediari:  se  vi  ha  un  sol  passo  che noi  non  possiamo  fare,  non  vi  iia  |)assaggio  i)ossibile dal  punto  di  ])artenza  al  j)unto  di  arrivo  ;  se  il  filo della  spiegazione  è  interrotto  in  un  s;.l  punto,  non  vi ha  più  legame  tra  il  primo  antecedente  e  il  conseguente ultimo,  l'uno  di  (juesti  due  fatti  non  può  sj)iegare  l'al- tro. (  )ra  vi  ha  certamente  un  passo  die  noi  non  pos- si* no  fare,  vi  ha  almeno  un  punto  in  cui  il  filo  della sj)iegazione  è  interrotto.  Ammettiamo  i)ure  che,  dato  il primo  effetto  tisico  della  volizione,  cioè  questo    cangia- mento che  essa  immediatanu^nte  produce  n(^i  centri  mo- tori del  cervello,  tutti  gli  altri  fi*nomeni  seguenti,  sino al  movimento  finale  delle  membra,  si  comj)rendano  per- fettamente. Ammettere  ciò  è  supi)orre  primo  che  tutti i  fenomeni  puranu^ite  fisici  dell'  azione  nervosa  e>  mu- scolare si  producano  meccanicaìnciìtc  (ogni  nziom^  tìsica irriduttibile  all'azione  movcnìììca  essendo,  come  abbiamo visto,  iììcoììtjtrPììs/bile);  e  secondo  che  le  leggi  secondo  cui avviene  l'azione  meccanica,  cioè  le  leggi  d(d  movimen to,  non  abl)iano  niente  d'  incom[»rensibile.  Di  «jUeste due  supj)Osizioni  la  prima  non  potre])l)e  provarsi,  e  la seconda  mosti-eremo  j)iù  giù  ciie  non  è  vera.  Ma  noi ammettei-emo  un  istante  queste  supposizioni,  p(M-  mo- strare la  difficoltà  sj)eciale  che  c'impedisee  di  compren- dere l'azione  volontaria.  (yJiiesta  difficoltà  consiste-  so- vratutto  ned  passaggio  dalla  volizione  al  suo  effetto  fi- sico innnediato  :  ciò  die  sembra  il  più  ine  )mprensibih'. neir  azione  volontaiia  è  come  si  produca,  al  seu'uito dcdla  volizione,  (piesto  cangiamento  fisico  che  è  1'  ori- gine di  tutti  gli  altri  ;  come,  avendo  noi  concepito  e voluto  un  certo  moviunmto,  l'effigi  to  sia,  non  (piesto  mo- vimento, ma  un  altro  differente,  che  noi  non  abbiamo voluto  né  concepito     1). (1)  IhiiiH'  <li(M'  :  «(Ili  (>;i,Li<'tti  su  cui  il  potere!  «Icllu  volontà si  si>Ì('lì;i  nuiuediatinucutc  non  sono  i  in«'nil)ri  stessi  che  devono essci'c  mossi,  ma  «lei  muscoli,  «lei  ncix'i.  dcjili  spiriti  animali, foi'sc  <[ual<dic  cosa  di  j)iù  sottile  <'  <li  ]nii  sco:i,)sciuto  ancora, ]H'V  mezzo  <li  cui  il  movimento  e  diffuso  successivamente  sino a  (lucsta  ]>artc^  del  coi'[)o  clic  ci  eravamo  immediatam<mte  i>ro- posti  <li  muovere.  l*oirehl)e  essi^rvi  una  prova  più  certa  che  la ]M>tenza  che  presiedei  alla  totalità  di  <{U(\sta  (perazionc,  lun;i,i «li  css(a-e  pienamente  e  direttanuiute  conosciuta  i>er  una  (•(scien- za intima.  «'  misteriosa  e  inintellij»ibilc  all'ultimo  ])unto?  I/ani- ma  vu(dc  un  certo  jivvenimento  :  tosto  se  ne  produce  un  altro atHatto  diiVercMite,  e  sconosciuto  a  noi  stessi  clie  vojuliann».  »  {Siuj- iji(t  \  1 1   parte  1). —  :m  — Ecco  dunque  come  il  niovinieuto  volontario,  che  ci sembra  il  più  evidente  e  naturale  dei  fenomeni,  sinché noi  lo  oniardiamo,  per  dir  cosi,  in  blocco,  ci  diviene strano  e  incomprtrJisibile  se  noi  cerchiamo  di  analizzarlo. È  su  (intesta  <lit!ic(»ltà  che  la  scuola  csirtesiiiua  (la  quale iiitroaussc  nella  lìl(»s«)tìa  moderna  il  concetto  elie  il  rapiM>r- to  tra  lo  spinto  e  il  c^n-pt»  è  in  se  stosso  incomprensibile)  si fondava  principalmente  ]r;'r  dimostrare  che  la  volontà  non  T- uiìa  ra.«iion  sufficiente  del  luovimento.  Ascoltiamo  Malebranche: «  Mi  pare  certi»  che  la  v«>b»utà  de.iili  sjdriti  non  ì'  capace  di  muo- vere il  luù  i)icc«do  c(»rp(»  eh"  vi  sia  al  mondo  :  poiché  è  evidente che  non  vi  ha  le.ixame  necessari.»  tra  la  volontà  che  noi  aìd»ia- n»o.   per  esemi»i(».  di    muover.'  il    nostro  ])raccio  e  il   iìu»vimento del  nostro    braccio P^^i'^'^"'  ^'*>"»^'  l^'»' tremmo  noi  muovere  il   nostro    l>raecio  ^    IVr    muoverlo    biso-iia avere  dejili  spiriti  animali,   inviaiìi  p^^r  eerti  nervi  verso  eerti  mu- setdi  per  .i-imlìarli  e  racciKviarìi:   i> 'r.-liè  è  eosi  che  il  brai-eio  cha vi  è  attaccato  si   muove,   o.   secondo  il  sentinuuiti»  di  alcuni  altri . non   si   sa  ancora  come  vih  si   fa.   E   noi     vediamo   che    de.i^li   uo- mini che  non  sanno    solamente  s'  essi   hanm»    de.iili    spiriti  .   dei nervi  e  dei  musccdi.   muovono  le   loro  braccia,  e  le  mu(»vono  an- che con   più  destre/.z;i  e    facilità  di  quelli  che    sanno   il    me-iio r;niat«>mia.    K  <lun(iue  che  -li   u<»mini    vo-lione    muovere  il   loro braccio.   «•  che   non    vi   ha   clu'    Dio  che   lo   ]»ossa  o  lo   sappia  mo- vere.  S(^  un  iKuno  mm  ]»uò  rovesciare   una   torre,     almeno  sa  ciò che  biso.irna   fare   per  rovesciarla  :   ma   non    vi   ha   uomo  che  sap- l>ia  sidamente  ciò  che  bisogiia   fare  p.'.r    muovere  uuo    deUe  sue dita   per  mezzo    degli    spiriti    animali.»    {Nir.   della  cerila,  1.   (>. ]),   il,  e.  :^)— .Similmente  Bayle  diee  :  «Noi  siaur»  tutti  c;>uviuti che  U!ii  chiave  mm    p  >fcr;'bb:^    sn'vifci   p':'    ni-ut  •  al   aprire  un forziere,  s*  noi   ignorassimo  ct>m-  ì>isojrna  impiegarla,  e  nondime- no noi  ci  tìguriamo  che  la   nostra  auim  i  é  la  eausa  emeiente  del movimento  delle  iu>stre  braccia,   quatumpie  essa  non     sai>pia  ne dove  sono  i   nervi  che  dev«»no  servire  a  questo     movimento  .   n«> dove  bisogna  i)reudere  gli  spiriti  animali  che  devono  scorrere  in (luesti  nervi»  {Risposta  alle  quistioni  rVan  provbieiale,  eap.  140). — Arnauld,   che   solitamente  ammette  con    Malebranche    V  impossi- 347 La  sequenza  tra  la  volizione  e  il  movimento  ci  sembra naturale  ed  evidente,  sinché  ci  limitiamo  a  rapportare  im- mediatamente i  due  fatti  l'utio  all'altro,  senza  tener  conto dei  fatti  intermediarii  :  ma  ci  sembra  strano  e  incom- prensibile, quando  U  nostro  |)ensiero  sostituisce  alla  sem- plice sequenza  primitiva  una  serie  complessa  di  azioni, intercalando  dei  nuovi  termini,  sconosciuti  nel  ])eriodo prescientitìco,  o  in  una  parola  (piando  il  fenomeno,  che prima  appariva  semplice,  viene  decomposto  nei  fenomeni elementari  da  cui  esso  risulta.  Il  semplice  fenomeno  }>ri- mitivamente  conosciuto,  cioè  la  sequenza  immediata  tra la  volontà  e  il  movimento,  sembra  naturale  e  perfe.tta- metite  comprensibile,  perchè  ci  è  familiare:  il  fenomeno decomposto  dalla  scienza  sembra  strano  e  incomprc^nsi- l)ile,  perchè  i  fenomeni  parziali  in  cui  esso  si  risolvo  non ci  sono  familiari.  La  spie,i>'azione  scientiHca  del  fenomeno non  è  niente  del  tutto  una  s/)fecj(uioì)e,  nel  senso  po- polare o  metafisico  della  parola;  mentre  qu(»sta  riduce ciò  che  non  è  familiare  a  ciò  che  lo  è,  la  scienza  al  con- trario riduce  ciò  che  è  familiare  a  ciò  che  n(ìn  lo  è  (l). ì>ilità  d'un'azione  reale  dello  spirito  sul  corpo  e  del  corpo  sullo sidrito.  mette  talora  in  dubbio  la  dottrina  ihe  />/o  ìhhi  ha  dato alVaniiìia  nostra  la  virta  reale  di  detvrìniaare  il  corso  drf/li  spi- riti verso  i  maseoli  delle  parti  del  nostro  eorpo  che  noi  lof/liamo tnuocere.  «  (Qualora  ciò  si  jjoti^sse  dimostrare,  non  pi>trebb(^  farsi se  non  per  la  ragione  che  l'anima  m)stra  non  sa  punto  ciò  che bisogna  fare  per  muovere  il  nostro  Ina  -ciò  ]>er  mezzo  d<'gli  spi- riti animali.»  (Dissertazione  sul  modo  in  cui  Dio  lia  fatto  i  mi- racoli «lell'antica.  legge  j)er  il   ministeri»  degli   angeli). (!)  Se  l'anima  sai)esse  ciò  <'he  l)is;>;ina  fare  pei-  mett»r«'  in movimento  le  sue  membra,  <[uan«b>  i^ssa  vu(»l  muoverle,  cioi' se  noi volessinn»  e  conce])issimo  le  azi(Mii  intermediarie  che  s*interi»on- gono  tra  la  volizione  e  il  nn)vimento  tinah\  Tazioiu'  Vi»lontaria non  si  trovereJd»e  così  sorprendente  e  iiu'omprensibilc  tv.  nota antecedente)  :  perchè  i  perchè  allora  ([ueste  azioni  intermcfliarie sarebbero  assimilate  alla  s(unplice  se<[uenz}j  familiare  tra  la  vo- lizione e  il  movimento  voluto. 348  — È  C-osi  che  i  fatti  più  familiari,  che  noi  crediamo  di  com- prendere ]ìerfertamente,  sottomessi  alla  riflessione  scien- titica,  diventano  anch'essi  incomprensibili  (1). s  li    Per  delle  ra^'ioni  analoghe,   Fazione  del  corpo (1,    Nel    ti'st.»    noi    mÌ>1.ì;miio    supi><>st..    clic   la   volontà   T'   rcal- nHM.tc   nnu   <;.us„   del  niovinicnt<»  «Ielle  nn'n.Um  :   nnn  causn  assai loMtnn:.    e   inronìplct.   -come,   dice    Huxley,   il    j,uanla)>arnera c\w  a-i    l'online  d'avan/are  è   la  causa  «lei  ni.>vinnMito  che  ta  pas- sare un  Ti-eno  da  una  sta/ione  ad  un'altra  -ma  scnqu-e  una  causa. Ma   il   fen«H.»eno   potrel.ì.e    inv<'ce   considerarsi   da   un  altro   punto di   vista  .   dal   <iuale    la    volontà   apparireUÌM'    come    n..n   avente   a vinovv  alcuna   induenza   sul   movimento  che  la   se-ue.    Infatti,  hi voli/ione   ha.   come  «lualsiasi   fenomeno  psh/nro  .   il   suo  c.rrela- tiv<.   fisH'o  .    da    CUI    essa    «li]»ende.   Tutto   il,mMesso  dell'  azione voh>ntaria.   inten'ssante  si   lo  spirito  <  he  il  corp.»,   consiste  dun-,pic   in   una   mmìc  di    fenomeni  .fisici  .    intercalati   da   alcuni  teno- nuM.i  psir/nci.    Su     «questi    fenomeni   psichici   d.   tutt.»   il   processo tìsico -P'-^i^-l»'^'*»    '''''   P«>^^i='i''«''^'  *^'^*'   ip«»resi:   può  darsi   che   il fenomeno   psichic.»   volizione   sia   ess.>   la  causa  dei  fenomeni  Usici c\w  rostantemente   lo  sc.ouimìì.  o  faccia   almeno    parte   di    «[uestn causu;   n.a   può  «larsi   invece   clu'    la    causa    sufliciente  dell'ai)pa- rizione  di  <iuesti   fenonuuii   sia   il   correlativo  tisic.»  d(d  fenomeno psichici,   volizione.   confonìUMuente  alle   le.-i    di    successione  dei fenonicni    puramente    fisici.     In    «piest'ultimi.    caso    il    fenomeno psiidiico  sjirehhe   semidicemente  un  epifenomeno  che  accompa-iia il  processo  tìsico,  il  .piale  si  svid-eivbhe  affatto  indip.'mh'ntement.' daess<..  AUora   nella  spie-azione  «lei  processo   tisico  -  psichi«M.  del- razi«.n«'   v«dontaria  s'inc«mtrereldK-n»   «lue   onlini    «riiuM.mprensi- bilità:   vi  sare]d>ero   le  inc«.mprensiì>ilità   c«miiini  a  tutte  le  azio- ni tìsiclH'.    la    siiccesHÌ«uie    «hd    f«Mi«Mueni    fisici    ««sseiuh.   cosi   iii«- splicahih'  in  «iuest«>  caso  come  in   tutti    -li    altri;    e    vi    sarebbe inoltre  la   incomprensibilità   particolare  al  caso,   deirapimrizu.m- di   certi    iVimmeiii    psichici    al    se-uito   «li   c«'rti    fem.meni    Hsici. Così    la    inc«.mprensiì)ilità   particolare    «lell'azii.ne    v(d«>ntaria    si ris«dverebbe  nella    incomprensibilità  di  cui   ì»assiamo   a   parlare nel  testo,  cioè  in  ciuella   dell'azione  del   corpo  siilb.  spiriti»  (in- veoo  che  «ìelh)  s]»irito  sul  corp<»ì. :U9 sullo  sj)irito  diviene  non  meno  misteriosa  che  razione dello  spirito  sul  corpo.  Tyndall  dic(»  :  (1).  Il  prol)lem«i della  connessione  tra  lo  spirito  e  il  cori)o  è  così  hìHoluhile nella  forma  ììwderna  die  lo  era  aranti  l'epoca  delle  ri- cerche scientifiche .  La  correlazione  tra  lo  stato  molecolare del  cervello  e  il  pensiero  è  sempliccMuente  empirica  :  non è  possibile  tra  i  due  fatti  una  deduzione  loo'ica,  non ])Ossiamo  |>assare  per  il  i-a^'imiamento  da  un  fenomeno all'altro  (2).  I  due  fenomeni  si  producono  insiem(^  ma non  sap])iamo  perchè:  noi  io-noriamo  assolutamente  «juale sia  il  leo'anie  tra  il  fatto  fisico  e  il  fatto  di  coscienza  di cui  il  primo  è  il  concomitantt^  costante,  non  possiamo scoprire  tra  di  essi  alcuna  connessione  necessaria.  <  Voi potrete  ris|)ondere,  egli  ao-o-iuno-e,  che  molte  deduzioni della  scienza  hatmo  cjuesto  carattere  (Tempirismo;  hi  de- duzione p.  e.  che  una  corrente  elettrica  circolante  in  una direzione  data  farà,  deviare  l'a^o  calamitato  in  una  di- rezione  definita;  ma  i  due  casi  differiscono  in  ciò,  che  se non  si  può  dinìostrare  rintiuenza  della  corrente  sulPao-o si  può  almeno  figurarsela,  e  noi  non  abl)iamo  alcun  dub- bio che  si  finirà  ])er  risolvere  meccanicamente*  il  ])ro- blenìa;  mentre  non  si  può  tio-urarsi  il  passaooio  dallo stato  fisico  del  cervello  ai  fatti  corrisjiondcMiti  del  sen- tinuMito  ». Noi  non  possiamo  convenire  con  Tvndall  che  il  i)ro- (1)  ]jv  forze  fi  siche  e  il  peìtsiero  nella  J/ei\  scienti  f.  scr.  1. ami.   (>. (2)  'I\vn«lall  ci  pr«'senta  «[ui  un  ulivo  esemiu«>  «bdla  nostra teinleiiza  a  credere  che  la  (MUinessione  tra  la  causa  ch«'  c<Miti«'in' la  ragion  sultìciente  del  su«)  ettetto.  «'  «iiu'sf  etf«^tt«>.  «l«'V«'  poter con«>scersi  a  i»ri«)ri,  in«lipen<lenteinent«'  dall' esi>erienza.  Di  \nn e-li  «là  a  «[uesta  c«»ii«>sceiiza  a  pri«>ri  il  «'aratt«*r«'  ])iù  determi- iiat«»  «li  una  «l«Mluzione  l«»!Lj,ica  :  n«)i  ve<lrenu»  in  seguito  «-Ik?  «pi«'- sta  «letej*minazi«ui<'!  «hdla  conn«'!ssi«»ne  causale  «^*  la  basi*  di  tutta una   (dass<'  «li   sist«'mi   metatisici. 850  — bleiua  della  connessione  tra  lo  spirito  e  il  corpo  si  pre- senti attualmente  così  insolubile  come  nel  periodo  pre- scientifico. In  quel   periodo  la  connessione  tra  lo  spirito e  il  corpo,  lungi  di  essere  un  problema  insolubile,  non era    niente   del   tutto    un  problema.    L'azione   del  corpo sullo  spirito  (love   sembrava   allora  un  fatto  evidente  e naturale  non  meno  che  l'azione  dello  spirito  sul  corpo, perchè  si  trattava  di  fatti    molto  familiari.  E  la  scienza che  rendei  (juesti   fatti  incomprensibili,  riducendo  dei  fe- nomeni che  sono  familiari  a  fenouìeni  che  non  lo  sono. Niente    di    più  naturale   ed    evidente,    innanzi  all't-poca scientifica,  del  fenomeno  della  percezione:  esso  diviene oscuro  e  misterioso    per    la    scienza,  la  quale  ci    mostra che  il  fenomeno  avviene  in  condizioni  ditt'erenti  da  quelle ^    in  cui  lo  concepisce  l'uomo  della  natura  [i\\   auvlie  abi- tualmente l'uomo  coltivato).    Sia  p.  e.  la  percezione  vi- suale: secondo  la  concezione  familiare  di    (|Uesto  feno- meno, le  condizioni  della  sua  produzione  sono  assai  sem- plici: basta  che  noi  abbiamo    oli  occhi    aj)erri.   che  non manchi  la  luce,  e  che  l'ogg-etto  ci  stia  d'innanzi.  Ma  la scienza  ci  a|)prende  che  non  è  l'oo-oetto   stesso  che  col- pisce la  nostra  vista,  ma  dei  rag-g-i  luminosi;  che  ([Uesti raii'ii'i  devono  eccitare  la  retina,    producendovi  un  can- giamento  fisico;    che   (luest'eccitazione   dene  propagarsi per  certi  nervi  sino  a  un  certo  posto  del  cervello;  e  che solo  a  quelle  condizioni  il  fenomeno  può  ])rodursi;  sicché  la causa  della  visione  non  è  la  presenza  di  un  oggetto  visi- bile innanzi  ad  occhi  che  possono    vedere,    ma  un  can- giamento fisico  in  certe  parti  del  nostro  sistema  nervoso. Di  [)iù  non  è  l'oggetto  stesso   che   noi  immediatamente vediamo,  conformemente  alla  concezione  primitiva,  ma è  un'immagine  subbiettiva  che  sorge  nel    nostro  spirito per  l'etìetto  di  questo  cangiamento  fisico.    La  sequenza tra  i  due  fatti  non  essendo  familiare,  essa  è  perciò  in- comprensibile —  La  storia  della  metafisica  ci  indica  che  il 851 fenomeno  si  comprende  perfettamente,  sinché  non  è  sot- tomesso all'analisi  scientifica.  Infatti  la  percezione  ha servito  d'intermediario  esplicativo  per  far  comprendere altri  fenomeni  :  la  teoria  della  visione  ideale  di  Platone, Malebranche,  ecc.  ha  per  oggetto  di  far  comprendere certi  fenomeni,  veri  o  supposti,  dello  spirito,  assimilan- doli al  fenomeno  familiare,  e  quindi  evidente  per  se  stes- so, della  percezione.  Altre  teorie  psicologiche,  come  quel- la deii'l'idoli  di  Democrito  o  (j[uella,  prevalente  nel  pri- mo periodo  della  filosofia  moderna,  delle  immagini  nel cervello,  hanno  avuto  per  oggetto  di  raccostare  più  che fosse  ])ossibile  la  nozione  scientifica  della  percezione alla  nozione  familiare,  la  sola  che  sia  conq)rensibile. Le  teorie  della  [tercezione  immediata  hanno  pure  lo  stesso scojjo.  Noi  tratteremo  (luesrargonumto  con  gli  svilupj)i neccessari   nella  2.  ])arte  di  <|uesto  Saggio. La  stessa  incomprensibilità  che  si  trova  nella  per- cezione s'  incontra  naturalmente  in  tatti  gli  altri  feno- meiìi  psichici  :  sia  che  si  tratti  della  percezione  ovvero  di una  sensazione  qualunque  o  del  pensiero,  la  sequen/.a tra  la  condizione  fisica  (^  il  fenomeno  psichico  ci  sem- bra misteriosa,  perchè  essa  è  un  dato  della  scienza,  e non  della  nostra  esperienza  familiare.  Noi  troviamo perfettamente  comprensibile  e  naturale  che  un  j)ensiero venga  al  seguito  di  altri  pensieri,  secondo  il  tilo  delle idee,  perchè  è  un  fenomeno  a  noi  familiare;  ma  troviamo incompr<Misibile  e  sorprendente  ch'esso  venga  al  seguito di  un  certo  cangiamento  nel  cervello,  perchè  il  fenomeno non  ci  è  familiare. La  connessione  tra  lo  s[)irìto  e  il  corpo  sembra  tra tutti  i  fenomeni  il  più  incomprensibile:  ciò  è  ])erchè,  se per  i  fenomeni  puramente  fisici  noi  possianni  immagi- nare ch'essi  potrebbero  ess(;r«)  spiegati  meccanica  niente, e  ch(^  il  mistero  della  loro  produzione  verrebbe  così diminuito,    se   non   affatto  eliminato  ;  non   vi   ha  invece iiWnu  intc.niKuliario  esplicativo  iiiiiiia^'iuabile  che  possa rendere  più  iiitellioihili  i  rapporti   tra  il   tìsico  e  il  men- tale. Noi   i)otremino  Insin.uarci   che   una   conoscenza  in- tima (lei  fenomeni  che  costituiscono  tutto   il    lato   fisico della    vita    mentale,    dalla    stimolazione    ricevuta    dag'li or^>ani  esteriori   dei   nostri  sensi   sino   ai    movimenti  ap- propriati con  cui  l'or^-anismo  risponde  a  «iiiesta  stimo- lazione, (che  sono  i  due  termini  tra  cui  si  svol<;e,  pres.^'a poco,   tutto  il   tenomeno  psichico),  ci  dare))l)e  la  spie<>"a- zione  tìsica  di  (luesti  fenomeni,    la  più  comi)leta  di  cui un  fenomeno  tìsico  sia  suscettibile,  mostrando  che  la  loro ])roduzione  è  conforme  a  quella  dei  movimenti  delle  masse osservabili  con  cui   noi  siamo  familiarizzati.   'Sin  non  vi ha  nìcccanismn  che  possa  renderci  più  concepibile  la  com- parsa di  (piesto    epifenomeno  che  accompag'na  il  movi- mento  moliH-olare   del  cervello  e  dei  nervi,  cioè  il  sen- timento (^  il  pensiero  (l  .  Tutte  le  spiegazioni  dei  meta- tìsici  delTazione  mutua  tra  lo  spirito  e  il  corpo  si  ridu- cono alle  ipotesi   delle  cause  occasionali   e  deirarmonia prestabilita:    (pusste    spiegazioni  volgono   in   una   sorta di  circolo  vizioso,  poiché  come  intermediario  esplicativo per  far  com[)rendere  il   fenomeno  si  servono  di  un  caso del  fenomeno    stesso,    che    dichiarano  in  se  incompren- sibile (2). (1)  «  Fiii.i;isim<>.  <li<'<'  li<'ilniitz.  cIh'  vi  siji  min  iii;icclìin:i  hi  cui stnittiira  Wu-i-iu  immismi'c,  seiitin'.  mv^tc  pcrccziinu':  si  potrà  cmi- (•('pirhi  iii-nnMlit;i  consrrvjnuh)  le  stesse  ].n»i)orzioui,  di  s..rta vhv  vi  si  iMJssji  (Mitnn-c  muìv  in  mi  imilino.  C'iò  u*)st().  non  vi si  tn>vi'r:i.  visitmKlolsi  -A  dì  deiitn),  clic  dei  im'ZZÌ  clic,  si  spiu- uono  oli  mii  c(Hi  -li  nitri,  e  non  nini  .li  clic  siùc-niv min  i>crcc- zinne».   (Monndolo«iin.   ii.    17). (2)  I  h-noineiii  .h'il'nzionc  imitiin  trn  lo  spirito  "e  il  corpo non  si  prescntnvnuo  ni  filosofi  -reci  con  j-li  stessi  cnratteri  di niisfero  e  (rinconcepihilitn.  con  <Mii   si   pres«'ntnno  nelln   tilosotìn 353 §  7.  Passando  all'attività  interiore  dello  spirito,  co- minceremo per  una  ritìessione  analoga  a  quella  con  cui abbiamo  incominciato  le  nostre  osservazioni  sulla  sua attività    esteriore.  Il    carattere  vago    delle  general izza- nioderna,  nella  qiinle  si  i;iìin.i;e  sino  n  un  diinlisnio  nssoluto.  i)ci cui  dello  siiiiito  e  del  corpo  si  fnnno  due  mondi  n  pnrtc.  indi- ])endeiiti  l'uno  dnll'altro,  pei-  In  difHcoltn  di  conquendcre  In  loro eounessioiic.  È  perchè  ni  filos(>fì  «;reci  facciano  difetti»  1<'  cono- scenze ])ositive  concernenti  .!;li  orfani  fisici  delln  i>siclic.  e«l  è  la ]»nrte  che  «[uesti  orjiani  ju'endono  nei  fenomeni,  interponendosi tra  r  azione  del  mondo  esteriore  e  lo  spirito,  e  trn  (luesto  e  la reazione  sul  mondo  esteriore,  che  rende  sovrntutto  incompi-en- sibili  i  rapi»orti  frn  lo  spirito  e  la  materia.  J^'incoini>rensilnlitn comincia  n  sentirsi,  e  delle  spie<>azioni  c-omincinno  nd  immnu;i- nnrsi.  (piando  si  è  liià  incominciato  a  formnrsi  <lelle  idee  esntte suirnnatomia  e  la  1isiohi.i»ia  di  ([uesti  orinili,  come  noi  possinino vedere  in  Oaleno.  Come  abbinino  detto  nel  cnpitolo  II.  (rnleno trova  sorprendente  come  noi  possiamo  servirci  convenientemente dei  nostri  muscoli,  ]>er  esempio  di  <|uelli  che  fanno  esei»uire  alla liniiun  i  movimenti  ndjtttati  nlln  pronunzin  «Ielle  pnrole  che voulinim»  ])ronuiizinre.  <[uniido  noi  non  nbliinmo  nlcuiin  conosctMiza uè  di  questi  muscoli,  uè,  ([uel  che  è  più.  «h'i  loro  nervi,  (cfr. In  nota  anteced.  su  Mnlebranche,  Arnauld.  Bayle):  e  fa  men- zione della  s|)ieoazione  di  nlciini  medici,  i  <[unli  su]>]Mmevn.no che  i  muscoli  sono  come  de«z;li  nnimali  che  i>ercepisc<nio  la  vo- lontà deiranimale  maji«>iore  a  cui  stanno  nttnccnti,  <'  fnnno  tutto ciò  che  è  necessario  jier  eseguirhi,  ( Delld  fonnuzlonc  del  feto). In  ([uesta  curiosa  spiegazione  (che  ])er  altro  è  costruitn  sullo stesso  tipo  generale  che  le  ipotesi  moderne  delhi  cniise  occnsio- nali  e  deirarmonia  prestnbilita)  noi  vedinmo  fungere  dn  inter- mediario esplicativo  <lel  fenomeno,  considerato  nel  suo  («incetto scientifico,  il  concetto  familiare  del  tV^uomeiio  stesso:  poiché  l'a- nimale  muscolo  è  ritenuto  lu'odurre  immediatamente  i  i»ropri movimenti  per  il  volere,  come  nella  raiipresentazione  iirescien- titìca  della  nostra  azione  volontaria,  e  s<'nza  bisogno  d'ini]>ie- oare  come  mezzi  <lei  muscoli  e  dei  nervi,  come  la  sci«'nza mostra  die  dev(5  fnre  ranimnle   maggiore. 23 354  — ziotii  emj)iriche,  c'h(^  noi  ci    formiamo    spontaneamente sui  fenomeni  psichici,  prima  di  averli    sottoposti  a  uno studio  scientifico,  ci  fa  -'ià   presentire  l'esistenza  di  leg'- gi  e  di  un  meccanismo  io^uoti  nella  produzione  di  que- sti fenomeni,  innanzi  che  la  scienza  cominci  a  svelarci <jueste  leggi  e  questo  meccanismo:  ciò  basta  a  conclu- derne   che  noi  ignoriamo  il  come  di  questa  ])roduzione e  le  cause  produttrici  o  efficienti,  e  a    metterci    cosi  in contraddizione  con  (luesto  sentimento  naturale,  per  cui le  forme    familiari    della    nostra  attività    interiore  sem- brano COSI  perfettamente  comprensibili  ed   evidenti  per se  stesse  che  divengono  il  tipo  di  tutta  una  classe  d'i- potesi metafisiche  per  la  spiegazione  universale  dei  feno- meni. Che  >i   rifletta,   per    esempio,    suirinfluenza   della volontà  sul  cor.^o  delle  nostre  idee.    Quest'  influenza  ci sembra  dapprima,  in  ragione  della  sua  familiarità,  un fatto    perfettamente    naturale  e  che  non  ha    bisogno  di spiegazione,    egualmente  che    V  efficacia  della    volontà per    determinare  i  nostri    movimenti  :  ma    avviene   per la  prima  come  i>er  la  seconda  ;  cioè   basta  di    riflettere alla  sua  limitazione,    perchè  il    meccanismo  e  le   leggi secondo  cui  (pu^st'influenza  si  esercita  diventino  un  pro- blema, e  noi  cessiamo  di  trovarla  cosi  naturale  e  com- prensibile- come  essa  ci  sembrava.  Perchè  abbiamo  noi meno  autorità  sui  nostri  sentimenti  e  sulle  nostre   pas. sioni,  che  non  ne  abbiamo  sulle  nostre    idee,    sebbene questa  stessa  sia  reacchiusa  in  limiti  strettissimi  ?  Qual è  la  ragione  primitiva  di  ((uestc  differenti  limitazioni? Perchè  quest'impero  che  abbiamo  su  noi  non  è  lo  stesso in  ogni  tempo?  perchè  è  più  grande  in  un  uomo  sano che  in  un  uomo  malato,  a  digiune    che    dopo  un  gran pasto?  T/effetto    non    di])ende  qui,  domanda  Hume,  da un  meccanismo  secreto,  da  una  struttura  nascosta,  sia nello  s|)irito,  sia  nel  corpo?  (1). (1)  Saji.iiio  7.   \mi'\v Possiamo  noi  forse  sperare  che  la  scoperta  del  mec- cahismo  e  delle    leggi    fondamentali   che  governano  la successione    dei    fenomeni   interni,     eliminerà    V  incom- prensibilità della  loro  produzione?  Al  contrario,  anche qui  avviene  lo  stesso    che    per  i  fenomeni   della  nostra attività  esteriore:  ogni    progresso    delle    conoscenze  in questo    senso,    lungi    di    diminuire    T  incomprensibilità, non  tende  che  ad  accrescerla.  Il   più  gran  passo  che  si sia  fatto  verso  la  sottomissione  dei  fenomeni  psichici  a delle  leggi  così  precise    come    quelle  che  governano  la successione    dei    fenomeni    esteriori,  è  certamente  l'ap- plicazione universale    ai    fatti    dello    spirito  delle    leggi dell'associazione.  Ora  queste  leggi   sono   lungi    di    sem- bì-arci  cosi  naturali  e  perfettamente  comprensibili  come i  fenomeni  familiari  di  cui  esse   danno    la  spiegazione, come  ricordarsi,  ragionare,    volere.   Questi  ci  sembrano dei   fatti    che    si    comprendono  da  ^è  e  che  non    hanno bisogno  di  essere  spiegati;  lo  psicologo  che  li  analizza, riducendoli    alle    leggi  dell'associazione,  ci  sembra  che spieghi  il    chiaro  per    l'  oscuro.    Stabilire    una    connes- sione evidente    fra    certe    proposizioni  e  certe  altre  noi troviamo  che  è  un  fatto    più  naturale  che  la  forza  che unisce  un'idea  ad  un'altra  in  ragione    della   loro  somi- glianza o  della  loro  opposizione    o    della    contiguità  in cui  si  sono  trovate  nella  nostra  esperienza  passata.  Noi troviamo  anche  perfettamente  naturale  che,  avendo  sete, vogliamo  fare  i  movimenti  che   occorrono  per  prendere una  bevanda  e  portarla    alle    nostre   labbra  :  quando  il filosofo  associazionista  ci  spiega  che  ciò  avviene  perchè le  leggi  dell'associazione  hanno  stabilito   delle   coesioni definite  tra  certi    sentimenti  e  certe  azioni  o  le  idee  di queste  azioni,    noi    troviamo    che    i    i)rincipii  su   cui  si fonda   questa  spiegazione  sono   meno  comprensibili  del fatto  che  si  tratta  di  spiegare.  Per  provare  che  le  leggi dell'associazione  ci  sembrano    in    certo  modo  arbitrarie, e  certamente  non  così  naturali  che  i  fenoniéni  familiari alla  cui  spieo-azione  veno-ono  applicate,  basterebbe  l'ul- timo capitolo  del  2.  libro  del  Saggio  suW mtendlmeuto  di Locke:  è  in  certe  «bizzarrie»  e  «stravaganze»  dello  spi- rito, che  paragona  alla  follìa,  in  certe  unioni  fortuite di  «  idee  che  per  se  stesse  non  hanno  assolutamciute  alcuna connessione  naturale»,  o,  come  ancora  le  chiama,  in certe  «  combinazioni  d'idee  mal  fondate  e  contrarie  alla natura»,  che  eoli  vede  il  prodotto  delle  leg-oi  dell'as- sociazione. Ciascuno  del  resto  avrà  potuto  osservare che  qujindo  nel  discorso  ordinario  si  parla  dell'associa- zione delle  idee,  è  quasi  sempre  a  proposito  di  (|ueste unioni  bizzarre  e  irreg-olari.  Lo  psicologo,  riconducendo alle  leggi  dell'associazione  le  connessioni  i)iù  naturali tra  i  nostri  pensieri,  riconduce  ciò  che  è  più  familiare a  ciò  che  è  meno  familiare,  e  per  conseguenza  ciò  che ci  sembra  perfettamente  naturale  e  comprensibile  a  ciò che  ci  sembra  strano  o  almeno  nu'no  com]n-ensibile. Forse  si  dubiterà    del*   valore    della    teoria    associa- zionista  come  spiegazione  universale  dei  fatti  dello  spi- rito, e  io  inclino  a  credere  che  questo   dubbio   non  sa- rebbe senza  fondamento  :   ma  ciò  non  ha  importanza  per la  nostra  tesi  generale.  Ammettiamo  che    la  psicologia finirà  per  riconoscere  l'esistenza  di  altri  principii  della 3onnessione  tra  i  fenomeni    interni,    così    primitivi   che (pielli  ammessi   dalla  teoria  associazionista  :  (|ualunque siano    i    principii  elementari    a    cui    l'analisi  ridurrà  le operazioni  del  nostro  spirito,  noi  saremo  sempre  meno familiarizzati  con  gli  elementi  che  coi  loro  risultati  più ordinari,  e  le  leggi  precise  dei  fatti  psichici,  qualunque esse  siano,  appunto  perchè  saranno  delle  scoverte  della scienza  e  non  dei  dati  della  nostra  esperienza  familiare, parranno  necessariamente  meno  comprensibili  in  se  stes- se che  le  generalizzazioni  empiriche   che    noi   facciamo spontaneamente  sui  più  familiari  di  questi  fatti. Che  dire  quando  i  fenomeni  psichici  si  considerano, non  più  in  se  stessi,  ma  nelle  loro  condizioni  materiali  V Allora  le  associazioni  tra  le  idee  devono  spiegarsi  per le  associazioni  tra  le  azioni  nervose  che  sono  i  corre- lativi costanti  delle  idee,  e  per  le  leggi  della  correla- zione tra  (jueste  e  quelle:  ohscunun  per  obscuriìts  f  In realtà  le  operazioni  della  psiche  consistono  in  una  serie di  fatti  fisici,  intercalati  da  fatti  di  coscienza  :  sia  che si  aiinnetta  <*he  il  fatto  di  coscienza  abbia  un'influenza sullo  sviluppo  della  serie  successiva,  sin  che  si  ammetta che  la  successione  dei  fenomeni  fisici  si  svolga  d'una maniera  indipendente,  e  che  il  fatto  di  coscienza  sia  un sem])lice  epifenomeno  senz' alcuna  efficacia  causale; nell'un  caso  e  nell'altro  noi  ci  troviamo  di  fronte  alla incomprensibilità  della  connessione  tra  il  fisico  e  il mentale.  Così  ciascun  passo  che  la  scienza  fa  verso  la spiegazione  dei  fatti  dell'attività  interna  (di  (juesti  fatti che,  prima  della  riflessione  scientifica,  sembravano  com- prendersi j)erfettamente  da  se  stessi,  e  non  aver  bisogno di  alcuna  spiegazione),  li  rende  sempre  più  incompren- si  1)111.  riconducendo  sempre  ciò  che  è  più  a  ciò  che  è meno  familiare. i>  «S.  Passiamo  ai  fenomeììi  puramente  fisici.  Noi ab])iamo  visto  perchè  alcuni  tra  i  più  familiari  di  que- sti fenomeni  diventino  incomprensibili.  Abbiamo  osser- vato che  la  caduta  dei  gravi  cessa  di  essere  compren- sibile dopo  la  concezione  degli  antipodi,  e  più  ancora dopo  la  teoria  dell'attrazione  universale  :  abbiamo  os- servato pure  che  la  coesione  tra  le  parti  costitutive  di un  solido  diviene  un  mistero  dopo  la  dottrina  dei  fisici della  costituzione  molecolare  dei  corpi,  e  che  questo mistero  si  estende  necessariamente  ad  altre  azioni  fisi- che che  presuppongono  la  coesione,  quali  la  trazione e  la  divisione  di  un  corpo  per  l'intrusione  di  un  altro. In    questi    casi  è  evidente  che  il  fatto,  che  immediata- 358  — mente  sembra  comprensibilissimo,  perchè  familiare, acquista  un  aspetto  misterioso,  dopo  che  si  è  sot- tomesso a  uno  studio  scientifico,  perchè  viene  ricon- dotto ad  altri  fatti  che  non  sono  familiari.  Ci  resta a  parlare  di  quello  tra  i  fenomeni  tisici  che  è  ri- tenuto il  i)iù  intelligibile,  e  al  quale  perciò  si  è cercato  di  ricondurre  tutti  gli  altri,  vale  a  dire  del movimento  prodotto  dairimpulsione,  per  mostrare  che questo  non  fa  eccezione  alla  regola,  e  che  anch'esso perde,  esaminato  alla  luce  della  scienza,  la  sua  intelli- gibilità primitiva. I  fenomeni  familiari  del  movimento  meccanico  sem- brano perfettamente  comprensibili  in  se  stessi,  sinché non  si  pensa  alle  precise  leggi  quantitative  a  cui  essi sono  sottoposti  :  è  la  conoscenza  li  queste  leggi  che  li rende  misteriosi,  e  fa  sentire  il  bisogno  dì  una  spie- gazione. La  legge  suprema  che  domina  questi  fenome- ni, cioè  Tinvariabilità  (piantitativa  della  forza,  il  prin- cipio che  la  forza  non  si  distrugge  né  si  crea,  non  è una  suggestione  delle  nostre  esperienze  familiari,  ma il  portato  di  una  lunga  riflessione  scientifica.  Ne  segue che  essa  ci  sembra  misteriosa,  e  che  tutti  i  fenonu^ni  in cui  essa  trova  la  sua  applicazione,  ci  appariscono  come effetti  di  cause  sconosciute.  Perchè  nella  collisione  di due  corpi  l'uno  acquista  la  stessa  quantità  di  forza  che l'altro  perde?  e  perchè  esso  ritiene  la  forza  ricevuta, in  modo  che,  se  non  fosse  sottoposto  all'azione  di  altri corpi,  continuer(ibbe  indefinitamente  a  muoversi  con  la stessa  energia?  Evidentemente  l'uno  e  l'altro  di  questi fatti  non  possono  essere  di  quelli  che  sembrano  portare in  se  stessi  la  propria  spiegazione  :  perciò  bisognerebbe che  dei  rapporti  quantitativi  cosi  precisi  come  quelli che  essi  contengono,  potessero  essere  delle  generalizza- zioni spontanee  immediatamente  suggerite  dalle  nostre osservazioni    più   familiari.   Il    secondo    di    questi   ffitti 359 anzi,  lungi  di  essere  una  suggestione  delle  nostre  os- servazioni più  familiari,  è  loro  apparentemente  contra- rio, perchè  noi  vediamo  ogni  corpo  in  movimento  per- dere gradualmente  la  sua  velocità,  e  fermarsi  infine  da se  stesso.  Così  se  i  fenomeni  del  movimento  meccanico sono  familiari,  le  loro  leggi  non  lo  sono.  Ciò  basta perchè  questi  fenomeni,  che  senibrano  i  più  intelligibili di  tutti,  abbiano  nondimeno  anch'essi  la  loro  parte  di incomprensibilità. Le  considerazioni  precedenti  ci  fanno  comprendere perchè  la  nozione  della  /b;'.2^^    nel    senso    trascendente della  parola,  di  quest'agente  misterioso,  il  cui  dominio sembrerebbe  non  dover  oltrepassare  le  azioni  fisiche  che non  ci  sono  familiari  (quali  sono  quelle  a  distanza),  si sia  nondimeno  introdotta  anche  nei  fenomeni   familiari dell'azione  meccanica.  Esse  ci  fanno  comprendere  pure perchè  dei  filosofi,  die  hanno  il  più  energicamente   so- stenuto la  necessità  di  ricondurre  tutti  i  fenomeni  fisici all'azione    meccanica,  come  la  sola  intelligibile,   quali Cartesio,  Malebranche,  Leibnitz,  hanno  sentito  tuttavia  il bisogno  di  sovrapporre,  per  dir  cosi,  alla  loro  spiegazione meccanica  un  cappelletto  metafisico,  ciò  che  essi  non  a- vrebbero  fatto,  sei  principii  della  teoria  meccanica  fossero loro  sembrati  perfettamente  comprensibili   i)er  se  stessi. Queste  parole  di  Leibnitz  :  «Tutto  si  fa  meccanicamente nella  natura,  ma  i  ])rincipii   del  meccanismo    derivano da  una  sorgente  superiore»  —  par.>le  che  potrebbero  ser- vire di  emblema  a  tutto  un  pi^riodo    della    storia    della metafisica  moderna— sono  l'espressione  di  questo  doppio aspetto,  Tuno  intelligibile  e  l'altro  misterioso,  che  i  fe- nomeni del  movimento  meccanico  presentano  alternati- vamente al  nostro  pensiero.  La  contraddizione  che  noi abbiamo  segnalata  in  Leibnitz,  il  quale,  mentre  riconosce nell'impulsione  tutti  i  caratteri  deWa  causa  efficiente,  nega al  tempo  stesso  1'  azione  reale  tra  il  corpo  urtante  e  il m)  — corj)0  urtato,  non  dipende  semplicemente  da  una  dispa- rità tra  i  risultati  ottenuti  nelle  speculazioni  sulla  cosa in  se  della  materia  i  teoria  delle  monadi)  e  quelli  otte- nuti a  un  altro  punto  di  vista,  cioè  nella  considerazione pura  e  semplice  dell'incatenamento  causale  dei  fenomeni. La  contraddizione  sori*'eva  già  sul  terreno  stesso  della ricerca  delle  cause.  Mentre  da  un  lato  la  produzione  del movimento  per  V  im})ulsione  sembrava  a  Leibnitz  per- fettamente intelligibile  in  se  stessa  (ciò  che  è  un'  altra ^espressione  per  dire  che  l'impulsione  è  la  atffsa  efficmite del  movimento),  da  un  altro  lato  la  considerazione  delle leiiii'i  del  movimento  i>li  faceva  sentire  il  bisog'no  di spiegarle,  e  di  ricorrere  perciò  a  delle  cause  metaempi- riche  del  fenomeno.  Così  la  teoria  delle  monadi  e  quella connessa  dell'  armonia  prestabilita,  quantunque  nate  al punto  di  vista  della  ricerca  della  com  in  .sr,  venivano a  proposito  per  risolvere  un  problema  nato  al  punto  di vista  della  ricerca  delle  cause  efficìeìifi.  fornendo  delle cause  più  iiitellig-ibili,  e  quindi,  per  dir  così,  più  effi- rieììfi .  che  l'impulsione  stessa,  la  cui  intellig'ibilità  e, quindi,  la  cui  cfficieiìza^  si  era  trovata  equivoca. Concludiamo.  Noi  al)biamo  stabilito  il  principio  che i  fenomeni  familiari  ci  sembrano  comprendersi  |)erfet- tamente  da  se  stessi,  mentre  tutti  gli  altri  ci  sembrano incomprensibili,  a  meno  che  non  possiamo  spiegarli,  ri- conducendoli ai  primi.  Ora  questo  priiu-ipio  poteva sembrare  in  contraddizione  col  fatto  che  i  fenomeni stessi  più  familiari,  al  fondo,  ci  sembrano  anch'  essi incomprensibili.  Noi  abbiamo  spieg'ata  quest'  apparente contraddizione,  mostrando  che  (fuesti  fenomeni,  intelli- g'ibili  sinché  noi  li  consideriamo  al  punto  di  vista  vol- gare, secondo  le  prime  nozioni  attinte  nella  nostra  vita ili  tutti  i  giorni,  diventano  misteriosi  alla  riflessione scientifica  che  ce  li  fa  vedere  sotto  un  aspetto  nuovo -ed  insolito.  La  riflessione  scientifica  produce  l'effetto  di -  m\  — togliere  a  questi  fenomeni  la  loro  intellig'ibilità,  per  di così,  natia,  sia  mostrando  che  il  loro  modo  reale  di  pro- duzione e  le  veri  leg'g'i  da  cui  dipendono  e-i  sono  ancora sconosciuti,  sia,  circostanza  j)iù  importnnte,  facendoci conoscere  (juesto  modo  di  {produzione  e  (jueste  leg'g*i, che,  sicconu'.  non  ci  sono  familiari,  ci  a[)pariscono  perciò incomprensibili  d).  La  scienza  riconduce  così  il  familiare (1)  A  <[U(*sti  line  motivi  generali  del  hi  iiicoiiijUMMisilulitji  (h'i fc.iioiiicui  t'iMiiiliari  iic  (lohlnaiiio  annimijucrc  un  terzo.  (^>iu'sti  (bic motivi  si  rapjMH'tsnio  «lircttaiiH'iitc  alla  cousiilcrazioiic  «h'ITiiica- tciiaiiKMito  causale  dei  f('iu)UH'UÌ  :  ma  il  terzo  dipende  dall'  in- troduzione di  certe  ipotesi  metafisiche,  le  <[uali.  r>enza  relazione, ])er  la  loro  origine,  con  la  <'onsiderazioue  dell<'  cause  etlicienti, eontriluiiscono  anciresse  a  l'ciulerci  i  lenonuMii  ininlellinihili  nella loro  causazi<uie.  (.Quando  alla  <|uistione:  <|ual  e  la  ro.sv/  ììi  sì'  del fenomeno  nuiteria  t  si  risponde  (die  «(uesta  rosa  itt  si-  è  scoim- seiuta.  o  è  un  (die  di  affatto  differente  dall'  idea  primitiva  (  lic co  uè  danno  le  sue  ;ip]>arenze  fenonu'nali  (come  pei-  (\sempio  n(d sistema  leibnitziam»  d(dle  monadi),  allora  si  di(liiaia  implicita- mente (du*  tutto  ci(»  (die  mn  con(>sciamo  d(drincatenaniento  caii- sal(^  dei  fenomeni  n(ui  è  che  ap])arenza  .  i  lemnucni  slessi  jum essendo  (die  apparenze  .  e  (die  il  modo  reale  d(dla  ju'oduziom: 4l(dle  c(KS(^  si  cela,  airesperieuza  .  e  si  juii»  an(  he  ^iun.u,('re  .  cou Jjcihnitz.  a  nejiai'c  ([iialsiasi  azione  l'eale  ti'a  le  cose.  La  conce- zione  metafisica  d(dl(>  s])irito  come  una  sostanzff  (coucezume  ni- di])endeute  sì  dalla  ricerca  dejle  ntHsc  effìcivuH  (he  da  ([lulla d(dla  rosa  iti  si-,  e  di  cui  a  suo  luo;;()  spieu;h(M-emi)  rori«;in(,'j  ha lud  dominio  dei  f"a,tti  psi(diici  lo  stesso  effetto  c]r^  in  ([indio  d(ii fatti  fisi(d  l'idea  della  rostf  in  si',  distinta  dai  fenonn',ui,  vale  a diro  essa  accresci^  rinintelli^ihilità  della  loro  ju-oduzioue.  K  (;vi- 'leute  v\n'.  il  pr(d)Iema  della  conn(^ssione  tra  il  tisico  (^  il  mentale 61  C(nnplica  di  nuove  (liffic(dtà  .  (lop(>  (die  la  dottrina  (hdla  so_ stanza  anima  ha  scisso  l'uomo  in  due  (esseri,  v,  per  dir  così,  in- dile uomini,  distinti.  Allora,  pei'  escmi)io  .  il  i>otere  dell'  essere <die  viKile,  su  se  stesso,  divieue  il  jjotere  di  ((uest'ess(^r(i,  non  su  se stesso,    ma    su    di   un   altro  essere   separato,    il   (die  (*   neccs>ai'ia- 362 al  non  familiare,  o  spiegando  il  fenomeno  familiare  e ridiu-endolo  ad  altri  fenomeni  non  familiari,  o  mostran- doci che  le  leggi  che  reggono  il  fenomeno  non  sono familiari,  quantunque  il  fenomeno  lo  sia.  Di  questa  ma- niera r  apparente  contraddizione  al  i)rincipio  si  risolve in  una  vera  conferma  del  principio  stesso  ;  e  possiamo ammettere  come  stabilito  che  la  ('ompremibìlità  o  Incom- prenHÌbilità  di  un  fatto  sono  dei  fenomeni  psicologici  che dipendono  dalla  familkintà  o  non  fcunillnrltà  di  questo fatto  (  l  ). §  9.  Le  considerazioni  ]>recedenti  ci  offrono  un dato  inqjortante  perla  soluzione  della  quistione  :  quale sia  il  valore  obbiettivo  di  questa  tendenza  naturale  del nostro  spirito  a  ricondurre  i  fenomeni  che  non  ci  sono iiienU'  più  iiiconipiviisibilt'.  luni  fosso  por  altro,  por  im'jq)plio}i- ziono  dol  i»riiioipio  v\\v  stabiliamo  noi  tosto.  ]>oroln',  (lualiiiuiuc siano  i  nostri  (lo*;nii  lilosotici  o  roli<j;josi  .  t^  oorto  olio  abitual- niento  non  ò  sotto  quosto  punto  di  vista  olio  noi  considorianio Faziont*  vobuitaria.  Lo  stosso  aunionto  di  inistoro  noi  fononioni puranionto  nii-ntali:  <inando  i  nostri  atti  divontano  )r\\  atti  di  un ossoro  trasoondonto,  il  modo  della  loro  ]H'f>du/iono  ò  nooessaria- monto  soonosoiuto  od  inconq>ronsibilo.  talo  ossondo  l'agonto  ohe li  produce  .  o  al  di  là  dolh-  condizicmi  ompiriolio  doi  fononu'ui, e  fors'anoho  in  luouo  di  osso,  stanno,  come  cause  di  questi  le- nomoni,  la  natura  o  lo  pnqu'icità  Tti   una  cosa   inosco.uitabile. (1)  È  chiaro  che  ciò  devo  intondortii  della  conqu-onsibilità  e inoompreusibilità  in  un  corto  senso.  La  ]»anda  coniprcHdcrc  ha due  sensi  .  coiiispondenti  a  quelli  cln-  .  al  soj^uito  di  Mill,  ab- biamo distinto  u<dla  parola  spicf/arr.  Il  senso  della  comprensi- bilità e  incomprensibilità  di  cui  parliamo  nel  tosto  e  «lucilo  cor- rispondente al  sensi,  popidaro  o  motatisico  della  parola  spUu/air. Nell'altio  caso  tloUa  parola  comprendere,  corrispondente  al  senso sciontihco  della  panda  spiegare,  un  tatto  è  conqironsibilo  o  in- oomiuensibih'  sec(nnb)  che  si  può  o  non  si  può  mostrare  la  sua conformità  con  le  h'g^i  generali  conosciute  della  natura.  Ciò  che diciamo  nel   testo  non  si   rapporta  a  questo  secondo  senso. 363   — familiari  a  (quelli  che  lo  sono.  Noi  abbiamo  visto  che la  scienza,  lungi  di  conformarsi  a  questa  marcia  spon- tanea dello  spirito  umano,  ne  segue  invece  un'altra  che ha  una  direzione  opposta:  essa  riconduce  ciò  che  è  fa- miliare a  ciò  che  non  lo  è.  La  tendenza  di  cui  parlia- mo è  dunque  una  legge  subbiettiva  del  pensiero,  a  cui non  corrisponde  una  legge  obbiettiva  delle  eose  :  ne segue  che  la  disposizione  naturale  che  noi  abbiamo  ad ammettere  certe  proposizioni,  quando  essa  è  fondata  su questa  tendenza  generale  dello  spirito,  non  è  una  pro- va della  verità  di  queste  proposizioni.  Perchè  fosse  una prova,  bisognerebbe  che  la  tendenza  subbiettiva  po- tesse elevarsi  a  legge  obbiettiva;  ma  perciò  sarebbe,  neces- sario che  questa  legge  fosse  vera  in  tutta  la  sua  ge- neralità, cioè  che  noi  potessimo  affermare  che  ht  tutti i  casi  i  fenomeni  che  non  ci  sono  familiari  devono  spie- garsi per  quelli  che  lo  sono.  Ma  quest'affermazione  ge- nerale è  impossibile  che  sia  vera  ;  perchè,  vsupponendo anche  che  tutti  i  fenomeni  possano  ricondursi  a  (juclli che  ci  sono  più  familiari,  quali  il  movimento  dovuto airimpulsione,  l'azione  volontaria  degli  uomini  e  degli altri  esseri  animati,  ecc.,  siccome  le  leggi  a  cui  la  scien- za ha  sottomessi  questi  fenomeni,  o  i  fenomeni  più  ele- mentari in  cui  li  ha  risoluti,  sono  tutt' altro  che  fami- liari, ne  seguirebbe  che  anche  allora  i  fatti  ultimi  sa- rebbero non  familiari,  e  perciò  la  tendenza  spontanea dello  spirito  non  potrà  mai  essere  soddisfatta.  Questa impossibilità  sarebbe  evidente,  s<:^  noi  ci  facessimo  una legge  di  non  far  intervenire  nelle  nostre  si)iegazìoni che  delle  cause  empiriche^  cioè  d(»Jla  stessa  natura  di quelle  che  noi  conosciamo,  come  si  fa,  per  esempio, nella  spiegazione  mecca?^^ca  dei  fenomeni  fisici:  ma  noi crediamo  poter  pervenire  alla  spiegazione  universale dei  fenomeni,  cioè  all'assimilazione  di  tutti  i  fatti  a quelli    che    ci  sono    più   familiari,   ricorrendo  a    cause —  :]64  — 865 metaempividie.  a  cause  che  non  sono  della  stessa  natu- ra di  (j nelle  che  noi  conosciamo.    Se    non  che  l'assimi- lazione del  non  familiare  al    familiare  è  in  questo  caso illusoria  :  non  è  al  fatto  familiare  qual  esso  è  in  realtà j secondo  gTinse^'n amenti  della  scienza,  che  noi  assi  mi liamo  i>-li  altri  fenomeni,  ma  a  questo  fatto  quale  esso  ci apparisve  .    secoiulo    la    nozione    illusoria    del    periodo prescientifico.    Noi    non    assimiliamo  i  fenomeni   ad  un fatto  reale,    ma  ad  una  nozione  puramente  subbiettiva ed  illusoria    di    (|Uesto  fatto  :  non  vi  ha  in  realtà  assi- milazione di  certi  fatti  delTesperienza  ad  altri  fatti  del- l'esperienza,  ma  il  risultato  a  cui  perveniamo  manca  di qualsiasi  base  induttiva.  Ciò  si  comprenderà  meg'lio  con un  esempio:  quando  Aristotile  spie^ra  per  il  Nous  Tori- <>'ine  del  movimento,  o  «juando  <i'rilozoisti  spieg'ano  per il  loro  sistema  la  spontaneità  del    movimento  di  cui  la materia  sembra  dotata,  è  evidente  che  essi  considerano il  )>ensiero  (»  la   volontà  come  causa  di  movimento  spon- taneo; ora    la    scienza  ci   mostra    che    (piesta    nozione  è falsa  nel  mondo  dell'esperienza,  la  volontà  non  potendo creare  della   forza,  ma  solo  manifestare  al  di  fuori  quella che  preesisteva  i>'ià   latente  neiroraanismo;  l'azione  vo- lontaria fleiruomo  e  de^*li  animati,  a  cui  la  spiegazione volizionale  assimibi    la    produzione  del   movimento    nel- runiverso.  non  è  (lunijue  l'azione   volontaria  (jual  essa è  realmente,   ma   l'azione  volontaria  (jnal  essa  a[)parisce all'uomo  })rima  d'aver  ricevuto  le  lezioni  della  scienza. In  generale,  noi   possiamo  estendere  quest'osservazione^ a  tutte  le  forme  dcdla  spiegazione    volizionale:   quando il   metafisico  sj)iega,  cioè  cerca  di   rendere  più  intelligi- bili, tutti    i  fenomeni  della  natura,    assimilandoli    all'a- zione vob^ntaria.  nel  tempo  stesso  che  eg'li  dichiara  che questa,  quab»    noi    la    conosciamo   nel  mondo  dell'espe- rienza, è  il  più  incomprensibile  dei  fenonunii,  è  evidente che  egli  deve  modellare  (juest'azione  volontaria  metaem- % pirica  sulla  nozione  prescientifìca,  e  non  su  (|uella scientifica,  dell'azione  volontaria  empirica,  poiché  è nella  sua  nozione  scientifica  che  quest'  azione  diviene incomprensibile,  e  perciò,  nel  secondo  caso,  eg'li  spie- gherebbe il  mistero  per  un  mistero  più  graiule.  Quando Hartmann,  per  ispieg'are  il  mistero  del  movimento  vo- lontario— questo  fatto,  secondo  lui,  sorprendente  che,  per muovere,  per  esempio,  il  dito,  è  indispensabile,  come mezzo  d'esecuzione,  1'  azione  della  volontà  sulbì  radici dei  nervi  motori  corrispondenti,  mentre  noi  non  cono- sciamo uè  queste  radici  uè  i  punti  del  cervello  in  cui si  trovano  —  ammette  che  la  volontà  cosciente,  per  e- sempio  di  muovere  il  dito,  dà  nascita  alla  volontà  in- cosciente di  muovere  le  radici  dei  nervi  motori  che  de- realizzare  il  movimento,  accompagnata  dall'idea incosciente  del  posto  che  queste  radici  occupano  nel cervello  (1);  egli  suppone  che  1'  atto  di  volontà  dell'In- cosciente realizza  immediata  mente  il  movimento  che  esso vuole,  che  tra  (juest'atto  di  volontà  e  (juesto  movimento non  s'interpone  una  serie  di  azioni  intermediarie  auto- matiche, non  pensate  ne  volute,  come  tra  il  nostro  pro- prio atto  di  volontà  e  il  movimento  che  noi  vogliamo. Senza  questa  su]) posizione,  egli  avrebbe  bisog'no  d'  uu altro  incosciente  per  ispiegare  la  conformità  tra  la  vo- lizione incosciente  immaginata  e  il  movinuuito  delle  ra- dici dei  nervi  nu)tori  che  è  l'oggetto  di  questa  volizione. Ma  facendo  questa  supposizione,  qual  è  il  tipo  su  cui Hartmann  modella  l'azione  volontaria  dell'Incosciente? è  la  nostra  propria  azione  volontaria  cosciente  secondo la  sua  nozione  prescientifìca  e  volgare.  Egli  trova  in se  stessa  incomprensibile  la  nostra  azione  volontaria cosciente  nella  sua  nozione  scientifica,  la  quale  mostra che  il  rapporto  tra  la   volizione  e  il  movimento  voluta (1)   Hartmaii.  FU.  (k'IvlncoHeirnte non  è  ininiecliato,   che  la  volizione  non  è  per  se  stessa e  inmiediataniente    la    causa    sufìUciente  del  movimento voluto.  L'azione  volontaria  dell'Incosciente  gli   sembra al  contrario  |)erfettamente  comprensibile  per  se  stessa, perchè  egli  l'immagina  sul  tipo  della  nostra  azione  vo- lontaria secondo  la  nozione  primitiva  che   noi   natural- mente ce  ne  formiamo,  la  volontà    non    essendo  per  se stessa  causa  immediata  e  sufficiente  del  movimento  vo- luto che  secondo    questa    nozione  di  cui  la  scienza    ha mostrato    il   carattere    illusorio.  Perchè    la    spiegazione volizionale    dei   fenomeni  sia  una  sjjìegazioiìe  nel  senso popolare  o  metafisico  di  questa  parola  —  che  questa  vo- lontà metaempirica  che   deve  spiegare  i  fatti  dell'espe- rienza si  chiami  Incosciente   o  le  si  dia  un  altro  nome qualunque,  che  essa  si  ponga  nell'anima  del  mondo  o nell'anima  dell'atomo  —  è    necessario  che  all'azione    di questa  volontà  si  attribuiscano  dei   caratteri  che  la  no- zione volgare   afferma,    ma    che   la    nozione    scientifica nega,  dell'  azione  della   volontà  che  noi  conosciamo.  Il metafisico  che  ammette  la  teoria  volizionale   come  una spiegazione  della  natura,  deve  supporre  :  1.'*  che  la  vo- lontà metaempirica  sia  causa  di  movimento  spontaneo, cioè  che  essa  basti  a  produrre  dal  niente  il  movimento, mentre  la  scienza  c'insegna  che  la  volontà  empirica  non può  creare  della  forza,  ma  solo  dare  un'altra  forma  alla forza  già  preesistente;  2."  che  la  v^olontà  metaempirica sia    per    se    stessa    causa    immediata  e  sufficiente  delle azioni  volute,  mentre  la  scienza  c'insegna  che,  perchè la  volizione  empirica  sia  seguita  dal  movimento  voluto, è  indispensabile  l'  interposizione  tra  i  due  fatti  di  una serie  numerosa  di  azioni  intermediarie,  e  perciò  il  con- corso di  un  meccanismo  appropriato;  o.'*  che  la  volontà metaempirica,    nella    sua    qualità  di  semplice  fatto  spi- rituale,   determini    dei    cangiamenti    nel    mondo    fisico, mentre  la  scienza  e'  insegna  che  la  volizione  empirica. «-- 1 come  fatto  spirituale,  non  essendo  che  un  lato  del  fe- nomeno reale,  il  quale  è  al  tempo  stesso  psichico  e  fi- sico, noi  non  abbiamo  il  dritto  di  attribuire  una  causa- zione (|ualunque  nel  mondo  dei  corpi  al  semplice  feno- meno psichico  della  volontà  scompagnato  dai  suoi  con- comitanti fisici.  Noi  vediamo  (jui  come  un'ipotesi  meta- fisica o  metaempirica  differisca  da  un'ipotesi  fisica  o empirica:  l'ipotesi  fisica  più  arrischiata  non  attribuisce all'agente  supposto  altro  modo  di  agire  che  quello  che l'esperienza  ha  già  costatato  negli  agenti  conosciuti sul  cui  ti p^  esso  viene  concepito.  L'ipotesi  dell'etere sembra  generalmente  arrischiata  ai  logici.  Le  proprietà di  questa  sostanza  ipotetica  differiscono  dalle  proprietà delle  sostanze  conosciute,  ma  l'azione  a  lei  attribuita per  la  spiegazione  dei  fenomeni,  gli  effetti  ch'essa  è supposta  produrre,  non  sono  che  dei  casi  di  leggi  di causazione  già  costatate.  L'azione  motrice  attribuita  a questa  materia  imponderabile  si  conforma  rigorosamente alle  leg'gi  del  movimento  già  verificate  nella  materia ponderabile  di  cui  abbiamo  l'esperienza.  A  una  causa ipotetica  non  si  attribuisce  mai  la  capacità  di  produrre un  effetto  determinato,  se  (|uesta  capacità  di  una  tale causa  di  produrre  un  tale  effetto  non  è  sperimental- mente dimostrata.  La  causazione  che  si  suppone  deve essere  un  caso  di  una  legge  di  causazione  già  costatata; il  rapporto  fra  la  causa  supposta  e  1'  effetto  che  le  si attribuisce  deve  essere  identico  ai  rapporti  verificati  tra la  classe  corrispondente  di  cause  e  la  classe  corrispon- dente di  effetti.  Ma  quali  casi  conosce  il  metafisico  nel mondo  dell'  esperienza,  nei  (juali  egli  sia  sicuro  che  si verifichino  quei  rapporti  di  causazione  ch'egli  suppone tra  le  sue  cause  ipotetiche  e  gli  effetti  che  loro  attri- buisce? Dov'è  tra  i  fenomeni  della  esperienza  una  vo- lizione di  cui  egli  possa  affermare  ch'essa  sia  original- mente produttrice  di  movimento  ;  ch'essa  sia  causa  nn- a(i8 mediata  (U)\] a  propria  realizzazione,  senza  riiitervcuro  di un  apparecchio  oruanieo  appropriato,  felieenìente  ap- prestato dalla  natura  (1):  intine  ch'essa  basti,  in  quanto senì{)lice  fatto  spirituale,  a  produrre  dei  cangiamenti  nel mondo  corporeo  V  Donde  sa  egli  dunque  che  la  causa ipotetica  è  capace  di  produrre  l'effetto  che  le  attribuisce? Questa  capacità  della  causa  a  i)rodurre  l'effetto  non  po- trebbe invocare  alcuna  [)rova  sperimentale  in  suo  appog- gio; il  metatisico  l'ammette  come  una  cosa  affatto  natu- rale ed  evidente  per  se  stessa.  Ciò  è  perchè  la  nozione volgare  e  abituale  sotto  cui  ci  rappresentiamo  le  nostre azioni  volontarie  sup|)one  nella  volontà  empirica  il  po- tere che  il  metafisico  immagina  nella  volontà  metaem- |)irica:  la  no/ione  scientifica  ha  corretto  su  questo  punto la  nozione  volgare;  ciò  non  pertanto  il  modo  di  causa- zione che  (luesta  attribuisce  alla  volontà  non  cessa  di sembrare  una  cosa  affatto  naturale  ed  evidente  per  se stessa,  anche  do[)o  che  si  è  riconosciuto  che  (|uesto  modo di  causazione  non  è  il  reale;  le  suggestioni  della  vita  di (1)  Qiiostn  corrisiioiMh'iizn  tra  In  volizione  e  l'iitto  reale,  die ci  sembra  y\\\  fatto  si  naturale.  <lovrehbe  invece  si>rin'en(hn*ci <H)ine  una  eoin(i<lenza  fortunata.  La  realizzazione^  del  movimento voluto  e  l'opera  autonmticji  di  un  meecjinijimo,  a  cui  la  volontà non  fa  che  dare  il  ]>rimo  im]»ulso,  (^  di})ende  quindi  dalla  strut- tura appropriata,  di  t[uesto  nuu-canismo  :  ora  non  potremmo  jioi  al posto  di  questa  struttura,  che  arriva  a  un  risultato  eonf<u'me  alla v<dizione.  supiiorre  come  egualmente  probabile  l'una  o  l'altra  di mille  altre  strutture,  che  arriverebbero  ad  un  risultato  «littor- ine  i  La  corris])ondenza  tra  la  volizione  e  il  movimento  voluto  (> (^vi<h?ntement(^  uno  <li  (|uesti  casi  «li  adattamento  o  di  Hnalit;\ che  caratterizzano  il  mondo  <leiror<;aiiizzazione  e  della  vita  :  il metatisico  che  spiega  le  tinalità  della  natura  per  l'azione  volontaria dimentica  che  la  finalità  che  questa  racchiude  in  se  stessa,  non e  meno  nun'avigliosa  di  «{uelle  alla  cui  spiegazione  essa  si  fa  ser- vire,  e   non  ha   bisogno  meno  «Ielle   altre  di  essere  spicciata. 369 tutti  i  giorni,  come  dice  Mill,  essendo  pia  forti  che  quelle della  riflessione  scientifica.   Ciò  che  abbiamo  detto  della spiegazione  volizionale  si  applica  egualmente  alle  altre spiegazioni  metafìsiche  che   consistono  pure  nellassimi- lazione  di  tutti  i  fenomeni  a  qualche  fatto  che  ci  è  molto familiare  :   in  tutti  i  casi  i  fenomeni   non  vengono  assi- milati  al  fatto  fn miliare  quale  la  scienza  ce  lo   mostra e   qual   esso   è  realmente,   ma  alla  nozione  subbi  etti  va, volgare  e  prescientifica,  di  questo  fatto.  Così  il  filosofo idealista,  che  assimila  lo  sviluppo  reale  degli  esseri  al- l'incatenamento   dei   nostri   pensieri,   suppone  che  delle idee  abbiano  per  se  stesse  la  capacità  di  determinare  al loro  seguito  altre  idee:    egli   oblia  che  il  concomitante fisico  del  pensiero  antecedente,  se  non  è  la  causa  totale dell'apparizione  del  pensiero  susseguente  (determinando da  sé  solo  il  concomitante  fisico  a  cui  questo    è  neces- sariamente legato),  e  almeno  una  parte  della  causa.  In (luesto  caso,  come  in  tutti  gli  altri,  il  metafìsico  può  am- mettere la  capacità  della  causa  a  produrre  l'effetto  come una   cosa  che   gli   sembra  naturale  ed  evidente   per  se stessa,  ma  non  mai  come  un'induzione  legittima  dell'e- sperienza. Così  la  spiegazione  universale  dei  fenomeni per  la  loro  assimilazione  ai  fatti  che  ci  sono  molto  fa- miliari, evidentemente  impossibile  se  si  resta  sul  terreno dell'esperienza,  non  lo  è  meno  quando  i  limiti  dell'e- sperienza vengono  oltrepassati,  perchè  allora  l'operazio- ne, quantunque  spontanea  e  quasi  fatale,  del  nostro  pen- siero è  contraria  alle  regole  più  fondamentali  delFinfe- renza  logica,  e  l'assimilazione  è  semplicemente  illusoria, l'universalità  dei  fenomeni  non  essendo  assimilata  ai  fatti '  reali  dell'esperienza  familiare,  ma  alle  false  impronte  che questi  fatti  hanno  lasciato  nel  nostro  spirito. La  legge  subbiettiva  che  impone  al  nostro  pensiero di  spiegare  i  fatti  non  familiari  riconducendoli  ai  fami- liari   non  potendo  elevarsi  a  principio  di   un'applicabi-  - lit/i  iiiìiversMle,  non  ha,  per  conseguenza,  alcun  valore obbiettivo.  Ora  questa  legge  non  è  che  il  principio  di causalità  efficiente  —  cioè  che  ogni  fenomeno  non  ha  solo un  antecedente  a  cui  esso  segue  invariabilmente,  ma  an- cora una  causa  efficiente  —  nella  forma  primitiva  e  im- mediata di  questa  nozione.  Noi  possiamo  dunque  con- cludere che  (juesto  principio,  nella  sua  forma  primitiva e  immediata,  non  ha  alcun  valore  obbiettivo,  e  non  è che  una  necessitrà  subbiettiva  del  nostro  pensiero,  a  cui non  si  può  affermare  che  corrisponda  una  necessità  nelle cose  stesse,  una  legge  del  mondo  obbiettivo  di  cui  essa sia  la  riproduzione  e  la  rappresentazione. vS  10.  (^Juando  lo  spirito  umano  ha  acquistato  la  con- vinzione che  esso  non  [mò  pervenire  alla  spiegazione dei  fenomeni  secondo  la  sua  tendenza  spontanea,  che  è di  assimilare  i  fenomeni  che  non  gli  sono  familiari  a quelli  che  lo  sono,  o  che  non  può  per  questa  via  dare una  soddisfazione  completa  al  suo  bisogno  di  spiega- zione nato  da  ({uesta  tendenza,  esso  non  rinunzia  perciò al  principio  universale  di  causa  efficiente;  ma  alla  forma primitiva  e  immediata  di  questa  nozione  ne  sostituisce un'altra  ulteriore  e  modificata.  Mentre  la  causa  efficiente, nella  prima  forma  della  nozione,  è  immaginata  a  somi- glianza dell'antecedente  di  qualche  determinata  sequenza familiare  tra  i  fenomeni,  invece,  nella  seconda  forma, di  cui  ora  imi)rendiamo  lo  studio,  è  il  legame  tra  la eausa  efficiente  e  il  suo  effetto,  e  non  la  causa  stessa, che  è  modellato  sul  tipo  delle  sequenze  familiari.  Noi abbiamo  visto  che  il  rapporto  di  causazione  nel  senso metafìsico,  o  di  efficienza  causale,  si  distingue  dal  rap- porto di  causaziono  nel  senso  fisico,  o  di  semplice  se- quenza invariabile,  per  certi  carattteri  psicologici,  che si  riducono:  alla  capacità  della  causa  (efficiente)  a,s;>?'e- gare  il  suo  effetto,  al  legame  necessario  tra  questa  causa e  questo  effetto,  alla  evidenza  intrinseca  o  conoscibilità a  priori  di  questo  legame.  Noi  abbiamo  visto  pure  che questi  caratteri  che  distinguono  un  rapporto  di  causa- zione nel  senso  metafisico  da  un  semplice  rapporto  di causazione  nel  senso  fisico^  si  desumono  dalle  differenze psicologiche  per  cui  la  nozione  di  una  secjuenza  che  ci è  faniiliare  si  distingue  dalla  nozione  di  una  sequenza che  non  lo  è.  Nella  prima  forma  dell'  idea  di  causa  ef- ficiente la  somiglianza  tra  una  causazione  efficietrte  o  me- tafìsica e  una  sequenza  molto  familiare  è  doppia:  non  è solo  il  legame  tra  la  causa  metafisica  e  il  suo  effetto  che somiglia,  per  i  caratteri  indicati,  al  legame  tra  i  fe- nomeni costituenti  una  sequenza  molto  familiare,  ma  la stessa  causa  metafisica  è  concepita  a  somiglianza  del- l'antecedente di  alcuna  di  queste  sequenze.  Invece  nella seconda  forma  dell'idea  di  causa  efficiente,  cessa  la  so- miglianza specifica  tra  questa  causa  e  l'antecedente  di una  determinata  sequenza  familiare,  ma  resta  la  somi- glianza,' nei  caratteri  indicati,  del  legname  tra  la  causa e  r  effetto  ;  sicché  ciò  che  distingue  allora  una  causa- zione metafisica  dalle  semplici  sequenze  invariabili  della scienza,  è  solamente  che,  mentre  (jueste  ultime  non  si ammettono  che  forzati,  per  dir  cosi,  dall'esperienza,  e sembrano  in  se  stesse  incomprensibili  ed  arbitrarle,  in- vece, nelle  causazioni  metafìsiche,  il  legame  tra  la  causa e  l'effetto  deve  essere  perfettamente  comprensibile,  neces- sario ed  evidente  intrinsecamente  o  conoscibile  a  prio- ri. Per  esporre  d'  una  maniera  conveniente  ciò  che  si rapporta  al  soggetto  di  questa  seconda  forma  dell'idea di  causazione  efficiente,  è  necessario  anzitutto  di  formarci un'idea  più  precisa  del  processo  mentale  per  cui  l'uomo perviene  naturalmente  e  quasi  irresistibilmente  ad  am- mettere questo  principio  generale  che  ogni  fatto  deve avelie  una  causa  efficiente. Noi  non  possiamo  ammettere,  come  abl)iamo  detto, che    questo    priucipio,    esprima   esso   una  verità  o  una semplice  illusione,  sia  lur  idea  innata,  una  necessità  pri- mitiva e  inesplicabile  del  nostro  pensiero,  e  perciò  dob- biamo  cercarne  l'origine  nell'esperienza,  quantunque  in questo    caso,  come  in  tutti  gli  altri  in  cui  si  tratta  di connessioni  psichiche  tanto  intime   e  fibituali   che   sem- brano  affatto  naturali   e   non   degne  di    attirare   la   cu- riosità del  pensatore,  noi  non  ci  dissimuliamo   che   far sentire  il  bisogno  di  una  tale   ricerca  ci  sembra   anche più  difficile  che  il  dimostrare  la  verità  del  risultato  ot- tenuto. Una  volta  riconosciuta  la  necessità  che  lo  spirito abbia   attinto  questo  principio  dall'esperienza,    la  sua origine  non  può  dar  luogo  ad  alcun  dubbio  :  le  sole  cause efficienti  dell'esperienza  essendo  gli  antecedenti  delle  se- quenze più  familiari,  è  evidente  che  la  base  empirica, induttiva,  del  principio  generale  che  ogni  fatto  deve  avere una  causa  efficiente  non  può  trovarsi  che  in  queste  se- quenze le  più  familiari.  La  immensa   maggioranza   dei fenomeni  della  nostra  esperienza  giornaliera  si  riducono a  dei  casi  di  queste  sequenze  familiari,  a  cui  sono  propri i  caratteri  psicologici  indicati   che  distinguono  un  rap- porto di  efficienza  causale    da    una    semplice    sequenza uniforme:  in  altri  termini,  nei  casi  più  numerosi  della nostra  esperienza  quotidiana,  in  cui  noi  possiamo  asse- gnare la  causa  di  un  fenomeno,    questa    causa    non    è soltanto    un    antecedente   costantemente   seguito  da  un certo  conseguente,  ma  un  antecedente  che  ha  col    suo conseguente  quel  legame  mentale  che  dipende  dalla  fa- miliarità della  sequenza;  vale  a  dire  la  causa,  oltre   di esser  costantemente  seguita  dall'effetto,  lo  spiega,  e  il  rap- porto tra  la    causa  e  l'effetto  ci  sembra  necessario  ed  in- trinsecamente evidente.  Di  là,  per  quest'impulsione  che  ci spinge  costantemente  ad  assimilare,  a  generalizzare,  im- pulsione che  costituisce  la  base  stessa  dell'intelligenza,  e di  cui  la  forza  cresce  in  ragione  della  ripetizione  delle esperienze  conformi,  accade  che  noi  ci  attendiamo  con sicurezza  in  tutti  i  casi  ciò  che  abbiamo  visto  nei  casi più  frequenti  della  nostra  esperienza,  cioè  che  crediamo che  ogni  fenomeno  deve  avere,  non  semplicemente  un  an- tecedente legato  col  conseguente  da  un  rapporto  di  se- quenza uniforme,  ma  un  antecedente  che  sia  una  causa efficiente,  vale  a  dire  una  causa  che  spieghi  l'effetto,  e che  abbia  con  esso  un  rapporto  necessario  ed  intrinseca- mente evidente.  Il  principio  della  causa  efficiente  è  dun- que il  risultato  di  una  sorta  di  ragionamento  industivo, e  il  processo  per  cui  lo  spirito  uniano  vi  perviene  è  so- stanzialmente identico  a  (luello  per  cui  esso  perviene  a qualsiasi  altra  nozione  generale. :Ma  non  bisogna  credere  che  questo    regionanumto, in  virtù  del  quale  noi  crediamo  che  ogni  fenomeno  deve avere  una  causa  efficiente,  si  faccia  con  rifiessione  e  con coscienza  :  in  questo  caso  la  ìiostra  ricerca  attuale  non avrebbe  alcuna  ragione  di  essere,  perchè  ciascuno   sa- prebbe allora,  senza  bisogno  d'intraprendere  perciò  una ricerca  psicologica,  per  quali  motivi  egli   ammette    che oani  fenomeno  ha  una  causa  efficiente.  Il  ragionamento di  cui  parliamo  è  un  inferenza  incosciente;  e  in  ciò  l'o- rìgine del   i)rincipio  di  causa  efficiente  non  ha  niente  di eccezionale,   i)erchè  tutte  le  verità  o  pretese   verità  as- siomatiche, cioè  che  si  ammettono  come  evidenti  per  se stesse,  non  sono  in  realtà  che  delle  conclusioni  di  infe- renze  incoscienti. -Noi  prendiamo   ({ui    per   accordato    (e crediamo  di  averlo  dimostrato    nel    1"    Saggio)    che    gli assiomi,  le  verità  pretese  intuitive,   sono    dei    risultati dell'esperienza,  delle  conclusioni   induttive:  ora  è  evi- dente che,  se  l'inferenza  di  cui  un  assioma  è  la  conclusione fosse  cosciente,  metà  degli  psicologi  non  crederebbero che  non  vi  ha  in  questo  caso  alcuna    inferenza,  e  che l'assioma  si  conosce  indipendentemente  dall'  esperienza e    d'  una  maniera  intuitiva.  Il  significato   della    parola incosciente,  nel  senso  in  cui  noi  l'  adoperiamo,  non  ha 374 niente  di  mistico  :  un'inferenza  incosciente  vuol  dire  che le  premessse  della  inferenza  non  si  trovano  attualmente nella  nostra  coscienza,  nìa  solo  la  conclusione:  le  pre- messe sono  le  esperienze  passate,  ma   queste    agiscono a    nostra  insaputa  nel  determinare  il  risultato,   cioè   la nostra  credenza  all'assioma.  Quando  nella  dimostrazione di  un  teorema   facciamo    1'  applicazione  di  un    assioma (ciò  che  avviene  in  tutti  i  passi  che  fa  il  ragionamento  i, sia  che  noi  facciamo  esplicitamente   menzione    dell'as- sioma, sia  che  senza  pensare  al  principio  generale,  noi ci    comportiamo    praticamente    come  se  lo   prendessimo per  regola,  l'operazione  mentale  consiste  nell'  assimila- zione del  caso  i)resente  ai   casi   conosciuti    nella  nostra esperienza   anteriore.    Il    caso    presente  è,  per  esempio, l'eguaglianza  di  A  con  B  e  di  B  con  C:  noi  assimiliamo questo  caso  a  tutti  i  casi  della  nostra  esperienza    ante- riore in  cui  abbiamo  costatato  che  l'eguaglianza  di  due grandezze  con  una  terza  era  associata  con  l'eo-uaolianza delle  due  grandezze  fra  di  loro,  e  così  ammettiamo  an- che in  questo  caso  la  esistenza  della  stesta  associazione, cioè  crediamo  che  A  è  uguale  a  C.  Facendo  (juesta  in- terenza,    noi  non    pensiamo    attualmente  a  questi    casi della    nostra   esperienza  passata  a  cui  il  caso    presente viene    assimilato;    nondimeno    sono    essi  i  motivi  o  ^11 antecedenti  della  nostra  credenza  che  ^  essendo  ecuiale a  />,  e  li  a  C,  A  deve  essere  pure  eguale  a  C.   Queste esperienze  passate  agiscono,  per  dir  così,  da  lontano,  nel determinare  la  nostra  credenza  (facendo  astrazione  d(4le modificazioni   permanenti   che  esse  hanno  potuto  appor- tare nell'organo  dell' intelligeza)  ;  esse  la  determinano senz'aver  bisogno  di  venire  rappresentate   attualmente nel  nostro  pensiero,  e  noi  non   sappiamo    niente    della loro  azione,  se  non  in  quanto  abbiamo  ricevuto   gì'  in- segnamenti della  psicologia.  Non  è  soltanto  negli  assiomi che  si  può  trovare  l'esempio  d'inferenze,  le  cui  premesse sono  attualmente  assenti  dal  nostro  pensiero:  nella  mag- gior parte  delle  inferenze  che  noi  facciamo  abitualmente il  caso  presente  è  rapidamente  assimilato  ai   casi    della nostra  esperienza  passata,  senza  che  questi  casi   siano attualmente  rappresentati.  Le  esperienze  passate  deter- minano anche  allora,  per  una  specie  di  azione  a  distanza, il  corso  attuale  dei  nostri  pensieri;   ma  noi  non  diremmo in  tutti  questi  casi  che  vi  ha  un'inferenza  incosciente, perchè  se  abbiano  il  bisogno  di  addurre  i  motivi  che  giu- stificano la  nostra  credenza,  noi  possiamo  il  più  spesso  fa- cilmente trovarli,  cioè  riprodurre  attualmente  nel  nostro pensiero  queste  esperienze  passate,  che  sulle  prime  avea- no  determinato  il  nostro  giudizio,  agendo  da  lontano  e d'una  maniera  latente  (1).  Vi  sono  però  dei  casi   in  cui non  potremmo  spiegare  i  motivi  della  nostra  afTermazion^', quantunque  questa  ci  s'imponga  con  la  più  grande  forza e  con  Tevidenza  più  completa  :  in  questi  casi,  in  cui  or- dinariamente diciamo  che  sappiamo  la  cosa  j>er  intuizione (servendoci  dello  stesso  termine  con  cui    lo  psicologo  a- priorista  denota  le  pretese  verità  evidenti  per  se  stesse  di cui  egli  non  vuole  ammettere  l'origine  sperimentale),   vi ha  un'inferenza  incosciente  nello  stretto  senso  della  parola. Quando  si  tratta  di  verità  o  pretese  verità  assiomatiche, oltre  la  difficolà  di  rintracciare  gli  antecedenti  dell'in- ferenza, vi  ha  un  altro  ostacolo  che  e'  impedisce  di    far penetrare    questi    antecedenti    nella  coscienza,  ossia  di rendere  l'inferenza  cosciente:  è  che  noi    non    sentiamo alcun    bisogno    di    cercare  i  motivi  che   giustificano    la nostra    aft'ermazione.  In  questi  casi   la,   fre(|U(Miza    delle esperienze  ha  costituito  fra  le  nostre  idee  quel    h'i^'ame strettissimo  che  dà  al  giudizio  la  forma    della    neccs.sitd (quantunque  non  una  necessità  assoluta).  Ora  (juando  la coesione  tra  le  nostre  idee  giunge  a  (luesto   grado,    la (1)  Cfr.  Spencer  Fsieol.  t.  2,  §  2J)8,  800,  805.  80(i,  ccc, —  oih   — -consciiueuza  è,  come  Stuart- Mill  Tha  ben  sog'iialato,  che noi  aTiiniettiaino  la  verità  dell'  affennazioiie  anche  nel- Tasseìiza  di  prove  (e  talvolta  in  presenza  di  prove  con- trarie), la  coesione  stessa  fra  le  idee  essendo  per  noi  una prova  sufficiente.  Perciò,  siccome  noi  non  sentiamo  il bisogno  di  giustificare  la  nostra  credenza,  1'  evidenza  e la  necessità  con  cui  ci  s'impone  sembrandoci  una  prova sufficiente  della  sua  verità,  noi  non  ne  cerchiamo  le prove  sperimentali,  riteniamo  anzi  ogni  prova  di  (juesta natura  inutile,  e  ci  manca  quindi  il  motivo  ordinario di  portare  alla  luce  della  coscienza  gli  antecedenti  della nostra  convinzione,  c»ssia  di  rendere  l'inferenza  cosciente. Cosi  il  sentimento  di  necessità  che  accompagna  una  propo- sizione, e  che  non  dipende  che  da  un'associazione  molto intima  tra  le  nostre  idee,  facendoci  sembrare  questa  pro- posizione intrinsecamente  evidente,  ha  per  effetto  di  farla riguardare  come  indipendente  dall'esperienza,  e  quindi come  anteriore  a  questa,  a  priora,  quantunque  essa  non sia  che  vuV infeì'euza  incosciente  dalle  esperienze  passate. È  perciò  che  le  sequenze  molto  familiari,  V  idea  delle quali,  per  la  frequenza  delle  esperienze,  è  accompagnata dal  sentimento  della  necessità,  ci  sembrano  evidenti  per se  stesse  ed  a  priori  ;  ed  è  perciò  pure  che  ci  sembra tale  il  principio  che  ogni  fenomeno  deve  avere  una eausa  efficiente  (1). Forse  si  crederà  di  poter  evitare  la  necessità  di  ri- correre alla  nozione  d'inferenza  incosciente  per  rendere conto  dell'  origine  dei  princi])ii  così  detti  evidenti  per se  stessi,  ammettendo  che  la  proposizione  genenerale sia  stata  stabilita  coscientemente  in  un'e})oca  della  nostra vita  intellettuale  tro|)|)0  primitiva  perchè  noi  possiamo ricordarla,  e  che  da  allora  si  sia  impressa  fortemente nella  nostra  memoria,   sicrhè  quando  noi  ora  facciamo, ili    ('tv.    SiH/f/io    1,    {-.     [.    \>     Is. per  esempio,  l'applicazione  d'un  assioma  in  una  dimo- strazione geometrica,  non  occorra  supporre  altro  che una  deduzione  dalla  proposizione  generale,  l'operazione logica  di  (juesta  maniera  essendo  cosciente  sì  nell'  uno che  neir  altro  dei  due  momenti  che  essa  percorre.  Ma contro  questa  supposizione  vi  ha  j)rima  di  tutto  da  ob- biettare che,  quand'  anche  fosse  vero  che  nel  ragiona- mento, qual  esso  si  conq)ie  ordinarianu*nle,  noi  impie- ghiamo coscientemente,  es[)licitamente,  rassioma  come proposizione  generale,  bisognerebì)e,  per  ispiegare  la  con- vinzione attuale  della  verità  dell'assioma,  nell'  assenza della  rapi)resentazione  delle  prove  su  cui  esso  è  fondato, o  anche  lìell'obblio  di  (jiieste  ])rove,  ammettere  senqìre che  le  esperienze  passate  agiscono  a  nostra  insaputa per  deteriììinare  questo  risultato.  V  ha  di  più  ;  è  falso che  nel  ragionamento,  (|ual  esso  si  produce  nella  sua forma  ordinaria  e  naturale,  ^i  faccia  coscientemente  o esplicitamente  uso  della  |)roposizione  generale  :  come sosteneva  giustamente  Locke,  e  conie  ciascuno  può  fa- cilmente verificare,  osservando  il  corso  naturah»  dei  suoi pensieri  nella  dimostrazione  di  un  teorema  di  geometria, noi  andiamo  inunediatamente  dal  dato  all'inferito,  per esempio,  dall'eguaglianza  di  .1  con  />  e  di  B  con  C  a quella  di  A  con  C\  senza  passare  ])er  la  j)remessa  ge- nerale, ])er  esemj>io,  che  due  grandezze  eguali  ad  una terza  sono  eguali  tra  di  loro;  [)remessa  che,  se  il  geo- metra menziona,  non  è  perchè  essa  costituisca  un  anello nel  concatenamento  jiaturale  dei  suoi  pensieri,  ma  per controllare  questo  concatenamento,  per  verificare  se  esso si  è  prodotto  regolarmente,  sottomettendo  ai  canoni  della logica  cosciente  ciascun  ])asso  del  ragionamento  che  in realtà  non  si  compie  che  per  una  logica  incosciente. Ogni  inferenza,  al  fondo,  come  insegna  Stuart-Mill.  e come  abbiamo  mostrato  nel  Saggio  1,  fondandoci  sulla natura  stessa  del  pensiero,  è  un'inferenza  dal  particolare // —  878  - al  particolare:  la  proposizione  generale,  (luantunque  utile per  assicurarsi  se  1'  inferenza  sia  rigorosa,   non  è  indi- spensabile, né  fa  parte  del  processo  naturale  del  ragio- namento; diciamo  di  più,  il  suo  intervento  non  moditìca essenzialmente  questo  processo,  l'inferenza,   come    atto mentale,  non  cessando  di  essere  dal  particolare  al  par- ticolare, benché,  nella   sua  esposizione  verbale,  rivesta la  forma  di  un'induzione  seguita  da  un  sillogismo.  Cosi essendo,  è  evidende  che  l'inferenza  non  può  essere  che incosciente,    quando  i  particolari    che    costituiscono    le premesse   del    ragionamento    sono    attualmente    assenti dalla  coscienza— La  nozione  ({^inferenza  incosciente,  quale noi  r  intendiamo,  coincide  in  parte  con  quella  di  asso- ciazione inseparabile  degli  psicologi  inglesi.  Nei  casi  più spiccati,  cioè  tutte  le  volte  in  cui  l'inferenza  si  fa  tal- mente a  nostra    insaputa  che  il  filosofo    stesso  a  prima oiunta  crede  che  si  tratti  di  una    conoscenza   intuitiva e  non  d'un   risultato  dell'esperienza,  l'inferenza  inco- sciente costituisce    niì' associazione  inseparahile  (facendo però  suir  inseparabilità  (juelle    riserve    di    cui    abbiamo detto  nel  Saggio  1):  in  questi  casi,  come  abbiamo  osser- vato, è  il  sentimento  della  necessità  che  accompagna  il giudizio,  dipendente  dalla  coesione  fortissima  tra  le  idee, che  è  la    causa    principale    dell'  illusione    che   ci   fa   ri- guardare questo  giudizio  conie  a  priori.  Dall'altro  canto, la  più  parte  delle  associazioni  inseparabili  sono  delle  vere inferenze  incoscienti.  In  questi  casi    non   bisogna  attri- buire il  legame  tra  le  idee  al  solo  principio  della  conti- guità, ma  nella  produzione  dell'associazione  vi  ha  un'a- zione combinata  di  questo  principio  e  di  quello  della  so- miglianza. Quando  noi,  per  esempio,  ci  attendiamo  dopo l'urto  il  movimento  del  corpo  urtato,  l'associazione  tra le  due  idee  è  talmente  forte,  che  potrebbe  fornire  un  esem- pio di  quella  che  gli  associazionisti  chiamano  insepara- bile^ (visto  che  il  concetto  cV inseparabilità,  come  abbiamo —  379  _ mostrato  nel  Saggio  1,  non  può  essere  che  relativo,  non essendovi  associazioni  letteralmente  inseparabili  \  In  que- sto caso  è  anche  applicabile  la  nozione  d'inferenza  inco- sciente. Non  sarebbe  renderci  esattamente  conto  dell'as- sociazione tra  le  due  idee  il  dire  che  l'una  richiama  l'al- tra, con  la  quale  è  stata  in  contiguità  nella  nostra  espe- rienza; non  essendovi  identità  tra  la  presente  rappresen- tazione del  movimento  del  corpo  urtato  e  le  idee  dei  mo- vimenti dei  corpi  urtati  nella  nostra  esperienza  passata. Noi  proporzioniamo  a  un  di  presso  il  momimento  che  ci attendiamo  alla  massa  del  corpo  urtato  e  alla  massa  e alla  velocità  del  corpo  urtante:  questa  circostanza  non potrebbe  essere  spiegata  dal  solo  principio  della  contigui- tà. La  vera  descrizione  dell'associazione  in  questo  caso è  che  l'idea  (la  sensazione  o  la  rappresentazione)  attuale dell'urto  suscita  in  noi  un'idea  simile  alle  idee  che  si  sono trovcTte  in  contiguità  con  le  idee  simili  ad  essa,  in  modo che  il  rapporto  attualmente  rappresentato  tra  l'urto  e  il movimento  del  corpo  urtato  si  assimili  ai  rapporti  analo- ghi dell'esperienza  passata.  Ora  questo  è  essenzialmente lo  stesso  processo  che,  portato  alla  luce  della  coscienza, si  chiama  un'inferenza. Il  proprio  delle  inferenze  incoscienti  è,  come  nota il  Wundt,  che  esse  si  producono  con  la  più  grande  si- curezza e  in  tutti  gli  uomini  con  una  unifornn'tà  com- pleta. Esse  sembrano  tenere  più  alla  fisiologia  che alla  psicologia,  l'uniformità  e  la  fatalità  con  cui  questi atti  si  compiono,  facendone  rassomigliare  la  produzione a  quella  dei  fenomeni  fisici.  Questa  uniformità  e  irresi- stibilità con  cui  sogliono  prodursi  le  inferenze  incoscienti, spiegano  perchè  la  metafisica,  la  quale  appunto  è  il risultato  di  inferenze  di  (juesto  genere,  sia  un  fenomeno naturale,  permanente  e  (juasi  inevitabile  dello  spirito umano.  Vi  ha  una  somiglianza  già  notata  da  Kant  fra le   illusioni    naturali    dei    sensi  —  che  sono  anch'esse  il risultato    di    un    processo    d'inferenza    incosciente  —  e questa  illusione  naturale  delTintelligenza,  cioè  la  meta- fisica, se  si  considera  nella  base  comune  su  cui    si  ele- vano tutti  i  sistemi  :  è  che  Tillusione  non    cessa  di  su- birsi, anche  dopo  che  Terroneità  ne  è  stata  riconosciuta. LMncoscienza  dei  processi  mentali    che    costituiscono  il punto  di   partenza  della  metafisica,  spiega  pure  questo fatto  (di  cui  vedremo  in  se^-uito    dei    notevoli  esempi), che  sj)esso  un  metafisico,  non  avendo  chiaramente  co- scienza dei  motivi  reali  della  sua  convinzione,  dà  come prove  uniche  delle  sue  ipotesi  dei  sofismi  artificiali,  che evidentemente    non    possono    sembrare    probanti    che   a chi  è  disposto  o'ià,  per  altre  ragioni,    ad   ammettere  la verità  della  tesi  che  si  tratta  dì    provare.  Noi  ci  atten- deremmo, per  esem[»io,  che  un'ipotesi,  destinata    a  sod- disfare il   bisogno  che  ha  il   nostro  spirito    di    cauHe  ef- ficieììti,  dovrebbe  essere  stabilita  cercando  di  dimostrare che  essa  è  la  sola  che  possa  introdurre  nelle  cose  que- ste   connessioni    vecessarie,    inteUlgibHi,    hit rhì cecamente eriileììfi.   che   noi   supponiamo  tra  le  cause  efficienti  e  i loro  eftVtti.    Tali    sono,    come  mostreremo,  le  ipotesi  di Platone  e  di   Hegel  :    ma    ne    l'uno  ne  l'altro  mostrano di  aver  coscienza  di  (|uesto  fatto,  che  la  base  e  la  ra- dice dei  loro  sistemi  è  il  concetto  di  causazione  efficiente, coi  caratteri  determinati  che  distinguono  (piesta  da  una causazione  ordinaria.  Oggi    che   la    dottrina  di  Platone non  ha  per  noi  che  un  interesse  storico,  potendo  senza alcuna  preoccupazione  giudicare  il  valore    degli    argo- menti su  cui  egli    la    fondava,    abbiamo  motivo  di  sor- ])reiiderci   come    una    si    alta    intelligenza  abbia  potuto ammetrere    dei    paradossi  tanto    strani    su    delle    prove altrettanto  deboli.    Ma    la    sorpresa   cessa    se    pensiamo che  (jiiesta  dottrina,   piuttosto    che    una    conclusione  di queste  prove,  è  il  risultato  d'un  processo  d'inferenza, in  ])arte  almeno  se  non  in  tutto,  incosciente.  Riflettendo —  381  — a  questa  incoscienza    dei   processi    mentali  da  cui  risul- tano i  concetti   metafisici,    e    nel  tempo  stesso  a  questa verità  logica  che  l'inferenza  è  dal  particolare  al  parti- colare, ci  rendiamo  anche  perfettamente  conto  della  dif- ficoltà di  trovare  nella  storia  della  filosofia  una  defini- zione precisa  di  certi  principii,  che  sono  tuttavia  i  più essenziali    e    fondamentali    per    ogni   metafisica,    (jualè appunto  quello  delle  cause  efiicienti.  llume  stesso  trova la    nozione    di    efficienza    causale    cosi    indefinibile    che dice  :  «  noi  non  sappiamo  nemmeno    ciò   che  desideria- mo di  conoscere  quando  ci  sforziamo  di  concepirla»    (l). Il  fatto    è    che    il    metafisico,   per    fare   un'applicazione normale  di  questo  principio,  cioè  conforme  alle  esigenze naturali    del    nostro   spirito,    non   ha   bisogno  di  averlo mai  formulato  nettamente;  egli  non  ha  nemmeno   biso- gno di  averlo  mai  formulato  come  proposizione  generale, come  il  geometra,   per   fare   una   buona  dimostrazione, non  ha  bisogno  di  aver  mai  formulati    gli  assiomi  che si    trovano    in  testa    degli    Elementi    di    Euclide.    Nel- l'applicazione  del   principio  di  causalità   efficiente,   co- me  in    quella   di    un    assioma   matematico,    non   vi    ha (considerando  ciò  che  è  indispensabile  air  operazione)  che un'assimilazione   incosciente  di  tutti  i   casi    che  attual- mente si  presentano,  ai  casi  dell'esperienza  passata  che costituirebbero  la  base  induttiva  del  principio  generale, se  si  desse  all'operazione  la  forma   cosciente  e  riflessa della  logica.  Per  quanto  spetta  al  principio  di  causalità efficiente,  si  tratta  dell'assimilazione,  talvolta  alquantovaga,   ma  sempre   la  più   ii'rande  possibile   che  sia  per- messa dalle  particolari  condizioni  intellettuali  dell'epoca e  dell'individuo,  di  tutti  i  casi  che  si  offrono  airintelli- genza,  ai  casi  sperimentati  di  sequenze  molto  familiari, perchè  sono  queste  che  costituirebbero  la  base  induttiva (1)   Huiiu'    DelVidea  di  potere  o  legame  neeessario,   li   ]»art*^ -  del  principio,    se  esso  fosse  stabilito   per   un'operazione loo-ica  cosciente  e  riflessa.  S'intende  che  questi  casi  del- l'esperienza  passf^ta  non  sono  presenti  al  pensiero,  ne  è necessario  aver  coscienza  deirassirajlazione  :   semplice- mente l'intellig-enza  prova  una  soddisfazione  più  grande, come  se   fosse   inondata  da  una  luce  magg-iore,    conce- pendo le  cose  in  ({uel  modo,  che  più  le  assimila  a  queste esperienze  che  costituiscono  la  base  dell  inferenza  inco- sciente. Non  è  sorprendente,  anzi  è  necessario,  che  l'o- perazione   nu^ntale    del  metafisico  sia  più  o  meno  inco- sciente :  ciò  è  perchè  quest'operazione,  quantunque  con- forme alle  tendenze  naturali  dell'intellig-enza,  non  adem- pie le    condizioni  di  un'inferenza  legittima;   difetto  che diverebbe  chiaro  se  l'inferenza  si  rendesse  perfettamente cosciente,  nel  qual  caso  non  vi  sarebbe  più  metafisica. Questo  è  appunto  l'oggetto  del  presente  Saggio:  rischia- rare della  luce  della  coscienza  questa  logica,  o  piuttosto questa   sofistica,    naturale   incosciente,  di  cui  le  conce- zioni della  metafisica  sono  il  risultato.  Ciò  che  per  noi ha  un  doppio  interesse:   prima  di  comprendere  il  come, le  leggi  della  produzione  di  quest'ordine  di  fenomeni,  sì importanti    tanto  per  lo  psicologo    che  per  lo  storico-,  e poi  di  poter  giudicare  il  valore  delle  inferenze  incoscienti della  metafisica,  dopo  averle  trasformate  in  inferenze  co- scienti, alla  stregua  della  logica  ordinaria,  e  vedere  così se  le  concezioni  a  cui  esse  conducono,  hanno  un  fonda- mento reale  o  pure  ne  mancano. §  11.  Il  principio  che  ogni  fatto  deve  avere  una  causa efficiente  è  dunque  il  simbolo  verbale  di  una  regola  a cui  lo  spirito  si  conforma  in  quest'operazione  irriflessa di  assimilare,  più  che  può,  tutti  i  casi  che  si  oftVono  nuo- vamente alla  sua  attenzione,  ai  casi  più  frequenti  della sua  esperienza  passata,  in  cui  ha  visto  i  fenomeni  di cui  ha  conosciuto  il  modo  di  produzione,  non  solo  se- guire un  antecedente  determinato,  ma  un  antecedente  tra il  quale  e  il  fenomeno  che  lo  segue  vi  è  stata  questa connessione  mentale  costituita  dalla  familiarità  della  se- quenza, che  noi  indichiamo  coi  termini  :  capacità  della causa  a  spiegare  l'effetto  (o  intelligibilità  del  nesso  tra la  causa  e  l'efl'etto),  necessità  di  questo  nesso,  sua  evi- denza intrinseca  ~  della  stessa  maniera  che  il  principio che  ogni  fenomeno  deve  avere  una  causa  fìsica,  cioèun  an- tecedente determinato,  è  il  simbolo  verbale  di  una  re- gola a  cui  lo  spirito  si  conforma  nella  sua  operazione abitualmente  pure  irriflessa,  quantunque  la  coscienza non  abbia  difficoltà  a  rendersene  conto,  di. assimilare  tutti i  casi  che  si  offrono  nuovamente  alla  sua  attenzione,  ai casi  della  sua  esperienza  passata,  più  numerosi  che  quelli di  cui  sopra,  e  non  mai  contradetti  da  osservazioni  con- trarie, in  cui  ha  conosciuto  i  fenomeni  seguire  costan- temente degli  antecedenti  determinati.  Da  una  parte  e dall'altra,  la  base  dell'operazione  è  ugualmente  nell'e- sperienza,  l'inferenza  è  ugualmente  dal  particolare  al particolare,  ed  essa  si  tira  con  un'eguale  spontaneità, senza  averne  attualmente  la  coscienza.  Non  })isogna  però supporre  che  il  principio  della  causalità  efficiente  e  quello della  causalità  fisica  o  semplice  sequenza  invariabile siano  dall'origine  dueprincipii  distinti:  all'origine  lo  spi- rito non  concepisce  altre  cause  che  efficienti;  la  nozione della  uniformità  nelle  sequenze  dei  fenomeni,  distinta  da quella  di  un  nexus  di  efficienza  causale  fra  di  essi,  non è  che  un  prodotto  della  cultura  scientifica.  È  la  scienza che  mostra,  contro  le  nostre  prime  aspettative,  l'esistenza tra  i  fenomeni  di  legami  di  causazione  che  non  è  efficiente, Epicuro  si  mostra  sì  poco  capace  di  concepire  una  causa che  non  sia  efficiente,  che,  non  potendo  trovare  una  causa efficiente  della  deviazione  degli  atomi  dalla  verticale nella  loro  caduta  nel  vuoto,  deviazione  che  u'iudica  in- dispensabile  per  rendere  conto  dei  fenomeni,  egli  l'at- tribuisce  puramente   e  semplicemente  all'azzardo:    egli -  :w4  — non  erede  eh.  .ia  sotto.nessa   a  qualche  legge    a  qual- he  ^Vuifonnità,  una  uniforn,ità  nella  sequenza  degh  av- veni    enti,  che  non  fosse  stata  al  ten.po  stesso  xvna  cau- .    io   tk-iento,  non  avendo  per  lui  alcun  valore  per telliKenza  dei  fenon.eni.  Anche  '^"uahuc^U  no- zione che  lo  spirito  si  torn.a  spontaneamente  della  cau sifone  è.  così  esclusivan^ente  quella  della  causaz.one  ef- tìd^  e   che  Con.te,  per  indicare  che  noi  non  conoscuvn.o 'e  :^;  efficienti/ma  solo  quelle  che  la  scuola   scoz- IL  chiama  cause  tisiche,    bandisce  la  Pa-l-  «  « non  vuol   parlare  che  di  leggi  dei  fenon.en,    E  no,  ^h ;    ..o  "ià  visto,  trattando  dei  nuotivi  della  teoria   .^c- làX  che  i  tìsici  non  sogliono  riserbare  il  non.e  d.  cau.a c«/(«,rt.in(.  1  11  »  officiente,  rifiutandosi che  aUimpulsione,  cioè  alla  causa  cfficeme, H-      uiicarlo  aoli  altri  antecedenti  dei  movimenti  della  ma '  ;    '  .o^sono«,«.s.er/ìc/e«.-.  Platone  la  raccontare tso;rate  i  el  Fedone  che,  ardendo  nellasua  giovinezza  del de^i  le    o    i  conoscere  le  cause  per  cui  i  fenomeni  si  produ- no       erava  di  soddisfarlo  con  lo  studio  della  stona  deU. T  n    ma  che  <-H  fu  COSI  deluso  nella  sua  speranza, natura,  ma  .lu.  <^n  „i'inseonò  «lueste  cause che  ciuesto  studio  non  solo  non  gì  inbe^ii     i .      '^egli  bramava  di  conoscere,  ma  gli  mostro  che  iK^i on.;.endeva  nemmeno  quelle  cose  «-"he  pnma  g  i  s.n bravino  le  più  facili  a  comprendere   (V'-    I  latonc   no e    rrèonta    a  sua  storia,  ma  quella  dello  spirito  uinano^ V      tto  che  viene  iniziato  allo  studio  ^^J^^^ aeUa  natura,  non  spera  anche  oggi  d>  so4dis.x      il     e siderio    innato   di   conoscere  Ze  cause  ?  ma  quale  ueiu ore  :  la  scienza  gli  mostra  gli  antececleuti  a  cu,  i  fe- nonieni  se-uono  costantemente,  ma  non  le   cau^e  erji Si  questi  fenomeni-,  di  più  quei  fenomem  stessi,  dt euf  éo.     credeva  di  conoscere  già  le  cause  etficienti    o "     h    è   o  stesso,   di  comprenderli  perfettamente,  gheh (1)   Phaeiio  V^l»  ('   s^j^. —   885 presenta  sotto  un  nuovo  aspetto  che  ^^lieli  fa  sombraro incomprensibili.  Invece  delle  cause  efficienti  che  si  at- tendeva a  trovare  da  per  tutto,  non  trova  da  per  tutto che  semplici  antecedenti  di  sequenze  invariabili. Un'altra  prova  dalla  nostra  affermazione  che  la  nozio- ne di  una  uniformità  nelle  sequenze  dei  fenomeni  non  è che  un'acquisizione  della  coltura,  e  non,  come  il  prin- cipio di  causalità  efficiente,  un  prodotto  delle  tendenze spontanee  e  cieche  dello  spirito,  la    abbiamo  in   (luesto fatto,  che  vi  hanno  dei  filosofi  aprioristi,  come  per  esem- pio Galluppi  (1),  che,  mentre  dichiarano  il  principio  di causalità  efficiente  uìia  verità  necessaria  e  a  priori,  am- mettono invece  che  il  principio  della  costanza  delle  lei:\a'i della  natura,  cioè,  al  fondo,  della  causalità  che  la  scuola scozzese  chiama  tìsica,  è  una  verità  contingente  e  spe- rimentale.    Noi    sappiamo    infatti    che    il    nostro   spirito non  ha  alcuna  disposizione  a  negare  l'origine  sperimen- tale di  quelle  nozioni  che  Bacone  chiama  Interpretazioni della  natura,  ma  solo  di  (pielle  che  egli  chiama  antici- pazioni della  natura,  cioè  di  queste  induzioni  spontanea- mente  formate,    di    cui    lo    si)irito   è    già    equipaggiato ({uando  comincia  a  rivolgere  la  sua   attenzione   riflessa sui  fenomeni,  e  che  è  portato  ad  estendere  ciecamente a    tutto   ciò   che  egli  incontra.  È  facile  di  coinprendere perchè  le  sole  cause  che  noi  ci  attendiamo    all'  origine siano  le  efficienti;  è  che,  oltre  che  le  seijuenze  familiari, le  quali,  come  abbiamo  visto,  formano  la  base  induttiva del  principio  di  causalità  efficiente,  sono  di  gran  lunga i  più  frequenti  tra  i  casi  di  causazione  della  nostra  espe- rienza,    queste   causazioni  sono  .ancora  le  prime    cono- sciute, le  sole  che  noi  conosciamo    sino    ad    una    certa epoca  del  nostro  sviluppo  intellettuale;  la  frequenza  con cui  i  fenomeni  relativi  ci  colpiscono  e  la  facilità  di  j)erce- (1)   V.  JSa(/(/io  filosof.  1.  1.  e.  4,   1.    t.  e.  s.  ]Kirji:^r.  ss. 25 -   38H  — pirne  Ih  eounessionc  dando  loro  infallibilmente  il  primo liio^'o  nell'ordine  sueces.sivo  in  cui  le  varie  le^'g'i  di  caiusa- zione  vengono  conosciute  (T.  Prendiamo  quest'occasione per  osservare  quanto  sia  inevitabile  che  le  nostre  esperien- ze determinino  in  noi  la  credenza  dell'applicabilità  uni- versale del  principio  di  causabilità  effìdente.  Essa  si  deve, come-  abbiamo  detto,  alla  frequenza  dei  casi   di   causa- zione efficiente  (cioè  di  uniformità  di  sequenza,  aventi, in  rapporto  alla  nostra  conoscenza,  questi  caratteri  psi- coloo'iei  |)articolari  risultanti  dalla  familiarità  dei  feno- meni) che  abbiamo  conosciuti   nella    nostra    esperienza, frequenza  che  è  assai  più  grande  che  quella  dei  casi  di causazione  non  efficleìdo.  Ora  notiamo  che,  per  farci  una giusta  idea  di  questa  frequenza  comparativa,  noi  dob- biamo tener  conto,  oltre  che   dell'epoca    presente   della nostra  vita,  di  <ì|ueirepoca  lontana  ora  obbliata,    ma  le cui  esperienze  non  cessano  perciò  d'influire  sul  corso  at- tuale dei  nostri  |)ensieri,  nella  (piale  i  casi  di  causazione efficiente,    cioè  delle  causazioni  che  ci   sono  le  più   fa- miliari, erano  i  soli  casi  di  causazione  conosciuti.  Quale sarà  poi  il  rapporto  numerico  fra  le  due  classi  di  espe- rienze, se,  conformemente  alla  dottrina  moderna  dell'ere- dità psicologica,  noi  mettiamo  pure   a  calcolo  le   espe- rienze dei  nostri  antenati  privi  di  ogni  coltura  scientifica —  antenati  la  cui  serie  si  prolunga  ben  lontano,  se  am- mettiamo la  teoria  dell'evoluzione  — i  (juali  non  potevano conoscere  altre  causazioni  che  le  causazioni  efficienti  di cui  parliamo  V  Ciascuna  esperienza  di  ognuno  di  ({uesti casi  di  causazione  conosciuti  lasciava  un'  impronta  nel loro  organo  del   pensiero,  impronta  il  cui  vestigio  è  stato trasmesso  sino  a  noi,  contribuendo  a  costituire,  nella  no- stra intcdligenza,  <]uesta cieca  tendenza  assimilatrice,  di  cui (1)  ('tv.   Sponcci"  (Hniisìfìi'n::ìnììc  dvUe  saiciiz",    IV.    Dello  lo.u;.i;i in   u<Mi('i"al«'. 387 il  principio  della  causalità  efficiente  è  il  simbolo  ver baie;  sicché  non  dobbiamo  stupirci  se  i  nostri  istinti tendono  con  tutta  la  loro  forza  a  ricondurre  e  assimi- lare tutto  ciò  che  conosciamo  a  (lueste  causazioni  fa- miliari, la  immensa  mole  delle  cui  esperienze  esercita sulle  nostre  idee  un'attrazione  di  una  tale  energia,  che quella  delle  esperienze  di  uiraltra  natura  non  è,  al  pa- ragone,  che  infinitesima,  in  ragione  delle  somme  ri- spettive   1 1. (1)   Non  sart'.bbe    soiiza    iutcrosse    il    considerare  i  fenoiueiii della  nietalisiea  al   punto    di    vista    della   teoria  dell'evoluzione. A  qualcuno  avrà  potuti»  sembrare  strano  che  noi,  nell'esposizione dei  concetti  della  nietalisica  che  si   rapportano  alla  ricerca  delle eause  etficienti,   abbiamo  creduto    «li    ilover    riniontare  sino  alle superstizioni  <lel  selva,i;jj;io  e  delTuonio  pr<'istoi-ic«).  Ma.  in  verità, la  prosapia  della   nietalisica    è    molto   più  antica  :    noi    crediamo che  non  sia  dittìcile    cUe    le    tendenze   illusorie  fondamentali  di unì  \v  concezioni  dei   metatìsici  som»  il  risultato,   si  tn»viu«>  .   in ^•erme.   ne.^li  animali  superiori.   Così  per  esempio  «quella  ad  assi- milare tutte  le  causjrzioni   a  «[uelle    che    ci    sono    j>iù    familiari, che  comprenile   i   processi  di   formazioni'    di   tutti   i  sistemi    rela- tivi   alle   cause   ethcienti.   dai   piìi   naturali  e   facili  ad  intendere, quali  l'antropcMnortismo  orossolano    o    la    spiegazione  meccanica universale  dei  fenomeni  tisici,   ai   più  astrusi   e  artiliciosi,    (inali la  dottrina  delle  Idee  di   Platone    o    «piella    di     lle.ocl.    \(»i  non discuteremo    sulla    probabilità  deiropinione    emessa    da    Comte che  lili   animali  superi<»ri   abbiano   delle   coiicezioni   tetieiste  :     ci contenteremo  di  ricordare    la   nota   osservazione    di    Darwin    su di   un  cane.   «La  tendenza,    e-li    dice,    che  hann(>  i   selva,;».iii  ad imnìa<;inare  che  jili  «ghetti  e  «ili  aj;enti   naturali    siam>    animati da  essenze  spirituali  o   vitali,    ha    tors«^  un  esenq)ic»  in   un  fatte- rello che  iMdei  osservare  una   volta  :   il   mio  cane,    animale   bene svilui>[»ato  e  molto  sensitive»,  stava  sdraiato  sul  terreno  durante una  calda  e  trauipiilla    -iornata:    ma    poco  lun-i    da    esso    una lieve   brezzolina  faceva  muovere  un  ombrello  aperto,  al  ipiale  il cune  non  avrebbe    certo    badato,   se  <pialcuno  fosse  stato   viciu«» -  Quantunque,  come  abbiamo  detto,  il  principio  della causalità  efficiente  o  metafìsica  e  quello  della  causalità  tì- a  (pieiromlu-ollo.   Intanto  ogni  volta    clic    «piesto    lentamente  si muoveva,  il  cane  ln-ont<»lava  ed  abbinava  tìeramente.  E«;li  do- veva .  eredo,  aver  fatto  il  raiiionamento  tra  se  in  un  nnnb»  ra- pido e  inconsapevole,  elie  il  movimento  senza  nessuna  causa  ap- parente imlicava  la  i>rescnza  di  «lualclie  (estraneo  algente  vivo, e  che  nessun  estraneo  aveva  «liritto  <li  stare  sul  suo  territcu-io.  » (Darwin.  Orif/.  deirnowo,  e.  2.  verso  la  fine).  Sjieneer  fa  un'os- servazione analoga  su  «li  un  can«;  clie  ;;iuoeava;  con  una  canna. {Prhìe.  di  Soeiolof/ia,  voi.  1.  Ajjp.  A).  È  evidente  il  rai)porto tra  l'inferenza  incosciente  dvì  can<'  di  Darwin  e  ([uclla  del  tì- losofo  animista  «»;reco  clic  sjiiejLja  l'oriiiinc  del  movimento  nelle* natura  per  il  Nous  o  rnnima  del  mondo.  L'  inferenza,  espressa con  jKirole,  supporrebbe  nell'un  cast»  <>  ludl'altro  lo  stesso  ]>rin- ci])i«».  cioè  che  rjinima  è  la  s(da  causa  pro<luttrice  di  movimento sjjontaneo.  Di  ]>iù  neirinferenza  è  sottinteso,  neirun  caso  e  nel- Tiiltro,  quest'altro  princi[>io.  c1j<'  il  s<do  movimento  di  un  cor])o inanimato.  cIk-  )K>ssa  spiegarsi  mat<'rialmente,  è  qucdlo  che  non è  spontaneo,  cioè  che  è  dovut(»  all'urto  di  un  altro  corjM».  In altri  termini,  nell'infen'uza  noi  abbiamo  il  «ierme  d(dla  tilosotia antropomoitistica  e  tinello  «Iella  tiiosotÌM  meccanica,  che  sono h^  dui'  torme  più  generali  della  metafisica  ajjjdit^ata  alla  ricrerca delle  eause  etiicienti,  secondo  la  /triiiu/  forma,  che  è  la  più  mi- turale,  della  nozione  di  causazione  ctticiente,  «die  noi  abbiamo studiata  sin<>  a  «[uesto  punto  «l«d  nostro  lavoro.  Il  cane  inetufi- sico  di  Darwin  non  «*ra  capace  «li  fan*  «\spli<'itam«?nte  tutto  il ragi«mament«>  sup})ost«»  «lalla  sua  «•«>n(dusi«>nc.  e  Darwin  ha  ra- uione  «li  dichiaran»  (die  il  ragi«>nam«'nt«>  «na  fatt«>  Jn  un  mo«lo ineonsa]>evole;  ma  noi  abbiamo  già  visto  «du'  le  c«>n(dusi«uii  «bdla metafìsica  risultano  «la  inf«'r«'nze  in<M»scienti.  Si  può  «luìupu3  «lire (die  Schopenauer  ha  tort«>  «li  «bdìnire  l'utniio  utt  nnhtHtlr  nu'fttfìsiro, s'  egli  intende  i»erci«"»  attril>uir»^  all'  intelligenza  «bdl'  uoim»  una fa«-(dtà  speciale:  la  fac«>ltà  in  e  tu  fi  sica  pu«">  an(die  rintrac«darsi neirintelligenza  d(d  )»rut«K  iM>tendo  essa  definirsi:  la  tac«dtà  «li fan^  inc«>scientemente  «Ielle  infer«Mize  «MHiforim^mente  a  «MU'te  re- g«de.  «he  s«mio  naturali  e  nnifoi'mi  per  tutti,  ma  «  h«'  in»n«lime- n«>  son«>  contrarie  alla   I«);!:ica 389  — sica    o   semplice  uniformità  di  sequejiza  non   siano  al- l'orig'ine    due    principii  distinti,    nìa  non    vi  sia    primi- tivamente  che   un'idea   unica  della  causazione,   vi    ha neirevoluzione  dei  concetti  filosofici  una  differenziazione o-raduale  di  quest'idea  primitiva,  che  arriva  infine  a  un completo  distacco  fra  la  nozione  di  causazione  efficiente e  quella  di  uniformità  di  sequenza,  per  cui    ogni    uni- formità di  sequenza  cessa  di  essere  una  causazione  effi- ciente, e  ogni  causazione  efficiente  cessa  di  essere  unauni- formitàdiseciuenza.  Ciò  avviene  per  le  modificazioni  pro- o-ressive  che  da  un  canto  la  scienza,  e  dall'altro  la  metafi- sica,  apportano  all'idea  originale  di  causazione.  Dal  suo canto,  la  scienza  scopre  sempre  di  più,  contrariamente  alle prime  aspettative  dello  spirito,  dei  rapporti  di  causazione che  non  è  efficiente,  e  mostra  infine  i  fenomeni  che  ci avevano  dato  l'idea  di  causazione  efficiente,  sotto   un aspetto    nuovo   che  non  ci  fa  sembrare  più  i  loro    rap- porti di  sequenza  come  delle  causazioni  efficienti;  sicché il  risultato  ultimo  è  che  tra  i  fenomeni  non  si  trovano mai  dei  rapporti  di  causazione  efficiente.  Dal  suo  canto, la  metafisica  disfenontcìuzza,  se  mi  è  lecito  di  dir    cosi, ])rogressivamente  le  cause  efficieìifi.  Per  questo  processo essa  arriva  infine  a  concepire  delle  cause  che  non  sono sottoposte   alla   condizione   del   tempo,    e   tra  cui  e  gli effetti    non    può    esservi    (juindi    un    vero    rapporto    di sequenza  uniforme:   il   processo  va  anche  sì  lungi  che, come  vedremo  in  seguito,  alla  sequenza  cronologica  tra la  causa  e  l'effetto  si   sostituisce  una   senplice  anterio- rità e  posteriorità  logica,   o,  come  si  dice,    di  natura. E    mentre    in  quella,   che  abbiamo  chiamato  la    prima forma  dell'idea  di  causazione  efficiente,    la  causa  meta- fisica, se  non  è  un  fenomeno,  è  almeno  modellata  sulle cause  fenomenali;  nella  seconda  forma  invece,  è  il  nexus causale  semplicemente  che   viene   modellato   sulle    cau- sazioni fenomenali  (s'intende,  sulle  più  familiari),  male Bsasss -  390  — cause  ultrafenomenali  che  e  si  suppongono,  non  hanno più,  come  vedremo,  la  minima  anoloo-ia  coi  fenomeni. Noi  possiamo  dunque  enunciare  l'ultima  fase  a  cui arriva  naturalmente  la  differenzazione  progressiva  tra causazione  efficiente  e  uniformità  di  sequenza,  della  ma- niera che  segue:  tra  gli  antecedenti  delle  sequenze  in- variabili dei  fenomeni  e  i  loro  conseguenti  non  si  trova mai  una  connessione  tale  che  la  causa  spieghi  V  effetto^ e  che  si  veda  la  necessità  e  la  evidenza  intrinseca  del rapporto  tra  la  causa  e  T  effetto  ;  e  dall'altra  parte  le cause  efficienti^  cioè  le  supposte  cause  che  possono  spie- gare gli  efl'etti,  e  tra  le  quali  e  gli  effetti  si  immagina un  legame  necessario  ed  intrinsecamente  evidente,  non sono  mai  deg-li  antecedenti  fenomenali  né  somigliano ad  alcun  ogg-etto  fenomenale.  Ma  questo  completo  di- stacco delle  due  nozioìii  della  causazione,  risultante  da una  lunga  evoluzione  del  pensiero,  non  deve  far  dimen- ticare che  esse  derivano  da  uno  stesso  tronco,  e  che  la loro  base  originale  comune  è  nelle  sequenze  i)iù  fami- liari della  nostra  esperienza.  All'origine  non  vi  era  che un'idea  unica  di  causazione,  che  riuniva  in  sé  i  caratteri ora  divisi  tra  le  due  idee  di  causazione  fisica  o  unifor- mitfà  di  sequenza  e  di  causazione  efficiente  o  metafisica: la  causa  primitiva  era  un'antecedente  fenomenale,  come la  causa  nel  senso  di  Mill  e  delle  scienze  positive,  ma al  tempo  stesso  poteva  spiegare  l'effetto  e  aveva  con  esso un  rapporto  necessario  ed  evidente  intrinsecamente,  come le  cause  ultrafenomenali  dei  metafisici. GAP.  V. LA   DOTTRINA   DELL'INCONOSCIBILE   E   l/lDEA DI   CAUSA   EFFICIENTE. §  1.  Entrando  a  parlare  i)articolarmente  dei  con- cetti che  si  rapportano  alla  seconda  forma  della  no- zione di  causaliià  efficiente,  dobbiamo  cominciare  per  la dottrina  che  ammette,  al  di  là  delle  seciuenze  uniformi tra  i  fenonuMii,  delle  cause  efficienti  sconosciute  e  inco- noscibili. E  in'effetto,  dopo  che  si  è  riconosciuta  lim- possibilità  di  soddisfare  il  bisogno  che  ha  l'intelligenza di  cause  efficienti,  conformemente  alla  tendenza  spon- tanea dello  spirito  di  assimilare  tutti  i  fenomeai  a  quelli che  ci  sono  i  più  familiari,  la  forma  più  naturale  che prende  la  nostra  credenza  nell'esistenza  di  queste  cause, è  di  relegarle  nella  regione  dell'inconoscibile.  Quantun- que l'ipotesi  di  cause  efficienti  conoscibili  possa  coesi- stere con  quella  di  cause  efficienti  inconoscibili,  in  altri termini,  quantunque  sia  possibile  di  supporre  che,  mentre alcuni  fenomeni  sono  spiegabili  i)er  cause  efficienti  fe- nomenali o  concepite  sul  tipo  di  queste,  altri  fenomeni invece  sono  inesplicabili  e  dovuti  a  cause  efficienti  me- taempiriche  e  inconoscibili  ;  la  forma  più  coerenti^  che prende  la  supposizione  di  cause  efficienti  inconoscibili è  la  dottrina,  prevalente  nella  filosofia  contemporanea, SSb! —  31)2  — che  non  ci  è  uè  ci  sarà  inai  possibile  in  alcun  caso    di asseonare  la  causa  efficiente  di  un  sol  fenomeno,  e  che tutti^  i  fenomeni  sono  dovuti  a  cause  efttcienti   che  non cadono  né  potranno  mai  cadere  sotto  le  prese  della  no- stra conoscenza.  La  dottrina  non  si  limita  ad  ammettere che,  nelle  condizioni  attuali  delle  conoscenze  umane,  le caiiU  efficienti  dei  fenomeni  sono  sconosciute,  ma  essa aWriiia  che,  per  la  natura  stessa  della  nostra  conoscenza, (jueste  cause  sarann(»  sempre  sconosciute,  e  che,  quan- d'anche la  scienza  pervenisse,  in  un  lontano  avvenire, a  dan^  di  tutti  i  fenomeni  la  sola  spie^-azione  a  cui  essa può*  aspirare,  cioè  a  conoscere  le  leo^-i  primitive   della loro  successione,  e  a  mostrare  in  dettaolio  come  ciascun fenomeno  accade  in  conformitcY  di  (|ueste  leggi,   anche allora  noi   jo-uorerennno  le  cause    produttrici    dei    feno- meni, (iueste  leo-i  primitive  a  cui  tutti  i  fenomeni  po- tranno ricondursi  non  potendo  far  conosce  che  gli    an- tecedenti di  sequenze    invarial)ili  e  incondizionali,    ma non  mai  le  vere  cause,  cioè  le  cause  efficienti.  E  questo il    credo    della    più    parte  dei   filosofi  e  de<>-li    scienziati contemporanei,  che  in  un  congresso   scientifico  è  stato formulato  col  celebre  motto  :  [giwmmus  et  ìgiiorabimm. Il   ì>rincipio  su    cui  si   basa   la  dottrina  delle  cause efficienti    inconoscibili    è   che    una   causa    fisica,    l'ante- cedente   di    una    sequenza    invariabile    tra    fenomeni, non  è  mai  una  vera  causa  cioè  efficiente,  e  ciò  perchè la  causa,  se  è  seguita  costantemente  daireffetto,  non  può però  si>ìPqaìio[^\\e\  senso  popolare  e  metafìsico  della  parola spiegazione)  e  non  vi  ha  tra  la  causa  e  l'effetto  un  legame 7ieces.s-or/o  né  evidente  intrinsecamente.  Di  là  se  ne  inferi- sce che  i  fenomeni  hanno  delle  cause  efficienti  ultrafeno- menali inconoscibili.  K  evidente  che  il  presupposto  di  que- sto ragionamento  è  che  ogni  fenomeno  deve  avere  una causa  efficiente  — cioè  una  causa  che  possa  spiegare  l'ef- fetto e  tra  la  quale  e  l'effetto  vi  sia  un  legame  necessario 398 ed  intrinsecaìnente  evidente  -  e  non  semplicemente  una causa  fisica,  cioè  un  semplic(^.  antecedente  a  cui  il  feno- meno segue  invariabilmente.  La  dottrina  ammette  perciò che  la  chiusa  efficiente  di  ciascun  fenomeno,  quantumiuc^ sia  sconosciuta,  è  tale  però  che,  se  essa  fosse  conosciuta, spiegherebbe  l'effetto,  e  si  vedrebbe  che  essa  ha  con  l'ef- fetto un  legame  necessario  (mì  intrinsecamente  evidente. E  così  che''(iaesta  dottrina  si  rapporta  a  ciucila  che  ai)- biamo  chiamato  la  seconda  forma  della  nozicme  di  cau- sazione etlficiente  :  non  sono    infatti    le    cause    supposte che  vengono  foggiate  sul  tipo  delle  cause  più  familiari, nìa  è  il  nexus  che  si  suppone  tra  (iueste  cause  e  i  loro effetti  che  viene  foggiato  sul  tipo  del   nexus  dc^Ui^  cau- sazioni  più  familiari. ^  2.  L'attermazione  che  noi  non  conosciamo  le  cause efficienti  dei  fenomeni  o,  come  dice  Comte,  il  loro  modo essenziale  di  produzione,  è  legata   con   un'  altra,    cioè che    noi    non  conosciamo  l'essenza  o  la  natura    intiiìia delle    cose.    L'  essenza  o  la  natura  intima  delle    cose    e riouardata  come  un  che  di  sconosciuto  in  esse  che,  se noi    lo    conoscessimo,  ci  spiegherebbe    tutti  i  fenomeni che  esse  ci  presentano  (1).  Si  snpi)one  che  se  la  succes- sione   deali  avvenimenti  non  ci  mostra  tra  loro  questa connessio'iie    necessaria,    intelligibile,    intrinsicamente evidente,  che  noi  immaginiamo  dover  esistere  tra  le  cause e  oli  effetti,    è  perchè    noi    non  conosciamo    delle   cose che  alcune  proprietà  e  avvenimenti  staccati;  mentre  se conoscessimo  la  realtà  d'una  maniera  ade(|Uata,  noi  po- tremmo indovinare,  dalla  seiìiplice  vista  della    costitu- zione o  natura  delle  cose,  la  loro  maniera  di  agire  e  di patire  in  tutte  le  differenti  circostanze,  e  allora  noi  sa- premmo,    non    solamente   che.  ma  perchè  a  certe  cause sea-uirebbero  certi  eftetti,  e  le  successioni  costanti  degli 1)   CiV.    Mill.    Fiìos.  (li   Hamilton   tiad.  fniiic.   p.    1:5. — -as 394 avvenimenti  non  sarebbero  più  incomjirensibili,  come sono  attualmente  per  la  limitazione  delle  nostre  cono- scenze. Cosi  questa  proposizione  che  noi  non  conosciamo l'essenza  delle  cose,  non  è  che  un'espressione  diversa, ma  al  fondo  equivalente,  dell'altra  proposizione  che  noi non  conosciamo  le  cause  efficienti  dei  fenomeni.  Si  am- mette, è  vero,  che  sono  tutte  le  proprietà  delle  cose  che derivano  dalla  loro  essenza,  e  che  potrebbero  esserne spieo-ate:  ma  le  proprietà  dei  corpi  sono,  sovratutto  nella scienza  moderna,  le  potenze  che  essi  hanno  di  esercitare qualche  azione  sovra  altri  corpi,  o  di  subire  qualche  pas- sione da  parte  di  altri  corpi.  Per  consequenza,  la  prin- cipale supposizione,  implicata  nella  proposizione  che  noi non  conosciamo  l'essenza  delle  cose,  è  che  le  maniere  di agire  e  di  patire  dei  corpi,  cioè  al  fondo  tutte  le  legg-i  di causazione,  attualmente  per  noi  inesplicabili,  noi  po- tremmo spiegarle,  se  potessimo  conoscere  queste  sup- poste proprietà  sconosciute  che  costituiscono  l'essenza dei  corpi  '1).  La  nostra  pretesa  ignoranza  dell'essenza delle  cose  non  essendo  dunc^ue  altro,  al  fondo,  che  la nostra  [)retesa  ignoranza  delle  cause  efficienti,  ne  segue che,  se  1'  idea  di  causa  efficiente  non  ha  valore  obbiet- tivo, e  se,  quindi,  spiegare  un  fatto  vuol  dire  seniplice- mente  mostrare  come  esso  si  conforma  alle  leggi  generali delle  sequenze  dei  fenomeni,  e  non  assegnargli  delle cause  che  abbiano  con  l'effetto  una  connessione  neces- Harla  e  che  ci  sembri  comprensibile  e  intrinsecamente evidente;  noi  dobbiamo  affermare  che  conoscieamo,  o  al- meno che  siamo  capaci  di  conoscere,  l'essenza  delle  cose, perchè  l'essenza  d'una  cosa  non  può  essere  altro  che  l'in- sieme dei  suoi  attributi,  e  tranne  il  mistero  che  ci  sembra trovare  nelle  leggi  dei  fenomeni,  niente  ci  indica  che al  di  là  degli  attributi  conoscibili  di  ciascuna  cosa,    ve (1)  Cfr.   Apj).  al  e.  t). —  395 ne   hanno  altri  più  fondamentali  da  cui  essi    derivano, e  che  sarainio  per  sempre  inconoscibili. §  3.  É  vero  però  che  quando  si  dice  che  noi  non conosciamo  l'essenza  delle  cose,  questa  proposizione  im- plica, oltre  la  pretesa  ignoranza  in  cui  siamo  delle,  cause efficienti  o  del  modo  reale  di  produzione  dei  fenomeni, la  mancanza  di  una  vera  realtà  in  quegli  attributi  delle cose  che  noi  conosciamo.  La  dottrina  della  inconosci- bilità della  essenza  delle  cose,  o,  come  si  dice  in  altri termini,  della  relatività  della  nostra  conoscenza,  viene presa  in  due  sensi  :  alcuni  di  quelli  che  sostengono questa  dottrina  la  prendono  semplicemente  nel  senso che  si  rapporta  alla  pretesa  inconoscibilità  delle  cause efficienti  ;  altri  la  intendono  in  un  senso  più  compren- sivo, ammettendo,  non  solo  che  noi  non  conosciamo  le cause  efficienti,  ma  ancora  che  tutto  ciò  che  noi  cono- sciamo delle  cose  non  è  che  relativo  al  nostro  modo  di percepirle,  e  che  qualsiasi  attributo  delle  cose  in  se  stesse ci  è  assolutamente  sconosciuto. Noi  possiamo  aggiungere  infine  che  oltre  alla  im- possibilità di  conoscere  le  cause  efficienti  e  alla  relati- vità delle  nostre  percezioni,  vi  ha  anche  un  terzo  fon- damento della  dottrina  delTinconoscibile  :  è  che  lo  spi- rito umano,  quando  vuol  formarsi  una  concezione  coe- rente delle  cose,  sembra  incontrare  certe  alternative  di proposizioni  contraddittorie,  di  cui  1' una  o  l'altra  do- vrebbe essere  vera,  ma  di  cui  non  si  può  ammettere  né runa  né  l'altra,  essendo  egualmente,  come  si  dice,  in- concepibili. Le  sorgenti  della  dottrina  dell'inconoscibile sono  quelle  stesse  della  metafìsica  in  generale;  daper- tutto  là  dove  la  metafisica  dogmatica  trova  un  essere  me- taempirico  con  attributi  determinati,  l'agnosticismo  con- temporaneo trova  invece  l'Inconoscibile.  I  tre  fondamenti della  dottrina  dell'inconoscibile,  corrispondenti  alle  tre sorgenti   principali  della    metafisica   (almeno  nel   senso -  89()  — più  stretto  di  questa  parola),  non  possono  essere  trat- tati che  in  parte  distinte  di  questo  Saggio:  dei  due ultimi  partiremo  nella  2^'  parte — perchè,  come  Kant  ha compreso  perfettaiìieate,  la  quistione  delle  antinomie  di- pende da  quella  della  cosa  in  sh — ;  in  questa  non  possiamo occuparci  che  del  primo,  cioè  quello  che  si  riferisce all'idea  di  causa  efficiente. E  <|Uesto  il  solo  fondamento  su  cui  si  basa  la  teoria nel  positivismo  comtiano.  Littrè  dice:  «Peri  filosofi  in- glesi il  principio  (della  relatività  delle  nostre  conoscenze; è  psicologico,  e  risulta  dalla  natura  della  nostra  facoltà di  conoscere  ;  per  Comte  esso  è  empirico,  e  risulta  da questo  fatto  che  in  ogni  scienza  positiva  si  è  arrivato a  un  fatto,  a  un  fenomeno,  al  di  là  del  quale  non  si  é potuto  andare  ^^  il  .  Com'è  che  questo  fatto  che  in  ogni scienza  positiva  si  è  a  r  riatto  a  un  fenomeno  al  di  là  del  quale lìon  si  r  potido  aììdare,  j)rova  la  limitazione  della  cono- scenza,  e  r  esistenza  di  qualche  cosa  posta  al  di  là  di questi  limiti?  Littrè  intende  dire  che  le  leggi,  i  prin- cipii  ])iù  generali  a  cui  la  scienza  riconduce  i  fenomeni, non  possono  spiegarsi,  e  di  là  ne  conclude  che  vi  hanno, al  di  là  del  conoscil)ile,  dei  principii  ulteriori  da  cui  essi derivano.  In  verità  il  fatto  che  ogni  scienza  arriva  in- fine a  dei  fenomeni,  cioè  a  delle  leggi,  al  di  là  di  cui non  i)uò  andare,  lungi  di  provare  la  relatività  della  no- stra conoscenza,  sembra  anzi  una  condizione  indispen- sabile della  possibilità  di  una  conoscenza  reale.  Se  infatti ^i  annnettesse  che  ciascuna  legge  potesse  sempre  dedursi da  leggi  superiori  o  più  generali,  in  modo  che  questo lavo«-o  di  deduzione  andasse  all'infinito,  ciò  sarebbe  am- mettere, che  non  vi  hanno  leggi  primitiv^e  o  aventi  il  più alto  grado  di  generalità,  il  che  tornerebbe  a  dire  che  non (l)  Littn*   Amj.  Cnìntv  v   Shtarf-jniì.  I V.  (Fnnimi.  di  Hh^sotia posit.   jitiu.  274). 397 vi  hanno  aflatto  leggi,  le  vere  leggi  essendo  le  primi- tive, cioè  le  uniformità  di  sequenza  invariabile  e  iucon- dizionale  dei  fenomeni.  Perchè  dunque  Littrè  suppone che  deve  esservi  ancora  qualche  cosa  al  di  là  di  queste leggi  primitive,  di  queste  uniformità  di  sequenza  invaria- bile e  e  incondizionale?  Perchè  esse  gii  sembrano  aver bisogno  di  una  spiegazione;  perchè  in  queste  uniformità  di sequenza  l'antecedente  non  può  spiegare  il  conseguente, e  non  vi  ha  tra  l'antecedente  e  il  consequente  un  legame neeessario  e  di  un'evidenza  intrinseca;  in  altri  termini perchè  egli  nel  suo  ragionamento  sottintende,  come evidente  per  sé  stesso  .  il  princi])io  che  ogni  fenomeno deve  avere,  non  solo  un  antecedente  a  cui  questo  fe- nomeno segue  invariabilmente,  ma  ancora  una  causa diffidente,  cioè  una  causa  che  possa  spiegare  l'efPetto,  e che  abbia  con  1'  (^fletto  un  legame  necessario  e  di  una evidenza  intrinseca. In  Spencer  la  teoria  dell'inconoscibile  è  basata  su tutti  e  tre  i  fondamenti  che  noi  abbiamo  assegnato  a questa  teoria  :  quello  di  essi  di  cui  attualmente  ci  oc- cu])iamoè  esposto  di  una  maniera  generale  nel  paragrafo 2o  dei  Primi  Principii.  In  questo  paragrafo  Fautore  vuol dimostrare  la  natura  impenetrabile  delle  cose  in  se  stesse e  la  relatività  della  conoscenza  per  una  deduzione  tirata dalla  natura  stessa  della  nostra  intelligenza  e  fondata sull'analisi  dei  prodotti  del  pensiero.  Perciò  egli  mostra con  esempi  che  comprendere,  spiegare,  un  fatto  parti colare  è  vedervi  un  caso  di  (pialche  legge  o  di  certe leggi,  e  che  spiegare,  comprendere,  ciascuna  di  (lueste leggi  è  vedervi  un  caso  di  qualche  legge  o  di  certe  h^ggi più  generali,  ciascuna  delle  quali  alla  sua  volta  potrà essere  compresa  o  spiegata  riconducendola  a  una  legge o  a  leggi  più  generali  ancora  ;  e  dopo  ciò  conclude  : «Questa  operazione  è  limitata  o  illimitata?  Possiamo noi    andare   sempre  avanti    spiegando  le  classi  di    fatti 'ódb rapportandoli  a  delle  classi  più  larghe,  o  dobbiamo  noi arrivare  a  una  classe  più  larga  che  tutte  le  altre?  Da un  lato,  la  supposizione  che  l'operazione  è  illimitata,  se vi  fosse  (jualcuno  tanto  assurdo  da  sostenerla,  impliche- rebbe ancora  che  una  spiegazione  prima  non  può  essere ottenuta,  poiché  per  ottenerla  bisognerebbe  un  tempo infinito.  Da  un  altro  lato  la  conclusione  inevitabile  che r  operazione  è  limitata  (conclusione  provata  non  solo dai  limiti  del  campo  d'osservazione  che  s'apre  dinnanzi a  noi.  ma  anche  dal  decrescimento  del  numero  delle  ge- neralizzazioni che  accompagna  necessariamente  l'ac- crescimento della  loro  larghezza)  implica  egualmente che  il  tatto  ultimo  non  può  essere  compreso.  In  effetto, se  le  generalizzazioni  sempre  più  avanzate  che  costitui- scono il  progresso  delle  scienze  non  sono  altro  che  delle riduzioni  successive  di  verità  speciali  a  verità  generali, e  di  queste  a  più  generali  ancora,  ne  risulta  evidente- mente che  la  verità  che  é  la  })iù  generale  non  potendo essere  ricondotta  ad  una  più  generale,  non  \niì)  essere spiegata.  E  evidente  che,  poiché  la  conoscenza  più  ge- nerale a  cui  noi  arriviamo  non  può  essere  ridotta  ad una  più  generale,  non  può  essere  compresa.  Dunijue necessarianunite  la  spiegazione  deve  metterci  in  presenza deirinesjdicabile.  La  verità  più  avanzata  che  noi  possiamo attingere  deve  necessariamente  essere  inesplicabile.  La parola  comprendere  deve  cangiare  di  senso  prima  che il  fatto  ultimo  possa  essere  compreso». Ciò  che  è  notevole  in  questo  luogo  di  Spencer  è che,  mentre  V  autore  si  diffonde  a  provare  ciò  che  in verità  non  avrebbe  bisogno  di  essere  provato,  cioè  la necessità  che  vi  siano  delle  leggi  più  generali  di  tutte che  non  possono  derivarsi  da  leggi  più  generali  ancora, egli  non  spende  invece  una  parola  per  giustificare  la connessione  tra  questo  fatto  e  la  conclusione  a  cui  egli vuol  farlo  servire,  cioè  l'esistenza  di  qualche  cosa  inac- -  399  - cessibile  alla   nostra    conoscenza.  E  questa   connessione intanto  che  avrebbe  bisogno  di  essere  provata;  ma  essa sembra  a  Spencer  evidente  per  se  stessa:  come  Littrè  nel luogo  più  breve,  ma  della  stessa  portata,   che   abbiamo prima  citato,  egli  non  trova  nemmeno  necessario  enun- ciare il  princijìio  che  è  la  premessa    della   sua    conclu- sione, lo  sottintende.  Ma  se  noi  vogliamo  sviluppare  l'in- ferenza che  Spencer  fa  d'una  maniera  rapida  e,  noi  non osiamo  dire  per  rispetto  a  un  si  grande,  pensatore,    in- consapevole, noi  troviamo  anzitutto  (luesto  ragionamento: Le  leggi  più  generali  della  scienza  avrebbero    bisogno di    essere   spiegate;   ma  esse  sono  i)er  noi  ines[)licabili; dunque  ciò  che   potrebbe    spiegarle  è  inaccessibile   alla nostra    conoscenza.    Spencer   si    estende  a  provare    che queste  leggi  sono  inesplicabili,  ciò  che  è  vero,  poiché, nel    senso    scientifico,  spiegare  dei  fatti  è  ricondurli    a determinate  leggi,  e  si)iegare  delle  leggi  è  ricondurle  a leggi    più    generali  :   ma  ne  segue  che  la  nostra    cono- scenza è  limitata?  Ciò  non  se  ne   può   concludere,    se non  si  ammette  prima  che  queste  leggi  dovrebbero  essere spiegate.  Spiegate  nel  senso  scientifico?  no,  jierchè  non potrebbe  annnettersi  senza  supporre  come  vero  un  princi- pio assurdo  econtradditorio,  ciocche  siano  possibili  in  atto dei  gradi  infiniti  di  generalità  progressiva,  ciò  che,  come abbiamO'detto,  annullerebbe  il  concetto  stesso  di  lea'^-e, oltre  ad  implicare  l'assurdità  di  un  infinito  in  atto.  Spie- gate dunque  nel  senso  popolare  o  metafìsico.  Ma  perchè dovrebbero  essere  spiegate  ?  (in  questo    senso    che    ab- biamo detto).  Perchè  per  se  stesse  sono  incom])rensibili (nel    senso  di  questa    parola    che    corrisponde  al   senso indicato  della  parola  spiegare)—dfiì\ìi  incomprensibilità, in    questo   senso,  delle  leggi  che  sin  qui  la  scienza  ha scoverte,  Spencer  ne  induce  che  saranno  similmente  in- comprensibili anche  quelle  più  generali  che   potrà   sco- prire per  l'avvenire  — .  Che  significa  dunque,  in  sostanza, \ *"^1iTi'^'TF""'71''g  IWii »smmmmmmmmm —  400  — il  rao-ìoiijunoiitodi  Spencer?  Che  leuiiitoniiità  di  sequenza più  o-enerali  a  eui  la  scienza  rieonduee  i  fenomeni,  cioè  le lea'ii'i  di  causazione,  essendo  in  se  stesse  incomprensibili, poicliè  la  causa  non  spiega  l'effetto,  e  non  vi  lia  tra  la  causa e  l'effetto  un  leo-ame  evidente  i)er  se  stesso,  ne  segue  la necessità  delT  esistenza  d"  un  intermediario  esplicativo che  [)otrel)l)(».  farle  cowprevdere,  e  ciò  in  conseguenza del  principio  che  ogni  fenomeno  deve  avere  una  causa, che  non  sia  soltanto  un  antecedente  a  cui  il  fenomeno seii'ua  costantemente,  ma  che  sia  efficiente,  cioè  che jìossa  s/>if\(/are  l'effetto,  e  tra  la  (juale  e  l'effetto  vi sia.  \\u  ì(^ii'ame  evidente  per  se  stesso.  Siccome  questi intermediari  csj)licativi.  c[ueste  cause  efficienti,  non  ci sono  mai  mostrate  dalla  scienza,  egli  ne  conclude  la limitazione  ch^Ila  nostra  Incolta  conoscitiva  e  1'  esi- steìiza  di  qualche  cosa  al  di  là  dei  limiti  del  conoscibile. E  chinro  così  che  ruiìo  dei  fondaiuciiii  della  teoria  del- l'inconoscibile è,  anche  in  Spencer,  il  princi|)io  di  cau- salità efficiente. ^  4.  Ora  (jual  è  la  solidità  di  ([uesto  fondamento? Sarebbe  iiiutih'  di  dimostrare  contro  i  teorici  dell'inco- noscibile  che  il  principio  di  causalità  efficiente  non  può essere  provato  dall'  esperienza,  perchè  è  ciò  che  essi ammettono  implicitamente,  quando  affermano  che  nessuna causazione  dell'c^sperienza,  nessuna  sequenza  tra  fenome- ni, è  una  causazione  efficiente.  Forse  si  dirà  che  se questo  principio  non  può  esso  stesso  stabilirsi  indutti- vamente, può  forse  dedursi  da  qualche  principio  più generale,  capace  di  essere  stabilito  induttivamente.  Ma il  princi[)io  di  causazione  essendo  la  legge  più  univer- sale debile  sequenze  tra  i  fatti,  (piesto  principio  più  ge- nerale dovrebbe  essere  una  uniformità  che  abbracciasse, insieme  alle  sequenze,  tutti  gli  altri  rapporti  trai  fatti. Sarà  dunque  il  ])rincipio  che  ogni  rapporto  costante  tra i  fatti  fcononosciuto  nella  sua  natura  reale)  deve  essere —  401 intelligibile,  necessario  ed  evidente  intrinsecamente, (come  quello  tra  la  causa  e  l'effetto j.  E  nel  fatto,  come vedremo  nell'Appendice  al  capitolo  seguente,  è  ([uesto il  presupposto  generale  implicitamente  ammesso  dalla metafìsica.  Ora  anche  questo  principio  j)iù  generale,  di cui  quello  di  causalità  efficiente  non  sarebbe  che  un  caso, è  impossibile,  secondo  il  teorico  dell'inconoscibile,  di provarlo  per  V  esperienza,  perchè  quando  egli  affer- ma che  non  conosciamo  Vessenza  delle  cose,  egli  suppone che  la  conoscenza  di  questa  essenza  sarebbe  la  sola che  potrebbe  spiegare^  non  solo  le  sequenze  costanti, ma  tutti  i  rapporti  costanti  tra  i  fatti  dell'  esperienza (per  esempio  la  coesistenza  uniforme  delle  proprietà nelle  diff'erenti  classi  delle  cose).  Egli  ammette  quindi che  tutti  i  rapporti  costanti  dell'  esperienza  (tranne forse  quelli  che  formano  l'oggetto  delle  matematiche pure),  e  non  le  sole  causazioni,  sono  egualmente  miste- riosi, e  non  ci  mostrano  questi  veri  legami,  analoghi  a quello  di  causazione  efficiente,  e  supi)OSti  dal  priiKMpio generale  di  cui  quello  di  causazione  efficiente  non  sa- rebbe che  un  caso.  Il  principio  di  causazione  efficiente, 0  quello  più  generale  da  cui  si  dedurrebbe,  il  teorico dell'inconoscibile  non  può  dunque  annnetterlo  che  per la  sua  evidenza  intrinseca;  ciò  vuol  dire  che  egli deve  riguardarlo  come  una  verità  a  jrnori.  ]Ma,  come abbiamo  mostrato  sul  Saggio  1.  (1),  tutte  le  nostre  cono- scenze si  dividono  in  due  campi  :  le  une  sono  esistenziali^ cioè  affermano  che  le  cose  esistono,  che  esistono  cosi  o così,  che  esistono  in  tale  o  tal  altro  ordine  di  secjuenza o  coesistenza,  ecc.;  le  altre  non  stal)iliscono  niente  sul- l'esistenza, sulla  realtà,  ma  affermano  solamente  che degli  oggetti,  reali  o  possibili,  paragonati  fra  di  loro, hanno  certi    rapporti  di  somiglianza  o  di  differenza   (di (1)  V.   s[K'cialiiicntc  ca[).  '^. 28 -  402   - cui  il  caso  più  notevole  è  reg'iiaglianza  o  ineguag-lianza detiuita  tra  le  grandezze/;  di  queste  due  classi  di  cono- scenze, le  seconde  possono  essere  a  priori^  ma  le  prime sono  sempre  a  j)osferiori.  Ora  è  evidente  che  il  princi- pio di  causalità  (efficiente  o  non  efficiente)  deve  essere aggregato  alla  prima  classe  di  conoscenze,  alle  esi- stenziali :  ammettere  dun(|ue  che  non  derivi  dall'espe- rienza sarebbe  ammettere  che  esso  è  un  fatto  eccezio- nale e  inesplicabile  (inesplicabile  nel  solo  senso  legitti- mo che  può  avere  questa  j>arola,  che  deve  applicarsi nei  casi  in  cui  un  fatto  non  può  ricondursi  a  leggi  ge- nerali, tanto  più  se,  come  nel  nostro  caso,  è  in  contrad- dizione con  esse),  oltre  che  sarebbe  andare  incontro  al l'altra  difticokà  evidente  della  dottrina  delle  conoscenze a  priori,  tutte  le  volte  che  essa  si  estende  a  delle  pro- posizioni oistenziali,  di  ammettere  una  coincidenza  in- conuM-ensibile  tra  il  pensiero  e  la  realtà,  che  non  è  stata formata  dalla  impressione  della  realtà  stessa  (1). (1)  V.  Sa.iinio  1.  e.  :\.  v^  <». Notiamo.  ]h'ì'  im-idcMite.  mia  diticrcuza  del  principio  dì  cau- salità ofticioiito  —  conic  di  «pialsiasi  altro  priiii'ii)io  chdlo  stesso or<line,  su  i-ui  il  iiietalisico  si  fonda,  eoseientenieute  o  ineoscieii- teiiieiite.  ]K'1-  ista])ilire  le  s\m  realtà  iiictaeiiipiriehe  —  eoii  le  al- tre eoiioseeiize  a  ]>rioi"i  o  jnetese  tali  :  queste,  per  esenijiio  un  as- sioma matematico,  si  veritieanM  uel  mondo  deiresperienza.  e  pos- sono essere  ([uindi  confermate  da  (piesta  :  quello  non  ])uò  do- inandare  alcuna  conferma  alla  ^realtà,  j)erehè  non  si  realizza  che nel  mondo  metampirico  del  metatisico  —  Noi  a))l>iamo  dette»  nel test<»  che.  s(>  si  esclude  Torini iiu'  induttiva  del  principio  di  eau- vsalità  ettìciente.  deve  ammettersi  come  evidente  intrinsecanieuto, cioè  per  se  stesso.  Ciò  perchè  esso  viene  riguardato  generalmente come  un  assioma,  ed  ammesso  implicitamente  come  tale  (cioè eouic  evidente  j)er  se  st<'sso)  anche  da  <iuelli  che  non  i^rofessano la  dottrina  «Ielle  conoscenze  a  i)riori.  Tuttavia  potrebbe  anche HUppt)rsi  che  esso   mui  sia  evidente   per  se  stesso,    ma   possa  de- 403  - Vi  ha,    a    dir  vero,    oltre  alle  conoscenze  intuitive delle  somiglianze  e  delle  differenze,  un    altro  elemento nella  nostra  conoscenza,  che  non  risulta  dall'esperienza, e  che  noi  dobbiamo  ammettere  senza   prova    induttiva, e  generalmente  senza  alcuna  prova  :  sono  dei  postulati implicati  in  ogni  atto  deirintelligenza,  e  che  noi  ammet- tiamo praticamente  per  la  semplice  ragione  che  faccia- mo uso  deirintelligenza  stessa  (cioè  :  che  la  memoria  non c'inoanna,  che  le  somiglianze  e  le  differenze   ])ercepite col  pensiero  corrispondono  a  quelle  delle  cose  stesse,  e che  noi  abbiamo  il  dritto  di  fare  delle  inferenze  dal  pas- sato all'avvenire,  dall' osservato  al  non  osservato)  (1). Di    questi    postulati    sarebbe    assurdo  di  domandare    le prove,  perchè  non  vi  ha  prova  possibile  che  non   sup- ponga la  loro  ammissione:  per  la  stessa  ragione  sarebbe assurdo  cercare  d'infirmarli,  poiché  per  ciò  si  dovrebbe far  uso  del  ragionamento,    per  conseguenza  ammettere questi   postulati,  e  mettersi  quindi  in  contraddizione  con se  stesso.  Questi   postulati  si  ammettono  dunque,  in  un senso,  a  priori.  Ma  si  deve  notare   che   essi   non    affer- mano niente  sulle  cose,  e  non  sono  essi  stessi  delle  co- noscenze (quantunque  senza  di  essi  non  vi  sia  conoscenza possibile):  le  proposizioni  in  cui  possono  formularsi  non <lursi  da  «gualche  principio  più  primitivo  evidente  p(u-  se  stesso. Ma  se  la  deduzione  fosse  logica  (vale  a   dire   se   fosse  ecmforme al  tipo  e  alle  regole  di  ciò  die    i  h)giei    chianiauo  deduzione,  e non  una  di  quelle  pretese  deduzioni    di    eerti    nietatisici.    tli  cui Hegel  non  ci  dà  che  l'esempio    piìi   segnalato),    il    principi.)  i»iù primitivo  da  eui  (piello  di  causalità  ettìciente^  si  de<lurrebbe,  ùo- vrebbe  essere  una  legge  più  generale,    elie    comprendesse,  eonie uno   dei    suoi    easi.    anche   quella    <lella    causalità  etìiciente.  Per ^.^.ousegueuza  (piesto  princii)io  più  ])riinitivo  sarebbe  ancora  una proposizione    esistenziale,    soggetta    egualm-^iite    alle    obbiezioni indic-itc  nel  te>to  contr»  rajrioL-ltì  «li   tili   p.-.);)  »>iziu!ii. (1)  V.   Sa  (f  II  lo   l.   e.   1).   v>    15. —  404 espriiiioiio  che  la  sicurezza  che  accompagna  le  opera- zioni della  nostra  intelligenza,  la  fede  che  noi  abbiamo nelle  nostre  facoltà  conoscitive,  il  dritto,  che  ci  affer- miamo, di  attenderci  che  le  nostre  funzioni  mentali,  nor- malmente compiute,  non  ci  condurrano  all'errore,  ma alla  verità.  Ma  quando  facciamo  un'  affermazione  sulle cose  stesse,  quando  abbiamo  o  crediamo  di  avere  una conoscenza,  ciò  non  può  essere  che  un  risultato  delT im- pressione delle  cose  stesse,  cioè  dell"  esperienza,  salvo la  sola  eccezione  che  abbiamo  indicata,  cioè  le  semplici intuizioni  delle  somiglianze  e  delle  differenze.  Ne  segue che,  il  principio  di  causazione  efficiente  non  potendo nm mettersi  come  una  verità  evidente  per  se  stessa  nò come  dedotto  da  qualche  altra  verità  evidente  per  se stessa  —  perchè  tali  verità  sarebbero  delle  conoscenze  a priori,  e  queste  non  concernono  mai  l'esistenza—;  e  dal- l'altra parte  non  potendo  essere  provato  dall'esperienza— perchè  non  vi  ha  altra  prova  che  un'  induzione,  o  una deduzione  tirata  da  un  princijìio  generale  stal)ilito  da un'induzione  precedente — ;  il  |)rincipio  di  causazione  ef- ticiente  non  ha  una  i)ase  possibile  su  cui  fondarsi,  e non  possiamo  attribuirgli  alcun  valon^  obbiettivo.  Il  teo- rico deirinconoscibile  dirà  che  il  criterio  della  verità  non può  essere  al  postutto  che  V  evidenza,  e  che  noi  dob- biamo ammettere  il  principio  di  causazione  efficiente perchè  esso  ci  forza  a  riconoscerlo  per  la  sua  evidenza stessa  (qualunque  sia  d'  altronde  la  sua  base  e  la  sua origini'),  senza  cercare  delle  prove,  come  ammettiamo, senza  cercare  delle  prove,  i  postulati  di  cui  sopra,  im- plicati in  ogni  atto  della  nostra  intelligenza.  E  nel  fatto l'argomento,  preteso  perentorio,  della  scuola  intuitiva, per  giustificare  le  credeiìze  ìiatumli  del  f/enere  uma- no. Il  principio  dell'inconcepibilità  della  negativa  di Spencer  non  ne  è  che  un'  altra  forma,  e  non  contiene di  nuovo  che»  un'esagerazione.  Le  cr(;denz(^  naturali  del, 405  — genere  umano,  o  piuttosto  le  proposizioni   che  i  meta- fìsici vi  sostituiscono,  non  hanno  mai  per  sé  l'inconce- pibilità della  negativa  ;  questa  non  si  trova  mai    nelle proposizioni  sull'esistenza,  e  non  è  propria   che    degli assiomi  matematici  e  di  altre  proposizioni  simili,  di  cui nessuno  ha  contestato  o  contesterà  mai  la  verità.  Questo criterio  è  dunque  inapplicabile  nei  casi  in  cui  vi  avrebbe bisogno  dell'applicazione  dì  un  criterio.    Fatta    dunque deduzione  dell'  esagerazione  contenuta  nel  principio  di Spencer  (cioè  l'elevazione  ad  assoluta  necessità  del  pen- siero di  ciò  che  non  è  che   una  tendenza    naturale    del pensiero),  non  resta,  per  giustificare  l'idea  di  causazione efficiente  e  tutte  le  altre  induzioni  incoscienti  che  si  tro- vano alla  base  di  ogni  concetto  metafìsico,  che  l'  argo- mento dell'evidenza,  quale  noi  sopra  1'  abbiamo  formu- lato. Óra  quest'argomento  non  è  concludente,  sovratutto per  due  ragioni:  1.  L'esistenza  di  ciò  che  Bacone  chiama o'VidoIa  trihns,    cioè   le    illusioni    naturali    dello    spirito umano.  Queste  s'impongono  talvolta  così  universalmente e  con  una  forza  tale  da  meritare  più  che  qualsiasi  altra affermazione  il  nome  di  credenze  lìatamU  del  (jenere  urna- vo    e  o-iuiioono  a  un  tal  grado  di  evidenza,  che  se  non va  sino  all'  inconcepibilità  della   negativa   richiesta   da Spencer    (che,    come  abbiamo  detto,  non  si  trova    mai nelle  proposizioni  sull'esistenza),  non  è  certo  minore  che quello  del  principio  di  causazione  efficiente  o  di  qualsiasi altro  su  cui  sono  fondati   i  concetti  metafìsici.  L'esempio migliore  è  la  credenza  che  il  colore,  il  sapore  e  le  altre qualità  sensibili  sono  delle  proprietà  obbiettive  dei  corpi stessi,  e  non  delle  semplici  sensazioni  nostre,  come  am- mette il  teorico  dell'inconoscibile,  e  in  generale  ogni  spi- rito coltivato.    Gì'  klola  tribus  sono  generalmente  delle affermazioni  che  hanno  l'aria  di  darci  delle  conoscenze, e  delle  conoscenze  sìdr esistenza;  per  conseguenza  essi  non possono  risultare  che  dall'esperienza.  Così   essi   devono -  406 —  407  — spargere    un    legittimo    sospetto    sulla    validità,    come criterio,    dell' evidenza    intrinseca   d'una   proposizione, quando   questa   volge,    com' essi,    sull'esistenza,    ed  è anche  perciò,    com' essi,    un    risultato    dell'associazione delle   idee   e   dell'  esperienza.    Ma   questo    sospetto    non può  estend(5rsi    alle  due    altre  categorie  di  affermazioni di    cui    ammettiamo    la    verità    indipendentemente    dal- l'esperienza,   cioè  i   postulati  di  cai  sopra,  implicati  in ogni    esercizio   dell' intelligenza   (e  che,   come  abbiamo detto,  non  costituiscono  per  se  stessi  delle  conoscenze), e  le  conoscenze  intuitive  delle  somiglianze  e  delle  diffe- renze. E  ciò  tanto  perchè  gl'idola  tribus  non  si  trovano che  in  un'altra  categoria  di  proposizioni,  aventi  un'ori- gine e  un  contenuto  differenti,  quanto  perchè  ogni  dubbio su  queste  due  categorie  ci  è  assolutamente  impossibile. 2.    L'evidenza   intrinseca    d'una   proposizione,    se questa  non    è    una   semplice   intuizione   di  somiglianza o  di   differenza  —  nel   (jual   caso  ammettiamo   che  l'evi- denza intrinseca  è  un   criterio   della  verità,  e   non  pos- siamo non  ammetterlo,  la  negativa,  in  tal  caso,  essendo realmente  inconcepibile  —  non  può  essere  che  un  risul- lato  dell'esperienza,  per  consegnenza  di  un'inferenza,  le cui  ]ìremesse  si  trovano   nell'esperienza  j)assata,  quan- tunque attualmente  non  ne  abbiamo  coscienza.  In  una parola,  una  proposizione  sull'esistenza,   che   ci  sembra evidente  per  se  stessa,  non  è  in  realtà  che  un'inferenza incosciente.  Ma  se  è  così,  non  vi  ha  alcuna  ragione  per- chè non  dobbiamo  sottomettere  una  tale  inferenza  ai  cri- teri di  tutte  le  altre  inferenze,  cioè  esaminare,  secondo i  canoni  della  logica,  se  essa  è  stata  ben   tirata,   se  le sue  premesse  la  giustiiicano,  in  una  parola  se  si  conforma ai  tipo  di  un'inferenza  legittima.   Ma   allora  l'evidenza intrinseca  finisce  di  essere  un  criterio,  e  la  prova  della verità  sta  nell'esperienza.   Ciò  mostra   come  il   criterio dell'evidenza  intrinseca  non  è  solamente  insufficiente,  ma #, m è  necessariamente  fallace.  Infatti,  quando  è  che  s'invoca questo  criterio  ?  Quando  la  proposizione  non  si  può  pro- vare per  l'esperienza.    Ma  una  proposizione  che  deriva dell'esperienza  —  quali  sono  tutte  le  proposizioni  sull'e- sistenza, alla  cui  categoria  appartengono  tutte  quelle  di cui  è  quistione  nelle  controversie  filosofìche  —  e  intanto non  si  può  provare  per  Tesperienza  stessa,   è  necessa- riamente un'inferenza  illegittima,  un'induzione  che  le sue  premesse  possono  spiegare  come  fatto   psicologico, ma  senza  poterla  giustificare  come  conclusione  logica. Questa   considerazione  generale  trova  la  conferma  ])iii evidente  nell'esame  dei  fatti  particolari.  L'inferenza  per cui  concludiamo  il  principio  di   causalità  efficiente   (co- me qualsiasi  altro  tra  quelli  presupposti,  esplicitamente o  implicitamente,  dal  metafisico)  non  può  farci  illusione che  sinché  la  facciamo  incoscientemente,   accettandone il  risultato  come  nna  verità  evidente  per  se  stessa.  Per distruggere  l'incanto,  basta  elevarla  alla  luce  della  co- scienza :  allora  non  ci  resta  che  la  sorpresa  come  l'at- tività cieca  del  nostro  spirito,  con  un'imitazione  così  im- perfetta dei   nostri   processi  logici  coscienti,   possa  pro- durre un'evidenza,  a  cui  giungono  raramente  i  più  ri- gorosi di  questi  processi. §.  6.  Il  punto  di  partenza  dell'inferenza  sono,  come abbiamo  detto,  le  causazioni  efficienti  sperimentate,  cioè le  sequenze  molto  familiari  tra  fenomeni  che  noi  ab- biamo conosciute  nell'  esperienza  passata.  Siccon)e  in queste  causazioni,  le  cui  esperienze  si  sono  organica- mente fissate  nel  soggetto  pensante,  la  causa  ha  sj>ie(/ato l'effetto  e  si  è  trovato  tra  la  causa  v  l'effetto  un  legame necessario  e  di  un'evidenza  intrinseca,  il  teorico  dell'in- conoscibile ne  inferisce  incoscientemente  che  ogni  feno- meno è  dovuto  a  una  causa  che.  ])otrebbe  spiegare  l'effetto, (cioè  dare  all'intelligenza  questa  soddisfazione  particolare che  si  trova  in  ciò  che  diciamo  una  spiegazione^  nel  senso —  408 po{)olare  o  metali^ico)  e  tra  cui  e  Peffetto  potrebbe  tro- varsi un  legame  ìiecessario  e  di  un'evidenza  intrinseca. Tali  cause  non  essendo  da  noi  conosciute,  eg'li  ne  con- clude che  esse  non  sono  dei  fenomeni,  che  sono  ultra- feììoinonali,  sovrasensibili,  inconoscibili,  tali  i)erò,  che, se  noi  jiotessimo  conoscerle,  esse  ci  apiegherehheì'O  \  loro ettetti,  e  troveremmo  tra  esse  e  g'ii  effetti  un  legame ììecessario  e  «li  un'evidenza  intrinseca. Oi'a,  è  evidente  che  la  teoria  dell'inconoscibile,  per quanto  si  riferisce  alle  cause  ethcienti,  o,  come  dice Conite.  al  modo  essenziale  di  produzione  dei  fenomeni, non  ha  alcuna  base  reale.  In  effetti,  primo,  la  base  in- duttiva dell'inferenza  incosciente  che  conclude  all'esisten- za di  cause  efficienti,  è  stata  distrutta  dalla  scienza  ; poiché  ((uesta,  ciniie  abbiamo  visto,  ci  presenta  sotto un  nuovo  aspetto  (piesto  sequenze  che,  nel  periodo  j^re- scientifico,  ci  sembrano  perfettamente  comprensibili  per se  stesse,  necessarie,  intrinsecamente  evidenti  (in  una parola  causazioni  elilicienti)  solo  perchè  sono  familiari, e  cosi  risulta  che,  se  le  altre  sequenze  sono  misteriose, queste  non  sono  meno,  anzi  più,  misteriose  delle  altre e  i  lorc>  antecedcmti  non  possono,  più  che  (juelli  delie- altre,  essere  riguardati  come  cause  efficienti.  E  i  teorici dell" inconoscibile  non  sostengono  meno,  anzi  più  forte- nuMite  degli  altri  tìlosofi,  che  le  stesse  sequenze  più  fami- liari sono  incomprensibili,  e  che  i  loro  antecedenti  non  pos- sono essere  riguardati  come  cause  efficienti.  Ma,  secondo, quand'anche  la  scienza  non  avesse  distrutto  la  base  indut- tiva del  principio  di  causalità  efficiente,  cioè  quand'anche gli  antecedenti  delle  sequenze  juolto  familiari  potessero ancora  riguardarsi  (dopo  la  riflessione  scientifica)  come cause  efficienti,  cioè  come  cause  capaci  di  spiegare  i  loro offV'tti.  e  aventi  con  questi  eft'etti  un  ra])porto  iiec.f'ssario ed  intrinsecannMite  evidente,  siccome  (piesf  attitudine d<'lla  causa  a  spiegare  l'effetto  e  (piesta  necessità  ed  evi- —  40Ì) denza  intrinseca  del  rai)porto  non  derivano  che  dalla  fa- miliarità della  causazione,  non  se  ne  potrebbe  concludere che  tali  caratteri  devono  trovarsi  in  tutti  i  rapporti  di causazione  reale,  se  non  ammettendo  al  temjìo  stesso  che tutti  i  rapporti  di  causazione  reale  devono  ridursi  a  delle causazioni  molto  familiari.  In  altri  termini  la  conclusione del  filosofo  antropomorfìsta  o  del  filosofo  meccanista,  la quale  anunette  inqjlicitamente  il  princij)io  che  tutte  le causazioni  reali  devono  ridursi  alle  causazioni  |)iù  fa- miliari dell'esperienza,  si  conforma  sino  ad  un  certo  pun- to al  tipo  di  un'inferenza  legittima:  il  i)rincit)io  gene- rale che  serve  di  premessa  è  una  vera  e  i)r()[)ria  genera- lizzazione dell'esperienza  (quantunque  non  una  vera  e pro])ria  induzione),  nella  quale  vi  ha  un'  id(mtità  reale fra  tutti  i  casi  che  essa  conq)rende,  tra  la  ])arte  data  di questi  casi  e  la  })arte  ammessa  per  conclusione  essen- dovi di  comune  questa  circostanza  identica,  che  si  tratta in  ciascun  caso  di  un  raf  porto  di  causazione  alla  cui nozione  sono  proj)ri  quei  caratteri  psicologici  per  cui  la nozione  di  una  causazione  familiare  si  distingue  da  «quella di  una  causazione  che  non  è  familiare.  Ma  il  principio generale  implicitamente  ammesso  nella  conclusione  del teorico  dell'inconoscibile,  o,  [)iù  generalmente,  di  tutti  i metafisici  che  concepiscono  le  cause  effici(Miti  secondo quella  che  noi  abbiamo  chiamata  la  seconda  forma,  cioè la  ulteriore  e  modificata,  dell'idea  di  causazione  efficien- te, non  è  una  vera  generalizzazione  dell'esperienza,  per- chè tra  i  casi  compresi  nella  g(Mieralizzazìo;ie  non  vi  ha un'identità  reale,  ma  tra  la  [)arte  data  di  (juesti  casi  e  la parte  annnessa  per  conclusione  non  vi  ha  invece  che  una vaga  analog'ia  :  i  caratteri  psicologici  che  si  ammettono dover  esistere  nella  nozione  delle  causazioni  concluse (supposto  che  noi  potessimo  avere  questa  nozione),  vale a  dire  l'attitudine  della  causa  a  spiegare  l'eff'etto  e  la  ne- cessità e  l'evidenza  intrinseca  del  rapporto  tra  la  causa -  410  — e  r  effetto,  non  possono   essere  rigorosaiuente  gli  stessi che  quelli  che  si  sono  trovati  nelle  nozioni  delle  causa- zioni  date,    ma   solo  analoohi,    (,uelli   non  potendo  tro- varsi altrove  che  nelle  connessioni  tra  idee  costituite  da sequenze  tra  fatti  molto  familiari.  Ben  più,  questa  stessa analogia  è,  se  si  esamina  a  tondo,  inammissibile,  ed  è assurdo  il  supporla.  Ammettiamo  pure  che  vi  sia  un'e- sistenza inconoscibile,  e  che  tra  i  uìodi  di  quest'esistenza e  tra  essi  e  i  modi  dell'esistenza  fenouìenale   vi    sin  un leo-ame  di  causazione  qualunque,  cioè  qualche  cosa  come un  rapporto  di  sequenza  uniforme  :  quale  sarebbe  la  sor- presa del  metatisico,  se  qualche  facoltà  nuovamente  ac- quistata  gli   svelasse  questo  mondo   inaccessibile,   mo- strando-ir  questi  leoami   di   causazione   che  egli   aveva preconc^epiti!    Egli  immaginava  che  vi  avrebbe  trovato delle  cause  che  spiegassero  i  loro  effetti,  delle  cause  a  cui oli  effetti  seguissero,  non  solo  costantemente,  ma  neces- larimnente,    delle   cause    infine  la   cui   attitudine  a  pro- durre i  loro  effetti  gli  sembrasse  di  un'evidenza  intrin- seca. Ma  egli  troverebbe  invece  delle  cause  il  cui  legame coi  loro  effetti  sarebbe  necessariamente   più  incompren- sibile  di  riualsiasi    legame  di   causazione  ch'egli  avesse mai  veduto  o  congetturato   nel   mondo   in   cui    erano  ri- strette le  sue  antiche  tacoltà  conoscitive,  la  comprensi- bilità o  l'incomprensibilità  di  un  fatto  risultando,  come nbbiamo  visto,  dalla  familiarità  o  non  familiarità  di  que- sto fatto,  e  i  tatti  che  gli   verrebbero   nuovamente  pre- .sentati  essendo  per  lui  meno  familiari  che  qualsiasi  fatto, il   più  straordinario,  della  sua  conoscenza  passata.  Cosi pui^.  questi  nuovi  rapporti  di  causazione  ch'eg'li  verrebbe a  conoscere   gli   sembrerebbero,   invece  che  necessari,    i più  arbitrarli  di   tutti,   invece  che  intrinsecamente  evi- denti, i  più  strani  e  inverisimili,  la  necessità  e  l'evidenza intrinseca  non  essendo  dovute  che  a  una  stretta  connes- sione tra  le  idee,  la  quale  non  può  essere  determinata -  411 che  dalla  ripetizione  frequente  delle  esperienze.  L'  in- tuizione dell'essenza  delle  cose,  la  cui  conoscenza  il  me- tafìsico credeva  che  gli  avrebbe  rischiarati  tutti  i  mi- steri, lascerebbe  nella  prima  oscurità  quelli  che  esiste- vano, e  li  accrescerebbe  di  altri  misteri  ancora  più  im- penetrabili. Non  dobbiamo  dimenticare  che  il  ragiona- mento su  cui  è  fondata  l'ipotesi  delle  cause  efficienti inconoscibili  è  un'inferenza  incosciente,  e  perciò  che  se il  metafìsico  ammette  la  conclusione,  malgrado  la  ille- £"ittimità  della  inferenza  e  tutte  le  assurdità  che  essa  im- plica,  è  perchè  egli  non  conosce  quale  sia  (luest'inferenza, egli  non  sa  nemmeno  di  fare  un'inferenz.n,  ma  ammette la  conclusione  come  una  verità  evidente  per  se  scessa. L'evidenza  intrinseca  del  principio  di  causalità  efficiente non  può  imporci  che  sinché  non  ne  abbiamo  cercata  To- ria^ine  :  riconosciuta  la  necessità  di  trovargli  una  base empirica,  è  necessariamente  all'esperienza,  airinduzione, che  deve  domandarsi  la  sua  g-iustificazione;  ma  allora si  vede  chiaramente  che  la  base  empirica  di  questo  prin- cipio non  può  servire  di  fondamento  a  un'induzione  le- g'ittima.  E  così  questo  principio,  che  era  semplicemente extralog-ico,  sinché  si  ammetteva  come  evidente  per  se stesso,  senza  domandarne  le  prove,  e  in  virtù  solamente della  tendenza  naturale  dello  spirito,  si  riconosce  illogico, dopo  che  si  è  messo  a  nudo  il  processo  latente  da  cui risulta  questa  tendenza  naturale  che  ci  spinge  ad  am- metterlo. E  di  questa  maniera  che  spiegare  l'origine  delle concezioni  della  metafìsica  è  dimostrare  nel  modo  più completo  l'inanità  radicale  di  queste  concezioni. §  6.  Parrà  forse  un  paradosso  l'ammettere  che  le  pre- messe dell'induzione  per  cui  si  conclude  il  principio  di causalità  efìfìciente,  anche  dal  teorico  dell'inconoscibile, siano  le  sequenze  più  familiari  tra  i  fenomeni  riguar- date come  causazioni  efficienti,  quando  il  teorico  dell'in- conoscibile non  riguarda  più  queste  sequenze  come  tali. 412  — 413  - l^j Quest'apparente  paradosso  sì  spiega  ricordando  la  pro- posizione più  volte  invocata  di  Mill  (la  quale  dobbiamo tener  sempre  presente  se  vogliamo  comprendere  qualche cosa  nei  fenomeni  della  metafìsica),  che  le  suggestioni della  vita  di  tutti  i  giorni  sono  più  forti  che  quelle  della riflessione  scientifica.  L'uomo  educato  dalla  scienza  non trova  più,  è  vero,  così  perfettamente  comprensibile,  ne- cessario ed  evidente,  come  sembra  all'uomo  della  natura, che  il  suo  braccio  si  muova  quando  egli  vuol  muoverlo, che  un  corpo  cada  (piando  è  privato  del   suo  sostegno, ecc.  :  ma  neiruomo  educato  dalla  scienza  persiste  ancora l'uomo  della  natura  come  un  sustrato  più  profondo  sotto gli    strati    superticiali   formati  dalla  cultura.  Questo  su- strato è  stato  costituito,   prima,  dalle  esperienze  del  pe- riodo prescientitico,   tra   le  quali  possono  comprendersi le  ancestrali,  se  si  crede  applicabile  il  principio  dell'e- redità psicologica;  e  inoltre,  anche  dopo  che,  sottoposti all'analisi  scientifica,  il  movimento  volontario,  la  caduta del  u-rave  ecc.    cominciarono  a  sembrargli  sorprendenti e  iuonnprensibili.  non  è  questa  però  l'impressione  abi- tuale che  cpu-sti  fatti  fanno,   d\ina   maniera  si)ontanea, sulla  sua  intelli-enza.  Perchè  egli  pensi  che  la  caduta del  grave  è  strana  e  incomprensibile,  egli  deve  riflettere prinm    che    questo    fatto    è  un  caso  dell'attrazione  delle molecole  in  tutto  lo  spazio;  perchè  si  sorprenda  del  mo- vimento   volontario  e   lo  trovi  misterioso,    è  necessario ch'egli  rifletta  che  la  volontà  non   ha   mosso  immediata- mente il  membro  del  cui  movimento  si  tratta,  ma  forse delle   melecole   in   certi    punti   della  corteccia  cerebrale. Ora  è  evidente  che  egli  non  fa  queste  riflessioni  tutte  le volte  che  la  libertà  data  a  un  corpo  pesante  stiggerisce al  suo  spirito  la  caduta  di  questo  corpo,  o  che  i  movi- menti d'un  uomo  o  di  un  altro  essere  animato  lo  fanno pensare  alle  volizioni  che  hanno  comandato  questi  mo- vimenti. Nella  più  parte  dei  casi  di  (piesto  genere,  sic- come non  fa  le  riflessioni  che  noi  diciamo,  egli  trova spontaneamente,  ir  riflessamente^  che  la  causa  spiega  per- fettamente l'effetto,  e  che  il  rapporto  tra  la  catisa  è  l'ef- fetto è  intrinsecamente  evidente  e  necessario.  (  )ra  tutte queste  esperienze  contribuiscono,  con  (juelle  del  periodo prescientitico,  a  formare,  come  elementi  costituitivi,  la  base della  sua  intelligenza,  e  producono  queste  tendenze  istin- tive del  pensiero,  che  i  risultati  della  riflessione  scien- tifica non  possono  annullare,  non  potendo  essi  cancellare i  vestigi  che  ogni  osservazione,  ogni  idea  della  nostra vita  passata,  lascia  fatalmente  nella  nostra  organizza- zione mentale. L'incoscienza  dell'  inferenza  spiega  anche  un  altro apparente  paradosso,  cioè  che,  mentre  nell'inferenza  lo- gica i  casi  a  cui  s'inferisce  non  sono  che  una  parte della  totalità  compresa  nella  proposizione  generale  che è  il  risultato  dell'induzione,  l'altra  parte>  di  ([uesta  to- talità essendo  costituita  dai  casi  dai  (|uali  si  inferisce, al  contrario  nell'inferenza  da  cui  risulta  la  teoria  delle cause  efficienti  inconoscibili,  e  in  generale  tutte  le  teorie le  quali  suppongono  per  tutti  i  fenomeni  delle  cause  ul- trafenomenali,  i  casi  a  cui  s'inferisce  sono,  non  una parte,  ma  la  totalità  dei  casi  compresi  nella  proposizione generale  deirinduzione,  poiché  rinferenza  si  estende  a tutto  ciò  che  esiste  in  generale,  e  quindi  anche  ai  fatti stessi  che  costituiscono  il  punto  di  partenza  dell*  infe- renza. P.  e.  i  movimenti  volontari  degli  uomini  (^  degli animali  si  trovano  tra  i  casi  che  sono,  per  dir  così,  i dat^  dell'inferenza,  con  la  quale  si  conclude  all'esistenza di  altre  cause  efficienti,  distinte  dalla  volontà  degli  uo- mini e  degli  animali.  Ora  quei  movimenti  stessi  che,  in quanto  dati  dell'inferenza,  avevano  per  cause  efficienti la  volontà  umana  o  animale,  compariscono  pure  tra  i casi  conclusi,  come  aventi  delle  cause  efficienti  incono- scibili, o  in  generale  ultrafenomenali.  Tale  incoerenza —  414  — x,on  ha  niente  di   sorprendente,  se   si    riflette   ebe   Hn- ferenza    consiste    in    una  cieca   assimilazione    di    tutto ciò'  che   si    offre   nuovamente    alla    nostra    intelh.-enza, a    certe    impressioni    della    nostra    esperienza    passata, le   quali   sono    assenti    dalla   nostra    coscienza.    Quando i  t^nomeni  stessi  che  produssero    queste    iìììpressioni  si nprescntano  alla  nostra  intelligenza,  siccome  l  impres- sione  non  è  più  la  stessa,  apparendoci  essi  sotto  il  nuovo aspetto  in  cui  li  mostra  la  riflessione  scientifica,  devono sottoporsi  anch'  essi  a  questo  processo   d'  assi.nilazione incosciente,  adattandosi  al  tipo  generale  che  una  teoria imprime  ai  fenomeni    per    l' effetto  di  questo    processo. Così  i  nostri  propri    movimenti    volontari    della    nostra esistenza    passata,  che  contribuirono  più  che  (yualsiasi altro  fenomeno  a  darci  1'  idea  di  causazione    ethciente, xion    saranno  ora  attribuiti  alla  efficienza   della    nostra volontà,  ne  essa  ne  (pialsiasi  altro  fenomeno  dell  espe- rienza   producendo  più  sulla  nostra    intelligenza       un- pressione  di  causa  efficiente,  ma  a  quella  di  una  volontà uietaempirica,  di  una  forza   inconoscibile,  ecc.,   ques  i essendo  i  tipi  di   causazione    che   ora  ci  permettono    di assimilare    i  fenomeni    alle    nostre    esperienze    passate, con  la  impressione  mentale  che  esse  ci   produssero,  da cui  ci  è  venuta  l'idea  di  causazione  ethciente. ^  7  Che  concluderemo  noi  sulla  dottrina  della  re- latività della  nostra  conoscenza?  Una  conclusione  deh- nitiva  sarebbe  prematura  prima  di  avere  scandagliato tutte  le  b.xsi  su  cui  essa  si  fonda:  ma  mettendoci  a  un punto  di  vista  semplicemente  obbiettivo  (vale  a  dire facendo  astrazione  della  difficoltà  che  i  dati  dei  nostri sensi  non  sono  delle  cose  in  se  ma  delle  semplici  sen- sazioni relative  al  soggetto  percipiente),  noi  abbiamo già  dei  motivi  sufficienti  per  affermare  il  valore  assoluto della  conoscenza  e  rintelligibilità  assoluta  dei  fenomeni. Se  la  nozione  di  causa  efficiente  non  ha  un  valore  ob- 415  — biettivo,  se  perciò  la  causa  non  è  che  T  antecedente  di una  sequenza  invariabile,  è  evidente  che  non  abbiamo alcun  motivo  di  affermare  che  non  conosciamo  il  modo reale  o,  come  dice,  Comte,  essenziale  di  produzione  dei fenomeni.  Conoscere  il  modo  reale  di  produzione  di  un fenomeno  è  conoscere  le  cause  di  (|uesto  fenomeno,  cioè ancora  conoscere,  poiché  non  vi  sono  altre  cause,  che esso  è  seguito  a  un  certo  fenomeno  antecedente  o  a  certi fenomeni  antecedenti  secondo  una  legge  o  certi  leggi di  sequenza  invariabile  tra  i  fenomeni;  ma  i  teorici  del- l'inconoscibile ammettono  che  noi  conosciamo  o  jjossiamo conoscere  questi  antecedenti  fenomenali  e  queste  leggi di  sequenza  invariabile  tra  i  fenomeni;  dun(i|ue  noi  co- nosciamo o  possiamo  conoscere  il  modo  reale  o  essen- ziale di  produzione  dei  fenomeni.  A  ciò  si  risponderà senza  dubbio  che,  malgrado  tutto,  il  corso  della  natura non  ce-ssa  n^,  cesserà  di  essere  incomprensibile  :  che  non vi  ha  tra  i  fenomeni  tisici  una  causazione  che  non  sia un  mistero,  e  che  la  produzione  della  sensazione  e  del pensiero  al  seguito  di  antecedenti  fisici,  (qualunque  essi siano,  è  un  mistero  anche  più  oscuro.  Ma  noi  sappiamo che  ciò  vuol  dire  semplicemente  che  non  vi  ha  tra  i  fe- nomeni fisici  una  causazione  che  sia  per  noi  un  fatto perfettamente  familiare,  e  che  la  produzione  della  sen- sazione e  del  pensiero  al  seguito  di  certe  condizioni  fi- siche è  un  fatto  che  è  per  noi  il  meno  familiare  di  tutti, il  più  lontano  da  quelli  che  ci  sono  familiari.  Il  mi- nistero, r  incomprensibilità  delle  leggi  della  natura, non  è  che  un  fenomeno  psicologico  privo  di  qualsiasi importanza  obbiettiva,  il  comprensibile  e  1'  incompren- sibile, non  essendo,  come  abbiamo  visto,  che  sinomini del  familiare  e  del  non  familiare.  Vi  ha  un'incompren- sibilità che  ha  un'imi)ortanza  obbiettiva:  è  (juando  un fenomeno  resta  isolato,  quando  non  può  ricondursi  a delle   leggi   generali.    Allora  il  l'enomeno    non    essendo —  41G  — stato    sottomesso  a  qualche   leg-ge  di  causazione    fisica cioè  (li  sequenza  invariabile,  non  è  stato  sottomesso  al principio  di  causalità  fisica,  cioè  al  principio  che^  ogni fenomeno    deve    avere    qualche    antecedente  a  cui  esso seo-ue  invariabilniente  :  siccome  questo  principio  ha  un valore  obbiettivo,  allora  l'incomprensibilità  ha  un  valore obbiettivo.    Ma    quando    l'  incomprensibilità  si  npplica, non  a  dei  fatti  isolati,  non  sottomessi  ancora  ali  ordine o-enerale  della  natura,  ma  alle  leg'g'i  stesse,  che    costi- Tuiscono  quest'ordine,  in  quanto  queste  le-o-i  non  sono delle    causazioni    effìcienU  e    non   possono    ricondursi    a delle    causazioni    effìdenfi,  per  conseguenza  m  quanto non  si  conformano  al  principio  che  ogni  fenomeno  deve avere  una  causa  efficiente;  siccome  questo  principio  non ha  che  un  sionificato  subbiettivo  (non  esprimendo  altra cosa  che  nn'esigenza  extralogica  e  impossibile  a  soddi- sfare del  nostro  spirito  -  allora  l'  incomprensibilità    non ha    che    un    si-niticato  subbiettivo.  Du-Bois-Reymond (r  autore  del  famoso  Ignoramm  et  igiiorahimas),   dice: «  Il  line  d'ogni  scienza  potrebbe  ben  essere,  non  di  com- p,endere    V  essenza  delle  cose,  ma  di  far  comprendere che  (.uest'essenza  è  incomprensibile.  Così  la  conclusione finale  della  matematica  è  stata,  non  di  trovare  la  qua- dratura del  circolo,  ma  di  dimostrare  che  è  impossibile di  trovarla:  della  meccanica,  non  di  realizzare  d  moto perpetuo,  ma  di  provare  che  è  impossibile  di  realizzarlo». A    questa    comparazione  di  Du- Bois  -  Reymond    se    ne potrebbe,    contrapporre    un"  altra  più  giusta  e  al  tempo stesso  più  veritiera:  Cmne  la  matematica  ha  dimostrato che  la  quadratura  del  circolo  è,  non  impossibile  ai  ma- tematici, ma  impossibile   e   assurda   in   se  stessa;  come la    meccanica   ha    provato   che  il  moto  perpetuo  e,  non irrealizzabile  dai  meccanici,  ma  affatto  impossibile  a  rea- lizzarsi;  cosi  la  teoria  della  conoscenza  mostra,  non  eie V  essenza  delle  cose  è  inconoscibile,  ma  che  non  esiste,  — o  almeno  che  non  abbiamo  alcuno  motivo  di  affermare che  esista,  luV essenza  delle  cose,  se  per  essenza  d'una cosa  s'intende  altro  che  il  complesso  delle  sue  proprietà sensibili,  che  i  sensi  ci  presentano  o  che  l'  intelligenza può  rappresentarsi  sul  tipo  di  ciò  che  essi  ci  hanno presentato.  Se  si  ammette  infatti  che  al  di  là  delle  ])ro- prietà  sensibili  e  conoscibili  vi  ha  un'essenza  sopranseii- sibile  e  inconoscibile,  è  perchè  si  suppone  che  le  prime  de- rivano necessariamente  da  alcun  che  di  jiiù  fondamentale, che  potrebbe  spiegarle,  se  noi  lo  conoscessimo— .s^;%((?'/c nel  senso  popolare  e  metafisico  della  parola  sjfiegnzione,-^ Ma  la  spiegazione,  in  questo  senso,  implica  lidea  di  cau- sa efficiente  :  il  fantasma  delVessenza  svanisce  ilunque con  quello  della  causa  efficiente,  e  non  è,  come  questo, che  un'illusione  naturale  del  nostro  spirito  (1). (1)  «  La  ])iù  jj|.nni(io  illusione  «'  ipiella  <ln'  («nisistr  a  siip)H>rio (•ho  lo  si)irito  reclama  (lualclie  cosa  al  di  là  «lei  h'uaiiii  più  .u.»'- iier.ili  «lei  leiuuiieiii  — >r«)lti  siii)}mhi.i;«mio  elle  la  e«>iioseeii/.a  «b'ile jiciu'ralità  [liù  alte  i-elative  al  le.iiaiue  «lei  feiioiiH'iii  ì-  iiisntfiei<Mit«'. Lo  spirito,  si  «liee  .  «loniaiula  «[ualelie  «-osa  ni  «li  là,  «'  «[iH'sta <',si«j.«'uza  «lell«)  s])irito  (elie  non  puh  «P  altr«)n«le  ««ssen-  iiuii  sod- «lisfatta)  t'  .giusta  e  le;jcj;ittiinri.  Ln  u('neralizzazi«»u«'  «l«'l  jn-so. p«'r  «•senipi«),  lascia  nial.nra«lo  tutto  qualche  c«>sa  «li  iiiist«'ri<»so e  «li   «)scuro.   come  se   vi   fosse  al  «li   là   «lualclie  c«)sji   <h«'  noi    !»«>- trcniin«>  attiniicre.   se  alcun  ostac«»l«>  n«»n   interveniss» Ne\vt«Mi sendira  n«»n  aver  iK)tuto  nis segnarsi  a  considerare  il  \ivso  coni*', un  l'atto  idtiino.  K.iili  non  coin]U'en(l«'VJi  ch«'  l:i  niat«'ria  ]M.tess<^ ajiin'  \i  «listanza  sulla  nuiteria,  «m1  era  «lispost«>  jM'r  eonse.i;u«Miza ad  annnettere  P  «'sisteuza  «l'un  mezzo,  di  tal  s«»rta  «-Ih'  il  ]M's«> poti'sse  essere  assimilata)  all'  im]>ulsion<'  i»er  contalt«K  Mu  sino al  presente  «piesf  }issimUazi«>ne  non  lui  potuto  essi're  t«'ntata.  «t all«)ra  il  pes«»  nvsta  un  tatto  «dtim«>  :  «'ss«>  ì«  u  s«'  st«'sso  la  sua 8pi«'.!iazi«>ne.   L'unione  dello  spirito  «'  «l«'l  c«upo  «>  stata  lun-ann'ute  consi<le- rata   come   il   mistero  jM'r  i'c<M'llenz!i.    L' opini«uie    thuninante  cja 27  — §  8.  La  foniìa  [)iii  abituale  che  prende  1'  idea  di causa  efficiente  inconoscibile,  applicata  ai  feaoineni  tìsici, è  il  concettto  della  forza.  Beninteso  che  noi  parliamo della  forza  nel  senso  metafisico  di  questa  parola,  senso nel  quale  si  prende,  quando  si  dice  per  esempio  che  noi non  conosciamo  l'essenza  o  la  natura  intima  delle  forze, o  anche  semplicemente  che  noi  non  conosciamo  le  forze, ma  solo  i  loro  effetti.  La  parola  forza  infatti,  come   le s olle  qiifsfiiiiioiic   rt'sist4'iM'l.l»c  sempre  mi  oj;ui   saojiio  di  spiena- zitnif.    Tiittinin   ò  tacile  di   (MMiiprcndert;    vouw   la  scienza    deve t'oiniM>i-taisi   in  simile  easo.   Hisoona  coneepire  le  (lualità  mentali e  materiali  eiasenna  secondo  la  sua  natura  pvoiu'ia:  le  une  per i  sensi,   le  altre  \h^v  la  coseien/a.   N(m   dohbiami»  in  seguito    as- imilare e  generalizzare  il   i)iù  possibile  eiaseuua  categoria.  Xoi ^eneralizz<'rem(»  le  i»roprietà  materiali,  rapportandole  all'inerzia, al   peso,  alle  forze  moleci»lari,  ecc.:  noi  generalizzeremo  le  «lua- lità   mentali,   riattaccandoli   ai   piaceri   e  alle  pene,  alle  volizimiì, ai    fenomeni    intellettuali.   Bisognerà   in  seguito    sforzarsi    d'at- tingere alle  leggi   più  generali   clic  regolaìio  l'  uniime   delle    due classi  di  qualità  n<'gli   animali  e  nell'uomo.   Quando  noi  saremo riuvsciti  a  spingere  (pu-st'operazione  generalizzatrice  il  più  lungi possibile,   noi  avremo  «lato  la  sì>iegazione  scientitìca  dell'unione dello  spirito  e  del  corpo.  Ogni  spiegazione  più   generale,    oltre che  non  è  necessaria,  è  impossibilc-Ecco  un  linguaggio  che  non ba  niente  di  scientitico:  «La  sensazione  cosciente  e  un  fatto,  nella costituzione    della    nostra   natura  tisica  e  morale,  cbe  ^  ass<du- tamente  inesplicabib^  ».   Il  s(do  senso  cbe  si   ])ossa    attribuire    a queste  parole  è  clic  i  fatti  tisici  e  i  fatti  morali  sono  essenzial- mente distinti,  ma  profondamente  uniti.  Così  m>n  bisogna  «lire  : «  Sino  a  riuesto  giorno  non  al»biani(»  saputo  come  lo  spirito  e  il corpo  agiscono  l'uno  sull'altro».  A  parlar  propri auuMite,  non  vi ba  niente  «piì  a  conoscere  in  fuori  del  tutto  cbe  si  tratta  solamente di  generalizzare.  «Vi  ba.  dice  Uume.  in  tuttala  natura  (puvlcbe cosa  «li  pin  nìisterioso  che  l'unimie  dell'anima  e  del  corpo:  unione per  CUI   una  s<.stanza  spirituale  acquista  una  tate  influenza  sopra una   sostanza  materiale  .  cbe  il   pensiero  più  sottile  è  capace   di —  419  — parole  causa,  essenza  ed  altre  (sul  cui  vero  senso  vol- gono al  fondo  tutte  le  controversie  filosofiche)  ha  due sensi,  r  uno  empirico  e  fisico,    V  altro    metaempirico  o metafisico. La  forza,  nel  senso  fisico    o  empirico,    è  la   condi- zione o  r  antecedente,   da   cui    dipende  il  cangiamento dello  stato  di  riposo  o  di  movimento  dei  corpi.  La  ma- teria è  inerte,  vale  a  dire  che  essa,  lasciata  a  se  stessa, persisterà  nel  suo  stato  di  riposo,  se  essa  è  in   riposo, o    continuerà    a    muoversi    uniformemente   ed    in  linea retta,  se  essa  è  in  movimento.  Perchè  avvenga   (luindi un    cangiamento    nello    stato  di  riposo  o  di  movimento della  materia,  (cioè  un  passaggio  dal  riposo  al  movimento o  reciprocamente,  o  una  modificazione  nella  velocità  o direzione  del  movimento)  è  necessario  l'intervento  d'una C8usa  esteriore:  questa  causa  si  chiama  forza.  Ma    ciò che  può  far  cangiare  lo  stato  di  riposo  o  di  movimento della   materia  non  è  che  1'  azione  di  una  materia    este- riore ;  dunque  la  forza,  come    essere    reale  e  concreto, non  è  che  la  materia  stessa,    in    quanto    cangia  o  può cangiare  lo  stato  di  riposo  o  di  movimento  di  altra  ma- teria. Tuttavia  noi  adoperiamo  più  abitualmente  la  pa- rola   forza    per   indicare,  non  le  forze  concrete,  cioè  i corpi  stessi,  ma  1'  attitudine   che  hanno   i   corpi  a  can- mettere  in  movimento  la  materia  ynh  grossolana?»  Ed  altrove: «Noi  mm  conosciamo  niente  degli  oggetti  .v/^.v.s/;  la  nostra  osser- vazione della  natura  esteriore  non  (dtrepassa  le  azioni  recipro- cbe  cbe  gli  oggetti  esercitano  gli  uni  sugli  altri».  A  cbe  parlare di  una  conoscenza  cbe  non  si  pub  attingere,  e  cbe  si  è  ridotti a  supporre»?  (Bain  Logica  voi.  2.  1.  S.  e.  12.  n.  11).  A  che parlarmi,  aggiungerenu>  noi.  quamlo  si  può  dimostrare,  n(»n  solo cbe  tale  supposizione  (•  ass(»lutamente  destituita  di  prove  .nia cbe  essa  è  un'illusione,   e   mostrare  il   nu'ccanismo  di  quest'illu- su>nt .  / —  420  — g-iare  lo  stato  di  riposo  o  di  inovìinonto  di  altri  corpi. La  forza  allora  è  un  teriniue  astratto  che  indica, non  una  qualità  occulta  che  sia  nel  corpo,  ma  sempli- cemente il  fatto  che  il  corpo  è  o  può  essere  la  causa, cioè  ia  condizione,  di  cang'iamenti  in  altri  cori)i.  L'a- strazione g-iun^e  al  suo  maximum,  quando  si  usano certe  espressioni,  che  sembrano  fare  della  forza  un  soi>'- getto  separato,  avente  un'esistenza  |)ro|)ria,  come  quan- do <i  dice  che  la  forza  si  conserva,  che  essa  non  si distrugge  ne  si  crea.  Ma  le  espressioni  astratte  devono, in  (juesti  casi  come  in  tutti  gli  altri,  interpretarsi  al concreto  :  cosi  ciò  che  si  vuol  dire  nelTesempio  addotta h  the  i  corpi  non  perdono  e  non  ac(|UÌstaiìo  mai  (jue- st'attitudine  che  si  chiama  forza  (definita,  india  teoria dcìbi  conservazione  della  forza,  la  capacità  di  produrre del  lavoro),  senza  che  altri  corpi  acquistino  o  [x^-dano lui  attitudine  equivalente. Ma  siccome    la    forza,    nel    s(mso    empirico,    ò    una causa  sem[)licemente  fisica,  cioè  un  semplice  anteceden- te, deg'li  effetti    che   essa   produce,  e  non  una  causa  pf- firìfìitr.,  cioè  una  causa  che  sjùeg/ìi  Tett'etto,  e  che  abbia con  l'effetto  un  legame  necessario  e  di  un'evidenza  in- trinseca, IR'-  segue  che  questi  ett'etti  si  attribuiscono  ad una  causa  efficiente  sconosciuta  :  (|uesta  è  la  forZ(f  nel senso  metaempirico  o  metafisico  della  parola.  In  (juesto senso,  la  forza  non  è  necessariamente  una  causa  este- riore del  cangiamento  nello   stato    di    riposo  o  di  movi- mento di   un  corpo  :   ma  si   immagina  anche    una    forza lì t aita,  risedente   nei   corpi    in    movimento,  che  è  a  cia- scun istante  la  causa  attuale  di  (juesto  movimento.   Noi ni.i.imiio   osservato    infatti  che  la  legge  d'inerzia,    ijue- st'attitudine  che  hanno  i  corpi  a  conservare,  indefinita- mente il  liioviìiient.»  mia  volta  acquistato,  è  apparente- mente contrario    alle    nostre  esperienze  piti  familiari,  e sembra  (quindi  incomprensibile  e  inesplical>ile,    per  eui -  421 non  ])oteva  mancarsi  di  attribuire  questa  proprietà  della materia  ad  una  causa  efficiente  sconosciuta.  Di  questa maniera  il  dominio  della  forza  divieiìe  universale  nella fisica,  r intervento  di  questa    causa    occulta  ritenendosi necessario,  non  solo    per  far  comprendere  la  possibilità dei  fenomeni,  non  familiari,  deirazione  a  distanza,  ma anche  di  quelli  del  movimeuto  prodotto  dalT  urto,  che, familiari  in  se  stessi,   non  lo  sono  nelle   loro  leggi.  La forza  si  considera    ora    come  una  qualità    occulta  della materia,  ora  come  un  che  di  distinto  e  separato  da  essa, che  esiste  i)er  se  stesso,  essendo  nella  materia,  secondo la  comparazione  di  Torricelli,   come  in  un  vaso,  o  an- ch^^,  come  immagina  Hirn,  riempiendo  lo  spazio  inter- mediario fra  i  corpi.    Nel    primo    caso,    cioè  quando  se ne  fa  una  c|ualità  della  materia,  la  forza  significa  senì- plìcemenfe  la  causa  efficiente,  metaempirica  e  sconosciuta, ilei  fenomeni  fisici,  e  non  è  che  uira})plicazione  del  con- cetto del  r  inconosci  bile.  Nel  secondo  caso,   cioè  quando si  riguarda  come  una   realtà  esistente  per  se  stessa,  di- viene un  concetto  metafisico  sui  generis,  all'idea  di  causa efficiente  inconoscibile  aggiungendosi  la  trasformazione di  una  (qualità  in  una  sostanza. Nella  nozione  della  forza  noi  possiamo  vedere,  più chiaramente  che  in  quella  di  una  causa  efficiente  inco- iioscil)ile,  come  i  concetti  metaempirici  che  sembrano  i  più discosti  dairesi)erienza,  non  sono  che  delle  suggestioni delle  nostre  esperienze  più  familiari.  Infatti  in  questa nozione  Tinfiuenza  di  tali  esperienze  non  ha  solo  il  ri- sultato, come  ìud  semplice  concetto  di  causa  occulta,  di suggerire  l'idea  di  un  rapporto  di  causazione  simile,  per i  caratteri  subbiettivi,  ai  più  familiari  tra  i  rapporti  di causazione  conosciuti  (cioè  nel  quale,  come  in  questi,  la eausa  è  capace  di  spiegare  l'effetto,  e  vi  ha  tra  la  causa e  l'effetto  un  legame  necessario  ed  evidente  intrinseca- mente); ma,  accanto  a  questo  risultato  generico,  ne  ha 422  - anche  un  altro  specifico.  È  che  la  forza  e  il  suo  modo d'azione  si  cerca  di  assimilarli  in  qualche  modo  a  certe classi  determinate  di  fenomeni  familiari,  ag-o-iung-endo al  concetto  generico  di  causa  occulta  del  movimento certe  determinazioni  particolari,  o  circondandolo  di  un corteo  di  certe  vaghe  e  oscure  associazioni  (troppo  va- ghe e  oscure  per  elevarsi  al  grado  di  affermazioni  co- scienti e  riflesse),  che  ci  indicano  abbastanza  le  espe- rienze che  liaiino  servito  di  tipo  e  a  cui  è  dovuta  la suggestione.  Queste  esperienze  non  sono  che  quelle stesse  che  hanno  servito  di  base  alle  npiegazionì  \\\V\w(iv- sali  ]>iù  ordinarie  d^Ua  natura. llume  ha  osservato  che  un  eleiuento   della  nozione volgare  di  forza  è  la  concezione  di  un  ??i.si^s  animale,  e tanti    altri    dopo    di    lui    (coìiie    Stuart -Mill,    Spencer,> Huxley)  hanno  derivato  quest'idea  dalle  nostre  esperienze •subbiettive    dello    sforzo     muscolare    (1).    Redtenbacher dice:   «L'esistenza    delle   forze  noi  la  riconosciamo  per gli  effetti    ch'esse   producono,    e,    in    particolare,  per  il sentimento  e  la  coscienza  che  noi  abbiamo  delle  nostre proprie  forze»   (2).   Per  mostrare  quanto  la  nozione  co- unuiu  di  t'orza  sia  impregnata  del  nostro   proprio  senti- mento umano,  si  potrebbe    forse    addurre  il  fatto    che, come  nota    M.    de   Birau,    per  designare  questo  non  so che  di  sconosciuto,    a    cui    si   attribuisce  la  produzione dei  fenomeni  fisici,  bisogna  impiegare  i  segni  di  certe affezioni  dell' anima,  come   sforzo,    tendenza,    nisus — (1)   V.   Mill.  FiloH  di  Uaniltou  e.  IH.  sulhi  tiiu'.  Spencer  Prine. di  soeiolofjia  4.  paraor.  H5!K   Huxley  ^.  ^^*'>^^''   V'   -•  ^-^^ autori  ei  semì)raiio  anche  aver  ultrepassato  il  seonc».  Non  è  certo ammissibile  per  esempio  rattermazione  di   Spencer  che  «  Tuomo è    forzato    (li   simluileggiare  la  forza  obbiettiva    in    funzione    di forza  subbiettiva». (2)  V.  Lange  Storia  del  material,  voi.  2.  p.  2.  e.  2. -   423   — ciò  in  cui  questo  filosofo  vede  la  prova  che  (juesta  no- zione (di  cui  naturalmente  egli  ammette  il  valore  ob- biettivo) «ha  la  sua  sorgente  nelT  intimità  stessa  del nostro  essere  agente  e  pensante»   (1). Nella  nozione  di  forza  si  manifesta  pure  la  tenden- za a  ricondurre  o  assimilare  qualsiasi  azion^^  tisica  al- l'azione a  contatto,  cioè  all'urto   o  alla  trazione.  Hirn, accerrimo  avversario  della  teoria  meccanica,  alla  quale oppone  la  dottrina  delle  Forze,  fa  non  per  tanto  per  la sua  dottrina  stessa  omaggio  al  princi[)io  dei  m(HH*anisti, che  è  che  non  è  ammissibile  altra  azione  se  non  a  con- tatto. È  perciò  che  egli  immagina  le  sue  Forze,  ch'egli chiama  principe  hifer  media  ri,  diffuse  nello  spazio  e  se- ])arate  dalla  materia:  è  che  ogni  azioìie  apparentemente a  distanza  deve,  secondo  lui,  attribuirsi  ad  un  ijuidche sia  a  contatto  con  la  materia  che  subisce  quc^st'azione, e  questo  quid  è  la  Forza.  Così  egli  dice:   <-  Due  particole elettriche  della  stessa  specie,  allo  stato  di  riposo,  si  re- si)ingono  ;  ma  alcuna  azione    a   distanza   non  può  eser- citarsi  mediante  il  vuoto;    tra    le    due    particole    esiste dunque  gualche  cosa  di  speci/irj  che  le  mette  in  ((uesto stato    di    rapporto    che    noi    chiamiamo    la    repulsione. (,)uesto  qualche  cosa  è  Velemento  Forza,  senza  del  quale a'icun    fenomeno    dell'  universo    non    può    logicamente spiegarsi»     «E    ancora:    «Che   noi  la  comprendiamo  o nonla  comprendiamo,  la  causa  della  gravitazione  uni- versale deriva    da    un    elemento  si)ecifican)ente  distinto dalla   materia,  il  quale  riem[)ie  lo  spazio,  e  non  da  un movimento    della    materia  stessa,    come    si    sforzano  di sostenerlo  in  tutta  una  scuola.  Quest'elemento,  checche (1)  Biran  Nuoce  considerazioni  sni  rafj/jitrli  del  fiaieo  e  del morale  delV  nomo,  Opere  tilosoliclie  iiiild.licate  da  Consin  l.  1. jiag.  24. 424  — si  taccia,  o  iiiflipeiidenteiaeiite  da  oo-ui  ipotesi,  costitui- sce per  se  stesso  una  Forza  [)ropriaiiiente  detta,  cioè  a dire  una  potenza  distinta  dalla  materia,  capace  di  met- tere due  parti  materiali  separate  in  questo  stato  di  rap- porto che  ci  apparisce  come   attrazione,  e  capace  di  ti- rare (|uestc  parti  dal  riposo,  o  di  farvele  rientrare,  senza l'esistenza  di  alcun  movimento  anteriore».   L'autore,  è vero,  ila  cura  di  ago-iung-ere:   «  Ma  non  è  mica  per  una impulsione  diretta    die    (lueste    forze    tirano  la  materia dal  riposo  o  ve  la  fauno  rientrare.  Per  questo  fatto  stesso ch'esse  sono  distinte    dalla    materia   nella  natura,  cani idea  di  urto,  di  comunicazioue   di    movimento   per  con tatto  che  noi  vorrenuno  attaccarvi  diviene  assurda  »  (1). Ma  malgrado  queste  riserve  dell'autore,  se  noi  riflettia- mo che  ogifidea    del    sovrasensibile  è  necessariamente analogica  e  simbolica,  e  che  noi  dobbiamo    tirare  dal- l'esperienza tutti  i  materiali  delle  nostre  concezioni,  noi non  possiamo  impedirci    di    pensare    che,  quando  Hìrn vuol  concepire  queste    Forze  e  la  loro  azione,  i  simboli che  le  rappresentano    nel    suo    pensiero    devono   essere queste  comunicazioni  di  movimento  per  contatto  che  ci mostra  l'esperienza,  vale    a    dire  l'urto    o    la    trazione, benchc  egli  dichiari  assurda  ogn'idea  tale  che  noi  vor- remmo attaccare  all'operazione   della    forza.    Senza  vo- lerlo e  senza  rendersene  conto,  l'idea    di    qualche  cosa che  nìette  i  cor|)i  in  movimento  sping-eiidoli  o  tirandoli, deve  insinuarsi    nel    suo    pensiero,  quando  egli  si  rap- presenta la   Forza  tirante  dal   riposo  la  materia  con  cui essa  è  a  contatto  :   se   così  non  fosse,  egli  non  avrebbe, per  rischiarare  il  mistero  dell'  azione  a  distanza  e  ren- dersi questa  più   concepibile,    attribuito   Fazione  reale ad  una  Forza,  separata  dal  corpo  che  esercita  apparen- (1)   Hill).    Lit   no-.  fU  forza  nelia  scienza   mod.   in   Her.  scien- ti/. 3.  st'^ir   loiJH»  lo. 42Ó temente  quest'azione,  e  a  contatto  con  (luello  che  la  su- bisce, poiché  un'azione  a  contatto  non  riduttibile  a quelle  familiari  della  esperienza  non  sarebbe  più  con- cepibile ne  meno  misteriosa  che  l'azione  reale  a  distanza. Ecco  dunque  come  il  meccani h ino  e  il  dlnarnisnio  deri- vano da  una  stessa  sorgente  ;  e  noi  possiamo  vedere qui  (ciò  ciò  di  cui  incontreremo  in  seguito  altri  esem- pi non  meno  rilevanti)  (juantf>  sia  vero  il  detto  di  Ba- cone che  «  tra  gli  errori  o|)|)osti  le  cause  d" illusione sono  pressoché  comuni  »   (l). Questo  rapi)orto  della  nozione  dt^lla  forza  con  (luta- ste tendenze  spontanee  dello  spirito,  che  lo  s|)ingono ad  assimilare  la  produzione  di  tutti  i  fenomeni,  l'una ai  nostri  propri  atti,  e  l'altra  ai  fenomeni  familiari  della comunicazione  del  movimento,  è  stato  molto  bene,  os- servato ed  espresso  da  I)u  Hois-Keymond,  di  cui  rife- rirò le  parole.  ^<  La  forza,  egli  dice,  non  è  che  un  pro- dotto più  dissimulato  dell'irresistibile  tendenza  alla  p(U'- soniiicazione  che  ci  è  innata  :  è  per  cosi  dire  un'abilità oratoria  del  nostro  cervello,  che  ha  ricorso  al  linguag- gio figurato,  perchè  la  rappresentazione  gli  fa  difetto per  l'espressione  pura  della  chiarezza.  Con  le  idee  di forza  e  di  materia  noi  vediamo  ritornare  lo  stesso  dua- lismo che  si  produce  nelle  idee  di  Dio  (^  del  mondo, dell'  anima  e  del  corpo.  Non  è,  con  dei  raffinamenti, che  il  bisogno  che  spinse  già  gli  uomini  a  po|)olare  di creature  della  loro  immaginazione  le  foreste,  le  sorgenti, le  rupi,  l'aria  e  il  mare.  Che  si  guadagna  a  dire  che due  molecole  s'avvicinano  l'una  all'altra,  in  forza  della loro  attrazione  reciproca?  Nemmeno  l'ombra  d  un'intui- zione dell'essenza  del  fenomeno.  (Noi  facciamo  naturai- mente  le  nostre  riserve  su  questa  essenza  del  fenomeno che  l'autore  suppone  al  di  là  del  fenomeno  stesso).   Ma, (1)    lì'rsta tirai.    INcfjiz. 42f> cosa  strana,  vi  ha  per  il  ìiostro  desiderio  innato  di  ri- cercare le  cause  una  specie  di  soddisfazione  neirirnma- o-ine  d'una  mano  che  si  disegna  involontariamente  da- vanti  il  nostro  occhio  interiore,  d'una  mano  che  spinge dolcemente  innanzi  a  se  la  materia  inerte,  o  nell'im- mao-ine  di  braccia  invisibili  di  polipi,  per  mezzo  di  cui le  molecole  della  materia  si  stringono,  cercano  ad  atti- rarsi le  une  le  altre,    e    finalmente    s'intrecciano  in  un gomitolo  »   (1 1. Ora,  a  quali  motivi  dobbiamo  noi  attribuire  la  se- parazione della  forza  dalla  materia,  la  sua  elevazione al  grado  di  soggetto  reale,  esistente  per  se  stesso?  Il motivo  lo  abbiamo  già  visto,  quando  la  Forza  si  fa  in- tervenire nelle  azioni  a  distanza:  è  il  bisogno  di  assi- milare queste  jizioni  a  <|uelle  a  contatto.  Quando  le Forze  si  fanno  intervenire  come  cause  interiori  e  attuali def  movimento,  anche  dovuto  all'  impulsione,  un  altro motivo  può  condurre  allo  stesso  risultato  di  erigere  la forza  in  ipostasi  reale  :  la  trasmissione  del  movimento da  un  corpo  ad  un  altro,  considerando  il  rapporto  quan- titativo secondo  cui  essa  avviene,  questa  legge  della forza  di  non  poter  essere  perduta  da  un  corpo  senza che  qualche  altro  acquisti  la  equivalente,  può  suggerire l'idea  di  una  trasmissione  della  forza  (della  stessa  forza, individualmente  identica;  da  un  corpo  all'altro.  Leibnitz ci  riferisce  l'opinione  di  alcuni  cartesiani,  i  quali  cre- devano che  lo  stesso  movimento,  idem  numero,  si  trasfe- risca dal  corpo  urtante  al  corpo  urtato  (2):  l'eguaglianza del  movimento  perduto  dall'uno  con  quello  acquistato dall'altro  li  faceva  pensare  ad  un'identità  vera  e  pro- pria, ciò  che  jjupponeva  la  realizzazione  dell'astrazione (1)  Ricerehe  suireleltrieità  animali'.  Prefazione. (2)  Leibnitiz  Nuovi  sag-ii  suirintendiiiiento  uiiiaiio  1.  2.  e.  21 parngr.  4.   e.  28  ])ara*;r.  28. —  427  — movimento,    che   uno    di   essi    infatti    paragonava  a  del sale   disciolto    nell'  acqua.    É    della  stessa  maniera  che l'odierna  dottrina  della  conservazione  o  persistenza  della forza    (la    quale,  come    l'indistruttibilità  del  movimento dei  cartesiani,  non  esprime  altra  cosa  che  dei  rapporti quantitativi  definiti   nelll,  successione  dei  fenomeni)  ha suggerito  l'idea  di  fare  dell'astrazione  forza  una  realtà, una  sostanza  ;  poiché,  come  dice  Spencer,  le  manifesta- zioni della    forza    che  sopravvengono  in  noi  e  fuori  di noi,  non  persistono,  ciò  oh^ persiste  deve  essere  la  causa sconosciuta  di  queste  manifestazioni,  una  realtà  incondi- zionata   senza    cominciameìito  ne  fine    [ì).    Noi    abbiamo evidentemente  in  questo   caso   un   altro    esempio    della tendenza  che  ci  porta  a  spiegare  i  fenomeni,  assimihindo quelli  che  non  sono  familiari  a  quelli  che  lo  sono.    La sostanti ficazione  della  forza  è  in  certo  modo  una    mate- rializzazione  della  forza,  poiché  la  materia  é  il  solo  tipo che    abbiamo    per   il    concetto  della  sostanza.   E  chiaro cosi    che    il  fatto  non  familiare  della  persistenza  dell'e- nergia   viene    assimilato  al  fatto  molto   familiare    della persistenza  della    materia,  essendo  quest'ultima  una  di quelle  anticipazioni  delV  esperienza,  che  la  scienza   con- ferma,   mentre   ne  rigetta  tante  altre  (2).  La  forza,  che dopo  essere  stata  aggiunta  alla   materia  come  un  prin- cipio distinto  e  separato,    finisce   per  soppiantarla,    in altri  termini  la  forza  considerata  come  la  cosa  in  sé  del fenomeno  materia,  non  appartiene  all'argomento  di  que- sta priniM  parte,  ma  a  quello  della  seconda. (1)  rriìnì  prineipii,  §  (iO. (2)  Cfr.   Saggio  1.  e.  9.  §  4. CAP.  VI. LA    FI  LOSOV^I A    A I  *  KM  O  K I  STA . 5^  1.  Una  delle  tendenze  [)iù  generali  della  speeiila- zione  metaiisiea  è  lo  sforzo  di  ricostruire  la  realtà  a prioriy  di  dedurla:  questa  tendenza  caratterizza  talniente lo  spirito  di  questa  speculazione,  considerata  nel  suo complesso,  che  noi  potremmo  pressocchè  dire  che  la  me- tafisica (astrazion  facendo  dalle  dottrine  relative  alla  qui- stione  del  mondo  esteriore)  si  riassume  in  due  punti  : antropomorfismo  e  metodo  n  priori.  La  gran  maggioranza dei  metafisici  o  hanno  cercato  di  tirare  la  conoscenza delle  cose  dalla  contemplazione  delle  loro  idee,  ovvero, se  questo  è  sembrato  loro  impossibile,  hanno  visto  in questa  impossibilità  una  prova  dei  limiti  della  nostra  co- noscenza, considerando  la  conoscenza  a  priori  come  l'i- deale, (|uantun(iue  inaccessibile,  di  una  conoscenza  as- soluta, adequata  al  suo  oggetto.  Una  definizione  della metafisica  che  non  tenga  conto  di  questo  carattere,  qual è  ((uella  di  A.  Comte,  una  teoria  che  non  lo  spieghi^ devono  perciò  essere  riconosciute  insufficienti. Nel  Saggio  1.  abbiamo  visto  come  i  limiti  dentro  cui è  circoscritta  la  possibilità  della  conoscenza  a  priori,  sono nettamente  fissati,  dalla  natura  stessa  dell'intelligenza. Noi  abbiamo  diviso  tutte  le  conoscenze  in  due  classi^  di cui  runa  ha  per  oggetto  l'esistenza  delle  cose  e  i  loro 430 rapporti  di  simultaneità  e  di  successione,  l'altra  i  loro rapporti  di  somig'lianza  e  di  differenza;  e  abbiamo  mo- strato che  le  conoscenze  della  prima  classe  non  possono mai  essere   ottenute  a  priori,   ma  solo   quelle  della  se- conda. La  ragione  di  questa  differenza  sta  nella  natura stessa  deiroggetto  a  cui  si  riferisce  la  conoscenza:  noi possiamo,  senza  bisogno  di  osservare  le  cose  stesse,  ma limitandoci  a  contemplare  le  loro  idee,  costatare  le  somi- glianze e  le  differenze  di  queste  cose;  mentre,  al  contrario, noi  non  possiamo,  per  la  comparazione  delle  idee,  sa- pere se  le  cose  corrispondenti   a  queste  idee  esistono  o no.  né  quale  relazione  o  di  precedenza  o  di  simultaneità o  di  sequenza  una  cosa  abbia  con  un'altra.  È  senza  dub- bio  qualche   cosa  di  simile  alla   nostra  distinzione  che Hume  aveva  in  vista,  ([uando  eiili  divideva,  servendosi, in  verità,  di  espressioni  alquanto  vaghe,   gli  oggetti  di tutte  le  conoscenze  in   rapporti  tra  idee  e  cose  di  fatto. Vi  ha  un  sistema  di  conoscenze,  che  ha  potuto  essere costruito  a  priori,  perchè  esso  non  c'insegna  niente  sul reale,  sull'esistenza  delle  cose  (sia  sulla  semplice  esistenza, sia  sull'esistenza  simultanea  o  successiva),  ma  solo  su  certe relazioni  definite  di  somiglianza  e  differenza  che  vi  hanno tra  le  cose  :    è   la  matematica  pura.   Così  è  nella  mate- matica pura  che  i  metafisici  hanno  trovato  il  tipo  della forma  e  del  metodo  di  una  conoscenza  assoluta  del  rea- le. Platone  considera  lo  studio  della  matematica    come la  preparazione  naturale  alla  dialettica  :    esso   deve  ri- svegliare l'organo  assopito  della  scienza,  far  nascere  il bisogno  della  vera  conoscenza,  far  eseguire  allo  spirito l'evoluzione  necessaria   per   dirigerne  lo   sguardo,   dal mondo  (lei  fenomeni,  conosciuto  dall'esperienza,  al  mondo delle  Idee,  conosciuto  a  priori  dalla  ragione  per  mezzo della  dialettica  (1).  Per  conseguenza  i  platonici,  con  una (1)  Eep.   VI! —  431    - frase  un  po'  volgare,  ma  molto  espressiva,  chiamano  le matematiche  i  manichi  della  filosofia  (1).  Cartesio  iden- tifica il  suo  metodo  filosofico  al  metodo  matematico,  e  ri- getta ogni  specie  di  evidenza  che  non  sia  della  stessanatura  dell'evidenza  matematica  (2).  Spinoza  dimostra  il suo  sistema  col  metodo  geometrico,  e  assimila  lo  svi- luppo dell'essere,  o  la  connessione  delle  cose,  allo  svi- luppo e  alla  connessione  delle  verità  matematiche  (3). Leibnitz  immagina,  sul  tipo  dell'algebra,  una  caratte- ristica universale^  un'arte,  la  quale,  «  se  fosse  adottata da  tutti  come  unico  metodo  filosofico,  verrebbe  presto  il tempo  in  cui  saremmo  capaci  di  formare  delle  conclu- sioni sull'uomo  e  su  Dio  con  non  minore  certezza  che  noi ne  formiamo  oggi  sulle  figure  e  sui  numeri»  (4).  Schel- ling vede  nelle  matematiche  la  forma  stessa  del  sapere primitivo  e  assoluto,  di  cui  la  filosofia  è  la  riproduzione: (1)  Diog.  Laert.   IV.  10. (2)  Vico,  conibatteii(U)  il  inotcnlo  cartosiniK»,  cioc  V  a[>plica- zioiie  del  metodo  niateiiiatio(>  alla  eouoseeiiza  del  reale,  conviene non  di  meno  che  non  vi  ìia  altra  scienza  .  rigorosamente  i>ar- lamh».  che  la  matematica.  Le  sole  matematiche,  egli  dice,  di tutte  le  scienze  umane,  |)rocedono  a  somiglianza  della  scienza divina  (Uisposfa  a  tre  gravi  opposhioui  eoìifro  il  libro  De  nut. Ital.  Slip.  II.)  L'uomo  sa  le  cose  matematiche,  ma  Dio  solo  le cose  lìsiche  {De  Antiq,   Did.  sapietit.  Conclusione). (8)  Le  cose  procedcuio  dall'essenza  divina  come  dall'essenza del  triangolo  segue  che  i  suoi  angoli  sono  eguali  a  due  retti. {Eth.  [).   1.  Schol.   Prop.   17  e  p.  2.  Schol    Pro]».   41).) (4)  Wallisii  Opera  .voi.  111.  [>.  1()2  -  Dal  punto  di  vista  di Leibnitz,  come  osservi  M.  <le  IMran  (Opere  fUoH.  t.  4.  p.  30i)),  la matematica  non  \mh  ditl'erire  dalla  metafìsica  o  scienza  della reità  che  per  l'espressione  delle  proposizioni  :  se  la  prima  pn»- cede  {tor  dimostraziom  evidenti,  e  la  seconda  no,  è  j>ercht'  la  i»rima è  in  possesso  di  segni  convenienti  per  le  sue  idee,  mentre  la  se- conda non  ha  trovato  ancora  questi  segni.  «Si  tratterrebbe  diinqiu». —  482  — nelle  inateiìint'u-he  è  espresso  il  tipo  della  ragione   uni viT-nlo;   esse  nell'astratto,  come  binatura  nel  concreto, ne  sono    la  |)iii    perfetta  espressione   obbiettiva  (1).    La inateiiiatica,    dice  Novalis,  è  la  vera  scienza,  Tintendi- inento  realizzato;  i  suoi   rapporti  sono  quelli  del  mondo. La  scienza    niatematica    pura  è  la    vita  più   alta;  è  la vita  degli  dei.  T  niateniatici  soli  sono  telici,    perchè    il sapere  perfetto  è  felicità  perfetta  (2Ì.  Il  Taine  ci  mostra nelle  «  scienze    <li    costruzione»    (le    matematiche)    ^  iiu esem[)lare   anticii)ato,    un    modello    ridotto,    uìì    indizio rivelatore  di   ciò    che   devono    essere   le  scienze  (attual- mente! sperimentali,  indizio  simile  al  ])iccolo  edilìzio  di cera,  che  ali  architetti fabbricano  prima  con  una  sostanza pili  liiaiieg-giaUile  per  rappresentarsi   in  iscorcio  le  pro- ])orzioni   e  l'aspetto  totale  del  gran  monumento  ch'essi si  accingono  ad  elevare»  (3).  lutine  (per  non  moltiplicare inutilmeutt    i.    citazioni)  Mamiaui    si    augura    che    <  un giorno    sarà    touceduto    alle    dottrine    speculative    i'  a- dcmpiere  ii   voto  sui)erl)e  di  Leibnizio  di  scrivere  con  ri- o-ore di   verità  la.  (fcometria  dell'Ente»     4). «li  trovjiit'  (•«.'Iti  tn-miiii  o  foniit'  «lei  .'luniciati  iU'\W  pioposi/i.mi vhv  scrvisson»  coiiu'  dì  tìl«.  uri  labirinto  dclln  mrtatìsicji  .  per i-isolvt'iv  W  qiiistioiii  più  (oinplicjìtc  con  un  nn'Iodo  simile  u  «pieUo i\ì    VMr\\ih^>>.  {l.iiì^^int/.  />r  ^riunii'  phil.  ^ninuhft.  i>i\.    Duteits  t.   2. l»jute    l.    i>a,i;.    19). (1)  Se-bellini»    I^f^-   v".'//'  .v'"</'  on'ttih'nucì,  le/.  4. (2)  Willm.    Sfnr.   (fellii  plos.   ulem.   f1'(    Kaitt  ad    /Icf/i!.    t.   8. \K    21. (8)    L'hih'lliff.  2.  eil.    voi.   2,   \).   \7'^. (4)   ('oiHp.  f  si  ut.   drlhf  ffro/n'm   fìlos.   ^  2S. Koniajiuo.^i.  nelhi  Sufurma  vnwomia  deWinnano  sapeir  (Pat- te J.  11)  distinone*  quattri»  età  nelh»  sviluppo  intellettuale  del- ruiiianità  :  nella  prima  si  ragionò  per  pcrs<»nitieazi.»ni;  nella  se- ronda  per  iinitaziOne  -eometriea:  nella  terza  per  analo-ie  prema- turamente .remraliz/.ati':   nella  quarta  con  induzioni   ben   fatte  iS -  433  — Non  vi  ha  dubbio  cbe  la  matematica  non  abbia  eser- citato una  sorta  di  fascino  sullo  spirito  dei  metafìsici.  Lo studio  delle  mamatiche  pure,  lo  si  è  spesso  osservato,  ha questa  tendenza,  di  disporre  lo  spirito  a  troppo  attendere da  se  stesso,  vale  a  dire  dalla  forza  intima  del  pensiero, indipendentemente  dall'osservazione  reale.  E  nel  fatto,  i più  temerari  tra  i  metafisici,  e  i  più  grandi  antesignani del  metodo  a  priori,  sono  stati  dei  matematici  :  basterà rammentare  Platone,    Cartesio,    Leibnitz.  «Niente,  dice Lange,  in  questi  ultimi  secoli,  ha  contribuito  a  smarrire in  nuove  avventure  metafìsiche  la  filosofia,  recentemente emancipata  dal  giog^o  della  scolastica,  quanto  l'ebbrezza prodotta  dal  progresso  meraviglioso  delle  matematiche  al XVII  secolo.  »  Ma  una  convinzione  si  generale,  si  radicata (tanto  da  mantenersi  a   dispetto  dei   risultati  evidente- mente fallaci  e  dell'assoluto  rovesciamento  della  logica a  cui  essa  conduce)  qual  è  quella  che  la  scienza  asso- luta, una  scienza  che  comprenda   1'  essenza  delle  cose, suppone  che  le  loro  leggi  siano  dedotte  a  priori,  e  non date  soltanto  dall'osservazione;  convinzione  che  si  è  im- posta anche  ai  pensatori  più  modesti  e  circospetti  (i  quali ordinariamente,  come  abbiamo  notato,  non  hanno  già  ne- gato che  tale  debba  essere  il  carattere  della  scienza  as- soluta, ma  solo  che  questa  scienza  sia  accessibile  all'uo- cou  ineatonameuto  deduttivo.  È  evideutc  clie  le  due  prnne  età eorrispondom)  ai  due  periodi  teologico  e  metafisico  di  A.  Comte. Ora  ci  Benibra  che,  quantunque  il  carattere  assegnato  da  Ko- ma-uosi  al  secondo  periodo  non  possa  servire  per  una  detenizione ri-orosa  della  metafisica,  pure  l'autore  italiano  ne  comprenda  h» spirito  assai  meglio  che  il  francese,  il  (luale  non  la  fa  consistere cbe  nella  realizzazione  delle  astrazioni,  e  per  conseguenza  vede in  (Cartesio,  in  questa  incarnazione  la  più  perfetta  dello  s],irit(» nu'tafisico,  un  iniziatore  della  tllosolìa  positiva.  (Comte  Corso  di filos.  positiva,  voi.  1,  ed.   A.  pag.  20  e  altrove). -i ^ —  434  — mo);  non  può  spiegarsi  per  un  errore  accidentale  del  ra- crioilamento  o  per  le  speciali  abitudini  mentali  di  un  certo Tiumero  di  pensatori.  Essa  indica  a  prima  vista  che  la sua  sorgente  deve  cercarsi  in   un  sofisma   naturaU  del nostro  Spirito,  in  una  di  (lueste  (come  le  chiama  Bacone) anticipazioni  deWesjierienza,   cioè  di   queste  credenze,  o tendenze  a  credere,  prescientifiche,  che  l'intelligenza  na- tiva dell'uomo  porta  con  se  stessa,  e  che  impriìuono  alla ricerca  scientifica  la  forma  subbiettiva,  torcendone  forza- tamente i  risultati  nel  senso  predeterminato  dalla  costi- tuzione stessa  del  nostro  spirito. §  2,  I  sofismi  naturali  o  a  priori  del  nostro  spirito sono,  lo  sappiamo,  delle  inferenze  incoscienti  (prese  per conoscenze  intuitive,  perchè  non  abbiamo  coscienza  del- l'inferenza), le  cui  premesse,  come  quelle  di  tutte  le  al- tre inferenze,  stanno  nell'esperienza  passata.  Compren- dere l'origine  della  filosofìa  apriorista  è  scoprire  il  mec- ca#Mno  di  questa  induzione,    su  cui  questa  filosofìa   è fondata,  induzione  di  cui  non  entra  nella  coscienza  che la    conclusione,    mentre    le    premesse  le  sfuggono  :  noi dobbiamo  quindi  anzitutto  cercare   quali    siano    queste premesse.  Ma  perciò  bisogna    prima    formarci    un'  idea più  precisa  della  conclusione  stessa,  cioè  del  principio su   cui  è  fondata  la  filosofìa   apriorista.  Il  principio    su cui  questa  filosofìa  è  fondata  essendo  un  certo  concetto della  scienza,  noi  do])biamo  dunque  prendere  per  punto di  partenza  della  nostra   ricerca    i  caratteri   che  distin- guono la  scienza,  quale  la  concepisce  il  filosofo  aprio- rista, dalla  conoscenza  sperimentale.  Da  questi  caratteri noi  potremo  arguire  facilmente  quali  siano  le  premesse empiriche  della  conclusione,   che  è  il  postulato  della  fi- losofìa apriorista:  questo  postulato  stabilisce   quali    de- vono   essere  i  caratteri    della  conoscenza,  in  generale; quindi  le  premesse  empiriche,   di  cui  esso  è  la    conclu- sione,    sono    delle    conoscenze  particolari  in  cui  questi caratteri  si  trovano. —  435  — Noi  possiamo  enumerare  tre  caratteri  distintivi  della conoscenza,  che  è  l'ideale  del  filosofo  apriorista:  1.  Questa conoscenza  deve  darci  delle  verità  necessarie,  mentre  la conoscenza  sperimentale  non  ci  dà  che  delle  verità  con- tingenti. Una  verità  contingente  è  quella  di  cui,  per  quan- to essa  sia  fermamente  stabilita,    noi    possiamo    senza sforzo    concepire  il  contrario  :    tali  sono  in  generale  le leggi  del  mondo  reale  (meno  le  eccezioni  che  noi  faremo in    seguito);    per   quanto  sia  ferma  la  nostra    credenza nell'universalità  di  queste  leggi,  noi  possiamo  facilmente immaginare  ch'esse  vengano  sospese  o  cangiate,  e  che la    natura    avrebbe    potuto    essere    costituita   con  leggi affatto  differenti.  Una  verità  necessaria  invece  è  quella, di    cui    il   contrario    non    potrebbe    concepirsi    che    con sforzo,  o  è  anche  assolutamente  inconcepibile.  Tali  sono le  verità  della  matematica,  e  tra  le  leggi  del  reale  al- cune di  cui  parleremo  in  seguito.  La  filosofia  apriorista aspira    dunque  a  convertire  le  leggi  del  reale,    che    la conoscenza  sperimentale  ci  dà  come  verità   contingenti, il)    verità  necessarie.    2.  La  conoscenza  a  cui    aspira    il filosofo    apriorista    deve   rivestire  il  carattere    dell'  evi- denza intrinseca  o  razionale;  cioè  tale,  che  l'inspezione delle  idee,  indipendentemente  da  quella  dei  fatti,  basti a  stabilire  la  verità  (l'evidenza  con  cui  ci  s'impone,  per esempio,  un  assioma  di  matematica,  è  indipendente  dalle prove  empiriche,  su  cui  esso  può  essere  induttivamente stabilito).  Questi  due  caratteri,  la  necessità  e  l'evidenza intrinseca  o  razionale,  sono  senq)re  uniti  l'uno  all'altro; e  siccome  le  verità,  in  cui   questi   caratteri  si  trovano, sono  delle  conoscenze  a  priori,  cioè  non  risultanti  dal- l'esperienza,  0  che   noi   siamo    naturalmente    inclinati a  credere  tali  (1),  cosi  vi  ha  ordinariamente  nella  conoscenza  a  cui  aspira  la  filosofìa  apriorista,  un  S.*^  carat- tere distintivo,  derivante  dai  due  primi  :  è  il  carattere stesso  che  le  dà  il  nome,  cioè  V  assenza  di  un'  origine empirica  (1). Ora,   per  trovare   le   premesse   empiriche   dell'infe- renza   che    è    il    fondamento    della    filosofìa    apriorista, noi    dobbiamo    cercarle    tra    le   conoscenze  particolari, di  cui  il  filosofo  apriorista  ha  avuto  l'esperienza,  nelle quali    si   trovano  i   due   caratteri  primitivi  della  neces- sità e  dell'evidenza  intrinseca  o  razionale  (noi  possia- mo  neg-ligere   il   3.^   cioè   l'assenza  dell'  origine   empi- rica, perchè  esso  non  è  che  inferito  dai   due  altri,   per una  riflessione  psicologica).  Questi  caratteri  si  trovano in  due  classi  di  conoscenze.  Quelle  dell'una  sono  effet- tivamente indipendenti  dell'esperienza,  e  consistono  nelle percezioni  delle  somiglianze  e  delle  differenze.  Sono  per esempio  delle  conoscenze  d'una  verità  necessaria  e  d'una evidenza  intrinseca  che  due  e  due  sono  uguali  a  quattro, e  che  due  gradazioni  del  colore  verde  hanno  più  somi- glianza tra  di  loro   che    col    colore    bianco.    Di    questa classe  fanno  parte  le  proposizioni  così  dette  analitiche, e  quelle  connessioni  logiche  tra  le  proposizioni,  che  en- trano nei  limiti  della  logica  formale,  cioè  che  sono  fon- date sui  principii  d'  identità   e    di  contraddizione  —  nel Saggio  1.    abbiamo    mostrato    che   gli    atti    intellettuali implicati  nelle  prime  non  sono  che  delle  percezioni    di VI.  della  parte  1.  del  Sao;»;io  II,  citata  uel  Saggio  1.  e.  8, ^  3,  si  troverìl  invece  nella  parte  111.  di  questo  stesso  Saggio  II.) (1)  È  importante,  come  vedremo  nel  seguito  del  capitolo, «li  distinguere  l'apriorità,  in  questo  senso,  dall'evidenza  razio naie  :  per  comprendere  questa  distinzione,  basta  di  riflettere che  un  assioma  di  matematica  non  cessa  di  avere  un'  evidenza razionale,  intrinseca,  anche  per  lo  psicologo  che  sa  che  la  co- noscenza di  quest'assioma  e  un  risultato  dell' esperienza. somiglianze  e  di  differenze;  lo  stesso    avremmo    potuto fare  per  le  seconde,  se  non  avessimo  voluto  evitare  di dare  alla  nostra  tesi  degli  sviluppi  che  non  ci  sembravano necessari  —.L'altra  classe  di  proposizioni  necessarie  e  in- trinsecamente evidenti  sono  di  origine  empirica.  Tra  le acquisizioni  dell'  esperienza,  i  caratteri  della  necessità e  dell'evidenza  intrinseca  sono  propri  delle  conoscenze delle    connessioni   tra  i  fenomeni,  che  ci  sono  estrema- mente familiari.  Tali  sono,  oltre  gli  assiomi  della    ma- tematica (in  quanto  sono  delle  conoscenze  induttiva»,,  e perciò  fondate  sull'esperienza)  i  più  familiari  tra  i  rap- porti di  simultaneità  e  di  sequenza  tra  i  fenomeni.  L'e- strema frequenza  delle  esperienze  determina  delle  asso- ciazioni inseparabili  o  presochè  tali  (non  è  qui  il  luogo di    discutere  se  le  più  forti  tra  le  associazioni    formate dell'esperienza  siano  inseparabili  nel  senso  stretto  della parola,  come  insegnano  gli  associazionisti  inglesi);  ed  è in  questo  legame  intimo  tra  le  idee  che  consiste  il  sen- timento   di    necessità    accompagnante    la    proposizione. Inoltre,  le  associazioni  di  questo  genere  sono,  nel  loro aspetto  logico,  delle  inferenze  inconscienti  :  esse  danno luogo  a  delle  proposizioni  che  noi  ammettiamo,  o  siamo inclinati  ad  ammettere,    come   evidenti  per   se  stesse  e indipendentemente  dalla  prova  empirica,  cioè  dalle  espe- rienze passate,  che  sono  le  premesse  reali  dell'inferenza, ma  che  sfuggono  alla  coscienza;  il  legame  intimo  tra  le idee  ci  sembra,  senz'altro,  una  prova  sufficiente  del  lega- me reale  tra  i  fatti.  È  questo  sentimento  di  evidenza  in- trinseca,  da  cui  sono  accompagnati  i  giudizi  affermanti  i rapporti  più  familiari  tra  i  fenomeni^come  per  esempio, oltre  gli  assiomi    della    matematica,  questo  :  che  l'urto deve  produrre  del  movimento  nel  corpo   urtato,  o  que- st'altro :  che  la  volontà  di  muovere  il  braccio  ha  la  virtù di  determinare  il  movimento  del  braccio  stesso— che  ha anche  dei  pensatori,  abituati  a  riflettere    sulle operazioni  dello  spirito,  a  considerarli  come  delle  cono- scenze indipendenti  dall'esperienza. Le  due  classi  enumerate  di  conoscenze,  fornite  dei  due caratteri  inseparabili  della  necessità  e  dell'evidenza  ra- zionale, non  comprendono  che  le  conoscenze  primitive;  in quanto  alle  dedotte,  quali  i  teoremi  della  matematica pura,  sembrano  esclusivamente  proprie  di  questa  scienza, e  noi  possiamo  neg'ligerle  per  la  considerazione  che  se- gue. L'ogg-etto  della  scienza,  a  cui  aspira  il  filosofo  aprio- rista,  non  soìio  dei  rapporti  di  somiglianza  e  di  differenza, ma  le  leggi  del  mondo  reale,  i  rapporti  di  simultaneità e  di  sequenza  ;  quindi  le  premesse  empiriche  della  infe- renza incosciente  del  filosofo  apriorista  —  la  quale  stabi- lisce che  le  leggi  del  mondo  reale,  in  generale^  devono essere  delle  verità  necessarie  e  di  un'evidenza  razionale — dobbiamo  cercarle,  tra  le  conoscenze  fornite  di  questi  ca- ratteri delle  quali  abbiamo  avuto  l'esperienza,  piuttosto in  quelle  aventi  per  oggetto  alenile  delle  leggi  del  mondo reale  (cioè  le  più  familiari)  che  in  quelle,  sia  intuitive, sia  dedotte,  aventi  per  oggetto  dei  rapporti  di  somi- glianza e  di  differenza.  Infine,  siccome  le  leggi  primitive del  mondo  reale  —  che  la  filosofia  apriorista  aspira  a convertire  in  verità  necessarie  e  d'  un'  evidenza  razio- nale —  sono  generalmente  dei  rapporti  di  successione, così,  tra  le  conoscenze  delle  leggi  più  familiari  del  mondo reale — che  per  la  loro  familiarità  ci  sembrano  delle  ve- rità necessarie  e  d'un'evidenza  razionale  —  è  in  quelle aventi  per  oggetto  le  sequenze  dei  fenomeni,  piuttosto che  nelle  altre,  che  devono  trovarsi  le  premesse  della inferenza  incosciente  del  filosofo  apriorista.  Ma  le  se- quenze più  familiari  tra  i  fenomeni  sono  quelle  che  ci hanno  dat©  la  nozione  di  causalità  efficiente;  e  cosi giungiamo  a  questa  conclusione,  che  il  principio  fonda- mentale della  metafisica  apriorista  è  un'  applicazione particolare,  una  variante,  del  principio  fondamentale  di —  439  — ogni    metafisica,    che   ogni    fenomeno   deve   avere  una causa  efficiente  (e  non  semplicemente  un  antecedente  a cui  esso  segue  d'una  maniera  invariabile).  Il  principio che    oo:ni    fenomeno    deve    avere    una   causa  efficiente, e'  impone  di  assimilare  tutte  le  causazioni  alle  più   fa- miliari :  la  filosofia  apriorista  opera  quest'assimilazione, cercando  di  rivestire  tutte  le  causazioni  di  questa  forma di  necessità  e  di  evidenza  razionale  che  è  propria  delle causazioni  più  familiari.  Il  principio  fondamentale  della filosofia  apriorista  è  dunque,  come  qualsiasi  altro  prin- cipio generale,  un'induzione;  e  le  premesse  di  quest'in- duzione sono  le  :!ausazioni   più  familiari  dì  cui  abbiamo avuto  l'esperienza.  Siccome  queste  causazioni  più  fami- liari ci  sono    sembrate  necessarie  e  di    un'  evidenza    in- trinseca, cioè  razionale,  il  filosofo  apriorista  ne  inferisce che  tutte  le  causazioni  in  generale  devono  essere  neces- sarie e  di  un'  evidenza  razionale.   Ma  questa    inferenza è    incosciente,    vale  a  dire    le    sue    premesse    emi)iriche sfus-a-ono    alla    coscienza,  nella  (male  non  entra  che  il Oc?  ' risultato  dell'inferenza.  Cosi  i  filosofi  aprioristi  ammet- tono il  i)OStulato  dei  loro  sistemi— che  una  conoscenza ade(iuata  delle  leggi  del  reale  deve  rivestire  i  caratteri della  necessità  e  dell'evidenza  razionale— come  una  ve- rità intuitiva,  che  non  ha  bisogno  di  essere  provata: è  questo  il  carattere  distintivo  delle  inferenze  inco- scienti. Da  questo  concetto  della  causalità  risulta  il  metodo che  caratterizza  questa  filosofia.  «  I  ragionamenti,  che noi  formiamo  sulle  cose  di  fatto,  pare,  dice  Hume  (1), che  abbiano  tutti  per  fondamento  la  relazione  che  vi ha  tra  le  cause  e  gli  effetti.  Essa  è  in  effetto  la  sola che  possa  trasportarci  al  di  là  dell'evidenza  che  accom- o-na  i  sensi  e  la  memoria».  Se  la  proposizione  di   Ilume (1)  Sa<:;^io  4,  verso  il  principio. -  440 significa  che  ogni  inferenza  (sulle  cose  di  fatto)  è  sem- pre dalla  causa  all'effetto  o  dall'effetto  alla  causa,  essa è  certamente  troppo  assoluta:  essa  non  è  vera  che  in questo  senso  limitato,  cioè  che  ogni  conclusione  da  uq fenomeno  dato  a  un  altro  fenomeno  è  fondata  sovra  un legame  costante  tra  i  due  fenomeni,  e  che  questi  legami costanti,  assolutamente  invariabili,  tra  i  fenomeni,  che possono  costituire  delle  conoscenze  generali  di  una  cer- tezza assolutamente  rigorosa,  la  filosofia  moderna  non li  vede,  quasi  esclusivamente,  altrove  che  nelle  relazioni tra  le  cause  e  gli  eft'etti. Supponiamo  dunque  che  la  relazione  tra  la  causa e  refPetto  sia  conoscibile  a  priori,  che  gli  effetti  possano dedursi  dalle  loro  cause  :  ne  seguirà  che,  per  una scienza  vera,  passare  dal  noto  all'ignoto,  inferire,  non è  che  dedurre;  che  l'evidenza  ra/.ionale,  cioè  intuitiva o  dimostrativa,  è  il  tipo  unico  di  un'evidenza  rigorosa; che  la  vera  scienza  del  reale  non  può  essere,  come  la matematica,  che  una  scienza  a  priori,  che  la  ragione deve  produrre  da  se  stessa  per  il  solo  movimento  del pensiero. In  un  senso,  ogni  metafisica,  in  quanto  specialmente si  riferisce  alla  ricerca  delle  cause,  è  una  filosofia  a priori.  In  effetto  il  presupposto  comune  di  ogni  meta- fisica è  che  il  rapporto  tra  la  causa  (efficiente)  e  l'effetto è  un  rapporto  necessario  ed  evidente  intrinsecamente: così  anche  quella  metafisica,  che  non  fa  che  seguire  il movimento  spontaneo  dello  spirito,  che  è  di  ricondurre tutte  le  causazioni  a  quelle  che  ci  sono  le  più  familiari —  le  sole  che  ci  sembrino  decessane  ed  evidenti  intrin- secamente —  riconosce  implicitamente  il  principio  stesso, su  cui  è  fondata  quest'altra  metafisica,  che  pretende costruire  la  realtà  a  priori,  e  produrre  la  scienza  col metodo  dimostrativo.  Inoltre  l'insieme  di  questo  Sag- gio IL  mostrerà  che  non  vi  ha  alcuna  dottrina  metafisica —  441  — che  possa  stabilirsi  sulla  base  dell'esperienza,  ma  che tutte  si  fondano  sovra  postulati  ammessi  senza  prova, come  intuitivamente  evidenti,  e  in  una  parola,  a  priori. Ma  per  filosofia  apriorista,  nel  senso  stretto  del  termine (ed  è  quello  in  cui  l'useremo  in  questo  capitolo),  inten- deremo quella  che  si  dà  esplicitamente  come  tale;  l'es- senza di  questa  filosofia  consistendo  in  ciò  che,  mentre la  metafisica,  per  dir  cosi,  spontanea  del  nostro  spirito eleva  a  tipo  universale  le  connessioni  tra  i  fenomeni che  ci  sono  i  più  familiari,  essa  invece  eleva  a  tipo universale,  non  queste  connessioni  stesse,  ma  la  forma che  è  loro  propria  quali  oggetti  della  conoscenza,  cioè questa  necessità  ed  evidenza  intrinseca  che  distingue queste  connessioni  dagli  altri  rapporti  dati  tra  i  feno- meni. Lo  spirito  della  filosofia  apriorista,  in  questo  senso, può  riassumersi  nei  tre  punti  seguenti:  1.  Il  presupposto fondamentale  (ciò  sia  detto  facendo  riserva  di  ciò  che aggiungeremo  nelF  Appendice  a  questo  capitolo)  è  che un  rapporto  di  causazione  efficiente  deve  essere  fornito dei  due  caratteri  inseparabili  della  necessità  e  della  co- noscibilità a  priori. 2.  Come  conseguenza  di  questo  presupposto,  questa filosofia  ammette  che  V evidenza' razionale  è  il  tipo  unico d'ogni  evidenza  rigorosa,  anche  per  le  verità  del  domi- nio dell'esistenza;  che  una  vera  scienza  del  reale,  delle leggi  degli  esseri,  non  può  che  essere  una  scienza  a priori;  che  il  vero  metodo  scientifico  non  può  che  essere il  metodo  dimostrativo. 3.  Il  carattere  speciale  di  questa  filosofia  è  che  questo legame  necessario  ed  evidente  a  priori,  con  cui  la  me- tafisica, in  quanto  essa  è  la  ricerca  del  perchè,  cerca di  legare  i  fenomeni,  mentre  un'altra  filosofia,  più  con- forme alla  metafisica  istintiva  dell'  uomo,  lo  domanda alle  causazioni  estremamente  familiari,  questa  filosofia -"^-r- —  442  — lo  domanda  invece  alla  deduzione,  alla  dimostrazione  (1). In  conseguenza  il  suo  processo  consiste  a  sforzarsi  d'in- trodurre tra  i  fenomeni  dei  leg*ami  necessari  e  razìoìiali^ mediante  dei  ragionamenti  capziosi  eh'  essa  dà  per  di- mostrazioni; o  anche,  applicando  nel  senso  stretto  il  prin- cipio che  l'effetto  deve  declursi  dalla  causa,  ad  identifi- care il  rapporto  ontologico  tra  la  causa  e  l'  effetto  col rapporto  logico  tra  il  principio  e  la  conseguenza  nella deduzione.  •  * Per  dilucidare  questi  punti,  noi  faremo  una  corsa  nella storia  della  metafisica;  e  siccome  le  quistioni  intorno  al metodo  scientifico  hanno,  nella  filosofia  moderna,  un'im- portanza assai  più  grande  che  nell'antica,  e  sono  state poste  d'una  maniera  assai  più  chiara  e  sistematica,  cobasterà  al  nostro  scopo  di  limitarci  al  periodo  moderno. Noi  cominceremo  duncjue  dal  jjadre  della  filosofia  mo- derna. §  3.  Cartesio  —  La  quistione  fondamentale  della scienza  è  per  Cartesio  quella  del  metodo  :  è  questo  il segno  distintivo  d'una  metafisica  essenzialmente  aprio- rista,  che  s'incontra  egualmente  in  Platone,  in  Spinoza, negl'idealisti  tedeschi  succeduti  a  Kant,  ecc. Il  metodo  cartesiano  è  una  estensione  di  quello  delle matematiche  pure  a  tutti  gli  oggetti  della  scienza  in  gene (1)  Distinjiuendo  o  opponendo  così  queste  due  tendenze filosofiche,  noi  non  le  consideriamo  che  d'una  maniera  astratta e,  per  dir  così,  ideale.  Del  resto  le  due  tendenze,  nel  fatto, non  sono  quasi  mai  seperate.  Almeno  la  storia  non  ci  dà  alcun esempio  di  sistema  apriorlsta,  in  cui  non  si  mostri  pure  la tendenza  ad  assimilare  il  modo  di  ])roduzione  di  tutti  i  feno- meni a  qualcuna  di  queste  causazioni  che  ci  sono  le  piìi  fami- liari e  che  servono  come  tipo  di  sj)iei;azione  nei  sistemi  più conformi  alla  metafisica  istintiva  (filosofia  volizionale,  mec- canica, ecc.). 443 rale  (1).  Cartesio  si  propone  di  costituire  la  scienza  col metodo  puramente  deduttivo  dei  geometri  (2),  e  non  vuole riconoscere  alcuna  cosa  per  vera,  la  cui  evidenza  non eguagli  quella  delle  dimostrazioni  matematiche  (3j.  In questo  metodo,  l'esperienza  non  ha  che  una  funzione  af- fatto subordinata,  e  la  conoscenza  deve  essere  tirata  da certi  germi  di  verità  che  sono  naturalmente  nelle  nostre  ani- me  (4).  E  ciò  che  spiega,  sia  detto  di  passaggio,  questa  con- fidenza assoluta  di  Cartesio  nelle  forze  del  pensiero  in- dividuale, l'audace  proposito  di  creare  di  pianta  tutto l'edifizio  scientifico,  e  il  dubbio  universale,  il  rigetto  di ogni  conoscenza  anteriore,  come  propedeutica  della scienza  (5). L'oggetto  della  filosofia  è,  dice  Cartesio,  una  perfetta conoscenza  di  tutte  le  cose  che  l'uomo  può  sapere  —  si noti  quest'  altro  tratto  distintivo  della  metafisica  aprio- rlsta, per  cui  la  filosofia  non  è  una  scienza,  ma  la  scienza del  reale,  la  quale  si  distingue  dalle  scienze  speciali, non  tanto  per  un  contenuto  proprio  e  distinto,  quanto per  la  forma  necessaria  ed  a  priori^  di  cui  essa  riveste il  contenuto  stesso  di  (lueste  scienze — e  affinchè,  con- tinua Cartesio,  questa  conoscenza  sia  tale,  è  necessario (1)  Metodo^  II  parte  t.  1.  ed.  Cousin  pag.  142-143,  145;  Kcg. per  la  direz.  dello  spir.  Reg.  4.  p.  217-218  et.  11.  ed  Cous), Heg.  14.  p.  208,  e  lUsp.  alle  Lee.  obhiez.  p.  44()  sejr.  (t.  1. Cous);  ecc. (2)  3Iet.  142-143;  Ueg.  perla  dlrez.  dello  spir.  Reg.2.  p.ig. 207-200:  Rie.  della  ver.  per  il  lume  naturale  t.  XI.  p.  884,  875; ecc. (8)  Rcg.  perla  direz.  dello  spir.  Reg.2.  p.  200-200;  Metodo ]>.  108  (parte  5);  Prine.  della  fìlos.  2.  j)arte  n.  04  p.  170,  4.  par- te n.  200.  p.  524-525;  ecc. (4)  Met.  }).  105  (().  ])arte),  108  (parte  5.);  Reg.  per  la  direz. dello  spir.  Reg.  4,  t.  XI.  p.  217:  Prine.  della  filos.  I.  parte n.  24  p.  70,  II.  parte  u.  8,  p.  128,  ecc. (5)  V.  Disc,  del  metodo che  essa  sìa  dedotta  dai  primi  principii,   in  modo   che, per  istudiarsi  di  acquistarla,  ciò  che  si  chiama  propria- mente filosofare,  bisog-na   cominciare    dalla    ricerca   di questi    principii,  ed  essi  devono  avere  due   condizioni, runa    che    siano  si  chiari  e  sì  evidenti,  che  lo  spinto umano  non  possa  dubitare  della  loro  verità   allorché  si applica  con  attenzione  a  considerarli;  l'altra  che  sia  da essi  che  dipenda  la  conoscenza  delle  altre  cose,  in  modo che  essi  possano  essere  conosciuti  senza  di  queste,  ma non  reciprocamente  (jueste  senza  di  essi-,  e  dopo  ciò  bi- sogna   cercare  di  dedurre   talmente  da  questi    principi! la'^conoscenza  delle  cose  che  ne  dipendono,  che  non  vi sia  niente  in  tutto  il  seguito  delle  deduzioni  che  si  fanno che  non  sia  chiarissimo  (1). Cosi  i  mezzi  per  cui  l'intendimento  può  elevarsi  alla conoscenza,  senza  timore  d'ingannarsi,  sono  due:  l'in- tuizione e  la  deduzione,  e  non  bisogna  ammetterne  di più.  L' intuizione  è  delle  cose  che  sono  evidenti  per  se stesse  :  di  quelle  òhe  non  lo  sono  possiamo  tuttavia  averne la  certezza,   «  purché  esse  siano  dedotte  da  principii  certi e  incontestati  per  un  movimento  continuo  e  non  inter- rotto del  pensiero,  con  una  intuizione  distinta  di  ciascuna cosa»   (di  ciascun  passo   del    ragionamento).    Le   prime proposizioni  derivate  immediatamente  dai  principii  pos- sono   dirsi    conosciute  sia  per  deduzione  sia  per  intui- zione; i  principii  stessi  per  intuizione;  le  conseguenze lontane  per  deduzione  (2). Tuttavia  nella  7^^  delle  sue  Ueijole  per  la  direzione dello  spirito  Cartesio  parla  anche  dell'induzione,  ch'egli chiama  pure  enumerazione  sufficiente,  come  uno  dei  mezzi (1)    Princ.    della   filos.     Prefaz.    (Lotterà  al    tvadiitt.)   p.  10 Cousiii. (2)    He(j.     per    la    direz.    dello    ^pir.    Ueg.  8.    Cfr.     Keg.  o, 6.  ecc. -  445  — che  conducono  sicuramente  alla  verità,  anzi  come  il  solo oltre  alla  intuizione.  Ma  Cartesio  non  intende  V induzione nel  senso  nostro,  moderno,  della  parola,  cioè  come  la estensione  a  tutta  una  generalità  di  casi  di  ciò  che  si  è osservato  in  alcuni.  L'induzione  non  è  \)q:c  Cartesio  che una  specie  di  deduzione.  Per  induzione  o  enumerazione egli    intende   iT  mezzo  di  stabilire  la  certezza  di  quelle verità  che  non   derivano    immediatamente    da    principii evidenti  per  se  stessi,  ina  a  cui  si  giunge   per  un  lungo seguito  di  conseguenze,  come  (piando  si  conclude  il  rap- porto   tra    le    grandezze  A  ed  E,  dopo   aver   trovato   il rapporto  tra  A  e  B,  quello  tra  B  e  C,  tra  C  e  D  e   tra D  ed  E  (1).  Tutte  le  volte    che    abbiamo    dedotto    delle proposizioni  immediatamente  l'una  dall'altra,  se  la  dedu-zione è  stata  evidente,  l'operazione  si  riduce  a  una  vera intuizione.   «  Ma  se  deduciamo  una  proposizione  da  altre proposizioni  numerose,  disgiunte  e  nmitiple,  spesso  la capacità  della  nostra  intelligenza  non  è  tale  che   possa abbracciarne  l'insieme  d'una  sola  vista:  in  (jiiesto  caso la  certezza  dell'induzione  deve  bastare.  E  cosi  che  senza potere  ad  una  sola  vista  distinguere  tutti  gli  anelli    di una  lunga  catena,  se  nondimeno  abbiamo  visto  V  inca- tenamento  di  tutti  questi  anelli  fra  di  loro,  ciò  ci  i)ei'- metterà  di  dire  come  il  primo  è  congiunto  all'ultimo:^  (1). Pressoché  lo  stesso  dice  nella  spiegazione  della  Keg.  11  : quando  la  deduzione  è  semplice  e  chiara,  egli  suppone che  la  si  veda  per  intuizione;  ma   (luando  è  inulti[>la  e inviluppata,  in  modo  che  lo  si)irito  non  possa  com})reii derla    tutta  intera  ad  un  sol  colpo,  ma  bisogna,  affine di  concluderne  un  i>'iiidizio  unico,  che  la  menioi'ia  con- servi  i  giudizi  portati  su   ciascuna  delle  parti    (dell'  in- (1)  J^e(j.  7.  pa.ir.  2:^8-285. (2)  Keg.  7.  \ni<r.  281). —  446  — tera  deduzione),   allora  la  chiama  induzione  o  enume- razione (1). Nondimeno  Cartesio  estende  anche  il  nome  d'  indu- zione all'operazione  logica  appunto  che  noi  indichiamo con  questa  parola.  Cosi,  continuando  a  spiegare  la  sua regola  7--^,  egli  dà  anche  quest'esempio  di  enumerazione sufficiente  o  induzione:  «  Se  io  voglio  mostrare  per  enu- merazione che  la  superficie  di  un  cerchio  è  più  grande che  la  superficie  di  tutte  le  figure  di  cui  il  perimetro  è ug'uale,  io  non  passerò  in  rivista  tutte  le  figure,  ma  mi contenterò  di  fare  la  prova  di  ciò  che  avanzo  su  alcune fig'ure,  e  di  concludere  per  induzione  di  tutte  le  altre  » . Sicché  potrebbe  dirsi  che  col  nome  di  deduzione  (di  cui r  induzione  è  per  lui  una  specie)  Cartesio  intende  deo-nare  l'inferenza  in  generale,  tanto  quella  che  noi  chia- miamo  deduttiva,  quanto  quella  che  chiamiamo  induttiva. Ma,  non  vi  ha  dubbio,  dal  complesso  dei  suoi  precetti sul  nìetodo  (per  non  parlare  dell'applicazione  di  questo metodo,  cioè  della  sua  opera  filosofica),  che  quando  Car- tesio parla  di  deduzione,  ciò  che  è  presente  al  suo  pen- siero, non  sia  quello  stesso  che  noi  chiamiamo  cosi,  vale a  dire,  se  non  precisamente  il  sillogismo    (perchè  Car- tesio non  è  un  amico  del  sillogismo),  un'operazione  lo- gica per  cui  si  sviluppano  le  conseguenze  implicitamente contenute  in  un  principio  stabilito.  Per  provarlo,  a  ciò che    abbiamo   riferito   nel  testo  o  citato  nelle  note,  ba- sterà di  aggiungere  due  altri  luoghi  delle  Regole  per  la direzione  dello  spinto.  Non  vi  hanno,  dice  Cartesio  nel- l'uno di  questi  due  luoghi,  che  due  vie  per  arrivare  alla conoscenza  delle  cose:  1'  esperienza  e  la  deduzione.  Ma l'esperienza  è  spesso  ingannatrice;  la  deduzione,  al  con- trario, può  non  farsi,  se  essa  non  si  percepisce,  ma  non è  mai  malfatta    (si  comprende  questa  infallibilità   attri- ci) Pag.  2Ó7  -  258. -  447  — buita  alla  facoltà  di  fare  delle  deduzioni  ;  ma  come  si potrebbe  attribuirla  anche  alla  facoltà  di  fare  delle  in- duzioni ?).  Se  tra  le  scienze  fatte  non  vi  ha  che  l'arit- metica e  la  geometria  che  siano  certe,  ciò  è  perchè queste  scienze  sono  puramente  deduttive  e  ])unto  speri- mentali (1).  Nell'altro  luogo,  dopo  avere  s})iegato  che i  legami  fra  le  nozioni  sono  necessari  o  contingenti» chiamando  necessario  il  leggane  quando  è  impossibile  di concepire  le  idee  separatamente  l'una  d'altra,  e  dando delle  inferenze  deduttive  come  esempi  di  questo  legame, prescrive  di  non  fare  altri  legami  che  quelli  che  abbiamo riconosciuti  necessari,  e  non  ammette,  oltre  all'intuizione evidente,  che  una  sola  via  per  arrivare  alla  conoscenza certa  della  verità,  la  deduzione  necessaria  (2).  Noi  ve- diamo dunque  che  1'  induzione  (nel  nostro  senso),  nel metodo  cartesiano,  non  entra  che  per  un'inconseguenza, e,  per  dir  cosi,  di  soppiatto. Dal  metodo  passiamo  alla  vsua  ap[)licazione,  cioè  al contenuto  del  sistema. L'essenziale  della  filosofia  cartesiana  consiste  per noi  naturalmente  nella  sua  spiegazione  del  mondo,  poiché l'oggetto  della  filosofia  non  è  insomma  che  di  dare  una spiegazione  dei  fenomeni.  La  spiegazione  di  Cartesio  è, come  si  sa,  una  spiegazione  tutta  meccanica  (impulsio- nista),  in  cui  Dio  interviene,  ma  semplicemente  per rendere  ragione  dei  principii  della  meccanica.  Cartesio— e  con  lui  pressoché  tjf^tti  i  filosofi  che  si  riattaccano, direttamente  o  indirettamente,  al  movimento  filosofico da  lui  iniziato  -  può  prendere  i)er  divisa  il  motto  di Leibnitz  :  Tutto  si  fa  meccanicamente  nella  natura;  ma i  principii  del  meccanismo  stesso  derivano  da  una  sor- gente più  alta,  da  una  sorgente  metafisica. (1)  Pag.  207-208,   Reg.  2. (2)  Pag,  278  -  278,  Kcg.  12. «:SU*:'^iiMt.sijM —  448  - Nella   spiegazione   eartesiana   noi   possiamo   distin- guere due  elementi,  rapporto  alla  loro  origine  psieolo- o-ica  e  alla  forma  di  metafisica  eh'  essi   rappresentano. L'uno  è  questo   principio  sfosso  che  tutto  si  fa  mecca- nicamente nella  natura,  cioè  che  tutti  i  fenomeni  si  ri- ducono al  movimento,  e  che  non  vi  ha  altra  causa  (fisica) del  movimento  che  l'impulsione.  Quest'elemento  appar- tiene alla  metafisica  Mintiva  dell'uomo,  rappresenta  la tendenza  spontanea  del  nostro  spirito  a  ricondurre  tutte le  sequenze  a  quelle  che  ci  sono  le  più  familiari,  ten- denza che,  come  sappiamo,   è    la  base  della  nozione  di causalità  efficiente  e  di  ogni  speculazione  metafisica  che vi  si  riferisce.  Ma  Cartesio,  adottandolo,  non  fa  che  un'ap- plicazione delle  regole  del  suo  metodo;  poiché  l'azione meccanica,  l'impulsione,  è,  come  sappiamo,  tra  tutte  le azioni  tìsiche,   la  sola  che  sembri   necessaria  e  di  un'e- videnza intrinseca,  razionale,1).  I  prodotti  della  meta- fisica istintiva  del  nostro  spirito  entrano  di  pieno  diritto come  ingredienti  in  una  metafisica  apriorista  :  questa  in- fatti consiste  essenzialinente  nell'imitazione  della  forma con  cui  le  sequenze,  che  costituiscono  la  base  empirica della  nozione  di  causalità  etticiente,  si  sono  presentate alla  nostra  intelligenza;  nello  sforzo  di  rivestire  di  (juesta forma  tutto  il  conoscibile;  e  a  questo  scopo  non   vi  ha naturalmente  mezzo  più  adatto  che  quello  di  ricondurre tutti  i  fenomeni  ad  alcuna  di  queste  sequenze  stesse  che servono  di  modello  al  metafisico  apriorista.  Ma  oltre  que- sto principio,   necessario  ed  intrinsicaniente  evidente  — perchè  prescientifico  -  che,   l'impulsione   è   la  causa  del movimento,  la  concezione  meccanica  della  natura  com- ]u-ende  altri  principi!  che  non  sono  necessarii  né  intrin- secamente evidenti,  cioè  le  leggi   scientifiche  del  movi- mento stesso.  Queste  leggi  —  che  del  resto  ha  la  gloria (1)  V.  rriuc.  della  filos.   1.  parte,  ii.  1!)8,  ibid.  u.  203,  ecc. —  449  — di  avere  proposte  per  il  primo,  quantunque  in  una  for- ma non  esatta  -  Cartesio  pretende  dimostrarle,  couver- tirìe  da  verità  empiriche  e  contingenti  in  verità  a  priori e  necessarie;  ed  è  questa  dimostrazione  che  costituisce sovratutto  l'elemento  che,  nella  sua  spiegazione  del  mon- do rappresenta  propriamente  la  metafisica  apriorista  (un elemento  proprio  di  questa  forma  di  metafisica  e  non comune  colla  metafisica  che  abbiamo  detto  istintiva). Per  dimostrare  i  principii  della  meccanica  -  in  altri termini  le  leggi  della  n«tem -- Cartesio  dimostra  prima l'esistenza  di  Dio,  per  l'argomento  a  pm«;  propriamente detto,  cioè  per  l'argomento  ontologico.  Quest'argomento, come  tutti  sanno,  pretende  dedurre  1'  esistenza  d.  Dio dal  concetto  o  essenza  di  Dio  (il   concetto  di    Dio  e  .1 concetto  di  un  essere  che  racchiude  tutte  le  perfezioni; ma  l'esistenza  è  una  perfezione;   dunque  l'esistenza  e necessariamente  inclusa  nel  concetto  di  Dio,  e  non  può esserne  separata).  Mcntn;  le  prove  tirate  dagli  effetti  di- mostrano semplicemente  che  Dio  è,  la  prova  ontologica dimostra  che  Dio  deve  necessariamente  e.<isere,  d'una  ne- cessità  non   condizionale  (come   sarebbe  questa  :   se  il mondo  esiste,  esiste  Dio),  ma  assoluta,  cioè  indipendente dalla  supposizione   dell'  esistenza  di  qualche  cosa  fuori di  Dio,  e  consistente  in  ciò,  che  la  sua  non   esistenza, considerato  per  se  solo,    sarebbe  assurda   e  contraddit- toria. Dimostrata   cos'i   l'esistenza   di   Dio,    Cartesio  di- mostra  le  leggi  della   natura,   deducendole   dagli  attri- buti ch'egli  vede  necessariamente  contenuti  nel  concetto di  Dio.  Ecco  in  breve  questa  dimostrazione  :    Dal  con- cetto dell'Essere  assoluto  ne  segue  che  l'esistenza  delle cose  finite  dipende  da  lui,  che  egli  ne  è  il  creator.-;  di più  ne  segue  che  quest'Essere  è  immutabile,  immutabile non  solo  in  se  stesso,  ma  anche  nella  sua   azione  este- riore,  nella  sua  azione  creatrice  del  mondo  (Cartesio ammette  la  dottrina  della  creazione  continua).  Di  la  egli 29 —  450  — deduce  il  suo  principio  che  la  quantità  del  movimento nel  mondo  è  immutabile,  e  cosi  ancora  la  legge  d'inerzia, e  gli  altri  principii  della  meccanica  (1).  Osserviamo  come l'argomento  ontologico  sia  un  momento  indispensabile in  un  tale  processo  deduttivo,  una  condizione  sine  qua non  per  ottenere  il  risultato  a  cui  mira  Cartesio.  Lo  scopo di  Cartesio  è  di  stabilire  le  leggi  della  natura  come  delle verità  necessarie  ed  a  priori;  e  perciò  egli  vuol  mostrare che  queste  leggi  sono  le  conseguenze  d'un  principio  che è  esso  stesso  una  verità  necessaria  ed  a  priori.  Se  l'e- sistenza di  Dio  non  fosse  provata  che  dagli  effetti,  la  sua verità  dipenderebbe  da  una  supposizione  empirica  e  con- tinyeììte:  questo  dato  empirico  e  contingente,  introdotto nella  dimostrazione,  impedirebbe  che  l'esistenza  di  Dio, e  quindi  le  conseguenze  che  se  ne  deducono  (le  leggi della  natura)  fossero  delle  verità  necessarie  ed  a  priori. Osserviamo  inoltre  la  parte  che  Dio  rappresenta  nella spiegazione  cartesiana  delle  leggi  della  natura.  Questa non  è  per  niente  una  spiegazione  antropomorfìstica;  l'a- zione di  Dio  nel  mondo  non  è  assimilata  all'azione  umana. Non  è  per  gli  attributi  che  Dio  ha  in  comune  con  l'uomo (p.  es.  r  intelligenza)  che  il  mondo  viene  spiegato,  ma per  un  attributo  che  egli  può  avere  in  comune  con  degli esseri  incoscienti  e  inanimati,   1'  immutabilità  (2).  Cosi (1)  Princ.  della  filos.  2.  parte,  n.  36  -  42. (2)  Il  Dio  di  Cartesio  ^  il  vero  antecessore  del  Dio  inani- nuito  —  come  lo  chiama  Kant  —  di  Spinoza.  In  Spinoza,  di  Dio non  4^^  conservato  che  il  nome  :  in  Cartesio  gli  ^  dato  il  posto inìi  eminente  nel  sistema,  ma  con  tntto  ciò  al  fondo  h  piuttosto un  doiiina  ammesso  in  Ìovaìì  della  tradizione  che  un  prodotto della  sj)eculazione  tìlosotica.  Dio,  parlando  lìlosofìcamente,  non  è che  un'  ipotesi  destinata  a  dare  una  spiegazione  dei  fenomeni nel  senso  antroimmortistico  ;  ma  la  spiegazione  cartesiana  del mondo  non  è  niente  fatta  in  questo  senso.  Non  potrebbe  dirsi neimucno  che  Dio  in    Cartesio  è  la    causa  del    movimento  con- il  posto  che  Dio  occupa  in  questa  metafisica  non  è  quello che  gli  assegna  la  metafisica  istintiva  del  nostro  spirito  : in  questa  spiegazione,  i  fenomeni  non  vengono  spiegati in  quanto  si  assimilano  ad  altri  fenomeni  pia  familiari. Per  vedere  ciò  più  chiaramente,  dobbiamo  pure  notare in  qual  senso  questa  immutabilità  divina  renda  ragione, per  Cartesio,  delle  leggi  della  natura,  p.  e.  della  immu- tabilità della  quantità  del  movimento.  La  ragione  i)er cui  questa  viene  ammessa  non  è  che  Dio  è  un  essere immutabile,  ma  che  Dio  agisce  di  una  maniera  immida- bile.  Nel  primo  caso  la  spiegazione  potrebbe  essere  ri- condotta al  tipo  della  metafisica  istintiva,  in  altri  ter- mini potrebbe  considerarsi  come  un'assimilazione  dei  fe- nomeni ad  altri  fenomeni  più  familiari;  noi  essendo  fa- miliarizzati col  fatto,  che  una  causa,  restando  lo  stesso, persiste  a  produrre  lo  stesso  effetto,  concepiremmo  l'ef- ficienza di  Dio  come  causa  della  persistenza  del  movi- mento, sul  tipo  di  questo  fatto  familiare  della  nostra esperienza,  e  in  quest'assimilazione  troveremmo  una  spie- gazione conforme  all'idea  primitiva  che  ci  foruiiamo  della spiegazione.  Ma  non  é  a  questo  modo  che  la  intende Cartesio:  l'immutabilità  della  (juantità  del  movimento  è per  lui  im-A  conseguenza  logica  deìhi  immutabilità  dell'a zione  divina  (la  quale  alla  sua  volta  è  una  conseguenza logica  del  concetto  di  Dio).  Se  il  primo  dei  due  fatti  è formcmente  al  concetto  antroimrmotistico  e  ilozoistico,  che  un cominciamento  assoluto  di  movimento  non  può  attribuirsi  cIk; allo  spirito  ;  perchè,  come  Dio  muove  i  corpi  i  creandoli  suc- cessivamente in  posti  diversi  dello  spazio  ;  ciò  che  non  ha  la minima  analogia  con  l'azione  umana.  Tutte  le  prove  di  Cartesio dell'esistenza  di  Dio  non  sono  che  dei  sofismi  artificiuli  ;  le prove  naturali  mancano,  e  sarebbero  anche  incomi>atibili  con la  sua  spiegazione  del  nmndo.  Il  concetto  teologico  non  i-  cosi legato  al  resto  del  sistema  cartesiano  ]>er  dei  legami  orgniiici. ma  per  quelli  puramente  artiliciali  di  una    deduzione   capziosa. ^'.' -  452  —   (iato  come  la  ragione  del  secondo,  ciò  non   è  perchè  si tratti  di  due  fatti,  la  cui  relazione  essendoci  molto  fa- miliare, ci  sembra  perciò  necessaria  e  intelligibile  (come avviene  nelle  spiegazioni  della  metafìsica  istintiva),  ma perchè  si  tratta  di  due  fatti,  o  piuttosto  di  due   propo- sizioni, che  sono  tra  di  loro  nel  rapporto  logico  di  prin- cipio e  di  conseguenza,   in  modo  che  sarebbe  contrad- dittorio di  non  ammettere  il  secondo,  dopo  aver  ammesso il  primo.  L'essenza  di  questa  forma  di  metafisica,  non dobbiamo  dimenticarlo,  consiste  in  questa  logica  artifi- ciosa, per  cui  si  pretende  di   convertire  i  legami  empi- rici e  con^m^ew^?' tra  i  fatti  in  legami  razionali  e  necessari. Perchè  Cartesio  non  è   contento  di    avere   ricevuto dall'esperienza  le  leggi  della  natura,  ma  vuole  stabilirle a  priori?   perchè  non  è    contento  di   sapere  che  i   fatti sono  così,  ma  cerca  anche  una  ragione  che  mostri  che essi  devono  essere  così?  Cioè  evidentemente  per  questa tendenza  innata  del    nostro   spirito,  che  ci  spinge  a  ri- cercare il  perchè,  le  cause  delle  cose,  tendenza  che  non può  essere  soddisfatta  dalla  semplice   osservazione  dei fenomeni,  la  quale  ci  dà  non  le  cause,  ma  solo  gli  an- tecedenti di  sequenze  invariabili.  È  un  fatto  d'esperienza intima  che,  se   noi    riusciamo  ad    immaginarci  che  tra questi  fenomeni  che  P  osservazione  ci  mostra  come  in- variabilmente congiunti,  ma  non  come  connessi,   vi  sia, d'  una  maniera  qualunque,  un  legame   necessario,  cioè tale  che  la  ragione  possa,    indipendentemente  dall'  os- servazione che  li    mostra   congiunti,    comprendere  che essi  devono  essere  congiunti;  allora  la  nostra  aspirazione a    conoscere  il   perchè,  le   cause,  è,  sino  ad  un    certo punto,    soddisfatta.    Ora  noi   non    crediamo    sufficiente d'  aver   costatato    questo  fatto  della    nostra    esperienza intima  :  noi  vogliamo  renderci  ragione  di  questo  fatto, comprendere  il    determinismo    secondo  cui  esso  si  pro- duce,    sapere  quali  sono  i  fatti  più    generali,  ic  leggi 453  — dello  spirito,  a  cui  esso  può  ricondursi.  La  prima  dif- ficoltà, nelle  ricerche  psicologiche  di  quest'ordine,  è, come  abbiamo  già  osservato,  di  comprendere  che  vi  ha qualche    cosa  che  si    deve    ricercare  :    questi    fenomeni della    nostra    intelligenza,    che   si    producono  con  una intera  spontaneità  e  d'una  maniera  pressoché  istintiva, ci  sembrano    delle  cose    afPatte    naturali  e  tali  da    non aver   bisogno  di  alcuna    spiegazione.  Ma   questa  spon- taneità e  istintività  del   fenomeno  è  per  noi  una  i)rova che  si  tratta  d'un'inferenza  incosciente.  In  effetto  questo fatto— che  una  ragione  a  priori,  la  quale    facesse  com- prendere che    i    fenomeni    devono   essere    congiunti   così come  l'osservazione  ci  mostra  che  soìio  congiunti,  ci  da- rebbe una  risposta  alla  quistione  del  perchè,  delle  cause— suppone  r  ammissione  implicita  di  due    principii  gene- rali. 1.  Che  non    basta  di    sapere  che  i    fenomeni  sono invariabilmente  congiunti  (cioè  qual  sono    le  leggi  gè- nerali  della  natura),  ma  bisogna  anche  cercare  di  sapere perchè  questi  fenomeni  sono  invariabilmente  congiunti, ciò  che  implica  la   credenza  che  la  natura  delle  cose  è tale  che  vi  ha  un    perchè    delle    sequenze    invariabili, delle  leggi  primitive  della  natura,  date  dall'osservazione. 2.  Che  una  ragione  a  priori,  che  mostrasse  che  i  feno- meni   invariabilmente  congiunti  devono   necessariamente esserlo,  ci    darebbe  il  perchè  della  loro    congiunzione  : ciò  che   implica,  non  solo  che  la    natura  delle    cose   è tale    che    vi  ha  un  ^perché  delle    congiunzioni    invaria- bili tra  i    fenomeni,  ma  è    anche    tale    che  vi  ha  tra  i fenomeni    un    legame    necessario,    che  la    ragione    può scoprire  a  priori,  e  che  è  il  perchè  della  loro  congiun- zione.   Queste    supposizioni    che  noi    facciamo  implici- tamente   sulla   natura    del    mondo    obbiettivo,    devono essere    fondate  sovra  una  base    empirica,  la  quale,  se non  è  sufficiente  a    stabilire  logicamente  la  validità  di queste   supposizioni,  deve  essere   almeno    sufficiente  a ^  454  — spieo-are  la  loro    origine,  la   loro    presenza  nel    nostro spirito.  In  quanto  alla  prima  delle  due  supposizioni,  noi abbiamo   mostrato  che    questa  base    empirica  deve  cer- carsi nelle  sequenze  più  familiari  tra  i  fenomeni,  cioè che  sono    queste    sequenze  che  ci    hanno  dato  l'idea  di causa   efficiente,    ed  è  da   esse  che    abbiamo    inferito  il principio  che  ogni  fenomeno  deve  avere  una  causa  tale (e  non  semplicemente  un  antecedente  a  cui   esso   segue d'  una    maniera    invariabile).  Ma  anche  per  la   seconda supposizione    la    base    empirica  non  può  cercarsi  altro- ve che    in    queste    sequenze    stesse.    Infatti,    poiché  un legame    necessario  e    razionale,  puramente    logico,    in- trodotto tra  i  fenomeni,  dà    una    soddisfazione    al    no- stro desiderio  di  conoscere  il  perchè  dì  questi  fenomeni, come  la  dà,  (quantunque  ad  un   grado    superiore,    1'  as- similazione   della    produzione   di    questi    fenomeni    alle sequenze    familiari  che  ci  hanno  dato    1'  idea  di    causa efficiente,  se  ne   deve    concludere    che  tra    queste    due forme  sotto  cui  lo  spirito  concepisce  il  perchè  delle  cose, vi  ha  un'anologia,  un  fondo  comune;  che  le  due  forme di  metatìsica  rappresentate  da  queste  due  risposte  date alla   identica    quistione   del   perchè,  si    riattaccano,  al fondo,  a  uno  stesso  processo  del  nostro  spirito.  Il  fatto che  le  soluzioni  della  metafisica  istintiva  (che  spiega   i fenomeni  riconducendoli   alle  causazioni  che  ci  sono  più familiari)   danno  una    soddisfazione  più    completa,  più evidente,  al  nostro  desiderio  di  conpscere  il  perchè,  che le  soluzioni  della  metafisica   apriorista  (che  cerca  d'  in- trodurre fra  le  cause  e  gli  effetti  un  legame  puramente logico),  è  una  conseguenza   necessaria  dell'altro  fatto, che  nel    secondo   caso    l'  assimilazione  dei    fenomeni  al tipo  a  cui  lo  spirito  si  sforza  di  assimilarli  (cioè  a  quelli che  costituiscono  la  base    empirica    dell'inferenza  inco- sciente), è  assai  più    imperfetta  che  nel  primo  caso.  E in  effetto,  come  abbiamo  detto  nel  §.  2,  questo  presup —  455  — posto  della  metafìsica  apriorista,  che  vi  hanno  tra  i fatti  delle  connessioni  necessarie  e  razionali,  non  può essere  fondato  che  sull'esperienza  di  qualche  cosa  come delle  connessioni  necessarie  e  razionali  trai  fatti;  così, non  essendovi  niente  altro  di  simile  nella  nostra  espe- rienza che  le  congiunzioni  molto  familiari  fra  i  feno- meni, è  nelle  causazioni  più  familiari  che  deve  trovarsi la  base  induttiva  di  questo  presupposto,  e  il  tipo  a  cui questa  metafisica  cerca  di  assimilare  le  suo  concezioni sui  rapporti  tra  le  cause  e  gli  effetti. Tornando    ora  a    Cartesio,    noi    dobbiamo  prima  di tutto  rispondere  ad  una  difficoltà.  Le  considerazioni  pre- cedenti tendono  a  mostrare  che,  quando  si  è  persuasi  di avere    scoperto  tra  i    fenomeni,  per    mezzo  di   una  ra- gione a    priori,  una  connessione  necessaria,  ciò  è  come avere  stabilito  tra  questi  fenomeni  una   connessione^  di efficienza  causale.  Ma  i  fenomeni  successivi  che  costitui- scono una  legge  della  natura  possono,  nel  sistema  carte- siano, considerarsi    come    cause  ed  effetti  gli  uni  degli altri?  0  è  piuttosto  Dio  che  in  questo  sistema  è  la  causa unica  di  tutti  i  fenomeni  ?  La    dottrina  delle  cause  oc- casionali di  Malebranche  e  di  altri  cartesiani,  che  nega ogni  rapporto  di  efficienza  causale  trai  fenomeni,  non  è certamente    quella  di    Cartesio  ;    ma  non  vi  ha    dubbio che  nel  suo  sistema  non  vi  sia  qualche  cosa  di  simile, perchè  egli  spiega  tutto,  al  fondo,  per  l'azione  di  Dio. Ora  come  conciliare  ciò  col  concetto  che  Cartesio,  sfor- zandosi di  stabilire  tra  i  fenomeni  dei  legami  necessari e    razionali,  non    intendeva  perciò  che    stabilire  fra  di essi  dei  legami  di  efficienza  causale? Questa  obbiezione  non  è  che  verbale,  e  nasce  da ciò  che  noi  diamo  al  termine  causa  efficiente  un  signifi- cato che  non  è  assolutamente  conforme  all'uso  comune di  questo  termine.  Per  un  rapporto  di  causalità  efficiente \ —  456  — -  457  — noi  intendiamo  un  rapporto  di  sequenza  tale  che  tra  lo antecedente  e  il  conseguente  lo  spirito  possa,  per  espri- merci con  le  parole  di  Hume,  vedere  una  connessione, e  non  semjìlicemente  constatare  una  congiunzione,  com- prendere perchè^  e  non  semplicemente  sapere  che,  il  con- seauente  si  verìfica  verificatosi  l'antecedente.  Questo  ca- rattere  appartiene  ai  rapporti  di  causazione  molto  fa- miliari, e  a  quelli  che  la  metafìsica  immagina  secondo questo  tipo.  La  metafisica  si  distingue  dalla  scienza  po- sitiva, perchè  questa  si  contenta  della  congiunzione,  del chey  mentre  quella  cerca  la  connessione^  il  perchè.  Tutte le  specie  di  connessione  che  la  metafisica  crede  di  aver trovate,  tutte  le  risposte  che  essa  dà  a  questo  perchè^ cadono  per  noi  sotto,  il  concetto  di  causazione  efficiente. Perciò  noi  dobbiamo  talvolta  applicare  questo  termine difformemente  dalla  sua  accezione  più  comune:  ma  noi abbiamo  avuto  bisogno  di  un  termine  generale  per  in- dicare l'oggetto  comune  della  nostra  ricerca,  e  al  tempo stesso  il  legame  comune  di  parentela  che  unisce  tutta una  classe  di  concezioni  metafisiche,  l' identità  fonda- mentale del  processo  del  nostro  spirito  di  cui  esse  sono il  risultato  ;  non  ne  abbiamo  trovato  uno  migliore  che quello  di  causa  efficiente,  ma  siamo  stati  costretti  a  non tenerci  strettamente  al  suo  significato  ordinario.  Secondo questo,  l'antecedente  di  un  fenomeno  per  essere  chia- mato causa  efficiente  di  questo  fenomeno,  deve  esserne V'diìte(iedentii  Incondizionate,  cioè  tale  che  esso  basti  a  pro- durre l'effetto  senza  bisogno  di  un'altra  condizione:  ciò che  nel  sistema  cartesiano  non  può  dirsi  di  alcuna  causa fisica,  poiché,  in  esso,  perchè  l'effetto  segua  la  sua  causa (fisica),  è  necessaria  una  condizione.  Dio;  e  sotto  questo aspetto,  Dio  solo  meriterebbe  il  nome  di  causa  dei  feno- meni. L'uso  comune,  limitando,  così  la  nozione  di  causa efficiente,  ha  in  mira  la  concezione  più  ordinaria  che  la metafisica  se  ne  forma,  che  è  quella  di  un  agente  sup- posto,  conoscibile  o  inconoscibile,  o  di  una  qualità  se- creta supposta  negli  agenti  dell'esperienza,  che  è,  o  sa- rebbe se  si  conoscesse,  l'intermediario    esplicativo  delle sequenze  tra  i  fenomeni.  In  questo  senso,   t'  incondizio- nalità  per  produrre  l'effetto  è  il  carattere  essenziale  di una  causa  efficiente,  quello  che  la  distingue  dai  semplici antecedenti    di    sequenza  invariabili   dati  dall'  osserva- zione; poiché  si  suppone  che  questi  non  siano  gli  ante- cedenti incondizionali  degli  effetti,  ma  che,   perchè  gli effetti  ne  seguano,  sia  necessario  anche  l'intervento  di una  condizione,  la  causa  efficiente.  Ma  noi  avendo  assi- milato a  queste   concezioni   più  ordinarie  della  metafisi- ca, di  agenti  ipoteci  o  qualità  ipotetiche  negli  agenti  co- nosciuti, da  cui  gli  effetti  sono  o  potrebbero  essere  spiegati e  non  semplicemente  a  cui  essi  seguono  invarifibilmen- te;  avendo  assimilato,  dico,   a  queste  concezioni  quelle che   la   metafisica   apriorista   si  forma  sulla  produzione delle   cose,   sui  rapporti  tra  le   cause  e  gli    effetti;  non possiamo  riconoscere  perciò  che  un  carattere,  come  es- senziale al    rapporto  di    causazione    efficiente,  e    distin- guente questo   da    quello  di  una  semplice  sequenza  in- variabile,   cioè  che  questo  rapporto  sia  immaginato  sul tipo,  più  o  meno  fedelmente  imitato,    delle    causazioni familiari  da  cui  ci  viene  1'  idea  di  causazione  efficiente. Così,  se  non  si  volesse  dare  al  termine  causa  efficiente che  il  significato  ordinario,  il  principio  che  ogni  effetto ha  una  causa  efficiente  (e  non  semplicemente  un  ante- cedente a  cui  esso  segue   invariabilmente),  non  sarebbe il  vero  presupposto  fondamentale  di  ogni    speculazione metafisica  relativa    alla    quistione    del  perchè,    ma,  per potere    riferirvi    tutte    le    speculazioni  di    quest'  ordine, noi  dovremmo  esprimere  questo  presupposto  d'una  ma- niera più    generale,    per    es.    cosi  :    Bisogna  assimilare, più   che  sia  possibile,    le    nostre    concezioni  sulla  produ- zione delle  cose,  sui  rapporti  tra  le  cause  e  gli  eff'etti,  ai —  458 -  459  — rapporti  di  sequenza  più  familiari.  Tale  è  al  fondo  la  vera espressione  di  questa  premessa  incosciente,  naturale  al nostro  spirito,  da  cui  egli  parte  per  tirarne  tutti  i  con- cetti metafìsici  relativi  alla  quistione  del  perchè  :  il  prin- cipio ogni  fenomeno  ha  una  causa  efficiente  (nel  senso ordinario)  ne  è  l'applicazione  più  ordinaria,  ma  non  ne è  che  un'applicazione  particolare.  Ora  si  deve  notare che  questa  assimilazione  alla  sequenze  familiari,  che  rie- sce a  fare  la  metafisica,  non  è  quasi  sempre  che  appros- simativa ed  imperfetta:  ciò  non  è  soltanto  perchè  la  con- nessione che  essa  riesce  a  stabilire  tra  le  cause  e  gli effetti  non  sembra  mai  cosi  evidente,  cosi  naturale,  co- me sembra  quella  delle  causazioni  familiari  (o  se.mbrava almeno  nel  periodo  prescentifico  della  nostra  vita  intel- lettuale), ma  anche  perchè  la  condizione  rigorosa  che  una causazione  efficiente  dovrebbe  realizzare  per  essere  una causazione,  cioè  quella  di  costituire  ma  sequenza  costante e  incondizionale,  non  è  il  più  spesso  adempiuta.  Per  es. nella  metafisica  teologica  il  rapporto  tra  la  causa  efficiente e  1  cfi'etto  non  è  propriamente  una  sequenza-^  perciò  questa metafisica  non  dovrebbe,  come  fa,  concepire  Dio  come esente  dal  cangiamento  e  dai  rapporti  di  tempo.  Nel cartesianismo  e  in  altri  sistemi  aproristi  la  causazione efficiente  che  cerca  di  stabilirsi  tra  i  fenomeni,  è  una seguenza  costante,  ma  non  è  incondizionale.  Nella  forma di  metafisica  di  cui  parleremo  nel  capitolo  seguente,  la distanza  dal  tipo  è  anche  più  grande  :  tra  la  causa  ef- ficiente e  l'efietto  non  vi  ha  più  un  rapporto  di  sequenza; causa  ed  effetto  non  sono  nel  tempo,  non  sono  dei  fe- nomeni ;  alla  sequenza  cronologica  si  sostituisce  una sequenza  puramente  logica,  ideale,  una  anteriorità  e posteriorità  di  natura  (1). (1)  lo  devo  ricouoscere  un'altra  improprietà  iiell'uso  che  ho fatto  della  parola  causa.  Io  ho  considerato  tutte  le  leggi  della natui'u  di  Cartesio    indistintamente  come  leggi    di    causazione, e; <i  ■ Vi  hanno  dunque  nel  sistema  cartesiano  due  specie di  causazione,  l'una  fra  le  cause  e  gli  effetti  della  na- tura, e  l'altra,  più  vicina  al  concetto  ordinario  di  causa efficiente,  secondo  cui  Dio  è  la  causa  universale  dei  fe- nomeni. Ora  il  cartesianismo  non  poteva  mancare  di  sot- tomettere anche  questa  seconda  causazione  al  processo essenziale  della  sua  forma  di  speculazione,  cioè  di  sta- bilire tra  la  causa  e  1'  effetto  una  connessione  logica. Perchè  Dio  crea,  produce  i  fenomeni  ?  Naturalmente perchè  tale  è  la  sua  volontà,  poiché  nel  cartesianismo, sinché  esso  si  muove  nell'orbita  dell'ortodossia,  il  mondo quantunque  ve  ne  sia  alcuna  che  non  si  ^  abituati  a  considerare così.  Tale  t^  la  legge  d'  inerzia  (che  un  c()rj>o  persiste  nel  suo stato  di  quiete  o  di  movimento,  sinclic  una  forza  esteriore  non lo  l'accia  cangiare  da.  questo  stato).  Ma,  non  parlando  della prima  parte  della  legge  (cioè  che  un  corpo  in  quiete  persisterà nella  quiete)  —  la  quale  d'altronde  non  lia  alcun  importanza  al nostro  punto  di  vista,  perchè  esprimendo  un  fatto  col  quale siamo  molto  familiarizzati,  non  sollecita  il  metalìsico  apriorista a  cercarne  la  ragione  —  non  vi  ha  alcun  motivo  di  negare  alla seconda  parte  il  nome  di  legge  di  causazione,  tranne  forse quello  —  che  è  anch'  esso  un  prodotto  della  metafisica  aprio- rista —  di  volerla  stabilire  come  implicitamente  contenuta  nel principio  stesso  di  causalità.  Il  movimento  è  un  cangiamento,  un cangiamento  da  un  luogo  ad  un  altro  :  esso  ha  quindi  una  causa, e  l'azione  d'una  forza  esteriore  non  merita  più  il  nome  di  causa che  il  movimento  anteriore  del  corpo  stesso.  È  certo  che  noi possiamo  distinguere  nel  movimento  di  un  corpo,  liì)ero  da  ogni intìuenza  esteriore,  un  prima  e  un  jjoi  :  tra  questo  prima  e  questo poi  vi  ha  un  rapporto  delìnito,  e  questo  è  una  sequenza  invaria- bile e  ineondizionale.  Per  conseguenza  il  princi[>io  metalìsico  della causalità  effieieiite,  del  pari  che  il  principio  positivo  della  causalità tìsica  o  uniformità  di  sequenza,  si  applica  tanto  nel  caso  del corpo  che  si  muove  jier  rimi>uLsione  d'un  altro  (o  per  (qualsiasi altra  azione  esteriore),  ([uanto  in  <j[uello  del  corpo  che  si  muove per  la  forza  d'inerzia. -  460  - non  è  una  conseguenza  necessaria  di  Dio  (come  lo  di- viene in  Spinoza),  ma  un  effetto  del  suo  libero  arbitrio. Ma  perchè  dalla  volontà  di  Dio  segue  la  produzione  dei fenomeni  ch'egli  vuole?  Perchè  vi  ha  tra  l'una  e  gli altri  un  rapporto  logico;  una  potenza  infinita  essendo racchiusa  nel  concetto  deìV  Essere  perfettissimo,  sarebbe una  contraddizione  che  Dio  volesse  la  produzione  dei fenomeni,  o  (juesti  non  si  producessero  (V.  più  giù  su Malebranche).  Di  più,  perchè  Dio  produce  questi  tali fenomeni  ?  Senza  dubbio  ancora  perchè  tale  è  la  sua volontà.  Ma  (^ui  Cartesio  non  si  contenta  di  questa  ri- sposta ;  va  più  oltre,  trova  una  risposta  più  radicale, più  filosofica.  Deducendo  le  leggi  della  natura  dagli  at- tributi di  Dio,  inseparabili  dal  suo  concetto,  Cartesio, nel  tempo  stesso  che  introduce  tra  le  cause  e  gli  effetti fisici  un  ra|)porto  logico  e  necessario^  introduce  pure  un rapporto  logico  e  necessario  tra  la  causa  iperfisica  di  tutti i  fenomeni  e  questi  fenomeni  stessi.  Che  la  natura  sia tale  quale  essa  è,  in  ciò  che  vi  ha  in  essa  di  essenziale, nelle  sue  leggi,  è  una  conseguenza  necessaria  dell'  es- senza della  causa  che  l'ha  prodotto  ^1).  Inoltre  la  forma stessa  del  mondo,  il  cosmos,  è  pure  logicamente  connessa con  l'essenza  della  Causa  universale,  poiché  Cartesio pensa  che  questa  forma,  nelle  sue  linee  generali,  sia  una conseguenza  necessaria  delle  leggi  ultime  della  natura  (2). (1)  «...  io  feci  vedere  quali  erano  le  leggi  della  natura;  e senz'appoggiare  le  mie  ragioni  sopra  alcun  altro  principio  che .sulle  perfezioni  intinite  di  Dio,  cercai  di  dimostrare  tutte  quelle di  vnì  M  potesse  avere  qualche  dubbio  e  di  far  vedere  eh'  esse souo  taii  che  ancorché  Dio  avesse  creati  piti  mondi,  non  ve  ne potrebbe  essere  alcuno  in  cui  esse  mancassero  di  essere  osservate  ». Met.  5  parte,  i)ag.  170. (2)  Coniormemente  allo  spirito  della  lilosotìa  apriorista  (vedi r  appendice  a  questo  capitolo),  Cartesio  deve  dedurre,  non  solo Ir   leggi  dei  cangiamenti,  cioè  le  leggi  di  causazione,  ma  tutte —  461  - Che  lo  stabilire  questo  rapporto  logico  necessario  tra  il mondo  e  la  causa  prima  sia  per  se  stesso  un  obbietti- vo della  speculazione  cartesiana  (1),  possiamo  inferirlo le  uniformità  della  natura.  Egli  non  potrebbe,  per  esempio, ammettere  come  un  dato  primitivo,  iiideducibile,  dei  generi  di- stinti di  corpi  elementari,  ovvero  questa  uniformità  nella  di- stribuzione della  materia  e  del  movimento  che  costituisce  il cosmos  :  tutto  ciò  deve  essere  dedotto,  e,  secondo  i  principii della  sua  spiegazione  della  natura,  dedotto  dalle  leggi  mecca- niche. Datemi,  dice  Cartesio,  materia  e  movimento  ed  io  farò il  mondo.  Di  là  l'idea  di  dedurre  un  mondo  simile,  nei  suoi tratti  generali,  a  questo  mondo  della  nostra  esperienza,  dalla sejuplice  supposizione  che  «  Dio  creasse  in  qualche  parte,  negli spazi  immaginarli,  abbastanza  materia  per  comporlo  e  agitasse diversamente  e  senz'ordine  le  xliverse  parti  di  (questa  materia, in  modo  da  comi)orne  un  chaos  tanto  confuso  quanto  i  poeti  lo potrebbero  tìngere  ;  e  poi  non  facesse  altro  clic  prestare  il  suo concorso  ordinario  alla  natura,  e  lasciarla  agire  secoucb»  le leggi  ch'egli  ha  stabilite»,  (v.  Disc,  del  metodo  (t.  1),  p.  I(i9  e sgg.,  e  cfr.  Il  mondo,  e.  6,  (t.  4),  p.  249  e  Princ.  della  Jìlos., 3.  parte,  n.  47.  Cfr.  pure  Met.  pag.  194-195).  Espresso  in  termini generali,  il  concetto  di  Cartesio  è  che,  comunque  s'immagini  lo stato  iniziale  del  mondo  —  qualunque  siano  queste,  come  le  chia- ma Min,  collocazioni  primitive,  questi  antecedenti  ultimi,  da cui,  siano  essi  vicini  o  lontani,  ogni  s])iegazione  del  presente deve  partire  —  si  imo  dimostrare  che.  per  un  effetto  immanca- bile delle  leggi  della  natura,  esso  deve,  in  tutti  i  casi  ridursi a  poco  a  poco  all'ordine  che  noi  vi  vediamo  attualmente.  Que- st'ordine si  può  duncpie  dedurre  dalle  semplici  leggi  della  mec- canica, ed  è  perciò,    come    queste,    necessario    e    dimostrabile  a priori. (1)  Ma  noi  troviamo  anche  in  Cartesio  una  dottrina  che sembra  in  contraddizione  con  quest'idea,  ch'egli  cerchi  di  sta- bilire un  rapporto  necessario  tra  la  natura  del  mondo  e  quella di  Dio.  È  la  dottrina  che  le  verità  necessarie  ((piali  le  verità matematiche  e  sinanche  il  principio  di  contraddizione)  dipendono dall'arbitrio    di    Dio    (dottrina  che  condusse  Cartesio  al  circolo -  462  — dal  fatto  che  l'autore  suole  descrivere  il  suo  metodo  fi- losofico   come    una    deduzione    deijli    effetti    dalla    loro vizioso,  taute  volte  rimproveratogli,  di  voler  provare  la  validità del  criterio  dell'evidenza  per  la  veracità  di  Dio.  dopo  aver  pro- vato resistenza  di  Dio  fondandosi  sulla  validità  di  questo    cri- terio :  e  infatti  se  le  verità  necessarie   di}»endono   dal   volere  di Dio,  esse  non  portano  più  in  se  stesse,  nella    loro   evidenza,   la prova  della  loro  obbiettività,    ma    bisogna    (gualche  altra  prova per  sapere  che  Dio  ha  stabilito  effettivamente  nella  natura  delle cose  quelle  verità  piuttosto  che  le  loro  contrarie).  Come  conciliare questa  dottrina  con  lo  spirito  della  specuhizione  cartesiana,  che è  uno  sforzo  d'introdurre  dappertutto  tra  le  cose  il  legame  della necessità,  di  convertire  le  verità  eontingentl    in    verità  necessa- rie ì  E  nondimeno,    se    si    riflette  un  poco,  si  vedrà  che  questa stessa  dottrina  non  è  che  una  conseguenza  indiretta    di    ([uestosforzo,  ed  ha  la  sua  ragione  precisamente  in  questa  conversione delle  verità    contingenti    in    verità    necessarie,  che  è  il  risultato del  metodo  cartesiano    come   d'ogni  filosofia  apriorista  in  gene- rale. Così,  in  effetto,  si  introduceva  una  fatalità  nell'azione  di- vina, che  non  poteva  mancare  di  sollevare,  dal    j)unto  di  vista della  teidogia,    gli    scrujKdi    di    una  coscienza  così  timida  come quella  <li  Cartesio.    Per    conciliare    la    sua    filosofia  con    la    sua teologia,  Cartesio  dichiara  che  il  necessario  stesso  ò  rai>porto  a Dio  arbitrario,  e  così  la  libertà    di    Dio,    nella    sua    azione    sul mondo,  è  salva,  quantun<iue  tutto,   nella  natura,  sia  necessario. Cartesio  teologo  sem]>ra  così  distruggere  l'opera  di  Cartesio  fi- losofo :  ma  la  contraddizione  tra  il  teologo    e    il  filosofo  non  è, se  ben  si  guarda,  che  apparente.    Sia    i>urc   che    le    verità    cosi ilette  necessarie  —  ([uali    lo    verità  matematiche  e,  secondo  Car- tesio,  anche    le    verità    fisiche  —  dipendono  dall'arìjitrio  divino, e  non  sono    per    L'on8C^\i(iìì7Ai(issoluta niente  necessarie:  ciò  non toglie  che  questa  stessa  necessità   relativa    che    loro  non  si  i)uò negare  —  l'impossibilità  <li  concepire   il   loro  contrario,  il  senti- mento che  accom])agna    la    loro    concezione,    per    cui    sentiamo, non  solo  che  esse  soìio  certamente,  ma  anche  che  devono  essere —  non  sia  la  necessità    più    alta   che  noi  possiamo  immaginare. Questa  necessità,    voglio    dire,    sarà    sempre  superiore  a  quella 463 causa  (1),  e  considera  questa  sua  deduzione  del  mondo da  Dio  come  l'applicazione  dell'ideale  di  una  perfetta conoscenza,  che  consisterebbe  appunto  a  conoscere  gli  ef- fetti per  le  loro  cause  (2).  Il  procedimento  di  Cartesio, che  comincia  per  stabilire  a  priori  la  causa  prima  (ar- gomento ontologico),  poi  deduce  da  questa  le  cause  se- co7^c?e— com'egli  chiama  le  leggi  della  natura—e  da  que- ste deduce  infine  gli  effetti  ultimi— l'insieme  dei  fenome- ni, il  mondo — è  il  vero  tipo  di  quel  metodo  che  Gioberti chiamava  ontologico  (ed  è  singolare  che  questo  filosofo bistratti  Cartesio  quale  antesignano  di  un  metodo  tutto contrario);  ed  è  per  questo  procedimento  che  Cartesio  è il  vero  precursore  di  Spinoza,  la  base  del  cui  sistema è  il  principio  che  l'ordine  e  la  connessione  delle  cose è  lo  stesso  che  l'ordine  e  la  connessione  delle  idee,  que- st'ordine e  connessione  essendo  un  ordine  e  connessione logici^  in  cui  il  rapporto  tra  la  causa  e  l'effetto  s'inden- tifica  col  rapporto  tra  il  principio  e  la  conseguenza. che  api)artiene  ad  una  verità  purann^nte  emj>irica.  specialnjente ad  una  di  «quelle  che  soiu>,  non  dei  risultati  delle  nostre  esperienze f Hit,  familiari,  ma  semplicemente  delle  acquisizioni  della  scienza. Ora  una  tale  necessità  basta  allo  scopo  della  metafisica  apriorista. la  quale  non  può  aspirare  che  ad  introdurre  nelle  verità  em]>i- riche  —  e  propriamente  in  quelle  tra  queste  verità  che  non  sono i  risultati  dell'esperienza  più  familiare  —  un  grado  di  necessità uguale  a  quello  che  appartiene  alle  verità  che  chiamiamo  necessarie (1)  V.  Princ.  della  filos.,  Prefaz.,  t.  8.  pag.  10,  12,  14;  Met. t.  1,  pag.  178,  194-195;  Reg.  per  la  direz  dello  spir.,  Keg.  fi, ]).  227-228,  ecc.  (Nell'ultimo  luogo  indicato  gli  oggetti  della  no- stra conoscenza  sono  distinti  in  assoluti  e  relativi:  l'assoluto  è ciò  che  deve  essere  anteriormente  conosciuto  per  i)oter  conoscere il  relativo,  la  conosc^enza  del  secondo  si  deduce  da  «quella  del primo,  ma  non  reciprocamente;  in  ([uesta  classazione  delle  cose la  causa  ò  ]>osta  nella  classe  delVassolnto.  l'efietto  in  quella  del relativo). (2)  V.  Principi  della  filosofia,  pag.  79,  ibid.  pag.  118,  ecc. J  « —  464  — .     Non  vi  ha  dubbio  che,  considerando  il  sistema  car- tesiano come  una  spiegazione  della  natura,  il  vero  prin- cipio di  questo  sistema  non  sia  il  concetto  di  Dio,  1  ar- o^omento  ontologico.  In  effetto  mentre  la  prova  a  priori di  Dio  non  suppone  alcuna  verità  preconosciuta,   tutte le  verità  che  noi  conosciamo  sulla  natura   suppongono la   preconoscenza  di  Dio,  e,  come  notammo,  affinchè  que- ste verità  siano  necessari,  e  a  priori  (cloche  sovratutto premeva  a  Cartesio  di  stabilire),  la  preconoscenza  di  Dio quale  essere    necessario  e  dimostrabile  a  priori    Ciò  ri- sulta  anche  dal  principio,  sì  spesso  inculcato  da  Car  e- sio     che  la  conoscenza    dell'  effetto    presuppone    que   a della  causa,  e  non  reciprocamente  la  conoscenza    della causa  quella  dell'effetto.  Perchè  dunque  Cartesio  dà  come il  primo  principio  della  sua  filosofia,  don  il  concetto  di Dio  e  r  argomento   ontologico,  ma  il  cogito  ergo  sum  . Ciò  indica  che  la  spiegazione    della    natura,  la  ricerca del  perchè,  non  è  il  solo  motivo  deUa  speculazione  car- tesiana. E  in  effetto,  è  chiaro,  dalla  maniera  in  cui  Gar tesio  espone  i  precetti  del    suo  metodo,    che    vi    ha  in questo  filosofo  un'altra  preoccupazione,  oltre  quella  eli rendere  intelligibile  l' incatenamerito    causale  per  delle rao-ioni  a  priori  :  è  quella  di  portare  in  tutto  il  sistema detle  conoscenze  umane  il  più  alto   grado   di    evidenza che  lo  spirito  possa  concepire.  Tra  le  verità  concernenti il  reale    l'esistente,  la  più  evidente,  la  più  immediata,  e la  realtà  del  fatto  della  coscienza:  l'argomento  ontolo- o-ico- l'implicazione  dell'esistenza  nel  concetto  di  Dio  - era  secondo  Cartesio  una  verità  egualmente  evidente  e immediata,  ma  la  sua  predilezione  per  questo  sottile  so- fisma non  poteva  impedirgli  di  sentire    che  la  sua  evi- denza non  era  cosi  luminosa  (1)  da  poterla    presentare (1)  V.  Medita/.,  t.  l;  1).  318;  Ki^p.  alle  prime  obbiez.   t.  1. lu'ò'Jb,  Kisp.  alle  secomlc  obbiez.  t.  1.  pag.  461. 465 alla  prima  entrata  in  una  filosofia  che  si  dava  per  la realizzazione  d'un  metodo  aspirante  a  conseguire  la  j)iù alta  evidenza  che  lo  spirito  possa  proporsi  per  modello. Per  conseguenza  Cartesio  segue  quest'ordine;  prende per  punto  di  partenza  il  fatto  della  coscienza  —  che  in verità  è  il  solo  punto  da  cui  lo  s])irito  i)ossa  partire  — e  fermata  la  realtà  del  fatto  della  coscienza  e  del  me  il), si  affretta  ad  andare,  per  dir  così,  all'incontro  dell'argo- mento ontologico,  costruendo  altre  prove  dell'esistenza  di Dio  che  non  presuppongono  altra  cosa  che  l'  esistenza del  pensiero  e  del  me,  per  fiancheggiarne  la  prova  a priori,  della  (|uale  gli  sembrano  avere  un'evidenza  più appariscente  :  e  allora  tutte  le  verità  eh'  egli  andrà  a dedurre  da  Dio  non  solo  saranno  necessarie  e  a  j)riori (ciò  a  che  sarebbe  bastato  il  solo  argomento  ortologico), ma  riposeranno  sopra  una  base  di  un'evidenza  non  in verità  superiore  (perchè  l'  argomento    ontologico    ha  la (1)  Il  cof/ito  erf/0  suni  inm  r  seinpliceiiuìiite.  ('oiiic  talvolta si  è  (letto  .  la,  costcìtazioiie  delln  iii(lii1)itabilit;i  delh»  realtà  <!<'! fatto  (Iella  eovsciciiza.  La  ]H*o])Of5Ì/ioiie  io  sono  iioii  ('si)riiiie  sol- tanto ])er  Cartesio  la  realtri  (l(u  diiti  (leires])erieiiza  iiitei'iia,  ma coiitieiK*.  inoltre  ([uest'atterinazi(nie  —  che  non  «'  lui  dato  della esperienza  interna,  ma  nn' inferenza .  ([nantnii(j[ne  s]M»ntanea. dello  s])irito  —  :  Io  souo  nna  sostanza  (ciò*'  vi  lia,  in  me  una vosa  [jcnnaticnte,  di  cni  ([iiesti  dati  l'n;Li\i>itivi  deircspcrHiiiza  in- terna, sentimenti,  ])ensi(M'i,  eee.,  sono  i  modi  di  ('ss(M-e  —  et'r. Append.  alla  I.  )>arte  eap.  2).  V.  Ris)».  alla  2.  e  alla  :i.  ohhiez. di  llobhes,  t.  1.  p.  470-175.  Princ.  della  lìlos..  n.  S,  li.  (JO ()>ai'te  1).  Met.  1.  15S,  (h-c.  Qnesta  secomla  atiermazione  non  <> così  indubitaldle  come  la  realtà  del  tatto  della  cos(»enza:  ma  <> nna  di  (pieste  altermazioni  spontanee  del  nostro  s|>iiito.  clic ([nantnn«ine  siano,  dal  pnnto  di  vista,  in  cni  noi  ci  ]»oniamo. d'una  validità  (d)biettiva  pin  che  contestabile,  haum»  nondimeno nn'evidenza  sahhirtticd,  che  è  incom])ai'aÌMlmeiite  sni)eri(H-c  a (juclla  (-he  può  parere  di   avere  nn   semj>lice  sotisma  a.rli1ìri<tU. —  46(ì 467 più  alta  evidenza  possibile),  ma  più  incontestabile.  L'i- deale di  evidenza  che  Cartesio  si  propone  è,  lo  sappiamo, un'  evidenza  tale  che  lo  spirito  non  solo  sia  certo  della verità,  nia  che  anche  non  possa  concepire  la  possibilità del  contrario  :  questa  evidenza  si  chiama  matematica, perchè  non  si  trova  eh.',  in  cpiesta  scienza  e  non  mai nella  scienza  del  reaUr,  ma  essa  si  chiama  pure  nietati- sica,  perchè  i  metafìsici  hanno  supposto  che  una  cono- scenza perfetta,  assoluta,  del  reale  deve  (  o  dovrebbe) essere  fornita  di  questo  o-enere  di  evidenza. Questa  supposizione  dei  metafisici,  e  il  conseguente sforzo  di  apportare  nella   conoscenza    del    reale    questo g-enere  di  evidenza,  che  è  come  un   epifenomeno   della metafisica    apriorista  (il  fenomeno    essenziale  di  questa metafisica  essendo,  come  abbiamo  detto,  lo  sforzo  d'in- trodurre tra  i  fatti  dei  legami  razionali  e  necessari),    è, sino  ad  un  certo  ])unto,  indipendente  dalla  ricerca   del jjerchè,  ma  è  una  conseguenza  del  principio  stesso  che è  il   presui)posto  di  una  tale  ricerca.  Questo    presuppo- sto ^  che  dobbiamo  guardarci  d'immaginare  come  una regola  coscientemente  annnessa  dal  metafìsico,  quantun- que tutte  le  sue  inferenze  si  facciano  secondo  questa  re- gola, di  cui  egli  non  ha  coscienza,  come  avviene  in  tutte Te  inferenze  incoscienti  che  fa  il  nostro  spirito— potrebbe, come  abbiamo  detto,  formularsi  così:  Bisogna  assimilare, più  che  è  possibile,  le  nostre  concezioni  sulle  connessioni tra  i  fenomeni  in  generale  a  quelle    connessioni    tra    i fenomeni    che  ci  sono  le  più   familiari.  Il  processo    im- piegato dalla  metafìsica  apriorista  per  fare    quest'  assi- milazione è,  lo  sappiamo,  d'  imitare  la  forma  di  queste connessioni  familiari,  quali  oggetti  della   nostra    cono- scenza. Orn  questa  forma  non    consiste    semplicemente in  ciò  che  (jueste  connessioni  ci  appariscono  come  fornite di  un'evidenza  intrinseca,  razionale,  e  come  necessarie, ma  anche  in  ciò  che  esse  ci  sembrano  avere  un  grado i di  evidenza  superiore  a  quella  delle  acquisizioni   scien- tifiche, e,  in  una  parola,  di  tutti  gli  altri  rapporti  tra i  fenomeni  con  cui  non  siamo  cosi  familiarizzati   come con  esse.  Che  si  paragoni  infatti  questa    proposizione  : Vimpulsione  è  una  causa  del  ììiovimento,  con  questa  :    / corpi  esercitano  un  attrazione  fra  di  loro,  o  con  quest'al- tra :  il  calore  dilata  i  metalli,  o  con  qualsiasi  altra  che  non esprima  dei  fatti  con  cui  noi  siamo,  sin  dall'infanzia,  mol- to familiarizzati.  Questa  evidenza  superiore  che  sembra appartenere  alle  proposizioni  esprimenti  dei  fatti  che  ci sono  estremamenti  familiari,  è  una  conseguenza  neces- saria delle  leggi  della  credenza;  perchè  la  forza  dei  le- o-ami  che  associano  le  nostre  idee,  se  pure  non  è,  come vuole   Spencer,  il  fondamento  unico  della  credenza,  è certamente  almeno  uno  di  questi  fondamenti.  Cosi  questi rapporti  più  familiari  avendo,  per  la  più  grande  ripeti- zione   delle    esperienze,    determinato  nel  nostVo  spirito delle  associazioni  più  forti  —  tanto  forti  da  essere  pres- soché   inseparabili  -  essi   ci  sembrano    necessariamente avere  un'evidenza  più  grande.  Al  fondo  questi    tre  ca- ratteri,  la  necessità,  V  evidenza  intrinseca,  il  grado  su- periore di  evidenza,  non  sono  che  tre  aspetti  di  uno  stesso fatto,  che  è  a})punto  l'associazione  più  stretta  tra  le  idee. Questi    tre  caratteri  esendo  inseparabili  fra  di  loro,  sia che  il  legame  tra  le  idee  debba   spiegarsi  per   una   ne- cessità primordiale,  innata,   della    nostra    intelligenza, sia  che  debba  spiegarsi  per  la  estrema  frequenza  delle esperienze,  il  metafìsico  apriorista,  per  lo  stesso  mezzo per    cui    imita   la  necessità  e  la  razionalità  dei   rapporti più  familiari,  ne  imita  al  tempo  stesso  il   grado    supe- riore di  evidenza.  Non  vi  sarebbe  bisogno  di  distinguere questi  tre  aspetti  sotto  cui  può  considerarsi  l'imitazione del  metafìsico  apriorista,  se  l'ultimo  di  essi  non  avesse la  conseguenza  inevitabile  di  estendere  Vapriorismo  al di  fuori  del  terreno  della  ricerca  del  perchè^   del  nexus rÌÉIIIiiiMiÌi£K —  468   - —  469 tra  i  fenomeni.  In  effetti,  ammesso  una  volta  che  (luesto orarlo  superiore  di  evidenza— che  non  si  trova  che  nelle verità  a  priori,  e  non  mai  nelle  verità  empiriche,  tranne in  quelle  clie  si  riferiscono  a  dei  fatti  estremamente  fa- miliari -  deve  trovarsi  nei  rapporti  più  g-enerali    tra    i fenomeni,  nelle  leg-jii  della  natura;  allora  si  è  introdotto nelle    scienze  del  reale  un  tipo   di  evidenza  che  non    e proi)rio  se  non  alle  scienze  che  non  hanno  per  og-getto l'esistenza,  «luali  sono  le  matematiche.  Per  conseguenza questo  tipo  di  evidenza  diviene  un  criterio,  non  in  que- st' ultima    classe    di    scienze    soltanto,  ma  anche    nelle scienze  del  reale,  criterio  a  cui  tutte  le  conoscenze  sul reale  naturalmente  si  misurano,  anche  che  non  abbiano per   oggetto  le  connessioni  generali  dei  fenomeni.  Cosi 1'  evidenza  matematica,  cioè  o  intuitim  o  dimodntUm, diviene  il  sinonimo  di  certezza  rigorosa,  elevando  per conseguenza  la  deduzione  a  mezzo  unico    per    ottcmere una  conoscenza   ri-or„sa  (di  ciò  che  non  è  d"  una    evi- denza intuitiva),  e  rigettando  rinduzione  o  lasciandoUi un  posto  subordinato  .  perché  V  evidenza  che  può  dare non  è  r  evidenza    dimmtmUra,    matematica.  Ne  segue che  allo  scopo  primario  della  metatisica  apriorista-d^in- trodurre  tra  i  fenomeni  dei  legami  razionali  e  necessarii- se  ne  aggiunge  un  altro  secondario,  (juello  di  apportare, per  quanto  sia  possibile,  in  tutto  il  sistema  delle  cono- scenze una  evidenza  superiore  airiiiduttiva,  cioè  l'evi- denza dhnostmtwa:  e  che  il  metodo  di  questa  metahsica non  si  limita,  nella  sua  applicazione,  alla  sola  deduzione delle  connessioni  generali  tra  i  fenoiiieiii. Cos'i,  per  provare  eie  che  gli  sta  a  cuore  di  stal)i- Lire  d"  una  maniera  rigorosa,  Cartesio  non  cerca  altri argomenti  che  dimostrati  ri.  È  cosi  che  fa  i)er  l'esistenza di'^Dio,  dando  1'  esemiiio  ai  metafisici  posteriori.  I  me- tafìsici,  in  effetto,  ])er  provare  l'esistenza  di  Dio,  figli argomenti  induttivi— quantun(|ue  gli  argomenti  naturali, i  soli  che  possano  condurre  l'uomo  ad  ammetterla,  non siano  che  induttivi  —  hanno  .sempre  preferito  degli  argo- menti dimostrativi— ì  quali  non  sono  che  semplici  sofismi artificiali  —.Fj  un'applicazione  del  principio,  ammesso esplicitamente  o  implicitamente  da  quasi  tutti  i  meta- fìsici, che  la  vera  evidenza,  l'evidenza  rigorosa,  non  è che  l'evidenza  matematica,  diniostratica. Io  ho  creduto  dovermi  estendere  alquanto  su  Car- tesio,  perchè  era  necessario  di  fermare  1'  attenzione sovra  un  esempio  particolare,  per  mostrare  i)iù  chiara- mente il  carattere  g'enerale  della  forma  di  metafisica  di cui  ci  occupiamo  nel  presente  capitolo  :  dei  fìlosofi  po- steriori basterà  di  dirne  quanto  occorrerà  per  far  vedere, mostrando  la  (]uasi  unanimità  con  cui  i  filosofi  hanno ammesso  il  principio  di  questa  metafìsica,  che  si  tratta realmente  di  un  sofisma  a  priori  del  nostro  spirito,  e per  indicare  i  diversi  svilu])i)i,  di  cui  questo  j)rincipio è  suscettibile. ^.  4.  Malcìrraììcìte.  Il  metodo  è  quello  di  Descares : il  mezzo  per  conoscere  le  cose  è  sovratutto  di  contem- plare le  nostre  idee,  di  compararle  fra  di  loro  per  ve- defne  i  rapporti  (1).  Noi  troviamo  anche  in  Malebran- che —  ma  non  è  una  novità  introdotta  da  lui  --•  la  regola fondamentale,  alquanto  vagn,  del  metodo  cartesiano, che  i)one  come  criterio  della  verità  la  concezione  chiara e  distinta,  enuìiziata  sotto  una  forma  più  precisa  :  Si può  assicurare  (V  tuia  cosa  ciò  che  si  concepisce  chiara- ìnente  essere  racchiuso  nella  sua  idea  (2),  enunziato  che esprime  più  esattamente  lo  spirito  di  questo  metodo, che  è  di  cercare  le  leggi  delle  cose  nell'  esame  delle nostre  idee    piuttosto    che    nelT  osservazione   delle  cose (1)  r.   Hic.   (U'ìh(  ver.,   1.   (>    Del  metodo.  2  i)artc  e.    1.   1  par- te e.   1.   1.  ^.   parto  1.  e.   4.   11.   ecc. (2)  V.    Hi  e.   fìcUa    rrr.,    l.   4.   e.   1. -  470  — stesse.    Questo    metodo,  per  dir    così,    introspettivo  dì cercare  la  verità  ha  in  Malebranche  una  giustificazione nella  sua  dottrina  della  visione  in  Dio,  della  intuizione intellettuale  del   Vero  obbiettivo  —  dottrina  che  si  vede spesso  legata,  com'è  naturale,  alV  apriorismo,  e  di  cui diremo  altrove  come  si  conforma,  nella  sua  origine,  al processo  psichico  o^enerale,  da  cui  risultano    i    concetti metafisici —  :  la  corrispondenza  tra  il  pensiero  e  laVealtà viene   spieg-ata,    ammettendo   che    questo    pensiero,  in cui  si  cercano  le  leg'g-i  delle  cose,  è  il    pensiero  stesso di  cui  le  cose    sono  il    prodotto  (1).  Il    primo    principio della  metafisica  apriorista  —  che  tra  la  causa  e  l'effetto deve  esservi  un  legame  necessario  e  conoscibile  a  priori-^ si  trova  nettamente  espesso  in  Malebranche,  e  posto  in rapporto    con   la    dottrina    capitale   della    sua    filosofia. Ascoltiamolo  «  É    evidente    che    tutti    i    corpi    grandi  e piccoli  non  hanno  la  forza  di  muoversi.  Una  montagna, una  casa,  una  pietra,  un  grano  di  sabbia,  infine  il  più piccolo  oil  più  g-rande  dei  corpi  che  si  possa  concepire, non  ha  la  forza  di  muoversi.  Noi  non  abbiamo  che  due sorta  di  idee,  idee  di  spiriti,  idee  di  corpi:  e  non  do- vendo dire  che  ciò  che  noi  concepiamo,    non  dobbiamo ragionare    che    secondo    queste  due    idee.    Così    poiché r  idea  che  noi  abbiamo  di  tutti  i  corpi  ci  fa    conoscere ch'essi  non  possono  muoversi,  bisogna  concludere  che sono  gli  spiriti  che  li   muovono.  Ma  quando  si  esamina l'idea  che  si  ha  di  tutti  gli    spiriti  finiti,    non    si    vede punto  legame   necessario  tvà  la  loro  volontà  e  il  movi- mento di  un  corpo  qualsiasi;    si    vede  al   contrario  che non  ve  ne  è  e  non  ve  ne  può  essere.    Si  deve  cosi  con- cludere, se  si  vuol    ragionare    secondo  i    propri   lumi, 471 che  non  vi  ha  alcuno  spirito  creato  che  possa   muovere un  corpo  (pialsiasi  come  causa  vera  e  principale,  come si  è  detto  che  alcun  corpo  non  può  muovere  se   stesso  — Ma  (luando  si  pensa  all'  idea  di  Dio,  cioè  di  un   essere infinitamente  perfetto,  e  per  conseguenza  onnipotente, si  conosce  che  vi  ha  un  tal  legame  tra  la  sua   volontà e  il  movimento  di  tutti  i  corpi,  ch'è  impossibile  di  con- cepire   eh'  egli    voglia    che  un    corpo  sia    mosso,  e  che questa  corpo  non  lo  sia.  Noi  dobbiamo  dunque  dire  che non  vi  ha  chela  sua  volontà  che  possa  muovere  i  cori)i, se  noi  vogliamo  dire  le  cose  come  le  concepiamo,  e  non come  le  sentiamo».  «  xMi  pare  certissimo  che  la  volontà degli  spiriti  non  e  capace  di  muovere  il  i-iù  piccolo  corpo che  vi  sia  al  mondo  :  perchè  è  evidente  che  non  vi  ha legame    necessario  tra  la    volontà    che  noi    abbiamo  p. e.'^di    muovere   il    nostro    braccio,  e  il    movimento    del nostro  braccio Ma  non  solo  gli  uomini  non  sono le  vere  cause  dei  movimenti  ch'essi  producono  nel  loro corpo,  sembra  anche  che  vi  sia  contraddizione  che  essi possano  esserlo.  Causa  vera  è  una  causa  tra  la  quale  e il  suo  effetto  lo  spirito  percepisce  un  legame  necessario, è  cosi  che  io  r  intendo.  Ora  non  vi  ha  che  Tessere  in- finitamente perfetto,  tra  la  volontà  del  (luale  e  gli  effetti lo  spirito  percepisca  un  legame  necessario.  Non  vi  ha dunque  che  Dio  che  sia  vera  causa,  e  che  abbia  vera- mente  la  potenza  di  muovere  i  corpi  ».  «  Questo  legame necessario  che  lo  spirito  percepisce  tra  la  Causa  uni- versale e  gli  effetti  è  un  legame  lo<jico,  come  si  vede dalle  parole  che  seguono  :  «  Dio  non  ha  bisogno  di strumenti  per  agire;  basta  ch^^-li  voglia  afiinchè  una cosa  sia,  perchè  ri  ha  contraddizione  clw  ecjli  OH/lia  e che  ciò  che  egli  vuole  non  sia  (1).  » Potrebbe    sembrare  che  la    dottrina  delle  cause  oc- (1)  file,  della  ter.  Conclus.  dei  tre  primi  ììhvì.  1.  l.  t'.  D- (ed.  7.  }»;!«;.  2!)9),  Scìiiariiiieiito  10,  KisjM)stJi  a  Ke^is.  e  2.  V.K 22,  ece. (1)  Ww.  (Iella  t'fr.  1.  <i.  pnrte  2.  e.  S. 472 casionali  ahbin  per  risultato  di  fare  della  natura  e  delle sue  \eg^ì  (juak-he  cosa  di  puramente  arbitrario  :  ina non  è  così  che  1'  intende  Malebranche.  Le  le2'<>i  della natura  dipendono  dalla  volontà  di  Dio,  ma  «  Dio  non Je  ha  stabilite  che  perchè  l'ordine,  la  legg-e  eterna  e necessaria  domanda  che  sia  così.  Di  sorta  che  è  1'  or- dine eterno,  innnutabil(\  necessario,  che  è  la  leg'ge  ch'eg'li segue  inviolabilmente,  (i  per  cui  egli  ha  fatto  e  con- serva tutte  le  cose  >  1).  Dio  potrebbe  restare  inattivo, non  ciear(»  un  mondo;  ma  se  eo:li  lo  crea,  se  eu'li  ao-isce, egli  lo  fa  «secondo  certe  leggi,  che  si  concepisce  chia- rissimamente che  eg'li  deve  seg'uire,  supposto  che  egli voglia  agire*  (2).  Le  volontà,  i  disegni  di  Dio,  noi possiamo,  sino  ad  un  certo  punto,  conoscerli  a  y>m>r/ (3): così  ALalebranche  non  rinunzia,  quantunque  la  sua  spe- culazione si  ri\'olga  [)referibilmente  verso  altri  soggetti, all'obbiettivo  princi[)ale  della  metafisica  apriorista,  che è  di  dedurre,  di  costruire  a  priori,  le  leggi  della  natura. La  deduzione  di  Malebranche  è  costruita  sullo  stesso tipo  che  ((uella  di  Descartes  :  si  tratta  d'introdurre  tra i  fenomeni  dei  legami  razionali  e  necessari^  deducendoli da  Dio  che  è  l'Essere  necessario^  che  non  potrebbe  sen- za contraddizione  supporsi  non  esistente)  (4).  Segue  dalla no'/.ione  di  Dio  che  egli  deve  agire  della  maniera  più degna  di  lui,  più  conforme  ai  suoi  attributi,  cioè  della maniera  più  semplice  e  più  uniforme:  di  là  le  leggi della  natura  ;  cioè,  in  definitiva,  le  leggi  del  movimento), che  sono  le  più  semplici,  le  più  uniformi  ciie  sia  pos- sibile—  i  corpi  si  muovono  in  linea  retta,  perchè  ([uesta linea  è  la  più  sem})lice  ;  si  conserva  sempre  un'eguale (1)  Mvilìliiz.  rrisf..   7,   n,    IS. r2)  h'ic.  iklh(   rrr.,   VI    Scliiwriin. {'.'A  Ific.  iU'lhi  rn\.   Sclnnrini.   li.   {\k  207).  Jffd.  crist.  XI,  ecc. (0  /.'/>.    ih'ìhi    rrr.,    1.    i.   e.    11. —  473  — quantità  di  movimento  (dalla  stessa  i)arte),  perchè  (juesta legge  è  la  })iù  uniforme;  ecc.  (1;  —  La  dottrina  di  Ma- lebranche ha  molta  analogia  con  (luella  di  Leibnitz  del migliore  dei  mondi  possibili:  Dio  non  può  mancare  di scegliere,  fra  tutti  i  possibili,  l'opera  cbe  è  la  i)iù  con- forme  ai  suoi  attributi,  e  che  può  esscuxi  eseguita  coi mezzi  più  conformi  ai  suoi  attributi.  K  in  seguito  a questa  comparazione  di  tutti  i  possibili,  e  dei  seguiti necessari  che  ne  dipendono,  che  Dio  ha  stabilito  le leggi  del  movimento,  e  impresso  alla  materia  i  primi movimenti,  per  farno  l'opera  più  perfetta  possibile,  e che  piu)  essere  eseguita  per  le  vie  più  semplici  e  più uniformi  possibili  (2).  I^e  legg-i  della  natura  e  la  natura stessa  sono  duntjue  necessarie  —  non  necessarie  nella loro  esistenza,  i)OÌchè  Dio  poteva  non  creare  un  mondo, ma,  nella  supposizione  che  egli  creasse  un  mondo,  egli non  poteva  crearlo  diverso  dall'  attuale,  senza  venir meno  agli  attributi  necessari  che  costituiscono  la  na- tura divina  — .  Questa  necessità  è  una  necessità  logica  : le  leaai  della  natura  sono  delle  verità  necessarie,  nel senso  che  il  loro  contrario  implicherebbe  contraddizione; perchè  esse  sono  delle  conseguenze  necessarie  di  una verità  necessaria,  il  cui  contrario  imj)lica  contraddizione (l'esistenza  di  Dio  con  gli  attributi  inclusi  nella  sua nozione).  Senza  dubbio,  nella  spiegazione  della  natura di  Malebranche,  col  processo  proprio  della  metafisica apriorista—'Che  tende  a  stabilire  tra  i  fatti  un  legame Jofjico  —  concorre  quello  della  metafisica  istintiva  —-L'he assimila  la   produzione  di  tutti  i    fenomeni  alle    causa- li) V.  Hie.  d"ìla  rrr.,  1.  (5.  2  \invU)  e.  4.  e.  Il,  Schiurinicìi- to  XV,  Courvrsdz.  sulla  uwfaps.  X,  15.  Leffgi  gencr.  della  eotnun. del  ìnoriiiH'H.,  parte  1.  o.s.servaz.  dopo  Tiirt.  14,  ecc. (2)  V.  (JoHversaz.  stilla  ìnelftf.  IX,  X,  XI,  Rie.  della  ver. Selii<<ri)n.   XV,   Xrdltaz.  erist.  7.  ii.  15,   11.  u.   18,   ecc. -  474  — zioni  che  ci  sono  le  più  familiari— :  il  Dio  di  Malebranche, nella  sua  azione,  è,  per  dir  cosi,  più  umano  che  il  Dio di  Descartes;  le  cose  vengono  dedotte  dagli  attributi che  egli  ha  in  comune  con  V  uomo,  qual  è  quello  del- l'intelligenza  :  l'impronta  speciale  della  metafìsica  a- prionsta,  nella  spiegazione  di  Malebranche,  non  è  perciò così  evidente  (perchè  non  è  così  esclusiva)  come  in quella    di    Descartes,    ma   si    trova   anche  in    essa. Pel  sistema  di  Malebranche  si  presenta  naturalmente la  stessa  quistione  che  per  quello  di  Descartes  :    questo legame  necessario  e  razionale  che  Malebranche  pretende stabilire  tra  le  cause  e  gli  effetti  tìsici,  è  un    legame  di di  causalità    efficiente'^  Nel  senso    proprio   della    parola certamente  no;  perche  causa   efficiente    è    1'  antecedente immediato,  incondizionale  dell'effetto;  e  in  (luesto  senso, Dio  solo  è,  per  Malebranche,  causa  efficiente.   Il    nome di   causazione    efficiente  non  può    convenire  alle    causa- zioni fenomeniche,  nel  sistema  di  Malebranche,  che  nel significato  ^ecm'co  in  cui  noi  impieghiamo  la  parola,  cioè di  legami  causali  che  vengono  modellati  sul  tipo  di  quelli che  hanno  dato  al  nostro  spirito  la  nozione  di  causalità efficiente.  Ma  bisogna  tener  presente  che  nella  metafìsica di  Malel)ranche  viene  usato  un  doppio  processo  per  assi- milare le  causazioni  a  questo  tipo.   L'uno  è  il  processo della  metafisica  istintiva',  secondo  questo,  la  spiegazione del  mondo  di  Malebranche  è  una  spiegazione   volizionale, e  non  vi  ha  altro  rapporto  di  causalità  efficiente,  anche nel    nostro  senso    tecnico,  che  quello  fra  Dio  e  i  feno- meni, perchè  questo  solo  è   concepito  conforme  al  tipo. L'altro  processo  è  quello  della  nu^afisica  apriorista,  che tende  ad    imitare  la   forma,  e  non  il    contenuto,  delle causazioni  che  ci    hanno  dato    V  idea  di    causalità  effi- ciente; e  secondo  questo,  tanto  il  rapporto  tra  la  causa iperfenomenale  e  i  fenomeni,  quanto  quelli  tra  le  cause eo-li  effetti  fenomenali,  potrebbero  chiamarsi  delle  cau- —  475  — sazioni  efficienti,  poiché  Mealebranche  intende  introdurre dei  legami  necessari  e  razionali  tanto  fra  Dio  e  i  fenomeni quanto  tra  i  fenomeni  in  rapporto  gli  uni  con  gli  altri. §  5.  Spinoza.  Vi  hanno,  secondo  Spinoza,  tre  formedi  conoscenza:    1.    l'opinione,   la  quale  si  suddivide  in due  specie,  di  cui  l'una  comprende  le  credenze  fondate sull'autorità  delle  parole  altrui,  e  l'altra  le  induzioni  ti- rate dall'esperienza,  2.  la  ragione  (o  fede  vera),  la  quale è  fondata  sulla  dimostrazione,  3.  la  conoscenza  intuitiva,che  è  la  sola  adequata,  per  cui  lo  spirito  percepisce  le verità  evidenti  per  se  stesse,  ovvero  passa  da  una  cosa evidente  per  se  stessa  alla  conoscenza  di  un'altra  cosa, e  dalla  conoscenza  di  questa  a  quella  di  un'altra,  im- mediatamente,  c:oè   senza  che  in  ((uesto   i)assaggio  da ciascnna  cosa  a  riascun'altra  vi  sia  mai  bisogno  deirin- termediario  di  una  dimostrazione.  Per  far  comprendere questa  classificazione  delle  conoscenze,  l'esempio  prefe- rito da  Spinoza  sono  i  modi  diversi  in  cui  possiamo  co- noscere la  proporzionalità  dei  numeri.  «  Sono  dati  tre  nu- meri, e  se  ne  cerca  un  quarto  che  stia  atterzo  come  il secondo  sta  al  primo.  I    mercanti  dicono  di  sapere  ciò che  si  deve  fare  per  trovare  questo  quarto  numero,  per- chè non  hanno  dimenticato  l'operazione  che  appresero nuda,  senz'alcuna  dimostrazione,  dai   loro  maestri;  altri invece  fondano  la  regola  generale  suiresi)erienza  di  al- cuni casi  molto  semplici,  dove  il  (juarto  nunu^ro  si  rende chiaro  da  se  stesso,  come  nei  numeri  2,  4,  3,  (>,  in  cui hanno  provato  che,  moltiplicando  il  secondo  per  il  terzo, e  dividendo  il  prodotto  per  il  primo,  si  ottiene  per  cpao- ziente  6;  e  vedendo  ottenersi  lo  stes-^o  numero  che  senza l'operazione  avevano  conosciute  essere  il  proporzionale, ne  concludono  la  bontà   dell'  operazione  i)er  trovare  in tutti  i  casi  il  quarto  numero  proporzionale.  Ma  i  mate- matici sanno  in  forza   della    dimostrazione    della    prop. 19  l.  7.  de€>-li  Elementi  di  Euclide  quali  numeri  sono  fra ! -   47G eli  loro  proporzionali,  lo  sanno  cioè  dalla  natura  della proi)orzione  e  dalla  sua  proprietà  secondo  cui  il  numero che  si  fa  dal  primo  e  dal  quarto  è  eguale  al  numero  che si  fa  dal  secondo  e  dal  terzo;  ma  con  tutto  ciò  essi  non vedono  adequatamente  la  proporzionalità  dei  numeri dati;  se  la  vedono,  essi  non  la  vedono  in  forza  di  (juella proposizione,  ma  intuiti vament(%  j>enza  fare  alcuna  ope- razione »  n  ).  Altri  esempi  di  conoscenza  intuitiva  sono che  due  e  tre  sono  uguali  a  cinque,  e  che,  se  si  danno due  linee  parallele  ad  una  terza,  queste  linee  sono anche  parallele  fra  di  loro.  La  prima  forma  di  cono- scenza è  sou'ii'etta  all'  errore  ;  la  seconda  e  la  terza non  possono  ingannarci.  Le  induzioni  dell'  esperien- za  sono  ricondotte  alla  forma  fallibile,  <  perche  come si  può  essere  ce/ti  che  un'esperienza  ])articolare  fornisca una  regola  assoluta  per  tutti  i  casi?»  (2)  Ma  (juantunque la  seconda  e  la  terza  forma  siano  egualmente  infallibili, è  la  terza  sola  che  è  adecjuata;  il  supremo  conato  e  la sui)rema  virtù  della  mente  è  di  conoscere  le  cose  se- condo questa  forma  (rh.  La  vera  scienza  è  una  scienza intuìtira,  che  conosce  le  cose  o  per  la  loro  sola  essenza o  per  la  loro  causa  prossima,  (4),  e  jìrocede  dalla  cono- scenza dell'essenza  di  Dio  alla  conoscenza  dell'essenza delle  cose,  [h]  Ciò  che  è  causa  di  se,  cioè  Dio  (con- siderato neii'li  attributi  che  costituiscono  la  sua  es- senza),  si  deve  conoscere  per  la  sua  sola  essenza  ;  ciò che  non  è  da  se  stesso,  ma  richiede  una  causa  per  esi- stere, si  deve  conoscere  ])er  la  sua  causa  prossima.  (6); (1)  Ih'   infrll.   riHCiHL,2:^-2\. (2)  V.    f)^'  th'o,  hoinniv  etf.    Paitc.  II  e.  1  e  2.   Et/iicrs   Ptirs  II. prop.    Xli.  Scliol    II.    />('  infel/ccfnx  e  air  n  fiat  ione  IV  v   V. {:\)  Hlh.   Pars  V.   \no]K   XXV. (4l  De  ÌHfelìccfHs  cmendnt.  l.  e. (.'i)  Eth.    Pars  II.    Vv.    XL,   Scli.    II. {(i)  De  hifelief.  nitcndnt .    XII. 477 e  così,  deducendo  sempre  V  eftetto  dalla  causa  prossi- ma (1),  è  dall'essenza  di  Dio,  dalla  causa  prima,  che in  definitiva  tutta  la  scienza  deve  procedere.  La  vera scienza  consiste  dunque  a  dedarre  l'effetto  dalla  causa, partendo  dalla  causa  prima  (che  si  conosce  per  la  sua sola  essenza,  perchè  l'esistenza  di  Dio  è  inclusa  nella sua  essenza,  nel  suo  concetto);  e  questa  scienza  è  in- taitiva,  perchè,  come  abbiamo  detto,  essa  passa  dalla conoscenza  di  una  cosa  (la  causa)  alla  conoscenza  di un'altra  cosa  (l'effetto)  d'una  maniera  immediata,  cioè senza  l'intermediario  dì   una  dimostrazione  (2). Queste  cm-e,  queste  cause  e  questi  effetti,  sono  delle cose  astratte,  delle  astrazioni  realizzate;  cosi  nel  capi- tolo seguente  noi  dovremo  tornare  su  Spinoza,  e  allora si  vedrà  con  più  precisione  quale  sia  l'idea  di  questo filosofo  i^wW efficienza  causale^  ciò  che  è  il  punto  capitale per  la  comprensione  del  suo  arduo  sistema.  Per  ora  pos- siamo notare,  insieme  alla  identità  generica,  una  note- vole differenza  tra  l'idea  di  Spinoza  e  quella  degli  al- tri filosofi  aprioristi  di  cui  abbiamo  })arlato.  La  ten- denza della  metafisica  apriorista,  in  generale,  è  di  as- similare, nella  forma,  tutte  le  causazioni  a  (juelle da  cui  ci  viene  l'idea  di  causazione  efficiente.  La forma  che  caratterizza  (jueste  causazioni,  come  cono- scenze nostre,  è  la  necessità  e  r evidenza  intrinseca  (]>ro- pria  delle  inferenze  incoscienti),  i  (juali  caratteri  deri- vano della  estrema  fre(]|uenza  delle  esperienze  a  cui  queste conoscenze  sono  dovute.  Così  la  filosofìa  apriorista  iu generale  intende  apportare  in  tutte  le  relazioni  causali questa  forma  di  necessità  e  di  evidenza  intrinseca,  ra- zionale (cioè  fondata  sui  rapporti  stessi  delle  idee  e  in- (1)  £ltli.  Ass.   IV,    P(trs    II  prup.    VII,    De    intelleetus   etnen- (taf ione  VII,   oc(\ (2)  De  intelleet.  emendat.    XII,    XIV. -  478  — dipendente  dall'  esperienza).  Ma   mentre    alcuni    filosofi aprioristi,  come  Descartes,  si  contentano  di  una  evidenza di  mostrai  iva— in  cui  la  connessione  fra  le  due  idee  (della causa  e  dell' effetto)  che   vogliono   mettersi  in  rapporto non  si  vede  immediatamente,  ma  vi  ha  bisogno   perciò deirintervento  di  altre  idee  intermediarie—,  altri  invece come  Spinoza  e,  al  fondo,  ;tutti  gli  altri   filosofi  i  cui sistemi  sono  costruiti  sullo  stesso  tipo  del  suo  (cioè  fon- dati sulla  realizzazione  dei  concetti  astratti  e  sulla  iden- tificazione del  rapporto  ontologico  tra  la  causa  e  l'effetto col    rapporto   logico  tra  il  principio  e  la  conseguenza), domandano  un^  evidenza  intaitiva  -  ^\ol^  in  cui  la  con- nessione  tra  r  idea  della  causa  e  quella  dell'  effetto    si veda  immediatamente,  senza  1"  intervento  di  altre  idee intermediarie  chele  mettano  in  rapporto—.  E  chiaro  che questa  evidenza  intuitiva  assimilerebbe  di   più  che  l'  e- videnza    semplicemente  dimostrativa  i   rapporti   causali in  cui  essa  si  trovasse,  al  tipo  che  si  tratta  d'imitare; perchè  nelle  causazioni  familiari  è  immediatamente,  in- tuitivamente,    che  lo  spirito   percepisce  la  convenienza tra  l'idea  della  causa  e  quella  dell'effetto,  la  necessità con  cui  r  effetto    procede  dalla  causa.  Quest'  apparente evidenza  intuitiva,  nelle  causazioni  familiari,   consiste in    un    legame    molto    intimo  tra  le  idee,  costituito    da uu  associazione   empirica  :   Spinoza   invece,  e  i  filosofi affini,  vogliono  ottenere  quest'evidenza  intuitiva  per  un legame  puramente  logico;  così,  per  essi,  l'effetto  è  una conseguenza   logica    della    causa,  e  una   conseguenza, la   cui   connessione  col  principio  (con  la  causa),    possa essere  dallo  spirito  percepita  immediatamente.  E  perciò che  Spinoza   dichiara  adequata  la  sola  conoscenza    in- tuitiva, e  la  mette  al  di  sopra  delle  altre   forme   di  co- noscenza. Ma  ciò  si  comprenderà    d'  una    maniera    più chiara  nel  capitolo  seguente. §  6.  Leihnitz.  .<  Bisogna  sapere   che   vi   hanno    due 479  - sorta  di  consecuzioni  (di  legami  tra  le  idee)  affatto  di- verse, le  empiriche  e  le  razionali.  Le  consecuzioni  em- piriche ci  sono  comuni  coi  bruti,  e  consistono  in  ciò,  che il  senziente,  quei  fatti  che  più  volte  ha  sperimentato  in congiunzione,  si  attende  che  saranno  un'altra  volta  in congiunzione  (sono  le  sole  consecuzioni  che  ammette  la filosofia  empirista).     . Ma  siccome spesso  avviene  che  tali  fatti  siano  in  congiunzione  sol- tanto per  accidente,  cosi  gli  empirici  spesso  s'ingannano, del  pari  che  i  bruti,  in  modo,  cioè,  che  quello  che    si attendono  non  avvenga Ma  V  uomo in  (juanto  agisce,  non  empiricamente,  ma  razionalmente, non  si  fida   alle  sole    esperienze  o  alle    induzioni  a  po- steriori dai  casi  particolari,  ma   procede  a  priori  ])er  ra- gioni. E  qual  è  la  differenza  tra  il  geometra  o  l'analista e    qualche    aritmetico  volgare  che  insegna  ai  fanciulli, il    quale  ha  imparato  a  memoria  le  regole  aritmetiche, ma  senza  conoscerne  le   ragioni  ;......     tale è  la  dift'erenza  tra  l'Empirico  e  il  Razionale,  tra  la  con- secuzione dei  bruti  e  la  ragione  dell'  uomo.  Ancorché infatti  sperimentiamo  molti  esempi  che  succedono,  non siamo  mai  con  tutto  ciò  sicuri  del  perpetuo  successo,  se non  troviamo  delle  ragioni  necessarie,  da  cui  possiamo inferire  che  la  cosa  non  può  essere  altrimenti.  E  perciò che  i  bruti,  per  quanto  possiamo  osservare,  non  cono- scono r  universalità  delle  proposizioni,  perchè  non  co- noscono la  ragione  dell'universalità.  E  quantunque  tal- volta gii  empirici  cjall'induzione  siano  condotti  a  pro- posizioni veramente  universali,  ciò  avviene  per  accidente soltanto,  ma  non  in  forza  della  consecuzione»   (1). Leibnitz  ammette  dunque  che  il  reale,  le  leggi  della (1)  Commciìt.  de  un.  brntor.  XIV;  v.  a.  N.  S.  huW  int.  um. Proainholo,  1.  4.  o.  11,  par.  13.  e.  17.  ^  8,  Prine.  (iella  nat.  e della  yraz.  5,  ecc. «NbMHtoMNlÌMiAMaW "inriì-ffriìBiUii'nimiii -  480  —  natura,  si  possano,  sino  ad  nu  eerto  piuito  almeno,  co- noscere a  priori  (l).  Ma  egli  distingue  due  classi  di  co- noscenze a  priori.   «  Le  verità    di    rag-ione  sono  di  due sorta  :  le  une  sono  quelle  che  si  chiamano  cerltà  pterae, le  quali  sono  assolutamente  necessarie,  in  modo  che  l'op- posto implica  contraddizione;  e  tali  sono  le.  veri tii  di  cui la  necessità  è  logica,  metafisica  o  geometrica,  che  non si    ])otrebb(u*o  negare  senza  essere   condotti  a  delle  as- surdità. Ve  Mi}  ha  altre  che  si  possono  chiamare  positive, perchè  sono  le  leggi  che  ha  piaciuto  a  Dio  di  dare  alla natura,  o  perchè  ne  dii)endono.  Noi  le  apprendiamo   o l)er  r  es|>erienza,  cioè  a  posteriori,  o  per  la  ragione   e a    priori,  cioè  per  le  considerazioni   della    convenienza che  le  ha  fatto  scegliere»   (2).  Così  le  leggi  della  natu-,..x_(|uelle  che  non  sono  assolutamente  necessarie,  come sarebbe  (questa,  che  ogni  fatto  deve  avere  una    ragion determinante,  o  anche  ([uest'altra,  che  i  corpi  non  agi- scono gli  uni   sugli   altri   che  |)er  impulsione— dipendono dalla    scelta    della    più    perfetta  saggezza,  e  se  ne  deve rend(n-e  ragione  per  le  cause  finali  :  è  di  ((uesta  maniera che  devono  spi(\u'arsi  le  leggi  del  movimento,  a  cui  le leggi    dtil    mondo    materiale  in   sonnna  si   riducono.  La s])iegazione  leibnitziana  delle  leggi  della  nntura  è  dunque in  primo  luogo  una  spiegazione  teologica  e  teleologica: ma  essa  è  inoltre  una  spiegazione  r^^^r/om^r/,  perchè  Leib- nitz  annnette  la  possibilità  di  dedurre  a  priori  (|Ueste  leggi dalle  «  considerazioni  della  convenienza  che  le  ha  fatto scegliere».   Le  cause  finali  per  Leibnitz  non  servono  sol- tanto a  sjìiegare  le  cose  già  conosciut(iper  Tosservazione, ma  sono  anche  un  mezzo  di  scoverta,  un  jn-incipio   da —  481  — cui  si  può  concludere  a  priori  come  le  cose  devono  essere  : egli  non  si  limita  a  dire  (argomentando  a  posteriori) ciò  è  fatto  della  maniera  più  conveniente,  dunque  è  li prodotto  d'una  saggezza  perfetta;  ma  dice  ancora^  (ar- gomentando a  priori):  ciò  è  il  prodotto  di  una  saggt»zza perfetta,  dunque  ciò  deve  essere  fatto  così  perchè  cosi è  il  più  conveniente  (1).  Nella  spiegazione  teleologica  di Leibnitz,  col  processo  della  metafisica  istintiva  concorre il  processo  della  metafisica  apriorista. Il  principio  fondamentale  della  filosofìa  apriorista  deve a  Leibnitz,  possiamo  dirlo,  la  sua  espressione  più  classica: è  il  principio  della  ragion  sufficiente  o  determinante,  se- condo il  quale  «niente  accade,  senza  che  vi  sia  una  causa o  almeno  una  ragione  determinante,  vale  a  dire  qualche cosa  che  possa  servire  a  rendere  ragione  a  priori  })erchè ciò  esiste  così  piuttosto  che  di  ogni  altra  maniera  »  (2). Questo  principio  si  applica  tanto  ai  fatti  particolari  quanto alle  verità  generali,  tanto  alle  verità  contingenti,  quanto alle  necessarie;  così  esso  è  anche  espresso  sotto  (piesta forma  più  generale  :  «  non  vi  ha  enunciazione  vera  di cui  quegli  che  avesse  tutta  la  conoscenza  necessaria per  intenderla  perfettamente  non  potrebbe  vedere  la  ra- ragione  »  (3).  Posto  il  principio  della  ragion  sufficiente, «la  prima  quistione  che  si  ha  dritto  di  fare  sarà  :  Per- chè vi  ha  qualche  cosa  piuttosto  che  niente  V  .  .  .  . Di  più,  supposto  che  delle  cose  devono (l^  V.  olti-o  i  1.  iiul.  iiolla  iiotM  imuMMl.  e.  nelle  diu' soiriKMiti, .V.  .V.  1.  1.  e.  S.  ^  IS.  X.  S.  1.  4,  it,  12.  ^  l:^,  ir^sit.  nlhi  I  Ue- plica  (li   Clarke   1.   Dnteiis.   t.  2.   ]k   1.   114,   ecc. (2)    ffisc.   ih'lht  con /orni,   dclht  fede  eoa  la  niy.  v>  2. (1)  Dlse.  di  meta/.  (Lctt.  e  opusc.  pubblic  da  F.  de  Careil), p.  856.  Us.  dei  prine.  di  Malehv.  (od.  Diitcns,  t.  2.  \).  1, pag.  201)),  De  Ipsd  nat.  slce  de  vi  ins.  t.  (Dut.  t.  2,  ]).  2, pag.  51),  De  unleo  opt.,  eatoptr.  et  dioplr.  pruie.  (l)iit.  t.  8, p.  146),  Teodie.  Prefaz.  (ed  Jaccpies,  t,  2,  ]).  18-10),  Dise,  della conform.  della  fede  con  la  rag.  2,  ecc. (2)  Saggi  sulla  bontà  di  Dio,  ecc.  41. (8)   Ossercaz.  sul  Uh.  di  King,  14. 31 -  482  — esistere,  bisooua  che  si  possa  rendere   ragione    perchè esse    devono    esistere   così   e   non   altrimenti  »   (1).    Alla prima  qiiistione:  Perchè  vi  ha  qualche  cosa?  si  risponde che  la  ragione  delTesistenza  delie  cose  finite  è  in  Dio, e  la  rag-ione  dell'  esitenza  di  Dio  (dell'  essere  perfettis- simo) è  in  lui  stesso,  nella  sua  essenza  o  nel  suo  con- cetto, in  cui  l'esistenza  è  necessariamente  inclusa  (l'ar- gomento ontologico)  (2).  Alla  seconda  quistione  :  Perchè le  cose  devono  esistere  così  e  non  altrimenti?  risponde la  teoria  del  migliore  dei  mondi  possibili.   *  Segue  dalla perfezione  suprema  di  Dio  che,  producendo  l'universo, egli  ha  scelto  il  miglior  piano  possibile,  dove  vi  sia  la più    grande    varietà  col  più  grande  ordine  :  il  terreno, il    luogo,  il  tempo  i   meglio  utilizzati  :  il  più  di  effetto prodotto    per   le  vie  più  semplici  ;  il  più  di  potenza,  il più    di    conoscenza,    il   più  di  felicità  e  di  bontà    nelle creature,  che  1'  universo  ne  poteva   ammettere.    Perchè tutti  i  possibili  pretendendo  all'esistenza  nell'intendimento di  Dio,  a  proporzione  delle  loro  perfezioni,  il  risultato di  tutte  queste  pretensioni  deve  assere  il  mondo  attuale ii  più  perfetto  che  sia  possibile.  E  senza  ciò  non  sarebbe possibile  di  rendere  ragione  perchè  le  cose  sono  andate  così piuttosto  che  altrimenti»   (3).   ^  Si  può  dire  che,  tosto  che Dio  ha  deliberato  di  creare  qualche  cosa,  vi  ha  una  lotta fra  tutti  i  possibili,  tutti  pretendendo  all'esistenza  (perchè tutti  i  possibili    non   sono    compatibili  fra  loro    in    uno (1)  Priììc.  delld  nat.  e  della  graz,,  7. (2)  Come  si  vede,  hi  ([iiistione  :  Perchè  vi  ha  «lualche  cosa? si  riduce  alla  «piistione  :  Perchè  Dio  esiste  ?  Questa  quistione oltrepassa  la  ricerca  delle  cause  efficienti  (il  perchè  dell'  esi- stenza della  causa  prima  non  potendo  essere  la  causa  efficiente): ma  nell'Append.  a  questo  capit.  noi  vedremo  come  tale  <iuistio- ne  si  presenta  naturalmente  al  punto  di  vista  della  metafisica apriorista. (3)  Princ.  della  nat.  e  della  graz.   10. fì-ar-iiiiwrTiiTWflirM 483 stesso  seguito  d'universo,  e  perciò  tutti  non  potrebbero essere  prodotti);  e  che  quelli  che  congiunti  insieme  pro- ducono il  più  di  realtà,  il  più  di  perfezione,  il  più  d'in- telligibilità,  la  vincono.  È  vero  che  tutta  questa  lotta non  può  essere  che  ideale,  cioè  non  può  essere  che  un coflitto  di  ragioni  nell'  intendimento  più  perfetto,  che non  può  mancare  d'  agire  della  maniera  jnà  perfetta,  e per  conseguenza  di  scegliere  il  meglio  »   (1). La  teoria  del  migliore  dei  mondi  possibili  ha  dun(|ue il  doppio  aspetto  della  teleologia  leibnitziana,  di  cui essa  è  il  fondamento:  da  una  parte  essa  è  un  risultato assai  naturale  della  filosofìa  teologica,  ma  questo  pro- dotto indiretto  della  metafisica  istintiva  diviene  anche un  elemento  di  una  speculazione  apriorista  che  tende a  incatenare  coi  legami  della  necessità  i  fenomeni  frdi  loro  (2)  e  con  la  Causa  suprema,  a  fare  l'equazione del  reale  col  possibile,  a  realizzare  il  motto  della  filo- sofia hegeliana,  che  è  quello  di  ogni  metafisica  aprio- rista: Ciò  che  è  razionale  è  reale,  e  ciò  che  è  reale  è razionale.  Infatti  la  conseguenza  di  questa  teoria  è  che le  leggi  della  natura  e  la  natura  stessa  sono  necessarie^ (1)  Saggi  sulla  bontà  di  Dio,  eoe.,  par.  201. (2)  Biso«ina  tener  presente  che  nel  sistema  di  Leil^nitz, come  in  tutti  i  sistemi  procedenti  piiì  o  meno  direttamente  da Cartesio,  l'azione  di  Dio  è  l'  intermediario  esplicativo  delle  se- quenze e  di  tutte  le  congiunzioni  tra  i  fenomeni.  Leibnitz,  è vero,  mette  in  opposizione  il  suo  sistema  a  ({nello  di  Malebran- che, e  vi  ha  in  etìetto  fra  di  essi  questa  diti'erenza  reale  che, mentre  in  questo  i  fenomeni  dipendono  scmidicemeute  dalla  vo- lontà di  Dio  e  non  hanno  alcun  le<jjame  naturale  con  la  natura delle  sostanze  create,  al  contrario  secondo  Leibnitiz  essi  devono essere  spiegabili  per  la  natura  di  queste  sostanze.  Ma  al  fondo, tanto  per  Malebranche,  quanto  per  Leibnitz  e  tutti  gli  altri  ft- losolì  che  annnettono  la  dottrina  della  creazione  continua,  è  Dio che  è  la  causa  universale  dei  fenomeni. —  484  — necessarie  nel  senso  che,  se  non  per  noi,  per  quello almeno  che  potesse  intendere  la  cosa  perfettamente, la  supposizione  di  leggi  diverse  e  di  una  natura  di- versa da  quelle  che  eifettivamente  esistono,  condurreb- be ad  un'  impossibilità  logica,  ad  una  contraddizione tinaie.  Una  tale  supposizione  in  effetto  riuscirebbe  ad ammettere  che  o  le  cose,  nella  loro  esistenza,  non  di- pendono da  Dio,  o  Dio,  producendole,  non  ha  scelto «  il  mig-lior  piano  possibile,  »  e  quindi  non  ha  agito «  della  maniera  più  perfetta  :  »  ma  Tuna  e  V  altra  cosa sono  logicamente  impossibili  e  contradditorie,  perchè da  una  parte,  non  si  può,  senza  contraddizione,  non ammettere  l' esistenza  di  Dio  (argomento  ontologico), e  dall'altra  parte  ammesso  Dio,  cioè  l'  Essere  infinita- mente perfetto,  non  si  può,  senza  contradizione,  non ammettere  pure  che  ogni  cosa  dipende  da  lui  (fra  le  sue perfezioni  essendovi  una  potenza  infinita),  e  che  egli  deve agire  della  maniera  più  perfetta  (e  per  conseguenza  sce- gliere il  meglio-),  perchè  tutto  ciò  segue  necessariamente dal  suo  concetto. Noi  vediamo  cosi  che  la  distinzione  delle  verità  in  ne- cessarie e  contingenti— le  une  fondate  sul  principio  di  con- traddizione, e  le  altre  su  quello  della  ragion  sufticiente— non  può  avere,  nel  sistema  di  Leibnitz,  che  un  valore  rela- tivo. È  evidente  infatti  che  tutte  le  verità  razionali  o  a  priori sono,  per  questo  stesso  titolo,  delle  verità  necessarie:  per tutti  i  filosofi,  verità  a  priori  equivale  a  verità  necessaria, ed  anche  per  lo  stesso  Leibnitz  (1),  quando  egli  non  ha r  intenzione  di  marcare  la  differenza  tra  la  necessità deca  delle  verità  matematiche  o  logiche  e  la  necessità fisica  fondata  sulla  necessità  morale  della  scelta  della saoH>'ezza.  Di  più,  secondo  i  principii  di  Leibnitz,  la distinzione  tra  verità  a  priori  e  verità  a  posteriori  non II —  485 esiste  che  per  la  limitazione  della  nostra  intelligenza  : per  se  stesse,  tutte  le  verità  sono  conoscibili  a  priori; per  la  stessa  intelligenza  limitata  dell'uonio,  non  vi  ha un  limite  fisso  che  segni  sin  dove  s'  estenda  la  pos- sibilità di  conoscere  il  reale  razionalmentp;  perciò  l'es- ser poste  al  di  là  o  al  di  qua  dei  limiti  della  nostra vista  intellettuale  non  può  apportare  nelle  cose  stesse una  differenza  obbiettiva,  qual  è,  almeno  secondo  i  me- tafisici,  quella  tra  il  contingente  e  il  necessario.  La stessa  distinzione  tra  verità  fondate  sul  principio  di contraddizione  e  verità  fondate  sul  principio  di  ragion sufficiente,  svanisce,  in  ultima  analisi,  secondo  i  pre- supposti di  Leibnitz  :  il  principio  di  contraddizione  è il  fondamento  ultimo,  tanto  del  principio  di  ragion  suf- ficiente (1),  quanto  delle  verità  fondate  su  questo  prin- cipio. Ciò  non  segue  soltanto  dalle  considerazioni  pre- cedenti sulla  dottrina  del  migliore  dei  mondi  possibili, ma  ancora  dalla  dottrina  ])sicologica  di  Leibnitz,  che ammette  che  tutte  le  verità  razionali  sono  dimostrabili (col  metodo  sillogistico)  (2),  che  non  vi  hanno  altri  prin- cipii immediati  che  le  verità  identiche  (3),  e  che  così  i principii  d' indentità  e  di  contraddizione  sone  la  base unica  di  tutte  le  conoscenze  a  priori.  V'ha  chi  crede, è  vero,  che  Leibnitz  deriva  dal  principio  di  contraddi- zione, non  tutte  le  verità  a  priori,  ma  quelle  sole  ch'egli chiama  necessarie  nel  senso  stretto,  quali  le  proposi- zioni della  matematica  pura  :  ma  questa  interpretazione sembrerà  una    limitazione  arbitraria  del  vero    pensiero (1)  V.  i  1.  indicati  nella  ])rinia  nota. (1)  /iJpist.  ad  R.  P.  Des  Bosscs  <S  i'ehhv.  1711  (Dutens.  t.  2, 1».  1.  pa.i».  2J)2),  Risp.  alla  4  Replica  di  Clarke  18U,  Osseri\  sul lib.  di  Kiufj.  14.  ecc. (2)  Osserc.  sul  Uh.  di  King.,  n.  5.    De  cof/nitionc.  veri  fate  et ideis.   Dut.,  t.  2.  p.  1,  17,  ecc. (8)  N.  S.  sulVint.  uni.,  1,  4,  e.  2,  $  1.  e.  8,  «J  D.  ecc. 486  — 487 di  Leibnitz,  speeialrneute  se  si  rifletterà  che,  come  ab- biamo   visto    nel    Saggio    1.    (1),  questa    frazione   della scuola  psicologica  apriorista,  la  quale    ammette  che  le verità  a  priori  sono    analitiche  o    fondate  sul    principio di  contraddi/^ione,  e  che  si  riattacca  a  Leibnitz,  ha  per motivo  della  sua  dottrina  di  spiegare  questa  moltii)licità di    necessità    del    pensiero    che    V  altra    frazione    della scuola,  quella  che  Mill  chiama   intuizionista,  ammette come  primordiali,  senza  renderne  alcuna  ragione.  Questa spiegazione  non  può  essere  limitata  ai  soli  assiomi  ma- tematici,    ma    deve   estendersi  a  tutte  le  [)retese  verità assiomatiche  o    necessità  del    pensiero  ;  ciò    che  ha  per conseguenza  di  annnettere  che  tutte  le   conoscenze  che ne  derivano,  cioè  tutte  le  verità  a  priori,  sono  fondate sui    principii    d'identità  e  di    contraddizione,  o,  come s'  incominciò  a  dire  dopo  Kant,  sono    analìtiche.  Cosi, secondo  il  sistema  di  Leibnitz,  questa  necessità  per  cui le  cose  devono  essere  cosi  come  sono  e  non  altrimenti, è,  al  fondo,  una  necessità  logica-^  l'incaten amento  reale delle  cose    è    costituito  da  un    incatena  mento  logico  di ragioni  :  la  filosofia   leibnitziana    preparava  il  terreno, dal    quale    poi    germinarono    i    sistemi    di     Fichte,    di Schelling,  di  Hegel,  in  cui  il    movimento   logico  delle idee  viene  identificato  alla  genesi  delle  cose  stesse. Naturalmente  vi  ha  per  Leibnitz  la  stessa  difficoltà che  per  Malebranche  ;  il  legame  razionale  e  necessario ch'egli  stabilisce  tra  le  cause  e  gli  effetti  fisici  non  può essere  chiamato  una  causazione  pfficienter\Q\  .^enso  stretto della  parola:  nel  sistema  dell'armonia  i)restabilita  non vi  hanno  altre  cause  efficienti,  in  questo  senso,  che  Dio, come  causa  universale,  e  le  monadi,  come  cause  sem- plicemente ciascuna  dei  propri  cangiamenti.  Sotto  questo aspetto,  la  spiegazione  leibnitziana  della  natura  è  una spiegazione  volizionale^  secondo  cui  ogni  essere  è  esso stesso  la  causa  spontanea  dei  propri  movimenti,  e  Dio è  la  causa  della  coordinazione  regolare  dei  movimen- ti di  tutti  gli  esseri.  Ma  la  spiegazione  leibnitziana essendo  inoltre  una  spiegazione  apriorista,  anche  le cause  fisiche  possono  sotto  questo  aspetto  essere  chia- mate (nel  nostro  senso  più  lato)  cause  efficienti,  in quanto  vi  ha  una  ragione  a  priori  per  cui  sono  legate coi  loro  effetti  (1)  :  in  questo  senso  tutte  le  causazioni sono  efficienti,  tanto  le  fisiche  quanto  le  i|>erfisiche, tanto  l'azione  di  un  corpo  su  di  un  altro  o  tra  Tanima e  il  corpo  quanto  le  azioni  immanenti  delle  monadi  e r  azione  creatrice  della  Monade^-  suprema,  |)erchè  per tutte  vi  ha  una  ragione  a  priori  che  può  spiegare  perchè «ciò  deve  esistere  così  e  noìi  altrimenti.» §  7. —Con  Locke    la  metafisica  apriorista  volge  al- l'agnosticismo e  allo  scetticismo.  Le  speculazioni  di  Lo- cke sulla  natura  della  conoscenza,  i  suoi  linìiti  e  i  gradi della  certezza,   quantunque  le  sue  ricerche  sulForigine delle  idee,  il  suo  sensismo,  le  abbiaìio   fatto   [)assare  in seconda  linea,  costituiscono  non  |)er  tanto,  nel  pensiero dell'autore,  l'oggetto  principale  del  faggio  sul V  intendi- mento Hìnano  (2).  Questa  teoria  della  conoscenza  è  fon- data sul  presupposto  della  filosofia  apriorista,  cioè  che una    conoscenza  assoluta,    adc^iuata,  delle  leggi    delle cose    sarebbe  una    conoscenza  a    priori,  che  lo    s[)irito tirerebbe,  non  dall'  osservazione  dei  fatti  esteriori,  ma dalla  contemplazione  e  la  compara/Jone  delle  sue  [)roprie (1)  Gap.  8  e  4. (1)  Una  cosa  si  dico  che  a«:;iscc  su  <li  inraltni.  in  quanto «  8i  trova  in  essa  ciò  che  serve  ;i  rendere  ragione  a  \n'\ov\ di  ciò  che  accade  nell'altra»  (Mon:id.  5(1).  Del  re>to  e  alle cause  fisiche  cìie  Leibnitz  dà  specialmente  il  nome  di  cause efficienti. (2)  V.  Preambolo. Tsmsv!Ssmm —  488  — idee.  Locke  è  senza  dubbio  uno  dei  promotori  della filosofia  dell'esperienza:  ma  se  egii  inculca  il  metodo sperimentale,  è  perchè  crede  che  i  limiti  stretti,  dentro cui  è  circoscritta  Tintelligenza  umana,  non  le  permet- tono di  conseguire  la  conoscenza  perfetta,  cioè  la  co- noscenza a  priori,  che  sola  potrebbe  dare  al  bisogno che  ha  di  conoscere,  una  soddisfazione  reale. Locke  definisce  la  conoscenza  la  «  percezione  della  con- venienza o  leo'ame  o  della  disconvenienza  o  opposizione tra  du(*,  idee».  Questa  convenienza  0  discouvenieiiza  può essere  percepita,  sia  comparando  immediatamente  le  due idee  l'una  con  l'altra,  e  allora  la  conoscenza  è  intuitiva — è cosi  che  lo  spirito  vede  che  il  bianco  non  è  il  nero, che  un  cerchio  non  è  un  triangolo,  che  tre  è  uguale  a due  più  uno  —  sia  mediante  l'intervenzione  di  una  o più  altre  idee,  che  lo  spirito  paragona  tra  di  loro  e  con quelle  di  cui  vuole  scoprire  la  convenienza  o  la  discori- venienza,  e  allora  la  conoscenza  è  dimostrativa  —  così lo  spirito,  non  potondo  conoscere  l'eguaglianza  dei  tre angoli  di  un  triangolo  a  due  retti,  intuitivamente^  com- parando insieme  i  tre  angoli  del  triangolo  e  due  retti, è  obbligato  di  servirsi  di  altri  angoli  a  cui  i  tre  angoli del  triangolo  siano  eguali,  e  trovando  che  questi  sono eguali  a  due  retti,  egli  conosce  perciò  dimostrativamente che  i  tre  angoli  di  un  triangolo  sono  pure  eguali  a  due retti  (1).  Ma  il  fondamento  ultimo  della  conoscenza  è sempre  Vintuizione^  anche  nella  conoscenza  dimostrativa, perchè,  a  ciascun  grado  della  deduzione,  la  connessione  del- le idee,  la  loro  convenienza  o  di  sconvenienza,  è  percepita d'  una  maniera  intuitiva  (2).  Ecco  dunque  i  due  gradi della  nostra  conoscenza:  Virftiiizione  e  la  dimostrazione. Ciò   che   non  può  rapportarsi  all'  uno  dei  due,    è   fede 1 —  489  — o  opinione,  e  non  conoscenza,  almeno  riguardo  a  tutte  le verità    generali  ^1).  «Quando  le   idee  di  cui  noi    perce- piamo la  convenienza  o  la  disconvenienza,  sono  astratte, la  nostra  conoscenza  è  universale.  Perchè  ciò  che  è  co- nosciuto di  questa  sorta  di  idee  generali,  sarfi  sempre vero  di  ciascuna  cosa  particolare,  in  cui  questa  essenza, cioè  quest'idea  astratta,  si  trova  racchiusa;  e  ciò  che  è una  volta  conosciuto  di  quest'idee,  sarà  continuamente ed  eternamente  vero.  Cosi  per  ciò  che  è  di  tutte  le  co- noscenze generali,  è  nel  nostro  spirito  che  noi  dobbiamo cercarle  e   trovarle   unicamente,  e   non  è  che  la  consi- derazione  delle    nostre    proprie    idee    che    ce   le    forni- sce. »  (2) Che  la    conoscenza  a   priori  sia    per    Locke  la  sola conoscenza  adequata,  quella  in  cui  si  ha,  per  dir  così, la  concidenza  tra  l'intelligenza  e  l'intelligibile,  lo  indica già  questa  circostanza,  eh'  egli  non  accorda  il  nome  di conoscenza  che  alla  intuitiva  e  alla  dimostrativa:  la  co- noscenza   sperimentale,    induttiva,   non  è  per  lui    una conoscenza.  Locke    suppone  che  vi    hanno    sempre  nelle cose  stesse  delle  connessioni  necessarie  e  razionali,  cioè percettibili  a  priori,  sia  che  il  nostro  spirito  possa  o  no averne  la  percezione  attuale.  Così  egli  definisce  la  verità  : la  denotazione  in  parole  della  convenienza  o  disconve- nienza delle  idee,  quale  essa  è   realmente  (3).  Nel  giu- dizio o  l'opinione  — facoltà  che  ci  è  stata  data  per  sup- plire al  difetto  della  vera  conoscenza,  cioè  della  cono- scenza a    priori  —lo   spirito    suppone   che  le   idee  con- vengano o  disconvengano:  egli  non  vede  la  convenienza 0  disconvenienza  delle  idee,  ma  presume  che  vi  sia  (4). (1)  L.  4  V.  1  ^>  2.  e.  2  5  1.  2.  e.  8  $  1-4,  e.  17  $  14-18,  ecc. (2)  L.  4  e.  2  §  1,  e.  3  §  4.  v.  15  ^\  1,  :^,  e.  17  $  15,  ecc. (1)  L.  4  e.  2  v^  14. (2^  L.  4  e.  3,  31. (3)  L.  4  e.  5  §  9. (4)  L.  4  e.  14  §  3,  4. -  490  — Pare  da  ciò  che  Locke  consideri  la  convenienza  e  discon- venienze delle  idee  —  cioè  le  loro  connessioni  e  incom- patibilità necessarie  e  razionali  ossia  intelligibili  a priori— come  una  proprietà  obbiettiva  delle  idee  stesse, che  esiste  sia  che  noi  possiamo  scoprirla  o  no,  della stessa  maniera  che  i  rapi)orti  fra  le  g'randezze  esistono, sia  che  noi  le  abbiamo  misurate  o  no  ;  e  che  ea'li  am- metta  che  questa  proprietà  deve  trovarsi  sempre  nelle idee,  tutte  le  volte  che  vi  ha  una  congiunzione  costante o  un'incompatibilità  tra  i  fatti  che  queste  idee  rappre- sentano. Questa  proprietà  noi  la  percepiamo  nella  co- coscenza  a  priori,  cioè  intuitiva  o  dimostrativa,  di  una verità  generale;  nella  conoscenza  a  posteriori  o  induttiva non  la  percet)iamo,  ma  siamo  ridotti  a  presumerla. La    limitazione    della    nostra    conoscenza    a    priori prova    la    limitazione    delle    nostre    facoltà    conoscitive «nello    stato    di    mediocrità  in    cui    esse   si    trovano  in questa  vita  »  (1).  Tutte  le  conoscenze  generali  sul  reale si  riducono  insomma  per  Locke  a    sapere  che  tali  pro- prietà coesistono  costantemente  con  tali  altre  proprietà in  un  sog-getto  comune,  poiché  l'idea  che  noi  abbiamo di    ciascuna    specie    di    esseri,  di    ciascuna  sostanza,    è l'idea  di  un  grappo  di  proprietà  o  di  attributi  che  coe- sistono  costantemente  in  uno  stesso  sog-getto    (proprietà che  per  la  massima  parte  sono  le  potenze  attive  e  pas- sive delle  sostanze,  cioè  la  loro  capacità  di    modificare d'  una  certa  maniera  altre  sostanze  o  di    esserne  modi- ficate) (2).  Una    conoscenza  a    f)riori    delle    leggi    delle cose  sarebbe  dunque  la  conoscenza  di  una    dipendenza naturale,  di  una  connessione  necessaria  e  razionale^   fra le    proprietà    coesistenti  il    cui    complesso    costitusce  la (1)  L.  4  e.  12  ^S  10.  e.   11  ^^  ^.  <••   17  §  14,  ecc. (2)  L.  2.  e.  2:^,  1.  4,  e.   1  ^  3-7,    e.    3    $   \)  e  sgo-.,    e.    0.   ^^  7 e  sgg.,  ecc. —  491    - nozione  che  noi  abbiamo  di  ciascuna  sostanza,  di  ciascun genere  di  esseri.  Questa  dipendenza  o  connessione  noi non  possiamo  vederla  secondo  Locke  che  in  rarissimi casi,  ma  egli  non  dubita  che  essa  non  esista  (se  la coesistenza  è  realmente  costante)  anche  quanto  noi  non possiamo  scoprirla  (1).  Siccome  un  legame  comprensibile (nel  senso  metafisico)  tra  i  fatti  suppone,  secondo  la metafìsica  apriorista,  una  connessione  a  priori  tra  le idee  di  questi  fatti,  cosi  la  mancanza  di  una  visibile connessione  a  priori  tra  le  idee  (immediata  o  mediata) vuol  dire,  per  Locke,  che  la  congiunzione  tra  i  fatti  cor- rispondenti, (juantunque  costante,  è  incomprensibile  (2); e  questa  incomj>r(msibilità  importa  naturalmente  per  lui, come  per  tutti  i  metafisici,  che  vi  ha  là  qualche  cosa che  noi  non  conosciamo,  e  che,  se  la  conoscessimo,  ci farebbe  comprendere  come  e  perchè  i  fatti  sono  congiunti. Per  conseguenza  Locke  ammette  la  dottrina  che  noi non  conosciamo  Vessenza  rea^e  delle  cose.  Egli  distingue Vessenza  reale  e  VessenyM  nominale.  L'essenza  nominale è  il  complesso  delle  note  che  costituiscono  il  concetto di  ciascun  genere  (3).  L'essenza  reale  è  il  fondamento delle  i)roprietà  che  appartengono  al  genere,  il  princi- pio da  cui  esse  derivano,  in  altri  termini,  ciò  che,  se fosse  conosciuto,  spiegherebbe  come  e  perchè  queste propri(ità  coesistono  le  une  con  le  altre,  come  e  perchè sono  unite  in  uno  stesso  soggetto  (4).  Ciò  che  prova che  l'essenza  reale  delle  sostanze  none  la  loro  essenza (1)  L.   4  e.  :?  ^  11,   12.   !<;.   e.   (J.   v^  7.    10  eee. (2)  Compreiideie  o  no  una  eausazione  equivale  per  Loeke a  potere  scoprire  o  no  uiui  connessione  a  priori  tra  l'idea  della causa  e  quella  dell' ettetto.  V.  1.  4  e.  8  $  18.  §  28-21).  nota  di Coste  al  $  6.  ecc. (8)  L.  8  e.  8  §  15,  e.  (>  §  2,  ecc. (4)  L.  2  e.  28  v^  8.  e.  81  v^  18,  1.  8  e.  8  v>  l-").  ^'.  <>  ^^  -'-  •^'  <>- 9.  e.  9  vS  12,  e.  10  §  21,  1.  4  e.  4  ^  12,  e.  (>  ^  15.  ecc. 492  — nominale,  ma    qualche   cosa  di    sconosciuto,  è  che  noi non  vediamo  alcuna  connessione  tra  le  loro  proprietà, non  comprendiamo  cornee  perchè  queste  proprietà  coe- sistono o  sono   unite  in  uno  stesso    sog-g-etto,  non  pos- siamo dedurle  a  priori  dall'essenza  nominale,  (dal  con- cetto) della  sostanza  (1).  Là  dove  1'  essenza  nominale  e ressenza  reale    s'identificano  (ciò  che  non  avviene  mai nelle  sostanze,  ma  soltanto  nei  modi),  come  p.  e.  nelle figure  g-eometriche,  noi    possiamo    dedurre  a  priori  da un    piccolo  numero  di    proprietà  che    facciamo    entrare nella  definizione  o  nel  concetto  della  cosa,  tutte  le  altre proprietà    che  ad  essa    ai)parteng-ono  (21  «  Ma  nella  ri- cerca che  noi  facciamo  per  perfezionare  la   conoscenza che  possiamo  avere  d<?lle   sostanze,  la  mancanza  d'idee necessarie    per    seguire    questo    metodo    ci    obbliga    di prendere  un    tutt'  altro    cammino.   Qui  noi  non   aumen- tiamo   la    nostra    conoscenza,    come    nei  modi  di  cui  le idee    astratte    sono  le    essenze    reali    cosi    bene    che  le nominali,  contemplando  le  nostre    proprie  idee,  e  con- siderando i  loro  rapporti  e  le  loro  corrispondenze     .     . Donde  segue  evidentemente,  a  mio  avviso, che  le  sostanze  non  ci  forniscono  molte  conoscenze  s'è- nerali,  e  che  la  semplice  contemplazione  delle  loro  idee astratte  non  ci  condurrà  molto  avanti  nella  ricerca della  verità  e  della  certezza.  Che  bisogna  dunque  che noi  facciamo  per  aumentare  la  nostra  conoscenza  ri- guardo agli  esseri  sostanziali  V  Noi  dobbiamo  prendere qui  una  via  direttamente  contraria;  perchè  non  avendo alcuna  idea  delle  loro  essenze  reali,  noi  siamo  obblia^ati di  considerare  le  cose  stesse  quali  esse  esistono,  invece di  consultare  i  nostri  propri  pensieri.  L'esperienza  deve istruirmi  in    quest'occasione  di  ciò  che  la  ragione  non (1)  L.  2  o.  :n  ^  H,  e.  32  $  24.  1.  3  e.  f>  $  9.  ecc. (2)  L.  3  e.  3  $  18,  e.  5  §  14,  e.  11  v^  V\,   1.  4  e.   12  $  8-9,  ecc. potrebbe  appendermi;  e  non  è  che  per  delle  esperienze che  io  posso  conoscere  certamente  quali  altre  qualità coesistono  con  quelle  della  mia  idea  complessa.   »  (1). i: essenza  reale  (ch'egli  chiama  ^wvq  costituzione  reale) di  una  sostanza,  di  un  genere  di  esseri  reali,  è  dunque per  Locke  un  principio  sconosciuto,  e  inconoscibile,  dal quale,  se  lo  conoscessimo,  noi  potremmo  dedurre,   per il  solo  ragionamento,  senz'alcun  soccorso  dell'esperienza, tutte  le  proprietà  che  noi  conosciamo  o  possiamo  cono- scere  del   genere  (2).  Per  le  diverse    specie    dei    corpi, l'essenza  reale  è  la  costituzione  interione  delle  loro  parti insensibili    (3)  :    così  è  da   questa    diversa   costituzione che  derivano  e  potrebbero  essere  dedotte  tutte  le    pro- prietà osservabili  che  appartengono  ai  diversi  corpi,  le quali  consistono  quasi  unicamente,  come  abbiamo  detto^ nelle  loro  potenze  attive  e  j^assive,  tra  le  quali  bisogna pure  contare  le  proprietà  sensibili  (secondarie)  che  non sono  nei  corpi  stessi  che  delle  potenze  d'  impressionare d'una  certa  maniera  i  nostri  sensi.  Locke  oppone  questa dottrina  a  quella  degli  sco\s.st\ci(\eMe  forme  sostanziali: vi  ha  tra  le  due  dottrine   sulle    essenze    delle    sostanze materiali  questa  differenza  capitale,  che  mentre,  secondo i  peripatetici,  ciascuna  specie  di  sostanze  ha  una  natura propria,  ed  è  governata  da  leggi  proprie,  irriduttibili  alle lei>"£ii  o-enerali   della   materia  e  del    movimento,   invece Locke  ammette,  con  la  maggior  parte  dei  filosofi  moderni, la  teoria  meccanica,  che  spiega  le  proprietà  speciali  delle cose  per  le  leggi  generali  del  mondo  materiale.  Ma  se (1)  h.  4  e.  12  §  9. (2)  V.  oltre  il  luojro  riportato  e  quelli  citati  nelle  due  note precedeuti,  1.  2  e.  31  ^S  10-11,  1.  3  e.  11  ^S  22-23,  1.  4.  e.  H.  $  11, 15,  e.  12  ^  12,  ecc. (3)  L.  2  e.  31  ^  H,  1.  3.  e.  3.  §  17-18,  e.  ♦>  $  2,  e.  6  <&  0,  1.  e.  3  v^  11.  2.'ì,  e.  H  §  7,  9,  ecc. 494 la  dottrina  di  Locke  sulle  essenze  delle  diverse  specie dei  corpi  è  un  risultato  della  teoria  meccanica,  non  bi- sogna credere  perciò  che  tutta  la  sua  dottrina  sulle  es- senzp  reali  si  riduca  a  una  semplice  applicazione  di  que- sta teoria.  Quest' incoo-iiita  che,  secondo  Locke,  ri- siede nell'interno  di  una  massa  d'oro,  e  che,  se  divenisse cognita,  sarebbe  il  principio,  da  cui  potrebbero  dedursi tutte  le  qualità  e  le  ìnaniere  di  agire  e  di  patire  di  questa porzione  di  materia,  non  consiste  unicamente  per  lui nella  grandezza,  figura,  posizione  reciproca  e  le  altre (se  pure  bisogna  aggiungere  delle  altre)  proprietà  pn- ìuarie  delle  particole  (1).  Se  è  la  costituzione  delle  sue parti  insensibili  che  Locke  chiama  l'essenza  reale  del- l' oro,  ciò  è  perchè  è  per  essa  che,  secondo  lui,  questa porzione  di  materia  è  oro,  ed  è  da  essa  che  dijìendono tutte  le  qualità  e  le  potenze  che  sono  proprie  dell'oro  :(1)  L'ij)otesi  che  le  proprietà  dei  corpi  derivano  e  ijotreh- bero  dedursi  dalla  costituzione  delle  loro  parti  insensibili.  t> evidentemente,  per  Locke,  un'applicazione  i)articolaie  del  prin- cipio, generale  che  le  proprietà  delle  cose  derivano  e  potre1»bero dedursi  dalla  loro  essenza  reale.  Ciò  e  tanto  vero  che  egli  non accorda  a  quest'ipotesi  che  una  certezza  inlV^riore  a  (piella  della dottrina  di  una  essenza  reale  sconosciuta  :  le  })roi)rietà  dei  di- versi corpi  dovendo  certamente  derivare  da  qualche  principio sconosciuto,  il  più  lu'obabile  è  che  questo  principio  sia  la  costi- tuzione delle  loro  parti  insensibili  (V.  1.  4  e.  :^  11,  ib.  IH.  ecc.) Il  presupposto  della  dottrina  dell'  essenza  reale,  che  vi  ha  per ciascuna  sostanza  un  principio,  dal  quale,  se  fosse  possibile  di conoscerlo.  potre])bero  dedursi  tutte  le  proprietà  di  questa  so- stanza, reooe  anche,  secondo  Locke,  nell'ipotesi  che  l'essenza delle  diverse  specie  di  corpi  si  concepisca  in  un  modo  diverso da  quello  in  cui  egli  stesso  la  concepisce  (costituzione  delle parti  insensibili),  per  esempio  nel  modo  in  cui  la  concepiscono gli  scolastici  :  anche  in  questo  caso,  bisognerebbe  ammettere che  tutte  le  proprietà  della  specie  potrebbero  dedursi  a  priori dall'essenza  (1.  2  e.  31  6,  1.  8  e.  «  19,  1.  4  e.  6.  5,  ecc.) -  495  — ma  oltre  queste  vi  hanno  le  qualità  e  le  potenze  che l'oro  ha  in  comune  con  gli  altri  corpi,  in  altri  termini tutte  le  qualità  e  potenze  la  cui  collezione  costituisce  il genere  (la  sostanza)  corpo  o  materia.  Questa  collezione di  proprietà  suppone,  secondo  i  presupposti  di  Locke, una  causa  della  loro  unione,  qualche  cosa  che  potrebbe spiegare  perchè  le  une  coesistono  con  le  altre,  un  prin- cipio, infine,  da  cui  tutte  potrebbero  dedursi.  Ciò  che  si è  detto  della  collezione  di  i)roprieià  che  costituisce,  per la  nostra  conoscenza,  la  sostanza  corpo,  deve  dirsi  si- milmente della  collezione  di  proprietà  che  costituisce  la sostanza  spirito.  Per  una  conoscenza  razionale  delle stesse  proprietà  distintive  dell'oro,  non  basterebbe  di  co- noscere Vessenza  reale  dell'oro,  la  costituzione  delle  sue parti  insensibili,  se  noi  non  conoscessimo  inoltre  il  prin- cipio,  da  cui  derivano  le  qualità  e  le  maniere  d'  agire e  di  patire,  tanto  della  materia  quanto  dello  spirito. Questa  conoscenza  razionale  in  civetto  supporrebbe  che noi  conoscessimo  (razionalmente,  cioè  a  priori)  la  con- nessione tra  le  proprietà  sensibili  dell'  oro  e  questa  co- stituzione delle  sue  parti  sensibili:  ma  perciò  dovremmo conoscere  (sempre  a  priori)  tutte  le  maniere  di  agire  e di  patire  della  materia,  e  la  connessione  che  vi  ha  tra i  movimenti  della  materia  e  le  sensazioni  che  essi  oc- casionano nello  spirito  (1).  Ciò  che  sarebbe  impossibile^ nella  ignoranza  del  principio,  dal  quale  potrebbero  de- dursi le  potenze  e  le  operazioni,  sia  della  materia,  sia dello  spirito.  Cosi  al  di  là  dell'  essenza  reale  che  pos- siamo chiamare  fisica  (la  costituzione  delle  partì  insen- sibili dei  corpi),  Locke  ammette  un'  essenza  reale,  che possiamo  chiamare  metafisica  ;  è  T  essenza  o  costitu- zione interiore  sconosciuta  della  materia  e  dello  spirito, che  naturalmente  egli  conclude  dalla   incomprensibilità (1)  L.  4  e,  3  $  11-12,  28-29,  e.  (5  ^  7.   10,   13-14,  ecc. -  496  — delle  potenze  e  operazioni  di  queste  due  sostanze  (1), e  che,  conformemente  alla  sua  dottrina  generale  sulla essenza  reale,  egli  deve  concepire  come  il  principio  di tutte  le  loro  proprietà,  la  cui  conosceuza,  se  fosse  pos- sibile, trasformerebbe  la  conoscenza  di  queste  proprietà da  empirica  in  a  priori. Qui  ci  troviamo  in  presenza  di  un'  altra  dottrina trascendente  di  Locke,  quella  della  sostanza^  dottrina  i cui  veri  motivi  noi  siamo  ridotti  a  congetturare,  poiché le  spiegazioni  dell'autore  a  questo  riguardo  sono,  a  mio credere,  assai  insufficienti.  Locke  ammette  che,  nelle nostre  idee  delle  sostanze,  vi  ha,  oltre  il  complesso  delle loro  proprietà  o  attributi,  l'idea  oscura  di  un  quid  scono- sciuto,  in  cui  queste  proprietà  ineriscono,  ed  è  questo quid  che  egli  chiama,  nel  senso  stretto,  la  sostanza.  Se noi  gli  domandiamo  perchè  bisogni  ammettere  questa entità  trascendente,  egli  risponde  che  questi  attributi  noi non  potremmo  concepirli  senza  qualche  cosa  a  cui  essi ineriscano;  il  che  significa  semplicemente  che  vi  ha  una necessità  mentale  che  ci  forza  ad  ammettere  questa qualche  cosa.  Ma  per  far  sentire  questa  necessità  men- tale a  quelli  che  non  l'avvertono,  e  ritengono  semplice- mente che  una  sostanza  è  il  complesso  dei  suoi  attributi (questa  estensione,  questa  forma,  questo  colore,  ecc.) avrebbe  bisognato  ([ualche  spiegazione.  Tuttavia  Locke aggiunge  un'altra  indicazione:  la  sostanza  non  è  so- lamente il  substratum  a  cui  le  qualità  ineriscono,  ma è  anche  ciò  da  cui  queste  qualità  risultano,  ciò  che  co- stituisce il  loro  legame,  che  è  la  causa  della  loro  unione o  della  loro  coesistenza  in  uno  stesso  soggetto  (2).  Que- sto ci  mostra  che  la  dottrina  della  sostanza  è  legata  a quella  dell'  essenza  reale,  e  che,  secondo  Locke,  è  la  na- (1)  L.  2  e.  23  ^  22-28.  1.  8  e.  H  $  8.  1.   4  e.  3  ^  28,  ecc. (2)  L.  2  i\  28  5>  1.  G.   1.  3  e.  (>  §  21,  ecc. —  497  — tura  della  sostanza,  del  substratum  sconosciuto  delle qualità,  che  è  il  principio  ultimo  da  cui  queste  derivano e  potrebbero  dedursi.  Vi  hanno  nondimeno  delle  ragioni per  credere  che  la  funzione  del  concetto  trascendente della  sostanza,  in  Locke,  non  sia  unicamente  questa,  di darci  una  rappresentazione  delle  cose  tale  che  si  con- cepisca come  esse  possano  conformarsi  alla  condizione che  loro  impone  il  principio  della  metafisica  aprhrìsta, alla  condizione  cioè  che  le  loro  leggi  siano  conoscibili a  priori  (per  un'intelligenza  che  fosse  adequata  all'  in- telligibile). Per  la  sostanza  dello  spirito  almeno,  non potrebbe  dubitarsi  che  Locke  non  obbedisca  alla  tendenzanaturale  che  ci  spinge  ad  immaginare  un  substratum,  un quid  permanente,  a  cui  gli  stati  della  coscienza  ineri- scano, dopo  che  abbiamo  ammesso  la  separabililà  dello spirito  dal  corpo  (l).  In  quanto  alla  sostanza  della  ma- teria,  r  asserzione  sì  spesso  ripetuta  che  noi  non  pos- siamo concepire  le  qualità  tutte  sole,  senza  qualche  cosa a  cui  esse  ineriscano,  fa  pensare  che  Locke  ha  proba- bilmente intraveduti^  la  grande  difficoltà  del  concetto ordinario  della  materia,  difficoltà  che  consiste  in  questo, che,  dopo  aver  soppresso  le  proprietà  sensibili  (secon- darie), ciò  che  resta  del  corpo  —  l'estensioae  secondo irli  uni,  l'estensione  e  l'impenetrabilità  secondo  gli  altri  — non  è  che  un'astrazione,  che  è  impossibile  di  rappre- sentarci come  qualche  cosa  di  concreto  e  di  per  sé esistente,  e  che  forza  perciò  il  metafisico  a  trascendere l'esperienza,  per  avere  un  che  di  concreto  in  cui  que- st'astrazione possa  inesistere.  Ma  questa  è  una  qui- stione  che  appartiene  alla  parte  II. Sin  qui  dell'  agnosticismo  di  Locke  :  passiamo  ora al  suo  scetticismo,  che  è  il  lato  della  sua  teoria  della conoscenza,  su  cui  egli  insiste  di  più,  e  per  cui  egli  può considerarsi  come  il  precursore  di  Hume. (1)  V.  Appcnd.  (Illa  1  parte,  e.  2. 32 —  498  — Dal  principio  che  la  conoscenza  assolata,  adequata, delle  leg"g-i  delle  cose,  la  sola  che  meriti  il  nome  di  co- noscenza, è  la  conoscenza  a  priori,  cioè  intuitiva  o  di- mostrativa,  Locke  ne  conclude  che  1'  esperienza,  l'in- duzione, non  può  dare  delle  conoscenze  generali  che siano  certe.  In  effetto,  V  evidenza  delle  conoscenze  in- duttive è  inferiore  a  quella  delle  conoscenze  a  priori  : ne  segue,  se  le  conosce  nze  a  priori  sono  le  sole  ade- quate, che  la  loro  certezza  è  la  sola  adequata,  e  che  la certezza  delle  conoscenze  induttive  non  è  adequata, non  è  certezza,  come  queste  conoscenze  non  sono  co- noscenze.  Il  risultato  di  questo  corollario  del  principio della  metafisica  apriorista,  associato  con  la  convinzione che  le  leggi  del  reale  non  possiamo  conoscerle  che  per l'esperienza,  è  l'incertezza  iella  nostra  conoscenza  ge- nerale sugli  esseri  reali. Per  mostrare  quest'incertezza  il  ragionamento  di  Lo- cke è  sempre  lo  stesso  :  perchè  si  possa  assicurare  che  vi ha  tra  due  fatti  un  legame  costante,  è  necessario  di  perce- pire una  connessione  a  priori,  per  intuizione  o  per  dimo- strazione, tra  le  idee  di  questi  fatti;  questa  connessione non  la  vediamo  quasi  mai;  dunque  non  possiamo  quasi mai  assicurare  che  vi  ha  tra  due  fatti  un  legame  costante. Siccome  ciò  che  noi  conosciamo  degli  esseri  reali  si  riduce per  Locke,  come  abbiamo  detto,  alla  coesistenza  d'un  com- plesso di  proprietà  o  attributi  in  uno  stesso  soggetto, cosi  le  nostre  conoscenze  generali  sul  reale  si  riducono a  sapere  quali  altri  attributi  (qualità  o  potenze)  coesi- stono o  no  costantemente  con  quelli  che  costituiscono già  i  nostri  concetti,  o  come  dice  Locke,  le  nostre  idee complesse,  delle  cose,  vale  a  dire  con  quelli  ehe  entrano nei  significati  dei  nomi  dei  generi,  e  che  noi  suppo- niamo trovarsi  nelle  cose,  quando  le  chiamiamo  con questi  nomi.  Ora  questa  parte  della  scienza  umana  è, dice  Locke,  «  molto    limitata,  e  si  riduce    pressoché  a —  499  — niente.    La    ragione  di  ciò  è    che  le   idee   semplici  che compongono  le  nostre   idee    complesse  delle   sostanze, sono  di  tal  natura  che  esse  non    portano  con  sé    alcun legame  visibile  e   necessario    o    alcuna    incompatibilità co^ii  alcun'  altra  idea  semplice,  di  cui  vorremmo  cono- scere la    coesistenza  con  1'  idea   complessa  che  già  ab- biamo »  (1).  «In  verità   alcune  poche  delle    qualità  pri- marie (dei    corpi)    hanno  una    dipendenza    necessaria  e un  visibile  legame  fra  di  loro  ;  cosi  la  figura    suppone necessariamente   1'  estensione,    e  la   recezione    o  la  co- municazione del    movimento  per  via  d'impulsione  sup- pone la  solidità.  Ma  quantunque  vi  sia  una  tale  dipen- denza tra   queste  idee,  e  forse  tra    alcune  altre,  ve  ne ha    per    tanto  si    poche  che    abbiano    una    connessione visibile,  che  noi  non  potremmo  scoprire  per  intuizione ^o    per    dimostrazione    che  la    coesistenza  di    pochissime qualità  che  si    trovano    unite   nelle    sostanze  ;  di    sorta che  per    conoscere  quali    qualità    sono    racchiuse    nelle sostanze,  non  ci  resta  che  il  semplice  soccorso  dei  sensi Cosi    quantunque  noi   vediamo  il  color giallo,  e  troviamo,  per  esperienza,  il  peso,  la  malleabilità, la  fusibilità  e  la  fissità  unite  in  un  pezzo  d'  oro  ;  con tutto  ciò,  poiché  ninna  di  queste  idee  non  ha  alcuna dipendenza  visibile  0  alcun  legame  necessario  con  un'altra, noi  non  potremmo  conoscere  certamente  che  là,  dove si  trovano  quattro  di  queste  idee,  la  quinta  deve  esservi pure,  per  quanto  probabile  sia  eh'  essa  vi  è  efl'ettiva- mente  ;  perchè  la  più  grande  probabilità  non  importa mai  certezza,  senza  la  quale  non  può  esservi  alcuna vera  conoscenza  »  (2)  «  Ogni  oro  è  fisso,  è  una  propo- sizione di  cui  non  possiamo  conoscere  certamente  la verità Se   si    prende    la    parola    oro    per (1)  L.  4  e.  3  par.  10. (2)  L.  4  e.  3  $  14. —  500  — una  specie  determinata  dalla  sua  essenza  nominale;  che r  essenza    nominale    sia    p.   e.    V  idea    complessa    d' un corpo  d'  un  certo  colore  giallo,    malleabile,  fusibile  e  più pesante  che  alcun  altro  corpo  conosciuto^     .     .     .     .  '  . alcun'  altra  qualità  non  può    essere    universalmente  af- fermata 0  negata  con  certezza  dell'oro,  se  non  ciò  che ha   con    questa    essenza    nominale    una    connessione    o un'incompatibilità  che  si  può  scoprire.  La  fissità,  p.  e., non  avendo  alcuna  connessione    necessaria  col  colore, il  peso  o  alcun'  altra  idea  semplice  che  entra  nell'  idea Complessa  che  noi  abbiamo  dell'oro,  o  con  questa  com- binazione l'idee  prese    insieme,  è    impossibile  che  noi possiamo  conoscere  certamente  la  verità  di  questa  pro- posizione :  Che  ogni  oro  è  fisso  —  Come  non  si  può  sco- prire alcun    legame  tra  la  fissità  e  il    colore,  il  peso  e le  altre  idee  semplici  dell'essenza  nominale  dell'oro  che noi  veniamo  di    proporre  ;  così  se  noi    facciamo  che  la nostra  idea  complessa  dell'  oro  sia  un  corpo  giallo,  fu- sibile, duttile,  pesante  e  fìsso,  noi    saremo    nella    stes- sa incertezza  riguardo  alla  sua    capacità    di    essere  di- sciolto   neir  acqua  regia,  e  ciò  per  la  stessa    ragione, perchè,  per  la  considerazione  delle  idee  stesse,  noi  non possiamo  mai    affermare  o    negare   con    certezza  di  un corpo  di  cui  l'idea  complessa  racchiude  il  color  giallo, un  gran  peso,    la  duttilità,    la    fusibilità   e   la    fissità, ch'esso  può  essere  disciolto  nell'acqua  regia;  e  cosi  del resto  delle  sue  altre  qualità.  Io  vorrei  ben  vedere  un'af- fermazione generale  su  qualche  qualità  dell'oro,  di  cui si    possa    essere    certamente    sicuri  che  è    vera.    Senza dubbio  mi  si  replicherà  subito:  ecco  una    proposizione universale  affatto  certa,  ogni  oro  è  malleabile.  A  che  io rispondo  :    Questa  è,   ne   convengo,    una    proposizione certissima,  se  la  malleabilità  fa  parte  dell'idea  complessa che  la    parola  oro    significa.  Ma  tutto  ciò  che  si  afferma dell'  oro  in  questo  caso,   è  che    questo  suono    significa —  501  — un'idea  nella  quale  è  racchiusa  la  malleabilità;  specie di    verità  e  di  certezza    in    tutto    simile    a    quest'  affer- mazione   Un  centauro    è    un'  animale   a   quattro   piedi. Ma  se  la  malleabilità  non  fa  parte  dell'essenza  specifica significata  dalla  parola  oro,  è  visibile  che  quest'  after- mazione  ogni  oro  è  malleabile  non   è    una   proposizione certa;  perchè  che  l'idea  complessa  dell'oro  sia  composta di  tali  altre    qualità  che  vi  piacerà    supporre    nell'  oro, la  malleabilità  non  parrà  dipendere  da  quest'idea  com- plessa, né  derivare  da  alcuna    idea  semplice  che  vi  sia racchiusa»  (1)  Locke  distingue  le  proposizioni   in  reali o  istruttive  e    verbali  o  frivole.  Queste    ultime   sono  le proposizioni  che    Kant    chiamò    analitiche,  cioè    quelle in  cui  l'idea   deir  atributo  era  già    compresa  nell'idea del    soggetto  :    cosi  se    per  la    parola  oro    s'  intende  un corpo  giallo,  pesante,  fusibile,  e  malleabile,  dicendo: ogni  oro   è    malleabile.,    la    proposizione    sarà  certa    ma frivola,  essa  volgerà  semplicemente  sul   significato  del nome,  senza  estendere  per  niente  la  nostra  conoscenza sulle   cose.  Ma  se  la    malleabilità  iion  è    compresa  nel- r  idea    sig-nifìcata  dal  nome  che  fa  da    soggetto,  se  la proposizione  ogni  oro  è  malleabeli  è   sintetica,  allora  la proposizione  è  reale  o  istruttiva,  ma  non  è  certa.  Ora «  siccome  noi  non  abbiamo  che  poco  o  putito  conoscenza delle  combinazioni  d'idee  semplici  che  esistono  insieme nelle  sostanze  che  perii  mezzo  dei  nostri  sensi  (i  quali non    danno    certezza  che  del    particolare),  noi  non  po- tremmo fare  sul  loro  soggetto  alcuna  proposizione  uni- versale che  sia  certa,  al  dì  là  del  termine  a  cui  le  loro essenze  nominali  ci  conducono;  e  siccome  queste  essenze nominali  non  si  estendono  che  a  un  piccolo  numero  di verità,  pochissimo    importanti,  avuto  riguardo  a  quelle che    dipendono   dalle  loro    costituzioni  reali,  ne    segue (1)  L.  4  e.  (j  ^  8  e  9. 502 che  le  proposizioni  generali  che  si  fanno  sulle  sostanze^, sono  per  la  più  parte  frivole,  se  sono  certe  ;  e  che  se sono  istruttive,  sono  incerte  e  di  tal  natura  che  noi non  possiamo  avere  alcuna  conoscenza  della  loro  verità reale,  qualunque  sia  il  soccorso  che  delle  osservazioni costanti  e  1'  analogia  possano  fornirci  per  fare  delle congetture»  (1).  «  Le  idee  complesse  che  i  nomi  che^ noi  diamo  alle  specie  delle  sostanze  significano,  sono delle  collezioni  di  certe  qualità  che  noi  abbiamo  osser- vate coesistere  in  un  substratum  sconosciuto  che  chia- miamo sostanza.  Ma  noi  non  potremmo  conoscere  cer- tamente quali  altre  qualità  coesistono  necessariamente con  tali  conbinazioni  ;  a  meno  che  non  potessimo  sco- prire la  loro  dipendenza  naturale,  di  cui  non  potremmo portare  la  conoscenza  molto  avanti  rispetto  alle  loro prime  qualità.  E  per  tutte  le  loro  seconde  qualità,  noi non  vi  possiamo  assolutamente  scoprire  alcuna  connes- sione,  primo  perchè  non  conosciamo  le  costituzioni reali  delle  sostanze  da  cui  dipende  in  particolare  cia- scuna seconda  qualità  ;  e  secondo  perchè,  supposto  che ciò  ci  fosse  conosciuto,  non  potrebbe  servirci  per  una conoscenza  universale,  ma  solo  per  una  conoscenza sperimentale,  non  potendo  estendersi  con  certezza  al di  là  d'un  tale  o  d'im  tal  altro  esempio,  perchè  il  nostro intendimento  non  potrebbe  scoprire  alcuna  connessione immaginabile  tra  una  seconda  qualità  e  una  modifica- zione qualsiasi  d'  una  delle  prime  qualità.  Ecco  perchè non  si  possono  fare  sulle  sostanze  che  pochissime  pro- posizioni generali  che  portino  con  sé  una  certezza  indubi- tabile* (2).  «  Io  credo  per  me  che  fra  tutte  le  seconde  qua- lità delle  sostanze,  e  fra  le  potenze  che  vi  si  rapportano, non  se  ne  potrebbero  nominare  due  di  cui  la  coesistenza (1)  L.  4  e.  Vili,  ^  9. (2)  L.  4  e.  VI,  $  7. WtiiiflIWIlimii— TTIlll'nriliii Iluiniiiìililinx.nrinr  jti. -  503 necessaria  o  1'  incompatibilità  possa  essere  conosciuta certamente,  fuorché  nelle  qualità  che  apjmrtengono  allo stesso  senso,  le  quali  s'escludono  necessariamente  l'una con  l'altra.  Nessuno,  io  dico,  può  conoscere  certamente per  il  i-olore  che  è  in  un  certo  corpo,  qual  odore,  qual gusto,  qual  suono  o  quali  qualità  tattili  esso  ha,  né  quali alterazioni  è  capace  di  fare  su  altri  corpi  o  di  ricevere per  loro  mezzo.  Si  può  dire  la  stessa  cosa  del  suono, del  gusto,  ecc.  Siccome  i  nomi  generali  di  cui  ci  ser- viamo per  designare  le  sostanze,  significano  delle  col- lezioni di  idee  di  questa  sorta,  non  bisogna  sorpren- dersi che  noi  non  possiamo  fare  con  questi  nomi  che pochissime  proposizioni  generali  d'una  certezza  reale  e indubitabile.  Ma  pertanto,  allorché  l'idea  complessa  di qualche  sorta  di  sostanza  contiene  qualche  idea  semplice di  cui  si  può  scoprire  la  coesistenza  necessaria  che  è tra  essa  e  qualche  altra  idea  ;  sin  là  si  possono  fare delle  proposizioni  universali  che  si  ha  dritto  di  riguar- dare come  certe  :  se  p.  e.  alcuno  potesse  scoprire  una connessione  necessaria  tra  la  malleabilità  e  il  colore  o  il peso  dell'oro,  o  qualche  altra  parte  dell'idea  complessa che  è  designata  da  questo  nome,  egli  potrebbe  fare con  certezza  una  proposizione  universale  sull'oro  con- siderato sotto  questo  rapporto;  e  allora  la  verità  reale di  questa  proposizione  Ogni  oro  è  malleabile  sarebbe così  certa  come  la  verità  di  questa  /  tre  angoli  di ogni  triangolo  rettilineo  sono  eguali  a  due  retti  »  (1). «Tutta  la  nostra  conoscenza  generale  è  unicamente racchiusa  nei  nostri  propri  pensieri,  e  non  consiste  che nella  contemplazione  delle  nostre  proprie  idee  astratte. Da  per  tutto  ove  noi  percepiamo  qualche  convenienza 0  qualche  disconvenienza  fra  di  esse,  noi  vi  abbiamo una    conoscenza    generale  ;  di  sorta  che    facendo    delle (1)  L.  4  0.  VI  $  10. —  504  - proposizioni,  o  unendo  come  bisogna  i  nomi  di  queste idee,  noi  possiamo  pronunziare  delle  verità  g*enerali con  certezza.  Ma  perchè  nelle  idee  astratte  che  i  nomi generali  delle  sostanze  significano,  quando  hanno  una significazione  distinta  e  determinata,  non  si  può  scoprire legame  o  incompatibilità  che  con  pochissime  altre  idee; la  certezza  delle  proposizioni  universali  che  si  possono fare  sulle  sostanze  è  estremamente  limitata  e  difettosa nel  ]ì  ri  nei  pai  punto  delle  ricerche  che  facciamo  sul loro  soggetto  ;  e  fra  i  nomi  delle  sostanze  appena  ve ne  ha  un  solo  (che  l'idea  che  gli  si  attacca  sia  ciò  che si  vorrà',  di  cui  possiamo  dire  generalmente  e  con  cer- terza  che  esso  racchiude  tale  o  tal  altra  qualità  che abbia  una  coesistenza  o  un'incompatibilità  costante  con quest'idea  per  tutto  ove  essa  si  trova»  il).  Ciò  che  può fornirci  delle  proposizioni  universali  di  un'intera  certezza «sono  solamente  le  idee  che  sono  unite  con  la  nostra essenza  nominale  o  con  alcuna  delle  sue  parti,  per  dei leo'ami  che  si  possono  scoprire.  Ma  queste  idee  sono in  sì  piccolo  numero  e  di  si  poca  importanza,  che  noi possiamo  riguardare  con  ragione  la  nostra  conoscenza generale  sulle  sostanze  (io  intendo  una  conoscenza certa)  come  pressoché  niente  del  tutto — Infine,  per  con- cludere ;è  cosi  che  finisce  il  capitolo  sulla  verità  e  la certezza  delle  proposizioni  universali),  le  proposizioni generali,  di  qualunque  specie  esse  siano,  non  sono  capaci di  certezza,  che  quando  i  termini,  di  cui  sono  composte, sigmificano  delle  idee  di  cui  noi  possiamo  scoprire  la convenienza  e  la  disconvenienza  secondo  che  vie  espressa. E  quando  noi  vediamo  che  le  idee  che  questi  termini significano,  convengono  o  non  convengono,  secondo ■ch'essi  sono  affermati  o  negati  l'uno  dell'altro,  è  allora €he  noi  siamo  certi  della  verità  o  della  falsità  di  queste (1)    L.  4  e.   VI   ^>  13. 505 proposizioni.  Donde  noi  possiamo  inferire  che  una  cer- tezza generale  non  può  mai  trovarsi  che  nelle  nostre  idee. Se  noi  r  andiamo  a  cercare  altrove,  nelle  esperienze  o le  osservazioni  fuori  di  noi,  allora  la  nostra  conoscenza non  si  estende  al  di  là  degli  esempi  particolari.  È  la contemplazione  delle  nostre  proprie  idee  astratte  che sola  può  fornirci  una  conoscenza  generale  (1)». Ho  voluto  esporre  con  le  parole  stesse  dell'  autore le  opinioni  di  Locke  suU'  incertezza  delle  conoscenze generali  che  l'uomo  può  avere  sul  mondo  reale,  perchè questo  lato  della  sua  teoria  della  conoscenza -che  non è  posto,  a  mio  credere,  abbastanza  in  rilievo  nel  con- cetto che  il  più  ordinariamente  si  ha  della  filosofia  di Locke  —  ha  per  noi  quest'importanza,  che  vi  possiamo, per  dir  cosi,  prendere  sul  fatto  (ciò  che  non  sempre  si può,  quando  si  cerca  la  filiazione  delle  idee  nei  sistemi filosofici,  in  consequenza  del  carattere  più  o  meno  in- cosciente delle  inferenze  dei  metafisici)  il  rapporto  fra  lo scetticismo  e  il  sofisma  a  priori  del  nostro  spirito  che  è  la base  della  metafìsica  apriorista.  Certamente  Locke  non è  uno  scettico  radicale,  come  i  pirronisti  o  Hume  :  lo scettico  radicale  pretende  mostrare  che  è  impossibile  allo spirito  umano  di  formarsi  una  concenzione  coerente  delle cose,  ch'esso  è  condannato  ad  invilupparsi  da  per  tutto nella  contraddizione  e  nel  dubbio,  e  attacca  le  credenze naturali  dell'uomo,  come  fa  evidentemente  Hume,  non allo  scopo  di  mostrarne  la  falsità,  e  di  sostituire  ad  esse i  risultati  della  riflessione  filosofica— ciò  che  non  sarebbe più  lo  scetticismo—,  ma  allo  scopo  di  introdurre  nello spirito  r  incertezza  e  l'esitazione  al  soggetto  di  queste credenze,  e  quindi  di  tutto  ciò  che  sembra  all'uomo  di sapere  con  più  certezza.  Locke  non  fa  così:  ma  nondi- meno le  sue  proposizioni  sull'incertezza  delle  conoscenze (1)  L.  4.  e.  VI  §  lo,  IH. —  506  — generali  sugli  esseri  reali  sono  un  vero  scetticismo,  per- chè esse  si  estendono  a  tutto  il  reale,  involgendo  in  una comune  incertezza  tutta  la  conoscenza  generale,  e  perciò tutte  le  conoscenze  d' inferenza,  che  V  uomo  ha  e  può avere  del  reale,  dell'esistente.  La  fisica,  dice  Locke,  non è  una  scienza  e  non  è  suscettibile  di  divenirlo  :  niente di  certo,  con  le  facoltà  che  abbiamo,  siamo  capaci  di sapere  dei  corpi,  e  peggio  ancora  ci  troviamo  rapporto allo  spirito  e  alle  sue  operazioni  (1).  Quando  Locke  at- tacca la  certezza  delle  proposizioni  generali  sulle  pro- prietà delle  specie  particolari  dei  corpi,  le  sue  conclu- sioni potrebbero  essere  ammesse,  sino  ad  un  certo  punto, anche  dai  non  scettici  :  potrebbe  ammettersi,  per  esem- pio, che  non  è  assolutamente  certo  che  in  un  corpo,  in cui  si  trova  il  color  giallo  e  il  peso  dell'oro,  la  mallea- bilità, la  fusibilità  e  la  capacità  di  essere  disciolto  nel- l'acqua regia,  si  devono  pure  trovare  le  altre  qualità  e potenze  dell'oro,  non  essendo  contrario  a  delle  uniformità assolutamente  stabilite  della  natura  che  qualche  nuovo corpo  venga  scoperto,  simile  in  tutto  all'oro  in  un  gran numero  di  proprietà,  ma  differente  nelle  altre  (2).  Ma bisogna  o'uardare,  non  soltanto  alla  conclusione  di  Lo- cke,  ma  anche  al  ragionamento  per  cui  la  stabilisce. Se  Locke  nega  che  si  possa  affermare  generalmente  che col  colore,  il  peso  e  le  altre  propietà  costituenti  l'essenza nominale  dell'  oro  coesistano  altre  proprietà  non  com- prese in  questa  essenza  nominale,  è  perchè  egli  non vede  alcuna  connessione  a  priori  tra  le  idee  di  queste ultime  e  quelle  delle  prime.  Ma  lo  stesso  ragionamento invalida  tutte  le  conoscenze  generali  che  l'  uomo  ha  o può  acquistare  sulla  natura,  le  quali  sono  tutte  induttive e  a  posteriori.  Cosi  tutte  le  conoscenze  che  si  hanno   o (1)  L.  4  e.  3  ^  2tì,  ^  29,  e.  H  v^  14,  e.  12  ^  10,  ecc. (2)  Cfr.  Mill  Log.  1.  8  e.  22. —   507   — potranno  aversi  delle  leggi  primitive  della  natura,  quali le  leggi  del  movimento,  la  coesione  della  materia,  le leggi  dell'  azione  del  corpo  sullo  spirito  e  dello  spirito sul  corpo,  hanno  per  Locke  la  stessa  incertezza,  per  la ragione  che  sono  (o  saranno)  delle  verità  induttive,  e non  a  priori  (1).  Lo  scetticismo  di  Locke  è  coestensivo al  suo  agnosticismo  :  quando  un  rapporto  costante  tra i  fenomeni  sembra  incoìnprensibile  (nel  senso  metafisico), egli  nega  che  si  possa  assicurare  la  costanza  di  questo rapporto;  l'incomprensibilità  del  modo  essenziale  e  l'in- certezza del  modo  fenomenale  di  produzione  dei  feno- meni, delle  loro  leggi,  vanno  sempre  insieme,  per  Locke; perchè  la  certezza,  egualmente  che  la  comprensibilità^ d'una  verità  geiii'rale  consiste  per  lui  nella  sua  suscet- tibilità di  essere  da  noi  conosciuta  a  priori.  Ora  l'agno- sticismo  di  Locke  non  può  al  fondo  differire,  nella  sua estensione,  da  quello  degli  altri  filosofi  che  hanno  ab- bracciato lo  stesso  sistema,  per  esempio  gli  odierni  po- sitivisti (questo  sistema  non  essendo  arbitrario,  ma  fon- dato sulla  natura  stessa  della  nostra  intelligenza)  :  tutti i  fenomeni  devono  30sì  sembrare  a  Locke  incomprensi- bili (nel  modo  essenziale  della  loro  produzione],  e  per- ciò ancora  tutte  le  leggi  dei  fenomeni  incerte.  Locke,  è vero,  fa  menzione,  come  di  casi  eccezionali,  di  alcune verità  generali  sul  reale  che  noi  possiamo  conoscere  per la  visibile  connessione  tra  le  idee,  a  priori  (e  di  cui  per conseguenza  possiamo  essere  sicuri)  :  a  quelle  di  cui si  parla  nei  passi  che  abbiamo  riportati,  bisogna  ag- giungere l'impenetrabilità  della  materia  (2),  la  capacità dei  corpi  di  muovere  e  di  esser  mossi  per  mezzo  dell'im- pulsione, la  divisione  delle  loro  parti  per   conseguenza (1)  V.  notevolmente  1.  4  e.   III.   J  29. (2)  L.  4,  VII,  5. —  50S   — -  509 deirintrusioiie  di  altri  corpi  (1),  e  forse  alcune  altre  si- mili (2).  Alcune  di  queste  verità  sono  di  quelle  che  Lo- cke chiama  frivole;  tale  è  l'affermazione  che  la  fig'ura suppone  r  estensione  ;  quelle  che  sono  istruttive    aflfer- (1)  J..  4.  HI.  18. (2)  Al  soi^oetto  della  eoinuiiicazione  del  nioviiiieiito  jier  l'ini- pulsioiie  Locke  sembra  eoiitraddirsi.  perdio  talvolta  ne  ]»arla come  di  una  veritjì  a  [n-ioii  (1.  e),  talvolta  come  di  un  fatto puramente  empirìe*»,  e  «[uinili  incomprensibile  e  incerto  come verità  .nenerale  (v.  1.  2  e.  28  par.  28-29:  l.  i  e.  8  par.  29). Quest'apparente  contraddizione  si  spiega  per  un'osservazione che  abbiamo  fatto  nel  cap.  IV  :  ([uando  Locke  vede  nell'impul- sione una  verità  a  priori  (e  per  conse«;uenza  conp)rensibile  e  certa), ei;li  juMisa  al  fatto  della  nostra  esperienza  prescientitica  e  fa- miliare, senza  tener  conto  della  le«;«»e,  scoverta  dalla  scienza, seconde»  cui  la  forza  passa  dal  corpo  urtante  al  corpo  urtato;  ed ^  (piando  pensa  a  (piesta  leinge,  che  Q*f\ì  vedo  nella  comunica- zione del  movinu'uto  dal  corpo  urtante  al  corjK)  urtato  una  ve- rità empirica  (e  per  conse«»uenza  incom[>ren8Ìbile  e  incerta). Questo  scambio  dei  risultati  deiresi>erienza  pifi  familiare per  verità  a  priori  non  e,  iy  Locke,  la  sola  estensione  illegittima che  egli  dà  al  «lominio  deira])riori.  Locke  crede  che  il  metodo dimostrativo  e  applicabile  anche  fuori  della  matematica.  Ma  su (piesto  impiego  illegittimo  del  metodo  a  priori,  ciò  che  vi  ha in  lui  di  preciso  si  riduce,  io  credo,  all'atfermazione  che  la  mo- rale è  dimostrabile,  e  alla  sua  pretesa  di  provare  dimostrativa- mente l'evsistenza  di  Dio.  La  i>rima  di  ([ueste  due  opinioni  ^ una  delle  forme  del  concetto  della  morale  assoluta  di  cui  par- leremo nella  jiarte  III  :  essa  non  ap])lica  il  metodo  a  priori  allji conoscenza  del  reale,  di  ciò  che  è  (ma  di  ciò  che  deve  essere), e  non  appartiene  a  (piella  classe  <li  applicazioni  a  cui  attual- mente restringiamo  la  denominazione  di  metafìsica  apriorista. In  quanto  alla  pretensione  di  stabilire  l'esistenza  di  Dio  con prove  dimostrative  (e  n<»n  induttive),  essa   è  evidentemente    una conseguenza  del  ]»rincipio  che  non  vi  ha  altra  certezza  che  la intuitiva  o  la  dimostrativa  (perchè  l'esistenza  di  Dio  non  deve .  essere  una  cosa  incerta). mano  dei  fatti  estremamente  familiari.  Sicché  noi  ab- biamo qui  lino  di  quei  casi  in  cui  si  ha  ragione  di  dire che  le  eccezioni  confermano  la  regola  :  la  certezza  che Locke  accorda  a  queste  e  simili  proposizioni  istruttive sul  reale,  non  contraddice  al  suo  scetticismo,  anzi  vi  è logicamente  legato,  perchè,  se  Locke  nega  la  certezza di  tutte  le  altre  proposizioni  generali  che  possono  farsi sul  reale  (cioè  di  tutte  quelle  che  sono  evidentemente  di origine  empirica,  induttiva),  è  appunto,  perchè  esse  non hanno  1'  evidenza  delle  conoscenze  aventi  per  oggetto dei  fatti  estremamente  familiari,  evidenza  che,  per  lui come  per  gli  altri  filosofi  che  ammettono  il  presupposto della  metafisica  apriorista,  è  il  tipo  di  quella  che  si  sup- pone doversi  trovare  in  ogni  coìioscenza  adequata. Le  conoscenze  delle  connessioni  più  familiari  tra  i fenomeni,  che  sono  il  tipo  a  cui  lo  spirito  si  sforza  di assimilare  tutte  le  conoscenze  delle  connessioni  dei  fe- nomeni in  generale,  hanno,  come  abbiamo  già  notato, un  grado  di  evidenza  superiore,  dovuta  all'associazione molto  intima  tra  le  idee  stabilite  dalla  frequente  ripe- tizione delle  esperienze;  ciò  che  fa  che  allo  scopo  prin- cipale della  metafisica  apriorista,  quello  di  spiegare  i fenomeni,  introducendo  fra  di  essi  dei  legami  necessari e  razionali,  si  aggiunge  un  altro  scopo,  quello  di  ap- portare in  tutto  il  sistema  delle  conoscenze  questo  grado superiore  di  evidenza,  che  non  si  trova  mai  nelle  indu- zioni scientifiche,  ma  solo  nelle  verità  intuitive  o  ap- parentemente intuitive  (le  induzioni  incoscienti  della esperienza  più  familiare),  e  in  quelle  che  si  deducono da  queste,  cioè  nelle  dimostrative.  Il  filosofo  agnostici- sta,  il  quale  suppone  che  la  conoscenza  dell'  essenza reale  delle  cose  trasformerebbe  la  sua  conoscenza  attuale delle  loro  proprietà  da  empirica  in  a  priori,  ammette che  la  realizzazione  di  quest'  ideale  di  conoscenza,  nel tempo  stesso  che  gli  darebbe  la  spiegazione  delle    leggi "TiinlT-ra-Mi fi 510 empiriche  dei  fenomeni,  gli  darebbe  pure  di  queste  legg-i una  certezza  superiore  a  quella  che  attualmente  può  ot- tenere dair  esperienza  e  l'induzione.  Ma  se  il  grado  di certezza,  che  l'uomo,  limitato  com'è  alla  conoscenza  spe- rimentale,  ha  o  può  avere  di  queste  leggi,  è  necessa- riamente inferiore  alla  certezza  eh'  egli  ne  avrebbe,  se potesse  acquistare  delle  cose  una  conoscenza  adequata; la    certezza  umana,   per  conseguenza,    non  è  una  vera certezza;  e  cosi  il  presupposto  della  metafìsica  apriorista diviene   naturalmente,  in    un    filosofo    empirista    come Locke,  una  sorgente  di  scetticismo.  Lo   scetticismo    di Locke  deriva,  in  ultima  analisi,  come  il  suo  agnostici- smo,  dal  principio  di  causalità  efficiente;    quantunque vi  sia  una  circostanza  da  cui  questo  fatto  potrebbe  es- sere velato,  cioè  che  i  rapporti  tra  i  fenomeni,  per   la spiegazione  dei  quali  egli  immagina  delle  essenze  reali sconosciute,  e  di  cui  invalida  la  certezza  come  conoscenze generali,  vengono  classati,  non  tra  i  rapporti  di  sequen- za, ma  tra  quelli    di    coesistenza.    Locke    naturalmente ritiene,  come  tutti  i  filosofi  che  ammettono  delle  essenze reali  sconosciute,  che  è  impossibile  di  conoscere  le  cause e  il  modo  reale  di  produzione  dei  fenomeni;  e,  siccome una   legge   che  è  impossibile  di  scoprire  a  priori  è  per lui,  non  solo  incomprensibile,  ma  anche  incerta,  così alla  incomprensibilità  delle  causazioni  empiriche  (sem- plici uniformità  di    sequenza)   egli  aggiunge  inoltre  la loro  incertezza  (1).  Ora  è  su  questa  incomprensibilità  e incertezza  delle  causazioni  empiriche  che  volge,  al  fondo, l'agnosticismo  e  lo  scetticismo  di  Locke  :    sono    sovra- tutto  le  coesistenze  tra  le  proprietà  delle   sostanze   che Locke  dichiara  incomprensibili  e  incerte,  ma  queste  pro- prietà sono,  per  la  massima  parte,  delle  potenze  attive -  511  — (1;  L.  2  e.  23  $  28,  29,  l.  4  e.  3  ^  28,  29,  ecc. -e  passive  (1),  e  le  loro  coesistenze,  per  conseguenza,  delle causazioni.  Del  resto  Locke  ammette  la  teoria  meccanica, e  questa  teoria  non  riconosce  nella  natura  altre  unifor- mità primitive  che  delle  leggi  di  causazione. §  8.  Condillac,  In  Condillac  il  principio  della  meta- fisica apriorista,  che  una  conoscenza  adequata  del  reale sarebbe  una  conoscenza  razionale,  si  complica  con  la dottrina  psicologica  che  già  abbiamo  incontrato  in  Leib- nitz,  secondo  la  quale  tutte  le  verità  evidenti  per  se stesse,  e,  quindi,  tutte  le  verità  razionali,  sono  delle  ve- rità identiche,  o  in  linguaggio  più  moderno,  analitiche (nella  III  parte  vedremo  come  questa  dottrina  deriva  an- ch'essa dalla  sofistica  naturale  del  nostro  spirito).  Con- dillac pensa,  come  Locke,  che  se  delle  leggi  delle  cose noi  abbiamo  soltanto  una  conoscenza  sperimentale,  e non  razionale,  e  perchè  l'essenza  delle  cose  ci  è  scono- sciuta. «  Poiché  mi  è  noto  con  evidenza  ciò  che  sia triangolo,  ne  comprendo  la  natura,  l'essenza,  ed  in  que- sta posso  scoprire  tutte  le  proprietà  di  tal  figura.  In egual  modo  se  conoscessi  la  natura  ed  essenza  dell'oro, in  essa  scoprirei  tutte  le  di  lui  proprietà.  Il  peso,  la  dut- tilità, o  proprietà  che  esso  possiede  di  essere  ridotto  in qualunque  forma,  e  quella  anche  di  resistere  al  martello, ecc.,  non  sarebbero  che  la  di  lui  essenza  medesima  o natura,  che  si  trasformerebbe,  e  che  in  queste  sue  va- riazioni mi  presenterebbe  differenti  fenomeni;  ed  io  po- trei scoprire  tutte  le  proprietà  per  mezzo  d'un  raziocinio ehe  non  sarebbe  altro  che  un  seguito  di  proposizioni tra  loro  connesse  e  della  stessa  natura  (cioè  indentiche). Ma  non  lo  conosco  in  questo   modo .     .     .  Quando  sopra  un  corpo   stabilisco    più    proposi- sioni  egualmente   vere,  in  ciascuna   affermo    lo   stesso (1)  L.  2  e.  21  $  2,  e.  23  §  7-10,  37,  v.  31  ^  8,  13,  e.  32  §  24, I.  3  e.  9  §  13,  e.  11  $  22,  1.  4  e.  H  $  10,  ecc. —  512  — dello  stesso  :  ma    non    comprendo    alcuna    prova    reale (cioè  alcuna  ragione  puramente  logica)  ed  identità  del- l'una con  l'altra.  Quantunque  il  peso,  la  duttibilità,  la malleabilità    apparentemente   non    siano    che  una   cosa stessa  che  si  trasforma  in  diverse  maniere,  tuttavia  non lo  vedo.  Così  per  mezzo  deWevidenza  di  ragione  non  po- trei   ottenere  di  conoscere   questi   fenomeni  ;  io  non  ho di  essi  conoscenza  che  dopo  averli   osservati  ;  e  la  cer- tezza che  ne  acquisto  la  chiamo  evidenza  di  fatto  »    (1). La  scienza  assoluta,  se  essa  fosse  accessibile  all'  uomo, consisterebbe  in  un  sistema  di  proposizioni    puramente razionali,  dedotte  da  una  prima  proposizione,  la  quale non  sarebbe  altra  cosa  che  l'enunciato  del  principio  d'i- dentità. «Se  potessimo  scoprire  tutte  le  verità  possibili, ed  assicurarcene  d'una  maniera  evidente,  faremmo  un.i serie  di  proposizioni  identiche  uguali  alla  serie  delle  ve- rità, e  per  conseguenza  vedremmo  tutte  le  verità  ridursi ad  una  sola  »  (2).   «  Se  potessimo  in  tutte  le  scienze  se- guire la  generazione  delle  idee,  e  cogliere  e  vedere  da per  tutto  il  vero  sistema  delle  cose,  vedremmo  nascere da  una  verità  tutte  le  altre,  e  ritroveremmo  l'espressione abbreviata  di  tutto  quello  che  sapremmo,  in  questa  pro- posizione identica  :  lo  stesso  è  lo  stesso  »  (8). La  dottrina  secondo  la  quale  le  verità  evidenti  per se  stesse,  o  piuttosto  che  gli  psicologi  i  quali  non  am- mettono la  teoria  dell'esperienza  ritengono  evidenti  per se  stesse,  sono  delle  proposizioni  identiche,  alleata  alla dottrina  che  una  scienza  adequata  delle  cose  sarebbe una  scienza  a  priori,  arriva  logicamente  a  questo  ri- sultato, che  tutte  le  verità  (almeno  le  generali)  sono  iden- tiche, non  solo  le  razionali,  ma  anche  quelle  di    fatto. (1)  Logica,  parte  2.  cjip.  IX. (2)  Jrte  di  ragionare,  1.  S,  e  H. (;i)  Arte  di  pensare,  e.  10. 513  — In  effetto,  una  verità  a  priori,  se  essa  non  è  evidente per  se  stessa,  deve  esser  dedotta  da  verità  evidenti  per se  stesse,  e  questa  connessione  tra  le  verità,  che  i)er- mette  di  dedurle  l'una  dall'altra,  è  necessariamente  essa stessa  una  verità  evidente  per  se  stessa  (come  osservava Locke,  l'intuizione  è  necessaria  a  ciascun  passo  della dimostrazione).  Per  conseguenza,  se  l'evidenza  intuitiva consiste  nella  percezione  dell'identità  delle  idee,  tutte le  verità  razionali  sono  identiche;  perchè,  se  esse  non sono  intuitivamente  evidenti,  devono  potersi  dedurre da  verità  intuitivamente  evidenti;  ma  queste  sono  iden- tiche, e  la  deduzione,  facendosi  in  forza  di  un'evidenza intuitiva,  stippone  anch'essa  l'identità  tra  le  verità  che si  deducono  l'una  dall'altra;  sicché  dire:  verità  dedotte da  verità  intuitivamente  evidenti,  è  lo  stesso  che  dire: verità  di  cui  si  riconosce  l' identità  con  verità  identi- che (1).  Ora  se  una  scienza  adequata  del  reale  sarebbe un  sistema  di  verità  tutte  razionali,  e  quindi  identiche; queste  verità  non  cesseranno  di  essere  identiche,  per  la circostanza  che  noi  non  possiamo  averne  una  conoscenza razionale,  ma  soltanto  sperimentale;  poiché  questa  cir- costanza, esteriore  ed  accidentale  alle  verità  stesse,  non potrebbe  cangiare  la  loro  natura.  Di  là  la  dottrina  di  Con- dillac  che  tutte  le  proposizioni  (noi  dobbiamo  intendere le  proposizioni  scientifiche,  cioè  generali),  sono  delle  equa- zioni, e  consistono  ad  aifermare  lo  stesso  dello  stesso  ('2). Questa  dottrina,  limitata  alle  verità  razionali,  sarebbe  una semplice  conseguenza  della  dottrina  psicologica  secondo cui  le  verità  evidenti  per  se  stesse  sono  fondate  sull'iden- tità: ma  essa  si  riattacca  al  principio  della  metafisica  a- priorista,  in  quanto  Condillac  la  estende  anche  alle  verità, la  cui  evidenza  è,  non  di  ragione,  ma  di  fatto.  Come  Con- (1)  Cfr.  CondiUac.  Arte  di  ragionare,  1.   1   e.  1. (2)  Logiea,  2.  ]){irte.  e.  S.    Lingua  dei  e  tieoìi.  1.   1   e.  H.   ecc. 83 —  514  — dillac  estende  la  dottrina  che  ogni  verità  è  identica  dalle scienze  razionali  alle  scienze  di  fatto,  cosi  fa  pure  per la  dottrina  che  l'inferenza,  il  passaggio  da  ciò  che  sap- piamo a  ciò  che  non  sappiamo,  è  fondata  sull'identità tra  il  dato  e  l'inferito,  fra  ciò  che  sappiamo  e  ciò    che non  sappiamo,   e  che  il  metodo  per  giungere  alla  sco- perta di  nuove  verità  consiste  unicamente   a   sostituire runa  all'altra  delle  proposizioni  fra  loro  identiche.  Que- sta seconda  dottrina,  applicata  alle  scienze  razionali  (le matematiche  pure),  è,  come  abbiamo  detto,  una  conse- guenza della  prima,    perchè  in  queste  scienze    la   con- nessione tra  il  preconosciuto  e  l'inferito  è,    secondo  la teoria  intuizionista  (voglio  dire  la  teoria    che    non    am- mette l'origine  empirica  degli  assiomi  e  le  altre  pretese verità  intuitive),  un'intuizione  della    ragione,  e  un'  in- tuizione della  ragione  è,  secondo  la    forma    particolare della  teoria  intuizionista  della  quale  parliamo,  una  ve- rità identica.  Ma  se  del   processo    logico    delle   scienze razionali— quale  egli  lo  concepisce  secondo  la  sua   teo- ria sulle  verità  razionali— Condillac  fa  l'unico  processo logico  d'ogni  scienza  in  generale,  assimilando  il  metodo delle  scienze  di  fatto  a  quello  delle  matematiche   pure; questa  non  è  più  una  conseguenza  della  sua  teoria  psi- cologica sulle  verità  razionali,  ma  è  un'applicazione  del principio  della  metafìsica  apriorista.  Locke,  dall'  impos- sibilità di  ottenere  del  reale  una  conoscenza   razionale, concludeva   l'incertezza  delle  proposizioni  generali   sul reale.  Condillac  ammette  anch' egli   quest'impossibilità, ma  vuol  salvare  le  scienze  di  fatto  dall'incertezza  a  cui Locke  le  condannava.  Ora,  dal  principio  della  metafisica apriorista  segue  che  la  certezza,  tra  le  verità  d'inferenza, non  si  trova  che  nelle  dimostrate:    cosi    Condillac    am- mette che  tutte  le  scienze,  anche  le  sperimentali,   sono dimostrative,  e  quindi,  giacche  la  dimostrazione  è  fondata sull'identità,   che  in  tutte  le  scienze,    anche  nelle  spe- —  515  — rimentali,  l'inferenza— beninteso,  l'inferenza  rigorosa— è sempre  fondata    sull'  indentità,    in  modo  che  passando dal  noto  all'ignoto,  dal  dato  all'inferito,  non  si  fa  che passare  dallo  stesso  allo  stesso.  Se  il  metodo  dimostra- tivo sembra  proprio  esclusivamente  delle  matematiche, ciò  è,    secondo  Condillac,    non  perchè  le  altre  scienze non  siano  succettibili  di  dimostrazione,    ma   perchè    le matematiche  hanno  sulle  altre  scienze  il    vantaggio   di possedere  dei  segni  semplici  e  precisi,  ciò  che  solo  rende possibili  delle  dimostrazioni  evidenti.  Le   altre    scienze potrebbero  fare  delle  dimostrazioni  altrettanto  evidenti, se  si  desse  loro  un    linguaggio    altrettanto    semplice   e preciso  (1).  Leibnitz  aveva  avuto    un    pensiero    simile, quando   immaginava    la    sua   caratteristica   universale. Quest'  assimilazione   che    fa  Condillac  del  metodo  delle scienze  del  reale  a  quello  delle  matematiche  pure,    dif- ferisce da  quella  fatta  da  Cartesio  e  gli  altri  filosofi  a- prioristi  propriamente  detti,  perchè  Condillac  non    pre- tende,   come  questi,    trasformare  le  scienze  di  fatto  in scienze  razionali;  ma  è  anch'esso  un  risultato  di  questo sforzo,  che  è  l'essenza  della  metafisica  apriorista,  di  as- similiare  la  forina  delle  conoscenze  delle  connessioni  dei fenomeni  in  generale  alla  forma  delle  conoscenze  delle connessioni  più  familiari  (forma  a  cui  le  conoscenze  di- mostrative si  avicinano  più  che  le  indultive).  In  questo xjaso,  l'assimilazione  non  mira  allo  scopo  primario  della metafisica  apriorista,    quello  di  rendere    comprensibili, di  spiegare,  le  leggi  dei  fenomeni— perciò  Condillac  do- vrebbe trasformare  le  scienze  sperimentali  in  scienze  a priori—, ma  solo  allo  scopo  secondario,  quello  di  elevare il  grado  della  loro  evidenza. (1)  V.  Logica  parte  2.  e.  7  e  8,  Arte  di  ragionare  l.  1  e.  1 e  e.  8,  1.  3  e.  11,  Lingua  dei  ealcoli.  Oggetto  dell'opera,  1.  1 <i,  5  e  16,  ecc. 516  — 517 «  '.<i' §  9.  Z)'  Alembert.  «Le  verità  che  in  ciascuna  scienza si  chiamano  principii  e  che  si  riguardano  come  la  base delle  verità  particolari,  non  sono  forse  esse  stesse  se non  che  conseguenze  molto  lontane  di  altri  principi  più generali  che  la  loro  sublimità  toglie  ai  nostri  sguardi. In  effetto  tutti  i  principii  delle  nostre  conoscenze,  in  fi- sica,  per  esempio,  sono  le  proprietà  più  sensibili  che l'osservazione  ci  scopre  nella  materia;  proprietà  che  di- pendono esse  stesse  dall'essenza,  e  se  posso  esprimermi così,  dalla  costituzione  intima  della  materia,  che  non conosciamo  in  alcun  modo,  e  non  perverremo  mai  a conoscere.  I  principii  delle  nostre  conoscenze  in  meta- fisica quella  scienza  dello  spirito)  sono  pure  delle  osser- vazioni sulla  maniera  in  cui  l'anima  nostra  concepisce o  in  cui  essa  è  affetta;  osservazioni  che  dipendono  si- milmente dalla  natura  più  ignota,  se  è  possibile,  di  ciò che  pensa  e  di  ciò  che  sente  in  noi Noi non  sappiamo,  se  posso  esprimermi  così,  né  il  perchè né  il  come  di  niente;  a  questo  come  ed  a  questo  perchè dovrebbero  nondimeno  risalire  le  nostre  conoscenze, per  innalzarsi  sino  ai  veri  principii  di  tutte  le  verità.  .  . Perchè  vi  ha  qualche  cosa  V  Terribile  quistione,  e  di cui  gli  stessi  filosofi  non  sembrano,  se  oso  parlar  così, abbastanza  spaventati;  tanto  essa  è  propria,  per  poco che  la  considerino  in  tutta  la  sua  profondità,  a  far  loro perdere  il  coraggio  in  tutte  loro  ricerche.  Atei  e  teisti, donnnattici  e  pirronici,  tutti  sono  forzati  ad  ammettere almeno  un  solo  essere  che  esiste;  per  conseguenza  un essere  che  è  sempre  esistito  ;  e  tutti  si  perdono  in quest'  abisso  immenso.  Se  noi  sapessimo  perchè  vi  ha qualche  cosa  .  noi  saremmo  verisinìilmente  molto  avan- zati per  risolvere  la  quistione  come  tale  e  tal  altra  cosa esistef  Poiché  verisinìilmente  tutto  è  legato  nell'universo più  intimamente  ancora  che  noi  non  pensiamo;  e  se  noi sapessimo  questo  primo  perché,  questo  perché  sì  imba- razzante per  noi,  terremmo  in  mano  il  capo  del  filo,  che forma  il  sistema  genale  degli  esseri,  e  non  avremmo  più che  a  svilupparlo  e,  per  dir  così,  a  svolgerlo  senza  pena, per  conoscerne  tutte  le  parti,  invece  di  strapparne,  come facciamo,  alcune  particelle  isolate,  che  ci  lasciano  in  una io'uoranza  intera  su  tutto  l'insieme  e  sul  vero  posto  che esse  vi  occupano  »  (1). Perchè  vi  ha  qualche  cosa?  è  la  quistione  della  me- tafisica apriorista  a  cui  risponde  la  prova  ontologica dell'esistenza  di  Dio  (2);  e  questa  prova,  come  abbiamo osservato,  può  riguardarsi  come  il  primo  principio  del sistema  di  Cartesio,  e,  in  ultima  analisi,  di  quelli  degli altri  metafisici  aprioristi  dei  quali  abbiamo  parlato. Quantunque  d'Alembert  non  sia  un  caposcuola,  ho  vo- luto riportarne  questo  brano,  perchè  esso  mostra  d'una maniera  sensibile  come,  in  una  fase  della  storia  del  pen- siero poco  inclinata  alle  avventure  metafisiche,  l'ideale della  conoscenza  restava,  al  fondo,  quale  l'avevano  con- cepito Cartesio  e  gli  altri  pensatori  più  arditi  dell'epoca precedente.— Poicliè  siamo  a  d'Alembert,  osserverò  pure su  di  lui  che,  come  Locke,  egli  non  trova  la  conoscenza realee  la  certezza  che  nelle  verità  dimostrate,  cioè ottenute  per  il  semplice  paragone  delle  idee:  dove  manca la  luce  della  dimostrazione,  non  vi  ha  per  lui  che  il crepuscolo  della  probabilità  e  della  congettura  (3). vS  10.  Hame.  Quantunque  la  definizione  di  Hume della  causalità  sembri  escludere  la  causalità  efficiente e  non  lasciare  che  le  semplici  sequenze  invariabili,  tut- tavia la  sua  dottrina  costante  è,  non  che  non  esistono cause  efficienti,  ma  che  esistono,  e  noi  non  possiamo conoscerle.  In    tutti  i    suoi   scritti    Hume    ammette  che (1)  Schiarimenti  sugli  eleni,  di  filos.  IH. {2)  Cfr.  §  6. (8)  V.  Princ.  della  eonose.  uni.,  e.  V. —  518  — se,  in  fatto  di  causalità,  le  nostre  conoscenze  si  ridu- cono alle  sequenze  costanti  dei  fenomeni,  ciò  è  una prova  della  sfera  stretta  delle  nostre  conoscenze,  dei limiti  del  nostro  intendimento  ;  che  le  vere  cause  pro- duttrici dei  fenomeni  non  sono  gli  altri  fenomeni  a  cui essi  seguono  invariabilmente,  ma  delle  forze  e  delle potenze  che  noi  non  possiamo  conoscere  ne  concepire; e  che,  nelle  cause  empiriche,  la  capacità  a  produrre gli  effetti  dipende  da  una  circostanza  sconosciuta  che si  trova  in  queste  cause,  e  che,  se  fosse  sconosciuta, renderebbe  ragione  dei  loro  effetti,  mentre  attualmente il  come  della  produzione  di  questi  effetti  è  misterioso e  inintelligibile. Il  concetto  di  Hume  della  causa  efficiente  è  quello  della metafisica  apriorista  :  il  carattere  distintivo  tra  la  causa efficiente  e  1' antecedente  di  una  sequenza  invariabile è,  che  mentre  il  rapporto  tra  questo  e  il  suo  conseguente non  può  conoscersi  che  per  1'  esperienza,  al  contrario- il-  rapporto  tra  la  causa  efficiente  e  il  suo  effetto  sarebbe conoscibile  apriori.  Hume  pensa,  come  Locke,  che  se, per  la  conoscenza  delle  leggi  dei  fenomeni,  siamo  ridotti air  esperienza,  ciò  è  perchè  non  possiamo  conoscere- l'essenza  delle  cose  (1).  Il  principale  argomento  con  cui egli  prova  che,  in  ogni  effetto  della  natura,  il  potere che  lo  realizza  ci  resta  sconosciuto,  e  che  la  causa'  em- pirica non  è  una  causa  efficiente,  è  che  non  si  potrebbe mai  dedurre,  a  priori,  l'effetto  dalla  causa.  Nel  4.  Sag- gio,  1.  parte,  dopo  aver  mostrato  che  non  vi  ha  un sol  caso  assegnabile  in  cui  la  conoscenza  del  rapporto che  vi  ha  tra  la  causa  e  l'effetto  possa  essere  ottenuta apriori,  egli  ne  conclude  che  è  impossibile  di  «asse- gnare le  prime  causefosse  anche  di  una  sola  delle  operazioni della  natura»,  di  «svelare  in  un  solo  effetto  prodotto  dalle (1)  V.   Tratt.  della  nat.  um.,  Introd. -    519  — cause   che  l'universo   racchiude,  l'azione   della  potenza produttrice  »,  di  «  comprendere  questo  legame  indissolu- bile.e    inalterabile  che  si   suppone  tra  la  causa  e  l'ef- fetto». Sul    principio  del  7.    Saggio  dice:   «Alla  prima vista  d'  un  oggetto,  non  potremmo  indovinare  V  effetto che   ne   deve    risultare;    tuttavia,  se  il    nostro    spirito scoprisse  il  potere  e  l'energia  delle  cause,  noi  dovremmo non  solo  indovinarlo,  ma    prevederlo  anche   senz'espe- rienza,  per  la  sola  forza  del  ragionamento,  e  pronun- ziare su  di  ciò  con  certezza.  >   E    passando    dall'esame delle   azioni  degli    oggetti   esteriori  a    quello  degli  atti volontari,  confuta  l'opinione  che  la  coscienza  percepisca il  potere  o  V  energia  (efficienza  causale)  della  volontà, per  la    ragione  *  che    V  influenza    delle    volizioni    sugli organi  corporali  è  un  fatto   conosciuto  per  esperienza, come  tutte  le  operazioni  della  natura,e  che  non  si  avrebbe mai    potuto    prevedere    questo  fatto    nell'  energia  della sua  causa;  »   che  noi  non  potremmo,  indipendentemente dall'esperienza,    conoscere    i    limiti    dell'impero    della volontà  sugli  organi,  e  rendercene  ragione;  che,  se  sen- tissimo il  potere    primordiale  della  volontà,  dovremmo conoscere    per  ciò    stesso  il  suo   effetto    immediato  (che non  è  il  movimento  voluto,  ma  un  altro,  non  sappiamo quale,  di  cui  il  movimento  voluto  è  l'effetto  ultimo).  Il sentimento   dello    sforzo  che  noi    facciamo  per    vincere una  resistenza,  non  può  darci  l'idea  di  forza  o  di  potere, perchè   *  noi  sappiamo  per  esperienza  ciò  che  risulta  da questo  sentimento,  ma  è  impossibile  di  saperlo  a  priori  ». Infine,  noi  non    percepiamo  nemmeno  il  potere  efficace della  volontà  nell'influenza  ch'essa   esercita   sul    corso delle  nostre  idee  e  sulle  nostre  facoltà  mentali,  perchè in  questo,  come  negli  altri  avvenimenti  naturali,  «  l'os- servazionee  l'esperienza  sono  le  sole  guide  che  abbiamo*  : è  per  la  sola   esperienza,  p.    e.,    che  possiamo  scoprire i  limiti  dell'  impero  che  1'  anima  ha  su  se  stessa,  come —  520  — di  (inolio  che  essa  ha  sul  corpo,  «  non  è  ragionando  nò per  la  contemplazione  della  natura  delle  cause  e  degli effetti  »  (1). (1)    Hiiiiio    ritinta  la  ((uaiità  di  verità  a  priori  anche  a  qnelle cansa/ioni  familiari  da  cni  ci  viene  l'idea  di  cansalità  efficiente: nna  di    «[ncste    causazioni  .  cioè  il    movimento   d'  una  palla  per l'urto  d'un' altra  palla,  è  appunto  uno  dei  suoi  esempi  favoriti ]>er  mostrare  che  tutte  le  relazioni  tra  le  cause  e  <i\[  effetti  sono conosrinte  per  la  sol»    esperienza.  Ora    ([uesto  fatto  semhra  in- compatibile con  la   nostra     spiejjazione  del    principio  che  Hume ha  in  comune  colla  metafisica   apriorista,  cioè  che  il    carattere delia  connessione  tr;i  la  causa  efficiente  e  V  effetto  è  la  sua  co- noscildlità  a  priori  :    secondo  noi  .  (piesto    ]>rincipio  è  un'  indu- zione tirata  dalle  nostre   esperienze  sulle    connessioni  più  fami- liari tra  le  cause  e  j^li  effetti.    Ora  se   Hume  riconosce  che  queste connessioni  sono  conosciute  dalla  sola  esperienza,   come  può  in- ferire da  esse  che  tutte  le  connessioni  fra  le  cause  (efficienti)  e "li  effetti   devono  essere  conoscibili  a  priori  ?   Ma  se  si  rifletterà al  reale  ]U"ocesso  psicoloj^ico    dell'  inferenza  di   Hume,  si  vedrà che  questa   difficoltà  non  è  che  apparente.  Prima  di  tutto  bisogna fare  una  distinzione:  l'inferenza  immediata  di   Hume  e  <lei  me- tatisi  aprioristi  non  è  clic    i  fenomeni  devono  avere  delle  cause produttrici  .   la    connessione    delle    quali  con  j^li    effetti  sia  una vonoacenzit  <(  priori  .  ma    soltanto  che    questa    connessione  deve essere    necessaria  ed    intrinsicamente  evidente.  Non  è  la  stessa- cosa   conoseenza  a  priori  e  verità  intrinsicamente    ecidente  :    1'  a- priorità  ri«iuarda  rori«;ine  della  conoscenza,  e  8Ì,i;:nitìca  che  questa conoscenza  non  è  originata  dall'esperienza;  l'evidenza  intrinseca riguarda    invece  il    motivo  della    credibilità    della    verità,  e  il sentimento  «li  questa  evidenza  accompagna  la     proposizione  che si  dii-e  intrinsicamente  evi«lente,   anche  dopo  che   la    riflessione psicologica  ha   fatto    riconoscere    che    la    conoscenza    di    questa verità    è    dovuta    all'  esperienza.    Se    i    metafìsici    aprioristi,    e Hume    con  essi,   ritengono  che  le    connessioni  tra  le  cacse  effi- cienti e  gli  effetti  devono  essere,  non  solo  delle  verità  necessarie eà  intrinsicamente  evi<lenti,  ma  anche  delle  conoscenze  a  priori, 521 Alcuni  credono  che  Hume  abbia  rigettato  la  causa efficiente,  e  abbia  ridotto  ogni  causazione  a  una  sem- plice sequenza  costante.  Quest'interpretazione  si  fonda sulle  conclusioni  del  7.  Saggio;  ivi  egli  si  propone  di fissare  il  significato  dei  termini  potere,  forza,  energia. cioè  non  originate  dall'esperienza,   è  perchè  il    sentimento  della necessità   e  dell'evidenza  intrinseca  non    si    tnjva    che-    nelle  co- noscenze a  ]»riori  o  in  quelle  che    il    nostro    s}Mrito  è    inclinato a  credere    tali.    La    difficoltà    antecedente    si    ridnce    dun(iue    a questa  :   Ilume  ha    ric(niosciuto  che  alcune  ùi  (queste    verità  ac- coi»ipagnate  dal   sentimento  della    necessità    e    dell'  evidcMiza    in- trinseca sono  delle  conoscenze   derivate  dall'esperienza;   jierchè allora  esige  che  le    causazioni  efficienti,   per  cui  egli    non  deve pretendere  se  non  la    condizione   di  essere  necessarie  ed    intrin- secamente, evidenti,   siano    tutte    «Ielle   conoscenze    inilipendenti dalla  esjierienza  i  Inoltre,   come  va  che  egli  esclude  dalla  classe •delle    causazioni  efficienti  queste    causazioni    appunto  che  costi- tuiscono   la    ì»ase    empirica   dell'  i<lea    «li    causazi«>ne    efticiente  ì Qui  n«d  siamo  in  presenza  «Iella  grande  «lifficoltà  «he.  c«>me  ab- biamo detto   altra   v«>lta,   è  il  ])rincipale  «)stacol«>  che  imp«Mlisce di    com])ren<lere  il  vero   processo    ])sic«d«>gico  per  cui   nasce  e  si sviluppa  la    nozione    «li    causa    efficiente.    Ma  noi    abbiamo    già risolut«)    questa    diffic«dtà  :    abì)iani«)  già    si)iegato    «iu«'st«)    fatto l>arad«)ssastico  —  apparentemente    incompatibile    con    «)gni    spie- gazione empirica  dell'origine  della  nozione  di  causalità  efficiente— che  le  causazioni  stesse,   le  «inali,   secondo  n«)i,  «-«jstituiscono  la base  empirica  d(^\V  inferenza  incosciente  per  cui   ammettianu)  il jn-incipic  di  causalità  efficiente,  cessano  di   sembrarci   «Ielle  cau- sazi«nii  efficienti,  e  «li ventano  incomjirensiìjili   c«>me  tutte  le  altre e  tali  da  esigere    una    causazione  reramcnte    efficiente  conu'    in- termediari«>    esjilicativo  (vedi   capit«d«>   4.)  È  questo  fatto  che  si verifica  in  Hume  :  come  la  più    parte  «lei  filosofi   m«Ml«*rni  .    egli esclude  dalla    classe    «Ielle    causazi«)ni    efficienti  tutte  le   causa- zioni empiriche  («piantun«iue  la  nozi«)ne  di    causazitnie  efficiente non  ha  potuto  venirgli  che  da  alcune  di  «lueste    causazi«»ni  em- piriche) :    e    sicctnne   la  forma    della   necessità    e    dell'evidenza 522 legame    necessario  tra  la  causa  e  l'  effetto  ;    e    conclude che    tutte  le    volte  che  noi    parliamo  di    legame   tra  1  a causa  e  l'effetto,  noi  non  intendiamo  altra  cosa,  oltre la  sequenza  costante  tra  due  avvenimenti,  che  il  legam'e tra    le    idee    di    questi    avvenimenti    costituito    da    una esperienza  uniforme,  per  cui  possiamo  predire  il  secondo air  apparizione  del  primo  ;  e  che  il    rapporto  che  è  tra la  causa  e  1'  effetto  non  può    essere    considerato  che  di queste  due  maniere,  e  noi  non  ne  abbiamo  altra  idea. Non  vi  ha  dubbio  che  la  conseguenza  logica  dì  queste proposizioni  non  sia  la  dottrina  che  gl'interpreti  di  cui parliamo    attribuiscono  a    Hume  :    ma,    come    abbiamo detto,  Hume  professa  costantemente  la  dottrina  contraria, cioè  che  le  cause  empiriche,  quelle  che  non  sono  se  non gli  antecedenti  a  cui  gli    avvenimenti  seguono  costan- temente,  non  sono  le  vere  cause    produttrici  di   questi avvenimenti  (1),  e  che  l'efficienza   causale,  la  connes- sione tra  la  causa  e  l'effetto,  quantunque  1'  esperienza non  ce  ne  mostri  alcun  esempio,  è  qualche  cosa  di  più di  una  semplice    congiunzione    (sequenza)   costante  tra due  fenomeni.  Le  conclusioni  del  7  Saggio,  che  paiono, e  a  rigor  di  logica  sono,    distruttive  di  ogni  efficienza causale,  sono  in  contraddizione  con  le  premesse  stesse su  cui    Hume  le    stabilisce.    Nella  I  parte   del    Saggio, egli  vuol  provare  che  tutte  le  idee  che  l'esperienza  può intrinseca  (caratteri  della  oausazioue  efficiente),  oltre  che  nelle causazioni  più  familiari,  che  ej^li  ha  escluso  dalla  classe  delle causazioni  efficienti,  non  si  trova  (piasi  esclusivamente  che  nelle verità  a  priori  o  che  Hume  ritiene  ancora  tali,  così  è  in  questa classe  di  verità  che  ej;li  colloca  le  causazioni  efficienti  (s'intende nella  supposizione  che  esse  potessero  diventare  oggetti  di  co- noscenza). (1)  Nel  4   Saggio,    1    parte,  chiama  le  cause  dell'esperienza pretese  cause. —  523 darci    della    causalità  si    riducono  a    quella  di  una  se- quenza costante  :  ora  in  questa  dimostrazione  egli  sup- pone sempre  che  vi  ha  tra  le  vere  cause  produttrici  e  i loro  effetti  un  legame  più  intimo  che  non  sia  quello  di una  semplice  sequenza  costante  (legame  che  il  pensiero potrebbe  scoprire  a  priori  nelle  cause  stesse,  se  potesse contemplare  le  vere  cause),  quantunque  esso  sia  inac- cessibile   air  esperienza.   «  È  invano  che  noi    giriamo   i nostri  sguardi  sugli  oggetti  che  ci  circondano,  per  con- siderarne le    operazioni  ;  noi   non    siamo    perciò  più  in grado  di    scoprire  questo  potere,  questo  legame  neces- sario,  questa  qualità  che  unisce  l'effetto  alla  causa,  e rende  l'una  di  queste  cose  il  seguito  infallibile  dell'altra; noi  vediamo  ch'esse  si  seguono,  ed  è  tutto  ciò  che  ve- diamo. »   «La  scena  dell'universo  è  soggetta  a  un  can- giamento perpetuo;  gli  oggetti  si  seguono  in  una  suc- cessione   continua  ;  ma  il  potere  o  la  forza  che    anima la  macchina  intera,  si  cela  ai  nostri  sguardi.  >^  Questa tesi,  che    1'  esperienza  non    e'  istruisce  mai  del  legame che  rende  inseparabili  gli  avvenimenti  che  si  seguono;  che il   potere  che   realizza  gli  effetti,  l'  energia  da  cui  essi procedono,  non  ci  è  mai    manifestata  ;  che  in    tutte  le operazioni  della  natura,  il  modo  in  cui  esse  si  compiono è  incomprensibile  e  misterioso;  Hume  la  dimostra,  esa- minando le    azioni  degli    oggetti    esteriori,    quelle  del- l'anima sul  corpo  e  dell'anima  su  se  stessa,  e  si  riassume così:  «  Non  pare  che  alcuna  operazione  corporale  in  parti- colare possa  farci  concepire  la  forza  agente  delle  cause,  o il  rapporto  ch'esse  hanno  coi  loro  effetti.  Tutto  ciò  che le  nostre  ricerche  più    profonde  ci  scoprono    su    questo puntò,  sono  degli  avvenimenti  al  seguito  d'  altri  avve- nimenti. La   stessa   difficoltà  ritorna,    quando    contem- pliamo le  operazioni'dell'anima  sul  corpo  :  noi  osserviamo il  movimento  al  seguito  della    volizione  ;  ma  il  legame che  li  unisce,  o  l'energia  che  l'anima  spiega  nella  pròdazione  deireffetto,  è  ciò  che  non  potremmo  ne  osservare né  com|)rendere.  L'impero  dell'anima  sulle  sue  proprie facoltà  o    sulle  sue  idee    non  è    concepibile.  Così    tutto sommato,  la    natura    non  ci    offre  un    solo    esempio  di legame  da  cui  potessimo  prendere  1'  idea.  Tutti  g\ì  av- veniuìenti  sembrano  essere  scuciti  e  staccati  gli  tini  dagli altri:  essi  si  seguono,  in  verità,  ma  senza  che  osserviamo il  minimo  legame  fra  di  loro  :  noi  li  vediamc»,    per  dir così,  in  congiunzione,  ma  non  mai  in  connessione».   Ma tutto  ciò  è  impossibile  di  metterlo  d'accordo  con  la  con- clusione di  tutto  il    Sao'gio  :  se  noi  non    abbiamo  altra idea  della  connessione  tra  la  causa  e  l'effetto  che  quella di  una    sequenza   costante  tra  due    avvcMiimenti,  e  del legame  mentale  empirico  fra  questi  avvv'iiimenti  che  ci permette   d'inferire   l'uno    dall'altro,   Ihime    dovrebbe vedere  anche  in    connessione  gli    avvenimenti  che  egli non  vede  che  in  congiunzione,  perchè  essi  si  seguono costantemente,  e  noi    |)ossiamo    inferirli   gli  uni    dagli altri;  il  potere  che  realizza  gli   effetti  sarebbe  manifesto tutte  le  volte  che  noi   abbiamo  costatato  gli  antecedenti a    cui    questi    effetti    seguono    costantemente  ;    sarebbe inutile  d'immaginare,  per  ispiegare  questi  eff'etti,  delle cause    sconosciute  o  un    potere    secreto  nelle  cause  co- nosciute; ne  si  saprebbe,  infine,  perchè  Hume  neghi  alle cause    dell'  esperienza  il    carattere  di  cause    veramente produttrici  dei  loro  effetti,  per  la  ragione  che  da  queste cause  noi  non  potremmo  inferire  questi  effetti  a  priori, ina    soltanto  dopo  le  lezioni    dell'  esperienza.  Vi  hanno dunque  in  Hume  due  dottrine  distinte  sulla   causalità, la  dottrina  psicologica  sull'idea  di  causalità  e  la  dottrina ontologica  sulle  cause  :  la  prima  è  la  teoria    empirista^ che  riduce  l'idea  di  causalità  a  quella  di  sequenza  in- variabile; la  seconda  è  la  teoria  metafisica^  che  ammette delle  cause,  tra  cui  e  gli    effetti  vi  ha  un    legame  più intimo  che  quello  di  una  semplice  sequenza  invariabile. —  525  — Le  due  dottrine  contraddicono  l'una  all'altra,  ma  Hume mantiene  l'una  e  l'altra.  E  che  egli  non  intende  sacri- ficare la  dottrina  ontologica  alla  psicologica,  si  rileva anche  dalle  parole  che  seguono  le  proposizioni  in  cui egli  stabilisce  quest'  ultima  :  «  Vi  ha  un  esempio  più colpente  della  nostra  ignoranza  e  della  sorprendente debolezza  dell'intendimento  umano?  Sicuramente  se  vi ha  tra  gli  oggetti  un  rapporto  di  cui  c'importa  d'essere istruiti,  è    quello    di    causa  e    d'  effetto Tuttavia  talee  l'imperfezione  delle  idee  che  ne  abbiamo, che  è    impossibile  di  ben   definire  cosa  è    causa,  senza imprestare  questa  definizione  da  qualche  cosa  di  estraneo al  soggetto.   Gli  oggetti  similari  sono  sempre  congiunti a  degli  oggetti  similari;  prima  esperienza  che  ci  serve a  definire  la  causa  :  un  oggetto  talmente  seguito  da  un altro    oggetto,    che    tutti    gli    oggetti    simili    al    primo siano  seguiti    da   oggetti    simili    al    secondo.    La    vista d'una  causa  conduce  l'anima,  per  il  suo  passaggio    abi- tuale, all'idea  dell'effetto  ;  seconda  esperienza  che  for- nisce una  seconda  definizione  :   la    causa  è  un   oggetto talmente  seguito  da  un  altro  oggetto,   che  la  prescìiza del  primo   faccia  sempre    pensare    al    secondo.    Queste- definizioni  sono  prese  tutte  e  due  da  circostanze  estranee alla    natura    delle    cause:    è   un    inconveniente    senza rimedio;  non  vi  ha  mezzo  di  pervenire  a  una  definizione più    esatta,  e    noi    non    potremmo    determinare    (juesta circostanza  che  lega  le  cause  agli  effetti.  Non  solo  noi non  abbiamo  idea  di  questa  connessione;  noi  non  sap- piamo   nemmeno    ciò    che    desideriamo    di    conoscere, quando  ci    sforziamo  di    concepirla.»    Questa    contrad- dizione del  resto,  questa  perplessità,  non  deve  sorpren- dere in  uno  scettico  come  Hume.  Uno  dei  caratteri  dello scetticismo -- e    segnatamente    di    quello    di    Hume — è l'opposizione  tra  le  credenze  naturali  dell'uomo  e  i  risul- tati della  riflessione  scientifica.  Lo  scettico  non  prende partito  né  per  le  une  né  per  g^li  altri,  e  nemmeno  in- tende di  conciliarli,  quando  vi  ha  contraddizione  fra le  une  e  gli  altri  :  così,  nella  quistione  del  mondo esteriore,  Hume  ammette  la  credenza  naturale  che  le cose  materiali  esistono  per  se  stesse  e  sono  indipendenti dai  nostri  sensi,  e  al  tempo  stesso  la  validità  delle  ob- biezioni dei  fenomenisti  (o,  come  sono  detti  ordinaria- mente,  seguaci  di  Berkeley)  contro  questa  credenza. Così  fa  pure  nelle  quistione  della  causalità  :  egli  ammette al  tempo  stesso  la  credenza  naturale  delle  cause  efficienti, e  la  vera  teoria  psicologica  suU'  idea  di  causalità,  che tende  alla  distruzione  di  questa  credenza. Si  potrebbe  cercare  di  eliminare  questa    contraddi- zione di  Hume,  ammettendo  che  tutto  ciò  che  egli  dice delle  forze  secrete  produttrici   degli    avvenimenti    e    di un  legame  tra  le  cause  e  gli  effetti  che  é  qualche  cosa di  più  di  una  sequenza  costante,  sia,    non  il  suo   vero pensiero,  ma  una  concessione  che  egli  fa  alle  opinioni dominanti.  Ma  questo  metodo  d'interpretazione,  che  cer- cherebbe di  eliminare  le  contraddizioni  di  Hume,    arri- verebbe a  una  radicale  trasformazione  della  sua  tiloso- fia,    in  nn  senso  affatto  contrario  al  concetto   tradizio- nale che  se  ne  ha,  e  al  senso  letterale  delle  sue  propo- sizioni, su  cui  questo  concetto  é  fondato.  Si  avrebbe  al- trettanta ragione  di  vedere  un  semplice  accomodamento alle  opinioni  dominanti,  lontano  dal  vero  pensiero  del- l'autore, nelle  proposizioni  di  Hume  implicanti  l'ammis- sione di  un  mondo    esteriore    indipendente,    quanta   se ne  avrebbe  di  vederlo  in  quelle  implicanti  l'ammissione di    cause    efficienti    distinte    dai   semplici    antecendenti costanti  dei  fenomeni.  E  se  nella  quistione  del    mondo esteriore,  si  fa  di  Hume,   non  uno  scetttico,  ma  un  fè- nomenista,    alla  maniera  di  Stuart  -  Mill  e  di  Bain,  non si  dovrà,    se  si  vorrà  essere  coerenti,  cessare  di  consi- derare come  scettica  la  filosofia  di  Hume  in  generale? 527  - Questa  è  l'opinione  a  cui  inclinerebbe  Stuart  -  Mill  (1); ma  egli  stesso  confessa  che  sarebbe  difficile  di  provarla d'una  maniera  decisiva.  Io  credo  per  me  che  si  deve respingere  come  arbitraria  ogn'  interpretazione  di  un sistema  filosofico,  che  presterebbe  all'autore  delle  dot- trine contrarie  a  quelle  che  egli  esplicitamente  professa. Noi  lasceremo  dunque  a  Hume  le  sue  contraddizioni, e  ci  terremo  all'  opinione  tradizionale  che  lo  considera come  uno  scettico.  Ma  quest'opinione  deve  essere  rifor- mata nella  parte  che  riguarda  i  motivi  o  la  genesi  di questo  scetticismo.  I  metafisici  hanno  visto  nello  scetti- cismo di  Hume  una  conseguenza  del  suo  empirismo  (2): ma  gli  sviluppi  più  recenti  dell'empirismo  mostrano  che non  vi  ha  fra  di  esso  e  lo  scetticismo  una  connessione naturale.  Hume  é  uno  scettico,  non  perché  egli  è  un empirista,  ma  perché  il  suo  empirismo  si  ferma  a  mez- za via.  Se,  per  esempio,  egli  é  uno  scettico  nella  qui- stione del  mondo  esteriore,  é  perchè  non  si  risolve  ad abbracciare  la  concezione  rigorosamente  empirista,  il fenomenismo  di  Mill  e  di  Bain,  che  risolve  gli  oggetti materiali  in  sensazioni  e  possibilità  di  sensazioni.  Cosi ancora,  se  egli  rende  sospette  tutte  le  conoscenze  d'in- ferenza sul  reale,  non  é  perché  rigetti,  come  gli  rim- proverano i  metafisici,  le  pretese  verità  a  priori,  ma perchè  ammette  i  presupposti  della  filosofia  apriorista. Per  lui,  come  per  i  metafisici  aprioristi,  la  vera  cono- scenza é  una  conoscenza  a  priori  (3),  ciò  che,  come  sap- piamo,  è  una  conseguenza  del  principio  che  il  legame (1)  V.  Filos.  di  Hamilton,  o.  28  (trad.  frane,  p.  611). (2)  V.  fra  gli  altri  Hegel  Introd.  alVEnciel.,  §  39,  e  Rosmini N,  S.  sulVorig.  delle  id.,  t.  1,  sez.  4,  cap.  3,  art.  5. (3)  Le  «  vere  scienze  »,  le  «  scienze  propriamente  dette  », sono  le  dimostrative,  cioè  le  matematiche  pure  (Saggio  sulla filos.  accad.,  verso  la  tìne). Hfmtm —  528  — tra  le  cause  efficienti  e  <i;\\  eifetti  deve  essere  conoscibile a  priori.  Di  là  il  suo  scetticismo  sulle  relazioni  tra  le cause  e  g\ì  effetti  dell'  esperienza,  e  quindi  su  tutte  le conoscenze  d'inferenza  sulle  cose  di  fatto. Questo  scetticismo  è  contenuto  principalmente  nel Sag-gio  intitolato  Dubbi  scettici  sulle  operazioni  deW  in- tendimento umano.  In  questo  Saggio  e  nel  susseguente, Soluzione  scettiche  dei  dubbi  precedenti,  Hume  si  propone di  cercare  quale  sia  il  fondamento  delle  inferenze  che facciamo  sulle  cose  di  fatto.  Lo  scopo  diretto  dell'autore è  dunque  di  stabilire  delle  verità  psicologiche:  ma  come lo  indicano  i  titoli  dei  due  Sag-gi,  Hume  vede  nei  risul- tati della  sua  ricerca  dei  motivi  di  scetticismo,  sem- brandogli che  il  presu[)[)Osto  ultimo,  su  cui  eg'li  trova che  le  inferenze  sulle  cose  di  fatto  sono  fondate,  non ha  buone  ragioni  che  possano  giustificarne  l'ammissione. La  1.  parte  del  Saggio  Dubbi  scettici  ecc.  stabilisce- che  non  vi  ha  alcun  caso  assegnabile  in  cui  la  cono- scenza del  rapporto  che  è  tra  la  causa  e  l'effetto  possa essere  ott(;nuta  a  {)riori,  e  che  tutte  le  leggi  della  na- tura sono  conosciute  per  la  sola  esperienza.  Ciò  posto, Hume  si  domanda  nella  2.  parte:  Qual  è  la  base  su  cui si  appoggiano  le  inferenze  che  noi  tiriamo  dall'  espe- rienza ?  Perchè,  dopo  che  noi  abbiamo  visto  nel  passato due  fatti,  che  noi  chiamiamo  causa  ed  effetto,  congiunti l'uno  con  l'altro,  ci  attendiamo  ch'essi  saranno  ancora congiunti  nell'avvenire,  ed  in  tutti  i  casi,  e  inferiamo, dall'apparizione  dell'uno,  la  presenza  anche  dell'altro? Questa  quistione,  siccome  Hume  crede  che  le  forze produttrici  degli  effetti,  le  cause  efficienti,  sono  scono- sciute,  si  traduce  per  lui  in  questi  termini  :  Perchè  a- vendo  visto  nel  passato  che  degli  oggetti,  dotati  di  certe proprietà  sensibili,  hanno  avuto  la  facoltà  di  produrre certi  eff'etti,  cioè  che  certe  forze  scerete  sono  state  unite con  certe  proprietà  sensibili,  noi  ci   attendiamo,  anche 529  — per  l'avvenire,  che  gli  stessi  oggetti  o  altri  oggetti  do- tati delle  stesse  proprietà  sensibili,  avranno   la   facoltà di    produrre   gli    stessi    effetti,  cioè  che  le  stesse    forze scerete  saranno  unite  con  le  stesse  proprietà  sensibili? Non  si  vede  alcun  legame  tra  le  qualità  sensibili  e  queste forze  secrete;   «non  si  vede  niente  né  nel  colore  né  nella consistenza  né  nelle  altre  qualità  sensibili  del  pane,  che abbiamo  la  minima  affinità  con  le  facoltà  di   nutrire    e di  conservare;  se  vi  si  vedesse  qualche  cosa  di  simile, si  sarebbe  in  grado  d'inferire  queste  facoltà  secrete  dalle qualità   sensibili  dalla  loro  prima  apparizione,  e  senza ricorrere  all'  esperienza,  ciò  che  è  negato  da  tutti  i  tì- losoff  e  smentito  dal  fatto.  »  Donde  concludiamo  dunque che  le  qualità  sensibili  e  le  forze  secrete  devono  essere costantemente   e   regolarmente    congiunte    insieme?    Si risponderà    che    lo    concludiamo  da  ciò  che  le  abbiamo trovate  congiunte  insieme  nell'  esperienza  passata  :  ma perchè  concludiamo  dal  passato  all'avvenire,  da  ciò  che abbiamo  sperimentato  a  ciò  che  non  abbiamo  s])erimen- tato?  Questa  proposizione:  io  ho  trovato  sempre  un  tale oggetto  seguito  da  un  tale  effetto,  non  è  la  stessa  che questa  :  io  prevedo  che  tutti  gli  altri  oggetti  che  si  ras- somigliano per  le  loro  apparenze  (per  le  loro  proprietà sensibili)  si  rassomiglieranno  pure  i)er  i  loro    eff^etti    (o per  le  loro  facoltà  secrete).  Il  legame  fra  le  due  propo- sizioni   non  è  percepito    per    un'evidenza    intuitiva.   Si cercherebbe  d'altronde  vanamente  una  ragione  che  po- tesse provare  questo  presupposto  ultimo  di  tutte  le  no- stre   inferenze   sulle  cose  di  fatto,  cioè  che  1'  avvenire sarà  conforme  al  passato,  ciò  che  non   abbiamo    speri- mentato a  ciò  che  abbiamo  sperimentato.  E  per  far  ve- dere che  non  può  esservi  alcuna  prova  tale,  Hume  di- vide   tutte    le    prove    possibili  in   due  generi  :  le  diìuo- strative,  e  le  induttive,  eh'  egli  chiama  con    Locke  ra- gionamenti probabili.  Ora  la  dimostrazione  non  ha  luogo —  530  - nel  caso  che  noi  consideriamo,  perchè  nell'opposto  delle verità  dimostrative  vi  ha  ripugnanza,  ma  non  ripugna in  alcun  modo  nò  che  il  corso  della  natura  sia  cangiato, ne  che  gli  oggetti  simili  in  apparenza  (cioè  per  le  loro proprietà  sensibili'  a  quelli  su  cui  abbiamo  fatto  delle esperienze,  producano  degli  effetti  differenti,  e  anche contrari!  cioè  abbiano  delle  forze  scerete  differenti,  e anche  contrarie).  Tolti  gli  argomenti  dimostrativi,  non restano  che  gli  argomenti  induttivi  o  probabili;  ma  voler provare  il  principio  che  l'avvenire  sarà  conforme  al  passa- to, il  non  sperimentato  allo  sperimentato,  per  degli  argo- menti probabili  o  induttivi,  sarebbe  commettere  un  cir- colo vizioso,  perchè  tutti  ([uesti  argomenti  presuppon- gono   ({uesto  principio. Hume  ha  dunque  stabilito  questa  verità  psicologica e  logica,  che  tutte  le  nostre  conoscenze  sulle  cose  di fatto  derivano  dall'esperienza;  che  il  fondamento  ultimo delle  nostre  inferenze  sulle  cose  di  fatto,  il  principio della  uniformità  del  corso  della  natura,  è  una  verità induttiva;  che  questa  induzione,  per  cui  dalla  uniformità nel  passato  (o  più  generalmente  nel  già  sperimentato) concludiamo  all'  uniformità  nelT  avvenire  (o  più  ge- neralmente nel  non  ancora  sperimentato),  essendo  il fondamento  ultimo  su  cui  si  appoggiano  tutte  le  nostre inferenze,  non  ha  un  fondamento  ulteriore  su  cui  essa stessa  si  appoggia.  Sin  qui  Hume  non  è  che  uno  dei più  luminosi  interpreti  della  filosofia  dell'esperienza  — e  non  potrebbe  vedersi  nella  sua  teoria  che  un  solo  di- fetto,  cioè  che  egli  non  ha  compreso  che  le  inferenze delle  scienze  dimostrative,  vale  a  dire  delle  matematiche, sono  anch'esse  empiriche,  cioè  induttive — :  ma  Hume crede  inoltre  che  i  risultati  a  cui  egli  è  pervenuto  sulla bas(»  ultima  delle  nostre  operazioni  intellettuali,  riguar- danti le  inferenze  sulle  cose  di  fatto,  siano  propri  a  spar- gere il  dubbio  e  il  sospetto  sulla  validità  di  queste  ope- 531razioni.  Cosi  egli  dice:   «L'esperienza  del  passato  non deponendo  che  rapporto  a  questi  oggetti  dederminati  e a  questo  tempo  preciso  di  cui  essa  ha  potuto  giudicare, di    qual  dritto  si  può  trasportarla  ad  altri  tempi,  e  ad altri  oo-P-etti,  di  cui  la  rassomiglianza    coi    precendenti potrebbe,  a  tutto  prendere,  non  essere   che    apparente (la  rassomiglianza  nelle  forze  secrete  potendo  non   cor- rispondere alla  rassomiglianza  nelle  proprietà  sensibili,? È    questo  il  gran  punto   sul  quale  insisto.  Il  pane    che io  mangiava,  è  qualche  tempo,  mi  nutriva:  ciò  torna  a dire  che  un  corpo    dotato  di  tali    qualità    sensibili    era allora  provvisto  di  tali  o  tali  virtù  secrete;  ma  ne  segue che  altro  pane  deve  nutrirmi  pure  in  altro  tempo,  o  che le  stesse  virtù  devono  sempre  trovarsi    con    qualità    si- mili? Non  vi  ha  qui  un'ombra  di  necessità.  Almeno  non si   può  impedirsi  di  convenire  che  questa  conseguenza, questo  seguito  di  pensieri,  questa  induzione,  sono  delle cose  in  cui  non  vediamo  chiaro».  E  ancora:    «Dacché vi  ha  il  minimo  sospetto  che  la  natura  può  cangiare  il suo  corso,  il  passato  cessa  d'essere  una  regola  per  l'av- venire; l'esperienza  perde  ogni  uso,  e  non  può  far  na- scere alcuna  conclusione.  Così  è  impossibile  ch'essa  proviquesta  rassomiglianza  dell'avvenire  al  passato  ;   poiché essa  non  potrebbe  impiegare  prova    che  non  la  suppon- ga anticipatamente..  Io  voglio  che  il  corso  della  natura sia  stato  regolare  sin  qui  :  bisognerà  sempre  un  nuovo argomento  per   dimostrare   che    continuerà    ad    esserlo. Invano    voi    pretendete    avere    studiato    la    natura    dei corpi  nel  libro  dell'esperienza:    la    loro    natura    nasco- sta,   e    per    conseguenza    la    loro    influenza    e    i    loro effetti,  potrebbero  aver  cangiato,  senza  che  si  fosse  fatto alcun  cangiamento  nelle  loro  qualità  sensibili  :  ciò  accade qualche  volta,  e  in  alcuni  oggetti;  perchè  non  potrebbe accadere  in  ogni  tempo,  ed  in  tutti  gli  oggetti  ?  (Juale logica,  qual  seguito  di  ragionamenti,  vi  mette  in  sicurezza  contro  questa  supposizione?»  Oltre  che  da  questi luoghi,  lo  scetticismo  di  Huiiie  intorno  alle  inferenze sulle  cose  di  fatto  si  rileva  principalmente  dal  comincia- mento  della  II  parte  del  Saggio  Dubbi  scettici,  dal  co- minciamento  del  Saggio  susseguente,  e,  più  chiaramente ancora,  dalla  parte  del  Sagyio  sulla  filosofia  accademica che  si  riferisce  alla  quistione. Come  abbiamo  visto,  le  ragioni  su  cui  questo  scet- ticismo è  fondato,  sono  :  che  le  relazioni  tra  le  cause  e gli  effetti  non  si  conoscono  a  priori,  e,  che  runiformità del  corso  della  natnra  non  potrebbe   essere  dimostrata. Tutto  ciò  che  Hume  dice  sull'  impossibilità   di    provare questa  uniformità  si  riduce  a  dire  che  essa  non  può  es- sere provata  dimostrativamente;  induttivamente,  essa  è provata.  Tutte  le  induzioni  particolari  implicano,  come ben  dice  Hume,  questa  induzione  generale;  e  oltre  l'indu- zione, non  vi  ha  altra  prova  che  la  dimostrazione:  sicché cercare,  com'egli  fa,  una  prova  che  possri  giustificare  tutte le  induzioni,  tanto  le  particolari,  (pianto  la  generale,  è cercare  una  prova  che  non  sia  induttiva,  per  ciò  necessa- riamente una  prova  dimostrativa;  e  concludere    che    la prova  cercata  non  esiste,  è  concludere  semplicemente  che ciò,  di  cui  si  è  cercata  la  prova,  non  può  essere  dimostrato. La  conclusione  scettica  di  Hume  dunque  suppone  questa premessa  non  provata,  ma  ammessa  come  evidente  per  se stessa,  che,  per  avere  la  certezza  sarebbe  necessario  o  che la  connessione  tra  le  cause  e  gli  effetti  si  conoscesse  a  prio- ri (1)  o  almeno  che  la  conformità  dell'avvenire  al  passato, (l)  Si  (levo  notare  che  lliinie.  si  domainla  :  Con  i[ni\\  dritto aumiettianio  che  le  stesse  proprietà  sensiìiili  saranno  senijn-e conjiiunte  con  le  stesse  forze  secrete  i  ma  non  si  «lonianda  :  Con <inal  dritto  aniniettianio  inoltre  ehe  le  stesse  forze  seerete  pr.>- durranno  sempre  ^H  stessi  effetti  t  Ei^pnre  se  vi  lianno  ne-li a<»-enti  tisici  delle  torzc^  ipertisielie  da  cui   dii^-ndono  i  lt»ro  ettV'tti, —  538 del  non  sperimentato  allo  sperimentato,  potesse  essere dimostrata.  Questa  premessa  sarebbe  impossibile  a  Hume di  provarla  —  e  a  noi  di  confutarla,  ma  abbiamo  il  dritto di  respingerla  in  virtù  del  postulato  necessariamente  im- plicato in  ogni  atto  dell'intelligenza,  che  la  conoscenza non  è  un'illusione,  che  si  deve  aver  fede  nel  valore  reale delle  nostre  facoltà  conosciute  —  :  essa  è  il  risultato  del sofisma  a  />/vor/  della  metafisica  apriorista. Per  Hume,  come  per  i  metatìsici  aprioristi,  la  co- noscenza adequata  e  la  certezza  non  si  otterrebbe  che per  r  assimilazione  della  forma  delle  conoscenze  delle connessioni  dei  fenomeni  in  generale  alla  forma  delle  co- noscenze delle  connessioni  più  familiari.  Quest'assimila- zione non  sarebbe  possibile  che  in  tre  ipotesi:  1.  Che noi  conoscessimo  le  cause  effìdenti  dei  fenomeni,  tra  cui e  i  loro  effetti  noi  vedremmo  una  connessione  a  priori. Sarebbe  la  conoscenza  assoluta,  che  ci  darebbe  al  tempo stesso  la  spiegazione  completa  e  la  completa  certezza.  La prima  parte  del  Saggio,  nella  quale  l'autore,  dopo  aver mostrato  l'inqìossibilità  di  scoprire  a  priori  il  rapporto tra  le  cause  e  gli  effetti,  ne  deduce  che  le  cause  effi- cienti ^ono  inconoscibili,  ha  per  oggetto  di  respingere  que- sta l^Mpotesi.  2.  Che  noi  conoscessimo  a  priori  la  coesistenza di  tali  qualità  sensibili  e  tali  forze  secrete  (di  tali  cause fisiche  e  tali  cause  effidentiy,  in  altri  termini,  che  noi  co- lon lo  stesso  dritto  eoa  cui  Hume  dnl»ita  della  coesistenza  nni- forme  tra  proprietà  scnsildli  simili  ne^^li  agenti  tìsici  e  forze  se- eret^  simili.  potreld»e  anclic  dubitarsi  della  relazi(nie  uniforme tra  forze  secrete  simili  ed  effetti  simili.  Ma  Hume  trova  indn- bitahile  che  le  stesse  forze  secrete  protlurranno  gli  stessi  effetti, perchè  egli  suppone  che  la  relazione  tra  (pieste  forze  e  i  loro effetti  sarehì»e  conosciuta  a  priori,  [uirchè  conoscessimo  (Queste forze:  e  il  suo  dubbio  non  si  estende  che  alle  relazioni  tra  le cause  e  gli  effetti  tra  cui  non  vi  ha  clu*  una  connessione  em l)irica. —  534  — iK^cessinio  a  priori  che  tali  cause  fisiche  sono  capaci  dì produrre  tali  effetti,  ma  senza  conoscere  il  meccanismo per  cui  li  producono,  cioè  le  cause  efficienti.  La  cono- scenza allora  non  sarebbe  assoluta  come  nella  1'^  ipo- tesi: rassimilazioue  al  tipo  sarebbe  meno  completa;  ma essa  sarebbe  ancora  tanta  da  aversi,  non  solo  la  certezza, ma  ancora  in  certo  modo  una  spiegazione  dei  fenomeni. QuestMpotesi  è  respinta  nella  2^^  parte  del  Saggio.  3^  Che si  potesse  almeno  t^mo.sfmre  che  il  corso  della  natura  è uniforme,  che  l'avvenire  somiglierà  al  passato,  il  non sperimentato  allo  sperimentato.  In  quest'ipotesi,  non avremmo  più  una  spiegazione  dei  fenomeni;  l'assimila- zione al  tipo  non  raggiungerebbe  che  lo  scopo  di  ele- vare il  grado  di  evidenza  delle  conoscenze  sperimentali, che  da  induttive  diverrebbero  dimostrate  (l'  evidenza delle  verità  dimostrate  somiglia  più  air  evidenza  tipo^ che  è  intuitiva,  che  quella  delle  verità  induttive)  —  Ri- gettando queste  tre  ipotesi,  Hume  mostra  l'impossibilità dell'assimilazione  cercata,  e  quindi  l'incertezza  della conoscenza. Da  ciò  che  è  stato  detto  di  Loche  e  di  Hume,  ab- biamo il  dritto  d'  inferire  che  una  delle  sorgenti  dello scetticismo  —  questo  fenomeno  dello  spirito  umano  non meno  naturale  e  costante  della  metafisica,  eh'  esso  ac- compagna come  il  rovescio  accompagna  il  dritto— è  questa tendenza  del  nostro  spirito,  su  cui  è  fondata  la  meta- fisica apriorista,  per  cui  egli  si  sforza  di  assimilare  la forma  delle  conoscenze  delle  connessioni  dei  fenomeni  in venerale,  alla  forma  delle  conoscenze  delle  connessioni più  familiari.  Questa  tendenza  ha  per  risultato  di  pro- porsi (quantunque  d  una  maniera  più  o  meno  incosciente) l'evidenza  di  queste  ultime  conoscenze  come  tipo  unico a  cui  la  certezza  di  tutte  le  conoscenze  deve  essere misurata.  Una  delle  sorgenti  dello  scetticismo  è  il  sen- timento dell'  impotenza  dello  spirito  a  realizzare  l'assi- —  535 milazione  cercata,  della  disparità  tra  la  conoscenza  e l'evidenza  a  cui  si  perviene  e  la  conoscenza  e  l'evidenza a  cui  si  aspira.  È  verisimile  che  non  vi  sarebbe  pes- simismo, se  l'uomo  non  nascesse  assurdamente  ottimista: il  pessimismo  risulta  dalla  delusione  di  questa  tendenza all'ottimismo  innata  al  nostro  spirito.  Io  non  dirò  che lo  scetticismo  risulta  parimenti  dalla  delusione  di  questa tendenza  naturale,  se  non  innata,  al  nostro  spirito,  a cercare  un'  evidenza  superiore  a  quella  a  cui  può  per- venire :  il  parallelismo  non  sarebbe  esatto,  perchè,  se questo  è  uno  dei  motivi  dello  scetticismo,  non  è  il  mo- tivo unico.  Gli  altri  motivi  li  incontreremo  nelle  parti seguenti  di  questo  Saggio,  poiché,  come  vedremo,  le  sor- o-enti  da  cui  deriva  lo  scetticismo  sono,  al  fondo,  le stesse  sorgenti  da  cui  deriva  la  ìuetafìsica. §  11.  Kant  ha  fondato  tutto  Tedifizio  della  sua  Cri- tica sul  principio  che  l'esperienza  non  può  dare  origine a  proposizioni  necessarie  e  rigorosamente  universali  (1). Questo  principio  —  comune  per  altro  a  quasi  tutti  i  psi- cologi che  non  ammettono  la  teoria  dell'esperienza-è, nella  parte  che  nega  l'universalità  rigorosa  di  qualsiasi proposione  a  posteriori,  un  prodotto  della  metafisica  a- priorista,  derivante  dalla  stessa  sorgente  da  cui  lo  scet- ticismo di  Locke  e  di  Hume  sulle  conoscenze  generali di  origine  empirica,    con    cui  esso    ha    l'analogia    più evidente. È  per  una  conseguenza  di  questo  principio  che  Kant esio-e  che  la  conoscenza  filosofica,  la  quale  deve  stabi- lire  i  fondamenti  e  i  primi  principii  di  tutte  le  cono- scenze, sia  una  conoscenza  a  priori,  e  che  egli  dà  per- ciò come  tale  la  Critica  della  ragion  pura  e  tutte  le altre  parti  della  sua  propria  filosofia  (2  .  Questa  preten- (1)  Cvit.  della  rag.  pura  Introd.  n.   II. (2)  Crit.  della    rag.    pura,  Metodologia  e.  3.   Per  ciò  che  ri- —  53G sione  (li  Kant,  che  la  sua  filosofìa  è  un  sistema  di    co- noscenze a  priori,  è,  senza  dubbio,  infondata;  il  punto di  partenza  della  Critica  sono  delle  osservazioni  sui  giu- dizi, sui  concetti,    sulle  intuizioni,  ecc.,    cioè  dei  fatti dell'esperienza  interna,  e  dei  fatti  g-cnerali,  la  cui  ge- neralizzazione non  può  essere  che  un   processo  d'indu- zione. Ciò  basta  a  provare  che  il  metodo  che   Kant  ha effettivamente  seguito  non  è  quel  metodo  interamente  a priori  ch'egli  ha  preteso  di  seguire;  ma  per  confessare che  i  risultati  a  cui  egli  perveniva  avevano  per  fonda- mento l'esperienza  e  l'induzione,  Kant  avrebbe  dovuto o  rinunziare  alla  certezza  apodittica  ch^egli    reclamava per  essi,  o  rinunziare  al  principio  che  l'esperienza  non può  dare  delle  conoscenze  generali  rigorose, Dei  due  scopi  della  metafisica  apriorista,  il  prima, rio  ch(»  è  d'introdurre  tra  i  fatti  dei  legami  razionaU  e necessari,   e  il  secondario  che  è  di  elevare  il   grado  di certezza  delle  conoscenze,  Kant  non  può  avere  di  mira che  quest'ultimo,  quando  egli  reclama  per  la  sua  filo- sofia la  qualità  di  scienza  a  priori:  noi  non   potremmo attrilmir-li  anche  il  primo,  se  non  nel  caso  che  egli  si proponesse,  ciò  che  non  fa,  di  costruire,  a  priori,  senza niente  ammettere  come  dato,  le  leggi  del   soggetto    co- noscente, e,  in  generale,  le  leggi  dei  fatti  che  formano l'ooo-etto  delle  sue  ricerche  filosofiche,  come  poi   fecero i  suoi  successori  a  cominciare  da    Fichte.    Tuttavia    vi ha  una  parte  dell'opera  filosofica  di  Kant,  in  cui  è  evi- dente anche  lo  scopo  primario  della  metafisica  apriori- sta :  sono  gli  FAementi  metafisici  della  scienza  della    na- tura, guesti  contengono   una    fisica   i)um,    una    teoria della  materia  e  del  movimento  realmente   a    priori,    in cui  non  si  accetta  dall'esperienza  che  il  concetto  della o;nnnla  la  Ciitira  (h'Ua  ra-ionc  pura  .    v.    anche  Prcfaz.  alla    1 ediz.   verso  la  mota,  e  Prefaz.  alla  2  (mHz.  vorso  la  tino. -  537 materia,  come  una  estensione  mobile  ed  impenetrabile: Kant  vi  segue  il  metodo  geometrico,  [)rocedendo  per assiomi,  definizioni  e  teoremi  con  la  loro  dimostrazione, e  vi  deduce  a  priori,  oltre  la  sua  teoria  personale  sulla costituzione  della  materia,  il  principio  della  conserva- zione della  massa,  il  principio  d'inerzia  e  le  altre  leggi del  moviniento,  e  sinanche  la  legge  newtoniana  dell'at- trazione. ^  12.  Fichte,  Schelling,  Hegel.  Tutti  sanno  clu^  que- sti filosofi  rappresentano  il  periodo,  per  dir  così,  acuto della  speculazione  a  priori.  Bisogna  però  guardarsi -e la  stessa  osservazione  conviene  su  per  giù   per    tutti    i metafisici  aprioristi -dal  malinteso  di  credere  che  questi filosofi    fossero    tanto   assurdi  da  ritenere  che   per  otte- nere la  scienza  essi  potessero  dispensarsi   di  consultare i  fatti,  e  bastasse  di  contemplare  i  propri  pensieri.  Non si  tratta,  dice  Schelling,  di  passarsi  dell'esperienza,  e  di costruire  la  natura  con  semplici  idee;    perchè    noi  non sappiamo  niente  che  per  1'  esperienza  ;    ma  si  tratta  di trasformare  le  conoscenze  sperimentali  in  un    sapere  a priori,  dandosi  la  coscienza  della  loro  necessità  raziona- le a;.  Lo  stesso  press'a  poco  dice  Hegel:  La  filosofia  ha per  punto  di  partenza    l'esperienza,    e  il  suo  contenu- to non  è  che  quello  delle  scienze    sperimentali  ;    ma  al contenuto  di  queste  scienze  essa  dà  la  forma   che    le  è propria,   cioè  la  forma  di  conoscenza    necessaria   ed   a priori  (2). Su  questi  filosofi  saremo  brevi:  noi  supporremo *  le  loro  dottrine  conosciute  —  i  pochi  cenni  che  noi  po- tremmo darne  sarebbero  inintellioibili  per  quelli  che  già non  le  conoscessero -e  ci  limiteremo  a  indicare  il  loro rapporto  con  la  sofistica  naturale  dei  nostro  spirito.  Ciò stesso,    nel  presente  capitolo,    non  possiamo  farlo    che (1)  fntroduz.  alla  filoa.  della   natura. (2)  Introduz.  aWeneu'lop.  §  12. -  538 d'una  maniera  incompleta,  e  anticipando  sul  seguente; la  suddivisione  della  metafisica  apriorista,  di  cui  queste dottrine  fanno  parte,  appartenendo  propriamente  all'ar- gomento di  quest'altro  capitolo. La  prima  osservazione  che  ci  si  presenta  su  questi sistemi  è  il  legame  intimo  tra  la  spiegazione  idealista e  il  metodo  a  priori.  Kant  avea  dato  il  suo  idealismo per  una  risposta  alla  quistione  :  Com'è  possibile  la  co- noscenza a  priori  ?  Questa  conoscenza  è  possibile,  ri- spondeva Kant,  perchè  è  il  pensiero  che  dà  le  leggi alle  cose.  I  limiti  della  conoscenza  a  priori  erano  dun- que, secondo  Kant,  i  limiti  della  parte  che  ha  il  pen- siero nella  formazione  del  mondo  dei  fenomeni;  e  l'op- posizione tra  r  a  priori  e  1'  empirico  corrispondeva  al- l' opposizione  tra  il  soggetto  e  l'oggetto,  tra  la  forma, ingenita  al  soggetto,  e  la  materia,  data  dal  di  fuori. Nell'idealismo  post  -  kantiano,  caduto  il  dualismo  del soggetto  e  r  oggetto,  della  forma  e  la  materia,  ca- deva al  tempo  stesso  la  separa'.ione  dei  due  domini  della conoscenza  empirica  e  dell'apriori;  il  dominio  della  pri- ma era  assorbito  in  quello  della  seconda,  come  l'og- getto era  assorbito  nel  soggetto.  Tutte  le  leggi  del  mon- do reale  noi  possiamo  leggerle,  dice  Fichte,  nel  nostro proprio  pensiero  ;  la  natura  non  ha  mistero  si  oscuro, piega  si  nascosta,  che  non  ci  sia  dato  di  penetrarvi, perchè  le  sue  leggi  le  sono  imposte  dal  nostro  pensie- ro (1)  D'altra  parte,  il  carattere  particolare  dell'  idea- lismo post  -  kantiano  è  ch'esso  fa  dell'attività  logica del  pensiero  nel  senso  che  abbiamo  spiegato  nel  cap.  2.), la  forza  produttice  di  tutte  le  cose  :  donde  segue  che spiegare  le  cose,  descrivere  il  meccanismo  della  loro produzione,  è  costruirle  a  priori.  Cosi  l'idealismo  e  l'a- (1)   Destinai.  delVnoìno.  tiad.  fniiic.  di  Barchou  de  Penhoen, 2  odiz.  !>.  194  e  288. -    539   — priorismo  sono,  in  questi  sistemi,  alternativamente  prin^ cipio  e  conseguenza  l'uno  dell'altro;  perchè,  come  il  loro idealismo  importa  una  costruzione  a  priori  delle  cose, cosi  la  possibilità  di  una  assoluta  conoscenza  a  priori delle  cose  importa,  conformemente  alla  spiegazione  di Kant  dei  giudizi  sintetici  a  priori,  un  idealismo  egual- mente assoluto.  Se  ora  ci  si  domanda  se,  volendo  spie- gare la  formazione  dei  sistemi,  bisogna  derivare  il  loro Tdealismo  dal  loro  apriorismo,  o  piuttosto  il  loro  apriori- smo dal  loro  idealismo,  risponderemo  che  non  bisogna fare  né  l'una  né  l'altra  cosa.  Tanto  l'idealismo,  quanto l'apriorismo,  hanno  per  questi  filosofi  un  valore  ciascuno per  se  stesso,  e  non  come  semplice  conseguenza  di  un principio  prestabilito:  ciò  che  basta  a  provarlo  è  la  possi- bilità di  derivare  direttamente  tanto  l'uno  quanto  l'altro dalle  sorgenti   generali  dei   concetti  metafisici. Ciò  che  caratterizza  la  filosofia  tedesca,  dominante  da Fichte  ad  Hegel,  è,  come  disse  Cousin,  con  l'approvazione dello  stesso  Schelling,  che  essa  aspira  a  riprodurre  nelle sue  concezioni  l'ordine  stesso  delle  cose  (1);  in  altri  termi- ni  che,  per  questi  filosofi,  come  per  Spinoza,  l'ordine  (^  la connessione  delle  idee  sono  identici  all'ordine  e  la  con- nessione delle  cose.  Per  definire  questa  filosofia,  alla  nota generica  della  metafisica  apriorista,  che  è  la  produzione della  conoscenza  per  un  metodo  puramente  deduttivo,  bi- sogna aggiungere  questa  nota  differenziale  specifica,  che lo  sviluppo  della  dimostrazione  corrisponde  allo  sviluppo stesso  dell'essere,  che  la  filiazione  logica  delle  conoscenze rappresenta  la  filiazione  reale  delle  cose  stesse,  che  il  mo- vimento o  il  progresso  del  pensiero,  per  cui  si  produce la  conoscenza,  è  la  riprodazione  del  movimento  o  del progresso  delle  cose  per  cui  queste  vengono  prodotte. Questo  metodo  è  espresso  assai    bene    dalla    parola   co- (X)  V.  Schelling,   Giud.  sulla  filos.  di  Coiisin.  I.  Metodo. '  ' —  540  — struzione  :  dimostrare  mici  cosa  è  costruirla^  far  vedere il  modo  in  cui  essa  è  prodotta,  perchè  il  principio  che serve  a  dimostrarla,  il  prhicijyruni  cognoscendi,  è  al tempo  stesso  il  principio  di  cui  essa  deriva,  ciò  che  la fa  essere,  il  prindpiuTìi  essendl.  Il  rapporto  logico  tra principio  e  conseguenza  è  identico  al  rapporto  ontolo- gico tra  producente  e  prodotto,  e  possiamo  dire,  tra causa  ed  effetto,  purché  ciò  s'intenda  con  la  riserva  che tra  le  cause  ed  effetti,  di  cui  si  tratta,  non  vi  ha  una successione  cronologica,  ma  soltanto  logica.  Conside- rando dunque  i  termini  della  serie  logica  che,  per  que- sti filosoti,  costituisce  il  sistema  della  conoscenza  e  al tempo  stesso  dell'  essere,  come  essenti  fra  di  loro  nel rapporto  di  cause  e  di  effetti— ciò  che,  con  la  riserva suddetta,  abbiamo  il  dritto  di  fare,  perchè  essi  riguar- dano evi<lentemente  i  termini  logicamente  posteriori come  prodotti  dai  termini  logicamente  anteriori  — noi possiamo  affermare  che  questa  metafìsica,  come  ogni metafisica  apriorista,  suppone  il  principio  che  la  connes- sione tra  la  causa  (efficiente)  e  l'effetto  è  una  connes- sione razionale  e  necessaria,  che  la  ragiore  può  scopri- re a  priori  per  il  semplice  paragone  delle  idee.  Non trovando  tra  le  idee  altra  connessione  a  priori,  da  po- ter servire  alla  formazione  di  un  sistema,  che  la  con- nessione tra  il  principio  e  la  conseguenza  nella  dedu- zione, questi  filosofi  identificano  questa  connessione  con quella  tra  la  causa  e  l'effetto  :  ma  perciò  essi  devono cercare  il  vero  incatenamento  causale,  quello  che  può soddisfare  il  bisogno  che  ha  lo  spirito  di  conoscere  le cause  efficienti^  non  nella  serie  fenomenale  delle  cause e  degli  eft'etti  propriamente  detti,  ma  in  una  serie  ideale, in  cui,  tra  ciò  che  produce  e  ciò  che  è  prodotto,  la  suc- cessione sia  non  cronologica  (non  essendovi  alcuna successione  tale  tra  il  principio  e  la  conseguenza  ob- biettivamente considerati),  ma  semplicemente  logica.  E ciò  che  noi  chiariremo  nel  capitolo  seguente. -  541 §  13.  Per   mostrare    quanto  si    estenda    1' infiuenza del    sofisma    a   priori    della    metafisica    apriorista  —  ciò che  è  uno  degli  scopi  di  questa  escursione  storica  —  le dottrine  di  una  filosofia  più  modesta  non  hanno  per  noi meno  importanza,  che  gli  audaci  sistemi  dell'idealismo tedesco.  Beid  ammette    anch'  egli    che  una    conoscenza adequata  delle  leggi  delle  cose  sarebbe  una  conoscenza a    priori  :  se  noi  non    possiamo    averne    che  una    cono- scenza empirica,  è  perchè    l'essenza  delle  cose  è  inac- cessibile alle  nostre    facoltà.  «Vi  ha  degli   esseri  creati che  conoscono  l'essenza  delle  cose,    in  modo    da    poter dedurne  i  loro    attributi  e  la  loro    costituzione,  ovvero questa  conoscenza  è  la  prerogativa  esclusiva  dell'essere onnipotente  che  le  ha  fatte?  Noi    1'  ignoriamo,  ma  ciò che  è  certo  è  ch'essa  oltrepassa  la   portata  delle  facoltà umane.  Noi  concepiamo  l'essenza  di  un  triangolo,  e  da questa  essenza  possiamo  dedurre  le  sue    proprietà  :  ma essa  non  è  che  un  universale,  e  poteva  essere  concepita dalla  mente  umana,    benché    nessun    triangolo    indivi- duale fosse  mai    esistito.  È  solamente,  come  la  chiama ^^ocke,  un'essenza  nominale,  espressa  da  una  definizione. Ma  ogni  cosa  che    esiste  ha  una    essenza   reale,  che  è superiore   alla    nostra   comprensione,  e   perciò  noi  non possiamo  dedurre  le  sue    proprietà  e  gli  attributi  della sua  natura,  come   facciamo  rispetto  al    triangolo  »    (1). Non  bisogna  dimenticare  che  gii  attributi  delle  sostanze consistono    sovratutto,  come   diceva    Locke,  nelle  loro })otenze  attive  e  passive. Noi  troviamo  pure  in  Reid  l'altro  principio  della metafisica  apriorista,  che  la  certezza  assoluta  non  ap- partiene, tra  le  conoscenze  generali,  che  a  quelle  ch(^ sono  indipendenti  dall'  esperienza.  Egli  distingue  due specie  di    evidenza  :  1'  evidenza    dimostrativa  e  la  pro- li)  ^"^fiOO^  ^'^f^^'  f^'^'-*>f*'^i*^ff" '^'».-iii<^  ^'  *'•  -• —  542  - babile.  La  vera  scienza  è  la  dimcstratìva  :  essa  non volg-e  che  sulle  idee  astratte,  che  si  concepiscono  astra- zion  fatta  dell'  esistenza  delle  cose  (quali  le  idee  dei numeri  e  delle  figure).  I  legami  e  le  opposizioni  tra queste  idee,  le  loro  convenienze  e  disconvenienze,  sono immutabili,  e  costituiscono  delle  verità  necessarie,  e  che si  ha  avuto  rag-ione  di  chiamare  eterne  (1).  Male  verità che  non  risultano  dalla  percezione  della  convenienza  o disconvenienza  delle  idee,  sono  contingenti  :  esse  sono soggette  a  limitazioni  e  restrizioni,  perche  dall'  espe- rienza non  possono  risultare  delle  verità  di  una  univer- salità illimitata.  L'evidenza  delle  verità  contigenti  non è  che  probabile  :  p.  e.  V  evidenza  che  le  leggi  della natura  non  hanno  eccezione,  e  che  esse  saranno  nel- r  avvenire  le  stesse  che  sono  state  nel  passato,  non  è dimostrativa,  ma  semplicemente  probabile.  Tutte  le verità  concernenti  1'  esistente  sono  contingenti  ;  solo l'esistenza  di  Dio  è  una  verità  necessaria,  cioè  suscet- tibile di  essere  dimostrata  (noi  non  abbiamo  bisogno d'indicare  il  motivo  di  quest'eccezione)  (2). Steirart  af^enns.  esplicitamente  il  principio  cardinale della  nuHafisica  apriorista,  cioè  che  il  proprio  del  legame tra  la  causa  efficiente  e  l'effetto  è  di  essere  necessario  e conoscibile  a  priori  (questi  due  caratteri,  si  sa,  si  ridu- cono ad  un  solo,  perchè  la  necessità  di  un  rapporto non  |)uò  significare  altra  cosa  che  il  sc^iìtimento  di  ne- <5essità    accompagnante    l'  idea    di    questo    rapporto,   e (1)  Questo  fatto,  che  i  metafisici  iioii  accordano  il  titolo  di eterne  che  alle  verità  necessarie  ed  a  i)riori  o  pretese  tali,  ba- sterebbe ad  indicare  l' universalità,  presso  i  metafisici,  del  pre- oimlizio  che  l'esperienza  non  può  dare  delle  verità  generali  di una  certezza  assoluta. (2)  V.  S(tf/{/i  sulle  fae.  mtellett..  Sa,u\nio  (>  e.  ^,  e.  5,  e.  <> ^Scsto.  2),  Sajigio  7  e.  3,  ecc. 543  — questo  sentimento  non  accompagna  che  le  verità  a  priori o  pretese  tali).  Egli  definisce  la  causa  efficiente:  una cosa  che  si  suppone  necessariamente  legata  con  l 'effetto; e  per  appoggiare  la  proposizione  che  nelle  ricerche fisiche  non  si  ha  mai  in  vista  di  scoprire  «  i  legami necessari  o  le  cause  etficienti  dei  fenomeni,  »  cita  dei luoghi  di  parecchi  autori  (Barrow,  Locke,  Hobbes, Bacone),  i  quali  in  realtà  non  dicono  altro  se  non  che il  rapporto  tra  le  cause  e  gli  efietti  è  conosciuto  per l'esperienza,  e  non  mai  a  priori,  supponendo  cosi,  come una  cosa  evidente  per  tutti,  che  il  rapporto  tra  la  causa efficiente  e  l"  efietto  deve  essere  conoscibile  a  priori.  E ciò  dei  resto  eh'  egli  dichiara  in  seguito  esplicitamente con  queste  parole  :  «  In  effetto,  se  noi  potessimo  in  alcun caso  vedere  la  maniera  in  cui  la  causa  (efficiente)  pro- duce il  suo  effetto,  noi  saremmo  in  grado  per  ciò  stesso di  dedurre  1'  effetto  dalla  sua  causa  ragionando  a priori  »  (1  ). Galluppi  ritiene  anch'egli  (e  in  ciò  non  fa  che  ade- rire all'opinione  quasi  universale  dei  metafisici)  che  la conoscenza  della  essenza  delle  cose  trasformerebbe  la conoscenza  delle  loro  proprietà  da  empirica  in  a  priori. Così  dice  :  «  Una  scienza  pura,  cioè  interamente  a  priori, dell'  anima  è  impossibile,  perchè  supporrebbe  la  cono- scenza dell'essenza  dell'  anima,  conoscenza  di  cui  siam privi.  Viceversa  noi  siam  sicuri  che  ignoriamo  l'essenza dell'anima,  perchè  siamo  nell'impossibilità  di  stabilire sull'anima  alcuna  proposizione  indipendente  dall'espe- rienza »  (2).  Inoltre  egli  riguarda  l'idea  della  scienza, quale  1'  aveva  concepita  Cartesio,  come  l' ideale  della conoscenza  perfetta.   «L'oggetto  della  filosofia  è  di  spie- (1)  V.  Elen.    della    filos.    dello  spir.   ntn.,   v.   1  e.   1  sez.  2  e nota  C. (2)  Siffftjio  jìloH.,  t,  5  \n\v.  47. —  544  — gare  l'esistenze,  l'esistenze  spiegabili  sono  l'esistenze condizionali.  Queste  non  possono  spiegarsi  senza  l'esi- stenza assoluta.  Neil'  idea  di  un  condizionale  io  non trovo  r  esistenza  :  il  giudizio  che  pronunzia  sull'  esi- stenza di  un  condizionale  è  dunque  un  giudizio  sintetico, e  per  ciò  sperimentale  ....  Ponendo  1' assoluto, io  pongo  l'esistenza,  e  con  (questa  prima  esistenza spiego  l'esistenze  condizionali.  Maio  non  conosco  l'es- senza dell'assoluto;  non  posso  perciò  conoscere  a  priori l'esistenza  dell'assoluto;  e  il  mio  giudizio,  che  pronunzia sull'esistenza  dell'assoluto,  è  pure  sintetico  :  per  essere analitico  (cioè  a  priori),  io  dovrei  conoscere  l'essenza divina.  L'esistenza  in  generale  è,  in  conseguenza,  un dato  per  me,  ed  io  la  conosco  a  posteriori,  non  già  a priori.  Se  potessi  partire  dall'assoluto,  e  far  derivare da  esso  a  priori  tutte  l'esistenze  condizionali,  io  com- prenderei interamente  la  natura,  e  la  mia  scienza  sa- rebbe perfetta  ......  Noi  non  giungiamo  al- l'assoluto, se  non  j)artendo  dal  condizionale,  e  siamo neir  impotenza  di  vedere  gli  effetti  nella  loro  causa prima;  per  tale  ignoranza  non    possiamo    comprendere e  spiegare    perfettaimnite  la  natura H geometra  possiede  una  scienza  esatta,  perchè  il  suo metodo  è  interamente  a  priori  :  i  suoi  giudizi  son  tutti analitici,  perchè  egli  conosce  adequatamente  l'essenze degli  oggetti  su  di  cui  ragiona Il  metodo del  filosofo  non  può  essere  affatto  lo  stesso  di  quello del  geometro;  il  primo  non  può  pronunziare  i  suoi  giu- dizi sull'esistenza  delle  cose,  se  non  vi  è  condotto  o immediatamente  o  mediatamente  dall'esperienza;  e  in conseguenza  noi  non  possiamo  conoscere  alcuna  esi- stenza a  priori,  come  avverrebbe  nel  caso  ci  fosse  pos- sibile di  dedurre  l'esistenze  condizionali  dall'esistenza assoluta  »  (1). (1)  Sti(/(/to  fìlon..  t.   ')  par.  1>H. —  545  - Bosminl  è  nei  sistemi  degl'  idealisti  tedeschi  (po- steriori a  Kant)  che  vede  idoleggiato  1'  ideale  della scienza  assoluta.  «Noi  conosciamo,  egli  dice,  imperfet- tamente le  essenze  delle  cose,  essenze  che  costituiscono l'oggetto  delle  nostre  intuizioni;  onde  accade  che  non tutto  quello  che  troviamo  poi  nelle  realità  sensibili,  e che  appartiene  alla  cognizione  di  predicazione  (,1),  si riscontri  nell'essenza,  sì  che  una  parte  di  quest'ultima cognizione    ci    rimane    priva  di    ragione,  giacché    ogni ragione  sta   nell'  essenze Se  un  primo intelletto  è  la  causa  totale  di  tutti  gli  enti  finiti,  quel primo  intelletto  dee  avere  in  sé  il  loro  essere  intelli- gibile, ossia  la  loro  essenza  non  imperfetta  e  vota  come quella  dell'  intendimento  umano,  ma    adequata  e  reale anch'  essa Chi    potesse   vedere  •  queste essenze  delle  cose,  quali  sono  in  Dio,  conoscerebbe pienamente  il  mondo,  senz'aver  bisogno  d'alcuna  espe- rienza esteriore  e  d'organica  sensitività;  il  che  è  quanto dire  lo  conoscerebbe,  tutto  quanto  egli  è,  a  priori  ;  la qual  cognizione  e  costruzione  del  mondo  reale  a  priori è  il  fastigio  della  sapienza,  a  cui  tende  senza  posa  la mente.  Ma  la  mente  umana,  per  la  imperfezione,  come dicevamo,  con  cui  conosce  le  essenze,  l'essere  intelligi- bile del  mondo,  prende  vie  diverse.  Ella  si  propone  il problema,  e  fin  qui  nulla  in  lei  v'ha  di  reprensibile.  Ma il  filosofo,  prima  di  sapere  se  e  come  sia  da  lui  solubile, facilmente  ammette  il  pregiudizio,  che  sia  solubile,  e solubile  direttamente:  pregiudizio  certamente  antifilo- sofìco  come  tutti  gli  altri  pregiudizi,  pur  tale  che  dà un  grande  titillamento  al  sao  orgoglio.  Mettendosi dunque  al  lavoro  per  trovare  una  soluzione  diretta, egli,  privo  dei  materiali  a  ciò  necessari,  supplisce  col- r  immaginazione;  e  così  nacquero  quei  sistemi  a  priori (1)  VA'v.   Teos,  11  i)roì)l.  «loU'ontolog..  e    1. 85 546  — che  comparvero  in  Germania,  tanto  allettevoli  per  la sola  forma  ^speculativ^a;  che  anche  la  sola  forma  a  priori alletta,  benché  imbottita  d'immagini  di  nessun  valore, perchè  rende  una  cotal  traccia  di  quella  sapienza  a priori  che  è  propria  della  Mente  suprema»  (1). Mamiavi  dice  :  «  Tutti  i  giudizi  percettivi  e  speri- mentali vestono  la  forma  sintetica,  per  la  ragione  ge- neralissiina  che  V  intimo  essere  delle  sostanze  ci  è  na- scosto e  si  può  pensare  che  rimarrà  sempre  tale  »  (2). La  conoscenza  ddV  intimo  essere  delle  sostanze  conver- tirebbe dunque  i  giudizi  attualmente  sperimentali  e sintetici  che  noi  possiamo  fare  sulle  loro  proprietà,  in giudizi  analitici  o  a  ()riori  (secondo  Mamiani,  come  se- condo Galkij)})!,  tutti  i  giudizi  a  priori  sono  anali- tici) (3).. ^,  14.  Infine,  noi  dobbiamo  segnalare  la  presenza del  principio  della  metafisica  apriorista  in  alcuni  di questi  filosofi  contemporanei  a  cui  ordinariamente  si estende  la  designazione  alquanto  vaga  di  positivisti  : basteranno  i  due  seguenti,  nei  quali  esso  si  mostra con  gli  svilup])ì  più  estesi. (1)  Teosojìrt.  liì».  M.  sez.  H  v.   1  art.  7. (2)  Couipcììflio  e  siiiti'si  della  propria  Filosofia,   par.   XVI. (8)  L.   Ft'.rri.   (Stiffijio    su  lift    storia    della    filos.    in    Italia  al nei'.  10,  t.  1  iK»«i.  tOf)  (\  altro v('.)  attribuisce  a  Gioberti  la  dot- trina clic  tutti  i  giudizi  sintetici,  tanto  quelli  a  priori  quanto quelli  a  posteriori,  sono  tali,  perch^  l'essenza  intima  degli  es- seri, da  cui  derivano  i  loro  attributi,  è  impenetrabile  :  se  la l'onoscessimo,  noi  ]>otremmo  dedurne  per  analisi  (j^uesti  attri- l)uti,  e  tutti  i  giudizi  sarebbero  analitici.  Gioberti,  per  (i[uel  che 8Ì  sai»pia.  non  ha  mai  esplicitamente  formulato  (|uest{i  dottrina  : ma  essa  [mtrebbc  forse  inferirsi  da  certe  proposizioni  di  ({uesto filosofo,  sovratutto  da  ciò  che  e<ijli  dice  \\q\V Introd .  allo  st.  della Jilosof.,  e.  1.  sulla  <leducibilità  dei  concetti  assolati  e  relativi dall'essenza  dell' AVj^e  e  iU'Wcsistcitte  e  sui  iiiudizi  sintetici  a jiriori  assolati.  (Milano   1850,  t.   1  pag.  307-812). —  547  — Taine.  La  sua  idea  della  scienza  è  la  stessa  al  fondo che  quella  di  Schellinge  e  di  Hegel  ^meno  l'idealismo)  (1). Egli  definisce  la  causa  :  «  un  fatto  da  cui  si  può  dedurre la  natura,  i  rapporti  e  i  cangiamenti  degli  altri  »  (2). Ma  questi  fatti,  che  egli  chiama  cause,  sono  dei  fatti generali  (riguardati  come  individuali),  delle  nozioni astratte  realizzate;  e  il  rapporto  tra  la  causa  e  l'effetto si  converte  nel  rapporto  tra  il  principio  e  la  conse- 2'uenza.  Il  les-ame  invincibile  delle  cose,  la  forza  attiva con  cui  ci  figuriamo  la  natura,  non  è  che  la  necessità logica  che  lega  il  principio  alla  conseguenza;  e  l'assioma di  causalità  significa  che  la  conseguenza  suppone  il principio,  e  che  ogni  qualità  e  ogni  esistenza  ha  la sua  ragione  in  qualche  termine  anteriore  (logicamente) e  superiore  (cioè  più  astratto)  da  cui  può  essere  de- dotta (3).  Noi  ritorneremo  sulla  dottrina  del  Taine  nel capitolo  seguente  :  per  ora  aggiungeremo  che  secondo lui  r  universalità  illimitata  non  può  mai  trovarsi  nelle conoscenze    sperimentali,    ma    solamente    in    quelle    a priori  (4). Spencer.  La  filosofia  di  Spencer  è,  come  quella  di Cartesio,  una  spiegazione  meccanica  dei  fenomeni  con la  pretensione  di  stabilire  a  priori  i  principi!  di  questa spiegazione.  La  scienza  deve  essere,  egli  dice,  «  un aggregato  organizzato  di  deduzioni  dirette  e  indirette tirate  dalla  persistenza  della  forza»  (5):  la  conoscenza filosofica  è  il  sapere  completamente  unificato,  e  la  unifi- cazione del  sapere  è  compiuta,  quando,  dopo  aver  fuse (1)  V.  h'Intellig.  eap.  ult.  in  fine  e  Stor.  della  Ietterai,  ingl., t.  4  e.  5  §  II,  Vili  e  e.  4  §  II,  IH. (2)  /  filos.  eia  ss.  cap.  idt. (8)  Stor.  della  letterat.  inyl..  t.  4  e.  5  §  II,   VII. (4)  V.  h'Intellig.,  pirte2.  1.  4  e.  2  §  II,  Vili,   ihid.  I-II,  ecc. (5)  Pr.  prine..  par.  IIK^. 548 gradatamente  le  generalizzazioni  più  ristrette  della scienza  in  generalizzazioni  di  più  in  più  larghe,  le  più larghe  di  tutte  vengono  dedotte  da  una  verità  ultima, che  è  il  principio  della  persistenza  della  forza  (l).  In quanto  a  questo  principio,  esso  non  è  un  risultato  del- l'induzione, ma  un  dato  a  priori  della  coscienza,  un'in- tuizione della  ragione  ;  e  noi  dobbiamo  ammetterlo, non  perchè  esso  sia  provato  dall'esperienza,  ma  perchè la  sua  negativa  è  inconcepibile  :  in  effetto  concepire che  la  forza  non  sia  persistente,  che  la  sua  quantità totale  diminuisca  o  aumenti,  sarebbe  concepire  che qualche  cosa  divenga  niente  e  niente  divenga  qualche cosa,  ciò  che  è  in)possibile  (2).  Per  la  loro  derivazione da  una  verità  primitiva  necessaria  ed  a  priori,  le  ge- neralità della  scienza  sono  anch'  esse  delle  verità  ne- cessarie ed  a  priori,  e  la  filosofia  è  una  sintesi  razionale, una  costruzione  dei  fenomeni.  Conformemente  a  (juesta teoria  della  conoscenza,  Spencer  deduce  dnlla  persi- stenza della  forza,  oltre  nlle  leggi  del  movimento  (o)  e al  principio  della  trasformazione  ed  equivakmza  delle forze  (4),  la  indistruttibilità  della  materia  (5),  l'unifor- mità del  corso  della  natura  (persistenza  delle  relazioni tra  le  forze)  (G)^  il  principio  che  il  movimento  è  sempre ritmico  (7),  quello  che  esse  segue  sempre  la  linea  della più  grande   trazione  o  della  minore    resistenza  o  la  ri- fi)   Pr.  fji'inr,.,  \yd\\  S7.  ('fi*.  ])ar.  1!)2. (2)  Pr,  pi  ine.    \r,iv.    7^\)-iV2.    Vh'.    par.    r)S.    jiar.  M,  par.  04, par.  7S. (3)  V.   Pr.  princ.  ^  .")♦),  57.   Si  e  Siuji/l  di  tuor.,  di  sr.  e  d'estet. Ohhiez,  ni  primi  princ.  v  risp.   S.  r   Conclusione. (4)  7V.  princ.  ^  7S. (5)  Pr.  princ,  ^  ."ìS-ói. (6)  Pr.  prine.,  ^  H3-f)5. (7)  Pr.  princ,  %  SS. 549 sultante  delle  due  (l);  infine,  le  leggi  che,  secondo  lui, necessitano  revoluzione  (l'instabilità  dell'omogene  o  (2), la  moltiplicazione  degli  effetti  (3),  la  segregazione  (4), a  quindi  anche  V  evoluzione  stessa  (5),  requilibno.,  suo termine  inevitabile  (6),  e  la  dissoluzione  dopo  1'  equi- librio (7).  La  presenza  nella  materia  delle  forze  di  at- trazione e  di  ripulsione,  e  le  leggi  dell'azione  di  queste forze,  benché  non  si  derivino  dal  principio  della  persi- stenza della  forza,  sono  anch'  esse  considerate  come verità  riecessarie^  (la  cui  negativa  è  inconcepibile)  e  in- dipendenti dall'esperienza  (8). Sembra  che  il  vero  principio  primo  di  questa  serie di  deduzioni  che,  secondo  Spencer,  deve  costituire  l'or- ganismo della  scienza,  sia  per  lui,  non  il  principio della  persistenza  della  forza,  ma  la  massima  che  l'es- sere non  può  venire  dal  niente  né  ridursi  in  niente. E  in  realtà  è  da  questa  massima  che  Spencer  deduce il  suo  preteso  principio  intuitivo.  In  effetto  questa  mas- sima è  stata  considerata,  sin  dai  primordi  della  filo- sofia, come  un  principio  assiomatico;  mentre  è  un  fatto evidente  dell'esperienza  interna  che  la  legge  della  per- sistenza della  forza  —  considerata  almeno  come  la  sem- plice espressione  dei  rapporti  costanti  di  successione dei  fenomeni -- non  può  essere  riguardata  come  una verità  evidente  per  se  stessa.  Ma  Spencer  non  considera il  principio  della  persistenza  della  forza  come  una  sem- (1)  Pr.  princ,  %  «SI. (2)  Pr.  princ,  §  155. (8)  Pr.  princ,  %  IH2. (4)  Pr.  princ,  §  l(>i). (5)  V.   Pr.  princ,  §  147  e  189. («)  Pr.  princ,  %  176. (7)  V.  Pr.  princ,  %  190. (8)  V.  Pr.  princ.  §  74  (cfr.  §  88)  e  §  18. —  550  — plice  espresBÌone  dei  rapporti  dei  fenomeni  :  questa  forza^ di  cui  la  persistenza  è  un  dato  a  priori  della  coscienza, è,  secondo  lui,  la  forza  iperfenomenale,  la  realtà  assoluta di  cui  tutti  i  fenomeni  sono  la  manifestazione  (1).  Con- siderando, come  fa  Spencer,  la  forza  come  una  sostanza (e  non  come  la    semplice    attitudine  che    hanno  ì  corpi a    modificare  lo    stato  di    riposo  e  di    movimento    degli altri  corpi),  la  deduzione  della  legge  della    persistenza della    forza  dal    principio  che    T  essere  non  può    essere creato  uè  annichilato,  diviene  meno  forzata,    non  solo, ma  la  deduzione  stessa  viene   dissimulata,  V  intervallo che  vi  ha  tra  il    principio  e  la    conseguenza    svanisce, la  conseguenza  si  confonde  col    principio.  La  forza  es- sendo una    realtà,  anzi  la  sola   realtà  che    esista  vera- mente, la  proposizione  che  afferma  la  persistenza  della forza    equivale    alla    proposizione    che    afferma    che    la quantità  della  realtà  è  immutabile,  che  l'essere  consi- derato   nella  sua    totalità  non    può    avere  né    accresci- mento ne    diminuzione  (2).  Di    qui  si    vede    che    anche nel    sistema  di   Spencer,  come  in  quello   di    Cartesio  e degli    altri    metafisici    aprioristi  di    cui    sopra    abbiamo parlato,  la  serie  delle  deduzioni  riposa  sopra  una  base metafisica,  che  in  lui  è   la  sostantificazione  della  forza; e  si  vede  inoltre  che,  come  abbiamo   detto,  il  principio della    persistenza  della   forza  —  quale    legge  scientifica relativa  ai  fenomeni  —  non  è,  in  questo  sistema,  il  prin- cipio veramente  ultimo,  ma  una  conseguenza  del  prin- cipio ulteriore,  che  l'essere  (la  realtà  assoluta  che  è  il sustrato  di  tutti  i  fenomeni)  non  può  avere  ne  comincia- mento  nò  fine  (3). Sull'origine    delle    affermazioni    intuitive    che,   se- (1)  Pr,  princ,  §  f>0-62. (2)  Sufjfji  di  morale  ecc.  v.  8.  Obbioz.   sui  primi  ju-inc.  e    ri- sposte. Conclusione. (3)  Cfr.  cap.  V  §  8  sulla  line  e  Saggio  i  e.  IX. —   551   — condo  Spencer,  costituiscono  la  base  della  scienza, troviamo  in  lui  due  dottrine  diverse.  Nei  Primi  PriU' cipii  egli  considera  certamente  il  princijuo  della  per- sistenza della  forza  come  una  verità  a  priori  nel  sen- so tradizionale  della  parola  (1)  :  invece  in  altre  o[)e- re  (2^  considera  questo  e  gli  altri  principii  assioma- tici come  a  priori  per  l'individuo  ma  a  posteriori  per la  specie,  cioè  dovuti  all' accuinulaziane  e  trasmis- sione organica  delle  esperienze  avitiche.  La  differenza tra  le  due  dottrine  è  senza  inìi)ortanza  per  la  quistione se  il  sistema  di  Spencer  sia  costruito  sul  tipo  della  fi- losofia apriorista.  L'  essenza  di  questa  filosofia  sta  nel metodo  :  essa  ha  per  og-getto,  come  abbiamo  tante  volte ripetuto,  di  stabilire  tra  i  fenomeni  dei  legami  ufces- sari  e  razionali^  e,  per  quest'oggetto,  la  condizione  è che  il  metodo  della  scienza  sia  deduttivo,  e  che  il  punto di  partenza  della  deduzione  siano  dei  princi[)ii  ammessi come  verità  evidenti  per  se  st-^^.-se  e  necsssarie.  Nel sistema  di  Spencer,  questa  condizione  e  esattamente adempiuta  :  egli  fa  derivare  le  generalità  della  scienza da  principii  assiomatici,  che,  secondo  lui,  è  impossibile di  provare  induttivamente  (8),  e  non  hanno  altra  prova che  la  loro  evidenza  intrinseca;  e  a  questi  principii attribuisce  l'inconcepibilità  della  negativa,  che  è  il  piìi alto  grado  di  necessità  che  noi  possiamo  immaginare. La  quistione:  come  il  nostro  spirito  si  trova  in  possesso di  questi  principii?  sono  essi  delle  acquisizioni  empiriche o  delle  necessità    primordiali  del    pensiero  V  è  una  qui- (1)  V.   Saggio  1  e.  IX  \\.  2  a  pag.  505. (2)  V.  Psicol.  %  480,  488,  208,  ecc..  e  Saggi  di  inorale  ecc. Obbiez.  e  Risp.  n.  8.  0  e  conclusione. (8)  Lo  Spencer  insiste  sa  «{uest'iinpossibilità  in  tutte  le  sue opere,  anche  in  ([nelle  in  cui  spiejia  l'oriiiinc  delle  conoscenze assioniaiiche  per  l'eredità  delle  esperienze.  V.  Saggi  di  mor.  ecc., 1.  e. —  552  — stioue  che    intere5?sa  la    psicolog-ia,  ma   non  il    metodo filosotìeo. In  (juaiito  al    rapporto    dell'  apriorismo  di    Spencer con  la  ricerca  delle  cause  efficienti,  si  presenta  la  stessa difficoltà  che  si  è    a*ià    presentata   per    Cartesio,    Male- branche e  Leihnitz.  Le  cause  veramente  produttrici  dei fenomeni  non  sono,  per   Spencer,  altri    fenomeni,  ma delle  cause  ultrafenomenali   sconosciute  e  inconoscibili. Per  ((uesto  filosofo  vale  naturalmente  la  stessa  risposta che  per  gli  altri;  i  legami  razionali  e  necessari  ch'egli stabilisce  tra  i  fenomeni  possono    chiamarsi  causazioni efficienti,  ma  solo  nel   senso    tecnico  che  noi    diamo  al termine,  cioè  in  quanto  questa  forma    necessaria  e  ra- zionale  è    modellata    sulla    forma    delle   conoscenze  che per  il  nostro    spirito    costituisi'ono  (d'  una   maniera    in- cosciente) il  tipo  della  causazione  efficiente.  Se  al  di  là delle    cause    efficienti    fenomenali    lo  Spencer    ammette altre   cause  efficienti  più  degne  di  questo  titolo,  questo fatto,  oltre  che  è  una  conseguenza  della  sua  teoria  sul mondo    esteriore,    che  ci    accorda  la    conoscenza,    non delle  cose  in  sé,  ma  solo  dei  loro  fenomeni  (apparenze), si  spiega  pure  per  la  natura  stessa  della  soluzione  che la  filosofìa  apriorista  dà  del   problema  delle    cause  effi- cienti.   Al    b'isogno    del    nostro    spirito  di    conoscere  le cause,  questa  filosofia  non  dà  che  una.soddisfazione  in- completa, direi   quasi  piuttosto  un    simulacro  di  soddi- sfazione che  una    soddisfazione    reale:    questa  non  po- trebbe ottenersi  che  seguendo  lo  slancio  spontaneo  del nostro   spirito,     che    costituisce  la    metafisica    istintiva dell'uomo,  e  che  tende  a  spiegare  tutti  i  fenomeni,  ri- conducendoli alle  sequenze  che  ci  sono  le  più  familiari. Solo    una    tale  spiegazione    sarebbe    completa,    radicale (nel    senso    metafisico  della    parola    spiegazione)  :  ogni altra  necessariamente  lascia  ancora  nelle  cose  spiegate deìV  incomprensibilità  ;  e  a  (juesto   fenomeno    suhhiettivo —  553  - si  dà,  lo  sappiamo,  un  valore  obbiettivo,  interpretandolo come  un  limite  della  conoscenza. Al  suo  scopo  primario,  che  è  di  stabilire  tra  i  fatti dei  rapporti  razionali  e  necessari,  la  filosofia  apriorista aggiunge,  come  sappiamo,  uno  scopo  secondario,  quello d'introdurre  nel  sistema  delle  conoscenze  sul  reale  l'è- videnza  matematica,  dimostrativa.  E  ciò  di  cui  Spencer ci  dà  un  esempio   nella  sua   dottrina  del   postulato  uni- versale. Questo  è  che  ogni  proposizione  di  cui  non  pos- siamo   concepire   la   negativa  deve  essere  vera  :    esso  è implicato  in  ogni  atto  dell'intelligenza,  ed  è  per  esso  che si  o'iustificano  le  premesse  ultime  delle  nostre  conoscenze da  cui  tutte  le  altre  dipendono.  Lo  stesso  postulato  giu- stifica pure  il  legame  che  riattacca  le  conoscenze  deri- vate alle  primitive-,  sicché   l'inconcepibilità  della  nega- tiva è  il  criterio  unico  della  verità  (1).  Per  questa  dot- trina  la  filosofìa  di  Spencer  è  nell'opposizione  più  radicale con  la  filosofia  dell'esperienza,  la  quale  inibisce  di  am- mettere una  cosa  senza  prova,    e  non   riconosce  nell'e-videnza intrinseca  (spesso  illusoria)  d'una  proposizione un  criterio  sufficiente  della  sua  verità.  È  vero  che  se  si prende  l'inconcepibilità  della  negativa  nel  senso  stretto, bisoana  convenire  che  noi  siamo  forzati    ad  ammettere la  verità  delle  proposizioni  in  cui  essa  si  trova:  è  una fatalità  del  nostro  pensiero,  a  cui  sarebbe  impossibile  di sottrarsi.   Ma  nel  senso  stretto,  rinconcepibilità  della  ne- gativa non  si  trova  mai  nelle  proposizioni  concernenti, come  diceva  Hume,  le  cose  di  fatto,  cioè  l'esistente,  la realtà:  essa  non  si  trova  che  nelle  proposizioni  così  dette analitiche,  e  in  generale  nelle  affermazioni  che  non  im- plicano altro  che  delle   percezioni  di   somiglianze   e    di differenze.  Ma  non  appartiene  all'argomento   di  questo (1)  V.   PsieoL  Analisi  generalo,  e.  IX,   XI,   XII.  CtV.  Stuart- Mill,   Loij..  l.  2  e.  VII. u      ^  'f —  554 capitolo  di  fìiì^eutere  la  validità  del  criterio  di  Spencer e  i  limiti  della  sua  applicabilità  (1)  :  qui  dobbiamo  sol- tanto costatare  il  fatto  che,  elevando  l'inconcepibilità della  negativa  a  criterio  unico  della  certezza,  lo  Spencer fa,  come  gli  altri  aprioristi,  dell'evidenza  matematica (cioè  intuitiva  o  dimostrativa)  il  tipo  unico  di  ogni evidenza.  (2) (1)  V.  su  ciò.  Saggio  I  e.  IX. (2)  QuantuiKiiie  lo  scopo  di  questo  capitolo  non  sia  di  fare una  rivista  «•cuerale  di  tutti  i  tilosoti  che  hauuo  aiumesso  il principio  della  uietatisica  apriorista,  pure  io  credo  di  dover  fare menzione  d'un  altro  tra  i  })iù  illustri  tilosoti  contemporanei, rHartiuauii.  Egli  risolve  la  realtà  in  due  elementi  costitutivi, la  Volontà  e  l'Idea.  La  Volontà  è  releniento  illogico,  il  cui  carattere è  l'indeterminazione,  il  libero  arbitrio,  che  talvolta  va  sino  ad  in- dentiticare  con  l'azzardo:  ma  l'iblea  è  governata,  nella  sua  evolu- zione, da  una  necessità  logica,  la  cui  legge  è  il  principio  della  logica fornuile,  cioè  il  i>rincipio  d'identità  e  di  contraddizione.  È  que- sta necessità  logica  che  determina,  a  ciascun  momento,  la  som- ma delle  Idee  che  l'ormano  il  cinitenuto  della  Volontà  :  ma  il come  del  mondo,  a  ciascun  momento,  non  è  che  il  contenuto ideale  realizzato  dalla  Volontà;  il  come  del  mondo  e  dumiue,  a ciascun  momento  del  processo,  determinato  da  una  necessità logica.  11  mondo  e  nella  sua  esistenza  un  atto  continuo  di  Vo- lontà  ;  ma  il  processi»  t(»tale  <lel  mondo  ò  nel  suo  contenuto  un processo  logico.  In  altri  termini,  che  a  un  momento  dato  il mondo  esista,  ciò  dipende  da  un  atto  della  Volontà  :  ma  che esso  esista  così,  che  si  producano  tali  fenomeni,  ciò  dipende dall'  Idea,  e  quindi  dalla  necessità  b)gica  che  determina  il  suo sviluppo,  (V.  Filos.  deirineosciente,  v.  2.,  Gli  ultimi  principii  III). Questa  spiegazione  del  mondo  di  Hartmann  è  dunque,  da  una parte,  come  quella  di  Hegel  e  dei  suoi  predecessori,  una  spie- gazione idealista,  che  assimila  all'attività  logica  del  nostro  pen- siero la  forza  produttrice  di  tutti  i  fenomeni;  e  dall'altra  parte è,  come  questi  stessi  sistemi  idealisti,  una  spiegazione  apriorista, che  incatena  i  fenomeni  coi  legami  della  necessità  logica  (che lega  al  principio    la    sua    conseguenza).    Bisogna  notare,  nondi- 555 §  15.  Prima  di  terminare  questo  capitolo,  dobbiamo ricordare  un'altra  manifestazione  della  filosofia  apriori- sta, la  quale,  quantunque  non  sia  un'applicazione  siste- matica dei  processi  di  questa  filosofia  alla  spiegazione universale  della  natura,  è  tuttavia  anch'  essa  una  con- seguenza del  suo  principio.  I  matematici,  non  meno  che i  filosofi,  per  istabilire  i  principii  fondamentali  della  mec- canica, preferiscono  spesso  alle  prove  realmente  convin- centi, cioè  quelle  dei  fatti,  dei  ragionamenti  sofistici,  ma che  si  danno  l'aria  di  essere  degli  argomenti  dimostra- tivi. Adottare  in  meccanica,  dice  d'Alembert,  un  prin-cipio che  sia  di  verità  puramente  contingente  (che  non sia  una  verità  necessaria)  «minerebbe  la  certezza  della meccanica,  e  la  ridurrebbe  a  non  essere  più  che  una scienza  sperimentale»  (1).  «Un  vero  fisico  non  ha  più bisogno  dell'esperienza  per  dimostrare  le  leggi  della  mec- canica e  della  statica,  che  un  geometra  di  regola  e di  compasso  per  assicurarsi  che  ha  risoluto  un  problema difficile  »  (2). Fra  questi  ragionamenti  a  priori  per  provare  le  leggi della  meccanica,  ve  ne  ha  una  classe  che  merita  un'at- tenzione particolare  :  sono  quelli  fondati  sul  principio che  i  matematici  chiamano  della  ragion  sufficiente.  Per esempio,  per  dimostrare  la  prima  legge  del  movimento, cioè  che  un  corpo,  una  volta  mosso  e  abbandonato  a  se stesso,   continuerà   a    muoversi   uniformemente  in  linea meno,  che  la  spiegazione  di  Hartmann  si  allontana  dal  tipo  di una  spiegazione  rigorosamente  apriorista,  per  ({uesf  elemento d'indeterminazione  che  la  Volontà  introduce  nel  processo  del mondo  :  il  come  del  mondo  e,  a  un  momento  dato,  necessario,  di una  necessità  logica  ;  ma  l'  esistenza  del  mondo,  a  questo  mo- mento, è  invece  contingente,  dipendendo  dall'elemento  illogico, dal  libero  arbitrio  della  Volontà. (1)  Prine.  della  eonosc,  XVI. ^2)  Prine. y  XX. 556  — retta,  si  dice  che,  se  non  fosse  cosi,  il  corpo  dovrebbe deviare  sia  a  destra  sia  a  sinistra,  ma  non  vi  ha  alcuna  ra- o'ione  perchè  esso  devii  in  un  senso  piuttosto  che  in  un altro.  Archimede  si  serve  pure  dello  stesso  ragionamento, per  istabilire  a  priori  alcune  ]jroposizioni  fondamentali della  statica.  Così  egli  stabilisce  che,  se  si  sospendono dei  pesi  uguali  alle  due  estremità  di  una  bilancia,  in  cui tutto  sia  uguale  da  una  parte  e  dall'altra,  il  tutto  re- sterà in  riposo,  perchè  non  vi  ha  alcuna  ragione  perchè un  lato  discenda  piuttosto  che  l'altro. L'argomentazione  fondata  ^\\\  principio  della  ragion sufficiente  sembra  a  Mill  tanto  importante,  ch'egli   fa  di questo  principio   uno  dei    sei  generi  di   sofismi  a  priori ch'eo'li  enumera.   Io  non  voglio  contestare  alla  massima che  ini  fatto  di  cui  non  possiamo   immaginare  una  ra- o-ion  sufficiente,  cioè  una  ragione  che  spieghi  il  fatto  (nel senso  metafisico  della  parola  spiegazione),  non  può  esi- stere, il  titolo  di  sofisma  a  priori.   I   ragionamenti,  i)er vui  i  filosofi  aprioristi  pretendono  dimostrare  le  leggi  del realf,    non    hanno    tutti  lo  stesso  grado  di  plausibilità: mentre   alcuni    sono   evidentementi    artificiali    e    forzati (spesso  sino  al  punto  che  è  assai  difficile  di  comprendere ciò  che  potrebbe  chiamarsi  la  iovz^  probante  del  sofisma, c-ome  accade,  per  esempio,  per  molte  deduzione  di  Hegel), ve  ne  hanno  invece  altri  (quantunque  in  minor  numero) a  cui  lo  spirito  aderisce  senza  sforzo,  e  come  per  un'in- clinazione naturale.   Questi  ultimi,  quando  sono  dovuti, non  ad  un  errore  accidentale,   ma   ad  una  disposizione comune  dello  spirito  umano,  possono  chiamarsi  dei  so- fismi a  priori— come  tutti  i  sofismi  a  priori,  sono  delle induzioni  incoscienti,    che  il   nostro  spirito  ha  una  ten- denza, più  o  meno  grande,  ad  ammettere  come  delle  ve- rità intuitivamente  evidenti  — .  Ma,  in  ogni  caso,  il  vero sofisma  a  priori,  il  pregiudizio  che  ha  esercitato  un'in- tìuenza  decisiva  sul  filosofo  apriorista,  è  quello  che  costituisce  la  base  stessa  della  filosofia  apriorista  :  è  esso che  persuade  di  negligere  la  prova  dell'esperienza,  che infine  è  quella  per  cui  lo  stesso  filosofo    apriorista  si  è reso  certo  della  verità,    e  di   preferirle  un  altro  genere di  prova,  quantunque  non  ugualmente  convincente.  Quer st'osservazione  vale  anche  naturalmente    per  le  pretese- dimostrazioni  matematiche  dei  principii  della  meccanica. Ve  ne  hanno  di  plausibili  —  come  quelle  che  abbiamo  in- dicate e  le  altre  simili  che  xAlill  dà   per   esempi  del  suo 3*»   genere   di  sofismi  a  priori  (il  principio    della  ragion sufficiente)— ma    ve    ne  hanno  altre  (e  in  più  grau  nu- mero)   il   cui  carattere  sofistico    è  evidente.   Ecco,  p.  e., come  un  filosofo  dimostra  che,  se  un  corpo  in  moto  ne incontra  un  altro  in  quiete,  il  prinìo  comunica  al  secondo una  porzione  del  suo  moto,  e    la  porzione  che  perde  il corpo    urtante  è  uguale  a   quella  che    acquista  il  corpo urtato.  (Prima  ha,  dimostrato  che  «  niun  corpo  può  darsi il  moto  che  non  ha  né  distruggere  quello  che  ha»,  ma vi  ha  bisogno,  per  cangiare  lo  stato  di    riposo  o  di  mo- vimento   d'un  corpo,    di  una  causa  esterna  ~  principio che  è,  egli  dice,    un'applicazione   del    principio  più  ge- nerale della  causalità—)  «È  necessario  che  il  corpo  in moto  o  spinga  innanzi  il  corpo  urtato  o  non  lo  si)inga innanzi:  nel  primo  caso  se.il  corpo  urtante  non  comu- nicasse porzione  del  suo  moto  al  corpo  urtato,  quest'ul- timo passerebbe  da  se  stesso  dallo  stato  di  quiete  a  (jucllo di  moto,  il  che  è  contrario  al  principio  enunciato  (cioè  che niun  corpo  può  darsi  il  moto  che  non  ha  ecc.);   nel  se- condo caso  se  il  corpo  urtante   non   comunicasse  alcun moto   al    corpo  urtato,   e  ciò  non    ostante  si  ponesse  in quiete,   distruggerebbe   il  moto   che  ha,  il  che  è  anche contrario  al  principio  enunciato  r>  (1).  (Ma  non  è  evidente che  nel   primo  caso,    quand'anche  il  corpo  urtante  non (1)  G:illu]»i)i,  Sauijìo  filoaofieo.  t.  H  par.  i)0. —  55S  — perdesse  niente  del  suo  moto,  il  corpo  urtato  si  muove- rebbe, non  spontaneamente,  dando  a  se  stesso,  come  dice l'autore,   il  movimento  che  non  ha,  ma  per  l'azione  di una  causa  esteriore?  e  che  nel  secondo  caso  se  il  corpo urtante  si  fermasse  senza  che  il  corpo  urtato  acquistasse alcun    moto,    il    corpo  urtante  non  si  fermerebbe  da  se stesso,  distrug-gendo,  come  dice  l'autore,  il  moto  che  ha, ma  sarebbe  fermato  da  una  forza  esterna?)  Ma  il  grado maggiore  o  minore  di  speciosità  di  queste  pretese  dimo- strazioni è  un    punto   secondario  :   la  speciosità  dell'ar- gomento non  è  mai,  in  alcun  caso,  il  motivo  unico  che lo   fa   impiegare.    E   ciò  di  cui  lo  stesso  Mill    conviene, quando,  a  proposito  degli  esempi   del  suo   terzo  genere di  sofismi  a  priori,  dice:  «D'ogni  tempo  i  geometri  si  sono esposti  al  rimprovero  di  voler  provare  i  fatti  più  gene- rali del  mondo  esteriore  per  mezzo  di  ragionamenti  so- fistici, per  evitare  di  appellarne  alla   testimonianza  dei sensi».  Ora  è  questa  tendenza  generale  che  importa  il più  di  spiegare  :   perchè  un  argomento  a  priori,  quan- tunque meno  convincente,    e  spesso    patentemente  sofi- stico, si  preferisce  alla  prova  empirica,  che  è  la  sola  ca- pace di  determinare  realmente  la  convinzione,  e  quella che  l'ha  effettivamente  determinata  nello  stesso  autore? Ciò  avviene  evidentemente  perchè,  mentre  la  prova  em- pirica mostra  semplicemente  che  la  cosa  è  cosi   (che   vi ha  una  tale  uniformità  di  sequenza),  l'argomento  a  priori sembra  inoltre  proprio  a  mostrare  che  la  cosa  deve  essere necessariamente   cosi,    e   a  rispondere  in  un  certo  modo alla  quistione  del  perchè.  Se  è  ai  fatti  della  meccanica che  il  metodo  dimostrativo  è  stato  di  preferenza  appli- cato, ciò  non  è  soltanto  perchè,  come  è  stato  osservato  (1), 1  matematici    trasportano   nella   trattazione  delle  matematiche  applicate  le  abitudini  intellettuali  contratte  nello studio  delle  matematiche  pure.  Bisogna  anche  tener  pre- sente un'altra  considerazione,  cioè  che  le  leggi  fonda- mentali della  meccanica  sono,  tra  le  leggi  conosciute della  natura,  le  sole  che  siano  ritenute  come  primitive, anzi  è  da  esse,  secondo  la  concezione  prevalente  nella filosofia  moderna,  che  tutte  le  altre  leggi  della  natura  de- rivano. Tra  le  leggi  fondamentali  della  meccanica,  quelle delle  azioni  a  distanza  (che,  secondo  una  delle  forme della  concezione  meccanica  del  mondo,  sono  anch'esse delle  leggi  primitive)  sono  state,  è  vero,  raramente  di- mostrate con  ragionamenti  a  priori  :  è  che  le  numerose  ^ discussioni  sulla  possibilità  dell'azione  a  distanza  hanno stabilito  la  convinzione  generale  che  queste  leggi  (sup- posto che  non  possano  ricondursi  ai  fenomeni  dell'urto) sono  inintelligibili  e  ribelli  a  qualsiasi  tentativo  di  spie- gazione. (1)  P.  e.  (la  Stewart,  Ehm.  della  fil.  dello  spir.  nni..   voi.  H e.  2  sez.  4  ii.  'S. ttmittmuiammmmm imiìw  iiuiiaieeeaeafcgaBgaa^^jì^.: Appendice  al  cap.  VI. §  1.   Noi  abbiamo  sin  (jiii    considerato   il    metodo    a priori,  in  ([Uanto  esso  ha  per  oggetto  di  dare  una  si)ie- o-azione  dei  tenonieni,  come  una  delle  forme  sotto    cui si  realizza  il  concetto  di  causalità  efficiente:  ma  è  evi- dente che  questo  metodo  non  si  applica  esclusivamente», alle  relazioni  tra  le  cause  e  gli  effetti.  L'importanza  in- comparabilmente superiore  di  (jnesta  classe  di  relazioni non  deve  farci   perdere  di  vista  che  gli  altri   rapporti  tra i    fenomeni  sollecitano    anch'essi    dalla    metafisica   una spiegazione.  Come  lo  spirito  umano  non  è  pago  di  aver costatato   che   tal    fenomeno    segue    invariabilmente    tal altro    fenomeno,    ma    domanda   inoltre  perchè  deve  se- guirlo ;   così   esso  non  e  pago  di  aver  costatato  che  tal fenomeno  accompaf/na  invariabilmente  talaltro  fenome- no,  ma  cerca  inoltre  una  ragione  che  faccia   compren- dere la  necessità   di    questa    congiunzione    invariabile. La  spiegazione  metafìsica,  noi  lo  abbiamo  visto  al  sog- getto  delle   cause  efficienti,  presenta  due  tipi  generali che  sono  due  modi  distinti  di  assimilare  tutti  i  fenomeni a  quelli  che  ci  sono  i  più  familiari  :  V  uno— è  la  meta- fìsica istintiva  dello  spirito  umano  — fa  dei  ra|)[)orti  più familiari  tra  i  fenomeni    l'intermediario    esplicativo    di tutti  gli  altri  ;  1'  altro  cerca  invece  di  spiegare  h».  rela- zioni generali  dei  fenomeni  assimilando  la  loro  fornia^ :5(> 1 562 -  563  — quali  oacretti  della  conoscenza,  a  quella  che  è  propria delle  |)iù  familiari  tra  (jueste  relazioni.  Sarebbe  inutile di  considerare  a  parte  il  primo  di  (|uesti  due  tipi  di spieo-azione  nella  sua  a|>plicazione  alle  relazioni  distinte dalle  causali  ;  siccome  non  vi  hanno,  al  di  fuori  dei ra[)})orti  di  se(|uenza,  altri  rap])0rti  tra  fenomeni  che sembrino  capaci  di  servire  iV  intermediario  esplicativo universale  (conica  per  esempio  i  fenomeni  dell'  urto  e dall'azione  volontaria),  le  spiegazioni  della  metafìsica istintiva  non  si  riferiscono  g-eneral mente  che  alla  ricerca delle  cause  (^ftìcienti.  Ma  il  secondo  tipo  di  spiegazione metafìsica,  (juando  si  a]»plica  alle  relazioni  distinte  dalle causali,  è  indipendente  dalla  quistione  delle  cause  ef- ficienti, perchè  esso  non  cerca  che  di  trasformare  i  rap- porti generali  tra  i  fenonìeni,  quahuniue  sia  la  specie di  questi  rapporti,  da  sem})licenìente  positìci  e  contbì- geììti  in   razionali  e  vvceniiari. Il  presupposto,  su  cui  è  fondato  il  metodo  a  priori, è,  come  abbianìo  detto,  un'  inferenza  incosciente,  per cui  la  fornìa  (U^lla  conoscenza  di  tutti  i  rapporti  gene rali  dei  fenomeni  viene  assimihua  alla  forma  della  co- noscenza dei  più  familiari  tra  questi  rapporti.  Come  dal g'ran  numero  delle  nostre  esperienze  di  causazione  noi concludiamo  ehe  tutti  \  fenomeni  sono  sottomessi  alla legge  di  causalità,  cosi  da  ciò  che  le  causazioni  più familiari  che  noi  abbiamo  sperimentate  — per  conseg'uenza la  parte  |)iù  considerevole  della  somma  delle  nostre  e- sperienze  di  causazione -si  sono  presentate  alla  nostra coscienza  coi  caratteri  della  y?ece.s.9/7^Ì!  e  dell'evidenza  in- trinseca, razionale,  noi  concludiamo  che  (piesti  carat- teri devono  ritrovarsi  in  tutte  le  causazioni.  È  inneo-a- bile  che  noi  facciamo  (juesta  conclusione,  perchè  l'uomo ha  la  credenza  istintiva  che  ogni  fenomeno  ha  una  causa efficiente  le  non  semi)liceniente  un  antecedente  a  cui esso  segue  invariabilmente),  e  il  carattere  rigorosamente comune  a  tutte  le  nozioni  che  lo  spirito  umano  si  è  fatto della  causa  efficiente  —  sia  che  l'abbia   concepita  come fenomenale  o  come  ultrafenomenale,   come    conoscibile o  come  inconoscibile,  sia  che  nel  concepirla  si  sia  con- formato alla  sua  tendenza  più  spontaiuia,  che  è  di  ele- vare a  tijio  universale  le   causazioni  più  familiari,  o  a quella  meno  spontanea,  che  è  di  elevare  a  tipo  univer- sale, non  queste  stesse  causazioni  familiari,  ma  la  forma che  è  loro  propria  quali    oggetti    della    conoscenza  —  il carattere    rigorosamente  comune,  dico,  a  tutte   ({ueste nozioni,  è  che  trrv  la  causa  e  1'  effetto  deve  esservi   un le^^ame  necessario  e  di  un'evidenza  intrinseca,  razionale. Ed  è  ugualmente    innegabile  che  questa    credenza    ap- parentemente istintiva  deve  essere  una  g-eneralizzazione di  esperienze  di  causazioni,  le  (inali  ci  sono  state  date con  questi  caratteri  che  costituiscono  la  nostra  nozione di  causalità  efficiente:  senza  di  ciò,  Tidea  di  causalità efficiente    sarebbe   inesplicabile  al  punto  di  vista    della teoria  dell'esperienza.   Ora,  le  nostre  esperienze  di   cau- sazione non  costituiscono    soltanto  le  premesse  di   que- st'  induzione,  che  tutti  i  fenomeni  sono  sottomessi   alla leo-o-e  della  causalità:  esse  costituiscono  inoltre,    unite alle    altre    esperienze    di    relazioni   uniformi  tra  i  feno- meni, le  premesse  di  quest'induzione  i)iù  g-enerale,  che tutti  i  fenomeni    sono    sottomessi  a  relazioni    uniformi. E,  della  stessa  maniera  che  da   ciò   che  i  fatti    più    fa- miliari di  causazione— per  conseguenza,  come  abbiamo detto,  la  parte  più  considerevole  della  somma  delle  no-stre esperienze  di  causazione  —  si  sono  presentati    alla nostra    coscienza    come    necessari   e    razionalmente    evi- denti,  noi  concludiamo  che  tutte  le  causazioni    devono essere  necessarie  e  razionalmente  evidenti;  da  ciò  che  i fatti    più    familiari    di    causazione  e  tutti  gli  altri  fatti .egualmente  familiari  di  rapporti  uniformi  tra  i  fenomeni si  sono  presentati  alla  nostra  coscienza  come  necessari e  raziouanionti  evidenti  —  ciò  ehe  è  un  risultato  della ripetizione  estremamente  frequente  delle  esperienze  di ciascuna  specie  di  <iuesti  rapporti  — noi  concludiamo  pure che  tutti  i  rapporti  uniformi  dei  fenomeni  in  uenerale devono  essere  necessari  e  razionai  menti  evidenti.  Ne segue  che  la  metafisica  cerca  di  trasformare,  da  j>ura- niente  positive  (cioè  anunesse  solo  sulla  fede  dell'  espe- rienza) e  contingenti  (cioè  tali  che  la  suj)posizione  del contrario  è  perfettamente  concepibile),  quali  esse  sono per  la  scienza,  in  razionali  e  necessarie,  non  ié  sole lei>-i!i  di  causazione,  ma  tutte  le  leiz'u'i  dei  fenomeni  in generale;  in  altri  termini  che  il  metodo  a  priori  viene applicato,  egualmente  che  alle  causazioni,  a  tutte  le altre  uniformitcà  della  natura. g  2.  Il  più  notevole  tra  i  concetti  derivati  dall' ap- plicazione del  principio  della  metaiisica  apriorista  alle uniformità  della  natura  in  generale,  è  la  suj)posizione che  vi  ha  in  ciascuna  cosa  (cioè  in  ciascuna  specie  di cose;  un  che  di  fondamentale  .  wu'rsseìfza,  (h\  cui  tutte le  proprietà  defila  cosa  derivano  e  possono  dedursi  (o almeno  potrebbero  dedursi,  se  qiu^sV essenza  fosse  da  noi conosciuta).  Le  proprietà  che  costituiscono  ciascun  ge- nere di  esseri  che  noi  conosciamo,  ci  sono  date.  [)er  dir COSI,  come  scucite  e  staccate  U)  une  dalle  altre.  Noi  non vediamo  j)erchè  ad  un'  estensione  iuìpencHrabih»  è  con- giunta l'inerzia,  la  gravità,  ecc.,  come  anche  la  capa- cità di  ])resentare,  in  certe  circostanze,  i  fenomeni  della vita,  e  in  certe  altre,  quelli  del  sentimento  e  del  pen- siero; noi  non  vt^liamo  pcM'chè  alla  Hgura  esteriore  par- ticolare ad  un  animale  è  costantementt'  unita  una  certa orii'anizzazione  intcn-iore  e  delle  facoltà  psichiche  deter- minate.  Queste  diverse  proprietà  non  hanno  le  une  con le  altre  una^connessione  che  ci  sembri  necessaria  e  di un'  evidenza  intrinseca,  razionale.  Ma,  secondo  il  pre- supposto che  i   rapporti    uniformi    dei  fenom(Mii    devono —  5G5 essere  necessari  e  di  un'  evidenza  razionale  .  tra  le  di- verse proprietà  che  costituiscono  ciascun  genere  di  es- seri dovrebl>e  esservi  una  connessione  necessaria  e  ra- zionale; per  conseguenza,  data  una  i)ro[)rietà  del  genere, o  queir  insieme  di  ju'oprietà  che  è  sufficiente  a  distin- guere il  genere  dagli  altri,  tutte  le  altre  proprietà  del genere  dovrebb(M'o  i)oterne  essere  dedotte.  Cosi,  siccome tra  le  proprietà  mostrate  dall'esperienza,  non  troviamo questa  proprietà  o  conq)lesso  di  proprietà  distintive,  da cui  tutte  le  altre  possano  dedursi,  ne  concludiamo  che la  proprietà  o  le  ])roprietà  distintive,  da  cui  tutte  le altre  potrebbero  dedursi,  non  sono  oggetti  della  nostra esperienza  :  sono  (jueste  proprietà  fondamentali  scono- sciute, le  (piali  si  sup])one  che,  se  noi  le  conoscessimo, basterebbero  a  darci  a  priori  la  conoscenza  di  tutte  le altre,  che  noi  chiamiamo  (cioè  che  i  metafisici  chiamano) V  essenza  della  cosa.  Nel  capitolo  ch(^  pr(;cede,  noi  ab- biamo considerato  la  dottrina,  che  vi  ha  per  ciascuna sostanza  un' essc^nza  sconosciuta,  dalla  quale,  se  fosse conosciuta,  potremmo  dedurre  tutte  le  proprietà  della sostanza,  come  una  consegùe.nza  del  principio  della  cau- salità efficiente,  perchè  la  maggior  parte  delle  jjroprieta delle  sostanze  sono,  come  dice  Locke,  delle  potenze  di aa'ire  e  di  patire,  e  la  dottrina  su|)pone  che  la  cono- scenza delle  essenze  ci  farebbe  comprendere  perchè  tali sostanze  siano  dotate  di  tali  potenze,  in  altri  termini come  tali  cause  abbiano  una,  connessione  razionale  e necessaria  con  tali  efletti  :  ma  è  evidente  che,  per  essere esatti,  noi  avremmo  dovuto  considerare  questa  dottrina come  una  conseguenza,  non  del  principio  di  causalità efficiente,  ma  del  principio  più  generale  che  tutte  le connessioni  uniformi  tra  i  fenomeni  devono  essere  ne- cessarie e  razionali,  perchè  non  tutte  le  proprietà  che attribuiamo  alle  cose  si  rapportano  unicamente  al  loro modo  di  agire  e  di  patire.  Quando  ci  si  dice  che,  se  noi -  5GH  — conoscessimo  l'essenza  della  materia,  noi  comprenderem- mo perchè  essa  è  inerte,  perchè  è  grave,  ecc.,  perchè  è capace,  in  date  circostanze,  di  vivere,  di  sentire,  di  pen- sare ;  siccome  questi  e  altrettali  attributi  non  indicano che  le  potenze  attive  o  passive  della  materia,  noi  pos- siamo vedere  in  (jucsf  afterinazione  una  semplice  con- seguenza del  principio  che  gli  eff'etti  devono  avere  con le  loro  cause  una  connessione  razionale  e  necessaria. Ma  quando  Reid  dice  che  ogni  cosa  che  esiste  ha  un'es- senza, dalla  quale,  se  essa  non  fosse  superiore  alla  no- stra comprensione,  noi  potremmo  dedurre  le  sue  pro- prietà e  gli  attributi  della  sua  natura,  noi  non  possiamo vedere  in  quest'  attermazione  generale  che  una  conse- guenza di  un  principio  avente  una  generalità  uguale, cioè  del  principio  cln»,  tutti  i  rapj)orti  costanti  tra  i  fe- nomeni devono  essere  razionali  e  necessari. Il  concetto  deW  essenza  dei  metafisici  moderni  può sembrare  a  primo  aspetto  assolutamente  opposto  a  quello dei  metafisici  antichi:  in  effètto,  mentre  per  i  primi  l'es- senza d'una  cosa  è  ciò  che  vi  ha  in  essa  di  j)iù  occulto e  di  più  impenetrabile,  per  i  secondi  invece  l'essenza era  ciò  che  vi  avea  nella  cosa  di  [)iù  notorio,  e  che  co- stituiva la  nozione  stessa  di  questa  cosa.  Non  di  meno fra  questi  due  significati  della  parola  essenza,  con  le dottrine  che  essi  implicano,  vi  ha  un  legame  naturale, e  il  concetto  modcn-no  deriva  incontestabilmente  dall'an- tico. Il  fondo  comune  dei  due  concetti  è  1'  idea  (impie- gando le  espressioni  di  Hume  sui  rapporti  tra  le  cause e  gli  effètti;  che  tra  le  diverse  proprietà  di  un  genere non  vi  ha  semj)licemente  conf/i unzione  ^  ma  anche  con- nessione, in  modo  che,  data  l'una,  le  altre  potrebbe  es- serne dedotte,  se  questa  proprietà  primitiva  fosse  cono- sciuta. I  logici,  la  più  parte  almeno,    distinguono,    come tutti  sanno,  due  sorta  di  definizioni,  quelle  di  nome  e 5G7  — quelle  di  cosa.  La  definizione  nominale,  si  dice,  non  fa conoscere  che  il  senso  del  nome,  mentre  la  definizione reale  fa  conoscere  la  natura  stessa  della    cosa   definita. Cosi  l'essenza  d'  una  cosa  era,  secondo  i  logici  peripa- tetici,  r  insieme  degli  attributi  che  costituivano  la  de- finizione reale  della  specie  a  cui   questa    cosa    a])parte- neva.  Io  non  discuterò  il  valore  della  distinzione  delle definizioni  in  nominali  e  reali;  osserverò  semplicemente— ciò  che  non  potrà,  credo,  incontrare   opposizione  -  che possono    distinguersi    due    classi    di    defiiìizioni,  di  cui chiamerò  le  une   comjdete  e  le  altre  incomplete.  Chianio completa  una  definizione  che  conq)ren(ie    tutti  gli  attri- buti primitivi,   che  sono  comuni    agli    oggetti    apparte- nenti al  genere  definito;  e  chiamo  incompletii  una  defi- nizione che  comprende,  non  tutti  questi  attributi  comu- ni, ma  solo  quanti  sono  sufficienti  a  distinguere  il  ge- nere  definito   da  tutti  gli  altri.  Per  attributo    priniitivo poi  intendo  quello  che  non  è  la  conseguenza  di  (lualche altro  attributo:  per  esempio  esser  terminato  da  tre  linee rette  è  un  attributo  primitivo  del  triangolo,  ma  avere  la somma  degli  angoli  uguali  a  due  retti  non  è  un   attri- buto primitivo,  perchè  può  dimostrarsi  che  una  figura terminata  da  tre  linee  rette  deve  avere  questa  proprietà. La  definizione  del  triangolo,  del  cerchio,  delTellissi,  e, in    una    parola    tutte  le   definizioni    geometriche,    sono complete,  perchè  esauriscono  tutti  gli  attrilmti  ])rimitivi comuni  agli  oggetti  appartenenti  a  ciascun  genere  de- finito. Ma  la  definizione:  l'uomo  è  un    animale    ragio- nevole, è  una  definizione  incompleta^  |)erchè    non  com- prende tutti  gli  attributi  primitivi  comuni  agl'individui del  genere  umano,  ma  solo  (pianti  sono  sufficienti  a  di- stinguere questo  genere  da  tutti  gli  altri.  Se  alcuno,  per conservare  la  distinzione   tradizioìiale    delle    defiiìizioni di  nome  e  di  cosa,  volesse  chiamare  ^// casa  le  complete, e  eli  nome  le  incomplete,   io   credo    che   potrebbe    farlo —  r)()S  — senza  iin]>ropri(?tn,  i)erchè  una  detinizione  completa  ta  co- noscere la  natura  o  l'essenza  della  cosa  definita,  queste parole  nafara  o  essenzci  di  una  cosa  non  potendo  indicare altro,  ([uando  veng'ono  prese  in  un  senso  non  metafisico j ma  positivo,  che  la  totalità  deg'li  attributi,  conosciuti  e  co- nosciì)ili,  di  (juesta  cosa  (i  primitivi).  Non  tutte  le  specie sono  suscettibili  di  detinizioni  complete^  come  quelle  delle figure  geometriche.  Le  specie  e  i  generi  deg'li  oggetti naturali — per  eseìnj)io  l'uomo,  V  animale,  V  oro,  ecc.  — possiedono  un  gran  ìuunero  di  attributi  tutti  egualmente, a  quanto  sembra,  primitivi,  e  di  cui  alcuni  sono  ancora sconosciuti  :  si  potrebbe  fare  una  collezione  di  tutti cjuelli  che  sono  conosciuti,  ma  questa  collezione  si  chia- merebbe una  descrizione  e  non  una  detinizione,  [)erchè ]>er  (h^Hnizione  s'intende  una  breve  formula,  una  pro- posizione*, e  d'  altronde,  (|uand'anche  si  chiaiìiasse  de- finizione, non  sarebbe  una  definizione  che  spiegherebbe la  natur((  o  rss^nzcf  della  cosa,  perchè  nìanclierebbero gli  attributi  non  ancora  conosciuti,  (o  almeno  non  si sarebbe  mai  sicuri  che  la  cosa  non  lia,  oltre  gli  attributi enunu'rati,  degli  attributi  sconosciuti  i,  i  quali  fanno parte  anchessi  della  natura  o  essenza  della  cosa.  Ma  i ])eripatetici  ammettevano  che  anche  di  queste  specie  e generi,  aventi  un  gran  nunun-o  di  proprietà  indipen- denti, a  (juanto  pare  a  noi,  le  une  dalle  altre,  possono darsi  delle  definizioni,  come  noi  diciamo,  coììiplete^  cioè delle  detinizioni  che  esauriscono  1'  essenza  della  cosa definita.  Tali  definizioni  doveaiKì  essere  costituite,  come tutte  le  altre,  dal  genere  prossimo  (a  cui  la  specie  de- finita era  subordinata^  e  dalla  differenza  specifica:  una sola  difl'erenza  doveva  bastare,  non  semplicemente  a distinn-uere  la  cosa  definita  da  tutte  le  altre,  ma  a  far conoscere  e  svilupjìare  la  natura  di  questa  cosa. Come    [)Otevano    essi   credere  che  la  natura    d'  una COSI,  per  esempio  l'uomo,  avente  un  si  gran  numero  di proprietà  fisiche  e  mentali,  potesse  riassumersi  in  una formula  sì  breve?  È  che  mentre  noi  rit(;niamo  (juesto gran  nuiirero  di  proprietà  come  tutte  egualmente  pri- mitive, i  peripatetici  credevano  invece  che  di  primitive non  ve  ne  potevano  essere  se  non  tantci  quante  erano necessarie  per  distinguere  la  specie:  fra  tutte  le  pro- prietà appartenenti  in  proprio  alla  specie  definita  (cioè non  comuni  alle  altre  specie  del  genere  f)rossimo)  una sola  era,  secondo  essi,  primitiva,  ed  era  questa  che,  sotto il  nome  di  differenza  specifica,  costituiva,  unita  al  ge- nere prossimo  (il  (juale  anch'esso  poteva  definirsi  jìer il  genere  suj)eriore  e  per  la  differenza  propria,  una sola),  l'essenzM  o  natura  della  specie.  Le  altre  proprietà della  specie  erano  derivate;  esse  fluivano,  o  emanava- no, come  dicevano  gli  scolastici,  dall'essenza,  cioè  dai due  attributi  compresi  nella  definizione,  e  potevano  es- serne dedotti.  Così  il  fondamento  della  dottrina  della logica  peripatetica  sulla  definizione  reale,  e,  (piindi, sull'essenza,  era  (juesto  presupi)osto  metafisico  :  che  le diverse  proprietà  di  ciascun  genere  di  esseri  sono,  non semplicenumte  in  congiunzione,  ma  anche  in  connessione, cioè  non  indipendenti  e  staccate  le  une  dalle  altre,  ma tenute  insieme  per  un  legame  razionale  e  necessario  (1). (l)  Invece  Stuart  —  Alili  (Lo.i;-.  t  e.  (>  p;irai;r.  2,  e.  7  pani.i^r. 5),  vede  nella  dottrina  ])erii)a,tetica  suU'  essenza  una  di  ([ueste «illusioni  imM>a*;ate  dal  lin.i;ua,irui,»  »  «li  cui  hi  inetalìsiea  è  si fertile.  1/  illusicme  ((Uisisteva,  seconih)  lui  .  a  scambiare  il  si- gnificato del  nome  per  la  natura  della  cosa.  Secondo  la  dottrina di  Stuart  -  Mill  sui  concetti  (cioè  sui  si<»nitìcati  dei  nomi  ge- nerali) l'applicazione  di  un  nome  di  classe  implica  l'atfermazicme ai  un  o-rupp(»  <le1inito  di  attributi,  che  ejili  chiama  la  connota- zione del  nome,  e  che  non  è  che  una  parte  solamente  della  to- talità de.i,4i  attributi  comuni  alla  classe  :  «tuand"  anche  tutta que?t'altra  parte  <li  attributi  non  inclusa  nel  «irupp<'  venisse  in un  caso  a  mancare,   noi  applicheremmo  sempre,    secondo  lui,  il —  570  — §  3.  Questo  fondamento  è  assai  evidente  in  Aristo- tile. La  detinizione,  egli  dice,  è  il  principio  della  dimo- nome,  iiia   non   l'applic-hei-eiinno  mai.   se  venisse  a    mancare  uno solo  deoli    altiil>iiti  inehisi  nel   gruppo.   Ma  i  peril>ateti<-i  .   dice Mill,  .-nino,   a  causa  (Iella  loro  dottrina  sulle  sostanze  seconde, incapaci  di  comprendere  clie  una  cosa  è  ciò  che  si  dice  essere, seuiplicemente  ])er  il  possesso  di  (iU(d  orupi)o  di  attributi  a  cui <rli  uomini   liauno   voluto    applicare  il  nome.   Essi   invece  aveano ridea  va-a  che  ì-  per  qualche  cosa   che   la   fa  essere  ciò  che  è, cioè  che  le  conferisce  questa  varietà  di  proprietà  clie  costituiscono la  sua  natura    propria.    Ma    siceomc  non    pi)tevan(»    scoprire  ciò che  fa  che  la  cosa  è  ciò  eh»'  v-ssa  è,  se  ne  tenevano  a  ciò  c)ie  la  fa essere  ciò  che  è  espresso  dal  suo  nome,  r'wv  chiamavano  essenza della  cosa  questa  pi)rzione,  spesso  piecolissima.  dei  suoi  attributi che  è  iMHinotata  dal  n(»:ne.  Mill  a--iun-e  (e.  <>  para-.  :^  che.  sieco- me  jjli  errori   non  si  distru^-ono  die  lentamente,  così,   bandita  la falsa  idea  (hi  ]»eripatetici  sulle  essenze,  le  sopravvisse  non  per- tanto una  sua  conseouenza;  ò   l'idea   sulle  essenze   dei   metatìsiei moderni.   Le  essenze    individuali   erano   una    tìnzionr   nata   dalla falsa   idea  delle    essenze  di  classi,  e    Locke    stesso,    dopo  aver estirpato  Tei-rore  fondam^Mitale  (nn^strando  che  le  pretese  essenze di  (dassi  erano    semplicemente  la  sio;niticazione  dei   h)ro  nomi), non  potè  liberarsi  dalla  sua  e(Mise-uenza,  e  ammise  delle  essenze di  oiiiictti   individuali,   che  supixmeva  essere  le  eause  delle  pro- prietà sensibili  di  «piesti  o.^j^etti. La  prima  dit^icoltà  contro  la  .spieoazicme  di  Mill  è  che  la definizione  pei  peripatetici  non  con»]n-endeva  tutti  -li  attributi, che.  secondo  la  dottiina  di  Mill,  ccstituiscom)  la  connotazione del  mmie  :  questa  spie-azione  non  rende  conte»  d«41a  re-ob,  che una  sola  diilerenza  era  sufficiente  alla  delìnizione.  }Kn-chè.  come tMserva  lo  stesso  Mill  (e  T,  para-.  2  infine,  e.  S  para-.  •^)  .  la conn<dazitM»e  d(d  ni»me  comprende  ordinariamente  più  che  un solo  attributo  ditlerenziale.  Chiesta  dimcoltà  è  -rave,  perchè ciò  che  si  tratta  sovratutto  di  side-are  nella  dottrina  peripatetica sulla  detinizione  essenziale  è  a]>punto  come  essi  potevano  credere di  esaurire,  con  una  s(da  differenza,  la  natura  della  specie  ;  e questo  fatto  imn   può    siùe-arsi   se  non    ammettemb»    come  prin- 571 strazione,  e  deve  esser  tale  che  si  possano,   per  mezzo di  essa,    conoscere  gli  accidenti   (cioè  gli  attributi  non cipio  della  dottrina  che,  per  la  connessione  necessaria  tra  le ]>roprietà,  l'ima  di  esse  poteva  dare  tutte  le  altre.  Ma  vi  ha una  difficoltà  pili  -rave  ancora  :  è  che  hi  dottrina  di  Mill,  in cui  s'impernia  la  spie-azione,  secondo  la  ([uale  l' ai>plicazione di  un  nome  di  classe  implica  V  affermazione  di  un  -rui»p(>  de- finito di  attriì)uti,  che  è  soltanto  una  parte  della  totalità  de-li attributi  comuni  alla  elasse,  non  è,  a  mio  credere  .  che  una semplice  tinzione.  Supponiamo  due  nuovi  individui  che  ablnamo una  somi-lianza  s(do  parziale  con  -li  individui  -ia  conosciuti di  una  classe,  ma  che  ne  siano  differenti  l'uno  per  certi  attri- buti e  r  altro  pin-  certi  Jiltri;  e  animettianio  che  1'  uno  v«'n-a a-ore<»ato  alla  cl;!s>c.  l'altro  no.  Ciò  non  potrà  essere  che  in-rchè -li  attributi  che  1'  uno  ha  in  comune  con  la  classe  sono  in  )»iii -ran  numero  e  di  piiì  -rande  importanza  che  <[U(d!i  clic  lia  m comune  l'altro:  noi  non  cerchiamo  soltantc»  se  1' individue»  .  di cui  è  quistione  se  esso  debba  o  no  essere  a--re-ato  alla  classe, possiede  o  no  una  porzione  definita  de-li  attributi  comu.ni a-1'individui  -ià  facienti  parte  della  classe  ((luella  porzione  che Mill  ritiene  che  costituisca  la  connotazione  del  nome),  ma  tac- ciamo una  stima  -enerale  della  somi-lianza  tra  l' individue»  e la  classe,  sommando  tutte  le  semii-lianze  parziali,  e,-uardamlo perciò  alla  totalità  de-li  attributi.  (Su  questa  <lotirina  di  Mill sulla  connotazi(me  dei  nomi  confr.  Sa.u-io  1  e.  1).  A--iun-ijnno infine  che  non  si  vede  perchè  i  peripatetici  hannc»  scambiato  il si-nificato  del  nome  con  la  natura  stessa  della  cosa.  Ciò  è.  dice Mill,  perchè  avevaiu)  questa  va -a  idea  dell'  essenza  .  che  essaera  ciò  che  conferiva  alla  cosa  le  sue  proi>rietà.  e  non  iM»tevanotrovare  niente  di  simile:  ]>erciò  si  contentarono  di  (piest*'  altre essenze  che  conferiscono  alla  cosa,  non  ciò  che  essa  è.  ma  ciò che  la  fa  chiamare  col  suo  nome.  Sia  pure  !  Ma  perchè  essi  si erano  formata  (iU(\sta  va-a  idea  della  essenza  i  È,  rispimde Mill.  perchè  essi  ammettevano  il  sistema  realista  .  .secondo  cui i  oeneri  e  le  s])ecie  sono  delle  entità  distinte  da-T  individui  e ad  essi  inerenti  ;  perciò  essi  credevano  (die  una  cosa  e  cii»  «lie si  dice  essere  per  la  sua  partecipazione  alla  natura  di  una  i-erta 572  - inclusi  lucila  d.etìiiizioiie)  propri  alla  cosa  (li  :  la  dimo- strazione è  af. punto  il  metodo  per  rendere  noti  questi accidenti  {2\  per  consei^'uenza,  [)er  riattaccare  at>'li  at- tributi inclusi  nella  definizione  le  altre  proprietà  della cosa.  Evidentemente,  il  tipo  su  cui  Aristotile,  come il  suo  maestro,  concepisce  T  ideale  del  metodo  scienti- fico, è  (juello  della  g'eometria.  La  condizione  della  scienza tsostioiza   u;('H('rjil('.    M.\.   ]>riiii;i   di   tutto.   \iì   (l(>tti'iii}i   ili   ([iiistioiic (Iella  (;ss('iiz:i  e  «[Uclla   (M>rrelativa  della   dci'mizioiic  si  trovano  .«;ià in  Aristotile-,   e  questi   u<m   è   un   i-ealista  :    la   forma   e   la   materia n<»u   si    <listiii_u,»ioiu)   i>er   lui     (  lie     looieameuti^  :    la     sua     ]K>lemiea eoutro    Platone  è    a]»puuto  uiui    nuerra   alle    sostanze    menerali  . inerenti   a.u  T  i  udivi  ti  ui  (V.  ea)».  se^ut'ute).  I)'altvou«l<'  resterebbeiM^ sem]U'e  a   spiegare  i   medivi   did  sistt'ina   realisi  ;i  :  hi   spienJi/iiMie. ammessa  <la    Mill  .   (Lo.u.   1.   '^  e   *>  ^.    t).   vhv  non    vede   altro   nel realisnu)    elu'   il    jU'otlidto  di    una    ])retesa    toiulenza    naturale  a realizzare   le  astrazioni,   cioè,   al   tornio,  a   prendere  le   ]>arole  per eose  .    U(»u   è   fondata   wv  sovra  «lati   stori<'i   uè    suU'  osservazione ])sieoloiiiea   {\ .   eap.     seguente).     Inoltre'   queste   sostanze   seeoiule inerenti     aiil'  indi\idui  .     a    cui    eonferiseono  la   lore»   natura.   <l<'- vono    essere    supposte    comprendere     la    totalità    dejili    attributi di  questa  natura,    ('enne    Aristedile    rimpr«>verava   a    Platone,   le sostanze    Li'eiu'rali   ihmi     potevaiu)  avere    elie    le    jjreiprietà     stesse dotili    esseri     iiulividuali     (s'  intende    le     proprietà     ^em-rali)  .    e «[uesti    non  le    aN'evano,   se    non    ])erebè   erano    loro  eomunieate da    quelle.     Non   si    vede    elunijne  eonu'    Mill   s]ùenln   perediè  alle assenze  eraiH»  date,   non   tutti  .i;li  attributi   della   (dasse.    ma   sedo (luesta    ]>orzione  (die  secondo  lui  costituisce   la   connotazieme  d(d nome:  intanto  è   ])er  ispieuare  <[U<»st(»  fatto  <dl'(^,^•li   mette   in   rap- iK)rto  la  dottrina  dell'essenza  con  ri^jotesi  delle  sostanze  seconde. Per  qiunito  spetta  alla  dottrina  sulle  esse^nze  di  Locke  (e deiili  altri  metafisici  moelei'ui)  ncui  lio  niente  d'  importante  da aiiiiiuuiieM'e   al   «iia   «letto. (1)  V.  ed  Didot  Anal.  Posi.  1.  XXXlll.  (5),  II.  ili.  {'.))  3fet. VI.   JX.   (1).    XU.  I\  .  (:^)    /V  at).  1.  1  (>i).  Pbys.   IV.    IV.   (2).  ecc. (2i  Jli'f.  ì!  II.  llLM.  V.  I  (1).  Pc  Ah.  1.  I.  (2).  Anni.  Post. 1.     .il.  (21.    l.    X   (5):  ec<'. :'^!ili.j:|JiÌl|IMIIiMi!ÌlL 573  — è  che  essa  sia  dimostrativa  il):  la  dimostrazione,  nel senso  stretto,  è  una  deduzione  che  parte  da  ])rincipii noti  e  eerti  per  se  stessi  (2).  Il  noto  e  certo  per  se  .stesso d'Aristotile,  in  verità,  non  corrisponde  di  tutto  punto  a ciò  che  noi  diciamo  evidente  per  se  stesso  o  intrinseca- mente. Egli  distingue  due  sorta  di  principii,  cioè  di  pro- posizioni immediate  o  indimostrabili  che  sono  le  pre- messe ultime  della  dimostrazione:  i  principii  coutuni  e  i 2)ropri.  I  principii  comuni  sono  quelli  da  cai  i)rocede  la dimostrazione;  i  principii  propri  quelli  circa  cui  la  di- mostrazione ha  luog'o.  I  principii  da  cai  si  dimostra sono  le  verità  assiomatiche  :  i  principii  circa  ciu\  sono, per  ciascuna  dimostrazione,  il  soo^g-etto,  di  cui  essa  fa conoscere  g'ii  accidenti,  o,  più  propriamente,  le  proposi- zioni (immediate  o  indimostrabili)  su  questo  so<>'getto,  e ve  ne  hanno  due  per  ciascuno:  la  definizione,  e  l'ipotesi,  la (juale  è  r  affermazione  dell'  esistenza  reale  della  cosa conforme  alla  definizione  (8).  Cosi,  per  i  [)rincipii  d(f  cui, il  7ioto  e  certo  per  se  stesso  d'Aristotile  equivale  esatta- mente al  nostro  evidente  intrinsecamente  o  evidente  per se  stesso:  invece  l'ipotesi,  che  afferma  l'esistenza  di  un oo-g'etto  reale  conforme  alla  definizione,  non  |)uò  consi- derarsi come  una  verità  intrinsecamente  evidente.  Con tutto  ciò  Aristotile  può  dire  che  la  proposizione  è  nota o  certa  per  se  stessa,  perchè  essa  enuncia,  non  una  ve- rità d'inferenza,  ma  una  verità  immediata,  intuitiva,  cioè dataci  inunediatamente  dalla  percezione.  In  quanto  alla definizione  per  se  stessa,  cioè  considerata  se[)aratamente diiìV  ipotesi  ^    non    vi    ha  per  essa  né  certezza  né  incer- (1)  h'th.   Xie.    Vi,    ni.   (4):   V  ('^):  VI  (1);  Anal.  Posi.  II.  XV. (8)  eee  : (2)  V.  A,Hd  Pr.    II,    XVIII   (2);    To,,.   I,    I    (IJ  -  G). m  V.  Anni.  posi.  I.  VII   (2):  1,  X  (1  -  G)  (eonf,  I,  II.  (13-14) I.   XI.   ());  1,   XXXII   (12):   Afri.   II.    II.   (8-12). —  574  — tezza  d'alcuna  specie  :  essa  non  è  che  l'espressione  d'un concetto,  e  non  una  proposizione  (affermazione)  d) Osserviamo  che  per  lo  scopo  della  dimostrazione  di stabilire  una  connessione  necessaria  e  razionale  tra  gli attributi  inclusi  nella  definizione  e  le  altre  proprietà  della cosa  definita,  non  occorre  che  l'esistenza  di  questa  cosa sia  una  verità  intrinsecamente  evidente,  ma  basta  che siano  tali  i  principii  per  cui  questa  connessione  viene  di- mostrata (i  principii  da  cui). I  prin::ipii  assiomatici  da  cui,  secondo  Aristotile,  la dimostrazione  deve  precedere,  sono,  è  vero,  per  lui,  non delle  intuizioni  puramente  razionali,  come,  in  generale, per  i  filosofi  aprioristi  moderni,  ma  dei  risultati  delPin- duzione  (2):  ma  ciò  non  impedisce  che  il  metodo  pre- conizzato da  Aristotile  sia  anch'esso  un  metodo  a  priori. Noi  abbiamo  già  osservato  che  l)isogna  distinguere  tra la  quistione  psicologica  :  le  verità  assiomatiche  sono  delle necessità  primitive  del  pensiero  o  dei  risultati  dell'espe- rienzaV  e  la  quistione  del  metodo:  è,  o  no,  una  condi- zione della  conoscenza  filosofica  adequata  al  suo  oggetto che  essa  sia  dedotta  da  principii  assiomatici,  cioè  dotati di  evidenza  intrinseca  e  necessari'^  In  Aristotile  noi  tro- viamo un  altro  esempio  del  fatto  che    abbiamo  già  in- contrato   in   Spencer,   vale  a  dire,  un   metodo  a  priori (cioè  che  vuol  dedurre  la  conoscenza  da  principii  intrin- secamente evidenti)    proposto    come    ideale  del    metodo scientifico,    in    unione    con    una    [)sicologia    empirista, (cioè    che    spiega   per   V  esperienza  la  presenza   neir  a- uima  di  questi    principii    intrinsecamente  evidenti)    (o). (1).  Anni.  Post.  I.  II  (U);   I,   X.   (9). (2)  V.  Anal.  Pont.    I,    XVIIl,   li,   XV,  Anni,   Pr.   II.   XXV, Mh.  A'^iV.    VI,   ili    r^). (3)  Di  ih  un'antitesi    tra    il    proo;res8o    logico  e  il  protjresso cronologico  della  coiio.sceuza.  che  Aristotile  esprime  diceiiclu  che kuaaiagii —  5(0    — Tornando  alla  teoria  dell'essenza,  Aristotile  concepiva dunque  le  definizioni  degli  esseri  reali  e  la  loro  funzio- ne nella  scienza  del  reale  sul    modello  delle  definizioni altro  (>  ciò  che  ^  il  più  noto  e  anteriore  ]>er  naturd  o  assohiia- meììte  e  altro  ciò  che  è  il  \n\ì  noto  e  anteriore  per  ìiol  :  il  più noto  e  anteriore  per  voi  essendo  il  ]>articolarc,  il  sensibile^  e  il più  noto  e  anteriore  per  natura  essendo  al  contrario  i  princi])ii più  universali.  (/b»7//.  Post.,  l.ll  (5-10)  ).  Il  più  jioto  e  anteriore per  natura  e  il  })rincipio  logico  «Iella  conoscenza  ;  il  }>iù  noto  e anteriore  per  ììoì  ne  e  il  })rincipio  cronologieo.  Il  }»rincipio  cro- nologico (Iella  conoscenza  e  il  ]>articolare  e  il  sensiliile.  perchè *  ojiiii  conoscenza  deriva,  in  ultima  analisi.  daircs]>erienza  :  ma il  principio  logico  della  conoscenza  è  ciò  clie  vi  ha  <li  i»iù  uni- versale, perdio  la  scienza  deve  essere  ded(>tta  da  principii  evi- denti ]>(^r  se  stessi,  e  questi  sono  i  i)iù  univeisali.  (^uantun<[ue la  conoscenza  cominci  sempre  dal  ])articolare  (sia  perchè  le  ve- rità assiomatiche  furono  in  origine  acMjuistate  per  l'esptu'ienza, sia  perchè  ])rimji  di  conoscere  il  àlOZl  dd  fatto,  deducen«lolo dai  i)rincijni  universali,  ed  ehnjuulolo  così  esso  stesso  a  verità j^enerale,  noi  abbiamo  ujià  or<linariamente  la  coiH)scenza  speri- mentale  deU'O'^^'  cioè  deiresistenza  del  fatto  in  alcuni  esempi particolari):  ^\^n\  pertanto  la  cono.sc(Miza  dei  fatti  })arti<M)lari  di- pende logicamcìde  da  <[uella  dt^i  ])rincipii  universali,  ma  la  co- noscenza dei  principii  universali  è  logicamente  ìndip(;ndente  da quella  dei  fatti  i)articolari.  {Maxime  autem  seihilia  snnt  ipsa prim^a  et  caìisae.  Propter  haec  enim  et  ex  iis  eoetera  eognoscan- tur,  scd  noi)  haec  per  suhiecta.  Met.,  I,  li  (5)).  Quest'api)arente contraddiziono  si  risolvo  ritlettendo  che,  secondo  Aristotile,  i principii  della  dimostrazione,  quantun<pie  siano  ori<;inati  dal- l'esperienza, non  sono  nuunetiHi  perchè  prorati  dalPesperienza,  ma per  la  loro  evidenza  intrinseca  :  essi  sono  certi  per  se  stessi:  al contrario,  oujni  scienza  essen<lo  dimostrativa,  la  certezza  delle conoscenze  particolari,  acquistate  per  la  scienza,  dii)ende  dalla certezza  dei  ])rincipii. Aristotile,  chiamando  assoluta  o  per  natura  l'anteriorità logica  dei  })rincii)ii  universali,  e  relativa  o  fìcr  noi  ranteriorità cronologica    dei    fatti    particolari,    sembra    accordare   alla  prima delle  figure  e  la  loro  funzione  nella  g'eometria  :  come il  g-eoinetra  dà,  nella  definizione  del  cerchio,  deU'elis.si, ecc.,  la  {)roprietà  fondamentale  di  ciascuna  di  queste iig'ure,  a  cui  la  dimostrazione  fa  vedere  che  tutte  le  altre si  riattaccano  per  un  legame  necessario  e  intelligibile a  priori  (1),  cosili  filosofo  deve  (perchè  la  sua  scienza sia  adequata  alToggetto  a  conoscere)  dare,  nella  defini- zione dell'uomo,  dell'animale,  ecc.,  la  proprietà  fonda- mentale di  ciascuno  di  questi  esseri,  e  poi  far  vedere, per  la  dimostrazione,  che  tutte  le  altre  vi  si  riattaccano per  un  higame  egualmente  necessario  e  intelligibile  a priori.  Bisogna  guardarsi  dal  credere  che  il  metodo  di- mostrativo, j)er  Aristotile,  non  abbia  altro  scopo  che  di ottenere  un  grado  superiore    di  certezza  :    i\\    contrario una  Hpocie  di  <)l)l)i<'ttività,  ('11(5  ritìutH  alla  Hecoiichi.  ft  inu»  di quei  tanti  vt\sti<;i  di  jilatoiiismo  rlie  si  trovano  U(dle  i'sju'essiinii «rAristotilc  :  o^xU  li.i  l'ap|mrenza  di  fare,  come  IMntone  (v.  eap. seguente).  dell'antiTiorità  logica  un'anterioritìì  ontolooica.  della stessa  inaniei'Ji  eli*'  <(uando  eliiania  i  prineijìii  della  dimostra- zione caKse  della  conclusione  (cioè  della  stessa  cosa  diinostratji). Nel  caso  ju-esentc  1'  ol>hiettivazione  e  un'esiu-essione  metaforica di  <iutjst*i<lt4a.  clit^  l'anteriorità  e  ]>iù  granile  notorietà  (secondo l'ordine  logico)  dei  i)rincipii  universali  è  assoluta,  eiot>  la  stessa per  tutti  e  in  tutti  i  casi,  mentre  l'anteriorità  e  la  jdiì  grande notorietà  del  fatto  [)articolare  (secondo  l'ordine  cronologico)  è relativa,  varia  secondo  gl'iiulividui  e  i  casi.  In  elfetto,  se  è costante  che  la  conoscenza  di  alcuni  ]>articolari  (indeterminata- mente) jireceda  quella  «Udl'universale,  è  jniramente  accidentale che  i  particolari  (d«termin;iti)  la  cui  (^(mo-^iicuiza  ha.  effettiva- mente preceduto  la  conos<'enza  dell'universale,  siano  qut^sti  o (quegli   alti'i. (I)  («li  studi  delhi  forme  geometriche  «consistono  essenzial- mente .  per  ciaseuna  linea  o  sui>ertìcie,  a  riattaccare  tutti  i feuonìeni  geometrici  che  t^ssa  può  jiresentare  a  un  solo  feìunueno fondamentale,  riguardato  come  definizione  primitiva».  A.  ('onte, (^orsit  di  filos.  posi!,    voi.   1   lez.          -t risulta  evidentemente  dalle  sue  dichiarazioni  che  per lui,  come  per  gli  altri  filosofi  aprioristi,  il  valore  di  que- sto metodo  consiste  principalmente  in  ciò  ch'esso  fa  vede- re il  perchè,  la  ragione  dei  fatti,  ne  dà  spiegazione  (1). Egli  considera  anche  gli  attributi  inclusi  nella  defini- zione come  le  cause  delle  proprietà  della  cosa  definita (il  medio  della  dimostrazione  è  la  causa,  per  Aristotile, e  la  definizione  è  il  ìttedlo)\  [)erchè  essi  sono  la  ragion sufficiente  (nel  senso  leibnitziano  della  parola)  della presenza  di  ([Ueste  proprietà  nella  cosa  (2).  E  in  questo 1 1 (1)  V.   An«L    Post.   l.   1,   e.   2. (2)  Aristotile  identifica  continuamente  questi  due  conc<'tti  : la  causa  di  un  fatto  e  la  ragione  di  una  verità  :  OCIIIOC  ì-  per lui  tanto  la  etttfsti  ((uanto  la  ì'((f/io)U'.  V.  Anni.  Post.  1.  II.  (5). (!M.  IX.  (5),  II.  X.  (1.2).  hJth.  hJnd.  II.  VI.  (5,  ()),  ecc.  Il  princii^io (hdla  conoscenza  n<Hi  viene  identificato  c(mi  ((nello  «hdressere  solo \\v\  caso  di  due  ]»r(qu-ietà  di  una  cosa,  che,  conformemente  alla teoria  aristotelica  dcdla  «leflnizione.  si  ritengono  ncìcessariamente coniu'ìsse.  e  di  cui  Tuna  si  suppone  logicamente  anteriore  all'altra: ma  i  princi])ii  <lella  «limostrazione  in  geiuM-ale  vengono  riguar- djite  come  cause  della  cosa  dim(»strata.  Xel  ]uim<>  caso.  V  ana- logia d<d  rapi)orto  tra  le  due  ]U'oi)rietà  e  ([uello  tra  la  causa  e l'effetto  è  evidente:  l'assimilazioni^  e  ]uiì  ardita,  ([uando  un  i)riu- ci[Uo  univ(M'sale  viene  considerato  come  causa  del  fatt«>  jKirtico- lare  che  se  ne  ]uiò  dedurre.  X'^oi  ah]»iani<>  <juì  uin»  degli  es<'nipi }>iù  segnalati  che  ci  (jffra  Aristotile  di  traslormazioin-  di  una  re- lazione logica  in  relazione  ontol(»gica.  Xotiamo  che  ({uesta  tra- sformazione non  pi»treh]>e  aver  luogo  che  in  una  tilosi>lia  clu^  non vede  ch(^  ih',1  metodo  a  pri(H-i.  cioè  tlimostrativo,  il  solo  metinlo rigorosannuite  scientifico  :  è  soltanto  quando  il  met(Ml<>  della scienza  (^  il  dimostrativo,  cioè  (luamh»  la  cinn)sce-nza  si  dedu<*e da  ])riucipii  evidt^nti  per  se  stessi,  che  esiste  un'analogia  fra  il ra])i)orto  tra  le  ])rcmesse  e  la  conseguenza  e  <[uello 'tra  la  causa e  l'c^fìetto  (i^eibntz  dice:  «La  ragione  è  la  verità  conosciuta,  di cui  il  legame  con  un'altni  meno  conosciut:i  fa  dare  il  nostro  as- sentiuìento  all'  ultima.    Ma    iuirticolarment<'  <•   per    eccellenza     si senso  che  i  peripatetici  potevano  dire  che  le    proprietà fluiscono  o  emanano  dall'essenza,  e  che  questa  ne  è  la causa  efficiente  o  produttrice:  è  vero  -he  neoli  scolastici, conformemente  alla  loro  tendenza  -aratteristica  ad  ob- biettivare  le  relazioni  e  le  distinzioni  puramente  log-iche (tendenza  di  cui  essi  avevano  trovato  il  -erme  in  Ari- stotile, se  non  nei  concetti  stessi  di  questo  filosofo,  nelle espressioni  troppo  realiste  di  cui  eo-li  li'riveste),  questeme- tafore  prendevano  il  passo  sul  concetto  stesso  che   essi esprimevano,  cioè  la  connessione  necessaria  e  razionale tra  ressenza  e  le  proprietà  (tale  è  la  connessione  tra  la causa  efficiente  e  l'effetto),  e  al  tempo  stesso  l'anterio- rità loo-ica  della  prima  sulle  seconde  (1). cìùanui  raKioìie.   s..  è  la  musa   non  solo  del   .io>tro  giudizio,   ma ancora  della  verità   stessa,    eia    rhc    si    rhiama    purr    nujwne  a priori     e  la  causa  ludle  cose  corrisponde  alla  nujione    nelle  ve- rità .V.   S.   suWintcnd.   um.  1.    t,   e.   17,   vS   1.)    In    eletto  è    solo allora   che  la  verità  delU-  eonse-nenze  dipende  da  (inedia  dei  prin- cipii      ma   non   reeiproeamente   la   verità    dei    prineipii  da  (luella delle  concernenze,:   se   invece  le  pren.esse  generali  si  ammettono sulla  prova  dei  latti  particolari,  la  verità  delle  premesse  dipende da  quella  delle  onseonenze  altrettanto  che  la  verità  delle  con- seguenze da  quella  delle   piemesse. (1)  Non  dobbiamo  passare  sotto  silenzio  che  non  tutti  gli  at- tributi della  specie  eram»  ritenuti  dai  peripatetici  derivare  dal- l'essenza, ma  solo  i  iH'opri  :  si  ammettevano,  oltre  i  propri,  degli attributi  comuni  a  tutti  gl'individui  della  specie  che  sopraggiuu- gevano  all'essenza,    ma  ncm  ne  derivavano,    erano  gli  aeeidenti ivseparahili.  Tanto  il  proprio  quanto  l'accidente  inseparabile  e- rano  predicati  universalmente  della  specie;  ma  solo  il  proprio  era predicato  ueeessariameute.  Questa  necessità  della  predicaziime  del proprio  era  quella  specie  di  necessità  che  si  attribuisce  alle  ve- rità il  cui  -contrario  è  o  si  pretende   inconcepibile  o  ripugnante .V    IVrtirio   Isag.  De  Accidente,  e  cofr.    Zabarella   Commeu.    m Anul.  Post.  l.   1.  c.ont.  52):  era  inlatti  (Questa  necessità  che  con- veniva  a  un  predicato  il  quale  poteva  essere  dimostrato  del  sog- «iiiBiiTinijujiuiiijMiiiwiijMi,iijiimMi -   579 Ora  è  chiara  la  filiazione  del  concetto  dell'essenza della  metafisica  moderna  dal  concetto  dell'essenza  della filosofia  peripatetica  :  mano  mano  che  si  disperava  di trovare  queste  definizióni  luminose,  rischiaranti  tutta  la getto . Per  la  dottrina  dell'accidente    inseparal)ile  i  peripatetici  si mettevano  in  contraddizione  col  concetto    del    predicabile  acci- dente (Vaccidente,  quale  uno  dei  cimine  predicabili,   si  definiva: quod    inesse    ae    non    inessc    cidem    pofest,    Porfirio   Tsufj.   De  ac- cid.,   Arist.    Top.  1,   IV  (S).   al  tempo  stesso  che  col  ])resupposto fondamentale  della  teoria  della  detìniziime  e  dell'essenza.  Il  mo- tivo ])er  ammettere  degli  attributi  generali  della  specie  che  tut- tavia non  derivavano  dall'essenza,  era,  pare,  l'idea  che  un  attri- buto derivante  dall'essenza  non  poteva  trovarsi  che  là    «love  si trovava  l'essenza  stessa:  infatti  il  proprio  si  definiva,  non  solo: un  attributo  necessario  derivante  dall'  essenza,  uni  ancora  :   un attributo  (non  essenziale)  che  conviene  a  tntta  la  specie  e  ed  essa sola.  Forse  quest'idea  era  una  conseguenza  della  tendenza    che si  ha  generalmente  ad  ammettere  che  lo  stesso  eftetto  «^  sempre dovuto  alla   stessa  causa  (il  V.  sofisma  a  priori  di  Stuart-Mill), l'essenza,  come  abbiamo  detto,  essendo  considerata  come  causa e  le  proprietà  come  efictti.    Per  mettere    d'accordo  il  principio che  uno  stesso  effetto  non  può  av(;re  che  una  sola  causa  col  pre- supposto della  teoria  «lell'essenza    (che    vi    ha  una   connessione necessaria  tra  tutti  gli  attributi  della  specie j,    bisogna  ammet- tere che  tutti  gli  attributi    generali   della  specie  .     salvo    quelli che  sono  comuni  a  tutto  il  genere,   sono  proi»ri  della  specie:  ma si  era  forzati  dall'esperienza  ad  ammettere  anche  degli  attributi generali,  che,  senza  essere  generici,  non  erano  nemmeno  propri esclusivamente    della  specie  ;  di  là  il  concetto  ibrido  dell'  acci- dente inseparabile. Del  resto  la  contraddizione  tra  il  concetto  dell'accidente  in- separabile e  l'esigenza  generale  della  teoria  faceva  sì  che  la  re- gola che  il  proprio  doveva  convenire  esclusivamente  alla  sola specie  era  posta  in  obblio,  e  degli  attributi  che,  conformemente a  questa  regola,  avrebbero  dovuto  considerarsi  come  accidenti inseparabili,  erano  invece  considerati  come  propri,  cioè  come  de- rivanti dall'essenza  (p.  e.  la  sfericità  della  luna,    dice  un  peri- i-    t  I —  ÒSO   natura  della  cosa,  (jiieste  difterenze  spociticlio  da  cui  tutte le  proprietà  degli  esseri  dovevano  poter  essere  dedotte, le  essenze,  benché  sì  continuasse  ad  ainnietterle,  si  al- Jontaiiavano  dal  campo  della  conoscenza  effettiva,  sinché esse  cessarono  di  essere  considerate  come  roi>-o'etto  della definizione,  e  allora  il  concetto  moderno  (il  metafisico) dell'essenza    prese   il   posto   del    concetto  antico  (1). pateticM).  «U'i'iv.i  sciizjj  (lul>l»io  (1;j11;i  iiatuni.  dolht  Iumm.  e  )>otr(iblH' diinostmrsi,  str  «picstji  luitiira  losst-  conosciuta.  V.  Zahan'lla Ih'  nn'ido  dcmoHstnii.  1.  1.  <•.  l:^).  In  ol;iiì  caso,  ^li  ac<idciiti  iii- sc]>aral)i!i  «lovcvaiio  essere  ^iiulica/i  <li  poco  iiiinicro  e  di  poca iiiijiortauza  in  contVoiiK»  a^li  essenziali  e  ai  pro)MÌ  (se  no.  questa parte  ae^li  attributi  della  cosa  come  avrebbe  )M>tuto  seainì)iarsi con  la  natura  stessa  della  cosa,  cioè  con  la  totalità  <lei  suoi  at- tributi ^  )  :  ciò  è  tanto  vero  che  talvolta  si  diceva  «li  tutti  l-Iì attributi  in  ;;«'nerale  che  essi  derivavano  dall' essenza  (v.  p.  e. Zabarella  De  ined.  fh'moHHfntt.,  i.  1,  e.  IS.  1.  2.  e.  n),  lii-nar- dandc»  così  i  propi'i  come  la  re.<;«da.  e  «ili  accidenti  inseparabili <'ome   un'eccezione. Suiraccidente  insej»arabile  il  IJnin  fa  <iuesross<'i-vazionc  :  «  Il concomitant<'  inseparabih'  è,  \^.  e.,  il  colore  de^li  animali  di  cui il  colore  non  ha  mai  variato,  come  la  bian<'hezza  dei  cÌìtiì  e  il c<dor  nero  dei  ctuvi  (era  l'esempio  preterito  deiracci<lente  inse- parabile). Se  noi  ilomandiamo  peicdiè  un  attributo  che  ac<M>m- l>a.i;na  sempre  la  specie,  e  vhi\  non  è  considerato  comj;  un  jh'O- pritnn,  non  è  introd(>tto  nell'esseuza.  ci  si  risponden'bbe  verisi- milmente  che  il  ccdore  de:;li  animali  ì*  una  (qualità  variabile,  in- stabiN-  :  esso  cangila  spesso  allorch»'  tutte  le  altn-  qualilà  s<'ni- l»rano  i-estare  le  stesse;  p<'r  conseguenza  si  lascia  orilinariamente da  parte  <tuamlo  si  tratta  di  determinare  i  carattt^ri  della  s])ecie  . (ili  esempi  citati  .^iustiMcano  «jucst'abit iidine.  Xè  il  color  bianco dei  ciiiui.  Jiè  il  coloi-  nero  dei  corvi,  è  universale  in  «pieste specie   {LfH/ìrn   1.    1.   e.   2.    ìi.    is). (l)  S.  Tommaso  «lichiara  «du;  le  ess(Mi/e  delle  cose,  le  loro dirterenze  essenziali,  sono  sconosciute.  |)ercui.  in  luo^o  di  queste, si  <-  obbli.nati  .  nelle  d(iliiiizioni  .  a  far  uso  di  dirterenz<;  acci- dentali,    le  quali   non   s(»no  «die   il   s^'^ll<^  <l«dr<'ssenza   da  «Mii  «'ss«' i — ^-nrfi'TwrÉ-SiTaT  La  dottrina  aristotelica  del  l'essenza,  come  tanti  altri dei  concetti  filosofici  d'Aristotile,  deriva  senza  dubbio  da Platone.  Anche  per  Platone,  il  principio  della  scienza è  la  definizioiìe  (1);  e  la  definizione  platonica  si  fa,  come l'aristotelica,  per  il  <>"enere  prossimo  e  la  differenza  spe- cifica, una  sola,  ])erchè  la  dicotomìa  (divisione  del  genere in  due  specie  per  l'au'o'iunzione  di  due  differenze  mu- tuamente opposte),  che  è  il  metodo  di  Platone  periscoprire le  definizioni  (2),  non  può  dare  che  una  sola  differenza specifica.  Ora  questa  definizione,  evidentemente,  doveva esaurire  la  natura  della  cosa  definita;  i)erchè  il  metodo  di divisione  avea  per  oi4'i>'etto  di  dìmoHlrarp  le  Idee  (le  spe- cie', nel  tentpo  stesso  che  di  dcfììììrlo.  e  la  dialettica  di Platone  era,  come  (j nella  di  Heg*el,  un  metodo  che  pre- tendeva di  riprodurre,  nelTordiiu'.  dei  concetti,  la  4>enesi stessa  delle  cose,  di  ricrearle  per  il  i)ensiero  (8).  Sicché, scopreìulo  le  definizioni  delle  Idee,  erano  le  Idee  stesse, quali  esse  sono  in  se  stesse,  che  Platone  intendeva  avere sco\'erte,  e  la  definizione  doveva  essere  1'  esprc^ssione esatta,  completa,  della  natura  dell'Idea  (della  Specie).  Ma perciò  era  necesssario  che  i  caratteri  esjdicìfamerde  in- clusi nell'essenza  fossero  supi)Osti  racchiudere  impìicifa- vìcììfe  tutti   gli  altri  caratteri  della  specie  :  è  solo  a  (|ue- «b*ri\"an<K  (He  m-ifafi'.  (^)ua<'st.  X.  Art.  I.)  I^a  jiarola  ess<'.nza nid  s(;nso  «Iella  nietalisica  m«Kl«'rna  («'«m  la  «bittrina  (di«'  «juesto sens(j  iniplica)  si  trova  u,ià  .  «-«mie  nota  (Ìi<dM'rti  (fnfro'l.  (dìo JSfHcl.  (U'iln  fi/os..  t.  2.  nota  15.'))  n«'i  «'in<i[U<'centisti  e  antdu'  nei trecentisti  italiani  .  («bd  «[uali  il  v«M*abolari«>  «bdla  (h'iisca  «dta dei  testi  p(^r  c«)m]U'ovar(^  «piesta  detinizione  della  parola  :  l'inind*» ju'incipi«)  «bdb'   i)ropri«"tà    naturali   «b'ih'  cose). (1)  X«d  M«'n«)ne  (71  ab.  Si>  c-«l.  Ulti  h)  stabilisce  «[uesta  re- o«da  «li  met«>do.  «die  per  c<Mn)sc<'r<'  1«*  pr«)i>ri«'tà  «l'una  «-osa  bi- so"'mj   juima   avt-r  «M»nos(dut«»   l'c^ssenza   «li  «pu'sta   «-osa. (2)  V.  «*ap.  se^Ui^nte. {'^)  V.  cap.  seguente. -témtUtm sta  condizione  che  la  dialettica  poteva  essere,  come  Tim- niaginava  Platone,  una  ricostruzione  a  priori  del  mondo delle  Idee  (cioè  di  questa  stessa  natura  reale  contem- plata sub  specie  aeternìtatis).  Questo  rapporto  tra  la  dia- lettica di  Platone  e  la  teoria  della  definizione  ch'egli  ha in  comune  con  Aristotile,  lo  vedremo  più  chiaramente  nel capitolo  seguente. §4.  La  dottrina  platonico- aristotelica  sulla  definizio- ne, oltre  la  connessione  necessaria  e  intelligibile  a  priori tra  le  diverse  proj)rietà  di  un  genere,  suppone  di  più l'anteriorità  logica  di  uno  dei  caratteri  differenziali  del genere  su  tutti  gli  altri.  Ma  vi  hanno  anche  dei  casi  in cui  la  prima  di  queste  due  suyjposizioni  sta  senza  l'altra. Ascoltiamo,  p.  e.,  Leibnitz  :  «Quando  un'idea  è  distinta, e  contiene  la  definizione  o  le  marche  reciproche  dell'og- getto, essa  potrà  essere  inadequata  o  incompleta,  cioè quando  queste  marche  o  questi  ingredienti  non  sono  |)ure tutti  distintamente  conosciuti,  p.  e.  :  l'oro  è  un  metallo che  resiste  alla  coppella  e  all'acqua  forte.  Questa  è  un'i- dea distinta,  perchè  dà  delle  marche  o  la  definizione  del- l'oro; ma  non  è  completa,  perchè  la  natura  della  cop- pellazione e  dell'operazione  dell'acqua  forte  non  ci  è abbastanza  conosciuta.  Donde  segue  che  (juando  non  vi ha  che  un'idea  incompleta,  lo  stesso  soggetto  è  suscet- tibile di  più  definizioni  indipendenti  le  une  dalle  altre, di  modo  che  non  si  potrebbero  sempre  tirare  l'una  dal- l'altra,  uè  prevedere  ch'esse  debbono  appartenere  allo stesso  sogg^etto,  e  allora  la  sola  esperienza  c'insegna ch'esse  gli  appartengono  tutte  al  tem|)0  stesso.  Cosi  l'ora potrà  ancora  essere  definito  il  più  pesante  dei  nostri corpi,  o  il  più  malleabile,  senza  parlare  di  altre  defini- zioni che  si  potrebbero  fare.  Ma  non  sarà  che  quando gli  uomini  avranno  penetrato  più  avanti  nella  natura delle  cose  che  si  potrà  vedere  perchè  appartiene  al  più pesante  dei  metalli    (o   al  più  malleabile)  di  resistere  a queste  due  prove  dei  saggiatori  »  (1).  L'autore  suppone dunque  che  quando  l'idea  è  completa  (cioè  quando  ab- biamo una  conoscenza  distinta  degli  attributi  inclusi  nella definizione)  le  diverse  definizioni  di  cui  il  soggetto  è  su- scettibile (facendo  tante  definizioni  quanti  sono  i  carat- teri differenziali)  si  possono  tirare  l'una  dall'altra,  e  pre- vedere indipendentemente  dall'esperienza  ch'else  appar- tengono tutte  allo  stesso  soggetto  :  in  altri  termini  egli suppone,  come  Platone  ed  Aristotile,  che  le  diverse  pro- prietà della  specie  sono  necessariamente  legate,  e  che l'una  può  dare  tutte  le  altre;  ma  non  riguarda,  come essi,  una  di  queste  proprietà  come  primitiva,  e  le  altre come  derivate. Vi  ha  nella  scieìiza  moderna  una  notevole  applica- zione del  concetto  che  le  diverse  proprietà  di  un  genere hanno  una  connessione  necessaria  e  intelligibile  a  priori, senza  la  supposizione  dell'anteriorità  logica  di  una  pro- prietà sulle  altre:  è  la  dottrina  di  Cuvier  della  correla- zione necessaria  fra   le    parti  di  un  organismo.    Questa dottrina  si  riassume  nelle  seguenti    parole  dell'autore: «Ogni  essere  organizzato  forma  un  insieme,  un  sistema unico  e  chiuso,  di  cui  le  parti  si  corris|)ondono  mutua- mente e  concorrono  alla  stesssa  azione  definitiva  per  una reazione  reciproca.  Alcuna  di  queste  parti  non  può  can- giare senza  che  le  altre  cangino  pure,  e  per  conseguenza ciascuna  di  esse,  presa  separatamente,  indica  e  dà  tutte le  altre»  (2).    In    altri  termini,  la  funzione  di  ciascuna parte    di    un    organismo    cooperando  con    le  funzioni  di tutte  le  altre,  ciascuna   parte  deve   adattarsi  a  tutte  le altre  :  donde  segue,  secondo  Cuvier,  che  una  [)*irte  qual- siasi e  la  sua  forma  può  indicare,  indipendentemente  dal- Posservazione,    quali  altre  parti  devono  coesistere  con (1)  ìY.   .y.  aulVhU.   um.  1.  2.  e.  31    «^  P (2)  Discorso  sulle  rivoluzioni  della  superficie  del  iflobo.   ^  VV^. essa,  e  ([ualo  deve  essere  la  loro  forma,  in  modo  che  cia- scuna i)iiò  essere  data  da  ciascuiraltra,  e  tutte  da  una sola.  Ciò  importa  che  vi  ha  fra  tutti  i  caratteri,  i  quali entrano  nella  descrizione  di  una  specie,  di  un  genere,  di una  famiglia,  ecc.,  in  nna  ]>arola  di  tutte  le  classi  di qualsiasi  grado  di  generalità  in  cui  i  naturalisti  distri- buiscono gli  esseri  viventi,  una  connessione  tale  che, dato  un  solo  carattere  della  classe,  tutti  gli  altri  se  ne possono  dedurre.  Il  i)rincipio  della  finalità  interiore  de- gli esseri  organizzati,  dal  quale  Cuvier  dcM'iva  la  sua leizae  della  correlazione  organica,  non  ha  nella  sua  dot- trina  una  base  teologica  :  se  gli  organi  sono  adattati  gli uni  agli  altri  e  al  regime  di  vita  dell'animale,  ciò  non è  perchè  il  Creatore  ha  voluto  che  sia  cosi,  ma  perchè ciò  è  una  condizione  necessaria  dell'esistenza  dellaui- niale,  perchè  se  una  funzione  fosse  modificata  d'una  ma- niera incom|)atil)il(*  con  le  altre,  l'animale  non  j)otre!)l)e esistere.  Le  leggi  delle  coesistenze  e  correlazioni  degli organi  possono  essere  sco[>erte  a  priori,  deducendole  dal princi[)io  delle  condizioni  di  esistenza  ([)rincipio  delle cause  finali  dei  metafisici;;  ma  p(*r  l'imperfezione  delle sue  conoscenze  sull'influenza  reciproca  delle  funzioni  e l'uso  degli  organi,  il  naturalista  è  spesso  costretto  di abbandonare  il  metodo  razionale,  e  contentarsi  di  ({uello Hupplemeiìfctre  dell'osservazione,  che  gli  fa  conoscere  che una  relazione  è  costante,  ma  senza  farglicnìe  compren- dere la  ragione.    . Bisoo-na  distinguere  fra  una  dottrina  che  si  limita ad  ammettere  l'adiUtanìento  degli  organi  fra  di  loro  e al  moilo  di  vita  dell'animale,  e  una  dottrina  che  [>re- tende  che  un  cangiamento  (qualsiasi  lìegli  organi  ren- derebbe l'animale  improprio  al  suo  modo  di  vita,  e  che resistenza  e  lo  stato  di  ciascuna  part(^  dell'organismo  è talmente  legata  all'esistenza  e  allo  stato  delle  altre,  che, data,r  una  .    le  altre  non  potrebbero  essere  d'  una  ma- óSf)  - niera  differente  senza  che  vengano  meno  \i\  condizioni necessarie  dell'esistenza  dell'animale.  Di  (jueste  due  dot- trine la  scienza  contemporanea  accetta  la  priuìa,  ma  re- spinge la  seconda,  che  è  <]uella  di  Cuvier.  Ciò  che  si  deve notare  è  che  la  correlazione  di  cui  si  tratta  nella  lea'ii'^^- di  Cuvier.  è,  come  osserva  Spencer  (1),  ì?('cess(( ria  in  (lue- sto  senso^  che  la  contraddittoria  sarebbe  inconcepibile: egli  dichiara  infatti  che  la  necessità  delle  leggi  che  de- terminano i  rap))orti  degli  organi  è  dello  stesso  grado che  (juella  delle  verità  matematiche  (2).  E  in  ciò  che consiste  l'essenza  della  teoria.  «  L'argonunito  di  Cuvier, dice  Spencer  (o),  non  consiste  a  dire  :   Un   omoplata  di I (1)  Suf/f/i  (li   fuor,   di  se.  r  (fi  csfcl.    VII.    (Fisiolo-ii.i   trascoii- doiitc)  trjMl.   U'iUìc.   p.  2()r).    2«)7  -  2<)S. (2)  «  K  in  <pi('sta  (liiMMi<h']iza  delle  t'iiii/ioiii.  in  ((Mesto  soc- corso eli'  esse  si  ])rostano  r<'ci]H'oc;iinente  .  che  sono  fon<late  1(^ loLijni  elle  determinano  i  rMjjporti  dei  loro  or^Mni,  e  che  smto (l  '((ita  ìK'cr.'ùsilit  (ff/xdlc  a  (-/Kclfa  (/clic  Icf/f/i  nic/afisic/tc  o  ìn((te- inntieh  •  .  jnTcliè  è  e\i(lente  che  V  ai-nìoni:«  conveniente  ti'a  ^li (r^ani  che  aiiiscono  ;.';li  uni  su^li  altri  è  ima  con<lizione  neces- sarijj  (leiresisteijza  dell'essere  a  cni  aj>])ai"ten!iono.  e  che  se  una delle  sue  tunzioni  fosse  nioditìcata  «l'una  nianiera  inconipatilule con  le  moditicazioni  delle  altre,  <|uest'esserc non  jiotrebbo  «esistere» {AìKtf.  eoH(fH(r((l((  1.  lezione  art.  t).  K  ind  Discorso  sìiìlc  rirolu- zioni  (Iella  sKjtcrficic  del  f/loho  :  ^  !*>!>  :  «  In  una  ]>ar(da  la  forma  del dente  trascina  la  t'orma  del  (ondile.  <juella  (hdl'omoplata,  <pi(dla delle  unghie  .  c(uae  V  er[uazi(nie  d'  una  curva  trascina  tutte  le .sue  proprietà  :  e  come  prendemlo  ciascuna  ])r(»j)ri(»tà  sci>arata- menti'  per  l)ase  d'un'e<piazione  paiticcdare,  si  ritroverebbe  e  l'e- ([uazionc  ordinaria  e  tutte  le  altre  proj>rie:tà  «piaulunque,  così l'uniiliia.  r(nm>plata.  il  condile  .  il  temore  e  tutte  1<^  altre  osna preso  ciascuno  separatamente  danno  il  dente  o  si  (bjuuo  reci- procamente: e  cominciando  da  ciascuno  di  loro  <[U(\i»:li  che  pos- sedesse razi(nu»lm<M«te  le  le«;ni  dell'  economia  organica  ])otreì)be rifare  tutto   l'animale. (;{)•  fri.  p.  2(;r). —  586  - tal  forma  può  essere  rapportato  a  un  mammifero  carni- voro, perchè  tutti  i  mammiferi  carnivori  a  noi  conosciuti hanno  in  fatto  tali  omoplati  ;  ma  perchè  essi  devono averli  tali;  perchè  il  modo  di  vita  dei  carnivori  sarebbe iiììpossibile  senza  di  ciò  ».  Lo  scopo  di  Couvier  è  di  con- vertire le  verità  di  fatto  della  scienza  naturale,  in  ve- rità razionali  e  necessarie,  ciò  che  è  il  carattere  per  cui abbiamo  definito  la  metafìsica  apriorista. ^.  5.  La  classe  più  notevole  delle    uniformità  della natura    differenti    dalle    leggi  di    causazione,  di  cui  la metafisica  si  è  proposta  la  spieg^azione,  sono  certamente quelle  di  cui    abbiamo    parlato  sin    qui,  cioè  le    coesi- stenze dei    caratteri  che  sono    propri  a  ciascun    ii'enere di  esseri  reali.  Dopo  (jueste,  le  più    importanti  si  rife- riscono alla  costituzione  del  mondo  (del  cosmos)    consi- derato come  un  tutto.  La  spie.uazione  di  (questa  seconda classe  di    uniformità  —  in   quanto  è  un  ogg-etto  di   spe- culazione metafisica —  quando  si  ammette  che  il  mondo (il  cosmos)  ha  avuto  un  cominciamento  o  almeno  ch'esso ha  una  causa,  quantunque  non  anteriore  di  tempo,   si rapporta  alla  ricerca  delle  cause  efficienti  :  ma  essa  esce necessariamente  dal  dominio  di  questa  ricerca,  quando si  ammette  che  il  mondo  è  senza  cominciamento  e  senza causa.    In    questo  caso,    come  in    tutti  gli    altri  in  cui spiegare  non  significa  assegnare  la  causa  efficiente,  pare che  la  metafisica  non  abbia  a  sua  disposizione  che  due forme  di    spiegazione:  T  una  di  esse    cerca  la    ragione dei  fatti   nelle  cause  finali,  ma  senza   attribuire  questa finalità  della  natura  a  una  causa  intelligente  —  spiega- zione che,  senza    personificare    esplicitamente  le    forze della  natura,  contiene  tuttavia  una  specie  di  vago  an- tropomorfismo,  cercando  di   rendere  più    intelligibili   le operazioni    della    natura   con    assimilarle  a    quelle  del- l'uomo—:  T  altra  è  la  spiegazione  apriorista,  che  tende a  convertire  le  verità  positive  in  verità  razionali  e  necessarle  (1).  Così  sono  queste  le  forme  di  spiegazione metafisica  che  noi  troviamo  nella  cosmologia  di  Platone e  in  quella  di  Aristotile  (il  primo  di  questi  filosofi  am- mette, come  il  secondo,  che  il  mondo  è  eterno  e  senza causa  esteriore)  (2).  E  evidente  infatti  che  Aristotile  non pretende  soltanto  mostrare  come  il  mondo  è  fatto,  ma ancora  che  esso  deve  essere  fatto  così,  e  ciò  sia  perchè così  è  necessario  e  non  potrebbe  essere  altrimenti  (spie- gazione apriorista),  sia  i)erchè  così  è  il  meglio  (spie- gazione teleologica).  Come  esempi  marcati  della  prima forma  di  spiegazione  possono  citarsi  i  luoghi  in  cui egli  dimostra  :  cIh;  vi  hanno  tre  sorta  di  cor})!  semplici, e  non  ve  ne  possono  essere  di  più  (8);  che  non  vi  ha che  un  sol  moml  >,  e  sarebbe  impossibile  che  ve  ne  t'osse più  di  uno  (4;;  che  deve  esservi  più  di  un  movimento nel  cielo  (5i',  che  il  mondo  è  necessariaiiumte  sferico  ((ii; ecc.:  come  esenipi  della  seconda  forma,  quelli  in  cui spiega  perchè  il  cielo  si  muove  da  oriente  a  occidente  (7); perchè    le    stelle  sono    sferiche    (8);    ecc.:  In  quanto    a (1)  Noi  abbiamo  visto  ('(mio  nella  (h)ttrina  di  Ciivit^r  «h^lla eorrehizioiie  (leU(i  forme  la  s})ieiiazioue  apriorista  si  tVmde  con la  teleologica,  l'uà  fusione  di  queste  due  forme  di  sjueoazioue deve  ammettersi  pure  nelle  coneezioni  di  Platone  e  di  Ari- stotele sulla  connessione  tra  i  caratteri  delle  classi  naturali, poiché  la  loro  dottrina  sulla  definizione,  secondo  cui  le  proprietà possono  dedursi  a  priori  dall'essenza,  deve  conciliarsi  ctm l'importanza  suprema  che  il  i)rincipio  d(dle  cause  tìnali  ha  nella loro  tllosotia  conìc  mezzo  di   spiegazione. {2i   V.   Su]>plem.   i\    Il   [ntagorismo  nel  Timeo. (:^)  De  Coelù  1.  I.  II.  2-5  ed.  Didot,  IH.  7.  ('fr.  (ialileo Dialof/hì  sfii  massimi  sistemi,  giornata  ì>rima.    verso  il   principio. (4)  De   Coelo  l.    I.    IX. (5)  De   Coelo  1.    lì.    ili. (H)   De  Coelo  1.   II.   IV. (7)  De   Coelo  l.   II.   V. (3)    De  Coelo  1.    II.    XI. 588 Platone,  la  sua  spiegazione  del  eosuios  è,  se  8Ì  prende il  Timeo  alla  lettera,  una  si)ieo\azione  teleolog'ica  e teolo^'ica  :  ma  uuardando,  più  che  alla  lettera  del  Ti- meo, ai  |)rincipii  •>-enerali  del  sistema  delle  Idee,  si  vedrà chela  teleologia  platonica  è,  non  trascendente,  ma inuiianente,  e  che  essa  fa  parte,  come  un  momento  su- bordinato, di  una  s[)ie^azione  essenzialmente  apriorista, per  cui  r  ultima  rag-ione  delh;  cose  sta  nella  necessità, lo(''ica,  che  fa  si  che  esse  non  potrebbero,  senza  con- traddizione  .  essere  altrimenti  di  come  sono.  A  tal  fine bisoa'na  tener  presente: 1.  Che  il  Deminrii'o  del  Timeo  è  un  elemento  |)ura- mente  rapi)resentativo.  il  <juale  siml)o!e.ii\ii'ia  V  Idea  del Bene  :  per  conseg'uenza  la  fabbricazione  del  mondo  per opera  del  Demiura'o  rappresenta  questo  concetto  astratto, che  tutte  le  Idee,  e  quindi  le  cose,  i)roce(lono  dall'Idea del  I)ene. '2.  che  le  Idee  non  sono  fuori  delle  cose,  mn  nelle cose  stesse,  o  piuttosto  che  esse  non  sono  che  le  cose stesse  contenìi)late  siih  specie  aeterìàUitis  :  per  conse- guenza, l'Idea  del  Bene  non  è  che  la  leg'g-e  o  la  forma della  finalità  innnanente  nelle  cose  (ma  considerata, conformemente  al  realismo  del  sistema  delle  Idee,  non conn^  un  concetta»  astratto,  ma  come  una  realtà  concreta). :i  che  r  essenza  della  dialettica  platonica  consiste nella  identificazione  del  rapporto  ontologico  tra  la  causa e  l'effetto  col  rapj)orto  logico  tra  il  principio  e  la  con- seg-ut-nza  :  i)er  conseguenza  la  proposizione  clie  tutto procede  dall'Idea  del-  Bene  equivale,  nel  sistema  di Platone,  alla  proposizione  che  tutto  deve  dedursene. 4.  che  la  dialettica  platonica  è  un  metodo  dimo- strativo, che  stabilisce  le  Idee  a  priori:  per  conseg'uenza, neir  intendinuMìto  di  Platone,  deve  essere  stabilita  a priori,  dimostrata,  anche  T  Idea  del  Bene  (vale  a  dire l'esistenza  di  quest'Idea  e  quindi  della  legge  di  linalità interna  che  è  nelle  cose). 589  - Noi  dilucideremo  questi  punti  nel  capitolo  seguente e  nei  Supplementi  B  e  C  in  fine  del  volume. §.  i\.  Alcune  delle  uniformità  di  cui  abbiamo  fatto menzione  si  esprimono  con  una  proposizione,  il  cui soggetto  è,  non  un  genere,  ma  un  individuo,  come  : il  mondo  è  unico,  il  mondo  è  sferico,  ecc.  Ma  vi  ha anche  un  caso,  nella  metafisica  moderna,  in  cui  la  si)ie- gazione  apriorista  si  applica  ad  una  uniformità,  che  si esprime  con  una  proposizione,  che  oltre  ad  avere  il soggetto  individuale,  è,  di  ])iù,  non  attributiva,  ma esistenziale.'  Una  uniformità  o  legge  della  natura  con- siste generalmente  in  una  connessione  costante  tra  fe- nomeni :  tuttavia  .  se  vi  ha  qualche  cosa,  che  esiste,  e non  può  non  esistere,  in  ogni  tempo,  la  proj)osizione affermante  1'  esistenza  perpetua  e  necessaria  di  questa cosa  è  una  proposizione  in  qualche  modo  universale  ^ che  esprime  una  vera  uniformità,  una  legge  del  reale; e  questa  uniformità,  come  tutte  h^  altre,  esige,  se  non è  evidente  per  se  stessa,  una  s})iegazione  dal  metafìsico. Di  tali  ])roposizioni  esistenziali  ve  ne  hanno  due  nella filosofia  moderna:  una  del  materialista,  che  afferma  l'e- sistenza perpetua  e  necessaria  della  materia,  e  l'altra del  teista,  che  aft'erma  quella  di  Dio.  La  seconda  i)ro- posizione  non  aiferma  soltanto  un  oggetto  che  esiste costantenu^nte,  ma  che  esiste  costantemente  con  gli  stessi invariabili  attributi:  così  il  fatto  che  essa  aft'erma  nìe- rita  il  nome  di  uniformità  jdii  che  quello  aft'ermato  dàlia l)rima.  Più  importante  ancora  è  un'altra  differenza  tra le  due  proposizioni  ;  cioè  che  mentre  la  materia  e  la sua  persistenza  è  un  fatto  dell'esperienza  più  familiare, l'esistenza  di  Dio,  lungi  di  essere  un  fatto  familiare, non  è  nemmeno  un  fatto  dell'esperienza.  Ora  sono  sol- tanto i  fatti  che  non  sono  familiari  che  sollecitano  il metafisico  a  cercarne  una  spiegazione  :  è  perciò  cln^.  il materialista  non  cerca  la  ragione  dell'  esistenza  della materia,  ma  il  teista  cerca  quella  dell'esistenza  di  Dio. -t- Alla  quistione:  perchè  Dio  esìste?  non  può  rispon- dersi   assegnando  la  causa    efficiente,  perchè  Dio  è  la causa  prima;  e  nemmeno  la  causa  finale,  perchè  egli  è il  fine  ultimo.  La  sola  forma  di  spiegazione  applicabile in  questo  caso  è  la  spiegazione  apriorista,  che  consiste ad    elevare  i  fatti    a   verità  necessarie:   così  i  metafisici hanno  risposto  alla  quistione  con  pretese  dimostrazioni a  priori  dell'esistenza  di  Dio,  le  quali  hanno  per  oggetto di    mostrare,    non    solo   che  Dio  esiste,  ma  che  la  sua esistenza  è    metafisicamente    necessaria,  e  la    sua   non esistenza  metafisicamente  impossibile,  cioè  inconcepibìe e  contraddittoria.  Le  dimostrazioni  di  cui  si  tratta,  per corrispondere  all'uopo,  devono  essere    assolutamente  a priori,  cioè  non  devono  partire  da  alcun  dato  empirico, e  perciò  contingente  (per  esempio  l'esistenza  del  mondo o  quella  del  nostro  si)irito),  come  fanno  gli    argomenti a  posteriori,  sia  induttivi,  sia  dimostrativi  ;  poiché   in questo  raso  non  sarebbe  metafisicamente  necessaria  (vale a  dire  tale  che  il  contrario  sia  inconcepibile)  la  conclu- sione stessa,  cioè  l'esistenza  di  Dio,  ma,  semplicemente il  legame  tra  la  premessa  e  la  conclusione,  cioè  tra  l'e- sistenza del  dato  empirico,  da  cui  si  partirebbe,  e  quella di  Dio.  Per  conseguenza,  queste  dimostrazioni  non  de- vono   dedurre    1'  esistenza  di  Dio  da  quella  di    qualche altra  cosa:  infatti,  noi  potremmo,  a  rigore,   concepire una  dimostrazione,  la  quale  concludesse  all'esistenza  di Dio  come  metafisicamente  necessaria,  deducendola  dal- l'esistenza  di  un' altra  cosa,  ma  purché  l'esistenza   di quest'altra  cosa  fosse  anch'  essa  metafìsicamente  neces- saria; ma,  secondo  i  principii  del  moderno  teismo,  non può  esservi,  oltre  a  Dio,  altra  cosa  la  cui  esistenza  sia necessaria.    Le    dimostrazioni    dell'  esistenza  di  Dio   di cni  parliamo,  possono  tutte  comprendersi  sotto  il  titolo oenerale  di  argomento  ontologico  (1).  Quest'applicazione (1)   La  forina  più  celebre  deirargona  uto  outologieo  è  la  diiuo- strazione  di  Cartesio  di  cui  abbiaiiìo  parlato,  che  deduce  Pesisten- rnRtr-t.iMi-aK-iiiCgea 591 del  metodo  a  priori  ad  una  uiiifoiinità,  che  non  è  che una  semplice  proposizione  esistenziale,  è  il  termine  e- streino  a  cui  si  estenda  questa  induzione  incosciente, che    abbiamo    visto    essere    il    punto   di    partenza    della metafisica  apriorista. Il  successo  dell'aro-omento  ontoloo-ii-o  nella  iiietah- siea  moderna,  malgrado  il  carattere  evidentemente  so- fistico di  tutte  le  forme  di  quest'argomento,  sarebbe  in- comprensibile, se  esso  fosse  una  semplice  i>rova  dell'e- sistenza di  Dio,  e  non  al  tempo  stesso    una  soluzione, za  di  Dio  dal  coucetto  dciressen-  perfettissimo.  Unii  dimostrazio- ne identica  per  il  fondo  alla  eartesiam..  si  trova  già.  .•omo  tutti sanno,  in  S.  Ansel.no.  -  Un'altra  forma  dell'arKomento  «ntolojiieo può  formularsi  eosì:  Dio  >.  il  vero  essere,  l'essere  puro  e  senza  re- strizione: ma  è   imi.ossil.ile  e  contraddittorio  .-he   il    vero    essere non  sia;  Dio  dunque  uocessariamente  i'.  Questa  forma  si  trova  in S   Bonaventura  f/(».er.  m^r.  ;,-  i>*'»»H,- e.  3).   in   Malebranche  (v. Mie    della  ver..  ì.  4.  e.  ll.(,  in  Gioberti  (v.   Mr.    allo  si.  della filos.  Milano  1850  t.   1.  paji.  272;  e  efr.  p.  274.  2Hfi.  310-311.  e crii  altri  luoghi  delle  sue  opere  iu  cui    atferma    che    .1    «indizio VEnte  è  ft  analiticoì  -  Altre  forme  della  dimostrazione  a  priori deducono  l'esistenza  di  Dio.  non  dal   suo  concetto  o  essenza,  co me  le  precedenti,  ma  dai  suoi  attributi.  I.a  più  notevole  è  u.iella di  Clarke:  il  tempo  e  lo  spazio,  l'eternità  e  l'immensità,   sono delle  cose   necessarie  .    che  fe  impossibile  di   c.ncepire    che    non esistano;  ma  queste  cose  sono  degli  astratti,  che  suppongono  un essere  concreto  in  cui  ineriscano  come  attributi  .   e  questo  non può  essere  che  Dio;  dumpie  l'esistenza  di   Dio  è  necessaria  (V. Tratt.  dell'esist.  ecc.  e.  4,   pag.  20-26,   Framm.  d'um,  W«.  pag. 164  -  16.5.  ecc.;  Allo  stesso  tipo  di  dimostrazione  a  priori,  dedotte, come  questa  di  Clarke.  da  un'appartenenza  di   Dio.  e  non  «lalla sua  essenza  (e  aventi  per  eggetto  di  stabilire    la    necessità  me- tafisica dell'esistenza  di  Dio),  possono  ricondursi  «luella  di   Ro- smini fondata  sella  necessità  dell'essere  ideale  e  la  sua  inerenza iu  Dio  (N.  S.  sulVorig.  delle  idee.  n.    14.-ì8  e  1460J.  e  quella    di Mamiani  fondata  sulla  realtà  delle  verità  eterne  e  la   loro    ine- renza ili  Dio.  (V.   Uonfe.is.  d'vn   metaf.  v.   I,  1.   1.  e.   11). 592  — l'unica  iimnag'iiiabile,  (|uantuu(|iie  illusoria,  d'  un  ju-o- blema,  che  si  presenta  naturalmente,  se  non  inevitabil- nunite,    nella    moderna,  filosofia  teologica  (1).  Lo  stesso (1)  KsMit.  <nijiiitmH|U(^  tni  uli  ar^oiucnti  (liiiMJstnnivi  della esistenza  <li  Din  tum  tr<>\'i  naturale  (the  il  cosiuolo^ico.  e  clnaiiii r  oiit<)lou,i(.M»  una  s(Mnpli(M^  iiiuuvazioue  dello  spirito  sc(da>ti«*o  . pure  dice  :   «  f^a   ueeessitsi   assoluta  è  il  vero  abisso  «Iella  l'ai^iouc^ iiinaua Non   possiamo  difenderei  dal  ])ensìero  seguente  u^ s(»]»portarIo.  che  un  cssen*  che  noi  ci  iap})resentianio  eonu'  il  i»ifi elevat<>  di  tutti  :j.li  esseri  p«>ssi\>ili  .  <liea  in  qualehe  soi-ta  a.  se stesso  :  io  sono  da  un'eternità  all'altra:  niente  inni  esiste  tu(>ri di  ine.  <'ln'  piM-  mia  volontà;  ììin  domtr  sono  io  dmif/itr  i  »  i/)if(ìetti trusmuf.    1.   2.   e.   '^.    sez.   5). Ilartinann  :  «  Alcuna  iilosotia  non  può  oltrejiassare  la  So- stanza (die  è  al  tornio  di  o^ni  esistenza;  noi  <'i  troviamo  <jui  in ]U'esenza  del  problema  ]>rimitivo.  il  quale  è  di  sua  natura  inso- lubile.   La   terra    riposa   suU'idei'ante.    1' elefante   sulla  tartaru.Lia: ma  su  cdie  ripos.-i  hi  rartarniia  i (Mie  si  eonsi<leri  come  l'ul- tinio  i»riu<-i|no.  sia  il  Dio  jiersonale.  siji  la  Sostanza  <li  Spimiza, sia  rid«'a  o  la  Volontà,  sia  rillusiom*  sub])iettiva  o  la  materia: non  n«'  ie>ita  iimmio  stalulito  eln'  nna  sostanza  ultima  esiste  eoi suoi  attrilniti.  Mu  donde  viene  elie  essa  esiste  .  e<l  <'siste  con o  questi  caratteri  propri,  poieliè  niente  non  viene  da  niente  (  Vn Dio  ])eisonale  diverr(dd»e  pazzo;  o.  se  jiotesse.  si  darcddx'  la  morto india  sua  disperazione  di  non  pt»ter  risolvere  reni.nnia  «bdl'eter- nità   sostanziale,   (di'eijli   troverebbe   in  se  stesso.   <'<mn'    data    in- dipendentenu'nte   dalla   sua     v<dontà   e   dalla   sua   e«>seienza L(>  sjurito  umano  è  senza  dubì)io  trojipo  grossolano  e  tr(»]>]>o basso  jH'i-  mni  aìdtuarsi  prontamente  al  ))iù  grande  dei  misteri (die  r  iiivilui>i>aiio  .  jn'r  non  ('(mteiitarsi  di  porre  esattamente  il problema  senza  cercare  di  risolveido»  (Filf)x,  delV  hwose'inìte  3. ])arte.    XW   (ili   ultimi   i>rinci])ii.   n.  \). N(d  abbiaim»  ^ià  riterito  un  luo^o  di  (ijilluppi,  (die  aiiiiiiett(^ (die.  se  noi  c(Mioscessinio  l'essenza  di  Dio.  potremnn»  dedurne,  a, prioi'i.  la  sua  esistenza:  e  un  altro  di  d'Alemlx^rt.  (die  vede  nella ([uistione  d(d  iK'rehì'  deir(\sist(;uza  (Ud  primo  essere  il  problema capitale  da   cui   dipendono  tutti   ujli   altri.   A.i;;i;iuii.i»ianio  (he  tutti I lÉ^*-' 59; fjSo titolo  di  dimostrazione  a  priori^  con  cui  quest'ariiomento veniva  desìf>'nato  «quando  il  senso  della  parola  a  pi-io  ri non  era  ancora  quello  attuale,  c'indica  chiaramente  che esso  è  stato,  sin  dall'inizio,  compreso  come  un  ragiona- mento che  non  prova  semplicenKMite  che  Dio  esiste,  ma fa  vedere  inoltre  la  rag'ione  perchè  e<idi  esiste:  si  sa  in effetto  che  <>-li  scolastici  chiamavano  a  jn-iori  la  dimo- strazione che  provava  un  fatto  per  la  sua  causa  (il  ter- mine causa  essendo  usato,  come  abbiamo  visto,  dai  pe- ripatetici in  un  senso  lato,  in  cui  poteva  comprendersi pure  la  rag'ione  dell'esistenza  d'una  cosa,  (iuantun(jue questa  ra*>'ione  noti  fosse  una  causa  jirop  ria  mente  detta). L'  anolog'ia  della  rag'ione  a  priori  per  cui  si  dimostra l'esistenza  di  Dio,  con  la  causa,  è  stata  sfiinta  ancora più  innanzi  nella  metafisica  mod(M-na,  in  cui  —  ed  (i  ciò che  prova  della  maniera  [)iù  palpabile  (|ual(*  sia  il  mo- tivo e  lo  scopo  dell' a  rg'o  mento  ontologico  —  alcuni,  e dei  [)rincipali,  tra  i  fautori  di  (juest'arg'omento  affermano netttamente  ch(^  la  ragione  «  y^y/o/v' dell'esistenza  di  Dio è  la  cuttHCi  di  (juesta  esistenza.  Secondo  Cartesio,  si  deve domandare  di  Dio,  come  d'  ogni  altra  cosa  esistente, qual  è  la  causa  per  cui  egii  esiste;  e  Dio  fa  in  (lualche modo  riguardo  a  se  stesso  ciò  che  la  causa  (efficiente riguardo  all'effetto  (1):  e  quantuncjue  egli  non  emetta quest'  affermazione  a  proposito  dell'  argomento  ontolo- gico, non  può  esservi  dubbio  ch'egli  non  abbia  di  mira i  tilosoli  che  inii)iej;an(>  rar<;(unento  <'osìno/o</i<'o  ((die  con(dud(*- dagli  esseri  eonfinf/cnfi.  i  (piali  non  hanno  in  se  stessi  la  ragione (hdla  loro  esistenza,  un  (essere  ne^'cssario  il  (piale  ha  in  se  stesso la  laj^ioiie  della  sua  esistenza).  arg(miento  (die  molti  riguardano come  la  base  priiKdjiale  del  teismo,  ammettono,  implicitamente  o |)ure  esplieitamente.  (die  vi  ha  un  pendii'  «bdl'esistenza  di  Dio. (1)  V.  Nisfìosfe  alle  See.  ohhiez.  X.  1  pa-.  MS  -  :^S^^.  :i!i:M^!>4, t5S,     e    ffisp.   (d/r   (^latrtr  ohhicz.,  t.   2  iiag.   «M-74. 594 r  analo^^-ia  tra  la  ragione  per  cui  si  dimostra  Dio  a priori  e  la  causa  efficiente.  In  effetto,  come  schiarimento €  difesa  contro  le  obbiezioni  che  gli  vengono  mosse, dice  :  che  Dio  è  per  sé  come  per  una  causa  formale,  ma può  riguardarsi,  in  un  senso  analogico,  come  causa  ef- ficiente di  se  steso,  per  il  gran  rapporto  che  vi  ha  tra la  causa  formale,  cioè  la  ragione  presa  dall'essenza  di Dio,  e  la  causa  efficiente  (li;  che  la  proposizione  che Dio  è  per  se  come  per  una  causa  (e  non  come  :  senza causa)  d(^ve  intendersi  in  ([uesto  senso,  che  l'essenza  di Dio  è  tale,  che  è  impossibile  che  egli  non  esista  sem- pre (2),  e  che  non  ha  bisogno,  per  esistere,  di  una  causa esteriore  (3);  e  che  la  causa  o  la  ragione  per  cui  egli esiste  da  sé,  e  non  ha  bisogno,  per  esistere,  di  una causa  esteriore,  è  Viinmensltà  della  sua  essenza  (4)  (non bisogna  dimenticare  che  l'argomento  ontologico  di  Car- tesio deduce  V  esistenza  di  Dio  dal  suo  concetto  o  es- senza di  essere  infinito  in  cui  tutte  le  perfezioni  devono essere  comprese  (5)).  Spinoza,  dando  una  forma  rigida- (1)  V.    l^isp.  (lìlr   (,h(t(rtf.  ohbiez..  t.  2.   puj;.  (>2-7l. (2)  V.   Jiisp.  ((Ih'  Sci',  ohhicz,   t.   1.   p.  1^80. (8)  V.   Kiap.  (illr   Oiutrtr  ohbiez.,  t.  2.   p.  (>5-l>8. (4)  Risp.  itili'  Sei'.   Ohhii'z.,   t.   1.   pajj.  4o<S,   Jlisp.  nlle    i^iarte ohhiez,  t.  2.  <»1.  <i2.  <>S. (5)  Cartesio  dà  pure  mi  altro  scliiarinìciito  alla  proposizione che  Dio  t'  [ìiT  s«^  i'oiiìc  per  ima  causa;  vìoh  che  la  causa  per  cui Dio  ^.  e  continua  senii»r<'  ad  essere,  è  l'imniensitiì  della  sua  pò tenza  (V.  Hiapoata  nlh-  Sn-.  Ohhiez.,  t.  l.pag.  879,  882.  888. 385,  ecc.) Questo  concetto  potreì»l»e  sen)l)rare  senza  connessione  con  l'ar- goniento  ont<do<;i<(>  :  ma.  per  fortitìcare  quest'argomento,  ej^li dice  appunto  (nella  stessa  Risposta  alle  Sec.  Obb.  t.  1.  pa«;.  894) che  neir  idea  di  un  essere  sovranamente  possente  h  contenuta l'esistenza  necessaria,  e  che  considerando  1'  infinita  potenza  di (piest'essere.  noi  conosciamo  cire<iii  può  esistere  per  la  sua  pro- pria forza,   e  di   là   possiamo)  concludere  elio  realmente  ej^Ii  esiste. —   595  — mente  dommatica  al  concetto  cartesiano  (che  era  nell'ar- monia più  perfetta  con  lo  spirito  della  sua  propria  fi- losofia),  chiama  Dio  la  causa  di  sé,  e  comincia  l'Etica con  questa  definizione  :  Per  causa  di  se  intendo  ciò  la cui  essenza  racchiude  1'  esistenza,  o  ciò  la  cui  natura non  può  concepirsi  senza  che  si  concepisca  esistente. I.eibnitz,  come  abbiamo  visto,  dopo  avere  stabilito  che non  vi  ha  niente  di  cui  non  sia  possibile,  a  chi  cono- scesse abbastanza  le  cose,  di  assegnare  una  ragion  suf- ficiente,  propone  come  prima  quistione  ;  perchè  vi  ha qualche  cosa?  quistione  a  cui  risponde  che  la  ragion sufficiente  dell'  esistenza  di  Dio  si  trova  in  lui  stesso, quella  dell'esistenza  delle  altre  cose  in  Dio;  e  senza dubbio,  egli  non  sarebbe  stato  alieno  dall'  ammettere che  la  ragione,  per  cui  dimostrava  a  priori  T  esisteìiza di  Dio,  era,  non  solo  la  ragion  sufficiente,  ma  la  causa^ di  quest'esistenza,  perchè  egli  identifica  in  generale  la ragione  a  priori  con  la  causa  efficiente  (1).  Secondo Clarke  infine  la  necessità  assoluta  di  esistere  che  è  in Pio— la  quale  consiste  nell'  impossibilità  di  negare  Dio senza  un'espressa  contraddizione  (2) — è  il  fondamento su  cui  l'esistenza  di  Dio  è  poggiata  (8),  la  ragione  che lo  determina  ad  esistere  piuttosto  che  n  non  esistere  (4), ed  esiste  semiire.  Ciò  è  evidentemente  una  su.i;\u.('stioue  del  <'on- cetto  i)recedente,  e  ])otrebbe  ri,iz;uardarsi  come  una  variante  del- l'ariiomcuto  ontolo<i;ico. (1)  •'  Quejili  che  prova  una  cosa  a  priori  ne  rende  ragione ])er  la  causa  etìiciente  ..  {Disc,  tlel/a  riHifonn .  th-Ua  fede  ìoh  hi rui/.,   59)  V.   pure  il  luogo  citato  nel   ^  8.   nota   (2)   a   pa^.    (577). (2)  Tnttf.  delPesist.  e  ilet/li  ntlrih.  dì  Dio.  <•.  1  (Opere  filrts, trad.   frane,   ed  laecpies.   ])a^.  21j. (8)  Ihid.,  e.  2  pa.n".  18.  e.  4.  pa-.  2n.  Frunun.  d'una  lettera jiaj;.   102,    LeAt.  n  un  eeelesiu.sf.,   pai;.    1S1-1N2. (4)  'Tnitt.  dtlVcHÌst.  ecc.,  e.  2  p.  18.  e.  I  p.  211.  Fruuntt.  di una  leti.,  pa«;-.   Ifi2. mi la  causa  interiore  delia  sua  esistenza  (1);  questa  neces- sità assoluta  dell'  esistenza  di  Dio  è  anteriore  alla  sua esistenza  stessa,  non  anteriore  di  tempo,  ma  di  natura, perchè  la  necessità  di  esistere  non  presuppone  l'esistenza, ma,  al  contrario,  V  esistenza  è  una  conseguenza  della necesità  di  esistere  (2). I  fautori  dell'argoiìiento  ontolog-ico  che,  come  Ar- nauld  (3)  e  Gioberti  ^4)  hanno  protestato  contro  questa indentificazione  della  ragione  con  la  causa,  convena'ono tuttavia  sul  t'ondo  della  (juistione,  perchè  ammettorm che  la  dimostrazione  a  priori  dà,  non  solo  la  prova dell'esistenza  di  Dio,  ma  anche  la  ragione  che  spiega perchè  Dio  esiste.  Ora  è  a  (juest'idea  che  si  riducono le  proposizioni  precedenti  di  Cartesio  e  degii  altri,  sve-stendola dell'in vilupi)0  metaforico  in  cui  è  contenuta  :  è evidente  infatti  che  nessuno  di  (juesti  hi  oso  fi  ha  iden- tificato rPdlmente  la  ragione  con  la  causa  ;  perciò  avreb- bero dovuto  riguardare  l'essenza  di  Dio  (Cartesio)  o  la necessità  assoluta  (Clarke)  come  delle  cone  realmente distinte  dall'esistenza  di  Dio  ed  esistenti  per  se  stesse; ma  lo  stesso  Spinoza  non  si  sping*e  sin  là.  perchè, quantuiKjae  la  sua  filosofia  sia  fondata  sulla  realizza- zione dei  concetti  astratti  e  l'  obbietti  vazione  dei  rap- porti logici    tra    questi  concetti,  egli  non   i)uò  supporre (1)  Tru/f.  ^fr/!'rsisf.  ecc.,  e.  3  pMu.  17,  /><•//.  (t  un  eeclesiaHt. piiii.  1^1.  <'<(•.  Jnoltrc.  Dio  (^  <lctto  cjiiisa  dell'esistenza  di  se stesso,    (c.   J)   p.    II)). (2)  Trnft.  tee.  v.  i  paji.  19,  Fritinm.  d'unti  lett.  p.  1(12,  ltj3, Lett.  il   tnt   t'i'cU'sìiist .   p.    IS2. (:^)   V.   Opere  ai    Descartes  ed.   Cousiii.   t,  2  p.   27-2S  ((Quarte obl>Ì('ZÌ(HlÌ). U)  V.  Infroflx:.  allo  studio  drlhi  fiJos.,  t.  l  notti  ♦)2—,  ed.  Mi- lano I.S50  )»a--.  trit-t.^ó.  Cfr.  iòid.  jkijì.  2M!».29().  tJrr.  nios.  di  A, Rosmini.    Hnisselle    iStS   t.    1   ]>a,u.   :^()4-S()r),   ecc. -    597   — un  principio  realmente  anteriore  al  principio  primo  del suo  sistema.  È  vero  nondimeno  che  questi  filosofi  pren- dono in  un  senso    troppo   realista  le  loro  proprie  meta- fore, scambiando  una  vaga  analogia  con  una  vera  iden- tità :  ciò    mostra  quanto    sia    naturale  di  confondere  la ragione  a  priori  con    la    causa    efficiente;  è  una  confu- sione simile  a  quella  che  facevano  gli  aristotelici  quando riguardavano  l'essenza    come    la    causa    efficiente  delle proprietà.   Sono    dei     fatti    propri    a    spargere    (pialche luce  sull'origine   dei  sistemi    di    cui    tratteremo  nel  ca- pitolo seguente,  i  quali,    come    vedremo,    sono    fondati sulla   identificazioìu\    nel    senso    più    rigoroso,  del   rap- porto fra  il  principio  e  la  conseguenza  e  (piello   tra  la causa  e  l'effetto.  In  compenso,  quella  specie  di  vago  e inconscio  realismo  che  è  nelle   proposizioni    precedenti, in  cui  r  essenza  e  la  necessità  assoluta  sembrano  trat- tate come  delle  cose  anteriori  all'esistenza  io  agli  attri- buti, nelle  proposizioni  dei  peripatetici),   che  i)roducono l'esistenza    vO  gli    attributi),    riceverà  della    luce,  alla sua  volta,    dal    realismo  franco    (^    deciso    di    (luesti  si- stemi (1). (\)    Non    ]K)ssiani<>    lascijire  <picsto    so^jjjetti».    senza    far  men- zione di   nna   <l(»ttrina.   che  i^  nna  conse«-nenza,  «piantunqne   indi- retta.   deiraniniÌ!^sione   «leirarL-oniento  ontolo;iii'o.  (Quando  il    nie- tatisico    vnol    rendersi  conto    della    presenza    delle    conoscenze  a ])riori,   ch'e-li   ammette,   md   nostro  s]drito.  sijie-are  .[nesta  cidn- cidenza  tra  il  pensiero  e  la  realtà,   la  s(dnzione  natnrale  che  olisi   i)resenta  «lei  problema  è  che  queste  conoscenze  risnltano  dal- l'intuiziom-   immediata  dell'  intelli-ibile,  come  la  com»scenza  spe- rimentale da  (iuella  del  sensibile:    e    una  delle    forme  più  ordi- narie che  prende  la  dottrina    dell'  intuizione    razionah-  e  (pudla dell'intuito  di   Dio  e  delle  verità   in    Dio.   Questa   dottrina.   jKjr quanto  parad(»ssastica.    non  ha,  niente  tuttavia,   per  quel   che   ri- guarda le  conoscenze  a  priori  in  neuerale,   clu;  sia   direttamente Tn  contraddizione  coi  fatti,  tranne  che  queste  conoscenze,  ch'essa -  598 prcteiuli*  a  [)ri  »ri  e  (lat(^  da  mi  intuito  immanente,  evidentemente non  sono,  eome  essa  deve  ammettere,  eontinuamente  j)resenti  al nostro  pensiero.  Ma.  per  quel  che  rij^uarda  la  co)ioscenza  di  Dio, si  aj[»\u;iunu;e  nna  contraddizione  con  l'esperienza  [»in  fla<;rante ancora  :  e  le  stranji  teoria  psicoloijiea  implicata  in  <piesta  dot- trina, che  r  esistenza  di  Dio  e  una  verità  intuitiva  .  cioè  evi- dente per  se  stessa  e  che  non  lia  bisogno  di  essere  provata.  É in  «juesta  teoria  che  noi  vediamo  una  conse<»;uenza  dell'ammis- sione deirariifomento  ontolojLiico.  E  in  effetto  le  torme  i)iiì  or<li- narie  e  più  phnisihili  di  <iuest'ar«^omento  deducono  Fesistenzii  di Dio  dal  suo  concetto,  e  ne  la  deducono,  non  introducendo,  cmne altre  i)remesse,  delle  proijosizioni  sintetiche,  ma  i)er  una  semplice analisi  di  ([uesto  concetto,  che  i)retende  mostrare  che  non  si  può, senza  contraddizione,  disniiiniiere  dall'idea  di  Dio  ([uella  dell'e- sistenza, e  coni;inni;ervi  inv<'ce  «quella  della  non  esistenza.  In  al- tri termini,  l'ari^omento  suppone,  coni'.*  hanno  ricosciuto  e  incul- cato ([uelli  ch(5  lo  hanno  ])roj>osto,  che  il  concetto  di  Dio  rac- chiude (luello  della  sua  esistenza  :  ma  se  è  così,  come  ben  osserva (TÌ(d)erti  yTììtrod.  tomo  1.  nota  51)  pag-.  442).  la  voce  Dìo  eiiuivale alla  proposiziont^  I)i<t  e  e  l'idea  comprende  il  lijiudizio.  e  allora  l'ar- «^omrnto  ont(doa;ico  non  è  ]>iu  unji  dinn^strazione.  ma  soltanto  la costatazione  di  questo  tatto,  che  è  impossibile  di  conc(q)ire  Dio (di  concepirlo  d'una  maniera  chiara)  senza  concepire  al  tem')0 stesso  ch'ejili  esiste  ed  esiste  necessariamente,  e  l'esistenza  di  Dio da  teon^ma  diviene  assioma.  Lo  stesso  Cartesio  è  costretto  qual- che volta  a  convenirne:  così  nelle  sue  Hajjjioni  che  provano  l'e- sistenza di  Dio  ecc.  dis})ost(^  d'  una  maniera  geometrica,  vi  ha questa  domanda  :  «  In  quinto  luogo  io  domando  che  si  fermino lungamente^  a  contemplare  la  natura  dell'essere  sovranamente perfetto;  e  tra  altre  cose  che  essi  considerino  che  nelle  idee  di tutte  le  altre  nature  l'esistenza  possibile  si  trova  bene  contenuta^ ma  che  nell'idea  di  Dio  non  h  solo  un'esistenza  l)ossil)ilt^  ch(^  si trova  contenuta,  ma  un'esistenza  assolutamente  necessaria.  (Ciò è  riguardato  da  C'artesio  conu'  una  verità  assiomatica.  V.  nelle stesse  Kagioni  ecc.  l'assioma  10).  Perchè  da  ciò  solo,  e  senza  alcun ra<iìona  ine  èlio,  essi  conosceranno  che  Dio  esiste:  e  non  sarà  loro meno  cliiaro  e«l  evidente,  senz'altra  prova,  che  è  manifesto  che due  è  un  luimeru  pari  ti  che  tre  è  un  numero  impari  e  cose  si- mili. Perchè  vi  ha  delle  cose  che  sono  così  conosciute  senza  proce __  599  - _ —    j da  alcuni,  che  altri  non  intendono  che  per  un  lungo  discorso  e ragionamento».    (Risposte    alle    seeonde    obbiezioni.   Opere,    t.    1. p.  45H).   Senza  dubbio,   questa  conseguenza   dell'argomento  onto- logico, che  l'esistenza  di  Dio  è  una  proposizione  identica  e  <iuindi una  verità  evidente   per  se   stessa  .    quantunque   logicamente  ti- rata,   è  una    di  «quelle   conseguenze   estreme  di  certe  teorie,  che lunoi  tli  sembrare  giustiticate  dal  principio  da  cui  sono  dedotte, non  sono  proprie  che  a  mostrare,   d'una   maniera    ])iìi   pali>abile. l'assurdità  di  ([uesto  princi])io  :    ma  io  non  pretendo  che  la  dot- trina che  l'esistenza  di   Dio  è   una   verità  evidente  per  se  st(\ssa. sia  un  seguito  naturale  dell'argomento   (Mitologico,  ma  solo   che essa   pare   meno    strana,    (juando    si    considera    in    relazione  con quest'argonn^nto. avrebbe  sembrato (cioè  nelle  scienze e  al  buon  pisciare pi  ricerba pag.  i3  lin.  2 sarebbe  sembrato p.  17  lin.  5 (cioè  delle  scienze p.  18  lin.  16-17 e  al  l)uon  piacere p.  29  lin.  8 si  riserba p.  38  lin.  1 ma  un  modo  essenziale  ma  il  modo  essenziale p.  42  l.  12-13  nota e  tutti  gli  altri  esseri  che  si  con-       (e  tutti  gli  altri  esseri  che  si cepiscono  sul  tipo  di  essa  concepiscono     sul    tipo     di essa) p.  43  1.  penult. L'antropomorfismo  da  capo p.  69  1.  quintult.  testo si  unice  5i  ""'^^^ p.  181  1.  23 del  cosmos  e  la  forma  del  cosmos  è  la  formo p.  195  1.  quintult.  testo necessita  di  tener  conio  necessità  di  tener  conto p.  227  l.  17 evidente  intrinseca  evidenza  intrinseca. p.  99  bis  n.  1,  l.  8 la  aggezza  assoluta  la  saggezza  assolup.  102  bis  lin.  ult. Rem.  scivntif.  ^e^-  scientif. p.  103  bis  n.  1,  1.  1 pag.  160-161.  Pa&-  ìGO-161), p.  105  bis  n.  4,  1.  sestult. Ibu-al-Awàm  Ibn-al-Awam p.  106  bis  1.  ult.  testo di  questa  spiegazione  quella         di  questa  spiegazione  -  quella p.  HO  bis  n.  1,1.  l Phvsicall  Physica  hll —  750 p.  Ili  bis  1.  terzult.  testo Erastito  Eraclito p.  i{2  bis  1.  12  testo dall'anima  degli  astri  deiraniina  degli  astri nota  lin.  1. 1.  1.  Taziano  1.  I).  Taziano p.  1i5  bis  1.  28 della  loro  potenra  della  loro  potenza p.  118  bis  1.  26-27 sui  fatti  obbiettivi  nei  fatti  ol^biettivi p.  119  bis  1.  9  testo sull'argomento  nell'argomento 1.  ult.  note De  anima  I.  II.  De  anima  l.  I.  e.  II.  6 p.  120  bis  1.  9  testo la  sensilità  e  il  pensiero  la  sensibilità  e  il  pensiero n.  1.  1.  1 125-126  126-127 3  ecc.  380,  ecc. n.  2 Teof  farlo  Teofrasto n.  3 Placita  IV.  4,   Arist.  De  an.  I.       Placita  IV.  IV.  4,  Arist.  i;e  ; li.  1,  12  1.  IL  3  e  12 p.  121  bis  1.  5 Van  Ilelmont  i  Van  Helmont p.  122  bis  n.  3  e  4 V.  Organo  N.  Organo p.  125  l)is  1.  15 Baerhaane  Boerhaave 1.  20 pseudonismo  pseudonimo p.  127  bis  testo  1.  penult. di  sottomettere  di  sottomettersi 1.  ult. e  di  formare  e  di  formarne, p.  128  bis  n.  1 Estermann  Eckermann p.  130  bis  1.  10 eccitazione  da  una  parte     -  eccitazioni  da  una  parte 1.  25 sulla  formazione nella  formazione 751  — p.  132  bis  1.  15 che  può  condursi  che  può  condurci p.  142  bis  1.  16 essere  assoluto  Tessere  assoluto p.  148  bis  n.  4,  1.  ult. Stahl  observe  Stahl.  observ. p.  151  bis  n.  3 Monadol.  1.  64-65  Monachi.  64-65 p.  152  bis  1.  4 corpi  organici  (1).  Qui  corpi  organici  (1)-.  Qui p.  153  bis  nota  1.  2 6  marzo  !«  marzo p.  154  bis  1.  1 ti  (1)  è  ti)  (l)  è n.  3 Gfr.  al  />.  De.^-Bosses  17  marzo       EpUt.alp.  Des-BossesW  marzo p.  159  bis  1.  15 assolutamente  i  parti  assolutamente  di  parti 1).  160  bis  n.  3,  1.  2 (Dut.  II.  I.  46>,  Resp.  (Dut.  II.  1.46),  Monadol.  2,  Resp. p.  16a  bis  n.  2 sire  insita  '  sire  de  ci  insita p.  167  ])is  nota,  1.  15 confusa  dell'universo  il  confusa  dell'universo)  il p.  169  bis  1.  2  testo una  teotia  una  teoria 1.  2  nota non  semina  da  ciò  non  segua  da  ciò p.  172  bis  1.  1 mistero  relè  mistero  reale 1.  13 forza  richiedente  forza  risiedente p.  173  bis  1.  12 quella  cis  insita  ({uesta  cis  insita 1.  22. è  una  volta  entrata  è  una  volta  entrato p.  177  bis  note,  1.  1 in  nota.  Ciò  però  in  nota) -Ciò  però 1.  3 in  seguito).  in  seguite. p.  179  bis  1.  8-9 hanno  sensazione,  ma  non  nel       hanno  sensazioni,  ma  non,  nel senso  stretto,  senso  stretto,  1.  12 non,  vi  ha  in  esse  non  vi  lia  in  esse p.  194  ì)is  ì.  18 come  la  reale  come  reale p.  195  bis  n.  4  1.  0-7 interno:  (.bid.  nota  27,  nota  24,       interno  (v.  ibid.  nota  27,  noto artic.  4,  ecc)  è  24.  artic.  l,.  ecc.):  è p.  201  bis  1.  21 da  queste  conformità  da  queste  uniformità p.  203  bis  1.  12 i  fenomeni  appariscono  i  fenomeni  ci  appariscono p.  213  bis  1.  quortult. reffetto:  Kant  retfetto;  Kant p.  214  bis  1.  0 sia  «che  facciano  sia  che  facciano p.  216  bis  1.  9 connexio  recam  ronnervio  reram p.  230  bis  1.  sestult. ha  due  fatti  tra  due  fatti [).  234  1.  27-28 Idea  filosofia  della  niosofia 1.  29-30 necetralizzare  neutralizzare p.  272  1.  19 tal  ettetto  ""  ^al  effetto p.  280  1.  16 e  di  assegnare  è  di  assegnare 1.  231.  distolsero  I'  distolsero p.  281  1.  14 L'alternativa  è  inevitabile  L'alternativa,  secondo   lui.   è dunque  inevitabile p.  285  n.  1,  1.  6 che  sanr  che  sarà p.  291  1.  26 ci  tratterebbe  si  tratterebbe p.  292  1.  18-19 ma,  evidente  "la  è  evidente p.  307  1.  1 III  Noi  abbiamo  >  Noi  abbiamo p.  308,  nota,  1.  3 non  magis  nos  magis 1.  4 debat  d.^beat i p.  311.  nota,  1.  0 È  cosi  in  genere  È  così  in  generale p.  312  1.  ult.  testo L'attrazine  L'attrazione p.  315,  nota,  1.  8 dall'infanzia  dell'infanzia p.  320,  nota.  1.  2 di  (juesta  di  filosofia  di  questa  filosofia p.  322,  nota,  1.  27-:^8 caduta  del  corpo  primitivo  caduta  del  corpo  primitiva p.  329  1.  1 Qualunque  la  filosofia  Quantunque  la  filosofia p.  335  n.  2,  1.  13-14 in  rjue.^to  modo  in  qwesto  mondo 1.  ult. la  successone!  1»  successione p.  346,  nota,  1.  20 10  possa  o  lo  sappia  lo  possa  e  lo  sappia p.  349  n.  2  1.  1 Tvndall  II  Tyndall p.  350  1.  6 dove  sembrava  allora  doveva  sembrare  allora p.  374  1.  21-22 questa  inferenza  questa  inferenza p.  384  nota 96  e  seg.  96  a  e  seg. p.  385  l.  4 dalla  nostra  affermazione  della  nostra  afi^ermazione p.  390  1.  t che  e  si  suppongono  che  si  suppongono p.  407  1.  24 ^6  §  '^> p.  415  l.  27-28 11  ministero  ^^  mistero p.  419  1.  3-4 metaempirico  o  metafisico  metaempirico  e  metafisico p.  422  n.  1  l.  1 Harcllton  Hamilton p.  423  1.  sestult. K  E  ancora  E  ancora p.  432  1.  1  note dei  enunciati  d'enunciati p.  438  l.  9 l'oggetto  della  scienza  loggetto  di  questa  scienza ->-  754  — p.  441  1.  10 che  ci  sono  i  più  familiari  che  ci  sono  le  più  familiari p.  443  n.  1  1.  2 (t.  11 1.  3 Sec.  obì)iez. p.  451  1.  15 restando  la  stessa p.  453  1.  17 (cioè  quali  sono p.  457  1.  7 di  setpienze  invarial)ill p.  4<)4  1.  ult.  testo poterlo  presentare p.  469  8  4  1.  1 di  Descartes p.  482  n.  2.  1.  4 non  potendo  esserne p.  485  n.  3 e.  !).  5^  2 p.  491  n.  4  1.   2 e.  9  f^  12 p.  494  1.  11 aggiungerne  delle  altre nota  1.  4-5 principio  generale    - p.  495  1.  21 parti  insensibili p.  509  1.  20 tra  le  idee  stabilita p.  529  1.  8 abbiamo  la  minima  atìinità  abbia  la  minima  aflìnitn p.  540  1.  4 di  cui  essa  deriva  da  cui  essa  deriva p.  540  n.  3,  1.  8 si  sappia  io  sappia p.  549  1.  3 la  segregazione  d),  la  segregazione  (1)), p.  557  1.  5 di  prova,  quantunque  non  u-       di  prove,  quantunque  non  u- gualmente  convincente  gualmente  convincenti p.  506  1.  31-32 le  altre  potrebbe  esserne  de-      le  altre  sono  per  ciò  slesso  da- (jotte  te,  e  possono  esserne  dedotte, o  potrebbero  esserne  dedotte et  11 Lee.  obbiez. restando  lo  stesso (cioè  qual  sono di  sequenza  invariabili poterla  [presentare di  Descares non  potendo  essere e.  3.  § 9,  e.  9  §  12 aggiungere  delle  altre principio,  generale parti  sensibili tra  le  idee  stabilite ^DD p.  568  1.  5-6 conosciuti  e  conoscibili  conosciuti  o  conoscibili p.  571,  nota,  1.  8 che  abbiamo  che  abbiano 1.  12 l'altro  no  ^  l'altro  no p.  573  1.  14-15 le  proposizioni  le  prenozioni 1.  20-21 evidente  intrinsecamente  o  evi-       evidente  intrinsecamente  o  per dente  per  se  stesso  ^e  stesso n.  3  1.  1 (cfr.  I.  11  (13  14) cognoscantar ne  dà  spiegazione Top.l.  IV.  (8), bisogna  ammettere propri  della  specie in  questo  soccorso necessità,  logica in  fine  del  volume con  o  questi quistionc;  perchè -cfr.  I.  11.  (13-14)-; p.  575,  nota,  1.  23-24 cogno^cuntar p.  577  1.  4 ne  dà  la  spiegazione p    579,  nota,  1.  5 Top.  1.  IV.  8), 1.  20-21 bisognava  ammettere 1.  22 proi»ri  della  sola  specie p.  585  n.  2,  1.  1-2 e  tiuesto  soccorso p.  588  1.  8-9 necessità  logica p  589  1.  2 allo  stesso  capitolo p.  592,  nota,  l.  19-20 con  <iuesti p.  595  1.  10 (juistione:  perchè N  B  È  incorso  un  errore  nella  numerazione  delle  pa^rine. La  pagina  che,  la  seconda  volta,  ha  il  numero  85,  dovrebbe  avere invece  il  numero  233.  Similmente  il  numero  di  ciascuna  delle pagine  seguenti,  sino  alla  fine  del  volume,  dovrebbe  essere  au- mentato d'i  148.  Nell'indice  e  nell'errata-corrige  le  pagine  sono indicate  col  numero  erroneo  con  cui  sono  state  stampate.  Nel- rerrata-corrige  le  pagine  che  portano  lo  stesso  numero  si  di- stinguono  aggiungendo  la  parola  bU  al  numero  di  quelle  nume- rate  erroneamente. INDICE CAP.  I.    Cause  empiriche  e  cause  mbtaempirichk. § 1.  Oggetto  di  questo   Saggio. 2.  La  causa  nel  senso  scientifico  . 3.  Distinzione  tra  la  causa  nel  senso  meta- fisico (causa  efficiente)  e  la  causa  nel  senso scientifico 4. 1  filosofi  hanno  ammesso  generalmente  que- sta distinzione 5.  Impossibilità  di  provare  la  dottrina  di  Comte sulle  cause  efficienti (>    Oo-o-etto  della  l*^  parte  di  questo  Saggio. 1-9 9-11 11-15 15-24 25-32 32-40 CAP.  II.  L'antropomorfismo. Art.  1.   La  Filosofia  teologica. § 1.  La  filosofia  teologica  nel  periodo  prescien- tifico  Funzioni  della  divinità  come  principio esplicativo  dei  fenomeni  —  La  divinità come  principio  motore  La  divinità  come  principio  di  una  spiega- zione teleologica  dei  fenomeni. 4.  Le  prove  dell'esistenza  della  divinità 41-51 51-71 71-102 ia2-129 i*W— r-      Ti —  758 -  759 §    5.  I  concetti  della  teologia  trascendentale  — Immutabilità  ed  extra-temporalità  di  Dio —      Ptig. Dio  come  l'Infinito  o  l'Assoluto  Il  dualismo  e  il    panteismo  nella  filosofia antica  e  nella  moderna      ....    163-201 7.  Il  valore  delle   prove  dell'esistenza    della divinità  dipende  da    quello    del    concetto di  causa  efficiente 201-232 Art.  2,  L'animismo  come  spie<^azione  dei  fenomeni  biologici. §    8.  Osservazioni  generali  suH'animismo  come ipotesi  biologica.  La  spiegazione  animista  dei  fenomeni  bio- logici       87-102 10.  Estensione  del  dominio  della  coscienza  in conseguenza  dei  principii  dell'animismo.    102-106 11.  Spiegazione  intellettualista  dell'istinto  L'ilozoismo. §  12.  Osservazioni  generali  sull'ilozoismo  L'  ilozoismo   nella  filosofia  antica    e    mo- derna   119-128 14.  L'ilozoismo  nella  filosofia  contemporanea  128-143 Art.  4.   Il  panpsicliisino. §  15,  Osservazioni  generali  sul  panpsichismo   .    144-148 16.  La  monadologia  di  Leibnitz  I  panpsichisti  moderni  L'idealismo. §  18.  Osservazioni  generali  sull'idealismo. L'idealismo  di  Kant 200-213 20.  L'idealismo  assoluto  dei  successori  di  Kant  214-219 Art.  6.  fi  concetto  (li  causalità  deirantroiiuuiorllsmo. 8  21.  leoria  volizionale  della  causazione  e  teorie tìi    '  '^•^0-235 amni — ^  "^^ '^2.  Osservazioni  su  queste  teorie  La  filosofia  meccanica  o  impulsionista. §     1.  Della  filosofia  meccanica  o  iinpulsionista in  generale 2.  Il  principio,  su  cui  è  fondata  la  filosofìa meccanica,  in  Cartesio  e  i  cartesiani,  in Hobbes,  in  Spinoza,  in  Newton 3.  nei  primi  newtoniani,  in  Locke,  in  Leib- nitz, in  Clarke    4.  in  Huygens,  Bernouilli,  Eulero,  d'Alem- bert, Hume,  Reid,  Dugald-Stewart,  Ha- milton, Galluppi,  Rosmini,  Cuvier   . 5.  nei  fisici  e  filosofi  contemporanei 6.  La  proposizione  che  1'  azione  a  distanza è  inconcepibile,  assurda  e  contraddittoria 251-259 260-264 264-273 273-280 280-289 289-304 GAP.  IV.  Origine  e  sviluppo  dell'idea  di  causa  ef- ficiente. 1.  Le  causazioni  più  familiari   ci    sembrano spiegarsi  da  se  stesse  e   potere   spiegare tutte  le  altre 305-312 2.  Proposizioni  di  filosofi  che  hanno  ricono- ^11 § -  760  — ^iuto    questo    fenomeno    psicologico    (di Bacone,    Stuart-Mill,     Bain,     Clifford, Stallo) 3.  L'  idea  di  causa  efficiente  deriva    dall'  e- sperienza  delle  causazioni  più  familiari  . 4.  Le  causazioni  più  familiari  non  sembrano misteriose  che  nella  riflessione  scientitìca 5.  Perchè  1'  azione  volontaria  diventa  mi- steriosa        .....•• 6.  Perchè  diventa  misteriosa,  in  generale, l'azione  mutua  tra  lo  spirito  e  il  corpo  . 7.  Perchè  diventa  misteriosa  V  attività  inte- riore dello  spirito 8.  Perchè  diventano  misteriose  l'impulsione e  le  altre  azioni  fìsiche  più  familiari  — Conclusione  sulle  rag-ioni  per  cui  le  cau- sazioni più  familiari  perdono  la  loro  in- telligibilità . 9.  La  tendenza  naturale  a  spiegare  \^  se- quenze non  familiari  riconducendole  alle familiari,  e  quindi  il  principio  di  causa- lità efficiente  nella  sua  forma  primitiva e  spontanea,  non  possono  avere  alcun valore    obbiettivo 10.  Forma  secondaria  del  principio  di  cau- salità efficiente  — Il  principio  di  causa- lità efficiente  è  un'induzione  incosciente dalle  causazioni  più  familiari  . 11.  Origine  comune  e  differenziazione  pro- oressiva  dei  concetti  fisico  e  metafisico della  causalità La  dottrina  dell'inconoscibile  e  l'idea  di CAUSA    EFFICIENTE.- La  dottrina  dell'  inconoscibile    come    applicazione  del  principio  di  causalità  effi- ciente nella  sua  forma  secondaria    . §     2.  La  proposizione  che  non  conosciamo  l'es- senza delle  cose 3.  Il  fondamento  principale  della  teoria  del- Pinconoscibile  è  il  principio  di  causalità efficiente 4.  Questo  fondamento  non  può  pretendere  ad alcun  valore  obbiettivo      .... 5.  Ciò  è  provato  più  chiaramente  dall'esame dell'inferenza  incosciente  di  cui  è  la  con- clusione         6.  Schiarimenti  al  paragrafo  precedente 7.  Noi  conosciamo  o  possiamo  conoscere resseuza  delle  cose  e  il  modo  essenziale della  produzione  dei  fenomeni  . La  Forza  nel  senso  metafisico  . CAP.   VI.  La  FILOSOFIA  apriorista. §  1.  Lo  sforzo  di  ricostruire  la  realtà  a  priori è  una  delle  tendenze  più  generali  ddla speculazione  metafisica   La  filosofia  apriorista  è  sovratutto  un'ap- plicazione del  principio  di  causalità  effi- ciente .....••• 3.  La  filosofia  apriorista  in    Cartesio     . 4.  in  Malebranche 5.  in  Spinoza   ....••• 6.  in  Leibnitz 7.  in  Locke      ....8.  in  Condillac. 9.  in  d'Alembert      ...... 10.  in  Hume  ae: -  762 II §  11.  in  Kant    12.  in  Fichte,  Schelling,  Hegel 13.  in  Reid,  Dugald-Stewart,  Galluppi,  Ro- smini, Gioberti,  Mamiani  .in  Taine  e  Spencer  e  in  Hartmann  . 15.  Le  pretese  dimostrazioni  dei  principii  della meccanica  La  filosofìa  apriorista  al  di  fuori  della  ri- cerca della  causa  efficiente 2.  Dottrine  della  filosofia  apriorista  sulla essenza  e  la  definizione 3.  Dottrine  di  Aristotile  e  di  Platone  in  par- ticolare    Dottrine  analoghe  e  particolarmente  quella di  Cuvier  della  correlazione  organica 5.  Spiegazioni  della  filosofia  apriorista  della costituzione  del  cosmos  (e  particolarmente quelle  di  Platone  e  di  Aristotile) 6.  L'argomento  ontologico  come  applicazidella  spiegazione  apriorista  I *afc.-^«Nf **:;  -^^ 00321465 ( \       1- iC V  -i fcr^. i% "•  .\   1. 'Sk! "*»*'/-*  % ./^  :• '^ %^%. .^  -^^f^i *^:-'l    ^  • m  som  TEomii  oella  cokosceiizii  ! FiLOsoFU  um w^tmmt^^m^tm^i^f^ PALERMO Remo  Sandron LA  CAUSA  EFFICIENTE Tomo  Secondo 3SCCAPO  VII. IL  REALISMO   DIALETTICO. §  1.  Uno  dei  fenomeni  più  strani  della  storia  del  pen- siero e  che  sollecita  più  vivamente  una  spiegazione  dalla filosofia  della  metafisica,  è  certamente  il  realismo,  nel senso  della  scolastica,  vale  a  dire  la  realizzazione  delle astrazioni.  Come  lo  spirito  umano  ha  potuto  ingannarsi sino   a   tal   punto   sul    significato   dei    nomi   astratti   e generali,  da  attribuire  alle  realtà  stesse  questa  astrat- tezza e  questa  generalità  che  non  '  appartiene  che  alle parole  ?  Alcuni,  negando   la   difficoltà  invece   di   risoverla, hanno  preteso  che  il  nostro  spirito  ha  una  ten- denza  naturale  a  riguardare   le   astrazioni    come  real- tà.  Secondo  Max  Mùller,   usando  un  nome  astratto,  si concepisce    per    ciò    stesso    una    qualità    come    sogget- ta, cioè  come   sostanza.   Di  più,  unendo  a  questo   no- me un  verbo,  quando  si  dice,  per  esempio,  «il  giorno comincia  »  o  «  la  notte  si  avvicina  »,  si  presenta  come Jig^nte  questa  qualità  trasformata  dal  linguaggio  in  una sostanza.  Infine,  nelle  lingue  antiche  ciascuna  di  queste parole  avea  necessariamente  una  desinenza  esprimente —  2  - \ il  genere,  che  era  inaHcliile  o  feiii minile,  il  neutro  es- sendo di  formazione  posteriore,  e  ciò  produceva  nello spirito  un'idea  corrispondente  di  sesso.  «Quale  ha  do- vuto essere  il  risultato  di  tutto  ciò  %  conclude  1'  autore. Sinché  gli  uomini  non  pensavano  che  con  1'  aiuto  del linguaggio,  era  semplicemente  impossibile  di  parlare  del mattino  o  della  sera,  della  primavera  o  dell'inverno, senza  dare  a  queste  concezioni  qualche  cosa  d'un  carat- tere individuale,  attivo,  sessuale,  in  una  parola,  di  un carattere  personale  »  (1). Questa  spiegazione  della  realizzazione  delle  astrazioni è  applicata  da  Max  Miiller  nel  dominio  della  mitologia. Simili  spiegazioni  sono  state  applicate  da  altri  alle  astra-zioni realizzate  della  metalìsica.  Secondo  Condillac,  i  fi- losofi hanno  realizzato  le  astrazioni,  perchè  formandosi delle  idee  astratte,  concependo  le  modificazioni  separa- tamente dall'  essere  a  cui  appartengono,  il  nostro  spirito è  costretto  a  considerarle  come  qualche  cosa  di  reale. Queste  modificazioni,  concepite  cosi  separatamente,  per- dono ogni  realtà,  ma  per  una  contraddizione  necessaria lo  spirito  deve  supporre  ancora  che  abbiano  della  realtà, perchè  altrimenti  non  potrebbe  farne  l'  oggetto  del  suo pensiero.  Ciò  è  perchè  è  impossibile  di  pensare  il  niente: se  si  pensa,    si   deve   pensare   a  qualche   cosa,  e  pen- sare  a  niente    sarebbe   propriamente   non  pensare  (2).Mill    nella   sua  Logica   enumera   tra  i  sofismi  a priori  del  nostro  spirito  (cioè  gli  errori  in  cui  una  pro- posizione è  accettata  come   evidente  per  se  stessa)  «  il pregiudizio  naturale  di  attribuire  un'  esistenza  obbietti- va a  delle   astrazioni.  »  Questo   pregiudizio   naturale   o sofisma  a  priori  proviene,  come  la  più  parte  degli  altri, (1)  Max  MiUler,  Saggi  sulla  mitologia  eomparata^  traduzione frane,  2»  ed.,  I  p.  70-73. (2)  Condillac,  Arte  di  pensare,  C.  8.» dalla  tendenza  a  supporre  un'  esatta  corrispondenza  fra le  leggi   dello  spirito  e  le  leggi  del  mondo  esteriore,  e può  enunciarsi  in  questa  formula  generale:  Ciò  che  può essere  pensato  a  parte  esiste  a  parte.  Gli  uomini  hanno avuto  in  ogni  tempo  una  forte  propensione  a  concludere che  là  dove  vi  ha  un   nome,  deve  esservi  un'  entità  di- stinta corrispondente  a  questo  nome.  Bianchezza  e  cosa bianca  non  sono  che  delle  espressioni  diftbrenti  dello  stesso fatto;  «  ma  tale  non  era  l' idea  che  suggeriva  anticamente questa  distinzione  verbale,  sia  per  il  volgare  sia  per  i  sa- pienti. La  bianchezza  era  un'  entità,  inerente  o  aderente alla   sostanza    bianca;  e  così  pure  le  altre  qualità.    Ciò andava   sì    lungi  che  anche  i  termini    generali   concreti erano  considerati,  non  come  dei  nomi  d'  un  numero  in- definito  di    sostanze,  ma  come  dei  nomi  d'  una   specie particolare  di  entità  chiamate  Sostanze  universali  »  (1). «  Quest'  errore    sulla  significazione    dei    termini    gene- rali, aggiunge  l'autore,  costituisce  il  Misticismo,  pa- rola più   spesso  pronunziata   che  compresa.   Nei   Veda, presso   i    Platonici    o   gli    Hegeliani,  il  misticismo  non consiste  in  niente  altro  che  ad  attribuire  un'  esistenza obbiettiva  alle  creazioni   subbiettive   del    pensiero,  alle nostre  idee  e  ai  nostri  sentimenti,  e  a  credere  che  os- servando e  contemplando  queste   idee   di  nostra  fabbrica noi   possiamo   leggervi   ciò   che  avviene   nel  inondo  este- riore. »  Da  (lueste  ultime  parole  sembra  che  il  Mi  11  in- traveda  la   relaziolie  naturale,  che    noi    metteremo    inluce  nel  corso  di  questo  capitolo,  fra   la   realizzazione delle  astrazioni  e  il  metodo  a  priori.  Egli  non  spiega  que- sto carattere  dei  sistemi  realisti,,  di  voler  leggere  ciò  che avviene  nel  mondo  esteriore  contemplando  le  idee  di  no- stra fabbrica^  ma,  secondo  i  suoi  principi!,  deve  vedervi una  conseguenza  diretta  della  tendenza  naturale  a  sup- (1)  Stuart  Min,   Logica,  Uh,  V,  e.  3o,  }  4. -.  4  - porre  un'  esatta  corrispondenza  fra  le  lefigi  dello  spirito e  le  leqgi  del  mondo  esteriore.  Secondo  Stallo,  la  realiz- zazione delle  astrazioni  proviene  dalla  supposizione  (su cui  sono  fondati,  esplicitamente  o  implicitamente,  tutti i  sistemi  metafìsici)  che  vi  ha  una  corrispondenza  fissa fra  i  concetti  e  la  loro  filiazione  da  una  parte,  e  le  cose e  la  loro  dipendenza  mutua  dall'  altra.  I  concetti  e»: sendo,  air  ingrosso,  la  significazione  delle  parole,  e  que- sta circostanza,  che  le  parole  designano  originariamente delle  cose  o  almeno  degli  oggetti  di  sensazione  e  la  loro azione  mutua  sensibile,  che  ha  dato  luogo  a  questa  sup- posizione  ingannevole.  Essa,  al  contrario  delle  viola- zioni ordinarie  delle  leggi  della  logica,  forma,  a  certi, punti  di  vista,  lo  sviluppo  naturale  dell'  evoluzione  del pensiero   e   può   essere   chiamata   un    errore  strutturale deir  intelligenza  (1).  .^,11^ Noi  crediamo  inutile  un  esame  particolareggiato  tiene proposizioni  di  questi  autori.  Ci  limeteremo  a  due  con- siderazioni  molto  ovvie.  1«  L'osservazione  psicologica  non mostra  che  vi  sia  in  noi  una  propensione  naturale  a  n- guardare  le  astrazioni  come  realtà,  cioè  come  entità  di- stinte  sussistenti  per  se  stesse.  É  un  fatto  d'  una  espe- rienza  interna,  che  basterà  di  indicare  al  lettore,  senza insistervi  più  oltre.  2»  Non  vi  ha  alcuna  prova  che  gli uomini,  in  un  periodo  qualunque  dell'evoluzione  delli^ umanità,  storico  o  preistorico,  abbiano  riguardato  siste- maticamente  le  astrazioni  come  esseri  reali,  le  qualità come  sostanze.  I  mitologi,  osserva  giustamente  Spencer, ragionano  secondo  la  supposizione  che  i  popoli  primitivi sono  stati   inevitabilmente  spinti  a   personificare   delle astrazioni,  ma  di  questa  supposizione  non  danno  alcuna prova  :  Max  Muller  afferma  che  era  loro  impossibile  di parlare  del  mattino  e  della  sera,  della  primavera  e  dell'in- (1)  La  materia  e  la  fisica  moderna,  cap.  IX.  verno,  senza  attribuire  ad  essi  l'individualità,  l'attività, il  sesso  e  la  personalità,  ma  per  dimostrare  che  l'impos- sibilità di  cui  si  parla  è  esistita  realmente,  bisognereb- be qualche  cosa  di  più  che  una   affermazione  autorita- ria (1).  Questo  difetto  di  prove  si  fa  sentire  più  vivamente quando  si  va,  come  il  Mill,  sino  ad  affermare  che  anti- camente, sia  per  il  volgare,  sia  per  i  sapienti,  la  hian- chezza  non   era    una  espressione    differente  dello  stesso fatto  espresso  dalle  parole  cosa  bianca,  ma  era  un'entità, inerente  o  aderente  alla  sostanza  bianca,  e  così  pure  le altre  qualità.  Come  ammettere,  senza  prove  di  fatto,  che vi  è  stata  realmente,  nella  storia  dell'umanità,  un'epoca caratterizzata  da  questo  stato   di  spirito  che  immagina il  Mill?  L'unico  sofisma  a  priori,  Vimìco  errore  struttu- rale dell' intelligenza  che  noi  dobbiamo  ammettere,  per- chè è  un  fatto  evidente  dell'osservazione  psicologica,   e che,  per  conseguenza,  possiamo  supporre  anche  nelle  fasi più  antiche  dello  sviluppo  della  civiltà,  è  la  tendenza  a modellare  tutte  le  nostre  idee  sul  tipo  di  quelle  che  ci sono  le  più  abituali,  di  cui  la  forma   più  importante  é quella    per  cui    abbiamo  spiegato   il    concetto   di  causa efficiente  e  le  sue  diverse  applicazioni,  vale  a  dire  l'assi- milazione spontanea  di  tutti  i  fatti  ai   più  familiari.  É solo  questa  tendenza  che   può  essere   considerata  come un  sofisma  a  priori,  una  proposizione  erronea  accettata come  evidente  per  se  stessa  non    potendo  essere  che  il risultato  di  un'inferenza  incosciente,  la  cui  conclusione ci  s'impone  con  una  forza   quasi    irresistibile,  appunto per  l'immensa  massa  delle  esperienze  su  cui  è  fondata, cioè  i  fenomeni  più  abituali  della  nostra  esperienza,  ob- biettiva o  subbiettiva.  È  dunque  a  questo  sofisma  a  priori che  dobbiamo  ricondurre  la  realizzazione  delle  astrazioni come  tutte  le  altre  illusioni  della  metafisica,  se  voglia- incipii  di  sociologia,  trad.  frane,  voi.  1  p.  618. (1)   Pt^ -  k\ mo  vedervi  l'elfetto,  non  di  una  immaginazione  arbi- traria o  di  un  errore  fortuito  del  ragionamento,  ma  di una  tendenza  naturale  dello  spirito  umano. La  realizzazione  delle  astrazioni  costituisce,  secondo A.  Comte,  il  carattere  essenziale  della  metafisica.  Comte ammette,  come  si  sa,  che  lo  spirito  umano  passa  suc- cessivamente per  tre  stati,  il  teologico,  il  metafisico  e  il positivo.  Lo  stato  metafisico  è  destinato  ad    aiutare  lo spirito  umano  a  passare  dallo  stato  teologico  al  positivo, a  servire  di  transizione  fra  il  primo,  che  è  il  suo  punto di  partenza  necessario,  e  il  secondo,  che  è  il  suo  stato definitivo,  l'opposizione  tra  lo  spirito  teologico  e  lo  spi- rito positivo  essendo  troppo  radicale,  e  la  nostra  intel-  * ligenza   essendo   antipatica   ad  ogni  cangiamento  bru- sco (1).  Il  passaggio  dallo  stato  teologico  al   metafisico «  s'opera  naturalmente,  in  un  soggetto  qualunque,  per  la sostituzione  graduale  dell'entità  alla  divinit«à,  allorché le  concezioni  religiose  si  generalizzano  diminuendo  senza cessa  il  numero   degli  agenti   sovrannaturali    così  bene che  la  loro    intervenzione  attiva,  e  sovratutto   quando esse  pervengono,  se  non  in  realtà,  almeno  in  principio, ad  una  rigorosa  unità  suprema.  In  questo  ultimo  stato generale  della  filosofia  teologica,  l'azione  sovrannaturale, perdendo  la  sua  specialità  primitiva,  non  ha  potuto  abi- tualmente abbandonare  la   direzione  immediata  del  fe- nomeno senza  lasciarvi,  in  sua  vece,  una  misteriosa  en- tità, dapprima  necessariamente  emanata  da  essa,  ma  alla quale,  per  l'uso  giornaliero,  lo  spirito  umano  ha  dovuto riferire,  di  una  maniera  di  più  in  più  esclusiva,  la  pro- duzione particolare  di  ciascun  avvenimento.  Ora,  questa strana  maniera  di  filosofare  ha  dovuto  essere  lungamente necessaria,  sia   per  facilitare  il  declivio  graduale  della teologia,  eliminando  a  poco  a  poco  l'intervenzione  spe- ciale delle  cause  sovrannaturali,  sia  per  preparare  lo slancio  progressivo  della  fisica,  abituando  sempre  di  più alla  considerazione  esclusiva  dei  feoomeni  :  all'  uno  e all'altro  titolo  questa  situazione  transitoria  costituisce al  tempo  stesso  un  sintomo  inevitabile  e  un  indispensa- bile concorso  »  (l).  Altrove  l'autore  caratterizza  lo  stato metafisico  così  :  «  Nello  stato  metafìsico....  gli  agenti  so- vrannaturali sono  rimpiazzati  da  forze  astratte,  vere  entità (astrazioni  personificate)  inerenti  ai  diversi  esseri  del  mon- do, e  concepite  come  capaci  di  generare  per  se  stesse  tutti  i fenomeni  osservati,  di  cui  la  spiegazione  consiste  allora ad  assegnare  per  ciascuno  l'entità  corrispondente  »  (2). Stuart-Mill  riassume  la  dottrina  di  Comte  sul  periodo metafisico,  dicendo  che  questi  intende  per  esso  quello €  in  cui  si  prendevano  i  nomi  astratti  dei  fenomeni  per le  cause  della  loro  esistenza»  (3).  E  altrove:  «  Il  modo di  pensare  che  Comte  chiama  metafisico  rende  conto  dei fenomeni  riferendoli,  non  a  volontà  sublunari  o  celesti, ma   ad   astrazioni   realizzate»  (4). L'osservazione  più  ovvia  che  si  presenta  contro  questa teoria  che  è  una  delle  fondamentali  di  A.  Comte,  è  la inesattezza  evidente  d'una  definizione  della  metafisica, che  la  fa  consistere  unicamente  nella  realizzazione  delle astrazioni.  Quand'anche  non  si  dia  per  oggetto,  come  fa abitualmente  Comte,  alla  speculazione  non  positiva  che la  ricerca  dell'origine  e  della  destinazione  dell'universo e  delle  cause  intime  o  generatrici  dei  fenomeni  (ciò  che noi  chiamiamo  le  cause  efficienti)^  nessun  positivista  con- testerà che  nel    cerchio   di  questa  speculazione   devono (1)  Comte.  Corso  di  filosofia  positiva  voi.  I  e<l.  4»  p.  9.  Conf. voi.  IV  Lez.  51  p.  497. (1)  T.  IV  Lez.  51. (2)  T.  I  p.  9. (3)  Log.  Uh.  VI.  e.  X,  nota  verso  la  fine. (4)  Stuart-Mill,  A.  Comte  e  il  positivismo,  trad.  frane,  p.  11. -  8  - -  9  — comprendersi,  oltre  alla  realizzazione  delle  astrazioni,  altri metodi  e  altri  concetti,  che  non  meritano  meno  di  questa il  nome  di  filosofia  metafisica,  essendo  in  contraddizione, da  una  parte,  con  lo  spirito  della  filosofia  positiva,  cioè sperimentale,  e  non  potendo  riguardarsi,  da  un'  altra parte,  come  delle  forme  dell^  filosofia  teologica.  Dei  due processi  generali  di  cui  lo  spirito  umano  si  è  servito per  api)licare  il  concetto  di  causa  efficiente,  cioè  1'  an- tropomorfismo e  l'apriorismo,  la  teoria  di  A.  Corate  non tiene  alcun  conto  del  secondo.  Esso  intanto  è  uno  dei tratti  più  caratteristici  della  speculazione  metafisica,  e Littrè  ha  definito  questa  filosofia  d'una  maniera  meno inesatta  che  il  suo  maestro,  facendola  consistere  essen- zialniente  nel  metodo  a  priori  (1).  In  quanto  all'antropo- morfismo, quantunque  la  sua  forma  più  diftusa  sia  la  fi- losofia teologica,  vi  hanno  altre  forme  (cioè,  per  non parlare  che  di  quelle  che  pretendono  dare  una  spiega- zione universale  delle  cose,  Vilosoismo,  il  panpsichismo e  V idealismo),  che  non  possono  evidentemente  classarsi fra  le  concezioni  teologiche^  e  devono  prender  p<»sto, per  conseguenza,  fra   le   metafisiche   (2).    Ma    oltre  ai (1)  L'inipvilsioiie  metafisica  deiriDtelligenza,  dice  il  Littrè  nel suo  scritto  A.  Comte  e  Stuarl-Mill,  (Frammenti  di  fi  log.  posit pag.  249),  fu  di  pensare  che  tutto  ciò  che  le  pareva  logicamente ragione  delle  cose  doveva  essere  ragione  delle  cose  eflfettivaraente. Vi  è  stato  bisogno  di  molti  secoli  e  di  molto  lavoro  per  distrug- gere la  forza  pretesa  del  ragionamento  a  priori.  E  nello  stesso scritto,  pag.  274  :  «egli  (A.  Comte)  rigettava  la  filosofia  teolo- gica sostituendo  delle  leggi  alle  volontà,  e  la  filosofia  metafisica rimpiazzando  le  nozioni  a  priori  con  nozioni  a  posteriori». (2)  La  stretta  affinità  tra  queste  altre  forme  dell'antropomor- fismo e  la  filosofia  teologica  dà  in  parte  ragione  a  un  altro  concetto di  A.  Comte,  secondo  il  quale  i  tre  stati  si  ridurrebbero  al  fondo  a due,  il  vero  spirito  generale  della  filosofia  metafisica  consistendo. / concetti  relativi  alla  quistione  delle  cause  efficienti, non  si  può  non  t^ner  conto,  per  caratterizzare  la  me- tafisica, almeno  di  un  altro  ordine  di  speculazioni: sono  quelle  relative  alla  quistione  del  mondo  esteriore. Ciò  ci  mostra  un'  altra  lacuna  della  definizione  di  A. Comte.  La  dottrina  delle  monadi,  sia  nel  senso  di  Leib- nitz,  sia  nel  senso  di  quei  filosofi  che  non  intendono per  esse  che  degli  elementi  assolutamente  semplici  in <5ui  si  risolve  la  realtà  materiale,  e  in  generale  tutte  le ipotesi  trascendenti  sulla  natura  della  cosa  in  sé  dei  corpi, non  potrebbero  non  comprendersi  in  un  concetto  gene- rale della  filosofia  metafisica  senza  escludere  metà  della metafisica  moderna.  Ora  tutte  le  concezioni  a  cui  abbia- mo accennato  non  implicano  affatto  una  realizzazione  di astrazioni,  e  occupano,  non  pertanto,  un  posto  assai  più largo,  nella  storia  della  metafisica,  che  la  stessa  realizza- zione delle   astrazioni  per  cui  la  caratterizza  A.  Comte. come  quello  della  filosofia  teologica,  «  a  prendere  per  principio, nella  spiegazione  dei  fenomeni  del  mondo  esteriore,  il  nostro  senti- mento inmiediato  dei  fenomeni  umani  »  (T.  Ili  lez.  40).  Ma  questo concetto  è  incompatibile  non  quello  che  la  metafisica  cont*iste nella  realizzazione  delle  astrazioni  :  non  si  vede  au^i  come,  stando al  primo  di  questi  due  concetti,  la  realizzazione  delle  astrazioni possa  entrare  nel  campo  delle  concezioni  metafisiche.  Questa base  comune  tra  le  concezioni  teoloijiche  e  la  più  parte  delle concezioni  metjiflsiche.  ohe  consiste,  come  dice  Comte,  «a  pren- dere per  principio,  nella  spiegazione  dei  fenomeni  d«l  mondo esteriore,  il  nosrro  sentimento  immediato  dei  fenomeni  umani», mostra  che  la  filosofia  teologica  non  è  ohe  un  caso  della  filosofia metafisica,  e  che  sarebbe  quindi  più  giusto  di  considerare  la prima  cerne  una  modificazione  (cioè  un  modo  di  essere)  della  se- conda, anziché,  come  fa  l'autore,  la  seconda  come  una  modifica- zione della  prima  (V.  t.  IV  lez.  51). !•  - Un'  altra  osservazione,  naturalmente  legata  alla  pre- cedente, è  che  Cointe  si  esagera  l'importanza,  nella  sto- ria del  pensiero,  della  realizzazione  delle  astrazioni.  La teoria  dei  tre  stati  suppone    che  lo   spirito   umano,  in un  certo  stadio  del  suo  sviluppo,   è    condotto  inevita- bilmente a  riguardare   le  astrazioni    come   delle   realtà. Ma  i  dati  della  storia    non   autorizzano  questa  supposi- zione. Quando  ci  si  parla  di  un  periodo,  nella  storia  del pensiero  umano,  in  cui  i   fenomeni    erano   sistematica- mente spiegati  per  delle  entitTi  o  delle  astrazioni  perso- nificate, noi  pensiamo  naturalmente  al  medio  evo  e  alla filosofia  scolastica.  Ma  nella  stessa  filosofia  scolastica  il  rea- lismo, nel  senso  stretto  della  parola,  cioè  quello  che  consi- dera gli  universali  come  delle  realtà  obbiettive,  distinte dalle  cose  ed  esistenti  fuori  del  pensiero  sia  umano  sia  di- vino, non  era  l'opinione  prevalente.  «  Se  per  essere  con- tato fra  i  realisti,    osserva  Haureau,    bisogna  dire  che l'universale  isolato,  separato  dalle  cose  sensibili   e  dal- l'intelletto  umano,  è  una  cosa,  res,  un  oggetto  reale, nel  vero  senso  di  questa  parola,  se  ne  troveranno  pochi (fra  i  dottori  scolastici)  che  siano  di  questa  opinione.  Noi sappiamo  che  nel    numero  dei  platonizzanti  ve  ne  sono che  hanno  accettato  come  delle  realtà,  dotate  di  mate- ria e  di    forma,    queste   essenze    universali    di  cui  essi pretendevano  definire  la  natura  misteriosa  ;  ma  sappia- mo pure  che  tale  non  è  stato  il  sistema  adottato  dalla più  parte  fra  di  loro  »  (1).  In  quanto  alle  qualità  occulte  e alle  altre   entità  simili   degli    ultimi  scolastici,  a  cui  i cartesiani  e  i  filosofi  del  rinascimento  facevano  la  guerra, esse  non  implicavano  necessariamente  una  realizzazione di  astrazioni.  Le  qualità  occulte,  le  virtù  specifiche,  le forme  sostanziali,   ecc.  non  erano  considerate,  almeno (1)  Haureau,  Filosofi  t  scolastica,  tomo  1,  e.  Ili,  pag.  71. -11- dalla  più  parte  di  quelli  che  le  ammettevano,  come  degli esseri  sussistenti  per  sé  stessi  e  realmente  distinti  dalle cose  in  cui  risiedevano.  La  forma  sostanziale  e  la  materia erano,  così  per  Aristotile  come  per  la  più  parte  degli  scola- stici, degli  elementi  concettuali,,  non  reali,  della  vera  so- stanza, cioè  dell'oggetto  individuale,  quantunque  si  l'uno che  gli  altri  esprimessero  spesso  questa  distinzione  logica in  termini  appropriati  piuttosto  a  una  distinzione  reale  (1). Quando  gli  scolastici  spiegavano  i  fenomeni,  come  dice Comte,  per  le  semplici  denominazioni  astratte  dei  feno- meni stessi,  quando  dicev^ano,  p.  e.,  che  il  fuoco  riscalda perchè  ha  la  qualità  di  produrre  il  calore,  o  che  l'oppio fa  dormire  perchè  ha  la  virtù  dormitiva,  questa  spiega- zione, in  quanto  non  era  una  semplice  tautologia,  con- sisteva a  supporre  che  esiste  nella  causa  una  qualità misteriosa,  la  quale,  se  fosse  conosciuta,  spiegherebbe radicalmente  l'  effetto.  Era  il  concetto  della  causa  effi-ciente nella  stessa  forma  in  cui  l'ammette  il  Comte:  essi supponevano,  couìe  lui,  al  di  là  delle  condizioni  osserva- bili della  produzione  dei  fenomeni,  delle  cause  intime  o generatrici  e  un  modo  essenziale  di  produzione,  che  sfug- gono necessariamente  all'osservazione.  Così,  quando  Car- tesio sbandiva  le  qualità  e  le  potenze  occulte  degli  sco- lastici, sostituendovi  la  spiegazione  meccanica  dei  feno- meni, cioè  riducendo  tutti  i  fenomeni  al  movimento  pro- dotto dall'impulsione,  egli  non  inaugurava,  come  crede Comte  (2),  il  periodo  positivo,  ma  sostituiva  a  una  con- cezione relativamente  positivista  (perchè,  quantunque ammetteva  le  cause  efficienti,  le  poneva  al  di  là  della ricerca  scientifica)  una  concezione  e  un  metodo  essen- zialmente metafisici,  perchè  la  spiegazione  cartesiana  — anche  senza  tener  conto   dei   concetti    teologici  eh'  egli (1)  V.  il  5  2. (2)  Voi.  1,  p.  19  e  altrove. —  12  — sovrapponeva  alla  sua  spiegazione  meccanica,  e  del metodo  generale  aprioristico  di  cui  questa  era  un'appli- cazione —  era  costruita  sullo  stesso  tipo  che  quella  die consiste  «  ji  prendere  per  principio,  nella  spiegazione  dei fenomeni  del  mondo  esteriore,  il  nostro  sentimento  im- mediato dei  fenomeni  umani  »,  cioè  era,  come  questa,  un prodotto  della  tendenza  istintiva  del  nostro  spirito  ad assimilare  tutti  i  fenomeni  a  (jnelli  che  ci  sono  i  più  fa- miliari. Ma  se  la  realizzazione  delle  astrazioni  non  è stata  un  fatto  generale  nemmeno  nella  filosofìa  scola- stica, noi  cercheremo  invano  dove  porremmo  collocare, nella  storia  dell'evoluzione  del  pensiero  umano,  questo stato  supposto  in  cui  gli  agenti  sovrannaturali  venivano sostituiti  da  entità  o  astrazioni  personificate,  o,  come  dice Miil,  si  prendevano  i  nomi  astratti  dei  fenomeni  per  le cause  della  loro  esistenza. Osserveremo  infine  che  la  teorìa  dei  tre  stati  di  A. Comte,  quand'anche  fosse  vera,  non  sarebbe  tutt'al  più che  una  generalizzazione  empirica.  Perchè  gli  uomini,  o i  filosofi,  a  un  certo  periodo  dello  sviluppo  dello  spirito umano,  realizzavano  le  astrazioni  ?  L'azione  sovrannatu- rale, dice  Comte,  non  ha  potuto  abitualmente  abbando- nare la  direzione  immediata  del  fenomeno  senza  lasciar- vi, in  sua  vece,  una  misteriosa  entitTi.  Ma  perchè  que- sta cosa,  che  prendeva  le  veci  dell'  azione  sovran- naturale,  doveva  essere  precisamente  un'  entit<à,  cioè un'  astrazione  realizzata  ?  In  una  parola  Comte  non ci  spiega  perchè  alla  filosofia  teologica  succede  ap- punto la  filosofia  metafisica,  cioè  la  realizzazione  delle astrazioni,  e  non  un'altra  torma  qualsiasi  di  speculazio- ne, più  o  meno  chimerica.  Egli  ci  dice  che  lo  stato  me- tafisico è  destinato  ad  aiutare  lo  spirito  umano  a  pas- sare dallo  stato  teologico  allo  stato  positivo  ;  che  que- sta strana  maniera  di  filosofare  ha  dovuto  essere  lunga- mente necessaria  sia   per  facilitare  il  declivio  graduale —  13  - della  teologia,  sia  per  preparare  lo  slancio  progressiva della  fisica.  Ma  ciò  è  indicare  l'utilità,  il  fine^  del  feno- meno, non  le  cause  che  l'hanno  prodotto.  Comte  spieghe- rebbe dunque  lo  stato  metafisico  per  la  sua  causa  finale^ egli  che  fa  consistere  lo  spirito  della  filosofia  positiva nel  rigetto  di  qualsiasi  ricerca  sulle  cause  finali,  non meno  che  sulle  cause  prime  e  sull'essenza  intima  delle cose? Stuart-Mill,  che  accetta  la  teoria  dei  tre  stati  di  A. Comte  (1),  cerca  di  spiegare  come  la  filosofia  teologica  si è  trasformata  nella  filosofia  metafisica  (caratterizzata  dalla realizzazione  delle  astrazioni).  «  È  uno  dei  punti  imba- razzanti della  filosofia,  egli  dice,  di  spie2:are  come  il  ge- nere umano,  dopo  aver  immaginato  un  semplice  seguito di  nomi  per  cojiservare  i  rapporti  di  certe  combinazioni d'idee  o  d^immagini,  ha  potuto  dimenticare  la  sua  pro- pria operazione  sino  al  punto  d'  investire  d^  una  realtà obbiettiva  queste  creazioni  della  sua  volontà,  e  di  pren- dere il  nome  di  un  fenomeno  per  la  sua  causa  efficiente. Ma  ciò  che  sarebbe  un  mistero,  se  si  considerasse  al punto  di  vista  puramente  dogmatico,  si  trova  rischia- rato dal  punto  di  vista  storico.  Queste  parole  astratte, che  per  noi  ora  sono  semplici  nomi  dei  fenomeni,  non  e- vano  tali  alV  origine  (2) Il  punto  di  vista  metafisico non  è  stato  ìiua  perversione  del  punto  di  vista  positivo, ma  una  trasformazione  del  punto  di  vista  teologico.  Per formare  una  classe  iV oggetti,  lo  spirito  umano  non  è  par- tito dalla  nozione  di  nome,  ma  da  quella  di  divinità, (Non  è  partito  dalla  nozione  di  nome,  perchè  i  nomi, suppongono  che  le  classi  si  siano  già  formate;  ma  per- ii) Log.  1.  Vr,  e.  X,  J  8,  e  ^.  Conile^  e  il  positivismo  verso il  principio. (2)  ('onfrouta  il  luogo  della  Log.  1.  V,  e.  IH,  $  4,  citato  sul principio  «lei  paragrafo. -  14  - che  ha  dovuto   partire    dalla   nozione   di  divinità?)  La realizzazione  d'  astrazioni  non  veniva  da  ciò  che  la  pa- rola rivestiva  nn  corpo,  ma  da  ciò  che  un  feticcio  spo- gliava gradualmente  il  suo.  ..  Così  lunffi  che  si  estese  il feticismo,  e  così  lungamente  che  durò,  non  vi  ebbe  astra- sione  né  classificazione    deffli   ofjifetti,  e  per  conseguenza non  posto  per  il  modo  metafisico   di   pensare.  (Come  il Mill  potrebbe  provare  questa  strana   affermazione?  Nel linguaggio  del  feticista  non  vi  erano  che  nomi  propri? e  se  vi  erano  dei  nomi  comuni,  come  poteva  non  esservi una  classificazione  degli  oggetti?)  Ma  tosto  che  Vagente volontario  di  cui  il  volere  reggeva  il  fenomeno  ebbe  ces- sato di  essere  l'oggetto  fisico  esso  stesso,  e  fu  trasferito in  un  posto  invisibile  donde  sorvegliava  una  classe  in- tera delle  operazioni  della  natura,  cominciò  a  sembrare impossibile   che   quest'  essere   potesse   esercitare  la  sua possente  azione  a  distanza,  se  non  per  l'intromissione  di qualche  cosa  presente   in   questo  luogo.  Sotto  l'influenza dello  stesso  pregiudizio  naturale  che  rese  Newton  inca- pace di  concepire  la  possibilità  della  sua  propria  legge  di gravitazione  senza  un  etere  sottile,  che  riempisce  lo  spa- zio intervallare,  e  a  traverso  cui  l'attrazione  potesse  co- municarsi— per  l'effetto  di  questa  stessa  infermità  natu- rale   dello    spirito    umano,  parve   indispensabile  che  il dio,  situato  a  una  certa  distanza  dall'  oggetto,  dovesse agire  per   1'  intromissione  di  qualche  cosa  risiedentevi, che  fosMe  l'agente  immediato;  il  dio  avendo  partecipato a  questo  alcun  che   d'  intermediario  la  forza  per  mezzo di  cui  esso   influenzava  e  governava  1'  oggetto.  Quando gli  uomini  sentirono  il  bisogno  di  dare  un  nome  a  que- ste entità  immaginarie,    essi    le    chiamarono  la  natura dell'oggetto  o  la  sua  essenza  o  le  virtìi  risiedenti  in  lui  o di  molte  altre  maniere  differenti.  Queste  concezioni  me- tafìsiche  furono   riguardate  come  affatto  reali,  e  dap- prima come  puri  strumenti  nelle  mani  delle  divinità  cor- —  15    — rispondenti.  Ma  dacché  si  prese  l'abitudine  di  attribuire alle  entità  astratte  non  solo  1'  esistenza  sostanziale,  ma ancora  Fazione  reale  ed  efficace,  accadde  in  conseguenza che  le  entità  furono  lasciate  in  piedi  allorché  la  cre- denza alle  divinità  venne  a  declinare,  poi  a  perdersi,  e un  sembiante  di  spiegazione  dei  fenomeni,  simile  a  ciò che  esisteva  prima,  si  trovò  fornito  dalle  entità  sole, senza  che  fossero  rapportate  ad  alcuna  volontà.  Quando le  cose  fun)no  giunte  a  (luesto  punto,  il  modo  metafi- sico di  pensare  si  era  completamente  sostituito  al  modo teologico»  (1). Il  pernio  della  spiegazione  di  Mill  è  che  quando  gli agenti  volontarii  a  cui  la  filosofia  teologica  attribuisce la  i)roduzione  dei  fenomeni,  non  furono  più  gli  oggetti stessi,  ma  delle  divinità  situate  fuori  degli  oggetti  e  a una  certa  distanza  da  essi,  in  virtìi  del  pregiudizio  na- turale che  non  j)uó  esservi  azione  che  a  contatto,  s'im- maginarono delle  entità  situate  negli  stessi  oggetti,  af- finché l'azione  della  divinità  potesse  giungere  a  questi per  il  loro  intermediario.  Questa  spiegazione  é  tutt'altro che  soddisfacente,  perché  in  virtù  dello  stesso  pregiu- dizio naturale  che  non  può  esservi  azione  a  distanza, avrebbe  bisognato  immaginare  un'altra  entità  posta  fra la  divinità  e  l'entità  risiedente  nell'  oggetto,  e  poi  una terza  entità  fra  la  seconda  e  la  divinità,  e  così  di  se- guito. Ma  lasciamo  ciò.  Il  vero  punto  che  bisognava  li- scluarare  la  spiegazione  lo  lascia  nell'  oscurità.  Perché questa  qualche  cosa  d'intermediario,  necessaria  affinché la  divinità  potosse  agire  sull'oggetto,  doveva  essere  pre- cisamente un'entità,  cioè  un'astrazione  realizzata?  Forse questa  spiegazione  deve  essere  completata  con  quella  che l'autore  ci  dà  nella  Logica,  cioè  che  gli  uomini  realizza- ci) Stuart-Mill,    A.    Comte    e    il  positivismo,    tradiiz.    frane, pag.  19-23. —  16  - —  17  — rono  le  astrazioni  in  virtù  deiraltro  pregiudizio  naturale che  ciò  che  può  essere  pensato  a  parte  esiste  a  parte  f Ma  se  è  così,  non  si  vede  perchè  lo  stiito  metafisico  sia apparso  dopo  lo  stato  teologico,  perchè  gli  uomini  non abbiano  cominciato  a  realizzare  le  astrazioni  che  dopo la  cessazione  del  feticismo.  Fu,  dice  Mill,  perchè  durante il  feticismo  non  vi  ebl>e  astrazione  né  classificazicme  degli oggetti.  Ma   per  qual  ragione  ?    Inoltre   questi  sviluppi che  Mill  dà  alla  teoria  di  Corate  ingrandiscono  un  altro dei  punti  deboli  di    questa  teoria,  cioè  la  supposizione gratuita  che  vi  è  stato  un  periodo,  nello  sviluppo  dello spirito  umano,  in  cui    la  realizzazione   delle  astrazioni era  un  fatto  universale— sorvoliamo  sulla  stranezza  di attribuire  agli  uomini  appena  usciti  dal  feticismo  le  no- zioni di  ììature  o  essenze  delle  cose  e  di  virtù  alla  scola- stica, che,  stando  ai  dati  della  storia,  non  appariscono che  con  Platone  e  Aristotile  e  i  loro  discepoli—. Stuart  Mill  fa  una  enumerazione  delle  astrazioni  a  cui i  filosofi  hanno  attribuito  l'obbiettività;  ma  questa  enu- merazione è  ben    lungi  dal    provare   che  vi  è  stato    un periodo,  dopo  la  cessazione  del  feticismo  o  ad  un'altra epoca  qualunque,  in  cui  tutti    gli  uomini,  o  i   filosofi, hanno  considerato  generalmente  le  astrazioni   come  en- tità reali.  «A  questa  fase  (la  metafisica)    non  é  più  un Dio  che  produce  e  dirige  ciascuna   delle  diverse  opera- zioni della  natura  :    è  una   potenza  o  una   forza  o    una qualità  occulta,  considerate  come  esistenze  reali  inerenti, benché  ne  siano  distinte,  ai  corpi  concreti  nei  quali  esse risiedono  e  i  quali  animano  in  qualche  sorta.  In    luoiro delle  Driadi  presiedenti  agli  alberi  e  producenti  e  rego- lanti  i  loro  fenomeni,  ciascuna  pianta  o  ciascun  animale- possiede    allora  un'  anima  vegetativa,  la  Spenuxrj  i/jv^rj d'Aristotile.  A  un  periodo  ulteriore  l'anima  vegetativa diviene  una  Forza  plastica,  e  più  tardi  ancora  un  Prin- cipio vitale.  Gli  oggetti  allora  si  conducono  come  fanno II perché  è  la  loro  Essenza  d'agire  così  ovvero  in  ragione  di una  virtù  inerente.  Si  rende  conto  dei  fenomeni  per  le tendenze  o  le  inclinazioni  supposte  dell'astrazione  Na- tura, che,  benché  riguardata  come  impersonale,  è  rap- presentata come  agente  per  una  sorta  di  motivo  e  d'una maniera   più  o  meno  analoga  a   quella   degli  esseri  co- scienti. Aristotile  afferma  la  tendenza  della  Natura  verso il  meglio,  ciò  che  gli  fornisce  la  teoria  d'  un  gran  nu- mero di  fenomeni  naturali.  L'elevazione  dell'acqua  nella pompa  è  attribuita  all'orrore  della  natura  per  il  vuoto. La  caduta  dei  corpi  gravi  e   1'  ascensione  della  fiamma e  del  fumo  sono  interpretate  come  tentativi  fatti  da  cia- scuno di  essi  per  occupare  il  suo  posto  naturale.  Dalla dottrina  che    la  natura  non    ha  interruzioni    (non  habet saltum)  si  deducono  molte   conseguenze   importanti.  In medicina  la  forza  curativa  della  Natura  (vis  medivatrix) fornisce  la  spiegazione  dei  processi  riparatori    che  sono rapportati,  dai  fisiologi  moderni,  ciascuno  alle  sue  ope- razioni e  alle  sue  leggi  particolari  »  (1).  «  Nessuno  negherà, a  meno  d^ignorare   interamente  la  storia  del    pensiero, che  in  tutta  l'antichità  e  in  tutto  il  medio  evo  la  specu- lazione è  stata  impregnata  dell'errore  che  consiste  a  pren- dere delle  astrazioni  per  delle  realtà.  Le  famose  Idee  di Platone  furono  la  generalizzazione  e  la  sistematizzazione di  questo    errore.  Gli    Aristotelici   lo   perpetuarono.  Le essenze,  le  quiddità,  le  virtù  risiedenti  nelle  cose  furono accettate  come  una  spiegazione  bona  fide  dei  fenomeni... L'esistenza  reale   delie    sostanze   universali    fu  la  qui- stione  in  litigio  nella  famosa  controversia  della  fine  del medio  evo  tra  il  Nominalismo  e  il  Realismo,  controversia che  rappresenta  uno  dei    punti  capitali  della  storia  del pensiero,  perché  è  la  prima  lotta  di  questo  per  emanci- (1)  ^.  Comte  e  il  posit,  trad.  frane,  p.  11-12.I 4. 'A A -  18  — parsi  dall'impero  delle  astrazioni  verbali.  I  Realisti  fu- rono il  partito  più  forte;  ma  benché  i  Nominalisti  aves- sero per  un  tempo  soccombuto,  la  dottrina  contro  di cui  essi  si  erano  ritoltati  cadde,  dopo  un  breve  inter- vallo, col  resto  della  filosofìa  scolastica.  Ma  mentre  le sostanze  universali  e  le  forme  sostanziali,  costituenti  la specie  più  grossolana  di  astrazioni  realizzate,  furono  più presto  messe  da  parte,  le  Essenze,  le  Virtù  e  le  Qualità occulte  loro  sopravvissero  lungamente  e  furono  per  la prima  volta  completamente  espulse  dal  dominio  dell'esi- stenza reale  dai  Cartesiani Anche  lungo  t^mpo  dopo Descartes  si  continuò  ad  immaginare  delle  entità  fittizie (come  le  chiama  felicemente  il  Bentham)  per  rendersi  con- to dei  fenomeni  più  misteriosi,  sovratutto  in  fisiologia, dove,  nascosti  sotto  una  grande  varietà  di  espressioni, delle  forze  o  princìpii  misteriosi  erano  o  rimpiazzavano la  spiegazione  dei  fenomeni  degli  esseri  organizzati.  Per i  filosofi  moderni  queste  finzioni  sono  semplicemente  i nomi  astratti  delle  classi  di  fenomeni  che  loro  cor- rispondono >  (1).  Alle  astrazioni  realizzate  enumerate qui  dall'  autore  possiamo  aggiungere  quelle  degli  antichi Indiani  e  degli  Hegeliani,  indicate  in  un  luogo  citato in  una  nota  precedente  (2),  e  avremo  una  lista  pres- soché completa  dei  fatti  che  possono  addursi  per  so- stenere la  teoria  di  A.  Comte  e  di  Stuart  Mill,  che  vi ha  un  periodo  nella  evoluzione  del  pensiero  umano, lo  stato  metafisico,  la  cui  nota  caratteristica  ed  essen- ziale é  di  elevare  le  astrazioni  al  grado  di  realtà. Ma  molti  dei  concetti  indicati  dal  Mill  non  hanno  al- cun titolo  per  essere  riguardati  come  astrazioni  realiz- zate. L'  anima  vegetativa  di  Aristotile,  egualmente  che (1)  Stuart -Mill,  A.  Comie  e  il  positivismo,  traduzione  frane, pag.  17-19. (2)  Log.  1.  V,  e.  3  J  4. —  19  - la  sua  anima  umana  (eccetto  il  nous)  e  animale,  non  è data  da   lui   come  una  entità  reale:  è  l'insieme   delle funzioni   del   corpo   organizzato,  la  sua  forma  o  la  sua energia,  e  questa,   come  le  altre forme  o  essenze  delle cose,  non  è  per  lui  una  realtà  sussistente  per  sé  stessa, non  si  distingue   dalla  materia  realmente,  ma  solo  c&n^ cettualmente.  Le  proposizioni  dello  stesso  Aristotile  e  dei Peripatetici  e  le  altre  proposizioni  simili,  che  attribuiscono alla   natura  delle  tendenze  e  delle  inclinazioni  come  ad un  essere  cosciente,  sono,  non    dico   affiitto   innocenti, ma  certo  meno  ree  di  metafisica  di  quanto  lo  suppone  il Mill.  «  Non  bisognerebbe,  dice  Naville  (1),  esagerare  1» portata  di  questa  mitologia,  nella  quale  si  deve  fare  la I^arte  delle  forme  del  linguaggio.  L'orrore  del  vuoto  at- tribuito alla  natura,  Famore  del  riposo  attribuito  ai  cor- pi, erano  delle  formule  che  aggruppavano  un  gran  nu- mero di  fatti  reali.  Il  male  era  di  prendere  l'espressione figurata  di  un  gruppo  di  fatti  per  un  principio  di  spie- gazione  al    quale    la  ricerca  si    termava.  È   manifesto, per    esempio,    che    sinché    si  considerava   l' orrore    del vuoto  come    la  spiegazione   dell'ascensione  dell'acqua in    una   pompa,   non   si    dovevano  studiare  i  rapporti del    fatto   col    peso    dell'  atmosfera  y>    (2).    Noi    ammet- tiamo  che    in    queste   espressioni    vi    era   spesso  qual- che  cosa    di    più    che    delle    semplici    metafore:  era   il concetto  di  una   finalità  incosciente    attribuita  alla  na- (1)  Orig.  della  fisica  moderna,  Rev.  scientif.  2a  ser.,  t.  8. (2)  Per  mostrare  quanto  si  può  andare  lungi  in  questa  via, di  attribuire  gratuitamente  delle  assurdità  ai  filosofi,  metafisici o  non  metafìsici,  prendendo  strettamente  alla  lettera  le  loro espressioni  metaforiche,  basterà  di  citare  l'esempio  di  Max-Miil- ler,  che  vede  una  personificazione  della  natura  nella  dottrina  di Darwin  della  scelta  o  selezione  naturale.  V.  Nuove  Letture  sulla scienza  del  linguaggio,  trad.  ital.  II  voi.  p  ^ I   tura,  in  cui  lo  spirito  vedeva  un  sembiante   di  spiega- zione dei  fatti,  perchè  vi  trovava  una  vaga  assimilazione delle  operazioni  della  natura  a  quelle  dell'uomo,  confor- memente a  quest'illusione  naturale  che  ci  spinge  a  cre- dere che  un  fatto  non  è  spiegato  che  quando  è  assimi- lato ai  fatti   che  ci  sono  i   più   familiari.  Ma  se  ciò  è metafisica,  non  è  però  realizzazione  di  astrazioni,  perchè la  più  parte  dei  filosofi,  egualmente  che  il  volgare,  in- tende per  natura  il  complesso  di  tutti  gli  esseri  esistenti o  almeno  osservabili,  e  non  un'entità  astratta,  né  se  ne fa  un'entità  astratta  quando  si  personifica,  ma  semplice- mente si  umamizza   (in   una  parola,  nelle   proposizioni sulla  natura  indicate  dal  Mill,   non  vi  ha  del  realismo, ma  una  forma  vaga  delV antropomorfismo).  Semba  dun- que che  il  Mill    ha   fallito   in   questo  suo  tentativo    di dare  un  senso  accettabile  alla   proposizione  del  Comte, che  il  sistema  metafisico  tende,  come  gli  altri  due,  al- l'unità, e  che  il  suo  ultimo  termine  «  consiste  a  conce- pire, in  luogo  delle  differenti  entità  particolari,  una  sola grande  entità  generale,  la  natura  »  (1).  Per  quanto  con- cerne le  sostanze  universali,  le  forme  sostanziali,  le  qua- lità occulte,  ecc.  degli  scolastici,  noi  abbiamo  già  fatto le  nostre  riserve  quando  abbiamo  discusso  la  tesi  stessa del  Comte.  Delle  riserve  simili  dobbiamo  fare  per  l'altra entità,  che  il  Mill  considera  come  la  più  importante  fra le  astrazioni  realizzate  dalla  metafisica,  cioè  la  Forza.  (2) (1)  A.  Comte  Corso  di  filos.  posit,  voi  I  p.  10. (2)  Nella  Filos.  di  Hamilton,  cap.  16,  sulla  fine,  sembra  ri- durre tutto  le  entità  metafisiche,  cioè  tutte  le  astrazioni  realiz- zate, a  quella  di  forza.  È  a  notare  che  qui  1'  autore  spiega  le astrazioni  realizzate,  ridotte  al  concetto  di  Forza,  altrimenti  ohe nella  Log.  lib.  V  o.  3  }  4  e  nello  scritto  A .  Comte  e  il  positivi^ smo.  Questa  spiegazione  si  riassume  nella  proposizione  che  la forza  è  una  nozione  puramente  subbiettiva,  che  è  un  «  prodotto -  21  — La  più  parte   dei  pensatori    moderni   intendono   certa- mente  per  forza  qualche  cosa  di  più  che   le  condizioni osservabili  che  si  trovano  in  un  corpo,  per  cui  può  mo- dificare lo  stato  di  riposo  o  di  movimento  di  altri  corpi— €  in  questo  senso  la  forza,  è  come  le  qualità  occulte  degli scolastici,  una  varietà  della  forma  della  causa  efficiente che  noi  possimo  cliiamare  agnosticista  —  :  ma  pochi   ri- guardano la  forza  come  un  essere  distinto  dalla  materia e  sussistente  per  se  stesso,  che  è  il  meno  che  si  possa esigere  per  classificarla  fra  le  astrazioni  realizzate.  Così, fatte  queste  sottrazioni  ed  altre  simili,  ecco  press'a  poco ciò  che  ci  resta  di  astrazioni  realizzate,  fra   i  concetti che  hanno  avuto    un'  importanza  reale  nella  storia   del pensiero:  quelle  degli  antichi  Indiani,  dei  Platonici,  dei veri  realisti  del  medio  evo  (che  erano  una  minoranza), degli  Hegeliani;  di  più  le  Forze  di  quei  pochi  tìsici  o  fi- losofi che  considerano  la  forza  come  separata  dalla  ma- teria,  e  il  Principio  vitale  e  altre  entità  congeneri  che molti  fisiologi  e  filosofi  consideravano  un  tempo  come  le cause  dei  fenomeni  degli  esseri  animati  (a  cui  si  potrebbe aggiungere  anche  l'anima,  che,  considerata  come  una  so- stanza, è  certamente  della  stessa  famiglia  che  il  principio vitale).  È  evidente  che  questi    dati  non   autorizzano  la conclusione  che  fra  il  periodo  teologico  e  il  periodo  po- sitivo ne  n'ha  uno  intermediario   in  cui  la  realizzazione delle  astrazioni  è  un  fatto  generale,  e  nemmeno  quella che  è  nella  realizzazione  delle  astrazioni  che  consiste  es- senzialmente o  precipuamente  questo  stato  intermediario della  generalizzazione  e  dell'astrazione  operanti  sulla  sensazione reale  di  sforzo  muscolare  o  nervoso.  »  Questa  terza  spiegazione dello  stato  metafisico  sarebbe  assai  migliore  delle  altre  due,  se fosse  realmente  possibile  di  ricondurre  tutte  le  astrazioni  realiz- zate, e  generalmente  tutti  i  concetti  metafisici,  a  quello  di  Forza <nel  senso  trascendente  di  questo  termine). —  22  - -  23 fra  la  filosofia   teologica  e  la   filosofia  positiva,  cioè  la iiKitafisica. Fra  i  concetti  clie  si  considerano  o  possono  conside- rarsi come  delle  astrazioni  realizzate,  bisogna  fare  certe distinzioni.  Bisogna  distinguere  prima  di  tutto  due  casi  : l'uno  è  quando  gli  astratti,  cioè  le  qualità,  come  tali^ Tengono  considerata  come  realtà  sussistenti  per  se  stesse; e  Taltro,  quando  ai  nomi,  a  cui  per  noi  corrispondono degli  astratti,  cioè  delle  qualità,  si  fanno  invece  C4*rri- spondere  degli  oggetti  concreti,  cioè  non  degli  indeter" wìinaii  reali j  quali  sono  gli  astratti  considerati  come  es- perì sussistenti  per  se  stessi,  ma  degli  esseri  assoluta- mente  determinati.  Per  conseguenza  l'Aurora  o  la  Notte sostantificate  dal  facitore  di  miti,  ovvero  la  Forza  o  il Prijucipio  vitale  di  quei  fisici  o  fisiologi  che  li  conside- rano come  esseri  reali  distinti  dai  corpi  in  cui  risiedono, (o  anche  l'Anima,  considerata  com^  una  sostanza)  noo eono  ilelle  astrazioni  realizzate  nello  stesso  senso  in  cui lo  sono  le  Idee  (cioè  le  Specie)  platoniche  o  gli  Univer- aali  dei  realisti  scolastici-  Per  Platone  e  pel  realista  sco- lastico l'Uomo  universale  o  l'Essere  universale  non  ha aitilo  cxmtenuto  che  quello  del  concetto  generale  di  uomo o  di  essere  (per  esprimerci  in  termini  della  dottrina  or- dinarla,  eioè  eoneettuaiifita)  j  solamente  ciò  che  |Mjr  il eooeettualista  è  una  semplice  astrazione  mentale,  è  per loro  una  realtà  distìnta^  quantunque  astratta,  cioè  indtn terminata.  Al  contrario  là  dove  noi  vediamo  delle  qua* litò  o  delle  semplici  denominazioni  astratte  àft\  fenomeni^ il  facitore  di  miti  vede  invece  delle  persone;  là  dove noi  vediamo  delle  attitudini  o  delle  proprietà  dei  corpi, il  fisico  che  sostantifica  la  forza,  il  vitalista,  Tanimista, vedono  invece  degli  oggetti  concreti,  semimateriali  o  af- fatto immateriali,  ma  che  sono  tutt*  altra  cosa  che  la ^mplice  obbiettjvazione  dei  nostri  concetti  di  forza  o  di vita  o  di  animazione.  Gli  esseri  Aurora  e  Notte  e  le  so- stanze Forza,  Anima  e  Principio  vitale  sono  degli  esempi del  primo  caso  di  realizzazione  di  astrazioni;  l'Uomo  uni- versale e  l'Essere  universale  di  Platone  e  dei  realisti  sco- lastici sono  degli  esempi  del  secondo  caso  :  è  evidente che  è  solo  in  quest'  ultimo  caso  che  può  parlarsi  con stretta  proprietii  di  astrazioni  realizzate.  Un'altra  di- stinzione che  non  bisogna  negligere,  è  tra  il  caso  in cui  si  realizzano  accidentalmente  certe  astrazioni,  e quello  in  cui  si  realizzano  sistematicamente  le  astra- zioni. Questa  distinzione  coincide,  quantunque  non  per- fettamente, con  la  prima.  Platone  e  il  realista  scola- stico obbiettivano,  in  principio  se  non  praticamente, tutti  i  concetti  astratti  e  generali;  questo  caso  è  ben  dif- ferente da  quello  dell'uomo  primitivo  o  del  filosofo  in- diano che  non  fanno  corrispondere  delle  persone  o  delle sostanze  che  a  un  certo  numero  solamente  di  nomi  astratti, o  del  tisico,  del  fisiologo  e  del  filosofo  animista  che  non sostantificano  che  la  forza,  l'anima  e  il  principio  vitale. È  solo  nel  primo  caso  che  può  applicarsi  la  definizione della  metafisica  di  A.  Comte  e  di  Stuart  Mill.  Volendo dunque  esprimerci  con  proprietà,  una  filosofia  che  ha per  carattere  essenziale  la  realizzazione  delle  astrazioni, significherà  per  noi  una  filosofia  in  cui  si  verificano  queste due  condizioni  :  l'uua  che  le  astrazioni  si  realizzino  si- stematicamente, e  Faltra  che  le  astrazioni  realizzate  siano ancora  degli  astratti,  quantunque  reali,  cioè  non  siano niente  di  più  che  la  semplice  obbiettivazione  dei  con- cetti astratti.  Fra  le  dottrine  di  cui  ci  è  occorso  di  parlare sin  qui,  come  esempi  veri  o  pretesi  di  realizzazione  di astrazioni,  queste  due  condizioni  non  si  trovano  che  nei sistemi  delle  Idee  di  Platone  e  di  Hegel  e  in  quello  degli Universali  dei  realisti  scolastici. Nei  casi  in  cui  queste  due  condizioni  non  si  verifi- cano, crediamo  vano  di  cercare  una  soluzione  generale della  quistioue  :  perchè  si  realizzino  le  astrazioni.  In  certi —  24  — 25 casi  ha  dovuto  agire  im  processo  simile  a  quello  per  cui si  sono  formati  un  gran  numero  di  miti  e  di  leggende, cioè  l'interpretazione  letterale  di  proposizioui  metaforiche ricevute  da    un'  autorità   troppo  ciecamente   rispettata. Come  dalle  parole  del  Corano  che  Dio  aperse  il  cuore  di Maometto  e  da  altre  simili  espressioni  metaforiche  il  mu- sulmano ne  ha  concluso  che  1'  arcangelo   Gabriele  aprì effettivamente  il  petto  del  profeta,  con  tutte  le  altre  cir- costanze di  questa  leggenda  (1);  così  il  fanatico  settore di  un  caposcuola  indiano,  da  certe  proposizioni  del  ma^ stro  in  cui   la  virtù  sarà  stata  presentata  figuratamente come  un  oggetto  leale  e   dotato  di  attività,   ha  potuto concluderne-  ciò  che  ammette  la  setta  dei  Djainas  (2)  — che    la    virtù    (dharma)  è    una  sostanza  particolare  che penetra  il  mondo  e  che  è  la  causa  dell'  ascensione  del- l'anima verso   la  regione  superiore.  Questa  spiegazione naturalmente  è  sovratutto  applicabile   quando  si  tratta di  scuole  filosofiche  in  cui  troviamo,  al  più  alto  grado, le  condizioni  che  possono  fiivorire  un  tale  processo;  co' me  nelle  sette  indiane,  dove  vediamo,  oltre  all'assenza  di spirito  critico  e  della  libera  ricerca  individuale,  per  au- torità dei  libri  sacri  e  dei  semidei  per  capiscuola,  le  dot- trine trasmesse  oralmente  o  per  mezzo  di  aforismi  scritti estremamente    oscuri,  i  seguaci   di  una  setta   formanti una  corporazione  distinta,,  e  Vipsidixitismo,  per  usare  la parola  di  Bentham,  rinfocolato  da  una  sorta  di  fanati- smo religioso,  anche  quando  i  dogmi   filosofici  sono  in- dipendenti dai  dogmi  religiosi,  perché  la  filosofia  è  con- siderata  come  un  mezzo  per  la  beatitudine  eterna  e  per l'acquisto  di  un  potere  sovrannaturale  anche  in  questa (1)  V.  Tylor.  La  civilizzmior,  e  primitiva  trad.  frnnc.  t.  I  p.  471. (2)  V.  Colebrooke   Saggi   sulla  filosofia  degV Indiani,  tradiiz. frano,  p.  215-216. vita  (1).  Noi  spiegheremo  pure  così  (2)  la  dottrina  dei Pitagorici  —  scuola  che  ci  presenta  anch'essa,  evidente- mente, le  condizioni  richieste — che  le  cose  sono  numeri (questa  proposizione  potendo  considerarsi  come  una  rea- lizzazione di  astrazioni,  perchè  fa  dei  numeri  delle  realtà sussistenti  per  se  stesse).  In  altri  casi  la  realizzazione di  astrazioni  è  certamente  l'opera  della  libera  ricerca  in- dividuale, applicata  seriamente  alla  soluzione  di  un  pro- blema filosofico;  ma  possiamo  spiegarla  come  un  effetto indiretto  delle  ordinarie  illusioni  naturali  del  nostro  spi- rito, senza  supporre  l'intervento  di  una  tendenza  parti- colare che  ci  spingerebbe  naturalmente  a  riguardare  gli astratti  come  rejiltà.  Quando  Cartesio  riduce  la  materia all'estensione,  egli  realizza  senza  dubl)io  un'astrazione, perchè  che  altro  è  l'estensione,  separata  dal  colore  e  dalle altre  qualità  sensibili  ?  (3);  ma  è  perchè  egli  vuol  conser- vare alla  materia  l'obbiettività  (conformemente  alla  ten- denza istintiva  che  ci  spinge  ad  obbiettivare  le  nostre sensazioni)  e  dopo  avere  rigettato  quella  delle  proprietà secondarie,  nel  concetto  di  materia  non  trova  a  buon dritto  altra  cosa  che  il  concetto  di  estensione  (4).  Quei Cartesiani  che  pensavano  che,  nella  comunicazione  del movimento,  lo  stesso  movimento  (idem  numero)  passa da  un  corpo  ad  un  altro,  come  se  esso  fosse  qualche  cosa di  sostanziale  (5),  realizzavano  l'astrazione  movimento  per- ii) V.  Colebrooke  p.  3.  8,  10,  32,  117,119,151,  153,157,207, 210,  eoe,  Ueguaud  Studi  di  fìlos.  ind.  iu  Rev:  phiL  t.  I,  eco. (2)  V.  Supplem.  K^. (3)  V.  la  parte  2»  di  questo  Saggio. (4)  V.  il  mio  studio  sulla  dottriua   della    materia  iu  Kosuiiui e  la  secouda  parte  di  questo  Saggio. (5)  V.  LeiV)nitz  iV.  Saggi  sulV  inlend.  nniano    t.  II  e.  21  §  4 e  e.  23  $  28. 2H  — che  il  fatto  nonfamiliare  della  conservazione  del  movimento sembrava  loro  più  comprensibile  dopo  che  lo  avevano  assi- milato al  lìsitto  familiariss imo  della  conservazione  della materia,  in  virtù  della  tendenza  naturale  del  nostro  spirito a  credere  che  un  fenomeno  non  è  spiegato  che  (juando  si  è assimilato  a  qualcuno  di  quelli  che  ci  sono  i  più  familiari. È  allo  stesso  motivo  che  si  deve,  in  certi  casi,  la  realizza- zione dell'astrazione /or^ra,  mentre  in  altri  casi,  p.  e.  nella dottrina  di  Hirn,  essa  ha  piuttosto  per  iscopo  di  ricondurre l'azione  a  distanza  a  una  sorta  di  azione  a  contatto  (vale  a dire  ancora  un  fenomeno  non  familiare  a  un  fenomeno /amiliarissimo)  supponendo  che,  se  il  corpo  agente  è  di- stante dal  corpo  su  cui  agisce,  è  almeno  a  contatto  con questo  il  principio  a  cui  appartiene  realmente  Fazione, cioè  la  Forza  (1).  L'anima  e  la  forza  vitale  si  sostantifi- cano,  come  spiegheremo  nell'Appendice,  per  conciliare  il fatto  del  passaggio  della  materia  dallo  stato  vivente  allo stato  non  vivente,  dallo  stato  cosciente  allo  stato  non  co- eciente,  e  viceversa,  col  principio  incosciamente  presup- posto, e  che  è  un'induzione  delle  nostre  esperienze  più familiarì,  che  le  cose  ^on  possono  cangiare  nelle  loro proprietà  sostanziali,  lo  stesso  principio  che  è  la  base della  dottrina  dei  quattro  elementi  di  Empedocle,  delle omeomerie  di  Anassagora,  degli  atomi  di  Leucippo  e  di Democrito,  delle  monadi  di  Herbart,  ecc.  Il  Nous  dello stesso  Anassagora  e  di  Aristotile  potrebbe  considerarsi anch'esso  un^astrazione  realizzata,  e  a  più  buon  dritto la  volontà  di  Schopenauer  (perchè,  dopo  averne  soppresso l'intelligenza  e  la  coscienza,  non  resta  di  questo  processo psichico  che  chiamiamo  volere  che  una  forma  senza  con- tenuto^  :  i  primi  sostantificano  l'intelligenza,  perchè  cre- dono che,  fra  le  proprietà  dello  spirito,  essa  è  la  sola che  sia  compatibile  con  l'impassibilità  e  l'immutabilità (I)  V.  volume  precedente»  enp.  V. —  27 che  devono  essere  i  caratteri  della  causa  prima;  l'altro la  volontà,  senza  l'intelligenza  e  la  coscienza,  perchè vuol  conciliare  il  principio  d'uno  spiritualiemo  estremo che  il  fondo  delle  cose  è  alcun  che  di  psichico,  con  la dottrina  materiaUsta  che  l'intelligenza  e  la  coscienza  non sono  che  dei  fenomeni  cerebrali.  Negli  uni  e  nell'  altix> questa  realizzazione  di  astrazioni  é  una  conseguenza  in- diretta della  t»endenza  ad  assimilare  le  azioni  della  na- tura alle  azioni  dell'uomo,  che  è  un  caso  di  quella  più generale  a  ricondurre  tutti  i  fatti  a  quelli  che  ci  sono i'più  familiari.  In  tutti  questi  casi  la  vera  sorgente  del- l'illusione è  il  sofisma  a  priori  che  ci  spiega  tutte  le  il- lusioni della  metafisica,  cioè,  enunciandolo  nella  forma più  generale,  la  tendenza  a  modellare  tutt^i  le  nostre  idee sul  tipo  di  quelle  che  ci  sono  le  più  familiari,  di  cui l'effetto  più  importante  è  quello  studiato  nella  prima parte  del  presente  Saggio,  vale  a  dire  la  nozione  di  causa efficiente  e  le  sue  diverse  applicazioni.  È  ad  esso  che dobbiamo  ricondurre  quella  realizzazione  di  astrazioni in  cui  si  verificano  le  due  condizioni  precedentemente indicate,  cioè  la  forma  di  metafi^tica  die  può  definirsi propriamente  come  un'obbiettivazionedei  concetti  astratti: è  hi  sola  realizzazione  di  astrazioni  che  per  noi  è  suscet- tibile di  una  spiegazione  generale,  alla  quale  sarà  consa- crato il  resto  di  questo  capitolo. J  2.  Cominciamo  per  definire  d' una  maniera  più  chia- ra questa  forma  di  metafisica.  Si  sa  che  alla  (luistione: che  cosa  corrisponda,  nella  realtà,  ai  nomi  generali  « astratti,  che  è  che  essi  significhino,  si  sono  date  tre  so- luzioni, elle,  prendendo  queste  denominazioni  dalla  filo- sofìa dei  medio  evo,  possiamo  chiamare  il  realismo,  il ooneettualismo  e  il  nominalismo.  Secondo  il  nominalismo, non  solo  non  vi  Itanno  nella  realtà  che  oggetti  concreti  e particolari,  ma  noi  non  abbiamo  altre  idee  che  di  oggetti concreti  e  particolari;  un  nome  generale,  cioè  un  nome IN j 28  - —   29  — di  classe,  iiod  sìguifica  altro,  e  non  può  altro  suggerirci allo  spirito,  che  le  idee  degli  oggetti  particolari  e  con- creti appartenenti  alla  classe  —  in  quanto  ai  nomi  a- 8tratti,essi  non  servono  che  ad  esprimere  più  brevemente la  stessa  idea  che  potrebbe  essere  espressa  da  una proposizione  che  non  avesse  per  termini  che  dei  no- mi designanti  gli  oggetti  concreti  corrispondenti  (1)  — . Il  concettualismo,  che  è  la  dottrina  più  diftusa  tra  i filosofi^  ammette,  come  il  nominalismo,  che  non  vi  han- no nella  realtà  che  oggetti  concreti  e  particolari,  ma,  a differenza  del  nominalismo,  suppone  che,  oltre  alle  rap- presentazioni di  oggetti  concreti  e  particolari,  noi  abbia- mo delle  rappresentazioni  astratte  e  generali  (concetti), cioè  in  cai  sarebbe  rappresentato  solamente  ciò  che  è comune  a  tutti  gli  individui  della  classe,  con  l'eschisione di  tutte  le  particolarità  proprie  ai  diversi  individui.  P.  e. oltre  all'  idea  di  questo  e  quel  triangolo  particolare  (reale o  immaginario),  noi  avremmo,  secondo  questa  dottrina, l'idea  astratta  e  generale  di  triangolo,  che  rappresente- rebbe le  qualità  che  possono  essere  attribuite  in  comune a  tutti  i  triangoli,  ma  senza  le  particolarità  che  sono proprie  ad  uno  o  ad  alcuni,  p.  e.  le  dimensioni,  il  colo- re, il  posto  determinato,  l'essere  equilatero,  isoscele  o  sca- leno, l'essere  rettangolo,  ottusangolo  o  acutangolo,  ecc. Una  tale  idea  si  chiama  generale,  in  quanto  conviene a  tutti  gl'individui  d'una  classe;  astratta  in  quanto  non rappresenta  che  le  qualità  comuni  a  tutti,  con  Tesclu- sione  delle  particolarità  proprie  a  questi  e  a  quegli  altri. Secondo  il  realismo j  come  vi  hanno,  nella  realtà,  delle cose  corrispondenti  alle  idee  concrete  e  particolari  e  di cui  queste  sono  le  rappresentazioni,  cosi  vi  hanno  pure, nella  realtà,  delle  cose  corrispondenti  alle  idee  astratte  generali  e  di  cui  queste  sono  le  rappresentazioni,  delle l4 (1)  V.  il  Saggio  lo,  cap.  lo,  {  20. ir I  *' cose  che  sono  a  queste  idee  ciò  che  la  realtà  è  all'  im- magine,  al  ritratto  1'  originale.  Vi  ha  dunque,  secondo questo  sistema,  un  triangolo  astratto  e  generale,  di  cui l'idea  astratta  e  generale  di  triangolo  è  la  copia  nel  no- stro spirito;  e  così  pure  un  uomo,  un  animale,  un  al- bero, un  essere,  astratto  e  generale,  di  cui  l'idea  astratta e  generale  di  uomo,  di  animale,  di  albero,  di  essere  è ì\  facsimile  e,  per  dir  così,  il  duplicato,  nel  nostro  pen- siero; a  ogni  idea  astratta  e  generale  (ammessa  dal  con- cettualismo) corrisponde   una   cosa   astratta  e  generale, di  cui  essa  è  la  rappresentazione  o  l'immagine.  Questo triangolo,  quest'uomo,  quest'animale,  ecc.  astratti  e  ge- nerali non  sono   delle   entità    misteriose  e  inconoscibili (come  la  Forza  o  il  Principio  vitale)  e    nemmeno  delle personificazioni  (come  l'Aurora  o  la  Notte  dei  miti  o  gli Eoni  degli  Gnostici):  una  cosa   astratta  e  generale  non è  che  l'idea  astratta  e  generale  corrispondente,  che  s^im- prime,  per  dir  così,  nella  realtà,  che  si  obbiettiva  e  si esteriorizza,  che  passa,  se  mi  è  lecito  di  esprimermi  così, dallo  stato  debole  allo  stato  forte   (trasportando  a  que- sto sistema    la   distinzione  di  Spencer  tra  le  sensazioni propriamente  dette,  cioè  la  realtà  del  volgare,  e  le  sen- sazioni riprodotte  o  rappresentazioni);  il  concetto  astratto e  generale  e  la  cosa  astratta  e  generale  hanno  lo  stesso contenuto,  l'  uno  nella  forma  del  pensiero,  e  l'altra  in quella  della  realtà.  Il  triangolo,  l'uomo,  l'animale,  ecc. astratto  e  generale  non  ha,  in  altri   termini,  o  piuttosto non  è,  che  l'insieme  delle  qualità  comuni  a  tutti  i  trian- goli, a  tutti   gli  uomini,  a  tutti    gli  animali,  senza  le particolarità  proprie  a  questi  e  a  quei  triangoli,  a  que- sti e  a  quegli  uomini,  a  questi  e  a  quegli  animali.  Que- sto triangolo,  quest'uomo,  quest'animale,  ecc.  astratto  e generale  è  uno   in   se   stesso,  ma  è  presente  allo  stesso tempo,  senza  moltiplicarsi  e  senza  dividersi,  in  tutti  i triangoli,  in  tutti  gli  uomini,  in  tutti  gli  animali  indi- —  30  — viduali  —  per  questa  sua  presenza  nei  diversi  individui apparisce  multiplo,  mentre  in  realtà  non  è  che  uno  —  :  se tutti  i  triangoli,  tutti  gli  uomini,  tutti  gli  animali  indi- viduali si  rassomigliano,  se  sono  tutti  triangoli,  uomini, animali,  e  li  chiamiamo  tutti  egualmente  con  lo  stesso nome,  è  perchè  in  tutti  egualmente  è  presente  lo  stesso triangolo,  lo  stesso  uomo,  lo   stesso   animale  astratto  e generale.  Una  cosa  astratta  e  generale  non  è,  insomma, che  un  attributo  trasformato  in  sostanza;  ma  questa  so- stanza non  è  altro  che  l'attributo  stesso  considerato  co- me esistente  per  se  stesso,  quantunque  non  mai  isolato, ma  sempre  in  compagnia  degli  altri  attributi  che  com-  . pongono  ciò  che  per  noi  è  la  sola  realtà  (ma  che  per  il realista  è  un  tessuto  di  cui    le    realtà   astratte  formano la  trama),  cioè  gli  oggetti  concreti  e  individuali.  Le  cose astratte  e  generali    non    sono   dunque    un  altro  mondo, un'altra  realtà,  che  si  sovrappone  alla  realtà  empirica  : sono  la  stessa  realtà  empirica,  cioè  la  realtà  concreta, decomposta  in  elementi  astratti,  ma  di  cui  ciascuno  si considera  pure  come  una  realtà,  e  non  come  una  sem- plice astrazione  mentale. Nei  pensatori  in  cui  1'  obbiettivazione  dei  concetti è  una  vera  filosofìa,  cioè  uno  sforzo  del  libero  pen- siero individuale  per  darsi  una  spiegazione  delle  cose (e  non  un'  ipotesi  senz'  alcun  valore  esplicativo,  e  che non  ha  altro  fondamento  reale  che  l'autorità  e  un  cieco tradizionalismo),  alla  obbiettivazione  dei  concetti  è  u- nito  un  metodo,  che  consiste  a  scoprire  questi  concetti obbiettivati  per  un  procedimento  a  priori  e  deducendoli gli  uni  dagli  altri,  e  che  noi  {tossiamo  chiamare  dialet- tica (prendendo  questa  parola  in  un  senso  più  lato  che i  suoi  autori),  perchè  così  è  stato  chiamato  dai  due  rap- presentanti più  illustri  di  questa  forma  di  metafìsica,  cioè Platone  ed  Hegel.  Senza  questo  metodo,  l'obbiettivazioue dei  concetti  è  un'ipotesi  assolutamente  vana;  non  è  una —  31  — spiegazione  delle  cose  che  unitamente  a  questo  metodo. Esso,  considerato  nei  suoi  tratti  essenziali  —  cioè  comuni ai  diversi  sistemi,  e  da  cui  gli  altri  derivano  —  può  es- sere descritto  brevemente  così  :  si  comincia  per  porre  a priori  un  concetto,  s'intende,  obbiettivato,  cioè  si  stabili- sce, per  ragioni  {uiramente  logiche,  vale  a  dire  indipen- denti dall'  osservazione,  che  esiste  nella  natura  la  real- tà corrispoudente    a    questo    concetto    (facendo    vedere p.  e.,  che  la  non  esistenza  di  questa  realtà  sarebbe  in- trinsecamente   impossibile  e  contraddittoria);  da  questo concetto  primitivo  si  deducono    altri   concetti   (pure  ob- biettivati),  cioè  si  fa  vedere  che,    data  la  realtà  corri- spondente a  quello,  sono  pure  date,  per  una  conseguenza necessaria,  le  realtà  corrispondenti  a  questi;  da  questi altri  concetti  se  ne  deducono,  della  stessa  maniera,  degli altri,  e  da  questi  altri  altri  ancora,  e  così  di  seguito,  sin- ché si  siano  scoverti,  a  priori,  per  questa  deduzione  pro- gressiva, tutti  i  concetti  obbiettivati,  cioè  tutto  il  reale, perchè  il  reale,  in  questi  sistemi,  si  risolve  nei  concetti obbiettivati  ed  è  da  essi  costituito.  La  deduzione  di  cui si  tratta  in  questi   sistemi    non   è   quella   che  la  logica chiama  così,  cioè  il  sillogismo;  ma  essa  pretende  di  con- cludere con  necessità  (nel  senso  stretto  della  parola,  che Kant  definisce   l'impossibilità  di  concepire  il  contrario) e  senza  partire  dai  dati  dell'osservazione;  così,  quantun- que si  allontani  più  o  meno    dalla   deduzione   della  lo- gica comune,  fra  i  due  processi  di  ragionamento  che  que- sta ammette,cioè  la  deduzione  e  rinduzione,è  la  prima  che essa  prende  per  tipo,  ed  è  in  opposizione  assoluta  con  la seconda.  È  questa  differenza  fra  la  loro  pretesa  deduzione e  la  vera  deduzione  dei  logici  che  è  il  principale  ostacolo per  comprendere   questi    sistemi   e   lo   scopo  a  cui  essi tendono  :  per  conseguenza,  per  dare  un'idea  approssima- tiva  di    questa   forma   di    metafisica,    noi    prenderemo come  esempio  un  sistema   in   cui  la  deduzione  si  allon- -  32  —  tani  /  il  meno  che   sia   possibile,  dalla  vera  deduzione, cioè  da  quella  dei  logici.  Nel  sistema  che  ci  servirò  co- me esempio  (e  che,  come  vedremo  a  suo  luogo,  non  è una  semplice    immaginazione,  ma  una  realtà  storica)  i concetti  obbiettivati  formano  delle  coppie,  e  ciascuna  di queste  coppie  è  ciò  che  chiamiamo  una  legge  della  na- tura. La  legge  della  natura,  p.  e.,  espressa  dalla  propo- sizione Vanimale  è  mortale,  è  la  coppia  dei  due  concetti obbiettivati  1'  Animale  (astratto  e  generale)  e  la  Morta- lità ;  la  legge  della    natura    espressa  dalla  proposizione la  wateria  gravita,  la  coppia  dei  due  concetti  obbietti- vati Materia  e  Gravitazione;  ecc.  Così,  se  ogni  animale è  mortale,  è  perchè  l'Animale  astratto  e  generale,  pre- sente in  tutti  gli    animali,  è  accoppiato  alla  Mortalità; se  ogni  corpo  gravita,  è  perchè  il  Corpo  astratto  e  gene- rale, presente  in   tutti  i  corpi,  è  accoppiato  alla  Gravi- tazione; ecc.  Ora  fra  queste  leggi  della  natura  ve  ne  ha di  più  generali  e  di    più    particolari  :  ciò  vuol  dire  che 1  concetti  obbiettivati,  le  cui  coppie  costituiscono  queste leggi,  sono  di  gradi  differenti  di  generalità,  e  per  con- seguenza anche   di    astrattezza.  Le  leggi  più  particolari formano  diversi  gruppi,  di  cui  ciascuno  si  condensa  in una  legge  più  generale;  le  leggi  più  generali  cosi  otte- nute  formano   pure  diversi  gruppi,  di  cui    ciascuno  si condensa  in  una   legge   ancora  più  generale  ;  e  così  di seguito,   sinché  si  giunga  a  una  legge  suprema  unica, in  cui  tutte   sono   riassunte  e  condensate.  Questa  legge suprema  è  un  assioma:   essa   deve  ammettersi,  non  in virtù  d'  un'  induzione    dalle  leggi    particolari  e  dai  fe- nomeni da  cui  queste   possono  ricavarsi,  ma  perchè  la sua  esistenza  è  intrinsecamente  necessaria  e  la  sua  non esistenza  intrinsecamente   impossibile  e  contraddittoria. Dalla  legge  suprema,  assiomatica,  si  deduce  un  gruppo di  leggi  meno  generali  —  quantunque  le  più  generali  di tutte  le  altre  — ;  da  ciascuna  di  queste  leggi  un  gruppo —  33  — di  leggi  meno  generali  ancora  —  ma  più  generali  che  le rimanenti  — ;  e  così  di  seguito,  sinché  si  siano  scoverte a  priori  tutte  le  leggi  della  natura  per  una  deduzione progressiva,  che  va  sempre  da  una  legge  più  generale  a un  gruppo  di  leggi  più  particolari.  Ogni  legge  è,  ricor- diamolo,  unji  coppia  di  entità  astratte  e  generali:  così questa  deduzione  progressiva  consiste  a  passare  conti- nuamente da  una  coppia  di  entità  a  un  gruppo  di  altre coppie  di  entità,  meno  astratte  e  meno  generali  che quella.  La  coppia  primitiva  si  ammette  per  la  sua  evi- denza intrinseca;  ciascuna  delle  altre  si  ammette  in  virtù di  una  deduzione,  cioè  come  conseffuenza  di  una  coppia precedente  che  ne  è  la  premessa. In  questo  sistema  noi  possiamo  vedere,  io  credo,  più chiaramente  che  in  un  altro  quale  sia  lo  scopo  e  il  mo- tivo di  questa  forma  di  metafìsica.  Questo  scopo  e  que- sto motivo  è  V  assimitazioììs  del  rapporto  logico  tra  il principio  e  la  conseguenza  al  rapporto  ontologico  tra  la causa  e  V  effetto.  Che  vuol  dire  infatti  che  la  coppia  di entità  CD  può  dedursi  dalla  coppia  di  entità  AB  ?  Che data  AB,  sarà  data  perciò  CD  ;  che  se  AB  esiste  esi- sterà pure  CD;  infine,  che  l'esistenza  di  AB  trascinerà necessariamente  con  sé  l'esistenza  di  CD.  Ma  ciò  è  pres- soché dire  che  AB  è  la  causa  e  CD  il  suo  effetto,  poiché ciò  che  noi  chiamiamo  causa  ed  effetto  sono  due  cose di  cui  se  l'una  esiste  esiste  anche  l'altra,  in  altre  parole, di  cui  l'esistenza  dell'una  trascina  necessariamente  l'e- sistenza dell'  altra.  Per  la  trasformazione  delle  leggi  in entità  il  principio  logico,  cioè  il  principium  cognoscendi^ si  è  trasformato  in  un  principio  ontologico,  cioè  in  un principium  essendi,  e  la  deduzione  di  una  proposizione da  un'altra  proposizione  in  una  derivazione  reale  di  una cosa  da  un'altra  cosa.  Per  noi  nella  realtà  non  esistono che  fenomeni  particolari;  una  legge  della  natura  non  è Ili »  che  un'espressione  più  o  meno  sommaria  di  un  complesso di  questi  fenomeni;  come  esistenza  distinta  da  questi  fe- nomeni, una  legge  non  è  che  una  proposizione,  o  al  più un'idea  generale.  Che  data  la  legge  a  (la  legge  più  ge- nerale  che   è   il   principio)   è  data  anche  la  legge  b  (la legge  più  particolare  che  è  la  conseguenza),  in  altri  ter- mini che   se   esiste    la   legge  a,  deve  esistere  anche  la legge  b,  vuol  dire  semplicemente  per  noi  che  se  la  pro- posizione a  è  vera,  deve    essere   anche  vera  la  proposi- zione b.  Tra   la   legge  che  è  il  principio  e  la  legge  che ne  è  la  conseguenza  non  vi  ha  dunque  per  noi,  che  le consideriamo   come   proposizioni    o  come   semplici  con- cetti, che  un  rapporto  puramente  logico.  Ma  se  le  leggi sono,  non  più  dei  semplici  concetti  o  delle  proposizioni, ma  delle  cose,  delle  realtà  distinte  le  une  dalle  altre  e dai  fenomeni,  (juesto  rapporto  logico  diviene  anche  on- tologico. Perchè  allora  dire  che  se  la  legge  a  è,  è  anche la  legge  ò,  vorrà  dire  che  se  il  reale  a  esiste,  esiste  anche perciò  l'altro  reale  b,  che  di  questi  due  reali  il  secondo deriva  realmente  (e  son  semplicemente  che  se  ne  deduce)  dal primo,  e  che  il  primo  è  il  principium  essendi  del  secondo (e  non  semplicemente  che  ne  è  il  principium  co(/no8cendi)> Per  vedere  più  chiaramente  che  la  realizzazione  delle  a- strazioni,  cioè,  in  questo  caso,  la  trasformazione  delle leggi  in  entità,  è  la  condizione  per  cui  il  rapporto  pura- mente logico  tra  la  legge  generale  che  è  la  premessa  e le  leggi  particolari  che   ne   sono  le  conseguenze,  viene trasformato  in  un  rapporto   ontologico  tra  la  causa  e  i suoi  effetti,  dobbiamo  riflettere  che  la  legge  generale  e le  leggi  particolari  che  se  ne  deducono  non  sono  che  due enunciazioni  diverse  (se  le  leggi  non  sono  che  proposi- zioni) o  al  più  due  rappresentazioni  diverse  (se  le  leggi sono  delle    idee  generali)  di   una   sola  e  stessa  realtà, cioè  di  un  complesso  di  fenomeni.  Questa  stessa  realtà, questo  stesso  complesso  di  fenomeni,  che  la  legge  gene- ^ -  85  - rale  esprime  o  rappresenta  d' una    maniera  piii  indeter^ minata,  le  leggi  particolari  l'esprimono  o  rappresentano d'una  maniera  più  determinata.  Così  quando  si  deducono le  leggi  particolari    dalla    legge  generale,  passando  dal principio  alle  conseguenze  il  pensiero  non  passa  da  una realtà  ad  altre    realtà    distinte,  ma  dalla  espressione  o rappresentazione  più  indeterminata,  più  astratta,  di  una realtà,a  un'altra  espressione  o  rappresentazione  meno  inde- terminata, meno  astratta,  della  stessa  realtà.  Il  progresso dal  più  indeterminato  al  più  determinato,dal  più  astratto  al più  concreto,  è  soltanto  nel  nostro  i^ensiero:  ma  se  le  leggi sono  delle  entità,  se  degli  astratti  si  fanno  delle  real^i distinte,  il  progresso  del   pensiejo  che,  nella  deduzione delle  leggi,  passa  gradatamente  da  nno  stato  più  inde- terminato a  uno  stato  più  determinato,  da  uno  stato  più astratto  a  uno  stato  più  concreto,  è  la  rappresentazione di  un  progresso  identico  nella  realtà,  che  passa  anch'essa gradatami  nte  da  uno  stato    più   indeterminato  o  più  a- stratto  (le  leggi   più   generali)  a  uno  stato  più  determi- nato o  più  concreto  de   leggi    j)iù    particolari).  In  altri termini,  prima   della   realizzazione   delle   astrazioni,  il passaggio  dal  più  astratto  al  più  concreto,  cioè  dal  prin- cipio alla  conseguenza,  era  semplicemente  un  processo logico;  dopo  la  realizzazione  delle  astrazioni  diviene  an- che un  processo  ontologico,  uno  sviluppo,  una  deriva- zione reale,  un    passaggio   dal    producente  al  prodotto, dalla   causa    all'  effetto.    Nel  seguito  di  questo  capitolo mostreremo  d'  una  maniera   più  chiara  e  più  completa come  la  realizzazione  degli  astratti  sia  la  condizione  ne- cessaria perchè   il    rapporto   logico  tra  il  principio  e  la conseguenza   nella  deduzione  venga  identificato  al  rap- porto ontologico  tra  la  causa  e  l'effetto.  Qual  è  dunque il  motivo  per  cui  si  realizzano  le  astrazioni  ;  nel  nostro caso,  per  cui  le  leggi  si  riguardano  come  entità  ?  È  per- chè la  produzione  reale  delle  cose,  il  modo  essenziale  di (1 I 14 -  36  - questa  produzione,  come  dice  Couite,  sia  una  causazione efficiente,    e    non    delle    semplici    sequenze  invariabili. In  questa  forma  di  metafìsica,  la  vera  causazione  non  è l'incatenamento  regolare  dei  fenomeni  die  si  succedono nel  tempo,  ma  questa  deduzione  che  è  al  tempo  stesso una  derivazione  reale,   questo    passaggio    continuo  dal principio  alla  conseguenza,  dal  più  astratto  al  più  con- creto, che  ha  luogo,  al   di  fuori  del    tempo,  nelle  entità astratte,  che  sono  la  vera   realtà   in   cui  si  risolvono  i fenomeni.  Quando  il  realista   trasforma  le  astrazioni  in realtà  per  assimilare  il  rapporto  tra  il  principio  e  la  con- seguenza a  quello  tra  la  causa  e  1'  effetto,  egli  non  in- tende assimilarlo  al  rapporto   tra  1'  antecedente   di  una sequenza  invariabile  e  il  suo  conseguente,  ma  a  quello tra  la  causa   efficiente  e  il  suo   effetto.  E  infatti  il  raiv porto   di  derivazione   tra   l'entità  principio  e  le  entità conseguenze  (nel   nostro   esempio  tra  la  legge  più  gene- rale e  le  leggi    più  particolari   che   se  ne  deducono)  ha tutti  i  caratteri  che  distinguono  la  causazione  efficiente da  una  semplice  sequenza  invariabile.  Questi  sono,  come sappiamo  :  l^  che  il  legame   tra  la  causa  e  1'  efìetto  sia d'un'evidenza  intrinseca  ;  2"  che  sia  necessario  ;  S*»  che la  causa  spieghi,  d'  una   maniera   radicale,  esauriente, V  effetto,  in  modo  da  non    lasciare    alcun  adito  ancora alla  domanda:  perchè?  È  evidente  che  questi  caratteri si  ritrovano  nel  legame  tra  il  principio  e  la  conseguenza nella  deduzione,  dopo  che,  per  la  elevazione  dei  prin- cipii  e  delle  conseguenze  al  grado  di  entità  reali,  la  de- duzione è  diveuuta    una   derivazione  reale.  Nella  dedu- zione la  connessione  tra  il  principio  e  la  conseguenza  è indipendente  dall'esperienza,  e  si  vede,  non  solo  a  pilori, ma  anche   immediatamente  ;    di  più  questa  connessione ha  la  più  alta  necessità  che  noi   possiamo  immaginare, cioè  l'  impossibilità   assoluta    di   concepire  il  contrario. Per  vedere  che  anche  il  terzo  carattere  si  ritrova  nella T. -  37  — derivazione  successiva  delle  entità  le  une  dalle  altre,  non si  deve  dimenticare  una  circostanza  essenziale  del  me- todo con  cui  esse  si  deducono,  cioè  che  1'  entità  primi- tiva,  da  cui  tutte  le  altre  vengono  gradatamente  de- dotte, è  posta  a  priori,  per  la  necessità  intrinseca  della sua  esistenza,  o,  ciò  che  è  lo  stesso,  l'impossibilità  in- trinseca della  sua  non  esistenza.  Questa  forma  di  meta- fìsica non  è  dunque  che  un'applicazione  del  concetto  di causazione  effìciente,  uno  sforzo  per  ritrovare  al  di  là del  mondo  dei  fenomeni— o  piuttosto  in  questo  mondo stesso,  ma  nella  sua  struttura  latente  e  nel  processo  la- tente della  sua  auto-produzione  —  quest'  incateuamento di  vere  cause  e  di  veri  effetti  (secondo  la  nostra  nozione spontanea  della  causalità),  che  non  si  riesce  a  trovare nei  fenomeni  stessi,  i  quali,  come  tali,  cioè  nella  loro esteri(>rità,  non  ci  presentano  che  degli  antecedenti  e  dei conseguenti  di  sequenze  invariabili. La  circostanza  suindicata  del  metodo  che,  insieme alla  realizzazione  delle  astrazioni,  costituisce  l'essenza di  questa  forma  di  metafìsica,  cioè  che  l'entità  primitiva da  cui  si  fanno  derivare  tutte  le  altre  viene  posta  a priori,  per  la  necessità  intrinseca  della  sua  esistenza,  è un  carattere  essenziale  di  questo  metodo  e  comune  ai diversi  sistemi  Senza  di  essa  il  rapporto  tra  i  i)riucipii e  le  conseguenze  non  potrebbe  identificarsi  a  quello  tra le  cause  e  gli  effetti.  Ciò  non  è  solamente  perchè,  Del- l' assenza  di  questa  condizione,  la  spiegazione  non  sa- rebbe radicale,  esauiien te— poiché  resterebbe  a  spiegare il  primo  principio  per  cui  le  altre  cose  vengono  spie- gate—; ma  anche  per  un'altra  ragione.  L'anteriorità  cro- nologica della  causa  verso  l'effetto  è  sostituita,  in  que- sta metafisica,  da  una  anteriorità  di  natura,  la  quale non  è  che  l'anteriorità  logica  del  principio  verso  la  con- seguenza in  un  metodo  puramente  deduttivo,  o  piutto- sto la  obbicttivazionc  di  essa,  conformemente  al  carat- •t\ —  38  — -  39  - tere  generale  di  questa  filosofìa,  che  consiste  a  dare  un valore  e  un'esistenza  obbiettivi  a  ciò  che  non  ha  che  un valore  e  un'  esistenza  meramente  logici.  Quest'  anterio- rità logica  dei   principii  verso   le   conseguenze  suppone che  il  principio   primo    sia   stato   stabilito   a  priori;  se non  fosse  così,  il  metodo  non   sarebbe  a  priori  e  pura- mente deduttivo,  ma  i  principii  sarebbero  provati  dalle loro  conseguenze,  e  in  definitiva  dai  fatti   dell'  osserva- zione di  cui  esse  sono  l'espressione  astratta;   ma  allora le  conseguenze   avrebbero  lo   stesso   titolo  ad  essere  ri- guardate  come   logicamente    anteriori    ai  principii    che questi  ad  essere  riguardati  come  logicameute  anteriori  a quelle.  Così,  nel   sistema  che  ci  serve  di  esempio,  se  la legge  generalissima   da  cui    tutte  le  altre  si  deducono, non  fosse  stabilita  a  priori,  per  la  sua  necessità  intrin- seca, essa  sarebbe  una  semplice  generalizzazione,  un'in- duzione, delle  leggi  particolari  che  se  ne  deducono;  ma allora  essa  non  avrebbe  un'anteriorità  logica  su  queste, perchè  essa  sarebbe   provata  da  queste  come  queste  sa- rebbero provate  da  essa.  Perchè  i  principii  siano  logica- mente anteriori   alle   conseguenze,    bisogna  che  la  cer- tezza delle  conseguenze  presupponga  la  certezza  dei  prin- cipii,  ma   (piella    dei   principii  non  presupponga  quella delle  conseguenze.    Perciò  il  metodo   deve  essere  pura- mente   deduttivo,  e  per  conseguenza  il  primo  principio deve  essere  stabilito  a  priori,  cioè,  come  abbiamo  detto, per  la  sua  necessità  intrinseca.  Se  il  primo  principio  non fosse  Jstato    stabilito   a  priori,  se,  quindi,  i  principii non  fossero   logicamente  anteriori   alle  conseguenze,  la dipendenza   fra   la   certezza  dei  principii  e  quella  della conseguenza  sarebbe  reciproca;  allora  non  si  avrebbe  il dritto  di  dire    che    1'  esistenza  delle  entità  conseguenze dipende  da  quella  delle  entità   principii,  perchè  con  la stessa  ragione  potrebbe  dirsi  che  l'esistenza  delle  entità principii  dipende  da  quella  delie  entità  conseguenze.  Il I principio,  se  non  fosse  logicamente  anteriore  alle  sue conseguenze,  non  sarebbe  veramente  il  loro  principimn coffnoscendi^  perchè  si  avrebbe  altrettanta  ragione  di  ri- guardare le  conseguenze  (p.  e.  le  leggi  più  particolari) come  il  principium  cofynoscew(^?i  del  loro  principio  (p. e. della legge  più  generale  .  Quindi,  in  tal  caso,  l'entità  princi- pio non  potrebbe  essere  riguardata  come  il  principium esfìendi  delle  entità  conseguenze,  perchè  il  principium cssendi,  in  questa  metafisica,  non  è  che  lo  stesso  prin- cipium coijnoscendi,  che  ha  acquistato  un  valore  obbiet- tivo dopo  l'obbiettivazione  delle  astrazioni,  cioè  dei  prin- cipii e  delle  conseguenze.  Ciò  è  dire,  in  altre  parole, che  la  deduzione  non  sarebbe  una  derivazione  reale,  o che  il  rapporto  tra  il  principio  e  la  conseguenza  non  sa- rebbe identico  a  quello  tra  la  causa  e  l'effetto.  Lo  scopo dunque  a  cui  tende  questa  metafisica,  cioè  1'  assimila- zione del  rapporto  tra  il  principio  e  la  conseguenza  a quello  tra  la  causa  (efficiente)  e  l'effetto,  ha  per  condi- zione necessaria  che  il  metodo  sia  puramente  deduttivo, e  quindi  che  il  principio  primo  sia  stabilito  a  priori, come  intrinsecamente  evidente  e  necessario  :  questa  con- dizione è  altrettanto  indispensabile  che  l'obbieitivazione dei  concetti  astratti  e  l' incatenamento  logico  continuo fra  questi  concetti  obbietti  vati. I  rappresentanti  più  celebri  di  questa  forma  di  me- tafisica non  riguardano  i  concetti  obbiettivati  come  uniti per  coppie,  come  nel  sistema  che  ci  è  servito  di  esempio: così  la  loro  deduzione,  il  loro  metodo  dialettico,  si  ap- plica, non  a  delle  coppie  di  concetti  obbiettivati  di  cui ciascuna  è  considerata  come  una  legge  della  natura,  ma a  dei  concetti  obbiettivati  isolati,  di  cui  ciascuno  rap- presenta una  forma  o  una  determinazione  costante  e  ge- nerale del  reale,  per  conseguenza,  qualche  cosa  di  simile, anch'esso,  a  una  legge  della  natura  nel  sistema  che  ci  è servito  di  esempio.  Inoltre  la  deduzione  nei  loro  sistemi -    40  ~ -  41 si  allontana  di  più  che  in  questo  dalla  vera  deduzione, cioè  da  quella  della  logica  ordinaria  :  basterebbe  già questa  dilì'erenza  importante  che  la  deduzione  va  da  un semplice  concetto  ad  un  altro,  e  non  da  una  pro]K)8Ì- zione  ad  un'  altra  (cioè  da  una  coppia  di  termini  ad un'altra)  come  la  deduzione  ordinaria.  Ciò  non  pertanto il  processo  è  essenzialmente  lo  stesso.  Si  comincia  per porre  a  priori,  per  la  sua  evidenza  o  necessità  intrinseca, un  concetto  obbiettivato,  da  esso  se  ne  deducono  degli  al- tri, da  questi  altri  ancora,  e  così  di  seguito;  e  Tinsieme dei  concetti  obbiettivati  costituisce  una  serie  di  termini, che  divengono  sempre  meno  astratti  o  più  concreti,  ma- no mano  che  si  va  dal  principio  primo  verso  le  conse- guenze ultime— e  infatti  le  conseguenze,  in  qualsiasi  de- duzione, non  potrebbero  essere  che  il  principio  stesso  a uno  stato  più  determinato  o  più  concreto.— Si  vede  così come  anche  in  questi  altri  sistemi  la  realizzazione  delle astrazioni  ha  per  risultato  1'  assimilazione  del  rapporto tra  il  principio  e  la  conseguenza  a  quello  tra  la  causa (efficiente)  e  1'  effetto,  e  ne  è  la  condizione  necessaria. Se  i  concetti  che  stanno  fra  di  loro  nel  rapporto  di  prin- cipi i  e  conseguenze,  non  fossero  che  delle  semplici  astra- zi<mi  mentali  o  dei  termini  generali  di  cui  ciascuno esprime  una  classe  di  cose  o  di  fenomeni,  il  loro  rap- porto non  sarebbe  che  logico;  dedurre  l'uno  dall' altro significherebbe  semplicemente  che,  se  questo  è  vero,  deve essere  vero  anche  quello.  Il  progresso  dal  jnù  indeter- minato al  più  determinato,  dal  più  astratto  al  più  con- creto, avrebbe  luogo  soltanto  nel  nostro  pensiero,  e  non nella  stessa  realtà,  perchè  il  concetto  principio  (cioè  il più  astratto)  e  i  concetti  conseguenze  (cioè  i  meno  a- stratti)  non  rappresenterebbero  che  gli  stessi  insiemi  di cose  o  di  fenomeni,  l'uno  d'una  maniera  più  astratta  o piìi  indeterminata,  gli  altri  d'una  maniera  meno  astratta o  più  detenninata.  Ma  se  i  termini  che  si  deducono  gli I'- uni  dagli  altri  non  sono  dei  semplici  concetti,  cioè  delle astrazioni  mentali,  ma  delle  realtà,  allora  dedurre  B  da  A significherà,  non  semplicemente  che  se  il  concetto  A  è vero  anche  il  concetto  H  deve  essere  vero,  ma  che  se  il reale  A  esiste  anche  il  reale  B  deve  esistere,  che  Tesi- stenza  di  A  trascina  con  sé  l'  esistenza  di  B,  in  altri termini,  che  A  è  la  condizione  di  B,  lo  produce,  ne  è la  causa.  Il  progresso  dal  più  astratto  al  più  concreto, dal  più  indeterminato  al  più  determinato,  non  avrà  luogo soltanto  nel  nostro  pensiero,  ma  sarà  la  realtà  stessa  che sì  metterà,  per  dir  cosi,  in  movimento,  che  passerà  grada- tamente da  uno  stato  più  astratto  o  più  indeterminato  a uno  stato,  più  concreto  o  i)iù  determinato,  in  modo  che questi  stati  successivi  (non  cronologicamente,  ma  logica^ mente)  costituiscano  una  serie  di  momenti,  in  cui  il  con- seguente deriverà  sempre  dal  suo  antecedente,  ne  sa- rà un  prodotto,  un  effetto  necessario.  Non  dimentichiamo che  <|ue8t'incatenimento  di  cause  e  di  effetti,  ottenuto  per l'obbiettivazione  dei  ccmcetti  e  il  legante  logico  continuo introdotto  fra  di  loro,  è  modellato  sul  tipo  della  cansa- zione  efficiente,  e  non  su  quello  della  semplice  uniformità <ii  sequenza,  perchè  il  legame  tra  la  causa  e  l'ettètto  è  in- trinsecamente evidente  e  necessario  (poiché  tale  è  il  le- game tra  il  principio  e  la  conseguenza  nella  deduzione),  e perchè  l'effetto  è  spiegato  d'una  maniera  radicale  ed  esau- riente (poiché  si  deduce  da  un  principio  anch'esso  evi- dente intrinsecamente  e  necessario) Per  dare  un'ide^i  generale  di  questa  forma  di  metafi- sica, dobbiamo  aggiungere  che  talvolta,  invece  dell 'ob- biettivazìone  dei  concetti  propriamente  de  ti,  si  mette  in opera  un  altro  processo  analogo,  che  conduce  pure  allo stesso  risultato,  cioè  la  trasformazione  del  rapporto  tra il  principio  e  la  conseguonza  in  un  rapporto  tra  la  causa (efficiente)  e  l'effetto.  Quest'altro  precesso  consiste  anche esso  come    l'obbiettivazione   dei  concetti   propriamente —  42  —  detti,  nell'accordare  un'  esistenza  per  sé  agli  attributi, concepiti  ciascuuo  separatamente  dagli  altri  che  coesistono con  esso  nei  soggetti  concreti;  ina  invece  di  fare  rappre- sentare, come  quando  si  obbiettivano  i  concetti,  ciascun attributo  da  un  tipo  unico,  presente  al  tempo  stesso  nei diversi  individui  che  ne  partecipano,  si  eleva  al  grado  di realtà  sussistente  per  se  stessa,  non  questo  tipo  unico, ma  tutto  ciò  che  esso  rappresenta,  vale  a  dire  tutto  il contingente  dell'attributo  esistente  nell'universo   reale. P.  e.  l'estensione,  come  entità   astratta   sussistente  per se  stessa,  sarà,  non  il  concetto   obbiettivato  di  esten- sione, ma  tutta  l'estensione  esistente   nell'universo,  se- parata dagli  altri  attributi  con  cui  coesiste  nelle  realtà concrete.  Noi  diremo  con  più  precisione  di    questa   va- rietà della  nostra  forma  di  metafisica  nei  ^  24  e  seg.  di questo  capitolo.  Qui  basterà  di  accennare  che  anch'essa unisce  alla  realizzazione  delle  astrazioni  il  metodo  che  noi chiamiamo,  in  senso  lato,  dialettico;  vale  a  dire  che  essa incomincia  per  porre  a  priori,  come  intrinsecamente  evi- dente e  necessaria,  un'astrazione  primitiva,  da  questa  de- duce altre  astrazioni,  da  queste  altre  ancora,  e  così  di  se- guito, in  modo  che  tutte  queste  astrazioni  formano  una serie  di  termini  logicamente  successivi,  in  cui  si  passa continuamente  dal  più  astratto  al  più   concreto,    mano mano  che  si  va  dal  principio  primo  verso  le  conseguenze ultime.  Anche  in  questo  caso  la  realizzazione  delle  astra- zioni ha  per  iscopo  di  trasformare  il  legame  logico  tra queste  astrazioni  in  un  legame  ontologico  :  mercè  que- sta realizzaziooe,  il  progresso  dal  più  astratto  al  più  con- creto ha  luogo  nella  realtà  stessa  e  non  soltanto  nel  no- stro pensiero,  e  dedurre  un'astrazione  da   un'altra  non significa  seuiplicemente  che  se  un'idea  o  una  proposizione è  vera  è  anche  vera  un'altra  idea  o  un'altra  proposizione, ma  che  se  un  reale  esiste,  esiste  anche    un  altro  reale, e  che  perciò  il  primo  è  il  priiìCìpium  essendi  dell'altro  (e ~  43 non  soltanto  il  prìncipmm  coiinoscendi),  vale  a  dire  lo produce  o  ne  è  la  causa.  Questa  causa  è  una  causa  e/- Hciente,  per  le  stesse  ragioni  die  abbiamo  indicato  pre- cedentemente. Questa  identificazione  che  fa  il  metafisico  realista  tra la  semplice  ragione  logica  e  la  causa  efficiente .  ha  la sua  prima  radice  nell'analogia  che  sembra  esistere  fra questi  due  concetti,  anche  al  punto  di  vista  ordinario. La  parola  «perchè»  significa  al  tempo  stesso  la  causa di  un  fatto  e  la  ragione  che  lo  spiega  o  per  cui  dobbiamo ammetterlo.  Quest'analogia  è  al  più  alto  grado  quando la  ragione  che  prova  o  spiega  un  fatto  consiste  a  de- durh)  da  principii  evidenti  per  se  stessi  e  necessari,  ciò che  anticamente  si  chiamava  ragione  a  priori.  Ricor- diamo un  luogo  di  Lei  bnitz  precedentemente  citato:  (1) «  La  ragione  è  la  verità  conosciuta  di  cui  il  legame  con un'altra  meno  conosciuta  fa  dare  il  nostro  assentimento all'ultima.  Ma  particolarmente  e  per  eccellenza  si  chia- ma ragione,  se  è  la  causa  non  solo  del  nostro  giudizio, ma  ancora  della  verità  stessa,  ciò  che  si  chiama  pure rafjione  a  priori,  e  la  causa  nelle  cose  corrisponde  alla ragione  nelle  verità  ».  Quest'analogia  che  il  nostro  spi- rito stabilisce  naturalmente  tra  la  ragione  e  la  causa, si  mostra  tuttora  chiaramente  quando  la  legge  secondo cui  avviene  un  fenomeno  viene  chiamata  la  causa  del  fe- nomeno (senza  pensare  a  sostantificare  le  leggi  della natura,  come  nel  sistema  che  ci  è  servito  di  esempio della  nostra  forma  di  metafisica);  e,  come  abbiamo  visto, Aristotile  ammette  che  la  vera  dimostrazione  consiste  a dimostrare  per  le  cause,  intendendo  per  cause  tanto  la causa  efficiente  e  la  finale  quanto  le  premesse  da  cui una  proposizione  si  deduce  in  un  ragionamento  pura- mente  deduttivo  —  (lueste  premesse  potendo  essere  sia (1)  Vessenza,  da  cui  si  deducono  secondo  Aristotile  le  prò- prietà,  sia  una  proposizione  più    generale   qualsiasi    per cui  si  dimostra  una  proposizione  più  paiticolare— (1)  Con- formemente a  questo  significato  aristotelico  del  termine causa;  che  confonde  la  causa  propriamente  detta  con  la ragione  a  priori,  dimostrazione  a  priori,  nel  medio  evo, equivaleva   a   dimostrazione  per  le  cause;  e  nello  stesso senso  il  Vico  dice  che  di  tutte  le  scienze  umane  le  ma- tematiche unicamente    procedono    a    somiglianza  della scienza  divina,  perchè  esse  sole  provano  dalle  cause.  (2) Noi  abbiamo    visto  pure  come  i  Peripalitici  hanno  svi- luppato il  concetto  aristotelico   che  gli    attributi  essen- ziali sono  le  cause  dei  propri,  affermando  che  l'essenza produce  i  [)ropri  per  emanazione  (Averroe),  che  è  la  causa efficiente  dei  propri  (S  Tommaso),  che  i  propri  fluiscono dall'essenza  che  è  la  loro  causa  (Duns-Scoto),  e  alrre  pro- posizioni dello  stesso  genere  (3);  e  infine  come  la  ragione su  cui  è   fondata  la  prova  a  priori  dell'esistenza  di  Dio, vale  a  dire  l'argomento  ontologico,  sia  stata  riguardata dagli  autori  che  hanno  proposto  quest'argomento,  come  la <!ausa  dell'esistenza  di  Dio  (4)  In  tutti  questi  casi  il  rap- porto tra  la  ragione  e   la   causa    non  può   oltrepassare la  semplice  analogia  :    ma   questa   analogia  diviene  una vera  identità,   quando  la  ragione  di  una  cosa  e  questa cosa  stessa  sono  considerate    come  due   realtà   distinte, mediante  l'obbiettivazione  dei  concetti  o  qualche   altro processo  simile.  Il  perchè  è  evidente:  la  causa  e  l'effetto sono  due  fatti  distinti  e  separati,  e  per  conseguenza  una astrazione  ncm  può  essere  riguardata  propriamente  come (1)  V.  App.  al   cap.  VI  Cfr.    anche    il   presente  capitolo,  pa- ragrafo  22. (2)  Vìvo   Risposta   a  tre  gravi   spposizioui   contro  il   libro  De nntiquissima  Italorvm  supientia, (3)  Cfr.  Append.  al  cap.  VI. (4)  V.  Append.  al  cap.  VI. •i la  causa  d'una  cosa,  se  non  quando  si  suppone  che  essa ne  sia  distinta  e  separata  (o  piuttosto  separabile)  (l)  nella realtiì,  e  non  per  una  semplice  astrazione  mentale. La  nostra  spiegazione  dell'obbiettivazione  dei  concetti che  le  dà  per  iscopo  di  tiasformare  il  nesso  logico,  intro- dotto fra  questi  concetti,  in  un  nesso  ontologico,  sem- bra in  contraddizione  con  un  fatto,  che  è  tuttavia  quella che  la  parola  realismo  suggerisce  prima  d'ogni  altro, vale  a  dire  il  realismo  scolastico.  Nella  filosofia  scola- stica troviamo  l'obbiettivazione  dei  concetti,  ma  senza il  mettnlo  dialettico — vale  a  dire  senza  il  nesso  logico  in- trodottola i  concetti  obbietti  vati— :  essa  non  può  dunque avere,  in  questa  filosofia,  lo  scoi)o  che  le  abbiamo  asse- iTuato  II  realismo  del  medio-evo  sarebbe  un  fatto  asso- lutamente  inesplicabile,  se  fosse  l'opera  del  pensiero individuale,  liberamente  e  seriamente  applicato  alla  so- luzione di  un  problema  filosofico— |>erchè,  senza  la  dialet- tica, la  realtà  degli  universali  è  un'ipotesi  senza  scopo e  senza  motivo,  un  mistero  più  oscuro  aggiunto  gratui- tamente ai  misteri,  v^eri  o  pretesi,  del  mondo  reale,  ohe la  metafisica  ha  per  compito  di  rischiarare—:  esso  non  si comprende  che  per  il  carattere  tradizionalista  e  autori- tario della  filosofia  scolastica.  I  realisti  del  medio  èva non  sono  che  dei  platonici:  i  loro  universali  non  sono che  le  Idee  platoniche,  ma  per  dir  così,  allo  stato  fos- sile; vi  manca  la  vita,  lo,  sviluppo,  questo  processo,  al tempo  stesso  logico  ed  ontologico,  per  cui,  un  concetta obbiettivato  essendo  dato,  sono  dati  progressivamente tutti  gli  altri;  ciò  che  manca,  del  resto^  alle  stesse  Ide^» platoniche  nell'interpretazione  ordinaria,  perchè  questa, come  i  realisti  del  medio  evo,  toglie  dal  platonismo  ciò che  vi  ha  in  esso  di  più  arduo,  ma  che  gli  dà  unica- mente un  valore  e  una  giustificazione,  cioè  la  dialettica^ (1)  V.  Supplem.  B. —  46  - come  metodo  di  dediirire  i  concetti  obbiettivati  per  tra- sformare il  loro  nesso    logico    in    un    nesso  ontologico. Gli  storici    si    accordano    a    vedere    nei    realisti    scola- stici una  scuola  di  platonizzanti  (1)  ;    ma    per   rendere conto  deirorigine  di  questa  fdosoHa,  airintìuenza  diretta di  Platone,  per  se  stesso  o  per  l'intermediario  dei  Pla- tonici, bisogna  aggiungere  Pintiuenza  indiretta,  non  me- no grande,  ch'egli  esercitò  per  mezzo  di  Aristotile.  Al- meno a  partire  dal  secolo  XIII,  il  realismo  si  dà  come un^interpretazione  d'Aristotile  altrettanto  che   il    nomi- nalismo. Duns-Scoto,  per  esempio,  come  tutti  i  filosofi della  sua  epoca,  è  un  peripatetico:  egli  ammette  la  realtà degli  universali  perchè  crede  di  trovarla    in    Aristotile, e  distingue  il  suo  proprio  realismo  da  quello  di  Platone, attribuendo  a  questo,  secondo  P  interpretazione    anche oggi  più  ricevuta,  la  dottrina  della  trascendenza  delle  Idee^ cioè  che  esse  sono  fuori  delle  cose,  ne  sono  una  dupli- cazione, mentre    gli  universali  dello    stesso  Duns-Scoto e,  secondo  lui,  di  Aristotile  sono  nelle  cose  stesse,  ne  sono l'elemento  costante  e  generale.  Non  vi  ha  dubbio  che  A- ristotile  non  si  presti  a  una  tale  interpretazione,    quan- tun^pie   assai  lontana,  secondo  noi,  dal  vero  significato della  sua  dottrina:  ciò  è  tanto  vero  che,  non  solo  i  suoi oppositori  del  rinascimento  e  dei  primordi  della  filosofia moderna,  ma  ancora  molti  interpreti  moderni  (2),  l'hanno (1)  V.  Haureau.  Filosofìa  scolastica  (e.  3.  4,  5  e  altrove).  We- ber Storia  della  filosofia  europea  (pag.  220,  222,  237,  ecc.).  Lange Storia  del  materialismo  (trad.  frane,  t.  1  pag.  176-177  e  altro- ve)., ecc.  ' (2)  P.  e.  Brucker  (Hisl.  pkil.  doctr.  de  ideis  sez.  I  }  IX).  De- gerando  (Stor.  compar.  dei  sist.  di  filos,  1*  ed.  t.  1«  p.  167), Stuart-Mill  (Log.  1.  1"  e.  6  $  2  e  ^.  Comte  e  il  posti,  trad.  frane, p.  12  e  17),  Lange  (Stor.  del  mater.  irad.  frane,  t.  1»  p.  193  e altrove),  ecc. 47  - inteso  d'una  maniera  simile,  riguardando  le  sne  sostan- ze seconde,  cioè  le   forme  o  le  specie,  come   realmente distinte  dalla  materia  e  sussistenti  per  se  stesse.  Aristo- tile certamente    è    un    concettualista:    una    gran    parte della  sua  Metafisica  è    una  polemica  contro  i    concetti realizzati,  cioè  le  Idee  platoniche,  e  la  distinzione  tra  la forma  o  «^(Fo^  e  la  materia  non  ha  in  lui  un  valore  onto- logico,   come    in    Platone,    ma    semplicemente    logico. Le    Specie  o  Idee,   secondo   Platone,    erano  i  concetti astratti  e  generali  delle  cose,    obbiettivati,  in  altri  ter- mini gli  attrituiti    corrispondenti    a    questi  concetti   ri- guardati   come    sostanze,    cioè    come    esistenti    per  se stessi,  quantunque  non  fuori  delle  cose  come  ammette P  interpretazione    tradizionale,  ma  nelle    cose    stesse  : ogn'  Idea    era   una    in    se  stessa,    ma  era  presente  al tempo  stesso  in  tutti  gli    oggetti    che  partecipavano  al- l'attributo di  cui  l'Idea  era  la  sostantificazione.   Inoltre Platone,  nell'ultimo  periodo  della  sua  speculazione,  ridu- ceva l'Idea  di  una  cosa  alla  sola  forma  di  questa  cosa, astrazion  facendo  dalla  materia,  e  riguardava  la  materia (senza  forma)  come  un'entità  pure  esistente  per  se  stessa ma  assolutamente  distinta  dalle  Idee;  sicché  ciò  che  noi diciamo  il  reale,  vale  a  dire  l'oggetto  concreto  e  parti- colare, risultava  per  lui  dal  concorso  di  questi  due  ele- menti, realmente  distinti  cioè  esistente  ciascuno  per  se stesso,  l'Idea  o  specie  e  la  materin.  Aristotile  conserva la  distinzione   platonica    tra    la    forma    o  specie   delle cose  e  la  loro  materia:  la  specie  o  forma  d'una  cosa  era per  lui  il  concetto  astiatto  e  generale   che   si    riferisce alla  classe  a  cui  questa  cosa  appartiene,  o  piuttosto  l'at- tributo o  insieme  di   attributi   corrispondende  a  questo concetto,  ed  em  una  e  la  stessa  per  tutte  le  cose  di  una stessa  classe;  ma  essa,  come  una  e  la  stessa  per  tutte  le cose  d'  una  classe,  e  come  distinta,  cioè  a  parte,  dalla  ma- teria, non  aveva  che  un'esistenza  concettuale;  non  esi- —  48  — steva  così  nella  realtà— in  cui  non  vi  hanno  secondo  Ari- stotile die  oggetti  concreti  e  particolari— ma  solo  nel  pen- siero, che  si  forma  l'idea  astratta  della  forma  o  specie  e quella  della  materia,  e  se  le  rappresenta  isolatamen-^e  l'una dall'altra.  Ma  questa  distinzione  della  forma  o  specie  e  del- la mataria,  fondamentale  nella  sua  fìlosotìa,  è  espressa  spes- so da  Aristotile^  con  formule  in  cui  queste  astrazioni  sem- brano trattate  come  vere  entità,  e  die  piuttosto  che  al concettualismo  dell'autore  sarebbero  adattate  al  reali suu) platonico.  La  forma  o  specie  è  una  sostanza  così  bene chela  cosa  concreta  e  particolare,  che,  per  distinguerla  «la essa,  è  chiamata  la  sostanza  composta  o  con  la  materia, mentre  la  forma  è  una  sostanza  scevra  di  materia  (l), Vi  hanno  tre  sostanze,  la  forma  o  specie,  la  materia,  e  la terza  ciie  risulta  da  amendue,  cioè  la  cosa  concreta  e  parti- colare (2)— nelle  Crt%/or/e  (8)  le  forme  o  specie  sono  chiama- te sosfa/e^e  seconde --.  La  cosa  concreta  e  particolare  è  com- posta della  forma  o  specie  e  della  materia,  ed  è  divisibile in  queste  due  parti,  e  perciò  è  chiamata  la  sostanza  coni' posta,  il  (Jvyo'Aov.  il  tutto,  la  specie  insieme  con  la  materia, la    forma   mescolata   alla    materia,  ecc.  (4).    La   forma (l);v.  Met.  VII.  XI,  VIU.  Ili,  ecc.Nou  indicliiauio i  luogbi,  che s'iucontrauo  ad  ogni  passo,  iu  lui  la  forma  o  specie  è  chiamata V ovaia,  perchè  iu  essi  questa  parola,  piuttosto  ohe  sostanza,  si- gnifica essenza,  vale  a  dire  ciò  ohe  neUa  cosa  corrisponde  al concetto  o  detiuizioue  di  questa  cosa.  Ma  questi  due  significati del  termine  ovata  non  sono  in  Aristotile  distinti,  e  per  conse- guenza questo  termine  implica  il  primo  di  essi  anche  quando non  denota  direttamente  che  il  secondo. (2)  V.  Met.  VII.  Ili,  VII.  XIII.  1,  VII,  XV,  1,  Vili.  1.  6,  Vili. II.  XII.  Ili  3.  ecc. («)  Gap.  3. (4)  Met.  HI.  I  10,  III.  IV.  6,8,  VII.  Ili  2,5.  VII.  Vili  3  5.  VII. X.  12,  VII.   XI  l,H,n,   VII.  XIII  1,  VII.  XV  1.  Vili.   I   6,  Vili. —  49  — e  la  materia  né  si  generano  né  periscono,  perché  ambedue devono  preesistere  all'oggetto  generato-in  altri  termini le  forme  o  specie  dagli  esseri  (p.  e.  dell'uomo,  del  cavallo) sussistono  sempre,  così  bene  che  la  materia  —  :  ciò  che diviene  o  si  fa  è  l'accoppiamente  o  il  concorso  di  que- ste due  cose;  per  esempio  non  é  il  rame  né  la  sfera che  diviene,  ma  questa  sfera  di  rame,  la  quale  si  fa dal  rame  (materia  preesistente)  e  dalla  sfera  (specie  o  forma pure  preesistente)  (1).  La  specie  o  forma  e  la  materia mno  2)rmeìpri,  cause  ed  elementi  delle  realtà  concrete  (2). La  prima  è  superiore  alla  seconda  (3);  é  più  essere  che questa  e  le  è  anteriore  di  natura  (4).  È  dal  concorso  di queste  due  cause  che  sono  prodotti  gli  esseri  [individuali;  in questa  produzione  Veliìog,  è  come  il  padre  e  la  materia come  la  madre;  la  materia  desidera  la  forma,  come  la  fem- mina il  maschio  (perché  la  contiene  in  potenza,  e  tende perciò  a  riverstirsene  in  atto)  (5).  La  forma  é  assimilata  a un  oggetto  che  ne  contiene  un  altro  o  che  sta  sopra  di  esso; la  materia  a  quello  che  vi  è  contenuto  o  vi  sta  sotto  (6). L'  eldog  è  uno  e  lo  stesso  nei  diversi  individui  di  una  spe- cie; il  singolare  è  tale  perché  M'sl&o?  si  unisce  la  mate- ria, che   è    diversa    nei    diversi    individui    (7).  Tavolta Il  7-9,  Vili-  III,  X.  IX  2-3,  XI.    II  10,  XII.  Ili  3-4,  XU    V 3,  Phys.  II.  I  12,  De  Coelo  I.  IX  2,  ecc. (1)  Met.  VII.  Vili  1-4.  VII.  IX  7,  VII.  XV.  1,  Xll.  IH,  eco (2)  Met.  I.  Ili  1,  V.  II.    Vili.    IV  4,   XII.  II  6,  XII    III  5 XII.  IV,  Xll.  V,  Phys.  II.  IH,  II.  VII.  ecc. (3)  De  part.  anim.  1.  1.  640. (4)  Met.  VII.  HI  (2). (5)  Phys.  I.  IX.  2-3. (6)  De  Coelo  II.  XIII  3,  IV.  Ili  3,  IV.  IV  10. (7)  V,  Met.  VII.  Vili  8,  VII.  XV  2,  X.  III.  3-5,  XII.   Vili. 12,    De    Coelo  I.   IX  2  — 5.     È    il   germe  della   dottrina    di    S. -m^mmf^'^^ !■-  ir-'  -.  "Aristotile  indica  la  forma  con  le  stesse  espressioni  di cui  Platone  si  era  servito  per  indicare  l'Idea  :  altro  è  la fornvd  stessa  per  se  stessa  e  altro  la  ftirma  mescolata  con la  materia;  altro  il  cielo  stesso  (vnìe  a  dire  la  forma  o la  specie),  e  altro  questo  cielo,  cioè  il  primo  mescolato con  la  materia  (1).  Queste  proposizioni  e  nianiere  di esprimersi  di  Aristotile  tanto  più  facilmente  potevano indurre  in  errore  i  suoi  commentatori  scolastici,  perchè egli  preferisce  1'  interpretazione  trascendentalista  delle Idee  platoniche,  cioè  quella  che  le  riguarda  come  post^ fuori  delle  cose;  ciò  che  dava  qualche  verisimiglianza all'opinione  che  la  dottrina  di  Aristotile  dilferiva  da quella  di  Platone,  non  perchè  in  questa  gli  universali erano  delle  realtà,  mentre  in  quella  non  erano  che  dei concetti,  ma  perchè  nell'una  erano  fuori  delle  cose  e nell'altra  nelle  cose  stesse,  quantunque  reali  egualmente nell'una  e  nell'altra. Ciò  che  Aristotile  conserva,  in  sostanza,  della  distin- zione platonica  tra  1'  eUog,  ricondotto  alla  sola  forma, e  la  materia,  è  quest'  idea,  corrispondente  sino  ad  un certo  punto  ai  dati  dell'  osservazione,  che  il  reale  può decomporsi  in  due  elementi,  concettuali,  non  reali  essi Tommaso  che  la  materia  è  il  principio  d'iudividuazione.  Il  pro- blema scolastico,  quale  sia  il  principio  d'individuazione,  è  un semplice  non  senso  al  punto  di  vista  del  nominalismo,  secondo cui  né  esiste  né  può  concepirsi  che  esista  un  essere  che  non  sia indivi diuile  ;  esso  non  ha  senso  che  se  si  ammette  che  l'essere primitivo  è  una  realtà  universale,  perchè  allora  nasce  le  neces- sità di  spiegarsi  perchè  questa  realtà  si  manifesta  in  una  mol- tiplicità  di  particolari.  Noi  vedremo  (Supplem.  C)  che  la  dottrina di  S.  Tommaso  sul  principio  d'  individuazione,  il  cui  germe  si trova,  come  abbiamo  detto,  in  Aristotile,  non  è  ohe  la  ripro- duzione di  una  dottrina  platonica. (1)  De  Ooelo  I.  IX  2,5. M«^.:'%^ —  51  — stessi  come  voleva  Platone,  che  sono  d'  una  suprema importanza  per  la  concezione  del  mondo,  perchè  rappre- sentano r  uno  e  r  altro  ciò  che  vi  ha  di  stabile  nelle cose,  e  al  tempo  stesso  ciò  che  vi  ha  di  logicamente primitivo,  cioè  che,  servendo  alla  spiegazione  del  resto, è  esso  stesso  senza  spiegazione.  L'  uno  la  materia,  che non  si  distrugge  né  si  crea,  ed  è  il  fondo  immutabile in  cui  s'imprimono  successivamente  le  forme  cangianti; 1'  altro  i  tipi  generali  di  queste  forme,  senza  origine  e senza  fine  e  immutabili  anch'essi  come  la  materia  stessa: tanto  la  materia,  quanto  questi  tipi,  considerati  nei  loro attributi  essenziali,  cioè  che  sono  sufficienti  a  definirli, sono  dei  dati  ultimi  dell'  esperienza,  che  noi  dobbiamo ammettere  senza  dimostrazione— non  vi  ha,  dice  Aristo- tile, dimostrazione  dell'essenza  (e  anche  in  ciò  si  trova in  disaccordo  con  Platone)—,  ma  da  cui  dobbiamo  sfor- zarvi di  dedurre  tutto  il  resto.  Per  quest'idea  la  filoso- fia di  Platone  e  di  Aristotile  è  in  un'  antitesi  radicale con  tutte  le  filosofie  anteriori.  Essa  prende  per  punto di  partenza  l' eternità  dell'  ordine  attuale  del  mondo (nel  senso  più  largo  dell'  espressione,  cioè  l'  eternità  e stabilità  delle  specie,  della  terra,  degli  astri,  ecc.),  men- tre le  filosofie  anteriori  erano  anzitutto  delle  cosmogo- nie. Di  più  essa  ammette  che  ogni  specie  di  esseri  è governata  da  leggi  proprie  e  speciali,  che  non  derivano dalle  forze  generali  che  agiscono  in  tutta  la  materia, mentre  le  filosofie  anteriori  tendevano  a  spiegare  tutti  i fenomeni  per  i  soli  elementi  materiali  e  le  forze  costanti da  cui  questi  sono  animati  (1).  Ma  quest'idea,  prima  di tutto,  non  ha  un'espressione  perfettamente  esatta  nella divisione  del  singolo  in  due  elementi,  anche  concettuali, forma  e  materia— perchè  1'  sMog  di    una   classe   di    es- (1)  Cfr.  l'Appi mdice. —  52  — Beri,  il  suo  tipo  costante  e  generale,  comprende  anche la  materia,  e  questa  entra  necessariamente  nel  suo  Xóyog e  nella  sua  essenza,  cioè  nel  suo  concetto  e  nella  sua definizione.  —  Inoltre,  ciò  che  è  il  più  importante,  per- chè Aristotile,  in  molte  delle  sue  formule  e  delle  sue proposizioni,  tratta  questa  distinzione  logica  come  una distinzione  reale,  e  sembra  elevare  queste  astrazioni  al grado  di  esseri  sussistenti  per  se  stessi?  L'una  e  l'altra circostanza,  evidentemente,  sono  dei  resti  del  realismo di  Platone  nel  concettualismo  del  suo  discepolo.  Per comprendere  1'  apparente  realismo  di  Aristotile  bisogna tener  sempre  presenti  sopratutto  due  fatti  :  eh'  egli  è stato  lungamente  un  platonico,  e  che  nei  suoi  scritti egli  s'indirizza  specialmente  a  dei  platonici  (1).  Così,  da lina  parte,  quel  concetto  eh'  egli  ritiene  in  sostanza, come  abbiamo  detto  sopra,  della  distinzione  platonica tra  1'  eUog  e  la  materia,  festa  associato  alle  formule  in cui  1'  ha  ricevuto  nella  scuola  di  Platone  e  a  cui  si  è lungamente  abituato;  e  da  un'altra  parte,  come  ogni  no- vatore,  egli  cerca  di  presentiire  i  suoi  propri  concetti sotto  quell'aspetto  che  li  faccia  sembrare  meno  discosti dalle  idee  e  dalle  abitudini  mentali  del  pubblico  a  cui egli  si  rivolge.  Ecco  come  il  realismo  del  medio  evo  de- riva da  Platone,  in  gran  parte,  per  1'  intermediario  di Aristotile.  Aristotile  ne  è,  per  dir  così,  il  veicolo,  che  lo trasmette  agli  scolastici.    Come   quei    semi,  rimasti  per (1)  Nella  Metafisica,  nella  sua  polemica  coniro  la  dottri- na delle  Idee,  Aristotile  parla  come  se  tanto  egli  quanto  i  suoi lettori  fossero  dei  platonici:  «  secondo  i  modi  con  cui  dimostriamo che  esistono  le  idee  »,  m  secondo  l'opinione  secondo  cui  diciamo  es- servi le  Idee  »,  <(  Idee  delle  cose  di  cui  non  crediamo  che  ve  ne siano  >j  ecc.  ^^oi  in  questi  luoghi  significa  i  platonici.  V.  Met.  li- bro lo,  cap.  9o. 53  — secoli  inattivi  nelle  piramidi  egiziane,  si  svilupparono quando  furono  gettati  in  un  terreno  conveniente  ;  così 1  residui  del  platonismo,  rimasti  nel  corpo  delle  dot- trine aristoteliche  come  dei  materiali  inerti  e  non  assi- milati, germogliarono  e  riprodussero  l'antico  platonismo da  cui  erano  originati,  (juando,  introdotti  nella  scola- stica, trovarono  le  condizioni  più  favorevoli  al  loro  svi- luppo; cioè  la  mancanza  del  senso  della  realtà  e  del  vero spirito  filosofico,  e  in  compenso  lo  spirito  pedantesco che  interpreta  sacrificando  la  sostanza  alla  forma,  inse- parabile da  un  cieco  dogmatismo,  e  1'  amore  del  para- dosso che  è  l'accompagnamento  naturale  d'una  scienza vuota  di  fatti  e  arida  d'idee,  che  consiste  in  vane  con- troversie, in  cui  si  dibattono  eternamente  le  stesse  qui- stioni.  Il  platonismo  del  medio  evo  era,  non  lo  dimen- tichiamo,  un  plat(mismo  incompleto,  in  cui  manca  ciò che  dà  un  valore  al  sistema  delle  Idee,  cioè  la  dialet- tica. Era  il  solo  che  potesse  svilupparsi  dalle  formule aristoteliche  :  i  residui  della  dialettica  platonica  in  Ari- stotile —  p.  e.  l'  assimilazione  del  principio  logico  alla causa  nella  sua  teoria  della  dimostrazione  —  non  erano tali  da  prestarsi  ad  uno  sviluppo  analogo. In  conclusione,  il  realismo  scolastico  non  potrebbe spiegarsi  per  i  principiii  generali  per  cui  noi  spieghiamo i  concetti  metafisici,  per  la  semplice  ragione  che  esso non  è,  a  parlar  propriamejite,  una  metafisica  —  per  ciò dovrebbe  essere  anzitutto  una  vera  filosofia,  dovrebbe dare  una  soluzione,  o  un  sembiante  di  soluzione,  al problema  del  perchè  o  a  qualche  altro  dei  problemi inevitabili,  per  quanto  illegittimi,  che  l'intelligenza  u- mana  non  può  non  proporsi,  e  che  formano  il  dominio naturale  che  appartiene  alla  metafisica.  —  Esso  non  si spiega  che  per  ragioni  storiche,  perchè  non  è  1'  opera della  libera  ragione,  ma  del  tradizionalismo.  Ma  questa spiegazione  ci  riconduce  infine  all'origine  prima  dei  con- -~  54  —  • cetti  ricevuti  per  tradizione.  Qui  la  nostra  spiegazione^ ([uella    che   vede    nelT  obbietti vazione   dei   concetti  un mezzo  per  applicare   V  idea  di  causa  efficiente,  non  ci abbandona,  perchè  tale  è,  come  vedremo,  il  motivo  e lo  scopo  della  dottrina  platonica.  Direttamente  la  nostra spiegazione  non  si  applica  che  ai  sistemi  in  cui  Tobbiet- tivazione  dei  concetti  è  unita  al  metodo  dialettico,  ma indirettamente  essa   spiega  anche  quelli  in  cui  non  vi  è unita,  perchè  le  sopravvivenze,  nello  sviluppo  della  cul- tura umana,  non  si  comprendono  che  per  le  ragioni  che ne  hanno  determinato  la  prima  apparizione,  quando  non erano  dei  semplici  organi  rudimentari,  ma  avevano  uno scopo  e  una   funzione.    E   del    resto,  parlando  general- mente,  è  deatro  questi  limiti  solamente  —  cioè  quando essi  sembrano  dare   una    soluzione  ai  problemi  naturali dello    spirito    umano  che  costituiscono  il  dominio  della metafìsica  —  che  noi    crediamo  che  i  concetti  metafìsici si  possono  spiegare  per  le  tendenze  naturali  della  nostra intelligenza  (sofìsmi  a  priori).  Quando  non  sono  che  una modifìcazione  o  una  mutilazione  o  combinazione  arbitra- ria di  concetti  preesistenti,  che  il  metafìsico  senza  genio ha  imprestati,  sfigurandoli,  da  un  vero  metafìsico,  cioda  un  pensatore  geniale,  per  quanto  chimerico,  questa spiegazione   ci  abbandona:  essa   non   può   dare  ragione dei  concetti  derivati  che  solamente  in  quanto  la  dà  dei concetti  primitivi. Il  seguito  di  questo  capitolo  avrà  per  oggetto  i  si- stemi in  cui  l'obbiettivazione  dei  concetti  è  unita  al  me- todo dialettico  —  nel  senso  largo  sopra  indicato  che  noi diamo  a  queste  parole—:  il  tipo  di  metafìsica  in  cui  con- corrono questi  due  caratteri,  potendo  esserci  utile  un termine  che  lo  indichi  brevemente,  noi  lo  chiameremo realismo  dialettico. §  3.  Il  rappresentante  più  illustre  del  realismo  dia- lettico, nella  fìlosofìa  moderna,  è  Hegel.  Se  la  realtà  de- i gli  universali  nim  è  riguardata  ordinariamente  come una  delle  basi  del  sistema  di  Hegel,  è  perchè  essa  è  in- viluppata nella  dottrina,  che  l'autore  presenta  come  più fondamentale,  dell'identità  dell'essere  e  del  pensiero,  e data  come  una  conseguenza  di  questa.  Questo  sistema ha  due  facce,  V idealismo  e  il  realismo  (che,  nel  senso  in cui  qui  prendiamo  questo  termine,  non  è  1'  opposto  di quello).  Nel  capitolo  II  1'  abbiamo  considerato  sotto  la prima  di  queste  due  facce;  qui  lo  considereremo  sotto  la seconda. Gli  elementi  del  sistema  hegeliano  sono,  come  si  sa, la  dottrina  delle  idee  e  la  dialettica.  Ricordiamo  breve- mente in  che  consistano  l'una  e  Faltra. Il  reale  è,  secondo  Hegel,  un  seguito  di  idee,  di cui  ciascuna  è  identica  al  suo  oggetto.  Queste  idee  s<mo astratte  e  generali,  sono,  in  una  parola,  dèi  concetti; per  conseguenza  ciò  che  esse  rappresentano  e  con  cui s'identificano,  sono  degli  oggetti  astratti  e  generali  come esse.  Così  ciascuna  idea,  per  esempio  quella  dell'essere, del  divenire,  del  tempo,  del  movimento,  è  al  tempo stesso  il  concetto  astratto  e  generale  dell'essere,  del  di- venire, del  tempo,  del  movimento,  e  l'essere,  il  dive- nire, il  tempo,  il  movimento  astratti  e  generali,  consi- derati come  esistenti  per  se  stessi,  perchè  il  pensiero  e l'essere  penstito  sono  una  sola  e  stessa  cosa,  che  si  chia- ma jiensiero  in  quanto  è  pensata,  ed  essere  in  quanto esiste  nel  mondo  reale.  Hegel  ammette  dunque,  come Platone  e  i  realisti  scolastici,  che  un  termine  generale rappresenta  una  realtà  generale,  distinta  dalle  cose  par- ticolari a  cui  questo  termine  si  applica,  e  che  non  è che  l'attributo  comune  a  queste  cose  a  cui  il  termine  si applica,  sostantifìcato,  cioè  riguardato  come  sussistente per  sé  stesso.  Ciascuna  di  queste  realtà,  come  le  Idee di  Platone  e  gli  Universali  degli  scolastici,  è  una  in  se stessa,  ma  presente  al  tempo  stesso  in  tutti  gli  oggetti concreti  e  particolari  che  partecipano  all'attributo  di  cui è  la  sostantificazione.  Hegel  differisce  da  Platone  e  dai realisti  scolastici,  in  quanto  gli  Universali  non  sono, per  questi,  che  degli  oggetti,  mentre  per  lui  sono  al tempo  stesso  degli  oggetti  e  dei  pensieri,  l' oggetto  es- sendo inviluppato  nell'idea  che  lo  pensa,  e  facendo  una cosa  sola  con  quest^idea. La  dialettica  di  Hegel,  cioè  il  suo  metodo  di  dedurre le  idee,  va  da  un'idea  all'idea  contraria,  e  poi  a  una  terza idea  che  comprende  l'una  e  l'altra,  p.  e.  dall'essere  al  non essere,  e  poi  al  divenire^  che  comprende  nella  sua  unità tanto  l'essere  quanto  il  non  essere  (perchè  il  divenire  è  il passaggio  dal  non  essere  all'essere).  Tesi,. antitesi  e  sintesi, questo  è,  dice  Hegel,  il  ritmo  eterni»  dell'idea:  tutte  le  idee formano  una  serie  successiva,  in  cui  si  passa  sempre  dai termini  antecedenti  ai  termini  conseguenti  secondo  una legge  costante,  che  fa  seguire  a  un'idea  l'idea  antitetica e  a  queste  un'altra  idea  più  comprensiva  che  coMCi7m  le due  idee  opposte,  cioè  che  contiene  l'una  e  l'altra  nella sua  unità.  La  sintesi,  cioè  questa   terza  idea   più   com- prensiva, porta  essa  stessa  un'altra  opx)osizione,  la  quale chiama  alla  sua  volta  un'altra  sintesi,  e  cosi  di  seguito, sinché  si  giunga  al  teimine  ultimo  della  serie,  che  è  la sintesi  suprema,  racchiudendo  in  se  stesso    tutti    i    ter- mini precedenti  e  conciliando  tutte  le  opposizioni.  Que- sto passaggio  dalla  tesi  all'antitesi  e  da  esse  alla  sintesi non  lega  solamente  tutti  i  termini  successivi  della  serie isolatamente  considerati;  ma  lo  stesso  rapporto  vi  ha  fra le  parti,  cioè  le  serie  parziali,  in  cui  si  divide  la  serie intera,  e  fra  le  suddivisioni  di  ciascuna  parte,  e  così  di seguito,  sicché  il  sistema  di  Hegel  è   stato    paragonato ad  un  tempio  gotico,  in  cui  il  tipo  dell'insieme  si  ritrova in  ciascuna  delle  sue  parti.  Passando  da  un'idea  all'idea opposta,  e  da  esse    alla  terza    idea    che    le    comprende amendue,  Hegel  intende  dedurre  la  seconda  idea  dalla 57 luima,  e  la  terza  da  esse  due  ;  vale  a  dire  egli  pre- tende che  data  la  prima  idea,  è  data  la  seconda  come sua  conseguenza  necessaria,  e  date  queste  due  idee, è  data  anche  la  terza,  come  conseguenza  necessaria dell'una  e  l'altra.  Così,  percorrendo  la  serie  succes- siva delle  idee,  per  questo  movimento  regolare  che va  continuamente  dalla  tesi  all'antitesi  e  da  esse  alla sintesi,  si  va  continuamente  dai  principii  alle  conse- guenze, che  divengono  alla  loro  volta  principii  di  altre c<mseguenze,  e  così  di  seguito,  in  modo  che  tutta  la serie  forma  una  catena  logica  continua,  in  cui  i  termini precedenti  sono  sempre  i  principii  dei  termini  immedia- tamente susseguenti,  e  i  termini  susseguenti  le  conse- guenze dei  termini  immediatamente  precedenti.  Queste idee,  non  dimentichiamolo,  non  sono  dei  semplici  con- cetti, ma  anche  delle  cose  astratte  e  generali,  che  sono gli  oggetti  di  questi  concetti.  Perciò  passare  da  un^idea all'idea  opposta  e  da  queste  all'idea  sintetica  che  le  con- tiene amendue^  è  ancora  dedurre  da  una  cosa  astratta e  generale  un'altra  cosa  astratta  e  generale,  e  da  queste una  terza  che  contiene  l'una  e  l'altra;  ciò  che  vuol  dire che  data  la  prima  entità,  è  data  anche  come  sua  conse- guenza necessaria  la  seconda,  e  date  la  prima  e  la  se- conda, è  data  anche  come  loro  conseguenza  necessaria la  terza,  in  modo  che  la  catena  logica  continua  delle idee  è  anche  una  catena  ontologica  continua  di  realtà, in  cui  i  termini  susseguenti  derivano  sempre  dai  termini immediatamente  precedenti  e  i  termini  ])recedenti  dan- no origine  ai  termini  immediatamente  susseguenti. La  deduzione  di  Hegel  somiglia  ben  poco  alla  vera  de- duzione, ma  ha  in  comune  con  essa  queste  due  condizioni: l'una  che  il  passaggio  dal  principio  alla  conseguenza  è fondato  sull'identità,  per  cui  la  deduzione  essendo  da un'idea  all'idea  contraria,  Hegel  ammette  che  i  contrarli Bono  identici.  L'altra  che  la  conseguenza  è  il  principio —  58  —  stesso  a  uno  stato  più  concreto,  più  determinato  (l'insie- me delle  conseguenze  che  possono  dedursi  da  un  prin- cipio, con  la  deduzione  ordinaria,  equivalendo  al  prin- cipio stesso,  che  esse  esprimono  sotto  una  forma  più concreta  o  determinata).  Ciò  si  verifica  nel  terzo  mo- mento del  movimento  dialettico,  la  terza  idea,  cioè  la sintesi,  essendo  più  concreta  delle  due  idee  opposte  che essa  sintetizza,  perchè  comprende  queste  due  idee  come delle  note  o  determinazioni  proprie.  Dalla  combinazione di  questi  due  principii,  cioè  l'identità  delle  idee  opposte e  l'essere  esse  contenute  nella  terza  idea,  più  concreta, che  le  sindetizza  ed  è  pure  identica  con  esse,  ne  segue che  i  diversi  termini  successivi  della  serie,  cioè  tutte le  idee,  non  sono  che  degli  stati  differenti  che  attraversa successivamente  uno  stesso  essere,  dei  momenti  successivi dello  sviluppo  di  un'idea  unica.  Questo  sviluppo  è  un passaggio  continuo  da  uno  stato  più  astratto  a  uno  stato più  concreto,  per  cui  l'idea  si  aggiunge  progressivamente delle  nuove  determinazioni,  di  cui  ciascuna  deriva,  logi- camente e  ontologicamente,  da  quelle  che  la  precedono. Ciò  che  vi  ha  di  più  difficile  a  spiegare  nel  sistema di  Hegel  è  la  forma  particolare  della  sua  deduzione, sovratutto  questo  enorme  paradosso  che  un  contrario può  dedursi  dal  suo  contrario,  e  l'altro,  legato  con  esso, e  che  è  effettivamente,  come  è  stato  detto,  un  rovescia- mento completo  delle  leggi  del  pensiero,  che  i  contrari sono  identici,,  e  che  la  contraddizione,  per  conseguenza, è  una  legge  del  pensiero  e  della  realtà.  Il  motivo  deter- minante di  queste  dottrine  ha  dovuto  essere,  senza  dub- bio, l'aver  compreso  nettamente  questo  fatto  incontra- stabile, che  la  vera  deduzione,  quella  che  è  fondata  sul semplice  principio  d'identità,  non  è  un  progi-esso  reale dei  pensiero,  ma  semplicemente  apparente  —  in  termini logici,  non  è  un'inferenza  reale  ma  solo  apparente  —  ; mentre  ad  Hegel  era  necessario  un  metodo  che,  pur  es- —  59  — scudo  una  deduzione,  fosse  allo  stesso  tempo  un  pro- gresso reale  del  pensiero,  perchè  doveva  rappresentare un  progresso  reale  nelle  cose  stesse,  una  deduzione che  non  deduce  delle  verità  nuove,  ma  si  aggira  nel- l'idem per  idem,  come  fa  il  sillogisuìo,  se  essa  rappresen- tasse una  sequenza  reale  nelle  cose  stesse,  non  potendo rappresentare  che  la  sequenza  dello  stesso  allo  stesso, cioè  l' immobilità,  senza  sviluppo  alcuno,  e  quindi senz'alcuna  derivazione  reale.  Ora  la  deduzione  di  Hegel doveva  rappresentare  una  derivazione  reale,  perchè  l'es- senza del  realismo  dialettico  è,  come  cerchiamo  di  mo- strare, la  trasfosmazione  del  nesso  logico  in  un  nesso ontologico,  del  rapporto  tra  priucipio  e  conseguenza in  un  rapporto  tra  causa  ed  effetto.  Abbandonata  la  lo- gica comune  che  prescrive  di  andare  dallo  stesso  allo stesso,  e  cercando  un  metodo  nuovo  che  andasse  invece dal  differente  al  differente,  il  rapporto  di  contrarietà era  preferibile  per  Hegel  a  qualsiasi  altro  rapporto  di differenza,  perchè  esso  determina,  data  un'  idea,  quale sia  l'altra  idea  che  deve  seguirla,  coni'  è  necessario in  una  deduzione,  in  cui  la  premessa  deve  rappresentare la  causa,  e  la  conseguenza  l'  effetto  di  questa  causa. Dei  fatti  psicologici  assai  ovvii  davano,  inoltre,  qualche speciosità  a  questo  concetto,  che  vi  ha  un  passaggio necessario  da  un'idea  all'  idea  contraria.  Non  è  solo  che la  contrarietà  è,  come  la  somiglianza,  una  forza  di  as- sociazione fondata  sul  contenuto  stesso  delle  rappresen- tazioni e  indipendente  dall'  esperienza  ;  ma  è  anche, come  abbiamo  osservato  altrove  (1),  che  le  idee  con- trarie, purché  s'intenda  per  idee  le  nozioni  generali,  cioè di  classi,  si  suppongono  e  si  implicano  reciprocamente, in  modo  che  è  impossibile  di  avere  la  nozione  della  retta (cioè  della  classe  delle  linee  rette)    senza  avere  pure  la (1)  Saggio  1.  e.  4  §  16. nozione  della  non  retta  (cioè  delle  liuee  che  restano fuori  della  classe  delle  rette),  la  Doziooe  del  caldo  (cioè della  classe  degli  oggetti  caldi)  senza  quella  del  freddo (cioè  degli  oggetti  freddi),  del  sauo  senza  quella  del  ma- lato, della  luce  senza  quella  dell'oscurità,  ecc.  Ciò  è  per la  ragione  evidente  che  noi  non  possiamo  esserci  formata l'idea  di  una  classe  senza  distinguere  ed  opporre  gli  og- getti che  vi  abbiamo  inclusi  e  quelli  che  ne  abbiamo esclusi;  ed  anche  attualmente  non  possiamo  rappresen- tarci i  primi  come  formanti  una  classe,  senza  distin- guerli e  opporli  ai  secondi,  e  per  conseguenza  senza rappresentarci,  in  un  certo  modo,  anche  i  secondi.  È  ciò che  vi  ha  di  vero  nella  proposizione  di  Bain  che  ogni •conoscenza  è  relativa,  perchè  la  nozione  di  una  cosa implica  sempre  la  nozione  di  una  cosa  opposta  (1).  Da «io  che  le  idee  contrarie  si  suppongono  e  si  implicano mutuamente,  Hegel  ne  conclude  naturalmente  che  anche le  cose  contrarie,  cioè  le  entità  astratte  e  generali,  l'es- jsere  e  il  non  essere,  l'unità  e  la  moltiplicità,  la  luce  e l'oscurità,  ecc,  si  suppongono  e  si  implicano  mutuamente: è  una  conseguenza  necessaria  dell'  identità  dell'  essere ^  del  pensiero.  Un  altro  fatto  che  ha  potuto  suggerire ad  Hegel  il  suo  principio  che  dato  uno  degli  opposti è  dato  anche  l'altro,  è  l'implicazione  reciproca  dei  cor- retativi,  p-  e.  alto  e  basso,  grande  e  piccolo,  agente  e paziente^,  padrone  e  servo,  ecc,  non  potendo  darsi  degli oggetti  a  cui  si  applichi  l'uno  dei  due  termini,  senza darsi  anche  degli  oggetti  a  cui  si  applichi  l'altro  (2). Ammesso  una  volta  che  un  contrario  può  dedursi  dal- l'altro —  ciò  che  certamante  è  una  cosa  ben  diversa  dai fatti  psicologici  indicati,  e  non  ha  con  essi  che  una  vaga (1)  V.  Sagorio  1.  e.  2.  §  13  uota. (2)  Cfr.  Saggio  1.  o.  VI  $  16. ~  61  — analogìa—, Hegel  ne  conclude  che  i  contrari  sono  iden- tici, perchè  la  deduzione  non  può  fondarsi  che  sul  prin- cipio d'identità.  Questo  rapporto  ambiguo  fra  i  due  ter- mini,  che  è  al  tempo  stesso  d' identità  e  di  differenza (cioè  di  contrarietà)  concilia  l'esigenza  della  deduzione,, che  il  passaggio  dal  principio  alla  conseguenza  sia  giu- stificato dalFidentità,  con  l'  esigenza  opposta  del  reali- smo, che  questo  passaggio  sia  un  progresso  reale  del pensiero  e  dell'essere,  e  che  x>erciò  la  conseguenza  dif- ferisca dal  principio,  e  non  sia  una  ripetizione,  totale  o parziale,  del  principio  stesso.  L'  altro  concetto  fonda- mentale della  dialettica  hegeliana,  cioè  che,  dati  i  due contrari,  è  dato  anche  un  terzo  termine  che  comprenda Funo  e  l'altro,  è  destinato  a  soddisfare  a  questa  condi- zione della  deduzione,  che  la  conseguenza  non  sia  che  il principio  stesso,  divenuto  più  co»ncreto  o  più  determinato. Il  passaggio  al  terzo  termine  ha  l'aria  di  essere  giusti- ficato dall'identità  dei  due  primi,  la  concezione  dei  due contrari  come  due  lati  di  uno  stesso  essere,  ciò  che  è supposto  dalla  loro  identità,  richiedendo  Tidea  di  un essere  unico  di  cui  entrambi  siano  delle  note  o  delle determinazioni,  e  quindi  una  terza  idea  in  cui  le  due idee  contrarie  coesistano  e  siano,  per  dir  così,  fuse  l'una con  l'altra  e  unificate.  Data  questa  legge  del  metodo dialettico,  le  due  idee  contrarie  indicano  la  terza  che deve  seguirle,  come  la  prima  di  esse  indica  la  seconda: è  a  questa  condizione,  come  abbiamo  osservato,  che  la seconda  può  essere  riguardata  come  un  eflfetto  della  prima, e  La  terza  come  un  effetto  della  prima  e  della  seconda. L'assimilazione  del  principio  alla  causa  e  della  con- seguenza all'effetto  suppone,  come  abbiamo  notato  nel paragrafo  precedente,  che  la  conoscenza  sia  puramente  a priori,  e  quindi  che  il  principio  primo  sia  stabilito  an- ch'esso per  una  necessità  logica.  È  ciò  che  ha  luogo  in^ fatti  nel  «istema  di  Hegel.  Le  due  idee  priraitiv e,  cioè  l'es- I  '     . —  62  - sere  e  il  dou  essere,  souo  dimostrate  per  la  loro  implica- zione nmtua  Se  dato  Tessere  è  dato  anche  il  non  essere,  e dato  il  non  essere  è  dato  anche    1'  essere  —  come  se^ue dalla  legge  generale  della  dialettica  che  dato  l'uno  dei  due contrari  è  dato  anche  l'altro  —  ciò  prova  che  l'esistenza dell'essere  e  del  non    essere  è    logicamente    necessaiia, o  ciò  che  vale  lo  stesso,  la  loro   non    esistenza    logica- mente impossibile.  In  effetto  Pipotesi  della  non  esistenza dell'uno  o  dell'altro,  dato  il  legame  necessario  che  esiste tra  i  due,  sarebbe  un'ipotesi  che  si  distruggerebbe  essa «tessa.  Se  non  vi  fosse  l'essere,  non    vi   sarebbe    che  il non  essere;  ciò  che  è  impossibile  perchè  dato  il  non  es- sere è  dato  anche  l'essere.  E  viceversa,  se  non  vi  fosse il  non  essere,  non  vi  sarebbe  che  l'essere;  ciò  che  è  pure impossibile,  perchè  dato  l'essere  è  dato  anche  il  non  es- sere. Senza  l'esistenza  necessaria  delle  due    idee  primi- tive, i  principii,  in  tutto  il  seguito  delle  deduzioni,  non ridarebbero    logicamente    anteriori    alle    conseguenze.     In questo  caso  i  principii  non   potrebbero    assimilarsi    alle cause  e  le  consegiienze  agli  effetti,  perchè  si  avrebbe  al- trettanta ragione  di  dire  che  l'esistenza  delle  entiti\  con- seguenze dipende  da  quella  delle  entità   principii,    che eli  dire  che  è  l'esistenza  delle    entità    principii    che    di- pende da  quella  delle  entità  conseguenze. Il  sistema  dì  Hegel  ha,  come  abbiamo  detto,  una doppia  faccia,  idealismo  e  realismo.  Come  idealismo,  esso spiega  l'universo,  considerandolo  come  prodotto  dall'atti- vitii  logica  del  pensiero  :  sotto  quest'a8i)etto  è  una  forma dell'antroporaortìsmo,come  l'abbiamo  riguardato  nel  capi- tolo 2^.  Come  realismo^  e  più  propriamente  come  realismo dialettico,  esso  crede  di  scoprire  ciò  che  A.  Comte  chiama il  modo  essenziale  di  produzione  delle  cose,  identificando il  nesso  logico  tra  il  principio  e  laconsegueza  al  nesso  onto- logico tra  la  causa  e  Teffetto.  Guardando  il  sistema  dalla faccia  dell'idealismo,  il  movimento  dialettico  delle  idee  è —  63  - il  progresso  del  ])ensiero  che  deduce  (come  sarebbe  in  Eu- clide il  seguito  delle  proposizioni  che  s'incatenano  le  une alle  altre);  guardando  il  sistema  dalla  faccia  del  realismo dialettico,  il  movimento  dialettico  delle  idee  è  il  progresso delle  cose  stesse  che  sono  dedotte  (come  sarebbe  in  Euclide il  seguito  delle  verità  o  dei  fatti,  significati  dalle  pro- posizioni successive  che  s'incatenano).  Hegel  non  afferma esplicitamente,  come  fanno  altri  realisti  dialettici,  che  il principio  logico  è  identico  alla  causa  e  la  conseguenza all'effetto.  Il  suo  predecessore  Schelling  (che  è  anch'egli un  realista  dialettico)  nega  anche  quest'identità.  Come abbiamo  visto  in  un  capitolo  precedente  (1),  la  filosofia e  le  matematiche  oltrepassano,  secondo  lui,  il  punto  di vista  dell'incatenamento  causale  ;  un  fatto  non  viene spiegato  (in  filosofia)  trovandone  la  causa  in  un  altro fenomeno,  ma  trovando  il  principio  donde  derivano  tutti i  fenomeni.  Hegel  avrebbe  aderito  a  questa  proposizione di  Schelling;  nella  Logica  infatti  (2)  egli  non  intende per  causalità  che  una  forma  particolare  di  successione tra  fenomeni.  E  certamente,  non  si  può  dire  che  le  en- tità che,  nel  realismo  dialettico,  procedono  le  une  dalle altre,  sono  tra  di  loro  delle  cause  e  degli  effetti,  che usando  le  parole  causa  ed  effetto  in  un  senso  differente dall'ordinario.  La  differenza  più  saliente  è  che  tra  le cause  e  gli  effetti  propriamente  detti  la  succesione  è  cro- nologica, mentre  tra  le  cause  e  gli  effetti  del  realismo dialettico  non  è  che  logica  e  metafisica  (ciò  che  Platone e  Spinoza  GÌiìxim^no  anteriorità  e  posteriorità  di  natura). Un'altra  differenza  è  che  la  causa  e  l'effetto  propria- mente detti  sono  due  fenomeni  distinti  e  separati,  men- tre la  causa,  nel  senso  del  realismo  dialettico,    sussiste (1)  Gap.  20  J  20. (2)  V.  Lof/iea  paragrafi  153-154, -  64 -  65  - nell'effetto— è,  eome  dice  Spinoza,  una  causa  imwanenie— e  l'eftetto  non  è  che  la  causa  stessa  a  cui  si  è  ag«:iunta una  nuova  determinazione;  perchè  in  «piesto    pro^^iesso reale  delle  cose  che,  secondo  il  realismo  dialettico,  corri- sponde al  progresso  lo;]pco  del  pensiero,  non  vi  ha,  come abbiamo  detto,  che  uno  stes-^o  e  unico  essere,  che  passa successivamente  da  uno  stato  sempre  più  astratto  o  più indeterminato  a  uno  stato  sempre  più  concreto  o  più  de- terminato. È  perciò  che  Schelling  ed  Hegel,  per  indicare la  derivazione  reale  delle  entità  conseguenze    dalle    en- tità principii,  al  concetto  di  causalità  preferiscono  quello di  svihfppo.  Chiamandola  sviluppo,  essi  intendono  para- gonarla alle  fasi  successive  deiresistenzadi  un  essere  (p.  e. di  un  organismo),  ma  di  cui  le  susseguenti  siano  condizio- nate unicamente  dalle  precedenti  (e  non  anche  da  condi- zioni esterne,  come  nell'organismo),  e  vi  sia  fra  queste  e quelle  un  legame  necessario,  nel  senso  sti^tto  della  pa- rola, cioè  quello  che  i  metafisici  immaginano  tra  la  causa efficiente  (e  non  il  semplice  antecedente  in  una  sequenza invariabile)  e  il  suo  eftetto.  Ma  è  evidente  che  un  tale sviluppo,  se  esso  fosse  una  successione  cronologica,  non sarebbe  che  una  forma  della  causalità.  Si  avrebbe  dun- que lo  stesso  dritto,  giacché  la  mancanza   della  succes- sione cronologica  non  fa  ostacolo,  a  chiamare   una  tale derivazione  reale  una  causazione  che  a   chiamarla    uno sviluppo.  Se  le  entità  derivate,  nei  sistemi  di  Schelling  e di  Hegel,  possano  chiamarsi  effetti  delle   entità  da  cui derivano,  e  queste  cause  di  quelle,  non  è,    al  postutto, che  una  quistione  di    parole.    Dicendo   che   il   realismo dialettico  identifica  il  principio  e  la   conseguenza    alla causa  (efficiente)  e  all'effetto,  noi  vogliamo  dire  sempli- cemente che  esso  spiega  la  produzione   delle   cose,    as- similandola, come  l'antropomorfismo   e    le   altre   fomie della  metafisica,  quantunque  d'una  maniera  più  lontana, a  quelle  causazioni  della  nostra  esperienza  più  familiare. che  sono  il  tipo  dell'idea  di  causa  efficiente.  La  qui- stione essenziale  è  se  Schelling  ed  Hegel  considerino  le entità  conseguenze  come  derivate  realmente  (cioè  onto- logicamente), e  non  soltanto  dedotte,  dalle  entità  prin- cipii. Ora  non  vi  ha  dubbio  che  essi  non  le  considerino così.  Schelling  afferma,  in  propri  termini,  che  l'assoluto produ<e  le  idee,  e  che  le  idee  jprot^wcowo  altre  idee  (cioè quelle  che  sono  logicamente  anteriori  quelle  altre  che  si deducono  da  esse)  (1).  Ed  Hegel  e  gli  hegeliani  non  par- lano ripetutamente  della  filiazione  delle  idee  (o  anche  delle cosecorrispondenti)  le  une  dalle  altre  ?  non  dicono  che  un'i- dea viene  o  esce  da  un'altra,  e  chequesta  apporta  o chiama necessariamente  quella;  che  la  Natura  procededalla  Logica e  lo  Spirito  dalla  Logica  e  dalla  Natìira,  come  nella  tri- nità  cristiana   il   Figlio  procede  dal  Padre  e  lo  Spirito Santo   dal    Padre  e  dal   Figlio;  che  la  dialettica  (cioè  la legge  secondo  cui    le    idee  derivano  le  une    dalle  altre) è  la  forza  per  cui  si  realizza    l'attività  dell'idea;  ecc.? Queste  espressioni  in  verità   possono   anche   significare il  punto  di  vista  dell'idealismo,  cioè  che  i  concetti,  in cui  si    risolve  la  realtà,    si  seguono   e  s'incatenano  in virtù  del  loro  legame  logico,  come  le  proposizioni  d'Eu- clide (e  non  le  cose  significate  da  queste  proposizioni). Ma  ciò  clh;  mostra  che  uno  almeno  dei  loro    significati è  l'altro  punto  di  vista  del  sistema,  cioè  il  realismo  dia- lettico, è  che  esse  equivalgono  per  gli  autori  alle  afìfer- mazioni  che  un'idea  essendo  data,  è  data  per  ciò  stesso un'altra  idea,  che  le  idee  si  seguono  e  s'incatenano  in un  ordine  necessario,  ecc.  Le  proposizioni  d'Euclide  non seguono  necessariamente  alle  proposizioni  da  cui  si  de- ducono; souo  le  verità  o  i  fatti  significati    dalle    prime (1)  V.   Filosofìa  e  religione,  pag.  28-35. -  G6  - ctie  seguono  nvcessariamente  dalle  verità  o  i  fatti  signi- ficati dalle  seconde.  Così  queste  affermazioni   hegeliane non  possono  denotare  il  progresso  del  pensiero  «»'«««- duce  (punto  di  vista  dell'idealismo),  ma  il  progresso  delle cose  che  vengono  dedotte  (punto  di  vista  del   rea  ismo dialettico).  Ciò  che  mostra  pure  che  le  espressioni  hege- liane significanti  una  derivazione  reale  tra  le  idee  desi- guano  la  sequenza  logica  della  cosa  che  si  deduce  dalla co.a  da  cui  si  deduce  (e  non   semplicemente  il   legame psicologico  tra   i  pensieri   corrispondenti    a   questa   se- quenza logica)  è  che  questa  derivazione  implica,  seconde. He-el  e  i  suoi,  una  sorta  d'identità  di    ciò  che  deriva con  ciò  da  cui  deriva.  Quando  essi  chiamano  il  seguito e  l'incatenamento  delle  idee  lo  sviluppo,  o  il   divenire, o  il  movimento  dell'idea;    quando   dicono   che   un  idea passa,  o  si  continua,  o  si  trasforma  in  un'altra;  quando i  diversi  gradi  del  progresso  dialettico,  a   ciascuno  dei quali  si  produce,  com'essi  dicono,  una  nuova  idea  e  una nuova  forma  dell'esistenza,  sono  da  essi  riguardati  come i  momefttid'un'idea  unica;  quando  affermano  che  l'essere  o l'idea  passa  continuamente  da  uno  stato  più  astratto  a  uno stato  più  concreto;  essi    considerano   i    diversi    termini della  serie,  come  abbiamo  detto  sopra,  come  degli  stati successivi  che  attraversa  uno  stesso  essere,  di  cui  i  prece- denti condizionano  e  determinano  necessariamente  1  susse- guenti. Ma  non  sono  le  proposizioni  o  i  pensieri  costituenti una  deduzione  o  un  seguito  di  deduzioni,  sono  le  veritiv o  i  fatti  che  si  deducono  gli  uni  dagli  altri,  che  possono e  devono  considerarsi  come  una  sola  e  stessa  cosa  (una 8ola  e  stessa  verità,  un  solo  e  stesso  fatto),  che  prima si  concepisce  in  una  forma  più  astratte  e  più  indetermi- nata, e  poi  successivamente  in  forme  sempre   pm    con- crete o  più  determinate.   È  questo   passaggio   graduale di  uno  stesso  essere  da  uno  stato  più  indeterminato  a -   67  - uno  stato  più  determinato,  da  uno  stato  più  astratto  a uno  stato  più  concreto,  che  Hegel  chiama  uno  sviluppo, una  successione  di  momenti,  ecc.,  e  che  noi  possiamo riguardare  come  un  incatenainento  di  cause  e  di  eftìbtti. in  quanto  i  gradi  o  i  momenti  posteriori  sono  determinati e  apportati  necessariamente  dai  gradi  o  momenti  ante- riori Del  resto  che  questo  sviluppo,  questa  successione di  momenti,  questa  filiazione  delle  idee,  e,  in  una  pa- rola, questa  derivazione  reale  di  cui  parlano  gli  hege- liani, non  sia,  almeno  sovratutto,  che  la  derivazione  lo- gica tra  la  cosa  che  si  deduce  e  quella  da  cui  si  deduce —  della  quale  si  fa  qualche  cosa  di  obbiettivo,  perchè delle  cose  che  derivano  logicamente  le  une  dalle  altre si  sono  fatte  delle  realtà  obbiettive,  e  non  delle  semplici astrazioni  mentali  —  è  affermato  nelle  loro  proposizioni che  lo  sviluppo  logico  è  identico  allo  sviluppo  ontolo- gico, che  il  movimento  del  pensiero  corrisponde  al  mo- vimento della  realtà,  che  l'incatenamento  e  l'ordine  delle idee  rappresentano  l' incatenamento  e  1^  ordine  delle cose,  ecc.  Il  Taine  ha  dunque,  in  sostanza,  ben  interpre- tato Hegel,  affermando  (some  vedremo  nel  $  6")  che  il suo  sistema  è  fondato  su  una  certa  teoria  della  causa- lità, la  quale  consiste  a  riguardare  come  causa  il  prin- cipio logico  e  come  effetto  la  conseguenza.  Aderendo a  questo  concetto  del  Taine,  noi  non  intendiamo  altro affermare,  in  ultima  analisi,  se  non  che  Hegel  riguarda i  termini  o  momenti  successivi  della  serie  dialettica come  derivanti  realmente,  e  non  soltanto  logicamente^ gli  uni  dagli  altri,  e  che  questa  derivazione  reale  è  per lui  la  stessa  derivazione  logica,  considerata  obbiettiva- mente, cioè  che  essa  consiste  in  questo  che,  data  l'esi- stenza di  un  termine,  è  data  perciò  stesso  per  necessil'esistenza  di  un  altro  termine,  questa  necessità  essendo una  necessità  logica.  Riguardando,  come  il  Taine,  que- Tmm .  r'  ru \^ —  68  - sta  dottrina  di  Hegel  per  una  teoria  della  causalità,  uoi vogliamo  dire  semplicemente  che  essa  è  un'applicazione del  concetto  di  causalità  efficiente.  Essa  applica  questo concetto,  perchè,  secondo  essa,  l'esistenza  di  un  termine dipende  dall'esistenza  di  un  altro  termine,  e  questo  è la  condizione  data  la  quale  quello  esiste  e  non  può  non esistere;  ciò  che,  salvo  l'assenza  della  sequenza  nel  tempo, è  ciò  che  noi  intendiamo  per  causalità.  Di  più  perchè in  questo  legame  tra  il  termine  da  cui  un  altro  deriva e  quest'altro  che  ne  deriva,  vi  hanno  i  caratteri  che distinguono  una  causazione  efficiente  da  una  semplice causazione  empirica o  sequenza  invariabile,  vale  adire: che  l'effetto  è  spiegato  dalla  causa  d'una  maniera  esau- riente, cioè  senza  lasciare  adito  ancora  alla  domanda perehè;  che  il  legame  tra  la  causa  e  l'effetto,  cioè  la  ca- pacità che  ha  la  prima  di  produrre  il  secondo,  e  il  se- condo di  essere  prodotto  dalla  prima,  è  evidente  razio- nalmente, cioè  per  il  semplice  rapporto  delle  idee,e  non  per l'esperienza;  e  infine  che  questo  legame  è  necessario,  nel senso  più  stretto  della  parola  necessità.  Questi  risultati sono  ottenuti  da  Hegel,  considerando  i  termini  succes- sivi della  serie  dialettica,  non  come  semplici  astrazioni mentali,  ma  come  entità  aventi  un'esistenza  propria  e realmente  distinte  le  une  dalle  altre. La  base  del  sistema  di  Hegel,  come  di  tutti  gli  altri sistemi  di  realismo  dialettico,  è  dunque  questo  principio: che  la  scienza  è  una  deduzione  progressiva,  in  cui  si  de- ducono sempre  dei  reali  da  altri  reali  (e  non  semplice- mente dei  concetti  o  delle  proposizioni  da  altri  concetti o  altre  proposizioni),  affinchè  il  rapporto  tra  la  premessa e  la  conseguenza  venga  assimilato  a  quello  tra  la  causa e  l'effetto.  Se  le  premesse  e  le  conseguenze  non  fossero dei  reali,  l'assimilazione  sarebbe  impossibile,  perchè  la causa  e  l'effetto  sono  due  fatti  reali,  distinti  e  separati 1'  uno  dall'  altro.    La  conseguenza  necessaria  di  questo principio  è  la  realizzazione  delle  astrazioni.  Infatti  que- sti reali  che  si  deducono  gli  uni  dagli  altri  non  possono essere  che  dei   concetti  obbiettivati,  o,  parlando  d'  una maniera  più  generale,  delle  astrazioni  realizzate.  Ciò  è per  due  ragioni  :  P  II  realista  dialettico  non  pretende  di poter  conoscere  a  priori  e,   perciò,  dedurre,  tutti  i  fatti particolari    dell'  esperienza,  vale  a  dire   tutti  gli  esseri individuali   con  le  circostanze  e  gì'  incidenti  particolari della  loro  esistenza.    Ciò  a  cui   aspira  la  filosofia  aprio- rista,  di  cui  il  realismo  dialettico  non  è  che  una  specie, è  di  riprodurre  il  contenuto   stesso  della  scienza  empi- rica, dandogli  la  forma  dell'  apriorità  e  della  necessità. Ora  la  scienza   non   conosce    che  il  generale:  essa  non determina  i  fenomeni    particolari   e  le  serie  accidentali che  essi  compongono,  ma  le   leggi  di  questi  fenomeni, cioè  le  loro  sequenze  o  coesistenze  costanti;  essa  non  de- scrive  gli    esseri   individuali,  ma  le  forme  o  i  tipi  co- stanti di  questi  esseri.  Così  il  realista  dialettico,  e  il  fi- losofo apriorista  in  generale,  anche  quando  ha  Tauda- cia  di  un  Hegel,  non   pretende  di  conoscere  a  priori  e di  dedurre  che  ciò  che  vi  ha   di   costante  nella  natura, le  leggi  e   le    forme   generali    dell'esistenza:  non   sono tntti    gli    uomini    individuali,  con  tutti  i  loro  caratteri particolari  e  tutti  gli  avvenimenti,  anche  insignificanti, della  loro  vita,  eh'  egli  può  pretendere  di  dedurre  e  di conoscere  a  priori,  ma  l'uomo  in  generale,  cioè  i  carat- teri costanti  del  tipo  umano;  non  tutte  le  cadute  parti- colari di  tutti  i  corpi  che  sono  caduti  nel  passato  o  che cadranno  nell'  avvenire,  ma  la  caduta  dei  gravi  in  ge- nerale,  la  legge  o  la  determinazione   generale  del  peso o  della  gravità.  Ciò  che  deduce  il  realista  dialettico  sono dunque  delle  proposizioni  astratte  e  generali,  di  cui  cia- scuna pone  l'esistenza  di  una  legge  o  forma  o  determi- nazione generale  delle  cose  (p.  e.  dell'  essere,  del  dive- nire, della  gravità,  dell'uomo,  ccc).  Ad  ognuna  di  que- -To- ste proposizioui  nou  corrispoude,  per  noi,  nella  realtà che  una  classe  di  oggetti  o  di  fenomeni  individuali,  cia- scuno coi    suoi    caratteri  e  le  sue   circostanze   determi- nate: per  noi,  la  realtà  che  corrisponde  alla  proposizione che  esiste  il  peso,  sono   tutti  i  gravi  che  cadono,  che sono  caduti  e  che  cadranno  ;    la  realtà  che  corrisponde alla  proposizione  che  esiste  V  uomo,  sono  tutti  gli  uo- mini  che  vivono,  che  sono    vissuti  e  che  vivranno  ;  e così  di  seguito.  Ma  quando  il  realista  dialettico  deduce V  esistenza  dell'  uomo  o  quella  del  peso,  egli   non  può intendere,  per  questa  sua  deduzione,  di  porre,  cioè  di affermare,  il  complesso  dei  singoli  uomini  e  delle  singole cadute  coi  caratteri  particolari  e  le  circostanze  determi- nate con  cui  esistono,  sono  esistiti,  ed  esisteranno  nella realtà.  Ciò  è  perchè  il  reale  ch'egli  deduce,  cioè  di  cui pone  o  afferma  1'  esistenza  per  la  sua  deduzione,  deve essere  Veffetto  e  la  conseguenza  necessaria  dei  principii da  cui  lo  deduce.    Ma  1'  esistenza   dei   singoli  uomini  e delle  singole  cadute  reali,  coi  caratteri  e  le  circostanze particolari  della   realtà,  non  è  la  conseguenza  necessa- ria, e  quindi    nemmeno    1'  effetto,    dei  principii  da  cui deduce  l'esistenza  dell'uomo  o  quella  del  peso  in  gene- rale. Egli  ammette  infatti  che  i  singoli  uomini  e  le  sin- gole cadute,  con  le  circostanze  determinate  con  cui  si sono  presentati  e  si  presenteranno  nell'esperienza,  è  im- possibile di  dedurli;  ciò  ch'egli  ammette  solamente  che si  possa  dedurre  è  l'esistenza  del  tipo  e  della  legge  ge- nerale, dell'  uomo  e  della  gravità.  Vi  hanno  dunque,  se- condo  il   realismo  dialettico,  due  elementi  nella  realtà empirica,  cioè  nella  nostra   realtà  :  1'  uno  deducibile  e perciò  necessario  —  è  1'  elemento  costante  della  natura, le  leggi  dei  fenomeni  e  le  forme  generali  degli  esseri—; l'altro  non  deducibile  e  perciò  contingente— è  l^lemento variabile,  le  particolarità    dei  fenomeni  e  degli  oggetti individuali,  in  cui  queste  leggi  e  questo  forme  si  realiz- I —  71  - zano— .  L'  uno  di  questi  elementi  disgiunto  dall'  altro non  è  per  noi  che  un'  astrazione,  ma  il  realista  dialet- tico deve  considerarlo  come  una  realtà,  perchè  ciò  che egli  deve  dedurre  è  un  reale,  e  questo  non  può  essere il  nostro  reale,  in  cui  l'elemento  necessario  e  deducibile è  mescolato  con  l'elemento  non  deducibile  e  contingente, e  che  perciò  non  può  essere  la  conseguenza  necessaria dei  principii  già  stabiliti  e  non  può,  quindi,  riguardar- sene come  l'effetto.  Questo  reale  che  egli  deve  dedurre non  può  essere  dunque  che  1'  elemento  necessario  e  de- ducibile, per  sé  solo,  astratto,  cioè  disgiunto,  dall'altro elemento  che  l'  accompagna  nella  realtà  empirica,  e considerato  come  esistente  per  sé  in  questo  stato  di  strattezza.  È  infatti  questo  elemento  astratto  che  può solo  riguardarsi  come  la  conseguenza  necessaria  dei  prin- cipii già  posti,  e  quindi,  se  è  una  realtà  e  se  anche  essi sono  delle  realtà,  come  effetto  di  questi  principii  (1). 2^  Come  abbiamo  detto  nel  paragrafo  precedente,  i  reali che  fauno  da  principii  e  quelli  che  fanno  da  conseguenze non  possono  essere  che  una  sola  e  stessa  realtà,  che passa  da  uno  stito  più  astratto  o  più  indeterminato  a uno  stato  più  concreto  o  più  determinato,  perchè,  nella deduzione,  le  conseguenze  non  fauno  che  porre,  sotto una  forma  più  concreta  o  più  determinata,  quello  stesso che  i  principii  avevano  già  posto  sotto  una  forma  più astratta  o  più  indeterminata.  Ciò  implica  che  i  principii, cieè  tutti  i  reali  che,  ad  un  grado  qualunque  del  pro- cesso deduttivo,  fanno  da  premesse,  non  possono  essere delle  realtà  concrete,  ma  astratte,  cioè  delle  astrazioni realizzate.  Risultano  dunque  da  ciò  che  abbiamo  detto due  caratteri  comuni  a  tutti  i  sistemi  di  realismo  dia- lettico :  1'  uno  che  i  reali  che  esso  deduce  progressiva- (1)  V.   per  più  ampi  sviluppi  §  23'^  Realizzazione   delle  astra- zioni. 72  - mente  gli  uni  dagli  altri,  non  sono  delle  realtà  con- crete, ma  delle  astrazioni  realizzate^  e  l'altro  che  queste astrazioni  realizzate  formano  una  scala  di  astrazione  de- crescente,  non  essendo  che  gli  stati  successivi  o,  come dice  Hegel,  i  momenti,  di  nno  stesso  e  unico  essere,  che passa  gradatamente  da  uno  stato  più  astratto  o  più  in- determinato a  uno  stato  più  concreto  o  più  determinato. Noi  ritroveremo  questo  secondo  carattere,  così  bene  che il  primo,  in  tutti  gli  altri  sistemi  di  cui  parleremo  nel seguito  del  capitolo. I  caratteri  del  sistema  di  Hegel,  come  di  qualsiasi altro  sistema  di  realismo  dialettico,  possono  dividersi  in due  gruppi:  gli  uni  sono  comuni  a  tutti  i  casi  di  questa forma  di  matafisica,  gli  altri  particolari  a  ciascuno  dei singoli  casi.  Questi  ultimi,  nel  sistema  hegeliano,  sono le  dtie  differenze  essenziali  di  questo  sistema,  cioè  l'i- dealismo da  cui  in  esso  è  accompagnato  il  realismo  dia lettco,  e  la  forma  si)eciale  della  deduzione,  che  con- siste a  passare  dalla  tesi  all'antitesi  e  poi  alla  sintesi, ovvero  dipendono  da  queste  due  differenze  essenziali.  I primi  sono  dati  dallo  scopo  stesso  a  cui  mira  il  realismo dialettico,  cioè  l'identificazione  del  rapporto  tra  il  i)rin- cipio  e  la  conseguenza  a  quello  tra  la  causa  efficiente  e l'effetto.  Noi  abbiamo  già  parlato  di  alcuni  di  essi,  quali sono,  oltre  alla  realizzazione  delle  astrazioni  e  al  pas- saggio graduale  dal  più  astratto  al  più  concreto,  la  ne- cessità che  la  deduzione  differiscaa  dalla  deduzione  or- dinaria (perchè  deve  essere  un  progresso  reale  del  pen- siero e  delle  cose),  e  che  il  primo  principio  sia  stabilito a  priori  (affinchè  i  principii  siano  logicamente  anteriori alle  conseguenze,  e  possano  quindi  considerarsene  come delle  cause).  Dobbiamo  anche  parlare  di  due  altri  ca- ratteri del  sistema  hegeliano  che  sono  pure  comuni, come  questi,  ai  diversi  sistemi  di  realismo  dialettico,  e si  spiegano  anch'  essi  per  lo  scopo    di  questa  forma  di -  73 metafìsica.  L'uno  è  l'unità  di  metodo,  la  legge  costante che  governa  i  passaggi  dalle  idee  date  ad  altre  idee,  il ritmo  immutabile  del  movimento  dialettico,  che  si  com- pie uniformemente,  nel  sistema  di  Hegel,  nei  tre  mo- menti della  tesi,  dell'  antitesi  e  della  sintesi.  Lo  scopo è  evidentemente  una  identificazione  più  completa  del rapporto  tra  le  premesse  e  le  conseguenze  a  quello  tra le  cause  e  gli  effetti.  Perchè  un  reale  possa  considerarsi come  la  causa  efficiente  d'un  altro  reale,  non  basta  che il  primo  sia  seguito  dal  secondo  per  un  legame  necessario e  intrinsicamente  evidente  che  ha  con  esso,  ma  bisogna accora  che  questa  sequenza  avvenga  secondo  una  legge o  una  uniformità  determinata,  perchè  anche  la  causa- zione efficiente  è  una  causazione,  e  causazione  vuol  dire sequenza  invariabile,  cioè  che  avviene  secondo  una  legge o  una  uniformità  determinata.  Questa  condizione  del metodo  dialettico,  perchè  il  nesso  logico  tra  principio  e conseguenza  possa  trasformarsi  in  un  nesso  ontologico fra  causa  ed  effetto,  importa  naturalmente  la  varietà  nel tempo  stesso  che  l'unità,  vale  a  dire  la  molti plicità  dei passaggi  logici  nel  tempo  stesso  che  una  legge  uniforme che  governi  questi  passaggi.  La  moltiplicità  dei  pas- saggi logici  si  ottiene  per  la  graduazione  nella  dedu- zione, per  la  esi)licazione  solamente  graduale  e  progres- siva delle  conseguenze  implicate  nel  primo  principio. La  legge  costante  a  cui  si  conformano  questi  passaggi logici,  è  la  legge  di  causazione  del  mondo  delle  astrazioni realizzate,  la  loro  sequenza  invariabile,  per  cui  Hegel riguarda  il  metodo  dialettico  come  la  legge  al  tempo stesso  del  pensiero  e  delle  cose.  Questa  moltiplicifcà  dei passaggi  logici  e  questa  legge  costante  che  li  governa, le  ritroveremo  negli  altri  sistemi  in  cui  all'  obbietti va- zione  dei  concetti  è  unito  il  metodo  dialettico,  nel  senso generale   che   abbiamo  spiegato,  cioè  il  metodo  di  sco- -  74  - piire  a  priori,  ileduceDdoli  gli  uni  dagli  altri,  questi  con- cetti obbietti  vati. Uua  conseguenza  diretta  dell'unità  di  metodi»,  e  quindi indiretta  dell'identiticazione   del  principio   alla  causa  e della  conseguenza  all'effetto,  è  il  monismo  lo(jico  ed  on- tologicoy  cbe   è  anch'esso  un    carattere  comune  del  rea- lismo dialettico,  La  deduzione  parte,  in  tutti  i  sistemi, da  un  primo  principio  unico  (monismo  logico)  ;  ne  segue, poiché  le  conseguenze  non  sono  che  i  principii  stessi  a uno  stato  più  concreto,  che  tutte  le  astrazioni  realizzate costituiscono  gli  stati  successivi  di  un  essere  unico,  che passa  continuamente   da  uno    stato    più  astratto  a  uno stato  più  concreto  (monismo  ontologico).  Il  monismo  lo- gico, di  cui  l'ontologico  è  uua  derivazione,  risulta  dal- l'uniformità di  legge  a  cui  è   sottoposto  il  mondo  delle astrazioni  realizzate  Essa  importa  che  fra  tutte  le  astra- zioni realizzate  vi  ha  un  rapporto  determinato  che  lega  le une  con  le  altre.  Così  una  pluralità  di  principii  egual- mente primitivi  e  perciò  senza  legame  l'uno  con  l'altro sarebbe  in  contraddizione  con  questa  uniformità  di  legge. Queste   entità   di  cui    si    facessero  dei   principii    egual- mente primitivi    e   senza   legame  l'uno  con   l'altro,  do- vrebbero essere  anch'esse  legate  fra  di  loro  dal  rapporto costante  che  costituisce  la  legge  universale.  Supponiamo, p.  e.,  che  nel  sistema  di  Hegel  vi  fossero  più  serie  d'Idee indipendenti   fra  di  loro,    e  per   ciascuna  serie  un  prin- cipio proprio  senz'alcun  legame  coi  principii  delle  altre. Tutti  i  termini  di  ciascuna  serie,  in  quest'ipotesi,  e  tutte le  parti,  grandi  e  piccole,  in  cui    ciascuna  serie  si  di- vide, sarebbero  fra  di  loro  nel  rapporto  costante  di  tesi, antitesi  e  sintesi,  ma  non  le  diverse  serie  relativamente le  une  alle    altre,  nò  i  principii    distinti    che  formano  i punti  di  partenza  delle  serie  distinte.  Ciò  sarebbe  in  con- traddizione  con  la  legge   universale  del   mondo  ideale, che  tutte  le  idee  e  tutti  i  gruppi    d'idee  si  dispongano -    75  ~ in  un  ordine  determinato,  secondo  il  rapporto  costante di  una  opposizione  seguita  <la  una  sintesi.  Anche  le  di- verse serie  supposte  e  i  principii  supposti  di  quc^ste  se- rie dovrebbero  essere  uniti  dallo  stesso  rapportò,  ciò  che importa  una  serie  unica  e  un  principio  primo  unico,  e quindi  il  monismo,  non  solo  logico,  ma  anche  ontologico. Questo  è,  come  abbiamo  detto,  un  carattere  comune  del realismo  dialettico,  che  ritroveremo  in  tutti  i  sistemi di  cui  parleremo  in  seguito. Fra  tutti  i  sistemi  di  realismo  dialettico,  quello  di Hegel,  quantunque  ne  sia  l'esempio  più  illustre,  almeno nella  filosofia  moderna,  è  il  meno  proprio  ad  indicarci chiaramente  in  che  consista  l'essenza  di  questo  tipo  di metafisica.  Ciò  è  per  diverse  ragioni,  che  noi  possiamo  ri- durre a  tre:  1®.  La  realizzazione  degli  universali  è  in- viluppata in  questo  sistema  nella  dottrina  che  le  cose sono  dei  concetti,  e  presentata  come  una  conseguenza dell'identità  dell'essere  e  del  pensiero;  ciò  che  non  solo dissimula  il  vero  perchè  di  questa  realizzazione,  ma  potrt* b- be  anche  far  credere  che  l'identità  dell'essere  e  del  pensie- ro è  essenziale  nel  realismo  dialettico.  2®.  La  deduzione  di Hegel  è  così  difforme  dalla  vera  deduzione^  che  si  com- prende appena  come  l'autore  abbia  potuto  considerarla corno  tale.  Ciò  può  avere  per  risultato  di  nasconderci che  il  carattere  essenziale  del  metodo  di  questa  metafi- sica è  di  essere  o  piuttosto  di  pretendere  di  essere  una deduzione,  vale  a  dire  ciò  che  i  logici  chiamano  con questo  nome.  Inoltre  potrebbe  farci  credere  che  l'iden- tità dei  contrari  e  le  altre  particolarità  della  dialettica hegeliana  siano  dei  caratteri  essenziali  di  questo  me- todo, che  noi  dobbiamo  attenderci  di  ritrovare  in  tutti gli  altri  sistemi  analoghi.  3<*.  Hegel  non  afferma  esplici- tamente il  principio  fondamentale  del  suo  sistema,  cioè l'identità  del  rapporto  logico  fra  il  principio  e  la  conse- guenza col    rapporto  ontologico  fra  la  causu  e  l'effetto. —  76   - —  77  ^ Per  queste  ragioni  saranno  per  noi  più  istruttivi  gli altri  sistemi:  quello  del  Taine,  a  cui  ora  passeremo, sarà  forse  il  più  istruttivo  di  tutti,  perchè  la  sua  dedu- zione è  la  deduzione  dei  logici,  e  perchè  egli  espone della  maniera  più  netta  la  teoria  della  causalità  che  è la  base  del  realismo  dialettico. $  4.  Non  vi  ha  dubbio  che  Taine  consideri  V  astratto e  generale  come  una  realtà  sussistente  per  se  stessa.  Egli parla  continuamente  di  cose  generali^  che  corrispondono alle  idee  e  nomi  generali.  (1)  Un'idea  astratta  e  generale è  ciò  che  corrisponde,  nel  nostro  pensiero,  a  una  cosa astratta  e  generale  nella  realtà;  è  a  questa  che  deve  ag- giustarsi,  è  essa  che  è  il  suo  oggetto  (2).  0  piuttosto, siccome  tutte  le  nostre  idee  non  sono  che  immagini  di sensazioni,  e  noi  non  abbiamo,  a  parlar  propriamente,  idee astratte  e  generali,  sono  i  nomi  generali  che  corrispon- (1)  Inlcllig.  2a  parte  1.  4**  e.  !<>  in  princ:  <t  Sin  qui  non  ab- biamo considerato  che  le  cose  particolari  e  la  conoscenza  che  ne prendiamo;  ci  resta  a  considerare  le  cose  generali  e  le  idee  ohe ne  abbiamo.  Perchè  vi  hanno  delle  cose  generali,  cioè  delle  cose comuni  a  molti  casi  o  individui;  sono  dei  caratteri  o  gruppi  di caratteri acqua  designa  un  gruppo  di  caratteri  che  s'in- contra sempre  lo  stesso  in  un'infinità  di  liquidi  ....  bere  de- signa un  gruppo  di  caratteri  ohe  s'incontra  sempre  lo  stesso  in un'infinità  d'azioni...  È  così  per  le  altre  parole  del  dizionario;  cia- scuna designa  un  carattere  o  gruppo  di  caratteri  che  si  presenta o  può  presentarsi  in  molti  casi  o  individui  naturali.  Ecco  un nuovo  oggetto  di  conoscenza,  t.ome  vi  hanno  in  noi  dei  pensieri che  corrispondono  ai  casi  e  individui  particolari,  così  vi  hanno in  noi  dei  pensieri  che  corrispondono  ai  caratteri  generali;  si chiamano  idee  generali.  »  V.  pure  la  stessa  opera.  2»  ed.  t.  1° p.  5,  29,  67,  t.  20  p-  257,  2«1.  400,  401,  ecc.  (Nella  più  parte di  questi  luoghi,  come  nel  luogo  citato,  le  cose  generali  sono opposte  agli  oggetti  individuali). (2)  Intelliy.  2a  ed  t.  2o  p.  240,  244-245,  249,  261,  262,    302, 507,  333,  417,  dono  alle  cose  astratte  e  generali,  e  le  rappresentano,- o,  come  dice  il  nostro  autore,  le  sostituiscono,  nel  nostro pensiero  (1).  Sono  questi  nomi,  non  le  pretese  idee  a- stratte,  che  ci  rendono  presenti  le  cose  generali  (2): un  nome  generale  (p.  e.  albero  o  poligono)  e  la  cosa astratta  e  generale  corrispondente  formano  una  coppia^ tale  che  il  primo  termine  tiri  dietro  di  sé,  faccia  appa- rire, il  secondo  termine  (3).  Se  un  nome  si  applica  a tutti  gl'individui  d'una  classe,  è  perchè  designa  il  carat- tere astratto  presente  in  tutti  questi  individui,  ed  è  legato con  lui:  esso  equivale  alla  vista,  che  non  possiamo  avere, di  questo  carattere  astratto  (4).  Alla  presenza  dinnanzi a  noi  di  una  qualità  generale  nasce  in  noi  una  tendenza a  nominare  ed  un  nome  (5);  tutte  le  volte  che  la  cosa astratta  e  generale  è  presente  negli  oggetti,  il    nome  è (1)  Inlellig.  t.  1«»  21-22,  25-26,  28,  36-37,  .50,  56.  66,  71,  t.  2© 232,  243,  244-245,  266,  ecc. (2)  Intellig.  t.  1»  l.  lo  e.  3«  n.  IV. (3)  [nletlig.  1.   1«»  e.   1«  n*   IV,  e.  2<>  n.   1,  ecc. (4)  Intellig.  2^  parte  1.  4°  o.  lo  §  lo  n.  11:  «  Pertanto  se  esee (le  percezioni  e  rappresentazioni  sensibili  degl'individui  d'una classe)  lo  evocano  (il  nome),  è  grazie  a  ciò  che  tutte  hanno  in comune,  e  nou  grazie  a  ciò  che  ciascuna  d'esse  ha  di  proprio; pertanto  ancora  se  esso  le  evoca,  è  grazie  a  ciò  che  tutte  hanno di  comune  e  non  grazie  a  ciò  che  ciascuna  di  esse  ha  di  proprio; per  conseguenza  in  fine  esso  è  attaccato  a  ciò  che  tutte  hanno di  comune  e  a  ciò  solamente.  Ora  questo  qualche  cosa  è  ap- punto il  carattere  astratto,  lo  stesso  in  tutti  gl'individui  della classe.  È  dunque  a  questo  carattere,  e  a  questo  carattere  solo, ohe  il  nome,  mentalmente  inteso  o  pronunziato,  corrisponde;  ciò che  si  esprime  dicendo  che  il  nome  designa  e  significa  il  carat- tere. Di  «luesla  maniera  il  nome  equivale  alla  vista,  esperienza o  rappresentazione  sensibile,  che  non  abbiamo  e  non  possiamo avere,  del  carattere  astratto  presente  in  tutti  gli  individui  si- mili. Esso  la  rimpiazza  e  fa  lo  stesso  ufficio  ». (5)  Intellig.  t.   lo  p.  34.  p.  56. 78 presente  nel  nostro  spirito,  tutte  le  volte  che  essa  è  as- sente, esso  è  assente;  così  sostituisce  la  sua  esperianza  o la  sua  rappresentazione  che  ci  sono  impossibili  (1).  Noi 79  — (1)  Intellig.  1.  1»  o.  2o  IV  :  «  Esso  (il  nome)  corrisponde   alla qualità  comune  e  distintiva  che  costituisce  la  classe  e  che  la  se- para dalle  altre,    e    corrisponde    solamente    a    questa    qualità  ; tutte  le  volte  ohe  essa  è  presente,  esso  è  presente,  tutte  le  volte che    essa  è  assente,  esso  è  assente  ;  esso    è    destato    da    essa, e  non  è  destato  che  da  essa.   Di    questa   maniera    è  il    suo  rap- presentante mentale,  e  si   trova    il    sostituto    d'una    esperienza <5hf    ci    è    interdetta.    Esso    tiene  luogo    di    quest'esperienza,  fa il  suo  ufficio,  le  equivale — Artifìcio  ammirabile  e  spontaneo  della nostra  natura:  noi  non  possiamo  percepire  né  mantenere  isolate nel    nostro    spirito  le  qualità  generali,    sorta  di  filoni    preziosi che  costituiscono  l'essenza    e    fanuo   la    classificazione  delle  co- se; e  tuttavia  per    uscire    dalla    grossa    esperienza    bruta,    per apprendere  l'ordine    e    la    sirutlur't    interiore    del   mondo,    (la strutttura  interiore  del  mondo,  perchè  esso    si  compone,    come di  vari  strati,  di  astrazioni  realizzate  più  o  meno  astratte),  bi- sogna che  noi  le  ritiriamo  dalla  loro  ganga,  e  le    concepiamo  a parte.  Noi  ricorriamo  a  un    sotterfugio,    associamo    a   ciascuna qualità   astratta  e  generale  un  piccolo    avvenimento  particolare e  complesso,  un  suono,  una  figura  facile    a    immaginare  e  a  ri- produrre; e  rendiamo  l'associazione  si  esatta  e  si  stretta  che  or- mai la  qualità  non  possa  apparire  o  mancare  nelle  cose,    senza che  il  nome  apparisca  o  manchi  nel  nostro  spirito,  e  reciproca- mente. La  coppi. i  così  formata  rassomiglia    a    questi    strumenti di  fisica  e  di  chimica  che,  per  un  debole  effetto  sensibile,    uno spoststmento  d'aghi,  una  variazione  di  tinta,  mettono    alla    por- tata dei  nostri  sensi  delle  decomposizioni  di  sostanze  o  delle  va- riazioni di  correnti  poste  fuori  della  portata  dei  nostri  sensi Similmente,  quaado  si  tratta  d'una  qualità  generale,  di  cui  non possiamo  avere  né  esperienza  né  rappresentazione  sensibile,  noi sostituiamo  un  nome    alla   rappresentazione    impossibile Per questa  equivalenza  (tra  il  nome  e  la  rappresentazione)  i  carat- teri generali  delle  cose  arrivano  alla  portata  della  nostra  espe- rienza...,.» non  abbiamo  esperienza  o  percezione  delle  cose  astratte e  i^enerali  considerate  ciascuna  isolatamente  (1);  ma  esse non  esistono  al  di  là  di  questo  mondo  come  le  Idee  di Platone  secondo  la  più  parte  degl'  interpreti  (2).  Sono quali  forme  viventi  mescolate  alle  cose  (3)  ;  costitui- scono la  porzione  uniforme  e  fìssa  dell'esistenza  dispersa e  successiva  (4),  i  soli  elementi  che  siano  da  per  tutto gli  stessi  e  rinascano  sempre  gli  stessi  (5);  come  gl'in- dividui e  gli  avvenimenti,  in  cui  esse  esistono,  sono delle  forme  dell'esistenza,  e  non  differiscono  dagl'indi- vidui e  dagli  avvenimenti  che  perchè  sono  delle  forme più  stabili  e  più  diffuse  (6).  Per  indicare  l'esistenza  per sé  delle  cose  astratte  e  generali  e  al  tempo  stesso  la  loro inerenza  nelle  cose  concrete  e  partirolari,  Taine  dice, come  Platone,  che  quelle  sono  presenti  in  queste  o  altre (1)  V.  oltre  i  l.  cit.  nelle  note  4  p.  77  e  1  p.  78,  Intellig.  1.  1" o.  2»  n.  1  in  fine,  n.  II  in  princ,  u.  IV  in  princ,  e  e.  3  n.  IV  in principio  e  in  fine. (2)  V.  Intellig.  2o  300-302,  luogo  che  riporteremo  in  una  no- ta seguente. (3)  Saggi  di  critica  e  di  Storia,  Prefazione:  Le  qualità  e  si- tuazioni generali  che  fanuo  e  disfanno  le  civiltà,  e  di  cui  la  no- stra vita  effimera  non  è  che  un  fiotto  nella  loro  corrente,  ci  ap- pariscono «  non  come  formule  astratte,  ma  come  forze  viventi mescolate  alle  cose,  da  pertutto  presenti,  sempre  Jigenti,  vere divinità  del  mondo  umano,  ohe  danno  la  mano  al  di  sotto  di esse  ad  altre  potenze  padrone  della  materia  come  esse  lo  sono dello  spirito,  per  formare  tutte  insieme  il  coro  invisibile  di  cui parlano  i  vecchi  poeti,  che  circola  a  traverso  le  cose,  e  per  cui vive  e  palpita  l'universo  eterno  ».  Qui  le  cose  astratte  e  gene- rali non  sono  solamente  sostanti dcate,  ma  quasi  personificate. (4)  V.  Intell.  20  p.  236,  luogo  che  riporteremo  in  una  nota  se- guente. (5)  V.  Intellig,  2»  p.  301,  il  luogo  che  riporteremo  nella nota (6)  V.  lo  stesso  luogo  indicato  nella  nota  precedente. iiS —  80  — „  Il  I  I  Il     II  I  I — n^— rr-^^^^» espressioni  equivalenti  (1);  che  vi   sono  incluse  o  conte' nate  (2);  che  ne  sono  delle   porzioni    o    dei  frammen' (1)  V.  Intellig.  t.  1»  p.  36  e  37,  t.  2o  p.  232,  236,  237,  238, 239,  240,  245,  249,  257,295,  297,  301,309,  311,  312,319,348,486, 487,  489,  490,  Filos.  class,  p.  367,  Posit.  ingl.  p.  144,  145.  ecc. Notiamo  le  espresioni:  «  i  caratteri  generali  sono  gli  abitanti pili  dittnsi  della  natura»  e  «hanno  il  più  largo  posto  nella  scena dell'essere  (v.  Intellig.  2»  p.  237,  1<*  riportato  in  una  nota  seg.); i  caratteri  comuni  «  sono  molto  più  diffusi  nello  spazio  i>  ohe  i caratteri  che  persistono  in  un  essere  particolare   {Intellig.  t. p.  238);  questi  estratti  (noi  diremo  asiratti)  «  presenti  in  molti  punti del  tempo  e  dello  spazio  »  (t.  2''  p.  240);  più  un  carattere  è  ge- nerale e  astratto,  «  più  occupa  posta,  e  lega  individui  nella  na- tura|»  (p.249);  dei  caratteri  più  generali  «che  universalmente  diffusi sotto  svisamenti  diversi  >>  (p.257);  nella  natura  un  carattere,  «  è sempre  annegato  in  una  folla  d'altri  »  (p.  319);  «  dei  dati  gone- eali,  cioè  diffusi  in  territori  esteriori  molto  vasti  »  {Posit.  ingl, p.  144);  «  dei  dati  universali,  cioè  diffusi  su  tutto  il  territorio del  tempo  e  dello  spazio  »  (ihid.J.  Notiamo  pure  sotto  un'altro punto  di  vista:  Intelligenza  t.  2<^  p.  393;  gli  assiomi  affermano che  «  se  il  primo  dato  s' incontra  in  qualche  parte  e  notevolmente nella  natura,  il  secondo  dato  non  può  mancare  d'incontrarvisi  > (perchè  infatti  un'astrazione  realizzata,  essendo  sussistente  per se  stessii,  non  potrebbe  incontrarsi  anche  fuori  della  natura  ì) — In alcuni  dei  luoghi  indicati  le  cose  astratte  e  generali  non  si  dicono presenti  (o  assenti)  nelle  cose  donerete  e  particorari,  ma  in  altre cose  pure  astratte  e  generali,  ma  meno  delle  prime.  E  in  effetto la  relazione  tra  il  più  astratto  e  il  meno  astratto  in  cui  il  primo inerisce,  non  potrebbe  essere  diversa  che  quella  tra  l'astratto  ed il  concreto. (2)  V.  Intellig.  t.  2"'  p.  269,  309,  392,  401,  402,  403.  404. 405,  406,  407.  409.  410,  412,  415,  417,  418,  425,  466,  483.  487, Posit.  ingl.  p.  116,  125,  132,  140,  144,  145,  Filos.  clas.  p.  IX.  ecc. Ripetiamo  la  stessa  osservazione  della  nota  precedente,  cioè  che nei  luoghi  indicati  l'autore  dice  le  cose  astratte  e  generali  in- eluse o  contenute  (o  altre  espressioni  equivalenti)  tanto  negli  og- getti concreti  e  particolari  quanto  in  altre  cose  pure  astratte  e -  81  —         ' ti  (1);  che  sono  gli   elementi  (2),  i  semplici  (3),  i  compo- nen<f  (4),  e  le  cose  i  composti  che  ne  risultano  (5);  ecc. generali  (ma  meno  della  prima).  Nelle  note  seguenti  ci  dispen- seremo di  ripetere  Tosservazione  analoga  :  basterà  di  dire  ora in  generale  ohe  l'autore  si  serve,  com'è  naturale,  delle  stesse  e- spressioni  per  indicare  sia  la  relazione  dell'astratto  al  concreto sia  quella  del  più  astratto  al  mono  astratto  di  cui  il  primo  si dice  ohe  è  una  nota  (quando  si  risruardano  come  semplici  concetti). (1)  V.  /  filos.  class,  o.  X  p.  250,  3»  ed.:  «  Il  tutto  è  soggetto o  sostanza,  le  parti  sono  attributi  o  qualità....  sempre  e  da  per tutto  ove  si  trova,  l'attributo  è  una  qualità,  un  astratto,  una porzione  del  soggetto.  Questa  pietra  è  pesante,  la  materia  è estesa,  questa  pianta  vegeta,  il  sole  è  brillante;  in  tutte  queste frasi  Tattributo  è  un  membro  separato  dal  soggetto.  L'estensione è  una  porzione  del  tutto  che  si  chiama  materia;  il  peso  è  una porzione  del  tutto  che  si  chiama  pietra;  la  vegetazione  è  una porzione  del  tutto  che  si  chiama  pianta;  lo  splendore  è  una porzione  del  tutto  che  si  chiama  sole  ».  L*  Intellig.  t.  lo  p.  22 ed.  2*:  «  La  cifra  aritmetica  non  sostituisce  la  cosa  intera  con tutte  le  sue  qualità  e  caratteri,  ma  solamente  la  sua  quan* tità  e  il  suo  numero  »  ;  sostituisce  solamente  «  qualche  cosa dell'  oggetti  immaginato,  cioè  a  dire  un  frammento,  un  e- stratto  ».  P.  25-26:  Il  nome  generale  «  è  astratto  perchè  de- signa un  estratto,  cioè  una  porzione  d'individuo,  la  quale  si  ri- trova in  tutti  gl'individui  del  gruppo esso  è  generale  percè  astratto;  convieue  a  tutta  la  classe,  perchè  l'oggetto  designato non  essendo  che  un  pezzo,  può  ritrovarsi  in  tutti  gl'individui della  classe....  Ecco  una  coppia  d'una  specie  nuova  (la  coppia fra  il  nome  e  l'astratto  designato),  poiché  il  suo  secondo  tar- mine non  è  un  oirgetto  di  cui  possiamo  avere  percezione  ed  espe- rienza, cioè  a  dire  un  fatto  intero  e  determinato,  ma  una  por- zione di  fatto,  un  frammento  ritirato  per  forza  e  per  arte  dal- tutto  naturale  a  cui  appartiene  e  senza  di  cui  non  potrebbe  sus- sistere »  (fenza  di  cui  non  potrebbe  sussistere,  perchè  le  astra- zioni realizzate  non  esistono  che  nella  natura,  per  conseguenza, nelle  cose  concrete).  Possiamo  noi  avere  l'esperienza,  percezione 6 —  82  — —  83  — Questi    elementi   non  ricevono  un'  esistenza  fittizia  daU l'astrazione;  essi  esistono    per  sé  stessi,  ma  nelle  cose; ciò  vuol  dire  che  ciascun  elemento  non  esiste   solo    ma in  unione  ad  altri  elementi,  insieme  ai  quali  costituisce o  rappresentazione  sensibile  di  questo  frammento  staccato  e  isola- to?... »  T.  20  p.  483:  «  Per  ragione  esplicativa  s'intende  uno  o  più caratteri  del  soggetto,  inclusi  in  esso  come  un  frammento  iu  un tutto,  pivi  astratti  e  più  generali  di  esso,  e  che  essendo  legati èssi  stessi  all'attributo,  legano  l'attributo  al  soggetto.  Ciò  torna a  dire  ohe  l'attributo  non  è  legato  al  soggetto  stesso  tutto  intero, ma  ad  uno  o  più  caratteri  astratti  e  generali  del  soggetto  ». P.  487:  Un  attributo  che  un  soggetto  ha  comune  con  un  altro soggetto  «  appartiene  a  questa  porzione  del  nostro  soggetto  che si  compone  di  caratteri  presenti  in  esso  e  nel  secondo  soggetto, cioè  a  dire  comuni  all'uno  e  all'altro,  cioè  a  dire  infine  gene- rali. Donde  segue  pure  che  appartiene  solameute  a  una  porzione del  nostro  soggetto,  in  altri  termini  a  un  frammento,  a  un  estratto, a  un  astratto  incluso  nel  nostro  soggetto  ».  V.  a.  Intellig.  t.  1® p.  21,  t.  20  p.  239,  309,  402,  404,  489,  Posit.  ingl.  p.  116,  117, 128,  130,  131.  ecc. (2)  Intell.  p.  2»  1.  4.  e.  2.  §  1,  11  (2^  ed.  t.  2.  pag.  402-404): «  Del  gruppo  di  caratteri  che  costituiscono  un  corpo  terrestre, Newton  non  ne  avea  conservato  che  uno,  la  proprietà  di  essere  una massa  in  rapporto  con  un'altra  massa;  egli  aveva  eliminato  il resto.  Del  gruppo  di  caratteri  che  costituiscoro  un  pianeta  egli non  ne  avea  conservato  che  uno,  la  proprietà  di  essere  una  massa in  rapporto  con  un'altra  massa;  egli  aveva  pure  eliminato  il  resto. Egli  aveva  dunque  liberato  (degagé)  dai  due  gruppi  una  proprietà asttatta  e  generale,  più  astratta  e  più  generale  che  ciascuno  di essi,  contenuta  in  ciascuno  di  essi  come  una  parte  iu  un  tutto, come  un  frammento  in  un  insieme,  come  un  elemento  in  una somma.  Invece  di  legare  come  i  suoi  predecessori  il  peso  fil  pri- mo gruppo  totale,  e  la  tendenza  centripeta  al  secondo  gruppo totale,  egli  legava  il  poso  e  la  tendenza  centripeta  a  un  elemento che  si  trovava  lo  stesso  nei  due.  Per  quest'esempio  evidente vediamo  in  che  consiste  il  dato  intermediario  che  ci  fornisce  la ragione  d'una  legge.  Essendo  dato  l'oggetto  sottomesso  alla legge»  ^  iiDO  dei  suoi  caratteri,  un  carattere  compreso  nel  gruppo iS «lei  caratteri  che  lo  costituiscono,  un  carattere  incluso  in  esso, più  astratto  e  più  generale  che  esso,  in  breve  un  estratto  da estrarre  »,  Se  si  spiegasse  la  legge  di  gravità,  «  si  liberprebbe {on  dégayerait)  nel  corpo  che  gravita  un  carattere  più  astratto e  più  generale  ancora  che  la  gravitazione....  quest'ultimo  carat- tere esplicativo  avrebbe  gli  stessi  tratti  e  la  stessa  situazione  che gli  altri.  Sarebbe  dunque  come  gli  altri  una  porzione,  un  ele- mento, un  estratto  del  precedente,  (cioè  della  proprietà  generale dei  corpi  a  cui  Newton  ha  legato  la  gravitazione),  e  si  troverebbe come  gli  altri  nel  precedente  in  cui  è  incluso  ».  Posit.  ingl.  §  11, III:  Con  la  definizione  della  sfera  (o  di  un  altro  oggetto  qualun- que) «  si  riduce  un  dato  infinitamente  complesso  a  due  elem'enti. (I  due  attributi  che  entrano  nella  definizione  sono  dunque  gli elementi  dell'oggetto  definito).  Si  trasforma  il  dato  sensibile  in dati  astratti....  Vi  ha  in  fuori  della  definizione  molte  maniere  di fare  riconoscere  l'oggetto...  Solameute  queste  designazioni  non  so- no delle  definizioni esse  non  riducono  la  cosa  ai  suoi  fattori, non  la  ricreano  sotto  i  nostri  occhi,  non  mostrano  la  sua  natura intima  e  i   suoi  elementi  irriduttibili,..  Vi  ha  una  definizione  in ciascuna  scienza;  ve  ne  ha  una  per  ciat^cun  oggetto.  Noi  non  la possediamo  da  per  tutto,  ma  la   cerchiamo    da    per    tutto.    Noi fiiamo  pervenuti  a  definire  il  movimento  dei  pianeti  per  la  forza tangenziale  e  Tattrazione  che  lo  compongono...  Noi  lavoriamo  a trasformare  ciascun  gruppo  di  fenomeni  in    alcune   leggi,    forze o  nozioni    astratte.  Noi  ci  sforziamo  di  attingere  in  ciascun   og- getto gli  elementi  generatori,  come  li  attingiamo  nella  sfera...  e in  tutti  i  composti  matematici  »  —  V.  pure  Pos.  ingl.  §  11  II  pa- gina 115,  $  11,  VI  p.  131,  $  11,  VII  p.  134-136  (luoghi  citati  in note  seguenti),  $  11,  V  pag. '127,  Intellig.  2^  ed.  t.    2.   p.    392, 405,  407,  ecc.  —  Come  gli  astratti  in  generale  sono  gli  elementi delle  cose  concrete,  così  tra  gli  astratti  stessi  i  più  astratti  (i  meno comprensivi)  sono  gli  elementi  dei  meno  astratti  (i  più  compren- sivi), iu  modo  che,  decomponendo  gli  elementi  stessi  nei  loro  ele- menti, si  giunge  infine  ad  elementi  primi,  indecomponibili.   Posit. -  84  - -  85  - questi    corhposti   ohe    si    chiamano    cose.    L'  astrazione non  fa  che  considerare  ciascun  elemento  a  parte,  cioè solo;  sceverandolo  dagli  altri  elementi  con  cui  è  unito; essa  e  riduzione,  che  non  è  che  una  specie  di  astrazione ingl.  J  ir  F//-r////).  i57-/^7.- Trovate  queste  coppie  d'astratti ohe  si  cbiaraiano  leggi  della  Datui*a,  «  noi  pratichiamo  su  loro la  stessa  operazione  che  sui  fatti  (cioè  di  ridurle  ai  loro  ele- menti)... Quantunque  più  astratte,  esse  sono  aucora  complesse Esse  possono  essere  decomposte  e  spiegate...  Vi  ha  luogo  per loro  come  per  i  fatti,  di  cercare  gli  elementi  generatori  in  cui possono  risolversi....  e  l'operazione  devo  continuare  sinché  si  sia giunti  ad  elementi  assolutamente  semplici,  cioè  tali  che  la  loro  de- composizione sia  contradittoria...  Vi  hanno  dunque  degli  ele- menti indecomponibili....  Possiamo  noi  conoscere  questi  elementi primi?  Per  mio  conto,  io  lo  penso,  e  lu  ragiene  ne  è  che  es- sendo degli  astratti,  essi  non  sono  situati  al  di  fuori  dei  fatti, ma  compresi  in  essi,  in  modo  che  non  si  ha  che  a  ritirameli. Ben  pili,  essendo  i  più  astratti,  cioè  i  più  generali  di  tutti,  non vi  hanno  fatti  che  non  li  comprendano  e  da  cui  non  si  possa estrarli.  Sì  limitata  che  sia  la  nostra  esperienza,  noi  possiamo dunque  attingerli,  ed  è  secondo  quest'osservazione  che  i  moderni metafisici  d'Alemagna  hanno  tentato  le  loro  grandi  costruzioni. Essi  hanno  compreso  che  vi  hanno  delle  nozioni  semplici .  cioè degli  astratti  indecomponibili,  che  le  loro  combinazioni  generano il  resto,  e  che  le  regole  delle  loro  unioni  o  delle  lord  contrarietà mutue  sono  le  leggi  prime  dell'universo....  Se  qualcuno  racco- gliesse le  tre  o  quattro  grandi  idee  a  cui  mettono  capo  le  no- stre scienze,  e  i  tre  o  quattro  generi  d'esistenza  ohe  riassumono  il nostro  universo....  se  in  seguito,  isolando  gli  elementi  di  questi dati,  mostrasse  ohe  essi  devono  combinarsi  come  sono  combinati e  non  altrimenti;  se  provasse  infine  che  non  vi  hanno  altri  ele- menti e  che  non  ve  ne  possono  essere  altri,  egli  avrebbe  abbozzato una  metafisica  senza  usurpare  (empiéter)  sulle  scienze  positive...» V.  pure  I  filos,  class.  Prefaz.  p.  IX-X  3^  ediz.,  in  cui  è  ripetuto lo  stesso  concetto  che  nell'ultimo  tratto  citato»  aggiungendo  ohe «  tale  è  l'idea  dello  natura  esposta  da  Hegel  ». (3)  V.  Posit.  ingl.  $  11.  II  (luogo  citato  nella  nota  seguente), e  $  11,  VII  (luoghi  citati  in  una  nota  seg.   di  questo  paragrafo e  nel  paragr.  6»,  testo). (4)  Posit.  ingl.  {  11  li  (p.  115-116):  «Ogni  conoscenza  con- siste dapprima  a  legare  o  addizionare  dei  fatti.  Ma  ciò  ter- minato, una  nuova  operazione  comincia,  la  più  feconda  di  tutte e  che  consiste  a  decomporre  questi  dati  complessi  in  dati  sem- plici. Una  facoltà  magnifica  apparisce...  io  voglio  dire  l'astrazione, che  è  il  potere  d'isolare  gli  elementi  dei  fatti  e  di  considerarli a  parte.  I  miei  occhi  seguono  il  contorno  d'un  quadrato,  e  l'a- strazione ne  isola  le  due  proprietà  costitutive,  l'eguaglianza  dei lati  e  degli  angoli.  Le  mie  dita  toccano  la  superficie  d'un  cilindro e  l'astrazione  ne  isola  i  due  elementi  generatori,  la  nozione  di rettangolo  e  la  rivoluzione  di  questo  rettangolo  intorno  ad  uno dei  suoi  lati  preso  come  asse Da    per    tutto    altrove    è    lo stesso.  Sempre  un  fatto  o  una  serie  di  fatti  può  essere  risoluto nei  suoi  componenti.  È  questa  decomposizione  che  si  reclama allorché  si  domanda  quale  è  la  natura  d'un  oggetto.  Sono  que- sti componenti  che  si  cercano  allorché  si  vuol  penetrare  nell'in- teriore d'un  essere.  Sono  essi  che  si  designano  sotto  i  nomi  di forze,  cause  (cause  nel  senso  del  realismo  dialettico),  leggi,  es- senze, proprietà  primitive.  Essi  non  sono  un  nuovo  fatto  aggiunto ai  primi;  ne  soao  una  porzione,  un  estratto  ;  sono  contenuti  essi,  non  sono  altra  cosa  che  i  fatti  stessi.  Non  si  passa,  sco- prendoli, da  un  dato  a  un  dato  dift'erente,  ma  dallo  stesso  allo stesso,  dal  tutto  alla  parte,  dal  composto  ai  componenti.  Non  si fa  che  vedere  la  stessa  cosa  sotto  due  forme,  prima  intera,  poi divisa;  non  si  fa  che  tradurre  la  stessa  idea  da  un  linguaggio in   un  altro,  dal  linguaggio  sensibile  in  linguaggio  astratto  ». (5)  V.  Posit  ingl.  }  11,  II  (il  luogo  citato  nella  nota  pre- cedente), J  11.  III  (il  luogo  citato  nella  nota  2  p.  82),  $  11,  VII,  (il luogo  che  citeremo  nel  parag.  6»  testo),  Intellig.  2»  ed.  t.  2» p.  292-293,  p.  474,  ecc.  I  fenomeni  o  oggetti  particolari,  es- sendo composti  di  elementi  astratti,  sono  delle  cose   complesse  : —  86  - consistono  ad  estrarrCj  a  ritirare,  a  staccare,  a  separare^ dalle  cose  questi  elementi  e  le  loro  coppie  che  chiamiamo l^ggi  (perchè  una  legge  non  è,  come  vedremo,  che  una coppia  di  astratti),  ad  isolarli,  a  metterli  a  parte,  a  me<- terli  a  nudo,  ecc.  per  la  eliminazione  o  espulsione  o  sepa- razione,  ecc.  degli  altri  elementi  con  cui  coesistono.  (6) V.  Posit,  ingl.  $  11,  II  (il  luogo  citato  nella  nota  precedente), }  11,  III (il  luogo  citato  nella  nota  2  p.  82),  $  11,  VI  (il  luogo  che  citeremo nella  nota  seguente),  $  11,  VII  (che  citeremo  in  una  delle  note  seg.). Intellig  t.  2»  p.  240,  eco.  Gli  astratti  stessi  decomponendosi  in elementi  più  astratti,  sono  pure  complessi  —  v.  Posit.  ingl.  $  11 VII  (il  luogo  citato  nella  nota  2  p.  82)-^o  eomposti—v.  Posti.  tngL. ihid,  il  luogo  che  citeremo  nel  paragr.  6o  —  :  i  meno  astratti  o meno  generali  sono  pia  complessi  che  i  più  astratti  o  più  gene- rati —  V.  Intellig,  t.  2o  p.  237  e  418.— Per  conseguenza  le  cose che  noi  chiamiamo  reali  (e  le  astrazioni  in  cui  osse  si  risolvono meno  le  più  astratte  di  tutte)  sono  dei  gruppi  o  delle  riunioni di  astratti— V.  Intellig.  p.  2*1.  4o  o.  2°  }  1,  II  (il  luogo  citato nella  nota  2  p.  82),  Posit.  ingl.  §  11,  VI  (luogo  che  citeremo  nella nota  seguente),  Intellig.  p.  2»  1.  4»  e.  3o  $  111,  III  (un  soggetto distinto,  p.  e.  questo  parallelogrammo,  o  anche  il  parallelo- grammo in  sé,  è  <  una  somma  o  riunione  di  caratteri  >)  Intellig. p.  2»  1.  4°  e.  20  III  (un  carattere  astratto  non  si  trova  che  in  un caso  o  individuo  particolare  «  cioè  in  una  compagnia  di  altri  ca- ratteri»), ecc. — Un  fatto  è  un  gruppo  fittizio  e  un  ananasso  ar- bitrario (perchè  gli  elementi,  cioè  gli  astratti,  che  lo  compongono non  sono  uniti  che  accidentalmente)  Posit.  ingl.  $  11,  VII.  Un fatto  è  ancora  (Posit.  ingl.  ibid.)  <  una  sovrapposizione  di  leggi  » (perchè  una  legge  è  una  coppia  di  astratti,  cioè  di  entità  reali, e  un  fatto  è  dovuto  al  concorso  di  più  leggi). (6)  Intellig.  t.  2.  p.  256  €...  separare  (démiler)  il  tipo  reale  e costante  ohe  fa  ciascun  specie,  ciascun  genere,  ciascuna  fami- glia, ciascun  ordine,  ciascuna  classe»  (il  tipo  si  distingue  dalla specie,  dal  genere,  ecc.,  e  li  fa  per  la  «uà  presenza  in  tutti  gli individui  della  specie,  del  genere,  ecc.)  Intellig.  263  :  L'unità  di -  87  ^ Per  indicare  questa  operazione,  al  termine  astrazione  il Taine  ne  preferisce  uno  nuovo,  castrazione  il),  perchè  il ciascun  mucchio  di  pietre  «  non  è  che  un  carattere  generale  del- l'oggetto, e  questo  carattere  può  essere  liberato  (degagé),  ritirato, messo  a  paite  per  i  processi  ordinari,  cioè  a  dire  per  mezzo di  un  nome,  e  in  generale  per  mezzo  di  un  segno.  Ben  più, non  ve  ne  è  più  facile  a  mettere  a  parte,  perchè  tutti  gli  og- getti lo  presentano  ».  Inteilig.  t.  2.  271-273  :  «  Ciascuno  di  questi limiti,  superfìcie,  linea  o  punto,  è  un  carattere  del  cori)o,  carat- tere isolato  per  astrazione,  considerato  a  parte,  e  di  più  gene- rale, cioè  comune  a  molti  corpi,  o  a  dir  meglio  universale;  cioè comune  a  tutti  i  corpi.  Noi  lo  stacchiamo  e  lo  notiamo  per  mez- zo di  simboli A  qnesti    elementi    così   rappresentati aggiungetene  un  altro,  il  movimento;  esso  s"*  incontra  pure  nella più  parte  dei  corpi  che  percepiamo;  '  si  può  dunque  staccame- lo ».  Intellig.  t.  2  p.  294  :  «  Ecco  delle  leggi;  ciascuna  di  esse o<msiste  in  un?  coppia  di  caratteri  generali  e  astratti  che  sono legati.  Da  un  lato  questa  proprietà  d'essere  del  ferro  e  d'essere esposto  all'umidità, dall'altro  la  nascita  di  questo  composto  chimico che  si  chiama  ruggine;  da  un  lato  la  suprema  durezza  e  dall'altro la  proprietà  di  essere  un  cristallo  di  carbonio  puro...  è  visibile che  tutti  questi  dati  sono-  dei  caratteri  generali,  cioè  a  dire  co- muni a  un  numero  indetìnito  d'individui  o  di  casi;  che  tutti  que- sti dati  8«>no  dei  caratteri  astratti,  cioè  degli  estratti,  considei-ati a  parte^....  »  P.  417:  «l'intermediario  esplicativo  (cioè  la  ragione d'una  legge)  si  è  sempre  mostrato  a  noi  come  un  carattere  o  una somma  di  caratteri  inclusi  nel  primo  dato  della  coppia  (cioè  della legge),  più  generali  di  esso  se  si  considerano  a  parte,  accessibili alle  nostre  prese  poiché  sono  compresi  in  esso,  e  separabili  da esso  per  i  nostri  processi  ordinari  di  isolamento  e  di  estrazione  — Una  volta  che,  l'intermediario  è  separato  (démclé)  e  rappresen- tato nello  spirito  da  un'idea  corrispondente,  si  fa  in  noi  un  lavoro intensivo  che  si  chiama  dimostrazione...»  I  filos.  class.  Prefaz.  3^ ed.  p.  IX  :  <  Ma  allo  stesso  tempo  se  ne  può  concludere  contro i  positivisti  che  le  cause  npn  sono  un  mondo  misterioso  e  inaces- sibile.  che  esse  si  riducimo  a  delle  leggi,  tipi  o  qualità  dominanti. -  88  - primo,  per  l'uno  che  uè  fa  il  concettualismo,  ha  perduto il  Bigniticato  suggerito  dalla  sua  etimologia,  cioè  di  trai —  89  -- fuori  dagli    oggetti   qualche    cosa    che  già  esisteva   in essi.  Così  egli  chiama  lo  cose  generali  degli  estratti  (8), ohe  possono  esaere  osservate  direttatnente  e  in  se  stesse,  che  sono racchiuse  negli  oggetti,  che  pertanto  si  può  estrarnele,  che  le  primo avendo  la  stessa  natura  delle  ultime  possono  essere  come  le  ultime separate   (dégagées)  per  astrazione  dai  fatti  che    le   contengono, ohe  l'assioma  primitivo  (cioè  la  coppia  di  astratti  piti  generale) è  compreso  in  ciascun  avvenimento  che  esso  causa,  come  la  legge del  peso  è  compresa  in  ciascun  avvenimento  che   essa  produce  » (le  cause  sono  per  Taine,  come  spiegheremo  in    seguito,    gli   a- Btratti  e    le   loro  coppie).  /  filos.   class.  3'  ed.  p.    163-164  :    «  Io ho  tracciato  un  triangolo  particolare,    determinato,    contingente, peribile,  A  B  C,  (le  astrazioni  realizzate  sono  generali,    indeter- minate, necessarie,  eterne)  per  fermare  la  mia   immaginazione  e precisare  le  mie  idee.  Io  ho  estratto  da  esso  il  triangolo  in  ge- nerale; perciò  non  ho  considerato  in  esso  ohe  delle  proprietà  co- muni a  tutti  i  triangoli  e  non  ho  fatto  su  di  esso  che  delle  OO' struzioni  che  potrebbero  convenire  a    tutti    i    triangoli.    Analiz- zando queste  proprietà  generali  e  queste  costruzioni  generali,  io ne  ho  estratto  una  verità  o  rapporto  univerale  e  necessario  (l'egua- glianza degli  angoli  a  due  retti).  Io  ho  ritirato  il  triangolo    ge- nerale compreso  nel  triangolo    particolare  ;  ciò   ohe  è  un*  astra- zione. Io  ho  ritirato  un  rapporto  universale  e  necessario  conte- nuto nelle  proprietà  generali  della  costruzione  generale;  ciò  che è  ancora  un'astrazione...»  Posit,  ingl,  J  II,  II  X17  :  «in  questa operazione  (l'astrazione),  che  è  evidentemente   fruttuosa,  invece di  andare  da  un  fatto  ad  un  altro,  si  va  dallo  stesso  allo  stesso; invece  di  aggiungere   un'esperienza  a  un'esperienza,  si    mette  a parte  qualche   porzione    della    prima»  Posit,  ingl.  }  11   VI    (pa- gine 131- 133):  «Resta  l'induzione,  che   sembra   il   trionfo    della pura  esperienza.  Ed  è  appunto  l'induzione  che  è  il  trionfo   del- l'astrazione. Quando  io  scopro  per  induzione  che  il  freddo  causa la  rugiada,  o  ohe  il  passaggio  dallo  stato  liquido  allo  stato    so- lido produce  la  cristiiUizzazione,  io    stabilisco    un  rapporto    tra due  astratti.  Nò  il  freddo,  né  la  rugiada,  né  il  passaggio  dallo stato  liquido  allo  stato  solido,  né  la  oristalizzazione  non  esistono in  sé  (vale  a  dire  isolatamente).  Sono  delle  porzioni  di  fenomeni, degli  estratti  di  casi  complessi,  degli  elementi  semplici  racchiusi in  insiemi  più  composti.  Io  ne  li  ritiro  e  li  isolo;  isolo  la  rugiada presa  in  generale  da  tutte  le  rugiade  locali .  temporanee,  par- ticolari, ohe  io  posso  osservare;  isolo  il  freddo  preso  in  generale da  tutti  i  freddi  speciali,  variati,  distinti,  ohe  possono  prodursi  fra tutte  le  differenze  di  tessitura,  tutte  le  diversità  di  sostanza,  tutte le  ineguaglianze  di  temperatura,  tutte  le  oomplicazioni  di  circo- stanze. Io  cougiungo  un  antecedente  astratto  con  un  conseguente astratto,  e  li  congiungo,  come  mostra  lo  stesso  Mill,  per  mezzo di  separazioni,  di  soppressioni,  di  eliminazioni.  Io  espello  dai due  gruppi  che  li  contengono  tutte  le  circostanze  adiacenti;  di- stinguo (démélej  la  coppia  nell'  accerchiamento  che  1'  offusca; stacco,  per  una  serie  di  comparazioni  e  di  esperienze,  tutti  gli accidenti  parassiti  che  si  sono  incollati  con  essa,  e  tiniseo  così per  metterla  a  nudo.  Io  ho  l'aria  di  considerare  venti  casi  dif- ferenti, e  nel  fondo  non  ne  considero  che  uno  solo;  ho  l'aria  di procedere  f>er  addizione,  e  insomma  non  opero  che  per  sottra- zione. Tutti  i  processi  dell'induzione  sono  dunque  dei  mezzi  di astrarre,  e  tutte  le  opere  dell'induzione  sono  dunque  dei  le- gami di  astratti  ».  Intellig.  t.  2^  p.  319  :  «  Tutti  questi  metodi (i  metodi  induttivi  di  Mill)  hanno  ricorso  allo  stesso  artifizio, che  è  l'eliminazione  o  Tesolusione  dei  caratteri  che  non  sono  il carattere  cercato.  Sia  un  carattere  conosciuto;  esso  è  accompa- gnato, seguito  e  proceduto  da  dieci  altri.  Quale  o  quali  di  que- sti dieci  sono  legati  alla  sua  presenza,  in  modo  che  la  sua  pre- senza basti  perché  essi  siano  dati  come  compagni,  antecedenti e  conseguenti  \  Tutta  la  difiìcoltà  e  tutta  la  scoverta  sono  lì. Per  risolvere  la  difficoltà  e  per  operare  la  sooverta,  bisogna  eli- minare, cioè  escludere,  fra  i  dieci  quelli  ohe  non  sono  legati  di questa  maniera  alla^ua  presenza.  Ma  siccome  effettivamente  non si  può  esoluderli,  e  ni'lla  natura  il  carattere  cercato  è  sempre  an- negato in  una  folla  d'altri,  si  riuniscono  dei  casi  che,  per  la  loro 90  - —  91  — (laudo  a  questo  termiue  uu  siguitìcato  pressocliè  iden- tico a  quelli  di  porzione  o  di  frammento:  estratto  equi- vale al  fondo  ad  astratto,  ma  indica  che  quest'  astratto esiste  già  nelle  cose,  e  l'astrazione  non  fa  che  considerarlo isolatamente.  Quando  il  Taine  parla  di  astrazione,  egli  non dà  a  questo  termine  o  ai  termini  analoghi  il  significato ordinario,  percliè  egli    non    ammette  delle  idee  astratte diversità,  autorizzano  lo  spinto  a  espellere  questa  folla.  Si  cer- cano degl'indizi  che  ci  permettano    di    distinguere    il    carattere cercato  e  i  caratteri  parassiti L'espulsione  fatta,    non    resta d'innanzi  a  noi  che  il  carattere  cercato»  —V.  a.  Intellig.  1. 1^ p. 25- 26  (luogo  citato  nella  nota  1  p.  81),  Intellig.  p.  2»  1.  4o  e.  2»  $  1.  II,  e Posit.  ingl.^  ll.VIII(luo;^hi  citati  nella  nota2  p.82).Pt>»i<.  ingl.  J 11, II  (luogo  citato  nella  nota  4  p.  85),  Posit.  ingl.  $11,  IV  pag.  125, Mlo8.  class,  ed.  3»  p.  363,  364,  365,  367,  368.  InteUig.  ed.  5» p.  9-10,  Intellig.  ed.  2*  t.  lo  p.  29,  p.  57,  t.  2.  p.  249.  292,  300, 302,  311,  312,  392,  401,  405,  412,  474,  490.  ecc. (7)  V.  Posit.  inni.  $  II,  Vili  e  Intellig.  t.  2.  p.  403  (citati in  nota  2  p.  82),  Int  2»  p.  417.  e  Filos.  class.  IX  e  163  (citati  nella nota  prec),  Int.  t.  1.  57,  t.  2.  p.  263,  271,  273,  292,  300,  302,333, 392,  401,  405,  474,  ecc. (8)  Intellig.  t.  2.  pag.  240  «  Se  iu  questo  fascio  (di  caratteri, la  cui  persistenza  fa  l'individuo)  si  omettono  tutti  i  tratti  per- sonali,, il  residuo  è  la  razza,  vale  a  dire  un  carattere  presente in  quest'individuo  e  in  molti  altri.  Un  estratto  di  questo  residuo è  la  specie,  vale  a  dire  un  carattere  presente  in  molte  razze. Un  estratto  di  quetto  estratto  è  il  genere,  vale  a  dire  un  carat- tere i)re8ente  in  molte    specie  ;  e  così  di    seguito A questi  estratti  o  residui,  presenti  in  molti  punti  del  tempo  e dello  spazio,  corrispondono  in  noi  dei  pensieri  d'una  specie  di- stinta e  che  noi  chiamiamo  idee  generali  e  astratte  ».  V.  a.  In- ietlig.  lo  22  e  lo  25  e  2o  487,  citati  in  n.  1  p.  81,  Intellig.  p.  2»  1. 4  e.  2.  §  1,  II,  citato  in  n.  2  p.  82,  Posit.  iìi^l.  }  11,  II,  citato  in n.  4  p.  85,  PosH.  ingl.  §  11,  VI  e  Intell.  2o  294,  citati  nella n.  penult.  e  Intell,  t.  lo  p.  28,  t.  2o  p.  302,  p.  418,  ecc. né  quindi  una  facoltà  di  astrarre,  ma  semplicemente,  come abbiamo   visto,  dei    nomi    generali  e  un'associazione  di questi  nomi  con    le   cose    generali.    Questa    è    un'altra prova  che  dimostra  che  tutte  le  espressioni  con  cui  egli attribuisce  agli  astratti  un'esistenza  isolata,  cioè  per  sé, devono  prendersi  nel    senso  più  rigoroso,  perché  questa esistenza  isolata  non  avendola,  secondo  lui,  nel  nostra pensiero,  non  potrebbero  averla  altrove  che  nella  realtà. Per  denotare  le  sue  astrazioni  realizzate  il  Taine  aggiunge, come  Platone,  al  nome  della  classe  corrispondente  dellé^ parole  indicanti  che  il  carattere  o   gruppo  di  caratteri, che,  secondo   lui,    è  il   vero    oggetto    designato   da  un nome  di  classe,  deve  considerarsi  come  esistente  per  set stesso  separatamente  dagli  altri  caratteri  con  cui  è  unito nei  diversi  individui  della  classe:  egli  dice,  p.  e.  il  po- ligono puro,  l'albero  in  generale  (1),  il  miriagono  intel- ligibile (opposto  al  miriagono  sensibile)  (2),  l'unità  para  o astratta  (opposta  al  dito  o  al  sasso  visibile)  (3),  il  trian- golo astratto,  il  ferro  in  sè(4),il  parallelogrammo  in  sè'5),il triangolo  generale(6),ecc.  si  noti  l'analogia  con  le  espressio- ni platoniche-;  il  poligono  puro,  l'albero  in generale,ecc. significa  :  il  gruppo  dei  caratteri  comuni  a  tutti  i  poligoni, (1)  Intellig.  lo  26-27. (2)  Intellig.  lo  67:  «  Noi  poniamo  da  un  lato  il  miriagono  in- telligibile e  l'idea  precisa  che  gli  corrisponde,  dall'altro  il  mi- riagono sensibile  e  l'immagine  confusa  che  gli  corrisponde  ». (3)  Intellig.  2o  265-266. (4)  Intellig,  2o  301-302. (5)  Intellig.  2o  485:  «  La  stessa  analisi,  se  invece  di  un    sog- getto individuale,  come  questa  goccia  di  pioggia  o  questo  paral- lelogrammo, si  considera  un  soggetto  più  o  meno  generale,  come il  4)ar^llelogrammo  in  sé  o  l'acqua  in  generale  ». (6)  Pilos.  class.  3»  ed.  p.  164.— v.  nota  6  p.  86. •  i -  92  — a  tutti  gli  alberi,  ecc,  esistente  per  se  stesso,  seuza  i caratteri  particolari  a  questo  o  a  quel  poligono,  a  questo o  quell'albero,  ecc.  (1).  11  poligono  puro,  l'albero  in  ge- nerale, ecc.  è  uno  in  se  stesso,  presente  allo  stesso  tempo, senza  moltiplicarsi  e  senza  dividersi,  in  tutti  i  poli- goni particolari,  in  tutti  gli  alberi,  ecc.  (2).  Noi  ab- biamo visto  infatti  che  a  un'idea  o  a  un  nome  generale corrisponde,  secondo  Taine,  una  cosa  generale  —  ricor- diamo cL'egli  suole  contrapporre  le  cose  generali  e  gl'in- dividui (3)  —  e  una  cosa  astratta  è  allo  stesso  tem- po per  lui  una  cosa  generale,  p.  e.  il  triangolo  a- stratto,  il  freddo  e  la  rugiada  isolati,  il  poligono  puro j(cioè  astratto  o  isolato),  il  parallelogrammo  in  sé  (cioè Ancora  astratto  o  isolato)  equivalgono  al  triangolo  gene- (1)  Int.  1.  26-27  (p.  1»1.  l.c.  2.  11):  Il  poliv:ouo  puro  è  una figura  a  molti  lati  senza  che  questi  lati  facciano  un  numero (eioè  quattr«s  cinque,  sei,  ecc.);  ciò  che  esclude  ogni  esperienza •e  rappresentazione  sensibile l'albero    in    generale   ha un'altezza,    un    fusto,  delle  foglie,  senza  avere  tale  altezza,  tal fusto,  tali  foglie  ». (2)  V.  Scmgi  di  crii,  e  di  stor,  Prefcus.  (luogo  citato  nella nota  3  p.  79),  Intellig,  t.  1.  p.  25-26)  (citato  nella  n.  1  p.  81), t.  2.  p.  232  (citato  nella  noti  1  p.  76),  p.  240.  (citato  nella  nota S  p.  90),  p.  244-245  (citato  nella  nota  4  p.  77),  p.  236-237,  301, -309,  401,  ecc. (1)  P.  e.,  indipendentemente  dai  luoghi  citati  nella  n.l  p.  76, neWIìUellig,  t.  i.  p.  28,  <  Un  miriagono  è  un  poligono  di  dieci mila  lati.  Impossìbile  d'  immaginarlo,  anche  colorato  e  partico- lare, a  più  forte  ragione  generale  e  astratto  »  (per  provare  che il  vero  oggetto  designato  da  un  nome  generale  è  irrapresenta- bile); e  nel  t.  2,  p.  27 2-27 3\  La  tabella  e  il  punto  e  la  linea segnati  in  essa  con  la  matita  «  sono  delle  cose  sensibili  e  parti- scolari,  ma  che  sostituiscono  dei  limiti  assolutamente  astratti  e generali  »  (cioè  la  supertìcie  in  se,  la  linea  in  se  e  il  punto  tu  sè).^ V.  a.  Filos,  class,  pag.  163-164  (il  luogo  citato  nella  n.  6  P*  S6) «  Intellig,  t.  2.  p'  485  (citato  nella  nota  5  p.  91). il 1 -  93  - rale(ì)fS.\  freddo  e  alla  rugiada  prm  in  generale  (2),  al poligono  in  generale  (3),  al  parallelogrammo  soggetto  ge- nerale (4);  ciò  implica  che  vi  è  una  sola  entità  astratta per  tutti  gl'individui  del  genere,  e  non  altrettante  quanti vi  sono  individui.  Che  più  soggetti  hanno  lo  stesso  at« tributo,  significa  che  la  stessa  entità  astratta,  eadem  nti^ mero,  è  presente  allo  stesso  tempo,  pur  restando  una  e la  stessa,  in  molti  soggetti  distinti  (5);  le  entità  astratte (1)  V.  nios.  class,  p.  163-164,  cit.    nella  nota  6  p.  86. (2)  V.  Posit,  ingl,  $  11,  VI,  nella  nota  6  p.  86. (3)  V.  Intellig.  1.  26-27,  cit.  nella  nota  1  p.  92. (4)  V.  Intellig.  2.  485,  nella  nota  5  p.  91. (5)  Intellig.  t.  2.  p.  264:  <t  Osserviamo    dunque    una  serie  di oggetti o  d'avvenimenti,  avendo  cura  di  non  considerare  in  ciascuna di  essi  che  la  sua  capacità  d'entrare  come  componente    in    una collezione.  Perciò  omettiamo  di  partito  preso  tutti    i    suoi    altri caratteri;  dopo  questa  separazione,  una   fila  di    pioppi,    un    se- guito di  suoni,  ogni  altra  fila  o  seguito  cessa  di  essere  una  fila di  pioppi,  un  seguito  di  suoni,  un  seguito  o  fila  di  oggetti  o  di  avve- nimenti determinati;  essa  non  è  più  che  un  seguito,  fila  o  serie  di uni  o  di  unità.  Ora.  a  questo  punto  di  vista,    tutti  gli  uni  sona lo  stesso  uno  e  tutte  le  serie  di  uni  sono  la  stessa    serie;   perchè i  caratteri  che  distinguono  gli  individui  gli  uni  dagli    altri  e  le serie  le  une  dalle  altre   essendo    stati    esclusi,  gl'individui    non possono  essere  più  distinti  gli  uni  dagli  altri,  e  le  serie  non  pos- sono essere  più  distinte  le  une  dalle  altre  ».  —  Ecco  come  dimo- stra gli  assiomi  che  se  a  due  grandezze  eguali  si  aggiungono  due grandezze  eguali  le  somme  sono  eguali,  e  se  da  due   grandezze eguali  si  tolgono  due  grandezze  eguali  i  resti   sono    eguali  :  In- tellig. p.  2»  l.  4.  J  11,  IV.  «  Sia  una   collezione    d'individui    si- mili, tal  gregge  di  montoni,  o  una  collezione    d'unità    astratte, tal  gruppo  mentale  d'unità  pure,  figurate  agli  occhi    per  mezzo d'uno  stessio  segno  tracciato  più  volte....  compariamo  una  di  que- ste collezioni  con  un'altra  collezione  analoga,    e  facciamo   corri- spondere, col  pensieso  o  altrimenti,  un  primo  oggetto  della  pri- -  94  — «queste  creatrici  immortali  »  sono  «sole  stabiliti  a  tra- verso riiifìnità  del  tempo  che  spiega  e  distrugge  le  loro ma  con  un  primo  oggetto  della  seconda,  un  secondo  con  un  se- condo, e  così  di  seguito,  sinché  una  delle  due  sia  esaurita.  Due oasi  si  presentano— Ovvero  le   due    collezioni  sono   esaurite    in- sieme; allora  il  numero  dei  montoni  è  lo  stesso  nel  primo  e  nel secondo  gregge,  il  numero  delle  unità  è    lo    slesso    nel    primo  e nel  secondo  gruppo,  nel  qual  caso  si  dice  ohe  le  due  grandezze sono  eguali.  Eguaglianza  significa  dunque  presema   dello    slesso numero.  —  Ovvero  Tuna  delle  due  collezioni  è  esaurita  avanti  l'al- tra; allora  il  numero  dei  montoni  è  differente  nel    primo    e    nel secondo  gregge;  il  numero  delle  unità  è  differente  nel  primo  e  nel secondo  gruppo;  in  questo  caso  si  dice  ohe  le  due  grandezze  sono ineguali  Ineguaglianza  significa  dunque  presema  di  due  numeri differenti  (Questa  frase  e  quella  corrispondente  suU'efiCuaglianza sono  state  scritte  in  corsivo  da  me;  le  altre  parole,  sia  nel  tratto precedente  che  in  quello  che  segue,  dallo  stesso  autore.  La  pa- rola stesso  è  scritta  in  corsivo  per  indicare  che  deve   intendersi nel  senso  più  rigoroso  possibile).  —  Ora  per  questa  sorta  di  gran- dezze noi  possiamo  provare  l'assioma  (il  primo).  Siano  due  gran- dezze eguali  a  cui  si  aggiungono  delle  grandezze  eguali.  Secondo l'analisi  precedente,  ciò  significa  che  la  prima  collezione  contiene un  certo  numero  d'individui  o  d'unità,  ohe  le  se  ne  aggiunge  un certo  numero,  che  la  seconda  contiene   lo  stesso  numero   d'indi- vidui o  d'unità  che  la  prima,  ohe  le  se  ne  aggiunge  lo  stesso  nu- mero che  alla  prima,  che  nei  due  oasi  lo    stesso  numero    è    ag- giunto allo  stesso  numero,  e  che  pertanto  le    due   collezioni   fi- nali contengono  lo  stesso  numero  aggiunto    allo    stesso  numero, vale  a  diro  lo  stesso  numero  totale  d'individui  o  d'unità,   donde segue,  secondo  la  definizione  {eguaglianza  significa  eoo.)    ohe    le due  somme  o  grandezze  finali  sono  delle  grandezze  eguali.  (Come ho  osservato  nel  Saggio  ì.    questa    dimostrazione   suppone    ohe per  lo  stesso  numero  s'intenda  uu  numero  astratto,  un'entità,  ohe, una  in  se  stessa,  sia  presente  allo  stesso  tempo  in  tutte  le  col- lezioni ohe  perciò  oi  appariscono  uumerioamente   eguali.    Se    la parola  stesso  non  dovesse  intendersi  in  questo  senso  stretto,  essa  si- -     • opere,  sole  indivisibili  a  traverso  l'infinità  dell'estensione, che  disperde  e  moltiplica  i  loro  effetti  »  (6);  quando  sco- gnitìoherebbe  eguale,  e  allora  la  pretesa  dimostrazione  non  sarebbe ohe  la  più  aperta  petizione  di  principio.   La  stessa  osservazione vale  per  la  dimostrazione    seguente  dell'altro    assioma).— Simil- mente, siano  due  grandezze  eguali,  da  cui  si  tolgono  due  gran- dezze eguali:  secondo  la  stessa  analisi,  ciò  significa  che  la  prima collezione  contiene  un  certo  numero  d'individui  o   d'unità,    che le  se  ne  toglie  un  certo  numero,    ohe    la    seconda    contiene    lo sfesso  numero  d'individui  o  d'unità  che  la  prima,  che  le   se    ne toglie  lo  stesso  numero  ohe  alla  pi  ima,  in  modo  che  nei  due  casi lo  stesso  numero  è  diminuito  dello  stesso  numero,  e    che,    per- tanto, le  due  collezioni  finali  contengono  lo    stesso    numero    di- minuito dello  stesso  numero,  vale  a  dire  lo  stesso  numero  restante d'individui  o  d'unità;  donde  segue  ancora  secondo  la  definizione, ohe  i  due  resti  o  grandezze  .finali   sono  delle    grandezze   eguali. Dalle  grandezze  artificiali  passiamo  alle  grandezze  naturali.  (Qui l'autore  passa  a  dimostrare  gli  assiomi  per  le  grandezze  geometriche, come  sopra  ha  fatto  perle  aritmetiche:  omettiamo  questo  tratto,  per- perchè  non  è  una  prova  diretta  di  ciò  che  abbiamo  asserito  nel  testo). . ..  Che  il  lettore  prenda  la  pena  d'esaminare  l'artificio  di  questa prova  (di  tutta  la  dimostrazione).  Per  il  pensiero,  e  con  la  con- fermazione ausiliaria  dei  fatti  sensibili,  noi  facciamo    corrispon- dere, membro  a  membro,  due  grandezze  artificiali  (cioè  due  col- lezioni di  unità),  o  facciamo  coincidere,  elemento  ad  elemento,  due grandezze  naturali  (due  grandezze  geometriche  —  ciò  si  riferisce alla  parte  omessa — );  se  questa  corrispondenza  o  questa  coincidenza sono  assolute,  l'idea  d'eguaglianza  nasce  in  noi.  Noi  veniamo  di assistere  alla  sua  nascita,  e  scorgiamo  il  suo  fondo  ;    essa   rac-chiude   un  elemento    più    semplice,    e    si    riduce    all'idea    dello stesso;  in  effetto,  a  un  certo  punto  di  vista,    omissione    fatta  di ciò  ohe  bisogna  omettere  (cioè  astraendo  dagli  altri  elementi  dif- ferenti dalla  quantità)  le  due  grandezze  divengono  la  stessa.  Per conseguenza,  al  punto  di  vista  inverso,    addizione    fatta   di   ciò ohe  bisogna  aggiungere  (cioè  unendo  alla  quantità  altri  elementi -  96  — |Ì»i««M^^™»iÌ»l*«IMMii— ^liiPMiBMMWIiaiBMiilMii»*— WP^M»^ÌÌI^ÌiMÌMiM^^— ^-^^^ prianio  una  legge  per  mezzo  d'un'induzioue,  abbiamo  Parìa di  coDsiderare  venti  casi  digerenti,  ma  in  realtà  non  ne diiferenti  da  essa)  la  stessa  grandezza  si  trasforma  ili  due  gran- dezze egriea/t.  Togliete  alle  due  graudezze  i  loro  tratti  distiutivi,  alle due  grandezze  artificiali  eguali  la  proprietà  d'appartenere  a  due collezioni  distinte,  alle  due  grandezze  naturali  eguali  la  proprietà di  avere  delle  posizioni  distinte;  esse  divengono  la  stessa  gran» dezza.  Reciprocamente,  prendete  due  volte  la  stessa  grandezza, e  attaccatela  volta  per  volta  a  due  collezioni  distinte  o  a  due posizioni  distinte;  essa  si  trasformermerà  in  due  grandezze  eguali^. Ecco  ora  la  dimostrazione  deW assioma  che  ogni  fatto  o  legge  ha una  ragione  esplicativa.  Dopo  il  tratto  citato  nella  nota  1  p,  81  In» tellig.  t.  2,  p.  483,  (ohe  io  prego  il  lettore  di  rileggere)  l'autorecontinua  :  «  Per  dimostrare  questa  proposizione  (cioè  che  un  at- tributo pili  generale  del  soggetto  non  è  legato  al  so  ^getto  tutto intero,  ma  ad  uno  o  più  caratteri  astratti  e  generali  del  sog- getto), analizziamo  a  vicenda  l'attributo  e  il  soggetto.  Noi  ab- biamo detto  che  l'attributo  (essendo  piil  generale  del  soggetto) è  comune  al  soggetto  e  ad  altri.  Ciò  significa  che  esso  è  lo  stesso nel  soggetto  e  in  altri  (La  parola  strsso  scritta  in  corsivo  qui  e nel  seguito  ò  neritta  così  nel  libro  stesso  del  Taine).  Cosi  la  ca- duta, la  struttura  chimica,  il  peso  sono  gli  stessi  nella  nostra goccia  di  pioggia  e  nelle  sue  vicine.  Così  Tegunglianza  dei  lati opposti  è  la  stessa  in  questo  parallelogrammo  e  in  tutti  i  paralle- logrammi, nel  parallelogrammo  ad  angoli  retti  e  nel  parallelo- grammo i  cui  angoli  non  sono  retti.  Pertanto  dire  che  il  sog- getto possiede  un  attributo  comune  ad  esso  e  ad  altri,  è  dire che  altTi  soggetti,  reali  o  possibili,  possiedono  \o  stesso  attributo che  esso.  L'eguaglianza  dei  lati  opposti  h  la  stessa  nel  mio  pa- rallelogrammo e  in  quest'altro;  la  struttura  chimica  è  la  stessa nella  mia  goccia  di  pioggia  e  in  quest'altra.  In  altri  termini  presa in  sé,  omissione  e  soppressione  fatta  dei  soggetti  distinti  in  cui risiede,  l'eguaglianza  dei  lati  opposti  del  mio  parallelogrammo si  confonde  con  1'  eguaglianza  dei  lati  opposti  dell'  altro,  e  la struttura  chimica  della  mia  goccia  di  pioggia  si  confonde  con  la struttura  chimica  dell'altra,   come    tal    triangolo,    staccato    dal —   97    — consideriamo  ebe  un  solo  (perchè  è  la  stessa  legge,   cioè la  stessa  coppia  di  entità  astratte,  che  si  manifesta  in  tutti posto  che  occupa,  e  trasportato  per  sovrapposizione  su  tale  altro, coincide  e  si  confonde  assolutamente  con  esso  (In  una  parola, ciascuna  di  queste  due  entità  astratte,  eguaglianza  dei  lati  op- posti e  struttura  chimica  d*una  goccia  di  pioggia,  è  una  sola  e stessa  cosa,  presente  l'una  in  tutti  i  parallelogrammi  e  1'  altra in  tutte  le  gocce  di  pioggia).— Ora  consideriamo  il  soggetto.  Ciò che  noi  chiamiamo  un  soggetto,  un  soggetto  distinto,  è  una  som- ma o  riunione  di  caratteri  che  non  si  ritrovano  tutti  e  rigorosa- mente gli  stessi  in  alcun  altro,  per  quanto  simile  s'immagini.  Que- sta goccia  di  pioggia,  anche  se  le'si  suppone  una  forma,  un  volume, una  temperatura,  una  struttura  interna  esattamente  le  stesse  che alla  sua  vicina  o  alla  seguente,  possiede  inoltre  dei  caratteri  che non  possiede  né  la  sua  vicina  né  la  seguente,  cicè  la  sua  situa- zione nel  tempo  rapporto  ai  suoi  precedenti  e  nello  spazio  rap- porto ai  suoi  dintorni....  La  stessa  analisi  se  invece  di  un  sog- getto individuale,  come  questa  goccia  di  pioggia  o  questo  paralle- logrammo, si  considera  un  soggetto  più  o  meno  generale,  come il  parallelogrammo  in  sé  o  l'acqua  in  generale l'acqua  com- parata al  mercurio,  come  il  parallelogrammo  comparato  all'esa- gono regolare,  è  un  soggetto  distinto,  che,  essendo  distinto,  pos- siede forzatamente,  come  questa  goccia  di  pioggia,  uno  o  più caratteri  per  cui  si  distiqgue  da  ogni  altro  soggetto  più  o  meno simile  a  cui  é  comparato — Eccoci  giunti  a  questa  conclusione  che il  nostro  soggetto  essendo  distinto  da  un  altro  soggetto  non  è lo  stesso  e  possiede  nondimeno  lo  slesso  attributo.  Rimpiazziamo i  termini  per  la  loro  detlnizioue.  Soggetto  distinto  significa  somma o  riunione  di  caratteri  di  cui  uno  o  alcuni  sono  assenti  nell'altro soggetto;  è  a  questa  somma  o  riunione  che  direttamente  o  indi- rettamente l'attributo  appartiene.  Di  là  tre  ipotesi,  e  tre  ipotesi solamente.  Ovvero  l'attributo  appartiene  direttamente  alla  somma dei  caratteri  riuniti;  ovvero  le  appartiene  indirettamente,  sia  ap- partenendo a  questa  porzione  della  somma  che  si   compone   dei 7 -  98  - questi  casi)  (7).  Ogni  carattere  o  gruppo  dì  caratteri,  co- mune ad  una  classe,  è  uno  come  un  individuo  o  un  av- caratteri  assenti  nell'altro  soggetto,  sia  appparteueudo  all'altra porzione.  Ora  le  due  prime  ipotesi  sono   contraddittorie.  In    ef- fetto, da  una  parte,  l'attributo  non  può    appartenere    alla    por- zione delU  somma  che  si  compone  dei  caratteri    assenti  nel  scondo soggetto;  perchè  allora  non  apparterrebbe  al  secondo  sog- getto, poiché  questi  caratteri  vi  mancano;  ora,   per    definizione, gli  appartiene.  D'altra  parte,  l'attributo  non  può  appartenere  alla somma  dei  caratteri  riuniti;  perchè,  allora  non   apparterrebbe  al secondo  soggetto,  poiché  questa  riunione  vi  manca;  ora,  per  de- finizione, gli  appartiene.  Queste  due  supposizicmi  essendo  escluse, non  resta  che  la  terza.  Donde  segue  che  l'attributo    appartiene a  questa  porziimc  del  nostro  soggetto  che  si  compone  di   carat- teri  presenti  in  ess<»  e  nel  secondo  soggetto,  cioè  comuni  all'uno e  all'altro,  cioè  infine  generali.  Donde  segue  pure  che  appartiene solamente  a  una  porzione  del  nostro  soggetto,  in    altri    termini a  un  frammento,  a  un  estratto,  a  un  astratto  incluso  nel  nostro soggetto;  ciò  che  si  doveva  dimostrare.»  (Ripeterò  l'osservazione fatta  nel  Saggio  i.  Questa  dimostrazione  suppone  che  un  attri- buto generale,  cioè  comune  a  molti  soggetti  distinti,    sia  un'en- tità unica,  presente  allo  stesso    tempo  in    tutti    questi    soggetti distinti.  Perchè  infatti  le  due  prime  ipotesi  (cioè  che  l'attributo appartiene  alla  somma  dei  caratteri  riuniti  di  uno  dei  due  sog- getti, o  che  appartiene  alla  porzione  di  questa  somma  phe  si  com- pone dei  caratteri  assenti  nell'altro  soggetto)  sono,  secondo  l'au- tore, contraddittorie  1  Perchè  lo  stesso   attributo    non    potrebbe appartenere  una  volta  alla  somma  dei  caratteri  riuniti  del  primo soggetto,  e  un'altra  volta  alla  somma   dei  caratteri    riuniti    del secondo  soggetto  I  ovvero  in  un  caso  ai  caratteri  differenziali  del primo  soggetto,  e  nell'altro  caso  ai  caratteri  differenziali  del  se- condo soggetto  ]  Perchè  si  suppone  che  quest'attributo  è  un'en- tità unica,  eadem  numero,  e  che  per    conseguenza    sarebbe    im- possibile che  appartenesse  simultaneamente  a  più  cose,  o  meglio a  più  entità,  distinte,  come  per  servirmi    di    una   comparazione —  99  — venimento  particolare;  non  differisce  da  essi  che  per  la sua  stabilità  e  la  sua  diffusione  in  molti  soggetti  distinti. È  perciò  che  non  vi  ha  niente  di  sorprendente  se  si trovano  a  un  carattere  generale  dei  compagni,  dei  pre- cursori e  dei  successori,  come  se  ne  trovano  a  un  indi- viduo particolare  o  a  un  avvenimento  momentaneo.  Cia- scuno dei  caratteri  generali  essendo  uno  come  ciascuno degl'individui  e  degli  avvenimenti  particolari,  noi  dob- volgare,  sarebbe  impossibile  che    la  nlessa    moneta,    eadem  nu- mero, si  trovasse  simultaneamente  nella  mia  tasca  e  nella  vostra). Per  mezzo  dell'assioma  dimostrato    della    ragione  esplicativa l'autore  dimostra  il  principio  dell'induzione  (cioè  che  un    carat- tere generale  indicai  sempre  la  presenza  d'un  altro  carattere  ge- nerale a  cui  è  legato).  Riportiamo  anche  questa  dimostrazione  : «  Un  carattere  generale  è  un  attributo,  lo    stesso    in   molti    sog- «  getti  distinti.  Ora,  secondo  l'assioma  (della  msrioHc  cs/^/ica^im;, esso  appartiene,  non  direttamente  a  tale  o  tal  soggetto  distinto, ma  indirettamente  a  tutti  per  V intermediario  di  tuia  ijorz ione  che loro  e  comune,  e  che,  a  questo  titolo,  ò  un    carattere   generale; dimodoché  esso  suppone  la  presenza  d'un  altro  carattere    gene- rale a  cui  appartiene;  così  la  sua  presenza  basta  per  garentiroi la  presenza  di  quest'altro.  Di  più.  (luest'altro  a  cui  esso  appar- tiene è  generale  ;  in  altri  termini    ceso    gli    appartiene    in    non imposta  qual  soggetto,  qual  ambiente,  qual  luego,  guai  momento; in  altri  termini  ancora  la  presenza  di  quest'altro  basta  per  tra- scinare e  pertanto  per  garentirci    la  sua   presenza.  Così,  in  ge- nerale la  presenza  dell'uno,  quello  che  ci  è  già  conosciuto,  basta per  garentirci  la  presenza  dell'altro,  quello  che  ci  è  ancora  sco- nosciuto e  che  cerchiamo  di  riconoscere  (demélerj  »  Intellig,  t.  2, pagina  489, lo  devo  avvertire  il  lettore  che  l'ultimo  tratto  citato  e  quello precedente  ("cioè  la  dimostrazione  dell'assioma  della  ragione  espli- cativa) sono  stati  soppressi  e  sostituiti  da  altri  nella  4.  edizione. (6)  Filos,  class.  3»  ediz.  pag.  368. (7)  Posit.  ingl.  {  11,  VI,  citato  nella  nota  6  a  pag.  86. —  100  - bianio  attenderci  a  trovare  a  quelli,  come  a  questi,  dei contemporanei,  dei  precedenti,  dei  seguiti,  delle  parti- colarità, delle  proprietà  personali  (1).  Se  la  narura  è  sotto- posta a  leggi  generali,  se  vi  hanno  delle  sequenze  e  delle coesistenze  costanti  tra  i  fenomeni  (fatto  che  dovrebbe  sor- prenderci, perchè  noi  possiamo  immaginare  benissimo  uu mondo  assolutamente  caotico,  senza  alcun  ordine,  senza  al- cuna legge),  ciò  è  perchè  vi  hanno  delle  coppie  di  entità astratte,  vale  a  dire  certe  entità  astratte  sono  in  un  rap- porto di  sequenza  o  di  coesistenza  con  certe  altre:  ogni entità  astratta  essendo  una  in  se  stessa  ed  essendo  pre- sente in  tutta  una  classe  di  cose  o  di  fenomeni,  se  essa è  accoppiata  con  un'altra  entità  astratta  pure  una  in  sé stessa  e  suscettibile  di  essere  presente  in  tutta  una  classe di  cose  o  di  fenomeni,  ne  seguirà  che  dapertutto  ove  si troverà  la  prima  si  troverà  necessariamente  anche  la  se- conda con  cui  essa  è  acccoppiaia,  e  la  coppia  di    entità astratte,  presente  in  un'intìnità  di  coppie  di  esistenze  fe- nomenali, ci  apparirà  come  una  sequenza  o  coesistenza uniforme,  una  legge,  di  fenomeni.  Se  ogni  uomo  è  mor- tale, se  questa  legge  non  soffre  alcuna  eccezione,  è  per- chè l'uomo  astratto  è  unito  alla  mortalità  astratta,  e  ijlt conseguenza  da  pn*  tutto  dove  si  troverà  il  primo,  por- terà con  sé  la  seconda;  se  riscaldando  i  metalli  essi  co- stantemente si  dilatano,  è  perche  il  riscaldamento    <lel metallo  in  sé  stesso  (cioè  astratto)  è  unito   alla   dilata- zione del  metallo  in  sé  stessa  (cioè  astratta),  e  per  conse- guenza dapertutto  dove  sarà  presente  il  primo  trascinerà con  se  la  seconda;  una  legge  della  natura  è  dunque  una còppia  di  astratti,  o  piuttosto  il  suo  fenomeno  ;  l'(1)    Intellig.  t.    2.    p.  301-302    (luogo    obe    riporteremo    nella nota  Heguente). —  101  - della  coppia  apparisce  come  uniformità  di  rapporti  tra fenomeni,  come  l'unità  di  ciascun  astratto,  isolatamente considerato,  apparisce  come  uniformità  di  fenomeni,  i- solatamente  considerati,  cioè  come  identità  specifica,  ge- oerica, ecc.  (1).  Come  gli   altri  realisti  dialettici,  il  Tai ne (1)  lìitcllif/.  2a  ed.  t.  2.  p.  236-237  «...  vi  hanno  dei  carat- teri comuni  la  cui  presenza  moltiplicala  e  ripetuta  lega  tra  loro i  diversi  individui  della  classe.  Questi  caratteri  sono  la  porzione uniforme  e  fissa  dell'esistenza  dispersa  e  successiva,  e  ciò  solo basterebbe  a  far  comprendere  l'interesse  che  abbiamo  a  sepa- rarli (les  dcgaf/cr)  ed  apprenderli.  Ma  la  loro  importanz:i,  si  fa notare  ancora  meglio  per  un  altro  tratto.  Non  siamo  noi  che  li creiamo  per  la  comodità  del  nostro  pensiero;  non  sono  dei  sem- plici mezzi  di  classare,  degli  strumenti  di  mneraotecnia.  Non solo  essi  esistono  in  fatto,  fuori  di  noi .  e  spesso  ben  al  di  là della  corta  portata  dei  nostri  sensi  e  delle  nostre  congetture; ma  ancora  essi  sono  efficaci,  l  ciascuno  di  loro,  per  sé  stesso  e per  sé  solo,  ne  trascina  con  sé  un  altro  che  è  il  suo  compagno, il  suo  antecedente  o  il  suo  conseguente,  e  fa  con  esso  una  coppia che  si  chiama  una  legge....  i  caratteri  generali  sono,  non  solo gli  abitanti  più  diffusi,  ma  anche  gli  attori  piii  importanti  della natura;  oltre  il  più  largo  posto,  essi  hanno  sulla  scena  dell'es- sere la  prima  parte  e  la  più  decisiva  azione  ».  Intellig:  t.  2.  pa- gina 257  :  Per  certe  classi  «  l'idea  generale  acquisita  corrisponde a  una  cosa  efì'ettivamente  generale,  cioè  a  un  gruppo  di  carat- teri che  si  trascinano  o  tendono  a  trascinarsi  l'un  l'altro,  quali  si iiiano  gl'individui  e  le  circostanze  in  cui  l'uno  di  essi  è  dato,  p P.  2*j3  :  v«  Nella  natura  i  caratteri  generali  non  sono  staccati  gli uni  dagli  altri;  qualunque  sia  quello  che  noi  abbiamo  notato,  non manchiamo  mai  di  trovarlo  legato  a  qualche  altro.  Difatti  l'uno trascina  l'altro  o  almeno  tende  a  trascinarlo.  Ora  è  il  primo  che trascina  il  secondo,  ora  è  il  secondo  che  trascina  il  primo,  ora  è <>ia8Cuuo  di  essi  che  trascina  l'altro.  In  tutti  questi  casi  i  due  ca- ratteri formano  una  coppia,  e  questa  coppia  si  chiama  una  legge  p P.  308:  «...  un  carattere,  preso  a  parte,  ha  un'influenza;  per  sé -  102  - riguarda  le  astrazioni  realizzate  come  le  cause  delle  cose e  al  tempo   stesso   come  la    sola  realtà.    Le    cause  dei stesso  e  per  sé  solo,  ne  trascina    qualche  altro    contemporaneo, antecedente  o  conseguente;  basta  che  esso  sia  dato,  perchè  uno o  più  altri  siano  dati.  »  P.  312  :  Nel  metodo  induttivo  che    Mill chiama  di  differenza,  si  prendono  due  casi,  il  primo  in  cui  il  ca- rattere conosciuto  (il  primo  termine  della  ooppia)  è  dato,  il   se- condo in  cui  non  è  dato.  «  Poiché  per  la  sua  sola  presenza,  esso (il  carattere  conosciuto)  ne  introduce  un  altro  sconosciuto,  quando sarà  assente  non  Tintrodurrà;  quest'altro  ohe  avrebbe  introdotto mancherà,  e,  per  tanto,  non  si    troverà    nel   secondo  caso  »  Pa- gina 300-302  :  «  ....  qualunque  siano  i  due  caratteri,  simultanei  o successivi,  momentanei  o  permanenti,  il  legame  per  cui  il  primo trascina,  provoca  o  suppone  il  secondo  come  contemporaneo,  con- seguente o  antecedente,  non  è  che  una  particolarità    del    primo considerato  solo  e  a  parte.  S'intende  per  ciò  ch'esso  ha.  per  se stesso,  la  proprietà  d'essere  accompagnato,  seguito  o  preceduto dall'altro;  ecco  tutto.  In  altri  termini,  basta  che  esso  esista  per- chè l'altro  sia  il  suo  compagno,  il  suo  precursore  o  il  suo    suc- cessore. Dacché  esso  è  dato,  aloun'altra  condizione  non  è  richiesta; le  circostanze  possono  essere  qualunque,  ciò  non    importa.    Che esso  sia  dato  in  tale  o  tale  individuo,  con  tale  o  tal  gruppo  di altri  caratteri,  in  tale  o  tal  luogo  o  momento,  ciò  è  indifferente; la  proprietò  che  esso  ha  non  dipende  né  dalle    circostanze .    né dall'individuo,  nò  dal  gruppo  circostante    degli    altri    caratteri, né  dal  luogo  né  dal  momento;  preso  a  parte  e  in  se  stesso,  iso- lato per  l'astrazione,  estratto  dai  diversi  ambienti  in  cui  si  trova, esso  possiede  questa  proprietà.  È  perciò  che  in    qualunque  am- biente venga  trasportato,  esso  la  conserva  con  sé.  Se  la  ha  sem- pre e  da  per  tutto,  è  perchè  la  ha  da  sé  stesso  e  per  sé  solo;  se la  ha  senza  eccezione,  è  perchè  la  ha  senza  condizioae.  Se  tutti i  triangoli  ra'^chiudono  una  somma  di  angoli  uguale  a  due  retti, è  perchè  il  triangolo  astratto  ha  la  proprietà  di  racchiudere  una somma  di  angoli  uguale  a  due  retti.  Se  tutti    i    pezzi    di    ferro sottoposti  all'umidità  si  arruginiscono,  è  perchè  il  ferro  preso  a —  103  — fatti  particolari  sodo  i  fatti   generali,  cioè  le  leggi,  da cui  si  deducono  (2),  o  in  altri  termini,  i  dati  complessi parte,  in  se  stesso  (cioè  il  ferro  in  sé,  il  ferro    astratto),  e  sot- toposto all'umidità  presa  a  parte,  in  se    stessa    (all'  umidità    a- stratta),  possiede  la  proprietà  di  arruginirsi.  Se  la  legge  è  uni- versale, è  perché  essa  è  astratta.  Niente  di  sorprendente  in  que- sta costituzione  delle  cose.  Non  è  più  strano  di  trovare  dei  com- pagni, dei  precursori  e  dei  successori  a   un    carattere    generale che  di  trovarne  a  un  individuo  particolare  o  a  un  avvenimento momentaneo.  Senza  dubbio,  nello  sparpagliamento    infinito    e  il flusso  irrimediabile  dell'essere,  questa  sorta  di  caratteri    sono  i soli  elementi  che  siano  da  per  tutto  gli  stessi  e  rinascano    sem- pre gli  stessi;  ma  essi  non  esistono  in  fuori  degl'individui  e  de- gli avvenimenti  come  voleva  Platone  (interi)retato  alla  maniera ordinaria),  né  in  un  mondo  altro  che  il  nostro;  perchè  essi  sono i  caratteri  degli  avvenimenti  e  degl'individui  che  compongono  il nostro  mondo.  Come  gì'  individui  e    gli  avvenimenti,  essi    sono delle  forme  dell'esistenza,  e  non  differiscono  dagl'individui  e  da- gli avvenimenti  che  perchè  sono    delle    forme  più  stabili  e    più diffuse.  A  questo  titolo,  noi  dobbiamo  attenderci  a  trovare  anche ad  essi  dei  contemporanei,  dei  precedenti,  dei  seguiti,  delle  par- ticolarità, delle  proprietà  personali,  e  per    riuscirvi,    non  si    ha che  ad  osservarli  per  se  stessi  e  a  parte.— È  appunto  in  ciò  che consiste  la  difficoltà.  Perchè  come  osservare  a  parte    un    carat- tere che,  essendo  un  estratto,  non  s'incontra  e  non    può   incon- trarsi che  in  un  caso  o  individuo  particolare,  vale  a  dire  in  una compagnia  di  altri  caratteri?  Come  fare  per  istudiare  nella  na- tura il  ferro  in  se  esposto  slW umidità  in  generale,  e   per  costa- tare che,  in  questo  stato  di  astrazione,  esso  ha  per  conseguenza la    ruggine    in  generale?    Come    fare    per    separare  (deméler)    il triangolo  astratto  che  non  è  né  scaleno    né    isoscele    né    rettan- golo, per  misurare  i  suoi  angoli  astratti  che  non  sono  né  eguali né  ineguali,  e  per  costatare  che,  iu  questo  stato  strano,  la  loro somma  è  uguale  a  due  retti  ?  »  (L'autore  mostra  che  gli  artifici del  metodo  induttivo  e  del  deduttivo  sono  destinati  a  risolvere —  104  — -  105  — dell'  esperienza   hanno  per  cause  gli  elementi  semplici, cioè   ffli    astratti,  in  cui  si  risolvono  (3);  V  astrazione  e la  facoltà  di  scoprire  i  principii  (4)  ;  la   sorgente   degli «sseri  è  un  sistema  di  lesrgi  (cioè  di  coppie  di  astratti)  (5); questa  dilfiooltà).  P.  399-401:  «  Quando  tra  due  dati  possibili  o  reali abbiamo  costatato  un  legame,  accade  spesso  che  questo  legame   si spieghi,  e  possiamo  allora,  non  solo  affermare  che  i  due  dati  sono legati,  ma  anche  dire  perchè  sono  legati.  Tra  i  due  dati  ohe  lanuo coppia,  se  uè  trova  un  altro  intermediario  che,    essendo   legato da  uua  parte  al  primo  e  da  un'altra  parte  al  secondo,   provoca per  la  sua  presenza  il  legame  del  secondo  e  del  primo...  Niente di  più  importante  che  questo  dato  intermediario,   poiché  è  esso ohe,  per  la  sua  inserzione  fra  i  due  dati,  li  salda  in  una  coppia Bisocrna  cercare  in  che  esso  consiste....  Vi  ha  già  un  caso  in  cui sapphimo  tutto  ciò,  quello  degli  oggetti   individuali  sottoposti  a a  leggi  conosciute.  Per  esempio.  Pietro  è  mortale,    queste    due rette  traacciate  su  questa  tabella  e  perpendicolari  a    una    terza sono  parallele  :  ecco  delle  coppie  di  dati  in  cui  il  primo  membro è  un  oggetto  individuale,  particolare,  determinato,  non  generale. Di  più  questi  oggetti  sono  sottoposti  a  leggi  conosciute;  nm  sap- piamo che  tutti  gli  uomini,  nel  numero  dei  quali  è  Pietro,  sono mortali,  che  tutte  le  rette  perpendicolari  a  una  terza,    nel    nu- mero delle  quali  sono  le  nostre  due  rette,  sono  parallele.     Ora, in  questo  caso,  rintermediario   esplicativo    che  lega    all'oggetto individuale  la  proprietà  enunciata  è  il  primo  termine  d'una  legge generale  :  se  Pietro  è  mortale,  è    perchè  è    uomo,  e    ogni  uomo è  mortale;  se  le  nostre  due  rette  sono  parallele,  è  perchè    sono perpendicolari  a  una  terza,  e  tutte  le  rette  perpendicolari  a  una terza  sono  parallele.  Ma  uomo  è  un  carattere  incluso  in  Pietro, estratto  da  lui,  più  generale  che  lui  ;  similmente  perpendicolari a  una  tersa  è  un  carattere  incluso    nelle    nostre    due    linee,  e- stratto  da  esse,  più  generale  che  esse.  Donde  si  vede   che,  nel caso  degli  oggetti  individuali  sottoposti  a  leggi  conosciute,  1  in- termediario che  lega  a  ciascun  oggetto  la  proprietà  enunciata  è un  carattere  incluso  in  esso,  più  astratto  e  più  generale  di  esso, comune  ad  esso  e  ad  altri  analoghi,  e  ohe,    trascinando  per   la sua  presenza  la  proprietà  enunciata,  la  porta  con  se  in  ciascuno degVindividui  a  cui  appartiene.  »  (L'autore  mostra  in  seguito  che la  stessa  è  la  natura  dell'intermediario  esplicativo,  «quando  si tratta,  non  più  di  legare  una  proprietà  a  un  oggetto  individuale, ma  di  legare  una  proprietà  n  una  cosa  generale.  x>)  Posit.  inql. $  11  V  p.  130  (e  Tntelliq.  t.  2.  p.  393)  :  Poijhè  negli  assiomi  i due  dati  (cioè  i  due  astratti  che  l'assioma  mette  in  rapporto) «  sono  tali  ohe  il  primo  racchiùde  il  secondo,  noi  stabiliamo  per ciò  stesso  la  necessità  della  loro  unione  :  da  pertutto  ove  sarà il  primo  esso  porterà  il  neeondo,  poiché  il  secondo  è  una  parte di  esso,  ed  esso  non  può  separarsi  da  sé  ».— V.  pure  Posit.  ingl. •J  11,  VI  (citato  nella  nota  5  a  p.  93),  Intellig.  2»  ed.  t.  2o  pag.  294 e  p.  319  (citati  nella  nota  6  a  p.86).  p.  483  (citato  nplla  nota  1  a  p.  81), pag.  486-487  (nel  luogo  che  con  tene  la  dimostrazione  dall'assioma della  ragione  esplicativa)  e  p.  489  (citati  nella  nota  5  a  p.  93),  Posit, ingl.  5  11,  VII  p.  136  (che  citeremo  in  una  nota  seguente),  In- iellig.  ed.  5»  t.  1»  p.  9-10  (che  citeremo  in  nota  nel§seg.).  In- tellig. ed.    2*  t.  20  p.  296-297,  307,  .309-311,  415-416,490,  ecc. (2)  V.  Filos.    class.  3a  ed.  p.   VIII-IX    e    cap.    XIV,    Posit. ingl.  }  11,  IV.  ecc. (3)  Posit.  ingl.  ^  11,  VII  (p.  134-139)—  Per  conseguenza  gli astratti  in  cui  il  concreto  si  decompone,  ne  sono,  secondo  il  Taine, non  solo  gli  elementi,  ma  anche  i  fattori:  v.  Intellig.  t.  2»  p.  392, Posit.  ingl.  pag.  120  ($  11,  III,  luogo  citato  nella  nota  2  a  p.  82). pag.  138  ecc.  Questa  causalità  degli  astratti,  e  quindi  la  loro realizzazione,  è  pure  implicata  in  certe  proposizioni  come  queste: le  ragioni  dell'orbita  che  la  terra  descrive  intorno  al  sole,  sono dei  caratteri  che,  inclusi  nella  terra,  le  prescrivono  questa  curva {Intellig,  t.2o  p.  409),  o  la  conducono  su  di  essa  (p.  416);  le  ragioni per  cui  un  numero  è  divisibile  per  9,  o  per  cui  il  poligono  con- tiene una  comma  di  angoli  retti  eguale  al  doppio  dei  suoi  lati meno  quattro,  sono  dei  caratteri  che,  inclusi  negli  elementi  del numero  o  del  poligono,  obbligano  il  primo  a  lasciarci  dividere per  9  (latell.  t.  2o  p.  410)  e  il  secondo  a  contenere  quella  somma di  angoli  retti  (p.  412);  eco. ■^T" -  106  —   _^ il  mondo  scoverto  dall'esperieoza  trovala  suaragione  coinè la  sua  immagine  nel  mondo  riprodotto  dall'astrazione  (6) Considerando  gli  astratti  come  cause  delln  realtà  concrete (ed  anche  come  cause  gli  uni  degli  altri,  v.  *  seguente), il  Tainc  ci  dà  la  prova  più  evidente  della  esistenza  per sé  che  loro  attribuisce:  evidentemente  egli  non  potrebbe riguardare  delle  proposizioni  o  delle  semplici  astrazioni mentali  come  le  cause  dei  fatti  reali  o  di  altre  proposi- zioni o  astrazioni  mentali,  di  cui  esse  non   sono  che  le premesse  logiche.  Un'altra  prova  dell'esistenza  per  sé  che il  Taine  atttibuisce  agli  astratti,  è  che  essi  sono,  secondo lui,  il  vero  essere,  mentre  il  concreto  non  è  che  un'ap- parenza (7).  La  scienza   lavora  a  ridurre   il   mondo  dei fenomeni  ad  alcuni  elementi  astratti  (8),    a  Irasformare i  fatti  concreti  in  astrazioni   (9)  ;  la   natura  è,  nel  suo fondo  sussistente,  un    sistema  di  leggi   (e   non    Bemph- ce  ha  per  sorgente  un  sistema  di    leggi)    (10)  ;  T  osser- vazione sensibile  non  ci  dà  di  essa  che  un'idea  illusoria^ dobbiamo  risolvere  il  mondo  dell'esperienza  negli  astratti (4)  Posit.  ingl.  $  1^»  ^• (5)  Filos,  class.  3»  ed.  p.  IX. (6)  Filos,  class,  p.  X. (7)  Per  apparenza  non  dobbiamo  però  intendere  un  semplice fenomeno  subbiettivo.  SI  tratta  del  concetto  metafisico  (cioè  inim- ma-inabile  e  contradittorio)  di  apparenza  obbiettiva,  qMaìe  si  trova p    e    in  Hegel  o  in  Platone  V.  Suppl.  B,  IX. (8)  V.  Posit.  ingl.  p.  122,  p.  135  ($  11.  VII,  luogo  che  ripor- teremo  nella  terra  nota  dopo  questa),  Filos.  class,  p.  368  (ohe riporteremo  nel  $  5»),  eoe. (9)  V.  Posit.  ingl.  p.  121  ($  H,  IH,  luogo  riportato  nella nota  2  a  p.  82)  e  Filos.  class,  p.  302  (luogo  che  riporteremo  nel  }  5«). (10)  Posit.  ingl.  §  11,  Vili,  p.  147  (che  citeremo  in  nota  nel  J  6o) e  Intellig.  5a  ed.  t.  1«  p.  9-10  (che  citeremo  nella  nota  la  del  }  5o). —  107  — e  nelle  loro  coppie  (che  si  chiamano  leggi)  per  passare dall'apparenza  alla  verità  (1).  Il  mondo,  contemplato  dai (1)  Posit.  ingl.  §  11,  VII  (p.  134-136)  :  «  Noi  vediamo  ora  1 due  grandi  momenti  della  scienza  e  le  due  grandi  apparenze della  natura.  Vi  ha  due  operazioni,  l'esperienza  e  l'astrazione; vi  ha  due  regni,  quello  dei  fatti  complessi  e  quello  degli  ele- menti semplici  (cioè  dagli  astratti  in  cui  si  decompongono).  Il primo  è  l'effetto,  il  secondo  la  causa.  Il  primo  è  contenuto  nel  se- condo e  se  ne  deduce,  come  una  conseguenza  dal  suo  principio (In  un  senso  le  astrazioni  realizzate  sono  contenute  nelle  cose concrete  —  è  la  contenenza  secondo  la  comprensione  —  in  un altro  senso  le  contengono  —  è  la  contenenza  secondo  Vesten- sione  —  ),  Tutti  e  due  si  equivalgono  ;  essi  sono  una  cosa  sola censiderata  sotto  due  aspetti.  Questo  magnifico  mondo  can- giante, quesro  caos  tumultuoso  d'avvenimenti  che  s'incrociano, questa  vita  incessante  infinitamente  variata  e  multipla,  si  ridu- cono ad  alcuni  elementi  e  ai  loro  rapporti.  Tutto  il  nostro  sforzo consiste  a  passare  dall'uno  all'altro,  dal  complesso  al  semplice,  dai fatti  alle  leggi,  dalle  esperienze  alle  formule.  E  la  ragione  ne  è visibile,  perchè  questo  fatto  che  io  percepisco  per  i  sensi  o  la  co- scienza non  è  ohe  una  fetta  (Iranche)  arbitraria  che  i  miei  sensi o  la  mia  coscienza  tagliano  nella  trama  infinita  e  continua  dell'es- sere. Se  essi  fossero  costruiti  altrimenti,  ne  intercetterebbero  una altra;  è  l'azzardo  della  loro  struttura  che  ha  determinato  questa. Essi  sono  come  un  compasso  aperto,  che  potrebbe  esserlo  meno,  e potrecbe  esserlo  più.  Il  cerchio  ch'essi  descrivono  non  è  natu- rale, ma  artificiale.  Esso  lo  è  si  bene,  che  lo  è  in  due  maniere^ all'esteriore  e  all'interiore.  Perchè,  allorché  io  costato  un  av- venimento, l'isolo  artifìciamente  dal  suo  accompagnamento  na- turale, e  lo  compongo  artificialmente  d'elementi  che  non  fanno un  insieme  naturale.  Quando  io  vedo  una  pietra  che  cade,  se- paro la  caduta  dalle  circostanze  anteriori  che  realmente  le  sono congiunte,  e  metto  insieme  la  cpduta,  la  forma,  la  struttura,  il colore,  il  suono,  e  venti  altri  circostanze  che  realmente  non  solegate.  Un  fatto  è  dunque  un  ammasso  arbitrario,   nello  stesso —  108  — seDsi  e  dalla  coscienza,  ò  un  seguito  di  fenomeni  fuggi- tivi, senza  niente  di  stabile,  un  iìusso  universale,  una Buccessione  di  meteore;  contemplato  dall'astrazione,  è  un insieme  di  forme  persistenti,  di  leggi  fisse,  in  una  pa- tola  di  cose  eterne  ed  immutabili  (1).  Cosi  si  trova  giu- stificata la  profonda  intuizione   degli   antichi  pensatori tempo  che  un  taglio  arbitrario,  cioè  a  dise   un    gruppo    fittizio, che  separa  ciò  che  è  unito,  e  unisce  ciò  che  è  separato  (Unisce ciò  che  è  separato,  perchè  gli  astratti  che  compongono  un  fatto particohire  non  sono  uniti  che  accidentalmente  ;  separa  ciò  che è  unito,  perchè  ciascuno  di  questi  astratti  non  è,   per    dir  così, che  una  metà,  cioè  uno  dei  due  membri    della    coppia .    che    si chiama  h  gge,  e  che  è,  secondo  Trine,  il  vero  essere   reale,  cioè sussistente  per  sé).   Così,  sinché  noi  non  guardiamo  la  natura  che con  la  osservazione  sola,  noi  non  la  vediamo  quale  è;  non  abbiamo  di essa  che  un'idea  [provvisoria  e  illusoria.  È  propriapente  un  arazzo che  non  Vediamo  che  dal  rovescio.  Ecco  perchè  oerciamo  di  voltarlo. Noi  ci  sforziamo  di  separare  (démeler)  delle  leggi,  cioè  a  dire  dei gruppi  naturali,  che  siano  effettivamente  distinti  dal  loro  accom- pagnamento e  che  siano  composti  di  elementi    effetti vamente  u- niti.  Noi  scopriiimo  delle  coppie  (di  astratti),  cioè  dei  composti reali  e  dei  h3gami  reali.  Noi  passiamo  dall'accidentale  ail  neces- sario, dal  relativo  all'assoluto,  dall'apparenza  alla  verità.  » (1)  V.  Intellig.  5*  ediz.  pag.  8-9.  Le  astrazioni  realizzate  sono immutabili  («  sole  stabili  a  traverso  l'infinità  del  tempo  ohe  spiega e  distrugge  le  loro  opere  »  Filos,  class,  p,  368  l.  e.),  perchè rapprosentauo  i  tipi  e  le  leggi  costanti  secondo  cui  si  producono i  fenomeni;  sono  eterne,  perchè  esistono  fuori  del  tempo,  cioè  non si  succedono  nel  tempo  come  gli  oggetti  e  i  fenomeni  particobiri che  le  manifestano  (V.  Filos.  cldss.  371  :  l'assioma  eterno,  ci<»è la  legge  suprema,  riempie  il  tempo  e  lo  spazio,  ma  «  resta  al  di sopra  del  tempo  e  dello  spazio  »;  e  ofr.  la  stessa  opera  pa- gine 136-137).  È  questa  l'idea  dell'eternità  nei  sistemi  che  rea- lizzamo  le  astrazioni,  come  vedremo  più  particolarmente  espo- nendo i  sistemi  di  Platone  e  di  SDinoza. —  109   — indiani,  che  il  vero  reale  non  può  cangiare,  perchè  è impossibile  che  il  niente  diventi  qualche  cosa  e  che  quaU che  cosa  diventi  niente  (1). In  conclusione  il  Taine  è  un  realista  nel   senso   del medio  evo,  vale  a  dire  gli  universali  non   sono   per  lui dei  nomi  né  dei  concetti,  ma  degli  esseri  reali,  distinti dagli  oggetti  particolari.  Vi  ha  un  uomo   astratto,  che non  ha  che  gli  attributi  comuni  a  tutta  la  specie,  senza aver  alcuno  degli  attributi  particolari  ad  alcuni  indivi- dui: quest'uomo  astratto,  uno  in  sé  stesso,  è  presente  allo stesso  tempo  in  tutti  gli  uomini;  se  questi  si  somigliano, se  sono  tutti  uomini  e  si  chiamano  tutti  così,  è  perchè in  tutti  si  trova  lo  stesso  uomo,  apparendo  come  multiplo, benché  in  realta  non  sia  che  uno.  Lo  stesso  che  abbiamo detto  dell'uomo,  dobbiamo  dire  dell'animale,  dell'albero, del  rosso,  del  verde,  del  movente,  del  mosso,  e  in  una parola  di  tutte  le  classi  corrispondenti  a  un  termine  ge- nerale; per  ciascuna  classe  vi  ha  un'  entità  astratta  (un animale  astratto,  un  albero  astratto,  un  rosso  astratto,  ecc.), che  non  ha,  come  l'uomo  astratto,  che  gli  attributi  comuni a  tutta  la  classe,  e  che  è  con  gl'individui  della  classe  nella stessa  relazione  che  l'uomo  astratto  con  gli  uomini  parti- colari. Ciò  che  distingue  gli  astratti  delTaine  da  quelli  di Hegel  è  che  per  il  primo  essi  non  sono  dei  pensieri  come pernii  sec(mdo.  Per  Hegel  l'essere,  il  non  essere,  il  di- venire e  tutte  le  altre  astrazioni  realizzate  del  suo  siste- ma esistono  nelle  cose  e  sono  al  tempo  stesso  dei  pensieri, perchè  per  lui  la  realtà  è  identica  al  pensiero;  il  Taine non  ammette  questa  identità,  e  le  sue  astrazioni  realiz- zate sono  delle   forme    puramente  obbiettive.  Un'  altra (1) V.  Nuovi  Saggi  di  critica  e  di  storia.  Il  Buddismo. -   110  — particolarità  del  sistema  del  Taine  è  che  ogni  astratto è,  secondo  lui,  accoppiato  con  qualche  altro,  con  cui  è in  un  rapporto  di  sequenza  o  di  coesistenza,  in  modo che  ciascuna  di  queste  coppie  rappresenti  ciò  che  si chiama  una  legge  della  natura.  Così  un  astratto  non  è, secondo  il  Taine,  un  essere  completo,  ma  la  metà  di un  essere  completo  ;  i  veri  esseri  sono  le  coppie  di  a- stratti,  td  è  a  queste  che  si  applica,  come  vedremo  in seguito,  quel  processo  o  metodo  che  nel  sistema  del Taine  corrisponde  a  ciò  che  Platone  ed  Hegel  chiamano dialettica.  Questa  partic(»larità  è  caratteristica  nel  si- stema del  Taine,  e  lo  distingue  da  tutti  gli  altri  sistemi di  realismo  dialettico, §  5.  Queste  coppie  di  entità  astratte  e  universali,  che noi  chiamiaìiìo  leggi  della  natura  (o  di  cui  piuttosto  ciò che  cliiamiamo  leggi  della  natura  sono  la  manifestazione fenomenale),  sono  ordinate  in  gerarchia.  Le  leggi  (cioè le  coppie  di  astratti)  più  particolari  si  dividono  in  gruppi di  cui  ciascuno  si  deduce  da  una  legge  (cioè  da  una coppia  di  astratti)  più  generale  :  queste  leggi  più  gene- rali alla  loro  volta  si  dividono  pure  in  gruppi  di  cui ciascuno  si  deduce  da  una  legge  ancora  più  generale; queste  leggi  ancora  più  generali  formano  anch'esse  dei gruppi  che  si  deducono  ciascuno  da  una  legge  più  ge- nemle;  e  così  di  seguito,  sinché  si  giunga  a  una  legge suprema  unica,  da  cui  tutte  le  altre  si  deducono,  per una  deduzione  progressiva,  che  va  sempre  da  una  legge più  generale  a  un  gruppo  di  leggi  più  particolari  (1).  La (1)  Intellig,  ed.  5»  t.  lo  p.  9-10.  «  Ma  oi  resta  un  altro  mezzo di  comprendere  le  cose  (altro  che  l'osservazione,  che  ci  mostra il  mondo  come  un  seguito  di  fenomeni  fuggitivi),  e  a  questo  se- condo punto  di  vista>  che  completa  il  primo,  il  mondo    prende —  Ili   — legge  suprema  è  una  verità  assiomatica  (2),  cioè  tale  che la  sua  negazione  implicherebbe  contraddizione  (3);  l'au- un  aspetto  diflerente.  Per  l'astrazione  e  il  linguajjgjio,  noi  iso- liamo delle  forme  persisienti,  delle  leggi  fisse,  vale  a  dire  delle coppie  di  universali  saldati  a  due  a  due,  non  per  accidente,  ma j>er  natura,  e  che.  in  virtù  del  loro  legame  stabile,  riassumono una  moltitudine  indefinita  di  incontri  (cioè  di  casi  in  cui  la  legge si  verifica)  Per  lo  stesso  processo,  al  di  là  di  queste  prime  cop- pie, noi  ne  isoliamo  altre,  più  semplici  (cioè  più  astratte),  ohe, simili  alla  formula  di  una  curva,  concentrano  in  una  legge  ge- nerale una  moltitudine  indefinita  di  leggi  x^articolari.  Noi  trat- tiamo allo  stesso  modo  queste  leggi  generali,  sino  a  che  infine la  natura,  considerata  nel  suo  fondo  sussistente,  apparisca  alle nostre  congetture  come  una  pura  legge  astratta  che,  sviluppan- dosi in  leggi  subordinate,  arriva  in  tutti  i  punti  dell'estensione e  della  durata  alla  nascita  incessante  degl'individui  e  al  flusso inesauribile  degli  avvcnimeuti.  »  I  filos.  class.  3^  ed.  p.  VIII-IX: «  Se  ne  è  concluso  contro  gli  spiritualisti  che  non  vi  ha  bisogno d'inventare  un  nuovo  mondo  per  ispiegare  questo,  che  la  causa dei  fatti  è  nei  fatti  stessi....  che  la  sorgente  degli  esseri  è  un sistema  di  leggi,  e  che  tutto  l'  impiego  della  scienza  è  di  ri- durre l'ammasso  dei  fatti  isolati  e  accidentali  a  qualche  assioma generatore  e  universale (Segue  il  tratto  citato  nella  nota  6  a pag.  86  che  io  prego  il  lettore  di  rileggere,  e  poi  continua  con le  parole  seguenti)  È  perciò  che  al  di  là  di  tutte  queste  ana- lisi inferiori  che  si  chiamano  scienze,  e  che  riducono  i  fatti  ad alcuni  tipi  e  leggi  particolari,  può  esservi  un'  analisi  superiore chiamata  metafisica,  che  ridurrebbe  queste  leggi  e  questi  tipi  a qualche  formula  universale.  »  Posit  ingl,  p.  137  ($  11,  VII)  :  «  Vi hanno  dunque  degli  elementi  indecomponibili,  da  cui  derivano le  leggi  più  generali,  e  da  queste  le  leggi  particolari,  e  da  queste leggi  i  fatti  che  osserviamo.  »  (Come  si  vede  dal  contesto,  gli <  elementi  indecomponibili  »  sono  le  entità  più  astratte,  quelle ohe  si  trovano  al  termine  dell'astrazione  e  ohe  per  conseguenza costituiscono  la  coppia  di  vniversali    i    più   universali    di    tutti, —  112  — tore  la  chiama  1'  assioma  eterno  (4).  La  conoscenza  del reale  sarà  un  giorno  a  priori,  come  sono  attualmente  le matematiche  (5),  e  consisterà  a  dedurre  tutto  dall'  a«- sioma  eterno  (6).  Da  questo  si  concluderà  non  solo  che il  reale,  attualmente  conosciuto  col  metodo  dell'  osser- vazione, deve  necessariamente  esistere,  ma  anche  che  il non  reale  deve  necessariamente  non  esistere,  in  modo che  si  veda  che  ciò  che  esiste  è  logicamente  impossi- bile che  non  esista,  e  che  ciò  che  non  esiste  è  logica- mente impossibile  die  esista,  e  questi  tre  termini,  reale,, possibile  e  necessario,  coincidano  perfettamente  (7).  L'i- in  altri  termini  quella  che  noi  abbiamo  chiamato  la  legge  su- prema).  V.  a.  I  filos.  class,  p.  350-371  (cap.  XIV),  che  riassu- meremo o  citeremo  nel  seguito  del  paragrafo. (2)  Filos.  class,  pag.  iX  (luogo  citato  nella  nota  preced.  et nella  nota  6  a  pag.  86)  e  paii:.  370-371  (luogo  che  citeremo  nel seguito  del  paragr.). (3)  V.  Posit.  ingl.  $  11  V  e  fnlellifj.  p.  2^  1.  l»  e.  2»  $  11  Vili. (4)  V.  Filos.  class,  p.  370-371. (5)  Intellig.  t.  2«»  p.  471-473. (6)  V.  Filos.  class.  i)ag.  368  e  seg.  (luoghi  che  citeremo  nel seguito  del  paragr.). (7)  Filos.  class,  p.  IX  X  :  «  Essa  (quest'analisi  supcriore  chia- mata metatisica— V.  il  luogo  citiito  nella  nota  1  a  p.  110)  riceverebbe da  ciascuna  scienza  la  detiuizione  a  cui  questa  scienza  arriva, quella  óell'estensione.  del  corpo  astranomico,  delle  leggi  fisiche, quella  del  corpo  chimico,  dell'individuo  vivente,  del  pensiero. Essa  decomporrebbe  queste  definizioni  in  idee  o  elementi  più semplici,  e  lavorerebbbe  ad  ordinarli  in  serie  per  sepanire  (dé- ìnélcr)  la  legge  che  li  unisce  (che  è  quella  ohe  abbiamo  chia- mato legge  suprema).  Essa  scoprirebbe  cosi  che  la  natura  è  un ordine  di  forme  che  si  chiamano  le  une  con  le  altre  e  compon- gono un  tutto  indivisibile.  Infine,  analizzando  gli  elementi  e  le- defiuìzioni.  essa  cercherebbe  di  dimostrare  ch'essi  mm  potevano- -  113  - dea  del  Taine  (come,  del  resto,  di  tutti  gli  altri  aprioristi, anche  i  più  radicali)  non  è  però  che  si  deve  escludere assolutamente  l'osservazione,  che  si  deve,  per  dir  così, chiudere  gli  occhi,  e  costruire  la  realtà  per  la  sola  forza del  pensiero.  Il  punto  di  partenza  della  scienza  è  neces- sariamente l'osservazione:  è  dai  fatti  dell'esperienza  che si  devono  estrarre  le  leggi  (cioè  le  coppie  di  astratti) più  particolari;  da  queste  delle  leggi  più  generali,  e  cosi di  seguito,  sinché  si  giunga  alla  legge  universalissima Ma  scoverta  questa  per  (juesto  metodo  di  estrazione  x^vo- gressiva,  si  vedrà  che  essa  è  una  verità  assiomatica,  e allora  comincerà  il  processo  inverso,  che,  invece  di  sa- lire, come  il  primo,  dai  fatti  alla  legge  suprema  per  le leggi  intermediarie,  discenderà  dalla  legge  suprema  ai fatti,  per  le  leggi  intermediarie,  ma  percorse  in  senso inverso,  in  modo  che  si  vada  sempre  non,  come  la  pri- riunirsi  che  in  un  certo  ordine  di  combinazioni,  che  ogni  altro ordine  o  oom binazione  racchiude  qualche  contraddizione  intima, ohe  questo  seguito  ideale,  solo  possibile,  è  lo  stesso  che  il  se- guito osservato,  solo  reale,  e  che  il  mondo  scoverto  dall'espe- rienza trova  così  la  sua  la  ragione  come  la  sua  immagine  nel mondo  riprodotto  dall'astrazione  —  Tale  è  l'idea  della  natura esposta  da  Hegel...  »  (Confronta  Posit.  ingl.  $  11,  Vili,  l'ultimo tratto  citato  nella  nota  2  a  p.  82  .Gli  «  elementi  »  di  cui  si  tratta  in questi  due  luoghi  non  sono  gli  «  elementi  indecomponibili  »  di cui  nel  luogodel  Posit.  ingl.  citato  neUa  nota  1  a  p.  110.  Quelli  erano le  entità  più  universali  da  cui  tutto  il  resto  si  deduce  ;  gli  ele- menti di  cui  si  tratta  qui  sono  invece  gli  astratti  piìì  semplici in  cui  possono  decomporsi  tutte  le  astrazioni  realizzate,  com- prendendo anche  fra  di  essi  le  note  differenziali  ohe  bisogna  ag- giunirere  alle  entità  che  sono  più  universali  per  costituire  le meno  universali  immediatamente  subordinate.  La  descrizione  che 8 -  114  — _^__ ma  volta,  dal  particolare  al  generale,  cioè  dalla  conse- guenza al  principio,  ma  dal  generale  al  particolare,  cioè dal  principio  alla  conseguenza.  Il  secondo  metodo,  cioè la  deduzione,  ritroverà   le    stesse    cose   trovate  già  col primo  metodo,  cioè  con  l'estrazione;  sarà  lo  stesso  cam- mino, gli  stessi  passi,  ma  fatti  in  un  ordine  opposto;  il primo  metodo  è  andato  dalla  base  al  vertice  della  pira- mide, il  secondo  andrà  invece  dal  vertice  alla  base.  De- ducendo dall'  assioma  eterno  le  veritii  trovate  la  prima volta  per  Pestiazione,  la  conoscenza  empirica  diventerà una  vera  scienza,  cioè  una  conoscenza  razionale;  le  ve- rità  di  fatto  saranno  trasformate  in  verità  a  priori  ;  ciò che  prima   appariva   come    contingente,  apparirà  come necessario;  ciò  di  cui  prima  si  sapeva   solamente  che  è, 8i  saprà  allora  anche  perchè  è.  La  deduzione,  in  una  pa rola,  non  deve   trovare  niente  di  nuovo,  ma  dare  sol- tanto alle  vetità  scoverte  induttivamente  i  caratteri  del- Vapriorità  e  della  necessità,  ciò  che  vuol  dire  ancora  che essa    deve   spiegarle.    Ecco   come   il  Taine    descrive   il metodo  eh'  egli   preconizza  (1).  Siano   i   fenomeni  della vita  animale.  Una  parte  di  questi  fenomeni,  vale  a  dire la  natura  e  i  rapporti  d'un  gruppo  d'organi  e  d'opera- zioni, e  i  cangiamenti  che  questo  gruppo  subisce  da  spe- cie a  specie  e  nello  stesso  individuo,  si  dedurranno  dalla funzione  della  nutrizione.  Sono  cinquecento  fatti  ridotti a  un  solo.    Noi    separiamo  un    fatto  generale,  cioè  co- mune  a  tutte  le  parti  del  corpo  vivente  e  a  tutti  i  mo- menti della  vita,    la   nutrizione  o  riparazione  degli  or- Taine  fa  in  questi  due  luoghi  del  metodo,  diciamo  così,  dtalet- tieo-^che  però  egli  stesso  non  chiama  mai  così-è  poco  precisa, perchè  egU  cerca  delle  formule  che  convengano   egualmente    al suo  proprio  sistema  e  a  quello  di  Hegel). (1)  Filos.  class,  cap.  XIV. —  115  — gani,  e  ne  facciamo  derivare  tutto  un  gruppo  di  fatti. Questo  non  è  composto  che  di  conseguenze;  quello  è  il fatto   sommario  e  generatore.   Un'  altra  parte  dei  feno- meni, vale  a  dire  ancora  un  gruppo  di  organi  e  di  ope razioni  e  i  suoi   cangiamenti  da  specie  a  specie  e  nello stesso  individuo,  si  dedurranno  da  un'altra  funzione,  la distruzione  o  decomposizione  continua  dell'  organismo  : è  anche  questo  un   fatto    universale  e  costante  come  la nutriziooe,  a  cui,  come  a  questa,  può  ridursi  tutto  un gruppo  di  fatti,  che   non    ne    sono  che  le  conseguenze. Un'altra   parte  dei   fenomeni   infine   si  dedurranno  dal tipo,  che  deve  persistere  in  tutti  i  cangiamenti  dell'in- dividuo e  di  generazione   in   generazione.  Tutti  i  feno- meni dell'  organismo  animale  si  saranno  dunque  ridotti a  tre  fatti   generali,  la  nutrizione,  la  dissoluzione  e  il tipo.  Riduciamo  ancora,  cioè  cerchiamo  di  dedurre  tutti questi  tre  fatti  da  un  principio   unico.  Supponiamo  che il  tipo  sia  un  fatto  primitivo,  e  che  gli  altri  due,  cioè la  nutrizione  e  la  decomposizione,  possano  derivarsi  da esso;  è  il  tipo  stesso  che  sarà  questo  principio  unico  (1). «  Il  tipo  sarà  dunque  la  causa   del  resto  (cioè  il  fatto  ge- €  neraledacui  derivano  tutti  gli  altri  fatti).  Si  dedurranno <(  da  esso  tutti  i  fatti  che  compongono  l'animale  adulto. €  Ciascun  gruppo  di  questi  fatti  si  è  dedotto  da  un  fatto <  dominatore.  Tutti  i  fatti  dominatori  si  saranno  dedotti «dal  tipo.  Noi  non  avremo  più  che  una  formula  unica, <(  definizione  generatrice,  da  cui  uscirà,  per  un  sistema 4(di  deduzioni  progressive,  la  moltitudine  ordinata  degli «  altri  fatti  —  Voi  intravedrete  allora    lo  scopo  di  ogni «  scienza,  e  comprenderete  che  cosa  è  un  sistema.  Guar- €  date  di  là  come  abbiamo  proceduto.  Noi  ci  siamo  te- (1)  Ed.  3a,  pag.  350-361. —  116  — ^_ «  nuti  uella  regione  dei  fatti  ;  non  abbiamo  evocato  al- «  cim  essere  metafisico  (1),  non  abbiamo  pensato  che  a «  formare  dei  gruppi.  Questi  gruppi  dati,  li  abbiamo  rim- «  piazzati    per    il    fatto    generatore.    Abbiamo    espresso «  questo  fatto  con  una  formula.   Abbiamo  riunito  le  di- «  verse   formule    in    un    gruppo,  e    abbiamo  cercato  un «  fatto  superiore  che  le  generasse.    Abbiamo  continuato «  così,  e  sianìo  arrivati  infine  al   fatto  unico,    che  è  la «  causa  nniversale.  Chiamandolo  causa^  non  abbiamo  vo- «  luto   dire    niente   altro  se  non  che  dalla    sua  formula «  possono  dedursi  tutti  gli  altri  e  tutte    le  conseguenze «  degli   altri.  Noi   abbiamo    trasformato  cosi  ia  moltitu- «  dine  disseminata  dei  fatti  in  una   gerarchia  di  propo- «  sizioni,   di  cui  la  prima,  creatrice  universale,  genera «  un  gruppo  di  proposizioni  subordinate,  che,  alla  loro €  volta,    producono   ciascuna    un    nuovo  gruppo,  e  così €  di  seguito,  sinché  appariscano  i  dettagli  moltiplicati  e €  i  fatti  particolari  dell'osservazione   sensibile,  come  si €  vede  in  un  getto  d'acqua  il  fascio  della  sommità  spar- ge gersi  sul  primo  bacino,  cadere  sui  gradini  in  fiotti  ogni «  volta  più  numerosi,  e  discendere  di  piano  in  piano,  sinché «infine  le  sua  acque  si  accumulano  nell'ultimo  bacino, «  dove  le  nostre  dita  le  toccano  »   (2).  In    questa    scala (l)  Il  Taino  non  riguarda  le  sue  astrazioni  realizzate  oouie esseri  metalisioi,  perch?^  non  sono  fuori  dei  fatti  (come  gli  agenti ipotetici  degli  spiritualisti— v.  Filosoii  class.  Prefazione),  ma  nei fatti  stessi,  di  cui  sono  una  porzione,  un  estratto,  ecc. (2)  P. 361-363  Queste  proposizioui.di  cui  ciascuna  produce  un  grup- po di  proposizioni  subordinate,  sino  alle  ultime,  cbe  pi'odueono  i fatti  particolari  deirosservazione  sensibile— li  producono,  perchè, se  ancbe  i  fatti  sensibili  non  fossero  prodotti  dalle  proposizioni, l'autore  non  chiamerebbe  1»  proposizione  prima  «definizione  ge- neratrice »  e  «  creatrice  universale  »— rappresentano  ciascuna  una —in- di ricerche  tutti  i  passi  sono  segnati.  Formato  un  gruppo di  fatti,  noi  ne  separiamo  per  astrazione  qualche  fatto generale,  e  ne  deduciamo  tutti  gli  altri.  Riunendo  uu gruppo  di  questi  fatti  general:  (che  l' autore  chiama generatori,  perché  da  ciascuno  deriva  tutto  un  gruppo di  fatti  particolari),  cerchiamo  per  lo  stesso  processo quello  che  genera  gli  altri.  Così  dall'insieme  dei  feno- meni dell'organismo  vivente  abbiamo  separato  per  astra- zione tre  fatti  generali,  il  deperimento,  la  riparazione  e il  tipo,  e  abbiamo  dedotto  da  ciascuno  un  gruppo  di questi  fenomeni.  Questi  tre  fatti  generali  alla  loro  volta li  abbiamo  riuniti  in  un  gruppo,  e  da  questo  abbiamo staccato  per  lo  stesso  processo  una  proprietà  di  tipo, dalla  (juale  gli  altri  due  fatti  si  deducono  (1).  Il  fatto più  generale  da  cui  si  deduce  ciascun  gruppo  di  fatti, si  trova  in  questi  fatti  stessi,  e  se  ne  separa  per  astra- zione. «  Ora  tutte  le  volt-e  che  voi  incontrate  un  gruppo naturale  di  fatti,  potete  mettere  questo  metodo  in  uso, e  scoprite  una  gerarchia  di  necessità;  ne  é  qui  del  mondo morale  come  del  mondo  fisico.  Una   civiltà,  un  popolo, legge  della  natura,  cioè  una  coppia  di  entità  astratte;  per  con- seguenza il  Taine,  parlando  della  gerarchia  delle  proposizioni, intende  parlare  propriamente  della  gerarchia  di  queste  coppie di  entità  astratte.  Così,  dicendo  che  una  proposizione  produce un  gruppo  di  proposizioni  subordinate,  egli  riferisce,  in  ur  senso traslato,  alle  proposizioni  quel  rapporto  di  causa  e  di  effetto,  che come  vedremo,  egli  attribuisce,  nel  senso  proprio,  alle  cose  si- gnificate dalle  proposizioni,  cioè  alle  coppie  di  entità  astratte; o  forse  per  queste  proposizioni  egli  intende  appunto  i  loro  signi- ficati, cioè  le  coppie  di  entità  astratte,  come  quiindo  noi  per assiomi  o  principii  intendiamo,  non  le  proposizioni  stesse,  ma  i  fat- ti, o  meglio,  le  leggi,  che  esse  significano. (1)  Pag.  368. ^{ —  118  — un  secolo,  hanno  una  definizione,  e  tutti  i  loro  caratteri o  i  loro  dettagli  non  ne  sono  che  la  conseguenza  e  gli sviluppi.  PeF  esempio,  considerando  la  società  a  Roma, voi  vi  distinguete  la  falcolta  molto  generale  di  agire  in corpo,  con  una   vista  d'interesse  personale....  Voi  stac- cate questa  facoltà  egoista  e   politica,    e    ne    deducete tosto  tutti  i  caratteri  della  società  e  del  governo  romano.... Da  questa  facoltà  si  deducono  i  differenti   gruppi  di  a- bitudini  morali;  da  ciascuno  di  questi  gruppi  un  ordine di  fatti  complicati  e  ramificati  in  dettagli  innumerevoli, la  vita  privata,  la  vita  pubblica,  la  vita  di  famiglia,  la religione,  la  scienza  e  l'arte.  Questa  gerarchia  di  cause è  il  sistema  d'una  storia  (L'autore,  come  vedremo  in  se- guito, chiama  causa  di  un  fatto  il  fatto  più  generale  da cui  quello  si  deduce).  Ogni    storia    ha  il  suo,  e  voi  ve- dete come  si  ottiene.  Per   1'  astrazione,  si  separano  nei fatti  esteriori  le  abitudini  interiori,  generali  e  dominanti. Per  l'astrazione,  in  ciascun  gruppo  di  qualità  morali,  si separa  la  qualità  generale  e  generatrice  (cioè  da  cui  le altre  si  deducono) A    poco   a  poco  si  forma  la  pira- mide delle  cause  (cioè  dei  fatti  di    più  in  più   generali, da  ciascuno  dei  quali  si  deduce  un  gruppo  di  fatti  più particolari),  e  i  fatti  dispersi  ricevono  dall'  architettum filosofica  i   loro  legami  e  le  loro  posizioni Supponete che  questo  lavoro  (di  formare  la  piramide  delle  cause) sia  fatto  per  tutti  i  popoli  e  per  tutta  la  storia,  per  la psicologia,  per  tutte  le  scienze  morali,  per  la  zoologia, per  la  fisica,  per  la  chimica,  per  l'astronomia.  All'istante, l'universo  quale  noi  lo  vediamo  sparisce.  I  fatti  si  sono ridotti,  le  formule  li  hanno  sostituiti;  il  mondo  si  è  sem- plificato, la  scienza  si  è  fatta.  Sole,  cinque  o  sei  propo- sizioni generali  sussistono.  Restano  delle  definizioni dell'uomo,  dell'animale,  della  pianta,  del  corpo  chimico, delle  leggi  fisiche,  del  corpo  astronomico,  e  non  resta niente   altro.    Noi    attacchiamo  i  nostri  occhi  su  queste f i —  119  — definizioni  sovrane;  noi  contempliamo  queste  creatrici immortali,  sole  stabili  a  traverso  l' infinità  del  tempo che  spiega  e  distrugge  le  loro  opere,  sole  indivisibili  a traverso  l'infinità  dell'estensione  che  disperde  e  molti- plica i  loro  eftetti.  (1)  Noi  osiamo  di  più  ;  considerando  che esse  sono  molte,  e  che  sono  dei  fatti  come  gli  altri  (dei  fatti generali),  cerchiamo  di  farvi  scorgere  e  di  separarne  (en dé(jager)  per  lo  stesso  metodo  che  nelle  altre  (cioè  per l'astrazione)  il  fatto  primitivo  e  unico  da  cui  esse  si deducono  e  che  le  genera.  Noi  scopriamo  l'unità  dell'u- niverso e  comprendiamo  ciò  che  la  produce.  Essa  non viene  da  una  cosa  esteriore,  straniera  al  mondo,  né  da una  cosa  misteriosa,  nascosta  nel  mondo.  Essa  viene  da un  fatto  generale  simile  agli  altri,  legge  generatrice  da cui  le  altre  si  deducouo,  come  dalla  legge  dell'attrazione derivano  tutti  i  fenomeni  del  peso,  come  dalla  legge delle  ondulazioni  derivano  tutti  i  fenomeni  della  luce, come  dall'esistenza  del  tipo  derivano  tutte  le  funzioni dell'animale,  come  dalla  facoltà  dominante  di  un  po- polo derivano  tutte  le  parti  delle  sue  istituzioni  e  tutti gli  avvenimenti  della  sua  storia.  L'oggetto  finale  della scienza  è  questa  legge  suprema;  e  quegli  che,  con  uno slancio,  potesse  trasportarsi  nel  suo  seno,  vi. vedrebbe, come  da  una  sorgente,  svolgersi,  per  dei  canali  distinti (1)  Queste  «  detinizioni  sovrii.ne»,  queste  «  creatrici  immortali», ecc.,  sono  trattate  così  chiarameute  come  delle  realtà,  che  è  evi- dente ohe  noi  dobbiamo  intendere  per  esse,  non  le  definizioni propriamente  dette,  ma  le  astrazioni  realizzate  che  ad  esse  cor- rispondono, e  che,  secondo  il  Taina,  esse  significano.  L'autore le  chiama  definizioni  perchè  non  sono  altra  cosa  che  i  gruppi di  attributi  compresi  nelle  definizioni  —  ben  inteso  che  questi  at- tributi si  considerano,  non  come  dei  nomi  o  dei  concetti,  ma come  delle  entità  esistenti  per  se  stesse  — . -  120  - -  121  - e  ramificati,  il   torrente  eterno   degli   avvenimenti  e  il mare  infinito  delle  cose  >(1).  Questa  legge  suprema  è,  come tutte  le  altre,  un'entità,  o  piuttosto  una  coppia  di  entità, un'astrazione  realizzata.  Essa  è  l'immobile,  l'onnipossente, la  creatrice,  ecc.;  il  tempo  e  lo  spazio  derivano  da  essa, ma  essa  è   fuori  del    tempo   e  dello  spazio  ;    essa  è  un essere  unico,  e  la  sua  unità   costituise  1'  unità  dell'uni- verso, perchè  ogni  essere  è  una  forma  o  una  particola- rizzazione  di  quest'essere    unico:   tutte    queste   attribu- zioni suppongono  evidentemente  che  la  legge  suprema  esi- ste perse  stessa,  qimntunque presente  nei  fenomeni.  Inol- tre la  legge  suprema  è,  come  abbiamo  detto,  un  assioma,  e la  sua  scoverta  trasformerebbe  la  scienza  da  induttiva  ed empirica  in  deduttiva  ed  a  priori.  ^  Per  questa  gerarchia di  necessità  (lo  stesso  che  prima  ha  chiamato  gerarchia o  piramide  delle  cause)  il  mondo  forma  un  essere  unico, indivisibile,  di  cui  tutti  gli  esseri  sono  le  membra.  Alla suprema  sommità  delle  cose,  al  più   alto    dell'etere   lu- minoso e  inaccessibile,  si  pronunzia  ra««iowa  eterno  (cioè al  principio   del  sistema  delle  cose,  che  è  la  parte  per noi  pili  oscura,  ma  in  se   stessa  più   chiara,  di  questo sistema,  si  pone  la  legge  suprema,  evidente  per  se  stessa e  necessaria  come  un  assioma),  e  il  rimbombo  prolun- gato di    questa  formula  creatrice  compone,  per  le   sue (mdulazioni  inesauribili,  l'immensità  dell'universo.  Ogni forma,    ogni  cangiamento,  ogni    movimento,  ogni  idea è  uno  dei   suoi  atti.  Essa    sussiste  in  tutte    cose,  e  non è  limitata  da  alcuna  cosa.  La  materia  e  il  pensiero,    il pianeta  e  l'uomo,  gli  ammassi  di  soli  e  le  palpitazioni d'un  insetto,  la  vita  e  la  morte,  il  dolore  e  la  gioia,  non vi  ha  niente  che  non  l'esprima,  e  n(m  vi  ha  niente  che l'esprima  tutta  intera.  Essa  riempie  il  tempo   e  lo  spazio <coi  fenomeni  in  cui  si  manifesta),  e  resta  essa  stessa al  disopra  del  tempo  e  dello  spazio.  Essa  mm  è  com- presa in  questi,  e  questi  derivano  da  essa.  Ogni  vita è  uno  dei  suoi  momenti,  ogni  essere  è  una  delle  sue forme;  eie  serie  delle  cose  discendono  da  essa,  secondo necessità  indistruttibili,  legate  dai  divini  anelli  della sua  catena  d'oro  (1).  L'indifferenza  allusione  all'assoluto di  Schelling),  l'immobile,  l'eterna,  l'onnipossente,  la  crea- trice, alcun  nome  non  l'esaurisce;  e  quando  si  svela  la  sua faccia  serena  e  sublime,  non  vi  ha  spirito  d'uomo  che non  si  pieghi,  costernato  d'ammirazione  e  d'orrore.  Allo stesso  istante  questo  spirito  si  rialza;  egli  obblia  la  sua mortalità  e  la  sua  piccolezza;  egli  gode  per  simpatia  di questa  infinitii  cb'egli  pensa,  e  partecipa  alla  sua  gran- dezza» (2). Questo  monismo  del  Taine,  vale  a  dire  la  sua  dot- trina che  vi  ha  nna  legge  suprema  unica  da  cui  tutte le  altre  possono  dedursi,  è  una  conseguenza  naturale del  suo  metodo  di  dedurre  le  astrazioni  realizzate,  noi potremmo  dire,  applicando  il  termine  usato  da  Platone e  da  Hegel,  della  sun  dialettica.  La  legge  che  governa il  mondo  delle  astrazioni  realizzate  è,  secondo  il  Taine, che  ciascun  gruppo  di  coppie  di  astratti  è  prodotto  da una  coppia  di  astratti  più  generale,  in  altri  termini  che ogni  molti plicità  si  riconduce  ad  una  unità  superiore. Sevi    fosse,   al    vertice  del   sistema,    una   pluralità  di (1)  Pag.  363-369. (1)  Queste  serie  delle  cose  ohe  discendono  dalla  legge  suprema sono  ciò  che  prima  ha  chiamato  gerarchia  di  necessità  e  piramide delle  cause  —  meno  naturalmente  il  vertice.  —  La  catena  d'oro che,  secondo  i  poeti,  era  sospesa  al  trono  di  Giove,  simboleg- giava, secondo  i  neoplatonici,  le  potenze  superiori  o  le  cause della  natura,  poste  fra  il  mondo  sensibile  e  la  causa  suprema. (2)  Pag.  370-371. —  122  - coppie  di  astratti  egiialinente  primitive,  ciò  sarebbe  in contraddizione  con  questa  legge,  perchè  anche  (jnesta pluralità  dovrebbe  ricondursi  ad  una  unità  superiore. Daltronde  l'unità  di  principio  è,  come  vedremo  nel  se- guito, un  carattere  comune  di  tutti  i  sistemi  di  realismo dialettico.  Il  Taine,  ammettendo  che  ogni  gruppo  di leggi  deve  dedursi  da  una  legge  superiore,  suppone  che l'unico  modo  di  spiegare  le  leggi  della  natura  è  il  terzo di  quelli  enumerati  da  Stuart  Mill,  cioè  «l'agglomerazione di  più  leggi  in  una  legge  più  generale  che  le  racchiude tutte».  (1)  È  perchè  l'esigenza  del  realismo  dialettico  è l'assoluta  uniformità  di  metodo:  il  metodo  di  dedurre  le astrazioni  realizzate  è  infatti,  nel  realismo  dialettico, non  un  semplice  processo  logico,  ma  una  legge  obbiet- tiva delle  astrazioni  realizzate  stesse,  il  processo  reale secondo  cui  esse  si  sviluppano  o  si  producono.  La  pro- duzione delle  astrazioni  realizzate  deve  essere  sottoposta a  una  legge  uniforme,  come  è  a  delle  leggi  uniformi  che è  sottoposta  hi  produzione  dei  fenomeni. §  6.  Il  Taine  confessa  che  la  sua  filosofia  è  costruita sullo  stesso  tipo  che  quella  di  Hegel.  Egli  mette  Hegel al  di  sopra  di  tutti  i  filosofii  (2),  e  dopo  Hegel,  Spinoza (un  altro  realista  dialettico)  (3)  :  ciò  che  vi  ha  di  vero, secondo  lui,  nell'  hegelianismo  è  che  il  mondo  dell'  e- sperienza  ha  la  sua  ragione  in  un  mondo  di  astrazioni, e  che,  queste  astrazioni  possono  essere  ritrovate  a  priori, e  dedotte  progressivamente  le  une  dalle  altre,  in  modo che,  data  l'una,  siano  date  necessariamente  tutte  le  al- tre (4).  Questa  filosofia,  dice  il  Taine,  €  ha  per  origine (1)  Stnart  iMill  Logica  lib.  3.  oap.  12  (  5. (2)  V.  I  filos,  class,  pag.  133  e  348. (3)  V.  gli  stessi  luoghi  indicati  nella  nota  precedente. (4)  Ifilos.  class,  pag.  VIII-X(i  luoghi  citati  nelle  note  1  a  p.  110, —  123  — una  certa  nozione  delle  cause.  Io  ho  cercato    qui    (cioè nel  libro  1  filosofi  classici)   di    giustificare  e  d'applicare 7  a  pagina  112  e  6  a  pagina  86)  e  Posit.  ingl.  paginal40-141 (J  11,  Vili,  il  penultimo  dei  tratti  citati  nella  nota  2  a  pa- gina82)V.  anche  i  luoghi  seguenti:  Po»i<.mgrZ.pag.l47  ($  11,  Vili, in  fine):  Le  due  risorse  dello  spirito  umano  sono  1'  esperienza, quale  la  descrivono  i  fìlosoti  inglesi,  e  l'astrazione,  quale  l'ha descritta  l'autore  (cioè  quale  operazione  i  cui  prodotti  non  sono delle  semplici  astrazioni  mentali,  ma  delle  realtà  che  esistono per  se  stesse,  e  di  cui  le  jiiù  semplici  o  più  astratte  sono  la ragione  delle  più  complesse  o  meno  astratte)  «  La  prima  conduce a  considerare  la  natura  come  un  incontro  di  fatti,  la  seconda come  un  sistema  di  leggi;  impiegata  sola,  la  prima  è  inglese;  im- piegata sola,  la  seconda  è  alemanna.  »  Il  compito  della  nazione fraucese  è  di  precisare  le  idee  alemanne  (cioè,  come  risulta  da ciò  che  ha  detto  precedentemente,  le  idee  di  Hegel  e  dei  filosofi affini),  correggendo  e  completando  lo  spirito  alemanno  con  lo spirito  inglese.  Ideal  ingl.  §  II,  III  :  L'idea  di  sviluppo,  a  cui si  riduce  il  sistema  di  Hegel,  e  che  consiste  a  considerare  l'uni- verso come  una  serie  di  termini  che  si  necessitano  mutuamente l'un  l'altro,  è  il  legato  filosofico  che  1'  Alemagna  moderna  ha fatto  al  genere  umano.  Filos.  class,  cap.  tilt,  p,  369-370  :  La  de- duzione, che  l'autore  descrive  in  questo  capitolo  e  che  noi  ab- biamo visto  nel  paragrafo  precedente,  di  tutte  le  leggi  della natura  da  una  legge  suprema  assiomatica  (leggi  nel  senso  del Taine,  cioè  astnizioni  realizzate),  è  quello  stesso  che  hanno  ten- tato i  metafisici  alemanni  (cioè  Schelling  ed  Hegel)  «  con  un'au- dacia eroica,  un  genio  sublime  e  un'imprudenza  più  graude  an- cora che  il  loro  genio  e  la  loro  audacia  ».  I  loro  sistemi  sono  ca- duti, perchè  il  processo  deduttivo  non  era  stato  preceduto  da un  processo  induttivo  sufficiente;  4f  ma  i  resti  crollati  della  loro opera  sorpassano  ancora  tutte  le  costru  zioni  umane  per  la  loro magnificenza  e  per  la  loro  massa,  e  il  piano  semi-spezzato  che vi  si  distìngue,  indica  ai  filosofi  futuri  lo  scopo  che  bisogna  in- fine attingere»  (Cfr.  Posil.  ingl,  p.  141  e  seg.,  dopo  il  tratto ohe  abbiamo  indicato  al  principio  di  questa  nota).  Iniellig,  2^  e- —  124  — questa  nozione.  Io  non  ho  cercato  altra  cosa  qui  né  al- trove »  (1).  Un  sistema  filosofico  dipende  dall'  idea che  si  ha  della  causalità.  «.  Precisando  l'idea  di  causa, si  può  rinnovare  la  propria  idea  dell'universo  »  (2).  €  Se voi  intendete  per  causa  una  certa  c(»8a*,  avrete  una  certa idiea  dell'  universo  e  della  scienza,  e  se  voi  intendete per  causa  una  cosa  differente,  avrete  un'idea  differente della  scienza  e  dell'  universo  »  (3).  Gli  spiritualisti  e  i positivisti  iiuiuaginano  le  cause  dei  fenomeni  c-ime  de- gli agenti  situati  al  di  là  dei  fenomeni  stessi;  i  primi  li assimilano  alla  volontà  umana,  i  secondi  li  dichiarano inconoscibili  (4).  L'  autore    mostra  «  che  la  causa  d'  un diz.  t.  2.  p.  492:  L'esistenza  deUe  cose  si  può  provare  senza  ri- correVe  aU'esperienza,  poiché,  come  la  quantità  reale,  secondo i  luateinatici,  non  è  che  un  caso  della  quantità  immaginaria, caso  particolare  e  singolare  in  cui  gli  elementi  della  quantità  imma- ginaria presentano  certe  condizioni  che  mancano  negli  altri  casi, così  l'esistenza  reale  non  è  che  un  caso  dell'esistenza  possibile, caso  particolare  e  singolare  in  cui  gli  elementi  dell'esistenza  pos- sibile presentano  certe  condizioni  ohe  mancano  negli  altri  oasi. 41  Ciò  posto,  non  si  potrebbero  cercare  questi  elementi  e  que- ste condizioni  i  Hegel  l'ha  fatto,  ma  con  imprudenze  enormi  ; forse  un  altro,  con  più  misura,  rinnoverà  il  suo  tentativo  con piti  successo.  » (1)  I  filos,  class,  psg.  X  (dopo  il  tratto  indicato  nel  principio della  nota  precedente).  Confronta  Posii  ingl.  J  11,  1  :  Ciò  che l'autore  conserva  della  filosofia  degli  Alemanni  (cioè,  al  solito, di  Hegel  e  filosofi  affini)  è  <  la  loro  idea  della  causa  »;  le  cause, in  'questo    senso,  si  scoprono  per  l'astrazione. (2)  Filos,  class,  p.  Vili. (3)  Flos,  class,  p.  VI.  Cfr.  Posit  ingl.  p.  60:  La  parola  causa «porta  nel  suo  seno  tutta  una  filosofia.  Dall'idea  che  voi  vi  at- taccate dipende  tutta  la  vostra  idea  della  natura.  Rinnovare  la nozione  di  cause  è  trasformare  il  pensiero  umano  ». (4)  Filos.  class,  p.  VI-VII. —  125  — fatto  è  la  legge  o  la  (jiialità  dominante  da  cui  esso  si deduce;  che  una  forza  attiva  è  la  necessità  che  lega  il fatto  derivato  alla  legge  primitiva,  che  la  forza  del  peso è  la  necessità  logica  che  lega  la  caduta  d'una  pietra  alla legge  universale  della  gravitazione»  (I).  Le  cause  dei fatti  sono  dunque  nei  fatti  stessi  :  non  bisiìgna  inven- tare un  nuovo  mondo  per  ispiegare  questo,  come  fanno gli  spiritualisti,  né  dichiarare  questo  inesplicabile,  rele- gando le  cause  in  un  mondo  misterioso  e  inaccessibile, come  fanno  i  positivisti.  La  causa  d'  un  fatto  concreto è  un'entità  astratta  compresa  in  esso,  cioè  la  legge  o tipo  o  qualità  dominante  da  cui  esso  si  deduce  ;  e  la causa  d' un'entità  astratta  è  un'altra  entità  più  astratta compresa  in  essa,  cioè  la  legge,  tipo  o  qualità  domi- nante superiore,  da  cui  essa  si  deduce  (2).  È  questa l'idea  della  causalità  che  l'autore   accetta  da  Hegel  (3). (1)  Filos.  class,   p.   VIII. (2)  Filos.  class,  p.  VIII-IX  (v.  i  luoghi  citati  nella  n.  1  a  p.  110 e  H  a  p.  8H).  Cfr.  Posit.  ingl.  p.  116  (luogo  citato  nella  u.4a  p.  85):  Per cause  intendiamo  i  componenti  dei  fatti,  cioò  gli  astratti  in  cui si  risolvono;  esse  non  sono  un  nuovo  fatto  aggiunto  ai  primi, ma  Hono  contenuti  in  questi,  ne  sono  una  ])orzione,  un  estratto,  ecc. (3)  V.  filos.  class.  \).  IX'X  (il  luogoeitato  nella  nota  7  a  p.  112 e  quello  citato  nel  testo  verso  il  principio  di  questo  paragra- fo). Hegel,  come  abbiamo  notato,  non  chiama  esplicitamente un'astrazione  causa  dell'altra  astrazione  che  se  ne  deduce.  Tut- tavia jl  Taino  ha  razione  di  dare  per  origine  alla  filosofia  hege- liana «  una  certa  nozione  delle  cause  »,  perchè  Hegel,  conside- rand<»  la  deduzione  logica  come  una  derivazione  reale,  ha  evi- dentemente di  mira  una  certa  idea  di  derivazione  reale,  che  è a]>punto  ciò  che  noi  chiamiamo  causazione  efficiente,  quantunque egli  stesso  non  la  chiami  così;  per  conseguenza,  l' idea  fondji- mentale  del  suo  sistema,  cioè  di  ricondurre  questa  derivazione reale  alla  deduzione  logica,  è,  come  dice  il  Taine,  «  una  certa  no- —  126  - Conformemente  a  qiiest'  idea  della  causa  e  dell'  eflTetto, che  identifica  la  prima  al  principio  logico  e  la  seconda alla  consegueenza,  il  Taine  considera  V  essenza  d'  una cosa,  cioè  gli  attributi  che  entrano  nella  sua  definizione, come  la  causa  degli  altri  attributi  di  questa  cosa,  per- chè, secondo  lui,  tutti  gli  altri  attributi-  d'una  cosa  pos- sono dedursi  da  quelli   che    compongono  la  sua  defini- zione. L'essenza  d'una  cosa  è  «  la  causa  interiore  e  pri- mordiale di  tutte  le  sue  proprietà  »;  la  definizione  è  la «formula  generati  ice  >  ;  e  1'  attributo  che  la  costituisce «una  proprietà  generatrice  e  prima  »  (cioè  non  derivata),che  è  «la  sorgente   del   resto»,  o   «  da  cui  derivano  le altro  (1).  Beninteso    che   questi   attributi  che  entrano nella  definizione,  sono  delle  entità  esistenti  per  sé  stesse: sono  degli  elementi  di  cui  si  compone  l'oggetto  stesso,  i suoi  elementi  (jeneratori,  i  suoi /a«on  (2).  Il  sillogismo  va dalla  causa  all'effetto,  perchè  va  da  una  legge  a  un  fatto o  a  una  legge  più  particolare  che  se  ne  deduce,  e  così si  prova  un    fatto,  come  dice  Aristotile,  mostrando  la sua  causa.  La  vera  prova  della  mortalità  di  Pietro,  Gio- vanni e  compagnia  non  è  che  tutti  gli  uomini  sono  mor- tali, ma  che  l'uomo  astratto  è  accoppiato  alla  mortalitji: è  questa  coppia  di  astratti  che,  presente  nella  natura, è  la  causa  della  mortalità  di  Pietro,  Giovanni  e  compa- gnia, e  che,  presente  nel  nostro  spirito,  ne  è  la  prova. Il  sillogismo  va  dunque  dalla  causa  all'  effetto,  perchva  dall'astratto  al  concreto,  e  non  dal  generale  al  par- ticolare,    come   dicono   i    logici   ordinari    (3).    Notiamo zione  delle  cause  »,  vale  a  dire  una  forma    speciale  eli'  egli    dà all'idea  di  causalità  efficiente. (1)  PosiU  ingl.  }  11,  III. (2)  V.  nota  2  a  p.  82. (3)  PosiL  ingl.  $  11,  IV. —   127  — questa  distinzione  fra  la  proposizione  generale  che  tutti gli  uomini  sono  mortali,  cioè  la  legge  nel  senso  ordina- rio, e  la  legge  nel  senso  del  Taine,  cioè  la  coppia  degli astratti  uomo  e  mortalità:  non  è  la  prima  che  è  la  causa, ma  la  seconda,  perchè  la  causa  è  un'  astrazione  realiz- zata, distinta  dai  fatti  particolari,  quantunque  contenuta in  essi,  e  non  una  generalità,  che  noa  è  che  la  somma dei  fatti  particolari.  Come  i  fatti  particolari  hanno  per cause  le  leggi  astratte,  contenrte  in  essi  e  da  cui  si  de- ducono, così  le  leggi  astratte  hanno  per  cause  altre  leggi più  astratte,  contenute  in  esse  e  da  cui  si  deducono: nel  sistema  del  Taine,  come  in  tutti  gli  altri  sistemi  di realismo  dialettico,  l'essere  si  sviluppa  passando  conti- nuamente dal  più  astratto  al  più  concreto,  ed  è  in  questo passaggio  che  consiste  la  vera  causazione.  Così  trovare  la causa  d'una  cosa,  oggetto  particolare  o  astrazione  realiz- zata, è  considerare  a  parte  un  astratto  contenuto  nella  cosa stessa,  e  la  facoltà  di  scoprire  le  cause  è  l'astrazione  (1). 11  Taine  sviluppa  il  suo  concetto  della  causalità  nell'ultimo capitolo  del  suo  libro  1  filosofi  classici:  il  metodo,  ch'egli descrive  in  questo  capitolo  e  che  noi  abbiamo  rtassunto nell'ultimo  paragrafo  —  consistente  a  dedurre  i  fatti  dalle leggi,  cioè  dalle  coppie  di  astratti,  queste  leggi  da  altre leggi  superiori,  e  cosi  di  seguito,  sinché  si  giunga  a  una legge  suprema,  assiomatica,  da  cui  tutto  il  resto  gradata- mente si  deduce— non  è  che  il  metodo  di  scoprire  le  cause dei  fenomeni,  e  poi  le  cause  di  queste  cause,  e  così  di seguito,  sinché  si  giunga  a  una  causa  prima,  esistente per  sé  stessa,  da  cui  deriva  gradatamente  tutto  il  resto. Egli  comincia  per  definire  la  causa  :  «  Un  fatto  da  cui si  possano  dedurre  la  natura,  i  rapporti  e  i  cangiamenti (1)  V.   Posit.  ingl.  ?  II,  1. -'I degli  altri  >.  Se  dunque  la  nutrizione  è  una  causa,  «si potranno  dedurre  da  essa  la  natura  e  i  rapporti  d'  un gruppo  d'  operazioni  e  d'  organi  ;  si  potranno  pure  de- durre da  essa  i  cangiamenti  che  questo  grupjio  subisce da  specie  a  specie  e  nello  stesso  individuo.  Questo  è? L'  esperienza  risponderà.  Se  essa  risponde  s^,  la  nutri- zione avendo  le  proprietà  delle  cause,  è  una  eausa  ;  e l'ipotesi  giustificata  diviene  una  verità  »  (1).  Ora  l'espe- rienza risponde  che  dalla  nutrizione  può  dedursi  tutto un  gruppo  di  fatti  (cioè  la  natura  e  i  rapporti  d'  un gruppo  d'  operazioni  e  d'  organi  e  i  loro  cangiamenti). «  Dunque  la  nutrizione  è  la  causa  di  tutto  un  gruppo  di fatti  »  (2).  La  nutrizione  è  un  fatto,  ma  «  un  fatto  gè- nerale,  cioè  comune  a  tutte  le  parti  del  corpo  vivente e  a  tutti  i  momenti  della  vita  »  (3|  ;  anche  il  deperi- mento o  la  decomposizione  continua  è  «un  fatto  uni- versale e  costante  ».  È  anch'  esso  una  causa  come  la nutrizione?  Se  è  una  causa,  si  potranno  dedurre  da  esso come  dalla  nutrizione,  la  natura  e  i  rapporti  di  tutta una  serie  di  fatti  e  i  loro  cangiamenti.  Ora  l'esperienza dichiara  che  è  così.  «  Dunque  il  deperimento  è  la  causa di  un  gruppo  di  fatti  >  (4).  Anche  il  tipo  è  una  causa: resta  a  sapere  se  è  una  causa  primitiva  o  è  un  effetto della  funzione.  Se  è  un  effetto  della  funzione,  si  deve dedurre  da  essa  l'esistenza,  le  variazioni,  la  persistenza del  tipo.  Ora  questa  deduzione  è  impossibile  ;  dunque il  tipo  non  lia  per  causa  la  funzione.  Supponiamo  che dal    tipo    possano    dedursi  la  decomposizione,  la  nutri- zione e  tutte  le  altre  funzioni;  il  tipo  sarà  allora  la  causa del  resto.  Noi  avremo  <  la  definizione  (jeneratrice,  donde uscirà,  per  un  sistema  di  deduzioni  progressive,  la  mol- titudine ordinata  degli  altri  fatti  »  (1).  Guardate,  conti- nua 1' autore,  come  abbiamo  procednto.  Noi  abbiamo formato  dei  gruppi  di  fatti  ;  abbiamo  sostituito  a  eia- scun  gruppo  il  fatto  generatore  (sostituito,  perchè  il  fatto generatore,  il  principio,  non  è  che  il  riassunto  dei  fatti generali,  delle  conseguenze);  abbiamo  riunito  i  diversi fatti  generatori  in  un  gruppo;  abbiamo  cercato  «  un  fatto superiore  che  li  generasse  ».  «  Abbiamo  continuato  così,  e siamo  arrivati  infine  al  fatto  unico,  che  è  la  causa  univer- sale. Chiamandolo  causa  noi  non  abbiamo  voluto  dire  nien- te altro  se  non  che  dalla  sua  formula  si  possono  dedurre  tutti gli  altri  e  tutte  le  conseguenze  degli  altri.  »  Così  abbiamo trasformato  la  moltitudine  dei  fatti  in  una  gerarchia  di proposizioni,  «di  cui  la  prima,  creatrice  universale, //e/iem un  gruppo  di  proposizioni  subordinate,  che,  alla  loro  vol- ta, producono  ciascuna  un  nuovo  gruppo,  e  così  di  segui- to )  (2).  In  questa  ricerca  delle  cause  tutti  i  passi  sono  se- gnati. Astrazione  (che  consiste  a  separare  un  fatto  generale dai  fatti  particolari  in  cui  è  contenuto),  ipotesi  ;che  questo fatto  generale  è  la  causa  di  questi  fatti  particolari)  e verificazione  di  quest'  ipotesi  (che  consiste  a  dedurre  i fatti  particolari  dal  tatto  generale);  tali  sono  i  tre  passi di  questo  metodo.  «  Un  gruppo  formato,  noi  ne  sepa- riamo per  astrazione  qualche  fiitto  generale.  Ammettiamo per  ipotesi  che  esso  è  la  causa  degli  altri.  Conoscendo le  proprietà  delle  cause  (cioè  che  dalle  cause  si  possono (1)  Pag.  351. (2)  Pag.  851-354. (3)  Pag.  350-351. (4)  Pag.  .3.55-3.57. (1)  Pag.  .358-862. (2)  Pag.  361-363,  luogo   citato    nel    pai^igr.  preced.  V.  nello stesso  paragr.  la  nota  2  a  p.  116. -  130  — dedarre  i  fatti  di  cui  esse   sodo  le  cause),  veritìchiamo se  le  ha:  se  non  le  ha,  tentiamo  l'ipotesi  e  la  verifica- zioue  sui  suoi  vicini,  sinché  noi  troviamo  la  causa.  Riu- nendo un  gruppo  di  cause  o  fatti  generatori,  cerchiamo per  lo  stesso  processo  quale  genera  gli  altri.  È  così  che noi  abbiamo   operato  poco  fa.  Abbiamo  separato  per  a- straziope  due  fatti  generali,  il  deperimento  e  la  ripara- zione; abbiamo  ammesso  per  ipotesi  che  erano  la  causa, l'uua  delle  operazioni  nutritive,  l'altro  delle  operazioni dissolventi.  Abbiamo  verificato  queste    due    ipotesi  (de- ducendo dal  deperimento  e  dalla  nutrizione  i  fatti  di  cui si  erano  supposti  le  cause).  Riunendo  queste  due  cause e  un  altro  fatto  generatore,  il  tipo,  abbiamo  staccato, per  lo  stesso  processo,  lina  proprietà  di  tipo  dalla  quale tutte  e  due  si  deducono  »  (e  che  è  quindi    la    causa   di queste  due  cause)  (1).  Lo  stesso  processo  può  applicarsi ai  fatti  del  mondo  morale.  I  fatti  particolari    che  com- pongono la  vita  di  un  popolo  si  deducono   dalle  abitu- dini interiori,  generali  e  dominanti,  separate  per  astra- zione da  questi  fatti  particolari;  queste  qualità  morali  si deducono  da  una  qualità  più  generale  e  più  dominante, p.  e.  la  facoltà  egoista  e  politica  del  popolo  romano,  sparata da  esse  per  astrazione.  Così  si  forma  una  gerarchia, una  piramide,  di  cause  :  nel  mondo  morale,  come   nel mondo  tìsico,  la  causa  non  è  che  un  fatto;  un  fatto  ge- nerale, separato  per  astrazione  dai  fatti    particolari  che ne  sono  gli  effetti;  un  fatto  generale,  da  cui  gli  altri  pos- sono dedursi  (2).  Supponete  questo  lavoro  fatto  per  tutte le  scienze  fisiche  e  per  tutte  le  scienze  morali.  I  fatti  si •v: (1)  Pag.  363. (2)  Pag.  364-367,  luogo  in  parte  riassunto  e  in  parte  riportato uel  parag.  precedente). —  131  — sono  ridotti  ad  alcune  definizioni;  noi  contempliamo  que- ste creatrici  immortali,  sole  indivisibili  a  traverso  l'in- finità dell'estensione  che  disperde  e  moltiplica  i  loro  ef- /etti;  noi  cerchiamo  di  separarne  per  astrazione  il  fatto primitivo  e  unico  da  cui  si  deducono  e  che  le  genera. Noi  scopriamo  così  che  ciò  che  forma  1'  unità  dell'  u- niverso  è  un  fatto  generale  simile  agli  altri,  legge  gene- ratrice da  cui  le  altre  si  deducono,  e  da  cui  derivano, come  da  una  sorgente,  per  dei  canali  distinti  e  ramifi- cati, il  torrente  eterno  degli  avvenimenti  e  il  mare  in- finito delle  cose  (1).  Questa  legge  suprema,  quest'  as- sioma eterno,  è  la  formula  creatrice,  il  cui  rimbombo prolungato  compone,  per  le  sue  ondulazioni  inesauribili, l'immensità  dell'universo;  essa  non  è  compresa  nel  tempo e  nello  spazio,  ma  questi  derivano  da  essa;  è  l'indifferenza (perchè  è  ciò  che  vi  ha  d'identico  in  tutti  gli  esseri),  l'ow- nipossente,  la  creatrice;  e  le  serie  delle  cose  (cioè  delle astrazioni  realizzate  e,  come  ultimo  termine,  dei  fenomeni) discendono  da  essa,  legate  dai  divini  anelli  della  sua  catena d'oro(2).È,in  una  parola,  la  causa  prima,  percui  tutto  esiste, mentre  essa  esiste  perse  stessa  (per  questa  necessità  intrin- seca,  che  è  espressa  dalle  parole  «  1'  assioma  eterno  »). Così,  supposto  che  questa  legge  fosse  infine  scoperta, noi  arriveremmo  al  vertice  della  piramide  delle  cause, e  l'opera  dell'astrazione  sarebbe  terminata.  Nel  Positi- vismo inglese  questa  teoria  della  causalità  è  riassunta così:  «  Vi  hanno  due  operazioni,  l' esperi enaa  e  l'astra- zione ;  vi  hanno  due  regni,  quello  dei  fatti  complessi  e quello  degli  elementi  semplici  (cioè  quello  degli  oggetti (1)  Pas:.  368-369,  luogo  riportato  nel  paragr.  precedente. (2;  Pag.  370-371,  luogo  riportato  nel  parag.  precedente  V.  nello etesso  paragr.  la  nota  1  a  p.  121. -    132  — concreti  e  quello  delle  entità  astratte  in  cui  essi  si  ri- solvono) (l).  Il  primo  è  l'effetto,  il  secondo  la  causa.  Il primo  è  contenuto  (implicitamente)  nel  secondo  e  se  ne deduce,  come  una  conseguenza  dal  suo  principio....  Tutto il  nostro  sforzo  consiste  a  passare  dall'uno  all'altro, dal complesso  al  semplice,  dai  fatti  alle  leggi  (cioè  alle  cop- pie di  astratti),  dalle  esperienze  alle  formule....  E  queste prime  coppie  trovate,  noi  pratichiamo  su  di  esse  la  stessa operazione  die  sui  fatti,  perchè,  a  un  minor  grado,  hanno la  stessa  natura.  Quantunque  più  astratte,  sono  ancora complesse.  Esse  possono  essere  decomposte  (in  astrazioni più  astratte)  e  spiegate  (2).  Esse  hanno  una  ragion  d'es- sere. Vi  ha  qualche  causa  che  le  costruisce  e  le  unisce. Vi  ha  luogo  per  esse,  come  per  i  fatti,  di  cercare  gli  e- lementi  generatori  (cioè  delle  coppie  di  astratti  più  sem- plici) in  cui  possono  risolversi  e  da  cui  possono  dedursi, e  l'operazione  deve  continuare  finché  si  sia  giunti  ad  e- lementi  assolutamente  semplici,  cioè  tali  che  la  loro  de- composizione  sia  contraddittoria  (questi  elementi  assolu- tamente  semplici  sono  la  coppia  di  astratti  i  più  astratti di  tutti).  Che  noi  possiamo  trovarli  o  no,  essi  esistono; l'assioma  delle  cause  sarebbe  smentito,  se  essi  mancas- sero Vi  ha  dunque  degli  elementi  indecomponibili,  da cui  derivano  le  leggi  più  generali,  e  da  queste  le  leggi (1)  V.  le  note  2  a  p.  82,  5  a  p.  85  e  1  a  p.  107. (2)  La  spiegazione  d'una  le«;ge  implica,  secondo  Taine,  la  sua decomposiziout^,  non  perchè,  spiegandola,  essH  si  risolva  in  una pluralità  di  leggi  più  generali  (l®  e  2^  modo  di  spiegazione  di Mill),  ina  perchè  ciò  che  la  spiega,  vale  a  dire  ciò  da  cui  essa si  deduce,  è  una  legge  più  astratta  contenuta  in  essa,  e  l'astra- zione è  una  decomposizione,  appunto  perchè  l'astratto  è  conte- nuto nel  concreto  (o  in  un  meno  astratto),  e  non  si  fa  che  e- strarnelo. —  133  — particolari,  e  da  queste  leggi  i  fatti  che  osserviamo  (1). Noi  possiamo  ora  compreud-re  la  virtù  e  il  senso  di  que- st'assioma delle  cause  che  regge  tutte  cose,  e  che  Mill ha  mutilato.  Vi  ha  una  forza  interiore  e  costringente che  suscita  ogni  avvenimento,  che  lega  ogni  composto, che  genera  ogni  dato.  Ciò  significa,  da  una  parte,  che vi  ha  una  ragione  ad  ogni  cosa,  che  ogni  fatto  ha  la sua  legge;  che  ogni  composto  si  riduce  in  semplici (cioè  che  il  più  concreto  si  risolve  nel  più  astrat- to) (2);  che  ogni  prodotto  implica  dei  fattori  (3);  che  ogni (1)  V.  nota  1  a  \}.  110. (2)  Ripetiamo  l'osservazicme  della   nota    penultima.     Dicendo che  ogni  composto  si  riduce  in  semplici,  l'autore    intende    dire «empliocmente  che  i  fatti  concreti  si  risolvono  in  coppie  di  astratti e  le  coppie  di  astratti  in  altre  coppie  di  astratti  di  un'astrattezza maggiore.   Ma  ciò  non  importa  per  lui  che  ogni  coppia  di  astratti deve  risolversi  in  una  pluralità  di  coppie  più  astratte  :    il  con- creto deve  risolversi  in  più  coppie  di  astratti,   perchè    un   fatto è  «  una,  sovrapposizione  di  leggi  ».  ma  una  legge    interiore  ncm è  una  sovrapposizione  di  più  leggi    superiori,    perchè    se    fosse così,  le  cause,  cioè  le  leggi,  non    formerebbero  una  piramide,  e non  i)otrobbero  risolversi  tutte  in  una  legge  o  causa  unica  (l'as- sioma eterno).   La  dottrina  del  Taiue,  come  si  vede  dall'esposi- zione dell'ultimo  capitolo  dei  Filosofi  elassici,  fatta  nel  paragrafo precedente,  è  che  ogni  gruppo  di    leggi    inferiori    deve    dedursi da  una  legge  superiore  unica;  gli  elementi  (i  semplici)  in  cui  si risolvimo  quelle  coppie  di  astratti  inferiori  sono  dunque  questa coppia  di  astratti  superiori.  Si  risol/ono  in  essa,  perchè  essa  è  la legge  sommaria  in  cui  tutte  sono  contenute,  e  per  conseguenza tutta  hi  loro  realtà  e,  per  dir  così,  tutta  la  h)ro  sostanza  si  riduce alla  realtà  e  alla  sostanza  di  questa  coppia  unica.    In  ciascuna di  un  gruppo  di  leggi  subordinate  a  una  legge  superiore  possono distinguersi,  per  usare  il  linguaggio  del  Taiue,  due  porzioni:  ciò che  vi  ha  di  comune  in  tutte,  cioè  questa  legge  superiore  a  cui -  134  - qualità  e  ogni  esistenza  devono  dedursi  da  qualche  ter- mine superiore  e  anteriore  (4).  E  ciò  significa,  da  altra sono  subordinate,  e  ciò  clie  vi   ha    di    particolare    iu    ciascuna, per  dir  così,    la  sua  differenza.  Di  queste  due  porzioni  il   Taine con  considera    come  un'entità  sussistente  per  se    steessa    ohe  la prima,  come  Platone  delle  due  porzioni  in  cui  divide  la  Specie (il  genere  e  la  diU'erenza)  non  con  considera  come  Idea,    e    per conseguenza  come   ycooiaiói^,  che  una  sola,  il  genere  (v.  $.  17o).  E come  Platone  (v.  SuppL  B  p.  1».  VII.  B)  riguarda  i  Generi  come  gli elementi  delle  Specie  (benché  il  concetto  delhi  specie  non  sia  costi- tuito dal  solo  concetto  liel  genere,  ma  anche  da  quello  della  ditt'e- renza)  e  i  due  Generi  supremi,  cioè  l'Essere  e  il  Non  essere,  come gli  elementi  di  tutte  le  Idee  (benché  ogn'Idea  abbia,  a  lato  di  que- sta porzione  comune  a  tutte,  una  porzione  propria),  così  il  Taine riguarda  la  coppia  di  astratti  superiore  come  gli  elementi  a  cui si  riducono  le  coppie  inferiori  (benché  ciascuna  di  queste  coppie inferiori  abbia  una  porzione  difterenziale  oltre  a  questa  porzione comune  e  generica),  i'iò  é  perché  il  mondo  delle  astrazioni  realiz- zate è,  per  l'uno  e  per  l'altro,  hi  piramide  delle  eause,  e  per  con- seguenza un  astratto,  per  loro,  non  può  avere   un'esistenza  per sé  che  quando  é  una  causa,  cioè  quando  da  esso  si  deducono  altre astrazioni  realizzate.  Che  il  Taine  consideri  una  sola  parte  delle astrazioni  in  cui  può  decomporsi  l'idea  d'un  oggetto  come  tulli gli  elementi  dell'  oggetto    stesso,    quando  1'  altra  parte  può  de- dursi da  essa,  si  vede   anche    dai    luoghi    dove  espone    la   sua teoria  della  definizione,  in  cui  dà  come  gli  elementi  dell'oggetto definito  i  due  soli  attributi  che  entrano  nella  definizione,  perchè tutti  gli  altri  attributi  possono,  secondo  lui,  dedursi  da  questi  (V. Posit.  ingl.  §  11,  III  nella  nota  2  a  p.  82  e  }  11,  II  nella  nota  4 a  p.  85).  Il    realisnu»    dialettico    non    può    misconoscere    questa verità  innegabile,  che  il    generale    non    è     altra    cosa    che    l'in- sieme dei  particolari;  è  perciò  che  esso    risolve    la  realtà    delle entità  conseguenze  (degli  effetti)  in  quella  delle   entità  principii (delle  cause),  nel  tempo  stesso  che  dà  alle  une  un'esistenza  di- stinta da  quella  delle  altre. (3)    Come    abbiamo    osservato    nella    nota  3  a    pagina    105, —   135   — parte,  che  il  prodotto  equivale  ai  fattori,  che  tutti  e  due (cioè  il  prodotto  e  i  fattori)  non  sono  che  una  stessa cosa  sotto  due  apparenze  (5)  ;  che  la  causa  non  diffe- risce dall'effetto;  che  le  potenze  generatrici  non  sone  che le  proprietà  elementari  (cioè  gli  astratti  che  l'autore  ri- guarda come  elementi)',  che  la  forza  attiva  per  cui  ci  fi- guriamo la  natura  non  è  che  la  necessità  logica  che  tra- sforma l'uno  nell'altro  il  composto  (cioè  il  più  concreto) e  il  semplice  (cioè  il  più  astratto),  il  fatto  e  la  legge (per  fatto  si  deve  intendere,  non  solo  un  fatto  partico- lare,  ma  anche  un  fatto  generale,  cioè  una  legge,  in quanto  si  spiega  per  una  legge  superiore).  Così  noi  designia- mo anticipatamente  il  termine  di  ogni  scienza,  e  teniamo la  possente  formula  che,  stabilendo  il  legame  invincibile e  la  produzione  spontanea  degli  esseri,  pone  nella  natura la  molla  della  natura,  nel  tempo  stesso  che  conficca  e stringe  nel  cuore  di  ogni  cosa  vivente  (cioè  di  ogni  cosa esistente)  le  tenaglie  d'acciaio  della  necessità».  Questa  e- sposizione  della  dottrina  della  causalità  non  differisce da  quella  che  fa  nei  Filosofi  classici;  vi  manca  però  un le  astrazioni  in  cui  si  risolvono  i  fatti  o  gli  oggetti  concreti, ne  sono  dette,  non  solo  gli  eleinenliy  ma  anche  i  /allori,  per  si- gnificare che  ne  sono  le  cause,  come  dice  Spinoza,  immanenti Per  la  stessa  ragione  sono  dette,  non  solo  gli  elemenli,  ma  an- che i  fattori,  delle  coppie  di  entità  astratte  le  coppie  di  entità più  astratte  in  cui  esse  si  risolvono.  Fattori  è  lo  stesso  che  ele- menti generatori,  come  le  ha  chiamato  sopra, (4)  Noi  ritroveremo  iu  altri  realisti  dialettici,  cioè  Platone  e Spinoza,  questo  termine  anteriore  (e  il  suo  correlativo  j[?os/mor<?^ ]»er  significare  la  derivazione,  al  tempo  stesso  logica  ed  ontolo- gica, di  un'entità  da  un'altra  entità.  Naturalmente  si  dice  ante- riore ad  un'altra  l'entità  da  cui  quest'altra  deriva,  e  la  seconda si  dice  posteriore  alla  prima. (5)  V.  nota  2  a  p.  133,    in  fine. ^..- ••^•^myr^ -  136  — elemento  importante.  È  l'esistenza  necessaria  della  cansii prima,  cioè  della  legge  suprema,  la  sua  assiomaticità. Questa  è  indispensabile  affinchè  la  deduzione  possa  ri- guardarsi come  una  derivazione  reale.  Se  infatti  la  legge* generale  non  fosse  stabilit^a  che  per  una  generalizzazione delle  leggi  particolari  subordinate,  se  il  metodo  della vera  scienza  andasse  dal  particolare  al  generale  e  non dal  generale  al  particolare,  perchè  le  leggi  particolari deriverebbero  dalla  legge  generale,  e  non  piuttosto  la legge  generale  dalle  leggi  particolari  ?  Se  queste  de- rivano da  quella,  è  perchè  quella  è  logicamente  ante- riore^ cioè  perchè  le  leggi  particolari  non  possono  essere date  se  non  è  già  data  la  legge  generale,  mentre  questa  è già  data  senza  che  quelle  siano  ancora  date.  In  altri  ter- mini, per  usare  il  linguaggio  di  Aristotile,  perchè  la  legL'e generale  è  assolutamente  più  notoria  che  le  leggi  parti- colari, quantunque  queste  possano  essere  più  notorie  per noi.  Ciò  importa  che  il  metodo  della  l'em  conoscenza  sia puramente  deduttivo,  che  vada  sempre  dal  generale  al paricolare  (e  mai  dal  particolare  al  generale);  il  che  im- plica che  il  punto  di  partenza,  cioè  la  legge  più  gene- rale di  tutte,  sia  un  assioma.  È  a  questa  condizione  dun- que che  la  deduzione  può  divenire  una  derivazione  reale, in  altri  termini  che  il  rapporto  logico  tra  il  principio  e la  conseguenza  può  identificarsi  al  rapporto  ontologico tra  la  causa  e  l'effetto. Ma  ciò  che  è  il  più  importante  di  osservare  su  (piesta teoria  della  causalità  è  che  essa  è  legata  inseparabil- mente alla  realizzazione  delle  astrazioni .  Le  cause  dei fatti,  dice  Taine,  sono  le  leggi,  e  la  causa  di  un  gruppo di  leggi  è  una  legge  più  generale,  e  così  di  seguito,  sino alla  legge  suprema,  assiomatica,  che  è  la  causa  di  tutte le  cause.  Questo  concetto  suppone  necessariamente  che le  leggi  siano  deile  realtà  esistenti  per  se  stesse,  delle coppie  di  'entità  astratte,  come  ammette  il  Taine,  o,  se st, —  137  — vi  ha  un'altro  modo  di  sostantifìcarle,  un'altra  forma  qual- siasi di  astrazioni  realizzate;  che  le  leggi  particolari  ab biano  un'esistenza  distinta  da  quella  dei  fenomeni,  e  le leggi  generali  un'esistenza  distinta  da  quella  delle  leggi particolari  subordinate.  Supponiamo  infatti  che  non  sfa così,  e  prendiamo  il  termine  le(/ffe  della  natura  nel  suo significato  ordinario  (cioè  in  <iuello  che  esso  ha  sia  nella teoria   nominatista  sia   nella   concettualista)    In  questo caso  una  legge  particolare  non  sarà  che  un'espressione sommaria  dei  fenomeni  che  se  ne  possono  dedurre,  e  una l«^gge  generale  che  un'espressione  sommaria  delle  leggi particolari  che  se  ne  possono  dedurre,  e  quindi,  in  ultima analisi,  di  una  classe  più  larga  di  fenomeni.  Così  essendo, la  legge  suprema,  e  il  gruppo  di  leggi  immediatamente sabordinate  ad  essa,  e  i  gruppi  immediatamente  subor- dinati a  questo  gruppo,  e  così  di  seguito,  sino  all'  ultimo bacino  del  getto  d'acqua,  cioè  al  mondo  dei  fenomeni, non  saranno  che  delle  espressioni  differenti,  cioè  più  o meno  astratte,  più  o  meno  sommarie,  di  una  sola  e  stessa cosa,  che  è  precisamente   questo    mondo  dei  fenomeni  : andando  da  un  grado  all'altro  della  gerarchia,  le  espres- sioni, o  se  si  vuole  aache,  i  concetti  differiranno,  perii loro  grado  di  astrattezza  o  di  sommarietà,  ma  la  realtà che  loro  corrisponderà,  la  cosa  espressa  o  rappresentata, ^arà  sempre  una  sola  e  sempie  la  stessa,  il  mondo  dei fenomeni.  Ma  allora  il  progresso  della  deduzione,  la  di- scesa da  uno  a  un  altro  grado  della  gerarchia,  sam  un progresso  del  pensiero,  che  si  rappresenterà  il  reale  di una  maniera  sempre  meno  astratta,  sempre    più   deter- minata, ma  a  <iuesto  progresso  del  [»ensiero    non    corri- sponderà un  progresso  analogo  nel  reale  stesso;  non  sarà questo  stesso  che.  come  il  pensiero,  passerà  gradatamente da  uno  stato  più  indeterminato  o  più  astratto  a  uno  stato più  determinato  o  più  concreto;  e  per  conseguenza  la  de- duzione non  sarà    una  derivazione  reale,  poiché  perciò ogni  nuovo  passo  nella  deduzione  dovrebbe   rappresen- tare la  produzione   di  alcun   che   di  nuovo  nella  realta stessa,  e  il  rapporto  ha  il  principio  e  la  conseguenza  non potrà   identificarsi    a    quello  tra  la  causa  e  1  eftetto.  In breve  1'  identificazione  del  principio    alla  causa  e  del  a conseguenza  all'  effetto  suppone  necessariamente  che  le due  cose  che  si  riguardano  come  principio  e  come  con- se^'uenza  siano  due  realtà  distinte  l'una  dall'altra  (come avviene  nel  sistema  del  Taine  e  in  generale  nel  realismo); ma  se  il  principio  e  la  conseguenza -cioè  l'insieme  delle conscuenze  -  sono  la  stessa  cosa   espressa  o  pensata  di due  maniere  differenti  (come  avviene  nel  nomiualisino  e nel  concettualismo),  è  impossibile  che  l'uno  si  consideri come  causa  e  l'altra  come  effetto,  perchè  la  causa  e  1  ef- fetto  sono   necessariamente   due  cose   differenti,  e  una stessa  cosa  non  può  essere  la  causa  e  l'effetto  di  se  stessa  (1). $  7.  Fra  i  grandi  sistemi  di  realismo  dialettico  e  (juel- lo  di  Platone  che  ha  la  più  grande   affinità  col  sistema del  Taine,  col  quale  lia  comuni,  oltre  alla  obbiettivazione dei  concetti  e  al  metodo  dialettico  (quale  noi  1'  abbiamo descritto  nella  sua  forma  generale),  altri   caratteri   più speciali,  che    possiamo    ridurre  a  «piesti  tre  :  i  concetti obbiettivati  considerati  come  puri  oggetti  (e  non  anche come  pensieri,  come  in  Hegel);  la  gerarchia  fra  di  essi, fondata  sulla  loro  generalità  descrescente;  e  una  dedu- zione che  somiglia  alla  deduzione  ordinaria,  perche  non va,  come  questa,  che  dal  generale  al  particolare.  I  con- cetti obbiettivati  sono  chiamati  da  Platone,  come  si  sa, le  Idee,  cioè  le  specie  -  noi  scriveremo  la  parola  idea con  la  maiuscola,  per   distinguere  il  senso   platonico  e t (1)  Noi  Bou  abbiamo  indicata  qui  ohe  una  delle  ragioni  della obbiettivazione  dei  concetti.   V.  per  1'  altra  $  3.  p.  69-71  e  $  23 Bealizzazione  delle  astrazioni. —   139  — greco  del  termine  da  quello  affatto  differente  che  ha  nelle lingue  moderne,  e  che,  per  la  sua  confusione  col  primo, ha  forse  contribuito,  più  che  qualsiasi  altra  ragione,  a far  accettare  V  interpretazione  tradizionale  del  sistema platonico  —  Le  Idee  platoniche  sono  state  erroneamente interpretate  in  un  doppio  senso.  L' interpretazione  tra- dizionale vede  in  esse  i  pensieri,  cioè  i  concetti  gene- rali, della  divinità  creatrice,  che  sono  stati  gli  archetipi, i  modelli,  secondo  cui  questa  ha  creato  le  cose.  A  que- sta interpretazione,  che  non  ha  alcuna  base  nei  testi  e che  è  con  essi  nella  contraddizione  più  evidente,  la  più parte  dei  critici  moderni  ne  sostituiscono  uq'  altra,  fon- data, più  che  sui  testi  stessi  di  Platone,  sull'  esposizione del  sistema  platonico  clie  fa  Aristotile.  Questa  seconda interpretazione  vede  pure  nelle  Idee  gli  archetipi,  i  model- li, delle  cose,  ma  non  ne  fii  dei  pensieri  della  divinità  co- me la  prima  :  le  Idee  sono,  secondo  essa,  degli  oggetti esistenti  fuori  delle  cose,  in  un  altro  mondo,  e  fra  questi oggetti  e  le  co«e  non  vi  ha  altro  rapporto  che  quello  tra 1'  esemplare  e  la  copia.  Questa  seconda  interpretazione non  è  così  arbitraria  come  la  prima,  ma  in  compenso essa  rende  il  sistema  delle  Idee  perfettamente  vano  e  sen- za scopo.  L' interpretazione  tradizionale  comprende  al- meno che  V  ipotesi  delle  Idee  deve  essere,  come  qualsiasi altra  ipotesi  sia  scientìfica  sia  metafìsica,  una  spiega- zione del  mondo,  una  risposta  alla  quistione  delle  cause; non  comprendendo,  sì  per  la  sua  arduità  che  per  il  suo carattere  poco  naturale,  la  spiegazione  del  mondo,  la risposta  alla  quistione  delle  cause,  del  realismo  dialettico., cerca,  per  dare  uno  scopo  e  una  significazione  al  plato- nismo, di  assimilarlo  alla  metafisica  perenne  dell'  uma- nità, cioè  all'  antropomorfistica,  non  vedendo  nelle Idee  che  un  elemento  di  una  spiegazione  teologica.  Ma alla  interpretazione  trascendentalista  che  pone  le  Idee fuori  delle  cose,  ma  senza  farne  dei  pensieri,  sfugge  necessarianiente  la  spiegazione  del  realismo  ai  al  etti  co— per- chè questa  suppone  che  le  Idee,  o  generalmente  le  en- tità astratte  e  universali,  siano  immanenti,  cioè  nelle cose  stesse,  ne  siano  1'  elemento  costante  e  generale  —, senza  poterle  sostituire  un'altra  spiegazione,  come  cerca di  fare  1'  interpretazione  teistica. L'interpretazione  trascendentalista  (non  teistica)  è  fon- data, oltre  che   sull'  autorità  d'Aristotile,  sul  motivo  di voler  salvare  le  idee  platoniche  da  un'inconcepibilità  di questo  sistema,  che  è  comune  agli  altri  sistemi  di  rea- lismo dialettico.  Le  Idee  sono  gli  attributi  generali  delle cose  sostnntificati,  e  di  cui  ciascuno  è  riguaidato  come uno  in  se  stesso,  ma  inerente  al  tempo    stesso    nei   di- versi individui  a  cui  viene    attribuito.  Più  chiaramente, l'ipotesi  delle  Idee  consiste  essenzialmente  in  questi  due punti:  1°  Gli  attributi  astratti  delle  cose,  p.  e.  la  bian chezza,  1'  umanità,  la  corporeità,  ecc.,  non  sono  delle semplici  astrazioni  mentali,  ma  delle  realtà.  Essi  sono, in  un  senso,  delle  astrazioni,  in  quanto  non  si  trovano altrove    ohe    nelle    realtà  concrete,    negli  oggetti  bian- chi, negli  uomini,  nei  corpi,  ecc,  in  cui  coesistono  con gli  altri  attributi  da  cui  queste  realtà  concrete  sono  co- stituite, e  perciò,  considerandoli  isolatamente,  noi  li  a- straiamo^  cioè  li  separiamo  dagl'insiemi  di  cui  essi  fanno parte.  Ma  poiché  ciascuno  coesiste  con  altri,  esso  esiste pure  per  se  stesso,  perchè  le  cose  che  coesistono  devono avere  ciascuna  una  esistenza  per  se  stessa.  La  bianchezza dell'oggetto  bianco,  l'umanità  dell'uomo,  la  corporeità del  corpo,  ecc.  sono  dunque  delle  cose  reali,  (juantun- que  astratte,  che  si  trovano  nell'oggetto  bianco,  nell'uo- mo, nel  corpo,  ecc,  e  ne  fanno  parte,  come  il  mio  brac- cio o  la  mia  testa  si  trova  nel  mio  corpo  e  fa  parte  di esso.  xMa  come  il  mio  braccio  o  la  mia  testa  ha  un'esi- stenza per  sé  distinta  da  quella  delle  altre  parti  del  mio corpo  con  cui  coesiste,  così  la  bianchezza,  1'  umanità, ^. la  corporeità,  ecc.  hanno  ciascuna  un'esistenza  per  sé, distinta  da  quella  degli  altri  attributi  degli  oggetti  bian- chi, degli  uomini,  dei  corpi,  ecc,  con  cui  coesistono.  L'a- stratto, in  una  parola,  non  è  nn  termine  uè  un  semplice concetto,  ma  un  essere  reale;  e  il  concreto  non  è  la  realtà unica,  ma  una  realtà  di  secondo  ordine,  un  composto,  i cui  elementi  sono  degli  esseri  astratti.  2"  Gli  attributi comuni  dei  diversi  individui  non  sono  semplicemente  si- mili, ma  identici:  ciascun  attributo  generale  è  un  essere unico,  non  vi  hanno  altrettante  entità  quanti  sono  gli individui  in  cui  si  trova  (juest' attributo.  P.  e.  uou  vi hanno  altrettante  bianchezze  astratte  quanti  vi  hanno oggetti  bianchi,  altrettante  umanità  astratte  quanti  uo- mini, altrettante  corporeità  astratte  quanti  corpi,  ecc.  Vi ha  una  sola  Hianchezza  (il  bianco  «^esso  per  se  stesso) j  una sola  Umanità  (l'uomo  stesso),  una  sola  Corporeità  (il  corpo «^e««o),  ecc., che  esiste  niìmiìtannsLìnente,  senza  moltiplicarsi e  senza  dividersi,  in  tutti  gli  oggetti  bianchi,  in  tutti  gli uomini,  iu  tutti  i  corpi,  ecc  Se  tutti  gli  oggetti  bianchi o  tutti  gli  uomini  o  tutti  i  corpi  sono  egualmente  bian- chi o  uomini  o  corpi,  se  tutti  si  somigliano  e  portano lo  stesso  nome  —  in  una  parola  se  vi  hanno  nella  natura delle  classi,  dei  gruppi  di  esseri  speci licamen te  o  gene- ricamente identici,  —è  perchè  in  tutti  gli  oggetli  bian- chi «  è  presente  y^  la  stessa  Bianchezza,  in  tutti  gli  uomini la  stessa  Umanitti,  in  tutti  i  corpi  la  stessa  Corporeità, ecc.,  o,  in  allri  termini,  perchè  tutti  gli  oggetti  bianchi €  partecipano  »  alla  stessa  Idea  del  bianco,  tutti  gli  uo- mini alla  stessa  Idea  dell'uomo,  tutti  i  corpi  alla  stessa Idea  del  corpo,  ecc.  Ciascun'Idea  è  una  in  se  stessa,  ma sembra  moltiplicarsi  per  la  sua  presenza  simultanea  in molti  individui.  (l)Ogni  attributo  generale  è  dunque  una (1)  Mep,  476  a. /T entità    unica,  che  è  presente  allo  stesso  tempo  in  tutti gli  oggetti  che  partecipano  a  quest'attributo.    Se  questo attributo   è   generale  è    perchè,  essendo  imo  e  lo  stesso in  se,  si  trova  simultaneamente  in  molte  cose;  la  parte- cipazione di  queste  molte  cose  a  una  stessa  entità  spiega perchè  loro   sia   comune  lo  stesso  attributo  —  Ma  come Vuno  può  esistere  simultaneamente  nei  molti,  senza  mol- tiplicarsi e  senza  dividersi  ?  È  questa  Tinconcepibilità  da cui  1'  interpretazione  trascendentalista  mira  a  salvare  il sistema  delle  Idee.  Ma  questa  inconcepibilità  è  una  con- dizione necessaria  del  realismo  dialettico,  perchè  (luesta metafica  è  una  spiegazione  delle  cose  in  quanto    unisce alla  obbiettivazione  dei  concetti  il  metodo  dialettico,  e questo  suppone  che,  dediicendo  le  Idee,  si  deducano  le cose  stesse,  e  quindi  che  il  mondo   delle  Idee  e  quello delle  cose  non  siano  due  mondi  diversi,  ma  due  aspetti diversi  (V  astratto  e  il  concreto)  sotto    cui  può  conside- rarsi il  mondo  unico  della  realtà.  Ciò  che  vuol  dire,  in altri  termini,  die  le  Idee  non  siano  fuori  delle  cose  (tra- scendenti), ina  nelle  cose  stesse  (/mma/ieHfj),  che  Vastratto non  esista   che  nel  concreto,  e  che  il  concreto   non    sia che  r  astratto  stesso,  a  un  grado  ulteriore  di  determi- nazione. In  opposizione  alla  interpretazione  trascendentalista della  più  parte  dei  critici  contemporanei,  è  sorta  la  in- terpretazione del  Teichmuller,  che  è  identica  in  sostanza aquella  di  Hegel.  (1)  Il  vantaggio  di  questa  interpretazione è  che  essa  riconosce  Vimmanema  delle  Idee,  quantunque sembra  che  non  metta  sufficientemente  in  luce  la  loro sostanzialità,  dalla  quale  sovratutto  l'altra  interpretazione deduce  la  trascendenza  —  deduzione,  in  un  senso,  logica, ma  che  sfigura  la  concezione  platonica,  e  le  toglie  qual- (1)  V.  ChiappeUi  L* interpretazione  panteista  di  Platone. siasi  valore  filosofico.  —  Ciò  che  Hegel  comprese  esatta- mente è  la  stretta  affinità  del  sistema  platonico  col  suo proprio  sistema.  L'uno  e  l'altro  sono  costruiti  sullo  stesso tipo,  sono  delle  varietà  di  una  stessa  specie,  che  noi chiamiamo  realismo  dialettico.  Ma  da  questa  identità  spe^ ci/Ica  Hegel  conclude  erroneamente  a  un'identità  quasi assoluta.  Egli  pretende  ritrovare  in  Platone  gli  elementi della  sna  propria  dialettica,  attribuendo  anche  a  lui  il principio  dell'identità  dei  contrari,  e  gli  fa  ammettere pure  la  dottrina  dell'identità  dell'essere  e  del  pensiero- ciò  che  è  il  motivo  principale  per  cui  il  Teichmuller nega  il  significato  evidente  delhi  immortalità  dell'anima in  Platone,  cercando  in  essa  il  simbolo  di  quella  dottrina, ch'egli  non  riusciva  a  trovare  nell'autore  in  forma  aperta e  letterale.  —  La  conseguenza  è  che  a  questa  interpreta- zione sfugge,  come  a  tutte  le  altre,  il  vero  significato della  dialettica  platonica,  e  quindi  il  modo  in  cui  Pla- tone spiega  1'  universo,  perchè  la  spiegazione  causale delle  cose,  il  loro  modo  essenziale  di  produzione,  è,  nel suo  sistema  come  negli  altri  analoghi,  il  metodo  dialet- tico (che  è  la  legge  stessa  delh',  cose  e  non  un  semplice mezzo  che  uìettiamo  in  opera  per  conoscerle). Un'interpretazione  esatta  della  dottrina  delle  Idee  ha bisogno  di  distinguere  nettamente  due  parti,  sino  ad  un certo  punto  indipendenti,  (piantunque  non  senza  legame fra  di  loro,  della  filosofia  platonica.  Questa  filosofia  con- tiene due  spiegazioni  del  mondo,  due  risposte  alla  qui- stione  del  perchè.  In  un  senso,  la  causa  efficiente  è,  per Platone,  Dio,  cioè  l'anima  del  mondo,  e  l'universo  è  spie- g.ato  d'una  maniera  antropomorfistica.  È  un'applicazione del  concetto  immediato,  spontaneo,  della  causalità  effi- ciente. In  un  altro  senso,  la  efficienza  causale,  la  spie- gazione dell'  universo,  sta  nel  processo  dialettico,  cioè nel  modo  in  cui  le  Idee  procedono,  o  si  deducono,  pro- gressivamente le  une  dalle  altre.  È  un'applicazione  del- -  144  — l'altra  fo^nia  del  concetto  di  causalità  efficiente.  Queste due  spiegazioni  coesistono  armonicamente,  senza  mesco- larsi e  senza  turbarsi  l'una  con  1'  altra.  Vi  ha  un-  Idea di  Dio  o  dell'  anima  del  mondo,  come  delle  altre  cose, e  quest'  Idea  si  spiega,  come  tutte  le  altre,  per  la  sua produzione,  al  momento  necessario,  nella  evoluzione  e- terna  del  mondo  delle  Idee.  Dio  o  1'  anima  del  mondo non  è  un'essenza  spirituale  nel  senso  moderno:  è,  come l'anima  dell'  uomo,  esteso,  in  movimento  continuo,  e muove  i  corpi  comunicando  ad  essi  il  proprio  movimento. La  dottrina  dell'  anima  del  mondo  si  le;ia  col  sistema delle  Idee  perchè  questo  contiene  una  spiegazione  teleo- logica delle  cose  (l'Idea  suprema,  vale  a  dire  più  univer- sale, da  cui  le  altre  derivano,  è  l'Idea  del  bene,  cioè  pres- s'a  poco,  come  vedremo,  della  finalità).  Il  legame  più  im- portante che  ha  con  la  dottrina  delle  Idee  quella  dell'a- nima umana,  è  l' ipotesi  che  le  anime  hanno  intuiti»  le Idee  in  una  vita  anteriore,  e  che  la  scienza  (la  quale  è a  priori)  è  perciò  una  reminiscenza.  Non  vi  ha  luogo  di respingere  il  senso  letterale,  cercandovi  invece  un  senso riposto,  delle  dottrine  platoniche  sulFanima,  sia  divina, sia  umana  (semimaterialità,  preesistenza  e  immortalità, reminiscenza,  ecc.\  si  perchè  sarebbe  arbitrario,  sì  per- chè esse  entrano  perfettamente  nell'  ordine  dei  concetti dell'epoca.  La  dottrina  della  intuizione  delle  Idee  in  una esistenza  anteriore,  con  la  sua  conseguenza,  cioè  che  la conoscenza  è  una  reminiscenza  di  quest'  intuizione,  è costruita  essenzialmente  sullo  stesso  tipo  che  le  altre dottrine  di  una  intuizione  sovrasensibiìe  (  Malebran- che, Gioberti,  ecc.),  e  serve,  come  queste,  a  spiegare  la coincidenza  tra  il  pensiero  e  la  realtà  in  una  conoscenza indipendente  dall'esperienza  (l).  Le  dottrine  platoniche (l)V.Saggio  1.  e.  3.  J  7. -  145  — sull'anima  hanno  dato  luogo  a  delle  interpretazioni  in- compatibili col  significato  reale  della  dottrina  delle  Idee, di  cui  le  più  importanti  sono  :  1^  che  Platone  ha  am- messo la  dottrina  dell'  identità  del  pensiero  e  dell'  es- sere, e  che  l'immortalità  dell'  anima,  1'  intuizione  delle Idee  in  un'esistenza  passata  e  la  reminiscenza  non  sono cliedei  simboli  di  questa  dottrina  2*^che  l'anima  del  mondo è  un'entità  intermediaria  fra  le  Idee  e  le  cose,  in  modo che  è  i)er  mezzo  di  essa  e,  per  dir  così,  a  traverso  ad essa,  che  l'azione  delle  prime  si  esercita  sulle  seconde 30  che  Dio  è  identico  all'Idea  suprema  (l'Idea  del  Bene) o  al  complesso  di  tutte  le  Idee.  Noi  esporremo  le  dot- trine di  Platone  sull'anima  e  la  divinità,  e  discuteremo queste  interpretazioni,  in  un  Supplemento  alla  fine  del volume. Vi  hanno  dei  punti,  nel  sistema  delle  Idee,  che  non si  riattaccano  ai  principii  fondamentali  di  questo  sistema (cioèall'obbiettivazione  dei  concetti,  e  al  legame  logico introdotto  fra  i  concetti  obbietti  vati  per  assimilare  il  rap- porto tra  il  principio  e  la  conseguenza  a  quello  tra  la eausa  e  l'effetto),  e  di  cui  anzi  alcuni  sono  in  contrad- dizione con  le  loro  conseguenze  più  naturali.  Tali  sono le  dottrine:  1»  che  le  idee  sono  numeri;  2^  che  esse  co- stituiscono le  sole /orme  delle  cose,  ad  esclusione  della materia-,  ^^  che  le  Idee  e  tutti  gli  esseri  risultano  da  due principii  egualmente  primitivi,  1'  uno  formale  e  l'  altro materiale,  4t^  che  le  entità  matematiche  formano  una  terza classe  di  esseri,  intermediari  fra  le  Idee  e  le  cose.  In  un altro  Sup[)leinento  alla  fine  del  volume  daremo  l'inter- pretazione di  queste  dottrine,  e  cercheremo  i  motivi  su cui  sono  fondate. Il  sistema  di  Platone  ci  occuperà  assai  più  largamente che  qualsiasi  altro.  È  ciò  che  non  ci  sembra  inoppor- tuno, sì  per  l'influenza  eccezionale  ch'esso  ha  esercitato 10 V -  146  - nella  storia  del  pensiero  amano,  sia  direttamente,  sia per  l'intermediario  della  filosofia  aristotelica  (1),  sì  per le  controversie  a  cui  ha  dato  luogo  la  sua  interpretazione. La  quistione  più  controversa,  quella  deW  immanenza  o trascendenza  delle  Idee,  per  non  interrompere  con  una argomentazione  troppo  prolissa  il  corso  della  nostra  e- sposizione,  la  tratteremo  in  un  altro  Supplemento.  In questo  capitolo  parleremo  solamente  della  dialeiilca, mostrando  in  che  consiste  e  come  essa  sia  una  spiega- zione  delle  cose,  e  indicando  le  prove  che  giustificano  il nostro  modo  d'interpretarla. §  8  La  teoria  della  conoscenza  di  Platone  è  un  apriorismo il  più  radicale.  I  sensi  non  sono,  secondo  lui,  una  sor- gente della  conoscenza,  sono  anzi  per  essa  un  ostacolo. 11  corpo  è  un  impedimento   all'  acquisto  della   scienza, quando  viene  associato  a  questa  ricerca.  Se  qualche  cosa della  verità  può  manifestarsi  all'anima,  è  nell'  atto  del pensiero,  quando  essa  non  è  turbata  né  dalla    vista  né dall'udito,  ma  racchiusa  in  se  stessa  e  sciogliendosi  per quanto  è  possibile  da  ogni  commercio  e  da  ogni  contatto col  corpo,  aspira  a  conoscere  ciò  che  é.  Non  è  per  mezzo degli  occhi  o  degli  altri  sensi  che  si  perviene  a  scoprire le  "essenze  delle  cose,  ma  bisogna  per  ciò  applicare  il  pen- siero  stesso  all'oggetto  che  si  considera,  €  non  associando agli  atti  della  ragione  né  quelli  della  vista  né  quelli  di aìcun  altro  senso,  ma  impiegando  il  pensiero  puro  nella ricerca  della    pura   essenza   di    ciascuna   cosa.  )»  (2)  La (1)  V.  §  2»  p.  46  e  seg. (2)  Fedone  65  a.— 67  a. Il  dialettico  senza  l'  aiuto  degli  ocelli  né  degli  altri  sensi  si eleva  alla  conoscenza  dell'essere  per  la  sola  forza  della  verità (Rep,  537  d),  o  in  altri  termini,  per  la  ragione  sola  (Rep.  532  a-b). V.  a  Fedone  82  e-83  b,  Rep,  511  b-c.  eco. -  147   >-  fe scienza  é  dunque  il  prodotto  della  spontaneità  dello  spiri- to- questo  non  deve  ceicare  la  verità  al  di  fuori,  ma  in  se stesso:  perciò  Platone  dice  che  il  movimento  dell'intel- ligenza é,  come  quello  dell'  universo,  in  se  stessa  e  da se  stessa.  (1)  Di  là  la  maieutica  che  egli  attribuisce  a Socrate:  questi  non  fa  che  aiutare  il  parto  dell'idea,  se l'int^erlocutore  è  fecondo,  ed  è  evidente  che  quelli  che tirano  profìtto  dalla  sua  conversazione,  non  imparano niente  da  lui,  ma  ritrovano  in  se  stessi  delle  conoscenze che  già  possedevano,  e  eh'  egli  trae  dalle  viscere  della loro  anima  (2).  Per  conoscere  tutto  il  di  vino— Platone  chiama divino  tutto  ciò  che  è  sovrasensibile  e  quindi  anche  le  Idee —basta  guardare  dentro  se  stessi,  nella  propria  intelligen- za (3).  La  sapienza  è  una  virtù  insita  nell'anima,  non  é come  le  altre  virtù  dell'anima  e  del  corpo,  che  soprav- vengono per  1'  esercizio  e  1'  educazione  :  Y  intelligenza somiglia  all'  occhio;  come  questo  non  può  non  vede- re, quando  è  rivolto  verso  gli  oggetti  rischiarati  dal- la luce,  COSI  quella  non  può  non  intendere  quando  è  ri- volta verso  l'intelligibile,  cioè  verso  l'essere  realmente esistente  (4).  In  certo  modo  la  scienza  di  tutto  ciò  che  esiste ci  è  innata,  quantunque  non  ne  abbiamo  coscienza  (5):  e  ciò (1)  Tim.  34  a.  40  b,  8!)  a. (2)  Teeieto  149  a  —  151  d. (3)  Alcih  1.  133  b-c. (4)  Rep.  518  b  —  519  b.  —  L'ultima  proposizione  è  una  con- seguenza evidente  dell'  apriorismo,  ed  è  facile  di  trovare  delle proposizioni  simili  negli  altri  filosofi  aprioristi.  V.  p.  e.  Cartesio Jiieerca  della  verità  per  il  lume  naturale  (Opere  pubblio,  da  Cousin voi  11.  pag.  334),  Malebranche  Rieerca  della  verità  1.  6.  e.  1, Leibnitz  iV.   S,  sulVint,   uni.  1.  4  e.  13  $  1,  ecc. (5)  Aristot.  Mei.  1.  I.  IX.  28.  V.  anche  (oltre  i  luoghi  che  cite- remo in  seguito  sulla  reminiscenza)  Politico  277  d  —  278  e  :  noi conosciamo  naturalmente  tutto,  ma  come  in  un  sogno;  acquistare una  conoscenza  nuova  è  passare  dal  sogno  alla  veglia. -«r-*" —  148  - che  si  dice  imparare    non    è  in  realtà  che  ricordarsi  dì ciò  che  già  si  sapeva.  Ciò  die  h)  prova  è  che  tutti    gli uomini,  se  sono  bene  interrogati,  trovano    tutto    da  se stessi:  che  s'interroghino  su  delle  ligure  di  geometria  o su  di  altri  oggetti  simili,  e  vsi  vedrà  che  è  così  (l  .  E  in- tatti Socrate  nel  Menone  si  rivolge  Jid  un  giovane  schiavo^ e  lo  conduce,  per  mezzo  di  convenienti  interrogazioni, a  scoprire  che,  per  avere  un  (juadrato  dop])io  di  un  altro, bisogna  elevarlo  sulla  diagonale  di  quest'nltro.  È  mani- festo,  dice    Socrate,  che  è  da  se  stesso    che  lo  schiavo scopre  questa  verità,  e  che  egli  non  gl'insegna  niente,  ma si  limita  a  interrogarlo  sulle  sue  proprie  opinioni:  le  inter- rogazioni di  Socrate  non  fanno  che  risvegliargli  ciueste  o- pinioni,  che  già  si  trovavano  in  lui,  e  che,   così  risve- gliate, divengono  conoscenze.  «Così  egli  conosce  senza  a- vere  imparato  da  alcuno,   tirando  la  scienza  dal  suo  pro- prio fondo Ed  egli  farà  lo    stesso  per  le  altre    parti della  geometria  e  per  tutte  le  altre  scienze  »  i2). La  dottrina  della  reìnitiiscenza  contiene  evidenteniente due  proposizioni  distinte:  l'una  è  hi  costatazione  di  un preteso  fatto  psicologico  (che  non  è  che  una  generaliz- zazione illegittima  di  ciò  clie  Platone  ha  osservato  nella geometria), cioè  che  lo  spirito  tira  la  conoscenza  dal  suo proprio  fondo,  o  in  altri  tninini,  che  la  conoscenza  è  a priori;  V  altra  la  spiegazione  di  (luesto  fatto,  cioè  che ranima  ha  contemplato  le  Idee  in  una  vita  anteriore,  e che  è  ])erciò  che  l'intelligenza  in  questa  vita  attuale  jmò riprodurre  a  priori  l'intelligibile  (3).  Di  queste  due  pro- posizioni, noi  non  dobbiamo  per  ora  fare  attenzione  che (1)  Fedone  72   e  —  73  b. (2)  Meno.  81   o  —  86  b. (3)  V.  Menoue  81  <;  —  8(>  1».  Fedone  72  e  —  77  b,  Fedrj  21«— 250,  ecc. —  149  — alla  ])rima:  della  seconda  ci  occuperemo  in  seguito,  mo- strando che  la  spiegazione  platonica  è  costruita  essen- zialmente sullo  stesso  tipo  che  le  altre  ipotesi  dei  tilosotì aprioristi  per  cui  essi  hanno  cercato  di  spiegare  questa inverosimile  coincidenza  che  la  loro  dottina  stabilisce fra  il  pensiero  e  la  realtà. §  9.  Una  teoria  della  conoscenza  empirista  ha  per  cor- relativo il  metodo  induttivo;  una  te<u'ia  della  conoscenza ^ipriorista,  il  metodo  deduttivo.  Cosi  è  questo  il  metodo inculcato  da  Platone.  Si  deve,  in  ogni  ricerca,  stabilire un  principio,  e  poi  farne  derivare  tutto  il  resto  (1).  Se vi  ha  bisogno,  quindi,  di  giustiiìcare  una  proposizione, lo  si  fa  derivandola  da  qualche  proposizione  superiore, e  questa  ancora  da  un'altra,  e  continuare  così  sinché  si arrivi  ad  un  princii^io  che  ci  sembri  sufficientemente  so- lido (2).  Ciò  che  distingue  la  scienza  daWopinione  vera, (1)  Crai.  436  d:  «  In  ogni  cosa  ò  sul  principio  che  ciascuno  deve portare  una  lunga  attenzione  e  un  lungo  esame,  per  vedere  se esso  è  stato  ben  posto  o  no  :  dopo  averlo  esaminato  sufficiente- mente, bisogna  che  tutto  il  resto  sembri  derivarne».  Nel  Fedone 100  a  è  così  che  descrive  il  metodo  ch'egli  segue  dacché  ha  sco- verto la  dottrina  delle  Idee  :  «  supponendo  sempre  il  principio ohe  mi  sembra  più  valido,  tutto  ciò  che  mi  sembra  più  valido, tutto  ciò  che  mi  pare  essergli  coìiforme  lo  ammetto  come  vero. e  così  fo  sia  ohe  si  tratti  della  ricerca  delle  cause,  sia  di  qual- 8ia8i  altro  oggetto  ;  tutto  ciò  che  non  gli  è  conforme  lo  rigetto come  falso.  > (2)  Fedone  101  d-e  (dopo  aver  detto  che  le  cose  sono  belle  per ]*Idea  del  bello,  grandi  iier  l'Idea  del  grande,  ecc.):  «se  dovessi rendere  ragione  di  quest'  ipotesi  (cioè  dell'  Idea  del  bello,  o  del grande,  ecc.),  non  lo  farai  allo  stesso  modo,  ponendo  ancora  u- u'  altra  ipotesi,  quella  che  ti  parrà  più  conveniente  tra  i  prin- cipii  superiori,  finché  perverrai  a  qualche  cosa  di  sufficiente  ? E    discutendo    del  principio  (cioè    della    proposizione    ultima  da —  150  — è  che  nella  prima  abbiamo  anche  la  conoscenza  del  per- chè, della  ragione  di  ciaftcuna  proposizione;  nella  seconda conosciamo  la  proposizione,  ma   senza  il  perchè  (1).  Vi ha,  in  verità,  un    altro  carattere  distintivo,  anch'  esso importante:  è  che  l'opinione,  anche  vera,  è   sempre  in- certa ed  ondeggiante,  mentre  la  scienza  è  immutabile  (2). Ma  questo  secondo  carattere  non  è  che  una  conseguenza del  primo.  Menone  è  sorpreso   perchè  si  faccia  più   caso della  scienza  che  dell'opinione  vera,  e  perchè  siano  due cose    differenti.  Socrate   risponde  :  «  Le   opinioni    vere, sinché  restano  ferme,  sono  una  bella  cosa  e  producono ogni  sorta  di  vantaggi;  ma  esse  non  consentono  a  restare f^rme  lungamente  e  fuggono  dall'anima  dell'  uomo;  di- modochè  esse  non  sono  d'  un  gran  pregio,  a  meno  che non  si  leghino  per  il  ragionamento   tirato   dalla  causa. cui    le    ipotesi    saranno   state    dedotte  )  e  delle    cose    che    se  ne deducono,  non  ti  guarderai  di  confondere   tutto   insieme,  come fanno  gU  antilogi,  se  vorrai  giungere  alla  scoverta  di  alcuno  degli esseri?»  Platone  chiama  ipotesi  una  proposizione,  anche  la  più certa,  sinché  non  è  stata  dedotta.  (Confr.  Bep.  .509  d-511  e  533 a  —  534  a,  luoghi  che  citeremo  in  seguito.)  Le   ipotesi  di  cui  sì tratta  qui' (come  nei  luoghi  della  Bvpiihhliea)  sono  delle    propo- sizioni  che  pongono  l'esistenza  di  qualche  Idea;  così  il  precetto di  Giustificare  una  proposizione,  deducendola  da  altre  superiori, non  si  applica  qui  che  a  tali   proposizioni  (Platone  vuole  ohe  si deducano  da  altre  ponenti  delle  Idee  superiori  —  cfr.  gli    stessi luoghi  della  Repubblica).  Ma  noi  abbiamo  il  dritto  di  generaliz- zare questo  precetto,  perchè,  come  vedremo,  la  scienza,  nel  senso rigoroso    del   termine,  consiste   appunto  per  Platone   in    un    in- catenamento  di  tali  proposizioni  e  i  principii  da  cui  esse  si  de- ducono. (1)  V.   Tim.  28  a,  51  d  —  e.  Conv.  202  a,  eco. (2)  V.  Tim,  51  d  —  e,  Meno,  98  a,  ecc. —  151  - I Questo  è  ciò  che  sopra  (1)  abbiamo  chiamato  reminiscenza. Queste  opinioni  cosi  legate  divengono  dapprima  scienze, e  poi  stabili.  Ecco  come  la  scienza  è  più  preziosa  della opinione  vera,  e  con»e  essa  ne  differisce  per  Fincatena- mento»(2).  11  carattere  essenziale  della  scienza  è  dunque secondo  Platone  Fincatenamento  deduttivo  delle  propo- sizioni. Le  parole  del  luogo  citato  che  abbiamo  scritto in  corsivo,  ci  mostrano  inoltre  il  rapporto  tra  il  metodo deduttivo  e  Papriorismo  di  Platone.  Se  la  deduzione  non è  altra  cosa  che  la  reminiscenza,  siccome  questa  implica il  principio  che  lo  spirito  tira  la  scienza  dal  suo  proprio f(mdo  »  o  in  altri  termini  che  la  conoscenza  è  a  priori, ne  segue,  da  una  parte,  che  la  coooscrjnza  a  priori  di Platone  non  è  che  una  conoscenza  che  si  produce  per la  deduzione  pura,  e  da  un'altra  parte,  che  la  deduzione platonica  è  un  metodo  a  priori,  vale  a  dire  che  il  suo punto  di  ymrtenza  non  sono  delle  proposizioni  induttive e  sperimentali,  ma  dei  principii  evidenti  per  se  stessi. Questo  risulta  del  resto  da  tutte  le  altre  prove  dell'  a- priorismo  di  Platone.  Il  metodo  platonico  non  è  dunque solamente  deduttivo,  ma  dimostrativo.  Platone,  corne  tutti i  filosofi  aprioristi,  eleva  il  metodo  geometrico  a  metodo universale  della  scienza.  Noi  abbiamo  osservato  nel  pa- ragrafo precedente  che,  nel  Menone,  la  dimostrazione  geo- metrica è  il  dato  di  fatto,  da  cui  Platone  conclude  il princìpio  generale  che  la  scienza  è  a  priori,  e  quindi  la dottrina  della  reminiscenza. (i  10.  Una  conseguenza  e  al  tempo  stesso  un  indizio dell'apriorismo  è  l'importanza  capitale,  quasi  esclusiva, attribuita  al  metodo.  È  ciò  che  si  vede  in  Cartesio,  in (1)  Meno.  81  e  —  86  b,  luogo  citato  nel  paragr.  precedente. (2)  Menone  98  a. —  152  -- Hegel  e,  in  uua  parola,  in  tutti  i  filosofi  aprioristi.  Pla- tone non  fa  eccezione.  Egli  designa  il  proprio  metodo col  nome  di  dialettica.  In  un  senso  lato,  la  dialettica  è V  arte  d'  interrogare  e  di  rispondere  (l;— Platone,  con tutta  la  scuola  socratica,  vede  nel  dialogo  la  forma  na- turale d'investigare  la  verità  (2j— .In  un  senso  più  ri- stretto, è  il  metodo  per  arrivare  alla  conoscenza  delle essenze  delle  cose,  delle  Idee  (3).  Ma  tale  è  l' impor- tanza del  metodo  in  questo  sistema,  che  la  stessa  parola dialettica  serve  ad  indicare  la  scienza  degli  oggetti  stessi su  cui  versa  questo  metodo,  cioè  la  scienza  del  mondo ideale  (4).  Un  altro  carattere  che  Platone  ha  in  comune con  tutti  i  filosofi  radicalmente  aprioristi,  è  che  per  lui la  filosofìa  non  è  una  scienza,  ma  tutta  la  scienza.  La dialettica,  egli  dice,  è  la  scienza  che  conosce  tutte  le altre  scienze  (5).  Queste  non  fanno  che  apprestare  i  ma- teriali alla  dialettica  ;  è  essa  che  mette  in  uso  le  loro scoverte  (6).  11  filosofo  ama  la  sapienza,  non  in  tale  o tal  altra  delle  sue  i)arti,  ma  tutta  intera  (7),  e  non  me- (1)  V.  Oratilo  390  e,  Bep.  534  à,  eec.  Verso  hi  fine  del VII  della  Bcp.  (537  e-539  d)  Platone  lamenta  gV  inconvenienti deUo  studio  della  dialettica  quale  viene  insegnata  ai  suoi  giorni. In  questo  luogo  sono  compresi  in  un  concetto  comune  e  desi- gnati con  gli  stessi  termini  il  metodo  proprio  dell'autore  e  l'arte della  discussione  che  insegnavano  i  sofisti. (2)  Il  pensiero  stesso  è,  egli  dice,  un  dialogo  dell'anima  con sé  stessa,  in  cui  essa  s'interroga  e  si  risponde.  Teet,  189  e-190  a. Cfr.  Sof,  263  e,  264  a. (3)  V.  liepuhhl.,  fine  del  lib.  6o  e  lib.  7^, (4)  V.  Fileho  57  e-59  d,  Bep,  511  e  e  531  d-535  a.  Nel  ^V fista  253  c-254  a    la  dialettica  è  identificata  alla  filosofia. (5)  FU.  57  e  —  58  a. (6)  Eìitid.  290  e. (7)  Bep.  475  b. —   153   — rita  questo  nome  se  non  colui  che  mostra  del  gusto  per ogni  sorta  di  scienze,  clie  vi  si  dà  con  ardore,  e  che  è  in- saziabile d' imparare  (1)  Bisogna  dunque  che  il  dialet- tico abbia  un'anima  che  aspiri,  sin  dai  primi  anni,  al possesso  di  tutta  la  verità  (2),  e  ad  abbracciare  nella loro  universalità  le  cose  divine  ed  umane,  contemplando tutti  i  tenii»i  e  tutti  gli  esseri  (8);  ed  è  nella  sua  natura di  ricercare  le  essenze  di  tutte  le  cose,  o,  per  usare  la espressione  stessa  di  Platone,  V  essenza  tutta' intera, senza  rinunzi  ire  ad  alcuna  delle  sue  parti  (4).  In  verità r  oggetto  della  tìlosoMa,  o  della  dialettica,  non  sono  i fenomeni,  ma  S(»lamente  le  Idee  (5)  :  ma  la  scienza  non è  che  delle  Idee,  dei  fenomeni  non  vi  ha  che  opinione —  perchè  la  scienza  è  dell'  universale,  e  V  universale  è ridea  (6)  -;  così,  siccome  l'oggetto  della  filosofia  o  della dialettica  non  è  una  parte,  ma  la  totalità,  del  mondo ideale,  essa  è,  malgrado  ciò,  la  scienza  universale.  Questa universalità  della  filosofia  deriva  dall'  essenza  stessa della  metafisica  apriorista,  della  stessji  maniera  che r  importanza  attribnita  al  metodo.  Gli  altri  sistemi metafisici  consistono  a  dare  una  spiegazione  dei  fe- nomeni,  introducendo  degli  agenti  ipotetici  posti  al di  là  dei  fenomeni  stessi  ;  e  in  questi  sistemi,  la  fi- losofia non  è  propriamente  che  la  teoria  di  questi  a- genti  ipertìsici.e  della  loro  azione  sul  mondo  rea^ le  (7).  Ma  che  un  metafisico  apriorista  trascenda  o  no  il (•)  Ivi,  475  e. (2)  Ivi.  485  d. (3)  Ivi,  486  a. (4)  Ivi,  485  b. (5)  Ivi.  475  e-480  a. (6)  V.  Supplem.  suU'imnian.  delle  Id.  plat. (7)  P.  e.  Aristotile  identifica  la  scienza  prima  con  la  teologia. V.  Mct.  1.  6  e.   1. —  154  — —  155  - mondo  reale,  il  processo    essenziale  della   metafisica  a- priorista  è,  in  ogni  caso,  tutt'altro:  il  suo  scopo  è  d'im- primere  nel  reale    stesso  il  carattere   della   necessità  e della  razionalità,  e  il  mezzo  per  raggiungere  questo  scopo un'elaborazione  del  sapere  empirico  per  trasformarlo  in un  sapere  a  priori.  Così  in  questa  forma  di  metafisica  la filosofia  non  si  distingue  dalle  altre  scienze  per  un  con- tenuto proprio,  ma  per  la  forma,  cioè  per  il  metodo  scien- tifico: il  suo  contenuto  è  quello  delle  altre  scienze,  che queste   hanno  prodotto  con  un  metodo   empirico,  e  ohe essa  pretende  riprodurre  con  un  metodo  a  priori  (1).  Al- l'universalità  della  conoscenza  filosofica  questa  varietà della  metafisica  apriorista  che  presentemente   studiamo (cioè  quella  che  al  metodo  a  priori  o  dimostrativo  unisce la  realizzazione  dei   concetti)    aggiunjre   costantemente un  altro  carattere,  cioè  la  sua  sistematicità,  il  legame  in- timo introdotto  tra  tutte  le  verità  (2).  Né  anche  su  questo (1)  CoDfr.  i  luoglii  di  ScheUiiig  e  Hegel  citati  nel  cap.  6» (2)  Citiamo  anche  qui  Schelliug:  «l'idea  deUa  scienza  assoluta, incondizionale,  che  è  assolutamente  una,  e  nella  quale  ogni  scienza è  pure  necessariamente  una,   di  questa  scienza  prima,  che  non  si divide  in  più  rami    che    per    corrispondere   ai  diversi    gradi  del mondo  ideale  visibile,  e  si  sviluppa  nell'albero  incommensurabile della  conoscenza  p.   «  Ogni  pensiero  che  non  è  stato    pensato  in questo  spirito  dell'unità  e  dell'universalità  è  in  sé  vuoto  e  deve essere  rigettato.  Ciò  che   non  è  suscettibile    d*  essere    compreso armoniosamente    in    quest'  insieme    organizzato  e  vivente  è  un» sostanza  inerte  che,  secondo  le  leggi  organiche,  sarà,   presto  o tardi,  espulsa  »  (Lezioni  sul  metodo  degli  studii  accademici,  1^) Ed  Hegel  :  «  I^   scienza   dell'  assoluto  è  necessariamente  siste- matica...  essa  deve,  in  altri  termini,  formare  un  insieme  di  co- noscenze    legate    strettamente   fra  di  loro  »  €  Una   tìlosofia   ohe non  riposa  sopra  una  conoscenza  sistematica  non  costituisce  una scienza,  ma  piuttosto  una  forma,  una  maniera  di  sentire  indivi- ì punto  Platone  fa  eccezione:  «  Ogni  specie  di  figura,  ogni costituzione  di  numero,  ogni  ragione  d^armonia  e  di  ri- voluzione degli  astri,  tutte  le  cose  devono  manifestare il  loro  mutuo  accordo  a  chi  imparerà  secondo  il  vera metodo,  e  lo  manifesteranno  se  chi  impara  guarda  al- l' unità,  perchè  la  riflessione  gli  scoprirà  un  legame unico  che  unisce  naturalmente  tutte  le  cose  »  (1). Non  si  può  conoscere  la  natura  d'  una  cosa  sola,  per esempio  dell'  anima  o  del  corpo,  senza  conoscere  la natura  di  tutto  l'universo  {2\  Così,  nel  suo  piano  di  e- ducazione  tracciato  nella  Repubblica.  Platone  prescrive che  lo  studio  delle  scienze,  affinchè  non  sia  un  lavoro inutile,  pervenga  ai  loro  punti  di  contatto  e  alla  loro  pa- rentela reciproca,  e  le  comprenda  nella  loro  affinità  (3); duale  e  contingente  quanto  al  contenuto.  Una  conoscenza  non  è giustificata  che  quando  essa  è  il  momento  di  un  tutto,  in  fuori del  quale  non  è  che  un'  ipotesi  o  un'opinione  soggettiva.  »  (In- irod.  alV Enciclopedia), Del  resto  questa  unità  sistematica,  propria  della  elasse  di metafìsici  di  cui  parliamo,  più  che  dalle  loro  dichiarazioni  su ciò  ohe  deve  essere  la  scienza  speculativa,  si  vede  dal  modo  in cui  essi  hanno  cercato  effettivamente  di  realizzarla.  Rimandiamo anche  perciò  a  quello  che  abbiamo  detto  in  questo  capitolo  su Taine  e  a  quello  che  diremo  su  Spinoza. (1)  Epinom.  991  e— 992  a.  Cfr.  FU.  18  e.  Ivi,  per  illustrare il  metodo  dialettico,  è  proposta  come  esempio  l'invenzione  delle lettere:  dopo  aver  distinte  le  varie  lettere  e  riunitele  in  generi, e  riuniti  questi  generi  in  uno  solo  (come  vedremo  che  fa  la  dia- lettica per  le  specie  di  tutti  gli  esseri),  l'inventore  delle  lettere,. €  vedendo  che  nessuno  potrebbe  apprenderne  una  sola  separata- mente e  senza  a]»prenderle  tutte,  ne  immaginò  il  legame  come unico  e  faciente  di  tutte  qualche  cosa  di  uno,  e  l'arte  rispettiva chiamò,    col   nome  d'un 'arte  unica,  grammatica)». (2)  Fedro  270  e. (3)  Rep,  531  d. \ —  156  — e  elle,  dopo  che  sono  state  studiate  isolata  niente,  siano presentate  nel  loro  complesso,  perchè  sia  compresa,  in una  vista  d'insieme,  «  l'affinità  di  queste  scienze  fra  di loro  e  della  natura  dell'essere  ».  Questa  è  la  prova  mi- gliore per  distinguere  da  ogni  altro  l'ingegno  dialettico; chi  è  idoneo  a  una  vista  d'insieme  è  dialettico,  gli  altri no  (3).  Il  legame  di  tutte  le  verità  fa  che,  datane  una, noi  possiamo,  senz'altro,  ritrovare  tutte  le  altre.  «  Tutta la  natura  essendo  aflìne,  e  l'anima  avendo  appreso  tutto, niente  impedisce  che  alcuno,  ricordando  una  cosfi  sola, ciò  che  gli  uomini  chiamano  imparare,  ritrovi  da  se  stesso tutte  le  altre,  purché  abbia  della  costanza,  e  non  desista dalla  ricerca  :  ricercare    infatti  e  imparare  non    è  altro che   ricordarsi  )>  (1).  In  altri    termini,  tutte  le  cose  es- sendt)  legate  fra  di  loro,  il  ricordo   di  una  sola  può  ri- chiamare tutte  le  altre  — il  jiassaggio  da  una  conoscenza ad  un'altra  è  identificato  all'associazione  delle  idee,  per cui  un  ricordo  suggerisce  un  altro  ricordo.  —  ^la  questa reminiscenza  non  è,  come  abbiamo  visto,  che  la  dedu- zione. (2)  Così  noi  comprendiamo  in  che  consista  questo leiranu^  naturale  che  unisce  tutte  le  cose  :  è  un  legame loirico.  che  deve  incatenare  tutte  le  conoscenze,  deduceu- dole  da  un  principio  unico. §  11.  Per  formarci  un'  idea  più  precisa  del  metodo platonico,  cioè  della  dialettica,  noi  dobbiamo  paragonarlo col  metodo  matematico.  È  ciò  che  fa  Platone  stesso  nel  6'^ e  7«  della  Repubblica.  A  questo  riguardo  noi  abbiamo già  osservato  che  (questi,  come  in  generale  tutti  i  meta- fìsici aprioristi,  ha  immaginato  il  suo  metodo    filosofico —  157  - sul  tipo  di  quello  delle  matematiche  —  le  sole,  tra  le siiienzc  costituite,  che  siano  puramente  deduttive.  -  Una conferma  di  questa  osservazione  è  che  egli  vede  nello studio  delle  matematiche  una  preparazione  indispensa- bile a  quello  della  dialettica  (l).  Esso  ne  è  \ii  propeden- dea  (2)  o  il  preludio  (3):  è  esso  die  rende  utile,  da  inutile che  era,  la  facoltà  dell'intelligenza  (4);  che  purifica  e  ria- nima l'organo  della  verità,  acciecato  e  quasi  estinto  dalle altre  occupazioni  della  vita  (5);  che  libera  l'anima,  im- prigionata nella  caverna  dei  sensi,  e  la  fa  ascendere nella  regione  superiore  (6);  e  che  la  volge,  dalle  tenebre ov'  era  immersa,  verso  la  luce  dell'essere  e  del  vero  (7)* Infatti,  l'intelligenza  essendo  come  l'occhio,  che  non  può non  vedere  quando  è  rivolto  verso  la  luce  (8;,  l'impor- tante è  di  farla  volgere  verso  la  verità,  di  dirigerla bene  in  modo  che  guardi  là  dove  bisogna  guardare  (9): questa  evoluzione  ('J£(>^«/^^>//;)  dell'intelligenza  è  l'opera delle  matematiche.  Questo  rapporto  fra  la  dialettica  e le  matematiche  è  espresso  da  Senocrate  con  una  frase un  po'  volgare  ma  incisiva,  chiamando  queste  i  manichi della  Jìloso/ia  (lU).  Fra  le  scienze  che  costituiscono  la propedeutica  delhi  dialettica,  vengono  contatta,  oltre  le mateaiaiiche  pure,  cioè  il  calcolo  (la  logistica)  a  la  geo- (3)  Kep.  537  e. (l)  Meli.  81  d. (1)  V.  Men.  98  a,  1.  <*it.  nel  punip:.  prec. (1)  ICep,  lil>.   VII. (2)  liep.  586  (1. (3)  Hep,  531  ti,  532  ti. (4)  liep.  530  e. io)  527  d  —  e. (G)  532  h  —  e. (7)  521  e. (8)  V.  pjiragr.  8. (9)  518  b  — 519  b. (10)  V.   Diog.   Liiert.  IV.  10. inetria,  anche  alcuno  che  possiamo  riguardare  come  ma- tematiche applicate,  cioè  l'astronomia  e  V  armonia.  Ma queste  scienze  hanno  valore  sopratutto,  per  Platone, come  esercizi  ed  applicazioni  delle  matematiche  pure; •egli  vuole  che  si  studino,  non  tanto  per  la  conoscenza dei  fenomeni  reali,  quanto  per  i  problemi  matematici  a cui  dà  luogo  la  considerazione  di  questi  fenomeni  (1). Il  pensiero  di  Platone  è,  al  fondo, che  solo  le  matematiche possono  svegliare  il  bisogno  della  conoscenza  filosofica— contraddistinta  da  questi  due  caratteri:  l'universalità  e astrattezza  dell'oggetto,  e  il  metodo  dimostrativo  —  e  al tempo  stesso  darne  anticipatamente  un  modello,  quan- tunque imperfetto.  Questa  seconda  proposizione  è  tanto vera,  che  Platone  divide  l'intelligibile  in  due  parti,  l'una che  è  l'oggetto  della  matematica,  e  l'altra  della  dialet- (1)  Bep.  529  (1  —  530  e  ^V.  questo  luogo  e  la  sua  interpieta- zioue  nel  Suppletn.  stili' imman.  delle  Idee,  parte  2.  u.  Ili  sulla fine).  Evidentemente  Platone  riguarda  lo  studio  delle  mnteuia- tiche  applicate  (astronomia  e  armonia)  come  un  accessorio  di quello  delle  matematiche  pure  (geometria  e  logistica).  Così  quan- do vuol  dare  un'  idea  generale  dei  processi  delle  discipline  che formano  la  propedeutica  della  dialettica,  egli  non  descrive  che quelli  della  logistica  e,  sopratutto,  della  geometria  (Hep,  510  b- 511  a);  e  volendo  indicare  tutte  queste  discipline  nel  loro  insie- me, non  fa  espressamente  menzione  che  della  sola  geometria,  o della  geometria  e  della  logistica,  considerandone  le  altre  C(mie  un -accompagnamento.  Così  a  510  e:  «  la  geometria,  il  cailcolo  e  simili  »; a  511  b:  «  la  geometria  e  le  ani  sorelle  »;  a  511  d:  «T  abito  delle  co- se geometriche  e  delle  cose  simili  »;  a  533  e:  «  la  geometria  e  le  ar- ti seguaci  •>;  a  536  d  :  «  il  calcolo,  la  geometria  e  tutta  la  prope- •deutica  della  dialettica.  »  Come  si  vede,  la  geometria  prende  il passo  sulla  logistica:  è  perchè  è  la  prinui  che  otfre  più  spiccato ciò  che  per  Platone  è  la  caratteristica  della  vera  scienza,  cioè l'incatenamento  deduttivo. tica,  e  considera  la  prima  come  un'immaginazione  della seconda  (1).  Noi  diremmo  ciie  il  modello  è  la  matema- tica, e  la  dialettica  l'immagine;  ma  Platone  inverte  la relazione.  Com'egli  chiama  le  cose  immagini  delle  Idee, che  egli  ha  immaginate  sul  modello  delle  cose,  così  chiama il  metodo  matematico  immagine  della  dialettica,  ch'egli ha  immaginata  sul  modello  del  metodo  matematico. $  12.  Veniamo  ora  alle  dift'ereuze  fra  il  metodo  mate- matico e  il  metodo  dialettico.  Perciò  faremo  parlare  Pla- tone stesso: KEP.  509  D  Socrate:  Abbi  dunque  due  specie  di  og- getti^ il  visibile  e  l'intelligibile....  E  come prendendo  una  linea  divisa  in  due  parti  i- neguali,  dividi  ancora  secondo  lo  stesso  rap- porto ciascuna  di  queste  due  parti,  quella del  visibile  e  quella  dell'intelligibile,  e  giusta la  chiarezza  e  l'  oscurità  relative,  per  una delle  parti  del  visibile  avrai  le  immagini  (2). E  Chiamo  immagini  prima  le  ombre,  poi  i  fau- 510  A  tasini  rappresentati  nelle  acque  e  sulla  su (1)  V.  Bep.  515  e  —  516  b,  532  a-c,  e  confr.  il  Suppl,  C.  £nt. matem.,  nota  ultima,  sulla  line. (2)  Platone  rappresenta  la  totalità  degli  oggetti  della  cono- scenza per  una  linea  divisa  in  due  parti,  di  cui  l'  una  rappre- senta la  parte  piìi  chiara  e  l'altra  la  parte  più  oscura  di  questi oggetti,  cioè  l'una  l'intelligibile  e  l'altra  il  visibile;  e  vuole  che ciascuna  di  queste  due  ])arti  sia  suddivisa  secondo  lo  stesso  rap- porto secondo  cui  è  stata  divisa  la  totalità,  cioè  in  modo  che l'una  delle  due  suddivisioni  del  visibile,  e  di  quelle  dell'intelli- gibile, sia  altrettanto  più  chiara  dell'  altra  quanto  tutto  l'intel- ligibile è  più  chiaro  di  tutto  il  visibile.  La  suddivisione  meno chiara  del  visibile  saranno  le  immagini. -  160  - B C perfìcie  dei  corpi  opaclii,  lisci  e  brillanti,  e tutte  Te  altre  rappresentazioni  di  questo  ge- nere.... Per  l'altra  parte  poni  gli  oggetti  cìie (|ueste  immagini  rapjiresentauo,  cioè  gli  a- nimali,  le  piante  e  tutti  i  prodotti  della natura  o  del  Parte....  Se  vuoi,  <liremo  ancora elle  la  divisione  è  stata  fatta  secondo  il  rap- porto del  vero  e  del  non  vero,  di  (piesta numiera:  come  V  opinabile  (cioè  il  visibile) è  al  conoscibile  (cioè  all'  intelligibile)  così V  immagine  è  «illa  cosa  (1)....  Vediamo  (ua come  si  deve  dividere  rintelligibile  ...  Una parte  di  esso  l'anima  è  costretta  «l'investigare servendosi  come  <l'  imm.igini  degli  oggetti che  già  sono  stati  divisi,  e  partendo  da  i- potesi,  non  per  risalire  al  principio,  ma  per discendere  alla  conclusio^le  ;  1'  altra  parte, andando  dalle  ipotesi  al  princii)io  che  non è  un'  ipotesi,  e  stMiza  servirsi  di  immagini come  fa  per  la  prima,  procedendo  unicameiì' te  con   ldce>  per   via  di  Idee  (avio'tg  eìòeni <h^   avKhy    tì]t^    ^iHoihìy    lotovutyr^) Tu sai  infatti  che  (|uelli  che  trattano  la  geo- metrìa, la  logistica  e  altre  arti  simili,  sup- ]»oiigono  il  pari  e  l'imj>ari  e  le  ii.rure  e  tre specie  di  angoli  e  altre  cose  simili  secondo (1)  Vale  a  dire  la  proporzionalità  fra  le  due  parti  del  visibile  o dell'intelliccibile,  paragouate  tra  di  loro,  e  il  visibile  e  rintelligibile, parasjonati  riino  con  l'altro,  sunsisterà  ancora,  se  invece  di  para- gonare questi  oggetti  per  il  grado  della  loro  evidenza^  si  para- goneranno per  quello  della  loro  realtà:  le  cose  sodo  altrettanto più  reali  delle  immagini  quanto  rintelligibile  lo  è  del  visibile.  D E 511  A B ciascuna  arte,  e  che   supposte   queste   cose come  conosciute,  non  credono   dover  darne ragione  né  a  sé  stessi  uè  agli  altri,  come  di verità  manifeste  per  t«itti;  e  che  infine,  par- tendo da  queste  ipotesi,  discendono  logica- mente, di  proposizione  in  proposizione,  sino alla  conclusione  che  si  erano  proposti  di  di- mostrare.... Tu  sai  pure  ch'essi  si  servono di  figure  visibili,  e  ragionano  sopra  di  qué- ste, ma  dirigendo  il  pensiero,  non  ad  esse, ma  a  quelle  di  cui  esse  sono  le   immagini, facendo  le  dimostrazioni,  p.  e.,  in  grazia  del quadrato  litesso  e  della  diagonale  stessa  (cioè delle  Idee),  ^  non  del  quadrato  e  della  dia- gonale che  essi  disegnano,  e  così  per  tutte le  altre  figure,  sicché  essi  usano  come  d'im- magini delle  figure   che   disegnano,  e  delle quali  vi  hanno  pure  le  ombre  e  le  immagini nelle  acque,  cercando  di  contemplare  quelle altre  figure  che  non  si  possono  contemplare che  con  la  ragione  (r?j  ^la^oia),,,.  Io  ho  chia- mato questa  una  parte  dell'intelligibile,  ma ho  detto  che  nella  sua   investigazione  1'  a- nima  è  costretta  a  servirsi    d' ipotesi,  non andando   al  principio,  poiché    non   può  ri- salire al  di  là  delle  sue  ipotesi,  e  a  fare  uso come  d'immagini  delle  cose  stesse  che  alla loro  volta    hanno  per  immagini    altre  cose inferiori,  in  paragone  delle  quali  sono  chia- mate reali  e  come  tali  state  classate   nella nostra  divisione....  Per  l'altra  parte  dell'in- telligibile io  intendo  quella  che  la  ragione stessa  attinge  per  la  potenza  della  dialettica, le  ipotesi  non  facendo  principii,  ma   real- 11 D £ .     -  162  — mente  ipotesi,  servendosene  come  di  gradini e  di  punti  di  appoggio,  sincliè  pervenga  a ciò  che  non  è  un'  ipotesi,  al    principio  del tutto  {lov  nayzóg)^  e  attintolo  e  attaccandosi nuovamente  (nàhy  av)  alle  cose  att.accate  ad esso,  discende   così  sino    alla  conclusione, senza  fare  uso  assolutamente  di  alcun  sen- sibili», ma  solo  di  Idee,  andando  a:t  Idee  per via  di  Idee,  e  terminando  ad  Idee  («Aa'  eìi^eaiy aliolg  ÓL^aviiby  Big  avià^  y.ai  zeUvià  u^  BuSr^. Glaucone.  Comprendo,  quantunque  non  ab- bastanza. Mi  pare  che  tu  dica  qualche  cosa di  arduo  ;  ma  in  somma    tu  vuoi    stabilire che  la  parte  deli'  essere  e  dell'  intelligibile che  si  conosce  per  la  scienza  della  dialettica, è  più  evidente  di  quella  che  si  conose  per quelle  che  chiamiamo  arti,  che  hanno  per principii    delle   ipotesi,  e    chi   contempla  i loro  oggetti  ò  costretto   certamente  a  con- templare con  la  ragione  {dtayoia)  e  non  coi sensi,  ma  poiché  investiga  non  risalendo  al principio,  ma  da  ipotesi,  non  ti  sembra  a- vere    intelligenza    (yovà^)  intorno    a    questi oggetti,    benché  col  principio    diverrebbero intelligibili.  La  facoltii  delle  cose  geometri- che e  simili  tu  la  chiami,  mi  sembra,  razio- cinazione  {<Siàvoiay)  e  non  intelli(jenza  (^où/'), come  se  la  rasiocinazione  fosse  qualche  cosa d'intermedio  tra  V opinione  e  V intelligenza,'^ Socu.  Tu  mi   hai    compreso  peifetta mente. Ora  a  quelle  quattro    parti  di  cui  abbiamo parlato,  applica  queste  quattro  alfezioni  del- l'anima  :  V  intelligenza  (yór^ai^)  alla  supre- ma, alla  seconda  la  raziociiiazione,  alla  ter- %;   -.ff -  163  - za  la  fede,  e  all'ultima  V immaginazione  {1); ordinandole  secondo  questo  rapporto:  quanto gli  oggetti  a  cui  si  applicano  partecipano  del- la verità,  altrettanto  esse  partecipano  dell'e- videnza. » Kep.  533  B   «Ninno  certamente  ci  contesterà  che  il  me- todo dialettico  é  il  solo  che  cerchi  di  perve- nire, con  un  ordine  dato  (vó6}  na^ù  ;rarróg),alle essenze  di  tutte  le  cose;  ma  la  più  parte  delle altre  arti  non  si  occupano  che  delle  opinioni degli  uomini  e  dei  loro  bisogni,  o  delle  pro- duzioni e  composizioni,  o  della  conservazione delle  cose  prodotte  e  composte;  le  altre  che abbiamo  detto  imrtecipare  in  qualche   modo C  all'essere,  cioè  la  geometria  e  quelle  che  la seguono,  sognano  intorno  all'essere,  ma  é  im- possibile ad  esse  di  vederlo  in  veglia,  sinché, servendosi  d'  ipotesi,  le  lasciano  immobili  e non  possono  rendL-rne  ragione.  Quando  infatti vi  ha  un  principio  che  non  si  conosce,  quan- d'  anche  la  conclusione  e  le  proposizioni  in- termedie derivate  da  ciò  che  non  si  conosce siano  ben  legate  fra  di  loro,  come  una  tale dimostrazione  potrebbe  formare  una  scienza  ? Solo  il  metodo  dialettico  procede  per  questa via,  facendo  risalire  le  ipotesi  al  principio  per renderle  ferme,  e  trae  a  poco  a  poco  l'occhio D  dell'  anima   dal   pantano  barbarico  in  cui  é (1)  Cioè  y  intelligenza  jille  Idee,  la  razioeinazione  air  iute  111- gi1»ile  che  »i  conosce  per  le  mateiuaticlie.  la  fede  alle  cose  (alla realtà  feuomeuale),  e  V  immaginazione  [eiy.adca)  alle  immagini {elxóyeg), \ —  164  - inimerso,  e  lo  eleva  nell'alto,  serveudosi  per ministri  ed  ainti  delle  arti  di  cui  abbiamo parlato:  le  quali  spesso,  per  l'abitudine,  ab- biamo chiamato  scienze,  ma  abbisognano  di un  altro  nome,  più  chiaro  dell'opinione  ma più  oscuro  della  scienza;  noi  sopra  le  abbiamo chiamato  rmiocinazione,  ma  non  è  fra  noi (luestione  di  nomi,  occupandoci  di  cose  tanto importanti...  Chiamiamo  dunque,  come  sopra^, E  la  prima  porzione  scienza^  la  seconda  razio- chiazione,  la   terza  fede  e  immagi nazione  la 534  A       quarta;  e  le  due  ultime  opinione,  le  due  pri- me intelligenza  {yóìjdit^):  Vopinione  intorno  al divenire  (ai  fenomeni),  V  intelligenza  intorna all'essere;  e  ciò  che  l'essere  è  al  divenire,  l'/'/i- telligenza  è  aìVopinione,  e  ciò  che  l' intelligen- za all'  opinione,  la  scienza  alla  fede  e  la  ra- siocinazione  tiW  immaginazione.  » Fermiamo  le  proposizioni  più  importanti: 1.0  Vi  hanno  quattro  forme  di  conoscenza,  o  meglio  dì credenza,  corrispondenti  a  quattro  classi  di  oggetti  che possono  cadere  sotto  queste  facoltà.  Come  le  (juattro  classi di  oggetti  (Idee,  intelligibili  matematici  (1),  cose,  imnia- gini)  formano  una  serie  discendente  secondo  il  grado  della loro  realtà,  così  le  quattro  forme  di  conoscenza  (intelli- genza o  scienza,  raziocinazione,  fede,  immaginazione)  for- mano una  serie  discendente  secondo  il  grado  della  loro  e- videnza.  L'  opinione,  il  cui   grado  più  alto  è  chiamato fede  e  il  più  basso  immaginazione,   é,    come    sappiamo^ una  proposizione  empirica,  cioè  non  dimostrata,  ma  fon- li)  Per  la  qiiistione  cbe  cosa  bisogoi  intendere  per  la  parte dell'intelligibile  cbe  si  conosce  con  le  niateiuaticbe,  rimandiamo al  Suppl.  C.  Ent.  inat.,  nota  tiniile. —  165 1-1 I data  sull'induzione  o  l'analogia.  La  raziocinazione  equi- vale al  metodo  motematico,  l'intelligenza  o  Scienza  alla dialettica  (1).  Sorvoliamo  sulla  corrispondenza  che  Platone pretende  stabilire  fra  i  termini  delle  due  serie,  la  subbiet- tivae  l'obbiettiva -concetto  forzato  e  pieno  d'incoerenze, <5  in  cui  l'autore  stesso  non  ha  potuto  vedere  niente  di rigoroso  (2)— e  non  facciamo  attenzione  che  ad  un  punto, cioè  che  alla  dialettica  viene  attribuita  un'evidenza  su- periore a  quella  della  geometria  stessa.  L'evideuza  della geometria,  per  cui  essa  supera  le  altre  conoscenze  (che Platone  chiama  opinioni),  consistendo  nel  suo  carattere  di (1)  Questa  divisione  delle  forme  della  conoscenza,  o  della «redenza,  fu  ammassa,  in  sostanza,  da  Pbitone  sino  all'  ultimo atteggiamento  che  egli  diede  alle  sue  dottrine,  che  è  quello  che noi  conosciamo  per  l'esposizione  di  Aristotile.  Essa  coincide  infatti con  quella  del  De  anima  1.  1.  cap.  2.  7,  salvo  che  qui  la scienza,  ohe  nella  Repubblica  equivale  all'intelligenza,  occupa invece  il  seccmdo  grado,  corrispondendo  alla  (fidi^ota  della  Re- pubblica, e  j'opinicne  non  viene  suddivisa.  Invece  di  ciò  si  ag- giunge un'altra  forma,  cioè  la  sensazione,  che  nella  Repubblica manca,  perchè  la  divisione  non  vi  è  fatta  a  un  punto  di  vista psicologico,    ma  semplicemente  logico. (2)  Una  proposizione  generale,  anche  empirica  (e  chiamata per  conseguenza  da  Platone  un'  opinione),  dovrebbe  riferirsi  alla Idea,  perchè  il  concetto  generale  secondo  Platone  ha  per  oggetto l'Idea  (V.  Suppl.  B  in  fine  del  volume).  Tuttavia  la  sua  dot- trina costaate  è  che  tutte  le  proposizioni  empiriche,  anche  le generali,  non  hanno  per  oggetto  che  i  fenomeni,  il  sensibile  (vedi ^•wi.59c— d,  FiL  59  a  —  b,  ecc.)— L' applicazione  deWimma- ginazione  alle  immagini  non  ha  altra  base  che  la  relazione  fo- netica fra  le  due  parole  [sUaaia^  eUcoy)  Del  resto  un'  idea simile  si  trova  anche  in  Aristotile,  che  attribuisce  wlU fantasia le  apparenze  illusorie  degli  oggetti  (p.  e.  del  sole  come  pedale— De  Anima   1.   III.   III.  10). u I b -  166  — Bcieììza  a  priori  e  dimostraii  va,  la  dialettica  dunque  è  inù perfettauiente  a  priori  e  più  perfettamente  dimostrativa che  la  stessa  geometria. 2.0  La  dialettica  è    più    evidente  della  matematica, perchè  non  è,  come  questa,  fondata  sovra  ipotesi.  P  a- tone    chiama  ipotesi   una   proposizione  che  si  ammette senza   darne    la   dimostrazione    (benché    essa    non    sia assiomatica)  (1).  La  proposizione  più  certa,  se  non  è  dimo- strata (e,  ripetiamolo,  se  non  è  nemmeno  assiomatica),  non è  dunque  per  lui  i^\ieim^ ipotesi  -  non  dimentichiamo  che per  dimostrazione  bisogna  intendere  una  deduzione  pura, cioè  le  cui  premesse  ultime  non  sono  induttive  ed  empi- riche, ma  evidenti  per  se  stesse  -  Le  matematiche  sono fondate  sovra  ipotesi,  perchè  esse  non  dimostrano  resisten- za  dei  loro  oggetti  (cioè  dei  numeri,  delle  figure,  ecc.).  Pia- tone  crede  dunque  che  anche  le  matematiche  pure  siano scienze  esistenziali:  egli  non  ammetterebbe  la  tesi  che  io ho  cercato  di  stabilire  nel  saggio  1.  (e  specialmente   nel e  6.),  cioè  che  le  matematiche  si  distinguono  dalie  scienxe fisiche,  perchè  non  hanno  per  oggetto  che  dei  rapporti  di somiglianza,  e  non  affermano  niente  sulP  esistenza  delle cose.  Platone  pensa  invece,  comeDugald-Stewart  e  Stuart- MiU  (2),  che  le  matematiche  abbiano  fra  le  loro  premesse (1)  Noi  abbiamo  visto  ch«  anche  Hegel  ehiauia  ipotesi  ogni proposizione  non  dimostrata  (nel  luogo  citato  al  parag.  10.  -  una conoscenza  che  non  è  un  momento  di  un  tutto,  cioè  del  sistema, essendo  precisamente  per  Hegel  una  proposizione  "««/l»";*;^*^^^^ ta  — )E  lo  stesso  fa  in  altri  luoghi;  p.  e.  nella  Lo</.  §  LXXVUl. «  la  scienza  pone  in  principio  il  dubbio  universale,  cioè  rigetta ogn'  ipotesi,  e  non    ammette  se  non  ciò  che  è  dimostrato  ». (2)  V    Dugald-Stewart  meni,   della  fil.    dello   spirilo    umano t.  3.  e.  2.  .-.ez.  4.  I  e  Stuart-MiU  Logica  1.  1.  e  8,  1.  2  e  5,  ecc. Io  ho  parlato  di  questa  dottrina  nel  Saggio  1.  e  6.  §  10  e  e.  7.  J  5. —   167   — certe  proposizioni  affermanti  dei  fatti  fisici,  cioè  l'esistenza e  le  proprietà  di  certi  oggetti,  e,  come  questi  filosofi,  chiama queste  proposizioni  delle  /j>o/es/.  (1  )  In  quanto  alle  mate- matiche applicate,  non  vi  ha  alcuna  diflìcoltà  a  compren- dere perchè  Platone  dica  che  esse  si  fondano  su  ipotesi:  egli non  esprime  così  che  questo  fatto  evidente,  che  i  dati  ul- timi su  cui  (pieste  scienze  riposano,  sono  stati  trovati  per l'osservazione  e  non  per  il  ragionamento  a  priori. La  dimostrazione  dialettica  si  distingue  duiiqae  dalla dimostrazione  matematica  —  e  questa  è  la  differenza  che Platone  mette  più  in  vista— in  ciò  che  solo  la  prima  è  una vera  dimostrazione;  cioè  che  solo  essa  respinge  ogn'  ipo- tesi, ogni  dato  empirico  e  continf/ente,  e  non  ammette  che bielle  premesse  razionali  e  necessarie,  vale  a  dire  o  evidenti per  se  stesse  o  dedotte  da  altre  evidenti  per  se  stesse. /: (1)  Ma  in  un  altro  senso,  ('hiamaudole  ipotesi,  questi  tilosotì vogliono  dire  che  i  fatti  supposti  da  queste  proposizioni  sono, d'una  maniera  rigorosa,  fisicamente  irrealizzabili:  per  essi  queste proposizioni  nou  souo,  come  per  Platone,  precarie,  perchè  sem- pliceniente  empiriche,  ma  false.  Per  un  verso  anzi  la  loro  opi- ni(me  è  diametralmente  opposta  a  quella  di  Platone  :  per  loro l'evidenza  speciale  delle  matematiche  è  dovuta  alla  loro  ipo- teticità;  per  questi,  esse  non  sono  abbastanza  evidenti  perchè ipotetiche.  Per  Platoue  il  carattere  ipotetico  delle  matematiche ntui  è  che  provvisorio:  esso  appartiene  loro  necessariamente  in quanto  scienze  limitate;  ma  la  loro  «lestiuazione  è  di  venire  in- corporate nel  sistema  universale  delle  conoscenze,  costruito  dalla dialettica  (V.  FU,  57  e  -  58  a,  L\itid.  290  o,  ii>ÌHom.  991  e  — 992  a,  luoghi  citrati),  e  allora  le  loro  ipotesi  cesseranno  di  esse tali,  perchè  verranno  ricondotte  al  principio  (Rep.  533  e,  luogo citato)  E  in  eft'etto  queste  ipotesi  nou  suppongono,  al  fondo,  che l'esistenza  di  certe  Idee  —  perchè  esse  non  souo  delle  proposi- zioni particolari  ma  universali  —  e  la  dialettica,  come  vedremo più  chiaramente  in  seguito,  deve  dimostrare  l'esistenza  di  tutte le  Idee. —  168  — Tuttavia  anche  la  dialettica,  in  un  senso,  parte  da  ipotesi. Noi  sappiamo  che  la  tilosotìa  aprioiista  non  pretende  far senza  dell'esperienza,  ma  trasformare  il  sapere  empirico  in razionale,  rivestendone  il  contennto  della  forma  della  ne- cessità e  dell'a  priori.  Il  punto  di  partenza  del  dialetticè  dunque  necessariamente  l'esperienza,  per  conseguenza  le ipotesi-,  ma  queste  ipotesi  egli  si  affretta  a  dedurle  da  altre ipotesi  superiori,  e  queste  da  altre  ancora,  e  così  di  se- guito, sinché  arrivi  a  delle  premesse  che  non  siano  più delle  ipotesi,  cioè,  come  abbiamo  detto,  a  delle  premesse razionali  e  necessarie.  Allora  la  scienza  si  è  fatta;  la  co- noscenza empirica  si  è  trasformata  in  conoscenza  a  priori: e  il  dialettico  può  rifare  il  suo  cammino  in  senso  inverso, ritrovando  sui  suoi  passi  le  sue  ipotesi  precedenti,  nìa  di- venute delle  verità  dimostrate,  e  salite  a  quel  grado  su- premo di  certezza  che  è  il  privilegio  delle  projmsizioni  ne- cessarie. Vi  hanno  così  nel  metodo  dialettico  due  procedi- menti, di  cui  la  via  è  una,  ma  di  direzioni  opposte:  l'uno risale  dalle  ipotesi  a  ciò  che  le  giustifica,  cioè  dalle  con- seguenze ai  principii,  sino  al  principio  primo  —  è  il   pro- cesso   della    scienza   che    si  fa,  e  corrisponde  a  ciò  che Schelling  chiama  la  filosofia  regressiva  —  l'altro  discende dal  principio  primo  alle  conseguenze  -  è  quello  della  scienza già  fatta,  e  corrisponde  alla  filosofia  progressiva  di  Schel- ling. —  Il  primo  di  questi  processi  è  descritto  a  510  B  e a  533  C,  e  l'uno  e  l'altro  a  511  B-C.  (1) (1)  A  questi  due  processi  si  riferiscono  pure  i  due  luocrhi  del Fedone  citati  nel  $  9.,  il  primo  (100  a)  al  discensivo,  e  V  altro (101  de)  aU'asoensivo.  Però  in  quello  il  processo  discensivo  non è  descritto  nella  sua  totalità;  Platone  dice  «  e  supponendo  sem- pre il  principio  che  mi  semlu'a  più  valido  »  ecc.;  la  parola  sup- ponendo (tnotìtutyo^)^  indica  che  il  principio  di  cui  qui  si  tratta non  è  il  principio  primo.  àyvnóOeiog^  della  Repubblica.  Il  metodo -   166   - 3.<*  Quantun(|ue  le  proposizioni  del  matematico  si  rife- riscano, in  definitiva,  alle  Idee,  pure  i  suoi  ragionamenti non  volgono,  inimediatamente,  che  sulle  cose  (cioè  sopra oggetti  particolari  e  sensibili),  che  sono  come  delle  imma- gini per  cui  le  Idee  vengono  rappresentate.  La  dialettica, al  contrario,  n  »n  volge,  anche  immediatamente,  che  sulle Idee  stesse,  e  in  tutto  lo  svolgimento  della  sua  dimostra- zione non  entra  assolutamente  alcun.a  rapx>resentazione sensibile.  Con  questa  distinzione  fra  il  metodo  matematico e  il  dialettico,  Platone  esprime  due  circostanze  impor- tanti in  cui  l'uno  differisce  dall'altro.  Primo:  secondo  il presupposto  platonico  che  la  conoscenza  generale  si  rife- risce all'Idea,  le  proposizioni  matematiche  devono  appli- carsi alle  Idee  (al  triangolo  in  sé,  al  circolo  in  sé,  alla  de- cade in  sé,  ecc.);  ma  ciò  non  distrugge  questo  fatto  d'e- sperienza, che  esse  possono  anche  intendersi,  ed  è  così  che sono  generalmente  intese,  come  enuncianti  dei  rapporti tra  cose  fenomenali.  Invece,  le  proposizioni  della  dialet- tica non  possono  affatto  interpretarsi  come  enuncianti delle  relazioni  tra  fenomeni:  ciò  è  perchè  (come  chiari- remo nel  numero  seguente)  l'oggetto  della  dialettica  non sono  che  dei  rapporti  logici  tra  le  Idee,  a  cui  non  cor- risponde alcuna  relazione  simile  tra  i  fenomeni.  Secondo: la  dimostrazione  geometrica  comprende  due  momenti  ; nel  primo,  che  è  la  dimostrazione  propriamente   detta, infatti  di  cui  qui  si  tratta  non  è  nn  desideralum,  c<mie  nella  Re- pubblica, ma  è  il  metodo  stesso  che  l'autore  ha  effettivamente seguito.  Ora  Platone  non  ha  preteso,  come  Hegel,  di  dare  il sistema  universale  e  comjileto  della  scienza:  il  suo  metodo  egli non  l'applica  che  d'una  maniera  frammentaria  e  in  ricerche  par- ticolari; e  nel  suoi  saggi  dialettici,  come  vedremo  in  seguito,  i suoi  punti  di  partenza  sono  dei  pri:«cipii  derivati,  che  egli  non deduce,  per  conseguenza,  delle  ipotesi. -  170 la  proposizione  iiou  si  dimostra  eia»  della  tigura  indivi- duale che  si  ha  d'innanzi  agli  occhi;  l'altro  èia  genera- lizzazione, l'applicazione  della  stessa  eonclusioue  ad  ogni altra  figura  che  può  essere  enunciata  negli  stessi  termini. Questo  processo  di  generalizzazione  non  è  una  vera  in- duzione, perchè  se  noi  applichiamo  la  conclusione  par- ticolare a  tutte  le  altre  figure,  è  semplicemente  perchè sappiamo  che  Io  stesso  potrebbe  dimostrarsi  di  qualun- que di  queste  altre.  Nondimeno,  come  osserva  il  Bain  (1), questo  ricorso  continuo  a  figure  particolari  dà  ad  una scienza  puramente  deduttiva,  qual  è  la  geometria,  l'ap- parenza di  una  scienza  induttiva  e  sperimentale  (2). Ma  Platone  respinge  dal  metodo  dialettico  questa  stessa apparenza  di  un  metodo  induttivo  e  sperimentale:  il  dia- lettico non  deve  «  far  uso  assolutamente  di  alcun  sen- sibile »  (3),  ma.  come  abbiano  visto,  «  senza  l'aiuto  de- gli occhi  uè  degli  altri  sensi,  elevarsi  alla  conoscenza  del- l'essere per  la  sola  forza  della  ragione  e  della  verità.  »  (4). Qui  cade  a  proposito  di  notare  il  legame  intimo  che vi  ha,  nel  pensiero  di  Platone,  tra  le  sue  dottrine  logi- che e  gnoseologiche  e  la  teoria  delle  Idee.  La  dialet- tica, e  la  scienza,  che,  nel  senso  rigoroso,  è  un  suo  si- nonimo, secondo  Platone,  non  hanno  per  oggetto  che  le (1)  Logica.  Logica  delle  matematiche,  Geometria. (2)  All'epoca  di  Platone  si  ricorreva  alle  figure  anche  uell'a- ritim'tica.  «  Lungo  tempo  ancora  dopo  Platone,  i  Greci  impiaga- vano, per  le  dimostrazioni  teoriche,  delle  linee  e  delle  serie  di punti  destinate  a  figurare  ai  lore  occhi  i  numeri  su  cui  ragiona- vano »  (Tannory  IMucazione  plutonica,  nella  Rev.  Philos.  dicem- bre 1881). (3)  Bep.  òli   C. (4)  Eep.  532  a-b  e  537  d.  1.  e.  al  $  8. —  171   - Idee  (1).  Ne  segue  che  tutto  ciò  che  Platone  dice  sull'a- priorità della  scienza  e  il  suo  metodo  deduttivo,  noi  dob- biamo applicarlo  anzitutto  alla  scienza  delle  Idee  —  ed è  ad  essa,  d'altronde,  che  si  applicano,  anche  immedia- tamente, la  più  parte  delle  proposizioni,  relative  a  questi due  oggetti,  che  noi  abbiamo  citate  ?iei  paragrafi  prece- denti. —  La  verità  di  questa  osservazione  è  anche  pro- vata dall'ipotesi  metafisica  che  Platone  pone  per  base  al suo  apriorismo,  e  dall'interpretazione  ch'egli  dà,  confor- memenie  a  quest'  ipotesi,  del  processo  deduttivo.  Io  in- tendo parlare  della  dottrina  della  reminiscenza:  questa dottrina  consistendo  essenzialmente  nella  supposizione che  l'anima  ha  intuito  le  Idee  in  una  vita  anteriore, non  spiega, almeno  direttamente,  che  l'apriorità  e  il  pro- cesso deduttivo  della  scienza  delle  Idee,  vale  a  dire  della dialettica  (2). 4.®  Le  verità  che  il  dialettico  deduce  le  une  dalle altre,  non  sono,  a  parlar  propriamente,  delle  proposizioni, ma  dei  concetti  —  dei  concerti  4)bbiettivati,  cioè  delle I,iee  —  È  ciò  che  risulta  da  510  B  e  ^ovratutto  da  511 B-C.  Si  noti  l'espressione  2)r///c/j>/o  del  tutto  [rov  nat^iòz)^ cioè  dell'universo,  designante  la  verità  primitiva  da  cui tutte  le  altre  si  deducono:  questo  principio  del  tutto,  e^ videntemente,  non  ha  un'esistenza  puramente  mentale, ma  obbiettiva;  non  è  una  semplice  proposizione,  ma  un essere  reale.  Lo  stesso  risulta  dal  Fedone  99  d  — 100  a e  101  d-e,  il  principio  di  cui  si  parla  nel  primo  di  questi luoghi  essendo   un'  Idea  come  le  ipotesi  di  cui   si  parla (1)  V.  oltre  i  due  luoghi  di  cui  ci  occupiamo  attualmente, TiiH,  28  a  e  51  d,  Parm.  135  b-c,  FiL  58  a  —  59  d  e  61  d-e, Rep.  476  e  —  480  a,  ecc. (2)  V.  il  num.  seg. —  172  - nel  8ecoudo  (1).  Perciò  la  stessa  progressione  dialettica, €he  Platone  descrive  come  un'  ascensione  graduale  da un'  ipotesi  a  un'  altra  ipotesi  superiore  —  cioè  da  una conseguenza  a  un'altra  conseguenza  meno  remota  — sino al  principio  primo  che  le  giustifica  tutte,  è  pure  da  lui descritta  come  un'ascensione  graduale  dalla  contempla- li) Ecco  iuteirraluiente  il  primo  luo^o  (cìi  cui  uel  }  9'>  nota  prima è  «tata  citata  ima  parte;:  «  Credetti,  dopo  essermi  stancato  nella considerazione  delle  cose,  che  io  dovessi  guardarmi  che  mi  ac- cadesse come  a  quelli  che  guardano  un'ecclissi  di  sole:  alcuni in  fatti  perdono  la  vista,  se  non  guardano  V  immagine  di  que- st'astro nell'acqua  o  in  un  altro  ambiente  somigliante.  Mi  venne in  pensiero  qualche  cosa  di  simile,  e  temetti  di  perdere  la  vista dell'anima,  se  io  guardassi  le  cose  con  gli  occhi  o  cercassi  di  co- noscerle con  un  altro  senso  qualunque.  Credetti  dunque  di  dover ricorrere  alle  ragioni  (kóyovg^  che  potremmo  anche  tradurre concetti),  e  guardare  in  esse  la  veritìi  delle  cose.  Ma  forse  que- sta similitudine  non -è  interamente  giusta,  perchè  io  non  accor- derei che  colui  che  guarda  le  cose  nelle  ragioni  guardi  nelle immagini  piuttosto  che  colui  che  le  guarda  nei  fatti.  Ma  è  questa la  via  per  cui  mi  misi,  e  supponendo  sempre  la  ragione  UdyoA che  mi  sembra  più  valida,  tutto  ciò  che  si  accorda  con  essa, pongo  come  vero  —  e  così  fo,  sia  che  si  tratti  di  cause,  sia  di qualsiasi  altro  oggetto  —  ciò  che  non  si  accorda,  rigetto  come falso.  » Qui  la  parola  Aó/og  significa  al  tempo  stesso  concetto  e  ra- gione, e  si  applica  alle  Idee  nell'uno  e  nell'altro  senso:  l'Idea infatti  non  è  solamente  un  concetto  realizzato,  ma  è  anche  un perche;  le  cose  avendo  il  loro  perchè  nelle  idee,  e  le  Idee  stesse in  altre  Idee  piit  elevate  nella  scala  dialettica.  (Anche  Aristotile chiama  Informa  Uyo^,  lua  questo  termine,  in  quest'applicazione, non  può  significare,  per  lui.  che  concetto).  Al  J  9,  invece  di  ra- gione,  ho  tradotto,  per  più  chiarezza,  ptnncipio. Per  il  Fedone  101  d-e  v.  {  9.  no^a  2. —  173  — zione  d'un'Idea  a  quella  di  un'altra  sino  all'Idea  ultima da  cui  tutto  si  deduce  (1).  Perciò  ancora  la  dialettica ora  è  rappresentata  come  un  metodo  deduttivo  puro  che deve  costituire  la  scienza  universale,  e  ora  come  la  ri- cerca dei  concetti,  o  delle  essenze,  di  tutte  le  cose  ^2); e  in  effetto,  percorrendo  tutta  la  s.u'ie  dei  principi i  e delle  conseguenze,  qualunque  sia  il  termine  della  serie a  cui  si  fermi,  e  la  direzioni';  ascensiva  o  discensiva  ^  in cui  la  percorra,  il  dialettico  non  trova  altra  cosa  che dei  concetti  obbietti  vati.  La  deduzione  dialettica  va  dun- que dalla  posizione  di  un'Idea  alla  posizione  di  un'altra o  di  altre  Idee,  aventi  con  quella  un  legame  logico  ne- cessario: questo  legame  logico  unisce,  se  si  vuole,  delle proposizioni,  ma  purché  s'intenda  che  ciascuna  di  queste proposizioni  non  pone  che  1'  esistenza  di  qualche  Idea» È  come  nei  sistemi  di  Hegel,  di  Schelling,  di  Spinoza,  di Taine,  e  in  una  parola  di  tutti  gli  altri  che,  come  quello di  Platone,  aggiungono  al  metodo  a  priori  la  realizza- zione dei  concetti:  in  tutti  questi  sistemi,  come  in  quello di  Platone,  la  deduzione  non  volge  propriamente  su delle  proposizioni,  ma  su  dei  concetti  realizzati. Si  vede  pure  dagli  stessi  luoghi  510  b  e  511  b-c  che la  deduzione  dialettica  va  da  Idee  a  Idee  per  via  di  Idee: in  altri  termini  tutti  gli  anelli  della  catena  deduttiva sono  delle  Idee,  e  il  passaggio  dall'Idea  precedente  alla Idea  conseguente  (dalhi  premessa  alla  conseguenza)  è  una deduzione  immediata.  Il  yovg  (che  corrisponde  alla  dia- lettica)   si    distingue   dunque    dalla   (hàt^oia   (deduzione (1)  V.  $  seg. (2)  V.  Bep.  533  b  (il  principio  del  secondo  tratto  riportato), 534  bc,  532  a-b,  490  b,  485  b,  Fed.  65  e  — 60  a,  ecc.;  e  confronta ciò  che  diremo  nei  $  17-19  sulla  definizione  e  il  suo  rapporto  con la  dieresi. -  174  - ordiDaria    o  metodo  luateniatieo)  per  quest'  altro  carat- tere, cioè  die  il  primo  è  iu  certo  modo  intuitivo,  tauto percbè  conosce  immediatamente  i  rapporti  logici  tra  le verità,  quanto  perchè,  queste  verità  essendo  degli  oggetti reali,  il  pensiero  si  limita,  nel  processo  conoscitivo,  a  ri- produrre le  cose  stesse,  col  loro  ordine  e  la  loro  connes- sione (1).  La  seconda  al  contrario  è  </mpr«/ra,  perchè  le sue  verità,  cioè  i  rapporti  tra  le  cose  che  costituiscono il  contenuto  delle  sue  proposizioni,  non  le  conosce  im- mediatamente,  e  il  pas-^aggio    stesso  da  una   verità  ad un'altra  non  si  fa  che  per  rintermediario  di  una  dimo- strazione. Questa   differenza    tra  le  due    forme  di  cono- scenza è  indicata  dalla  stessa  relazione  dei  termini  che le  denotano:  dtàyoux   in  contrapposto  a  yovz  ci  dice  ab- bastanza che  vi  ha  nelF  una    una    mediatezza    che  non «siste  nell'altro.  Anche  Aristotile,  il  cui  linguaggio  filo- sofico   deriva,  per  tanti    rispetti,  da  quello  di  Platone, chiama  yov^  la  conoscenza  dei    priucipii,   che  è  imme- diata, e  la  semplice  apprensicme    dei  concetti,  ciò  clie <!orrisponde  pure  peifettamente  al  significato  platoiìico, l'intelligen/.a  o  dialettica  ]datonica  non    eseicndo  che  la semplice  apprensione    dei  concetti    obbiettivati  —  come abbiamo  detto,  nell'  ordine  e  la  connessione  stessa  che esistono  fra  di  essi  (2).— Il  dialettico  va  dunque  da  una Idea  ad  un'altra  senza  bisogno  di  una  dimostrazione  pro- li) Ordo  et  canne vio    idearum    idem    est    ne  ardo    et  connexio rermn. (*J)  Questa  iiumediatezza  o  iutuitività  del  yov^  platonico  è  stata notata  auche  da  Leibuitz.  «  Non  male  platonieis  quatuor  in  niente coguitiones  agnoseimtui',  Sensus,  Opinio,  Scientia,  Intellectns; nempe  Experimenta,  Coniecturae,  Denioustratio  et  pura  Intellec- tio,  quae  oeritntis  nextiin  tino  vienlis  ictn  pereipit  t>  Epist.  ad ffanschiiim.   De  phil.  platon.   HI, -    175  — priamente  detta  —  le  Idee  si  dimostrano  per  la  h)ro  sem- plice successione  -  :  egli  non  impiega  assiomi,  non  in- terpone, fra  le  verità  ch'egli  dimostra,  delle  proposizioni introdotte  in  grazia  della  dimostrazione  stessa,  ma  pro- gredisce continuamente  da  un  essere  reale  a  un  altro  es- sere reale,  senza  interrompere  mai  questo  progresso  del pensiero,  mescolando,  come  dice  Spinoza,  ciò  che  è  sol- tanto nell'intelligenza  con  ciò  che  e  nella  realtà  (1).  Il dialettico,  in  una  parola,  non  ragiona,  ma  vedere  in  ef- fetto la  conoscenza  dialettica,  se  non  è  nel  senso  proprio xxw'' intuizione  intellettuale— perchè  questo  termine  esprime la  presenza  immediata  dell'essere  al  pensiero,  che  Platone non  ammette  —,è  la  riproduzione  o  il  risveglio  di  un'/w- tuisione  intellettnale  ;  noi  sjippiamo  infatti  che  1'  anima ha  intuito  11  Idee  in  una  vita  anteriore,  e  che  la  scienza attuale  è  una  reminiscenza  (2).  Anche  questa  intuitività (1)  Confronta   Spinoza    De   iniellcctus    emendalione  XII.  Ii3  e XIV.  uy. (2)  La  spiegazione  della  scienza  per  la  reminiscenza  di  un'in- tuizione anteriore  delle  Id  e  prova  al  tempo  stesso  l'uno  e  l'al- tro dei  due  punti  che  abbiamo  stabilito  in  questo  numero;  cioè che  nella  dimostrazione  dialettica  le  verità  che  si  deduc<Mio e  quelle  da  cui  si  deducono  sono  delle  Idee,  e  che  il  pas- saggio da  un'  Idea  ad  un'  altra  è  una  deduzione  immedia- ta. Infatti  il  carattere  essenziale  della  scienza  essendo  l' iu- catcnamento  logico,  cioè  deduttivo,  delle  verità,  segue  da questa  spiejjazione  che  l'  anima  ha  auche  intuito  quest'  inca- teuamento  logico  —  e  Platone  ammette  esplicitamente  questa conseguenza  quando  identifica  la  reminiscenza  e  la  deduzione (v.  Meno  08  a,  l.  e.)— Ma  l'anima  non  ha  intuito  dello  proposi- zioni ideile  verità  puramente  astratte),  ma  degli  esseri  reali  (cioè delle  astrazicmi,  ma  realizzate);  dunque  quest'inoateuìimente  lo- gico essa  non  ha  potuto  intuirlo  che  tra  esseri  reali,  e  non  tra proposizioni.  Di  più,  se  quest' incateuameuto  logico  ha  potuto  es- sere oggetto  d'intuizione,  tra  le  Idee  logicamente    incatenate  la —  176  — o  immediatezza  della  deduzione  è  una  nota  comune  di questa  varietà  della  filosofia  apriorista  caratterizzata  dalla realizzazione  dei  concetti.  Nel  capitolo  precedente  noi abbiamo  parlato  della  classazione  di  Spinoza  delle  forme della  conoscenza;  abbiamo  visto  che  la  forma  più  alta è  la  conoscenza  intuitiva,  che  deduce,  per  una  dedu- zione immediata,  gli  effetti  dalle  cause,  a  partire  dalla causa  prima,  che  non  deduce,  ma  apprende  imme- diatamente ;  e  abbiamo  notato  che  queste  cause  e questi  effetti  sono  delle  astrazioni  realizzate,  come  le  I- connessione  deve  essere  innnediata,  deve  vedersi,  per  dir  così, a  colpo  d'occhio;  in  altri  termini  il  passaggio  logict)  da  un'Idea ad  un'  altra  deve  essere  una  deduzione  immediata.  Se  per  fare questa  deduzione  fosse  necessario  V  intervento  di  altri  principii o  concetti  intermediarii  (che  non  fossero  delle  Idee),  siccome questi  non  hanno  potuto  essere  intuiti  (perchè  il  solo  oggetto dell'intuizione  è  stato  il  reale,  cioè  le  Idee),  nemmeno  rincatena- mento  o  connessione  logica  fra  le  Idee  avrebbe  ])otuto  essere  in- tuita. Noi  potremmo  aggiunijere  che  questa  immediatezza  risulta anche  per  un  altro  verso  dall'assimilazione  deUa  deduzione  alla reminiscenza  :  quest'  assimilazione  suppone  ohe  la  conseguenza segue  il  principio  come  un  ricordo  segue  un  altro  ricordo;  dun- que nel  primo  caso,  come  nel  secondo,  la  sequenza  avviene  im- mediatamente, e  non  per  l'intermediario  di  un  ragionamento. Noi  osserveremo,  del  resto,  che  le  due  proposizioni  stabilite in  questo  numero,  cioè  che  la  dimostrazione  dialettica  non  consiste .die  a  dedurre  delle  Idee  da  altro  Idee,  e  ohe  questa  deduzione è  immediata,  non  ne  fanno  in  realtà  che  una  sola:  è  che  le  pre- messe e  le  conseguenze,  in  questa  dimostrazione,  non  sono  ohe delle  Idee,  o,  per  parlare  più  generalmente,  dei  concetti  realiz- zati; proposizione  che  non  è  altro  che  quella  di  Spinoza  «  che l'ordine  e  la  connessione  dei  pensieri  sono  identicici  all'  ordine e  alla  connessione  delle  cose.  » 177 dee  platoniche  (1).  In  Megel,  il  pas.sjijL'-io  da  anidra  ad un'altra  è  accompagnato  da  una  di ìn(»sl razione;  ma  v  e- vidente,  con  tutto  ciò, che  per  lui  niridea  è  sufficiente- mente dimostrata  dalla  sua  posizione  stessr,  al  posto  e al  momento  che  le  compete  neirevojiizionc  dell'Idea  as- soluta (2).  È  una  conseguenza  della  dottrina  dvW  unità dello  sviluppo  logico  e  <lello  sviluppo  ontologico,  e  di quella  dell'identità  dell'essere  e  del  j)ensiero.  Lo  stesso deve  dirsi  di  Schelling  (che  anch'  egli  anjuìette,  in  so- stanza, questi  due  principii  di  Hegel)  La  filosofia  è  jmt lui  ww'' intuizione  Intellettuale',  la  vera  dimostrazione  èia costruzione',  e  costruire  una  cosa  è  mostrarla  nelT  asso- luto, indicare  il  grado  o  il  momento  del  suo  sviluppo  a cui  essa  corrisponde  (3).  Ciò  che  abbiamo  detto  in  (pu\sto nuinen»  sarà  confermato  nel  seguiti»,  esponenth»  altri punti  della  dottrina  platonica. 5  ''  Le  Idee  non  si  deducono  tutte  immediatamente  dal primo  principi*»,  nui  la  deduzicme  è  graduale:  dall'  Idea [primitiva  altre  Itlee,  da  queste  altre  ancoia,  e  così  di  se- guito (4\  Insieme  a  questo  carattere  <lel  meto<lo  dialet- tico, cioè  la  moltiplicità  dei  gradi  o  dei  passaggi  della iiedu/ione,  noi  dobbiamo  indicarne  un  altro:  è  1'  ordine (ì)  La  classazione  delle  forme  della  conoscenza  di  Spinoza  è dunque  identica,  in  sostanza,  a  quella  di  Piatene;  esse  non  ditfe- riscono  clic  in  uu  punto  secondario,  cioè  la  suddivisione  dell'o/zf- nione, (2)  11  metodo  hetreliauo,  dice  il  Vera,  «  pone  i  termini  dimo- «traudoli,  e  li  dimostra  ponendoli  »  Introd,  alla  Logica  di  Hegtì pag.  128. ^3)  V.  Willm  Storpia  (iella  filos.  a  lem,  da  Kant  uino  ad  Hegel f,  3.  p.  367-369. (A)  \\  611  U-c, 12 —  17S  — regoliui'  con  cui  si  seguoin»  ì  concetti  (1).  Che  bisogna intendere  per  quest'ordine  ?  f]  nna  disposizione  simme- trica delle  ld<*e,  una  legge  generale  della  loio  successio- ne, come  la  tricotomia  hegeliana  (tesi,  antitesi  e  sintesi)? Noi  ci  limitiamo  per  ora  a  congetturarlo.  FI  seguito  mo- strerà che  questa  congettura  è  fondata,  e  che  il  plato- nismo si  contorma  [)ienamente  a  (pu\st 'altra  esigenza  del rcalisììio  dialettico,  che  è  la  sistematUità  che  potremmo chiamare  obbiettiva,  cioè  V  unità  nella  moltiplicità  dei passaggi  logici,  un  ritmo,  una  legge  comune  che  li  re- gola, e  che  è  comerimmagine,  nelle  successioni  del  mondo delle  Idee,  <li  <]uest'ordinft  e  t|uesta  regolarità  che  osser- viamo nelle  successioni  del   mondo  dei  fen<mieni. 6."  Notiamo  a  parte,  intine,  un  altro  carattere  generale del  realismo  (halettivo,  v]w  non  è,  come  vedremo  a  suo luogo,  che  lina  conseguenza  della  sifiteìnattcità^  cioè  l'u- nità di  principio.  Le  Idee  si  deducono  tutte,  immediata- mente o  mediatamente,  da  un  principio  unico,  che  è  an- ch'esso, naturalmente,  un'Idea.  (2).  Noi  abbiamo  già  in- contrato questa  proposizione  in  un  luogo  citato  del  Me- none  (3),  in  cui  si  dice  che,  in  virtù  del  legame  di  tutte le  cose  e  della  reminiscenza,  noi  [)ossiamo,  ricordata  una cosa  sola,  ritrovale  da  noi  stessi  tutte  le  altre.  Siccome questa  reminiscenza  è  la  deduzione,  e  le  cose  dedotte  e ipiella  da  cni  si  deducono  non  sono,  ))er  conseguenza, che  delle  Idee  —  perchè,  come  abbiamo  notati)  al  numero 4**,  questa  è  la  sola  deduzione  che  la  reminiscenza  possa spiegare  —,  la  proposizione  del  Menone  ha  (piesto  signi- ficato, che  data  hìì'  Idea,  noi  possiamo  da  essa  dedurre tutte  le  altre.  È  una  esigenza   evidente  dei    presupposti (1)  V.  533  b. (2)  V.  510  b,  511  b  e  533  e. (3)  81  d. —  179  — logici  e  gnoseologici  di  Platone  che  quest'Idea  primitiva ii;ia  stabilita  a  priori:  senza  di  ciò  la  conoscenza  non  sa- rebbe a  priori,  (piesf  Idea  sarebbe  uuUpotcsi^  e  la  dedu- zione dialettica  non  sarebbe  una  dimostrazione. §  18  1/  idea  primitiva  da  cui  tutte  le  altre  si  dedu- cono, è  l'Idea  del  Bene  (o  del  Buono,  zov  àyaHov) —  questa Idea  è  naturalmente,  come  tutte  le  altre,  l'attributo  o- monimo  delle  cose  realizzato,  cioè  considerato  come  e- sìsteute  per  sé  stesso  e  come  uno  e  lo  stesso,  letteral- mente, in  tutti  gli  oggetti  a  cui  si  attribuisce — .  Ecco  ciò che  lo  prova:  1."  Tutto  ciò  che  è  intelligibile  lo  è  per l'Idea  del  Bene  (1).  L'intelligenza  è  come  la  visione.  Se alla  vista  e  al  visibile  non  si  aggiungesse  la  luce,  né la  vista  vedrebbe,  né  il  visibile  sarebbe  veduto  ;  e  fra tutti  gli  astri  non  vi  ha  che  il  sole,  la  cui  luce  faccia vedere  chiaramente  gli  oggetti.  Ora  ciò  che  il  sole  è  nel mondo  visibile,  rapporto  alla  vista  e  agli  oggetti  visi- bili, l'Idea  del  Bene  è  nel  mondo  intelligibile,  rapporto all'  intelligenza  e  agli  oggetti  intelligibili.  L'Idea  del Bene  è  ciò  che  dà  la  luce  a  tutte  cose;  è  per  quest'  I- dea  che  gli  oggetti  conoscibili  sono  conosciuti  ;  essa  è la  causa  della  scienza  e  della  verità  come  conosciuta dalla  ragione,  fornendo  la  verità  agli  oggetti  conosciuti e  dando  al  conoscente  la  potenza  di  conoscere  (2).  A  518 e,  evidentemente  continuando  la  similitudine  col  sole, l'Idea  del  Bene  è  chiamata  «  il  più  chiaro  dell'essere  » Il  significato  di  «pieste  proposizioni  è  sidegato  suftì- cientemente  da  ciò  che  segue  il  primo  dei  luoghi  citati  (3). Vi  ha  un  principio    primo    del    conoscere  da  cui  deriva (1)  Kep.  \ì  e  VII. (2)  V.  507  V  —  50i»  b  e  540  a.  Ccmfr.  517  e,  luogo  che  riporte remo  nel  uiim.  seg. (3)  V.  il  $  pree. 180  — ogDÌ  verità;  avere  V  intetligensa  o,  ciò  che  è  lo  stesso, la  scienza^  d'uuacosa,  è  poterla  dimostrare^  e  dimostrarla è  dedurla  da  questo  principio  primo;  esso  è  evidente  im- mediatamente, le  altre  verità  non  sono  evidenti  che  per esso.  Questo  principio  primo  del  conoscere,  evidente  im- mediatamente, e  per  cui  tutte  le  altre  verità  sono  evi- denti, è  l'Idea  del  Bene. 2.»  Il  principio  del  tutto  di  cui  nei  luoghi  del  pre- cedente paragrafo,  è  la  stessa  cosa  che  l'Idea  del  Bene, e  1'  ascensione  graduale  da  ipotesi  in  ipotesi  sino  al principio  del  tutto,  è  un'  ascensione  graduale  da  Idea in  Idea  sino  all'  Idea  del  Bene  (I).  11  VII  libro  della Repubblica  comincia  con  un'allegoria,  con  cui  Platone rappresenta  il  progresso  dello  spirito  nella  conoscenza. Egli  immagina  dei  prigionieri  rincliiusi  sin  da  bambini in  un  antro  sotterraneo,  con  la  faccia  sempre  rivolta a  una  stessa  parte,  e  senz'  altra  luce  che  quella  che viene  da  un  fuoco  acceso  a  una  certa  distanza,  in alto,  dietro  di  loro.  Di  loro  stessi  e  degli  oggetti  che passano  al  di  fuori,  questi  prigionieri  non  vedranno  altra cosa  che  le  ombre  che  si  disegnano  nel  lato  della  ca- verna esposto  ai  loro  sguardi;  gli  oggetti  reali,  per  loro, Baranno  «lueste  ombre;  e  tutta  la  loro  scienza  si  ridurrà a  discernere  acutamente  le  ombre  che  passano,  e  a  ri- cordarsi l'ordine  con  cui  sogliono  passare,  le  loro  se- quenze abituali,  le  loro  concomitanze.  Che  si  sciolga  qual- cuno di  questi  i)rigionieri,  e  si  faccia  ascendere  nella  re- gione superiore  I  egli  dovrà  abituarsi  gradualmente  alla vista  degli  oggetti  reali,  per  non  restare  abbìigliato  dalla soverchia  luce.  E  prima  discernerà  facilmente  le  ombre e  le  immagini  nelle  acque  degli  mmiini  e  degli  altri  es- (1)  liejj.  VI  6  VII. -181  seri  ;  f)oi  questi  esseri  stessi  ;  in  seguito  di  notte   potrà guardare  le  stelle  e  la  luna;  ed  è  intìne  che  potrà  con- temi)laie  il  sole  stesso,  e  vederlo  quale  è.  Dopo  ciò,  ra- gionando intorno  a  quest'  astro,  concluderà  che  è  esso che  produce  le  stagioni  e  gli  anni,  che    tutto    governa nel  mondo  visibile,  e  che  è  la  causa  in  certo  modo  delle cose  stesse  ch'egli  vedeva  nella  caverna  (1).  Il  senso  di quest'allegoria  ci  è  spiegato  dall'autore  stesso.  Il  prigio- niero  nella    caverna  è  lo  spirito    circoscritto    tra  i  dati dell'intuizitme  sensibile  (2);  la  liberazione,  la  conversione verso  1'  intelligibile  (n€()fay(oyrj)  per  lo  studio  delle  mate- matiche (3);  le  ouibre  e  le  immagini  nelle  ac<iue,  gl'in- telligibili matematici  (4);  la  vista  graduale  degli  oggetti reali,  prima  degli  animali,  poi  delle  stelle  e  della   luna, e  intìne  del  sole,  è  la  progressione  dialettica  da  Idea  in Idea  sino  all'  Idea  del  Bene  (5).  «  Ultima  iielF  intelligi- bile è  l'Idea  del  Bene,  e  appena  può  vedersi,  ma  vedu- tala, si  conclude  che  essa  è  la  causa  di  tutto  ciò  che  è retto  e  bello,  che  nel  visibile  genera  la  luce  e  il  sovrano della  luce  (cioè  il  sole),  e  neirintelligibilc,  essa  sovrana, fornisce    la   verità    e  l' intelligenza  »  (6).  Piima    ha    già detto  che  come  il  sole  dà  agli  oggetti  visibili,  non  solo la  visibilità,  ma  anche  la    produzione  e  il  nutrimento, così  l'Idea  del  Bene  dà  agli  oggetti  intelligibili,  non  solo riutellibibilità,  ma  anche  tessere  e  l'essenza  (7). 3.«  L'Idea  del  Bene  è  il  principio  delhi  spiegazione  uni- (1)  r»ll  a    -  TìK»  versale  delle  cose  (l).  ADassfigora  lia  compreso  che  l'in- telligenza è  la  causa  di  tutte  cose  -  dottrina  conforme a  quella  dell'  autore  sull'  anima  del  mondo  —,  ma  egli non  ha  visto  la  conseguenza  del  suo  principio,  cioè  che essa  ha  dovuto  tutto  disporre  nel  miglior  modo  possi- bile, e  quindi,  se  alcuno  vuol  trovare  la  causa  dell'esi- stere di  ciascuna  cosa,  o  del  suo  nascere  o  perire  o  u- n'altra  modificazione  qualsiasi,  bisogna  ch'egli  trovi  come l'ottimo  per  ciascuna  cosa  sia  di  esistere  o  di  agire  o  di patire  d'  una  maniera  tale  (2).  È  così  che  Anassagora avrebbe  dovuto  spiegare  le  cause  delle  cose  :  per  e- sempio  dicendo  se  la  terra  è  piana  o  rotonda,  egli  a- vrebbe  dovuto  farne  vedere  la  causa  e  la  necessità,  mo- strando ciò  che  è  l'ottimo,  e  che  l'ottimo  è  che  essa  sia tale;  e  dicendo  che  la  terra  è  posta  nel  centro  dell'uni- verso,  mostrare  che  l'ottimo  è  che  essa  sia  nel  rientro; e  similmente  per  il  sole,  la  luna  e  gli  altri  astri,  le  loro velocitji  relative,  le  loro  rivoluzioni  e  tutti  gli  altri  loro fenomeni,  egli  avrebbe  dovuto  mostrare  come  1'  ottima sia  che  ciascuno  di  essi  agisca  e  patisca  come  fa.  In  una parola  a  tutte  queste  cose  egli  non  avrebbe  dovuto  as- segnare altra  causa  se  non  questa,  che  1'  ottimo  è  che esse  siano  come  effettivamente  sono  (3).  La  causa  di  cia- scuna cosa  è  l'ottimo  per  questa  cosa;  la  causa  comune di  tutte,  il  bene  comune  a  tutte  (4).  Invece  di  ciò,  Anas- sagora non  mette  innanzi  altre  cause  che  l'aria,  l'etere^ l'acqua  e  altre  cose  ugualmente  assurde;  egli  fa  come  se alcuno,  volendo  spiegare  le  azioni  di  una  i)erRona,  non Fedone  \}7   b (2)  V.  \)7  l.-e. (3)  97  d  —  118  M. (4)  98  b. yy  V, —  183  — parlasse  che  di  ossa,  di  muscoli  e  di  nervi,  negligendo la  vera  causa,  che  è  la  scelta  deirottimo.  Kgli,  con  tutti gli  altri  fisici,  danno  il  nome  di  causa  a  ciò  che  non  lo inerita,  confondendo  (india  cli<^  è  veramente  causa  con ciò  senza  di  cui  la  causa  ncm  ])roduìiebbe  il  suo  ef- fetto (1).  Essi  non  ammettono  altre  cause  che  mecca- niche ;  «  e  la  ])otenza  per  cui  le  <M)se  sono  disposte  nel miglior  modo  in  cui  potevano  esserlo,  uè  ricercano,  nò stintano  che  vi  sia  in  essa  qualche  forza  divina;  ma  cre- dono di  aver  trovato  un  Atlante  più  foite  di  questo, più  immortale  e  più  capace'  di  contenere  T  universo,  e non  ijensano  che  è  il  buono  e  ccmveniente  che  collega e  contiene  tutte  le  cose  »  (2).  (jui  il  principi!»  del  Bene è  pres<Mitato  come  una  conseguenza  del  teismo,  e  non come  una  necessità  primordiale,  come  nella  TJe[Mibblica: ma,  come  in  questa,  tutto  deve  dedursi  da  <|uesto  ]»iin- cipio  Spiegar*»,  infatti,  non  è  che  dedurre.  E  in  effetto la  spiegazione  del  Fedone,  (/Me,v/o  c'.s'/>/e  perchè  è  }/ attimo^ implica  la  proposizione  generale  che»  viù  che  esiste  è  l^ot- fimo,  a  qiu^.sta  projK>sizione  può  logicamente  convertirsi in  <|uest'altra:  CIÒ  cAc  è  Vottiwo  csiaic.Wix  da  <|uesta  pre- messii  noi  possiamo  dedurre  l'esistenza  tli  <*iascuna  cosa reale,  prendendo  c,ome  altra  premessa  la  ragiom^  per  cui nel  Fedone  (|uesta  esistenza  viene  spiegata,  cioè  che  esfia è  r ottimo.  Ora  la  proposizione  ciò  che  è  T  ottimo  eniste  ^ equivale  ]>erfetta mente  alla  posizione  dell'Idea  dell'Ottimo o,  ciò  che  è  lo  stesso,  del  Bene,  p(Mchè,  conu^  spi(»gheremo in  seguit<»,  la  dialettica  platcmica.  i»onendo  lui  concetto, intende  porlo  in  tutta  Testensione  di  cui  esso  è  logica- mente suscettibile.  11  meceaiiismo  della  ileduzione,  in questo  caso,  è  quello  stesso  che  PIat<nH*  desciive  in   se- (l)  HS  h  ~  yy  b. (2)1)0  e.  V.  SII  questi»  liu>j5t»  il  Suppl.  fiiiiriium.  delK*  1«1«m'.  Vili. '  ^iiito,  nel  hii»<;o  del  Fedone  stesso  che  noi  abbiiiino  ri- I»oi({ito  liei  i^*  0  nota  1  e  12  n." -t:  posto  un  concetto  (in questo  cas  ),  quello  deirottinio),aniniett»ere  come  vero  ciò che  è  eonfoiuie  ad  esso,  rigettare  come  falso  ciò  che  non lo  è.  L'  interprete  trascendentalista  ohbietterà  che  qui non  si  tratta  delFIdea  del  liene,  ma  del  bene  attributo comune  delle  cose  stesse:  ma  l'Idea  del  Bene  ncni  è  che l'attiibuto  comune  delle  cose,  che  Platone  riguarda,  \um come  una  seni [d ice  astrazione,  ma  come  ima  reità;  e  d'al- tronde,  nel  tratto  che  abbiamo  posto  tra  virgolette, cbiamando  il  bene  una  potenza  che  dispone  le  cose  nel miglior  modo  possibile  e  in  cui  risiede  una  forza  divina, e  un  Atlante  che  contiene  Funi  verso,  egli  lo  considera espriissjimente  come  un'entità  sussistente  [»er  se  stessa, cioè  come  un'Idea. 4.«  Tutte  le  Idee  e  tutte  le  cose  si  assorbiscono  nel- l'Idea suprema,  che  è  così  ì'unO'-tutto.K  ciò  che  si  vede dal  seguente  luogo  (l'Aristotile:  «  E  ciò  ehe  sembra  fa- cile, il  dimostrine  che  tutto  è  uno,  non  riesce;  poiché  dal- VastnaìoìK'  {>/;  i/Miau)  non  risulta  che  tutte  sose  sono una,  ma  ne  lisulta  semplicemente  qualche  cosa  in  sé (qualche  Idea)  una  »  (1)  ilm^^V  usi  razione  a  cui  allude  Ari- stotile, è  rcqu'razione  dello  spirito  che  noi  chiamianìo  con questo  nome,  con  la  differenza  che  per  noi,  o  piuttosto  pei concettualisti,  il  risultato  di  <iuesta  operazione  è  nn  sem- plice conretto,  per  Platone  era  un  concetto  obbietti vato. Come  per  un  ]nimo  [)rocess<»  di  f(*'^rf/c/ow<?,  applicato  agli oggetti  sensibili,  si  ottenevano  le  Ide(^  più  vicine  alTindi- |1)  MvJ.  I.  I.  IX.  21.  OoiiiV.  il  roiiiineiito  a  qucstu  hiotio  di Alt\ss;uiihn  «li  Aliodisia.  e  vi-di  anche  per  Ì'E'/Mtaiz  Mei,  1.  III. VI.  r».  1.  XIV.  III.  1,  ecr.  CoiilV.  imre  per  quc.stt»  liiojst»  il  Siq»- ploiiieiitn  sniriimii.  delle   Idee  platoiiielie.   p.    I,   V.   4.   siilbi   fine. viduale,  cioè  di  una  compreìtsione  massima,  così  per  un'r/- strasìouc  ulteriore  e  progressiva,  applicata  alle  Idee  stesse, si  ottenevano  altre  Idee  di  una  comprensione  mano  mano decrescente, cioè  sempre  più  astratte,  sinché  si  giungevaal- Pldea  i)iù  astratta  di  tutte,  che  secondo  l'esposizione  di d'Aristotile  era  quella  dell'Essere  o  dell'ano.  Ma  secondo quest'  esposizione  stessa  l'Idea  dell'Es.sereo  dell'Uno  era identica  a  <iuella  del  Bene.  Così  (luest'a.strazione  suprema in  cui  il  tutto  è  uno,  non  è  altra  cosa  che  l'Idea  del  Bene. Quest'Idea  è  Vuno-ttUto,  perchè  e  il  i)rincipio  di  cui  tutte le  altre  Idee  sono  le  conseguenze,  e  le  conseguenze  sono implicitamente  cont4?nute  nel  princi|)io.  Questo  monismo logico    -  che  non   bisogna  confondere  col  panteismo,  per- chè un'entità  astratta  come  il   Bene    di  Platone  o  l'  As- soluto di  Schelling  non   potrebbe  chiamarsi  Dio  che  per metafora  —  si  trova  anche  in  Schelling,  in  Spinoza,  in Taine,  e  più  o  meno  in  tutti  i  realisti  dialettici,  secondo il  grado  maggiore  o   minore  di  somiglianza    che  la  loro pretesa  deduzione  ha  con  la  sola  deduzione  che  ammetta la  logica  —  in  cui  la    conclusione  è  un  caso  particolare del  princi|iio  generale  che  ta  da  piemessa.  —  Qual  è,  in questo  monismo,  il  ra[q>orto  delle  cose  derivate  col  prin €Ìpiof  Dire  che  tutto  vi  è  virtualmente  ccmtenuto  come in  un  germe,  e  che  ne  esce  per  una  specie   di  svilupj)o o  di  esplicazione,  non  è  che  una  semplice  espressicme  rap- presentativa. Il  realismo  dialettico  consiste  nell'  <dd»iet- tivazione,  non  solo  dei  concetti,  nìa  ancora  dei  rapporti logici  fra  (juesti  concetti;  per  conseguenza,  per  indicare  il ra|)porto  in  <|UÌ.stione,  noi  non  abbiamo  che  un'  espres- sione ade(|uata:  le  altre  cose  scmo  nel  principio  e  deri- vano da  (piesto,  come  le  conseguenze»    sono    nelle    pre- messe e  derivano  da  (lueste. 5'^  Nella  forma  della  filosotia  platonica,  che  noi  pos- siamo chiamare  il  platonismo  puro,  e  che  è  quella  che noi  troviamo  nelle  opere  dell'autore  e  di  cui  facciamo  l'è- —  186  — sposizione,  cjuesto  monismo  è  rigoroso.  Ma  uella  forma die  ci  la  troiioscere  Aristotile,  la  (juale  appjirtieiie  all'ul- timo periodo  della  speculazioni'  di  Platone,  ed  è,  come vedremo  in  un  Supplemento  alla  line  del  volume,  un sincretismo  tra  i  concetti  propri  a  questo  filosofo  e  quelli dei  Pitagorici,  a  questo  monismo  rigoroso  succede  una specie  di  <lualisnio.  Le  Idee  e  le  cose,  in  (piesta  seconda forma,  vengono  da  due  principii,  l'Uno  o  l'Essere,  che  è identificato  al  Bene  (1),  e  la  Materia.  La  dif!erenza  penV è  meno  protbnda  di  (juanto  potrebbe  sembrare  sulle  pri- me, perchè,  come  spiegheremo  in  seguito,  il  vero  principio,, quello  da  cui  le  Idee  propriamente  si  deducono,  non  è  che il  primo;  solamente  la  Materia  è  riguardata  come  indipen- dente da  esso  ed  egualmente  primordiale.  Ma  ciò  che  im- porta  qui  di  segnalare  in  questa  dottrina  è  <*.he  i  due  prin- cipi vengono  riguardati  come  gli  elementi  di  cui  tutte  le Idee  e  tutte  le  cose  sono  costituite  (2).  Questo  implica  evi- dentemente che,  in  questa  seconda  forma  del  platonismo,, tutto  il  reale  viene  assorbito  nei  due  principii,  come  nella fiUMua  ])rimitiva  lo  era  nell'uno  <li  essi.  Ciò  è  tanto  vero che  Aristotile  fa  ripetutamente  alla  dottrina  dei  due  ele- menti l'obbiezione  che  non  ])otranno  esistere  che  gli  ele- menti soli,  e  niente  altro  di  piò  (3);  e  che,  secondo  un'in- dicazione di  Teofrasto  (4),  vi  erano  dei  platonici,  i  quali atfernuivano  che  la  verità  e  l'essere  stanno  tutti  nei  due principii.  E  appena  bisogno  di  osservare    che,  se  i  due il)  V.  )>er  l'identità  tra  1'  riio  o  Essere  v  il  ììvììv.  Mei.  1.  L VL  8.  VII.  5,  IX.  21,  1.  XII.  X.  1,  4,  I.  XIV.  IV.  2-7,  V.  1,  A7/i. Kufl.  1.   I.   Vili.   14.  ero. (2)  V.  su  ipiesta  «l<»ttnii:i  ilei  due  elementi  il  Suppl.  sul  pita- gorisnid  plutonico. (.^)  Mei.  1.   III.    IV.   iMO,   1.   XI.   II.   11.  1.   XIII.   X.  2-8. (41  Mei.  13. —  187   — ])rincipii  costituiscono  tutta  la  realtà,  e  sono  come  la  so- stanza di  cui  tutte  le  Idee  e  tutte  le  cose  sono  fatte,  è perchè  essi  sono  dei  principii  nel  senso  logico,  cioè  dei concetti  in  cui  tutti  gli  altri  sono  im])licitamente  conte- nuti, perchè  possono  dediir.^ene  (l). 6^  La  dottrina  che  i  due  elementi  sono  i  principii  da cui  tutto  si  deduce,  si  trova  in  Aristotile  anche  d'  una maniera  esplicita.  La  conoscenza  di  una  cosa  (|ualun(iue (intendiamoci,  una  conoscenza  scientifica  )  presuppone quella  dei  due  elementi.  «  Come  si  potranno  imparare  gli elementi  di  tutte  h^  cose?  È  evidente  infatti  che  anterior- mente non  si  potrebbe  conoscere  nulla  »  (2).  Di  piò  la  co- noscenza dei  due  elementi  ci  dà,  indipendentemente  dalla esperienza,  la  c<uioscenza  di  tutte  le  cose.  «E  gli  oggetti sensibili  come  potrebbero  conoscersi  senz'averne  la  sensa- zione ?  Eppure  sarebbe  necessario,  se  quelli  itavra)  sono gli  elementi  di  tutte  le  cose,  da  cui  queste  risultano  come le  voci  composta  (cioè  le  sillabe)  dai  loro  propri  elementi (dalle  lettere)  »  (8).  Altrove  Aristotile  parag<ma  il  modo  in cui  le  cose  derivano  dai  due»  principii  a  (juello  in  cui  le conclusioni  derivano  dalle  premesse.  «Se  i  principii  <le- vono  essere  universali,  an<*he  le  cose  che  ne  derivano  do- vranno es.sere  universali,  come  nelle  dimostrazioni  »  (4). (1  )  Per  quc'sto  sij^ni tirato  logico  della  parola  eleinrnU  (aTtt/yfja) iniplii'ante  rideii  che  essi  sono  dei  principii  di  deduzione,  cou- Ironta  Aristotile  Mei.  1.  V.  III.  3  <«  si  dicouo  elemenli  delle  di- inoHtrazioui  le  prime  dimostrazioni  e  che  si  contengono  nella  più p«rt«  delle  altre»),  e  1.  III.  III.  1  («si  dicouo  elenienli  «Ielle ligure  quelle  le  cui  dimostrazioni  si  «'ontengono  nelle  diuiostrsi- zioni  di  tutte  le  altre  o  della  più  parte  j^  ). (21  Mei.  1.   I.  IX  27. (3)  L.  I,  IX.  20. (4)  L.   XIII.  X.  8. 'r  !  ' k^M^lèa —  188  - §  14r.  L'Idea  del  Bene  non  è  solo  il  princìjiio  logico {prìncipium  cognoscenfìi)  delle  altre  Idee,  ma  ne  è  anelie il   principio   ontologico  (priiuiplum    essendi)  «  Tn  pensi senza  dubbio  come  me  che  il  sole  d.à  agli  oggetti  visibili, non  solo  la  potenza  di  esser  visti,  ma  anche  la  generazione e  Taccrescimento  e  la  nutrizione.  Così  tu  puoi  dire  che  gli oggetti  conoscibili,  non  solo  devono  al  Bene  l'esser  cono- sciuti, magli  devono  ancora  l'essere  e  1' essenza  »  (1).  11 prigioniero  liberato  dalla  caverna,  nella  sua  ascensione nella  regione  visibile,  dopo  aver  guardato  il  sole,  conclu- de che  è  esso  che  produce  le  stagioni  e  gli  anni,  che  tutt^ governa   nel  mondo  visibile,  e  che  è  la  causa  delle  cose stesse  ch'egli  vedeva  nella  caverna.  Così  lo  spirito,  nella  sua ascensione  nella  regione  intelligibile,  dopo  aver  contem- plato V  idea  del  Bene,  conclude  che  essa  è  la  causa  di tutto  ciò  che  è  retto  e  bello,  che  è  la  sovrana  del  mondo intelligibile,  e  che  è  essa  stessa  che  genera  il  sole  e  la  luce e—  noi  possiamo  aggiungere,  per  completare  il  paralle- lismo tra  l'immagine  e  il  suo  significato  —  tutto  ciò  che egli  percepisce  nel  mondo  visibile  —  perchè,  come  il  sole rappresenta  l'Idea  del  Bene,  così  le  ombre  della  caverna rappresentano  gli  oggetti  visibili  — (2).  Il  Bene  è  chiamato il  padre  del  sole  anche  a  506  e,  507  a,  508  b-c.  Questa identità  tra  il  principium  essendi  e  il  principhnn  (ofino- scendi  è  pure    implicata    nell'  espressione  «  il   principio dell'universo  »  per  designare  la  [iremessa  ultinta  da  cui tutte  le  altre    Idee  si   deducono  (3).  Alla    causalità    del Bene  si  allude  anche    nel  libro  X.  della   stessa  Re|)ub- blica  (597  b-e),  in  cui  si  dice  che  Oio  ha  pi'odotto  va- (1)  liep.  501)  b. (2)  V.  ^  13"  ij.  2". (8)  V.  $  12"  u.  V'  e  ^  13"  n.  2". r^. —  189 iuralmenie  l'Idea  del  letto  e  ogni  altra  Idea.  Siccome  Pia. tone  non  conosce  altro  Dio,  nel  senso  proprio,  che  l'a- nima del  mondo,  e  (|uesta  non  può  produrre  che  ciò  che ha  un  cominciaraento  nel  tempo  (1);  e  d'altra  parte  i termini  Dio  e  divino  sono  da  lui  spesso  applicati  ai  prin- cipii  delle  cose,  cioè  }i Ile  Idee  (2);  così  qui  per  Dio  noi doobiamo  intendere  l'  Idea  suprema,  che  è  il  principio di  tutte  le  altre.  Intatti  a  597  e  il  produttore  delle  Idee è  chiamato  il  re,  come  il  Bene  a  509  d  e  517  e. Nel  Fedone  97  b-99  e  (citato  nel  $  juec.  n.  3)  Timpiego della  ])arola  causa  non  può  provare  la  causalità  del  Bene: dicendo  che  la  causa  dell'esistere  e  del  modo  di  esistere di  una  cosa  è  che  ciò  è  l'ottimo  per  essa,  non  se  ne  as- segna  la  causa  efficiente,  ma  semplicemente  la  raf/ione. Ma  in  fine  del  luogo  in  cui  il  Bene  è  chiamato  un  A- tlante  che  sostiene  l'universo,  e  la  potenza  per  cui  le  cose sono  disposte  nel  miglior  modo  possibile  e  in  cui  risiede una  forza  divina,  Platone  gli  attribuisce  senza  dubbio, non  solo  la  sostanzialità,  come  abbiamo  osservato  nel r)aragrafb  precedente,  ma  anche  l'efficienza. 11  concetto  della  causalità  universale  dell'  Idea  de! Bene  si  ritrova  nell'esposizione  d'Aristotile,  benché  in- viluppato nelle  dottrine  pitagoreggianti.  Il  Bene  della liepubblica  è  chiamato  l'Uno  o  l'Essere  (3),  ed   è  dato (1)  V.  Suppl.  C   11  pitagorismo  nel   Timeo, (2)  Teet.  176  e.  Parm.  134  ce.  Tim^  37  e,  41  a,  92  v,  Sof,  25é A-b,  Fedo.  80  a-b,  83  e,  84  a,  FU,  62  a-b,  Conv.  211  e,  Bep.  500 c-e,  611  e,  ecc.  Senocrate  chiaiuava  Dei  l'Uno  (cioò  il  Beue)  e  la Dualità  indefinita  (la  Materia);  1*  Uno  il  primo  Dio  e  il  padro de^li  Dei,  la  Materia  la  madre  (Stol».  Ed.  phys,  1.  1.  e.  2.  29). Si  veda  pure  ciò  che  diremo  sul  Demiurijo  del  Tiìneo  in  questo «tesRo  $  e  nel  Suppl.    C. (H)  V.  f  prec.  n.  50, -  " < I"  '* come  riiiio  dei  dwi^rineipii  delle  Idee  e  delle  cose(l),  l'al- tro essendo  la  Materia,  che,  al  punto  di  vista  della  dot- trina dei  numeri,  si  chiama  anche  la  Dualità  indefinita —  abbiamo  i^ìii  notato  che   questo  dualismo   appartiene a  una  tase  posteriore  della  speculazione  platonica,  il  cui carattere  essenziale  è  una   fusione  dei    concetti    proprii del  plat<misnio  eoa   quelli  dei  Pitagorici  -    Principio   in Aristotile  è  sinonismo  di  c«j(8a(2)-e  d'altronde  FUno e  la  Materia  non  sono  chiamati  solamente  i  principii,  ma anche  le  cause  (3)-;  così  i  principii  delle  Idee  e  delle  cose significa:  le  condizioni  che  determinano  resistenza  delle Idee  e  delle  cose  e  il  modo  di   (juest'esistenza.  Tuttavia, siccome  Aristotile  chianui  principii  e  cause  anche  gli  e- lementi  concettuali  da  cui  le  cose  sono  costituite,  cioè la  forma  e  la  materia  ;  e  d'  altra   parte  i  due    principii platonici  sono  detti  anche  gli  chmcnti.vY\\\\i^  Vessenza di  tutte  le  Idee,  l'altro  la  materia:  se  ne  potrei  die  infe- rire che  la  parola  principii  in  (piesto  caso  non  esprime alcun'  efficienza,  e    indica    semplicemente   gli    elementi concettuali  (e  siccome  Phitone  e  un  realista,  anche  reali), da  cui  le  Idee  e  le  cose  sono  costituite.  E  certamente  i due  principii  platonici  sono  gli  elementi  da  cui  le  Idee e  le  cose  sono  costituite:  ma  ciò  non  esclude  la  hm>  ef- ficienza, implica  solainen:>e  ch'essi  sono  delle  cause  im- manenti.  L'Uno  e  la  Materia  sono  i  due  concetti  più  a- stratti  che  si  ritrovano  nel  contenuto   di  tutti  gli  altri concetti  realizzati  che  Platone  chiama  Idee;  in  altri  ter- mini, in  tutte  le  altre  Idee  vi  ha  la  panisia  dell'Uno  e (1)  V.  Met.  l.  I.  VI,  4,  6.  vili.  11,  IX,  17-18,  21,  l.  XIll.  VI. 5,  9,  VII.  8,  Vili.  7.  21,  IX.  17.  X,  1.  XIV.  IV.  2-3,  8.  V.  1, 3,  ecc. (2)  V.  Met.  1.  V,  I.  3,  5. (3)  Met.  I.  III.  III.  13.  1.  VII.  XVl.   4.  eco.  '    ^ —  191  - della  Materia.  Ma  ciò  non  basta  per  chiamare  il  inimo Vessensa,  e  tutti  e  due  gli  elementi,  delle  altre  Idee,  ne per  chiamameli  i  principii;  perchè  essi  non  sono  che  la porzione  comune  del  contenuto  delle  altre  Idee,  e  a  lato di  questa  vi  ha    inoltre    la  porzione    i)ropria  e  differen- ziale. Come  abbiamo  osservato  nel  paragrafo  precedente (n.  5*^  ),  chiamando  le  due  astrazioni  supreme  gli  elementi di  tutto  il  reale,  Platone  ammette   che  tutto  il  reale  si risolve  in  queste  due  astrazioni,  ciò  che  egli   può   tare perchè  secondo  lui  esse  contengono  implicitamente  tutte le  altre  Idee,  come  i  principii  (nel  senso  logico)  le  loro conseffuenze.  Similmente,  chiamando  l'Uno  1'  essenza  di tutte  le  Idee,  Piatone    ammette  che  le  essenze  di  tutte le  Idee  si  risolvono  in  <|uest'essenza  unica,  perchè  (oltre che  non  ne  sono  che  delle  determinazi(mi  o  delle  speci- ficazioni, come  vedrenu»  nel  jmragr.  16),  essa  le  contiene tutte  implicitamente,  essendo  il  principio  di  cui  (pielle sono  le  conse</wen^e(l).  Nell'uno  e  nell'altro  caso  noi  non abbiamo,  al  fondo,  che  la  supposizione  di  un  nesso  logico fra  le  due  porzioni  del  contenuto  delle  Idee,  la  comune e  ìs.  ììropria.  Ora,  come  il  nome  di  elementi   dato   alle due  entità  più  astratte,  e  ciucilo,  dato  all'una  di  esse,  di essenza  di  tutte;  le  Idee,  suppone  che  la  seconda  di  cpie- ste  due  porzioni  derivi  logicamente  dalla  prima,  così  il nome  di  principii  suppone  che  essa  ne  derivi    ontolor/i' cannente:  se  così  non  fosse,  le  due  entità  non    determi- nerebbero le  Idee  nella  loro    esistenza  e  nel  loro  juodo di  essere,  e  non  potrebbero  esserne  chiamate  i  principii e  le  cause.  Nel  sistema  di  Platone  come  in  tutti  gli  altri costruiti  sullo  stesso  tipo  •—  che  io  chiamo  realismo  dia- lettico —  vi  ha  fia  le  diverse  astrazioni  realizzate  (in  lin- (1)  Conf.  §  pree.  u.  4. N I        ' -  192  -  giia^gìo  liegeliano,  fra  i  diversi  iiionienti  del  sistema), nel  tenipo  stesso  die  un  rapporto  di  differenza^  un  ra[> porto  (Videntità  —  è  questo  il  gran  i)aradosso  di  tali  si- stemi, che  in  Hegel  arriva  alla  negazione  del  luincipio di  contraddizione.  -  Quando  Platone  dice  die  tutto  è  uno o,  ciò  die  vale  lo  stesso,  che  TUno  o  il  Hene  è  Tessenza di  tutte  le  Idee,  egli  si  mette  al  putito  di  vista  dell'  /- dentità  ;  ma  «piando  «lice  che  ne  è  la  causa  o  il  prw- cìpiOj  si  mette  invece  necessariumente  al  punto  di  vista della  differenza.  Così  noi  troviamo  in  Aristotile,  per indicare  il  ra]>porto  fra  l'Uno  e  le  Idee,  due  formule  di- verse,  ai>parentemente  esclusive  V  una  <leir  altra,  ma che  non  sono  che  due  espressicmi  differenti  di  una  stessa dottrina:  secondo  l'una,  l'Uno  è  Vessenza  di  tutte  le  T- dee  (1);  secondo  l'altra,  è  la  causa  alle  Idee  della  loro essenza,  o  di  ciò  che  esse  sono  (2).  La  seconda  formula coincide  evidentemente  con  le  prop()sizi<mi  della  Repub- blica di  cui  al  cominciamento  del  paragrafo,  salvo  la dualità  di  principii,  di  cui  nella  Repubblica  non  vi  ha alcuna  traccia. Nella  dottrina  dei  numeri  (nella  quale  le  Idee  vengono identitìcate  con  questi)  il  rapporto  tra  i  principii  e  le  cose derivate  è  rapppresen tato  come  una  (jenerazione,  I  numeri e  le  cose  sono  (jenerati  dall'Uno  e  dalla  Materia  ;3).  Delle altre  formule  con  cui  la  derivazione  delle  Idee  e  delle cose  dai  due  primi  principii  viene  espressa  neir  esposi- zione d'Aristotile,  ci  riserbiamo  di  parlare  in  un  altro paragrafo.  Qui  dobbiamo  ancora  indicare  la  cosmogonia (1)  V.  Mei,  l.  I.  VI.  4,  7.  l.  III.  1.  12,  IV.  21-.22,  ecc. (2)  V.   Met.  l.  I.  VI.  7,  VII.  3,  5. (3)  V.  Met.  1.  1.  VI.  6,1.  XI.  II.  7,  1.  XIII.  VII.  4,10,  11, ^ail.  21,  28.  IX.  7,  i.  XIV.  I.  3,  II.  S),  111.  13-14.  IV.  1,  6,  ecc. —  193   _ del  Timeo,  in  cui  hi  dottrina  dei  due  fuindpii  è  espicssa in  forma  simbolica  :  la  Materia  o  Dualità    indefinita  vi e  rappresentata  da  una  massa  informe  agitata  da  un  mo- vimento disordinato,  e  l'Uno  o  Hene  da  un  Demiurgo  che v'introduce  l'ordine  e  v'impiinìe  delle  torme  e  ddFe  spe- eie  definite  (1).  Ndl'allegoria  dd  Timeo  il  princi])ì(»  ve- ramente attivo,  efficiente,  è  (,uello  che  rappresenta  l'I- dea    <lel  Bene  (2)  :  ciò  è  perchè  l'esigenza  delia    dialet- tica <li  Platone  è,  come  vedremo  in  seguito,   V  unità  di priudpio,  sia  al  punto  di  vista  Unjico,  sia  al   punto    di Vista  ontolof,ico:  così  r^gli  non  attribuisca    proj^riamenf^^ la  funzione  di  causa  prima,  altrettanto    che    quella    di premessa  ultima  da  cui  le  Idee  si  deducono,  che  all'uno dei  due  principii,  conservando  in  qualche   guisa,  nello stesso  dualismo  ch'egli  tiene  dai  Pitagorici,  il    nioni>smo primitivo  ddla  Repubblica.  Andie  ndl'esposizione  <l'A- ristotile  il  principio  per   eccellenza  è  quello   die   corri- sponde all'Idea  del  Rene  (3):  così  PUno  è  chiamato  spesso il  principio  (/,   ài^xrj)  (4),  come  se  Platone  non  ammettes- m  che  un  principio  unico,  ed  è  rappresentato  come  il  prin- cipio attivo,  in  contrapposto  alla  Materia  che  sarebbe  un principio  passivo,  comequando,  nelle  cosmogtmie dei  fisici (1)  V.  Siippl.  e.  //  pitagorismo  nel  Timeo, (2)  Così  (^rautore,  interpretando  il  Timeo,  dice  che  Platone rappresenta  il  mondo  come  generato  (quantunque  secondo  lui  sia eterno),  in  quanto  non  esiste  per  se  stesso,  ma  deriva  da  altra causa  (Mullach.  Fr.  2). (.S)  V.  (oltre  i  luoghi  indicati  nelle  tre  note  seguenti)  Met,  1.  III. III.  7-S,  13.  1.  XI.  I.  11,   II.  6. (4)  V.  Met,  1.  VII.  XVI.  4,  1.  XI,  II.  7,  1.  XIII.  Vili.  27. ì.  XIV.  III.  12,  IV.  5. •  18 am —  194  - e  dei  teologi,  trova  il  suo  coniRpoiideute  nella  causa  mo- vente e  foniiatrice  (p.e.il  Nous  d'Anassagora)  (l),o.  nella generazione  «lei  numeri,  lo  paragona  al  padre,  mentit? la  Materia  eorrisp<mderel)be  alla  madre  (2).  La  vera  fun- zione dei  due  prineipii,  del  resto,  non  può  essere  com- presa eliiaramente  che  dopo  Tesposizione  completa  della dialettica  platonica. Ora  (piai  è  il  come  di  questa  causazione  che  Platone attribuisce  aiiridea  tlel  Bene  ?  Quest'  Idea,  non  dimenti- chiamolo, non  è  altro  ehe  1' attributi»  comune  delle  cose che  noi  chiamianio  buone,  supposto  esistente  per  se  stesso, ed  inw  e  ^>  stesso  in  tutti  gli  oggetti  a  cui  viene  attribuito. Per  concepire  il  mo(h>  della  sua  efticienza,  noi  dobbiamo dun«|ue  mettere  <la  parte  qualsiasi  rappresentazione  che  as- simili quest'eftlcienza  a  (pielladi  un  agente  ]>eisonale,  qna- lunqnesiala  forma  in  cui  possiamo  immaginarla:  quando Platone  chiama  il  Bene  Dio,  egli  non  fa  che  una  metafora per  significare  ch'esso  è  la  causa  primitiva  e  universale  Da un'altra  piute  l'enmnazione,  Firradiazione  e  tutte  le  altre immagini  <*he  i  neo-platonici  prendevano    dalla    natura inanimata,  non  sono  più  accettabili  che  <|uelle   che  può suggerire  l'identificazione  del  Bene  a  un  Dio  personale Ncm  vi  ha  in  Platone  alcuna  traccia  di  rappresentazioni simili;  e  d'altromle  tutte  cpieste  ij>otesi  Siirebbero  super- (1)  V.   MrL   I.    1.   Vili.  IMI,  1.   XIV.   IV.  2-4. (2)  V.  Mei.  1.  1.  VI.  H.  É  una  ruppiesentazione  che  rimouta senza  (lnl>l»io  sino  a  Platone.  11  Bene  nella  Uepubblioa  è  detto  . come  aì)bianio  visto  .  il  padre  del  sole  ;  così  pure  il  Demiurgo, nel  Timeo,  il  padre  del  mondo  e  dogli  l>ei  {IHm.  28  e,  37  e.  41 a,  42  e.  ecc.).  Confi*.  Plutarco  Pskofjeiiia  «Zarata,  maestro  di Pitagora,  «liiamò  la  Dualità  indefinita  la  madre  dei  numeri,  e 1'  Unità  il  padre)  .  e  ciò  cbe  abbiamo  detto  su  Serocrate  nella nota  (2)  a  pag.  189. / —  195  — fine,  perchè  ciò  che  sappiamo  della  dialettica  platonica contiene  già  una  risimsta  alla  nostra  quistione.  Le  Idee sono  dei  concetti  realizzati,  tra  cui  si  pretende  stabilire un  nesso  logico,  quello  che  vi  ha  tra  le  i)remesse  e  le conseguenze  nel  ragionamento  deduttivo.  L'  Idea  del Bene  è  la  premessa  prima  e  assiomatica  da  cui  tutte  le altre  si  dedncono;  essa  è  il  princiino  di  cui  queste  sono le  conseguenze.  ISe  (piesto  nesso  logico  non  fosse  che  tra proi>osizioni  o  anche  tra  semplici  concetti,  esso  non  sa- rebbe che  logico;  ma  essendo  tra  concetti  realizzati,  non è  sohiniente  logico,  ma  è  anche  ontologico.  Se  il  princi- pio è,  la  conseguenza  è:  supposto  che  «piesto  principio  e qnesta  conseguenza  sono  delle  entità  reali,  cioè  che  vi hanno  delle  entità  reali  che  stanno  fra  di  loro  nel  rap- porto di  priucipio  e  conseguenza,  ciò  vuol  dire  che,  data l'entità  principio,  è  <lata  anche  Pentita  conseguenza,  in altri  termini,  che  l'esistenza  dell'una  trascina  con  sé  l'e- sistenza dell'altra,  ciò  che  costituisc-e  fra  le  due  entità nn  vero  rapporto  causale,  o  almeno  (luel  rapporto  ana- logo che  i  testi  ci  autorizzano  a<l  ammettere  che  Plat<5ne stabilisce  tia  il  Hene  e  le  altie  Id^^e.  Tra  il  priììcipium co(jnoscendi  e  il  princip'ìnm  essendi,  tra  il  uesso  logico  e il  nesso  ontologico,  non  vi  hu  duuque  semplicemente coincidenza,  ma  identità:  vi  ha  un  nesso  unico  che  è  al temiK>  stesso  logico  e  ontologico,  che  noi  chiamiamo  lo- gico al  punto  di  vista  subbiettivo,  cioè  rispetto  al  nostro pensiero  die  deduce  le  Idee,  e  <*1ie  al  ])unto  di  vista  ob- biettivo, cioè  considerando  le  Idee  in  s:^  stesse,  chiamiamo ontologico.  Questa  identità  tra  il  legame  logico  e  l'on- tologico è  indicata  chiaramente  da  Platone  (juando,  per designare  la  funzione  logica  del  Hene,  il  suo  posto  di primo  principio  nella  deduzione,  lo  chiama  «  il  principio dell'universo»:  questa  denomiuazioae  sarebbe  inoppor- tuna, se  la  deduzione  non  fosse  per  lui  una  derivazione reale,  in  altri  termiui,  se  il  rapporto  tra  il  principio  e —  196 le  conseguenze  non  equivalesse  al  rapporto  tra  la  eausa e  gli  effetti.  Forse  il  termine  causazione  non  è  il  più proprio  a  designare  questa  derivazione  delle  entità  conse- guenze dalla  entità  principio:  essa  differisce  da  una  cau- sazione almeno  in  questo  punto,  che  la  causa  e  l'effetto sono  due  cose  distinte  e  separate,  mentre  l'entità  prin-* cipio  inesifite  nelle  entità  conseguenze,  essendo  una  por- zione (la  porzione  comune)  del  loro  contenuto.  È  perciò che  nei  sistemi  moderni  analoghi  al  platonismo  al  ter- mine causazione  si  è  preferito  quello  di  sviluppo:  questo secondo  termine  è  il  più  proprio  a  significare  questo  pas- saggio dall'implicito  all'esplicito,  questo  rapporto  d'  i- dentità,  nel  tempo  stesso  che  di  differenza,  fra  l'antece- dente e  il  conseguente,  che  risulta  dalla  trasformazione del  nesso  logico  in  un  nesso  ontologico.  Tuttavia  esso ha  bisogno  di  essere  chiarito,  aggiungendo  che  lo  svi- luppo di  cui  si  tratta  è  uno  sviluppo  necessario,  ciò  che è  al  fondo  un  ritorno  all'idea  di  causalità,  che  è  la  sola successione  che  noi  concepiamo  come  necessaria.  Un  al- tro chiarimento  indispensabile  è  che  in  questo  sviluppo la  successione  non  è  cronologica,  ma  logica:  essa  signi- fica che  i  termini  posteriori  hanno  bisogno,  per  essere stabiliti,  dei  termini  anteriori,  mentre  gli  anteriori  non hanno  bisogno  dei  posteriori.  Noi  vedremo  in  uno  dei paragrafi  seguenti  che  questa  successione  logica  (che  è anche  ontologica,  perchè  1'  obbiettivazione  dei  concetti porta  con  sé,  come  abbiamo  osservato,  l'obbiettivazione dei  loro  rapporti  logici)  è  chiamata,  nel  sistema  plato- nico, come  poi  in  altri  sistemi  analoghi,  anteriorità  e posteriorità  di  natura. §  15.  Come  abbiamo  spiegato  nel  §  12,  la  dialettica platonica  è  una  serie  continua  di  deduzioni,  tale  che  la conseguenza  della  deduzione  antecedente  diviene  il  prin- cipio di  una  deduzione  susseguente,  e  che  in  questa  ca- tena di  principii    e   conseguenze  ciascun  anello  è,  non 197  — una  proposizione,  ma  un  concetto    realizzato,  un'  Idea. Ma  risulta  dal  parag.  precedente  che  il  nesso  logico  tra le  Idee  è  anche  ]>er  Platone  un  nesso  ontologico.  Ne  se- gue che  la  dialettica  platonica  è  anche  un  incatenamento continuo  di  cause  e  di  eft'etti,in  cni  ciascun  effetto  èia causa  di  un  ettetto  ulteriore,  sinché  la  catena  sia  com- pleta,  queste  cause  e  questi  effetti  essendo,  non    delle cose  che  si   seguono   nel  tempo,  ma  delle    cose   eterne tra  di  cui  la  successione  non  è  che  logica  E  infatti  noi abbiamo  nettato   che  quando,  descrivendo  il  metodo  di dedurre  le  Idee,  Platone   chiama    1'  Idea  ultima  da  cui tutte  le  altre  si  deducono  «il  principio  dell'  universo», egli  riguarda  evidentemente  questa  deduzione  come  una derivazione  reale.  Ora  questa  deduzione  è  a  gradi  mul- tipli —  il  dialettico,  attinto  il  principio  dell'universo, si  attacca  a  ciò  che  è  attaccato  ad  esso,  e  discende  così sino  alla  conclusione,  andando  ad  Idee  per  via  d'Idee,  e terminando  ad  Idee —.  Dunque  anche  la  derivazione  è  a gradi  multipli,  e  come  la  premessa  ultima  da  cui  tutta la  serie  si  deduce  è  il  principio   primo  (nel  senso  onto- logico) rap[)orto  a  tutta  la  serie,  così  le  ])reniesse  parti- colari sono  dei  principii  secondi  e  derivjiti  rapporto  alle Idee  particolari    che  se  ne  deducono. Una  conferma  di  questa  interpretazione  si  ha  nel  Me-  ' none  98  a  (1.  cit.  al  §  9),  in  cui  si  dice  che  le  opinioni divengono  conoscenze  scientifiche,  quando  sono  legate per  il  ragionamento  tirate»  dalla  causa,  {aluag  Anyia^oì) Questo  legame  è  il  legame  deduttivo  che  incatena  tutto lo  scibile,  e  le  cose  che  esso  lega  sono,  non  delle  pro- posizioni, ma  delle  Idee.  Infatti  Socrate  soggiunge:  «que- sta è  la  reminiscenza  di  cui  sopra  abbiamo  parlato ,  e la  reminiscenza  è  il  ricordo  dell'intuizione  delle  Idee  (1) (1)  V.  ^  12  n.  4  uota  2  a  y.   175. —  198  — Così  il  rafjìonamento  tirato  dalla  causa  sigli itìca:  la  de- duzione di  un'  Idea  da  un'altra  Idea  che  ne  è  la  cauna. Tuttavia  potrebbe  credersi  che  questo  luogo  non  abbia  la portata  che  uoi  gli  attribuiamo,  perchè  la  parola  tutia significa  spesso  in  Platone,  non  la  causa  efficiente,  ma  sera- pliceniente  la  raf/ioììe.  Delle  prove  più  concludenti  troviamo in  Aristotile,  ma  esse  non  possono  essere  con) prese  che  dopo un'esposizione  completa  del  metodo  dialettico.  Noi  le  ri- mandiamo perciò  ad  un  alti'o  paragrafo,  e  pei-  ora  ci  li- miteremo ad  aggiungere  alcune  osservazioni  d'indole  ge- nerale. La  prima  è  che  in  tutti  i  sistemi  in  cui,  come  in <luello  di  Platone,  vi  ha  la  realizzazione  dei  c<mcetti  u- nita  al  metodo  deduttivo,  vi  ha  pure  1'  identità  dello sviluppo  logico  con  lo  sviluppo  (mtologico.  È  ciò  che  ab- biamo osservato  pei  sistemi  di  Hegel,  di  Schelling,  di Taine,  e  che  osserveremo  in  seguito  per  cjuello  di  Spi- noza. In  alcuni  di  «piesti  sistemi  la  derivazione  delle  T- dee  è  chiamata  nno  sviluppo,  in  altri  (come  abbiamo visto  nel  sistema  di  Taini^,  e  come  vedremo  in  quello di  Spinoza)  è  data  apertanu^nte  per  una  causazione,  e- gualmente  che  nel  sistema  platonico.  L'argomento  tirato da  quest'  analogia  diviene  più  fort;e,  se  si  jiensa  che  le particolarità  del  metodo  deduttivo  seguito  in  (piesti  si- stemi —  cioè  che  la  deduzione  è  una  dhnostrasione  (vedi §  12  n.  2^),  che  essa  è  immediata  (v.  n.  4*^),  che  i  prin- cipii  e  conseguenze  sono  n<Hì  delle  ])roposizioni  ma  dei concetti  realizzati  (ivOi  ^  ^^-  J^ltre  di  cui  abbiamo  parlato al  §12  -  sono  comuni  anche  a  Platone,  ed  esse  tendono tutte  —  ciò  che  per  alcune  è  evidente,  e  per  le  altre spiegheremo  in  seguito  —  ad  assimilare  sempre  più  il rapporto  tra  il  principio  e  la  conseguenza  a  quello  tra la  causa  e  l'elletto.  Queste  analogie  non  si  spiegano  che por  l'impressione  comune  che  (piesti  sistemi  tendono  a produrre,  che  è  la  realizzazione  dell'idea  di  causalità  ef- —  199  — fìciente  per  la  trasformazicme  del  nesso  logico,  introdotto fra  i  concetti,  in  un  nesso  ontologico. Un'altra  osservazione  che  conduce  per  un'  altra    via allo  stesso  risultato,  è  che  l'origine  d<»lla  dottrina  delle Idee  non  può  trovarsi  altrove  che  nella  ricerca  delle  cause efficienti.  In  generale  un'ii»otesi  metatisica  nasce  dall'una o  dall'altra  di  queste  due  quistionì:  (|uali  sono  le  cause efficienti  1  qual  è  la  cosa  in  se  di  (piest'  apparenza   che chiamiamo    materia  ?  Le  Idee    non    possono    essere  una soluzione  del  problema  della  cosa    in    se:    4|uesto    i»ro- blenia  non  esiste  per  Platone  ;  egli  è  un  realisla    uatu- rate,  come   «piasi    tutti  i  filosofi    della    sua    e])Oca.  Per conseguenza  l'ipotesi  delle  Idee  non  ha  psituto  avere  il suo  punto  di   partenza  che*  nel  [U'obhMua  delle  cause  ef- ficienti. E  lo  stesso  Piatirne  «iichiara  che  è  cosi.  Nel  Fe- done (96a-10l  e)egli  ci  racconta  come  sia  pervenuto  alla dottrina  delle  Idee  e  della  dialettica.  Da  giovane  si  era dato  con  ardore  allo  studio  della  fisica,  bramoso  di  co- nosc(Me  le  cause  di  tutte  le  cose,  perchè  ciascuna:  cosa nascr*,  perchè  perisce,  perchè  esiste  (9()  a-1)).   Ma   questo studio,  lungi  di  fargli  cimoscere  il  perchè  dtille  cose,  gli rese  incomprensibili  i  fatti  stessi  che  ])rima  gli  parevano 'più  chiari.  (9(»  c-97  b)  Lesse  con  lo  stesso  ardore  ì  libri mI' Anassagora,  piacendogli  la  sua  <lottrina  che  V  intelli- genza è  la  causa  di  tutto;  ma  non  vi  trovò,  come  spe- rava, una  spiegazione  teleologica  dell'uni  verso  (97  b  — 99  a).  Vide  invece  che  Assagora  fa  come  gli  altri  tìsici, •i  quali  non  ammettono  che  cause  meccaniche,  scfuhbiando per  la  vera  causa  ciò  che  non  è  che  la  <*ondizione  senza di  cui  essa  non  produrrebbe  il  suo   effetto.  (99  b-c)  Per a|q>rendere  (piale  fosse  questa  causa  si  sarebbe  fatto  vo- lentieri il  discepolo  di  chicchessia;  ma  non  avendo  po- tuto uè  ini  parali  j  da  altri  uè  trovarlo  da  se   stesso,  si mise  per  un'  altra  via  alla  ricrerca  d(4la  causa  (99  c-d). Pensò  che  bisognava  guardare  le  cose  non  in  se  stesse, -    200  — —  201   — iiiji  iK*i  Ioni  '/.óyot^  paileDclo  sempre  dal  h'tyn^  cìie  gli seniln-asse  il  iiic<;!:lio stabilito,  e  declucendone  tutto  il  resto (99  d-l(X)  a~  V.  $  9  nota  iniiiia  e  J  12  d.  4  nota  ]ninìa). La  specie  di  causa  die  escogitò  è  quella  di  cui  non  cessa mai  di  parlare,  l'Idea  del  bene,  del  bello,  del  grande  e di  ogni  altra  cosa  (100  b).  E  d'allora  alla  quistione  quale sia  la  causii  d'una  cosa  o  d'  un  suo  attributo,  egli  non dà  che  questa  risposta  assai  semplice,  che  è  l'  Idea della  cosa  o  dell'attributo  (100  c-101  e)  ;  e  se  deve  dare ragione  di  quest'ipotesi,  lo  fa  deducendola  da  un'ipotesi 8U])eriore,  e  cos'i  di  seguito,  sincbè  pervenga  a  un  prin- cipio che  basti  a  sé,  stesso.  (101  d-e  V.  $  9  nota  secon- da) Nel  VII  della  Repubblica  la  conoscenza  ein[Mrica  è distinta  dalla  vera  scienza,  in  quanto  ha  per  oggetto, non  dei  veri  rapporti  causali,  ma  delle  semplici  sequenze invariabili:  tutta  la  scienza  del  prigioniero  nella  caverna si  riduce  a  sapere  come  le  ombre  sogliono  seguirsi  e  ac- com])agnarsì  (V.  $  13  n.  2^*);  ciò  che  implica  che  Platone ha  il  concetto  d'una  causazione  jnù  vera  che  quella  che egli  trova  nel  mondo  delle  cose,  e  che  non  ha  potuto trovare  che  nelle  Idee  e  nella  dialettica.  Alle  dichiara- zioni <li  Platone  dobbiamo  aggiungere  la  testimonianza di  Senocrate,  il  quale  detìnisce  la  filosofia  (che  per  un platonico  non  piu>  essere  altia  cosai  che  la  dialettica) €  la  scienza  delle  cause  jn'ime  e  dell'essenza  intelligibi- le y>  (l;,  e  qu<*lla  d'  Aristotile,  che  cominciii  il  capitolo in  cui  fa  la  critica  del  sistema  delle  Idee,  osstM-vando che  i  partigiani  di  questo  sistema  vi  furono  condotti dalla  ricerca  delle  cause.  (2), (1)  V.   MuUacli   Fraiiiiii.  6i. [2)  Mrt.   1.    I.   IX.   1. Ora  in  (jual  modo  le  Idee  possono   fornire  una  spie- iì:azione  causale  delle  cose?  Fcuse  in  quanto  un'Idea  è la  causa  delle  cose  omonime'!^  in  quanto,  p.  e.,  le  cose belle  sono    tali  per  la  presenza  o  la  partecipazione    del Bello,  le  cose  grandi  pei-  quella  del  Grande,  eccJ  Comun- que s'interpreti  il  rapporto  tra  le  Idee  e  le  core,  è  evi- dente che  questa  non  è  una  spiegazione.  8e  ammettiamo, come  vogliono  la  più  parte  degl'  interpreti,  che  le  Idee siano  fuori  delle  cose,  tutto  il  rapporto  tra  le  Idee  e  le cose  è  che  quelle  sono  i  modelli  e  queste  le  copie  :  ma resistenza  dei  modelli  non  spiega  menomamente  1'  esi- stenza delle  copie.  Ciò  è  sì  evidente    che    gP  interpreti trascendentalisti  sono  stati  costretti  ad  ammettere    che la  dottrina  delle    Idee  non  ha  per  iscopo  di  spiegare  le cose,  ma  di  rendere  possibile  la  conoscenza  (1).  Se  in- vece le  Idee  sono,  come  noi  crediamo,  nelle  cose  stesse —  cioè  se  un'Idea  non  è  che  Fattributo  omonimo  delle cose,  supposto  esistente  per  se  stesso,  ed  uno  e  lo  stenao in  tutti  gli  oggetti  a  cui  viene  attribuito  —  certamente l'esistenza  delle  Idee  porta  necessariamente  con  se  l'esi- stenza, nelle  cose,  degli  attributi  omonimi.  Ma  è  questa una  spiegazione  ?  È  spiegare  le  cose  dire  che  esse  hanno un  certo  attributo  per  la  presenza  o  la  partecipazione  di -iiuest'attributo,  considerato  come  una  realtà  e  ncm  conie lina  semplice  astrazione  ?  È  una  di  quelle  spiegazioni  che il  Bain  chiama  illusorie,  e  che  c<msistono  a  ripetere  in  altri l^ermini  il  fatto  stesso  che  si  tratta  di  spiegare  (nel  nostro easo,  il  fatto  è  tradotto  dal  linguaggio  ordinario  in  quello della  filosofia  realista):  una  spiegazione  perfettamente  si- mile a  quella  del  medico  di  Molière,  che  1'  oppio  fa  donnire perchè   ha  la  virtù  dormitiva  ;  in    uua    parola  non  una (1)  V,  per  qiiest  opinione  il  Sappi.  B  parte  I.  n.  3. spiegazione,  ma  iiua  pura  tautologia.  Qualunque  sia tlunque  il  modo  d'interpretare  le  Idee,  che  esse  siana immanenti  o  trascendenti,  varrà  sempre  [ler  questa  jjarte la  critica  d'Aristotile,  eh'  esse  sono  un  inutile  raddop- piamento degli  esseri,  e  che  Platone  iia  fatto  com(»  aK cuno  che,  volendo  contare  un  certo  nuniero  di  oggetti, per  riuscirvi  più  facilmente,  ne  aggiungesse  degli  altri. Noi  non  abbiamo,  per  cimseguenza,  la  scelta  che  fra  due  i- potesi  :  o  le  Idee  non  hanno  alcuna  reale  ethcienza  né alcun  vah)re  reale  cernie  principii  esplicativi,  o  se  li  hanno, noi  dobbiamo  cercarli,  non  nel  loro  rapporto  con  le  cost^ ma  nei  loro  rapporti  fra  di  loro,  cioè  nella  dialettica. Ciò  vuol  dire  che  Platone  ha  voluto  spiegare,  non  le  e- sistenze  particolari,  ma  :e  forme  generali  di  <|ueste  esi- steuze  —  spiegare  significa  mostrare  il  modo  in  cui  le cose  si  producono  —,  e  la  sua  spiegazione  consiste  in  ciò, ch'egli  deduce  queste  forme  le  une  dalle  altre,  a  partire da  un  primo  principio  assiomatico,  e  le  riguarda  come esistenti  per  se  stesse,  affinchè  questji  deduzione  sia  al tempo  stesso  una  produzione  reale.  È  solo  a  questa  con- dizione che  la  dottrina  delle  Idee  è  una  dottrina  liloso- fica. Noi  osserveremo  infine  che  1'  identilà  dello  svilupfio logico  con  l'ontologico  è  suppost4i  dall'inseimrabilità  che ]*latone  stabilisce  fra  la  scienza  o  la  dialettica  e  le  Idee. È  una  sua  dottrina  costante  che  la  dialettica  non  ha  \ìer oggetto  che  le  Idee  (1),  e  cosi  puie  la  scienza  (2).  Ciò non  è,  come  potrebbs  credersi,  perchè  il  «concetto  gene- rale si  riferisce  all'  Idea:  infatti,  come  vediamo  nel  Ti- meo 59  c-d  e  nel   Filebo  59  a-b,  egli  dà  per  ogg<*tto  alle (1)  V.   /*/.  r)7  e  —  Tiil  d,  ò'o/.  25S  r  —  254  a.   Hejj.  5:52  a  —  534 e.  eoe. (2(  V.  Jiep.  47«  e  -180  a.  5(«>  il -511  e.  538  l>— 534  a.  ecc. —  203 ricerche  fisiche,  quantunque  evidentemente  esse  si  rife- riscano al  generale  e  non  al  particolare,  non  le  Idee  j ma  i  semplici  fenomeni.  La  dialettica,  invece  di  dedurre le  Idee  stesse,  potrebbe  dedurre  i  generi  e  le  specie  delle cose  che  le  Idee  rappresentano  :  ma  in  questo  caso  la deduzione  non  sarebbe  una  derivazione  reale,  perchè, come  abbiamo  più  volte  osservato  e  come  spiegheremo più  chiaramente  in  seguito,  è  la  sostantifìcazione  dei concetti  che  trasforma  il  nesso  logico  fra  di  loro  in  un nesso  ontologico.  Ora  la  deduzione  per  Platone  deve  es- sero  una  derivazione  reale  —  senza  di  che  essa  non  sa- rebbe una  spiegazione— :ecco  perchè  la  scienza,  il  cui  ca- rattere essenziale  è  il  metodo  deduttivo,  e  la  dialettica, che  non  è  che  un  altro  nome  per  significare  questo  me- todo, non  possono  avere  secondo  lui  altro  oggetto  che  i concetti  sostantitìcati.  Questo  ci  fa  comprendere  pure  un argomento  del  Parmenide  (135  b-c;  per  istabilire  l'esi- stenza delle  Idee,  cioè  che  se  non  si  ammettessero  ciue- ste,  si  distruggerebbe  la  dialettica;  e  unakro,  che  non ne  è  che  una  variante,  del  Timeo  (51  d  —  52  a),  in  cui l'esistenza  delle  Idee  si  fa  dipendere  dalla  difì'erenza  fra la  scienza  e  l'opinione  vera,  cioè,  al  fondo,  dalPesistenza «tessa  della  scienza.  In  un  senso  si  ha  ragi<me  di  dire che  la  dottrina  delle  Idee  ha  per  iscopo  di  rendere  la scienza  possibile.  Le  Idee,  senza  la  dialettica,  non  avreb- bero alcun  valore,  ma  questa  senza  di  quelle  sarebl>e un  semplice  metodo  subbiettivo,  e  non,  come  è  per  Pla- tone, la  rappresentazione  del  processo  stesso  per  cui  le cose  si  producono;  quindi  le  Idee  non  hanno  altro  scopo che  di  rendere  la  dialettica  possibile.  Per  la  trasforma- zione delle  veritji  generali  in  esseri  generali,  l'incatena- mento  deduttivo  divenendo  un'  incateuamento  causale  y la  scienza  si  trova  costituita,  perchè  essa  è,  come  dita poi  Aristotile,  la  conoscenza  della  causa. $  16.  Noi  abbiamo  esposto  sin  qui  (salvo  un  sol  punto, -  204  — <5Ìoè  rassegnazione  del  posto  di  primo  principio  all'  Idea del  Bene)  i  caratteri  della  dialettica  platonica  che  essa ha  comuni  con  gli  altri  sistemi  costruiti  sullo  stesso  tip<», <ihe  noi  chiamiamo  realismo  dialettico:  ci  restano  ad  e- ^porne  i  caratteri  propri  e  distintivi.  Quest'ordine  a  cui ci  conformiamo,  per  quanto  ci  è  possibile,  nella  nostra esposizione,  ci  è  consigliato  dalla  natura  stessa  del  sog- getto La  deduzione  di  Platone,  di  Hegel  e  di  rutta  que- sta famiglia  di  metafìsici  non  è  niente  affatto  una  de- duzione nel  senso  ordinario  e  vero  di  questo  termine  ; e  ciò  per  questa  ragione  assai  semplice,  che  il  vero  me- todo deduttivo,  quello  che  la  logica  (udinaria  chiama così,  non  si  presterebbe  all'applicazione  che,  nei  loro  si- stemi, pretendono  fare  di  questo  metodo.  È  evidente  che questi  filosofi,  poi  metodi  particolari  ch'essi  hanno  im- maginato, si  sforzano  di  imitare,  per  (juanto  è  possibile, ciò  che  la  logica  chiama  il  metodo  deduttivo  :  tutta  la forza  e  il  valore  dei  loro  sistemi  è  in  quest'  apparenza <ìi  deduzione,  di  cui  sono  obbligati  a  contentarsi,  in  di- fetto di  una  deduzione  reale.  Ma  le  loro  imitazioni  (si pensi  p.  e.  alla  deduzione  di  Hegel),  sono  sì  difformi  dal loro  modello,  che  sarebbe  impossibile  di  comprendere  lo scopo  e  il  significato  di  questi  metodi,  se  non  si  sapesse prima  (piai  è  l'ideale  di  metodo  ch'essi  cercano  di  rea- lizzare,  approssimativamente  e  alhmtanandosene  in sensi  differenti.  Ecco  il  perchè  dell'ordine  che  ci  siamo tracciati  nell'esposizione  del  metodo  platonico.  La  stessa eccezione  che  siamo  stati  obbligati  di  fare  alla  regola che  ci  siamo  proposta— perchè  senza  di  ciò  non  avrem- mo potuto  stabilire  gli  allri  punti  della  dottrina  che  ab- biamo trattati  —  è  appena  se  è  un'eccezione.  Tutto  ciò, infatti,  che  abbiamo  detto  del  primo  principio  di  Platone —  salvo  questo  nome:  <  il  bene  >,  c<m  le  suggestioni che  esso  implica  —  potrebbe  convenire  ugualmente  allo -«assioma  eterno»  di  Taine,  o  alla  Sostanza  di  Spinoza, __  —  205  — o  all'Assoluto  di  Schelling.  Noi  non  sappiamo  altro  sin qui  se  non  che  il  concetto  primitivo  da  cui  tutti  gli  altri si  deducono,  è  chiamato  da  Platone  l'Idea  del  Rene:  ma. qua!  è  precisamente  il  contenuto  di  questo  concetto  ?  e (piale  la  sua  relazione  con  gli  altri  concetti  ?  È  da  questi due  punti  che  cominceremo  il  resto  della  nostra  espo- sizione. La  relazione  dell'  Idea  del  ]5ene  con  tutte  le  altre  è quella  del  genere  con  le  specie:  ogni  Idea,  e  per  conse- guenza,  ogni  cosa  è  una  determinazione  o  una  forma particolare  del  bene  (rò  «/«.'/ó//,  che  varrebbe  forse  me- glio tradurre:  il  buono).  Così  secondo  la  Repubblica  (533 b-c)  il  dialettico  definisce  1'  Idea  del  Bene,  astraendola (à(ùeh(^y)  da  tutte  le  al  tre  (1);  secondo  il  Filebo  (54  a-c)  ogni essenza  è  nella  classe  del  bene;  secondo  il  Fedone  (1.  e. al  $  13  n.  3)  ciò  che  esiste  è  sempre  l'ottimo,  e  il  bene h^^a  Q  contiene  tutte  le  cose;  secondo  il  Timeo  tutto  ciò che  è  fatto  secondo  un  modello  eterno  (cioè  secondo  una Idea)  è  bello  (28  a-29  a  —  il  bello  per  Platone  è,  come diremo  in  seguito,  identico  al  bene),  e  il  Demiurgo,  nella creazione  dell'universo,  volle  che  ogni  cosa  fosse  buona, per  quanto  era  possibile,  e  costruì  il  bene  in  tutto  ciò^ che  fu  generato  (29  e— 30  b,  48  a,  68  e,  ecc.)  Delle  prove ancora  più  concludenti  troviamo  in  Aristotile.  Noi  ab- biamo già  visto  che  il  primo  principio  platonico  (che  A- ristotile  chiama  abitualmente  l'Uno  o  l'Essere,  e  che  i- dentifìca  al  Bene)  è  1'  essenza  comune  di  tutte  le  Idee (§  14),  e  l'astrazione  suprema  in  cui  tutto  si  unifica  ($  15 n.4«)(2).  A  queste  indicazioni  aggiungeremo  queste  altre (1)  V.  per   quest'  espressione  e  le  altre  analoghe  di  cui  Pla^ tone  si  serve  per  indicare  l'astrazione,  il  Suppl.  B  n.  6°  sulla  fine. (2)  Coint»  abbiamo  osservato  al  6  6<)  n.  4^  la  tendenza  del  rea* —  206  — (per  coiupreiulere  la  ciji  portata  iiou  si  deve  dimenticare  che l'Uno  o  Essere  deiresposizione  aristotelica  non  è  altra  cosa €he  il  Bene  della  Repubblica):  L'Uno  è  1'  sló'oz  e  \a  forma di  tutti  i  numeri  (cioè  di  tutte  le  Idee)  (1),  e  <|uesti  sono con  esso  nello  stesso  rapporto  clie  le  specie  col  gene- re (2'.  L'identità  dell'Uno  col  Bene  e  dei  numeri  con  le Idee  ha  per  conseguenza  che  tutte  le  Idee  e  tutte  le  cose sono,  seccmdo  Platone,  dei  beni  (3).  L'Uno  o  l'Essere  è l'Idea  più  universale  (4)  :  essa  non  è  Kemplicemente  un universale,  ma  un  genere  (5);  è  il  prim<t  genere^  cioè  il genere  sonnno(6),che  si  predica  di  tutte  le  cose  e  in  cui tutte  le  cDse  sono  contenute  (7).  Notiamo,  infine,  Targo- mento  con  cui  si  dimostrava  l'esistenza  del  Non  Essere,  che, se  non  esistesse  questo,  tutti  gli  esseri  si  ridurrebbero  ad un  solo,  l'Essere  stesso  (8):  esso  sup[K>ne  che  il  contenuto d'ogn'Idea  consti  di  due  parti,  la  comune  o  generiCii, che  è  l'Essere,  e  la  propria  e  distia  ti  va^  che  non  essendo l'Essere,  può  essere  compresa  sotto  il  concetto  generale del  Non  Essere.  Del  resto  è  si  ovvio  che  Platone  abbia ammesso  l'universalità  assoluta  dell'Idea  dell'Essere,  che lisnio  dialettico  :i  risolvere  il  tutto  uel  primo  priucii)io  deve  ren- lizzarsi  d'una  maniera  più  completa  in  un  sistema,  in  cui,  cimie in  quello  di  Platone,  il  primo  principio  è  al  tempo  stesso  il  con- cetto più  generale  nel  quale  tutti  gli  altri  sono  compresi. (1)  V.   AfeL  1.  I.   VI.  H.   l.    XIII.   IX.  24-28.  1.   XIV.   1,  4. (2)  Mei.  1.   XIII.   IX  5. (:^)   3[et.  1.   XIV.   IV.  5-(). (4)  Met.  1.  III.  III.  7,  13,  1.  III.   IV.  24,  ecc. (5)  Mei.  l.  I.   IX.  24,  1.  III.  III.  7,  8,  13.  1.  Vili.   VI.  «.  1.   X. II.  2,  1.  XI.  I.   11. (6)  Mei.  1.  111.  III.  7-8.  13,  1.   XI.   I.  11. (7)  3Iet,  1.  I.  VI.  7,  1.  III.  III.  7-8.  1.  VIII.  VI,  H,  1.  X.  11. 1-^2,  1.  XI.  I.  11,  ecc. (8)  Mei.  1,   XIV.   II.  4. -   207   — noi  avremmo  potuto  su  questo  punto  dispensarci  di  qual- siasi prova,  limitandoci  a  ricordare  il  punto  realmente importante,  cioè  l' identità  fra  quest'  Idea  e  quella  del Bene  (1). Ora  <|ual  è  il  signilicato  o,  come  abbiamo  detto,  il contenuto  dell'Idea  del  Bene  ?  di  quest'Idea  che  Platone identifica  con  quella  dell'Essere,  peichè  vi  vede  il  piano o  il  tipo  generale  secondo  cui  tutti  gli  esseri  sono  co- stituiti ?  Elevando  il  concetto  del  bene  (o,  piuttosto,  del m buono)  a  tipo  universale,  Platone  vuol  dire  evidente- mente :  che  tutte  le  opere  della  natura  sono  ben  fatte, che  da  per  tutto  domina  il  principio  delle  cause  finali, e  che  1'  universo  dev'  essere  spiegato  teleologicamente . Così    Aristotile    fa    corrispendere  il  Bene  platonico  alla |1)  Nel  periodo  pitagoreggiante,  in  cui  al  mtnisitio  h  sosti- tuito il  dualismo^  V  elemento  materiale  è  altrettanto  univorsak*. e  della  stessa  maniera,  che  l 'elemento  esaemiale.  Per  più  anq>i sviluppi  su  questo  punte»  rinviamo  al  Suppl.  B  parte  1»  n.  7,  B, e  al  Suppl.  C.  /  (Ine  clementi:  e  intanto  citiamo:  Platone  Sof.  2.">fi d-25ii  h  (universalità  assiduta  del  No)i  Essere  —  che,  come  ve- dremo, non  è  altro  che  la  Materia  dell'esposizizionc  aristotelica —  e  sua  inerenza,  come  attributo,  in  tutte  le  Specie),  Aristotile Phys.  1.  III.  VI.  11  (il  Grande  e  Piccolo,  cioè  la  Dualità  inde- finita, contiene  tutti  i  sensibili  e  tutti  gl'intelligibili).  Mei,  l.  III. III.  .5  (i  platonici  sembrano  servirsi  dell'Uno  o  Essere  e  del  Grande e  Piccolo  come  di  generi),  1.  V.  III.  1  (gli  elementi  sono  i  massi- mamente universali)  e  1.  XII.  X.  4  e  1.  XIV.  IV.  7  (l'elemento  ma- teriale  essendo  identico  al  male,  tutti  gli  esseri  devono  partecipare al  male  —  si  noti  che  nel  linguaggio  platonico  la  partecipazione  di un'Idea  è  hi  sua  inerenza  quale  attributo  —  ).  Nel  terzo  dei  luoghi citati  Aristotile  dice  sembrano,  perchè.  quautun<iue  il  principio materiale  abbia  lo  stesso  dritto  ad  assere  riguardato  come  ge- nere, pure  Platone  non  considera  come  tale  (e  quindi  anche  cmue Idea)  che  il  principio  essenziale. —  208  — 8iia  causa  fiuale,  al  rò  oi'J  'ty^xx  (1).  Vi  ha  però  fra  i  due  coll- idetti questa  differenza,  clie  il  bene  di  Platone  non  può  signi- ficare il  fine  per  cui  una  cosa  esiste,  come  il  rò  ov  tPBxa di  Aristotile,  perché  in  questo  caso  non  sarebbe  l'essenza stessa  della  cosa  (2).  Piuttosto  che  il  fine  stesso,  esso  in- dica  dunque  l'appropriazione  delhi  cosa  a  «piesto  fine: in  altri  termini,  ogni  cosa  è  buona,  per  Platone,  in  quanto è  appropriata  a  un  certo  scopo,  e  questa  proprietà  ge-^ uerale  delle  cose  di  avere  degli  scopi  ed  esservi  appro- priate, considerata  in  astratto  e  sostantificata,  si  chiama l'Idea  del   Bene. Il  miglior  commentario  della  dottrina  sul  Hene  è  il suo  legame  col  concetto  di  una  mente  ordinatrice.  Noi abbiamo  visto  come  nel  Fedone  la  proposizione  che  tutto è  il  meglio  possibile,  è  presentata  come  una  conseguenza (1)  V.  Mei,  1.   I.   VII.  4-5.   IX.  21. (2)  È  perciò  che  Aristotile  uega  che  Phitoiie  uhbhi  aiumestitt^ nel  senso  proprio,  la  ciuisa  iiuale.  V.  Mvt.  l.  l.  VII.  4..5,  1.  ^^, Da  (luesto  luogo  e  «lall'altro  citato  nella  nota  precedente  (in  cui dice  che  le  Idee  non  hanno  niente  a  fare  con  la  causa,  finale, quantunque  Platone  ahhia  fatto  di  questa  uno  dei  due  principii) fti  h  concluso  ohe  secondo  Aristotile  il  suo  maestro  ha  omesso  il principio  delle  cause  finali.  La  verità  è  che  Aristotile  atterma  non che  egli  ha  omesso  questo  principio,  cioè  la  dottrina  che  vi  hanno dei  fini  nella  natura  (ciò  che  sarebbe  un  errore  evidente  e  ine- splicabile) .  ma  che  secondo  lui  il  fine  non  ò  una  causa  ;  e  ciò perchè,  nel  senso  speciale  che  la  parola  causa  ha  nella  dottrina delle  Ideo,  ohe  Aristotile  riguarda  giustamente  come  il  punto centrale  della  filosofia  di  Platone,  non  vi  hanno  per  questi  altr» cause  che  il  principio  essenziale  e  il  principio  materiale.  È  per la  stessa  ragione  che  gli  rimprovera  puro  di  aver  omesso  la  causa efficiente  (v.  MtL  1.  I.  VI.  7. 1.  I.  VII.  3,  1.  I.  IX.  21,  eco.) .  quan- tunque r  anima  sia  evidentemente  per  Platone  una  causa  effi- ciente, nel  senso  aristotelioo,  cioè  motrice. —  209  — della  dottrina,  desiderata  in  Anassagora,  che  il  Nous, causa  prinui  dell'universo,  ha  disposto  tutte  le  cose  nel miglior  modo  in  cui  potevano  esserlo.  Il  desideratuìu  del Fedone  è  realizzato  nel  Timeo.  Ecco  in  breve  la  cosmo- gonia che  ci  è  narrata  in  questo  dialogo.  Il  mondo,  cioè l'universo  ordinato,  il  cosmos,  è  1'  opera  di  un  artefice supremo  (demiurgo),  che  si  è  associati,  come  esecutori dei  suoi  disegni,  altri  artefici  inferiori  (divinità  generate dal  demiurgo).  Prima  dell'azione  demiurgica  la  uiateria era  in  uno  stJìto  caotico:  Dio  volle  che  ogni  cosa  fosse buona,  e  cangiò  il  disordine  primitivo  nelFordine  attuale, servendosi  come  di  mezzi  delle  cause  materiali,  ma  co- struendo egli  stesso  il  bene  in  tutto  ciò  che  produceva  (1) Egli  (il  demiursjjo)  diede  la  forma  agli  elementi,  ne  com- pose il  corpo  del  mondo,  produsse  l'anima  e  gli  animali immortali  (cioè,  oltre  il  mondo  stesso,  la  terra  e  i  corpi celesti)  ;  le  divinità  generate,  imitando  la  sua  potenza creatrice,  produssero  i  vegetali,  l'uomo  e  gli  altri  ani- mali mortali.  Il  Demiurgo  e  gli  Dei  generati  agiscono, in  tutto  ciò  che  fanno,  con  un  piano  e  per  uno  scopo  : per  ogni  cosa  prodotta,  Timeo  ci  mostra  la  provvidenza e  i  savi  consigli  della  divinità  che  hanno  presieduto  alla sua  produzione  (2).  Egli  distingue  due  generi  di  cause, la  necessaria,  che  non  è  che  una  concausa,  i  cui  effetti sono  fortuiti  e  irregolari,  e  la  divina,  che  produce  con intelligenza  il  buono  e  il  bello  (3).  Il  meccanismo  delle cause  finali  è  assimilato  così  completamente  al  suo  tipo, cioè  all'art^e  umana,  cjie  la  creazione  del  Timeo  può  dirsi, a  rigor  di  termini,  una  vera  fabbricazione  (4). (1)  Tim.   30  a,  46  c-d,  68  e. (2)  Tim,   30  b,  31  e— 32  e,  32  e  -33  a,  33  b,  33  e— 34  b,  38  o, 39  b,  40  a-b,  4 1  e,  eco. (3)  Tiii^.   46  o-e,  48  a,  68  e  —  69  a. (4)  V.  Tim.   33  b,  36  b— e,  73  e,  74  c-d,  76  b-c,  ecc. 14 —  210  — Sarebbe  difficile  di  dire  sino  a  qiial   punto  la  teleo- logia di  Platone  è  realmente,  come  apparisce  nel  Fedone e  sovratutto  nel  Timeo,  una  teleologia  trascendente,  cioè implicante  un  agente  iperfìsico,  analogo   alla   volontà umana.   È  una  dottrina  non  dubbia  del  nostro  autore che  l'anima  è  la  causa  prima  del  movimento,  per  con- seguenza di  ogni  fenomeno,    e    che  quella  che  governa il  mondo  è  l'anima  migliore,  cioè  intelligente  (come  di- mostrano i  movimenti  dei  corpi  celesti),  e  agente  sempre in  vista  del  bene.  (1)  Ma  non  ne  segue  che  il  bene  deve essere  spiegato   interamente  per  V  anima.  Vi  hanno  al- meno due  casi  in  cui    questa    spiegazicme  è  certamente inapplicabile:  l'anima  non  ha  potuto  produrre  se  stessa (che  è  anch'  essa  una  specie  del  Bene),  né  niente  di  ciò ch'è  eterno,  perchè  essa  è  una  causa  che  agisce  nel  tem- po, e  la  cui  efficienza  è  semplicemente  motrice.  Ora  come vedremo  nel  Suppl.  C  (2),  il  mondo,  cioè  il  sistema  at- tuale  dell'universo,  è,  secondo  Platone,  eterno,  e  la  co* smogonia  del  Timeo  non  deve  essere  presa  in  senso  let- terale. In  quanto  al  Demiurgo,  la  cui  funzione  è  di  pro- durre ciò  che  non  potrebbe  essere  prodotto  dall'anima, esso  non  è  che  un  simbolo  dell'Idea  del  Bene:  la  causa immanente  del  Bene  è  rappresentata  come  un  agente  e- steriore  e  personale  (3).  Non  vi  ha  dubbio    quindi    che la  teleologia  platonica  non  sia,  sino  ad  un  certo  punto, immanente  :  in  un  senso,  essa  lo  è  anche  interamente, perchè  anche  nei  casi  in  cui  il  bene  deve  essere   spie- gato per  l'  anima,  questa  non  ne  è  la  causa  che  in  un (1)  V.  Leg.  891  c-898  e,  903  b-d,  966  d— 967  d,  Epinom.  982 a— 983  d,  988  o-e,  Fedro  245  e— 246  e,  FU.  26  e— 30  d,  Sof,  265 b— 266  e,  Rep.  379  a— 380  e,  ecc    Confr.  il  Suppl.  D. (2)  Il  pitagorismo  nel   Timeo. (3)  V  il  Suppl.  C.  //  pitagor.  nel  Tim, —  211  — senso,  per  dir  così,  fisico,  cioè  come  un  semplice  ante- cedente. La  vera  causalità  sta  nella  connessione  logica delle  Idee,  e  in  questo  senso  il  bene  non  ha  altra  causa che  se  stesso,  perchè  il  bene  nelle  cose  non  è  che  l'Idea stessa  del  Bene,  e  questa  è  una  necessità  primordiale dell'  essere,  il  principio  assolutamente  primo  che  non suppone  niente  prima  di  sé  (l).  Perchè  dunque  questa etessa  teleologia  immanente  è  rappresentata  da  Platone come  una  teleologia  trascendente  "?  Perchè  egli  sa  che  il concetto  di  finalità  incosciente  non  può  essere  compreso che  per  quello  di  finalità  cosciente  (1).  Il  fine  è  un'idea essenzialmente  umana,  e  applicarla  alla  natura  è  stabi- lire un'analogia  fra  le  sue  produzioni  e  quelle  della  no-» (1)  €  Vi  hanno  in  Platone,  dice  Janet  (Le  cause  finali  Appen- dice IX)  due  teorie  della  iiualità  l'una  metafisica,  l'altra  tìsica. Secondo  1'  una,  le  cose  sono  buone  perchè  partecipano  al  bene  ; secondo  l'altra  le  cose  sono  buone  perchè  sono  fatte  per  il  bene. Nel  primo  caso  la  finalità  è  immanente  e  deriva   da  una    causa impersonale  :  nel  secondo    caso  è  trascendente,  e    suppone   una causa  personale.  »  Bisogna  aggiuugere  però  che  la   prima  teoria si  applica   universalmente  a  tutte  le  cose,  mentre    la    seconda, nella  sua  applicazione,  è  necessariamente    limitata.    Inoltre  po- trebbe dubitarsi  se  le  due  teorie   siano    realmente    inconciliabili come  crede  il  Janet:  esse  non  lo  sono  che  se  si  ammette  che  la spiegazione  del  realismo  dialettico,  che  rende    ragione  dei  fatti deducendoli    da  principii   logicamente  anteriori,    è  incompatibile con  la  spiegazione  fisica,  che  ne  rende    ragione   per    altri    fatti anteriori  cronologicamente  (antecedenti  invariabili).  Il  contrasto, qualunque  esso  sia,  delle  due  teorie  della  finalità  non  è  che  quello delle  due  dottrine    distinte    della    metafisica  di  Platone,  quella delle  Idee  e  quella  dell'anima,  e  dei  due  concetti  distinti  della causalità  di  cui  queste  due  dottrine  sono  l'applicazione. (2)  Si  vedano  pure,  sui  motivi  del  simbolismo  del  Timeo,  le altre  considerazioni  che  facciamo  nel  Suppl.  C.  Pitagor,  nel  Tim. —  212  — stra  attività.  L'espressione ^/mZ?7à  incosciente  o  immanente non  è  che  un'  enunciazione  più  breve  di  questa  propo- sizione: che  i  prodotti  della  natura  sembrano^  quantun- que non  lo  siano,  gli  effetti  di  un'attività  cosciente,  a- gente  con  un  piano  e  per  uno  scopo.  Ogni  definizione possibile  della  finalità  deve  tornare,  in  ultima  analisi,  a quella  di  Reid,  in  quel  suo  principio  metafisico  che  ha tutta  l'apparenza  d'una  tautolo.i^na:  «I  sefjni  deW  intelli- yenza  e  del  diserjno  nell'effetto  provano  un  disegno  e  una intelligenza  nella  causa.  »  (1)  Questo  è  dunque  il  con- cetto che  Platone  sviluppa  nel  Timeo  e  nel  Fedone:  le cose  della  natura  o  sono  effettivamente  l'opera  d'un'in- telligenza  agente  con  un  piano  e  per  uno  scopo,  o  sono costituite  come  se  fossero  l'opera  d'una  tale  intelligenza. È  perchè  sono  costituite  così  che  esse  si  chiamano  buone, e  questa  costituzione  stessa,  concepita  aviò  xaO'  abtó^ è  l'Idea  del  Bene,  forma  comune  di  tutti  gli  esseri  (2). Questo  significato  dell'Idea  del  Bene  risulta  nettamente dai  caratteri  per  cui  Platone  la  definisce.  Alcuni  di  questi (1)  Reid  Saggi  sulle  facoltà  inlelleUunU  delVnomo.  Saggio  6» oap.  6". (2)  Anche  nel  Gorgin.  506  d,  il  concetto  del  Bene  è  chiarito per  la  sua  analogia  con  la  finalità  umana.  «  Noi  siamo  buoni, noi  e  tutte  le  altre  cose  che  sono  huone  .  per  la  presenza  di qualche  virtù.  .  .  .  Ma  la  virtù  di  ciascuna  cosa,  o  strumento  o corpo  o  anima  o  qual  si  voglia  essere  animato,  non  vi  si  trova all'avventura,  ma  si  deve  all'ordine,  alla  regola  e  all'arac  che sono  stati  posti  in  ciascuna  di  queste  cose  ».  Qui  la  parola  arle^ in  quanto  si  applica  agli  oggetti  naturali,  sembra  non  avere  che un  valore  metaforico,  come  quando  noi  [>arliamo  dell'ar^t^^io  della natura  —  Kant  dice:  la  tecnica  della  natura  (Critica  del  giudizio, passim)  —  senz^ivere  perciò  Tintenzione  di  personificarla,  ma  u- nicamente  per  indicare  V  analogia  fra  certi  prodotti  naturali  e quelli  dell'industria  umana. -  213  - caratteri  non  sono  che  delle  espressioni  generiche  della idea  di  finalità:  l'ordine  (raf^c,  xófruog)  (1)  raccordo  fra i  vari  elementi  di  un  tutto  (2),  la  proporzione  (3),  il  mi- surato (4),  l'opportuno  (5).  ecc.  Una  determinazione  più precisa  è  1'  appropriazione  di  ciascuna  cosa  alla  sua  fun.- zione:  la  virtù  o  la  bontà  dell'occhio  è  di  essere  appro- priato alla  vista,  dell'orecchio,  all'udito,  ecc.  (6).  Ma  questa definizione  non  conviene  che  a  quella  che  si  è  chiamata finalità  di  uso  o  di  appropriazione,  e  il  cui  tipo  è  l'or- ganizzazione degli  esseri  viventi,  in  cui  le  diverse  parti sembrano  fatte  l'una  per  l'utilità  dell'altra,  e  tutte  per l'utilità  dell'insieme.  Così  nel  Timeo,  descrivendo  la  for- mazione degli  animali,  Platone  non  manca  di  mostrare, per  <iuanto  glielo  potevano  permettere  le  sue  conoscenze fisiologiche,  1'  uso  di  cia^^cuna  parte  e  lo  scopo  per  cui è  stata  costruita  così  (7).  Da  questa  specie  di  finalità  pos- siamo distinguere  col  Janet  (8)  quella  che  egli  chiama finalità  di  piano,  e  per  cui  tipo  possiamo  prendere  i  movi- menti regolari  del  nostro  sistema  planetario.  È  sovratutto comefinalitàdi  pianoche  il  bene  è  realizzato  dal  Demiurgo: nei  movimenti  regolari  degli  astri  (9;,  nella  forma  sferica del  cielo  e  dei  corpi  celesti  (10),  nelle  forme  dei  corpi  ele- (1)  Gorg.   503  e— 504  d,  505  d-e,  Tim.   30  a,  Bep.   500  c-e,ecc. (2)  FU.   25  e  —  26  d,  «3  d  —  64  a,  Sof.   228  a,  Bep,   441  e  — 444  b,  Bep.   591  d.  ecc. (3)  FU.   64  d  —  65  a,  66  a-b,  Tim.   87  e  —  88  e. (4)  FU.   64  d-e,  66  a-b. (5)  FU.   66  a (6)  Bep.   352  e  —  354  a.  V.  ancbe  601  d. (7)  V.  Tim.   44  e  —  47  d,  69  e  —  76  e,  77  e  —  79  a. (8)  Le  cause  finali  1.  I  cap.  V.  pag.  227  e  seg. (9)  V.   Tim.  34  a  —  40  d  Cfr.  Leggi  896  e  -  898  e  e  966  e— 967  a. (10)  Tim.  33  b  e  4i)  a. —  214  — mentari,  che  sono  ì  poliedri  re^ijolari  della  geonietria(l),iiella proporzionalità  fra  i  quattro  elementi  di  cui  è  composto il  corpo  del  mondo  (2),  e  in  una  parola  in  tutto  ciò  che è  prodotto  dal  Demiurgo  stesso.  Nel  periodo  pitagoreg- gìante  questa  forma  di  finalità  prende  il  passo  sull'altra^ prestandosi  più  facilmente  a  un'  interpretazione  mate- matica: così,  secondo  VEpidomide  (3),  il  numero  è  la  causa di  tutti  i  beni,  ed  è  «  assente  da  ogni  movimento  in  cui non  vi  ha  né  ragione  uè  ordine  né  beltà  né  ritmo  né armonia,  e  in  generale  da  tutto  ciò  che  partecipa  a  qual- che male.  »  In  questa  forma,  il  Bene  si  manifesta  nelle essenze  stesse  dei  numeri  come  ordine  regolare  ed  im- mutabile (4). Il  principale  ostacolo  all'  intelligenza  di  questa  dot- trina di  Platone  é  che  una  dottrina  essenzialmente  on- tologica é  presentata  da  lui  come  una  risposta  a  una quistione  puramente  etica  (5).  Alla  domanda  dei  socra- (1)  Tim.  53  b  —  5p  e. (2)  Tini,  31  b  —  32  e,  56  e,  69  b. (3)  978  a-b. (4)  Arist.  Eth,  End.  1.  I.   Vili.  12-13. (5)  Ciò  fa  prima  di  tutto  per  evitare  T  inverosimiglianza  di attribuire  a  Socrate  delle  rioercbe  troppo  diverse  da  quelle  obe gli  erano  abituali;  nel  cbe,  oltre  un  intento  letterario,  vi  ha  l'in- tenzione seria  di  riattaccare  le  proprie  dottrine  a  quelle  di  lui^ facendo  vedere  cbe  non  ne  sono  cbe  uno  sviluppo  (su  questa  ten- denza di  Platone  a  riattaccarsi  ai  lilosofi  precedenti,  v.  Supple- mento C.  //  Pitagorismo  nel  Timeo  e  nel  Fileho,  sul  principio; Sono  gli  stesM  motivi  per  cui,  nell'esposizione  della  teoria  delle Idee,  gli  esempi  più  abituali  sono  dei  concetti  morali,  o  di  cui  si fa  uso  continuamente  nella  conversazione  ordinaria:  p.  e.  il  buo- no, il  giusto,  il  bello,  il  grande,  il  piccolo  ecc.  (nel  Parmenide  — V.130  b-e— Socrate  esita  se  deve  ammettere  Idee  dell'uomo,  del  fuo- co, dell'acqua  e,  in  una  parola,  degli  oggetti  della  natura.)  Sembra —  215  — tici:  quale   il    bene   per    noli  in    altri  termini,  in  che consiste  la  felicità  umana  ?  egli  risponde  con  una  teoria sul  bene  delVuniverso.  Il  Bene,  essenza  comune  di  tutto ciò  che  esiste,  é  questo  stesso  bene,  a  cui  ogni  anima  a- spira,  facendo  tutto  in  grazia  di  esso  (1),  che  alcuni  ri- ducono al  piacere  ed  altri  all'intelligenza  (2),  ma  che  è superiore  all'uno  e  all'altra,  perchè  esso  è  perfetto  e  pie- namente sufficiente,  mentre  nessuno  si  contenterebbe  di una  vita  di  piacere  senza  intelligenza  né  di  una  vita  di intelligenza  senzii  piacere  (3).  Evidentemente,  questa  i- dentificazione  non    importa  per  Platone  che  il  concetto della  felicità  sia  identico  a  quello  del  Bene,  oggetto  su- premo dell'  ontologia,  perchè  noi  non  potremmo   attri- buirgli il  non  senso  che  la  forma  o  essenza    comune  di tutto  ciò  che  esiste,  è  la  felicità.  La  felicità  è  un  bene, non  il  bene,  vale  a  dire  non  è  che  una  delle  specie  con- tenute nel  genere  supremo    Nondimeno  Platone  può  ri- guardare il  possesso  della  felicità  come  la  stessa  cosa  che quello  del  Bene,  perchè  questo  stato  desiderabile  dell'a- nima, in  cui  consiste  la  felicità,  è  tale,  e  non  il  suo  con- trario, per  la  partecipazione  o  parusia   del  Bene.  Così, questo  Bene  la  cui  parusia  nella  vita   umana  costituisce la  felicità,  essendo  quel  Bene  stesso  che  ò  il  piano  ge- nerale secondo  cui  tutti  gli  esseri   sono   costituiti,  alla inoltre  che  Platone  abbia  paura  cbe  lo  si  accusi  di  smarrirsi  in speculazioni  oziose:  è  un  resto  di  quell'utilitarismo  socratico  (v. Senof.  Memorah.  l.  4»  o.  7o),  di  cui,  pur  ridendosene  qualche volta  (v.  Rep.  527  d-e),  dà  un'esempio  non  dubbio,  quando  ban- disce i  poeti  dalla  sua  repubblica  (v.  l.  3o  392  d— 398  b,  e  1.  lOo 595-608  b(1)  Bep.  505  e. (2)  Rep,  505  a-d,  FiL  20  c-22  e,- 60  b-61b,  66  a,  66  d-67  a. (3)  V.  i  luoghi  del  FU,  citati  nella  nota  precedente. k —  216  — domanda:  quale  sia  il  bene  per  «oif  egli  può  rispondere dicendo  quale  è  il  bene  delV universo.  Facendo  cosi,  non confonde  la  quistione  etica  con  la  quistione  ontologica, ma  considera  la  prima  come  un  caso  della  seconda  (1). Per  ricondurre  il  bene  suhhiettivo.  oggetto  dell'etica, al  bene  obbiettivo,  oggetto  dell'ontologia,  Platone  ha  po'- tuto  partire  da  un'osservazione  assai  ovvia,  cioè  il  sen- timento di  soddisfazione  che  accompagna  lesercizio  nor- male delle  proprie  funzioni.  La  legge  della  finalità  nella natura  ha  per  tipo  l'organizzazione  -  è  là  sovratutto  che 1  filosofi  hanno  cercato  il  dominio  delle  cause  finali  (2)- ed  estendendo  (jucsta    legge  a  tutta  la  natura,  Platone non  ha  ftitto  che  generalizzare    una  proprietà  degli  es- seri viventi,  su  cui  Socrate  (3)  ed  altri   pensatori  (4)  a- vevano,  prima  di  lui,  rivolto   1'  attenzione.  Neil'  essere vivente  stesso,  questa  proprietà  si  manifesta  al  più  alto grado,  quando  l'insieme  delle  sue  funzioni  si  esercita  di una    maniera   armonica  e  regolare,   in    una   parola,    nel suo    stato  fisiologico.  Questo    bene   del    corpo    vivente, questa  sua  completa  appropriazione  ili  suoi  fini,  è  avver- tito internamente  come  benessere:  qualche  cosa  di  ana- logo ha  luogo  per  1'  anima.  L'  anima,  che  è  l'essere  vi- vente per  eccellenza,  ha  anch'essa  uno  stato  fisiologico e  uno  stato  patologico:  lo  stato  fisiologico  dell'  anima, la  sua  sanità,  è  la  virtù,  il  vizio  ne  è  la  malattia  (5).  Ora (1)  Confr.  Arist.  Eth.  i\ic.  1.  I.  VII.   U-I(j.  Maf/n.  Mar.  1.  I. I.  23-25. (2)  V.  specialnicDte  Kant  Critica  del  ffiudisio, (3)  V.  Senof.  Memor.  1.   lo  o.  4». (4)  Notevolraente  Ippocrate.  V.  Gnìetìo  De  plaeitis  Ilippr^craiis et  Platonis  1.  9»  e.  8». (5)  V.  Rep.  409  e-410  a,  444  e- 445  h,  H08  e    -  610  o.  Sof. 228  a-e.    Leggi  853  d  —  854  e,  862  ce,  eoe. —  217    — la  vita  virtuosa  è  identica  alla  vita  felice  (1);  ne  segue che  la  felicità  è,  in  ultima  analisi,  lo  stato  ^«io%/co  del- l' anima,  e  che  il  bene  per  noi  non  è  così  che  un  caso del  bene  dell'  universo.  Questa  subordinazione  del  con- cetto etico  del  bene  a  quello  ontologico  fa  che,  per  de- finire il  primo,  Platone  si  serve  delle  stesse  espressioni generali  della  finalità,  che  gli  hanno  servito  per  definire il  secondo.  La  virtù,  che,  come  abbiamo  detto,  s'  iden- tifica con  la  felicità,  è  l'ordine  nell'anima  (2),  l'accordo fra  le  sue  parti  (3),  la  sua  appropriazione  completa  alle sue  funzioni  .4);  e  le  definizioni  del  Filebo,  la  proporzione, il  misurato,  l'opportuno,  si  applicano  al  tempo  stesso  al bene  dell'uomo  e  a  queHo  dell'universo  (5). Delle  due  specie  di  finalità  distinte  da  Kant,  V  este- riore -  cioè  l'utilità  d'una  cosa  per  un'altra  — e  Vinte- riore  -  cioè  l'appropriazione  a  un  fine  interno,  come  nel- r  organismo,  il  cui  fine  precipuo  è  la  conservazione  di sé  stesso  —  è  la  seconda  che  prevale  nella  teleologia  di Platone.  Ecco  ciò  che  lo  prova:  1''  Identificando  il  bene in  se  stesso  col  bene  per  noi,  questo  è  elevat  >  necessa- riamente a  tipo  del  bene  universale.  Il  bene  di  ciascuna cosa  deve  essere  dunque  concepito  per  analogia  col  bene nostro  (quello  che  costituisce  la  nostra  felicità),  cioè  con un  bene  desiderabile  per  l'essere  stesso  in  cui  è  presente. Così  l'Idea  del  Bene  è  chiamata  «  ciò  che  vi  ha  di  più (1)  Rep.  352  e— 354  a,  445  u-b,  Gorg.  470  e  -  471  a,  507  d — 508  b,  ecc.  Coiifr.  (per  Seuocrate)  Mullacli  Fr.  63  e  Arist.  Topie, 1.  VII.  I.  4. (2)  Gorg,  503  e— 504  d,  506  d-e.  Rep.  500  e— e,  ecc. (3)  V.  FU.  25  e— 26  b,  63  e— 64  a,  Sof.  228  a-b,  Rep.  441  e —  444  b,  Rep.  519  d,   ecc. (4)  Rrp.  352  e— .353  e. (5)  FU,  64  a  e  seg. -    218  — felice  nell'essere  »  (1),  il  che,  se  dovesse  essere  preso  alla lettera,  implicherebbe  che  il  bene  in  tutti  gli  esseri  è  la felicità^  e  secondo  un'indicazione  dell'^^tca  a  Eudemo  (2)  i numeri  (i  numeri  ideali  di  Platone)  aspirano  all'  unità come  al  loro  bene  (3).  2«  La  felicità  essendo,  come  abbiamo visto,  un  caso  della  sanità,  Platone  eleva  anche  questa a  tipo  del  bene  universale.  Così  nella  Rep.  608  e—  610  e il  male,  anche  negli  esseri  non  viventi,  è  ricondotto  alla malattia:  il  male  del  ferro,  la  sua  malattia,  è  la  ruggine, del  legno  la  putredine,  ecc.  Citiamo  pure  il  comincia- mento  di  una  definizione  di  Speusippo  '4)  :  \4yafiòy  tò ahiot^  (T(oir^(jta^  zolg  ovai^  dove  la  parola  ahioy  deve  essere presa  nel  ^^ji^o  immanente  della  teoria  delle  Idee,  secondo cui  la  causa  d'un  attributo  nelle  cose  è  la  parusia  dell'Idea corrispondente.  3*^  Aristotile  fa  corrispondere,  come  ab- biamo detto,  il  bene  platonico  alla  causa  finale.  E  lo  stesso fa  Piatone  medesimo  nel  FU,  53  d  —  H  d,  identificando così  il  fine  con  l'essenza,  come  fa  spesso  Aristotile  (5).  È ciò  che  non  potrebbero  fare  se  il  bene  fosse  l'utile,  cioè un  mezzo  e  non  uno  scopo.  Neil'  ipotesi  d'  una  finalità interna,  l'essere  appropriato  ad  un  fine  (ciò  che  sarebbe per  noi  la  definizione  del  bene)  e  il  fine  stesso  non  sono due  cose  necessariamente  distinte.  L'  organismo   ha  per (1)  Rep.  526  e. (2)  L.  I.  Vili.  14. (3)  A  questi  luoghi  si  può  aggiungere  Fedro  250  e,  in  cui  le Idee  che  l'anima  contempla  nel  piano  della  verità  sono  chiamate- €  perfette,  semplici,  immobili  e  felici  apparizioni  (warraara).  I> (4)  MuUach.  Pi^agm.  graecorum  philoph, yoìxxine  3o, Speusippo Fragm.  111. (5)  Phys.  1.  I.  IX.  2-3,  1.  IL*  II.  7-8,  1.  II.  VII.  7,  1.  II.  Vili. 7,  De  pari  animai,  1.  I.  I.,  ecc. —  219   - fine  se  stesso,  cioè  la  propria  sussistenza  (1).  4®  Il  bene è  secondo  Platone  identico  al  bello  (2).  Ora  questo  è  un fine  per  se  stesso  e  non  come  mezzo  per  un  fine  ulte- riore. Socrate  identificava  anch'  egli  il  bello  col  buono  ^ ma  riducendolo,  come  questo,  all'utile  (3).  Questo  con- cetto, dentro  certi  limiti,  sarebbe  ammesso  anche  da Platone  (4),  ma  purché  non  s'intenda  per  utile  una  finalità puramente  esteriore.  Se  si  prende  in  questo  senso,  la  tesi socratica  è  respinta  nell'Ippia  Maggiore  (5),  perchè,  l'u- tile essendo  la  causa  del  bene,  avrebbe  per  conseguenza che  il  bello  non  sarebbe  bene,  né  il  bene  bello.  5°  Nel periodo  pitagoreggiante,  il  Bene  è   anche    identificato  > (1)  Non  abbiamo  aggiunto  ai  luoghi  citati  la  definizione  di  Speu- sippo (la  quale  escluderebbe  assolutamente  qualsiasi  finalità  e- steriore):  '' Ayaòòt^  zò  abzov  tt^sxst^  (Muli.  Fr.  46),  perchè niente  prova  che  essa  si  riferisca  al  bene  in  se  stesso  (cioè  on- tologico), e  non  piuttosto  al  bene  per  noi  (cioè  etico). (2)  V.  Tim.  28  a-b,  29  e  —  30  b,  87  e  —  88  e,  FU.  64  e,  Conv, 201  e,  204  e,  FAsis  216  d,  ecc.  Confr.  Speusippo  Definiz.  di  Pla- tone 414  e  (MuUach.  Fr.  110). (3)  V.  Senof.  Memornh.  III.  8  e  IV.  6. (4)  V.  Gorg.  474  d  —  475  a.  Qualche  cosa  di  simile  pensava anche  Goethe.  Una  creatura  è  bella,  secondo  lui,  sovratutto  quando la  costruzione  delle  diverse  membra  è  in  armonia  con  la  sua  de- stinazione naturale,  e  può  attingere  il  suo  scopo.  Così  una  gio- vane nubile  non  sarà  bella,  se  non  ha  il  bacino  largo,  il  seno  ab- bondante. Se  un  cavallo  è  bello,  è  perchè  tutto  nellaj  sua  orga- nizzazione serve  perfettamente  a  uno  scopo  legittimo.  Noi  am- miriamo l'eleganza,  la  leggerezza  graziosa  dei  suoi  movimenti,  ma vi  ha  ancora  in  esso  qualche  altra  cosa  che  ci  potrebbe  spiegare un  buon  cavaliere  o  un  conoscitore  di  cavalli;  noi  non  ne  rice- viamo che  l'impressione  generale.  (Eckermann  Conversazioni  di Goethe  v.  1.  traduz.    frane,  pag.  345). (,5)  295  e  —  297  d. \ -  220  - <;ome  sappiamo,  con  l'Uno.  In  questa  identificazione  Pla- tone lia  evidentemente  di  mira  questa  unità  nella  varietà, ili  cui  alcuni  hanno  cercato  1'  essenza  deì  bello.  La  re- golarità (finalità  di  piano),  il  concorso  di  tutte  le  parti •di  un  tutto  a  uno  scopo  comune  (finalità  di  appropria- zione), sono  delle  specie  di  unità  nella  varietà.  L'  unità per  eccellenza,  V individuo,  è  il  tutto  in  cui  questo  scopo è  interno,  cioè  l'essere  organizzato  (1).  6®  Le  considera- zioni precedenti  hanno  la  loro  conferma  nel  Timeo,  la €ui  teleologia  è,  nella  massima  parte  dei  casi,  interiore. In  questo  dialogo  il  concetto  delle  cause  finali  è  appli- •cato  sovratutto,  descrivendo  la  formazione  del  mondo (come  un  tutto  individuale)  e  quella  dell'uomo.  Nella formazione  del  mondo  lo  scopo  del  Demiurgo  è  di  farne un  tutto  completo  (2),  un  essere  vivente  immune  da  vec- <5hiezza  e  da  malattia  (3)  e  sufficiente  a  se  stesso  (4),  un dio  felice  (5),  grandissimo,  ottimo,  bellissimo  e  perfet- tissimo (6).  Nella  descrizione  della  formazione  dell'uomo la  teleologia  di  Platone,  per  quanto  fantastica,  non  è  che un'applicazi<me  di  questo  principio  fisiologico,  ciie  un  ca- rattere generale  degli  organi  è  la  loro  utilità  per  1'  or- ganismo stesso  ^7)  Sarebbe  inutile  di  ripetere  ciò  che abbiamo  detto  della  forma  degli  elementi  e  degli  altri esempi  di  finalità  di  piano    nelle   opere  del  Demiurgo  : -  221  - osserviamo  solamente  che  la  finalità  di  piano  è  eviden- temente una  finalità  interiore. Da  ciò  che  precede  potrebbe  concludersi  che  noi  po- tremmo definire  il  bene  (l'astratto):  l'appropriazione  del- l'essere a  un  fine  interno;  e  il  buono  (il  concreto):  l'es- sere appropriato  a  un  fine  interno.  (1)  Ma  questa  gene- ralizzazione sarebbe  troppo  assoluta.  Il  Bene  platonica oscilla  fra  due  tipi,  che  sono  quelli  del  concetto  stesso di  finalità:  il  [prodotto  dell'arte  umana  (finalità  esterio- re), e  quello,  come  dice  Kant,  della  fecwfm  della  natura, cioè  l'organismo  (finalità  interiore).  Così  in  certi  casi  il bene  si  traduce  evidentemente  nell'utile. (2),  e  anche  nel Timeo  non  mancano  degli  esempi  di  finalità  esteriore:  i vegetali  sono  stati  creati  per  servire  di  nutrimento  agli animali  (3);  il  sole,  non  solo  perchè  il  mondo  divenisse, per  la  produzione  del  tempo,  più  simile  al  suo  modello  (4). maanche  porche  gli  uomini  acquistassero  la  conoscenza  del numero  (5);  ecc.  Neiripotesi  di  una  finalità  puramente  in- terna, la  spiegazione  teleologica  non  potrebbe  essere  u- niversale,  tanto  i)iiì  nel  sistema  platonico,  in  cui  do- vrebbe applicarsi,  non  solo  agli  esseri  reali,  ma  anche alle  loro  parti  e  alle  loro  qualità  astratte.  Infatti    tutto (1)  L'  individuo,  secondo  la  definizione  di  Virchow,  è  «una comunità  unitaria  nella  quale  tutte  le  parti  concorrono  a  uno scopo  omogeneo.  » (2)  Tim.  32  d,  33  a,  34    h. (3)  Tim.   33  a. (4)  Tim.  33  d,  34  b,  68  e. (5)  Tim.  34  b.  . (6)  Tim.  92  e.  30  a-b.  68  e,  ecc. (7)  V.    Tim.  44  o  —  47  d,  69  e  —  76  e,  77  e  —  79  a. (l)  L'Idea  platonica  può  prendersi  in  due  sensi,  di  cui  l'uno  e- sprinie  l'attributo  stesso,  e  l'altro  Togjajetto,  in  genere,  che  pos- siede l'attributo.  Così  la  stessa  Idea  ora  ò  chiamata  con  un  nome concreto,  e  ora  col  nome  astratto  corrispondente:  il  grande  e  la grandezza  (v.  p.  e.  Parm.  131  a  —  132  a),  il  bello  e  la  bellezza (ibid.  134  e),  la  mensa  e  la  mensalità  (v.  Plat.  Kep.  596  b  — 597  e  e  Diog.  Laert.  VI.  53),  ecc. {2)  V.   Rep.  601  d  e   Gorg.  474  d  —  475  b. (3)  Tim.  77  a-c. (4)  37  e  —  38  e, (5)  39  b. >'   « 1/  -' —  222  — <5iò  di  cui  vi  ha  Idea,  deve  essere,  come  abbiamo  visto, una  specie  del  Bene;  ma  non  vi  ha  Idea  solamente  del- l'uomo, dell'albero,  del  corpo  celeste,  ecc.,  ma  anche  del- l'osso, della  foglia,  del  colore,  della  figura,  ecc.  Ora  l'osso o  la  foglia  non  hanno  il  loro  fine  in  se  stessi,  ma  nello intero  organismo;  e  così  pure  al  colore,  alla  figura,  ecc. non  potrebbe  attribuirsi  altra  finalità,  salvo  in  casi  spe- <5iali,  che  di  contribuire  al  bene  dell'  universo,  o  di  un altro  tutto  di  cui  siano  delle  parti.  Del  resto  l'Idea  del Bene  non  è,  come  tutte  le  altre,  che  la  realizzazione dell'attributo  omonimo,  e  questo,  il  significato  del  ter- mine corrispondente:  essa  non  può  essere  dunque  che  la generalizzazione  di  tutti  i  casi  in  cui  questo  termine  è applicabile  (1). Prima  di  finire  sulla  quistione  del  significato  dell'I- dea del  Bene,  dobbiamo  aggiungere  un'osservazione,  che non  potrà  essere  compresa  chiaramente  che  dopo  l'espo- sizione couipleta  della  dialettica  platonica.  Definendo  il Bene  pel  concetto  generale  di  finalità,  noi  ci  atteniamo strettamente,  per  quanto  ci  sembra,  al  pensiero  dello autore;  ma  non  ne  segue  che  questi  avrebbe  trovato  sod- disfacente la  nostra  definizione.  Come  abbiamo  accen- nato nel  parag.  13  n.  3»,  e  come  spiegheremo  nel  seguito della  nostra  esposizione,  non  è  solamente  necesssario, secondo  Platone,  che  tutto  ciò  che  esiste,  sia  bene,  ma  an- cora che  tutto  ciò  che  è  bene^  esista.  Vi  ha,  in  altri  termi- ni, seconda  lui,  una  condizione  generale,  che  trovandosi nell'  essere  possibile,  fa  che  questo  sia,  non  semplice- mente possibile,  ma  reale  :  questa  condizione  generale della  realizzazione  del  possibile  è  la  conformità  all'Idea (1)  Confr.  Arist.  Mh.  Nie,  1.   I.  VI.  2-4,  Eth.  Eud.  1.  I.  Vili. 7-8,  Magn.  Mor  1  I.  1.  18-20. —  223  — suprema.  È  così  che  il  dialettico  scovre  la  realtà,  in  lin- guaggio moderno,  la  costruisce:  ciò  che  è  conforme  al Aóyo^  supremo,  egli  lo  ammette  come  vero,  ciò  che non  gli  è  conforme,  lo  rigetta  come  falso  (1).  Il  reale è  dunque  un  caso  definito  del  possibile  (2),  e  definire  la Idea  suprema  è  appunto  definire  questo  caso,  enunciare questa  circostanza,  che  si  trova  sempre  nell'essere  reale, e  non  si  trova  mai  nell'  essere  semplicemente  possibile: Questa  circostanza  è  espressa  completamente,  definendo il  bene  pel  semplice  concetto  generale  di  finalità  V  Sem- bra che  Platone  non  lo  credesse:  evidentemente,  secondo lui,  una  tale  definizione  non  circoscrive  abbastanza  il reale,  non  lo  distingue  abbastanza  dal  semplice  possi- bile. La  formula  della  realtà  dovrebbe  essere  più  pre- cisa, dovrebbe  aggiungere  alla  nostra  definizione  un  altro elemento  differenziale.  Qual  è  quest'  elemento  ?  Platone confessa  di  non  conoscerlo  (3).  Quest'arcano  (per  usare l'espressione  di  Schelling)  nascosto  nclVassoluto,  che  è  la sorgente  d'o(jni  realtà^  egli  non  pretende  di  averlo  sve- lato. È  a  questa  condizione  che  un'applicazione  rigorosa del  metodo  dialettico  sarebbe  possibile:  ma  Platone  non ha  preteso,  come  Hegel,  di  costruire  la  scienza,  ma  so- lamente di  mostrare  ciò  che  essa  deve  essere.§  17.  Ciò  che  caratterizza  la  dialettica  platonica,  è  il metodo  di  divisione  {dieresi).  Esso  consiste  a  dividere  un genere  nei  generi  immediatamente  inferiori,  questi  in altri  generi  inferiori  ancora,  e  così  di  seguito,  sinché  si giunga  ai  generi  indivisibili,  cioè  alle  specie,  nel  senso stretto  di  questo   termine.  Questa   divisione   si  applica, (1)  Coufr.  Fedone  100  a,  1.  cit.  a  p.  149  n.  1  e  a  p.  172  n.  1. (2)  Confr.  Taine  L* intelligenza  voi.  2.  1.  4.  cap.  3  in  tìue.    9 (3)  V.  Kep.  505  a  e  506  e.  in  cui  fa  dire  a  Socrate   che  non conosce  sufficientemente  l'Idea  del  Bene. 224  — non  nlle  classi,  cioè  agli  aggregati  d'  individui  ma  alle Idee  (1),  cioè  ai  concetti  realizzati,  corrispondenti  a  que- ste classi.  >e  p.  e.,  il  genere  animale  si  divide  in  mor- tale ed  immortale,  il  significato  immediato  di  questa  dieresi è,  non  che  gl'individui  che  costituiscono  la  classe  owiwa^e devono  distribuirsi  nelle  due  classi  inferiori  mortale  ed  iwi- mortale,  ma  che  l'Idea,  cioè  il  concetto  obbietti vato,  di Animale,  contiene  le  due  Idee,  cioè  i  due  concetti  ob- biettivati,  inferiori,  di  Mortale  ed  Immortale.  Per  conse- guenza Platone  riguarda  un'Idea  universale  come  un  tutto, e  le  Idee  più  particolari  ad  essa  subordinate,  come  delle parti  di  questo  tutto  (2).  E  siccome  questa  divisione  in parti,  cioè  nelle  Idee  più  particolari  che  essa  contiene, non  distrugge  l'unità  dell'Idea  universale,  di  là  la  for- mula platonica  che  tutto  è  al  tempo  stesso  uno  e  molti^ o,  ciò  che  vale  lo  stesso,  che  Vuno  è  molti  e  i  molti  sono uno  (3).  È  la  grande  inconcepibilità  del  sistema  delle  I- dee,  che  nessuna  spiegazione  potrebbe  rendere  più  in- telligibile. Platone,  è  vero,  considera  Vuno  e  i  molti  come due  stati  o  due  momenti  successivi  nello  sviluppo  della Idea  (anteriorità  e  'posteriorità):  l'Idea,  una  nel  momento anterioie,  diviene  multipla  nel  momento  posteriore  (4). Ma  questa  successione,  (piesf  anteriorità  e  posteriorità, non  è  cronologica,  ma  solan)ente  logica,  e  resta  sempre la  difficoltà  come  l'idea  possa  esistere  simultaneamente in  due  stati  coutrarii. (1)  V.  FU.  14-19  b.  Sof.  235  d,  253  b  -  254  b,  Polit.  258  o, 262  b,  286  a,  Fedro  265  a— 266  b.  eoe.  e  Alex.  Aphrod.  in  phil. princ.  I.  t.  42.  Confr.   Suppl.   B  parte   1»,  IV. (2)  V.  Suppl.   B  p.  1»  VII.  A. (3)  V.  Suppl.  B  p.  1.  V.  4. (4)  V.  §  22  e  confr.  Suppl.  B  p.  I.  V.  4.  e  VII.  A. —  225  — La  dieresi  platonica  è,  o  piuttosto  pretende  di  essere, una  classiticazione  naturale  :  in  altri  termini,  essa  si propone  di  distribuire  gli  esseri  in  gruppi  secondo  le loro  affinità  reali  (I).  Di  più,  percliè  dei  gruppi  in- feriori siano  riuniti  in  un  gruppo  superiore,  1'  affinità deve  essere  tale,  che  (piesf  ultimo  gruppo  possa,  rispetto ai  primi,  considerarsi  come  un  genere,  nel  significato  ri- goroso della  parola;  o,  in  termini  ]>iù  esatti  —  la  die- resi applicandosi,  come  abbiamo  detto,  non  ai  gruppi stessi,  ma  alle  Idee  corrispondenti—,  non  a  tutti  i  gruppi che  potrebbero  formarsi  per  la  riunione  di  gruppi^  infe- riori, corrispondono  delle  Idee,  ma  solamente  a  quelli  che possono  riguardarsi  come  generi  (nel  senso  indicato). Così  Aristotile  chiama  costantemente  {feneri  le  Idee  u- uiversali  (cioè  tutte  quelle  che  comprendono  sotto  di  sé altre  Idee  più  particolari)  (2).  Inoltre  egli  obbietta  ai  pla- tonici, che,  auimessi  anche  i  loro  presupi>osti,  Vuno  mm potrebbe  essere  unMdea,  perchè  è  un  scMuplice  universa- (1)  È  ciò  ohe  prova  lo  .stesso  riinprovero  «-lie  Aristotile  fa  ai platonici,  di  spezzare,  nelle  loro  dieresi,  le  ««lassi  naturali  (col- locando, p.  e.;  una  parte  degli  uccelli  fra  o;li  auimali  aquatici  ^ e  un'altra  in  un  genere  diverso— v.  De  partib  animai.  1.  ì^q.  2^ e  3o).  Quest'obbiezione  sarebbe  senza  valore,  se  alle  esigenze  della dieresi  platonica  bastasse  anche  una  classificazione  artificiale. È  questa  condizione  di  una  buona  divisione,  di  non  violentare  i rapporti  reali  tra  gli  esseri,  che  Platone  ha  di  mira  quando  rac- comanda al  dividente  di  «  dividere  per  membra  secondo  la  na- tura delle  cose,  e  cercare  di  non  spezzare  alcuna  parte,  come farebbe  un  cattivo  scalco  »  {Fedro  265  e). (2)  V.  Mei,  1.  I.  IX.  Ili,  1.  III.  1.9,  1.  III.  III.,  1.  V.  III.  5, 1.  V.  XXV.  3,  5,  1.  VII.  XII.  34,  1.  VII.  XV.  7,  1.  Vili.  I.  3, 1.  X.  II.  12,  1.  XI.  I.  11-12,  1.  XII.  I.  2.  1.  XIII.  IX.  5,  Ca- teg,  X.  3-4,  ecc. 15 sale,  e  non  un  genere  (1);  il  die  implica,  -  ciò  che  del resto  è  affenuato  esplicitamente  nel  commentario  d'  A- lessandro  d'Afrodisia  (2)  — che  i  platonici  non  facevano Idee  di  tutti  gli  universali,  ma  solamente  dei  generi  e delle  specie  (3).  Il  significato  della  parola  ffenere,  in  A- ristotile,  è  identico  press'  a  poco  a  quello  che  essa  ha presso  i  logici  moderni.  La  sua  definizione,  quantunque puramente  grammaticale,  coincide,  al  fondo,  con  quella di  Stuart  Mill  (4):  un  nome  attributivo,  che  si  applica  a più  oggetti  differenti  di  specie,  significa  un  genere,  quan- (1)  Mei.  1.  I.  IX.  24. (2)  V.  Alex.   Aphiod.   in  phil.  prim.  1.  79. (3)  Ciò  risultii  Anche  dal  Politico,  262  ti  —  2(53  d,  in  cui  1'  o- «pitc  oleate,  che  motto  in  pratica  il  metodo  platonico,  esorta  il «uo  intorlocntore  a  non  dividero  seniplicemente  per  parti .  ma per  treneri.  Com\  non  hisogna.  ojfli  dice,  dividere  ^li  animali  in uomini  0  bruti,  perchè  bruto  non  è  un  genere,  questo  nome  non indicando  una  affluita  reale  tra  gli  esseri  a  cui  si  applica.  Sic- come la  dieresi  è  ovidontemente  per  Platone  un  metodo  generale, che  abbraccia  tutti  i  casi  in  cui  delle  Idee  più  particolari  sono contenute  nell'  ostensione  d'un'Idea  più  universale  (v.  Sof,  253), questo  luogo  del  Politico  prova,  come  quelli  citati  d'Aristotile  e d'Alessandro  d*  Afrodisia,  non  solo  che  la  dieresi  è  una  olassi- ficaizione  per  generi,  ma  ancora  che  tutte  le  Idee  universali  (cioè contonouti  altre  Idee  nella  loro  estensione)  sono,  o  piuttosto  pre- tendono essere,  delie  Ideo  di  «reneri. (4)  V.  Log.  1.  I.  e.  7  $  3  e  4,  1.  IV.  e.  7.  J  4.  Meno  questa differenza  —  senza  dubbio  importante,  ma  non  per  la  quistione presente— che,  secondo  Mill,  un  genere  si  distingue  per  una  mol- titudine indefinita  di  caratteri  che  non  derivano  gli  uni  dagli  al- tri, mentre,  secondo  Aristotile,  tutti  gli  attributi  di  un  genere derivano  da  un  piccolo  numero  di  attributi  primordiali,  cioè  quelli che  ne  costituiscono  Vesseìiza,  o,  in  altri  termini,  ohe  servono  a definirlo.  V.  lApp.  al  cap.  VI. —  227  - do  risponde  alla  domanda  :  che  è*  (1)  Così  bianco  non sarà  un  genere  del  cigno  o  della  neve,  perchè  non  dice ciò  che  queste  cose  sono,  ma  semplicemente  una  loro  qua- lità (2).  Da  ciò  che  abbiamo  detto  non  bisogna  però  conclu- dere che  Platone  non  ammetta  Idee  che  delle  specie  e  dei generi  delle  Sf)sr.anze,  cioè  degli  ogi^etti  individuali  con- creti. LUndividuale  può  anche  essere  per  Platone  una  sem- plice astrcazioue,  p.  e:  la  bianchezza  di  questa  neve,  di questa  carta,  ecc.  Così  l'Idea  del  Bianco  esisterà,  a  titolo d^Idea  specifica,  altrettanto  che  quella  dell'Uomo,  e  l'I- dea del  Colore,  a  titolo  d'Idea  generica,  altrettanto  che quella  dell'Animale.  Negli  scritti  platonici  le  Idee  delle qualità,  delle  quantitsi,  delle  relazioni,ecc.  sono  anche  d'un uso  pili  frequente  che  quelle  delle  sostanze:  la  proposizione di  Aristotile,  che,  secondo  i  principii  di  Platone,  non  pos- sono esservi  Idee  che  delle  sole  sostanze  (3),  non  è  una indicazione  storica,  ma  una  semplice  deduzione  (4). (1)  Top.  1.  I.  IV.  «. )   Top.  1.  IV.  I.  3-5. (S)  Mei.  1.   I.  IX.  4-5.  . (4)  Di  che  vi  ha  Idea  secondo  Platone  ì  di  tutti  i  concetti  in- distintamente ì  o  vi  hanno  concetti  a  cui  non  corrisponde  alcu- n'Idea?  Da  una  parte  l'analogia  e  la  dottrina  che  il  concetto  si riferisce  all'Idea  spingevano  Platone  ad  ammetterne  una  per  ogni termine  generale.  Ma  da  un'  altra  parte,  per  la  natura  stessa  e lo  scopo  deir  ijiotesi,  le  Idee  non  potevano  rappresentare  altro per  lui  che  i  diversi  tipi  di  cose  e  di  fenomeni  che  osserviamo nella  natura.  Conformemente  a  questo  punto  di  vista,  a  quanto ne  dice  Proclo  {in  Parm.  V,  133),  egli  definiva  V  Idea  (espri- mendo il  rapporto  fra  le  Idee  e  le  cose  in  una  forma  popolare): «  la  causa  esemplare  di  ciò  che  vi  ha  di  costante  nella  natura». Così,  secondo  Aristotile .  non  si  ammettevano  Idee  degli  oggetti artificiali  (v.  Mei.  1.  I.  IX.  12,  1.  III.  IV.  B,  l.  Vili.  III.  5, l.  XI.  II.  10. 1.  XII.  HI.  4),  dei  negativi  {àtei.  l.  1.  IX.  2, 1.  XIII. / —  228  — Alla  dieresi  corrispoude  un  processo  inverso,  che  Platone IV.  6),  e  dei  relativi  {Mei.  1.  I.  IX.  3,  1.  XIII.  IV.  7);  e,  geoondo Alessandro  d'Afrodisia  {in  phil,  pr,  1.  I.  t.  39  e  56),  neppure  dei mali..  Ma  8u  questo  puuto  Platone    non  precisò   il  suo  pensiero che  nell'ultimo  periodo  della  sua  speculazione:  e  infatti  noi  ve- diamo che  nei  suoi  scritti,  quando  ciò  gli  fa  comodo  per  la  di- scussione, non  esita  a  supporre    delle  Idee,  di  cui    poi  negherà l'esistenza.  Così,  secondo  il  1.  V.  delle  Repubblica  (475  e  — 476 a),  vi  ha  un'  Idea  del  cattivo,  del  brutto  e  dell'  ingiust»,  non meno  che  del  buono,  del  bello  e  del  giusto,  cioè  dei  mali  altret- tanto che  dei    beni  ;  secondo  il  1.  X  (596-597) .  del    letto,  della mensa  e  degli  altri  utensili  ;  secondo  il  Cratilo   (389-390),   della spola  e  degli  altri  strumenti;  e  secondo  il  Sofista  (257  d — 258  d), del  non  bello,  del  non  grande  e  di  tutti  i  negativi.  L*  esistenza delle  Idee    dei   mali    sarebbe    in  contraddizione  col  rapporto  di specie  a  genere  che  Platone  stabilisce  fra  le  altre  Idee  e  quella del  Bene.  Tutto  ciò  che  esiste,  per  lui,  è  necessariamente  bene, quantunque    questo   non  è  mai  un  bene  assoluto.  Il  bene    asso- luto è  come  una  norma,  a  cui  ogni  essere  tende  ad  avvicinarsi senza  raggiungerla  mài  pienamente:  la  legge  delle  cose  è  questa tendenza,  ma   che   esse    se  ne  allontanino   in    questo  o  in  quel senso  determinato  (p.  e.:  una  malattia  o  una  deformità  nell'es- sere vivente)  è  un  avvenimento  puramente    fortuito,  e  Platone per  conseguenza  non  ammette' che  esso  si  produca  conformemente ad  un  tipo.  Tuttavia  è  anche  una   legge    delle  cose  che  ir  bene non  sia  mai  assoluto;  e  perciò  Platone,  nell'  ultima  forma  della sua  filosofìa  (cioè  all'epoca  stessa  in  cui  esclude  le  Idee  dei  mali), ammette,  come  obbiettivamente  esistente,  un  concetto  generale del  male,  che  riconduce  alla  materia  delle  Idee  (v.  Suppl.  C.  I due  elementi)  Per  una  ragione  analoga,  nel  tempo  stesso  che  re- spinge le  Idee  dei  negativi  e  dei  relativi,  Topposizione  e  la  re- lazione essendo  anch'esse  delle  leggi  necessarie  degli  esseri,  am- mette anche  un'Idea  del  Non  Essere,  che  riconduce  pure  all'  e- lemento  materiale,  e  delle  Idee  di  alcune  delle  relazioni   fonda- mentali delie  cose,  quali  l'Eguaglianza  e  la  Disuguaglianza  e  lo —  229  — chiama  ì^xOeai^  (astrazione)  (1)  e  (Tvat^ycoyrj  (riduzione  al- V  unità)  (2).  U  astrazione  o  riduzione  aW  unità  svolge dalle  cose  individuali  le  Idee  delle  specie,  da  queste  quelle dei  generi  prossimi,  e  così  di  seguito,  riunendo  progres- sivamente gli  esseri  in  gruppi  più  estesi  secondo  i  gradi decrescenti  della  loro  affinità,  e  rappresentando  ciascun gruppo  per  un'Idea  di  più  in  più  generale.  Le  Idee  for- mano dunque  una  gerarchia,  una  scala  di  generalità  cre- scente, che  la  dieresi  e  la  avi^ayiùyrj  percorrono  in  senso contrario,  V  una  andando  dalla  sommità  alla  base,  dal- l'uno al  multiplo,  dal  generale  al  particolare,  e  1'  altra dalla  base  alla  sommità,  dal  multiplo  all'uno  e  dal  par- ticolare al  generale. Qresto  processo  di  astrazione  progressiva,  di  cui  poi la  dieresi  devo  percorrere  tutti  i  gradi  in  una  direzione opposta,  o  continuerà  sinché  si  sarà  formato  di  tutte  le Stesso  e  il  Diverso,  che  riconduce  ai  duo  elemepti  contrari  (v. Suppl.  C.  I  due  elementi).  L'esclusione  di  eerte  Idee  è  anche una  conseguenza  del  metodo  di  divisione:  questo  suppone,  co- me abbiamo  detto,  che  ogn'Idea  superiore  sia  un  genere;  cosi nn  attributo  oamuue  a  molte  specie  non  può  dar  luogo  a  un'  I- dea,  se  esso  non  serve  di  fondamento  a  una  distinzione  geì.erica. In  questo  caso  sono  compresi  evidentemente  i  negativi  (p.  e.  non uomo  .  non  bianco,  non  quadrato  ecc.).  Inoltre  non  potrebbero ammettersi,  secondo  questo  metodo,  Idee  delle  differenze  (ra- gionevolCt  bipede,  ecc.),  benché  Aristotile  supponga  talvolta  che l'elemento  differenziale  d'un'Idea  sia  anch'esso  un'Idea  altret tanto  che  l'elemento  generico  (v.  Met.  1.  VII.  XV.  6-7,  1.  VII, XIV.  2,  l.VIII.  VI.  2,  ecc.):  ciò  egli  fa  certamente  perchè  1'  esi- fitenza  separata  di  uno  dei  due  elementi  (cioè  del  genere)  gli  sem bra  avere  per  conseguenza  necessaria  l'esistenza  separata  anche dell'altro. (1)  V.  $  13°  n.  4<^. (2)  Fedro  2««  b  e  FiL  23  e,  25  a,  d. l    'f    " -~  230  — Idee  un  sistema  unico,  riducendole  ad  uua  sola,  o  si  fer- merà a  una  pluralitàdUdee  indipendenti  che  non  potranno ricondursi  a  un'Idea  più  generale.  Ciò  che  abbiamo  detta nel  paragrafo  precedente  prova  che  di  queste  due  ipotesi è  la  prima  che  dobbiamo  ammettere.  L'Idea  del  Bene  a dell'Essere  è,  come  abbiamo  visto,  il  genere  sommo,  in  cui tutti  gli  altri  generi  sono  contenuti:  alla  sommiità  della gerarchia  sta  dunque  un'Idea  unica;  ogni  pluralità  si  ri- conduce a  un'unità  superiore.  Così  al  sistema  delle  Idee  si applicano  esattamente  (lueste  parole  di   Bacone.  €  Tutta la  natura  delle  cose  è  come  acuta,  e  simile  a  uua  pira* mide,  perchè  il  numero  degl'  individui    che  formano  la larga  base  della    natura  è  infinito.  Questi    individui    si riuniscono  in  ispecie,  che  sono  pure  in  gran  numero;  poi le  specie  si  elevano  in  generi,  i  quali  a  misura   che   le idee  si  generalizzano,  vanno  rinserrandosi  di  più  in  più,  in sorta  che  al  fine  la  natura  sembra  riunirsi  in  un  sol  puu* to»  (i).  Ecco  dunque  l'ordine  in  cui  le  Idee  sono  disposte: alla  testa  l'Idea  del  Bene,  la  regina,comelachiamaPlatouey del  mondo  intelligibile  (2):  questa  contiene  sotto  di  sé  un gnippo  di  Idee  meno  generali,  ciascuna  delle*  quali  con- tiene un  nuovo  gruppo,  e  così  di  seguito,  discendendo sempre  una  scala  di  generalità  decrescente,  dai  gradini di  più  in  più  larghi,  che  va  dal  genere  sommo  alle  spe- cie infime  per    una  moltitudine  di  generi  intermediarii. Il  mondo  ideale  si  forma  per  la  divisione  e  suddivisione (1)  De  dignilate  et  augmentis  scientiaruni  l.  2.  e.  13. (2)  V.  Mep.  509  d  e  517  e.  L'  Idea  del  Bene  è  chiamata  an- che r  Idea  ultima  (v.  Hep.  517  b-c,  532  b,  540  al,  perchè  è  il termine  ultimo  della  avyaytùyfi^  ruscensione  graduale  da  Idea ad  Idea,  di  cui  nel  VI.  e  VII.  della  Mepubbliea  (v.  ^  12.  u.  2. e  $  13.  n.  2),  non  essrndo  altra  cosa,  come  vedremo  nel  $  19, che  la  avyaycoyi],  : I '4 —  231  - ^^^"'^^^— ^^^—^"  "  '    ""'  l»—^»^™.     mi     I "Il"  i.™«.ii.«^i       _  ...i^i».  ma       III       I     III   in    il^i    _  mi  ^      i    uhm    i    saaaH^.^^M^_^iM progressiva  dell'Idea  suprema:  è  essti  che  sarebbo  il  punto di  partenza  della  dieresi,  se  Platone  applicasse  questo metodo,  non  frammentariamente,  com'egli  si  limita  a fan%  ma  d'nna  maniera  completa  e  sistematica  (1). Nella  dieresi  platonicn  ogni  divisione  e  suddivisione è  composta  di  due  parti;  in  una  parola,  questa  dieresi è  una  dicotomia.  Così,  nella  scala  delle  Idee,  ogn'  Idea di  un  gradino  superiore  ha  sotto  di  se  due  sole  Idee  del gradino  immediatamente  inferiore,  in  altri  termini,  chia- mando genere  l'Idea  superiore,  e  specie  le  Idee  inferiori, cioè  più  particolari,  immediatameuie  subordinate,  ogni genere^  nel  sistema  platonico,  non  contiene  che  due  spe- cie. È  la  regola  a  cui  Platone  si  conforma  costantemente oegli  esempi  che  dà  del  suo  metodo  (2),  e  che  prescrive espressamente  nel  Politico  (:$).  Dalla  sua  parte  Aristotile, (2)  Xel  periodi»  pitagoreggiimte,  alla  sommità  del  mondo  i- deale  si  ammettono,  come  sappiamo,  non  uno  ma  due  universali Hupremi  (i  due  elementi).  Ciò  si  concilia  con  le  e8ij;enze  del  me- t-odo  platonico,  che  suppone  un  punto  di  partenza  unico  per  la dieresi,  considerando  l'uno  dei  due  clementi  come  il  genere  sommo e  la  specie  [elò^o^)  tli  tutte  le  Idee  (v.  $  1<».  pag.  20(>-207i,  e  l'altro come  la  materia  (Lo  stesso  risultate»  ha  la  fuuzii»ne  di  essenza (ovaia)^  assegnata  al  prim<»  elemento — v.  ^14  —  perchè  oi^aia^ per  Platone  ed  Aristotile,  equivale  ad  elòo^).  Per  pif.  ampi  svi- luppi su  questo  punto  rinviamo  al  Suppl.  C  [due  elemeuii  delle Idee:  ivi  (sulla  fine)  spiegheremo  pure  la  dinìc(»ltà  che  presenta  il luogo  del  Sofista  (254  e  —  259  b).  in  cui.  oltre  iil  Non  Essere  (cioè alla  materia  delle  Idee),  è  attribuita  anche  ad  altri  c<»ncctti  ob- biettivati  (lo  Stesso  e  il  Diverso)  la  stessa  universalità  che  al- l' Idea  dell'  Essere. (2)  V.  Sof.  21$)  a—  26.S  o,  264  e  e  seg..    rolit.  2.58  b— 207  e, 276  d-e,  279  e  —  283  a. (H)  262  b. -  232   — tutte  le  volte  in  cui  è  qui^tione  «Iella  dieresi  platonica, «uppone  sempre  che  essa  è  una  dicotomìa  (1).  Tuttavia Platone  permette  che  si  divida  per  un  numero  magp:iore, quando  la  divisione  per  due  non  è  possibile  (2);  ma  i>er questa  impossibilità  non  bisogna  intendere  un'impossi- bilità obbiettiva,  ma  un'  incapacità  del  dividente  a  cui sfuggono  le  Idee  iutermedinrie  (3).  E  in  effetto  il  metodo di  divisione,  secondo  Platone,  non  è,  come  vedremo,  un semplice  artifizio  logico,  ma  la  legge  stessa  del  mondo ideale:  il  carattere  di  questo  metodo,  per  conseguenza, è  l'assoluta  uniformità.  Ciò  è  tanto  vero  che  nella  dot- trina dei  numeri  ideali,  in  cui  la  diei-esi  è  rappresentata dalla  generazione  progressiva  dei  numeri,  a  ogni  nu- mero anteriore  si  fanno  generare  due  numeri  posteria- ri  (4),  riconoscendo  così  la  dicotomia  come  legge  uni- versale dello  sviluppo  delle  Idee  (5). (1)  V.  Mei.  l.  VII.  XII.,  De  pari,  animai  1.  1.  cap.  2  e  3, Anal.  Posi.  1.   II.  V.  e  XII.  Anni.   Pr,  1.  I.  XXXI,  ecc. (2)  V.  Poi.  287  b  V  seg.  e  FU.  IH  d. (3)  Così  uella  divisione  per  otto,  di  cui  nel  luogo  del  Potit.  ci- tato nella  nota  precedente,  evidentemente  il  dividente  ha  saltato due  ^radi  (cio^.  una  prima  divisione  in  due  parti,  e  la  suddivi- sione di  ciascuna  di  queste  in  altre  due,  che  suddivise  alla  loro volta  della  stesvsa  maniera,  foruiano  così  il  numero  otto.) (4)  V.  Suppl.  C.  I  numeri  ideali. (5)  Qualche  volta  Phitone,  nelle  sue  dieresi,  fa  uso  della  se- zione doppia,  vale  a  dire  »  dopo  aver  diviso  un  genere  per  due secondo  una  difì'erenza  data,  torna  a  dividerlo  ancora  per  due secomlo  una  nuova  diftereuza.  Così  nel  Sof.  265  b— 26«  d  l'arte di  l'are  è  divisa  in  divina  e  umana,  e  poi  in  arte  di  fare  le  cose stesse  e  arte  di  fare  le  immagini.  Altre  due  sezioni  doppie  si hanno  nel  Politico  (281  d— 282  a  e  282  b-o).  Più  che  col  metodo dicotomico,  questa  maniera  di  dividere  sembra  in  coutraddizioue col  principio  che  o» n'Idea  universale  deve  essere  un  genere. —  233   - Ciascun  membro  d'ogni  dicotomia  è  caratterizzato  da una  differenza  unica  (l),  e  le  due  differenze  sono  con- trarie (2).  Così  1'  animale  si  dividerà  in  mortale  ed  im- mortale, il  mortale  in  provvisto  di  piedi  e  senza  piedi, il  provvisto  di  piedi  in  bipede  e  multipede,  il  bipede in  pennuto  o  senza  penne  (3),  e  similmente  i  generi  colla- terali (4).  L'  importanza  e  lo  scopo  di  queste  particola- rità del  metodo  di  Platone  saranno  spiegati  nel  §  20^: prima  bisogna  esporre  la  sua  dottrina  sulla  definizione, ciò  che  faremo  nel  paragrafo  seguente. (1)  V.  .SV.  219  a  — 236  e,  .364  e  e  seg.,  PoliL  258  b  —  267  e, ^76  d-e,  279  e  —  283  a.  Aristotile   De  pari,  animai.  1.  I  e.  3o, Mei,  I.  VII.  e.  12,  ecc. (2)  V.,  oltre  i  luoghi  della  nota  precedente,  Arist.  Mei.  1.   X. VIII.,  Anal.   Pr.  1.   I.   XXXI,  Anal.    Posi.  l.  II.  V..  I.  II.  XII. (3)  V.  Anal.  Posi.  1.  II.  V..  Anal.  Pr.  1.  I.  XXXI,  Mei.  1.  VII. XII. (4)  Platone  pratica  il  metodo  di  divisione  nel  Sofista  e  nel Polilico.  In  questi  due  dialoghi  hi  dieresi  è  fatta  servire  alla  ri- cerca della  definizione,  del  sofista  nell'uno  e  del  politico  nell'al- tro. Per  conseguenza  dei  due  generi  in  cui  si  divide  ciascun  ge- nere superiore,  non  viene  suddiviso  che  quello  in  cui  è  compreso 1*  oggf'ttt)  a  definire.  La  definizione  si  forma  aggiungendo  pro- gressivamente al  primo  genere,  che  è  il  punto  di  partenza  della dieresi,  le  differenze  che  caratterizzano  i  generi  intermediari  e la  specie  infima,  trovati  con  le  divisioni  successive.  Nel  Sofista, la  dieresi  che  giunge  alla  scoverta  della  vera  definizione,  è  pre- ceduta da  altre  che  non  sono  ohe  semplici  tentativi,  e  queste ancora  da  un'  altra,  che  è  data  come  esempio  del  metodo  a  se- guire, e  <Mm  cui  si  cerca  la  definizione  del  pescatore  all'amo.  Le tre  tavole  seguenti  riassumono  tre  dieresi  di  quest(»  dialogo  (nel quale  il  metodo  è  applicato  con  più  rigore),  cioè  quella  per  tro- vare la  definizione  del  pescatore  all'  amo,  e  uno  dei  tentativi  e la  definitiva  per  trovare  la  definizione  del  s(»fi8ta. 0) §  ^  03 1  g n^S^  So  cQ  S '', i*'  © «a. .£.5^  g •S-^  ^ o  p tm      ^ *      Sf     §      ?      ® O; a^ ^  cs  S  5  i  .£  :5 o  oc lU q: oc S>3'  © ?  iS  o  S  SS .5   ffl? / ;:z  a p  <^  ^ SII »  — :8  -^ N OS  iJiS m4  ^^      Ss    1^3  '^^ ^  o ©   S    à .S  a^ *i  ce 4) 00 5  o  ce «  «  52 § s N co ©  A S,^ tu (ì) or 0 tu q: ì l-s P     4> O ^    05    S? .Z;^   T   ^ 0^ P 0)    oc <©  >  s ©  ®  *p ^      OD      S ce  -^ c3 p  'oe r2    I    o    ^    P *      ^    OD    e 08    «  ^ ^   I  'c   2  „ c8-^  i* a  p^.C o  ©5  P ao   © a:i: oc ^ .^  «8  ^ :g   .t; 0^ n3  g^ 0) .P        I      P  -kJ    — V 03 c8 5^'5  e^ p,  p    .p P'C  © cc S 00    © t^     P    P 00    p •^   P     P ©     ^ Cd CO w cu  1 N <0 Sm     «Pi^ ^ SS P«i^  ce p    ^ . '.'I O P OD    P ©  bO »  p  fi  .S^ I  tì  w  t-  ;-; e«    2    * •-   08 ^  4^ CO 'è^  ^ 08 &4 „         O ^  P ce  ^ oc ce 08 Pi  ^^  OD p ^5  ^ o P Cd P4 s, A. f O g —  237 §  18.  La  dieresi,  quantunque  abbia  un  valore  per  se stessa  (come  vedremo  nel  prossimo  paragrafo)  è  tuttavia presentata   da   Platone  come  un  metodo   per  la  ricerca della  definizione.  Il  rapporto  intimo  della  definizione  con la  dieresi  si  vede  già  al  primo  colpo  d'occhio  dalla  sua stessa  composizione.  «  I  logici    antichi,  osserva  il  Mill,, sembrano  aver  creduto  che  la  definizione  ordinaria  avea pure  per   uftìcio   di    formulare  la  classificazione   usuale e,  secondo  loro,  naturale,  delle  cose,  cioè  la  loro  distri- buzione in  ispecie,  e  di  segnalare   il    posto   superiore, collaterale,  o  subordinato,  che  ciascuna   specie   occupa rapporto  alle  altre.  Si  spiegherebbe   così   la  regola   che ogni  definizione  deve  necessariamente  farsi  per  genus  et differentiam,  e  perchè  una,  sola  difterenza  qualunque  er» considerata  come  sufficiente  »  (1).  Ma  la  dieresi  per  Pla- tone non  è  solamente  un  metodo  per  ottenere  la  defini- zione; si  può  anche  dire  che  per  lui  dieresi  e  definizione sono  una  sola  e  stessa  cosa,  che  si  chiama  ctieresi  conside-^ randola  nel  processo  della  sua  formazione,  e  si  chiama definizione,  considerandola  già  formata,  cioè  nel  risul- tato di  questo  processo.  La  dieresi  non  è,  in  sostanza, che  una  catena  di  definizioni  :  in  effetto   la   definizione platonica  si  fa  per  il  genere  prossimo  e  la  differenza  spe- cifica (una  sola),  e  nella  dieresi  ciascun  membro  di  ogni divisione    viene    espresso   indicando  il  genere   diviso  e l'una  delle  due  differenze  opposte  secondo  cui  esso  si  di- vide. Per  conseguenza,  se  vogliamo  comprendere  il  va- lore e  il  significato  della  dieresi  di  Platone,  noi  dobbiamo- domandarci  quale  sia  il  valore  e  il  significato  della  sua definizione. Come  abbiamo  osservato  nelP  appendice  al  capitola (1)  Log,  I.  1.  o.  8. —  238- precedeute,  la  definizione  (quella  almeno  che  si  fa  per gemis  et  differentiam)  è  stata  considerata  di  due  maniere diffei^enti:  o  come  una  semplice  indicazione  i>er  far  ri- conoscere la  cosa  significata  dal  nome,  distin lenendola da  tutt^.le  altre;  o  come  l'espressione  completa  della natura  o  essenza  di  questa  cosa^  vale  a  dire  della  tota- lità dei  suoi  attributi  primitivi,  cioè  che  non  possono dedursi  da  altri  attributi.  Se  è  il  primo  caso  che  vale per  la  definizione  platonica,  la  dieresi  non  è  che  una semplice  classificazione  delle  Idee  con  la  indicazione  dei caratteri  su  cui  è  fondata  questa  classificazione;  se  vale invece  il  secondo  caso,  la  dieresi  non  è  una  semplice •classificazione,  ma  è  una  vera  ricostruzione  del  mondo ideale.  Neil'  appendice  al  capitolo  6^  noi  abbiamo  am- iiiesso  questa  seconda  ipotesi,  deducendola  da  conside- razioni  generali  sulla  dialettica  platonica:  qui  dobbiamo stabilirla  sulP  esame  dei  testi,  il  cui  risultato  possiamo lidurre  ai  punti  seguenti: 1.®  La  definizione   esprime   l'  essenza  della  cosa  [ol- ma)  (l),  o  in  altri  termini,  ciò  che  questa  cosa  è  (o  tan)  (2) (1)  V.  Plat.  Fedo.  78  d,  Fedro  237  c-d,  245  «,  Fìiiifr.  11  a, Meno  72  b.  Leg.  895  d  .  896  a .  Bep,  534  b,  eco.  ;  Arist.  Met, i.  VII.  XII,  2,  7,  d.Anal^Pr,  1.  I.  XXXI,  2,  Anal.  Posi,  1.  II. V.  2-4.  1.  II.  XII.  13-15,  eec. (2)  Meno  71  a-d,  72  c-d,  73  e,  74  b-e.  76  a-b,  77  a-b,  78  b, 79  b-e.  80  b,  d,  86  o-e,  87  b.  100  b.  FU.  62  a,  Sof,  217  b,  218  b, 226  a,  231  e,  Teet.  145  e,  146  e,  148  d  .  174  b,  175  o,  200  d, Char7i,  159  a,  172  e.  175  d.  Laeh,  190  d-e,  191  e,  192  a,  194  b-c. 199  e,  Lys.  222  b  .  223  b,  Fedro  238  d,  265  d,  269  b,  Futifr. 5  d,  6  d-e,  9  e.  11  a-b,  14  e,  15  e.  Farm.  135  e,  Ipp,  Mngg. :286  d-e,  287  de,  289  c-d,  292  d,  ecc.^()  zi  taii  <»  semplicemente ti  itrtt formula  con  cui  Platooe  propone  1a  ricerca  della  defi* —  239  — ^1 L'  alata  d  'una  cosa  è  il  suo  essere,  la  sua  vera  real- tà  (1).  E  infatti  questo  termine,  nella  lingua  filosofica dei  Greci,  riunisce  al  tempo  stesso  i  significati  dei  due termini  italiani  essema  e  sostanza  (2),  e  nel  linguaggio speciale  di  Platone  è  un  sinonimo  d'Idea  (3),  per  designare gii  esseri  veri  in  cui  si  risolve  la  realtà  fenomenica  (4). Nel  periodo  pitagoreggiante,  in  cui  le  cose  risultano, non  dalle  sole  Idee,  ma  anche  dalla  materia,  1'  oùtria non  e  che  la  forma,  come   in    Aristotile  (5);  ma  essa  è Dizione  —  indica  evidentemente  Vensema  (v.  Fedotie  65  e,  75  d— efr.  78  .i—,  Meno  72  b,  Eutifr,  11  a,  Bep.  522  e—  525  b,  533  a— —  534  b,  ecc.),  come  in  Aristotile,  in  cui  la  seconda  di  queste due  forme  sostantificata  (rò  u  t^ti)  è  T  equivalente  di  aiata (V.  Mei.  1.  I,  VI,  7-etr.  4-,  1.  VI.  I.  1-4,  1.  VII.  IV,  8,  IX,  4, 1.  XI.   VII.  2-4,  ecc.). (1)  V.    Teet,  186. (2)  Del  resto  l'essenza  no/m/ia^«  (V.  Locke  Sag.  sulVititendim. um,  1.  3.  e.  3-6,  Mill  Log.  1.  1.  o.  6-8,  Bain  Log.  I.  1,  e.  2,  ecc.) è  una  inrovazion**  moderna,  allo  «cojm  di  conciliare  la  dottrina tradizionale,  ohe  la  definizione  è  la  spiegazióne  dell'essenza,  col concetto  della  più  jjarte  dei  logici  moderni,  eh'  essa  non  è  che la  spiegazione  del  senso  del  n<mie. (3)  V.  Suppl.  B.  p.  I,  n.  1. 4)  V.  Sup)»l.  B.  p.  I,  n.  9«-L'ideutità  dell'Idea  con  V  avata spiega  perchè  Platone,  per  designare  le  Idee,  si  serve  delle  pa- role S  iau  preposte  ai  nomi  corrispondenti— p.  e.  S  tati  xkiyri (Bep.  i597  a-c).  t}  iau  intatfjf^tj  {Parm.  134  a).  ^Q  iazt  (preposto) a  un  nome)  vuol  dire  al  tempo  stesso  :  ciò  che  il  nome  propria- mente signiftoa  (V.  Suppl.  B.  p.  1,  n.  2).  e  :  l'essenza  della  cosa ricercata  dalla  detìnizione  (v.  Fedone  75  d  e  92  e).  I  due  sensi coincidono,  perchè  ciò  che  il  nome  significa  è  spiegato  appunto dalla  definizione. (5)  V.  Arist.  Mei.  \.  I.  VI.  4,  7,  VII,  3.»  m  »» -  240  — ancora  il  solo  essere  vero,  e  la  materia  è  ricondotta  al non  essere  (1). 2.®  Definire  un  concetto  è  dire  ciò  die  vi  ha  di  co- mune in  tutti  gli  oggetti  sottoposti  a  questo  concetto  (2), Così  definire  il  simulacro  è  dire  ciò  che  vi  ha  di  comune nei  diversi  simulacri,  e  che,  come  unico  in  tutti,  chia- miamo c<m  un  nome  unico,  simulacro  (3);  definire  la  fi- gura, dire  ciò  che  è  lo  stesso  nel  rotondo,  nel  retto  e  in tutti  gli  altri  oggetti  che  chiamiamo  figure  (4);  definire la  virtù,  dire  in  che  tutte  le  virtù  sono  una  sola  e  stessa cosa  (5),  cioè  far  vedere  ciò  che  è  lo  stesso  in  tutte  e quattro  (la  fortezza,  la  temperanza,  la  giustizia,  la  pru- denza), e  che,  essendo  uno  in  tutte,  chiamiamo  giusta- mente con  un  sol  nome,  virtù  (6).  In  altri  termini,  de- finire è  generalizzare,  trovare  in  una  moltitudine  di  og- getti particolari  la  specie  unica  che  li  comprende,  ab- bracciando questa  moltitudine  in  una  formula  gene- rale (7). 3."  Conoscere  una  cosa  (nel  generale,  p.  e.  la  virtù, la  santità,  ecc.)  è  conoscerne  la  definizione  (8);  ignorare la  definizione  è  ignorare  la  cosa  stessa  (9).  LHntelligenza o  la  scienza  d'  una  cosa,  o  piuttosto  della  sua  Idea,  è V  intelligenza  o    la    scienza    di    ciò    che    questa    cosa  è (1)  V.  Suppl.  C.  /  due  elementi, (2)  V.  Sof.  240  a,  247  d— e,  3feno,  72  e.  74  d,  74  e-75  a,  Leg, 964  a,  965  c-d,  966  a,  eoo. (3)  Sof.  240  a. (4)  Meno  75  a. (5)  Leg.  964  a. (6)  V.  965  c-d. (7)  Teet.  148  d. (8)  V.   Polii,  278  e,  Euti/r,  15  d-e,  Leg,  964  a. (9)  V.  Meno  71  b,  79  o,  80  d,  Teet,  147  b,  196  d,  e,  Laeh,  200  a. —  241 (o  iati)  (1);  insegnare  questa  cosa,  o  piuttosto  la  sua Idea,  è  spiegare  ciò  che  essa  è,  darne  la  definizio- ne (2).  La  dottrina  che  la  conoscenza  dell'  Idea  consir ste  nella  definizione  della  cosa  corrispondente,  risulta anche  dal  princìpio  dell'autore  che  le  Idee  non  si  cono- scono che  per  la  dialettica  (3),  la  conoscenza  che  la  dia- lettica dà  dì  un'  Idea  —  considerata  per  se  stessa,  cioè indipendentemente  dai  suoi  rapporti  logici  con  le  altre Idee  —  non  potendo  essere  altro  (come  vedremo  nel  pa- ragr.  seguente)  che  la  definizione  della  cosa  (4). 4.«  La  definizione  è  l'espressione  adequata  dell'Idea; essa  la  rappresenta  più  fedelmente  che  un  ritratto  l'ori- ginale (5).  Cosi  nel  linguaggio  di  Platone  questi  due  ter- mini, la  definizione  e  l'Idea  definita,  prendono  spesso  il posto  l'uno  dell'altro.  Nel  Politico  (6;  sì  dice  che  l'ospita eleate  fa  il  politico  (volendo  dire  che  lo  definisce),  come diciamo  di  un  pittore  o  di  uno  scultore  che  fa  l'oggetto stesso.  Cercare  e  trovare  la  definizione  è  cercare  e  tro- vare r  Idea  stessa  che    si    tratta  di  definire  (7);  il  defi- (1)  V.  Fedo,  75  a-c,  FU,  62  a,  Sof.  227  b,  Bep.  tSi  b-c. (2)  V.  Euti/r.  14  e,  15  e,  6  de. (3)  V.  FU.  57  e-59  d,  Rep.  511  b-c,  532  a-533  d,  ecc. (4)  V^.  pure  Polii,  286  a  ;  «  Le  cose  incorporee,  che  souo  le  più belle  e  le  più  grandi,  gi  mostrano   chiaramente  col  solo  Xóyog e  non  altrimenti  ». {5)  V.  Polii.  277  a-c. (6)  V.  257  a,  268  e,  311  o. (7)  V.  Sof,  218  e,  d,  221  e,  223  a,  224  e,  225  a,  e,  226  a,  231  e, 235  b-d,  236  d,  239  e,  241  b-c,  253  e,  261  a,  Polii.  262  b,  264  a,' 267  e,  275  d,  280  e,  282  d,  284  a,  b,  287  e,  304  a.  Meno  73  d[ 74  a,  b,  80  d,  Teet,  148  e,  196  d,  210  a,  Lach.  194  a-b,  199  c-I 200  a,  Fedro  266  a-b,  eco,  Cfr.  Arist.  De  parlib  animai  1.  I,  e.  II, 16 —  242  — ueute  nioHtra,  niaiiiiVHta  cjuest'  Idea  (1);  la  conoscenza che  la  definizione  ne  dà  è  così  completa,  che  Platone la  cliiania  una  vista  (2),  benché  egli  non  ammetta  un  in- tuizione propriamente  detta  delle  Idee  che  in  una  vita anteriore.  L'Idea  è  composta  degli  elementi  stessi  di  cui 8i  compone  la  definizione,  cioè  del  genere  e  della  diffe- renza (3).  Essa  non  è,  al  fondo,  che  la  definizione  obbiet- tivata  (4),  e  perciò  Platone  la  chiama  'Àóyog  (5),   (cioè  col ili  ]»riiic.  e  e.  Ili  (ed.  Ditlot.  t.  3.pa<j.  224  lin.  21  e  pag.  225  liii.  18 e  39)  —  V.  Hììvhv  Suppl.  B.  p.  I,  ii.  4,  per  la  dottrina  di  Pla- tone clic  lii  detiiiiziono  hì  riforÌHce  all'Idea. (1)  V.  Polii,  -ififi  e.  2H8  e,  283  a,  286  a.  287  a,  304  a.  Sof,  2fi4  e. 2H5  a,  Kulifr.   11  a.  Meno  79  d.  Rep.  533  a.  ecc. (2^  Kuiifr.  «  e,  So'',  235  d,  23«  d,  268  h.  Tièu.  39  e.  6Vmr. 210  e— 212  jì.  Kep.  336  o.  369  h,  430  d,  432  b-c,  434  d— 435  a. 476  b.  479  e,  504  ab  .  511  o,  517  b-c  .  517  d-e,  .518  c-d,  519  d, 520  e,  525  n,  531  e— 532  o,  533  a-ì>.  540  a.  Leg.  965  c-d,  eoe.  In  al- cuni di  questi  luotrhi  non  è  espressamente  al  definente  (o.  ciò  ohe vale  lo  stesso  .  al  dividente)  che  Platone  attribuisce  questa  co- noscenza delle  Idee  ch'egli  chiama  metaforicamente  vedere;  \m\j come  abbiamo  detto,  è  un  principio  platonico  ohe  le  Idee  non  si ctmosoono  che  per  la  dialettica,  e  la  conoscenza  che  questa  dà di  un'Idea,  considerata  isolatamente,  non  è  altra  cosa  che  la  de- finizione. P^)  V.  AriKt.  J/ij<.  1.  III.  III.   9.  1.  V.  III.  5.  XXV.  5,1.  VIL XIV.  1-2.   XV.  6-7.  1.   Vili.  VI.  2,  1.  XIII.  VII.  17,  Anal.  Post. 1.  II.  XII.  11,  ecc. (4)  AriHl,  Met.  1.  XIII.  IV.  4:  «Socrate  non  poneva  «epira^t (/ft)(>«frrtf)  gli  universali  e  le  definizioni;  questi  (Platone  e  hi sua  scuola)  li  separarono  tyÒQiaatA^  ^  tali  esseri  chiamarono Idee  ».  Sul  significato  di  ^(OQKfZóg^  ;^ft)^iCft),  eco.  v.  il  Suppl. B.  p.  1.  n.  6  sulla  line. (5)  Fed.  99  e— 100  a. —  248  — nome  che  dà  alla  definizione)  (1),  come  Aristotile  la  sua forma  (2),  che,  come  si  sa,  corrisponde  all'Idea  platonica. Ma  se  la  definizione  phatonica  deve  esaurire  la  natuiu della  cosa  definita,  ne  se^ue  che  essa  deve  comprendere indistintamente  ciascuno    dei    suoi  attributi?  È  ciò  che sembra  incompatibile  con    la    reticola  che  Platone  segue costantemente  nelle  sue  dieresi,  di  definire  ciascun  ge- nere per  una  sola  differenza,  essendo  evidente  che  un  ge- nere non  differisce  da  un    altro  per  un  unico  attributo. Per  Platone,    come   per   Aristotile  e  tutti  i  filosofi  che hanno  ammesso  h*   definizioni    essenziali,  la  definizione non  comprende  esplicitamente  che  un  certo  numero  degli attributi  dell'oggetto  definito,  quelli  che  poi  sono  stati chiamati  attributi  essenziali;  tutti  gli  altri,  i  propri,  non li  couiprende  che  implicitamente^  cioè  in  quanto  deriva- no, o  possono  dedursi,  dagli  essenziali.  È  ciò  che  Pla- tone  indica    chiaramente   quando    afferma  che  la  cono- scenza delle  proprietji  suppone  quella  dell'essenza.  È  im- possibile,  egli   dice,  di   conoscere  se    un    oggetto   abbia una  data  proprietà,    se   ncni    si    conosce  ciò  che  esso  è (ò'  Uti)  (3);  ricercando  le  proprietà  d'un  oggetto,  si  deve prendere  per  principio  la  sua  definizione  (4);  è  ad  essa che  bisogna  guardare,  e  riferire  ogni  cosa,  in  tutto  il  se- (1)  V.  So/.  218  e,221  b  .  231  e  .  Polii.  274  e,  277  e  .  285  d, FU.  62  a,  Fedro  245  e,  Leg.  895  d-896  a.  964  a.  Teet.  148  d, 208  b,  ecc. (2)  V.  Mei.  l.  I.  X.  2,  1.  V.  2.  1.  l.  VII.  X.  11,  l.  VII.  XV. 1,  l.  VIII.  I.  6,  l.  XII.  II.  6.  HI.  5.  PA,y»,  l.  II.  III.  2,  De  gen. 1.  I.  II.  21.  ecc. (3)  Meno  71  ab.  86  d.   Rep.  3.54  e. (4)  Meno    86    d  .  100  b,  Protag.  361  o,  Rep.  354  b-c,  Fedro 237  h  d. 1 -    244  — guito  della  ricerca  (1).  Ciò  importa  evidentemeute  che la  defìnizione  contiene  delle  premesse  per  portare  delle inferenze  sugli  attributi  non  compresi  nella  definizione stessa;  il  che,  la  conoscenza  essendo  per  Platone  a  priori, significa  che,  data  la  definizione,  si  possono  dedurre  da essa  a  priori,  cioè  indipendentemente  dalPosservazione, tutte  le  proprietà  dell'oggetto  definito.  Ciò  è  confermato dal  Fedone  100  a,  in  cui  Platone  riassume  il  suo  metodo in  questa  regola  unica:  prendere  per  princio  il  Xóyog che  sembra  il  meglio  stabilito,  e  ammettere  come  vero ciò  che  gli  è  conforme,  ciò  che  non  lo  è  rigettarlo  come falso.  Questa  regola  di  metodo  valendo  per  ogni  ricerca, essa  prescrive  di  dedurre,  non  solo  ogn'  Idea  inferiore dall'  Idea  superiore,  ma  ancora  tutti  gli  attribuiti  di una  cosa  dalla  sua  definizione.  Qui  kóyoq  (oltre  che  ra- ifione,  cioè  principio  da  cui  le  cose  si  devono  dedurre) significa  al  tempo  stesso  concetto  e  definizione:  questi due  significati  al  fondo  si  equivalgono,  perchè  la  defini- zione, secondo  tutti  i  concettualisti,  non  è  che  l'analisi, o  lo  sviluppo,  del  concetto. Questa  dottrina  dì  Platone  sulla  defìnizione  sembra  un accompagnamento  naturale  del  realismo  dialettico.  An- che nei  sistemi,  in  cui  la  dialettica  non  è  rappresentata, come  in  quello  di  Platone,  come  una  ricerca  della  defini- zione, essa  deriva  dal  carattere  generale  di  questa  filoso- fia, eh 'è  di  aspirare  a  riprodurre,  come  insieme  di  con- cetti, l'universalità  stessa  dell'  essere  e  del  conoscibile. Quando  Hegel  riduce  la  scienza  a  una  serie  di  concetti,  coi loro  rapporti  di  successione  logica,  siccome  questa  è  per lui  la  scienza  universale,  egli  ammette  implicitamente  che tutte  le  proprietà  e  relazioni  delle  cose  devono  dedursi dai  loro  concetti.  La  dottrina  è  formulata  della  maniera (1)  Fedro  237  d,  238  de,  263  e. —  245  — più  espicita  in  Spinoza  ed  in  Taine.  Le  proprietà  delle  co^e, dice  Spinoza,  non  s'intendono,  sinché  s'ignorano  le  loro essenze;  se  si  tralasciano  queste,  si  sovverte  necessaria- mente la  concatenazione  del  pensiero,  che  deve  rappresen- tare quella  della  natura  stessa.  Talis  requiritur  conceptus rei  sive  definitio.  ut  omnes  proprietates  rei,  dum  sola^  non nufcni  cum  aliis  conjuncta  spectatur,  ex  ea  concludi  poS"' »int.  Questo  per  le  definizioni  delle  cose  create;  ma  lo  stesso requisito  è  poi  assegnato  alla  definizione  della  cosa  in- creata. Anche  per  questa  si  richiede  ut  ab  ejus  definitione omnes  ejus  proprietates  concludantur  (1).  La  stessa  dottri- na nel  Taine,  benché  espressa  sotto  una  forma  più  on- tologica che  logica.  <(  La  definizione  è  la  proposizione  che marca  in  un  oggetto  la  qualità  da  cui  derivano  le  altre e  che  non  deriva  da  un'altra  qualità.  Non  è  una  propo- sizione verbale,  perchè  v'insegna  la  (jualità  d'una  cosa. Non  è  l'affermazioned'unaqualitàordinarìa,  perchè  vi  ri- vela la  qualità  ch'è  la  sorgente  del  resto.  È  un'asserzione d'una  specie  straordinaria,  la  più  feconda  e  la  più  preziosa  di tutte,  che  riassume  tutta  una  scienza,  e  in  cui  ogni  scienza aspira  a  riassumersi  >.  Così  nella  definizione  della  sfera «  si  annunzia  che  tutte  le  proprietà  d'ogni  sfera  derivano da  (|uesta  formula  generatrice.  ...  si  esprime  l'es- senza della  sfera,  cioè  la  causa  interiore  e  primordiale  di tutte  le  sue  proprietà.  Ecco  la  natura  di  ogni  vera  defi- nizione »  (2).  Causa,  secondo  Taine,  è,  lo  sappiamo,  un fatto  più  generale,  da  cui  può  dedursi  un  altro  fatto  o  un gruppo  di  altri  fatti. §  19.  La  dialettica  di  Platone  non  è  che  la  dieresi. Così  nel  Sofista  (253  d  —  e;  dice  :  <  Dividere  per  generi  e né  la  stessa  specie  prendere  per  diversa  né  la  diversa  per la  stessa,  non  diciamo  essere  questo  l'ufficio  della  scienza (1)  V.    De  intellectns  emendalione  XI li, (2)  Storia  della  letteratura  iìiglese,  t.  '1,  l.  V,  e.   V,  §  2,  III,  -      -  '"   '  -  -    _     .  -  -,  III  I        r  — - dialettica  f  —  Così  chi  è  capace  di  fare  ciò,  vede  acuta- mente un'Idea  unica  diffusa  in  molti,  esistenti  ciascuno separatamente,  e  molte  Idee  differenti  contenute  sotto una  Idea  unica,  e  ancora  un'Idea  unica  in  molti  tutti ridotta  all'unità,  e  molte  Idee  affatto  distinte  (1):  que^ sto  è  saper  discernere,  per  mezzo  della  divisione  per  ge- neri, quali  comunicano  fra  di  loro  e  quali  no.  —  Ma  (pie- sta  scienza  dialettica  tu  non  l'attribuirai,  io  penso,  che a  chi  puramente  e  giustamente  filosofa.  »  Nel  Fedro (265  <l-2tì6  b)  dopo  aver  raccomandato  di  ricondurre  a un'Idea  unica,  guardandolo  con  una  veduta  comprensiva, ciò  che  è  sparso  <iua  e  là,  e  poi  dividere  e  suddividere I>er  ispecie  com(*  per  altrettante  articolazioni  naturali, soggiunge  :  <  Per  me,  o  Fedro,  io  sono  amante  di  que- ste divisioni  e  riunioni  ((rvyaycoywt')^  per  essere   più    in grado  di  ben  pensare  e  di  ben  [tarlare,  e  se  vedo  qual- cuno che  sia  capace  di  comprendere  1'  uno  e  il  mul- tiplo qual  è  in  natura,  io  cammino  sulle  sue  tracce  come su  quelle  d'  un  dio.  Quelli  che  hanno  questa  capacità, dio  sa  se  a  torto  o  a  ragione,  ioli  chiamo  sino  ad  ora (1)  Preseuti  pure  in  questi  ni'4li  lutti,  cioè  una  in  ciascuno (Un  tutto  è  il  couìplfsso  di  cose  o  d'Idee  inferiori  cont-enute  sotto un'Idea).  Oss(^rvian^o,  per  dare  ragione  di  quest'interpretazione, che  queste  tnolte  Idee  affatto  disliìite  non  i)Otrebbero  contrai>i)or8Ì alle  molte  Idee  differenti  contenute  sotto  un"* Idea  unica,  intendendo l>er  esse  delle  Idee  che  non  possono  ricondursi  a  un'Idea  più  ge- nerale :  perchè  in  questo  caso  affatto  distinte  dovrebbe  signifi- care :  che  non  partecipano  in  comune  a  qualche  altra  Idea  ;  si- gnificato inammissibile,  poiché  secondo  il  Sofista  (v.  255-25U) tutte  le  Idee  partecipano  a  <iuelle  deWessere  e  del  non  essere  e delh»  stesso  e  del  diterso,  e  queste  stesse  le  une  alle  altre.  Di più  il  contesto  esige  che  anche  in  queste  molte  Idee  affatto  distinte si  veda  un  ciiso  della  dieresi  e  della  sinagoge,  come  avviene infatti  nella  nostra  interpretazione. —  247  — — ^'^™-         M»WIIIMI     Il  ini.  I  ..      !  .1    il     .       ...     -M-i    .1    I  11^ / dialettici.»  Nel  Filebo  (15  d-19  b)  la  dieresi  è  evidente- mente pret^entata  come  il  metodo  scientifico  per  eccel- lenza :  non  vi  ha  né  può  esservi  metodo  più  bello  di questo,  di  cui  l'autore  è  stato  sempre  amante,  ma  che spesso-  sfuggendogli,  lo  ha  lasciato  inope  e  desert4> (16  b);  è  per  esso  che  è  stato  messo  in  luce  tutto  ciò che  è  stato  scoverto  con  arte  (16  e);  è  un  dono  degli dei  agli  uomini,  inviato  per  un  Jtltro  Pnmioteo  con  un altro  splendidissimo  fuoco  (ibiil.);  non  si  è  sapienti  in  un soggetto  qualsiasi,  che  quando  si  è  in  gra<lo  di  appli- care questrO  metiodo  (17  b-e).  Il  metrodo  così  esaltato  da Platone  non  può  essere  senza  dubbio  che  il  dialettico  (1); e  del  resto  è  ciò  che  egli  dice  esplicitamente,  (piando dà  per  carattere  proprio  della  discussione  dialettica,  che la  distingue  dalla  eristica,  il  passare  da  ini' Idea  generale albi  moltitudine  infinita  dell'individui,  ncm  iuìmediata- mente,  ma  per  l'intermediario  delle.  Idee  più  particolari in  cui  essa  si  divide  e  suddivide  (17  a).  La  stessa  iden- tificazione della  dieresi  con  la  dialettica  nel  Politico (285  c-286  a)  (2),  in  cui  l'aut.ore  ci  avverte  che,  come  un fanciullo  che  si  esercita  nelle  lettene  (yiìàuuaia)  viene  in- terrogato su  quelle  di  cui  consta  un  nome,  non  per  la sola  quistione  su  questo  nome,  niit  per  divenire  più (frammatieo  in  ogni  quistione,  così  le  dieresi  di  (luesto di«'ilogo  non  hanno  solamente  per  iscopo  di  cercare  il Àóyog  del  politico,  ma  di  rendere  più  dialeUiei  in  ogni soggetti»,  o,  ciò  che  vale  lo  stesso,  più  capaci  di  «  dare e    ricevere    ragione  (Aóyoz)  »  di  ciascuna  cosa  (3).    Ag- ii) Vedi  }  12.0 (2)  V.  anche  286  b-287  a. (3)  Conlr.  liep.  581  e,  in  cui  questa  lo<^uzioue,  capace  di  dare e  ricevere  ragione,  h  impiegata  evidentemeule  come  l'equivalente di  dialettiro. 248  - —  249  - giun^iaìuo  infine  il  Sofista  227  a  (1),  in  cui  il  metodo  di  di- visione è  cliianiato  il  «metodo  delle  ragioni  (rà)#/  kóy(oy)  y^ —  ^  le  ragioni  »  (o/  'Aóyoi)  nel  linguaggio  platonico  si- gnifica la  stessa  cosa  che  €  la  dialettica  »  (2)—;  e  Alfes- sandro  Afrodisio  in  phil.  pr.  I.  42,  il  quale,  commentando l'osservazione  d'Aristotile  (1.  I.  VI.  5)  die  la  dottrina delle  Idee  è  nata  dallo  studio  posto  nella  dialettica,  in- tende per  «  dialettica  »  la  definizione  e  il  processo  di  cui essa  è  il  nìomento  finale,  cioè  la  dieresi. Come  si  vede  dal  secondo  dei  luoghi  citati,  la  dia- lettica è  talvolta  ricondotta,  non  alla  semplice  dieresi, ma  alla  dieresi  e  alla  sinagoge  (3).  Ma  questa  differenza non  ha  alcuna  importiinza,  perchè  la  dieresi  implica  la sinagoge,  come  un  suo  momento  subordinato.  La  die- resi infatti  non  è  che  una  classa/ione,  e  questa  suppone la  formazione  delle  classi,  cioè  dei  concetti  generali,  ciò che  Platone  chiama  (rvyay(oyrj.  In  certi  casi  la  dialet^ tica  sembra  anche  ridotta  alla  sola  sinagoge.  Così  se- condo la  Repubblica  537  e  il  dialettico  è  il  sinottico, cioè  chi  sa  abbracciare  molti  oggetti  in  una  vista  d'in- sieme, comprendendo  le  affinità  tra  le  conoscenze  e  tra gli  esseri;  secondo  V  Epino mide  991  e  il  primo  e  il  più bel  modo  di  esaminare  le  cose  è  di  riconduri-e  in  tutt^s le  discussioni  il  particolare  al  generale  ;  e  secondo  le Letjfii  965  e  non  vi  ha  metodo  più  luminoso  per  lo  spirito nmano  che  di  poter  guardare  a  un'Idea  unica  dai  molti (1)  Cfr.   PolUk'o  266  d. (2)  V.   p.  e.   Hep.  538  o-53H  d  e  Aristotile.  AIeL  1.  1.    VI.  .5. (3)  Allelui  nel  Filelìo  il  metodo  di  cai  si  parla  a  i5  d-19  b  ora è  rappresentato  come  una  semplice  dieresi  —  v.  16  c-17  a  —,  e ora  come  una  riduzione  del  multiplo  all'uno  (sinagc»ge)  e  una  ri- soluzione dell'uno  nel  multiplo  (dieresi)— v.  15  d-e  e  c<»nfr.  IS  a-c— ^ -6  dissimili.  Ciò  è  perchè,  trovati  tutti  i  concetti  generali, vale  a  dire  tutte  le  classi,  e  superordinandoli    gli    uni agli  altri  secondo  il  grado  della  loro  generalità  crescente —  operazioni  che  sono  del  dominio  dèlia  «rrra;/r,);/)y— ;il risultato  sarà  una  classazione  sistematica  di  tutte  le  Idee, in  altri  termini,  la  loix)  dieresi.  Per  la  stessa  ragione, siccome  Platone   identifica  la  definizione  con  la  sinago- ge (1)  — perchè  la  definizione,  non  essendo  che  l'esposi- zione del  concetto,  si  ottiene,  come  (piesto,  svolgendo  ciò che  vi  ha  di  comune  in  una  classe  di  oggetti  (2Ì— egli riconduce  pure  hi  dialettica  alla  definizione.  È  ciò    che fa  nel  Fiìebo  61  e-62  a,  in  eui  la  scienza  più  vera,  cioè  la dialettica  (3),  è  ridotta  alla  conoscenza  di  ciò  che  è  la giustizia  stessa  e  tutte  le  altre  Idee,  o  in  altri  termini, alla  possessione  del  loro  JLÓyoz'^   e  in  quella  ste^^sa  parte della    Repubblica  (4)  in  cui  la  dialettica  è  specialmente considerata  come  un  metodo   di    dedurre  gradatamente tutte  le  Idee  da  un'Idea  suprema.  Così  a  533  b  :  «  non vi  ha  che  il  metodo   dialettico  che  cerchi    di    prendere con  un  ordine  determinato  ciò  che  è  ciascuna  cosa  »  ;  e a  534  b  :  «  non  chiami  dialettico  colui  che  prende  la  de- finizione dell'essenza  di  ciascuna  cosa?».  Ma  per  ricon- durre la  dialettica  alla  definizione    Platone    ha    ancora una  ragione  più  decisiva:  è  che  la  dieresi  è  il  processo di  cui  la  definizione  è  il  risultato,  e  può   anche  consi- derarsi essa  stessa,  come  abbiamo  osservato   (5),  come una  catena  di  definizioni. (1)  V.  Fedro  265  d-266  b,  277  b-e.   Teeteto  UH  d,   Lefjf/i  J«63 c-964  a.  965  o-d,  eoo. (2)  Cfr.  J  18,  n.o  2.« (3)  Conf.  58  a-59  «1. (4)  Fine  del  I.  6  e  1.  7. (5)  V.  p.  18  sul  priuoipio. >   >      »  t       » —   Il    MI!  ^       Il     HI     .III  I      111.^.^    •      •       m         ^      I  1—^      I  MI   I        II   M      .1  !  I   I    11    I La  dialettica  essendo  la  dieresi,  noi  dobbiamo  dunque applicare  alla  dieresi  ciò  che  nel  §  10  e  seguenti  abbiamo detto  della   dialettica   considCTat.a   genericamente  :  que- st'applicazicme  ci  darà   i  caratteri    speciali    del    metodo platonico,  di  cui  sino  al  $  15  non  abbiamo  considerato, quasi  esclusivamente,  che    quelli  comuni    con    gli    altri sistemi  di  realismo  dialettico.  Noi  abbiamo  visto  :  che  la dialettica  è  una  catena  continua  di  deduzioni,  in  cui  la conseguenza  della  deduzione  antecedente  diviene  il  prin- cipio dtjlla  deduzione,  susseguente  (1);  che   questi    prin- cipii  e  conseguenze    non    sono   delle    proposizioni,    ma delle  Idee,  in   modo    che  la  deduzione    consiste   a    pas- sare dalla  posizione  di  un'Idea  a  ({uella  di  altre  Idee  (2); e   che   il    principio  primo  è  l'Idea  del  Bene,  cioè  l'Idea più  universale,  di  cui  tutte  le  altre  sono  delle  specie  o delle  forme  particolari.  (3)  Noi  abbiamo  visto  pure  che questa  catena  di  principi i  e  conseguenze  è  percorsa  dalla dialettica    in    due    direzioni    op[K>ste  :    1'  una    ascensiva (àyà^ats:)    (4),    che    va  dalle  conseguenze    ai    principìi, ])artendo  dalle  conseguenze  ultime  per  arrivare  al  prin- cipio primo;  e  l'altra  discensiva,  che    va   dai    jirincipii alle  conseguenze,  part^ìudo  dal  principio  primo   per  ar- rivare   alle   conseguenze    ultime  (5).    Ciò    che   abbiamo detto  nel  paragr.  17  ci  permette  di  determinare   in  che consistono  questi  due  processi  opposti  della   dialettica: il  processo  discensivo,  che  va   dall'Idea  del    Bene    alle (1)  V.  $  12. (2)  Ihid, (3)  V.  ^  13  e  ^  16. (4)  V.  per  questo  termine    liep,  511  b,  515  e-516  b.  517  a-b, 519  d.  532  ii-b,  533  c-d. (5)  V.  S  12. —  251  — sue  specie  particolari,  è  la  dieresi  — noi  sappiamo  che  que- sta, applicata  d'una  maniera  completa,  deve  abbracciare tutto  il  mondo  ideale,  partendp  dall'Idea  suprema  che sta  al  vtrtice  della  piramide — ;  il  processo  asceitsiiWj che  arriva  come  ultimo  termine  al  termine  primo  della dieresi,  cioè  all'Idea  del  Bene,  è  la  sinagoge La  dieresi  dunque  non  è  solamente  una  classifica- zione ma  anche  una  deduzione  :  in  questa  deduzione  il genere  diviso  funge  da  principio,  le  specie,  cioè  i  generi immediatamente  inferiori  in  cui  si  divide,  da  ccmseguenze — •  (juesti  generi  e  queste  specie,  come  abbiamo  detto nel  paragr.  17,  non  sono  delle  collezioni  di  oggetti  par- ticolari, ma  le  Idee  che  loro  corrispondono — .  Che  fa  in- fatti il  dividente?  Pone  prima  l'Idea  di  un  genere,  e poi  quelle  delle  specie  contenute  in  questo  genere  (1) Perchè  questo  processo  sia  una  deduzione,  bisogna  dun- que che  tra  la  prima  di  queste  due  posizioni-^quella  del- l'Idea dv\  genere  —  e  la  seconda  —  quella  delle  Idee  delle specie  contenute  in  questo  genere  —  vi  sia  il  rapporto  di principio  e  conseguenza.  La  deduzione  del  dividente  è COSI  un  passaggio  continuo  dalia  posizione  di  un'Idea a  quella  di  altre  Id€?e,  come  abbiamo  visto  della  de- duzione del  dialettico,  prima  d'aver  identificato  la  dia- lettica  con  la  dieresi.  Questo  passaggio  continuo  dalla l>osizione  d'un'Idea  —  quella  di  un  genere  —  alla  posi- zione di  ailtre  Idee  —  quelle  delle  specie  che  e^so  con- tiene e  di  cui  ciascuna  diviene  alla  sua  volta  il  genere di  una  nuova  divisione  —  è  un  passaggio  da  un'afferma- zione esistenziale  ad  un'altra  affermazione  esistenziale  : ogni  divisione  stabilisce  che  esistono,  nel  genere  diviso^ t«li  specie  determinate,  ed  esse  sole,  dopo  che  si  è  sta- bilito, in  una  divisione  antecedente,  l'esistenza,  in   un (1)  Coufr.   Filebo  IH  d. —  252  — altro  genere  superiore,  di  questo   genere   e   del    genere •collaterale,  e  di  essi  soli.  In  verità  il  dividente  non  af- ferma espressamente  l'esistenza  del  primo  genere,  quello «he  costituisce  il  punto  di  partenza  di  una  dieresi  :  ma  la posizione  di  questo  genere,  cioè  dell'Idea  corrispondente, deve  implicare  anch'essa   un  ^affermazione  — perchè  n(m potrebbe  servire  da  premessa  in  una  deduzione,  se  non fosse  l'equivalente  di  una  proposizione  —,  e  la  posizione di  un'Idea  non    può    implicare    altra    affermazione   che •quella  dell'esistenza  di  quest'Idea.  La  dieresi,  conside- rata come  metodo  di  dedurre  le  Idee,  è  dunque  un  se- guito continuo  di  affermazioni  esistenziali,  in  cui  l'ante- cedente è  il  principio  della  susseguente  e  la  susseguente la  conseguenza  dell'antecedente.  Il  principio  afferma  l'e- sistenza di  un'  Idea  generica:  la  conseguenza,  che   esi- stono, contenute  in  quest'Idea  generica,  tali  Idee  specifiche determinate,  ed  esse  sole.  Ogni  affermazione  parziale  com- presa in  questa  conseguenza,  cioè  quella  dell'esistenza  di ciascuna  Idea  specifica  (che  diviene  un'Idea  generica  in una  divisione  ulteriore)  è  «alla  sua  volta  il  principio  di una  nuova  conseguenza,  che  non  è  che  un'altra  afferma- zione esistenziale  simile  all'affermazione  totale  della  con- seguenza pt^cedente.  Applicando  il  metodo  di  una  ma- niera completa  e  sistematica,  si    avrà   il    sistema   delle Idee  riprodotto  in  un   sistema   di    affermazioni    esisten- ziali, che  dall'Idea  supi^ema  del  Bene  o  dell'Essere  an- dm  sino  a  quelle  delle  specie  infime,  discendendo  tutti i  gradi  della  generalità  per  una  deduzione  progressiva, che   svolgerà    continuamente   dal  generale  il  complesso dei  particolari  in  esso  contenuti. La  proposizione  che  la  dieresi  è  un  metodo  deduttivo, che  consiste  a  dedurre  dal  genere  le  specie  che  esso  con- tiene, significa  che  noi  possiamo,  secondo  Platone,  per  la sola  forza  della  logica  e  indipendentemente  dall'osser- vazione reale,  scoprire  nell'Idea  generica  le  Idee  speci- —  253  — fiche  ad  essa  subordinate;  ciò  che  implica  che  noi  pos- siamo,  secondo  questo  filosofo,  conoscere  a  priori  che un  dato  genere  si  divide  in  tali  specie  determinate.  In questa  deduzione  in  cui  Platone  fa  consistere  la  dieresi ^ il  principio,  abbiamo  detto,  afferma  che  un  certo  genere esiste,  la  conseguenza  che,  in  questo  genere,  esistono tali  specie  determinate,  ed  esse  sole.  Questa  conseguenza contiene  così  due  affermazioni  :  l'una  che  tali  specie  de- terminate esistono;  l'altra  che  non  esiste  alcun'  altra specie,  e  che  esse  sole  esauriscono  tutta  l'estensione  del genere.  L'una  e  l'altra  di  queste  affermazioni  sono  secondo Platone  delle  verità  deduttive,  cioè  che    noi  scopriamo nell'Idea  generica  perlasolaforzadellalogicaeindipenden- temente  dall'osservazione  reale.  Due  sono  dunque  le  ve- rità a  priori,  incluse  secondo  Platone,  in  ciascuna  divi- sione: la  prima  che  il  genere  contiene  queste   specie,  e la  seconda  che  non  contiene  che  queste  sole.    Una    ve- rità a  priori    essendo  anche  una  verità  necessaria,  cioè il  cui  contrario  è  inconcepibile,  queste  due  verità   non sono  solamente  a  priori,  ma  anche  necessarie,  cioè  il  loro contrario  è  inconcepibile.  Platone    suppone   dunque   in ciascuna  divisione;  1»  che,  esistendo  il  genere-cioè  data la  realizzazione,  nella  natura,  del  concetto  generico  cor- rispondente —  esistono  necessariamente  le  specie  reali  de- terminate che  esso  contiene;  e  2"  che  queste  specie  esau- riscono, pure  necessariamente,   l'estensione   del   genere,, in  modo  che  l'esistenca  di  qualche  altra  specie  sarebbe inconcepibile.  Un  esempio    potrà   chiarire  questa  diffe- renza tra  la  dieresi  platonica  e  una  semplice  classifica- zione. Quando  il  naturalista  divide  i  vertebrati  in  mam- miferi, uccelli,  rettili  e  pesci,  egli  non  enunzia  che  una verità  di  fatto  :  egli  afferma  semplicemente  che   queste classi  esistono,  e  che  esistono  esse  sole.  Così  la  divisione del  naturalista  non  che  è  una  semplice  classificazione: per  essere  una  dieresi  alla  platonica,  egli  dovrebbe  mo- -  254  — strare,  non  solamente  die  i  inani  in  ìferì,  gli  uccelli,  ecc. esistono,  ina  die  non  possono  non  esistere  (dato  che  esi- stano dei  vertebrati);  né  8olament.e  che  queste  sole  classi <?sÌ8tono,  ina  che  esse  sole  possono  esistere,  e  l'esistenza -di  qnalche  altra  chisse  è  inconcepibile.  Vi  hanno  dei  casi in  cui  questa  seconda  supposizione  della  divisione  pla- tonica si  veriftea  effettivamente;  p.  e.  quando  si  divide la  linea  in  ietta  e  curva,  o,  per  tornare  alle    clnssitìca- zioni  del  nasumlista,  quando  si  divide  Tanimale  in  ver- tebrato e  invertebrato  :  noi    vediamo    che,    nel    jnrenere dato,  (pieste  sole  specie  possono  esistere,  e  non  solamente che  esse  sole  esistono;  la  divisione  esaurisce  necessaria^ mente  tutta  l'estensione   del  genere,  |>erchè  1'  esistenza di  qualche  altra  specie    sareb>>e  inconcepibile.   Ma  f»er- chè  una  tale  divisione  tosse  una  dieresi  alla  platonica, bisognerebbe  che  si  verificasse    anche  la  prima  supposi- zione; ciò  che  non  è,  perchè  dato  il  concetto  della  linea o  dell'animale,  e  dato  che  (piesto  concetto  si  sia  realiz- zato nella  natura,  non  è  necessario  (nel  senno    indicato di  questo  termine)  ch'esso  si  sia  realizzato   in    tutte    le specificazioni  di  cui  è  logicamente  suscettibile;  in  altre parole,  non  è  necessario  che,  se  esisti^  la  linea  o  l'ani- male, esiste  tanto  la  retta  quanto  la  curva,  tiinto  il  ver- tebrato <iuanto  l'invert^^brato,  la  realtii  del  concetto  non importando  la  realtà  di  tutte  le  sue  specie  possibili,  cioè concepibili,  ma  solamente  di  (jualcuna  di  (|ueste  s|»ecie Noi  abbiamo  visto  che  la  ]M>sizione    dell'  Idea    generica implica,  per  Platone,  l'afterniazione  dell'esistenza  di  que- st'Idea, e  che  è  quest'affermazione  che  funge  da  principio (cioè  da  premessa)  nella   deduzione  in    cui   consiste   la «dieresi.  La  posizione  dell'Idea  della  linea  o  dell'animale equivale  dunque  per  Platone  all'affermazione  della  realtà ^i  questi  concetti  —  l'Idea  platonica  non  è,  lo  sappiamo, ^he  il  concetto  obbietti  va  to—;  in  altri  termini  essa  equi- vale all'afiermazione  dell'esistenza  della  linea  o  dell'ani- —  255  — male.  Ma  perchè  dalla  posizione  del  concetto  di  linea o  di  animale,  e  dall 'affermazione  esistenziale  che,  se- condo Platone,  implica  questa  posizione,  possa  dednrsi l'esistenza  della  retta  e  della  curva,  del  vertebrato  e  del- l'invertebrato,  bisogna  che  Platone,  ponendo  un  con- cetto, intenda  affermarlo  in  tntta  la  sua  estensione  logica — intendendo  per  estensione  logica  quella  che  abbraccia, non  tutte  le  specificazioni  di  questo  concetto  che  si  sono realizzate  nel  mondo  obbiettivo  (questa  potrebbe  chia- marsi l'estensione  reale),  ma  tutte  le  sue  specificazioni possibili,  cioè  concepibili  -.  Per  esprimere  lo  stesso  pen- siero con  una  locuzione  platonica,  bisogna  che  Platone, ponendo  l'Idea  della  linea  o  dell'animale,  intenda  affer- mare, non  semplicemente  che  la  linea  e  l'animaie  esiste, ma  che  esiste  tutta  la  linea  e  tatto  Vanimalc  —  espres- 'sioni  di  cui  Platone  si  serve  per  indicare  che  il  genere denotato  dal  nome  va  preso  nella  sua  t^otalità  (l);  ciò che  noi  esprimeremmo  dicendo:  ogni  linea,  ogni  animale, salvo  che  la  locuzione  platonica  implica,  oltre  alla  rea- lizzazione evidente  dei  concetti  di  linea  e  di  animale, che  questi  concetti  si  prendono  nella  loro  estensione logica,  mentre  nella  nostra  locuzione  sono  presi  nella loro  estensione  reale—.  Così  la  dieresi  platonica,  conside- rata come  metodo  di  dedurre  le  Idee,  s)ippone,  in  ultima analisi,  queste  due  condizioni  :  1»  che  le  specie  in  cui un  genere  si  divide  siano  tutte  le  specie  possibili  di  que- sto genere;  in  altri  termini,  che  la  divisione  di  un  con- cetto generico  esaurisca  tntta  la  estensione  logica  di questo  concetto;  e  2*^  che  ponendo  il  concetto  generico, esso  si  aflPermi  come  reale,  pure  in  tutta  la  sua  esten- sione logica.  Queste  condizioni  realizzate,  la  dialettica di  Plat  Olle  sarebbe  una  vera  deduzione,  nel  senso   pro- (1)  V.  Sappi.  B.  pe  la  n^  VII,  A ^"•^ —  256  — prìo  e  logico  del  termine,  e  non  una  semplice  sofistica, come  quella  di  Hegel  :  noi  vedremo  in  seguito  sino  a qua!  punto  si  realizzino. Questo  significato  della  dieresi  platonica,  che  noi  ab- biamo dedotto  dalla  identità  di  questo  metodo  col  me- todo dialettico,  quale  è  descritto  sovratutto  nel  6*'  e  T». della  Repubblica,  è  anche  confermato,  oltre  a  ciò  che diremo  nel  prossimo  paragrafo,  dalle  seguenti  osserva- zioni : 1.^  lu  apriorità  della  dieresi  è  espressa  chiaramente nel  Timeo  39  e:  «  Quali  e  quante  specie  la  mente  vede inesistere  in  ciò  che  è  animale  (vale  a  dire  nell'Idea  del- l'animale) (1),  tali  e  tante  stabilì  (il  Demiurgo)  che  que-^ sto  mondo  dovesse  riceverne  ».  Ciò  significa  evidentemente che  si  può,  per  la  semplice  inspezione  dei  concetti,  e  indi- pendentemente dall'osservazione  del  mondo  reale,  cono- scere le  specie  in  cui  un  genere  si  divide  (2).  Questa-, apriorità  non  è  del  resto  che  un'applicazione  delle  dot- trine generali  di  Platone  sulla  scienza  e  il  metodo  scien- tifico (3).  Ch'egli  abbia  fatto  effettivamente  quest'appli- cazione si  vede  anche  nel  Politico  '111  d— 278  e,  dove  dice che  noi  conosciamo  naturalmente  tutto,  ma  come  in  un sogno,  e  ac<{uistare  una  conoscenza  nuova  è  passare  dal sogno  alla  veglia  (4);  jjerchè  egli  non  enuncia  qni  que- (1)  V.  Suppl.  B.  p.  1,  n.  2. (2)  Più  giù  (il  b-c)  dice  cbe  ne  non  fossero  stati  creati  gli  ani- maU  mortali,  il  mondo  non  sarebbe  perfetto,  perchè  non  conter- rebbe tutti  i  generi  degli  animali  (v.  a.  92  e):  «  Tutti  i  generi  »- qui  non  può  significare  tutti  quelli  cbe  esistono  di  faitOy  cioè  ch« l'osservazione  ci  mostra  nel  mondo  reale,  ma  tutti  quelli  che  <  la mente  vede  inesistere  in  ciò  che  è  animale  »,  cioè  che  noi  co- nosciamo a  priori  che  devono  esistere, (3)  V.  $  8  e  9. »      (4)  Coufr.  §  8. -  257  - ste  proposizioni  generali  t5he  per  applirarle  al  caso  par- ticolare di  cui  è  (|uistione,  cioè  W  nuove  dieresi  neces- sarie per  comiJetare  la  dehnizione  del  politico. 2.^  Aristotile  ci  attesta  che,  secondo  la  scuola  pla- tonica,  la  dieresi  è  uua  diuiostrazione.  Nelle  AnaL Fast.  1.  il.  V  egli  attribuisce  ai  fautori  di  questo  me- todo la  pretesii  di  stabilire  con  esso  (liiuostralirameiìfe che  tutt^o  ciò  che  è  nel  genere  diviso  si  trova  o  nelPuno o  neir  altro  dei  due  opposti  secondo  cui  il  genere  si divide,  in  altri  termini  che  (|uestr»  comprende  realnxMitc^ le  specie  detìnite  per  (juesti  due  opposti,  e  n(»n  com- prende che  queste   sole  speci(»  (1).   Xelle  AnaL  f'r,  1.  I. (l)  «  Xoii   fa  un    silh»»;isiiio    vhì   crostniiscc    la    dfHiiizinnc    col nietodo  divisivo.  Conu*  infatti  ìwUv  fonchisioni  senzji   medio,  st^ alcuno  dico  che,  s;»  è  «nu*sto,  è  necess:niauieiitc  quest'altro,  av- viene che  altri  ne  domandi  il  pcrclir;  .  così    ndlc    dctìniziimi  co- struite col  metodo  divisivo.   Che  è  liionio  ?   l'u  animale  mortale, pedestre,   bipede,  implume.   M.i   perche  t  si  domanda  per  ciascuna di  «lueste  attribuzioni.   Il  dividente  #//m  e  di  mosti  fra  roti  i  a  die- resi y  come  erede,  eke    tulio  v  o  morfitle  o  immortale   (tutto  vu<d dire  evidenteuuuite  :  tutti»  ciò  che  «>  nel  j^euere  di  cui  mortale  e immortnle  sono  le  differenze.  cio«>  nel  ;;enere  animale).  .Ma  tutto questo  discorso  non  e  una  definizione.    Per    cui.    iiuand'anclie  si dimostri  con  la  dieresi.  In  definizione    almeno    non  si   fa  con   sil- logismo*.  (Arist.   Aitai.  P.^si.   1.   I.   V.  «).    Per  conjprendere  hene questo  luogo,  bisogna    confnmtarh>   con  Anni.  Pr,  l.   I,  XXXI, in  cui  Aristotile  fa  vedere  che.  per  ciascuna  delle  elivisioni  suc- cessive, è  senza  prova  che  la  cosa  definita  si  pone  nell'uno  dei due  membri  di  «luesta  divisione   anziché  nell'altro;  p.  e.,  in  una dieresi  per  ottenere  hi  definizione    dell'  uomo  .  dopo  aver  diviso raninmle  in  mortale  e  iunnortale,  è  senza  prova  che  si  dice  che l'uomo  è  mortale;  perchè  da  ciò  che  ogni  animale  è  o  mortale  o iunnortale,  ne  segue  che  l'uomo  deve    essere  o  l'uno  o  l'altro, ma  n«m  che  sia  l'uno  anziché  l'altro. 17 i *i> —  2.>S  — XXXI,  cont:iit;iiHl<)  lo  opinioni  platonidic  sul  valore  di- mostrativo «Ulla  dieresi  j,  mostra  elie  essa  non  potrebbe servire    alla   dimostrazione    di  oji^ni   quistione  (l),  e  che non  è  che  una    piccola    ])or/ione    del    metodo   dimostra- tivo (2):  proposizioni    in  eui  non  possiamo  vedere  natu- ralmente che  le  jintitesi  delle  tesi  di  Platone,  di  cui  sap- piamo *x'\ìi   h*   Idee  sulla  universalità  del  metodo  dialet- tico (:^).  Nella  sua  critica  della  dottrina  che  la  dieresi  è' lina  dimostnizione,  Aristotile  prende  di  mira,  quasi  esclu- sivamente, un'applira/Jone  di  questa  dottrina,  cioè  che è  una  dinKKsMazione  della  <h*tìnizione  (4).  È  perchè  egli- iion  considera  la  diensi  rlie  come   un  mezzo  per  trovare la  detinizione:  è  così    int'attti    che    IMatone    la   presenta nei  i\\w  dialoghi  in  <ui  pratica   (piesto    metodo,  cioè  il Solista  e  il   Politico  (ò)    -  <-iò  in  eui  dobbiamo  vedere  un altro  esem|Mo  dello  sforzo  costante  di  (piesto  filosofo  di riattaccare,  più  che  può,  le  sue  speculazioni  alle  ricerche di  Socrnteedei  socnitici  (H)-.  NelPAppendice  al  cap.  6 (1)  V.    t-5.  Ctr.  il  coiiimcuijuio  d'Alcssaudn)  «l'Afrodisia. (2)  V.   l. (3)  V.  «piosto  pjinij»r.  pa^.  2t7  sul   luogo  dol  Fileho  15  d— 19  b, e  il  palagi'.    10. (4)  Amtt.    I*r.  l.   I.   XXXI   v^AunL   Poni.  l.   II.   V. (5)  V.  la  nota  in  line  del  ^  17. (6)  La  dieresi  dimostra  .  necoiido  Platom*,  la  definizione,  in quanto  dimostra  resistenza  dell'Idea  definita.  Dimostrata  per  la dieresi  l'esistenza  d'un* Idea,  Platone  ammette  ehe  sia  dimostrata al  tempo  stesso  la  sua  definizione,  pcrebò  egli  jiresuppone  che  i caratteri  che  si  vanno  progressivamente  aceumulaudo  nelle  di- visioni successive  per  arrivare  alla  posizione  di  tpiest'  Idea,  de- vono costituire  la  totalità  dei  suoi  caratteri  esHemiali,  cioè  pri- mitivi e  da  cui  tutti  gli  altri  possono  dedursi  (v.  $  18).  Per  la dottrina  che  la  definizione  si  riferisce  all'Itlea,  v.  il  Sappi.  B, p.  I,  n.  IV. —   259  - noi  abbiamo  visto  quale  sia  il  sioniticato  del  termine  di dimostraziouG  in  Aristotile,  cioè  che  essa  non  è  per  lui una  sempliee  deduzione,  ma  una  deduzione  in  cui  la proposizione  conclusa  diviene,  per  la  deduzione  stessa, una  verità  razionale  e  necessaria. 3^  Come  ablùamo  osservato  nel  §  10'\  Piatirne  defini- sce la  dialettica  l'arte  d'interrogare  e  di  rispondere  (i), ^  designa  con  <iuesto  nome  tanto  il  metodo    particolare -al  suo  sistema,  quanto  l'arte  della  discussione    ordina- ria, quale  V  insegnavano  i  sofisti  (2).   Notiamo    ehe   cif) ^gli  fa  nei  luoghi  stessi  in  cui  espone  il  metodo  dialet- tico, descrivendolo,  ud   FHvho,  come  metodi»  di  divisio- ne e  sin}igO;i;e,  e  nella  Repubblica,  eome  metodo  di  de- durre le  l4lee  e  scoprire  le  Ipro  definizioni    Questo  pas- saggio n-a  il  senso  stretto  del  termine  (lialetliea  (eon  eui designa  il  metodo  particolare  al   suo  [»roi)rio  sistema)  e il  senso  più  lato  (eon  cui  desig'ia  l'arte  della  discussione in  generale»;  (piesta  idenliiicaziiuie.  per  conseguenza,  tra i  due  concetti,  il  più  i)articolare  e  il  più  generale,  desi- gnati da  (luesto  termine;  signitìcaiìo  evidentemente  che, secondo  Platone,  la  sua  dialettica    non    differisce  in  so- stanza da  una  discussione  ordinaria  ben  condotta,  o,  fa- cendo astrazione  dalla  forma  dialounca,  clic  è  un  (ilemento accessorio  (3),  dal  ragionamento  ordinario  e  dai  processi (1)  Nella  Rep.  584  d  e  altrove. (2)  Nella  Rep,  537  o  -  539  d.  V.  anche  Fileho  15  e  -  16  a. (3)  Come  si  vede  nei  dialo<»bi  propriauu*.ute  dialettici,  cioè  il JSofìsta  e  il  Politico,  in  cui,  come  dice  il  Tocco  (Ricercht  piato- niche,  \\\g.  154|.  «  la  forma  drammatica  scomparisce  per  far  luogo all'espositiva,  e  alla  ricerca  in  comune  del  vero  da  scoprire  sot- tentra rinsegnaniento  della  verità  già  trovata».  Nel  Sofista  (217 <5-d)  lo  stesso  ospite  eleate  riconosce  elio  il  dialogo  non  h  no- <3C88niio. V^^^-• BBBBI I I —  260  - di  cui  esso  fa  uso.  Platone  non  può  essere  dunque,  come Hegel,  r  inventore  di  una  logica  uiwvtv,  diversa  ttalla comune  e  in  antitesi  c«>n  essa:  la  sua  dialettica  non  può essere  cbe  un  caso  dalla  logica  comune,  e  deve  fondarsi sugli  stessi  principii.  Ora  la  logica  comune  non  conosce che  due  processi,  1'  uno  che  conelude  dai  particolari  al generale  (induzione),  l'altro  che  conclude  dal  generale  ai particolari  (deduzione).  Sono  appunto  i  due  processi  della dialettica  di  Platone  (le  due  vie,  com'egli  li  chiama)  (1> descritti  nel  VI.  e  VII.  della  Repnhhlica,  e  che  noi  ab- biamo identificati,  V  uno  con  la  sinagoge  e  V  altro  con. la  dieresi  (2). L'  osservazione   precedente    trova    nn'  altra    confer- ma  nel    luogo   più   v.ilte  citato  del  Fedone  (100  a),  i» cui  Platone  riassume  il  metodo  da  lui  seguito   dopo  la scoverta  della  teoria  delle  Idee,  cioè:  stabilito  un  prin- cipio, porre  come  vero  ciò  che  si  accorda  (^),A(oa)^€r)  co» esso,  e  rigettare  come  falso  ciò  che  non  si  accorda  (3). Questo  luogo  prova  che  la  deduzione  a  cui  aspira  Pla- tone è  una  vera  deduzione,  fondata  sul  principio  della coerenza  -  come  si  vede  dalla  parola  greca  citata    -  e che  non  pone  esplicitamente    nella   conclusione   se  noa ciò  che  implicitamente  è  contenuto  nella  premessa. 4«  Tutte  le  Idee,  come  abbiamo  visto  (§  13)  si  dedu- U)  V.  Kep,  532  e. ^2)  In  verità  la  siuagoge  noo  oorrispoDcle  che  a  quella  specie d'induzione,  che  non  ia  che  lia.smnere  in  una  proporzione  gè- nerale  tutti  i  fatti  particolari  osservati.  La  vera  induzione  dei lo'Tici  moderni,  quella  che  estende  realmente  la  nostra  conoscenza, aiTdando  dai  fatti  osservati  a  quelli  non  osservati,  non  può  aver luogo  in  un  metodo  assolutamente  aprioristico,  qual  ^  la  dialet- tica di  Platone. (3)  Confr.  $  »,  J  12  n.  2.^  (la  nota  in  tìue)  e  u.  4^  e  $13  n.  3\ —  261  — <50no  dal  heiw,  e  questa  è  l'idea  generalissima,  di  cui tutt«  le  altre  sono  delle  specie  o  delle  particolarizzazioni. <§  16).  È  naturale  d'inferirne  che  la  deduzione  platonica, cioè  )a  dialettica,  (o,  più  propriamente  il  processo  d/^cew- Mvo  di  questa  dialettica)  conclude  sempre  dal    generale ai  particolari,  dall' Idea  dal   genere  a  quelle   deHe  sue specie.  Questa  osservazione  conduce  più  prossimamente al  nostro  scoi>o,  si^  ricordiamo  ciò  che  abbiamo  notato al  §  13.  n.  3",  cioè  che  il  modo  in  cui  nel  Fedone  viene spiegata  l'esistenza  di  ciascuna  cosa  suppone  che  il  prin- cipio della  deduzione  platonica  di  tutte  le  cose  dall'Idea del  Bene  sia  (fuesta  proposizione  generale:  fMtto  ciò  che è  bene  esiste  —  è  questo  per  altro  il  solo    senso    in  cui possiamo  concepire  che  le  forme  particolari  del  Bene  si deducano  dall'Idea  generale  —  Se  è  così,  non  è  logico  di concluderne  che  la  deduzione  platonica  consiste,  in  tutti i  suoi  gradi,  a  porre  un  genere  in  tutta  la  sua  estensione logica  —  tutta  la  linea^  tutto  Vanimale,  o,  in  linguaggio ordinario,  ofjni  linea  possibile,  offni  animale  possibile  — e  poi  a  dedurre,  dal  genere  così  posto,    tutte   le   specie che  implicitamente  contienef  Che  ponendo  un'  Idea  ge- nerale, cioè  suscettibile  di  dividersi  in  Idee  più  partico- lari, Pl}#one  intenda  affermare  il  genere  corri s[»on dente in  tutta  la  sua  estimsioue  logica,  non  è  solo  una  gene- ralizzazione del  fatto  che  ciò  egli  fa  ponendo  l'Idea  del Bene,  ma  può  anche  concludersi    da    una   conseguenza necessaria  di  questo  fatiti.  Se  tutto  ciò  che  é  bene  esiste^ ne  seguirà  che  tutte  le  specificazioni  possibili  del  Bene devono  esistere;  quindi  ancora  tutte  le  specificazioni  pos- gibili  di  ciascuna   di  queste   specificazioni.   Così,  tutti  i generi  esistenti  essendo  per  Platone  delle  specificazioni del  Bene  (§  16.),  la  conseguenza  sarà  che  tutte  le  specie possibili  di  un  genere  s<mo  reali,  in  altri    termini,  che dato  un  genere,  sono  date  per  ciò  stesso   tutte    le    sue specie  possibili.  Platone  ammette  dunque  che  ogni  concetto  generico,  più  o  meno  generale,  ch'egli  deduce  dal Bene,  può  essere  atfermato  in    tutta  la   sua   estenèione logica.  Se  ciò  non  prova  che  questi  concetti  intende  a^ fermarli  così  nelFatto  stesso  in  cui  li  dediice,  pròva  al- meno cìu^  esiste  la  condizione    necessaria    perchè  possa farlo;  e  noi  dobbiamo    supporre  eh'  egli  lo  fa    effettiva* mente,  se  vogliamo  spiegarci  la  progressività  della  de- duzione dialettica,  cioè    coni'  essa  sia  una  deduzione  h gradi  multipli,  che  va  continuamente,  com'egli  dice,  *  da Idee  a  Idee  per  via  di  Idee.  >  È  l'ipotesi  più  ovvia,  o  a dir  meglio,  la  sola  ovvia,   che  possa  farci    comprendere questo  tratto  essenziale  del  metodo  dialettico,  precisando- ciò  che  d'una  ni  iniera  generica  abbiamo  stabilito  nel  §  12» 5.^  Come  ultima  prova  dell'identità  tra  la  dieresi  e  là deduzione  dialettica,  indicheremo  il  rapporto  di  aHieno- rità  e  posteriorità  che  Ptatone   ammette    tra  le  Idee    - come  fanno,  con  gli  stessi  termini  o  con  termini  analo- ghi, tutti  i  metafisici  i  cui  sistemi  appartengono  al  tipo realismo  dialettico  —  V  a  ìì  ter  io  rità  e  posteriorità  indica  i gradi  successivi  dello  sviluppo  logico,  significando  la  de- rivazione   dell'  Idea  posteriore  dall'  Idea  anteriore,  Orav secondo  Platxme,  Vaiiterittre  è  il  generale,  e  il  posteriore il  [mrticolare:  l'Idea  generica  è  anteriore  alle  Mee  spe- cifiche,  e  queste  sono  ad  essa   posteriori.    Dunque,  se- condo lui,  le  Idee  specifiche  derivano  logicamente  dalla Idea  generica;  questa  è  il  principio,  e  quelle   le  conse- guenze ;  e  lo  sviluppo  logico  delle  Idee  è  un    progressi continuo  dal    generale   al   particolare,  che  va    dal    ver- tice della  piramide  ideale  a: la  sua  base,  passando  succes- sivamente per  tutti  i  gradi  intermediHri.  Della  dottrina dell'anteriorità  e  posteriorità   delle  Idee   parleremo  più lungamente  nel  §  22:  ma  qui  era  necessario   di    accen- narla, mostrandola    sotto    il  suo  aspetto  logico,  mentre aUora  la  considereremo  sotto  l'aspetto  ontologico. Prima  di  finire  questo  paragrafo,  noteremo  la  stretta affinità  tra  il  sistema  di  Platone  e  quello  di  Taine,  af- finitji  tanto  più  col|)ente  che  (|uesto  filosofo,  accettando l'interpretazione  trasceìulentalista  della  teoria  delle  Idee, non  era  posto  a  un   t>unto  di  vista  da  cui  potesse  com- prendere il  valore  e  il  signifiejito  della  dialettica  plato- nica. Ricordiamo  la  gerarchia  di  necessità  di  cui    parla il  Taine,  di  cui  la  [»riina,  creatrice  universale,  genera un  gruppo  di  necessità  subordinate,  che  alla  huo  volta ]>roducono  ciascuna  un  nuovo  grujipo,  e  così  di  seguito, 'Sinché  appariscano  i  dettagli  moltiplicati  e  i  fatti  par- ticolari dell'osservazione  sensibile.  Ric(udiaino  pure  che queste  necessità  non  sono  delle  semplici  proposizioni  ge- nerali o  dei  concetti    astratti,  ma  delle  cose  astiatte  e generali,  in  altre  parole  dei  concetti  realizzati    come  le Jdee  platoniche;  che  le  necessità   superiori    sono  le  gè- ralità  più  elevate,  e  le  necessità  inferiori  ad  esse  subor- dinate le  generalità  meno  elevate  che  esse  contengono- e  infine  che  questa  produzione  o  generazione  di  necessità ncm  è  che  la  filiazioni»  logici,  per   cui    la    consegaenza derì%\'i  dal  principio.  Del  lesto  sircome  la  deduzione  del Inaine  non  è  una  divisione  del  genere  nelle  sue  specie, come  quella  di  Platone,  ciò  die  vi  ha  di  comune    tra  i due  fil  isofi,  oltre  alla   realizzazione    dei    concetti  e  agli altri  caratteri  del  realismo  dialettico  (fra  cui  la  sistema- ticità (I)  e  l'unità  di  principio)  (2),  si  riduce  a  quest'i- dea assai  naturale,  che  la  dediizi(Mie.  come  filiazione  lo- gica dei  concetti    realizzati,  è  concepita    sul    tipo  della deduzione  ordinaria,  cioè  come  una  conclusione  dal  ge- nerale al  particolari'  {'A), {li  V.  $  12"  11.  5". (2)   V.   ^  12'»   II.   <).«• i'ò)  Si   potivhbe  <lmiqin'  ilin-  dn.    m.l    rettìisttnt    (lltb'lllc.a  i   si- Ktcìiii  di  Platone  v  «li    Taiiu'    rappiesent:iiio    un    jrem'n^    dÌHtinto ^t     iti Come    abbiamo    spiegato  nel  paragrafo  prece- dente,  la  dieresi  platonica,  considerata  come  metodo  de- duttivo, è  fondata  su  due  principii  :  l'uno  che  le  s[>ecie in  cui  un  genere  si  divide  sono  tutte  le  sue  specie  pos- carattcrizzatii  da  ciò.  rlic  i  concetti  obbiettivati  foruiauo  uua  ge- rarchia ai  piiiicipii  di  lina  generalità  crescente,  in  modo  che  la deduzione  va  «einpre  da  un  principio    generale  a  un   gruppo    di principii  più  particolari  compresi  8otti>  di  esso.   11  carattere  spe- cifico del  sistema    platonico  è  che  questa    deduzione  è  al  tempo stesso  una  classitioazione,  in  altri  termini,  ohe  i  due  processi  lo- gici deUa  deduzione  e  della  divisione  formano  per  Platone   una sola  e  stessa  cosa  .  eh'  egli    chiama  il  metoffo    dialettieo.  Questa circostanza  speciale  del  sistema  di  IMatoue    tiene    forse  in  gran parte  allo  stato  delle  conoscenze  positive  nella  sua  epoca.  Delle due  parti  in  cui  si  può  dividere  la  scienza  della  natura.  ci<»è  la fisica  f,e7ierale  e  la  fisica  parlieolare  o  storia  naturale,  le  prime acquisizioni  scientifiche    non    potevano    concernere    quasi   unica- mente  che  la  seconda:  in  tali  condizioni  del  sapere  positivo  è  ov- vio di  considerare    couìc    primitive  e  irriduttibili    le    uniformità «pedali  osservate  nei  domini  particolari  della  natura  ed  elevarle a  tipo  di  tutt*^  le  uniformità  dei  fenomeni,  e  i  concetti  particolari allo  studio  degli    esseri  viventi    esercitavaut>    facilmente   un'  in- fluenza preponderante  sulla  concezione  del  mondo  e  dell'  essere in  generale.   Hi  là  quella  filosofìa  che  potrebbe    chiamarsi  orr/a- nicisia  di  cui  .  nella  storia  del  pensiero  greco  .  Platone  ed  Ari- 8t4»tile  ci  danno  gli  esempi  più  evidenti.  I^  definizione  d' Aristo- aie  deir  essere    naturale    in  generale  €  ciò  che  mosso   continua- mente  da  un  principio  interno  perviene  a  un  fine  determinato  » {Phys.  1.   11.  VII.  10)  è  evidentemente   foggiata  sul  tipo  dell'es- sere  vivente.  U  concetto  dell'essere  in  Plat<me  ed  Aristotile  ap- parisce con  questi  caratteri:  di  essere  governato  da  leggi  propri© cioè  speciali  (ciò  che  spiega  V  imporwinza .   nella    loro    filosofia, deiresscHza  e  della  definizione):  di  essere  la  causa  spontanea  dei proprii  cangiamenti;  e  di  tendere,  in  tutte  le  manifestazioni  della sua  attività,  ad  uno  scopo    interno.  Sono  i  caratteri    che,  nella interpretazione    primitiva    dei    fatti .  dovevam»   essere  attribuiti >igli  esseri  viventi,  lì  mondo  delle  Idee  è  sovratiitto  per  Platone la  rappresentazione    del    mondo    degli  esseri  viventi:  l'  universi» sensibile  h  un  animale  che  contine  tutti  gli  animali  sensibili,  e il  suo  archetipo  è  Tldea  deiranimale,  c<mtenente,  come  sue  parti, tutte  le  Idee  generiche  e  specifiche  degli  animali  (V.   Tim.  30  e —  31  b.  e  confr,  39  e.  41  b-c,  61)  e.  J»2  e.  Confr.  pure  Arist.  Mei, 1.  XIII.   Vili.   18  :  Se  i  numeri    ideali   vanno    sino    a  dieci,  non ye  ne  «iranno  per  tutte  le  idee:  le  specie  degli  animali  sono  di pifi.  —  i»er  comprendere    come    Platone    possa    ridurre    tutto    il mondo  delle  Idee  al  couiplessc»  delle  Idee  degli  animali,  bisogna ricordare  ch'egli  riguarda  ccuiie  animali  le  piante,  gli  astri  e  il mondi»    stesso    come    un    tutto.   Tuttavia    il  pensiero   di  matone non  ò  che  non  vi  hanno  altre  Idee    che  di  animali,  ma    che    il complesso  delle  Idee  degli  esser    animati,  dall'  Idea   universale di  essere  aniniait<»  alle  specie    infime    degli    animali,    contiene  in sé  tutto  il  nuuido  delle  Idee,  ogn'  Idea  che  non  sia  Idea  di  es- sere animato  .  essendo  quella  di  qualche    parte  o  qualche  attri- buto di  essere  animato).   Del  resto  l'  infiuenza    dei    c<»ncetti  de- sunti dalla  considerazione  degli  esseri    organizzati    sulle    conce- zioni generali  della  filosofia  platonica  si  rileva  sovratutto  nei  tre punti  seguenti:  !•»  1  termini  f'Jto,  tZrfof  «  ^»n<»»""«- <'«>""' ^^^  P»^*^»^*' italiane  corrisp<m<lenti  specie,  genere,  tipo  ecc.,  esprimono  dei concetti  che  hanno  avuto  evidentemente  la  loro  ])rima  origine nella  comparazione  degli  esseri  organizzata  e  richiamano  s<»vra- tiitto  dei  rapporti  esistenti  tra  questi  esseri.  Queste  par(»le  sin- oontrano  ad  ogni  passo  nelle  opere  di  zoo:(»gia,  di  botanica  e  di scienze  affini.  La  dottrina  delle  Idee  ci  mostra  anche  per  un  al- tro lato  linfiuenza  della  concezi«>iie  che  abbiamo  chiamato  orfia- nieÌHÌa\  è. che  essa  vede  nelle  Idee  \v  necessità  primitive  della natura,  ciò  che  importa  che  i  fenomeni  di  ciascun  essere  (come, almeno  in  apparenza,  quelli  degli  esseri  organizzati)  si  spiegano per  la  natura  o  l*  essenza  speciale  di  quest'  essere,  in  altri  ter- mini che  «»gni  cosa  ha  delle  leggi  speciali  da  cui  sono  regolati  i »uoi  fenomeni.  La  riduzione  iXaWcHsema  alla  forma,  che  si  trova - 1-.  ^. —  266  - sìbili,  in  altri  termini  che  la  divisione  esaurisce  l'esten- sione lofifica  del  genefe;  e  l'altro  che,  ponendo  nn  con- tauto  in  Platone  quanto  in  Aristotile  .  è  sujriserita  aneli'  essa «lalla  considerazione  degli  esseri  organizsati,  perchè  in  questi  la forma  è,  come  dice  Cuvier  {Regni  animale.  Introduzione.  8),  più essenziale  che  hi  materia  Aggiungiamo  in  fine  rhe  le  attìnità  di diversi  gradi  esistenti  tra  gli  ess<*ri  viventi,  tra  quelli  sovratutto tra  cui  non  si  ammette  alcun  legame  geneah»gico.  suggeriscooo vagamente  V  idea  di  qualche  cosa  d'  identico  e  di  esistente  per se  stesso,  di  un;i  torma  comune  che  s'inq»rime  nei  diversi  esseri di  uno  stesso  tipo.  Così  Agassiz  dice:  «  (41*  individui  sono  sola- mente i  sustrati  di  tutte  queste  categorie  della  struttura  su  ciìi si  fonda  il  sistema  naturale  della  zoologia  »  (  Della  speeie  e  della classificazione  in  zooloffia,  e.  I.l.l  «Gl'individui  non  eostituisconola specie,  la  rappresentano  (e  cosi  pure  il  genere,  la  famiglia.  1"  or- dine, ecc.  fhìd.  eli  VI.)  <«  Cuvier  cinsegna  che  i  sott'oregni  {enì- branche nienls)  s(mo  fondati  sulla  distinzione  di  piani  di  struttura diversi,  di  fornte  o  di  modrfli  differenti  .  dentro  cui  ijli  animali Harelèhi'r(t  stali  per  e,os)  dire  fasi»  [fhide'm  <•.  II.  1.1  «  A  meno  che  le forze  tisiche  già  in  attività  non  ahhiano  immaginato  questi  piani. e  non  li  ahhiano  in  seffnito  iènpressi  nel  mondo  materiale  come nn  modello  nel  (piale  la  nalura  fonderebbe  ormai  costantemente tatti  f/li  esseri,  non  avrehhero  potuto  aver  luogo  queste  relazioni generali  tra  gli  animali.  »  (/hid.  e.  I,  VÌI.  Confr.  Vii  Che  si  pren- dano qui'stc  metafore  nel  senso  proprio,  e  si  avrà  il  sistema  delle Idee. 2.'»  Il  metodo  di  Flatcmc  non  è  che  il  metodo  dei  naturaliftti (la  cui  prima  applicazione  ò  stata  alla  natura  vivente),  al  quale egli  airgiunge  1'  apriorità  e  la  necessità,  in  una  parola  la  dedu- zi<me.  La  gerarchia  delle  Idee  platonicln^  ci  dà  un'immagine  ag- grandita e,  ]»er  dir  Cv>8i,  condensata  di  i[uesta  gradazione  molti- plicata di  tipi  di  una  generalitìi  d^'cr.'S^ente,  di  questa  disposi- zione arborescente  delle  fornu^  della  natura,  che  è  sì  evidente sovratutto  nella  natura  vivente.  Senza  dubbio  i  gradi  delhi  ge- rarchia, nel  mondo  ideale  di  Platon**,  s(mo  assai  più  numerosi  ohe 267 cetto   generico,    s'intende    atferma^rlo    iu    tutta   la   sua estensione  logica.  Il  secondo  di  questi  due  principii  sup- le  categorie,  esprimenti  i  diversi  gradi  di  athnità  tra  gli  esseri viventi,  ammesse  dai  naturalisti,  anche  moderni.  Senza  dubbio  an- cora, la  più  parte  delle  at!ìnità  si;  cui  i  gruppi  sono  fondati  nelle classificazioni  odierne  dei  naturalisti,  non  pcitevano  nemmeno  e»- sere  sospettate  all'epoca  di  Platone.  La  classitìcazione  degli  ani- mali di  Linneo  non  com])rende  che  quattro  gradi  (classi,  or- dini, generi  e  specie!;  Aristotile. ehe  è  riguardato  come  il  fonda- tore delle  grandi  chissiticazitmi  (V.  Cuvier  ^SVorm  delle  scienze  na- turali t.  P^  pag.  14<»)  non  ammette  che  tre  graditi  generi  s(un- ^•»i  (ui^aatn',  P-  e.  gli  uccelli,  i  i»esci,  i  serpenti,  ecc.).  i  generi medi  (utyà'/ia)  ^  l*-  specie  (V.  De  animalilms  Ifistoriar  1.  I. I  — VI..  1.  IV.  1.  Ma  (dtre  le  identità  di  organizzazione  su  cui sono  fVmdati  <|uesti  gruppi,  vi  hanno  per  Aristotile  delle  analo^ gie  o  anche  identità  parziali  su  cui  ]>ossono  fondarsi  altri  gruppi. Così  i  «eneri  sommi  rhe  corrisponderebbero  press'  a  poco  allo odierne  classi  dei  vertebrati,  si  riuniscimo  nella  categoria  ge- nerale di  tt'diua  <*i^*'  provvisti  di  sangue,  che  corrispon<lerebbe al  sottoregno  tlei  vertebrati.  Al  di  sopra  di  (|uesti».  divisioni  A- ristotile  ammette  naturalmente  quella  <ii  animale  e  quella  supe- riore di  essere  vivente).  Cert;iniente  Platone  n(m  erji  un  natura- lista; egli  non  era  capace  di  distinguere,  nei  gruppi  ch'egli  for- mava, l'analogia  più  o  meno  reale  dalla  vera  affinità.  Ma  appunto perciò  doveva  essere  portato  a  nioltiplicare  indeti  aita  niente  i  gradi di  affinità  tra  gli  esseri  reali,  per  questa  temleuza  a  trovare  da per  tutto  un'idea  generale,  che  costituisce  secondo  lui  lo  spi- rito fatto  per  la  diah'ttica.  L'inipm-tanza  della  natura  vivente nella  dieresi  platonica  risulta  anche  dalla,  critica  di  Aristotile, questo  metodo,  negli  esempii  eh*  egli  ne  dà  .  applicandosi  per il  solito  agli  esseri  animati  (v.  Mei.  1.  VII.  XII..  De  pari,  ani- mal.  1.  I.  e.  IL  e  IIL,  Anat.  f*r.  1.  I.  XXXI.  Anul.  Post.  T. IL  V.,  1.  IL  XII.,  ecc.)  Si  sa  inoltre  che  il  successore  imme- diat<»  di  Platone,  Speusippo.  mostrò  le  affinità  tra  gli  esseri ns'ili  cere  indole  specialmente  tra  gli   esseri    viventi  (v.   MiiUaoh —  268  -  pone  il  primole  non  implica  die  la  determinazione  dì prendere  i  concetti  in  un  senso  particolare,  difforme,  a dir  vero,  da  qnello  in  cui  generalmente  vengono  presi. Il  primo  è  la  condizione  necessaria  del  seconde^,  ed  im- plica una  veduta  particolare  sulla  natura  reale  delle  cose. È  esso  dunque  il  tratto  veramente  caratteristico  della dialettica  platonica:  noi  dobbiamo  stabilirlo  d'  una  ma- niera più  diretta,  mostrando  al  tempo  stesso  il  modo determinato  in  cui  Platone  ha  cercato  di  applicarlo. Perciò  prima  di  tutto  noi  richiameremo  l'attenzione del  lettore  sui  caratteri  particolari  della  dieresi  platoni- ca, di  cui  abbiamo  parlata  in  fine  del  *  17,  cioè  che  ogni divisione  è  una  dicotomia,  che  ciascun  membro  di  ogni dicotomia  è  definito  per  una  differenza  unica,  e  che  le di»  differenze  sono  contrarie.  Quale  potrebbe  essere  lo scopo  di  queste  condizioni  a  cui  Platone  si  astringe  co- stantemente nella  pratica  del  suo  metodo?  Queste  con- dizioni implicano  una  certa  ipotesi  sulla  natura  reale — e  un'ipotesi  evidentemente  contraria  ai  fatti  dell'osser- vazione —,  perchè,  ricordiamolo,  il  metodo  di  Platone  è un  metodo  naturale,  in  cui  ciascuna  parte  di  ogni  «livi- FragtH.  phil  gmeror.  voi.  IH.  Fnigm.  SpciiKÌppi  20y-22r))  :  era evidenteineute  un' uppiicaziimc  e  uua  confcruiii,  »al  teiiciio  dei fatti,  dei  priiicipii  della  dialettica  platoiiiea. 8.'»  Infine  il  concetto  teleologico,  di  cui  Platone  fa  la  forimi generale  di  tutti  gli  esseri  t^  la  legge  foudanientnle  della  natura, ha  la  sua  applicazione  più  plausibile,  l'unica  secondo  alcuni  filosofi, come  Kant,  noi  inoivdo  degli  esseri  viventi.  In  una  nota  del^  21 noi  vedremo  come  certi  sviluppi  ilei  concetto  teleologico  i»i  al- cuni natunilisti  moderni  possono  gettare  qualche  luce  sovra  uno dei  punti  più  importami  della  dialettica  platonica,  cioè  die  le specie  reali  in  cui  un  genere  si  divide,  sono  tutte  le  spìccie  pos- sibili  di  questo  genere. —  269  — sioue  deve  essere  un  genere  (v.  J  17),  e  la  definizione  di ciiM^cuno  di  questi  generi  deve  abbracciare. la  totalità  dei suoi,  attributi  primitivi  (v.  $  18).  Qual  è  dunque,  ci  do- mandiamo, il  motivo  di  quest'  ipotesi  f  La  risposta  non è  diffìcile:  è  che  essa  era  la  più  propria  a  dare  una  torma determinata  all'ideale  di  metodo  che  Platone  si  era  pro- posto. Il  linguaggio  ci  offre  numerosi  esempi  di  coppie  di contrari,  in  cui  noi  vediamo  che  il  genere  in  cui  essi sono  contenuti,  non  solo  non  contiene  di  fatto  che  questi soli  membri,  ma  che  non  può  contenere  che  essi  soliy resistenza  di  qualche  altro  essendo  inconcepibile.  Questi contrari  si  chiamano  contrari  senza  medio:  tali  sono:  uno^ più;  movimento,  riposo;  luce,  oscurità;  retto,  curvo;  sa- lute, malattia;  saggio,  pazzo;  scabro,  liscio;  ecc  (1).  Ai casi  in  cui  dei  nomi  distinti  sono  impiegati  per  desi- gnare i  contrari,  dobbiamo  aggiungere  gli  altri  in  cui V  uno  dei  nomi  contrari  si  forma  unendo  all'  altro  un prefisso  indicante  \a  negiizione:  p.  e.  finito,  infinito;  nor- male, anormale;  pari,  dispari;  conosciuto,  sconosciuto; ecc.  Al  di  fuori  di  questi  casi  noi  troviamo  raramente che  i  membri  in  cui  si  divide  un  concetto  generico  siano tutti  i  membri  logicamente  possibili:  è  un  fatto  dovuto in  parte  alla  struttura  del  linguaggio,  e  in  parte  alla natura  stessa  delle  cose,  che  noi  ci  limitiamo  a  segnalare senza  cercare  di  spiegarlo.  Per  conseguenza  Platone,  in cerca  di  divisioni  che  esaurissero  l'estensione  logica  dei generi  divisi,  eleva  questi  casi  a  tipo  universale  delle sue  dieresi,  l'esigenza  del  suo  sistema,  come  di  tutti  i (I)  Cfr.  Bain  Log.  1.  1,  o.  1.  n.  13-15.  Vi  bauno,  secondo lui.  nella  lingua  inglese  parecchie  centinaia  di  tali  coppie  di  con- trari, in  cui  per  designare  ciascuno  dei  due  viene  impiegato  un nome  distinto  come  negli  esempi  ohe  abbiamo  citati. sistemi  di  realismo  dialettico,  essendo  rasgoluta  unifoi»- mità  di  metodo,  perchè  il  metodo,  in  <iuesti  sistemi,  non è  nn  semjdice  processo  siihbiettivo,  ma  la  le^ge  delle eose  stesse,  cioè  dei  concetti  fealizzati.  La  diviene  pla- tonica non  e  dunque  semplicemente  in  due  opposti,  ma in  due  opposti  fra  cui  non  vi  ha  medio,  cioè  oltre  ai quali  un'altra  specificazione  del  <::enere  diviso,  non  solo non  esiste  di  fatto,  ma  non  può  essere  concepita.  E  in- fatti, nelle  dieresi  del  Sofista  e  del  Politico  e  neìjli  e- sempi  che  dà  Aristotile  del  met«)di>  platonico,  noi  ve- diamo lo  sforzo  evidente  di  dividere  in  o])])osti  di  questa specie  (1):  perciò  basta  di  <lare  uno  s<jjuardo  alle  tavole che  si  trovano  nella  nota  finale  del  $  17,  e  alP  esempio ehe  abbiamo  citato  sulla  fine  dello  stesso  paragrafo.  In certi  casi  Platone  non  riesi'e  ad  t»ttenere  una  tale  oppo- sizione, ma  è  impossibile  che  vi  riesca  in  tutti  i  casi,  il suo  metodo  non  essendo  che  una  semplice  utopia,  che non  potremmo  att-enderci  di  vedere  realizzata  d^ma  ma- niera completa., :  Che  gli  opposti  in  cui  Platone  divide  siano,  almeno a  quanto  egli  ]>retende,  degli  opposti  senza  medio,  è  un fatto  attestato  espressamente  nel  luogo  seguente  di  Ari- stotile :  <  Non  è  necessario  che  il  definente  e  il  dividente (1)  V.  Sofista  219  a— 23H  e.  264  e  e  se^'.,  Polit  258  h-267  e, e  Arist.  Anal.  Pr,  I,  XXXI.  Anni.  Posi.  II.  V,  II.  XII  (8-12), Departih.  Animai.  I.  II  e  III.  3f«/.  VII.  XII,  ecc.  Nel /^o/*<.279  c- 283  a,  ili  cui  vi  hauuo  le  dieresi  per  trovare  V  arte  del  tessere. que8t(»  sforzo  è  meno  evideute.  Ma  queste  dieresi  non  sono  fatte secondo  le  regole  :  in  molti  casi  infatti  V  autore  si  limita  a  di- videre in  due  specie,  senza  indicare  le  ditferenze  ]»er  cui  esse dovrebbero  definirsi-  Ora  1'  opposizione,  e  per  conseguenza  l'op- posizituie  senza  medio,  non  è,  per  Platone,  iu'inediatamente  fra  le apecie  stesse,  ma  fra  le  dift'erenze  che  le  definiscono. conosca  tutte  le  cose  che  esistono  (1^...  Se  pone  gli  op- posti e  la  differenza  (2),  e  che  tutto  cade  o  nell'  uno  o nell'altro  di  questi  opposti,  e  pone  che  la  cosa  cercata si  trova  ueir  uno,  e  ciò  conosca;  niente  importa  che  egli sappia  o  ignori  le  altre  cose  a  cui  le  differenze  possono attribuirsi.  K  manifesto  infatti  che  se,  procedendo  così, perverrà  alle  specie  in  cui  non  vi, ha  più  differenza,,  avrà  la  definizione  dell'essenza  della  cosa.  Che  poi  ogni, cosa  cada  nella  divisione,  sie  quelli  sono  degli  opposti fra  cui  non  vi  ha  medio,  non  è  semplicemente  postulato (cioè  ammesso  senza  ])rova  benché  aì>bia  bisogno  di  es- serC;  pnivato);  poiché  è  necessario  che  tutto  ciò  che  è  con- tenuto nel  generi*,  si  tr.>vi  o  nell'uno  o  nell'altro  di  que- sti opjmsti.  se  sono  veramente  la  differenza  di  (jnel  ge- nere >  (3). r  Le  parole  se  somf  def/li  opposti  fra  cni  non  vi  Ita  me- dio noi  dobbiamo  intenderle  come  se  1'  autore  dicesse  : s'è  vero,  come  suppongono  (juelli  che  adoperano  questo metodo,  che  sono  degli  opposti  fra  cui  non  vi  ha  medio. (1)  Come  aH'ermavano  al<Miiii  platonici  :  Spciisippy,  secondo  i oommeutatori  d'Aristotile  (v.  Mulbicb  Frng.  phil.  graec,  Speus. Fr.  204-20H).  Sulla  spiegazione  di  Filopono  di  <iuest*opinione  di Speusippo,  cioè  <*bc  egli  cercava  con  quest'  argomento  di  riget- tare la  divisione  e  la  definizione,  v.  il  Suppl.  C  //  pilay.  nei dincep.  di  Plat.y  Speus:  noi  non  possiamo  vedervi,  invece,  come ivi  spiegheremo  .  cbe  un'  espressione  del  princijiio  platonico  del legame  intimo  di  tutte  le  eonoscenze. (2)  La  differenza  non  è  naturalmente  che  uno  di  questi  oppo- sti. 4'*i**totile  si  esprime  cosi  perchè  egli  vuole  enunziare  due condizioni,  cioè  che  il  dividente  ponga  due  o)q)osti  come  al  so- lito, e  che  fra  di  essi  si  trovi  una  differenza  per  la  definizione cercata. (3)  AnaL  Posi,  II.   XII.  13-15. —  272  - lofatti  elle  cosa  vuol  provare  Aristotile?  <5he  non  è  ne- cessario elle  il  dividente  conosca  tutte  le  cose  che  sona contenute  nel  genere  diviso  —  se  questo  è  il  genere  as- solutamente primo,   conni  ricliiederebln*    un'  applicazio- ne rigorosa  del    metodo,  tutte    le   cose   in   generale  — . A  questa  proposizione  può  obbiettarsi  che,  se  non  si  co- noscono tutte  le  cose  contenuta  nel  genere,  è  senza  prova che  si  ammette  che  esse  cadano  tutte  nell'uno  o  nell'al- tro degli  opposti  in  cui  esso  si  divide.  Aristotile  risponde che,  se  si  verifica  la  cx>ndizione  della  dieresi,  voluta  da quelli  che  impiegano  questo  metodo,  cioè  che  gli  oppo- sti in  cui  il  genere  si  divide   siano   degli  opposti  senza medio,  non  vi  ha  bisogno  di  prova  per  ammettere  che tutto  ciò  che  è  cont^^nuto  nel  genere  deve  cadere  o  nel- l'uno o  nell'altro  di  questi  opposti.  E  infatti  per  essere sicuri  che   una  divisiinie  è  couipleta,  noi   non  abbiamo bisogno  di  conoscere  tutto  ciò  che  è  compreso  nel  genere, che  <)uaDdo  essiv  esmirisce  la  estensione  retde  di  questo irenere,  ma  non  la  sua  estensioue  lotfica —y.  e.  nella  di- visione  dei   vertebrati    in    mammiferi,  uccelli,  rettili  e pesci.  —  Ma  quando  una    divisione    esaurisce,  non  solo l'esten8i<me  reale^  uìa  anche   1'  estensione  loiiica  del  ge- nere —  come    in    quella  degli   animali  in  vertebrati   ed invertebrati  —  noi  possiamo  ammettere  senza  prova  che la  divisione  è  completa,  iierchè  è  una  verità  evidente per  se  stessa. La  condizione  della  dieresi  che  essa  deve  dividere  in opposti  senza  medio,  ci  fa  anche  comprendere  l'impor- tanza e  il  signitìcato  del  principio  platonico  che  la  stessa è  la  scienza  dei  contrari,  in  altri  termini  che  è  impossi- bile di  conoscere  V  uno  dei  contrari,  se  non  si  conosce al  tempo  stesso  anche   V  altro  (I).  Questo  piincipio  era  I ritenuto  così  importante  per  la  dialettica  platonica,  che Aristotile  lo  dà,  insieme  allo  studio  dei  contrari  in  ge- nerale, come  carattere  distintivo  tra  questa  dialettica  e quella  di  Socrate  (1).  Evidentemente  esso  serviva  a  Pla- tone per  mostrare  la  necessità  della  dieresi  per  la  defi- nizione. Infatti^  secondo  questo  principio^  la  conoscenza di  un'Idea  implica  quella  dell'Idea  contraria,  che  è  l'al- tro membro  della  divisione,  e  conosciute  queste  due  Idee, si  conosce  per  ciò  stesso  l' Idea  immediatamente  supe- riore che  le  contiene  ambedue,  perchè  non  è  che  la  parte comune  delle  loro  definizioni;  la  conoscenza  di  quest'I- dea implica  pure,  alla  sua  volta,  quella  dell'  Idea  con- traria e  dell'  Idea  superiore  che  le  contiene  ambedue,  e così  di  seguito  (2).  Ora  ciò  che  c'importa  d'osservare  è che  questo  principio,  che  la  stessa  è  la  conoscenza  dei contrari,  non  è  vero  ohe  se  si  tratta  di  contrari  senza medio.  In  questo  caso  le  due  nozioni  contrarie  si  suppon- gono reciprocamente,  perchè  ciascuna  di  esse  è  la  nega* zione  dell'altra,  e  ogni  nozione  suppone  la  nozione  ne- gativa corrispondente.  Una  nozione  generale,  infatti,  non è  che  il  significato  d'  un  termine  generale,  e  per  cono- scere con  precisione  il  significato  di  un  termine,  bisogna (1)  V.   Fedone  97  d  e  Legj?i  816  e. (1)  Mei,  1.  XIII.  IV,  4.  (dopo  avere  parlato  della  defiuizione socratica  come  antecedente  della  dottrina  delle  Idee)  :  «  Allora (all'epoca  di  Socrate)  non  vi  era  ancora  la  forza  dialettica  per  poter considerare  i  contrari,  anche  a  parte  della  definizione^  e  ricercare se  la  stessa  è  la  loro  scienza.  Due  sono  le  cose  che  si  possono a  buon  dritto  attribuire  a  Socrate:  i  ragionamenti  induttivi  e  la definizione  dell'uni  versale  >. (2)  Per  la  dottrina  che,  per  definire  una  cosa,  bisogna  ancdefinire  la  cosa  contraria,  cfr.  il  Bain  che  ha  una  dottrina  analogar Logica  1.  4,  e.  1,  n.  2  e  4. 18 I<1 —  274  — 275   •- sapere,  non  solo  i  casi  in  cui  può  essere  applicato,  ma anche  quelli  in  cui  non  può  essere  applicato;  ciò  che  è appunto  avere  la  nozione    negativa  opposta  a  questo termine.  .        j  n Il  pernio  su  cui  volge  la  nostra  interpretazione  della dialettica  platonica  (e  potremmo  anche  dire  del  sistema intero  delle  Idee)  è  questo  significato,  che  noi  abbiamo spiegato,  della  divisione  dicotomica.  Alcuni  interpreti, tirando  una  conseguenza  legittima  dalla  maniera  ordina- ria di  comprendere  la  dieresi,  vedono  nell'ammirazione di  Platone  per  il  metodo  dialettico  e  quelli  che  sanno  pra- ticarlo, «  una  meraviglia  quasi   infantile  »;  indizio,  essi aggiungono,  di  un  pensiero  giovane,  che  contempla  per irV'ma  ^"^'^  >^  proprio  mondo.  Secondo  noi  invece,  la dieresi  platonica  è  l'attuazione,  la  più  completa  che  fosse possibile,  d'un  ideale  elevato,  quantunque  chimerico,  della scienza  e  del  metodo  scientifico.  Stabilito  che,  i»er  la  di- visione in  due  contrari  senza  medio,  tutt«  le  specie  in cui  un  genere  si  divide  sono  tutte  le  sue  specie  logica- mente possibili,  ne  segue  che  ciascun  genere  può  essere affermato,  secondo  Platone,  in  tutta  la  estensione  di  cui è  logicamente  suscettibile.  Vi  ha  dunque,  secondo  lui, una  gerarchia  di  proposizioni  di  meno  in  meno  generali, di  cui  ciascuna  stabilisce  l'esistenza  di  un  genere,  after- mandolo  in  tutta  la  sua  estensiore  logica  -meno  le  ul- time, che  stabiliscono  l'esistenza  dei  generi  infimi,  cioè delle  specie  nel  senso  piii  stretto,  perchè  queste,  nel  siste- ma delle  Idee,  non  hanno  un'  estensione,  né  logica  né reale  (1)-.  La  prima  stabilisce  l'esistenza  del  genere  su- (1)  Sono  gl'individui  (ró  àtofia).  Arist.  Mei.  l.  III.  III.  9,  An. Post.  II.  V.  4,  De  pari.  anim.  1.  I.  III.  ed.  Didot.  prtg.  224.  eoo. L'essere,  in  questo  sistema,  non  è  ohe  l'essere  necessario,  cioè !'i, premo,  e  può  formularsi  così:  tutto  ciò  che  è  bene,  esi- ste —  tatto  ciò  che  è  bene  vuol  dire,  come  abbiamo  spie- gato, ogni  bene  possibile,  ogni  specificazione  del  concetto del  bene  cbe  noi  possiamo  concepire— .A  questa  sono  su- bordinate altre  due  proposizioni  che  stabiliscono  l'esisten- za dei  due  generi  inferiori  in  cui  il  bene  si  divide;  a  cia- scuna di  queste  altre  due,  che  stabiliscono  l'esistenza  dei generi    inferiori  in  cui  si  divide  ciascuno  di  questi  due generi,  e  così  di  seguito;  ogni  proposizione  affermando, in  una  forma  generale,  che  esiste  tutto  ciò  che  il  nome del  genere    sigoi fica— tutto   ciò  che  è  animale,  animale mortale,  animale  mortale  provvisto  di  piedi,  ecc.  -  e  che le  proposizioni  susseguenti  esprimono  d'una  maniera  di più  in  più  determinata  e  particolare.  Ciascuna  di  queste proposizioni  è  la  premessa,  di  cui  le  proposizioni  subor- dinate sono  le  conseguenze:  così,  percorrendo,  dalla  som- mità alla  base,  questa  gerarchia  di  proposizioni,  noi  fac- ciamo una    deduzione   continua,  che  non  è  che  lo  svi- luppo graduale  di  ciò  che  è  implicitamente  contenuto  nel primo  principilo^  e  che  da  questo  andando  di  conseguenze in  conseguenze  sino  alle  conseguenze  ultime,  non  fa  che esprimere  sotto  forme   sempre  più  larghe  e  più  partico- lari ciò  che  esso   enunzia   già    nella  forma  più  cempen- diosa  e  più   generale.    Ogni    proposizione   corrisponde  a un'Idea,  e  la  gerarchia  delle  proposizioni  alla  gerarchia delle  Idee,  che  la  dieresi  percorre  dall'alto  in  basso,  an- ridea;  il  ooutina:ente,  vale  a  dire  ciò  che  noi  chiamiamo  Tiadi- yiduale,  non  è  un  essere,  cioè  una  realtà,  ma  un  semplice  feno- meno. Per  conseguenza,  Tldea  generica  ha  un'estensione,  perchè contiene  sotto  di  sé  le  Idee  specifiche;  ma  queste  non  hanno  e- stensione,  perchè  tra  gli  esseri  reali  sono  i  più  particolari  di  tutti, ohe  non  possono  contenere  sotto  di  sé  niente  di  più  particolare. —  276  — dando  dall'Idea  del  Bene  a  quelle  delle  specie  infime,  e la  sinagoge  dal  basso  in  alto,  dalle  Idee  delle  specie  in- fime a  quella  del  Bene.  Tutto  ciò  non  è  che  un  corolla- rio della  dottrina  della  divisione  dicotomica,  quale  noi l'abbiamo  interpretata.  Ma  poiché  ad  ogn'  Idea  di  genere corrisponde  per  Platone  una  proposizione  affermante  la esistenza  di  questo   genere   in   tutta    la   sua  estensione logica  —  ciò  che  è  la  conseguenza  immediata  della  divi- sione in  due  contrari  senza  medio,  per  mezzo  della  quale il  nostro  corollario  è  stato  dedotto   dobbiamo  noi  am- mettere che  Platone,  nell'atto   stesso  che  pone  un'  Idea generica,  intende   affermarla  in  tutta  la  sua  estensione logica  ?  Ciò  non  segue,  in  verità,  dalla  divisione  in  con- trari  senza  medio  :  ma  come  non   ammetterlo,  quando sappiamo  che  Platone  dà  la  dieresi   per  una  deduzione^ e   questa   è    la  condizione   necessaria  perchè  essa  sia tale?   Per   vedere    quanto    vi  ha  di  chimerico  nel  me- todo platonico,  e  comprenderne  al  tempo  stesso  il  valore e  il  significato,  non  dobbiamo  dimenticare  due  punti  d'u- n'importanza  capitale,  che  abbiamo  stabiliti  nell'esposi- zione precedente.  L'uno  che  questo  metodo  è  un  metodo naturale,  che,  nelle  sue  divisioni  e  suddivisioni,  pretende di  aggruppare  gli  esseri  secondo  le  loro  reali  affinità;  e l' altro  che  la  definizione,  che  la  dieresi  dà  di  ciascun genere,  per  il  genere  superiore  e  1'  una  delle  due  diffe- renze opposte  per  cui  questo  si  divide,  è  una  definizione essenziale,  che  deve  esaurire  la  totalità  dei  caratteri  pri^ mitivi  del  genere,  cioè  che  non  possono  dedursi  da  altri caratteri.  Non  sarebbe   impossibile  di  dividere  tutti  gli esseri  in  modo  che  ogni  divisione  e  suddivisione  consti di  due  soli  membri,  e  che  questi  due  membri  siano  de- finiti, come  vuole  Platone,  da  due  contrari  senza  medio: ma  alcune  delle  classi   così  ottenute  non  avrebbero  per caratteri  che  degli  attributi  puramente  negativi;  la  clas- sificazione non  sarebbe  naturale;  e  la  definizione  di  cia- —  277  - ficun  genere  potrebbe  bastare  a  distinguerlo  da  tutti  gli altri  generi  reali,  ma  non  ne  determinerebbe  la  natura, in  modo  da  poter  convenire  a  questo  solo  genere,  e  non ad  altri  generi  possibili,  quantunque   non  reali,  aventi una  natura  più  o  meno  differente.  Questa  è  la  circostanza sovratutto  importante  per  la  dieresi  platonica,  che  ogni definizione  per  essa  ottenuta  deve  determinare  con  una precisione  assoluta  la  natura  del  genere  definito,  in  modo che  se  questa  fosse    minimamente  differente,  la  definì- zione  non  potrebbe  più  convenirgli  :  senza  di  ciò  la  di- visione  non  mostrerebbe  questa  coincidenza  tra  il  reale e  il  possibile,  che  è    la   condizione   precipua  di  questo metodo  e  la  sua  speciale  caratteristica.  Infatti  supponia mo  che  le  definizioni   delle    specie    infime  non  avessero che  la  precisione  sufficiente  a  distinguere  ciascuna  spe- cie da  tutte  le  altre  specie  reali  :  ciascuna  di  queste  de- finizioni, quantunque  tra  le  specie  reali  non  si  appliche- rebbe che   ad    una   sola,  sarebbe  anche  applicabile  ad infinite  altre  specie  possibili,  che,  pur  avendo  la  stessa definizione,  differirebbero  da  essa  più  o  meno  profonda- mente. P.  e.  Vanimale  mortale  bipede  implume  —  suppo- sto che  da  questa  definizione  non  potessero  dedursi  tutti gli  altri  attributi  della  specie  umana,  come  sarebbe  la esigenza   del    metodo   platonico  -  quantunque  tra  tutti gli  esseri  reali  non  potrebbe  designare  che  l'uomo  solo, abbraccerebbe,  nel  tempo  stesso  che  l'uomo,  un'infinità di  altri  esseri  possibili,  aventi  una  forma,  una  struttura e  altri  caratteri    fisici  e  psichici  più   o    meno  differenti da  quelli  dell'  uomo.  Ma  in  questo  caso  la  dieresi  non mostrerebbe  che  le  specie  esistenti  dell'animale  esistono necessariamente,  e  che   esse  sole  i)ossono  esistere  :  essa non  sarebbe  dunque  una  ricostruzione  a  priori  del  mondo reale,  perchè  in  una  tale  ricostruzione  necessario,  reale e  possibile  sono  dei  termini  che   hanno  precisamente  la stessa  estensione.  La  condizione  dunque  perchè  la  dieresi '^ 'a   - aia,  come  vuoìe  Platone,  una  ricostruzione  a  priori  del reale,  è  che  le  definizioni,  per  essa  ottenute,  esauriscano r  essenza,  cioè  la  totalità  de^^li  attributi  primitivi,  dei generi  definiti.  Allora  la  dieresi  mostrerebbe  che  le  spe- cie esistenti  —  che  essa  ha  riprodotte   tali  quali  esse  e- fiistono,  e,  per  dir  cosi,  ricreate  —  esistono  necessaria- mente,  perchè  contenute  nell'Idea  suprema,  la  cui  esi- stenza (in  tutta  la  sua   estensione    logica)  è.  come    sap- piamo (1),  data  a  priori  e,  per  conseguenza,  necessaria;  e che  esse  sole  possono  esistere,  perchè  esauriscono  l'esten- sione logica  dei  generi  immediatamente  superiori,  e  que- sti quella  dei  generi  ancora  superiori,  e  così  di  seguito, in  modo  che  l'  Idea  suprema,  cioè  il  tipo    universale  e necessario  di  tutti  gli  esseri,  si  è  realizzato  in  tutte  le specificazioni  di  cui  è  logicamente   suscettibile,  e  tutto ciò  che  è  possibile  è  reale,  come  tutto  ciò  che  è  reale  è necessario.  È  così  che  la  dieresi  è  una  dimostrazione,  e che  le  verità  empiriche  (le  ipotesi)^  ottenute  nel  processo ascensivo  della  dialettica,  sono  trasformate,  nel  processo discensivo,  in  verità  razionali  e  necessarie. La  dialettica  platonica  —  a  parte  le  supposizioni  re- lative al  primo  principio,  per  cui  rimandiamo  al  §  21  è  fondata  dunque  su  tre  presupposti:  1.®  che  ciascun genere  possa  dividersi  per  due  contrari  senza  medio  ^ senza  violentare,  con  questa  divisione,  le  affinità  reali degli  esseri  che  si  tratta  di  classificare.  2.®  che  le  defi- nizioni formate  per  l'accumulazione  progressiva  delle  dif- '  ferenze  su  cui  si  fondano  le  successive  divisioni,  esau- riscano la  totalità  degli  attributi  primitivi  dei  generi definiti.  3.0  che,  nel  passaggio  continuo  da  Idee  a  Idee per  via  d'Idee,  in  cui  consiste  la  dialettica,  la  posizione (1)  V.  $  50  n.  6.0 di  un'  Idea  generica  implichi  l'affermazione  di  quest'Idea in  tutta  la  sua  estensicme  logica.  L'  attuabilità  del  me todo  platonico  dipende  dalla  verità  o  erroneità  dei  due primi  presupposti  :  il  terzo,  supposta  la  verità   dei  due primi,  non    trascinerebbe   per  se  stesso    alcuna   impos- sibilità pratica  neir  applicazione   del  metodo,   ma   pre- senta in  coinpenso  delle  difficoltà  d'  indole  teorica,  che mettono  in  forse  la  legittimità  logica  del  metodo  stesso, considerato  come    un    ideale  e  astrazion    facendo   dalla sua  attuabilità.  Platone    ha  il  diritto  di   attribuire    alle sue  Idee  un'estensione  logica  e,  in  generale,  un'  esten- sione qualsiasi  ^  Evidentemente  le  esigenze  della  dialet- tica vengono  in  ccmtraddizione  con   quelle  della   nostra facoltà  rappresentativa,  quando  cerchiamo  di  concepire gli  universali  come  delle  realtà  obbiettive  e  sussistenti per  se  stesse.  Vi  hanno  certe    condizioni   della    rappre- sentazione, da  cui  il  metafisico  non  può  esimersi,  anche quando  oltrepassa  i  limiti  del    rappresentabile:    una  di queste  condizioni  è  l'individualità;  tutto  ciò  che  noi  con- cepiamo,  o  crediamo    semplicemente   di    concepire,  se non  è  un  essere  individuale,  non  può  essere  che  un  ag- gregato di  esseri  individuali.  Quando  Platone  divide,  co- m'egli dice,  tutto  il  bene,  tutto  l'animale,  tutto  l'animale mortale,  ecc  —  vale  a  dire,  come  abbiamo  spiegato,  ogni bene   possibile,  ogni    animale    possibile,  ogni    animale mortale  possibile—,  egli  pretende  al  tempo  stesso   che le  sue  divisioni  non  si  riferiscono  che  alle  Idee  ;  ma  è evidente  eh'  egli    non  potrà  mai  riuscire,  io  non  dico  a rappresentarsi,  ma  a  immaginare  di  rappresentarsi,  un essere  obbiettivo  corrispondente  a  tutto  il  bene,  a  tutto Vanimale,  a  tutto  l'animale  mortale,  com'egli  immagina di  rappresentarsi  un  essere  obbiettivo  corrispondente  al bene,  iiiVanimale,  M'animale  mortale  semplicemente.  In altri  termini,  la  sua  Idea  non  può  essere   che   un   con- cetto obbiettivato,  e  non  può,  per  conseguenza,  considerata  per  se  stessa,  cioè  indipeDdentemeDte  dalle  Idee subordinate  e  dalle  cose  a  cui  si  dice  che  si  partecipa, avere  un'estensiooe  ne  reale  né  logica,  perchè,  come  am- mettono i  concettualisti,  la  quantità  in  estensione  è  e- steriore  al  concetto,  e  gli  appartiene,  non  assolutamente come  quella  in  comprensione,  ma  relativamente  ai  con- cetti subordinati  e  alle  cose  a  cui  esso  si  applica.  Ciò  è perchè  un  concetto,  sia  obbiettivato,  sia  come  semplice rappresentazione  supposta  esistente  nel  nostro  spirito, noi  non  potremmo  immaginarlo  che  conformemente  a questa  condizione  delPimmaginabile  che  è  V  individua- lità, vale  a  dire  come  un  individuo  astratto^  sussistente nella  realtà  o  semplicemente  rappresentato,  come  un  tipo di  tutti  gl'individui  di  una  classe,  che  ha  tutti  gli  at- tributi identici  in  tutti  questi  individui,  e  nessuno  di quelli  particolari  a  certi  individui  determinati.  Platone concepisce  dunque  1'  Idea  come  un  individuo  astratto, presente  al  tempo  stesso  in  tutti  gì'  individui  concreti e  particolari,  e  che  uno  in  se  stesso,  sembra  molti- plicarsi apparendo  come  altro  nei  diversi  individui  par- ticolari  in  cui  è  presente:  tutte  le  forme  in  cui  egli esprime  il  rapporto  fra  le  Idee  e  le  cose,  che  l' Idea  è l'uno  nei  molti  (1),  che  è  una  e  la  stessa  in  tutti  gli  oggetti particolari  (2),  che  è  presente  in  ciascuno  di  questi  ogget- ti (3),  ecc.,  tendono  a  questo  concetto,  che  è  enunciato apertamente  nel  V  della  Repubblica,  dove  dice  che  «cia- scuna delle  Idee  è  una,  ma  pare  molti,  apparendo  da per  tutto  per  la  loro  comunione  con  le  azioni  e  coi  corpi (1)  V.  Suppl.  B  p.  l.a,  V.  30  B. (2)  Ibid. (3)  Ibid.  VI,  A. (4)  476  a. e  la  recìproca  fra  di  loro»  (4).  Ma  se  è  cosi,  vi  ha  con- traddizione fra  il  concetto  dell'Idea  in  se  stessa  e  quello dell'  Idea  nella  sua  funzione  nel  processo  dialettico.  Di •questa  contraddizione  potrebbe  farsi  un  argomento  con- tro la  nostra  interpretazione  della  dialettica  platonica, obbiettandoci  che  la  dieresi  non  può  essere  una  de- duzione,  perchè  manca  una  condizione  indispensabile, cioè  l'equivalenza  fra  la  posizione  dell'  Idea  generica  e l'aflfermazione  del  genere  corrispondente  in  tutta  la  sua estensione  logica.  Ma  malgrado  questa  inevitabile  incon- gruenza fra  i  due  elementi  del  sistema,  cioè  le  Idee  e la  dialettica,  non  si  negherà  ohe  la  deduzione  di  Pla- tone (quale  la  nostra  interpretazione  gliel'attribuisce)  so- migli a  una  vera  deduzione  più  che  quella  di  Hegel. Essa  si  fonda,  in  ultima  analisi,  sopra  un  equivoco (prendendo  per  generale  ciò  che  è  semplicemento a«fraf<o), ma  si  tiene  strettamente,  facendo  astrazione  dalla  prati- •ca,  ai  principii  della  logica  comune,  e  non  è,  come  quella del  filosofo  tedesco,  un  rovesciamento  aperto  delle  leggi fondamentali  del  ragionamento.  Se  con  tutto  ciò  questi ha  dato  la  sua  dialettica  per  una  dimostrazione,  a  più forte  ragione  ha  potuto  farlo  Platone;  e  il  confronto  tra 1  due  filosofi  ci  mostra  un  altro  esempio  di  un  fatto  che si  può  più  volte  osservare  nella  storia  del  pensiero  u- mano,  cioè  del  cai^attere  più  semplice  e  più  naturale delle  concezioni  del  mondo  antico,  in  comparazione  di quelle  del  mondo  moderno,  più  ricercate  e  più  artificiali. Noi  termineremo  questo  paragrafo,  mostrando  che nella  dieresi  si  verificano  le  cojidizioni  generali  del  me- todo dialettico,  che  abbiamo  descritte  nel  $  12°  (n.  2-6.) 1.®  La  dimostrazione  dialettica  diflerisce  dalla  dimo- strazione matematica,  in  quanto  questa,  quantunque  in definitiva  si  riferisca  alle  Idee,  non  volge  immediata- mente che  sugli  oggetti  particolari  e  sensibili;  quella, al  contrario,   volge,  anche   immediatamente,  sulle    sole ' »   - Idee  (1).  Con  ciò  Platone  indica  due  diflferenze  tra il  metodo  matematico  e  il  metodo  dialettico.  L'  una che,  mentre  le  verità  della  matematica  enunciano,  al- meno immediatamente,  dei  rapporti  tra  oggetti  par- ticoli^ri,  (p.  e,  d'eguaglianza,  d'  ineguaglianza,  ecc.),  le verità  della  dialettica  non  enunciano  invece  che  i  rap- porti logici  fra  le  generalità,  che  Platone  sostantifica, chiamandole  Idee.  Questi  S(mo:  dei  rapporti  di  contenenza (cioè  che  tale  Idea  generica  contiene  tali  Idee  specifiche), e  di  sequenza  logica  (cioè  che  l'Idea  generica  è  il  prin- cipio di  cui  le  Idee  specifiche  sono  le  conseguenze):  essi non  possono  correre  fra  gli  oggetti  particolari,  ma  solo tra  le  generalità,  e  non  sono  quindi  suscettibili  del  dop- pio senso  che  Platone  altribuisce  alle  verità  matemati- che, interpetrate,  dal  filosofo,  come  rapporti  fra  Idee  (fra il  quadrato  in  sé  e  la  diagonale  in  sé),  e  dìil  volgare, come  rapporti  fra  cose  individuali  (fra  questo  o  quel  qua- drato e  questa  o  quella  diagonale).  L'  altra  differenza tra  il  metodo  matematico  e  il  metodo  dialettico  è  che, nella  geometria,  una  proposizione  non  si  dimostra  im- mediatamente che  della  figura  particolare  che  si  è  co- struita, estendendo  in  seguito  la  stessa  conclusione  a  tutte le  altre  figure  che  possono  enunciarsi  negli  stessi  ter- mini. Ciò  dà  a  questa  scienza  l'apparenza  d'una  scienza induttiva  e  sperimentale,  mentre  la  dialettica,  cioè  la dieresi,  deve  essere  un  metodo  deduttivo  puro,  che  deve respingere  ogni  dato  empirico,  e  non  deve  trarre  il  ge- nerale che  da  un'  altra  generalità  superiore.  In  verità, Platone,  nelle  sue  dieresi,  non  si  conforma  esattamente a  questa  condizione  del  suo  metodo  ;  stabilendo  le  sue classi,  egli  indica  spesso  alcuni  casi,  o  anche  la  totalità dei  casi,  compresi  in  una  classe.  Ciò  il  più  delle    volte (1)  V.  %  12  n.  3. 283 ha  pei  iscopo  di  chiarire  il  concetto  della  classe  (1);  ma qualche  volta  lo  soopo  è  evidentemente  di  giustific  ire una  dieresi  per  un  appello  all'  esperienza  (2).  Allora  il processo  puramente  dialettico  della  dieresi,  che  trae  il particolare  dal  generale,  si  complica  col  processo  oppo- sto, cioè  con  la  sinagoge;  e  noi  sappiamo  del  resto  che, secondo  Platone,  il  processo  discensivo,  cioè  la  dieresi, suppone,  come  suo  antecedente,  il  processo  asi^ensìvo, cioè  la  sinagoge  Ma  ciò  non  toglie  niente  al  carattere essenzialmente  deduttivo  e  aprioristico  del  metodo  pla- tonico, perchè  la  filosofia  apriorista,  come  abbiamo  altre volte  osservato,  non  pretende  far  senza  dell'esperienza, ma  trasformare  i  dati  empirici  in  verità  razionali. 2^  La  dialettica  è  un  passagu:io  continuo,  come  dice Platone,  da  Idee  a  Ide^  per  via  di  Idee  (3)  Ciò  si  ve- rifica esattamente  nella  dieresi.  Infatti  il  dividente  non fa  che  porre,  prima  una  classe  generale,  e  poi  succes -di- vamente le  classi  di  meno  in  meno  generali,  in  cui  quella si  divide  e  suddivide.  Ciascuna  di  queste  classi  è  un'  I- dea,  perchè  la  dieresi,  secondo  Platone,  si  riferisce  alle Idee  (4);  e  il  passaggio  da  classi  in  classi  è  una  deduzione di  Idee  da  Idee,  perchè  ponendo  un'  Idea,  Platone  in- tende affermarne  l'esistenza,  e  l'esistenza  delle  Idee  meno generali  è  una  conseguenza  dell'  esistenza  dell'Idea  più generale  che  le  contiene.  La  dialettica  è  pure  presentata da  Platone  come  una  ricerca  delle  essenze,  cioè  delle  de- finizioni, di  tutte  le  cose  (5):  ma  la  definizione  è  l'espres- (1)  V.  Polii,   259  d  —  260  a,  Sof,    220  b  -  e,  222  e,  226  e  — 227  a.  235  d,  266  a  -  d,  267  a,  eoe. (2)  V.  Polii.   264  o-d  e  Sof.   223  e  —  224  a  e  267  b-c. (3)  V.  i  5.0  n.  4.0 (4)  V.  %  17.  sul  priucipio. (5)  V.  $  12.  n.  4°  e  J  19.  verso  il  priucipio. -  284  — sione  adequata   dell'Idea,  P  analisi  del  concetto  di  cui questa  è  1'  obbiettivazione  (1);  siccLè   la   scoverta  della definizione  non  è  cbe  la  scoverta  dell'Idea  definita,  la  die- resi dando  al  tempo  stesso  le  classi,  cioè  le  loro  Idee, e  la  totalità  dei  caratteri  per  cui  si  definiscono  (2).   La proposizione  cbe  la  dialettica  è  un    passaggio   continuo da  Idee  a  Idee  per  via  d' Idee,  stabilisce  due  caratteri ^el  metodo  dialettico.  L'uno  che  le  verità  che  il  dialet- tico deduce  le  une  dalle  altre,  non  sono  propriamente  delle proposizioni,  ma  delle  Idee  —  sono,  se  si  vuole,  delle proposizioni,  ma  di  cui  ciascuna  non  fa  che  porre  un'I- dea, affermarne   1'  esistenza  —  ;  e  l'altro    cbe   in  questo incatenamento  deduttivo,  che  costituisce  il  processo  di- scensivo della  dialettica,  tutti  gli  anelli  sono  delle  Idee, in  altri  termini  che  da  Idee  a  Idee  la  conseguenza  è  im- mediata, cioè  si  vede  intuitivamente  e  non  mediante  un ragionamento.  La  dieresi  —  considerata  come  un  ideale, e  astrazion   facendo  dalla  pratica  —  soddisfa  anche  alla seconda  di  queste  due  condizioni  della  dialettica:  si  vede intuitivamente  e  che  data  l'Idea  generica  sono  date  le Idee  specifiche  —  perchè   per    ciò  basta   di    vedere  che queste  date  specie  sono  contenute  in  questo  dato  genere —  e  che  non  sono  date  che  queste  sole  Idee  specifiche— perchè  la  divisione  in  due  contrari  senza  medio  mostra immediatamente  che  questi  esauriscono  l'estensione  lo- gica del  genere  — .  Nel  metodo  platonico  è  tanto  impor- tante di  vedere  che  la  posizione  delle  Idee  specifiche  se- gue dalla  posizione  dell'Idea  generica,  quanto  di  vedere che  dalla  posizione  dell'Idea  generica  non  segue  che  la posizione  di  queste  sole  Idee  specifiche.  Ciò  è  perchè,  se vediamo  in  una  dieresi  che  tutte  le  divisioni  successive, —285  — sino  agli  indivisibili,  esauriscono  1'  estensione  logica dei  generi  divisi,  noi  vediamo  al  tempo  stesso  che  questi generi  devono  essere  affermati  in  tutta  la  loro  estensio- ne logica,  e  che  la  dieresi  è  una  deduzione  e  non  una  sem- plice classificazione.3.®  La  deduzione  dialettica  deve  conformarsi  al  tempo stesso  a  due  condizioni:  l'una  la  molti plicità  dei  passaggi logici,  e  l'altra  una  legge  comune  a  cui  tutti  questi  pas- saggi si  uniformano  (1).  Nella  dieresi  si  verificano  pie- namente queste  due  condizioni  del  realismo  dialettico  : essa  è  una  deduzione  a  gradi  multipli,  e  in  ciascuna  de- duzione particolare  si  realizza  il  tipo  uniforme  della  di- visione dicotomica.  Questa,  nel  sistema  platonico,  è  ciò che  la  tesi,  antitesi  e  sintesi  nel  sistema  hegeliano:  vale a  dire  1'  uniformità  di  sequenza  del  mondo  ideale,  che, nelle  sequenze  logiche  tra  le  Idee,  è  ciò  che  una  legge di  causazione  nelle  successioni  tra  i  fenomeni. 40  Dalla  condizione  precedente  dell'uniformità  di  se- quenza nel  mondo  ideale  segue  un'  altra  condizione  del realismo  dialettico,  cioè  l'unità  di  principio  (2).  È  ciò  che si  vede  chiaramente  nel  sistema  platonico,  in  cui,  la legge  delle  Idee  essendo  che  si  dispongano  secondo  il tipo  della  divisione  dicotomica,  niente  vi  sarebbe  di  più incoerente  che  una  moltiplicità  d'Idee  primitive,  cioè che  non  potessero  subordinarsi  a  un'Idea  piìi  generale. Qui  cade  a  proposito  di  osservare  che  il  legame  fra  tutte le  verità  di  cui  parla  Platone  (3),  suppone  secondo  lui la  loro  derivazione  comune  da  una  verità  più  generale; in  altri  termini,  che  la  deducibilità  di  tutte  le  Idee  da . (1)  V.  }  180. (2)  Confr.  }  19.  la  nota  in  fine  del  n.  2o. (1)  V.  $  12  n.  50. (2)  V.  }  12  n.  60. (3)  V.  J  10. r I  »  <l*     I  '  » ^  »      lil    I»  1 1   - un'Idea  unica  suppone,  per  Platone,  che  questa  sia  (come lo  esige  la  dieresi)  V  Idea  più  generale,  in  cui  tutte  le altre  siano  contenute.  Ciò  vediamo  nel  luogo  più  volte citato  dal  Menone  81  d,  secondo  cui  è  per  V  affinità  di tutta  la  natura  (cioè  per  la  costituzione  di  tutti  gli  es- seri secondo  un  tipo  comune)  che  si  può,  ricordata  una cosa,  ritrovare  da  se  stesso  tutte  le  altre. ò<>  La  condizione  perchè  la  deduzione    dialettica    sia una  dimostrazione,  è  che  V  Idea  primitiva   sia  stahilita a  priori  (1).  La  dialettica  essendo  la  dieresi,  quest'Idea primitiva,  che  è  come  l'assioma  da  cui  parte  la  dimo- strazione dialettica,  deve  essere  l'Idea  più  generale,  cioè quella  del  Bene.  L'apriorità  del  primo  principio  è  espressa chiaramente  da  Platone,  quando  dice  che  la  dimostra- zione dialettica  non  è  fondata  sovra  ipotesi  come  la  di- mostrazione matematica,  perchè  la  dialettica  toglie  alle ipotesi  il  loro  carattere  ipotetico,  deducendole  dal  prin- cipio che  non  è  un'ipotesi  {àyvnó&stog)  -ipotesùcome  ab- biamo spiegato,  è  per  Platone  un  dato  empirico,  sinché non  è  stato  dimostrato  (2)  —Questo  principio  àt^vnó&ezog, cioè  certo  a  priori  e  non  dato  semplicemente  dall'espe- rienza, è  il  punto  di  partenza  della  dieresi,  cioè  l'Idea del  B«ne.  La  proposizione  che  quest'Idea  dà  l'evidenza a  tutte  le  altre    (3)   implica   infatti    eh'  essa  è  evidente immediatamente  —  perchè  senza    di  ciò  come   potrebbe rendere  evidenti  le  Idee  che  se  ne   deducono  ?  — ;  e  del resto  quest'  evidenza  immediata  è  indicata   da    Platone —  287  — anche  esplicitamente,  quando   chiama    il   Bene  «  il  più chiaro  dell'essere  »  (1). La  filosofia  prof^ressiva,  che  va  dal  primo  principio alle  sue  conseguenze,  suppone,  come  antecedente,  la  fi- losofia re(jres8iva^  che  va  dalle  conseguenze  al  primo  prin- cìpio; perchè  è  una  legge  del  nostro  spirito,  che  nessun filosofo  apriorista  ha  ignorato,  che  la  nostra  conoscenza cominci  dall'esperienza  (2).  Le  ipotesi  devono  essere  ri- condotte al  principi)  gradualmente,  cioè  deducendo  u- n'ipotesi  da  un'altra  ipotesi  superiore,  e  così  di  seguito, sinché  si  giunga  al  principio  che  non  è  uua  ipotesi  (3). Questo  è  il  processo  ascensi vo  della  dialettica  (filosofia regressiva):  il  processo  discensivo  (filosofia  progressiva) percorre  gli  stessi  gradi  in  senso  inverso  (4),  ritrovando  sui suoi  passi  le  ipotesi  precedenti,  ma  trasformate  in  verità razionali  e  necessarie.  La  corrispondenza  di  questi  due processi  C(m  la  sinagoge  e  la  dieresi  è  una  delle  prove più  evidenti  della  nostra  interpretazione  della  dialettica platonica. 1  caratteri  del  metodo  platonico  che  abbiamo  per  la geconda  volta  enumerati,  sono  dei  caratteri  generali  del realismo  dialettico',  essi  derivano,  come  vedremo  in  se- guito,  dallo  scopo  stesso  di  questa  metafìsica,  cioè  di realizzare,  per  1'  obbietti vazione  dei  concetti,  l'idea  di causa  efficiente,  trasformando  in  una  connessione  ontolo- gica la  connessione  logica  introdotta  fra  questi  concetti. 9  21.  Oltre  il  metodo  direttOj  di  cui  abbiamo  parlato sin  qui,  vi  ha  nella  dialettica  platonica    un  metodo  in- i   f (1)  V.  $  12  D.  20  e  60. (2)  V.  Bep,  510  b— 511  e  533  b-d  (luoghi  riportati  al  J  12),  e confi-.  §  12  n.  2. (3)  V.  Rep.  507  o  —  509  b,  577  b-o  e  540  a,  e  confr.  $  13  n.  1  e  2. (1)  Rep.   518  e. (2)  V.  $  12  n.  2. (3)  V.  Fedone   101  d-e  e  Rep.   511  b. (4)  V.  Rep.   511  b. itesa %Vii N diretto,  di  cui  parleremo  in  questo  paragrafo.  Questo  se- condo metodo,  che  è  un  complemento  indispensabile  del primo,  è  indicato  ed  esemplificato  nel  Parmenide. Esso  consiste  a  sviluppare  le  conseguenze  contraditto- rie  implicate  in  un'ipotesi  data,  e  Parmenide  (che  dà  il nome  al  dialogo,  e  ne  è  il  protagonista)  lo  applica  alle due  ipot43si  opposte  che  si  possono  fare  sull'uno,  cioè  che «siste  e  che  non  esiste.   Prima  Zenone  ha  letto  un  suo- scritto  in  cui  confuta  1'  opinione  comune  che  vi  hanno- molti  esseri,  dimostrando  che  da  quest'ipotesi  ne  segui- rebbe necessariamente  una  cosa  impossibile,  cioè  che  i molti  esserì  avrebbero  al  tempo    stesso   degli   attributi contradittori  (1).  Parmenide  raccomanda,  come  un  mezzo indispensabile  alla  scoverta  della  verità  (2),  di  esercitarsi nel  metodo  praticato  da  Zenone,  ma  apportandovi  due  mo- dificazioni: l'una  di  applicarlo,  non  agli  oggetti   sensi-bili, ma  alle  Idee  (3).  (Platone  suppone   in  questo  dia» lo^o,  come  fa  anche  del  resto  implicitamente  nel  Sofista e  nel  Politico,  che  Parmenide  e  gli  Eleati   in  generale ammettono  il  sistema  delle  Idee);  e  l'altra  di  esaminare non  solo  le  conseguenze  che  derivano  dall'ipotesi  che  una cosa  (o  a  dir  meglio,  un'Idea)  esista,  ma  anche  quelle che  derivano  dall'ipotesi  che  essa  non  esista  (4).  €  Per  e- sempio,  se  vuoi  prendere  l'ipotesi  che  ha  fatto  Zenone^ se  la  pluralità  esiste,  bisognerà   esaminare  ciò  che  av- verrà alla  pluralità  per  se  stessa  e  nel  suo  rapporto  con l'unità,  e  ciò  che  avverrà  all'  unità  per  se  stessa  e  nel suo   rapporto   con   la  pluralità;  e  ancora   bisognerà  di (1)  V.  127  e -128  d. (2)  V.  135  d,  136  e,  136  e. i3)  V.  135  e. (4)  V.  136  a. nuovo  esaminare,  se  la  pluralità  non  esiste,  ciò  che  av- verrà e  air  unità  e  albi   pluralità    tanto     per   se  stesse quanto  nel  loro  rapporto  reciproco.  Così  pure,  se  si  sup- [>one  che  la  somiglianza  sia  o  non  sia,  bisoonerà  vedere ciò  che  avverrà  tanto  nell'una  (|iianto  nell'altra  ipotesi, e  a  ciò  che  si  è  supposto,  e  alle  altre  cose,  sì  conside- rati per  se  stessi    che  nei  loro   rapporti    reciproci.  E  lo stesso  si  dica  della  dissoni ìc^lian za,  del  moto  e  dello  stato, della  generazione  e  della  corruzione,  dell'essere  stesso  e del  non  essere.  E  in  una  parola,  che  che  tn  supponga,  sia esistente  sia  non  esistente  sia  avente  qualsiasi  altro  at- tributo, bisognerà  esaminare  ciò  che   gli    avverrà  e  per se  stesso  e  relativamente  a  ciascuna  delle  altre  cose  che sceglierai,  e  a  molte  e  a  tutte  egnalmcMite;  e  poi  ancora ciò  che  avverrà  alle  altre  cose,  e  i)er  se  stesse  e  relati- vamente a  quella  che  avrai  ])resa,  tanto  nell'ipotesi  che esista  quanto  in  quella  che  non  esista,  se  vuoi,  perfet- tamente esercitato,  j)enetrare  a  fondo  la  verità  >  (1).  Per far  comprendere  meglio  questo  metodo,  cedendo  alle  pre- ghiere di  Socrate  e  degli  altri  astanti,  Parmenide  ne  dà un  esempio  (2)  applicandolo  alPIdea  deirunità.  Egli  sup- puue  dunque  prima  che  l'uno  esista,  e  poi  che  esso  non esista;  e  deduce  egualmente,  tanto  dall'una  quanto  dal- l'iti  tra  ipotesi,  che  l'uno  e  le  altre  cose,  sì  considerati in  se  stessi  che  nei  loro  rapporti  reciproci,  hanno  al  tem- po stesso  degli  attributi  contrari  e  non  hanno    nessuna di  questi  attributi  (3).  Le  deduzioni  di  Parmenide    non sono  che  dei  sofismi  sottili,  il  più  spesso  nemmeno  spe- li) 136  a-c. (2)  136  e— 137  b. (1)  137  o  e.  8gg.  sino  alla  fine. 19 -  290  - ciosi:  la  seconda  ipotesi  non  è  trattata  meglio  della  pri- ma; la  (lertuzioue  nell'una  è  altrettanto  sofistica  che  nel- raltra  (1). La  più  parte  degli  interpreti  hanno  torturato  il  l  ar- meiiirte  per  .crearvi  nn   risultato  dogmatico  e  positivo,, credendo  che  bisogni  vedervi  qualche  cosa  di  più  di  ci«> per  eui  lo  dà  lo  stesso  Platone,  cioè  di  nn  semplice  eser- cizio  dialettico  (2).  Noi  uon  dobbiamo  tener  conto  delle interi)retazi<.ni  arbitrarie  che  pretendono  di  scoprirvi  un senso  riposto  diftorme  dal  suo  significato  letterale,  quali sono  quelle  dei  neophitouici,  di  Hegel  e  dogli  hegeliani, del  Fouillèe,  e  in  una  parola  di  tutti  gli  autori  che  hanno interpretato  Platone  col  proposito  di  trovarvi  delle /jro- fonde  verità,  cioè,  nella  nngliore  ipotesi,  le  loro  proprie dottrine  filosofiche.  Faremo    solamente  un'  osservazione suir  interpretazione  di  Hegel,  che  vede  nella  diakttica del  Parmenide  la  dottrina  dell'identità  dei  contrari.  He- gel ha  compreso  la  i)rofonda  affinità  tra  il  suo   proprio eistenia  e  quello  di  Plat<.ne:  sono  infatti  due  esemplari d'uni,  stesso  tipo,  quella  metafisica  che  noi  chiamiamo realismo  dialettico.  Ma  questo   tipo  nei    due   sistemi    si realizza  di  maniere  differenti,  che  Hegel  ha  il  torto  di voler  identificare.  1/  idea  generale  della  dialettica,  co- mune tanto  a  Platone  (pianto  ad  Hegel,  è  quella  At  un metodo  a  priori,  in  cui  i  concetti  obbiettivati  si  dedu- cono gli  uni  dagli    altri,  in  modo  che   questo  processo logico  di  deduzione  sia  al  tempo  stesso  uno  sviluppo  on- tologico, una  filiazione  di  questi  ctmcetti  obbiettivati.  Ma (1)  V.  per  ..«euivio  lU  e  -  U5  b,  145  b-e.  145  o  -  146  a. 14«  b  -  147  b.  148  a-b.  148  d  -  149  d.  149  d  -  151  b  (ne  la  a ipotesi)  .  e  161  d.  161  e       162  b,  162  b-c,  162  e.  164  o  (nella  2 ipotesi).  • (2)  V.  135  c-d,   13B  a,  e,  e,  137  b. —  291  — quest'idea  generale  nei  due  sistemi  si  realizza  di  maniere differenti.  Il  principio  dell'  identità  dei  contrari  nel  si- stema hegeliano  è  legato  alla  forma  speciale  del  suo  me- todo di  dedurre  i  concetti,  che  consiste  a  passare  da  un concetto  al  suo  opposto  e  poi  a  un  terzo  che  li  coucilii- Ma  questo  principio  non  potrebbe  avere  alcuna  funzione nella  dialettica  platonica,  perchè  questa  deduce  i  con- cetti passando  dal  geneiale  ai  particolari  subordinati.  Un metodo  come  quello  praticato  nel  Parmenide,  cioè  che consiste  a  dimostrare  la  coesistenza  dei  contrari  in  uno stesso  soggetto,  non  può  crmiprendersi  altrimenti  che come  metodo  confutativo.  E  d'altronde  Parmenide  dice espressamente  che  questo  metodo  non  è  che  quello  che è  stato  praticato  da  Zenone  (135  d)*  ora  lo  scopo  di  Ze- none è  stato  di  dimostrare  che  è  impossibile  che  vi 43Ìano  molti  esseri,  percliè  è  impossibile  ch'essi  abbiano degli  attributi  contrari.  Più  speciose,  per  conseguenza, chele  interpretazioni  |»rece.lc*n temente  indicate,  sono quelle  del  Zeller,  del  Tocco  e  di  altri  critici,  che  vedono nella  2.  parte  del  Parmenide (1)  una  riduzicme  all'assurdo delle  due  tesi  opposte  sull'uno,  per  istabilirne  indiretta- mente una  terza, che  Platone  non  enuncierebbe  esplicita- (1)  La  parte  dialettica  del  Parmenide,  cioè  quella  die  deduce le  conseguenze  contraddittorie  derivanti  dalle  due  ipotesi  sull'uno, -è  preceduta  da  una  prima  parte  che  contiene  delle  obbiezioni eontro  la  teoria  delle  Idee.  I  critici  di  cui  parliamo  ammettono <5he  ciò  che  forma  il  legame  tra  le  due  parti  del  dialogo,  è  che il  risultato  indiretto  della  2.  parte  .  cioè  della  <lialettca,  è  una nuova  concezione  delle  Idee,  che  evita  le  obbiezioni  della  1.  parte, modificando  il  rapporto  fra  le  Idee  e  le  cose.  Questo  concetto  non ha  più  alcun  fondamento  nella  nostra  interpretazione  delle  Idee (ohe  dimostriamo  largamente  nel  Snpplem.  B),  perchè  esso  sup- pone r  interpretazione   Irascendenialisln, li-"" —  292  - • mente,  ma  che  lascerebbe  nondimeno  intravedere.  L'idea in  cui  s'impernia  quest'  altro  modo  d'interpretare  il  Par- menide, consiste  in  sostanza  a  considerare  la  prima  ipotesi esaminata  dal  filosofo  eleate  -  se  l'uno  è-come  l'equivar lente  della  tesi  stessa  della  filosofìa  eleatica,  cioè  che  tutto  è uno  (1),  o  che  l'uno  solo  esiste  con  l'esclusione  del  molti  (2). Mail  concetto  primitivo  da  cui  esso  muove,  cioè  che  la  parte dialettica  del  Parmenide  è  la  confutazione  di  certe  tesi per  istabilirne  indirettamente   qualche    altra,    potrebbe anche  dar  luogo  ad  un'  altra  interpretazioue,  che  indi- cheremo quautunque  non  sia  stata  proposta  da  alcuno^ perchè,  fra  tutte  le  interpretazioni  di  questo  genere,  sa- rebbe la  meno  apertamente  contraria  al   significato  evi- dente delle  due    ipotesi    esaminate  da  Parmenide.  Essa consisterebbe  ad  ammettere  che  se  l'analisi  della  prima posizione:  V»mo  è,  arriva  a  delle  conseguenze  contrad- dittorie, ciò  è,  secondo  Platone,  perchè  il  contenuto  del concetto  dell'uno  è   stato  inesattamente  determinato,  e che  così  tutta  la  parte  diiilettica  del  Parmenide  avrebbe per  risultato  indiretto  una  determinazione  più  esatta  di questo  contenuto.   Ma  contro  tutte  in  generale  le  inter- pretazioni che  vedono  nella  2.  parte  del  Parmenide  una dimostrazione  ex  absurdh   di  una  tesi   qualsiasi,  sta  il fatto  incontestabile  che  le  due  ipotesi  opposte  esaminate dal  filosofo  eleate,  se  l'uno  esiste  e  se  l'uno   non  esiste  y sono  due  proposizioni  rigorosamente  contraddittorie,  che non  lasciano  alcuna  possibilità  ad  una  terza  proposizione intermedia.    E    infatti    Parmenide   ha  detto  che   l'eser- cizio,  dialettico   eh'  egli   propone    a    Socrate,    consiste ad    esaminare,  dopo    le   conseguenze  dell'  esistenza   di (1)  V.  Zeller  Filos.  dei  Greci,  v.  2.  pag.  565,  3.  ediz. (2)  V.  Tocco  Ricerche  ptatoniche,  pag.  112  e  169). 1 —  293  — ciascun  concetto  (V  Uno,  il  Molti,  la  Somiglianza,  la Dissomiglianza,  ecc.)  quelle  ancora  della  non  esisten- za dello  stesso  concetto.  Conformemente  a  questo  prin- cipio, egli  esamina  prima  ciò  che  accadrà  se  1'  Uno esiste,  e  poi  ancora  ciò  che  accadrà  se  lo  stesso  Uno non  esiste.  L'  Uno  non  vuol  dire  1'  Uno  eleatico  o Dio  o  le  Idee  in  generale  o  qualsiasi  altro  concetto  si- mile, platonico  o  non  platonico,  che  gl'interpreti  hanno immaginato  o  potrebbero  immaginare.  L'Uno  vuol  dire semplicemente  l'Idea  dell'unità,  ciò  che  i  concettualisti chiamano  il  concetto  dell'unità,  realizzato,  in  altri  ter- mini quest'attributo,  che  noi  intendiamo  indicare  chia- mando una  cosa  una,  obbiettivato  e  considerato  come un'entità  unica  esistente  per  se  stessa  («rrò  xuO'  abvó)  (l). (1)  E  infatti  Parinenide  ha  d*»tto  che  il  metodo,  che  poi  ay)- plica  all'uno,  deve  applicarsi  alle  Idee  (135  e,  1.  e).  Con  forme- niente  al  principio  che  ha  stabilito,  quantuuqi'C  dica  che  comin- cerà per  la  sua  propria  ipotesi  (137  b),  quest'uno  della  cui  esi- stenza o  non  esistenza  esamina  le  conseguenze,  non  è  1'  uno  e- leatico,  che  è  un'unità  concreta  (cioè  un  essere  concreto  che  ha per  attributo  l'unità),  ma  l'unità  astratta,  l'attributo  stesso  se- parato dagli  oggetti  concreti  a  cui  appartiene,  in  una  panda  l'I- dea dell'  uno.  Cosi  1'  uno  di  cui  è  quistione  è  chiamato  slòo" (158  e)  e  alzò  rò  tV  (137  b,  153  c-e,  1.58  a,  ecc.),  espr«'8si<mi  che, come  sr  sa,  designaiuo  lo  Idee.  Così  ancora  dal  concetto  di  que- st'uno si  escludono  tutte  le  note  che  non  entrano  nel  puro  con- cetto dell'unitùy  separando  questo  concetto  da  tutti  gli  altri  con- cetti distinti,  p.  e.  l'essere,  l'identità,  la  diversità  (v.  139  o  — 140  a,  142  b-c,  143  ab,  ecc.);  e  da  una  moltitudine  di  luoghi 089  d,  144  o-e,  147  a,  149  c-d,  157  e  —  158  d,  159  d  —  160  b, 164  d-e,  165  b-c,  165  e  —  166  b,  ecc.)  si  vede  evidentemente  che l'uno  di  cui  si  tratta  non  è  che  l'entità  che  è  presente  in  tutti gli  oggetti  a  cui  applichiamo  il  nome  uno,  o  in  altri  termini,  alla quale  questi  oggetti  partecipano.  Non  è  quistione  in  sostanza  che dell'  unità  matematica,  vale  a  dire  quella  per  la  cui  ripetizione Ai il—  294  — Questo  è  il  puiìt»  che  bÌROcrna  anzitutto  fissare,  se  vo- gliamo realmente  interpretare  il  Parmenide  e  non  fare si  forma  il  numero  (v.  147  a,  149  c-d,  153  a.  153  do,  159  d  — 160  b.  164  de  ecc.),   cousidenita    naturalmeute,   non  come    una semplice  astrazione,  ma  come  un'  astrazione    realizzata.    Alcuni critici,  dall'analogia  d'un  luogo  del  Solista  (244  e  -  245  a)  contro l'uno  eleatico  -  in  cui  si    dice    clic    se  questo    fossa   veramente uno,  uou  dovrebbe  avere  uè  parti  nò  figura  -  col  eominciamenta della    la  ipotesi  del  Parmenide  (137  e  e)- in  culle  stesse  deter- minazioni si  escludono  dall'uno  di  cui  si  tratta  in  questo  dialo- go—.  hanno  conolu-io  che  la  1.  parte  della  1.   parte  di  quest'i- potesi  ò  una  confutazione  dell'  uno  eleatico.  Mu  è  evidente  che in  tutto  il  dialogo  è  quistione    di  uno  stesso  uno:  come   in  un»v parte  si  parlerebbe  dell'uno  eleatico,  se  in  tutto  il  resto  si  parla dell'Idea  dell'  uno  ì  Nt»n  è  sorprendente  d'altronde  che  Platone nel  Sofista  deduca  dall'uno  eleatico  la    stessa    conseguenza    che nel  Parmenide  deduce  dall'  Idea  dell'  uno,  perchè  la  deduzione nel  primo  dei  due  dialoghi  è  fondata  sulla  identificazione    arbi- traria dell'imo  eleatico  a  una  pura  astrazione,  a  ciò  che  Platone chiama  l'uno  stesno.  in  altri  termini  all'Idea  dell'uno  (vi  si  dice in  sostanza  che  se  l'uno  è  di  figura  sferica,  come  vuole  Parme- nide, esso  ha  delle  parti  e  iiuindi  non  può  essere  veramente  uno, perchè  ciò  che  è  veramente  uno,  cioè  1'  uno  alesai —  lò  cV  aitò  — non  può  avere  delle  parti). Ma  come  può  dire  Parmenide,  mentre  si  tratterà    dell'  Idea dell'uno,  ohe  comincerà  dalla  sua  propria  ipotesi,   cioè  dall'uno eleatico]  Ciò  dipende  forse  da  qualche  cosa  di  più  che  l'affinità dei  due  concetti  e  l'identità  della  forma  verbale  con  cui  si  espri- mono {V  uno).  Platone  attribuisce  a  Parmenide    e  agli  Eleati  in generale  la  teoria  delle  Idee  -  ciò  ohe    secondo    me  non    è  una semplice  finzione  drammatica  (v.  Sappi,  C  11  pilagor.  nel  Timeo e  nel  Fileho)-:Qg\i  deve  dunque,  tra  le  dottrine  conosciute  degli Eleati,  cercarne  qualcuna  che  si  presti  a  questa  interpretazione arbitraria    della    loro    filosofia.  Il  loro  Uno  e  il    loro    Ente,  sia perchè  designati  con  dei  nomi  che  sembrano  sostantificare  degli 295  — una   costruzione    arbitraria.  Le    due    ipotesi    esaminate nella  2*  parte  del  dialogo  non  sono  né  più  né  meno  che queste:  «piest'entità  che  corrisponde  al  termine  nuo  esi- ste; quest'entità  non  esiste.  Parmenide  non   dice  :  quali conseguenze  si  avranno  se  ammettiamo  che  quest'uno  è tutto,  o  che  esso  solo  esiste,  e  non  i  molti  *?  (1)  Egli  non determina  nemmeno  il  concetto  dell'uno  d'una  maniera particolare  per  poi  esaminare  le  conseguenze    che   deri- vano da  (juesta  determinazione:  V  uno  non  é  preso  che nel  significato  ordinario  di  questo  termine,  a  cui  non  bi- sogna che  aggiungere,  conforuìemente  ai  ]»rincipii  del  si- stema platonico,  le  condizioni  generali  (  eli'  obbiettiva- zione  dei  concetti.  Non  vi  ha  oltre  di  ciò,  nelle    due  i- potesi  esaminate,  alcun  presupposto,  né  espresso  né  sot- tinteso. Le  conseguenze    che    se    ne    svolgono,  nascono semplicemente  dalle  supposizioni  che  l'unità  abbia  o  non abbia  una  realtà  obbiettiva  (nel  senso  che  queste  parole hanno  uel  sistema  deJle  Idee):  esse  ne  nascono    per  via di  ragionamenti  certamente  capziosi,  ma  suftìcienteinente intelligibili   per  se  stessi,  e  senza  sottintendere  qualche altra  supposizione  (p.  e.  clu^  1'  uno  é  tutto,  o  che   esso attributi,  sia  perchè  immutabili  e  ultrafenomenali  (quantunque immanenti)  come  le  Idee  platoniche,  diventan«>.  nel T  interpreta- zione di  Phitoue,  l'Idea  dell'uno  e  dell'ente.  Su' questo  concetto si  troveranno  più  sviluppi  nel  Suppl.  C.  Pilay.  nel  l'ini,  e  nel FU.:  qui  noteremo  che  il  processo  è  al  fondo  lo  stesso  che  quello ohe  abbiamo  osservato  nella  confutazione  «Iella  dottrina  eleatica nel  luogo  citato  del  Sofista. (l)  Come  può  r  ipotesi  che  1'  uno  è  equivaler*  .  come  dice  il Zeller,  a  quella  che  tutto  è  uno,  o,  come  dice  il  Tocco,  che  l'uno soltanto  è.  quando  Parmenide  esamina  lungamente  ciò  che  av- viene all'  uno  nei  suoi  rapporti  con  le  altre  cose  e  ciò  che  av- viene alle  altre  cose  in  se  stesse  e  md  loro  rapporti  con   l'uno  l / -  296  — —  297  — solo  esiste  con  l'esclusione  dei  molti,  o  che  il  concetto deirunità  si  deve  determinare  d'una  maniera  piuttosto che  d' un'altra)  (l;.  Se  la  dialettica  del   Parmenide  mi- u* il)lu  verità  uua  parte  delle  nr^omoutazioDi  del  Pariueuide  sup- pougoDo  una  certa  detenuinazioue  del  cimoetto  dell'imo,  che  lum eutra  nel  aigniticato  comune  di  «[uesto  termine  :  è  ohe,  conforme- mente alla  8ua  abitudine  di  elevare  le  Idee  airassoluto  (v.  Suppl. B,  parte  2*,  n"  III),  Platone  intende  per  unt»  un'unità  assoluta, pura,  senz'  alcuna  mescidanza  di  pluralità  |v.  la  1&  parte  della 1»  parte  della  1^  ipoteai — 137  e.  — 142  a  —  e,  nella  2^*  parte  della stessa  ipotesi.  157  e  e  159  e):  mentre  gli  oggetti  a  cui  attribuiji- mo  r  unità  sono  generalmente  delle  unitii  che  contengono  una pluralità.  È  la  prova  migliore  clic  può  invocare  in  suo  appoggio l'opinione  secondo  cui  lo  scopo  della  parte  dialettica  del  Parme- nide è  di  conciliare  l*  unità  con  la  moltiplicità  (e  specialmente l'interpretazione  clic  abbiamo  supposto,  secondo  cui  questa  parte del  dialogo  avrebbe  per  risultato  indiretto  una  determinazione più  esatta  del  concetto  dell'  unità).  Ma  questa  determinazione dell'uno  coinr  esclusivo  di  qualsiasi  moltiplicità  non  è  supposta ohe  da  una  parte  solamente  delle  deduzioni  della  1»  ipotesi  :  la più  parte  sono  indipendenti  da  questa  sup]>osizione  ;  basterà  di citare  (|uellc  che  abbiamo  già  citato  nella  nota  8  del  ))aragiiilo ^da  1  (4  e  a  151  b).  Da  un  altro  canto  essa  è  abituale  a  Platone, e  si  trova,  ntui  solo  nella  Repubblica  (521  e — 525  a,  525  e — 52(»  a), ma  ji nelle  nel  Sofista  ^245  a),  che  è  posteriore  al  Parmenide  per- dio vi  alliule  jciò  che  basterebbe  ad  escludere  che  questo  dia- logo iib)>ia  per  iscopo  di  ctunbatterbi,  per  sostituirgliene  un'  al- tra). Del  resto  questa  determinazione  del  concetto  deiruuità  non è,  eome  abbiamo  notat<i  .  che  un  caso  di  un  processo  generale che  Platone  applica  a  tutta  una  classe  d'Idee — p.  e.  oltre  l'uno, all'ugujile.  al  retto,  al  giusto,  ecc.  — ;  processo  che  si  può  osser- vare in  tutti  gli  s(n'itti  platonici,  fra  cui  lo  stesso  Parmenide,  e che  è  supposto  nella  polemica  «l'Aristotile,  il  quale,  come  si  sa, esp<me  e  critica  il  sistenui  delle  Ideo  nella  sua  fonua  definiti v» i\.  Suppl.   H.   parte  2-*,   n.   III). rasse  a  un  risultato,  questo  non  potrebbe  essere  dunque che  negativo:  quando  la  tesi  e  l'antitesi  formano  un'al ternati  va  completa,  e  si  dimostrano  non  pertanto  egual- mente assurde,  1'  unica  conseguenza  che  se  ne  possa  ti- rare è  che  la  conoscenza  è  impossibile  e  che  la  ragione s'inviluppa  in  contraddizioni  insolubili.  Sarebbe  inutile, da  altra  parte,  diniostrare  che  questa  non  può  essere r  opinione  di  Platone.  Noi  dobbiamo  aggiungere,  contro ogni  interpretazione  che  attribuisce  alla  parte  dialettica del  Parmenide  l' intenzione  di  giungere  a  un  risultato qualsiasi,  positivo  o  negativo,  che  la  più  pajte  delle  ar- gomentazioni sono  dei  sotismi  così  evidenti,  che  è  im- possibile di  ammettere  che  Platone  se  ne  sia  servito  sul serio  per  dimostrare  una  tesi  qualunque.  Ed  è  notevole che,  come  abbiamo  osservato,  le  deduzioni  dell'i,  2*»  ipo- tesi (se  l'  uno  non  esiste)  non  sono  meno  solistiche  che <|uelle  della  1*.  L'unico  mezzo  che  ci  resterebbe  per  am- mettere che  la  dialettica  del  Parmenide  mira  a  un  ri- sultato positivo,  sarebbe  di  supporre  che  Platone  non  fa sul  serio  che  le  deduzioni  di  una  sola  ipotesi.  Delle  due ipotesi  egli  deve  ammetterne  una,  e  noi  sappiamo  qual  è; ma  dalla  2*^  parte  del  Parmenide  sarebbe  impossibile  di deciderlo. Ma  da  (juesto  fatto  incontestabile,  che  la  2*  parte del  Parmenide  è  un  semplice  esercizio  dialettico,  che non  può  condurre,  né  direttamente,  né  indirettamente,  a. stabilire  una  tesi  qualsiasi,  se  ne  deve  concludere,  come fanno  il  Grote  ed  altri  interpreti,  che  1'  autore  non  ha alcun  proposito  dogmatico  ?  Questa  interpretazione,  chesopprime  interamente  il  valore  tìlosotico  del  dialogo,  è pertanto  la  più  ovvia  nella  maniera  ordinaria  di  inten- dere la  dialettica  platonica.  11  proposito  dogmatico,  o  in altri  termini,  il  valore  tìlosotico  della  dialettica  del  Par- menide, non  si  comprende  che  mettendola  in  rapporto <5on  la  dialettica  propriamente  detta,  cioè  con  la  dieresi. ti —  298  - Esso  deve  cercarsi,  non  nei  risultati  a  cui  quel  metodo- conduce,  ma  nei  presupposti  che  esso  implica,  i  quali sono  quegli  stessi  che  presuppone  la  dieresi.  La  dialet- tica platonica  è  fondata  su  tre  principii  :  1.»  Che  l'esi- stenza deir  Idea  del  Bene  può  stabilirsi  a  priori,  ed  è per  conseguenza  una  verità  necessaria  (l).  2.'^  Che  data l'Idea  del  Bene,  sono  date  necessariamente  tutte  le  spe- cificazioni possibili  di  quest'Idea  (poasibili  vuol  dire  che non  racchiudono  una  impossibilità  logica)  (2)  Ciò,  posta che  l'esistenza  dell'  Idea  del  Bene  è  una  verità  a  priori e  per  conseguenza  necessaria,  implica  che  anche  resi- stenza di  ciascuna  delle  specificazioni  possibili  di  (pie- st'Idea  è  una  verità  ujjcualmente  a  priori  e  per  conse- o-uenza  necessaria  B.*»  Che  l'Idea  del  Bene  è  l'Idea  di tutte  le  Idee,  il  tipo  comune  di  tutti  gli  esseri;  in  altri termini  che  tutto  ciò  che  esiste,  ogni  Idea,  ogni  forma dell'esistenza,  è  una  fonna  determinata  o,  come  abbiamo detto,  una  specificazione  dell'  Idea  del  Bene  (3).  Anche questo  terzo  principio  è  una  verità  a  priori  e  necessaria: infj\tti  esso  è  uno  dei  punti  fondamentali  della  dialettica, cioè  della  scienza  quale  la  concepisce  Platone,  e,  secondo lui,  ogni  verità  scientifica  deve  essere  a  priori  e  neces- saria (4).  Segue  dai  tre  principii  riuniti  che,  sec<mdo- Platone,  tutto  ciò  che  esiste  è  necessario  che  esista,  e (1)  $  12  n.  2  e  6,  §  13  u.   1,  $  20  n.  ó. (2)  V.  $  13,  16.  li)  e  20. (3)  V.  $  16  e  17. (3)  V.  $  8-13  —  La  necessità  e  apriorits\  «Iella  proposizione che  tutto  ciò  che  è  è  bene,  risulta  del  resto  dalla  riduzione  del- l' Idea  del  Bene  a  quella  dell'  Essere.  Per  questa  riduzione  in- fatti le  divisioni  dell'  Essere  saranno  la  stessa  cosa  che  «{uelle del  Bene,  e  quindi  tutte  le  forme  possibili  (cioè  concepibili)  del- l'essere la  stessa  cosa  che  tutte  quelle,  del  bene. —  299  — sarebbe  logicamente  impossibile  che  non  esistesse;  e  vi- ceversa che  tutto  ciò  che  non  esìste  è  necessario  che  non esìsta  e  sjirebbe    logicamente    impossibile  che  esistesse. Tutto  ciò  che  esiste^  tutto  ciò  che  non  esiste  non  significa ogni  essere  particolare,  ma  ogni  f«>rma  generale  dell'  e- sistenza,  ogn'Idea,  che  esiste  o  che  non  esiste.  Nel  gene- ralo dunque,  secondo   Platone,  tutto    ciò  che  è  reale  è necessario,  e  tutto   ciò   che    non  è  reale  è  logicamente impossibile,  e  per  conseguenza  questi  tre  termini,  pc^si- bile,  reale  e  necessario,  sono,  c;)me  abbiamo  detto  altra volta,  perfettamente  coestensivi.    Ciò    è  vero  tanto  del sistema  di  Platone  quanto  di  ogni  altra  forma  di  reali- smo dialettico,  anzi,  in   generale,  di  ogni  filosofia  che eleva  il  metodo  a  priori  a  metodo  scientifico  universale. Questi  presupposti  della  dieresi  platonica,  che  ciò  ciie  è reale  è  necessario,  e  ciò  che  non  è  reale  è  logicamente impossibile,  sono  quegli  stessi  che  presuppone  il  metodo del  Parmenide.  Questo  m-todo  c;)nsiste  intatti  a  svilup- pare le  contraddizioni  che  derivanr)  dall'ipotesi  dell'esi- stenza o  da  quella  della  non  esistenza.  Ma  se  dall'  ipo- tesi dell'esistenza  di  una  cosa  derivano  delle  conseguenze contraddittorie,  che  altro  può  ciò  provare  se  non  che  è impossibile  che  quest  i  cosi  esista  ?  E  se  le  conseguenze contraddittorie    derivano    invece    dall'  ipotesi    della  sua non  esistenza,  che  altro  si  dimostra  con  ciò  se  non  che è  neces-iarit»  che  la  cosa   esista  ?    Il  metodo  del  Parme- nide implica  dunque  questi  presupposti:  che  l'esistenza d'un'Idea  che  esiste  può  dimostrarsi  facendo  vedere  che dall'ipotesi  della  sua  non  esistenza  risultano  delle  con- seiruenze  contraddittorie:  e  che,  viceversa,  la  non  esi- stenza  d'un'Idea  che  non  esiste  può  dimostrarsi  facendo vedei-e  che  le  conseguenze  contraddittorie  risultano  dal- l'ipotesi della  sua  esistenza.  Per  noi  l'esistenza  o  la  non esistenza  delle  specie  o  forme  generali  degli  oggetti,  al- trettanto che  degli  stessi  oggetti   particolari,  sono  cose —  300  — di  fatto,  che  non  possono  stabilirsi  che  con  prove  tìi  fatto: per  Platone  sono  delle  verità  necessarie  ed  a  priori,  che possono  dimostrarsi  per  le  conseguenze  contraddittorie <5he  derivano  dalle  ipotesi  contrarie.  Bisogna  distinguere il  metodo  ettfettivamente  seguito  nel  Parmenide  e  quello ohe  deve  seguirsi  e  di  cui  il  primo  non  dà  che  un  esem- pio per  farlo  comprendere.  Il  metodo  ettettivameute  se- guìto,  cioè  V  esercizio  dialettico  sulP  uno,  è,  come  lo chiama  Platone,  un  giuoco  che  somiglia  a  una  cosa  seria {jifìay^aismórig  naióià^  137  b).  Nel  giuoco  le  conseguenze contraddittorie  si  deducono  taut4>  dall'  una  quanto  dal- l'altra  delle  due  ipotesi  contrarie,  e  la  deduzione  non può  essere,  anche  per  Plaloue,  che  un  tessuto  di  sotìsmi. La  cosa  seria  è  il  metodo  indiretto  per  dimostrare  o  ri- gettare le  Idee  :  esso  deve  essere  una  vera  dimostrazio- ne, e  le  conseguenze  contraddittorie  non  può  dedurle che  da  una  sola  ipotesi,  da  quella  della  non  esistenza se  l'Idea  deve  ammettersi,  da  quella  dell'  esistenza  se deve  rigettarsi.  Se  i  due  processi  (il  <jiaoco  e  la  cosa seria)  differiscono,  è  perchè  Platone  non  vuol  dare  un'ap- plicazione reale  del  suo  metodo,  ma  un  semplice  esem- pio che  ne  faccia  comprendere  il  meccanismo.  La  1» parte  dell'esercizio  dialettico  sull'uno  è  un  esemiùo— forse sarebbe  meglio  dire:  un'immagine-dei  metodo  indiretto per  dimostrare  l'esistenza  delle  Idee  che  esistono;  la  1* parte  un  esempio  dello  stesso  metodo  per  dimostrare  la non  esistenza  di  quelle  che  non  esistono.  I  due  esempi sarebbero  più  chiari,  se  volgessero  su  due  Idee  distinte: volgono  su  una  sola  e  stessei  Idea  i>er  escludere  la  pos- sibilità  di  un  risultoAto,  e  mostmre  che  si  tratta  di  un giuoco,  e  non  della  cosa  seria  che  esso  rappresenta.  Se si  domanda  perchè  Platone,  invece  di  fare  un'applica- zione reale  del  suo  metodo,  si  limita  a  darne  un  esem- pio imperfetto,  che  non  ne  manifesta  che  il  meccanismo esteriore,  la  risposta  non  è  difficile  :  è  che  quest'  appli- —  301  - cazione  non  si  sente  in  grado  di  farla.  Il  metodo  pro- posto nel  Parmenide  è  un'utopia  assolutamente  irrealiz- zabile,  perchè  1'  esistenza  e  la  non  esistenza  si  stabili- scono,  come  abbiamo  detto,  con  prove  di  fatto,  e  non per  lo  sviluppo  delle  contraddizioni  inerenti  alle  ipotesi contrarie,  o  per  qualsiasi  altro  metodo  a  priori.  Platone ben  s'  accorge  che  le  applicazioni  eh'  egli  può  fare  del metodo  che  immagina,  non  corrispondono  all'ideale  che si  è  formato,  e  che  cercando  delle  dimostrazioni,  egli non  trova  che  dei  ragion<amenti  sofistici.  Per  conseguenza egli  si  contenta  di  un  esempio,  che  invece  di  una  vera applicazione,  sia,  come  abbiamo  detto,  un'immagine  del suo  metodo,  in  modo  che  1'  assenza  dell'  intenzione  di concludere  scusi  il  carattere  sofistico  della  deduzione.  È qualche  cosa  di  simile  a  ciò  che  fa  nel  Sofista  e  nel  Po- litico: anche  qui  non  abbiamo  un'applicazione  reale  del metodo,  ma  un'immagine  imperfetta  che  non  ne  esprime che  la  forma,  perchè  la  dicotomia  non  viene  applicata alle  vere  Idee,  e  non  ha  quindi  vero  valore  scientifico  (1). Il  metodo  dialettico,  tanto  diretto  quanto  indiretto,  non è  per  Platone  che  un  ideale,  certamente  attuabile  in  se stesso,  ma  ch'egli  ha  la  coscienza  di  non  poter  attuare  (2), Queste  considerazioni  spiegano  pure  perchè  il  metodo per  dimostrare  l'esistenza  e  quello  per  dimostrare  la  non (1)  La  dieresi,  come  sappiamo,  noD  si  applica  clie  alle  Idee (v.  }  17),  ed  è  UQ 'esigenza  del  sistema  delle  Idee,  come  Platone ammette  espressamente  nell'ultimo  periodo  della  sua  speculazione ohe  non  vi  siano  Idee  che  di  «  ciò  che  vi  ha  di  costante  e  di perpetuo  nella  natura  »  (v.  $  17).  Per  conseguenza,  come  non vi  hanno  Idee  degli  oggetti  artificiali,  non  vene  dovrebbero  es- sere, per  la  stessa  ragione,  delle  arti,  che  intanto  sono  l'oggetto delle  dieresi  nel  Sofista  e  nel  Politico. (2)  Cfr.  Filebo  16  b. '>esistenza  si  applicano,  nel  Pannenide,  a  una  sola  e  stessa Idea.  Ciò  non  è  solamente,  come  abbiamo  detto,  per  mo- strare Fassenza  d'un'intenzione  seria.  Se  Platone  avesse «upposto  la  non  esistenza  di  uu^Idea  reale  per  dare  nn «sempio  del  metodo  per  dimostrare  l'esistenza,  e  l'esi- stenza iV  un'  Idea  cliinierica  [)er  darne  uno  del  metodo per  <limostrare  la  non  esistenza,  il  carattere  necessaria- mente sofistico  della  deduzione  avrebbe  dato  un  indizio della  inattuabilità  di  questi  metodi.  Perciò  egli  preferi- sce un  esempio  in  cui  sia  esclusa  assolutamente  la  pos Sibilità  di  giungere  a  un  risultato,  qual  è  quello  di  sui>- porre  prima  l'esistenza  e  poi  la  ntui  esistenza  della  stessa Idea;  così  questo  carattere  solìstico  della  <ledu/ione  seni- breni  una  conseguenza  inevitabile,  non  dell'inattuabilità dei  mètodi  in  se  stossi,  ma  delle  condizioni  anormali  in <5ui  si  praticano. In  conclusione  la  dottrina  racchiusa,  quantunque  non espressa  esplicitamente,  nel  Parmenide,  è  questa  :  che  la non  esistenza  di  ciò  che  è  reale  prendendo  il  reale nelle  sue  forme  generali  —  e  l'esistenza  di  ciò  che  non è  reale  sarebbe  un'  iiìi possibilità  logica;  e  che,  per  con- seguenza, r  esistenza  o  la  non  esistenza  d'  un'  Idea  può essere  dimostrata,  mostrando  che  dall'  i|K)tesi  contraria derivano  conseguenze  contraddittorie  fra  di  loro.  La  se- conda proposizione  non  è  in  verità  una  conseguenza  ne- cessaria della  prima,  ma  da  questa  a  quella  il  passaggio non  è  diftìcile,  perchè,  un'impossibilità  logica  essendo una  nozione  che  riunisce  degli  elementi  incompatibili, dalla  proposizione  che  un'ipotesi  è  un'  Impossibilità  lo- gica non  vi  ha  gran  distanza  a  quella  che  quest'ipotesi trascina  con  sé  delle  conseguenze  contraddittorie.  Que- sta dottrina  del  Parmeni<le  si  ritrova  in  parte  nel  Fe- done, in  cui  si  dice  che  bisogna  controllare  l'ipotesi  del- l'esistenza d'un'Idea,  esaminando  se  le  conseguenze  che ne   derivano    si    accordano   o   non    si  accordano  fra  di loro(l).  Ciò  corrisponde  al  principio  del  Parmenide  che l'esistenza  d'  un'  Idea  erroneamente  ammessa  trascine- rebbe conseguenze  contraddittorie.  Ma  sin  qui  il  metodo non  avrebbe  che  una  portata  negativa.  La  trasforma- zione essenziale  del  metodo  di  Zenone,  che  da  negativo lo  muta  in  positivo,  è  l'  altro  principio  che  le  conse- guenze contraddittorie  derivano  pure  dalla  non  esistenza d'un'Idea  reale.  Per  questa  trasformazione  la  dialettica distruttiva  degli  Eleati  diviene  costruttiva,  cioè  un  me- todo indiretto  per  diuìostrare  a  priori  le  Idee,  che,  come spiegheremo  in  seguito,  è  un  complemento  indispensa- bile del  metodo  diretto,  cioè  della  dieresi.  L'altra  mo- dificazione del  metodo  di  Zenone,  cioè  che  esso  deve applicarsi  alle  Idee  e  non  albi  cose  sensibili,  risulta  dal concetto  della  dialettica  platonica  in  generale.  Tanto  il metodo  diretto  quanto  il  metodo  indiretto  hanno  per  og- getto ciò  che  è  necessario  e  conoscibile  a  priori;  ora  tale ijon  può  essere  ciò  che  è  peril)ile  e  particolare,  ma  ciò che  è  immutabile  ed  universale,  e  questo  è  l'Idea  platonica. Nella  sua  parte  negativa  (cioè  in  quanto  sviluppa le  contraddizioni  implicate  nell'  ipotesi  dell'  esistenza d'Idee  che  non  esistono)  il  metodo  indiretto  del  Parme- nide è  una  riprova  dei  risultati  del  metodo  diretto,  cioè della  dieresi,  e  di  uno  dei  principii  fondamentali  che questo  presuppone,  cioè  che  tutto  ciò  che  esiste  non  è e  non  può  essere  che  una  forma  del  Bene.  La  sua  ap- plicazione più  ovvia,  in  questa  parte  negativa,  sarebbe  di dimostrare  l'  impossibilità  di  certe  specie  di  un  genere, che  sembrano  possibili  quantunque  non  siano  reali.  La dieresi  sarebbe  già  una  dimostrazione  di  ciuest' impossi- bilità, perchè  esaurendo  essa,  non  la  sola  estensione  reale^ (1)  V.   Fedone  101  d.  Cfr.  §  U. ...,  -r-- "^^^ ma  tutta  la  estensione  logica  del  genere,  escludere  que- ste specie  dalle  divisioni  è  mostrare  che  esse,  non  sola non  esistono,  ma  è  impossibile  (d'  un'impossibilità  lo- gica) che  esistano.  Ma  con  tutto  ciò  si  presenterebbe sempre  naturalmente  la  quistione:  se  tutte  le  specie  pos- sibili dell'animale  devono  esisterò,  perchè  non  esiste  il centauro,  la  chimera  o  qualsiasi  altra  specie  che  noi  pos- siamo immaginare,  quantunque  non  la  troviamo  nella realtà f  Platone  risponderebbe  che  il  centauro,  la  chi- mera e  qualsiasi  altra  >^pecie  immaginabile,  ma  non reale,  è  un  concetto  incoerente  e  implicante  delle  con- traddizioni, che  il  metodo  del  Parmenide  svilupperebbe in  una    serie   di   coppie   di    attributi   contraddittori  (1)^ (1)  La  quistioue  è  tanto  più  naturalo,  che  la  divisione  dieoto- iniea  (per  contrari  senza  medio)  non  potrebbe  jrinnijere,  come  ab- biamo osservato  nel  paragrafo  precedente,  che  a  formare  delle elassi,  di  cui  alcune  sarebbero  detìnite  per  semplici  negazioni,  e tutte  per  dei  caratteri,  che  potrebbero  bastare  a  distinguere  cia- Bcuua  chisse  reale  da  tutte  le  altre,  ma  che  non  detìn irebbero questa  classe  in  modo  che  la  definizione  convenisse  alle  sole  forme reali  e  non  a  forme  ipotetiche  più  o  meno  ditferenti  dalle  reali. A  ciò  Platone  risponderebbe  senza  dubbio  che  per  determinare d'una  maniera  completa  la  natura  di  ciascuna  classe,  e  mostrare così  ohe  non  vi  hanno  altre  forme  possibili  che  le  reali .  ai  ca- ratteri ottenuti  per  la  dicotomia  si  devono  aggiungere  altri  ca- ratteri ohe  ne  sono  inseparabili  e  che  hanno  con  essi  un  legame necessario  e  conoscibile  a  priori  (Cfr.  J  18).  Sarà  forse  utile  di ravvicinare  le  soluzioni  ohe  Platone  ha  dato  o  ha  potuto  dare di  queste  difficoltà  della  sua  dieresi,  con  certe  idee  di  un  zoo- logo moderno,  cioè  di  Cuvier  (il  quale  ha  in  comune  con  Pla- tone, oltre  al  punto  di  vista  teleologico,  una  tendenza  evidente air  apriorismo),  tanto  pit  che,  come  abbiamo  osservato,  la  con- cezione delle  Idee  platoniche  è  modellata  sovratutto  sulla  natura vivente  (v.  §  19  nota  ultima).  Noi  abbiamo  parlato  della  dottrina —  305  — Nella  sua  parte  positiva  (cioè  in  quanto  mostra  le  con- seguenze contraddittorie  derivanti  dall'ipotesi  della  non di  Cuvier  della  connessione  dei  caratteri  negli  esseri  organizzati (Appendice  al  cap.  6«)  :  abbiamo  visto  ohe  essa  è  fondata  sulla necessità  di  una  cospirazione  armonica  tra  le  funzioni  e  gli  or- gani dell'animale  (cospirazione  armonica  che  sarebbe  un  caso  di ciò  che  Platone  chiama  1'  Idea  del  Bene)  ;  e  che  le  leggi  che  e- sprimono  queste  connessioni  di  caratteri  sono,  secondo  l'autore, altrettanto  necessarie  e  a  priori  che  le  verità  matematiche.  Da tiuesto  principio  della  connessione  necessaria  dei  caratteri  Cu- vier ne  deduce  ohe  si  può  dimostrare  a  priori  la  necessità  di certe  interruzioni  nella  catena  degli  esseri,  per  l'impossibilità  a priori  che  certi  caratteri  coesistano,  cioè  che  certi  organi  si  tro- vino simultaneamente  nello  stesso  organismo.  Così  nella  lezione ya  dell* Anatomia  comparata,  dopo  aver  indicato  nell'  art.  3»  le principali  differenze  di  cui  sono  suscettibili  gli  organi  che  ser- vono  a  ciascuna  funzione  animale,  nell'  art.  4o  dice  :  «  Si  vede che  supponendo  ciascuna  delle  differenze  d'un'oigano  unita  suc- cessivamente con  quelle  di  tutti  gli  altri,  si  produrrebbe  un  nu- mero considerevolissimo  di  combinazioni,  che  corrisponderebbero ad  altrettante  classi  di  animali.  Ma  queste  combinazioni,  che sembrano  possibili  quando  si  considerano  d'una  maniera  astratta, noi'  esistono  tutte  nella  natura,  perchè,  nello  stato  di  vita,  gli organi  non  sono  semplicemente  ravvicinati,  ma  agiscono  gli  uni sugli  altri,  e  concorrono  tutti  insieme  ad  uno  scopo  comune.  Per- ciò le  raodifioazioui  dell'uno  esercitano  un'influenza  su  quelle  di tutti  gli  altri.  Quelle  di  queste  modificazioni  che  non  possono esistere  insieme,  si  escludono  reciprocamente,  mentre  altre  si chiamano,  per  dir  così,  e  ciò  non  solo  negli  organi  che  sono  fra loro  in  un  rapporto  immediato,  ma  ancora  in  quelli  che  paio- no a  prima  vista  i  più  lontani  e  i  più  indipendenti.  »  Gene- ralizziamo quest'idea  di  Cuvier;  ammettiamo  ohe,  se  le  com- binazioni d'organi  e  lo  classi  d'animali  corrispondenti,  che  sem- brano posHihili   quando  si  considerano    d*  una  maniera  astratta, 20 —  306  — esistenza  d'Idee  che  esìstono),  Tapplicazione  più  impor- tante del  metodo  indiretto  del  Parmenide  è  di  dare  una non  esistono  tutte  nella  natura,  è  sempre  per  la  ragione  di  cui parla  Cuvier  (come  sembra  che  egli  dica,  quantunque  è  diffìcile che  tale  sia  il  suo  pensiero)  ;  noi  avremo  questo  concetto  plato- nico :  che  tutte  le  specie  immaginabili  dell'animale  che  non  esi- stono^ non  esistono  perchè  è  logicamente  impossibile  che  esista- nOy  e  questa  impossibilità  logica  consiste  in  ciò,  che  l'Idea  del- l' Animale  (come  del  resto  tutte  le  altre)  contiene  1'  Idea  del fiene,  mentre  queste  specie  immaginabili  ohe  non  esistono,  non contengono  l'Idea  del  Bene  (cioè  non  vi  ha  in  esse  questo  con- corso di  tutti  gli  organi  a  uno  scopo  comune,  di  cui  parla  Cu- vier), e  quindi  sono  delle  idee  contraddittorie  in  cui  noi  riunia- mo confusamente  i  caratteri  dell'animale  con  altri  caratteri  che sono  con  essi  incompatibili.  Generalizziamo  ancora  l'idea  di  Cu- vier; estendiamola  dagli  esseri  viventi  a  tutti  gli  esseri  della  na- tura ;  avremo  il  principio  fondamentale  della  dialettica  di  Pla- tone,  che  tutto  ciò  che  non  esiste  non  può  esistere  perchè  non è  bene,  perchè  tutto  ciò  che  esiste  deve  essere  necessariamente bene,  e  tutto  ciò  che  è  bene  deve  necessariamente  esistere. La  quistione  perchè  tutte  le  specie  che  noi  possiamo  imma- ginare in  un  genere  dato  non  esistano,  può  presentarsi,  come abbiamo  detto,  in  questa  forma  :  perchè  le  classi  ottenute  per  la divisione  dicotomica  si  efifettuino  solamente  nelle  forme  real- mente esistenti,  e  non  in  altre  forme  dififerenti  possibili,  ohe  po- trebbero essere  definite  per  gli  stessi  caratteri  su  cui  si  è  fon- data la  divisione.  Noi  abbiamo  detto  ohe  la  soluzione,  ricavata dalla  teoria  della  definizione,  è  che  ai  caratteri  su  cui  si  fonda la  divisione  e  per  cui  le  classi  si  definiscono,  sono  necessaria- mente cougiunti,  e  se  ne  possono  dedurre,  gli  altri  caratteri propri  delle  forme  realmente  esistenti  e  che  le  differenziano  da tutte  le  altre  forme  possibili  (o  piuttosto,  come  dice  Cuvier,  che sembrano  possibili  quando  si  coièfiiderano  d'una  maniera  astratta). Questo  concetto  di  un  legame  logicamente  necessario  fra  tutti  i caratteri  di  una  classe,  che  forma  la  sostanza  della  dottrina  pla- —  307  — base  al  metodo  diretto,  cioè  alla  dieresi.  In  questa  forma del  realismo   dialettico,  i  concetti   si   deducono  per  la tonico -aristotelica  della   definizione,  ha  un'analogia  evidente  col principio  di  Cuvier  che   fra   tutte  le  parti  di  un  essere  organiz- zato vi  ha  una  dipendenza  mutua,  conoscibile  a  priori  e  logica- mente necessaria,  in  modo  che  da  ciascuna  di  queste  parti  pos- sono   dedursi    tutte    le    altre  (V.  Appendice    al  cap.  6o).  Tale  è, secondo  Cuvier,  questa  dipendenza  reciproca  fra  le  parti  di  un organismo,  ohe  ciascuna  specie  di  esseri  potrebbe  essere  ricono- sciuta por  ciascun  Irammento   di  ciascuna  delle  sue  parti.  (Di- scorso  stille    rivoluzioni   della   superficie  del  globo j  {  132),  e  che dalla  vista  di  un  solo  osso    si    potrebbe    concludere  la  forma  di tutto    lo    scheletro    (Anat.    compar.j  lez.  1'^  art.  4^>),  anzi  rifare tutto  l'animale  (Discorso  ecc.  $  139).  Questo  principio  non  si  ap- plica solamente  alla  specie,  ma  a  tutte  le  categorie  della  classi- ficazione,  sino    al    concetto    di    animale  e  a  quello  di  essere  vi- vente in  generale.  «La  minima  faccetto  d'osso,  la  minima  apo- fisi,  hanno  un  carattere  determinato  relativo  alla  classe,  all'or- dine,  al  genere  e    alla   specie  a  cui  esse  appartengono,  sino  al punto  ohe  tutte  le  volte  che  si  ha  soltanto  un'  estremità  d'  osso ben  conservato,  si  può  con  dell'  applicazione,  e  aiutandosi  con un  po'  di  destrezza  dell'analogia  e  della  comparazione  effettiva, determinare  tutte  queste  cose  cosi  sicuramente  che  se  si  posse- desse r  animale    intero  »>  (Discorso  ecc.  §  147).  (U  analogia  e  la comparazione  effettiva  non  sono  che  degli  aiuti,  l'essenza  del  me- todo è  la  deduzione  fondata  sulla  correlazione  necessaria  tra  le parti  di  un  organismo).  Conformemente  a  questo  principio,  egli mostra  la  dipendenza    necessaria   fra   i    caratteri   delle    divert^e classi  dei  vertebrati  (Regìio  animale,  35),  fra  quelli  degli  esseri organizzati  in  generale  {ibid,  8),  fra  quelli    che   sono  propri  agli animali    distinguendoli    dalle   piante    (ibid,  11  e  Anat,  compar,, lez.  1»  art.  lo),  ecc.  Ogni  coesistenza  di  caratteri  di  qualsia'»  grado di  generalità,  che    il    naturalista   può    costatare  negli  esseri  vi- venti, è  dunque  secondo  Cuvier  una  connessione  necessaria,  risuK tante  dalla  necessità  a  priori  d'una  finalità  immanente  nell'organir —  308  — 309 dieresi,  ma  questa  suppone  un  concetto  primitivo,  che non  può  dedursi  per  la  dieresi  stessa,  della  stessa  ma* Bino  (cioè,  com'egli  si  esprime,  ohe  tutte  le  parti  di  ud  organi- smo concorrano  a  uno  scopo  comune).  Anche  per  Platone  il  le- game necessario  tra  tutti  gli  attributi  di  un  genere,  che  per- mette di  dedurre  tutto  il  resto  da  quelli  compresi  nella  defini- zione, doveva  fondarsi,  almeno  precipuamente,  sul  principio  te- leologico,  perchè  secondo  il  Fedone  (97  b  —  99  o)  la  causa X>erchè  una  cosa  ha  un  attributo  qualsiasi,  è  che  V  ottimo  per essa  è  di  avere  quell'attributo.  Ogni  connessione  di  caratteri  di Cuvier  ha  naturalmente  per  conseguenza  l'esclusione  a  priori  di nn'infìnità  di  coesistenze  di  caratteri  :  se  tal  fonna  di  A  coesiste neeesftariamente  con  tal  forma  di  B,  è  logicamente  impossibile che  coesista  con  tutte  le  altre  forme  di  B  immaginabili.  Così pure  per  Platone  ogni  legame  tra  ciascuno  degli  attributi  su  cui è  fondata  la  divisione,  e  ogni  altro  attributo  di  un  genere  che si  può  dedurre  da  quello, ha  per  conseguenza  V  impossibilitìi  lo- gica e  la  contraddizione  (perchè  è  così  eh'  egli  determina  l'  im- possibilitìi  logica)  d'  un'  intiniti\  di  altre  coesistenze  di  attributi, che  potrebbe  dimostrarsi  col  metodo  del  Parmenide,  facendo  l'i- potesi deir  esistenza  d'  Idee  in  cui  avessero  luogo  queste  coesi- stenze. Dando  la  massima  generalizzazione  al  principio  della  connes- sione dei  caratteri  di  Cuvier,  esso  includerebbe  il  principio  della dieresi  platonica,  che  le  specie  reali  in  cui  un  genere  si  divide sono  tutte  le  specie  possibili  di  questo  genere.  Infatti  ogni  divi- sione esprime  una  coesistenza  di  caratteri,  solamente  1'  esprime con  una  proposizione  disgiuntiva  :  A  si  divide  in  B  e  C,  vuol dire  che  i  caratteri  di  A  coesistimo  o  con  quelli  di  B  o  con  quelli di  C,  ma  ntm  mai  con  altri  caratteri  che  non  si  trovano  né  in  B né  in  C.  Così,  se  anche  questa  coesistenza  di  caratteri  è  una  «con- nessione necessaria,  è  esclusa  a  priori  la  ]>ossibiliUi,  oltre  B  e  (>, di  altre  specie  di  A.  Ma  con  ciò  non  avremmo  che  uno  dei  prin- cipii  fondamentali  della  dialettica  platonica,  cioè  che  ciò  che  non è  reale  è  necessario  ohe  non  esista  :  per  avere  questa  dialettica  in nieia  che  la  catena  delle  proposizioni  geometriche  sup- pone dei  principii  che  non  possono  formare  1'  oggetto d^alcun  teorema.  Ora  <|uesto  concetto  primitivo  —  o  a  dir meglio  r  oggetto  reale  che  corrisponde  a  questo  con- cetto —  non  può  ammettersi  semplicemente  come  dato  di fatto  :  in  <]uesto  caso  esso  non  sarebbe  che  wwHpotesi,  e 1'  incatenamento  di  deduzioni,  in  cui  consiste  la  die- resi,  non  sarebbe  una  dimostrazione.  Allora  la  cono- scenza non  sarebbe  a  priori,  e  il  principio  non  avrebbe una  vera  priorità  logica  sulle  conseguenze,  ciò  che  im- porta che  il  rapporto  tra  il  principio  e  la  conseguenza non  potrebbe  identificarsi  al  rapporto  tra  la  causa  e l'effetto,  perchè  l'anteriorità  ontologica  della  causa  verso V  effetto  (indispensabile  perchè  1'  una  sia  una  causa  e l'altro  un  effetto)  non  è,  in  questo  sistema,  che  l'ante- riorità logica  del  principio  verso  la  conseguenza.  Il  con- cetto primitivo,  vale  a  dire  l'Idea  del  Bene,  deve  dun que  stabilirsi  a  priori:  essa  deve  essere  quindi  o  un  as- sioma o  una  verità  anch'essa  dimostrata.  Ma  Fesistenza dell'  Idea  del  Bene  non  può  darsi  per  una  verità  assio- matica, cioè  per  una  di  quelle  verità  che  basta  che siano  enunciat;e  ed  intese  perchè  siano  ammesse  :  essa deve  essere  dunque  una  verità  dimostrata.  Per  una  tale dimostrazione  noi  moderni  penseremmo  naturalmente  a qualche  cosa  come  1'  argomento  ontologico,  vale  a  dire intero  (a  parte  la  realizzazione  dei  concetti),  bisognerebbe  aggiun- gere l'altro  principio  egualmente  fondamentale,  cioè  che  ciò  che è  reale  è  necessario  che  esista.  Non  avremmo,  in  altri  termini, e. IO  il  presupposto  della  prima  metà  del  metodo  del  Parmenide, quella  che  fa  l'ipotesi  dell'esistenza,  cioè  della  sua  applicazione negaliva^  che  bisognerebbe  completare  per  quello  dell'altra  metà di  questo  metodo,  quella  che  fa  l'ipotesi  della  non  esistenza,  cioè della  sua  applicazione  positiva. —  310  - un  argomento  clie  provi  l'oggetto  mostrando  che  il  suo concetto  stesso  ne  include  la  realtà,  o  come  si  dice  or- dinariamente, che  la  sua  essenza  implica  resistenza.  È questa  infatti   la   sola   argomentazione  per  cui  si  possa dimostrare  direttaìneute  un  primo  principio  (vale  a  direuna  cosa  che  non    potrebbe   dedursi  da  un'  altra  cosa). Ma  di  una  tale  argomentazione  non  troviamo  alcun  in- dizio in  Platone.  Non  vi  hanno  nella  dialettica  platonica che  due  metodi  per  dimostrare  le  Idee  :  il  metodo  diretto, che  è  la  dieresi,  e  il  metodo   indiretto  del  Parmenide. L'Idea  del  Bene,  non  potendo  dimostrarsi  per  la  dieresi, deve   dunque   dimostrarsi    col   metodo   del    Parmenide. Ammettendo  ciò  noi  non  tacciamo  un'ipotesi,  perchè  il metodo  del  Parmenide- si  applica  alle  Idee  in  generale; esso  deve  quindi  applicarsi  anche  all'  Idea  del  Bene.  È per  quest'applicazione  che  questo  metodo  è  un  comple- mento indispensabile    della  dieresi,  e  che  Platone  può dire  che  esso  è  necessario  alla  scoverta  della  verità  (!)• Noi  possiamo  anche   dire  che  la  parte  positiva  del  me- todo del  Parmenide,   cioè   quella   che  sviluppa  le  con- traddizioni risultanti  dall'ipotesi  della  non  esistenza,  non ha,  al  fondo,  altro  oggetto  che  di  dimostrare  l'Idea  del Bene.  Noi   dobbiamo   ammettere  che,  secondo  Platoue, se  l'ipotesi  della  non  esistenza  delle  altre  Idee  esistenti implica  delle  conseguenze  contraddittorie,  ciò  è  perchè  es- se sono  delle  forme  del  Bene,  e  negando  una  di  esse  si  nega una  forma  del  Bene;  sicché  in  tutte  le  dimostrazioni  indii*et- te  che  partono  dall'ipotesi  della  non  esistenza,  in  ultima  a- nalisi  l'unico  punto  dimostrato  è  che  il  Bene,  in  qualsiasi forma,  o,  come  dice  Platone,  tutto  il  Bene,  deve  esistere, ciò  che  è  il  vero  principio  primo  della  dieresi.  Di  que- wì (1)  V.  Paru.  135  d,  136  o,  136  e,  1.  o.). —  311  ~ sta  maniera  l' impossibilità  logica  della  non  esistenza delle  altre  Idee  è  una  conseguenza  dell'impossibilità  lo- gica della  non  esistenza  dell'  Idea  del  Bene,  ciò  che  è necessario  perchè  1'  esistenza  di  quest'  Idea  sia  una  ve- rità logicamente  anteriore  a  quelle  dell'esistenza  di  tutte le  altre.  Così  Fldea  del  Bene,  quantunque  sia  necessario dimostrarla,  è  in  un  senso  una  verità  immediata,  in quanto  tutte  le  altre  verità  della  dialettica  (cioè  tutte  le altre  Idee)  si  deducono  da  essa,  ma  essa  non  si  deduce da  altra  cosa,  e  si  prova  per  l'inconcepibilità  della  sua negazione.  Il  metodo  del  Parmenide,  mettendo  in  luce quest'inconcepibilità,  mostra  l'inseparabilità  tra  il  con- cetto del  bene  e  quello  della  sua  esistenza:  è  una  spe- cie di  argomento  ontologico  indiretto,  e  noi  siamo  sem- pre alla  definizione  spinoziana  del  primo  principio  :  ciò la  cui  essenza  implica  l'esistenza  (o,  come  spiega  Io  stesso Spinoza,  ciò  la  cui  natura  non  può  concepirsi  se  non esistente)  (1). (1)  È  for»e  alla  dinioHirazioDe  dell'Idea  del  Bene  col  metodo del  Parmenide  che  allude  il  luogo  seguente  della  Repubblica: <•  Chi  non  è  capace  di  definire,  separandola  da  tutte  le  altre,  l'Idea del  Bene,  e,  come  in  una  mischia,  penetrando  per  tutto  confu- tando (è)$7re(>  èy  ^a/yi  àia  nàyTcoy  èkéyxoyy  óie^mp)^  «  avendo cura  di  con/alare  non  secondo  V  opinione  ma  secondo  la  realtà^ procedere  in  ttitto  ciò  con  ragioni  inconcusse,  questi  dirai  che  non conosce  né  il  bene  stesso  né  alcun  altro  bene  »,  ecc.  (lib.  VII, 534  b-c).  Le  parole  scritte  in  corsivo  sembrano  indicare  un  pro- cedimento per  istabilire  l'Idea  del  Bene,  che  consiste  in  un  me- todo confutativo  ohe  si  applica  all'universalità  delle  cose.  E  in- fatti è,  in  un  senso,  all'  universalità  delle  cose  che  deve  appli- carsi il  metodo  del  Parmenide  per  istabilire  il  primo  principio. Poiché  le  verità  fondamentali  sul  primo  principio  non  sono  so- lamente che  il  Bene  esiste  ed  esiste  necessariamente,  ma  anche t { ^ —  312  — Un'altra  osservazione  prima  di  finire  sul  Parmenide. La  dieresi  suppone  necessariamente  un  altro  metodo  di- verso per  dimostrare  il  suo  punto  di  partenza.  Ma  per- chè Platone  preferisce  il  metodo  indiretto,  cioè  la  dimo- strazione ex  ahsurdis  f  E  perchè  il  metodo  indiretto  lo concepisce  come  lo  sviluppo  di  una  serie  di  coppie  di attributi  contraddittori  inerenti  simultaneamente  allo stesso  soggetto  ?  Né  l'uuo  né  l'altro  di  questi  due  punti della  dottrina  platonica  ha,  bisogna  convenirne,  un  le- game necessario  coi  due  punti  centrali  del  sistema,  cioè l'ipotesi  delle  Idee  e  la  dieresi.  Per  ispiegarli  dobbiamo anche  tener  conto  di  un  altro  fatto,  cioè  dello  sforzo evidente  di  Platone  di  rìattaccarsi  alle  tradizioni  filoso- fiche dell'epoca,  nel  Parmenide  alla  scuola  eleatica  (V. Suppl.  C.  n.  IV).  Questo  sforzo  apparisce  della  maniera  più chiara  quando  egli  attribuisce  a  Parmenide  e  agli  Eleati in  generale  la  dottrina  delle  Idee.  Questa  scinola  essendo celebre  per  la  dialettica  —  Zenone  [tassava  presso  gli  an- tichi per  esserne  stato  l'inventore  —  Platone,  in  cerca  di punti  di  contatlo  con  le  tradizioni  più  illustri,  non  po- teva mancare  di  cercare  di  riattaccarvisi  anche  per  (|ue- sto  lato.  Il  Parmenide  non  ha  duncjue  solamente  per issopo  di  tracciare  un  metodo  indispensabile  al  conse- guimento della  verità,  ma  anche  di  avvicinarsi  agli  Eleati mostrando  che  la  sua  projjria   dialettica  deriva  dalla  e- ohe  esiste  uecessariiiiueiite  ogui  forma  del  Bene,  e  die  tutti)  eiò ohe  esiste  ò  uecessiiriaineute  una  foruia  del  Beue  (in  uua  pa- rola che  è  ueoessario  che  tulio  il  Bene  esista  et  che  osso  sia ridea  universale).  Per  dimostrare  queste  proposizioni  bÌKOj::no- rebbe  ooufutare,  d'  uua  maniera  generale,  1'  ipotesi  della  non esistenza  di  tutto  ciò  cbe  è  bene  —  cioò  di  tutto  ciò  cbo  esi- ste —  e  quella  dell'esistenza  di  tutto  ciò  cbe  non  ò  beue  —  cioè di  tutto  eiò  cbe  non  esiste — . —  313  — leatica.  Così  egli  imita,  in  questo  dialogo,  la  dialettica di  Zenone,  assegnandole  una  funzione  importante  nel suo  proprio  sistema,  e  attribuendola,  nella  nuova  forma ch'egli  le  dà,  al  fondatore  della  scuola,  ci  mostra  il  vec- chio eleate  che  l' insegna  al  giovane  Socrate.  Dopo  il Parmenide,  Platone  riguarda  come  stabilito  che  la  sua dialettica  si  origina  da  quella  degli  Eleati,  e  nei  dialo- ghi in  cui  è  praticata  la  dieresi,  cioè  nel  Sofista  e  nel Politico,  la  parola  non  è  a  Socrate,  ma  a  un  supposto filosofo  della  scuola  eleatica  (1). §  22.  Abbiamo  visto  nel  ^  14  che  l' Idea  del  Bene  è, non  solo  il  principio  logico,  ma  anche  il  principio  onto- logico,  la  catisa^  di  tutte  le  altre  Idee.  Abbiamo  visto pui'e  che  1'  essere  il  principio  logico  delle  altre  Idee  e l'esserne  il  principio  ontologico  non  sono  due  fatti  distinti, ma  due  espressioni  difterenti  di  uno  stesso  fatto,  perchè se  un  concetto  si  deduce  da  un  altro,  ed  essi  sono,  non dei  semplici  concetti,  ma  delle  realtà,  dei  concetti  rea- lizzati,  la  realtà  premessa  è  il  principinm  essendi  della realtà  conseguenza,  e  la  deduzione  e<iuivale  a  una  de- rivazione reale,  a  una  produzione  delì'ettetto  dalla  sua causa.  Nel  $  15  abbiamo  indicato  le  prove,  ])er  dir  così, generiche,  da  cui  si  può  concludere  che  Platone  ha  e- steso  questo  legaìne  causale  a  tutti  i  gradi  della  dedu- zione progressiva  in  cui  consiste  la  sua  dialettica,  in modo  che  l' incatenamento  logico  eh'  egli  introdiice  fra tutte  le  Idee  sia  al  tempo  stesso  un  incatenamento  di cause  e  di  effetti.  Ora  la  deduzione  per  Platone  è  la  die- resi; il  genere  è  il  principio,  le  specie  in  cui  si  divide le  conseguenze.  Ne  segue  che  tra  le  Idee  dei  generi  e  le Idee  delle  specie  —  intendendo  sempre  per  genere  la  classe "X (1)  V.  Sofista  in  principio. —  314  - —  315  — 1 li superiore  e  per  8i)ecie  le  classi  immedìataraente  inferiori in  cui  si  divide—  vi  La,  secondo  Platone,  una  deriva- zione, non  solo  logica,  ma  anche  reale;  che  Tldea  gene- rica è  la  causa  e  le  Idee  speci  fiche  i  suoi  effetti,  o  in altri  termini,  trattandosi  di  una  causalità,  non  esteriore, ma  immanente,  che  la  serie  delle  Idee,  secondo  la  loro generalità  decrescente,  costituisce  i  gradi  successivi,  i momenti,  di  uno  sviluppo  necessario,  che  è  al  tempo stesso  logico  ed  ontologico.  È  ciò  che  dobbiamo  provai*e particolarmente  nel  presente  paragrafo. I  gradi  successivi,  i  momenti,  di  questo  sviluppo  ne- cessario, logico  ed  ontologico,  sono  indicati  da  Platone, come  poi  da  Spinoza,  coi  termini  anteriore  e  posteriore  di natura  (nQÓisfJok^  xaì  vaze^ot^  xaià  (pva^i').  Secondo  le  de- finizioni di  Aristotile,  Platone  ha  chiamato  anteriore  ciò che  può  essere  scii::a  il  posteriore,  mentre  il  posteriore non  può  essere  senza  l'anteriore  (1);  ovvero  :  ciò  tolto  il quale  è  tolto  anche  il  posteriore,  mentre  tolto  il  poste- riore, non  è  tolto  perciò  l'anteriore  (2).  In  altri  termini, il  posteriore  porta  con  sé  l'anteriore,  mentre  l'anteriore non  porta  con  sé  il  posteriore  (p.  e.  leomo  porta  con  sé animale,  mentre  animale  non  porta  con  sé  uomo).  Que- sto rapporto  di  anteriorità  e  posteriorità  corre  tra  i  con- cetti generici  e  specifici,  o,  parlando  più  propriamente, tia  le  realtà  corrispondenti  a  questi  concetti:  il  Genere (P  Idea)  é  anteriore  alle  Specie  (le  Idee),  e  queste  gli sono   posteriori    (3).   Le   specie   opposte   che   provengo- (1)  V.  Met,  1.  V.  XI.  8,   Caieg.  IX.  3,  X.  4,  ecc. (2)  V.  Met.  1.  XI.  I.  11-12,  1.  VII.  XV.  7,  1.  XIII.  Vili.  14, Eth.  End.  1.  I.  vili.  2,   Top.  1.  VI.  IV.  5. (3)  V.  p,  e.  Eth.  End.  1.  I.  Vili.  9-10  :  anteriore  è  il  oomuue e  separabile  (yoyoiatóy  —  P^^'  il  significato  di  questo  termine  v. Sappi.  B.  VI);  a  tutti  i  multipli  sarebbe  anteriore  il  Multiplo. no  dallo  stesso  Genere  per  la  stessa  divisione  si  chia- mano simultanee  di  natura  {oifia  rfi  (omei)  (l).  Aristotile  usa i  termini  anteriore  e  posteriore  in  un  senso  più  lato,  ma nel  sistema  platonico,  come  termini  tecnici  aventi  il  si- gnificato delle  definizioni  precedenti,  non  denotano  che una  relazione  tra  il  generale  e  i  particolari.  Ciò  risulta dai  luoghi  d'Aristotile,  in  cui  si  vede  che  pei  platonici, perchè  una  cosa  sia  anteriore  ad   un'altra,  deve  essere Phytt.  1.  II.  III.  2,  6  e  Met.  1.  V.  II,  1.  8:  Le  cause  di  una stessa  cosa  possono  essere  1'  una  anteriore  e  V  altra  posteriore, ciò  ohe  avviene  quando  V  una  è  il  genere  di  cui  V  altra  è  una specie  ;  p.  e.  della  sanità  lo  sono  il  medico  e  l'artofice,  del  dia- pason il  doppio  e  il  numero. Met.  1.  I.  IX.  3  e  1.  XIII.  IV.  8:  secondo  i  partigiani  delle Idee,  dovrebbe  essere  prima  non  la  Dualità,  oom'essi  ammettono, ma  il  Numero  (perchè  più  generale). I  primi  generi  sono  ì  generi  più  vasti  (v.  Met.  1.  III.  I.  9, 1.  III.  III.  7,  9,  10,  13.  1.  XI.  I.  11-12);  i  primi  di  tutti  gli  es- seri sono  rUno  o  Essere,  identico  al  Bene,  e  la  Dualità  indefi- nita, cioè  le  due  Idee  più  universali  di  tutte  (v.  Met,  1.  I.  IX. 3,  1.  XI.  I.  11,  1.  XIII.  X.  5,  1.  XIII.  Vili.  21,  1.  XIV.  IV. 2-5,  1,  XIV.  V.  1,  ecc.  Quest'applicazione  dei  termini  anteriore e  posteriore  e  sinonimi  si  vede  pure  in  Categ.  IX,  4,  Top.  1.  VI. IV.  5.  Mei.  1.  VII.  XII.  9,  1.  XIII.  IX.  2-3,  1.  XIII.  IX.  6,  1.  XIV. I.  5,  ecc.:  noi  riporteremo  in  seguito  alcuni  di  questi  luoghi. Anche  Alessandro  d'Afrodisia,  commentando  i  luoghi  che  si  ri- feriscono ai  platonici,  applica  i  termini  anteriore  e  posteriore  ai concetti  generici  e  specifici  :  v.  in  phil.  pr.  1.  58,  III.  40,  ecc. (1)  V.  Categ.  X.  3  e  Top.  1.  VI.  IV.  14.  Quantunque  Aristotile non  attribuisca  espressamente  questa  denominazione  ai  platonici, non  può  esservi  alcun  dubbio  che  non  appartenga  ad  essi,  tanto per  r  allusione  al  metodo  di  divisione  (e  divisione  per  opposti), quanto  per  il  suo  rapporto  evidente  coi  termini  anteriore  e  po- steriore. —  316  - —  317  — separabile  {x^oiìimóy)^  cioè  sussistente  per  se  stessa  (1)  — infatti  due  concelti  di  cui  l'uno  poitii  con  sé,  cioè  in- clude, l'altro,  se  si  tratta  di  concetti  obbiettivati,  non possono  essere  nel  sistema  platonico  che  una  Specie  e il  suo  Genere  — ;  e  più  chiaramente  ancora  da  altri  luo- ghi in  cui  Aristotile,  dopo  aver  supposto  che,  nel  sistema platonico,  un'entità  è  anteriore  ad  un'altra,  ne  conclude che  quella  deve  abbracciare  questa  nella  sua  generalità  (2). Lo  stesso  risulta  pure  dalla  definizione  del  termine  si- multanei di  natura  ;  perchè  il  significato  di  questo  ter- mine, nella  definizione  che  ne  dà  Aristotile,  oltre  il  caso indicato  di  specie  opposte  in  cui  un  genere  si  divide, non  abbniccia  che  un  altro  caso  che  può  rientrare  in esso,  cioè  quello  di  due  termini  correlativi,  quali  il  dop- pio e  la  metà  (i  correlativi  essendo    una  sorta  di  oppo- (1)  V.  Eth.  Eud.  I.  I.  Vili,  y-lO,    luogo    iu    parte  citato,  e Metaf.  1.  XIII.  II,  10-15. (2)  Così  in  Met.  1.  XIII.  IX.  3  fa  quest'obbiezione  a  Platone: il  Lungo  e  Corto  da  cui  procedono  le  linee,  il  Largo  e  Stretto da  cui  procedono  i  piani,  e  l'Aito  e  Basso  da  cui  procedono  i  so- lidi (V.  per  questa  dottrina  Suppl,  C.  Entità  uiatem.)  si  seguono (cioè  sono  fra  di  loro  anteriori  e  posteriori)?  In  questo  caso  il piano  sarà  una  linea  e  il  solido  un  piano  (perchè  il  Largo  e Stretto  sarà  una  specie  del  Lungo  e  Corto  e  TAIto  e  Basso  una specie  del  Largo  e  Stretto).  Un'obbiezione  analoga  fa  un  po'  più giù  (1.  XIII.  IX,  6)  a  dei  platonici  dissidenti  (cioè  a  Speusippo). E  in  Met,  1.  XIII.  Vili,  14  obbietta  ohe  l'unità  che  è  nella  dua- lità dovrebbe  essere  anteriore  ad  essa,  perchè  tolta  la  prima  si toglie  anche  la  seconda;  e  che  per  conseguenza  quest'unità,  es- sendo anteriore  ad  un'Idea  (cioè  alla  Dualità),  dovrebbe  essere un'  Idea  d'  Idea  (Idea  d'  Idea  non  può  significare,  applicato  al sistema  platonico,  ohe  specie  di  specie,  cioè  Idea  generica  d' un'I- dea specitica). sti,  e  questi  potendo  considerarsi  come  due  specie  di  uno stesso  genere)  (1). Dopo  quello  che  abbiamo  detto  nei  paragrafi  prece- denti, non  abbiamo  bisogno  di  mostrare  che  questo  rap- porto di  anteriorità  e  posteriorità,  che  Platone  stabilisce fra  il  generale  e  i  particolari  subordinati,  implica  se- condo lui  il  legame  logico  tra  principio  e  conseguenza. Ci  resta  a  stabilire  che  egli  ha  riguardato  espressamente questo  legame  anche  come  ontologico  (dico  espressamente ^ perchè  un  legame  logico  tra  concetti  obbiettivati  è  ne- cessariamente,  per  il  fatto  stesso  di  quest'  obbiettiva- zìone,  un  legame  ontologico). Un  indizio  di  questo  significato  dell'anteriorità  e  po- steriorità platonica  l'abbiamo  già  nel  senso  in  cui  que- sti termini  vengono  usati  nella  logica  di  Aristotile.  Si sa  la  dottrina  di  Aristotile  sulla  dimostrazione  :  la  di- mostrazione scientifica  è  quella  che  si  fa  per  le  cause,  e si  dimostra  per  le  cause  quando  si  dimostra  per  priora (o,  continuando  a  tradurre  come  abbiamo  fatto  il  ter- mine greco  corrispondente,  per  gli  anteriori)  (2).  Il  con- cetto di  «anteriore  implica  cosi  per  Aristotile  quello  di causa  (3):  per  priora  egli  intende  delle  verità,  che  non siano  solamente  le  premesse  da  cui  altre  verità,  cioè  le posteriori,  si  deducono,  ma  che  siano  anche  le  cause dell'esistenza  di  qiu'ste  altre  verità.  Cause  non  vuol  dire (1)  V.  per  questa  dcAuizione  Categ.  1.  X.  2  5.  In  Top.  1.  VI. IV.  12  e  14,  oltre  il  primo  caso,  vengono  indicati,  invece  dei  cor- relativi, gli  opposti  in  generale. (2)  V.  sovratutto  An,  Post,  1.  I.  II. (3)  V.  An.  Posi.  1.  I.  IX.  9:  Causas  vero  etiam  esse  oportet... et  priora,  si  quidem  causas.  E  1.  I.  9,  5  :  Nam  scit  magis  qui ex  superioribus  causis  scit;  ex  priorihutt  etenim  scit  quando  ex non  aliunde  etfectis  causis  scit. —  318  — cause  della  coDclusione  —  perchè  ciò  è  comune  tanto  alle dimostrazioni  scientifiche,  quanto  a  un'altra  deduzione che  non  si  fa  per  priora  —  ma  anclie  della  cosa  stessa, del  fatto  che  è  V  oggetto  della  conclusione  (1).  Così  il senso  aristotelico  delP  anteriorità  e  post'Criorità  include al  tempo  stesso  due  concetti,  come  quello  che  attribuia- mo a  Platone:  il  rapporto  logico  tra  il  principio  e  la conseguenza,  e  il  rapporto  ontologico  tra  la  causa  e  l'ef- fetto. Senza  dubbio,  chiamando  cause  le  premesse  di  una dimostrazione  scientifica,  Aristotile  fa  un  uso  improprio del  termine  causa  :  è  solo  in  un  senso  traslato  che  l'es- senza può  essere  chiaiiìata  causa  delle  proprietà  che  se ne  deducono,  o  gli  assiomi  matematici  dello  proposizioni dimostrate  (2).  È,  come  in  Platone,  una  confusione  tra il  principium  cognoscendi  e  il  prìncipium  essendi  :  tra  i principia  cognoscendi  Aristotile  riguarda  come  cause quelli  che  può  più  facilmente  identificare  con  questa. Potrebbe  dirsi  che  attribuendo  la  causalità  a  delle  pro- posizioni o  a  dei  semplici  concetti,  Aristotile  eleva  per un  momento  delle  astrazioni  al  grado  di  realtà  —  perchè noi  non  possiamo  riguardare  come  cause  che  delle  cose che  esistono  per  se  stesse,  e  si  distinguono  dai  loro  ef- fetti realmente,  e  non  soltanto  logicamente —Questo  rea- lismo,  per  dir  così,  metaforico  di  Aristotile  è  al  vero realismo  di  Platone  come  p.  e.  la  personificazione  poe- ti) Cfr.  Pacoiolati:  Tnstitnliones  logicar  peripntetiene  par»  III, cap.  IX  fine. (2)  V.  App.  al  cap.  ^^.  Ma  hì  deve  notare  che  la  causa,  in questa  teoria,  non  è  presa  sempre  in  questo  senso  improprio;  la causa  può  essere  la  causa  finale  o  anche  la  causa  nel  senso  più stretto,  cioè  la  efficiente  {nel  significato  aristotelico).  V.  Anal.  Post. 1.  II.  X. —  819  — tica  delle  forze  della  natura  è  alla  personificazione  reale dei  miti  e  delle  religioni  naturaliste.  Questa  personifica- zione, che  nella  coscienza  del  poeta  non  è  che  uno  stato istantaneo,  diviene  in  quella  del  facitore  di  miti  uno  stato permanente  e  definitivo:  così  il  vago  realismo  d'un  Ari- stotile, che  confonde  la  causa  con  la  ragione,  dà  luogo al  realismo  deciso  d'un  Platone  o  d'un  Spinoza,  quando nella  coscienza  del  filosofo  è  divenuto  uno  stato  perma- nente e  definitivo.  È  per  altro  un  fatto  indiscutibile  che l'uso  che  fa  Aristotile  dei  termini  anteriore  e  posteriore si  riattacca  a  quello  che  ne  faceva  Platone.  Le  sfere  di applicazione  di  questi  termini  coincidono  sino  ad  un  certo punto  nei  due  filosofi  :  anche  per  Aristotile  l'universale è  anteriore,  e  il  particolare  ad  esse  subordinato,  poste- riore (1).  Di  più,  per  distinguere  l'anteriore  dal  poste- riore (presi  nel  senso  logico  ed  ontologico  che  Aristotile  at- tribuisce a  questi  termini),  egli  si  serve  talvolta  del  cri- (1)  Così  neW  Anal.  Post,  1.  I.  XXIV,  14  intende  per  propo- sizione anteriore  V  universale  e  per  posteriore  la  particolare  in essa  compresa  —  ciò  che  d'  altronde  non  potrebbe  essere  altri- menti, dato  il  significato  logico  dei  termini  anteriore  e  posteriore, la  conseguenza  essendo  un  caso  particolare  della  premessa  mag- giore. (Un  po'  prima,  1.  I.  XXIV.  7,  ha  detto  che  l'universale  è causa).  lìnd,  1.  I.  II,  10,  distinguendo  Tanteriore  di  natura  e  l'an- teriore per  noi,  dice  che  anteriore  di  natura  è  il  generale,  per noi  il  particolare.  Come  per  Platone  il  genere  è  anteriore  alla specie,  e  le  specie  in  cui  il  genere  si  divide,  simultanee  di  na- tura {Top,  1.  VI.  IV,  5,14.  Nella  parte  di  questo  capitolo  delle Topiche,  in  cui  tratta  dei  luoghi  per  provare  che  una  definizione non  è  fatta,  come  deve  essere,  per  priora,  questo  termine  è  preso quasi  sempre  in  un  significato  identico  al  platonico,  cioè  come sinonimo  di  piìì  generale. —  320  — terio  stesso  di  Platone,  cioè  die  anteriore  è  quello  tolto il  quale  si  toglie  anche  il  |>osteriore  (1). (1)  V.  Top.  VI.  IV,  5— È  curioso  fteguire  le  vicende  dell' ubo dei  termini  pHore  e  posteriore  da  Platone  alla  filoKofia  moderna. Gli  scolastici,  continuando  ad  usarli  nel  senso  aristotelico,  chia- mavano dimostrazione  n  priori  quella  che  si  faceva  i>er  le  cause (o  per  le  ragioni  considerate  come  cause),  e  a  posterioì^i  quella ohe  si  faceva  per  gli  effetti  (p.  e.  1'  argomento  cosmologico  per provare  1'  esistenza  di  Dio  e  quello  fisico-teologico  sarebbero  a posterion,  l'argomento  ontologiccì  sarebbe  a  priori,  perchè  prova Dio  assegnando  la  causa,  cioè  la  ragione,  della  sum  esifrtcììzn^. Sin  qui  il  significato  dei  termini  è  ancora  quello  di  Platouo.  Ma siccome  nel  ragionamento  induttivo  il  prineipium  eognoacendi  non può  assimilarsi  al  prineipium  essendi  come  nella  dimostrazione propriamente  detta  (cioè  quella  che  deduce  da  principii  evidenti per  se  stessi),  così  la  dimostrazione  propriamente  detta  si  disse a  pHori,  e  il  ragionamento  induttivo  a  posteriori.  Di  lìi  fu  fa- cile il  passaggio  al  significato  che  questi  termini  hanno  nella  fi- losofia moderna,  e  conoscenza  a  posteriori  divenne  il  sinonimo di  conoscenza  sperimentale,  conoscenza  n  priori  «piello  di  cono- scenza razionale,  o  indii)endente  dall'  esperienza.  È  notevole ohe,  dopo  questo  cangiamento  della  connotazione  dei  termi- ni, la  loro  denotazione  coincide  ancora  con  quella  di  Plato- ne, perchè  anche  Platone  avrebbe  chiamato  la  conoscenza  spe- rimentale del  generale  «  posteriori  (  cioè  dai  suoi  effetti  ), mentre  la  conoscenza  dalle  cause  era  per  lui  a  priori  nnche nel  senso  moderno  della  ])arola,  cioè  razi<male.  Nella  iMeta- fìsica  Aristotile  usa  i  termini  anteriore  e  posteriore  in  un  scuso più  vago  di  quello  ch'essi  hanno  nella  sua  teoria  della  dimostra- zione. Tuttavia  anche  nella  Metafisica  questi  termini  hanno  un significato  ontologico,  non  ben  definito  forse,  nia  in  cui  risaltano sovratutto  questi  due  concetti  :  quello  di  una  derivazione  del  po- steriore —  ma  che  non  è  necessariamente  causale,  come  si  vede p.  e.  in  III.  VI,  4,  in  cui  chiama  la  potenza  anteriore  all'  atto (non   nel    senso    cronologico)  —  e  quello  di  un  maggior  grado  di —  321  — Ma  senza  esagerarci  uè  diminuirci  V  importanza  di questo  legame  storico  tra  la  dottrina  di  Aristotile  e  quella di  Platone,  per  istabilire  il  significato  dei  termini  ante- riore e  posteriore,  noi  passeremo  ad  altre  prove  più  im- portanti che  ridurremo  a  queste  tre: P  I  termini  anteriore  e  posteriore  indicano  una  se- quenza metafisica,  il  cui  tipo,  nel  mondo  dell'esperienza, è  la  successione  cronologica,  specialmente  quella  che  av- viene secondo  una  legge,  p.  e.  V  evoluzione  degli  orga- nismi. Non  sam  inutile  di  citare  le  definizioni  che  Ari- stotile dà  del  significato  primitivo  dei  termini  anteriore {nQóz€Qoy)  e  simultanei  («.uà),  prima  di  passare  a  definirli nel  loro  significato  platonico.  «  Una  cosa  si  dice  ante- riore ad  un'altra  principalmente  e  massimamente  secondo il  tempo,  secondo  cui  l'  una  è  detta  più  vecchia  e  più antica  dell'altra  »  (1).  «  Simultanee  si  dicono  nel  senso più  stretto  e  assoluto  le  cose  la  cui  produzione  è  nello stesso  tempo  >  (2).  Nella  Metaf.  l.  XIV.  IV.  si  parla  della realtà  dell'anteriore  {\.  Mei.  l.  XIII.  II.  14:  gli  anteriori  sono superiori  nell'essere,  ro)  shai  vneQpàkkei),  Anche  il  secondo  di questi  due  concetti  si  riattacca  al  significato  platonico  dei  termini, perchè  Platone  considera  1'  anteriore  come  più  reale  del  poste- riore. (Si  veda  più  giù,  in  questo  stesso  paragrafo). (1)  Categ.  IX. (2)  Categ.  X.  1.  V.  anche  X.  5 — Le  rappresentazioni  che  si  fa  Ari- stotile della  derivazione  delle  Idee  dai  primi  principii,  implicano tutte  una  successione  nel  tempo.  In  Met,  XIV.  V.  3-4  domanda ai  platonici:  come  i  numeri  (cioè,  pei  platonici  ortodossi,  le  Idee) vengono  dai  due  principii  1  per  una  mescolanza  ?  per  una  composi- zione ?  ne  vengono  come  da  materiali  che  continuano  ad  esistere in  essi  f  o  come  da  un  germe  ?  (allusione  all'idea  di  sviluppo  di cui  parleremo  in  seguito)  o  come  da  nn  contrario  che  si  cangia nel    suo    contrario  f  Altrove  (Met.  XIV.  11.  1-2)  si    rappresenta 21 \ -  322  — —  323  — quistione  (era  una  controversia  tra  i  platonici)  se  il  bene deve  riguardarsi  come  principio,  o  deve  ammettersi  che sia  generato  posteriormente.  Alcuni  moderni  (i  platonici  che sostengono  la  seconda  opinione)  convenendo,  dice  Aristoti- le, coi  teologi  (secondo  i  quali  l'ordine  nel  mondo  è  stato preceduto  dal  chaos),  ammettono  che  il  buono  e  il  bello  non appariscono  che  nel  progresso  della  natura  degli  esseri {nQoek&ovarjg  if\q  toyy  o^kùp  (ùv<tb(ù^).  I  poeti  antichi,  con- tinua Aristotile,  avevano  un'opinione  simile,  perchè  attri- buivano il  principato  e  il  regno  su  tutte  cose,  non  ai  primi esseri,  quali  la  notte  o  il  cielo  o  il  chaos  o  l'oceano,  ma a  Giove.  Nel  capit.  seguente  (in  princ.)  dice  di  questi platonici  che  paragonano  i  principii  del  tutto  a  quelli delle  piante  e  degli  animali,  perchè  si  va  sempre  (tanto questa  derivazione  come  un  passaggio  dalla  potenza   all'  atto  — ciò  che,  egli  dice,  è  impossibile,  perchè  le  cose  eteme  non  pos- sono essere  che  in  atto.  -  In  Met.  XIV.  IV  1,  dopo    aver  rife- rito  la  proposizione  platonica  che  l'Idea  del  due  viene  dal  Grande e  Piccolo  (lo  stesso  che  la  Dualità  indefinita)  eguagliati,  osserva: dunque  prima  erano  ineguali  e  poi  divennero  eguah,  e  non  h  in grazia  della  speculazione  che  fanno  la  generazione  dei  7iumeH  (in altri  termini,  questa  generazione  deve  intendersi  nel  senso  stret- to, come  implicante  una  successione  nel  tempo).  A  questa  pseudo- idea di  causalità,  che  il  realismo  dialettico  attribuisce    alle  sue astrazioni  reaUzzate,  non  può  corrispondere  niente  di  rappresen- tabile, in  cui  non  entri  V  idea  di  una  sequenza  nel  tempo,  per- chè è  solo  come  una  sequenza  nel  tempo  che  noi  conosciamo  e possiamo    immaginare    la  causalità.  È  perciò   che  le  espressioni platoniche,   indicanti  la  derivazione   tra   le  Idee,   suggeriscono sempre  questa  sequenza.  Il  senso  reale  di  queste  espressioni  - anche  quando  non  indicano   che  una  semplice  sequenza,  come  i termini  anteriore  e  posteriore  —  è  del  resto    abbastanza    chiaro, se  si  aggiunge  all'idea  di  sequenza  quella  di  necessità,  implicata nel  loro  significato  logico.  Causalità  infatti,  nel  significato  comune (ohe  è  lo  stesso,  ai  fondo,  ohe  quello  della  metafisica),  vuol  dire appunto  sequenza  necessaria. nel  tutto  quanto  nelle  piante  e  negli  animali  )  dal  più indeterminato  e  più  imperfetto  al  più  determinato  e  più perfetto  (If  ào^iazcoy  àiek^i/  oh  àei  za  v€k€ióz€()a)'  e  che così  avviene,  secondo  essi,  anche  nei  primi,  tanto  che l'Uno  (cioè  il  loro  primo  principio)  non  è  nemmeno  un essere(l).  Questi  priim,  di  cui  parlano  questi  platonici,  che vengono  paragonati  agli  esseri  primitivi  nelle  antiche cosmogonie,  questo  progresso  della  natura  degli  esseri, questo  sviluppo  che  va  sempre  dal  più  indeterminato  e imperfetto  al  più  determinato  e  perfetto,  e  che  ha  il  suo analogo  in  quello  delle  piante  e  degli  iiuimali,  non  de- vono intendersi  in  un  senso  cronologico.  Non  si  tratta evidentemente  che  d'una  successione  metafìsica,  come  si vede  nell'  opposizione  tra  1'  esser  principio  (il  bene)  e l'esser  generato  posteriormente,  perchè  il  modo  in  cui  il primo  principio  dei  platonici  genera  le  altre  cose  non  è una  produzione  nel  tempo,  ma  una  derivazione  ab  ae- terno,  in  cui  la  successione  non  è  che  logica.  La  com- parazione del  tutto  alle  piante  e  agli  animali  è  un'  an- ticipazione dell'idea  di  sviluppo  nel  senso  hegeliano;  il passaggio  continuo  dal  più  indeterminato  e  imperfetto al  più  determinato  e  perfetto  non  è  che  il  passaggio continuo  dal  più  astratto  al  più  concreto,  che  avviene tanto  nella  dialettica  di  Hegel  quanto  in  quella  di  Pla- tone, e  noi  possiamo  aggiungere,  in  qualsiasi  altra  de- duzione di  qualsiasi  altra  forma  di  realismo  dialettico. I  platonici  di  cui  si  tratta  sono  Speusippo  e  la  sua  scuo- la: sono  dei  dissidenti,  ma  essi  non  hanno  abbandonato la  dotttina  platonica  dell'  anteriorità  e  posteriorità,  uè quella  che  l'anteriore  è  il  generale  e  il  posteriore  il  par- ticolare. Infatti  Aristotile  ripete  contro  questa  scuola  la (1)  Vedi,   per  questa  proposizione  chn  l'uno  non  è  un  essere, Supplem.  C.    V,  Speusippo, —  324  — obbiezione  che  ha  fatto  a  Platone,  che  se  i  principii materiali  delle  grandezze  non  si  seguono,  non  si  vede perchè  il  solido  debba  comprendere  la  superficie,  e  la superficie  la  linea,  ma  se  si  seguono^  la  superficie  dovreb- be essere  una  linea  e  il  solido  una  superficie  (1).  Per  il riferimento  a  Speusippo  tanto  di  quest'obbiezione  quanto delle  opinioni  precedenti,  rimandiamo  al  Suppl.  C.  n.  V; ma  per  vedere  che  nei  due  casi  si  tratta  degli  stessi filosofi,  basta  di  confrontare  Met.  1.  XIII.  IX,  6  e  seg.  con tutto  il  capitolo  1.  XIV.  IV. 2J^  1j^ anteriorità  e posterioritàj  nei  numeri  ideali,  indica una  filiazione  di  questi  numeri  gli  uni  dagli  altri.  Pla- tone, nell'ultima  forma  della  sua  filosofia,  ammette  due sorta  di  numeri:  i  numeri  ideali  (cioè  le  Idee,  che,  in quest'ultima  forma  del  suo  sistema,  sono  dei  numeri)  e i  numeri  matematici  (cioè  che  formano  l'oggetto  dell'a- ritmetica). Un  carattere  distintivo  tra  i  numeri  ideali  e  i numeri  matematici,  è  che  i  primi  hanno  anteriorità  e  po- steriorità. Anche  i  numeri  matematici  hanno,  in  un  senso, anteriorità  e  posteriorità,  in  quanto  costituiscono  una serie  i  cui  termini  si  seguono  con  un  ordine  determina- to. Ma  questo  senso  dei  termini  anteriore  e  posteriore non  è  quello  tecnico  che  questi  termini  hanno  nella  fi- losofia platonica  (2)  Così  Aristotile  per  indicare  il  nu- mero ideale,  in  contrapposto  al  numero  matematico,  di- ce: quello  che  ha  anteriorità  e  posteriorità  (3).  Per  con- seguenza noi  dobbiamo  ammettere  che  quest'anteriorità e  posteriorità  dei  numeri  ideali  deve  intendersi  nel  senso proprio,  cioè  tecnico,  della  filosofia  platonica.  La  filia- zione che  Platone  ammette  tra  questi  numeri  che  hanno anteriorità  e  posteriorità,  è  questa:  ogni  numero  genera (1)  V.  Mei,  XIII.  IX.  6  e  oonfr.  2-3. (2)  V,  Suppl.  C.  Ent.  matem. (3)  V.  Met.  1,  XIII.  VI.  6. —  325  — due  numeri,  1'  uno  pari  che  nasce  dal  suo  raddoppia- mento, e  l'altro  dispari  che  nasce  da  questo  raddoppia- mento e  r  aggiunzione  dell'  unità  (I).  Ora  noi  vediamo in  Aristotile  che  i  termini  anteriore  e  posteriore  appli- cati a  questi  numeri  (o  alle  unità  che  li  costituiscono) significano  appunto  l'ordine  di  questa  generazione.  Cosi in  Met.  XIII.  VII.  4-5:  «  le  unità  che  sono  nella  prima Dualità  (cioè  nel  Due  ideale)  sono  generate  simultanea- mente (aaa)...  se  l'una  unità  fosse  anteriore  all'altra,  sa- rebbe anteriore  anche  alla  Dualità  che  è  da  esse.»  Ihid.  19: «  Né  bisogna  nascondersi  che  avviene  (nella  dottrina  dei numeri  ideali) che  vi  hanno  delle  dualitfi  anteriori  e  poste- riori, e  similmente  per  gli  altri  numeri.  Le  dualità  infatti che  sono  nella  Tetrade  (cioè  nel  Quattro  ideale)  siano  simul- tanee fra  di  loro:  ma  esse  sono  anteriori  a  quelle  che  si  tro- vano nell'Otto  (nell'Otto  ideale),  e  sono  esse  che  hanno  ge- nerato—come la  Dualità  in  sé  aveva  generato  esse  stesse  — le  tetradi  che  si  trovano  nell'Otto  in  sè.»(2)  In  XIII.  VIII.14: «L'unità (quella  che  è  una  parte  dellaDualità ideale) do- vrebbe essere  anteriore  alla  Dualità:  infatti,  tolta  essa,  è tolta  anche  laDualità  (il  criterio  di  Platone  i^er  distinguere l'anteriore  e  il  posteriore).  Dunque  dovrebbe  essere  ne- cessariamente un'Idea  d'Idea,  essendo  anteriore r  un'Idea, e  dovrebbe  essere  stata  generata  anteriore  >.  E  ibid.  28  : «  Ciascuna  delle  due  unità  (che  costituiscono  la  Duali(|à ideale)  dovrebbe  essere  anteriore  alla  Dualità  (perchè, dice  Aristotile,  somiglia  di  più  all'Uno  in  sé,  e  questo è  anteriore  a  tutto).  Ma  non  dicono  così;  quella  che  gene- rano la  prima  (tra  tutte  le  cose  che  generano)  è  la  Dualità.» (1)  V.  Suppl.  C.  I,  sulla  line. (2)  Bisogna  notare  che  nei  luoghi  citati  Aristotile  estende  l'an- teriorità e  posteriorità,  che  Platone  ammette  tra  i  numeri,   alle L'  anteriorità  e  posteriorità  dei  numeri  ideali  non  può essere  altra  cosa  che  l'anteriorità  e  posteriorità  delle  I- dee  che  essi  rappresentano,  e  la  filiazione  tra  i  numeri anteriori  e  posteriori  corrisponde  alla  subordinazione  lo- gica (di  genere  e  specie)  tra  le  Idee  rappresentate  (1).  Cori questa  filiazione  tra  i  numeri  non  può  significare  altro che  una  filiazione  tra  le  Idee  che  rappresentano,  essendo evidente  che,  generando  i  numeri,  Platone  geìiera  le  cose stesse  (cioè  le  Idee)  con  cui  li  identifica  (1).  In  altri  ter- unità  che  li  costituiscono  (quando  chiama  simultanee  le  unità dello  stesso  numero,  e  anteriori  e  posteriori  quelle  dei  numeri che  sono  in  questo  rapporto.)  Lo  stesso  fa  in  altri  luoghi,  come XIII.  VII.  22  (in  cui  chiama  l'unità  che  fa  parte  di  un  numero, simultanea  al  numero  stesso)  e  a XIII.  Vili  2  (in  cui  domanda,  nelU ipotesi  che  le  unità  dei  diversi  numeri  —  che,  secondo  Platone, sono  eterogenee  —  differiscano  di  quantità,  se  sono  le  prime  le minori  o  le  posteriori  vanno  crescendo,  o  se  è  al  contrario).  Sin- ché si  tratta  dei  numeri  stessi,  si  potrebbe  supporre  che  V  an- teriorità e  posteriorità  non  signilìchi  che  i  diversi  gradi  di  ge- neralità delle  Idee  che  questi  numeri  rappresentano.  Ma  questa spiegazione  essendo  inapplicabile  alle  unità,  questi  termini,  in questo  caso,  non  potrebbero  avere  altro  significato  immaginabile ohe  la  successione  metafisica  di  cui  nel  n.  1. (1)  Si  veda,  per  una  maggiore  eluoidazione  di  questo  punto, il  Suppl.  C,  I,  sulla  fine.  Qui  aggiungeremo  solamente  che  il penultimo  dei  luoghi  citati  prova,  non  solo  che  1'  anteriorità  e posteriorità,  applicata  ai  numeri  ideali,  ha  il  solito  significato definito  d:i  Aristotile  (ciò  che  dimostra  il  criterio  usato  per  di- stinguere l'anteriore  e  il  posteriore),  ma  ancora  che  un  numero anteriore  rappresenta  un'  Idea  più  universale,  come  apparisce dalle  parole  Idea  rf'  Idea,  che  noi  abbiamo  già  spiegato  in  una nota  precedente. (2)  Così  Aristotile  dioe(3/e(.  1.  XIII.  Vili.  21):  ^Generano  le  cose che  seguono  (za  énófzeya-^cioh  che  seguono  ai  due  prinoipii),  come mini  la  generazione  progressiva  dei  numeri  gli  uni  dagli altri  non  è  che  1'  espressione,  in  termini  pitagorici,  di questo  nesso  ontologico  tra  le  Idee,  che  è  1'  obbietti va- zione  del  loro  nesso  logico.  E  per  conseguenza  i  termini  an- teriore e  posteriore,  che  significano  i  diversi  gradi  di  que- sta generazione,  significano  pure  i  diversi  gradi  dello sviluppo  delle  Idee,  o,  ciò  che  vale  lo  stesso,  i  diversi anelli  del  loro  incaten amento  causale. 3^  Anteriore  (e  i  termini  simili)  è  sinonimo  di  prin- cipio, posteriore  di  cosa  derivata  da  questo  principio.  Così tutte  le  entità,  di  cui  si  ammette  generalmente  che  Pla- tone le  ha  riguardate  come  principii,  sono  anteriori  alle cose  di  cui  sono  i  principii.  L*Uno  (cioè,  senza  pitagori- smo, l'Essere  o  il  Bene)  e  la  Dualità  indefinita  sono  i primi  degli  esseri,  anteriori  a  tutte  le  altre  cose,  che sono  chiamate  za  énó/aeya  (1).  Le  Idee  sono  anteriori  alle cose,  e  sono  pure  chiamate  i  primi  degli  esseri  (l' Idea del  Bene  è  il  primo  dei  beni,  la  Dualità  ideale  la  prima dualità,  ecc.)  (2).  Siccome  i  numeri  ideali  non  producono soltanto  le  cose,  ma  anche  le  entità  matematiche,  essi sono  anteriori  anche  alle  entità  matematiche,  che,  come tutti  i  concetti  obbietti  vati,  producendo  le  cose  di  cui  so- no i  concetti,  sono  anteriori  a  queste,  e  si  dicono  perciò medie  fra  le  Idee  e  i  sensibili  (3).  Pei  platonici  per  cui i  primi  numeri    sono    gì'  ideali,  le  cause  prime  di  tutti U  vuoto f  la  proporzione,  V abbondante ^  e  le  altre  cose  tali,  dentro ki  decade;  perchè  alcune  cose  attribuiscono  ai  principiialtre  (cioè  quelle  che  seguono)  ai  numeri  ». (1)  V.,  oltre  i  luoghi    citati   nella  nota  3  a  p,  314,    Met,  1.  I. IX.  17,  1.  XIII.  IX.  1,  1.  XIV.  I.  12,  ecc. (2)  V.  Met,  1.  VII.  VI.  4,  1.  XIII.  VI.  2,  VII.  4,  1920,  Vili. 5-7,  1.  XIV.  IV.  8,  Mh.  Eud.  1.  I.  Vili.  1.  3.  Alex.  Aphrod.  in phil.  pr.  I.  43,  ecc. (3)  V.  MeL  1.  XIII.  II.  10-15  e  IX.  2,  e  oonfr.  Suppl.  C.  III. r     i —  328  ^ gli  esseri  sono  i  numeri  ideali;  sono  i  numeri  matema- tici per  quelli  per  cui  i  primi  numeri  sono  i  matemati- ci (1).  La  sinonimia  tra  principio— iiìoh  principio  assoluto —  e  primo  (come  anche  tra  cosa  derivata  e  cosa  poste- riore^ «  apparsa  nel  progresso  della  natura  degli  esseri  ») è  evidente  nei  due  luoghi  della  Metafìsica  citati  al  n.  l« (cioè  Met.  1.  XIV.  IV.  e  1.  XIV.  V.  1).  Aristotile  conti- nua  ad  usarli  come  sinonimi  nel  tratto  che  se^»ue  il  pri- mo di  «luesti  due  luoghi  (2),  e  lo  stesso  fa  anche  altro- ve, come  in  Met.  1.  XIII.  VII.  23-26,  in  cui  dopo  aver  detto che  anteriore  ha  due  sensi,  nell'uno  dei  quali  anteriore è  V  universale,  e  nell'  altro  la  materia  di  cui  un  oggetto si  compone,  rimprovera  a  Platone  di  riguardare  l'Uno  in sé  come  principio  nell'uno  e  nell'altro  di  questi  due  sensi del  termine  anteriore  (come  universale,  perchè  ogni  nume- ro è  uno,  e  come  materia,  perchè  si  compone  di  unitji)  (3). Ma  1'  e(]uivalenza  di  primo  e  di  anteriore  a  principio  è sovratutto  evidente  in  Met.  1.  XI.  I.  11-12:  4(  L'  Uno  e l'Essere  possono  specialmente  riguardarsi  come  cou tenenti (1)  V.  Mei,  1.  XIII.  VI. (2)  Mei.  1.  XIV.  IV.  4:  «  È  Btrauu  che  al  pnmo  cil  eterno  e  suf- ficientissiino  a  se  stesso,  questi  stessi  attributi  primi,  la  suffi- cienza a  se  stesso  e  1'  eterna  censervazione,  non  appartengane in  quanto  ò  bene.  Dunque  è  conforme  alla  ragione  che  sia  vero affermare  che  il  principia  è  tale  (cioè  è  il  Bene),  ma  è  impossi- bile ohe  sia  1*  Uno  in  sé....  Ne  segue  una  grave  ditticoltà,  che  al- cuni hanno  cercato  di  evitare,  riconoscendo  ohe  l' Uno  è  il  primo pHncipio  ed  elemento,  ma  del  numero  matematico  ». (3)  Questa  equivalenza  tra  anteriore  e  principio  di  ciò  a  cui si  dice  anteriore,  si  vede  pure  in  Met.  1.  XIII.  Vili.  28,  cioè  nel luogo  citalo  al  n.  2**,  in  cui  si  dice  che  le  unità  della  Dualità, somigliando  al  primo  principio,  cioè  l'Uno  in  sé,  più  della  Dua- lità stessa,  dovrebbero  esserle  anteHori. —  329  — tutti  gli  esseri,  e  sembrare  si>ecialmente  pnncépie  per  es- sere primi  di  natura.  Tolti  infatti  essi,  sono  tolte  anche {<rvi^ai/ai{)Bitai)  le  altre  cose,  poiché  tutto  è  uno  ed  essere (Perchè  dall'esser  primo,  cioè  anteriore  a  tutto  il  resto, seguirebbe  essere  il  principio  assoluto,  se  non  perchè  l'an- teriore è  il  principio  di  ciò  a  cui  è  anteriore?)...  In  quanto le  specie  sono  tolt«  tolti  i  generi  {avt^ayaiQBizai  zoìg  yéyeai)^ più  sembrano  principii  i  generi  che  le  specie.  Principio infatti  è  rò  (Tvi^ai^ai()ovyy> — vale  a  dire  ciò  tolto  il  quale  è tolto  anche  ciò  di  cui  si  dice  principio— .La  definizione  di principio  è  dunciue  la  stessa  che  quella  di  anteriore.  In tutti  questi  luoghi,  riferendosi  essi  alle  dottrine  plato- niche, Aristotile  deve  usare  sì  il  termine  primo  che  il termine  principio  nel  significato  platonico.  In  Top,  1.  IV. I.  10,  in  cui  non  deve  usarli,  a  dir  vero,  nel  senso  pla- tonico, ma  in  quello  certamente  del  linguaggio  filosofico dell'  epoca  (e  che  è  comune  perciò  anche  ai  platonici), dice  :  <(  Ciò  che  è  principio  è  pvimo,  e  ciò  che  è  primo è  principio  »  (1).  Ora,  ripetiamolo,  se  principio,  nel  senso assoluto,  cioè  di  primo  principio,  è  il  sinonimo  di jpr/mo, cioè  di  quest'altro  assoluto  il  cui  relativo  corrisi)ondente è  anteriore^  principio  nel  senso  relativo  deve  essere  si- nonimo dell'altro  relativo,  cioè  di  anteriore.  In  altri  ter- mini, come  ciò  che  è  anteriore  a  tutio  il  resto  è  il  prin- cipio di  tutto  il  resto,  così  ciò  che  è  anteriore  ad  un'al- tro sarà  il  principio  di  quest'altro  a  cui  si  dice  anteriore. Indipendentemente  dal  significato  dei  termini    ante^ (1)  Anche  in  Anal.  Pont.  1.  I.  II.  11  Aristotile  dice:  «Lo stesso  dico  primo  e  principio  »;  ma  noi  non  possiamo  tirarne  al- cuna deduzione  sul  significato  platonico  di  questi  termini,  perchè qui  parla  della  sua  propria  terminologia,  e  relativamente  alla sua  teoria  della  dimostrazione. 330  — —  331  — riore  (o  primo)  e  posteriore^  abbiamo  altre  prove  in  A- ristotile  che  dimoBtrauo  che  Platone  considera  le  Idee più  universali  come  principu  delle  Idee  più  particolari. La  principale  è  che  i  platonici  chiamano  i  generi  priìi- cipii  dello  specie,  e  per  conseguenza  anche  deglMndividui compresi  nelle  specie  —  (per  specie  qui  deve  intendersi, come  si  vedrà  dal  seguito,  le  specie  infime).  In  MeL  III. I  Aristotile  enumera  le  quiationi  dubbiose  che  il  filosofo deve  esaminare,  e  una  delle  quistioni  è  questa:  «  E  se  i principii  e  gli  elementi  sono  i  generi,  o  gl'ingredienti  nei quali  si  scompone  ciascuna  cosa.  E  supposto  che  i  generi, se  gli  ultimi  che  si  predicano  degl'  iudiviJui  o  i  primi; p.  e.  se  Panimale  o  l'uomo  è  principio  ed  ha  più  essere (^à'A'Aòy  èazi)  al  di  là  del  singolare  (na()à  zò  xa*'  exaazo»^ — è  uno  dei  modi  con  cui  Platone  esprime  la  relazione  tra le  Idee  e  le  cose)—»  (1).  Questa  quistione  non  è  un  sem- plice dubbio  che  si  propone  Av'stotile,  ma  ha  un  fon- damento storico.  Infatti  in  Met.  1.  V.  IH.  5,  parlando  dei significati  della  parola  elemento,  dice:  <  Alcuni  chiamano elementi  i  generi,  e  più  che  la  differenza,  perchè  il  ge- nere è  più  universale  >  (elemento  per  i  platonici  è  sino- nimo di  principio  —  v.  Met.  XIV.  IV.  8).  E  in  Met.  Vili. I.  3,  indicando  le  cose  che  sono  riguardate  come  so- stanze :  €  Avviene  a  un  altro  punto  di  vista  il  genere essere  più  sostanza  delle  specie,  e  l'universale  dei  par- ticolari >(ciò  che  corrisponde  al  fzàkkóy  iati  di  Met.  III.  1. 9). Ora  questi  generi,  che  sono  riguardati  come  principii,  come elementi  ii  come  piii  sostanze  delle  specie,  non  sono  eviden- temente dei  semplici  concetti,  ma  dei  concetti  obbiettivati, cioè  delle  Idee:  questa  è  dunque  una  dottrina  platonica, perchè  noi  non  possiamo  attribuire  le  Idee  che  a  Platone, e  d'altronde  essa  non  si  comprende  che  in  relazione  alla dieresi  platonica,  cioè  come  una  trasformazione  in  un legame  ontologico  del  legame  logico  tra  le  Idee  generiche e  le  Idee  specifiche  (1).  Ma  se  l'una  delle  due  soluzioni della  quistione  che  ci  presenta  Aristotile  (cioè  che  prin- cipi i  ed  elementi  sono  i  primi  generi,  vale  a  dire  i generi  nel  senso  stretto),  è  una  dottrina  filosofica  della sua  epoca,  non  ne  segue  che  lo  stesso  deve  dirsi  del- l'altra (cioè  che  principii  ed  elementi  sono  i  generi  ul- timi, vale  a  dire  le  specie).  Questa  seconda  soluzione, che  non  è  che  l' antitesi  della  tesi  platonica,  Aristotile la  propone  per  indicare  che  la  proposizione  che  i  gene- ri sono  principii  e  più  sostanze  delle  specie  non  è  una (1)  Met.  III.  I.  9. (l)  Per  Platone  le  Idee  generiche  danno  più  essere  e  sono  piil sostanze  delle  Idee  specifiche,  perchè  per  lui  1'  essere  e  la  so- stanza delle  Idee  specifiche  sono  contenuti  in  certo  modo  in quelli  delle  Idee  generiche.  Ciò  è  perchè  le  Idee  specifiche  si deducono  dalle  Idee  generiche,  e  per  conseguenza  esistono  im- plicitamente in  queste  e  non  ne  sono  che  un'  esplicazioìie  L  la stessa  ragione  per  cui  Platone  dice  che  tutto  è  uno,  e,  egli  stesso o  alcuni  discepoli,  ohe  tutto  l'essere  è  nei  due  principii  (Confr. (  13  n.  4  e  5).  La  sostanza,  disseminata  nel  momento  posteriore, esiste,  concentrata,  nel  momento  anteriore,  perchè  l'Idea  si  svi- luppa passando  dall'uno  al  multiplo.  Chiamando  le  Idee  gene- riche elementi,  Platone  esprime,  al  fondo,  lo  stesso  concetto,  per che  questa  dcuomiuazione  implica  che  tutto  il  reale  delle  Idee specifiche  e  delle  cose  si  risolve  nelle  Idee  generiche  (confr.  13. n.  5.)  Così  tanto  la  denominazione  di  elementi  quanto  quella  di pia  sostanze  delle  Idee  specifiche  equivalgono,  in  ultima  analisi, all'altra  di  2>W«c*/>/i:  ogni  principio  è  j^ev  Vìeitoné  elemento  e  piic sostanza  di  ciò  di  cui  è  principio,  perchè  le  cose  derivate  non sono  per  lui  ohe  le  cose  stesse  da  cui  derivano,  e  la  derivazione non  è  che  uno  sviluppo,  cioè  uno  svolgimento  o,  come  abbiamo detto,  una  esplicazione. ^  • —  332  - (/ conseguenza  necessaria  della  dottrina  delle  Idee,  e  che le  dottrine  platoniche  forniscono  anche  dei  motivi  per sostenere  la  proposizione  contraria,  cioè  che  le  specie sono  più  principii  e  più  sostanze  dei  generi  (1).  La  qui- stione  se  i  principii  siano  i  generi  o  le  specie  si  ritrova in  Met  Xr.  1. 12  (2)  e  ITI.  IH.  7-13.  In  quest'ultimo  luogo j- ri- L (1)  Nella  maniera  iu  cui  la  presenta  Aristotile,  la  tesi  che  gli elementi  e  i  principii  sono  i  generi  (e  non  gì'  ingredienti)  sem- brerebbe la  dottrina  comune  di  due  sistemi  HIos  liei,  di  cui  l'uno ammetterebbe  che  elementi  e  principii  sono  i  generi  primi,  e l'altro  i  generi  ultimi.  Ma  il  vero  è  che  tutti  quelli  ohe  sosten- gouo  questa  tesi  non  la  intendono  ohe  in  una  sola  delle  due  forme indicato  da  Aristotile,  vale  a  dire  ammettono  che  questi  elementi e  principii  sono  i  iroiu'ri  primi,  cioè  i  generi  propriamente  detti. Ciò  si  vede  nel  III  cap.  dello  stesso  lib.  Ili,  in  cui  Aristotile  ripre- senta con  più  sviluppi  la  quistione  se  principii  ed  elementi  siano i  generi  o  gì'  ingredienti.  Ivi,  esponendo  le  ragioni  in  appoggio dello  due  proposizioni  contrarie,  è  cosi  che  dice  sulla  prima:  «In quanto  conosciamo  ciascuna  cosa  mediante  le  definizioni,  e  i  ge- neri sono  principii  delle  definizioni,  è  necessario  che  i  generi siano  anche  principii  delle  cose  definite.  E  se  avere  la  scienza degli  esseri  è  avere  quella  delle  specie  secondo  cui  gli  esseri sono  nominati,  i  generi,  di  certo,  sono  i  principii  delle  specie.  i^ (Met.  III.  Ili,  4).  È  appena  bisogno  di  osservare  che  queste  ragioni su  cui  si  appoggia  la  proposizione  che  i  principii  sono  i  generi, proverebbero  abbastanza  —  se  fossero  necessarie  altre  prove  ohe la  proposizione  stessa— ohe  si  tratta  di  una  dottrina  dolla  scuola platonica.  In  seguito  vedremo  che  le  ragioni  su  cui  è  appog- giata r  altra  pretesa  forma  della  tesi,  cioè  che  i  principii  sono i  generi  ultimi  e  non  i  primi,  sono  desunte  anch'esse,  quantunque forzatamente,  dalle  dottrine  platoniche. (2)  <*  Se  più  è  principio  ciò  che  è  più  semplice  che  ciò  che  lo è  meno,  siccome  le  ultime  delle  cose  che  vengono  dal  genere {là  Igxo-io.  i(bv  £x  zov  yéyovg,  vale  a  dire:  le  ultime  entità che  il  dividente  ricava  dalla  diviene  del'genere,  in  una  parola  le —  333  — si  ripete  negli  stessi  termini  la  quistione  di  III.  I.  9,  cioè se,  supposto  che  i  principii  ed  elementi  siano  i  generi e  non  gl'ingredienti,  deve  ammettersi  che  sono  i  primi generi  o  gli  ultimi;  ma  per  primi  generi  s'intende  i  primi nel  senso  più  stretto,  cioè  il  genere  sommo  di  Platone, rUno  o  Essere,  che  Aristotile,  seccmdo  la  sua  abitudine, sdoppia  in  due  generi  distinti,  V  uno  e  1'  essere.  Però questa  dottrina  che  i  generi  supremi,  cioè  l'uno  e  l'es- sere, sono  i  principii  primi  delle  cose,  è  riguardata  come un'applicazione  della  dottrina  più  generale  che  i  prin- cipii sono  i  generi  (1),  e  come  legata  solidariamete  con specie  infimo)  sono  più   semplici  dei  generi  —  esse  infatti  sono  in- divisibili, mentre  i  generi  si  dividono  in  molte  e  diffsrenti   spe- cie —,  più  le  specie  ohe  i  generi  sembrerebbero  essere  principii. Ma  in  quanto  le  specie  sono  tolte  tolti  i  generi,  più    sembrano principii  i  generi:  principio  infatti  è  ^ò  av^ai^aiQovìf)^  (v.  più  su, questo  paragr.  n.  3,  in  cui  è  già  stata  citata  1'  ultima  parte  di questo  luogo).  Si  osserverà    facilmente    che  gli  argomenti  tanto per  l'una  quanto  per  l'altra  delle  due  tesi  contrarie  sono  tirati da  dottrine  platoniche.  La  ragione  in  appoggio  della  prima  tesi, che  «  più  è  principio  ciò  che  è  più  semplice  ohe  ciò  che  lo  è  meno», è  una  deduzione  forzata  dalla  dottrina  eh  e  il  primo   principio  è l'Uno  in  sé  (confr.  Met.  III.  III.   10). (1)  <  Non  è  possibile  che  1'  uno  sia  un  genere  degli  esseri,  e nemmeno  l'essere.  È  necessario  infatti  ohe  le  differenze  di  cia- scun genere  siano  e  ciascuna  sia  una.  Ma  è  impossibile  tanto che  le  specie  di  un  genere  si  predichino  delle  proprie  differenze, quanto  che  sé  ne  predichi  il  genere  separatamente  dalle  sue  spe- cie. Per  cui  se  l'uno  o  l'essere  è  un  genere,  nessuna  differenza sarà  una  uè  essere.  Ma  se  non  sono  generi,  non  saranno  nem- meno principii,  se  sono  i  generi  che  sono  principii  »  (Met.  III. III,  8).  —  È  evidente  ohe  in  questo  luogo  la  parola  genere  deve intendersi  nel  senso  stretto,  cioè  come  quello  a  cui  sono  subor- dinate delle  specie. essa:  infatti  confutando  la  prima  dottrina,  Aristotile  fa delle  obbiezioni,  che  non  hanno  di  mira  direttamente essa  stessa,  ma  la  seconda,  perchè  vogliono  dimostrare che  le  specie  sembrano  principii  più  che  i  generi  (1).  La (1)  4  Oltre  a  ciò  le  differenze  saranno  principii  piìt  che  i  ge- neri. Ma  se  anche  esse  sono  principii,  i  principii  ♦  per  dir  così, diventano  infiniti,  specialmente  se  si  pone  come    principio  (cioè come  principio  primo)  il  primo  genere.  (Questo  luogo  prova  ohe le  differenze  secondo  i  platonici  non  sono  principii,  com  yotrebhe sembrare  da  Met.  V.  III.  5,  luogo  citato,  in  cui  si  dice  che  €  alcuni dicono  elementi  i  generi,  e  piìi  che  le  differenze»  I  platonici  non possono  riguardare  le  differenze   né  come  principii  né  come  ele- menti, perchè  essi  nou  le  considerano   come    delle    entità  sussi- stenti per  sé  stessi,  in  una  parola  come  delle  Idee.  —  Alessandro d'Afi^disia,  in  phil,  pr.  III.  40,  commentando  questo  luogo,  nota che  Aristotile  combatte  la  dottrina  che  i  generi    sono  principii, perchè  nel  suo  pensiero  essa  è  legata  con  quella  che   sta  confu- tando,   cioè  che  i  principii  primi  sono  i  generi  sommi).  E  te  l'uno ha  più  natura  di  principio,  Tuno  essendo  l'indivisibile...  e  i  generi essendo  divisibili  in  specie,  sarà  più  uno  l'ultimo  predicato  (cioè,  la specie  infima— e  quindi  sarà  più  principio  che  il  genere.  Cfr.  Met. XI.  1,12,  luogo  citato  a  p.  332.)    L'uomo   infatti  non  è  un  genere degl*  individui  (quindi,  non  si  divide  in  essi  come  un  genere  nelle specie  —V.  per  tutto  questo  periodo  il  comm.  d'Aless.  d'Afrod.,  I, 41),  Inoltre  nelle  cose  in  cui  vi  ha  anteriorità  e  posteriorità  (non  nel senso  tecnico  aella  filosofia  platonica  che  abbiamo  spiegato)  nou  è possibile  che  ciò  che  si  predica  in  comune  di  esse  sia  qualche  cosa al  di  là  di  esse  fnaoà  zai^ra— cioè  sene  faccia  un'entità  distìnta): p.  e.  la  dualità  essondo  la  prima  dei  numeri,  non  vi  sarh  un  Numero (generico)  al  di  là  (ntroà)  delle  specie  dei  numeri;  e  similmente non  vi  sarà    una  Figura  al  di  là  delle  specie  delle  figure  (si  al- lude a  un'  argomento  capzioso   dei  platonici,  fondato  sul  doppio senso  delle  parole  anteriore  e  posteriore,  per  escludere  le  Idee generiche   dei   numeri  e  delle  figure  —  v.  il  commento  d'  Aless. d'Aphrod.,  I,  42,  e  confr.  Suppl.  (C.  IIDMa  se  di  queste  cose  non -  335  - prima  dottrina  essendo  incontestabilmente  platonica, deve  esserlo  anche  la  seconda;  e  del  resto  basterebbe  a provarlo  la  natura  degli  argomenti  che  servono  a  com- batterla, perchè  questi  non  potrebbero  avere  del  valore che  per  un  platonico,  e  non  si  comprendono  che  come argomenti  ad  hominem.  In  questa  discussione  del  1.  3** cap.  3<*  della  dottrina  che  i  principii  primi  sono  i  primi generi,  cioè  1'  uno  e  1'  essere,  questa  dottrina  viene  ri- guardata, non  solo,  come  abbiamo  detto,  come  un'  ap- plicazione di  quella  che  i  principii  sono  i  generi,  ma  come una  conseguenza  del  presupposto  che  il  più  univeisale è  sempre  principio  del  più  particolare  (1).  Evidentemente vi  hanno  dei  generi  al  di  là  (nagà)  delle  specie,  molto  meno  ve ne  saranno  delle  altr^;  di  queste  cose  infatti  sembra  massimamen- te ohe  vi  siano  dei  geperi.  Tra  gl'individui  invece  non  vi  ha  ante- riorità e  posteriorità  {p  per  conseguenza  ciò  che  si  predica  in  comune di  essi,  cioè  la  specie,  può  essere  alcun  che  al  di  là  di  essi,  vale a  dire  può  farsene  un'entità  distinta).  Di  più  dove  c'è  un  meglio e  un  peggio,  il  meglio  è  sempre  anteriore  ;  per  cui  di  tali  cose non  potrebbe  esservi  genere.  Per  queste  ragioni  dunque  le  specie ehe  si  predicano  degl'individui,  sembrano  essere  principii  più  che i  geneH,  >  (Met.  1.  III.  III.  9-12). (1)  €  Se  infatti  gli  universali  sono  sempre  più  principii,  (vale a  dire:  se  più  un'entità  è  universale,  e  più  è  principio)  è  chiaro ehe  saranno  principii  i  generi  sommi;  perchè  questi  si  predicano d'ogni  cosa.  »  (Met.  1.  III.  IH.  7.) Il  principio  e  la  causa  deve  essere  al  di  là  (^nagà)  delle  cose di  cui  è  principio,  e  poter  essere  separato  (^^o)Qi^ofiéyr^y)  <ia  ©ss® (sono  due  espressioni  platoniche  per  indicare  ohe  il  comune  si astrae  e  se  ne  fa  un'entità  distinta  —  v.  Supp.  B.  parto  1.  n.  VI. sulla  fine  e  parte  II.  n.  II).  Ma  perchè  si  ammetterebbe  esservi alcun  che  di  tale  al  di  là  (nagà)  dei  particolari,  se^non  perchè si  predica  in  universale  e  di  tutti  t  Ma  se  per  ciò,  i  più  univer- sali più  si  devono  porre  principii  (xà  fÀàkkoy  xa&ókov  ^àkXoy 'liL questa  proposizione  non  è  certo  la  base  della  dottrina  che i  primi  principii  sono  i  concetti  universalissiniì,  ma  an- che di  quella  che  le  Idee  generiche  sono  i  principii  delle Idee  specifiche.  Se  Aristotile  la  indica  solamente  come  il presupposto  della  prima,  è  perchè  nella  sua  esposizionedel  sistema  platonico,  come  del  resto  nelle  opere  stesse di  Platone,  tiene  più  posto  la  dottrina  che  tutte  le  Idee derivano  dalle  Idee  universalissime,  che  quella  più  ge- nerale di  cui  essa  non  è  che  un  caso,  che  le  Idee  più particolari  derivano  sempre  dalle  Idee  più  universali  (1). ^Bxéoy  àgyàg,  cioè  iiua  cosa  più  universale  più  si  deve  porre principio  che  unii  meno  universale)  ;  per  la  qual  cosa  principii saranno  i  primi  generi.  »  (13). Più  principio  non  può  voler  dire  ohe  :  un  principio  più  pri- mitivo,  Sicché  la  proposizione  che  i  più  universali  sono  più principii  significa  che  gli  universali  di  diversi  gradi  formano  una scala  di  principii,  in  cui  il  più  generale  è  un  principio  più  pri- mitivo che  il  più  particolare.  Ma  ciò  alla  sua  volta  non  può  voler dire  altra  cosa  se  non  che  questi  principii  derivano  gradatamente gU  uni  dagli  altri,  il  più  particolare  dal  più  generale  ;  non  i»uò avere,  in  altri  termini,  altro  senso  che  quello  che  noi  abbiamo spiegato  déìV anteriorità  e  posteriorità, (1)  Le  Idee  generiche  essendo  i  principii  delle  Idee  specifiche, ne  sono  anche  le  causCy  perchè  principio  e  causa  sono  dei  termini perfettamente  equivalenti,  tanto  per  Platone  quanto  per  Aristotile. Così  in  Met.l.  V.  XVIII.  7,  troviamo  la  proposizione:  €  L'uomo  ha molte  cause,  l'animale,  il  bipede  »,  che  noi  non  possiamo  che  ri- ferire ai  platonici,  perchè  evidentemente  implica  la  realizzazione dei  concetti  di  animalo  e  di  bipede.  (In  questo  luogo  .  come  al- trove, p.  e  in  Met.  1.  IX. 9,  per  bipede  non  devo  intendersi  la  dif- ferenza dell'uomo,  perchè  le  differenze  per  Platone  non  sono  I- dee,  ma  un  genere  subordinato  ad  animale  e  superordinato  ad  uo- mo). Il  concetto  che  le  Idee  più  generali  sono  i  principii  dello più  particolari,  è  espresso  pure  indicando  il  rapporto   delle  Be- ll concetto  indicato  in  Met.  III.  Ili,  che  il  più  generale  è sempre  il  principio  del  più  particolare,  è  quello  che  rias- sumo tutto  il  sistema  platonico.  Le  Ideo  (cioè  le  Specie) sono  i  principii  delle  cose,  le  Idee  più  universali  i  prin- cipii delle  Idee  più  particolari,  e  il  principio  primo  è l'Idea  univcrsalissima  del  Bene,  identico  all'  Uno  e  al- l'Essere. Per  questo  concetto  il  sistema  platonico  ha  una più  grande  coerenza  che  le  altre  forme  del  realismo  dia- lettico. Perchè  il  processo  per  cui  l'Idea  più  astratta  si astrae  dalla  più  concreta^  e  il  processo  inverso  per  cui l'Idea  più  concreta  deriva  dalla  più  astratta,  non  sono che  urni  continuazione  di  quelli  per  cui  le  Idee  si  astrag- gono dalle  cose,  e  le  cose  derivano  dalle  Idee.  In  una parola  la  stessa  rehizione  di  universale  a  particolare, che  vi  ha  fra  le  Idee  e  le  cose,  vi  ha  tra  i  gradi  suc- cessivi dello  sviluppo  delle  Idee.  Ma  più  che  V  identità che  la  relazione  tra  le  Idee  più  universali  e  le  più  par- conde  alle  prime  con  la  preposizi<me  ^^  ^^^  significa  evidente- mente una  derivazione.  Così  rà  U  tov  ytyov:;  "cl  luogo  citato nella  quartultima  nota,  Met.  1,  XI.  1. 12,  come  altrove  (p.  e.  in  Categ. X.  e  Top,  1.  VI.  IV.  li.  in  cui  Aristotile  parla  souza  dubbio  alla plutonica)  per  dire  :  i  generi  inferiori  e  le  specie  di  uu  genere. Si  noti  che  iu  questo  stesso  mi  lo  troviamo  frequentemente  e- spressa  la  derivazione  delle  Idee  e  delle  cose  dai  duo  principii primi.  I  numeri  ideali  e  le  altre  entità  sono,  o  vengono,  o  i  pla- tonici li  fanno,  l^  t(ò,f  ct^jjfO)//,  ix  to\)  fcVò^  xat  zfjg  àoQtatov ^vàdog,  tx  Tov  iyóg  o  £X  tf}^  àogiazov  óvàóo^  semplicemente, ecc.  V.  Met.  XIII.  IX.  7,  XIII.  X.  8,  XIV,  IV.  6,  XIV.  5  3-5, 1  IX.  16,  III.  IV.  30,  XIII.  VI.  5,  VII.  3-4,  IX.  10.  X.  5-6,  XIV. II.  3,  III.  11-12,  IV^.  3,  eoe.  In  alcuni  luoghi,  come  nei  quattro primi  citati,  è  chiaro  che  questa  derivazione  indicata  dalla  pro- posizione l-x  non  è  uu  i  semplice  composizione  da  elementi.,22 —  838  —  ' ticolari  ha  col  rapporto  tra  le  Idee  e  le  cose,  a  noi  im- porta di  notare  quella  che  essa  ha  col  rapporto  tra  l'Idea del  Bene  e  tutte  le  altre  Idee.  Noi  troviamo  in  Aristotile  le stesse  formule  per  esprimere  la  relazione  tra  il  Bene  e  le altre  Idee  e  per  esprimere  quella  tra  le  Idee  più  generali  e le  più  particolari  subordinate.  Come  l'Uno  o  Bene  è  princi- pio e  causa  di  tutte  le  Idee,  così  le  Idee  generiche  sono principii  e  caìise  delle  Idee  specifiche  (Cfr.  questo  paragr. col  paragr.  14)  L'Uno  o  Bene  è  elemento  di  tutto  ciò  che  e- siste,  ed  ha  più  essere  delle  cose  che  ne  risultano  (perchè tutto  è  uno,  e  l'essere  sta  tutto  nei  due  principii):  le  Idee generiche  sono  elementi  anch'esse,  ed  hanno  più  essere che  le  Idee  specifiche,  (confr.  §  13.  n.  4  e  5.  e  questo  §, nota  a  p.  331).  La  derivazione  di  tutte  le  cose  dall'Uno  e  l'e- lemento materiale  è  indicata  chiamandoli  primi  e  ante- riori a  tutte  le  altre  cose,  (cfr.  questo  paragr.  nota  3  a  p.  314 e  n.  3«  in  principio)  :  la  derivazione  delle  Idee  più  par- ticolari dalle  Idee  più  generali  è  pure  indicata  coi  ter- mini anteriore  e  posteriore.  L'  Uno  e  la  Dualità  indefi-nita generano  tutti  i  numeri  ideali,  e  questi   sono  pure generati  gli  uni  dagli  altri,  quelli  che  corrispondono  alle idee  più  particolari  da  quelli  che  corrispondono  alle  Idee giù  generali,  (confr.  M4r  e  questo  §  n.  2«)  La  derivazione delle  entità  più  particolari  delle  entità  più  universali  è anche  rappresentata  come  i  gradi  successivi  di  uno  svi- luppo, e  questa  rappresentazione  significa  pure  la  deriva- zione di  tutte  le  cose  dal  primo  principio,  perchè  il  primo principio  è  il  primo  grado,  il  punto  di  partenza,  di  questo sviluppo  (confr.  questo  §  n.  1^).  Infine  la  prepiìsizione  |x indica  tanto  la  deriva  zione  di  tutte  le  cose  dai  principii primi  quanto  la  derivazione  delle  Idee  più  particolari  dalle Idee  più  universali,  (cfr.  n.  1  a  p.  336).  Tra  le  formule  che esprimono  il  rapporto  di  tutte  Idee  coi  primi  principii,  una sola  non  trova  la  corrispondente  tra  quelle  che  esprimono il  rapporto  delle  Idee  più  particolari  con  le  Idee  più  ge- —  339  — nerali:  è  la  riduzione  dei  due  principii  l'uno  all'essenza e  l'altro  alla  materia  di  tutte  le  Idee,  destinata  a  con- ciliare la  teoria  pitagorica  dei  due  elementi  coi  presup- posti della  dialettica  platonica.  Questo  parallelismo  tra le  due  serie  di  formule  prova  d'  una  maniera  evidente l'identità  dei  rapporti  che  esse  esprimono,  e  non  lascia alcun  luogo  a  dubitare  che  la  derivazione  delle  Idee  più particolari  dalle  Idee  più  universali  sia  altra  cosa  che quella  di  tutte  le  Idee  dall'Idea  universalissima.  Sia  che indichino  Tuna,  sia  che  indichino  l'altra,  esse  non  pos- sono significare  che  una  sola  e  stessa  cosa  :  1'  obbietti- vazione  del  nesso  logico  tra  il  principio  e  la  conseguenza e  la  sua  identificazione  con  quello  ontologico  tra  la  causa e  l'effetto  (1). (1)  Le  espressioni  che  indicano  la  derivazione  di  tutte  le  Idee dal  principio  essenziale  (l'Uno  o  il  Bene),  indicano  egualmente  la derivazione  di  tutte  le  Idee  dal  principio  materiale  (la  Dualità indefìnita).  È  che  il  rapporto  delle  Idee  con  l'uiìo  dei  due  prin- cipii non  può  differire  in  sostanza  dal  loro  rapporto  con  Ta'tro. Platone,  considerando  come  genere  e  come  Idea  V  uno  solo  di questi  principii  (perchè  la  dieresi  esige  un  punto  di  partenza  u- nico)t  riguarda  necessariamente  esso  solo  come  primo  principio logico  (perchè  la  deduzione  non  è  che  la  dieresi)  e  quindi  come causa  prima  (perchè  il  rapporto  tra  la  causa  e  V  efietto  non  è che  il  rappoi*^o  tra  il  principio  e  la  conseguenza).  Ma  in  realtà il  principio  ch'egli  chiama  materiale  ha  lo  stesso  dritto  ad  essere riguardato  come  jirimo  principio  di  tutta  la  deduzione,  o  per  con- seguenza come  causa  prima.  Infatti  anche  per  esso  si  verificano le  due  condizioni  per  cvù  un'  entità  deve  essere  riguardata  come il  principio  logico  e  come  la  causa  di  altre  entità:  è  che  queste ne  siano  delle  specificazioni,  e  che  ne  siano  tutte  le  specifica- zioni logicamente  possibili  (v.  }  19  e  20).  Se  Platone  non  attri- buisce propriamente  la  funzione  di  primo  principio  logico  (cioè di  punto  di  partenza  della  dieresi)  e  la  causalità  che  al  princi- i   %\ -  340  - §  24.  Noi  termineremo  l'esposizione  del  sistema  pla- tonico, mostrando  come  l'identificazione  del  rapporto  tra il  principio  e  le  conseguenza  con  quello  tra  la  causa  e 1'  effetto,  è  l' idea  madre,  e,  per  dir  cosi,  il  germe  di questo  sistema.  Siccome  tutti  gli  altri  sistetni  di  realismo dialettico  derivano  dallo  stesso  germe  e  dalla  stessa  idea madre,  ciò  sarà  mostrare  al  tempo  stesso  come  i  carat- teri generali  di  questa  forma  di  metafìsica  siano  le  con- seguenze di  questa  identificazione. Il  sist>ema  platonico,  e  in  generale  ogni  sistema  di realismo  dialettico,  si  riduce  a  due  dottrine  :  le  astra- zioni realizzate,  che  Platone  chiama  Idee,  e  il  metodo dialettico.  Noi  indicheremo  dunque  successivamente  come 1'  una  e  1'  altra,  considerate  nei  loro  tratti  generali,  ri- sultano dal  concetto  di  causalità  che  è  l'origine  di  que- sta filosofia. I.  Bealiszazione  delle  astrazioni.  Questa,  come  ab- biamo detto  nel  J  3®,  è  necessaria  per  due  ragioni  :  1"*  Il realismo  dialettico,  come  qualsiasi  altra  fomia  di  filoso- fia apriorista,  non  pretende  di  scoprire  a  priori  o  di  de- durre i  fenomeni  e  gli  oggetti  individuali  con  le  loro  cir- costanze particolari,  ma  ciò  che  vi  ha  di  costante  e  di generale  nella  natura  —  questo  è  infatti  l'oggetto  della conoscenza  scientifica,  e  la  filosofia  apriorista  non  aspira che  a  riprodurre  il  contenuto  stesso  della  scienza  posi- tiva, dando  a  questo  contenuto  la  forma  dell'apriorità  e della  necessità—.  Per  conseguenza  il  realista  dialettico  di- stingue due  elementi  in  ciò  che  noi  chiamiamo  il  reale, pio  ohe  egli  chiama  essenziale,  egli  non  può  farlo  che  arbitra- riamente e,  per  dir  così,  verbalmente  :  il  suo  scopo  è  di  soddi- sfare in  un  certo  modo  all'  esigenza  della  sua  dialettica,  che  è l'unità  di  principio,  in  contraddizione  con  la  sua  nuova  dottrina della  dualità,  che  egli  deve  ai  pitagorici. « —  341  — vale  a  dire  nella  realtà  empirica:  l'elemento  costante  e generale,  eh'  è  il  solo  che  egli  ammette  che  sia  deduci- bile e  necessario,  e  V  elemento    particolare  e  variabile, che  è  per  lui  non  deducibile  e  contingente.  Questi  due elementi  del  reale  non  sono  separabili,  al  punto  di  vista comune,  che  per  una   semplice   astrazione  mentale;  ma egli  deve   ammettere   che  il  primo  ha  in  realtà  un'  esi- tenza  indipendente  e  distinta  da  quella  del  secondo,  per- chè ciò  che  egli  deve  dedurre  sono  degli  esseri  reali,  e non  delle   proposizioni  o  delle  semplici  astrazioni  men- tali —  ciò  che  è  la  condizione    indispensabile  perchè  la deduzione  rappresenti  una  derivazione  reale,  cioè  un  rap- porto di  causa  e  di  effetto—.  P.  e.  Platone  deve  dedurre e  dimostrare  a  priori  che  esistono  le  specie  degli  uomini e  dei  cavalli,  coi  caratteri  costanti  e  generali  di  queste specie,  ma  non  che  esistono,  sono  esistiti  ed  esisteranno i  dati  uomini  individuali  e  i  dati  cavalli  individuali  del mondo  reale,  coi  caratteri  particolari  di  ciascun  indivi- duo, e  gl'incidenti  particolari  della  sua  esistenza.  L'ele- mento costante  e  generale  di  queste  specie,  distinto  dal- l'elemento particolare  e  variabile,  cioè  individuale,  non è,  al  punto  di  vista  comune,  che  un'astrazione  mentale; ma  Platone  deve  considerarlo    come  reale,  quantunque astratto,  perchè  è  esso  solo,  isolato  dall'  elemento  indi- viduale, che  egli  deve  dedurre,  e  ciò  che  egli  deve  de- durre deve  es$ere  una  realtà,  e  non  una  semplice  astra- zione mentale.  Se  egli  non  lo  deducesse  isolato  dall'ele- mento individuale,  la  sua  deduzione  non  potrebbe  rap- presentare una  derivazione  reale,  un  nesso  ontologico  di causa  ed  effetto,  e  non  semplicemente  logico  di  princi- pio e  conseguenza.  Supponiamo  infatti  che  quando  egli pone,  deduceudole  dai  principi!  che  ha  posti  precedente- mente, la  specie  dell'uomo  e  quella  del  cavallo,  i  reali eh'  egli  intende  porre  cim  questa  sua  deduzione  siano  i cavalli  e  gli  uomini  individuali  dati  del  mondo  dell' esperienza:  questa  deduzione  non  potrebbe  rappresentare una  derivazione  i-eale   delle   cose  dedotte  da  quelle  da cui  si  deducono,  perchè   i    cavalli  e  gli   nomini  indivi- duali dati  del  mondo  dell'esperienza,  che  sono,  secondo Platone,  contingenti  e  indeducibili,  non    ijotrebbero  es- sere la  conseguenza  necessaria  delle  cose   da  cui  si  de- durrebbero, e  quindi  nemmeno  Veffetto,  perchè  l'effetto è  ciò  che  è  dato  necessariamente  data  la  sua  causa.  Que- sti reali  eh'  egli  deve  porre,  deducendoli  da  quelli  che ha  posti  precedentemente,  devono  essere  dunque  ciò  che vi  ha  di  generale  e  di  costante  nelle  specie  degli  uomini e  dei  cavalli,  astratto  da  ciò  che  vi  ha  in  esse  di  par- ticolare  e  di  variabile,  cioè    d'  individuale  ;  perchè  ciò solo,  per  Inr,  è  una  conseguenza  necessaria  dei  principii già  posti,  e  può  quindi,  essendo  una  realtà  e  non  una semplice   astrazione    mentale,  considerarsi  come  un  ef- fetto di  cui  questi  principii  sono  la  eausa.  Ciò  che  vi  ha vdi  costante  e  di  generale  nelle  specie  degli  uomini  e  dei cavalli,  astratte»  da  ciò  che  vi  ha  in  esse  d'individualee  di  variabile,  e  considerato,  in  questa  astrattezza,  come una  realtà,  è  ciò  che  Platone  chiama  l'Idea  dell'uomo  e quella  del  cavallo.  L'Idea  dell'uomo  e  del  cavallo  sono dunciue  le  specie  stesse  degli  uomini  e  dei  cavalli,  astra- zion  facendo  dal  loro  elemento  contingente  e  non  dedu- cibile,  e  considerate  nel  solo  elemento  necessario  e  de- ducibile :  sono  queste  specie  stesse,  perchè  ciò  che  Pla- tone intende  dedurre  è  il  mondo  reale  stesso,  quello  che è  l'oggetto  della  nostra  esi)erienza,  di  cui  è  costretto  a negligere  certe  circostanze,  perchè  le  ritiene  non  dedu- cibili. Queste  circostanze  che  si  devono  negligere,  e  fatta astrazione  delle  quali,  il  residuo  è  l'Idea,  sono  le  parti- colarità e  l'esistenza  stessa  degl'individui;  ciò  che  resta è  il  tipo  dell'uomo  e  del  cavallo  :  quello  che  è  necessa- rio e  deducibile  è  che,  nella   realtà,  questo  tipo  esista; che  esso  si  effettui  in  tali  o  tali  altri  individui  determi- i\ f* — - nati,  ed  anche  in  tale  o  tale  altro  numero  determinato d'individui,  questo  è  non  deducibile  e  puramente  con- tingente. Questi  tipi,  astratti  dalle  particolarità  degl'in- dividui in  cui  si  manifestano,  ed  anche  da  qualsiasi  nu- mero o  moltiplicità  d'individui,  e  considerati,  in  questo stato  d'astrazione,  come  reali,  sono  le  Idee.  Deducendo le  Idee,    Platone   intende   dedurre   le   specie  stesse  del mondo  dell'esperienza  —  e  infatti,  come  abbiamo  detto, ciò  che  egli  deve  dedurre  è  il  mondo  reale  —,  perchè  le Idee  sono  per  lui  queste   specie  stesse,  senza  certe  de- terminazioni con  cui  ci  sono  date  nel  mondo  dell'espe- rienza :  l' Idea  è  la  specie  allo  stato  astratto,  la  specie l'Idea  allo  stato  concreto,  cioè  l'Idea  a  cui  si  aggiunge la  determinazione  del  numero  e  le  differenze  che  distin- guono ciascuno  dei  multipli  cosi  ottenuti,  vale  a  dire  la posizione  in   un   punto   determinato   del  tempo  e  dello spazio,  i  caratteri  individuali,  gì'  incidenti  della  storia di  ciascun  individuo,  ecc.  Di  più,  non  solo  l' Idea  è  la stessa  cosa  die  la  specie,   che   solamente  si  concepisce astrazion  facendo  da  alcune   delle    sue   determinazioni; ma  la  specie,  in  quanto  è  veramente  reale,   non  è  che l'Idea.  Tutte  queste  determinazioni  che,  aggiunte  all'  I- dea,  costituiscono  la  specie,  non  sono  veramente  reali, perchè    non    sono   dedotte  :    infatti  il  realista  dialettico deve  dedurre  tutto  il  reale,  perchè  la  sua  deduzione  rap- presenta il  modo  essenziale  di  produzione  dell'universo reale  ;  quindi  ciò  che  non    può  dedursi  non  può  essere per  lui  veramente  reale  (1).  La  specie,  come  complesso d'individui,  è  dunque  un  fenomeno,  un'apparenza,  quan- tunque obbiettiva,  la  cui  realtà   è   l' Idea  ;  e  il  mondo delle  Idee   non   solo  è  il  mondo  stesso    dell'  esperienza, (1)  V.  Suppl.  B  parte  1»,  n.  IX. -344— considerato  astrazion  facendo  da  alcune  delle  sue  deter- minazioni,  ma  è  tutto  ciò  che  vi  lia  di  reale  in  questo mondo  dell'esperienza.  Tutto  ciò  che  abbiamo  detto  in questo   numero   si   applica   tanto  al  sistema  di  Platone quanto  a   quelli   di   Hegel  o  di  Taine,  e  in  generale  a tutti  i  sistemi  che  obbiettivano  i  concetti  e  in  cui  que- sta obbietti vazione  è  unita  al  metodo  dialettico.  I  con- cetti obbiettivati,  in  tutti  questi  sistemi,  rappresentano 1'  elemento  necessario  e  deducibile  del  mondo,  astratto dall'elemento  indeducibile  e  contingente^  e  considerato, in  questa  astrattezza,  come  reale  e  come  la  sola  cosa  che sia  veramente  reale.  Noi  spiegheremo  in  seguito  perchè questi  filosofi  vedono  quest'elemento  necessario  e  dedu- cibile del  mondo  precisamente  nei  concetti  obbiettivati. 2.*  Nella  deduzione  la  ccmseguenza,  o  piuttosto  l'insieme delle  conseguenze,  non  è  che  il  principio  stesso  in  una forma,  più  detcrminata  o  più  concreta.  I  fatti  reali  che corrispondono  alle  conseguenze  sono  gli  stessi  che  i  fatti reali  che  corrispondono  ai  principii,  semplicemente  i  prin- cipii  esprimono  questi  fatti  d'  una  maniera  più  astratta o  più  indeterminata,  le  conseguenze  d'una  maniera  più concreta  o  più  determinata,.  Così,  se  non  vi  ha  altro  di reale  che  il  singolo,  i  fatti   particolari  dell'  esperienza, al  progresso    nella   deduzione   non    corrisponderà  alcun progresso  nelle  cose  stesse  ;  passando  dal  principio  alla conseguenza,  non  si  passerà  dall'aftermaziono  d'un  reale a  quella  di  un  altro  reale  ;  il  reale  affermato  sarà  sem-pre lo  stesso;  prima  espresso  d'nna  maniera  più  astratta o  più  indeterminata,  poi  d'  una  maniera  più  concreta,  o più  det,erminata    Allora  la  deduzione  non  rappresenterà una   derivazione    reale,  o,  ciò  che  è  lo  stesso,  il  rap- porto logico  tra  il  principio  e  la  conseguenza  nou  jiotrà identificarsi  al  rapporto  ontologico  tra  la  causa  e  l'  ef- fetto,  perchè  questa  identificazione  suppone  che  da  un reale  si  deduca  un  altro   reale,  la  causa  e  1'  effetto  essendo  due  fatti  reali,  distinti  e  separati  l'uno  dall'altro. Ciò  che  8i  è  detto  è  vero  tanto  nell'ipotesi  del  nomina- lismo quanto  in  quella  del  concettualismo:  nella  seconda ipot-esi  alle  proposizioni  che  fanno  da  principii  corrist)on- deranno  dei  concetti  più  astratti;  a  quelle  che  fanno  da conseguenze    dei    concetti    meno   astratti  ;  ma  le  realtà rappresentate  da  questi  concetti  saranno  sempre  le  stesse realtà,  che  i  concetti  corrispondenti  ai  principii  pense- ranno d'  una   maniera  più  astratta,  e  quelli  corrispon- denti alle  conseguenze   d'  una    maniera   meno   astratta. Così  il  progiesso  dal  più  astratto  al  meno  astratto,  dal più  indeterminato  al  più  deteiminato,  avverrà  solamente nel  nostro  pensiero  e  non  nella  realtà  stessa,  e  la  dedu- zione non    potrà   rappresentare   una   derivazione  reale, perchè,  passando  dal  principio  alla  conseguenza,  non  si passerà  da  un  reale  ad  un  altro  reale,  ma  il  reale  affer- mato sarà  sempre   lo  stesso,  che  solamente  si  pensem ora  d'una  maniera  più  astratta  o  più  indeterminata,  ora d'  una   maniera  più  concreta  o  più  determinata.  Perchè dunque  la  deduzióne  sìa  una  derivazione  reale,  e  il  rap- porto tra  il  principio  e  la  conseguenza    s'identifichi  col rapporto  tra  la  causa  e  l'effetto,  è  necessario  che  al  no- minalismo o  al  concettualismo  si  sostituisca  il  realismo, cioè  che  si  amfuetta  che  l'astratto  e  l'indeterminato  ha un'  esistenza  per  sé,    indipendente   e  distinta  da  quella del  concreto  e  del  determinato.   Allora  il  progresso  dal più  astratto  o  più    indeterminato   al  più  concreto  o  più determinato  avrà  luogo  nella  realtà  stessa,  e  non  sola- mente nel  nostro   pensiero  ;  passando  dal  principio  alla conseguenza,  si  passerà  da  un  reale  ad  un  altro  reale,  e non  semplicemente  da  un'espressione  o  rappresentazione a  un'  altra   es[>ressìone  o  rappresentazione    dello  stesso reale;  e  deducendosi  un  reale  da  un  altro,  la  deduzione rappresenterà  una  derivazione  reale,  perchè  il  principio e  la  conseguenza  saranno  due  realtà  distinte,  come  sono aa«a —  346  — ' due  realtà  distinte   la   causa   e   1'  effetto  a  cui  si  cerca d'identificarli.  Tutto  ciò  ha  la  sua  applicazione  più  evi- dente  nel  sistema  platonicOo  La  dialettica  platonica  con- siste  a  dedurre  da  un  genere  le  sue  specie,  p.  e.  dall'a- nimale  Taniraale  immortale  e  l'animale  mortale,  dall'a- ni  male  mortale  Tanimale  propriamente  detto  e  la  pianta, dall'animale  propriamente  detto  quello  provvisto  di  piedi e  quello  senza  piedi,  ecc.  Essa  pretende  che  se  l'animale è,  sono  anche   necessariamente   l'  animale  immortale  e rlnimale  mortale;  che  se  l'animale  mortale  è,  sono  an- che  necessariamente  l'  animale  propriamente  detto  e  la pianU,  e  così  via;  e  vede  perciò  neir ani. naie  il  princi- pium  essendi  o  la  causa  dell'  animale   immortale  e  del- l' animale  mortale,  nell'  animale    mortale  il  principium essendi  o  la   causa   dell'  animale   propriamente   detto  e della  pianta,  e  così  via.  È  evidente  che  se  non  esistes- sero che  degli  animali  individuali,  se  animale,  animale mortale  e  animale  immortale,  pianta  e  animale  propria- mente detto,  ecc.  non  fossero  che  dei  termini  generali o  dei  concetti  generali  ;  deducendo  dall'  animale  1'  ani- male immortale  e  l' animale  mortale,  dall'animale  mor- tale l'animale  propriamente  detto  e  la  pianta,  ecc.,  que- stui   deduzione    non    potrebbe    avere    alcuna   pretesa   a rappresentare    una  derivazione  reale,  in  altie  parole  il principio  e  la  conseguenza    non  potrebbero  identificarsi alla  causa  e  all'effetto.  <  Se  l'animale  è,  sono  anche  ne- cessariamente l'animale  immortale  e  l'animale  mortale  », significherà   semplicemente   che    se  una  proposizione  è vera,  sarà  vera  necessariamente  anche  un'altra  proposi- zione,  ovvero  che   se    un   concetto  è  vero,  cioè  è  con- forme alla  realtà,  saranno  anche  necessariamente  veri, cioè  conformi  alla  realtà,  altri  concetti  ;  ma  non  potrà significare  che  se  un  reale  esiste,  esistono  anche  neces- sariamente altri  reali.   Gli  oggetti   reali  che  si  afferme- ranno  dicendo  €  l'animale  esiste  »,  saranno  gli  stessi  che gli  oggetti  reali  che  si  affermeranno  dicendo  «  l'animale immortale  e  l'animale  mortale  esistono  »;  semplicemente questi  oggetti  reali  la  prima  volta  saranno  espressi  o  rap- presentati d'una  maniera  più  astratta  o più  indeterminata, la  seconda  volta  d'una  maniera  più  concreta  o  più  de- terminata. Il  legame   tra   il  principio  e  la  conseguenza non  sam   dunque  ontologico,  perchè  non  si  dedurranno dei  i-eali  da  nitri  reali  differenti^  ma  sarà  semplicemente logico.  Ammettiamo    invece,  come    vuole  Platone,  che oltre  agli  afaimali    concreti  e  individuali,  vi  siano  degli animali  astratti  e  generali;  che  i  termini  animale,  ani- male mortale  e  animale  immortale,  ecc.    designino  cia- scuno un  essere   reale  distinto  da  tutti  quelli  designatidagli  altri.  Allora  il  progresso  dal  più  indeterminato  al più  determinato  avrà  luogo  nella  realtà  egualmente  che nel  nostro  pensiero,  e  la  deduzione  rappresenterà  una derivazione  reale,  perchè  deducendo  dall'Animale  l'Ani- male immortale  e  l'Animale  mortale,  dall'Animale  mor- tale  l'Animale  propriamente  detto  e  il  Vegetale,  ecc.,  si dedurianno  sempre  dei  reali  da  altri  reali  distinti;  per- ciò fra  il  principio  e  la  conseguenza  il  legame  non  sarà semplicemente  logico,  ma  anche  ontologico,  poiché,  il principio  e  la  conseguenza  essendo  delle  realtà  distinte, il  principio  non  sarà  semplicemente  il  principium  cogno- scendi  y  ma  anche  il  principium    essendi,  ciò  che  vorrà dire  che  il  principio  sarà  in    qualche  sorta  la  causa,  e la  conseguenza   l'  effetto   di  questa  causa.    Ciò  che  ab- biamo detto  in  questo  numero  ci  mostra  al  tempo  stesso due  condizioni  necessarie  di  una  filosofia,  che  è  fondata sulla  identificazione   del    rapporto   tra  il  principio  e  la conseguenza  con  quello  tra  la  causa  e  l'effetto:  l'una  che si  realizzino  le  astrazioni,  e  l'altra  che  queste  astrazioni realizzate    formino  una  scala  di  astrazione  decrescente, in  modo  che   la   deduzione   vada   sempre  da  entità  piùastratte  ad  entità  meno  astratte,  e  queste  entità  più  a- stratte  e  meno  astratte  siano  gli  stati  logicamente  sue- s ^1 r —  348  - l cessivi  di  una  stessa  realtà,  che  passa  progressiva- mente da  uno  stato  più  astratto  a  uno  stato  meno  astratto (anteriorità  e  posteriorità  di  natura).  Questa  seconda condizione  l'abbiamo  anche  trovata  in  Hegel  e  in  Taiue e  la  ritroveremo  in  Spinoza,  e  possiamo  considerarla come  un  carattere  generale  del  realismo  dialettico. Vi  ha  un  punto  che  ci  resta  a  rischiarare.  Le  consi- derazioni precedenti  ci  mostrano  che   una  tilosofia  fon- data  sulla    identificazione   del   principio  e  della  conse- guenza alla  causa  e  all'  effetto  deve  realizzare  necessa- riamente  le   astrazioni  :    ma    perchè    queste    astrazioni realizzato   sono    precisamente   dei  con  cri  11  obbietti  vati, come   abbiamo  visto    in    tutti  i  sistemi  di  cui  abbiamo parlato!  I  concetti  obbiettivati  non  rappresentano  ade- guatamente l'elemento  costante  e  necessario  della  realtà empirica.  Non  ò  solo  un  fatto  costante  e  generale  della natura  che  esiste  il  tipo  Uomo  —  ciò  che  corrisponde  al concetto  obbiettivato   dell'  avzoài^6()o)7iog  —,  ma   anche che  questo  tipo  si  realizza  in  una  moltitudine  d'indivi- dui, che,  sparsi  nella  serie  del  tempo,  occupano  succes- sivamente tutta  la  serie  (secondo  la  dottrina  antica  della .  stabilitti  ed  eternità  delle  specie).  Che  t^sistauo  tali  o  tali altri  individui  determinati  ed  anche  tal  o  tal  altro  nu- mero determinato  d'individui  sarà,  secondo  i  presupposti del  realismo  dialettico,  un    fatto   contingente  :  ma  che esistano,  ed  esistano  sempre,  molti  individui,  non  è  un fatto  che  ha  lo  stesso   titolo  ad  essere  rigtardato  come necessario  che  l'esistenza  stessa  del  tipo  che  essi  realiz- zano !  L'  astrazione  realizzata  che  rappresenta  la  specie umana,    non    dovrebbe   essere   dunque,  nel  sistema  di Platone  e  degli  altri  realisti  dialettici,  una  moltiplicità indeterminata  d'individui  umani  indeterminati  che  occu- pano successivamente  dei    punti    indeterminati  in  tutta la  serie  dei  tempi,  anziché  1'  Uomo  indeterminato,  a- stratto   assolutamente  dal   numero  e  dal  tempo,  e  non li semplicemente  da  un  numero  e  da  un  tempo  determinati? Se  sì  ammette  che  un  indeterminato  reale  può  concepirsi e  può  esistere,  il  primo  di  (luesti  due  indeterminati  reali non  è  altrettanto  concepibile  e  altrettanto  possibile  che Paltro  f  Perchè  dunque  Platone  e  gli  altri  realisti  dia- lettici di  cui  abbiamo  parlato,  hanno  concepito  le  astra- zioni realizzate  che  rappresentano  le  specie  reali  degli esseri,  nella  seconda  forma  anziché  nella  prima  ?  A. questa  quistione  rispondono  gli  argomenti  di  Platone  per provare  l'esistenza  delle  Idee.  Se  si  negliggono  gli  argo- menti più  deboli,  gli  altri  possono  ridursi  sommaria- mente a  questi  due  :  l*»  la  somiglianza  generica  e  speci- fica degli  esseri,  questo  fatto  sorprendente  che  lo  stesso tipo  si  ripresenta  uniformemente  in  individui  distinti  ed anche  senza  alcun  legame  fra  di  loro  (come  p.  e.  nei minerali  e  nelle  specie  diverse  delle  piante  e  degli  ani- mali che  non  hanno  fra  di  loro,  al  punto  di  vista  antico, alcun  legame  genealogico),  non  può  spiegarsi  che  ammet- tendo che  tutti  gli  esseri  che  si  somigliano  partecipano  in comune  a  qualche  cosa  che  è  una  e  la  stessa  in  tutti  : questa  qualche  cosa  è  l'Idea;  2®  la  verità  dei  concetti  e delle  conoscenze  scientifiche  (che  sono  unioni  tra  con- cetti) suppone  l'esistenza  di  oggetti  reali  che  corrispon- dono adequatament-e  a  questi  concetti  :  questi  oggetti sono  le  Idee  (1).  Si  avrebbe  torto  di  vedere  in  questi  ar- gomenti i  soli  motivi  per  cui  Platone  ammetteva  l'esi- stenza delle  Idee.  S'  egli  trovava  questi  argomenti  con- cludenti, è  perchè  aveva  bisogno  di  astrazioni  realizzate (per  potere   identificare  il  rapporto  tra  il  principio  e  la \ I (I)  V.  per  la  1»  prova  il  Supplem.  B  parte  la,  no  V.  3o  B, e  per  la  2'  prova  (cioè  per  il  gruppo  di  argomenti  che  essa  rias- sume) lo  stesso  Supplem. y  lo  stesso  luogo  e  parte  1»  n»  III. II conseguenza  a  quello   tra  la  causa  e  l' effetto),  e  questi argomenti  gliene  fornivano:  vi  era  in  essi  un  motivo  sut- fftciente,  non  per  realizzare  le  astrazioni,  ma  per  prete- rire ad  altre  le  astrazioni  realizzat*  che  potevano  basarsi 8u  di  essi.  Si  sarebbe  ingiusti,  d'  altronde,  verso  questi argomenti  di    Platone,  negando  assolutamente  ad  essi qualsivoglia  valore.   La  1»  prova  contiene  la  sola  spie- gazione che  abbia  dato  la  metafisica  di  «no  dei  fatti  più Lprendenti  della   natura:  è  uno  dei  più  importanti  di nuelli  di  cui  il  darwinismo  si  propone  di  dare  una  spie- gazione  scientifica  -  ma  pei   soli  esseri   viventi,  e  la. Landò  inesplicato  1'  altro  fatto  per  cui  lo  spiega    ci^ la  legge  di   eredità.  -  La  2»  prova  -  o,  p.uttos^  il  2« Ippo  di  prove  -  presenta,  sotto  le  forme  che  Piatone credeva  più  incalzanti,    una  conseguenza,  secondo  no. logica,  della  teoria  dei  concetti.  Un  pensatore  che  non avesse  avuto  bisogno,  come  Platone,  di  astrazioni  rea- toZ  avrebbe  respinto  il  principio  in  forza  de  la  con- ^uSza,  invece  di  ammettere  la  conseguenza  in  forza def  principio.   Ma  se  la  teoria  dei  concetti  non  fosse  la dottrina  comunemente  ricevute,  sarebbe  evidente  per  tutti, secondo  me,  che  delle  idee  astratte  suppongono  necessa- rSTente  ddle  realtà  egualmente  astratte.  Come  ho  detUi nel  Saggio  1»  (1),  il  pensiero  implica  naturalmente  la  ere- denza  o  la  supposizione  di  un  oggetto,  reale  o  possibile, che  abbia,  nella  forma  dell'obbiettività,  il  contenuto  stesso che  l' idea  ha  nella   forma  della   rappresentez.one.  Nel- l'esereizio  naturale  del  pensiero,  queste  stessa  distinzione fra  una  rappresentazione  e  un  oggetto  rappresentato  per noi  non  esiste:  noi  crediam..  istintivamente  che  i    pen- siero colga  immediato.nente  l'oggetto  pensato,  e  che  ciò 1 \i . (1)  V.  cap.  1»,  $  3»  e  $  7« -351  — lì che  è  presente  al  nostro  spìrite,  sia  quest'oggetto  stesso e  non  la  sua  rappresentazione,  perchè  questa,  della  «tessa maniera  che  la   sensazione,  si  obbiettiva,  ed  è  riguar- data come  una  cosa  esteriore.  Quest'illusione,  come  tutte le  illusioni  naturali,  persiste  anche  quando  noi  abbiamo appreso  che  è  un'illusione  :  anche  allora  noi  continuiamo a  proiettare,  per  dir  così,  al  di  fuori  di  noi,  o  almeno al  di  fuori  del  momento  attuale,  le  nostre  rappresenta- zioni,  e  a  credere  che  ciò  che  è  presente  al  nostro  spi- rite non  sono   delle   semplici    rappresentazioni,  ma  gli oggetti  stessi  rappresentati.  È  quest'illusione  naturale  il meccanismo  per  cui  si  ottiene  il  risultato  che  il  pensiero si  riferisce   all'  oggetto   pensato  ;  che  quando  noi  ricor- diamo, prevediamo,  in  una  parola  affermiamo,  quantun- que non  vi  siano   nel   nostro   spirito  che  delle  semplici i*appresentazionì,  ciò  che  noi  intendiamo  di  affermare  non sono  queste  rappresentazioni,  ma  i  fatti  stessi  che  esse rappresentano.    I  fatti    stessi   significa,    come   abbiamo detto,  degli  Oggetti,  reali  o  possibili,  che  abbiamo,  nella forma  dell'  obbiettività,  il  contenuto  stesso  che  le  idee corrispondenti  hanno  nella  forma  della  rappresentazione, Ne  segue  che,  se  noi  abbiamo   delle  idee  astratte,  noi dobbiamo    istintivamente  proiettare,  per  dir  così,  al  di fuori  di  noi  queste  idee   astratte,  come    proiettiamo  al di  fuori  di  noi  le  idee  concrete,  e  credere  di  avere  pre- senti al  nostro  spirito,  non  delle  semplici    rappresenta- zioni astratte,  ma  degli  oggetti  astratti    corrispondenti. Questa,  illusione  naturale  persisterà  anche  quando  la  ri- flessione psicologica  ci  avrà  appreso  che  il  nostro   pen- siero non  coglie   immediatamente   gli  oggetti,  ma  non consiste  che  in  semplici  rappresentazioni;  e  avrà  per  ri- sultato, anche  allora,  che  quando  noi  avremo  delle  idee astratte,  e  formeremo  dei  giudizi    unendo  delle  idee  a- stratte,  noi  ammetteremo  o  supporremo  degli  oggetti  a- stratti  corrispondenti  (reali  o  possibili,  secondo  che  cre- -.1 r,i 352  - 1    - r deremo  o  no  alla  verità  dell'idea  astratta),  e  intenderemo di  affermare  l'unione  di  questi  oggetti  astratti  nella  real- tà, come  le  loro  rappresentazioni  saranno  unite  nel  no- stro pensiero.  Questa  conseguenza  forzata  del  concettua- lismo, in  cui  noi  abbiamo  visto  una   prova    della  erro- neità di  questa  teoria,  doveva  sembrare   a  un  filosofo che,  come  Platone,  cercava  delle  astrazioni  realizzate, una  prova  evidente  della  loro  esistenza;  di  più  doveva dargli  un  motivo  sufficiente  per  preferirò  i  concetti  ob- biettivati  a  qualsiasi    altra   forma   di  queste   astrazioni realizzate  che  egli  cercava  »  Tanto  l'una  quanto  1'  altra delle  due  prove  per  cui  Platone  stabiliva  la  realtà  degli astratti  -  cioè  che  i  concetti  suppongono  degli  oggetti reali  che  siano,  per  usare  il  linguaggio  della  scolastica, formalmente  ciò  che  i  concetti  stessi  sono  obbiettivamente ^ e  che  la  somiglianza    specifica  e  generica  si  spiega  per la  presenza  di  una  stessa  entità  in  tutti  gl'individui  della specie  e  del  genere  —  soddisfaceva  al  tempo  stesso  alla doppia  esigenza  di  astrazioni  realizzata  che  vi  ha  nel  rea- lismo dialettico:  vale  a  dire  di  sepamre  1'  elemento  co- stante e  necessario  della  natura  dall'elemento  variabile e  contigente,  e  di  fare  del  princìpio  e  della  conseguenza due  realtà  distinte,  che  rappresentino  uno  stesso  essere a  due  gradi  differenti  di  astrazione.  Queste   due   prove dei  concetti  obbiettivatì  non  sono  speciali  al  solo  Platone, ma  comuni,  in  sostanza,  a  tutti  i  filosofi  che  obbiettivano i  concetti.  Quando  Taine  spiega  le  sequenze  e  coesistenze uniformi  dei  fenomeni  per  gli  accoppiamenti  delle  entità astratte  presenti  in  questi  fenomeni  ;  quando  dice,  per esempio,  che  se  tutti  i  triangoli  hanno  gli  angoli  uguali a  due  retti,  è  perchè  gli  angoli  astratti  del  triangolo  o- atratto  sono  eguali  a  due  retti,  o  che  se  tutti  i  pezzi  di ferro  sottoposti  all'umidità  si  arruginiscono,  è  perchè  il ferro  in  sé,  sottoposto  all'umidità  in  se  stessa,  ha  per  con- —  353  — seguenza  la  ruggine  in  generale  (1);  questa  spiegazione è  perfettamente  identica  a  quella  di  Platone,  quando spiega  1'  identità  specifica  e  generica  delle  cose  per  la presenza  in  tutte  di  un'Idea  unica.  Ed  Hegel,  risolvendo tutti  gli  esseri  in  concetti  obbietti  vati,  non  ammette  an- ch'egli,  come  Platone  e  Taine,  che  in  tutti  gli  oggetti di  una  classe  è  presente  uno  stesso  concetto  obbietti- vato  t  e  se  è  così,  non  spiega  implicitamente,  coine  quelli fanno  esplicitamente,  la  somiglianza  degli  oggetti  della classe  per  la  partecipazione  comune  allo  stesso  concetto obbiettivato  !  Non  è  meno  evidente,  dall'altra  parte,  che quando  Hegel  stabilisce  l'esistenza  dei  concetti  obbiet- tivati  in  virtù  del  principio  dell'  identità  dell'  essere  e del  pensiero,  la  sua  prova  ha  per  primo  punto  di  par- tenza, come  gli  argomenti  di  Platone,  oltre  alla  teoria dei  concetti,  la  corrispondenza  assoluta  e  necessaria  tra la  rappresentazione  e  la  cosa  rappresentata,  che  secondo lui  non  si  spiega  che  per  la  loro  identità.  In  quanto  a Taine,  quantunque  esplicitamente  egli  non  ammetta  i concetti,  deve  ammettere  non  di  meno  che  noi  pensiamo le  cose  astratte  e  generali  -—  perchè  è  evidente  che  per credervi,  come  egli  vuole,  dobbiamo  pensarle  —  ;  di  più egli  sostiene  che  i  nomi  e  le  conoscenze,  cioè  le  propo- sizioni, generali  hanno  per  oggetto  queste  cose  astratte  e generali:  ma  se  è  cosi,  questi  termini  generali,  che  sono o  possono  essere  accompagnati  dal  pensiero  delle  cose generali,  significano,  al  fondo,  dei  concetti,  i  quali  anche per  lui,  come  per  Platone  e  per  Hegel,  implicano  neces- sariamente degli  oggetti  astratti  corrispondenti  (perchè non  sono  secondo  lui,  come  secondo  essi,  che  il  pensiero (1)  V.  }  4. 23 —  354-- di  questi  oggetti  astratti).  Noi  vedremo  tuttavia  nei  pa- ragrafi seguenti  che  non  tutti  i  realisti  dialettici  si  sono rappresentate  le  astrazioni  realizzate  sotto  la  forma  pre- cisamente di  concetti  obbiettivati:  ciò  non  ha  niente  di strano,  se  si  ammette  che  le  due  prove  indicate  per  i- stabilire  la  realtà  degli  astratti,  non  sono  il  vero  motivo per  cui  si  realizzano  le  astrazioni,  ma  per  cui  si  dà  una forma  speciale  a  queste  astrazioni  realizzate,  necessarie per  applicare  il  concetto  di  causalità  che  è  la  vera  base del  Idealismo  dialettico. II.  Metodo  dialettico.  Noi  faremo  un'enumerazione  dei caratteri  generali  di  questo  metodo,  cioè  che  sono  co- muni al  sistema  di  Platone  e  agli  altri  sistemi  di  rea- lismo dialettico,  indicando  come  ciascuno  si  deduca  dal concetto  fondamentale  di  questa  forma  di  metafisica. 1°  il  metodo  del  realismo  dialettico  c<msi8te  a  dedurre delle  astrazioni  realizzate  da  altre  astrazioni  realizzate. Questo  metodo,  essendo  una  deduzione,  ha  necessaria- mente per  tipo  la  deduzione  della  logica,  cioè  il  sillogi- smo, ma  si  allontana  più  o  meno,  non  meno  necessaria- mente, da  questo  tipo,  perchè  deve  dedurre  dei  reali  da altri  reali  —  poiché  senza  di  ciò  il  principio  non  potreb- l>e  assimilarsi  alla  causa  e  la  conseguenza  all'effetto.  — Ciò  importa  che  questa  deduzione  deveessei^e  un  progresso reale  del  pensiero,  che  rappresenta  un  progresso  reale nelle  cose  stesse  ;  mentre  la  vera  deduzione,  essendo fondata  rigorosamente  sul  principio  d'identità,  non  può che  affermare  nella  conclusione,  sotto  una  forma  diffe- rente, ciò  che  era  stato  già  affermato  nelle  premesse. Questa  difformità  necessaria  della  deduzione  del  realismo dialettico  dalla  vera  deduzione  fa  che  spesso  non  si  com- prenda che  essa  pretende  di  essere  una  deduzione,  come è  avvenuto  generalmente  per  la  dialettica  platonica.  Que- sta che,  come  abbiamo  visto,  consiste  a  dedurre  da  un genere  tutte  le  sue  specie  reali,  che  sono  al  tempo  stesso I ri -355- \_ tutte  le  sue  specie  possibili^  non  sarebbe  una  vera  de- duzione che  se  la  premessa  fosse,  non  l'affermazione  del concetto  generico  (obbietti vato,  cioè  dell'Idea  del  genere), come  è  di  fatto,  ma  la  proposizione  generale  che  tutte le  specie  possibili  del  genere  devono  esistere.  Ma  in  que- sto caso  non  si  dedurrebbero  dei  reali  da  altri  reali  di- stinti; quindi  la  deduzione  non  rappresenterebbe  una derivazione  reale,  ma  il  rapporto  tra  il  principio  e  la conseguenza  sarebbe  puramente  logico,  e  non  potrebbe identificarsi  a  quello  ontologico  tra  la  causa  e  l'effetto  (1). 2^  Le  astrazioni  realizzate  che,  in  questa  deduzione, fanno  da  principii  e  quelle  che  fanno  da  conseguenze, devono  formare  una  scala  di  astrazione  decrescente,  in modo  da  costituire  degli  stati  logicamente  successivi  di un  essere  unico,  che  passa  gradatamente  da  uno  stato più  astratto  o  più  indeterminato  a  uno  stato  più  concreto o  più  determinato.  Ciò  è  perchè,  come  abbiamo  detto precedentemente  (I,  no  2»),  la  conseguenza,  o  piuttosto l'insieme  delle  conseguenze,  non  potrebbe  essere  che  il principio  stesso  in  una  forma  più  concreta  o  più  deter- minata, e  il  passaggio  dal  più  astratto  o  più  indetermi- nato al  più  concreto  o  più  determinato,  in  cui  consiste la  deduzione,  deve  rappresentare  un  progresso  nella  realtà stessa,  e  non  semplicemente  nel  nostro  pensiero,  senza di  che  la  deduzione  non  rappresenterebl)e  una  deriva- zione reale  Ciò  importa  che  il  più  astratto  o  più  inde- terminato e  il  più  concreto  o  più  determinato  siano  due realtà  distinte,  quantunque  al  tempo  stesso  due  forme d'un'esistenza  unica,  e  non  semplicemente  due  espres- sioni o  due  rappresentazioni  distinte  di  una  stessa  realtà  (1).  È  un  tratto  clie  abbiamo  trovato  in  tutti  i  sistemi precedenti  e  che  è  più  essenziale  al  realismo  dialettico che  la  stessa  obbietti  vazione  dei  concetti,  come  vedremo nei  paragr.  seguenti,  in  cui  lo  ritroveremo  in  Spinoza, le  cui  astrazioni  realizzate  non  sono,  a  parlar  propria- mente, dei  concetti  obbiettivati. 3«  Il  primo  principio  —  noi  diremo  in  seguito  perchè il  primo  principio  è  necessariamente  unico  —  deve  essere stabilito  a  priori,  per  la  sua  necessità  intrinseca,  in  modo che  la  conoscenza  sia  puramente  a  priori,  e  la  deduzione sia  una  vera  dimostrazione.  Ciò  è  perchè,  nel  realismo dialettico,  l'anteriorità  cronologica  della  causa  verso  l'ef- fetto è  sostituita  da  una  anteriorità  logica  (che;  obbiet- tivata.,  si  chiama  anteriorità  di  natura).  La  certezza  delle conseguenze  deve  dipendere  dalla  certezza  dei  princìpi!, ma  questa  deve  essere  indipendente  da  quella.  Se  non  fosse così,  Pesisenza  delle  entità  conseguenze  non  dipenderebl)e dalla  esistenza  delle  entità  priucipii,  e  il  rapporto  tra  il principio  e  la  conseguenza  non  potrebbe  identificarsi  a quello  tra  la  causa  e  l'effetto  (2). 4<)  Non  solo  la  dimostrazione  dialettica  non  deduce che  delle  astrazioni  realizzate  da  altre  astrazioni  realiz- zate, ma  questa  deduzione  deve  essere,  per  quanto  è  pos- sibile, immediata,  vale  a  dire  il  legame  logico  fra  le  a- strazioni  realizzate  che  fanno  da  premesse  e  quelle  che fanno  da  conseguenze  deve  vedersi,  per  quanto  è  possi- bile, intuitivamente  e  non  mediante  un  ragionamento, in  modo  che  dalla  posizione  delle  une  si  passi  immedia- tamente a  quella  delle  altre,  e  la  dimostrazi(me  non  con- sista che  nella  loro  posizione  successiva.  Di  questa  ma- il) Cfr.  }  2,  p.  34-35,  }  3,  p.71-72,  }  6  sulla  fine. (2)  Confr.  }  2»  P    62,  }  6,  p.  136,  J  21,  p.  309. niera  lo  svihippo  della  dimostrazione  non  è  che  la  ri- produzione dello  sviluppo  stesso  della  realtà,  e  la  scienza è  una  sorta  d'  intuizione,  in  cui  il  pensiero  non  fa  che asssistere,  per  dir  cosi,  alla  evoluzione  delle  cose,  limi- tandosi a  rifletterla  passivamente  come  uno  specchio.  È ciò  che  è  espresso  nel  principio  hegeliano  dell'  identità dello  sviluppo  logico  con  lo  sviluppo  ontologico  e  nella proposizione  di  Spinoza:  ordo  et  connexio  idearum  idem est  ac  ordo  et  connexio  reixim.  Questa  identità  è  spiegata da  Platone  considerando  la  scienza  come  un  risveglio dell'  intuizione  del  mondo  ideale  in  una  vita  anteriore. Spinoza  la  chiama  una  conoscenza  intuitiva,  e  Schelling la  fa  consistere,  nel  senso  proprio,  in  un'intuizione  intel- lettuale. La  ragione  di  questa  immediatezza  della  dedu- zione del  realismo  dialettico  è  che  il  principio  logico deve  identificarsi  con  la  causa  efficiènte.  Perchè  una  causa possa  considerarsi  come  efficiente,  la  sua  connessione  con l'effetto  deve  essere  una  verità,  non  solo  razionale,  ma anche  intuitiva,  deve  essere  evidente  per  sé  che  la  causa è  capace  di  produrre  l'effetto,  e  1'  effetto  <lì  essere  pro- dotto dalla  causa.  Ne  segue  che  il  legame  logico  tra  il principio  e  la  conseguenza  non  potrebbe  identificarsi  col rapporto  tra  la  causa  cuciente  e  l'effetto,  se  questo  le- game logico  non  si  vedesse  intuitivamente,  ma  fosse  ne- cessario di  stabilirlo  per  una  dimostrazione  (1). 5.®  La  deduzione  dialettica  implica  una  moltiplicità di  passaggi  logici  —  vale  a  dire  tutte  le  entità  non  si deducono  immediatamente  dal  primo  principio,  ma  si passa  gradatamente  «la  questo  alle  conseguenze  ultime per  una  moltitudine  di  anelli  intermediari.  —  Di  più  tutti- questi  passaggi  logici  sono  regolati  da  una  legge  costan- (1) Confr.  oap.  VI,  }  5  e  questo  cap.  }  12  n.  4»  e  {  20,  n.  2®. —  Sòs- te; in  altre  parole,  il  metodo  della  deduzione  è  rigoro- samente uniforme,  ed  è  considemto  come  la  legge  stessa delle  astrazioni  realizzate.  Questa  legge,  nel  sistema  he- geliano, è  il  passaggio  dalla  tesi  alPantitesi  e  da  queste alla  sintesi  ;  nel  sistema  platonico,  la  divisione  dicoto- mica deiridea  generica  nelle  Idee  specifiche;  nel  sistema del  Taine  la  gerarchia  delle  coppie  di  astratti,  secondo cui  un  gruppo  di  leggi  inferiori  deriva  costantemente da  una  legge  superiore.  È  nel  mondo  delle  astrazioni i*ealizzate  ciò  che  una  sequenza  invariabile  nel  mondo dei  fenomeni,  salvo  che  qua  si  tratta  di  una  sequenza cronologica  e  là  di  una  sequenza  semplicemente  logica. Questa  uniformità  di  sequenza  delle  astrazioni  realizzate, che  implica  al  tempo  stesso  una  moltiplicità  di  passaggi logici  e  una  legge  comune  che  li  regola,  è  evidentemente un  corollario  dell'identità  tra  il  principio  e  la  conseguenza e  la  causa  e  Peffetto.  Infatti,  se  la  causazione  efficiente si  distingue  dalla  causazione  empirica  perchè  il  legame tra  la  causa  e  l'effetto  è  intrinsecamente  evidente  e  ne- cessario —  ciò  che  è  la  ragione  determinante  per  iden- tificarla col  rapporto  tra  il  principio  e  la  conseguenza —,  essa  non  è  al  postutto  che  una  forma  della  causazio- ne, e  causazione  vuol  dire  sequenza  invariabile  (1). 6.^  Un  altro  carattere,  che  è  una  conseguenza  del precedente,  è  l'unità  di  principio.  La  legge  c(miune  che regola  i  passaggi  logici,  implica  che  tutte  le  astrazioni realizzate  si  dispongano  in  un  ordine  uniforme,  secondo un  tipo  costante  che  si  riproduce  a  tutti  i  gradi  del progresso  dialettico,  e  si  ritrova  in  tutte  le  parti  del  mon- do delle  astrazioni  realizzate.  Questo  tipo  costante  consi- ste, come  sappiamo:  nel  sistema  di  Platone,  in  due  Idee (1)  Confr.  }  3  p.  73,  J  5  p.  121-122,  J  12  n.  5o  e  J  20  n.   3©. —  369  — opposte  subordinate  a   un'Idea  più  generale  ;  in  quello di  Hegel  in  due  idee  opposte  seguite  da  una  terza  che le  sintetizza;  in  quello  di  Taine,  in  un  gruppo  di  leggi inferiori  subordinate  a  una  legge  superiore.  Questo  tipo costante  deve  realizzarsi  sempre  e  da  per  tutto,  perchè è  la  legge  del  mondo  delle  astrazioni  realizzate  :  ognu- na deve   essere   dunque  con  le  altre  in  rapporti    deter- minati, in  modo  che  questi  rapporti  riproducano  il  tipo costante  secondo    cui  tutte  sono   disposte  ed    ordinate. Ma  ciò  sarebbe  incompatibile  con  una  pluralità  di  prin- cipii  primi  :  anche  questi  dovrebbero  avere  fra  di    loro quei  rapporti  determinati,  necessari  perchè  il  loro  insieme presenti  anch'esso  il  tipo  comune,  ciò  che  importa  la  su- bordinazione degli  altri  a  qualcuno  di  essi  o  di  tutti  a qualche  altro  principio    «uperiore.  P.  e.    una    pluralità di  generi  sommi  pel  sistema  di  Platone  o  di   leggi   su- preme nel  sistema  di   Taine  richiederebbe,  perchè  non vi  fosse  un'eccezipne  al   tipo  universale   che  è  la  legge di  ciascuno  dei  d|ie  sistemi,  un  altro  genere  o  un'altra legge  ancora  superiori,  a  cui  questi  generi  o  queste  leggi fossero  subordinati.  Nel  sistema  di  Hegel  upa  pluralità d'idee  ugualmente  primitive  e  indipendenti  le  une  dalle altre  richiederebbe  che  anche  queste  idee  si  ordinassero fra  di  loro  secondo  la  legge  comune  di  un'  opposizione seguita  da  una  sintesi,  ciò  che  importerebbe  la  sequenza logica  delle  altre  da  qualcuna  fra  di  loro.  Questa  unità di  principio  che  potrebbe  chiamarsi  monismo  logico,  im- porta un'altro  monismo,  che  potremmo  dire  ontologico. Le  conseguenze,  nel  realismo   dialettico,  non    essendo che  i  principii  stessi  a  un  grado  più  avanzato  di  deter- minazione, dire  che  tutte  le  astrazioni  realizzate  si  de- ducono da  un  principio  unico^  è  dire  che  tutte  costitui- scono degli  stati  logicamente  successivi  di  un  essere  u- nico,  che  passa  progressivamente  da  una  stato  più  in- determinato a  uno  stato  più  determinato.  Questo  moni- —  360  — smo  logico  ed  ontologico,  che  è  anch^esRo  un  carattere generale  del  realismo  dialettico,  è  una  conseguenza  in- diretta del  concetto  di  causalità  su  cui  è  f(»^ata  que« sta  filosofia,  derivando  da  un  altro  concetto  che  ne  de- riva della  maniera  più  diretta,  cioè,  come  abbiamo  visto nel  numero  precedente,  la  legge  uniforme  del  metodo dialettico  (1). }  24.  Il  stisteraa  di  Spinoza  è  un  realismo  dialettico, come  quelli  di  Platone  e  di  Hegel,  ma  in  questo  sistema le  astrazioni  realizzate  a  cui  si  applica  la  dialettica,  cioè la  deduzione,  non  sono  delle  Idee  come  in  quelli  di Platone  e  di  Hegel.  La  dialettica  non  può  dare  il  reale nella  sua  integrità,  ma  solamente  l'elemento  necensario del  reale:  questo,  nel  realismo  dialettico,  si  astrae,  per conseguenza,  dalPelemento  contigente,  e  si  considera,  in questa  sua  astrattezza,  come  una  realtà  distinta,  pre- sente nelle  cose,  ma  sussistente  per  se  stessa.  Nei  si- stemi di  Platone  e  di  Hegel  questo  elemento  necessario del  reale,  astratto  dall'elemento  contigente,  sono  le  Idee, cioè  i  tipi  generici  e  specifici,  riguardati  ciascuno  come Vuno  nei  molti,  vale  a  dire  come  uno  in  se  stesso,  ma presente,  pur  restando  uno  e  lo  stesso,  in  tutti  gl'indi- vidui della  specie  o  del  genere.  Nel  sistema  di  Spinoza, invece,  sono  le  cose  stesse  multiple  e  infinite,  conside- rate, come  dice  l'autore,  sub  specie  aeternitatis  ;  vale  a dire  ciò  che  vi  ha  di  costante  negli  stati  successivi  del- l'universo,  riguardato  come  una  realtà  eterna,  cioè  al di  fuori  del  tempo,  presente  in  tutti  questi  stati  succes- sivi, ma  sussistente  per  se  stessa.  Un'  altra  circostanza caratteristica  del  sistema  di  Spinoza  è  la  relazione  di- versa ch'egli  stabilisce  fra  il  pensiero  e  le  cose.  Platone -  361  — (1)  (Confronta  }  3  p.  74-75,  }  5 ,  $  20  n.  4o. si  metteva  al  punto  di  vista  più  ordinario,  nel  quale  il pensiero  e  la  realtà  appariscono  come  due  cose  affatto distìnte,  fra  cui  non  vi  ha  che  un  rapporto  di  azione reciproca;  per  Heg(»l  tra  il  pensiero  e  la  realtà  vi  ha un'identità  assoluta;  per  Spinoza  vi  ha  un  parallelismo, che  si  spiega  per  un'identità  fondamentale,  anteriore, (nel  senso  platonico  e  spinozista  del  termine)  alla  loro distinzione.  Sono  questi  due  caratteri  propri  del  sistema di  Spinoza,  che,  uniti  a  quelli  comuni  del  realismo  dia- lettico, danno  un'impronta  speciale  a  questo  sistema,  e rendono  conto  dei  suoi  tratti  più  generali. Il  concetto  che  riassume  tutta  la  fisolofia  di  Spinoza è  la  celebre  proposizione  :  Ordo  et  connexio  idcarum  idem est  ac  ordo  et  connexio  rerum.  Questa  proposizione  e- sprime  al  tempo  stesso  il  principio  del  realismo  dialet- tico —  cioè  l' identità  del  rapporto  tra  il  principio  e  la conseguenza  col  rapporto  tra  la  causa  e  1'  effetto  —  e quello  del  parallelismo  tra  il  pensiero  e  le  cose.  Quan- tunque a  noi  non  importi  studiare  il  sistema  di  Spinoza che  in  quanto  è  uno  sviluppo  del  primo  dei  due  prin- cipii,  pure,  questa  parte  essendo  inseparabile  dall'altra, cioè  quella  per  cui  è  uno  sviluppo  del  principio  del parallelismo,  noi  dobbiamo  esporre  tanto  l'  una  quanto l'altra,  facendo  precedere  <iuest'ultima,  senza  la  quale non  ci  sarebbe  possibile  di  far  comprendere  la  prima. Il  principio  del  parallelismo  tra  il  pensiero  e  le  cose è  !a  dottrina  del  parallelismo  psico— fisico,  salvo  che  il termine  parallelismo,  nel  sistema  di  Spinoza,  va  preso in  un  senso  assai  più  rigoroso.  In  questo  sistema,  oltre alla  concomitanza  costante  tra  i  fenomeni  psichici  e certi  fenomeni  fisici  e  la  loro  indipendenza  reciproca  (1), (1)  Per  questi  due  punti  della  dottrina  di  Spinoza  v.  Eth.  parte II  Prop.  5,  6,  7  col  Cor.  e  lo  Sohol.,  9,  12,  Cor.  prop.  17,  Pr. 18  e  Schol.  parte  III  Prop.  2,  e  Schol.  parte   V  Prop.  1,  eco: il  parallelismo  importa  :  P  Glie  ogni  fatto  fisico  ha  ud  con- comitacte  psichico  e  viceversa.  Ne  segue  che  non  vi  ha corpo  senza  spirito  come  non  vi  ha  spirito  senza  corpo,  che tutto  è  animato  che  ogni  cosa  vive,  sente  e  pensa  (1).  Ne segue  pure  che  ad  ogni  fatto  fisico  non  corrisponde  che un  solo  fatto  psichico,  concetto  che,  come  vedremo,  ha per  risultato  dMntegrare  le  singole  anime  degli  oggetti partieotari  nelPanima  unica  del  tutto,  trasformando  il sistema  di  Spinoza  da  semplice  ilozoismo  in  un  vero panteismo.  2^  Che  il  fisico  e  lo  psichico  sono,  come  dice Fautore,  due  espressioni  difterenti  di  una  sola  e  stessa cosa  (2).  Per  conseguenza  la  serie  fisica  v  la  serie  psi- chica non  si  corrispondono  solamente  pei  loro  rapporti di  concomitanza  costante,  ma  fra  i  termini  delle  due serie  vi  ha,  insieme  alla  loro  differenza,  una  identità parziale,  come  se  fossero  modellati  sovra  un  tipo  co- mune, che  gli  unì  e  gli  altri  rappresentano,  quantun- que gli  uni  differentemente  dagli  altri.  Questo  paralle- lismo psico  —  fisico  così  inteso,  è,  insieme  al  concetto generale  del  realismo  dialettico,  il  germe  da  cui  si  svi* luppa  tutta  la  metafisica  dì  Spinoza. Il  tratto  che  salta  più  agli  occhi  nella  filosofia  di Spinoza  —  e  che  è,  come  spiegheremo,  una  conseguenza del  principio  del  parallelismo— è  la  sua  dottrina  dell'u- nità dì  sostanza.  L'universo  è  un  essere  unico,  che  si chiama  Dio  o  la  Natura  (Deus  sive  natura).  Dio  o  la Natura  è  una  sostanza  infinita,  la  cui  essenza  è  costitui- ta da  un  numero  infinito  di  attributi,  ciascuno  infinito nel  suo  genere,  ma  di    cui  noi  non  ne  conosciamo  che (1)  V.  Eth.  parte  II,  Sohol.  prop.  13. (2)  V.  Eth.  p.  II  Schol.  pr.  7. —  363  — due,  l'estensione  e  il  pensiero  (1)— grandioso  non  senso, in  cui  noi  dobbiamo  vedere,  piuttosto  che  un  prodotto del  genio  metafisico  dell'autore,  un  effetto  di  questa  ten- denza verso  il  colossale  e  l'iperbolico,  che  caratterizza l'immaginazione  orientale  —  Ogi^i  cosa  è  un  modo  della soistanea  unica,  che  esprime  d'una  maniera  determinata e  finita  —  questi  due  termini  per  Spinoza  sono  equiva- lenti (2)  —  l'essenza  di  questa  sostanza,  cioè  per  quanto noi  ne  conosciamo,  l'estensione  e  il  pensiero  infiniti  (3) In  questo  concetto  della  sostanza  il  principio  del  paral- lelismo si  mostra  evidentemente  in  due  punti.  Per  Spi- noza, come  per  Cartesio,  ^essenza  della  materia  consi- ste nell'estensione,  e  per  conseguenza  l'estensione  è  per lui  la  sostanza  delle  cose  materiali,  vale  a  dire  ciò  che vi  ha  in  esse  di  permanente,  e  di  cui  tutti  i  loro  feno- meni sono  dei  modi  di  essere  o  delle  determinazioni, cioè  delle  forme,  degli  atteggiamenti  svariati.  Similmente tutti  i  fenomeni  psichici  sono  per  Spinoza  delle  forme o  degli  atteggiamenti  svariati  di  una  cosa  permanente, che  è  il  pensiero  assolutamente  considerato,  o,  come  e- gli   lo  chiama   ancora,   il  pensiero   sostansialc    (4).  Ciò (1)  V.  Dio,  Vuomo  eco.  trad.  frano,  pag.  7,  9,  19,  40,  128, 130,  131,  133,  Eth.  parte  1.  Def.  6,  Sohol.  prop.  10,  Schol.  prop, 15,  Dim.  prop.  16,  parte  II  Dira.  prop.  1  e  Schol.,  Sohol.  prop. 7,  Epist.  66,  Epist.  68  (fr.  67),  ecc.(2)  V.  Eth.  parte  1.  Dim.  prop.  21.  Prop.  28  e  dim.,  parte  II Def.    7,    De  ini.    emetul,   108.  Ili,    Episl.  44  (4  - 10),     EpisL    50 ^4),  ecc. (3)  Eth.  Parte  I.  Prop.  15,  Cor.  pr.  25,  Dim.  pr.  28,  Dim. pr.  29,  Schol.,  Dim.  pr.  31,  Dim,  pr.  36,  Parte  II  Def.  1.,  Dim. pr.  1,  Dim.  pr.  5,  Schol.  pr.  7,  Dim.  pr.  9,  Cor.  pr.  10,  ecc. (4)  V.  Dio,  Vuomo  eco.  p.  51-52,  Epist.  27,  7  (ofr.  Epist.  26,  6), Epist.  37,  3  -  4,  Eth,  p.  I.  Prop.  21  o  dim.,  23  e  dim.,  31  e dim.,  parte  II  Prop.  9  e  dim.,  eoe.*mmi I 1'' ri —  364  - suppone  :  1^  Che  tutti  gli  altri  fenomeni  psichici  siano ricondotti  al  pensiero.  Oosì  la  psicologia  di  Spinoza  è l'esempio  più  tipico  di  quella  che  Wundt  chiama  intel- lettualista.  Tutti  i  fatti  interni,  apparentemente  diversi dal  pensiero,  sono  pure  dei  pensieri,  ma  confusi:  i  sen- timenti stessi  (o  come  dice  Spinoza,  gli  affetti)  sono  an- ch'essi delle  idee  confuse  (1).  Ciò  è  perchè  il  principio del  parallelismo  importa,  come  abbiamo  detto,  che  il  fi- sico e  lo  psichico  sono  due  espressioni  diverse  d'  una sola  e  stessa  cosa,  e  rappresentano,  per  dir  così,  un  tipo comune,  su  cui  l'uno  e  l'altro  sono  modellati.  Ora  questo non  è  concepibile  che  assimilando  tutti  gli  ;iltri  fenomeni psichici  al  pensiero,  alla  rappresentazione.  2^  Che  vi  sia una  sostanza  del  pensiero,  di  cui  tutti  i  pensieri  siano delle  forme  cangianti  e  limitate,  come  vi  ha  una  so- stanza materiale  di  e:iì  tutto  ciò  che  avviene  nel  mondo fisico  è  una  forma  cangiante  e  limitata  (2).  Questo  con- cetto di  un  pensiero  sostanziale,  die  è  il  substratum  per- manente di  tutti  i  pensieri,  è  una  conseguenza  naturale del  principio  cartesiano  che  l'essenza  dello  spirito  con- siste nel  pensiero,  e  si  ritrova,  in  altra  forma,  in  Male- branche e  in  altri  cartesiani  (3).  Noi  vedremo  nell  'Ap- pendice, cap.  2^  che  sulla  natura  dello  spirito,  con- cepito come  una  sostanza,  cioè  come  un  substratum  per- manente su  cui  i  fenomeni  psichici  sono  tVmdati,  la metafisica  ha  immaginato  costantemente  un  certo  numero' d^ipotesi,  e  che  una  di  <iueste  è  che    la  sostanza   dello —  365  — spirito  è  anch'essa  un  fatto  psichico,  cioè  un  pensiero o  un  sentimento,  permanente  e  fondamentale.  La  dot- trina del  pensiero  sostanziale  di  Spinoza  è  senza^  dubbio una  forma  di  quest'ipotesi;  salvo  che  egli  cerca,  non  la sostanza  dell^anima  individuale,  ma  quella  deir  anima del  tutto,  di  Dio  o  della  Natura.  Ma  essa  è  anche  evi-^ den temente  un'applicazione  del  principio  del  parallelismo, perchè  essa  trasporta  nel  mondo  psichico,  cioè  nell'at- tributo del  pensiero,  quella  stessa^relazione  tra  la  sostanza e  suoi  modi,  che  1'  autore  vede  nel  mondo  fisico,  cioè nell'attributo  dell'estensione. La  prima  determinazione  del  pensiero  sostanziale,  il suo  modo  originario  da  cui  tutti  gli  altri  derivano,  e- terno  come  il  pensiero  sostanziale  stesso,  sono  le  idee, cioè  l'intendimento  o  la  conoscenza  (1).  Il  sistema  di  Spi- noza non  è  un  semplice  ilozoisnìo,  ma  è  anche  un  pan» teismo,  perchè  egli  attribuisce  al  tutto,  come  tale,  un'in- telligenza propria,  distinta  da  quelle  degli  esseri  parti- colari, quantunque  queste  nonne  siano  che  delle  parte- cipazioni. L'intendimento,  nella  cosa  pensante,  cioè  nel tutto  considerato  sotto  l'attributo  del  pensiero,  è  unico come  ii  suo  oggetto  :  è  una  conoscenza  assoluta,  una copia  perfetta,  di  tutto  il  reale,  un  sistema  d' idee  che rappresenta  esattamente  il  sistema  delle  cose,  e  in  cui ad  ogni  oggetto  reale  corrisponde  un'idea  unica,  come (1)  V.  Elh.  Parte  III.  Def.  3  e  AffecL  Getter  Definii,  ed  JKr- plie.  (in  fine  di  questa  parte),  Parte  V.  Dim.  prop.  3,  Cor.  prop. 4,  Diui.  prop.  17,  eoe. (2)  V.  i  luoghi  indicati  nella  nota  penultima. (3)  V.  Append*  alla  parte  I.  cap.  2». (1)  Le  idee  o  T intendimento  sono  il  modo  originario  del  pen- siero, anteriore  di  naturo ^  come  dice  Spinoza,  a  tutti  gli  altri, perchè  gli  altri  modi  del  pensiero,  cioè  gli  altri  fatti  psichici,  si risolvono,  secondo  lui,  in  idee  confuse  e  inadequate,  e  queste nascono,  come  ora  spiegheremo,  dalle  idee  adequate. V.  Dio  Vuomo  ecc.  p.  130  trad.  frano.,  Eth,  p.  II  dim.  prop. 11.  e  i  1.  indicati  nella  nota  1,  pag.  preccd. «p —  366  — —  367  — ad  ogni  idea  corrisponde  un  oggetto  nnico  nella  realtà  (1). L'  idea  corrispondente  ad  un  oggetto  costituisce  il  lato interno  di  quest'oggetto,  cioè  la  sua  anima  o,  come  dice Spinoza,  la  sua  mente  (2),  di  cui  però  l'oggetto  stesso  non ha  che  una  percezione  imperfetta  (3).  Noi  e  tutti  gli esseri  pensanti  individuali  siamo  parti  di  un  essere  pen- sante unico;  il  nostro  intendimento  si  confonde  con  l'in- tendimento unico  che  è  nella  cosa  pensante  ;  le  nostre idee  sono  una  partecipazione  delle  sue  idee  (4).  Ogni idea  considerata  assolutamente,  vale  a  dire  in  quanto esiste  in  Dio,  cioè  nel  tutto,  è  vera,  perchè  è  della  na- tura del  pensiero  di  corrispondere  perfettamente  all'og- getto pensato  (5).  Le  nostre  idee  vere  ossia  adequate sono  le  idee  stesse  del  tutto,  del  suo  intendimento  unico, che  noi  percepiamo  nella  loro  integrità  (ex  loto,  vale  a dire  noi  ne  partecipiamo  in  modo  che  questa  partecipa- zione continua  a  rappresentare  esattamente  1'  oggetto, come  l'idea  nella  sua  totalità)  (6):  le  nostre  idee  false  o (1)  V.  Dio,  l'uomo  e  la  beat.  trad.  fi-auc.  p.  45-46,  51-52,  lOT- 108.  130,  Vò2,Mh,  parte  II  Prop.  3.  e  diui.,  4  e  dira.,  Dim.  pr. 5,  Cor.  prop.  7,  Schol.,  Scbol,  pr.  8,  Cor.  prop.  9  e  dim.,  Dim, pr.  12,  Sohol.  pr.  13,  Dim.  pr.  15,  Dira.  pr.  19,  Pr.  20  e  dim., Dim.  pr.  24,  25,  30,  38,  39,  43,  eoe. (2)  y.Dio,  ruomo  eoe.  51-52,  107-108,  Mh.v-  H  Dim.  pr.  12, Sohol.  pr.  13,  Dim.  pr.  15,  Dim.  pr.  19,  eoe. (3)  V.  jWo,  Vuomo  eco.  pag.  107  nota,  n.  9,  Eth  p.  II  Prop. 19  e  dim..  23  e  dim,  Soboi.  prop.  28,  Prop.  29  e  Cor,  ecc. (4)  V.  De  inielL  emend.  73,  Dio,  V  uomo  eoo.  p.  107  nota n.  10  in  fine,  pag.  123  n.  2.  (efr.  p.  I.  oapit.  9),  Mh.  p.  II Cor.  prop.  11,  Sohol.  pr.  43,  p.  V,  Schol.  pr.  40,  eoo. (5)  V.  De  ini.  emend,  73,  Eth,  p.  II  Pr.  32,  33  e  dim,  34  e dim,  36  e  dim,  ecc. (6)  De  ini,  em,  73.  Eth.  p.e  2.  pr.  34  e  dim.,  eoo. di  una  maniera  qualunque  inadequate  sono  ancora  le idee  del  tutto,  ma  che  noi  percepiamo  per  frammenti,  o, come  dice  Spinoza,  ex  parte  o  mutilate  (1),  l'errore  non essendo  niente  di  positivo,  ma  solamente  una  priva- zione di  conoscenza  (2).  Per  ispiegare  le  nostre  idee  ina- dequate,  cioè  frammentarie,  Spinoza  dice  che  le  idee adequate  corrispondenti  sono  in  Dio,  cioè  nel  tutto,  in quanto  egli  costituisce,  non  la  nostra  mente  soltanto, ma  insieme  ad  essa  le  menti  di  altri  oggetti,  o  in  altri termini  in  quanto  egli  ha,  non  l' idea  del  nostro  corpo soltanto,  ma  insieme  ad  essa  le  idee  di  altri  corpi  (3). Così  il  pensiero  unico  di  Dio,  cioè  del  tutto,  non  esiste al  di  fuori  dei  pensieri  individuali;  è  questi  pensieri  in- dividuali stessi,  addizionati  e  fusi  in  un  solo  pensiero; come  un'  immagine  unica  che  risulti  dalla  sovrapposi- zione di  molte  immagini,  in  modo  che  l'immagine  risul- tante rappresenti  d' una  maniera  perfetta  e  completa  la cosa  stessa  che  le  immagini  componenti  rappresentano imperfettamente  e  parzialmente.  Evidentemente  quest'i- potesi di  Spinoza  di  una  intelligenza  unica  del  tutto,  di cui  le  intelligenze  individuali  sono  delle  partecipazioni, è  un  effetto  della  tendenza  costante  della  metafìsica  a fare  dell'universo,  come  dice  Schopenhauer,  un  macran- tropo,  a  dargli  una  coscienza  e  una  personalità.  Ma  non è  meno  evidente  ch'essa  è  un'applicazione  del  principio del  parallelismo.  11  concetto  che  ogn'  idea,  assolutamente (1)  De  ini,  ememt,  73,  Eth.  p.  II     Cor.  prop.    11,  Prop.   33, Cor.  prop.  29,  p.  III  Dim.  prop.  1.,  eco. (2)  V.  Mh.  p.   II    Prop.    33    e  dim,  Prop.  35    e  dim,    Scbol. prop.  43,  eoo. (3)  V.  Eth.  p.  Ili    Dim.  prop.  1.,  p.  II  Cor.  prop.  11,   Dim. prop.  19,  24,  25,  28,  30,  ecc. —  368  — considerata,  è  vera  ed  adequata,  Spinoza  lo  deduce  e- splieitamente  dalla  proposizione  che  ordo  et  connexio idearum  idem  est  ac  ordo  et  connexio  rerum  (1).  Da  que- sta proposizione  egli  avrebbe  potuto  dedurre  egualmente che  l'idea,  assolutamente  considerata,  deve  essere  unica per  ciascun  oggetto,  e  per  conseguenza  V  intem  ipotesi, perchè  essa  non  consiste  che  in  questi  due  concetti. Il  parallelismo  psico-fisico,  cioè  il  parallelismo  tra l' idea  e  la  realtà  (perchè  tutto  lo  psichico  si  risolve nel  pensiero,  e  tutto  il  pensiero  nelle  idee  vere  e  ade- quate) risulta,  secondo  Spinoza,  dalla  identità  fondamen- tale di  questi  due  lati  inseparabili  dell'  essere.  La  so- stanza pensante,  egli  dice,  e  la  sostanza  estesa  sono  una sola  e  stessa  sostanza,  che  ora  si  comprende  sotto  l'uno, ora  sotto  1'  altro  di  questi  due  attributi.  Così  pure  un modo  dell'estensione  e  l'idea  di  questo  modo  è  una  sola e  stessa  cosa,  espressa  di  due  maniere  difterenti.  In  al- tri termini,  un  corpo  e  l'idea  di  questo  corpo,  o,  ciò  che è  lo  stesso,  la  sua  mente,  è  una  sola  e  stessa  cosa,  che ora  si  concepisce  sotto  1'  attributo  dell'  estensione,  ora sotto  quello  del  pensiero.  P  e.  il  circolo  reale  e  l'idea del  circolo  stesso  che  è  in  Dio  (vale  a  dire  l' idea  ade- quata e,  se  non  fosse  una  stranezza,  l'anima  di  questo circolo)  è  una  sola  e  stessa  cosa  che  si  spiega  per  due attributi  diversi.  P.  e.  ancora  la  volizione  e  il  movi- mento corporeo  che  1' accompagna  è  una  sola  e  stessa cosa,  che  chiamiamo  volizione  quando  la  consideriamo sotto  l' attributo  <lel  pensiero  e  la  spieghiamo  per  le leggi  di  questo,  e  chiamiamo  movimento  quando  la  con- sideriamo sotto  l'attributo  dell'estensione  e  la  spieghia- mo per  le  leggi  del  moto  e  della  quiete.   Ne  segue  che (1)  Mh.  p.  II.  Dira.  prop.  32,  36,  38,  39. :l -    369  - sia  che  noi  concepiamo  la  natura  sotto  l'attributo  del- l'estensione, sia  che  la  concepiamo  sotto  l'attributo  del pensiero,  noi  troviamo  da  una  parte  e  dall'altra  un  solo e  stesso  ordine,  una  sola  e  stessa  concatenazione  di  cause ed  effetti  ;  che  p.  e.  la  serie  delle  azioni  e  passioni  del corpo  corrisponde  alla  serie  delle  azioni  e  passioni  del- Tanima,  quantunque  l'una  si  svolga  indipendentemente dall'altra.  Dall'  una  e  dall'  altra  parte  noi  vediamo  se- guirsi le  stesse  cose;  ma  ora  Ic^  consideriamo  come  modi del  pensiero,  ora  come  modi  dell'estensione  (1). Il  concetto  di  Spinoza,  che  metteremo  più  in  luce  in  se- guito, è  che  l'idea  e  il  suo  oggetto  (e  per  conseguenza,  l'ani- ma e  il  corpo)  sono  due  modi  di  essere  di  una  sola  e  stessa cosa  che,  una  in  se  stessa,  si  ritiova  sotto  queste  due forme  distinte,  pur  restando  identica  a  se  stessa.  I  fatti che  egli  vuole  spiegare  sono  sovratutto  due.  L'uno  che l'idea  e  la  cosa  hanno  per  dir  così,  lo  stesso  contenuto, questa  sotto  la  forma  delia  realtà,  quella  sotto  la  forma del  pensiero.  L'altro  la  concomitanza  costante,  la  corri- spondenza, tra  i  fenomeni  psichici  e  i  fenomeni  somatici che  li  accompagnano.  Nel  secondo  di  (|uesti  due  fatti  si è  visto  sempre  un  mistero  :  è  sem])re  sembrato  incom- prensibile che  il  fenomeno  psichico  sia  prodotto  dal  fe- nomeno tìsico  corrispondente,  e  questo  da  quello  (2). Dalla  pretesa  impossibilità  di  un  legame  causale  tra  i due  ordini  di  fenomeni  (che  egli  ammette  con  Malebian- che  e  con  Leibnitz),  Spinoza  ne  conclude  che  non  vi  ha fra  di  loro  che  una  semplice  concomitanza,  un  paralle- (1)  AVA.  p.  II.  Schol.  prop.  7  e  Scbol.  prop.  21  e  p.  IH  Scbol. prop   liftino,  e,  come  Malebranche  e  Leibnitz,  cerca  un'ipotesi per  impiegare  <|ue8ta  concomitanza.  11  primo  fatto,  cioè la  conformità  tra  il  pensiero  e  le  cose,  è  tanto  più  un problema  per  Spinoza,  che  e^li  non  ammette,  uè  che  le cose  agiscano  sul  pensiero  né  che  il  pensiero  agisca  sulle cose.  L'ipotesi  di  Spiuoza  per  ispiegare  i  due  fatti  è  co- struita sullo  stess'>  tipo  che  tutte  le  ipotesi  metafisiche in  g«»nerale  :  egli  cerca  un  fatto  familiarissimo,  e  assi- mila a  questo  i  fatti  che  si  tratta  di  spiegare.  Questo fatto  familiarissimo  è  che  una  stessa  cosa,  in  due  modi di  essere  o  stati  differenti,  deve  ^somigliare  e  corrispon- dere a-  se  stessa.  È  ciò  che  osserviamo  il  più  abitual- mente :  ma  <]uesti  due  modi  di  essere  differenti  di  una stessa  cosa  noi  non  possiamo  concepirli  che  successivi, mentre  Spinoza  pretende  concepirli  simultanei.  È  perciò che  quest'ipotesi  è  un  concetto  metafìsico  nel  senso  più stretto,  cioè  trascendente  l'immaginazione, e  non  soltanto l'esperienza. §  25.  Oltre  il  parallelismo  tra  il  fisico  e  lo  psichico, cioè  tra  i  modi  dell'estensione  e  i  modi  del  pensiero,  la proposizione  che  V ordine  e  la  connessione  delle  idee  sono identici  alVordine  e  alla  connessione  delle  cose  significa, come  abbiamo  detto,  che  lo  sviluppo  logico  del  i)ensiero corrispomle  allo  sviluppo  reale  dell'essere.  È  quella  stessa identità  tra  il  processo  logico  e  il  processo  ontologico che  abbiamo  osservato  in  Platone,  in  Hegel  e  in  Taine. Spinoza  suppone,  per  conseguenza,  come  essi  :  cht  la vera  conoscenza  è  un  sapere  a  priori,  che  si  produce  per il  solo  movimento  logico  del  pensiero,  cioè  per  un  me- todo puramente  deduttivo;  che  questa  deduzione  non volge  su  delle  proposizioni,  ma  su  delle  semplici  idee (beninteso,  delle  idee  astratte);  e  che  i  gradi  o  momenti successivi  nel  progresso  della  deduzione  rappresentano dei  gradi  o  dei  momenti  successivi  nel  progresso  del reale  in   se  stesso   (anteriorità  e  posteriorità   di  natura -  371  — nel  senso  che  abbiamo  spiegato  parlando  di  Platone), in  modo  che  il  principium  cognoscendi  sia  anche  il principium  essendi,  e  il  legame  tra  le  premesse  e  le conseguenze  s' identifichi  col  legame  tra  le  cause  e  gli effetti.  È  un'altra  forma  del  parallelismo  tra  il  pensiero e  le  cose,  purché  si  ammetta  il  presupposto  gnoseolo- gico dell'autore,  cioè  che  vi  ha  una  conoscenza  del  reale assoluta  mente  a  priori,  che  lo  spirito  sviluppa  dal  suo proprio  fondo  per  la  sola    forza   logica  del  pensiero. Vi  hanno,  secondo  Spinoza,  tre  (fcneri  di  conoscenza,  ed è  il  terzo  che  è  il  solo  ade(|uato  (1).  Esso  procede  dalla cognizione  dell'  essenza  di  Dio  alla  cognizione  dell'  es- senza delle  cose  (2),  e  questo  passaggio  dall'una  cogni- zione all'  altra  è  una  dedusione  (3):  così  il  terzo  genere di  conoscenza  consiste  a  dedurre  tutte  le  cose  partico- lari dall'essenza  di  Dio,  cioè  della  Sostanza.  L'esistenza di  ciò  da  cui  tutto  il  resto  si  deduce,  cioè  di  Dio  o  della Sostanza,  è  una  verità  evidente  per  se  stessa,  assioma- tica —  senza  di  ciò  la  conoscenza  non  sarebbe  a  prio- ri —  (4r):  Dio  o  la  sostanza  è  la  «  causa  di  sé  »,  vale  a dire  «ciò  la  cui  natura  non  può  concepirsi  che  come esistente  »,  o  «  ciò  la  cui  essenza  involge  1'  esisten- za »,  in  altri  termini  dal  cui  concetto  o  dalla  cui  de- finizione  segue    necessariamente   che    deve   esistere  (5). (1)  ConlVouta  oap.  VI,  $  5. (2)  Eth.  p.  II,  Schol.  2.  piH)p.  40.  p.  V.  Schol.  piop.  20,  Dim. prop.  31,  Schol.  prop.  36,  ecc. (3)  V.  Klh,  p.  II  Scbol.  prop.  47  (cfr.  Scbol.  2o  prop.  40), p.  V,  Dim.  prop.   10,   De  iulelL  emend.  41-42,  91-94,  99-104,  ecc. (4)  Per  la  uecessità,  nel  realismo  dialettico,  che  il  primo  prin- cipio della  deduzione  sia  una  verità  a  priori  v.  pag.  256  e  i  1.  in- dicati nella  n.  2  di  pag.  3.56. (5)  V.   Eth  p.   I,   Def.   1 .  e  8.  Prop.  7  e  dim..  Schol.  2.  prop. SE -^  372  - K Dio  è  la  causa  di  tutte  le  altre  cose  nello  stesso  senso- in  cui  è  la  causa  di  sé  (1),  vale  a  dire,  come  la  sua  esi- stenza segue  dalla  sua  essenza,  cosi  è  dalla  sua  essenza che  segue  pure  V  esistenza  delle  altre  cose  (2).  Tutte le  cose  seguono  eternamente  dall'  essenza  di  Dio,  come dall'essenza  del  triangolo  segue  eternamente  che  i  suoi tre  angoli  sono  uguali  a  due  retti  (3)  (eternamente,  per- 8,  Prop.  11  e  dilli.,  Diui.  prop.  19,  eoo.  Questa  dottrina  di  Spi- noza che  l'esisteuza  di  Dio,  cioè  la  prima  verità  da  cui  si  de- duooDo  tutte  le  altre .  si  deduce  dalla  sua  essenza  o  dal  suo concetto,  è  iiaturaliuente  una  variante  della  dottrina  corrispon- dente di  Cartesio.  Anche  Spinoza  riguarda,  come  Cartesio,  Tidea di  esse*'f,  necessarioj  cioè  la  cui  esistenza  segue  dal  suo  concetto, come  inseparabilmente  legata  a  quella  di  essere  perfettissimo, cioè  assolutamente  infinito  —  benché  talvolta  sembri  considerare, come  fa  Cartesio,  l'esistenza  necessari:^  come  una  conseguenza dell'infinità  (v.  Eth.  p.  I  Schol.  prop.  11,  Epist.  27.  6,  Epy 40.  4.  VI),  e  tal  altra  invece  l' infinità  come  una  conseguenza dell'esistenza  necessaria  (v.  Eth.  p.  I  Schol.  \.  prop.  8,  Episi, 40.  3.  Ili,  Ep.  41.  4-5  e  10)  - .  È  su  questa  inseparabilità  tra  il concetto  di  essere  necessario  e  quello  di  essere  assolutamente infinito  che  è  fondato  il  suo  paradosso  che  Dio  o  la  Natura  deve avere  un  numero  infinito  di  attributi,  e  non  soltanto  quelli  che  noi conosciamo,  cioè  il  pensiero  e  l'estensione  (v.  Eth.  p.  I  Schol.  pr.. 10,  Epist,  27,  6,  Ep,  40,  4.  VI,  Episi.  41.  8-10),  sia  perchè  dall'esi- stenza necessaria  dell'essere  segue  la  sua  assoluta  infinità,  (cfr.  i 1.  indicati  nella  peiiult.  parentesi),  sia  perchè  è  solo  da  questa  asso- luta infinità  che  può  seguire  la  sua  esistenza  necessaria.  Spinoza non  si  allontana  molto  da  Cartesio,  dando  l'esistenza  di  Dio  per una  verità  assiomatica,  perchè  anche  questi  talvolta  considera l'esistenza  necessaria  dell'essere  perfettissimo  piuttosto  come un  assioma  che,  come  una  verità  di  dimostrazione.  (V.  Kisp.  alle See.  Ohbiez.  ed.  Cous.  t.  1.  p.  456  e  460). (1)  V.  Eth.  p.  1.  Schol.  pr.  25. (2)  V.  Eth.  p.  1.  Schol.  pr.  25,  Dim.  34.  Prefaz.  p.  IV. (3)  V.  Eth.  p.  I  Schol.  prop.  17  e p.  II  Schol.  prop.  49  verso  la  fine» -  373    - che  le  conseguenze  d'  una  verità   eterna  devono  essere anch'esse  delle  verità  eterne).  La  dottrina  di  Spinoza  è, come  sappiamo,  che  tutte  le  proprietà   d'  una  cosa  de- vono potersi  dedurre  dalla  sua  essenza,  cioè  dalla  sua definizione  (1):  ora  le  altre  cose  non  sono  che  dei  modi della  sostanza  unica,  cioè  di  Dio;  così  egli  vede  tra  Dio e  le  cose  lo  stesso  rapporto  che  tra  1'  essenza  e  le  pro- prietà, e  ammette  che  tutto  ciò  che  esiste  deve  dedursi dall'  essenza  o  dalla   definizione  di  Dio,  come  le   pro- prietà di  una  cosa  si  deducono  dall'essènza  o  dalla  de- finizione di  questa  cosa  (2).  Per  esprimere  la  derivazione delle  cose  da  Dio,  Spinoza  dice  il  più  abitualmente -e noi  vedremo  il  perchè  —  che  le  cose  secinono  o  sono  se- gnite    (il    più    delle    volte    necessariamente    (3),   spesso anche  senza   quest'  avverbio    (4))   dall'   essenza   o  dal- la natura  di  Dio  (o  di  alcuno  dei  suoi  attributi).  Ma  al- tre volte  indica  più  chiaramente  il  senso  lo<jko  di  que- sta derivazione,  dicendo  che  se  ne  concludono  o  se  ne  dedu- cono (5)j  e  confrontando  dei  testi  in  cui  ripete  uno  stesso (1)  V.  questo  capit.  p.  245. (2)  V.  Eth.  p.  1.  Dira.  prop.  16,  e  cfr.  Schol.  prop.  2."ì  e  p.  IV Dim.   prop.  4. (3)  V.  Eth.  p.  1.  Dim.  prop  16,  Schol.  prop.  17,  Dim.  prop.  21, prop.  23,  Schol.  prop.  28.  Dim.  prop.  29,  Dim.  proi).  33.  Schol. 20,  Dim.  prop.  3.^,  p.  II  Prefaz.,  Prop.  3  e  dim.,  Dim.  prop.  5, Cor.  i)rop.  6,  ecc.  Spesso  questa  forma  è  sostituita  da  un'altra «imile,  cioè  che  le  c<»se  seguono  dalla  necessità  della  natura  odel- Vessema  divina:  v.  Eth.  p.  I  Schol.  prop.  15  verso  la  fine, Prop.  16,  Dim.  prop.  17,  Schol.  prop.  29,  Cor.  2o  prop.  32,  Ap- pend.  della  p.  1  verso  la  fine,  p.  II  Schol.  prop.  45.  p.  V.  Schol. prop.  29.  ecc. (4)  V.  Eth,    p.    I,    Schol.    prop.   17,  Prop.    21   e   dim.,  Prop. 22,  Dim.  pr.  23,  Dim.  e  Schol.  prop.  28,  p.  II  Prefaz.  ecc. (5)  V.  Eth.  p.  1.  Dim.    prop.  23,  Schol.  prop.  25,  p.  II  Cor. prop.  6,  p.  IV  Dim.  prop.  4,  ecc. r —  374  —  concetto,  si  vede  che  tutte  queste  espressioni  sono  per rautove  e^iuivalenti  (1).  In  questa  dottrina  di  Spinoza dobbiamo  notare  l' identità  con  quelle  di  Platone  e  di Hegel,  e  al  tempo  stesso  la  differenza.  Tutte  le  idee,  per Spinoza,  devono  dedursi  da  un'idea  unica  (2),  come  per Platone  e  per  Hegel:  ma  quest'idea,  per  l'uno,  è  un  con- cetto astrano  —  perchè  l'essenza,  considerata  a  parte,  non è  che  un'astrazione  —  ma  non  un  concetto  generale  come per  gli  altri  due  -  perchè  Dio  o  la  Natura  è  un  indivi- duo, e  non  un'entità  generale  come  le  Idee  di  Platone  o di  Hegel  —. Che  una  cosn  si  deduca  da  un'altra,  e  che  questa  sia la  causa  e  quella  1'  effetto,  sono  per  Spinoza  delle  pro- posizioni perfettamente  equivalenti.  Egli  dice  ad  ogni passo  che  Dio  è  la  causa  di  tutte  le  cose,  che  queste sono,  o  sono  state,  prodotte  da  lui,  ch'egli  le  determina o  le  ha  determinato  ad  essere  e  ad  operare,  che  le  crea o  le  ha  creato,  ecc.;  parla  continuamente  dell'azione  di Dio,  della  sua  potenza,  ecc.  Ma  tutto  ciò  signitìca  che le  cose  possuìfo  dedursi  dall'  essenza  di  Dio,  ne  sono  le conseguenze;  o  a  dir  meglio,  poter  dedursi  dall'  essenza di  Dio  ed  esserne  causate  sono  per  Spinoza  una  sola  e stessa  cosa,  perchè  per  lui  la  causa  è  identica  al  prin- cipio logico  e  V effetto  alla  conseguenza  (3).  Noi  abbiamo visto  infatti  che  Dio  è  la  causa   delle  cose  nello  stesso ^1)  V.  Mh.  p.  I  Prop.  16  e  dim.,  Prop.  23  o  diiii.,  Schol.  prop. 25,  p.  II  Cor.  prop.  6,  p.  IV  Dim.  prop.  4,  eoo. (2)  V.    De  ini.  em,  42,  91,  91),  eoo. (3)  L'  espressioDo  più  abituale  di  Spinoza,  che  le  cose  srguoìw o  sono  seguile  dall'essenza  di  Dio,  esprime  il  doppio  aspetto  del rapporto  tra  Dio  e  lo  cose,  cioè  tanto  il  logico  (ohe  le  cose  sona le  conseguenze  deir  essenza  di  Dio)  quanto  1'  ontologico  (che  ne sono  gh  effetti). —  375   - senso  in  cui  è  la  causa  di  sé,  vale  a  dire  in  (|uanto  dal- l'essenza di  Dio  può  dedursi  l'esistenza  delle  cose  come se  ne  può  dedurre  la  suji  propria  esistenza.  Così,  dimo- strato che  tutto  ciò  che  cade  sotto  un  intelletto  infinito può  dedursi  dall'essenza  di  Dio  come  le  proprietà  d'una cosa  dalla  sua  definizione  (1),  l'autore  ne  conclude:  che Dio  è  la*  causa  di  tutte  le  cose  (2);  che  è  causa  per  sé e  non  per  accidente  (3)  ;  che  è  la  causa  assolutamente prima  (4:);  ch'egli  agisce  per  la  sola  necessità  della  sua natura  (5);  e  quindi  che  è  causa  libera  (6);  che  è  ante- riore a  tutte  le  cose  per  causalità  (7)  ;  che  è  causa  effi- ciente tanto  dell'  essenza  quanto  dell'  esistenza  delle cose  (8;;  che  è  causa  efficiente  anche  di  ciò  che  deter- mina le  cose  ad  operare  in  un  certo  ìnodo  (9);  che  le cose  non  avrebbero  potuto  essere  prodotte  da  lui  in  niun altn)  modo  né  in  niun  altro  ordine  (10).  Dire  che  le  cose sono,  o  sono  stiate,  prodotte  da  Dio,  e  cli'(ssse  ^^eguono, cioè  possono  dedursi,  dalla  sua  essenza,  sono  delle  espre^.s- (1)  AV/i.  p.  1  prop.  lf>,  1.  e. (2)  Cor.  1,  proj».   IH.  V.  a.   Dim.  prop.  :U. (3|  Cor.  2.  Ciò  vuol  dire  fhe  è  causa  neci-ssariameiito.  clie non  può  non  produrre  gli  ett'etti  che  pn)du<o.  V.  Pio.  Viionio ecc.,  cap.  3.  n.  4  e  cap.  0. (4)  Cor.  8. (5)  Dim.  prop.  17.  Nello  Scliol.  della  prop.  3.  p.  II.  questa jjroposizione  è  data,  non  come  una  conseguenza  della  proposi- sioue  16,  ma  come  equivalente  ad  essa   V.  a.  Hrefaz.  del  a  p.  IV (6)  Cor.  2.  prop.  17  —  «  Si  dice  libera  quellji  e.osa  die  esiste per  la  sola  necessità  della  sua  ujitura  ed  è  determinata  ad  aj^ire da  sé  sola».  (Parte  1.   Del".  7). (7)  P.   1  Schol.  prop.   17. (8)  P.    1   Sehol.  prop.   2."). (9)  P.   1  dim.  prop.  20. (10)  P.   1  Prop.  33  e  Dim. f.   sioni  elle  Spinoza  (jonsidera  come  identiche  di  senso  (1): le  cose  che  sono  in  potere  di  Dio  significa  le  cose  che seguono  dalla  natura  di  lui  (2);  la  sua  potenza,  causa  di tutte  le  cose,  è  la  sua  stessa  essenza,  in  quanto  tutte  le cose  seguono  da  (piesta  (3).  Come  si  vede  dalle  proposi- zioni precedenti,  quando  Spinozii  parla  di  Dio  come  cau- sa, egli  non  intende  propriamente  attribuire  la  causa- lità che  air e««enra  di  Dio  —  due  cose  differenti,  perchè Dio  è  il  tutto,  la  sostanza  coi  suo  modi,  Vessenza  di  Dio è  quest'astrazione  che  Spinoza  riguarda  come  il  substra- tum  del  tutto,  la  sostanza  separatamente  dai  modi—.  Così egli  dice  che  le  cose  emanano  o  fluiscono  dalla  natura di  Dio  (come  dall'  essenza  del  triangolo  deriva  1'  egua- glianza dei  suoi  angoli  a  due  retti)  (4);  che  Dio  è  causa, o  a<?isce,  per  la  necessità  della  sua  natura  (5);  che  è  da questa  necessità  della  natura  divina  che  le  cose  sono state  determinate  ad  essere  e  ad  operare  in  un  certo modo  (6);  che  Dio*  è  causa  dei  modi  dell'  estensione  in quanto  ha  l'attributo  dell'estensione  e  dei  modi  del  pen- siero in  quanto  ha    V  attributo   del  pensiero  (7)  (perchè (1)  V.  p.  1  Schol.  prop.  17  (in  princ),  Uiui.  prop.  28.  Sohol., Dim.  prop.  33,  Schol.  2.  prop.  33  e  App.  p.  1. (2)  P.  1  Schol.   17  in  princ.  e  Dim.  prop.  35. (3)  F.  1  Prop.  34  e  dim.  Dim.  prop.  36,  App.  p.  1  in  princ. p.  II  Schol.  pr.  3,  Cor.  pr.  7. (4)  Mh.  p.   1   Schol.  iirop.  17,  Kpisl.  49.  5-7. (5)  P.  1  Cor.  2.  prop.  17,  Dim.  pr.  26,  Dim.  pr.  34,  App. p.   1  in  princ,  p.   II  Schol.  prop.  3,   ecc. (6)  V.  p.  1  .  prop.  29  e  dim.,  e  dim.  prop.  33.  Una  proposi- zione jinaloga  nell'App.  alla  p.  1  (in  princ),  cioè  ohe  tutte  le  cose furono  predeterminale  dn  Dio,  non  dalla  sua  volontà,  ma  dalla gita  assoluta  natura, (7)  P.  1.   Dim.  pr.  32,  p.  II  Pr.  5,  6,  dim.  pr.  45  ei-v. —  377  — r  essenza  è  il  complesso  degli  attributi  (1)  e  le  cose  si deducono  dall'attributo  di  cui  sono  i  modi  (2)  );  ecc.  Spi- noza distingue  la  natura  naturante  e  la  natura  naturata: la  natura  naturante  è  definita  «  Dio  in  quanto  è  consi- derato come  causa  libera»,  e  consiste  negli  attributi della  sostanza  astrattamente  considerati  ;  la  natura  na- turata è  tutto  ciò  che  segue  dall'essenza  di  Dio,  vale  a dire  i  modi  di  questi  attributi  (3).  Talvolta  non  è  Dio stesso  che  è  riguardato  come  causa  delle  cose,  ma  l'at- tributo divino  di  cui  esse  sono  i  modi,  (cioè  il  pensiero o  l'estensione)  (4):  è  l'espressione  più  esatta  del  pensiero di  Spinoza,  che  senza  dubbio  userebbe  più  spesso,  se  non volesse  discostarsi  dal  linguaggio  comune. Il  principio  e  la  conseguenza  considerati  come  realtà oggettive  sono  una  stessa  cosa  in  due  stati  differenti  : quello  a  uno  più  astratto,  più  indeterminato;  questa  a uno  stato  più  determinato,  più  concreto.  Infatti  la  con- seguenza non  è  che  un'applicazione,  un  caso  particolare, del  principio.  La  conseguenza  racchiude  dunque  il  [irin- cipio,  come  il  concreto  racchiude  l'astratto.  Di  là  l'as- sioma di  Spinoza,  che  l'idea  dell'effetto  involge,  cioè racchiude,  l' idea  della  causa  (5).  Ne  segue  che  le  idee di  tutte  le  cose   involgono    l' idea   dell'  essenza  di  Dio, (1)  Def.  4,  p,  1. (2)  V.  Dim.  prop.  21,  Pr.  23  e  dim.,  Schol.  29,  p.  II  Cor. prop.  6,  ecc. (3)  P.  I  Schol.  prop.  29. (4)  V.  p.   1.   Dim.  prop.  28  e  p.   II  Dim.  prop.  5. (5)  As8.  4,  p.  1.  Cfr.  De  int.  em.  92  (la  conoscenza  d'  un  ef- fetto non  è  che  una  conoscenza  più  perfctt-i  della  sua  causa)  e 96.  I  (la  definizione  d'una  cosa  creata  deve  comprendere  la  sua causa  prossima). a —  378  — —  379  - perchè  questa  è  la  causa  di  tutte  le  cose  (1).  Quelle  dei modi  del  pensiero  non  involgono  che  quella  dell'  attri- buto del  pensiero;  perciò  i  modi  del  pensiero  non  pos- sono avere  per  causa  che  l'attributo  del  pensiero  (2).  E in  generale  le  idee  dei  modi  di  un  attributo  non  invol- gendo che  l'idea  dell'  attributo  stesso,  questi  modi  non possono  avere  per  causa  che  Dio  considerato  sotto  que- sto solo  attributo  (3).  Le  cose  pensata  seguono  e  si  con- cludono dall'  attributo  di  cui  sono  i  modi,  della  stessa maniera  e  con  la  stessa  necessità  che  i  loro  pensieri dall'attributo  del  pensiero  (4).  Dall'identità  della  causa col  principio  logico  e  dell'  effetto  con  la  conseguenza segue  pure  questo  canone  del  metodo  di  Spinoza,  che  la vera  scienza  procede  dalla  causa  all'effetto  —  perchè  la dimostrazione  procede  dal  ])rincipio  alla  conseguenza  —  e consiste  a  conoscere  le  cose  per  le  loro  cause  (5).  Di  là l'identità  del  processo  con  cui  si  produce  la  conoscenza (1)  Elh.  p.  1.  Prop.  25  (cfV.  pr.  lo  e  diiii.),  Schol.  28,  p.  II Dini.  pr.  1,  pr.  45  e  dim.,  ecc.  Un'altra  espressione  dello  stesso concetto  è  che  tutte  le  cose  esprimono  in  un  modo  deter in  inalo V  essenza  di  Dio.  V.  Eth.  p.  1.  Cor.  prop.  25,  Dim.  prop.  36,  p.  II Def.  1,  Dim.  prop.  1,  Dim.  pr.  5,  Cor.  prop.  10.  ecc.  La  propo- sizione che  le  idee  di  tutte  le  cose  involgono  l'idea  dell'essenza di  Dio,  equivale,  al  fondo,  a  quella  che  tutte  le  cose  sono  dei modi  della  sostanza  divina.  1/  essenza  di  Dio  essendo  compresa in  tutte  le  cose,  cioè  nei  suoi  effetti.  Dio  è,  dice  Spinoza,  causa immanente,  non  transiente  (V.   Elh.  p.  1,  pr.  18  e  dim.). (2)  P.  II   Dim.  prop.  5. (3)  P.  II  dim.  prop.  6.  Nella  dim.  della  prop.  45  il  ragiona- mento è  invertito  :  le  cose  hanno  per  causa  Dio  considerato  sotto l'attributo  di  cui  sono  i  modi,  quindi  le  loro  idee  devono  invol- gere il  concetto  di  quest'attributo.  (V.  a.   Episl.  66.  3). (4)  Cor.  prop.  6. (5)  Eth,  p.  Il  Schol.  prop.  18,   De  ini.  em.  19.  IV,  85,  92,  eco. col  processo  con  cui  si  produce  la  realtà  stessa  :  or  do  et conuvxio  idearuni  idem  est  ae  ardo  et  connexio  rerum  (1). La  concatenazione  delle  nostre  idee  (vale  a  dire,  la  loro concaten.azione  logica)  deve  essere  tale  che  il  «ostro  pen- siero non  sia  che  la  rappresentazione  delle  cose  (2):  esso deve  andare  da  una  cosa  all'altra,  progredendo  secondo la  serie  delle  cause  ;  i  nostri  concetti  devono  derivare, cioè  dedursì,  gli  uni  dagli  altri,  come  le  cose  concepite derivano,  cioè  sono  prodotte,  le  une  dalle  altre  (3).  Ma quest'antitesi  fra  i  concetti  che  si  deducono  e  le  cose  con- cepite che  sono  prodotte,  non  rende  esattamente  il  pen- siero di  Spinoza:  che  le  cose  sono  prodotte  le  une  dalle altre  significa  che  possono  dedursi  le  une  dalle  altre;  e similmente  che  i  concetti  si  deducono  (jli  uni  da(/li  altri può  esprimersi  pure  dicendo  che  sono  prodotti  gli  uni dagli  altri  (4).  Non  vi  ha  da  una  parte  uji  incatenamento (1)  V.  Elh.  p.  II  Prop.  7.  Spinoza  dimostra  questa  proposi- zione per  l'assioma  che  la  conoscenza  dell'effetto  dipendente  dalla conoscenza  della  causa. (2)  V.   De  ini.  em.  41-42.  85,  91.  99. (3)  V.   De   ini.  em.  41-42  e  99. (4)  De  ini.  em.  41  :  «  Adde  quod  idea  eodem  modo  se  habet obiective,  ac  ipsius  ideatum  se  habet  realiter.  Si  ergo  daretur aliquid  in  natura  nihil  commeroii  habens  cum  aliis  rebus,  eiu» etiam  si  datur  essentia  obiectiva,  <iuae  convenire  omnino  debe- ret  cum  formali,  nihil  etiam  commercii  haberet  cum  aliis  ideis^ id  est.  nihil  de  ipsa  poterimus  concludere  ;  et  contra,  (luae  ha- bent  commercium  cum  aliis  rebus,  uti  sunt  omnia  quae  in  na- tura existunt,  intelligentur  et  ipsorum  etiam  essentiae  obiectivae idem  habebunt  commercium,  id  est,  aliae  ideae  ex  eis  deducen tur,  (juae  iterum   habebunt   commercium  cnm  aliis p. L'  autore  aggiunge  in  nota  (alle  parole  nihil  etiam  commercii haberet  cum  aliis  ideis):  Commercium  hahere  cum  aliis  rebus  est produci  ab  aliis  aut  alia  producere   (Essenlia  ohieiliva  vuol  dire. '^ —  380  - causale  nella  realtà,  e  da  un'  altra  parte  un  incatena- mento  deduttivo  nel  pensiero  :  è  un  solo  e  stesso  inca- tenauiento,  che  ora  si  considera  tra  le  cose,  e  ora  tra  le loro  rappresentazioni.  Aftinché  il  nostro  pensiero  rap- presenti di  questa  maniera  l'esemplare  della  natura,  bi- sogna che  tutte  le  nostre  idee  siano  prodotte  da  quella che  rappresenta  1'  origine  e  la  sorgente  di  tutta  la  na- tura, cioè  l'essenza  di  Dio,  in  modo  che  questa  idea  sia l'origine  e  la  sorgente  di  tutte  le  altre  idee  (1).  Ciò  che è  necessario  di  osservare  è  che  quest'incatenamento  cau- sale delle  cose,  identico  all' incatenameli  to  deduttivo  dei concetti,  non  ha  luogo  tra  le  cause  e  gli  etfetti  fenome- nali —  cioè  che  sono  dei  fatti  particolari  e  separati  gli uni  dagli  altri  —  ma  tra  i  gradi  successivi  dello  svi- luppo di  quest'  essere  unico,  che  Spinoza  chiama  Dio  o la  Natura. Come  si  vede  da  ciò  che  precede,  quest'  incatena- mento  causale,  che  è  al  tempo  stesso  un  incatenamento deduttivo,  abbraccia,  anche  nel  sistema  di  Spinoza,  molti anelli  (come  in  tutti  i  sistemi  che  identificano  il  rap- porto tra  la  causa  e  l' effetto  col  rapporto  tra  il  princi- pio e  la  conseguenza).  Il  terzo  genere  di  conoscenza  con- siste a  dedurre  dall'essenza  di  Dio  le  essenze  delle  cose €onfoiiuemeiite  al  linguaggio  scolastico,  la  rappresentazione;  es- sentia  formalis,  la  realtà)  —  Si  veda  pure  il  u.  42,  nella  nota  se- guente, e  il  n.  99.  nel  {  27. (1)  De  int,  em.  42  (è  la  continuazione  del  luogo  riportato  nella nota  precedente)  :  «  Porro  ex  hoc  ultimo,  quod  diximus.  scilicet quod  idea  omnino  cura  sua  essentia  formali  debeat  convenire, pate;i  iterum  ex  eo  quod,  ut  mens  nostra  omi.ino  ref'erat  natnrae exemplar,  debeat  omnes  suas  ideas  producere  ab  ea,  quac  refert originem  et  foutem  totius  naturare,  ut  ipsa  etiam  sit  fons  cete- rarum  idearuni  ».   Si  veda  pure  il  n.  99. —  381  - particolari  :  ma  queste  non  si  deducono  immediatamente da  quella,  non  ne  sono  gli  effetti  immediati.  L'  essenza di  Dio  e  le  essenze  delle  cose  particolari  sono  i  termini estremi  di  una  serie,  in  cui  ciascuno  degli  altri  termini  è la  conseguenza  e  l'effetto  del  termine  precedente,  e  la  pre- messa e  la  causa  del  termine  susseguente  (1).  Tra  i  modi infiniti  ed  eterni  di  Dio— tutto  ciò  che  segue  dall'essenza divina  è  eterno  ed  infinito  come  essa  —  Spinoza  distin- gue quelli  che  seguono  immediatamente  da  un  attributo divino,  e  quelli  che  seguono  da  un  attributo  divino  me- diante qualche  modo  che  segue  da  quest'  attributo  (in altri  termini  che  seguono  da  un  modo  che  è  seguilo  dal- l'attributo) (2).  Seguire  da  un  attributo  divino  o  da  un suo  modo  significa  al  tempo  stesso,  come  sappiamo,  po^ tersene  dedurre  (3)  ed  esserne  prodotto  (4).  Tra  i  modi  che seguono  dagli  attributi  mediatamente,  niente  ci  vieta  di (1)  Così  Spinoza  parla  di  cause  prime  e  di  cause  prossime  - intendendo  la  parola  causa  nel  senso  spiegato,  in  cui  è  1'  equi- valente di  principio  logico  —  Il  terzo  genere  di  conoscenza  ora  è fatto  consistere  nel  conoscere  le  cose  per  le  cause  prime  —  Ulh, p.  II  Schol.  prop.  18,  De  int.  em.  70,  eco. — ed  ora  nel  conoscere l'essenza  di  ciascuna  cosa  per  la  sua  causa  prossima  —  De  int, em.  19  IV.  92,  eco.  —  (La  seconda  deiìnizione  equivale  alla  pri- ma, perchè  anche  la  causa  prossima  deve  essere  conosciuta  per la  sua  causa  prossima  .  e  cosi  via  via  sino  alla  causa  prima). Nell'Appendice  alla  p.  I  contrappone  gli  effetti  ohe  sono  pro- dotti immediatamente  da  Dio  a  quelli  che  per  prodursi  hanno bisogno  di  piìì  cause  intermediarie.  Gli  effetti  che  sono  prodotti immediatamente  da  Dio  sono  quelli  di  cui  si  tratta  nella  propo- sizione 21  ohe  egli  cita,  cioè  i  modi  ohe  seguono  immediatamente dagli  attributi. (2)  V.  A7/i.  p.  I  prop.  21-23  e  28. (3)  V.   Dim.  prop.  23. (4)  V.  Dim.  prop.  28. '•      JMStfii**. —  382  - —  383  — supporre  che  ya  uè  siauo  dei  più  prossimi  e  dei  più  re- moti; iu  altri  termini,  che  oltre  a  quelli  che  seguono  da un  attributo  attraverso  un  solo  modo,  ve  ne  siano  degli altri  che  ne  seguono  attraverso  una  pluralità  di  modi  di cui  Tuno  segue  dall'altro  (1).  È  a  ciò  che  pensiamo  na- turalmente, quando  Spinoza  parla  di  una  serie  di  cause, che  il  nostro  pensiero  deve  riprodurre  come  concatena- isione  logica  di  ccmcetti  (2).  Inoltre,  come  mostreremo nel  §  27.  Spinoza  ammette,  al  di  là  <legli  attributi,  qual- che cosa  di  più  fondamentale,  che  ne  è  il  substratum come  essi  lo  sono  dei  modi  —  è  ciò  ch'egli  chiama  Ves- sere  assolutamente  indeterminato—, e  la  logica  «lei  sistema esige  che  gli  attributi  se  ne  deducano  e  ne  siano  pro- dotti,  come  i  modi  si  deducono  <?  sono  prodotti  dagli attributi. Nella  serie  delle  cause,  cioè  delle  cose  eterne  ed  in- finite, il  cui  incatenamento  causale  è  rappresentato  dal- l'incatenamento  logico  dei  concetti,  il  termine  susse- guente è  sempre  una  determinazione  del  termine  prece- dente. È  l'attuazione  del  principio  che  l'idea  delFettetto involge  l'idea  della  causa.  Il  primo  termine  della  serie (1)  A  ciò  non  si  oppone  la  proposizione  di  Spinoza  che  i  modi ohe  non  seguono  immediatamente  da  qualche  attributo  divino, devono  seguirne  mediante  qualche  modo  (aliqua  modificalione) che  segue  da  un  attributo  (Dim.  prop.  23).  Infatti  questo  modo può  essere  la  conseguenza  di  uno  o  più  altri  modi  anteriori,  e nondimeno  Spinoza  può  parlare  anche  in  questo  caso  come  se fosse  il  solo  modo  intermediario,  perchè  ogni  modo  contiene  in 66  stesso  i  modi  anteriori  di  cui  è  la  conseguenza  (conforme- mente all'  assioma  che  l'idea  dell'  effetto  racchiude  l' idea  della «ausa). (2)  V.  De  int.    emend.  i»9,   e    oonfr.  91    ed  Eih,  II  p.  Schol. prop.  18. i è  Vessere  assolutamente  indeterminato:  gli  attributi,  cioè l'estensione  e  il  pensiero  sostanziale,  ne  sono  le  prime determinazioni.  I  modi  immediati  dell'  estensione  sono la  quiete  e  il  movimento  (l).  I  modi  mediati  sono  coi modi  immediati  nello  stesso  rapporto  che  questi  con  gli attributi  (2).  Un  esempio  dei  modi  mediati  (pure  nel- l'attributo dell'  estensione)  è  «  l'  aspetto  di  tutto  1'  uni- verso (facies  totius  universi)  che  pur  cangiando  di  ma- niere infinite,  resta  nondimeno  sempre  lo  stesso  »  (3).  È una  determinazione  dei  modi  immediati,  perchè  ogni  va- rietà nel  mondo  materisile  consiste  in  una  diversa  di- stribuzione della  quiete  e  del  movimento  e  nella  diversa natura  del  movimento  stesso  (4).  Ciascun  termine  della serie  è  il  substratum  di  quello  che  lo  segue,  vale  a  dire ha  con  esso  la  stessa  relazione  che  la  sostanza  coi  modi. L'essere  si  forma,  ])er  dir  così,  per  strati  successivi,  ag- giungendosi progressivamente  nuove  determinazioni,  di cui  la  susseguente  è  la  c<mseguenza  e  Fetfetto  della  pre- cedente. In  questo  progresso,  è  un  solo  e  stesso  essere, che  passa  continuamente,  come  per  una  forza  interna che  lo  necessita  a  svilupparsi,  da  uno  stato  più  indeter- minato a  uno  stato  più  determinato.  È  ciò  che  sopra  ^ abbiamo  chiamato  i  gradi  successavi  dello  sviluppo  di Dio  e  della  Natura:  ma  si  deve  intendere  d'una  succes- sione, non  cronologica,  ma  solamente  logica,  perchè  le (1)  V.  Episl.  65.  4  e  66.  8.  Cfr.  Dio,  V  uomo  ecc.  pagine  45 e  133. (2)  Cfr.  la  dim.  della    prop.  22.  Eth,  p.  1,  con  la  dim.  della prop.  21. (3)  Epist,  66.  8. (4)  V.   Eth.  p.  II  gli  assiomi,  lemmi,  ecc.    tra  la  prop.  13  e  la prop.   14;  e  Dio,  Vuomo,  ecc.  pag.     51-52  e  133-134  trad.  frane. —  384  — conseguenze  dell'essenza  di  Dio  sono,  come  abbiamo  detto, eterne  come  il  loro  principio. Questo  concetto  di  Spinoza,  che  il  processo  secondo cui  le  cose  si  producono  è  uno  sviluppo  continuo  al  di fuori  del  tempo,  che  consiste  a  passare  costantemente  da uno  stato  più  astratto,  più  indeterminato,  a  uno  stato più  concreto,  più  determinato,  è,  vi  ha  appena  bisogno di  notarlo,  un  carattere  comune  del  realismo  dialettico, che  noi  abbiamo  già  incontrato  in  tutti  i  sistemi  pre- cedenti. §  26.  Ciò  che  sef/ue,  cioè  si  deduce,  dall'  essenza  di Dio,  non  sono  gli  oggetti  peribili  e  cangianti,  ma  ciò che  vi  ha  di  eterno  e  di  immutabile  nella  natura.  Le cose  seguono  o  jlaiscoao  dalla  natura  di  Dio  <  sempre con  la  stessa  necessità,  allo  stesso  modo  che  dalla  na- tura del  triangolo  segue  ab  aetenio  ed  in  eterno  che  i suoi  tre  angoli  sono  eguali  a  due  retti.  »  «  L'  onnipoten- za di  Dio  è  stata  in  atto  ab  aetenio,  e  rimarrà  in  eterno nella  stessa  attualità  »  (1)  Tutto  «  procede  per  una  certa eterna  necessità  della  natura  »  (2),  tutto  <  segue  dalla eterna  necessità  della  natura  di  Dio  »  (3^  Come  è  per un'  eterna  necessità  che  le  cose  derivano  dall'  essenza  di Dio,  così  è  per  un'  eterna  necessità  che  devono  concepirsi come  derivate  da  quest'essenza  (4)  (perchè  l'ordine  e  la connessione  delle  idee  sono  gli  stessi  che  l'ordine  e  la connessione  delle  cose):  tutti  i  decreti  di  Dio  involgono una  verità  ed  una  necessità  eterne  (5).  Tutte  queste  prò- (1)  Eth.  p.  1.   Scbol.  pr.  17. (2)  Mk.  App.  p.   1. (3)  P.  2.  Schol.  pr.  45. (4)  P.  5a  Dira.  prop.  22  e  dini.  prop.  23.  Cfr.  Schol.  pr.  42 (il  sapiente  è  conscio  di  se  stesso  o  di  Dio  e  delie  cose  per  una certa  eterna  necessità). (5)  Epist.  49.  7. 1 ' —  385  — posizioni  sono  basate  sulla  prop.  16  parte  1»  (ehe  l'au- tore cita),  in  cui  ha  dimostrato  che  tutto  deriva  dalla essenza  di  Dio  come  le  proprietà  d'una  cosa  dall'essenza di  questa  cosa.  Il  concetto  che  esse  esprimono  è  clie  la essenza  di  Dio  è  una  causa  eterna  ed  immutabile,  che agisce  d'una  maniera  eterna  ed  immutabile:  la  conse- guenza è  che  gli  effetti  di  questa  causa  devono  essere anch'essi  eterni  ed  immutabili.  Spinoza  afferma  ripetu- tamente l'eternità  (1)  e  l'immutabilità  (2)  degli  attributi divini,  cioè  del  pensiero  e  dell'estensione  considerati  as solutamente,  vale  a  dire  astratti  dai  loro  modi.  L'  eter- nitti  è  pure  esplicitamente  attribuita  a  tutti  i  modi  ne- cessari degli  attributi,  sia  immediati  che  mediati:  tutto ciò  che  segue  dall'  essenza  di  Dio,  sia  immediatamente sia  mediatamente,  è,  come  abbiamo  detto,  eterno  ed  in- finito come  essa  (3).  In  quanto  all'immutabilità  esplici- tamente è  affermata  in  Dio  l'uomo  e  la  beatitudine  di tutti  i  modi  immediati  (4)  ^che  sono  i  soli  modi  eterni  ed infiniti  che  Spinoza  ammette  in  quest'opera)  (5),  e  nel- l'Epist.  66.  8  dell'unico  esempio  che,  in  tutti  i  suoi  scritti, egli  dà  dei  modi  mediati,  cioè  dell'  «  aspetto  di  tutto  l'u- niverso »  che,  come  abbiamo  visto,  resta  sempre  lo  stesso malgi-ado  i  suoi  infiniti  cangiamenti.  Noi  dobbiamo  dun- que ammettere  che  tutti  i  modi  necessari  (cioè   che  se- (1)  Mh.  p.  1*  Dini.  prò.  10,  pr.  19  e  dim.,  ecc. y2)  Eth.  p.  la  Cor.  2o  pr,  20,  Dim.  pr.  21,  p.  2a  Soh.  lo  pr. 10,  p.  5a  Schol.  prop.  20  De  int.  em.  76,  Dio  V  uomo  e  la  beat. p.  19,  34.  40  (in  nota),  41,  42,  129,  eco. (8)  Dio  Vuomo  e  la  beat.  p.  4546,  64,  Eth.  p.  1»  pr.  21,  22, 23,  Dim.  pr.  28,  p.  5^  Scoi.  pr.  40. (4)  V.  Dio,  Vuomo  e  la  beat.  p.  30  (n.  8»)  e  46. (5)  V.   Dio,  Vuomo  e  la  beat.  p.  44-46  e  64. 25 —  386  — guoiio  necessaria  mente  dall'  essenza  di  Dio),  tanto  ^11 immediati  qnanto  i  mediati,  sono,  secondo  Spinoza,  non solo  eterni,  ma  anche  immntabili.  Ciò  è  confermato  dal De  intellectus  emendatione  (1),  in  cui  la  serie  delle  cauae^ cioè  ress(*nza  di  Dio  e  le  cose  che  gradatamente  se  ne deducono  (vale  a  dire,  come  sappiamo  dall'Etica,  i  modi immediati  e  mediati  che  seguono  dagli  attributi  divini), è  chiamata  la  <  serie  delle  cose  fisse  ed  eterne,  y>  ed  oppo- sta a  (|uel]a  delle  «  cose  singolari  mutabili.  >  Del  resto Pimmutabilitii  in  Spiiìoza  accompagna  necessariamente l^eternità,  perchè  T  eterno  per  lui  non  è  ciò  che  esiste in  ogni  tempo ^  ma  ciò  che  esiste  aldi  fuori  del  tempo  (2), e,  per  conseguenza,  di  ogni  successione  e  di  ogni  cangia- (1)  XIV.  99-101,  luogo  che  riporteremo  nel  $27. (2)  Eth.  p.  I  DEF.    Vili.    Per    aeternitutem    iutelligo  ipsam existeutiam,  quatenus  ex  sola  rei  aeternae  defìnitioue  necessario sequi  concipitur.  ESPLICATIO.  Talis  euiin  existeutia  ut  aeterna veritas,  sicut  rei  essentia,  concipitur,  propteraque  per  duratio- nem  aut  lem  pus  explieari  non  poteste  tametsi  dura  Ho  principio  et fine  carerà  concipintur.  Clr.   nella  parte  5»  (Dim.  pr.  23  e  Scbol., e  Dim.  pr.  29)  l'antitesi  fra  l'esistenza  eterna  e  V  esistenza  ohe si  spiega  o  si  definisce  per  il  tempo  e  la  durata. — Per  compren- dere questo  concetto    dell'  eternità  di  Spinoza  (che  è   quello  del realismo  dialettico  in  generale),  si  deve  avvertire  che  le  «  cose fisse  ed  eterne»  sono,  come  spiegheremo  in  seguito,  delle  entità  a- stratte,  per  concepire  le  quali  bisogna  fare  astrazione  di  certe  de- terminazioni della  realtà  empii  ica.  fra  di  queste  la  posizione  nel tempo  e  la  durata.  Che  le  «  cose  fisse  ed  eterne  »  sono  fuori  del tempo  e  della  durata,  significa  dunque  che  devono  essere  concepite astrazion  facendo  del  tempo  e  della   durata  (tanto   di  un  tempo e  di  una  durata  determinati    quanto    del  tempo   e  della    durata infiniti),  ed  esistono  cosi    come  devono   essere  conceDite.  perchè le  astrazioni,  in  questi  sistemi,  sono  delle  realtà,  e  non  dei  sem- plici concetti. -  387  — mento.  Le  cose  fisse  ed  eterne,  cioè  i  modi  eterni  ed  in- finiti dell'Etica,  costituiscono,  in  un  senso,  tutto  il  reale, perchè  Spinoza  afferma,  da  una  parte,  che    queste  sole cose  seguono,  o  possono  dedursi,  dall'essenza  di  Dio(l), e  da  un'altra  parte,  che  tutte  le  cose  seguono,  o  possono' dedursi,  da  questui  essenza  (2)  Ciò  non  importa  però  che 1  modi  eterni  ed  infiniti  non  siano  altro  che  il  complesso delle  cose  particolari,  cioè  empiriche.  Ciò  che  prova  che essi  hanno  un'esistenza  distinta  è  che  Spinoza  nega  che le  cose  «  singolari  »,  ossia  «finite  e  che  hanno  una  du- rata determinata»,  siano    prodotte    dall'essenza  di  Dio assolutamente  considerata,  sia  immediatamente  sia  rae- diatamente  (3).  Vi  ha  in  (,uesto  sistema  una  doppia  se- ne  di  cause,  a  cui  corrisponde  un  doppio  ordine  di  realtà. Una  cosa  singolare  (o,  come  la  definisce  l'autore,  finita e  che  ha  un'esistenza  determinata)  lia  per  causa  un'altra cosa  singolare,  che  la  precede  nel  tempo,  questa  un'  al- tra, e  così  di   seguito  all'  infinito   (4).  Queste   cose   non sono  prodotte  dall'  essenza  di  Dio  assolutamente  consi- derata, cioè  non  se  ne  possono  dedurre.  È  l'ordine  delle realtà  empiriche,  e  la  loro  causalità  è  una  causalità  em- pirica, cioè  che  si  riduce  a    una   sequenza    invariabile. Ma  al  di  là  delle  realtà  empiriche  vi  ìmnno  le  co^a  fisse ed  eterne,  cioè  l'essenza  di  Dio  e  i  modi  eterni  ed  intì- (1)  Mh.  p.  I  prop.  21-23,  V.  anche  i  1.  indie,  nella  nota  dopo la  seguente.(2)  V.  Etk,  p.  I  Schol.  prop.  15  (verso  la  fine),  Pr.  16,  Schol. pr.  17,  Schol.  pr.  25,  Schol.  pr.  29,  Pr.  33,  Sohol.  2o,  Dim.  pr. 34,  Pr.  35,  App.  p.  1,  Epi^t.  49.  5-7,  e?c. (3)  V.  Età.  p.  I  Dim.  prop.  28  e  Schol.,  p.  II  Dim.  prop.  9 e  Dim.  pr.  30. (4)  V.  Eth.  p.  I  Prop.  28  e  Dim.  pr.  32,  p.  II  Dim.  prop.  9 e  Dim.  prop.  30. -  388  — Diti,  che  SODO  prodotti  dall'essenza  di  Dio  assolti tameDte coDsiderata,  cioè  che  se  De  deducouo.  Per  quest'altro  or- diDe  di  realtà  vale  im'altra  causalilà:  è  quella  del  rea- lismo dialettico,  iu  cui  causa  equivale  a  principio  logico ed  effetto  a  conseffuenza,  e  che  Spiuoza  ha  di  mira,  quaudo dice  che  l'idea  dell'effetto  ìd volge,  cioè  racchiude,  l'idea della  causa.  Le  cose  fisse  ed  eterne  haono,  come  abbiamo detto,  un'  esistenza  per  sé,  distiDta  dall'  iDsieme  delle cose  singolari;  ma  sono  presenti  in  queste  (1),  e  ne  sodo le  cause  prossime  (3).  Chiamaudole  cause  prossime,  Spi- li) V.  De  ini.  em,  101  (nel  luogo  ohe    riporteremo  nel  J  27). Per  questa  presenza  (naoovdta  plalonica)  delle  «  cose  fìsse  ed  e- terne  »  nelle  cose  che  esistono  nel  tempo,  il  concetto  dell'  eter- nità  viene  completato  e  avvicinato  al  cor.cetto    volgare,  ohe  ne fa  uua  durata  infinita  (V    VEpist.  29,  in  cui  Spinoza  definisce  la eternità  «  infinitam  existendi  fruitionem  »).  In  un  certo  senso  può dirsi  che  le  «  cose  fisse  ed  eterne  »  esistono  sempre,  cioè  in   ogni tempo,  perchè  le  cose  fenomenali  in  cui  esse  sono  presenti  (come l'astratto  è  presente  nel  concreto)  esistono    sempre,  cioè  in  ogni tempo.  Ma  in  se  stesse,  vale  a  dire  astrazion  facendo  delle  cose fenomenali  in  cui  sono  presenti  (o  a    dir  meglio   delle   altre  de- terminazioni  che,  aggiunte  ad  esse,  costituiscono  le  cose  feno- menali),  sono  fuori  del  tempo  e  della  durata:  esse  sono  anteriori al  tempo  e  alla  durata,  che  appariscono  a  un    grado   posteriore dello  sviluppo  dell'essere  (anteriorità  e  posteriorità  di   natura), al  -rado  ultimo,  perchè  Spinoza  riguarda  il  tempo  e  la  durata come  la  nota  distintiva  dell'individuale,  oiob,  come  dicevano  gli oolastici,  àeWomnimode  determinatum  (cfr.  nota  2  a  p.  386). (2)  V.  De  ini.  emend.,  thid.  Lo  stes^^o  concetto,  espresso  d'una maniera  differente,  nello  Scolio  alla  prop.  28  p.  1»  dell'  Etica  : ivi  si  distinguono  le  cose  immediatamente  prodotte  da  Dio  (cioè i  modi  eterni  ed  infiniti,  si  immediati  che  mediati)  e  le  cose  sin- golari  che  sono  prodotte  mediante  quelle;  Dio  è  causa  assolnfa- mente  prossima  delle  une  (cioè  delle  cose  fisse  ed  eterne),  delle altre  può  anche  dirsi  causa  remota. -  389    - Doza  intende  dire  delle  cause  immanenti  (perchè  sono presenti  negli  eftetti),  e  considera,  per  conseguenza,  le cose  singolari,  prese  nel  loro  insieme,  come  le  stesse  cose fisse  ed  eterne  ad  un  grado  ulteriore  di  determinazione. Noi  sappiamo  infatti  che  —  intendendo  le  parole  causa ed  effetto  nel  senso  del  realismo  dialettico  —  l'ettetto  nou è  per  Spinoza  che  una  determinazione  della  causa,  vale a  dire  la  causa  stessa  a  uno  stato  più  determinato,  meno astratto.  È  perciò  che  le  cose  singolari  sono  chiamate  «le cose  che  hanno  un'  esistenza  determinata  »  (1):  finito e  determinato  e  infinito  e  indeterminato  sono  per  Spinoza dei  termini  equivalenti,  perchè  il  finito  per  lui  è  il  de- terminato, cioè  il  concreto,  e  l'infinito  (le  cose  fìsse  ed eterne)  l'indeterminato,  cioè  l'astratto  (2)  Un'altra  prova (1)  Eth.  p.  I  Dim.  prop.  21.  Prop.  28  e  Dim..  ecc.  L'espres- sione «  esi.Atenza  detenninatJi  »  è  per  Spinoza  l'  equivalente  di «durata  determinata»  (che  equivale  alla  su:i  volta  a  «durata finita»)  e  l'opposto  di  «eternità».  Ma  (siccome  denota  l'esisten- za individuale)  eswa  deve  significare  anche  l'  idea  che  natural- mente suggerisce,  cioè  che  le  cose  a  cui  si  applica  sono  delle realtà  concrete,  e  non  delle  astrazioni  realizzate  come  lo.  «  cose fisse  ed  eterne  ». (2)  V.  VEpist.  50,  in  cui  si  trova  la  celebre  proposizione  «  de- terminatio  negatio  est  »,  ohe  egli  prova  per  la  oonsi'lerazione che  la  figura,  cioè  una  delerminaiione   eli 'estensione,  non  h  che una  limitmione  di  questa  (perchè  non  esiste  nell'  es:;ensione  in- finita, ma  solamente  nelle  estensioni  finite).  Questo  principio  che la  determinazione  è  una  negazione,  cioè  una  limitazione,  si  veri- fica, nel  sistema  di  Spinoza,  in  tutti  i  passaggi  del  reale  da  un grado  anteriore  al  irrado  posteriore.  Così  la  quiete  e  il  movi- mento,  che  sono  i  modi  immediati  dell'  estensione,  cioè  le  sue prime  determinazioni,  ne  sono  pure  delle  limitazioni  (perchè  la estensione  in  quiete  è  limitata  dall'  estensione  in  movimento,  e viceversa).  Così   pure  l'estensione  e  il  pensiero  sono  delle  limita- -  390  - che  dimostra  che  a  quest'  indetermiDato  (cioè  alle  cose fìsse  ed  eterne)  è  attribuita  uua  realtà  propria,  distinta dal  complesso  delle  cose  «che  hanno  un'esistenza  deter- minata >,  è  l'uso  frequente  del  tempo  passato  per  indi- care la  derivazione  dall'  essenza  divina  dei  modi  eterni ed  infìniti  e,  in  generale,  di  tutte  le  cose  (di  cui  «  le  cose fisse  ed  eterne  >  sono  1'  elemento  veramente  reale)  (1); seguirono  (2),  furono  prodotti  (3),  furono  creati  (4),  ecc  (5). Spinoza  può  esprimersi  così,  perchè  le  cose  fìsse  ed  e- terne  essendo  distinte  da  quelle  che  esistono  nel  tempo^ la  loro  produzione  non  è  un  fatto  che  si  ripete  continua- zioni dell'  essere  assolutamente  indeterminato^  perchè  questo  è  as- solutamente infinito,  mentre  i  suoi  atttributi  si  limitano  l'uno  con l'altro,  e  non  sono  infiniti  che  ciascuno  nel  suo  genere  (V.  Epist.  41). (1)  Per  Spinoza,  come  per  tutti  i  realisti  dialettici,  il  vero  es- sere è  l'elemento  eterno  e  necessario  delle  cose.  È  ciò  che  è  af- fermato iraplicitjimente  nelle  proposizioni  in  cui  dice  ohe  tutte cose  seguono,  cioè  si  deducono,  dall'essenza  di  Dio  (v.  nota  2  a p.  387)  se  si  mettono  in  rapporto  con  le  altre  in  cui  dice  invece che  da  quest'  essenza  non  seguono,  cioè  non  si  deducono,  che  i modi  eterni  ed  infìniti  (v.  nota  pure  a  p.  387). (2)  V.  Eth.  p.  I  Prop.  23  e  Dim.,  Dim.  pr.  29,  Dim.  pr.  33, Schol.  2o,  App.  p.  I  (verso  la  fine),  Prefaz.  p.   II. (3)  V.  Eth,  p.  I  Schol.   prop.  28,  Prop.  33,  Schol.  2.  prop.  33. (4)  V.  Eth,  p.  I  Schol.  2.  prop.  33,  App.  p.  I  verso  la  fine. Dio,  V  uomo  e  la  beat,  trad.  frane,  pag.  27,  30,  33.  34,  36,  37, 38,  ecc. (5)  Indicherò  pure  Eth.  p.  1.  Schol.  prop.  17  (tutte  le  cose fluirono  necessariamente  dalla  natura  di  Dio  —  come  dall'essenza del  triangolo  segue  l'eguaglianza  dei  suoi  angoli  a  due  retti  — ), Prop.  29  e  Dim.  Prop.  33  (tutte  le  cose  sono  state  detcrminate dalla  necessità  della  divina  natura  ad  essere  e  ad  operare  in  un certo  modo)  e  App.  p.  I.  sul  principio  (tutte  le  co»e  furono  pre- determinate dall'assoluta  natura  di  Dio). —  391 mente  per  un  tempo  infinito,  ma  che  avviene  una  volta sola,  al  dì  fuori  del  tempo,  e  può  quindi  coiisidf^rarsi come  passato  (quantunque  nell'eternità  non  vi  sia,  come dice  l'autore,  né  quando  né  ante  né  posti  (1),  porche  non è  in  feri,  ma  già  compiuto  ab  aeterno. Spinoza  distingue  due  njodi  di  concei)ive  le  cose,  o piuttosto  due  forme  della  loro  esistenza  stessa  :  da  una parte  il  loro  essere  empirico,  la  loro  esistenza  nel  tempo e  nella  durata,  che  noi  ci  rappresentiamo  per  i  sensi  e l'immaginazione;  da  un'altra  parte  le  cose  considerate 8uh  specie  aeiern itati f(,  che  s4)iio  1'  oggetto  della  scienza assoluta. Considerare  le  cose  sub  specie  aeternitatis  vuol dire  concepirle  come  eterne  (2),  e  questo  non  è  per Spinoza  un  pensiero  fittizio  o  una  semplice  astrazio- ne mentale,  ma  le  cose  pensate  sub  specie  aeterni- tatis sono,  secondo  lui,  eterne  come  si  pensjino.  Le cose,  dice,  Spinoza,  in  due  modi  si  concepiscono  da noi  come  attuali  (cioè  come  reali):  l'uno  in  (pianto esistono  in  un  certo  tempo  e  in  un  certo  luogo,  l'altro in  quanto  seguono,  cioè  si  deducono,  dalla  essenza  di Dio.  Le  cose  che  si  concepiscono  a  questo  secondo  modo come  vere  ossia  come  reali,  le  concepiamo  sotto  la  specie (1)  Eth,  p.  I.  Schol.  2.  prop.  33. (2)  V.  A7/«.  p.  II.  Cor.  II.  prop.  44,  p.  V.  Dim.  pr.  23.  Dim. pr.  29,  Schol.,  Dim.  pr.  30,  ecc.  Questa  eternità,  in  alcuni  dei luoghi  indicati,  è  espressa  come  la  esclusione  di  ogni  relazione di  tempo  e  di  ogni  durata,  perchè  è  in  ciò  che  consiste  anzitutto, per  Spinoza,  reternità  (quantunque  essa  implichi  inoltre  che  ciò che  in  se  stesso  è  al  di  fuori  del  tempo  e  della  durata  è  pre- sente  in  ciò  che  occupa  tutto  il  tempo  e  tutta  la  durata,  concetto inseparabilmente  legato  al  primo,  perchè  ciò  che  ò  al  di  fuori del  tempo  e  della  durata  è,  secondo  Spinoza,  »;iò  che  esiste  ue- eessarianiente). —  392  - dell'eternità  (1).  Noi  dobbiamo  concepire  le  cose  sotto la  specie  dell'eternità,  perchè  è  con  una  eterna  neces- sità che  derivano  dalla  essenza  di  Dio  (2).  Questa  spe- cie di  eternità  sotto  cui  devono  essere  concepite  è  la  stessa eternità  della  natura  divina.  Dobbiamo  concepirle  eterne come  la  natura  divina,  perchè  dobbiamo  contemplarle come  necessarie  e  percepire  questa  loro  necessità  quale* è  realmente  in  se  stessa:  ora  in  se  stessa  questa  neces- sità delle  cose  è  la  stessa  necessità  della  eterna  natura di  Dio  (3).  L'esistenza  eterna  è  l'esistenza  che  segue  ne- necessariamente  dall'essenza  di  Dio.  È  in  questo  senso che  Dio  è  eterno  (cioè  in  quanto  la  sua  essenza  implica la  sua  propria  esistenza):  è  in  questo  senso  pure  che  le cose  si  concepiscono  sub  s[)eci<'ì  aeternitatis,  cioè  in  quanto si  concepivscono  come  esseri  reali  per  la  essenza  di  Dio, o  in  quanto  per  questa  essenza  involgono  l'esistenza  (vale a  dire  in  quanto  la  loro  esistenza  è  una  conseguenza necessaria  dell'essenza  di  Dio)  (4).  Che  le  cose  concepite (1)  Klh.  \ì.  V.  Schol.  pr.  29:  «  Re»  duobus  modis  a  n()l»is  ut  ìic- tiialcs  coacipiuiitur,  vel  quateuus  easdem  cura  relatioiie  ad  cer- tuni tcuipus  et  locum  existere,  vel  quateuus  ipsas  in  I)eo  con- tili»'ri  et  ex  naturae  divinae  necespìtate  coupequi  conoipiuius. Quae  auteni  hoc  secundo  modo  ut  verae  seu  reale»  coucipiuutur, eas  8ub  aeternitatis  specie  coucipimus.  » (2)  V.   Mh.  p.  V.  Dim.  pr.  22. (:^)  COR.  II.  PR.  44:  De  natura  ratiouis  est  res  coucipere  sub specie  aetwnitatis.  DEMONSTR.:  De  natura  enini  rationis  es  rea ut  necessarias  et  non  ut  contingeutes  eoutenipbiri.  Hanc  autem rerum  necessitatem  vere,  hoc  est,  ut  in  se  est  percipit.  Sed  haec rerum  necessitas  est  ipsa  Dei  aeternae  naturae  necessitas.  Ergo de  natura  ratioiiis  est  res  sub  hac  aeternitatis  specie  contemplari. (4)  Eth.  p  V.  Dim.  prop .  30:  Aeternitas  est  ipsa  Dei  essen- tia,  quateuus  bacc  necessariam  involvit  exìsteutiam.  Res    igitur sub  specie  aeternitatis  siano  per  Spinoza  delle  realtà  ve- ramente eterne,  oltre  che  da  queste  proposizioni  risulta dalla  sua  dottrina,  che  la  scienza  assoluta,  cioè  il  terzo genere  di  conoscenza,  deve  contemplare  le  cose  sub  spe- cie aeternitatis  (1).  Tanto  più  che   secondo  il  principio del  parallelismo  (orda  et  connexio  idearum  idevn.  est  etc.) deve  esservi  equazione  perfetta  tra  il  pensiero  e  la  real- tà- e  che  il  terzo  genere  di  conoscenza  è  una  conoscenza intuitiva  (2),  in  cui  non  hanno  luogo,  per  conseguenza, -delle  astrazioni  puramente  mentali  o  altre  rappresenta- zioni ausiliarie  (3),  ma  1'  intelligenza  non  fa  che  ripro- durre  l'oggetto  intelligibile  come  la  percezione  l'oggetto sensibile.^'Questa   equivalenza   tra    una  cosa   concepita sub  specie  aeternitatis  e  una  cosa  realmente  eterna,  si vede  inoltre  nei  luoghi  in   cui  espone    la    sua   dottrina dell'eternità  della  mente  umana.  La  mente  umana  è  e- terna  in  ciuanto  è  1'  idea  del  corpo  umano  concepito  sub specie  aeternitatis  (4/.  ma  il  corpo  umano  concepito  sub specie  aeternitatis  è  eterno  come  la  mente   stessa.  Cosi Spinoza  parla  dell'  esistenza  presente   della  mente,  che 4c  si  <letioisce  o  si  spiega  per  il  tempo  e  la  durata»  (5),  di- 8tin«aiendola  dalla  sua  esistenza  eterna  o  al  di  fuori  del tempo  e  della  durata;  e  parla  pure,  negli  stessi   luoghi sub  specie  aeternitatis  concipere  est  res  concipere,  quateuus  per Dei  essentiam  ut  entia  realia  coucipiuutur,  sive  quatenus  per Dei  essentiam  involvunt  existentiam. (1)  V.    Eth.  p.  V.  Schol.  pr.  29,  Dim.  pr.  31,  Dim.  pr.  33,  eco. (2)  Dio,  l'uomo  e  la  beat.  trad.  frane,  pag.  5556,   Eth.  p.  II. Schol.  II.  prop.  40,  p.  V.  Schol.  prop.  36, />«  ÌH<.  ew^^Hrf.  24,  ecc. (3;  De  int  emend.  93,  99,  ecc. (4)  V.  Eth.  p.  V,  Pr.  23,  Dim.  e  Schol. (5)  Eth.  p.  V.   Dim.  prop.  23  e  Schol.  V.  pure  p.  III.  Schol prop.  11. .  *^ 6 Ubigli  Btea^ierflMoi,  éitìV esigenza,  presente  del  corpo  (1)^ che  <  si  detìnisee  o  si  spiega  per  il  tempo  e  la  durata  »  (2)^ ciò  che  implica  che  anche  per  il  corpo  vi  ha  un'esistenza eterna,  al  di  fuori  del  tempo  e  della  durata.  Così  ancora la  mente,  «  in  (pianto  si  conosce  o  si  considera  sub  spe- cie aeteruitatis  »  vale  lo  stesso  che  la  mente  «  in  quanto è  eterna,  »  (3)  e  le  cose  realmente  eterne,  come  quelle considerate  sub  specie  aeternitatis,  hanno  per  contrap- posto le  cose  €  in  quanto  si  considerano  con  relazione a  un  certo  tempo  e  a  un  certo  luogo  >  (4).  Che  il  corpo umano  deve  avere,  come  la  mente  umana,  una  doppia esistenza,  l'una  temporanea  e  l'altra  eterna,  è  d'altronde la  conseguenza  inevitabile  di  uno  dei  principii  fon- damentali del  sistema  di  Spinoza,  cioè  del  parallelismo (1)  P.  V.  Dilli,  pi-.  21,   Dim.  pr.  23,  Schol.  pr    29  e  Diiii.  V. pure  p.  III.  Schol.  prop.  11. (2)  P.  V.   Dim.  pr.  23,  o  Dim.  prop.  29. (3)  V.  Eth,  p.  V.  Prop.  30  (mens  uoàtra  quatenus  se  et  cor- pus sub  specie  aeternitatis  co«;noscit)  e  Diin.  (lo  stesso,  ma  in- vece di  cognoscit,  eomipil)  e  Prop.  36  (Deus  quatenus  per  es- seutiam  humanae  mentis  sub  specie  aeternitatis  cousideratam explicari  potest).  V.  pure  Dimostr.  prop.  37:  mentis  natura  qua- tenus ipsa  ut  aeterna  veritas  per  Dei  uaturam  consideratur. Quatenus  ut  aeterna  veritas  per  Dei  natnrnm  consideratur  non differisce  essenzialmente  dalla  espressione  più  abituale  conside- rata sub  specie  aeternitatis^  perchè  le  cose  si  considerano  sub specie  aeternitatis  in  quanto  si  riguardano  come  verità  necessarie dedotte  dell'essenza  di  Dio.  (Cfr.  lo  Schol.  della  prop.  29,  ripor- tato nella  nota  1  a  p.  392.  La  frase  di  questo  scolio  quatenus  ex naturae  divinne  necessitate  conseqni  concipimus  è  evidentemente l'equivalente  di  quella  della  Dim.  prop.  37  quatenus  ut  aeterna veritas  per  Dei  naturam  consideratur. (4)  V.  Schol.  prop.  29  e  Sch.  prop.  37.  V.  pure  i  luoghi  della p.  V.  indie,  nelle  duo  note  prima  della  precedrnte. —  395   - psico-tìsico  (date  le  sue  dottrine  che  la  mente  è  V  idea del  proprio  corpo  (1),  e  che  la  nostra  mente,  in  quanto è  eterna,  è  l'idea  del  nostro  corpo  concepito  sub  specie aeternitatis  (2)).  Non  può  esservi,  secondo  Spinoza,  né uno  spirito  senza  corpo  né  un  corpo  senza  spirito,  per- ché il  tìsico  e  lo  psichico,  sono  per  lui  le  due  facce  in- separabili sotto  cui  si  rivela  una  realtà  unica.  Spinoza afferma,  come  conseguenze  del  parallelismo  psico-fisico, che  le  idee  delle  cose  singolari,  cioè  le  loro  menti  o  le loro  anime,  non  durano  che  mentre  durano  le  cose  stes- se (3);  che  :i'  anima  non  è  stata  mai  senza  corpo,  né il  corpo  senza  anima  (4);  che  l'esistenza  presente  della nostra  mente  (cioè  quella  che  si  definisce  per  il  tempo e  la  durata)  cessa  quando  cessa  l'esistenza  presente  del nostro  corpo  (5).  Per  la  stessa  ragione  deve  ammettere —  se  vi  ha,  oltre  all'esistenza  presente,  un'esistenza  e- terna  della  nostra  mente  —  che  questa  seconda  esistenza ha  luogo  anche  per  il  nostro  corpo,  perché  il  corpo  di cui  la  nostra  mente  é  l'idea  nella  sua  esistenza  eterna, é  il  corpo  stesso  della  sua  esistenza  presente,  concepito sub  specie  aeternitatis  (6).  Tutto  ha  dunque,  secondo  Spi- noza, una  doppia  esistenza,  l'una  temporanea  e  1'  altra eterna,  il  nostro  corpo  come  la  nostra  mente,  e  come  il nostro  corpo  tutti  gli  oggetti  contemplati  dalla  ragione, perché  la  ragione,  come  abbiamo  visto,  deve  contemplare (1)  V.  Uth,    p.   II.    Propr.  11,  Prop.  13,  e  Cor.  e    Schol.    di questa. (2)  V.  la  nota  4  a  p.  393. (3)  P.  II.  Cor.  e  Schol.  pr.  8. (4)  Dio  Vuomo  e  la  beat.  trad.  frane,  la  nota  a  pag:.  lOfJ. (5)  Eth.  P.  III.  Schol.  pr.   11.  Cfr,.  Schol.  prop.  17  p.  II. (6)  Cfr.  ciò  che  diremo  nella  nota  finale  di  questo  paragrafo sul  vero  significato  della  dottrina  dell'eternità  della  mente  umana. —  396  — tutto  sub  specie  aeternitatis.  Essa  deve  conteraplare  sub specie  aeteruitatis  tutte  le  cose  presenti,  passate  e  fu- ture (1),  salvo  che  deve  contemplarle  non  come  presenti, passate  o  future,  ma  come  eterne.  Gli  avvenimenti  stessi devono  essere  contemplati  sub  specie  aeternitatis,  per- chè anch'essi  sono  oggetti  della  ragione,  ed  è  solo  la loro  temporaneità  che  non  è  che  oggetto  dell'  immagi- nazione (2).  Tutti  gli  avvenimenti,  come  tutti  gli  ogget- ti, esistono  dunque  a  un  doppio  stato:  l'uno  nel  tempo e  nella  durata,  come  li  conosce  l'immaginazione,  e  l'altro fuori  del  tempo  ed  eterno,  come  li  conosce  la  ragione. Non  si  deve  credere  però  che  le  cose  considerate  sub specie  aeternitatis  sono  gli  oggetti  individuali  con  tutti i  loro  earatteri  individuali,  e  con  questa  sola  differenza, che  bisogna  rappresentarseli,  non  come  temporanei,  ma come  eterni.  Le  cose  concepite  sub  specie  aeternitatis non  sono  delle  finzioni,  ma  ut  verae  seti  reales  concipiun- tur  (3).  Perciò  devono  rappresentare  ciò  che  vi  lia  di  e- temo  e  d'immutabile  nelle  cose,  Telemeuto  costante  della natura,  che  è  sempre  lo  stesso  nella  successione  e  il  can- giamento incessante  dei  fenomeni.  Non  sono,  a  parlar prnpriamente,  gli  oggetti  individuali,  con  le  circostanze che  fanno  di  ciascuno  tale  o  tal  altro  individuo  distinto e  differente  dagli  altri,  che  bisogna  rappresentarsi  come eterni,  ma  le  forme  o  i  tipi  costanti  della  natura,  che essi  rappresentano,  e  di  cni  non  sono  che  degli  esempi. Le  cose  concepite  sub  specie  aeternitatis  sono  gli  oggetti della  scienza  assoluta,  cit»è  del  terzo  genere  di  conoscen- za (4):  ma  la  realtà  empirica,  1'  individuo,  non  può  es- —  397  - sere,  secondo  Spinoza,  un  oggetto  del    terzo   genere  di conoscenza.  Noi  abbiamo  visto  infatti  che  il  terzo  genere di  conoscenza  consiste  a  dedurre  le  cose  dall'essenza  di Dio  (1),  e  che  le  cose  <  singolari  »  o  «  che  hanno  un'e- sistenza  determinata»  non    seguono,  cioè  non   possono dedursi,  dall'  essenza  di  Dio  (2).  Inoltre  il  terzo  genere di  conoscenza  consta  d'idee  adequate  (3);  ma  Spinoza  non ammette  che  delle  cose  empiriche,  individuali,  vi  siano delle  idee  adequate.  Noi  non  abbiamo    che    una    cogni- zione inadequata,  o  delle  idee    mutilate  e  confuse,  sia del  nostro  corpo,  considerato  come  oggetto    individua- le (4),  e  delle  sue  modificazioni  (5),  sia  delle  parti  che  lo compongono  (6)  e  dei  corpi  esterni  (7)  considerati  come ogi^etti    individuali,  sia   della    nostra    mente   (8)  e  del- le idee   della   nostra    mente  corrispondenti    alle    modi- ficazioni  del    nostro  corpo  (9).    Tutti    gli    oggetti    em- pirici,  individuali,  noi    non    ce    li  rappresentiamo  che mediante  le  modificazioni    del    nostro  corpo  (10),  e   le rappresentazioni  così  formate  costituiscono  l' immagina- (1)  Eht.  p.   IV  prop.   62  e   Dim. (-2)  V.  Schol.  prop.  62  p.  IV. (3)  £th.  p.  V  Soho).  pr!  29  (oli.  uella  nota  1  a  p.  392). (4)  V.  i  1.  cit.  nella  nota  1  a  p.  393. (1)  V.  parag.    '5  pag.  371. (2)  V.  pag.  387  (3). (3)  Mh.  p.  II  Schol.  pr.  40,  Dim.  pr.  41,  Sch.  prop.  47,  p.  V Prop.  28,   De  int.  emendai.  24,  29,  eoo. (4)  Eth.  p.  II  Prop.  19,  Pr-  27,  Cor.  pr.  29. (?)  Eth,  p.  II  Pr.  28. (6)  Eth,  p.  II  Pr.  24. (7)  Eth.  p.  II  Cor.  2.  pr.  16,  Pr.  25,  Pr.  26,  Cor.  pr.  29,  p.  Ili Afttct,  gener,  definii, (8)  Eth,  p,  II.  Pr,  23,  Schol.  pr.  28,  Prop.  29,  Cor.  prop.  29. (9)  Eth,  p.  II.  Schol.  pr.  28.,,         ^ (10)  Eth,  p.  II.  Prop.  19,  Propr.    23,   Prop.  26  e   Cor.,  Cor. prop.  29,  Schol.  II.  pr.  40,  p.  V.  Prop.  21,  ecc. —  399  - K zione  (1),  che  noQ  è  che  il  grado  infimo  di  conoscenza, e  non  consiste  che  in  idee  inadequate  (2).  Che  le  cose concepite  sub  specie  aeternitatis  si  svestano  della  loro individualità,  risulta  del  resto  dai  luoghi  precedente- mente  citati  (3),  in  cui  esse  si  contrappongono  alle  cose concepite  con  relazione  a  un  certo  tempo  e  un  certo luogo  (perchè  la  posizione  in  un  tempo  e  in  un  luogo determinati  sono  state  sempre  riguardate  come  le  con- dizioni  dell'esistenza  individuale).  Ciò  che  si  concepisce sub  specie  aeternitatis,  non  sono,  a  parlar  propriamente, le  cose  stesse,  ma  le  essenze  delle  cose.  L'essenza,  in  ef- fetfco,  è  \\u' eterna  verità  (4),  cioè  necessaria  (5)  e  che  si verifica  sempre  (6),  perchè  è  sempre  la  stessa  nella  sue- (1)  Eth.  p.  II.  Schol.  pr.  17.  i^or.  prop.  26.  Scliol.  II  prop.  40. p.  V.  Prop.  21,  De  ini.  emend.  84.86-88,  91. (2)  Eth,  p.  II.  Schol.  pr.  17,  Cor.  pr.  26,  Schol.   11.    pr.   40 De  ini.  emend.  74.  84,  86-90,  91  ecc. -Che  delle  cose  inclividuali non  VI  siano  idee  adequate    «i  vede  pure  dalla    distinzione    tra gh  atìetti  che  si  riferiscono  alle  cose  di  cui  abbiamo  intelligenza e    quelli  che    si  riferiscono    alle  C(»se    singolari    (V.   Ufh.  p      V Prop.  7   e  Schol.  prop.  20    u.  3),  e  dalla    proposizione  che.  for* mandoci   delle  idee  chiare    e  distinte,  cioè  adequate .  doi    nostri affetti,  h  separiamo  dal   pensiero  delle  loro  cause    esterne  (cioè delle  cose  particolari  ohe    ne  sono  l'oggetto  o  V  occasione)  e    li uniamo  invece  a  dei  pensieri    veri  (V.  Sch.  pr.  4  e   cfr.    Schol pr.  20). (3)  Schol.  prop.  29  e  Schol.  prop.  37  p.   V. (4)  Età,  p.  I.  Exiplicat.  Def.  Vili,  Schol.  2.  prop.  8,  Schol. prop.  17,  De  ini.  em.  67- Dire  di  una  cosa  che  ^  si   considera come    un'eterna  verità  p    equivale  per  Spinoza    a  dire  che    €  si considera  sub  specie  aeternitatis  »  V.  Eth.  p.  V.  Dim.  prop   37 1.  cit.  nella  nota  3  a  p.  394,  e  cfr.  questa  nota. (5)  V.   De  int.  em.  67  e  100. (6)  V.   De  ini.  em.  54  n.  3. cessione  degrindividui  (1),  e  una  verità  che  si  verifica sempre,  per  un  apriorista  radicale  come  Spinoza,  è  una verità  necessaria.  E  infatti  il  terzo  genere  di  conoscenza (il  cui  oggetto  sono,  come  sappiamo,  le  cose  considerate sub  specie  aeternitatis)  deduce  propriamente  dall'essenza di  Dio,  non  le  cose  stesse,  ma  le  loro  essenze  (2).  Così Spinoza  preferisce  di  dire  che  ciò  che  si  considera  sub specie  aeternitatis  è  l'essenza  del  corpo  umano,  anziché il  corpo  umano  stesso  (3)  (e  se  non  fa  lo  stesso  per  la mente,  è  perchè  e.ii^li  vuol  esporre  la  sua  dottrina  della eternità  della  mente  umana  in  una  forma  che  l'avvicini, più  che  sia  possibile,  alla  dottrina  comune  dell'immortali- tà dell'  anima,  e  per  un'  altra  ragione  che  vedremo  nella nota  in  fine  del  paragrafo).  Ci  si  potrebbe  obbiettare  in  ve- rità che  l'essenza  d'una  cosa  non  differisce  per  Spinoza  dal- la cosa  st-essa,  perchè  egli  dice  in  una  definizione  (4)  che all'essenza  d'una  cosa  appartiene  «  ciò,  dato  il  quale,  la cosa  necessariamente  è  posta,  e  tolto  il  quale,  la  cosa  ne- cessariamente è  tolta,  o  ciò  senza  cui  la  cosa  e  viceversa ciò  che  senza  la  cosa  non  può  uè  essere  uè  concepirsi», facendo  così  entrare  nell'  idea  dell'essenza  d'  una  cosa individuale  tutte  le  note  che  entrano  nell'idea  di  questa cosa  stessa  (5).  Ma  è  chiaro  che  nell'  uso  della  parola essenza  egli  non  si  conforma  sempre  a  questa  defini- zione: quando  dice  che  l'essenza  è  un'eterna  verità,  egli Jl)  V.   Elh.  p.  I.  Schol.  pr.  17. (2)  V.  Elh.  p.  II.  Schol.  Il  pr.  40  e  De  ini.  em.  V. (3)  V.  Elh.  p.  V.  Prop.  22. (4)  Elh.  p.  II.  Def.  II. (5)  È  in  questo  significato  che  intende  la  parola  essenza  nel- l'Ass.  1.,  nello  Schol.  della  prop.  17,  nella  Prop  37  e  nel  Cor.  2. della  prop.  44,  II  parte. —  400  — b  ' n Don  può  intendere  per  questo  termine  che  ciò  che  in- tendono generalmente  gli  altri  filosofi,  cioè  V  essenza comune  a  tutti  gl'individui  d'una  specie,  l'oggetto  d'una definizione  generale.  Che  sia  questa  l'essenza  che  deve essere  contemplata  sub  specie  aeternitatis  è  ctmfermato dal  Trattato  De  int  emend,  (1),  in  cui  dice  «  che  le  es- senze delle  cose  singolari  mutabili  >  non  devono  rica- varsi da  queste  cose  stesse,  ma  devono  cercarsi  nelle  «co- se fisse  ed  eterne  >,  le  quali  possono  riguardarsi  come «  dei  generi  delle  definizioni  delle  cose  singolari  muta- bili >.  A  queste  essenze  cosi  intese  (cioè  come  oggetti delle  definizioni  generali,  concepiti  separatamente  dalle proprietà  particolari  a  tale  o  tal  altro  individuo),  Spi- noza non  attribuisce,  come  gli  altri  filosofi,  una  semplice esistenza  concettuale,  ma  una  realtà  propria  e  distinta, perchè  le  cose  considerate  sub  specie  aeternitatis  non sono  per  lui,  come  abbiamo  visto,  delle  astrazioni  men- tali, ma  delle  cose  veramente  eterne    e  sussistenti    per se  stesse. Evidentemente,  le  cose  considerate  sub  specie  aeter- nitatis non  sono  altro  che  i  modi  et-erni  ed  infiniti dell'^^ica  e  le  cose  fisse  ed  eterne  del  Trattato  De  in- tellectus  emendatione.  Infatti  le  cose  considerate  sub  spe- cie aeternitatis  sono  quelle  che  formano  1'  oggetto  del terzo  genere  di  conoscenza,  e  questo  consiste  a  dedurre le  cose  dell'essenza  di  Dio:  ora,  secondo  l'Etica  (2),  dal- l'essenza di  Dio  non  seguono,  cioè  non  possono  dedursi, che  i  modi  eterni  ed  infiniti,  e  secondo  il  Trattato  de int.  emend.  (3),  la  serie  delle  cause,  gli  oggetti  che  la ragione  deduce  gli  uni  dagli  altri,  non  sono  che  le  cose ~  401 (1)  $.  101,  luogo  che  riporteremo  nel  paragr.  27. (2)  Prop.  21  23  p.  I- (3)  }.  99-101. fisse  ed  eterne.  Noi  possiamo  dunque  applicare  alle  cose considerate  ^«6  specie  aeternitatis  ciò  che  Spinoza  afferma dei  modi  eterni  ed  infiniti  o  delle  cose  fisse  ed  eterne e  viceversa.  Ora  noi  abbiamo  visto  che   le  cose  fisse  ed eterne  (o  i  modi  eterni    ed  infiniti)  hanno  un'esistenza distinta    da  quella  delle  cose   singolari    e   temporanee ma  sono  presenti  in  esse  e  ne  sono  le  cause  immanenti] e  non  sono  che  esse  stesse  a  uno  stato  «.9//77^/o,  cioè  se- parate  da  alcune  delle  loro    determinazioni.    Lo    stesso dobbiamo  dunque  dire  delle  cose  considerate  sub  specie aeternitatis.  Spinoza  le  identifica  con  le  cose  sin-ohiri  e temporanee  (riguardandole  come  queste  cose  stes'se  con- cepite  di  un  altro  modo),  perche  le  cose  considerate  sub specie  aeternitatis  e  le  cose  singolari  e  temporanee  sono e  stesse  cose  a  due  gradi   differenti  di  determinazione, .le   une   a   uno  stato   astratto,  le  altre  allo  stato   con- creto. Ma   può  al  tempo  stesso  distinguerle,  e  può  am- mettere  che  le  une  sono  presenti   nelle  altre  (1)  e  ne sono   le  cause   immanenti,  perchè  secondo  lui  l'astratto esiste   per   sé,  quantunque   non   si    trovi    che   nel    con- creto, e  r  effetto  è  la  causa  stessa  a  uno  stato  più  avan- zato di  determinazione.  La  sola  difficoltà  che  presenta rinterpretazione  di  questa  dottrina  di  Spinoza  è  di  sa- pere con  precisione  quali  sono  le  determinazioni  del  rea- (1)  Le  cose  considerate  sub  specie  aeternitatis  non  sarebbero considerate  così,  se  non  fossero,  non  solo  esistenti  fuori  del  tempo e  della  durata,  come  ce  le  rappresenta  Spinoza,  ma  anche  pre- senti nelle  cose  che  occupano  tutto  il  tempo  e  la  durata  :  è  a questa  sola  condizione  che  una  cosa  esistente  fuori  del  tempo  e della  durata  può  essere  riguardata  come  eterna,  perchè  noi  in- tendiamo  per  eternità  una  durata  infinita,  o,  come  dice  Spinoza, la  «  fruizione  infinita  dell'esistenza  ». 26 —  402  —  le  (cioè  del  reale  empirico,  delle  cose  esistenti  nel  tempo e  nella  durata),  di  cui  bisogna  fare  astrazione  per  con- cepire le  cose  sub  specie  aeternitatis,  cioè  per  farne  delle cose  fisse  ed  eterne,  dei  modi  eterni  ed  infiniti  di  Dio. Questa  quistione- siccome  le  cose  considerate  sub  specie aeternitatis  sono  le  cose  in  quanto  formano  oggetto  del terzo  genere   di  conoscenza,  o,  ciò  che  è  lo  stesso,  in quanto  seguono  necessariamente,  cioè  si  deducono,  dalla essenza  di  Dio— equivale  a  quella  di  sapere  qual  è  pre- cisamente l'oggetto  del  terzo  genere   di  conoscenza,  in altri  termini  quali  sono  le  determinazioni  delle  cose  che Spinoza  rignanhi  come  necessarie    e  deducibili  dall'  es- senza di  Dio,  e  quali  quelle  che    riguarda    come   acci- dentali e  non  deducibili.  Senza  dubbio  ciò  che  Spinoza riguarda  come  necessario  e  come  deducibile    è  ciò    che vi  ha  di  eterno  e  d'immutabile    nelle  cose,  l'  elemento permanente  e  sempre  identico  della  natura:  ma  si  tratta appunto  di    sapere  ciò  che    egli  considera,  nelle   cose, come  eterno  ed  immutabile,  e  al  tempo  stesso  come  esi- stente per  sé,  benché  presente  nelle   cose   stesse;  quale è  nelle  cose  l'elemento  variabile  e  fenomenale  che  non è  che  l'oggetto  deìV immaginazione,  e  quale  l'  elemento sempre  ideutico  a  se  stesso  e  veramente  reale  (1)  che  è l'oggetto  della  vera  scienza. Su  questa  quistione,  bisogna  convenirne,  noi  non troviamo  quasi  altro  in  Spinoza,  d'una  maniera  espli- cita, che  ciò  che  possiamo  trovare  in  qualsiasi  altro realista  dialettico,  p.e.  in  Platone.  L'elemento  eterno  e necessario  della  natura  si  distingue  dalle  cose  indivi- duali, è  costituito  dalle  loro  essenze  comuni,  ed  esiste per  sé  (benché  presente    nelle  cose  individuali),  al    di (1)  V.  Nota  1  a  p.  390. —  403  — fuori  della  successione  e  del  cangiamento.  Ciò  implica che,  per  concepire  quest'  elemento  eterno  e  necessario, noi  dobbiamo  fare  astrazione  di  ogni  determinazione del  reale  come  complesso  di  cose  individuali,  e  non  in- cludere nei  nostri  concetti  che  1'  universale  puro,  le forme  e  le  leggi  generali  della  natura.  Anche  in  ciò Spinoza  si  accorda  esplicitamente  con  gli  altri  realisti dialettici.  Le  basi  della  nostra  conoscenza  razionale  sono, dice  Spinoza,  delle  nozioni  comuni  a  tutti  gli  uomini, che  rappresentano  ciò  che  vi  ha  di  comune  a  tutte  le cose  (1)  :  di  queste  proprietà  comuni  di  tutte  le  cose noi  a4>biawio  delle  idee  adequate  (2),  e  siccome  esse  non costituiscono  l'essenza  di  alcuna  cosa  singoiar©  (Bel  senso della  parola  essenza  di  cui  si  tratta  nella  Def.  II  P.  II)  (3), devono  essere  concepite  senza  alcuna  relazione  di  tempo, ma  sub  specie  aeternitatis  (4).  Noi  abbiamo  anche  idee adequate  di  ciò  che  è  comune  al  corpo  umano  e  ad  al- tri corpi  esterni  e  alle  loro  parti  (5):  infine  tutte  le  idee che  si  deducono  da  idee  che  sono,  nella  nostra  mente, adequate,  sono  anch'esse,  nella  nostra  mente,  adequa- te (6).  La  conoscenza  razionale  è  una  conoscenza  uni- versale, che  è  costituita  da  nozioni  comuni  (cioè  gene- rali) e  da  idee  adequate  delle  proprietà  delle  cose  (e non  delle  cose  stesse)  (7);  e  se  Spinoza  contrappone  la conoscenza   del  terzo   genere   a  quella   del   secondo    in (1)  Mh.  p.  II  Cor.  2.  prop.  44.  Cfr.  Prop.  38  e  Cor. (2)  P.   II  Prop.  38. (3)  V.  p.  399  (4). (4)  Cor.  2.  prop.  44. (5)  P.  II  Prop.  39. (6)  Prop.  40. (7)  V.  P.  II  Sohol.  2.  prop.   40  e  cfr.    Schol.  prop.  36  p.    V. —  404  — quanto  la  prima  lia  per  oggetto  il  singolare  (1),  ciò  non  è perchè  essa  non  sia  una  conoscenza  universale  come  quella del  secondo  genere,  ma  perchè  l'universale  che  è  l'og- getto del  secondo  genere   di  conoscenza    non  è   che   la collezione  dei  particolari,  astrattamente  considerata,  men- tre quello  che  è  1'  oggetto  del  terzo    genere   esiste    per se  stesso  indipendentemente   dalle  cose    particolari,  ed è  quindi  singolare  anch'esso  (2)  (quantunque  non   nello stesso  senso  che  le  cose  che  si  chiamano    propriamente singolari,  cioè  le  mutabili)  (3).  E  infatti  ciò  che  nel  Cor  2. alla  prop.  40  II  parte  ha  detto  del  2°  genere  di  conoscenza, che  esso  è  costituito  «di  nozioni  comuni  e  di  idee  ade- quate delle  proprietà    delle   cose  »,    Spinoza    lo    consi- dera, nelle  Dim.  delle  proposizioni  7  e  12  della  parte  V^ come  una  definizione  generale  della  ragione,  quindi  non può  non    applicarsi  anche  al  3«    genere  di    conoscenza, che    è  la    conoscenza    razionale    per   eccellenza    (4).    Si vede   anche  dal  primo  di  questi  due  luoghi  che  queste €  proprietà   della    cose    »  di    cui    si  tratta   nel    Cor.  2* prop.  40  II  parte,  sono,  «  le  proprietà  comuni  delle  cose», cioè,  non  le  proprietà   comuni  a   tutte    le   cose  (di  cui nella  Prop.  38  parte  II),  ma   tutte  le  proprietà    generi- che e  specifiche  in  generale   (perchè    nella  Dim.    della (1)  Hlh,  p.  V  Sch.  pr.  36. (2)  Elh  p.  V  Schol.    prop.   86,  Schol.    prop.    37,  De  ini.  em. 93,  99,  101. (3)  Nel  De  int.  em.  nello  stesso  luogo  in  cui  chiama  le  cose fisse  ed  eterne  «  singolari»,  distinguendole  dalle  cose  singolari «mutabili»  ($  99-101),  intende  per  «singolari»  senz'altro  le «  mutabili  »  (^  101,  102  e  103),  cioè  le  cose  singolari  nel  senso ordinario. (4)  De  natura  rationis  est  res  sub  quadam  aeternitatis  specie percipere  (Cor.  2.  prop.  44  parte  lì). —  405  — prop.  7  p.  V  gli  affetti  clie  si  riferiscono  alle  «  pro- prietà comuni  delle  cose  »  sono  tutti  quelli  che  «  na- scono dalla  ragione  »,  i  quali  vengono  apposti  a  quelli che  «  si  riferiscono  alle  cose  singolari  »,  e  nello  Schol. alla  prop.  20  n.  3  -—  in  cui  si  cita  questa  prop.  7  —  gli 4C  affetti  che  si  riferiscono  alle  proprietà  comuni  delle cose  »  sono  detti  invece  «  gli  affètti  che  si  riferiscono alle  cose  di  cui  abbiamo  intelligenza  »  e  contrapposti  a quelli  «  che  si  riferiscono  alle  cose  che  concepiamo  d'una maniera  confusa  e  mutilata,  »  cioè  alle  «  cose  singolari  » di  cui  nella  prop.  7.)  (l).  È  superfluo,  del  resto,  dimo- strare che  il  3"  srenere  di  conoscenza  ha  per  oggetto,  se- condo Spinoza,  l'universale  in  se  stesso^do\)o  che  abbiamo visto  che  esso  non  ha  per  os»getto  le  cose  individuali, e  che  non  si  riferisce  che  alle  essenze  comuni  di  que- ste cose.  Ciò  che  bisogna  notare  è  che  questi  uni  ver- gali, di  cui  Spinoza  fa  delle  cose  eterne  sussistenti  per se  stesse,  comprendono  per  lui  tutto  ciò  che  vi  ha  di generale  nelle  cose,  sino  alle  loro  leggi  più  particolari e  alle  loro  specie  ultime.  Noi  abbiamo  visto  infatti  che si  deve  concepire  sub  specie  aeternitatis  V  essenza  del corpo  umano  e  quella  della  mente  umana,  e  similmente le  essenze  di  tutte  le  cose,  perchè  il  terzo  genere  di  co- li) Nella  Dim.  delhi  prop.  12  p.  V  «  le  cose  che  intendiamo chinramente  e  distintamente  »  (cioè  gli  oggetti  della  conoscenza razionale),  non  sono  solamente  «  le  proprietà  comuni  delle  cose  », ma  anche  ciò  che  può  dedursi  da  esse  :  ma  anche  questo  non può  essere  che  alcun  che  di  generale,  perchè  di  tutte  «  le  cose obo  intendiamo  chiaramenle  e  distintamente  »  (e  non  delle  sole 4  proprietà  comuni  delle  cose  »)  si  dice  che  le  loro  rappresenta- zioni vengouo  in  noi  eccitate  più  spesso  che  quelle  delle  altre (evidentemente  perchè  queste  sono  particolari  ed  esse  sono  ge- nerali). I -  406  - iiosceuza  consiste    a  dedurre  dalPesseuza    di  Dio    tutte le  cose^  cioè  propriamente,  le  loro  essenze.  Aggiungiamo che  di  tutte  le  modificazioni  del  nostro  corpo  e  di  tutti i  nostri  affetti  noi  possiamo  formarci   delle  idee    chiare e  distinte,  cioè  adequate,  e,  per  conseguenza,  conoscerli col  terzo  genere  di  conoscenza   (1);  che  dall'  essenza  di Dio  seguono  necessariamente,  insieme  alla  mente  umana, tutti  i  suoi  fenon\eni  (2),  i  diversi    gradi  di    perfezione degli  esseri  (3)  e  tutto  l'ordine  della  natura  (4);  e  che, perchè  il  nostro  pensiero  rappresenti  la  realtà,  dobbiamo produrre  tutte  le  nostre  idee  da  quella  dell'  essenza  di Dio  (5)  (per  «  tutte  le  nostre  idee  »  dobbiamo  intendere tutti  i  nostri  concetti  generali;  per  conseguenza  per  tutti i  concetti  generali  vi  devono  essere  degli  oggetti  corri- spondenti, cioè  delle  €  cose  fisse  ed  eterne,  »  che  si  de- ducono dall'essenza   di  Dio).  Noi    abbiamo  detto,  com- mentando la  proposizione  di  Spinoza  che  la  ragione  deve contemplare  sub  specie  a6<<?rw/<a/is  tutte  le  cose  presenti, passate    e  future  :  «  salvo  che  deve  contemplarle,  non come  presenti,  passate  o  future,  ma  come  eterne   ».  A- vremmo  dovuto  dire,  per  essere  esatti,  che  la   ragione deve  fare  astnizione,  insieme  alla  loro  temporaneità,  di tutte  le  circostanze,  che  sono  legate  a  questa  tempora- neità, vale  a  dire  di  tutte  le  loro  particolarità  puramente individuali,  che   sarebbe    assurdo  di    contemplare   sub specie  aeternitatis,  perchè  sarebbe  assurdo  di  farne  delle forme  stabili,  costanti,  della  natura. (1)  Eth.    p.  V    Pr.  3,  Prop.  4    e,  Cor.,  Prop.    14,    Prop,    15, Scbol.  prop.  20. (2)  Eth.  Pref.  della  p.  II. (3)  Elh.  App    p.  I  verso  la  fine. (4)  Eth.  p.  I  Prop.  33  e  Sehol.  2«>. (5)  De  hit.  em.  42.  91,  99. 1 »_  407    — Potrebbe  credersi,  ed  effettivamente  è  stato  creduto da  alcuno,  che  le  €  cose  considerate  sub  specie  aeterni- fatis  )>  o  le  «(  cose  fisse  ed  eterne  »  siano  identiche  alleIdee  platoniche  (1).  E  nel  fatto    le  une  e  le  altre   sono delle  astrazioni  realizzate;  le  une  e  le  altre    rappresentano l'elemento  eterno  e  necessario    delle  cose  ;  le  une e  le  altre  sono  la  constantificazione  dell'universale,  che è  considerato  egualmente  nei  due  sistemi  come    avente un'esistenza  distinta    da  quelle  delle    cose    individuali, ma  come  presente  in  queste  cose  e  causa  immanente  di esse.  Ma  non  si  può  ammettere  che  Spinoza    jibbia  de- terminato  dello    stesso    modo    che    Platone    «luesf  uni- versale   che    ha   come    lui   sostantifìcato.    Per    separare l'elemento  eterno  e  necessario  delle  cose  dall'  elemento mutabile  e  contingente,  Platone  e  Spinoza  hanno  fatto due  ipotesi  differenti,  e  il  confronto  dei  due  sistemi   ci mostra  che  le  determinazioni  della  realtà  femmcììale,  di cui  bisogna  fare  astrazione  per  concepire  il  vero    reale, che  è  1'  oggetto  della  vera  scienza,  sono    maggiori    in Platone  che  in  Spinoza,  in  altri  termini,  che  le  astra- zioni realizzate  del  primo  sono   più  astratte  che    quelle del  secondo. (1)  Così  l'editore  di  Spinoza  Carlo  Hermann  nella  prefazione  al 2.  volume  dice  del  Trattato  De  intellectus  emcudatione  :  lu  hoc traetatu...  persequitnr  divini  Platonis  de  idcis  doctrinam...  Le parole  ohe  seguono  ravvicinano  il  metodo  che  Spinoza  espone in  questo  trattato,  alla  dialettica  tii  Hegel.  L'autore  ha  un'idea giusta  della  dottrina  di  Spinoza  nei  suoi  tratti,  per  dir  così, generici,  vale  a  dire  comprende  perfettamente  che  è  un  reali- smo dialettico,  e  la  identificazione  che  ejzli  fa  delle  «  cose  fisse ed  eterno  »  con  le  Ideo  di  Phitone.  non  è  che  l'esagerazione  di una  verità  evidente,  cioè  l'affinità  strettissima  tra  i  sistemi  dei due  filosofi. —  408  - Il  realista  dialettico  non  pretende  di  dedurre  tutto l'universo  reale,  con  tutte  le  circostanze  particolari  che sono  proprie  agli  individui  che  lo  costituiscono,  ma  so- lamente ciò  che  vi  ha  di  costante  nella  natura,  le  leggi e  le  forme  generali  delle  cose.  L'esistenza  di  questo  o quell'individuo  determinato  e  le  proprietà  peculiari  che li  caratterizzano,  sono,  secondo  il  realista  dialettico,  in- deducibilì  —  in  altri  termini,  non  sono  necessarie,  ma contingenti  — ;  ciò  che  è  necessario,  ciò  che  deve  dedursi, è  che  esiste  il  tipo  generale  secondo  cui  gì'  individui sono  costituiti,  ma  non  che  questo  tipo  si  realizza  in tali  o  tali  altri  individui.  Ora  l'idea  che  è  il  germe  del realismo  dialettico,  è  che  l'incatenamento  deduttivo  dei concetti  rappresenta  l'incatenamento  causale  delle  cose. Dunque,  la  serie  dei  principii  e  delle  conseguenze,  in quest'incatenamento  deduttivo,  non  essendo  che  concetti delle  forme  generali  delle  cose  .  la  serie  delle  cause e  degli  effetti,  nell'  incatenamento  causale  corrispon- dente, non  possono  essere  che  le  stesse  forme  gene- rali delle  cose,  che  sono  gli  oggetti  di  questi  concet^ ti.  Supponiamo  che  queste  forme  generali  delle  cose, che  il  realista  dialettico  deduce,  si  concepiscano,  non astrazion  facendo  dalle  circostanze  degli  oggetti  indi- viduali con  cui  sono  congiunte  nella  realtà,  ma  unita- mente a  quesie  circostanze  :  in  questo  caso  esse  non  sa- rebbero più  delle  conseguenze  necessarie  dei  principii da  cui  si  deducono  —  perchè  queste  circostanze  non  se- guono da  questi  principii  —  ciò  che  torna  a  dire  che non  né  sarebbero  atfatt<'  delle  conseguenze.  Ma,  secondo il  realismo  dialettico,  la  conseguenza  è  lo  stesso  che  l'ef- letto,  e  il  principio  lo  stesso  che  la  causa.  Così,  se  que- ste forme  generali  delle  cose  si  concepiscono  unitumeute alle  circostanze  degli  oggetli  individuali  con  cui  sono unite  nella  realtà,  e  non  astrazion  facendo  da  queste circostanze,  esse  non  sono  più  gli  effetti  necessari  delle —  409  — cause  da  cui  derivano,  ciò  che  torna  a  dire  che  non  ne sono  affatto  degli  effetti,  perchè  la  causa  è  una  causa  e l'effetto  è  un  effetto  per  il  legame  necessario  che  vi  ha (o  piuttosto  che  il  realista  dialettico  e,   in  generale,  il metafisico,  ammette  che  vi  sia)  tra  la  causa  e  l'effetto. Per  conseguenza,  affinchè  la  sua  deduzione  rappresenti il  movimento  stesso,  lo  sviluppo,  dell'essere -in  altri  ter- mini affinchè  il  principio  logico  sia  identico  alla  causa e  la  conseguenza  all'effetto  -  il  realista  dialettico  deve concepire  queste  forme  generali  delle  cose,  che  egli  de- duce, astrazion  facendo  dalle  circostanze   degli    oggetti individuali  con  cui  sono  unite  nella  realtà  (cioè  in  quella che  noi  chiamiamo  così,  nella  realtà  empirica):  ciò  vuol dire  che  deve  considerarle  come  sussistenti  per  se  stesse, come  aventi    un'  esistenza  propria  e  distinta  da  quella degli  oggetti  individuali  in  cui  si  trovano,  in  una   pa- rola che  di  queste  astrazioni  deve  fare  delle  realtà.  A<»- giungiamo  che  deve  farne,  non  solamente  delle   realtà, ma  le  sole  realtà  vere,  perchè  lo  sviluppo  del  pensiero che  deduce  essendo  identico    allo  sviluppo    reale   delle cose,  non  può  esservi  altro  di  veramente  reale  òhe  ciò  che si  deduce,  e  il  resto  non  può  essere  che  fenomeno.  Spi- noza si  accorda  con  Platone  in  ciò,  che  l'uno  e  1'  altro concepiscono  queste    forme  generali  delle  cose,  vale    a dire  ciò  che  vi  ha  di  eterno  e  di  costante  nella  natura, ciò  che  è  necessario  e  deducibile,  come  esistenti  per  se stesse,  indipendentemente  dagli  oggetti   dell'  esperienza in  cui  si  trovano,  e  come  costituenti  la  sola  vera  realtà: ma  essi  differiscono   in  ciò,  che,   come  abbiamo    detto, il  secofido,  nel  concetto  ch'egli    si  forma  di  quest^  ele- mento eterno,    necessario  e  veramente  reale  delle  cose, conserva  certe  determinazioni  della  realtà  empirica,  che il  primo  ha  pure  soppresse.  Per  dare  un'esistenza  per  sé a  quest'elemento  eterno  e  necessario  delle  cose,  e  sepa- rarlo dall'elemento  variabile  e  contingente,  Platone  fa -  410  — l'ipotesi  àeWuno  nei  molti.  Quest'elemento  eterno  e  ne- cessario delle  cose  non  è  che  le  concordanze  delle  esi- stenze individuali  successive,  i  punti  di  somiglianza  che vi  hanno  fra  di  esse:  Platone  suppone  che  queste  somi- glianze siano  delle  identità  parziali,  che  gl'individui  di una  specie  o  di  un  genere  si  somigliano  perchè  conten- gono alcun  che  di  identico,  qualche  cosa  che,  una  in  se stessa,  sia  presente  al  tempo  medesimo,  pur  restando  una stessa  e  identica  cosa,  in  tutti  gl'individui  della  specie o  del  genere.  Ciò  è,  come   sappiamo,  l'Idea  platonica. Ora  è  evidente  che  vi  ha  nella  realtà  empirica  una  de- terminazione anch'essa  eterna  e  necessaria,  ma  che  tut- tavia non  è  rappresentata  nel    mondo  delle  Idee  plato- niche: è  la  moltiplicità  degli  esseri  in  cui  si  realizza  il tipo  generico  e  specifico.  Perchè  l'Idea,  cioè  il  tipo  ge- nerico o  specifico,  si  realizza  in  una  moltitudine  d'indi- vidui? È  questo,  secondo  Platone,  un  fatto  contingente, o  non  deducibile,  e  che,  per  conseguenza,  non  ha  alcuna ragione  di  essere;    perchè  tutto  ciò  che  è  necessario,  a deducibile,  deve  essere   rappresentato  nel  mondo  delle Idee.  Ora  l'Idea  è  come  un  individuo  unico,  presente  al temiM)  stesso  nella  moltiplicità  degl'  individui  empirici» ma  in  se  stessa   senza   alcuna   moltiplicità  individuale. La  moltiplicità  individuale  è  esteriore  all'Idea,  e  non  è che  un  fenomeno  (ciascuna  Idea  è  unica,  ma  apparisce come  molti)  (1),  perchè  la  vera  realtti  è  l'Idea,  ciò  che  è necessario  e  deducibile,  e  tutto  il  resto  non  è  che  feno- meno. Ma  è  evidente  che,  se  è  un  fatto  contin/jente  che esista  tale  o  tal  altro  invividuo,  se  è  ancora  un  fatto  con- tm^ew /e che  esista  un  tal  numero  determinato  d'individui, l'esistenza  di  una  moltitudine  d'individui  è,  secondo  i  pre- li)  Rep.  476  a. —  411  — supposti  del  realismo  dialettico,  un  fatto  necessario  altret- tanto che  l'esistenza  della  forma  generale  che  essi  rappre- sentano, perchè,  come  è  un  fatto  costante  della  natura  che esiste,  nelle  cose,  questa  forma  generale,  così  è  un  fatto costante  della  natura  che  essa  è  rappresentata  da  una moltitudine  d'individui.  Ora  è  in  ciò  che  le  «cose  con- siderate sub  specie  aeternitatis  »  o  «  le  cose  fìsse  ed  e- terne  »  di  Spinoza  difteriscono  dalle  Idee  platoniche:  esse non  sono,  come  queste,  delle  unità  senza  moltiplicità^ ma  accolgono  in  se  stesse  la  moltiplicità  che  noi  osser- viamo nei  fenomeni,  vale  a  dire  rappresentano,  insieme agli  altri  fatti  costanti  e  necessari  della  natura,  questo fatto  altrettanto  costante  e  necessario  che  le  forme  ge- nerali delle  cose  si  realizzano  in  una  moltitudine  d'  in- dividui, e  sono  realmente  delle  specie  e  dei  generi^  e  non degl'individui  eterni  come  le  Idee  platoniche. E  infatti  Spinoza  non  fa  consistere,  come  Platone,  il processo  per  cui  l'iutelligibile  si  astrae  dalla  realtà  em- pirica, in  una  riduzione  del  multiplo  all'uno,  cioè  nella soppressione  della  moltiplicità,  ma  in  una  eternizzazione del  temporaneo,  nella  soppressione  del  tempo  e  della durata.  Ciò  implica  che  l'intelligibile,  per  lui,  deve  com- prendere in  sé  tutto  ciò  che  vi  ha  di  eterno  nella  na- tura, per  conseguenza  anche  la  moltiplicità  degl'indivi- dui. Semplicemente  questi  devono  essere  concepiti,  non come  temporanei  e  successivi,  ma  come  eterni  —  perchè le  astrazioni  realizzate  di  Spinoza  sono  in  se  stesse  fuori del  tempo  e  della  durata,  ma  presenti  in  ciò  che  oc- cupa tutto  il  tempo  e  tutta  la  dur.ita  —  e  senza  le  cir- costanze particolari  che  fanno  degl'  individui  dell'  e- sperienza  tali  individui  determinati  —  perchè  queste circostanze  non  fanno  parte  dell'elemento  eterno  e  ne- cessario della  natura,  ma  costituiscono  1'  elemento  va- riabile e  contingente — .Noi  possiamo  dire,  in  breve, che  le  «  cose   fisse   ed    eterne  »  di  Spinoza  sono  le  Idee —  412  — platoniche  cadute  nella  raoltiplicità,  cioè  concepite  cia- scuna non  come  una,  come  le  concepiva  Piatone,  ma come  molte.  Ciò  è  confermato  dal  luo^o  del  J>e  in  tei- lectìis  emendatione,  in  cui  enumera  le  «  proprietà  dell'in- telletto »  (1).  Una  di  queste  proprietà  è  :  <  Res  non  tara «  sub  duratione,  quam  sub  quadam  specie  aeternitatis «  percipit  et  numero  infinito;  vel  potius  ad  res  percipieu- «,  das  nec  ad  numerum,  nec  ad  durationem  attendi t. €  Quum  antem  res  imaginatur,  eas  sub  certo  numero, «  determinata  duratione  et  quantitate  percipit  ».  Quando soggiunge  vel  potius  nec  ad  numerum .  .  .  attendit,  egli non  intende  dire  che  l' intelletto  non  si  rappresenta  le cose  come  multiple  —  perchè  in  questo  caso  non  si  com- prenderebbe come  prima  abbia  potuto  dire  che  le  per- cepisce in  numero  infinito  —  ma  che  non  se  le  rappre- senta di  {%n  numero  determinato,  come  si  vede  dal  con- trapposto con  Pimmaginazione  che  le  percepisce  invece sub  certo  numero.  Infatti  come  abbiamo  notato,  che  il  tipo generico  o  specifico  sia  rappresentato  da  tale  o  tal  altro numero  determinato  d'individui  non  è  nn  fatto  costante della  natura,  ma  appartiene  all'elemento  mutabile  e  con- tingente delle  cose.  Noi  spiegheremo  in  seguito  in  qual senso  l' intelletto  percepisca  le  cose  in  numero  infinito, e  in  qual  senso  le  percepisca  senza  un  numero  deter- minato. Che  il  realismo  di  Spinoza  non  sia  precisamente  quello di  Platone  e  del  medio  evo,  cioè  l'obbiettivazione  delle idee  generali  del  concettualismo,  si  vede  anche  da  certe sue  proposizioni,  che  parrebbero  dare  ragione  a  (piegli espositori,  che,  come  il  Ritter,  fanno  di  lui  un  nomina- lista.   Spinoza    rigetta,  della    maniera  più  esplicita,  la —  413  — realtà  degli  universali  nel  senso  tradizionale  (cioè,  come abbiamo  detto,  dei  concetti  generali  realizzati).  È  ciò che  egli  fa  più  volte  a  proposito  della  quistione  del  li- bero arbitrio.  La  dottrina  del  libero  arbitrio,  secondo lui,  suppone  che  le  volizioni  abbiano  per  causa,  non  al- tri fatti  precedenti,  ma  la  volontà,  e  riguarda  per  con- seguenza quest'astrazione,  la  volontà,  come  avente  una esistenza  per  sé,  distinta  da  quella  delle  volizioni  stesse. Ora  la  volontà,  dice  Spinoza,  non  è  che  un  essere  di ragione.  Essa  «  dirterisce  da  questa  e  quella  volizione allo  stesso  modo  che  la  bianchezza  da  questo  e  quel bianco,  o  1'  umanità  da  questo  e  quell'  uomo  ;  sicché  è altrettanto  impossibile  a  concepire  che  la  volontà  sia causa  di  questa  e  quella  volizione,  quanto  che  Vumanità sia  causa  di  Pietro  e  di  Paolo  »  (1)  (ciò  che  intanto  ac- cadrebbe nel  sistema  di  Spinoza,  se  l'essenza  dell'  uomo considerata  sub  specie  aeternitatis  fosse  1'  umanità  così intesa,  cioè  in  termini  platonici,  l'Idea  dell'uomo).  «Al- cuni più  abituati  a  occupare  il  loro  spirito  con  degli  es- seri di  ragione  che  con  le  cose  particolari,  che  sole  esi- stono realmente  nella  natura,  trattano  questi  esseri  di  ra- gione, non  come  tali,  ma  come  esseri  reali.  Poiché  l'uo- mo, avendo  tale  o  tal  volizione,  ne  fa  un  modo  generale di  pensare,  che  chiama  volontà,  come  dall'idea  di  tale o  tal  uomo  particolare  si  fa  un'idea  generale  dell' uomoj e  siccome  non  sa  separare  gli  esseri  reali  dagìi  esseri  di ragione,  ne  segue  che  considera  questi  come  delle  cose reali...  La  volontà,  come  abbiamo  detto,  non  essendo  che l' idea  generalizzata  di  tale  o  tal  volizione  particolare, non  è  per  conseguenza  che  un  modo  del  pensiero,  un ens  rationis  e  non  un  ens  reale;  niente  per  conseguenza (1)  }  108. (1)  Epist.  II,  9-10. —  4i4 può  essere  causato  da  ee^sa,  perchè  niente  può  venire  da niente  >  (1).  Non  vi  ha  alcuna  facoltà  assoluta  di  volere, come  non  vi  ha  alcuna  facoltà  assoluta  d'intendere,  di desiderare,  di  amare,  ecc.  «  Queste  e  simili  facoltà  o  sono affatto  fittizie  o  non  sono  niente  di  più  che  esseri  me- taiìsici,  cioè  universali,  che  sogliamo  formare  dai  parti- colari (vale  a  dire,  come  dice  in  seguito,  sono  #( delle nozioni  univc^rsali,  che  non  si  distinguono  dai  singolari da  cui  le  forniamo  »);  sicché  l'intelletto  e  la  volontà  sono a  questa  e  quell'idea  o  a  questa  e  quella  volizione,  come la  lapideità  è  a  questa  e  quella  pietra,  o  l'uomo  a  Pietro e  a  Paolo  »  (2).  Delle  proposizioni  simili  troviamo  nello Schol.  alla  prop.  49,  combattendo,  non  il  concetto  che le  volizioni  abbiamo  per  causa  la  volontà,  ma  quello che  la  volontà  si  distingua  dall'intelligenza,  e  sia  qual- che cosa  di  altro  che  l'affermazione  (con  cui  l'autore  la identifica).  <  La  volontà  è  un  essere  universale  c/oéu?t't- dea,  con  cui  spieghiamo  tutte  le  volizioni  singolari,  vale a  dire  ciò  che  vi  ha  in  queste  di  comune  »  (3).  E  poi, dopo  aver  detto  che  1'  affermazione,  in  cui  consiste  la volontà,  non  è  in  tutte  le  idee  che  in  quanto  si  conce- pisce astrattamente:  <c  Per  cui  viene  sovratutto  da  notare quanto  facilmente  e'  inijanniamo,  (juando  confondiamo gli  universali  coi  singolari,  e  gli  esseri  di  mgioue  e  gli astratti  con  le  cose  reali  >.  La  realtà  degli  universali, nel  senso  platonico  e  del  realismo  del  medio  evo,  è  pure esplicitamente  negata  a  proposito  della  dottrina  che  Dio (1)  Dio,  Vtimio  e  la  beat,  trad.  frane,  pag.  89-90. (2)  Eth.  parte  II,  Schol.  prop.  48. (3)  Per  universale  intende  i  concetti  generali  del  concettua- lismo, come  si  vede  dalle  parole  che  vengono  in  seguito;  «  L'uni- versale si  dice  egualmente  di  uno,  di  molti  e  d'infiniti  individui  ». —  415  — non  conosce  le  cose  particolari,  ma  solamente  i  generi. «Quantunque  gli  aristotelici  dicano  che  le  idee  platoni- che non  esistono  e  non  sono  che  degli  esseri  di  ragione, tuttavia  anch'essi  sembrano  spesso  considerarle  come  cose reali,  poiché  dicono  espressamente  che  la  Provvidenza non  ha  riguardo  agl'individui,  ma  solamente  ai  generi; che  p.  e.  Dio  non  ha  mai  applicato  la  sua  provvidenza a  Bucefalo,  ma  al  genere  cavallo  in  generale.  Essi  di- cono ancora  che  Dio  non  ha  la  scienza  delle  cose  parti- colari, ma  solo  delle  cose  generali,  che,  nella  loro  opi- nione,  sono  immutabili  ;  ciò  che  attesta  la  loro  igno- ranza, perchè  sono  precisamente  le  cose  particolari  che hanno  una  causa,  e  non  le  generali,  poiché  queste  non sono  niente  »  (1).  E  altrove  :  «  Intanto  non  bisogna  tra- sandare l'errore  di  alcuni  che  stabiliscono  che  Dio  non conosce  che  le  cose  eterne,  quali  gli  angeli  e  i  cieli,  che fìnsero  ingenerabili  e  incorruttibili  per  la  loro  natura;  e che  di  questo  mondo  non  conosce  che  le  specie,  che  sa- rebbero anch'  esse  ingenerabili  e  incorruttibili.  Questi sembra  che  vogliano  errare  a  bello  studio  ed  escogitare le  cose  pili  assurde....  Stabiliscono  che  Dio  ignora  le  cose realmente  esistenti  e  gli  attribuiscono  la  conoscenza  de- gli universali,  che  non  sono,  né  hanno  alcun' essenza  oltre i  singolari  »  (2). Ma  ciò  che  mostra  della  maniera  più  evidente  che le  «  cose  fìsse  ed  eterne  >  di  Spinoza  non  sono  Vuno  nei molti  come  le  Idee  platoniche,  ma  contengono  in  sé  la moltiplicità  individuale,  è  il  modo  in  cui  egli  concepi- sce Dio  e  i  suoi  attributi  e  modi  necessari.  Le  cose  fìsse ed  eterne  sono  Dio  stesso  nei  gradi  differenti  della  sua (1)  Dio,  Vuomo  e  la  beat.,  trad.  fr.  pag.  38. (2)  Cogitatorum  metaphysicorum,  II.  VII.  5. —  416  — determinazione  progressiva  (meno  l'ultimo  in  cui  diviene un  complessi)  di  esistenze  temporanee  e  contingenti):  cioè Dio  come  essere  assolutamente  indeterminato,  come  cosa estesa  e  come  cosa  pensante  assolutamente  considerate (cioè  astrazion  facendo  dalle  loro  moditìcazioni)  e  come cosa  estesa  e  cosa  pensante  modificate  con  modificazioni che  seguono  necessariamente  dalla  loro  essenza.  Ora  cia- scuna di  queste  cose  è  concepita  da  Spinoza,  non  come alcun  che  di  comune  a  una  moltitudine  di  oggetti  par- ticolari simultaneamente  esistenti,  ma  come  una  cosa  in- finita che  abbraccia  la  totalità  di  questi  oggetti  parti- colari. L'origine  della  natura  (vale  a  dire  Dio  come  la cosa  fissa  ed  eterna  dalla  quale  derivano  tutte  le  altre) non  è,  dice  Spinoza,  un'entità  astratta,  cioè  universale; è  un  ente  infinito,  cioè  che  è  tutto  l'essere,  e  al  di  fuori  del quale  non  vi  ha  alcun  essere  (1).  Come  Dio,  quale  essere  as- solutamente indeterminato,  è  l'essere  assolutamente  infini- to che  comprende  tutto  l'essere  delle  cose  (2),  cosi  Dio  con- siderato sotto  1'  uno  o  sotto  l'  altro  dei  suoi  attributi  è un  essere  infinito  nel  suo  genere,  che  comprende  tutti gli  esseri  che  partecipano  a  quest'attributo  (3).  Limitan- doci agli  attributi  che  conosciamo.  Dio  è  un  corpo  infi- nito,  di  cui  tutti  i  corpi  sono  delle  parti,  animato  da per  tutto  da  una  mente  infinitii,  di  cui  tutte  le  menti sono  delle  parti  (4):  la  sua  essenza,  da  oii  il  3®  genere (1)  De  ini,  emend.  76. (2)  iL'pist,  41.  810,  Dio,  rnomo,  ecc.  trad.  frano,  pag,  22.  M:th. p.  1,  dim.  pr.  32. (3)  Elh,  p.  1  Def.  VI,  Pr.  8,  Dim.  pr.  16,  p.  II  Pr.  I  e 8ohol.,  ecc. (4)  V.  Mh,  p.  I,  Pr.  14  e  Corollarii,  Pr.  15  e  Schol.,  Dim. pr.  18,  Cor.  pr.  25,  Pr.  28.  Schol.  pr.  29,  Pr.  30,  p.  II,  Def.  I, Pr.  1  e  2,  Schol.   pr.  7,  Pr.  8,  e  Cor.  e  Schol.,  Pr.  9,  Cor.  pr. di  conoscenza  deduce  tutte  le  cose,  contemplate  sub  spe- cie aeternitatis,  è  questo  <-.orpo  e  questa  mente  infiniti, considerati  come  sostanze  pure,  cioè  astrazion  facendo dai  loro  modi  o  affezioni  (1).  L'estensione  come  cosa  fissa ed  eterna,  Véstensione  in  sé  (2),  non  è  l'Idea  dell'esten- sione, vale  a  dire  ciò  che  vi, ha  di  comune  in  tutte  le estensioni  determinata,  ma  l'estensione  infinita,  la  cosa estesa  unica  che  è  la  totalità  delle  cose  estese  partico- lari (3)j  e  così  pure  il  pensiero  in  sé,  il  pensiero  asso- luto (4),  come  cosa  fissa  ed  eterna,  non  è  ciò  che  vi  ha di  comune  in  tutti  i  pensieri  o  in  tutti  i  pensanti  de- tcrminati,  ma  un  pensiero  infinito  diffuso  ia  tutte  le parti  di  questa  estensione  infinita,  la  cosa  pensante  unica che  è  la  totalità  degli  esperi  pensanti  particolari,  la  so- lo, Pr.  11  e  Cor.,  Schol.  pr.  13,  Pr.  20,  Pr.  22,  Pr.  23,  Pr.  30, Pr.  33,  Pr.  36,  Pr.  39,  Pr.  43,  p.  V,  Pr.  22,  Pr.  23.*  Schol. pr.  29,  eco. (1)  V  £th,  p.  I,  Def.  3-6.  Pr.  1,  Dim.  pr.  5,  Pr.  10  e  Schol., Schol.  pr.  J5,  Pr.  16,  Pr.  19  e  Schol.,  Corollari  pr.  20,  Pr.  21-23, Pr.  28  e  Schol.,  Schol.  pr.  29.  Pr.  31,  Pr.  32,  p.  II  pr.  1  e  2,' Pp.  5,  Pr.  6  e  Cor.,  Pr..  8  e  Cor.,  Scolii  e  Cor.  Pr.  10,  Schol.  2o pr.  40,  Schol.  pr.  47,  p.  V  Prop.  22,  Pr.  25,  Schol.  pr.  29,  Pr. 30,  Pr.  31,  Schol.  pr.  36,  ecc.  Quantunque  Spinoza  non  ammetta che  una  sostanza  unica,  egli  chiama  auche  sostanze  gli  attributi dell'estensione  e  del  pensiero,  perchè  il  primo  è  il  substratum  di tutto  ciò  che  vi  ha  di  fisico,  e  il  secondo  di  tutto  ciò  che  vi  ha di  psichico.  V.  Dio,  Vuomo  e  la  beat,  trad.  frane,  pag.  17,  51,  52, AVA.  p.  I  Sohol.  pr.  15,  p.  II  Schol.  pr.  7,  ecc. (2)  V.  per  quest'espressione  Dio,  Vuomo  e  la  beai.,  trad.  frano, pag.  16. (3)  V.  Dio,  Vuomo  e  la  beai.,  trad.  frane,  pag.  15-17,  Eih.  p.  I Schol.  pr.  15,  p.  II  Def.  1»,  Pr.  2,  Schol.  pr.  7,  ecc. (4)  V.  per  quest'espressione  Eih.  p.  I,  Dim.  pr.  31. 27 ~  418  - stanza  psìchica  luoudìale  ^  infine,  di  cui  ogni  anima  è una  parte  e  ogni  fenomeno  psichico  una  modificazione  (1). Le  altre  cose  fisse  ed  eterne,  cioè  i  modi  necessari  clie seguono  dagli  attributi  divini,  sono  infinite  come  questi attributi  stessi  e  l'essere  assolutamente  indeterminato  che è  il  loro  substratum.  Le  cose  considerate  sub  specie  aeter- nitatis  «ono,  oltre  agli  attribuii  di  Dio,  le  sue  proprietà  — perchè  Spinoza  assimila  il  modo  in  cui  le  cose  proce- dono dal  primo  principio  a  quello  in  cui  le  proprietà derivano  dall'essenza  (2)—:  questa  altre  cose  fisse  ed  eterne sono  ancli'esse  degli  attributi  di  Dio,  che  si  distinguono dagli  attributi  propriamente  detti,  perchè  questi  sono primitivi  e  costituiscono  1'  essenza  divina,  essi  sono  de- rivati e  si  deducono  da  quest'essenza  (3).  Ne  segue  che (1)  V.  Episl.  37,  Dio,  Vuomo  e  la  beat.  trad.  frane,  pag.  51-52, 107,  12'9-130,  134,  Eth,  p  II  Pr.  1  e  Schol.,  Pr.  5,  Schol.  pr. 7,  Pr,  9  e  Dim.  e  Cor,   Dim.  pr.  20,  ecc. (2)  V.  Elh.  p.e  1.  Prop.  16  e  Dim. (3)  Il  vero  primitivo,  la  vera  origine  della  natura  ^,  secondo Spinoza,  l'essere  assolutamente    indeterminato.    Ma    nell'  Etica considera  come  il  primitivo   la  sostanza  quale    complesso    degli attributi,  facendo  consistere  il  3o  genere  di  conoscenza  nella  de- duzione delle  coso,  non  da  Dio  come  essere  assolutamente  inde- terminato, ma  dagli  attributi  divini  (V.  p.  e.  Schol.  2.  pr.  40  p. II).  Sembra  che  questo  latto  sia  una  conseguenza  della  sua  d.)t- trina  che  Dio  ha  un  numero  infinito  di  attributi,  di  cui  non  ne conosciamo  che  due,  mentre   tutti  gli    altri  ci  sono    sconosciuti. Ciò  importa  che  il  primitivo  per  noi,  cioè  il    punto  di  partenza della  nostra  deduzione,  non  può  essere  il  primitivo  in  se  siessOf ma  (gualche  cosa  di  posteriore.  Se  fosse  il  primitivo  in  se  stesso, vale  a  dire  l^ens  absolute  indeterminatum,  noi  dovremmo    poter dedurne  tutti  gli  attributi  —  perchè  questi    ne  derivano,   e    ohe una  cosa  deriva  da  un'  altra  cosa  significa    per  Spinoza  che   se ne  può  dedurre  —  :  ma  allora    la  più  parte    di  questi    attributi —  419  — queste  altre  cose  fisse  ed  eterne  sono  infinite  come  Dio stesso  di  cui  sono  le  proprietà  :  ne  segue  inoltre  che  sono qualche  cosa  d' individuale  e  non  dei  concetti  generali realizzati,  perchè  Dio,  di  cui  sono  i  modi  o  le  affezioni, non  è  un  concetto  generale  realizzato,  ma  un  individuo infinito,  di  cui  tutti  gli  altri  individui  sono  delle  parti. Così  il  movimento,  come  cosa  fissa  ed  eterna,  è  il  movi- mento infinit»,  diffuso  nell'estensione  infinita  di  cui  è  un modo  immediato  (1):  è  la  collettività  dei  movimenti  che si  producono  simultaneamente  nell'universo,  che  non  si distingue  dalla  totalità  dei  movimenti  particolari,  se  non in  quanto,  per  concepirlo,  bisogna  fare  astrazione  dal tempo  e  dalla  durata  (2).  Così  pure  l'intendimento,  come non  dovrebbero  esserci,  come  sono,  sconosciuti  e  inconoscibili. Spinoza  deve  ammettere  dunque  che  nella  nostra  deduzione  noi non  possiamo  partire  dal  principio  assoluto  —  probabilmente perchè  non  ne  abbiamo  un'idea  adequata  —  ma  da  principii  re- lativi. L'essere  assolutamente  indeterminato  è,  come  dice  Schel- ling, l'arcano  nascosto  nell'Assoluto  che  è  la  sorgente  d'ogni  realtà: quest'arcano  per  noi  è  impenetrabile,  e  noi  dobbiamo  derivare le  nostre  idee,  non  dalla  sorgente,  ma  da  ciò  che  ne  deriva immediatamente,  cioè  gli  attributi  che  conosciamo. (1)  V.  Dio  Vuomo  e  la  beat.  pag.  30  n.  5f>  e  8*>  e  pag.  45-46. (2)  Il  movimento  come  cosa  fissa  —  cioè  immutabile  —  ed  e- terna  sembra  una  contraddizione  nei  termini,  perchè  il  movi- mento è  la  negazione  stessa  dell'immutabililà.  Ma  questa  con- traddizione, reale  o  apparente,  è  inevitabile  in  tutti  i  sistemi  di realismo  dialettico,  e  si  trova  in  Platone  e  in  Hegel  altrettanto che  in  Spinoza.  Per  Platone  rimandiamo  al  Supplem.  B  p  1. n.  X,  verso  la  fine;  per  Hegel  basterà  di  citare  le  parole  se- guenti del  Vera  :  «  Esse  (le  Idee)  sono  tutte  immutabili  ed  e- terne.    Non  vi  ha,  in  effetto,  né  avanti  né  dopo  né  generazione né  alterazione    nella    sfera    delle  Idee E  le  Idee    di   tempo   e   di  movimento   esse    stesse,  che  per  la cosa  fissa  ed  eterna,  che  è  un  modo  immediato  del  pen- siero  come  il  movimento   dell' estensione,  è  l' intendi- loro  natura  sembrauo  dover  essere  sottoposte  ulla  nascita  e  ali» morte,  sono,  esse  pure,  inperibili  ed  eterne.  Perchè  ciò  clie  na- sce e  ciò  che  perisce  ò  tal  tempo  e  tal  movimento,  ma  non    la loro  essenza  »  (Vera  hìlrodvz.  alla  filos.  di  Hetjel  o.  4  $  4).    Il movimento  in  sé  —  vale  a  dii-e  1'  Idea  del    movimento    secondo Platone  e  secondo  Hegel,  e  secondo  Spinoza  il  movimento   con- siderato sub  specie  aetrmitatis  —  è  dunque   immutabile  in  quanta l'essenza    e  le  leggi    del  movimento    sono    immutabili.    Quando Spinoza  o  gli  altri  realisti  diallettici  dicono  di  una  cosa  che  im- plica la  successione  e  il  cangiamento,  qual  è  il  movimento,  che essa  è  al  di  fuori  del  tempo  e  della  durata,  intendono   i)arlare di   un  tempo  e  di  una  durata  determinati,  in  altri  termini  della posizione  di  questa  cosa  in  un  certo  tempo    e  in  una  certa    du- rata; ma  anche  il  tempo  e  la  durata  hanno  .  per  questi  filosotì, la  loro  essenza  eterna  ed    imumtabile,  e  questa    deve    trovarsi necessariamente  nelle  cose  fisse  ed  eterne  che  noi  non   possiamo concepire  che  come    implicanti  il  tempo  e    la   durata.  Confr.  il Supplemento  B.  il  luogo  ci taito.  Per  comprendere  sufficientemente ohe  cosa  sia,  secondo  Spinoza,  questo   movimento  eterno  ed  im- mutabile, bisogna  farci  prima  un'idea  completa  delle  sue  «  cose fisse  ed  eterne  >,  in  altri  termini,  delle  sue  astrazioni  realizzate. Per  ora  ]M)ssiamo  diro,  senza  pretendere    ad  una  precisione    ri- gorosa, che  il  movimento  in  sé,  il  movimento  come  cosa  fissa  ed eterna,  secondo  Spinoza,  è  l'insieme   di  tutti  i    movimenti    che avvengono  nell'universo  in  un  momento  qualsiasi  della  sua  du- rata, concepito  facendo    astrazione  da  tutto   le    circostanze    che sono  particolari  a  questo    momento  e  non  sono    comuni  a    tutti gli  altri.  Quest'insieme  di  movimenti,  astratto  da  queste   circo- stanze, si  concepisce  come  esistente  in  sé  stesso  al  di  fuori  del tempo  e  della  durata,  ma  come  presente  in  tutti  gl'insiemi    di movimenti  fenomenali  che  si  producono  nell'universo  nei  diversi momenti  del  tempo  e  della  durata'  Esso  ò  eterno    perchè    tutti questi  insiemi  di  movimenti  fenomenali,  in  cui  è  presente,  riem- mento  infinito,  che  comprende  tutte  cose  in  ogni  tem- po (1),  infinito,  eterno  ed  immutabile,  come  il  pensiero sostanziale,  di  cui  è  una  modificazione  necessaria.  È  l'in- tendimento unico  che  esiste  nella  cosa  pensante,  lo  spec- chio unico  ili  cui  si  riflette  l'universo  unico  (2);  ogn^idea e  ogni  mente  (considerata  sub  specie  aeterniiaiis)  è  con- tenuta in  esso  (3);  ogni  essere  pensante  è  una  parte  di quest'  essere  pensante  unico  (4);  «  la  nostra  mente,  in quanto  intende,  è  un  modo  eterno  di  pensare,  limitato da  un  altro  modo  eterno  di  pensare,  questo  da  un  altro ancora,  e  così  di  seguito  alPinfinito,  sicché  tutti  insieme costituiscono  l'intendimento  eterno  ed  infinito  di  Dio»  (5). Il  solo  esempio  che  ci  dà  Spinoza  dei  modi  necessari  mc- diati  è  l'aspetto  di  tutto  l'universo,  immutabile  attra- verso i  suoi  infiniti  cangiamenti  (6)  :  come  le  cose  fisse «d  eterne  di  cui  abbiamo  parlato  precedentemente,  è  una «osa  individuale,  infinita,  e  che  rappresenta,  non  ciò  che vi  ha  di  comune  in  una  moltitudine  di  esistenze  parti- colari, ma  la  collettività  di  queste  stesse  esistenze  parti- colari, concepite  senza  la  successione  e  il  cangiamento. Il  carattere  comune  delle  cose  fisse  ed  eterne  di  Spinoza è  di  essere  infinite  (7),  e  di  realizzare,  non  dei  concetti piouo  tutto  il  tempo  e  tutta  la  durata  ;  ed  è  immutabile  perchè é  presenta  in  essi  sempre  lo  stesso  e  senza  partecipare  al  loro cangiamento. (1)  V.   Dio  Vuomo  e  la  beat  p.   45-46,   Epis,  66.  S,  Eth.    p  V Sch(d.  pr,  40,  ecc. (2)  V.   Dio  l'uomo  e  la  beat.  p.  45-46,  123,  132.  ecc.;  e    cfr. parag.  24. (3)  V.  Eth,  p.  V  Pr.  22,  Pr.  36  (cfr.  Pr.  33),  ecc. (4)  Gir.  $  24. (5)  Eth.  p  V  Schol.  pr.  40. (6)  Episl.  66.  8. (7;  Le  idee    assolute,  secondo    il  Ife    intellectvs    cmend.  (108. —  422  — geoerali  come  le  Idee  platoniche,  ma  dei  concetti  col- lettivi: l'estensione  è  l'insieme  di  tutte  le  estensioni,  la cosa  pensante  di  tutte  le  cose  pensanti,  il  movimento di  tutti  i  movimenti,  ecc.  Non  sono,  ripetiamolo,  l'uno nei  molti  come  le  Idee  platoniche,  ma  i  molti  stessi  ed infiniti,  concepiti  come  eterni  ed  immutabili. Raccogliendo  i  risultati  dell'esposizione  precedente,  noi vediamo  che  le  astrazioni  realizzate  di  Spinoza  hanno  tutti i  caratteri  delle  Idee  platoniche,  meno  uno,  cioè  1'  unità dell'Idea,  in  modo  che  si  trova  giustificata,  almeno  d'una maniera  approssimativa,  la  nostra  proposizione  che  esse sono  le  Idee  platoniche  stesse,  concepite  ciascuna,  non come  una,  ma  come  molte.  Noi  abbiamo  visto  infatti che  le  cose  che  seguono  necessariamente  da  Dio  sono eterne  ed  immutabili,  ehe  hanno  un'  esistenza  distinta da  quella  delle  cose  singolari,  cioè  empiriche,  ma  sono presenti  in  queste  e  ne  sono  le  cause  immanenti,  e  die costituiscono  le  loro  essenze  e  corrispondono  alle  loro definizioni  generali.  Noi  abbiamo  visto  inoltre  che  ogni cosa  deve  essere  concepita  svh  specie  aeternitatis  y  cioè come  eterna;  che  le  cose  concepita  sub  specie  aeternitatis sono,  secondo  Spinoza,  eterne  come  si  pensano  (e  quindi, anche  immutabili,  perchè  sub  specie  aeternitatis  devono II-III)  devono  CRprimere  rinfinitA.  Le  idee  assolute  sono  quelle che  formano  il  punto  di  partenza  della  deduzione,  quelle  che rappresentano  le  cause  prime  delle  cose  e  ohe  sono  esse  stesse, per  conseguenza,  le  cause  prime  di  tutte  le  nostre  idee.  Nell'E- tica, come  sappiamo,  l'infinità  è  affermata,  non  solo  deirli  oggetti delle  idee  assohite,  cioè  della  sostanza  e  dei  suoi  attributi  (v. pag.  417),  ma  anche  delle  cose  ohe  ne  derivano,  cioè  dei  modi, immediati  o  mediati,  che  seguono  necessariamente  dagli  attri- buti (V.  p.  I  prop.  21-23). —  42:^  - cencepirsì  non  solo  le  cose,  ma  anche  gli  avvenimenti); e  che  ogni  cosa  i>cr  conseguenza,  la  nostra  mente  come il  nostro  corpo  e  tutto  ciò  che  può  essere  oggetto  della nostra  mente,  ha  una  doppia  esistenza,  1' una  il  feno- meno, temporanea  e  mutabile,  e  l'altra,  l'essenza,  eterna ed  immutabile.  Ma  noi  abbiamo  visto  [)ureche  le  cose  che seguono  necessariamente  da  Dio,  o,  ciò  che  vale  lo  stesso, le  cose  considerate  sub  specie  aeternitatis,  non  sono  la realizzazione  dei  concetti  (jenerali,  ma  dei  concetti  col- lettivi, delle  cose  :  che  l'estensione,  come  cosa  fijssa  ed eterna,  è  la  collettività  di  tutte  le  cose  estese  simulta- neamente esistenti,  l'intelligenza  di  tutte  le  intelligenze, il  movimento  di  tutti  i  movimenti,  ecc.  Conformemente a  questo  principio,  l'umanità,  come  cosa  fìssa  ed  eterna (o  considerata  sub  specie  aeternitatis)  non  è,  come  per Platone,  un  individuo  umano  concepito  come  eterno  ed immutabile,  ma  la  collettività  degl'individui  umani,  si- multaneamente esistenti  a  un  momento  qualsiasi  della durata  del  genere  umano,  concepita  come  eterna  ed  im- mutabile. E  lo  stesso  che  dell'umanità  dobbiamo  dire di  tutte  le  specie  e  di  tutti  i  generi  delle  cose,  cioè  di quelli  che  possiamo  concepire  sub  specie  aeternitatis, vale  a  dire  di  cui  possiamo  ammettere  che  sono  sem- pre esistiti,  ed  esisteranno  sempre  nella  natura  (natural- mente Spinoza  ignorava  la  dottrina  dell'  evoluzione  e  i fatti  su  cui  essa  è  fondata,  e  ammetteva  la  stabilità  e l'eternità  delle  specie).  Quest'umanità,  cosa  fissa  ed  e- terna,  è  in  se  stessa  fuori  del  tempo  e  della  durata,  ma è  presente  nell'umanità  fenomena^le  esistente  nei  mo- menti successivi  del  tempo  e  della  durata:  è  l'umanità tipica  che  persiste  sempre  la  stessa  in  tutte  le  genera- zioni umane  successive,  il  substratum  immobile  e  vera- mente reale  di  cui  queste  generazioni  successive  sono le  forme  o  le  apparenze  cangianti,  in  una  panda  ciò che  vi  ha  d'identico  in  tutti  i  momenti  successivi  della durata  del  genere  umano,  astratto  da  ciò  che  vi  ha  di variabile,  e  concepito  come  esistente  per  se  stesso.  Ciò che  infatti  è  necessario  di  avvertire  è  che,  per  conce- pire gli  uomini  sub  specie  aeternitatis,  non  basta  di farci  una  sappresentazione  della  totalità  degli  uomini attuali,  e  concepirli  al  di  fuori  del  tempo  e  della  du- rata, cioè  come  eterni  ed  immutabili,  ma  bisogna  fare anche  astrazione  da  tutte  le  circostanze  che  sono  parti- colari agl'individui  attuali,  e  non  sono  comuni  a  tutti i  momenti  successivi  della  durata  del  genere  umano. Infatti  le  cose  considerate  sub  r^pecie  aeternitatis,  cioè come  eterne  ed  immutabili  (le  cose  «fisse  ed  et<?rne  ») non  possono  essere  delle  finzioni  senza  scopo,  ma  de- vono rappresentare  ciò  che  vi  ha  di  costante  e  di  per- petuo nella  natura.  Per  conseguenza  un'altra  circostanza di  cui  bisogna  fare  astrazione  per  concepire  il  genere umano  sub  specie  aeternitatis,  è  il  numero  determinato d'individui  che  esiste  a  tale  o  tal  momento  della  sua durata  :  esso,  come  gli  altri  generi,  deve  concepirsi  come costituito  da  una  moltitudine  d'individui,  ma  non  da un  numero  determinato,  perchè  se  è  un  fatto  costante  e necessario  che  il  tipo  umano  o  un'altra  forma  qualsiasi della  natura  è  rappresentato  da  una  moltitudine  d'indi- vidui, è  variabile  e  contiqgente  che  questa  ipoltitudine d'individui  sia  uno  o  un  altro  numero  determinato.  Que- sta inconcepibilità  delle  cose  fisse  ed  eterne  di  Spinoza, di  essere  uua  moltitudine  d'individui  senza  un  numero determinato,  è  «evitata  n(^l  sistema  platonico,  in  cui  cia- scuna specie  è  concepita  come  un  essere  unico  (l'uno nei  molti  ;  ma  questa  inconcepibilità  non  è  maggiore che  le  altre  inerenti  a  qualsiasi  sistema  di  realismo  dia- lettico: una  moltitudine  che  non  è  una  moltitudine  de- terminata, non  è  né  più  né  meno  irrappresentabile  che l'uomo  in  s:-  di  Platone,  che  non  è  né  biaikco  né  nero, né  alto  né  basso,  né  dt>tto  né  ignorante,  ecc.,  o  1'  ani- male in  sé,  che  non  è  né  uomo  né  cavallo  né  qualsiasi altro  animale  determinato.  Non  è  che  un'  altra  forma della  difficoltà  di  rappresentarsi  un'astrazione  realizzata. Ecco  dunque  il  processo  di  cui  bisogna  servirsi  per  con- cepire le  cose  fisse  ed  eterne  di  Spinoza,  cioè  per  con- <5epire  sub  specie  aeternitatis  le  specie  o  i  generi  delle <M)se  o  dei  fenomeni  (p.  e.  l'umanità,  l'intelligenza,  il movimento,  ecc.).  Bisogna  immaginare  le  totalità  delle <jose  o  dei  fenomeni  appartenenti  alla  specie  o  al  ge- nere dato,  che  esistono  nei  diversi  momenti  della  du- ratji  della  specie  o  del  genere;  confrontare  fra  di  loro queste  totalità  successive  di  cose  o  di  fenomeni  ;  e  se- parare ciò  che  vi  ha  d'identico  in  tutte  da  tutto  ciò  che vi  ha  di  particolare  ad  alcuna  o  ad  alcune  :  ciò  che  vi ha  d'identico  in  tutte  è  la  specie  o  il  genere  concepito sub  specie  aeternitatis,  cioè  come  esistente  in  se  stesso fuori  del  t^mpo  e  della  durata,  ma  presente  in  queste totali tii  successive  la  cui  serie  riempie  tutto  il  tempo  e tutta  la  durata.  L'ipotesi  di  Spinoza  ha  lo  stesso  scopo <ihe  (|uella  di  Platone:  astrarre  l'elemento  costante  e necessario  delle  cose  dall'elenjento  mutabile  e  contin- gente, e  considerare  il  primo,  nella  sua  astrattezza,  come sussistente  per  se  stesso.  Questo  astratto,  sussistente per  se  slesso,  Platone  lo  fa  consistere  in  ciò  che  vi  ha di  comune  a  tutti  gl'individui  di  una  specie  o  di  un genere,  considerato  come  qualche  cosa  d'identico  che  è presente  in  tutti  questi  individui;  Spinoza  lo  fa  consi- stere invece  in  ciò  che  vi  ha  di  comune  a  tutti  i  mo- menti successivi  della  durata  della  specie  o  del  genere, <?onsiderato  come  qual(*.lie  cosa  di  identico  che  è  pre- sente in  tutti  questi  momenti  successivi.  Il  risultato  a cui  mira  l'una  e  l'altra  ipotesi  è  di  separare  ciò  che nelle  cose  è  deducibile  da  ciò  che  non  lo  è,  in  modo ohe  ciò  che  si  deduce  esista  con  la  indeterminazione stessa  con  cui  si  deduce,  e  il  pro'^resso  della  deduzione —  426  — —  427  — rappresenti  Io  sviluppo  stesso  delle  cose,  cioè  il  Ioni incatenamento  causale  (nel  senso  trascendente  del  rea- lismo dialettico). Ci  resta  a  chiarire  come  tutte  le   cose  che    seguono necessariamente  da  Dio  siano,  non    solo  eterne  e,    por conseguenza,   immutabili,  ma  anche  infinite.  Le   specie o  i  generi  delle  cose,  considerati  sub  specie  aeternitatis, non  possono  essere   infiniti    che  in  quanto,    considerati nella  loro  esistenza  empirica,  comprendono  un    numero infinito  d'individui    simultaneamente   esistenti.    Ora   in certe  specie  o  generi,  p.  e.  quelli  delle    piante   e    degli animali,  il  numero  degl'individui  simultaneamente   esi- stenti che  li  costituiscono  a  ciascun  momento  della  dura- ta della  specie  o  del  genere,  non  è  mai  che  un  numero finito.  Come  conciliare  ciò  con  la  dottrina  che  tutto  ciò che  segue  necessariamente  dall'essenza  di    Dio,    e   per conseguenza  tutte  le  cose   contemplate    sub    specie   ae- ternitatis, non  sono  che  i  modi  eterni  ed  infiniti  di  Dio  t Evidentemente  una  specie  o  un  genere    di   piante  o   di animali  non  può  essere  per  Spinoza  uno  dei  modi  eterni ed  infiniti  di  Dio,  perchè  egli  non  può  ammetterne  l'in- nità  come  ne  ammette  l'eternità  e  la  stabilità;  non  può essere  che  una  parte  di  uno  di  questi  modi.  Spinoza  am- mette che  tutte  le  cose  contemplate    sub    specie   aeter- nitatis sono  i  modi  eterni  ed  infiniti  di  Dio,  perchè  egli fa  dell'essenza  di  Dio  il  primo  principio,  e   assimila   il modo  in    cui  le   cose    derivano   dal    primo  principio   a quello  in  cui  le  proprietà  derivano  dall'essenza.  Ma  egli non  pretende  perciò  che  un  modo  eterno  ed   infinito  di Dio  deve  essere  necessariamente  costituito   da  parti  fra fra  di  loro  omogenee  (p.  e.  come  l'estensione  o  il    pen- siero sostanziale).  Un  esempio  di  un  modo  eterno  ed  in- finito costituito  da  parti  eterogenee,  è  il  solo  modo  me- diato di  cui  si  parli   negli  scritti  di    Spinoza,  cioè   l'a- spetto di  tutto  l'universo  (facies   totius    universi),    che persiste  immutabile  attraverso  i  suoi  infìniti  cangia- menti. Noi  non  oseremo  di  affermare  se  sia  in  questo modo  eterno  ed  infinito,  ovvero  in  un  altro  o  in  più altri  analoghi,  che  sono  compresi,  come  delle  parti,  le specie  e  i  generi  degli  esseri  viventi,  e  in  generale,  tutte, le  specie  e  tutti  i  generi  propriamente  detti  (vale  a  dire tutta  la  natura  in  quanto  è  l'oggetto  delle  scienze  di classificazione).  La  sola  affermazione  che  autorizzino  le proposizioni  dell'autore  è  che  i  modi  eterni  ed  infiniti di  Dio  devono  comprendere  tutto  il  reale,  e  che  per  con- seguenza tutto  ciò  che  esiste,  contemplato  sub  specie aeternitatis,  deve  essere  contenuto,  come  una  parte,  in qualche  modo  eterno  ed  infinito  di  Dio.  Un'altra  osser- vazione che  dobbiamo  aggiungere  è  che  lo  stesso  in- sieme di  esseri,  che  considerati  come  specie,  cioè  conce- piti nei  loro  attributi  specifici,  costituiscono  un  certo modo  eterno  ed  infinito  di  Dio,  se  si  considerano  più astrattamente,  vale  a  dire  se  non  si  concepiscono  che nei  loro  attributi  generici,  possono  costituire  altri  modi anteriori,  cioè  meno  mediati  Noi  sappiamo  infatti  che lo  sviluppo  di  Dio  o  della  Natura  è  una  determinazione progressiva,  una  successione  di  stati  di  un  solo  e  stesso essere,  che  da  uno  stato  più  astratto  o  più  indetermi- nato va  semprn  a  uno  stato  più  concreto  o  più  deter- minato. Ai  diversi  gradi  delH  classificazione  (p.  e.  ne- gli esseri  viventi,  classi,  ordini,  famiglie,  generi,  ecc.) possono  dunque  corrispondere  dei  modi  eterni  ed  infi- niti di  Dio,  più  o  meno  astratti,  in  cui  gli  stessi  esseri sono  contenuti,  ma  concepiti  d'una  maniera  più  o  meno astratta.  P.  e.  in  uno  di  questi  modi  l'uomo  sarà  con- tenuto concepito  come  uomo,  in  un  altro  anteriore  con- cepito semplicemente  come  mammifero,  in  un  altro  come vertebrato,  ecc.  È  la  scala  delle  Idee  platoniche,  ma  in cui  ogni  gradino  contiene  una  moltitudine  d'Idee,  e  cia- scuna di  queste  Idee  stesse  è  concepita,  non  come  una, Ni ~  428  — ma  come  multipla.  La  dottrioa  che  le  cose  contemplate sub  specie  aeternitatis  sono  delle  pirti  dei  modi  eterni ed  infiniti  di  Dio,  fa  cLe  una  cosa  contemplata  sub specie  aeternitatis  può,  secondo  Spinoza,  considerarsi  a .due  punti  di  vista:  cioè  come  una  delle  unità  il  cui  in- sieme costituisce  una  specie  o  un  genere  determinato, e  come  una  delle  unità  il  cui  insieme  costituisce  un modo  eterno  ed  infinito  di  Dio.  Di  là  la  proposizione  di Spinoza  cbe  sopra  abbiamo  citato,  cioè  che  la  ragione, contemplando  le  cose  sub  specie  aeternitatis,  le  conce- pisce Jn  numero  infinito,  o  piuttosto  senza  attendere al  numero  (vale  a  dire,  come  abbiamo  spiegato,  a  un numero  determinato)  Le  concepisce  senza  attendere  a un  numero  determinato,  in  quanto  sono  delle  unità  checostituiscono  una  specie  o  un  genere  dati;  le  concepisce in  nnmero  infinito,  in  quanto  sono  delle  unità  che  co- stituiscono un  modo  eterno  ed  infinito  di  Dio  (1). (1)  Si  vede  da  ciò  ohe  abbiamo  detto  a  pag.  31)3-395  e  in  tutto  il paragr.  che  nella  dottrina  di  Spinoza  dell'eternità  della  mente umana  non  si  tratta  di  un'eternità  personale,  ma  la  credenza comune  nell'immortalità  dell'anima  non  potrebbe  essere  al  più per  lui  cbe  un  simbolo  del  concetto  della  sua  metafisica  dell'e- ternità deìVeasema  dell'  anima.  Non  vi  ha  altro  d'incorrutibile, dice  Spinoza,  che  Dio  e  i  suoi  modi  universali  —  cioè  i  modi eterni  ed  infiniti  che  seguono  necessariamente  dagli  attributi olivini  _(v.  Dio  Vuomo  e  la  beat.  pag.  64),  e  questi,  lo  abbiamo visto,  hanno  un'esistenza  distinta  da  quella  degli  esseri  indivi- duali, e  sono  costituiti,  non  dalle  cose  ste-se.  ma  dallo  loro  es- senze. L'eternità  o  immortalità  dell'anima,  come  eternità  o  im- mortalità inuividuale,  sarebbe  in  contraddizione,  come  abbiamo osservato,  con  uno  dei  principii  fondamentali  del  sistema  di Spinoza,  cioè  col  parallelismo  psico  —  fisico  e  la  dottrina  su  cui esso  è  basato,  che  il  fisico  e  lo  psichico  sono  due  aspetti  diversi di   una    sola    o    stessa    realtà.    Spinoza   afìerma   esplicitamente Le  astrazioni  realizzate  del  realismo  dialettico risultano  da  un  doppio    processo  di    astrazione.  L'  uno le  conseguenze  inevitabili  di  queste  premesse,  cioè  che  V  idea (vale  a  dire  la  mente  o  l'anima)  e  il  suo  oggetto  (il  corpo  di quesra  mente  o  di  questa  anima)  non  possono  esistere  l'una  senza l'altro  né  reciprocamente  {Dio  Vuomo  e  la  beat.  pag.  107)  ;  che Puna  di  queste  due  cose  non  dura,  cioè  non  cs'ste  nel  tempo, che  quando  dura  anche  1'  altra  (Eth.  p.  II  Cor.  e  Schol.  prop. 8,  Dio  Vuomo  e  la  beat.  pag.  114,  ecc.);  ohe  l'anima  non  è  stata mai  senza  il  corpo,  come  il  corpo  non  è  stato  mai  senza  l'anima (Dio  Vuomo  e  la  beat,  pag.  106);  e  che  quando  il  corpo  è  di- strutto, anche  l'anima  è  distrutta  (Dio  V  uomo  e  la  beat.  pag. 51-52,114,  130,  Ethy.  II  Schol.  prop.  17,  p.  Ili  Schol.  prop.  II). Un'altra  considerazione  che  non  bisogna  negligere  è  che  l' im- mortalità individuale  suppone  delle  concezioni  sul  destino  dell'a- nima dopo  la  morte  (paradiso,  inferno,  ecc.),  che  non  sarebbero possibili  in  un  sistema  naturalistico  come  quello  di  Spinoza. Secondo  Spinoza,  vi  hanno  per  1*  anima,  come  per  tutti  gli altri  oggetti,  due  stati  o  due  forme  di  esistenza:  l'esistenza  pre» sente  ohe  si  definisce  per  il  tempo,e  la  durata,  e  questa  appar- tiene all'anima  individuale;  e  l'esistenza  eterna  cioè  fuori  del tempo  e  della  durata,  che  apx)artiene,  non  all'auiniii  individuale, ma  all'anima  considerata  sub  specie  aeternitatis,  cioè  all'es- senza dell'anima.  Questa  essenza  dell'anima,  quest'anima  <c  cosa fissa  ed  eterna  »,  non  è  l'anima  dell'uomo  individuale,  cioè quello  «  che  ha  un'esistenza  determinata  »,  ma  l'anima  dell'uomo eterno,  che  fa  parte  dell'umanità  eterna,  cioè  di  quest'umanità astratta,  che  è,  come  abbiamo  detto,  il  substratum  immutabile, di  cui  tutte  le  generazioni  umane  successive  sono  le  forme  o  le apparenze  cangianti.  La  prima  esistenza,  quella  che  si  defini- fjce  per  il  tempo  e  la  durata,  appartiene  all'anima  in  quanto  è l'idea  di  un  corpo  individuale,  determinato;  ma  essa  è  limitata come  quella  di  questo  corpo  stesso  :  come  si  vede  dai  luoghi precedentemente  citati,  l'anima  come  idea  di  un  corpo  indivi- duale^ cioè  come  anima  individuale,  non    comincia  ad    esistere consiste  a  separare  l'elemento  eterno  e  necessario  delle cose  dall'elemento  mutabile  e  contingente  —  è  quello  che, ^'1 nel  sistema  di  Spinoza,  abbiamo  studiato  nel  precedente paragrafo  — ;  l'altro  consiste  a  separare,  in  questo  stesso che  cominciando  l'esistenza  del  corpo,  e  cessa  d'esistere  quando cessa  l'esistenza  del  corpo.  L'esistenza  eterna  appartiene  all'ani- mu  in  quanto  è  l'idea  dell'essenza  del  corpo  considerata  sub  spe- cie   aetern'tatis  {Eth.  p.  V  prop.  22-23);   essa    oon    le  appartie- ne dunque  che  in  quanto  la  sua  essenza  stessa  si  considera  sub specie    aeternitatis,    vale    a    dire,  non   come  anima  individuale, determinata,  ma  come  anima  astratta,  di  cui  l'anima  individuale è   una  delle  forme  o  apparenze  cangianti.    K  in  eiletto  :  lo  Spi- noza   dice   espressamente    che    l' esistenza    eterna    della   mente non    può  detinirsi  per  il  tempo  e  la  durata  (p.  V  dim.  prop.  23 e  schol.    e  dim.  prop.  2i-  ),  o  in  una  parola,  che  non    dobbiamo confonderla  con  la  durata,  come  fa  la  credenza  volgare  dell'im- mortalità dell 'anima  (Schol.  prop.  34).  2<>  La  mente  non  è  eterna che  in  quanto  segue  necessariamente    dall'  essenza  di  Dio  (Eth. p.  V  Dim.  prop.  22,   Dim.  prop.  23,  Dim.  prop.  30.  Schol  pr.  42): ora,  come  sappiamo,  dall'essenza  di  Dio  non  seguono  che  i  modi eterni  ed  infiniti,  e  questi  hanno  un'esistenza  distinta  da  quella degli  oggetti  individuali.  3.o  L'amore  intellettuale  di  Dio,  che  è eterno  nel  senso  stesso  in  cui  è  eterna  la  mente,  è  opposto  allecose  che  si  considerano  con  relazione   a  un  tempo  e  a  un  luogo determinati,  cioè  alle  cose  individuali  (Schol.  prop.  37).  4.»  L'e- sistenza eterna,  del  corpo  come  della  mente,  è  opposta  alla  loro esistenza  presente,  che  si  detluisce  per  il  tempo  e  la  durata  (v. questo  $  pag.  393-394),  ciò  che  importa  che  la  mente  è  eterna  nel senso  stesso  in  cui  è  eterno  il  corpo.   5.<>  La  mente  «  in  quanto è  eterna  »  e    la  mente  «  in  quanto  è  considerata    sub    specie  ae- ternitalis  »  sono  per  Spinoza  due  espressioni  equivalenti  (v.  que- Bto  $  pag.  394).  6^  intine,  la  mente,  in  quanto  intende  (che,  come vedremo,  è  la  sola  parte  eterna  dell'  anima)  e  il  suo  amore  in- tellettuale di  Dio  sono   parti    di    un    modo  eterno  ed  infinito  di Dio,  cioè  dell'intendimento  eterno  ed  infinito  e  dell'amore  intel- lettuale infinito  con  cui  Dio  ama  se  stesso  (V.  p.  V  Schol  pr.  40 «  Pr.  36.  Cfr.  l'osservazione  che  abbiamo  fatta  al  n.  2^).  Confor- memente al  principio  del  parallelismo  psico-fisico,  al  corpo  «  cosa fissa  ed  eterna»  corrisponde  un'  anima  «cosa  fissa  ed  eterna», come  un'anima  fenomenale  e  peribile  corrisponde  al  corpo  feno- menale e  peribile.  Sono  i  due  aspetti  inseparabili  di  una  sola  e stessa  realtà  .  («onsiderata  ora  come  astrazione  realizzata,  e  ora come  esistenza  concreta  e  individuale. Ma  1'  eternità  della  mente  ha  anche,  e  sovratutto  .  per  Spi- noza, un  altro  significato.  In  questo  secondo  significato  è  una  teo- ria della  conoscenza,  ed  ha  la  più  stretta  analogia  con  l'immor- talità dell'anima  nel  senso  hegeliano.  Questa  teoria  della  cono- scenza,  come  le  altre  analoghe  del  realismo  dialettico,  ha  per isoopo  di  spiegare  la  corrispondenza  fra  il  pensiero  e  la  realtà. Il  problema  di  spiegare  la  corrispondenza  tra  il  pensiero  e  la realtà  è  più  incalzante  nel  realismo  dialettico,  perchè  al  puntodi  vista  di  questo  sistema  la  corrispondenza  è  maggiore  che  al punto  di  vista  ordinario.  Infatti  :  1^  il  realismo  dialettico  fa  con- siatere  il  vero  reale  in  astrazioni  realizzate,  e  noi  non  siamo  a- bituati  ad  ammettere  come  astratte  le  cose,  ma  le  idee:  2»  esso pretende  di  sviluppare  la  conoscenza  dal  fondo  stesso  dello  spi- rito, per  la  forza  interna  del  pensiero  e  indipendentemente  dal- l'azione delle  cose,  cioè  dall'esperienza;  3o  infine,  in  questo  svi- luppo della  conoscenza  il  progresso  del  pensiero,  cioè  V  incate- namento  dei  principi!  e  delle  conseguenze,  rappresenta  lo  svi- luppo stesso  delle  cose,  cioè  l'incatenamento  delle  cause  e  degli effetti.  (Per  quanto  riguarda  Spinoza,  vedremo  meglio  il  lo  e  il 30  punto  nel  paragrafo  seguente).  Nei  realisti  dialettici  troviamo tre  soluzioni  differenti  del  problema,  corrispondenti  alle  rela- zioni diverse  stabilite  fra  il  pensiero  e  le  cose.  Platone  ammette l'opinione  ordinaria,  secondo  cui  il  soggetto  e  l'oggetto  sono  due realeà  distinte  ohe  agiscono  Tuua  su  11'  altra.  A  questo  punto  di vista  il  pensiero,  come  conoscenza,  è  subordinato  all'oggetto  co- nosciuto, e  considerato  come  il  prodotto  dell'  impressione  delle cose.  Così  Platone  spiega  la  corrispondenza  fra  il  pensiero  e  la *  -1 *  ti 432  — elemento  eterDo  e  necessario   delle  cose,  certi  elementi concettuali  dagli  altri,  considerandoJi  come  esistenti  per realtà  per  l'intuizione  delle  Idee  che  l'anima  ba  avuto  nella  su» esistenza  passata.  Hegel  è  un  idealista,  cioè  riguarda  le  cose come  rappresentazioni,  che  sono  prodotte  dall'  attività  del  pen- siero. Così  egli  può  spiegare  la  corrispondenza  fra  1*  essere  e  il pensiero  per  la  loro  identità,  ammettendo  ohe  il  pensiero  filoso- fico è  il  pensiero  assoluto,  che  comprende  tutti  i  gradi  prece- denti dello  sviluppo  del  pensiero,  e  per  conseguenza  tutta  la realtà.  Spinoza  non  subordina  il  pensiero  alle  cose  come  Pla- tone, né  le  cose  al  pensiero  come  Hegel,  ma  riguarda  il  fisico  e lo  psichico  come  due  serie  parallele,  ohe  si  corrispondono  per- fettamente, senza  che  l'una  abbia  azione  suU'  altra  :  il  paralle- lismo, cioè  la  corrispondenza,  fra  le  due  serie  è  spiegata  per  la loro  identità  radicale,  cioè  per  l'unità  del  suhstrntum,  di  cui  sono due  forme  o  due  aspetti  diff*erenti.  A  questo  punto  di  vista  è ovvio  che  Spinoza  riguardi  la  corrispondenza  tra  il  pensiero  fi- losofico e  il  suo  oggetto  corno  un  caso  del  parallelismo  psicofi- sico, cioè  di  questa  corrispondenza  generale  ch'egli  suppone  tra il  fisico  e  lo  psichico,  e  che  applichi  ad  essa  la  stessa  spiega- zione :  egli  ammette  dunque  che  il  pensiero  filosofico  e  il  suo oggetto  sono  due  serie  parallele,  che  si  corrispondono  perfet- tamente .  perchè  sono  due  forme  o  due  aspetti  difterenti  di una  sola  e  stessa  essenza.  (V.  Eth,  p.  II  Prop.  VII  col  suo  Cor. e  Schol.).  Spinoza  ammette  dunque  anch'  egli  V  identità  dell'es- sere e  del  pensiero,  ma  in  un  altro  senso  ohe  Hegel  :  per  Hegel le  cose  sono  presenti  nel  pensiero,  e  non  sono  esse  stesse  che pensieri;  per  Spinoza  1'  identità  dell'  essere  e  del  pensiero  con- siste nell'unità  del  loro  subatralum^  dell'  essenza  comune  di  coi sono  le  manifestazioni. In  Platone  la  corrispondenza  tra  il  pensiero  e  la  realtà  è qualche  cosa  di  accidentale  :  essa  non  è  spiegata  per  i  principii del  sistema,  ma  per  un  semplice  fatto,  l'intuizione  delle  Idee  in un'altra  vita.  Ma  in  Spinoza  e  in  Hegel  la  spiegazione  è  basata sui  principii  fondamentali  dei   loro  sistemi,  anzi  in  generale  del —  433  - se  stessi,  indipendentemente  da  questi  altri,  eonie   esso si  è  considerato    esistente  per  se  stesso,    indipendente- realismo  dialettico.  Uno  di  questi  principii  è  che  l'essere  si  svi- lui>pa  arricchendosi  progressivamente  di  nuove  determinazitmi, andando  continuamente  da  uno  stato  più  astratto  ji,  uno  stato più  concreto  :  ne  segue  ohe  i  gradi  posteriori  dello  sviluppo  dei- Tessere  comprendono  i  gradi  anteriori,  che  questi  devono  ritro- varsi in  quelli.  La  spiegazione  di  Hegel  è  basata  su  questo  prin- cipio :  le  cose  si  ritrovano  nel  pensiero  filosofico,  perchè  questo è  l'ultimo  momento  dell'evoluzione  dell'idea,  che  comprende  in se  stesso  tutti  i  momenti  precedenti.  Un  altro  principio  fonda- mentale del  realismo  dialettico  è  che  l'astratto  è  un  essere  unico che  esiste  per  se  stesso,  e  si  ritrova,  restando  uno  e  identico  a se  stesso,  negli  esseri  più  concreti  che  ne  sono  le  determinazi<mi. È  su  di  esso  che  è  basata  la  spiegazione  di  Spinoza:  ciò  die  vi ha  di  comune  aH'es.sere  e  al  pensiero,  egli  lo  considera  come  un essere  unico  ed  esistente  per  sé,  ohe  si  ritrova  simultaneamente «eir  uno  e  nell'  altro,  e  di  cui  l'uno  e  l'altro  sono  due  modi  di essere  distinti.   Ciò  diverrà  più  chiaro  nel  paragrafo  seguente. L'essere  che  si  rivela  sotto  questi  due  aspetti  difterenti,  cioè il  fisico  e  lo  psichico.  1'  estensione  e  il  pensiero,  esiste  per  Spi- noza, come  sappiamo,  a  un  doppio  stato:  come  cose  temporanee, €  che  hanno  un'esistenza  determinata  »,  e  come  cose  c<msiderate sub  specie  aeternitatis,  cioè  come  astrazioni  realizzate.  Il  pen- siero, ohe  è  il  parallelo  delle  cose  temporanee  e  mutàbili,  è  esso stesso  nn  pensiero  temporaneo  e  mutabile:  è  il  pensiero  che  co- stituisce le  anime  degli  oggetti  individuali,  cioè  concreti,  e  tutti i  loro  fenomeni.  Il  pensiero  che  è  il  parallelo  delle  cose  fisse  ed eterne,  è  un  pensiero  esso  stesso  fisso  ed  eterno  —perchè  è  l'al- tro aspetto  sotto  cui  si  rivela  1'  essere  come  cosa  fissa  ed  eter- na — :  questo  pensiero  è  un  pensiero  astratto,  come  le  cose  fisse ed  eterne  sono  delle  cose  astratte  .  e  costituisce  il  lato  mentale di  queste  astrazioni  realizzate.  Il  pensiero  temporaneo  e  muta- bile ha  per   oggetto  le  cose  temporanee  e  mutabili,  cioè  concrete; 28 —  434  - meote  dairelemcDto  contingente  e  mutabile  da  cui  si  è separato.  Col  primo  processo  di  astrazione  il  vero  reale il  peusiero  fisno  ed  eterno  ha  per  oggetto  le  cose  fisse  ed  eterne, oÌ4»è  le  distrazioni  realizzate.  Ora  il  pensiero  filosofico  non  ha  per oggetto  le  cose  temporanee  e  mutabili,  ma  le  cose  fisse  ed  eter- ne (le  cose  considerate  sub  specie  aeternitatig)  ;  in  altri  termini, non  le  cose  concrete,  ma  le  astrazioni  realizzate.  Di  più  l'ordine e  la  connessione  del  pensiero    filosofico  non  sono  identici  all'  or- dine e  alla  coniìessione  delle  cose  temporanee  e  mutabili,  ma  a quelli  delle  cose  fisse  ed  eterne,  delle  astrazioni  realizzate  :  in- fatti r  inoatenamento  dei  principii  e  delle  conseguenze,  che  co- stituisce il  3®  genere  di  conoscenza,  non   rappresenta  l'incatena- mento  delle  cause  e  degli  efl:'etti    fenomeni,  ma  l'incatenamento delle  cause  e  <legli  ett'etti  astrazioni  realizzate,  vale  a  dire  i  gradi successivi  di  questo  sviluppo  estratemporaneo  dell'essere  che  va progressivamente  da  uno  stato  piìl  astratto  o  più  indeterminato a  uno  stato  più  concreto  o  più  determinato  (V.  il  $  25  e  il  $  se- guente). Da  ciò  Spinoza  conclude  che  il  pensiero  filosofico  non  è il  parallelo  delle  cose  temporanee  e  mutabili,  ma  delle  cowe  fisse ed  eterne,  delle  astrazioni    realizzate.   Ciò  vuol  dire  che  esso  è una  parte  del  pensiero  fisso  ed  eterno,  ohe.  come  abbiamo  detto, costituisce  il  lato  mentale  di  queste  astrazioni  realizzate,  e  ohe la  nostra  mente .  quando  pensa    le    cose    aiib  specie  aeternitatis, partecipa  a  questo    pensiero    fisso  ed  eterno,  e  sì  identifica    con esso.  Un  pensiero  fisso  ed  eterno  significa  un  pensiero  ohe  esiste fuori  del  tempo  e  della  durata:  la  nostra  mente,  quando  pensa le  cose  sub  specie  aetemiiatis,  esiste  dunque    fuori  del  tempo  e della  durata,  ed  è  eterna  ed  immutabile    come  le  cose  che  essa pensa.  È  questa  la  teoria  della    conoscenza,  che  costituisce  so- vratutto  il  signi.^cato  deircternità  della  mente  umana. Questa  teoria  della  conoscenza  consiste  in  sostanza  in  due proposizioni  :  1*  Che  le  nostre  idee,  che  hanno  per  oggetto  le cose  considerate  stib  specie  aeternitatis,  sono  eterne,  cioè  esi- stono fuori  del  tempo  e  della  durata.  Questa  dottrina  forma  il soggetto  principale  della  5*  parte  dell'Etica,  e  siccome  non  po- .  —  435  — si  astrae  dal  fenomeno,  e  l'essere  si  risolve  in  Idee  (Pla- tone) o  in  cose  considerate  sub  specie  aeternifa.ti8  (Spi- trebbe  dar  luogo  a  difficoltà  d'interpretazione,  ci  limiteremo  ad indicare  i  luoghi   relativi,  cioè  Pr.  23  e  Schol.,  Pr.  29,  Pr.  31  e Sohol.  33  e  Sohol.  38  e  Sohol.  39  e  Schol.,   Schol.  pr.  iO,  Schol. pr.  42.  (V.   anche    per    questa    dottrina  Dio,    l*  uomo  e  la  beat^ pag.  123-124).  2a  Che  queste  nostre  idee  eterne  .  che  hanno  per oggetto  le   cose   considerate  sub    specie   aeternitatis,  sono   una partecipazione  delle   idee  eterne  di  Dio,  cioè  dell'  intendimento unico  che  Spinoza  attribuisce  al  tutto  come  tale.  Questa  è  un'ap- plicazione   di   una    dottrina    che    noi    abbiamo    esposta  nel  <^  24 Noi  abbiamo  visto  in  questo  paragr.:  che  vi  ha  nel  tutto,  consi- derato come  un  essere  unico,  un  sistema  unico  d'idee,  in  cui  ad ogni  oggetto  reale  corrisponde  un'  idea  unica  .  come  ad  ognuna di  queste  idee  corrisponde    un   oggetto    unico    nella    realtà;  che questo  sistema  unico  d'idee  costituisce  l'intendimento  unico  che vi  ha  nella  cosa  pensante,  l'essere  pensante  unico  di  cui  tutti  i pensanti  particolari  sono  delle  parti;  e  che  le  idee  di  questi  es- seri pensanti    particolari    sono    una   partecipazione  delle  idee  di quest'essere  pensante  unico,   una  partecipazione  ex  loto  quando sono  adequate,  ex  par<e  quando  sono  inadequate;  (v.  pag.  366-367). Ne  segue  che  le  nostre    idee    delle    cose    considerate  sub  specie aeternitatis  —  e  sono  le  sole  idee  adequate  che  Spinoza  ci  attri- buisce (V.  pag.  397)  ~  sono  una  partecipazione  delle  idee  delle cose  considerate  sub  specie    aeternitatis   che    si  trovano  in  que- sto sistema  unico  d' idee  che  costituisce  l' intendimento  dell'  es- sere pensante  unico.  Non  vi  ha   dubbio    infatti    che    uell'  inten- dimento unico  di  Dio  vi  siano  le  idee  delle  cose  considerate  sub gpeeie  aeternitatis:  in  Dio,  dice  Spinoza,  vi  ha  l' idea  della  sua essenza  e  di  tutte  le  cose  che  seguono  necessariamente  da  essa (dall'  essenza  di  Dio    non  seguono    necessariamente    che    le  cose considerate  sub  specie  aeternitatis),   e  questa  idea  è  unica  come è  unico  il  suo  oggetto  (v.  Mh.  p.  II,  prop.  3  e  4).  Inoltre  que- ste idee  di  Dio  che  hanno  per  oggetto  le  cose  eterne,  cioè  la  sua essenza  e  le  cose  ohe  ne  seguono  necessariamente,  devono  essere —  436  — noza);  col  secondo,  dalle  Idee  o  cose  considerate  sub  spe- cie aeternitatis  più  concrete  si  astraggono   altre  Idee  o delle  idee  esse  stesse  eterne,  perchè  1'  ordine  e  la  connessione delle  idee  sono  identici  all'  ordine  e  alla  connessione  delle  cose (p.  II.  Prop.  7  e  Cor.),  e  le  idee  devono  seguire  dall'attributo  del pensiero  della  stessa  maniera  e  con  la  stessa  necessità  in  cui  le cose  ideate  seguono  dagli  altri  attributi  (Cor.  prop.  6).  Così  è per  un'eterna  necessità  che  vi  ha  in  Dio  l'idea  del  corpo  umano considerato  sub  specie  aeternitatis,  come  il  corpo  umano  consi- derato sub  specie  aeternitatis  segue  per  un'eterna  necessità  dal- l' essenza  di  Dio.  (V.  p.  V,  Dim.  prop.  22  e  23).  Che  le  nostre idee  delle  cose  considerate  stib  specie  aeternitatis  siano  una  par- tecipazione di  queste  idee  divine,  Spinoza  lo  afi'erma  esplicitamente nello  Schol.  alla  prop.  40.  (la  nostra  mente,  in  quanto  intende, è  un  modo  eterno  di  pensare,  limitato  da  un  altro  modo  eterno di  pensare,  e  questo  da  un  altro  ancora  e  così  all'infinito,  e  tutti insieme  costituiscono  1'  intelletto  eterno  ed  infinito  di  Dio),  col quale  si  devo  confrontare  la  prop.  36  (il  nostro  amore  intellet- tuale di  Dio  —  che  accompagna  il  3«  genere  di  conoscenza  ed  è eterno  come  essa,  v.  Cor.  prop.  32  e  Prop.  33  — è  una  parte  del- l'amore intellettuale  infinito  con  cui  Dio  ama  se  stesso).  Questa dottrina  è  anche  contenuta  nello  Schol.  alla  prop.  36,  iu  cui identifica  la  nostra  idea  di  Dio  con  Dio  stesso  (cioè,  eviden- temente,  con  r  idea  che  Dio  ha  di  se  stesso;,  perchè  de- duco la  proposizione  che  la  nostra  mente  dipende  e  deriva  da Dio,  da  quella  che  l'idea  di  Dio  è  il  fondamento  del  3»  genere di  conoscenza.  lutine  essa  si  ritrova  in  Dio,  /'  uomo  e  la  heat^ dove  riguarda  il  nostro  intendimento,  in  quanto  è  eterno,  come identico  all'iutendimento  eterno  ed  infinito  di  Dio,  cioè  all'inten- dimento eterno  unico  che  esiste  nella  cosa  pensante  (cfr.  pag.  123 n.  2»  pag.  45-46). Spinoza  C(msidera  il  sistema  d'idee  eterne,  che  hanno  per  og- getto le  cose  eterne,  e  di  cui  le  nostre  idee  di  queste  cose  sono una  partecipazione,  come  lintendimento  infinito  di  Dio,  ohe  è  il modo  necessario  e  immediato  dell'attributo  del  pensiero  (v.  Schol. —  437  — cose  considerate  sub  specie  aeternitatis  di  più  in  più  a- stratte  (p.  e.,  nel  sistema  platonico,  dall'Idea  dell'uomo pr.  40  e  Dio,  Vtiomo  e  la  beat,  pag.  123  n.  2  e  pag.  4r..46) —quan- tunque r  intendimento  infinito  di  Dio  debba  anche  comprendere le  idee  delle  cose  individuali,  cioè  temporanee— Ciò  egli  fa  evi- dentemente perchè  questo  sistema    d' idee  eterne  costituisce  per lui  ciò  che  vi  ha  di  essenziale  e  di  veramente  reale  nell'  inten- dimento infinito,  conformemente  al  suo  principio  che  le  cose  fisse ed  eterne  costituiscono  l'essenza  e  la  vera  realtà  delle  cose  tem- poranee e  mutabili.    Siccome  le  idee  divine  temporanee  e  muta- bili e  ohe  hanno  per  oggetto  le  cose  temporanee  e  mutabili,  co- stituiscono alla  loro  volta    la    realtà   di    tutto  ciò  che  vi  h.i   nel mondo  psichico  nella  sua  esistenza  temporanea  e  mutabile  —  per- chè i  fenomeni  psichici  distinti  dalle  idee  non  sono  per  Spinoza che  idee  confuse,  e  tutte  le  idee  sono  una  partecipazione,  per- fetta o  imperfetta,  delle  idee  dell'  intendimento  divino  —ne  se- gue che  questo  sistema  d*  idee  eterne    costituisce    l'essenza  e  la vera  realtà  del  mondo  psichico,  di  cui  tutti  i  fatti  psichici  sono la  manifestazione    fenomenale,  come    tutti    i    fatti  fisici  sono  la manifestazione  feujmienale  delle  cose  eterne  corrispondenti  a  que- ste idee.  È  un'  applicazione  del  principio  del  parallelismo  :  alle cose  fisse  ed  eterne    devono    corrispondere    dei    pensieri  fissi  ed eterni,  che  sono  il  suhsfrnlum    dei  pensieri  temporanei  e  muta- bili, come  le  cose  fisse  ed   eterne    sono  il  snhstratum  delle  cose temporanee  e  mutabili.    Così  il  sistema  d'  idee  eterne,  di  cui  le nostre  idee  delle  coso  considerate  sub  specie  aeternitatis  sono  una partecipazione,  costituisce  il  lato   mentale  e,   per  così  dire,  l'a- nima, delle  cose  fisse  ed  eterne,   e  il  principio  dell'  identità  tra l'aninm  e  il  corpo,  l'idea  e  il  suo  oggetto,  spiega  il  parallelismo tra  la  conoscenza  filosofica  e  il  vero  reale  che    ne    è    l'  oggetto, come  spiega  il  parallelismo  tra  i  fenomeni  psichici  e  i  fenomeni fisici.   In  quanto  al  pernio  su  cui  volge  questa  spiegazione  della conoscenza  filosofica,  cioè  il  principio  dell'identità  tra  il  fisico  e lo  psichico,  a  ciò  ohe  abbiamo  detto  nel  $  24,  pag.  368  e  sgg.  e in  questa  nota  stessa  pag.  433,  non  aggiungeremo  che  un'osserva- I  * —  438  — quella  del  bipede,  dall'aiiimale^  dall'essere  vivente,  eec), che  si  considerano  conae  aventi  una  realtà  distinta  da  esse, zìoDe  :  è  che  questo  principio  apparisce  per  la  prima  volta  nello Scolio  alla  prop.  7,  parte  II,  in  cui  8tabilit*ce  la  celebre  tesi  : orda  et  connexio  idenrnm  idem  est  ac  ordo  et  connexio  rerum ^  e  ohe questa  tesi,  in  questa  proposizione,  è  presa  nel  senso  del  reali- smo dialettico,  cioè  come  1'  equivalente  della  dottrina  hegeliana dell'identità  tra  lo  sviluppo  logico  e  lo  sviluppo  ontologico.  Ma un'altra  osservazione  che  non  dobbiamo  negligere  è,  che  per  es- sere giiisti  verso  li  spiegazione  di  Spinoza,  bisogna  anche  tener conto  della  sua  dottrina  dell'idea  dell'idea.  Come  ad  ogni  oggetto corrisponde  la  sua  idea,  cosi  a  quest'idea  corrisponde  l'idea  di  que- st'idea; fra  le  idee  e  le  iaee  delle  idee  vi  ha  lo  stesso  paralleli smo  che  fra  gli  oggetti  e  le  idee,  e  questo  parallelismo  è  spie- gato della  maniera  medesima,  cioè  per  l' identità  fondamentale tra  l'idea  e  l'idea  dell'idea.  (V.  Eth.  parta  II,  Prop.  20.  21,  22, 23,  29,  43,  e  Schol.  prop.  21).  Di  questa  maniera  si  comprende come  noi  possinmo  avere  una  conoscenza  filosofica,  non  solo  delle cose  fisse  ed  eterne  che  costituiscono  il  lato  fisico  del  vero  reale, ma  anche  di  quelle  che  ne  costituiscono  il  lato  psichico. Questa  teoria  d*  Ila  conoscenza  forma  talmente  il  significato principale  della  dottrina  dell'eternità  della  mente  umana,  che  Spi- noza parla  il  più  spesso  come  se  essa  ne  formasse  tutto  il  significa- to* La  mente  si  rappresenta  le  cose  nel  tempo  e  nella  durata  in quanto   è    peribile   {Eth.    p.  V  Schol.    p.  23,   Prop.   29,   ecc.);  inquanto  è  eterna  non  si  rappresenta  che  le  cose  considerate  sub specie  aeternitatis  (Prop.  29,  Prop.  31,  ecc.).  Essa  n(m  è  dunque eterna,  che  in  quanto  concepisce  le  cose  sub  specie   aeternitatis (Schol.  prop.  31):  anche  la  parte  che  conosce  le  cose  col  secondo genere  di  conoscenza  è  eterna   (Dim.  prop.  38),  ma  per  istabilire questa  proposizione  Spinoza  si  fonda  su  quella  precedentemente stabilita,  che  la  mente    concepisce  le    cose    sub   specie  aeterni- tatis in  quanto  è  eterna.    Egli   pensa  evidentemente   che,  quan- tunque il  20  genere  di  conoscenza  non  abbia  per  oggetto,  come il  30,  le  astrazioni  realizzate  (cioè  le  cose  considerate  sub  specie -  4)9    - ma  come  presenti  in  esse,  della    stessa  maniera   che  le Idee  o  le  cose  considerate  sub  specie  aeternitatis  in  ge- aeterutiatis  nel  i-euso  pr<»prio  del  termine),  tuttavia  esso  si  life- riscc  all'  universale  —benché  non  astratta»   dai  particolari  e  so- stantificato  —  e  la  possibilità  di  questo  pensiero  dell*  universale si  spiega  per  la  presenza  nell'anima  delle  idee   eterne  che  han- no per  oirgetto  le  cose  eterne.  Il  2«>  e  il  3t'  genere  di  conoscenza cos^itnendo  l'intelletto,  e  l'insieme   degli  altri  fatti  ntentali  l'im- maginazione  (perchè  i  fatti  distinti  dal  pensiero  consistono,  se- condo r  autore,   in  idee    coi.fuse).  la  proposizione   che  riassume la  dottrina   di  Spinoza  è  che  la  parte  eterna  della  mente  è  l'in- telletto, la  parte    peribile  l'immaginazione  (Cor  prop.  40.   V.  a. Prop.  21.  Prop.  34  e   Scholi  e  Schol  pr.  39).  Ciò    vuol  dire  non  che la  mente  in  quanto   è  eterna  non  ha  che  la  facoltà  dell'  intelli- genza, ma  che  eiò  che  vi  ha  di  eterno  nella  mente  sono  gli  atti stessi  dell'  iutelligeuza,  le  idee  e  le  conoscenze  intellettuali,  che, come  sappiamo,  sono  eterne,  cioè  esistenti  fuori  del  tempo  e  della durata.  E  infatti  quando  Spinoza  dice  che  la  mente,  in  quanto conosce  le  cose  sub  specie  aeternitatis,  non  ha  mai  cominciato,  non solo  ad  esistere,  ma  nemmeno  a  conoscere   le  c<»se  sub  specie  aeter- nitatis (Schol.  prop.  31.  cfr.  Schol.   prop.  33).  egli  non  i.uò  voler .dire,  evidentemente,  che  la  niente  individuale  non  hamai  comincia- to, non  solo  ad  esistere,  ma  nemmeno  a  conoscere  le  cose  sub  specie aeternitatis,  ma  che  la  mente  che  conosce  le  cose  sul»  specie  ueter nitatis  non  è  la  mente  individuale,  ma  la  mente  che  non  è  altro  che le  conoscenze  sub  specie  aeternitatis.  e  quest»  è  sempre  esistita, come  sono  esistite  sempre  le  sue  conoscenze.  Questa  equivalenza tra  l'eternità  della  mente  e  l'  eternità  delle  eouoscenzc  sub  spe- cie aeternitatis  non  è  uicno  evidente  quanto  dice  che  piìi  nume- rose sono  le  conoscenze  del  2»  e  del  3o  genere,  o  più  grande  l'a- more intellettuale  di   Dio  che   accompagna   queste  conoscenze,  e maggiore  è  la  parte  delia   mente  che  «  rimano  »  o  che  «  è  eter- na »  (Pr.  38  e  Schol.  39  e  Schol).  Conformemente  a  questo  prin- cipio, egli  va  sino  a  non  considerare  come  eterna  che  la  mente del  sapiente  -  eioè  la  parte  della  mente  del  sapiente  che  cono- I*  I —  440  — nèrale  si  considerano  come  presentì  nelle   cose   fenome- nali, cioè  individuali  e  temporanee.8ce  le  cose  ««/>  specie  aeternisatis  —  mentre  quella  dell*  ignorante sarebbe  tutta  peribile  (Sohol.  prop.  42,  infine    dell'opera)  ;  con- cetto che  ritroviMmo  neirEpist.  37.  {^  5).  in  cui  si  attribuisce  a Spinoza  r  a  iter  m  azione  che  V  anima  dell'empio   muore  assoluta- mente (l'empio  sarebbe  l'uomo  che  non  conosce  che  i  fenomeni. e  non  ha  alcuna  conoscenza  di  Dio,  cioè  delle  cose  fìsse  ed    e- terne).  Nel  trattato  su  Dio,  Tuomo  e  la  beatitudine  è  più  volte ripetuta  l' idea  che  l'anima  si    rende  eterna    per  la    sua  unione con  Dio  (o  con  le  sostanze  eterne) — v.  pag.  52.  118.  114,  323-124, 134 —,  e  questa  unione  consiste  nel  3»  genere  di  conoscenza  (che in  questo  trattato  è  il  4»,    perchè  il  lo  è    suddiviso  in    due)    e l'amore  intellettuale   di  Dio  che  ne  deriva , Alla  conoscenza  delle  cose  considerate  sub  specie  aeternìtatis partecipando,  almeno  in  potenza,  tutti  gl'individui  della   specie umana,  questa  conoscenza  deve  trovarsi  nell'essenza  dell'uomo, cioè  nell'uomo  tisso  ed  eterno,  che  fa  parte  dell'  umanità    fìssa ed  eterna.  In  realtà  essa  non  appartiene  alla  mente  individuale, cioè  all'anima  come  idea  del  corpo  temporaneo  e   mutabile,  ma alla    mente  considerata    sub  specie    aeternìtatis,  cioè  come  idea del    corpo  considerato  sub   specie    aeternìtatis    (v.  prop.  29,  31, ecc.),  e  l'individuo  non  vi  partecipa  che  in  quanto  partecipa  alla sua  essenza  eterna,  di  cui  è  la  realizzazione  nel  tempo  e    nella durata.  Infatti  le  idee  delle  cose  considerate    sub  specie   aeter- nìtatis sono  al  di  fuori  delle  condizioni  dell'individualità,  e  non esìstono  ehe  nel  mondo  delle  astrazioni  realizzate:  la  mi>nte  non può  dunque  possederle  che  inquanto  essa  stessa  è  un'astrazione realizzata.  L'indivìduo,  che  conosce  lo  cose  sub  specie   aeternì- tatis, sopprime  le  condizioni  della  propria   individualità,  e  si  i- dentihca  con  la  essenza  eterna  che  è  presente  in  esso  e  che  è  il suo  substratuni;  egli  si  ritira,  per  cosi  dire,  nel  pììi  ìntimo  di  se stesso,  spogliandosi  della  temporanietà  e  di  tutte  le  altre  deter- minazioni   dell'esistenza    fenomenale.    In  verità  l' essenza    della mente  umana  non  consiste  nelle  sole  idee  delle  cose  considerate —  441   - Che  in  Spinoza  si  trovi  anche  questo  secondò  processo •dì  astrazione,  noi  potremmo  inferirlo,  almeno  come  pro- sub  specie  aeternìtatis,  perchè  tutto  ciò  che  esiste  nell'  uomo temporaneo  deve  essere  rappresentato  nell'uomo  eterno,  quantun- que astrazion  facendo  dalla  temporauietà  e  da  tutte  le  circo- stanze che  vi  sono  legate.  Ma  ciò  che  vi  ha  di  più  intimo  nel- l'essenza della  mente  umana,  l'essenza,  per  dir  così,  di  questa es.senza,  consiste  nelle  idee  delle  cose  considerate  sub  specie  aeter- nìtatis, perchè  l'essenza  della  niente  consiste  nella  conoscenza (mentis  essentìa  in  cognitiuue  cousìstìt.  Dim.  prop.  38  e  Seh. prop.  36)f  e  per  conseguenza  la  conoscenza  sub  specie  aeternìta- tis è  l'essenza  della  mente  eterna,  come  la  mente  eterna  è  l'essenza della  mente  temporanea  e  mutabile.  È  perciò  che  Spinoza  può ehiamare  eternità  della  mente  nmana  l'eternità  delle  idee  delle cose  considerate  sub  specie  aeternìtatis,  benché  queste  non  costi- tuiscono che  una  piccola  parte  dei  fenomeni  della  psiche  umana. La  teoria  <lella  conoscenza  di  Spinoza  che  abbiamo  esposta in  questa  nota,  importa  un'eccezione  apparente  al  ])rincipio  del parellelismo  j)sico- tisico.  Spinozii  ammette  che  per  ogni  fenomeno psichico  vi  ha  un  fenomeno  fisico  che  gli  corrisponde,  e  vice- versa; ma  le  idee  delle  cose  considerate  sub  specie  aeternìtatis non  hanno,  secondo  luì,  alcun  concomitante  fisico..  Le  idee  che ci  vengono  medianto  leafi'ezìoni  del  corpo,  cioè  i  suoi  movimenti, sono  iuadequate.  e  rinsieme  di  queste  idee  si  chiama  immagina- zione. {Eth.  p.  II  Schol.  pr.  17,  Pr.  26  e  Cor,,  Cor.  pr.  29.  Schol.  2o pr.  40,  De  iut.  eménd.  74,  84-91,  ecc.)  —  come  abbiamo  detto,  è  in •esse  che  si  risolvono  tutti  i  fenomeni  della  psiche  che  sogliamo distinguere  dal  pensiero  —  .  Ma  la  concatenazione  delle  idee  che si  fa  secondo  1'  ordine  e  la  concatenazione  delle  affezioni  del corpo,  deve  distinguersi  da  quella  che  si  fa  secondo  l'ordine  del- l'intelletto, per  cui  la  mente  percepisce  le  cose  per  le  loro  cau.se prime  {Elh.  p  II  Schol.  pr.  18).  Le  idee  dell' intelletto  nascono -dalla  forza  intima  dell'intelletto  stesso,  che  si  spiega  per  le  sue leggi  proprie,  e  non  dalle  cause  esterne:  esse  sono  ])rodotte  dulia niente  pura,  e  mm  dai  fortuiti  movimenti  del  corpo.  {Eth.  p.  11 -i;V^^pé<MÌM^* —  442  — -  443  — babile,  dalla  sua  dottrina  delle  cose  considerata  sub  spe- cie aeternitatis.  Le  cose  considerate  sub  specie  aeterni- tatis  sono  delle  astrazioni  realizzate:  l'astratto  è  dunque per  Spinoza  una  realtà,  ed  egli  ha  potuto  dare  un'esistenza per  sé,  come  a  queste  astrazioni,  così  alle  astrazioni  supe- riori a  cui  esse  sono  subordinate.  Ma  la  prova  più  impor- tante e  che  ne  rende  ogni  altra  superflua,  è  Tidentifìca- zione  del  rapporto  tra  il  principio  e  la  conseguenza  col rapporto  tra  la  causa  e  l'effetto.  La  realizzazione  delle  a- Btrazioni-di  quelle  formate  pel  secondo  dei  due  processi che  abbiamo  distinti  —  non  è  una  conseguenza  di  questa identificazione,  ma  è  questa  identificazione  stessa  espressa in  altri  termini.  Così  nel  parag.  25  noi  non  abbiamo  potuto fare  a  meno  di  anticipare  sul  paragrafo  presente,  essendo impossibile  di  esporre  la  dottrina  che  il  rapporto  tra  il principio  e  la  conseguenza  è   identico   al    rapporto   tra la  causa  e  l'etfetto,  senza  attribuire  a  Spinoza,  più  o  meno esplicitamente,  anche  la  dottrina  che  i  principii  hanno una  realtà  distinta  da  quella  delle  conseguenze,  in  altre parole,  che  non  sono  delle  semplici  astrazioni  mentali, ma  delle  cose  esistenti  per  se  stesse,  delle  astrazioni  rea- Schol.  pr.  29.  p.  V.  Soboi.  pr.  23.  De  ini,  emend.  84.  86,  91). Questa  eccezione  al  principio  del  paraUeli  srao  non  è.  come  ab- biamo detto,  ohe  apparente.  Il  parallelo  dei  pensieri  fi»RÌ  ed  e- terni  non  possono  essere  dei  fenomeni,   ma  delle  cose  egualmente fisse  ed  eterno. Prima  di  finire  questa  nota  dobbiamo  avvertire  che  per  com- prendere bene  questa  teoria  della  conoscenza  di  Spinoza  e  i motivi  su  cui  essa  è  fondata,  bisogna  formarsi  un'idea  esatta della  corrispondenza  perfetta  ch'egli  suppone,  tra  lo  sviluppo del  pensiero,  cioè  del  pensiero  filosofico,  e  lo  sviluppo  d.ll'essere. Perciò  bisogna  aggiungere  a  ciò  che  abbiamo  detto  nel  para- grafo 25  ciò  che  diremo  nel  paragrafo  seguente. lizzate.  Spinoza  non    poti*ebbe  riguardare  il  principio  e la  conseguenza  come  causa  ed  effetto,  se  non   li  riguar- dasse come  due  realtà  distinta:  è  per  questa  realizzazione che  il  rapporto  semplicemente  logico  tra  principio  e  con- seguenza diviene   un    rapporto  onfologivo   tra    causa  ed effetto.  Il  sistema  delle  conoscenze,  nel  realismo  dialet- tico, è  una  catena  di  nozioni  astratte,  in  cui  l'astrazione è  decrescente,  e  che  sono  logicamente  legate  fra  di  loro, in  modo  che  la  nozione  precedente  (cioè  la  più  astratta) sia  il  principio  di  quella  che  immediatamente  la  segue, e  la  susseguente  (cioè  la  meno  astratta)  la  conseguenza di  (luella    che    immediatamente  la  prece<le.  Queste   no- zioni più  o  meno  astrìitte  rappresentano  le  stesse  cose, ma  concepite  d'una  maniera  più  o  meno   astratta— per- chè la  conseguenza  non  fa  che  porre  esplicit-amente  ciò era  posto  implicitamente    dal  principio,  e  non  è  che  il principio  stesso  in  una  forma  più  sviluppata—  :  per  con- seguenza, se  l'astrazioni!  non  fosse  che  mentale,  il  pro- gresso nella   deduzione    non    sarebbe    che  un  progresso nella    determinazione   con  cui  il  pensiero    concepirebbe le  cose,  mentre  le  cose  stesse  resterebbero  immobili.  Se invece  l'  astrazione   non  è  semplicemente    mentale,  ma anche  reale,  in  altri  termini  se  a  queste  nozioni  astratte corrispondono  delle    realtà    astratte,  il  progresso  nella deduzione  è  un  progresso  nella  determinazione  delle  cose stesse  —  in  altre  parole  il  passaggio  dall'indeterminato al  determinato  non  avviene  nella  sola   conoscenza,  ma neir  oggetto  conosciuto  -:  allora  ogni  nuovo  passo  nel ragionamento  segua  un  nuovo  passo  nello  sviluppo  del- l' essere,  e   il    movimento    del    pensiero  corrisponde    al movimento    stesso    della  realtà.  Ora  in  questo  sviluppo progressivo  dell'  essere,  in    questo    passaggio   continuo delle  cose  da  uno  stato    più    indeterminato  a  uno  stato più  determinato,  gli  stati  successivi  sono  fra  di  loro  nel rapporto  logico  di  principio  e  conseguenza:  ciò  vuol  dire —  444  - che  dato  il  precedente  è  dato  pure  il  couseguente,  che  la esistenza  dell'  uno  trascina  necessariamente  1'  esistenza dall'altro.  Ma  dire  che  l'esistenza  dell'uno  trascina  ne- cessariamente l'esistenza  dell'  altro,  è  dire  che  1'  uno  è la  causa  e  l'altro  l'effetto:  così,  per  la  realizzazione  delle astrazioni,  il  rapporto  puramente  logico  di  principio  e conseguenza  diviene  un  rapporto  di  causa  e  di  effetto, e.  questa  causa  è  efficiente,  perchè  il  legame  tra  il  prin- cipio e  la  conseguenza  è  un  legame  visibile  a  priori  e n«ecessario.  Applichiamo  ciò  che  abbiamo  detto  al  siste- ma di  l^piuoza.  Il  3°  genere  di  conoscenza  parte  da  una nozione  astratta,  1'  essere  assolutamente  indeterminato, e  ne  deduce  progressivamente  altre  nozioni  astratte,  ma di  cui  ciascuna  è  sempre  meno  astratta  dì  quella  da  cui si  deduce  immediatamente:  dall'essere  assolutamente  in- determinatosi deducono  immediatamente  gli  attributi,  da- gli attributi  i  modi  immediati,  da  questi  altri  modi,  e  così di  seguito.  Queste  nozioni  astratte  su  cui  volge  la  deduzio- ne di  Spinoza^  dell'essi  re  assolutamente  indeterminato, degli  attributi,  dei  modi  immediati,  e  dei  modi  mediati  che da  essi  progressivamente  si  deducono,  rappresentano  le stesse  cose,  cioè  l'insieme  degli  esseri,  che  Spinoza  chia- ma Dio  o  la  uà  tura;  ma  le  rappresentano  d'una  manie- ra sempre  meno  astratta,  l'estensione  e  il  pensiero  d'una maniera  meno  astratta  che  l'essere  assolutamente  inde- terminato, il  riposo  e  il  movimento  e  i  modi  immediati del  pensiero  di  una  maniera  meno  astratta  che  l'estensio- ne e  il  pensiero,  e  così  ili  seguito.  Nel  progresso  della  de- duzione, nel  passaggio  dall'essere  indeterminato  agli  at tributi,  ai  modi  immediati,  ai  modi  immediati  di  que- sti modi  ecc.^  è  sempre  l'insieme  degli  esseri  l'oggetto reale  a  cui  si  riferisce  il  nostro  pensiero,  ma  quest'  in- sieme degli  esseri  noi  lo  pensiamo  d'  una  maniera  di meno  in  meno  astratta.  Per  conseguenza,  se  l'astrazione non  fosse  che  mentale,  vale  a  dire  se  l'essere  assoluta- ~  445  — mente  indeterminato,  l'estensione  e  il  pensiero   assolu- tamente considerati,  ecc.,  non  esistessero,  in  questo  stato di  astrazione,  che    unicamente  nel   nostro   pensiero,  il progresso  della  deduzione  non  sarebbe  che  un  progresso nella  nostra  conoscenza,  che  andrebbe  progressivamente determinando  ciò  che  in  principio  non  le  era  stato  dato che  d'una  maniera  assolutamente  indeterminata;  questo progresso,  questo  passaggio    dall'  indeterminato  al  de- terminato, non  avrebl)e  luogo  che  nel  nostro  pensiero, perchè  di  leale  non  vi  sarebbe  che  il  concreto,  e  questo è  assolutamente  determinato.  In  questo  caso  il  rapporto tra  il  principio  e  la  conseguenza  non  sarebbe  che   logi- co: r  incatenamento  deduttivo  non  potrebbe  assimilarsi all'incat^mamento  causale,  perchè  al  progresso  del  pen- siero non  corrisponderebbe  un  progresso  nella  realtà,  alle nozioni  successive  che  Spinoza  deduce  le  une  dalle  altre, non  corrisponderebbero,  nella  realtà,  dei  momenti  suc- cessivi che  deriverebbero  gli  uni  dagli  altri.  Ma  ammet- tiamo che  l'essere  assolutamente  indeterminato,  l'esten- sione e  il  pensiero    indeterminati,  ecc.  non    siano  delle semplici  nozioni  astratte,  mi  delle  astrazioni  realizzate, in  altre  parole  che  esistano  delle  cose  reali  che  non  siano che  essere  assolutamente  indeterminato,  estensione  e  pen- siero indeterminati,  ecc.:  allora  alla  serie   delle  nozioni che  si  deducono  le  une  dalle  altre  corrisponde  una  serie di  cose  che  ilerivano  le  une  dalle  altre,  i  momenti  suc- cessivi   nello  sviluppo    del    pensiero    rappresentano  dei momenti  successivi  nello  sviluppo  dell'essere  stesso,  e  le premesse  diventano  delle  cause  come  le  conseguenze  di- ventano degli  eftetti.  L' identificazione  del  rapporto  tra il  principio  e  la  conseguenza  a  quello  tra  la  causa  e  l'ef- fetto è  dunque  il  risultato  della  realizzazione  delle  astra- zioni: senza  di  essa  questa  identificazione  sarebbe  impos- sibile, perchè  la  deduzione  non  sarebbe  che  un  processo logico  e  non  una  derivazione  reale,  in  una  parola  perchè r —  446  — lo  sviluppo  logico  non  sarebbe  al  tempo  stesso  uno  svi- luppo ontologico. Questo  sviluppo  logico  che  è  al   tempo    stesso   uno sviluppo  ontologico,  è  indicato    nel    realismo   dialetti- co  dall'  espressione  anteriorità   e  posteriorità  di  natu-^ ra.   È  il  termine   che    usava  Platone,  e  che  in  Hegel  è sostituito   dalla   parola   momenti.    La  successione   pura- mente logica  e  metafisica  è  simboleggiata  dalla  succes- sione cronologica.  Questi    termini    esprimono    lo    stesso concetto  che   il    realista   dialettico   esprime  chiamando cama  il  principio  logico  ed  effetto  la  conseguenza,   cioè che  la  deduzione  non  è  un  semplice  processo  logico,  ma una  derivazione  reale  -  semplicemente   il    rapporto  tra il  principio  e  la  conseguenza  viene  assimilato  meno  aper- tamente  al  rapporto  tra  la  causa  e  l'effetto.  —  Noi  tro- viamo dunque  un'  altra  prova  della   realizzazione  delle astrazioni  (di.  quelle  ottenute  col  secondo   dei    due  prò- cessi  indicati)  nell'uso  che  fa  Spinoza  della   espressione platonica.  Anteriore  e  posteriore  di  natura   significa   in Spinoza,  come  in   Platone,  quella    sequenza   metafisica nelle  cose  stesse,  che  è  il  correlativo  della  sequenza  lo- gica nel  nostro  pensiero  (1).  Altre  volte  questi    termini sono  usati  in  un  senso  che  non  implica  la  realizzazione delle  astrazioni,  ma  significano  anche  allora  la  relazione tra  ciò  da  cui  una  cosa  deriva  e  la  cosa  stessa   deriva- ta (2).  Che  anteriore  di  natura,  quando  l'applica  a  delle (1)  Antenore  di  natura  (pnor  natura)  è  uaato  in  questo  senso neir  Mh.  p.  I.  Prop.  1,  Dini.  prop.  5.  App.  alla  p.  I  p.  II. Sohol.  prop.  10  {tam  eognitione  quam  natura  prior.  vale  a  dire tanto  logUamente  quanto  ontologicamente);  in  Dio,  V  uomo  e  la bi'.at,  pag.  127  I.  eoe.  Posteriore  di  natura  nello  stesso  luogo  del- l'App.  alla  p,  I.  Simnl  natura  in   />e  Intell.  emend.  102). (2)  V.  Mh.  p.  I.  Schol.  prop.  17.  p.  II.  Dim.  prop.  11,  Dira, prop.  24,  Dim.  prop.  25.  Dio,  V  uomo  e  la  beat.  pag.  127.  VII. ì —  447  — astrazioni^  implica  per  Spinoza  la  loro  esistenza  per  sé,  si vede  nella  dimostrazione  della  proposizione  5.  «  PROP.  V. Nella  natura  delle  cose  non  possono  darsi  due  o  più  so- stanze della  stessa  natura  o  attributo.  DIMOSTR.  Se  se ne  dessero  più  distinte,  dovrebbero  distinguersi  o  per  la diversità  degli  attributi  o  per  la  diversità  delle  affezioni.  Se solo  per  la  diversità  degli  attribuii,  si  concederebbe  dun- que non  darsene  che  una  sola  dello  stesso  attributo.  Ma  se per  la  diversità  delle  affezioni,  siccome  la  sostanza  è  ante- riore di  natura  alle  sue  affezioni,  deposte  dunque  le  affezioni e  considerata  in  se  stessa,  cioè  veramente  considerata,  non potrà  distinguersi  da  un'altra,  cic»è  non  potranno  darsene più,  ma  solamente  una  >  (1).  In  una  notii  del  trattato  su  Dio, l'uomo  e  la  beatitudine  si  dimostra  che  «  non  vi  ha  parti nell'estensione  avanti  ogni  modificazione»  (cioè  nell'e- stensione come  anteriore  ai  suoi  modi  —  proposizione  di cui  parleremo  in  seguito  — )  fondandosi  sul  principio  che €  l'estensione  come  estensione  >  (o  come  si  è  detto  un po'  prima  nella  stessa  nota,  <  l'estensione  in  sé  y^)  esiste senza  i  suoi  modi  e  avanti  i  suoi  modi. La  realizzazione  delle  astrazioni  (nel  senso  indicato) 'NeìVMh.  p.  I.  Sohol.  prop.  17  e  p.  III.  Sohol  prop.  2  simul natu^-af  applicato  alle  cose  e  ai  pensieri  per  signidoare  la  loro indipendenza  reciproca  (cioè  che  uè  i  pensieri  sono  prodotti  dalle coso,  uè  le  cose  dai  pensieri),  ed  anche,  senza  dubbio,  la  loro  de- rivazione simultanea  dal  loro  substratum  comune. (1)  La  sostanza  si  considera  dunque  veramente,  cioè  si  pensa quale  è  in  realtà,  quando  si  pensa  separata  dai  suoi  modi,  de- positis  affectionibus.  Inoltre  dalla  indifierenziabilità  di  due  so- stanze dopo  ohe  si  è  fatta  astrazione  dai  loro  modi,  Spinoza  non potrebbe  concludere  la  loro  reale  identità,  se  esse  non  esistessero realmente  come  si  concepiscono  dopo  quest'  astrazione,  cioè  a parte  dei  loro  modi. I —  448  — —  449  - è  supposta  pure  da  due  altre  dottrine  di  Spinoza  (  che non  sono  anch'esse  che  delle  espressioni    differenti    del principio    delPidentità  tra  lo    sviluppo  logico  e  lo    svi- loppo  ontalogico).  L'nna  è  il  y)arallelisnio  tra  il  pensiero e  le  cose,  in  quanto  per  pensiero  sMntende   il  pensiero filosofico,  cioè  quello  che  conosce  le  cose  col  terzo   ge- nere di  conoscenza.  Siccome  il  3<>  genere  di  conoscenza consiste  a  passare  gradatamente  da  una  nazione  astratta ad    un'altra  nozione    pure  astratta,  ma    meno    astratta della  precedente,    la  dottrina  del    parallelismo    implica che  a  questa  serie  di    pensieri  astratti   conisponda  una serie  di  cose  egualmente  astratte,  tanto  più  che  il  pen- siero e  V  oggetto  pensato  non  sono  due  cose  differenti, ma  due  aspetti  differenti  di  una  sola  e  stessa  cosa,  che da  una  parte  apparisce  come  pensiero  e  dall'altra  come realtà.  L'altra  dottrina  è  che  il  S*^  genere  di  conoscenza è  intuitivo.  È    il  carattere    più    essenziale,  per   cui  Spi- noza lo  distingue  dal  secondo  genere  (1).  La  conoscenza del  3^  genere  è  una  scienza  intuitiva  (2),  in  cui  lo  spi- rito   non    fa    alcuna   operazione    intellettuale,    ma   ve- de (3);  non  è  una  convinzione  fondata  sul  ragionamento, ma  è  il  sentimento  e  il  godimento  della  cosa  stessa  (4);  que- sta è  perc(^pita  immediatnmente   ed  in  se  stessa,    come r  oggetto   sensibile  è  percepito  immediatamente  ed    in se  stesso  dall'intuizione  sensibile  (5).  Per  questa    intui- tività della  conoscenza  filosofica   Spinoza  non    intende, (1)  V.   Dio  ruomo  e  la  beat,  pag.  55-56,   Eth.  p.  II  Scbol.  2o pr.  40,  De  ini,  emend.  24. (2)  Mh,  p.  II  Schol.  2»  pr.  40.  p.   V  Schol.  pr.  36,  eoe. (3)  De  int.  emend.  24. (4)  Dio,  l'uomo  e  la  beat.  pag.  56. (5)  Dio,  Vnomo  e  la  beat.  pa«;.  55. come  potrebbe  credersi,  che  l'oggetto  pensato  è  presente nel  pensiero  e  s'identifica  con  esso,  come,  secondo  la credenza  del  volgjire  sulla  percezione  sensibile,  l'oggetto sentito  è  presente  nella  sensazione  e  s'identifica  con essa  —  perchè  ciò  sarebbe  contrario  al  principio  del  pa- rallelismo fra  il  pensiero  e  le  cose  —  :  il  senso  di  questa dottrina  di  Spinoza  è  che  nella  conoscenza  filosofica  lo spirito  non  è  che  uno  spettatore,  che  l' intelligenza  si limita  a  ricevere  Tini  pressione  degli  oggetti  intelligibili, come  la  vista  degli  oggetti  visibili,  riproducendoli  in  se stessa  e  riflett,endoli  come  uno  specchio,  in  modo  che  il pensiero  non  sia  che,  l' immagine  della  realtii  e  «  l'or- dine e  la  connessione  delle  idee  siano  identici  all'ordine e  alla  connessione  delle  cose  stesse  ».  Dato  (jiiesto  con- cetto sulla  natura  della  conoscenza  filosofica,  alcuu'astra- zione  puramente  mentale  non  può  aver  luogo  in  questa conoscenza,  come  non  può  avervi  luogo  alcun 'altra  ope- razione intellettuale  che  non  abbia  il  suo  riscontro  nella realtà;  delle  nozioni  astratte  non  potranno  che  rappresen- tai^e  degli  oggetti  astratti,  ai  principii  e  alle  conseguenze nel  nostro  pensiero  corri spon desanno  dei  principii  e delle  conseguenze  nella  natura,  e  la  nostra  deduzione non  saì^  che  un'immagine  della  derivazione  reale  delle cose  stesseo  Perciò  Spinoza  raccomanda  di  non  conce- pire le  cose  (nella  conoscenza  filosofica)  astrattamente o,  ciò  che  per  lui  vale  lo  stesso,  uni  versai  niente  (1),  di non  passare  mai,  nel  progresso  della  deduzione,  agli  a- stratti  ed  universali  (2),  e  non  mescolare  ciò  che  è  sol- (1)  V.   De  int.  emend.  7.5-76,  98,  eoo. (2)  V.  De  int.  emend.  93  e  99,  luoghi  che  riporteremo   in  se- guito. 29 —  450  — tanto  nell'intelletto  con  ciò  che  è  nella  realtà  (1);  e  di- stingue la  conoscenza  del  3®  genere  da  quella  del  2^ per  ciò  che  questa  ha  per  oggetto  l'universale,  mentre quella  ha  per  oggetto  il  singolare  (2).  Per  astratto  in- tende evidentemente  un'astrazione  puramente  mentale, vale  a  dire  una  nozione  per  cui  il  reale  —  che  può  es- sere anche  un'astrazione  realizzata  —  non  è  concepito in  tutta  la  sua  determinatezza,  e  in  cui  la  mente  separa ciò  che  non  è  separato  (^(OQiaióy)  nella  realtà:  la  cono- scenza del  2^  genere  ha  per  ogetto  l'universale,  perchè essa  non  concepisce  che  astrattamente  ciò  che  è  comune a  tutta  una  classe;  quella  del  3»  genere  ha  per  ogetto il  singolare,  perchè  concepisce  la  classe  stessa,  non  a- strattamente,  ma  qua!  è  in  se  stessa  considerata  «mò  spe- cie aeternitatis. Tanto  è  vero  che  Spinoza  dà  un'esistenza  per  sé  al- l'essere assolutamente  indeterminato,  1'  estensione  e  il pensiero  indeterminati,  e  le  altre  astrazioni  che  si  de- ducono da  queste,  ch'egli  attribuisce  loro,  in  questo stato  astratto,  delle  proprietà  contrarie  a  quelle  che  esse hanno  in  qnanto  si  trovano  negli  oggetti  concreti  o nelle  altre  astrazioni  meno  astratte  ad  esse  subordinate. È  ciò  ch'egli  fa  della  maniera  più  esplicita  per  l'esten- sione. L'  estensione  come  estensione,  cioè  1'  est-ensione in  sé,  l'estensione  come  sostanza,  è  indivisibile  :  la  di- visibilità appartiene  ai  modi  dell'  estensione,  non  all'e- stensione stessa.  Dividendo  una  cosa  estesa,  p.  e.  l'acqua, si  divide  «  il  modo  della  sostanza,  e  non  la  sostanza stessa,  la  quale  resta  sempre  la  stessa,  che  essa  sia  mo- li) De  ini.  emend.  93. (2)  V.  Eth,  p.  V  Schol.  prop.  36  e  Schol.   prop.  37,  De    ini. emend.  101,  eoo.  dificata  in  acqua  o  in  altra  cosa  »;  in  altri  termini,  essa si  divide  «  in  quanto  è  acqua,  non  in  quanto  è  sostanza corporea  »  (cioè  estensione)  (1).  Spinoza  nega  che  l'e- stensione in  sé  sia  divisibile,  perchè  la  divisione  sup- pone l'esistenza  dei  corpi  e  del  movimento,  e  questi  sono dei  modi  dell'estensione,  posteriori  all'estensione  stessa. Egli  avrebbe  espresso  il  suo  pensiero  in  una  forma  più rigorosa,  se  avesse  detto  che  l'estensione  in  sé  non  è né  divisibile  né  indivisibile  —  perchè  è  evidente  che, se  l'astratto  manca  di  alcune  delle  determinazioni  del concreto,  esso  non  può  avere  però  altre  determinazioni positive  che  siano  incompatibili  con  esse  — .  Anche  in questa  forma  più  rigorosa  si  affermerebbe  dell'estensione in  sé  un  attributo  che  è  in  contraddizione  con  un  attri- buto delFestensione  concreta;  ma  la  forma  di  Spinoza, mettendo  più  in  antitesi  l'attributo  dell'una  con  quello dell'  altra,  mette  più  in  rilievo  la  loro  distinzione,  e mostra  più  chiaramente  che  la  prima  non  è  secondo  lui una  semplice  astrazione,  ma  ha  un'esistenza  per  sé,  in- dipendentemente dalla  seconda. Ma  dove  il  realismo  di  Spinoza  apparisce  della  ma- niera più  evidente,  è  in  un  luogo  del  trattato  De  intelle- ctus  emendatione,  che  riporterò  per  disteso,  perchè  lo cansidero  come  l'espressione  più  netta  e  più  completa del  pensiero  dell'autore  :  «  99  In  quanto  all'ordine  poi,  e €  aftinché  tutte  le  nostre  percezioni  vengano  ordinate 4C  ed  unite,  si  richiede  che,  quando  prima  può  farsi  e «  lo  domanda  la  ragione,  ricerchiamo  se  si  dia  qualche «  essere,  e  al  tempo  stesso   quale,  che  sia  la   causa   di (1)  V.  Dio  Vnomo  e  la  beai.  pag.  16-17,  Eih.  p.  I  Prop.  12, Prop.  13,  Cor.  e  Sohol.,  Sohol.  prop.  15,  De  ini.  emend.  87,  Spisi, 29.  5-7,  ecc. I tutte  le  cose,  in  modo  che  la  sua  essenza    obbiettiva 4(  (cioè  la  sua  idea)  sia  pure  la  causa  di  tutte  le  nostre «  idee,  e  così  la  nostra  mente,  come  abbiamo  detto,  rap- «  presenti,  quanto  più  è  possibile,  la  natura.    Infatti  a- «  vrà   obbiettivamente    la  essenza    stessa  di  essa    e    lo «  stesso  ordine  e  la  stessa  unione.  Donde  possiamo  ve- «  dere  come  in  primo  luogo  ci  sia  necessario  di  dedurre *  sempre  tutte  le  nostre  idee  dalle  cose  fisiche,  cioè  da- «  gli  essevi  reali,  progredendo,  per  quanto  è  possibile, «  secondo  la  serie  delle  cause,  da  un  essere  reale  ad  un «  altro  essere  reale,  e  in  modo  da   non  passare    agli  a- €  stratti  ed  universali,  né  concludendo  da  essi   qualche 4(  reale  né  concludendo  essi  da  qualche  reale.  L'  una  e «  l'altra  cosa  infatti  interrompe  il  vero  progresso  dell'in- «  teletto  (1).  100  Ma  bisogna  notare  che  per  la  serie  delle «  cause  e  degli  erseri  reali  io  non  intendo  la  serie  delle cose  singolari  mutabili,  ma  soltanto  la  serie  delle  cose «  fisse  ed  eterne.  lafatti  sarebbe  impossibile  alla  umana «  debolezza  di  tener  dietro   alla  serie  delle    cose  siniro- «  lari  mutabili,  tanto  per  il  loro  numero  che  supera  o- «  gni  moltitudine,  (juanto  per  le  infinite  circostanze  in «  una  sola  e  stessa  cosa  ^    di  cui    ciascuna   può   essere 453  — «  (1)  Confronta  93  (prima  ba  detto  ohe  si  deve  conoscere  l'ef- fetto per  la  causa)  :  «  Quindi  non  ci  sarà  mai  lecito,  quando  si «  tratta  della  ricerca  delle  cose,  di  concludere  alcun  che  dagli «  astratti,  e  ci  guarderemo  bene  di  mescolare  le  cose  ohe  sono <i  soltanto  nell'intelletto  con  quelle  che  sono  nella  realtà:  Ma «  l'ottima  conclusione  sarà  ricavata  da  qualche  essenza  partico- «  lari)  affermativa,  cioè  da  una  vera  e  legittima  detinizione.  In- «  fatti  dai  soli  assiomi  universali  rintelletto  non  può  scendere <•  ai  singolari,  poiché  gli  assiomi  si  estendono  a  un'  intinità  di «  cose,  e  non  determinano  l'intelletto  a  contemplare  uno  piutto- «  sto  che  un  altro  singolare  ». «  causa  che  la  cosa  esista  o    non  esista.  Poiché  la  loro <  esistenza  non  ha  alcunaconnessione  con  la  loro  essenza, «  ossia,  come  già  abbiamo  detto,  non  è  un'  eterna  ve- «  rità.  101.  Ma  del  resto  non  abbiamo  bisogno  di  com- «  prendere  la  loro  serie:  in  effetto  le  essenze  delle    cose <  singolari  mutabili  non  si  devono  ricavare  dalla  loro €  serie  o  ordine  di  esistere,  poiché  questo  non  può  darci «  altro  che  delle  determinazioni  estrinseche,  delle  rela- €  zioni,  o  al  più  delle  circostanze,  e  tutto  ciò  è  ben  lon- «  tano  dall'intima  essenza  delle  cose.  Questa  deve  cer- «  carsi  soltanto  nelle  cose  fisse  ed  eterne,  e  insieme  nelle €  leggi,  scritte  in  queste  cose,  come  nei  loro  veri  codici, <  secondo  le  quali  tutte  le  cose  singolari  si  producono «  e  sono  ordinate;  anzi  queste  cose  singolari  mutabili «  così  intimamente  e,  per  di  così,  essenzialmente  dipen- «  dono  dajle  fisse,  che  senza  di  esse  non  possono  essere «  né  concepirsi.  Quindi  queste  cose  fisse  ed  eterne,  quan- «  tunque  siano  singolari,  pure  per  la  loro  presenza  do- €  vunque  e  la  loro  latissima  potenz«a  f^aranno  per  noi «  come  degli  universali  o  dei  generi  delle  definizioni ^  delle  cose  singolari  mutabili,  e  le  cause  prossime  di €  tutte  le  cose  ». Questo  luogo,  dopo  ciò  che  abbiamo  detto  nei  due  pa- ragrafi anteriori,  non  ha  bisogno  di  molli  commenti.  Ci limiteremo  a  notare:  che  le  cose  fisiche  o  gli  esseri  reali di  cui  si  tratta  in  questo  luogo,  sono  delle  cose  fisse  ed eterne,  che  si  distinguono  dalle  cose  singolari  mutabili, in  cui  sono  presenti,  e  di  cui  sono  le  essenze  e  le  cause immanenti;  che  la  serie  di  (jucsti  esseri  reali  é  una  se- rie di  cause,  cioè  che  essi  costituiscono  una  catena  di cause  di  cui  1'  una  procede  dall'  altra,  e  ciò  nel  senso trascendente  che  la  parola  causa  ha  nel  realismo  dialet- tico, perché  (piesta  serie  di  cause  si  distingue  dalla  serie delle  cose  singolari  mutabili  ;  e  infine  che  il  progresso ininterrotto  dell'intelletto  da  un  essere  reale  ad  un  altro, percorrendoli  secondo  la  serie  delle  cause,  cioè  secondo il  loro  iucatenamento  eausale,  è  nna   deduzione   conti- nua, in  cui  si  conclude  sempre  un  essere  reale  da  un  al- tro essere  reale.  Ma  la  serie  delle  cose  che  si  deducono runa  dall'altra,  e  di  cui  quella  da  cui  si  deduce  è  con- siderata  come  la  causa  di  quella  che  se  ne  deduce,  sono, nel  sistema  di  Spinoza,  l'essere  assolutamente   indeter- minato, gli  attributi  divini,  cioè  il  pensiero  e  l'estensione indeterminati,  e  i  modi  eterni  ed  infiniti  che  derivano, immediatamente    e  mediatamente,  dagli    attributi    (nei quali  modi   eterni  ed  infiniti    sono    contenute   tutte    le cose  considerato  sub  specie  aeternitatis,  concepite  a  gradi differenti  di  astrazione  secondo  i  gradi  di  prossimità  dei modi  agli  attril>uti).  Sono  ciueste  cose  dunque  gli  esseri reali  di  cui  si  tratta  nel  luogo  citato,  e  l'essere  assolu- tamente indeterminato,  gli  attributi  divini  e  le  altre  a- strazioni  che  se  ne  deducono,  non  sono  dtlle    semplici astrazioni,  ma  delle  astrazioni  realizzate,   di  cui  la    più astratta  esiste    indipendentemente  dalla   meno  astratta, in  cui  è  contenuta  e  di  cui  è  la  causa  immanente,  come tutte  esistono  indipendentemente  dalle  cose  concrete,  in cui  sono  contenute  e   di  cui    sono   le    cause   immanen- ti (1).  Si  vede  anche  dal  s^  99  e  dal  $  93  che   abbiamo riportato  in  nota,  non  solo  che  il  3«  genere  di  conoscenza consiste  a  dedurre  gradatamente  da  un  essere  reale  un altro  essere  reale,  ma  che  tutte  le  premesse   e  tutte   le conseguenze   non  sono  in  questa   deduzione    che   esseri reali    Ciò  vale  a  dire   che   questa  deduzione    è  immediata,  cioè  che  essa  passa   immediatamente  dalla    posi- zione di  un  essere  reale  alla  posizione  di  un  altro  essere reale,  senza   l'intervento  di  assioni  o   altre  proposizioni intermediarie,  e  in  una  porola  senza  una  dimostrazione propriamente  detta.  È  perciò  che  Spinoza  chiama  la  co- noscenza del  3"  genere  una  scienza  intuitiva:  essa  è  in- tuitiva   sì  perchè  i  suoi    oggetti  non    sono  delle    astra- zioni,  ma  degli  esseri  reali,   si    perchè    la  connessione tra    questi   esseri    reali   non  è    conosciuta    per   ragiona- mento, ma  immediatamente.  Questa  immediatezza  delle deduzione  è,  come  abbiamo  notato   (1),  un  carattere  ge- nerale del  realismo  dialettico,  che  Spinoza  ha    comune con  Platone  e  gli  altri  rappresentanti  di  questo  tipo  di metafisica.  Così  il  rapporto  tra  il  principio  e  la  conse- guenza è  assimilati)  di  più  a  quello  tra  la  causa  e  l'ef- fetto, i»erchè  nelle  causazioni  familiari  da  cui  è  venuta l'idea  di  causazione  efficiente,  il  legame  tra  la  causa  e l'effetto  non  si  vede  per   ragionameato,  ma  immediata- mente. Inoltre  l'identificazione  del  principio  logico  alla causa  e  della  conseguenza  all'effetto  implica  che  l'astra- zione realizzata  che  si  riguarda  come  la  causa  di  un'al- tra astrazione  realizzata  sia  la    premessa  unica    da   cui questa  si  deduce:  se  occorressero  altre  premesse,   ne  sa- rebbe una  delle  cause,  ma  non  la  causa  completa  (2). Questi  due  principii  del  metodo  di  Spinoza,  che  le cose  che  si  deducono  sono  degli  esseri  reali,  e  che  la deduzione  è  immediata,  costituiscono,  presi  insieme,  il significato  della  sua  proposizione  che  l'ordine  e  la  con- nessione delle  idee  sono  identici  all'ordine  e  alla  con- nessione delle  cose  -  a  parte  il  parallelismo  psico  —  fi- li) L'immanenza  della  causa  uell'  effetto  è  si  chiara  in  Spi- noza, che  il  rapporto  delle  «  cose  fìsse  ed  eterne  >  fra  di  loro e  con  le  cose  non  potrebbe  dar  luogo,  nel  suo  sistema,  alle  stesse quistioni  a  cui  ha  dato  luogo  nel  sistema  platonico. (1)  ^.  12,  u.  40. (2)  Ci'r.  cap.  VI,  $  5  e  anche  questo  capitolo  *S  12  n.  4». ^ —  456  — sico  come  dottriua  psicologica  e  cosmologica —.  Questa proposizioue,  in  questo  suo  significato  trascendente,  e- quivale,  al  fondo,  al  principio  hegeliano  dell'identità  tra lo  sviluppo  logico  e  lo  sviluppo  ontologico.  Ma  Hegel non  presentando  la  serie  delle  astrazioni  realizzate  che egli  deduce,  che  come  i  gradi  uecessivi  di  uno  sviluppo, noi  non  possiamo  che  per  induzione  altribuirgli  come scopo  ultimo  di  assimilare  il  rapporto  tra  il  principio  e la  conseguenza  al  rapporro  tra  la  causa  e  l'ett'etto.  Spi- noza li  identifica  esplicitamente,  e  ci  mostra  così  nella luce  più  completa  il  vero  scopo  e  1'  essenza  intima  del realismo  dialettico  (1). (1)  Prima  di  finire  «u  Spinoza  dobbiamo  giustitìcare  unarter- mazione  che  al>biamo  ripetuto  più  volte,  sia  esplieitameute  8ia implicitamente,  cioè  che  al  di  là  degli  attributi  Spinoza  suppone qualche  cosa  di  più  indeterminato,  ohe  è  agli  attributi  ciò  che  que- sti sono  ai  modi,  vale  a  dire  ohe  esiste  per  se  stessa,  quantun- que presente  negli  attril>uti,  come  gli  attributi  esisttmo  per  se stessi,  quantunque  presenti  nei  modi.  Noi  nim  lo  fju^ciamo  ohe alla  fine  di  questo  paragrafo,  perchè  la  prova  potissima  di  que- sto punto  della  metatìsioa  di  Spinoza  si  ha  dal  confronto  della dottriua  di  cui  abbiamo  parlato  verso  la  line  del  paragrafo  24, che  la  cosa  estesa  e  la  iosa  pensante  sono  due  aspetti  o  due espressioni  ditì'erenti  di  una  sola  e  stessa  cosa,  con  la  dottrina che  ha  formato  l'argomento  del  paragrafo  precedente  e  di  que- sto pariigrafo.  che  il  reale  risulta  da  astrazioni  realizzata,  e  che per  conseguenza  ciò  che  è  comune  a  molte  cose  è  riguardato come  una  realtà  distinta,  unica  in  se  stessa,  ma  presente  al tempo  stosso  in  ciascuna  di  queste  cose.  La  sola  maniera  pos- sibile d'intendere  la  prima  dottrina  è  che  vi  ha  nelhi  cosa  estesa e  nella  cosa  pensamte,  oltre  agli  attributi  propri  in  cui  differi- scono, una  essenza  comune  in  cui  sono  identiche,  e  che  questa essenza  comune  della  cosa  estesa  e  della  cosa  pensante  è  un'en- tità unica,  esistente  per  se  stessa  e  <4ie,  senza    perdere    la  sua —  457  — §  28.  Noi  abbiamo  incontrato  nel  corso  di  questo  ca- pìtolo diverse  forme  del   realismo  dialettico,  caratteriz- unità  e  senza  dividersi,  è  presente  al  tempo  stesso  nell'  una  e nell'altra— come  l'estensione  è  un'entità  unica,  presente  al  tempo «tesso  nei  suoi  due  modi  immediati,  cioè  la  quiete  e  il  movi- mento, o  l'umanità,  come  cosa  fissa  ed  eterna,  è  un'entità  anica, presente  al  tempo  stesso  in  tutte  le  generazioni  successive  del- l'umanità fenomenale  — .  Questa  dottrina  di  Spinoza  non  sembra suscettibile  di  alcun  altro  senso:  ma  noi  non  siamo  fondati  ad attribuirle  questo,  che  perchè  sappiamo  che  egli  riguarda  1'  a- stratto  come  reale,  e  il  comune  come  separabile  [/woKTTÓt^), cioè  come  un'entità  unica  esistente  per  sé  e  presente  al  tempo Btesso  in  ciascuna  delle  cose  a  cui  si  dice  comune.  Questa  inter- pretazione è  tanto  più  giustificata  ohe,  per  indicare  la  relazione della  cosa  estosa  e  della  cosa  pensante  con  la  cosa  unica  di  cui •esse  sono  i  due  aspetti,  Spinoza  si  serve  degli  stessi  termini  che usa  per  indicare  la  relazione  dei  modi  degli  attributi  con  gli  at- tributi stessi.  Così  egli  dice,  da  una  parte,  che  ogni  cosa,  cioè •ogni  modo  degli  attributi  divini,  certo  et  determinato  modo  ex- primit  l'essenza  di  Dio  o  alcuno  dei  suoi  attributi  {Eth.  p  II Cor.  pr.  25.  Dim.  pr.  36,  p.  II  Def.  I,  I)im.  pr.  1,  Dim,  pr.  5, Cor.  pr.  10,  p  HI  Dim.  pr.  H,  ecc.^  e  dall'  altra  parte,  che  l'e- stensione aliquo  modo  Dei  natnram  exprimit  (Epist.  41.  10  — neXV Etieri  si  dice  più  volte  degli  aitributi  che  esprimono  l'es- senza di  Dio,  p.  e.  nelle  P  I  Dim.  pr.  19  e  nella  P  II  Dim.  pr. I;  ma  in  questi  luoghi  l'essenza  di  Dio  significa  forse  il  com- plesso degli  attributi  stessi,  non  il  loro  substratum  — )  e  ohe  un modo  dell'estensione  e  l'idea  di  questo  modo  sono  una  sola  e «tessa  cosa,  duohus  modis  expressa  (Eth.  p  II  Schol.  pr.  7).  Così pure  noi  troviamo  da  una  parte  :  Deus  qnatenus  per  naturum humanae  mentis  explicatur  (Eth.  p  II  Cor.  pr.  11.  Dim.  pr.  43, p^  V  Pr.  36  e  Dim.).  per  significare:  Dio  in  quanto  è  modificato di  questo  modo  particolare  che  è  la  mente  umann;  e  dall'altra parte  :  Dio  come  e«)sa  pensante  et  non  quatenus  alio  atlrihuto explicatur  (Eth.  p.  II  Pr.,5,  p.  Ili   Dim.  pr.  2);  e  ancora:  ilcir- -  458  — —  459  — zata  ciascuna  dal  modo  differente  di  concepire  le  astra- zioni realizzate.   Questo   modo   è  legato  evidentemente alla  concezione  particolare  del  mondo  propria  a  ciascun autore.  Platone   si   rappresenta   le   astrazioni  realizzate colo  esistente  nella  natura  e  l'idea  divina  di  questo  circolo  sono una  sola  e  stessa  cosa  quae  per  diversa  atirihuta  explieatur  (Etli. p.  II  Schol.  pr.  7  —  nello  S<jhol.  prop.  2  p.  Ili:  la  volizione  e  il naovimento  corporeo  corrispondente  sono  una  sola  e  stessa  cosa, che  chiamiamo  volizione  quando  si  considera  sotto  l'attributo del  pensiero  e  per  esso  explieatur;  nello  stesso  Schol.  pr.  7  p  II: la  sostanza  pensante  e  la  sostanza  estesa  sono  una  sola  e  stessa sostanza,  quae  iam  sub  hoc  iam  sub  ilio  attributo  eomprehenditur — compre htndi tur  ha  evidentemente  lo  stesso  senso  che  explieatur). Questi  termini  exprimit^  explieatur  e  loro  sinonimi,  sia  che  in- dichino il  rapporto  frH  gli  attributi  e  1'  essere  unico  che  essi manifestano,  sia  che  indichino  quello  tra  i  modi  e  gli  attributi, devono  significare,  nell'un  caso  e  nell'altro,  uno  stesso  concetto: la  relazione  fra  le  determinazioni  e  l'indeterminato  di  cui  sono le  determinazioni  (quest'indeterminato  essendo  considerato  come una  realtà,  e  non  come  una  semplice  astrazione). Naturalmente  noi  dobbiamo  attribuire  a  Spinoza,  non  solo  il concetto  che  l'estensione  e  il  pensiero  sono  due  determinazioni  di un  essere  unico  (l'essere  assolutamente  indeterminato)  esistente  per sé  e  presente  nell'una  e  nell'altro,  ma  anche  quello  che  o<;ni  modo dell'estensione  e  il  modo  corrispondente  del  pensiero  nono  due determinazioni  di  una  cosa  unica  (una  modificazione  dell'  essereassolutamente  indeterminato),  pure  esistente  per  se  e  presente nell'uno  e  nell'altro.  Dal  primo  al  secondo  dei  due  concetti  la conclusione  non  è  forzata,  e  Spinoza  la  faceva  perchè  vi  trovava una  spiegazione  della  corrispondenza  fra  il  pensiero  e  la  realtà, e  in  generale  tra  l'ordine  fisico  e  l'ordine  psichico.  L'  esistenza per  sé  d'un 'entità  astratta,  che  è  il  substratum  comune  dell'e- stensione, del  pensiero  e  degli  altri  attributi  (e  che  Spinoza  chiama l'ens  absolute  indeterminatum,  Epist,  41.  8-10).  oltre  che  nei  luo- ghi in  cui  è  quistione  della  dottrina  dell'identità  tra  il  pensiero e  le  cose,  è  indicata  chiaramente  anche  altrove,  e  sovrattutto in  un  luogo  del  trattato  su  Dio  Vaomo  e  In  beat,  in  cui  afferma che  gli  attributi  sono  alla  sostanza  ciò  che  i  modi  sono  agli  at- tributi (p.  22  trad.  frane.  :  «  se  tu  voi  chiamare  sostanze  il  cor- porale e  l'intelletluale  rapporto  ai  modi  che  ne    dipendono,  bi- sogna pure    che  li  chiami    modi    rapporto  alla    sostanza  da    cui dipendono;  perchè  essi  sono  concepiti  da  te,  non  come    esistenti per  se  stessi,  ma  della  stessa  maniera  che  tu  concepisci  volere^ sentire,  intendere,  amare  come  i  modi  di  ciò    che  tu  chiami  so- stanza ])ensante,  a  cui  tu  li  riferisci  come  non  facenti    che  uno con  essa:  donde  io  concludo  che  l'estensione  infinita,  il  pensiero infinito  e  gli  altri  attributi    infiniti  non  sono  niente    altro  che  i modi  di  quest'essere  uno,  eterno,  infinito,  esistente  per  sé,  in  cui tutto  è  uno,  e  al  di  fuori  del  quale  alcuna  unità  non  può  essere concepita  >).   In  questo  luogo  per  sostanza  s'intende  il   substra- tum degli  attril)uti,  che  esiste  per  so,  tndipendentemente   dagli attributi  stessi,  mentre    nell'Etica  la  sostanza    significa    ordina- riamente il  complesso  degil  attributi.  Tuttavia  nella  Dim.  pr.  32 p.  I  per  sostanza  s'intende,  come  nel  luogo  citato  di  Dio.Vuomo e  la  beat.,  qualche  cosa  di  anteriore  agli  attributi,  da  cui  questi derivano,  come  i  modi    derivano  da    essi  («  Che  se    si    suppone una  volontà  infinita,  deve  pure  ad  esistere    e  ad  operare    essere determinata!  da  Dio,  non  in  quanto  è  sostanza  assolutamente  in- finita, ma  in  quanto  ha  un  attributo  che  esprime  1'  essenza   in- finita ed  eterna  del    pensiero  »;  e  per  conseguenza,  la  volontà, anche  infinita,  «  non  più  dirsi  causa  libera,  ma  solo    necessaria o  coatta  ».  Nello  Schol.  alla  prop.  29  ha  detto  che  Dio  h  causa libera  in  quanto  è  natura  niturans,  cioè  in  quanto  è  il  complessso degli    attributi    considerati    d'una    maniera    indeterminata.    Qui vuol  dire  dunque  che  se  la  volontà  infinita  derivasse  immediata- mente dalla  sostanza  assolutamente  infinita,  sarebbe  un  attributo e  farebbe  parte  della  natura  nnturans,  cioè  di  Dio  come  causa Ubera;  ma  derivando  invece  da  un  attributo,  fa  parte  della  na- tura naturata,  e  quindi  non    di  Dio  come  causa    libera). L'esistenza  di  uu'entità  unica,  anteriore  al  pensiero  e  alVesten- —  460  — Del  modo  più  ordinario  del  realismo  —  se  non  del  rea- lismo dialettico  —,  cioè  come  dei  concetti  obbietti  vati, in  altri  termini  come  degli  oggetti  aventi,  nella  forma della  realtà,  il  contenuto  stesso  che  i  concetti  nella forma  della  rappresentazione.  Questi  concetti  obbietti- v^ti  di  Platone  sono  dei  puri   oggetti,  tra  cui  e  i  cou- sione,  e  che  sia  la  radice  comune  dell'uno  e  deirultra,  è  del  resto indispensabile  in  Spinoza,  affinchè  il  suo  sistema  sia  realmente  un monimo  e  non  un  dualismo:  se  non  vi  fosse  qualche  cosa  di  an- teriore, da  cui  l'estensione  e  il  pensiero  derivano,  tutte  le  no- stre idee  non  si  ridurrebbero  ad  un'idea  unica  come  vuole  l'au- tore {De  intellemend.  91,  99  ece.— vale  a  dire,  nou  si  dedurreb- bero da  un'idea  uuioa).  ma  vi  sarrebbero  due  principii.  e  non  un principio  unico.  Quest'argomento  è  tanto  più  forte,  che  l'unità di  principio,  cioè  la  sistematizzazione  completa  di  tutti  i  concetti obbiettivati,  è  un  carattere  comune  del  realismo  dialettico,  che abbiamo  incontrato  in  tutti  gli  altri  rappresentanti  di  questa  forma di  metafìsica.  Quest'unità  di  principio  noi  non  possiamo  attribuir- la a  Spinoza  che  nell'ipotesi  che  egli  ha  ammesso  qualche  cosa  di assolutamente  indeterminato  di  cui  il  pensiero  e  l'estensione  sono le  determinazioni  primitive  ;  e  viceversa,  in  quest'ipotesi,  noi dobbiamo  attribuirgliela  necessariamente.  Se  Spinoza  ha  ammesso questa  qualche  cosa  di  assolutamente  indeterminato,  egli  non  ha potuto  non  vedervi  il  principio — nel  senso  logico  ed  ontologico  che questo  lerniine  ha  nel  realismo  dialettico  —  dell'  estensione  e del  pensiero  e  di  tutti  gli  altri  attributi  divini  (benché  nell'E- tica ammetta,  per  il  motivo  indicato  nella  nota  3  a  p.  418,  che  la deduzione  non  deve  partire  che  dagli  attributi).  Nel  suo, sistema, e  nel  realismo  dialettico  in  generale,  il  più  concreto  deriva,  cioè  si deduce,  dal  più  astratto  di  cui  è  una  determinazione  :  la  causa prima  e  il  principio  logico  primo  deve  essere  dunque  1'  essere assolutamente  indeterminato,  da  cui  il  pensiero  e  1'  estensione indeterminati  devono  dedursi.  come  tutte  le  altre  cose  si  dedu- cono dal  pensiero  e  l'estensione  indeterminati. —  461  — cetti  stessi  non  vi  ha  altro  rapporto  che  quello  che  la cosa  rappresentata  ha  con  la  sua  rappresentazione:  inol- tre essi  non  hanno  gli  uni  con  gli  altri  altro  legame  ne- cessario che  quello  derivante  dai  rapporti  di  contenenza tra  i  concetti,  per  cui  le  Idee  generiche  accompagnano necessariamente  le  Idee  specitìche,  che  le  contengono come  loro  parti.  Le  astrazioni  realizzate  del  Taine  sono dei  concetti  obbiettivati  e  dei  puri  oggetti,  cioè  distinti dal  pensiero,  come  quelle  di  Platone;  ma  esse  non  esi- stono ciascuna  per  sé  come  queste,  ma  formano  delle coppie,  ognuna  delle  quali  costituisce  una  legge  della natura.  La  difterenza  tra  queste  due  forme,  la  più  an- tica e  la  più  moderna,  del  realismo,  corrisponde  eviden- temente alla  dirtereuza  tra  la  concezione  onjamcista  del mondo  (1),  così  naturale  al  punto  di  vista  della  scienza antica,  e  la  concezione,  che  si  può  chiamare  in  un  senso lato  meccanica,  della  scienza  moderna,  che  vede  nei  fe- nomeni, non  la  manifestazione  dell'essenza  o  natura  par- ticolare a  ciascuna  specie  di  esseri,  ma  il  risultato  di  un rigoroso  determinismo  causale,  governato  da  leggi  co- stanti e  universali.  Le  astrazioni  realizzate  di  Hegel  non sono  solamente  l' obbietti vazione  dei  concetti,  ma  sono identiche  ai  concetti  stessi,  e  non  dei  puri  oggetti  come quelle  di  Platone.  È  che  Platone,  come  tutti  i  filosofi antichi,  divide  ingenuamente  la  credenza  naturale,  che dà  agli  oggetti  un'  esistenza  assoluta,  indipendente  dal soggetto  percepente;  mentre  Hegel  identifica  la  realtà col  pensiero  —  con  un  pensiero  permanente  e  assoluto, cioè  indipendente  da  un  soggetto  pensante  particolare—, per  conciliare  la  credenza  naturale  dell'  esistenza  asso- luta degli  oggetti  col  risultato  della  moderna  teoria  della (1)  V.  ^  19  nota  ultima. —  462  - conoscenza  che  gli  oggetti    non    esistono  che  in  quanto sono  conosciuti.  Le  astrazioni   realizzate  di  Spinoza  dif- feriscono da  quelle  dei    filosofi   precedenti,  perchè  non sono,  come  esse,  dei  concetti  obbietti  vati.  Questa  diffe- renza è  legata  alla  dottrina  spinozista  dell'  unità  di  so- stanza,  cioè  al  suo  panteismo,  che  è  una  conseguenza del  parallelismo  psico-fisico,  quale  lo  comprende  questo filosofo  (1).  I  concetti  obbiettivati  suppongono  l'uno  nei molti,  cioè  che  ciascuno   si  realizzi  in  una  moltitudine di  oggetti  particolari  :  ciò  che   implica  una  moltiplicità di  esseri,  e  non    un   essere   unico  come  vuole  Spinoza. Oltre  che  nelle  forme  differenti  con  cui  si  nappresentano le  astrazioni  realizzate,  le  diverse  concezioni  del  mondo dì  questi  filosofi  si  riflettono  pure  nelle  forme  differenti del  loro  metodo,  cioè  della  dialettica.  Alla  concezione organicista  di  Platone  corrisponde  la  sua  dieresi,  (juesta olassazione  a  gradi  multipli,  di  cui  egli  fa  la  legge  uni- versale delle  Idee,  avendo  la  sua  applicazì(me  più  evi- dente nel  mondo   degli    esseri    viventi.  La  gerarchia  di leggi  del  Taine   somiglia  alla  gerarchia  di  tipi  di  Fia- tone, ma  si  oppone  a  questa  come  alla  concezione  orga- nicista  antica  si  oppone  la  concezione  meccanica  moder- na, che  sostituisce  alla  essenza  o  forma  la  legge  (cioè  il rapporto    uniforme   di    sequenza  o  coesistenza  tra  feno- meni), e  vede   nelle   leggi    particolari   dei  fenomeni  dei casi  di  leggi  più    universali.  Il  concetto  cardinale  della dialettica  hegeliana  che  gli  opposti  si  chiamano  e  si  danno l'uno  con  l'altro,  dipende  evidentemente  dalla  sua  dot- trina dell'identità  dell'essere  e  del  pensiero,  perchè  esso trasforma  in  legge  ontologica  delle  cose  una  legge  psi- cologica dei  pensieri.   Spinoza,  conformemente  alla  sua dottrina  dell'unità  di  sostanza,  per  cui  egli  vede  in  tutti i  generi  di  esistenza  degli  attributi  o  proprietà  di  un essere  unico,  ammette  che  le  cose  si  deducono  dal  primo principio  (cioè  dalla  essenza  o  definizione  della  sostanza) come  le  proprietà  di  un  oggetto  (p.  e.  di  una  forma  geo- metrica) si  deducono  dalla  essenza  o  definizione  di  que- flt'  oggetto. Ma  malgrado  le  differenze  fra  i  diversi  sistemi,  si  rivela in  tutti  una  nniià  di  piano,  una  vera  omologia  (1),  tanto  più colpente,  che  essa  non  si  spiega  per  un  legame  storico,  per una  filiazione  degli  uni  dagli  altri  o  da  uno  stipite  comu- ne—ed in  ciò  questa  omologia  differisce  da  quella  dei  natu- ralisti -,  ciascun  sistema  essendosi  prodotto  indipendente- mente dai  sistemi  precedenti  (salvo  un  certo  rapporto  del Taine  con  Hegel),  e  senza  anche  che  l'autore  (salva  ancora l'eccezione  di  cui  sopra)  avesse  una  conoscenza  sufficiente dei  sistemi  precedenti.  Spinoza  e  Taine  interpretano  Pla- tone alla  maniera  trasceudentalista  {cioè  riguardano  le  Idee come  poste  fuori  delle  cose),  e  non  mostrano  di  avere alcun  sospetto  del  vero  significato  della  sua  dialettica; Hegel  non  comprende  né  la  dialettica  di  Platone  né  quella di  Spinoza,  perchè  fa  consistere  quella  del  primo  nella sua  propria  dottrina  dell'  identità  degli  opposti,  e  rim- provera al  secondo  che  egli  non  applica  alla  filosofia che  il  metodo  matematico  (che  per  Spinoza  non  conviene che  alla  conoscenza  del  secondo  genere),  e  che  nel  suo sistema  tutto  è  inghiottito  dalla  sostanza  come  in  un abisso,  senza  che  essa  produca  niente  di  reale  e  di  po- sitivo (2)  (ciò  che  mostra  che  Hegel  non  comprende  che Spinoza  fa  derivare  le  altre  cose  dalla  sostanza,  per  una filiazione   al   tempo   stesso   logica    ed   ontologica  come (1)  V.  {  23. (2)  V.  Logica  4  151. 464  — quella  del  metodo  dello  stesso  Hegel).  Questa  omologia^ questa  unità  dj  piauo,  dimostra  che  la  spiegazione  delle cose  in  cui  consiste  il  realismo  dialettico,  è  una  di  quelle predeterminate,  per  così  dire,  dalla  struttura  stessa  del- l'intelligenza umana:  essa  infatti  è  il  prodotto  del  con- cetto inevitabile,  per  quanto  illegittimo,  di  causazione efficiente  —  coi  caratteri,  tiinte  volte  indicati,  di  neces- sità,  di  evidenza  intrinseca  e  di  esplicabilità  radicale degli  effetti  per  le  cause —  e  dell'analogia  tra  una  con- nessione d'idee,  ohe  rappresenta  un  rapporto  tra  fenor meni  realmente  o  apparentemente  razionale  e  necessario^ e  la  connessione  tra  il  principio  e  la  conseguenza  nella deduzione;  analogia  che,  oltre  alla  teoria  della  causalità che  è  l' idea  madre  del  realismo  dialettico,  dà  luogo  a quella  che  nel  Saggio  1"  abbiamo  chiamato  dottrina  ana- litica dei  (fiudizi  a  priori,  perchè  anche  questa  è  fondata nella  confusione  e  l'identificazione  di  ({ueste  due  connes- sioni mentali  analoghe  (1). È  notevole  che  in  tutti  i  sistemi  alla  spiegazione  del realismo  dialettico  è  congiunta  una  o  un'  altra  forma dell'  antropomorfismo.  Queste  forme  variano  secondo  le diverse  concezioni  del  mondo  a  cui  sopra  abbiamo  ac-cennato. Alla  concezione  organicista  di  Platone  corri- sponde ripotesi  teologica  dell'  anima  del  mondo,  perchè il  concetto  delle  cause  finali  nasce  naturalmente  dalla considerazione  degli  esseri  organizzati.  Nel  Taine  tro- viamo invece  il  panpsichismo,  questo  e  1'  ilozoismo  es- sendo le  sole  forme  dell'  antropomorfismo  che  possano accordarsi  con  la  concezione  meccanica.  Hegel  è  un  idea- lista^ cioè  vede  nelle  cose  il  prodotto  dell'  attività  del pensiero,  questa  spiegazione  essendo  la  più  ovvia  quando (l)  V.  Saggio  lo,  oap.  4o,  $  18. -  465 delle  cose  non  si  fìinno  che  delle  rappresentazioni.  In quanto  a  Spinoza,  la  sola  concezione  antropomorfìstica che  possa  permettergli  il  suo  [uincipio  del  parallelismo psicofisico,  è,  non  una  spiegazione  propriamente  detta fondata  sull'  antropomorfismo,  cioè  che  spiega  le  cose considerandole  come  prodotte  da  un'attività  analoga  al- l'attività umana,  ma  la  presenza  in  tutte  le  cose  dell'a- nima (^  del  pensiero,  il  fatto  fisico  non  essendo  l'effetto del  fatto  psichico,  ma  essendone  semplicemente  accom- pagnato. Questa  unione  del  realismo  dialettico  con  altre  forine di  spiegazione  metafisica  —  all'  antropomorfismo,  nei  si- stemi di  Spinoza  e  di  Taine,  sì  aggiunge  anche  l'/mpw^ sionismo  —  si  comprende  facilmente  per  il  carattere  par- ticolare di  questa  filosofìa.  Piuttosto  che  una  spiegazione delle  cose,  essa  dà  un  sembiante  di  spiegazione  —  inten- dendo per  spiegazione  un'ipotesi  che,  quantuncpie  insus- sistente, dà  una  soddisfazione  al  bisogno  di  conoscere  le cause  elidenti  — ;  si  potrebbe  paragonarla  ad  Issione,  che stringe  la  nuvola  invece  della  dea.  La  causazione  effi- ciente, secondo  il  concetto  immediato  ed  istintivo,  non è  che  una  specie  di  sequenza  invariabile;  la  produzione delle  cose,  di  cui  si  tratta  nel  realismo  dialettico,  imita i  caratteri  per  cui  una  causazione  efficiente  si  distinguedalle  altre  causazioni,  ma  non  è  più  una  sequenza  tia fenomeni;  ai  fenomeni  sono  sostituite  delle  entità,  e  alla successione  nel  temi)o  una  successione  puramente  logica. Come  queste  entità  sono  le  immagini  dei  fenomeni  a  cui si  sostituiscono,  così  la  loro  produzione  è  un'immagine della  causazione  :  il  realismo  dialettico  mette  i  simulacri al  posto  delle  cose  stesse;  a  ciò  che  darebbe  una  soddisfa- zione al  bisogno  di  conoscere  le  cause  efficienti  sostituisce un  succedaneo,  e  gode  dell'immagine,  n<m  potendo  pos- sedere la  realtà.    Evidentemente  se  il  realista  dialettico 30 —  466  — ricorre  a  uu  sistema  sì  poco  naturale,  è  perchè  egli  non può  immaginare  un'  applicazione  completa  tlel  concetto di  causalità  efficiente  in  un  mondo  di  realtà  concrete  e particolari  :  non  potendo  concepire  le  cose  nel  modo  con- forme alle  tendenze  spontanee  del  nostro  spirito,  cerca di  concepirle  in  un  modo  quanto  più  è  possibile,  somi- gliante, costruendo  una  nuova   forma  di  causalità  effi- ciente ad  imitazione  della  forma  immediata  ed  istintiva. Il  realismo  dialettico  e  la  teoria  della  causalità  su  cui esso  è  fondato,  sono  degli  effetti  della  tendenza  naturale dello  vspirito  umano  ad  assimilare,  più  che  può,  le  sue nozioni    ulteriori  e  riflesse   sulle   cose    alle   sue  nozioni spontanee  e  immediate.    Questa  è    un   caso  di  una  ten- denza più  generale,  che  è,  secondo  me,  l'origine  di  tutti i  concetti    metafisici,  cioè  ad  assimilare  tutte  le  nostre rappresentazioni  a  quelle  che  ci  sono  le  più  abituali.  La tendenza  ad  assimilare  tutti    i  fenomeni  a  quelli  che  ci sono  i  più  familiari  —  per  cui  abbiamo  spiegato  1'  ori- gine   del  concetto    di    causalità    efficiente  —  non  è  che un   altro  caso  della  stessa  tendenza  generale.  Un  altro caso  ancora  è  la  ripugnanza  ad  ammettere  certe  verità scientifiche  che  ci  forzano  a  formarci  dei  fatti  delle  rap- presentazioni contrarie  alle  abituali  (p.  e.  il  movimento della   terra  o  V  azione   fisica   a    distanza),  e  lo  sforzo  a trovare  dei  compromessi  tra  queste  verità  e  le  nozioni abituali  che  esse  contrariano  (p.  e.  l'ipotesi  di  Tico-Bra- he  che   i  pianeti    volgono   attorno  al  sole,  ma   il    sole con  tutti  i  pianeti  attorno  alla  terra,  o,  in  un  altro  or- dine d'idee,  la  dottrina  di  Kant  della  libertà  noumenale, mentre  gli  atti  del  me  fenomenale  sarebbero  soggetti  a  un determinismo  rigoroso).  Un  effetto  inevitabile  di  questa tendenza  generale  dello  spirito  umano  è  che,  quando  non si  può  ammettere,  nella  sua  integrità,  qualcuno  di  quei concetti  che  sono  i  risultati  di  certi   processi  spontanei e  istintivi  della  nostra  intelligenza,  s'immaginano  delle —  467  - dottrine  filosofiche  che,  quantunque  non  riproducano  per- fettiimente  questo  concetto,  permettono  di  concepire  le cose  nel  modo,  più  che  è  possibile,  analogo.  È  ciò  che io  ho  detto:  assimilare  le  nozioni  ulteriori  e  riflesse  sulle cose  alle  nozioni  spontanee  e  immediate.  Il  miglior  e- sempio  di  quest'assimilazione,  come  fondamento  di  con- cetti metafisici,  sono  tutte  le  dottrine  dei  metafisici  su- gli oggetti  est^eriori.  La  dottrina  delle  monadi,  della Volontà  di  Schopenhauer,  dell'inconoscibile,  e  in  una  pa- rola tutte  le  ipotesi  trascendenti  sulla  natura  delle  cose non  liaono  altro  motivo  che  di  fare  risorgere, sotto  una  nuova  forma,  il  concetto  naturale  ed  istintivo della  cosa  in  sé  che  non  è,  in  questa  sua  forma  imme- diata,  che  la  pura  e  semplice  obbietti vazione  delle  no- stre sensazioni.  Il  realismo  trasfigurato  del  metafisico  — noi  intendiamo  per  questo  termine  tutte  le  forme  tra- scendenti del  realismo  —  non  è  che  un  succedaneo  del realismo  naturale.  Discutere  il  valore  di  (jnesta  forma riflesso,  del  realismo  non  appartiene  all'argomento  della prima  parte  di  questo  Saggio,  ma  a  quello  della  seconda: noi  possiamo  tuttavia  affermare,  come  un  fatto  psicolo- gico evidente,  che  la  forza  con  cui  s'impone  al  nostro spirito  non  sta  tanto  negli  argomenti  su  cui  si  appog- gia, quauto  nella  sua  analogia  col  realismo  istintivo.  La è  la  ripugnanza  nat»irale  ad  ammettere  la  dottrina di  Stuart-Mill  —  che  tuttavia  è  il  risultato  inevitabile della  filosofia  dell'esperienza  —  che  la  materia  si  riduce a  sensazioni  e  possibilità  di  sensazioni  :  questa  tlottrina si  respinge  senza  esame,  perchè  troppo  contraria  alle nostre  credenze  istintive.  Dopo  che  la  riflessione  scien- ha  distrutto  la  credenza  naturale  che  esistono, fuori  del  nostro  spirito,  degli  oggetti  estesi,  c<dorati,,  ecc.,  e  che  sono  (juegli  stessi  che  costituiscono l'oggetto  immediato  delle  nostre  sensazioni,  noi  sentiamo il  bisogno  di  sostituire  a  questi  oggetti  qualche  cosa  di -  468  — analogo:  di  là  tutte  queste  teorie  (dimamismo,  paupsi- chÌ8ino,  teoria  dell'  inconoscibile,  ecc.)  più  o  meno  dif- formi dalla  credenza  naturale,  ma  die,  quantunque  non la  riproducano  né  in  tutto  né  in  parte,  le  sono,  quanto più  é  possibile,  somiglianti  (1).  È  un  effetto  della  ten- denza indicata  del  nostro  spirito,  ad  assimilare  le  con^ cezioni  ulteriori  e  riflesse  sulle  cose  alle  concezioni  spon- tanee e  immediate.  Come  altri  esempi  di  questa  tendenzii possiamo  citare  la  dottrina  della  percezione  immediata in  tutte  le  sue  forme  filosofiche  —  perchè  nessuna  di  que- ste si  conforma  alla  credenza  naturale  che  i  nostri  sensi colgono  immediatamente  gli  oggetti  esteriori,  ma  non  fa che  assimilarvisi—,  e  le  dottrine  degl'irfo/f,  emanati  dagli oggetti,  di  Democrito  e  di  Epicuro,  delle  specie  inten- zionali di  alcuni  scolastici,  delle  immagini  nel  cervello  di molti  fra  i  primi  filosofi  moderni,  alle  quali  si  può  an- che aggiungere  quella  seconrio  cui  le  idee  sono  degli  og- getti esistenti  nel  nostro  spirito,  ma  distinti  dalla  per- cezione che  se  ne  ha  (2),  perchè  anche  questa  non  è,  come le  precedenti,  che  un'  assimilazione  al  modo  istintivo  di rappresentarci  il  fatto  della  percezione  e  del  pensiero, cioè  come  una  fissazione,  uno  sguardo,  della  coscienza su  un  soggetto  esteriore  alla  coscienza  stessa  (3).  Io  mo- strerò nella  3*  parte  un  altro  esempio  della  stessa  ten- denza nelle  dottrine  filosofiche  sul  bene  assoluto  (che e  l'idea  fondamentale  di  quasi  tutti  i  sistemi  di  etica): (!)  Vi'v.  SiijiKio  lo  cap.   IX,  $  7  e  8  e  pajr.  5f»8-;ìfi9. (2)  Lirclerc,  Bnicker,  Genovesi,  ecc.  A  questi  potremuio  uuire i  tilosoH  scozzesi,  Koyer-Collard.  ecc.,  che  fauno  della  cosoieuza stessa  uu  che  <li  distinto  dai  fenoiueui  psichici  di  cui  si  ha  la iCoscieu/a. (3)  CIV.  Sa^jiio  l",  pajr.   10  e  .521. —  469  — queste  non  sono  che  un'assimilazione  alla  credenza  istin- tiva della  morale  assoluta  —  la  quale,  per  un  efietto  del- l' altra  tendenza  ad  assimilare  tutti  i  fatti  a  quelli  che ci  sono  i  più  familiari,  considera  le  nostre  nozioni  mo- rali come  comuni  a  tutti  gli  uomini  e  a  tutti  gli  esseri che  immaginiamo  sul  tipo  umano,  e  come  evidenti  per se  stesse  —  dopo  che  questa  credenza,  in  questa  sua  forma immediata,  è  stata  distrutta  dalla  riflessione  scientifica. Il  realismo  dialettico  nasce  dunque  dal  concorso  di  que- ste due  tendenze  naturali  del  nostro  spirito:  quella  per cui  assimiliamo   tutti  i  fenomeni  a  quelli  che  ci  sono  i più  familiari,  e  quella  per  cui  assimiliamo  le  concezioni ulteriori  e  riflesse  sulle  cose  alle  concezioni  spontanee  e primitive.  Per  un  effetto  della   prima  tendenza  noi  am- mettiamo che  ogni  fenomeno  ha  una  causa  e^ciente,  cioè che  spieghi  l'effetto  d'una  maniera  esauriente  (nel  senso popolare  e  metìifisico  della  parola  spiegazione)  ed  abbia con  esso  un  legame   necessario  ed  evidente  intrinseca- mente. Per  un  effetto  della  seconda,  quando  non  si  può immaginare,  nel  mondo  delle  realtà  concrete,  un'appli- cazione sufficiente  di  questo  concetto  istintivo  della  cau- salità, si  realizzano  le  astrazioni  e  s' introduce  fra  queste astrazioni  realizzate  un  incatenamento  logico  continuo, considerando  il  principio  logico  come  causa  e  la  conse- guenza come  effetto.  Ciò  si  fa  perchè  il  principio  logico, quando  i  principii  e  le  conseguenze    sono   delle  entità, diviene  anche  un   principio  ontologico,  e  nel  rapporto tra  questo   principio  e  le  conseguenze    che   se  ne  fanno derivare,  si  trovano  i  caratteri  che  distinguono  una  cau- sazione efficiente  da  una   semplice  causazione  empirica o  sequenza   invariabile.   Piuttosto  che  un'  assimilazione alle  causazioni  familiari    da  cui  ci  è  venuto  il  concetto istintivo  di  causazione   efficiente,   la  teoria  della  cau- salità del  realismo  dialettico  è,  se  mi  è  lecito  di  dir  così, un'  assimilazione   a  quest'  assimilazione.  Tuttavia  sono —  470  — queste  causazioni  familiari  il  tipo  primitivo  su  cui  sono modellate  le  causazioni  del  realista  dialettico;  tipo  con cui  non  hanno  necessariamente  che  una  vaga  somiglian- za, quale  le  ombre  della  caverna,  nell'  allegoria  del  pa- dre del  realismo  dialettico  —  che  noi  dobbiamo  prendere a  controsenso  —  potevano  avere  con  le  cose,  dei  cui  si- mulacri erano  le  ombre. APPENDICE  DELLA  PARTE  PRIMA CAPITOLO  I Nihil  oritup,  nihil  interit. §  1.  La  nozione  di  causa  efficiente  con  le  sue  ap- plicazioni è  la  manifestazione  incomparabilniento più  importante  della  tendenza  naturale  del  nostro spirito  ad  assimilare  tutti  i  fenomeni  a  quelli  che ci  sono  i  più  familiari:  ma  la  metafisica  ci  presenta altre  manifestazioni  di  questa  tendenza,  di  cui  una non  può  non  formare  un  oggetto  speciale  del  nostro studio,  per  il  gran  posto  che  essa  non  ha  mai  ces- sato di  tenere  nella  storia  del  pensiero. Se  noi  div^idiamo  tutti  i  fenomeni  della  nostra esperienza,  vale  a  dire  tutta  la  massa  delle  perce- zioni che  noi  abbiamo  avute  sin  dal  primo  momento della  nostra  esistenza,  in  due  grandi  categorie,  met- tendo nell'una  tutte  le  esperienze  che  ci  hanno  mo- strato un  cangiamento  nelle  proprietà  delle  cose,  vale a  dire  nei  caratteri  per  cui  noi  distinguiamo  le  cose particolari  e  il  cui  complesso  si  chiama  V  essenza d'una  cosa,  e  mettendo  nell'altra  le  esperienze  che €i  hanno  presentato  le  cose  con  le  stesse  proprietà IV f 1    / I che  essi  ci  avevano  prima  mostrato,  è  evidente  che quelle  della  seconda  categoria  sono,  senza  compa- razione, le  più  frequenti,  le  più  familiari.  Inoltre, se  noi  facciamo  un'altra  divisione  in  questa  massa totale  delle  nostre  esperienze,  riunendo  in  una  classe tutte  quelle  che  ci  hanno  presentato  un  cangiamento in  qualsiasi  qualità  delle  cose  (e  non  semplicemente nei  loro  caratteri  distintivi,  essenziali),  e  in  un'altra tutte  quelle  che  ci  hanno  presentato  un  non cangiamento  qualitativo  e  niun  altro    cangiamento che  nelle  posizioni  reciproche  delle  cose,  è  evidente ancora  che,  quantunque  la  differenza  numerica  tra le  due  classsi  non  sia  in  questo    caso    così   grande come  nel  caso  precedente,  la  seconda  classe  sorpassa di  gran  lunga  la  prima  per  la  frequenza  o  fa- miliarità dei  fenomeni  (si  devono  anche  compren- dere sotto  la  parola  fenomeno  le  esperienze  di  un assoluto  non  cangiamento).  Perchè  la  verità  di  queste osservazioni  venga  pienamente  compresa,  non  sarà forse  inutile  di  far  notare,  primo,  che  di  una  gran parte  dei  cangiamenti  che  noi  osserviamo  nella  na- tura gli  antecedenti  sfuggono  alla  nostra  percezione attuale  —  p.  e.  noi  vediamo  cadere  la  pioggia  ma  non vediamo   la   trasformazione   del   vapore   in  acqua; noi  vediamo  il  lilo  d'erba  sorgere  dal  suolo,  ma  non vediamo  la  trasformazione  del  germe  in  filo  dYn'ba— e  che  in  questi  casi  perciò  il  cangiamento  delle  pro- prietà non  deve  contarsi  fra  le  nostre   esperienze  ; e  secondo,  che  la  più  parte  dei  cangiamenti  quali- tativi delle  cose  non  si  producono  che  mediante  una gradazione  continua,  impercettibile— p.  e.  il  fanciullo cresce,  il  giovane  invecchia,  ma  senza  che  noi  ab* biamo  mai  attualmente  la  percezione  del  cangiamento, il  quale  non  è  conosciuto  che  dalla  riflessione  che <5onipara  degli  stati  separati  da  lunghi  intervalli  — sicché,  in  questi  casi,  le  percezioni  stesse  che  ci  ven- gono dagli  esseri  sottoposti  ad  un  continuo  cangia- mento, vanno  ad  accrescere  nel  fatto  la  massa  delle esperienze  del  non  cangiamento,  e,  per  conseguenza la  forza  che  questa  massa  esercita  sulle  associazioni tra  le  nostre  idee.  La  conseguenza  di  ciò  che  ab- biamo detto  è  che,  conformemente  alla  tendenza  ge- nerale ad  assimilare  ciò  che  ci  è  meno  familiare  a ciò  che  ci  è  più  familiare,  noi  siamo  naturalmente inclinati  ad  ammettere  che  il  fondo  dell'essere  è  per- manente, immutabile,  e  che  il  cangiamento  non  è che  superficiale  o  anche  apparente,  e  a  spiegare  la natura,  partendo  dalla  ipotesi  che  non  vi  ha  mai in  realtà  un  cangiamento  nella  essenza  del  reale, in  altri  termini  che  niente,  al  fondo,  nasce  né  muore, o  anche  dalla  ipotesi  più  radicale  che  non  vi  ha  mai nelle  cose  un  cangiamento  qualitativo,  intrinseco, ma  il  cangiamento  si  riduce  al  mutamento  dei  rap- porti reciproci  di  posizione  e  non  attinge  mai  le  cose in  se  stesse.  La  tendenza  a  concepire  le  cose  di  questa maniera  è  cosi  naturale  al  nostro  spirito,  che  essa si  mostra  anche  nelle  nostre  metafore  più  ordinarie —  il  piacere  che  dà  una  metafora  è  forse  dovuto  in a  una  soddisfazione  del  profondo  bisogno  della nostra  intelligenza  di  identificare,  di  assimilare  — e  nelle  forme  più  abituali  dei  linguaggio:  p.  e.  si dice  che  la  scintilla  si  sprigiona  dalla  selce,  e  la  pa- rola sviluppo  o  evoluzione  serve  ad  indicare  i  can- giamenti ordinati  che  si  producono  in  un  tutto,  come VI VII se  ciò  che  viene  in  seguito  fosse  già  contenuto  in ciò  che  era  prima,  d'una  certa  maniera  latente,  in- viluppata. §  2.  L'  esempio  forse  più  notevole  del  sofisma  a priori  dì  cui  parliamo,  lo  troviamo  nel  primo  periodo della  filosofia  greca,  cioè  nei  fisici  ionici  e  negli oleati.  Ciò  che  questi  filosofi  si  propongono  in  primo luogo,  è  la  ricerca  dell'essenza  immutabile  delle  cose, del  fondo  permanente  dell'essere  che  non  attinge  il cangiamento.  Siccome  la  tendenza  filosofica  che  ca- rattorizza  questo  periodo  del  pensiero  ellenico  non è  messa  sufficientemente  in  luce  dagli  espositori- più  desiderosi  di  trovare  una  connessione  logica nella  successione  dei  concetti  filosofici  che  di  com- prendere la  loro  derivazione  dalle  disposizioni  na- turali dello  spirito  umano  —  noi  dobbiamo  darne un'esposizione  al  nostro  punto  di  vista,  esposizione che  sembrerà  forse  troppo  diffusa  per  il  soggetto  di questo  scritto,  ma  noi  saremo  nella  necessità  di  giu- stificare le  affermazioni  che  avanzeremo. Noi  sappiamo  da  Aristotile  che  il  principio  co- mune di  tutti  i  fisici,  ammesso  da  loro  come  una ptuposizione  assiomatica,  è  che  l'essere  non  può venire  dal  non  essere  né  ridursi  al  non  essere.  11 senso  di  questa  proposizione  non  è  semplicemente che  la  materia  non  può  crearsi  dal  niente  ne  di- ventare niente,  ma  anche,  come  ci  spiega  lo  stesso Aristotile,  che  le  cose  non  possono  cangiare  di  na- tura, cioè  che  delle  cose  aventi  una  natura  deter- minata non  possono  cangiarsi  in  altre  di  una  na- tura differente,  o,  per  parlare  il  linguaggio  di  questo e  di  quelli  di  cui  egli  espone   le   opinioni» I I che  gli  esseri  non  possono  né  nascere  né  perire, che  non  vi  ha  in  realtà  né  generazione  né  corru- zione (1).  I  diversi  sistemi  dei  fisici  non  sono,  an- zitutto, che  delle  realizzazioni  differenti  di  questo principio  generale,  a  tutti  comune. La  maniera  più  chiara  e  più  coerente  di  realiz- zare questo  principio  è  quella  seguita  dai  fisici  che il  Bitter  chiama  iììeccanisù\  cioè  di  ammettere  una pluralità  di  sostanze  qualitativamente  immutabili, e  di  cui  non  cangiano  che  i  reciproci  rapporti  nello spazio.  Dal  principio  che  l'essere  non  può  comin- ciare né  finire  questi  fisici  ne  concludono  così,  non solo  l'immutabilità  della  natura  o  essenza  delle  cose, ma  la  loro  assoluta  immutabilità  qualitativa:  e  in verità  non  vi  ha  tra  le  due  specie  di  mutazioni  una distinzione  precisa,  le  qualità  non  potrebbero  net- tamente separarsi  in  due  categorie,  le  une  essenziali, le  altre  non  essenziali.  Per  altro  Timmutabitità  delle qualità,  così  bene  che  T immutabilità  dell'essenza, era  anch'essa  compresa  nel  senso,  necessariamente vago  ed  ondeggiante,  dell'assioma  dei  fisici^  questa proposizione  (a  parte  l'enunciazione  che  essa  rac- chiude della  persistenza  della  materia)  essendo  l'e- spressione di  questa  oscura  tendenza  del  nostro  spi- rito che  ci  spinge  a  ricondurre  più  che  possiamo il  fenomeno  meno  familiare,  che  è  il  cangiamento nello   stato    delle  cose,  al  fenomeno  più  familiare^ (1)  V.  Arlst.  Phys  1.  I  VIU;  1.  I.  IV.  2-3;  i^et.  1.  I.  III.  2-3,  t 1.  m.  V.   3;  1.   X.  VI.  14,  ecc. vili che  è  la  loro  persistenza  nello  stesso  stato.  La  fisica meccanista  si  presenta  in  una  forma  più  primitiva  — perchè  conforme  alla  credenza  spontanea  della  ob- biettività di  tutti  i  dati  della  percezione  sensibile  — -e  al  tempo  stesso  più  metafisica  —  per  le  ipotesi  tra- scendenti sulle  forze  motrici  —  in  Anassagora  ed Empedocle;  negli  atomisti,  in  una  forma  più  scien- e  rigorosamente  naturalista,  che  l'ha  resa  su- scettibile di  sopravvivere  a  tutti  gli  antichi  concetti filosofici,  e  di  ritrovarsi,  la  stessa  per  il  fondo,  nella scienza  moderna. Empedocle  ammette,  come  tutti  sanao,  quattro  so- stanze materiali  :  la  terra,  l'acqua,  l'aria  e  il  fuoco^ <5he  sono  le  forme  più  comuni  e  al  tempo  stesso  più inarcatamente  differenti  con  cui  la  materia  si  pre- senta ai  nostri  sensi.  Le  particole  di  queste  sostanze elementari,  cangiando  la  loro  posizione  rispettiva, congiungendosi  e  separandosi,  danno  luogo  a  tutto «ciò  che  vi  ha  di  variabile  nell'universo;  ma  ciascuna sostanza  in  sé  è  sempre  la  stessa,  sempre  simile  a se  stessa  (1).  Empedocle  nel  suo  poema  sgrida  gli stolti  checredono  che  qualche  essere  possa  nuova- mente prodursi  e  poi  cessare  di  esistere;  che  ciò  che non  esisteva  prima  della  nascita  e  non  esisterà  più è  nato  dopo  la  morte.  Ciò  è  un'illusione;  non  vi  ha, a  parlar  propriamente,  né  nascita  né  morte;  non  vi ha  che  congiunzione  e  separazione  di  sostanze  che persistono  sempre  le  stesse,  poiché  Tessere  non  può <1)  V.  Versi  96.97, 128.133  Mullach. V, IX venire  dal  niente  nò  diventare  niente  (1).  Ciò  che gli  antichi  chiamano  alterazione  (cioè  il  cangiamento nelle  proprietà  sensibili,  p.  e.  da  bianco  in  nero,  da caldo  in  freddo,  da  secco  ad  umido,  da  molle  in duro,  e  viceversa)  non  è  al  punto  di  vista  di  Em- pedocle —  e  di  tutti  i  fisici  che  ammettevano  più sostanze  primordiali  —  meno  impossibile  che  ciò  che gli  antichi  chiamano  generazione  e  corruzione  (2); ciascuna  sostanza  conserva  sempre  le  sue  proprietà sensibili  particolari;  come  un  pittore,  con  un  nu- mero limitato  di  colori,  convenientemente  mescolati. (1)  Versi  98-119  Mullach  : AUud  vero  tibi  dlcaiii:  nec  ortus  est  ullius  rerum mortali  uni,  neo  funestae  mortis  interltus, sed  ftola  mlxtio  mixtorum(iue  secretlo, generati©  vero  in  his  rel)us  ab  hominlbun  vocatur. eo  enim.  quod  non  est,  fieri  neqult  ut  quidquam  orlatur, ens  vero  Interire  nullo  pacto  potest; semper  enim  superabit,  nuocumque  quls  illud  propulerlt. Sed  malls  utique  mos  est  diffiderò  veris  ac  legltlmis: tu  vero,  quemadmodum  certa  Musae  nostrae  argumenta  jubent, tenete,  mente  In  praecordlis  divisa. At  UH,  quldciuid  ad  houiluls  slmilitudlnem  mixtum  In  aetheris  lucem [pervaserit vel  ex  agrestlum  anlmantium  genere  vel  fruticum vel  volucrium,  Id  quldem  natum  putant; quum  vero  Illa  secernuntur,  hoc  infaustum  fatum Inepte  appellant,  sed  ad  consuetudinem  ii>se  me  accomodo. 8tultl:  neque  enim  pei-splcax  tpsls  mentis  acìes  est, ut  qui  quod  prius  non  erat  Id  gignl  existiment aut  emorl  aliquld  et  penltus  Intercidere. Neque  vlr  sapiens  tal  la  oplnetur, quamdlu  vivant  mortales,  quam  IllI  certe  vltam  vocant, tamdiu  Ipsos  esse  et  bona  lls  malaque  evenire, antequam  vero  concreti  et  postquam  dissoluti  siut,  nlhil  esse. (2)  Arist,  Qen  et  corr.  1.  I.  I.  6-9.  1.  II.  I.  7,  Met.  1.  I.    III.  7, ecc.  V    anche  Plut  Plac  I.  24,  Stof.  I.  414. X può  riprodurre  tutta  la  varietà  che  noi  osserviamo nella  natura,  così  questa  può  produrre  tutta  questa varietà  mescolando  convenientemente  le  quattro forme  elementari  (1).  Ma  nella  mescolanza  ciascuno degli  elementi  si  conserva  inalterato;  non  vi  ha  fu- sione tra  un  elemento  e  un  altro,  ma  semplicemente juxta  -  posizione  (2).  Secondo  questo  punto  divista le  proprietà  sensibili  del  composto  risultano  dalle proprietà  sensibili  degli  elementi  della  stessa  ma- niera in  cui  il  grigio  risulta  dal  bianco  e  dal  nero. Una  quistione  che  s' impone  necessariamente  ai fisici  meccanisti  è  quella  dell'origine  del  movimento. Essi  non  possono  contentarsi  di  quest'idea  vaga  dei fisici  unizzanti,  loro  predecessori,  secondo  cui  il tutto,  cioè  il  mondo  considerato  nel  suo  insieme, avrebbe  la  proprietà  di  produrre  spontaneamente movimento,  proprietà  che  noi  non  osserviamo nelle  sue  parti,  cioè  negli  elementi  materiali  che lo  costituiscono.  In  queste  noi  non  vediamo  che Vinersia,  l' incapacità  di  passare  da  se  stesse  dalla quiete  al  movimento  (3);  e  sarebbe  contrario  al  prin- .     (I)  Vei-si  134-144  M. (2|  Ai-lst.  De  Geu,  et  Corr,  1.  II. VII.  3;  Galeno  In  Hlppoor.  De fiat,  hojfi.  Comment.   prlin.  al  tento  2,  fìne,  e  al  testo  12. (3)  In  verità  Empedocle  ammette  un  movimento  naturale  dei  corpi pesanti,  come  la  terra,' verso  Jl  basso,  e  del  fuoco  verso  l'alto  (Arlst. De  An.  1.  II.  IV.  7,Gen,et  corr.  1.  II.  VI.  9:  movimento  In  cui  egli sembra  vedere  un  caso  della  tendenza  che  ha  secondo  lui  il  simile ad  unirsi  al  suo  simile,  v.  Versi  M.  262-266,  321-323.  iJ38.3:J9).  Ma  quan- d'anche egli  avesse  ammesso  che  (jnesto  movimento  fosse  dovuto  a una  tendenza  inerente  agli  elementi  stessi  (e  non  alle  forze  motrici di  cui  diremo),  questa  opinione  isolata  di  Empedocle,  come  quelle analoghe  che  gli  altri  fisici  meccanisti  hanno  avuto  o  hanno  potuto avere,  non  può  impedirci  di  attribuir  loro  la  dottrina  dell'Inerzia della  materia,  che  risulta  dairimpresslone  generale  del  loro  sistema. XI cipio  dell'  immutabilità  qualitativa  della  sostanza l'ammettere  che  una  sostanza,  ordinariamente  inerte, possa  acquistare  in  certi  casi  la  proprietà  di  met- tersi spontaneamente  in  movimento.  Supporre  d'al- tronde che  il  mondo,  considerato  come  un  tutto^ abbia  una  spontaneità  di  movimento  che  manca  alle sue  parti  costitutive,  sarebbe  sempre  ammettere  un cangiamento  qualitativo  in  queste  parti,  poiché  è in  esse,  al  postutto,  che  dovrebbe  prodursi  questo movimento  spontaneo  della  cui  facoltà  il  tutto  vor- rebbe supporsi  dotato.  Ne  segue  che  la  produzione del  movimento  non  può  essere  attribuita  agli  ele- menti materiali  :  perchè  essi  fossero  in  certi  casi capaci  di  mettersi  spontaneamente  in  movimento, bisognerebbe,  essendo  essi  qualitativamente  immu- tabili, che  il  movimento,  e  la  stessa  specie  di  mo- vimento, si  producesse  in  essi  costantemente,  cioè d'una  maniera  continua.  Ora,  supposta  l'inerzia  de- gli elementi  materiali,  bisognerà  ammettere  ovvero che  non  vi  ha  mai  produzione  di  nuovo  movimento, e  che  il  movimento  di  un  corpo  è  sempre  dovuto alla  spinta  o  alla  trazione  di  qualche  altro  corpo, ovvero^  se  vi  ha  produzione  di  nuovo  movimento, ch'essa  è  dovuta  a  delle  forze  motrici  distinte  e  se- parate dagli  elementi  materiali.  Empedocle  am- mette la  seconda  di  queste  due  ipotesi  :  così  egli aggiunge  ai  quattro  elementi  materiali  due  forze motrici  (del  resto  concepite  anch'  esse  come  estese nello  spazio  secondo  le  concezioni  semi-materialiste antico  spiritualismo),  cioè  1'  amore  e  l'odio,  di cui  il  primo  è  la  causa  della  riunione  delle  sostanze e  quindi  della  produzione  delle  cose,  e  il  secondo XII della  separazione  delle  sostanze,  e  quindi  della  dis- soluzione delle  cose  (1).  La  dualità  delle  forze  mo- trici è  data  ad  Empedocle  dal  principio  stesso  del- l'immutabilità qualitativa  della  sostanza  :  egli  non comprenderebbe  che  una  stessa  forza  producesse  al- ternativamente i  due  movimenti  contrari  di  attra- zione e  di  repulsione,  di  riunione  e  di  separazione, delle  particole  elementari. Un'altra  quistione,  che  si  presenta  naturalmente al  punto  di  vista  dei  fisici  meccanisti,  è  quella  del- l' origine  della  sensibilità  e  del  pensiero.  Che  la stessa  materia  da  incosciente  diventi  cosciente  e  vi- ceversa è  contrario  al  principio  dell'  immutabilità qualitativa  della  sostanza.  Per  conseguenza  bisogna ammettere  o  che  la  materia  è  sempre  e  in  tutte  le sue  parti  dotata  di  sensibilità  e  di  pensiero;  ovvero che  queste  sono  delle  proprietà  inerenti  sia  a  qual- che sostanza  materiale  particolare,  sia  ad  una  so- stanza diversa  dalla  materia.  Noi  ritroviamo  le tre  differenti  ipotesi  nei  tre  diversi  sistemi  della fisica  meccanista.  L'ipotesi  di  Empedocle  è  la  pri- ma, cioè  egli  ammette  che  ogni  elemento  senta  e pensi  (2);  e  il  principio  dell'immutabilità  della sostanza  è  da  lui  spinto  sino  al  punto  di  non  attri- buire a  ciascun  elemento  che  una  funzione  sen- ed  intellettuale  sempre  invariabile  ed  iden- tica :  ciascun  elemento  non  conosce  che  il  suo  si- mile (secondo  il  principio  di  alcuni  antichi  filosofi (1)  Versi  M.  64-69,  77-87,  126-127,  U9.153, 191  sqq.;  Atlst.  Met.  1.  I. .  2-6,  VII.  3-4,  1.  XI.  X.  5,  Oeìi.  et  corr.  1.  U.  VI.  5  e  sqq,  ecc. (2)  M.   Versi  29S,  378-382. XIII che  il  simile  si  conosce  dal  simile),  e  cosi  anche  noi con  la  terra  conosciamo  la  terra,  col  fuoco  il  fuoco, con  l'amore  1'  amore,  ecc.,  la  sensibilità  ed  intel- ligenza di  un  tutto  essendo  la  somma  delle  sen- sibilità ed  intelligenze  elementari  (1).  L'ilozoi- smo di  Empedocle  è  una  conferma  della  esattezza della  deduzione,  da  noi  data,  della  dottrina  sulle forze  motrici.  Potrebbe  sembrare  infatti  che  l'  ipo- tesi dell'animazione  degli  elementi  materiali  avrebbe dovuto  dispensare  Empedocle  dal  ricorrere  a  delle forze  motrici  distinte  dalla  materia  stessa.  Ma  il problema  della  causa  del  movimento  è  per  Empe- docle subordinato  al  problema  di  conciliare  la  pro- duzione del  movimento  col  principio  dell'  immuta- bilità qualitativa  della  sostanza  :  l'ipotesi  dell'  ani- mazione della  materia  non  modificava  per  niente questo  fatto  dato  dall'osservazione^  che  la  materia è  ordinariamente  inerte,  ed  Empedocle  non  poteva attribuire,  in  certe  condizioni  particolari,  a  questa materia,  quantunque  senziente  e  pensante,  la  pro- prietà di  mettersi  spontaneamente  in  movimento, senza  contraddire  al  suo  principio  fondamentale, cioè  quello  della  immutabilità  della  sostanza. La  dottrina  di  Anassagora  sugli  elementi  mate- riali è  più  radicale  che  quella  di  Empedocle.  Egli non  crede  che  un  numero  limitato  di  elementi  pos- sano spiegare,  per  la  loro  aggregazione  e  disgre- gazione, rinfiuita  varietà  che  si  osserva  nella  na- (1)  Per  cui  Arist.  dice  che  Eiiiped.  fa  constare  rjiìiliiia  dagli  ele- meutl.  V.  De  An.  1.  I.  II.  6,  V.  5-13.  ecc. »1 ti XIV XV tura.  Secondo  lui  devono  esservi  tante  sostanze  ele- mentari  quante  specie  vi  hanno  di  corpi  che  pos- sono   distinguersi    per  le  loro   proprietà   sensibili: il  ferro,  1'  oro,  la  carne,  1'  osso,  il  sangue,  ecc.,  e in  una  parola  tutti  i    corpi   che   Aristotile   chiama omeomeri  (1),  cioè    tali    che    la    natura  delle   parti in   cui    possono    dividersi    è    identica  a  quella  del tutto,  sono  per  lui  delle  sostanze  tutte  primordiali ed  eterne,  che  nou  possono  provenire  da  altre  so- stanze ne  cangiarsi  in  altre  sostanze  (2).  Di  più  sic- come ciascuna  delle  specie  di  sostanze  che  noi  pos- siamo distinguere  contiene  in  se  stessa  delle  diffe- renze individuali,    Anassagora  ammette  che  vi  ha un  numero    infinito    di    elementi  (di  germi),  di  cui è    esattamente    simile  ad  un  altro  (3),  ma che  tutti  differiscono  sia  per  la  forma,  sia  pel  co- lore, sia  pel  gusto,  sia  per  qualsivoglia  altra  pro- prietà sensibile  (4).  Questi  elementi,    ora   congiun- gendosi ora  separandosi,  producono   tutti  i  cangia- menti  che  noi  osserviamo  nelle  cose,  ma  ciascuno si  conserva    sempre    identico    a  se  stesso.  Se  delle sostanze  differenti  sembrano  procedere  le  une  dalle altre,  è  questa  un'illusione,  la  quale  si  spiega  per il  fatto    che  nessuna  sostanza  è  pura,  ma  ciascuna (1)  Donde  11  nome  di  omeomerie  con  cui  vengono  designati  1  prln- clpll  materiali  di  Anassagora  (V.  Zeller  pag.  877-879). (2)  Arlst.  De  gen.  et  corr.  I.I.  I.  2-9;  De  Coelo  1.  UI.  3,  Met,  l.I. III.  8;  Lucrezio  I.  v.  830  e  sqq  ;  ecc. (3)  Fr.  4  Mullach,  Arlst.  Phys  1.  I.  IV.  1-3,  1.  m.  IV.  4,  Gen. ^t  corr.  1.  I.  I.  3,  De  Coelo  1.  m.  IV.  1-4,  Met.  1.  I.  UI.  «,  VU.  2. (4)  Fr,  3  M. è  mescolata  a  particole  di  tutte  le  altre  sostanze  (1). Così  Tassimilazione  degli  alimenti  nella  nutrizione non  avviene  perchè  questi  si  trasformano  in  ossa, in  sangue,  in  carne,  ecc.:  queste  sostanze  esistevano già  preformate  negli  alimenti  stessi  (2);  esse  non fanno  che  separarsi  dalle  altre  sostanze  con  cui erano  mescolate,  e  riunirsi  alle  sostanze  omologhe del  corpo  dell'  animale  (3)  Anassagora  non  nega meno  energicamente  di  Empedocle  che  qualche  cosa possa  cominciare  ad  esistere  o  finire  di  esistere. «  Quando  gli  Elioni,  egli  dice,  parlano  di  nascere e  di  morire,  essi  fanno  uso  di  termini  di  cui  non dovrebbero  servirsi,  in  realtà  niente  nasce  e  nien- te muore,  ma  delle  cose  già  esistenti  si  riunisco- no, e  poi  si  separano.  A  parlar  propriamente, bisognerebbe  dunque  chiamare  il  cominciamento delle  cose  una  composizione,  e  la  fine  una  disgre- gazione »  (4).  Ciò  che  è  stato  detto  della  inalterabi- lità degli  elementi  di  Empedocle  si  applica  pure agli  elementi  di  Anassagora;  e  a  più  forte  ragione, poiché  a  ogni  minima  differenza  qualitativa  corri- spondendo per  quest'ultimo  una  sostanza  elementare differente,  il  minimo  cangiamento  di  qualità  equi- varrebbe per  lui  a  un  cangiamento  di  essenza.  Gli antichi,  a  cominciare  da  Aristotile,  fanno  derivare la  dottrina  delle  omeomerie  dal  principio  che  l'es- {\)  Fr.  3,  5,  6,  13,  16;  Arlst  iVi//5.  1.  I.  rv\ (2)  Placita  1.1.111.8-10. (3)  Confr.  e.  2.  pag.  90  n.  2. (4)  Fr.  17  M.3,  1.  III.  IV.  5. XVI sere  non  può  venire  dal  non  essere  né  ridursi  al non  essere  (1). Il  problema  dell'origine  del  movimento  e  quello origine  della  coscienza  sono  risoluti  da  Anas- sagora, ammettendo  che  tra  le  altre  sostanze  eterne immutabili  ve  ne  sia  una  che  abbia  la  proprietà di  pensare  e  di  sentire,  cioè  la  Mente,  il  Nous.  Il concetto  dell'inerzia  della  materia  è  espresso  in  lui della  maniera  più  energica,  poiché  egli  ammette che  all'origine  il  tutto  era  in  un'immobilità  assoluta, che  il  movimento  non  cominciò  che  per  l'azione del  Nous  sulla  materia  (2).  TI  Nous  (eh'  egli  conce- pisce come  esteso  nello  spazio,  e  costituito,  come tutte  le  omeomerie,  di  parti  omogenee  fra  di  loro e  col  tutto)  è  partecipato  dai  diversi  esseri  animati, in  maggiore  o  minor  quantità,  ma  da  per  tutto  iden- tico nella  qualità  (3),  e  produce  in  essi  la  sensazione e  il  pensiero  (4).  Il  Nous  non  cessa  mai  di  agire nella  maniera  che  gli  è  propria  :  il  corpo  dorme, ma  l'anima  veglia  sempre  (5). §.  3.  Il  principio  che  l'essere  non  può  cominciare né  finire  (6)  condusse  Leucippo  e  Democrito  a  un'ia- (1)  AriHU  PhffS  l.I.V^I.2-:^,  3Iet.  1.  III.  V.8,  P/acita  1.  e,  1.1.111.8-10. (2)  Fr.  6-7  MuHach;  Arist.  Fliys  l.VIII.  1  2. (3)  Fr.  5-6  M.  Arlst.  De  nti.  1.  I.  II.  h. (1)  Aristotile  [De  an,  1. 1.  II.  I.  e.  cfr.l.  I.II.13)  «lice  che  Anassa^^ora non  fa  differenza  fra  II  nous  e  Tanlma,  porche,  mentre  per  lo  stesso Aristotile  alla  sostanza  nous  non  appartiene  che  la  fnnzlone  superiore tleiraninia,  cioè  1'  Intel llj?enza,  essa  Invece  per  Anassagora  è  anche Il  principio  delle  funzioni  Inferiori. (.5)  Placita  l.V.  XXV.  3. (6)  V.  Diog.  IX.  44,  Alex.  ad.  Met.  IV.  5.  Stab.  Ed.  I.  414,  Plu- tarco adv.  Col,  S.  4-5. terpretazione  dei  fenomeni  fisici,  in  cui  l'inaltera- bilità assoluta  della  sostanza  derivava  dal  concetto stesso  della  materia.  Concepita  infatti  la  materia come  destituita  di  qualità  sensibili  e  perfettamente solida  (cioè  di  una  densità  e  durezza  assoluta)^  non è  possibile  d'immaginare  in  essa  altro  cangia- mento che  nella  posizione  reciproca  delle  sue  parti,, e  noi  abbiamo  così  le  condizioni  generali  di  una fisica  costruita  sullo  stesso  tipo  che  quelle  di  Em- pedocle e  di  Anassagora. Ciò  che  caratterizza  in  primo  luogo  il  sistema degli  atomisti  è  la  dottrina  della  subbiettività  del colore  e  delle  altre  qualità  sensibili  (le  qualità  se- conciarie  dei  moderni).  Democrito  prova  questa  dot- trina per  la  relatività  della  percezione  sensibile  (1); ma  essa  può  direttamente  dedursi  dal  principio,  che è  la  presupposizione  dei  fisici  meccanisti,  della immutabilità  qualitativa  della  sostanza.  Se  in  ef- fetto queste  qualità  dei  corpi  fossero  reali,  esse sarebbero  invariabili  ;  ma  ciò  è  contrario  all'  e- sperienza.  Noi  vediamo  infatti  che  una  cosa,  con- servando la  sua  identità  materiale,  può  nondimeno cangiare  di  colore  (2),  e  dei  corpi,  composti  di  ele- menti eterogenei,  presentano  all'occhio  una  massa perfettamente  omogenea,  ciò  che  non  avverrebbe, se  ciascuno  di  questi  elementi  diversi  avesse  il  suo colore  proprio  ed  invariabile  (3).  Anassagora  ed Empedocle,  dotando  ciascuno  dei   loro   elementi  di (1)  Teofrasto  De  scnsn  ecc.  G3-64. (2|  V.  Arlst.  Geiicrat,et  corr,  1.  I.  II.  9. (3)  V.  Lucret  1.   v.   777-781. I I I % t r I XYIII proprietà  sensibili  determinate,  si  trovavano  ad ogni  momento  in  contraddizione  con  la  testimo- nianza dei  sensi:  di  là  la  loro  diffidenza  verso  la  per- cezione sensibile  (1);  di  là  ancora  delle  proposizioni paradossastiche  come  quella  di  Anassagora,  così celebre  presso  gli  antichi,  che  la  neve  è  oscura (poiché  l'acqua  di  cui  è  formata  è  oscura)  (2). L'ipotesi  della  solidità  assoluta  della  materia  nei suoi  elementi  ultimi,  insieme  all'ipotesi  del  vuoto, sono  destinate  a  conciliare  col  principio  dell'immu- tabilità della  sostanza  i  fenomeni  del  cangiamento nella  densità  dei  corpi,  e  so\a-atutto  nel  loro  stato fisico  (cioè  il  cangiamento  da  solido  in  liquido,  da liquido  in  gazoso,  e  viceversa).  È  il  secondo  di  questi fenomeni  che  è  particolarmente  in  contraddizione col  principio  della  immutabilità  della  sostanza  — il qual  priniàpio  non  è,  come  abbiamo  detto,  che  una suo-ffestione  delle  nostre  esperienze  più  familiari.  — Il  caniriamento  nello  stato  fisico  dei  corpi  è  un  fé- nomeno  relativamente  straordinario;  il  fenomeno ordinario,  familiare,  è  la  persistenza  in  quello  stato in  cui  si  trovano.  Così  Leucippo  e  Democrito  am- mettono la  solidità  come  lo  stato  invariabile  della materia  in  se  stessa,  e  il  vuoto  interposto  tra  le particole  solide  come  la  causa  della  diminuzione  di densità  che  accompagna  la  trasformazione  dei  corpi solidi  in  liquidi  e  di  questi  in  gazosi.  (3)  Ma  am- .   (1)  Y.  Empod.  V.  57  Miinach,  Sesto  lìfath.  VII.  90. (2)  Sesto  Pyrrh.  1.  3:?,  Clcer  Acad,  li.  23,  ai,  Galeno  De  simpìic, medicamente  II.  1,  ecc. (3)  I  fisici  anteriori  aveano  jxlfi  ricondotto  11  cangiamento  di  stato fisico  alla  rarefazione  e  condensazione. XIX messa  una  volta  la  solidità,  come  carattere  comune di  tutti  gli  elementi  della  materia,  e  il  vuoto,  si troA^ava  più  coerente  di  attribuire  a  questi  elementi, non  un  certo  grado  di  densità,  ma  una  densità  asso- luta (cioè  di  concepirli  come  resistenti  a  qualsiasi compressione),  e  di  spiegare  per  il  vuoto  tutte  le differenze  di  densità  che  si  osservano  nei  corpi, tanto  più  che  il  cangiamento  di  densità  della  ma- teria è  al  postutto  un  fenomeno  meno  familiare,  e •quindi  meno  intelligibile,  che  la  sua  persistenza nello  stesso  grado  di  densità  (1). Alla  densità  assoluta  degli  elementi  si  aggiunge la  durezza  assoluta,  cioè  la  resistenza  a  qualsiasi sforzo  tendente  a  cangiarne  la  figura  ;  e  ciò  sia perchè   la   durezza   sembra  legata   alla  densità  (2), (1)  Arlst.  (Pliys.  1.  IV.  VI  4,6)  espone  gli  argomenti  degli  Ato- misti per  provare  li  vuoto,  1  quali  si  riducono  in  sostanza  a  questi tre  :  1"  il  movimento  non  sarebbe  possibile  senza  il  vuoto,  per- chè uno  spazio  pieno  non  potrebbe  dar  posto  al  corpo  clie  si  muove. 2"  la  compressione,  la  condensazione  dei  oorpi,  per  cui  uno  stesso corpo  può  occupare  uno  spazio  minoro  di  prima,  suppone  il  vuoto. 3"  un  corpo  può  introdursi  nello  spazio  occupato  da  un  altro  cor- po, in  modo  che  i  due  corpi  insieme  occupino  lo  stesso  spazio cne  prima  era  occupato  da  un  solo  di  essi.  Di  questi  argomenti  11 2.  corrisponde  al  motivo  che  noi  abbiamo  assegnato  all'origine  della dottrina:  gli  altri  due  per  essere  probanti  devono  presupporre  l'Im- possibilità che  una  materia  continua  occupi  uno  spazio  ora  maggiore e  ora  minore,  dilatandosi  e  condensandosi,  vale  a  diro  prendere  come concesso  ciò  che  era  appunto  in  quistlono  tra  i  partigiani  della  con- tinultii  della  materia  e  quelli  del  vuoto.  Il  primo  argomento  deve presupporre  anche  che  tutta  la  materia  sia  solida,  ipotesi  la  quale alla  sua  volta  presuppone  il  vuoto.  Sicché  noi  dobbiamo  ammettere, come  vero  scopo  della  dottrina,  quello  di  spiegare  la  rarefazione  e la  condensazione. (2)  V,  Teofrasto  De  sensn  62. l^  _ XX sia  per  una  ragione  di  coerenza  nella  spiegazione dei  fenomeni.  Infatti  la  facilità  a  cangiare  di  figura dei  corpi  non  solidi  spiegandosi  per  la  mobilità  de- gli  elementi  solidi  separati  che  li  costituiscono,  il cangiamento  di  figura  di  un  corpo  solido  (p.  e.  di di  un  corpo  elastico)  deve  spiegarsi  pure,  se  si vuol  essere  coerenti,  per  il  movimento  di  particole divise  e  separate  fra  di  loro,  e  quindi  i  corpuscoli solidi,  le  particole  ultime  in  cui  la  materia  è  divisa, ciascuna  delle  quali  è  necessariamente  continua  ed indivisa  (indivisa,  non  indivisibile,  perchè  non  ab- biamo ancora  dedotto  il  concetto  deir  atomo)  non possono  concepirsi  come  suscettibili  di  un  cangia- mento di  figura. Un'altra  conseguenza  che  Leucippo  e  Democrito tirano  dal  principio  dell'immutabilità  della  sostanza è  il  rigetto  della  dottrina  delFunità  della  materia, della  convertibilità  reciproca  di  tutte  le  sostanze ammessa  dai  più  antichi  fisici.  Questa  dottrina, come  lo  prova  il  fatto  ch'essa  fu  universalmente abbracciata  dai  primi  fisici,  e  che  essa  prevalse in  ogni  tempo  nella  filosofia  greca,  era  l'inter- pretazione più  ovvia  dei  dati  deirosservazione,  la quale  mostrava  che  le  sostanze  più  marcatamente differenti  (i  quattro  elementi  degli  antichi)  erano convertibili  T  una  nell'altra:  ma  la  dottrina  am- messa invece  da  Leucippo  e  Democrito,  d'una  plu- ralità di  sostanze  primordiali,  di  cui  ciascuna  con- serva eternamente  la  sua  propria  natura  e  le  pro- prietà particolari  che  la  distinguono,  era  più  confor- me al  principio  a  priori  che  gli  esseri  non  possono ne  nascere  nò  perire. n XXI Ora  una  materia  di  una  solidità  assoluta  (cioè  di una  densità  e  di  una  durezza  assolute),  in  tutte  le sue  parti,  e  destituita  di  colore  e  di  tutte  le  altre proprietà  che  non  siano  tangibili,  è  una  materia assolutamente  omogenea:  tra  le  sue  parti  non  po- trebbero concepirsi  altre  differenze  che  di  figura o  di  grandezza.  Così  è  per  la  figura  e  per  la  gran- dezza che  secondo  Leucippo  e  Democrito  gli  ele- menti materiali  si  distinguono  fra  di  loro  (1).  Si potrebbe  forse  supporre  ch'essi  avrebbero  potuto distinguere  gli  elementi  di  diversa  natura  per  delle energie  o  attività  differenti  :  ma  anzitutto  per  Leu- cippo e  Democrito,  come  per  gli  altri  fisici  mecca- nisti,  la  materia  è,  come  diremo,  inerte,  non  è  attiva; e  poi  non  si  comprenderebbe  come  un  sustrato  per- fettamente omogeneo  in  tutte  le  parti  potesse  mani- festare nelle  sue  parti  distinte  delle  attività  insite differenti.  Così,  le  sostanze  differenti  distinguendosi per  la  grandezza  e  la  figura  degli  elementi  costi- tutivi,  la  inalterabilità  di  queste  sostanze,  la  in- convertibilità delle  une  nelle  altre,  suppone  che  gli elementi  costitutivi  conservino  sempre  la  stessa grandezza  e  la  stessa  figura,  cioè  ch'essi  siano  in- divisibili (2).  Allora  il  concetto  A^Waionio  si  trova costituito. Il  concetto  dell'inerzia  della  materia  a  Leucippo e  Democrito  risultava  d'una  maniera   più   necessa- ^•1 (1)  Arist.  Met  1.  I.IV.H;  Gen.  et  corr,  l.I. II. 4-9;  Vili. 8, 12, 16,  De Coelo  1.  I.VII-18,  1.  III.IV.5,8,  Phi/s.  1.  I.II.l,  1.  III.IV.4.6  ecc. (2)  Cfr.  Arlst.  De  Coelo  1.  lU.VII,  10. s •  * >♦ * |>  «! '^ XXII ria  ancora  che  ad  Anassagora  e  ad  Empedocle; poiché  la  materia  allo  stato  solido  sembra  manife- starci la  sua  inerzia  d'una  maniera  più  evidente che  ad  un  altro  stato  fisico.  Ma  gli  atomisti  inten- dono mantenersi  in  un  terreno  rigorosamente  na- turalista, e  non  ricorrono  a  delle  ipotesi  trascen- denti  per  ispiegare  1'  origine  del  movimento  :  essi ammettono  perciò  che  il  movimento  non  ha  origine, che  non  vi  ha  movimento  che  sia  spontaneo,  e  che il  movimento  dei  corpi  è  sempre  prodotto  dall'urto di  altri  corpi  (1).  Come  essi  si  rappresentano  la materia  universale  sul  tipo  dei  corpi  solidi,  così  essi elevano  a  tipo  universale  del  modo  di  produzione del  movimento  l'azione  meccanica  che  noi  osser- viamo tra  i  corpi  solidi  (2). (1)  Arisi.  De  Gen.  et  corr,  1.  I.  VITI,  5,  Fìac,  1.  I,  25],  26,  Stob. Ed,  I,  348,  394;  SIiiipl.  De  Coelo  260  b;  Alex,  ad  Met.  I.  4,  Cic.  De fato  20. (2)  Noi  nou  possiamo  ammettere  con  Zeller,  Lnnge  ad  altri  espo- che  Leuclppo  e  Democrito  abbiano  spiegato  l'origine  del  mo- vimento attribuendo  agli  atomi  11  peso  alla  maniera  di  Epicuro,  cioè una  tendenza  naturale  al  movimento  verso  11  basso.  Ciò  è  esplicita- mente contraddetto  da  molti  autori  antichi,  quali  Alessandro,  Ps.  Plu-, Stobeo,  Cicerone  nel  luoghi  citati  nell'ultima  nota,  che  mettono In  opposizione  sotto  questo  rapporto  la  dottrina  di  Democrito  e  quella di  Epicuro,  e  queste  testimonianze  sono  tanto  più  attendibili,  che  vi era  più  motivo  d'ingannarsi,  confondendo  a  torto  le  due  dottrine  an- ziché distinguendole  a  torto.  Inoltre  questa  interpretazione  è  impli- citamente contraddetta  dallo  stesso  Aristotile,  il  quale  dice  che  Leu- cippo  e  Democrito  non  hanno  cercato  la  causa  del  movimento  (Met. 1.1.  IV,  8;  1.  XI,  VI,  7),  e  non  hanno  accordato  agli  atomi  alcun  mo- vimento naturale  {De  Coelo  1.  III.  II,  3).  Se  malgrado  ciò  il  Zeller attribuisce  agli  antichi  atomisti  la  dottrina  degli  atomisti  posteriori, è  perchè  egli  assegna,  come  scopo  precipuo,  alla  fisica  nieccanista quello  di  spiegare  il  divenire,  e  perciò  ritiene  che  una  causa  prima del  movimento  sia  un  elemento  essenziale  di  una  tale  fìsica.  Ma  l'og- getto principale  del  meccanisti,  come  degli  altri  fisici,  era  la  ricerca della  essenza  Immutabile  delle  cose,  noi  dobbiamo  perciò  considerare^ XXIil In  quanto  al  problema  dell'origine  della  coscienza, si  crederà  forse  che  gli  atomisti  Thanno  abbando- nato come  affatto  insolubile  secondo  i  loro  princi- pii;  o  almeno  che  essi  non  hanno  potuto,  in  ogni caso,  darne  una  soluzione  che  si  avvicinasse  a  quella della  dottrina  animista.  Tuttavia  questo  che  sembra naturale  e  necessario  al  punto  di  vista  del  mate- rialismo moderno,  non  era  tale  al  punto  di  vista del  materialismo  antico:  gli  atomisti,  come  quasi tutti  gli  altri  materialisti  antichi,  accettavano  la  di- stinzione comune  tra  anima  e  corpo  (quantunque, conformemente  per  altro  alle  concezioni  dell'animi- smo primitivo,  r  anima  fosse  per  loro  anch'  essa materiale).  Così  bastava  di  dare  all'anima  un  sustrato materiale  specificamente  distinto  da  quello  delle  altre sostanze  — ciò  che  era  assa-i  conforme  ai  principii della  fisica  ineccanista  —  ^^v  avvicinarsi  al  punto  di vista  del  dualismo  spiritualista.  Noi  abbiamo  visto che  la  distinzione  del  Nous  dalle  sostanze  materiati come  essenziale  alla  loro  fisica  la  dottrina  dell'inerzia  della  materia, ma  non  quella  di  una  causa  prima  del  movimento. Dall'altra  parte,  noi  non  possiamo  nemmeno,  a  difetto  di  testi- monianze precise,  affermare  col  Lewes  che  Democrito  abbia  spiegato 11  peso  stesso  per  l'impulsione  (quantunque  Aristotile, /?e  Coelo  l.  I. Vin.  14,  sembri  alludere  a  questa  dottrina,  la  quale  potrebbe  con- venire agli  atomisti  meglio  che  a  qualsiasi  altro  degli  antichi  filosofi). Sembra  più  verisimile  che  Leuclppo  e  Democrito,  con  tutti  gli  altri fisici,  considerassero  la  caduta  dei  gravi  (cioè  dei  corpi  aventi  un certo  grado  di  densità,  perché  pare  che  gli  antichi  atomisti  attribuis- sero al  corpi  meno  densi,  non  una  tendenza  a  cadere,  ma  una  tendenza a  portarsi  in  alto- v.  Aristotile  De  Coelo  1.  IV.  U)  come  un  fatto  abba- stanza naturale  ed  intelligibile,  in  ragione  della  sua  famUiarità,  del quale  non  occorreva  di  dare  una  spiegazione. XXIV era  anzitutto  in  Assagora  una  conseguenza  della dottrina  delle  omeomerie.  Democrito  non  distingue l'anima  da  tutte  le  sostanze  corporee;  egli  la  iden- tifica ad  una  sostanza  particolare,  il  calore,  in  modo che  il  calore  e  l'anima  sembrano  per  lui  due  concetti assolutamente  coestensivi,  due  termini  perfetta- mente sinonimi,  il  calore  essendo  per  se  8teg;so anima,  come  l'anima  calore  (1).  Cosi  egli  sembra fare  della  coscienza  un  attributo  inseparabilmente congiunto  al  calore,  e  perciò  dÌLfonde  l'anima  in tutto  l'universo  (2),  dal  quale  gli  esseri  animati l' assorbono,  assor})endo  il  calore.  Questa  dottrina di  Democrito,  data  la  sua  spiegazione  perfettamente naturalista  del  mondo,  non  si  comprende  che  come uno  sforzo  por  rendere  conto  dell'origine  della  co- scienza,  conformemente  al  principio  della  fisica meccanista  cho  TesscTO  non  può  né  nascere  ne  pe- rire (3). .  §.  4.  Potrebbe  sembrare  che  la  concezione  mec- canista essendo,  come  abbiamo  notato,  l'applicazione più  chiara  e  più  coerente  del  principio  comune  dei fisici  che  l'essere  nou  può  A^enire  dal  non  essere  né ridursi  al  non  essere,  noi  dovremmo  trovare  questa concezione  al  punto  di  partenza  della  fisica  greca, e  non  quella  che  vi  troviamo  in  effetto,  di  una  so- (1)  Arlst.  De  An,  1.I.II.3,  De  respirar,  e  4. (2)  V.  oUr©  I  1.  citati  nen'ultlma  nota,  Plut.  P/ac,  \.  IV.  IV.  4, 1.  I.  vn.  13,  Stob.  Ed,  I.  56,  (fililo  cantra  Jnlianttm  I,  4,  Clc.  Nat. Deor.  I.  XLIII.  120,  ecc. (3)  E  a  questa  dottrina  suiranima  dearll  antichi  atomisti  che  si  riat- tacca l'Indicazione  del  Ps.  Plut.  (Plac.  V,  254)  che,  secondo  Lencippo, la  morte  convlen?  al  corpo,  nou  alTanlma. XXV stanza  primordiale  unica,  e  della  oonvertibilità  re- ciproca di  tutti  i  corpi  (1).  Ma  noi  abbiamo  osservato che  una  fisica  meci^anista  si  trova  necessariamente in  contraddizione  con  la  testimonianza  dei  sensi,  e che,  nella  sua  forma  più  sviluppata,  questa  fisica arriva  a  un  sistema  che  nega  la  realtà  dei  dati immediati  della  percezione  sensibile.  Inoltre  una pluralità  di  sostanzo  primordiali  inconvertibili  l'una nell'altra  è  un'idea  contraria  alle  prime  apparenze, (1)  ISl  potrebbe  tuttavia  ammetterò  col  llltter  che  la  fisica  ììiecca- nista  abbia  avuto  anche  tra  i  più  antichi  fisici  11  suo  rappresentante, cioè  Anassimandro.  E  ciò  che  sembra  risultare  da  due  testi  di  Aristo- tile in  cui  la  dottrini  d'Anassimandro  è  assimilata  a  (juella  del  fisici meccanlsti.  Nell'uno  di  <iuestl  testi  (Phys  1.  I.IV.  1)  Aristotile  divide tutti  i  fisici  in  due  catej^orie,  di  cui  f?ll  uni  ammettono  una  sostanza primordiale  unica  facendone  derivare  le  altre  cose  per  via  di  condensa- zione e  di  rarefazione,  e  gli  altri  fanno  separare  le  contrarietà  conte- nute nell'uno,  cioè  nell'indistinto  primitivo,  ed  è  in  questa  seconda  ca- tegoria ch'egli  compi'ende  Anassimandro,  insieme  ad  Empedocle  e  ad Anassag«»ra.  Nell'altro  testo  (Met.l.XI. II.  3)  attribuisce  ad  Anassi- mandro, al  tempo  stesso  che  ad  Empedocle  e  ad  Anassaj^ora,  l'Idea di  una  mescolanza  primitiva,  e  assimila  la  sua  dottrina  a  (juclla  dello stesso  AnassajJTora  e  di  Democrito  di  uno  stato  originarlo  del  mondo in  cui  tutte  cose  erano  insieme  (cioè  in  cui  tutto  il  reale  preesisteva allo  stato  di  attualità,  e  non  semplicemente  di  potenza  come  nella materia  dello  stosso  Aristotile).  Se,  seguendo  questo  indicazioni  (a cui  si  potrebbe  agglun'^ere  quella  di  Teofrasto  ap,  Simpi.  in  Plnjs. fot.  6  b,  che  assimila  la  dottrina  di  Anassagora  sugli  elementi  mate- riali a  (luella  di  Anassimandro,  per  non  parlare  di  Simplicio  stesso In  Phi/s  fol.  6  a,  32  b,  51  b,  e  di  altri  testimoni  posteriori),  si  fa  di Anassimandro  un  meccanista,  bisognerebbe  attribuirgli  una  fìsica analoga  a  (luella  che  Parmenide  espone  nelta  2**  parte  del  suo  poema, cioè  la  dottrina  di  due  elementi,  l'uno  caldo  (e  al  tempo  stesso  tenue, luminoso,  mobile),  l'altro  freddo  (e  al  tempo  stesso  denso,  oscuro, inerte).  È  ciò  che  risulterebbe  combinando  l'indicazione  di  Aristotile (di  una  separazione  delle  contrarietà),  con  un'altra  indicazione  di Plutarco  (ap.  Eus.  Praep.  evang.  I.  8,  che  dice   che  alla  formazione XXVI XXVII alle  inferenze  risultanti  dalle  osservazioni  più  ovvie: queste  mostravano  che  le  forme  più  marcatamente differenti  della  materia,  cioè  i  tre  stati  fisici  dei corpi,  a  cui  si  aggiungeva  il  fuoco  come  una  quarta forma  non  meno  spiccatamente  distinta,  potevano procedere  le  une  dalle  altre  ;  se  ne  concludeva  che le  forme  meno  differenti  erano  anch'esse  converti- bili,  e  che  vi   era  una   materia  unica   che   poteva del  mondo  avvenne  una  separazione  del  grerrae,  YÓ^VXO'^,  del  caldo e  del  freddo},  e  un]  altra  di  Stobeo  {Ec/.  I.  500,  secondò  cui  il  cielo  è formato  dalla  mescolanza  del  caldo  e  del  freddo).  Una  tale  Interpre- tazione spiejjherebbe  anche  11  fatto  altrimenti  difficile  a  corapren- dere,  che  Parmenede  dà  questa  dottrina,  che  egli  non  ammette,  come Vopinione  degli  nomini. Ma  questa  interpretazione,  e  in  generale  qualsiasi  interpretazione wcccauisti  della  fisica  di  Anassimandro,  ha  contro  di  so  le  testimo- nianze della  più  parte  degli  autori  posteriori,  1  quali  gli  attribui- scono invece  la  dottrina  di  una  sostanza  primordiale  unica  diversa dai  quattro  elementi.  Sicché  noi  non  possiamo  niente  affermare  di sicuro  sulla  vera  dottrina  di  Anassimandro,  tanto  più  che  queste  te- stimonianze, quand'anche  dovessimo  seguirle,  non  c'insegnano  niente sullo  spirito  della  fìsica  di  Anassimandro,  poiché  esse  non  e- indicano per  qual  processo,  secondo  questo  filosofo,  11  multiplo  sarebbe  uscito dall'uno  (l'indicazione  che  le  diverse  sostanze  derivano  dalla  sostanza primordiale  per  rarefazione  e  condensazione  essendo  esplicitamente contradetta  da  Aristotile).  L' interpretazIoMe  del  Zeller  secondo  cui Anassimandro  si  sarebbe  contentato  dell'  idea  vaga  che  la  sostanza omogenea  primitiva  si  divise  in  una  moltlplicltà  di  sostanze  diffe- renti, oltre  che  fa  discendere  a  un  livello  troppo  basso  11  valore  fi- losofico di  Anassimandro,  è  obbligata  a  torturare  i  testi  indicati  di Aristotile,  e  non  rende  conto  dell*lncontestabIle  analogia  che,  secondo ciuesti  testi,  deve  ammettersi  tra  la  fisica  di  Anassimandro  e  quella meccanisti. Si  potrebbe  forse  immaginare  un'interpretazione  che  mettesse  di accordo  le  indicazioni  che  assimilano  Anassimandro  ai  fisici  mecca- nisti con  quelle  secondo  cui  egli  avrebbe  ammesso  una  sostanza  unica indeterminata  (v.  Diog.  Laert.  II.  I.  P/ac,  1.  3.,  e  principalmente  Teo- frasto  1.  e,  che    sembra    attribuirgli  la  dottrina  di  una  sostanza  ///- prendere  tutte  le  ferme.  Ma  ammettendo  V  unità della  materia  e  la  convertibilità  reciproca  di  tutte sostanze  immediamente  date  dall'  osservazione^ i  primi  fisici  non  rinunzia^ano  perciò  al  princi- pio, considerato  come  evidente  perse  stesso,  che l'essere  non  può  nascere  ne  perire,  e,  quindi, che  delle  cose  aventi  una  natura  determinata  non possono  cangiarsi  in  altre  cose  di  una  natura  dif- ferente. Quando  essi  dicono  che  tutto  è  aria  o  fuoco o  acqua,  il  loro  pensiero  non  è  semplicemente  che vi  ha  una  materia  unica,  e  che  perciò  la  sostanza che  costituisce  le  cose  diverse  dall'aria  o  dal  fuoco o  dall'acqua,  nell'eterna  circolazione  dei  suoi  stati ha  già  attraversato  quello  di  aria  o  di  fuoco  o  di  acqua. definita  secondo  la  specie  e  secondo  la  grandezza)  :  si  potrebbe,  cioè, attribuirgli  l'idea  di  Teleslo  della  materia  indeterminata,  e  del  caldo e  del  freddo,  concepiti  come  due  entità  sussistenti  per  se  stesse,  che si  dividono  il  dominio  di  questa  materia.  Infatti  Aristotile  (Phys. 1.  III.  V.  10)  parla  dell'opinione  secondo  la  quale  Vinflnito  non  può avere  alcuna  delle  proprietà  contrarie  per  cui  1  differenti  corpi  si distinguono  fra  di  loro,  perché  una  sostanza  infinita  avente  certe proprietà  determinate  renderebbe  impossibile  l'esistenza  di  altre  so- stanze aventi  delle  proprietà  opposte.  Se  riferiamo  quest'Indicazione ad  Anassimandro,  come  fanno  i  commentatori  d'Aristotile,  sembre- rebbe risultarne  che  l'infinito  di  Anassimandro  (supposto  ch'egH  ab- bia ammesso  un  principio  materiale  unico)  resta  nel  suo  stato  d'in- determinazione, anche  dopo  che  le  sostanze  particolari  ne  sono  state formate.  La  materia  di  Anassimandro  sarebbe  dunque,  per  usare  una espressione  di  Rosmini,  un'  indeterminato  reale,  o,  in  altri  termini un'astrazione  realizzata  (e  in  effetto  Aristotile,  De  gen.  et  corr.  I.II. I.  3,  5,  per  distinguere  questa  materia  senza  alcuna  delle  proprietà contrarle  dalla  materia  qual  essa  è  nella  sua  propria  dottrina,  dice che  la  seconda  non  é  separabile  come  la  prima,  assegnando  così  tra le  due  dottrine  lo  stesso  carattere  differenziale  per  cui  egli  suole  di- stinguere 1  suoi  propri  concetti  da  quelli  di  Platone).  Ora  la  realiz- zazione dell'  astratto  materia  supporrebbe  necessariamente  la  realiz- XXYIII XXIX Ciò  che  permane  nelle  trasformazioni  continue  della materia  non  è  soltanto,  per  essi,  il  sustrato  comune indeterminato  delle  diverse  sostanze  materiali  :  in questo  caso,  non  si  avrebbe  ragione  di  elcA^are  una qualunque  delle  forme  che  prende  alternativamente la  materia  a  base  ed  elemento  di  tutte  le  altre  :  non vi  sarebbe,  in  ultima  analisi,  vera  differenza  tra  le varie  opinioni  dei  fisici  unizzanti:  ben  più  tra  queste opinioni  e  quella  di  Aristotile  non  vi  sarebbe  al- cuna opposizione  reale,  e  la  polemica  di  questo  fi- losofo contro  i  fisici  che,  come  lui,  ammettevano l'unità  della  materia,  si  ridurrebbe  a  una  semplice logomachia.  Xoi  non  dobbiamo  dunque  interpretare la  dottrina  dei  fisici  unizzanti  semplicemente  nel senso  che,  al  punto  di  partenza  e  al  punto  di  arrivo della  evoluzioije  del  mondo,  tutto  ///,  e  nuovamente sarà^  aria  o  fuoco  o  acqua:  noi  dobbiamo  intendere inA^ece  che  tutto  attualmente  è  aria  o  fuoco  o  acqua. znzione  di  altri  astratti .  cioè  delle  forme  che  differenziano  la  mate- ria; e  noi  dovremmo  ({ulndl  comprendere  le  contrarietà  della  cui  se- parazione è  qnlstlone  nel  luo^o  Indicato  della  Fisica,  nel  senso  più rigoroso  della  parola  contrarietà,  che  indica,  non  le  cose  aventi  le proprietà  contrarle,  ma  le  stesse  proprietà  contrarle.  Queste  contra- rietà si  ridurrebbero,  per  Anasslraando.  alla  contrarietà  fondamentale del  caldo  e  del  freddo,  che  Anassimandro  avrebbe  trattato  come  de- frli  esseri  reali  {separabili,  per  usare  l'espressione  abituale  di  Ari- stotile), rappresentandoseli  come  iugenerabill  e  imperiblll.  e  sempre gli  stessi  e  nella  stessa  quantità,  e  determinanti  per  il  semplice  pas- saggio da  un  luogo  ad  un  altro  tutti  1  cangiamenti  del  mondo  mate- riale. Di  là  la  proposizione,  attribuitagli  da  Diogene  Laort.  (II.  1), che  l'universo  cangia  continuamente  nelle  sue  parti,  ma  11  tutto  resta immutabile.  Sarebbe  senza  profitto  per  il  nostro  argomento  svilup- pare più  largamente  un'  ipotesi  dalla  «luale,  non  potendo  venire  ap- poggiata su  dati  storici  precisi,  non  si  potrebbe  tirare  alcuna  conse- guenza. che  la  sostanza  primitiva,  di  cui  tutte  le  cose  sono state  fatte,  persiste  ancora,  al  di  sotto  delle  sue nuove  parvenze,  nelle  cose  derivate.  Questo  mondo dice  Eraclito  (1),  è  stato,  è  e  sarà  sempre  un  fuoco immortale;  egli  non  dice  soltanto:  questo  mondo  è stato  fuoco,  e  tornerà  ad  essere  fuoco.-  Similmente Diogene  d'\pollonia  non  dice  semplicemente  che tutto  viene  dallo  stesso  (Paria)  e  si  risolve  nello stesso,  ma  ancora  che  tutto  è  lo  stesso  (2|.  E  i  testi- moni più  autorevoli,  come  Aristotile,  attribuiscono a  tutti  i  fisici  che  ammettono  un  principio  materiale unico  la  dottrina  che  una  sostanza  determinata  (Taria o  il  fuoco  o  Tacqua,  ecc.)  è  la  materia  universale  (3), la  sostanza  (4)  o  la  natura  (5)  di  tutte  le  cose,  il sustrato  di  tutti  i  fenomeni    (6),   Tessere   unico  che (1)  Fr.  27.  Mullach. (2)  /'/*.  2  Mullacli:  la  prova  che  tutto  è  lo  stesso  è  che  altrimenti le  cose  non  potrebbero  venire  l'ima  dall'altra  (ct'r.  Fr,  0)  né  mesco- larsi nò  agire  l'una  sull'altra  (secondo  il  principio  che  solo  il  simile può  agire  sul  simile). (^)  Met  1.  IV  IV  a.  Gcn,  et  corni.  II I  2,  1.  II  III  4,  Met,  1. 1  Vili 1,  De  Coe/o  1.  Ili  V  10,  Phys.  1.  I IV  1,  (Jeii,  et  corr.  l.  II  V  1. (4)  Arist.  Met.  1.  1-1II.24:  Plurimi  eorum  qui  primo  pliilosopbati sunt,  solas  illas  caiisas  existimarunt  esse  principia  .  «juae  in  mate- riae  specie  sunt.  Ex  quo  enim  omnia  entia  sunt.  et  ex  (ino  primo fiunt.  et  ad  (^uod  ultimum  corrumpuntur,  substantia  qui<Iem  perma- nente, mutata  vero  passionibus,  hoc  elementum  et  hoc  omnium  en- tium  osse  principium    aiunt  :  et  oh  hoc  nihil  fieri    ne«iue   corrumpi opinantur.  tanquam  huiuscemodi  natura  somper  conservata Oportet  enim  aliquam  naturam  aut  unam  aut  plures  esse,  e  quibus caetera  fiunt,  illa  conservata.  Pluralitatem  tamen  et  speciem  huius principii  non  eandem  omnes  dicunt,  sed  Thales aquam  ait  esse etc.  V.  a.  Mef.  I.  I.IV.S,  Phfjs.  ecc. t5.  Mrf.  1.  I  III  3,  1.   IV  IV  3  Phijs,  1.  11.1.7-9,  1.  I  VI  4. (U)  Vf'f.  1.  l  III  2-3,  1.  I  IV  S,  Phys.  1.  II  1  9  - -  ». è  al  fondo  di  tutti  gli  esseri  (  1  ).  Questi  fisici pensano  adunque  che  l'elemento  primitivo  di  cui tutte  le  cose  sono  fatte,  si  mantiene  identico  a  se stesso,  attraverso  tutti  i  mutamenti  del  mondo  mate- riale; che  gli  esseri  derivati  passano,  ma  la  sostanza primordiale  resta,  ed  è  incorruttibile  ed  eterna  (2); e  che  perciò,  a  parlar  propriamente,  niente  nasce e  niente  perisce  (3),  il  fuoco  o  l'acqua  o  l'aria  che costituisce  l'essenza  di  tutte  le  cose,  non  cessando mai  di  essere  quello  che  è. Di  là  sembrerebbe  seguirne  che  di  tutti  gli  stati (1)  Met.  1.  I.  V  9,  1.  II.  IV  23,  1.  IX  II 1,  Gen.  et  corr.  1.  1. 1.  2. (2)  Diog.  Fì\  7,  «  Atqne  hoc  ipsum  est  corpus  aeternum  et  immor tale:  caetera  partim  fmnt,  partim  deficiunt  »  Arist.  De  Coelo  1.  III.  1.3: *  Quidam  autem,  caetera  quidem  omnia  fieri,  fluireque  dicunt,  ac  ni- liil  prorsus  stabile  esse;  unum  autem  quid  solum  permanere,  ex  quo haec  universa  transfigurari  sint  apta:  quod  quidem  et  alii  complu- res  et  Heraclitus  Ephesins  dicero  velie  videntur. .  Arist.  3Iet,  1.  I. Ili  2  4,  ].  e.  Arist.  Met.  1  IV  IV  3:  Item  natura  dicitur,  ex  quo primo  inordinato  exsistente  et  immobile  ex  sua  potontia  est  aut  fitaliquid  eorum  (juae  natura  sunt,  ut  statuae  vasorumque  aeneorum aes  natura  dicitur,  ligneorum  vero  lignum:  similiter  autem  et  de ceteris.  Ex  bis  enim  unumquodque  est,  prima  materia  salva.  Hoc enim  modo  etiam  eorum  quae  natura  sunt  elementa  dicunt  esse naturami  quidam  ignem,  quidam  terram,  quidam  aerem,  quidam aquam,  quidam  aliud  tale  dicentes,  et  quidam  aliiiua  horum,  qui- dam vero  baco  omnia».  Arist  Bhijs.  1.  11.1.7-10:  «  Jam  vero  quibus dam  videtur  natura  et  essentia  eorum  quae  natura  Constant,  esse  id quod  primum  cuique  rei  inest,  informe  per  se:  ut  lectirae  natura  est lignum,  statuae  vero  aes. . . .  Idcirco  alii  terram,  alii  ignem,  alii  aèrem, alii  aquam,  alii  nonnulla  ex  bis,  alii  baec  bomnia,  inquiunt  esse rerum  naturam.  Quod  enim  quisque  existimavit  esse  tale,  sive  unum sive  multa,  boc  et  tot  inquiunt  esse  universam  essentiam,  reliqua autem  omnia  esse  borum  affectiones  et  habitus  et  dispositiones.  Et borum  quidem  quodvis  esse  sempiternum  (non  enim  esse  ipsis  mu- tationem  ex  se  ipsis);  cetera  vero  fieri  et  interire  infinities  «. (3)  Met  1.  I. III. 3. 10,  Pys  1.  I.VIII,  Gen. et. corr. i.hI.2S, che  noi  vediamo  attraversare  successivamente  alla materia,  secondo  questi  fisici,  uno  solo  è  reale,  e gli  altri  non  sono  che  apparenti  ;  che  le  sostanze materiali  non  sono  da  noi  percepite. secondo  la  loro realtà,  all'infuori  dell'elemento  primitivo;  che  quan- do p.  e.  l'aria  di  Anassimene  si  è  cangiata  in  acqua o  in  terra,  è  a  noi  che  pare  acqua  o  terra,  mentre in  realtà  non  xi  ha  ancora  che  l' aria  primitiva. Tale  è  il  senso  in  cui  Lucrezio  comprende  queste dottrine;  così  egli  dice  contro  Eraclito  (1): Dicere  porro  ignem  res  omneis  esse,  neque  ni  lavi Rem  veram  in  numero  rerum  constare^  nisi  ignem, Quod  facit  Ilice' idem,  perdei  ir  iim  esse  videtur. Nam  contra  sensiis  ab  sensibiis  ipse  repugnat, Et  lahefactai  eos,  linde  omnia  eredita  pendent; Unde  ìiic  cognitus  est  ipsi,  qiiem  nominai  ignem. Credit  enim  sensiis  ignem  cognoscere  vere; Caetera  non  credit,  quae  nilo  darà  miniis  sunt. Ma  in  verità  né  Eraclito  nò  gli  altri  fisici  uniz- zanti  pensavano  ridurre  a  semplici  apparenze  il- lusorie le  forme  in  cui  l'elemento  primitivo  si  tra- smutava, quantunque  sia  questo  il  risultato  a  cui essi  sarebbero  stati  condotti  se  avessero  sviluppato rigorosamente  le  conseguenze  contenute  nelle  loro  af- fermazioni. Dal  princij3Ìo  a  priori  (a  priori  in  quanto era  non  una  conclusione,  ma  un'anticipazione  dell'e- (1)  I.  V.  ()91  Hqq. y XXXII I  I sperienza)  che  Tessere  non  può  nascere  né  perire,  e che  una  cosa  perciò  non  può  cangiarsi  in  un'altra  di una  natura  differente,  essi  concludevano  che  il  fuoco o  l'aria  primitiva  non  poteva  cessare  di  essere  lo stesso  fuoco  o  la  stessa  aria;  l'esperienza  (quale  essi l'interpretavano)  mostrava,  al  contrario,  che  T ele- mento primitivo  si  trasformava  in  altre  sostanze di  cui  tutte  le  proprietà  erano  essenzialmente  dif- ferenti dalle  sue:  essi  non  sacrificavano  il  fatto  al principio,  ma  nemmeno  il  principio  al  fatto;  e  ciò che  vi  ha  di  caratteristico  nelle  loro  vaghe  e  oscure concezioni  è  la  coesistenza  nel  loro  spirito  di  que- ste due  idee  incompatibili,  la  forza  con  cui  l'una e  l'altra  s'imponevano  non  permettendo  loro  di  ri- nunziare all'una  o  alFaltra,  ne  di  vedere  (;he  vi  era tra  di  esse  una  contraddizione  insolubile  (1). L'idea  che  nelle  trasformazioni  della  materia  la sostanza  si  conservava  nondimeno  identica  a  se stessa,  doveva  condurre  i  fisici  unizzanti  a  una  ma- niera di  vedere  analoga  a  quella  dei  fisici  mecca- nìstì\  che  non  ammettevano  altro  cangiamento  nelle cose  che  nei  rapporti  di  spazio.  Essi  credevano  che gli  stati  differenti  della  sostanza  unica  erano  do- vuti ai  irradi  differenti  della  sua  condensazione  (2), (1)  Naturai  monto  Arlstotllo  non  ha  manoato  di  notare  II  carattere eontradittorio  (lolla  dottrina  di  iiuosti  flsiol  V.  De  Oeiì,  et  COrvA.ll, V.   1-2. (2)  Per  Anasslmene:  Plut.  ap.  Kum.  Vraep.  Erang.  I.  H,  Plut./)e Prim.  Friy,  e.  7;  Slmpllo.  ///  /V//A9.  fol.  32,  Ippol.  Ref,  haeres.,  1,7. (OrlgenlH  Phllosophoumona).  Per  Dioj?ene  d'Apollonia:  Dloj?.  Laert.  1X> .57.  Per  Erael.:  Diog.  Laert.  IX.  H  e  «ejfjr..  Plut.  Placita  1.3,  2.5.2«, Siuipl.  ///  Phìjs  0  a,  :nO  a.  Per  tutti:  Arist.  Mct,  1.  I.  IV.  8,  P////S,  I.  I, XXXIII e  siccome  la  condensazione  e  la  rarefazione  non sono  che  un  avvicinamento  e  un  allontanamento  dello particole  fra  di  loro,  il  movimento  della  materia spiegava  secondo  essi  tutti  i  cangiamenti  che  si  os- servano nella  natura  (1).  Così  è  alla  congiunzione e  alla  disgiunzione  delle  parti  della  sostanza  ele- mentare che  essi  riconducono,  come  i  fisici  mecca- nisti,   tutti    i   mutamenti  apparenti  di   sostanza  (2) rv,  1,  1.  I.VI.  6,  De  Gerì,  et  corr.  1.  II.  III.  4,  Gal.  in  Hippocr.  De nat»  hom,  I.  2,  ecc.  Avvertiamo  che  per  la  esatta  comprensione  del concetti  dei  fisici  unizzanti  bisogna  tener  presente  che  essi  non  am- mettevano il  vuoto,  e  perciò  nemmeno  ciò  che  noi  diclamo  la  costi- tuzione molecolare  della  materia,  cioè  la  sua  divisione  In  particelo ultime  separate  le  une  dalle  altre  e  conservanti  sempre  In  se  stesse la  stessa  densità. (1)  Ippol.  Ref,  haeres  1.  e;  Simplic.  in  Phi/s,  fol.  6  a  (per  Anas- simene);  Plut.  ap.  Eus.  Praep.  erang.  I,  8  (per  Dlog.  d'Apoli.);  per tutti:  Arlst.  De  gen.  et  corr,  1.  II.  IX,  7,  Phys,  1.  VUI.  IX.  3. (2)  Arlst.  De  Coelo  1.  III.  V,  5:  quelli  che  ammettono  11  fuoco  co- me corpo  primitivo,  e  lo  distinguono  per  la  tenuità  delle  particole (cioè  Eracllte  e  1  fisici  che  professano  una  dottrina  analoga,  in  op- posizione ai  platonici  che  lo  distinguono  per  la  figura),  da  esso  com- postosi (è)C  TOtJTOD  aUVTlOsaévO'J,  cioè  dalla  integrazione,  dalla confluenza  delle  sue  particole)  dicono  prodursi  le  altre  cose  come  per l'ammassa  mento  di  un  pulviscolo  (xaOòCTUSp  àv  £1  OL>[XCpUaa)[X£V0D (};y)YlXaTO(;)  V.  anche  ibid,  1,  Met  1.  I.  VIII.  3-6,  Phgs,  1.  VIII.  IX.  3, ecc:  È  questo    processo   meccanico   nella   produzione   delle  sostanze che  fa  dire  a  Lucrezio  contro  Eraclito  : (1.  Versi  646-665 Nam  cur  tam  variae  res  possent  esse,  requiro. Ex  uno  si  sunt  Igni  puroque  creatae. Nihil  prodesset  enim  calidum  denserier  ignem, Nec  rarefìeri,  si  partes  ignis  eandem Naturam,  i^uam  totus  liabet  super  Ignis,  haberent. Acrior  ardor  enim  conductis  partibus  esset: Languidior  porro  disjectis  disque  supatls. Amplius  hoc  fieri  nihil  est  quod  posse  rearis Tallbus  in  causis;  nedum  varlantia  rerum Tanta  queat  densis  rarlsqne  ex  ignibus  esse. f XXXIV i i r 1 (apparenti  perchè,  come  abbiamo  detto,  niente  nasce al  fondo  e  niente  perisce);  e  Aristotile  fa  consistere la  differenza  fra  di  essi  e  gli  Eleati,  i  quali  negano qualsiasi  specie  di  cangiamento,  in  ciò  che  i  primi, d'accordo  coi  secondi  per  ogni  altro  cangiamento, non  negano  però  il  movimento,  il  cangiamento  nello «pazio  (l).  Le  forme  e  le  differenze  del  multiplo non  sono,  secondo  i  fisici  unizzanti,  che  gradì  dif- ferenti di  densità  e  di  rarità,  di  concentrazione  e di  dilatazione  della  materia  universale  (2):  divenuta più  densa  o  più  rara  essa  pare  differente  (3);  ogni differenza  tra  le  cose  non  è  al  fondo  che  quanti- tativa, ridiicendosi  alla  maggiore  o  minor  quantità di  materia  che  occupa  uno  spazio  dato  (4).  Da  que- ste indicazioni  degli  antichi  testimoni  noi  possiamo concluderne  che,  secondo  questa  scuola  di  fisici, la  rarefazione  e  la  condensazione  della  sostanza universale  non  è  semplicemente  la  causa  dei  suoi cangiamenti  di  stato  e  delle  differenze  qualitative -che  si  manifestano  in  questi  stati  differenti;  ma ancora  che  questi  stati  differenti  e  le  qualità  dif- ferenti che  li  caratterizzano  non  consistono,  in  se stessi,  che  nei  diversi  gradi  di  densità  e  di  rarità, di  concentramento  e  di  diffusione  di  una  sostanza qualitativamente  immutabile,  o  piuttosto  i  cui  can- giamenti  qualitativi    non  sono  nella    loro    essenza (1)  Met,  1.  I.  V.  9;  cfr.  1.   I.  III.  10. (2)  Arlst.  Fhus*  1.  I.  IV.  1. (3)  Ippol.  1.  e.    TUDXVO'JjJLSVOV   (rarla,  secondo  Anasslineue)  yÒ(.Q (4)  De  Coelo  1.  UI.V.  2. .  » XXXV che  cangiamenti  quantitativi  e  puramente  spaziali  (1), qualche  cosa  come  una  concentrazione  e  una  diffu- sione di  certe  qualità  fondamentali  che  la  sostanza non  perde  mai.  Per  quanto  tali  idee  siano  oscure, anzi  affatto  inconcepibili,  esse  si  presentavano  na- turalmente al  punto  di  vista  dei  fisici  unizzanti, i  quali  per  conciliare  il  principio  preteso  assioma- tico deirimmiitabilità  della  sostanza  con  le  trasmu- tazioni che  presenta  l'esperienza,  non  avevano  altro mezzo  che  di  ridurre  tutti  i  cangiamenti  della  na- tura al  cangiamento  di  posizione  nello  spazio,  come poi  fecero,  con  ideo  più  chiare  e  coerenti,  i  fisici meccanisti. ^-i (1)  Ciò  che  precede  è  negato  recisamente  da  Zeller,  almeno  per Eraclito.  Non  sC  deve,  egli  dice,  avanzare  con  alcuni  autori  (tra  i quali  egli  ha  il  torto  di  non  comprendere  Aristotile:  v.  De  Coelo ].  III.  V,  5,  1,  e,  e  9,  in  cui  estende  a  quelli  che  ammettono  il  fuoco come  elemento,  il  rimprovero  che  per  i  fisici  nnizzanti  la  diiferenzn tra  le  sostanze  è  soltanto  quantitativa  e  quindi  un  che  di  puramente relativo)  che.  secondo  Eraclito,  le  sostanze  secondarie  procedono dal  fuoco  e  si  risolvono  in  fuoco  per  via  di  condensazione  e  di  di- latazione. Senza  dubbio  quando  il  fuoco  si  cangia  in  umidità  e  l'u- midità in  terra,  vi  ha  condensazione,  come,  nel  caso  contrario,  vi ha  dilatazione.  Nondimeno,  nel  pensiero  di  Eraclito,  questa  conden- sazione e  questa  dilatazione  non  sono  la  causa,  ma  la  conseguenza del  cangiamento  di  sostanza.  In  etfetto,  secondo  lui,  non  è  il  rav- vicinamento delle  particole  del  fuoco  che  fa  passare  l'elemento  igneo allo  stato  umido,  e  l'elemento  umido  allo  stato  solido  o  terroso;  ma se  un  elemento  meno  denso  diviene  un  elemento  più  denso,  è  perchè il  fuoco  si  è  ti  asformato  in  umidità,  e  l'umidità  in  terra.  Così  pure perchè  il  fuoco  rinasca  dalle  altre  sostanze,  non  basta  che  gli  ele- menti primitivi  di  queste  sostanze  s'allontanino  gli  uni  dagli  altri: bisogna  una  nuova  trasformazione,  un  cangiamento  qualitativotanto  delle  parti  quanto  dei  tutto.  (Certamente  un  cangiamento qualitativo  è  necessario,  ma  esso  non  é  per  Eraclito,  come  per  gì altri  fisici  della  stessa  scuola,  che  una  conaeguenza,  —  nel  senso  lo- XXXVI §.  5.  Il  principio  deli-unità  e  immutabilità  della sostanza  è  sostenuto  della  maniera  più  radicale  da Eraclito,  il  quale  spinge  questo  principio  sino  alla conseguenza  estrema  della  identUà  dei  contrari. Eraclito  riconduce  tutte  le  differenze  dell'essere, che  costituiscono  la  moltiplicità  e  il  divenire,  alla opposizione  per  contrarietà.  La  legge  delle  cose  è, secondo  lui^  la  loro  opposizione  mutua:  tutte  le  cose sono  per  coppie  di  contrarli;  ogni  cangiamento  è il  passaggio  da  uno  stato  al  suo  stato  opposto  (1). Tutto  nasce  dalla  discordia,  dice  Eraclito  nel  suo linguaggio  figurato;  la  guerra  è  la  madre  e  la  so- vrana di  tutte  le  cose  (2);  Tarmonia  del  tutto  è  co- gico,  non   semplicemente  un  effetto  —  del  cangiamento  «li   densità  o di  posizione   reciproca   delle    parti).  La  ragione  decisiva  por  cui  si deve  ammettere  questa  interpretazione  è,  secondo  Zeller,  che  ogni altra  sarebbe  incompatibile  con  la  dottrina  fondamentale  di  Eraclito del  flusso  di  tutte  le  cose.  Una  sostanza   immutabile   non   sarebbe compatibile  con  questa  dottrina.  Per  la  stessa  ragione,  nella  dottrina che  tutto  è  fuoco  t^gli  non  vede  che  un  simbolo  della  legge  del  divenire, quantunque  Eraclito  nella  sua  propria  coscienza  non  sappia  ancora  di- stinguere, egli  dice,  tra  l'idea  generale  e  la  forma  sensibile  sotto  cui quest'idea  è  espressa.   (In  altri  termini  quantunque  Eraclito  prenda questa  dottrina  nel  senso  letterale,  e  non  come  un  semplice  simbolo. Molti  saranno,  come  me,  incapaci  di  rappresentarsi  un  simile  processo mentale  in  un  pensatore  qualunque:  se  Eraclito  prende  in  un  senso letterale  la  proposizione  che  tutto  è  fuoco,  essa  può  essere  uu   sim- bolo per  un  altro  che  filosofa  sulla  dottrina  di   Eraclito,   ma   non. per  Eraclito  stesso.  È  come  quando  Hegel  dicj  che   i   domini  reli- giosi sono  dei  simboli  della  sua  propria  tìlosofia  :    il   ciedente  am- mette questi  domini  come  dottrine  positive  e  non  come  simboli:  per Hegel  sono  simboli,  precisamente  perchè  per  lui  non  sono  più  ve- li) Diog.  Laort.  I.  X,  7.8,  Stab.  EcL  I.  58,  Filone  quis  divinarum rerum  heres  sii.  p.  509-510,  Quaest  in  Gen,  III.  5  fine. (2)  Muli.  Fr.  bT,  39,  44,  Eth.  End,  1.  Vili,  I,  11,  Plut  De  Jsid.  et  Osir^ ap.  48  e  Simpl.  in  Arist.   Cut,  f.  104  b.  (in  Muli,  illustr.  a  Fr.  37). XXXVII stituita  dall'opposizione  reciproca  delle  parti  (1|.  Que- sta proposizione  che  l'opposizione  è  una  legge  uni- versale delle  cose  si  spiega  sufficientemente  per  una generalizzazione  dell'osservazione:  questa  in  verità non  la  giustifica  che  sino  ad  un  certo  punto  (non essendo  vero  che  tutte  le  nostre  nozioni  possano distribuirsi  per  coppie  di  termini  contrari,  come  luce e  tenebre,  maschio  e  femmina,  salute  e  malattia,  ecc. a  meno  che  alcuni  dei  termini  non  siano  puramente negativi,  come  non  uomo,  non  bianco,  ecc.,  nel  qual caso  la  pretesa  legge  delle  cose  diverrebbe  una semplice  proposizione  verbale);  ma  non  deve  sor- prenderci che,  in  un'epoca  scientifica  sì  primitiva, Eraclito,  come  già  prima  di  lui  altri  filosofi,  quali Alcmeone  e  i  Pitagorici,  sia  stato  così  profonda- mente   colpito   dall'  osservazione   delle    opposizioni rità).Ma  noi  non  abbiamo  alcun  motivo  per  prendere  la  proposizione di  Eraclito  che  tutto  è  fuoco  in  un  senso   differente   delle   proposi- zioni analoghe  degli  altri  fisici,  p.  e.  di  quella   d'Anassimene   o  di Diogene  d'Apollonia  che  tutto  è  aria.  (Sia    detto   di    passaggio,   la differenza  tra  le  due  proposizioni  non  è  tanto  grande  quanto    sem- bra a  prima  vista;    perchè   Eraclito    non   sembra   rappresentarsi    il fuoco  primitivo  da  cui  tutto  è  stato  fatto,    come   una   fiamma,  ma piuttosto  come  una  sostanza   calda   e    aeriforme.    V.   Zeller   stesso p.   588,  589  e  sovratutto  la  nota  582,2)    Se    Zeller    fosse    stato    con- seguente, avrebbe    dovuto   dare  un'interpretazione   simbolica,    non della  sola  dottrina  di  Eraclito,  ma  delle  dottrine  corrispondenti  di tutti  i  fisici  che  ammettono  un  solo  elemento.  La  dottrina  del    di- venire (di  cui  d'altronde  le  Zeller  dà  un'interpretazione   iperbolica e  puramente  fantastica,  intentendo  che  le  cose  sono  ad  ogn' istante distrutte  e  nuovamente  create  come  per  incanto,  ogni  cosa  cambiando ad  ogni  momento  le  particole  materiali  che  la  costituiscono  -  v.  p.  619  - •620)  non  è  una  prova  che  Eraclito  nega  l'immutabilità  della  sostanza (nel  senso  che  ho  spiegato  perle  dottrine  dei  fisici  unizzanti  in  generale)  j (1)  Eht.  Eud.  1.  VII.  I,  11,  Muli.  Fr.  37,  38  e  93. mmm t  '    '  ■  ■■  ■>■ XXXVIII XXXIX delle  cose,  da  vedervi  una  legge  importante  della  na- tura. Noi  non  dobbiamo  per  altro  lungamente  fermar- ci su  questa  dottrina  di  Eraclito:  essa  non  c'importa per  se  stessa,  ma  solo  per  il  suo  rapporto  con  lal- tra  legge  dei  contrari,  stabilita  da  questo  filosofo. Come  l'essere  si  è  scisso  in  una  moltiplicità  di  esi- stenze reciprocamente  opposte .  e  come  passa  in- cessantemente da  uno  stato  ad  un  altro  stato  op- posto, cosi  esso,  secondo  Eraclito,  mantiene  la  sua identità  a  traverso  di  tutte  le  opposizioni.  Tutti  i contrari  sono  identici:  la  stessa  cosa  sono  il  giorno e  la  notte  (1),  il  bene  e  il  male  (2),  il  puro  e  Tim- perchè  appunto  egli  vuole    eccettuato  dalla  legge  del  cangiamento universale  l'uno  che  è  il  sustrato  permanente  di  tutti  i  cangiamenti e  di  cui  ogni  cangiamento  non  è  che  una  diversa  configurazione  (v.  A- rist.  De  Coelo  1.  Ili,  I.  3, 1.  e.  a  p  XXX  n.2)  Per  un'illusione  di  prospet- tiva  assai  naturale,  nella  tesi  del  continuo  flusso  delle  cose,  perchè  è la  più  decantata  dagli   antichi,   per  il  suo  carattere  paradossastico (V.  Arist.  Top,  1.  I.  IX,  5),  si  vede  il  pensiero  fondamentale  di  Era- clito; e  poi,  per  l'esagerazione^di  un  concetto  giusto  in  se  stesso,  che è  quello  della  connessione  intima   tra  tutte  le  parti  di  un  sistema filosofico  e  la  subordinazione  necessaria  di  certe  parti  ad  altro  più dominanti  come  in  ogni  tutto  organico  (esagerazione  che   discende direttamente  dal  preconcetto  hegeliano  di  vedere    in    ogni   sistema della  storia  la  realizzazione  di  una  categoria  logica,  o,  in  generale, di  un  momento  del  sistema  vero  e  universale-  il  quale,. del  resto» per  gli  storici  hegeliajio  —  eclettici,  alla  maniera  di  Zeller,  è  ancora, e  sarà  sempre  in  incubazione  —  )  si  pretende  che  tutte  le   idee   del sistema  devono  logicamente  derivarsi  dal   preteso   pensiero    fonda- mentale. Ma  se  vi  ha  in  Eraclito  un  pensiero   che   merita   di  esser considerato  come  fondamentale,  è  quello  ch'egli  ha  in  comune  con tutti  i  filosofi  dell'epoca  :  l'assioma  che  l'essere  non  può  venire  dal non  essere,  e  che  perciò  niente  nasce  al  fondo  e  niente  perisce.    E (1)  Fr.  89. (2)  Fr.  90;  Arist.  Top,  1.  Vili.  IV.  11,  Ph!jH.  1.  I.  II,  14. i puro  (1),  l'alto  e  il  basso  (2),  l'ascensione  e  la  di- scesa (3),  il  retto  e  il  tortuoso  (4).  La  nascita  è  morte e  la  morte  nascita  (5);  il  mortale  è  immortale,  e  l'im- mortale mortale  (6).  La  stessa  cosa  è  il  vivente  e il  morto,  il  vegliante  e  il  dormente,  il  giovane  eil  vecchio  (7).  Tutte  è  uno  (8);  Dio  è  giorno  e  notte,, està  ed  inverno,  guerra  e  pace,  fame  e  sazietà,  e tutti  i  contrari  (9);  come  tutti  gli  opposti  procedono dall'uno,  così  da  tutti  risulta  Tuno  (10).  Questo  di- scordando sempre  da  se  stesso,  concorda  sempre  con se  le  altre  proposizioni  di  Eraclito  devono  derivarsi  dal  suo  pensiero fondamentale,  la  legge  stessa  del  divenire,  cioè  la  dottrina  che  tutto è  in  movimento  e  niente  in  quiete,  (perchè,  come  abbiamo  visto,  i fisici  unizzanti,  ugualmente  che  i  meccanisti,  riducono  tutti  i  can- giamenti al  movimento)  deve  derivarsi  anch'essa  dall'assioma  dei fisici.  Il  che  noQ  è  difficile,  perchè,  se  le  proprietà  essenziali  del reale  sono  sempre  le  stesse  (ciò  che  è  il  senso  di  quest'assioma),  come- la  sostanza  primitiva,  che  è  vivente  ed  in  un'agitazione  perpetua,, potrebbe  trasmutarsi  in  una  massa  affatto  morta  ed  inerte?  (Plut. Piaci.  28:    'HpàxXlTO;    Y]p£[Xiav    TioCl    aTÒCOlV    £x    Tciv    6X(ùV àvY)Cei*  SOTl  vàp  TOOtO  'CWV  VSXCWv).  Con  la  stessa  conseguenza con  cui  gli  Eleati  concludono  dall'  assioma  della  fisica  che  tutto  è immobile  (vedi  più  giù  su  questi  filosofi),  Eroclito  ne  conclude  invece che  tutto  é  in  movimento;  ciò  che  è  dotato  di  un  movimento  spon- taneo ed  incessante  non  potendo  diventare  una  materia  inerte.. (1)   KaOapóv  e  [xiapóv.  Fr  88. (2)  Fr.  91 (3)1>.  32;91. (4)  Fr.  91. (5)  Clem.  Sfroin.  III.  iM. (6)  Ippol.  nefuL  Haere^.IX.   10  (in  Muli,  illustr.a  Fr.  62). (7)  Fr.  46. (8)  Fr.  91.';  Filone  Lei/  (illeg.  II.  62. (9)  Fr.  H6.  Le  due  ultime  antitesi,  guerra  e  pace ^  faine  e  sazietà^ indicano  i  due  stati  fra  cui  alterna  il  mondo  :  quello  della  divisione- o  del  cosmos,  e  quello  dell'unità  e  omogeneità,  in  cui  tutto  è  fuoco.. (10)  Fr.  45. XL se  stesso  (1);  la  costituzione  dell'essere  è  come  quella dell'  arco  e  della  lira  (di  cui  le  due  metà  sono  al tempo  stesso  identiche  ed  opposte)  (2). Ora  in  qual  senso  dobbiamo  noi  comprendere  le proposizioni  di  Eraclito  affermanti  l'identità  dei  con- trari ?  Siccome  queste  proposizioni,  prese  alla  let- tera, sono  inintelligibili  e  implicitamente  contrad- dittorie, perciò  potrà  credersi  necessario  di  sforzarsi a  darne  un'  interpretazione  che  le  adatti  al  senso comune,  e  tolga  ciò  che  vi  ha  in  esse  di  ripugnante. Così  p.  e.  quando  Eraclito  dice  che  il  giorno  e  la notte  sono  la  stessa  cosa,  s'intenderà,  come  fa  Zel- ler,  che  lo  stesso  essere  ora  è  chiaro  e  ora  oscuro, ovvero,  come  fa  Schuster,  che  essi  sono  la  stessa  cosa in  quanto  l'uno  e  l'altra  sono  egualmente  delle  di- visioni del  tempo  (3).  Cosi  ancora,  quando  Eraclito dice  che  la  stessa  cosa  è  il  vivente  e  il  morto  s'in- tenderà che  la  stessa  materia  attraversa  a  vicenda i  due  stati  della  vita  e  della  morte  (4).  Ma  tali interpretazioni  non  solo  sono  lontane  dal  signi- ficato naturale  delle  parole  di  Eraclito,  ma  han- no anche  contrarie  le  più  gravi  testimonfanze  de- gli  autori   antichi.   Cosi  è   nel   senso   più  letterale(1)  Plato  Conv,   187  a;  Soph,  242  d.  e. (2)  Fr.  38  e  ^. (3)  Ippolito  {Refut  Haeres  IX  10)  che  ha  conservato  le  parole  di Eraclito,  intendo  che  la  luce  è  identica  airoscurità,  il  bene  al  ma- le, ecc. (4)  Questa  sembra  essere  l'interpretazione  di  Plutarco  {ConsoUit, ad  ApolL,  X).  Il  Fr,  60  Muli,  (la  vita  e  la  mort«  è  tanto  nella  nostra vita  quanto  nella  morte)  è  una  prova  ohe  Tidontità  non  è  solo  del sustrato  materiale  della  vita  e  della  morte,  ma  della  vita  e  della morte  medesime. XLI possibile  che  Aristotile  comprende  le  proposizioni di  Eraclito:  egli  attribuisce  a  questo  filosofo  l'opi- nione che  l'esser  bene  e  l'esser  male  è  la  stessa  cosa, e  che  i  contrari  sono  identici  per  Vessenza  o  per  la definizione  (1)  (e  non  semplicemente  per  la  materia, come  nella  precedente  interpretazione  della  propo- sizione: lo  stesso  è  il  vivente  e  il  morto).  Secondo lo  stesso  Aristotile  (2)  ed  altri  autori  antichi  (3),  E- raclito  nega  il  principio  di  contraddizione,  ammette €he  allo  stesso  soggetto  appartengono  degli  attributi opposti,  e  che  le  due  proposizioni  contraddittorie sono  vere  1' una  e  l'altra.  In  effetto,  se  i  contrari sono  identici,  tanto  varrà  predicare  d'un  soggetto un  attributo  quanto  l'attributo  contrario.  È  proba- bile che  questa  conseguenza  del  principio  dell'iden- tità dei  contrari  —  che  verisimilmente  Eraclito  avreb- be respinta  —  sia  stata  dedotta  da  quegli  eraclitiz- zanti  che,  come  Cratilo,  esageravano  grottescamente le  dottrine  di  questo  filosofo,  e  ne  deducevano  delle proposizioni  scettiche:  ma  siccome  la  conseguenza derivava  effettivamente  dalla  premessa,  essa  poteva venire  attribuita,  non  senza  fondamento,  ad  Era- clito stesso  (4). (1)  Phy8,  1.  I.  II.  14. (2)  Mef,  1.  III.  III.  8,  VII.  9,  Vili.  1,  1.  X.  V.  8,  VI.  16,  Top, 1.  Vili.   IV.   1. (3)  V.   Specialm.  Sesto  Emp.  Pjrrh,  1,  210-21:^. (4)  Tanto  più  che  questo  filosofo,  per  arrivare  alla  tesi  della  iden- tità dei  contrari  (in  astratto),  cominciava  mostrando  che  lo  stesso fatto  o  la  stessa  cosa  (concreta)  presenta  degli  aspetti  contrari:  p.  e. per  provare  l'identità  del  bene  e  del  male  mostra  come  i  rimedi  dei medici  possono  essere  riguardati  al  tempo  stesso  come  beni  e  come mali  {Fr,  90)— Aristotile  non  vuole  assicurare  che  la  tesi  della  verità XLIl XLIil Noi  dobbiamo  dunque  rigettare  come  inutile  qual- siasi tentativo  di  rendere  più  intelligibile  la  tesi  di Eraclito  della  identità  degli  opposti:  per  dare  a  que- sta  tesi  un  senso  concepibile,  bisognerebbe  liberarla dalla  contraddizione  che  è  in  essa  implicata;  ma  al- lora non  sarebbe  più  la  tesi  della  identità  degli  op- posti, la  dottrina  di  Eraclito  non  sarebbe  spiegata, ma  sostituita  da  un'altra  dottrina.  11  caso  è  lo  stesso  che per  la  tesi  corrispondente  di  Hegel:  non  vi  ha  alcun mezzo  per  renderla  intelligibile,  non  è  possibile  di  da- re un  senso  a  ciò  che  è  un  controsenso.  Comprendere una  dottrina  metafisica  in  questi  casi  non  è  altra  cosa(U  tutte  e  due  le  proposizioni  contradittoric  debba   attribuirsi   aUo stesso  Eraclito.  In  Mei.  1.  III.  IH.  H  dice  «  È  impossibile  di  pensare che  la  stessa  cosa  sia  e  non  sia,  come  alcuni  credono  che  dica  Era- dito  ;  poiché  non  é  necessario  che  si  creda  tutto  ciò  che  si  dice». (Queste    ultime    parole    non    significano,    come   crede   il   Zeller  — pag.  48:M—,che  se  Aristotile  non  vuole  attribuire  categoricamente ad  Eraclito  l'opinione  in  quistione,  è  perchè  questi    V  ha   effettiva- mente enunziata,  ma  senza  credervi  o  senza  comprenderne  il  senso, ma  spiegano  in  generale    come  il  fatto  che  vi  hanno  delle  persone che  a  parole  ammettono  la  realtà  della  contraddizione,  non  sia  con- trarlo   al    principio   che  è  impossibile    di  pensare    che    la    contrad- pizione  si  realizzi).  Il    Zeller    attribuisce    ad    Eraclito    la   dottrina della  coesistenza  dei  contrari  nello  stesso  sogetto  (invece  di  quella della   identità  dei  contrarli),   e  la  deduce    dalla   dottrina  del  dive- nire continuo  di  tutte  le  cose  (FHo8,dei  G'r^ci  p. rj95-H03  ;  confr.p.678 .6S2).  Questa  deduzione  non  è  secondo  me  ammissibile,  quantumiue possa  sembrare  che  abbia  l'appoggio  dell'autorità   d'  Aristotile.  Per comprendere  il  valore  di  questa  deduzione,  bisogna  farsi  una  giusta idea  della  conseguenza  scettica  che  gli  eraclitizzanti   come   Cratilo tiravano  dalla  dottrina  di  Eraclito  del  divenire,  cioè  che  di  ciò  che diviene  niente  può  con  verità  affermarsi,  e  non  vi  ha  perciò  alcuna scienza  possibile  né  alcuna  proposizione  che  sia   vera   (Arist.   Met.. 1.  III.  V.  12,  1.  I.  VI.  1,  1.  XII.  IV.  2.    Nel  I.  di  questi  luoghi  Ari- stotile  assegna  (luesta  dottrina  a  «  qiielli  che  dicono  di  eraclitizzare  »; che  indicarne  il  motivo  e  Torigine.  Per  Hegel  il  motivo è,  come  abbiamo  detto  altrove,  la  necessità  della  iden- tità delle  idee,  perchè  possano  dedursi  le  une  dalle altre:  naturalmente  Eraclito  non  potè  esser  condotto alla  sua  dottrina,  come  Hegel,  da  considerazioni dialettiche;  l'assioma  comune  dei  fisici  spiega  que- sta dottrina  di  Eraclito  come  la  maggior  parte  delle altre  dottrine  di  questi  filosofi. negli  altri  due  la  chiama  semplicemente,  «eraclitica».  Noi  non dobbiamo  perciò  attribuirla  allo  stesso  Eraclito,  perchè  essa  è  uno scetticismo  e  un  agnosticismo  assoluto,  ed  è  incompatibile  con  la filosofia  di  Eraclito  come  con  qualsiasi  filosofia  dogmatica).  Per  in- tendere la  proposizione  di  Cratilo,  si  consideri  un  punto  in  movi- mento neir  atto  che  esso  passa  da  un  punto  determinato  dello spazio,  A,  ad  altro  punto  qualunque  .  B,  concepito  il  più  vicino ohe  sia  possibile  ad  A.  Per  quanto  il  punto  B  si  concepisca  pros- simo al  punto  A,  vi  saranno  sempre  delle  posizioni  tra  A  e  B, che  il  punto  in  movimento  deve  occupare  dopo  di  aver  lasciato  la posizione  A  e  prima  di  passare  nella  posizione  B:  ma  ciascuna  di queste  posizioni  interposte,  essendo  un  punto  distinto  da  A.  sarà separata  da  A  da  (jualche  intervallo,  ed  è  necessario  perciò  che  tra essa  ed  A  s'interpongano  altre  posizioni.  Qual  è  dunque  la  posi- zione che  il  punto  in  movimento  occupa  immediatamente  dopo  la posizione  A  ?  E  impossibile  di  dirlo,  percliè  qualsiasi  punto  si  as- segni prossimo  ad  A,  esso,  essendo  distinto  da  A,  ne  sarà  separato da  qualche  intervallo,  che  il  punto  in  movimento  deve  aver  per corso  prima  di  passare  nel  punto  assegnato,  e  perciò  questo  non può  essere  la  posizione  immediatamente  successiva  alla  posizione  A. La  posizione  immediatamente  successiva  ad  A  è  dunque  un  che  d'in- determinabile e  d'indeterminato,  di  cui  può  dirsi  soltanto  che  essa deve  essere  distinta  da  A  e  da  tutti  i  punti  distinti  da  A,  ma  sen- za poterla  in  so  stessa  indicare;  di  essa  saranno  vere  delle  proposi- zioni negative  :  non  è  A,  non  è  B,  non  é  C,  ma  non  sarà  vera  al- cuna proposizione  affermativa:  è  D.  Che  si  generalizzi  questa  dif- ficoltà implicata  nella  idea  della  continuità  del  movimento  (cfr. 2.  parte.  Le  antinomie  della  ragione),  si  avrà  il  concetto  di  un  cangia- mento universale  continuo  in  cui  ciascuno  degli  stati  successivi  è fi: V XLIY Per  l'identità  degli  opposti  ciò  che  Eraclito  vuole stabilire  è  V  unità  e  l' identità  del  tutto  ;  la  eterna perminenza  nella  sua  propria  identità  di  quest'es- sere unico  che  diviene  tutte  cose.  Il  cangiamento essendo  da  uno  stato  ad  un  altro  stato  opposto,  per- chè r  essere  resti  identico  a  se  stesso  nel  cangia- mento, bisogna  che  gli  opposti  siano  identici.  L'uno essendo  divenuto  multiplo,  e  la  varietà  essendo  co- stituita dair  opposizione,  perchè  i  molti  siano  uno, un  uno  che  nelle  A^arietà  si  ritrova  dapertutto  iden- tico a  se  stesso,  bisogna  che  gli  opposti  siano  iden- sempre  un  punto  di  transizione,  e  perciò  un  che  d'indeterminabile, posto  tra  due  stati  determinati  qualunque  :  questo  è  il  fondamento della  i)roposizione  di  Cratilo  che,  ciò  che  continuamente  diviene non  essendo  mai  in  uno  stato  determinato,  non  vi  ha  alcuna  deter- minazione che  possa  con  verità  attribuirsi  alle  cose,  le  quali  sono tutte  in  un  continuo  divenire. Ora  è  evidente  che  la  conseguenza  della  dottrina  del  divenire assoluto  non  è  secondo  Eraclito  e  secondo  la  logicala  proposizione che  tutto  è  vero,  cioè  che  raflfermativa  e  la  negativa  sono  entrambe vene  e  che  i  contrari  coesistono  allo  stesso  tempo  nello  stesso  sog- getto ;  ma  piuttosto  la  proposizione  che  niente  è  vero,  che  nes- suno dei  due  attributi  contrari  appartiene  in  realtà  al  soggetto  chediviene,  che  passa  dall'  uno  all'altro  dei  due  stati  contrari,  e  che ogni  aifermazione  è  falsa  (e  quindi  anche,  può  dirsi,  ogni  negazione, in  quanto  la  proposizione  negativa  si  consideri  come  implicante  l'af- fermazione di  uno  o  un  altro  degli  attributi  positivi  compresi  nel giro  del  termine  negativo,  che  è  l'attributo  della  proposiziono  ne- gativa,  se  si  dà  a  questa  la  forma  infinitiva— p.  e  è  non  bianco  im- plica l'affermazione  di  uno  o  un  altro  dei  colori  distinti  dal  bianco—). Perciò  quando  Aristotile  parla  della  dottrina  eiaclitica  che  tutto è  vero,  non  può  essere  quistione  di  una  deduzione  dalla  dottrina del  divenire,  ma  noi  dobbiamo  i)ensare  piuttosto  a  una  dcau- zione  dalla  dottrina  della  identità  dei  contrari.  Lo  stesso  Aristo- tile parla,  è  vero,  come  di  una  conseguenza  della  dottrina  del  di- venire, dell'  opinione  che  le  due  proposizioni  contraddittorie  pos- .sono  emettersi  egualmente  sullo  stesso  soggetto  (Mei,  1.   X.   VI.  9): XLV tici.  In  una  parola  il  principio  di  Eraclito  è  che l'essere  non  può  cangiare  di  natura  e  di  proprietà; perciò  tutti  gli  stati  differenti  che  esso  successiva- mente attraversa  devono  essere,  al  fondo,  identici. Eraclito  spinge  assai  più  in  là  che  gli  altri  Usici unizzanti  il  concetto  dell'immutabilità  della  sostan- za :  per  questi  l'identità  dell'essere  non  è  che  una identità  materiale;  ma  per  Eraclito  l'unità  e  l'iden- tità del  tutto  non  consiste  semplicemente  in  ciò  che un  sustrato  materiale  uno  e  sempre  identico  a  se stesso  soggiace  a  tutte  le  forme  che  costituiscono  gli esseri  differenti  (dando  anche  alla  identità  materiale il  senso,  che  noi  abbiamo  attribuito  alle  dottrine  di ma,  come  risulta  dal  contesto,  quest'opinione  non  consiste  a  preten- dere che  le  due  proposizioni  sono  vere  l'una  e  l'altra,  ma  che,  l'una non  essendo  vera  più  dell'altra,  si  ha  tanta  ragione  di  affermare runa  <iuanta  se  ne  ha  di  affermare  l'altra  (Cfr.Plat.  TeetA^2  d-lK3  b). D'  altronde  Aristotile  riconosce  che  la  dottrina  del  divenire  è  in contraddizione  con  la  proposizione  che  tutto  è  vero  o  che  i  contrari coesistono  nello  stesso  soggetto  {3fet.  1.  III.  V.  16),  e  che,  mentre Eraclito  fa  tutto  vero,  la  consegifenza  della  dottrina  del  divenire è  invece  che   tutto  è  falso    (Cfr.  specialmen    Mei.  1.  III.  VII.  9  con Met.  1.  Ili    Vili.  6). Ao'<'iun<»^eremo  infine  sull'interpretazione  di  Zeller  della  teoria dei  contrari  di  Eraclito,  che,  quand'ancte  la  coesistenza  dei  con- trari potesse  riguardarsi  come  una  conseguenza  della  dottrina  del continuo  divenire,  nessuna  forse  delle  proposizioni  particolari  di Eraclito  che  noi  conosciamo  (lo  stesso  è  il  giorno  e  la  notte,  il  vi- vente e  il  morto,  ecc.)  si  presterebbe  al  una  tale  deduzione  (dato  e non  concesso  che  tali  proposizioni  affermino  la  coesistenza  dei  con- trari, e  non  la  loro  identità)  ;  perciò  bisognerebbe  che  ciascun  mo- mento del  tempo  fosse  il  punto  di  transizione  tra  il  giorno  e  la  notte, che  ciascun  istante  della  nostra  esistenza  fosse  il  confine  tra  la vita  e  la  morte,  ecc.  Cosi  pure  quando  Sesto  Empirico  (l.  e.)  attri- buisce ad  Eraclito  l'opinione  che  il  miele  è  al  tempo  stesso  dolce  ed amaro,  noi  possiamo  pensare  ad  una  deduzione  dalla  teoria  dell'i-^ denti tà  dei  contrari,  ma  non  da  quella  del  continuo  divenire. XLYI XLYII questi  fisici,  di  una  sostanza  materiale  sempre  iden- tica a  se  stessa  di  cui  non  cangia  che  la  posizione nello  spazio)  ;  le  forme  stesse  che  riveste  successi- vamente il  sustrato  materiale,  cioè  le  qualità  diffe- renziali  e  le  energie  specifiche  per  cui  i  vari  esseri, costituiti  dalla  stessa  materia,  si  distinguono,  si  ri- solvono, per  Eraclito,  nell'  uno  e  nell'  identico  (1). Ma  alla  quistione  :  come  queste  forme  differenti siano  identiche,  cioè  come  la  loro  differenza  possa conciliarsi  con  la  loro  identità,  sarebbe  inutile  di attendersi  da  Eraclito  una  risposta  precisa  o  sem- plicemente intelligibile.  Perciò  egli  dovrebbe  fare le  parti  tra  ciò  che  \\  ha  nelle  cose  d' identico  e ciò  che  vi  ha  in  esse  di  differente  o  di  opposto;  in- vece non  troviamo  in  lui  che  quest'  asserzione  — contraddittoria  se  la  prendiamo  alla  lettera,  vaga se  vi  cerchiamo  un  senso  qualunque  — che  gli  op- posti sono  identici.  La  proposizione  di  Eraclito  che gli  opposti  sono  identici  non  è  per  altro  né  più né  meno  contraddittoria  delle  proposizioni  dei  fisici unizzanti  in  generale  che  tutto  è  aria  o  che  tutto  è fuoco  (proposizioni  incompatibili  con  resistenza  di altre  sostanze  distinte  dall'  aria  o  dal  fuoco).  Noi abbiamo  osservato  che  in  quest'ultimo  caso  la  con- ci) Arist.  Phìj»,  1.  I.  II  14  :  Se  gli  Eleati  dicono  che  tutto  è  uno secondo  la  definizione,  ciò  tornerà  a  sostenere  la  tesi  di  Eraclito. Lo  stesso  sarà  il  bene  e  il  male,  lo  stesso  1'  uomo  e  il  cavallo  — Asclepio! Schol  ia  Arist.652  a)  dice  che  per  Eraclito  vi  ha  una  defi- nizione unica  per  tutte  le  cose,  proposizione  che  certamente  non può  attribuirsi  ad  Eraclito,  ma  che  esprime,  quantunque  in  una éorma  troppo  rigida,  il  pensiero  di  questo  fìlosoto  dell'  unità  eè»fn- •zialey  e  non  semplicemente  materiale^  di  tutte  le  cose. traddizione  nasce,  perchè  il  principio  ammesso  a priori,  in  forza  di  un  sofisma  naturale,  dell'immu- tabilità della  sostanza,  coesiste  nello  spirito  di  que- sti filosofi  col  fatto,  dato  dairosservazione,  del  can- giamento di  una  sostanza  in  un'altra  sostanza;  cosi nel  caso  di  Eraclito,  il  principio,  ammesso  a  priori in  virtù  dello  stesso  sofisma,  che  tutte  le  cose  sono identiche  di  natura,  perchè  la  natura  delle  cose  (le quali  tutte  sono  costituite  della  stessa  materia  e perciò  reciprocamente  convertibili)  non  può  can- giare,  coesiste,  noi  pensiero  di  questo  filosofo,  col fatto,  dato  dall'  osservazione,  dell'  esistenza  di  cose aventi  delle  nature  differenti  e  reciprocamente  op- poste. 11  principio  e  il  fatto,  l'identità  e  l'opposi- zione, non  si  escludono  per  Eraclito,  quantunque siano  esclusive  Tuna  dell'altra;  esse  si  consiunsono, ma  non  si  conciliano,  nella  formula  contraddittoria della  identità  degli  opposti  It). (1)  Aristotile  dà  come  motivo  di  una  delle  opinioni  che  negano il  i)rincipio  di  contraddizione,  l'assioma  dei  fisici  ehe  V  essere  non può  venire  dal  non  essere  {il  qual  motivo  prova  l'origine  fisica  della dottrina  fondata  su  di  esso,  dottrina  perciò  che,  tra  le  diverse  opi- nioni sovversive  del  i)rincipio  di  contraddizione,  noi  dobbiamo  rico- noscere per  quella  della  scuola  di  Eraclito).  Quando  una  cosa  passa da  uno  stato  ad  un  altro,  il  secondo  stato  verrel)be  dal  non  essere, se  i  due  stati  fossero  semplicemente  contrari,  e  non  al  tempo  stesso identici,  di  guisa  che  il  secondo  stato  preesistesse  in  certo  modo  nel primo  :  questo  non  deve  essere  perciò  uno  solo  dei  due  contrari,  ad esclusione  assoluta  dell'altro,  ma  in  certo  modo  anche  l'altro  (V.Mei,  1.  X.  VI.2-3;  cfr.  1.  III.  V.  B.)  Il  motivo  addotto  da  Aristotile  coin- cide al  fondo  con  quello  che  noi  abbiamo  assegnato  alla  dottrina  di Eraclito:  non  si  deve  che  applicare  alla  dottrina  dell'  identità  dei contrari  l'argomento  che  Aristotile  applica  invece  alla  sua  conse- guenza, cioè  a  quella  della  coesistenza  dei  contrari  nello  stesso  sog- l^etto. •  -  'A '  li -■<  /•■,. XLVIII IL §  6.  Gli  Eleati  sì  accorsero  che  il  principio  dell'u- nità e  immutabilità  della  sostanza  è  incompatibile  col fatto  della  pluralità  e  del  cangiamento  :  così,  per salvare  il  principio,  essi  rigettarono  il  fatto,  dichia- randolo  una  semplice  apparenza  senza  realtà. La  proposizione  fondamentale  degli  Eleati,  come di  Eraclito,  e  in  generale  dei  fisici  unizzanti,  è  che tutto  è  uno  (1).  Quest'  uno  è  per    gli   Eleati,  come pei  fisici  ionici,  il  sustrato  unico  e  permanente  di tutto  ciò  che  i  sensi  ci  presentano,  la  sostanza  co- mune di  tutti  i  corpi.  Gli  Eleati  descrivono  l'Essere come  una  massa   continua,    senza    lacune  prodotte dal  non  essere  cioè  dal  vuoto  (2),  omogenea  (3),  senza differenza  di  densità  (4),  immobile  tanto  nella  tota- lità  quanto  nelle  parti  (5).  Esso  è  infinito  di  gran- dezza, secondo  Melisso  (6);  finito  e  di  forma  sferica, secondo  Parmenede  (7).  La  differenza  tra  Fune  de- (1)  Proposizione   che  noi    dobbiamo   distinguere  da  quosf  altra: Tessere  è  uno  ;  perchè  mentre  questa  non  indica  che  la  soppressione della  moltiplicità.  la  prima  indie,  pure  la  riduzione  deUamoltìph. cita  all'unità.  Cosi  Timone  la  dire  a  Xenofane  che  dapertutto  ove rivolge  il  suo  pensiero,  tutto  si  risolve  per  lui  in  un'essenza  xmica sempre  identica  a  se  stessa  (Versi  82-87  Mullach)  V.  ^"<^^^^' /^j/^J fané,  Teofrasto  ap.  Simpl.  Phljs,  5b,  Sesto  Empir.  PijTrh.  I.  22o,  ecc. Pe^gli  Eleati  posteriori,  oltre  il  luogo  di  Parmenide  che  tra  poco  ri- porterò  nel  testo,  v.  Plato.  Teet.  IHO  e,  Soph.  242  d,  Anst^Phys   •  I  . (8,  11,  14),  ITI.  (1,  3),  Gen.  et  Corr.  L  Vili.  (3-4),  Met.  I.  3  (1041),  II. IV.  (26),  XI,  X.   (8\,  ecc.  ..      »    •  ^    r. (2)  Parmen.  V.  78-81,  90-9^,  106-108;  Mei.  Fr.  5,14;  ctr.  Arist.  De Gen.  et  Corr.  I.  Vili.   (2). (3)  Parmen.  78  e  sqq. (4)  Mei.   Fr.   5,  14;  cfr.  Parmen  1.   e.  ^    ..     ' (5)  Parmen.  V.  60,  82-87,  90-93,  97-101  ;  Mei.  Fr.  5,  14. (6)  Mei.    Fr.  2,  3,  8,  10;    Arist.    Do  Gen.    et  Corr.  I.  Vili,  (.i), Phys  I.  II.   (10,  13),  Met.  I.   V.   (10).  ^  ^.r  .   t   q (7)  Parmen.  V.  82-89,  102-109  ;  Teofrasto  ap.  Alex,  ad  Met.  1.  d. gli  Eleati  e  1'  uno  dei  fisici  ionici  è,  come  osserva Aristotile  (1),  che  i  primi  non  negano  soltanto,  co- me i  secondi,  la  generazione  e  la  corruzione,  ma anche  il  movimento  e  ogni  specie  di  cangiamento in  generale;  per  conseguenza  anche  ogni  moltipli- cità, questa,  secondo  la  dottrina  dei  fisici  unizzanti, non  essendo  che  un  risultato  del  cangiamento.  Que- st'  universo,  dice  Parmenide,  tutte  queste  cose  che gli  uomini,  ritenendole  come  reali,  dicono  essere  e non  essere,  nascere  e  perire,  mutar  di  luogo  e  cam- biar di  colore^  tutto  ciò  non  è  in  realtà  che  un  solo essere,  unico,  immobile,  senza  principio  e  senza  fine, permanente  sempre  nello  stesso  stato  (2).  Il  pensiero rientra  anch'esso  in  quest'unità;  esso  non  è  distinto dall'essere,  perchè  non  yì  ha  niente  all'infuori  del- l'essere,  e  questo  è  unico  e  sempre  identico  a  se stesso  (3). Alcuni  espositori,  come  il  Zeller,  trovano  il fondamento  del  sistema  eleatico  in  un  argomento capzioso,  per  cui  Parmenide  cerca  di  provare  1'  u- nità  assoluta  dell'essere.  All'infuori  dell'essere,  egli dice,  non  potrebbe  esservi  che  il  non  essere;  ma il  non  essere  è  niente;  dunque  l'essere  è  unico  (4). Noi  non  possiamo  ammettere,  come  abbiamo  al- tre volte    osservato,    che    un    sistema  metafisico  si (1)  Met.  I.  III.  10. (2)  V.  93-101,  82-86. (3)  Parmen.    V.  94  sqq.,  43-44. (4)  Io  ho  esposto  l'argomento  sotto  la  forma  in  cui  lo  dà  Teofra- sto (ap.  Simplic.  in  Phf/a  25  a).  V.  anche  per  questo  argomento  (che non  potrebbe  ricavarsi  dai  soli  frammenti  di  Parmenede)  Arist.. Phfjs  I.   III. 4  «qq.,  Met,   I.  V.   11,  II.   IV.  26,  XIII.  II.  4. ^1 fondi  sovra  un  sofisma  puraimente ////>/>)  ^  perchè allora  la  metafisica  non  sarebbe  che  una  volgare sofistica.  Tra  il  processo  del  metafìsico  e  quello  del sofista  non  vi  sarebbe,  in  questo  caso,  altra  diffe- renza che  neirintenzione  :  ma  questa  differenza  ren- derebbe anche  più  incomprensibile  l'origine  della metafìsica;  ciò  che  è  inconcepibile  è  che  delle  con- vinzioni così  contrarie  al  senso  comune  siano  pro- dotte da  motivi  così  poco  idonei.  Parmenide  ha potuto  credere  alla  forza  probante  del  suo  sofisma. ma  dopo  che  già  era  convinto  della  sua  tesi  per  altri motivi,  e  questi  motivi  non  possiamo  cercarli  che in  qualcuno  dei  soHsmi  naturali  à^Wo  spirito  umano. Per  ricondurre  il  sistema  degli  Eleati  ai  sofismi  a priori  del  nostro  spirito,  e  metterlo  al  tempo  stesso in  connessione  con  le  idee  dominanti  dell'  epoca, noi  non  possiamo  che  dedurle,  con  Aristotile  (1), dall'assioma  della  fisica  che  l'essere  non  può  né  co- minciare né  finire,  deduzione  che  in  effetto  noi  tro- viamo nei  frammenti  stessi  di  questi  filosofi  (2).Grli  Eleati  non  concepiscono,  non  solo  che  la  ma- teria possa  cominciare  e  finire,  ma  anche  che  le cose  possano  cangiare  di  natura  e  di  qualità  (ciò che,  non  bisogna  dimenticarlo,  è  il  senso  dell'  as- sioma dei  fisici).  Così  secondo  loro  la  moltiplicità non  sarebbe  possibile  che  ad  una  sola  condizione  : che  vi  fossero   molte   sostanze  inconvertibili  1'  una (1)  Phys.  I.  Vili. (2)  V.  Parmen  V.  67-77,  82^  e  Mei  Fr.  1,  6,  U,  12,  13,  17.  Per Xenofane  vedi  De  Melisso  ecc.  e.  3  in  principio,  Simplicio  P/iy«  f.  5, Plittarco  ap.   Euseb.  Pr.  ev    I.  8. LI neir  altra  e  qualitativamente  immutabili.  «  Se  vi fossero  molte  cose,  dice  Melisso,  esse  dovrebbero essere  tali  quale  io  suppongo  Tuno.  Se  é  in  realtà la  terra  e  l'acqua  e  l'aria  e  il  ferro  e  l'oro  e  il  fuoco,  e questo  vivente  e  quello  morto,  e  il  bianco  e  il  nero,  e tutte  le  altre  cose  che  gli  uomini  credono  reali;  se queste  cose  sono,  e  noi  rettamente  vediamo  e  udia- mo ;  ciascuna  cosa  deve  continuare  ad  esser  tale quale  ci  é  sembrata  la  prima  volta,  e  non  mutarsi né  divenire  altra,  ma  essere  sempre  tale  quale  essa è.  Ora  noi  diciamo  che  rettamente  vediamo  e  udia- mo e  intendiamo;  intanto  ciò  che  è  caldo  ci  sembra diventare  freddo  e  ciò  che  è  freddo  caldo,  ciò  che  è molle  duro  e  ciò  che  è  duro  molle,  e  il  vivente  morire e  risultare  dal  non  vivente,  e  tutte  queste  cose  mutarsi, e  ciò  che  é  stato  ed  è  non  essere  mai  simile  a  se  stesso. Sicché  é  chiaro  che  non  rettamente  noi  vediamo  né rettanif^nte  queste  cose  sembrano  esser  molte.  Non  si muterebbero  infatti,  se  fossero  vere;  ma  ciascuna cosa  sarebbe  sempre  tale  qual  essa  ci  é  apparsa. Se  ciò  che  é  si  mutasse,  V  essere  perirebbe,  e  il non  essere  verrebbe  all'  esistenza  »  (l).  Parmenide, nella  seconda  parte  del  sno  poema,  in  cui  egli  vuol mostrare  come  le  cose  dovrebbero  concepirsi  nel- cepirsi  nell'ipotesi  che  l'opinione  comune  (che  am- mette la  realtà  del  multiplo  e  del  cangiamento)  fosse vera,  espone  una  fisica  meccanista,  in  cui  le  cose si  producono  per  la  mescolanza  di  due  sostanze primordiali,  contrarie  l'una  all'altra  e  ciascuna  sem- (1)  Fr.  17. -r~T LII LUI ( pre  identica  a  se  stessa  (1).  Questa  fìsica  non  sem- bra a  Parmenede  soddisfacente,  essendo  per  lui  un errore  di  ammettere  più  sostanze  primordiali  —  non bisogna  ammetterne,  egli  dice,  che  una  sola  (2)  —  ; e  se  si  domanda  perchè  gli  Eleati,  dopo  avere  in- travista la  possibilità  di  una  tal  fisica,  le  avessero non  pertanto  preferito  la  dottrina  per  noi  meno soddisfacente  dell'Uno  immobile,  noa  si  può  dare  al- risposta  se  non  che  la  supposizione  di  una  plu- ralità di  principii  materiali,  con  tutte  le  altre  ipo- tesi accessorie  della  fìsica  meccani  sta,  sembrava loro  in  contraddizione  coll'esperienza;  dalPosserva- zione  che  le  forme  più  differenti  della  materia  (cor- rispondenti a  ciò  che  gli  antichi  chiamano  i  quattro elementi)  sono  convertibili  Funa  nell'altra,  essi  ne concludevano,  come  tutti  i  fisici  che  li  avevano  pre- ceduti, che  vi  ha  una  sostanza  materiale  unica,  la quale  prende  a  vicenda  tutte  le  forme. Noi  non  abbiamo  alcuna  difficoltà  a  comprendere come  1'  assioma  dei  fisici  'conducesse  a  negare  la realtà  di  ciò  che  gli  antichi  chiamano  generazione e  corruzione  (p.  e.  la  trasformazione  degli  elementi materiali  l'uno  nell'altro,  o  la  produzione  di  un  es- sere vivente  e  il  suo  ritorno  allo  stato  di  materia bruta);  in  effetto  questi  fatti  sono  direttamente  in contraddizione  col  principio  che  V  essere  non  può avere  coniinciamento  né  fine.  Noi  riattacchiamo pure  facilmente  allo  stesso  principio  la  negazione della  realtà  di'  ciò  che  gli  antichi  chiamano  altera-,1)  Versi  113-131. (2)  V.  114. 4i| t ìsione  (p.  e.  il  cangiamento  di  colore  o  delle  altre proprietà  sensibili):  noi  abbiamo  visto  infatti  che  i  fi- sici meccanisti  tiravano  da  questo  principio  la  stessa conseguenza.  Ciò  che  sembra  diffìcile  è  di  derivare dall'assioma  dei  fisici  la  negazione  della  realtà  del movimento.  Infatti  se  i  fisici  concepiscono  più  fa- cilmente che  le  cose  conservino  le  loro  qualità  an- ziché il  cangiamento  di  queste  qualità,  e  preten- dono per  conseguenza  o  di  ricondurre  al  primo  il secondo  di  questi  fatti  (i  meccanisti)  o  di  ridurlo a  un  semplice  fenomeno  senza  realtà  (gli  eleati),  è perchè  il  primo  fatto  è  per  noi  assai  più  familiare ehe  il  secondo  :  ma  il  cangiamento  di  luogo  non essendo  per  noi  un  fatto  meno  familiare  che  la persistenza  nello  stesso  luogo,  non  si  vede  quale difficoltà  gli  Eleati  potessero  trovarvi. Tuttavia,  quantunque  la  negazione  della  realtà  del movimento  non  derivi  immediatamente  dall'assioma dei  Usici,  ne  può  essere  dedotta  indirettamente  :  si vedrà  in  effetto,  considerando  la  quistione  dell'ori- gine del  movimento,  che  vi  ha  connessione  tra  que- sta negazione  e  la  conseguenza  immediata  dell'as- sioma, che  è  la  non  realtà  del  cangiamento  di  es- senza e  di  proprietà;  connessione  la  quale  parrà più  evidente,  se  si  rifletterà  che  per  gli  antichi, ignorando  essi  la  dottrina  moderna  della  conserva- zione dell'energia,  e  credendo  che  vi  ha  ad  ogni istante  annichilazione  di  movimento,  la  perdura- zione  del  movimento  nell'  universo  supponeva  ne- cessariamente che  r  annientamento  del  movimento in  una  parte  venisse  compensato  dalla  produzione di  movimento  in  un'  altra   parte.  Perciò  bisognava LIV LY o  che  la  materia  avesse  in  qualcuna  delle  sue  forme il  potere  di  produrre  spontaneamente  il  movimento (p.  e.  l'aria,  secondo  Anassimene  e  Diogene,  il  fuoco, secondo  Eraclito),  o  che  questo  potere  appartenesse ad  un  essere  diverso  dalla  materia  (come  nei  siste- mi degli  spiritualisti,  Anassagora,  Platone,  Aristo- tile, ai  quali  Parmenide    stesso    sembra    accostarsi nella  seconda  parte  per  le  figure  mitiche  di  Afro- dite e  di  Eros).  Neil'  ipotesi  d'  una  sostanza  unica, la    possibilità    di  qualche   cosa  capace  di  produrre spontaneamente  il  movimento,  era  legata  alla  pos- sibilità del  cangiamento  nelle  proprietà  e  l'essenza delle  cose,  cioè  a  quella  che  la  stessa  sostanza  da materia    inerte    (che  è  la  forma    più  abituale  sotto cui  essa  ci  apparisce)  si  mutasse  in  un  essere  attivo e  vivente.  Non  ammettendo   questa  possibilità,  gli Eleati    rendevano    impossibile  l'origine  del  movi- mento, e  quindi  il  movimento  stesso.  Essi  non  po- trebbero   nemmeno    cercare    1'  origine    del    movi- mento nei  mutamenti  di  luogo   che   accompagnano l'alterazione   delle   sostanze  (p.  e.  quando  l'acqua si   cangia   in    vapore   o   il    vapore    in    acqua)    (1). perchè  quest'alterazione   non  essendo   secondo  essi reale j  il  movimento  che  l'accompagna  non  può  essere nemmeno  reale.  Un  movimento  originario  (cioè  che non  fosse  l'effetto  di  un  movimento  anteriore),  .iella supposizione    della    unità   e    immutabilità    assoluta della    sostanza,  non  sarebbe    possibile  che  ad  una condizione:  cioè  che  la  facoltà  di  produrre  questo movimento  potesse   considerarsi   come  una   qualità (1)  Confr.  Plato  Tim.  6S  a-c. immutabile  della  sostanza,  e  quindi  che  esso  si  pro- ducesse continuamente  in  tutta  la  materia— in  tutte le  sue  p;irti  e  a  ciascun  istante  della  durata  — con la  stessa  energia  e  la  stessa  direzione.  Sarebbe  un'i- potesi simile  a  quella  di  Herbart  del  divenire  asso- luto o  movimento  senza  causa  nel  suo  trilemma  del movimento  (1).  Una  tale  ipotesi  essendo  in  contradi- zione con  l'esperienza,  gli  Eleati  ne  concludono  che il  movimento,  impossibile  nella  sua  origine,  non  è che  un'apparenza  senza  realtà  (2). Applicando  M.'uno  dei  lìsici  ionici  il  principio della  non  realtà  di  qualsiasi  specie  di  cangiamento, noi  avremo  Vuno  degli  Eleati,  coi  caratteri  astratti e  negativi  con  cui  questi  filosofi  lo  concepiscono. L'idea  dirigente  è  che  bisogna  eliminare  dal  reale ciò  che  è  variabile,  e  non  ritenere  per  vero se  non  ciò  che  resta  invariabile  a  traverso  tutti  i cangiamenti.  Di  là  l'omogeneità  assoluta  dell'Essere in  tutte  le  sue  parti.  Tutte  le  differenze  che  noi  per- cepiamo nelle  diverse  parti  della  materia  essendo delle  forme  che  una  stessa  materia  può  successiva- mente  prendere  e  lasciare  (poiché,  secondo  la  dot- trina dei  fisici  unizzanti,  una  stessa  materia  sog- giace a  tutte  le  forme),  ne  segue  che  alcuna  di  esse non  è  reale,  secondo  gli  Eleati,  poiché  il  reale  non è,  secondo  essi,  che  l'invariabile.  Per  conseguenza (1)  Introduzione  alla  filosofìa,  §  104-11  ">. (2)  Aristotile  {MeU  1.  LUI,  10),  dopo  aver  parlato  della  quistione del  principio  del  movimento,  dice  :  Alcuni  di  <iuesti  che  ammisero ruuo  (gli  Ebati),  co«J€  vinti  da  questa  difficoltà,  dicono  immobile  l'uno e  tutta  la  natura. LVI le  parti  dell'  Uno  non  possono  differire  per  il  co- lore (1)  o  per  la  densità  (2)  o  per  qualsiasi  altra qualità  sensibile,  tutte  questt?  determinazioni  non essendo  che  semplici  fenomeni,  apparenze  senza realtà.  L'Essere  degli  Eleati  è,  al  fondo,  un  essere astratto  (3),  il  cui  concetto  si  ottiene  per  la  soppres- sione di  tutte  le  determinazioni  che  differenziano  i diversi  esseri  particolari;  esso  non  può  che  essere assolutamente  omogeneo,  una  volta  che  si  è  fatta astrazione  di  tutte  le  differenze  del  reale  dato  dai sensi.  Secondo  questo  processo  di  eliminazione  gli Eleati  avrebbero  dovuto  negare  dell'Uno  tanto  il riposo  quanto  il  movimento,  poiché  l'inerzia  e  l'at- tività ci  sono  date  l'una  e  l'altra  come  due  stati variabili  dello  stesso  essere  (di  una  stessa  materia). Ma  non  era  possibile  di  concepire  che  un  essere esteso  nello  spazio  (come  gli  Eleati  si  rappresen- tavano l'Uno  e  come  doveano  necessariamente  rap- presentarselo, non  essendo  esso  altra  cosa  che  il  su- strato  comune  e  immutabile  di  tutti  gli  esseri  sen- sibili) non  fosse  né  in  riposo  né  in  movimento. Tuttavia  (visto  che  un  essere  esteso  senza  colore, senza  densità  determinata,  ecc.  non  é,  al  postutto, meno  inconcepibile)  noi  potremmo  forse  ammettere (1)  V.  Melisso  Fr.  17  1.  e. (2)  V.  Fr.  5,  1.  e. (3)  E  notevole  che  Aristotile  chiama  V  Essere  degli  Elati  aÒTÒ TO  OV  {Phys,  1.  1,  Vili,  2).  applicandogli  una  denominazione  ch'egli non  snoie  applicare  che  alle  Idee  platoniche  (del  resto,  conforme- mente allo  stesso  Platone),  e  talvolta  anche  ai  principii  dei  Pitago- rici, ehe  non  sono  anch'essi  che  delle  entità  astratte.LVII che  ^li  Eleati,  negando  dell'Essere  il  movimento, non  intendevano  perciò  affermarne  la  quiete:  il  loro vero  pensiero  potrebbe  essere  quello  che  Teofrasto sembra  attribuire  a  Xenofane,  cioè  che  l'Essere  non è  né  in  movimento  né  in  riposo,  e  che  la  sua  eterna permanenza  nello  stesso  stato  deve  intendersi  di uno  stato  che  esclude  tanto  il  riposo  quanto  il  movi- mento (1).  Al  processo  di  eliminazione  di  cui  abbia- mo parlato  aggiungiamo  la  negazione  del  vuoto  (dot-trina comune  a  tutti  i  fisici  eccetto  gli  atomisti),  e avremo  tutti  i  caratteri  distintivi  dell'Essere  eleatico. Non  essendovi  alcun  vuoto  che  possa  separarne  le parti,  e  queste  non  potendo  nemmeno  staccarsi  le  une dalle  altre  per  il  movimento,  l'Essere  è  necessaria- (1)  V.  Sim[)licio    in    Phfjs   commento  al  1.  I,  e.  II  d'  Aristotile; «tr.  De  MelHHo  ecc.  e.   b..  TootVasto  dice,   secondo    Simplicio: jxiav  Ss  TfjV  àfyY)v  r^Toi  sv  tò  ov  xai  ;rav,  >ta\  o'jts :re7U£pao[j.£vov  oSts  aTusioov,  oSts  %tvou[j.svov  outs  Y]ceaoiiv l]sV0CpàvYjV...  ÙTUOTLOscOai  (l'essere  e  il  tutto  non  è  né  finito  né  infi- nito, sia  pere  h^,  come  e  indicato  nel  De  MhIìhho  ecc.  1.  e,  quantunque esso  non  sia  infinito,  la  limitazione  non  potrebbe  nemmeno  attribuir- glisi,  perchè  in  «lucsto  caso  dovrebV>e  essere  limitato  da  <iualche  altra cosa;  sia  perché  Xenotane  si  é  contraddett.>,  ora  attribuendo  al  mondo la  forma  sferica,  con  che  egli  veniva  a  negare  la  sua  infinità,  e  ora ammettendo  che  la  profondità  della  terra  e  l'alt^iz/.a  dell'aria  si  e- stendono  all'infinito,  con  che  veniva  a  negare  la  finità  del  mondo). Il  Zeller  crede  che  Simplicio  ha  mal  compreso  le  parole  riferite  di Teolrtiato,  spiegandole  egli  stesso,  senza  appoggiarsi  più  su  questo autore,  nel  modo  che  é  stato  esposto  nel  testo,  e  che  il  vero  senso di  queste  parole  é  che  Xenofane  non  dice  se  l'essere  primitivo  ó  in riposo  o  In  movimento.  Ma  quest'interpretazione  mi  sembra  inam- missibile, non  fosse  altro  per  la  ragione  che,  se  Xenofane  non  si fosse  pronunziato,  e  :me  crede  Zeller,  mila  quistione  del  movimento dell'essere,  Teofrasto  non  potrebbe  concluderne  eh'  egli  non  ha  sta- bilito niente  su  questa  quistione:  ciò  che  dovrebbe  concludersi  in- vece dal  silenzio  di  Xenofane  é  che  epjli  ha  mantenuto,  al  contrario LVIII LIX mente  unico  e  indivisibile  (1),  e  noi  comprendiamo come  la  realtà  del  multiplo  sia  negata  dagli  Eleati d'una  maniera  tanto  recisa  quanto  quella  del  can- giamento. Ora  qual  è  il  senso  che  gli  Eleati  attaccavano  a queste  negazioni?  Annientavano  essi  d'una  maniera assoluta  la  pluralità  e  il  cangiamento,  per  conse- guenza tutta  la  natura  sensibile,  o  conservavano  ai fenomeni  un  resto  di  realtà?  È  una  quistione  di- battuta fra  gli  espositori:  la  prima  interpretazione sembra  la  più  conforme  al  senso  più  ovvio  delle  propo- sizioni degli  Eleati,  ma  la  seconda  ha  una  verosimi- glianza intrinseca  assai  più  grande,  e  può  anche invocare  in  suo  appoggio  Tautorità  di  molti  autori antichi,  tra  cui  alcuni  conoscevano  certamente  nella loro  integrità  gli  scritti  di  questi  filosofi  (2).  Il  con- cetto di  fenomeno^  di  apparenza,  e  quello  correlativo di  essere,  di  realtà,  che  netti  e  recisi  come  sono  per il  senso  comune,  sembrerebbero  non  poter  dar  luogo ilei  suoi  snnccssori,  la  realtà  del  niovirnento,  poiché  «luando  un  fi- losofo non  ne^a  un  daU  del  senso  comune,  si  devo  intendere  ch'egli lo  ammette:  e  nel  fatto  lo  «tesso  Zeller,  inferendo  dal  presunto  si- lenzio di  Xenofane,  é  quest'opinione  che  gli  attribuisce.  In  verità noi  potremmo  intendere  le  parole  riferite  di  Teofrast.»  (ammettendo col  Zeller  che  nell'esposizione  di  Simplicio  non  vi  sia  niente  altro che  si  debba  a  quest'autore)  nel  senso  che  Xenofane  non  ha  stabi- lito né  la  realtà  del  movimento  né  la  sua  non  realtà,  ma  nell'ipotesi che  in  questa  quistione  vi  fosse  in  questo  filosofo  <iualche  contrad- dizione come  in  quella  della  limitazione  del  mondo.  Più  giù  avremo occasione  di  tornare  su  questa  indicazione  di  Teofrasto. (1)  V,  Parmenide  versi  78  SI,  Melisso  Fr.  15,  Arist.  l)t  (fenerat  et cornipt,  1,  I.  vili.  2. (2.  Come  di  Plutarco  (v.  Adi\  Col.  13)  e  Simplicio  (v.  in  Phgn,  coni- mento  al  1.  I,  e.  II  d'Aristotile). * ad  alcuna  incertezza  od  equivoco,  non  hanno,  per alcuni  metafìsici,  che  un  senso  vago,  il  quale  non potrebbe  indicarsi  senza  riunire  dei  termini  contrad- dittori. Per  Platone,  per  Hegel  e  per  altri  filosofi, i  quali,  come  gli  Eleati,  non  riconoscono  per  vera- mente reale  che  l'essenza  eterna  ed  immutabile  delle cose,  la  natura    sensibile   non   è  che   un   fenomeno senza  realtà,    un'apparenza;    ma  per   ciò   essi   non intendono  che  essa  non  sia  altra  cosa  che  un  feno- meno   subbiettivo,    il    quale    non    esiste   che    nella sensazione.   Vi  n'apparenta  obbiettiva  è  per  noi  una contraddizione    nei    termini,    il    concetto   di   appa- renza  essendo   per  noi   identico   a   quello   di  feno- meno    subbiettivo:   tuttavia   tale   è   secondo   Hegel la    natura   sensibile  —  un'  apparenza   obbiettiva  —, e  quantunque   questa   espressione   non  sia  propria che   di    lui,    essa    potrebbe    convenire    egualmente, per  designare  il   valore   della   natura   fenomenale, in  tanti   altri    sistemi   in  cui,   come  nel  suo,  il  fe- nomeno,    cioè    r  individuale,    il    cangiante,    è   Un che  di  medio,  come  dice  Platone,   tra   l'essere  e  il non  essere.  Si  potrebbe   d'altronde  dubitare  se,   in tutti  i  momenti  dello  sviluppo  intellettuale  dell'uomo, il  concetto  di  apparenza  sia  costantemente  legato  a quello    della   subbiettività,    come   lo   è    certamente nella  sua  forma  più  chiara  e  sviluppata  :  un'ombra, un'  immagine    nell'  acqua  o   nello   specchio,   quella proiettata  da  una  lanterna   magica,    sono  delle  ap- parenze per  il  fanciullo  e  per  l'uomo  privo  di  qual-. siasi  coltura  ;    ma  sono  anche  per  essi    necessaria- mente subbiettivo?  Quando  più  fanciulli  guardano rimmagine  della  lanterna  magica,  non  pensano  essi LX piuttosto  che  vedono  tutti  la  stessa  cosa,  come  Reid dice  che  gii  uomini  vedono  tutti  lo  stesso  sole? Queste  considerazioni  possono  far  ammettere  la  pos- sibilità che  il  fenomeno,  cioè  il  diverso  e  il  can- giante, sia  per  gli  Eleati  ww' apparenza  obbiettiva, e  non  un  semplice  fenomeno  suhbiettivo  che  non esiste  se  non  in  quanto  è  sentito. Certamente  di  questa  maniera  si  attribuirebbe  agli Eleati  una  contraddizione  :  quella  che  il  loro  siste- ma era  destinato    a  risolvere,  tra  il  principio  del- l' immutabilità  della  sostanza  e  il  cangiamento  dato dall'esperienza,  verrebbe  a  riapparire  sotto  un'altra forma.  Ma  una  tale  contraddizione  è  inevitabile  nel sistema   eleatico  :    ammettiamo  .pure  che  i  canaria- menti  e  la  varietà  della  natura  non  siano  per  loro che  dei  fenomeni  subbiettivi  ;  essi  esisteranno  non- dimeno   a    titolo  di  fatti  dello  spirito,  e  quest'^5/- ^teiiza  sarà  sempre  incompatibile  col  principio  del- l'unità e  dell'immutabilità  assoluta  dell'essere.  Una conseguenza   di  quest'  osservazione  è  che  ci  è  im- possibile di  prendere  alla  lettera  e  in  tutto  il  loro rigore  le  affermazioni  degli  Eleati  sull'unità  e  l'im- mutabilità di  ciò  che  esiste;  come  queste  affermazioni non  possono    essere    una  prova  che  essi  negavano l'esistenza    dei    fatti  subbiettivi,  quantunque  com- presi   nella    pluralità   e  il  cangiamento  di  cui  essi non  volevano  ammettere  la  realtà,  cosi  non  provano d'una    maniera    decisiva  che  la  pluralità  e  il  can- giamento del  mondo  esteriore  fossero  privi  per  essi di  qualsiasi  esistenza  obbiettiva.  Noi  non  compren- diamo una  dottrina  che  riduce  la  natura  visibile  a puri  fenomeni  subbiettivi,  a  semplici  sensazioni,  che LXI come  il  risultato  di  una  profonda  critica  della  co- noscenza, di  una  riflessione,  almeno,  sul  carattere relativo  delle  nostre  percezioni  :  ma  tutto  ciò  manca negli  Eleati;  manca  ancora  nei  loro  continuatori,  ì Megarici;  e  sarebbe  certamente  molto  inverosimile che  questi  ultimi,  in  un'epoca  in  cui  il  pensiero  dei Greci  si  era  già  rivolto  verso  le  ricerche  di  que- st'ordine (a  cominciare  almeno  da  Protagora),  non si  fossero  dati  anch'essi  a  speculazioni  cosi  in  ar- monia coi  loro  principii,  se  fosse  vero  che  la  na- tura sensibile  non  consisteva  per  loro  che  in  feno- meni subbiettivi.  Qualunque  sia  il  motivo  del  si- stema eleatico,  esso  non  può  avere  infine  che  lo scopo  di  rendere  il  reale  più  comprensibile  :  ma sopprimere  il  reale  —  c:ó  che  è  semplicemente quello  che  gli  Eleati  avrebbero  fatto  nell'  ipotesi della  subbiettività  del  fenomeno  —  non  è  compren- derlo. Secondo  noi  questo  sistema  non  si  spiega  che per  uno  sforzo  di  conciliare  l'esperienza,  la  natura varia  e  cangiante,  col  principio  dell'unità  e  dell'im- mutabilità della  sostanza,  concepito  in  tutto  il  suo rigore  :  nelT  ipotesi  dell'  obbiettività  del  fenomeno, Tesperienza,  la  natura,  non  viene  immolata  a  que- sto principio  —  nel  qual  caso  l'  esistenza  dell'  Uno stesso  non  avrebbe  più  fondamento  —,  ma  si  cerca di  acicordarla  con  esso  per  mezzo  dell'idea  vaga  di apparenza  obbiettiva,  distinguendo  il  fenomeno  can- giante e  Vessenza  immutabile  (1). (1)   L'obbiezione   più   forte  contro  quest'Interpretazione  sono  le proposizioni   degli  Eleati  sul  valore  deilla   conoscenza  sensibile  e  le 4 I À '  i- r fi .1 t ì --r LXII LXIII §  7.  Su  tutto  il  periodo  della  filosofìa  greca  rap- presentato dai  fisici  dobbiamo  fare  un- osservazione generale,  che  si  riattacca  pure  all'argomento  di  que- sto capitolo»  Se  questo  periodo  si  mette  in  rapporto col  susseguente,  rappresentato  da  Platone  e  da  Ari- stotile,  si  vede  immediatamente  fra  le  due  tendenze filosofiche  un'opposizione,  che  Aristotile  esprime  di- <jendo  che  i  fisici  non  hanno  ricercato  che  il  prin- cipio materiale,  trascurando  e  anche  sopprimendo l'altro  elemento  costitutivo  della  natura  degli  esseri, cioè  il  principio  formaìe  o  essenziale  (1).  Ciascun  es- sere,   nella  filosofia  di  Platone  e  di  Aristotile,  ha in  se  stesso,  considerato  come  un  tutto  individuale, un  principio  interno  di  attività,  che  è  irruduttibile alle  energie  proprie  agli  elementi  materiali  da  cui esso  è  costituito.  Questo  principio  è  riposto  nella essenza  o  nella  forma  speciale  di  ciascun  essere, vale  a  dire  esso  è  differente  negli  esseri  specifica- mente differenti:  ciascuna  specie  di  esseri  è  gover- nata da  leggi  proprie  ed  è,  per  dir  così,  autonoma, queste  leggi  non  essendo  dei  semplici  casi  delle leggi  universali  della  materia  .  dei  risultati  neces- sari del  concorso  delle  forze  generali  della  natura. I  fisici  invece  tendono  a  sj^iegare  le  forme,  cioè  le Indicazioni  corrispondenti  degli  antichi  testimoni,  proposizioni  e  In- dicazioni che  possono  riassumersi  cosi:  bisogna  rigettare  la  testimo- nianza del  sensi  che  ci  mostrano  11  reale  come  multiplo  e  cangiante, e  non  credere  che  alla  ragione  .  la  quale  ci  prova  che  esso  è  uno  e Immutabile  (v.  Parmenide  versi  49,  53-56,  Melisso  Fr.  17,  Arlst.  Gè- neranU  et  corrent  1.  I.  Vili.  2-4,  Met,  1.  I.  V.  11,  De  Melisso  ecc. 974  b,  Arlstocle  ap.  Euseb.  Praep,  evang.  XIV.  17,  Plutarco  ap. Euseb.  Pr,  ev.  I.  8,  Sesto  Math,  VII.  111-114,  Cfr.  Arlstot.  De  Coelo 1.  III.  I.  2,  Timone  ap.  DJog.  IX.  23).  Ma  quest'obbiezione  non  po- trebbe essere  decisiva.  Platons  si  esprime  slmilmente  al  soggetto della  conoscenza  del  seasl  e  della  realtà  del  sensibile  (v.p.  e.  Phaedo 83  a-b:  quam  fallax  oculornm,  qnam  fallax  anriam  caeterornmque sensnnm  sit  considerano neqne  nlli  creda t  praeterqnam  sibi, qnatenus  ipse  per  se  cogitet  qmdlihet  eornm  quae  snnt  per  se,  quod vero  per  alia  consideret  exsistens  in  aliis  alind  ut  nihil  existimet vernm  ;  esse  vero  talia  qnidem  visibilia  ac  sensibilia,  ecc.  ):  tuttavia Platone  non  Intende  certamente  negare  l'obbiettività  della  percezione sensibile. Né  ci  sembra  sicuro,  come  crede  11  Zellei,  che  Aristotile  abbia compreso  la  dottrina  eleatlca  nel  senso  della  subblettlvltà  del  feno- meni. Non  mancano  In  Aristotile  del  luoghi  che  sembrano  Invece suppone  11  contrarlo.  Tale  è  notevolmente  quello  che  è  già  stato  citato (1)  Met.  1.  I.  III.  2  1.  I.  Vili.  3,  De  an,  1.  I.  I.  11,  De  pari,  ani- mal.  I.  I.  I,  De  gen.  et  corr,  1.  II.  IX.  7  sqq.,  1.  II.  VI.  4-6,  Phyès, I.  II.  Vili.  2,  10,  De  Coelo  1.  III.  II.  5,  ecc. ì H\ a  proposito  di  Eraclito,  contenente  un  ravvicinamento  tra  qnesto  filo- sofo e  gli  Eleatl.  C/ome  si  deve  Intendere,  domanda  Aristotile  iPhys. 1. 1.  II.  11, 14),  la  proposizione  che  tutto  è  uno  V  forse  nel  senso  che  vi  ha per  tutte  cose  una  stessa  definizione?  ma  allora  per  gli  Eleatl,  come per  Eraclito,  sarà  la  stessa  cosa  11  bene  e  II  male,  l'uomo  e  11  caval- lo; ecc.  (cfr.  Physs,  1.  I.  III.  3:  è  Impossibile  che  tutto  sia  uno  per la  forma,  ma  è  solo  possibile  per  la  materia;  è  per  la  forma  che  le cose  differiscono — jiure  contro  gli  Eleatl).  Qui  Aristotile  sembra  at- tribuire agli  Eleatl  un  monismo  che  non  sopprime  la  moltlplicltà  fe- nomenale, ma  la  riconduce  all'unità  della  sostanza. Del  più  antichi  testimoni  l'altro  che  noi  possiamo  consultare  sugli Eleatl  più  che  in  semplici  frammenti,  cioè  Platone,  è  incontestabil- mente più  favorevole  alla  Ipotesi  della  obbiettività  che  a  quella  della subblettlvltà  del  fenomeno.  Infatti  Platone  stabilisce  un  rapporto  sì Intimo  tra  la  sua  propria  metafisica  e  quella  degli  Eleatl .  che  va sino  ad  attribuire  a  Parmenide  la  dottrina  delle  Idee-finzione  che naturalmente  non  si  può  riguardare  come  un'  immaginazione  pura- mente capricciosa,  ma  in  cui  deve  vedersi  l'espressione  in  forma  fan- tastica della  proposizione  astratta  che  vi  ha  una  stretta  connessione tra  la  dottrina  delle  Idee  e  la  filosofia  eleatlca  -,  L'analogia  fra  V idea- lismo platonico  e  la  metafisica  degli  Eleatl  sarebbe  in  effetto  assai colpente,  se  questi  considerassero,  al  pari  di  Platone,  il  particolare e  11  cangiante  come  1'  apparenza  obbiettiva  dell'  Essere  immutabile. Ma  se  gli  Eleatl  sopprimevano  d'una  maniera  assoluta  il  multiplo  e 11  cangiante,  cioè  tutta  la  natura,  la  dottrina  eleatlca  sarebbe  la  più ^ LXIV LXY nature  particolari  degli  esseri,  per  le  proprietà  de- gli elementi  materiali  e  per  le  forze  generali  da  cui questi  sono  animati.  Essi  non  concepiscono  che  un tutto  abbia  delle  energìe  che  non  siano  il  risultato delle  energie  dei  suoi  elementi  costitutivi,  e  perciò gli  esseri  particolari,  p.  e.  gli  esseri  viventi,  non potrebbero,  secondo  essi,  essere  governati  da  leggi particoiari  ;  da  per  tutto  essi  non  possono  vedere che  l'azione  delle  leggi  generali  che  governano  la materia.  In  una  parola  noi  troviamo  nei  fisici  i primi  rudimenti  di  una  concezione  della  natura prevalente  nella  scienza  moderna,  cioè  della  spie- gazione fisico-chimica   o   semplicemente  meccanica opposta  al  sistema  deUe  Idee  (più  opposta  che  qualsiasi  altra  fra  le dottrine  dei  fisici),  poiché  le  Idee  non  sono  altra  cosa  che  lo  stesso multiplo  e  cangiante  considerati  nelle  loro  leggi,  nelle  loro  forme generali. Grli  argomenti  di  Zenone  e  di  Melisso  contro  11  movimento,  sic- come negano  slnanche  la  possibilità  di  questo  —  il  primo  facendo  ri- sultare  dal  concetto  del  movimento  delle  conseguenze  contraddittorie, il  secondo  negando  il  vuoto  e  sostenendo  che  esso  è  la  condizione del  movimento  —  possono  sembrare  una  prova  decisiva  contro  l'in- terpretazione che  farebbe  del  movimento  un  fenomeno  obbiettivo»  Ma del  filosofi  moderni  hanno  ritenute  le  obbiezioni  di  Zenone  contro  il movimento  insolubili,  e  tuttavia  non  ne  hanno  negato  l'obbiettività. Hamilton,  p.  e.,  dice:  Gli  argomenti  di  Zenone  provano  che  il  movi- mento^ (iuantunque  certo  come  fatto,  non  può  essere  concepito  come possibile,  perchè  esso  implica  contraddizione  (V.  Mill.  Fitos.  di  Ha- milione  24".  In  queste  difficoltà  del  movimento  Hamilton  vede  un caso  della  legge  che  condanna  lo  spirito  umano  a  delle  antinomie Insolubili,  tutte  le  volte  che  tenta  di  olti*epassare  la  conoscenza  del fenomeno,  in  cui  esso  è  necessariamente  circoscritto:  queste  antino- mie provano,  secondo  lui,  che  noi  non  conosciamo  l'assoluto,  ma  solo il  condizionato,  cioè  solo  «  le  manifestazioni  relative  d'un'esistenza in  se  stessa  incomprensibile.  —La  filos»  dell'assolato  nei  Frammenti della  fllos.  di  Hamilton  tradotti  da  Peisse  pag.  20. —)  Cosi  gU  argo- menti di   Zenone  dimostrerebbero,  secondo  Hamilion,  che  il  monda \ di  tutti  i  fenomeni  del  mondo  fisico.  Ma  ascoltiamo Aristotile  :  «  I  fisici,  i  quali  dicono  che  è  la  mate- ria che  produce  gli  esseri  per  il  suo  movimento, distruggono  l'essenza  e  la  forma.  Essi  attribuiscono certe  forze  ai  corpi,  e  ne  fanno  produrre  le  cose d'una  maniera  puramente  meccanica,  sopprimendo  la causa  secondo  la  specie  (cioè  il  principio  formale  o l'essenza).  Dopo  avere  supposto  che  la  natura  del freddo  è  di  concentrare  le  parti  della  materia  e  quella del  caldo  di  disgregarle,  e  che  ciascuno  degli  altri principii  di  quest'ordine  agisce  naturalmente  o  pa- tisce d'una  certa  maniera,  è  da  tali  principii  e  per sensibile  non  è  la  realtà   assoluta,   ma   non  che  è  un  semplice  feno- meno subbiettlvo. Ma  ciò  che  prova  d'  una  maniera  più  diretta  che  Zenone  poteva «conservare  al  movimento  un  resto  di  realtà  obbiettiva,  anzi  ciò  che può  riguardarsi  come  un  indizio  importante  che  tale  effettivamente sia  stata  la  sua  opinione,  è  la  forma  in  cui  1  Megarici  presentano  gli argomenti  del  loro  predecessore.  Il  megarlco  Diodoro  Crono,  dopo- aver  provato,  secondo  Zenone,  l'impossibilità  del  movimento,  aggiun- geva che,  se  non  è  vero  dire  del  mobile  che  si  muove,  si  può  tutta- via dire  che  67  è  mosso.  (V,  Sesto  Empir.  iI/flr///.X.  48,  85  e  sqq.  V,  143, Pyrrh,  11.242,245,  III.  71,  ecc.).  Per  comprendere  questa  distinzione, bisogna  tener  presente  che  gli  argomenti  di  Zenone  erano  fondati sulle  difficoltà  derivanti  dal  concetto  della  continuità  del  movimento (cioò  del  passaggio  successivo  del  mobile  per  tutti  I  punti  interme- diari fra  due  posizioni  distinte  —  v.  questo  Saggio  parte  2*  Le  anti- nomie  della  ragione).  Secondo  Diodoro  Crono,  si  può  dire  si  è  mosso, perchè  effettivamente  il  mobile  occupa  successivamente  delle  posi- zioni distinte;  ma  non  si  può  dire  si  muove,  perchè  il  movimento- non  è  continuo.  Non  essendovi  continuità  nel  movimento,  il  corpo- sta  successivamente  in  ciascuna  delle  posizioni  successive  che  esso occupa,  e  non  si  muove  mai  ;  per  indicare  che  il  corpo  occupa  una nuova  posizione,  si  può  usare  il  perfetto,  che  indica  11  termine  del- l'azione, l'azione  compiuta,  ma  non  mal  11  presente,  che  indica  l'azione stessa,  l'azione  che  si  compie.  (Confr.,  per  il  senso  della  distinzione tra  si  muove  e  si  è  mosso,  Arist.  Pìujs.  1.  VI.  I.  8).  La  distinzione  di LXVI LXVII 4ali  cause  eh'  essi  dicono  tutte  le  cose  esser  prodotte ^  perire.  Essi  fanno  come  qualcuno  che  attribuisse alla  sega  e  agli  altri  strumenti  la  causa  della  produ- zione degli  oggetti  fabbricati  da  un  artigiano  »  (1). E  altrove  :  Non  bisogna  imitare  gli  autori  antichi, i  quali  dicevano  piuttosto  come  gli  esseri  si  gene- rassero che  come  fossero;  poiché  gli  esseri  non  sono così  perchè  così  sono  prodotti,  ma  piuttosto  sono prodotti  così  perchè  così  sono,  cioè  perchè  tale  è la  loro  forma,  come  avviene  per  un  edilizio,  la  ge- nesi di  ciascuna  cosa  essendo  in  grazia  della  sua -essenza,  e  non  viceversa.  Non  bisogna  dunque  fare Dlodoro  €rono,  per  la  stessa  forma  eonti*addittorla  con  cui  è  espressa, ci  indica  che  essa  non  era  destinata,  nell'intenzione  di  questo  fili»- «jofo,  a  salvare  il  movimento,  rettificandone  il  concetto  per  la  elimi- nazione di  un  elemento  falso,  cioè  della  continuità.  Dlodoro  Inten- deva dimostrare,  come  Zenone,  la  natura  contraddittoria  e  l' impos- sibilità del  movimento,  quantunque  esso  fosse  un  fatto  attestato  dal- l'esperienza ;  r  essersi  mosso  senza  muoversi  mal,  1'  esistenza  d'un fatto  impossibile,  provava  che  questo  fatto  non  era  veramente  reale, che  esso  non  era  che  un  semplice  fenomeno,  quantunque  obbiettivo (dai  luojj^hi  citati  di  Sesto  risulta  chiaramente  che  Dlodoro  ammetteva la  non  realtà  del  movimento  e  al  tempo  stesso  la  sua  obbiettività). In  ogni  caso  II  movimento,  per  i  Megarici  come  per  gli  Eleati,  non poteva  consistere  in  altra  cosa  che  nell'  apparizione  successiva  di fenomeni  perfettamente  simili  (p.  e.  una  certa  forma  con  un  certo colore)  in  posti  differenti,  non  n?!  trasporto,  a  traverso  lo  spazio, della  sostanza  stessa,  del  sustrato  di  questi  fenomeni;  polche  tutte le  differenze  del  reale,  che  costituiscono  una  moltlpUcltà  di  cose,  non sono  per  loro  che  delle  apparenze  che  si  mostrano  in  diversi  punti  del sustrato  comun3,  p9r  se  stesso  omogeneo  (e  ciò  tanto  nell'ipotesi  della obbiettività  di  queste  apparenze,  quanto  in  quella  della  subblettlvità). Data  questa  concezione  del  movimento,  la  sua  obbiettività  fenome- naie  è  conciliabile  con  l'Immobilità  dell'essere  vero* La  dottrina   di  Dlodoro   Crono  sul  movimento  è,  per    la    nostra qulstlone,  un  dato  tanto  più  importante,  che  da  questa  dottrina  si  può (1)  De  Geru  ti  corr,  1.  II.  IX.  7  e  sqq. k €onie  Empedocle,  il  quale  spiegava  molti  caratteri degli  animali  per  qualche  accidente  loro  avve- nuto quando  furono  prodotti;  attribuendo  p.  e.  tal conformazione  della  spina  all'  essersi  spezzata  per oontorsione.  Se  l' uomo  consta  di  tali  membra,  è perchè  tale  è  l'essenza  dell'uomo:  senza  di  queste membra  non  sarebbe  uomo,  ed  è  così  perchè  non potrebbe  essere  altrimenti,  o  perchè  così  è  il  me- glio. Ma  gli  antichi  non  cercarono  che  il  principio materiale  e  la  causa  analoga:  quale  fosse,  e  come il  tutto  ne  nascesse,  e  per  qual  causa  motrice,  p.  e. la  concordia  e  la  discordia,    o  la  mente,   o   anche «rgomeutare  che  la  scuola  megarlca  in  generale  non  rigettava  d'una maniera  assoluta  la  pluralità  e  il  divenire. Ora  questa  scuola  non  fa- ceva che  continuare  la  filosofìa  de-li  Eleati  (l'opinione  che  i  Megarici hanao  ammes-^o  le  Idee  prima  di  Platone,  non  che  è  una  congettura  ar- bitrarla di  alcuni  critici  moderni,  ch'ò  impossibile  di  ammettere  quan- do si  è  compreso  lo  scopo  e  l'origine  dell'ipotesi  delle  Idee).  La  stessa conclusione,  cioè  che  1  MogarlcI  (e  quindi  probabilmente  anche  gii Eleati)  non  rigettavano  assolutamente  11  cangiamento,  sembra  risul- tare dalla  confutazione  della  dottrina  megarlca  sulla  possibilità,  che troviamo  In  Aristotile  Mei.  1.  Vili.  III.  I  Magarlcl  negano  ciò  che In  linguaggio  aristotelico  si  chiama  la  distinzione  iva  potenza  ed  atto: essi  non  ammettono  che  Vatto,  ma  non  Aa  potenza;  per  loro,  in  altri termini,  non  è  possibile  se  non  ciò  che  e  reale,  dò  che  è  avvenuto  o che  avverrà;  ciò  che  non  è  avvenuto  e  non  avverrà,  secondo  loro,  non poteva  avvenire  e  non  potrà  avvenire,  (v.  Cicero  De  fato  7.  9,  Plu- tarco De  Stoicor.  repugnant,  XLVI,  ecc.  su  Dlodoro  Crono  —  non  ab- biamo alcun  motivo  per  ammettere  che  la  tesi  di  Diodoro  Crono  fosse differente  da  quella  del  primi  Megarici.)  Aristotile  obbietta  che  questa tesi  rende  Impossibile  il  divenire  (o,  com'egli  dice,  11  movimento  e  la generazione),  perchè  so  ciò  che  non  è  /;/  atto  non  è  nemmeno  ///  pò- tema,  ne  segue  che  ciò  che  presentemente  non  è,  non  è  possibile  che  di- venga In  avvenire  (art.  4).  È  evidente  che  nessuno  dimostrerebbe  per l'assuiMlo  la  falsittà  d'una  tesi,  mostrando  -che  essa  condurrebbe  logi- camente ad  una  proposizione,  che  per  lui  è  evidentemente  falsa,  ma che  per  1  sostenitori  della  tesi  confutata  è  la  verità  fondamentale  del LXYTII una  causa  puramente  meccanica;  la  materia  soggia- cente avendo  insita  una  certa  natura  necessaria,  co- me fervida  il  fuoco,  fredda  la  terra,  e  l'uno  leggiera, l'altra  grave;  ed  è  così  che  essi  generano  Tuniverso. E  così  anche  dicono  della  produzione  delle  piante e  degli  animali;  p.  e.  che  scorrendo  Tacqua  nel  corpo, si  sia  prodotto  il  ventre  e  ogni  ricettacolo  del  cibo e  dell'escremento,  e  le  narici  si  siano  aperte  per  il passaggio  dell'aria.  I  fisici  espongono  l'origine  e  la causa  delle  forme  degli  esseri  viventi  come  un  fab- bro che  parlasse  d'  una  mano  di  legno  :  dicono  da quali    forze  siano  state  fabbricate  ;  il  fabbro  parla foro  sistemi.  (Il  ZeUer  —  2^  parte  pcag.  220  —  crede  che  la  uef^nzlone della  potenza  è  le3:at!i,  nel  contatto  dei  Megarlci,  a  quella  del  dive- nire: ma  la  di^duzlone  di  Aristotile  è  forzata;  fra  le  due  dottrine non  può  ei^servl  In  realtri  alcuna  eonuesslone,  tanto  più  che  non  vi ha  ragione,  come  abbiamo  osservato,  di  distin«jruere  la  tesi  dei  primi Megarlcl  da  (luella  di  Dlodoro  Crono).  La  stessa  osservazione  vale,  e a  più  forte  ragione,  pei*  l'obbiezione  immediatamente  precedente.  In conseguenza  della  tesi  del  Megaricl,  dice  Aristotile,  «  non  vi  sarà  ne Gildo  nèireddo  né  dolce  nò  assolutamente  alcun  sensibile  all'infuorl della  sensazione;  pev  cui  avverrà  loro  di  dire  la  proposizione  di  Pro- tagora «(art.  2.)  Qui  la  forma  stessa  In  cui  è  espressa  l'obbiezione esclude  indubbiamente  che  i  Mega  -lei  ammettano  giù  la  dottrina  di Protagora  (cioè  che  11  sensibile  non  esiste  se  non  In  quanto  è  sentito) Intanto,  se  secondo  l  Megarlcl  e  gli  Eleatl  il  multiplo  e  il  cangiante non  consistesse  che  in  fenomeni  subblettlvl,  la  loro  dottrina  sarebbe giù  quella  di  Protagora,  cioè  essi  ammetterebbero  della  m.^niera  più esplicita  l'assurdltù  a  cui  vuole  forzarli  Aristotile.  *  che  non  vi  ha né  caldo  né  freddo  né  dolce  ne  assolutamente  alcin  sensibile  alPin- fuorl  della  sensazione  ». Ma  il  più  forte  argomento  contro  l' interpretazione  del  sistema eleatlco  nel  senso  della  subbiettlvitù  del  fenomeno  ci  sembra  11  rap- porto tra  Xenofane  e  gli  oleati  posteriori.  Pare  certo,  sia  per  certe proposizioni  di  questo  filosofo  sulla  dlvinltù  (v.  Fr.  3  Muli.  :  Dio muove  o  governa  11  tutto  —  che  cosa  governerebbe  Dio,  se  non  esi- stesse una  natura?—),  sia  per  le  sue  opinioni  cosmologiche,  ch'egli LXIX diseure  e  di  trapano,  essi  di  terra  e  d'aria.  Ma meglio  il  fabbro,  il  quale  sa  che  non  basta  il  dire come  mediante  lo  strumento  si  sia  formato  il  cavo e  il  piano,  ma  aggiunge  che  ciò  avvenne,  perchè egli  aggiustò  i  colpi  d'una  tale  maniera  e  a  tal  og- getto,  cioè  affinchè  l' opera  ricevesse  una  forma tale  (1).  Altrove  Aristotile  paragona  i  fisici  a  qual- cuno che  pretendesse  di  spiegare  la  forma  di  un edilìzio,  dicendo  che  i  gravi  si  ]jortano  natural- mente in  basso  e  i  leggieri  in  alto,  e  che  è  perciò che  le  pietre  e  le  fondamenta  si  trovano  nella  parte inferiore  dell'  edifizio,   al  di  sopra  la  terra  perchè non  rigettava  assolutamente  li  cangiamento  e  la  natura  sensibile  (v. pure  nel  De  Melisso  ecc.  e.  4^  sul.  princ.  un'  obbiezione  contro Xenofane  dalla  quale  risulta  ch'egli  manteneva  l'esistenza  del  mul- tiplo). Intanto  le  testimonianze  più  autorevoli  attribuiscono  allo  stesso Xenofane  la  dottrina  dell'Immutabilità  assoluta  dell'essere  e  della non  realtà  del  cangiamento  (Aristotile  Mei.  1.  I.  V.  9-10,  Arlstocle ap.  Euseb.  Pr.  ei\  XIV.  17,  Plutarco  ivi  1-8,  Sesto  Empir.  PijrrJi, I.  225,  ecc.)  Quand'anche  l'indica'/lone  già  citata  di  Teofi-asto  sul  ri- poso e  il  movimento  dell'uno— tutto  dovesse  intendersi,  non  nel  senso che  Xenofane  esciludeva  da  esso  tanto  l'uno  quanto  l'altro,  ma  in  quello che  Teofrasto  non  può  attribuirgli  la  dottrina  nò  della  realtà  né  della non  realtà  del  movimento,  questa  indicazione  non  potrebbe  farci  ri- gettare le  altre  testimonianze,  che  identificano  la  dottrina  di  Xeno- fane con  quella  degli  Eleatl  posteriori:  essa  proverebbe  soltanto  cha nella  prima  vi  era  qualche  incoerenza,  che  si  spiegherebbe  suppo- nendo che,  per  gli  Eleatl,  la  realtà  del  movimento  e,  in  generale,  del sensibile  era  qualche  cosa  di  equivoco.  Ma  se  si  suppone  col  Zeller che  Xenofane  ammetteva  assolutamente  la  realtà  del  cangiamento  e del  sensibile,  e  che  gli  Eleatl  posteriori  la  rigettavano  assolutamente, non  si  comprende  più  il  rapporto  tra  l'uno  e  gli  altri,  e  non  si  vede come  gii  antichi  potessero  identificare  le  due  dottrine. La  quistlone  :  1  fenomeni  hanno  per  gli  Eleatl  un'esistenza  ob- biettiva o  subbiettiva?  non  deve  confondersi  con  quest'altra:  la  fi- sica che  Parmenide  espone  nella  2*  parte  del  suo  poema  ha  o  no  un (1)  De  pari,  anim,  1.  I.  I. LXX meno  pesante,  e  alla  sommità  il  legno  perchè  più leggiero  di  tutti  gli  altri  materiali  (2). Non  è  semplicemente  la  teleologia  e  il  carattere dialettico  della  filosofia  di  Platone  e  di  Aristo- tile che  mettono  questa  filosofìa  in  opposizione  a quella  dei  fisici.  Vi  ha  fra  di  èsse  un'antitesi  fon* data  su  due  concezioni  della  natura,  di  cui  la  meno metafìsica  non  è,  in  tutti  i  punti,  quella  dei  fisici. Senza  dubbio  le  speculazioni  sul  principio  formale o  essenziale  sono  strettamente  legate  in  Aristotile con  la  sua  teoria  della  definizione  —  che,  come  ab- biamo visto,  è  un'  applicaziono  di  quella  forma  di valore  reale  ?  La  risposta  a  (questa  seconda  (lulstlone.  Io  credo,  non  pò* trebbe  essere  In  o«;nI  caso  che  negativa:  Parmenide  dichiara  catego- rie imeute  che  nella  seconda  parte  del  suo  poema  ej?II  non  esprime le  sue  proprie  opinioni,  ma  dello  opinioni  che  gli  sembrano  erronee. Cereamente  Parmenide  (luallfica  pure  come  una  semplice  opinione del  volgo  la  realtà  d^lla  nioltlpllcità  e  del  cangiamento  (Versi  99  e S3g.,  luogo  riportato  nel  testo;  Teofrasto  ap.Alex.  In  Phil.  pr.  Ari- stotells  1.3.  ),  e  perciò  potrebbe  credersi  che  la  realt{\  ch'egli  attribuisce alla  fisica  della  2"  parte  del  suo  poema  sia  necessariamente  eguale  a quella  ch'egli  attribuisce  al  multiplo  e  al  cangiante.  Ma  non  è  cosi.  Se Parmenide  ha  ammesso,  come  ci  sembra  più  A-erlsImile,  l'obbiettività del  fenomeno,  la  realtà  del  multiplo  e  del  cangiante  è  secondo  lui  Un'o- pinione falsa.  In  quanto  Vapparensa  dell'essere  veramente  reale  viene presa  per  l'essere  reale  stesso;  ed  egli  crede  che,  se  ([uest'oplnlone fosse  vera,  sarebbe  Indispensabile  una  fìsica  qual  è  quella  della  2'  parta del  suo  poema,  fondata  sul  principio  di  una  pluralità  di  sostanze  primor- diali qualitativamente  Immutabili  (V.  Arlst.  Met.  1.  I.  V.  11  e  Teofra- sto 1.  e.  ).  Ma  egli  non  chiamerebbe  la  sua  fisica  un  discorso  fallace, un'opinione  che  non  merita  alcuna  fede,  per  la  semplice  ragione  che  l fenomeni  di  cui  essa  tratta  non  sono  degli  esseri  reali,  come  credono gli  uomini,  ma  del  semplici  fenomeni  :  se  questa  fisica  contiene  un'e- sposizione esatta  del  fenomeni,  essa  è  vera,  quantunque  non  abbia  per oggetto  che  del  fenomeni  privi  di  vera  realtà.  Gli  antichi  autori  (Plu- tarco, Simplicio,  ecc.)  che  confondono  la  qulstlone  del  valore  della (2)  Phys,  1.  II.  IX.  1.  (Confronta  Plato.  Leggi  889). LXXI spiegazione  metafisica  che  abbiamo  chiamato  filo- sofia apriorista  —  e  con  la  sua  concezione  teleolo- gica del  mondo  —  che  è  un'  applicazione  dell'altra forma,  la  più  spontanea,  di  spiegazione  metafisica,, implicando,  anche  in  quanto  questa  teleologia  è  im- manente, una  certa  assimilazione  delle  operazioni della  natura  a  quelle  dell'uomo — :  a  questi  concetti Platone  ne  aggiunge  degli  altri  più  spiccatamente metafisici,  cioè  la  realizzazione  delle  astrazioni e  le  altre  dottrine  connesse.  Ma  se  noi  sbarazzia- mo dai  concetti  metafisici  con  cui  è  legata,  questa introduzione  del  principio  formale  o  essenziale  co- me principio  cosi  primitivo  e  irriduttibile  nella costituzione  degli  esseri  che  quello  della  materia, e  avente  delle  leggi  proprie  così  primordiali  che quelle  della  materia  stessa  ;  in  altri  termini  se noi  la  riduciamo  alla  proposizione  che  gli  esseri manifestano  delle  proprietà  che  non  sono  la  risul- tante o  la  somma  delle  proprietà  degli  elementi materiali  che  li  costituiscono;  noi  dobbiamo  vedere in  questa  proposizione  il  risultato  di  una  semplice osservazione  dei  fatti  scevra  da  anticipazioni  dell' e* sperienza  e  da  qualsiasi  ipotesi.  L'ipotesi  dei  fisici che    non   lascia  negli  esseri  alcun  principio  di  di«i fìsica  del  poema  di  Parmenide  con  quella  della  obbiettività  del  sensi- bile secondo  Parmenide,  non  considerano  il  vero  motivo  e  1'  origine del  sistema  eleatlco:  questo  sistema  sarebbe  Incompatibile  col  concetto di  una  pluralità  di  sostanze  materiali  tutte  egualmente  primordiali, perchè  l'uno  degli  Eleatl,  come  l'uno  degli  altri  fisici,  non  ò  che  11 sustrato  comune  di  tutti  1  corpi  (l'essere,  per  l  fisici  e,  al  fondo,  anche per  gli  Eleatl,  non  è  che  il  corpo),  e  suppone  la  convertibilità  reciproci^ di  tutte  le  sostanze  materiali. LXXII • stinzione,  non  vedendo  nelle  loro  proprietà  speci- fiche che  il  risultato  delle  proprietà  degli  elementi materiali  e  delle  forze  che  agitano  tutta  la  materia, non  è  meno  metaempirica  nella  sua  origine  che  le concezioni  teleologiche  e  dialettiche  di  Platone  e di  Aristotile.  Questa  ipotesi  non  è  semplicemente  le- gata alla  fisica  meccanista  :  certamente  il  rimprovero di  Aristotile,  di  distruggere  il  principio  della  forma o  della  specie j  s'indirizza  particolarmente  ai  rappre- sentanti di  questa  fisica,  a  Democrito  e  sovratutto ad  Empedocle  ;  ma  Aristotile  lo  estende  a  tutti  i fisici  in  generale.  I  meccanisti^  sia  perchè  la  loro fisica  era  più  moderna  e  più  sviluppata,  sia  perchè essi  applicavano  d'una  maniera  più  netta  e  rigorosa il  principio,  che  l'essere  non  può  né  nascere  né  pe- rire, davano  più  occasione  al  rimprovero  di  Aristotile: ma  la  concezione  della  natura  a  cui  esso  viene  di- retto era  una  conseguenza  del  principio  stesso  che era  l' assioma  di  tutti  i  fisici,  questo  implicando l'impossibilità  che  l' essenza  di  un  tutto  differisca dalV essenza  degli  elementi  da  cui  è  stato  costituito •e  in  cui  si  risolverà,  e  per  conseguenza  una  spie- gazione meccanica  della  vita  e  della  natura  in  ge- nerale. §.  8®  Quantunque  la  filosofia  greca  posteriore ai  fisici  potrebbe  mostrarci  altri  esempi  della  ten- denza filosofica  che  noi  studiamo  in  quest'appen- dice (1),  tuttavia  siccome  non  vi  troveremmo  dei  si- (1)  L'influenza  del  principio  che  Tessere  non  pnó  né  nascere  né perire  potrebbe  ritrovarsi  nel  concotto  della  materia  dello  stesso  A- ristotile.  Secondo  Renan,  Aristotile  ha  ammesso,  per  la  sua  teoria LXXIII stemi  in  cui  l'impronta  di  questa  tendenza  sìa  cosi marcata  come  in  quelli  di  cui  abbiamo  parlato — ad eccezione,  s'intende,  delle  dottrine  che,  come  quella di  Epicuro,  non  fanno  che  continuare  delle  dottrine più  antiche — :  così  sarà  per  noi  più  interessante  di osservare  l'influenza  dello  stesso  sofisma  a  priori che  ha  inspirato  i  fisici  greci  nella  filosofia  di  un altro  popolo  antico,  cioè  degl'Indiani. Le  tre  principali  dottrine  ontologiche  della  fi- losofia Indiana,  la  sanki/a,  la  vaiseschika  e  la  vedan- tina,  corrispondono  in  un  certo  modo  alle  tre  scuole in  cui  possono  dividersi  i  filosofi  greci  di  cui  abbia- mo parlato,  cioè  fisici  unizzanti,  fisici  meccanisti  ed Eleati. Secondo  Colebrooke,  la  sankya  (la  scuola  di  Ka- pila)  ha  in  comune  coi  fisici  greci  il  principio  ex nihilo  nihil  fit  «  Ciò  che  non  esiste,  dicono  i  fi- losofi di  questa  scuola,  non  può  per  alcuna  opera- zione possibile  d'una  causa  ricevere  l'esistenza». Così  l'olio  è  nella  semenza  del  sesamo  prima  che  ne sia  estratto.  La  natura  della  causa  e  dell'effetto  è la   stessa:    un  drappo  non    può  differire   essenzial- della  materia,  questa  «  psofonda  verità»  :  «l'Identità  del  fondo  per- manente dello  cose,  l'eternità  dell'  oceano  di  essere,  alla  saperficie •del  quale  si  svolgono  le  linee  sempre  oscillanti  e  variabili  dell'indi- vidualità». (Renan  Aoerroe  e  l'averroismo  pag.  115).  — Ricorderemo pure  la  singolare  dottrina  del  Timeo  di  PI  itone,  secondo  la  quale  i <jorpi  elementari  —  i  quali  sono  dei  poliedri  regolari  e  consistono nelle  superficie  da  cui  sono  terminati  —  si  trasformano  gli  uni  negli altri  per  la  l  »ro  decomposizione  nei  piani  che  li  costituiscono  cuna nuova  composizione  degli  stessi  piani  in  altri  solidi  di  una  forma differente  (v.  Plato  Timeo  53  e,  l.  57  b,  Arist.  De  Coelo  1.  III.  I-III VII,  ecc.).  È  una  specie  di  atDmismo,  in  cui  gli  atomi  sono  non  dei corpi  ma  delle  superficie. LXXIV mente  dalla  lana  con  cui  è  stato  tessuto.  Conforme- mente a  queste  premesse,  i  sanki/as  ammettono  che il  primo  principio,  da  cui  le  altre  cose  derivano,  la Prakriti  o  Pradhana,  che  è  la  causa  materiale  del tutto,  contiene  tutto  in  uno  stato  indistinto  o  invi- luppato. Tutto  esce  dal  primo  principio,  e  tutto  vi rientra  (alla  fine  del  mondo),  senza  che  perciò  niente di  assolutamente  nuovo  si  produca  e  niente  assolu- tamente perisca.  La  uscita  o  emissione  degli  effetti dalla  causa  e  la  riunifìcaziòne  del  tutto,  cioè  il  ri- torno dell'universo  al  primo  principio,  ha  per  tipo la  tartaruga  che  fa  uscire  le  sue  membra  dal  guscio e  ve  le  fa  rientrare  di  nuovo  (1). Nella  vaiseschika  (scuola  di  Kanada)  si  trova  qual- che cosa  come  una  combinazione  della  dottrina  degli Atomisti  e  di  quella  di  Empedocle.  Come  elementi materiali  questa  scuola  ammette  cinque  generi  di atomi,  corrispondenti  ai  quattro  elementi  dei  Greci, a  cui,  come  alcuni  dei  Greci  stessi,  ne  aggiunge  un quinto,  l'etere.  Questi  atomi  non  sono  tutti  solidi  ne destituiti  di  qualità  sensibili,  come  quelli  di  Demo- crito ;  ma,  come  gli  elementi  di  Empedocle,  ciascuno è  dotato  delle  qualità  che  noi  osserviamo  nella  so- stanza corrispondente.  Secondo  l'esposizione  di  Co- lebrooke  si  può  ammettere  che  questi  atomi  sono inalterabili,  e  che  le  proprietà  dei  composti  sono  la risultante  di  quelle  degli  elementi  (2).  L'  anima  è una  sostanza  distinta  dagli  elementi  materiali,  come U)  V.  Colebrooke  Sa(j(jio  sulla  flloft.  deqV Indiani  trad.  frane,  pa- gine 37-39  Cfr.   pag.   17. (2)  V.   Saggio  sulla  ftlos,  deyVImh   pag.  63-83.  Cfr.   pag.   218-220. LXXV lo  provano  le  sue  proprietà  differenti  ;  ed  è,  come essi,  imperibile  ed  eterna.  La  materia  è  per  se  stessa inerte,  e  il  movimento  le  viene  impresso  dallo  spi- rito (1^ La  proposizione  che  condensa  la  vedanta  è:  L'essere supremo  (Brahma)  è  la  causa  materiale  cosi  bene che  la  causa  efficiente  dell'universo.  Brahma  è  l'e- lemento etereo  dal  quale  tutte  le  cose  procedono  e al  quale  ritornano  tutte  (2).  Ma  trasformandosi  negli esseri  finiti,  Brahma  non  perde  la  sua  identità, perchè  i  Vedantini  non  comprendono  che  l'essere reale  possa  nascere  o  perire.  Nel  Bhagavad-gìtà (un  episodio  filosofico  del  Mahà-Bhàrata),  che  è  una delle  grandi  autorità  della  filosofìa  vedantina,  vi  ha questa  proposizione  :  Qiiod  vere  non  est  id  fieri  neqiiit ut  existat,  nec  ut  esse  desinat  quod  vere  est.  La  con- seguenza di  questo  principio  è  che  Brama  è  l'essenza unica  in  cui  tutte  le  cose  si  risolvono.  Già  il  Veda dice:  Tutto  ciò   che  esiste  è  Brahma;  tutto  ciò  che (1)  Colebrooke    Op.  cit,  pag.    56-57,   52-53   (nota  di  Pautliier),  73. (nota  di  Pauthier),  ecc. (2)  Questo  panteismo  è  fondato,  come  notammo  altrove,  sul  con- cetto della  materialità  doli'  anima  e  di  Dio,  e  della  convertibilità reciproca  di  tutte  le  sostanze  materiali  (cfr.  FiL  teoloy,  §  6).  — Le  idee- degl'Indiani  sugli  elementi  e  sull'ordine  della  loro  conversione  re- ciproca sono  analoghe  a  quelle  dei  Greci.  Secondo  il  codice  di  Manu (V.  Schlegel  Saggio  sulla  lingua  e  la  fllos.  degl'Indiani,  lib.  4.  II)  e secondo  i  Vedantini  (v.  Calebrooke  pag.  202),  gli  elementi,  nell'or- dine con  cui  procedono  gli  uni  dagli  altri,  sono:  l'etere,  l'aria, il  fuoco,  l'acqua  e  la  terra.  I  Vedantini  ora  identificano  Dio  con. l'etere  (Colebr.  p.  163),  ora  ne  lo  distinguono  (v.  Regnaud  in  Rev, phil,  t»  5.  p.  536)  e  in  questo  caso  fanno  dell  'etere  1'  elemento  che procede  immediatamente  da  Dio  o  dallo  Spirito  (sempre  concepito- nel  senso  del  semimaterialismo  dell'animismo  primitivo). 'I LXXVI noi  sentiamo  per  l'odorato  o  tocchiamo  per  il  tatto è  Brahma.  Dio  è  sotto  forma  di  schiavi  e  sotto quella  di  fuggitivi;  egli  è  l'animale  quadrupede in  un  luogo,  e  in  un  altro  è  pieno  di  gloria  (1). La  differenza  tra  la  causa  e  l'effetto  non  invalida^ dicono  i  Vedantini,  la  identità  di  Brahma  come causa  e  come  effetto.  Un  effetto  non  è  altro  che  la sua  causa;  Brahma  è  unico  e  senza  secondo,  egli  non separato  da  se  stesso  esistente  nel  mondo  dei  corpi. Brahma  è  come  il  mare,  il  quale  non  è  che  acqua, ma  in  cui  si  osservano  modificazioni  distinte,  quali la  spuma,  i  flutti,  ecc.;  in  realtà  da  una  parte  niente nel  mare  differisce  dall'acqua  di  cui  esso  è  formato, come,  dall'altra  parte,  niente  differisce  dall'anima universale,  di  cui  il  mondo  intero  non  è  che  una modificazione.  Come  causa  dell'universo  Brahma  è simile  ad  una  pezza  di  stoffa  inviluppata,  ed  il mondo  è  simile  a  questa  stessa  stoffa  sviluppata, di  cui  si  riconosce  la  identità  con  la  stoffa  già  in- viluppata (2). Ma  tali  comparazioni  —  le  quali  suppongono  che nell'  essere  assoluto  vi  siano  delle  modificazioni reali  —  non  esprimono  d'  una  maniera  adequata  il pensiero  definitivo  dei  Vedantini  :  questo  è  che  l'Es- sere assoluto  in  se  stesso  resta  immutabile  attraverso tutti  i  cangiamenti  a  cui  l'universo  è  sottoposto. Brahma  è  impassibile,  inaffettato  dalle  modificazioni del  mondo,  come  il  puro  cristallo  che  pare  colorato L  XX  VII per  il  fiore  rosso  d'un  ibisco,  ma  che  in  realtà  noti cessa  di  essere  trasparente.  En:li  è  lo  stesso  in  tutte cose:  non  vi  ha  in  lui  diversità  né  variabilità;  nev suna  moltiplicità  (1).  La  contraddizione  tra  quest'u- nità e   immutabilità   dell'Essere   che  è  la   sostanza universale,  e  i  cangiamenti  e  la  pluralità  delle  cose è  risoluta  dai  Vedantini,  cjme  dagli  Eleati,  distin- guendo il  fenomeno  e  la  realtà:  questa   distinzione corrisponde  a  quella  del  costante    e  del  transitorio. Brahma,  il  solo  oggetto  costante,  è  distinto  da  tutto il  resto  che  è  transitorio;    Brahma  solo  è  reale,  il resto   non  è  che  apparenza  (2).  Diverse  forme  illu- sorie e  diversi  svisamenti  sono  rivestiti  dallo  stesso spirito.  «Il  sole  luminoso,  quantunque  unico,  tuttavia, riflettuto  nell'acqua,  diviene  multiplo:  tale  è  pure  l'ani- ma divina  increata,  per  uno  svisamento  sotto  diversi modi  »  (3).  «  Il  mondo  sembra  reale,  sinché  Brahma non  è  compreso;  ma  Vyogi,  di  cui  l'intelletto  è  per- fetto, con  l'occhio  della  conoscenza  percepisce  che  o- gni  cosa  è  Spirito;  egli  conosce  che  queste  forme  cor- porali delle  cose  sono  Spirito,  e  che  fuori  dello  Spi- rito  non  esiste  niente.  Di  tutto  ciò  che  è  visto,  di tutto  ciò  che  è  inteso,  non  esiste  che  Brahma:  tutto ciò  che  sembra  esistere  fuori  di  lui  non  è  che  un'il- lusione, come  l'apparenza  dell'acqua  (il  miraggio)  nel deserto  »  (4).  Brahma  non  si  trasforma  dunque  che  in apparenza:  le  forme  cangianti  degli  esseri  finiti  non sono  che  vane  immagini  a  cui  non  corrisponde  altro (1)  Colebr.   Op,  ciU  p.  285-286. (2)  Colebrooke  Op.  cit.  pag.  178,  Regnaud  Studi  di  fllosopa  indiana in  Rev,  phil.  t.  5.  p.  166,  171. (1)  V.  Colebrooke  Op,  cit,  p.  183-187   e  p.  272  Atma-Bodha  35).. (2)  Regnaud.  (Stuli  di  filosofia  indiana)  in  Rev.  phil.  t.  4.   p.  598.- (3)  V.  Colebrooke  Op.  cit,  pag.   178,  187. (4,  Attna-Bodha  (^onosc.  dello  spirito)  di  S'ankara,  7,  47,  48,  63,  64.. '        N LXXVIIT r i^ di  reale  che  Brahma,  Tessere  immutabile  che  appa- risce sotto  queste  forme  diverse. Qui  si  presenta  la  stessa  quistione  che  per  gli Eleati.  Quando  i  Yedantini  chiamano  il  multiplo  e cangiante. una  semplice  apparenza,  intendono  perciò ridurre  la  natura  a  dei  fenomeni  puramente  subbiet- tivi,  o  quest'apparenza  è  per  loro  un'apparenza  obbiet» Uva  ?  Il  carattere  fenomenale  delle  cose,  per  i  Vedan- tini  come  per  gli  Eleati,  non  è  il  risultato  di  ricerche sulla  natura  della  nostra  conoscenza,  dimostranti  il valore  relativo  e  puramente  subbiettivo  della  perce- zione, ma  è  la  conseguenza  di  questa  premessa,  che l'essere  non  può  cominciare  né  finire,  che  le  cose  non possono  cangiare  di  natura  e  di  proprietà,  unita  a quest'altra,  che  non  vi  ha  una  pluralità  di  sostanze primordiali  inconvertibili  l'una  nell'altra,  ma  una  so- stanza unica  che  prende  forme  differenti.  Dato  questo motivo  della  dottrina,  noi  dobbiamo  preferire  d'inter- pretarla nel  senso  della  obbiettività  piuttosto  che  in quello  della  subbiettività  del  fenomeno.  Quest'ultimo senso  sarebbe  d'altronde  incompatibile  con  altre  pro- posizioni dei  Vedantini,  notevolmente  con  le  altre rappresentazioni  del  rapporto  tra  Dio  e  il  mondo. Quando  paragonano  Brahma  a  una  stoffa  inviluppata e  il  mondo  a  questa  stoffa  sviluppata;  quando  dicono che  Brahma  si  trasforma  nelle  sostanze  corporali come  l'acqua  in  ghiaccio,  e  che  queste  sostanze  sa- ranno da  lui  riassorbite  alla  consumazione  di  tutte le  cose;  quando  tra  Brahma  e  le  cose  particolari stabiliscono  lo  stesso  rapporto  che  tra  la  terra  e  i vasi  fatti  di  questa  terra  o  tra  l'oro  e  gli  ornamenti d'oro;  ecc.;  i  Vedantini  affermano  chiaramente  l'obbiettività  delle  forme  finite.  Questi  concetti  potreb- bero difficilmente  coesistere  con  quello  di  Maga, (cioè  della  fenomenalità  degli  esseri  finiti),  non  vi sarebbe  tra  gli  uni  e  l'altro  alcuna  gradazione  pos- sibile, se  i  Yedantini  riguardassero  il  multiplo  e cangiante  come  dei  fenomeni  subbiettivi,  e  non come  r  apparenza  obbiettiva  dell'  Essere  immuta- bile (1). §  9.  Nella  filosofia  moderna  il  principio  della  im- mutabilità della  sostanza  si  afferma  sin  dal  risor- • gimento  del  pensiero  filosofico.  La  più  parte  dei primi  filosofi  moderni  o  inaugurano  la  spiegazione meccanica  della  natura  o  proclamano  un  panteismo, in  cui  Dio  è  concepito  come  1'  essenza  sempe  iden- tica a  se  stessa  dogli  esseri  transitori  e  variabili. Sotto  la  forma  unitaria  e  panteistica,  il  principio dell'immutabilità  della  sostanza  si  trova,  nel  modo più  accentuato,  in  (iiordano  Bruno.  Nelle  esistenze finite  egli  non  vede  che  le  manifestazioni  diverse e  cangianti  di  un  essere  in  se  stesso  unico  ed  im- mutabile. «  Quel  tutto  che  si  vede  di  differenza  ne  li (1)  Negli  Vpanichad  (sezioni  finali  dei  Veda)  vi  ha  già  il  concetto deirimmutabilità  di  Brahma,  non  che  quello  di  Brahma  sostanza comune  di  tutti  gli  esseri;  ma  non  ancora  quello  di  maya  o  del  ca- rattere illusorio  delle  cose  sensibili  (v.  Regnaud  Rev.  phil.  4.  p.  589- •6)3).  La  successione  cronologica  dei  concetti  corrisponde  cosi  alla loro  successione  logica— Regnaud  mostra  che  in  S'ankara  (il  più  ce- lebre commentatore  dei  vedanta-soutra,  che  sono  il  testo  dei  filosofi vedantini)  o  negli  stessi  soutra  si  trova  già  il  concetto  di  mai/ a (Rev.  2)hiU  t.  5.  p.  16M66  e  t.  6.  p.  596),  ciò  che  Colebrooke  avoa negato  (Colebr  p.  203— Per  S'ankara  del  resta  ciò  risulta  abbastanza dalla  citazione  precedente).  Manca  perciò  di  fondamento  la  suppo- .siziono  di  Colebrooke  che  questo  concetto  sia  un  impiestito  degli .ultimi  scrittori  vedantini  a  qualche  aUra  scuola. H i: i J' N i>  t 5  - LXXX corpi,  quanto  alle  formazioni,  complessioni,  ligure, colori  ed  altre  proprietadi  e  comunitadi  non  è  altro che  un  diverso  volto  di  medesima  sustanza,  volto  la- bile, mobile,  corrottibile  di  un  immobile,  perseverante et  eterno  essere,  in  cui  son  tutte  forme,  figure  e  mem- bri, ma  indistinti  e  come  agglomerati,  non  altrimenti che  nel  seme»,  ecc.  (1).^  L'essere  primordiale  none dunque  soltanto  secondo  Bruno  il  sustrato  perma- nente di  tutte  le  cose,  di  cui  tutto  ciò  che  vi  ha .in  queste  di  vario  e  di  cangiante  non  è  che  un modo  di  essere  ;  esso  è  ancora  il  seno  fecondo  di tutto  ciò  che  nasce,  in  cni  ogni  cosa  preesiste,  per dir  così,  allo  stato  latente,  in  modo  che  tutto  ciò che  viene  all'esistenza  non  viene  dal  niente,  non comincia  d'una  maniera  assoluta,  ma  si  spicca  dal fondo  permanente  dell'essere,  diventa  manifesto, mentre  prima  era  occulto.  Bicordiamo  la  stoffa  in- viluppata che  si  sviluppa  dei  filosofi  indiani,  e  la tartaruga  che  fa  uscire  le  sue  membra  dal  guscio  e ve  le  fa  rientrare.  «  Ogni  potenza  et  atto,  che  nel principio  è  come  complicato,  unito  et  uno,  ne  le  al- tre cose  è  esplicato,  disperso  e  moltiplicato  »  (2). ciò  che  vi  ha  di  vario  negli  esseri  si  trova nell'essere  primordiale,  ma  fuso  insieme,  in  modo da  formare  un'essenza  assolutamente  semplice  e,  per cosi,  una  massa  perfettamente  omogenea.  «  L'u- niverso è  tutto  quel  che  può  essere,  secondo  un esplicito,  disperso,  distinto:  il  principio  suo  è (1)  De  la  causa,  principio  et  uno,  ed.   Wagner  p.  281. 2)  Op,  ciU  pag.  261. LXXXI unitamente  et  indifferendemente,  perchè  tutto  è  tutto et  il  medesimo  semplicissimamente,  senza  differenza e  distinzione  »  (1).  «  La    potestà    si    assoluta  non  è semplicemente  quel  che  può  essere  il  sole,  ma  quel ch'è  ogni   cosa,  e   quel  che   può  essere   ogni  cosa, potenza  di  tutte   le  potenze,  atto    di   tutti   gli  atti, vita  di  tutte  le  vite,  anima  di  tutte  le  anime,  essere di  tutti  gli  esseri.  Onde  altamente  è  detto  dal  rive- latore: Quel  ch'è  me  invia,  colui  ch'è  dice  così.  Però quel  che  altrove    è    contrario  et    opposìto,  in  lui  è uno  e  medesimo,  et  ogni  cosa  in  lui  è  medesima  »  (2). Noi  vediamo  qui  come  Bruno,  per  conciliare  l'unità dell'  essere  primordiale  con  la  varietà  degli  esseri derivati,  è  condotto  a  delle  idee  analoghe  a  quelle di  Eraclito  (3).  Il  principio  dell'identità  dei  contrari,, in  Bruno,  come  in  Eraclito,  non  deriva  da  conside- razioni dialettiche,  come  nell'idealismo  tedesco,  ma. dal  }frincipio  che  l'essere  non  può  venire  dal  niente. La  differenza  tra  Eraclito  e  Bruno    è  che,   mentre da  questo  principio  il  primo  ne  conclude  immedia- tamente che    gli    opposti    sono    identici    nelle  cose stesse,  il  secondo  immediatamente  non  ne  conclude se  non  che  tutti  gli  attributi  delle  cose  devono  tro- varsi nell'Essere  primordiale,  e  solo  mediatamente che  in  quest'Essere  per  conseguenza  gli  opposti  de- vono essere  identici,  senza  di  che  gli  attributi  re- ciprocamente incompatibili  delle    cose  non  potreb- bero coesistere  in  un  essere  unico  e  semplice. (1)  Ivi. (2)  Op,   ciL  p.  263. 3)  Questo  rapporto  con  Eraclito  è  stabilito  dallo  stesso  autore.l^ Vedi  Oj),  citata  pag.  285. LXXXII filosofia  antica  con  cui  il  sistema  di  Bruno ha  uno  stretto  rapporto  è  quella  degli  Eleati,  di  cui egli  loda  e  difende  le  dottrine.  «  Tutto  quello,  egli dice,  che  fa  diversità  di  geni,  di  specie,  differenze, proprietadi,  tutto  che  consiste  ne  la  generazione,  cor- ruzione, alterazione  e  cangiamento,  non  è  ente,  non è  essere,  ma  condizione  e  circostanza  d'ente  e  d'es- sere, il  quale  è  uno,  infinito,  immobile,  soggetto, materia,  vita,  anima,  vero  e  buono»  (1).  «Quello che  fa  la  moltitudine  ne  le  cose  non  è  lo  ente,  non è  la  cosa,  ma  quel  che  appare^  che  si  rappresenta al  senso  ^  et  è  ne  la  superficie  de  la  cosa  »  (2).  In un  altro  luogo  della  stessa  opera  (3)  1'  universo  è chiamato  uji  simulacro^  un'  immagine^  un'  ombra  del suo  principio.  (Ricordiamo  che  «  quel  tutto  che  si  A'ede di  differenza  ne  li  corpi  »  non  è  che  «  nn  diverso volto  »  di  «  un  immobile,  perseverante  et  eterno  es- sere»). Noi  vediamo  qui  quanto  Bruno  è  vicino  al concetto  della  fenomenalità  del  mondo  degli  Eleati e  dei  Vedantini  (ammesso  che  per  questi  filosofi questa  fenomenalità  debba  intendersi  nel  senso  ob- biettivo), concetto  che  solo  potrebbe  dare  un  sem- biante di  soluzione  alla  contraddizione  che  vi  ha tra  l'immutabilità  dell'Uno  tutto  e  i  cangiamenti  del- l'universo.  Potrebbe  forse  credersi  che  per  Bruno questa  contraddizione  non  esiste,  perchè  egli  non attribuisce  l'immutabilità  che  all'  Uno  in  se  stesso, (1)  Op.  cit.  p.  284. (2)  Op,   cit.  p.  285. (3)  Pag.  261. nel  suo  stato  implicito.  Ma  tale  osservazione  non toglie  la  contraddizione,  indica  soltanto  il  punto preciso  in  cui  questa  si  trova.  L'  uno  e  il  mondo non  sono,  nel  sistema  di  G.  Bruno,  che  è  un  pan- teismo rigoroso,  due  esseri  distinti -e  separati:  l'Uno vive  nel  mondo,  vi  è  contenuto,  perchè  esso  è  la stessa  del  mondo.  Ma  Bruno  astrae  questa sostanza  del  mondo  dai  suoi  modi  di  essere  parti- <?iolari,  e  ne  fa  un  essere  sussistente  per  se  stesso, «enza  però  staccarlo  dal  mondo,  di  cui,  anche  in questo  stato  di  astrazione,  esso  continua  ad  essere la  sostanza  (1).  L' Uno    esiste    dunque   simultanea- (1)  Per  questa  facilità  a  realizzare  delle  astrazioni   Bruno  ci  rivela  la  sua  posizione   storica  :  come  quasi  tutti   gli   altri   pensatori della  Rinascenza,  egli  non  é  ancora  un  filosofo  moderno,  egli  non  é che  a  metl  emancipato  dalla  scolastica.  Molti  concetti  fondamentali della  metafisica  di  Bruno  portano  l'impronta  di  questa  tendenza  ad elevare  a  realt.i  sussistente  per  se  stessa  l'indeterminato,  ciò  che  non è  che  un  prodotto  dell'astrazione.  Ciò  non  è  vero  soltanto  del  con- cetto dell'Uno  (che,  come  abbiamo  osservato,  è  una  sostanza  senza gli  accidenti,  quindi  un'astrazione,  e  al  tempo  stesso  una  realtà,  a cui  competono  degli  attributi  opposti  a  quelli  del  mondo,  di  cui  non- dimeno è  la  sostanza).  Bruno  considera  le  anime  degli  esseri  partico- lari come  le  individuazioni  di  un'Anima  universale  unica,  la  quale non  è  già  l'insieme  delle  anime  o  delle  vite  particolari,  ma  il  loro principio,  che  esiste  per  sé  slesso  prima  di  particolarizzarsi  e  mol- tiplicarsi (s'intende  d'una  priorità  logica  e  metafisica),  press'  a  poco <'.ome  un'Idea  di  Platone.  La  stossa  materia  (in  astratto)  sembra  tal- volta vagamente  realizzata.  Cosi  quando  egli  dice  (in  un  luogo  che •cita  Lange  —  t.   1",  2*  parte  e.  3"  —  per   provare  la  tendenza    mate- rialista di  questo  filosofo)  che  la  materia  contiene  nel  suo  seno  tutte le  forme,  e  che  queste  escono  dall'  interiore  della  materia  per  l'at- tività della  materia  stessa,  la  quale  le  fa  uscire  da  sé,  simile   alla parturiente,  che  per  i  suoi  sforzi  convulsivi  spinge  il  figlio  fuori  del suo  seno;  allora,  accordando  alla  materia  un'  anteriorità  metafisic .sulla  forma,  egli  sembra  considerarla   come    esistente  per  se  stessa LXXXIY mente  in  due  stati  contrari  :  in  se  stesso,  cioè  nel suo  stato  astratto,  egli  è  il  tutto,  ma  allo  stato  im- plicito; nel  mondo,  egli  è  ancora  lo  stesso  Uno,  ma allo  stato  esplicito,  disperso,  moltiplicato.  Ora  è  e^ vidente  che  questi  due  stati  opposti  non  potrebbero appartenere  simultaneamente  allo  stesso  essere,  a meno  che  Bruno  non  dica  con  Platone  e  con  Hegel (i  quali  tra  le  Idee  e  le  cose  stabiliscono  lo  stesso rapporto  che  Bruno  tra  l'Uno  e  il  mondo)  che  di questi  due  stati  l'uno  solo  è  reale,  e  l'altro  non  è che  apparente. In  Telesio  il  principio  dell'immutabilità  della  so- stanza  arriva  ad  una  concezione  della  natura  che è  assai  vicina  alla  spiegazione  meccanica,  ma  che al  tempo  stesso  tiene  strettamente  ancora,  come  i concetti  di  G.  Bruno,  all'ambiente  intellettuale  di un'epoca,  in  cui  i  prodotti  dell'astrazione  vengono trattati  come  degli  esseri  concreti.  Gli  elementi  delle cose  sono  secondo  Telesio  una  materia  indetermi* nata,  senza  qualità,  e  il  caldo  e  il  freddo  che  de terminano  e  qualificano  questa  materia.  Il  caldo  e il  freddo  sono  delle  nature  sussistenti  per  se  stesse^ che  si  contendono  il  dominio  della  materia:  la  ma- teria esiste  dunque  per  se  stessa  indipendentemente indipendentemente  dalla  forma— Il  principio  generale  applicato  in questi  concetti  di  Bruno  é  che  il  reale,  considerato  nella  sua  essen- za, la  quale  si  risolve  in  principii  astratti  o  indeterminati,  é  immu- tabile, e  che  il  cangiamento  non  attinge  che  la  superficie  dell'essere; di  più  queste  stesse  determinazioni  .particolari  e  cangianti,  che  si producono  alla  superficie  dell'essere,  sono  considerate  non  come  pro- dotte dal  niente,  ma  come  tirate  dal  suo  fondo  permanente,  che^ le  contiene  in  se  stesso  a^  uno  stato  implicito  •  involuto. LXXXY dalle  sue  qualità,  e  queste  indipendentemente  dalla materia.  Le  altre  proprietà  contrarie  che  differen- ziano la  materia  sono  ricondotte  alla  contrarietà fondamentale  del  caldo  e  del  freddo:  col  caldo  sono congiunte  la  tenuità,  la  luce,  la  mobilità;  col  freddo la  spessezza,  l'oscurità,  l'inerzia.  Le  proprietà  dif- ferenti dei  cori3Ì  provengono  dunque  dalla  presenza nella  materia  dell'uno  o  l'altro  dei  due  principi! contrari,  o  dalla  proporzione  in  cui  l'uno  e  l'altro vi  coesistono.  Le  proprietà  medie  sono  la  risultante del  concorso  delle  proprietà  opposte,  che  abbiamo indicato  :  cosi  i  colori  provengono  dalla  mescolanza del  bianco  e  del  nero,  cioè  della  luce  e  dell'  oscu- rità. Ogni  cangiamento  si  riduce  perciò  alla  diversa distribuzione  nello  spazio  del  caldo  e  del  freddo  e- sistenti  nell'universo:  questi,  della  stessa  maniera che  il  loro  sustrato  materiale,  non  nascono  ne  pe- riscono, sono  sempre  gli  stessi  e  nella  stessa  quan- tità, e  soltanto  passano  da  un  luogo  ad  un  altro. Così  niente  si  produce  di  assolutamente  nuovo  e niente  assolutamente  si  distrugge  :  ogni  cangiamento qualitativo  si  riduce  al  cangiamento  nei  rapporti degli  stessi  elementi,  sempre  identici  a  se  stessi. Anche  nel  suo  insieme  1'unÌA^erso  resta  immutabile, perchè  i  cangiamenti  che  si  producono  in  un  punto sono  compensati  da  cangiamenti  contrari  che  devono prodursi  in  qualche  altro  punto.  Il  caldo  e  il  freddo sono  forniti  di  senso  :  infatti,  dice  Telesio,  questo non  potrebbe  trovarsi  negli  animali,  nei  composti, se  esso  non  esistesse  negli  elementi  (1). (1)  V.  Fiorentino,  Bernardino  Telesio, LXXXVI §  10.  Telesio  ci  fornisce  un  esempio  molto  evi-^ dente  del  fatto  che,  tutte  le  volte  che  lo  spirito umano  cerca  di  formarsi  una  concezione  delle  cose in  conformità  del  principio  dell'immutabilità  della sostanza,  egli  è  obbligato  a  girare,  quando  non  arriva sino  ad  essi,  attorno  ai  concetti  del  meccanismo,  che soli  permettono  di  realizzare  questo  principio  d'una maniera  intelligibile.  Noi  abbiamo  già  osservata come  gli  stessi  fisici  greci  che  ammettevano  una  so- stanza unica  cercavano,  come  i  meccanisti,  di  ridurre al  movimento  tutti  i  cangiamenti  della  natura.  Le stesse  immagini  impiegate  dai  filosofi  monisti  i  cui concetti  sembrano  i  più  lontani  da  quelli  del  mec- canismo —  la  stoffa  inviluppata  che  si  sviluppa,  la tartaruga  che  spinge  fuori  le  sue  membra  e  poi  le ritira,  l'unione  e  complicazione  delle  cose  nell'Uno e  la  loro  dispersione  ed  esplicazione  nel  mondo,  ecc. — ci  mostrano  che  tutto  ciò  che  vi  ha  di  rappresen- tabile nelle  loro  oscure  concezioni,  perchè  è  la  sola base  sensoriale  o  empirica  su  cui  esse  si  sono  svi- luppate, si  riduce  a  quelle  stesse  esperienze  che, generalizzate  d'una  maniera  coerente,  danno  ori- gine alla  concezione  meccanista,  cioè  a  quelle  e- sperienze  che  ci  offrono  come  fenomeno  il  più  fa- miliare la  persistenza  delle  cose  nelle  loro  proprietà e  il  movimento  per  cangiamento  unico.  Cosi  niente di  più  naturale  che  il  ritorno  della  concezione  mec- canica insieme  a  quello  della  chiarezza  del  pen- siero (1),  e  la  pronta  prevalenza  di  questa  conce- fi)  Per  Tìuccanica  noi  qui  intendiamo  una  concezione    deUii  na- tura che  consiste  ad  ammettere  che  tutti  i  fenomeni  del  mondo  ob- LXXXVII zione  nella  filosofia  moderna.  Già  Gralileo  dice  contro il  concetto  peripatetico  della   generazione   e  corru- zione :  «  Io  non  son  mai  restato  ben  capace  di  questa trasmutazione  sustanziale,  per  la  quale  una  materia venga  talmente  trasformata,  che  si  deva  per  neces- sità dire   quella  essersi  del  tutto  destrutta,  sì  che nulla  del  suo  primo  essere  vi  rimanga,  e  che  un  altro corpo,  diversissimo  da  quella,  se  ne  sia  prodotto;  ed il  rappresentarmisi  un  corpo  sotto  un  aspetto,  e  di lì  a  poco  sotto  un  altro  differente  assai,  non  ho  per impossibile  che  possa  seguire  per  una  semplice  tra- sposizione  di    parti,   senza   corrompere   o   generar di  nuovo  »  (1).  Ma  è  a  dei  filosofi  un  poco  po- steriori, a  Cartesio  e  agli  altri  celebri  pensatori  suoi contemporanei,    fra   cui  bisogna  mettere  in  prima linea  Gassendi,  il  rinnovatore  dell'atomistica,  che  si deve  l'espressione  rigorosa  di  questo  principio,  di- venuto quasi  un  assioma  nella  scienza  moderna,  che tutti  i  cangiamenti  del  mondo  fisico  si  riducono  allo spostamento  di  parti  materiali  in  se  stesse  inalterabili. Fra   le   due   dottrine   sull'essenza   della   materia che  possono  servire  di  base  a  una  concezione  mec- biettivo  sono  dei  fenomeni  meccanici.  Per  conseguenza  il  significata in  cui  usiamo  questo  ternvine  in  questo  paragrafo  e  nei  due  seguenti deve  essere  distinto  da  quello  in  cui  l'abbiamo  usato  nel  capitolo  III, in  cui  filosofìa  meccanica  è  stato  por  noi  l'equivalente  di  fllonofla  im- puhionisfa  (cioè  di  una  spiegazione  della  natura  in  cui  non  solo  tutti i  fenomeni  del  mondo  fisico  si  riducono  a  processi  meccanici,  ma anche  tutti  i  fenomeni  meccanici  al  movimento  prodotto  per  im- pulsione). Allora,  conlormandoci  aU'uso  di  molti  sostenitori  di  que- sto sistema,  conia  parola  meccanica  abbiamo  designato  una  npeciCr di  cui  ora  con  la  stessa  parola  designiamo  il  genere, (1)  Dialoghi  dei  massimi  sistemi  Giornata  l*". liXxxYiir canica  soddisfacente  alle  esigenze  della  scienza  mo- derna —  quella  di  una  materia  continua  e  perfet- tamente omogenea  in  tutte  le  sue  parti,  e  quella  di molecole  separate  dal  vuoto,  omogenee  qualitativa- mente e  inalterabili,  e  solo  suscettibili  di  differire per  la  forma  o  per  la  grandezza— è  l'ultima  senza dubbio  che  noi  possiamo  rappresentarci  d'una  ma- niera più  netta.  Quantunque,  al  punto  di  vista  della possibilità  di  formarsene  una  rappresentazione,  il concetto  di  molecole  non  aventi  altra  qualità  che r  estensione  e  l' impenetrabilità  non  manchi  anche esso  di  gravi  difficoltà  (che  noi  svilupperemo  nella 2.  parte  di  questo  Saggio),  tuttavia  queste  non  sono €0si  evidenti  come  quelle  inerenti  al  concetto  di una  materia  continua  ed  omogenea,  quella  sovra- tutto  a  cui  si  va  incontro  quando  si  cerca  di  rap- presentarsi il  movimento  e  delle  forme  distinte  al  seno d'una  massa  continua  ed  assolutamente  indifferente(l). Sarebbe  interessante,  ma  molto  al  di  sopra  della nostra  competenza,  di  cercare  se  sia  stato  questo vantaggio  della  dottrina  della  discontinuità,  cioè, nel  fatto,  dell'atomistica,  che  ha  determinato  la  sua vittoria  definitiva  sulla  dottrina  della  continuità, procedente  da  Cartesio.  Ma,  comunque  sia  di  ciò, non  vi  ha  dubbio  che  l'atomistica  non  sia  stata  al- l'origine, come  la  dottrina  rivale  di  Cartesio,  una speculazione  a  priori,  cioè  derivata  dalle  tendenze spontanee  dello  spirito,  e  non  un'induzione  logica tirata  dai  fatti.  Gassendi,  a  cui  si  deve  l' introdu- ci) V.  il  mio  studio  sulla  dottrina  della  materia  in  Rosmini,  fa- scicolo 1"  la  nota  a  pag.  15. LXXXIX zione    degli  atomi  nella  scienza  moderna,   non  in- tende   che    risuscitare  la  dottrina  di  Epicuro:  così l'atomistica  di   Gassendi  e  dei  fisici  che  lo  segui- rono, non  è  ancora  essenzialmente  che  quella  di  E- picuro    e    di  Democrito.  «  Gli  atomi  di  Boj  le  (che introdusse  l'atomistica  nella  chimica)  sono  quasi  gli stessi,  dice  Lange  (1),  che  quelli  di  Epicuro,  quali Gassendi    li    ha   fatto  rientrare  nella  scienza.  Essi hanno  ancora  delle  forme  differenti,  che  influiscono sulla  stabilità  e  l'inconsistenza  delle  combinazioni. Un  movimento    violento  ora   rompe  la  coesione  di certi  atomi,  ora  ne  riunisce  altri,  i  quali,  come  nel- l'atomistica antica,    si    appiccano  gli  uni  agli  altri con  le  loro  facce  piene  di  scabrosità,  per  mezzo  di sporgenze,  di  dentelli,  ecc.  Quando  avviene  un  can- giamento nella  combinazione  chimica,  le  più  piccole molecole    d'  un    terzo  corpo  s' introducono  nei  pori separano    due    corpi    combinati.  Esse  possono allora  combinarsi  con  l'uno  di  loro,  grazie  alla  con- delle  loro  facce,  meglio  che  questo  non era  combinato  prima  col  secondo  corpo;  e  il  movi- mento precipitato  degli  atomi  porterà  via  le  mole- cole di  quest'ultimo  ».  Naturalmente,  come  osserva Lange,  questa  forma  dell'atomistica  (che  assimilava l'azione  reciproca  tra  le  molecole  alle  più  familiari tra  quelle  che  noi  vediamo  fra  le  masse   sensibili) dovette    soccombere    allorché    fu  accettata  la  legge di  Newton  sull'attrazione  :  allora  s' introdussero  le attrazioni  e  le  repulsioni  tra  le  molecole,  e  le  forme svariate    di    prima    non   furono  più  necessarie  per (1)  Stor,  liei  water.  IP  parte  2"  e.  2". xc ispiegare  la  loro  unione.  Ma  questa  modificazione non  spostava  la  base  logica  dell'atomismo:  non  si  po- trebbe vedere,  sotto  il  apporto  del  loro  valore  scien- tifico, una  differenza  essenziale  tra  l'atomistica  del secolo  17^  e  18^  e  quella  di  Democrito  e  di  Epicuro, perchè  nessuna  delle  prove,  in  cui  la  scienza  at- tuale riconosce  il  fondamento  della  teoria  atomica, era  conosciuta  prima  di  Dalton.  Dalton  mostrando che  nell'ipotesi,  generalmente  ammessa,  degli  atomi si  poteva  spiegare  la  regolarità  dei  rapporti  di  peso nelle  combinazioni  delle  sostanze  (la  legge  delle proporzioni  fisse  e  quella  delle  proporzioni  multiple) supponendo  che  gli  atomi  di  ciascuna  sostanza  han- no un  peso  definito,  e  che  ciascun  atomo  di  una  so- stanza si  combina  con  uno  o  con  due,  ecc.,  atomi di  un'  altra  sostanza,  diede  alla  teoria  atomica  la base  che  essa  ha  attualmente  nella  chimica.  Così gli  atomisti  contemporanei  ammettono  che  è  Dalton che  fece  entrare  la  teoria  atomica  nella  sua  fase sperimentale:  nessuno,  dice  Naumann,  ha  dimostrato coi  fatti,  prima  di  Dalton,  i  dritti  e  l'utilità  dell'a- tomistica (1).  Noi  possiamo  dunque,  senza  esitazione, classare  Tatomistica  moderna,  prima  di  Dalton,  non meno  che  quella  di  Democrito  e  di  Epicuro,  tra  i prodotti  di  questa  tendenza  spontanea  che  ha  il  no- stro spirito  ad  ammettere  che  1'  universo  è  sostan- zialmente immutabile^  o,  come  dicevano  i  fisici  greci, che  l'essere  non  può  venire  dal  non  essere,  ne  ri- dursi al  non  essere.  Così  1'  assioma  dei  fisici  greci (1)  Elem,  di  termo  chimica,    citato  da  Lange  SL  del  mai.  voi.   1" nota  2  alla  3'^  parti. XCI noi  lo  ritroviamo  negli  atomisti  moderni,  in  termini che  ricordano,  della  maniera  più  precisa,  Anassagora,. Empedocle  e  Democrito.  D'Holbach,  p.  e.,  dice  :  «  A parlar  esattamente,  niente  nasce  e  muore  nella  na- tura; vi  ha  solamente  una  combinazione  ed  una  se- parazione di  ciò  che  era  combinato  »  (1). Sembrerà  una  coincidenza  singolare  che  la  scienza sia  venuta  a  confermare  ciò  che  non  era  che  una semplice  veduta  a  priori  dello  spirito,  là  quale,  co- me tutte  le  altre  ipotesi  che  si  sono  immaginate  sui così  detti  principi i  ultimi  delle  cose,  non  aveva  la sua  sorgente  che  nella  sofìstica  naturale  dello  spi- rito umano.  Potrà  anche  sembrare  più  sorprendente che  la  conferma  del  principio  degli  antichi  fisici che  non  vi  ha  né  generazione  ne  corruzione,  cioè che  le  cose  non  possono  cangiare  di  natura  e  di proprietà,  sia  venuta  appunto  dalla  chimica,  la quale,  se  dobbiamo  stare  ai  risultati  immediati  del- l'osservazione,  ci  mostra  invece  che  tutto  cangia continuamente  e  della  maniera  più  radicale  di  na- tura e  di  proprietà,  poiché  il  carattere  proprio  della combinazione  chimica,  che  la  distingue  da  una  sem- plice mescolanza^  è  di  far  disparire  completamente le  qualità  fisiche  delle  sostanze  che  si  combinano, dando  luogo  ad  una  nuova  sostanza,  le  cui  proprietà,- ad  eccezione  del  peso,  non  po/^sono  dedursi  dalle proprietà  degli  elementi  da  cui  essa  risulta.  Qui  il progresso  delle  acquisizioni  positive  della  scienza si  fa  in  una  direzione  opposta  a  quella  seguita  dalle (1)  Sist.  della  nai,  2.  p.  e.  V. XCIl xeni sue  ipotesi.  Mentre  i  primi  chimici  supponevano, conformemente  alle  tendenze  spontanee  della  cre- denza, che  il  composto  doveva  avere  delle  proprietà identiche  o  simili  a  quelle  degli  elementi  —  a  prio- ri, noi  ci  attenderemmo  infatti  che  le  proprietà  del composto  dovrebbero  essere  la  somma  o  la  media di  quelle  dei  componenti,  ciò  che  è  la  suggestione delle  nostre  esperienze  più  familiari  —,  la  chimica moderna  invece,  mostrando  il  contrario,  si  è  for- mata in  opposizione  a  queste  tendenze  spontanee  — è  perciò  che  il  risultato  di  una  combinazione  chi- mica sembra  un  fenomeno  sorprendente  e  miste- rioso —  :  ma  la  teoria  atomica  procede  assolutamente nel  senso  di  queste  tendenze  stesse,  riducendo  ad una  semplice  congiunzione  e  separazione  di  ele- menti,  senza  cangiamento  qualitativo,  ciò  che  la semplice  osservazione  immediatamente  dà  come  una conversione  di  più  sostanze  in  una  nuova  sostanza unica,  e  una  riconversione  di  questa  sostanza  nelle sostanze  primitive.  Ciò  che  si  deve  osservare  è  que- sto carattere  comune  che  la  teoria  atomica  ha  con le  dottrine  metafisiche,  cioè  di  ricondurre  dei  fatti che  ci  sembrano  sorprendenti,  perchè  relativamente poco  familiari  —  e  si  noti,  dei  fatti  generali,  delle uniformità  della  natura,  che  potrebbero  ben  essere dei  fatti  ultimi  che  non  ammettono  spiegazione  — ad  altri  fatti  che  ci  sembrano  naturali  ed  evi- denti per  se  stessi,  perchè  estremamente  familiari. Noi  abbiamo  osservato  che,  quando  Democrito  ri- conduceva i  fenomeni  del  cangiamento  nello  stato fisico  dei  corpi  ai  diversi  rapporti  di  elementi  co- stitutivi invariabilmente  solidi,  egli  dava  una  spie" gazione   di    questi  fenomeni,  nel  senso  popolare  o metafisico  della  parola  spiegazione,   cioè  riducendo ciò  che  è  meno  famliare  a  ciò  che  è  più  familiare  : questa  osservazione    si    applica  pure  naturalmente alla  odierna    ipotesi    della    costituzione  molecolare della  materia,  poiché,    qualunque  sia  la  differenza del   modo    in    cui   Democrito   e  di  quello  in  cui  il fisico    moderno    si    rappresentano  i  rapporti  tra  le molecole  per  costituire  i  differenti  stati  fisici  della materia,  e  quali  si  siano  i  motivi  che  il  fisico  mo- derno  può  avere,  in  più  di  Democrito,  per  ammet- tere che  ww.  fluido  non  è  fluido  in  tutte  le  sue  mi- nime parti,  come  si  presenta  alFosservazione,  ma  è un  aggregato  di  particole  solide;  malgrado  queste differenze,  vi  ha  Tuguale  risultato  di  ricondurre  dei fenomeni   relativamente   poco   familiari  a  un  feno- meno estremamente   familiare,  qual  è  quello,  che noi  vediamo  a  ciascun  istante,  di  corpi  che,  restando gli  stessi,   cangiano   unicamente   le   loro   posizioni reciproche.  Questa  riduzione  di  ciò  che  è  relativa- mente strano  e  non  familiare  a  ciò  che  per  la  sua familiarità    sembra    assolutamente   naturale   e   non avente    bisogno   di  alcuna  spiegazione,  è  più  evi- dente ancora  nella  spiegazione  del  chimico  che  ri- conduce   ciò  che  per  la  semplice  osservazione  non è  che  una  conversione   reciproca   di   sostanze  —  le combinazioni  e  decomposizioni  chimiche  —  alla  con- giunzione   e    separazione   di   particole  inalterabili. Non   è   meno   evidente   infine   che   quando  il  fatto della  regolarità  dei  pesi  secondo  cui  si  combinano le  sostanze,  viene  spiegato,  supponendo  che  ciascuna sosta  iza   semplice   è  costituita   di   particole  egualiXCIV indivisibili,  e  che  le  particole  pure  eguali  in  cui si  divide  la  sostanza  composta  si  formano  per  l'u- nione di  questo  particole  ultime  delle  sostanze  ele- mentari, di  cui  ciascuna  conserva  la  propria  inte- grità; allora  il  fenomeno  che  serve  di  intermediario esplicativo  è,  come  nelle  spiegazioni  metafisiche, un  fatto  che  sembra  più  comprensibile  in  se  stesso, perchè  è  più  familiare,  del  fatto  che  si  tratta  di  spie- gare. La  regolarità  dei  rapporti  di  peso  nelle  combi- nazioni chimiche  sembra,  per  una  necessità  psicolo- gica, al  chimico  stesso,  un  fenomeno  sorprendente  e misterioso,  perchè  non  è  un  dato  della  sua  esperienza di  tutti  gl'istanti  (come,  p.  e.  l'urto  o  il  movimento volontario),  ma  non  si  rivela  a  lui  che  nelle  ricer- che ch'egli  fa  nel  suo  laboratorio;  al  contrario,  noi siamo  perfettamente  abituati  (non  meno  che  alle  espe- rienze dell'urto  o  del  movimento  volontario)  a  ve- dere gli  oggetti  più  familiari  che  ci  circondano  con- servare la  loro  integrità,  e  non  cangiare  che  di posto;  e  un'esperienza  egualmente  familiare  mo- strandoci che  questa  facoltà  che  hanno  gli  oggetti materiali  di  conservare  la  propria  integrità  è  in rapporto  con  la  loro  durezza,  noi  troviamo  affatto naturale  che  dei  corpi  infinitamente  duri,  come  si suppongono  gli  atomi,  siano  anche  assolutamente indivisibili  (1).  A  questo  tratto  comune  che  l'ipotesi (1)  L'ipotesi  di  alcuni  fisici    moderni  della  elastlcltfi  degli  atomi è  evidentemente  una  deviazione  dal  tipo,  per  dir  cosi,  naturale  dei concetto  dell'atomo.  L'elasticità  degli  atomi  si  ritiene  indispensabile per  la  teoria  cinetica  dei  gas,  secondo  la  quale  un  gaz  è  costituito  da dartlcole  solide  che  si  muovuono  continuamente  in  tutte  le  direzioni xcv della  costituzione  molecolare  e  atomica  della  mate- ria ha  con  le  ipotesi  metafìsiche  bisogna  aggiungerne un  altro:  è  che  le  molecole — intendendo  per  questa parola  i  corpuscoli  distinti  e  separati  in  cui  la  ma- teria si  suppone  in  atto  divisa,  ma  senza  includervi possibili.  Affinchè  dopo  gli  urti  delle  particole  11  movimento  non  sia perduto,  ed  esso  possa  essere  perpetuo,  le  particole  devono  essere  per- fettamente elastiche;  se  fossero  Ine^astlche  o  Imperfettamente  elasti- che, vi  sarebbe  perdita  di  movimento  ad  ogni  Incontro.  SI  ritiene  puro che  l'elasticità  assoluta  dogM  atomi  sia  reclamata  dal  principio  della conservazione  dell'energia;  polche  la  perdita  di  movimento  nell'urto  del corpi  duri  e  iuolastlcl  si  concilia  con  «[uesto  principio  ammettendo che  il  movimento  della  masse  diviene  un  movimento  interiore  delle loro  molecole;  spiegazione  natur.almente  inapplicabile  nell'urto  delle particole  ultime  della  materia,  che  non  sono  esse  stesse  costituite  di particole  più  piccole.  Ma  è  evidente  che  Tatomlstica  non  può  ammettere il  concetto  dell'elasticità  degli  elementi  ultimi  della  matei-Ia,  che  fa- cendo violenza  alle  sue  esigente  più  naturali:  sia  perchè  1'  Indivisi- bilità dell'atomo  non  si  spiega  e  non  si  concepisce  che  nell'  ipotesi della  sua  durezza  e  rigidità  assoluta;  sia  perchè  la  contrazione  e  la dilatazione  del  corpi  è,  nalla  teoria  atomica,  l'effetto  della  dimi- nuzione o  dell'aumento  del  vuoto  comproso  tra  le  parti  materiali.— Un'idea  notevole,  jìerchò  mostra  di  una  maniera  palpabile  la  contra- dlzlonl  tra  il  concetto  dell'el.astlcltà  dell'atomo  e  1  presupposti  ge- nerali dell'atomismo,  è  quella  emessa  dal  Lange  (St.  del  mater  v.  2^ parte  2*  e.  2")  secondo  la  quale  l'atomo  (elastico)  si  comporrebbe  di  sotto atonU,  e  questi  ancora  di  sottoatoml  inferiori,  e  co^i  all'infinito.  È evidente  che  di  questa  maniera  il  concetto  stesso  dell'atomo  sparirebbe, perchè  ogni  minima  porzione  di  materia  sarebbe,  non  solo  divisibile, ma  divisa  già  in  atto.  Di  più  noi  abbiamo  in  quest'Idea  di  Lange  la inconcepibilità  latente  della  divisibilità  della  materia  all'Infinito  resa evidente,  e,  per  dir  così,  sensibile,  per  questa  sostituzione  al  concetto della  divisibilità  tlel  concetto  di  una  divisione  attuale,  e  in  parti  se- parate dal  vuoto.— Un'altra  deviazione  dall'atomismo  naturale,  desti- nata a  risolvere  le  accennate  ed  altre  difficoltà  della  teoria,  è  l'Ipo- tesi di  Thomson,  secondo  cui  gli  atomi  sarebbero  del  turbini  formati da  movimenti  rotatori  in  un  fluido  continuo  e  assolutamente  omo- geneo. In  un  tal  fluido  questi  turbini  sarebbero  permanenti.  É  una ipotesi  fondata  sulle  ricerche'  che  Helmholtz  avea  fatte  sugli  anelli  - I- XCVI l'idea  dell'indivisibilità  di  questi  corpuscoli   e tanto  più  gli  atomi,  non  sono,  come  gli  esseri  tra-scendenti della  metafisica,  delle  vere  cause,  nel  senso che  questi  termini  hanno  nella  celebre  regola  di Newton;  vale  a  dire  si  tratta  di  esseri  ipotetici  di una  natura  affatto  particolare,  tale  che  l'esperienza turbini  —  un  cottile  anello  di  Ilciuldo  di  cui  cltìscuna  molecola  è  ani- mata da  un  movimento  di  rotazione  attorno  dell'anello  in  un  piano  per- pendicolari» a  (jnelio  di  (luest'anello— .|Ielmoltz  mostrò  che,  se  non  esi- stono attriti  esteriori,  un  tale  sistemasi  manterrà  Indefìnitamente  in  e- quiUbrlo  (  V.Heni  loi  Ipotesi  attuali  sulla  costituì  ione-  della  materia  p.9). I/lpotcsi  di  Thomson  è,  come  si  vede  una  fusione  dell'atomistica  con  la dottrina  ca"teslana  d'una  materia  continua  e  assolutamente  omo^^^ea, ed  essa  si  conforma  alla  condizione  jjenerale  della  teoria  meccanica, di  ammettere  cioè  1'  inalterabilità  della  materia  e  di  ridurre  tutti  i cangiamenti  al  movimento.  Se  non  che  ciò  che  nella  concezione  di Thomson  fa  la  funzione  di  materia  è  una  materia,  per  dir  così,  tra- scendentale, non  è  la  nostra  materia:  la  nostra  materia  consiste,  nel- l'Ipotesi di  Thomson,  nei  turbini,  cioè  In  certi  movimenti,  che  hanno luogo  in  (luesta  materia  trascendentale.  Ciò  sujrprerlsce  una  riflessione sulla  natura  di  (|uesta  ipotesi,  la  quale  dimostrerebbe  forse  che  ossa non  ha  che  ///  apparenza  una  base  sperimentale.  Thomson  dota  di certe  proprietà  II  suo  fluido  ipotetico  per  anaioj?la  ai  nostri  fluidi, ai  fluidi  dell'esparienza,  e  da  questa  proprietà  deduce  la  sua  Ipotesi. Ma  la  inferenza  dal  nostri  fluidi  al  suo  fluido  ipotetico  è  leggittima? Io  credo  che  Thomsou  non  sia  autorizzato  a  trasportare  al  suo  fluido Ipotetico  né  le  proprietà  dei  nostri  fluidi  ne  ({ualslasi  altra  leg^e del  mondo  materiale.  Le  legsji  della  natura  fìsica,  cioè  della  materia, non  possono  essere,  secondo  Tomson,  che  l'espressione  generale  del modo  di  comportarsi  dei  suoi  atomi— turbini  nei  loro  reciproci  rap- porti in  condizioni  determinate.  Un'  inferenza  sperimentale  è  dun- que un'inferenza  dal  modo  in  cui  questi  turbini  si  sono  comportati in  date  condizioni  al  modo  in  cui  gli  stessi  turbini  o  altri  turbini analoghi  si  comporteranno  nelle  Identiche  condizioni.  Dalle  proprietà (1)  Avendo  bisogno  di  un  termine  por  indicare  il  concetto  ge-nerale che  tutti  i  corpi,  qualunque  sia  il  loro  stato  fisico,  sono  co- stituiti di  particole  solide,  facendo  astrazione  della  forma  particolai e di  questo  concotto  che  vede  nelle  particole  costitutive  degli  atomi, cioè  delle  piccole  masse  indivisibili,  ci  serviamo  a  quest'oggetto  della parola  molecola,  impiegandola  non  nel  senso  che  essa  ha  nella  scien« za  moderna,  ma  in  un  senso  più  confórme  alln  sua  etimologia. XCVII non  ci  fornisce  alcun  esempio  degli  attributi  di  cui questi  esseri  si  suppongono  dotati.  La  solidità  asso- luta che  si  suppone  nelle  molecole,  questa  potenza inlìnita,  come  dicova  Bernouilli,  di  resistenza  alla compressione  e  alla  deformazione,  ò  un'attributo  sco- nosciuto airesperienza.  Lo  stesso  deve  dirsi  natural- mente di  questa  potenza  infinita  che  si  suppone nell'atomo,  di  resistenza  a  qualsiasi  forza  tendente a  dividerlo.  Tra  le  parti  della  molecola  o  dell'atomo si  suppone  una  forza  di  coesione  di  una  natura affatto  speciale,  una  forza  la  cui  esistenza  non  è stata  mai   costatata   nel  mondo   dell'esperienza  (1). della  nostra  materia  —  fluida  o  altra  —  che  è  un  aggregato  di  tur- bini, non  può  niente  inferirsi  sulle  proprietà  di  un'altra  materia  ipo" tetica,  elle  sarebbe  altra  cosa  che  un  aggregato  di  turbini.  Tra  la •nostra  materia  e  la  materia  trascendentale,  che,  secondo  Thomson, serve  ad  essa  di  sustrato  come  la  nostra  materia  serve  di  sustrato al  suo  proprio  movimento,  non  vi  ha  identità  e  perciò,  mi  sembra, nessuna  inferenza  legittima.  —  Le  deviazioni  dal  tipo  normale  dell'a- tomistica di  un  carattere  assolutamente  metafìsico,  quale  la  dottrina che  riduce  gli  atomi  a  punti  matematici,  o,  come  si  dice  per  li  so- lito, a  centri  di  forze,  si  rapportano  alla  qulstlone  del  mondo  esteriore e  noi  ne  parleremo  nella  2*  parte.  Notiamo  per  ora  che  11  nome  di dinamiche  date  a  queste  dottrine  non  toglie  che  anch'esse  —  parti- colarmente quella  sunnominata  degli  atomi  —  punti  o  centri  di  for- ze —  siano.  In  un  senso,  meccaniche,  conformaìidosi  anch'esse  al  prin- cipio generale  della  concezione  meccanica,  cioè  la  spiegazione  del cangiamenti  dei  mondo  fisico  per  il  cangiamento  dei  rapporti  di  ele- menti in  se  stessi  inalterabili. (1)  Naturalmente  ó  qui  che  si  è  sempre  vista  la  grande  difficoltà della  teoria.  Cosi  Thomson  chiama  «  s apposizioni  mostruose  »  quelle di  «  frammenti  di  materia  infinitamente  duri  e  infinitamente  rigidi, frammenti  di  materia  di  cui  alcuni  dei  chimici  più  eminenti  non temono  d'aff'ermare  temerariamente  l'esistenza  come  un'ipotesi  pro- babile *  (citato  da  Henriot  Ipot,  alt,  sulla  co^itit,  della  inai,  p.  10)  • Secondo  Du  Bois-Reymond  1'  atomo  indivisibiley    inattivo  e,  sede  di li XCVIII Un'ipotesi  che  ricorre  a  cause  non  vere,  cioè  a  forze di  cui  non  si  è  costatata  l'esistenza  nella  natura,  è necessariamente  un'ipotesi  illegittima,  come  vuole la  regola  di  Newton,  o  questa  circostanza  costituisce semplicemente  un  grado  d'improbabilità  intrinseca dell'ipotesi  che,  per  compenso,  deve  rendere  più esigenti  sul  numero  e  la  qualità  delle  sue  prove? È  una  delle  più  ardue  quistioni  della  logica,  a  cui non  ci  attenteremo  di  dare  una  risposta  :  ma  la  so- miglianza che  abbiamo  notata  tra  la  dottrina  mole- colare  o  atomica  e  le  dottrine  dei  metafisici  sugge- risce inevitabilmente  una  riflessione,  che  io  sotto- metterò al  lettore  non  senza  un'esitazione  assai  na- turale in  chi  non  ha  alcuna  competenza  ne  in  fisica jiè  in  chimica. La  teoria  molecolare  e  atomica  è,  come  si  con- viene dai  suoi  stessi  fautori,  una  semplice  ipotesi, e  un'ipotesi  che  non  sembra  suscettibile  di  essere moi   provata  (1).    Misurare    il  grado   di  probabilità forze  che  agiscono  attraverso  il  vuoto,  ó  un  controsenso  e  una  chi- mera (/  limiii  della  fllos,  naturale  in  Rev,  scient,  2"  ser,  v,  7). Un'idea  che  meriterebbe  forse  d'essere  sviluppata,  ò  che  ordi- nariamente le  cause  non  vere  supposte  dai  fisici,  quali  gli  atomi,  le molecole,  1'  etere,  i  fluidi  imponderabili  che  si  ammettevano  pri- ma, ecc.  hanno  la  funzione  di  spiegare  i  fenomeni  nel  senso  metafi- sico della  parola  spiegazione,  cioè  assimilandoli  ai  fenomeni  più  fa- miliari, p.  e.  a  quelli  della  trasmissione  del  movimento  por  l' im- pulsione (come  l'etere),  o  a  quelli,  più  generali,  del  mutamento  dei rapporti  di  spazio  senza  cangiamento  qualitativo  (Cfr,  ciò  che  di remo  più  giù  sui  fluidi  imponderabili). (1)  «  Nessuno  oggi,  dice  Bain,  vede  più  in  questa  teoria  (l'atomica) che  una  finzione  rappresentativa,  che  non  é  suscettibile  di  alcuna prova,  e  che  non  ha  altro  valore  che  di  esprimere  facilmente  i  fatti  » j(Log.  1  5  e  ìL,  12  —  Bain  chiama  finzioni  rappresentative  le  ipotesi XCIX di  un'ipotesi  —  quando  si  conviene  d' altronde  sul punto  più  importante,  cioè  che  quest'ipotesi  non  è rigorosamente  provata  —  è  un'operazione  estrema- mente ardua  e  delicata  del  giudizio,  che,  per  essere ben  compiuta,  esigerebbe  il  concorso  delle  più  pro- fonde conoscenze  nelle  scienze  speciali  relative,  e dell'abitudine,  unita  a  una  preparazione  conveniente, di  considerare  le  quistioni  al  punto  di  vista  della logica  e  della  teoria  della  conoscenza;  concorso  che è  sventuratamente  molto  raro  a  trovarsi  in  un  fisico o  in  un  chimico^  e  più  ancora  in  un  filosofo.  Nel caso  dell'ipotesi  molecotare  o  atomica,  la  quistione che  non  possono  essere   stabilite  come  fatti  reali,  cioè  provate,  e  la cui  importanza  òche  servono  a  rappresentarsi  i  fenomeni  d'una  ma- niera sistematica:  fra  queste  finzioni  rappresentative  egli  enumera oltre  la  teoria  degli  atomi,  quella  della  costituzione  molecolare  della materia,  (luella  delle  ondulazioni  eteree    per   ispiegare   i   fenomoni della  luce,  la  spiegazione  dello  stato  solido,  liquido  e  gazoso  per  le attrazioni  molecolari  e  la  repulsione  dovuta  al  calore,  ecc.  Log.  1.  3 e.  Ib,  5).   Per  dimostrare  la  proposizioae   di   Bain  che  1'  ipotesi  de gli  atomi  e  tutte  le  ^Mre  flnzioiii  rappretfeìitative  non  sono  suscettibil- di  diventare  delle  verità  provate,    basta  torse  la  considerazione   sei guente.  Per  provare  la  realtà  d'un  ii^otesi  sarebbe  necessario  di  sod- disfare a  queste  due  condizioni  :  di  stabilire,  in  jirimo   luogo,  che un'ipotesi  è  indispensabile,  cioti  che  il  fatto  che  si  tratta  di  spiegare reclama  assolutamente  una  spiegazione;  e  in  secondo  luogo  che  l'i potesi  che  si  ammette  è  la  sola  ammissibile,  cioè  la  sola  che  possa spiegare  il  fatto.  Ma  sembra  che  le  ipotesi  scientifiche   che  il  Bain chiama  finzioni    rapprenentative  (e  che  sono,  su  i)er  giù,  quelle    che suppongono  delle  cause  non  vere),  quand'anche  potessero  soddisfare alla  seconda  condizione,  non  potrebbero  mai  soddisfare  alla  prima. Ciò  è  perchè  esse  non  hanno  per  iscopo  di  spiegare  dei  fatti  isolati e  particolari,  ma  dei  fatti  costanti  e  generali,  delle  uniformità  della na  tura.  Nel  primo  caso  un'ipotesi  è  indispensabile,  perché  è  neces- sario che  il  fatto  sia  spiegato,  nel  senso  scientifico,  cioè  che  sia  sot- t  oposto  alle  leggi  generali  dei  fenomeni  :  nel  secondo  caso  (se  si  ha i ! c della    misura  del  suo  grado  di  probabilità  si  com- plica per  questa  sua  conformità,   che  noi  abbiamo notata,  alle  tendenze  spontanee  del  nostjo  pensiero, conformità  che  per  se  stessa  non  costituisce  la  mi- nima prova  in  favore  di  una  teoria.  Allora  si  ren- derebbe  indispensabile  una  specie  di  equazione  per^ sonale,  per  la  quale  nella  forza  con  cui  Tipotesi  ci s'impone,  bisognerebbe  fare  la  parte  di  ciò  che  vi ha  in  essa  di  obbiettivo,  cioè  di  dipendente  dal  va- lore delle  prove  sperimentali,  e  di  ciò  che  vi  ha  di subbiettivo,  cioè  di  derivante  dalla  tendenza  spon- tànea del  nostro  pensiero,  che,  in  virtù  della   con- formazione stessa  del  nostro  spirito  e  delle  sue  abi- tudini prescientifiche,  ci  spinge  ad  accettare  Pipo- tesi,  indipendentemente  dal  valore  delle  suo  prove, n  questo  stato  della  questione  sembra  naturale  di demandarsi  :  il  credito  di  cui  l'ipotesi  molecolare  e atomica  gode  nella  scienza  moderna  è  assolutamente commisurato  alla  forza  delle  sue  prove,  o  non  vi  ha un  eccesso,  di  cui  bisogna   rendersi   conto   per   la forza   addizionale   di   questo   sofisma   naturale    del nostro  spirito,  che  gli  rappresenta  il  fondo  dell'essere come  immutabile,    e  il  cangiamento  come  superfi- ciale e  limitato  ai  rapporti  delle  cose,  senza  toccare le  cose  stesse  ?  Tra  queste  due  supposizioni,  il  fatto ragione  di  riguardare  il  fatto  come  una  vera  uniformità,  una  leggo rigorosamente  generale,  dei  fenomeni)  l'esigenza  di  una  spiegazione potrebbe  essere  illusoria  e  fondata  sul  concetto  metafisico  corrispon- dente  a  t^uesto  termine,  poiché  la  supposizione  che  il  fatto  è  senza spiegazione  (cioè  che  si  tratta  di  una  leggo  primitiva  della  natura) non  è  in  contraddizione  con  l'assioma  dell'uniformità  di  legge  che è  queUo  ehe  nel  primo  caso  ci  obbliga  a  cercare  una  spiegazione. CI incontestabile  che  la  teoria  era  generalmente  am- messa prima  che  si  trovassero  le  prove  che  at- tualmente costituiscono  la  sua  base  logica;  la  con- tinuità tra  la  forma  più  antica  e  la  forma  più  mo- derna dell'atomistica  (1);  non  è  un'indizio  che  la  ve- rità  sta  nella  seconda?  Qaeste  domande  non  sem- breranno troppp  audaci  a  quelli  che  sono  abituati a  considerare  i  concetti  dal  punto  di  vista  storico. «  Quegli,  dice  il  Lange,  che  vede  nella  storia  Fin- dissolubile  mescolanza  di  errore  e  di  verità;  quegli ehe  comprende  che  per  avvicinarsi  di  più  in  più allo  scopo  infinilamente  lontano,  cioè  la  conoscenza perfetta,  bisogna  oltrepassare  innumerevoli  gradi intermediari;  quegli  che  vede  come  l'errore  stesso diviene  un  agente  di  progresso  variato  e  durevole; quegli  non  concluderà  facilmente,  dall'incontestabile progresso  del  presente,  al  valore  definitivo  delle nostre  ipotesi  »  (2). Noi  aggiungeremo  infine  un'  altra  osservazione sul  principio  generale  della  concezione  meccanico, <5Ìoè  che  tutti  i  cangiamenti  della  materia  si  ridu- <?ono  al  movimento  delle  sue  parti.  Il  presupposto su.  cui  questo  principio  è  fondato  è  la  distinzione, comunemente  ammessa,  tra  le  proprietà  primarie e  le  proprietà  secondarie  dei  corpi  :  le  prime,  che, secondo  Cartesio,  si  riducono  alla  semplice  esten- sione, e,  secondo  l'opinione  più  accettata,  all'esten- sione e  alla  resistenza  o  impenetrabilità,  sono  ob- li) V.  Lange  Storia  del  materialismo, (2)  Ibid,  V.  2"  parte  2*  e.   P. '\ cu CHI > . ? it    : ti biettive  ;  le  seconde,  cioè  il  colore  e  tutte  le  altre, non  sono  che  subbiettive.  Ma  questa  distinzione  sol- leva delle  difficoltà  insolubili,  che  hanno  dato  luogo a  tutte  le  dottrine  trascendenti  sulla  cosa  in  sé  :  qui dobbiamo  limitarci  ad  indicarne  sommariamente  al- cune, riserbandoci  di  svilupparle  nella  2*^  parte. Se  il  solo  attributo  obbiettivo  della  materia  è  la estensione,  come  pretende  Cartesio,  allora  è  impos- sibile di  distinguere  la  materia  dallo  spazio  vuoto, e  il  mondo  corporale  si  ridurrà  a  una   massa  con- tinua e  perfettamente  omogenea.  Ora  non  solo  ò  im- possibile di   concepire   V  estensione  come  esistente per  se  stessa — non  potendo  noi  pensarla  che   come un  attributo  del  reale  e  non  come  lo   stesso   reale, come  un  astratto  e  non  come  un  concreto— ma  è  di di  più  impossibile,  come  abbiamo  già  accennato,  di concepire,   al  seno  di  una  massa  continua  e  senza alcuna  differenza   fra  le  sue  parti,  delle  forme  di- stinte e  del  movimento,  perchè  queste  cose  suppon- gono  delle   differenze.    Concepire   il  movimento  in una  massa   continua   sarebbe  concepire,  in   questa massa,  delle  parti  tra  loro  discernibili,  che  si  scam- biano il  posto  runa  con  V  altra;  se  queste  parti  di cui  si  afferma  che  Tuna  ha  preso  il  posto  dell'altra non  sono  discernibili,   questo  cangiamento,  che  si afferma  a  parole,    non   è   né   percettibile   né   pen- sabile. In  realtà  alcun  cangiamento  non  è  possibile in  una  massa  concepita  alla  maniera  cartesiana,  poi- ché tutti  gli  stati  successivi,  in  cui  essa  si  trova  in tutti  gl'istanti  della  durata,  sono  assolutamente  iden- tici fra  di  loro.  Queste  difficoltà  in  apparenza  spa- riscono nella  dottrina  della  discontinuità  della  ma- teria,  perché  allora  il  pieno  e  il  a  noto  ci  danno questa  differenza  indispensabile  per  concepire  la distinzione  delle  cose  e  il  movimento  ;  di  più,  di- stinguendo la  materia  dal  puro  spazio,  si  ammette in  questa  dottrina  che  vi  sia  nella  materia  un  at- tributo diverso  dall'  estensione,  che  si  aggiunge  a questa,  e  fa  della  materia  un  concreto,  e  non  un semplice  astratto  qual  è  la  sola  estensione.  Ma  la difficoltà  é  appunto  di  dire  in  che  consista  questo attributo,  distinto  dall'estensione  e  dai  suoi  modi,  che concretista.,  s'è  lecito  dir  così,  la  materia,  e  la  dif- ferenzia dalla  semplice  estensione,  cioè  dal  puro spazio.  Quest'attributo  è,  si  dice,  la  resistenza  o  la impenetrabilità  :  ma  ciò  che  non  si  dice  né  potrebbe dirsi  è  che  cosa  esprimano  queste  parole  resistenza e  impenetrabilità  di  più  che  dei  semplici  rapporti  tra gli  estesi — se  se  ne  toglie  le  sensazione  che  noi  pro- viamo nelle  dita  quando  tocchiamo,  la  quale  natu- ralmente non  possiamo  trasportare  nella  materia  e farne  una  qualità  obbiettiva  delle  cose  stesse  — .  La resistenza  della  materia  non  è  altra  cosa  che  la  dif- ficoltà che  vi  ha  a  spostare  le  sue  parti  :  essa  in- dica dunque  semplicemente  che  certi  cangiamenti nei  rapporti  spaziali  tra  gli  estesi  non  sono  possi- bili. L'impenetrabilità  è  l'impossibilità  che  un  esteso occupi  la  posizione  d'  un  altro,  in  altri  termini  che due  estesi  si  confondano  in  un'estensione  unica,  che cessino  di  essere  due  estesi  e  diventino  uno  solo» Ma  ciò  non  indica  altra  cosa  che  la  persistenza  di ciascun  esteso  a  conservare  la  sua  propria  esten- sione; non  ci  dice  qual'è  l'attributo  che  quest'esteso ha  in  più  dell' estensione   stessa.  Tutti  gli  attributi •  \fr. =P=s= CIY della  materia — nella  supposizione  della  non  realtà del  colore  e  delle  altre  proprietà  secondarie  —  non indicano  che  l'estensione,  i  suoi  modi  (forma,  gran- dezza,  ecc.),  i   rapporti  di   posizione,   e  il  cangia- mento di  questi  rapporti;  ma  noi  non  possiamo  dire che  cosa  sia  ciò  che  si  estende,  ciò  che  è  il  soggetto a  cui  si  attribuiscono  questi  rapporti  di  posizione. La  materia,  si  dice,  si  distingue  dal  puro   spazio, perchè  essa  è  impenetrabile,  divisibile,  mobile,  ecc., attributi  che  non  possono  convenire  allo  spazio:  senza dubbio;  ma  siccome  questi  e  tutti  gli  altri  attributi  che si  predicano  della  materia,  non  si  riducono  inline  che all'estensione  e  alla  posizione,  attributi  che  conven- gono pure  allo  spazio,  o  bisognerà  rassegnarsi  ad identificare  la  materia  e  lo  spazio,  come  fu  costretto a  fare  Cartesio^  o  bisognerà  ammettere,  come  carat- tere che  differenzia  la  materia  dallo  spazio,  non  la mobilità,  l'impenetrabilità,  ecc.,  ma  qualche  cosa  di più  primitivo  che,  aggiungendosi  all'estensione,  co- stituisce questo   concreto   materia,  la  quale,  senza questa  qualche  cosa,    non    potrebbe  essere    né  im- penetrabile, ne  mobile,  ecc.,  perchè  non  sarebbe  che un  semplice  esteso,  in  altri  termini  una  pura  esten- sione, che  niente  distinguerebbe  dallo  spazio  vuoto. Questa  qualche  cosa  che,  diffusa,  per  dir  così,  qua e  là  nella  pura  estensione  senza  forme  né  limiti,  ne differenzia  le  parti,  costituisce  il  concreto  materia, e  distingue  il  reale  dallo   spazio,  cioè   dal   niente; non  è  che  il  colore,  o,  in  generale,  le  proprietà  se- condarie. Quando  si  è  analizzato  sufficientemente  il concetto  di  materia,  si  vede  che  lo  spirito   umano, se  vuole  formarsi  una  concezione  netta  e  coerente CV del  mondo  esteriore,  e  al  tempo  stesso  restare  sul terreno  dell'esperienza  e  dell'intuizione  sensibile  — condizione  che  è  superfluo  di  aggiungere,  perchè  al di  fuori  di  questo  terreno  non  vi  hanno  concezioni nette  né  coerenti— è  costretto  in  quest'  alternativa  : o  il  fenominismo  di  Mill  e  Bain,  che  riduce  la realtà  esteriore  a  sensazioni  e  possibilità  di  sensa- zioni; o  il  realismo  naturale— non  quello  di  Eeid— che  non  spoglia  la  materia  delle  sue  proprietà  sen- sibili, ma  accorda  l'obbiettività  al  colore  e  alle  altre, e  non  alla  sola  estensione,  la  quale  senza  le  pro- prietà sensibili  non  è  che  il  niente  realizzato  (1). Ora  à  evidente  che  chi  accetterà  l'una  o  l'altra  di queste  due  soluzioni,  non  ammetterà  la  pretesa  della filosofia  corpuscolare  o  di  qualsiasi  altra  forma  pos- sibile della  concezione  meccanica,  di  ridurre  tutti  i cangiamenti  dell'universo  al  solo  movimento. §  11.  Ad  una  concezione  meccanica  coerente,  se essa  vuol  realizzare  completamente  il  principio  che niente  nasce  e  muore  nella  natura,  non  basta  di riddurre  al  movimeato  tutti  i  cangiamenti  del  mondo materiale;  bisogna  ancora  che  la  materia  mantenga invariabilmente  le  stesse  facoltà  relativamente  al movimento  ;  cioè  o  che  l' inerzia  sia  lo  stato  inva- riabile della  materia,  o,  se  essa  è  attiva,  che  que- st'  attività,  e  la  forma  sotto  cui  essa  si  manifesta, siano  egualmente  invariabili.  Su  questo  punto  Ba- cone può  essere  riguardato  come  il  precursore. «  È  evidente,    egli  dice,  che  ogni  uomo  che  cono- (1)  V.,  il  mio  stulio  sulla  dottrina  di  Rosmini  sulla  materia  1.  e. e  il  Saggio  1.  e.  9.  §  S.  pag.  524-526. evi scesse  le  passioni,  gli  appetiti  e  i  processi  primi- tivi della  materia,  avrebbe  per  ciò  solo  una  cono- scenza generale  e  sommaria  dei  fatti  passati,  pre- senti e  futuri  »  (1).  «  Si  deve  affermare  che  la  ma- teria è  munita,  provvista  e  formata  di  tal  maniera, che  ogni  virtù,  ogni  essenza,  ogni  atto  e  ogni  mo- vimento possono  esserne  delle  conseguenze  o  delle emanazioni  naturali  »  (2).  L' idea  di  Bacone  è  che tutti  i  fenomeni  possono  dedursi  da  un  fenomeno primordiale,  che  è  il  movimento  naturale  della  ma- teria. Così  egli  paragona  la  scienza  ad  una  pira- mide o  ad  un  cono,  alla  cui  sommità  sta  «  la  legge sommaria  della  natura  »,  «  1'  opera  che  Dio  opera dal  comineiameno  sino  alla  fine  »  (3).  «  Tutte  le  cose si  elevano  per  una  sorta  dì  scala  all'unità  ».  Que- sto fenomeno  universale,  collocato  alla  sommità  della piramide  scientifica,  in  cui  «  la  natura  sembra  riu- nirsi in  un  sol  punto  »  (4),  questa  «  causa  di  tutte le  cause  »,  è  «  l'appetito  o  lo  stinnilns  (la  tendenza primitiva  o  la  forza  primordiale)  della  materia,  o, per  sviluppare  un  po'  più  il  nostro  pensiero,  il  mo- vimento naturale  dell'atomo.  È  questa  forza  unica, che  agendo  sulla  materia,  forma  e  costituisce  tutti i  composti  »  (5). Ma  il  meccanismo  di  Bacone  (che  d'altronde  que- sto filosofo  non  sviluppò  d'una  maniera  sistematica). (1)  Della  saggezza  degli  antichi  XI. (2)  De  Princ,  atque  Orig, (3)  Dignìf,  et  aagm,  acient,  1.  3.  e.  4. (4)  Dd  ilignit.  et  atigm  acient,  1.  2.  e.  13 '5)  Saggezza  degli  antichi  Cupidon. CVII fondato  sull'idea  fantastica  di  una  materia  attiva e  vivente,  doveva  cedere  il  passo  all'  altro  mecca- nismo, inaugurato  da  Cartesio,  fondato  sul  concetto più  positivo  d'una  materia  inerte,  che  non  fa  che ricevere  e  comunicare  il  movimento  per  l' impul- sione. Nel  capitolo  3^  abbiamo  considerato  questa dottrina  —  alla  quale  esclusivamente  abbiamo  dato allora  il  nome  di  meccanica  —  sotto  un  altro  punto di  vista,  cioè  come  una  realizznzione  del  principio delle  cause  efficienti  :  ma  è  evidente  che  essa  è  al tempo  stesso  una  realizzazione  del  principio  del- l'immutabilità essenziale  dell'  essere  —  almeno  dei- Tessere  materiale  —  poiché  non  attribuisce  ai  corpi che  la  proprietà,  sempre  e  da  per  tutto  identica,  di conservare  il  movimento  ricevuto  e  di  comunicar- selo reciprocamente  per  1'  urto,  riducendo  ad  una sola  e  sempre  la  stessa  le  forme  apparentemente differenti  e  variabili  dell'energia.  Oltre  questa  for- ma del  meccanismo,  fondata  sul  concetto  dell'iner- zia o  passività  assoluta  della  materia,  non  ne  è è  possibile  che  un'altra,  che  realizzi  il  principio dell'  immutabilità  essenziale  dell'  essere,  ma  che  al tempo  stesso  faccia  della  materia  qualche  cosa  di — sia  che  quest'attività  si  attribuisca  alla  ma- teria per  se  stessa,  sia  che  si  faccia  provenire  dalle forze  di  cui  si  suppone  che  la  materia  è  la  sede—: è  la  dottrina  che  spiega  anch'essa  tutti  i  fenomeni del  mondo  fisico  per  le  leggi  dell'equilibrio  e  del movimento,  ma  come  cause  motrici  riconosce  le forze,  attrattive  e  repulsive,  inseparabili  dagli  ele- menti della  materia  —  sia  che  si  supponga  che  que- ste forze    sono    ad    essi  essenziali,   sia  che  si  sup-CVIII ponga  che  sono  con  essi  costantemente  associate  — . Queste  due  forme  della  teoria  meccanica,  che  sono le  concezioni  della  natura  prevalenti  nella  scienza moderna,  possono  far  pensare  che  questa  ha  com- pletamente realizzato  l'assioma  dei  fisici  greci  che l'essere  non  può  venire  dal  non  essere  né  ridursi al  non  essere  ^  che  non  vi  ha  generazione  ne  cor- ruzione ;  poiché  secondo  la  teoria  meccanica,  nel- l'una e  l'altra  delle  due  forme,  il  reale,  considerato nei  suoi  elementi  ultimi,  si  mantiene  sempre  iden- tico a  se  stesso,  e  non  vi  ha  mai  nelle  cose  un  can- giamento essenziale,  questi  elementi,  in  tutti  gli aggregati  che  essi  formano  successivamente  —  nei quali  non  si  manifestano  altre  proprietà  che  quello degli  elementi  stessi  —  essendo  invariabili  tanto nella  loro  sostanza  e  qualità  quanto  nel  loro  modo di  agire  e  di  patire. Ma  è  evidente  che  la  teoria  meccanica,  se  essa vuol  applicare  rigorosamente  il  principio  che  la materia  non  può  mai  manifestare  delle  proprietà essenzialmente  nuove,  e  che  perciò  le  proprietà  di un  tutto  non  possono  essere  che  la  somma  delle proprietà  degli  elementi  materiali  che  lo  hanno  co- stituito, deve  estendersi  anche  ai  fenomeni  della  co- scienza, facendo  dell'attività  psichica  una  risultante delle  attività  proprie  agli  elementi  della  mì.teria. Senza  dubbio  il  problemi  di  ricondurre  i  fenomeni della  coscienza  alle  proprietà  degli  elementi  della  ma- teria non  nasce  esclusivamente  al  punto  di  vista  del meccanismo,  essendo  esso  una  conseguenza  imme- diata del  principio  generale  che  il  meccanismo  rea- lizza sotto  una  forma  speciale,  cioè  che  l'essenza  delle CIX cose  non  può  cangiare:  ma  al  punto  di  vista  del meccanismo  il  problema  s'impone  con  una  forza particolare,  appunto  perché  il  meccanismo  è  l'ap- plicazione più  coerente  di  questo  principio. Applicando  il  principio  dell'immutabilità  dell'es- senza delle  cose  alla  quistione  della  coscienza,  lo spirito  umano  incontra  naturalmente  due  soluzioni opposte,  ma  che  sono  non  pertanto  1'  una  e  l'altra delle  conseguenze  dello  stesso  principio.  Dal  fattD che  i  fenomeni  della  coscienza,  di  cui  certi  asTSTre- gati  degli  elementi  della  materia  sono  temporanea- mente la  sede,  differiscono  essenzialmente  dalle proprietà  di  questi  elementi  isolatamente  conside- rati, in  virtù  del  principio  che  le  cose  non  possono cangiare  nella  loro  natura,  lo  spiritualista  conclude che  è  necessario  che  un  altro  elemento,  differente essenzialmente  dalla  materia,  e  di  cui  la  coscienza è  la  proprietà  immutabile,  si  sovraggiunga  all'  ag- gregato materiale,  e  sia  con  questo  temporanea- mente associato.  Dal  fatto  che  ciò  che  è  la  sede  dei fenomeni  della  coscienza  è  un  aggregato  di  elementi materiali,  il  materialista  conclude  invece,  in  virtù dello  stesso  principio,  che  queslii  fenomeni  non  pos- sono essenzialmente  differire  dai  fenomeni  che  sono propri  agli  elementi  materiali  isolatamente  consi- derati (1).   Ma   se   la   soluzione   spiri  filali  sta  è  sem- (1)  E  evidente  che  il  parodosso  cartesiano  che  gli  animali  sono degli  automi  è  nna  conseguenza  rigorosa  dello  stesso  principio,  nel- l'ipotesi spiritualista;  un  aggregato  non  potendo  avere  delle  prò- pi'ietà  essenzialmente  differenti  da  quelle  degli  elementi,  la  coscien- za non  può  trovarsi  negli  animali,  in  cui  non  vi  ha,  come  nell'uo- mo, un  elemento  ess?nzialmente  differente  dagli  elementi  jnateriali,. clic  viene  ad  aggiungersi  all'aggregato. ex plice,  la  soluzione  materinlìsta  è  doppia,  potendo farsi  due  ipotesi  :  1^  che  i  fiittti  della  coscienza  non siano  dei  fenomeni  assolutamente  nuovi,  che  si  pro- ducono la  prima  volta  negli  aggregati  che  noi  chia- miamo esseri  animati,  ma  dei  fenomeni  preesistenti negli  elementi  che  hanno  costituito  questi  aggregati (e  persistenti  in  essi  dopo  la  dissoluzione  degli  ag- gregati stessi);  e  2^  che  questi  fatti  non  siano  asso- lutamente distinti  dai  fenomeni  fisici,  propri  agli elementi  che  hanno  costituito  gli  aggregati,  ma sostanzialmente  identici  con  essi.  La  prima  delle due  soluzioni  materialiste  —  le  sole  che  siano  in armonia  con  una  concezione  rigorosamente  mecca- nica dell'universo  —  si  trova,  oltre  che  nei  sistemi ilozoisti  in  generalie,  in  quei  sistemi  panpsichisti, in  cui,  come  in  quelli  di  Clifford .  Wundt,  Taine, ecc.,  la  psiche  dell'uomo  e  degli  animali  è  riguar- data come  una  risultante  degli  elementi  psichici corrispondoiiti  a  ciò  che  noi  chiamiamo  elementi della  materia,  o  in  cui,  come  in  quello  di  Leibnitz (il  quale,  a  parlar  propriamente,  è  una  conci- liazione della  soluzione  materialista  con  la  spiri- tualista), essa  è  riguardata  come  una  delle  unitìi psichiche,  delle  monadi,  che  costituiscono  il  compo- sto che  noi  percepiamo  come  materia.  L'altra  solu- zione —  la  quale  consiste  nell'aff ormare  un'identità sostanziale  tra  i  fenomeni  fisici  (processi  nervosi) che  sono  le  condizioni  dei  fenomeni  della  sensa- zione e  del  pensiero  e  questi  fenomeni  stessi  —  è stata  ammessa  sotto  due  forme  :  1^  estendendo  ai  fe- nomeni mentali  la  dottrina  che  vede  nelle  diverse forze  fisiche  gli  aspetti  differenti  di  una  forza  unica CXI che,  identica  al  fondo,   apparisce  successivamente sotto  forme  diverse,  si  è  ammesso  che  la  sensazione e  il  pensiero  è  un  altro  aspetto  o  un'altra  forma  di questa  forza  medesima,  il  movimento  che  è  l'ante- cedente della  sensazione  e  del  pensiero  divenendo sensazione  e  pensiero,  come  il  calore  suono  o  l'elet- tricità luce.  2^  — è  la  forma  che  ha  incontrato  più favore  —  si   è  ammesso  che  il  fenomeno  fisico  che è  la  condizione   del   fenomeno   mentale  e  lo  stesso fenomeno  mentale  sono,    non    due    fatti    distinti  e 8u«»cessivi,  ma  un  solo  e  stesso  fatto,  che  presenta^ due  facce  differenti,   l' interna  e  1'  esterna,  la  sub- biettiva  e  1'  obbiettiva,  la  distinzione  non  essendo, come    dice    Lewes,    che   nel  modo  di  apprensione, vale   a   dire,    quello   che  i  sensi  apprendono  come fisico,  come  movimento,  essendo   appreso  dalla  co- scienza come  mentale^  come  sensazione  e  pensiero. Questa  identità  del  fisico  e  del  mentale  —  l'iden- tità  nel  senso  più  stretto,   cioè  nella  seconda  for- ma —  è  stata   affermata  a  tre  punti  di  vista  diffe- renti :    del    materialismo,    cioè    subordinando   e   ri- conducendo lo  spirito  alla  materia,  come  nelle  dot- trine di  Hobbes  (1),   Erasmo    Darwin   (2),    d' Hol- (1)  V.  De  Carpare  pars  IV.  cap.  25  art.  2.  La  sensazione  non  è che  il  movimento  degli  organi  del  senso,  e  precisamente  quella  par- te di  questo  movimento  immaginata  da  Hobbes,  che  sarebbe  un  ri- torno dall'organo  centrale  verso  l'esterno,  cioè  verso  i  punti  della periferia  da  cui  è  partita  l'eccitazione  (ipotesi  destinata  a  spiegare la  localizzazione  alla  periferia  e  la  proiezione  al  di  fuori  delle  sen- sazioni). (2)  NeUa  sua  Zaonamia  definisce  l'idea  :  «  una  contrazione,  un movimento  o  una  configurazione  delle  fibre  che  costituiscono  l'or- gano immediato  del  senso.  »   «  Le  nostre  idee,  dice  egli  ancora,  sono CXII bach  (1),  Moleschott  (2),   Strauss  (3),   Spencer  (4), dei  movimenti  animali  (lelForgano    sensitivo».    Questa   confusione tra  il  fatto  psichico  e  la  sua  condizione  fisica  regna,  dice  Mill,  dal principio  alla  fine  nei  quattro  voluQii    della   Zoouomia    (Mill.    Lo(j, lib.  V.  cap.  3.,  §  8). (1)  Le  sensazioni,  le  percezioni,  le  idee  tutte  le  operazioni  del- Tanima,  sono  dei  movimenti  degli  organi  dei  sensi  e  del  cervella V.  Sitit.  della  natura  1.  p.  e.  VII  e  VIII-D'Holbach  ammetto  pu- re  la  possibilità  della  soluzione  ilozoista. (2)  «Il  pensiero  è  un  movimento  della  materia»  Circolaz,  della vita,  lettera  IH. (3)  V.    Vecchia  e  nuova  fede,  §  65. (4)  ciò  che,  sotto  l'aspetto  obbiettivo  o  dal  lalo  estemo,  è  un cangiamento  nervoso  (un  movimento  molecolare),  è,  sotto  il  suo  a- spetto   subbiettivo  o  dal  suo  lato    interno,    uno  stato   di    coscienza V.  Frinc.  di  PhìcoL  t.  1.  1.  p.  e.  6.  e  altrove);  lo  spirito  e  l'azione nervosa  sono  i  due  lati,  subbiettivo  e  obbiettivo,  d'una  sola  e  stessa cosa  (e.  7.  §  r)6  e  altrove). L'aver  classato  la  dottrina  di  Spencer  fra  (luelle  che  ricondu- cono lo  spirito  alla  materia  richiode  una  giustificazione.  In  effetto questo  filosofo  si  difendo  d'essere  materialista  e  dichiara  illusoria il  tentativo  di  tradurre  sia  lo  spirito  in  termini  di  materia  sia  la materia  in  termini  di  spirito  (§  63  e  altr.  )  I  fenomeni  dello  spirito e  quelli  della  materia  sono  le  due  facce,  subbiettiva  ed  obbiettiva, sotto  cui  si  manifesta  una  sola  e  stessa  realtà,  ma  questa  realtà  ul- tima non  può  essere  chiamata  né  spirito  né  materia,  lo  spirito  e  la materia  non  essendo  che  le  sue  manifestazioni  fenomenali  ed  essa stessa  restando  inconoscibile  nella  sua  essenza  (§  272.  273  e  altr.) Che  ragione  può  aversi  allora  di  chiamare  la  dottrina  di  Spen- cer una  dottrina   materialista,    che   riconduco  lo  spirito  alla  mate- ria ?  Questa  ragione  è  secondo  me,  che  dei  due  aspetti  sotto   cui  si manifesta  l'inconoscibile,  l'uno,  il  fisico,  è  costante,  e  l'altro,  il  psi- chico, non  è  che  transitorio  :  esso  non  apparisce  che  là  dove  esiste una  struttura  fisica  appropriata  (lo  spirito  non  è  diffuso  da  per  tutto neir  universo,  come  nelle  dottrine  panpsichiste  o  in  quella   dell' i- dentità  del  reale  e  dell'ideale,.  Ne  segue  che,  l'essenza  d'una  cosa  es- sendo per  noi  determinata  dai  suoi  attributi  costanti  e  non  dai  suol attributi  transitori,  e  qualsiasi    nozione  che  noi    possiamo  formarci dell'Inconoscibile  dovendo  tirarla  dal  conoscibile,  quest*essenza  sco- nosciuta che  si  manifesta  come  spirito  e  come  materia  noi  dobbiama necessariamente  rappresentarcela  in  termini  di  materia.   Ma  contro ciò  potrà  dirsi  che  questa  distinzione  tra  i  fenomeni  della  matoria» cxin che  sarebbero  costanti,  e  quelli  dello  spirito,  che  sarebbero  transitori, non  ha  al  fondo  niente  di  reale,  le  manifestazioni  fenomenali  dell'In- conoscibile essendo  per  Spencer  tutte  egualmente  subbiettive  e  psi- chiche, poiché  il  conoscibile,  il  fenomeno,  non  consiste,  in  ultima  ana- lisi, che  negli  stati  della  nostra  coscienza.  Niente  di  più  giusto  che quest'osservazione;  ma  essa  dimostra  d'una  maniera  anche  più  diretta che  la  dottrina  di  Spencer  riconduce  lo  spirito  alla  materia.  Se  si  va al  fondo  delle  cose,  la  vera  dottrina  di  Spencer  è,  non  che  vi  sia  una realtà  a  due  facce,  l'una  subbiettiva  e  l'altra  obbiettiva,  ma  che  vi  ha una  realtà,  l'Inconoscibile,  e  un  fenomeno  o  un'apparenza   di  questa realtà,  lo  spirito  o  gli  stati  di  coscienza.  Lo  spirito  non  è  dunque  che nnfenomeno;  la  realtà  appartiene  all'opposto  dello  spirito,  al  fuori  di me,  a  ciò  che  non  ha  coscienza.  L'Inconoscibile  non  è  per  Spencer che  la  materia  e  la  forza  :  l'affermazione  d'una  realtà   assoluta  in- conoscibile equivale  nei  Primi  principii  all'affermazione  della  persi- stenza della  forza,  e  quantunque  l'Inconoscibile  non  abbia  in  realtà degli  attributi  spaziali,  vi  ha  nondimeno  in  lui   un   nexus  che   noi dobbiamo  rappresentarci  come  spazio  o  estensione,  e  Spencer  sente così  fortemente  questa  necessità  di  dare  un  fondamento  obbiettivo, nell'Inconoscibile,  ai  rapporti  di  spazio,  che  talvolia  sembra  consi- derare ijnesti  rapporti  come  reali,  come   obbiettivi    (p.    e.   nei   Pr, Pritic.  par.  20    sulla    fine).  La    verità    di    questa    proposizione,    che Spencer  riconduce  lo  spirito  alla  materia,  si  mostra  della  maniera più    evidente   nelle    sue    affermazioni   relative    alla    sostanza    dello spirito.    La  nostanza  dello   spirito  è    naturalmente  l' Inconoscibile  : ma  ciò    che    bisogna    notare  è   il   rapporto   che   Spencer   stabilisce tra  la  spirito  qual  è  da    noi  conosciuto,   cioè  l' insieme    dei    nostri stati    di    coscienza,    e    la   sostanza    dello    spirito.    Qaesto    rapporto è  quello  del  fenomeno  alla  realtà.  L'esistenza,  nel  vero  senso  della parola,  appartiene  nello  spirito  a  ciò  che  persiste,  alla  sua  sostanza; i  fenomeni  dello  spirito,  come  quelli  della  materia,    non   sono  che delle  apparenze  cangianti  della  realtà  permanente  inconoscibile,  (v. Princ,  di  Psic.  paragr.  .50,  473,  476).  Ora  se  noi  domandiamo  che  co- sa  sia  questa  realtà  persistente  di  cui  i  fenomeni  dello  spirito  sono delle  apparenze,  la  risposta  è  che  la  sostanza  dello  spirito,  il  me  tra- ascendente  non  é  altra  cosa  che  l'organismo    «  Dire  che  il  me  è  qual- che cosa  di  più  che  la  serie  delle  sensazioni  o  delle  idee   che   sono date  come  presenti,  è  vero  o  falso  secondo  il  grado  di  comprensio- ne che  si  dà  alla  parola.  È   vero  se  noi  vi  comprendiamo  il  corpo con  tutte  le  sue    strutture  e  le    sue    funzioni;  ma    è    falso    se    noi limitiamo  la  nostra  asserzione  al  me  cosciente  ».  «Il  me  sostanziale, inconoscibile  nella  sua  natura  ultima,  ci  è   fenomenalmente   cono- sciuto, sotta  la  sua  torma  statica,  come  l'organismo;   sotto   la   sua forma  dinamica,  come  una  forza  che  si  diffonde    nell'  organismo  ». «  Il  me  che  sopravvive  continuamente  come  soggetto  di  questi  stati CXIV oxv Lewes  (1),  Sergi  (2),  ecc.;  del  panpsichismo j  cioè  ri- solvendo la  materia  in  spirito,  come  nella  dottrina  di cangianti  (di  quest'aggregato  di  stati  subbiettivi  che  costituisceno il  me  mentale)  è  questa  porzione  deirinconoscibile,  che  è  condizio- nata staticamente  in  certe  strutture  nervose,  le  quali  sono  penetrato <la  questa  porzione  dell'Inconoscibile,  dinamicamente  condizionata, che  noi  chiamiama  energia»  (Addizione  al  paragr.  220  in  fine  del 2.  voi.  dei  Princ,  di  PsicoL  trad.  frane.) L'identificazione  del  mentale  e  del  fisico,  in  un  sistema  che  non jiconos«e  altri  fatti  mentali  che  quelli  che  accompagnano  le  funzio- ni del  sistema  nervoso,  e  necessariamente  una  riduzione  del  men- tale al  fisico,  perchè,  ripetiamolo,  l'essenza  di  una  cosa  è  per  noi determinata,  non  dai  suoi  attributi  transitori,  ma  dai  suoi  attributi permanenti,  e  perciò  questa  realtà  a  due  iacee,  che  si  manifesta come  spirito  e  come  materia,  se  lo  spirito  non  è  riguardato  che  co- une  un  fenomeno  transitorio,  noi  dobbiamo  necessariamente  rappre- sentarcela, nella  sua  essenza,  come  materia. Noi  dobbiamo  aggiungere  che  talvolta  Spencer,  invece  della  dot- trina dell'identità  dei  fenomeni  mentali  e  delle  loro  condizioni  fi- siche, sembra  ammettere  la  dottrina  affine  della  trasformazione  del- le energie  fisiche  nelle  energie  mentali  {Primi  principi  par.  71). (1)  Lo  stato  psichico  e  lo  stato  corporale,  che  ne  è  la  condizione, nou  sono  due  fatti,  ma  un  sol  fatto  lo  cui  si  distinguono  i  due  aspetti, come  si  può  distinguere  In  una  stessa  linea  r^rva  il  lato  convesso  e 11  lato  concavo.  Per  comprendere  questa  dottrina  di  Lewes  nel  suo vero  significato,  cioè  come  una  riduzione  del  mentale  al  fisico,  bisogna notare  che  essa  non  è  che  un'applicftzlone  del  suo  pt-lnelplo  dell'iden- tità della  causa  e  dell'effetto  :  un  fatto  è  identico  all'insieme  delle  sue condizioni,  non  è  qualche  cosa  che  si  sovrag^iunge  ad  esse.  Per  Lewe^ vale  la  stessa  osservazione  che  abbiamo  fatta  per  Spencer  :  il  fisico è  11  costante,  e  11  mentale  non  è  ehe  11  transilorlo  ;  perciò  questa  real- tà a  due  facce,  che  si  mosti'a  come  spirito  e  come  materia,  non  può essere  al  fondo,  nella  sua  essenza,  che  materia.  E  vero  che  la  dottrina di  Lewes  che  le  cose  hanno  sempre  una  doppia  faccia,  l'una  obbiet- tiva e  l'altra  subblettlva,  Il  mondo  materiale,  per  quanto  ne  cono- sciamo, risolvendosi  In  sensazioni  nostre,  non  potrebbe  essere  consl- slderata  come  una  dottrina  materialista.  Ma  se  noi  non  facciamo, sino  ad  un  certo  pnnto,  astrazione  dalle  qulstionl  gnoseologiche  sul xnondo  esteriore,  diffìcilmente  troveremo  tra  i  filosofi  moderni  un Materialista,  per  la  semplice  ragione  che  difficilmente  vi  troveremo un  realista  naturale,  cioè  questa  fede  ingenua  nella  realtà  obbiettiva del  dati  del  sensi  che  11  materialismo  classico  accetta  dalia  credenza naturale. (2)  Il  fatto   psichico  o  cosciente  è  composto  di  elementi    fisici  o incoscienti  (negli  Elementi  di  Psicologia  e  In  altre  opere)  ;  proposi- zione che  evidentemente  contiene  ridentlfìcazlone  del  fatto  della  co- scienza con  le  sne  coniizioni  somatiche.  Tuttavia  11  Sergi  afferma pure  che  il  processo  fisico  è  V antecedente  àe\  fenomeno  della  coscienza (ciò  che  è  Impossibile  se  sono  un  solo  e  stesso  fatto),  e  va  anche  sino a  pirlare  di  una  trasformazione  dei  due  fenomeni  l'uno  nell'altro, sembrando  così  passare  dalla  teoria  dell'Identità  del  fisico  e  del  men- tale —  uel  senso  più  stretto  —  alla  teoria  vicina  della  trasformazione reciproca  fra  le  energie  fisiche  e  le  mentali  (V.  Origine  dei  fenomeni jisichici  e  loro  significazione  biologica  cap.  8. É  notevole  nna  coincidenza— senza  dubbio  fortuita-  -tra  la  dottrina di  Hobbes  e  quella  del  prof.  Sergi,  Il  quale,  slmilmente  al  primo, spiega  la  localizzazione  delle  sensazioni  negli  organi  periferici  e  nello «pazlo  esteriore,  per  l'ipotesi  di  un'onda  nervea  ri/lessa,  cioè  ammet- tendo che  «  le  onde  nervee  che  partono  dalla  periferia,  giungendo  al centri,  si  riflettono  per  la  stessa  via,  e  si  fermano  al  luogo  d'  eccita- zione. »  Il  Sergi,  come  Hobbes,  chiama  questa  riflessione  della  cor- rente nervosa  «  una  tendenza  alla  causa  esterna.  »  É  evidente  che questa  non  è  una  spiegazione  nel  senso  scientifico  della  parola;  polche ammesso  anche  il  fatto  dell'onda  riflessa,  siccome  la  coscienza  non sa  niente  dell'esistenza  di  questo  fatto,  esso  uon  potrebbe  essere  un motivo  di  localizzare  la  percezione  al  posto  in  cui  arriva  l'onda  ri- flessa, che  l'esperienza  non  ha  mal  trovato  in  connessione  con  la  sen- sazione. Ma  ò  si  familiare  questo  fatto,  che  la  sensazione  viene  Istin- tivamente localizzata  al  posto  dove  si  osserva  la  causa  materiale  della •sensazione,  che  non  si  vede,  o  si  dimentica,  che  questo  fatto,  appa- rentemente Istintivo,  sarebbe  incomprensibile,  se  noi  non  sapessimo che  è  l'esperienza  che  ha  formato  nal  nostro  spirito  le  connessioni mentali  corrispondenti.  Il  proprio  del  fenomeni  molto  familiari  è,  noi lo  sappiamo,  che  essi  sembrano  uon  aver  bisogno  di  spiegazione,  e poter  servire  anche  di  spiegazione  agli  altri  fenomeni.  Così  l'identità del  luogo  in  cui  si  produce  la  causa  fisica  della  sensazione,  e  di  quello In  cui  la  sensazione  viene  spontaneamente  localizzata,  sembra  un  fatto perfettamente  naturale  e  che  si  spiega  da  se  stesso:  1'  onda  nervea, partita  da  un  certo  punto,  ritorna  a  questo  stesso  punto;  è  evidente dunque  che  è  là  che  dobbiamo  localizzare  la  sensazione.  Inoltre,  in una  concezione  materialista  —  nel  senso  più  stretto  della  parola  —  in cui  11  fatto  psichico  è  concepito  come  un  fenomeno  dinamico  della materia  nervosa,  non  è  sorpreaidente  che  si  applichino  al  fatti  della •coscienza  1  rapporti  di  spazio  propri  alle  loro  condizioni  fisiche,  e  ehe si  trovi  quindi  una  connessslone  naturale  tra  il  trasporto  del -j. >!*'-^ ex  VI { k fi Taine  (1)  e  di  altri  panpsichisti  (è  sotto  un  altro  aspet- to la  dottrina  stessa  che  già  abbiamo  considerato  co- me una  forma  della  prima  soluzione  materialista);  e infine  del  sistema  della  identità  del  reale  e  dell' ideale (Pechner),  che  non  subordina  né  lo  spirito  alla  ma- teria ne  la  materia  allo  spirito,  ma  fa  del  fisico  e del  mentale  i  due  aspetti  paralleli,  e  costantemente uniti,  dell'essere  assoluto.  Ma,  all'uno  o  all'altro  di questi  punti  di  vista,  il  risultato  della  teoria  è  sem- pre lo  stesso:  identificare  i  due  ordini  di  fenomeni, che  sembrano  i  più  essenzialmente  differenti,  quelli I I  •  ' nervea   dal   centro   nervoso   all'orjjano    perlfei'Ieo  e  il  trasferimenta t'.eHa  sensazione  dal  primo  al  secondo  punto. Ma  quando  la  sensazione  st  localizza,  non  ne11'or<;^anUnio  stesso, mi  al  di  fuori,  come  uella  parcfzione  visuale— ciò  che  ordinirlameato si  chiama  proiezion3  dell'Immagine  sensoriale — '|uale  spiegazione  del fatto  può  dare  la  teoria  dell'onda  riflessa?  Ohi  ha  meditato  abbastanza sulla  storia  del  concetti  metafisici,  o  sa  che  le  analogie  più  vagli3  e Imprendibili  spesso  hanno  tenuto  il  luogo  di  spiegazioni— si  forte  a 11  bisogno  che  ha  lo  spirito  umano  di  una  spieffasionc  dei  fenomeni (nel  senso  metafisico  della  parola)— questi  non  troverai  umoristica,  «ih perfettamente  seria,  la  riflessione  che.  nel  pensiero  degli  autori  della teoria,  vi  ha  forse  qualche  cosa  come  l'idea  vaga  di  uni  continua- zione ideale  del  movimento  perceziouale.  ((uasl  che  la  percezione  aves- se qualche  analogia  con  un  proiettile.  Il  cui  movimento,  impressogli dalla  mano,  si  continua  nella  stessa  direzione,  anche  dopo  clie  la  mano si  è  staccata  da  esso. Queste  osservazioni,  naturalmente,  non  tolgono  niente  al  valore reale  delle  opere  del  prof.  Sergi,  come  non  tolgono  nU  nte  alla  gloria  del suo  predecessore  Hobbes.  Un'Idea  originale  e  Ingegnosamente  espres- sa, anche  ((uando  è  un'Idea  metafisica,  è  sempre  una  prova  di  forza intellettuale:  è  ciò  che  alcuni  positivisti  contemporanei  sembrano  non comprendere,  perchè  essi  non  comprendono  che  la  metafisica  ò  un fatto  naturale  dello  spirito  umano— come  lo  prova  anche  un  certo numero  delle  loro  dottrine— e  non  un  fatto  arbitrarlo  o  Inerente  sol» tanto  jf  un  certo  grado  delia  cultura. (1)  V.  Ij'IntelUy.  parte  l.   1.  4.  e.  2. cxvir della  natura  fisica  e  quelli  della  coscienza,  in  modo €he  il  più  grande  saltns  della  natura,  il  passaggio dall'inanimato  all'  animato,  dall'  incosciente  al  co- sciente, e  viceversa,  si  concilii  in  qualche  modo  col principio  evidente  per  se  stesso  che  l'essenza  delle cose  resta  sempre  la  stessa  e  che  le  proprietà  di  un tutto  non  possono  essenzialmente  differire  dalle  pro- prietà degli  elementi.  Non  vi  ha  dubbio  che,  fra  le diverse  applicazioni  di  questo  principio  alla  qui- stione  dell'  origine  della  coscienza,  non  sia  questa la  più  conforme  alle  idee  della  concezione  meccanica, fiovratutto  quando  si  considera  —  ciò  che  è  certa- mente il  pensiero  intimo  di  molti  sostenitori  della teoria  —  il  fisico,  cioè  il  movimento,  come  la  realtà, e  il  mentale,  cioè  la  sensazione  e  il  pensiero,  come una  specie  di  apparenza  di  questa  realtà  (1). Qui  ci  troviamo  in  presenza  della  seconda  delle due  difficoltà  insolubili  delle  teoria  meccanica  (ri- guardando come   la  prima  l' impossibilità    indicata (1)  Un  autore  tedesco,  Langwieser,  in  una  polemica  contro  la conferenza  di  Du-Bois-Reymond  al  congresso  di  Lipsia,  che  ricono- sceva rirriduttibilita  dei  fenomeni  della  coscienza  ai  fenomeni  fisici, e  quindi  l'impossibilità  di  applicare  ad  essi  la  spiegazione  meccanica, dice:  «  La  nostra  coscienza  non  può  farci  conoscere  l'anatomia  del nostro  corpo  o  almeno  le  fibre  del  nostro  cervello  :  cosi  essa  non è  una  coscienza  nel  senso  obbiettivo  della  parola;  perciò  noi  non possiamo  riconoscere  subbiettivamente  le  nostre  sensazioni  per  quel- lo che  sono  »  Il  Lange  che  riferisce  queste  parole,  le  fa  precedere <ia  questo  commento  :  LI  materialismo  si  afferra  si  forte  alla  realtà €  ai  movimenti  della  sua  materia,  che  un  partigiano  sincero  di  que- sta dottrina  noa  esita  lungamente  a  sostenere  che  ii  movimento  del cervello  è  il  reale  e  l'obbiettivo,  mentre  la  sensazione  non  è  che  u- na  specie  di  ajìparenza  o  di  riflesso  ingannatore  dell'obbiettività». Lange  Stoi\  del  niater,   t.  2.  parte  2.  ci.]di  rappresentarci  la  materia  destituita  delle  pro- prietà sensibili).  La  logica  forza  la  teoria  meccanica ad  ammettere  l'una  o  l'altra  delle  due  soluzioni  ma- terialiste della  quistione  dell'origine  della  coscienza —  l'ilozoismo  o  l'identità  del  fisico  e  del  mentale — : ma  è  impossibile  di  ammettere  l'una  o  l'altra  di queste  soluzioni  senza  contraddire  ad  altre  esigenze non  meno  imperiose  della  teoria.  Sì  ammetterrà  la soluzione  materialista  propriamente  detta,  che  iden- tifica il  pensiero  al  movimento  ?  non  lo  si  può,  sen- z'abbandonare quella  chiarezza  delle  idee,  quella, quella  intelligibilità,  che  distingue  la  concezione meccanica  da  tutte  le  altre  concezioni  che  realiz- zano il  principio  comune  della  immutabilità  dell'es» senza  delle  cose.  Si  ammetterà,  invece,  la  soluzione ilozoista  ?  ma  allora  la  meccanica  degli  atomi  di- viene  il  romanzo  degli  atomi;  la  concezione  mecca- nica perde  quel  carattere  di  rigore  scientifico  che costituisce  la  sua  superiorità  sulle  concezioni  rivali del  mondo.  Sembrerà  forse  che  la  soluzione  ilozoi- sta —  a  differenza  della  soluzione  materialista  pro- priamente detta,  cioè  della  identità  del  fisico  o  del mentale  —  ci  offra  almeno  delle  nozioni  perfetta- mente intellegibili  :  ma  se  uiò  può  ammettersi  per l'ilozoismo,  considerato  in  se  stesso,  non  si  può  am* mettere  per  l'ilozoismo  applicato  alla  soluzione  del problema  deirorigine  della  coscienza.  La  nozione di  un  atomo  animato  e  cosciente  è  senza  dubbia una  rappresentazione  perfettamente  realizzabile;  ma è  impossibile  di  rappresentarsi  che  dalla  riunione delle  coscienze  distinte  degli  atomi  risulti  la  co» scienza  unica  che  appartiene  all'aggregato  degli  atomi;  un  nie^  una  coscienza  unica,  non  può   essere concepito  come  la  somma  di  una  moltitudine  di  me o  di  coscienze  distinte.  L'una  e  Taltra  delle  due  so- luzioni materialiste  della  quistione  dell'origine  della> coscienza    mostrano   così   il   tratto    distintivo   delle concezioni  metafìsiche  propriamente  dette;  cioè,  ol* tre  all'assenza  completa  di  prove,  l'impossibilità  di essere  rappresentate,  il  racchiudere  delle  impossibi- lità intrinseche,  delle  contraddizioni.  Vi  hanno  dun- que due  punti  in  cui  viene  a  mancare  l' intellegi- bilità  della  teoria  meccanica  :  l'uno  è  la  distinzione delle  proprietà  primarie  e   secondarie   della   mate- ria, che  è  il  fondamento  della  teoria,  e  l'altro  l'ap- plicazione della  teoria  ai  fenomeni  della  coscienza. §.  12.  Le  considerazioni  precedenti  spiegano  per- chè la  maggior  parte  dei  Jautori  della  teoria  mec- canica si  sottraggano  alla  necessità,  per  quanto  im* periosa,  di  sottomettere  alla  teoria  i  fenomeni  delle coscienza.  Il  valore  assoluto  della  teoria  meccanica non  viene  ordinariamente  reclamato  che  nel  domi- nio del  mondo  fisico;  ma  in  questo  dominio  si  am- mette che  l'applicazione  della  teoria  è  illimitata,  e che  non  vi  ha  altra  maniera  possibile  di  compren- dere i  fenomeni.  Noi  possiamo  considerare  Du  Bois- Reymond  come  il  fedele  rappresentante    di  questa tendenza  filosofica,  nella  forma  in  cui  essa  ha  l'a- desione della  maggior  parte  dei  pensatori  che  sono alla  testa  del  movimento  scientifico  contemporaneo. «La  filosofia  naturale,  egli  dice,  ha  per  iscopo  di comprendere   il  mondo    materiale,  e  a   questo   fine tende  a  ricondurne  i  cangiamenti  a  dei  movimenti d'atomi  causati  dalle  loro  forze  centrali  costanti»  a in  altri  termini,  a  risolvere  i  fenomeni  della  natura in  meccanica  degli  atomi.  È  un  fatto  d'esperienza psicologica  che,  tutte  le  volte,  che  una  tale  riduzione è  effettuata  con  successo,  il  nostro  bisogno  di  cau- salità è,  per  il  momento,  completamente  soddi- sfatto »  (Ij.  L'autore  non  ammette  che  un  limite  a questa  spiegazione  meccanica  di  tutti  i  fenomeni della  natura  :  questo  limite  è  il  limite  stesso,  o  più propriamente  l'uno  dei  due  limiti,  della  nostra  co- noscenza (l'altro  essendo  l'incomprensibilità  della essenza  della  materia  e  della  forza),  e  consiste  nel- l'impossibilità di  ricondurre  il  pensiero  o  la  sensa- zione al  movimento  degli  atomi.  «  Con  la  prima sensazione  di  piacere  e  di  dolore  che  proA^ò  l'essere più  semplice^  all'inizio  della  vista  animale  sulla terra,  s'apri  quest'abisso  insuparabile;  d'allora  il mondo  divenne  doppiamente  incomprensibile  ».  Ma nella  quistione  dell'origine  della  vita  l'autore  non trova  un  limite  della  nostra  conoscenza,  e  perciò nemmeno  della  teoria  meccanica  :  la  quistione  non è,  egli  dice,  che  un  problema  di  meccamica  estre- mamente arduo.  (2)  Quantunque  la  meccanica  mo- lecolare che  presiede  alla  costituzione  degli  esseri organizzati,  come  quella  che  presiede  alla  cristal- lizzazione e  alle  reazioni  chimiche,  non  ci  siano,  al- meno per  ora,  accessibili;  tuttavia  la  realizzazione del  nostro  ideale  della  conoscenza  suppone  che  que- sti fenomeni  siano  spiegati    meccanicamente.    Non (1)  /  Limiti  della  Filos,  tiatnr.  In  Rev.  sciente  2^  ser,  voi.  7, (2)  Ibid. vi  ha  per  noi  altra  conoscenza  che  quella  dei  fatti meccanici  :  solo  le  leggi  fisico  —  matematiche  sono delle  vere  leggi,  che  s'impongono  per  una  neces- sità logica  (1). Il  lato  particolarmente  paradossastico  della  teorìa meccanica,  come  concezione  generale  del  mondo  fi- sico, è  la  sua  applicazione  ai  fenomeni  della  vita. Qualunque  sia  il  successo  della  teoria  meccanica nel  dominio  della  natura  inorganica,  vi  sarà  sempre, per  questa  teoria,  la  grande  difficoltà  di  identificare due  ordini  di  fenomeni,  la  cui  distinzione  essenziale sembra  cosi  evidente,  quelli  della  materia  bruta  e quelli  della  materia  vivente.  Senza  dubbio,  la  dif- ficoltà che  incontra  la  teoria  meccanica  nella  qui- stione dell'essenza  della  vita,  è  dovuta  in  parte  a dei  pregiudizii  tradizionali  e  naturali  al  nostro  spi- rito,  di  cui  la  scienza  moderna  ha  fatto  giustizia. L'uno  è  questa  spontaneità  del  movimento,  questa attività  caratteristica  dell'  essere  vivente,  per  cui egli  sembra  aviere  in  se  stesso  la  causa  dei  propri cangiamenti;  e  l'altro  questa  teleologia,  queste  tracce di  disegno,  che  si  sono  sempre  viste  specialmente nella  struttura  e  nelle  funzioni  degli  esseri  orga- nizzati. È  conformemente  a  questi  concetti  che  A- ristotile  definisce  gli  esseri  che  sono  /?^r  natura  — con  una  definizione  che  è  evidentemente  una  gene- ralizzazione tirata  dalla  natura  degli  esseri  viventi: — le  cose  il  cui  movimento  procede  da  un  principio interno  ed  è  indirizzato  ad  un  fine  (1).  Ma   la  dot- (1)  Darwin  contro  Gaìianù (2)  V.   Phifs.  1.   II.  Vili.   10. trina  della   conservazione   dell'  energia  mostra  che questa  spontaneità  del  movimento  è  una  pura  illu- sione, tutte  le  forze  che  si  manifestano  negli  esseri viventi  non  potendo  essere  che  l'equivalente  di  altre forze  fisiche  disparse  dando  loro  origine.  In  quanto alla  finalità  degli  organismi,  Darwin   ha  dato  una spiegazione,  che  la  teoria  meccanica  può  conside^ rare  come   un   gran   passo   verso   la   sua   completa realizzazione.  Ma  con  tutto  ciò,  deduzione  fatta  di queste   due   difficoltà  su  cui  i  metafìsici  hanno  so- vratutto  insistito,  resta  sempre  nei  corpi  viventi  un carattere  essenzialmente  differenziale,  col  quale  non si  trova  alcuna  analogia  nei  fenomeni  della  mate- ria bruta  :  è   questa   persistenza  del   tipo  generico nella  successione  delle  generazioni  e  del  tipo  indi- viduale attraverso  gli  scambi  incessanti  della  ma^ teria— carattere  per  cui  la  scienza  moderna  definisce la  vita,  con  Troviranus  :  «  la  vita  è  l'uniformità  co- stante dei  fenomeni  nella   diversità  delle  influenze esteriori  »;  con  Plourens  :  «  la  vita  è  una  forma  ser» vita  dalla  materia  »  ;  e  meglio    ancora  con  Cuvier: «  l'essere  vivente  è  un  turbine  a  direzione  costante, nel  quale  la  materia  è  meno  essenziale  che  la  forma  ». Vi  hanno  nell'essere  vivente,  dice  Claudio  Ber- nard,    due   ordini   di   fenomeni  :    1.    i   fenomeni  di creazione  vitale  o  di  sintesi  organizzatrice;  2.  i  feno- meni   di    morte  o   di  distruzione  organica.   «  Se  al punto  di  vista  della  materia  e  della  forza,  nel  mondo vivente  come  nel  mondo  bruto,   niente  si  perde    e niente  si  crea,  non  è  così  al  punto  di  vista   della forma.  Nell'essere  vivente  tutto  si  crea,  s'organizza •  morfologicamente.  Nell'uovo  in  isviluppo,  i  muscoli^ le  ossa,  i  nervi  appariscono,  e  prendono  il  loro  po- sto, ripetendo  una  forma  anteriore  da  cui  l'uovo  è uscito  ».  «  Di  questi  due  ordini  di  fenomeni,  il  primo solo  è  senza  analogo  diretto,   particolare,  speciale all'  essere  vivente.  È  una  sintesi    evolutiva.    È  ciò che  vi  ha  di  veramente  vitale.  È  la  vita».  L'altro al  contrario  è  puramente  fisico-chimico.  «  Sono  dei fenomeni  di  morte  vera,  quando  si  producono  in  un organismo».    «Ora,  ed  è  ciò  che  vi  ha   di    più  ri- marchevole,  noi  siamo  vittime  d'  un'  illusione  abi- tuale, e  quando  vogliamo  caratterizzare  la  vita^  noi indichiamo  un  fenomeno  di  morte.  Noi  non  vedia- mo i  fenomeni  della  vita.  La  sintesi  organizzatrice resta  interiore,   silenziosa,  nascosta,  raccogliendo senza  rumore  i  materiali  che  saranno  spesi  nell'e- spressione fenomenale.  Noi  non  vediamo  dunque  di- rettamente i  fenomeni  di  creazione  vitale.   Solo  lo istologo,  l'embriogenista^  seguendo  lo  sviluppo  del- l'elemento o  dell'essere  vivente,  prende  dei  cangia- menti,   delle   fasi    che  gli   rivelano   questo   lavoro sordo  :  qui  un  deposito  di  materia,   là  una  forma- zione d' inviluppo  o  di  nucleo,  là  una  divisione  o una  moltiplicazione,  una  rinnovazione.  Al  contrario i  fenomeni    di  distruzione  vitale   o   di   morte   sono quelli  che  ci  saltano  agli  occhi,  e  per  i  quali  siamo tentati  di  caratterizzare  la  vita.  I  segni  ne  sono  e- videnti,  eclatanti  :  quando  il  movimento  si  produce,, quando  un  muscolo  si  contrae,  quando  la  sensibi- lità e  la  volontà  si  manifestano,  quando  il  pensiero 8i  esercita,  quando  la  gianduia  secerne,  la  sostanza dei  muscoli,  dei  nervi,  del  cervello,  del  tessuto  glan- dulare  si  disorganizza,  si  distrugge  e  si  consuma^ [Di  sorta  che  ogni  manifestazione  di  un  fenomeno, nell'essere  vivente,  è  necessariamente  legata  a  una distruzione  organica,  e  sotto  una  forma  paradossale si  può  enunciare  questa  verità  che  io  ho  espressa altrove:  la  vita  è  la  morte»  (1). L'opposizione  che  la  concezione  meccanica  della vita  incontra  nella  scienza,  moderna  non  è  dunque dal  punto  di  vista  metafìsico  della  teleologia,  né  dal punto  di  vista  prescientifìco  che  riguarda  quest'at- tività esteriore  dell'essere  vivente — in  cui  Claudio Bernard  non  vede  che  dei  fenomeni  di  morte  e  che egli  riconduce  ai  fenomeni  generali  della  materia — come  il  carattere  distintivo  per  cui  i  corpi  viventi sono  separati  come  da  un  abisso  dalla  materia  bruta. La  quistione  tra  i  meccanisti  e  quelli  che  non  am- mettono la  loro  teoria  è  :  il  fenomeno  dell'eredità  o quest'altro  fenomeno  analogo  della  continua  restau- razione che  fa  di  se  stesso  l'individuo  vivente  se- [(i)  Le  definizioni  della  vito,  nella  Ilev   scieni,  2.  ser.  t.  13. Cefr,  Oauthier  Origine  dell'en'^rgiu  negli  esseri  viventi^  nella  Uev scient,  ser.  3.  t.  12.  Ivi  l'autore,  oltre  alle  opinioni  analoghe  di  al. tri  naturalisti,  riferisce  queste  parole  di  Chevreul  :  «  Un  corpo  or- ganizzato ha  in  sé  la  proprietà  di  svilupparsi  con  una  costanza  am- mirabile nella  forma  della  sua  specie,  e  la  facoltà  di  dar  nascita  ad individui  che  riproducono  alla  loro  volta  questa  stessa  forma.  È là  che  si  trova  per  noi  il  mistero  della  vita  e  non  nella  natura  del- le forze  a  cui  si  possono  rapportare  immediatamente  i  fenomeni  ». Bicordo  pure  delle  proposizioni  simili  di  Matteucci  :  (dopo  aver  det- to che  i  fenomeni  della  vita  devono  ridursi  a  fatti  fisico-chimici) vi  ha,  nell'organismo  vivente,  qualche  cosa  che  pare  inviluppata  dal- la più  grande  oscurità,  e  che  è  senza  analogia  coi  fenomeni  fisici  e chimici.  Io  voglio  parlare  di  questa  grande  incognita  che  si  nascon- de in  un  grano,  producente  sempre  la  stessa  pianta  dal  comincia- jEuento  sino  alla  fine».  (V.  Beo,  scient»    1.  ser.  t.  2,  p.  339}.]condo  la  forma  determinata  che  gli  è  propria — re- staurazione che  dal  fatto  più  ordinario  della  rein- tegrazione degli  elementi  per  la  nutrizione  va  sino alla  rigenerazione,  in  certi  organismi,  degli  organi più  complessi — questi  fenomeni  essenziali  della  vita sono  riduttibill  alle  leggi  generali  della  materia  e del  moto?  La  teoria  della  conservazione  dell'energia non  decide  la  quistione  in  favore  del  meccanismo; essa  prova  semplicemente  che  le  forze  vitali  —  in- tendendo con  questa  parola  non  degli  agenti  miste- riosi, delle  ipostasi,  ma  un  asemplice  espressione  iir stratta  dei  fenomeni  della  vita — non  possono  creare energia,  ma  solo  trasformarla.  La  teoria  dell'  evo- luzione fa  intravedere  la  possibilità  di  ricondurre tutti  i  fenomeni  svariati  del  mondo  vivente  a  un piccolo  numero  di  teggi  comuni,  ma  i  fenomeni  es- senziali della  vita,  cioè  l'eredità  e.  generalmente,  la persistenza  della  forma  nella  continua  rinnovazione della  materia,  lungi  di  dedurli,  essa  li  suppone come  le  premesse  ultime  delle  sue  deduzioni.  Questi fenomeni  sin  qui  inesplicabili  —  e  che  non  \  i  ha alcuna  difficoltà  intrinseca  a  considerare  come  dei fatti  ultimi  che  non  ammettono  spiegazione  ulteriore, ma  solo  un'espressione  più  rigorosa  sotto  forma  di leggi  precise — avranno  mai  il  loro  Newton,  che  li riconduca  alla  meccanica  degli  elementi  della  ma- teria? Quello  che  serabrj,  evidente — tanto  evidente che  r  autorità  degli  eminenti  fisiologi  che  propu- gnano la  teoria  meccanica  non  è  una  ragione  che deve  impedire  di  dirlo— è  che  sinché  questo  Newton non  sarà  venuto — ciò  che  Kant  trovava  assurdo  di sperare  (l)-la  teoria  meccanica  della  vita  non  sarà che  un'ipotesi,  meno  ancora  che  un'ipotesi,  una  sem- plice  congettura  sulla  scienza  avvenire,  poiché  essa si  riduce  all'affermazione  che  questo  Newton  verrà o  potrebbe  venire  (cioè  verrebbe,  se  l'ideale  della conoscenza  umana  fosse  conseguibile).  L'autorità  dei sommi  maestri  della  scienza  che  emettono  quest'af- fermazione dà  certamente  ad  essa  un  gran  peso:  ma dei  fisiologi  non  meno  autorevoli  dichiarano  che quest'affermazione  è  affatto  gratuita  e  senza  fonda- mento  nella  scienza,  e  c4assano  la  teoria  meccanica (1>  .  Egli  è  in  effetto  assolutamente  oerlo  che  noi  non  possiamo  a», prendere  a  -onoscere  d'una  manle.-a  sufficiente,  e  a  più  forte  ra-lo- Zr'\7,rl'f  ''"  «  '"  '«"-o  possibilità  Interrore per  del  prlnclpll  puramente  meccanici  della  natura;  e  si  p„6  s„,te. nere  «ratamente  con  un'eguale  certsz.a  ch'egli  è  assurdo  per  de^U yoTlt  :  •^»  *"  =^'""^'  "  «»  "?-»-  «"-e  qualche  ufo. ^o  Newton  verrà  un  giorno  a  splejja.^  la  produzione  d'un  filo  d'erba per  legg.  na:arall  a  cui  alcun  disegno  non  ha  presieduto ..  (Critica del  ff,ua.,w  paragr.  LXXVI).  Come  si  vede  da  queste  parole  W prezzamentodlKantè  sovratutto  fondato  su  considerazioni  d^rd^ne t^leolog  co.  Del  .^sto,  come  si  sa,  lo  stesso  punto  di  vista  teleoYogi! co  n.„  ha  per  Kant  alcun  valore  obbiettivo,  ma  non,  foncu"  che sopra  una  necessità  subblettiva  della  nostra  intelligenza.  Ne»"  .,u|! «Uone  della  spiegazione  degli  esseri  organizzati.  1.  nostro  Teli si  avvolge  necessariamente,  secondo  Kant,  In  un  antinomia  ZS le;  perche  da  una  parte  noi  non  concepiamo  che  alcuna  pro.luzlonc  di n"he"m:T  ..''u    '^^«'    PU-'-nte    ^ca nlche;  ma  dall'altra  parte,  la  spiegazione  meccanica  applicata  a  clZ produzioni  della  natura  (gli  esseri  organizzati,  sar..  semi"    Ins^! e  ente  e  d'un'estenslone  limitata  (quantunque    non   possiamo   ZZt su  dove  questa  spiegazione  possa  estendersi,,  e  nol'^obbUmo  uT^! sanamente  giudicare  della  natura  e  della  possibilità  di   qn^sl  It dazioni  secondo  11  concetto  delte  cause  finali,  senza  vederi  aTcunn^ do  possibile  d.  conciliare  questi  due  punti  di  vista  1^,7.101    .nat vn'n."   bT":"'  "  '«'-«o'"»'- «  "eo.-L'altern«  l'v^n^ vltablle  che  Kant  suppone  tra  11    meccanismo   e   la  teleologia   uZ tra  le  ipotesi  relative  alla  «  ricerca  delle  cause  pri- me, che  la  scienza  non  potrebbe  attingere  »  (1). qul<»tlone  della  vita,  s'incontra  pure  negli  autori  contemporanei,  p. «.  in  Wundt  Trattato  di  Fisiologia  umana.  Introduzione,  dove  sta- bilisce che  l'antico  concetto  della  vita  era  fondato  sul  punto  di  vista delle  cause  finali,  mentre  «  la  maniera  di  vedere  oggi  dominante  e  che "SJ  chiama  ordinariamente  l'ipotesi  fìsica  o  meccanica,  ha  la  sua  ori- gine nella  concezione  causale  della  natura,  In  quale  è  da  lungo  tem- po prevalsa  nelle  branche  affini  della  scienza  naturale,  e  secondo  la tiuale  la  natura  ò  una  S9mplice  citona  di  cinse  e  d'effetti,  le  leggi nUime  dell'azione  causale  essendo  le  leggi  della  meccanica  »,— Notia- mo quest'affermazione  di  Wundt  che  la  teoria  fisica  o  meccanica  è la  sola  che  realizzi  l'incatenamenlo  causale  tra  i  fenomeni  :  la  stessa affermazione  si  trova  in  altri  fisiologi  meccanlsti,  p.e.  in  Du  Bols— Reymond  (parole  citate)  e  In  Haeckel  Libera  scienza  e  libero  inse- gnamento* pag.  0,  10,  11. (1»  CI.  Bernard  Definiz.  della  vita. Sinché  il  Newton  non  sarìl  venuto,  noi  non    possiamo    sapere  se la  dottrina  meccanica  (o,  in  generale,  fisico-chimica)  della  vita  ha  ef- fettivamente un  senso  o  è  una  di  quello  che  Spencer  chiama  pseudo- idee  (e  quindi  nn  concetto  metafisico  nel  sen^o  più  stretto  del  termi- ne). Innesta  dottrina  Infatti  si  riduce  a  questa  proposizione  :  le  leggi della  vita  sono  deducii)ili  dalle  leggi  generali  del  mondo  fisico.  Ora f*e  questa  deduzione,  qualunque  Ipotesi  possa  Immaginarsi,  è  impos- i^lbile  (non  per  1  limiti  della  nostra   conoscenza,   ma   per   la   natura •stessa  delle  cose);  se  le  leggi  della  vita  non  po.ssono  essere  una  con- t^eguenza  dolle  leggi  generali  del  mondo  fisico;  affermare  che  lo  so- no,  che  la  deduzione  è  possibile,  è  evldentametfte  enunciare,  non  un semplice  errore  di  fatto,  ma  un'Impossibilità  logica.  Quesla  Impossi- bilità logica  o,  ciò  che  è  lo  stesso,  (luest'assurdltà  intrinseca,  che  po- trebbe essere  contenuta  nella  concezione  meccanica,  attualmente  deve per  necessità  sfuggirci,  perchè  la  proposlztone  astratta  :  le  leggi  del- ia vita  sono  deducibili  dalle  leggi  generali  della  materia,  è,  come  o- gnl  proposizioni  astratta,  un  puro  simbolo,  li  cui  significato  consiste nelle  rappresentazioni  concrete  corrispondenti.  Se  una  rappresenta- zione concreta  corrispondente  al  simbolo  (al    cosi  detto   concetto   a- stratto)  è  possibile.  Il  simbolo  ha  un  senso,  è  Intelligibile;  se  non  vi ha  una  rappresentazione  (concreta)  possibile  che  gli  corrisponda .  i\ sìmbolo  non  ha  senso,  vi  ha  un  non  senso,   un'impossibilità   logica. La  rappresentazione  concreta  corrispondente  alla  proposizione  astrat- ta •  le  leggi  della  vita  sono  deducibili  dalle  leggi  generali  della  ma- [Il  foiivlamento  della  concezione  fisica  o  meccanica della  vita  è  semplicemente  in  un'induzione  tirata dall'osservazione  che  i  progressi  della  scienza  si sono  fatti  nel  senso  della  spiegazione  fìsica  dei  fe- nomeni, o  si  deve  ammettere  l'influenza  di  qualche principio  considerato  come  evidente  per  se  stesso? Se  si  riflette  all'influenza  che  il  principio  che  l'es- sere non  può  venire  dal  non  essere,  cioè  che  il reale  non  può  cangiare  di  natura  e  di  proprietà, ha  sempre  avuto  nella  storia  del  pensiero  umano; alla  forza  con  cui  quest'altro  principio,  che  ne  è  una conseguenza,  cioè  l'impossibilità  che  un  tutto  abbia delle  proprietà  essenzialmente  distinte  da  quelle, riunite,  degli  elementi  fuori  del  tutto,  s'impone  al nostro  spirito;  infine  al  carattere  assiomatico  delle affermazioni  dei  meccanisti— che  la  spiegazione  mec- canica è  la  sola  maniera  possibile  di  comprendere i  fenomeni,  eh'  essa  è  la  sola  che  possa  realizzare tra  questi  l'incatenamento  causale,  che  le  leggi  della meccanica  sono  le  sole  vere  leggi,  perchè  s'impon- gono con  una  necessità  logica  —  si  troverà  verisimile che  delle  considerazioni  a  priori  non  siano  estranee ai  motivi  che  fanno  abbracciare  questa  teoria.  Ben feria,  «irebbe  la  deduzione  effettuata.  Effettuata  questa  deduzione,  si vedrebbe  al  tempo  stesso  che  la  oontrezlone  meccanica  ò  intelllglblte e  che  e^sa  è  vera  (o  almeno  verisimile,  se  questa  deduzione  si  ottenessa Immaginando  qualche  agente  Ipotetico,  Il  cui  modo  d'azione  però  fos- se  conforme  alle  leggi  generali  della  materia  e  del  moto).  Ma  sinché questa  deduzione  non  sarà  effettuata,  o  non  sarfi  provato  che  una  ta- le deduzione  è  Impossibile,  noi  nou  possiamo  sapere,  non  solo  se  la concezione  meccanica  è  vera  o  falsa,  ma  nemmeno  se  ossa  ha  un  sen- so  o  è  un  non  senso,  se  è  uu'Idea  vera,  nel  sen^o  lelbuitziano,  o  una Idei  falsa,  cioè  un'lmposslbllltìi  logici.]più,  noi  troviamo  nei  suoi  fautori  delle  affermazioni più  esplicite  e  precise.  «  Se  nei  corpi  viventi,  dice Preyr,  la  materia  possedesse  altre  fotze  fisiche  o di  qualsiasi  natura  che  nei  corpi  non  viventi  al- lora gli  elementi  costituenti  la  materia  dovrebbero possedere  ora  tali  forze,  cioè  a  dire  tali  proprietà ora  tali  altre;  perciò  gli  elementi  non  sarebbero più  invariabili  e  immutabili,  essi  non  sarebbero più  delle  sostanze  elementari,  ciò  che  implica  con- traddizione »  (1).  Lo  stesso  pAsupposto,  cioè  che gli  elementi  devono  essere  invariabili,  e  che  perciò un  composto  non  può  avere  delle  proprietà  che  non siano  la  risultante  di  quelle  dei  suoi  componenti, A^ediamo  nel  seguente  ragionamento  di  Huxley.  Do- po aver  parlato  delle  proprietà  fisiche  e  chimiche dell'acqua  e  del  ghiaccio,  tra  le  quali  e  quelle  del- l'idrogeno e  dell'ossigeno  non  esiste  la  più  leggiera rassomiglianza,  egli  continua  :  «  Questi  fenomeni  e (1)  Rev,  scient.  3*  ser.  t.  7.  Le  forze  dei  corpi  viventi. In  verità  Preyer  crede  *  che  alPInfuori  delle  loro  affinità,  qualche cosa  d'essenzialmente  differente  da  tutte  le  forze  fisiche  e  chimiche quali  si  considerano  oggi,  l'eredità,  deve  determinare  il  modo  secondo cui  reagiscono  le  une  sulle  altre  le  combinazioni  chimiche  esistenti nell'uovo,  come  anchd  l'ordine  e  la  disposizione  delle  loro  molecole, In  maniera  che  un  embrione  di  un  essere  vivente  che  rassomiglia,  al generatori  dell'uovo,  se  ne  sviluppi,  e  che,  anche  con  una  composi- zione degli  uovi  qualitativamente  e  quantitativamente  slmile,  degl'in- dividui differenti  possano  risultarne  ».  Ma  l'eredità  si  spiega  per  la memoria  inconsclente  della  materia  vivente,  e  per  mettere  d'accordo questa  spiegazione  col  fatti  della  fisica  e  della  chimica,  bisogna  attri- buire la  stessa  facoltà  a  tutta  la  materia  (V.cap.  2"  paragr.  9,  In  fine). Io  non  so  se  questa  possa  dirsi  una  spiegazione  fisica  della  vita  ;  ad ogni  modo  essa  si  conforma  al  principio  generale  della  spiegazione fisica,  cioè  che  le  proprietà  del  corpi  viventi  non  differiscono  essen- zialmente dalle  proprietà  della  materia  In  generale.]molti  altri  così  curiosi  costituiscono  ciò  che  noi chiamiamo  le  proprietà  deir  acqua,  e  noi  non  esi- tiamo a  credere  che,  d'  una  maniera  o  d'  un'altra, queste  proprietà  risultano  da  quelle  dei  suoi  ele- menti componenti.  Noi  non  supponiamo  una  forza misteriosa,  chiamata  acquosità,  che  entra  in  scena e  prende  possesso  dell'ossido  d'idrogeno  tosto  ch'esso è  formato,  e  guida  in  seguito  le  particole  acquose Terso  i  posti  eh'  esse  devono  occupare  sulle  fac- cette del  cristallo  o  ilei  mezzo  delle  foglioline  della brina.  Noi  viviamo  al  contrario  colla  speranza  e la  confidenza  che  un  giorno,  grazie  ai  progressi della  fisica  molecolare,  noi  potremo  passare  dai costituenti  dell'  acqua  alle  preprietà  dell'  acqua stessa,  così  facilmente  che  oggi  possiamo  dedurre il  movimento  di  un  orologio  dalla  forma  delle  sue parti  e  dalla  maniera  in  cui  esse  sono  disposte  (1). Vi  ha  altra  cosa  allorché  dell'acido  carbonico,  del- l' acqua  e  dell'  ammoniaca  dispariscono,  e  al  loro posto  nasce,  sotto  l'influenza  del  protoplasma  già  esi- stente, un  peso  equivalente  di  materia  vivente?  »  (2). Ciò  che  dobbiamo  pure  notare  nelle  parole  citate  di (1)  La  confidenza  di  Huxley  non  è  divisa  dal  due  più  eminenti logi(5l  suol  connazionali.  Nell'azione  chimica,  dice  Baln,  non  si  può predire  11  carattere  del  composto  dal  caratteri  degli  elementi  La composizione  delle  cause  è  la  legge,  considerando  la  causa  come  un potere  motore,  una  forza  :  ma  nelle  azioni  chimiche  non  si  tratta  di una  composizione  di  forze,  ma  di  sostanze  (Logica  1.  3"  o.  4"  20-21J E  Stuart.  Mlll  :  È  Impossibile  di  dedurre  tutte  le  verità  della  chi- mica  e  della  fisiologia  dalle  leggi  o  proprietà  delle  sostanze  semplici o  agenti  elementari  {Logica  t.  1"  llbr.  3"  e.  6"  §  2").  È  interessante  di notare  di  l'attitudine  dei  rappresentanti  della  filosofia  dell'esperienza verSD  la  teoria  meccanica  come  concezione  generale  della  natura. (2)  La  base  fisica  della  vita,  nella  Rev,  seleni.  »er.  1*  t.  6". CXXXI Huxley  è  l'alternativa  che  esse  propongono  tra  l'ipo- tesi dGÌVacqnosifn  e  quella  che  le  proprietà  dell'acqua sono  deducibili  dalle  proprietà  dei  suoi  componenti, cioè,  facendo  l'applicazione  della  similitudine,  tra l'ipotesi  della  foi'^a  rifa/e  e  quella  che  le  proprietà degli  esseri  viventi  sono  deducibili  dalle  proprietà degli  elementi  materiali.  Abbiamo  osservato  che  le ipotesi  contrarie  dello  spiritualista  e  del  materialista, per  rendere  conto  dell'origine  della  coscienza,  par- tono egualmente  dallo  stesso  principio,  cioè  che  le cose  non  poscono  cangiare  nella  loro  natura  :  di  là lo  spiritualista  conclude  che  la  coscienza,  non  tro- vandosi negli  elementi  materiali,  deve  essere  ap- portata da  un'  altro  principio  distinto  da  questi  e di  cui  essa  sia  la  proprietà  immutabile;  il  materia- lista ne  conclude  invece  che  la  coscienza  che  ap- parisce nel  tutto  non  può  essere  essenzialmente  di- stinta dalle  proprieià  degli  elementi  costitutivi.  Dalle <iiffìcoltà  delle  ipotesi  materialiste  lo  spiritualista argomenta  la  necessità  della  sua  propria  ipotesi,  e viceversa  dalle  difficoltà  dell'ipotesi  spiritualista  il materialista  la  necessità  della  sua.  Così  ora  possiamo osservare  che  l'ipotesi  fisica  o  meccanica  e  l'ipotesi vitalista  sono  l'applicazione  di  un  principio  comune alla  quistione  dell'origine  e  dell'essenza  della  vita, cioè  dello  stesso  principio  che  la  natura  delle  cose non  può  cangiare.  Dall'osservazione  che  i  fenomeni dell'essere  vivente  sono  essenzialmente  distinti  dai fenomeni  degli  elementi  materiali  che  1'  hanno  co- stituito,  il  vitalista  conclude,  in  virtù  di  questo principio  ammesso  come  evidente  per  sé  stesso,  che la  vita  è  apportata  da   un'altro    elemento  distinto dagli  elementi  materiali  che  viene  ad  aggiungersi al  composto  (diciamo  :  un  elemento  distinto  dagli elementi  materiali,  quantunque  il  principio  vitale sia  stato  spesso  concepito  come  una  specie  di  fluido, p.  es.  la  matiera  vifae  diffusa  di  Hunter,  di  cui  un autore  quasi  contemporaneo  ha  potuto  dire  che  in Inghilterra  essa  è  una  parte  della  religio  medici  (!)• ma  è  evidente  che  in  questo  caso,  come  in  quello dell'animismo  primitivo,  a  una  sostanza  materiale particolare  si  attribuiscono  delle  proprietà  essen- zialmente differenti  da  quelle  della  materia  comune). Dall'osservazione  che  i  corpi  che  manifestano  i  fe- nomeni della  vita  non  sono  che. aggregati  degli  eie* menti  della  materia  bruta,  e  finiscono  per  risolversi in  questa  materia  bruta,  il  meccanista  conclude  in- vece, in  virtù  dello  stesso  principio,  che  le  proprietà degli  esseri  viventi  non  possono  differire  essenzial- mente dalle  proprietà  della  materia  bruta.  Dall'as- surdità di  un  principio  vitale  sostantifìcato  si  ar- gomenta da  una  parte  la  necessità  della  spiega- zione fisico  -  chimica  o  meccanica  della  vita,  come pall'altra  parte  dairimpossibilità  di  questa  spiega- zione, che  distrugge  la  differenza  essenziale  tra  la materia  A^ivente  e  la  materia  morta,  si  argomenta la  necessità  di  una  sostanza  speciale,  che  si  associ agli  elementi  materiali,  e  aggiunga  ad  essi,  finché dura  l'  ossociazione,  le  nuove  proprietà  della  vita. Dall'una  e  dall'altra  parte  la  terza  ipotesi  che  rompe la  pretesa  necessità  dell'alternativa,  ipotesi  che  non (1)  Bence  Jones  V.  Materia  e  forza  fn  Rer.  scifut*    «er  l"  anno png.   62  e  98. suppone  niente  ma  si  limita  a  costatare  il  fatto, cioè  che  la  stessa  materia  in  condizioni  differenti possiede  delle  proprietà  essenzialmente  differenti, viene  respinta  a  priori\  ciò  che  è  perfettamente  na- turale, perchè  essa  è  contraria  alla  tendenza  spon- tanea del  nostro  spirito  a  ricondurre  il  meno  fa- miliare al  più  familiare,  e  per  conseguenza  a  spie- gare i  fatti  per  la  supposizione  che  il  reale  persiste nelle  stesse  proprietà,  questa  persistenza  essendo per  noi  un  fenomeno  assai  più  familiare  che  il cangiamento  delle  proprietà  (1). (1)  Evidentemente  ciò  ohe  abbiamo  detto  in  questo  paragrafo  e nel  precedente,  non  si  applica  soltnnto  alla  coiicozlona  meccanica  del mondo,  ma  a  tutte  le  forme  dulia  concezione  fisico-chimica.  Noi  non ci  slamo  limitati  a  parlare  della  prima  che  perchè  ne  è  la  forma  più <»omunemeatc  ammessa,  e  quella  che  sembra  la  conseguenza  più  na- turale del  principio  della  fisica  moderna  che  tutti  1  cangiamenti  del mondo  fisico  si  riducono  al  movimento  degli  elementi  di  una  materia che  non  ha  altre  qualità  che  l'ostenslone  e  rimpeuetrabllitfi:  ma  è  e- ridente  che  la  identificazione  del  fenomeni  della  materia  vivente  e cosciente  a  quelli  della  materia  bruta  è  una  conseguenza  del  concetto generale  che  riduce  tutti  I  fenomeni  a  (luelll  fisico-chimici,  e  non <lella  forma  particolare  di  questo  concetto  che  riduce  inoltre  tutti  l fenomeni  fisico-chimici  a  (luelli  meccanici.  Questo  elemento  specifico, differenziale,  della  concezione  meccanica  (la  riduzione  di  tutti  i  fe- nomeni fisico-chimici  al  feuomani  meccanici)  non  ha  avuto  nel  testo alcuna  spiegazione.  E  In  effetto  esso  non  potrebbe  riguardarsi  come una  semplice  applicazione  del  principio  che  noi  abbiamo  formulato con  1©  parole  nichil  oritnr^  nichil  iuterit.  Cosi,  se  vogliamo  spiegare anch'esso  per  questo  processo  d'inferenza  incosciente  da  cui  derivano 1  concetti  metafìsici,  e  quelli  in  generale  che  si  ammettono  d'una  ma- niera assiomatica  ma  che  1'  osservazione  non  potrebbe  giustificare, noi  dobbiamo  carcame  l'origine  pare  In  uni  suggestione  deli'  espe- rienza più  familiare,  ma  indipendente  da  quella  a  cui  si  devono  i concetti  di  cui  parliamo  in  quest'Appendice. E  evidente  che  11  principio  su  cui  è  fondata  la  teoria  che  tutti  1  fe- nomeni del  mondo  fisico,  anche  <iuelli  della  chimica,  non  possono  essere [La  metafisica  dei  metafisici— non  quella  che i  fisici  fanno  senza  saperlo,  come  il  borghese  geu- tiluomo  faceva  della  prosa  senza  saperlo--ci  mostra altre  applicazioni  del  principio  dell'immutabilità dell'essenza  delle  cose,  che  unite  alle  precedenti,  ci possono  far  concludere  che  l' influenza  di  questo principio,  nella  storia  del  pensiero  umano,  non  è stata  quasi  meno  universale  che  quella  del  principio di  causalità  efficiente.  Noi  indicheremo,  d'  una  ma- niera generale,  i  seguenti  gruppi  di  sistemi: 1.  I  sistemi  di  atomismo  metafisico,  in  cui  agli  ato- mi, cioè  masse  indivisibili  ma  estese,  dei  fisici,  co- che l'effetto  dAlle  lejrgl  della  meceanlca,  (almeno  quando  non  si  Mup- poue  che  11  movimento  deve  spiegarsi    unicamente  per  1'  Impulsione) è  che  tutta  la  materia,  al  fondo,  deve  avere  un' esrnenza  e  delle  prò- prletfi    Identiche.  É  facile  di  vedere  In  (lutsto  principio  una  sujrpre- stlone  delle  esperienze  plìi  familiari,  se  si  tlen  conto  di  questo  fatto die  la  scienza   moderna,   nej,'aiido  l'obbiettività  delle  qualità  sensi- bill  (le  secondarle),  e  componendo   tutti  l  corpi   di  elementi  di   una solidità  e  di  ima  durezza  assolute,  sopprime.  In  definitiva,  ogni  ca- ratiere   differenziale  tra  materia  e   materia.  Un  elemento   materiale nin  potrebbe  differire  da  un  altro  che  per  la  grandezza  e  la  figura. Noi  possiamo  supporre,  è  vero,  che  essi  siano  dotati  <li  energie  par- tlcolarl,  che  l'uno  abbia  un  modo  d'agire  e  di   patire  che  gli  è  asso- lutamente  proprio  e  pe.  cui  si  distingue  essenzialmente  dallaltro-ed è  m  ciò  che  dovrebbe  consistere  la  differenza  fra  gH  elementi  chimici, supponendo  che  essa  sia  primordiale  e  Irrlduttlblle-.  Ma  ciò  che  ap- punto  è  contrarlo  alla  suggestione  delle  nostre  esperienze  più  familiari, òche  del  frammenti  di  una  materia  qualitativamente  omogenea  -  noi potremmo  dire:  della  stessa  materla-l  quali  non  differiscono  che  per la  grandezza  e  la  figura  In  cui,  per  dir  cosi,  sono  stati  tagliati    pos- sano  avere  del  modi  di  agire  e  di  patire  radicalmente  differenti. Noi abbiamo  osservato  tante  volte  che  le  diverse   porzioni  di  una  stessa specie  di  stoffa  o  di  legno  o  d'un'altra  materia  (lualslasl,  se  differiscono per  la  grandezza  e  per  la  figura,  non  hanno  perciò  una  natura  e  delle proprietà  differenti,  salvo  quelle  proprietà  che  sono  una  conseguenza della  figura  e  della  grandezza  stesse.  Se  noi  chiamiamo  statiche  1^ cxxxv me  unità  costanti  o  elementi  del  reale,  vengono  soh- stituiti  degli  esseri  semplici  o  inestesi — monadi,  sia nel  senso  panpsicliista  sia  nel  senso  dinamista,  forze o  centri  di  forze,  atomi  semplici  o  punti  materiali, ecc.  —  i  cangiamenti  del  mondo  fenomenale  essendo spiegati,  come  nell'atomismo,  pei  cangiamenti  dei  rap- porti tra  le  unità  elementari.  I  sistemi  di  atomismo metafisico  non  sono  al  fondo  che  delle  forme  tra- scendenti della  concezione  meccanica,  tutti  i  can- giamenti del  mondo  materiale  essendo  ridotti,  in questi  sistemi,  al  cangiamento  nelle  relazioni  di spazio,  sia  che  in  queste  relazioni  si  veda  un  at- tributo reale  degli  esseri  semplici — ciò  che  è  certa- mente una  contraddizione  nei  termini,  poiché  un  es- sere semplice,  cioè  inesteso,  non  occupando  uno spazio,  non  potrebbe  essere  nello  spazio  —  sia  che non  si  veda  in  esse  che  delle  manifestazioni  feno- menali d'un  ordine  reale  «intelligibile».  In  questo gruppo  è  a  segnalare  il  sottogruppo  dei  sistemi  pan- psichisti,  nei  quali,  col  dualismo  dello  spirito  e  della materia,  viene  soppresso  il  più  profondo  dei  cangia- proprlelà  per  cui  sogliamo  distinguere  le  diverse  sostanze  secondo  11 giudizio  Immediato  del  sansl,  e  dinamiche  quelle  che  esse  manifestano In  circostanze  determinate,  noi  possiamo  formulare  il  risultato  delle nostre  esperienze  più  familiari  cosi:  delie  sostanze  identiche  nelle loro  proprietà  statiche  non  possono  differire  nelle  proprietà  dinamiche (tranne  In  quelle  che  non  potre')bero  riguardarsi  come  caratteri  dif- ferenziali nelle  sostanze,  quali  sono  quelle  che  sono  una  conseguenza della  grandezza,  della  figura,  della  posizione  ecc.)  Il  concetto  fonda- mentale della  spiegazione  meccanica,  per  cui  essa  si  dlstlnijue  dalla semplice  sple^^azlone  fisico-chimica,  cioè  l'identità  essenziale  di  tutta la  materia,  sarebbe  l'estensione  di  questa  conclusione  agli  elementi della  materia,  dato  li  concetto  moderno  della  materia,  che  sopprime tra  le  sostanze,  materiali  ogni  differenza  nelle  qualità  statiche. ]nienti  della  natura,  e  perciò  la  più  evidente  con- traddizione che  il  principio  che  l'essere  non  può venire  dal  non  essere  incontra  nell'esperienza. 2.  I  sistemi  monisti  che  risolvono  tutte  le  cose  in una  sostanza  unica,  sempre  identica  a  se  stessa,  sia che  di  questa  sostanza  facciano  un  che  di  spiri- tuale, come  Dio,  l' Idea  (Hegel),  la  Volontà  (Scho- penauer),  l'Incosciente  in  cui  sono  associate  la  vo- lontà e  Fidea  (Hartmann),  ecc.;  sia  che  ne  faccia-io un  che  di  differente  dallo  spirito  e  dalla  materia (vale  a  dire  da  tutto  ciò  che  conosciamo),  come  la Forza  inconoscibile  di  Spencer,  ehe  egli  si  rap- presenta come  qualche  cosa  di  cui  le  forme  can- giano, mentre  la  sostanza  resta  sempre  la  stessa  (1). Come  si  vede,  noi  impieghiamo  qui  il  termine monismo  in  un  senso  più  stretto  di  quello  che  esso ha  il  più  abitualmente  nel  linguaggio  filosofico  con- temporaneo,  secondo  il  quale  indica  tutti  quei  si- stemi che  non  ammettono  la  dualità  dello  spirito e  della  materia.  In  questo  senso  il  monismo  equi- A^ale  il  più  spesso  sia  all'ilozoismo  sia  alla  dottrina dell'identità  del  fisico  e  del  mentale:  noi  abbiamo già  parlato  di  queste  applicazioni  del  principio  del- l'immutabilità. La  scienza  obbiettiva  non  può  spiegare  ciò  che  noi  chiamiamo il  mondo  esteriore  senza  riguardare  i  suoi  cangiamenti  di  forma come  delle  manifestazioni  di  qualche  cosa  che  rimane  costante  sotto tutte  le  forme  »  Primi  principii  paragr.  191.  Qui  Spencer  non  parla che  dei  cangiamenti  del  mondo  esteriore:  in  quanto  ai  cangiamenti del  mondo  interiore,  noi  abbiamo  visto  che  questi  si  distinguono fenomenalmente  da  quelli  del  mondo  esteriore,  ma  realmente  sono identici  con  essi  (cioè  con  quella  parte  di  essi  che  costituiscono  le condizioni  fisiche  dei  fenomeni  psichici). Il  Realismo,  che  risolve  le  cose  in  un  sistema di  concetti  realizzati,  cioè  di  entità  astratte  e  ge- nerali (Platone,  Spinoza,  Schelling,  Hegel,  Taine, ^cc.)  Queste  entità  astratte  e  generali  essendo  ciò che  vi  ha  di  permanente  e  d'immutabile  nella  na- tura— le  leggi  eterne  e  le  forme  eterne  degli  es- seri -e  il  cangiante,  il  particolare,  essendo  riguar- dato come  Yapparenza  obbiettiva  di  quest'Essere  im- mutabile, la  conseguenza  del  Eealismo  è  che  l'es- sere non  nasce  né  perisce  e  che  non  vi  ha  nel  reale alcun  cangiamento  (1). 4.  Il  Criticismo,  Vi  ha,  secondo  questo  sistema, nella  varietà  delle  nostre  conoscenze,  un  elemento invariabile  :  è  la  forma  stessa  della  nostra  cono- scenza, che,  nella  sua  applicazione  agli  oggetti  co- nosciuti, si  manifesta  come  legge  generale  del  mondo dei  fenomeni.  Quest'elemento  invariabile  della  no- stra conoscenza,  che  è  ciò  che  vi  ha  di  permanente nella  scena  perpetuamente  cangiante  delle  appari- zioni, è  la  forma  inerente  al  soggetto  stesso  cono- scente, la  funzione  invariabile  per  cui  egli  coor- dina la  A^arietà  delle  impressioni  sensibili.  È  evi- dente che,  secondo  il  criticismo,  se  la  forma  della nostra  conoscenza  fosse  variabile,  se  le  funzioni  e la  natura  del  soggetto  conoscente  cangiassero,  Tor- dine  della  natura  conosciuta  sarebbe  alterato,  non vi  sarebbe  più  in  essa  un  corso  uniforme.  Così  a questa  quistione  :  perchè  vi  ha  un  ordine  uniforme o  delle  le«roji  costanti  nei  fenomeni  ?  il  criticismo risponde  :  perchè  la  forma  di  cui  il  soggetto  cono- (1)  Cfr.  cap.  VII,  §  4",  pag.   108.109. 4 I  / scente  impronta  gli  oggetti  conosciuti  è  sempre  la stessa,  perchè  la  natura  di  questo  soggetto  cono- scente è  costante.  Facendo  questa  risposta,  il  cri- ticismo applica  —  non    in   verità    il    principio    che l' essenza    delle    cose  è  immutabile  —  ma    un    altro principio  più  fondamentale  di  cui  questo  è  la  con- seguenza, cioè  che  la  persistenza  degli  oggetti  nella stessa  essenza  o  nelle  stesse  proprietà  è  una  cosa naturale  e  che  si  comprende  da  sé  stessa,  e  che quindi  può  servire  di  base  alla  spiegazione  dei  fe- nomeni. Spiegando  l'ordine  uniforme  o  le  leggi  co- stanti dei  fenomeni  per  la  invariabilità  della  for- ma della  conoscenza,  e  quindi  per  la  costanza  della natura  del  soggetto  conoscente,  esso  suppone  infatti che  questa  costanza,  come,  in  generale,  la  persi- stenza di  una  cosa  nella  stessa  natura  e  nelle  stesse proprietà,  è  un  fatto  che  si  comprende  senza  bi- sogno di  spiegazione,  e  che  perciò  può  servire  d'in- termediario esplicativo  del  fatto  che  ha  bisogno  di essere  spiegato,  cioè  V  esistenza  di  leggi  costanti, di  un  ordine  uniforme,  nel  mondo  dei  fenomeni,  o delle  apparizioni. A  ciò  che  abbiamo  detto  potrebbe  farsi  un'ob- biezione :  il  principio  che  la  persistenza  delle  cose nelle  stesse  proprietà  è  comprensibile  (mentre  il cangiamento  delle  proprietà  non  lo  è),  non  può  ap- plicarsi alle  cose  se  non  in  quanto  si  concepiscono nel  tempo  (questa  persistenza  non  essendo  che  una permanenza  nel  tempo).  Ma,  nel  criticismo,  il  tempo essendo  una  forma  subbiettiva  della  nostra  cono- scenza, questo  principio  perciò  non  può  applicarsi al  soggetto  conoscente,  considerato  come  soggetto — e  non  come  oggetto  della  conoscenza,  cioè  come semplice  apparizione  —  perchè  questo  soggetto,  con- siderato in  sé  stesso,  non  è  sottomesso  alla  condizione del  tempo.  La  stessa  obbiezione  può  farsi  riguardo  al gruppo  antecedente  cioè  ai  sistemi  rea/isti]  le  Idee  di Platone  e  di  Hegel  e  le  altre  astrazioni  realizzate congeneri  essendo  anch'esse  al  di  fuori  del  tempo. La  risposta  a  quest'obbiezione  è  che  per  la  costi- tuzione stessa  della  nostra  intelligenza,  è  impossi- bile di  formarci,  come  abbiamo  spiegato  nel  Sag- gio 1^,  una  rappresentazione  rea/e  del  sovrasensibile, del  non  fenomenale.  Ne  segue  che,  mentre  il  me- tafìsico parla  di  cose  non  sottoposte  al  tempo  e  alle altre  condizioni  del  sensibile  e  del  fenomeno,  è  sotto queste  condizioni  nondimeno  che  egli  è  costretto in  realtà  a  rappresentarsele.  L'  analogia  dalle  sue rappresentazioni  rea/i  con  le  esperienze  che  sono le  premesse  della  sua  inferenza  incosciente,  basta a  quest'  assimilazione  che  costituisce  la  base  e  il valore  esplicativo  dei  concetti  metafisici.  La  nostra osservazione  sul  criticismo,  che  esso  spiega  l'uni- formità dell'ordine  della  natura  per  la  costanza delle  proprietà  del  soggetto  conoscente,  si  applica, meglio  ancora  che  a  Kant,  ai  sistemi  posteriori  di criticismo,  nei  quali  l'elemento  propriamente  idealista del  Kantismo  —  cioè  l'attività,  1'  efficienza  causale, dell'intendimento  e  dei  concetti  puri  nella  forma- zione del  mondo  dell'esperienza— è  lasciato  nell'om- bra o  è  anche  sparito,  come  in  Renouvier,  in  Lange e  in  altri  filosofi  (p.  e.  Forrier)  che  si  riattaccano più  o  meno  da  vicino  a  Kant.  In  questi  sistemi non  resta  del  criticismo  originale  che    la    dottrina. «•^ CXL del  doppio  elemento  della  conoscenza,  l'uno  inva- riabile ed  essenziale  al  soggetto  conoscente,  la  for- ma cioè  la  legge,  l'altro  variabile  ed  avventizio;  la materia  cioè  le  sensazioni  ;  e  questa  dottrina,  de- stinata evidentemente  alla  spiegazione  dei  fenomeni, non  potrebbe  spiegare,  come  il  criticismo  originale, che  perchè  i  fenomeni  non  si  succedono  all'azzardo, ma  vi  ha  in  essi  un  ordine  stabile  ed  uniforme. §  14.  Fra  i  sistemi  a  cui  abbiamo  accennato,  ve ne  ha  alcuno  nel  1*^  gruppo  (atomismo  metafìsico) che  merita  un'  attenzione  particolare.  Tale  è  sovra- tutti  quello  di  Herbart.  Non  vi  ha  forse  nella  filo- sofìa moderna  un  altro  sistema  che  porti  cosi  spic- catamente l'impronta  del  sofisma  a  priori  che  stu- diamo in  quest'Appendice.  Grli  elementi  ultimi  delle cose  non  sono  per  Herbart  degli  atomi  fisici  —  la materia  della  fìsica  non  essendo  per  lui  che  un'ap- parenza,  un  fenomeno  subiettivo  —  ma  essi  sono calcati  della  maniera  più  evidente  sul  concetto  del- l'atomo fisico.  Herbart  chiama  il  suo  sistema  un atomismo  qualitativo^  perchè  le  qualità  semplici  che costituiscono  gli  esseri.  —  i  quali  sono  qualitativa- mente differenti  e  non  omogenei  come  gli  atomi — vi tengono  il  posto  dei  frammenti  indivisibili  di  ma- teria dell'atomismo.  L'essere  di  Herbart  è  assoluta- mente semplice  :  non  solo  esso  è  senza  estensione ed  indivisibile,  ma  non  vi  ha  in  esso  una  pluralità 'di  proprietà;  un  reale  non  ha  che  una  qualità,  o, a  parlar  propriamente,  non  è  che  una  qualità  unica e    semplice.   (1)  Le   sostanze  —  ^qualità   di  Herbart CXLI sono,  come  le  sostanze  materiali  degli  atomisti,  as- solutamente immutabili  :  non  vi  ha  nel  reale  alcun cangiamento  interiore,  in  altri  termini  niente  can- gia negli  elementi  considerati  in  se  stessi;  il  can- giamento, ciò  che  accade,  non  è  che  un  cangiamento nei  rapporti  degli  elementi,  nella  loro  disposizione, o,  come  dicono  gli  herbartiani,  nel  loro  collega^ mento. Quando  il  meccanismo  vuol  ridurre  tutti  i  can- giamenti al  (Cangiamento  dei  rapporti  nello  spazio, la  più  grave  difficoltà  è  per  esso  di  rendere  conto dei  cangiamenti  interni  che  deve  riconoscere  in  al- cuni esseri,  cioè  i  fenomeni  psichici:  un  meccani- smo rigoroso  non  indietreggia  innanzi  alla  conse- guenza che  questi  fenomeni  sono  anch'  essi  movi- mento, per  quanto  questa  proposizione  sia  eviden- temente inintelligibile.  Ln-  stessa  difficoltà  si  presenta nel  sistema  di  Herbart,  ma  d'una  maniera  più  ge- (1)  La  sostanza  —  vale  a  dire  ciò  che  vi  ha  di  permanent-e  nelle cose— non  è,  nel  concetto  coniuno,  che  l'esteso,  ciò  che  persiste  nello spazio  :  Herbart  toglie  al  reale  l'estensione,  ma  fa  delle  sue  qualità delle  sostanze,  vale  a  dire  attribuisce  loro  quella  permanenza  asso- luta che  ordinariamente  non  si  attribuisce  che  a  ciò  che  occupa  lo spazio  (e  in  quanto  occupa  lo  spazio).  Una  conseguenza  di  questa trasformazione  di  qualilà  inestese  in  Hontanse  è  che  la  coesistenza di  più  (jualità  in  un  essere  é  impossibile.  Una  qualità,  rigu.ardata come  un  che  di  assolutamente  permanente,  è  già  —  supposto  d'al- tronde che  essa  possa  concepirsi  per  se  stessa— una  sostanza:  di  più noi  non  possiamo  concepire  che  una  di  questo  qualità  inerisca  in un'altra  o  tutte  e  due  ineriscano  in  un  soggetto  comune,  poiché  noi non  possiamo  rappresentarci  altrimenti  la  coesistenza  di  più  qua- lità (p.  e.  odore,  sapore,  calore  —  non  sono  le  qualità  di  Herbart, ma  il  sovrasensibile  non  può  modellarsi  che  sul  sensibile)  in  uno stesso  soggetto,  se  non  rappresentandocele  come  inerenti  tutte  egual- mente in  une  stesso  esteso. I»  «  fi' ■«•4- CXLII nerale.  Non  solo  egli  ammette  —  ciò  di  cui  non potrebbe  fare  a  meno  —  degli  stati  interni  nella monade  anima,  ma  tutte  le  monadi,  tutti  i  reali, hanno  secondo  lui  degli  stati  interni,  i  quali  ci  sono sconosciuti  nella  loro  natura,  ma  che,  come  osserva Lotze  (1),  non  bisogna  credere  molto  dissimili  da quelli  dell'anima.  È  da  questi  stati  interni,  da  que- sta attività  interiore  delle  monadi,  che  derivano  i cangiamenti  delle  cose  nello  spazio.  Questo  concetto non  deve  sorprenderci  in  un  sistema  din^mista  quale quello  di  Herbart  :  noi  vediamo  in  esso  un  altro  o- sempio  di  questo  vago  antropomorfismo  che  abbia- mo più  volte  segnalato  in  cèrti  concetti  metafìsici, e  il  cui  germe  si  trova  già  nell'idea  comune  della forza  (nel  senso  trascendente  di  questo  termine). Supponendo  degli  atti  interni  anche  negli  elementi della  materia,  di  cui  egli  ammette  uon  pertanto  l'as- soluta immutabilità,  Herbart  non  introduce  una contraddizione  nuova  nel  suo -sistema  —  questa  esi- ste dacché  la  coscienza  ci  obbliga  a  riconoscere  in noi  stessi  dei  cangiamenti  interiori  —  ma  non  fa che  generalizzarla.  Herbart  pretende  che  gli  stessi cangiamenti  negli  stati  interni  delle  monadi  non sono  che  semplici  cangiamenti  nei  rapporti  fra  di esse,  nel  loro  collegamento,  come  il  meccanista  con- seguente pretende  che  la  sensazione  e  il  pensiero non  sono  che  movimenti  degli  atomi. La  conseguenza  rigorosa  del  principio  di  Herbart che  non  vi  ha,  nell'essere  reale  considerato    in  se stesso,  alcun  cangiamento  possibile,  sarebbe  di  non accordare  al  caniriamento,  almeno  al  cano;iamento interno,  che  un  valore  puramente  fenomenale^  di non  vedervi,  come  gli  Eleati,  che  una  semplice apparenza  —  della  stessa  maniera  che  il  priniùpio del  meccanismo  che  ogni  cangiamento,  e  quindi anche  il  pensiero,  si  riduce  al  movimento  di  elementi immutabili  in  se  stessi,  condurrebbe  a  nen  vedere  nel pensiero  che  un'apparenza  illusoria  del  movimento — . È  così  che  talvotta  è  stata  interpretata  la  dottrina  di Herbart  (1);  ma  tale  non  è  veramente  il  suo  pensiero. Egli  non  nega  che  i  cangiamenti  interni  siano  reaU,, ma  afferma  al  tempo  stesso  —  ciò  che  contraddice  a questa  proposizione  —  che  tutti  i  cangiamenti  si  ri- ducono a  quello  della  relazione  tra  gli  esseri.  Una cosa,  egli  dice,  può  cangiare,  per  la  sua  relazione con  altre  cose,  senza  cangiare  in  se  stessa  :  così  una stessa  nota  musicale  può  essere  giusta  o  falsa,  se- condo i  rapporti  in  cui  si  trova  con  altre  note  ;  una stessa  retta  è  una  tangente  relativamente  ad  un  cer- chio, e  diviene  una  secante  relativamente  ad  un  altro cerchio. A  questo  concetto  inintelligibile,  che  gli  stati  in terni  delle  cose  non  esistono  assolutamente,  ma  non sono  che  semplici  relazioni  fra  queste  cose,  si  riat- i^acca  pure  la  dottrina  delle  perturbazioni  e  degli  atti di  conservazione  di  sé,  per  cui  Herbart  pretende  di  ri' solvere  il  problema  della  possibilità  del  cangiamen- to. Gli  stati  interni  delle  monadi,  come  le  rappre- (1)  Psicol,  flsiol,  trad.  frane,  p.   161 (1)  V.  Diz,  fllos.  di  A.  Frank,  artic.  Herbart. ] sentazioni  dell'anima,  sono  degli  atti  di  conserva- zione di  sé  di  questi  monadi,  per  cui  esse  reagi- scono contro  le  pertubazioni  prodotte  da  altre  mo- nadi. Quando  due  monadi,  aventi  qualità  contrarie, s'incontrano  a  uno  stesso  punto,  nasce  fra  di  loro un'opposizione,  una  lotta,  essendo  impossibile  la coesistenza  di  qualità  contrarie  :  ciascuna  monade resiste  all'invasione  dell'altra,  fa  uno  sforzo  per conservarsi  quale  essa  è,  cioè  nella  sua  propria qualità.  Questa  mutua  opposizione  importa  in  cia- scuna delle  due  monadi  una  passione  —  è  la  pertur- bazione—  e  un'azione  —  è  Tatto  di  conservazione di  se.  —  La  periurbazione  può  panigonarsi  a  una pressione,  la  conservazione  di  se  a  una  resistenza. Pressandosi  o  turbandosi  reciprocamente,  ciascuna delle  due  monadi  eccita  V  altra  alla  resistenza,  a uno  sforzo  di  conservazioiie  di  se:  ma  le  due  so- stanze, con  tutto  ciò,  non  provano  alcun  mutamento; come,  pressando  l'uno  contro  Taltro  due  atomi,  cia- scuno si  opporrebbe  all'invasione  dell'altro,  mani- festando la  sua  forza  di  resistenza,  ciò  che  sarebbe uno  sforzo  contro  lo  sforzo  contrario  tendente  a comprimerlo,  ma  senza  che  perciò  i  due  atomi  ces- sassero un  istante  di  restare  nel  loro  stato  inva- riabile. Come  dal  rapporto  particolare  in  cui  gli  a- tomi  sono  posti,  nasce  questo  sforzo  di  resistenza di  ciascun  atomo,  che  è  un  avvenimento  ma  che non  importa  alcun  cangiamento  reale  nell'atomo stesso,  non  essendoA^  stato  in  realtà  altro  cangia- mento che  nella  posizione  reciproca  dei  due  atomi, cioè  in  una  loro  relazione;  così  dal  rapporto  partico- lare in  cui  le  monadisono  poste,  nasce  l'atto  di  consei'- vazione  di  sé  di  ciascuna  monade,  che  è  un  avveni- mento ma  che  non  importa  alcun  cangiamento  reale nella  monade  stessa,  non  essendovi  stato  in  realtà altro  cangiamento  che  nelle  relazioni,  nel  collega- mento, delle  monadi. Ciò  che  vi  ha  di  particolare  nel  sistema  di  Her- bart,  ciò  che  mette  questo  sistema  in  contrasto  con la  concezione  meccanica,  e  che  diffonde  su  di  esso un'oscurità  a  cui  non  è  comparabile  quella  che  può trovarsi  in  alcuni  punti  della  concezione  meccanica, è  l'unione  di  questi  due  punti  di  vista  incompati- bili,  quello  dell' assolufa  immutabilità  della  so- stanza e  quello  della  sua  attività  interiore,  in  altri termini,  di  un  concetto  dinamico  e  di  un  concetto meccanico  che  riduce  tutti  i  cangiamenti  del  reale ài  cangiamento  nelle  relazioni  tra  le  unità  costitu- tive.  La  stessa  unione  di  questi  due  concetti  si trova  nel  sistema  del  filosofo  siciliano  prof.  Corico, che  fu  senza  dubbio  un  pensatore  distinto,  e  merita anch'egli  di  essere  ricordato.  Il  concetto  fondamen- tale del  prof.  Corleo  è  ciò  che  egli  chiama  la  «  ret- tificazione dell'idea  di  sostanza  ».  Bisogq^  rigettare l'idea  conmune  che  vede  nella  sostanza  qualche cosa  di  uno  e  al  tempo  stesso  di  multiplo:  la  so- stanza reale  non  è  il  soggetto  d'  inerenza  di  una pluralità  di  fenomeni  (accidenti),  non  è  qualche  cosa che  ha  la  potema  di  fare  successivamente  degli  atti differenti,  di  ricevere  successivamente  delle  modi- ficazioni diverse.  Una  sostanza  semplice  non  rac- chiude alcuna  potenza  :  la  sostanza  non  è  che  atto, sempre  lo  stesso  atto,  un  atto  identico  ed  invariabile. La  rettificazione   dell'  idea  della   sostanza  consiste dunque  nel  togliere  alle  sostanze  reali,  agli  ele- menti ultimi  delle  cose,  qualsiasi  mutamento,  qual- siasi successione  di  stati,  qualsiasi  moltiplicità. Ma  la  sostanza,  quantunque  immutabile  come  Fa- tomo,  non  bisogna  perciò  concepirla  come  1'  atomo dei  fisici.  Prima  di  tutto  la  sostanza  è  assolutamente indivisibile,  senza  parti,  senza  estensione  (la  divisi- bilità all'infinito  della  materia  essendo  un'idea  con- traddittoria) :  inoltre  essa  differisce  ancora  dall'ato- mo, quale  lo  concepiscono  i  fisici,  perchè  mentre  que- sto è  un  che  di  passivo  e  d'inerte,  il  cui  attribuito non  è  che  la  sua  proprietà  di  occupare  uno  spazio, e  la  cui  realtà  non  è  che  la  sua  presenza  nello  spazio; al  contrario  la  sostanza  reale  è  essenzialmente  at- tiva,  l'attività  essendo  1'  essenza  stessa  dell'  essere reale.  A  parlar  propriamente,  non  vi  hanno  due cose,  la  s(>stan>'<a  e  la  sua  azione  :  1'  azione  non  si distingue  dalla  sostanza,  sostanza  ed  azione  sono due  termini  equipollenti;  l'essere  reale  è  un^n^ione sostantiva  o  una  sostanza^azione.  11! azione  non  biso- gna concepirla  come  una  modificazione  della  so- stanza —  ^n  vi  hanno  modificazioni  nella  sostanza — ^  come  una  seccessione  di  stati  ;  ma  come  lo stato  immanente,  sempre  lo  stesso,  della  sostanza. La  contraddizione  tra  il  concetto  dinamico,  e  il  con- cetto meccanico  dell'assoluta  immutabilità  dell'essere — ehe  nel  sistema  di  Herbart  si  manifesta  come  con- traddizione tra  il  concetto  di  un  essere  senz' alcun cangiamento  interiore  e  quello  di  una  moltiplicità di  stati  di  cui  quest'essere  è  successivamente  il  sog- getto —  qui  prende  un'altra  forma  :  l'aziono,  che  noi non  possiamo    rappresentarci    altrimenti  che  come un  cangiamento,  una  successione,  è  concepita  come uno  stato  permanente,  immutabile.  L'idea  della  sem- plicità assoluta  della  sostanza  (assenza  di  ogni  mol- tiplicità interiore),  che  Corleo  ha  in  comune  con Herbart,  deriva,  per  il  primo,  come  per  il  secondo, dai  due  concetti  riuniti  dell'  assoluta  immutabilità della  sostanza — che  esclude  il  moltiplico  come  suc- cessivo —  e  della  sua  inestensione  e  indivisibilità  — che  lo  esclude  come  coesistente — . Lra  sostanza  essendo  assolutamente  invariabile, come  si  deve  comprendere  dunque  1'  esistenza  del fenomeno,  cioè  del  variabile,  nella  natura  ?  È  la concezione  meccanica  naturalmente  che  offre  il  tipo su  cui  il  Corleo  modella  la  spiegazione  del  cangia- mento. Ogni  cangiamento  non  è  che  un  cangiamento nelle  relazioni,  nella  posizione  reciproca  degli  ele- menti, ciascuno  di  questi  in  se  stesso  restando  inva- riabile. Non  bisogna  credere  che  gli  elementi  per  il loro  concorso  possano  mai  produrre  qualche  fenome- no nuovo,  che  sia  qualche  cosa  di  più  o  di  diverso che  la  somma  delle  proprietà  degli  elementi  stessi: il  rapporto  tra  il  fenomeno,  vale  a  dire  ciò  che  esi- ste d'una  maniera  transitoria,  e  la  sostanza,  vale  a dire  ciò  che  esiste  d'una  maniera  permanente,  è  il rapporto  tra  il  composto  e  il  semplice,  tra  W.piìi  e  Viino, La  sostanza  è  un'azione  semplice,  un'azione  sostanti- va; il  fenomeno  è  un'azione  composta,  un  insieme  di azioni  sostantive  o  di  sostanze  —  azioni.  «  È  la  com- posizione che  muta  e  passa,  non  i  singoli  atti  so- stantivi che  sono  sempre  gli  stessi  ».  Ciò  si  ai3plica al  pensiero  :  esso  non  è  una  serie  di  modificazioni di  una   sola   sostanza  —  ciò  che  sarebbe  incompati- ■<  »' •r. cxLviir CXLIX I  : bile,  con  rimmutabilità  della  sostanza  —  ma  è  una azione  composta  di  quest'azione  sostantiva  che  noi chiamiamo  anima,  e  delle  azioni  sostantive  che  noi chiamiamo  elementi  materiali;  esso  cangia  e  si  muta^ perchè  il  composto  cangia  e  si  muta,  per  Paddizione,^ sottrazione,  o  trasposizione  degli  elementi. La  sostanza,  lo  sappiamo,  non  è  per  Corico  come un  atomo,   inattivo  in  se  stesso,   e  che  può,  sotto l'azione  di  forze  a  lui  straniere,    manifestare  suc- cessivamente forme  differenti  di  attività  :  al  contra- rio, la  sostanza  è  per  essenza  attiva,  e  quest'attività è  immutabile,  costituendo  l'essenza  stessa  della  so- stanza. Ne  segue  che  il  contingente,  per  dir  così,  di azione,  che  esiste  nel  mondo,   è  quantitativamentee  qualitativamente   invariabile:    le   azioni  possono comporsi,  decomporsi,  ricomporsi  in  aggregati  dif- ferenti,   ma  ciascuna  delle  azioni  elementari,  cosr bene  che  il  loro  totale  esistente  nel  mondo,  restano sempre  invariabili.  La  natura,  considerata  nei  suoi stati  successivi,  è  sempre,  al  fondo,  identica;  non soltanto  identica  come  il  mondo  degli  atomisti,  com- posto sempre  degli  stessi  atomi,  ma  identica  ancora in  quanto  le  azioni  elementari,  e  quindi  anche  le azioni  composte,  cioè  i  fenomeni,  dello  stato  ante- cedente, sono  sempre  identiche,  al  fondo,  a  quelle dello  stato  susseguente.  In  altri  termini,  vi  ha  iden- tità tra  i  fenomeni  antecedenti  e  i  fenomeni  conse- guenti, tra  le  cause  e  gli  effetti:  l'effetto,  il  conse- guente,   non  è  che  la  somma  delle  sue  cause,  dei suoi  antecedenti,  ed  è  identico  con  esse.  Se  la  causa e  l'effetto   ci   sembrano  due  cose  differenti,   è  che noi,  per  una  sorta  di  sezione  arbitraria,  stacchiamo \ dall'  insieme  una  delle  condizioni  del  fenomeno,  e la  consideriamo  come  causa  del  fenomeno,  senza tener  conto  delle  altre  concause  che  con  essa  con- tribuiscono al  risultato  :  ma  «  se  tutte  le  cercassimo e  le  ponessimo  sotfc'occhio,  l'identità  dell'effetto  to- tale con  tutte  le  concause  che  lo  producono  e  lo fanno  essere  quel  che  è,  risulterebbe  evidente- mente ». Vi  ha  tra  il  sistema  del  Corico  e  quello  di  Herbart una  somiglianza  si  colpente,  che  si  è  creduto  di  ve- dere nel  primo  un  plagiario  del  secondo:  la  supposi- zione di  un  legame  tradizionale,  per  ispiegare  i  punti di  contatto  tra  i  sistemi,  s'impone,  quando  si  vede nei  concetti  metafìsici  qualche  cosa  di  fortuito  e  di arbitrario.  Ma  noi  sappiamo  che  la  metafisica  è  un tatto  naturale  dell'intelligenza  umana,  e  che  il  me- tafisico, anche  nei  suoi  concetti  i  più  apparentementi lontani  dal  pensare  comune,  non  fa  che  sviluppare certi  germi  che  tutti  gli  spiriti  naturalmente  porta- no in  se  stessi.  I  tratti  comuni  tra  Herbart  e  il prof.  Corico  si  spiegano,  io  credo,  sufficientemente, senza  bisogno  di  supporre  che  questi  li  abbia  im- prestati da  quello.  La  dottrina  della  semplicità  as- soluta della  sostanza  risulta,  come  abbiamo  notato, dai  concetti  della  sua  immutabilità  e  della  sua  ine- stensione e  indivisibilità:  questi  costituiscono  il  ca- rattere comune  dell'atomismo  metafisico  —  che,  come vedremo  nella  2*  parte,  è  una  delle  forme  naturali che  prende  il  realismo  nella  sua  inevitabile  evolu- z  ione — ;  quello  è,  come  abbiamo  visto,  un  prodotto  di questa  tendenza  naturale  del  nostro  spirito  —  che costituisce  la  base  ultima  della  metafisica — a  ricondurre  tutti  i  fenomeni  a  quelli  che  ci  sono  i  più familiari.  Questa  tendenza  spiega,  nel  tempo  stesso che  il  concetto  delPimmutabilità  della  sostanza,  quello di  ridurje  il  fenomeno,  il  variabile,  al  cangiamento dei  rapporti  tra  le  sostanze  :  il  tipo  per  questi  concetti era  per  altro  esibito  dalla  teoria  meccanica. §  15.  La  dottrina  dell'identità  della  causa  dell'ef- fetto—che  noi  abbiamo  già  incontrato  nel  prof.  Cor- leo  —  ci  fornirà  Tultimo  esempio  del  sofisma  a  priori^ che  studiamo  in  quest'appendice,  applicato  a  una concezione  generale  dei  fenomeni.  Questa  dottrina non  bisogna  confonderla  né  col  principio  di  alcuni filosofi  greci,  che  il  simile  non  può  agire  che  sul simile,  né  con  l'altro,  più  analogo^  che  la  causa  deve essere  simile  all'effetto.  Questi  due  principii  sono delle  generalizzazioni  eccessive  dell'esperienza,  assai comprensibili  in  uno  stadio  primitivo  della  ricerca scientifica;  ma  non  potrebbero  riguardarsi  come  con- cezioni metafìsiche,  se  si  vuol  dare  a  questa  parola un  senso  definito.  Mancano  ad  essi  l'uno  e  l'altro  dei tratti  generali  che  caratterizzano  le  concezioni  me- tafìsiche ;  essi  non  sono,  come  la  dottrina  stessa  del- l'identità della  causa  e  dell'effetto,  delle  nozioni  ir- rappresentabili o  implicanti  delle  impossibilità  in- trinseche; e,  quel  ch'è  più,  non  sono  nemmeno  il prodotto  di  alcuna  di  queste  tendenze  spontanee^  e quasi  fatali,  dello  spirito  umano,  che  noi  chiamiamo con  Mill  sofismi  a  priori.  Al  contrario,  la  dottrina  del- l'identità della  causa  e  dell'  effetto  si  riattacca  della maniera  più  evidente  a  queste  tendenze  spontanee dello  spirito  —  di  cui  la  principale  é  quella  che  ci spinge  a  ricondurre  tutti  i  fenomeni  a  quelli  che  ci sono  i  più  familiari  —,  non  essendo  che  uno  degli sviluppi  più  estremi  del  principio  che  il  reale  é  nella sua  essenza  invariabile,  o,  come  dicevano  gli  antichi fisici,  che  l'essere  non  può  venire  dal  non  essere  né ridursi  al  non  essere. Ascoltiamo  Hamilton:  *  Quando  noi  apprendiamo^ egli  dice,    che  una  cosa  comincia  ad  esistere,   noi siamo  costretti  dalle  leggi  della  nostra  intelligenza a  credere  ch'essa  ha  una  causa.  Ma  che    vuol  dire quest'espressione:  avere  una  causa?  Se  analizziamo il  nostro  pensiero,  troveremo  che  ciò  significa  sem- plicemente che,  poiché  noi  non  possiamo  concepire il  cominciamento  d'  una   nuova  esistenza,   bisogna che  tutto  ciò  che  si  vede  apparire  sia  esistito  prima sotto  un'altra  forma.  Noi  siamo  affatto  incapaci  di concepire  che  il  contingente  d'esistenza  possa  au- mentare o  diminuire.  Da  una  parte  noi  siamo  inca- paci di  concepire  che  niente  divenga  qualche  cosa^ e  d'altra  parte  che  qualche  cosa  divenga  niente.  L'a- forisma :  ex  niliilo  nihil,  in  nihiliim  nil  posse  reverti, esprime  nella  sua  forma  più  netta  il  fenomeno  intel- letuale  della  causalità.  —  Si  concepisce  dunque  che un  effetto  e  le  sue  cause  sono  una  sola  e  stessa  cosa. Noi  crediamo  che  le  cause  contengono  tutto  ciò  che è  nell'effetto,  e  che  l'effetto  non  racchiude  niente  di più  che  ciò  che  era  contenuto  nelle  cause.  Omnia  mu- tantnr,  niìiil  interit,  é  questo  quello  che  noi  pensiamo, che  noi  dobbiamo  pensare.  È  là  il  fenomeno  mentale della  causalità:  noi  neghiamo  necessariamente  che la  cosa  che  sembra  cominciare  ad  assere  cominci  in realtà;  e  identifichiamo  necessariamente  là  sua  esi- stenza presente  con  la  sua  esistenza  passata  ».  Questa idenitficazione  dell'esistenza  poesente  della  cosa  che sembra  cominciare  ad  essere  con  la  sua  esistenza  pas- sata consiste  ad  ammettere  che,  come  dice  l'autore, «  le  cause  continuano  sempre  ad  esistere  attualmente nei  loro  effetti  »,  e  che  «  un  effetto  non  è  niente  di più  che  la  somma  o  totalità  di  tutte  le  cause  parziali di  cui  il  concorso  costituisce  la  sua  esistenza  (1). La  dottrina  della  causalità  di  Hamilton  ha  la adesione  di  Spencer.  «  Io  penso,  egli  dice,  d'accordo in  ciò  con  Hamilton,  che  la  nostra  credenza  alia necessità  delle  cause  viene  dalla  nostra  impotenza a   concepire   un   accrescimento  o  una   diminuzione (1)  La  dottrina  di  Hamilton  contiene  due  proposizioni  che  biso- gna distinguere:  Tuna  ha  una  portata  ontologica,  e  afferma  l'iden- tità della  causa  e  dell'effetto;  l'altra  ha  una  portata  psicologica,  e afferma  che  il  principio  di  causalità  —  che  Hamilton  riguarda,  non come  un'acquisizione  dell'esperien/a,  ma  come  una  legge  o  una  ne- cessità del  pensiero  —  si  deduce  da  un  principio  o  da  una  necessità del  pensiero  più  primordiale,  cioè  l' impossibilità  di  concepire  die l'essese  venga  dal  non  essere.  Di  queste  due  proposizioni,  la  prima è  una  concezione  metafìsica,  nel  senso  più  rigoroso  della  parola  — essa  è  un  prodotto  di  una  tendenza  spontanea  e  generale,  di  un sofisma  a  priori,  dello  spirito  umano  — ;  la  seconda  non  potrebbe  ri- guardarsi, secondo  me,  come  una  concezione  metafìsica  propriamente detta,  noi  sei:.so  rhe  non  può  riattaccarsi  alle  tendenze  generali sofìstiche  a  priori  del  nostro  spirito,  quantunque  il  suo  punto  di  par- tenza, l'apriorità  del  principio  di  causalità;  sia  un  prodotto  del  so- fisma a  priori  xaT^  è^OXYjV  della  psicologia,  di  cui  diremo  nella 3*  parto  di  questo  Saggio,  e  perciò  una  vera  dottrina  metafìsica.  La pretesa  deducibilità  del  principio  di  causalitl  dall'  inconcepibilità di  un  cominciamento  assoluto  dell'essere  ha  lo  scopo  di  ricondurre la  legge  (mentale)  della  causalità  a  una  legge  più  generale,  quella del  condizionato,  che  è  secondo  Hamilton  la  legge  fondamentale dell'intelligenza,  e  consiste  a  stabilire  che  il  solo  concepibile  è  il condizionato,  e  questo  sta  fra  due  incondizionati  egualmente  incon- cepibili,   che  sono  1'  uno  l'illimitato  e  l'altro   l' incondizionalmento dell'essere  considerato  nella  sua  totalità  ».  (1)  Cosi nei  Primi  prindpii  (2)  egli  deduce  il  principio  di causalità  da  quello  della  persistenza  della  forza  (cioè dell'immutabilità  della  quantità  del  reale» (3),  dedotto, alla  sua  volta,  dall'impossibilità  di  concepire  che il  niente  diventi  qualche  cosa  o  qualche  cosa  niente. Ricordiamo  infine  la  dottrina  di  Lewes.  L'effetto e  la  causa  non  si  distinguono  che  logicamente.  Un fatto  è  identico  alle  sue  condizioni^  e  non  è  niente di  sovraggiunto  ad  esse.  Non  vi  hanno  due  cose  — da  una  parte  un  grnppo  di  condizioni  (cause)  e  d'al- tra parte  un  risultato  (effetto)  —  ma  una  sola  e  stessa cosa  vista  differentemente.  Ciò  che  noi  chiamiamo le  condizioni  di  un  fatto  sono  i  fattori  analitici  che noi  abbiamo  scovorti  nel  fatto  :  questi  fattori,  con- siderati analiticamente,  si  chiamano  cause  ;  la  loro limitato   (rincondizionalmente   limitato   sarebbe  un  tutto  assoluto, limitato,  che  non  fosse  una  parte  di  uu  tutto   più   grande— come -dovremmo   concepire  l'essere,  se  potessimo  concepire  un  comincia- mento assoluto—,  ovvero  una   parte   assoluta,  che  non  fosse  divi- sibile in  parti  minori  V.  nei  Frammenti  tradotti  da  Peisse  Filosofia deW assoluto).  La  legge   del    condizionato  è,  come  si  sa,  la  dottrina •che  dà  un  carattere  personale  alla  filosofia  di  Hamilton.  Cosi  la  sua deduzione  del  principio  di  causalità  dalla  legge  acl  condizionato  é un  esempio  utile  a  mostrare  che  sofisma  a  j^riori  e  sofisma  naturale non  sono  due  termini  perfettamente   equivalenti.    Facendo    questa -deduzione,  Hamilton  fa  un'  applicazione    troppo   estesa  d' una  sua idea  favorita:    questo  ó  un  sofisma   naturale,  ma  non  è  un  sofisma -a  priori  (come  quelli  su  cui  è  fondata  la  metafìsica),  perchè  non  dfi luogo  a  delle  conclusioni  che  s' impongono  al  nostro   spirito  come verità  evidenti  per  se  stesse. (1)  Saffffi  scientifici,  Obbies,  e  risp,  sui  primi  principii,  Conclas, (2)  //  conoscibile  cap.  VIL (3)  Obbies,  e  risp,  sui  pr,  princ,  Conclns, CLIV somma,  considerata  sinteticamente,  si   chiama  ef- fetto. La  teoria  dell'identità  della   causa   e   dell'effetto fa  riscontro  alla  teoria  d'Eraclito   dell'identità   dei contrari.   Se   noi  facciamo   astrazione  del  modo   in cui  viene  concepita  la  legge  del  divenire-che  il  fi- losofo antico  si  rappresenta  come  un  passaggio  con- tinuo da  uno  stato  al  suo   stato  opposto,  mentre   i filosofi  moderni  se  la  rappresentano  per  l'idea  più scientifica  di  un  rapporto  definito  tra  ciascun  can- giamento e  dei    cangiamenti   antecedenti   determi- nati (legge  della  causalità)  —  le  due  dottrine  si  ri- ducono   egualmente   a  questa  proposizione,   che    il reale  divenendo   incessantemente  altro,  resta  nondi- meno costantemente  Io  stesso,  cioè  che  il  diverso  è identico,  che  il  cangiamento  non  è  un  cangiamento. È  per  altro   a  questa  formula,  a  questa  contraddi- zione nei   termini,   che  arrivano   egualmente    tutti gli  sviluppi  più   estremi  del  sofisma  r//?m;7  che  fa l'argomento  di  quest'appendice,  la  dottrina  degli  E- leati,  dei  Vedantini.  di  G.  Bruno,  dei  filosofi  rea- listi (nel  senso  degli  scolastici),  che  riduce  il  cangia- mento ad  un'apparenza,  non  meno  che  la  dottrina dell'identità  degli  opposti  o  quella  dell'identità  della causa    e   dell'effetto  (se  il  cangiamento  è  un'appa- renza,  Fapparenza  di  una  realtà  immutabile,  il  can-^ giamento  è  dunque  in  realtà   un  non   cangiamento^ il  diverso  l'identico).  Ciò  che  diciamo  della  dottrina dell'identità   della  causa  e  dell'effetto  può  pure  na- turalmente  riferirsi  alFapplicazione   particolare  di questa  dottrina    ai   fenomeni    psichici  —  l'identità del  fisico  e  del  mentale—;  anche  qui  pretendendosi identificare  dei  termini  che  non  possiamo  rappre- sentarci che  come  essenzialmente  ed  assolutamente differenti. Forse  si  dirà  che  se  la  dottrina  dell'identità  della causa  e  deireffetto,  presa  alla  lettera,  non  è  che  una flagrande  contraddizione,  ciò  prova  semplicemente ohe  questa  dottrina  non  deve  intendersi  nel  senso rigorosamente  letterale.  Ma  se  noi  non  cerchiamo in  questa  proposizione  che  dei  concetti  perfetta- tamente  intellegibili,  non  tardiamo  ad  avvederci che  la  proposizione  non  è,  in  questo  caso,  suscet- tibile di  un  senso  qualsiasi.  Quando  si  dice  che  la causa  e  l'effetto  sono  la  stessa  cosa,  che  la  causa continua  ad  esistere  nell'effetio,  noi  dobbiamo  in- tendere per  le  parole  cause  ed  effetti  i  cangiamenti del  reale  —  poiché  la  legge  della  causalità  non  è che  la  legge  dei  cangiamenti.  —  Ora  è  assurdo  di attribuire  la  persistenza  a  dei  cangiamenti,  di  dire con  Hamilton  ^-he  la  «  cosa  »  che  noi  vediamo  esi- stere attualmente  come  effetto  non  comincia  ora  ad esistere,  ma  è  già  esistita  prima  come  causa  di quest'effetto.  Se  questa  persistenza,  che  la  dottrina dell'identità  della  causa  e  dell'effetto  attribuisce  alle cause  e  agli  effetti,  noi  vogliamo  limitarla  a  que- sto elemento  del  reale  che  noi  possiamo  effettiva- mente rappresentarci  come  persistente,  allora  noi non  ammettiamo  più  in  alcun  modo  un'identità  tra le  cause  e  gli  effetti,  poiché  la  legge  della  causa- lità non  si  applica  all'elemento  persistente,  ma  al- l'elemento cangiante  del  reale.  E'  l'obbiezione  di Mill  contro  Hamilton.  Hamilton,  dice  Mill,  scam- bia l'uno  per  l'altro  due  dei  quattro  sensi   distinti CLVI che  la  parola  causa  ha  nella  filosofia  peripatetica  — la  causa  materiale  e  la  eausa  efficiente  —  :  nei  suoi esempi  egli  mostra  che  un  composto  è  identico  ai suoi  elementi  materiali  ;  ma  gii  elementi  non  sono le  cause  del  composto,  perchè  la  legge  della  cau- salità non  si  applica  alla  materia,  ma  ai  suoi  can- giamenti, e  perciò  le  cause  sono  le  azioni  che  han- no determinato  una  nuova  posizione  degli  elementi, e  l'effetto  la  nuova  posizione  di  questi  elementi.  (1) In  favore  della  dottrina  dell'identità  della  causa e  dell'effetto  potrà  invocarsi  la  teoria  della  persi- stenza e  trasformazione  dell'energia.  È  press'a  poco in  questo  senso  che  il  Bain  dice  che  «  Hamilton ha  dato,  per  la  legge  di  causalità,  una  formula  che equivale  esattamente  al  principio  di  conservazione  » (dell'energia).  «  Si  può  dire,  continua  il  Bain,  che egli  ne  ha  scoverto  il  primo  l'espressione  »  (2)  E  in- (1)  So  si  ammetto  la  teorÌB.  atomica  o  aXmQno  molecolare  déìÌRxniK' teria,  l'elemento  persistente  del  roale,  che  resta  fuori    del  dominio della  legge  di  causalità,  sarà  un  che  di  qualitativamente  invariabile di  cui  non  cangiano  che  i  rapporti  spaziali  tra  le  sue  parti;  e,  con- siderando il  mondo  dal  punto  di  vista    obbiettivo,    tanto  gli  effetti fjuanto  le  cause  non  saranno  che  dei    cangiamenti  di  posizione.  Se invece  si  respingesse   questa   sostanza   qualitativamente   invariabile come  nn  prodotto  dei  sofismi  a  priori  del  nostro  suirito,  allora  l'e- lemento persistente  del  reale  (si  parla  naturalmente  della  realtà  fì- sica) non  avrebbe  altro  d'invariibile  che  U  massa,  cioè,  al  fondo,  la costanza  con  cui  la  stessa  materia  riceve  la  stessa  velocità  dall'. izione di  forze  eguali.   Ma  che  vi  siano  nella  materia  dei  cangiamenti  qua- litativi o  interiori,  come  in  quest'ipotesi,  o  che  tutti  i  cangiamenti della  materia  siano  puramente  esteriori  e  si  riducano  al  cangiamento di  posizione,  resta    sempre  che  è  ai  cangiamenti,  e   non  a  ciò   che permane  durante  i  cangiamenti,  che  si  applica  la   legge  della   cau- salità, e  quindi  i  termini  di  causa  e  d'effetto. (2)  Log,  1.  3"  e.  i*"  11.  17. CLVII fatti,  tutti  i  cangiamenti  della  materia  ridicendosi a  delle  forme  dell'energia,  e  l'energia  non  creandosi né  annichilandosi  mai,  sembra  che  cosi  potrebbe darsi  un  soxiso  intelligibile  all'affermazione  che  la causa  continua  ad  esistere  nell'effetto,  ed  è  identica all'  effetto.  Non  vi  ha  dubbio  che  questo  concetto non  sia  uno  dei  fondamenti  della  dottrina,  se  non nel  pensiero  di  Hamilton,  in  quello  degli  autori posteriori.  Ma  per  istabilire  la  dottrina  sul  principio della  conservazione  e  trasformazione  dell'  energia, è  necessario  di  comprendere  questo  principio  in  un senso  trascendente,  metaempirico.  Al  punto  di  vista empirico,  questo  principio  non  fa  che  stabilire  dei rapporti  quantitativi  definiti  tra  i  fenomeni:  per la  costatazione  di  questi  rapporti  questi  fenomeni non  hanno  cessato  di  essere  distinti  e  differenti  gli uni  dagli  altri.  Quand'  anche  si  ammetta  la  teoria dell'  unità  delle  forze  fisiche  —  nel  senso  non  tra- scendente,  cioè  quello  secondo  cui  tutte  le  azioni fisiche  vengono  ridotte  alla  trasmissione  del  movi- mento per  l' impulsione  —,  siccome  il  movimento, nella  sua  circolazione  incessante  nella  materia,  can- gia continuamente,  non  solo  per  questo  mutamento del  suo  su  strato  meteriale,  ma  nella  velocità,  nella direzione,  in  tutte  le  qualità  per  cui  un  movimento può  differire  da  un  altro  movimento;  cosi  non  si potrebbe  dire,  anche  in  quest'  ipotesi,  che  i  movi- menti antecedenti  (le  cause)  sono  una  sola  e  stessa cosa  eoi  movimenti  conseguenti  (gli  effetti).  Per  af- fermare che,  nella  trasmissione  e  trasformazione dell'energia,  vi  ha  qualche  cosa  che  persiste  sempre la  stessa,  bisognerà  fare  della  forza  un  quid  di  so- CLVIII CLIX hV stanziale,  di  cui  non  cangia  che  la  forma  —  pren- dendo alla  lettera  la   parola    trasformazione^   come se  si  trattasse  d'un  oggetto  materiale  —  e  l'associa- zione con  una  porzione  determinata  della  motoria. Ma  \\\  questo  caso  si  abbandonerà    il    dominio  del sensibile  e  del    rappresentabile  —  al    di    fuori    del quale  sarebbe  evidente    per   tutti    che    non    vi    ha niente  d'intelligibile,  se  non  fosse  questa  tendenza fatale  che  spinge  lo  spirito  umano  ad  oltrepassare l'esperienza  (tendenza  di  cui  noi  cerchiamo  l'espres- sione generale  e  la  spiegazione  psicologica)— -.Di più, se  noi  ammettiamo  questa  sostanza — forza,  che  migra di  corpo  in  corpo,  e  prende  successivamente   delle forme  differenti,  la  forza  entrerà,  con  la  materia,  a far  parte  di  questo  elemento  persistente   del  reale, a  cui  non  si  applica  la  legge  di  causalità;  la  legge di  causalità,  e  i  termini  cause  ed  effetti,  non  sareb- bero applicabili  a  ciò  che  della  forza  è  sempre  iden- tico, alla  sostanza,  ma  a  ciò  che  di  essa  passa  e  si muta,  ai  cangiamenti  della  sostanza  (trasmigrazioni, trasformazioni,  ecc.)  ;  sicché  ne  anche  allora  si  riu- scirebbe a  dare  un  senso  alla    proposizione  che  le cause  sono  una  sola  e  stessa    cosa  coi  loro    effetti, che  vi  ha  identità  fra  questi  e  quelle. Sembra  dunque  vano  ogni  sforzo  per  rendere  in- telligibile la  proposizione.  Noi  non  possiamo,  rela- tivamente a  questa  dottrina,  che  ripetere  press'  a poco  un'  osservazione  che  abbiamo  fatto  relativa- mente alla  dottrina  dell'identità  degli  opposti  di Eraclito.  Essa  non  contiene  la  soluzione  di  una quistione,  ma  il  postulato  che  la  quistione  è  solu- bile, il  postulato,  cioè,   che,  quantunque  il  princi- pio a  priori — vale  a  dire  ammesso  in  virtù  delle tendenze  spontanee  della  credenza  —  che  il  reale è  in  sostanza  invariabile,  che  non  vi  ha  mai  nelle cose  un  cangiamento  assoluto,  essenziale,  sembri— e sia  effettivamente,  per  noi— in  contradizione  coi  can- giamenti dati  dall'  osservazione  ;  nondimeno  i  fatti dell'osservazione  devono  necessasiamente  conciliarsi col  principio,  che  è  evidente  per  se  stesso;  e  che  questa conciliazione  suppone  la  possibilità  d'identificare  i cangiamenti  successivi  della  natura  coi  cangiamenti con  cui  hanno  una  relazione  costante.  Ma  la  dottrina non  ci  mostra  come  la  conciliazione  sia  possibile: questa  identificazione,  che  si  suppone  come  una  con- dizione per  ottenerla,  è  irrealizzabile  nel  pensiero. Se  noi  la  prendiamo  alla  lettera,  lungi  di  risolvere la  contraddizione,  essa  non  fa  che  darle  una  forma più  palpabile:  se  ci  rifiutiamo  a  prenderla  alla  lettera, noi  cerchiamo  inutilmente  quale  possa  essere  il senso  definito  che  si  debba  annettere  alla  propo- sizione. ^ CAPITOLO  II Il  concetto  deiranima. §  1.  Parlando  dell' animismo  primitivo,  abbiamo visto  che  in  esso^  col  concetto  dell'animazione  della natura,  o,  più  generalmente,  con  l'assimilazione  delle forze  della  natura  alla  nostra  attività  umana,  è  im- plicato il  concetto  della  dualità,  della  distinzione di  duo  sostanze,  neir  uomo  e  nelF  essere  animato. Questo  secondo  elemento  della  metafisica  dell'uomo primitivo  restò  allora  senza  spiegazione  :  ma  ora siamo  in  grado  di  ricercare  quale  sia  il  suo  rapporto con  le  tendenze  naturali  dello  spirito  umano  da  cui derivano  generalmente  i   concetti  della  metafisica. È  evidente  che  se  vi  ha  una  dottrina  a  cui  con- venga il  nome  di  metafisica  —  nel  senso  definito  in cui  noi  intendiamo  la  parola,  comprendente  il  con- cetto che  la  dottrina  ha  la  sua  base  nella  costitu- zione stessa  della  intelligenza  umana  —  questa  è senza  dubbio  la  dottrina  animista  (come  ipotesi  sulla natura  degli  esseri  animati),  che  noi  incontriamo  in tutti  i  luoghi,  in  tutte  le  epoche,  in  tutte  le  razze, in  tutti  i  gradi  dello  sviluppo  della  cultura.  Questa considerazione  deve  farci  rigettare  quelle  spiega- zioni dell'idea  à^Wanima  che  ne  cercano  l'origine, non  in  un  lato  permanente  dello  spirito  umano,  ma CLXII in  un  certo  stato  intellettuale  dell'umanità  preisto- rica, che  per  noi,  uomini  attuali,  è  un  mondo  inte- ramente scomparso,  e  che  noi  diflìeilmente  potrem- mo oggi  riprodurre  in  noi  stessi,    anche  in  imma- ginazione. Tale  è  la  spiegazione  di  Spencer,  secondo la  quale  Tidea  dell'  anima  è  nata  dalla  interpreta- zione, grossolana  e  infantile,  che  l'uomo  primitivo dava    di    certi  fenomeni,  sovratutto  le  ombre  e  le immagini  viste,  per  esempio,  nell'acqua  e  le  rappre- sentazioni del  sogno.  Lo  Spencer,  partendo  dal  fatto che  alcune  popolazioni  selvagge  identificano  l'ani- ma con  l'ombra  del  corpo  umano  o  con  la  sua  im- magine, ammette  che  l'uomo  primitivo,  scambiando questi  fenomeni    per    oggetti  reali,  ne  concludeva che  ciascun  essere  ha  un  duplicato.  I  fenomeni  del sogno  confermavano  e  davano  una  forma  più  defi- nita a  questa  concezione  di  un  doppio,  di  un  altro sé  dell'uomo;  Tuonio  primitivo  ò  incapace  di  distin- guere il  subbiettivo  e  Tobbiettivo;  non  avendo  an- cora ridea  di  un  mondo  interiore,  egli  realizza  ne- cessariamente i  suoi  sogni.  Cosi,  non  solo  le  imma- gini viste    nel  sogno  sono  per  lui  i  duplicati  degli esseri  reali  conosciuti  nella  veglia,  ma  egli  suppone che,  mentre  1'  uomo  è  immerso  nell'  immobilità  del sonno,  l'anima,  il  duplicato  —  che  è  la  stessa  cosa che,  l'ombra  o  l'immagine  —  va  vagando  qua  e  là, facendo  le  azioni  e  visitando  i  luoghi  che  gli  ap- pariscono nel  sogno.  Per  conseguenza,  quando  l'in- dividuo è  in  uno  stato  momentaneo   d'insensibilità —  di  sincope,  di  apoplessia,   di  catalessi  —  l'uomo primitivo    crede    che  l'altro  se  siasi   momentanea- mente assentato  :  questa  stessa  assenza  dell'altro  se, CLXIII prima  creduta  temporanea  —  perchè  l'uomo  primi- tivo, secondo  Spencer,  comincia  per  isperare  nella resurrezione  —  poi  definitiva,  spiega  l'insensibilità della  morte  (l). Ora,  ammettendo  che  questo  sia  il  processo  psi- chico da  cui  è  risultata  primitivamente  l'idea  del- l'anima —  processo  che  non  potrebbe  concepirsi  se non  nello  stato  selvaggio  il  più  estremo  —  come spiegare  la  persistenza  dell'animismo,  quando  non si  tratta  più  delle  razze  inferiori  e  del  grado  infimo dello  sviluppo  della  civiltà  ?  Secondo  l' ipotesi  di Spencer  e  le  altre  analoghe  sull'origine  della  teoria animista,  questa  non  potrebbe  essere,  nelle  razze pervenute  a  un  certo  grado  di  sviluppo  intellet- tuale —  io  non  dico  semplicemente  negli  attuali popoli  inciviliti  —  che  la  sopravvivenza,  dovuta  a una  cieca  tradizione,  di  una  vecchia  idea  non  più adattata  al  nuovo  ambiente  intellettuale;  una  super- stizione nel  senso  dell'  etimologia  che  alcuni,  al punto  di  vista  dei  concetti  moderni,  assegnano  a questo  termine  —  ciò  che  persiste  delle  antiche  eià—'^ in  una  parola,  una  specie  di  organo  rudimentario neir  organismo  sociale.  Ma  noi  non  possiamo  con- siderare la  dottrina  animista,  nei  popoli  inciviliti, ed  anche  nei  popoli  barbari,  come  un  semplice  or- gano rudimentario  :  l'energia  vitale  di  questa  dot- trina, la  sua  influenza,  dimostrano  che  la  sua  forza deriva  da  un'  impulsione  attuale,  e  non  da  un'  im- pulsione già  una  volta  ricevuta,  e  il  cui  effetto  per- (1)  Principii  di  socioì*  voi.  I.  e.  8-13  e  26. I       »-^ CLXIV siste  per  un'inesplicabile  inerzia  dello  spirito  umano. Forse  si  dirà  che  nei  popoli  pervenuti  a  una  eerta maturità,  o  piuttosto  che  hanno  sorpassato  il  cer- chio d'idee  della  prima  infanzia,  la  base  delFani- mismo  non  è  più  nelP  intelligenza,  ma  nel  senti- mento soltanto  :  ma  allora  sarebbe  stato  più  coerente di  assegnare  lo  stesso  fondamento  anche  all'  ani- mismo primitivo.  Lo  Spencer  e  gli  altri  pensatori che  studiano  le  idee  di  quest'ordine  al  punto  di  vi- sta antropologico^  hanno  ragione,  io  credo,  di  con- siderare l'animismo  come  una  vera  teoria  filosoflctty cioè  come  un'ipotesi  destinata  sovratutto  a  rendere conto  dei  fenomeni  :  quantunque  1'  uomo  sia  certa- mente  portato  a  realizzare  le  sue  speranze  e  i  suoi timori,  questa  tendenza  del  nostro  spirito  non  ba- sterebbe per  sé  sola  a  spiegare  l'origine  delle  cre- denze umane,  la  speranza  e  il  timore  stessi  suppo- nendo che  l'intelligenza  ha  qualche  motivo  per  am- mettere 1'  esistenza  o  la  verisimiglianza  di  ciò  che si  spera  o  si  teme.  Ma  se  si  ammette  che  l'idea  del- Faninia  è  un  concetto  filosofico  —  allo  stesso  titolo che  l'altro  elemento  della  teoria  animista,  cioè  la concezione  antropomorfistica  della  natura—,  non  si può  considerare  l'animismo  dei  popoli  pervenuti  a un  certo  grado  di  cultura  come  una  semplice  su- perstizione; e  allora  si  deve  ammettere  che  i  motivi e  il  fondamento  dell'  animismo  primitivo  non  pos- sono essere  essenzialmente  differenti  da  quelli  dello spiritualismo  moderno,  e  che  l' idea  dell'  anima  è, sin  dalle  prime  origini  della  civiltà,  il  prodotto  di una  tendenza  naturale  ed  essenziale  dello  spirito umano  —  come  abbiamo  visto  che  l'autropomorfìsma CLXY del  filosofo  selvaggio  è  il  prodotto  di  quella  stessa tendenza,  naturale  ed  essenziale  al  nostro  spirito, che  spinge  il  filosofo  incivilito  alla  più  parte  delle sue  concezioni  metafisiche — . §  2.  Se  noi  cerchiamo  i  motivi  della  filosofia  spi- ritualista, quali  essi  possono  desumersi  dallo  studio storico  della  quistione,  noi  possiamo,  con  Lotze  (1), riassumerli  insomma  nei  tre  seguenti  :  1^  La  sen- sazione, il  pensiero,  il  desiderio,  in  una  parola  i fatti  della  coscienza,  sono  dei  fenomeni  essenzial- mente differenti  dai  fenomeni  della  materia  (dal  mo- vimento e  dagli  aitai  cangiamenti  di  cui  i  corpi inanimati  sono  suscettibili).  Per  rendere  conto  dun- que dell'apparizione  di  questi  fenomeni  (e  della  loro scomparsa  dopo  la  morte),  è  necessario  di  ammettere l' intervento  (e  la  separazione)  d'  un  principio  di- stinto dalle  sostanze  che  costituiscono  il  corpo,  e  la cui  natura  possa  spiegare  la  natura  speciale  di  que- sti fenomeni.  Osserviamo  che  quest'argomento  non è  semplicemente  impiegato  dagli  spiritualisti  mo- ilerni  —  per  cui  1'  anima  è  dna  sostanza  spirituale nel  senso  stretto  della  parola  —  :  noi  lo  incontriamo pure  presso  gli  animisti  antichi — che,  come  vedre- mo,  riguardavano  l' anima  come  qualche  cosa  di semi-materiale  — .  Così  Cicerone  dice  :  Non  è  pos- sibile di  trovare  sulla  terra  un'origine  per  l'anima: essa  non  può  essere  formata  da  alcuno  degli  ele- menti che  noi  conosciamo,  perchè  in  questi  non  si trova  il  pensiero  (2).  E  i  filosofi    ortodossi  indiani (1)  rrìtic.  di  pnic»  fUiol,  e.  1. (2)  Ta,sviilane  1.  1.  27. CLXYI opponeyano    ai    materialisti  che  il  sentimento  e  il pensiero  non  appartengono  ai  corpi,  agli  elementi materiali  (1).    2^  La    materia  (inanimata)    è   inerte, passiva:  nel  suo  movimento  obbedisce  alle  leggi  del meccanismo,  ed  è  necessariamente  determinata  da oause  esteriori.  Ma  gli  esseri  animati  hanno  in  se stessi  il  principio  del  movimento  :   essi  possiedono un'attività  spontanea,  possono  da  se  stessi  dar  comin- ciamento  a  una  nuova  serie  di  cangiamenti  nel  mondo materiale,  di  cui  essi  sono  la  causa  prima  (2).  Questa facoltà  prova,  della  stessa  maniera  che  la  facoltà  pre- cedente, la  presenza,  negli  esseri  animati,  d'un  prin- cipio distinto  dagli  elementi  della  materia.  Quest'ar- gomento della  necessità  di  un  principio  attivo  che  si sovraggiunga  alla  materia  inerte,  sembrava  a  Leib- nitz  praferibiie,  per  provare  l'esistenza  dell'anima come  principio  distinto  dalla  materia,  all'argomento antecedente,  cioè  alla  differenza  del  pensiero  e  della sensazione  dai  fenomeni  materiali  (3).  Qui  è  appli- cabile la  stessa  osservazione  del  numero  precedente. Questo  motivo  conviene  tanto  allo  spirìtualiswo  mo- derno quando  al  semi-materialismo  degli  antichi  a- (1)  Colebrooke  Sayuio  sulla  flloi,  deuV IndUini  traci,  fran.p.   239.. (2)  In  Lotze  rargomento  e  condotto  in  modo  da  sui)i>orre  il  Ubero •arbitrio.  Io  ho  creduto  più  conforme  ai  dati  storici  di    presentarlo sotto  una  forma  più  generile,  cioè  come  implicante  semplicemente l'attività  spontanea,  la  libertà  fisica,  la  quale  esisto  necessariamente se  e  quando  esiste  la  cos'idetta  libertà  morale  (il  libero  arbitrio),  men- tre al  contrario  l'esistenza  della  prima  non  suppone  necessariamente l'esistenza  della  seconda. (3;  Opera  ed.   Dutens  t.  II.   pars  I.  p.  207-208.  Cfr.  p.  84,  p.  2::0 e  231,  pars  II  p.  li>5  {Responsiones  nil  Stahlianas  observatioties,  ad  XXI, 7),  ecc. U J CLXYII nimisti.  L-  uomo,  a  tutti  i  gradi  del  suo  sviluppo intellettuale,  ha  sempre  distinto  l'animato  dall'ina- nimato per  la  sua  attività  spontanea,  e  l'animista ha  sempre  trovato  nella  natura  dell'anima  la  causa di  quest'  attività.  Si  sa  che  Platone,  il  gran  siste- matizzatore dell'antica  filosofìa  animista,  dà  come  es- senza o  definizione  dell'  anima  «  ciò  che  muove  se stesso  »,  e  stabilisce  che  1'  anima  è  il  principio  del movimento  nel  mondo  dei  corpi,  ciò  che  prova  che essa  è  indipendente  da  questi,  ed  è  loro  non  poste- riore, come  pretendono  i  materialisti,  ma  anterio- re (1).  Con  ciò  Platone  non  fa  che  compiere  uno sviluppo  naturale  del  concetto  dell'anima  nella  filo- sofìa greca  :  Aristotile  osserva  infatti  che  uno  dei caratteri  per  cui  gli  antichi  filosofi  in  generale  a- veano  distinto  l'anima  era  di  concepirla  come  causa di  movimento  nel  corpo  (per  il  suo  proprio  movi- mento) (2).  3""  L'unità  della  coscienza  non  permette di  rapportare  Tattività  intellettuale  a  un  aggregato di  elementi  uniti  fra  loro  :  il  soggetto  delle  sensa- zioni e  dei  pensieri  che  co-^tituiscono  una  coscienza, unica  deve  osseine  semplice,  indivisibile,  e  quindi immateriale.  Se  questo  soggetto  fosse  la  materia, questa  ha  delle  parti,  e  perciò  le  sensazioni  e  i  pen- sieri dovrebbero  dividersi  tra  le  sue  parti  :  ma  da ciò  non  potrebbe  risultarne  l'unità  della  coscienza. Naturalmente  io  non  pretendo  che  questa  sia  una enumerazione  completa  degli  argomenti  dei  filosofi (1)  Fedro  245,  Let/f/i  X.  891  e  e  sqq. (2)  Arist.  De  An,  1.  1.  e.  2. CLXYin CLXIX spiritualisti  ;  ma  sono  questi  quelli  che  sono  stati impiegati  più  frcquentamente  e  che  sembrano  avere più  forza  probante. §  3.  Tuttavia,  queste  tre  prove  della  filosofia  .9^/- ritualista  non  potrebbero  essere  riguardate  tutte  e- gualmente  come  motivi  A^ÌVannnisìuo.  Distinguiamo tra  animismo  e  spiritualismo:  il  primo  è  un  genere, di  cui  il  secondo  è  una  specie.  Il  Tylor  ha  soddis- fatto a  un'esigenza  indispensabile  del  linguaggio  fi- losofico, servendosi  del  primo  di  questi  due  termijii per  indicare  la  riconoscenza,  in  tutte  le  razze  u- mane,  dell'anima  come  sostanza  distinta,  uso  a  cui il  secondo  termine  non  sarebbe  stato  proprio,  perchè legato  al  concetto  dell'assoluta  immaterialità  di  que- sta sostanza.  L'anima  non  è  una  sostanza  spirituale nel  senso  moderno  della  parola,  cioè  assolutamente immateriale,  che  nella  fase  più  recente  deUa  teoria animista  :  è  bisognato  che  l' intelligenza  umana  si fosse  lungamente  esercitata  all'astrazione  filosofica, e  familiarizzata  con  le  idee  astruse  del  sovrasensi- bile,  prima  di  ammettere  un  concetto  a  cui  non  cor- risponde niente  di  sensibile  né  d'immaginabile.  Così la  dottrina  della  dualità  (anima  e  corpo)  non  è  al- l'origine, come  dice  Baia  (l),  che  un  doppio  materia- lismo :  la  sostanza  spirituale  è  opposta  alla  sostanza corporale,  non  perchè  la  seconda  è  materiale  e  la prima  no,  ma  perchè  la  seconda  è  costituita  di  una materia  più  grossolana,  e  la  prima  di  una  materia più  sottile.  Le  razze  inferiori,  come  ancora  fra  di* noi  gli  uomini  privi  di  coltura,  concepiscono  per  il solito  l'anima  come  qualche  cosa  di  vaporoso  o  di etereo  avente  la  forma  umana,  ordinariamente  im- palpabile e  invisibile,  ma  che  può  manifestarsi  ai sensi  in  certe  occasioni,  p.  e.  nel  sogno  e  nella  vi- sione. A  questo  concetto  è  talvolta  illogicamente  as- sociato quello  di  una  materialità  più  grossolana, come  lo  indica,  p.  e.,  il  costume  molto  diffuso  di spargere  della  cenere  o  della  farina  per  potervi  os- servare le  impronte  lasciate  dai  passi  degli  spiriti: quest'uso  esisteva  anche  presso  gli  Ebrei,  e  può  tut- tora incontrarsi  nell'Europa  incivilita.  L'esistenza che  l'anima  conduce  nell'altra  vita  non  è  che  una copia  dell'esistenza  attuale  :  essa  può  mangiare,  bere, parlare,  camminare,  e  darsi  alle  occupazioni  solite nella  Aita  corporale  (1). Questo  stosso  doppio  materialismo,  che  caratterizza l'animismo  popolare,  è  ammesso  pure  generalmente dagli  antichi  filosofi.  Senza  dubbio  noi  troviamo  una tendenza  crescente  a  distinguere  lo  spirito  dalla  ma- teria—  tendenza  la  quale  deve  finalmente  arrivare al  concetto  delF  immaterialità  assoluta — .Aristotile osserva  che  uno  dei  caratteri  per  cui  i  suoi  ante- cessori hanno  definito  l'anima  è  Tincorporeità^  cioè la  composizione  dalla  materia  più  sottile  (2).  Fra  gli elementi  materiali  è  l'aria  o  il  fuoco  (questi  due  e- lemonti  non  sono  nettamente  distinti  presso  i  primi fisici)  che  i  filosofi  greci,  i  quali  ammettono  quasi (1)  Lo  spirito  e  il  corpo  e.  7. (1)  V.   Tylor  La  civili -.zuz.primif,  e.   11,  12,  13.  15. <2)  De  nn    1.   I.  e.  2.   21). — i — f^ — CLXX tutti  la  distinzione  deir  anima  e  del  corpo,  riguar- dano preferibilmente  come  sostanza  deiranima.  Nel mondo  antico,  queste  non  erano  delle  concezioni  ma- terialiste :  gli  stoici,  che  nella  filosofia  antica  rap- presentano evidentemente  la  tendenza  anti-materia- lista,  considerano  1'  anima  come  del  fuoco  o  come uno  spirito  (7uv£0tj.a)  caldo  (1),  ciò  che  è  l'essenza  del- l'elemento divino  che  penetra  e  governa  tutto  l'u- niverso. Similmente  Cicerone  dà  all'anima  gli  attri- buti di  divina,  immortale,  ed  anche  semplice;  ma  ciò non  esclude  la  sua  materialità  :  l'anima  si  eleva  in alto  sino  agli  astri  per  la  sua  purezza  e  leggerezza; noi  non  conosciamo  la  sua  forma,  la  sua  grandezza, la  sua  sede;  noi  non  sappiamo  se  possa  cadere  sotto i  sensi  o  vi  sfugga  por  la  sua  sottigliezza  (2);  egli non  sa  comprendere  cosa  possa  essere  un  Dio  asso- lutamente incorporale  (3).  Quegli  stessi  filosofi,  che stabiliscono  la  più  recisa  opposizione  tra  lo  spirito e  il  mondo  dei  corpi,  non  hanno  ancora  la  nozione di  una  sostanza  spirituale,  cioè  inestesa  :  secondo  A- nassagora  il  Nous  è  la  più  sottile  di  tutte  le  so- stanze (4),  e  si  fraziona  nei  diversi  esseri  animati, nei  quali  si  trova  in  maggiore  o  minor  quantità  (5)  ; secondo  Platone,  l'anima  è  invisibile,  almeno  per noi  (6),  ma  ha  una  grandezza,  e  si  muove  continua- li) V.  Cicero.  Tnscul,  I.  X.   Pluf.  Flac.  1.  IV.  e.  III.  ecc. (2)  TuHcuì,  1.  1.   17-19  e  22. (3)  Nai.   Deor,   I.  :J0. «4)  Muli.   iV.   6. (5)  Muli.   Ft\  5,  6;  Arist.   De  An.  1.  I.  II.   5. (6)  Leyyi  H98  d-e.  Fedone  79  b. CLXXI mente,  comunicando  ai  corpi  il  proprio  movimento, come  potrebbe  farlo,  un  corpo  ad  altri  corpi  (1).  In verità  potrebbe  credersi  che  il  concetto  della  spiri- tualità si  trovi  già  in  Aristotile,  perchè  il  Nous separato  è  per  lui  indivisibile,  senza  grandezza, senza  materia  (2):  ma  per  poter  attribuire  ad  Ari- stotile la  nozione  della  sostanza  spirituale,  nel  senso moderno,  bisognerebbe  che  questo  filosofo  avesse ammesso  nel  Nous,  al  di  là  del  pensiero,  un  quid  co- me substratum  del  pensiero,  ciò  che  non  è  (3),  il  Nous non  essendo  che  una  semplice  attività  intellettuale, un'intelligenza  identica  all'intelligibile,  in  cui  ciò che  pensa  e  ciò  che  è  pensato  non  è  che  il  pensiero stesso  (4).  Noi  possiamo  dunque  affermare  che  nel periodo  veramente  classico  della  filosofìa  greca,  la nozione  di  sostanza  spirituale  resta  ancora  scono- sciuta. Il  doppio  materialismo  è  pure  la  dottrina  dominante presso  i  primi  padri  della  chiesa,  sino  al  5"^  secolo, quantunque  presso  i  filosofi,  notevolmente  i  neo- plutonici, si  fosse  già  iniziata  la  dottrina  della  im- materialità. I  primi  padri  della  Chiesa  avevano  due motivi  per  ammettere  che  l'anima  è  materiale:  primo, ciò  che  non  è  materiale  non  è  una  sostanza,  e  se- condo, se  lo  spirito  non  fosse  corporale,  esso  non potrebbe  essere  affettato  dalle  ricompense  e  sovra- tutto  dalle  punizioni  dell'altra  vita.  Se  l'anima  non (1)  Plato  Le(ji]i  X.   894    b   sqq.,    Timeo  B4   b    sqq,  Aristotile    De an.  1.  l.   e.  3,  ecc. (2)  Phy8.  Vili.  e.  ult.  ;  Met,  XI.  e.  6,  7,  8,  ecc. (3)  V.  De  An.  1.  III.  e  4. (4)  De  an.  1.  3.  e.  5.  Mefaf.  1.  XI.  e.  7.  e.  9.  ecc. CliXXII è  un  corpo,  chi  è,  domanda  Tertulliano,  quest'essere che  discende  agl'inferni  dopo  la  morte,  e  vi  resta sino  al  giorno  del  giudizio  ?  L'anima  ?  ma  ciò  è  im- possibile se  l'anima  è  niente  :  ora  ciò  che  non  è  un corpo  non  è  che  niente.  D'altronde  un  essere  incor- porale non  potrebbe  soffrire  prigionia,  e  sarebbeimmune  da  pena  :  se  l'anima  è  capace  di  sentire  il tormento  e  il  piacere,  in  mezzo  al  fuoco  dell'inferno o  nel  seno  di  Abramo,  ciò  dimostra  la  sua  corpo- ralità,  poiché  una  cosa  incorporale  sarebbe  neces- sariamente impassibile  (1).  Non  vi  ha  niente,  dice S.  Ilario  (2),  che  non  sia  corporale  nella  sua  sostanza; e  Arnobio  (3)  domanda  chi  sarà  tanto  imbecille  e illogico  per  ammettere  che  delle  animo  inestese  o per  loro  natura  incorruttibili  possano  essere  toccate dalle  fiamme  e  sottomesse  agli  altri  tormenti  dello inferno.  L'anima,  dice  S.  L*eneo  (4),  ha  degli  occhi, una  lingua,  delle  dita,  ed  è  di  una  forma  simile  in tutto  a  quella  del  corpo,  ma  non  è  un  corpo. L'  ultima  proposizione  non  include  la  sua  assoluta incorporalità;  essa  è  incorporale  comparativamente ai  corpi  grossolani  dei  mortali  (5).  Taziano  ammette, come  gli  stoici,  che  lo  spirito  umano,  non  che  quello degli  animali,  delle  piante,  degli  astri,  ecc.,  è  una parte  dello  spirito  divino,  diffuso  da  per  tutto  nelle natura  (6).  Cosi  lo  spirito  è  secondo  lui  divisibile: (1)  Tortull.  Lib,  de  Anima  e. (2)  S.  Ilar  su  S.  Matt. (3)  Adv.  Geiit,,  1.  2. (4)  Iren.   1.  2.   e.  63. (5)  L.  2.  e.  34,  1.  9.  e.  7. (6)  V.  e.  2.  §  12.  p.   111-112. cLXxm d'altronde  se  l'anima  non  avesse  delle  parti  e  non fosse  divisibile,  essa  non  potrebbe  essere  diffusa  per il  corpo  (1),  Alcuni  padri  ammettevano  la  materia-lità tanto  di  Dio  quanto  dell'  anima,  altri,  come  il S.  Ambrogio  (2),  non  accordavano  l' immaterialità che  alla  sostanza  divina.  La  dottrina  dell'  immate- rialità dell'onima  non  oomineiò  a  prevalere  che  al 5"  secolo,  per  opera  sovratutto  di  alcuni  padri  pla- tonizzanti,  fra  i  quali  bisogna  assegnare  il  primo posto  a  S.  Agostino. §  4.  Questa  rapida  escursione  nel  dominio  della steria  ci  mostra  che  un  argomento  che  conclude  alla semplicità  o  spiritualità  dell'anima  non  potrebbe essere  uno  dei  fondamenti  (\e{V animismo^  considerato come  la  lilosofla  generale  e  spontanea  del  genere umano  :  di  più,  siccome  il  concetto  della  spiritualità è,  come  mostreremo,  il  risultato  naturale  dell'evolu- lusione  della  teoria  animista,  potenzialmente  impli- cato nei  pré^supposti  stessi  dell'animismo  primitivo, noi  non  potremmo  vedere  nemmeno  in  un  tale  ar- gomento il  motivo  reale  della  filosofia  spiritualista. Così  delle  tre  prove  indicate  come  motivi  della  dot- trina della  sostanzialità  dello  spirito,  noi  non  pos- siamo riguardare  come  veri  fondamenti  della  dot- trina che  le  prime  due  soltanto,  ed  escludere  la terza,  quella  che  conclude  dall'unità  della  coscienza alla   semplicità  e   indivisibilità    del    soggetto   pen- (1)  Oi'it.  Ade,   Ci'. (2)  Atnbr.  da  A'n\i.'f  i  u CLXXIV sante  (1).  Ora  è  evidente  che  le  due  prove  non  sono che  due  casi  particolari  d'un'argomento  più  gene- rale, nel  quale  perciò  dobbiamo  riconoscere  la  vera base  dell'animismo,  e  che  potrebbe  formularsi  così: Certi  corpi  che  si  chiamano  animati,  ai  fenomeni generali  della  materia  aggiungono  altri  fenomeni d'una  natura  affatto  speciale,  e  sono  perciò  netta- mente opposti  ad  altri  corpi,  che,  per  l'assenza  di questi  fenomeni  speciali,  si  chiamano  inanimati;  ora siccome  i  corpi  animati  si  formano  dagl'inanimati, e  ritornano  dopo  un  certo  tempo  allo  stato  inani- mato, non  essendo  cosi  che  per  un  tempo    limitato (1)  Quest'argomento  ò  fondato  suUa  falsa  assimilazione  delle  di- verse  parti  dell'organismo  senziente  a  dei  soggetti  senzienti  distinti e  separati.    «  Se  una  sostanza  che  pensa,  dice  Bayle,  non  fosso  una che  come  un  globo  é  uno,  essa  non  vedrebbe  mai  un  albero  intero, non  sentiiobbe  mai  il  dolore  eccitato  da  un  colpo  di  bastone.  Ecco un  mezzo  onde  convincersi  di  ciò.  Considerate  la  figura  delle  quattro parti  del  mondo   sa    di   un  globo  ;  voi  non  vedrete  in  questo  globo cosa  alcuna  che  contenga  tutta   l'Asia  o  anche  un  fiume  intero,  il luocro  che  rappresenta  il  regno  di  Siam,  e  voi    distinguete  un  lato drirto  0  un  lato  sinistro  nel  luogo  che  rappresenta  l'Eufrate.  Nasce da  ciò  che,  se  questo  globo  fosse   capace   di   conoscere  le  figure   di cui  è  stato  adornato,  non  conterrebbe  cosa  alcuna  la  quale  potesse dire  :  io  conosco  tutta  VEuropa,  tutta  la  Francia,  tutta  la  città  di  Am- sterdam, tutta  la  Vistola  :  ciascuna  parto  del    globp    potrebbe    sola- mente conoscere  la  parte  della  figura  che  le  sarebbe  caduta  in  sorte; e  come  questa  parte  sarebbe   si   piccola  che   non   rappresenterebbe luogo  alcuno  per  intero,  sarebbe  assolutamente  inutile  che  il  globo fosse    capace   di   conoscere;    da   questa   capacità   non    risulterebbe alcur.  atto  di  conoscenza,    o    per   lo    meno  sarebbero  atti  di  cono- scenza molto  diversi  da  quelli  che  noi  sperimentiamo,  poiché  i  no- stri  rappresentano  un  albero  intero,  un  intero   cavaUo.    Prova  evi- dente  che  U  soggetto  colpito  da  tutta  l'immagine  di  questi  oggetti non  è  divisibile  in  molte  parti;  e  perciò  che  Tuomo,  in  quanto  pensa^ non  è  corporeo  o  materiale  o  composto  di  molti  esseri.  Se  egli  fosse tale,  sarebbe  niente  sensibile  ai  colpi  del  bastone,  poiché  il  dolore H: \i fi CLXXV la  sede  di  questi  fenomeni  che  caratterizzano  lo stato  animato,  se  ne  deve  concludere  che,  durante questo  tempo  limitato,  al  corpo,  alla  materia  visibile e  tangibile,  è  associata  un'altra  sostanza,  invisibile e  intangibile,  che  è  l'agente  e  il  soggetto  reale  di questi  fenomeni.  Le  due  prove  particolari  appli- cano l'argomento  generale  all'uno  e  all'altro  dei  due caratteri  più  salienti,  che  distinguono  l'animato  dal- l'inanimato, cioè  la  coscienza  e  l'attività  spontanea  : l'una  e  l'altra  prendono  per  punto  di  partenza  la differenza  essenziale  di  questi  due  ordini  di  feno- meni, caratteristici  dello  stato  animato,  dai  fenomeni 8Ì  dividerebbe  in  tante  particelle  quante  ve  ne  sono  negli  organi colpiti.  Ora  questi  organi  contengono  un'  infinità  di  particelle,  e cosi  la  porzione  del  dolore  che  converrebbe  a  ciascuna  parte,  sa- rebbe si  piccola  che  non  si  sentirobbo  affatto.»  Diz,  art.  Leucippo. E  Galluppi,  dopo  aver  citato  Baj-lo,  aggiunge  :  «  La  coscienza  del- l' unità  sintetica  della  percezione  comprende  dunque  la  percezione dell'  unità  o  della  semplicità  del  me  che  sintetizza.  Meditando  sul paragone  che  noi  facciamo  degli  oggetti  che  agiscono  su  dei  nostri sensi,  sui  giudizi  ai  (inali  danno  luogo  le  loro  impressioni,  il  senti- mento dell'unità  semplice,  indivisibile,  immateriale  dell'essere  pen- sante risuUcrà'luminosamonte.  (Quando  voi  vi  riscaldate  la  mano,  è sicuro  che  provate  una  sorte  di  piacere  :  se  nel  tempo  medesimo venga  avvicinato  al  vostro  naso  un  odor  piacevole,  sentirete  uu'altraspecie  di  piacere.  Se  io  vi  domando  quale  di  questi  due  piaceri maggiormente  vi  piaccia,  voi  mi  risponderete  quello  o  questo  :  voi dunque  paragonate  insieme  questi  due  piaceri  e  giudicate  di  essi nel  tempo  medesimo.  Se  dopo  esservi  riscaldato  e  di  avere  odorato, io  vi  faccia  gustare  una  vivanda,  voi  potrete  certamente  dire  quale di  questi  due  piaceri  sia  il  maggiore  ;  bisogna  dunque  che  ciò  che in  voi  giudica  abbia  sentito  tutto  ciò.  Questo  stesso  io  che  giudica, conosce  se  un  piacere  dei  sensi  sia  maggiore  del  piacere  della  sco- verta di  una  verità,  o  di  quello  che  reca  l'  esercizio  della  virtù,  e sceglie  fra  queste  due  cose;  il  medesimo  soggetto,  dunque,  il  quale prova  i  piaceri  sensibili,  prova  altresì  gli  spirituali,  e  giudica  e vuole  :  è  questa  una  prova  che  la  coscienza  del  me,  che  si  sente  af- CLXXVI dello  stato  inanimato,  e  (lall'identità  della  materia, che  passa  alternativamente  dall'uno  alFaltro  di  que- sti due  stati,  concludono,  1'  una  che  ciò  che  fa  che Tessere  animato  senta  e  pensi  —  o  piuttosto  ciò  che è  esso  stesso  il  soggetto  della  sensazione  e  del  pen- siero —,  l'altra  che  ciò  che  fa  che  Tessere  animato sia  dotato  di  attività  spontanea  —  o  piuttosto  ciò  che è  esso  stesso  il  soggetto  di  quest'attività  spontanea— non  è  il  corpo,  mi  un  quid  distinto  dal  corpo  e  con questo  temporareamente  associato.  Ma  in  che  con- siste il  legame  fra  tale  conclusione  e  i  dati  su  cui essa  è  fondata?  come  si  giustifica  il  passaggio   da fetto  da  tutte  queste  sensazioni,  e  che  opera  in  seguito,  non  ò  mica la  coscienza  del  vostro  naso  che  sente  gli  odori,  uè  della  vostra mano  che  sente  il  calore;  poiché  come  la  mano  o  il  naso  sono  due cose  assolutamente  distinte,  egli  è  tanto  possiìiile  che  V  una  senta ciò  che  sente  l'altro,  quanto  è  possibile  che  noi  sentiamo  in  questa camera  il  piacere  che  ora  sentono  quelli  i  quali  sono  al  teatro;  bi- sogna dunciuo  che  la  coscienza  che  avete  del  me  il  quale  sente  l'o- doro ed  il  caloie  nello  stesso  tempo,  non  solo  non  sia  la  percezione del  naso  e  della  mano;  ma  bisogna  altresì  che  sia  la  percezione  di un  soggetto  unico,  semplice  e  privo  di  parti;  perchè  se  avesse  i)arti, runa  sentirebbe  l'odore,  mentre  l'altra  sentirebbe  il  calore,  e  non vi  sarebbe  giammai  il  sentimento  di  una  cosa,  la  quale  sentisse  in sieme  1'  odore  ed  il  calore,  li  paragonasse,  e  giudicasse  che  l'uno è  più  piacevole  dell'altro  »  (Eleni,  di  ftlos,  1.  3.  e.  8).  Tutta  la  forza dell'argomento  svanisce,  se  noi  togliamo  la  supposizione  che  la  mano il  naso  —  o,  secondo  la  fisiologia,'  le  diverse  parti  del  cervello  in  cui sarebbe  la  sede  dei  fenomeni  fisici  che  sono  i  supposti  antecedenti della  sensazione  e  del  pensiero  —  sono,  secondo  il  materialista,  dei soggetti  senzienti  e  pensanti  distinti,  come  noi  che  Miamo  in  queata camera  e  le  jìersone  che  «mio  al  teatro.  Ma  chi  nega  la  sostanzialità dello  spirito  non  è  perciò  obbligato  a  concepire  le  diverse  cellule  o molecole  del  cervello  corra  altrettante  persone  distinte.  Ciò  che  sente o  pensa  non  è  la  mano  o  il  naso,  né  (juesta  o  quella  porzione  della corterrcia  cerebrale,  ma  1'  uomo,  all'  occasione  di  un  contatto  della mano  o  del  naso,  o,  supponiamolo,  d'  un  movimento  molecolare  in CLXXYII questi  a  quella?  Se  noi  rivolgessimo  queste  do- mande ad  alcuno  dei  filosofi  spiritualisti  che  fanno quest'  inferenza,  egli  risponderebbe  forse  che  il legame  fra  i  dati  da  cui  s' inferisce  (la  differenza essenziale  dei  fenomeni  dello  stato  animato  da  quelli dello  stato  inanimato,  e  la  identità  del  sustrato  ma- teriale che  è  ora  nelT  uno  ora  nell'altro  di  questi stati),  e  la  conclusione  che  se  ne  inferisce,  è  evidente per  se  stesso,  e  non  ha  bisogno  di  una  giustifica- zione ulteriore.  Ma  noi  che  sappiamo,  che  la  evi- denza intrinseca  non  può  essere  il  fondamento  ul- timo di  una   connessione  tra  le  nostre    idee,  e  che qualche  parte  del  cervello.  Supponiamo    queste  parti  isolate,  fuori del  concerto  organico,  non  vi  sarebbe  più  né  sensazione  né  pensiero. Non  bisogna,  per  altro,  prestare  gratuitamente  al  materialista  l'as- surda immaginazione  che  il  fatto  della  coscienza  abbfa  una  località,. nel  senso  stretto  della  parola,  come  p.  e.  il  movimento  o  la  figura e  in  una  parola  ciò  che  può  essere  oggetto  della  percezione  visuale. Bayle,  nella  sua  finzione  del  globo  che  prende  conoscenza  delle  fi- gure su  di  esso   dipinte,    suppone    tra   le   percezioni  e  le  differenti parti  del  globo   lo   stesso  rapporto  che  tra  queste  e  le  figure  :  cosi «gli  immagina    la   coscienza  divisa  in  frammenti  e  sparsa  nelle  di- verse parti  della  materia,  e  anche  divisibile,  come  la  materia,  all'in- finito. Quando  si  dice  che  1'  uomo,    quale  oggetto  della  percezione •esteriore,  è  il  soggetto  della  coscienza,  si  vuol  dire  semplicemente  che tra  i  fenomeni  materiali,  cioè  esistenti  in  un  luogo,  i  quali  hanno la  loro  sedo  nel  corpo  dell'  uomo,  e  i  fenomeni  spirituali,  cioè  non esistenti   in  alcun  luogo,  i  quali  costituiscono  la  coscienza  o  il  me mentale  dell'  uomo,  vi  ha  una  corrispondenza  secondo  rapporti  de- finiti di  simultaneità  o  di  successione.  E  quando  si  dice  che  le  por- zioni differenti  di  questa  coscienza  o  di  questo  me  mentale  —  il  quale non  è,  è  vero,  che  una  serie  di  stati  di  coscienza,  ma  una  serie  che bisogna  concepire,  non  come  un  aggregato  di  elementi  separati  ed aventi  ciascuno  un'  esistenza  indipendente,  ma  come  un  tutto  uno «  continuo,  in  cui  non  si  distinguono   delle   porzioni  separate  che per  una  sorta  di   astrazione  —  corrispondono  a  dei  fenomeni  fisici esistenti   in  porzioni   differenti   del  me   della  percezione  esteriore, CLXXVIII tutte  le  connessioni  mentali  (quelle  almeno  che hanno  per  oggetto  l' esistente)  derivano,  in  ultima analisi,  dall'esperienza,  dobbiamo  cercare  se  vi  sia^ un  principio  generale,  fondato  sull'esperienza,  che il  ragionamento  sottintende,  e  che  è  un  altro  ante- cedente logico  indispensabile  per  giustificare  il  pas- dagli  antecedenti  enunciati  della  conclusione alla  conclusione  stessa.  Questo  principio  generale supposto,  questo  altro  antecedente  logico  che  noi cerchiamo,  non  è  che  il  principio  stesso  su  cui  sono fondati  tutti  gli  altri  concetti  metafìsici  che  noi  ab- biamo percorsi  in  quest'  Appendice,  vale   a  dire  il cioè  del  corpo,  non  si  stabilisce  ha  i  due  ordini  di  fenomeni  che  un semplice  rapporto  esteriore,  non  si  rompe  1'  unità  e  continuità  del me  mentale,  spargendone  i  frammenti  tra  le  diverse  parti  del  me fisico.  Il  me*mentale  può  essere  concepito  come  una  semplice  serie di  stati  di  coscienza  ?  È  un'  altra  quistione,  a  cui  più  giù  avremo occasione  di  toccare. L'  argomento  che  dall'  unità  empirica  della  coscienza  conclude all'unità  assoluta  del  substratum  della  coscienza,  è  talmente  diffuso tra  i  filosofi  spiritualisti,  e  questa  scuola  gli  dà  tanto  peso,  che  noi non  possiamo  vedere  in  esso  un  semplice  sofisma  artificiale,  ma  dob- biamo vedervi  l'espressiona  di  un  sofisma  a  priori  o  ìiaturale,  I  so- fismi di  questa  natura,  che  stabiliscono  come  intrinsecamente  evi- dente l'impossibilità  di  una  connessione  obbiettiva,  suppongono  una inconcepibilità  relativa,  una  difficoltà  subbiettiva  a  formare  la  con- nessione ideale  corrispondente,  e  questa  difficoltà  non  può  essere che  un  risultato  dell'esperienza.  Ma,  in  questo  caso,  sembra  diffìcile di  spiegare  in  che  consista  e  donde  abbia  origine  l'inconcepibilità, poiché  non  vi  ha  un  concetto  più  abituale  e  fondato  su  esperienze più  familiari  che  quello  che  la  coscienza  ha  la  sua  sede  in  un  substra-» tum,  la  cui  unità  non  esclude  la  moltiplicità,  e  che  le  diverse  sen- zazioni  sono  localizzate  nelle  parti  differenti  di  questo  substratum (la  mano,  il  piede,  ecc.).  Noi  abbiamo  però  la  conoscenza  di  un  fe- nomeno psicologico  che  può  venirci  in  aiuto;  noi  sappiamo  cioè  che i  fatti  più  familiari  diventano  incomprensibili  dopo  che  la  scienza ha  mutato    il  modo   prescientifìco    di   cojicepire   questi  fatti.  L'in- CLXXIX principio  secondo  cui  le  cose  non  possono  cangiare di  natura,  e  una  stessa  sostanza  non  potrebbe,  in tempi  differenti,  avere  delle  proprietà  essenzialmente differenti.  Ammesso  questo  principio,  se  si  riconosce d'altra  parte  che  vi  ha  una  differenza  essenziale tra  le  proprietà  dell'essere  animato  e  quelle  della materia  inanimata  da  cui  esso  procede  e  a  cui  esso ritorna,  non  se  ne  deve  concludere  che  le  proprietà differenziali  dell'  essere  animato,  il  sentimento,  il pensiero,  l'attività  spontanea,  ecc.  suppongano  la  coo- perazione col  corpo  di  un'altra  sostanza  distinta  dal corpo  e  con  esso  temporaneamente  congiunta?  non se  ne  deve  concludere  inoltre  che  quest'altra  sostanzar è  il  soggetto  reale,  il  vero  possessore,  del  sentimento, del  pensiero  e  delle  altre  proprietà  distintive  del— concepibilità  o  piuttosto  l' incomprensibilità,  su  cui  è  fondato  Par»- gomento  degli  spiritualisti,  potrebbe  derivare  da  questo,  che  la  teo- ria corpuscolare  ha  sostituito  al  concetto  naturale  di  un  corpo  uno- e  continuo,  quale  sede  della  coscienza,  quello  di  una  moltiplicità di  corpuscoli  separati  e,  nella  forma  più  ordinaria  della  teoria,  non solo  senza  continuità,  ma  anche  senza  contiguità  (o,  neU 'atomismo metafisico,  di  una  moltiplicità  di  monadi).  Allora,  l'idea  dell'unità della  coscienza  essendo  per  noi  strettamente  associata  a  quella  del- l'unità del  corpo,  una  coscienza  unica  che  sia  la  proprietà  di  un aggregato  di  corpuscoli  ci  sembra  cosi  incomprensibile  come  se  que- sta coscienza  unica  si  attribuisse  ad  un  gregge  o  ad  un  esenùto.  Io credo  che  sia  questa  la  difficoltà  che  costituisce  la  forza  probante del  sofismti,  quantunque,  nell'  espressione  dell'  argomento,  questo* punto  possa  talvolta  esser  perduto  di  vista,  e,  per  dare  all'  argo- mento una  portata  generale,  non  si  distingua  tra  una  materia  con- tinua, e  una  materia,  quale  si  ammette  effettivamente,  costituita  di corpuscoli  separati.  Si  ricordi  l'idea  di  Diderot  che,  per  evitare  la difficoltà  dell'unità  della  coscienza,  al  punto  di  vista  dell'ilozoismo, crede  necessario  di  ammettere  la  continuità  materiale  (e  non  la costituzione  molecolare)  dell'organismo. CLXXX l'essere  animato,  in  modo  che,  come  è  essa  che  le ha  apportato  nel  corpo,  cosi  è  ad  essa  che  spettano dopo  avvenuta  la  separazione  dal  corpo,  quando questo  è  ricaduto  neirincoscienza  e  nell'inerzia  della materia  inanimata  ? Non  bisogna  però  dimenticare  che  l'inferenza  del filosofo  animista  non  è  ordinariamente,  come  le  al- tre inferenze  su  cui  sono  fondati  i  coiicetti  della metafisica,  che  un'  inferenza  incosciente.  Il  principio dell'immutabilità  dell'essenza  delle  cose,  che  la  con- clusione suppone,  non  determina  questa  come  un principio  coscientemente  invocato  e  riconosciuto; l'inferenza,  espressa  sotto  la  forma  logica  del  ragio- namento cosciente,  avrebbe  bisogno  di  questo  prin- cipio; ma  invece  di  esso  è  la  massa  delle  nostre esperienze  passate  di  cui  esso  è  la  generalizzazione, che  agisce  d'una  maniera  cieca  e  puramente  orga- nica, e  la  conclusione  che  esse  determinano  è  o  può essere  la  sola  cosa  di  cui  si  abbia  coscienza.  Noi comprendiamo  così  come  il  filosofo  animista  può non  ammettere  in  tutti  i  casi  il  principio  generale che^  praticamente,  egli  ammette  nel  caso  speciale; e  comprendiamo  pure  come,  per  giustificare  la  con- clusione, siano  spesso  impiegati  dei  ragionamenti capziosi  e  puramente  artificiali^  invece  del  ragiona- mento naturale  di  cui  essa  è  il  risultato. §  5.  Una  conferma  della  spiegazione  data  dell'  o- rigine  dell'  animismo  la  troviamo  nel  fatto  che  le altre  soluzioni  dello  stesso  problema,  che  lo  spirito umano  incontra  naturalmente  quando  respinge  la soluzione  animista,  sono  fondate  sullo  stesso  prin- cipio su  cui  questa,  secondo  noi,  è  fondata.  L'ilozoi- •;i  •  V CLXXXI smo  e  la  dottrina  dell'identità  del  fisico  e  del  men- tale— le  soluzioni  differenti  dell'  animismo  del  pro^ blema  dell'origine  della  coscienza — riconoscono  an- ch'esse, lo  abbiamo  visto,  con  1'  animismo,  il  prin- cipio che  l'essenza  delle  cose  non  può  cangiare;  ed essi  non  evitano  la  conclusione  animista  che  ne- gando il  dato  di  fatto  che  ne  è  la  premessa,  cioè la  differenza  essenziale,  assoluta,  tra  il  cosciente  e l' incosciente.  Lo  stesso  fatto  si  osserva,  passando dalla  quistione  della  coscienza  a  quella  dei  caratteri puramenti  fisici  che  distinguono  i  corpi  animati: quando,  per  la  spiegazione  di  questi  caratteri,  non si  accetta  il  concetto  dell'anima  o  altri  concetti  ana- loghi, si  ammette  invece  la  teoria  meccanica,  o  più generalmente  fisico-chimica,  della  vita  che  nega  la differenza  essenziale  tra  i  fenomeni  della  materia animata  e  vivente  e  quelli  della  materia  bruta,  sal- vando cosi  il  principio  eh  'esso  ha  in  comune  con le  dottrine  rivali,  dell' impossibilità  di  un  cangia- mento neiressenza  delle  cose.  Quest'osservazione  ci conduce  a  una  considerazione  generale  sui  concetti diversi,  e  apparentemente  opposti,  che  lo  spirito  u- mano  si  forma  delle  forze  e  della  loro  relazione con  la  materia,  e  sull'influenza  che  il  principio dell'  invariabilità  essenziale  del  reale  ha  su  questi concetti.  Sarebbe  una  ripetizione  inutile,  se  insistes- simo sull'analogia,  da  una  parte,  tra  la  teoria  ani- mista e  la  teoria  vitalista  — la  quale,  sia  detto  per incidente,  si  presenta  pure,  come  la  prima,  sotto  le due  forme  distinte  della  materialità  (fluido  vitale  e concetti  simili)  e  dell'immaterialità  (forila  vitale  pro- priamente detta)— e  dall'altra  parte,  tra  le  dottrine materialiste  opposte  all'animismo  e  al  vitalismo,  il carattere  comune  delle  quali  è  l'identificazione  dei fenomeni  caratteristici  dell'animato  e  del  vivente  a quelli  dell'inanimato  e  del  non  vivente.  Ciò  che  ora dobbiamo  notare  è  che,  anche  nei  limiti  del  dominio della  semplice  materia  bruta,  noi  troviamo,  insieme all'antao:onismo  di  una  concezione  materialista  che unisce  inseparabilmente  la  forza  alla  materia,  e  una concezione  dualista  che  fa  della  materia  e  della  forza due  entità  distinte  e  separabili,  l'accordo,  tra  le  due concezioni  antagoniste,  sopra  un  principio  comune, che  è  lo  stesso  nel  quale  convengono  le  soluzioni opposte  dei  problemi  della  coscienza  e  della  vita, cioè  l'invariabilità  dell'  essenza  delle  cose.  Quando la  materia  presenta  dei  fenomeni  nuovi  che  prima non  presentava,  quando  viene  riscaldata,  illuminata, elettrizzata,  ecc.,  e  cessa  poi  di  presentare  questi  fe- nomeni, è  una  vera  concezione  dualista,  analoga  a quella  dell'  anima  o  della  forza  vitale,  di  spiegare il  fatto,  ammettendo,  come  già  facevano  i  fisici,  dei fluidi  imponderabili  speciali,  la  cui  presenza  o  as- senza è  la  causa  della  presenza  o  assenza  nella materia  delle  proprietà  corrispondenti.  Si  suppo- neva che  il  calorico  o  l' elettrico  entrassero  nei corpi,  producendovi  lo  stato  particolare  <»he  si  chia- ma con  lo  stesso  nome  di  calore  o  di  elettricità, e  poi  ne  uscissero,  alla  cessazione  dei  fenomeni corrispondenti  (quantunque  in  verità  si  fosse  co- stretti ad  ammettere  che  i  fluidi  potessero  trovarsi nei  corpi  d'una  maniera  occulta  o  dissimulata,  cioè senza  manifestarvisi  con  dei  fenomeni  sensibili,  co- me il  calore  che  si  diceva  latente,  o  l'uno  dei  due CLxxxin fluidi  elettrici  che  si  supponeva  neutralizzato  dal fluido  di  natura  contraria),  come  lo  spirito  o  la  forza .vitale  sono  supposti  entrare  in  altri  corpi  per  pro- durvi la  coscienza  e  la  vita,  e  poi  separarsene,  alla cessazione  di  questi  stati  particolari.  Dal  principio che  una  sostanza  non  può  cangiare  di  natura  e  di proprietà,  si  concludeva  nell'  un  caso,  come  si  con- clude neir  altro,  che  il  cangiamento  del  corpo  era dovuto  alla  presenza  e  all'  assenza  di  un'  altra  so- stanza distinta  dal  corpo  stesso,  la  sostanza  supposta ritenendosi  anch'essa  come  invariabile  nella  sua  es- senza,  donde  la  necessità  di  distinguere  una  plu- ralità di  fluidi,  ciascuno  non  potendo  produrre  che un  ordine  di  fenomeni,  senza  di  che  si  sarebbe  ri- nunziato al  principio  dell'invariabilità  dell'essenza. Questo  dualismo  in  fisica  sembra  definitivamente abbandonato,  almeno  sotto  la  forma  semimaterialista, perchè  sotto  la  forma,  per  dir  cosi,  spiritualista,  che sostituisce  delle  forze  immateriali  ai  fluidi  impon- derabili, esso  ha  ancora  dei  rappresentanti  fra  i  fisici moderni,  come  Hirn,  che  partendo  «  dalla  diversità dei  fenomeni  per  concludere  alla  diversità  delle cause  »,  riconosce  nel  mondo  fisico  l'esistenza  di  tre elementi  almeno,  specificamente  distinti  dalla  ma- teria, capaci  di  manifestarsi  come  potenze  dinamiche (questi  elementi  sono,  oltre  alla  forza  gravifica,  che non  ha  rapporto  alla  presente  quistione,  la  forza  e- lettrica  e  la  forza  calorica).  Ora  la  fisica  non  ha potuto  abbandonare  questa  concezione  dualista  del rapporto  tra  la  forza  e  la  materia,  prima  di  iden- tificare le  varie  categorie  di  fenomeni,  già  attribuite ciascuna   a   ciascuno  di   questi  agenti  distinti,  che erano  supposti  per  rendere  conto  dell'apparizione, a  un    certo    momento,  di   fenomeni    nuovi,   prima non  esistenti,  nella  materia,  e  dei  quali  perciò  non . potè  farsi  a  meno  se  non  quando  cominciò  ad  am- mettersi  che  i  fenomeni    non    sono  essenzialmente nuovi,  cioè  che  la  materia,    cominciando   a  mani- festarli  e   poi  cessando  dal   manifestarli,  non  can- gia  perciò   di   proprietà  —  secondo    la   spiegazione meccanica  di  questi  fenomeni,  che  riducendoli  tutti al  movimento  che  i  corpi  si  trasmettono  secondo  le leggi  dell'urto,  non  vede  nella  materia  che  la  pro- prietà, sempre  invariabilmente  la  stessa,  di  appro- priarsi il  moA^imento  ricevuto   per   impulsione  e  di trasmetterlo    per  lo  stesso    mezzo.   Così   è   salvo^ nella   nuova  teoria,  il   principio   dell'invariabilità dell'essenza  delle  cose,  che  già  avea  condotto  all'ipo- tesi antica    degli  imponderabili  come  agenti  speci- ficatamente distinti;  e  noi  vediamo  anche  qui,  come nella   quistione   della    vita   e    in    quella   della    co- scienza, da  una  parte  una   concezione    materialista (cioè  che  non  fa  la  forza  separabile  dalla  materia), fondata  sulla  identificazione  dei  fenomeni  differenti che  la  materia   in  condizioni    differenti    manifesta; dall'altra  parte  una  concezione  dualista  (per  cui  la forza  è  separabile  dalla  materia),  che  suppone  degli agenti  speciali  per  ispiegare  la  presenza  e  assenza alternativa  di  speciali    fenomeni    nella    materia  ;  e l'una  e  l'altra  delle  due  concezioni  opposte  fondata sul  principio  comune  che  l'essenza  delle  cose  è  in- variabile.   Ciò  che  può  servire  a  mostrare    quanto .vi  sia  di  vero  neir osservazione  di  Bacone,  che  le opinioni  più  opposte  (io  non  dirò,  com'egli  effetti- vamente  dice,  le  illusioni  più  opposte)  derivano   il più  spesso  da  una  sorgente  comune. §  6.  D'una  maniera  generale,  l'ipotesi  dei'anima è  destinata    a    spiegare  il  passaggio  della  materia, sia  dallo    stato    inanimato    allo   stato  animato,  sia dallo    stato    animato    allo  stato  inanimato:  ma  noi non  potremmo  attenderci  dall'intelligenza  dell'uomo primitivo    che    egli    si    fosse   proposto  il  problema della  vita  sotto  una  forma  rigorosamente  generale. Probabilmente  il  filosofo  selvaggio  non  si  dice  che la  materia  che  costituisce  l'essere  vivente  è  la  stessa materia  che  è  già  esistita  allo  stato  di  materia  bruta, e  che  perciò  la  trasnaturazione  di  questa  materia,  la acquisizione  delle  nuove  proprietà  vitali,  necessita riiitervento    di    un    altro   principio.  Ma  ciò  di  cui egli  non  può  mancare  di  essere    colpito  è  il  feno- meno della  morte,  l'  opposizione  fra  il  cadavere  e l'uomo  già  un  istante  prima  ancora  vivente.  «  Egli ha   visto,    dice    Huxley,  il  guerriero  pieno  di  una feroce    energia,    il    capo    dispotico  della  sua  tribù forse,  rovesciato  da  un  colpo  inatteso.  Un  fanciullo può  insultare  impunemente   V  uomo  che  era,  non  è già  che  un  istante,  sì  terribile;  una  mosca  riposa  tran- quillamente sulle  sue  labbra  da  cui  uscivano  degli ordini  sempre  ubbiditi.  Pertanto  l'aspetto   fisico  di quest'  uomo    sembra    pressoché  lo  stesso  che  allor- quando   egli  dormiva,  e  che  dormendo  si  immagi- nava esso  stesso   staccato    dal  suo  corpo  ed  errare nella  terra  dei  sogni.  Non  è  che  questa  qualche  cosa che  è  l'essenza  dell'uomo,  è  stata  costretta  in  effetto di  partire,  e  d'errare  al  di  fuori  per  la  violenza  che le  si  è  fatta  subire,  e  ci  trova  ora  incapace,  ovvero il -'  « dimentica,  di  ritornare  nel  suo  inviluppo?  Non  con- serva alcuni  dei  poteri  che  possedeva  durante  la vita  ?  »  (1)  Confrontiamo  questo  ragionamento,  che noi  prestiamo,  con  Huxley,  al  filosofo  selvaggio, col  ragionamento  di  un  filosofo  incivilito.  «  L'aspetto di  un  cadavere,  dice  Schopenhauer,  mi  mostra  che là  ogni  sensibilità,  irritabilità,  circolazione,  ripro- duzione, ecc.,  hanno  cessato.  Io  ne  concludo  con certezza  che  il  principio,  a  me  sconosciuto,  che metteva  tutto  ciò  in  attività,  ha  cessato  di  asire: che  esso  se  ne  è  dunque  separato  ».  (2) La  nostra  spiegazione  dell'origine  dell'animismo si  accorda  sino  ad  un  certo  punto  con  quella  di Tylor,  di  cui  ecco  il  riassunto  con  le  parole  stesse dell'autore:  «  L'intelligenza  umana,  ad  uno  stato  di coltura  ancora  poco  avanzato,  sembra  sovratutto preoccupata  di  due  categorie  di  problemi  fisiologici. Cioè  :  primo  ciò  che  costituisce  la  differenza  tra  un corpo  A  ivente  e  un  corpo  morto,  la  causa  della  ve- glia, del  sonno,  della  catalessia,  della  malattia,  della morte.  Poi,  la  natura  di  queste  forme  umane  che appariscono  nel  sogno  e  nelle  visioni.  Meditando  su questi  due  ordini  di  fenomeni^  gli  antichi  filosofi  sel- vaggi devono  essere  stati  portati,  al  principio,  a  que- sta induzione  tutta  naturale  cli^  vi  ha  ili  ciascun  uomo una  vita  e  un  fantasma.  Questi  due  elementi  sono  in istretta  connessione  col  (^orpo.  La  vita  lo  rende  atto a  sentire,  a  pensare,  ad  agire;  il  fantasma  è  la  sua  im- magine, un  secondo  se  stesso.  Tutti  e  due  pure  sono ì •t (1)  //  poslt,  e  la  se.  contemp.  iu  Rei\  sciente  sei-,  I.  t.  6.° (3)  //  mondo  come  volontà  e  come  rappresentazione,  v.2.cap.  41. nettamente  separabili  dal  corpo,  —  la  vita  è  suscet- tibile di  ritirarsene,  di  lasciarlo  insensibile  o  morto; il  fantasma  può  apparire  a  persone  lontane.  TJn  se- condo   passo  ci  sembra   facile  per  questi   selvaggi, se  noi  consideriamo  l'estrema  difficoltà  che  provano le  genti  incivilite  a  romperla  con  questa   dottrina. Esso  consiste  semplicemente  a  combinare  la  vita  e il  fantasma.  Tutti  e  due  appartengono  al  corpo:  per- chè non  apparterrebbero  pure  l'uno  all'altro  ?  Perchè non  sarebbero  le  manifestazioni  d'una  sola  e  stessa anima?  Si  considerano   come  uniti?  si  ottiene  per risultato  questa   concezione  ben  conosciuta,  che  si potrebbe  chiamare  la  dottrina  àéWanima  apparmo- naie  o  ^^\V anima-fantasma.  Tale,  in  effetto  l'idea  che le  razze  inferiori  si  fanno  dell'anima  personale  o  spi- rito. È  un'immagine  umana,  sottile,  immateriale,  un vapore  in  qualche  sorta,  una  nebbia,  un'ombra;  essa è  la  causa  della  vita  e  del  pensiero  nell'individuo che  anima,  la  padrona  indipendente  della  coscienza e  della  volontà   del  suo  possessore  corporale,   pre- sente o  passato;  essa  può  lasciare  il  corpo  dietro  di  sé e  trasportarsi  rapidamente  di  luogo  in  luogo;  gene- ralmente impalpabile  e  invisibile,  ma  suscettibile  an- che di  manifestare  qualche  proprietà  fìsica,  apparisce agli  uomini,  nella  veglia  o  nel  sonno,  come  un  fan- tasma separato  dal  corpo  ma  di  cui  conserva  l'ap- parenza ;   dopo  la    morte  di   questo  corpo  continua ad  esistere  e  ad  apparire,    ed  ha  la  facoltà  di  pe- netrare, di  dominare  e  d'agire  nel  corpo  d'altri  uo- mini, d'animali,  ed  anche  nel  seno  d'oggetti  inani- mati. Senza  dubbio,  questa  maniera  di  comprendere l'anima  non  potrebbe  essere  universalmente  applicata;  ma  essa  è  sufficientemente  generale  per  ben renderci  l' idea  tipo,  che  non  fa  che  modificarsi  in ciascun  paese  con  divergenze  più  o  meno  pronun- ziate. Perchè  queste  idee,  che  si  ritrovano  dapper- tutto sulla  terra,  non  sono  delle  produzioni  pura- mente arbitrctrie  e  convenzionali  dello  spirito  u- mano.  Sono  delle  teorie  che  derivano  forzatamente dalla  testimonianza  indubitabile  dei  sensi,  quale  la interpreta  una  filosofia  primitiva  realmente  conse-guente e  razionale.  D'altronde,  l'animismo  originale rende  conto  così  bene  dei  fatti,  ch'esso  ha  conser- vato il  suo  posto  nelle  sfere  più  elevate  della  col- tura. Modificato,  rimaneggiato  dalla  filosofia  classica, da  quella  del  medio  evo,  trattato  con  più  libertà ancora  dalla  filosofia  moderna,  esso  ha  si  chiara- mente conservato  le  tracce  del  suo  carattere  primi- tivo, che,  nello  psicologia  attuale  del  mondo  inci- vilito, le  prime  età  potrebbero  riconoscere  e  recla- mare il  loro  bene  »  (1). Come  si  vede,  il  Tvlor — conformemente  d'altronde alla  maggior  parte  dei  pensatori  contemporanei  che hanno  considerato  la  quistione  dal  punto  di  vista deiretnologia — annette  un'importanza  capitale,  per la  spiegazione  dell'animismo,  alla  interpretazione realista  del  sogno.  Ma,  si  può  domandare,  tale  in- terpretazione è  veramente  il  principio,  o  è  piuttosto la  conseguenza  della  dottrina  animista?  Ciò  che  fa pensare  che  uno  dei  punti  di  partenza  dell'idea  del- l'anima  sia  l'oggettivazione   delle  immagini    viste (1)  Civilizsnz,  primitiva  voi.   1*  cap.   11 nel  sogno,  è  specialmente  questo  tratto   dell'  animi- smo popolare  per  cui  il  Tylor  lo  chiama  «  la  dottrina dell'anima — fantasma  »,  vale  a  dire  il  concetto  che l'anima  ha  la  forma  stessa  dell'uomo,  e  ne  è  come un'immagine.  È  sullo  stesso  fatto  che  è  fondata  la idea  di  vedere  un  altro  dei  punti  di  partenza  del- l'animismo nell'oggettivazione  dell'ombra  e  dell'ima- gine  riflettuta;  p.  e.,  dall'acqua.  Ma  se  noi  pensiamo alla   grande   importanza   che  il  semplice   principio dell'associazione  delle  idee  —  senza  niente  che  abbia la  rassomiglianza  più  lontana  con  un'inferenza  lo- gica —  ha  avuto  nella  formazione  delle  credenze  u- mane,  si  ammetterà  forse  che  questo  principio  può dare  una  spiegazione  soddisfacente  del  fatto  in  qui- stione. «  Se  si  esamina,  dice  Mill,  in  che   si  accor- dano la  più  parte  delle  cose  che  in  differenti  tempi e  da  diverse  nazioni  e  razze  sono  state  considerate come   dei  presagi  di  qualche   avvenimento   impor- tante^ felice  o  infelice,  si  troverà  che  esse  offrono generalmente  questa  particolarità,  che  fanno  nascere nello  spirito  l'idea  del  fatto  che  sono  supposte  an- nunziare »  (1).  Il  Tylor  stesso  estende  questa  spiega- zione alle  arti  magiche  ed  alle   scienze   occulte   in generale  (2).    «  Ciò  che  ci  dà  principalmente,   egli dice,   l'intelligenza   delle   scienze   occulte  è  questa osservazione    che    esse    riposano    sull'  associazione delle   idee,   facoltà  che  si  ritrova   alla   base   stessa della  ragione  umana,  come  a  quella  della  sragione. (1)  Logica  1.  3"  e.  3°. (2)  C.  IV. fiXO L'uomo,  benché  in  uno  stato  intellettuale  ancora molto  inferiore,  dopo  essere  perv^enuto  ad  associare nel  suo  pensiero  delle  cose  che  l' esperienza  gli  ha insegnato  essere  materialmente  con  nesso,  arriva per  errore  a  intervertire  questo  rapporto  e  a concludere,  dalla  loro  associazione  subbiettiva, un'  associazione  obbiettiva  corrispondente.  Egli  ha cercato  così  d'indovinare,  di  predire  e  di  provocare degli  avvenimenti  per  mezzo  di  processi  di  cui noi  possiamo  oggi  riconoscere  il  carattere  pura- mente immaginario.  Un  vasto  insieme  di  testimo- nianze preso  nel  mondo  selvaggio  barbaro  e  in- civilito,  mostra  che  le  arti  magiche  risultano  da questo  errore  che  fa  prendere  un'associazione  ideale per  un'associazione  reale  ».  È  evidente  che  molte  idee dell'animismo  popolare  non  hanno  un'origine  di- versa :  sarebbe  inutile,  p.  e.,  di  cercare,  per  la  cre- denza generalmente  diffusa  che  gli  spiriti  frequen- tano i  cimiteri,  o  la  casa  che  essi  abitavano  quando erano  congiunti  col  corpo,  un'  altra  ragione  che quella  assai  naturale  che  questi  luoghi  sono  i  più propri  a  sugrerire  l' idea  degli  spiriti  dei  morti. Quando  un'associazione  d' idee  è  molto  intima,  noi abbiamo  qualche  cosa  che  si  avvicina  ad  una  vera necessità  mentale,  a  un  sofisma  naturale  o  a  priori — il  risultato  di  questo  Saggio  sarà  di  mostrare  che è  in  ciò  che  consiste  1'  essenza  di  questo  processo psicologico  a  cui  sono  dovuti  i  concetti  metafìsici in  generale  — .  L'  associazione  tra  delle  facoltà  psi- chiche che  noi  non  abbiamo  sperimentate  che  nel- l'uomo o  nell'animale  e  una  forma  esteriore  d'uomo o  d'animale  è  talmente  intima,  che  noi  potremmo  vedere  quasi,  nell'idea  di  associare  a  un'entità  che è  supposta  godere  della  personalità  umana,  una  forma umana,  il  prodotto  di  un  sofisma  a  priori  del  nostro spirito  :  non  solo  questa  era  un'immaginazione  na- turale, ma  l'intelligenza  dell'uomo  primitivo  doveva trovare  più  facile  a  comprendere  che  questa  ma- teria, di  cui  lo  spirito  era  costituito,  potesse  sentire, pensare,  ecc.,  avendo  la  forma  umana,  che  se  essa avesse  avuto  invece  una  forma  con  la  quale  il  sen- timento, il  pensiero,  ecc.  non  erano  stati  mai  tro- vati associati  nell'  esperienza.  Senza  dubbio  l'asso- ciazione che  legava  Tidea  dello  spirito  d'un  indi- viduo a  quella  della  figura  di  quest'individuo  non era  talmente  forte  da  agire  d'  una  maniera  simile sull'  intelligenza  del  selvaggio  :  ma  ammesso  una volta  il  principio  che  lo  spirito  aveva  una  forma umana,  niente  di  più  ovvio  che  di  attribuirgli  quella stessa  forma  individuale  con  cui  era  associato  nel- Timmaginazione.  Naturalmente  il  sogno  alimentava l'idea,  quantunque  nata  sopra  un  altro  terreno,  e l'allucinazione^  originata  dall'idea  stessa,  veniva  a darle  la  riconferma  più  evidente.  In  quanto  all'  i- dentificazione  dell'anima  con  l'ombra,  che  s'incontra in  alcune  popolazioni,  e  ad  altre  idee  analoghe^  si potrebbe  vedervi  delle  interpretazioni  posteriori, brutalmente  letterali,  di  espressioni  destinate  al principio  ad  indicare  l'incorporeità  dell'anima  e  la sua  forma  umana,  per  un  caso  di  quella  malattia del  linguaggio,  in  cui  M.  Muller  vede  il  processo fondamentale  della  formazione  dei  miti. §  7.  Tra  le  idee  essenziali  della 'metafìsica  dei  po- poli poco  coltivati  non  si  trova  quella  dell'immor- CXCII __^_ talità    assoluta    dell'  anima,   non    si    trova    almeno come  credenza  generale  :    la   credenza  alla  soprav- vivenza al  corpo  —  alla  quale  è  spesso  unita  quella alla  preesistenza  —  è  quasi   universale,  ma  è  molto diffusa   pure  V  idea   che    V  anima    può    subire    una seconda  morte  (1).  E'  evidente  tuttavia  che  il  con- cetto dell'  immortalità  è  il   prodotto  naturale  e  ne- cessario d' un  animismo    conseguente.  In   effetto   il presupposto  dell'animismo  è,  come  abbiamo  detto,  la impossibilità  che  ciò  che  sente,  pensa,  agisce,  ecc. divenga  insensibile,  incosciente,  inattivo,  ecc.,  e  vi- ceversa :  ora  la  conseguenza  di  questo   principio  è di  stabilire  fra  queste  due  forme  dell'esistenza  un dualismo  radicale,  in  modo  che  1'  una  sia  assoluta- mente   inconvertibile    nell'  altra.  Allora,   non  sono possibili  per  un  animista  realmente  conseguente  che due  dottrine  :  s'  egli    non  ammette  la  possibilità  di una  creazione  e  d'un  annientamento  assoluti,  deve pensare  che  l'anima  (nella  sua  sostanza  almeno,  se non  nella  sua  esistenza  individuale)  è  senza  comin- ciamento  né  fine,  eterna — è  la  dottrina  di  molti  fi- losofi antichi,  come  Platone,  i  Platonici,  i  Vedan- tini  (2)  e  le  altre  celebri  scuole  indiane  (3),  filosofi che  noi  possiamo  considerare  come  i  rappresentanti della  forma  più  sviluppata  dell'animismo  nel  mondo antico — ;  o  s' egli  ammette  la  possibilità  della  crea- ci) V.  Tylor  e.  XII. (2)  V.  Colebr.   trad.  Panth.  p.  179,  181-182,  Regnand  in  Sei;.  phiL t.  5°  p.   171-172. (3)  Y.  Colebr.  trad.  Panth.  p.  22  (sankhya),  52-53  e  56-57  (nyaya), 70-71  e  73  (vaisechika). !' H I I zione  e  dell'annientamento  assoluto,  egli  deve  pen- sare che  l'anima  non  può  cominciare  ad  esistere  cha per  creazione  né  potrebbe  finire  d'esistere  che  per un  annientamento  assoluto— é  la  dottrina  dello  spi- ritualismo moderno  (1)—.  Ma  l'uomo  primitivo  natu- ralmente non  é  capace  né  di  stabilire  dei  principii generali  né  di  sviluppare  sistematicamente  un'idea sino  alle  sue  conseguenze  ultime  :  egli  può  ben  im- maginare una  spiegazione  per  un  fenomeno  parti- colare da  cui  é  vivamente  colpito,  qual  é  la  morte del  suo  simile;  ma^  quantunque  nel  caso  particolare egli  ammetta  praticamente  il  principio  che  il  cosciente e  attivo  non  può  trasformarsi  nell'incosciente  e  inat- tivo, egli  non  pensa  che,  per  la  stessa  ragione,  l'a- nima non  deve  mai  morire;  perciò  egli  dovrebbe concepire  la  quistione  sotto  una  forma  universale^ e  applicare  la  sua  meditazione  a  un  soggetto  troppo (4)  L'anima,  dice  S.  Agostino,  è  la  vita,  e  11  principio  della  vita: per  ogrni  essere  vivente.  Essa  dunque  non  può  morire  :  perchè,  se potesse  essere  senza  vita,  non  sarebbe  Tanlma,  ma  una  cosa  animata (che  non  ha  la  vita  per  se  stessa,  ma  la  deve  alla  presenza  dell'ani- ma). De  immortalit,  aniniae  e.  9.  L' argomento  di  Sant'Agostino  — che  non  è  al  fondo  che  quello  di  Fedone  fPhaedo  102  b  sqq:  11  solo, tra  tutti  quelli  del  dialogo  che  Platone  dia  come  decisivo),  svolto, dalla  mescolanza  con  la  dottrina  delle  Idee,  ed  espresso  sotto  una forma  più  propria  e  più  vibrata  — è  perfettamente  concludente:  l'al- ternativa della  vita  e  della  morte  nell'  anima  sarebbe  In  contraddi- zione con  l' Ipotesi  dell'  animismo  che  quest'  alternativa  negli  esseri viventi  deve  spiegarsi  per  la  presenza  e  la  separazione  del  principia della  vita.  Secondo  quest'Ipotesi,  l'anima  stessa  non  potrebbe  perdere la  vita  che  perchè  11  principio  della  vita  si  separa  da  essa  :  ma  al- lora la  vera  anima  sarebbe  qnesto  principio  della  vita  dell'anima,  e questa  sarebbe,  come  dice  S.  Agostino,  non  V  anima,  ma  un  che  di animato. lontano  dalle  sue  percezioni  attuali  per  poterla  sol- lecitare. D'altra  parte,  l'esistenza  futura  delPanima egli  non  l'immagina  che  sul  tipo  dell'esistenza  pre- gente —  conformandosi  a  questa   tendenza  naturale del  nostro  spirito  ad  assimilare  il  non  conosciuto  e il  non  familiare  al  conosciuto  e  al  familiare—.  L'a- nima nell'altro  mondo  mangia,  beve,  danza,  caccia, lavora  la  terra,  combatte,  ecc.;  i  suoi  beni  e  i  suoi mali  sono  i  beni  e  i  mali  stessi  di  questa  vita  (1)  : spinto  da  questa  tendenza  assimilatrice,  il  selvaggio finisce  per  ammettere  che  l'anima  può  essere  anne- gata, uccisa,  ecc.,  senza  accorgersi  che  perciò  egli si  mette   in  contraddizione    col   suo  punto  di  par- tenza. L'idea  antica  della  materialità  dell'anima  sembrerà certamente  ad  alcuno  strana  ed  antifìlosofìca— tale è  la  forza  dell'abitudine—:  per  noi  invece  il  proble- ma è,  non  di  spiegare  come  sia  nata  Tidea  della  ma- terialità dell'anima,  ma  come  sia  nata  quella  della  sua immaterialità.  Il  concetto  della  materialità  si  spiega da  se  stesso,  poiché  è  evidente  che  noi  non  possia- mo concepire  se  non  una  sostanza  materiale,  l'idea di  sostanza— cioè  di  un  quid  permanente  che  sia  il sustrato  di  fenomeni  cangianti  —  essendo  per  l'in- telligenza umana  affatto  equivalente  all'idea  di  corpo. Ma  bisogna  riconoscere  nondimeno  nel  concetto  del- l'immaterialità  il  risultato  naturale  dello  sviluppo della  filosofìa  animista.  Questo  sviluppo  ci  mostra, vcome  dice  Spencer,  una  dismaterializzazione  progres- a)  y.  Tylor  e-  XUI. _sìva  dello  spirito,  di  cui  il  primo  passo,  inevitabile per  non  mettersi  in  una  contraddizione  troppo  di- retta con  l'esperienza,  si  fa  già  nella  fase  più  an- tica della  dottrina,  concependo  l'anima  come  un  che d'impalpabile  ed  invisibile.  Noi  abbiamo  visto  inoltre che  la  conseguenza  logica  dell'  animismo  è  di  sta- bilire un  dualismo  radicale  tra  l'anima — l'essere  co- sciente e  attivo — e  il  corpo  —  l'essere  incosciente  e inattivo  —,  in  modo  che  non  sia   possibile  il  pas- saggio dall'una  all'altra  di  queste  due  forme  della esistenza.  È  un  altro  passo  considerevole  verso  l'op- posizione assoluta  tra  le  due  sostanze,  il  quale  nella Btoria  della  filosofìa  greca  è  rappresentato  dalle  teorie di   Anassagora   e   di  Platone:  ma  questo  dualismo non  è  ancora  incompatibile  con  l'idea  che  l'anima sia  una  cosa  estesa  nello  spazio,  una  sostanza  ma- teriale  particolare,   distinta   ed   opposta  a  tutte  le altre.  L'  ultimo  passo  —  il  più  importante  al  punto di  vista  della   teoria   della    conoscenza,    perchè  si tratta  di  varcare  il   confine  che  separa  il   dominio del  rappresentabile  da  quello  dell'irrappresentabile —  è  anch'esso  un  portato  naturale  dei  presupposti generali  della  concezione  animista  :  l'idea  della  ma- teria ordinaria  è  già  strettamente  associata  nel  no- stro spirito  a  quella  della  incoscienza  e  della  inat- tività; quando  lo  stesso  corpo  vivente  diviene,  per usare  l'espressione  di  un  filosofo  spiritualista  (1)  un ^orpo  di  morto^  in  cui  la  vita  non  risiede  che  come in  un  ricettacolo,  allora  il  concetto  di  materia  finisce (l)  Malebranche  Ricerca  della  verità,  XI  Schiarimento. OX per  essere   1'  equivalente  perfetto   di  una   sostanza, incosciente,  morta,  inattiva,  e  insuscettibile  di  mai acquistare  la  coscienza,  la  vita,  l'attività.  Questi  at- tributi   non    sono   soltanto  legati    alla  materia  per un'associazione. intima  tra  le  idee;  il  legame  è  anche logico  ;  se  tutti  i  corpi  dell'  esperienza   sono   inco- scienti  e  inattivi  e  incapaci  di  divenire  il  contra- rio, non  se  ne  deve  concludere  che  il  corpo  in  gè- nerale  è  incapace  di  coscienza  e  di  attività  ?  Ne  se- gue che  l'anima  non  può  essere  una  sostanza  ma- teriale, e  il  dualismo  iniziale  arriva  così  al  concetto iperfisico  della  sostanza  spìnto,  della  stessa  maniera che,  nel  dominio  della  natura  inanimata,  il  duali- smo analogo  dei  corpi  concepiti  come  assolutamente inerti  e  passivi  e  di  qualche  cosa  che  deve  ad  essi sopraggiungersi  come  principio  di  ogni  attività  ar- riva al  concetto  analogo  di  forze  trascendenti,  im- materiali, l'idea  di  forza  divenendo  necessariamente incompatibile  con  quella  di  materialità,  dopo  che  a questa  si  è  legata  l'idea  opposta  della  assoluta  inat- tività. Ma  ciò  che  dobbiamo  notare  è  che  tra  le  due forme  successive  dell'animismo  -  la  materialista  e la  spiritualista  -  1'  opposizione  non  è  cosi  assoluta, come  pare  a  prima  vista  :  tutti  i  vari  modi  di  con- cepire la  sostanza  dell'anima,  dalla  grossolana  ma- terialità  di   quelle  intelligenze  primitive  che  cer- cano le  impronte  dei  passi  degli  spiriti,  sino  al  più puro  ^  spiritualismo   del   filosofo    moderno  che  nega che  l'anima  sia  in  un  luogo,  non  sono  che  dei  gradi differenti  di  un'evoluzione  continua,  in  cui  vediamo all'  opera  un  processo  di  sottilizzazione  e  di  astra- zione  progressiva   applicato  al  concetto  della  materia,  quale  esso  risulta  immediatamente  dai  dati della  percezione  sensibile,  cioè  di  uia  cosa  che  può essere  vista  e  toccata.  Quando  l'antico  filosofo  ani- mista ha  soppresso,  nella  sostanza  dell'anima,  la  vi- sibilità e  la  palpabilità,  ma  lasciandovi  sussistere altre  determinazioni  della  materia,  quali  l'esten- sione,  il  movimento  ecc.,  una  tale  sostanza  non  è più  una  materia,  secondo  l'idea  primitiva  che  i  sensi <;i  hanno  dato  della  materia,  ma,  siccome,  sin  da Cartesio,  noi  siamo  abituati  a  fare  dell'  esteso  1'  e- quivalente  esatto  del  corporeo,  noi  non  esitiamo  a riconoscere  che  la  sostanza  anima  di  un  tal  filosofo non  è  al  fondo  che  un  corpo.  Ora,  quando  il  filo- sofo spiritualista  moderno,  dall'antico  concetto  gros- solanamente materialista  dello  spirito,  oltre  la  vi- sibilità e  la  palpabilità,  toglie  anche  l'estensione, ma  lasciando  sussistere  la  sostanzialità,  l'operazione è  in  questo  secondo  caso  della  stessa  natura  che nel  primo  ;  si  tratta  di  una  nuova  astrazione  ope- rante sul  concetto  primitivo  della  materia;  e  ilresiduo è,  nel  secondo  caso,  una  determinazione  della  ma- teria,  come  nel  primo,  poiché  la  categoria  di  so- stanza, per  dirla  con  Kant,  non  è  applicabile  che ^g'ì  oggetti  dell'esperienza  esteriore,  o  a  ciò  che  ci è  dato  in  una  intuizione  nello  spazio  (1).  Il  concetto della  sostanza  spirituale  non  può  dunque  essere  mo- dellato che  sul  tipo  delle  sole  sostanze  che  noi  co- nosciamo e  possiamo   rappresentarci,  le  materiali  : (1)  V.  Analit,  trascendente,  l,  2^  Scoi,  gener.  al  sistema  del  prin- elplt  2^  edlz.  Cfr.  Dlalett,  trascendent,  1.  2°  Paralog*  della  rag. jfara.  In  fine  del  capit.  e  Confutai,  dell'argom,  di  Mendelsohn, ->.      N    "  'I cxcYiir l'elemento  positivo  di  questo  concetto — la  sostanzia- lità —  non  è  tratto  che  della  materia  ;  il  semplice, Finesteso  e  il  resto  che  si  aggiunge  alla  parola  so- stanza, non  sono  che  degli  elementi  negativi,  espri- menti che  si  intende  fare  astrazione  di  certe  deter- minazioni della  materia. §  8.  L'idea  che  lo  spirito  è  una  sostanza,  cioè  che oltre  alle  sensazioni,  sentimenti,  pensieri,  volizio- ni, ecc.,  vi  sia  qualche  cosa  di  permanente  —  mate- riale o  immateriale— come  sustrato  di  questi  feno- meni, è  prima  di  tutto  una  conseguenza  necessaria dell'ipotesi  animista,  che  vede  nella  vita  il  risultato della  congiunzione  dei   due  elementi  di  cui  l'uomo e  ogni  essere  animato  si  suppone  composto,  e  nella morte  il  risultato  della  loro  separazione.  Non  vi  ha altra  rappresentazione  possibile  di  due  elementi  ca- paci di  stare  ora  uniti  ed  ora   separati   che   quella di  due  sostanze  materiali,  di  due  corpi,  che  possono cangiare  il  loro  rapporto  nello  spazio  —  ciò  che  ci mostra  sotto  un  altro  aspetto  la  verità  d'  un'  osser- vazione antecedente,  vale  a  dire  la   comunanza  di origine  tra  l'animismo  e  la  teoria  meccanica,  le  e- sperienze  familiari  che  servono  di  tipo  all'una  delle due  dottrine  potendo  riconoscersi  per  le   stesse,  al fondo,   che  quelle  che  servono  di  tipo  all'altra  — . Così,  quando  il  doppio  materialismo  primitivo  è  stato rigettato,  questa  rappresentazione  non  potrebbe  più considerarsi  come  adequata  alla  realtà,  ma  resta  il concetto  astratto  di  due  sostanze  capaci  di  unirsi  e di  separarsi,  concetto  che  non  è  più  un'idea  rappre- sentabile dopo  che  runa  delle  due  sostanze  finisce di  considerarsi  come  un  corpo  e  come  capace  di  entrare  con  l'altra  in  rapporti  di  spazio,  ma  che,  come tutti  i  concetti  trascendenti,  cioè  oltrepassanti  il  sen- sibili  e  r  immaginabile,  non  è  modellato  che  sul sensibile  e  l' immaginabile,  vale  a  dire,  nel  nostro» caso,  sulla  rappresentazione  primitiva  di  due  corpi che  si  uniscono  e  si  separano,  e  trova  in  questa rappresentazione  — per  esprimerci  sotto  una  forma che  non  implichi  una  teoria  determinata  sulla  na- tura dei  concetti  trascendenti  —  un'approssimazione e  un  simbolo  indispensabili. Ma,  oltre  l'animismo  come  spiegazione  della  vita e  della  morte,  l' idea  che  lo  spirito  è  una  sostanza ha  un'  altra  sorgente.  Per  dilucidare  questo  punto, dobbiamo  entrare  in  alcune  considerazioni  che  non hanno  un  rapporto  molto  stretto  col  nostro  presente argomento,  ma  che  non  possiamo  evitare,  essenda esse,  oltre  alla  loro  importanza  per  la  quistione  del valore  dell'idea  della  sostanza  spirito,  indispensa- bili per  comprendere  certi  sviluppi  di  quest'  idea, che  ci  presenta  la  storia  della  metafisica. Tutte  le  volte  che  lo  spirito  è  concepito  come  e- sistente  per  sé,  separatamente  dal  corpo,  noi  abbia- mo una  tendenza   quasi  invincibile   a  considerarlo, come  una  sostanza,  cioè  a  supporre,  al  di  sotto  della, serie  fluente   degli  stati  di  coscienza   che   costitui- scono lo  spirito  quale  fenomeno  dell'esperienza,  un quid  permanente  come  loro  sustrato.  Ciò  può  aver luogo  anche  indipendentemente  dalla  teoria  animi- sta, del  che  possiamo  trovare  un  esempio  in  alcune^ proposizioni  di  Stuart— Mill.  Stuart— Mill  non  è  uno spiritualista,  e  nondimeno  egli  non  ammette  che  lo- spiriso  sia  una  semplice  serie  di  stati  di  coscienza. ce «  Noi  siamo  forzati,  egli  dice,  di  riconoscere  che  cia- scuna parte  della  serie  è  attaccata  alle  altre  parti mediante  un  legame  che  loro  è  comune  a  tutte,  e che  non  è  la  catena  dei  sentimenti  per  se  stessi:  e €ome  ciò  che  è  lo  stesso  nel  primo  e  nel  secondo, nel  secondo  e  nel  terzo,  nel  terzo  e  nel  quarto,  e •così  di  seguito,  deve  essere  lo  stesso  nel  primo  e nel  cinquantesimo,  quest'elemento  comune  è  un  e- lemento  permanente  »  (1).  Quest'elemento  permanen- te,  distinto  dalla  catena  degli  stati  di  coscienza,  non può  essere  altra  cosa  che  la  sostanza  spirito  dei  fi- losofi spiritualisti,  quantunque  il  Mill,  poco  prima del  luogo  citato,  neghi  di  adottare  «  la  teoria  co- mune che  riguarda  lo  spirito  come  una  sostanza». Noi  dobbiamo  prima  di  tutto  sbarazzare  la  qui- stione  da  un  possibile  equivoco.  La  proposizione  che lo  spirito,  il  me,  è  una  collezione  di  sensazioni  — intendendo  naturalmente  per  sensazioni  tanto  i  dati della  percezione  esteriore  quanto  quelli  del  senso intimo— non  è  che  la  semplice  espressione  dei  fatti dell'esperienza  interiore,  senza  mescolanza  d'ipotesi o  interpretazione  di  qualsiasi  natura  :  ma  essa  non deve  intendersi  come  se  queste  sensazioni  che  co- stituiscono la  collezione,  fossero  altrettanti  elementi aventi  ciascuno  un'esistenza  propria  e  indipendente, come  degli  atomi,  fra  di  cui  non  vi  fosse  che  il rapporto  puramente  esteriore  di  una  semplice  juxta — posizione.  Tra  le  cose  esteriori  non  vi  hanno  altri rapporti  che  quelli  di  tempo  e  di  spazio  :  ma  tra  gli (1)  Filo8,  di  Hamilton  Appendice  ai  e.  11.  e  12.,  suUa  fine. COI stati  di  coscienza  che  costituiscono  un  me,  una  co- scienza unica,  oltre  i  rapporti  di  tempo,  cioè  di  suc- cessione e  di  simultaneità— qui  naturalmente  non  è a  parlare  di  quelli  di  spazio —,  vi  ha  un  rapporto più  intimo,  che  non  ha  niente  di  analogo  nelle  cose del  mondo  esteriore,  ma  che  se  noi  vogliamo  indi- care con  un  termine  che  nel  suo  senso  proprio  e originario  non  può  convenire  con\e,  quasi  tutti  quelli che  appresta  il  linguaggio,  che  alla  realtà  esteriore, lo  possiamo  fare  con  le  parole  :  continuità  della  co- scienza. La  coscienza  è  un  tutto  uno  e  continuo, non  un  aggregato  di  elementi  indipendenti  :  è  que- sto un  fatto  evidente  dell'  esperienza  interiore,  di cui  lo  stesso  Hume  sarebbe  convenuto,  se  la  qui- stione  gli  si  fosse  presentata  in  questi  termini.  Sta- bilire un  rapporto  tra  le  nostre  Idee,  fare  un  ra- gionamento,  avere  la  percezione  di  un  tutto  com- plesso,  sarebbero  degli  atti  impossibili,  se  fra  le idee  successive  o  simultanee  da  cui  essi  risultano, non  vi  fosse  che  un  semplice  rapporto  di  simulta- neità o  di  successione,  come  quello  che  esiste  tra  le idee  di  Se,  di  coscienze,  differenti.  Se  tra  queste idee  che  appartengono  a  me  che  stabilisco  il  rap- porto, ragiono,  percepisco  il  tutto  complesso,  non  vi fosse  un  legame  particolare,  che  non  esiste  tra  le idee  di  spiriti  distinti,  sarebbe  altrettanto  possibile in  questo  caso  che  questi  elementi  si  riunissero  per costituire  l'atto  unico  del  rapporto,  del  ragionamento, della  percezione,  quanto  nel  caso  che  ciascuno  di essi  fosse  uno  stato  di  coscienze  differenti.  Pren- diamo per  esempio  un  semplice  rapporto  di  succes- gione  o  di  coesistenza — ai  quali  si  riducono,  in  ul- CCII tima  analisi,   al    punto  di  vista  semplicemente  ob- biettivo, tutti  i  rapporti  che  noi  possiamo  stabilire fra  le  nostre  idee  (1)— .Noi  non  percepiamo  le  suc- cessioni e  le  coesistenze  obbiettive  che  per  delle  suc- cessioni e  coesistenze  fra  le  nostre  percezioni,  e  non ci  rappresentiamo  questi  rapporti  che  per  dei  rap- porti corrispondenti  tra  le   nostre   rappresentazioni (in    quanto   alle   coesistenze   vi  sarebbero   delle  ri- serve da  fare,  ma  non  importano  alla  quistione  pre- sente). La  conoscenza   della  successione  e  della  si- multaneità è  dunque  la  coscienza  della  successione e  della   simultaneità   delle   nostre  idee,  cioè  la  co- scienza delle  nostre  idee  come  successive  e   simul- tanee. Ora  avere  coscienza   della  successione  o  si- multaneità delle  idee  A  e  B,  o  di  queste  idee  come successive  o   simultanee,   importa    uno    sguardo   u- nico  della  coscienza,  una  coscienza  unica  che  riu- nisce la  coscienza  di  A  e  quella  di  B.  La  coscienza di  A  e  quella  di  B,  prese  ciascuna  isolatamente  e succedentisi  Funa  all'altra,  non  potrebbero  dare  la coscienza   del  rapporto   di  successione  tra   A  e  B: questa  coscienza  non  è  dunque  una  semplice  juxta- posizione,  un  aggregato,  delle  due  coscienze  succes- sive di  A  e  di  B,  ma  è  una  coscienza  unica,  conti- nua^ in  cui  le  due  coscienze   successive  sono  com- prese. Ma  costatare  l'unità  della  coscienza,  la  continuità tra  i  suoi  stati  successivi,  non  è  costatare  l'esistenza di    un    elemento   permanente,   accompagnante   ela- fi) V.  Saggio  1   e.  2. ceni scuAO  di  questi  stati  successivi,  e  che  persiste,  sem- pre lo  stèsso,    dal  primo  all'ultimo  di  questi  stati (e  che    esiste    anche    negl'intervalli    in  cui  alcuno stato  di  coscienza  non  esiste).  Sono  due  cose  diffe- renti,  di  cui  la  prima  è  un  fatto   d'  esperienza  in- terna, la  seconda  un'ipotesi  metafìsica.  È  evidente che  quando  Mill  conclude  dall'  una  delle  due  cose all'altra,  come  fanno  i  metafisici,  egli  si  allontana dai  principii  fondamentali  della  sua  filosofia,  cioè di  quella  dell'  esperienza.   Il   principio  supremo  di questa  filosofia  è  che  non  bisogna  niente  ammetterà in  virtù  di  una  semplice  evidenza  intrinseca,  spesso fallace,    ma  tutto  provare  —  senza  altra  eccezione che  i  portulati  indispensabili  ad  ogni  operazione  detta ragione,  che  è  impossibile  di  stabilire  col  ragionamen- to, perchè  ogni  ragionamento,  li  presuppone  (1)  —,  e provare  non  è  che  estendere  a  nuovi  casi  particolari  un rapporto  (di  sequenza,  di  coesistenza,  ecc.)  già  costata- to per  l'esperienza  nei  casi  identici,  tutte  le  volte  che quest'esperienza  è  tale  che  la  generalizzazione  del rapporto  ne  sia  garentita.  Nel  nostro  caso,  alle  dif- ficoltà logiche  che  solleva  il  criterio  della  evidenza intrinseca,    se    si    ammette  che  il  Me  trascendente è  CDnosciuto  a   priori,   per   un'  intuizione  della  ra- gione, si  unisce  l'impossibilità  psicologica  di  porre nello  spirito  un'  idea  di  cui  non    potrebbe  trovarsi l'origine  nell'esperienza.  Ma  noi  non  possiamo  nem- meno ammettere  che  l'atto  dello  spirito,  per  cui  il Me  trascendente  è  conosciuto,  sia  un'  inferenza  lo- fi) V.  Saggio  1°  e.  9. CCIV gira.  Questa  proposizione:  «  la  continuità  della  co- scienza  richiede  l' esistenza  di  un  Me  sostanziale, permanente  »,  stabilisce  fra  le  due  cose  un  legame che  —  se  si  ammette  che  esso  è  una  semplice  infe- renza —  r  esperienza   non   ha  mai  potuto  in  alcun caso  costatare.  Questa  proposizione  non  può  essere un  caso  particolare  di  una  proposizione  più  gene- rale già  induttivamente  stabilita,  perchè  il  fatto  di cui  si  tratta,    la   continuità   della  coscienza,  è  un fatto  unico  nel  suo  genere,  di  cui  l'esperienza  non presenta  un  analogo.   Ad   una   sola  condizione  pò- tremmo  noi  dunque  inferire  dalla  continuità  della coscienza  la  cosa  che  si    pretende  con  essa  legata, cioè  il  Me  sostanziale,  alla  condizione  cioè  che  noi conoscessimo  dei  casi  in  cui  il  legame  tra  le  due  cose fosse,  non  una  verità  d'inferenza,  ma  un  dato  del- l'osservazione. Non  vi  ha  dunque  che  un  mezzo  per rendere  la  proposizione  conciliabile  coi  principii  del metodo  sperimentale,  cioè  con  quelli  della  logica: è  di  supporre,  come  fanno  una  gran  parte  dei  filo- sofi spiritualisti,  che  il  legame  è  effettivamente  un dato  dell'osservazione,   che  il  Me  sostanziale  non s'inferisce,  ma  si  esperimenta,  si  percepisce.   Ma, per  questa  supposizione,  l'accordo  coi  principii  del metodo  sperimentale  non  è  che  apparente.  La  per- cezione è  uno  stato   di  coscienza  del  soggetto  per- cepente,   che   può   interpretarsi  sia  come  un  feno- meno puramente  subbiettivo,  che  non  esce  dal  sog- getto percepente,    sia  come  un  atto  che  oltrepassa questo  soggetto  ed  attinge  1'  oggetto  percepito,  che perciò  si  suppone  presente  nella  coscienza.  Ma  per preferire    questa  seconda  interpretazione,  come  fa OCV l'ipotesi  di  cui  parliamo,  non  vi  ha  che  questa  ra- gione da  poter  addurre,  che  la  portata  obbiettiva della  percezione,  la  presenza  dell'oggetto  nella  co- scienza, è  una  credenza  naturale,  irresistibile,  che accompagna  la  percezione.  E  cosi  l'ipotesi  presup- pone il  principio  in  cui  noi  abbiamo  riconosciuto l'antitesi  di  quello  del  metodo  sperimentale,  cioè che  la  semplice  evidenza  intrinseca  è  un  criterio sufficiente,  che  la  credenza  è  una  prova  della  realtà della  credenza  stessa.  Ben  più,  in  questo  caso,  il rimedio  è  peggiore  del  male  perchè  l'evidenza  in- trinseca della  proposizione  che  l'unità  della  co- scienza suppone  un  Me  permanente,  sostanziale  po- trebbe forse  ammettersi  come  fatto  psicologico,  se non  come  criterio  logico,  ma  non  quella  della  pro- posizione che  questo  Me  è  una  percezione  imme- diata della  coscienza.  Quando  la  teoria  della  per- cezione immediata  si  applica  agli  oggetti  del  mondo esteriore,  essa  si  giustifica  per  un  appello  alla  cre- denza naturale  del  genere  umano;  ma  la  teoria  della percezione  immediata  della  sostanza  Me  non  è  una credenza  naturale  del  genere  umano;  non  è  che un'ipotesi  di  alcuni  metafisici,  immaginata  per  ispie- gare  la  possibilità  della  conoscenza  di  questa  so- stanza. E  un'ipotesi  delle  non  meno  strane,  che  pre- senta delle  inconcepibilità  come  queste:  1°  Si  ammet- te generalmente  che  la  sostanza  dello  spirito  è  un  che di  sconosciuto  e  d'inconoscibile,  e  la  divergenza  delle opinioni  dei  metafìsici  sulla  natura  di  questa  sostan- za è  una  prova  che  essa  non  può  essere  l'oggetto  di una  conoscenza  immediata;  come  la  natura  di  una cosa  imme  liatamente  presente  alla  coscienza  potreb> COVI be  restare  assolutamente  sconosciuta?  2^  La  perce- zione suppone  una  dualità  di  termini,  un  soggetto percepente  e  un  oggetto  percepito,  mentre  qui  non vi  sarebbe  che  un  termine  unico  che  sarebbe  al  tem- po stesso  il  soggetto  e  Toggetto  (1). Sembra  nondimeno  che  quando  noi  consideriamo il  Me,  il  complesso  dei  fenomeni  della  coscienza, separatamente  dal  suo  sustrato .  corporale,  l' idea  di una  sostanza,  d'  una  cosa  che  permane  durante  la successione  di  questi  fenomeni,  sia  una  suggestione naturale,  che  noi  non  possiamo  impedire  che  ci venga  allo  spirito,  per  quanto  possiamo  respingerne il  valore  obbiettivo.  È  un  fatto  d'osservazione  psi- cologica,  e  di  cui  Stuart-Mill  può  fornirci  un  e- sempio,  quest'idea  dovendo  avere  in  lui  un  mo- tivo indipendente  dallo  spiritualismo  o,  general- mente, dall'animismo,  che  potrebbe  essere  appunto (1)  Stuart-Mill  non  si  fjnda,  per  istabilire  V  esistenza  del  me permanente,  suir  unità  della  coscienza  direttamente  y  ma  sul  fatto -della  memoria  come  implicante  l'affermazione  deirunità  di  coscien- za, cioè,  per  dire  la  cosa  con  le  sue  stesse  parole,  la  credenza  che le  sensazioni  rammentate  hanpo  formato  realmente  una  parte  della stessa  catena  di  coscienza  di  cui  il  ricordo  di  queste  sensazioni  è la  parte  attualmente  presente.  Il  solo  fatto,  egli  dice,  che  rende  ne- cessaria la  credenza  a  un  Me,  il  solo  fatto  che  la  teoria  psicologica (la  quale  risolve  lo  spirito,  come  la  materia,  in  sentimenti  e  possi- bilità di  sentimenti)  non  può  spiegare,  è  la  memoria.  La  nozione del  Sé  è  perciò  secondo  lui  un  accompagnamento  delle  operazioni di  questa  facoltà,  ma  egli  non  vuol  decidere  se  noi  ne  abbiamo  di- rettamente coscienza  neir  atto  di  ricordarci,  o  se,  non  avendo  co- scienza di  un  So,  noi  siamo  forzati  d*  ammetterlo  come  una  condi- zione necessaria  della  memoria;  in  altri  termini,  se  noi  conosciamo il  Sé  por  una  percezione  immediata  o  per  un'  inferenza  {Filos,  di Hamilton  e.  12  e  App.  ai  e.  11  e  12). Non  vi  sarà  certamente  alcuno   che   metterà  in  dubbio  li  fatto CCYII . questo,  che,  negando  la  realtà  obbiettiva  della  ma- teria, egli  deve  rappresentarsi  lo  spirito  separata- mente da  un  sustrato  materiale.  Ora  quale  può  es- sere la  spiegazione  di  questo  fenomeno  psicologi- co ?  Ciò  che  deve  mostrarci  la  via  in  questa  ricerca è  il  principio  che  le  illusioni  naturali,  i  sofismi  a priori  del  nostro  spirito,  sono  il  risultato  di  coe- sioni mentali  puasi  inseparabili,  coesioni  mentali che  non  hanno  potuto  essere  formate  se  non  dal- l'esperienza: ora  la  sola  sostanza,  la  sola  cosa  per- manente, con  cui  l'esperienza  ci  mostra  associato lo  spirito  o   la  coscienza,  e  con  la  cui   idea  l'idea che  la  memoria  implica  la  credenza  che  io  stesso,  l'io  che  ricorda, e  non  un  altro,   ho    avute  le  sensazioni  ricordate,    né  la  realtà  di questa  credenza:  ma  questa  credenza  non  è  che  la  semplice  affer- mazione di  ciò  che   noi   abbiamo   chiamato   unità  della  coscienza. Ammettere   che   essa   contiene  inoltre  la  nozione  di  un  me  perma- nente—a meno  che  per  questo  me  permanente  non  s'intendala  per- dona flaica,  la  cui  rappresentazione  in  effetto  è  un  accompagnamento abituale  del  ricordo  delle  sensazioni  passate  (vedi  il  seguito  del  te- sto) —  non  è  che  un  caso  di  queir  errore,   tante  volte  rimproverato al  metodo  introspettivo  nella  ricerca  psicologica,  di  vedere  nella  co- scienza dei  fatti  che  non  vi  sono,  prendendo  per  fatti  della  coscienza le  proprie  interpretazioni  di  questi  fatti.  L'esistenza  di  un  me  per- manente e  trascendente  (cioè  cha  non  è  né  i  fenomeni  della  coscienza né  la  persona  fisica  che  li  accompagna)  é  poi  cosi  poco  la  condizione necessaria  della  memoria  e  della  sua  realtà,  che,,  nella  supposizione di  questo  me,  niente  vi  La  di  più  naturale  che  il  dubbio  di  Locke, «e  l'identità   della  persona,  cioè  della  coscienza,   non  possa  conti- nuare, malgrado  che  la  sostanza  che  pensa  non  sia  più  la  stessa,  e se  questa  sostanza  rimanendo  la  stessa,  non  possano  esservi  nondi- meno più  persone  o  coscienze  distinte  (infatti  è  perfettamente  con- cepibile che   una  sostanza  abbia  la  convinzione  di  aver  fatte  certe azioni  o  avute  certe   sensazioni   che    un'  altra  invece  ha  realmente latte  o  avute,  come  anche  che  questa  sostanza  perda  totalmente  il sentimento   della   sua  esistenza  passata  —  ciò  che  non  sarebbe  una pura  ipotesi,  ma  un  fatto  dell'  esperienza  —  Saggio  sulVinUnd,  um. ccyiu dello  spirito  o  della  coscienza  ha  una  coesione  stret- tissima, quasi  inseparabile,  è  il  Me  fisico,  il  su- strato  materiale  di  questa  coscienza.  È  vero  in un  senso  che  la  concezione  del  Me  non  è  sem- plicemente quella  di  una  serie  di  sensazioni,  pen- sieri,  volizioni,  ecc.,  ma  comprende  inoltre  la  no- zione di  qualche  cosa  che  perdura  e  resta  sempre la  stessa  durante  lo  svolgersi  di  tutta  la  serie,  e che  questa  cosa  che  perdura  ce  la  rappresentiamo come  il  soggetto,  in  cui  le  sensazioni,  i  pensieri,  le volizioni,  ecc.,  ineriscono.  L'io,  che  nel  linguaggio dello  psicologo  non  è  che  il  nome  dello  spirito,  della coscienza,  nel  linguaggio  ordinario  significa  invece 1.  2.  e.  27).  Del  resto  lo  stesso  Mill  conviene  che  il  fatto  della  me- moria (e  quello  della  previsione  in  cui  egli  vede  pure  un  motivo per  ammettere  un  me  permanente,  ma  che  egli  riconduce  al  feno- meno della  memoria)  resta  egualmente  inesplicabile  tanto  se  si  am- mette la  teoria  che  il  Me  non  è  che  la  serie  dei  sentimenti,  quanto se  si  ammette  la  teoria  che  esso  è  altra  cosa  che  questa  serie.  «  La verità,  egli  dice,  è  che  noi  siamo  in  faccia  all'inesplicabilità  finale, alla  quale,  come  lo  fa  osservare  Hamilton,  arriviamo  inevitabil- mente quando  tocchiamo  ai  fatti  ultimi  ;  e  in  generale  si  può  dire che  una  maniera  di  formularla  non  pare  più  incomprensibile  di un'altra  che  perchè  il  linguaggio  intero  è  appropriato  all'una,  e  si accorda  si  male  con  l'altra,  che  non  si  trovano  per  esprimere  que- sta che  delle  parole  che  la  negano.  La  vera  pietra  d' inciampo  è forse  meno  in  una  teoria  del  fatto  che  nel  fatto  stesso.  Ciò  che  vi ha  di  realmente  incomprensibile  è  forsa  che  una  cosa  che  ha  ces- sato d'  esistere,  o  che  non  ha  ancora  cominciato  ad  esistere,  possa nondimeno  essere,  in  eualche  sorta,  presente  :  che  una  serie  di  sen- timenti, di  cui  l'infinitamente  più  gran  parte  è  passata  o  avvenire possa  essere  raccolta,  per  cosi  dire,  in  una  sensazione  presente  ac- compagnata dalla  credenza  nella  sua  realtà  »  (e.  12.  sulla  fine). Una  proposizione  di  Mill  ha  per  noi  tanta  importanza  che  non possiamo  farla  passare  senza  discuterla,  quantunque  il  luogo  possa sembrare   inopportuno,   ammettiamo   che   il    fatto  della  memoria^ CCIX lo  spirito  e  il  corpo  insieme,  anzi  il  corpo  a  pre- ferenza dello  spirito.  È  evidente  infatti  che  il  pro- nome me  y  della  stessa  maniera  che  un  nome  desi- gnante un  se  qualsiasi,  non  è  la  rappresentazione della  serie  degli  stati  di  coscienza  che  richiama  im- mediatamente al  pensiero,  ma  quella  della  persona fisica.  Di  più,  come  nel  modo  abituale  di  conce|lire  i fenomeni  psichici,  la  persona  fisica  è  il  soggetto  di questi  fenomeni,  cosi  è  mediante  la  rappresentazione dell'unità  e  identità  della  persona  fisica,  che  noi concepiamo  ordinariamente  l'unità  e  identità  della catena  di  cui  questi  fenomeni  fanno  parte.  Ciò  è evidente  quando  si  tratta  di  altre  persone:  come noi    non    possiamo    attribuire   un  fatto    psichico    a con  le  credenze  che  essa  implica,  sia  un  fatto  ultimo,  cioè  che  essa non  possa  ricondursi  a  delle  leggi  psicologiche  più  generali;  ne  se- gue che  esso  è,  come  tutti  i  fatti  ultimi,  inesplicabile;  ma  ne  se- guirà pure  che  esso  è  incomprensibile  ?  Ciò  sarebbe  contrario  all& teoria  della  conoscenza,  i  cui  principii  sono  stati  solidamente  stabi- liti dallo  stesso  Mill.  Se  noi  ammettiamo  che  il  fenomeno  è  l'unica esistenza  di  cui  possiamo  essere  certi,  bisogna  ammettere  pure  che- la parola  incomprensibile,  quando  si  applica  ai  fatti  ultimi,  costanti, generali,  della  natura  o  dello  spirito,  non  ha  senso,  che  essa  non- indica niente  almeno  che  abbia  un  valore  obbiettivo,  quantunque possa  indicare  un  fatto  psicologico  reale.  Un  fatto  particolare  è  in- comprensibile, se  esso  non  è  stato  sin  qui  ricondotto  alle  leggi  ge- nerali, ai  fatti  ultimi  :  ma  i  fatti  ultimi  essi  stessi  non  possono  pre- sentare questa  specie  d'incomprensibilità,  la  sola  che  abbia  un  va- lore obbiettivo;  per  essi,  incomprensibile  non  può  significare  se  non- ché ohe  vi  ha  qualche  cosa  che  oltrepassa  l'esperienza  e  i  fenomeni, l€t  quale,  se  la  conoscenza  umana  potesse  attingervi,  spiegherebbe  i £Bi>tti  in  quistione.  Noi  abbiamo  stabilito  che  questa  specie  d'incom- prensibilità non  è  che  un  fenomeno  psicologico,  senz'alcuna  portata obbiettiva.  Ma  nel  caso  presente  può  sembrare  difficile  di  assegnare l'origine  d«ll'  incomprensibilità,  perchè  questa  accompagna  i  fatti poco  o  niente  familiari.  Come  un  fenomeno  così  familiare  qual  è  la*. ccx un  me  determinato  che  rappresentandocelo  in  con- nessione con  un  individuo  fisico  determinato,  cosi non  possiamo  attribuire  due  fatti  psichici  successivi a  uno  stesso  me  determinato  che  rappresentandoceli entrambi  in  connessione  con  uno  stesso  individuo fisico  determinato.  Quando  si  tratta  di  noi  stessi, fors#  la*  regola  non  è  così  assoluta  :  ma  io  credo  che ciascuno  può  osservare  in  se  stesso  che  ordinaria- mente non  si  rappresenta  come  sua  una  situazione psicologica  in  cui,  in  un  passato  più  o  meno  lon- tano, si  è  trovato,  che  rappresentandosela  congiun- tamente al  suo  proprio  individuo  fisico;  e  che  una parte  almeno  di  questa  credenza  accomqagnante  ogni atto  della  memoria,  che  io  stesso,  e  non  un  altro, sono  quello  che  ha  fatto  l'azione  o  provato  la  sen- sazione ricordata,  è  Taffermazione  dell'  identità  del me  fisico,  che  era  il  sogggtto  di    quest'azione  o  di memoria  può  dunque  sembrare  incomprensibile?  (quando  lo  afferma un  persatore  come  Mill,  noi  dobbiamo  ammettere  che,  se  esso  non è  realmente  incomprensibile,  bisogna  almeno  che  quest'  apparenza d' incomprensibilità  sia  reale).  Io  credo  che  questa  difficoltà  si  ri- solva, ricordando  il  principio  che  i  fatti  stessi  più  familiari  diven- tano incomprensibili  quando  la  interpretazione  scientifica  di  questi fatti  è  differente  dalla  loro  intoi  pretnzione  prescien tifica  e,  per  dir cosi,  naturale,  e  riflettendo  che  questo  principio  trova  la  sua  appli- cazione anche  nel  fenomeno  della  memoria,  la  quale,  secondo  la credenza  naturale,  non  è  una  rappresenrazione,  un'immagine  della cosa  ricordata,  come  ammettiamo  noi,  ma  attinge  e  involge  la  cosa stessa,  come  ammetteva  Reid  che  pretendeva  essere  il  restauratore delle  credenze  naturali.  Ciò  che  non  si  vede  però  ò  come  questa incomprensibilità  della  memoria,  cos'i  intesa,  possa  servire  a  pro- vare l'esistenza  di  un  me  trascendente];  ma,  come  abbiamo  visto,  il Mill  riconosce  che  l'incomprensibilità  sussiste  egualmente  tanto  se si  respinge  quanto  se  si  ammette  questa  ipotesi. CCXI questa  sensazione,  col  me  fisico  che  è  il  soggetto delle  mie  azioni  e  sensazioni  attuali.  Il  me  fisico dunque,  oltre  che  è  concepito  come  il  soggetto,  il substratum  necessario,  dei  fatti  psichici,  rappresenta, nel  nostro  pensiero,  l'unità  e  identità  della  coscienza, e  dà  la  coesione  alla  collezione  delle  sensazioni, formando  la  base  comune  a  cui  tutte  stanno  attac- <;ate  :  ne  segue  che,  quando  noi  concepiamo  lo  spi- rito, la  serie  dei  fatti  della  coscienza,  come  "separato dal  corpo,  ci  sembra  che  questi  fatti  siano  quasi delle  astrazioni  realizzate,  degli  accidenti  senza  so- stanza,  e  che  la  collezione  delle  sensazioni  abbia perduto  ciò  che  ne  costituiva  il  legame  e  la  continui- tà. Di  là  lo  sforzo  di  restitufre  alla  serie  il  suo  sub- stratum e  il  principio  della  sua  coesione,  in  altri termini,  di  sostituire  un  equivalenie  al  me  fisico soppresso.  Il  me  trascendente  è  dunque  un  succe- daneo della  persona  fisica,  che  il  metafisico  imma- gina naturalmente,  per  conformarsi  il  più  che  è possibile  a  un'abitudine  quasi  irresistibile  della  no- stra intelligenza — abitudine  che  genera  una  corri- spondente tendenza  a  credere,  per  la  legge  psico- logica, segnalata  da  Mill,  che  noi  tendiamo  a  cre- dere necessariamente  legate  le  cose  stesse  le  cui  idee sono  necessariamente  legate  —,  dopo  che  quest'abi- tudine non  può  essere  più  soddisfatta  nella  forma primitiva  e  genuina,  per  la  separazione  dello  spi- rito dalla  sua  base  materiale.  Noi  sappiamo  infatti —  ciò  di  cui  la  forma  secondaria  della  nozione  di causa  efficiente  ci  ha  mostrato  un  esempio  evidente —  che  il  nostro  spirito,  tutte  le  volte  che  una  cir- costanza qualunque  viene  a  contrariare  le  sue  tenclenze  naturali,  e  che  così  esso  è  costretto  ad  abban- donare le  prime  concezioni  che  si  era  spontanea- mente formato  dei  fenomeni,  è  inclinato  a  model- lare le  sue  concezioni  ulteriori  e  riflesse  intorno  a questi  fenomeni  sulle  spontanee  e  primitive.  Ora  il me  trascendente  non  si  concepisce  che  per  analogia alla  persona  fìsica:  esso  è,  come  questa,  una  so- stanza, cioè  un  essere  che  sussiste  d'una  maniera permanente  ed  è  sempre  lo  stesso  nella  successione dei  fenomeni  psichici;  il  soggetto  o  snbstratum,  a  cui questi  fenomeni  ineriscono  ;  e  ciò  la  cui  unità  e identità  è  la  base  dell'unità  e  identità  della  persona. È  sempre  il  fantasma  del  corpo,  per  quanto  le  for- me  sotto  cui  il  filosofo  moderno  lo  concepisce  pos- sano essere  lontane  dall'  antica  teoria  dell'  anima- fantasma. §  9.  Quando  la  sostanza  spirito  è  concepita  come: immateriale,  e  al  tempo  stesso  come  un  che  di  di- stinto dai  sentimenti,  pensieri,  ecc.,  in  una  parola dai  fatti  della  coscienza,  si  ha  necessariamente  l'i- dea  di  una  sostanza  sconosciuta  e  misteriosa  (1)  di  cui non  ci  è  possibile  di  formarci  alcuna  nozione,  tutte le  nostre  nozioni  reali  non  avendo  altri  oggetti  che i  corpi,  le  presentezioni  dei  sensi  esterni,  e  i  fatti del  senso  intimo,  della  coscienza:  inoltre  la  dottri- na ha  questo  difetto  evidente,  al  punto  di  vista della  logica,  di  supporre  una  forma  dell'esistenza  che non  ha  alcuna  analogia  nell'esperienza.  Così  la  dot- trina dei  cartesiani  e  di  altri  filosofi,  che  la  sostan-   Il  filosofo   spiritualista   somiglia  al  re  Lear  di  Shakespeare, comandava  :  Chi  sa  ^i  essi  chi  sono  io  ?  za  dell'anima  consiste  nel  pensiero  (ovvero  nel  sen- timento, nella  percezione,  ecc.)  —  quantunque  essa sia  quella  che  si  allontana  di  più  dalla  forma  na- turale della  teoria  della  sostanza  anima,  vale  a  dire dal  doppio  materialismo  primitivo,  e  dalle  esperienze familiari  su  cui  la  teoria  in  generale  è  modellata,  e, per  conseguenza,  non  possa  dare  che  una  soddisfa- zione meno  completa  alle  tendenze  dello  spirito  che l'hanno  fatto  immaginare  -  pure  si  spiega,  non  solo come  uno  sforzo  assai  naturale  di  penetrare  l'es- senza delle  cose,  ma  ancora  per  questo  vantaggio che  e^sa  ha  sullo  spiritualismo  ordinario,  di  non ammettere  altre  forme  della  realtà  che  quelle  che sono  date  dairesperienza.  Ma  è  strano  che,  sia  che si  tratti  dell'  essenza  dello  spirito  sia  che  si  tratti di  quella  della  materia,  delle  due  ipotesi  tra  cui il  metafisico  può  scegliere  quando  le  concezioni, più  spontanee  sono  state  abbandonate,  e  di  cui  l'una consiste  ad  ammettere  una  forma  della  realtà  asso- lutamente sconosciuta  ed  inconoscibile,  e  l'altra  a  non riconoscere  altra  forma  della  realtà  che  quella  che, è  data  nella  conoscenza  immediata,  nella  coscien- za —  modo  di  vedere  che,  applicato  alla  materia,  dà luogo  al  panpsichismo  oppure  all'idealismo,  e  appli- cato allo  spirito,  alla  dottrina  che  la  sua  sostanza consiste  ilei  pensiero  o  nel  sentimento  ecc.  —  è  stra- no, dico,  che  delle  due  ipotesi  è  la  più  sperimen- tale che  è  il  punto  di  partenza  della  metafisica  più astrusa   e    più   arrischiata. La  prima  conseguenza  che  si  offre  allo  spirito —  e  senza  dubbio  la  meno  allarmante  —  della dottrina  che  la  sostanza  deir  anima  consiste  nel pensiero   (qui   la   parola   pensiero   deve    intenders come  il  sinonimo  di  stato  di  coscienza  in  gene- rale) è  la  proposizione  cartesiana  che  l'anima  pen- sa sempre.  In  effetto  ima  sostanza  deve  esistere d'una  maniera  continua  ;  così  se  in  questa  sostan- za non  vi  ha  altra  cosa  che  il  pensiero,  o  piuttosto se  essa  non  è  altra  cosa  che  il  pensiero,  non  può mai  darsi  un  istante  in  cui  essa  non  abbia  qualche pensiero.  Se  l'anima  cessasse  un  istante  di  pensare,, la  sostanza  sarebbe  allora  annichilata,  e  una  nuova sostanza  sarebbe  creata,  quando  l'anima  ricomin- ciasse a  pensare. TJn'alra  conseguenza  è  la  teoria  delle  idee  innate. Questa  teoria  è  già  virtualmente  contenuta  nella dottrina  che  l'anima  pensa  sempre.  È  ciò  che  Locke comprese  perfettamente,  quantunque  egli  sembri  non aver  visto  che  il  punto  essenziale  a  decidere  tra  lui  e  ì cartesiani  era  precisamente  se,  come  egli  1'  assume senza  provarlo,  la  sostanza  dell'anima  dovesse  ri- porsi in  qualche  cosa  di  sconosciuto,  ovvero  in  ciò che  solo  è  attestato  dalla  coscienza.  Se  l'anima  pen- sa sempre,  domanda  Locke,  quali  sono  le  idee  che si  trovano  nell'anima  d'un  fanciullo,  prima  della, sua  unione  col  corpo,  o  al  momento  preciso  di  que- sta unione,  prima  d'aver  ricevuto  alcuna  idea  per la  via  dei  sensi?  Bisogna  allora  che  lo  spirito  abbia delle  idee  che  gli  sono  naturali,  e  che  egli  non  ha ricevuto  per  l'intermediario  del  corpo  (1).  In  verità dalla  supposizione  che  1'  anima  pensa  sempre,  non ne  segue,  come  osserva  il  traduttore  francese  Coste,. (1)  Saggi  snirintend,  1.  2"  e.  1"  s  17  JHqti. che  l'anima  abbia  avuto  delle  idee  prima  di  essere stata  unita  al  corpo,  poiché  essa  potrebbe  aver  co- minciato ad  esistere  nel  momento  stesso  eh'  essa  è stata  unita  al  corpo  :  ma  il  Coste  non  dovrebbe concludere  da  quest'osservazione  che  sin  dal  primo momento  dell'esistenza  dell'anima,  i  sensi  possono fornirle  delle  idee,  comunicandole  le  impressioni degli  oggetti  esteriori.  Prima  che  l'anima  abbia  una sensazione,  il  corpo  deve  comunicarle  l'impressione ricevuta  dall'oggetto  esteriore;  la  sensazione  è  la  rea- zione dell'anima  che  segue  all'azione  del  corpo  su di  essa  (nell'  ipotesi  che  il  corpo  e  l' anima  siano due  sostanze);  dunque  l'anima  deve  esistere  prima di  sentire.  Ma  inoltre  la  necessità  che  vi  sia  nello spirito  qualche  cosa  che  non  sia  dovuta  al  corpo, è  una  conseguenza  necessaria  del  concetto  che  lo spirito  esiste  indipendentemente  dal  corpo,  senza di  che  esso  non  potrebbe  essere  una  sostanza.  Se tutto  ciò  che  vi  ha  nello  spirito  di  reale  non  è  che un  effetto,  sia  immediato,  sia  mediato,  dell'azione del  corpo,  allora  l'esistenza  stessa  dello  spirito  sarà una  conseguenza  dell'  azione  del  corpo,  lo  spirito, per  esistere,  dipenderà  dal  corpo,  non  esisterà  per sé  stesso,  e  per  conseguenza  non  sarà  una  sostanza. La  necessità  delle  idee  innate  derivava  per  Carte- sio dalla  definizione  stessa  della  sostanza  (una  volta che  egli  concepiva  lo  spirito  come  una  sostanza,  e come  una  sostanza  consistente  nel  pensiero)  :  «  una cosa  che  non  ha  bisogno  se  non  che  di  se  stessa  per esistere  »,  o,  per  non  pregiudicare  alla  dipendenza delle  cose  finite  da  Dio,  «  che  può  esistere  senza l'aiuto  d'  alcuna  cosa  creata  »  (1).  E  la  definizione cartesiana  è  perfettamente  esatta:  i  fenomeni,  cioè i  cangiamenti,  delle  sostanze,  vale  a  dire  dei  còrpi, dipendono  dall'  azione  di  altre  sostanze,  di  altri corpi;  ma  l'esistenza  stessa  dei  corpi  è  indipendente da  quella  di  altri  corpi.  Deve  esservi  dunque  nella sostansa  anima,  come  nei  corpi,  qualche  cosa  di  pro- prio che  le  appartentenga  per  sua  natura  e  che non  sia  una  conseguenza  dei  suoi  rapporti  con  al- tre sostanze  :  ma  niente  resterebbe  all'anima  di  pro- prio e  appartenente  ad  essa  por  sua  natura  —  nella supposizione  che  tutto  ciò  che  vi  ha  in  essa  non  è che  pensiero  —  se  tutte  le  sue  idee  fossero  nate dai  sensi,  e,  quindi,  aA^ventizie  e  dipendenti  dal corpo  (2). (1)  Princijnì  della  filosofia,  I  parte,   (2)  Ecco  come  V  anonimo  cartesiano,  autore  del  Trattato  della natura  dell'anima  e  dell'origine  delle  sue  conoscerne  contro  il  sistema di  Locke  e  dei  suoi  partigiani,  stabilisce  che  vi  sono  delle  Idee  che i-uomo  riceve  da  Dio  prima  che  1  sensi  possano  agire  su  di  lui: «  L'anima  essendo  essenzialmente  spirituale,  essendo  stata  creata  pen- sante, bisogna  necessariamente  che  sin  da  questo  primo  Istante  vi  sia <iua]che  0773^^1  roale  al  qiiile  es=ja  pen^a;  perchè  potrebbe  dirsi  che In  questo  primo  momento  Tanlma  pensa  a  nulla  ?  Pensare  a  nulla  e non  pensare  affatto  è  la  stessa  cosn.  Se  dunque  si  ammette  che  Ta- nima  pensa  tosto  che  essa  comincia  ad  esistere,  si  deve  indlspensabil- anente  convenire  ancora  che  essa  ha  sin  d'allora  un  oggetto  a  cui essa  pensa  >. Lelbnitz   obbietta   a   Locke  :    «  Questa  tavola  rasa  di  cui  tanto  si parla   non  è  a  mio  avviso  che  una   finzione Quelli  che  parlano tanto  di  questa  tavola  rasa,  dopo  d'averle  tolto  le  Idee,  non  potreb- fcero   dire   che   cosa  le  resti Mi  si  risponderà   forse  che  questa tavola  rasa  dei  filosofi  vuol  dire  che  l'anima  non  ha  naturalmente ed  originariamente  che  delle  facoltfi  nude.  Ma  le  facoltà  senza  qual- che atto,  in  una  parola,  le  pure  potenze  della  scuola,  non  sono  ^he Il  concetto  delle  idee  innate  non  è  così  innocente al  punto  di  vista  della  correttezza  intrinseca  come quello  della  continuità  del  pensiero  nell'anima.  Se, come  abbiamo  visto  nel  saggio  l*^,  è  dell'essenza stessa  del  pensiero  di  risolversi  in  elementi  sensoriali, un  preteso  pensiero  che  non  constasse  di  elementi sensoriali,  non  sarebbe  un  pensiero  —  secondo  il  solo concetto  concepibile  che  noi  possiamo  formarci  del pensiero  —  :  la  teoria  delle  idee  innate  è  dunque  un concetto  metafìsico  nel  senso  più  stretto,  non  es- sendo un  semplice  errore  di  fatto,  ma  un'impossi- bilità logica. Ma  quand'anche  non  fosse  così,  questa  teoria  me- fiu2ionl,  che  la  natura  non  conosce,  e  che  non  si  ottengono  che facendo  delle  astrazioni  *.  {N,  S,  sull'intend,  1.  2"  e.  1"  §  2).  Le  idee innate  in  Lelbultz  rlposcino  sulla  base  stessa  che  In  Carlerlo  :  quan- tunque talvolta  egli  si  o;ipongi  alla  dottrina  cartesiana  nella  sostanza dell'anima  (p.  e.  neW  Esame  di  MelebrancUe,  ed.Dutens.t.  2'  p.  l*" pag.214,  ove  dice:  lo  spirito  non  è  11  pensiero,  come  dicono  i  c^rte- slanl,  ma  un  soggetto  o  un  concretnm  che  pensa),  tuttavia  la  sua  pro- pria dottrina,  in  ottima  analisi,  non  differisce  essenzialmente  da  quella di  Cartesio.  Nelle  monadi  non  vi  ha  altra  cosa  che  percezioni  ed  ap- petiti ;  anzi,  le  monadi  non  sono  altra  cosa  che  rappresentazioni  di lenomeul  col  transito  a  nuovi  fenomeni,  cioè  che  percezicnl  ed  ap- petltl  (Cfr.  e.  2"  §  16  p.  158).  E  iu  queste  proposizioni  che  dobbiamo vedere  l'espressione  del  vero  pensiero  pi  Lelbultz,  perchè  la  mona- dologia,  come  tutte  lo  altre  varietà  del  panpsichismo,  suppone  il principio  che  non  si  può  ammettere  altra  forma  della  realtà  che quella  che  è  data  nella  esperienza  immediata,  nella  coscienza. Citiamo  infine  Rosmini  :  «  I  filosofi  che  immaginano  1'  uomo  a principio  pi  ivo  di  ogni  sentimento,  lo  fanno  veramente  una  statua: e  quando  in  questa  statua,  che  non  è  un  soggetto  sensitivo,  preten- dono che  al  toccamento  del  corpi  esterni  nascano  le  sensazioni,  seb- bene nella  statua  nulla  ci  sia  di  simile,  descrivono  allora  un  proce- dimento Inesplicabile,  un  mistero  contrario  all'ordine  consueto  della natura.  Dico  un  procedimento  inesplicabile,  perchè  si  fatta  origine del  sentimento,  che  comincia  di  tratto  a  trovarsi  là  dove  punto  non c'è,  oltrepassa  l' Intelligenza  nostra  ({uanto  la  creazione  dal  nulla. Tale  Ipotesi  è  altresì  contro  l'ordine  costante  della  natura,  la  quale HiU ^ i riterebbe  sempre  di  avere  un  posto  nella  storia  dei concetti  metafìsici  (in  questo  senso  più  stretto),  in grazia  almeno  della  dottrina  della  visione  ideale^  di cui  essa  è  uno  dei  punti  di  partenza.  Tutte  le  volte che  si  ammettono  nello  spirito  delle  conoscenze  in- dipendenti dall'esperienza,  nasce  il  problema  di spiegare  la  possibilità  e  l'origine  di  queste  cono- scenze; e  una  delle  soluzioni  che  si  presenta  natu- ralmente al  metafìsico  è  che  queste  conoscenze  ven- gono da  una  percezione  sovrasensibile,  intellettuale. Questa  spiegazione  si  conforma  perfettamenfe  al tipo  generale  delle  spiegazioni  metafìsiche,  che  con siste  a  ricondurre  il  fatto  a  spiegare,  vero  o  sup- posto, alle  nozioni  che  ci  sono  più  familiari.  Ciò  è tanto  vero  che  la  dottrina  della  intuizione  ideale suppone  che  l'oggetto  intuito  è  immediatamente  pre- sente al  pensiero  intuente,  della  stessa  maniera  che  il realismo  naturale  suppone  che  1'  oggetto  percepito dai  sensi  è  immediatamente    presente   nella  perce- non  opera  per  salto  ;  e  eerto  vi  sarebbe  un  saUo,  ove  noi .  al  tocco che  di  uol  fa  un  corpo  esterno,  passassimo  dil  non  sentir  punto  noi stessi,  a  senti,  e  di  repente  e  noi  stessi  e  qualche  cosa  fuori  di  noi. Contemporaneo  a  quel  movimento  esterno,  che  non  ha  nulla  di  slmile con  la  sensazione,  si  sarebbe,  per  così  dire,  acceso  in  noi  e  creato uno  spirito;  polche  quale  idea  ci  possiamo  noi  formare  deUo  spirito privo  al  tutto  di  qualunque  sentimento  e  di  qualun  ine  pensiero?  Lo spirito  non  ha  estensione  né  altre  qualità  di  corpo;  togliete  a  lui anche  le  qualità  dello  spirito,  che  sono  il  sentire  e  l'intendere,  e  voi l'avete  annullato,  o  certo  nella  vostra  mente  l'  idea  di  uno  spirito  è al  tutto  svanita;  purché  supplendo  voi  a  quella  con  un  giuoco  della vostra  immaj?Inazione,  non  v'immaginiate  poi,  o  fingiate  d'Immagi- narvl,  uno  spirito  d'una  specie  quale  non  è  data  nò  dali'osservazlou» uè  dalla  coscienza,  e  noi  mettiate  nel  luogo  dello  spirito  vero  del quale  avete  cancellata  l'idea  *,(N*S,  snll'orig,  delle  idee,  v,  2"  n.  718). zione  sensibile,  quantunque  la  gran  maggioranza dei  filosofi  moderni  rigetti,  su  questo  punto,  la  cre- denza naturale,  sostituendole  la  teoria  che  ciò  che lo  spirito  percepisce  immediatamente  è,  non  l'og- getto stesso,  ma  una  rappresentazione  dell'oggetto. Ora  la  prevalenza,  nella  scienza,  della  teoria  rap- presentativa non  impedisce  che  la  maniera  più  fa- miliare di  concepire  il  fatto  della  percezione  —  in cui  lo  stesso  filosofo  rappresentazionista  lo  conce- pisce spontaneamente  tutte  le  volte  eh'  egli  ha  una perceziona — sia  appunto  quella  del  realismo  natu- rale. Così  è  su  questa,  non  sulla  nozione  scientifica della  percezione  rappresentativa,  che  il  metafisico modella  la  sua  visione  ideale:  Malebranche  non dubitava  della  dottrina  generalmente  ammessa  dai filosofi  della  sua  epoca,  che  noi  non  percepiamo  i corpi  che  per  l' intermediario  di  una  rappresenta- ziene;  ma  se  egli  avesse  ammesso,  in  conseguenza, che  è  di  questa  stessa  maniera  che  noi  vediamo le  idee  in  Dio,  la  visione  ideale  non  sarebbe  stata più  per  lui  una  spiegazione  delle  idee  innate,  per- chè egli  non  avrebbe  ricondotto,  allora,  il  fatto  da spiegare  alle  nozioni  più  familiari  del  nostro  spi- rito (1), La  dottrina  che  lo    spirito  è  una  cosa   che  dura (1)  La  dottrina  delle  idee  innate  può  essere  cosi  bene  li  principio che  la  conseguenza,  della  dottrina  dell'Intuizione  intellettuale.  Quan- do troviamo  la  dottrina  deli'  intuizione  intellettuale  unita  a  quella che  la  sostanza  dell'anima  consiste  nel  pensiero,  o  ad  un'altra  ana- loga sulla  sostanza  dell'anima,  la  quale  supponga  che  questa  conten- ga in  sé  delle  idee  anteriormente  all'  esercizio  dei  sensi  (come  p.  e. nel  sistemi  di  Matebrauche  e  di  Rosmini),  evidentemente  noi  dobbiamo considerare  come   uno  almeno  dei   punti  di   partenza  della   dottrina ccxx continuamente  (che  esso  pensa  sempre),  e  quella che  esso  esiste  per  se,  che,  per  esistere,  non  dipende dal  corpo,  avvicinano  certamente  la  nozione  dello spirito,  concepito  come  non  contenente  in  se  altra cosa  che  il  pensiero,  alla  nozione  di  una  sostanza: ma  perchè  V  assimilazione  dello  spirito  alla  so- stanza sia  la  più  completa  possibile,  bisogna  anche ammettere  in  lui  un  fondo  permanente,  un  elemento che  persiste  sempre  lo  stesso,  nel  mutamento  con- tinuo dei  fenomeni,  e  che  sia  il  sustrato  in  cui questi  fenomeni  cangianti  ineriscono.  È  questa  la proprietà  più  caratteristica  della  sostanza,  per  cui noi  V  abbiamo  definita.  Ora,  nella  supposizione che  nello  spirito  non  vi  sia  altra  cosa  che  pen- siero, o  sentimento,  ecc.,  in  una  parola  che  tutto il  suo  contenuto  debba  essere  concepito  per  ana- logia ai  dati  della  coscienza,  questo  fondo  perma- nente dello  spirito,  questo  sustrato  dei  suoi  feno- meni   cangianti,    non    può    essere    altra    cosa    che delMntult3  li  dottrina  delle  idee  innate,  e  quella  j^ulla  »o«itanza  del- l'anima come  punto  di  partenza  più  lontano.  Ma  la  dottrina  dell'in- tuito non  è  stata  immaginata  soltanto  per  ispiepai-e  le  idee  innate: considerata  In  generale,  essa  ha  per  oggetto  di  spiegare  le  idee  e  le contS'tnie  che  si  suppongono  indipendenti  dall'esperienza,  qualun- que sia  11  motivo  che  faccia  ammettere  delle  idee  e  dello  conoscenze di  questa  specIe.È  evidente  che  questo  motivo  non  è  unicamente  una certa  dottrina  sulla  sostanza  dell'anima:  quasi  tutti  i  metafisici,  qua» iunque  siano  le  loro  idee  sull'essenza  dello  spirito,  ammettono  che le  verità  che  ci  sembrano  intrinsicamente  evidenti,  sono  Indipendenti dall'esperienza,  opinione,  che,  come  abbiamo  detto  nel  Saggio  1",  può riguardarsi  corno  11  risultato  di  un'  inclinazione  naturale  del  nostro spirito.  Alla  tendenza  spontanea  che  ci  fa  conslderai'e  le  verità  che sembrano  intrinsicamente  evidenti  come  a  priori,  si  aggiunge  questa forma  di  speculazione  metafisica,  che  abbiamo  studiata  nei  cap.  VI. CCXXI qualche  pensiero,  o  sentimento,  ecc.,  in  una  parola qualche  cosa  di  analogo  ai  fatti  reali  della  ooscionza. Di  là  il  concetto  che  la  sostanza  dello  spirito  è  un sentimento  o  un  pensiero  sostanziale,  cioè  imma- nente e  continuo,  di  cui  tutti  i  fenomeni  transitori della  coscienza  sono  dei  modi  di  essere,  come  tutti i  fenomeni  transitori  del  corpo  sono  dei  modi  di essere  della  sostanza  del  corpo,  che  persiste  al  di sotto  di  questi  cangiamenti. I  Cartesiani  non  potevano  mancare  di  sviluppare in  questo  senso  la  dottrina  del  maestro.  «  L'essenza dello  spirito,  dice  Malebranche,  non  consiste  che nel  pensiero,  come  l'essenza  della  materia  non  con- siste che  nell'estensione Per  questa  parola  pen- siero  io  non  intendo  lo  modificazioni  particolari dell'anima,  tale  o  tal  altro  pensiero,  ma  il  pensiero sostanziale,  il  pensiero  capace  di  ogni  sorta  di  mo- dificazioni o  di  pensieri,  come  per  l'estensione  non s'intende  una  tale  o  tal  altra  estensione^  la  rotonda e  VII.,  il  cai  oggetto  ò  di  convertire  Ife  verità  (o  pretese  verità)  In- duttivo in  verità  intrinsicamente  evidenti,  e  quindi  a  priori.  Ciascuno di  questi  motivi  della  teoria  delle  conoscenze  a  priori  può  avere  per effetto  mediato  la  dottrini  dell'intuito  razionale,  e  quella  delle  idee innate  che  ne  è  la  conseguenza. Un  altro  motivo  che  produce  la  dottrina  delle  idee  innite  per  la  me- diazione di  quella  dell'intuito,  può  trovarsi  nella  stessa  teoria  ordinaria sulla  sostanza  dello  spirito,  che  considera  questo  come  un  che  di  di- «tinto  dai  fenometil  della  co^clenzi,  e  di  sconosciuto  nella  sua  essenza (spiritualismo).  Quando  il  filosofo  spiritualista  ammette  la  dottrina della  po;'ceeione  immediata  degli  oggetti  esteriori  -  ciò  che  è  la  re- gola nella  filosofia  spiritualista  dell'ultimo  secolo -egli  è  natural- mente portato  ad  estendere  per  nnalogla  la  stessa  dottrina  alla  so- stanza me,  ciò  che  Implica  Videa  innata  del  me  come  sostanza  (al- meno quando  si  «uppoue,  come  sembra  il  più  naturale,  che  questa percezione   che  11   me  hi  di   se  stesso,   è  Immauante), o  la  quadrata,  ma  l'estensione  capace  dì  ogni  sorta di  modificazioni  o  di  figure  »  (1).  L'autore  paragona altrove  le  differenti  percezioni  particolari  dell'ani- ma, relativamente  alla  sostanza  dell'anima,  cioè  alla percezione  o  pensiero  sostanziale  che  ne  costituisce l'essenza,  alle  differenti  figure  che  può  ricevere  la cera,  relativamente  alla  cera  stessa  (2).  Regis  de- finisce l'anima  :  un  pensiero  che  esiste  in  se  stesso e  che  è  il  soggetto  delle  diverse  maniere  di  pen- sare. Egli  distingue  il  pensiero,  che  costituisce  la sostanza  dell'  anima,  e  i  pensieri  particolari,  che non  ne  sono  se  non  delle  modificazioni  differenti: vi  ha  questo  divario  tra  il  pensiero,  che  costituisce la  mia  natura,  e  quelli  i  quali  non  sono  che  dei modi  di  essere,  che  il  primo  è  un  pensiero  fisso  e permanente,  e  gli  altri  sono  cangianti  e  passeggieri. Ma  il  pensiero  che  costituisce  la  mia  natura  non è  il  pensiero  in  generale  (una  semplice  astrazione) ma  un  pensiero  fìsso,  singolare  e  determinato,  che è  il  soggetto  dei  pensieri  particolari  (3).  Arnauld dice  :  «  I  cangiamenti  che  avvengono  nelle  sostanze semplici  non  le  fanno  essere  una  cosa  diversa  da quella  che  erano.  Ciò  è  appunto  quello,  per  cui  le  cose o  le  sostanze  si  distinguono  dai  modi  o  maniere  di •essere,  che  si  possono  anche  chiamare  modificazioni. Ma  le  vere  modificazioni  non  potendosi  concepire senza  concepire  la  sostanza  di  cui  esse  sono  modi- ficazioni; se  la  mia  natura  è  di  pensare,  ed  io  posso I (1)  Rie.  della  ver.  1.  3"  e.  1". (2)  Rie.  della  ver.  1.  1"  e.  1". (3)  Plouquet  Esame  del  fatai,  t.  2**  nez.  3»  e.  H'*. pensare  a  diverse  cose  senza  cangiare  di  natura,  è necessario  clie  questi  diversi  pensieri  non  siano  se non  che  differenti  modificazioni  del  pensiero  che  fa la  mia  natura.  Porse  vi  ha  in  me  qualche  pen- siero che  non  cangia,  e  che  si  potrebbe  prendere per  l'essenza  della  mia  anima.  Io  ne  trovo  due  che potrebbero  credersi  tali  :  il  pensiero  dell'  essere universale,  e  quello  che  1'  anima  ha  di  se  stessa; perchè  sembra  che  1'  uno  e  l' altro  si  trovi  in  tutti gli  altri  pensieri  :  quello  dell'essere  universale,  per- chè tutti  i  pensieri  raccliiudono  l' idea  dell'  essere, non  conoscendo  l'anima  nostra  alcuna  cosa  se  non sotto  la  nozione  di  essere  o  possibile  o  esistente  (è il  germe  della  dottrina  di  Rosmini  sull'essere  ideale); e  il  pensiero  che  l'anima  nostra  ha  di  se  stessa,  per- chè di  qualunque  cosa  io  conosca,  conosco  che  la conosco,  per  una  certa  riflessione  virtuale,  che  ac- compagna tutti  i  miei  pensieri  »  (1). L'esempio  più  notevole  di  quest'applicazione  del concetto  di  sostanza  ai  fenomeni  della  coscienza  si trova  senza  dubbio  nella  filosofia  di  Rosmini  :  la sua  dottrina  sul  sentimento  fondamentale  e  quella sull'intuizione  dell'essere  ideale  non  hanno  altro scopo  che  di  trovare  tra  i  fenomeni  del  sentimento e  del  pensiero  la  sostanza  dell'anima,  cioè  questa cosa  permanente,  di  cui  i  pensieri  e  i  sentimenti successivi  non  sono  che  dei  modi  di  essere.  Ma  per l'importanza  di  questa  dottrina  nel  sistema  di  Ro- smini, e  l'importanza  di  questo  sistema   nella  fìlo- .V- (l)  Delle  vere  e  delle  false  idee^  e.  2.  ' V  sofia  nazionale,  ne  faremo  un'esposizione  particola- reggiata in  un  Supplemento  alla  fine  del  volume: è  ad  esso  che  rimandiamo  per  una  maggiore  delu- cidazione di  questa  forma  del  concetto  di  sostanza anima,  che  cerca  questa  sostanza  nei  fatti  stessi della  coscienza.  Qui  termineremo  per  un'  osserva- zione generale  sulle  diverse  forme  di  questo  con- cetto: è  che  i  diversi  modi  in  cui  è  stata  concepita l'essenza  della  sostanza  anima  non  sono,  al  fondo, che  quelli  stessi  in  cui  è  stata  concepita  l'essenza della  materia.  La  materia  è  stata  concepita:  1^  Come materiale  (mi  si  permetta  di  esprimermi  così),  cioè conformemente  alla  nozione  ordinaria  e  naturale  che gli  uomini  si  fanno  della  materia,  come  una  cosa estesa,  visibite,  palpabile,  ecc.,  ciò  che  è  la  sola  rap- presentazione reale  che  lo  spirito  umano  può  for- marsi della  materialità  (questo  concetto  della  ma- teria ha  il  suo  riscontro  nella  forma  primitiva  della dottrina  animista,  che  il  Bain  ha  chiamato  il  doppio materialismo).  2^  Come  una  cosa  sconosciuta  e  inco- noscibile, punto  di  vista  al  quale  devono  anche  ri- condursi le  dottrine  cosi  dette  dinamiche,  che  risol- vono la  materia  in  elementi  semplici,  cioè  assolu- tamente indivisibili  e  inestesi  (a  questa  concezione della  materia  corrisponde  lo  spiritualismo  ordinario). 3^  Come  consistente  in  percezione  e  appetito  (mo- nadologia di  Leibuitz)  o  volontà  (Schopenauer,  M. de'  Biran,  ecc:)  o  tendenza,  ecc:,  in  una  parola  come analosfa  alla  realtà  che  ci  è  data  nella  coscienza  (è, d'una  maniera  generale,  la  dottrina  che  abbiamo chiamato  panpsichismo,  alla  quale  corrisponde  quella che  la  sostanza  dell'anima  consiste  nel  pensiero,  o nel  sentimento,  ecc.).  Che  i  tre  soli   modi   possibili ccxxv di  concepire  la  materia  si  ino  pure  i  tre  soli  modi possibili  di  concepire  la  sostanza  dello  spirito,  non è  un  fatto  sorprendente,  anzi  è  necessario,  perchè  noi non  possiamo  pensare  che  con  le  idee  che  abbiamo, e  l'idea  della  materia  e  quella  della  sostanza,  che  ciò si  riconosca  o  no,  non  sono  due  idee  distinte,  ma una  sola  e  stessa  idea. Ma  prima  di  finire  non  sarà  forse  inutile  di  met- tere in  guardia  il  lettore  contro  un  possibile  ma- linteso. La  dottrina  che  non  ammette  che  lo  spirito sia  una  sostanza^  non  sopprime  l'opposizione  radi- cale tra  lo  spirito  e  il  corpo,  anzi  è  una  conseguenza di  questa  opposizione,  perchè  se  si  nega  la  sostan- zialità dello  spirito,  è  appunto  per  l' impossibilità di  applicare  allo  spirito  un  concetto,  che  non  con- viene se  non  alla  materia.  Da  ciò  che  lo  spirito  non è  una  sostanza  non  si  deve  concludere  che  lo  spi- rito è  niente,  o  che  la  materia  ha  una  realtà  piti grande  che  quella  dello  spirito.  Al  contrario,  tutti coloro  per  cui  lo  sviluppo  della  filosofia  moderna, da  Cartesio  sino  ai  nostri  giorni,  non  è  il  libro  chiu- so dai  sette  sigilli,  sanno  che  lo  spirito  è  un  fatto mentre  la  materia  non  è  che  un'ipotesi,  e  un'  ipo- tesi che  presenta  le  più  gravi  difficoltà  —  che  noi svilupperemo  e  discuteremo  nella  II  parte,  perchè sono  esse  che  danno  l'impulso  alla  evoluzione  della concezione  realista  del  mondo  esteriore,  determinan- do le  forme  metafisiche  di  questa  concezione. DI   ROSMINI SULLA  SOSTANZA  DELL^ANIMA \i La  dottrina  di  Rosmini  sulla  sostanza  dell'  anima  è una  conseguenza  del  principio  fondamentale  della  sua filosofia  —  principio  in  se  stesso  rigorosamente  speri- mentale —  che  la  realtà  è  costituita  dal  seutimento.  Cosi il  suo  concetto  della  sostanza  dell'anima  si  ottiene  fon- dendo insieme  queste  due  idee  incompatibili,  quella  di un  sentimento  e  quella  di  una  sostanza. L'anima,  dice  Rosmini,  è  un  sentimento  originario e  stabile,  principio  e  soggetto  di  tutii  gli  altri  sentimenti. è  un  sentimento  sostanziale  o  un  sentimento  sostanza: fio  d'  una  persona  è  il  sentimento  proprio  e  incomuni- cabile di  questa  persona  (t).  La  facoltà,  di  sentire  è  co- stituita da  un  atto  primitivo  e  permanente  che  è  la  base e  la  radice  di  tutti  gli  atti  avventizi  e  mutabili  di  questa facoltà  (2):  quest'atto  originario  e  immanente  del  senso Rosmini  lo  chiama  il  sentimento  fondamentale,  ed  è  in esso  che  fa  consistere  la  sostanza  del  principio  senziente, dell'anima  puramente  sensitiva. Le  prove  di  cui  Rosmini  si  vale  per  istabiLro  l'  esi- stenza del  sentimento  fondamentale,  sono  generalmente ^"1 (1)  Psic,  53,  75,  79,  81,  82,  91,  106,  124, 129  ecc.;  iV.  sr.  440  e  n.,  528 n.  2,  626,  627,  719,  1195  e  segg.,  ecc. (2)  N.  S,  1008,  1021-1025,  Psic  KB.Tc^os.  5.  279,  ecc. -  2  - fondate  sul  con(3etto  della  sostanzialità  deir  anima  (i) non  che  su  quello  dell'  unità  e  dell'  identità  del  me,  lo' quali  suppongono  secondo  lui  1'  unità  e  V  identità  del nostro  sentimento  nella  pluralità  e  il  cangiamento  degli stati  della  nostra  sensibilità,  in  modo  che  sia  sempre  lo stesso  sentimento  nei  suoi  diversi  modi  (2). Il  sentimento  fondamentale  è  il  sentimento  dell'  io percettivo  del  proprio  corpo  (3)  :  esso  è  unico,  ma  com- prende, come  due  poli  opposti  e  inseparabili,  un  principio e  un  termine,  cioè  un  soggetto  che  percepisce  e  una  cosa che  è  percepita  (4),  Questa  cosa  che  è  percepita  col  sen- timento fondamentale  è  il  proprio  corpo:  il  nostro  corpo (o  almeno  tutte  le  parti  sensitive  del  nostro  corpo)  è  da noi  abitualmente  e  uniformemente  sentito  d'una  maniera intima  che  non  bisogna  confondere  con  le  percezioni  dei scusi  esterni,  quantunque  questo  sentimento,  per  essere coniiuuo  e  sempre  il  medesimo,  suole  sfuggire  alla  no- stra osservazione.  Questo  sentimento  intimo,  per  cui ranima  percepisce  il  proprio  corpo,  è,  nel  suo  stato  nor- male, un  sentimento  di  piacere  blandamente  e  equabil- mente diffuso  in  tutta  Testensione  del  corpo  (almeno  del corpo  sensitivo)  (5),  o  più  propriamente-  V  estensione  di questo  corpo  è  una  proprietà,  un  modo  del  sentimento stesso  (poiché  secondo  Rosmini  il  corpo  non  è  se  non  in quanto  è  sentito,  e  non  esiste  se  non  nel  sentimento  (6). (1)  Ps.  82-91  98-106,  iV.  &\  717-719,  eco. (8)  Ps.  m  TI,  97,  171-173,  2216,  N.  ^,  887,  ecc. (3)  N.  S,  716,  1025,  1027  eoo. (4)  Ps,  145-H9,  25J-254,  459,  718  n.  5,  eoo. <5)  N.  S,  sez.  5.  parte  5.  e.  3.  e  4. (6)  V.  il  mio  studio  suUa  dottrina  di  Rosminr  sull'essenza  della materia  Notiamo  che  questa  dottrina  e  quella  del  sentimento  fon- damentale sono  intimamente  connesse,  e  si  suppongono  l'una  con Il  sentimento  fondamentale  è  a  noi  innato,  perchè  esso è  rio,  e  noi  siamo  innati  a  noi  stessi  (1)  ;  esso  non  ci manca  mai,  in  alcun  momento  della  nostra  esistenza, perchè  noi  non  possiamo  mancare  a  noi  stessi  (2)  ;  in- fine esso  persiste  nel  flusso  continuo  degli  altri  fenomeni avventizi  dello  spinto,  perchè  il  me,  la  persona,  persiste ed  è  sempre  identica  a  sé  stessa  (3). Ma  è  evidente  che  questa  persistenza  del  sentimento fondamentale,  nella  successione  dei  sentimenti  avventizi e  transitori,  non  sarebbe  sufficiente  per  se  sola  a  riguar- dare questo  sentimento  come  il  me  o  la  sostanza  dell 'a- I l'altra.  Mentre,  da  una  parte,  senza  la  i)ermanenza  del  sentimento fondamentale  la  permanenza,  e  quindi  la  nmltà,  del  corpo  sarebbe impossibile,  dall'altra  parte,  senza  l'inesistenza  del  corpo  nel  prin- cipio senziente,  senza  il  panpsicltlsmo  di  Rosmini,  la  sua  dottrina sulla  sostanzialità  dell'anima  sensitiva  sarebbe  senza  motivo.  Per- chè Rosmini  cerca  una  sostanza,  un  quid  permanente,  che  sia  il sustrato  dei  fenomeni  dell'anima  sensitiva  ?  Perchè  questo  sustrato non  può  essere  pia  per  lui  il  me  fisico,  il  corpo  :  infatti  come  i  fe- nomeni dello  spirito  potrebbero  avere  per  sustrato  11  corpo  se  que- sto non  è  esso  stesso  che  un  fenomeno  dello  spirito  ?  L'ipotesi  della sostanzialità  dell'anima  in  Rosmini  non  ha  per  oggetto,  oome  nel- 'animismo  primitivo,  di  spiegare  l'origine  della  vita  e  il  passaggio dalla  vita  alla  morte  :  la  vita,  per  Rosmini,  non  sorge,  né  si  perde, nel  seno  della  materia  bruta;  tutta  la  materia  è  per  lui  animata, e  le  anime  degli  elementi  materiali  che  costituiscono  un  individuo vivente,  organizzato,  sono  degli  elementi  costitutivi  dell'anima  di quest'individuo.  L'esempio  di  Rosmini  ci  mostra  della  maniera  più evidente  l'importanza  capitale  del  secondo  dei  due  motivi  che  noi abbiamo  assegnato  alla  dottrina  che  lo  spirito  è  una  sostanza  —  cioè quello  risultante  dall'associazione  intima  dell'idea  dello  spirito  con quella  del  corpo  —  per  ispiegare  le  forme  della  dottrina  che  ripon- gono questa  sostanza  negli  stessi  fenomeni  della  coscienza. (1)  N.  S.  42S  n.  2,  441,  ecc. (8)  N.  S,  538  n.  2,  Psic.  IGS  n.,  eco. (3)  Psic.  97,  171-173,  Teos.  5.  42,  45,  279,  eoe. —  3  - Dima  :  perciò  è  necessario  ancora  che  questo  sentimento abbia  con  gli  altri  fenomeni  della  sensibilità  lo  stesso rapporto  che  la  sostanza  ha  coi  suoi  accidenti  o  modi di  essere.  In  effetto  se  il  sentimento  fondamentale  non fosse  in  tale  rapporto  con  gli  altri  sentimenti,  se  esso non  fosse  il  soggetto  a  cui  questi  si  riferiscono,  l'ipotesi del  sentimento  fondamentale  non  farebbe  che  aggiungere un'altra  sensazione  a  questa  collezione  di  sensazioni,  in cui  fanno  consistere  il  me  quelli  che  non  ammettono  che il  me  sia  una  sostanza:  mentre  Rosmini  cerca  ciò  che dà  l'unità  alla  collezione  delle  sensazioni,  questa  sostanza me  che  tutte  le  raccoglie  ed  unizza,  perchè  tutte  in  essa ineriscono. Il  sentimento  fondamentale  è  così  chiamato  da  Ro- smini, perchè  è  in  esso,  secondo  lui,  che  sono  fondate tutte  le  altre  sensazioni  (i)  (e  fra  queste  bisogna  com- prendere le  riproduzioni  che  fa  V  immaginazione  delle sensazioni  passate)  (2).  Il  sentimento  fondamentale  è dunque  la  sede  delle  sensazioni  avventizie,  e  queste  ad esso  si  attengono  come  a  loro  sustrato  (3).  E  in  effetto l'estensione  del  nostro  corpo  da  noi  continuamente  per- cepita col  sentimento  fondamentale,  è  la  sede  in  cui tutte  le  sensazioni  avventizie  vengono  percepite;  poiché secondo  Rosmini  l'estensione  è  un  dato  comune  di  tutte le  sensazioni,  l'estensione  percepita  di  ogni  sensazione essendo  l'estensione  stessa  dell'organo  in  cui  essa  ha  la sua  sede  (4).  Ciò  non  è  vero  soltanto  delle  sensazioni Interne,  che  noi  localizziamo   in    punti    determinati    del (1)  N.  S,  716,  1196,  Teos.  5.  32,  42,  Ps.  866,  eco. (2)  V.  Psic.  parte  1.  1.  3.  o.  9.  art.  2. (3)  Ps.  2216,  Teos.  5.  36,  eco. (4)  N.  S.  426,  729,  734,  837,  858-868,  Ps.  774-777,  Teos.    B.   876,  6. 19,  82   eoo. V nostro  corpo:  ma  le  stesse  sensazioni  esterne,  che  ci  danno le  nozioni  degli  oggetti  esteriori,  hanno  un'  estensione identica  a  quella  dell'  organo  percipiente,  poiché  tutte le  percezioni  dei  sensi  esterni  si  riducono  secondo  Rosmini al  tatto,  e  noi  non  percepiamo  che  la  superficie  dei  corpi esterni,  in  quanto  essa  coincide  e  s'identifica  con  la  su- perficie dell'  organo  percipiente,  sicché  V  estensione  im- mediatamente percepita  nelle  sensazioni  esterne  non  è che  l'estensione  stessa  del  sentimento  fondamentale  (1). Di  più,  siccome  il  sentimento  fondamentale,  che  è  na- turalmente un  sentimento  di  piacere,  ma  che  può  variare, rendendosi  più  o  meno  piacevole  o  anche  doloroso  (se- condo i  cangiamenti  del  corpo),  sostiene  e  contiene  tutte le  sensazioni  avventizie,  cosi  il  piacere  o  il  dolore  ac- compagna, in  qualche  grado,  tutte  le  sensazioni,  se  pure non  voglia  dirsi  che  tutte  le  sensazioni  sono  dei  modi del  piacere  e  del  dolore  (2). Potrebbe  dirsi  che  il  sentimento  fondamentale  è  nella costituzione  dello  spirito  ciò  che  lo  scheletro  o  il  nucleo nella  costituzione  dei  corpi:  ma  Rosmini  trova  che  queste comparazioni  non  sono  adequate  (3).  Queste  compara- zioni, in  effetto,  non  danno  un'  idea  esatta  della  natura del  rapporto  tra  il  sentimento  fondamentale  e  le  sensa- zioni avventizie:  questo  rapporto  non  è  di  quelli  che possono  correre  tra  fenomeni  distinti  e  separati,  fra  atti distinti  e  separati  dello  spirito.  Vi  è  al  contrario  una relazione  d'inerenza  reciproca  tra  il  sentimento  fonda- mentale e  le  sensazioni  avventizie,  perchè  il  sentimento fondamentale  è  il  me  o  la  sostanza  dello  spirito,  e  perciò (1)  V.  N.  S.  sez.  5.  parte  5.  o.  9. (2)  N.  S.  725-727,  756,  837  e  n.  1.,  889,  eco. (8)  Teos.  5.  36. —  4  - la  relazione  fra  esso  e  gli  altri  fenomeni  dello  spirito  è quella  che  vi  ha  fra  la  sostanza  e  gli  accidenti,  fra  Tente e  i  modi  di  essere  dell'ente.  Le  sensazioni  avventizie  (e tra  esse  bisogna  comprendere,  come  abbiamo  detto,  lo rappresentazioni  deirimmaginazione)  sono  delle  modifi- cazioni del  sentimento  fondamentale:  quando  una  sen- sazione nuova  sopravviene  nello  spirito,  essa  non  è  già nuovamente  creata,  ma  è  una  nuova  forma  che  prende il  sentimento  fondamentate  preesistente,  è  il  sentimento fondamentale  stesso  eccitato  e  modificato,  il  quale  di- venendo una  nuova  sensazione,  il  sentimento  non  mu- ta r  essere,  ma  il  modo  doir  essere  (1).  La  sostanza dello  spirito,  cioè  del  sentimento,  resta  la  stessa,  non cangia  che  la  forma  :  è,  per  ripigliare  la  similitudine di  Malebranche,  la  stessa  cera  che  prende  un'altra figura. Per  conseguenza  Rosmini  va  anche  sino  ad  affermare che  le  sensazioni  avventizie  preesistono,  quantunque  in  un modo  diverso,  nel  sentimento  fondamentale  (cioè  nel  sen- timento abituale  e  primitivo  deiranima  per  cui  essa  per- cepisce se  stessa  in  unione  col  proprio  corpo).  In  que- sto sentimento  originario  che  costituisce  la  sostanza  del- Tanima  si  contengono  tutte  queste  appendici  ch'es5>a prende  poscia  nel  suo  sviluppo  (2).  Perchè  il  senziente resti  identico  a  se  stesso,  egli  deve  avere  inerente,  sin dal  principio  della  sua  esistenza,  un  sentito  nel  quale  vir- tualmente si  compreu'lano  tutte  le  future  sensazioni  (3). (1)  y.  S.  701-706,  723-727,  735-736,  887  e  «egg,  1026,    Ps,  279,  442 e  segg.,  tav.  sinott.  del  senso,  1880,  2079,   Teos.  6.  32-36  eoo. (8)  Ps,  130. (3)  Ps.  171,  175,  178,  184,  2079,    Teos.    5.   83-36,    241,  279,    iV.    S. 887-888,  eoo. Il  principio  senziente  prima  di  sentire  attualmente  la nuova  sensazione,  la  sentiva  dunque  virtualmente.  Ma che  cosa  vuol  dire  sentirla  virtualmente  ?  «  Se  per  sen- tire virtualmente  s'  intendesse  non  sentire  niente  af- fatto, dimodoché  vi  avesse  un  passaggio  tra  il  non  sen- tire affatto  e  il  sentire  attualmente,  in  tal  caso  con  la nuova  sensazione  sorgerebbe  un  principio  nuovo  di  sen- tire, non  resterebbe  il  precedente  identico;  la  sensa- zione nuova  non  sarebbe  modificazione  di  un  senti- mento ]»i ecedente,  sarebbe  un  sentimento  del  tutto  nuo- vo ella  s:«  ssa Conviene  dunque  dire  che  la  nuova sensazione  preesiste  in  un  altro  modo .  quasi  nasco- sta e  confusa  in  un  sentimento  maggiore,  in  quel  sen- timento  che  costituisce  l'energia  propria  del   principio senziente Secondo  questo   concetto  (della  virtualità sensitiva)  un  principio  senziente,  un  soggetto,  contiene in  sé  (sentimento  fondamentale)  tutte  le  sensazioni  di cui  è  suscettivo  restando  identico;  ma  le  contiene  in- distinte, fuse  insieme,  senza  l'ultima  perfezione  dell'atto, in  un  primo  grado  di  atto,  a  cui  manca  l'ultimazione. Laonde  fé  si  considera  quale  operazione  si  faccia  nel- l'anima nostra  allorché  noi  ascoltiamo  un  concerto  di musica,  converrà  dire  che  tutta  quell'armonia  che  si  sente si  sv(*glia  ed  eccita  nell'anima  stessa,  dove  si  trovava latente;  ella  dimorava  nel  sentimento  fondamentale  e  so- stanziale adunata  insieme  e  fusa  con  tutte  le  altre  pos- sibili sensazioni  formanti  un  sentimento  solo  che  è  ap- punto il  fondamentale,  manchevole  dell'atto  ultimo  e  di. stinto,  al  qu.ale  venne  provocato  dall'organico  eccita- mento »  (j).  Le  sensazioni  non  sono  dunque  «  create  di nuovo  quando  cadono  nella  nostra  coscienza,  ma  si  estrin- (1)  Teos.  5.  36-36. 5  — secano,  da  implicite  diventano  esplicite,  il  sentimento  non cangia  Tessere,  ma  il  modo  deir  essere»  (1).  Nei  luoghi citati  e  in  più  altri  Rosmini  si  rappresenta  la  mutazione del  sentimento,  che  avviene  alla  nascita  di  una  sensa- zione avventizia,  come  un  passaggio  dall'implicito  allo esplicito,  dairinvoluto  all'evoluto,  dallo  stato  latente  alla manifestazione  esteriore  Noi  abbiamo  visto  che  è  a  simili rappresentazioni  che  si  è  generalmente  ricorso  per  mo- strare come  nei  cangiamenti  apparenti  delle  cose  l' es- sere in  se  stesso  resti  nondimeno  identico  ed  immuta- bile. E  cosi  che  i  Vedantini  (per  far  comprendere  come l'universo  è  identico  a  Brama  da  cui  esso  è  uscito)  usano Timmagine  di  una  stoffa  inviluppata  che  si  sviluppa o  della  testuggine  che  fa  uscire  le  membra  dalla  sua scaglia. Vi  ha  un'altra  immagine  usata  dai  filosofi  vedantini che  può  fornirci  una  rappresentazione  conveniente  del rapporto  che  Rosmini  stabilisce  tra  il  sentimento  fonda- mentale e  le  sensazioni  avventizie.  I  Vedantini  compa- ravano Brama  al  mare,  il  quale  non  è  che  acqua,  ma in  cui  si  osservano  dei  flutti,  della  spuma  e  altre  modi- ficazioni  dell'acqua.  L'acqua  del  mare  rappresentava  per essi  l'essere  primitivo,  e  i  flutti,  la  spuma,  ecc.;  l'uni- verso creato.  Noi  possiamo  invece  rappresentare  per  quella il  sentimento  originario  e  abituale  dell'anima,  e  per  que- sti le  sensazioni  avventizie.  Come  i  flutti,  la  spuma,  ecc., non  sono  fuori  del  mare,  ma  in  esso,  cosi  le  sensazioni avventizie  non  sono  fuori  del  sentimento  fondamentale, ma  in  esso  :  e  come  i  flutti,  la  spuma,  ecc.  :  non  sono che  l'acqua  stessa  modificata,  cosi  le  sensazioni  avventi- ci) Psic,  2079. zie  non  sono  che  lo  stesso  sentimento  originario  e  imma- nente dell'anima  modificato. Rosmini  spinge  sino  al  limite  estremo  l'assimilazione dello  spirito  (i  fenomeni  della  coscienza)  ad  una  sostanza; egli  applica  al  mondo  interiore  della  coscienza  l'assioma degli  antichi  filosofi  che  Tessere  non  può  venire  dal  non essere,  che  niente  nasce  e  muore,  che  il  reale  è,  al  fon- do, immutabile;  principio  che  é  una  generalizzazione  dei fenomeni  r»iù  familiari  dell'esperienza,  ma  semplicemente dell'esperienza  esterna  ;  ma  una  volta  che  Rosmini  con- cepisce lo  spirito  come  una  sostanza,  il  soggetto  come un  oggfMto,  non  deve  trovarsi  strano  ch'egli  applichi  al mondo  subbiettivo  un  principio  che  i  filosofi  ordinaria- mente non  applicano  che  al  mondo  obbiettivo. Il  sentimento  fondamentale,  quale  T  abbiamo  sin  qui descritto,  rioti  esiurisce  tutta  la  sostanza  dell'  anima.  L' a- nivna  umana  non  è  solo  un  principio  senziente  :  se  non fosse  che  questo,  essa  non  potrebbe  sopravvivere  alla morte  del  corpo  ;  perchè  T  attività  del  senso  è  condizio- nata dalle  funzioni  degli  organi  e  quindi  dall'esistenza del  corpo  vivente.  L' anima  sensitiva  non  perisce  del  tutto secondo  Rosmini  alla  morte  dell'  animale,  ma  essa  perde la  sua  individualità  :  come  essa  si  è  formata,  con  la  forma- zione del  corpo  vivente,  per  la  composizione  delle  anime degli  elementi  materiali  di  cui  il  corpo  è  stato  composto, cosi  essa  si  discioglie  in  queste  anime  elementari,  con  la dissoluzione  dei  corpo  nei  suoi  elementi  (1).  O  piuttosto, siccome  la  vera  sostanza  non  è  per  Rosmini  che  T  anima', il  corpo  non  essendo  che  un  sentito,  e  non  esistendo  che in  e  per  il  principio  senziente  (2),    cosi  è   l' anima    sola (1)  Psic,  459,  603-6J2,  663-667,  eoo. (2)  V.  il  mio  studio  sulla  dottrina  dell'essenza  della  materia  in Bosmini. -  6  - in  realtà  che  sì  compone  e  si  diacioglìe,  queste  anime elementari  di  cui  essa  si  compone  e  in  cui  si  discio- glie, essendo  al  pari  di  essa  dei  sentimenti  sostanziali,  in ciascuno  dei  quali  inerisce  come  suo  termine  uìì  corpo. L'  anima  sensitiva  è  dunque  in  un  senso  immortale  se- condo Rosmini  :  ma  questa  immortalità  non  è  quella  che il  dogma  religioso  attribuisce  allo  spirito  umano.  Per salvare  l' immortalità  individuale  dello  spirito  umano  Ro- smini unisce  neiruomo  al  principio  senziente  un  princi- pio intelligente:  questo  sopravvive  alla  dissoluzione  del- r  animale  umano,  e  può  avere  un'  esistenza  separata  dal corpo,  perchè  T  attività  dell'  intelligenza  secondo  Rosmini è  condizionata  necessariamente  come  quella  del  senso a  degli  organi  corporali  (I). Come  il  principio  sensitivo  è  costituito  da  un  atto  ori- ginario ed  immanente  del  sen^o,  così  il  princìpio  intel- lettivo è  costituito  da  un  atto  originario  ed  immanente dell'intelligenza  (2).  Un  atto  primitivo  ed  essenziale dell'intelligenza,  un  pensiero  essenziale,  è  dunque  il  su- strato  di  tutti  i  pensieri  avventizi,  come  un  atto  pri- mitivo ed  essenziale  del  senso  è  il  sustrato  di  tutte  le sensazioni  avventizie.  Questo  pensiero  essenziale,  in  cui tutti  i  p-^nsieri  sono  contenuti  e  che  tutti  suppongono, come  tutte  le  sensazioni  sono  contenute  nel  sentimen- to fondamentale  e  lo  suppongono,  è  la  più  universale ola  più  astratta  di  tutte  le  idee,  l' idea  dell' essere. L' intellezione  dell'  essere  è  la  sostanza  del  principio  in tellettivo,  come  il  sentimento  fondamentale  del  princi- pio  sensitivo  (3).  LMdea  dell'essere   indeterminato   che (1)  V.  y,  S.  177  n,  2,  685  n.  2. (2)  ^\  S.  48J-484,  521,  535,  ^7,  545,  662,  ecc. (3)  Ps,  307-309,  566,  628,  657,  679,  685,  687,  688,  694, 1006,  1009,  1176 1196,  eoo.  ' il  principio  intellettivo  ha  inerente  sin  dall' origine  della sua  esistenza,  contiene  virtualmente  tutte  le  intellezioni future,  come  il  sentimento  fondamentale,  tutte  le  future sensazioni,  perchè  tutte  le  intellezioni  possibili  non  sono che  delle  determinazioni  dell'idea  dell'essere  (1).  Que- 8t'  idea  è  perciò  innata,  non  è  un  risultato  dell'astrazione, non  viene  all'  anima  dal  di  fuori  per  il  canale  dei  sensi: tutte  le  altre  idee  sono  acquisite,  e  nascono  dall' unione deir  idea  dell'  essere  con  una  percezione  dei  sensi  che  dà a  quest'idea  una  determinazione  particolare  (2j.  Ro- smini paragona  l' idea  dell'  essere,  che  costituisce  la  na- tura stessa  dell'intelligenza,  alla  tavola  rasa  d'  Aristotile, 0  ad  una  pagina  bianca  su  cui  le  esperienze  dei  sensi  ven- gono ad  imprimere  dei  caratteri  (3).  La  natura  dell'  in- tendimento, dice  Rosmini,  consiste  in  uno  sguardo  conti- nuo che  mira  V  essere,  e  che  vede  tutto  ciò  che  spetta alla  ragione  dell'  essere,  come  sono  le  condizioni  e  de- terminazioni dell' essere  stesso  (4).  «L'ente  indetermi- nato che  sta  a  noi  continuamente  ed  immobilmente  pre- sente è  come  la  carta  bianca  ove  il  nostro  spirito  mira e  riguarda.  Ora  le  determinazioni  di  quest'  oggetto  non sono  che  un'  aggiunta  accidentale  al  medesimo,  una  scrit- tura sulla  detta  carta  ».  Quindi  con  queir  atto  medesimo col  quale  vediamo  l'essere,  vediamo  ancora  in  lui,  e giammai  senza  lui,  le  sue  determinazioni,  come  guardando la  carta,  noi  vediamo   pure  con  lo   stesso  sguardo   tutti 1  caratteri  che  vengono  in  essa  tracciati  (5). (1)  Pi,  171,  178,  184,  ecc. (2)  N,  S,  sez.  5.  parte  1.  o  2. (8)  N.  S.  538. (4)  N.  S.  624. (5)  y.  S.  623. -7- n L'atto  del  principio  intellettivo,  considerato  per  se  solo, consiste  nella  semplice  apprensione  dell'  essere  universale e  indeterminato:  ma  l'apprensione  dell'essere  rivestito delle  determinazioni  particolari  somministrate  dal  senso, non  è  r  atto  del  solo    principio  intellettivo,  come  non  è quello  del  solo  principio  sensitivo,  ma  è  l'atto  di  questa unica  e  semplice  anima  dell'  uomo,  che  è  al  tempo  stesso intellettiva  e  sensitiva,  perchè  in  essa  si  comprendono, unificati,    tanto    il  principio   sensitivo  quanto  l'intellet- tivo. Rosmini  chiama  1'  anima  dell'  uomo,  questa  unità  del principio  sensitivo  e  del  principio  intellettivo,  il  principio razionale,  perchè  egli  considera  la  ragione  come  una  ri- sultante dell'unione  della  sensibilità  e  dell'  intelligenza  (1) Gli    oggetti    che    cadono  sotto  la    nostra    conoscenza constano  secondo  Rosmini  di  due  elementi  :  un  elemento che  viene  dalla  pura  intelligenza;  è  l' essere  universale, r  idea  del  quale  costituisce  la  forma  stessa  dell'intendi- mento, e  deve  perciò  trovarsi  in  tutti  gl'intesi  —  e  un  ele- mento   che  viene  dal  senso  ;    sono    le    determinazioni  o differenziazioni   dell'essere,   separate   dall'essere  stesso. Di  là  la  distinzione  di  Rosmini  tra  la  percezione  semitiva e  la  percezione    intellettiva    (che  con  più    proprietà  egli avrebbe   potuto    chiamare    percezione   razionale)  (Sì.-'^la percezione  sensitiva  non  coglie  che  il   secondo  elemento degli  oggetti,  vale  a  dire   le  determinazioni   dell'  essere senza  l'essere  stesso  (per  cui  un  sentito  come  puramente tale  non  è  un  essere  secondo  Rosmini)  (3)  ;  la  percezione (1)  Psic,  187,  189,  227,  228,  264,  287,  291,  689,  719,  1012,  1013,  1121 1122,  1186,  1J95,  .V.  S,  480-482,  eoo. (2)  .Y.  S.  55,  56,  63,  64,  132,  326,  338,  454,  455,  458,  474-478,  480-482 536,  538,  622-624,  ecc. (3)  P6ic,  7^-lS,  291,  641,  675,  1176-1177,  1184,   Teos.  5.  37-42,  eco. intellettiva  completa  la  sensitiva,  aggiungendo  a  questa il  primo  elemento,  cioè  1'  essere,  e  contemplando  cosi  i sentiti  nella  forma  dell'  essere,  cioè  come  esseri.  La  per- cezione intellettiva,  questa  sintesi  primitiva  del  sentito con  l'idea  dell'essere,  è  il  talamo  in  cui  il  principio  in- tellettivo si  congiunge  col  principio  sensitivo  (1)  :  essa è  r  atto  primitivo  del  principio  razionale,  di  questo  prin- cipio unico  e  duplice  al  tempo  stesso,  che  costituisce  1'  es- senza dell'anima  umana  (2). Come  la  sostanza  del  principio  sensitivo  è  costituita da  un  atto  immanente  del  senso,  il  sentimento  fondamen- tale animale,  e  la  sostanza  del  principio  intellettivo  è costituita  da  un  atto  immanente  dell'  intelligenza,  la apprensione  dell'  essere  universale,  così  la  sostanza del  principio  razionale,  risultante  dall'  unione  dell'  uno con  r  altro,  è  costituita  da  un  atto  immanente,  che  è la  sintesi  dell'atto  immanente  del  senso  con  l'atto  im- manente dell'  intelligenza.  L'  atto  immanente  del  prin- cipio razionale  è  una  percezione  intellettiva,  il  cui  og. getto  è  il  sentimento  fondamentale  animale,  cioè  il principio  senziente  congiuntamente  al  suo  termine  cor- poreo :  questa  percezione  intellettiva  fondamentale  si distingue  dal  sentimento  fondamentale  animale,  in  quanto ciò  che  nel  sentimento  animale  è  puramente  sentito, diviene  inteso  nella  percezione  razionale,  cioè  viene appreso  nella  forma  intellettuale  dell'  essere  o  come  es- sere (3). Quantunque  Rosmini  affermi  energicamente  l'unità  e (1)  Cfr.  Ps.  264.(2)  X  S.  1025-1026,  Psic.  266,  ecc. (3)  Ps,  75,  264,  265,  266,  286,  287,  291,  420,  641,  645,  671,  689,   719, 1012,  1013,  102b,  ecc. la  semplicità  dello  spirito  umano  (1),  è  evidente  tuttavìa che  la  sua  dottrina  ò  al  fondo  un  vero  dualismo  :  il  prin- cipio sensitivo  e  il  principio  intellettivo  sono  associati durante  la  vita,  ma  essi  si  separano  alla  morte  dell'uo- mo. Alla  quistione  come  questi  due  principii  possano  co- stituire un  soggetto  unico  e  semplice,  Rosmini  risponde che  ciò  avviene  per  la  percezione  che  Tun  principio  ha dell'altro.  Questa  percezione  è  immediata,  cioè  il  perce- pito si  percepisce  in  se  stesso,  e  non  mediante  una  sua rappresentazione  (2):  per  essa  avviene  runificazione  dei due  principii,  perchè,  quando  un  principio  sente  un  altro principio,  siccome  il  principio  sentito  non  è  altra  cosa che  un  sentimento,  e  si  tratta  di  una  percezione  immediata^ cosi  il  principio  percepiente  s'identifica  col  principio  per- cepito, e  si  veritìca  la  massima  che  ex  percipiente  et  per- cepto  fit  unum  (3j.  Questa  percezione  uniàcatrice  dei due  principii  non  è  che  la  stessa  percezione  fondamentale che  costituisce  la  sostanza  dell'anima  razionale  :  nella percezione  immanente  del  sentimento  fondamentale  ani- male, Rosmini  considera  questo  come  il  percepito,  e  il  prin- cipio intellettivo  (che,  secondo  lui,  è  il  portatore  dell'i- dentità del  soggetto  umano)  (4)  come  il  percipiente  (5). Il  principio  intellettivo,  che  mira  continuamente  l'essere, vede  anche  in  esso  la  sua  determinazione  particolare, cioè  il  sentimento  fondamentale  animale  :  questa  perce- zione che  il  principio  intellettivo  ha  del  sentimento  ani- ci) Ps,  125-126,  174-184,  227,  264,  430  e   sgg.,  686  e  9gg.,  716   e sgg.,  eoo. (2)  Psic.  291  n.  J,   Teoa.  5.  494,  eoo. (3)  Ps.  264,  266,  292,  420,  578,  641,  671,  689,  719,  1012,  1023,    Teos, 5.  220-221,  324,  339,  373,  450,  461,  474,  493-494,  ecc. (4)  Psic,  187-190,  687-688,  ecc. (5)  Psic,  641,  645,  671,  1176-1177,  Teos,  5.  381-382,  460,  474,  493,  ecc. male  si  concilia,  secondo  Rosmini,  con  la  dottrina,  la quale  esige  che,  perchè  un  principio  conservi  la  sua  i- dentità,  ciascuno  dri  suoi  atti  deve  essere  virtualmente compreso  nell'atto  primo  che  ne  costituisce  l'essenza; poiché,  il  sentimento  animale  essendo  una  determinazione particolare  dell'essere,  esso  è  virtualmente  contenuto  nel- l'essere universale,  e  quindi  la  percezione  del  sentimento animale  è  virtualmente  compresa  nella  percezione  del- l'essere universale  che  costituisce  la  sostanza  del  princi- pio intellettivo  (1). Noi  dobbiamo  aggiungere  che,  mentr*^  da  una  parte, Rosmini  spiega  Tunificazione  dei  due  principii  mediante la  percezione  intellettiva,  dall'altra  parte  egli  dà  l'unità del  soggetto  umauo  come  ragione  e  fondamento  di  que- sta sintesi  del  sensibile  e  dell'intelK  ttualo,  che  ha^uogo nella  percezione  iutelleitiva  (2).  Cosi  la  p  rcezione  in- tellettiva è  spiegata  per  l'unità  dello  spirito  umano,  e  que- sta alla  sua  volta  è  spie^fata  per  la  p^^rcezione  intellet- tiva: Rosmini  non  spiega  dunque  l'unità  del  nostro  spi- rito, essa  è  inesplicabile  nel  suo  s  stema,  che,  come  ab- biamo detto,  è  un  vero  dualismo  ;  »  ppure  la  dottrina  di Rosmini  sulla  sostanza  dell'anima  aveva  lo  scopo  di  dare un  fondamento  all'unità  e  all'identità  del  mq  !  Cosi  qui accade  questo  fatto  strano,  che  non  è  pertanto  nuovo nella  storia  delle  dottrine  metafisiche,  cioè  che  il  feno- meno stesso,  che  l'ipotesi  è  destinata  a  spiegare,  diviene un'obbiezione  invincibile  contro  questa  ipotesi. La  dottrina  di  Rosmini  sulla  sostanza  dell'ain'in  \  non 8i  limita  a  dare  una  risposta  a  questa  quistione  partico- lare della  psicologia  metaempirica  :  al   contrario  essa  è i (1)  V.  Psic.  190,  264,  671,  eco. '^      (8>.iV.  S.  128,  338,  454,  611,  622,  eco. —  9  — r'  '» il  punto  di  partenza  di  una  moltitudine  di  speculazioni tanto  psicologiche,  quanto  ontologiche,  sicché  il  sistema filosofico  di  Eosmi  DÌ  non  è  in  gran  parte  che  uno  svi- luppo e  una  conseguenza  di  questa  dottrina.  La  teorica dell'essere  ideale  è  il  fondamento,  non  solo  di  una  psi- cologia arbitraria  (perchè  Rosmini  vuol  mostrare,  per  la analisi  delle  operazioni  dell'intelligenza  umana,  che  esse suppongono  tutteTidea  innata  dell'essere),  ma  anche  quello di  una  metafìsica  non  meno  arbitraria,  quest'idea  innata dell'essere,  affinchè  essa  possa  avere  un  valore  obbiettivo, e  si  comprenda  la  sua  presenza  nel  nostro  spirito  indipen- dentemente dall'esperienza,  supponendo,  secondo  Rosmi- ni, che  lo  spirito  umano  abbia  l'intuizione  immediata  del- l'oggetto reale  corrispondente  a  quest'idea  (l'essere  uni- versale 0  indeterminato,  che  noi  predichiamo  di  tutti  gli  es- seri, è  un  attributo  divino,  che  viene  comunicato  agii esseri  ereati;  noi  percepiamo  in  Dio  quest'attributo,  ma senza  percepire  la  sostanza  divina;  quebta  percezione  è immanenie,  e  costituibcc  l'idea  dell'essere  continuamente presente  al  nostro  spirito).  Di  là  un'ontologia  delle  più .ardue,  che  non  è  se  non  il  contracolpo  dell'ideologia  rc- sminiana.  La  dottrina  dell'essere  ideale  è  ciò  che  vi  ha  di più  caratteristico  nella  filosofia  di  Rosmini,  e  ne  è  ordina- riamente considerata  come  la  parte  fondamentale;  ma chi  studia  i  concetti  metafisici  per  darsi  ragione  sovratutto del  loro  perchè  e  della  loro  origine,  non  può  vedere  al- tra cosa  in  questa  dottrina  e  in  tutti  i  suoi  sviluppi  psi- cologici e  ontologici  che  una  conseguenza  di  un  risultato a  cui  Rosmini  è  pervenuto  nella  sua  ricerca  della  sostanza dell'anima  (!)• tj (1)  La  dottrina  giobertiana  dell'intuito  ohe  sostituisce  all'  es- sere ideale  o  astratto  di  Bosmini  l'essere  reale  o  concreto,  cioè  Dio stesso  (e  non  uno  dei  suoi  attributi)  ha  dei  motivi  in  parte  analoghi alla  dottrina  rosminiana. Gioberti  ammette,  come  Bosmini,  che  in  tutte  le  facoltà  del- l'anima vi  hanno  due  stati  o  due  modi  di  esercitarsi,  l'uno  imma- nente e  continuo,  l'altro  successivo  e  discontinuo:  il  primo  è  la  baso e  la  radice  del  secondo.  Il  sentimento  fondamentale  di  Bosmini  è lo  stato  immanente  del  senso;  l'intuito  di  Dio  è  lo  stato  immanente del  pensiero  o  il  pensiero  immanente.  Il  pensiero  immanente  non è  mai  assente  dallo  spirito  umano;  esso  si  trova  nel  fanciullo,  nel dormiente,  ecc.;  e,  se  si  parla  di  questo  pensiero,  è  vero  di  dire  che l'anima  pensa  sempre.  Il  pensiero  immanente  non  è  un  atto  parti- colare del  pensiero,  ma  la  stessa  attività  pensante,  l'essenza  stessa del  pensiero  (analogamente,  il  sentimento  fondamentale  non  è  una sensazione  particolare,  ma  la  stessa  facoltà  sensitiva,  e  il  simile  per le  altre  facoltà  dello  spirito).  Esso  è  dunque  una  potenza,  ma  non nel  senso  ordinario  della  parola,  che  fa  della  potenza  una  semplice astrazione,  ma  una  potenza  nel  senso  leibnitziano,  quae  conatum involvitj  un  ohe  di  concreto  e  perciò  includente  un  principio  di  a- zione.  Il  pensiero  immanente  essendo  l'atto  iniziale  che  costituisce la  potenza  di  pensare,  ne  segue  che  il  pensiero  successivo  non  è che  un'applicazione,  un'attuazione  particolare  determinata,  del  pen- siero immanente.  Il  pensiero  immanente  ha  per  oggetto  l'ente  u- niversale,  il  pensiero  successivo,  le  esistenze  particolari;  quello  per- cepisce Dio  come  ente  puro,  questo  percepisce  Dio  come  ente  in relazione  con  le  esistenze,  cioè  Dio  creante  gli  esseri  finiti  (V.  Pro- toh  t.  1.,  Intuiz.  e  rifless.).  E  siccome  la  creazione  è  secondo  Gio- berti l'individuazione  delle  idee  generali  (v.  Inlrod.  Milano  1860 1. 1. 294-295,  Err,  filos.  di  A.  Rosmini  Brusselle  J843  t.  1.  335-344,  ecc.)  che tutte  sono  comprese  nell'Idea,  cioè  in  Dio,  noi  possiamo  dire  anche che  il  pensiero  immanente  ha  per  oggetto  l'Idea  pura,  e  il  pensiero successivo  l'Idea  individuantesi  o  esplicantesi  esteriormente. Ciò  che  vi  ha  di  comune  tra  la  dottrina  di  Gioberti  e  quella  di Bosmini  è  il  concetto  di  un  fenomeno  stabile,  immanente,  dell'at" tività  psichica,  che  è  il  substratum  dei  fenomeni  transitori.  Appli- cato all'attivila  intellettuale,  questo  concetto  importa  la  necessità di  ammettere  un'  idea  o  delle  idee  essenziali  allo  spirito  e  perciò innate.  Per  giustificare  poi  il  valore  obbiettivo  di  queste  idee  innate, quindi  indipendenti  dall'esperienza,  e  spiegare  la  loro  coincidenza con  la  realtà,  tanto  Gioberti  quanto  Bosmini  ammettono  un'intui- zione ragionale  dell'oggetto  intelligibile.  Ma  le  dottrine  dei  due  fi- losofi non  si  fondano  sovra  un  principio  assolutamente  identico.  Il principio  della  dottrina  di  Bosmini  è,  come  abbiamo  visto,  che  la sostanza  dell'anima  oonsiste  nel  sentimento  (o,  con  un  termine  più generale,  nel  fenomeno  della  coscienza);  ciò  che  è  un'applicazione —  10  - "";  A    r*, partioolare  del  prìneipio  più  genera/e  ohe  il  reale  è  oostitoito  daj seniimeuto.  Ma  non   è  questo  prinoipio  (o  un  principio  analogo)  che può  essere  il  fondamento  della  dottrina  di  Gioberti.  Perchè,  quan~ tunque  la  filosofia  delle  opere  postume  di  Gioberti  aia   un  panpsi- chismo che  risolve  ogni  essere  nel  pensiero  (e  quindi  anche  la  so- sttknza  dell'anima),  la  prima  forma  della  sua  filosofia  invece  riguarda le  sostanze,  e  per  conseguenza  anche  la  sostanza  anima,  come  delle forze  sconosciute,  dichiarando  la  loro   essenza  assolutamente   ine- scogitabile. Ora,  nella  prima  forma  della  filosofia  di  Gioberti,  si  trova già  non  solo  la  dottrina  dell'intuito  razionale  come  atto  immanente dell'intelligenza  (e  quella  del  sentimento  fondamentale),  ma  anche il  concetto  ohe  quest'intuito  costituisce  la  sostanza  aterina   dell'  in- telligenza (Il  pensiero  è  l'intuito  dell'Idea;  senza  questo,  esso  non sarebbe  pensiero,  Intr,  Mil.  J850,  t.  1.  J64,  173,  249,  eco.  :  Il  possesso intuitivo  dell'Idea  forma  la  nostra  intelligenza  ;  la  creazione  della intelligenza  non  è  altra  cosa   ohe   la  comunicazione,  nell'  intuito, deU' Intelligibile  divino.  Ibid,  t.  1.  468,  527-528— cfr.  Errori  Filos,  di A.  J^oamini  Brusselle  1843 1. 1.  pag.  301-302—,  t.  2.  29,  67,  ecc.).  Il  fon- damento della  dottrina  giobertiana  deve  essere   cercato   in  questa tesi:  che  la  potenza  non  è  un'astrazione,  ma  una  cosa  reale  e  con- ereta,  e  consiste  in  uno  sforzo  spontaneo,  in  un  atto  incoato  (v.  /n- trod,  2.  243,  1.  106,  Proleg,  del  Primato  1.  ed.  napoletana  pag.  46-48, ProtoU  Napoli  1861  t.  2.  pag.  190,  ecc.).  Questa  tesi  è  secondo   Gio- berti una  conseguenza  della  concezione  dinamica  delle  cose.  E  in- fetti questa  concezione  (di  cui  spiegheremo  l'origine  nella  2.  parte) risolvendo  il  reale  in  forze  senza  materia,  toglie  dalle  cose  questo substratum  permanente  che  fa  si  che  noi   le   chiamiamo  sostanze* (poiché,  come  abbiamo  avvertito,  la  sola  idea  che  noi  abbiamo  della sostanza  si  riduce  alla  materia).  Ma  per  un  effetto  di  questa  incon- scia tendenza  che  ci  spinge  ad  assimilare   tutte   le   nostre  idee   a quelle  che  ci  sono  le  più  familiari,  il  metafisico  dinamista  si  sforza di  restituire  agli  esseri  la  loro  sostanzialità,  ristabilendo,  sotto   u- n'altra  forma,  questo  substratum  permanente\,oh'essi  hanno  perduto nella  sua  dottrina  filosofica:  in  altri  termini,  egli  cerca  di  rappre- sentarsi la  forza,  cioè  l'attività,  la  potenza,  come  una  sostanza.  Di là  risulta,  primo,  l'idea  che  la  potenza  non  è  mai  inattiva  (poiché la  sostanzialità  importa  la  continuità  dell'  esistenza)  ;   e,  secondo, perchè  la  sostantificazione  sia  più  completa,  la  supposizione  di  un continuo,  immanente,  quale  substratum    degli  atti  transitori della  forza  o  potenza,  substratum  che  è  alla  sostanza  forza  ciò  che là  materia  alle  sostanze  corporee  (vale  a  dire  il  fondo  permanente su  cui  a^ppariscono  successivamente  i  fenomeni  variabili).  Questa 1 tesi,  ohe  ogni  potenza  è  un  atto  primo  e  costante,  da  óul  risultano degli  atti  secondi  e  variabili,  è  comune  anche  a  Kosmiili  (v,  N,  S, 1008)  :  ma  per  Rosmini  essa  risulta  dal  principio  che  il  concettò  di realtà  è  sinonimo  di  quello  di  attività  psichica,  di  coscienza  ;  per Gioberti  invece  dal  principio  che  il  concetto  di  realtà  sinonima, non  con  quello  di  attività  psichica,  ma  con  quello  più  generale  di attività.  Dalla  fusione  del  concetto  di  attività  con  quello  di  sostanza nasce,  per  l'uno  e  per  l'altro  di  questi  filosofi,  l'idea  di  un  atto  im- manente come  substratum  degli  atti  transitori  di  ciascuna  potenza: ma  l'uno  si  rappresenta  ciascuno  di  questi  atti  immanenti  come  un fenomeno  stabile  della  coscienza,  perchè  ogni  attività  è  per  lui  at- tività psichica,  coscienza;  per  l'aitro  il  concetto  di  atto  immanente è  più  esteso  che  quello  di  fenomeno  stabile  della  coscienza,  perchè il  concetto  di  attività  è  più  esteso  ohe  quello  di  coscienza.  Ne  segue che  per  Rosmini  i  fenomeni  stabili  della  coscienza,  che  egli  si  rap- presenta come  il  substratum  dei  fenomeni  variabili,  esauriscono  la sostanza  dello  spirito,  questo,  come  tutti  gli  altri  esseri,  non  essen- do per  lui  che  coscienza:  per  Gioberti  invece  questi  fenomeni  sta- bili della  coscienza  non  possono  costituire  tutla  la  sostanza  dell'a- nima, perchè  egli  suppone,  al  di  là  dei  fenomeni  della  coscienza,  un principio  sconosciuto,  da  cui  essi  derivano,  che  egli  chiama  1'  é?8- senza  dell'anima.  Cercando  un  substratum  permanente  ai  fenomeni successivi  dello  spirito,  affinchè  sia  possibile  di  concepire  questo come  una  sostanza,  e  cercandolo  in  qualche  atto  continuo  e  im- manente, Gioberti,  come  Rosmini,  non  può  trovare  altro  di  rappre- sentabile che  dei  fenomeni  della  coscienza,  immaginati  con  l'attri- buto della  continuità  e  della  stabilità;  ma  per  Rosmini  questo  rap- presentabile è  tutta  la  sostanza  dell'anima;  per  Gioberti  invece  vi ha  di  più  in  questa  sostanza  un  nucleo  oscuro,  una  cosa  ohe  sfug- ge assolutamente  alla  rappresentazione,  e  si  chiama  l'essenza.  Cir- coscritta nei  limiti  delle  forze  di  cui  possiamo  formarci  una  rap- presentazione— cioè  le  potenze  psichiche  che  sono  le  sole  forze  im- materiali di  cui  abbiamo  l'idea-^la  dottrina  di  Gioberti  che  la  po- tenza consiste  in  un  atto  immanente  (e  per  conseguenza  l'applica- zione di  questa  dottrina  alle  facoltà  del  nostro  spirito)  riposa  dun- que sullo  stesso  fondamento  che  quella  di  Rosmini  :  la  differenza tra  i  due  filosofi  è  che  mentre  il  secondo  non  vuole  ammettere  delle forze  d'una  natura  diversa  da  quelle  di  cui  può  formarsi  una  rap- presentazione (donde  il  suo  panpsichismo),  il  primo  estende  al  di  là dei  limiti  del  rappresentabile  il  concetto  di  forza  immateriale,  e, oon  esso,  quello  di  un  atto  immanente  quale  substratum  degli  atti transi  tori  di  questa  forza. Noi  dobbiamo  aggiungere  infine,  perchè  non  si  dia  alle  oonsi- —  u  — derasiom  ohe  preoedono  un'importanza  troppo  assolata,  ohe,  mentre la  dottrina  di  Rosmini  delle  idee  innate  (cioè  dell'idea  innata  del- l'esfiore),  e  quella  connessa  dell'intuizione  intellettuale,  non  sono che  un  risultato  delle  sue  speculazioni  sulla  sostanza  dell'anima, noi  non  possiamo,  al  contrario,  vedere  in  quest'ordine  di  specula- zioni il  motivo  unico  delle  dottrine  corrispondenti  di  Gioberti.  E- videntemente  Gioberti,  e  gli  altri  fìloslfi  che,  come  Yoi,  ammettono un'intuizione  razionale  di  Dio  e  della  verità  in  Dio  (S.  Agostino, S.  Bonaventura,  Malebranche,  Cousin,  ecc.),  ciò  che  vogliono  spie- gare per  questa  dottrina,  è,  in  generale,  la  possibilità  delle  cono- scenze indipendenti  dall'esperienza,  la  loro  coincidenza  con  la  realtà. In  Rosmini,  l'intuizione  razionale  non  spiega  che  l'idea  innata  del- l'essere; -in  questi  filosofi,  oltre  le  idee  innate,  spiega  anche  i  giu- dizi a  priori.  Cosi  essa  è  anzitutto  in  questi  filosofi  una  conseguenza dell'apriorismo  e  dei  sofismi  naturali  da  cui  esso  deriva.  La  dottrina delle  idee  innate,  come  abbiamo  osservato  (App.  o.  2  §  9.),  è,  in  tutto o  in  parte,   una   conseguenza   di  questa  conseguenza. IMMANENZA  DELLE  IDEE  PLATONICHE. Come  prova  deirimmanenza  noi  possiamo  addurre in  primo  luogo  i  termini  di  cui  Platone  si  serve  per  in- dicare le  Idee.  Questi  sono  :  lòéoL  (specie,  forma)  (1),  il  suo sinonimo  sl8o^,  yéyoi;  (genere),  cpóot^  (natura^),  oùaCa  (es- senza) ed  altri  simili  :  p  :  e:  T  ISéa  (forma  o  essenza)  del pari  (Fedone  104-105),  l'sISog  (forma  o  essenza)  della  co- noscenza (Crat.  440  a-b),  gli  st^yj  (specie)  del  piacere  (Fi- lebo  19  b,  20  a  e,  ecc.),  il  y^vos  deirinfinito  (Fil.  25  a,  52 e,  ecc.),  la  ^ùoit;  del  bene  (Fil.  60  b),  Voùoioi,  del  colore (Crat.  423  e).  Questi  termini  non  si  riferiscono  sempre alle  Idee,  ma  solo  quando  denotano  Tuniversale,  come negli  esempi  citati,  indicando  sia  le  diverse  specie  di  es- seri (l'uomo,  Tanimale,  il  bianco,  ecc.)  considerati  in generale,  sìa  Tattributo  o  insieme  di  attributi  comuni  a (J  )  Bammentiamo  che,  neirinterpretazione  del  sistema  platonico, bisogna  guardarsi  dal  lasciarsi  influenzare  dal  senso  che  la  parola idea  ha  nelle  Lingue  moderne,  Come  nota  il  Martin  e  tanti  altri  e- spositori  di  Platone,  furono  gli  Stoici  i  primi  ohe  diedero  a  questo termine  un  senso  psicologico  e  analogo  a  quello  che  ci  è  familiare . I  neo-platonici,  conformemente  alla  loro  interpretazione  del  sistema di  Platone,  intendevano  per  idee  i  pensieri  dell'intelligenza  creatrice, cause  esemplari  delle  cose,  e  la  parola  ritenne  lungamente  questo significato  neoplatonico  e  teologico,  per  tutto  il  periodo  della  sco- lastica, ed  anche  dopo  la  rinascenza.  La  diffusione  del  termine  nel senso  attuale  si  deve  a  Cartesio,  e  Locke  si  scusa  di  usarlo  in  questo senso,  come  di  un  nelogismo  (Sag.  sull'int.  um.  Preamb.  sulla  fìne). -12- ciascuna  specie  (rumanità,  Tanimalità,  la  bianchezza, .)  considerati  pure  in  generale.  Naturalmente  vi  ha un'infinità  di  luoghi  in  cui  questi  termini  sono  impiegati con  questo  significato  generale,  e  in  cui  è  evidente  che ri8éa,  Velòoz,  il  Yévo^,  ecc.,  di  cui  si  tratta,  non  sono delle  entità  trascendenti,  cioè  poste  fuori  delle  coso  di cui  si  dicono  I8éa,  el8og,  vévog,  ecc.  (1)  :  se  non  che,  l'in- (1)  Vedi,  per  es.,  per  il  termine  elfio^  :  Polit.  258  o;  e;262b,  d, e;  263  b;  267  b;  278  e;  285  a;  b;  287  e;  288  a;  d;  e;  289  b;  291  e;  304  e;306  a;  e;  807  d;  Sof.  219  a;  e;  d;  220  a;  e;  222  d;  e;  223  o;  225  o;  226 e;  e;  227  o;  228  a;  229  e;  234  b;  235  d;  236  e;  d;  259   e;   260  d;   264  o; 266  d;  Fil.  18  o;  19  b;  20  a;  o;  23  e;  d;  32  b;  33  o;  35  d;  48  e;  Teet. 157  e;  178  a;  181  c-d;  187  o;  205  d;  208  b-o;  Crat.  386  e;  389  b;  390  a; b;  e;  411  a:  424  o;  d;  440  a-b;  Fedro  265  a;  e;  266  a;  270  d;  271  d;  273 e;  277  b;  o;  Conv.  205  b;  210  b;  Meno.  72  o;  e:  Eutiphr.  6  d;  Rep. 4  d;  437  o;  d;  445  o;  d;  449  a;  477  e;  e;  510  o;  530  o;  532  e;  544  a:  581 o;  e;  585  b;  o;  597  e;  Tim.  53  e;  57  e;  d;  58  d;  59  b;  e;  Leggi  864  b; a;  Parm.  133  b  e  135  b  (le  Idee  sono  chiamate  le  specie  degli  es- seri: s18y)  xc5v  òvt(i)v);  eco. Per  n  termine  lÒéoi,:  Fil.  16  d;  25  b;  60  d;  Fedo.  104  b;  d;  e;  105 d;  PoUt.  258  e;  262  b;  307  e;  Sof.  235  d;  253  d;  Fedro  265  d;  273  e; Eutiphr.  6  d;  6  e;  Crat.  390  a;  Conv.  204  o;  Tim.  46  e;  Rep.  544  d; Parm.  135  a  e  b  (le  Idee  sono  chiamate  lòéoLi  XCDV  OVXODV  V.  pure perciò  Ar.  Met.  1.  I,  VI,  2  e  1.  XIII,  IV,  4);  ecc. Per  la  parola  yévoc:  Sof.  253  b-c;  e;  254  d;  260  a;  b;  261  a;  263  d 264  e;  266  e;  268  a:  224  e;  e;  226  a;  228  b;  235  e;  Fil.  23  d;  24  a;  25  a 26  d;  e;  32  d;  44  e;  52  e;  63  b;  Polit.  260  b;  e;  263  a;  e;  266  a;  b;  e;  e 267  b;  279  a;  285  b;  e;  Tim.  50  e;  51  d;  53  e;  54  b;  e;  55  d;  e:  56  e;  57  o 58  e;  d;  59  b;  e;  ecc.  Aristotile  chiama  le  Idee  platoniche  ^ivY]   iffiv ÒVX(i)V  (Met.  1.  IliriII). Per  la  parola  cpóot^:  Fil.  18  a;  24  e;  25  a;  26  e;  60  a;  b;  Crat.  387  a; 3^  e;  Teet.  174  b;  175  e;  Fedro  270  b-e;  Tim.  55  b.;  58  a;  Polit.  278  b; Leggi  862  e;  ecc. Per  la  parola  oòaCa:  Fedo  65  e;  Crat.  338  e:  423  d-e;  424  b;  ecc. Il  termine  oùoCa  (nel  significato  di  essenza)  prova,  d'  una  maniera più  palpabile  che  gli  altri,  rinerenza  delle  Idee  nelle  cose  :   come terprete  che  ammette  la  trascendenza  delle  Idee  plaloni- che,  dirà,  in  molti  casi  in  cui  questo  significato  imma- nente è  indiscut'bile,  che  i  termini  I5éa,  slSog,  ecc.  non vengono  usali  nel  senso  tecnico,  e  non  designano  le  I- dee.  Ma  questa  scappatoia  dell'  interprete  trascendenta- lista^ la  quale  per  altro  non  è  possibile  in  tutti  i  casi, potrà  valergli  ben  poco  anche  per  quelli  in  cui  crederà di  potervi  ricorrere,  perchè  è  un  principio  platonico  che l'oggetti  d^l  concetto  e  della  conoscenza  generale  è  TI- dc»,  e  quin«li,  tutte  le  volte  che  alcuno  di  questi  termini indica  il  punto  di  vista  generalo,  noi  dobbiamo  presu. mere  ch'esso  si  riferisce  all'Idea.  Senza  dubbio,  è  pos- sibile che  Platone  abbia  alcune  volte  usato  questi  ter- mini oon  un  significato  generale,  senza  pensare  perciò a  fare  dell'univrrsale  a  cui  sì  riferivano,  un'entità  uni- rà sussistcnt  •  ?  or  sé  stessa;  è  certo  anzi  che  vi  '  hanno diM  ca?i  eccezionali,  in  cui  il  significato  generale  non potrebbe  affatto  implicare  la  supposizione  di  un'entità generale  corrispondente  (1);  e  l'interprete  trascendentalista potrà  anche  aggiungere,  a  difesa  della  sua  proposizione, che,  nell'ipotesi  stessa  della  trascendenza  delle  Idee,  Pla- tone sarebbe  stato  tuttavia  costretto,  in  un  gran  numero di  casi,  cioè  quando  egli  voleva  indicare  il  punto  di  vi- nta generale  nella  cons'derazione  delle  cose,  ad  impie- gare i  termini  Idèa,  sl8og,  ecc.  in  un  senso  immanente, perchè  la  lingua  non  gli  offriva  altri  termini   per  s'gni- infatti  l'essenza  potrebbe  essere  concepita  fuori  delle  cose  di  cui  è l'essenza  ?  Che  le  Idee  siano  per  Platone  le  essenze  delle  cose,  è poi  confermato  da  Aristotile  in  Met.  1.  I.  VII,  3,  1.  I.  IX.  1:1,  21, 1.  III.  IV.  6,  7,  1.  VII.  XIII.  3,  1.  Vili.  III.  5. (1)  Per  es.  quando  l'universalità  delle  cose  fenomenali  o  un  ge- nere di  queste  cose  vengono  opposte  alle  loro  Idee,  come  nel  Tim. 4S  e  e  50  e  e  nella  Bepubbl.  597  b. '?- -  18 J  r    m   «I   ficare  l'universale  nelle  cose,  che  quegli  stessi  che  nel senso  tecnico  particolare,  proprio  esclusivamente  del  suo sistema,  significavano  Tuniver^^ale  fuori  delle  cose.  (Que- st'espressione :  l'universale  fuori  d^lle  cose,  è  evidente- mente un  controsenso;  ma  l'interprete  trascendentalista ha  bisogno  di  questo  controsenso  per  definire  le  Idee platoniche).  Ma  cosi  egli  confesserà  che,  nell'ipotesi  della trascendenza,  Platone,  oltre  che  sì  metterebbe  persisten- mente  in  contraddiziono,  col  suo  principio  che  il  concetto generale  si  riferisce  all'Id'^a,  userebbe  i  termini  I5éa,  el^og ecc;  quando  essi  designano  le  Idee:  in  un  senso  affatto diverso  dal  loro  significato  più  ovvio,  e  che  è  quello stesso  in  cui  vengono  usati  il  più  abitualmente  da  lui stesso. 2^  I  termini  designanti  ciascun'Idea,  cosi  bene  che quelli,  di  cui  abbiamo  parlato,  designanti  le  Idee  in  ge- nere, provano  l'immanenza.  Le  stesse  parole  che  indi- cano le  cose,  indicano  pure  le  loro  Idee  :  il  movimento, lo  stato,  la  somiglianza,  la  dissomiglianza,  ecc.,  senz'al- tro, significano  l'Idea  del  movimento,  dello  stato,  della somiglianza,  della  dissomiglianza,  ec3.,  (1).  Qual  è  il criterio  per  distinguere  quando  il  nome  indica  l'Idea  e quando  le  cose  ?  non  ve  ne  può  essere  che  un  solo  :  quan- do il  nome  significa  il  concetto  generale  (l'uomo,  il  mo- vimento, ecc.,),  noi  dobbiamo  presumere  ch'esso  si  rife- risce all'Idea  (2);  quando  il  suo  significato  viene  ristretto a  denotare  degli  oggetti  particolari  (quest'uomo,  il  mo- vimento di  questo  corpo,  ecc.,),  allora  non  può   riferirsi (1)  V.  Pannen,  129,  131  a,  d,  135  e,  136  a-b,  Fedo.  65  d,  74  a,  o, d,  75  a,  e,  76  d,  77  a,  100  d,  e,  101  a,  b,  o,  IQQ  e,  104  a,  b,  RepnhhL 524,  Tim,  30  o,  Fedro  251  a,  eco. (2)  V.  nota  III. che  alle  cose.  Non  è  questa  la  prova  più  palpabile  che le  Idee  non  sono  separate  dalle  cose,  ma  sono  le  cose stesse  considerate  in  ciò  che  vi  ha  in  esse  di  generale  ? Gli  aggiunti,  quali  aùxó,  aùxó  xaG'aOxó,  8  Ioti,  che  si  uni- scono al  nome  della  cosa,  quando  occorre  un  segno  per  di- le  Idee  dalle  cose  particolari,  non  possono  mutare il  8^'gnificato  immanente  del  nome  a  cui  si  uniscono,  per- chè essi  non  indicano  che  il  punto  di  vista  dell'astrazione: aòxè  àvGpwTiog  (l'uomo  stesfio)  vuol  dire  l'uomo  in  ge- nerale, considerato  negli  attributi  che  costituiscono  il stesso  di  uomo,  astrazion  facendo  da  tutte  le difTeronzo  individuali,  di  nazionalità,  di  razza,  ecc.;  aùxò TÒ  xaXóv  (il  bello  stesso)  vuol  dire  la  beltà  in  generale, la  stessa  beltà  che  è  l'oggetto  del  nostro  concetto  di  beltà, astrazion  facendo  da  tutti  gli  altri  attributi  che,  insieme alla  beltA,  si  trovano  negli  oggetti  particolari  a  cui  que- sto concetto  si  riferisce,  cioè,  che  si  chiamano  belli  (1); (1)  L'aÙTÓ,  dice  Aristotile  Eth.Eud.(l.I.VIII,11)si  aggiunge  per indicare  il  concetto  generale.— Il  significato  di  OLÒzó^  risulta  della maniera  più  netta  da  un  luogo  del  quinto  libro  della  Repubbl.  La sete,  in  quanto  è  sete,  si  dice  in  questo  luogo,  non  è  che  l'appetito deUa  bevanda,  e  non  di  una  bevanda  molta  o  poca,  calda  o  fredda,  ecc.» in  una  parola,  di  una  certa  bevanda.  Se  per  la  i^apoDota  della  mol- titudine la  sete  è  molta,  sarà  l'appetito  di  molta  bevanda,  se  è  poca di  poca;  se  alla  sete  si  aggiunge  il  calore,  si  avrà  l'appetito  di  una bevanda  fredda,  se  si  aggiunge  il  freddo,  l'appetito  di  una  bevanda calda:  ma  la  sete  stessa  (aÙTÒ  òi'])OQ)t  n^n  è  che  l'appetito  della  be- vanda sfossa  (aÙToO  7l(i)[iaxog),  l'animo  di  chi  ha  sete,  in  quanto ha  sete,  non  vuole  altra  cosa  che  bere.  E  in  generale,  per  le  cose relative  ad  altre  cose,  ciascuna  cosa  stessa  (xà  aùxà  Sxaaxa)  è relativa  soltanto  a  ciascuna  cosa  stessa  (aùxoO  éxàaxou),  ma  quel- le che  sono  a  un  certo  modo  determinato  sono  relative  a  cose  che sono  pure  a  un  certo  modo  determinate  :  p.  e.  il  maggiore  (sem- plicemente) è  relativo  al  minore  (semplicemente),  ma  il  molto  mag- -14- 0  loTc  xXCvT],  8  laxiv  àyaGóv,  ecc.  fciò  che  è  letto,  ciò  che  è bene,  ecc.),  vuol  dire  ciò  che  è  propriamente  significato dal  nome  letto,  dal  nome  bene,  ecc.,  e  che  non  è  altro se  non  quello  che  ciascuno  di  questi  nomi  propriamente significa,  ciò  che  noi  propriamente  chiam'amo  letto,  be- ne, ecc.,  nelle  cose  particolari  a  cui  applichiamo  questi nomi,  cioè  quell'attributo  o  insieme  di  attributi  che  i  ter- mini letto,  bene  ecc.  connotano,  astrazion  facendo  dagli altri  attributi  con  cui  e.«si  Fono  congiunti  nelle  cose  par- ticolari che  questi  termini  denotano,  cioè  ancora  il  letto in  generale,  il  bene  in  generale,  ecc.  (1)  Il  significato  di giore  è  relativo  al  molto  minore.  Cosi  per  le  scienze  :  la  soienza stessa  (èmaXTQjiY)   OLÒZ'h)     è  scienza  dello  scibile  stesso^    (jia9TQ|iaT0g tt'^TOi)),  ina  una  certa  scienza  determinata  d' nn  certo  scibile determinato:  p.  e,  essendovi  una  scienza  di  edificare  le  case,  si  di- stingue da  tutte  le  altre  scienze  particolari,  prendendo  il  nome  di architettura;  essendo  d'una  cosa  particolare  e  determinata,  anch'es- sa si  fa  particolare  e  determinata.  Cosi  pure  la  s'iienza  dei  salubri e  degl'iasalubri,  essendo  scienza  non  dell'oggetto  stesso  di  che  è scienza  la  scienza  (semplicemente^,  madi  un  certo  oggetto  partico- lare, cioè  il  salubre  e  l'insalubre,  anch'essa  si  fa  determinata  e  parti- colare, e  si  chiama  perciò,  non  scienza  semplicemente,  ma,  per  l'ag- giunzione d'una  determinazione  particolare,  scienza  medica  (Bep. 437  d-439  a).  Non  è  evidente  cha  aùxè  SC^^OC  ^^*  ^^^^  stessa)^  OLÒZÒ Tz(ò\iOL  (la  bevanda  sftfssr»),  aÙTYj  èmoTT^fiY]  (la  soienza  sf<?s8a>  aòxò |iòc0Y][ia,  (lo  scibile  stesso)  non  designano  delle  entità  trascendenti (fuori  delle  cose),  ma  quello  stesso  che  noi  chiamiamo  sete,  be- vanda, scienza,  scibile,  considerati  in  astratto  ?  Questo  significato di  aÙTÓ^  si  troverà  anche  abbastanza  chiaro  in  Teet.  176  o;  Pam. 129  b;  Crat.  439  c-d;  Fedone  74;  78  d;  108  b;  Rep.  478  e;  476  a-c; 479  a,  e;  525  a,  e  (cfr.  684),  Eutifr.  6  d-e;  Ipp.  magg.   286  e;  ecc. (1)  Vedi  Crat.  889  b,  d.  Parm.  I29  a,  b,  Fedone  74  d,  75   b.    Rep. 532  a,  597  a,  e,  ecc.  Cfr.  3f<?no.  74  b-e    Per  compi endere  bene  il  valore  di 3  laxt,  aÙTÓ^  e  simili  nel  linguaggio  platonico,  è  utile  di  tener  presente aùxd  xaO'aGxó  è  il  medesimo  che  quello  di  8  loxt  e  del  sem- plice aùxó  :  il  xaB'aOxó  (per  se  stesiiO)  si  aggiunge  per indicare  d'uua  maniera  più  energica  che  dell*  oggetto, designato  dal  nome,  non   deve   prendersi  che  quel   solo la  disiinzione  tra  la  detonazione  e  la  connotazione  dei  nomi.  Secondo questa  distinzione  che  i  logici  peripatetici  ìacevano  nel  significato  dei nomi  (e  che  Stuart-Mili  ha  introdotto  nella  logica  contemporanea),  il  no- me denoia  ciascuno  degli  oggetti  (concreti)  appartenenti  a  una  classe,  e connota  l'attributo  o  gli  attributi  (astratti)  comuni  a  questa  classe  (se non  tutti,  quelli  almeno  che  entrano  nella  definizione  delia  classe).  Per un  vero  nominalista,  il  vero  significato  del  nome  consisterà  nella  sua  de- notazione; ma  per  un  concettualista  consisterà  invece  nella  sua  connota- ; infatti,  neir ipotesi  dell'esistenza  di  concetti  generali,  un  nome  ge- nerale è  il  segno  d'un  concetto  generale,  e  questo  è  costituito  dall'attributo o  insieme  di  attributi  comuni  a  una  classe  o  per  cui  la  classe  si  definisce. Tale  è  la  dottrina  dello  stesso  Stuart-Mill  (il  quale,  quantunque  si  dia per  nominalista,  è  in  realtà  un  concettualista  (V.  il  Saggio  1.  e.  1.):  la siguiìicazione  reale  d'un  nome  generale  non  è  secondo  lui  che  la  sua connotazione,  questa  consistendo  negli  attributi  inclusi  nel  concetto  (v. Log  1.  1.  e.  i.  §  5,  e.  5,  §  2,  §  7,  e.  7.  §  1.  e.  8,  §  1,  1.  4.  e.  3.  '^4,  e. 4.  §  1,  e  6.  §  5,  ecc.)«  e  una  proposizione,  i  cui  termini  sono  dei  nom- generali,  non  afterma  che  una  relazione  tra  attributi  (v.  Log.  1.  J.  e.  5. §  4,  e.  6.  §  5,  Fa,  di  Hamilton,  e  18.  sulla  fine,  e.  22.  sul  principio ecc.)  Ora  se  al  concettualismo,  come  teoria,psicologica,  si  aggiunge  il  rea- /umo^  come  dottrina  ontologica,  in  altri  termini  se  si  ammette  che  ai concetti  astratti  e  generali  corrispondono  delle  entità  astratte  e  generali, allora  il  vero  significato  dei  nomi  si  riferirà  a  queste  entità,  perchè  esse non  sono  che  i  concetti,  cioè  le  connotazioni  dei  nomi  generali,  realizzate. In  effetto  secondo  Platone  i  nomi  sono  propriamente  i  segni  delle  idee, e  le  cose  prendono  la  denominazione  di  queste  per  la  loro  presenza  e partecipazione  (V.  Fedo  102  b,  103  b,  e,  io4  a,  Parm.  I3O  e-l3J  a,  Meno, 74  d-75  a,  70  a,  Sof,  240  a,  Lach.  I92  a,  ecc.  Cfr,  Arist.  Eth.  hud,  1.  I Vili.  2,  Met,  1.  I.  VI.  2,  ecc.)  È  questa,  al  fondo,  la  dottrina  dei  concet- tualisti, secondo  cui  i  nomi  sono  i  segni  degli  attributi,  e  vengono  dati agli  oggetti  in  vista  degli  attributi  che  essi  possiedono,  tradotta  in  lin- guaggio realista.  Vi  ha  tuttavia  tra  la  dottrina  di  Platone  e  la  concet- tualista questa  difìerenza:  secondo  Platone,  i  nomi  generali  sono  i  nom| delle  Idee;  il  concettualista  invece,  quantunque  ^X\  ammetta  che  i  nomi —  16  — N attributo  0  insieme  di  attributi  che  costituisce  ìa  nozione generale  di  quest'oggetto,  lasciando  in  disparte  tutte  le particolarità  individuali,  tutti  gli  attributi  concomitanti che  differenziano  i  concreti,  tutto  ciò,  in  una  parola,  che non  è  incluso  nel   concetto  generale  (1).  Senza  dubbio  3 generali  concreti,  p.  e.  uomo,  animale,  bianco,  buon),  ecc.  significano propriamente  gli  attributi— perchè  la  loro  applicazione  agli  oggetti  indica la  presenza  di  certi  attributi,  e  viene  fatta  in  ragione  di  questi  attribu- ti—, non  dirà  però  che  questi  nomi  sono  i  nomi  degli  attributi  .  perché gli  attributi  vengono  denotati,  non  da  essi,  ma  dai  nomi  astratti  che  ne derivano,  p.  e.  umanità,  animalità,  bianchezza,  bontà,  eec.  Sicché  mentre secondo  Platone  le  cose  prendono  il  nome  delle  Idee,  secondo  il  concet- tualista a!  contrario  sono  gli  attributi  che  prendono  il  nome  delie  cose» perchè  animalità  viene  da  animale,  bianchezza  da  bianco,  ecc.  La  ragione di  questa  differenza  é  che  secondo  il  concettualista  gli  attributi  sono  sem- plicemente degli  attributi— che  non  si  concepiscono  per  sé  stj  non  per  una astrazione  della  mente— e  non  allo  stesso  tempo  delle  80stan2e,  cioè  delle realtà  sussistenti  per  se  stesse;  per  conseguenza  non  può  applicarsi  ad essi  un  nome  concreto,  perchè  questi  nomi  non  denotano  che  le  sostanze. Ma  le  Idee  sono  per  Plat.ne  non  solo  attributi — delle  cose  che  ne  parte- cipano—ma  anche  sostanze,  potendo  darsi  per  definizione  dell'Idea  ch'essa è  un  attributo  sostantificatc;  per  conseguenza  egli  può  denotare  gli  at- tributi quali  esistenti  per  sé.  cioè  le  Idee,  coi  nomi  concreti. Si  osservi  che  la  dottrina  platonica  di  cui  parliamo  è  una  prova   e-, vidente  della  immanenza  delle  Idee,  perché  é  chiaro  che  ciò  che   i  nomi propriamente  significano  non  può  essere  che  gli  attributi  delle  cose  nelle cose  stesse,  e  non  delle  entità  trascendenti /i*oW  delle  cose. Toroando  ora  al  significato  di  o  SOTt,  aùxóg,  ecc.  nel  linguaggio platonico,  noi  possiamo  formularlo  brevemente,  dicendo  che  questi  ter- mini, aggiunti  a  un  nome,  identificano  la  denotazione  di  questo  nome alla  sua  connotazione,  indicano  che  ciò  che  ii  nome  denota  non  è  che quello  stesso  che  esso  connota. (1)  V.  Parm.  I29,  Meno,  loo  b,  liep.  4yQ  b,  524  d,  ecc.  Cfr.  Hep, 528  b,  in  CUI  si  oppone  al  solido  in  movimento  che  è  l'oggetto  dell'astro- nomia, il  solido  a'JXÒ  xaO'aOxó  che  é  l'oggetto  della  geometria.  L'aOxò xaG'aùxó  (e  il  femminile  aOxY]  xaO'aòxT^v),  oltre  che  ai  nomi  delle  co- il i'- p laxi  xXCvT),  aòxó  xaXóv,  xaXòv  aòxó  xa9*a6xó  ecc.,  non  si- gnificano solamente  che  il  letto,  il  bello,  e  ogni  altra  cosa di  cui  è  quistionf*,  devono  concepirsi  d'una  maniera  astrat- ta, ma  di  più  chVssi  hanno  un'esistenza  reale  in  questo stato  astratto,  ch'essi  sono  delle  sostanze  nel  tempo  stesso che  delle  astrazioni  —  la  determinazione  della  sostanzia- lità-è  chiaramente  espressa  sovratutto  dal  termine  aOxò xaG'aòxó,  perchè  e^s^re  xaG'aOxó  significa  sussistere  per  se stesso,  essere  non  un  semplice  predicato,  ma  un  sogget- to (1):  ma  da  ciò  V  interprete  trascendentalista  non  deve affrettarsi  a  concludere  che  il  letto,  il  bello,  ecc.,  di  cui si  tratta,  sono  delle  entità  situate  in  un  altro  mondo, al  di  fuori  dei  letti,  delle  cose  belle,  ecc.,  particolari. La  quistione  non  è  già  se  Piatone  abbia  o  no  conce- pito le  Idee  come  sostanze;  ma  se  queste  sostanze  egli le  abbia  o  no  considerato  al  tempo  stesso  come  inerenti nelle  cose  e  costituenti  i  loro  attributi.  Non  vi  ha  dub- bio che  queste  due  nozioni,  essere  delle  sostanze,  e  ine- rire nelle  cose  come  loro  attributi,  sembrino  al  nostro punto  di  vista  contraddittorie,  ma  è  in  questa  contrad dizione  che  sta  l'essenza  della  dottrina  delle  Idee  e  del realismo  in  generale,  e  il  significato  di  aùxò  xaG'aOxó  e degli  altri  termini  equivalenti  designanti  le  Idee  riunisce appunto  queste  due  nozioni,  per  noi  incompatibili.  Am- se,  può  essere  aggiunto  ai  termini  glSog,  OÙaCa  e  altri  designanti  le  1- dee  in  genere,  per  indicare  che  le  forme  o  essenze  di  cui  si  tra  Uà  devono essere  considerate  ciascuna  per  sé  sola,  astrazion  facendo  dalle  altre  for- me o  essenze  con  cui  si  trova  mescolata  nelle  cose  (come  pure  che,  cosi considerate,  esse  non  sono  deile  semplici  astrazioni,  ma  anche  delle  realtà — delle  astrazioni  realizzate — ).  La  stessa  osservazione  per  OLÙzÓQ. (1)   V.  Arist.  Magn.  Mor.  1.  J.  I.  12.    Net.    1.    XI     X.   3,    ecc.    Cfr Mei.  1.  V.  XVIII.  8.  Anal.  Post  1.  I.IV.  5. —  16  -i mettere  che  le  Idee  platoniche  sono  fuori  delle  cose  è  am- mettere che,  quando  si  pensa  e  quando  si  parla,  i  nostri coDcetti  e  i  nostri  nomi  generali  si  riferiscono  a  delle  en- tità poste  fuori  delle  cose.  Ma  se  si  conviene  che,  quando si  pensa  e  quando  si  parla,  1  nostri  concetti  e  i  nostri nomi  generali  si  riferiscono  agli  attributi  esistenti  nelle cose  stesse,  bisogna  anche  convenire  che  le  Idee  plato- niche esistono  nelle  cose  stesse  come  loro  atiributt.  In  ef- fetto i  valore  dei  termini  aòxó,  aùxò  xaG'aOxó,  o  éoxt  e  simili è  precisamente  questo,  di  far  significare  ai  nomi,  a  cui essi  si  aggiungono,  quello  stesso  appunto  [quello  stesso,  non qualche  cosa  di  s  mile  o  di  eguale)  a  coi  i  nostri  con- cetti e  i  nostri  nomi  generali,  tutto  le  volte  che  pensia- mo o  che  parliamo,  si  riferiscono,  in  quanto  questi  con- cetti e  questi  nomi  sono  i  segni  e  i  rappresentanti,  non delle  cose  concrete,  ma  degli  attributi  di  queste  cose  (i). (1)  li  senso  immanente  di  questi  termini  è  abbastanza  chiaro  negli esempi  cne  abbiamo  citato  nelle  note,  e  gli  altri  che  si  potrebbero  ag giungere,  per  illustrare  il  loro  significato  nella  li ngna  filosofica  di  Platone. Contro  alcuno  di  questi  esempi  l' interprete  irascendenfaiisla  potrebbe fare  l'obbiezione  che  non  vi  si  parla  delle  Idee:  e  sia  pure  !  ma  ciò  non  in- validerebbe la  forza  dell'argomento,  perchè  se  aùxóg  e  gli  altri  termini  e- quivalenti  designano,  quando  non  sono  impiegati  in  un  senso  tecnico, cioè  implicante  la  realizzazione  dei  concetti,  gli  attributi  delle  cose  stes- se considerati  nella  loro  generalità  e  nella  loro  purezza  astratta,  essi  non possono  designare  altra  cosa,  quando  il  loro  senso  è  tecnico,  cioè  quando implica  questa  realizzazione  dei  concetti.  La  cosa  designata  nei  due  casi deve  essere  la  stessa:  salvo  che  nel  primo  caso  non  si  pensa,  come  nel secondo,  ad  elevare  questa  cosa,  cioè  quest'astrazione.,  al  grado  di  entità reale,  sussistente  per  sé  stessa Una  prova  del  significalo  immanente  dei  termini  platonici  aÙXÓ  e xaG'auxÓ  si  ha  anche  nell'  uso  che  fa  Aristotile  di  questi  termini, quando  se  ne  serve,  come  Platone,  per  indicare  il  punto  di  vista  dell'  a- strazione,  perchè  è  certo  che  i  concetti  che  essi  esprimono  in  Aristotile non  possono  rappresentare  delle  entità  trascendenti.  V.  per  ciò  De  6'o0/o Como  può  ridoa,  che  è  uni,  identificarsi  chi  gli  attri- buii dell»,  coso  particolari,  che  sono  multiple  ?.Comc  può Tuno  essere  nei  moti?  Certamente  ciò  è  difficile  a  con- cepire; ma  lo  stesso  Platone  confes-a  clic  qu  sta  è  la grande  diffi»,oltà  del  sistema  dell»?  Id'^c  (I). I.  I.  IX.  2,  5,  \iet.  1.  VJI.  Xr.  2.  1.  VII.  JII.  4.  X.  J3,  1  VI.  IV,  3.  1,  XI III.  8,  ecc.  È  sovratutto  notevole  ii  primo  dei  luoghi  citati,  in  cui  distingue la  forma  sUssa  per  se  slessa  (aOxTQ  xaG'aOxr^v)  e  questa  forma  mesco- lata con  la  materia:  p.  v.  la  forma  (gen^.'-aie  e  astraila)  del  circolo  e  un circolo  parcicolare,  quella  della  slera  e  una  sfera  particolare,  quella  del <-ielo  (che  potrebbe  ritrovarsi  in  una  moluiudiuc  di  cieli  possibili)  e  que- st'unico cielo  reale  che  noi  osserviamo  (La  stessa  distinzione  un  po'  piii innanzi— >1.  I.  IX.  5-^«>  espressa  con  le  parole:  il  cielo  sleao     —     aOx(j) OÙpavq)   —  e  questo  cielo), in  altri  casi  Aristotilo  usa  questi  termini  iti  un  senso  identico  quasi assolutamente  al  platonico  (cioè  indicante,  oltre  aU'aslrPzione,  anche  la sostanzialità):  è  quando  essi  gli  servono  ad  esprimere  dei  concetti  di  altii filosofi  che,  come  Platone,  hanno  realizzato  delle  astrazioni;  ed  anche  in questi  casi  il  significato  immanente  «*  indubitabile,  perchè  i  filosofi  di cui  si  tratta  hanno  incontestabilmente  consi(icrato  le  loro  astrazioni  rea- lizzate come  inerenti  alle  cose,  e  non  come  (ìa. la  ^iniiik  trascendenti.  Cosi vengono  chiamati  aOxÓ  i'Tno,  il  Finito  e  l"  Infinito  dei  Pitagorici  (v. Phys  1.  IH.  V.  1-4  —  cfr.  Met  1.  XI.  X.  2-0—,  Mei,  1.  I,  V.  13,  1.  IH, IV  22— <"fr.  25 —,  l.  X.  Il  lì,  dicendo  che  questi  filosofi  consideravano  queste astrazioni,  non  come  s<'mplici  attributi  degli    esseri   concreti,    ma    come realtà  sostanziali  (in  Ph»/s,  1.  I.  VHI.  2  aOxó  viene  anche  applicato  al l'Essere  degli  Kleati,  perchè  anche  questo  era  in  un  certo  modo  la  realiz- zazione del  concetto  astratto  dell'essere):  e  llnfinito  degli  stessi  Pitagorici viene  anche  detto,  per  questa  ragione,  xaG'aOxó  (V.  l^h^'s  1.  II!  I  /  2), confermando  la  nostra  osservazione  antecedente  che  la  determinazione della  sostanzialità  espressa  da  questo  termine  non  porta  come  conseguenza quella  della  trascendenza. (1)  Ad  aòxó,  xaB'aOxó,  0  èaxi  corrispondono  gli  epiteti,  dati alle  Idee,  di  xaBapÓV  (pure;  v.  Fedone  67  a-b,  TU  d,  83  e,  Conv.  211  e), slXlxpivé;  (schietto  —  V.  Fedone  66  a,  67  a-h,  Conv,  211  e)»  dt|llXXOV -  17  - -i f Prima  di  passare  a  un  altro  ordine  di  prove,  segna- lerò una  formula  di  cui  Platone  si  serve  per  indicare  bre- vemente la  sua  dottrina  :  il  beHo  (  o  il  bello  stesso  o  il bello  stesso  per  se  stesso)  è  qualche  cosa,  il  buono,  il  giusto e  ciascuna  specie  degli  esseri  è  qualche  cosa  (1);  vuol dire  :  si  deve  ammettere  un'  Idea  del  bello,  del  beno, della  giustizia  e  di  ogni  altro  attributo  generale  delii cose.  La  predicazione  è  qualche  cosa  attribuisce  al  bello, al  buono,  al  giusto,  ecc.,  in  astratto,  la  realtà,  affer- ma che  essi  non  sono  puri  nomi  né  semplici  concetti, ma  entità  reali  aventi  ciascuna  un'  esistenza  propria  e distinta.  Ora  m  queste  proposizioni  :  e  il  bello,  il  buono, ecc.  è  qualche  cosa  »,  questi  astratti,  di  cui  Platone  af- ferma la  sussistenza  reale,  sono,  per  lui,  delle  entità  im- manenH  o  trascendenti  V  sono  gli  attributi  del'e  cose  ndl^ cose  stesse,  o  gli  esemplari  di  questi  attributi  posti  fuori delle  cose  V  È  una  semplice  quistione  grammaticale.  È evidente  che  la  proposizione  :  «il  bello,  o  il  buono,  ecc. (immisto  —  V.  Couv.  211  e,  FU.  59  e),  |X0V02t5éc  (uniforme  —  v.  fr- done  78  d,  80  b,  83  e,  Conr,  21J  b,  e),  ecc.  :  questi  termini  signifi- cano,  come  quelli,  che  noi  dobbiamo  rappresentarci  l'Idea  per  un concetto  rigorosamente  astratto,  isolando  ciascun  attributo  gene- rale delle  cose  da  tutte  le  circostanze  concomitanti,  non  perchè  esi- sta realmente  isolato  da  esse,  ma  perchè,  concepito  astrazion  facendo da  esse,  ha  tuttavia  una  realtà  propria,  un'esistenza  distinta  e  in- .  dipendente. (1)  P.  e.  nel  Fedone  66  d.  •*  Diciamo  che  il  giusto  è  qualche  cosa o  niente  ?— Qualche  cosa,  per  dio!  — E  il  bello,  e  il  buono,  sono qualche  cosa?  — E  come  no?—  Hai  visto  mai  alcuna  di  queste  co- se ?  -  Giammai,  disse  -  O  forse  l'hai  percepito  per  qualche  altro  dei sensi  corporei  ?  io  parlo  di  tutte,  della  grandezza,  della  sanità,  della,  e  in  una  parola  dell'essenza  di  tutte  le  cose,  vale  a  dire di  ciò  che  è  ciascuna  cosa.  „ V.  anche  Fedone  74  a-b,  100  b,  102  b.  Crai  430  e,  fppia  maity,  287 'j-d,  Protay.  330  b,  d,  Rep,  476  o-d,  480,  eco. I è  qualche  cosa  »  è  una  proposizione,  non  verbale  e  ana- litica, ma  reale  e  sintetica,  vale  a  dir»»,  in  cui  la  nota, espressa  dairattributo,  non  era  contenuta  nel  com;etto  del soggetto,  ma  gli  è  aggiunta  neir  atto  stesso  che  viene attribuita  al  soggetto.  L' essere  qualche  cosa,  cioè  la realtà,  la  sussistenza  per  sé  stesso,  è  dunque  una  nota che  non  è  compresa  nel  significato  del  soggetto  il  hello^ il  buono,  ecc.;  il  bello,  il  buono,  ecc.,  quale  semplice  sog- getto della  proposizione,  designa  semplicemente  V  astratto, ma  non  ancora  V  astratto  sostantificato\  la  determinazione della  sostanzialità  è  aggiunta  posteriormente  air  enun- ciazione del  soggetto.  Ma  se  il  bello,  il  buono,  ecc.,  come semplice  soggetto  della  proposizione,  non  designa  V  a- stratto  sostantificato,  cioè  V  Idea  platonica,  cosa  de- signerà? non  altro  che  lo  stesso  astratto  che  nel  lin- guaggio comune  è  significato  d«lle  parole  il  bello,  il  buono, ecc.  (  dacché  queste  parole  non  possono  qui  essere  com- prese nel  senso  tecnico,  qualunque  esso  sia,  particolare alla  dottrina  delle  Idee)  ;  vale  a  dire  V  attributo  della beltà,  della  bontà,  ecc.  nelle  cose  stesse,  considerato  d'una maniera,  non  solo  astratta,  ma  anche  generale.  Per conseguenza  è  a  questa  beltà,  bontà,  ecc,  che  sono nelle  cose,  considerate  d' una  maniera  astratta  e  ge- nerale, che,  nelle  proposizioni  di  cui  parliamo,  viene attribuita  la  sussistenza  per  se  stesse  ;  e  le  Idee  plato- niche sono  gli  attributi  generali  delle  cose,  sostantificati, ma  nelle  cose  stesse,  e  non  degli  attributi  simili  o  eguali, fuori  delle  cose,  quali  sarebbero  neir  interpretazìo'*-  tra- scendentalista (1). (1)  Nel  Timeo  la  quistione  tra  il  realismo  e  il  nominalismo,  con- tenuta nella  domanda  della  nota  precedente,  è  posta  in  termini, per  noi  moderni,  più  netti.  **  Il  faoco  stesso  in  se  stesso,  domanda —  18  — » III.  È,  come  ^ìh  accennammo,  nn  principio  platonico che  il  concetto  e  la  conoscenza  generale  si  riferiscono ali'  Idea.  Ciò  risalta  in  primo  luogo  dalle  prove  per  cui Platone  dimostra  resistenza  delle  Idee,  di  cui  la  più  ai- parte  non  sono  che  delle  applicazioni  di  questo  principio. Tali  sono  le  seguenti  :  Il  concetto  si  riferisce  aWuno  nei molti,  a  qualche  cosa  che  si  predica  di  tutti  i  singolari come  uno  e  lo  stesso  in  tutti,  senza  identificarsi  con  alcuno di  essi  :  ma  ciò  a  cui  si  riferisco  il  concetto  è;  vi  hanno dunque,  oltre  :•  singolari,  le  Idee  —  Il  concetto  non  si riferisce  alle  cose  particolari,  peichè  queste  periscono, mentre  esso  permane  e  resta  sempre  lo  stesservi  ha  dun- que, oltre  le  cose  particolari  e  feribili,  qualche  cosa  che permane  e  resta  sempre  la  stessa,  e  a  cui  il  concetto  si riferisce  ;  è  V  Idea  —  Non  vi  ha  scienza  dei  singolari, perchè  es^si  sono  infiniti  di  numero  e  indeterminati  ;  la scienza  invece  non  può  avere  che  un  oggetto  finito  e  deter- minato; questo  è  ridea.— La  medicina,  la  geometria,  ecc. Timeo,  e  tutte  le  altre  cose  di  cui  diciamo  che  sono  aOxà  xaB'aOxà, hanno  veramente  un'esistenza  reale,  o  una  tale  esistenza  non  con- viene che  agli  oggetti  che  vediamo  e  percepiamo  con  gli  altri  sensi, e  non  vi  ha  niente  oltre  di  questi,  ma  vanamente  diciamo  esservi  un sl5og  intelligibile  di  ciascuna  cosa,  mentre  esso  non  è  che  una  pa- rola? „  (rt/i<t'o  51  b-o).  È  di  uno  stesso  slòoi  che  qui  si  domanda  se ha  una  sussistenza  reale,  come  pretende  Platone,  o  se  è  una  parola, come  vuole  il  nominalismo  :  dunque,  l'siSo^,  che,  secondo  il  nomi- nalismo, è  una  parola,  essendo  nelle  cose,  cioè  l'universale;  l'siSog,  che  ha  una  sussistenza  reale,  deve  essere  pure  nelle  cose, cioè  anch'esso  l'universale.  Se  fosse  fuori  delle  cose,  l'sISog  che  Pla- tone ha  di  mira,  quando  dichiara  che  è  un'entità  reale,  non  sarebbe queir  sldog  stesso,  che  il  nominalista  ha  di  mira,  quando  dichiare che  è  un  nome. I i sono  la  scienza,  non  della  sanità  di  questo  o  di  quellO| ma  della  sanità  semplicemente,  non  di  questo  o  di  quel cerchio,  di  questo  o  quel  commensurahile,  ma  del  cerchio e  del  commensurabile  semplicemente  ;  vi  ha  dunque  la sanità  stessa,  il  cerchio  stesso,  il  commensurabile  stesso, ecc.— La  scienza  non  si  riferisce  ad  alcun  particolare,  ma air  universale,  a  ciò  che  è  uno  e  lo  stesso  in  tutti  i  par- ticolari :  ma  ciò  a  cui  si  riferisce  la  scienza  è  ;  vi  ha dunque  l' Idea.  (La  prova  antecedente  ò  fondata  suU'  a_ strattezza della  scienza,  questa  sulla  sua  universalità)  —  (1), La  dimostrazione  suppone  che  ciò  di  cui  si  dimostra  è  : ma  non  si  dimostra  di  alcun  particolare,  ma  dell'  uni- versale,  di  alcun  che  di  uno  e  lo  stesso  che  si  dice  di molte  cose;  la  dimostrazione  suppone  dunque  che  vi  hanno nelle  cose  (OTidpxetv  èv  xor?  ouai  Arist.  An.  Post.  l.I.  XXIV.  3) delle  nature  universali  a  cui  essa  si  riferisce  (2). insistiamo  sull'espressione  aristotelica  Oiiòcpxstv  Iv •cote  oyot  (che,  se  non  èia  riproduzione  esatta  d'una  formula platonica,  è  certamente  modellata  sulle  formule  platoniche), nemmeno  sulla  desift-nazione  dell'oggetto  del  concetto — cioè  dell'Idea—  come  qualche  cosa  che  è  una  e  la  stessa in  tutti  gli  oggetti  particolari  :  sono  degli  esempi  di  altre prove  dell'immanenza  che  esamineremo  a  suo  luogo.  Per ora  dobbiamo  limitarci  a  questa  quistione:  i  nostri  con- cetti e  le  nostre  scienze  —  cioè  le  nostre  conoscenze  ge- nerali —  si  riferiscono  agli  attributi  generali  dello  cose nelle  cose  stesse  o  a  degli  attributi  simili  fuori  delle  cose? questa  sanità,  p.  e.,  che  è  1'  oggetto  della  medicina,  è la  sanità  degli  uomini  e  degli  animali,  o  un'  altra  sanità V.  per  queste  prove  Arist.  Met.  1. 1.'lX.  (2),  1.  HI,  IV.  (i),  ecc.,  e  il commento  di  Aless.  Aprod.  (in  phil.  pr.  Arist.)  al  primo  di  questi  luoghi. (2)  V.  Arist.  Anal.  Post.  l.  I.  XI.  0),  1.  I.  XXIV.  (3,0). —  19  — V i inori  degli  uomini   e   di  ogni  altro   essere  reale  ?  A  ciò r  interprete  trascendentalista  risponderà  che  i  nostri  con- cetti e  le  nostre  scienze  si  riferiscono  agli  attributi  delle cose  nelle  cose  stesse,  ma  che  Platone  parla,  non  dello oggetto  a  cui  si  riferiscono  efTettivaniente  i  concetti  umani e  le  scienze  umane  in  generale,  ma  dell'  oggetto  a  cui essi  devono  riferirsi,  se  si  vuol  salvare  la  loro  verità, dopo   che  si  è  riconosciuto   che    questa   verità  non   può fondarsi   sulla   loro   relazione   con   gli  oggetti  sensibili. Le  prove  platoniche  delle  Idee  conterrebbero  dunque,  se- condo questa  interpretazione,  una  teoria  della  conoscenza, la  quale  rettificherebbe  quest*  illusione  naturale,  per  cui  gli uomini  riferiscono   spontaneamente   i  loro   concetti  e  le loro  conoscenze  generali  agli  attributi   delle  cose   nelle cose  stesse,  e  sostituirebbe  a   quest^  oggetto   immanente un  oggetto  trascendente.  Ma  Platone  non  dice  :  i  concetti e  le  conoscenze  generali,  che  gli  uomini  erroneamente  ri- feriscono agli  attributi  stessi  delle  cose,  essi  dovrebbero riferirli  invece  agli  esemplari  dì  questi  attributi  fuori  delle cose  — quali  sono   le   Idee   neir  interpretazione  trascen- dentalista. —  Al  contrario,  egli  suppone  che  gli   oggetti a  cui  gli  uomini  riferiscono  —  e  non:  a  cui   dovrebbero riferire  —  i  loro  concetti  e  le  loro  conoscenze  generali, sono  le  Idee  (1)  È  ciò  che  noi  vediamo,  non  solo  negli  ar- ca) Naturalmente  Platone  non  pretende  che  tutti  qucll  i  che  hanno  una nozione  generale  sanno  che  l'oggetto  di  questa  nozione  è  un'Idea:  tutti ntenscono  le  loro  nozioni  generali  agli  attributi  generali  delle  cose  agli astratti,  e  questi  sono  Idee;  ma  solo  il  filosofo  sa  che  sono  Idee,  ciocche ciascuno  di  questi  astntti  ha  un'  esistenza  propria  e  distinta;  e  per  ciò della  sola  conoscenza  filosofica  è  vero  di  dire,  nel  senso  stretto .  che  ha per  oggetto  le  Idee.  Cosi  non  vi  ha  contraddizione  tra  il  principio  che ogni  nozione  generale  si  riferisce  alle  Idee,  e  V  opposizione  che  Platone stabilisce  tra  l'opinione,  che  ha  per  oggetto  i   fenomeni -anche  quando 1 4 gementi  per  V  esiste  nza  delle  Idee  che  ci  sono  perve- nuti per  il  tramite,  di  altri  autori,  ma  in  una  moltitudine di  luoghi  degli  scritti  stessi  di  Platone.  Cosi  egli  dice che  i  fabbri  del  letto,  della  mensa,  della  spola  fanno  le loro  opere,  guardando  alle  Idee  di  queste  cose,  a  ciò  c?ie è  letto,  ciò  che  è  mensa,  ciò  che  é  spola  (Rep:  596  b,  Crat. b)  ;  che  il  facitore  dei  nomi  impone  i  nomi,  guardando a  ciò  che  è  nome  (Crat.  389  d);  che  il  geometra  si  serve di  figure  visibili  come  di  immagini,  ma  il  suo  pen- siero è  diretto  a  quelle  di  cui  queste  sono  le  immagini, al  quadrato  stesso  e  alla  diagonale  stessa,  non  al  quadrato e  alla  diagonale  particolari  eh'  egli  descrive  (Rep.  510 e-e);  che  V  aritu. etico  ragiona  sui  numeri  sfessi  ^  e  non sui  numeri  aventi  corpi  visibili  e  palpabili  (cioè:  non sulle  cose  concrete  a  cui  i  concetti  dei  numeri  si  applicano —  Rep.  525  526  a)  ;  che  lo  spìrito,  distinguendo  gli  at- tributi contrari  delle  cose  (l'uno,  il  multiplo,  il  grande, il  piccolo,  ecc.)  che  sono  confasi  nella  percezione  sensi- bile, e  contemplandoli  separatamente  gli  uni  dagli  altri, si  eleva  dal  sensibile  e  dal  fenomeno  air  intelligibile  e air  essenza  (Rep.  523-524).  Se  si    afferma  di  due   cose. essa  si  riferisce  al  generale,  come  p,  e  nel  Fibbo  59  a-b  e  nel  Timeo  59 c-d-e  la  scien7a,  nel  senso  stretto  cioè  la  dialettica,  che  sola  ha  per  og- getto le  Idee.  Platone  dà  le  Idee  per  oggetto  alla  dialettica,  perché  que- ste due  parti  del  sistema  platonico,  la  dottrina  delle  Idee  e  la  dialettica, sono  fatte  Tuna  per  Taltra,  talmente  che  la  realizzazione  dei  concetti  re- sterebbe senza  valore  e  senza  scopo,  se  fosse  scompagnata  dal  metodo  dia- lettico. È  perciò  che  alle  proposizioni  generali  del  tilosofo  stesso  ^  quando  esse non  sono  il  risultato  del  metodo  dialettico,  vengono  dati  per  oggetto, non  le  Idee,  ira  i  fenomeni,  come  si  vede  nel  luogo  citato  del  Timeo.  Il metodo  empirico  (il  quale  non  può  dare  per  risultato  che  la  semplice  opi- nione) studia  le  coesistenze  e  sequenze  (cronologiche)  tra  i  fenomeni,  e perciò  ha  per  oggetto  i  fenomeni  ;  il  metodo  dialettico  (che  è  deduttivo, e  dk  quindi  per  risultato  la  scienza  vera)  studia  le  sequenze  (logiche-anterio- rità e  posteriorità  di  natura—)  tra  le  Idee,  e  perciò  ha  per  oggetto  le  Idee. -20  - p.  e.  dnl  moto  e  dello  stato,  che  tutte  e  due  .sono,  Platone ne  conclude  che  sì  pone  per  il  pensiero  una  terza  entità, r  Essere,  comn  contenente  lo  due  prime  (Sofista  250  a-b V.  pure  243  e).  Il  principio  è  espresso  poi  d'una  maniera generale  nel  Fedro,  secondo  il  quale  alcun*  anima  non può  vonre  in  un  corpo  umano,  se  non  ha  contemplato le  Idee,  perchè  è  il  proprio  dell'uomo  di  comprendere secondo  la  specie,  raccogliendo  la  moltitudine  dei  sensi- bili in  una  unità  razionale,  ciò  che  è  la  reminiscenza delle  Idee  che  l'anima  ha  contemplato  (249  b-c).  A  questi luoghi,  per  non  moltiplicare  inutihr.ente  le  citazioni,  non ne  aggiungerò  che  un  altro:  è  nella  Rep.  486  a,  in  cui dice  che  lo  spirito  del  filosofo  a<?pira  ad  abbracciare  l'u- niverso, a  comprendere  tutto  il  divino  e  l'umano,  e  ch'egli contempla  tutto  il  tempo  e  tutto  V  essere,  riferendosi a  quella  che  ha  detto  un  poco  prima  (48o  b),  cioè  che il  filosofo  studia  l'essenza  che  sempre  è  (le  Idee),  e  tuffa questa  essenza.  Ciò  prova,  non  solamente  che  la  scienza si  riferisce  «He  Idee,  ma  ancora,  della  maniera  più  di- retta,  che  la  scienza  delle  Idre  è  la  scienza  delle  coso stes-e.  E  questo  d'  altronde  un  punto  su  cui  troviamo le  informazioni  più  esplicite  nello  stesso  Aristotile,  il  quale attribuisce  ai  partigiani  delle  Idre  il  principio  che  avere la  scienza  delle  cose  è  avere  la  scienza  delle  specie  secondo cui  le  cose  si  dicono.(MQt.  1.  IH.  III.  4, 1.  Ili,  VI.  6,  ecc.)  (1j. If (4)  Per  indicare  il  punto  di  vista  del. a  teiria  delle  Idee  Platone  dice nel  Fedone  (99  e)  eli  egli  ha  ricorso  ai  concclfi  (sl^  XOÙ^  XÓYOOg) guardando  in  éSsi  la  verità  derrli  esseri  —  è  1'  equivalente  di  ciò  che  e» dice  Aristotile,  cioè  che  la  scienza  delle  cose  è  la  scienza  delle  Idee  .secondo esse  si  dicono—  :  e  poi  (loo  a)  oppone  quello  che  guarda  gli  esseri  nei concetti  a  quello  che  li  guarda  n^i  tatti— Sono  gli  stessi  esseri  che  ven- gono guardati  ora  nei  tatti  (nell'esperienza  )  ora  nei  concetti  :  il  mondo intelligibile  e  il  mondo  sensibile  noi  sono  che  Io  stesso  mondo,  guar dato  da  di\e  punti  di  vista  ditt'erenti;  ciò  che  ali*  intelligenza  apparisce come  un  mondo  di  entità  astratte,  non  v  che  quello  stesso  cke  ai  sensi apparisce  come  un  mondo  di  cose  concrete. Rendiamoci  ora  un  conto  esatto  della  teoria  della conoscenza  che  gl'interpreti  trascendentalisti  attribui- scono a  Piatone,  secondo  la  quale  i  concetti  si  riferiscono, non  agli  attributi  stessi  delle  coso,  ma  ad  altri  attributi simili  separati  dalle  cose.  Ciò  è  tanto  più  importante, che  gì'  interpreti  trascendentalisti,  vedendo  l'assoluta  inu- tilità delle  Idee  trascendenti  per  la  spiegazione  delle  cose, danno  per  iscopo  alla  dottrina  delle  Idee,  non  di  spiegare le  coso,  mi  di  salvare  la  realtà  della  conoscenza.  Ve- diamo come  la  teoria  in  quistione  salva  la  realtà  della conosc  nza.  I  predicati  dei  giudizi,  ci  dicono  i  logici, sono  in  generale  delle  nozioni  astratte,  dei  concetti;  i  sog- getti possono  essere  sia  dei  concetti  sia  delle  rappresenta- zioni concrete  e  particolari.  Il  giudizio  afferma  che  al genere  o  all'  individuo,  a  cui  si  riferisce  il  concetto  o  la rappresriitazioiio  particolare  che  fa  da  soggetto,  inerisce V  attributo  a  cui  si  riferisce  il  concetto  che  fa  da  predi- cato. L' interprete  trascendental'sta  di  Platone  aggiunge che,  secondo  Platone,  gli  attributi,  a  cui  si  riferiscono i  concetti  che  fanno  da  predicati  —  cioè  le  Idee  —  non ineriscono  nelle  cose,  a  cui  si  riferiscono  le  rappresenta- zioni particolari  che  fanno  da  soggetti.  Di  più,  siccome gli  argomenti  che  provano  1'  immanenza  delie  Idee  nelle cose  sono  quegli  stessi  che  provano  l' immanenza  delle Idee  più  generali  nelle  Idee  più  particolari,  e  gli  argo- menti chn  secondo  V  interprete  trascendentalista  prove- rebbero la  separazione  delle  Idee  dalle  cose,  proverebbero pure  la  separazione  delle  Idee  più  generali  dalle  Idee più  partidolari  ;  così  egli  aggiunge  ancora  che  gli  Attri- buti, a  cui  si  riferiscono  i  concetti  che  fanno  da  predi- cati, non  ineriscono  nei  Generi  a  cui  si  riferiscono  i  con- cetti che  fanno  da  soggetti.  Uomo  non  inerisce  sl  Socrate, Animale  non  inerisce  ad  Uomo.  Ma  se  è  cosi,  come  pos- siamo affermare  che  Socrate  è  uomo,  che  1'  uomo  è  ani- —  21  -   • male  ?  La  conseguenza  della  teoria  che  gì*  interpreti  ira- scendent alisi i  attribuiscono  a  Piatone  —  ciò  è  tanto  evi- dente che  alcuni  di  questi  interpreti  lo  hanno  apertamente riconosciuto  (1)  —  è  il  paradosso  di  quegli  eristici  (2) di  cui  Platone  si  ride  nel  Sofista,  e  contro  cui  é  diretto ciò  che  si  dice  in  questo  dialogo  della  comunione  o  me- scolanza dei  Generi  —  i  quaM  permettono  che  il  buono pia  buono  e  1'  uomo  sia  uomo,  ma  non  soffrono  che  sì dica  di  un  uomo  che  è  buono.  Lo  stesso  giudizio  anali- tico, che  né  Hume  credette  possibile  di  attaccare,  né  Kant necessario  di  giustificare,  sarebbe  impossibile  secondo Platone  interpretato  dagl'  interpreti  trascendentalisti^  e non  ci  resterebbero  che  le  proposizioni  puramente  iden- tiche, cioè  tautologiche. IV.  La  definizione  secondo  Platone  si  riferisce  airidea, e  solamente  all'Idea.  Questa  dottrina  non  solo  è  implicita- mente contenuta  nel  principio  che  il  concetto  e  la  cono, scenza  generale  si  riferiscono  all'Idea,  e  in  quello  che la  dialettica  —  di  cui  la  definizione  è  un  elemento  essen- ziale —  versa  nelle  Idee,  ma  é  espressamente  attribuita a  Platone  da  Aristotile,  che  la  dà  anzi  come  il  fon- damento  del  sistema  delle  Idee  (3). Noi  dobbiamo  dunque  ammettere  che  quando  un dialogo  platonico  ha  per  oggetto  la  ricerca  della  de- finizione,  quest'i  definizioni  che  Platone  cerca,  o  che egli  dà,  sia  comm  definitive  sia  come  semplici  ten- tativi,  si  riferiscono  alle  Idre:  in  effetto,  lo  scopo  di Platone  in  questi  dialoghi  è  dì  illustrare  con  esempi  la teoria  della  definizione,  e  sarebbe  inconcepibile  che  in (1)  V.  p.  e.  Tosco  Ricerche  platoniche  p.  35. (2)  I  Megarici,  e  seconflo  l'opinione  dì  alcuni  storici— che  io   ritengo erronea — anche  i  Cinici. (:t)  V.  Met.  1.  I.  VI  1-2,  1.  XIH.  IV.  2-4. 7 questi  esempi  egli  si  mettesse  in  contraddizione  con  uno  dei principii  fondamentali  della  teoria  di  cui  essi  devono  fare Papplicazione.  D'altronde,  che  l'oggetto  della  definizione sia  r  Idea,  é  quello  che  Platone  dichiara  esplicitamente  in molti  di  questi  dialoghi.  Così  nelPEutifrone  Socrate  do- manda  al  suo  interlocutore:  cosa  è  il  santo  che  é  lo  stesso  in tutte  le  azioni  sante  (5c-d),  e  lo  prega  di  spiegargli,  non uno  0  due  dei  molti  Fanti,  ma  quell'aÒTÒ  xò  slòog,  queir  cesa unica,  per  cui  tutte  le  cose  sante  sono  sante,  affinchè possa  servirsene  come  di  un  paradigma  neir  applica- zione  del  nome:  santo  (6  d-e).  Neil' Ippia  maggiore  co- mincia per  istabilire  che  tutte  le  cose  belle  sonò  belle  per il  bello,  e  questo  è  qualche  cosa  (287  c-d)-noi  sappiamo il  significato  di  questa  formula  platonica),  e  domanda  al sofista:  che  é  questo  bello?  che  é  il  bello  stesso,  di  cui tutti  gli  altri  belli  sono  adorni;  che  quando  è  presente  sl una  cosa  qualunque,  pietra,  legno,  uomo,  dio,  ecc.,  a  questa appartiene  di  esser  bella  ?  (289  d,  292d.294  a,  e,  ecc.  -^ la presenza  (napowoia)  é  uno  dei  termini  soliti  di  cui  Platone si  serve  per  indicare  il  rapporto  dell'  Idea  con  le  cose). Nrl  Menone  la  virtù,  di  cui  si  cerca  ciò  che  essa  sia,  é Pel^oc  che  hanno  lo  stesso  tutte  le  virtù  (72  e),  la  virtù che  é  una  e  non  molte  (72  a,  74  a,  77  a),  l'uno  in  tutti (73  d),  la  Yirtù  che  è  una  e  la  stessa  in  tutte  le  virtù  e in  tutti  i  virtuosi  (73  a,  e,  d,  74  a,  b),  ciò  che  corrisponde propriamente  a  questo  nome:  virtù  (74  de)  —  tutte  que- ste designazioni,  per  cui  Platone  suole  indicare  le  Idee, provano  chiaramente  la  loro  immanenza,  ma  noi  suppor- remo per  ora  ch'esse  potrebbero  convenire  indifferente- mente tanto  alle  Idee  immanenti  quanto  alle  trascendenti; lo  stesso  vale  per  la  presenza  dell'Ippia  maggiore—;  e  per giustificare  la  poFsibilità  della  ricerca  contro  Tobbiezione di  Menone  che  sopprime  ogni  conoscenza,  s' invoca  la dottrina  che  la  conoscenza  é  una  reminiscenza  (81  e  seg.). -  22  - ciò  che  suppone  che  la  virtù,  che  si  vuol  conoscere,  è quella  stessa  virtù,  che  T  anima  ha  intuito^  vale  a  dire ridea  della  virtù.  Nel  Politico,  si  avverte  che  le  dieresi, che  devono  condurre  alia  scovorta  dell'arte  politica  e  del politico,  hanno  per  oggetto  le  Idee  (262  b,  286  a),  e  nel Sofista  si  dice  che  1  oggetto  della  ricerca  è  l'Idea  del sofista  (235  d). Ma,  da  un  altro  lato,  è  incontestabile  che  le  definizioni li  Platone  si  riferiscono  alle  cose  stesse.  Cosi  nel  Sofista, in  cui  si  cerca  la  definizione  del  Sofista  e  dell'arte  sofi- stica, questo  sofista,  di  cui  si  vuol  conoscere  ciò  ch'egli è,  è  quello  stesso  che  successivamente  apparisce:  come un  cacciatore  mercenario  di  uomini  giovani  e  ricchi,  co- me un  mercante  di  conoscenze  che  si  rifVriscono  all'ani- ma, come  un  rivenditore  in  dettaglio  di  queste  conoscenze, come  un  venditore  di  prima  mano  delle  stesse,  come  un atleta  nella  lotta  di  parole,  il  quale  si  arroga  l'arte  eri- stica, come  un  purgatore  dell'  anima  dalle  opinioni  che le  impediscono  l'acquisto  della  scienza  (231  d-c),  ma  so- vratutto  come  contraddittore  e  maestro  agli  altri  di  que- sto stesso  (232  b)  ;  che  ha  una  scienza  appaiente,  ma  non vera  (233  e);  che,  quando  noi  affeimiamo  ch'egli  ha  un'ar- te fantastica,  e  lo  chiamiamo  un  facitore  di  simulacri,  ci domanderà  cosa  sia  un  simulacro,  e  s».  noi  gli  risponde- remo citandogli  le  immagini  degli  specchi,  dell'acqua  ecc., sì  riderà  di  noi  che  gli  parliamo  come  ad  un  uomo  che vede,  fingendo  di  lion  a\  cr  visto  mai  né  specchi  ne  ac- qua e  di  non  sapere  nommeiio  che  cosa  sia  la  vista  (239 d-e),  e  infine  ci  costringerà  a  confessare  che  ciò  che  non è,  in  un  certo  modo  é  (240  e)  ;  che  nega  che  si  dia  il falso,  poiché  ciò  che  non  é  non  può  partecipare  all'es- sere, e,  dopo  che  si  è  visto  che  partecipa  all'essere,  forse,dirà  che  alcune  specie  partecipano  del  non  essere  e  altre no,  e  l'opinione  e  il  discorso  sono  di  quelle  che  non  ne partecipano  (260  c-d);  ecc.  E  l'arte  sofistica  è  quella che  ha  questo  stesso  ai  fista  (221  d,  239  e,  240  e,  d  ecc;) Parte  che  fa  profissione  di  disputare  in  grazia  della  virtù ed  csìgf^  danaro  per  mercede  (223  a)  ;  la  caccia  ai  gio- vani ricchi  e  nobili  (223  b)  ;  l'arte  per  cui  si  possono  in- cantare con  discorsi  i  giovani  e  ancora  lontani  dalla  ve- rità, mostrando  loro  delle  immagini,  in  parole,  di  tutte cose,  in  modo  da  far  loro  credere  che  si  dice  la  verità e  si  e  il  più  sapente  di  tutti  gli  uomini  in  tutte  le  cose (234  e);  un'arte  n;enzognera  da  cui  la  nostia  anima  è  tratta ad  opinare  il  falso  (240  d);  ecc.  Nel  Politico,  la  scienza regale  o  politica,  di  cui  si  ricerca  ciò  che  es?a  è,  è  una che  non  può  trovarsi  nella  moltitudine  né  dei  ric- chi né  di  tutto  il  popolo,  ma  in  uno  o  due  o  pochissimi, che  si  devono  chiamare  re,  sia  ch'essi  comandino  o  che vivano  da  privati,  che  comandino  ai  volenti  o  ai  no- lenti, con  leggi  scritte  o  senza,  ecc.  ^259  ac,  292  d — 293  e,  297  b  —  e,  300  e)  ;  questa  scienza  non  comporrà di  buon  grado  lo  stato  di  buoni  e  di  cattivi,  ma  quelli  che possono  formarsi  ai  costumi  saggi  li  rimett  rà  a  persone capaci  di  educarli,  essa  dando  degli  ordini  e  presiedendo a  tutto,  gli  altri  li  condannerà  alia  morte  o  all'esilio,  o li  tottometterà  alia  schiavitù,  e  tra  i  buoni  naturali  pren- derà i  caratteri  forti,  simili  ai  fili  dell'ordito,  e  i  mode- lati,  simili  a  quelli  del  ripieno,  e  li  intreccerà  gli  uni  con gli  altri,  Icrmendone  il  più  bello  di  tutti  i  tessuti  (308  d  — 309  b,  311  e);  ecc.  E  il  politico  che  ti  tratta  di  definire è  quello  ci  e  ha  questa  scienza  (266  e,  276  e,  ecc.);  a  cui bisogna  consegnare  le  redini  dello  stato  (266  e)  ;  che  ha cura  del  gregge  umano  come  un  pastore  (275  b);  ecc. 11  bello  dell'Ippia  maggiore  è  quel  bello  che  é  bello  per tutte  le  coso  e  iu  tutte  le  circostanze  (?92  e  —  293  e),  e Socrate  propone  di  definirlo  :  ciò  che  ha  la  potenza  di produrre  qualche  bene  (  296  d  —  297  d)  ;  e  :  ciò  che  ci  reca -  23  - diletto  mediante  11  senso  della  vista  o  dell'  udito  (297  e e  segg.).  NeirEutifrone,  Eutifrone  risponde  alla  domanda di  Socrate,  che  il  santo  è  ciò  che  è  aggredevole  agli  dei (6  ej,  e  Socrate  dice  (7  a)  che  infine  ha  risposto  com'egli desiderava  (vale  a  dire  che  questa  risposta  definisce,  beue o  male,  il  santo  stesso^  la  specie);  e  in  seguito  si  propon- gono queste  altre  definizioni  :  il  santo  è  la  parte  del  giu- sto che  ha  per  oggetto  la  cura  degli  dei  (12  e);  é  la  scienza delle  domande  e  dei  doni  che  bisogna  fare  agli  dei  (U  c-d). Nel  Menone,  la  virtù,  di  cui  si  domanda  ciò  che  essa  sia, é  la  stessa  virtù,  di  cui  si  domanda  come  essa    soprav- venga agli  nomini,  se  possa  insegnarsi  o  no  (71  ab,    86 c-d,  87  b,  100  b,  ecc.);  e  si  propongono  queste  definizioni  : la  virtù  é  il  saper  comandare  agli   uomini    (73  d),;  è    il desiderare  le   belle   cose  e  potersele   procurare    (77   b). Nello  stesso  dialogo  Socrate,  per  dare  dei  modelli  d'una definizione  secondo  la  sua  intenzione,  definisce  la  figura  : in  ogni  figura  dico  essere  figura  ciò   in  cui    termina  il solido  (76  a  );  e  il  colore  :  un  fiusso  di  figure  proporzio- nata alla  vista  e  sensibile  (77  b.)  Evidentemente,  questo colore,  questa  figura,  questa  virtù,  questo  santo,  questo bello,  questo  politico  e  arte  politica,    questo    sofista   e arte  sofistica,  di  cui  si  ricerca  ciò  che  eiascona   di  que- ste cose  è,  sono  le  cose  stesse  che  tutti  chiamiamo  con questi  nomi,  e  non  dalle  entità  trascendenti:  e  lo  stesso deve  dirsi  della  giustizia  della  Repubblica  (v.  1.  1,  1.  Il 357-368,  1.  IV  427  d  e  segg.),  della  scienza  del  Teeteto, della  fortezza  del  Protagora  e  del  Laches,  dell'amico  del Lisis,  della  temperanza  del  Carmide,  e  in  una  parola  di tutto  ciò  di  cui  Platone  dà  o  cerca  la  definizione  in  tutti i  dialoghi  che  hanno  per  oggetto  questa  ricerca. Ma  se  le  definizioni  platoniche  non  si  applicano  che alle  cose  stesse,  come  può  Platone  affermare  ch'esse  si riferiscono  alle  Idee,  e  solamente  alle  Idee?  Nell'ipotesi i della  trascendenza  delle  Idee,  ciò  sarebbe  incomprensibile; ma  nell'ipotesi  dell'  immanenza,  si  comprende  perfetta- mente. Piatone  sostiene  che  la  definizione  ha  per  oggetto l'Idea,  e  Tldea  sola,  perchè  quello  che  si  definisce,  quello di  cui  si  vuol  sapere  ciò  che  esso  è,  non  è  l  individuo — l'individuo,  considerato  nella  sua  individualità,  è  indefi- nibile, e  ad  ogni  modo  egli  non  è  quello  stesso  che  dice la  definizione  comune;  Tizio  ha,  ma  non  è,  questo  gruppo di  attributi  che  costituisce  la  nozione  dell'uomo,  la  sua definizione;  per  dire  ciò  che  egli  è,  bisognerebbe  ag- giungere agli  attributi  di  uomo  le  particolarità  individuali che  gli  sono  proprie—;  quello  che  si  definisce,  quello  di cui  si  vuol  sapere  ciò  che  esso  è,  è  l'essenza  comune  de- gli individui,  l'oggetto  della  nozione  generale,  e  questo è,  secondo  Platone,  l'Idea.  É  perchè  quest'essenza,  che  è l'oggetto  della  definizione,  è  l'essenza  comune  degl'indi- vidui, e  non  si  trova  altrove  che  negl'individui  stessi, che  la  definizione  si  applica  alle  cose;  ma  indirettamente, e  in  quanto,  e  solamente  in  quanto,  queste  partecipano alle  Idee,  vale  a  dire,  in  quanto  si  considera  in  esse,  non l'elemento  indivuale,  ma  l'elemento  comune;  Tizio  si  de finisce,  non  corno  Tizio,  ma  come  uomo;  Protagora  non come  Protagora,  ma  come  sofista.  Quando  poi  la  defi- nizione si  applica,  non  a  questo  o  quell'individuo,  ma  a tutti  gl'individui  della  classe,  p.  e.  a  tutti  gli  uomini,  a tutti  i  sofisti  ;  allora,  per  il  fatto  stesso  che  si  emette  una proposizione  generale,  l'elemento  individuale  sparisce,  e non  resta  che  Telemento  comune,  qu^^llo  a  cui  si  applica direttamente  la  definizione,  l'Idea;  perchè,  secondo  Pla- tone la  conoscenza  generale  si  riferisce  all'Idea.  Per  con- seguenza, cercare  o  dare  la  definizione  degli  uoniiuio  dei sofisti,  non  è  altra  cosa  che  cercare  o  dare  la  defini- zione dell'Idea  dell'uomo  o  di  (|uella  del  sofista;  dire  ciò che  è  l'uomo  o  il  sofista  considerato  in  generale,    è  dire —  24  — SS mm ciò  che  è  ridea  dfU'uomo  o  quella  del  solista;  porche ruomo  e  il  sofista,  considerati  in  generale,  non  sono  altra cosa  che  l'Idea  dell'uomo  e  l'Idea  del  sofista. In  verità,  noi  potremmo,  per  la  stessa  ragion  »,  riguar- dare tutte  le  proposizioni  generali  che  si  trovano  negli scritti  platonici,  qualunque  sia  il  loro  contenuto,  come altrettante  prove  dell'immanenza  dello  Idee,  perchè,  da una  parte,  è  evid^^nte  che  queste  proposizioni  si  riteri- scoDO  allo  cose,  e  d'altra  parte,  secondo  i  principi!  pla- tonici, ogni  nozione  generale  non  può  avere  per  ogget  o che  l'Idea.  Ma  io  non  ho  creduto  potermi  avvalere  di questo  genere  di  provo,  perchè  non  è  rara  nei  filosofi  uua contraddizione  tra  la  teoria  e  la  prat  ca  :  ma  una  tale  con- traddizione sai  ebbe  inammissibile,  quando  questa  pratica è  precisamente  un  esempio  destinato  a  mettere  in  azione la  teoria. Cosi  noi  non  cercheremo  un'altra  prova  analoga  del - rimmanenza  che  nflle  dieresi  platoniche.  La  dieresi  è  la divisione  del  genere  nelle  sue  specie;  essa  piende  per  punto di  partenza  uno  dei  generi  più  vasti,  lo  divide  nei  ge- neri immediatamente  inferiori  cioè  meno  est  si,  qursti  in quelli  ancora  immediatamente  inferiori,  e  cosi  di  Feguit'^, sinché  si  trovino  le  specie  infimo,  che  sono  quelle  di  cui si  cerca  la  definizione.  Tutta  la  dialettica  platonica  sta nella  dieresi  :  la  definizione  stessa  vi  è  compresa,  per che  non  ne  è  che  il  termine  e  il  risultato.  Il  metodo della  dieresi  è  praticato  nel  Sofista  e  nel  Politico,  e  lo dieresi  di  questi  due  dialoghi  hanno  appunto  per  iscopo, come  ci  avverte  lo  stesso  Piatone  (1),  di  dare  degli  esempi di  questo  metodo,  che,  come  abbiamo  detto,  non  è  che la  dialettica  stes-ia.  Noi  dobbiamo  ammettere,  per  conse- guenza che  le  dieresi  del  Sofista  e  del  Politico  si  appli- cano alle  Idee  cioè  che  i  generi  divisi  e  le  specie  in cui  si  dividono  sono  delle  Idee,  perchè  è  l'Idea  che  è p*oggetto  proprio  ed  unico  della  dialettica  (1).  È  quello el  resto  che  Platone  dice  espressamente  nei  luoghi  di questi  due  dialoghi  superiormente  citati  a  proposito  della definizione  (come  anche  in  uno  dei  luoghi  del  Politico che  riporteremo  tra  poco).  Intanto  è  evidente  che  le  dieresi del  Sofista  e  del  Politico  si  riferiscono  alle  cose  stesse,  e non  ad  entità  iperfisiche.  Non  per  provarlo— perchè  ciò non  ha  bisogno  di  essere  provato— ma  perchè  il  pensiero possa  fissarsi  su  qualche  cosa  di  concreto,  e  non  siresti nel  vago  dell'astrazione,  io  darò  qualche  esempio.  Ecco dunque  la  prima  dieresi  del  Sofista  ;  L  Osp.  Eleate. Delle  arti,  si  può  dire,  tutto,  vi  hanno  due  specie.  Teb- TETo:  Quali?  L'Osp.  El.:  L'r gricoltura,  e  ogni  lavoro relativo  a  qualsiasi  corpo  corruttibile,  e  quello  relativo a  ogni  oggetto  fabbricato  che  noi  chi^^miamo  suppellettile, e  l'arte  imitativa,  tutto  ciò  potreble  a  buon  dritto  chia- marsi con  un  sol  nome— Teet.:  Cerne,  e  con  qual  nome? L'Osp.    El.  :  Per  tutto  ciò  che  prima  n^n  era  e  poi  viene (1)  Polii.  285  e— 287  a. (1)  Per  la  dottrina  che  le  Idee  sono  l'oggetto,  e  l'oggetto  unico,  della dialettica,  V.  FU.  58-59,  Rep.  476-480,  500-511,  532-584  Parmen  135  b-d, lini.  5i  b-52  a.  Fedone  99  d-ioo  a.  So/,  253  b-254  b,  ecc.  Per  l'identità della  dialettica  e  della  dieresi  v,  oltre  l'ultimo  dei  primi  indicati,  ciò  che ne  abbiamo  detto  nel  cap.  7.  -  Aristotile  dà  come  motivo  della  dottrina delle  Idee,  non  solo  la  proposizione  chela  delinlzione  non  può  a  ere  per loggetto  che  le  Idee  (e  non  le  cose),  ma  anche  quella  più  generaie  che a  dialettica  (cioè  tanto  la  definizione  quanto  la  dieresi)  non  può  avere  che quest'oggetto,  V.  Mei.  1.  I,  VI,  5  e  il  commento  d'Aless.  d'Afrod.  a  que- sto luogo — Del  resto,  che  le  dieresi  di  Platone  si  riferiscono  alle  Idee,  é provato  abbastanza  dalle  prove  stesse  che  dimostrano  che  le  sue  defini- zioni si  riferiscono  alle  Idee  ;  poiché  ciò  a  cui  si  applica  la  definizione non  SODO  che  le  sezioni  ultime,  gl'indivisibili  a  cui  arriva  la  dieresi. —*  '  1 - t.  1 portato  airesistenza,  noi  diciamo  di  quello  che  lo  porta all'esistenza,  che  fa,  e  di  quello  che  vi  è  portato,  che  è fatto.  Tebt.:  Giustamente— L'Osp.  El.:  È   questo   l'og- getto della  potenza  ch^  hanno  tutte  le  arti  che  nbbiamo -TEET  :  Si,  è  questo-  L'Osp.  El.  :  Noi  le  chia- meremo dunque  in  generale  l'arte    di    fare— Tebt  :  Sia L'Osp.   El:  Poi,  ogni  specie  di  disciplina  e  di  scienza, il  negozio  e  la  lotta  e  la  caccia,  siccome  non  producono niente,  ma,  tra  le  cose  che  esistono  e  sono  state  prodotte, delle  une  s'impadroniscono  por  la  potenza  del    discorso e  dell'azione,  le  altre  difendono   contro   quelli    che   vo- gliono   impadronirsene,  cosi    tutte   queste   parti  potreb- bero riunirsi  convenientemente   sotto  il  titolo  di  arte  di acquistare.  »— Le  due  ultime  dieresi  dello  stesso  dialogo  : «L'Osp.    El.  :  L'imitatore  opinante  è  moltiplice;  perchè Tuno  è|  uno  sciocco  che  crede  di  sapere  le  cose    che  o- pina,  ma  la  specie  dell'altro,  per  la  volubilità  dei    suoi discorsi,  dà  molto  a  sospettare  e  a*  temere  che  ignori  le cose,  che  innanzi  agli  altri  si  dà  l'aria   di    conoscere— Tebt.:  Ve  ne  ha  certamente  dell'uno  e  dell'altro  genere che  hai  detto -L'Osp.   El.  :  Chiameremo   dunque  l'uno imitatore  semplice,  e  l'altro  imitatore  simulatole  ?-Teet.: E  con  ragione -L'Osp.   El.:  E  il  genere  del   secondo;',* diremo  unico  o  doppio  ?—Teet.  :  Veditu-L'Osp      El'Ì Guardo,  e  due  me   ne  appariscono:  vedo  l'uno  capace di  simulare  in  pubblico  con  lunghi  discorsi  alla  moltitu- dine, l'altro  in  privato,  con  brevi  discorsi,  costringendo l'interlocutore  a  mettersi  in  contraddizione  con  se  stesso  »- La  prima  dieresi  del  Politico:  «  L'Ospiste:  Come  trovare la  via  della  scienza  politica  ?  (vale  a  dire  :  in  quale  classe di  scienze  dobbiamo  cercare  questa    scienza  V)    bisogna scoprirla,  e  separandola  dalle  altre,  imprimerle   un'Idea unica,  e  le  altre  direzioni  segnando   d'un    altra    Specie unica,  far  concepire  al  nostro  spirito  tutte  le  scienze  come essenti  due  Specie L'aritme- tica e  altre  arti  consimili  non  sono  scevro  da  ogni  azione, e  non  esibiscono  una  semplice  conoscenza?— Socrate  il giovane  :  Cosi  è  —  L'  Osp  :  Ma  quelle,  che  spettano alla  fabbricazione  e  ad  ogni  altra  operazione  manuale, possiedono  invece  una  conoscenza  che  si  rapporta  na- turalmeate  all'  azione,  e  fanno  gli  oggetti  materiali  a cui  danno  1'  esistenza,  e  che  prima  non  erano  —  So- crate IL  giovane:  è  chiaro  —  L' Osp.  :  Cosi  dividi tutte  le  scienze,  chiamando  l'una  attiva,  l'altra semplicemente  speculativa— Socrate  il  giovane:  Siano queste  le  due  specie  della  scienza,  u7ia  essendo  tutta  la »  (1)  —  Nello  stesso  dialogo  a  281  d-c  :  «L'Osp.  : «  Prima  consideriamo  due  arti,  che  sono  circa  tutte  le  cose che  si  fanno.  Socr.  :  il  giov.  :  Quali  ?-L'Osp.  :  L'una,  con causa  della  produzione,  l'altra  la  causa  stessa— Socr.  :  il giov  :  Come  ?— L'osp.:Tutte  quelle,  che  non  fabbricano  la cosa  stessa,  ma  somministrano  ai  fabbricanti  gli  strumenti, nella  cui  assenza  ciascuna  arte  non  potrebbe  compiere l'opera  che  le  è  assegnata,  chiamirmo  eoncause,  quelle che  fanno  la  cosa  stessa,  cause  »— E  a  30.ó  e,  distinguendo la  politica  dalle  arti  più  affini  (l'oratoria,  la  militare  e la  giudiziaria):  «  L'Osp.:  Quella  poi  che  presiede  a  tutte queste,  e  veglia  alle  leggi  e  a  tutti  gli  affari  dello  stato, e  tutte  cose  rettamente  contesse,  denotandola  sua  facoltà (1)  Notiamo  le  parole  in  corsivo .  Socrate  risponde  cosi,  per mostrare  ch'egli  ha  compreso  che  la  dieresi  si  riferisce  alle  Idee come  l'ospite  eleate  ha  detto  al  principio  del  luogo  citato.  —  È  per- chè la  dieresi  si  riferisce  propriamente  all' if  no  (l'Idea)  e  non  ai  molti (le  cose),  che  nel  Politico  e  nel  Sofista  i  nomi  designanti  i  generi ohe  si  tratta  di  dividere,  e  le  specie  in  cui  vengono  divisi  (cioè  i nomi  comuni  degli  oggetti  appartenenti  a  questi  generi  e  a  queste specie),  si  trovano,  di  regola,  al  singolare. -  26  - col  nome  comune,  chiameremo  giustametìte,  mi  sembra, scienza  politica.  » Io  devo  avvertire  il  lettore,  che  non  conoscesse  questi due  dialoghi— e  un'avvertenza  analoga  avrei  potuto  fare sulle  definizioni— che  non  è  ia  questo  o  in  quel  punto isolato,  ma  è  dal  principio  sino  alla  fine,  che  le  dieresi del  Sofista  e  del  Politico  ci  mostrano  con  la  più  grande chiarezza  che  esse  si  applicano,  non  ad  entità  iperfisiche, ma  alle  cose  stesse  (1):  ciò  è  tanto  evidente,  che  nes- sun interprete  trascendentalista  certamente  oserebbe  so- stenere che  in  queste  dieresi  si  tratta  delle  làQQirascen- denti]  forse  però  alcuno  dirà  che  in  esse  non  potrebbe nemmeno  trattarsi  delle  Idee  immanenti,  perchè  anche queste  sarebbero  al  postutto  dfìlle  entità  ultrafenomenali, metaempiriche,  mentre  è  incontesta  bi  le  che  le  arti  e  le  scien- ze, di  cui  si  fa  la  divisione  nel  Sofista  e  nel  Politico,  sono le  scienze,  e  le  arti  fenomeni,  e  fenomeni  egualmente, cioè  oggetti  della  nostra  esperienza,  sono  gli  oggetti  su cui  versano  queste  arti  e  queste  scienze,  e  i  soggetti  in cui  esse  risiedono  (ai  quali  si  applica  pure  la  divisione). (1)  Che  le  dieresi  di  Platone  si  applicano  alle  cose  nel  tempo stesso  che  egli  afferma  che  hanno  per  oggetto  le  Idee  -  e  quindi  che le  Idee  per  lui  si  identificano  con  le  cose  —  non  si  vede  solamente dai  dialoghi  destinali  a  mettere  in  pratica  il  metodo  di  divisione, cioè  dal  Sofista  e  dal  Politico^  ma  anche  da  quei  luoghi  degli  altri dialoghi,  in  cui,  inculcando  la  divisione  come  regola  generale  di metodo,  ne  dà  qualche  esempio  particolare  ;  perchè  in  questi  casi, mentre  nella  regola  si  parla  di  una  dieresi  delle  Idee,  negli  esempi si  tratta  invece  di  una  dieresi  delle  cose.  È  così  che  si  fa  nel  Fi' Icho  14-19,  dove  si  deduco  dalla  costituzione  stessa  degli  esseri  eterni (cioè  le  Idee),  di  cui  ciascuno  è  al  tempo  stesso  uno  e  molti,  che  bi- sogna in  ogni  ricerca  stabilire  un'Idea  unica  per  tutto,  e  sforzarsi di  scoprire  il  numero  d'Idee  comprese  sotto  di  quella,  e  poi  quello ohe  è  compreso  sotto  ciascuna  di  queste,  e  cosi  di  seguitò,  siiichè Ma.  quegli    che    facesse   quest'obbiezione,    mostrerebbe ch'egli  non  sa  porsi  esattamente  al  punto  di  vista    del- Tipotesi  dell'immanenza.  Le  Idee  non  sono   che    le  cose considerate  d'una  maniera  astratta  e  generale,  e  le  cose considerate  d'una  maniera  astratta  e  generale  non  sono che  le  Idee.  La  dieresi  avendo  per    oggetto,    non    delle cose  particolari,  ma  i  generi  eie  specie  delle    cose,    ha perciò  per  oggetto  le  Idee,  anche  quando    Platone    non parla  esplicitamente  che  di  una  divisione  delle  cose;  perchè secondo  Platone,  ogni  nozione  generale  direttamente  non si  riferisce  che  alle  Idee.  Come  i  concetti  e  i  nomi,  che sono  i  segni  dei  concetti,  non  si  riferiscono  direttamente che  alle  Idee,  cioè  agli  Attributi,  e  alle  cose  solo  indi- rettamente, in  quanto  partecipano    dogli   Attributi;  cosi ogni  proposizione  generale,  ch'essa   sia  una  definizione, o  una  dieresi,  o  che  abbia  un  altro  contenuto  qualunque, non  ha  per  oggetto  che  le  Llee;  essa    si    riferisce    pure alle  cose,  ma  indirettamente,  in  quanto  queste  possiedono gli  Attributi,  i    cui  rapporti,  astrattamente    considerati, costituiscono  il  vero  significato  della  proposizione.  Ogni proposizione  generale  é  dunque,  in  certo  modo,  per  Pla- tone, un'espressione  a  doppio  senso  :    essa    significa    al tempo  stesso  le  cose  e  le  Idee;  questo  doppio   senso  non si  scopra  tutta  la  moltitudine  compresa  nell'unità  primitiva  ;  e  si danno  come  applicazioni  di  questo  metodo  la  divisione  delle  lettere ohe  fa  la  grammatica,  e  quella  dei  suoni  che  fa  la  musica— le  quali certamente  non  trattano  di  suoni  e  di  lettere  trascendenti —,  e  si esorta  ad  applicarlo  al  piacere  e  alla  saggezza,  cioè  incontestabil- mente al  nostro  piacere  e  alla  nostra  saggezza,  perchè  si  tratta  di quel  piacere  e  di  quella  saggezza,  di  cui  si  ricerca  se  il  bene — que- sto bene  la  cui  possessione  deve  renderci  felici — consista  nell'uno  o nell'altra  -  È  cosi  che  si  fa  pare  nel  Fedro  265  a  -266  b  e  270  b- 273  e  (cfr.  quest'ultimo  luogo  con  277  b-c). -  27  — ì lì W' è  che  il  doppio  significato  dei  nomi,  la  connotazione, che  si  riferisce  all'astratto  e  al  general»*,  e  la  denota- zione, che  si  riferisce  al  concreto  e  al  particolare. Supponiamo,  per  chiarire  il  punto  di  visto  di  Platone, che  vi  hanno  r*  almrnte,  come  ammettono  la  più  parte  dei filosofi,  dei  concetti,  cioè  delle  rappresentazioni  astratte  e generali  (1).  Quale  sarà  per  un  filosofo  logico,  che  ammette la  teorica  dei  concetti,  il  vero  significato  di  una  proposizione generale  ?  Una  proposizione  generale  è  l' espressione  di un  giudizio  generale,  e  un  giudizio  generale  consta  d'i- dee generali,  di  concetti;  dunque  la  proposizione  ge- nerale non  può  riferirsi  che  a  ciò  a  cui  i  concetti  si riferiscono,  cioè  agli  attributi,  agli  astratti;  direttamente, essa  non  può  riferirsi  alle  cose  particolari  e  concrete, perché,  quando  facciamo  il  giudizio,  non  vi  hanno  nel nostro  pensiero  le  rappresentazioni  di  queste  cose  parti- colari e  concrete,  ma  i  loro  concetti,  cioè  delle  rappre- sentazioni astratte,  delle  rappresentazioni  di  attributi.  Il significato  diretto  della  proposizione  sarà  dunque  TafiTer- mazione  di  un  rapporto  tra  attributi:  p:  e  :  Tuomo  è  un animale,  significherà  propriamente  che  Tattributo  ani- male    fa   parte   del  gruppo   di   attributi   uomo   (2).   Ma (1)  Avverto  una  volta  per  tutte  che  quando,  per  rendere  conto  delle idee  dei  metafisici  realisti,  parlo  delle  operazioni  del  pensiero  in  termini che  implicano  la  teoria  dei  concetti,  io  non  intendo  fare  adesione  effetti- vamente a  questa  teoria.  Non  intendo  decidere  se  la  verità  stia  m  essa o  nella  teoria  contraria  che  non  ammette  altre  ideo  che  rappresentazioni di  cose  concrete  e  particolari.  Ma  mi  attengo  alla  teoria  dei  concetti,  pri- mo perchè  è  conformemente  a  questa  ttoria  che  i  metafisici  di  cui  si  tratta si  rappresentano  necessariamente  le  operazioni  deli'  intelligenza;  e  poi perchè  questa  è  la  dottrina  stabilita  e  la  sola,  pei  conseguenza,  che abbia  a  sua  disposizione  un  linguagì>io  già  fatto  che  permette  di  essere breve  e  di  farsi  facilmente  comprendere. (2)  Cor.  Mill.  Log.  Ir  1.  o.  5.  g  é,  e.  6  §  5,  Pil.  di  Hamilton,  oftp. 18  saUa  fine,  22.  sul  principio,  eoo. Siccome  il  gruppo  di  attributi  uomo  non  si  trova altrove  che  negl'individui  concreti  e  particolari,  cosi  la proposizione  si  riferirà  pure  a  questi,  ma,  come  abbiamo detto,  non  direttamente,  perchè  non  é  alcun  individuo  né tutti  d'indivìdui  che  noi  ci  rappresentiamo,  affermando che  Tuomo  é  un  animale,  ma  semplicemente  l'uomo  a- stratto,  Toggetto  del  concetto. Aggiungiamo  ora  aUMpotesi  concettualista  l'ipotesi realista  :  supponiamo,  cioè,  che  gli  oggetti  dei  concetti, vale  a  dire  gli  attributi,  gli  astratti,  abbiano  ciascuno un'esistenza  propria  e  distinta,  ch'essi  siano,  parlando il  linguaggio  di  Piatone,  delle  Idee.  Quale  sarà  il  signi- ficato diretto  di  una  proposizione  generale  ?  sarà  l'affer- mazione di  un  rapporto  tra  Idee.  L'uomo  è  animale,  af- fermerà l'inerenza  dell'Animale  nell  Uomo.  Ma  siccome l'Uomo  non  si  trova  altrove  che  negli  uomini,  cosi  la proposiziono  si  riierirà  pur^i  agli  uomini,  cioè  agl'indi- vidui concreti  e  particolari;  ma  questo  secondo  signifi- cato sarà  indiretto,  perchè,  affermando  che  l'uomo  é  a- nimale,  non  è  quest'uomo  né  quello,  né  la  totalità  degli uomini,  che  si  trova  presente  al  nostro  pensiero,  ma  sem- plicemente l'Uomo,  l'astratto. Cosi,  che  Platone  affermi  che  delle  proposizioni,  ch'e- gli riferisce  evidentemente  alle  cose— definizioni,  dieresi, e  in  una  parola  tutte  le  proposizioni  generali— si  rife- riscono alle  Idee  di  queste  cose,  é  una  conseguenza  lo- gica della  teoria  dei  concetti,  unita  alla  realizzazione degli  oggetti  di  questi  concetti  :  ma  quést'  affermazione implica  l'identificazione  delle  Idee  con  le  cose,  cioè  con le  cose  considerate  d'una  maniere  generale  ed  astratta. Essa  sarebbe  un*inconcepibilità  nell'ipotesi  della  trascen- denza^ che  sopprime  l'identità  tra  le  Idee  e  le  cose,  e  f *i del  sensibile  e  dell'intelligibile,  del  concreto  e  dell'astratto. -  28  - due  realtà  assolutamente  differenti  e  separate  Tuna dall'altra,  e  non,  come  vuole  Piatone,  una  sola  e  stessa vista  da  due  laii  differenti. V.  L'idea  platonica  essendo    T  oggetto  del   concetto, sostantificato,  i  caratteri  dell'Idea  sono  i  caratteri  stessi del  concetto,  cioè  1'  astrattezza  e  Tuniversalità.  Ora     di questi  due  caratteri,  l'interpretazione  trascendentalista ammette  il  primo,  ma  nega,  in  sostanza,  il  secondo   Dico m  sostanza,  perchè  gP  interpreti  trascendentalisti,  trasci- nati dalla  forza  stessa  della  verità,  chiamano,  come  noi, le  Idee  platoniche  universali;  essi  convengono  del  nome se  non  della  cosa  ;  ma  è  evidente  che  bisognerebbe  can- giare radicalmente  il   significato  di  questo  nome  prima di  poterlo  applicare  convenientemente  alle  Idee  platoni- che quali  essi  se  le  rappresentano.  Universale  vuol  dirc- elo che  può  essere  attribuito  a  tutti  gl'individui  di  una classe,  l'attributo  comune  di  tutti   questi  individui;    ma 1  Idea,  per  l'interprete  trascendentalista,  non  è  un  attri- buto di  questi  individui,  né  di. tutti  né  di  alcuno,  perché attributo  inerisce  nel  soggetto,  mentre  l'Idea,  secondo lui,  non  inerisce  nelle  cose,  ma  è  fuori  di  esse.  L'inter- prete   trascendentalista  parlerebbe  con  più  proprietà    se dicesse  che  le  Idee  platoniche  sono,  non  gli  universali, ma  1  contenuti  dei  concetti  universali,  realizzati;  perchè secondo  la  sua  interpretazione,  le  Idee  corrispondereb' bero  ai  concetti  nella  loro  comprensione  solamente,  ma non  nella  loro  estensione;  ora  l'universalità  si  rapporta ali  estensione,  e  non  alla  comprensione.  Sicché  la   qui- stione  sull'immanenza  o  trasceudcnza  delle  Idee  si  riduce al  fondo,  a  questa  :  l'Idea  è  semplice  rr  ente  l'astratto  o  è anche  l'universale?  Ma  per  l'abuso  che  gl'interpreti  tra- scendentalisti fanno  della  parola  universale,  noi  dobbia- mo sostituire  a  questa  parola  una  perifrasi,  e  formulare la  quistione  cosi  :  l' Idea  platonica   è  o  no  un  attributo comune  delle  cose,  che  Platone  si  rappresenta  come  uno e  Io  stesso  (nel  senso  più  stretto  di  queste  parole)  in  tutte le  cose  che  possiedono  quest'attributo  ?  il  bianco  stesso,  il bello  stesso,  l'uomo  stesso,  è  una  bianchezza,  una  bellezza, una  umanità  fuori  degli  uomini,  degli  oggetti  belli  e  degli oggetti  belli  e  in  tutti  gli  oggetti  bianchi,  o  é  questa  bian- chezza, questa  bellezza,  quest'umanità  che  è  1'  attributo comune  degli  uomini,  degli  oggetti  belli  e  degli  oggetti bianchi,  ma  concepita  come  qualche  cosa  che  è  una  e la  stessa  (e  non  semplicemente  simile  o  uguale)  in  tutti gli  uomini,  in  tutti  gli  oggetti  belli  e  in  tutti  gli  oggetti bianchi?  L'universalità— cosi  definita— delle  Idee  platoni- che è  sufficientemente  dimostrata  dalle  prove  antecedenti; ma  vi  hanno  delle  prove  ancora  più  esplicite,  che  passere- mo in  rassegna  in  questo  numero.  Tra  queste  prove  io  non comprenderò  i  lunghi  numerosi,  in  cui  Aristotile  afferma esplicitamente  o  suppone  che  le  Idee  platoniche  sono  uni- versali, ch'esse  si  predicano  universalmente  o  in  comune  di tutte  le  cose  (cioè  di  tutte  le  cose  appartenenti  a  una  classe determinata),  che  sono  i  generi  degli  esseri,  ecc.,  perché rinterpetretrascendentìlista  potrebbe  dire,  e  con  qualche apparenza  di  ragione,  che  Aristotile  fa  qui  del  termine universale  e  dei  suoi  sinonimi  Tuso  improprio  che  abbiamo rimproverato  a  lui  stesso;  mi  limiterò  per  conseguenza  ai soli  testi  di  Platone,  «  di  Aristotile  non  aggiungerò  che alcuna  di  quelle  indicazioni  il  cui  significato  non  può lasciar  luogo  ad  alcun  dubbio. V  II  modo  in  cui  Platone  mette  in  antitesi  l'Idea  e le  cose  prova  che  l'Idea  é  l'universale,  perché  le  cose sono  opposte  ad  essa  come  particolari  :  p.  e:  «  il  fabbro,  non  la  Specie  del  letto,  ma  qualche  letto  »>  (1)  ;  ma (1)  Kep.  597  a. V 1 1 —  29  — Dio  (il  Bene)  produce  «  il  letto  che  realmente  é,  e  non qualche  letto  »  (1);  «  il  vero  amante  della  scienza  aspira all'essere  vero,  e  non  si  ferma  ai  molti  singolari  che  sono creduti  essere  »  (2)  ;  <  invoco  di  considerare  lo  Stesso stesso  (cioè  l'Idea  dello  stesso),  abbiamo  considerato  i singoli  stessi  (cioè  le  cose  particolari  a  cui  conviene  il predicato  :  stesso)  »  (3);  «  bisogna  prendere  chiaramente o  il  bene  (cioè  senz'alcun  dubbio,  l'Idea  del  bene),  o qualche  forma  di  esso  »  (4);  ecc.  Se  Tldea  fosse  trascen- dente^ mancherebbe  la  ragione  deirantitesi;  al  particolare deve  corrispondere  il  suo  opposto,  il  generale. 2«  Astrarre,  generalizzare,  è,  secoudo  Piatone,  riunire il  multiplo  neiruno,  cioè  le  cose  neiridea,  ole  Idee  spe- cifiche nell'Idea  generica.  Cosi  nel  Sofista  253  d  dice  che il  dialettico  «  vede  acutamente  un'  Idea  unica  sparsa per  una  moltitudine  di  cose,  separate  le  une  dalle  altre, e  molte  Idee  distinte  contenute  sotto  un'  Idea  unica,  e un'Idea  unica  per  molti  tutti  (cioè  sparsa  per  molte  spe- cie) in  uno  raccolta  »  (Sf  oXwv  tcoXXcSv  èv  Ivi  g'jvyjjiiiésvyjv); nel  Fedro  26o  d,  che  «  bisogna  ricondurre  ciò  che  è  qua e  là  disperso,  guardandolo  con  una  veduta  d'insieme,  ad un'Idea  unica  »,  e  chiama  questa  riconduzione  delle  cose all'Idea,  o  delle  Idee  più  particolari  a  un'idea  più  gene- rale, una  riunione  (ouvarcovii^  266  b);  nello  stesso  dialogo, 273  e,  rifiuta  la  perizia  nell'arte  del  dire  a  chi  non  è capace  di  «  dividere  gli  cs-^cri  per  ispecie  e  di  nuovo comprendere  i  singoli  in  un'Idea  unica  »;  nel  Po^i7  285 b, raccomanda  di  ♦  racchiudere  tutto  ciò  che  è  affine  den- (1)  597  d. (2)  490  a-b. (3)  Alcib.  1.  130  d. (4)  Filebo  61  a. tro  una  somiglianza  unica  (l)  o  rivestirlo  dell*  essenza d'un  certo  genere  »;  nel  Filebo  Socrate  si  sforza  di  «  guar- dare prima  il  finito  e  l'infinito  ciascuno  diviso  in  molti e  disperso,  e  poi  di  riunire  (ouvaYstv)  nuovamente  in  uno, per  vedere  come  l'uno  e  l'altro  é  al  tempo  stesso  uno molti  »  (2)  ;  ecc.  Tutte  queste  espressioni  potrebbero anche  essere  impiegate  da  un  concettualista  o  da  un  no- minalista—ma  è  ciò  precisamente  che  prova  l'immanenza delle  idee  platoniche  —  :  in  quelli,  non  sarebbero  che dele  metafore  un  po'  ardite,  in  Platone  devono  pren- dersi il  più  letteralmente  possibile;  l'unità,  in  cui  si  rac- chiude, o  a  cui  si  riduce,  il  multiplo,  non  è,  per  quelli, chf».  un'unità  mentale,  trasportata,  per  metafora,  nelle cose,  ma  por  Platone  è  un'unità  reale;  unificare,  iden- tificare, per  quelli  non  è  che  r similare,  per  Platone  si tratta  d'  una  unificazione  e  d'  una  identificazione  nel s^nso  più  strétto  di  queste  parole.  Sui  luoghi  citati  e gli  altri  che  si  potrebbero  aggiungere,  si  deve  osservare ch'essi  possono  dividersi  in  due  categorie  :  in  tutti  vi ha  il  concetto  dell'unificazione  del  multiplo;  ma  in  alcuni quest'unificazione  ò  il  riconoscere  che  l'attributo  comune che  é  in  molte  cose  (p.  e.  il  bianco  cheé  in  questa  carta, quello  che  è  nella  parete,  quello  che  è  in  questo  libro, ecc.)  è  un'entità  unica,  e  non  tante  entità  quante  vi hanno  cose  che  possiedono  l'attributo;  negli  altri  ciò  che si  tratta  di  unificare  sono  le  cose  stesse  (o  le  Idee)  che possiedono  l'attributo  comune,  o,  più  propriamente,  gli  at- tributi omonimi,  e   non    semplicemente    questi    attributi (1)  Per  somiglianza  (óiiotoTYjg)  bisogna  intendere  non  la  rela- zione tra  gli  oggetti  simili,  ma  il  fondamento  di  questa  relazione, il  carattere  loro  oomune  par  cui  ossi  sono  chiamati  simili. (2)  23  e. omoDimi;  vale  a  dire  non  sì  dice  semplicemente  che  Tu- manità  che  è  in  me,  in  voi,  in  quello,  ecc.  è  un'umanità unica,  che  Tanimale  che  è  nell'uomo,  nel  cavallo,  nel bue  è  un'Animalità  unica,  ma  ancora  che  tutti  gli  uo- mini diventano  uno  neirUomo,  tutti  gli  animali  uno  nel- l'Animale, ecc.  (1).  Questi  due  aspetti  della  riduzione  del multiplo  neir  uno  si  vedranno  più  chiaramente  nei  due numeri  seguenti. 3«  La  risoluzione  degli  attributi  omonimi  di  tutte le  cose  in  un'  entità  unica  è  espressa  da  Platone  sotto due  forme  un  po'  differenti,  ma  equivalenti  disignifìcato. A.  Uno  è  il  bello,  uno  il  buono,  uno  il  grande,  uno è,  in  una  parola,  tutto  ciò  che  è  coìinofato  da  ciascun nome  generale,  e  questo  bello,  questo  buono,  questo grande,  ecc.  è  Tldea  del  bello,  del  buono,  del  grande, ecc.  Cosi  nella  Bep.  475  e— 476  a  :  «  Poiché  il  bello  e il  contrario  del  brutto,  questi  sono  due  ;  ed  essendo due,  ciascuno  è  uno.  E   lo  stesso  deve  dirsi   del  giusto (I)  Un'altra  distinzione  che  si  potrebbe  fare  è  dei  luoghi  che  si riferiscono  al  rapporto  tra  l'Idea  e  le  cose  e  quelli  che  si  riferiscono al  rapporto  tra  l'Idea  generica  e  le  Idee  specifiche.  Non  ho  cre- duto necessario  di  fare  questa  distinzione,  sia  perchè  nella  più  parte dei  casi  Platone  ha  di  mira  tanto  la  unificazione  del  multiplo  reale nell'Idea,  quanto  quello  del  multiplo  ideale  in  un'  Idea  superiore; sia  perchè  un'interpretazione  coerente  del  sistema  delle  Idee  deve ammettere  tra  le  Specie  e  le  cose  lo  stesso  rapporto,  o  d'immanenza o  di  trascendenza,  che  ira  i  Generi  e  le  Specie  (v.  num.  VII).  La stessa  osservazione  vale  per  il  num.  4. Come  genelizzare  è  per  Platone  astrarre  l'Idea  comune  a  molte cose,  che  è  riguardata  come  una  e  la  stessa  in  tutte  ;  così  ragionare per  ana'ogia  è  per  lui  trasferire  la  stessa  Idea,  già  costatata  e  deter- minata nell'oggetto  da  cui  si  tira  l'analogia,  nell'altro  oggetto  la cui  natura  si  vuole  rischiarare  per  quest'analogia.  V.  Pulii,  278  e, Hep.  434  d. e  dell'  ingiusto,  del  bene  e  del  male  e  di  tutti  gli  sXSy): ciascuno  é  uuo  esso  stesso,  ma  per  la  xotvcDvCa  (cioè la  partecipazione  ad  osso)  delle  azioni  e  dei  corpi e  la  reciproca  (la  partecipazione  degli  sXòri  gli  uni  agli altri),  da  per  tutto  apparendo,  ciascuno  pare  molti  ».  E a  479  a  :  «  Che  ci  risponda  dunque  questo  buon  uomo,  che iion  crede  al  bello  stesso,  né  ammette  che  vi  sia  alcuna  Idea del  bello  sempre  la  stessa,  ma  crede  molti  i  belli  ;  que- st'amatore di  spettacoli  che  non  accrrderà  mai  che  uno è  il  belio,  uno  il  giusto,  e  cosi  ogni  altra  cosa  ».  E  a 493  e  :  «  Il  volgo  crederà  uiai  o  soffrirà  che  si  dica  che  vi  ha il  bello  stesso,  ma  non  molti  belli,  e  qualsiasi  stesso  (cioè il  bene  stesso,  il  giusto  stesso,  il  grande  stesso),  e  non molti  qualsiansi  (cioè  molti  beni,  molti  giusti,  molti grandi,  ecc.)?»  Se  le  Idee  del  bene,  del  bello,  del  giu- sto,  ecc.  fossero  trascendenti,  come  potrebbe  dire  Pla- tone che  vi  ha  un  solo  bene,  un  solo  bello,  un  solo  giu- sto, ecc.  ?  In  questo  caso  vi  sarebbero  altrettanti  beni,  belli, giusti,  ecc.,  quante  vi  hanno  cose  che  possiedono  que- sti attributi,  più  il  bene  stosso,  il  bello  stesso,  il  giusto btcf^so,  ecc. E  a  questa  prima  forma  con  cui  viene  espressa l'unificazione  degli  attributi  omonimi  delle  cose,  che  noi possiamo  rapportare  pure  una  delle  prove,  riferita  da Alessandro  d'Afrodisia  (1),  per  cui  si  dimoi^trava  l'esi- stenza delle  Idee:  Ciò  che  noi  aifermiamo  come  vero  è; ma  noi  affermiamo  come  vero  che  vi  hanno  cinque  con- centi, tre  armonie,  ecc.:  dunque  ciascuno  di  questi  con- centi é  realmente  uno,  ciascuna  di  queste  armonie  è  real- mente una,  ecc.,  e  vi  hanno  le  Idee  di  questi  concenti, di  queste  armonie,  ecc.  Alessandro  d'Afrodisia  presenta (1)  In  phil,  pr.  Arisi,  1.  1.  e.  9.  testo  62. -  31  ~ ^-!^ quest'argomento  un  pò*  diversamente,  ma  che  Platone lo  presentasse  press*a  poco  nella  forma  che  abbiamo  det- to, è  anche  confermato  dal  cominciamento  del  primo  dei luoghi  citati  (1),  che  ne  è  una  variante,  o  piuttosto  una applicazione  particolare. B.  La  grandezza  che  è  in  tutti  gli  oggetti  grandi,  la bellezza  che  è  in  tutti  gli  oggetti  belli,  è  una  sola  e  stessa grandezza,  una  sola  e  stessa  bellezza,  ecc.,  e  questa  gran- dezza, questa  bellezza  ecc.,  una  e  la  stessa  in  tutti,  è  la Idea  della  grandezza,  della  bellezza,  ecc.  Così  nel  Par- menide 132  a  :  «  Io  penso,  dice  a  Socrate  il  filosofo  oleate, che  tu  credi  che  ciascuna  Specie  è  una,  per  questo  :  quan- do molte  co.^eti  semb-ano  grandi,  forese,  contemplandole, una  certa  Idea  unica  la  stessa  ti  sembra  essere  in  tutte, e  perciò  ammetti  che  la  grandezza  è  una  » .  E  poco  dopo, quando  Socrate,  confuso  dalle  obbiezioni  del  vecchio  fi- losofo, batte  in  ritirata,  e  passando  dal  realismo  al  con- cettualismo, dice  che,  «  forse  ciascuna  specie  è  una  no- zione, e  non  esiste  altrove  che  nelle  nostre  anime  »,  Par- menide,  che  in  questo  dialogo  è  il  vero  rappresentante della  teoria  delle  Idee,  gli  domanda:  «  Ma  che?  Ciascuna di  queste  nozioni,  che  è  una,  è  la  nozione  di  niente  ?  ~ Socrate  :  Ciò  è  impossibile  —  Parmenide  :  E  dunque  la nozione  di  qualche  cosa  ?  —  Socr.  :  Si  —  Parm.  :  Di  qual- che cosa  cosa  esistente  o  non  esistente  ?  —  Socr.  :  Esi- stente —  Parm.  :  Non  è  di  qualche  cosa  di  uno,  che  que- sta nozione  concepisce  come  presente  in  tutti  gli  oggetti, ed  essente  una  certa  forma  unica  ?  —  Socr.  :  Si —  Parm.  : E  non  sarà  un'Idea  questa  cosa  che  si  concepisce  essere una,  essendo  sempre  la  stessa  in  tutti  gli  oggetti  ?  »  (2). Nelle  Uggì  965  c-d,  I'Ateniesb  :  4c  Si  può  più  esatta- mente esaminare  checchesia  che  guardando  ad  un'Idea unica  dai  molli  dissimili?- Clinia.  Forse -L'Atemfsk: Non  forse,  ma  certamente  non  vi  ha  metodo   più  lumi- noso  di  questo  per  lo  spirito  umano.  Ci  bisognerà  dun- que,  sembra,  obbligare  i  custodi  della  nostra  divina  città a  vedere  prima  esattamente  cos'  è  che  per  tutte  quattro (le  virtù)  è  lo  stesso,  che  essendo  uno  nella  fortezza,  nella temperanza,    nella    giustizia   e   nella  prudenza,  giusta- mente   chiamiamo    con  un   sol  nome,  virtù  ».  Nel  Con- vito   210    b    si    chiama    una    demenza  il    non    credere che    uno   e   Io   stesso   è   il   bello   in    tutti  i  corpi;    nel Mmom  si  cerca  che  coea  sia  la  virtù  unica  che  è  per tutte  le  virtù  (i);  che  cosa  sia  la  figura  che  è  la  stessa in  tutte  le  figure  (2)  ;  nel  Sofista  (240  a)  che  cosa  sia  il simulacro  unico  che  è  in  tutti   i   simulacri;   ecc.:  Nella Metafisica  l.  XIII,  IV,  10  Aristotile    domanda    «Se   la diade  è  una  e  la  stessa  nelle  diadi  corruttibili  e  le  molte ma  eterne  (3),  perchè  non  sarà  pure  la  stessa  nella  diade stessa  e  nelle  particolari  ?»  —  qui  Aristotile  fa  a  Platone l'obbiezione  del  terzo  uomo,  ma  ciò  che  c'importa  èia  pro- posizione che  gli  attribuisce,  cioè  che  la  diade  è  una  e la  stessa  in  tutte  le  diadi  -;nel  1.  Ili,  IV,   J,  9  fa  ap- poggiare la  dottrina  della  realtà  degli  universali  suirar- gemente  che  «  in  t«nto  conosciamo  tutte  le  cose,  in  quanto vi  ha  un  che  di  universale,  un  che  di  uno  e  lo  stesso»,  e che  «  non  vi  sarebbe  scienza,  se  non  vi  fosse  un  che  di (1)  Rep,  475  e-476  a. (2)  132  b-o. (1)  74  a-b. (2)  76  a,  76  a. (3)  I  numeri  matematici,  che,  nell'ultima  forma  del  suo  sistema, Platone  faceva  intermediari  Ira  il  numero  ideale  e  i  numeri  sen- sibili. V.  Sup2jtem.  C. —  32  - uno  in  tutti  »  (l);e  in  una  moltitudine  di  luoghi  afferì ma  esplicitamente  o  indubbiamente  suppone  che  i  Pla- tonici chiamavano  Tldea  Vuno  nei  molti  (2).  Noi  sappia- mo pure  da  Alessandro  d'Afrodisia,  che  certament'^  lo aveva  attinto  da  Aristotile,  che  uno  degli  argomenti,  e di  quelli  tenuti  in  magior  conto,  per  dimostrare  Tesistf^nza delle  Idee,  era  questo:  che  gli  oggetti  che  sono  simili tra  di  loro  (cioè  che  hanno  questa  somiglianza  definita cui  si  riuniscono  in  una  stessa  classe)  non  possono  es- tali  che  perchè  partecipano  a  qualche  cosa  la  stessa che  è  propriamente  quello  che  viene  predicato  in  comune di  questi  oggetti,  e  questa  cosa  è  Tldea  (3). (1)  Cfr.  num.  III. (2)  Met,  1.  I.  IX.  1,  2,  5,  l.  VII.  XVI.  6,  eco. (3)  In  Metaph.  Arisi,  1.  J,  e.  9.  testo  59. Alessandro  d'Afrodisia  c'informa  anche  di  una  variante  di  que- st'argomento, ch'egli  espone  cosi:  che  vi  ha  una  causa  delle  cose costantemente  farsi,  e  farsi  secondo  un  tipo  costante;  e  questa  causa è  l'Idea  comune  a  queste  cose.  Anche  esposto  sotto  questa  forma* che  non  sappiamo  se  sia  esattam  ente  quella  con  cui  Platone  lo  pro- poneva, quest'argomento  prova  l'immanenza  dell'Idea,  cioè  che  la Idea  è  l'Attributo  che  è  uno  e  lo  stesso  in  tutti  gli  esseri  della  stessa specie.  Infatti,  se  l'Uomo  fosse  una  semplice  causa  esemplare  degli uomini,  posta  al  di  fuori  di  essi,  essa  non  ci  spiegherebbe  perchò uno  stesso  tipo  si  riproduce  costantemente  in  esseri  distinti  fra  di loro  ;  per  la  semplice  ragione  che  l'Idea  separata  non  sarebbe  una causa  efficiente,  vale  a  dire  una  causa  che  a  priori  si  riconosce  ca- pace di  produrre  l'effetto  che  le  viene  attribuito— e  naturalmente nemmeno  una  causa  empirica,  cioè  la  cui  azione  è  stata  dimostrata dall'esperienza — .Al  contrario,  se  si  ammette  che  l'Idea  è  nelle  cose, la  somiglianza  delle  cose  che  partecipano  alla  stessa  Idea  può essere  dedotta  a  priori  da  questa  partecipazione  a  una  stessa Idea;  tra  la  causa  e  l'effetto  vi  ha  un  legame  necessario;  e  per- ciò, dato  l'effetto  —  la  somiglianza  di  tutti  gli  uomini  —  noi possiamo  inferirne  la  causa  —  la  partecipazione  a  una  Idea comune  --,  perchè  questa  causa  è  una  causa  che  noi  già  sappia- mo essere  capace  di  produrre  l'effetto,  ciò  che  è  la  condizione  in- A  questi  dati  non  aggiungerò  alcun  commento.  L'e- spressione più  netta  sotto  cui  può  formularsi  l' ipotesi daW imvianenza  e  precisamente  questa,  contenuta  nelle citazioni  precedenti,  che  gli  attributi  omonimi  di  tutti gli  esseri  non  sono  in  sostanza  che  un  Attributo  unico, e  questo  è  l'Idea;  che  quest'Attributo  inerisce,  uno  e  lo stesso,  nella  moltitudine  degli  esseri  dei  quali  predichiamo dispensabile  di  qualsiasi  ipotesi,  fisica  o  metafisica,  vera  o  falsa,  che lo  spirito  umano  possa  fare  sulle  cause  dei  fenomeni. L'argomento  di  Platone  che  gli  oggetti  simili  non  possono  es- sere tali  che  per  la  partecipazione  a  qualche  cosa  comune,  suggeriva agli  avversari  della  sua  teoria  1'  obbiezione  del  ^tco  uomo,  della quale  gl'interpreti  trascendentalisti  delle  Idee  platoniche  fanno  gran caso,  perchè  essa  prova,  secondo  essi,  che  la  teoria  contro  cui  era diretta,  era  quella  delle  Idee  trascendenti.  L'obbiezione  del  terz'uo- ma  è  questa  :  se  tutti  gli  uomini  sono  simili  perchò  partecipano  a uno  stesso,  all'Uomo  in  sé,  l'Uomo  in  sé  e  gli  uomini  debbono  pure essere  simili  perchè  partecipano  a  qualche  cosa  di  comune  ;  vi  ha dunque,  oltre  l'uomo  fenomenale  e  l'Idea  dell'uomo,  un  terzo  uomo distinto  dal  fenomeno  e  dall'Idea;  e  l'obbiezione  continuava  preten- dendo che  la  somiglianza  del  terz'uomo  con  gli  altri  supporrebbe  un quarto  uomo,  a  cui  tutti  gli  altri  uomini  partecipassero,  e  cosi  di  se- guito all'  infinito  (V.  per  quest'obbiez.  Plato.  Parmen,  132  a-b,  132  d,- 133  a,  Arist.  Met,  1.  I,  IX,  3,  5  e  Aless,  d' Afrod.  commento  al  primo  di questi  due  luoghi).  Non  vi  ha  dubbio  che,  perchè  quest'obbiezione fosse  logicamente  inappuntabile,  essa  dovrebbe  essere  diretta  contro le  Idee  terascendenti  -  se  l'Idea  è  nelle  cose,  non  vi  ha  motivo  di  do- mandare la  causa  della  somiglianza  tra  le  Idee  e  le  cose,  perchè  l'Idea non  è  altro  che  questo  punto  di  coincidenza  comune  per  cui  tutte  le cose  simili  si  dicono  simili  -  ma  resterebbe  a  provare  che  l'obbi  ozione del  terzo  uomo  era  logicamente  inappuntabile.  Nella  dottrina  delle Idee  immanenti  vi  ha  quel  tanto  che,  so  non  è  sufficiente  perchè  que- st'argomento sia  perfettamente  concludente,  basta  perchè  esso  abbia quella  plausibilità  necessaria  a  un  argomento  perchè  gli  avversari di  una  teoria  ne  facciano  uso.  In  effetto,  Platone  ha  un  bell'affer- mare  che  le  Idee,  quantunque  siano  sostanze  per  se  stesse,  inori-, aoono  nondimeno  nelle  cose,  e  ohe,  quantunque  ciascuna  sia   una, .% t  \ —  33  — rattiibuto.  Certamente  questa  prova  deirimmanenza  — che  in  verità  non  è  una  prova,  ma  la  ripetizione,  in  ter- mini più  chiari,  della  tesi  stessa  che  si  tratta  di  prova- re—non sembra  con  tutto  ciò  soddisfacente  a^Finterpreti trascendentalisti  :  ma  che  si  può  fare  di  più  ?  non  altro che  pregare  questi  interpreti  che  cerchino  di  rappresen- tarsi nettamente  la  tesi  deirimmanenza  delle  Idee,  vale si  trova  nondimeno  simultaneamente  in  una  moltitudine:  queste determinazioni  sono  incompatibili,  noi  non  possiamo  rappresentar- cele insieme;  noi  non  possiamo  concepire  che  una  sostanza  inerisca in  altre  sostanze  come  un  attributo,  che  un  essere  unico  si  trovi  al tempo  stesso,  senza  frazionarsi,  in  una  moltitudine  di  esseri  diffe- renti. Ne  segue  che  delle  sostanze  quali  Platone  finge  le  Idee,  non potremmo  rapjìresentarc'ìe  che  esistenti  separatamente  dalle  cose  ; l'Uomo  in  sé,  in  quanto  noi  possiamo  immoijinarlo,  non  lo  possiamo che  come  un  uomo  particolare,  distinto  e  separato  dagli  altri  uo- mini, questi  nati  e  peribili,  esso  eterno:  è  questa  la  base  dell'inter- pretazione trascendentalista  delle  Idee  platoniche,  e  la  chiave  per comprendere  tutte  le  vicende  di  questa  teoria.  Cosi,  se  l'obbiezione del  terzo  uomo  non  vale  contro  le  Idee  quali  Platone  le  afferuia, direbbe  egli,  quali  oggetti  dell'intelligenza,  poiché  egli  afTeruia  che esse  sono  nelle  cose  ;  vale  però  contro  le  Idee  quali  noi  possiamo rappresentarcele,  quali  oggetti,  direbbe  Platone,  d' un'immaginazione circoscritta  nelle  condizioni  del  sensibile  •.•;  perchè  noi  non  \)0^ siamo  rapp/É'StfM/arftf/t' che  separate  dalle  cose:  é  quanto  basta  alla vis  probante  dell'obbiezione  del  terz'uomo,  quantunque  quest'argo- mento, in  sostanza,  non  sia  che  un  sofisma. •.•  I  metafìsici  hanno  un  mezzo  assai  comodo  per  superare  tutte le  difficoltà  :  é  di  distinguere  tra  inmufjinare  ed  intende^-e.  Se  noi  tro- viamo le  loro  teorie  inconcepibili,  essi  rispondono  che  ciò  é  perchè «  si  pretende  d'immaginare  ciò  che  non  si  i)uò  se  non  intendere,  come se  si  volessero  vedere  i  suoni  o  udire  i  colori  „.  Vedi  Cartesio  t.  I, p.  163,  ed.  Cousin,  Leibnitz  N,  S,  sulVint,  um.  1.  IV,  e.  III,  ^  6,  De ipsa  nat.  sire  de  vi  ins,  r,  Epist.  ad  P,  Des-Iiosa.  16  Giug.  1712  (ed.  Du- tens  t.  2,  p.  1.  p.  298),  Spinoza  De  intelL  emend.  84-91,  ecc.  Tra  l'em- pirismo e  la  metafisica  tutta  la  quistione  è,  al  fondo,  se  questa  di- stinzione deve  ammettersi  o  no. 2^3 a  dire  la  dottrina  che  le  Idee  sono,  delle  sostanze  sì,  ma inerenti  nelle  cone  come  loro  nttributi  —  nozioni  certa- mente incompatibili,  io  sarò  il  primo  a  convenirne—,  e di  fare  per  un  istante  la  supposizione  che  tale  sia  stata realmente  la  dottrina  di  Platone— ciò  eh?  non  è  chiede'* poco,  perchè  si  può  essere  sicuri  che  la  più  parte  de- grinterpreti  trascendentalisti,  per  non  dire  tutti,  non hanno  fatto  mai  seriamente  questa  supposizione —,  e  poi di  saperci  dire  come,  in  questo  caso,  Platone  avrebbe potuto  esprimere  la  sua  dottrina  d'una  maniera  più  chiara e  più  c-^plicita  che  dicendo  che  in  tutti  gli  oggetti  grandi la  grandezza  è  una  e  la  steFsn,  e  questa  è  Tldea  della grandezza,  e  cosi  la  bellezza  in  tutti  gli  rggetti  belli, l'umanità  in  tutti  gli  uomini,  l'anim^^lità  in  tutti  gli  ani- mali, ecc.  Negare  che  la  dottrina  di  Platon^,  sia  realmente quello  che  essa  suona,  perchè  questi  dottrina,  cosi  in- tesa, ci  sembra  racchiudere  una  impossibilità  logica, prima  di  tutto  non  è  conforme  ai  criteri  di  una  buona ermeneutica;  e  poi,  oltre  che  per  assolvere  Platone  da una  contraddizione  gliesene  addrssenbboro  cento  altre, si  otterrebbe  per  risultato,  che  si  fn recherò  dire  a  Pla- tone delle  assurdità— perchè  chi  vorrà  snstenere  che  la dottrina  delle  Idee,  immanenti  o  trascendenti,  non  sia un'assurdità?— senz'alcun  motivo  né  scopo,  perchè  il  si- stema delle  Idee  trascendenti  non  spiegherebbe  niente, non  conterrebbe  alcuna  di  queste  vedute  ardite  e  ge- niali, che  scusano  e  fanno  comprendere  gli  errori  dei grandi  pensatori  metafìsici,  perchè  di  natura  da  s<  durre rintelligenza  con  la  prospettiva  di  una  spiegazione  uni- versale e  radicale  delle  cose,  cui  la  scienza  positiva  si dichiara  incapace  di  attingere. D'altronde  Platone    ha    avuto    cura    di    togliere    al l'interprete  trascendentalista  qualsiasi  pretesto  per  rifiu- targli la  dottrina  che  le  idee  sono  gli  Attributi  generali —  34  — delle  cose,  ciascuno  dei  quali  inerisce,  uno  e  lo   stesso, in  tutte  le  cose  aventi  degli  attributi  omonimi,  fondan- dosi sulle  difficoltà  logiche  contenute  in  questa  dottrina: noi  sappiamo  infatti  dallo  stesso  Platone  che  queste  dif- ficoltà sono  precisamente  quelle  stesse  che  gli  avversari obbiettavano  alla  teoria  delle  Idee.  Ecco  come  esse  ven- gano proposte  nel  Parmenide  :  <•  Parmenide  :  Dimmi  dun- que, pensi  tu,  come  dicevi,  che  vi  hanno   certe   Specie, da  cui  le  cose,  partecipandone,  prendone  le   loro  deno- minazioni? che  p.  e.  le  cose  sono  simili   per   la    parte- cipazione della  somiglianza,   grandi,    belle,    giuste,    per quella  della  grandezza,  della  bellezza,  della  giustizia  ?— Io ne  sono  persuaso,  disse  Socrate— Ora  ogni  cosa  che  par- tecipa della  Specie,  non  è  necessario  che  partecipi  o  di tutta  la  Specie  o  di  una  parte  ?  o  vi  ha,  oltre  di  questi, un  altro  modo  di  partecipazione?  —  E  come   ve   ne    po- trebbe essere  un  altro  ?— Credi  tu  che  la  Specie  sia  tutta in  ciascuno  dei  molti,  una  essendo,  o    altrimenti  ?— Che cosa  può  impedire,  o  Parmenide,  disse  Socrate,  che  ine- risca tutta?— È  che  essendo  una  e  la  stessa,  inibirà  tutta simultaneamente  in  molte  cose  che  sono  separate  le  une dalle  altre,  e  cosi  essa  stessa  sarà  separata  da  se  stessa —  Ma  no,  disse  Socrate  ;  come  il  giorno,  essendo  uno  e lo  stesso,  esiste  simultaneamente  in  molti  luoghi,  e  non è  perciò  separato  da  se  stesso  ;  cosi  niente  impedisce  che ciascuna  Specie  esista  simultaneamente,  una  e  la  stessa, in  tutti  gli  oggetti,   senza  separarsi   da  se  stessa.  —  Bei »  è  il  tuo,  o  Socrate,  di  far  esistere  una  sola  e  stessa cosa   simultaneamente   in    molti  oggetti!  è  come  se  co- molti  uomini  con  un  velo,  tu  dicessi  che  Tuno  è tutto  intero  nei  molti.  Non  è  vero  che  dici  qualche  cosa di  simile  ?  —  Forse,  disse  Socrate  —  Ma  il  velo  sarà  tutto intero  in  ciascuno,  o  soltanto  una  parte  in  uno,  e  un'al- tra parte  in  un  altro  ?— Una  parte  soltanto  —  Le  Speciedunque,  o  Socrate,  saranno  divisibili,  e  le  cose  che  par- tecipano di  esse  parteciperanno  di  una  parte,  e  non   vi sarà  più  in  ciascuna  cosa  tutta  la  Specie,  ma  una  parte soltanto— Cosi  pare.  —  Vorresti  dunque,  o  Socrate,  che  la Specie  sia  veramente  divisa  ?  e  sarà  ancora  una  dopo  que- sta divisione  ?  — No,  affatto  —  Vedi  in  effetto  :  se  tu  di- viderai la  grandezza  stessa,  ciascuno  dei  molti  grandi  sarà grande,  non  per  la  grandezza,  ma  per  una  parte  della grandezza,  necessariamente  più  piccola  della  grandezza stessa;  ora  ciò  non  ti  sembra  assurdo?— Assolutamente— ... In  che  modo  dunque,  o  Socrate,  le  altre  cose  partecipe- ranno alle  Specie,  se  non  possono  riceverle  né  in  parte  né in  totalità?  »  (1).  Questa  stessa  obbiezione  del  Parmenide si  ritrova,  in  riassunto,  nel  Filebo  15  b,   dove   Socrate spiega  quali  siano  le  controversie  quando   si    stabilisce un  Uomo,  un  Bue,  e  il  bello  uno,  e  il  buono  uno,  e  al- trettali unità  :  «  Prima  di  tut*o,  egli  dice,  si  contesta  se si  devono  ammettere  questa  sorta  d'unità  come  realmente esistenti  ;  poi  si  domanda  come  ciascuna  di  esse,  essendo una  e  sempre  la  stessa,  e  non  ammettendo  né  genera- zione né  corruzione,  possa  tuttavia  essere  immutabilmente una  e  la  stessa  (2)  ;  e   in   seguito  se  negli  esseri  gene- rati e  infiniti  di  numero  deve  porsi  divenuta  molti  e  fra- zionata, 0  tutta  intera  in  ciascuno,  separata  essa  stessa da  se  stessa,  ed  è  questa  che  sembra  la  cosa  più  impos- sibile dol  mondo,  che  un  solo  e  lo  stesso  essere  sia  allo stesso  tempo  in  uno   ed  in    molti  ».  Potrebbero   tali  ob- biezioni dirigersi  alle  Idee  trascendenti?  se  il   rapporto tra  l'Idea  e  le  cose  non  fosse  che  quello  tra  l'esemplare (1)  131  a-e. (2)  Che  difficoltà  potrebbe  trovarsi  nell'essere  l'Idea  una  e  sem- pre la  stessa,  se  essa  fosse  fuori  delle  cose? ìA —  35  - .n. / » e  le  copie,  che  ditìScoltà  vi  sarebbe  a  concepire  che  uno stesso  esemplare  potesse  servire  di  modello  a  molte  co- pie ?  sarebbe  perciò  necessario  di  ammettere  o  che  l'esem- plare si  trova  tutto  intero  in  ciascuna  delle  copie,  o  che esso  si  fraziona  in  tante  parti  quante  sono  le  copie,  e  che una  di  queste  parti  esiste  in  una  delle  copie,  e  un'altra in  un'altra?  Non  è  evidente  che  queste  obbiezioni  non possono  comprendersi  altrimenti  che  come  lo  sviluppo delle  impossibilità  logiche  contenute  in  una  dottrina,  che afferma  che  un  solo  e  stesso  Attributo  inerisce  simulta- neamente in  una  moltitudine  di  soggetti? Senza  dubbio  Platone  doveva  pensare  che  queste  ob- biezioni non  toccavano  il  segno,  e  che  la  sua  dottrina sfuggiva  al  dilemma  proposto  nel  Fileho  e  nel  Parmenide: ma  tutto  ciò  che  possiamo  concluderne  è  che  queste  dif- ficoltà non  sembravano  a  Piatone  insolubili  come  sem- brano a  noi.  Quale  sia  la  soluzione  egli  non  lo  dice  né nel  Parmenide  (\)  né  nel  Fllebo:  ma  egli  ne  ha  imma- ginato una  ;  noi  la  troviamo  in  uno  dei  luoghi  citati  :  Il (1)  Alcuni  interpreti  credono  che  la  parte  dialettica  del  Parme- nide contiene  una  dottrina  riposta  destinata  appunto  a  risolvere  le obbiezioni  del  principio  del  dialogo:  per  me  io  non  posso  vedervi se  non  quello  per  cui  Platon'e  la  dà  manifestamente,  cioè  un  sem- plice  esercizio  dialettico  di  cui  nel  cai).  VII  §  2J  abbiamo  mostrato la  relazione  con  la  dialettica  platonica.  Del  resto  le  ipotesi  ohe  tro- vano nella  seconda  parte  del  Parmenide  le  soluzioni  delle  obbiezioni contenute  nella  i)rima,  non  fanno  al  nostro  caso,  perché  esse  sono state  immaginate  nella  supposizione  che  le  obbiezioni  siano  dirette contro  le  Idee  trascendenti,  quantunque  tra  queste  obbiezioni  una sola,  quella  del  terz'uomo,  possa  essere  interpretata  a  questo  modo; ma  basta  che  Platone  dichiari  che  le  Idee  esistono  per  se  stesse  (cioè come  sostanze),  o  che  egli  le  distingua  dai  fenomeni,  perchè  1'  in- terprete trascendentalista  ne  concluda  immediatamente  che  esse sono  separate  dalle  cose. bello,  il  brutto,  il  giusto,  l'ingiusto  e  ciascun  altro  sUog è  uno  in  se  stesso,  ma  apparendo  qua  e  là,  nelle  cose  e negli  altri  sT5y]  che  ne  partecipano,  ciascuno  pare  molti  (1). E  in  effetto,  la  quistione,  ridotta  ai  minimi  termini,  è  que- sta :  L'esperienza  ei  mostra  il  bello,  il  brutto,  in  una parola,  ciascun  attributo  generale  delle  cose,  non  come uno,  come  suppone  la  teoria  delle  Idee,  ma  come  mul- tiplo, l'attributo  che  è  in  un  soggetto  essendo  numerica- mente distinto  dallo  stesso  attributo  che  é  in  un  altro soggetto.  Come  risolvere  questa  contraddizione  Ira  l'espe- rienza e  la  teoria  delle  Idee  ?— se  le  Idee  sono  immanen- ti ;  poiché  è  solo  in  quest'ipotesi  che  la  moltiplicità  del- l'attributo nella  moltitudine  dei  soggetti  esclude  Tunità dell'Idea—.  Il  concetto  vago  che  una  delle  due  contraddit- torie, cioè  il  dato  dell'esperienza,  la  moltiplicità  dell'at- tributo,  non  è  che  un'apparenza  —  un'apparenza,  s'in- tende, obbiettiva— àk^  non  una  soluzione  reale  della  con- traddizione—  perciò  bisognerebbe  sopprimere  realmente l'una  delle  due  contraddittorie,  dichiarando  la  moltipli- cità dft 'attributo  una  vera  apparenza,  cioè  un'apparenza subbietiiva  —,  ma  un  sembiante  di  soluzione,  per  questa vaga  assimilazione  del  fatto,  che  è  in  contraddizione  con la  teoria,  ad  un'illusione  senza  realtà,  assimilazione  vaga che  è  tutto  il  significato  del  termine  apparenza,  quando esso  non  ha  il  suo  significato  proprio  di  apparenza  sub- biettiva  o  semplice  illusione.  Su  questo  concetto  della  dot- trina platonica  dovremo  ritornare  in  uno  dei  numeri seguenti. 4*  L'  astratto  e  il  concreto  non  sono  due   cose   dif- ferenti, ma  una  sola  e  stessa  cosa  a   gradi    differenti  di (1)  Rep,  476  a.  "I determinazione:  l'astratto  è  il  concreto,   ma   indetermi- nato; il   concreto   é  l'astratto,  determinato.  Siccome  poi r  astratto   è   suscettibile  di  più  determinazioni  distinte  e divergenti  (l'animale,  determinandosi,  diviene  nomo,  ca- vallo, ecc:;  l'uomo,  quest'uomo  alto  o  basso,  dotto  o  igno- rante, ecc:);  cosi  il  movimento  di  concretizzazione  o  deter- minazione progressiva  dell'Idea— perchè  l'Idea  non  è,  per dir   cosi  inerte,  ma  vivente,  e  la  sua  vita,  il  suo  sviluppo, nel  sistema  di  Platone  come  in  quello  di  Hegel  o  di  qual- siasi altro  filosofo  realista,  è  il  suo  passaggio   continuo da  uno   stato  più  indeterminato,  pili  astratto,  anno  stato più  determinato,  più  concreto — questo  movimento    è   al tempo  stesso  una   moltiplicazione   progressiva,    per   cui ciò  che  è  unità  nel  momento  anteriore,  nel  momento  po- steriore diviene  moltiplicità  (si  tratta,  ben  inteso,  di  un'an- teriorità e  posteriorità,  non  cronologica,  ma  logica  e  me- tafìsica). Di  là  la  formula  platonica  che  tutto  (cioè  tutto ciò  che  corrisponde  a  un  nome  generale  :    l'uomo,    l'a- nimale, il  bene,  ecc .)  è  al  tempo  stesso  uno  e  molti  (un Genere    e   molte   Specie,    ovvero   una    Specie'^ e   molti individui)  o  ancora  uno,  molti  ed   infiniti    (un    Genere, molte  Specie  ed  infiniti    individui).    Nel    Filebo,    in   cui questa  formula  principalmente  è  impiegata,  dopo  che  si è  convenuto  tra  gl'interlocutori  che  vi  hanno   molte  spe- cie del  piacere  e  della  scienza,  Socrate  dice  :  «  Fermiamo ancora  di  più  per  una  confessione  mutua   questo   prin- cipio, che  cau8a  grandi  imbarazzi  a  tutti  gli  uomini,  ai volenti  ed  anche  qualche  volta  ai  nolenti.  Io   parlo  del principio  in  cui  ci  siamo  imbattuti,  e  che  è  di   una  na- tura ben  sorprendente;  è  in   cfiVitto   una  cosa   strana    a dire  che  ìiiolti  sono  uno  e  che  uno  è  molti',  ed  è   facile di  muovere   controversia  a  chi    sostiene  in  ciò  il    prò   o il  contro  9  (1).  Filebo  crede  che  Socrate  alluda  alla  dif- (1)  14  o. fìcoltà,  divulgata  presso  gli  eristici  del  tempo,  come  ad un  soggetto  unico  possano  inerire  molti  attributi;  ma Socrate  si  spiega,  soggiungendo  che  la  difficoltà  di  cui egli  parla,  nasce  «  non  quando  l'uno  è  preso  tra  le  cose soggette  alla  nascita  e  alla  morte— quando  si  tratta  di un  tale  uno,  si  conviene  che  non  bisogna  disputare  in ciò  con  alcuno— ma  quando  sì  cerca  di  stabilire  un  uomo, un  bue,  e  il  bello  uno,  e  il  bene  uno  (vale  adire  quando il  multiplo  fenomenale  si  risolve  nell'uno  ideale);  è  su queste  unità  e  le  altre  della  stessa  natura  che  i  senti- menti sono  divisi  e  vi  ha  della  contestazione...  Io  dico che  lo  stesso,  fatto  uno  e  molti  dalle  ragioni,  si  trova da  per  tutto  e  sempre,  per  il  passato  come  oggi,  in  cia- scuna delle  cose  di  cui  si  parla  {dalle  ragioni  vuol  dire: dalla  dialettica;  questa  trasforma  continuamente  l'uno in  molti,  per  la  dieresi,  e  i  molti  in  uno,  perla  auvaYwyì^; e  Socrate  intende  dire  che  questo  fatto,  che  la  stessa  cosa diviene  per  la  dialettica  ora  uno  e  ora  molti,  è  un  fatto generale)  :  ciò  non  cesserà  mai,  e  non  è  ora  che  inco- mincia, ma  è,  mi  sembra,  una  proprietà,  immortale  e incapace  d'invecchiare,  delle  ragioni  stesse Gli  an- tichi, che  erano  migliori  di  noi,  e  stavano  più  vicini  agli dei,  ci  hanno  tramandato  quest'oracolo,  che  tutte  le  cose che  si  dicono  esistere  eternamente  (le  specie)  constano di  uno  e  di  molti,  ed  hanno  insite  in  sé  la  finità  e  l'infinità (constano  di  uno  e  di  molti,  non  è  che  un'altra  maniera di  dire  che  ciascuna  è  uno  e  molti;  Piatone  si  serve  di questa  espressione,  perchè  cerca  una  forma  che  possa convenire  tanto  alla  sua  propria  dottrina  quanto  a  quella dei  Pitagorici,  nella  quale,  cioè  nell'afiìnità  dei  suoi  con- cetti con  quelli  del  platonismo,  sta  tutto  il  fondamento storico  della  supposizione  fantastica  di  una  dottrina,  tra- mandata dagli  antichi  eotto  la  forma  oscura  di  un  ora- colo, e  il  cui  senso  riposto  era  la  teoria  delle  Idee  e  la —  37  - dialettica.  Egli  può  attribuire  ai  Pitagorici  la  proposi- zione che  tutto  consta,  non  solo  dell'uno  ma  anche  dei molti,  perché  questa  seconda  entità  faceva  parte  di una  delle  loro  due  serie  di  elementi  contrari).  E  che, tale  essendo  l'ordine  di  queste  cose,  noi  dobbiamo  sempre, nella  ricerca  di  ciascun  oggetto,  stabilire  un'Idea  unica per  tutto;  e  si  può  ritrovarla,  perchè  vi  esiste;  scoverta questa,  cercare  se  dopo  una  ve  ne  ha  due,  o,  se  non due,  tre  o  qualche  altro  numero;  e  ciascun  uno  di  questi (cioè  ciascuna  di  queste  Idee)  esaminare  ancora  cosi, sinché  si  veda,  non  solo  che  T^no  primitivo  è  wno  e  moZ/f ed  infiniti,  ma  anche  quanti  è  (cioè  quante  Specie  com- prende l'Idea  da  principio  stabilita)  ;  e  non  si  deve  appli- care alla  moltitudine  l'Idea  dell'infinito,  prima  di  vederne ogni  numero  che  s'interpone  tra  l'infinito  e  l'uno  (cioè non  si  deve  considerare  la  moltitudine  infinita,  vale  a  dire gl'individui,  prima  di  considerare  successivamente  tutte le  moltitudini  determinate,  vale  a  dire  tutte  le  divisioni e  suddivisioni 'del  Genere  stabilito  in  principio;  p.  e.  se questo  genere  è  l'Animale,  e  Platone  ammettesse  la  clas- sificazione dei  naturalisti  moderni,  prima  di  enumerare i  Tipi,  le  Classi,  gli  Ordini,  le  Famiglie,  i  Generi,  le Specie)  ;    solo    allora   si    può    lasciare   ciascuno   di    tutti gli  wm    andare    a    disperdersi    nell'infinito Ciò    che ho  detto  è  chiaro  nelle  lettere,  e  puoi  vederlo  nelle  cose che  hai  appreso  nell'infanzia.  La  voce  che  ci  esce  dalla bocca  è  una  e  al  tempo  stesso  infinita  in  moltitudine,  per tutti  e  per  ciascuno.  Ma  per  nessuna  delle  due  cose  di- veniamo sapienti,  né  perchè  conosciamo  della  voce  l'in- finito, né  perchè  conosciamo  l'uno,  ma  ciascuno  di  noi diviene  grammatico  perchè  conosce  quanti  e  quali  essa é  (cioè,  come  spiega  a  i8  b-c,  perchè  nell'infinito  della voce  sa  discernere  i  diversi  generi  e  specie  di  suoni).  È per  la  stessa  cosa  che  si  diviene  musico:  una  è  la  voce anche  per  quest'arte;  pure  bisogna  porne  due,  il  grave e  l'acuto,  e  terzo  il  tono  medio ed  è  a  questo  modo che  bisogna  esaminare  tutto  ciò  che  è  uno  e  molti  »  (i). Posto  questo  principio  generale,  Socrate  vuol  farne  l'ap. phcazione  alla  sapienza  e  al  piacere  :  «  Uno  diciamo  es- sere  ciascuno  di  essi:  ora  il  discorso  precedente  ci  chiede come  ciascuno  è  uno  e  molti,  e  come  ciascuno  non  è  su- bito infiniti,  ma  V  uno  e  1'  altra  hanno  un  certo  numero prima  di  divenire  infiniti  ».  Filebo,  comprendendo Tinter- rogazione  di  Socrate,  dice:  «  Socrate  sembra  domandarci 86  il  piacere  ha  o  no  delle  specie,  e  quante  e  quali  siano e  cosi  similmente  per  la  sapienza  ».  E  Socrate  :  «  È  come dici  :  in  effetto,  come  ha  mostrato  il  discorso  precedente, di  noi  sarà  di  alcun  valore  in  checchesia,  se non  è  capace,  di  rispondere  a  questa  domanda  su  tutto cho  è  uno  e  simile  e  lo  stesso  e  il  contrario  (vale  a diro:  su  tutto  ciò  che  é  al  tempo  stesso  uno  e  molti,  e perciò  anche  lo  stesso  e  diverso,  simile  e  dissimile)  »  (2). Poi,  il  principio  viene  applicato  ai  quattro  generi,  in  cui Socrate  divide  tutti  gli  esseri  che  sono  nell'universo,  o piuttosto  a  tre  di  questi  generi,  (il  finito,  l'infinito  e'  il composto  dei  due)  :  Socrate  ricerca  come  ciascuno  di  essi è  uno  e  molti  (3),  riunendolo  —  come  dice  nel  luogo  ri- portato al  num.  2«— in  uno,  dopo  averlo  guardato  diviso in   molti  e  disperso. La  formula  che  lo  stesso  è  uno  e  molti,  non  si  trova solamente  nel  Flleho.  Così,  nelle  Leggi  963  e  l'Ateniese dice:  «  Giacché  vi  hanno  quattro  specie  di  virtù,  ciascuna è  una,  poiché  sono  quattro  :  e  tuttavia  abbiamo  chiamato (1)  15  a  -  17  d. (2)  18  e -19  b. (3)  V.  23  e,  24  a,  25  a,  d,  26  d. -   38   — uno  tutte  queste;  diciamo  infatti  la  fortezza  virtù,  la  pru- denza virtù,  e  cosi  le  due  altre,  come  se  realmente  siano non  molti j  ma  quest'wwo  solo,  virtù».  E  a  964  a:  «  Io t'ho  spiegato  come  la  prudenza  e  la  fortezza  sono  diffe- renti e  due  :  tu  spiegami  come  sono  uno  e  lo  stesso.  Fi- gurati che  tu  devi  dirmi  come,  essendo  quattro,  sono  uno; e  domandami,  dopo  avermi  insegnato  che  sono  uno,  che  io t'insegni  come  sono  quattro»  (l'Ateniese  domanda  insom- al  suo  interlocutore  la  defììiizione  comune  della  virtù). E  a  966  a  :  «  Ma  che?  non  diremo  noi  lo  stesso  del  bello e  del  buono?  i  nostri  custodi  devono  sapere  soltanto  co- me l'uno  e  l'altro  sono  molti,  o  anche  come  sono  uno  ?» Nel  Menone  72  a,  dopo  che  Menono,  interrogato  cosa  sia la  virtù,  risponde  quale  sia  la  virtii  dell'uomo,  quale  della donna,  quale  del  fanciullo,  quale  del  vecchio,  ecc.,  So- crate dice  che,  cercando  una  virtù,  ha  trovato  presso  di lui  uno  sciame  di  virtù,  e  a  11  a,  lo  esorta  a  lasciare  la virtù  intera  e  sana,  e  a  cessare  di  fare  di  uno  molti.  In questi  luoghi  il  molti  rappresenta  le  Specie  rispetto  al  Ge- nere :  ma  altrove  rapprrsenla  gl'individui,  le  cose,  ri- spetto all'  Idea.  Cosi  nella  Rep.  507  a-b  :  «  Diciamo  che vi  hanno  molti  belli  e  molti  buoni  e  similmente  ogni  al- tra cosa,  e  li  distinguiamo  col  discorso  ;  e  poi  il  bello stesso  e  il  buono  stesso,  e  cosi  tutti  quelli  che  poneva- mo come  molti,  di  nuovo  ponendo  secondo  un'Idea  Unica di  ciascuno,  come  unica,  chiamiamo  ciascuno  ciò  che  è; e  quelli  diciamo  vedersi,  ma  non  intendersi,  le  Idee  in- tendersi, ma  non  vedersi  » . Ora  io  domando  al  lettore  :  1®  è  chiaro  o  no  che  nei luoghi  citati  l'uno  è  identificato  coi  molli,  e  i  molti  con l'uno?  che  i  molti  sono  riguardati,  non  come  un'altra cosa  dall'uno,  ma  come  l'uno  stesso,  e  l'uno  non  come un'altra  cosa  dai  molti,  ma  come  i  molti  stessi?  che  l'uno e  i  molti  sono,  non  due   cose   completamente   differenti e  separate,  da  una  parte  l'uno,  da  un'altra  parte  i  molti, ma  una  sola  e  stessa  cosa,  che  si  considera  sotto  due  a- spettì  differenti,  ora  come  uno,  ora  come  molti  ?  2^  è chiaro  o  no  che  quest'uno  e  questi  molti  sono  l'Idea  e le  cose,  ovvero  l'Idea  generica  e  le  Idee  specifiche  ?  3^  é chiaro  che,  questi  due  punti  ammessi,  ne  risulta  un  terzo, cioè  che  l'Idea  e  le  cose,  l'Idea  generica  e  le  Idee  spe- cifiche, sono  una  sola  e  stessa  realtà  considerata  sotto  due aspetti  differenti,  e  non  due  realtà  completamente  dif- ferenti e  separate?  Ora  se  le  Idee  platoniche  sono  im- manenti, se  e«se  sono  gli  universali  nel  senso  rigoroso della  parola,  cioè  i  concetti  generici  e  specifici,  rea- lizzati,  ma  nelle  cose  stesse;  è  questo  appunto  che deve  avvenire:  che  l'Idea  generica,  quantunque  di- stinta dalle  Idee  specifiche,  e  sussistente  per  se  stessa, deve  identificarsi  nondimeno  con  queste  Idee  specifiche, cioè  con  la  loro  totalità,  e  l'Idea  specifica,  quantunque distinta  dagli  individui,  deve  non  pertanto  identificarsi eon  la  totalità  degli  individui;  perchè,  come  abbiamo detto,  l'universale  e  il  particolare,  l'astratto  e  il  concreto (o,  più  generalmente,  il  più  astratto  e  il  più  concreto)  non possono  essere,  anche  nel  S'stema  realista,  che  una  cosa stessa  a  gradi  differenti  di  determinazione  —  gradi  diffe- renti di  determinazione  che,  per  noi,  non  sono  che  delle vedute  m(ntali  differenti  Fotto  cui  il  medesimo  oggetto viene  considerato,  ma  che  il  metafisico  realista,  con  quella confusione  sistematica  tra  l'obbiettivo  e  il  subbiettivo  che è  il  carattere  proprio  di  questa  forma  di  metafisica,  tra- sporta nell'oggetto  stesso,  e  ne  fa  degli  stati  differenti,  dei momenti  diversi  di  sviluppo  (non  successivi,  ma  simulta- nei) di  un  solo  e  stesso  essere—.  L'identificazione  dell'uno coi  molti,  risultante  dalla  inevitabile  identità  fra  l'astratto e  il  concreto  (cioè  fra  il  più  astratto  e  il  più  concreto) tiene  nel  sistema  platonico  un  posto  più  cospicuo  che  ne- —  39  - gli  altri  sistemi  analoghi,  per  Tirr.portanza  suproma  che la  dialettica  platonica  dà  alla  relazione  tra  i  generi  e  le specie;  ma  è  evidente  ohe  questa  identificazione  ha  luogo in  tutti  i  sistemi  realisti.  L'Idea  dell'essere, p.  e.,  non  si identifica,  per  Hegel,  con  tutte  le  altre  Idee,  le  quali  non sono  che  TEst^ere  primitivo,  che  riceve  successivamente nuovi  gradi  di  determinazione  ?  e  ciascuna  di  queste  Idee, una  in  s**.  stessa,  non  apparisce  infiniti  nello  spazio  e  nel tempo  ?  Quest'Essere  è  dunque,  come  V  Essere  di  Pla- tone, uno,  molti,  rd  infiniti  allo  stesso  tempo.  Ma  questa conseguenza  inevitabile  del  realismo  non  ha  luogo  che quando  le  astrazioni  obbieitivate  dal  realista  si  suppon- gono nelle  cose  stesse  —  supposizione  che  d'altronde  fanno tutti  i  realisti;  il  proprio  dall'interpretazione  trascenden- talista, cioè  di  questa  forma  dell'interpretazione  trascen- dentalista che  vede  nelle  Idee  platoniche  tutt'  altra  cosa che  i  pensieri  della  divinità,  è  di  attribuire  a  Platone  una dottrina  che  non  trova  riscontro  in  alcun'  altra  dottrina conosciuta — ;  se  le  Idte  platoniche  non  fossero  che  gli archetipi  delle  cose  fuori  delle  cose,  e  le  Idee  generiche che  gli  archetipi  delle  Idee  specifiche,  egualmente  se- parati da  queste,  il  rapporto  tra  le  Idee  e  le  cose,  tra le  Idee  generiche  e  le  specifiche,  sarebbe  esclusivamen- te un  rapporto  di  differenza,  e  non  questo  rapporto  am- biguo,  di  differenza  al  tempo  stesso  e  d'identità,  che i  filosofi  realisti  sono  obbligati  di  supporre  tra  l'astratto e  il  concreto  —  o  più  propriamente  tra  il  più  astratto  e il  più  concreto  —,  appunto  perchè  i  loro  astratli  non  sono fuori  dei  concreti,  ma  i  concreti  stessi  guardati  dal  punto di  vista  d^irastrazionc.  Evidentemente,  Platone  trascen- dentalista avrebbe  calunniata  la  sua  dottrina,  facendone uscire  la  conseguenza  —  ch'egli  si  contenta  di  chiamare strana,  ma  che  è  in  verità  inconcepibile  e  contradditto- ria —  che  l'uno  e  molti  e  i  molti  sono  uno  :  questo  corol- lario del  sistema  platonico  è  cosi  chiaramente  connesso con  l'immanenza  delle  Idee,  che  l'interprete  trascenden- talista potrebbe  a  buon  dritto  farne  una  delle  più  forti obbiezioni  contro  Tinterpietazione  delle  Idee  come  imma- nenti, se  Platone  l'avesse  dissimulato,  invece  di  proclamar- lo arditamente,  come  ha  fatto,  sventuratamente  per  Tin- terpretadone  trascendentalista. L'identità  tra  i  molti  e  l'uno  suppone  l'assorbimento dei  molti  nell'uno,  cioè  delle  cose  nell'Idea,  e  delle  Idee specifiche  nelF  Idea  generica.  Dire  che  tutti  gli  animali sono  l'Animale,  e  che  l'Animale  è  tutti  gli  animali,  è  ri- sohere  tutti  gli  esseri  animati  in  un'essenza  unica,  l'A- nimale. Ora  siccome  tutte  le  Idee  sono,  secondo  Platone, subordinate  ad  un'Idea  suprema,  la   più    universale  di tutte,  che  tutte  le  abbraccia  nella  sua  universalità,  ed  é l'eiSo^  di  tutti  gli  £t$Yj,  l'Idea  di  tutte  le  Idee,  ne  segue che  tutte  le  Idee,  e  quindi  tutte  le  cose,  si  risolvono  in  que- sta essenza  universalissima,  che  Platone  chiama  il  Buono, l'Essere,  l'Uno,  ecc.  Quest'Idea  è,  come  d-ce  Schelling  del suo  Assoluto,  l'universo  concentrato  in  un  punto  :  il  mondo delle  Idee  e  delle  cose  non  sono  che  il  Buono  o  l'Essere  allo stato  esplicito,  e  il  Buono  o  l'Essere  è  il  mondo  delle  Idee  e delle  cose  allo  stato  implicito.  È  a  questa  dottrina  della  ri- soluzione del  tutto  in  una  Lenità  suprema,  che  si  riferisce (juesta  indicazione  d'Aristotile  in  Met,  1. 1,  IX,  U:  «  E,  ciò chesembra  facile,  dimostrare  che  tutto  è  uno,  non  riescerpoi- che  dall'astrazione  (sxBeaic;)  non  risulta  che  tutti  sono  uno, ma  risulta  semplicemente  (jualche  cosa  in  sé  (qualche  Idea) nna,  se  pure  si  concedono  tutte  le  loro  supposizioni:  ma nemmeno  ciò,  se  non  si  concede  che   ogni   universale   è genere;  ora  questo  per  alcuni  universali  è  impossibile». Aristotile  fa  qui  alla  proposizione  di  Platone  due  obbie- zioni: una  (ò  la  seconda)  che  Platone  non  ha  il  dritto  di htabilire  un'Idea  unica  comune  per  tutte  le  cose  di  cui  si -  40  - predica  Tessere  o  Timo,  perchè  queste  cose,  quantunque loro  si  applichi  lo  stesso  nome,  non  costituiscono  un  ge- nere ;  e  Taltra  (la  prima)  che,  ancorché  si  fosse  autoriz- zati a  stabilire  un'Idea  unica  comune  per  tutte  le  cose di  cui  si  predica  Tessere  o  l'uno  —  cioè  per  tutte  le  cose, perchè  di  tutte  si  predica  Tessere  e  T  uno—,  ne  segui- rebbe semplicemente  che  vi  ha  un'Idea  delTes^sere  o  del- l'uno, ma  non  che  tutte  le  cose  si  risolvono  in  una  cosa unica,  l'Essere  oTUno.  Facendo  quest'ultima  obbiezione, Aristotile  dimentica  la  dottrina  del  Filebo,  ciò  che  in  lui non  é  sorprendente,  perchè  tutta  la  sua  interpretazione del  platonismo  tende  ad  esagerare  il  rapporto  di  diffe- renza tra  le  Idee  e  le  cose  (e  tra  le  Idee  generiche  e  spc cifiche)  a  scapito  di  quello  à' identità  :  ma,  qualunque  sia jl  valore  delle  obbiezioni  d'Aristotile,  ciò  che  risulta  in- contestabilmente dal  luogo  citato,  è  che  Platone  tirava dal  sistema  delle  Idee  la  conseguenza  che  tutto  è  uno. Ora  questo  monismo  sarebbe  inconcepibile,  se  le  Idee  fos- sero separate  dalle  cosi^  e  le  une  dalle  altre:  in  questo caso  il  mondo  ideale  sarebbe,  non  un'unità  multipla,  ma una  moltiplicità  senza  unità  ;  e  s'ì  p^r  un'inconseguenza si  ammettesse  che  le  Idee,  pur  essondo  fuori  dello  cose, si  riducono  all'unità  in  un'Idea  suprema,  questa  suppo- sizione non  basterebbe  ancora  a  rendere  conto  della  pro- posizione platonica  riferitaci  da  Aristotile,  perchè  ciò  che è  affermato  da  questa  proposizione  è  che  tutto  è  uno^  e non  semplicemente  che  tutte  le  Idee  sono  uno. Su  qu'^sto  concetto  di  una  Unità  suprema  che  contiene virtualmente  il  tutto,  rimandiamo  a  ciò  che  abbiamo  detto parlando  della  dialettica  platonica. VI.  Per  indicare  il  rapporto  tra  T  attributo  e  il  sog- getto, noi  diciamo  che  l'attributo  è  nel  soggetto,  e  che il  soggetto  ha  l'attributo.  Questi  termini  e  i  loro  sinoni- mi sono  in  un  certo  modo  dei  traslati,  come  tutti  quelÙ i esprìmenti   delle   concezioni   astratte,   1  quali  primitiva- m*»nte  non  significano  che  delle  idee  più  concrete,   ma che  hanno  con  queste  concezioni  astratte  una  certa  ana- logia su  cui  è  fondato  il  passaggio  dall'uno  all'altro  dei due  significati.  Nel  nostro  caso,  questo  significato  primi- tivo e  più  concreto  è,  per  i  teruìini  che  indicano  il  rap- porto dell'attributo  al  soggetto,  la  presenza  locale,  e  per quelli  che  indicano  il  rapporto  del  soggetto  all'attributo, il  possesso.  Nel  sistema  realista,  in  cui  gli  attributi  ven- gono considerati  come  sostanze,  inesistenti  nei  soggetti, ma  aventi,  in  essi,  un'esistenza  propria  e  distinta,  que- ht'analogia  tra  il  significato  primitivo  e  più  concreto  dei termini  indicanti  il  rapporto  tra  il  soggetto  e  l'attributo, 0  il  significato  nuovo  e  più  astratto  in  cui  vengono  ap- plicata è  naturalmente  più  grande.  Per  conseguenza  Pla- tone, per  indicare  il  rapporto  tra  le  Idee  e  le  cose,  pre- ferisce, fra  i  termini  che  esprimono  il  rapporto  tra  il  sog- getto e  l'attributo,  quelli  che,  anche  usati  in  questo  nuovo significato,  suggeriscono  più  vivamente  le  idee  del  loro significao  primitivo,  vale  a  dire  della  presenza  locale  e del  possesso.  Di  pin,  il   possesso   dell'attributo  essendo, nel  sistema  realista,  comune  a  molti  soggetti,  noi  possia- mo attenderci  a  priori  che,  per  indicare  il  rapporto  delle cose  alle  Idee,  cioè  dei  soggetti  agli  Attributi,  verrà  data la  preferenza  a  quei  termini  che  esprimono,  non  solo  il possesso,  ma  la  comunanza  nel  possesso.  Di  là,  nel  pla- tonismo, i  termini  tecnici  presenza^  esser  presente  (Tiapo'j- o£a,  uapsìvat  e  sinonimi),  per  indicare  la  relazione  delle Ilee  alle  cose,  e  partecipare,  partecipazione  ([xexéxeiv,  jjls- TaXajjipavetv,  xoivwverv,  ecc.,  e  i  nomi  corrispondenti  ixéGsgi^, jiexaXYj'^^ig,  xotvwvia,  ecc.  )  per  indicare  la  relazione   delle cos^  alle  Idee.  Naturalmente  questi  termini  non  sono  i  soli che  Platone  impieghi  per  denotare  il  rapporto  tra  le  Idee e  le  cose:  degli  altri,  alcuni  esprimono  il  concetto  della -41  - immanenza  d'una  maniera  anche  più  energica.  L'oso  di tutti  questi  termini  (parusìa,  partecipazione  e  gli  altri) è  cosi  naturale  nell'ipotesi  d»*irimaianenza  dello  Idee,  e diviene  si  imbarazzante  in  quella  della  trascendenza,  che basterebbe  di  enuoeiarli  per  provare  la  prima  delle  due ipotesi:  ma  siccome  il  80g<>etto  è  stato  molto  discusso,  e le  lunghe  discussioni  hanno  per  risultato  di  spargere  del dubbi  sulle  cose  più  chiare,  cosi  noi  siamo  obbligati  ad un'e8poii;izione  più  minuziosa,  per  il  comodo  della  quale li  divideremo  in  due  gruppi,  riunendo  gli  altri  attoroo  ai due  termini  tipici  parusia  e  partecipazione. Quando  Platone  dice  che  gli  oggetti  sono  bianchì  per la  presenza  (napouoCal,  in  «ssf,  della  bianchezza,  belli per  la  presenza  della  bellezza,  ecc.,  chi  vorrà  negare che  Tidea  che  ci  suggerisce  immediatamente  la  parola presenza^  sia  la  presenza  deirattributo  nel  soorgetto?  Noi saremmo  autorizzati  a  cercare  un  altro  significato,  se  ciò che  si  dice  essere  presente  non  fosst)  la  bianchezza,  la bellezza,  ecc.,  in  una  parola  se  le  Idee  platoniche  fossero altra  cosa  che  degli  attributi  realizzati.  So  si  trattasse p.  e.  delle  divinità  delle  specie  di  alcuni  popoli  selvaggi, a  cui  il  Tylor  ed  altri  paragonano  le  Idee  platoniche  (1), ch'essi  intendono,  alla  maniera  tradizionale,  come  degli archetipi,  noi  dovremmo  intendere  per  la  parola  parusia la  dimora  di  uno  spirito  feticcio  in  un  oggetto;  p.  e.,  una cosa  è  bella  per  la  presenza  dell'Idea  del  bello,  signifi- cherebbe allora  che  essa  è  bella  perchè  è  posseduta  dallo spirito  che  presiede  alla  specie  delle  cose  belle.  Ma  l'Idea del  bello  essendo,  non  uno  spirilo  feticcio,  nò  una  divi- nità, né  una  forza,  né  alcun  altro  degli  agenti  iperiisici (1)  V.  Tylop  Xa  aivilizsaz,  primit,  t.  2,  o.  XV,  suU»  tìne. che  sono  stati  riguardati  come  cause  efficienti  dei  feno- meni, ma  l'attributo  bell-zzi,  considerato  come  un'entità reale,  è  ragionevole  cercare  alla  proposizione  un  altro  si- gnificato che  questo  si  ovvio,  che  la  cosa  è  bella  perchè ineri-^ce  in  essa  l'attributo  Bellezza  V  Alcun  interprete  tra- pcendentalista  non  ha  mai  detto,  per  quel  che  io  sappia,- d'una  maniera  preei'^a  quale  sia  il   significato  della  pa- rola parusia  Fecondo  questa  interpretazione:  mail  para- gone del  Tylor  ci  suggerisce  l'unica  soluzione  che  l'in- terprete trascentalista  possa  darà  al  problema  (problema nell'ipotesi  della  trascendenza)  della   parusia   platonica. Le  Idee  di  Platone,  potrebbe  dirsi,  sono  presenti   nelle cose  come  noi  diciamo  che  Do  è  presente  nel  mondo:  la parola  presenza,  trattandosi  di  un   oggetto  inesteso  che non  è  nello  spazio,  non  potrebbe  avere  alcuna  significa- z'ono  precisa;  essa  indica  semplicemente  una  vaga  assi- milazione, che  si  tenta  di  fare,  del  rapporto  tra  due  og- getti, che  si  suppongono  tra   di   loro  nella   relazione  di causa  e  di  effetto,  di  agente  e  di  paziente,   a  quel  rap- porto  locale,  che  solo  può  fflr  comprendere  la  possibilità dell'azione  di  una  c^sa  su  di  un'altra,  lo  spirito  uma-  o avendo  sempre  trovato  incoucc|ibile  che  una  cosa  agisca dove  essa  non  è. Per  quanto  questa  interpretazione  della  parusia  pla- tonica sia  intrinsecamente  inverisimile— e  in  effetto  l'at- titudine di  un  modello,  quale  l'Idea  nell'interpretazione trascendentalista,  a  produrre  delle  copie,  è  altrettanto inconcepibile  nell'ipotesi  d'  un'  azione  a  contatto  quanto in  quella  d'uu'azione  a  distanza-^  sicché  Platone  avrebbe senza  alcun  profitto  complicato  il  suo  sistema  d'un'ipo- tesi  tanto  onerosi,  che  introduce  nel  sistema  delle  Idee trascendenti  qml'a  stessa  es'stenza  simultanea  dell'uno nei  molti,  che  è  la  più  grave  difficolta  del  sistema  delle Idee  immanenti— pure  è  tutto  quello,  io  credo,  che  Tiu- -  42  — terprete  trascendentalista  può  dire  per  rendere  cont^  dei- Taso  che  Platone  fa   del   t'armine    parusia  e  degli    nitri dello  stesso  ordino.  Per   conseguenza,   è   in    questi   ter- mini che   io   proporrò   la   qu'stione   deir  interpretazione della  parusia   platonica  :   la   presenza   delle   Idee   nello cose  è  la  presenza  delPattributo    nel    soggetto,  o  e  una presenza  quad  locale,  per  cui   le   Idee,    separate    dalle cose,  quantunque  non  siano   in    alcun    luogo,    pure   si trovano  in  un  certo  modo  dove  sono  le  cose  (non  ì/i  loco sed  ubi,  come  dicevano  gli  scolastici  deiranìma),  d'  una maniera  che.   del   resto,  è  impossibile   di    dire   con    pm precisione  ?  Tra  le  due   interpretaziooì    il    lettore   potrà giudicare  dagli  esempi  segu*^Jìti. Ipp.  Mago.  289  d  :  '*  Il  bello  stesso,  di    cui  tutti  gli altri  belli  (le  co«?e  belle)  sono  orwrt/i  (xooiisrxaO,  e  appaiono belli,  tutte  le  volte  che  è /^msew^c  (TcpoorivyjTai)  quella  spe- cie ......  (Le  erse  belle  potrebbero  essere   ornaf^   di  un bello,  che  non  è  una  loro  proprietà?  lutante  questo  bello di  cui  si  cerca  la  definizione  è  certamente  l'Idea  del bello.  Cfr.  n.  IV.)  Ih.  294  a  :  *  Il  conveniente  (per  cui  si è  proposto  dì  definire  il  bello),  diremo  che  è  ciò  che, essendo  presente  (Tiapavsvóiievov),  fa  par»  r  bello  ciascuno degli  oogetti  a  cui  è  presente  (uap^),  o  ciò  che  lo  la  es- sere bello? Se  il  conveniente  fa  parere  le  cose  più belle  di  quel  che  sono,  il  conveniente  è  una  sorta  d' in- ganno intorno  al  bello,  ò  non  è  ciò  che  noi  cerchiamo  (l). Poiché  noi  cerchiamo  ciò  per  cui  tutte  le  cose  belle sono  belle,  come  è  per  recce5?so  che  tutte  le  erse  grandi sono  grandi  :  per  esso  infatti  tutte  sono  grandi,  e,  quan- d'anche non  sembrino  tali,  purché  eccedano,  è  necessario che  siano  grandi  »  (1)  Ippia  dice  (294  e.)  «  Ma  il  con- conveniente, o  Socrate,  fa  le  cose  ed  essere  e  parer  belle, quando  è  presente  (irapóv)  «;  a  cui  Socrate  :  «  É  dunque impossibile  che  le  cose  realmente  belle  non  sembrino belle,  essendo  presente  (Tcapóvxo;)  ciò  che  le  fa  parere tali  ♦  (2> Parmen  :  149  e  :  4  Se  o  TUno  avesse  piccolezza  e  le «Itre  cose  grandezza,  o  ITJno  grandezza  e  le  altre  cose piccolezza,  quella  delle  due  specie  a  cui  fosse  presente (TrpooeCrj)  la  grandezza  non  sarebbe  maggiore,  quella  a cui  la  piccolezza,  minore  ?— Necessariamente— Sodo  dun- que queste  due  spi  eie,  la  grandezza  e  la  piccolezza  ?  se infatti  non  fossero,  non  sarebbero  contrarie  fra  di  loro, e  non  inerirebbeio  {èxy^x'^oia^y)  negri!  esseri.  »  (Il  seguito mostra  più  chiaramente  ancora  che  la  grandezza  e  la piccolezza  di  cui  si  tratta  sono  delle  Idee,  delle  astra- zioni realizzate).  Filebo  60  e.  e  La  qj'Jatg  del  bene  in  ciò d  fferisce  dalle  altre,  che  chiunque  dei  viventi  a  cui  è presente  (jiapeCr))  sempre,  in  tutto  ed  assolutamente,  non ha  più  bisogno  di  niente  altro,  ed  ha   tutto  ciò  che  gli (1)  Qaesto  conveniente  è  pure  un'entità  trascendente  ?  ma  chia- mandolo un  inganno,  Socrate  suppone  evidentemente  oh'  esso  en- tra nella  sfera  delle  nostre  percezioni. (1)  Quest'eccesso  è  anch'esso  un'entità  trascendente  ?  dovrebbe esserlo  se  il  bello  lo  è,  poiché  Socrate  dice  che  le  cosa  grandi  sono grandi  per  l'eccesso,  come  le  cosa  belle  sono  belle  per  i\  bello.  In- tanto qui  è  evidente  ohe  la  proposizione:  le  cose  grandi  sono  grand[ per  l'eccesso,  signiftoa  puramente  e  semplicemente  ch'esse  sonotaU  perchè  eccedono. (2)  Ippia,  cha  non  sa  niante  dalla  teoria  dalle  Idee,  può  inten- dere altro  per  la  presenta  del  conveniente  che  la  presenza  di  un attributo  nel  soggetto  ?  anche  Socrate  quindi  deve  intendere  la  stes- sa ©osa,  se  tra  i  due  interlocutori  non  vi  ha  un  equivoco. \0 -^  43  - basta  perfettamente  »  (1)  Rep.  437  de  :  «  Socr.  :  La  séte in  quanto  è  sete,  non  è  Tappetito,  neiranima,  di  qaal che  cosa  di  più  che  ciò  che  noi  diciamo  (cioè  la  bevanda) non  è,  p.  e.,  l'appetito  di  una  bevanda  calda  o  fredda molta  0  poca,  in  una  parola  di  qualche  bevanda  deter minata;  ma  se  alla  sete  si  aggiunge  {npoQ%)  il  calore apporterà  di  più  Tappetìto  del  freddo,  se  si  aggiunge  il freddo,  del  caldo;  e  se  per  la  presenza  (7:apoiio(av)  del molto  la  sete  è  molta,  apporf^rà  l'appetito  del  molto,  se «  poca,  del  poco  ;  ma  la  sete  stessa  non  é  l'appetito  di altro  che  di  ciò  di  cui  lo  è  per  sua  natura,  vale  a  dire della  bevanda  stessa  ;  e  cosi  la  fame  del  cibo.  —  Cosi  è, disse  Glaucone;  ciascun  appetito  in  se  stesso  é  V  appe- tito solamente  dell'  oggetto  per  se  stesso  a  cui  rsso  si riferisce  per  sna  natura;  Tesserlo  di  un  tal  oggetto  o tal  altro  oggetto  determinato  sono  delle  cose  che  si  ag- giungono. »  (2)  Carmide  159  a  :  «  E,  chiaro  che  se  in  te è  presente  (Tzdpto-zi)  la  temperanza,  tu  hai  di  che  formarti un'opinione  intorno  ad  essa.  È  necessario  infatti  che  ine- rendo (IvoDaav)  essa  apporterà,  s'è  vero  che  imrisce  (iveottv), qualche  sentimento  di  so    stossa,  da  cui  ti  verrà   un'o- (3)  Il  bene,  di  cui  si  tratta  nel  Fileho^  è  incontestabilmente  una Idea,  un  concetto  realizzato,  come  si  vede,  p.  e.,  a  66  a,  in  cui  è chiamato  il  primo  bene  (denominazione  per  cui  si  designa  l'Idea  — V.  Arist.  fra  gli  altri,  Kth,  Knd.  1.  I,  Vili),  e  gli  è  assegnata  una  na- tura eterna  (ciò  che  è  il  carattere  distintivo  delle  Idee).  Si  negherà che  la  <^ùotg  del  bene,  di  cui  si  parla  a  60  e,  sia  la  stessa  cosa  che il  primo  bene,  di  cui  si  parla  a  66  a  ?  Ma  perchè  ?  Il  primo  bene, l'Idea,  non  può  essere  che  ciò  che  corrisponde  al  concetto,  cioè  ap- punto la  ^ùai^  del  bene. (2)  Questo  molto  di  cui  vi  ha  la  parasia  nella  sete  è  dunque  una nuova  circostanza,  come  il  caldo  e  il  freddo,  non  compresa  nel  con- cetto di  sete,  e  che  si  aggiunge  alla  sete  considerata  secondo  il  con- cetto, cioè  in  astratto,  come  una  differenza. I plnione  su  ciò  che  sia  e  quale  sia  la  temperanza.  Non lo  credi?— Lo  credo— E  avendone  un'opinione,  poiché sai  parlare  greco,  potrai  dire  ciò  che  essa  ti  sembra.  — Forse— Dicci  dunque  che  cosa  sia,  secondo  la  tua  opi- nione, la  temperanza,  affinchè  possiamo  congetturarne  se essa  inerisce  (svsoxiv)  in  te  o  no.»  (Questa  temperanza  è- Toggetto  a  cui  si  riferisce  la  definizione,  per  conseguenza ridea  della  temperanza). Lisis  217   c-e  :  «  Alcune  cose  dico  essere  tali  quale è  ciò  che  è  ad  esse  presente  (xò  Tiapóv),  alcune  altre  no. Cosi  se  un  oggetto  si  tinge   d*  un   certo  colore,  (^  prc*c/i/e (Tiixpeoxt),  mi  sembra,  a  ciò  che  si  è  tinto  ciò  con  cui  si è  tinto.— È  presente— Ma  ciò  che  si  è  tinto  è  allora  dello stesso  colore  di  cui  è  ciò  che  glMnerisce  (xò  éiióv)  ?  —  Non comprendo— Cokì  forse  comprenderai.  Se  i  tuoi   capelli, che  sono  biondi,  si  tingessero  con  la  biacca,   sarebbero bianchi,  o  piuttosto  lo  sembrerebbero  ?— Lo  sembrereb- bero—Eppure sarebbe  presente  (TiapeCrj)  in   essi   la  bian- ch(^zza  —  SI  —  Con  tutto  ciò  non  sarebbero  più  bianchi  di prima,  presente  (Tiapoùor^g)  la  bianchezza   non  sarebbero né  bianchi  ne  neri.  — È  vero  —  Ma  quando,  o  amico,  la vecchiaia  apporterà  questo  stesso  colore,  allora  saranno tali  quale  è  ciò  che  sarà  presente  (xò  Tiapóv),  bianchi  per la  presenza  [izol^omoìol)  del  bianco.  —  E  come   no  V  —  Ora questo  io  ti  domando  :  ciò  a  cui  é presente  (iiap^)  qualche cosa,  è  sempre  tale  quale  è  la  cosa   che  e  presente  (xò Tiapóv)  ?  ovvero  lo  è,  se  questa  cosa  è  presente  (iiap^)  in un  certo  modo,  se  no,  no  ?— Cosi  piuttosto,  disse  »  (Qui Platone  distingue  la  parusia  in  due  specie,  di  cui  Tuna, la    più    intima,  è  evidentemente    V  inerenza    dell'  attri- buto  nel   soggetto.  Ora  è   questa   sola   specie   di  paru- sia che  rende  ciò  a  cui  una  cosa  è  presente   tale  quale è  questa  cosa  :  cosi  è  questa   la   specie  di   parusia  che compete  air  Idea,  perche  la  parusia  dell'Idea   rende  le cose  tali  quale  è  l'Idea). -44- NaturalmeOte   T  interprete   trascendentalista    dirà   al suo  solito   che   in  alcuni    dei   luoghi  precedenti  o  forse anche  in   tutti   Platone   non   parla  delle  Idee.    Ma  per- chè,  se  è  un   principio   platonico   che  il  concetto  gene- rale  si   riferisce   all'  Idea  ?   A  questo  perchè   egli   non potrebbe   dare  che   una   sola  risposta  :   che  nei  casi  in cui   evidentemente   si   tratta   d'una   realtà    immanente, noi   non   possiamo   ammettere   che   Platone   parli    delle Idee,  perchè  un'Idea  platonica  non  pnò  essere  che  un'en- tità trascendente.    Ma   non   è    questo  un   mettersi    al  di fuori  di  ogni  discussione,  e  sostituire  alle  prove  il  pro- prio capriccio  ?  Sì  può   sfidare   V  interprete  trascenden- talista a  separare  nettamente  i  casi  in  cui  Platone  parla delle  Idee  e  quelli  in  cui   no -tutte  le  volte,  s'intende, in  cui  si  tratta  d'un  concetto  generale—;  a  dirci,  limitan- doci alla  quistione  presente,  per  esempio,  come  noi  pos- siamo distinguere  i  casi,  in  cui  la  parusia  significa  l'i- nerenza deirattributo  nel  soggetto,  da  quelli,   in  cui  si- gnifica non  si  sa  qual  rapporto  misterioso  tra  un'entità trascendente  e  un  oggetto  della  natura.    L' impossibilità di  fare  questa  distinzione  dovrebbe  renderlo  accorto  che il  significato  di  questo  tei  mine  non  può  in  un  caso  dif- ferire sostanzialmente  da  quello  che   chiaramente   ha  in un  altro. Gli  esempi  seguenti  —  come  anche  in  parte  alcuno  del precedenti,  segnatamente  il  penultimo  —  si  riferiscono, non  ai  termini  TiapoooCa,  Tiapstvat  ed  equivalenti,  ma  ad altri  analoghi,  che  esprimono  l'inerenza  delle  Idee  nelle cose  d'una  maniera  anche  più  ch'ara. Cratilo  389  b  (subito  dopo  aver  detto  che,  se  si  rompe la  spola,  il  fabbro  guarderà,  per  farne  un'altra,  non  alla spola  rotta,  ma  all'sISog,  a  ciò  che  è  spola):  *' Quando si  tratta  di  fabbricare  delle  spole  per  delle  stoffe  fine  o grossolane  dì  filo  o  di  lana  o  di  qualsiasi  altro  genere, non  è  necessario  che  tutte   abbiano   (S/s'-v)  V  stéos    della spola?,, EìUHf.  5  d  :  '*  Che  cosa  dici  essere  il  santo  e  l  em- pio neiromicidio  e  in  ogni  altra  azione?  non  è  lo  stesso il  santo  in  tutte  le  azioni  ?  e  1'  empio,  il  contrario  del santo  ?  non  è  lo  stesso  e  simile  e  avente  (Ix^v)  un  Idea unica,  secondo  l'empietà,  tutto  ciò  che  è  empio?  „ Menane  72  e  :  **  Le  virtù,  quantunque  molte  e  di- verse, ìianno  (Ix^'^ai)  tutte  un  certo  sISo^  lo  stesso  per  cui sono  virtù,  al  quale  bisogna  guardare  per  rispondere  alla domanda  :  che  cosa  è  la  virtù?,,  (lì. Filebo  65  :  **  Non  potendo  prendere  il  bene  m  un  Idea unica,  prendiamolo  in  tre  Idee,  la  beltà,  la  proporzione e  la  verità  (qui  tutti  gl'interpreti  convengono  che  si  tratta del   bene  Idea)....    Compariamo    ciascuna   di  queste  tre col  piacere  e  l'intelligenza,  e  vediamo  se  Tuno  o  l  altra ha  più  affìoità  con  esse-Parlì  della  beltà,  della  verità  e della  scienza?  -  Si....  Dopo  la  verià,  considera   la  mi- sura, se  il  piacere  {^possegga  (xéxxr.Tai)  più  della  s  ipienza o  la  sapienza  più  del  piacere  -  Anche  questa  quistione è  facile  a  risolvere  Io  penso  che  non  vi  ha  niente  di  più smisurato  che  il  piacere  e  la  gioia,  uè  di  più  misurato  che l'intelligenza  e  la  scienza  -  Ottimamente.  Rispondimi  an- Cora  sulla  terza  cosa:  l'intelligenza  partecipa  della  be  à più  che  il  piacere,  in  modo  che  l'intelligenza  sia  più  bella del  piacere,  o  al  contrario?  (2)...  Il  piacere  non  e  dun- (1)  Gai  vi  ha  la  paratia  dell'Idea  generica  nalle   Idee   speoifi-,a  1^  p"ova  che  questa  é  una  partecipazione  nel  senso  tee- nico,  cioè  quella  delle  cose  alle  Idee. —  45  — qne  né  il  primo  né  il  secondo  bene  :  ma  il  primo  bene  é circa  la  misura  e  il  misurato  e  l'opportuno  e  quaut'altre cose  tali  devono  credersi  aver  sortito  una  natura  eter- na.... „  (Non  è  chiaro  che  questa  misura  e  questa  beltà che  VinteìUgenzA possiede  o  a  cui  partecipa  più  del  piacere, sono  delle  Idee?). Fedone  103  b  :  **  Allora  (nella  prima  prova  dell'  Jm- mortalità)  si  diceva  che  dalla  cosa  contrai  ia  viene  la  con- traria, ora  si  dice  invece  che  il  contrario  stesso  non  può mai  divenire  contrario  a  se  stesso,  né  quello  in  noi  (p.  e.  la mia  0  la  vostra  piccolezza,  la  mia  o  la  vostra  grandezza) né  quello  nella  natura  (la  piccolezza  e  la  grandezza  in generale,  cioè  le  Idee  del  piccolo  e  del  grande).  Allora, o  amico,  si  parlava  delle  cose  che  hanno  (èxóvxwv)  i  con- trari e  che  chiamiamo  cel  nome  di  questi  (1),  ora  di  que- sti stessi,  dei  quali  vierenti  (èvóvxwv)  le  cose  prendono  il nome  con  cui  le  chiamiamo  :  è  di  questi  stessi  che  dicia- nio  che  l'uno  non  può  mai  divenire  Taltro,,  (2) Ibid.  103esegg.  :  *'Vi  ha  qualche  cosa  che  ch'ami  Caldo e  qualche  cosa  che  chiami  Freddo  ?-OTtaraente-È  forse un  caldo  quale  il  fuoco  e  un  freddo  quale  la  neve?-No, per  dio  !  -  Ma  un  Caldo  che  é  altra  cosa  che  il  fuoco  e un  Freddo  che  è  altra  cosa  che  la  neve?  — Si  (3J-  Ora tu  ammetterai,  io  credo,  che  giammai  la  neve,  ricevuto (aegaiiévYjv)  il  Caldo,  resterà  quale  era  prima,  ma,  venuto 0)  Cfr.  num.  II.  carta  15,  nota. <2)  Cosi  tanto  il  contrario  in  noi   quanto    quello   nella   natura sono  inerenti  nelle  cose,  e  il  contrario  nella  natura  non  può  ine- rire in  essa    che   nel   senso   stesso   in   cui   t'  inerisce  il  contrario m  noi,  cioè  come  un  attributo  nel  soggetto. (3)  Distingue  il  Caldo  e  il  Freddo  Idee,  che  sono  propriamente gli  oggetti  a  cui  si  riferiscono  questi  nomi,  dalle  cose  fredde  e caldo,  dai  partecipanti. (7:pootóvxotì  ad  essa  il  Caldo,  è  necessario  che  si  sottragga o  che  perisca  —  Senza  dubbio  —  E  similmente  il  fuoco,  ve- nuto ad  esso  il  Freddo,  deve  o  sottrarsi  o  perire,  ma  giam- mai potrà,  ricevuto  il  Freddo,  restare  ciò  che  era  prima  — È  ve  o  —  Tale  è  dunque  la  natura  di   ceit^   cose   come queste,  che  non  solo  VelòoQ  stesso  deve  essere  chiamato sempre  dello  stesso  nome,  ma  anche  qualche  altra  cosa, che  non  è  quello,  ma  ha  sempre,  sinché  è,  la  forma   di quello.  Ciò  che  io  dico  sarà  forse  più  chiaro  con  questo esempio:  r Impari   (rsISog  stesso)  non  è  necessario  che jibbia  sempre  lo  stesso  nome?  —  È  necessario  —  Ora  io  ti «domando  :  è  la  sola  cosa  che  abbia  sempre  questo  nome, o  vi  ha  anche  qualche  altra  cosa,  che  senza  essere  ciò che  è  l'Impari,  tuttavia  deve  sempre  chiamarci,  non  solo col  suo  proprio  nome,  ma  anche  con  quello  d'impari,  per- chè tale  è  la  sua  natura  che  non  può  mai  essere  abban- donata (à7:oXs(u£oeat)  dall'Impari  ?  (Se  la  parus'a  deirim- pari  non  fosse  quella  deir attributo  nel  soggetto,  il  non CFsere  mai  abbandonata  dairimpari  sarebbe  una  ragione per  chiamare  sempre  una  cosa  col  nome  deirimpari?)  Per esempio,  la  triade  non  deve  sempre  chiamarsi  e  col  suo proprio  nome  e  cen  quello  dell'Impari,  quantunque  que- sto non  sia  la  stessa  eosa  che  la  triade?  ma  tale  é  tut- tavia la  natura  e  della  trìrde  e  della  pentade  e  della  metà di  tutti  i  numeri i  che  ciascuno,  quantunque  non  s-a  ciò cheèrimpari,  è  nondimeno  sempre  impariti)...  Ecco  dnn- qm  c<ò  che  io  voglio  dimostrare  :  che  non  solo  ì  contrari non  si  ricevono  (où  56xó[ieva)  fra  di  loro,  ma  ancora  tutte quelle  erse  che,  senza   e.«^sere  reciprocamt^nte   contrarie, (5)  Queste  ultime  parole  spiegano  ciò  che  vuol  dire   flou  ^^aaere mai  abbandonata  daìV Impari. —  46  - hanno  (Ixst)  sempre  i  contrari,  non  ricevono  mai  quella Idea  che  è  contrarla  a  quella  che  è  in  esse  (év  aOior^  oìjo^y, ma  venendo  (sTitoóor^c)  questa,  o  periscono  o  si    sottrag- gono. I  tre,  per  esempio,  noa  diremo  noi  che  periranno 0  accadrà  loro  checchesia,  avanti  di  divenire  pari,  men- tre  sono  tre?  (L'esempio  spiega   che  una  cosa  ricevere ridea  contraria  a  quella  che  è  in  essa,  significa  :  questa cosa  acquistare  V  attributo  contrario  a   quello   che  ha). Non  solo  dunque   le   Specie  contrarie  non  soffrono  Vac- cesso   reciproco   (oùx    ùnoixéyti  éTcìóvi'àXXyjXa),    ma    anche certe  altre  cose  (sia  Sp-ciesia  cose  particolari)  non  sof- soffrono  Vacc^esso  dei  contrari  (ciré  delle  Specie  contrarie) Queste  cose  sono  quelle,  le  quali  forzano  ciò  che  occupano (xaTàax^2)ad  avere  (ta/eiv),  non  solo  la  propria  Idìn,  ma anche  quella  di  qualche  contrario.— Come  dici  ?-Corae  di- cevamo poco  fa  :  sai  infatti  che  ciò  che  occupa  Tldea  del trp,  è  necessario,  non  solo  che  sia  tre,  ma  anche  dispari (L^esempio,  al  solito,  prova  che  la  parusia  dell'Idea  non è  che  il  possesso  dell'attributo)-Certamonte— Ora  iodico che  in  una  tal  cosa  (neiridea  del  tre)  non  entrerà  (IX9oi) mai  l'Idea  contraria  alla  forma  che  è  la  causa  di  ciò  — Giammai  —  Questa  forma  è  la  dispari  — Si  -  La  contraria ad  essa  è  quella  del  pari  -  Si  -  Nel  Tre  dunque  non  en- trerà  (ifjgeO  mai  l'Idea  del  pari  -  Giammai  -  CoM  il  Tre é    privo   (àtaoipa)   del   Pari  —  Privo  —  Dunque   è    im- pari —  Si  —  Vediamo   dunque    come    possiamo    deter- minare quali  siano  quollo   cose,  che,  quantunque    non siano  contrarie  a  una  certa  cosa»  pure  non  ricevono  (5é- XsxaO  mai  questa;  come  la  Triade,  cho,  pur  non  essendo contraria  al  Pari,  non  riceve  mai  il  Pari,  perchè  sempre apporta    (éTitcpépet)   il   contrario  di  questo;  e  la  Diaie  il contrario  dell'Impari,  e  il  fuoco  quello  del  Freddo,  e  cosi via  via.  Vedi  se  possiamo  determinarle  cosi  :  non  soIvO  il contrario  non  può  ricevere  il  contrario,  ma  ancora  quello chQ  apporta  qualche  contrario  alle  cose  in  cui  va  (Trj)  non  può ricevere  il  contrario  di  quello  che  apporta  (ì) Io  rico mincerò  a  farti  delle  domande,  e  tu  rispondimi,  non  quello stesso  che  io  ti  domando,  ma  un'altra  c^sa,  seguendo  lo esempio  che  io  ti  darò  :  io  voglio  dire  che  .  oltre  quella risposta  sicura  che  abbiamo  stabilito  in  principio  (cioè che  le  e  se  belle  sono  belle  per  il  Bello,  le  cose  grandi grandi  perla  Grandezza,  ecc.:— v.  100-lOlì,  ne  vedo  uuh altra  che  nasce  dalle  cose  che  abbiamo  detto  ora.  Per  esem- pio, se  tu  mi  domandassi  cosa  è  che  trovandosi  in  uno oggetto  ((j)  àv  zi  è'^yé'^rizoLi)  questo  diviene  c^ldo,  io  non ti  darei  quella  risposta  sicura  ed  ignorante  che  è  il  Caldo, ma  un'altra  più  dotta,  che  segue  da  quello  che  abbiamo detto  ora,  cioè  che  è  il  fuoco.  Similmente  se  mi  doman- dassi cosa  è  che  trovandosi  nel  corpo,  questo  diviene  ma- lato, non  ti  risponderei  che  è  la  Malattia,  ma  che  è  la febbre;  e  se  mi  domandassi  cosa  è  che  trovandosi  nel  nu- mero, questo  è  impari,  non  ti  rispond^^rei  che  è  l'Impari, ma  che  è  l'unità;  e  cosi  per  le  altre   cose  (2).  Intendi (6)  Ciò  che  l'Idea  apporto  alle  cose  in  cui  ra,  è  evidentemente un  attribnto  di  queste  cose;  ma  è  anche  un'Idea,  perchè  i  contrari in  tutto  questo  ragionamento  sono  considerati  come  delle  Idee;  per conseguenza  noi  dobbiamo  intendere  questo  apportare  (sTCìcpépStv) nel  senso  più  letterale,  o  meglio  più  etimologico,  possibile,  cioè come  se  l'Idea  portasse  nelle  cose  in  cui  ra  il  suo  proprio  attri- buto—quella delle  Idee  contrarie  a  cui  ossa  partecipa  -  della  stessa maniera  ohe  noi,  entrando  in  un  luogo,  vi  portiamo  con  noi  ciò che  teniamo  addosso.  Questo  senso  realista  della  parola  è  perfet- tamente conformo  al  carattere  delle  altre  espressioni  di  cui  Pla- tone si  serve  in  tutto  questo  luogo,  e  prova  l'identità  -  numerica  - dell'attributo  nell'Idea  che  apporta  il  contrario  e  nelle  cose  in  cui lo  apporta, (2)  Questo  caldo,  questa  malattia,  questo  impari  sono  le  Idee; se  no,  rispondere  che  un  oggetto  è  caldo  per  il  caldo,  ecc.  non sarebbe  quella  risposta  ignorante  e  sicura  stabilita  nel  principio, perchè  questa  consisteva  a  spiegare  l'essere  e  il  divenire  delle  cose -  47  - ciò  che  voglio  dire  ?  —  Perfettamente  —  Rispondimi  dun- que :  cosa  è  che  trovandosi  (sYyévYjxat  e.  «.)  in  un  corpo, questo  è  vivente?  —  L'anima  —È  sempre  cosi  ?  —  Sem- pre. —  L'an'ma  apporta  dunque  sempre  in  ciò  che  oc- cupa (xaxàaxTQ),  la  V^lta  ?  —  Senza  dubbio  —  Vi  ha  un  con- trario della  Vita,  o  non  ve  ne  ha  ?  —  Vi  Iia  —  Qual  è  ?  La Morte  —  Dunque  Tanima  non  riceverà  mai  il  contrario di  ciò  che  essa  apporta  sempre,  secondo  il  principio  d| cui  sopra  siamo  convenuti  —  Senza  dubbio  —  Ma  come abbiamo  chiamato  poco  fa  ciò  che  non  può  ricevere  Tldea del  pari  ?  —  Impari  —  E  ciò  che  non  può  ricevere  la  Morte, come  lo  chiameremo  ?— Immortale  —  MaTanimanon  può ricevere  la  Morte  —  No  —  L'anima  è  duncjue  immortale  ? —  Immortale.  »• Bisogna  ora  fare  alcune  osservaz'oni  su  tutto  il  con- testo. La  prima  è  che  non  potrebbe  esservi  alcun  dub- bio che  i  nomi  cho  io  ho  scritti  con  la  maiuscola  o  che sono  preceduti  dalla  parola  Idea,  non  designino  realmente delle  Idee,  delle  astrazioni  realizzate.  Ciò  non  è  solamente provato  dairevidente  realismo  delle  espressioni  indicanti la  parusia  :  andare,  venire,  entrare,  occupare,  ecc.  — co- me potrebbero  questi  termini  applicarsi  a  delle  semplici astrazioni,  se  queste  astrazioni  non  fossero  considerate come  delle  realtà?— e  dagli  altri  indizi  su  cui  ho  richia- mato ratteuzionc  in  alcune  delle  note  o  ohe  il  lettore  ha per  la  parasia  e  partecipazione  delle  Idee.  Aggiungiamo  ohe  que- sta Malattia,  quest'Impari,  questo  Caldo  devono  trovarsi  nelle  cose nello  stesso  senso  in  cui  ri  si  trovano  la  febbre,  l'unitji  e  il  fuoco  - giusta  la  dottrina  fìsica  qui  ammessa  da  Platone,  secondo  la  quale il  calore  sarebbe  l'effetto  della  presenza  interiore  del  fuoco  -,  vale a  dire  presenti  non  d'una  presenza  esteriore,  ma  interiore,  come quella  di  una  parte  nel  tutto. potuto  notare  da  se  stesso;  ma  è  dichiarato  esplicitamente dallo  stef-so  Platone.  E  in  effetto  egli  fa  precedere  questa prova  deirimmortalità,  che  ritiene  la  più  rigorosa,  da  una esposizione  della  teoria  delle  Idee,  perchè  per  ottenere  una tal  prova  è  necessario,  egli  dice,  di  esiminare  a  fondo la  causa  della  generazione  e  della  corruzione  (95  e-90  a), o  questa  causa  è  la  presenza  o  partecipazione  delle  Ideo e  la  loro  sottraziono  (99  d  e  segg.)  ;  e  a  100  b  Socrate dico  a  Cvìbete  che,  se  questi  gli  accorda  Te  sistenza  dt*lle Idee,  egli  gli  dimostrerà  che  Tanima  è  immortale.  Qual  è il  legame  tra  questa  dimostrazione  deirimmortalità  del- l'anima e  la  teoria  delle  Idee?  È  cho  questa  teoria  ap- presta la  base,  per  dir  cosi,  induttiva  al  principio  che  è il  cardine  deirargomento,  cioè  che  una  cosa  che  confe- risce sempre  un  certo  attributo  alle  cose  che  essa  occu- pa, non  può  mai  avere  l'attributo  contrario.  Platone  fa vedere  prima  che  questo  principio  si  verifica  nel  rapporto tra  le  Idee  e  le  cose,  che  il  Tre,  p.  e.,  che  rende  sem- pre impari  tutto  ciò  che  occupa,  non  può  mai  essere  pari  ; è  ne  conclude  per  analogia  che  il  principio  deve  pure verificarsi  nel  rapporto  tra  Tanima  e  il  corpo,  per  con- seguenza che  Tanima,  la  quale  rende  sempre  vivente  tutto ciò  che  occupa,  non  può  mai  morire.  Co>i  tutta  la  forza delTargomcnto  sta  nell'analogia  tra  la  parusia  dell'Idea nelle  cose  e  quella  dell'anima  nel!'  ess»^re  vivente  (se- condo la  dottrina  auimista)  :  se  l'astratto  non  fosse  nel concreto  come  raninia  è  nell'essere  animato,  vale  a  dire come  una  realrà  avente  un'esistenza  propria  e  distinta; se  il  Tre,  p.  e.,  fosse  un  semplice  attributo  delle  cose  che si  dicono  tre,  e  non  un  attributo  elevato  al  grado  di  realtà sostanziale;  1' aoa^ogia  non  esisterebbe,  e  mancherebbe all'argomento  ogni  forza  probante.  L'argomento  suppone dunque  la  dottrina    delle   Idee  —  la    re«»lizzazione    delle /' -48  — astrazioni  —,  e  al  t'^inpo  stesso  che  le  Idee  siano  presenti nelle  cose,  come  Tanima  è  presente  neU'eesere  animato. Qualche  dubbio  potrebbe  forse  sorgere  relativamente alle  Idee  dei  contrarli:  caldo,  freddo,  pari,  impali,  ecc. Siccome  Platone  ha  distinto  un  po'  sopra  il  contrario  in noi  e  il  contrario  nella  natura^  Tinterprete  trascendenta- lista potrebbe  obbiettare  che  nel  nostro  contesto  il  caldo, il  freddo,  il  pari,  V  impari,  ecc.  corrippondono  forse  al contrario  in  noi,  e  non  al  contrario  nella  natura,  e  che non  è  necessario  che  siano  il  caldo,  il  freddo,  il  pari,  lo impari,  ecc.  Idee.  Ma  quest'obbiezione  non  varrebbe  nien- te, perchè  per  il  contrario  in  noi  Platone  intendeva  Tat- tributo  considerato,  non  nel  suo  concetto  generale,  ma come  proprietà  di  una  cosa  particolare,  fenomenalmente^ quantunque  non  realmente^  distinta  dalle  proprietà  omo- nime delle  altre  cose  particolari  (1)  ;  e  Tattributo  consi- derato cosi,  cioè  individualizzato,  fenomenalizzato,  Pla- tone non  lo  considera  come  avente  una  realtà  propria e  distinta;  questa  non  compete  che  all'attributo  conside- rato secondo  il  concetto  generale,  airidea  Ora  nel  nostro luogo  il  caldo,  il  freddo,  il  pari,  l'impari  ecc.,  designano incontestabilmente  ciò  che  corrisponde  al  concetto  gene- rale, e  delle  entità  reali:  quindi  non  può  trattarsi  che del  Caldo  e  del  Freddo,  del  Pari  e  dell'Impari,  ecc.  nella natura,  vale  a  dire  delle  Idee.  In  secondo  luogo  si  deve osservare  che  tale  è  l'energia  dei  termini  designanti  la parusia  delle  Idee  (venire^  andare,  entrare,  occupare,  es- sere in,  ecc.  da  parte  delle  Idee,  e  da  parte  delle  cose  o delle  Idee  inferiori  avere,  ricevere,  ecc.),  ©  la  compara- zione con  la  presenza  dell'anima  neiressere  vivente  è  tal- (1)  V.  n.  Vili. mento  indispensabile  all' argomento  di  Platone,  che  so per  questa  parusia  non  si  deve  intendere  la  presenza  del- l'attributo nel  soggetto,  non  ci  resta  che  di  ammettere che  Platone  paragona  la  presenza  delle  Idee  nelle  cose a  quella  dell'anima,  non  nell'essere  animato,  ma  nel  corpo, o,  prendendo  quest'analogia  nel  senso  più  stretto,  che  le Idee  sono  presenti  nelle  cose  d'una  presenza  locale,  come i*anima  nel  corpo,  e  che  esse  sono  la  causa  della  gene- razione e  della  corruzione  entrando  nelle  cose  ed  uscen- done, precisamente  come  la  teoria  animista  suppone  che l'anima  è  la  causa  della  vita  e  della  morte  entrando  nel corpo  ed  uscendone—  la  presenza  di  Dio  nel  mondo  a cui  abbiamo  paragonato  la  parusia  delle  Idee  secondo l'interpretazione  trascendentalista,  è  una  comparazione troppo  inadequata  alla  energia  delle  espressioni  di  cui si  serve  Platone  e  al  parallelo  con  la  presenza  dall'ani- ma nel  corpo  —  Io  credo  che  non  vi  sia  alcun  interprete che  voglia  dare  questo  significato  alla  parusia  platonica, prestando  a  Platone  un  concetto,  che  oltre  a  dotare  le Idee  dilla  prodigiosa  facoltà,  attribuita  a  certi  santi  del cattol'cismo  e  di  altre  religioni,  di  trovarsi  al  tempo  stesso in  molti  luoghi,  sarebbe  in  contraddizione  con  le  affer- mazioni dell'autore,  il  quale  diirhiara  che  le  Idee  non sono  in  alcun  luogo  (1)  —  naturalmente  noi  non  possia- mo dare  alcuna  importanza  alla  frivola  distinzione  degli scolastici  non  in  loco,  sed  uhi,  perchè  queste  parole  si- gnificano semplicemente  che  l'anima  è  in  luogo  e  non lo  è  — ;  ma  pe  ve  ne  fosse  qualcuno,  bisognerebbe  fargli riflettere  che  quest'in'^onspguenza  di  dare  una  posizione nello  spazio  a  ciò  che  è  immateriale,  se   si   comprende (J)  Tim,  52  b-c.  L«3  Idee  non  sono  in  alcun  luogo,  quantunque  le  cose, di  cui  sono  gli  attributi,  sono  in  un  luogo,  perclic  Tessere  iu  un  luogo non  compete  che  a  ciò  che  è  esteso. —  49  — quando  Tessere  immateriale  di  cui  si -tratta  è  uno  spirilo, sarebbe  inammissibile  trattandosi  di  entità  come  le  Idee platoniche.  Ciò  è  perchè  questo  quid,  questo  substratum sconosciuto,  che  si  chiama  sostanza  nello  spìrit>,  noi  non lo  concepiamo  che  sul  tipo  di  ciò  che  si  chiama  sostanza nel  corpo,  vale  a  dire  di  questa  cosa  che  persiste  nello topazio,  della  materia;  e  tutto  ciò  che  ci  suggerisce  di  rap- presentabile la  parola  sostanza  — nel  senso  della  parola in  cui  si  dice  che  Tanima  è  una  sostanza  Cl)—,noa  e  che la  sostanza  materia,  ciò  che  riempie  lo  spaz'o;  nou  è  dun- que strano  che,  anche  dopo  che   la    concezione,    affatto materialista,  dciraniraismo  primitivo  è  stata  sostituiti  da concezioni    più   raffinate,  si  cont'nui    ad  attribuire   allo sp'rito,  considerato  come  una  sostanza,  delle  determina- zioni che  non  competono  se  non  alla  materia.    Ma    Pla- tone nou  potrebbe  rappresentarsi  le  Idee  come  aventi  una posizione  nello  spazio,  psrchò  egli  non  immagina  in  esse niente  di  analogo  a  questo  substratum,  concepito,  come abbiamo  detto,  sul  tipo  della  materia,  che  lo   spirituali- sta immagina  nello  spirito  ;  poiché  Tldea  platonica  non è  che  il  contenuto  del  concetto  realizzato,  l'attributo  con- siderato, nella  sua  astrazione,  come  avente  un'et^istenza propria  e  distinta,  e  niente  altro  di  più. SI  osservi,  in  terzo  luogo,  ch^,  se  la  paru  ia  dell'Idea non  è  l'inerenza  dell'attributo  nel  soggetto,  il  ragiona- namento  di  Platone  non  può  avere  alcuna  pretesa  a  quel- l'evidenza dimostrativa  eh**  l'autore  si  propone.  L'^  pro- posizioni che  Platone  stabilisce  come  evidenti  per  se  stese non  sono  tali  che  nell'ipotesi  dell'immanenza  delle  Idee. Per  esempio,  egli  stabilisce  il  principio  che  le  cose  che hanno  sempre  l'uno  di  due  attributi  contrari  non  poFSono (1)  V.  App.  aPa  parte  prima. mai  ricevere  l'Idea  contraria  a  quella  che  é  in  e'^se:  che p.  e.  il  fuoco,  essendo  e8<?enzialmente  caldo,  non  può  ri- cevere l'Idea  del  freddo,  il  Tre,  essendo  dispari,  quella del  Pari,  ecc.:  nell'ipotesi  dell' /mrwanen^a,  nient'^  di  più evidente  di  questo  principio,  perchè  esso  non  è  che  l'enun- ciato, in  termini  realisti^  del  pi  nei  pio  di  contraddizione. Ma sel'Ideaè  trascendente,  quale  inconseguenza— io  parlo d'un'inconseguenza  assoluta,  d'un'impossibilità  logica  — vi  sarebbe  a  supporre  che  in  una  cosa  possa  esservi  la parusia  dell'Idea  corrispondente  all'attributo  contrario  a qu'llo  pof^seduto  ^'a  qu'^sta  cosa?  e  perchè  lapaiusiadi un'Idea  sarebbe  incompatibile  con  quella  simultanea  del- l'Idea contraria,  se  queste  Idee  fossero    separate   1' una dall'altra  e  tutte  e  due  dalle  cose  a  cui  si  dicono  essere presenti  ?  Similmente,  quando  Socrate  dice  :  '*  E  neces- trario  che  le  cose  che  occupa  l'Idra  del  tre  siano,  non  solo tre,  ma  anche  impari,,,  si  potrebbe  rispondergli  :  Ma  per- chè? Perchè  le  cose  a  cui  è  presente  l'Idea  del  tre  — se questa  presenza  deve  intendersi  nel  senso  trascendenta- lista —  non  sarebbero  invece  quattro  e  pari  ?  In  effetto, neir  ipotesi    della   trascendenza,  non  vi  sarebbe  alcuna connessione  necessaria,  visibile  a  priori,  tra  la  parus'a dell'Idea  e  l'inerenza  dell'atribuo  corrispondente  a  que- st'Idea. E  della  stessa  maniera  che,  in  quest'ipotesi,  si perderebbe  1'  ev'denza  delle  proposizioni  che  servono  di premesse  al  ragionamento,  si  perderebbe  egualmente  quel- la della  crnnessicne  tra  una    preposizione   ed  un'altra, perchè  questa  connessione  è  il   più   delle  volte   fondata sulla  sostituibilità  reciproca  tra  la  inerenza  dell'attributo e  la  parusia  dell'Idea  corrispondente.  Dalla  propos'zione che  in  un  numero  non  vi  può  essere  la  parusia  del  Pari non  si  potrebbe  concludere  co7i  necessità  che  questo  nu- mero è  dispari  ;  dalla  proposizione  che  nell'  anima   non vi  può  essere  la  parusia  della  Morte  non  si  potrebbe  con- cludere con  necessità  che  l'anima  è  immortale,  perchè, -  50 come  abbiamo  detto,  non  vi  sarebbe  alcuna  contraddi- zione a  supporre  simultaneamente  in  una  cosa  la  paru- sia  dell'Idea  e  Tinerenza  dell'  attributo  di  nome  coiit'*a- rio.  Ma  per  vedere  la  giustezza  della  nostra  osservazione, basterà  di  restringersi  alla  proposizione  m  cui  s'incar- dina tutto  il  ragionamento  di  Platone  e  che  noi  abbiamo chiamato  la  brse  induttiva  di  questo  ragionamento,  cioè che  un'Idea  non  può  avere  l'attributo  contrario  a  quello che  essa  conferisce  alle  cose  con  la  sua  parusia.  E  indu- bitabile che  Platone  riguarda  questa  proposizione  come evidente  per  se  stessa,  e  non  avente  b'so^no  per  essere ammessa  che  di  essere  enunciata  e  ccmpre?a  —  si  rilegga la  pai  te  del  luopio  citato  in  cui  questa  proposizione  viene stal'ilita  —  ;  e  tale  è  in  effetto  nell'ipotesi  delFimmanen/a delle  Idee:  ma  nell'ipotesi  della  trascendenza,  in  cui  la coinciHpiìza  tra  la  parusia  dell'Idea  in  una  cosa  e  la  par- tecipazione, di  questa  cosa  all'attributo  omonimo  (e  quindi a  ciascuno  degli  attributi  più  astratti  ì acchiusi  in  que- st'attributi) è,  non  è  vnx  connessione  necessaiia  ed  a iriori,  ma  un  mistero  inesplicabile,  la  proposizione  diviene una  pura  aflermazioue  dommatica.  Senza  dubbio,  purché si  ammetta  il  principe  che  la  paru'-ia  df^ll'Idea  ó  la  causa per  cui  le  coso  possiedono  l'attributo  dello  stesso  nome, il  ragionamento  di  Platone  corre,  anche  neiripot<»si  della trascendenza  :  ma  s'ccome  questo  principio  è,  in  questa ipotesi,  non  un  assioma,  ma  un  postulato  —  nel  senso aristotelico  della  parola  postulato  —  e  questo  postulato  ò Fottinteso  a  ciascun  paFso  del  ragionamento,  questo  per- de ogni  chiarezza,  e  non  può  più  aspirare  ad  essere  una dimostrazione,  come  Platone  evidentemente  pretende  (t). i li n  Se  le  Idee  sono  gli  attributi  generali  delle  cose  nelle cose  stesse,  ma  considerati  come  entità  reali,  di  cui  cia- scuna è  una  e  la  stessa  in  tutte  le  cose  di  cui  l'attributo viene  predicato,  l' impiego  della  parola  partecipazione (jiéOsgis)  e  sinonimi,  per  indicare  il  rapporto  delle  cose alle  Idee,  uon  è  meno  naturale  che  quello  della  parola presenza  e  sinonimi  per  indicare  il  rapporto  delie  Idee alle  cose.  Partecipare  ad  una  cosa  lett<^ralmente  significa averne  una  parte,  o  avere  il  tutto,  ma  in  comune  con altri;  e  ciò,  quando  questa  cosa  è  un  Attributo,  qual  è l'Idea  anche  secondo  l'interpretazione  trascendentalista, non  può  voler  dire  altro  se  non  che  essere  uno  dei  sog- getti ai  quali  quest'Attributo  è  comune.  Di  più  questo significato  adempie  all'altra  condizione,  a  cui  deve  con- formarsi il  significato  di  questo  termine,  che  è  di  asse- j^nare,  nel  tempo  stesso  che  indica  il  rapporto  tra  le  cose e  le  Idee,  la  ragione  per  cui  le  cose  sono  ciò  che  sono  : in  effetto,  la  causa  per  cui  una  cosa  è  buona,  è  bella,  è grande,  ecc.,  è,  secondo  Platone,  perchè  essa  partecipa all'Idea  del  buono,  del  bello,  del  grande,  ecc.  La  par- tecipazione delle  Idee— e  la  stessa  osservazione  vale  an- che per  la  parusia  —  è  una  causa  che  spiega,  nel  senso metafisico  della  parola  spiegazione,  perchè  le  cose  hanno i  loro  attributi  ;  tra  la  causa— la  partecipazione  o  para- ci) AggiungiMio  che,  secondo  grinterpreti  trascendentalisti,  questo postulato  non  ha  per  Platone,  almeno  nel  Fedone,  che  il  valore  di  una semplice  ipotesi.  In  efletto  il  luogo  del  Fedone  (loo   d)  in  cui   Platone suppone  la  parusia  delle  Idee  come  causa  alle  cose  dei  loro  attributi, sembra  riguardare  la  parusia  e  'a  par'ecipazione  come  due  ipotesi  distinte, di  cui  si  può  ammettere  luna  o  l'altra,  per  ispiegare  rassimilazione  delle cose  alle  Idee.  Noi  vedremo  più  giù  che  il  vero  senso  del  luogo  non  è quesio,  |>erchc  la  parusia  e  la  partecipazione  non  sono  due  cose  diverse,  ma due  espressioni  che*  signifn:ano  una  sola  e  stessa  cosa  ;  ma  l' in  erprete trascendentalista  d«'ve  necessariamente  intenderlo  cosi,  perchè,  per  dare di  questi  due  termini  un'interpretazione  conlorrae  all'ipotesi  della  trascen- denza, egli  <•  obbligato  ad  attribuire  ad  essi  due  significati  diil'erenti. —  Bl  —sia  deiridea  -  e  l'efFetto  — la  possessione  dell'attributo corrispondente  —  essendovi  un  legame  necessario  e  visi- bilo  a  priori^  e  senza  questa  condizione  la  ragione  che si  assegna  di  un  fatto  non  potendo  essere,  per  un  meta- fisico, una  spiegazione  di  questo   fatto  (1). Ma  non  solo  questo  significato  del  termine  par^ecipa- zione  —  cioè  la  possessione  di  un  Attributo  che  si  ha  in comune  con  altri  soggetti  —  è  quello  che  è  il  più  natu- rale, ma  è  anche  il  solo  che  da  alla  parola  un  senso  reale, vale  a  dire  che  le  faccia  esprimere  un  concettj  determi- nato. Neir  ipotesi  della  trascendenza  delle  Idee,  non  vi lia  tra  le  cose  e  le  Idee  altro  rapporto  immaginabile  che la  somiglianza:  dicendo  che  le  cose  partecipano  alle  Idee, Platone  vuol  dire,  fecondo  Tinterpretazione  trascenden- talista, che  le  Idre,  separate  dalle  cose,  comunicano  a queste  degli  attributi  simili  ad  osse;  che  le  cose  diven- gono somiglianti  alle  Idee,  per  un'influenza  delle  Idee sulle  cose.  Ma  quale  è  il  modo  di  questa  comunicazione? in  che  consiste  questa  influenza?  Il  come  dellVffìcienza delle  Idee  trascendenti  è  inconcepibile  ;  noi  non  possia- mo formarci  alcun'  idea  di  quest'azione  per  cui  esse  ren- (1)  È  evidente  che,  qnainìo  Platone  dice  che  una  cosa  partecipa  al  bello, al  buono  ecc.,  nel  significato  di  queste  propo:^izioni  è  contenuta  ratiei  ina- zione che  la  cosa  è  bella,  è  buona  ecc..  Ma  non  e  meno  evidente  che  le stesse  proposizioni  assegnano  al  tempo  stesso  la  c^usa  per  cui  la  cosa  è bella,  è  buona,  ecc.  :  se  no  come  potrebbe  egli  dire  che  la  cosa  <^  bella  per la  partecipazione  del  bello,  buona  per  la  partecipazione  del  buono,  ecc.  1 Il  termine  partecipazione  significa  -aX  tempo  stesso  un  fatto  — la  posses- sessione  di  un  certo  attributo  —,  e  la  causa  di  questo  fatto.  Ciò  è  perchè qui  il  fatto  e  la  sua  causa  non  sono  due  fatti  distinti  e  separati;  la  causa del  fatto  — vale  a  dire  la  partecipazione  o  parusia  dell'Idea  — non  e  che il  fatto  stesso  — la  possessione  dell'attributo  corrispondente  —  interpretato secondo  una  teoria  particolare,  tradotto,  dal  linguaggio  comune,  nel  lin- guaggio della  dottrina  reclista. 'ij*j t derebbero  le  cose  simili  a  se  stesse.  Platone,  con  la  pa- rola partecipazione,  intende  indicare  nn  rapporto  tra  le erse  e  le  Idee,  che  contenga  una  ragione  dell'essere  delle cose  e  dei  loro  attributi.  Ma  supposta  la  ^ra,sce^^n^en2a  delle Idee,  non  può  tra  le  cose  e  le  Idee  immaginarsi  a^cun  rap- porto che  spieghi  perchè  le  cose  sono  ed  hanno  i  loro  attri- buti; tanto  meno  quindi  potrebbe  immaginarsene  qualcuno che  aggiungesse  a  questa  condizione  quel'a  di  poter  essere denominato  con  la  parola  partecipazione  :  ne  segue  che, mila  supposizione  della  trascendenza,  non  vi  ha  alcun concetto  determinato  che  possa  corrii-pondere  a  questa parola.  Ciò  è  tanto  vero  che  gì'  int^  rpreti  trascenden- talisti sono  obbligati  a  convenirne  :  Platone,  dicono  que- st'interpreti, non  ha  determinato  la  vera  natura  del  rap- porto tra  le  Idee  e  le  cose,  egli  non  ha  detto  che  cosa è  la  metessì,  la  parusia,  ecc.  (1);  e  in  prova  della  loro tesi  citano  certi  luoghi  d'Aristotile,  che  io  devo  mettere sotto  gli  occhi  del  lettore,  per  fissar  bene  lo  stato  della quistione  sull'interpretazione  della  metessi  platonica.  Ecco dunque  questi  luoghi.  Mei.  l.I.  VI.  2:  «  I  Pitagorici  di- cono che  gli  esseri  sono  per  1" imitazione  dei  numeri;  Pla- tone, mutando  il  nome,  per  la  partecipazione  delle  Spe- cie; ma  che  cosa  sia  questa  imitazione  o  questa  parte- cipazione, vattel'a pesca  (àcpsìaav  sv  xoivw  ^Yjxsrv)  v .  Ibid  1.  I. IX.  21  :  '*  Volendo  dire  la  sostanza  delle  cose  sensibili,  po- niamo (noi  platonici)  altre  sostanze  ;  ma  come  queste siano  sostanze  di  quelle,  lo  diciamo  vanamente  (dia  xsv^g), polche  'a  partecipazione,  come  abbiamo  già  detto,  è  nien- 0)  V.  Chiappelli.  V  intcrpretaz.  panteist,  di  P/alone, pAg.  104,  149, 166,  ecc. ^  52  - te  »  (1)  ìbid.  i.  1.  IX.  8  :  t  Ì)ire  chele  Specie  sono  degli esemplari  e  che  le  altre  cose  ne  partecipano,  è  pronun- ziare delle  parole  vuote  di  senso  (xsvoXoystv)  e  fare  delle metafore  poetiche  » . Sui  due  primi  di  questi  luoghi  dobbiamo  osservare che  la  critica  che  essi  contengono  non  ha  necessaria- mente il  senso  che  le  danno  gì'  interpreti  trascendenta- listi, vale  a  dire  che  Platone  non  attaccava  alla  parola partecipazione  alcun  concetto  preciso.  Forse  gl'interpreti trascendentalisti  hanno  ragione  d' intenderla  così  e  di ammettere  ch'essa  suppone  (nel  concetto  d'Aristotile)  la trascendenza  delle  Idee  :  ma  questa  critica  Aristotile avrebbe  potuto  farla,  anche  supponendo  l' immanenza delle  Idee;  in  questo  caso  essa  vorrebbe  dire,  non  che la  parola  partecipazione  non  significa  alcun  concetto determinato,  ma  che  la  partecipazione. —  la  cosa  corri- spondente al  concetto  significato  da  questa  parola  —  è un  che  d' inintelligibile— cloche  ò  perfettamente  vero  -, perchè  non  si  comprende,  e  Platone  non  ha  fatto  niente per  fare  comprendere,  come  una  sostanza  può  inerire  in altre  sostanze  quale  attributo,  come  l'uno  può  esistere  si- multaneamente nei  molti,  e  tutte  le  altre  impossibilità  della dottrina  delle  Idee,  Che  il  senso  della  critica  sia  (juesto  o sia  piuttosto  quello  che  vogliono  grinterpreti  trascendenta- listi,  è  ciò  che  io  non  oserei  affermare  ;  perchè,  come vedremo  a  suo  luogo,  le  testimonianze  d'Ai  istotile  sulla (1)  Notiamo  che  V  indicazione  contenuta  in  questo  luogo,  cioè  clie  per la  partecipazione  i  |  latonici  intendevano  spiegare  come  le  Idee  fossero  le sostanze  delle  cose,  è  una  prova  che  il  signiti^'ato  della  parola  partecipa- zione è  quello  che  noi  diciamo:  se  infatti  la  pai tecipazione  non  sigiiili- casse  r  inerenza  del  partecipato  nel  partecipante,  come  Platone  avrebbe potuto  pretendere  di  spiegare  per  la  partecipazione  come  le  Idee,  cioè  i partecipati,  fossero  la  sostanza  delle  cose,  cioè  dei  partecipanti  t quistione  dell'immanenza  o  trascendenza  delle  Idee  solió incerte  e  discord*;  e  per  conseguenza,  per  alcune  delle sue  critiche,  è  difficile  decidere  se  esse  sono  fatte  nella supposiz'one  dell'immanenza  o  In  quella  della  trascen- denza 0  abbracciano  Puna  e  l'altra  supposizione  (com'è probabilmente  il  caso  per  quella  di  cui  parliamo)  In quanto  all'ultimo  dei  luoghi  citati,  il  rimprovero  ch'esso contiene  è  diretto  senza  dubbio  alle  Idee  t'ascendenti; perchè  Aristotile  suppone  che  il  rapporto  tra  le  Idee  e le  cose  non  sia  che  quello  tra  il  modello  e  le  copie  (vedi tutto  il  contesto  MeL  1.  I.  IX.  8-10);  e  ci  dice  nettamente che,  con  o  senza  la  confessione  degl'interpreti  tra- scendentalisti, sarebbero,  nella  loro  interpretazione,  la partecipazione  e  tutti  gli  altri  termini  indicanti  il  rap- porto tra  le  Idee  e  le  cose  :  delle  metafore  poetiche  e delle  parole  vuote  di  senso  (IJ. Forse  il  lettore  dirà  ch'egli  non  comprende  quale sia  la  d  Gerenza  tra  una  parola  vuota  di  senso  e  una cosa  inintelligibile;  e  che,  se  è  vero,  come  io  lo  confosso, che  la  partecipazione,  nel  senso  che  io  attribuisco  a  que- sto termine,  è  un  che  d'inintelligibile  e  racchiude  delle impossibilità  logiche,  non  si  vede  qual  vantaggio  abbia l'interpretazione  che  io  ammetto,  tu  quella    degl'  ioter- (1)  Ai  luoghi  citati  d'Aristotile  possiamo  aggiungerne  un  altro  che  é in  Afei,  I.  vili.  VI.  6,  in  cui  dice  che  i  platonici  sono  incerti  nel  deter- minare che  cosa  sia  la  partecipazione  e  quale  sia  la  sua  causa.  Ma  dob- biamo noi  realmente  ammettere  nei  platonici  quest'  incertezza  che  loro  at- tribuisce Aristotile  ?  o  dobbiamo  supporre  piuttosto  che  Aristotile,  esitante sul  significato  della  dottrina  platonica,  attribuisce  alla  dottrina  stessa queir  incertezza  che  è  nel  suo  proprio  si)irito  ^  Ciò  é  tanto  più  verisimile che  questa  dottrina,  oltre  di  riunire  degli  elementi  fra  di  loro  incompati- bili, è  vestita  talvolta,  come  nel  Timeo,  di  certe  rappresentazioni  che,  se l'ossero  prese  alla  lettera,  sarebbero  in  contraddizione  ooi  concetti  filoso- fici di  cui  esse  non  sono  che  un'espressione  simbolica. —      ». preti  irascendentalisH^  che  confessano  che  a  questo  ter- mine non  cosrisponde  alcun   concetto   determinato.   Non è  qui  il  luogo  di  determinare  d'una  maniera  rigorosa  la differenza  tra  una  parola  vuota  di  senso  (cioè  a  cui  non corrisponde  alcun  concetto  determinato)  e  nna  cosa  inin- telligibile :  ma,    airiogrosso,    possiamo  dire   che    vi    ha questa  differenza  che,  mentre  delle  parole  vuote  di  senso non  indicano  alcnn*  id^a,  almeno  alcunMdea  precisa,  delle parole  che  significano  una  cosa  inintelligibile,  indicano delle  idee  determinate,  precise,  ma  queste  idee  sono  tra di  loro  incompatibili,  non  possono   fondersi  in  una  rap- presentazione unica.  Per  mo,  e  per  tutti  quelli  che  am- mettono 1  princìpii  della  filosofia  d^ir  esperienza,    ogni ipolesi  metafisica  o,  più  generalmente,  metaempirlca  — ridea  di  Hegel  o  la  Sostanza  di    Spinoza   o  V  Assoluto della  metafisica  ordinaria,  ecc.,  della  stessa  maniera  che lo  spazio  pseudosferico  o  a  n  dimensioni  degli  odierni  me- tagcometri— ò  una  cosa  inintelligibile,  in    questo   senso deUa  parola  inintelligibile;  e  il   perchè  è  facile  a  dirti  : è  che  rappresentarsi  per  noi  equivale    ad   immogivare, e  noi  non  possiamo  immaginale  se  non  ciò  che  può  es- sere roggetto  dei  nostri  sensi  o  della  nostra  coscienza, 0  che  ha  con  gli  oggetti  dei  nostri  sensi  o  del»a  nostra coscienza  una  somiglianza  definita.  Per  tutte  le  idee  che 1  metaempirìci  pretendono  di  farci  concepire,  essi  no prendono  gli  elementi  nel  mondo  delP  esperienza,  cioè dei  sensi  e  della  coscienza;  ciascuno  di  questi  elementi è  un  predicato  generale  che  conviene  a  una  classe  di  og- getti sperimentabili  o  almeno  immaginabili  ;  ma  non  vi ha  alcun  oggetto,  né  sperimentabile  né  immaginabile,  a cui  tutti  questi  predicati  generali,  presi  insieme,  possano convenire  (1) .  Macon  tutto  ciò  nessuno  pretenderà  seriamen- te che  Spinoza,  Hegel  e  tutti  1  metafìsici  e  i  metaempirìci  in generale  non  sanno  quello  che  si  dicano  :  ora  quando  io dico  che  la  partecipazione  è  una  cosa  inintelligibile,  io affermo  semplicemente  che  Platone,  come  tutti  i  metafi- sici e  metaempirìci,  ha  detto  delle  cose  che  non  possia- mo immaginare-,  ma  quando  Tinterprete  trascendentalista afferma,  sulla  testimonianza  o  pretesa  testimonianza  d'A- ristotile, che  la  partecipazione  è  una  parola  a  cui  non corrisponde  alcun  concetto  determinato,  che  Platone  non ha  detto  che  cosa  sia  la  partecipazione,  la  parus'a,  ecc., ciò  che  questo  significa,  in  lingua  povera,  è  appunto che  Platone,  il  divino  Platone  (come  lo  chiamano  quest'in- terpetri),  non  sa  quello  che  si  dica. Premesso  ciò,  diamo  degli  esempi  deir  uso  che  Pla- tone fa  del  termine  nif tessi  e  sinonimi  :  da  essi  il  let- tnre  potrà  vedere  che  il  senso  di  questi  termini  è  chia- rissimo-quantunque  implichi  delle  impossibilità  logiche— e  che  noi  non  siamo  ridotti  alla  necessitàdi  ammettere  che essi  sono  delle  parole  vuote  di  senso  come  vooliono  gli interpreti  trascendentalisti.  Naturalmente  il  solo  impiego di  questi  termini  che  ci  interessa,  e  a  cui  si  limiteranno  i nostri  esempi,  è  quando  la  cosa  a  cui  sì  partecipa  è  un astratto,  e  la  cosa  che  partecipa  riceve,  per  questa  p^irte- cìpazionc,  il  predicato  corrispondente  a  quest^  astrat  o. Neir  immensa  maggioranza  dei  casi  —  di  quelli,  s'intende, in  cui  l'uso  dei  termini  è  questo  che  ho  d  tto  —  T  imma- nenza del  partecipato  nel  partecipante  è  evidente;  ma,  il p. ispesso,  non  lo  è  altrettanto  che  il  part:^c:pato  siaunldea, cioè  che  esso  sia  considerato  da  Platone  come  un'entità  sus- sistente per  se  stessa  —  quantunque  ciò  possa  presumersi, in  viriù  del  principio  platonico  che  Toggetto  del  concetto i (1)  V.  Saggio  I  p.  421  e  425,  529,  533. -64  - -i.  ;»*,.»»-•••  * generale  è  lìdea  (1).  Ma  anche  allora  il  luo^o  non  é  senza importanza  come  prova  del  significato  della  metcssi  :  per- ciò alcuni  dei  nostri  esempi  saranno  presi  da  questa  nu- merosa classe  di  luoghi,  in  cui  il  senso  immanente  è  in- contestabile,  ma  si  può  dubitare  che  Platone  consideri come  un'Idea  l'astratto  a  cui  si  partecipa;  e  comince- lemo  da  essi: Leggi  902  b:  (per  provare  che  gli  dei  hanno  cura  de- gli aifari  umani).  «  Gli  affari  umani  non  partecipano  (|is- Téxei)  della  cfóoig  animata,  e  di  tutti  gli  animali  non  è Tuomo  che  venera  massimamente  gli  Dei  ?— Certamente— Ora  tutti  gli  animali  mortali  appartengono  agli  Dei,  a cui  appartiene  tutto  l'universo  ». Ibid.  963  e  :  (spiegando  la  distinzione  tra  la  fortezza e  la  prudenza)  « l'una  (la  fortezza)  si  riferisce  al  ti- more, e  ne  partecipano  (fisxéxst)  anche  le  bestie  e  i  co- stumi dei  piccoli  fanciulli;  infatti  per  natura  e  senza  ra- gione l'animo  diviene  forte;  al  contrario  senza  ragione l'animo  non  fu  né  è  né  diverrà  mai  prudente  e  dotato d'intelligenza,  ciò  essen  lo  un'altra  cosa.» (1)  In  qualche  caso  vi  haano  anzi  delle  circostanze  che  sembrano  eslu- dere  che  Platone  pensi  a  realizzare  l'astratto  a  cui  egli  dice  che  una  cosa partecipa,  P.  e.  nel  Polìtico  273  b,  dove  dice  che  la  natura  corporea  par- tecipava di  molto  disordine  prima  di  essere  ridotta  ali  ordine  presente;  o nel  Filebo  18  e,  dove  parla  della  specie  di  lettere  che  partecipano,  non della  voce,  ma  di  qualche  suono  (in  questi  esempi,  le  parole  molto  e  gual- che, particoiarizzando  il  concetto,  indicano  che  il  disordine  e  il  suono  a cui  si  partecipa,  non  devono  essere  prtsi  nella  loro  ge»ieralità,  e  non  pos- sono, per  conseguenza,  essere  delle  Ideoj— Nel  Parmen.lZZ  v —  \'^^  b,  in cui,  distinguendosi  gli  attributi  fenomeni  dalle  Idee,  si  dice  che  le  cose partecipano  ai  pruni  ma  non  alle  seconde,  la  parola  partecipare  (nsxéYS-v) ha  un  significato  dill'erente  dal!  ordinario  e  affatto  speiiale  a  questo  luogo isolato. Tim,  51  e  :  (per  provare  che  l'intelligenza  e  l'opinione vera  sono  due  generi  differenti)  « l'una  nasce  in  noi per  l'istruzione,  l'altra  per  la  persuasione;  Tuna  è  sem- pre accompagnata  dalla  vera  ragiono,  l'a'tra  è  senza  ra- gione; runa  non  può  esser  mutata  per  alcuna  persuasione, l'altra  è  soggetta  a  questo  mutamento;  dell'opinione  vera partecipa  (iisiexci)  ogni  uomo,  dell'intelligenza  gli  dei  e solo  un  piccolo  numero  degli  uomini  ». Sof,  248  c-d;  «Noi  abbiamo  stablta  come  sufficiente», questa  definizione  dell'essere,  cioè  quando  in  qualche cosa  è  presente  (Tiap^)  la  potenza  di  patire  o  di  agire rapporto  a  qualche  altra  cosa,  anche  la  minima.  Si. Ma  a  ciò  rispondono  (gli  amici  delle  Ideo)  che  il  divenire è  partecipe  (Ysvéoei  jiéisaxi)  della  potenza  di  agire  e  di patire,  ma  questa  potenza  non  conviene  all'essere  —  Ed hanno  ragione?  — A  ciò  noi  diremo  che  li  preghiamo  di dichiararci  più  nettamente  se  consentono  che  l'anima  co- nosce e  l'essere  è  conosciuto.   Essi  lo  confessano  —  Ma che?  il  conoscere  o  tesser  conosciuto  chiamate  voi  aziono o  passione  o  l'una  e  l'altra  cosa?  o  l'uno  passione  e  l'al- tro azione?  o  dite  che  né  l'uno  né  l'altro  partecipano (jisxaXajipàvsiv)  ad  alcuna  di  queste  due  cose?  » liep,  472  b-c:  «  Se  troveremo  quelle  sia  la  giustizia, esigeremo  forse  che  l'uomo  giusto  non  debba  niente  dif- ferire da  c^sa,  ma  essera  assolutamente  quale  ò  la  giu- stizia ?  o  basterà  se  si  approssima  ad  essa  e  ne  partecipa ([lexéxK/)  più  di  ogni  altro  ?  » •  liep.  478  de  :  «  Non  abbiamo  detto  sopra  (i)  che  fc qualche  cosa  ci  apparisse  tale  che  fosse  e  non  fosse  al tempo  stesso,  questa  sarebbe  media  tra  il  puro  essere  e (1)  V.  477  a-b. —  55  - il  non  essere  assoluto,  e  non  le  spetterebbe  né  la  scienza DÒ  Tignoranza,  ma  ciò  che  apparirebbe  medio  tra  la  scien- za e  r ignoranza?  —Si  — Ora  media  tra  di  queste  ci  ap- parve ciò  che  chiamiamo  opinione. Si. Quello  che ci  resta  dunque  a  trovare  è  ciò  che  partecipa  ({isxéxov) dell'uno  e  dell'altro,  cioè  dell'essere  e  del  non  essere, e  che  non  può  rettamente  chiamarsi  ne  essere  puro  né puro  non  essere,  affine  di  chiamarlo  a  buon  dritto,  se noi  lo  troveremo,  op'nabile,  attribuendo  il  med'o  al  me- dio e  gli  estremi  agli  estremi  >  (In  seguito  mostra  che questo  medio  tra  1'  essere  e  il  non  e>ssere  sono  le  cose sensibili,  perchè  di  esse  può  dirsi  al  tempo  stesso  che  sono e  che  non  sono.  V..479  a-d.) Rep.  585  b-d  :  (per  provare  ehe  i  piaceri  dello  spirito sono  più  veri  che  quelli  del  corpo).  «  Qual  riempimento è  più  vero,  quello  che  si  fa  per  le  cose  che  sono  più  (cioè, come  spiega  in  seguito,  che  hanno  più  essere),  o  quello che  si  fa  per  le  cose  che  sono  meno  (cioè  che  hanno  meno essere)?  —  Senza  dubbio  quello  che  si  fa  per  le  cose  che sono  più.— Ora  quali  generi  credi  che  partecipino  (iisTéxs'.v) più  al  puro  essere,  quelli  del  cibo  e  della  bevanda  e  di tutto  ciò  di  CUI  il  corpo  si  nutrisce,  o  l'elSog  dell'opinieoe vera,  della  scienza,  dell'intelligenza  e  in  una  parola  di tutte  le  virtù?  É  corì  che  devi  giudicarne  :  ciò  che  è  con- giunto al  sempre  simile  e  immortale  e  alla  verità,  e  tal è  esso  stesso,  e  in  un  tale  nasce,  ti  sembra  essere  più, che  ciò  che  è  congiunto  al  mortale  e  non  mai  simile,  e tale  è  esso  stesso,  e  in  tale  nasce?  — Di  gran  lunga  è superiore  ciò  ihe  è  congiunto  al  sempre  simile  —  E  l'ts- sen/a  dei  sempre  simile  partecipa  (liexéxsi)  più  all'essere che  alla  scienza?— No— O  che  alla  verità?— Nemmeno  (1)  — Se  partecipasse  meno  alla  verità,  non  parteciperebbe  meno all'essere?  —  Necessariamente  —  In  generale  dunque  i  gr- neri  che  spettano  alla  cura  del  corpo  partecipano  (iiexéx^O alla  verità  e  all'essere  meno  di  quelli  che  spettano  alla cura  dell'anima?  —  Molto  meno  —  E  il  corpo  stesso  meno dell'anima?  —  Si  —  Dunque  ciò  che  si  riempie  di  cose che  p  ù  sono  ed  esso  stesso  più  è,  si  riempie  più  real- mente che  ciò  che  si  riempie  di  cose  che  sono  meno  e me  no  è  f  sso  stesso  ?  —  E  come  no  ?  » Leggi  859  e-860  a  :  (per  mostrare  che,  chiamando turpi  le  pene  inflitte  ai  delitti,  ci  mettiamo  in  contraddi- zione con  la  massima  che  ciò  che  è  giusto  è  bello)  «  .... se  tutte  le  cose  che  si  attengono  alla  giustizia  sono  belle, nel  numero  di  tutte  sono  anche  le  passioni  che  subiamo, le  qui» li  sono  pressoché  uguali  alle  azioni  che  facciamo  — E  che  perciò?— Ogni  azione  che  è  giusta,  quanto  par- tecipa (xotvoDv^)  del  giusto,  altrettanto  è  partecide  (fisxéxov) (1)  V.  477  b  -  478  d. (1)  L'essenza  del  sempre  simile  partecipa  alla  scienza,  perchè  l'esser sempre  simi'e  è  un  attributo  della  scienza.  In  quest)  caso  la  metessi  ha dunque  un  senso  diirerente  dall'ordinario.  Ordinariamente  è  l'individuo che  si  dice  partecipare  della  specie,  e  la  specie  del  genere  :  ma  in  questo caso  ò  il  genere  che  si  dice  partecipare  della  si>ecie,  il  conctiiio  dì  sempre simile  essendo  più  esteso  che  quello  di  scienza^  e  comprendendolo  nella sua  estensione.  Tuttavia  quest'altro  senso  della  partecipazione  potrebbe ricondursi  al  senso  ordinario,  in  quapto  il  genere,  se  non  partecipa — ne^ senso  ordinario  della  parola  —  alla  specie  nella  sua  totalità,  vi  partecipa in  parte,  cioò  in  alcuni  degl'  individui  che  esso  comprende.  Si  noti  che  se il  genere  fosse  separato  dagl'  individui,  come  sarebbe  nell'  interpretazione trascendentalista  del  sistema  delle  Idee,  e  non  immanente  in  essi,  e  iden tico  in  certo  modo  con  essi — perchè,  come  abbiamo  visto,  l'uno  è  i  molti e  i  molti  sono  l'uno—;  Platone  non  potrebbe  attribuire  ad  esso  uu  rapporto di  partecipazione  che  in  senso  rigoroso  non  conviene  che  ai  suoi  individui. —  56  -,\ ^^^-^ del  bello-E  come  no  ?-Dunque  anche  ogni  passione  che partecipa  (xoivtov?)  del  giusto,  so  converremo  che,  quanto è  partecipe  del  giusto,  altrettanto  è  bella,  il  nostro  di- scorso  non  sarà  discordante  -  È  vero  -  Ma  se  afferme- remo che  vi  sia  alcuna  passiono  giusta  ma  turpe,  il  giu- sto e  il  bello  discorderanno,  perchè  le  cose  giuste  si  di- ranno turpissime  ». Nessuno  negherà,  io  credo,  che  nei  lunghi  citati  e  in un'infinità  d'altri  in  cui  la  parola  partecipare  —  cioè  le parole  che  noi  traduciamu  cosi  —  viene  impiegata  d'una maniera  simile,  la  cosa  a  cui  si  partecipa  sia  un  attri- buto della  cosa  che  ne  partecipa,  e  partecipare  non  si- gnifichi altro  che  possedere  l'attributo.  Ciò  è,  sia  perchè, come  nei  primi  cinque  esempi,  vi  hanno  delle  rag-oni  che mostrano  che  la  cosa  a  cui  si  partecipa  è  una  proprietà degli  oggetti  deiresperienza,  e  non  un'entità  trascenden- te  ;  sia  perchè,  come   negli   ultimi  tre,  se  la  partecipa- zione s' intendesse   nel   senso   dell'  interpretazione   tra- scendentalista, verrebbe   inopportunamente  interrotta  la connessione  ddle  idee,  la  quale  richiede  semplicemente che  alla  cosa  che  è  detta  partecipare,  venga  attribuito  un certo  predicato;  sia  per  altri   motivi.   Certamente   l'in- terpr,  te  trascendentalista  dirà,  in  questi  casi,  che  la  cosa a  cui  si  partecipa  non  è  un'Idea;  e  noi  confessiamo  che non  si  potrebbe,  il  più  delle  volte,  né  affermare  recisa- mente,  né  negare,  ehe  l'autore  pensasse   ai   elevare   lo astratto  di  cui  parlava  al  rango  di  entità  reale,  benché egli  avrebbe  dovuto  farlo  per  essere  strettamente   coe- rente alle  proposizioni  cardinali  della  sua  dottrina.  Ma questo  dubbio  non  annulla  il  valore  dei  luoghi  di  cui  si tratta  come  prove  del  senso  immanente  della  metessi  pla- tonica :  in  effetti,  se  nella  più  parte  dei  casi  partecipare a  un  astratto  significa  per  Platone  possederlo  come  un proprio  attributo,  non  si  vede  perchè  gli  si  debba  dare i- un  altro  significato  in  altri  casi  affatto  simili,  e  solo  dif- ferenti dai  primi  per  la  circostanza  che  Platone  fa un'applicazione  esplicita  del  suo  principio  che  un  astratto è  un'entità  reale;  tanto  più  che  è  impossibile,  come  ab- biamo osservato  altra  volta,  di  tracciare  una  linea  di  se- parazione tra  i  casi  in  cui  Platone  pensa  a  realizzare  le astrazioni  di  cui  egli  parla,  e  quelli  in  cui  non  vi  pensa. Nei  luoghi  seguenti  le  cose  a  cui  si  partecipa  sono incontestabilmente  delle  Idee. Parm.  132  e  (per  confutare  la  supposizione  che  le Idee,  sono  dei  pensieri)  :  «  Ma  che  ?  non  è  necesrario, poiché  dici  che  le  altre  cose  partecipano  (fisxéxs'.v)  alle Idee,  di  ammettere  o  che  ogni  cosa  costa  di  pensieri  (sx voYjjidxov  slvai)  e  tutto  pon-^a,  o  che  le  cose  non  pensano, mentre  sono  pensieri  ?  »  ^Le  Idee  sono  dunque  elementi costitutivi  delle  cose  che  ne  partecipano). Ibid.  142  e  :  «  Quando  si  dice  compendiosamente  :  l'uno è;  ciò  non  significa  lo  stesso  che  :  l'uno  partecipa  all'es- sereV  »  (1).  (Potrebbe  Platone- affermare  d'una  maniera  più esplicita  che  partecipare  a  un'Idea  non  significa  altra (1)  L'uno  e  l'essere  nel  Parmenide  jono  seuz 'alcun  dubbio  delle  Idee. Infatti  Tesercizio  dialettico  sull'uno  Tarmenide  lo  dà  come  un  esempio  del metodo  di  cuj  ejjli  prima  ha  parlato  in  generale,  il  quale,  a  differenza della  dialettica  di  Zenone,  che  volgeva  sul  sensibile,  doveva  avere  per o^i^etto  le  Idee.  In  quanto  all'essere,  Platone  lo  tratta  evidentemente,  non come  una  semplice  astrazione,  ma  come  un'entità  reale  (v.  specialmente 142  b-lH  e);  e  ingenerale  questa  realizzazione  sembra  aver  luogo  per  tutti gli  attributi,  a  cui  l'uno  e  le  altre  cose  sono  detti  partecipare  (v.  p.  e.  sulla grandezza  e  la  piccolezza  349  e- 150  d).  Alcuni  dei  luoghi  citati  si  rifeii- scono.  non  alla  partecipazione  delle  cose  alle  Idee,  ma  a  quella  delle  Idee ad  altre  Idee  :  ma  ciò  non  può  impedirci  di  presentarli  come  prove  della immanenza  delle  Idee  nelle  cose,  perchè  è  chiaro  che  la  metessi  non  può avere  che  lo  stesso  significato,  sia  che  si  tratti  di  quella  d'una  cosa  ad  una Idea,  sia  che  si  tratti  di  quella  d'un'ldea  ad  un'altra  Idea. /i > 57  - cosa  che  la  possessione  dell' attributo?  La  stessa  afferma- zione si  trova  a  152  a  :  «  Essere  ò  altra  cosa  che  la  par- tecipazione (fiéBcgis)  dell'essere  col  tempo  presente?  Ed era  e  sarà  sono  altra  cosa  che  la  partecipazione  (xo;v(!)v{a) dell'essere  col  tempo  passato  e  col  futuro)  ?  ». Ibid,  144  ab  :  «  Se  T  uno  è .  è  necessario  che  anche il  numero  sia  —  Senza  dubbio  —  Ma,  se  il  numero  è,  vi saranno  più  cose  e  una  moltitudine  infinita  di  esseri  :o il  numero  infinito  in  moltitudine  non  è  anche  partecipe (lisxéxwv)  dell'essere?  (Come  nel  luo^o  prccpden!e,  parte- cipare all'essere  è  riguardato  come  l'equivalente  di  avere l'attributo  essere).  E  se  tutto  il  numero  parlccìpa  (fisiéxei) dell'essere,  ciascuna  delle  sue  parti  non  ne  parteciperà (jjLSxéxoO  pure  ?  —  Si  —  L' essere  è  dunque  distribuito  (vevé- fiY]Tai)  per  tutti  i  molti  esseri,  e  non  è  assente  (àTiooxaxet) da  alcuna  delle  cose  che  sono,  s'a  la  più  grande,  sia  la più  piccola.  0  è  assurdo  di  fare  una  simile  domanda?  in effetti,  come  l'essere  potrebbe  essere  assente  (àuooTaTotir)) da  una  cosa  che  è?  —  In  nessun  modo  —  L'essere  ò  dun- que diviso,  per  quanto  è  possibile,  in  parti  grandissime e  piccolissime,  e  di  ogni  sorta  di  maniere;  esso  è  ciò  che vi  ha  di  più  frazionato,  e  le  sue  parti  snuo  infinite  »  (l). (1)  Questo  luogo,  come  tanti  altri  dei  seguenti  e  quello  del  Par- menide stesso  131  a— e  che  abbiamo  già  citato  (v.  IV.  3°  B),  mo- strano chiaramente  che  la  partecipazione  d'una  cosa  a  un'I  iea  non significa  altro  che  la  parusia  dell'Idea  nella  cosa.  Una  cosa  parteci- pare al  Bello,  non  vuol  dire,  come  ammettono  gì*  interpreti  trascen- dentalisti, chel'  Ideadel  bello  comunica  alla  cosa  uà  nttributo  simile a  se  stessa,  ma  vuol  dire  semplicemente  che  la  cosa  ricove  (iéxsxat), ha  in  sé  (1x^0  ^'  I^®*  ^®^  bello.  È  esattamente  lo  stesso  rapporto che  si  chiama  parusia,  quando  si  prende  come  soggetto  di  esso  la Idea  (o   piuttosto,  In    generale,  il  partecipato),  e  partecipazione, Farm.  149  e:  o  Diciamo  che  le  altre  coso  dall'uno  ne quando  si  prende  come  soggetto  la  cosa  (o,  in  generale,  il  parteci- pante). Dopo  ciò  che  abbiamo  detto  sulla  parusia,  è  inutile  d'insistere ancora  su  questo  fatto  evidente,  che  la  presenza  o  inesistenza  dell'Es- sere, del  Bello,  del  Grande  ecc.  (o  dell'Essanza,  della  Beltà,  della Grandezza,  ecc.,  perchè  le  Idee  sono  pura  designate  da  Platone  coi nomi  astratti)  negli  esseri,  nelle  cose  belle,  nelle  cose  grandi, 030.  non  può  sigaiticara  altra  cosa  che  la  presenza  o  inesistenza dell'attributo  nel  soggetto.  Tuttavia  l'uso  che  Platone  fa  del  ter- mine che  noi  traduciamo  per  la  parola  partecipazione*,  ci  fornisce un'altra  prova  che  non  dobbiamo  negligere.  La  partecipazione,  ab- biamo detto,  non  significa  altro  che  la  parusia  nella  cosa  o  Idea» che  si  dice  partecipare,  dell'Idea  a  cai  si  dice  partecipare.  Ma  d'al- tra parte,  è  incontestabile  che  la  partecipazione  significa  la  posses" sione  dell'attributo  corrìspondontc  all'Idea  a  cui  si  partcipa.  È  ciò che  si  può  vedere,  non  solo  da  questo  luogo  e  dai  due  precedenti, ma  da  tutti  i  luoghi  che  abbiamo  citati  sulla  partecipazione;  per- chè, quand'anche  in  alcuno  di  questi  luoghi  per  Ut  cosa  partecipata si  volesse  intendere  un'Idea  té'ffureìi dente,  ciò  che  sarebbe  assoluta- mente impossibile  di  negare  è  che,  quando  Platone  dice,  p.  e.,  che le  cose  sensibibili  partecipano  dell'essere  e  del  non  essere  (Rep  478 d-e,  1.  e),  che  le  azioni  partecipano  del  bello  altrettanto  che  del  giu- sto {Le(i.  859  e,  1.  e.)  e"3c.,  ciò  che  egli  vuole  esprimere  è  che  le  cose Sdnsibili  sono  al  tempo  stesso  e  non  sono,  che  le  azioni  sono  altret- tanto belle  quanto  giuste,  ecc.  Ma  un'espro{^-;ione  il  cui  significato è  la  parusia  dell'Idea,  non  potrebbe  significare  la  possessione  dell'at- tributo, se  la  parusia  dell'Idea  e  la  possessione  dell'attributo  non  fos- sero la  stessa  cosa.  Per  infirmare  questa  conclusione  si  dirà  forse  che non  è  necessario  cha  la  parusia  dell'Idea  fosse  por  Platone  l'equiva- lente della  possessione  dell'attributo,  ma  basta  che  per  lui  il  secondo «lei  due  fatti,  pur  es-jando  distiate  dal  primo,  fosse  legato  al  primo  co- me l'effetto  alla  causa,  perchè  un'esprosdone,  che  direttamente  si- gnificava l'uuD  dai  due  fatti— la  parusia  dell'Idea  (quand'anche  que- sta s'intendesse  nel  senso  trascendentalista,  cioè  come  una  semplice presenza  locale  o  quasi  locala) — suggerisse  pure  l'altro  fatto  che  ne era  la  conseguenza  —  la  possessione  dell'attributo  —  E  ciò  è  vero: ma  la  possessione  dell'attribato  non  è  semplicemente  un'associa- zione dell'idea  direttamente  espressa  dalle  parole  partecipare  alVen' sere^  al  non  essere,  al -bello,  al  (jiitsto,  ecc.;  ma  è,  come  si  può  ve- -58  — sono  l'uno  né  partecipano  ([isxéxsO  all'uno,  so  pure  sono derlo  dai  laoghi  citali,  l'idea  stessa  che  queste  parole  esprimono  di- rettamente, il  loro  suinificatOj  ciò  che  è  ben  altra  cosa  che  una  sem- plice suggestiono. Che  una  parte  almeno  —  ed  è  quanto  basta  all'argomento  pro- cedente—  del  significato  delle  parole  che  noi  traduciamo  per  par- tecipare e  partecipazione,  sia  la  possessione  dell'attributo  omonimo all'  Idea  a  cui  si  partecipa,  è  talmente  evidente  ohe  è  anche  am- messo dagl'interpreti  trascendenralisti:  perciò  possiamo  dispensarci di  provare  più  abbondantemente  questo  punto  con  luoghi  scolli  a questo  scopo;  basteranno  quelli  che  ci  è  accaduto  e  ci  accadrà  di  ci- tare, quantunque  con  un  altro  scopo,  cioè  di  provare  immediata- mente il  senso  immanente  della  metessi.  La  differenza  tra  noi e  gl'interpreti  trascendentalisti  è  che  per  questi  la  possessione  dello attributo  omonimo  all'Idea  partecipata  è  foIo  una  parlo  del  signi- ficato della  partecipuzione  —  l'altra  parte  essendo  che  quest'attri- buto è  comunicato,  non  si  sa  come,  dall'Idea  —;  per  noi  invece  è  tutto il  significato.  Ciò  non  vuol  dire  che  esser  bello,  buono,  ecc.  e  par- tecipare al  Bello,  al  Buono,  ecc.,  sono  delle  proposizioni  perfetta- mente identiche:  se  cosi  fosse,  Platone  non  potrebbe  dire,  senza avvolgersi  in  una  vana  tautologia,  che  la  causa  a  una  cosa  di  es- sere bella  ò  la  sua  pari  ecipazt  une  al  Bello,  né,  com'egli  spesso  fa, inferire,  dalla  partecipazions  di  una  cosa  all'Idea,  che  questa  cosa possiede  l'attributo  corrispondente,  e  viceversa,  dalla  possessione dell'attributo,  che  la  cosa  che  lo  possiede  partecipa  all'Idea  corri- spondente. Platone  può  farlo  senza  rimprovero  di  frivolezza,  per- chè, quantunque  lo  due  proposizioni:  esser  bello  o  buono,  ecc.,  e: partecipare  al  Bello  o  al  Buono,  ecc.,  indicano  lo  stesso  fatto,  que- sto fatto  però  è  considerato  a  due  punti  di  vista  differenti:  una proposizione  lo  considera  al  jìunto  di  vista  comune,  che  non  im- plica alcuna  teoria  particolare,  e  l'altra  al  punto  di  vista  del  rro- lismoy  che  considera  gli  attributi,  non  come  semplici  attributi,  ma come  attributi-sostanze. Prendiamo  qui  l'occasione  di  ripetere  sulla  partecipaziene  due osservazioni  che  abbiamo  già  fatto  sulla  parusia.  Quando  Platone dice  che  una  cosa  è  bella,  è  buona,  eco.  per  la  sua  partecipazione al  Bello,  al  Buono,  ecc.,  è  altrentanto  naturale  d'intendere  ch'essa lo  è  perchè  possiede  l'attributo  Bontà,  Beltà,  ecc.  (considerate  come entità  reali),  che  quando  egli  dico  che  la  cosa  è  bolla  por  la  parusia altre  da  esso  —  Certamente  —  Dunque  nelle  altre  nòti  ine- del  Bello,  buona  per  la  parusia  del  Buono,  ecc.  Ciò  è  perchè,  come abbiamo  tante  volte  notato,  se  le  Idee  non  fossero  gli  attributi  delle cose,  non  vi  sarebbe  per  le  parole  metessi  e  i)arusia  alcun  senso  pos- sibile che  facesse  comprendere  come  Platone  possa  dare  la  metessi  o parusia  delle  Idee  come  la  ragione  degli  attributi  delle  cose:  è  sol- tanto quando  per  le  Idee  s'intendono  gli  attributi  delle  cose— sostan- tificati — che  vi  ha  tra  la  metessi  o  parusia  dell'Idea  e  l'inerenza  nella cosa  dell'attributo  corrispondente  questo  legame  necessario  ed  evi- dente per  se  stesso  che  deve  esservi  tra  la  ragione  ohe  si  adduce  per ispiegare  un  fatto  e  questo  fatto.  È  per  lo  stesso  motivo  che  noi  dob- biamo vedere  una  prova  dell'immanenza  delle  Idee  nei  luoghi  nu- merosi —  di  cui  ci  asteniamo  di  dare  degli  esempi,  perchè  sa  que- sto soggetto  basta  ciò  chs  è  stalo  detto  p-irlando  della  parusia  — nei  quali  Platone  conclude  immediatamente  dalla  partecipazions all'Idea  alla  possessione  dell'attributo  omonimo,  e  viceversa  dalla possessione  di  un  attributo  alla  partecipazione  all'  Idea  omonima; come  una  prova  simile  abbiamo  già  vista  nei  luoghi  in  cui  Platone procede  della  stessa  maniera  riguardo  alle  parusia.  IMatone  non  po- trebbe passare  immediatamente  dalla  premessa  alla  conseguenza, considerando  quest'inferenza  come  una  cosa  che  va  da  so,  se  non fosse  d' un'evidenza  immediata  che  la  molossi  o  parusia  dell'  Llea importa,  nelle  cose,  la  possassione  dell'attributo  omonimo,  e  que- sta —  data  la  ipotesi  dell'esistenza  delle  Idee  —  la  metessi  o  parusia dell'Idea  omonima:  ma  questa  evidenza  non  esiste  che  dando  alla metessi  e  alla  parusia  un  senso  immanente.  Bisogna  convenire,  è vero,  che,  quando  si  tratta  della  partecipazione,  anche  l'interprete trascendentalista  può  rendere  conto  di  quest'inferenza  immediata, nel  caso  almeno  in  cui  la  premessa  è  la  partecipazione  all'Idea  e la  conseguenza  la  possessione  dell  attributo  :  ma  ciò  avviene  per- chè egli  non  ammette,  contro  l'evidenza  dei  testi,  che  ciò  che  la metessi  di  una  cosa  a  un'Idea  significa,  è  la  parusia  dell'Idea  nella cosa.  Per  gl'ini erprexi  trascendentalisti,  come  per  noi,  la  metessi all'  Idea  include  nel  suo  significato  la  possessione  dell'attributo  omo- nimo :  ma  questa  inclusione,  nell'ipotesi  della  trascendenza,  è  inam- missibile, se  si  fa,  com'è  necessario,  della  metessi  l'equivalente  per- fetto della  parusia.  Una  sola  è  l'interpretazione  trascendentalista possibile,  che  permettano  i  testi  evidenti  che  provano  che  i  termini ohe  noi  traduciamo  per  partecipare  (jjiexéxsiv,  jisxaXafxpocvsiv,  ecc.) —  69  - 4lì^. risce  {evsoxiv)  il  nomerò,  non  merendo  (fiYj  évóvxo^)  in  esse l'uno  (1).  —  Come  potrebbe  inerirvi  ?  —  Le  altre  cose  dun- que non  sono  né  uno  né  due  né  designate  per  il  nome di  alcun  altro  numero  ».  (L'inerenza  delTuno  e  del  numero nelle  altre  cose  é  co^i  l'inerenza  delT  attributo  nel  sog- getto). Ibid.  157  b-e  :  «  Diciamo  ciò  che  accadrà  alle  altre  co- se, se  Tuno  è  ?  —  Beiamolo  —  Poiché  sono  altre  dall'uno^ esse  1  on  sono  Tuuo,  poiché  in  questo  caso  non  snreb- bero  altre  dall'uno  —  È  giusto -- Tuttavia  le  altre  cose non  sono  prive  (axépexaO  affatto  dell'  uno,  ma  ne  par- tecipano ([isxéxs^^  in  qualche  modo  (2)  —  Perchè  ?  —  Per- ché le  altre  co-^e  dall'uno  sono  altre  da  esso,  perché  hanno delle  parti;  se  non  avessero  pai  ti,  sarebbero  assoluta- mente uno  —  È  giusto — Ma  lo  parti  non  sono  parti  che di  ciò  che  é  un  tutto  .  ...  (3).    Se    dunque   le  altre  cose sono  per  Platone  i  fiinonimi  di  avjre  (sx*-^)»  fic37are  {tix^O^Oi'.^ e  altri  simili,  con  cui  egli  designa  quallo  stesso  rapporto  tra  le  cose e  la  Ilea  ch'egli  indica  coi  termini  esser  presente  (napstv ai),  ine- gistere  (èvsrvai),  ecc.,  qaanio  concilerà  come  soggetto  di  questo rapporto,  non  le  cose,  ma  le  Idee:  e  di  ammettere  che  la  metessi, come  la  parusia,  significa  che  le  Idee  «lono  nalle  cose  press' a  poco come  Torricelli  diceva  eh 3  la  forza  è  nella  materia,  cioè  come  in un  vaso.  Ma  è  vero  però  che  se  l'interprete  trascendentalista  ac- cettasse questo  senso  della  metessi,  egli  si  metterebbe  in  contrad- dizione coi  testi  non  meno  evidenti  che  provano  che  il  senso  di questo  termine  deve  includere  la  possessione  dell'attributo  omonimo all'Idea  a  cui  la  cosa  è  detta  partecipare. (1)  Cosi  la  partecipazione  di  una  coia  all'uno  è  equivalente  all'i- nerenza dell'uno  in  questa  cosa. (2)  Quest'  antitesi  tra  esser  privo  e   partecipare  indica   che   la partecipaziono  iill'uno  signitica  la  parasia  dall'u  io, (3)  Nelle  paro'.o  che  mancano  mostra  che  la  parte  non  si  dice 1 .1 hanno  delle  partì,  partecipano  (iiexéxsO  anche  al  tutto  e all'uno  »  (i). Ibid,  \bH  b-c  :  «  Le  altre  cose  dall'uno  partecipano  (jis- TaXajipotvsi)  all'uno,  quando  non  sono  né  l'uno  né  parte- cipi (fjtexéxovxa)  dell'uno  —  Dunque  quando  sono  moltitu- dini, in  cui  non  enemce  (svi)  l'uno  ».  (La  partecipazione all'uno  equivale  cosi  air  l'inerenza  deiruno). Ibtd,  159  b-160  a:  t  Diciamo  da  capo,  seTunoé,  ciò che  é  necessario  che  accada  alle  altre  cose  dall'uno  — Diciamolo  —  L' uno  noi  é  separato  (x^)pi^)  dalle  altre cose,  e  le  altre  cos3  separati  cx^P^s)  dall'uno?....  Inoltre diciamo  che  il  vero  uno  non  ha  parti.  —  Conivi  potrebbe averne?  —  Dunque  né  l'uno  intero  sarà  nelle  altre  cose (eir)  èv  zoi(;  dcXXois)  nò  delle  parti  di  cssr,  se  l'uno  è  se- parato (xwpC^)  dalle  altre  erse,  e  non  ha  parti  —  Cosi  è —  Le  altre  cose  non  parteciperanno  disxéxot)  dunque  in niun  modo  dell'uno,  non  partecipando  ([xexéxovxa)  né  del- l'uno intero  né  dì  alcuna  parte  di  esso  (2)— In  niun  modo, a  quanto  pare  —  Le  altre  cose  dunque  non  saranno  in niun  modo  uno,  né  avranno  in  sé  alcun  che  di  uno  (3). parte  dei  molti  che  costituiscano  un  tutto,  ma  di  un  certo  uno,  che è  ciò  che  si  chiama  tutto;  e  dopo  ciò  concludo  immediatamente con  la  proposizione  seguente. (1)  Questa  conclusione  ci  prova  che  partecipare  al  tutto  e  al- l'uno significa  essere  un  tutto  e  un  uno,  perchè  il  ragionamento  da  cui essa  è  tirata  non  stabilisce  altro  se  nonché  ciò  che  ha  delle  parti — 9ome  le  altre  cose,  di  cui  si  ò  convenuto  che  ne  hanno — deve  es- sere un  tutto  e  un  uno.(2)  Le  oltre  cose  partecipare  alVuno  è  equivalente  a:  Viino  essere nelle  altre  cose^  ed  è  in  antitesi  con  :  l'uno  essere  separalo  dalle  al' tre  cose.  Potrebbe  provarsi  più  chiaramente  che  la  partecipazione a  un'Idea  non  significa  altro  cha  la  parusia  o  inerenza  di  quest'Idea? (3)  Conseguenza  immediata  dalla  non  partecipazione  all'  Idea alla  non  possessione  dell'  attributo  corrispondente.  Y.  la  nota  1  a carta  57  p.  2. —  60- ww- —  No  certamente  —  Né  per  conseguenza  saranno  molte: se  fossero  molte,  ciascuna  di  esse,  quale  parte  del  tutto, sarebbe  una;  ma  al  presente  le  altre  cose  dall'uno  non sonò  né  una  né  molte  né  parti  né  tutto,  poiché  non  par- tecipano (fisTsxeO  in  alcun  modo  dell' uno  —  É  giusto  — Le  altre  cose  non  sono  dunque  né  due  né  tre,  né  vi  ha in  esse  alcun  che  di  tale,  se  sono  prive  (axépsxai)  affatto dell'uno  (1)— Così  é— Dunque  né  sono  esse  stesse  simili  o dissimili,  né  vi  ha  in  esse  alcuna  somiglianza  o  dissomi- glianza. In  effetto  se  fossero  simili  e  dissimih*,  o  vi  foss»^ in  esse  qualche  somiglianza  e  disomiglianza,  le  altre cose  dair  uno  avrebbero  in  sé  (sxot  av  év  éoLuzolg)  due  spe- cie contrarie  fra  di  loro  —  Co>i  pare  — Ma  é  impossibile che  partecipi  ([isxéxs'-v)  a  duo  ciò  che  non  può  partecipare (fxsiéxoO  a  nessuno  (2)  —  È  impossibile  —  Le  altre  cose non  sono  dunque  né  simili  né  d  ssìmìli  né  simili  e  dis- simili al  tempo  hte-^so  :  poiché  se  fossero  simili  e  dissi- mili, parteciperebbero  (iiszéxoi)  ad  una  una  delle  due  spe- cie ;  se  fossero  simili  e  dissimili  al  tempo  stesso,  parte- ciperebbero alle  due  specie  contrarie  (3);  ora  ciò  é  parso impossibile  —  E  vero  —  Le  attre  cose  dall'  uuo  non  sono dunqu'^  né  le  stesse  né  diverse,  né  in  movimento  né  in riposo  ;  non  divengono  né  periscono  ;  non  sono  né  più grandi  né  più  piccole  né  eguali  ;  né  hanno  alcun  altro di  tali  attributi  ;    perché   se   avessero    alcuno  di  tali  at- ei) Esser  prive  rìelPuno  equivale  a  )io)i  p<irU'('ipnre  all'uno^  ciò che  prova,  come  già  osservammo,  l'ideatilìi  di  signilicato  tra  la partecipazione  e  la  parusia. (2)  Sinonimia  tra  parlcciparf  a  ìì n'Idea  e  averla  in  sé  la  so- mif^lianza  e  la  dissomiglianza  essendo  qui  evidentemente  conside- rate come  Idee —,  e  conseguenza  imme<liata  dalla  possessione  dell'at- tributo alla  partecipazione  dell'Idea  omonima, (3)  Conseguenza  immediata,  come  sopra. I itributi,  parteciperebbero  (fisGégsi)  ad  uno  e  a  due  e  à  tre, e  al  numero  pari  e  all'impari,  a  cui  abbiamo  visto  es- sere impossibile  partecipare  (jisxéxstv),  eisendoprive  (oxs- pofiévot^)  interamente  dell'uno  (1).  » Farm.  163  c-d:  «  Non  cerchiamo  noi  ciò  che  deve  ac- cadere all'uno  se  esso  non  é  ?  —  Si  —  Quando  diciamo non  é,  ciò  significa  altro  che  l'assenza  (àTioDoiav)  dell'es- sere da  ciò  che  diciamo  che  non  é?  —  Niente  altro  (2j — •  (1)  Antitesi  tra  ess^r  prive  d'tiri'Idoa  e  patieviparc  a  quest'Idea,  e conclusione  immediata  dalla  possessione  di  corti  attributi  alla  partecipa- zione delle  Idee  corrispondenti  e  delle  Idee  dei  numeri  a  cui  queste  Idee partecipano. Notiamo  che  se  la  partecipazione  avesse  il  significato  che  le  danno l?rinter^-reti  trascendentalisti,  il  ragionam-^nto  di  Platone  sarebbe  impos- sibile. Platone  ragiona  cosi  :  ciò  che  non  partecipa  all'Idea  dell'uno  ne  a quella  di  alcun  altro  numero  non  può  essere  ne  simile  uè  dissimile  né  avere alcun  altro  attributo,  perchè  non  può  partecipare  alle  Idee  corrispondenti a  questi  attributi,  e  la  ragione  per  cui  non  può  parteciparvi  ò  che,  ciascuna di  queste  Idee  essendo  una,  partecipa  all'Idea  dell'uno,  e  più  di  loro  prese insieme  formando  un  certo  numero,  partecipano  all'Idea  di  questo  numero, e  per  conseguenza  ciò  che  parteciperebbe  ad  uua  o  più  di  (pieste  Idee parteciperebl>e  all'Idea  dell'Uno  o  all'Idea  di  q'jesto  numero.  Il  ragiona- mento corre,  se  per  partecipazione  s' intende  la  parusia  .  perchè  e  chiaro che  in  una  cosa,  in  cui  é  presente  un'Idea,  deve  ess'^re  anche  presente ogni  altra  Idea  che  è  presente  in  quest'  Idea.  Ma  se  la  partecipazione  d'una cosa  a  un'Idea  significasse,  come  vogliono  gì'  interpreti  trascendentalisti, che  la  cosa  e  fatta  ruU'  esemplare  di  quest'  Idea,  non  sarebbe  sempre vero  che  la  cosa  che  partecipa  a  un'Idea,  partecipa  ai>che  alle  altre  Idee a  cui  quest'Idea  partecipa  :  nel  caso  particolare  sarebbe  falso,  poiché  l'a- vere o  uno  o  due  o  tre,  ecc.  esemplari  non  porta  [)er  conseguenza  l'avere per  esemplare  l'Idea  deli 'uno,  del  due,  del  tre,  ecc.,  della  slessa  maniera che,  per  inipiegare  un  esemi)io  d'Aristotile  {Mei.  I.  I,  IX,  4)  1  avere  per esenvlare  una  cosa  eterna,  qual  e  l'  Idea,  non  porta  per  conseguenza  di avere  per  esemplare  l'Idea  dell'eterno. (2)  Se  l'assenza  dell'Idea  significa  la  stessa  cosa  che  la  ptivazione  del- l'attributo, la  presenza  dell'Idea  significherà  dunque  la  stessa  cosa  che  la possessione  dell'attributo. —  61  — Quando  diciamo  che  una  cosa  non  è,  intendiamo  dire  che essa  in  qualche  modo  è  e  in  qualche  modo  no;  o  dire  non è  significa  semplicemente  ch'essa  non  è  affatto,  e  non  es- sendo,  non  partecipa  (fisxéxst)  in  niun  modo  all'essere? —  Questo  semplicemente  -  Dunque  ciò  che  non  è,  né potrà  essere  ne  potrà  partecipare  (ixsTéxsiv)  in  alcun  al- tro  modo  airessere  -  Non  lo  potrà  -  Ora  divenire  e  pe- rire  sono  altra  cosa  se  non  l'uno  ricevere  (fisxaXaiipàvsiv) Tessere,  e  l'altro  perderlo  ?  (àTioXXóvai)  ?- Niente  altro - Ma  CIÒ  che  non  partecipa  (4,...  ixéisaxiv)  per  niente  di  esso, non  potrà  nò  riceverlo  (o5t  av  Xa^tpavoi)  ne  perderlo  (oQx'à- TzoXXùoi)  -  Come  lo  potrebbe  V-All'uno  dunque,  poiché  as-* solutamente  non  e,  non  conviene  nò  di  possedere  (o50'éx- xsov)  nò  di  perdere  ((o5x'à7raXXexxéov)  né  di  ricevere  (or^ze fisxaXyjTixéov)  l'essere  in  alcuna  maniera  —  Pare  -  Dun- que l'uno  che  non  ò  non  perisce  né  diviene,  poiché  non partecipa  (fxsxsxsO  in  alcun  modo  all'essere  (1).  » Sof.  251  a-260  b  :  «  Diciamo  eome  diamo  ad  una  stessa cosa  più  nomi -Apporta  un  esempio  di  ciò -L'uomo 251  B  chiamiamo  con  molti  nomi,  attribuendogli  dei  colori,  delle forme,  delle  dimensioni,  delle  virtù  e  dei  vizi,  pei  quali attributi  e  molti  altri  non  solo  lo  diciamo  uomo,  ma anche  buono,  e  altre  cose  innumerevoli;  e  lo  stesso  fac-,  clamo  per  gli  altri  oggetti,  ponendo  ciascuno  come  uno, e  al  tempo  stesso  come  molti  per  i  molti  nomi  con  cui lo  chiamiamo  -  È  vero  —  Così  abbiamo,  io  penso,  prepa- rato  un  festino  ai  nostri  giovani  e  ai  nostri  vecchi  tardi (1)  L'essere  che  ricevono  le  cose  che   divengono,  e   che  perdono  le cose  elle  periscono,  «'.  certamente  un  essere  immanente  in  queste  cose-  ora quest'essere  evidentemente  è  quello  stesso  a  cui  ciò  che  é  partecipa  e  a  cui l'uno  che  non  è  non  può  partecipare;  dunque  la  partecipazione  ò  di  un'Idea non  trascendente,  ma  immanente  nelle  cose  che  ne  partecipano. c D istruiti  ;  ai  quali  para  facile  di  obbiettarci  che  è  impos- sibile che  uno  sia  molti  e  molti  uno,  e  che  sono  al  colmo della  gioia  quando  non  permettono  che  l'uomo  si  dica buono,  ma  soltanto  che  il  buono  si  dica  buono,  e  l'uomo uomo  Senza  dubbio  tu  incontri  spesso  delle  persone,  che s'applicano  a  simili  arguzie,  e  qualche  volta  anche  dei vecchi  che,  per  povertà  di  spirito,  ammirano  queste  cose, e  credono  di  avervi  trovato  il  colmo  della  sapienza— È vero.  Afiìnchò  il  nostro  discorso  libracci  tutti  quelli  che si  Fono  occupati  d'  una  maniera  qualunque  dell'  essere, le  n*  strc  domanrlc  devono  intcnder-i  come  dirette  tanto a  questi  quanto  rg'.i  altri  con  cui  abbiamo  precedente- mento  disputato  (cioè  i  fisici  e  gli  amici  delle  Idee)— Quali sono  queste  domande?— Se  non  congiungeremo  né  l'essere col  movimento  e  col  riposo,  nò  alcun'altr.i  cosa  con  al- cun' altra,  ma  le  ammetteremo  nei  nostri  discorsi  come immiste  (afitxxa)  e  incapaci  di  partecipare  (iisxaXajipaveiv) l'uua  dell'altra;  0  le  identificheremo  tutte,  ammettendo  che sono  tutte  capaci  di  una  comunione  reciproca;  0  per  al- cune lo  f»mTnetteremo  e  per  altre  no?  quali  di  questi  tre partiti  diremo  che  essi  sceglieranno? — Io  non  saprei  che cosa  rispondere  per  loro  :  perché  non  fai  tu  ciascuna dello  tre  r'sposte  possibili,  cercaudo  quali  conseguenze risultano  da  ciascuna? — Tu  dici  bene;  e  supponiamo,  se vuoi,  ch\*ssi  rispondano  prima  che  non  vi  hi  «Icnua comunione  possibile  di  alcuna  cosa  con  un'  altra;  p  r conseguenza  il  moto  e  il  riposo  non  parteciperanno  fjis- 252  A  Oégsxov)  in  akun  modo  all'essere  ?— Non  parteciperanno — Ma  che  ?  sarà  l'uno  0  l'altro  di  essi,  non  partecipindo  ((Tipog- xotvtóvoOv)  delTessere?  —  Non  sarà  —  Questa confe  sione,  a quanto  pare,  ha  subito  tutto  rovesciato,  e idommi  di  quelli che  mett'no  tutto  in  movimento,  e  di  quelli  che  lo  lasciano in  riposo  come  uno,  e  di  quegli  altri  che  ammettono  che, sotto  il  rapporto  delle  loro  Idee,  gli  esseri  sono  sempreinva- E —  G2  — B riabili  e  nello  stesso  stato:  tutti  infatti  aggiungono  Tes- sere, dicendo  gli  uni  che  le  cose  sono  realmente  in  mo- vimento, e  gli  altri  che  sono  realmente  in  riposo  —  Cosi è  —  E  quelli  che  ora  compongono  e  ora  decompongono  il tutto,  sia  riducendo  tutto  ad  uno,  e  facendo  uscire  dal- l'uno una  varietà  infinita,  sia  decomponendo  il  tutto  in un  numero  finito  di  elementi,  e  componendolo  da  questi stessi  elementi,  sia  supponendo  che  ciò  si  faccia  a  vicen- da, sia  continuamente,  in  tutti  i  casi  non  potrebbero  dire niente  di  vero,  se  non  vi  ha  alcuna  mescolanza  (£ùfi[xigts)— E  giusto—Ciò  che  vi  ha  di  più  piacevole  è  che  essi stessi  hanno  bisogno  del  discorso  questi  che  non  permet- tono che  di  una  cosa  se  ne  dica  un'altra  per  la  parteci- pazione di  quest'altra  (xotvwvia  TcaOiìiiaToc  éxspou)  (1) — Come?— Essi  sono  costretti  di  servirsi  a  ogni  momento  delle parole  essere^  separatamente.dagli  altri,  per  sé  e  di  mille altre  che  non  possono  astenersi  di  adoperare  e  di  con- nettere nei  loro  discorsi;  dimodoché  ossi  non  hanno  bi- sogno di  un  altro  che  li  confuti,  ma,  come  suol  dirsi, hanno  il  nemico  in  casa,  e  portano  da  per  tutto  con  sé stossi  il  loro  contradittore,  che  mormora  dentro  di  loro, come  quel  pazzo  di  Euricle  (un  ventriloquo  che  preten- deva di  avere  nel  ventre  un  demone  profetico)— Gli  so- migl.ano  in  effetto,  e  tu  dici  la  verità— Ma  che?  se  la- sciamo a  tutte  cose  la  facoltà  di  una  comunione  recl- pioca  V— Questa  supposizione  posso  confutarla  anch'io— (1)  Avere  il  7ioc0Y)|ia  d'  un*  Idea  significa  partecipare  a  questa Idea.  V.  Sofista  stesso  245  a-c.  Per  oonsej^uenza  la  xoivwvta  del TidOr^iJia  di  un'altra  cosa— cioè  di  un  altro  Genere,  perchè  le  cose di  cui  -li  tratta  qui,  sono,  come  si  dice  in  seguito,  dei  Generi  —  si- gnifica aver  parte  a  questo  raprorto  delle  cose  col  Genere,  che  Platone chiama  ordinariamente  partecipazione. B Come?  —  É  ehe  il  movimento  sarebbe  in  riposo,  e  il  ri- poso in  movimento,  se  si  raescolassero  V  uuo  coir  altro (èTiiYipotaOYjv  èic'àXXi^Xwv)  —  Ma  è  assolutamente  impossi- bile che  il  movimento  sia  in  riposo  e  il  riposo  in  mo- vimento —  E  come  no?  —  Resta  dunque  soltanto  la  terza supposizione— Si— Infatti  è  necessario  che  sia  vera  una di  queste  tre  supposizioni,  o  tutto  mescolarsi  (aufi|xCYvua9at), 0  niente,  o  alcune  cose  si  e  alcune  no.  —  È  necessario — Ma  le  |»riine  due  abbiamo  visto  che  soni  impossibili— Si  — Dunque  chi  vuol  rispondere  giustamente  deve  ammettere la  terza  supposizione— Certamente— Poiché  alcune  cose 253  A  possono  mescolarsi  e  altre  no,  esse  sono  press'  a  poco com»i  le  lettere,  delle  quali  alcune  possono  congiungersi fra  di  loro,  ali  re  non  lo  possono.  Ma  tutti  conoscono  quali lettere  pò  sono  associarsi  fra  di  loro,  o  vi  ha  bisogno  di un'arte  per  chi  vuol  fare  ciò  d'una  maniera  conveniente? — D'uti'arte- Quale?  — La  grammatica— P]  non  è  lo  stesso  pei suoni  gravi  ed  acuti?  Chi  ha  l'arte  di  conoscere  quali  si accordano  e  quali  no,  è  musico;  chi  l'ignora,  é  straniero alla  musica...  Ebbene!  poiché  siamo  convenuti  che  i  ge- neri si  mescolano  (iitSsws  sx^'-v)  similmente  tra  di  loro,  non ha  bisogno  di  procelere  nei  suoi  ragionamenti  con  una certa  scienza  chi  vuol  mostrare  quali  generi  si  accordano (a'j|i(^(!)v£t)  e  quali  non  si  ammettono  (oO  Séxexai)  fra  di  loro?... E  come  chiameremo  questa  scienza? Dividere  per  generi. e  non  prendere  la  stessa  specie  per  un'altra  né  un'altra per  la  ste-s-i,  non  é  questo  l'ufficio  della  scienza  dialet- tica?—Si— Chi  é  cap-rice  di  far  ciò,  vede  acutamente  un'Idea unica  diffusa  pur  molte  cose  (Sia  uoXXwv...  Tiavxy]  Siaxsxaixé vT]v)  che  cj^istoiio  Kseparatamente  l'una  dall'altra,  e  molte Idee  diverse  compresa  sotto  un'Idea  unica,  ed  un'Idea unica  per  molli  lutti  iu  uuo  raccolta,  e  molte  Idee  di- stinte e  separale  fra  di  loro:  ({uesto  é  saper  discernere, per  mezzo  della  divisione  per  geneii,  quali  sono  in  co- munione fra  di  loro,  e  quali  no € D -  63  — 254  B      Poiché  siamo  convenuti  che  dei  generi  alcuni  souo  in  co- munione reciproca  e  alcuni  no,  alcuni  con  pochi,  alcuni  con C  molti,  e  di  altri  niente  impedire  la  loro  comunione  con  tutti intuite»,  cose,  continuiamo  la  nostra  discussimi,  non  esa- minando tutte  le  Specie,  per  non  restare  confusi  dalla loro  moltitudine,  ma  scegleadone  alcune  di  quelle  che hanno  una  più  grande  estensione,  e  vedendo  prima  qunle sia  ciascuna  di  esse,  e  poi    quale  comunione  abbia  con B   le  altre I  generi  più  estesi,  tra  quelli  di  cui  abbiamo parlato,  sono  l'essere,  lo  etato  e  il  movimento— I  più  e- steiri  di  gran  lunga— p]  due  di  essi  diciamo  che  non  si mescolano  (àiiCxxo))  l'uno  con  l'altro  —  Certamente  —  Ma l'essere  si  mescola  (jjitxxóv)  a  tutti  e  due  :  lutti  e  due  in effetto  sono— Senza  dubbio— Essi  sono  tre— Certamente— Dunque  ciascuno  è  altro  dagli  altri  due,  e  lo  ste>so  con ^  se  stesso?— Si— Ma  che  sono  questi  lo  stesso  e  altro  che abbiamo  nominat  ?  sono  due  generi  diversi  dai  tre  supe- riori, necessariamente  sempre  mescolali  (gu|ijuYV'j}jiévo))  con essi,  e  così  bisogna  esaminare  cinque  generi  in  luogo  di 255  A  tre;  o  senz'accorgercene,  abbiamo    chiamato    qualcuno dei  tre  generi  superiori  lo  stesso  ed  altro?  —  Forse— Ma il  moto  e  lo    stato  non    sono  né  lo  stesso  nò  l'altro B  Tuttavia  tutti  e  due  partecipano  (iistsxsxov)  dello  stesso e  dell'altro.  ..Poniamo  dunque  lo  stesso  come  una  quarta €  specie  oltre  le  tre  specie  superiori? -Poniamolo— ....Quinta D  deve  dirsi  la  natura  deli' altro  che  é  nelle  spec'e(év  xor^ E     et$£oiv  o'joav)  che  noi  abbiamo  scelte— Si— E  diremo  ch'essa é  diffusa  per  tutie  queste  (5ta  tiocviwv slvai  SLsX-rjXueutavj, poiché  ciascuna  é  ahra  dalle  altre,  non  per  U  natura  di se  stessa,  ma  per  il  partecipare  (iiexéxs'-v)  all'Idea  del- l'allro. Certamente. Cosi  diremo  adunque  dei  cinque  generi  riprenden- doli ad  uno  ad  uno  —  Come?  —  Primo  che  il  movimento è  affatto  altro  dallo  stato;  o  non  diremo  cosi?  — Cosi  — Dunque  non  é  lo  stato.  Giammai  —  Ma  è  per  il  par- 256Atecipare  (jxexéxetv)  all'essere— È— Ancora  il  movimento  è altro  che  lo  Stesso-  Si— Non  é  dunque  lo  Stesso— No— Tut- tavia si  é  convenuto  tra  noi,  che  è  lo  stesso  per  il  par- tecipare (iJLsxsxstv)  allo  Stesso— Si- Bisogna  dunque  rico- scere  sen/a  difficolià  che  il  movimento  è  lo  stesso  e  non è  lo  stesso;  non  è  infatti  nello  stesso  senso  che  noi  di- ciamo che  è  lo  stesso  e  che  non  è  lo  stesso;  ma  quando diciamo  che  è  lo  stesso,  è  per  la  partecipazione  ((iisOsgiv) dello  stesso    relativamente    a  se   stesso  (cioè  in  quanto B  ^sso  è  lo  stesso  con  se  stesso);  quando  diciamo  che  non è  lo  stesso,  è  per  la  partecipazione  (xoivoovtav)  dell'Altro, per  cui,  distinguendosi  dallo  Stesso,  è,  non  questo,  ma un  altro,  sicché  giustamente  si  dice  che  non  è  lo  Stesso— Senza  dubbio— Cosi  se  il  movimento  partecipasse  fjisxa- X(X|JLpav£v)  dello  stato,  non  sarebbe  assurdo  di  chiamarlo stabile  — Sarebbe  con  ragione,  poiché  siamo  convenuti che  dei  generi  alcuni  si  mescolano  (iityvooGai)  fra  di  loro D     e  altri  no— Sosterremo  senza  timore  che  il  movimento è  altro  che  l'essere  ?  —  Senza  il  mìnimo  timore  —  Dunque è  evidente  che  il  movimento  é  non  essere,  ed  é  essere,  poi- ché partecipa  diexéxeO  dell' Passere?  —  È  evidente  —  Ne segue  che  il  Non  essere  è  nel  movimento  (èni  xs  xivtq- 05(0^  elvat)  e  in  tutti  i  generi  ;  poiché  in  tutti  la  natura dell'Altro,  rendendo  ciascuno  altro  dall'Essere,  ne  fa  un non  essere;  e  perciò  tutti  diremo  con  ragione  non  ent', e  ancora,  perché  partecipano  (jjisxéxsO  dell'Essere,  essere ed  enti 259  A  I  generi  sono  mescolati  (oD|i|iiYV'jxaO  fra  di  loro,  e  l'Es- sere e  l'Altro  sono  d  ffusi  per  tutti  e  l'uno  nell'altro  (Sia ndvxwv  xal  ei'àXXrjXtov  SisXyjX'jOóxa) ;  l'Altro,  partecipando (liexaaxóv)  dell'Essere,  per  questa  partecipazione  (|isOegtv) è,  ma  non  é  quello  di  cui  partecipa  (jisxéaxsv),  ma  altro; 3     ed  essendo  altro  dall'E^fsere,  è  evidentemente  necessario 'S- —  64  - che  sia  non  essere;  T Essere  poi,  essendo  partecipe  (|ie TstXiQcpós)  dell'Altro,  ò  altro  dagli  altri  generi,  ed  essendo altro  da  essi  tutt'',  non  è  ciascuno  di  e>si  nò  tutti  sii  altri insieme  fuori  di  se  s'esso,  sicché  Tiilssere  senza  dubbio  in maniere  innumerevoli  non  è,  e  gli  altri  generi,  ciascuno preso  a  parte  e  tutti  insieme,  sono  in  molte  maniere  e  in molte  maniere  non  sono E  Voler  separare  (àTioxwpf^eiv)  ogni   cosa  da  rgni  altra manca  di  grazia,  ed  annunzia  uno  spirito  straniero  alle Muse  e  alla  filosofia— Perchè?— Il  separare  (SiaXOetv)  cia- scuna cosa  da  tutte  le  altre  è  la  distruzione  complea  di ogni  discorso:  in  effetto  noi  abbiamo  il  discorso  per  l'in- treccio (au[i:iXox75v)  delle    specie  fra  di  loro.  —  È  vero  — 2()0  A  Vedi  con  quale  opportunità  abbiamo  combattuto  costoro, e  li  abbiamo  costretti  a  lasciare  che  .si  m€.s(Otino  (jitY'^'jaOat) runa  con  Taltra— Perchè  ?— Perchè  il  discorso  sia  anche esso  uno  dei  generi  che  esistono.  Si  sopprimerebbe,  se si  concedesse  non  esservi  alcuna  mescolanza  TiiCfiv)  di niente  con  niente.  » Facciamo    alcune   osservazioni   su   questo   luogo  del Sofista. 1«  Siccome  gl'interpreti  generalmente  cenvengono  che in  questo  luogo  si  tratta  dei  rapporti  di  partccipazicne  * tra  le  Idee,  ci  limiteremo  alla  quistione  se  questi  rapporti implichino  o  no  l'inererza  dell'Idea  partecipato  nell'Idea partecipante— nel  senso  speciale  che  questa  parola  ine- renza ha  nella  nostra  interpretazione  del  sistema  delle Idee—.  Se  noi  vedremo  che  la  implicano,  ciò  sarà  una  prova dell'immanenza  delle  Idee,  esendo  evidente  che  se,  quan- do si  tratta  della  partecipazione  d'un'Idea  ad  un'altra, parledpazione  significa  V  inerenza  del  partecipato  nel partecipante,  essa  non  può  significare  il  contrario,  quan- do si  tratta  della  partecipazione  d'una  cosa  ad  un'Idea. Come  prove  delPinerenza,  notiamo  prima  di   tutto  le espressioni  mescolarsi  ([iCYvuaO-at,  aujjifiCYvooO'at)  e  mescolanza (lAtgt?,  gO|i|iigts)  e  quelle  che  indicano  la  diffusione  d'una cosa  in  una  moltitudine  di  altre  cose  (Ij— tralascio  altre espressioni  non  meno  probanti,  perchè  identiche  o  simili ad  alcune  di  quelle  che  abbiamo  già  incontrate  nei  luoghi precedentemente  citati   —  Il  termine  mescolanza  significa, è  appena  bisogno  di  dirlo,  la  parusia.  Esso  esprime r  immanenza  d'una  maniera  anche  più  energica,  a  un certo  punto  di  vista,  che  il  termine  parusia  :  per  questo potrebbe  intendersi,  come  si  è  detto  sopra,  che  il  parteci- pato è  presente  nel  partecipante  d'una  semplice  presenza loca'e  0  quasi  locale;  la  parola  parusia  non  esprime  que- sta unione  di  due  sostanze  in  una  sola,  indicata  dalla  pa- rola mescolanza  —  sì  pensi  al  significato  di  questa  parola (|xigi^)  nella  fìsica  d'Aristotile —,  Aggiungiamo  che,  sic- come Platone  considera  senza  alcun  dubbio  la  mescolanza dì  due  Idee  come  un'espressione  affatto  equivalente  nel hignificato  alla  partecipazione  deiruna  delle  due  Idee  al- l' altra,  noi  abbiamo  qui  la  prova  più  evidente  della verità  di  un'  osservazione  precedente,  cioè  che  il  senso della  parola  partecipazione  è  la  parusia  dell'Idea  parte- cipata nella  cosa  o  nell'Idea  partecipante,  e  che,  per conseguenza,  sapendo  anche  che  questa  parola  significa per  Platone  la  possessione  dell'attributo  omonimo  all'I- dea a  cui  si  partecipa,  noi  possiamo  concluderne  che  la parusia  dell'Idea  non  è  altro  che  la  possessione  dell'at- tributo omonimo,  e  quindi  che  l'Idea  e  l'attributo  sono la  stessa  cosa. Senza  dubbio,  la  parola  mescolanza  è  un'espressione (1)  V.  253  d,  255  e,  259  a.  E  bisogna  aggiungere  260  b,  in  cui  dice che  il  Non  essere  è  disseminato  (SteoTiapjxévov)  in  tutti  gli  esseri. (2)  V.  252  d,  253  e,  255  e,  256  d. —  65  - inadequata  al  concetto  che  essa   significa,   come   più  o meno  lo  sono  necessariamente  tutte  le  altre  di  cni    PIa- tone  8i  serve  per  indicare  i  rapporti   tra   le   Idee  «   tra queste  e  le  cose,  prr  la  semplice  ragione  che  questi  rap- porti  differiFcono  toio  coelo  da  tutto  ciò  che  le  parole  di ogni  linguaggio  umano  sono  destinate  a  significare.  La parola  mescolanza  esprime  con  proprietà    questo   cant- tere  del  rapporto  tra  le  due  Idee,  che  e-se  som  delle  so- stanze di  cui  l'una  si  trova  contenuta  nelfalira,  |ur  es- sendo due  sostanze  distinte  luna  dalPaltra  —  l'Idea  del- rUomo  e  quella  dell'  Animale,  quantunque   la   seconda sia  compresa  nella  prima  come  una  parte  di  essa,   sono nondimeno  due  sostanze  distinte,  poiché  Tldea  dell'ani- male si  trova  anche  fuori  delllica  dell'uomo,  in  quella del  leone,  del  cavallo  ecc.  —  Ma  ess.ì  è  in'^satta,  fercbr le  sostanze  che  si  mescolano  sono  comp^etan  ente  distinto runa  dall'altra  :  l'ura  r.on  fa  parte  dell'altra,  come  l'I- dea partecipata  della  partecipante.  Per   conseguenza   lo interprete  trascendentalista  può  dire  cho.   la    mescolanza dei  generi  del  Sofista  indica  ben^i    un'intima  cong  un- z^one  tra  le  Idee,  ma  non  Viwwarìenza  dellldea   parte- cipata nell'Idea  partecipante,  poiché  per  immanenza  noi intend'amo  piecisamente  questo  inrsistere  del  partecipato nel  partecipante  come  una  parte  di  e^so,  che    la   parola mescolanza  non  esprimo.  Ma  quale  sarà  allora,  secondo l'interprete  trascendentalista,  qursta  intima  congiunz  ore tra  le  Idee  che  Platone  chiama  mescolanza  ?   e  che  ra- gione egli  ha  potuto  aveie  per  ammetterla  ?  Nell'ipotesi ^^W  immanenza  la  parola    mescolanza  ha  un  s^gnificRto perfett«mente    determinato  (quantunque   non    sia  ^osm- bile  una  rappresentazione  corrispondente,  ciò  che,  come abbiamo  notato,  è  un  difetto  comune  a  tutte  U  do  trine metafis'che)  e  di  cui  si  trova  fac  Imente  la  ragione  nel realismo  dell'autore:  cioè   che,    s'ccome  le   Idee  sono i  concetti  realizzati,  cosi  vi  hanno  tra  dì  esse  gli  stessi rapporti  di  contenenza  reciproca,  in  comprensione  e iu  estensione,  che  si  ammettono  tra  i  concetti.  Ma  che significherà  la  mescolanza  nell'ipotesi  della  trascendenza  ? qual  è  il  senso,  il  concetto  determinato,  che  può  corri- sponde: e  a  questa  parola,  applicata  a  delle  sostanze  im- matc  riali  ed  esenti  dai  rapporti  di  posizione?  Questo  stesso vago  conato  di  assimilazione  —  dei  rapporti  tra  le  Idee a  questo  rapporto  tra  le  sostanze  materiali  che  chiamia- mo mescolanza  —  a  cui  si  ridurrebbe  tutto  il  significato della  parola,  sarebbe  inoltre  senza  motivo  e  senza  scopo; poiché  quest'assimilazione,  né  avrebbe  alcun  legame  lo- gico con  Itpolesi  delle  Idee,  né  gioverebbe  a  rendere  que- st'ipotesi più  coerente  o  più  verisimile  o  più  propria  a sp'cgare  i  IVnomeni,  né  darebbe  alcun  soccorso  per  ri- spondere alla  quistione,  cosi  imbarazzante  nell'ipotesi  del- la trascendenza,  della  possibilità  di  predicare  un  concetto di  un  altro,  alla  cui  soluzione  è  destinato  da  Platone  ciò che  dice  su  questo  rapporto  tra  le  Idee  a  cui  dà  il  no- me di  mescolanza. Delle  considerazioni  simili  valgono  per  1  termini  che e^primoro  la  diffusione  di  un'Idea  in  una  moltitudine di  altre  Idee:  questa  parusia  dell'uno  nei  molti,  che,  nel- l'ipo'esi  deli'immanenz»,  ha  un  senso  preciso  e  di  cui  si comprende  perfettamente  il  legame  con  la  realizzazione de^ii  Universali,  non  avrebbe,  nell'ipotesi  della  trascen- denza, né  significato  né  ragione  alcuna,  e  inoltre  intro- durrebbe gratuitamente,  come  abbiamo  già  detto,  nel  si- stema delie  Idee  trascendenti  quella  stessa  inconcepibilità che  é  la  dilhcoltà  più  grande  del  sistema  delle  Idee  im- naui  nti. 2"  La  qu'stione  a  cui  Platone  risponde  con  la  teoria  della p»ìrtecipazione,  è:  come  noi  diamo  ad  una  cosa  più  nomt^ vale  a  dire,  in  ultima  analisi,  come  possiamo  congiun- -  66  - gere  un  soggetto  e  un  predicato.  Si  sa,  in  effttto,  che  gii altri  nomi  che  si  aggiungono  al  nome  soggetto  per  d  - terminarlo,  possono  considerarsi  come  equivale  nti  a  \  al- trettante proposizioni  incidenti  di  cui  essi  sono  i  predi- cati: e  d'alironde  la  partecipazione,  chVsm  s'intenda  nel senso  dell'immanenza  o  in  quello  della  trascendenza,  non potrebbe  render  conto  della  congiunzione,  nel  discors*^, di  altre  parole  che  del  soggetto  e  dfl  predicato,  perchè Platone  dice  che  una  cosa  partecipa  a  un'Idea— o  un'I- dea ad  un'altra  Idea—,quando  della  rosa  può  predicarsi l'attributo  corrispondente  all'Idea— o  della  prima  Idea quello  corrispondente  aUa  feconda—. La  quistione  della  possibilità  di  unire  un  nome  ad  un altro  è  presentata  da  Piatone  in  termini  generali  :  es'^a comprende  tanto  il  caso  in  cui  il  nome  sog^et  oè  prrso universalmente— p.  e.  l'uomo  o  tutti  gli  uomini— quanto il  caso  in  cui  è  preso  particolarmente— p.  e.  un  uomo o  alcuni  uomini— Tuttavia  è  evidente  che  la  partecipa- zione tra  le  Idee  (se  almeno  noi  vogliamo  intendere  la partf cipazione  nel  scns'>  ordinario  che  questa  parola  ha in  Platone)  non  potrebbe  rendei  e  conto  che  della  possi- bilità delle  proposizioni  universali  :  l'Idea  dell'uomo  non può  partecipare  a  un'nltra  Idea,  il  cui  attributo  omoni- mo non  appartiene  che  ad  un  uomo  o  ad  a'cunì  uomini; quantunque  in  questo  caso  potrebbe  dirsi  che  la  specie umana— intesa  come  la  collettività  degl'individui  uomini  — partecipa  a  quest'Idea,  non  potn^bbe  dirsi  che  vi  parte- cipa l'Idea  deirUomo,  perchè  l'Idea  non  rappresenta  la specie  come  collettività  degl'individui,  ma  l'insieme  degli attributi  comuni  a  questa  collettività.  Platone  ha  dun- que dimenticato  di  rispondere  alla  quistione  propostasi, per  il  caso  in  cui  il  nome  soggetto  è  preso  particolar- mente ?  o  se  egli  nella  sua  risposta  ha  contemplato  an- che questo  caso,  come  si  applica  ad  esso  ciò  che  egli  dice sulla  coTiunìone  dei  generi  ?  Sono  delle  quìstlonì  che noi  tralasceremo,  perchè  non  hanno  una  relazione  molto stretta  col  nostro  soggetto,  e  ci  limiteremo  al  caso  che Platone  ha,  se  non  esclusivamente,  almeno  specialmente, di  mira,  cioè  alle  proposizioni  universali  e  alla  partecipa- zione tra  le  Idee  come  fondamento  della  possibilità  di queste  proposizioni. Noi  abbiamo  già  notato  che,  nell'ipotesi  della  trascen- denza delle  Idee,  la  congionzìone  del  soggetto  e  del piedicaio  tarebbe  impossibile,  perchè,  gli  oggetti  dei  con- cetti essendo  le  Idee,  e  il  rapporto  del  predicato  col  aog- g€  tto  essendo  quello  deirinerenza  dell'uno  nell'altro,  qué- sta congiunzione  suppone  l'inerenza  delle  Idee  nelle  cose e  nelle  altre  Idee  subordinate;  e  che  perciò  la  conse- guenza logica  della  dottrina  della  trascendenza  sarebbe la  tesi  erisica  che  non  si  può  affermare  che  ^^omo  è bur  no,  ma  solo  che  l'uomo  è  uomo,  e  il  buono  è  buono  (1); tesi  alla  cui  confutazione  è  appunto  destinata  la  teoria della  partecipazione  dei  generi  gli  uni  agli  altri.  Cosi se  la  partecipazione  dovesse  intendersi  nel  ^enso  degli interpreti  trascendentalisti,  lungi  di  poter  fornire  una risposta  alla  quistione  :  com'è  possibile  la  congiunzione di  un  soggetto  e  di  un  predicato?  essa  renderebbe  la quistione  insolubile,  questa  cougiuazione  essendo  impos- ti) Platone  stesso  dichiara  che  il  separare  ogni  cosa  da  ogni  al- tra renderebbe  impossibile  il  discorso  (v.  259  e);  ciò  che  implica  la condanna  della  dottrina  che  gli  attribuiscono  gl'interpreti  trascen- dentalisti —  dico  implica^  perchè  sarebbe  impossibile  di  trovare  in Platone  un  rifiuto  esplicito  della  dottrina  della  Idee  separate,  per la  semplice  ragione  ch'essa  gli  è  affatto  sconosciuta—.  La  proposi- sione  citata  conterrebbe  questo  rifiuto  esplicito^  se  i  Megarici,  co- me credono,  secondo  me  erroneamente,  alcuni  critici,  avessero  am- messa qaesta  dottrina. —  67  — sibile  in  qualsiasi  rapporto  tra  le  Ide  e  tra  le  Idee  e  Io cose  che  non  sia  quello  d'iramanenzR;  e  sarebbe  singolare che  Platone,  per  confutare  la  tesi  dei  Megarici—deirim pos- sibilità di  ogni  giudizio  non  tautologico —mettesse  in- nanzi la  teoria  delle  Idee  e  dei  loro  rapporti  tra  di  loro e  con  le  cose,  che,  nell'ipotesi  della  trascendenza,  sa- rebbe precisamente  l'appoggio  più  forte  della  tesi  con- futata. Ma  ciò  che  dobbiamo  ancora  osservare  è  che .  Pla- tone, nel  luogo  citato  del  Sofista,  non  solo  dà  la  teoria della  partecipazione  per  il  fondamento  e  la  giustifica- zione della  sintesi  tra  il  soggetto  e  il  predicato,  ma,  quel ch'è  più,  identifica  il  rapporto  di  partecipazione  d^lle Idee  le  une  alle  altre  al  rapporto  che  noi— cioè  tutti quelli  che  pensano  e  che  parlano,  anche  quelli  che  non ammettono  la  teoria  delle  Idee— stabiliamo  tra  il  soz- getto  e  il  predicato,  quando  formiamo  un  giudizio  o  e- nunciamo  una  proposizione.  Per  es^mp*o,  quando  Pla- tone domanda  se  noi  dobbiamo  non  coogiungere  lo  sta^o e  il  movimento  con  Tessere,  né  alcun  altro  genere  con un  altro,  ma  ammetterli  nei  no  tri  discorsi  come  immilli e  incapaci  di  partcc'pire  gli  uni  agli  altri,  evidentemente egli  considera  la  partecipazione  dell'Idea  del  movimento  e dello  stato  a  quella  delFessere  come  equivalente  al  rapporto che  noi  stabiliamo  tra  il  soggetto  movimento  o  stato  e il  predicato  essere,  quando  congiungiamo  lo  stato  e  il movimento  con  l'essere,  cioè  diciamo  che  il  movimento o  lo  stato  è.  Similmente  quando  egli  paragona  la  mutua mescolanza  delle  Idee,  cioè  la  partecipazione  d«lle  une alle  altre,  al'a  capacità  che  hanno  le  lettere  di  essere unite  e  all'accorlo  dei  snoni  musicali,  e  dice  ch'^,  poiché i  generi  alcuni  si  mes-o'ano  fra  di  loro  e  altri  no,  vi  ha bisrgno  per  (ssi,  come  ppr  lo  letlere  e  i  suoni  musicali, di  una  scienzn  che  mostri   quali    si    accordano   e   quali non  sì  ammettono  fra  di  loro;  quest'accordo  o  associa- bilita dei  generi— per  cui  naturalmente  dobbiamo  inten- dere la  possibilità  d«  Ha  loro  sintesi  quali  soggetti  e  pre- dicati nelle  propo-izioni— non  ha  un  significato  differente che  la  loro  mescolanza  o  partecipazione  degli  uni  agli altri.  Ma  se  le  Idee  fossero  separate  dalle  cose  e  cia- scun'Idea  da  ciascun'altra,  come  vog'iono  gl'interpreti trascendentalisti,  le  Idee  non  potrebbero  essere  gli  attri- buti dele  coso,  ma  solo  gli  esemplari  di  questi  attributi, e  parimenti  un'Idea  non  potrebbe  essere  1'  attributo  di un'altra  Idea,  ma  solo  l'esemplare  di  quest'attributo. Quando  noi  congiungiamo  l'essere  al  movimento— cioè quando  affermiamo  :  il  movimento  è— quest'essere  che  noi congiungiamo  al  movimento  è,  secondo  l'interprete  tra- scendentalista, un'imitazione  o  un  simulacro  dell'Essere a  cui  il  movimento  partecipa,  mentre  è  evidente  che  per Platone  é  qu  sl'E^sere  stesso  :  in  efifetto  egli  direbbe  in- differentemente, per  esprimere  lo  stesso  fatto,  sia  che  i due  generi  possono  congiungersi  tra  loro  e  si  accorda- no—considerando il  fatto  sotto  il  suo  aspetto  logico— sia che  essi  partecipano  l'uno  dell'altro  o  si  mescolano  l'uno con  Taltro— considerando  il  fatto  sotto  il  suo  aspetto  on- logico — .Ma  questa  stessa  distinzione  di  un  aspetto  lo- gico e  di  un  aspetto  ontologico,  sotto  di  cui  le  due  dif- ferenti sorta  di  espressioni  di  cui  si  serve  Platone,  con- siderebbero  il  rapporto  tra  i  generi,  abbiamo  avuto  forse torto  di  farla;  poiché  il  sistema  platonico  é  essenzialmente una  realizzazione  dei  rapporti  logici,  per  conseguenza il  logico  e  rontologico  per  Platone  s'identificano;  e  così, nel  caso  presente,  il  rapporto  ontologico  tra  i  generi, cioè  la  partecipazione  di  un'Idea  ad  un'alt'-a,  non  è  al- tro—nell'ipotesi,  ben  inteso,  dell'immanenza  delle  Idee — che  il  loro  rapporto  logico,  cioè  l'inerenza  dell'attributo nel  soggetto,  obicttivato.  E  in  effetto,  per   V  immanenza —  68  -^ delle  Idee,  noi  noa  intendiamo  altra  cosa  ss  non  che  le Idee  ineriscono  nelle  cose  e  le  Idee  più  generali  nelle più  particolari— in  una  parola  i  partecipati  nei  parteci- panti—della maniera  in  cui  Tattributo  inerisce  nel  sog- getto. Che  Platone  consideri  il  rapporto  tra  il  partecipante e  il  partecipato  come  identico  al  rapporto  tra  il  soggetto e  il  predicato,  è  dimostrato  pnre  da  questa  circostanza, che  egli  fa  della  quistione  della  partecipazione  unaqui- stione  comune  a  tutti  i  filosofi,  anche  a  quelli  che  non ammettono  la  teoria  delle  Idee.  Quando  egli  domanda  ai Fisici  se  essi  ammetteranno  che  rè  il  movimento  e  lo  stato partecipano  all'essere  né  alcun'altra  cosa  ad  un'altra,  ov- vero che  ciascuna  cosa  partecipa  di  ciascun' altra  cosa, ovvéro  infine  che  vi  hanno  delle  cose  che  partecipano  l'una dell'altra  e  altre  che  non  partecipano;  e  mostra  che  se non  vi  ha  alcuna  mescolanza,  cioè  partecipazione,  i  Fisici non  potrebbero  dire  né  che  vi  ha  il  movimento  ne  che vi  ha  lo  stato,  e  che  tutte  le  altre  proposizioni  dei  Fisici sarebbero  ugualmente  false;  che  si  deve  intendere  por queste  cose,  di  cui  si  domandano  i  rapporti  dì  partecipa- zione, e  la  cui  mescolanza  sarebbe  indispensabile  per  la verità  delle  teorie  dei  Fisici  ?  (1)  Senza  dubbio,  queste  cose sono  nel  sistema  di  Platone  le  Idee:  ma  egli  non  po- trebbe domandare  ai  Fisici  quali  siano  i  rapporii  tra  le Idee,  né  potrebbe  dire  che  le  proposizioni  dei  Fisici  — in  cui  si  afferma  un  termine  generale  d'un  altro  termine (1)  Per  i.idicaP3  questi  ognratti,  di  cai  egli  domanda  ai  fisici quali  siano  i  rapporti  di  partecipazione,  Platone  non  dice  né  Idea né  specie  né  generi  nò  niente  altro  di  simile,  ma  si  serve  sempli- cemente dall'aggettivo  al  ndulro:  così  io  ho  tradotto  aggiungendo all'aggettivo  il  termine  vago  coso. generale  —  suppongono  la  partecipazione  d'un' Idea  ad un'altra,  pnichè  i  Fisici  non  sanno  niente  delle  Idee,  e non  conoscono  che  la  realtà  fenomenale.  Per  queste  cose di  cui  i-ì  domanda  quali  siano  i  ra[  porti  di  partecipazione, si  deve  durque  intendere  alcun  che  che  possa  essere  co- mune tanto  a  Platone,  che  fa  la  domanda,  quanto  ai  Fi- sici, a  cui  la  domanda  é  fatta:  ciò  non  può  essere  altro che  gii  oggetti  dei  concetti  generali,  considerati  senza determinare  se  (ssi  siano  delle  entità  iperfìbiche,  confor- memente al  sistema  realista,  ovvero  semplicemente  le classi  degli  rggetti  fenomenali  e  i  loro  attributi,  confor- memente all'opinione  volgare  che  è  il  punto  di  vista  dei Fisici.  Per  conseguenza  il  rapporto  di  partecipazione  di cui  è  quistione  tra  Piatone  e  i  Fisici,  deve  essere  un  rap- porto che  può  correre  egualmente  tanto  tra  le  entità  iper- fìsiche  del  primo  quanto  tra  le  classi  e  gli  attributi  fe- nomenali dei  secondi.  Ma  queste  classi  e  attributi  dei  Fi- sici sono,  non  delle  cose  trascendenti,  ma  immanenti;  e perc'ò  il  solo  rapporto  di  partecipazione  che  può  esistere fra  di  loro,  é  quello  deirinerenza  del  predicato  nel  sog- getto. Dunque  anche  il  rapporto  di  partecipazione  tra  le entità  iperfisiche  di  Platone  deve  essere  il  rapporto  d'ine- renza del  predicato  nel  soggetto. Allo  stesso  risultato  si  perverrà,  CFaminando  la  po- lemica con  gli  erist'ci  che  negano  la  validità  di  qual- siasi giudizio  non  identico.  Platone  attribuisce  a  questi filosofi  di  negare  la  partecipazione  di  qualsiasi  cosa  ad un'altra;  cosi  egli  dice  che  essi  non  permettono  che  una cosa  sia  detta  di  un'altra  per  la  partecipazione  di  que- st'altra (1);  che  essi  separano  ogni  cosa  da  ogni  altra  f2); che   egli    li   ha   combattuti   e   forzati   a  permettere   che (1)  252  b-c. (2)  259  e. -  69  — una  co8a  si  iLescoli  con  un'altra  (1).  Lo  cose  di  cui  essi negano,  secondo  Platone,  la  partecipazione  dell'una  al- l'altra, per  loro,  come  per  i  Fisici,  non  possono  essere  le Idee  (2j,  ma  semplicemente  le  classi  degli  oggetti  feno- ramali  e  i  loro  attributi;  e  la  so'a  partecipazione  chi essi  nrghino  è  quella  del  soggetto  al  predicato,  vale  a dire  la  possibilità  di  attribuire  questo  a  quello.  Dunque per  la  partecipazione  di  una  cosa  ad  un'altra,  che  que- ste cose  siano  delle  Idee  ovvero  semplicemonte  delle  ebusi e  degli  attributi  di  queste  class»,  Platone  incende  che  la seconda,  la  partecipata,  inerisce  nella  prima,  la  parteci- pantp,  come  il  predicato  nel  soggetto. L'osservazione  precedente  ne  suggerisca,  o  piuttosto ne  implica,  un'altra,  a  cui  non  sarà  forse  inutile  di  dare un  posto  a  sé,  quantunque  essa  non  abbia  un'attinenza diritta  con  la  qiiistione  della  partecipayion  .  Le  cose, sui  cui  rapporti  di  partecipazione  Plato-ie  interroga  i Fisci,  e  di  cui  attribuisce  agli  eristicl  che  non  am- m  ttono  se  non  i  giudizi  identici,  di  negaro  questi rapporti,  sono,  come  abbiamo  detto,  degli  oggetti  che P'^ssorio  ess'-re  con«jiderati  di  due  maniere  dìfferent*,  cioè conoe  a^trflzioni  realizzate,  come  Idee-da  Platone-,  e come  sempl  ci  classi  degli  oggetti  d'esperienza  e  loro attributi  (non  ri*8lizzati)— Hai  Fjsici  e  gli  cristici-Ma  lo classi  e  i  loro  at  ributi  di  questi  filosofi  non  sono  cer- tamente delle  cose  trascendenti  :  dunque  anch*^  le  Idee platoniche  devono  essere  immanentL  E  in  ett'fiti  è  evi- (1)  260  a. (2)  Che  i  Megarici  abbiano  ammes«4o  la  teoria  deUe  Idee,  è  una supposizione  d'alcuni  autori  moderni  ohe  non  ha  né  verosimiglianza intrinseca  né  alcun  fon  lamento  storico.  Confr.  qaesto  Supplemento parte  I,  n.  X. dente  che  quando  Platone  domanda  ai  Fisici  se  essi  am- mettono o  no  che  il  movimento  e  lo  stato  partecipano airessere,  egh  non  può  parlare  di  un  movimento,  di uno  stato  e  di  uà  essere  fuori  delle  cose,  ma  di  questo movimento,  stato  ed  essere  che  sono  degli  attributi  delle cose— da  Piatone  riguardati  come  Idee,  cioè  come  at- tributi—sostanze e  dai  Fisici  come  semplici  attributi  — . Similmente  quando  agli  eristic:*,  che  non  vogliono  che si  dica  che  l'uomo  è  buono  né  che  un  altro  predicato qualunque  si  predichi  di  un  soggetto  differente  da  esso, Platone  attribuisce  di  separare  il  buono  dall'uomo  e ogni  cosa  da  ogni  altra  e  di  non  permettere  la  loro  me- scolanza, qieste  cose  che  essi  separano  e  di  cui  non  per- mettono la  mescolanza,  non  possono  essere  certamente gli  esemplari  trascendenti  dell'uomo,  della  bontà  e  di ogni  altra  cosa  espressa  dai  nomi  generali,  che  questi filosofi  ci  proibiscono  di  affermare  l'uno  dell'altro;  per- chè Vuomo  è  buono  e  tutte  le  altre  proposizioni  che  questi filosofi  c'inibiscono,  noi  non  le  riferiamo  ad  esemplari trascendenti  delle  cose,  ma  alle  cosa  stesse.  E  in  una parola  quando  Platone  dice  che  il  discorso  nasco  dalla mutua  complicazione  (o'j|i7iXoxf^)  delle  specie,  per  queste specie— che  sono  evidentemente  le  Idee— noi  non  pos- siamo intendere  delle  entità  trascendenti,  perche  i  nomi generali  di  cui  i  discorsi  umani  si  compongono,  e  i  con- cetti che  ad  essi  corrispondono,  non  si  riferiscono  ad oggetti  trascendenti,  ma  immanenti.  Ma  questo  è  un punto  che  ese^*,  come  abbiamo  detto,  dall'argomento  del presente  numero,  ed  entra  in  quello  del  numero  III  (l). (1)  Un'altra  prova  evidente  ohe  i  generi,  di  cui  Platone  discute nel  Solista  i  rapporti  di  partecipazione,  sono  delle  realtà  immo>ieii(i, l'abbiamo  in  ciò  che  Platone  dice  del  discorso  sulla  fine  del  luogo —  70- # Nella  mescolanza  del  Sofista  vi  ha  il  ^erme  d'un'im- magtnp,  a  cui  alcuoi  platonici  ricorrevano  per  rappre- sentarsi il  rapporto  tra  le  Idee  e  le  cose.  Alcuno,  dice Aristotile  (Mei,  1.  I.  IX.  ì),  potrà  credere  che  le  Idee sono  causa  alle  cose  deircssere  ciò  che  sono,  come  il bianco,  mescolato,  è  causa  a  un  oggetto  di  essere  bianco. Egli  attribuisce  questa  proposizione  ad  Eudossio  e  a molti  altri  (1),  e  la  paragona  alla  dottrina  delle  omeo- merie  di  Ana^^sagora.  Questa  comparazione  del  rapporto tra  le  cose  e  le  Idee  a  cui  esse  devono  i  loro  attributi, a  quello  tra  l'oggetti  coloralo  e  la  sostanza  colorante, mostra  d'una  maniera  cosi  evidente  V immanenza  del 'e Idee  nelle  cose,  che    Tinterprete   trescendentalista,    per citato  (260  a)  e  nel  seguito  (260  b-264  b):  egU  classa  il  discorso  tra i  generi  di  cai  ha  discusso  qaasti  rapi)orti  di  partecipazione,  e  do- manda  se  il  non  essere  si  mescoU  a  questa  specie  come  ha  visto che  si  mescola  alle  altre  (v.  260  a-e).  Ora  il  discorso  di  cui  Platone parla,  è  incontestabilmente  il  nostro  discorso,  non  l'archetipo  di esso  :  ma  se  questo  genere  è  una  realtà  immanente,  gli  altri,  con cui  esso  è  classato,  non  possono  essere  delle  entità  trascendenti. Aggiungiamo  che  il  Non  essere,  che  è  uno  dei  generi  di  cui  si cercano  i  rapporti  di  partecipazione  con  gli  altri,  e  che  è  anzi  l'og- getto precipuo  di  tutta  la  digressione  di  cui  fa  parte  questa  discus- sione    sui  rapporti  di  partecipazione  tra  i  generi,  è  riguardato  co- me l'oggetto  dell'opinione  falsa  (della  reale,  della  nostra)  —  v.  236- 264.  —  Ma  l'oggetto  dell'opinione  falsa  sono  i    non   esseri  -  cioè  le cose  che  non  sono  e  che   noi   crediamo  falsamente  che  siano  -  : dunque  Platone  concepisce  il  Non  esst^re,  non  come  un  archetipo dei  non  esseri,  separato  da  essi,  ma  come  la  loro  iorma    generale, in  essi  immanente.  È  certamente  una  stranezza  di  realizzare,  come fa  Platone,  anche  il  concetto  di  ciò  che  non  è;  ma,  facendolo,  egli non  può  considerare  il  rapporto  tra  questo  concetto  realizzato  e  le cose  particolari  comprese  sotto  il  concetto  di  cui  è  la  realizzazione, come  differente  da  quello  fra  gli  altri  concetti  realizzati  e  le  cose particolari  subordinate. (1)  Cfr.  il  comm.  d'Aless.  Afrod. conciliare  quest'indicazione  d'Aristotile  con    la   sua   in- terpretazione,  non   potrebbe   dire   altro   se  non    che  la propos  zone  appartieu's  non  a  tutti  i  platonici,    ma    ad una  fraz'one,  e  questa  poteva  ben  essere  una  scuola  di d'ssident'.  Ed  è  vero  che  Aristoti'e   Fembra    riguardare questa  proposizione  come  una   doitrira   particolare:  in- certo, com'egli  era,  sulla  qnistìone  fc  il  rapporto  tra  le Idee  e  le  cose  fosse  un  rapporto  d'immanenza  o  di  tra- scendenza, non  è  difficile  di  corapron^lerc  com'egli    po- tasse vedere  delle  differenze  reali  nella  maniera  di  con- cepire quc-to  rapporto  là  dove  non    si  trattava    che   di una  sempl  ce  diiferenza  nell'epprossione  dt-llo  stesso  con- cetto. Co  ì  noi  1.  3**  e.  2^  e  1.  IS'^  e.  1«,  2«  e  Scegli  distingue quelli  che  ammettono  le  entità  matematictie  (i  Numeri  e le  Figure  geometriche)  nelle  cose  e  quelli  che  le  ammet- tono separate  dalle  cose:  verosimlrrente  non  vi  era  tra  gli gli  uni  egli  altri  una  differenza  di  dot:;rina,  come  afferma Aristotile,  ma  semplicemente  gli  uni  esprimevano  l'  imma- nenza di  queste  entità  di  una  maniera  più  energica  che  gli altri.  La  quistione  del  rapporto  tra  le  Idee  e  le  co^^e  era  di troppo  momento  pfl  significato   e    lo   scopo    dell'ipotesi stessa  delle  l'iep,  perchè  potes^^e  essere  l'o^rgetto  di  una divergenza  reale  tra  i  parcigìanì  di  qu^st' ipote-i.  Nella proposizi'^ne   d'  Eudosr!o   non    bisogna    vedere   che  una rappresentazione  materiale  della  dottrina  ordinaria  della partecipazione  :  anche  Platone    si    serviva  Hi  rappre-en- •ta'/ioni  sim  1',  p.  e.  n^l    Fé  Jone,  in  cui  le  Id^e  si  fanno venire   nelle    cose   e   ritirarsene   (1),    determinando   in (1)  La  grandezza  che  è  in  noi,  dice  a  102  e,  quando  viene  il  suo contrario,  si  deve  credere  o  ohe  fugge  e  si  rilira,  o  che  perisce.  Vedi pure  lOB  a  e  104  e.  Platone  non  fa  due  ipotesi,  non  intende  dire, cioè,  che  alla  grandezza  che  è  in  noi  deve  avvenire  o  l'una  o  l'ai- 71  — esse,  per  questa  veauta  e  questo  ritiro,  V  apparizione e  la  disparizione  degli^  attributi  corrispoiidenii.  Queste proposizioni  evidentemente  non  potrebbero  essere  prese alla  lettera,  perchè  cosi  le  Idee  si  sottoporrebbero  alle condizioni  dell'esistenza  nello  spazio,  del  mutamento,  ecc., condizioni  che,  secondo  Piatone,  noa  competono  che  al fenomeno  :  esse  non  sono  che  1'  espressione,  sotto  una forma  sensibile,  del  concetto  sovrasensibile  della  parteci- pazione e  della  parusia,  cioè  della  dottrina  che  gli  attri- buti omonimi  di  t  it  i  gii  esseri  non  sono  in  sostanza  che una  ì-ola  entità,  un  solo  Attributo,  uno  e  lo  stesso  in  tutt'. A  (jueste  rappresentazioni  m^ter-'ali  (^el  rapporto  tra le  cose  e  le  Idee  dobbiamo  ug^inogere  la  descrizione simbolica  della  formazirne  dell' anima  nel  Timeo.  Ivi Platone  racconta  che  il  Demiurgo  compose  l'anima— no- tiamo, l'anima  cosa,  non  l'anima  Idea—,  mescolando  in una  calda'a  V essenza  inditnsibile  e  sempre  la  stessa  con Vessenza  che  diviene  divisibile  circa   i  corpi,   e   facendo tra  di  queste  du3  cose,  porche  ciò  non  avrebbe  alcun  senso:  ma vuol  dire  che,  quando  una  cosa  cassa  di  essera  grande,  questa  per- dila dalla  grandezza  può  considerarsi  sotto  due  punti  di  vista,  cioè sia  coma  una  cassazione  dall'e^iistenza  di  quest'attributo,  sia  come la  cas-^aziane  della  parusia  dell' Idaa  corrispondente  a  quest'  attri- buto. In  quanto  la  grandezza  che  è  in  una  cosa  si  considera  co- me t't'trìmeaoj  cioè  come  individualizzata  e  distinta  dalla  grandez- za che  è  nelle  altre  cose,  esija  perisce  :  ma  in  quanto  si  considera, nella  sua  ffisenza  ruale^  cioè  cjme  la  grandezza  una  e  la  stessa  che è  in  tutta  le  cosa  grandi,  essa  non  perisce,  ma  cessa  soltanto  la  sua parusia  nella  cosa.  Quest'interpretazione  è  confermata  dall'auto- rità d'Aristotile,  il  quale  dica  ^  Ih'  fimcrat.  1.  II,  IX,  5)  ohe  nel  Fe- done le  Idee  si  considerano  come  causa  etlioienti,  perchè  le  cose si  fanno  nascerò  per  la  receziona  (nsx5tXYj'];tv)  della  Idee  e  perire  per la  loro  sottrazione  (  dcTio^oXVjV)  :  quest'ultima  indicazione  non  può alludere  che  ai  luoghi  citati. anche  entrare  nella  mesc(  lanza  la  natura  dello  stesso e  quella  del  diverso  {Tim,  35  ab,  41  d).  Che  cosa  si debba  intendere  precisamente  per  queste  entità  di  cui  il Demiurgo  compose  l'anima,  è  controverso.  Io  intendo: per  Vessenza  indivisibile  esemjire  la  stessa  l'Idea  de' l'anima; per  Vessenza  che  diviene  divisibile  circa  i  corpi  la  inate- teria,  di  cui  Pia  one  -ncU'ultima  for^na  del  suo  sistema — fa  un  elemento  delle  cose  distinto  dalle  Idee;  per  lo stesso  e  il  diverso  le  due  entità  ch^^.  egli  -  sempre  nell'ul- tima fjnna  del  suo  sistema,  iu  cui  .^i  avvicina  ai  Pita- gorici—riguarda, l'uoa  come  la  forma  comune  di  tutte le  Idee,  e  per  con^e^uonzianijhe  delle,  c^se,  l'altra  coni'*, la  materia  tanto  delle  Id'C  quanto  delle  cose,  e  che chiama  pure  finito  e  infinito,  essere  e  non  es-ere,  bene e  male,  uno  e  dualità  indefinita,  eguale  e  ineguale, ecc.  (l). Ma  che  si  ammetta  questa  interpretazione  o  un'altra, è,  per  la  (jaistione  presento,  un  punto  d'un'importanza secondaria;  perchè  le  diverse  interpretazioni  si  accordano sul  pun  o  più  importante,  cioè  che  alcuni  degli  elementi, di  cui  Platone  compone  l'anima,  sono  Idee.  Ora  l'anima della  cui  composizione  egli  p  ria,  è  uni  cosa  :  dunque bisogna  anche  ammettere  che  il  rapporto  tua  le  Idee  e le  cose  è  quello  che  vi  ha  tra  gli  elementi  e  il  loro  co  n posto,  ciò  che  è  raffVrmazione  più  en^rg  ca  deiriinina- nenzi  delle  I  Ice.  La  più  parte  degl' iuter[»reti  t-a  ayn- deiitnlisti,  s(5  non  tutti,  non  accorderebbero,  è  vero,  eh  », l'anima  è  per  Plafone  una  cosa,  cioè  una  SMnpliee  realtà fenomenale  :  essi  ammettono  invece  che  l'anima  fa  parte della  classe  delle  entità    matemat'che,    che    Platone   di- ci) V.  per  quest'interpretazione  Suppl.  C,  TV,  A. -  72  — stingaeva,  nel  periodo  pitagoreggiante,  dalle  Idee  pro- priamente dette  0  Duroeri  ideali,  e  che  venivano  chia- mate entità  intermediarie  (tra  le  Idee  eie  co ie);  e  danno della  composzioue  delTanima  nel  T/meo  questa  interpre- tazione, che  Platone  la  compone  delle  Idee  e  dell'ele- mento sensibile  o  della  materia,  f  erchò  essa  è  per  lui d'una  natura  intermediaria  fra  le  Idee  e  le  cose.  None qui  il  luogo  di  discutere  questa  identificazione  deiranima ad  un'entità  matematica  :  qui  basterà  di  osservare  che essa  lascia  intatta  la  contraddizione  che  vi  ha  tra  la interpretazione  trascendentalista  delle  Idee  e  la  compo- sizione dell'anima  nel  Timeo,  In  effetto,  secondo  l'inter- prete trascendentalista,  le  Idee  devono  essere  trascen- dent',  tanto  di  fronte  alle  cose,  quando  di  fronte  aUe  en- t'tà  matematiche  o  intermediari^».  Tutte  le  deterniina- zìoni  che  Platone  o  Aristotile  attribuiscono  alle  I<le^,  di essere  delle  sostanze,  di  essere  cia^'cuna  aOiò  xaB'aOxó, di  essere  x^P-^'c*  o  xs^^ptaiaéva  (separabili  o  separate), ecc.,  che  provano,  secondo  l'interprete  trascendentalista, che  le  Idee  sono  fuori  delle  cose,  prov* Tribberò  ugual- mente che  e^se  sono  fuori  delle  entità  intermediarie.  Per conseguenza  1  interprete  trascendentalista  è  costretto  in quest'alternativa  :  o  di  ammettere  che  le  Idee  sono  im- manenti nelle  entità  intcrmedia-ie,  e  allora  si  avrà  Tin- congrueuza  che  le  ste-jse  determinazioni  significh**ranno ora  la  trascendenza  delle  Idee  e  ora  la  loro  immanenza; o  di  ammettere  che  le  Idee  sono  fuori  delle  entità  inter- mediarie, e  allora  gli  elementi  di  cui  l'anima  è  compo- sta saranno  fuori  dell'anima. L' identificazione,  che  noi  abbiamo  fatto,  tra  la  me- teFsi  e  la  parusia  sembra  contraria  a  un  luogo  del  Fe- done (100  d),  di  cui  non  dobbiamo  tralasciare  di  occu- parci, tanto  più  che  gl'interpreti  trascendentalisti  vi  ve- dono una  prova  della  loro  interpretazione.  Ivi    Socrate, dopo  avere  stabilito  che  vi  ha  un  bello,  un  buono,  un grande  ecc.,  per  se  stesso,  e  che  una  cosa  è  bella  per- chè partecipa  ([lexéxei)  di  quel  bello,  dice  :  <  Dunque  io non  comprendo  più  né  potrei  comprendere  queste  spie- gazioni sapienti  (alxia;  ao^ot^)  che  ci  si  danno  :  ma  se alcuno  mi  dice  che  una  cosa  è  bella  a  causa  dei  suoi colorì  vivi  o  della  sua  forma  o  di  altre  proprietà  simili, io  lascio  andare  tutte  queste  ragioni  che  non  fanno  che turbarmi,  e  dico  a  me  stesso  semplicemente  e  senz'arte, fors'anche  troppo  semplicemente  (tacog  sOi^eoog)  che  non altro  fa  bella  una  cosa  se  non  il  bello,  per  la  sua  pre- senza (r.apo'ja{a)  o  per  la  sua  partecipazione  (xoivoovCa)  o in  qualunque  modo  esso  sopravvenga  (TipoaytYvsTai);  che su  questo  non  voglio  affermare  niente,  ma  ciò  che  so- stengo è  che  tutte  le  cose  belle  sono  belle  per  il  bello. Questa  mi  pare  la  risposta  più  sicura  per  me  e  per  ogni altro,  e  appoggiandomi  su  questa  base,  penso  di  non cader  mai,  ma  di  poter  rispondere  sicuramente,  io  e chiunque  altro,  che  le  cose  belle  sono  belle  perii  bello  ». Gl'interpreti  trascendentalisti  vedono  in  queste  parole  la prova  che  Platone  non  determinò  mai  esattamente  il  rappor- to tra  le  cose  e  le  Idee,  perchè  essi  le  intendono  come  se la  Tiapo'jota,  la  xoivwvfa  e  le  altre  espressioni  di  cui  egli  suole 8»*rvirsi  per  indicare  questo  rapporto,  significassero  delle ip  itesi  dift'erenti  che  possono  farsi  su  di  esso,  e  l'autore confessasse  che  egli  era  incerto  a  quale  di  queste  ipotesi sì  dovesse  dare  la  preferenza.  Ma  contro  questa  inter- pretazione sta  il  fatto  evidente  che  tutte  le  volte  che Platone  allude  alla  metessi  o  alla  parusia,  egli  non  ne parla  come  di  semplici  ipotesi,  ma  il  suo  linguaggio  è intcamente  aftermativo.  E  per  vederlo,  non  è  necessario di  uscire  dallo  stesso  Fedone.  Nella  dimostrazione  del- l'immortalità dell'anima  che  noi  abbiamo  citato— vale  a dire  un  po'  più  giù  del  luogo  di  cui  si  tratta— la  parusia -  73  - è  espressa  della  maniera  più  energica,  e,  certo,  non  in un  modo  dubitativo;  e  nel  luogo  smesso  di  cui  si  tratta la  parola  npoo^iy^^zai^  la  quale  esprime  evidentemente la  parusia,  deve  valere  per  tutti  i  casi,  qualunque  sia il  nome  che  si  debba  dare  al  rapporto  delle  Idee  con  le cose.  Della  metessì  si  parla  immediatamente  prima  e  un poco  dopo  di  questo  luogo  stesso  (100  e,  101  e)— due  luo- ghi strettamente  connessi  con  esso —,  e  se  ne  parla  d'u- na maniera  egualmente  categorica.  In  quanto  allaxoivowia, essa  è  per  Platone,  come  si  vede  abbfl stanza  da  alcuni dei  luoghi  citati,  un  perfetto  sinonimo  della  «jiiGsgic. Ma  se  la  7iapo*jaia,  la  xoivcovCa,  la  [léGsSi?;  non  sono delle  ipotesi  differenti  sul  rapporto  delle  Idee  ron  le  cose, qual  è  allora  il  senso  del  luogo  di  cui  parliamo  V  Queste parole  e  tutte  le  altro  espressonì  di  cui  Platon^  si  s  rve per  indicare  il  rapporto  tra  le  cose  e  le  Idee,  hignificano lo  stesser  concetto,  ma  nessuna  di  esse  lo  esprime  d'una maniera  adequata.  E  che  questo  rapporto  essendo  una cosa  unica  nel  suo  genere,  non  vi  ha,  come  abb'amo  già detto,  alcuna  parola  che  possa  esprimerlo.  Ciò  che  vi  ha sovratutto  d'inesprimibile  è  naturalmente  il  carattere  di questo  rapporto  che  è  la  ccusa  principale  dell'  oscurit\ del  sistema  delle  Idee,  vale  a  dire  l'es'stenza  s'muUanea dell'  uno  nei  molti.  Questo  carattere  essendo  nec  ssa- riamente  assente  da  tutti  i  fatti  osservabili  o  semplice- mente rappresentabili,  che  le  parole  7:apot>a£a,  iiéOsgi?,  xoi- vcDvCot,  ecc.  potevano  evocare  all'  in  maginazioce,  ciò  ba stava  perchè  queste  parole  fosseio  giudicate  impossenti ad  esprimere  la  relazione  tra  le  cose  e  le  Id(e.  La  pa- rusia ha  il  vantaggio  di  esprimere  del^a  maniera  [nù  e-nergica  l'inesistenza  delle  Idee  nelle  cose;  ma  non  im- plica, anzi  esclude,  l'esistenza  simultanea  di  una  stessa Idea  in  molte  cose,  perchè  la  presenza  di  una  cosa  in un  luogo  — che  è  il  fatto  rappresentabile  corrispondente alla  parola  parusia — circoscrive  l'esistenza  di  questa  cosa nei  limiti  di  questo  luogo  particolare.  La  [léGegig  e  la xoivwvCa  hanno  sulla  Tiapouota  il  vantaggio  di  esprimere che  una  stessa  Idea  è  comune  a  molte  cose  :  ma  i  fatti rappresentabili  significati  da  queste  parole  si  distinguono dal  rapporto  delle  cose  con  le  Idee,  perchè,  quando  più erse  partecipano  r»d  una  sola,  é  necesFario  che  questa  si divida  in  più  parti,  o,  se  resta  indivisa,  è  impossibile  che la  cosa  partecipata  entri  a  far  parte  della  sostanza  delle cose  partecipanti,  come  l'Idea  delle  cose.  Platone  non dice  dunque,  nel  luogo  di  cui  parliamo,  che  la  TiapouaCa, la  xoiv(!)v{a,  ecc.  sono  delle  ipotesi  diverse  che  possono farsi  sul  rapporto  tra  le  Idee  e  le  cose,  e  che  egli  non intende  affermare  categoricamente  nessuna  di  queste  ipo- tesi ;  ma  che  il  rapporto  fra  le  cose  e  le  Idee  potrebbe in  certo  modo  classarsi  tra  gli  uni  o  gli  altri  di  quelli  che i  Greci  indicano  con  le  parole  TiapouaCa,  xoivwvta,  ecc., ma  egli  non  intende  affermare  che  esso  debba  classarsi tja  gli  uni  o  gli  altri,  per  la  semplice  ragione  che  que- ste classazioni  sono  tutte  inesatte.  Che  que.Nto  rapporto, qualunque  sia  il  nome  con  cui  si  debba  chiamarlo,  sia un  rapporto  d'immanenza,  è  del  resto  ciò  di  che  il  no- stro luogo  porta  in  se  stesso  delle  prove  sufficienti.  Il Bello  deve  essere  causa  della  beltà  delle  cose  belle  nei senso  stesso  in  cui  lo  sono  le  altre  cause  sapienti  che Platone  non  approva  e  a  cui  viene  messo  in  opposizione, vale  a  dire  i  colori  vivaci,  la  forma,  ecc.  ;  ma  queste  non sono  delle  cause  esteriori,  ma  delle  proprietà  delle  cose che  fanno  si  che  si  dia  ad  esse  il  predicato  bello  :  dun- que il  Bello,  dovendo  essere  una  causa  della  stessa  na- tura, non  può  essere  una  causa  esteriore  alle  cose  belle, ma  una  proprietà  di  queste  cose. Un'altra  prova  evidente  dell'immanenza  é  l'opposizione che  Plalone  stabilisce  tra  le  spiegazioni  che  egli  non  ap- -  74  - I I prova  e  quella  che  egli  prorone:  le  prime  sono  delle  spie- gazioni sapienti  ;  la  sua  è  una  spiegazione  sicura,  con cui  non  si  rischia  di  ingannarsi,  ma  semplice,  senz'arte e   quasi  quasi  un'ingenuità.  La  stessa  opposizione  è  ri- petuta un  po'  più  giù,  101  e,  dove  dice:  «  Ma  che?  j-e si  aggiunge  uno  ad  uno,  non  avrai  timore  di  dire  che è  l'addizione  la  causa  di  divenire  due,  o  che  questa  cau  a è  la  divisione  se  1'  uno  si  divide  in  due?  e  ron  dichia- rerai altamente  che  tu  non  conosci  altro  modo  con   cui una  cosa  si  produca  che  partecipando  (iiexaoxóv)  al'a  es- senza   a    lei   propria,    della   quale   partecipa   (jisxdoxr^), e  che  per  conseguenza  tu  non  sai  altra  causa  di   dive- nire due,  che  la    partecipazione  disxdoxsaiv)   della  dua- lità, e  che  è  necessario  che  partecipi  (iisxaoxsìv)  di  essa tutto  ciò  che  diviene  due,  come  dell'unità   tut  o  ciò  che diviene  uno?  non  abbandrnerai  le  addizion*,  le  divisioni e  le  altre  sott-gliezze  di  questo  geuerr,  lasciandt>le  a  dei più  sapienti  di  te?  per  te,  temendo,  come  suol  dirsi,  la tua^ombra  e  la  tua  ignoranza,  non  risponderai  co.-ì,  con- tentandoti della  ipotesi  sicura  che  abbiamo  stabilita  ?  j> Sulla  stessa  idea  m*  ritorna  a  105  b-c  :  ivi  Socrate,  do- mandando a  Cebet^  qual  è  la  cosa,  che  quando  sovrag- giunge a  un  oggetto,  questo  si  liscalda,  dice  a  costui che  non  deve  rispondergli  con  quello  stesso  che  egli  do- manda, non  deve  dargli  quella  risposta  sicura,  ma  igno- rante, stabilita  al  princip'o,  cioè  che  questa   cosa   è   il caldo,  ma  una  risposta  più  dotta,  cioè  che  è  il  fuoco.  Ora Platone  non  potrebbe  parlare  cosi,  se  ìe  cose  belle  sono belle  per  il  bello  volesse  dire  ehe   esse  sono  tali  pò: che sono  state  fatto  ad  imitazione  dell'Idea  trascendent<3  del bello,  perchè  questa  spiegazione  sarebbe  più  ric^rcat»,  o come  dice  Platone,  più  sapiente  di    qualsiasi    altra  :    le parole  di  Platone  al  contrario  sono  naturalissime,  se   la Idea  è  un  attributo  delle  cose,  perchè  in  questo  caso  la spiegazione  ha  tutta  Tarla  di  essere  una  mera  tautolo- gia, somigliando,  come  abbiamo  detto,  a  quella  del  me- dico di  Molière  che  l'oppio  fa  dormire  perchè  ha  la  virtù dormiti  va. E  qui  il  luogo  di  parlare  dì  un  epiteto  che  Aristotile dà  alle  Idee  platoniche,  e  in  cui  gl'interpreti  trascen-dentalisti vedono  una  delle  prove  più  forti  della  loro  in- terpetazi  «no.  Quest'  epiteto  è  x^ptaxó^  (separabile  o  se- parato), e  Aristotile  Io  dà  alle  Idee  per  indicare  il  loro rapporto  sia  con  le  cose  sia  tra  di  loro.  Quantunque  noi non  troviamo  questa  parola  negli  scritti  platonici,  tutta- via l'uso  frequente  che  ne  fa  Aristotile,  quando  parla delle  Idee,  non  lascia  pressocchè  alcun  dubbio  che  si tratti  di  un'espressione  platonica,  tanto  più  che  in  certi casi  jn  cui  egli  Tusa  (1),  ha  tutta  l'aria  di  riprodurre  le proposizioni  di  Platone  o  dei  platonici  con  le  loro  pro- prie espressioni.  Gl'interpreti  trascendentalisti  intendono per  questa  parola  che  le  Idee  sono  separate  dalle  cose e  ciascuna  da  ciascun'altra  :  ma  noi  dobbiamo  cercare per  essa  un  signiiìcato  che  non  sia  in  contraddizione  coi risultati  evidenti  a  cui  conduce  sulla  quistione  dell' im- manenza o  trascendenza  dello  Idee  V  esame  imparziale degli  scritti  platonici.  Noi  cerchiamo,  ben  inteso,  non  il significato  che  Aristotile  dà  alla  parola  —  ciò  riguarda direttamente,  non  la  dottrina  di  Platone,  ma  l'interpre- tazione aristotelica  di  questa  dottrina  —,  ma  quello  che esso  ha  potuto  avere  per  lo  stesso  Platone. Un  primo  dato  che  può  metterci  sulla  via  per  trovare qupsto  significato,  noi  lo  abbiamo  nel  luogo  della  Repub- blica, 523-524,  in  cui  Platone  distingue  le  percezioni  dei sensi  che  eccitano  l'intelligenza  alla  ricerca  e  quelle  che (1)  V.  p.  e.  Eth.  End.  1.  1,  Vili. ;f —  75  — non  lo  fanno.  Le  seconde  sono  quelle  che  non  inviluppano una  contrarietà  :  p.  e.  alla  vista  di  tre  dita,  Tintelligen^a non  è  obbligata  a  ricercare  cosa  sia  il  dito  ;  il  seoso  lo giudica  sufficientemeDtp,  perchè  ciò  che  apparisce  come dito  non  apparisce  al  tempo  stesso  come  il  contrario  del dito.  Le  prime  invece  inviluppano  qualche  contrarietà  : p.  e.  noi  non  possiamo  percepire  una  cosa  molle  che  non ci  sembra  al  tempo  stesso  dura,  una  cosa  grande  che  non ci  sembri  al  tempo  stesso  piccola,  e  viceversa.   Il  senso non  dichiara  che  la  cosa  sia  ciò  piuttosto  che  il  suo  cjn- trario,  e  la  stessa  percezione  viene  annunziata  alFanima come  percez'one  al  tempo  stesso  del  molle  e  del  duro, del  grande  e  del  piccolo,  ecc.    «  In  tali  cose,   continua Socrate,  l'anima  eccita  la  ragione  e  Tintelligenza  a  ri- cercare se  ciò  che  le  viene  Annunziato  sia  una  sola  cosa ovvero  due  -  Glaucome  :  E  come  no  ?  —  Sock.  E  se  ap- paiono due,  ciascuna  delle  d'ie  non   apparirà    differente ed  una  ?  -  Glauc.  :  Si  -  Socr.  :  Se  dunque  ciascuna  ap- pare  una  e  amendue  due,  queste  due  penserà  separate (xsxwptoiiéva)  :  se  le  pensasse  non  separate  (àxt&ptaxa),  non penserebbe  due  cose,  ma  una  sola  —  Gl.:  È   giusto  — Socr.  :  La  vista,  noi  diciamo,  vedeva  il  grande  e  il  pic- colo; ma  non  come  un  che  di  separato   (xexwpiafxévovì,  ma come  un  che  di    confuso  (o'jYxsxu|iévov).  Non  è  vero?  — Glauc.  :  Si— Socr.  :  Ma  per  rischiarare  ciò,  l'intelligenza è  costretta  a  vedere  il  grande  e  il  piccolo,  non   confusi (ooYxsxujisva),    ma   distinti  (ÒKop'.afxéva),  al  contrario  del senso-GLAUC.  :  È  vero-SrcR.  :  E  non  siamo  cosi  eccitati a  ricercare  cosa  sia  il  grande  e  cosa  sia  il  piccolo  ?-Gl.  : Certo-SocR.  :  Ed  è  pure  oo^i  che  abbiamo  distinto  l'in- telligibile dal  sens  bile-GL.  :  Giustamente.  »  Qui  cviden- temente  la  parola  xsx(opia|iévov  non  significa  che  il  grande e  il  piccolo  esistono  isolatamenle  l'uno  dall'altro  e  dalle cos<-,  ne  la  parola  àxwpioxov  il  contrario  di  questo  isola- mento  :  qui  non  si  tratta  di  altra  separazione  che  di  quella che  r  intelligenza  opera  nella  formazione  dei  concetti; separato  (xsxwptaiiévov)  vuol  dire  semplicemente  astratto, e  vedere  il  grande  e  il  piccolo  separati  (xsxwptajjiéva) vuol  dire  considerarli  in  astratto,  cioè  nei  loro  concetti^ del  resto  questo  grande  e  questo  piccolo  che  V  intelli- genza, cioè  l'astrazione,  vede  distinti  e  separati,  lungi di  essere  dogli  ogjyetti  trascendenti,  sono  quello  stesso grande  e  quello  stesso  piccolo  che  il  senso  vedeva  in- separati e  confusi  nella  percezione  degli  oggetti  concreti. Aristotile  usa  pure  spesso  le  parole  lopioxó^  e  xexw- pia[xévog  nel  senso  di  astratto^  e  x^p^^^siv  nel  senso  di  a- Htrarre,  Cosi  egli  dice  che  gli  oggetti  della  matematica, vale  a  dire  i  numeri  e  le  grandezze,  sono  per  il  pensiero Xwp'.axa  dal  movimento  (1);  che  il  matematico  x^pi^si  que- sti oggetti  (2);  che  li  pone  come  xsxo)pia|iéva  dagli  acci- denti (cioè  dagli  attributi  concomitanti  con  cui  esistono nelle  cose)  (^3);  o  semplicemente  che  li  apprende  o  li  con- templa come  xextópt<^|AÌva  (4)  o  come  x^ptaxcc  (5).  Simil- mente la  forma  (elSoaj  è  per  Aristotile  x^P^^'^^^v  secondo il  concetto  (6),  quantunque  non  lo  sia  nella  realtà;  e  cosi pure  la  materia  (7).  Il  senso  delia  parola  x^ptaióg  per Platone,  per  metterlo  d'accordo  coi  concetti  di  questo  fi- los-^'fo  che  nni  conosciamo  dalle  sue  proprie  opere,  deve essere  determinato  in  conformità  di  questi  dati;  e  allora noi  otteniamo  per  questa  parola   un   significato    presso- (1)  Phis,  1.  II,  II,  3. (2)  Ihid. (iJ)  MeL  1.  XIII,  III,  8,  9. (4)  De  an,  1.  Ili,  VII,  7. (5)  Met.  1.  VI,  I,  5. (6)  Phys.  1.  II,  I,  12,  Met.  1.  V,  VIII,  5,  1.  Vili,  I,  6,  ecc. (7)  JJe  Geu.  1.  I,  V.  G. —  76  — :jt,  "V- che  identico  a  quello  dell'espressione  aOxè  xaO'aOtó.  Xto- pioTÓg— che  noi  dobbiamo  tradarre  non  per  separato,  ma per  separaò/7e~.8ignifica  che  ciascuna  Idea,  cioè  ciascun attributo,  a  cui  questo  nome  viene  applicato,  può  isolarsi, per  il  pensiero,  da  tutti  gli  altri    attributi    con   cui  esso coesiste  nelle  cose,  e  che,  concepito  in  questo  isolamento, è  ancora  una  realtà,  perchè,  essendo  una  sostanza  e  non semplicemente  un  attributo,  la  sua  esistenza  è  indipen- dente  dall'esistenza  degli  altri  e  da  quella  delle  cose  in cui  coesiste  con  gli  altri.  Lldea  ò  detta  separabile  dalle cose  e  dalle  altre  Idee— e  dalla  materia,  che,  nell'ultima forma  del  sistema  platonico,  è  un    elementi  delle   cose distinto    dalle   Idee  (l)-come  iu  un  oggetto  materiale una  parte  si  dice  separabile  dal  tutto  e  dalle  altre  parti con  cui  forma  questo  tutto  ;  c'oè  perchè  avendo  un'esi- stenza propria  e  distinta,  il  pensiero  può  rappresentar- sela  come  separata,  quantunque  in  fatto  non  lo  sia.  An- che secondo  il   concettualista   noi    possiamo  rappresen- tarci ciascun    attributo  separatamente  dagli  altri,  stac- candolo per  il  pensiero  dai  tutti  concreti  nei  quali  coe- siste con  essi:  ma  il   concettualsmo   non   ammette   che gli  attributi  esistano  nel   tutto   concreto  di   cui  sono  le parti  concettuali,  di  un'esistenza  propria  e  distinta  come vi  esistono  le  parti   materiali.  Per    conseguenza  il  con- cettualista Aristotile  non  può  attribuire  all'sleos  il  nome Xcoptaxóv  senza  fare    delle   riserve:  è    che   questo    nome non  gli  conviene  propriamente  che  nel    sistema  realista di  Platone,  perchè  dire  uoa  cosa  separabile  importa,  non solo  che  essa  può  essere  concepita  separatamente,  ma  che può  essere  concepita  separatamente  come  reale. Delredto,  quantunque  il  termine  xop'.axós,  applicato  alle (1)  V.  Supplem.  C. entità  platoniche,  implichi  spesso,  nell'uso  che  ne  fa Aristotile,  la  separaz-ofie  di  queste  entità  nel  senso  del l'interpretazione  trascendentalista  —  per  la  ragione  che egli  n'n  può  concepire  che  ciò  che  è  una  sostanza  sia al  tempo  stesso  un  attributo  e  un  attributo  comune  a molte  cose-,  pure  non  mancano  nello  stesso  Aristotile degli  esempi  che  confermano  che  il  senso  del  termine per  Platone  è  quello  che  noi  abbiamo  detto.  Cosi  egli chiama  xwpiaxóv  lo  spazio  che  secondo  i  Platonici  costi- tuisce la  materia  dei  corpi  e  non  esiste  altrove  che  nei corpi  stessi  (1),  e  dice  (2)  che  Platone  nel  Timeo  non ha  spiegato  se  ciò  che  riceve  tutto  (xò  TravSsxé?:)  si  separi (XwpiCisxa'.)  dagli  elementi  (il  ^xavesxés  a  cui  allude  Ari- stotile è  la  materia  <iuale  viene  rappresentata  nel  Timeo 50  a-c,  in  cui  Platone  la  det'^rmina  d'una  maniera  che l'avvicina  al'a  materia  aristotelica,  e  sembra  per  conse- guenza farne  un  principio  distinto  dallo  spazio).  Siccome la  materia  platonica  è  certamente  un  principio  imma- nente, cosi  in  questi  casi  non  può  trattarsi  di  una  sepa- razione rea'e,  nel  senso  trascendentalista,  ma  di  questa separabilità  ideale  che  nel  sistema  realista  compete  al- l'astratto, quantunque  questo  sistema  non  lo  consideri che  come  un  elemento  del  concreto.  Xwpiaxóv  è  chiamato pure  da  Aristotile  V infinito  che  secondo  Platone  è  la materia  tanto  delle  cose  quanto  delle  Idee  (p.  e.  :  in MeL  1.  XI.  X.  2)  ;  ed  anche  questa  è  senza  dubbio  una entità  immanente,  come  lo  stesso  Aristotile  attesta  nei termini  più  chiari  nella  Fhys.  1.  III.  IV.  2,  in  cui  dice che  per  Platone  T infinito  è  nelle  cos3  sensibili  e  nelle Idee  (3). (1)  Phys.  1.  rV,  VII,  3. (2)  De  general,  l.  II,  I,  3. (8)  V.  pare  il  nanxero  seguente. -77  — Il  senso  che  noi   diamo   alla   parola   x^P'-oxo^   risulta anche  nettamente  dalla  Met.  ìrXlV.  V.  3:  ivi   Aristo- tile  domanda   come    il    numero    venga    dagli   elementi (rUno  e  la  Dualità  indefinita);  sesia  per  la  mescolanza (l^'-È'-s)  o  per  la  composizione  (aùvOsais)  di  questi  elementi. Nel  primo  caso,  egli  obbietta,  l'uno  non  sarebbe  xwptaióv. Qui  xwp'.oTÓv  non  deve  intendersi  nel   senso  trascenden- talista, perchè  allora  l'obbiezione  sussisterebbe  anche  nel- l'ipotesi  che  il  numero  venisse  dagli  elementi  per  com- pos'zione;  mentre  per   Aristotile   essa   non   sussiste  che nell'ipotesi  in  cui  esso  ne  viene  per  mescolanza.  Il  senso dell'obbiezione  d'Aristotile  è  che  nella   mescolanza   gli elementi  non  conservano  un'esistenza  propria  e  distinU come  nella  composizione,  perchè  il  proprio  della  mesco- lanza (fiig-)  è  l'annullamento   delle  sostanze   mescolate come  sostanze  distinte  e  la  sostiiuzione   ad  is^e  di  una nuova  sostanza;  per  conseguenza  se  il    numiro  venisse dalla  mescolanza  dell'Uno  e  della  Dualità  indefinita,  que- sti elementi  non  potrebbero  esistere  nel  numero  di  una esistenza  propria  e  distinta  come  vuole  Platone.  Aggiun- gerò  infine  che  in  Met,  1.  VII.  XIV.  2,  facendo  duo  ipo- tesi sul  rapporto  tra  le  Idee  generi.rhe  e  le  specifiche,  di cui  l'una  è  che  l'Idea   generica  esista,  numerica  nente una  e  la  stessa,  in  ciascuna  delle  Idee  specifiche,  applica a  quella   il  termine   x^P'-^xó^   (tanto   riguardo  a    (queste quanto    riguardo  agV  individui)  in  quest'  ipotesi    stessa, che  è  evidentemente  quella  dell'immanenza. L'uso  che  Aristotile  e  Platone  stesso  nel  luogo  citato deUa  Repubblica  fanno  del  verbo  x^p^^stv  edeisuoi'derivati,ci  autorizza  a  supporre  che  questo  verbo  era  un  termine tecnico  di  cui  Platone  si  serviva  per  denotare  quest'ope- razione  del  pensiero  che  noi  chiamiamo  astrarre,  con  que- sta differenza,  beninteso,  che,  mentre  per  noi  l'astrazione è  un  artifizio  puramente  subbiettivo  che  non   ha  alcun ìli riscontro  nella  realtà,  al  contrario  per  Platone,  come  pertutti  i  filosofi  r**fl listi,  essa  è  l'organo  per  cui  lo  spirito apprende  la  real'à  vera,  e  quindi  l'operazione  doveva  in- cludere, per  Platone  un  momento  di  più  che  per  noi,  vale a  dire  l'afiVrmaz'onc  dell'esistenza  indipendente  dell'og- getto  che  ne  era  il  risultato.  E  certo  almeno  che  Pla- tone usa  in  questo  senso  delle  espressioni  analoghe,  p.  e. à^aipsìv  (l'Idea  del  bene  da  tutte  le  altre)  (1),  à^opi^sLv  (2), ecc.  Quest'uso  della  parola  x^'^P-Jstv  spiegherebbe  perfet- tamente quello  di  x^pt-aióg,  che  significherebbe,  secondo la  sua  etimologia,  astraibile  o  astratto,  implicando  natu- ralmente nel  senso  di  queste  parole  l'idea  dell'esistenza per  sé,  che  secondo  noi  è  agli  antipoii  dell'  astrazione, ma  secondo  Platone  ne  era  inseparabile. Oltre  all'ep'teto  di  xwp'-axóg,  Aristotile  dà  alle  entità platoniche  quello  di  xsxwpiajiévos  (che  però  non  usa  cosi spesso  come  il  primo).  Sul  senso  di  questa  parola  biso- gna fare  una  distinzione:  l'sl^os  può  es<=»ere  detto  o  y.Byoy- p\.Gliv^o'^  seniplicemente,  o  xsxwpiajiévov  dalle  cose  sensibili, dagli  esseri,  ecc.  Il  primo  di  questi  due  casi  non  presenta alcuna  difficoltà:  nell'ipotesi  dell'immanenza,  cosi  bene che  in  quella  della  trascendenza,  ciascuna  Idea  è  sepa- rata dalle  altre  Tcioè  non  da  tutte,  ma  da  tutte  quelle  di cui  non  è  né  un  genere  né  una  specie)  e  dalla  materia, quantunque  unita  con  esse  negli  oggetti  concreti  in  cui essa  è  presente;  perchè  l'Idea  è  una  sostanza,  e  una  so- stanza esiste  in  se  stessa  e  al  di  fuori  delle  altre.  In  quanto al  secondo  caso,  xsxwp'.ajxévog  dalle  cose  potrebbe  signifi- care: che  è  stato  separato  j9er  il  jyensiero  dalle  cose;  e  in (1)  Rep,  534  b.  L'Idea  del  bene  è  l'sido;  degli  sl^r^»  e  perciò   si trova  in  tutte  le  Idee. (2)  Parmen.  133  b. ^78- '<"  ;  1  f questo  senso  l'espressione  si  applicherebbe  alle  Idee  consi- derate, non  assolutamente,  ma  in  relazione  all'operazione dello  spirito  che  noi  chiamiamo  astrarre^  e  che  Platone avrebbe  chiamato  xcopJJsiv.  Il  bello,  il  buono,  il  grande,  ecc. xsxwptojiéva  dalle  coj^e  vorrebbe  dire  il  bello,  il  buono,  il grande,  ecc.  concepiti  in  se  stessi,  cioè  quali  appariscono al  pensiero  dopo  che  questo  ha  isolato  ciascuno  di  essi dagli  altri  attributi  e  da  tutte  le  circostanze  particolari che  lo  accompagnano  negli  oggetti  concreti.  Ma  Aristo- tile applica  questa  e  simili  espressioni  alle  Idee,  consi- derandole evidentemente,  non  in  relazione  alToperazìone dello  spirito  per  cui  l'Idea  viene  appresa  in  se  stessa,  ma assolutamente:  p.  e.  egli  dice:  secondo  alcuni  le  entità matematiche  sono  xsxwpiaiJisva  dai  sensibili,  secondo  al- tri nei  sensibili  stessi  (1).  Quest'uso  della  parola  xsx^opt- o|jL£voc;  sembra  implicare  la  t'-ascendcnza  deMe  I  Ice,  ed  af- fettivamente Aristotile  la  impiega  in  questo  senso.  Ma siccome  non  vi  ha  alcuna  ragione  per  ammettere  che  le espressioni  d'Aristotile  siano  la  riproduzione  fedele  di quelle  di  Platone,  cosi  non  può  farsi  di  quest'uso  del'a parola  xsxwpiaiisvoj  un  argomento  diretto  a  favore  della trascendenza,  a  parte  quello,  certamente  grave,  ma  in- diretto, che  può  tirarsi  dall'autorità  d'Aristotile  come  in- terprete del  sistvima  platonico. VII.  Il  rapporto  tra  le  Ide3  generiche  e  le  Idee  spe- cifiche non  può  essere  che  identico  a  quello  tra  le  Idee e  le  cose:  se  il  primo  rapporto  è  d'immanenza,  il  secondo non  può  essere  di  trascendenza.  Ciò  risulta  prima  di  tutto dall'indole  stessa  della  teoria  delle  Idee.  Gli  stessi  mo- tivi che  Platone  aveva  per  ammettere  l'immanenza  dei Generi  nelle  Specie,  dovevano  anche  fargli  ammettere  la immanenza  delle  Specie  negl'individui  :  s'egli  riguardava i  Generi  come  inerenti  nelle  Specie,  ciò  non  poteva  es- sere che  per  questa  ragione  assai  semplice,  che  il  gene-rale non  si  trova  altrove  che  nel  particolare  ;  ma  per  la stessa  ragione  egli  doveva  riguardare  le  Specie  come  ine-renti negl'individui.  Dall'altra  parte,  tutte  le  inconcepi- bilità legate,  nella  dottrina  dell'immanenza,  alla  sostan- tificazione  degli  universali,  esistevano  egualmente,  tanto nel  rapporto  tra  le  Idee  e  le  cose  quanto  in  quello  tra le  Idee  generiche  e  le  Id^».  specifiche.  Se  Platone  avesse ammesso  la  trascendenza  delle  Idee  rispetto  alle  cose  pfr evitare  l'assurdità  che  una  sostanzi  inerisca  in  altre  so- stanze come  attributo,  che  l'uno  si  trovi  simultaneamente in  ciascuno  dei  molti,  ecc.  ;  per  gli  stessi  motivi  egli  a- vrcbbc  dovuto  ammettere  la  trascendenza  delle  Idee  dei generi  ri^^petto  alle  Idee  delle  specie.  Per  conseguenza tutte  le  determinazioni  delle  Idee,  che  all'interprete  tra- scendentalista sembrano  una  prova  della  separazione  delle Idee  dalle  cose,  proverebbe! o  pure  la  separazione  delle Idee  generali  dalle  Idee  più  particolari.  Se  i  termini  ov, oOata,  aOxò  %a(i'aOxó,  e  gli  altri  attribuiti  alle  Idee  per  in- dicare la  loro  sussistenza  per  s^  stesse,  significano,  nonsolo  che  l'Idea  è  una  sostanza,  ma  che  è  una  sostanza che  esiste  separatamente  da  ogni  altra;  l'Idea  sarà  sepa- rata tanto  dalle  cose  quanto  da  tutte  le  altre  Idee.  Se  il Xcopiaió;  e  il  x£x^'>?-^IJ'*voc;  d'  Aristotile  prov^ano  la  tra- scendenza dell'Idea  di  fronte  all'oggetto  riguardo  a  cui questi  termini  le  vengono  attribuiti,  essi  proveranno  la trascendenza  delle  Idee  gen'^riche  di  tronte  alle  Idee spe-ifiche,  j  eichè  Aristotile  li  attribuisce  alle  prime  a riguardo  delle  seconde  (1).  Se  quando  le  Idee  si  dicono (1)  V.  Met,  l.  Ili,   [,  15,  1.  Xni,  I.  4,J.  XIII,   IL 0)  V.  Klh.  End.  1.  I,  VllT,  y-10,  y[el.  1.  Ili,  III,  IB,  1.  VII,  XIV, 2,  XV,  6,  1.  X,  II,  2,  1.  XIII,  X,  6,  ecc. -  79   - i essere  :iapà  ì  sensibili,  noi  dobbiamo  intendere,  non solo  che  esse  sono  delle  sostanze  distinte  dalle  sensi- bili,  ma  ancora  che  esistono  al  di  fuori  di  queste  ;  bi- sogDerà  ammettere  pure  che  le  Idee  dei  gi  neri  sono  al di  lucri  delle  Idee  delle  Specie,  perchè  le  prime  hoio  dette essere  Tiapd  le  seconde  (Ij.  E  in  una  parola,  tutte  le  prove che  secondo  grinterpreti  trascendentalisti  dimostrano  la trascendenza  dille  Idee  di  fronte  allo  cose,  dimostrereb- bero egualmente  quella  delle  Idee  più  generali  di  fronte alle  Idee  p  ù  part  colarì,  perchè  queste  prove  si  riducono, jn  uliima  analisi,  alla  sostantificazione  delle  Idee  e  alla loro  dist'nzione  dall^*.  cose.  Ag^riungiamo  che  gli  stessi termini  e  le  stcss^,  formule  di  cui  Piatone  si  serve  per indicare  il  rapporto  tra  le  Idee  e  le  cose,  gli  servono  ugual- mente per  indicare  il  rapporto  tra  le  Idee  più  generigli  e  le Idee  più  particolari.  Cosi,  quando  Platone  chiama  la  gene- ralizzazione una  oDvaYcoYTp  cu  è  una  riduzione  del  multiplo liirunità;  quando  chiama  l'Idea  l'uno  nei  molti  ;  quando dice  che  Tuno  è  molti  e  i  molti  sono  uno;  quest'uno  di cui  ej^li  parla  è  tanto  l'Idea  rispetto  alle  cose,  quanto  la Idea  generica  rispetto  alle  Idee  spr cifiche,  e  i  molt»,  tanto le  cose  rispetto  all'Id^^a  quanto  le  Idee  specifiche  rispetto all'Idea  generica  (2j  :  ora,  la  relazione  che  Platone  sta- bilisce tra  TYino  e  i  molt',  non  può  nei  due  casi  essere difiFerenie.  Così  pure  la  p'irola  partecipare  —  cioè  le  pa- role gre. 'he  che  le  corrispondono  —  non  può  avere  due sensi  di  (ferenti,  quando  Piatone  dico  delle  cose  che  parte- cipano alle  Idee,  e  quanio  dice  delle  Idee  che  parteci- pano ad  à'tre  Idee  più  generali  (3). (1)  V.  Ari-;t.  Met.  1.  Ili,  III,  11,  1.  VII,  XIII,  6,  XV,  7, 1.  XIII, X,  6,  FJth.  lùid.  l.  I,  Vili,  9,  Plato.  Sof.  250  b,  eco. (2)  V.  niim.  V. (3)  V.  num.  precedente. Segue  da  ciò  che  abbiamo  detto  che  ciò  che  prova immediatamente  l'immanenza  delle  Idee  più  generali  nelle Idee  più  part'colari,  prova  anche  mediatamente  l'imma- nenza delle  Idee  nelle  cose.  È  a  questi  clas?e  di  prove che  appartengono,  almene  in  parte,  alcune  di  quelle  espo- ste nei  numeri  precedenti  —  notevolmeilte  la  comunione dei  generi  del  Sofista,  l'identità  tra  l'uno  e  i  molti  del Fllebo,  la  .«-eneralizzazione  considerata*  come  una  ridu- zione del  multiplo  all'uno--:  le  prove  che  esp^rr^mo  nel presente  numero  appartengono  pure  alla  stessa  classe. Il  rapporto  fra  le  Idee  generali  e  le  Idee  particolari è  considerato  da  Platone  a  un  doppio  punto  di  vist*», corrispondente  al  doppio  punto  di  vista  sotto  cui  possono considerarsi  i  concetti,  (juello  dell'  estensione,  e  quello dell'  intensione. A  Considerando  i  concet*;i,  e  quindi  le  Idee,  che  non sono  se  non  i  concetti  realizzati,  al  punto  di  vista  del- Pestensione,  le  Idee  specifiche  sono  contenute  nelle  Idee generiche.  Questo  punto  dì  vista  è  naturalmente  quello della  dialettica,  poiché  la  dialettica  platonica  è  la  divi- sione del  genere  nelle  specie,  e  considera  quindi  il  ge- nere nella  sua  estensione. Siccome  nella  divisione  (diaipsT.;)  le  specie  sono  ri- guardate come  parti  del  genf^re,  e  l'oggetto  proprio  di questo  metodo  sono  esclusivamente  1^,  Id'e,  cosi  la  dia- lettica —  vale  a  dire  1'  uno  dei  due  elementi  costitutivi df  Ila  teoria  delle  Idee  —  ha  p«»r  bas^.  il  concetto  che  le Idee  specifiche  ^ono^Mr/ideiridea  generica.  Per  la  prova della  proposizione  che  l'oggetto  proprio  ed  esclusivo  della divisione  sono  le  Idee,  rimando  al  num.  IV  :  in  quanto alla  propos  zione  che  nf^lla  divisione  le  specie  sono  ri- guardate come  parti  del  genere,  sembrerà  una  puerilità di  credere  che  sia  necessario  di  prov<irla.  Tuttavia  sic- come può  esservi  (jualche  lettore  che  noa  abbia  alcuna -  80  — V nozione  della  dieresi  platonica,  e  questi  potrebbe  imma- ginare che  Platone  nelle  sue  dieresi  non  riguarda  le  spe- cie in  cui  il  genere  viene  diviso  come  parti  di  esso  —  ciò che  infatti  sarebbe  la  conseguenza  inevitabile  dell'  ipo- tesi della  trascendenza  —,  cosi  non  sarà  torse  inutile  di provare  coi  testi 'anche  questa  proposizione.  Perciò  ba- steranno i  due  luoghi  seguenti  : Polii,  2(]2  a  263  b  :  Lo  straniero  (riprovando  una  di- visione di  Socrate)  :  «  Non  separiamo  una  pi«*.cola  parte per  opporla  ad  altre  grandi  e  numerose,  né  prendiamo una  parte  soìza  la  specie,  ma  la  parte  abbia  al  tempo stesso  specie.  E  bello  di  separare  subito  da  tutto  il  resto ciò  che  si  cerca ma  vale  di  più  andare  dividendo  per metà,  e  meglio  cosi  scopriremo  le  Id'»e  ;   ora  è   ciò    che importa  sovratutto  in  ogni  ricerca — Socr.  :   Ma  come si  può  i atendere  più  chiaramente  che  la  parte  e  la  spe- cie non  sono  la  stes-^a  cosa,  ma  due  cos^  difieren^iV  — Lo    stran.:    Ottimo   fra    gli    uomini,   non    è   lieve   ciò che  mi  domandi Guardati  bene  però  di   pensare  di aver  udito  da  me  alcuna  cosa  determinata  intorno  a  que- sto —  Socr.  :  Intorno  a  che?  —  Lo  «tran.  :  Che  la  part^ e  la  specie  siano  due  cose  differenti  —  Socr.  :  Perchè?  — Lo  STRAN.  :  La  specie  v  necessarìament*^  una  parte  di  ciò di  cui  si  dice  che  è  una  specie,  ma  non  è  necessario  che una  parte  sia  al  tempo  stesso  una  specie.  Non  dimenti- care mai,  0  Socrate,  che  io  cerco  di  dividere  di  questa maniera  (cioè  par  parti  che  sono  specie)  anziché  delPal- tra  (cioè  per  semplici  parli)  ». Fedro  265  c-266  b  :  « Vi  hanno  due  cose  che  sarebbe interessante  che  un  uomo  abUe  potesse  trattare  con  arte. Prima,  di  ricondurre  ad  un'Idea  unica,  guardandolo  con una  veduta  comprensiva,  lutto  ciò  che  è  sparso  da  una parte  e  dall'altra e  poi  di  sapere  di  nuovo  dividere  per ispecie  come  per  altrettante  articolazioni    naturali,  cer- cando di  non  mutilare  alcuna  parte  come  farebbe  un  cat- tivo scalco.  Cosi  poco  fa  i  nostri  due  discorsi  (fatti  l'uno  in lode,  e  Paltro  in  biasimo  dell'amore)  hanno  cominciato  per prendere  la  specie  generale  del  delirio,  e  come  un  sol  corpo si  compone  di  membra  doppie,  chiamate  con  lo  stesso  nome, cioè  le  destre  e  le  sinistre,  similmente  essi  hanno  conside- rato il  delirio  come  una  specie  unica,  e  Puno,  dividendo  la parte  sin^'stra  e  suddividendola,  non  si  è  fermato  che  dopo aver  trovato  un  certo  sinistro  amore,  ch'esso  ha  colmato  di rimproveri  ben  meritati  ;  l'altro,  avendo  preso  la  destra del  delirio,  vi  ha  trovato  un  altro  amore,  simile  al  pri- mo di  nome,  ma  divino,  che  ha  colmato  di  lodi,  vantan- dolo come  l'autore  dei  più  grandi  beni.  Per  me,  o  Fe- dro, io  sono  amante  di  queste  divisioni  e  riunioni  (ao- vaY0)Yó5v),  per  essere  più  in  grado  di  ben  pensare  e  di  ben parlare;  e  se  credo  di  scorgere  in  alcuno  la  capacità  di guardare  all'uno  e  ai  molti,  io  seguo  le  sue  orme  come quelle  d'un  dio.  Quelli  che  hanno  questa  capacità,  dio  sa se  a  torto  o  a  ragione,  io  li  chiamo  sin  qui  dialettici  ». In  questi  luoghi  non  potrebbe  supporsi  che  Platone, mentre  riguarda  le  specie  come  parti  del  genere  diviso, dimentica  il  suo  principio  che  l'oggetto  a  cui  si  applica la  dieresi  sono  le  Idee  —  ciò  che  è  la  sola  risorsa  a  cui potrebbe  ricorrere  l' interprete  trascendentalista  per  ne- gare che  le  Idee  specifiche  siano  considerate  come  parti dell'  Idea  generica  —  Infatti  in  essi  è  affermato  esplicita- mente che  il  vero  oggetto  della  dieresi  sono  le  Idee  :  e oltre  di  ciò  la  supposizione  potrebbe  al  più  essere  am- missibile nei  casi  in  cui  questo  metodo  non  è  che  praticato; la  pratica,  potrebbe  dirsi  in  questi  casi,  non  corrisponde alla  teoria  ;  ma  nei  due  luoghi  citati  Platone  si  mette al  punto  di  vista  teorico,  dandone  nell'uno  delle  regole, e  nell'altro  inculcandolo  come  metodo  generale,  e  ciò  con un'enfasi  che  basterebbe  essa  sola  a  provare  che  egli  lo -81  ^ considera  nella  sua  applicazione  alle  Idee,  poiché  è  in quest'applicazione  che  esso  diviene  una  soluzione  del  pro- blema delle  cause,  efficienti,  e  acquista  perciò  il  pregio inestimabile  in  cui  è  tenuto  da  Platone. Del  resto,  oltre  alle  dieresi  e  ai  luoghi  relativi  a  que- sto metodo,  che  Tlatone  riguardi  le  Idee  sprcifiche  come parti  deir  Idea  generica,  risulta  anche  da  altri  luoghi, nei  quali  non  vi  ha  alcun  dubbio  che  le  specie  e  i  generi di  cui  si  tratta  sono  le  Ideo.  Cosi  nel  Sofista  257  c-2r)8  d  : «  La  ^ùgk;  del  diverso  mi  pare  essere  frazionata  (xaTa/.s- xspfxaxio^aO  come  la  scienza.  Questa  è  pure  una;  ma  cia- scuna parte  di  e^^sa,  riferendosi  a  un  soggetto  particolare, prende  un  nome  particolare;  e  perciò  vi  hanno  molte  arti e  molte  scienze  —  Senza  dubbio  —  Non  vale  la  stessa  cosa per  le  parti  (.uópia)  della  y-Jx^  del  diverso,  un->  in  Fé stessa  V  —  Forse,  ma  spiega  in  che  modo  —  Vi  ha  una parte  (iiópiov)  del  Diverso,  che  si  oppone  al  Bello  ?  —  Si  — Ha  qualche  nome  o  non  ne  ha  V  ~  Lo  ha  ;  perchè  ciò  che chiamiamo  non   bello  non  è  che  ciò  che  è  diverso  dalla cpóac;  del  bello  — Bisogna  porre  nel  numero  degli esseri  il  Non  hello  non  meno  che  il  Bello?  -  Non  meno  — E  bisogna  pure  dire  che  il  Non  grande  è  similmente  che il  OrandeV  — Similmente—  Dunque  anche  il  Non  giusto porremo  di  fronte  al  Giusto,  come  se  il  primo  non  esis  a meno  che  il  secondo  V  —  Certamente  —  E  lo  stesso  vale per  le  altre  cose,  poiché  noi  abbiamoo  visto  che  la  cpjot; del  diverso  è  nel  numero  d^gli  esseri;  e  ammettendo  che essa  è,  bisogna  anche  ammettere  che  le  sue  parti  (ixópiaj sono  — E  come  no  V  — Per  conseguenza  Topposizione  di una  parte  (jióp.o'j)  della  (f'jG.g  del  diverso  a  quella  dell'es- sere non  è  meno  un  essere  che  l'Essere  stesso;  e  signi- fica, non  il  contrario  di  questo,  ma  solamente  il  diverso  — Evidentemente  —  Come  la  chiameremo  V  —  È  chiaro  che è  il  Non  essere,  che  noi  cerca v^amo  pin-   causa  del  sofi- f1 sta Noi  abbiamo  non  solo  dimostrato  che  i  non  es- seri sono,  ma  spiegato  ancora  che  cosa  sia  la  specie  del non  essere;  poiché  avendo  provato  che  esiste  la  cpóots  del diverso,  e  che  si  trova  divisa  (xaTaxsxspiiaxtaiiévYjv)  in  tutti gli  esseri,  nella  loro  relazione  reciproca,  abbiamo  osato di  dire  che  la  parte  iiiòp\.o^)  di  essa,  opposta  a  ciascun  es- sere, è  realmente  il  Non  essere.  » Nel   7imeo  30  c-d  si  cerca  quale  sia  Tanimale  —  l'ani- male Idea,  non  "animale  cosa  —  a  somiglianza  del  quale il  mondo  è  stato  f'atto.  Quest'  animale,  dice  Timeo,  non può  essere  uno  (<i  quelli  che  sono  nel  genere  della  parte (jiico');  -—  cioè  che  sono  delle  parti),  perchè  ciò  che  è  fatto a  somiglianza  delT  imperfetto  non  può  essere  bello;  ma è  l'animale  <f  di  cui  tutti  gli  altri  animali,  presi  per  ge- neri e  per  individui  (cioè  ppr  ispecie,  perchè  gì'  individui di  cui  qui  si  tratta  sono  Idee),  sono  delle    parti  (jidpia). Esso  contiene  in  sé  (iv  éaoxò)  TispiXagòv  sxet)  tutti  gli  ani- mali intelligibili,  come  questo  mondo  contiene  noi  e  tutti gli  animali    visibili».  Per  conseguenza  (31  ab)  essendo fatto  sopra  un  tale  esemplare,  il  mondo  è  unico  :  «  poiché quello  che  contiene  (xò  Tispiexov)  tutti  gli  animali  intelligibili non  può  essere  un  secondo  con  un  altro;  perché  allora  esi- sterebbe necessariamente  un  altro  ancora,  di  cui  ciascuno dei  due  sarebbe  una  parte  (népo;),  e  il  mondo  sarebbe  stato fatto  a  somiglianza,  non  di  questi  due,  ma  di  quest'altro che  conterrebbe  (rwspié/ov)  tutti  e  due.  Affinché  dunque  que- sto mondo  fosse  simile  per  la  sua  unità  all'  animale  as- soluto (TiavTSAsì),  il  suo  autore  non  ne  ha  fatto  né  due  né un'  infinità,  iva  non  ha  prodotto  che  questo    solo  cielo, che  è  e  sarà  unico  ».  A  39  e  poi,  cominciando  a  narrare la  produzione  degli  animali,  Timeo  dice  che  il  mondo, in  quanto  al  resto,  somigliava  al  modello  alla  cui  imita- zione è  stato  fatto,  e  ma  non  racchiudendo  tutti  gli  ani- mali che  sono  nati  nel  suo  seno,  per  questa  ragione  era —  82  — ancora  dissimilt  ;  perciò  il  Demiurgo  aggìuDgcva  ciò  che gli  mancava,    riproducendo  la  natura  del    suo  modello. Per  conseguenza,  quali  e  quante   specie   V  intelligenza vede  inesistenti  rivo'iaa^)  in  ciò  che  e  animale  (xòi  '6  iaii ?;tr)ov),  tali  e  tante  h  labili  che  questo  mondo  dovesse  ri- ceverne». Quest'animale  assoluto  o  intero,  che  contiene tutti  gli  altri  animali  intelligibili  come   delle  parti,  non può  essere  che  l'Idea  generale    dell' animale.  In  effetti, quando  un  nome  si  riferisce  alle  Idee,  non  può  signifi- care nel  linguaggio  di  Platone  che  l' Idea   delle   cosr  a cui    questo    nome    appartiene.    Ciò  è  coul'ermato   inoltre dall'argomento  con  cui  Platone  dimostra  che  quest'ani- male ò  unico,  cioè  'he  se  ve  ne  fossero  due,  ve  ne  sa- rebbe anche  necessariamente  un  altro,  che  li  conterrebbe amendue,  e  sarebbe  questo  l'animale  assoluto.  Lo  stesso argomento  si  trova  nel'a  nep,  597  c-d  per  dimostrare  che non  |,uò  esistei  e  che  una  sola  Idea  del  letto;  e  sotto  una forma    generale    può  svilupparsi   cesi  :  per  tutti  i  molti compresi  sot.o  un  concetto  comune  vi  ha    un'  Idea  (ciò che  è  dimostrato  dalla  prova  per  l'esistenza  delle  Idee), e  non  può  esservene  che  una  sola,  poiché,  se  ve  ne  fos- sero di  più,  queste   farebbero  parto  dei  molti    compresi sotto  il  concetto  eoinuiu',  perciò  al  di  bopra  dì  questa  nini-' liplicità  bisognerebbe  cercare  aucora  un'unità,  e  sarebbe «iuella,  e  non  le  precedenti,  l'Idea  dei  molti    compresi sotto  ifconcetto  comune.  Infine  ciò  che  toglie  ogni  dubbio è  la  denominazione  di  o  sar.  ^coov,  perche  o  san  equivale, come  abbiamo  visto  (n.  II),  ad  aOxó,  e  significa  che  il  -lome acuì  si  aggiunge  viene  applicato  all'Idea  delle  cose  de- notato da  questo    nome.  Platone  può  riguardare  T  Idea dell'animale  come  l'esemplare  del  mondo,  perchè,  siccome egli  ammette  l'animazione  delle  piante,  della  terra  e  degli astri,  cosi  ogni  sostanza  è  per  lui  un  essere  animato  o almeno   una   parte  di  un   essere  animato  ;  e  per  conse- guenza, tutti  gli  oggetti  dei  nostri  concetti  essendo  con. U'uuti  nelle  sostanze,  le  Idee  degli  esseri  animati,  cioè le  parti  dell'  Idea  dell'animale,  esauriscono  in  un  certo modo  tutto  il  contenuto  del  mondo  ideale. La  relazione  di  tutto  e  parti  stabilita   tra  l' Idea  ge- nerale e  le  Idee  particolari  subordinate  presenta  una  dif- ficoltà. La  specie  è  certamente  uux  parte  del  genere,  se por  genere  e  per  ispecle  s'intende  la  collettività  degl'in- dividui  :  ma  V  Idea  non  «•  la  collettività   degl'  individui, ma  solamente  l'attributo  o  insieme  d'attributi  comune  a questa  collettività.  Ora  l'insieme  degli  attributi  specifici non  è  contenuto  come  una  parte  nell'insieme   degli   at- tributi generici.  Sembra  dunque  che  il  concetto  che  l'I- dea specifica  abbia  con  l'Idea  generica  la  relazione  della parte  col  tutto,  sia  incoaapatibile,  tanto  con  l'ipotesi  della trascendenza  delle  Idee,  quanto  con  quella  della  loro  im- manenza. Per  risolvere   questa  difficoltà   bisogna   ricor- darsi  della  formula  platonica  che  l'uno  è  i  molti  e  i  molti sono  Tuno,  e  della  sp'egazione  che  ne  abbiano  data  (V,  4^). Tra  l'uno  e  i  molti  —  cioè  tra  il  (ien^re  e  le  Specie,  tra la  Specie  e  gl'individui  —  vi  ha  una  relazione  che  è  al tempo  stesso  di  differenza  e  d'identità.  L'uno  e  i  molti, nell'ipotesi  dell'immanenza,  s'identificano  necessariamen- te, perchè  sono  la  stessa  co3a,  il  primo  in  astratto,  i  se- condi in  concreto;  quantun(|ue  al  tempo  stesso  si  distin- guano, perchè  l'astratto  e  il  concreto  non  sono  solamente due  punti  di  vista  subbiettivi   sotto    cui    la  stessa   cosa viene  considerata,  ma  due  gradi  o   momenti  successivi (logicamente)  dello  sviluppo  dell'essere,  che,  pur  con- servandosi identico  a  se  stesso,  passa  continuamente  — questa  è  la  vita  dellldea  —  da  uno  stato  più  astratto  o più  indeterminato  a  uno  stato  più  concreto  o  più  deter- minato. Questa  determinazione  o  concretizzazione  pro- gressiva dello  stesso  essere,  ammessa  necessariamente  in tutti  1  sistemi  che  realizzano  gli  universali,  nel  sistema -.83  — di  Platone,  per  la  maniera  in  cui  egli  concei)isce  la  d'a- Jettica,  cioè  il  metodo  di  dedurre  le  Idee  —  metodo  che non  è  altra  cosa,  in  Platone  come  negli  altri  metafisici realisti,  che  la  riproduzione  subbiettiva  di  questo  stesso processo  per  cui  Tessere  si  sviluppa  por  una  concretiz- zazione progressiva  —  è  al   tempo  stesso  una  divisione progressiva,  ciò  chs  nel  momento  anteriore,    più    inde- terminato, è  wno,  nel  momento  posteriore,   più  determi- nato, trovandosi  molti,  Platone  chiama  dunque  ciascuno dei  molti  una  parte  deir^mo,  poiché  i  molti   non   sono che  Vuno  stesso  che,  det'^rminandosi,  si   divìde.    Certa- mente questo  concetto  non  è  facile  a  comprendere,  «nzi, per  dire  la  cosa  com'è,  é  assolutauif^nte    inintelligibile; ma  è  la  conseguenza  inevitabile  de'la  reaMzzazione  de- gli universali.  Questa  conseguenza  però    non    ha   luogo che  quando  dell'universale  si  fa  un'entità   immanente, vale  a  dire  quando,  realizzanlos»,  esso  non  cessa  di  es- sere veramente  un  universale,  cioè  la  proprietà  cornine dei  particolari.  Ma  se  l'Idea  è  trascendente,  essa  non  è più,  a  parlar  propriamente,  Tuniversile,  non  è  più  le  cose stesse  considerate  dal  punto  di  vista  dell'astrazione:  al- lora l'astratto  e  il  concreto,  l'uno  e  i  molti,    sono    sola- mente distinti,  e  non  al  t-^mpo   stesso   distinti  e    iden- tificati. Il  rapporto  di  tutto  e  parti  stabilito  tra  l'Idea  gene- rica e  le  Idee  specifiche  ci  fa  comprendere  certe  locu- zioni che  al  punto  di  vista  ordinario  sarebbero  strane. Platone  chiama  le  specie  di  un  genere  parti  (jiipr^,  iió- P'.a,  T»jn^naxa,  ecc.)  dell'oggetto  deao'aco  dal  nome  gene- rico, e  qu^^sto  tutto  (oXo;,  715;,  ecc.)  relativamente  alle specie  del  genere.  Cosi,  oltre  agli  esempi  di  queste  locu- zioni nelle  dieresi  delle  arti  e  delle  scienze  del  Sofista  e del  Politico,  dice:  le  parti  del  delirio  (Fedro  265  b,  266  a), dell'imprudenza  (Alcib.  2''  140  e),   dell'  ignoranza    {Sof. Jìl    7.    ?  ^^2  d),  della  figura {ML  12  e),  ecc.,  intendendo  le  loro  specie;  neWEutifr. J;    oL    ""^  f"""  '^  ''^''*^  ^  ''  P^^^'1  Sì^^^o  ;  nel  Fo- nt. 266  a,  eh  egli  ha  diviso  tutto  quanto   l'animale  do- mestico e  vivente  in  gregge;  nel  Conr.  205  b-d,  che  un sl5o;  part  colare  dell'amore  é  chiamato  col  nome  del  tutto amore;  ecc.  (1).  Il  delirio,  il  piacere,  la  figura,  ecc.,  non significano  la  collettività  delle  cose  o  dei  fenomeni  chia-mati con  (luesti  nomi,  ma  il  concetto  della  cosa  o  del  fé- nomeno  la  generale:  cosi  le  loro  specie  non  potrebbero, al  punto  di  vista  comune,  esserne  chiamate  delle  parti' Se  Platone  lo  ia,  è  perchè,  secondo  luì,  il  concetto  si  ri^ ferisce  all'Idea,  e  le  Idee  specifiche  sono  parti  deiridea generica.  Per  conseguenza,  per  questo  delirio,  per  que- sto  piacere,  per  questa  figura,  ecc.,  bisogna  intendere  la Idea  del  delirio,  del  piacere,  d^lla  figura,  ecc.  :  e  sicco- me nella  più  parte  di  questi  casi,  se  non  in  tutti,  è  evi- dente che  Platone  non  parla  di  entità  trascendenti,  ma del  delirio,  del  piacere,  della  figura,  ecc.  in  noi  e  nelle cose,  cosi  noi  dobbiamo  vedervi  un'altra  prova  —  imme- diata -  -  dell'immanenza  delle  Idee. rn'altra  maniera  di  formulare  il  rapporto  tra  l'Idea più  generale  e  le  Idee  più  particolari  ad  essa  subordi- nate, è  di  riguardare  la  prima  come  contenente  e  le  se- conde come  contenute.  K  ciò  che  si  vede  nei  luoghi  ci- tati del  7meo  e  in  tanti  altri,  tra  cui  basterà  d'indicare Sof.  250  b  (luogo  citato  al  num.  IH  carta  20)  e  Sof.  253  d, Jydro  273  e,  l'olit.  2S5  b  (luoghi  citati  al  n.  V.  2«)! Evidentemente  Platone  non  può  dire  che  l'Idea  generale co  atiene  le  Idee  particolari  che  nello  stesso  senso  in  cui  noi ^'^l (1)  Cfr.  Menane  77  a,  luogo  citato  a  carta  38  (a.  V,  i»),  e  79  a. —   84:    — / diciamo  che  il  concetto  generale  contiene  i  concotti  par- ticolari ;  vale  a  dire  in  quanto  le  sfere,  in  estensione, delle  seconde  cadono  dentro  la  sfera,  in  estensione,  della prima.  Ora  l'estensione  non  è  una  proprietà  cheappar- tiene  agli  oggetti  dei  nostri  concetti,  agli  astratii,  con- siderati in  se  stessi,  cioè  nel  loro  coiìtenuto  intrinseco; ma  appartiene  ad  essi  in  ragione  degli  oggetti,  i  con- creti, di  cui  essi  sono  gli  attributi.  Noi  diciamo  che  ani- male è  più  esteso  di  uomo^  e  lo  contiene,  in  quanto  gli oggetti  di  cui  si  predica  animale,  sono  più  numerosi  di quelli  di  cui  si  predica  uomo,  e  la  totalità  dei  secondi è  una  parte  della  totalità  dei  primi.  In  assenza  di  og- getti, di  cui  uomo  e  animale  siano  gli  attributi,  non  po- trebbe parlarsi,  per  essi,  di  estension'^,  non  potrebbe  dirsi che  il  secondo  è  più  esteso  del  primo  e  lo  contiene.  Ora, secondo  gFinterpreti  trascendentalisti,  non  vi  hanno,  \ov Platone,  oggetti,  di  cui  uoìno  e  animale^  considerati  co- me Idee,  siano  gli  attributi  :  Tldea  dell'uomo  non  è  un attributo  degli  uomini,  Tldea  delP  animale  non  è  un  at- tributo degli  animali,  ne  degli  animali  cose,  ne  degli  ani- mali Idee.  Per  conseguenza,  Platone  non  potrebbe  dire dell'Idea  dell'animale  ch'essa  contiene  l'Idea  dell'  uomo e  degli  altri  animali  :  le  Idee,  separate  dalle  cose  e  le une  dalle  altre,  avrebbero  semplicemente  intensione,  non avrebbero  estensione  (1).  lo  ho  creduto  di    dover  distin- ii*ip (1)  Noi  dobbiamo  vedere  perciò  una  prova  dell'immanenza  delle Idee  in  lutti  i  casi  in  generale  in  cai  Platone  attribuisce  ad  esse un'  estensione.  P.  e.  nel  Sof.  254  c-d  (luogo  citato  nel  numero  |)re- cedente),  dove  chiama  le  Idee  dell'essere,  «iello  stato  e  del  movi- mento i  generi  pia  grandi  ({isyiaia)  tra  quelli  di  cui  egli  ha  par- lato: non  potrebbe  chiamarli  cosi,  se  non  li  riguardasse  come  con- tenenti, nella  loro  estensione,  un  più  gran  numero  di  oggetti  che sVi  altri. guere  la  proposizione  che  l'Idea  generica  contiene  le  Idee specifiche  da  quella  che  le  Idee  specifiche  sono  parti  del- l'Idea generica,  quantunque  in  certi  casi,  come  nei  luo- ghi cH«iti  del  Timeo,  le  due  proposizioni  siano  eviden- temente equivalenti,  perchè  la  prima  non  include  neces- sariaiaente  nel  suo  significato  questa  identificazione  del- l'uno coi  molti  inclusa  nel  significato  della  seconda.  Per rappresentarsi  un'Idea  come  inviluppante,  nella  sfera  del- la sua  estensione,  un'altra  Idea,  Platone  non  ha  bisogno di  riguardare  la  seconda  come  una  parte  della  prima,  ma solo  di  riguardare  la  totalità  degli  oggetti  in  cui  67 /rova la  seconda  come  una  parte  della  totalità  degli  oggetti  in cui  .st  trova  la  prima.B.  Considerando  le  Idee  al  punto  di  vista  dell'inten- sione, le  Idee  generali  sono  contenute  nelle  Idee  parti- colari. Una  delle  prove  più  palpabili  di  questa  proposi- zione ci  è  fornita  dallo  stesso  Aristotile,  malgrado  la  sua innegabile  inclinazione  verso  l'interpretazione  trascen- dentalista :  è  la  dottrina  dei  due  elementi  delle  Idee  e delle  cose— dottrina  appartenente  alle  ultime  speculazioni di  Platone,  e  per  la  cui  conoscenza  noi  siamo  ridotti quasi  unicamente  all'autorità  d'Aristotile— Secondo  que- sta dottrina,  tutte  le  Idee  sono  costituite  da  due  elementi (oToixsta)  che  corrispondono  al  Fine  e  Infinito  dei  Pita- gorici, e  che  Aristotile  chiama  talvolta  con  questi  stessi nomi,  ma  il  più  ordinariamente  con  quelli  di  Essere  e Non  essere  o  (al  punto  di  vista  della  teoria  dei  numeri, ai  quali  le  Idee  venivano  identificate)  di  Uno  e  Dualità indefinita  (o  Grande  e  Piccolo).  L'  uno  o  essere  era  la essenza  (oOaia)  o  forma  o  specie  (zllo^)  di  tutte  le  Idee; la  dualità  indefinita  o  non  essere  ne  era  la  materia  (2). (2)  Mot.  1.  I,  VI,  3-8,  1.  Ili,  III,  5,  IV,  21-30, 1.  IV,  II,  U,  U  XIV, I,  II,  IV,  eco. -85  — 1 1 (1 t /  FI Il  nome  dì   elemmii   dato  ai  due    prìncipìì   ultimi    delle cose  non   deve    farci    illusione    sul   vero   significato    di questa  dottrina  :  queste  due   entità   non    sono  al  fondo che  due  Idee  generiche,  a  cui  tutte  le  altre  sono  subor- dinate  come   loro  specie,  vale  a  dire  dei  predicali  uni- versali, comuni  a  tutti    gli  esseri  ([),  considerati  come delle  sostanze  (per  cui  vengono  loro  applicati  i  termini aOxó,  xaH'aóió,  x^ptoTóv,  indicanti  lastrattezza  dell'Idea e  insieme  la  sua  sostanzialità)  (2),  e  ciascuno  come  uno nel  molti  (3).  In  verità  Piatone  non  considera  rome  Idea di  genere  nel  senso  stretto  che  quello  dei  due  elementi che  fa  da  sl5o;,  e  che  non  è  altra  cosa  che   T  Id*>a  del bene  (4j,  che  nel  6^  e  7°  libre   della    Rep.  ^  daU  come il  principio   dell'  essere  e  della  conoscenza  —  è  questo, come  vedremo  a  suo  luogo,  un  artifizio  destinato  a  con- ciliare la  dottrina,  dovuta  ai  Pitagorici,  di  una  dualitii  di principii  con  l'esigenza  della  dialettica,  cioè  della  die- resi,  la  quale  richiedeva  al   vertice   della    piramide  che costituiva  il  mondo  ideale,  non  due  Idee,  ma  una  Idea  u- nica  come  genere  supremo—:  ma  la  denominazione  stessa di  materia  delle  Idee  data  all'altro  elemento,  per  distin- guerlo da  un'Idea  di  geaere  propriamente  detta,  ci  dice (1)  Met.  1.  I.  VI.  4-7,  IX.  24,  1.  III.  III.  6,^-8,  13,  IV.  24,  1.  V. III.  4,  1.  X.  IL  1-2,  1.  XI.  I.  11,  1.  XIJI.  Vili.  25-28,   1.    XIV.   I.    13, IV.  5-6,  ecc.  V.  a.  pel  Xon  essere  Plato.  Suf,  256  d-259  b. (2)  Phys.  1.  ili.  IV.  2,  V.  1-3,  Mct.  1.  I.  VJ.  4,  IX.  17,  1.   III.  J   U IV.  21-30,  1.  VII.  XVJ.  3-6,  1.  X.  II,  1.  XI.  II.  6-7,  X.  2-5,  I.  Xiv!  V.' 3,  eco. (3)  MeL  1.  I.  VI.  6,  IX.  24,  1.  III.  I.  ]1,  iv.  9,  26,  VI.  1^,  1.  V.  JII. 4,  1.  VII.  XVI.  5-6,  1.  X.  If.  1,  1.  XI.  a.  11,  1.  XIII,  X.  1-6, 1.  XIV.  II 4,  11,  12,  IV.  7,  eoo. (4)  Met.  1.  I.  VI.  8,  VII.  5,  IX.  21,  1.  ^l.  X.  1.  4, 1.  XIV,  IV.  2-7. V.  1,  EUi.  Eud.  1.  I.  vnu  14,  eoo. abbastanza  che  anch'esso  è  al  fondo  un  predicato  gene- rale, comune  a  tutte  lecose— meno,  s'intende,  l'elemento opposto— poiché  il  nomed'una  materia  (il  legno,  l'oro,  ecc.): è  un  nome  generico  applicabile  alle  cose  che  sono  fatte (interamente)  di  questa  materia.  Per  conseguenza  tra  i due  elementi  e  le  Idee  deve  esservi  lo  stesso  rapporto, d' immanenza  o  di  trascendenza,  che  vi  ha  tra  le  Idee dei  generi  e  «juclle  delle  specie,  e  questo  non  può,  come abbiamo  detto,  differire  da  quello  che  vi  ha  tra  le  Idee delle  specie  e  le  cose  individuali.  Tanto  piti  che  il  rap- jorto  tra  i  due  elementi  e  le  Idee  è  designato  dagli stessi  termini  che  designaao  quello  tra  le  Idee  generi- che e  le  specifiche  o  tra  le  Idee  e  le  cose  :  p.  e.  le  Idee sono  dette  partecipare  (ijlstsxsiv)  (l)  agli  elementi,  e  que- sti sono  chiamati  separabili  o  separati  (xwpiaia  o  y.sy/o- P'.ajjiéva)  (2).  (Jli  stessi  termini,  come  abbiamo  più  volte o^^servato,  non  potrebbero  indicare,  in  un  caso,  un  rap- •  porto  d'immanenza,  e  in  un  altro,  un  rapporto  di  tra- scendenza. Ora  non  vi  ha  dubbio  che  il  rapporto  dei dtie  principii  con  le  Idee  sia  quello  dell'immanenza:  se non  fosse  cosi,  non  potrebbero  essere  chiamati  elementi, e  l'uno  materia,  l'altro  forma  o  essenza,  delle  Idee..  E  si noti  che  Aristotile  prenie  la  parola  elemento  nel  senso  ' stretto  :  cosi  egli  fa  inerire  (OTcocpxstv,  svjTiapxstv,  slvai sv)  i  dae  principii  negli  esseri  derivati  (3);  chiama  que- sti, rapporto  ad  essi,  dei  composti  (aóvS'cxa)  (4j;  paragona (1)  MH,  1.  I.  VI.  4,  I.  XII.  X.  4,  1.  XIV.  IV.  7,  ecc. (2)  Mei,  1.  IV.  II.  16,  1.  XI.  II.  6,  X.  2,  1.  XII.  X.  1,  1.  XIV.  I.  2, li.  13,  V.  3,  ecc. (8)  ^fcL  1.  V.  m.  4-5,  l.  XII.  IV.  3,  l.  XLV.  II.  2,  Phys.  I.  III.  IV. 2,  eoe. (4)  Mt't.  l.  XU.  IV.  3,  1.  XIV.  11.  1. m  Vi V   '\ n  modo  in  cui  essi  formano  gVi  esseri  a  quello  in  cui  le lettere  formano  le  sillabe  (1);  li  considera  entrambi   co- me materia  dei  composti  (2)  ;  e  fa  l'obbiezione  che,   se ciascun  elemento  è  uno  di  numero  (come  dice  Platone), e  non  semplicemente  di  specie,  non  vi  saranno  altri  es- seri che  gli  elementi  stessi  (3i.  Un'osservazione  analoga vale  per  il  nome  di  materia  dato  all'uno  dei  due  princi- pii:  questo  principio  è   per  Aristotile  il  sustrato  (j-oy.s:- jisvov),  nelle  Idee,  al  quale   la  forma  inerisce  (4);  para- gona il  rapporto  delle  I  lee  con  esso  a  quello  della  meusa col  legno  di  cui  è  fatta  (5)  ;   considera   la  sua  funzione nel  sistema  platonico  come  identica  a  quella  che  ha  la materia  nel  suo  proprio  sistema  ((3),  tranne  che  Platone confonde  la  materia  con  la  privazione,  menti  e  egli  le  di- stingue (7)  ;  e  lo  riguarda  come  la   potenzialità  di  tutte le  cose,  come  il  tutto  allo  stato  indetermina^r»,  prima  di determinarsi   per   la  partecipazione   delle   for.aiih).  La proposizione  che  il  principio  materiale  è  gli  esseri  stessi in  potenza  è  attribuita  anche  a  Platone  stesso  (9)  ;  e  ve- diamo una  singolare  applicazione  di  questo  concetto  nella formazione  dei  numeri,  le  uiità  del  primo  numìro   che viene  formato,  cioè  della  dualità  definita,  essendo  ri^-uar- (1)  MeL  1.  I.  IX.  29-30,  1.  XU,  IV.  3,  l.  Xlll.  X.  2^,  6,  eoe (2)  Met.  1.  Xni.  Vili.  23-28,  1.  XIV.  11.  1-5. (3)  Met,  1.  m.  IV.  U,  1.  XI.  n.  11,  I.  XUl.  X.  2-3,  6. (4)  Met,  1.  1.  VI.  7,  1.  1.  IX.  22,  eoo.  L'oUmauto  matoriale  è  an- che detto  luogo  (xwpa)  del'eleinento  formale  (Mei,  1.  XIV.  IV.  7), ciò  ohe  prova  rimmanenza  dell'uno  e  dell'alt  ro. (5)  Met.  1.  1.  VI.  6. (6)  Phys.  1.  1.  IX.  1-3,  Met.  1.  XlV,  1.  12,  11.  13,  IV.  7,  eco. (7)  Phys,  1.  1.  IX.  1-3. (8)  Met.  1.  1.  VIU.  0-11. (9)  Met.  1.  XIV.  11.  12. '! IN  > P" dale  da   Platone    come  le  unità   stesse  della   dualità  in- definita     il  Grande   e    il    Piccolo),    eguagliate   (i).    In quanto  a'Telemento  che  serve  di  forma,  la  conseguenza naturale   della    teoria    dei    numeri   <>    di    fargli    qualche volta    rappresentare    una    parte   ch^    convif^ne  alla  ma- teria piutosto   che    jilla    forma;  la  <,nal    cosa,  fc  dissi- mula la  fcnziono  e  il  significato  reale  di  questo  princi- pio, è  jcrò  la  prova  più  palpabile  c'era  sua  immanenza. Aristotile  osserva  che  i  platonici  cocsiderano  Puno  al  Um- l>o  f-tosho  come  i*(  mia  e  specie  dei  numeri  —  perchè  cia- scun numero  è  uno  —  e  come  parte  e  materia  di  essi— lerchr  i  Lumeri  .^ono  composti  di  unità  —  (2).  È  a  (jue- sta  funzfrne  deiruno  come  materia  dei  tiimeri  che  può riferirsi  pure  l'obbiezione  che  le  unità  che  compongono i  diversi  numeri  non  possono  diffeiire,  come  vogliono  i platonici,  perchè  essi  parlano  dell'urio  in  se,  da  cui  tutte le  unità  sono  costituite,  come  se  questo  fosse  un  elemento di  parti  similari  (e|iO'.o|i£pé;)  come  il  fuoco  o  rac<jua(o); e  Pindicazìone  che  nella  formazione  dei  numeri  (dairuno in  se  e  dalla  dualità  indefinita)  l'Uno  in  sé  era  riguar- dato come   l'unità  media  nei  numeri  impari  (4)  —  i  nu- meri di  cui  si   tratta  in  tutti    questi    cas',    non    bisogna obliarlo,  non  sono  allra  cosa  che  le  Id'^e  — . Infine,  come  prova  dell' immanenza  dell'uno  o  essere, citerò  l'argomento  con  cui  Platone   dimostra  l'esistenza .1.  V.  .1/./.  I.  xni.  VII.  4,  Vni.  12-1;K  l.  XIV.  IV.  l.  La  dualità iiidcliiiita  era  Jiiiche  chiMiiiala  l'iiiegualo,  e  l'uno,  alla  cui  parteci- l»aziouo  era  dovuta  la  l'orinazione  dei  numeri,  l'eguale. (2)  Mrt.  I.  Xlll.  Vni.  23-28. (3)  Met,  l.  1.  IX.  17. (4)  Met,  1.  Xlll.  VII.  13. -  87  - I del  non  essere  (l'a-tro  elemento);  cio'^  che  se  non  esistesse  il non  essere,  non  potrebbe  darsi  una  moltìplicità  di  esseri, poiché  allora  tutti  gli  esseri  sarebbero  un  solo  essere,  Tes- sere slesso  (1).  Platone  non  potrebbe  dire  :  tutti  gli  esseri sarebbero  l'essere  stesso,  se  l'essere  fosse  fuori  d^^^ìì  es- seri. Il  senso  deirargomento  è  che,  se  insieme  aliVssfre (cioè  all'attributo  connotato  da  questo  nome)  non  vi  fosse negli  esseri  ciò  che  non  è  l'essere,  vale  a  dire  il  non  ev sere,  tutti  gii  esseri  non  sarebbero  altra  cosa  che  l'essere; e  Targomeoto  suppone,  prr  crnseguenza,  che  tanto  l'es- sere stesso  quanto  l'elemento  opposto  siano  negli  fsseri. Negli  scritti  platonici,  l'immanenza  dell'Idea  de'  bene —che,  come  abbiamo  detto,  corrispmde  al  princij  ^o  che Ariiitotile  chiama  l'uno  o  Trs-Jere— nelle  altre  Idee   n*  n è  meno  evidente  :  ersi  nel  VII  della  liepublica  si  dice  e  h^^ non  ha  alcuna  conoscenza  del  bene  chi  non  sa  definirne lldea,  astraendola  da  tutte  le  altre  (534  b-c);  e  quest'Id»»« é  chiamata  V ottimo  negli  esseri  (532  e),  //  jnl:  chiaro  (518  e e  il  piii  felice  (52r)  e)  delV essere  i t'essere  siirniliea  ìì*1ì  rs- seri,  vale  a  dire  le  Idee,  considnate  gencralment  •,  cioè nel  loro  concetto    comune,    e   per  conseguenza,    il  piìi chiaro  et  il  più  felice  delV  essere  vuol  dire:  ciò  che  vi  ha di  più  chiaro  e  di  più  felice  negli  e.^seri,  cioè  nelle  Idee). Aggiungiamo  che,  se  al  punto  di  vista  dell'intensioni', i  due  Generi  supremi  sono  nelle  Specie,  al  punto  di  vi- sta dell'estensione  invece  (lueste    sono    in    quelli  :    e   in effe  to  Platone  dice  tanto  dell'Uno  quando  della  Dualità indefinita  che  essi  contengono  (Tiep'.éxstv)  tutti  gli  esseri  (2). Platone  non  considera  solamente  come  elementi  delle t  .    «  I  <i <Idee  i  due  Universsli  supremi,  ma  tutti  i   Generi   sono da  lui  riguardati  corre  elementi  e  parti  delle  loro  Specie. Infatti  Aristotile   agita  la  quistione  se   bisogna   riguar- dare come  elementi  (axoixsìa)  degli  esseri  gì'  ingredienti materiali  di  cui  le  cose  si   com|.ongono,    ovvero   i    ge- neri (1),  considerando  la  seconda  opinione    come  legata alla  realizzazione  degli  universali  (2)  e  alle  proposizioni— proprie  della  scuola  platonica- che  ciascuna  cosa  m  co- nosce per  la  definiziono,  e  che  avere  la  scienza  degli  es- seri non  è  che  avere  quella  della  specie  (3).  K  nel  I.  Vdella  Metafisica,  in  cui  spiega  i  significati    dei  tei  mini filosofici,  dice  che  alcuni  chiamano  elementi  (axoixs^a)  i geueri  (e.  III.  5-aggiungendo  subito  che,  in  tutti  i   si- gnificati dati  alla  parola,  l'flemento  è  riguardato  come inerente  (IvuTiapxov)  nelle  cose  di  cui  si  dice   eleoicnto); e  che,  mentre  a  un  punto  di  virata  la  specie  è  chiamata parte  (jiépo^)  del  genere,  a  un  altro  punu>  di  vista  è  il  ge- nere che  è  chiamato  parte  (iiépo;)  delia  specie  fc.  XXV.  5). I  filosofi  che  fanno  quest'uso  delle  parole  parte  ed   eie- 7nento  non  possono  essere  che  i   platonici,    perchè   evi- dentemente esso  implica  la   realizzazione    dei    concetti  : il  genere,  considerato   come  la  collettività    degl'indivi- dui, non  potrebbe  essere  chiauato  parte  ed  elemento  della specie,  perchè,  in  questo  senso,  il  gen(^.re  non  è  contenuto nella  sp'^cic;  e  considerato  come  una  semplice  astrazione (come  il  complesso  dfgli   attributi    che   costituiscono   il concetto  generico),  non  lo  potn  bbe  nemmeno,  perchè  le parole  parte  ed  elemento  implicalo  la  realtà  della  cosa a  cui  vengono  applicate.  Altrove  {Met.  I.  VII.  XIII.  10), dopo  aver  obbiettato  ai  platonici  che,  si5  si    ammettesse la  realtà  degli  universali,  in  una  sostanza  individuale  vi (1)  V.  Met.  1.  XIV.  Jl.  4. C2)  V.  AUl.  1.  Xi.  J.  11,  /'//A'.  1.  in.  vi.  11. (1)  V.  gpecialmeiito  Afct.  I.  111.  III. (2)  Ibid.  13. (3)  Ibid,  4. —  88  - I sarebbero  più  sostanze,  mentre  è  impossibile  che  una  so- stanza consti  di  più  sostanze  che  le  ineriscano  in  atto; Aristotile  si  propone  questa  diMcolcà  :  ma  «  so  alcuna  so- stanza non  può  risultare  da  universali,  né  comporsi  di più  sostanze  attualmente  esistenti,  la  sostanza  Farà  al- lora ijualche  cosa  di  non  composto,  e  non  sarà  possibile di  darne  la  definizione.  »  Ciò  suppone  che  alcuni  filosofi riguardavano  la  definizione  come  una  decompos'zione del  definito  nei  suoi  elementi  costitutivi  (il  genere  e  la differenza),  e  che  (laesti  elementi  erano,  secondo  essi,  de- gli universali  e  delle  sostanze.  (Questo  concetto  era  in- fatti naturalissimo  al  punto  di  vista  delia  teoria  delle Idee  ;  poiché,  quantunque  Platone  non  elevasse  al  grado d'Idea  che  il  genere  solo,  e  non  la  differenza— perchè  il multiplo,  per  lui,  deve  sempre  poter  ricondursi  all'uno—, pure,  se  si  ammette  che  il  Genere  esist.»  nella  Specie  d'un'esl- stenza  propria  e  distinta,  la  conspguenza  inevitabile sarà  che  anche  la  diff'erenza  vi  esi-iterà  d'  un'  esistenza propria  e  distinta  (l).  Infine,    che    Platone   chiamasse  i U)  Siccome  Platone  stabilisce  tra  le  Idee  \n\\  Kcnerali  e  le  più  panicolari ad  esse  subordinate  un  rapporto  di  priorità  e  posteriorità  (perclic  la  dialettica platonica  è  l'ondata  sul  principio  che  il  più  particolare  deriva,  logicamente  e ontologicamente,  dal  più  generale),  cosi  egli  ammette  che  la  sostanza  consta di  elementi  di  cui  gli  uni  sono  anteriori  e  gli  altri  posteriori.  È  a  questo concetto  ))latonico  che  allude  evidentemente  Aristotile  in  Mei.  1.  WU, XU.  9,  dove  dice:  «  Nella  sostanza  non  vi  ha  alcun  ordine:  intatti  che senso  ha  il  dire  che  in  essa  una  parte  <•  anteriore  e  un'altra  è  posteriore  "i  » Ciò  prova  almeno  che  Platone  riguarda  le  Id<*e  più  generali  come  ele- menti costitutivi  delle  Idee  più  particolari  (ammettendo  che  (|ui  per  sO' stanze  Aristotile  intenda,  non  le  cose  stesse,  ma  le  loro  essenze,  poiché egli  parla  della  sostanza  quale  og<^etto  della  delinizione).  Infatti,  se  le  Idee, a  cui  una  sostanza  (ld**a  o  cosa)  partecipa,  l'ossero  separate  da  essa,  non vi  avrebbe  ragione  di  compone  questa  sostanza  di  parti  distinte,  corri- spondenti alle  Idee  a  cui  partecipa,  inoltre  il  rapporto  di  priorità  e  p/i- stej  iorità  deve  essere  esclusivamente  [iroprio  alle  Idee,  perchè  esso  si- gnifìca,  come  abbiamo  accennato,  un  processo,  logico  e  al  tempo  stesso ontolegico,  di  tiliazione,  che  non  ha  luogo  che  nelle  Idee. Generi  elementi,  ò  confermato  da  un  luogo  del  Politico  ^ 271  d-278  d,  in  cui  spiega  forche  si  deve  ricorrere  ad esempi  per  illustrare  i  soggetti  difficili.  «  Noi  sappiamo, egli  d'C,  che  i  fanciulli,  mentre  imparano  a  leggere, riconoscono  assai  bene  ciascruna  delle  lettere  (axotxera) nelle  sillabe  più  corte  e  più  facili,  e  sono  capaci  di  par- larne con  giustezza.  Ma  se  essi  incontrano  queste  stesse lettere  in  altre  sillabe,  restano  incerti,  e  ne  giudicano e  parlano  falsamente.  Ora  la  maniera  più  facile  e  più bella  di  condurli  a  ciò  che  non  sanno  ancora,  non  sa- rebbe questa?  Bitogn^rebbe  prima  ricondurli  alle  silla- be in  cui  hanno  opinato  rettamente  su  queste  stesse lettere,  e,  riconducendoveli,  porre  a  lato  le  sillabe  che ancora  non  sanno,  o  mostrare,  conia  comparazione,  che in  entrambi  i  composti  vi  ha  una  stessa  somiglianza  (1) e  una  stessa  natura,  sinché  le  sillabe  in  cui  hanno  o- pinato  rettamente,  essendo  state  comparate  con  tutte quelle  non  sapute  ed  essendo  divenute  degli  esempi, loro  apprendano,  per  ciascuna  di  queste  lettere,  in  tutte le  sillabi»,  in  cui  si  trovarw,  a  designare  come  diversa quella  che  è  diver-a  dalle  altre,  e  come  sempre  la  stessa «  identica  a  se  s'CFsa  quella  che  è  realmente  la  stessa. Non  è  abbastanza  chiaro  ora  p^r  noi  che  vi  ha  esempio, quando  ciò  che  è  lo  stesso  è  appunto  riconosciuto  come file  in  due  cose  separate,  e  quando  ben  inteso  e  consi- derato come  uno  in  ([uesti  due  casi  distinti,  ma  analoghi, diviene  l'oggetto  d'una  sola  e  stessa  opinione  vera? Dobbiamo  dunque  sorprenderci  se  la  nostra  anima,  che è  naturalmente  nello  stesso  stato  per  gli  clementi    (axot- (1)  Sulla  parola  somiglianza  (ò|ioióxr^g)  cfr.  la  nota  1  a  carta  30 pag.  I. -  89  —y I |- .\'  ^  -^ Xefa)  di  tutte  cose,  trova  qualche  volta  ia  verità  su  cia- scun elemento  particolare  in  ceni  composti  e  vi  si  at- t'eno,  e  poi  cade  neircrrore  su  tutti  quf  sti  elementi  con- M'derati  in  altri  soggetti;  se  essa  si  forma  un'  opinione giusta  su  certi  elementi  quando  li  incontra  incerti  tutti, e  li  misconosce  interamente  trasportati  nelle  sillabe  lun- ghe e  difficili  delle  cose?»  Questa  realizzazione  degli  at- tribuii generali  delle  coso,  implicata  dal  nome,  che  viene loro  dato,  di  elementi,  e  dalla  comparazione  con  le  let- tere, in  uà  altro  autore  sarebbe  una  semplice  metafora; ma  in  un  real's^a  come  Platone  deve  prendersi  al  senso proprio.  Vi  ha  appena  bisogno  di  osservare  che  (juesto luogo  prova  T  immanenza  dei  Generi,  non  solo  nelle Specie,  ma  anche  nelle  cose  ste-se. Vili.  Gli  elomenti  delle  Idee  sono  anche  per  Platone gli  elementi  delle  cose  (1):  l'Uno  o  E>\sere  èlVss?nzadi tutte  le  cose  cosi  bene  che  di  tutte  le  Idee  (2),  ia  Dua- lità indcilnita  o  Non   essere,  la  materia  (3).  Io  non  ag- 0)  V.  Arist.  Met,  l.  I.  VI.  3-4,  l.  I.  IX.  26-BO,  1.  III.  III.  5, 1.  XIII.  IX.  17,  1.  XIV.  I,  II.  ecc. (2)  V.  Met.  1.  I.  VI.  3-4,  1.  III.  I.  12,  IV.  21,  I.  VII.  XVI,  3, 1.  XIII,  VI.  5,  eco:. (3)  V.  Mei,  l.  T.  VI.  3-4,  1.  XII.  X.  3-4,  I.  XIV.  I.  1-3,  0-12,  IV. 6-7,  ecc  : Bisogna  dHliugaore  in  Platona  dna  princìpii  dittorenti,  ai  quali viene  dato  eguaiinonte  il  nome  di  materia:  cioò  la  matoriri  delle cose  e  la  materia  comune  tanto  alle  cose  qua.ilo  allo  Idea.  La prima  è  lo  spazio,  al  quale  Platone  riconduca  rost;3nsion 3  dji corpi, e  corrisponde  a  ciò  che  noi  chiamiamo  propriamanta  materia;  è una  determinazione  che  si  trova  esclusivamente  nallj  cose,  e  mtfcnva nelle  Idee,  la  <iuali  rappresentano  solamante  la  formo ^  le  cose  ri- sultando cosi  dalla  sintesi  delle  Idaa  (l'orma)  e  dello  spazio  (ma-teria). La  materia  comune  alle  Idea  e  alle  co^e  rapprasenta  una serie  di  determinazioni  generali  degli  esseri  —  p.  e.  il   non  essero, giungerò  niente  per  provare  che  questi  termini  dementi, essenza,  materia,  devono  intendersi  nel  loro  significato naturale,  che  implica  Timmanenza  :  sarebbe  fare  delle ripetizioni  inutili,  perchè  la  più  parte  dei  luoghi  d'Ari- stotile, citati  nel    numero    prf cedente   come   prove    del- l'infinito, la  moltiplicità,  il  male,  la  diversità,  il  movimento,  ecc.— opposte  a  quelle  di  un'altra  serie— p.  e.  l' essere,  il  finito,    l'unità, il  bene,  l'identità,  lo  stato,  ecc.  —che  vengono  riunite  nel  principio opposto  a  questa  materia,  vale  a  dire  nell'elemento  formale.  I  due elementi  vengono  il  più  abitualmente  chiamati  Essere  e  Non  essere, ])erohè  Platone  riguarda  le  determinazioni  della  serie  dell'elemento l'ormale  come  positive,    e    le    determinazioni   corrispondenti    della serie  opposta  come  negativa;  e  Uno  e  Dualità  indefinita  al   punto di  vista  della  teoria  dei  numeri  (V.   per   questa   dottrina   Supple- mento C.)  La  materia  propria  delle  cose  e  la  materia  comune  alle cose  e  alle  Idee  vengono  ricondotte  a  un  principio  unico,  la  Dua- lità indefinita,  uno  dei  caratteri  del    pitagorismo   platonico,   come del   pitagorismo  genuino,  essendo  questa  riduzione   illogica  a   uno stesso  numero  o  a  uno  stesso  principio  di  concetti    essenzialmente differenti;  ma  ciò  non  toglie  che  le  due  materie  siano  due  entità  di- stinto l'una  dall'altra  Qu  andò  Aristotile  dice  che  secondo  Platone  gli elementi  della  Idee  sono  pura  gli  elementi  delle  cose,  senza    dubbio egli  comprende  nell'elemento  materiato  anche  lo  spazio,  quantunque questo  non  sia  un  elemento  delle  Idee  :  ciò  è  perchè,  come  abbiamo detto,    lo  spazio,  quantunque  sia  un'entità  distinta    dalla    materia delle    Idee,  viene  ricondotto  con  essa  a  uno  stesso    principio.    Sa- rebbe però  un  errore  di  cradere  che,  anche  ammettendo  che  nelle cose  non  vi  sia  altra  materia  che  lo  spazio,  baslerebbe  questa  ridu- zione dello    spazio  a  uno  stesso  principio  insieme  con    la  materia delle  Ideo,  perchè  (iue~;ta  potesse  eisero  identificata  con  la  materia delle  cose;  o  che  la  |>roposiziona  «l'Aristotile  che  gli  elementi  dello Idee  sono  gli  elementi  delle  co^e  non   importa   quindi  necessaria- mante,  come  noi  ammottianu,  che  la  materia  delle  Idee  si  ritrova realmente  nelle  co-se.    Certamente  tra  gli  elementi  delle  cose  e  gli elementi  delle  Idoe    non    potrabba    ossarvi    un'  identità    completa  : l'elemento  materiale  dello  cose  deve  diflforira  in  ogni  caso    dall'e- lemento materiale  delle    Idee,  perchè   questo    non  comprendo   lo -90  — I rimmanenza  dei  due  principi!  nelle  Idee,  provano  egual- mente la  loro  immancuza  nelle  cose.  In  effetto  le  in'dica- zioni  o  allusioni  d^  Aristotile  relative  alla  dottrina  dei due  elementi,  si  riferiscono  il  più  spesso,  non  alla  pro- posizione che  questi  due  princ-pii  sono  gli  elementi  delle spazio.  Ma  l'impossibilità  di  prendere  una  proposifsione  in  un  senso perfettamento  rigoroso  non  è  una  ra{rione    |)er  preterire    il    mono rigoroso  dei  sensi  di  cui  essa  sarebbe  suscettibile.  Ora  è  questo  che noi  faremmo  per  la  proposizione  d'Aristotile  in  questione   o   a  dir meglio  por  la  dottrina  di  Platone  che  questa  proposizione  ci  rife- risce, se  per  l'elemento  materiale  nelle  cose  non  intendessimo  che lo  spazio;  perchè  allora  la  materia  delle  cose  e  quella    delle    Idee sarebbero  due  entità  completamente  distinte,    non   vi  sarebbe  fra di  esse  alcuna  reale  identità,  nò  totale  né  parziale.  D'ahronde  l'e- lemento materiale  delle  Idee  deve  essere  identico  all'elemento   cor- rispondenti^ delle  cose  nello  stesso  senso  in  cui  lo  è  l'elemento  for- male :  l'Uno  non  rappresenta  due  concetti  distinti  come  la  Dualità indefinita;  noi  non  potremmo  assegnargliene  uno  come  forma  dello Idee,  e  un  altro  ditfereate  come  forma  delle  cose;  per  conseguenza anche  l'elemento  materiale  dove  rappresentare  uno  <^:tosso  concotto nelle  Idee  e  nelle  cose.   Che  sia  cosi,  è  confermato  dalle   determi- nazioni che   Aristotile   attribuisce  alla  materia  platonica,  in  luoghi m  cui  egli  la  considera  come  elemento  delle  cose  cosi  bene  che  delle Idee  :  cioè  che  essa  è  un  genere  (v.  1.  III.  UT.  5^,   che  è  l'uno  nei molti  (p.   e.     quando    fa    l'obbiezione  che  se  gli  olemouti  «logli  es- seri fossero  ciascuno  uno  di  numero,   e    non    solamente    di   specie, non  vi  sarebbero  che  i  soli  elementi— v.  1.  III.  IV.  9-10, 1.  XI.  IL  11,' 1.  XIII.  X.  2-3),  che  rappresenta  al  tempo  stesso  la    parte  di  ma- teria e  di  st eresi  (v.  Phiis  1.  I.  IX.  1-3),    che  è  il    tutto  allo    slato d'mdeterminazione  (v.  Met.  1.  I.  Vili.   9-11),  che  è  la    natura    <lel male  (v.  1.  XII.  X.  3-4,  1.  XIV.  IV.  6-7),  che  è  il  non   essere  (cioè l'opposto  dell'attributo  essere-v.  Mei  1.  XIV.  II.  4  e  seg.),  che  ò  il contrario  dell'altro  elemento  (v.  Phìjs  1.  I.  IX.  3,  .!/«>/.  1.  IV.  11.14, 1.  XII.  X.  2-3,  l.  XIV.  I.  1-3,  <;,  IV.  0-8),  ecc  :  Questo  determinazioni non  potrebbero  convenire  al  semplice  spazio,  ma  convengono  per- fettamente sia  alla  materia  dello  Idee  per  se  sola,  sia   a<l   os^a    in unione  con  lo  spazio. Idee,  e  a  quella  che  sono  gli  elementi  delle  cose,  consi- derate l'una  a  parte  dell'altra,  ma  alla  proposizione  che sono  gli  elementi  di  tutti  gli  esseri,  cioè  delle  cose  cosi bene  che  delle  Idee  (1). Ciò  che  si  deve  notare  è  la  connessione  logica  che viene  affermato  esistere  tra  la  proposizione  che  i  due principii  sono  gli  elementi  dfUe  Idee  e  quella  che  sono gli  elementi  delle  cose,  «E  perchè,  dice  Aristotile  C2),  le Specie  sono  le  cause  delle  altre  cose,  gli  elementi  di quelle  credè  (Platone)  che  fossero  gli  clementi  di  tutti gli  esseri  »  (3).  Ora  questa  connessione  non  esiste,  e- videntemeate,  che  iif  IT  ipotesi  delT  immanenza  de'le Idee.  S'j  le  Idee  sono  clementi  delle  coSi%  necessariamente anche  i  loro  elementi  saranno  elementi  delle  cose:  ma  se le  Idee  non  sono  che  dogli  archetipi  di  cui  le  cose  sono le  copie,  tutto  ciò  che  potrà  seguirne  sarà  che  le  cose hanno  degli  elementi  che  sono  le  copie  degli  elementi delle  Idee,  ma  non  mai  che  gli  elementi  delle  cose  sono una  sola  e  stessa  cosa  con  gli  elementi  delle  Idee.  L' i- dentità  tra  questi  e  quelli  non  si   spiega   dunque   d'una (1'  Indicherò  nondimeno  un  certo  numero  di  luoghi,  la  piìi parte  oitaii  nel  numero  precedente.  V.  dunque,  per  tutti  e  due gli  elementi:  Mei.  l.  I.  IX.  29-30,  1.  III.  IV.  9-10,  l,  IV.  II.  14,  1.  XI. II.  11,  1.  XII.  IV.  3,  1.  XIII.  X.  2-3,  1.  XIV.  IV.  7,  ecc.  Per  l'ele- mento materiale:  /V///s.  l.  I.  IX.  1-3,  1.  HI.  IV.  2,  VI,  11,  Met.  1.  I. Vili.  9-11),  IX.  22,  1.  XIV.  II.  8,  12-13,  ecc.  Per  l'elemento  formale  : .l^>^  1.  T.  IX.  24,  1.  V.  III.  4-5,  1.  XI.  I.  11,  l.  XIII.  VIII.  27,  L  XIV. II.  4,  ecc. (2)  Mei.  l.  I.  VI.  3. (3)  Notiamo  che  Aristotile  distingue  quattro  specie  di  cause,  di cui  una  è  la  causa  essenziale,  l'essenza;  e  che  questa  è  delle  quattro specie  di  causalità  la  sola  che  conviene  secon<io  lui  alle  Idee  pla- toniche. \.  Mei.  Io  stesso  cap.,  g  7. • -  91  - 7^ toaniera  naturale  che  nelìMpotesi  deir  immanenza  delle Idee.  Ma  non  teniamo  conto  di  questa  considerazione  : ammettiamo,  ciò  che  non  è,  cho  anche  nell'ipotesi  della trascendenza  delle  Idee  possa  darsene  una  spiegazione pausibile.  Kesterà  sempre  r  incoerenza  di  riguardare alcune  entità  come  immanente,  e  alcune  altre  come  tra- scendenti, mentre  queste  entità  appartengono  tutte  allo stesso  tipo  :  concetti  realizzati. I  due  elementi  hanno,  come  abbiamo    df  tto,    tutti  i caratteri  delle  Idee  :  ciascuno  è  un  predicato  universale degli  esseri  di  cui  si    dice   elemento,    riguardato   come sussistente  per  se  stesso  e  come  uno  e  lo  stcFso  in  tutti- uno  di    essi  è  anche   certamente   da   Platone   chiamato un  Idea,  nello  stesso  senso  che  tutte  lo  altre,  porche  ciò che  neiresposizione  d'Aristotile  è  detto  l'Uno  o  l'Essere non  è  che  la  slessa  entità  che  negli  scritti  platonici  è  detta 1  Idea  del  bene.  Le  stesse  inconcepibilità  che,  ne!  sistema dell  immanenza,  sono  legale  alla  realizzazione  degli  altri concetti  ~  l' impossibilità  di  comprendere   come  una  so- stanza  sia  al  tempo  stesso  un  attributo  di  altre  sostanze come  r  uno.sì  trovi  simultaneamente  nei  molti  ree  -esi' stono  egualmente  per  la  realizzazione  dei  concetti  rappre- sentati dai  due  elementi.  (;ii  stessi  termini  che  indicano  i rapporti  tra  le  altre  Idee  e  le  cose  indicano  il  rapporto  tra 1  due  elementi  e  le  cose,  tanto  quelli  che  possono  addursi come  prove  dell'immanenza,  quanto  quelli  in  cui  gì'  inter- preti trascendentalisti    vedono  una  prova  della  trascen- denza :  cosi  la  relazione  degli  elementi  alle  cose  ò  chiamata parusia  (1),  e  quella  delle  cose  agli  eleme.iti  metessì  (9). gli  elementi  sono  detti  essere  Tiapa  le  cose  (3),  e    sono chiamati  x^P^xa  e  xsxwpiajiéva  (semplicemente  o  dalle cos^)  (1)  ;  ecc.  Se  ammettiamo  la  trascendenza  dello Idee,  dovremmo  dunque  ammettere  necessariamente  an- che la  trascendenza  degli  elementi;  se  ammettiamo,  co- me siamo  forzati  di  farlo,  l'immanenza  di  questi,  dob- biamo  anche  ammettere,  non  meno  nrc^ssariamente,  la immanenza  di  quelle. Per  l'immanenza  di  uno  dei  due  elementi  noi  non abbiamo  alcuna  prova  diretta  negli  scritti  di  Platone, perchè  in  questi  scritti  non  si  trova  la  dottrina  dei  due elememi  (tranne,  come  vedremo,  d'una  maniera  simbo- lica nel  Timeo)  :  ma  l'immanenza  dell'altro,  cioè  dell'I- dea del  beno,  è  naturalmente  in  Platone  più  evidenteche  nello  stesso  Arislotile.  Cobl  n(  1  Timeo  (46  e  d)  dico che  le  cause  materiali  (quelle  che  riscaldano  e  raffred- dano, condensano  e  dilatano,  e  producono  altri  effetti simili)  sono  dei  mezzi  di  cui  Dio  si  serve  per  compiere (àTioTsXwv)  l'Idea  dell'ottimo.  Nel  Fedone,  dopo  avere  spie- gato che  per  ogni  cosa  la  causa  di  essere  e  di  essere nel  modo  in  cui  è  e  non  altrimenti,  è  il  bene  di  cia- scuna cosa  in  particolare  e  di  tutte  in  generale,  e  che questa  soluzione  del  problema  delle  cause  è  la  conse- guenza logica  della  dottrina  di  Anassagora  (97  c-99  b), rimprovera  a  costui  e  agli  altri  fisici  che  non  si  servono, nella  spiegazione  dei  fenomeni,  che  di  semplici  cause meccaniche,  «  e  la  potenza  prr  cui  le  cose  sono  disposta nel  miglior  nndo  in  cui  potevano  esserlo,  né  ricercano né  stimano  che  vi  sia  in  essa  qualche  forza  divina,  ma credono  di  avor  trovato  un  Atlante  più  forte  di  questo. i(1)  V.  p.  e.  Elh,  Eud,  1.  I.  Vllf.  1,2. (2)  lUK  End.  i.  I.  Vili.  2,  3,  Met.  1.  XII.  X.  4,  I.  XIV   IV    7    ecc (3)  Met.  1.  I.  VI.  5,  I.  III.,Jj.  13,,.  x.  II.  1,  ecc. 0)  MeL  1.  IV.  [I.  J6,  1.  XI.  ir.  (i.  X,  2,  1.  XII.  X.  i,    1.    XIV.  II.  3, />/i/yt.  I.  Iir.  V.  J,  Klh,  Sic,  1.  1.  VI,  13,  ecc.v;- —  92  — più  immortale  e  più  capace  di  contenere  (ii^XXo^j  grjvéxovxa) l'universo,  e  non  ammettono  che  e  il  buono  (zx^olH^)  e conveniente   che   collega    (guvSsìv)   e   contiene   (guvéxetv) tutte  le  cose  (90b-c-Io  stesso  verbo  g-jvéxsiv  attribuito prima  aWAflanie  più  forte  ecc.,  e  poi  al    buono  e  con- veniente, prova  che  il  buono  e  conveniente  é  la  stessa  cosa Q^ieìh  potenza  per  cui  tutte  le  cose  nono  disposte  ecc.,  che  è l'oggetto  con   cui    VAtlayite  pih  forte  ecc.    viene   con- frontato). In  (lueste  parole  vi  ha   evidentemente  la  rea- lizzazione dell'astrazione  il  bene  (Tàya^óv)  :  ma   questo bene  non  può  essere    che  quello  stesso  di  cui   sopra  ha parlato,  e  d'altronde,  se  fosse  un  bene  trascendente,  non si  potrebbe  dire  di  esso  che  contiene  e  collega  tutte  le  cose Ma  la  prova    più    forte  dell'immanenza  dell'Idea  del bene,  in  Platone,  è  l' identitìcazione  dì  quest'Idea  con  la  fe- licità degli  uomini  (o  generalmente  degli  esseri  viventi). Quest'identificazione   si    vede  della  maniera   più   sensi- bile nel   Filebo.    In    qursto  dialogo   si  cerca  che  sia   il bene  (xàva^óv)  :  se  sia  il  piacere  (come  ritengono  i  più) 0  la  sapienza  fcome  ritengono  altri,  p.  e.   i   Megarici)' o  qualche  altra  cosa  (1M4  b).  Filebo  sostiene  che  é  il piacere;  Socrate  comincia  per  ammettere   che   è   la  sa- pienza;  ma  poi  muta  d'avviso,  e  diceche  il  bene  none né  runa  né  l'altra  cosa,  ma  una  terza,  diversa  da  esse e  migliore  di  amendue  (20  b).  In  effetti,  egli  domanda, «  la  condizione  del  bene  non  è  necessario  che  sia  il  per'- fette,  0  deve  essere   il    non  perfetto  V-Puotarco  •   Ciò che  vi  ha  di  più  perfetto,  o  Socrate  -  Socu.  :  Ma  che? il  bene  non  è  sufficiente  per  se  sfosso  ?-Prot.  :   Senza dubbio,  ed  è  in  ciò  che  differisce  da  tutti  le  altre  cose^ SocR.  Questo  ancora  mi  sembra  sovratutto  necessario  di affermare  di  esso,  che  tutto  ciò  che  lo  conosce  lo  ricerca e  lo  desidera,  sforzandosi  di  attingerlo  e  di  possederlo e  niente  si  cura  delle  altre  cose,  faori  di   quelle   che  si e  ffettuano  insieme  ai  beni  —  Prot.  :  A  questo  i;on  si può  contrastare— SocR.  :  Esamim'amo  dunque  e  giudi- chiamo la  vita  di  piacere  e  la  vita  d'intelligenza,  pren- dondole  ciascuna  a  parte  —  Prot.  :  In  che  modo  ?  — So.R.  :  In  moJo  che  l'intelligenza  non  entri  assoluta- mente nella  vita  di  piacere,  e  il  piacere  nella  vita  d'in- telligenza :  infatti,  se  l'uoo  o  l'altra  fossero  il  bene, non  avrebbero  più  bisogno  di  altra  cosa;  ma  se  1'  uno 0  l'altra  sembreranno  aver  bisogno  di  qualche  altra  cosa, non  potranno  essere  per  noi  il  vero  bene»  (20  d  — e). Risalta,  dall'esame  del'e  due  vite,  che  nessuno  vorrebbe una  vita  con  tuiti  i  piaceri,  ma  scnz'alcun'intelligenza,nò  con  tutta  rintclligeiiza  ma  senz'alena  piacere;  e  cho la  vira  che  tutti  vorrebbero  sarebbe  quella  in  cui  il  pia- cere fosse  m'^scolato  con  Tintelligenza.  «  E  dunque  evi- dente, che  nò  V  una  nò  1'  altra  delle  due  vite  (quella  di piacere  e  quella  d' intelligenza)  ha  il  bene  :  poiché  essa sarebbe  sufficiente,  parfctta,  e  degna  della  scelta  di tutti  gli  esseri,  che  potessero  vivere  per  sempre  così.  » (22  b).  Qui  nasce  un'  altra  quistione  :  quantunqu'^  né  il piacere  né  la  sapienza  sia  il  bene,  pure  V  uno  o  l'al- tra potrebbe  credersene  la  causa  :  ora  Socrate  sostiene che,  checchesia  ciò  che  ricevuto  dalla  vita  mista  (di piacere  e  d'  intelligenza)  questa  si  fa  dcsilerabile  e buon*»,  r  intelligenza  gli  somiglia  e  gli  é  affine  più  che il  piacere,  e  perciò  (lucsto  non  otierrìl  né  il  primo  né il  secondo  posto  (22  d).  Seguono  delle  digres-^ioni  che non  c'int:'ressano,  e  sulla  fine  del  dialogo  viene  ripi- gliata la  quisJone  sulla  natura  del  bene  e  se  esso  sia più  affine  al  i  lacere  o  all'intelligenza;  ma  prima  Socrate, riassumenio  il  cominciamento  della  discussione,  dice: «  Filebo  affermava  che  il  piacere  é  il  fine  legittimo  di tutti  i  viventi,  lo  scopo  a  cui  tutti  devono  tendere;  che esfo  è  il  bene  per  tutti,  e  che  questi  due  nomi,   bene  e i -  93  - piacere,  competono  alla  stessa  cosa  e  aduna  cpóat^unicd. Socrate  lo  negava,  e  affermava  che,  come  vi  hanno  due nomi  differenti,  co..i  il  bene  e  il  piacere  hanno  nna  ^^^,^ differente  Tuno  dall'altro,  e  che  la  sapienza  è  più   che il  piacere  partecipe  della  condizione  del  bene  (60  a-b) La  qpóa.s  del  bene  in  ciò  differisce  dalle  altre  cose  che qualunque  dei  viventi  a  cui  è  presente  (Tiapsiyj)  sempre ed  assolutamente,  non  ha  più  bisogno  di  altro,  ma  ha quanto  gli  basta  perfettamente  (60  b-c)  ....  Ma  abbiamo visto  che  né  il  piacere  nò  la  sapienza  è  sufficiente..  . Nò  Tuno  nò  l'altra  ò  dunque  il  perfetto,  il   desiderabile per  tutti,  il  bene  assoluto Bisogna  per   conseguenza o  scoprire  il  bene  chiaramente  o  qualche  forma  (tótiov) di  esso,  per  vedere,  come  abbiamo  detto,  a  chi  dobbia- mo assegnare  il  secondo  posto  (60  a-6l  a)  %. Ora,  soggiunge  Socrate,  «non  abbiamo*  noi  incon- trata una  via  che  conduce  al  beneP-PaoT.  :  Quale  via  ?- SocR.  :  Se  alcuno,  cercando   un  uomo,   apprendesse  la casa  dove  egli  abita,  non  avrebbe  un  grande  aiuto  per trovarlo  V-Prot.  :  Certo-SocR.  :  Cosi   il    presente  e  Jl precedente  discorso  ci  avvertono  che  non  dobbiamo  cer> care  il  bene  nella  vita  semplice,  ma  nella  vita  mescolata (di  piacere  e  d'intelligenza)  -Prot.  È  vcro-Soca.  :  E abbiamo  più  speranza  di  trovarlo   in    quella    che  è  ben mescolata  che  neTopposta.-PROT.  ;  Molto  più-  Socr   • Facciamo  dunque  la  mescolanza  »  (61  n-b).  Questa  si  fa unendo  i  piaceri  veri  e  quelli   che  accompa-nano  la  sa- lute e  la  virtù,  con  le  scienze,  e   facendovi    anche    en- trare la  verità,  perchò  ciò  a  cui  non  si  mescola  la  verità (w  m  l^t'£o|xsv  àXTì9-£tav)  non  potrebbe  esistere  (64   b);  e compiuta  cosi  la  mescolanza,  Socrate  dice  :  «  Se  noi  di- cessimo di  essere  pervenuti  al  vestibolo  del  bene  e  della sua  abitazione,  non  avremmo  in  certo  modo  ragione  ?— Prot.  :  Cosi  mi  pare-SocR.  :  Che  vi  ha  dunque  in  (|ue- sta  mescolanza  di  più  prezioso  e  che  sembri  specialmente la  causa  dell'essere  una  tal  condiziono    desiderabile  per tutti  ?  (64  e.) In  ogni   mescolanza    non   ò    difficile di  vedere  quale  sia  la  causa  che  la  rende    pregevole    o di  nessun  pregio Ogni  mescolanza  che  non  partecipi della  misura  e  della  cpuoig  del  proporzionato  rovina  ne- cessariamente le  cose  mescolate  e  se  stessa  la  prima  (64  d).... Cosi  la  natura  del  bene  se  n'  ò  fuggita  in  quella  del bello,  perchò  la  misura  e  la    proporzione   sono    da    per tutto  beltà  e  virtù Ma  roi  abbiamo    detto   che  la verità  entra  con  esse  nella  mescolanza  (aOxor;;  sv  tv;  xpaaei |i£|iiX^a'.-64  e) Por  conFegucnza,  se  non  possiamo prendere  il  bene  in  una  forma  (ì5éa)  unica,  prendiamolo in  tre  forme,  beltà,  mi>ura  e  verità,  e  diciamo  che  tutto ciò  come  uno  ò  la  causa  di  ciò  che  vi  ha  di  pregevole nella  mescolanza,  e  perchò  é  bene,  perciò  la  mescolanza è  pure  un  bene  »  (65  a).  Ora  ò  facile  di  giudicare  se il  piacere  o  la  sapienza  sia  più  affine  al  bene  (xoO  àpiaio-j)  : perciò  bisogna  comparare  l'uno  e  l'altra  con  le  tre  for- me in  cui  il  bene  ò  apparso.  Fatta  (juesta  comparazione, risulta  che  l'intelligenza  ò  più  che  il  piacere  affine  alla verità  (65  c-d  i,  chVssa  possiede  (xsxTr^xai)  di  più  la  mi- sura (65  d),  e  che  partecipa  (iisxsayjqrs)  di  p.ù  alla  behà (65  e).  Così  la  conclusione  di  questo  paragone  e  di  tutto il  dialogo  ò  che  <  il  piacere  non  ò  il  primo  bene  (xxf^iia) nò  il  Fecondo;  ma  il  primo  ò  circa  la  mi^ul•a,  il  mode- rato, l'opportuno  e  quant'altre  cose  tali  si  deve  credere aver  sortito  la  natura  eterna  (citò  il  primo  bene  ò  ripo- sto nella  misura,  nel  moderato,  ecc.,  ma  nella  misura, nel  moderato,  ecc.  che  hanno   sortito  la  natura    eterna, vale  a  dire  gl'ideali,  non  i  fenomenali) il  secondo  è circa  il  misurato,  il  bello,  il  perfetto,  il  sufficiente  e  tutte le  altre  co-e  di  questo  genere  »  (questa  seconda  seria  ò il j —  94- identica  alla  prima,  ma  ciascuno  dei  termini  nella  pri- ma significa  Tastratto,  l'attributo  aOxò  xaB'aGxó,  nella seconda  i  concreti,  cose  o  Idee,  che  partecipano  alTat- tributo);  e  nella  scala  dei  beni  (xiV^iiaxa)  il  piacere  ò inferiore  alla  sapienza,  e  occupa  Tultimo  grado  (6^  a-c). Ma  prima  di  finire,  Socrate,  riassumendo  un'altra  volta la  discussione,  dice  :  «  Filebo  afferma  che  il  bene  (xàYa- 0óv)  è  per  noi  il  piacere  tutto   intero io   indignato deiropinione  di  Filebo,  che  è  pure  quella  di  moltissimi altri,  ho  detto  che  l'intelligenza  è  di  gran  lunga  migliore e  più  vantaggiosa  alla  vita  umana  che  il  piacere  ((3G  d-e) .  Noi  abbiamo  visto  in   seguito  della   maniera  più chiara  che  né  l'uno  né  T  altra   é   sufficiente Perciò tanto  il  piacere  quanto  Tintelligenza  essendo  apparsi  in questo  discorso  privi  della  sufficienza  e  della  perfezione, né  Tuno  né  l'altra  potè  essere  il  bene  sfesso  (aOxó) Ma  essendo  apparso  un  altro  terzo,  superiore  ad  amen- due,  Tintelligenza  di  gran  lunga  più  che  il  piacere  ci apparve  affine  alla  essenza  (ì5ia)  del  vincente»  (67  a). Facciamo  ora  qualche  osservazione.  Che  il  primo  be- ne, di  cui  si  parla  a  66  a,  sia  l'Idea  del  bene,  non  po- trebbe esservi  alcun  dubbio.  Ciò  è,  non  solo  perché  alla misura,  il  moderato,  l'opportuno  e  simili,  che  sono  come tanti  aspetti  del  bene,  viene  attribuita  la  natura  eterna, ma  anche  perchè  noi  sappiamo  che  il  primo  bene  vuol dire  per  Platone  l'Idea  del  bene  (1),  conformemente  al- l'uso ch'egli  fa  dei  termini  significanti  l'anteriorità  e  la posteriorità,  di  cui  abbiamo  detto  nel  capitolo  VII.  Ma non  bisogna  credere  che  questo  primo  bene  sia  qualchecosa  di  differente  dal  bene  di  cui  si  tratta  nel  resto  del dialogo.  Che  il  bene  sulla  cui  natura  si  discute   tra  So- li) V.  Arist.  Ehi.  Kud,  1.  I.  Vili. crate  e  i  suoi  iuterlocutori  sia  riguardato  come  un'Idea è  ciò  che  sarebbe  già  sufficientemente  provato  dal  prin- cipio platonico  che  il  concetto  generale  e  la  ricerca  del- l'essenza si  riferiscono  aU'Idea,  non  che  dall'uso  dei  ter- mini che  nel  linguaggio  platonico  significano  le   Idee— il  bene  stesso  (aOxó-67  a),  la  cpóai^  del  bene  (60  b),  del  pro- porzionato (U  d),  dd  bello  (64  e),  l'iòéa  (67  a)— e  il'rap- porto  tra  le  Idee  e  le  cose— esser  presente  (7iapsrvai-60  e), partecipare  (}i£xaXa|JL?dv  eiv-65  e)—.  Ma  la  prova  più  forte l'abbiamo  in  una  moltitudine  di  circostanze  che  dimostrano che  Vti<ivH/Aom',bene  è  elevata  al  rango  di  realtà  sussisteute per  se  stessa.  È  a  qu-^sta  realizzazione  che  si  pensa  natu- ralmente, quando  Platone  dice  che  né  la  vita  di  piacere né  la  vita  d'int"l»igenza  ha  (elyz)  il  bene  (22  b);  che  è  rice- vendo (Xa3wv)  il  beno,    che    la    vita    mista   si   fa   buona f22  d);  che  ogni  vivente  a  cui    é   présente   la    cpóai;   del bene  nm  ha  bisogno  di  a'tro  (60  e);  che  il   bene   è   ciò che  vi  ha  di  più  prezioso  nella  mesco'anza  (64  e,  d,  65  a); ecc..  Ma  questa  rralizzazinne  si  vede  della  maniera  più evidente  quando  Piatone  dice  che  la  verità  (64   b,  <•)    e le  altre  forme  del  bene  (64  e)  fanno  parte  della   mes?o- lanza,  e  sovratulto  quando  paragona  il  rapporto    tra    il bene  e  la  vita  mista  a  quello  di  una  persona  e   la  sua abitazione  (61  a-b),  e  chiama  questa  stessa  vita    l'abita- zione d9\  Bene  (64  e).  Il  bene,  di  cui  si  discute  tra  So- crate   Filebo  e  Protarco,    è   dunque    incontestabilmente l'Idea  del  bene  (noi  sappiamo  come  le  premesse  per  cui Piatone  prova  l'esistenza  dt-lle  Idee  giustificano  la  stra- nezza che  Filebo  e  Protarco,  i  quali  non   sanno    niente della  teoria  delle  Idee,  discutano  nondimeno  sopra  un'I- dea) :  ma  questo  bene  è  quello   che  alcuni    fanno  consi- stere nel  piacere,  e  altri  nella  sapienza;  che   chi   lo    co- nosce cerca  e  appetisce,  sforzandosi  di    attingerlo   e   di possederlo;  che  quando  si  ha,  non  si  ha  più  bisogno  di —  95  — altro;  ecc.;  in  una  parola  lo  stato  dell'anima  in  cui  Pla- tone fa  consistere  la  felicità.  Aggiungiamo  clie   l'imma- nenza dell'Idea  è  provata  inoltre  dalle  esprcssoni  si-ui- ficanti  la  parusia,  che  noi  abbiamo  già  segnalato  in  parte come  prove  della   realizzazione  del  concetto  ;  p.  e.   elio la  vita  mista  non  potrebbe  esistere  veramente,   se   non VI  fosse  mescolata  la  verità -che  è  una  forma  del  Hcnc- (64  b);  che  con  la  verit/i  .s*  rmscolam  in  questa  vita  le oltre   forme  del    Bene  (64   e)  ;  che  essa  é  l' abitazione del  Bene  (61  a-b,  64  e);  che  questo  è  ciò  che  vi    ha    di PIÙ  prezioso  «e//rt  mescolanza  (év  xj  S-Jn.u£g6i -64  e);  eco. Infine,  il  nomo  xx^-ia  rposscpso)  con  cui   è  chiamato   il primo  bette,  e  la  cla.csazione  di   esso  insi-me   agli   altri xxYinaxa,  cioè  la  sapienza,  il  piacere,  ecc.  (a  6C°a.c,  do- ve si  fa  la  granduazionedei  beni),  ci  dicono  abbastanza che  questo  bene  è  anch'esso,    come   il    piacere,    la   sa- pienza e  gli  alcri,  un  beno  nostro,  un  bene  che  noi  pos- sodiamo  o  potremmo  possedere. La  stessa  identificazione  tra  il  bene  obbiettivo -l'Idea - e  il  bene  subiettivo-la  felicità  degli  uomini-ha  luo-o nella  KepubUka,  con  questa  ditferenza  che.  m<'ntr(>  m-l Fikbo  prevale  la^pett  )  subbicttivo,  per  cui  alcuni  i.,- lerprcti  hanno  potuto  negare-cni.c  abbiamo  vsto,  con- tro levidenza  -  che  il  bene  di  cui  si  tratti  il.  questo dialogo,  sia  l'Idea.  invec3  nella  Repubblica  prevale  l'a- spetto obb:cttivo.  Ivi  (I.  VI.  e  VII.)  il  bene  6  presentato come  la  più  alta  delc  Idee,  sovrana  del  mondo  intelli- gibile, e  principio  pI  tempo  Messo  dell'essere  e  del  co- noscere. Jla  questo  stesso  bene  6  il  bene  nostro,  un  pos- sessi del  unstro  fpirit-^.  tì  ciò  che  si  vede  chiaramente dal  luogo  seguente  (505  a-50(5  a):  «Socuate:  La  mas- sima disciplin.i  è  l'Idea  del  bene  (cioè  quella  che  ha  per oggetto  quest'Idea),  della  (juale  (Idea)  le  cofc  gioste  e le  altre  avvalendosi  (7ipoax.orìaa;i£va)   divengono    vanta»- ■na giose  e  convenienti  (cioè  le  cose  giuste  e  le   altre  sono vantag-giose  per  la  presenza  dell'Idea  del  bene) Noi non  conosciamo  sufficientemente  qu^stldea;  ma,  igno- randola, non  ci  sarebbe  di  alcuna  utilità  di  conoscere le  altre  erse  senza  di  essa,  come  non  ci  gioverebbe  di possedere  qualche  cosa  senza  il  bene.  O  credi  tu  che  sia utile  di  avere  qualsiasi  possesso,  ma  non  buono?  o  di conoscere  tutte  le*  altre  erse  senza  il  bene,  e  niente  co- nosci re  di  buono  e  di  bello  ?  U)— Animante  :  Non  lo  credo, per  Giove!— SocR.  :  Tu  sai  che  i  più  credono  che  il bene  sia  il  piacere,  e  altri,  più  eleganti,  l'intelligenza— Ad.  :  Si— SocR.  :  E  che  questi  ultimi  non  sanno  spiegare che  cosa  sia  quest'intelligenza,  ma  infine  sono  ridotti  a dire  che  è  l'intelligenza  del  bene Ma  che?  quelli  che definiscono  il  bene  il  piacere,  non  sono  neir  errore  non meno  ch^  gli  altri  ?  non  sono  essi  costretti  a  con- fessare che  vi  h<ìnno  dei  piaceri  cattivi  ?— Ad.  :  Senza dubbio— SocR.  :  Accade  dunque»,  ad  essi  di  ammettere  che le  stesse  cose  sono  al  teiwpo  stesso  buone  e  cattive E  non  è  chiaro  che  mentre  molti  sarebbero  contenti  di agire  e  di  possedere  le  co-^e  giuste  e  belle  apparenti  ma non  reali,  a  nessuno  però  basterebbe  di  possedere  dei beni  apparenti,  ma  tutri  cercano  i  reali,  e  dispregiano in  c'ò  l'apparenza?  —  Ad.  Certamente— Socr.  :  Ora  su questo  bene,  che  ogni  anima  ricerca,  e  tuito  fa  in  grazia (1)  Xoliamo  che  <iaamlo  Platone  dice  :  "  conoscere  tutte  le  altre cose  senza  il  bone  „  la  parola  />t';i:>  si«^niiìca  evid^nl  omento  l'Idea; danque  ancha  q-aando  ha  dotto:  "  possedere  qualche  cosa  senza  il b3n3  „,  questo  bene,  della  cui  ])oss3ssione  si  tratta,  deve  essere  l'I- dea. Apjghingiamo  che  "  poss.^dere  qualche  cosa  senza  il  bene»  cioè senza  l'idea,  equivale,  non  meno  evidentemente,  ad  avere  qualsiasi possesso  ma  non  buono;  per  conseguenza  il  beno  non  è  che  il  bene attributo  delle  cose  buone. 96 di  esso,  iii'IovinanJo  che  è  qualche  cosa,  ina  dubitando e  non  comprendendo  sufficientemente  che  cosa   sia,    ne avendo  intorno  ad  esso  una  stabile  credenza,    quale  ha intorno  alle  altre  co^e,  per  cui  perde  anche  le  altre  cos^ se  vi  ha  alcun  che  di  utile;  su  tale  e  tanto  oggetto  di- remo noi  che  dovranno  essere    ciechi    i   migliori,    a  cui dobbiamo  affidare  la  somma  delie  cose?»  Socrate   vuol mostrare  con  queste  parole  la  necessità  che  i  magistrati siano  istruiti  nella  disciplina  ch^  ha  per  oggetto  il  bene. Convenutosi  di  ciò,  Adimante  gli  domanda  :  «  Ma  tu,  o Socrate,  credi  che  il  bene  sia  la  scienza,  o  il  piacere,  o qualche  altra  cosa  differente?  »  (506  b).  Socrate  risponde che  non  ha  la  scienza  del  bene,  e  non  vuol  parlarne  se- condo una  semplice  opinione;  perciò  invece  di  dire  che cosa  sìa  il  bene,  parlerà  piuttosto  del  figlio  di  esso,  so- migliantissimo al  padre  (506  ce).  Questo  è  il  sole,    che il  bene  generò  analogo  a  se  stesso  :  ciò  che  esso  è   nel luogo  intelligibile  rapporto  all'intelligenza  e   agrintellì- gibili  (le  Idee),  il  sole  è  nel  luogo  visibile  rapporto  alla vista  e  alle  cose  visibili.  L'uno  regna  noi  mondo   intel- liiiibile,  l'altro   nel  mondo  visibile;  come  il  sole  dà  agli oo-^-etti  visìbili  la  possibilità  di  esser  visti  e   insieme  la gi^nesi  e  raccrescimenlo,  cosi  il  bene  dàagrintelligibili la  possibilità  di  essere  intesi  e  insieme  l'  e^^sere   e    l'es- senza (507-509  dì  (1). La  dottrina  dei  due  elementi  ha  molta  analogìa,  senza esserle  identica,  con  una  dottrina  esposta  nel  Fileho,  che ò  anch'essa  una  del'e  prove  più  evidenti  dell'immanenza delle  Idee.  Io  porrò  sotto  gli  occhi  del  lettore   la    parte del  Fileho  che  si  riferi«^ce  a  questa  dottrina. €  SocR.  :  Dividiamo  in  due,  o   piuttosto    in  tre,  tutti gli  esseri  che  sono  neiruuìvers> Noi  dicevamo  che Dio  ha  insegnato  che  degli  esseri  l' uno  è  illimitato (:J:istpov)  e  l'altro  limite  (jiépac;).  Contiamo  dunque  questi per  due  specie  e  mettiamo  per  terza  ciò  che  risulta  dalla mescolanza  di  amendue....  Per  due  di  questi  generi  cer- chiamo di  vedere  come  ciascuno  di  essi  ò  uno  e  molti, guardandolo  prima  diviso  in  molti  e  disperso,  e  poi  ri- ducendolo nuovamente  ad  uno.  I  due  generi  di  cui  parlo sono  quelli  jhe  ho  posti  dapprima,  cioè  il  limitato  fTispas £Xov)  e  rillimitato.  (I)  Cercherò  di  mostrare  come  l'illi- mitato è  in  certo  modo  molti  :  il  limitato  ci    aspetti Considera  in  primo  luogo  il  pii!i  caldo  e  il  più  freddo, se  scopri  in  essi  qualche  limite,  o  se  piuttosto  il  più  e il  meno  che  si  trovano  in  ques:e  specie,  finche  vi  si  tro- vano, impediscano  loro  di  avere  un  fine  :  infatti  soprav- venendo il  fine,  anch'essi  finiscono  <'.  non  sono  più — Prot.  :  È  vero — Socii.  :  Del  più  caldo  e  il  più  freddo diciamo  dunque  che  vi  ha  sempre  in  essi  il  più  e  il meno— Pkot.  :  Senza  dubbio  — Socr.  :  Questa  ragione  ci mostra  che  queste  due  coee  non  hanno  fine  :  e  non  a- vendo  fine,  esse  sono  necessariamente  infinite  (àicsipo)) Il  torte  e  il  piano  hanno  la  stessa  natura   che (1)  Per  il  s3nso  di  questa  identificaeione  dsl  bene  etico  (la  fe- licità) col  bene  ontologico  (la  forma  gsnerale  di  tutti  gli  esseri) V.  Gap.  VII.  §  16. (1)  Come  si  vede,  Platone  chiama  l'uno  dei  tre  generi— l'opposto dell'illimitato— ora  limite  e  ora  limitato.  Anche  questa  è  un'  imi- tazione dei  Pitagorici:  intatti  questi  chiamano  pure  l'uno  dei  due elementi  dei  numeri  e  delle  cose  ora  limite  o  limitante  (rcspac;,  Tis- palvov)  ora  limitato  (7i£7i£paa|iévov)  V.  perciò  Fr.  di  Filolao ap.  Stob.  I.  454,  I.  456,  I,  458,  Plato.  Fileho  16  e,  Arist.  Met.  1.  I.  V. 5-6,  13,  1.  I.  Vili.  15,  1.  XIV.  III.  14,  ecc. -  97  - / il  più  e  il  meno;  perche  dovunque  si  trovino,  fanno  che la  cosa  non  abb'a  una  quant'tà  d:  terminata,  ma  sia sempre  più  forte  che  nn'alira  più  ])iuna  e  p'ù  piana  che un'altra  più  fort<%  introducordo  in  tu-te  li  azioni  il maggiore  e  il  minore  e  facendone  sparire  l  quanto.  In- fatti, come  si  ù  detto,  se  non  facessero  sparire  il  quanto, ma  lasciassero  questo  e  la  misura  entrare  nel  luogo  del più  e  del  meno,  del  forte  e  del  piano,  questi  sarebbero respinti  dal  luogr»  che  occupavano.  Ne  il  più  caldo  e  il più  freddo  rest.  rcbbero,  se  ricevessero  il  (juanto;  poiché jl  più  caldo  e  il  più  freddo  progrediscono  sempre  senza mai  fermarsi;  il  quanto  invece  si  è  fermato,  e  ha  ces- sato di  progredire.    Il  più   caldo  e  il    p'ù    freddo    sono, per  cons^'gueoz'^,  illimitali Veii   ora   se    aa.mette- remo  questo  carfittere  distintivo  della  natura  deirillimì- tato,  p<  r  non  estenderci  troppo  p-^rcorrenioli  tutti  — Prot.: Quale  carattere  V—Socii.  :  Tutto  ciò  che  ammette  il  più e  il  meno,  il  forte  e  il  piano,  il  troppo  e  tutte  le  qua- lità simili,  bis^giia  porl-^,  com  >  in  una  unità  (w;  sic;  sv) n^l  genere  dell'illimitato,  conformemente  a  ciò  che  si  ò detto  sopra,  ciré  che  bisogna,  per  quanto  ò  possibile, riunendo  (a'jvayaYÓvxas)  ciò  che  è  diviso  e  disperso,  im- primergli il  cor.trassegiìo  di  una  natura  unica Cosi tutte  le  cose  che  non  ammettono  queste  qualirà  ma le  contrarie,  in  primo  luogo  V  eguale  e  V  eguaglianza, poi  il  doppio  e  tutto  ciò  che  è  conie  un  numero  ò  a  un altro  numero  o  una  misura  a  un'altra  misura,  pare  che faremo  bene  riteren  Jole  al  limite....  Quale  Idea  poi  di- remo avere  il  terzo,  cioè  quello  che  risulta  dalla  me- scolanza di  questi  due? Noi  parlavamo  poco  fa  del più  caldo  e  del  più  freddo— Prot.  :  Si— SocrC..  :  Aggiungi il  più  secco  e  il  p'ù  umido,  il  più  e  il  meno  numeroso, il  più  veloce  e  il  più  tardo,  il  più  grande  e  il  più  pic- colo, e  tutto  ciò  che  sopra  abbiamo  posto  nell'unità  della 7 •I natura  che  ammette  il  piùe  il  meno  --Prof.:  Parli  della  na- tura dell'illimitato?— Soc  ?.  :  Si.  Mescola  (au[xji(YVD)  ora  con essa  la  progenie  del  limite— Prot.:  Quale  progenie?— Quella che  avr^^mmo  dovuto  raccoglie  e  in  uno  (oDvaYaysLv  sic,  Iv), come  abbiamo  fatto  per  quella    dell'illimitato,    ma   non abbiamo  ancora  raccolta li   progeiie   dell'eguale, del  doppio  e  di  tutto  ciò  che  fa  cessare  la  dissensione  tra i  duo  contrari,  e  v'introduce  U  misura  e  l'accordo  per mezzo  d»  l  numero— Prot.  Comprendo  :  mi  pare  che  tu dica  che,  se  si  mescolano  insiemi  queste  due  specie,  ri- sulteranno da  ciascuna  mesco'anza  certe  produzioni — SoCR.  :  E  ti  pare  giustamente— Prot.  :  DI'  adunque  — SocR.  :  Non  è  vero  che  nelle  malattie  la  giusta  mesco- lanza di  queste  due  specie  produce  la  sanità?— Prot.  : Senza  dubbio— Sock:  Che  nell'a'juto  e  il  grave,  il  ve- loce e  il  taralo,  che  sono  illimitati,  la  stessa  mescolanza introduce  il  limite,  e  dà  la  pui  grande  perfezione  a  tutta la  musica  ?— Prot.  :  Beoissimo— Socr.  :  Similmente,  nel caldo  e  il  freddo,  essa  fa  cessare  il  troppo  e  l'illimitato, e  vi  sostituisce  la  misura  e  la  proporzione  ?  —  Prot.  : Certamente— Socr.  :  Le  stagioni,  e  tutto  ciò  che  vi  ha di  bello  nella  natura,  nasce -dunque  da  questa  mesco- lanza del  limitato  e  dell' illimitato?— Prot.  :  Senza  dub- bio—Socr.  :  Lascio  da  parte  un'  infinità  d' altre  cose, quali  la  bellezza  e  la  forza  con  la  sanità,  e  nell'anima altre  qualità  bellissime  e  in  gran  numero.  In  effetto  la t'ia  dea  stessa  (la  dea  del  piacere,  cioè  Venere),  o  bel f'ilebo,  considerando  la  deprav^azione  degli  uomini  e  i loro  eccessi  d'  ogni  genere,  e  vedendo  che  non  vi  ha alcun  limita  nei  piaceri  e  nella  soddisfazione  della  con- cupiscenza, vi  ha  stabilito  la  legge  e  l'ordine  che  sono del  genere  del  limitato—..  .  Prot.:  Tu  metti,  mi  sem- bra, nellA  natura  delle  cose,  primo  V  illimitato;  secondo il  limite  ;  in  quanto   al   terzo,    non   comprendo   ancora—  98  - 4: sufficientemente  quello  che  vuoi  dire— Socr.  :  Ciò  è  per- chè la  moltitudine  dei  generi  di  questo  terzo  ti  ha  stor- dito. Tuttavia  anche  V  illimitato  presentava  molti  ge- neri (Ysvr^),  ma  s'ugnati  della  nota  comune  (xw  yìvsi)  del più  e  del  meno,  apparvero  una  cosa  unica  (§v  ècpavr^)  — Prot.  :  É  vero— Socr.  :  li  limite  non  ne  present«ava  un gran  numero,  e  non  abbiamo  avuto  difficoltà  ad  am- mettere che  fosse  ano  di  sua  natura— Prot.  :  Che  diffi- coltà poteva  esservi  ?— Socr.  :  Nessuna.  Di'  dunque  che io  metto  per  terzo  quest'uno  :  tutto  ciò  che  é  prodotto dalla  mescolanza  degli  aliri  due,  tutto  ciò  che  viene  al- l'esistenza per  le  misure  stabilite  col  limite.  » L'interpretazione  della  dottrina  contenuta  nel  luogo citato  p'-esenta  agl'interpreti  dello  difficoltà,  sovratuto perché  essi  si  ostinano  a  identificare  il  limite  (rcépa?)  e l'illimitato  (àpsipov)  del  Fihbo  con  altri  concetti  plato- nici, conosciuti  indipendentemente  da  questo  dialogo. Alcuni  vedono  nel  Tispac;  le  Idee,  altri  le  entità  mate- matiche :  l'àTisipov  equivarrebbe  alla  materia,  che  nel- respos'zione  aristotelica  del  sistema  platonico  viene  chia- mata Non  essere  o  Grande  e  Piccolo.  Siccome  l' imma- nenza del  Ttspac;  e  dell'  àTisipov  del  Fdebo  nelle  cose  ò ÌQCont3siabile,  e  gli  stessi  interpreti  trascendentalisti  sono obbligati  ad  ammetterla,  dall'  identificazione  del  Tiipa; con  le  Idee  segui  necessariamente  l'immanenza  di  queste. Quindi  gl'interpreti  trascendentalisti  preferiscoin  di  ve- dere nel  Tispa^,  piuttosto  che  le  Idee,  le  entità  mate- matiche. Ma  l'ipotesi  della  trascendenza  delle  Idee  non vi  fa  un  gran  guadagno.  Infatti  le  entità  matematiche, quantunque  Platone  le  distingua  dalle  Idee  propriamente dette,  hanno  nondimeno  tutti  i  caratteri  delle  Idee  :  vale a  dire  sono  degli  attributi  generali  delle  cose,  conside- rati come  sostanze,  e  ciascuno  come  uno  e  lo  stesso in  tutte  Je  cose  di  cui  è  l'attributo  (l'uno  nei  molti)  La <  .'Iì  i m I distinzione  delle  entità  matematiche  dalle  Idee,  cóme vedremo  a  suo  luogo  (1),  è  stata  fatta  al  punto  di  vista della  teoria  dei  numeri  ideali,  ed  è  una  dottrina  del- l'ultimo periodo  della  speculazione  platonica  :  cosi  negli scritti  di  Platone  noi  non  troviamo  mai  questa  distin- zione, e  in  alcuni  luoghi  anzi,  come  nel  Fedone  301  e e  104  d,  queste  entità  sono  poste  chiaramente  allo  stesso rango  che  tntte  le  altre  Idee.  Aggiungiamo  che  gli  stessi argomenti  che,  secondo  gl'interpreti  Irascendentalist', provano  la  trascendenza  delle  Idee  propriamente  dette, proverebbero  egualmente  quella  delle  entità  matematiche: p.  e.  anche  le  entità  mitematiche  soud  dette  essere  Tiapa le  cose  (2),  e  chiamate  ^(op'.axa  e  xs^^p'-ajasva  da  esse  (3). Se  le  entità  matematiche  sono  immanenti,  le  Idee  non possono  dunqu3  essere  trascendenti  :  ne  segue  che  se  il TiÉpac;  del  Filebo  e(j[uivalc  alle  entità  matematiche,  s'c- come   esso   è  immanente,    anche  le  Idee   devono  essere immanenti. Ma  io  non  posso  ammettere  l'equivalenza  del  Tiépag né  con  le  Idee  nò  con  le  entità  matematiche.  Del  signi- ficato di  questa  dottrina  del  Filebo  ci  occuperemo  in segu'to  (Suppl.  C.)  :  ivi  vedremo  che  il  uépa^  e  Tàpstpov del  Filebo  sono  speciali  a  questo  dialogo,  e  non  hanno un  equivalente  perfetto  in  altri  concetti  platonici;  e  che questa  dottrina  rappresenta  una  fase  transitoria  nell'  e- voluzione  di  Platone  verso  il  pitagorismo,  il  cui  risul- tato definitivo  fu  la  teoria  dei  numeri  ideali  e  dei   due (1)  Supplem.  C,  III. (2)  V.  Arisi.  Met.  1.  UI.  I.  G,  II.  15,  17,  18,  22,  I.  XIII.    I.  1-2,  IL 3,  5-8  ecc. (3)  Arisi.  Mei.  I.  XI.  II.  7,  1.  XII.  I.  3,    1.  XIII.    VI.    6,    1.    XIV. 1.1  3,  4,  7. /eco. —  99  — -r*— ^ Il'» elementi  delle  Idee  e  delle  cose,  che  noi  conosciamo  per mezzo  di  Aristotile.  Quello  che  c'jmporta  per  ora  è  di costatare  un  fatto  che  è  al  di  sopra  di  txUte  le  conte- stazioni a  cui  ha  dato  luogo  l'interpretazione  della  dot- trina del  Filebo,  K  che  tanto  le  entità  che  Platone  riu- nisce sotto  il  termine  comune  di  :iépac:,  quanto  le  entità che  egli  riunisco  sotto  quello  di  àTisipov,  sono  evidente- mente delle  astrazioni  realizzate  della  stessa  natura  che tutte  le  altre  che  noi  troviamo  nella  filosofia  platonica. Il  più  freddo  e  il  più  caldo,  il  più  veloce  e  il  più  tardo, ecc.  da  una  parte,  e  IVguale,  il  doppio,  ecc.  dall'altra, sono  degli  attributi  delle  cose  elevati,  non  potrebbe  es- servi alcun  dubbio,  al  graio  di  entità  sussistenti  per  se stesse.  Di  più  que-ti  attributi  sono,  non  solo  sostanlifi- cati,  ma  considerati  ciascuno  com'»>  una  sostanza  nume- ricamente unica,  della  j-tes^a  mauiera  che  tutti  gli  altri attributi  delle  cose  che  PUtone  cliva  al  grado  di  so- stanze.  E  ciò  che  risulta  chiaramente  dalle  propos'z'oai in  cui  Platone  riguarda  il  Tiipa;  e  l'ànsipov  ciascuno  co- me uno  e  al  tempo  stesso  molti  (23  e,  24  a,  25  a,  25d, 26  d).  Iq  efTctto  (luest'unità  a  cui  il  muliiplo  viene  ricon- dotto, non  è  per  Platone  un'  unità  semplicemente  con- cettuale, ma  uu'  unità  reale  (l).  Il  T:épa^,  e  così  pure r  aTisipov,  non  è  uno  semplicemente  nel  senso  che  le entità  a  cui  il  termine  viene  applicato  s  no  comprese in  un  genere  unico;  ma  quest'uniu\  importa  di  più  che questo  genere  è  riguardato  come  una  sostanza  unica,  co- me un'Idea.  Per  conseguenza,  anche  e  a«?cuno  dei  molli compresi  nell'unità  del  Tispa;  e  deira-s.pov— l'f^gualc,  il doppio,  ecc.   da  una  parte,  e  il  più  caldo  e  il  più  freddo, (1)  V.  n.  Y,  4.0 il  più  veloce  e  il  più  tardo,  ecc.  dall'altra— è  uno  nello stesso  senso  in  cui  il  Tiépa;  e  l'aTisipov  è  uno  :  vale  a dire  ciascuna  delle  specie  del  Tispa^  e  dell'àTisipov  è  ri- guardata egualinente  coun^.  una  sostanza  unica,  come un'idea.  Ma  gl'interpreii  tras-.-endcntalisti  sono,  come abbiamo  detto,  obbMgati  a  convenire  che  il  Tiépa;  e  Pà- Ttsipov  del  Flhbo  sono  icnmanentì  nelle  cose  :  dunque  es- si devono  anche  convenire  che  le  Idee  platoniche  sono immaneni  nelle  cose  (1). IX.  Tutto  il  reale  per  Platone  si  riduce  alle  Idee.  Cosi egli  chiama  le  Idee  gli  ess?ri  (xà  ovia)  (2)  o  V  essere (xó  ov  (3),  r\  oògìol  (4)  ),  e,  considerate  in  relazione  al  sog- (1)  Un'altra  prova  dell'iinmaiianzi  dolio  Idoo  è  che  Platone  ri- guarda  la  proposjziona  che  il  Tlépac;  e  l'àpsipov  sono  gli  elementi dille  CD-53— cio3  la  dottrina  contenuta  noi  luogo  citato— com3  equi- valente alla  proposizione   che  il  Tlépa^   o    V  loeipO'^    sono   gli   ele- menti dello  Idee.  In  effetto,  sul  principio    del    luogo   citalo,   dice: "  Noi  abbiamo  detto  ch3  Dio  ha  insegnato  elio  degli  esseri  l'uno  è àrcsipov  e  1'  altro    zipa^;  „  (soggi ungondo  ohe,  oltre  a  questi  due, vi  ha  un  terzo  genere,  cioè  quello  che  risulla  dalla  loro  mescolanza, e  che  poi  definisce:  ciò  che  viene  all'esistenza  per  le  misure  sta- bilite col  limite).  Ora  questo  è  un  richiamo  che  si  riferisce  a  16  e, dove  ha  detto  che  «  gli  anticld  che  furono  migliori  di    noi   e  più vicini  alla  divinità  ci  hanno  trasmesso  quest'oracolo,  che    lo    cose ohe  si  dicono  essere  oternamonto  sono  di  uno  e  di  molti,    e    com- prendono in  sé  il  limite  e  rillimilazìone.  »  (Le  cose  che  si  dicono  es- sere eternamente  sono  naturalmonte  le  Idee).  Platone  non  potrebbe considerare  le  «lue  proposizioni  come  equivalenti,   se    le   Idee    per lui  non  si  identificassero  in  un  certo    modo    con  le  cose,    ciò    che sarebbe  impossibile  neiripotosi  della  trascendenza. (2)  F,uìro  241)  e,  ('rat,  431)  c-d,  440  .b.  Fedoni'  66  a,  65  e,  82  e,  83  b, 101  e,  Rcp.  500  b,  532  e,  ecc. (3)  Fedro  248  b,  247  d,  rim.  52  d,  Fedone  65  e,  66  a-c,  FU.  58  a, I^t'p,  477  a,  b,  478  a,  b,  o,  480  a,  48i  e,  d,  4Sa  e,  490  a,  501  d,  511  e, 518  e,  521  e,  d,  525  a,  526  e,  529  b,  533  b,  e,  537  d,  ecc. (4)  Sof,  246  b,  e,  liej),  4S6  a,  523  a,  524  e,  525  b,  e,  526  e,    534  a. Il  reale  risolvendosi  nelle  Idee,  ciascuna  cosa   (ixaaxov)  signi- —  100  — \ getto  conoscente,  i  veri  (xàXyj^)^^  fi)  o  il  vero  (  xàXYjO-é^  (2), ■fi  aXr^^sia  (3))  Ciò  non  si  comprende  che  nell'ipotesi  del- l'immanenza.    Se. le  Idee  fossero  trascendenti,    le  Idee e  le  cose   sarebbero   due   realtà   distinte   e   separate,  e Platone   non   potrebbe   dire   che   tutto   il  reale  consiste nelle  Idee.  Ma  se  le  Idre   sono   gli   attributi  delle  cose, siccome  tutto  Tessere  si  risolve   nei    loro  attributi,  cosi le  C08e  si    risolvono   nelle   Idee,  e   queste  costituiscono tuttala  realtà.    Nell'ipotesi    dell' immanenza,    il    mondo delle  Idee  e  il  mondo  delle  cose.  Vintdligibile  e  il  sensibile^ non  sono  due  mondi  differenti,  ma,  come  abbiamo  detto, un  solo  e  stesso  mondo  visto  da  due  lati  differenti  :  ciò che  Tintelligeuza  vede   come   un   complesso   di    astraiti cioè  d'Idee,  è  quello  stesso  che  i  sensi  vedono  come  un complesso  di  concreti  c:oè  di  cose.  Tra  l' intelligibile   e il  sensibile  vi  ha  in  certo  modo  il  rapporto  che  vi  ha  tra il  semplice  e  il  composto  :  Tintelligenza  decompone  i  con- creti in  astratti,  le  cose  in  Idee  (4).  Platone  non  può  ne- gare che  il  mondo  sensibile  differisce   dal    mondo   m/e/-  . ligibile.  Se  la  realtà  consiste  nel  mondo  intelligibile,  cioè nelle  Idee,  ne  segue  che  il  mondo   sensibile,    cioè   delle cose,  in  quanto  differisce  dal  mondo  delle  I^^ec»,  non  ha lìca  talvolta  in  Platone  :  ciascuna  Idea.  V.  Fedone  G5  e.  IhUì,  66d-e le  Idae  sono  anche  chiamate  le  rose  atesse  (aOxà  xà  TlpdYriaxa). Noi  abbiamo  viste  (al  n.  IJ)  che  per  dire  :  V  Idea  del  movimento, deììcf  stato,  dell'essere,  ecc.,  Platone  si  serve  semplicemente  delle parole  :  il  inovimento,  lo  stato,  Vesaerey  ecc.  :  ciò  suppone  evidente- mente che  le  cose  per  lui  si  ri-;olvono  nelle  Idee. (1)  Fedro  248  o,  247  d,  liej),  519  b,  520  e. (2)  Fedone  66  d,  67  b,  84  a. (3)  Fedro  249  b,  Jiep.  475  e,  /ee?i>.  525  e,  b,  520  b,  eoe. (4)  Confr.  Taine  Posit.  imjL  §  JJ.  JI.  VII,  L'InteHùjA,    1.  l.  1.  e. 2.  IV,  t.  II.  p.  II,  1.  4.  e.  2.  ni,  ecc.. H M realtà.  É  tale  è  in  effetto  la  dottrina  di  Platone.  In  altri rasi,  in  cui  per  verità  si  deve  inteniere  la  conoscenza vera,  e  non  l'oggetto  di  questa  conoscenza,  la  veW^à  si- gnifica la  conoscenza  delle  Idee  (l).  Altrove  la  verità vuol  dire  la  condizione  degli  oggetti  veri,  la  proprietà che  e^si  hanno  di  esser  veri,  e  questa  condizione  o  pro- prietà è  attiribuita  unicamente  alle  Idee  (2).  Cosi  l'Idea ò  chiamata  il  vero  essere  (ov  ovxw;;  («3),  TiavxsXw^  ov  (4), xsXéw^  ov  (5),  slXtxpivw^  ov  (6),  oòoicc  ovxo)^  ouaa  (7),  àXYjO-toc; cpóai^  'yKdpy^oDooL  (8),  ecc.),  ciò  che  implica  che  l'  indi- viduo non  è  tale;  e  questo  vero  essere  e  opposto  alle cose  che  son  credute  essere  (9),  cioè  le  cose  particolari. Il  divenire  (Yèvsa'.c:)  o  ciò  che  diviene  (yiY'^óiisvov)  — è  per quest'attributo  ch'^  P)atoae  caratterizz  i  il  sensìbile  — è  opposto  all'essere  (10)  e  al  vero  (11),  e  sì  dice  di  esso che  non  è  mai  realmente  (12),  che  non  è  un  essere  (13). <1)  V.  Fedro  248  b,  Fedone  65  b,  63  a,  b,  ecc. (2)  7iV/).  508  d,  597  b,  e,  eoo. (3)  Fedro  247  e,  249  e,  Ti,u,  52  e,  FU,  59  d,  R.p.  490  b. (4)  Sof.  249  a,  I^ep,  477  a. (5)  Jiep.  597  a. (6)  Re)).  477  a,  478  d,  479  d. (7)  Fedro  247  e. (8)  Tini,  52  b. (9)  Kep,  490  a-b,  Fedro  249  e,  247  e. (10)  Tini,  29  e,  52  d,  AVj9.  508  d,  518  e,  521  d,  525  b,  525  e,  521  e, 534  a,  ecc. (11)  J^ep,  508  d,  525  e,  eco. i       (12)  Tini,  28  a,  Crat.  439  e. (13)  Tim.  50  b.  Nel  Sof,  246    b    dice  :    i    partigiani  delle  Specie pongono  in  queste  la  vera  oùaia:  iii  quanto  a  ciò  che  i  Fisici  chia- mano veriti\,  essi  lo  chiamano  non  oùoiOL,  mn.  una  certa  genesi fluente. 101  — il  letto  reale  (xXCvyj  ovxo);  o'joa)  (1)  significa  V  Idea  del letto;  là  bellezza  vera  {za  àXY)8-èG  xaXXXog)  (2)  l'Idea  della bellezza;  il  vero  nimero  (6  àXYjGivò^  àpL0|jiós)  <^  le  verj figure  (xà  àXvjH;  axTjfiaxa)  (3)  le  Idee  dei  numeri  e  de' le fig-ure  (cioè,  propriamente,  le  entità  mat^natiche).  L'in- dividuale non  ò  un  essere,  ma  qualche  cosa  di  simile all'essere  (4);  noa  è  né  essere  né  non  essere  ma  parte- cipa dell'uno  e  dell'altro,  è  un  che  di  medio  tra  il  puro essere  e  l'assoluto  non  essere  (3).  I  sensi  non  ci  fanno conoscere  il  vero  (6);  il  sensibile  è  credut*)  vero,  ma  nonlo  è  (7),  almeno  non  ha  una  verità  assoluta  (8);  questi non  si  trova  che  nelle  Idee  (9).  Tra  gli  argomenti  per dimostrare  l'esistenza  delle  Idee  vi  hanno  questi:  se  vi ha  qualche  cosa  di  vero,  esistono  le  Idee,  perchè  niente delle  cose  presso  di  noi  è  vero;  il  numero  è  degli  es>eri, ma  le  cose  presso  di  noi  non  sono  esseri,  dunque  il  nu- mero è  delle  Idee,  e  queste  esistono;  le  definizioni  sono degli  esseri,  ma  nessuna  di  queste  cose  è,  Fono  dunque  le Idee  (10).  Le  fonr.e  che  riveste  succrssivarnent.».  1  \  materia sono  apparenze  (^avxotajjiaxa)  degli  es-^eri  veri,  cioè  de' le (1)  Rf^p,  597  d. (2)  i'Vd/o  249  d. (3)  I?ep.  529  d.. (4)  Jiep.  597  a. (5)  Jeep,  477-479. (6)  Fedone  66  a,  d,  83  a-b,  eco. (7)  Fedo.  83  b,  83  d,  Rep,  597  b,  e",  516  a,  ecc. (8)  Fedo,  83  e,  FU,  59  b.  R^p,  511  e  (cfr.  5iU  a),  ecc. (9)  Fedo,  65  e,  FU,  58  e— 59  e,  Eep,  484  e,  511  e,  ecc. L'Idea  è,  come  il  solo  essere  vero,  cosi  pure  il  solo  essere  certo (pspaiov— V.  Tim.  29  b,  51  d-e).  Il  sensibile  noa  è  certo,  perchè  è qualche  cosa  di  ambigno,  di  cui  non  può  dirsi  né  che  è  né  che  non  è* (10)  Aless.  Afrod.  bi  phU  pr,  I.  t.  56. I,,:l|''I fi li Idee  (1);  ciascun  sltoc,  è  uno  in  se  stesso,  ma  per  là  partéci- pazinne  ad  es'o  dei  corpi  e  dello  aziou',  da  per  tutto  appa- rendo (cfavxa^ó|i£vov),  pare  (cpacvsxat)  molti  (2).  L'acqua, il  fuoco,  l'ari Ji,  la  terra  non  sono,  ma  appariscono  (cpav- xa^sxai)  (.i);  la  materia  pare  (^atvsxai)  acqua,  fuoco,  ecc. secondo  che  riceve  le  immagini  di  questi  (4),  (cioè  delle Idee  dell'acqua,  del  fuoco,  ecc.  Platone  si  esprime  cosi, perchè  1'  acqua  reale,  il  fu^co  reale,  ecc.  sono  le  Idee dell'acqua,  del  fuoco,  ecc.)  Le  cose  non  sono  che  im- magini deMc  Idee;  e  chiamandole  immagini  (slxóvsg  (5), stdcoXa  (6),  ecc.),  Platone  non  vnol  dire  semplicemente ch'esse  sono  fatte  ad  imitazione  delle  Idee,  ma  ancora ch'esse  non  hanno  una  vera  realtà  ;  infatti  queste  st- xóvsc,  £t5(i)Xa,  ecc.  vengono  opposti  agli  esseri  veri  (le I  !ee).  Il  volgare,  che  non  ammette  la  teoria  delle  Idee, vive  coT.c  in  un  sogno  (7),  perchè,  come  colui  che  Fogna, prende  delle  semplici  immagini  per  esseri  reali.  Ciò  che vi  ha  di  reale  negli  oggetti  che  ci  mostrano  i  sen-i,  so-no le  Idee  :  della  grandezza,  della  s mìtà,  della  robu- stezza e,  in  una  parola,  dell'essenza  di  tutte  le  cose,  il verissimo  non  è  ciò  che  ne  percepiscono  i  sensi,  m«a  ciò che  ne  percepisce  la  ragione,  vale  a  dire  le  Idee  (8);  1 sensi  c'ingannano,  e  per  conoscere  la  verità  delle  cose, dobbiamo  rinunziare,  per  quanto  è  possibile,  all'uso  de- gli organi  del  corp'>,  e  contemplare  con  la  mente  ste  sa (1)  Tihi.  52  e. (2)  Rep,  476  a. (8)   Tim.  40  d-50  b. (4)  Tihi,  50  e,  51  b,  52  e. (5)  Fjdè'O  250  b,   Tim.  23  b,  e,  52  e,  ecc. (6)  Fedro  250  d,  Rep.  523  e,  532  e,  5B4  e,  CjhvUo  212  a,  eC3. (7)  Rep.  476  e,  Rep,  534  e,   Titn.  52  b,  ecc, (8)  Fedone  65  e. •  i   "  > per  se  stessa  gli  esseri  stessi  per  se  stessi,  cioè  Tintelli- gibile  ed  invisibile  (1);  a  traverso  il  corpo,  noi  vediamo gli  esseri  (le  Ider),  come  a  traverso  un  carcere  (2). Da  tutte  queste  proposizioni  risulta  con  la  più  grande evidenza,  quantunque  Platon",  bisogna  confessarlo,  ron lo  formuli  mai  nettamente,  il  conc^^tto  che  le  cose  sono alle  Idee  ciò  che  l'apparenza  è  alla  realtà:  ciò  che  è  in realtà  un  mondo  d'Idee  apparisce  come  un  mr»ndo  di cose,  d'individui  concreti.  In  effetto,  se  le  cose  non  sono una  realtà,  saranno  un'apparenza:  ma  un'apparenza suppone  una  realtà  che  apparisce  divera  da  quello  che è;  per  conseguenza,  non  essendovi  altro  di  reale  che  le Idee,  la  realtà,  di  cui  il  mondo  sensibile  è  l'apparenza, non  può  essere  che  il  mondo  ideale.  Se  le  Idee  fossero separate  dare  cose,  noi  non  comprenderemmo  come  possa negare  la  realtà  del  sensibile,  e  ridurre  tutto  il  reale  alle Idee:  -na  se  le  Idee  sono  comprese  nelle  cose,  e  costi- tuiscono la  sola  realtà,  ciò  che  vi  ha  di  reale  nel  mondo sensibile  non  sarà  ch'3  il  mondo  d'elle  Idee,  e  allora  il mondo  sensibile,  come  tale,  sarà  l'apparenza  del  mondo delle  Idee.  Considerando  il  mondo  sensibile  come  un'appa- renza, Platone  non  intende  negare  la  sua  obbiettività,  per- chè egli  non  ammette  che  ciò  che  i  sensi  percepiscono  sia un  semplice  fenomeno  subbiettivo.  Per  Platone,  come  per Hegel,  il  mondo  che  noi  chiamiamo  reale  è  un'  appa-renza delle  Idee,  ma  un'apparenza  obbiettiva.  Senza  dub- bio un'apparenza  oltbiettiva  è  una  contraddizione  nei  ter- mini; perchè  una  cosa  non  reale,  un'apparenza,  signi- fica un  fenomeno    subbiettivo  che  si  prende  a  torto  per IJ! H n una  cn.ca  obbiettiva.  Una  cosa,  di  cui  si  riconosce  l'ob- biettività, non  può,  d'una  maniera  intelligibile,  clas^^arsi tra  le  cose  il  cui  caratterd  essenziale  è  la  mancanza  di  ob- biettività; ma  questa  classazione  ininte]li;;ibile  era  il  solo mezzo  che  Platone  potesse  tentare  |  er  conciliare  l'esi- stenza di  un  mondo  di  cose  col  principio  che  ogni  realtà consiste  neMe  Idee.  Questa  riduzione  del  sensibile  a  una apparenza  dell' intelligibile  spiega  perchè,  tra  tutte  le filosofie  preced«nt',  l' eleatica  fo'^se,  dopo  la  pitagorica, quella  di  cui  Platone  riconoscesse  il  legame  più  intimo con  la  sua  propria  filosofia  :  è  che  per  Platone,  come  per gli  Eleati  (1),  il  mondo  mutabi'e,  percepito  dai  sensi,  èl'apparenza  obbiettivi  d'una  realtà  immutabile. Il  concetto  che  le  co«e  sono  1'  apparenza  delle  Idee sarebbe  evidentemente  incompatibile  con  la  dottrina  della trascenienza.  Primo,  perché,  come  abbiamo  notato,  se le  Idee  f.>ssero  separate  d^lle  cose,  Platone  non  potrebbe ridurre  tutto  il  remile  alle  Id'^.e,  e  non  avrebbe  alcuna ragione  per  negare  la  realtà  del  sensibile.  Secondo,  per- chè questo  concetto  suppone  che  il  mondo  delle  Idee  e il  mondo  degl'individui,  l'intelligibile  e  il  sensibile,  siano, non  due  cose  differenti,  ma  due  aspoti  differenti  di  una sola  e  stessa  cosa.  Noi  abbiamo  confessato,  è  vero,  che questo  concetto'  non  si  trova  in  Platone  nettamente  for- mulato. Ma  l'identità  tra  le  cose  e  le  Idee,  che  esso suppone,  è  ammessa  della  maniera  più  netta  in  molte delle  proposizioni  da  cui  lo  abbiamo  ricavato  :  p.  e. quando  dice  che  ciò  che  vi  ha  di  verissimo  nelle  cose è  quello  che  ne  percepisce  1'  intelligenza,  vale  a  di- re  le   Idee   (2)  ;    ch^   a    traverso   gli    organi  del    corpo (1)  Fedo  65  e-66  a,  66  d-e,  83  a-b. (2)  Fedo  82  e. (J)  V.  Appeud.  alla  parlo  p.-ima,  e.  ^°,l  6.° (2j  Fedone  65  e,  luogo  citato. —  103  — i:  ' noi  vediamo  gli  esseri,  ci'^è  le  Idee,  coinè  a  traver- so un  career  vi  (l)  ;  qiiand)  chiama  le  Idee  gli  es- seri ;  quando  dice  :  ciascuna  cosa  (Sxaaxov),  |>cr  signi- ficare :  ciascuna  Idea  (2)  ;  ecc:.  Questa  iJenti  ;i  tra  le Idee  e  le  erse,  incoucepibile  nell'ipotesi  della  trascen  lenza, è  una  conseguenza  logica  di  quella  dell'immanenza.  In effetti,  come  abbiamo  più  volte  osservato,  l'astratto  e  il concreto,  o,  più  generalmente,  il  più  astratto  e  il  più concreto,  non  sono  degli  oggetti  differenti,  ma  uno  stesso oggetto  a  gradi  differenti  di  determinazione  ;  questi  gradi differenti  di  determinazione,  che  al  punto  di  vista  ordi- nario non  esistono  che  nella  nostra  intelligenza,  sono elevati  dalla  mi^tafisica  realista  a  realtà  obiottive;  ma questa  stessa  metafisica  non  può  non  riconoscere  l'iden- tità dell'oggetto,  di  cui  essi  sono  i  gradi  differenti  di determinazione;  e  perciò  i.e  fa  degli  aspetti  o  df>gli  stati difft^ reati  di  uno  stfsso  essere,  che  nei  gradi  successivi di  determinazione  che  c^so  percorre,  si  conserva  nondi- meno sempre  identico  a  se  stesso.  Ci  resta  a  spiegare perchè  quest'ultimo  grado  della  determinazione  dell'es- sere, che  è  l'individuo,  non  abbia  per  Platone  (e  in  ge- nerale per  tutti  i  filosofi  che  uniscono  al  realismo  il metodo  dialettico)  che  il  valore  di  una  semplice  appa- renza. La  ragione  più  ovvia  per  riguardare  il  sensibile  come un'apparenza  ò  ch'esso  ò  in  contraddizione  con  l'altro aspetto  deiressere,  la  cui  realtà  deve  stare  più  a  cuore a  Platone,  cioè  con  l'Idea.  Ciascun  sl5og  è  uno,  ma  noi lo  vediamo  come  molli,  disseminfito  nello  spazio  e  nel tempo  :  di  questi  due  aspetti    contraddittori  dell'  essere, i i rintelligibiie  e  il  s<jnsìbile,  Platone,  sacrificando,  come lutti  i  metafisici,  il  dato  dell'esperienza  al  risultato  dt-lla speculazione,  dichiara  che  il  reale  è  il  primo  e  il  secondo è  un'apparenza,  che  l'sleo^  è  uno  in  se  stesso,  ma  pare molti.  Tuttavia  una  consideraz'one  più  attenti  mostra clic  questa  ragione  non  basterebbe  per  se  sola  a  negare Iri  realtà  del  sensibile. In  ette!to  questa  centra  Idizioue  tra  l'uno  e  i  molti  si trova  a  ciascun  passo  della  determinazione  progressiva d^irid'ja  :  come  l'Idea  specifica  diviene  molti  negl'indi- vidui che  ne  partecipano,  co>i  l'Idea  generica  diviene molti  nelle  Idee  specifiche  che  ne  partecipano.  Quci^ta moltiplicazione  dell'  Idea  nelle  Idee  più  particolari  ad essa  subordinate  è  per  Platone  anch'essa  una  semplice apparenza  :  ciascun  sldog  pare  molti,  tanto  per  la  parte- cipazione de'lc  azioni  e  dei  corpi,  quanto  per  la  partecipi- zioiic  degli  altri  slòri  W-  Ma  Platone  non  dichiara  perciò che  le  Idee  particolari  sono  delle  semplici  apparenze  del- l'Idi a  generale  :  è  che  vi  ha  in  esse,  oltre  l'elemento  ge- nerico, che,  come  molti  e  diverso  nelle  diverse  Idee,  è un'apparenza  dell'Idea  generica,  un  elemento  differen- ziale; e  questo  è  irriduttibile  all'Idea  generica,  e  reale come  eséa.  Ora  anche  nell'individuo  vi  ha  un  elemento differenziale,  che  si  aggiunge  all'  elemento  specifico  : sembra  perciò  che  Platone  dovrebbe  conservare  la  realtà degrindividui  in  grazia  delle  differenze  individuali,  come conserva  quella  della  Specie  in  grazia  delle  differenze specifiche. Al  cominciamento  di  questo  numero,  per  ispiegare la  dottrina  di  Platone  che  tutto   il   reale   consiste   nelle (1)  Fedone  82  e,  loogo  citato. (2)  Fedone  65  e,  luogo  citato. (1)  V.  Rep,  476  a. - »-r" ' i i I Idee,  noi  abbiamo  detto  che  gli  esseri  si  decompongono nei  loro  attributi,  i  quali,  considerati  gen'^ralmeite,  sono d^»lle  lie»^.  Infntti  questa  è   la    sola   ragione    plausibile, che  Platone  e  ogni  altro  nietafis'co  che  prot 'ssa  lastessa dottrina,  potrebbe  addurre  per  giustificarla;  ed  io  ho  ci- tato il  Taine,  il  quale  ammette  effettivamente  che  il  rap- porto   tra  le  entità   generali  —  corrispondenti    alle   Idee platoniche  —  e  le  cose  è  quello  che  vi  ha  tra  le  parti  e i  tutti,  i  componenti  e  i  composti.  A  questo  punto  di  vista» l'elemento  differenziale,  che  si  aggiunge  alla  Specie  por costituire  l'individuo,  sarebbe  un  complesso  di  caratteri,  di cui  ciascuno  è  generale  e  corrisponde  a  un'Idea,  e  che  ba- sta a  determinare  V  individuo,  perchè  il  conceremo  di  tutti non  ha  luogo  che  in  un  singolo  individuo.  Ma  questo  punto di  vista  ò,  rigorosamente  parlando,  inammissibile.  Vi  ha. necessariamente  nell'  individuo  un  elemento,  chi*,  è  irridut- tibile  al  generale,  all'Idea.  Prima  di  tutto,  la  posizione  in un  punto  determinato  dello  spazio  e  del  tempo.  Poi,  un cumulo  di  caratteri  generali,  per  quanto  si  moltiplichino, non  potrebbe  fornire  una  rappresentazione  adequata,  pre- cisa, dell'  individuale.  È  perciò  che  i  realisti  del  medio  evo ammettevano  un  principio  particolare,  V  ecceità,  che  si aggiungeva  agli  Universali  per  formare  l' individuo.  Il vero  motivo  per  cui  Platone  e  gli  altri  filosofi,  i  cui  si- stemi sono   costruiti  sullo  stesso  tipo  del  sistema  plato- nico, non  fanno  come  i  realisti  del  medio  evo,  ma  risol- vono tutto  il  reale  in  entità  generali,  bisogna  cercarlo, non  nel  realismo  per  se  stesso,  ma  nella  dialettica. Io  chiamo  dialettica  ogni  metodo  in  generale  di  de- durre i  concetti  realizzati  (che  Platone  chiama  Idee)  gli uni  dagli  altri,  allo  scopo  di  assimilare  il  rapporto  tra il  principio  e  la  conseguenza  a  quello  tra  la  causa  e  lo effetto.  La  dialettica  non  ò  un  semplice  processo  sub- iettivo per  dimostrare  le  cose,  ma  è  il  processo  stesso per  cui  le  cose  si  producono,  la  legge  della  loro  causazione reale.  Questa  legge  non  determina  le  successioni  cronolo- giche dei  fenomeni,  ma  le  succe-isioni  logiche  delle  entità in  cui  la  mot;ifis'ca  realista  r.solve  il  reale.    Queste  en- tità si  deducono  le  une    dall«ì  altre   secondo  un  metodo costante  fche,  p.  e,  per  Platone  è  la  divisione  del  genere nelle  sue  specie,  per  Hegel  il  passaggio  dalla  tesi  all'an- titesi e  poi  alla  sintesi);  e  il  proprio  di  questa  deduzione è  che  fra  le  entità  che  si  deducono    e   quelle    da   cui  si deducono,   non  vi  ha  semplicemente  il  rapporto  logico di  conseguenze  e  dì  principii,  ma  anche  il  rapporto  on- tologico di  f fleti  i  e  di  cause,  poiché  l'essenza  della  me- tafisica di  cui  parlian^o  consiste  nella  identificazione  di questi  due  rapporti.  Il  nietfdo    per  cui   procede   questa deduzione  essendo,  come    abbiamo    detto,    la   legge   di causazione  delle  entità  ch<>,  secondo   la    metafi^jica   rea- lista, costituiscono  il  reale,  ton  può  esservi    niente  nel reale  che  non  si  uniformi  a  questa  legge,  cioè  che  non possa  dedursi  secondo  questo  metodo;  della   stessa   ma- niera che  tra  i  fenomeni  non  può  esservene  alcuno  che non  si  uniformi  alle  legji  di  causazione  dei    fenomeni. Ora  nessun  metafisico    potrebbe   pretendere    di   dedurre l'individuale;  poiché  la  scienza  non   aspira  a  conoscere l'individuale,  ma  solo  il  generale.  L'individuale  non  può dunque  uniformarsi  alla  legge  dialettica  che  governa  il reale  :  la  sua  esistenza  è  in  contraddizione   con  questa Ifoge;  quardo,  nella  determinazione  progressiva  dell'es- sere, arriva  il  momento  finale  (finale  almeno   nel  siste- ma platonico),  in  cui  si  passa  dall'astratto  al  concreto, dal   generale    all'individuale,    accade   un  avvenimento senza  causa.  Ecco  perchè  il  metafisico  real'sta  non  conta quest'avvenimento  fra  i  gradi  reali  dello    sviluppo   del- l'essere, e  dichiara  il  sensibila  una  semplice  apparenza.  Il metafisico  realista  non  fa  che  quello  che  noi  stessi  farem- —  105  — I. mo  innanzi  ad  un  avvenimento,  di  cui  saremmo  eerti che  non  vi  hanno  nel  mondo  esteriore  degli  antecedenti capaci  di  determinarlo  :  noi  lo  dichiareremmo  un  sogno 0  un'illusione,  il  criterio  principale,  se  non  Tutiico,  per distinguere  il  sogno  o  V  illusione  dalla  realtà,  essendo  la possibilità  o  meno  di  mettere  un  fenomeno  in  connes- sione causale  cogli  altri  fenomeni  che  costituiscono  la serie  che  noi  chiamiamo  il  mondo  reale  (1). Ci)  Tutti  i  metafisici  che.  come  Platone,  realizzano  i  concetti,  e  am- mettono che  questi  concetti  realizzati  possono  deduisi  gli  uni  dagli  al- tri secondo  un  metodo  costante  (che  noi  chiamiamo  dialettico,  perchè cosi  è  stato  chiamato  dai  più  celebri  rappresentanti  di  questa  forma  di metafisica,  Platone  ed  Hef?el),  riguardano  il  sensibile,  l'individuo,  come non  reale,  ma  soltanto  apparente.  Schelling  dice:  Non  vi  ha  passaggio continuo  dall'assoluto  (l'entità  suprema  da  cui  tutte  le  altre  procedono, la  pia  astratta  di  tutte)  al  mondo  sensibile;  non  si  può  concepire  l'ori- gine del  mondo  fenomenale  che  per  un  salto,  per  una  discontinuazione perfetta  dell'azione  dell'assoluto.  Perche  fosse  possibile  di  dedurre  dall'as- soluto la  nascita  delle  cose  reali  (cioè  che  noi  chiamiamo  tali),  biso- gnerebbe che  esse  avessero  in  lui  la  loro  ragione  positiva  :  ora  n^n  vi ha  in  Dio  (cioè  nell'assoluto)  che  la  ragione  delle  Idee,  e  le  Idee  alla  loro volta  non  producono  che  delle  Idee,  e  niuna  azione  positiva  procedente da  esse  o  dall'assoluto  può  formare  un  passajrgio  da'I' infinito  (il  mondo delle  Idee)  al  finito  (il  mondo  dei  fenomeni).  L:i  filosofia  non  ha  alle cose  fenomenali  che  una  relazione  negativa  :  essa  hu  meno  per  oggetto di  provare  che  esse  sono,  che  di  mostrare  che  esse  non  sono  (V.  Willm Stor.  della  fiL  aUm.  da  Kant  sino  ad  Hegel  v.  3.  pag,  300-301)  H»gel nella  Logica  paragr.  213  :  «  L'idea  è  il  vero;  perchè  il  vero  consiste  nella conformità  tra  la  nozione  e  il  suo  oggetto....  Ogni  essere  reale  tira  la sua  realtà  dall'Idea,  e  non  è  che  per  l'Idea  che  è  un  essere  reale...  L'in- dividuo non  corrisponde  alla  sua  nozione  (e  per  conseguenza  manca  di verità).  »  Nell'Introduzione  all'Enciclopedia  parag.  VI  :  «  Un'osservazione attenta  del  mondo  distingue  ciò  che,  nel  vasto  dominio  dell'  esistenza interna  ed  esterna,  non  è  che  un'apparenza  fuggitiva  ed  insignificante  da ciò  che  ba  una  vera  realtà.  ..  Dio  (cioè  l'Idea)  é  la  realtà  più  alta  e  la sola  realtà,  e,  relativamente  alla  forma,  l'esistenza  è  in  parte  apparenza I 1^ Il  Zeller,  quantunque  sia  Tuno  dei  principali  rap- presentanti dell'interprctazioDe  trascendentalista,  rico- nosce che  dalle  proposizioni  di  Platone  sulla  realtà  delle sole  Idee  e  la  non  realtà  del  sensibile,  ne  segue  il  con- cetto che  il  mondo  sensibile  non  è  che  un  fenomeno  del mondo  ideale.  Egli  ammette  che  questo  Iato  della  dot- trina platonica  è  in  contraddizione  con  l'altro  lato  che egli  le  attribuisce,  cioè  la  separazione  tra  le  Idee  e  le cose;  ma  secondo  lui  esso  importa,  non  l'immanenza delle  Idee  nelle  cose,  ma  l'immanenza  deUe  cose  nelle Idee  (1).  E  in  verità  si  deve  convenire  che  sarebbe  più e  in  parte  realtà.  Nella  vita  ordinai  ia,  tutti  gli  avvenimenti,  l'errore,  il male  e  tutto  ciò  che  appartiene  a  quest'ordine  di  cose,  come  anche  ogni esistenza  passeggiera  e  peribile,  sono  accidentalmente  chiamati  delle  real- tà ».  Nota  di  Vera;  «  Vi  ha  nel'e  cose  un  elemento  apparente,  accidentale» esteriore,  e  un  elemento  reale,  necessario  ed  interiore.  È  quest'elemento  che è  l'oggetto  della  filosofia  ».  Vera  nell'Introduzione  alla  filosofia  della  natura di  Ile;;el,  e.  IX  :  «  Il  tempo  e  lo  spazio  costituiscono  il  sustrato  e  come  i  due fattori  del'a  natura;  di  tal  sorta  che  ciò  che  è  uno  vi  ipparisce  come  molti,  e ciò  che  è  simultaneo  vi  apparisce  come  successivo.  E  questo  apparire non  è  un  fatto  o  uno  stato  puramente  subbiettivo  ed  esteriore  alla  na- tura, ma  costituisce  la  condizione  e  la  forma  stessa  della  sua  esistenza.  » Taine  nel  Posil.  intjl.  §  11.  VII  ;  «  Questo  magnifico  mondo  in  movimento, questo  caos  tumultuoso  d'avvenimenti  che  s'incrociano,  questa  vita  in" cessante  infinitamente  variata  e  multipla,  si  riducono  ad  alcuni  elementi  e  ai loro  rapporti.  Tutto  il  nostro  sforzo  consiste  a  passare...  dal  complesso al  semplice,  dai  fatt  alle  leggi,  dalle  esperienze  alle  formule.  Sinché  non guardiamo  la  natura  che  per  l'osservazione  sola,  noi  non  la  vediamoquale  è  ;  noi  non  abbiamo  di  essa  che  un'idea  provvisoria  e  illusoria* Essa  è  propriamente  una  tappezzeria  che  noi  non  vediamo  che  dal  rovescio. Ecco  perche  cerchiamo  di  voltarla.  Noi  ci  sforziamo  di  distinguere  delle leggi..,  noi  scopriamo  delle  coppie  (di  entità  astratte)...  noi  passiamo dall'accidentale  al  necessario,  dal  relativo  all'assoluto,  dall'apparenza  alla verità». (1)  Filos.  dei  Greci  II,  I,  pag.  625. —  106  — r<- esatto  di  riguardare  il  fenomeno  come  inerente  nella  so- stanza, che  la  sostanza  come  inerente  nel  fenomeno.  È qui  dunque  il  luogo  di  domandarci  se  s^a  più  giusto  di formulare  il  rapporto  tra  le  Idee  e  le  cose  nel  sistema platonico,  dicendo  che  le  Idee  sono  immanenti  nelle  co- se, 0  dicendo  piuttosto  che  le  cose  sono  immanenti  nelle Idee. Effettivamente  il  rapporto  tra    le  Idee   e  le  cose,   o, più  generalmente,  tra  il  generale  e  il  particolare,  è  con- cepito da  Platone  dell'una  e  dell'altra  maniera.  Queste due  concezioni  corrispondono    alle    due   formule,    Vuno nei  molti  e  Vuno  è  molti.  Secondo  la  prima,  l'Idra  ge- nerica è  contenuta  nell'Idea  specifica,  e  questa  negl'in- dividui. Secondo  l'altra,  l'Idea  generica  è  la  stessa  cosa che  la  totalità  delle  Idee  specifiche,  e  contiene  quinii  le Idee  specifiche;  e  similmente  l'Idea  specifica  è  la  stessa cosa  che  la    totalità    degl'individui,    e   contiene    quindi grindividui.  Vi  ha  però  una  differenza   tra   il   rapporto dell'Idea  generale  con  le   Idee    più  particolari   ad   <  ssa subordinata  e  quello  dell'Idea  con  le  erse;  ed  è  che  nel primo  caso  l'uno  e  i   molti— cioè   Tldea  generale   e   le Ide?  particolari  subordinate— sono  riguardati  da  Platone come  due  aspetti  o  due  stati  egualmente  r«»ali  che  Tes- sere   attraversa   successivamente    neUa  sua    progressiva determinazione;  invece,  quando  l'uno  r;ipprp.8enta  l'Idea e  i  moiri  le  cose,  di  questi  duo  a-petti  dell' essere   uno solo,  Vuìio^  è  riguardato  come  reale,  e  l'altro,  i  molli^  è riguardato  come  una  semplice  apparenza. Questi  rapporti  contrari  di  contenenza  reciproca  tra il  generale  e  i  particolari  non  sono  al  fondoche  la  dop- pia  re:azione  che  può  stabilirsi  tra  i  concetti,  secondo che  si  guardano  nella  loro  estensione  o  n^lla  loro  inten- sione :  guardati  nell'  intensione,  il  particolare  contiene  il generale;  guardali  neiresiensione,  il  generale  contiene  il11 il  ' '1 i particolare.  Tuttavia  bisogna  riconoscere  che  queste  due maniere  di  concepire  la  relazione  tra  le  Idee  generali  e  le Idee  particolari  e  tra  le  Idee  e  le  cose  non  sono  perfetta- mente congruenti  :  ciò  non  è  solo  per  la  contraddizione  che vi  ha  a  rappresentarsi  una  cosa  come  parte  di  un'altra,  e  al tempo  stesso  quest'altra  come  parte  della  prima  (secondo la  formula  dell'immanenza  delle  Idee  nelle  cose  e  dello Idee  generiche  nelle  Idee  specifiche,  l'Idea  sarebbe  nella cosa  e  l'Idea  generica  nell'Idea  specifica  come  una  parte nel  tutto;  se«*,ondo  la  formula  contraria  invece  le  Specie sarebbero  parti  del  Genere  e  gl'individui  della  Spec'e); ma  ancora  perchè  le  due  concezioni  suppongono  in  so- stanza due  concezioni  differenti  dell'Idea.  Il  concetto può  considerarsi  a  due  punti  di  vista  differenti  :  come rappresentante  l'oggetto,  a  cui  si  riferisce,  considerato d'una  maniera  astratta  e  generale;  e  come  rappresen- tante l'attributo,  per  la  possessione  del  quale  a  que- st'oggetto viene  dato  il  nome  corrispondente  al  concetto. Questi  due  punti  di  vista  corrispondono  al  nome  con- creto e  al  nome  astratto  ;  p.  e.  animale  ed  animalità. Di  qu?8ti  due  aspetti  o,  se  sì  ama  meglio,  di  queste  due forme  del  concetto,  qual  è  che  realizza  Piatone  ?  è  la rappresentazione  astratta  del  soggetto  animale,  o  quella dell'attributo  animalUd  V  L'unae  l'altra;  e  quantunque  la realizzazione  dell'una  non  sia  perfettamente  identica  a quella  dell'altra,  egli  non  vi  fa  alcuna  differenza.  Infatti egli  chiama  indifferentemente  l'Idea  sia  col  nome  con- creto :  p.    e.    il  grande  (1),  il  piccolo  (2),  il  padrone  (3), (1)  Fedo  100  b,  Parm,  132  a. (2)  Parm.  131  d. (3)  Parm.    V    "^.'    T^ il  servo  (1),  Tuomo  (2),  il  bue  (3);  sia  col  nome  astratto  : p.  e.  la  grandezza  (4),  la  piccolezza  (5),  la  padronan- za (6),  la  servitù  (7),  la  7nen6*aZ//à  (xpaTis^óxyjs  da  TpocTis^a mensa)  (8).  Evidentemente,  per  riguardare  Tldea  come contenuta  nelle  cose  e  Tldea  generica  come  contenuta nelle  Idee  specifiche,  l'Idea  deve  essere  la  realizzazione dell'attributo,  p.  e.  dell'animalità;  ma  per  riguardare le  Idee  generiche  come  contenenti  le  Idee  specifiche  e queste  come  coDt:'nenti  le  cose,  l' Idea  devo  essere  la realizzazione  del  soggetto,  p,  e.  dell'animale,  astratta- mente considerato.  Di  queste  due  concezioni  dell'Idea  è la  prima  che  prevale,  come  apparisce  da  tutte  le  e- spressìoni  del  rapporto  tra  le  Idee  e  le  cose  significanti o  implicanti  la  parusia  :  è  che  è  cosi  che  noi  possiamo rappresentarci  della  maniera  possibilmente  più  netta  le Idee  e  la  loro  relazione  con  le  cose  e  tra  di  loro;  per conseguenza  qurl'i  che  rigettano  la  sepaiaiione  tra  le IJeo  e  le  cose  preferiranno  sempre  la  formula  dell'im- maneu'za  delle  Idee  nelle  co<je.  Ma  quando  Platone  si mette  più  specialmente  al  punto  di  vista  della  dialettica, egli  deve  abbandonare  questa  concezione  per  l'altra  ; poiché  è  evidente  che  non  è  p.  e.  la  sostanzialità  (^l'at- tributo)  che  si  divide  in  corporeità  e  spiritualità,  ma  è la  sostanza  (il  soggetto)  che  si  divide  in  spirito  e  corpo; (1)  Parm.  J33  d-e, (2)  FU,  15  a. (3)  Ibid. (4)  redo.  100  e,  101  a,  Parm,  131  e,  d,  132  a. (5)  Fedo.  JOO  e,  101  a. (6)  Parm.  133  e. (7)  Parm.  133  e. (8)  Diog.  Laert.  VI.  63. I lì / il il H e  che  non  é  ^animalità  che  si  divide  in  umanità  e  bru- talità, ma  è  l'animale  che  si  divide  in  uomo  e  bruto.  A questo  punto  dì  vista  la  formula  più  giusta  del  rapporto tra  il  generale  e  il  particolare  è  l'immanenza  del  secondo nel  primo,  cioè  delle  Idee  specìfiche  nel'e  Idee  generiche —conformemente  al  Timeo  39  e,  in  cui  Platone  dice  che l'intelligenza  vede  le  Specie  degli  animali  inesìstenti(èvouoag)  DeirAnimale  in  sé— e  per  conseguenza  anche delle  erse  nelle  Idee.  Bisogna  dunque  riconoscere  que- st'oscillazione dì  Platone  nel  concepire  l'Idea  :  ma  non si  deve  dimenticare  che  le  due  co)icezioni  differenti  sono l'una  e  l'altra  esclusive  della  trascendenza  delle  Idee; che  l'Animale  in  se  stesso,  cioè  l'astratto,  non  è  sepa- rato dall'animale  concreto,  ma  è  identico  con  esso,  per- chè runo  è  i  molH,  e  i  molti  sono  Vuno'^  e  l'Animalità in  se  stessa  non  è  separata  dall'animalità  che  è  l'attri- buto dell'animale  concreto,.ma  è  questa  stessa  animalità, perchè  Vuno  non  è  fuori  dei  molti,  ma  nei  molti, X.  La  dottrina  della  non  realtà  delle  cose  sensibili  è legata  in  Platone  con  quella  d(  l  loro  continuo  divenire. Egli  ammette  la  tesi  di  Eraclito,  con  gli  sviluppi  che le  aveano  dato  gli  eraclitizzanti  più  recenti.  Il  presup- posto su  cui  erano  fondate  le  conseguenze  che  questi tiravano  dalla  dottrina  del  maestro  era  che  ciò  che  can- gia di  un  cangiamento  continuo  non  è  mai,  nel  tem- po in  cui  cangia,  in  uno  stato  determinato  (l)  :  essi  ne concludevano  che  delle  cose,  che  sono  in  un  contiauo divenire,  non  vi  ha  alcuna  conoscenza  possibile,  poiché niente  potrebbe  dirsi  di  vero  di   ciò   che  non   è    d'una (1)  V.  per  questa  proposizione  Append.  alla  1 .  parte  oap.  l.  §  6, e  parte  2.  Le  antinomie  della  ragione.  maniera  determiaata  (1).  A  questa  conseguenza  della tesi  eraclitica,  che  Platone  restringe  naturalmente  al sensibile  (2),  egii  ne  aggiunge  un'altra,  cioè  cheeiòche diviene  non  è,  proposizione  che  senza  dubbio  viene  an- ch'essa dedotta  dal  medesimo  presupposto  (3).  Per  l'e- satta comprensione  del  legame  tra  la  dottrina  del  con- tinuo divenire  delle  cose  e  le  conseguenze  che  gli  Era- clitizzanti  e  Platone  ne  deducevano,  io  rinvio  perciò  ai luoghi  di  qu-^sto  scritto  sopra  indicati.  La  quistione  che per  ora  c'interessa  è  un'altra,  cioè  :  quando  Platone  op- pone l'Idea  eterna  e  sempre  la  stessa  alle  cose  che  na- scono e  periscono  e  sono  in  un  divenire  continuo,  parla egli,  come  intendono  gì'  interpreti  trascendentalisti,  di due  mondi  separati  e  contrari,  l'uno  sottoposto  a  un perpetuo  cangiamento,  e  l'altro  esento  da  qualsiasi  cau giamento;  o  di  un  mondo  solo,  che  può  consiaevarsi  a  due punti  di  vista  oppo-ti,  comò  in  un  divenire  c^nJiauo,  guar- dato in  ciò  che  ess3  ha  di  fenomenale,  d' individuale,  di contingente,  e  come  immutabile,  guardato  in  ciò  che  ha di  rea^e,  di  generale,  di  necessario? Prima  di  tutto  si  deve  osservare  che  questi  stossi  ca- ratteri di  eternità  (4)  e  d'immutabilità  (5),  attribuiti  allo Idee,  non  si  comprendono  perfettamente  che  nell'ipotesi dell'immanenza.  Le  Idee  sono  eterne  e  sempre  le  stesse  non  è (1)  V.  Arìst.  Met.  1.  J.  Vl,l,  1.  IV.  V.  12-lQ,  1,  XI.  VI.  612,  1.  XIII. IV.  2. (2)  V.  Met.  1.  I.  VI.  1,  1.  XIII.  IV.  2,  IX.  19. (3)  V.  Arisi,  Mei,  1.  IV.  V.  12-13. (4)  V.   Fedone  79  d,  Conv.  SII  a,  FU,  15  b,  59  a,  7'ui?.  22  d,  29  a 37  a,  37  c-38  e,  50  e,  51  a,  52  a,  59  e,  ecc. 5)  V.  Parm.  135  b,  Conv.  211  b,  Polli,  269  d,  FU,  15  b,  59  e,  Fe- do. 78  c-d,  79  a,  d,  e,  80  b,  Tim,  28  a,  29  a,  38  a,  52  a,  ecc. che  la  traduzione  in  linguaggio  realista  di  questo  risultato dell'osservazione  più  volgare  :  che  nei  cangiamenti  inces- santi che  avvengono  nel  mondo,  le  forme  generiche  e sjecifiche  d^gli  esseri  non  cangiano;  che  gl'individui periscono,  ma  le  specie  sono  stabili.  Per  l'eternità  delle Idee,  Platone  esprime  lo  stesso  concetto,  espresso  da  A- ristotile  quando  egli  dice  che  le  forme  non  nascono  né periscono  (1):  l'uno  e  l'altro  alla  dottrina  ai  terìore  dei F.sici  di  un'origine  e  di  una  fine  del  cosmos  attuale  go- s*iiuiscono  la  dottrina — più  conforme  alla  tendenza  innata del  nostro  j-pirito  di  generalizzare,  quanto  più  è  pos- sibile, la  nostra  esperienza — deireternità  dell'ordine  pre- sente del  mondo  (2).  Ma  se  le  Idee  non  sono  le  forme generiche  e  spcciticbe  degli  esseri,  l'eternità,  di  cui  ven- gono dotate,  è  arbi(raria  come  tutti  gli  altri  caratteri, che  ad  c^sc  hi  attribuiscono  :  in  elìctt'\  il  male  radicale e  incurabile  del  sistema  delle  Idee  trascendenti  è  la  loro assoluta  incapacità  di  esercitare  sulle  cose  un'efficienza qualsiasi;  sicché  qualunque  ipotesi  secondaria  di  cui venga  circondata  l'ipotesi  della  loro  esistenza,  è,  come questa,  gratuita  e  priva  di  scopo,  la  loro  causalità  re- stando, in  tutti  i  casi,  egualmente  misteriosa. prova  dell'immanenza  delle   Idee  è  V  argo- fi)  V.  Mei,  1.  IX.  X.  4,  1.  VII.  Vili.  1-4,  IX.  7,  XV.  1,  ecc. (2)  Se  non  cho  per  Ari>àtotile  la  forma  non  può  considerarsi  co- me identica  negl'individui  differenti  che  per  metafora;  per  Platone invece  quest'identità  ò  reale.  Nel  Parm  135  b,  per  significare  rigel- tando  la  dollrina  delle  Idee^  dice  :  non  lasciando  che  la  forma  (l$£a) di  ciascuno  detjli  esseri  (cioè  di  ciascuna  specie  di  esseri)  sia  sem- pre la  stessa.  Ciò  prova  che  l'Idea  non  è  che  la  forma  di  ciascuna specie  di  esseri  riguardata  come  sempre  la  stessa,  cioè  come  nume- ricamente identica  in  tutti  gl'individui  che  rivestono  questa  forma. —  109  — tnento  per  cui  Platone  dimostra  la  loro  esistenza  dal divenire  continuo  delle  cose.  Conformemente  alla  tesi degli  Eraclitizzanti,  è  impossibile  di  avere  la  conoscenza di  ciò  che  diviene  :  Platone  ne  conclude  che  bi90o:na ammettere  un  essere  permanente,  che  sia  il  vero  og- getto della  conoscenza  ;  questo  è  V  Idea  (1).  Quest'  ar- gomento che  Aristotile  dà  come  il  vero  motivo  del  si- stema delle  Idee  —  apprezzamento  su  cui  dobbianro  fare le  nostre  riserve,  perchè  i  sistemi  metafisici,  secondonoi,  non  hanno  per  motivi  dei  sofismi  artificiali  come questo,  ma  i  sofismi  naturali  dello  spirito  umano  (2)  -— era  fondato,  come  la    più   parte   degli    altri   argomen(1)  V.  Met.  1.  I.  VI,  1-2,  1.  XIII.  IV.  2,  IX.  18-20. (2)  Io  credo  anzi  che  si  debba  prendere  al  rovescio  il  rapporto  che Aristotile — in  un'epoca  in  cui  non  potremmo  attenderci  che  lo  spirito umano  avesse  già  acquistato  la  coscienza  delle  sue  tendenze  metafisiche e  dei  processi  per  cui  esse  si  realizzano— stabilisce  fra  la  tesi  degli  era- clitizzanti e  la  dottrina  delle  Idee.  La  dottrina  delie  Idee  non  e  una  cn- seguenza  della  tesi  degli  eraclitizzaìiti,  ma  è  questa  che  è,  in  Platone, una  conseguenza  di  quella.  Io  non  pretendo  che  Platone  ammettesse  U dottrina  del  continuo  divenire  delle  cose  in  conseguenza  delia  sua  dot- trina delle  Idee,  perchè  non  vi  ha  tra  le  due  dottrine  una  oonnessionenaturale.  Si  deve  dunque  ritenere  che  Platone  adottasse  la  tesi  di  Era- clito—che al  punto  di  vista  moderno  è  l'espressione  esatta  della  verità,  e che  anche  al  punto  di  vista  antico  era  un'  interpretazione  plausibile  dei dati  deirosservazione- per  dei  motivi  indipendenti  dal  sistema  delle  Idee. Ma  le  conseguenze  esorbitami,  che  gli  Eracletiszanti  come  Cratilo  dedu- cevano da  questa  tesi,  cioè  l'indeterminatezza  delle  cose,  che  continua- mente divengono,  e  la  loro  inconoscibilità,  non  dovettero  essere  accolte da  Platone,  che  perchè  egli  vi  trovava  delle  prove  per  dimostrare  l'esi- stenza delle  Idee.  Similmente,  quando  Platone  aggiunge,  come  conse- guenza dell'indeterminatezza  di  ciò  che  diviene,  che  ciò  che  diviene  non è,  egli  ammette  la  legittimità  di  quest'inferenza,  perchè  vi  vede  una  con- ferma della  dottrina  della  non  realtà  del  sensibile,  ch'egli  ha  dedotta  dal sistema  delle  Idee. / deiresistenza  delle  Idee  tirati  dalla  scienza  e  dal  Con- cetto, sul  presupposto  che  tra  le  nostre  nozioni  e  i  loro ogcretti  deve  esservi  una  conformità  assoluta.  Per  la dottrina  deirindeterminatezza  di  ciò  che  continuamente diviene,  non  potrebbe  esservi  una  rappresentazione  assolu- tamente conformo,  e  quindi  nemmeno  una  conoscenza, del  l'indi  vidu  ile,  perchè  questa  lo  rappresenterebbe  d'una maniera  determinata,  mentre  ciò  che  diviene  non  è  mai d'una  maniera  determinata. A  questo  noi  obbietteremmo-ed  è  in  efi'etto  l'obbie- zione cheAristotile  faceva  alla  tesi  degli  Eraclitizzanti  (1) —che,  per  conoscere  le  cos^,  non  è  necessario  di  for- marsi una  rappresentazione  esatta,  precisa,    dello  stato 0  degli  stati  successivi  ia  cui  si  trova  l'individuo,  ma basta  avere  la  conoscenza  della  forma  specifica,  dell'sISos comune  degl'individui;  ora  questa  forma  non  è  attìnta dal  divenire,  perchè  i  cangiamenti  dell'individuo,  qua- lunque sia  la  loro  natura,  sono  sempre  contenuti  dentro 1  limiti  di  essa,  e  per  conseguenza  la  sui  conoscenza, e  quindi  quella  dell^.  cns\  è  possibile.  Ma  di  quesfa miniera  noi  non  faremmo  la  confutaz'one  dell'argomento platonico,  invece  lo  continueremmo  :  in  effetto  Platone soggiungerà  che  Toggetto  di  questa  conoscenza  dell'elSos comune  degl'individui  non  sono  gl'individui  — la  cono- scenza che  ha  per  oggetto  l'individuo  sarebbe  la  rap- presentazione esatta  e  completa  dello  stato  in  cui  esso si  trova,  e  questa  si  è  dimostrata  impossibile  —  ma  è TsISos  in  so  st?ss'>,  perchè  deve  esservi  una  conformità assoluta  tra  la  nozione  e  il  suo  oggetto,  e  perciò  una nozione  astratta  e  generale,  qual  è  la    conoscenza   del- {!)  MeU  1.  IV.  V.  14;  cfr.  1.  XI.  VI.  9. Tslaog  comune,  non  può  riferirsi  che  ad  un   oggetto   egualmente  astratto  e  generale.  Ciò  che  prova  che  l'argomento di  Platone  mira  a  dimostrare    un    elSog   che   è Degl'individui,    quantunque   separabili    (xwpioxóv)  —  nel senso  che  abbiamo  spiegato  —  da  essi,  e  non   un    elòoz che  è  fuori  di  essi,  è  che  nel  primo  caso    si   attribuisce a  Platone  una  proposizione  incontestabile,  cioè  che  l'oggetto della  scienza  non  è  ciò  che  vi  ha  nelle  cose  d'individuale, ma  ciò  che  vi  ha  in  e -so  di  generale;  nel  secondo caso  invece  gli  si    attribuirebbe    questa    proposizione stran»,  che  la  scienza  si  riferisce,  non    al    mondo reale,  ma  ad  un  mondo  fantastico,  posto,  non  si  sa  dove, al  di  fuori  del  mondo  reale.  Forse  V  interprete   trascendentalista dirà  che  Platone  non  vuole   dimostrare  quale sia  l'oggetto  a  cui  si  riferisce,  nel  fatto,  la  scienza,  ma quale  sia  quello  a  cui  essa  deve  riferirsi.  E  sia  pure.  Ma si  può  attribuire  a  Platone   V  idea   che  la  sclen/.a   deve riferirsi  a  un  altro  mondo,  e  non  a  questo  che  ò  il  solo che  cMntcressi  di  conoscere? Passiamo  alle  prove  dirette,  contenute  negli  scritti di  Platone,  che  ci  mostrano  che  l'essere,  V  immutabile, non  è  fuori  del  divenire,  ma  nel  divenire  stesso.  La prima  è  l'attitudine  ambigua  di  Platone  verso  la  tesi eraclitica.  Aristotile  dice  (Mei.  1.  I.  VI.  1)  :  «  Conversato (Platone)  da  giovane  con  Cratilo,  e  familiarizzatosi  con le  opinioni  eraclitee  che  tutti  i  sensibili  continuamente fluiscono  e  non  vi  ha  di  essi  scenza,  mantenne  anche  io appresso  le  stesse  opinioni.  »  E  infatti  la  dottrina  del continuo  divenire  delle  cose  noi  la  troviamo  nel  Fedone 78  e-80  b,  nel  Fileho  59  a-b,  nel  Sofista  246  b-c,  nel Timeo  2y  a,  52  a,  ecc.  Ma  intanto  vi  hanno  altri  luoghi in  cui  Platone  si  mostra  avversario  risoluto  di  questa dottrina.  E  ciò  che  fa  specialmente  nel  Teeieio.  In  questo dialogo  la  presenta  come  conducente  logicamente  alla  tesi di  Protagora  che  le  cose  non  hanno  in  se  stesse  una natura  determinata,  ma  sono  quello  che  sembrano  a ciascuno  (152-157,  160  d,  ecc.),  ciò  che  deve  riguardarsene come  una  sorta  di  confutazione  per  1'  assurdo  (1); e  la  combatte  apertamente  a  179  d-183  e,  luogo  di  cui basterà  di  cithre  il  tratto  seguente,  che  è  il  più  importante :  «  SocR.  ;  Tutto  si  muove,  voi  dite,  tutto  fluiscp. Non  è  cosi  ?  —  Teodoro  :  Si.  Socr.  :  Senza  dubbio  del doppio  movimento  che  noi  abbiamo   distinto,    di    trasla- [(1)  Alcuni  vedono  nel   Teeieio  una  testimonianza  storica  sul  rapporto tra  Protagora  ed  Eraclito,  e  ammettono,  fondandosi   su   di essa,  che  la  tesi  di  Protagora  deriva  realmente  dalla  dottrina  era- clitica del  divenire.  Ma  che  il  legame  tra  le  due  dottrine   sia  una semplice  speculazione  di  Platone,   è    ciò   che   egli   stesso   confessa chiaramente,  quando  dice  che  espone,  non  ciò   che    Protagora  e  i suoi  partigiani  dicono  apertamente,  ma   il  loro   secreto   (152   c-d» 155  d-e,  156  a).  D'altronde  che  la  deduzione  del  Teeieio   non   abbia alcun  valore  storico,  risulta  sufficientemente  dalla  mancanza  di  una connessione  naturala  tra  le  due  dottrine,  poiché  è  evidente  che  la tesi  di  Protagora  è  dedotta  dal  valore  puramente  subbiettivo  delle sensazioni,  e  questo  dalla  loro  relatività;  ora  non  vi  ha  alcun  rap- porto logico  tra  questi  principii  e  la  dottrina  del  divenire  continuo delle  cose.  Aggiungiamo  che  Ira  la  tesi   di   Protagora   e   quella  d^ Eraclito,  non  solo  non  vi  ha  un  legame  logico,  ma  vi  ha  anzi  unaaperta  contraddizione;  perchè  la  prima  distruggo  l'obbiettività  delle cose,  ed  è  incompatibile  con  qualsiasi  sistema    dommatico.  Il  Zel- ler  dice,  è  vero,  ohe  Protagora  «ha  incontestabilmente    attribuito alle  cose  un'  esistenza  obbiettiva  »  (I.  pai  te  t.  2.  e.  3.  §  4.  980);  ma quest'affermazione  non  ha  altra  base  che  l'esposizione  del  Teeieio-» poiché  Sesto  Empirico  (Purrh,  1.  I.  e.  32)  che  ò  1'  altra  autorità  su si  appoggia  Zeller,  non  è  un  testimonio  diretto,  e  si  fonda  an- ch'egli  evidentemente  sul   Teeieio.  L'antecedente  storico  della  tesi di  Protagora  deve  corcarsi,  come  ben  nota  il  Lange  (Sior.  del  ma- ter,  t.  I.   n.  31  alla  I  parte),  piuttosto  che  nella  dottrina  di  Eraclito, nell'atomismo  (di  Leucippo),  perchè  questo  era  il  primo   passo  verso la  negazione  assoluta  del  valore  obbiettivo  della  sensazione. -Ili  - V; zione  e  di  alterazione  ?  —  Teod.  :  E  come  do,  se  sì  vuole che  tutto  si  muova  perfettamente  ?— Sccr.  :  Se  le  cose  can- giassero semplicemente  di  luogo,  e  non  si  alterassero, potremmo  dire  quale  sia  la  natura  di  ciò  che  fluisce  can- giando di  luogo.  Non  è  vero  ?  —  Teod.  :  Certamente  — SocR.  :  Ma  siccome  nemmeno  è  una  cosa  Ftabiie  che  ciò che  fluisce  fluisca  bianco,  ma  anche  in  questo  vi  ha  can- giamento, in  modo  che  la  bianchezza  stessa  fluisce  e  si muta  in  un  altro  colore,  affinchè  non  si  sorprenda  in uno  stato  fisso;  è  mai  possibile  di  dare  a  un  colore  un nome,  in  modo  che  questa  denominazione  sìa  giusta  ?  — Teod.  :  Come  sarebbe  ciò  possibile,  o  Socrate,  sia  per il  colore,  sia  per  un'altra  di  tale  cose,  se,  mentre  par- liamo, esse  fuggono,  poiché  fluiscono  continuamente?  — SocR.  :  E  che  diremo  delle  sensazioni,  p.  e.  di  quelle della  vista  e  dell'udito  ?  che  esse  permangono  nello  stato di  visione  o  di  audizione  ?— Teod.  :  No,  s'è  vero  che  tutto si  muove— SocR.  :  Non  si  deve  dunque  dire  che  si  vede qualche  cosa  anziché  che  non  si  vede,  né  che  si  ha  qualche altra  sensazione  anziché  che  non  si  ha,  so  tutto  è  assoluta- mente in  movimento— Teod.  :  No,  senza  dubbio— Socr.  : Ora  la  sensazione  è  la  scienza,  abbiamo  detto  io  e  Tce- teto— Teod.  :  Si— Socr.  :  Interrogati  dunque  che  cosa  FÌa la  scienza,  abbiamo  risposto  qualche  cosa  che  non  è  scienza piuttosto  che  non  scienza— Teod.  :  Cosi  p«re  —  Socr.  : Abbiamo  giustificato  la  nostra  risposta  d'una  bella  ma- niera, noi  che  ci  siamo  sforzati  di  mostrare  che  tutto  si muove  per  far  ved'^re  la  giustezza  di  questa  risposta  (i)  :quello  che  si  è  visto  è,  mi  sembra,  che  se  tutto  si  muove, qualsiasi  risposta,  su  qualunque  c<>sa  si  risponda,  é  egual- mente giusta,  sìa  che  si  risponda  che  la  cosa  è  co>ì,  sia che  non  è  co>i,  o,  se  ti  piace  meglio,  che  diviene  cosi,  o che  non  diviene  cosi,  affinchè  le  nostre  parole  non  attri- buiscano ad  essi  (ai  partigiani  della  dottrina  del  divenire) alcuna  permanenza— Teod.  :  Dici  bene  -Socr.  :  Tranne  in questo,  Teodoro,  che  ho  detto  così  e  non  così  :  queste  pa- role non  devono  essere  usate,  poiché,  essendo  costo  non cosìf  le  cose  non  sarebbero  più  in  movimento;  infatti  né così  né  non  così  è  movimento.  I  partigiani  di  questo  si- stema dovrebbero  inventare  qualche  altra  parola,  po'ché sin  qui  non  hanno  termini  adattati  alla  loro  ipotesi,  tranne forse  quvisto  :  in  nessun  modo.  Questa  espressione,  ripe- tuta all'infinito,  é  la  più  conveniente  per  essi  »  (182  c- 183  b). E  evidente  che  qni  Fintone  non  accoglie,  ma  rigetta come  assurda,  la  tesi  di  Cratilo  che  non  vi  ha  alcuna proposizione  vera  sulle  cose  ch^>  continuamente  divvu- gono  ;  e  che  egli  la  presenta  come  una  conseguenza inevitabile  della  dottrina  del  continuo  divenire,  per  mo- strare che  questa  conduce  ad  una  conseguenza  assurda. Orri  come  conciliare  quest'attitudine  ostile  coi  luoghi  dei suoi  i-cr.tti  in  cui  si  mostra  un  propugnatore  di  questa dottrina,  e  con  la  testimonianza  d'Aristotile  ?  La  cosa  si sp'ega  pcrfeitamente,  se  si  ammetto  che  l' immutabile  e ciò  che  continuamente  divien'3  non  sono  per  Platone  due (1)  L'argomento  del  Teeleto  è  la  definizione  della  scienza.  Tee- teto,  interrogato  da  Socrate,  risponde  che  la  scienza  è  la  sensa- zione. Questa  definizione,  secondo  Socrate,  equivale  all'opinione  di Protagora,  la  quale  alla  sua  volta  equivale  alla  dottrina  di  Era- clito e  degli  altri  sapienti  del  divenire  continuo  di  tutte  le  cose. Di  là  l'esame  di  questa  dottrina,  allo  scopo  di  confermare  o  d' in- firmare  la  definizione  di  Teeteto. -112- '  <\ mondi  separati  ed  opposti,  ma  un  solo  e  stes'^o  mondo che  può  considerarsi  a  due  punti  di  vista  opposti  :  co- me in  un  divenire  continuo,  nel  suo  elemento  apparente, individuale,  e  come  immutabile,  nel  suo  elemento  reale, generale.  Quando  si  mette  al  primo  punto  di  vista,  Pla- tone è  un  partigiano  di  Eraclito;  quando  si  mette  al  se- condo punto  di  vista,  è  un  avversario  di  Eracli*o,  e  un amico  degli  Eleati  (1)  Se  il  mondo  non  presentnss'^.  a Platone  questi  due  aspetti  opposti,  le  due  attitudini  op- poste verso  la  dottrina  del  divenire  sarebbero  incompren- sibili. Del  resto,  non  bisogna  credere  che  quando  Pla- tone parla,  nelle  sue  prove  per  dimostrare  l'esistenza  delle Idee,  della  inconoscibilità  dei  sensibili,  che  continuamente divengono,  egli  ammetta  tale  quale  la  tesi  di  Cratilo  che non  può  enunciarsi  di  essi  alcuna  proposizione  vera:  la inconoscibilità  dei  sensibili  è  una  sottiglie7za  di  cui  Pla- tone si  serve  per  il  comodo  della  twa  argomentazione, ed  essa  non  importa  che  non  possiamo  assegnare  con verità  ad  una  cosa  alcun  attributo,  come  pretendeva Cratilo,  ma  semplicemente  che  non  è  possibile,  come  ab- biamo spiegato,  alcuna  nozione  adequata  e  completa dell'individuo,  che  lo  rappresenti  esattamente  nella  sua fisonomia  individuale  e,  per  dir  cosi,  nel  suo  colorilo preciso,  perchè  questa  fisonomia  e  questo  colorito  can- gia continuamente,  e  non  si  trova  mai  perciò  in  uno stato  determinato.  È  questa  rappresentazione  solamente ch'egli  chiamerebbe  una  conoscenza  dell'individuo,  per- chè egli  suppone,  come  abbiamo  detto,  che  tra  la  cono- (1)  Nel  Teeteto,  in  cui  combatte  tutti  i  filosofi  precedenti,  ai quali  tutti  attribuisce  l'opinione  di  Eraclito,  non  parla  in  tono  a- michevole  che  di  Parmenide  e  degli  altri  Eleati  (V.  183  e). ]scenza  e  il  suo  oggetto  deve  esservi  una  conformità  as-soluta. La  tesi  di  Cratilo  che  non  può  enunciarsi  di  una cosa  alcuna  proposizione  vi  ra,  sarebbe  in  contraddizione con  la  dotuina  che  le  cose  partecipano  alle  Idee,  perchè che  una  cosa  pariccipa  a  im'Idt'a  vuol  dire  per  Platone che  della  cosa  può  predicarsi  V  attributo  corrispondente airi'lca.  lia  presenza  dell'Idea  nel  sensibile  inetto  ne- cessariamente un  limite  al  suo  divenire  continuo,  e  alla indeterminatezza  di'»  ne  è  la  conseguenza  :  le  cose  can- giano continuamente,  ma  questi  cangiamenli  non  oltre- passano nirii  i  ii  iiiii  necessari  perchè  e^-se  abbiano  una essenza  deierinin.ita  e  partecipino  ad  attributi  determinati. Noi  abb'amo  giA.  vi^to  (iium.  IV.)  che,  quantunque  la  de- finizione non  abbia  propriamente  per  oggetto  che  l'Idea, tuttavia  essa  si  applc  i  agl'individui,  perchè  l'Idea  è  l'es- scQza  coniun»^.  degl'  individui. Secondo  gl'interpreti  trascendentalisti  vi  ha  per  Pla- tone, non  un  mondo  solo,  immutabile  sotto  un  aspetto e  sotto  un  altro  in  continuo  divenire,  ma  due  mondi,  di cui  nell'uno  domina  un'  assoluta  immutabilità  e  neiral- tro  un  divenire  assoluto.  In  questa  interpretazio^ne  Pla- tone ammetterebbe  pei  f«  fa  mente  la  tesi  di  Eraclito,  li- mitandola al  mondo  reale- eoe  che  noi  chiamiamo  co- sì—,  e  non  respingerebbe  che  un'applicazione  universale di  questa  tesi  per  cui  essa  si  estenderebbe  anche  al  mondo trascendente  delle  Idee.  Ma,  è  incontestabile  che  nel  Tee- teto non  è  rigettata  la  t(  si  del  divenire  assoluto,  inquanto essa  si  applicherebbe  al  mondo  ideale,  ma  quella  del  di- venire assoluto  nel'o  stesso  mondo  sensibile  :  è  questa che  Platone  combatte,  perchè  i  partigiani  della  dottrina del  divenire  non  avevano  parlato  di  altro  mondo  che del  sensibile,  ed  egli  stesso,  neiresposiz'onc  che  fa  di (juesta  dottrina  (152  d-ir)7  bì,  non  ha  evidentemente  in vista  che  il  mondò  sensibile.  Quando  poi  comincia  a  di- —  113  — 'HU'  I, ttumm^mammima scaterla,    egli    dichiara   (179   d)   che   va    ad    esaminare quest'essenza  sempre  in  movimento  di  cui  sopra  ha  parlato :  quesVessenzx  sempre  in  movimento  non  può  ai^nìficare  che  il  mondo  sensibile  concepito  secondo  il  siste- ma di  Eraclito  e  dei  suol  partio-iaui;  e  del  resto  nel  tratto di  questa  discussione  che  è  stato  citato,  si  vede  chiaramente che  Pla(;>)ne  non  esamina  quali  siano  le  conseguenze deiripotobi  che  tut^o  l'essere,  vale  a  dire    tanto il  mondo  delle  cose  quando  il  mondo  delle  Ide-^,  s'a  sottoposto al  un  flusso  continuo,  ma  quali  siano  le  conseguenze deiripote^i  che  le  cose-cioè  le  cose  particolari, sensibiii-fluiscano  e  si  muovano  continuamente,    tanto di  un  movimento  di  tr.ìsla/Jone  quanto  di  un  movimento di  alter,azione-perchò  la  tesi  eraHilica  incl.ide  necessariamenlc  l'uno  e  Taltro  di  questi  due    moviuìonti— .Aggiungiamo  che  la  limitazione  che  la  dottrina  ddle  Id^^e apporta  a  quella  del  divenire  continuo,   non  può  salvare questa,  se  le  Idee  sono  trascendenti,  dalle   conseguenze assurde  che  Platone  ne  fa    derivare:    la    presenz.^  ch'ile Idee  nel  mondo  sarebbe  incompa-ibih^    coi    T  indcterminatezzj  che  la  tosi  di  Protagora  e  quella  .li  Cratilo   attribuiscono alle  cose;  ma  Pe-^ist-nza  delle    hhe    trascendenti  sarebbe  ])ertettamente  coiieiliabil.;    c^n    <iuella    di un  mondo,  in  cui  non  vi  fo^se  chj    u.i    fluire    continuo Renza  nient^ì  di  fisso  e  di  determinabile,  come    i)reten(le Cratilo,  o  delle  semplici    apparenze    senz'éìleuiìa    realtà, come  pretende  Protagora -a  parte  nat^ralm-nt  ;  la  contraddizione intrinseca  inerente  nel  concetto  di  un  mondo slmile,  considerato  per  se  stesso  — . L'opposizione  del  Tecteio  alla  dottrina  del  divenire  ò cosi  evidente,  e  la  contraddizione  che  ne,  risulta  nella filosofia  platonica  è  cos'i  irisolubi.V  nell'interpretazione tradizionale  di  questa  fi  osofia,  che  si  potrebbe  essere tentati  ad  ammettere  che  Platone  non  adottò  la  dottrina • del  divenire  che  in  un'epoca  posteriore  a  quella    in  cu^ scrisse  il  Teeteto,  Ma  la  testimonianza  d'Aristotile  {Mei. 1.  I.  VI.  1,  1.  e  )  è  troppo  esplicitamente  contraria  a quest'ipotesi:  e  d'altronde  noi  vediamo  Platone,  in  uno stesso  dialogo,  mostrar.d  in  un  luogo  un  propugnatore di  questa  dottrina,  e  in  un  altro  un  avver^^ario.  Cosi  nel Fedone  a  78  e  80  b  oppone  alle  Idee  che  sono  sempre nello  stesso  stato  le  cose  che  non  sono  mai  nello  stesso stato,  e  a  90  e  esorta  a  guardarsi  dall'opinione  di  quei sedicenti  saggi  che  non  ammettono  che  niente  nò  nelle cose  (io)v  7ipaY|iaxo)v)  ne  nelle  ragioni  sia  costante, ma  che  tutto  sia  in  un  flusso  e  riflusso  continuo  come l'Euri  pò,  e  alcuna  cosa  non  restì  jìer  alcun  tempo  nello stes'-o  stato;  nel  Filebo  43  a  parla  con  ironia  evidente della  bontà  della  dottrina  che  tutto  si  muove  continua- mente in  ogni  senso  (si  tratta  dell'applicazione  di  que- sta dottrina  ai  cangiamenti  del  nostro  corpo,  non  della sua  estensione  a  un  mondo  trascendente),  e  a  59  a-b nega  che  possa  darsi  una  scienza  assolutamente  vera delle  co.-^e  sensibili,  perchè  esse  non  sono,  non  furono, e  non  saranno  mai  nello  stesso  stato.  Queste  contraddi- zioni non  hanno  niente  di  st'-ano,  perche  corrispondono, come  abbiamo  detto,  ai  due  punti  di  visti  opposti,  da cui  le  cose,  nel  sist^.ma  platonico,  possono  considerarsi. Nel  Cratilo^  mostrando  che  una  moltituiinc  di  nomi implicano  per  la  loro  etimologia  la  dottrina  del  divenire continuo,  Socrate  dice  :  «  Si,  per  il  Cane,  io  credo  di non  aver  male  indovinato,  osservando  poco  fa  che  gli antichissimi  autori  dei  nomi,  come  la  più  parte  dei  sa- pienti dei  nostri  giorni,  a  forza  di  rivolgersi  in  ogni senso  ricercando  la  natura  delle  cose,  sono  stati  presi da  vertigine;  perciò  ò  avvenuto  di  parer  loro  che  le  cose stesse  si  volgono  e  si  muovono  assolutamente.  E  la  causa di  quest'apparenza  essi  non  l'attribuiscono  alla  manierain  cui  sono  int9riorinente  affetti,  ma  stimano  che  lo  cose stesse  abbiano  una  tal  natura  che  niente  vi  sia  in    esse di  stabile  e  di  fermo,  ma  fluiscano  tutte  e  si  muovano,  e  si agitino  in  ogni  senso,  e  sempre  divcng-ano  »  (411  a-b).  (^le- ste  parole  condannano  l'applicazione  della  dottrina  del  di- venire al  mondo  stesso  dei  nostri  sensi,  e  non  semplicemente la  sua  estens'one  a  un  moodo  iperfisico  :  è  ciò  di  cui  si  vede la  conferma  a  43f)-437  dove,  per  mostrare  a  Cratilo  che  la conformità  dei  nomi  a  ([uesta  dottrina  non  prova  la  sua  ve- rità, Socrate  gli  fn  vedere  che  molti  nomi  non  vi  si  contor- mano,  ma  indicano  invece  la  permanenza;  perchè  questi nomi  indicano  la  permanenza  (supponendo  l'esattezza  delle etimologie  fantastiche  del  Cratilo)  nelle  cose  stesse,  non m  un  mondo  trascendente.  Nel  luo^o  citato   non    vi    ha niente  di  più  che  nel   Teetcto:  ma  sulla  fine  del  dialo-o Platone  sp-ega  chiaramente  che,  se  eg'i  rigetta  il   dive- nire assoluto  delle  cose,  è  per  la  presenza,    in    esse,    di un  elemento  immutabile,  cioè  dell'Idea.  «Socr.:  Gli  au- tori  dei  nomi  li  hanno  stabiliti    secondo   il   sistema   che tutto  è  in  un  movimento  e  in  un  flusso  continuo  -  tale sembra  essere  stata  la  loro  opinione-ma  quest'opinione, se  realmente  essi  l'hanno  avuta,  non  è   vera,    ma    sono caduti    in  un    turbine,  in  cui    sono  stati  presi  da  verti- gme  e  in  cui   trascinano  e  precipitano    noi  stessi.  Esa- mina,  o   ammirabile    Cratilo,   ciò    che    io   spesse  volte sogno.    Diremo  noi  che  il  bello  stesso  e  il  buono  e  eia- senno  degli  esseri  sono  qualche  cosa  ?  (si  sa  che  nel  lin- guaggio platonico  ciò  vuol  dire:  esiste  l'Idea  del  bello, del  buono,  e  di  ciascun'altra  cosa?)  o  lo  negheremo V~ Cratilo  :  Per  me,  o  Socrate,  io  credo  che  sono  qualche cosa-SocR.:  Noi  non  cerchiamo  se  <iuak-h';  viso  o  qual- che altro  oggetto  di  qu  sta  sorta  ò    bello,    e    tutto    ciò sembra  fluire;  ma   domandiamo:  il  bello    stesso  Cl'ldea) e  sempre  tale  qual  ù  V-CuAr.:  Necessariamente- SocR.: Sarebbe  forse  possibile  di  rettamente  denominarlo,  se  sem- pre fugge,  e  di  dire  che  esso  è  e  che  è  ta^e  ;  o  sa- rebbe necessario  che,  mentre  noi  parliamo,  esso  divenga subito  un  altro,  e  fugga,  e  non  sia  più  tale  ?  —  Crat.  : Sarebbe  necessario— Sorc:  Come  potrebbe  essere  qual- che cosa  ciò  che  non  è  mai  nello  stesso  stato  ?  se  infatti vi  ha  un  tempo  in  cui  è  neMo  stesso  stato,  è  chiaro  che per  quel  tempo  non  vi  ha  in  esso  il  minimo  cangiamento; ma  se  ò  sempre  nello  stesso  stato  e  sempre  lo  stesso, come  potrebbe  cangiare  e  muoversi,  poiché  non  lascia mai  la  sua  forma  (iòsa)  ?— Crat.  :  Inniun  modo— Socr.: Inoltre  non  potrebbe  essere  conosciuto  da  alcuno:  poiché mentre  la  potenza  conoscitiva  tenterebbe  di  attingerlo, esso  diverrebbe  altro,  in  modo  che  sarebbe  impossibile di  sapere  che  e  come  sia,  e  perciò  non  potrebbe  esservi alcuna  conoscenza  di  ciò  che  non  ò  in  alcun  modo  deter- minato— Crat.  :  E  come  tu  dici— Socr.:  Ma  nemmeno  si deve  affermare,  o  Cratilo,  che  esiste  la  conoscenza,  se  tutte le  erse  si  mutano  e  niente  perniane.  Se  infatti  questo  stesso, la  conoscenza,  non  si  muta  dal  l'esser  conoscenza,  permarrà senq)re  la  conoscenza,  e  sarà  conoscenza  :  ma  se  1'  z^.^o^ stesso  della  conoscenza  si  muta,  e  si  cangia  in  un  altro d^o^  di  conoscenza,  non  sarà  neppure  conoscenza  ;  se perpetuamente  si  muta,  perpetuamente  non  sarà  cono- scenza (i).  E  secondo  questo  ragionamento  non  vi  sarà  nò (j)  È  evidente  che  l'  £l5o^  della  conoscenza  di  cui  qui  ritratta ò  la  f-pecie  o  la  Torma  stessa  della  conoscenza  reale,  di  questo mondo,  non  un  suo  archetipo  trascendente;  ma  non  lo  è  meno  che quest'  £t5og  è  l'Idea,  il  concetto  realizzato,  perchè  tutto  questo luogo  ha  per  iscopo  di  mostrare  che  il  divenire  continuo  delle  cose non  attinge  le  Idee.>       'ri',"* il  conoscente  (rvtoaóiisvov)  né  il  conoscibile  frvwoer^oófievov)- che  non  vi  sarà,  neiripotrsi  del  divenire  assoluto,  il  co- noscente, lo  ha  provato  nel  tratto  chi    immediatamente precede;  che  non  vi  sarà  il  conoscibile,    lo    ha    provato sopra,  mostrando  che,  in  quest'ipotesi,   niente   potrebbe essere    conosciuto).  Ma  se  sempre  é    il   conoscente   (vt- Yvwaxov)  e  il    conoscibile    (rtrvo3oxó|xevov)   e    il   bello  e  il buono  e  ciascuno  degli  esseri,  le  cose  che   ora    diciamo non  sembrano  io  niun  modo  simili  al  flusso  e  al    movi- mento (1).  Che  questo  sia  il  vero  o  quello  che   vogliono i  partigiani  di  Eraclito  e  molti  altri,  non  è  forse    facile di  decidere;  ma  non  ò  di  un  uomo  saggio    scttomettere se  stesso  e  la  sua  anima  all'impero  delle  parole,    e   fi- dando  in  esse  e  nei  loro  autori,    affermare,    come    uno che  sa,  e  avere  di  se  stesso  e  delle  cose  la  cattiva   opi-nione, che  niente  vi  ha  di  stabile,  ma  tutto  cangia  come l'argilla,  e  credere  che  le  cose  (xà  TTpaniaxa)  abbiano  la stessa  disposizione  che  gli  uomini  malati    di    flussione, cioè  che  tutto  (Tidvxa  xpV^Iiaxa)  sia  in  uno  scorrimento  e m  flusso  continuo»  (L*^   parole  Tipar^iaxa    e    xpv^il^axa    e sovratutto  le  parole  sottolineate  di  se  stesso  provano  che (1)  7/  hr/lo,  il  buono  r  ciascuno  dectli  esseri  sono   ovMantemente lì  hello  sfesso,  lì  buono  e  ciascuna  defili  esseri,  di  cni   sopra    ha    tìo- mandato  se  deve  dirsi  o  no  che  sono  qualche  cosa,  vale  a  dire   le Idee.  Dunque  il  conoscente  e  //  conoscibile,  che    appartengono   alla stessa  sorio,  sono  puro  della  Idoe.  Ma  qvLe^to  conosr.'nte  e  conoscibile non  possono  ossero  qualche  cosa  di  diverso  dal  conoscente  e  conoscibile di  cui  è  quistione   nella    proposizione  immediatamente  i.recedente. Ora  in  questa  proposiziono  si  tratta  cort amenta    del  conoscente   e conoscibile  di  questo  mondo    reale,    non    di    qualli    di    un    mondo trascendonte.  Notiamo  elio  questo  conoscente  è  la  stessa    cosa   che la  conoscenza  e  l'siao-  della  conoscenza  di  cui  sopra  :  si  sa  infatti che  Plat  oue  dà  alle  Idee  ora  il  nome  astratto  e  ora  il  nome  concreto. N la  dottrina  del  divenire  continuo,  che  Platone  respinge, ò  quella  del  divenire  continuo  delle  cose  sensibili). L'immanenza  dell'esse  re,  cioò  delle  Idee,  nel  dive- nire è  confermata  dal  Sofista  248  e-249  d.  Ma  prima  di mettere  questo  luogo  sotto  gli  occhi  del  lettore,  occor- rono dello  spiegazioni  sulla  dottrina  dell'  immutabilità dell'  Idea,  che,  quantunque  non  abb'ano  il  legame  più intimo  con  rargcmento  del  presente  numero,  pure  non saranno  una  digressione  inutile,  pcrclu>  il  nostro  Fcopo non  ò  solo  di  provare  l'immanenza  delle  Idee  platoni- che, ma  anche  di  elucidare,  per  quanto  ci  è  possibile,  la loro  nozione. L'Idea  è  il  concetto  realizzato,  e  riguardato  come uno  ìlei  molti.  Cosi  le  determinazioni  dell'Idea  non  sono che  le  deterniinazioui  stesse  delle  cose  subordinate  al- l'Idea, cioè  ((uelle  che  sono  comuni  a  tutti  gì'  indi- vidui della  specie.  Bisogna  dunque»,  rappresentarsi  l'I- dea xome  un  individuo  astratto,  vale  a  dire  f-pogliato di  quegli  attributi  cLc  non  sono  comuni  a  tutta  la  spe- cie :  quest'individuo  astratto  à  presente  in  tutti  gl'indi- vidui concreti,  uno  e  lo  stesso  in  tult'.  Sarebbe  per  con- seguenza in  contraddizione  con  la  nozione  stessa  del- l'Idea platonica  il  supporre  che  degli  attributi,  che  ap- partengono a  tutti  grindividui  della  specie,  non  appar- tengano all'Idea,  ovvero  che  appartengano  all'Idea  degli attributi  che  non  appartengono  agl'individui  della  specie. Ora  ò  un  attributo  comune  a  tutti  gl'individui  p.  e. della  specie  umana  di  vivere,  di  nascere,  di  morire,  di svilupparsi,  di  pensare,  di  camminare,  ecc.  Bisogna dunque  ammettere  nell'uomo  in  so,  nell'Idea,  (questi  at- tril)iiti  e  tutti  gli  altri  simili  denotanti  un  cangiamento, e  quindi  una  successione.  Senza  dubbio  il  cangiamento e  la  successione  che  questi  attributi  denotano  nell'uomo in  se,  devono  <listinguersi  da  quelli    che   essi   denotang.amento  e  d,  una  .sncccssionc  che   occupano   una   por- tmpo;  ...ycce,1  ca„.iaD,cnto  e   la   suces«ioue  che   rsi- .tono  ueir  uomo  i„  se,,.on  possono  occupare   una  po;. rt:,;ro  "''•'''  '; •-"-  ^» un  te.npo  0,n  un  altro  tempo  determinato,N   „„   attri- termi:  tV:'"''''  u-^•t--n.nviduo  . terminato,  e  non  alinonio  oonsiderato  in  astratto  cioò ne  concetto  comune  „).  Vn.  successione  che  no'n  1' U'^JiO  n.  alcun  te.npo  dcternìinato  non  è  né  più  né  me  o jnconcep,bi.e  di  una,ranc.o..a  che  non  ha  «'.cu.;:;:'" t.ta  determinata  o  di  t,n  anio-ale  che  non  è  di  alcuna speco  determinata  :  questa  concezione  non  ùnplica  alte (1)  T/I.lea.  come  Platone  .lice  noi    Ti»<e„  87  o-HS  b    è  fuori   .1«I tempo,  La  sn„  ote.ni.à  non  signiliea  Co   os.a   esis.e   .ut  h,    o   i aurjbiito  coinun.ì  n,  tuli    rri'in.llv'U.i;     r»     •  i  ""^t   un iv   (oli      V      l^*^»'^""'"'-  '»"  i'  loro  conc.Uo  cornane,  ohUiet- ston.a  .n  un  tom,.o  delerminato,  perchè,«o.ta  non    oon.pe.e  ci, a  «n  m.lm.Uu,  .lelonninato;  né  l'esistenza  por,„„o  iUenpo,e  . ooncoi.jre  1  I.loa  bisogna  .liin.iiij  fare  astrazione  .lol  temi.o-consi .orato  corno  „„a  porzione  o  co„.„    la   .o,,,;,,,,  .|là   soTintìni^a ::i::;o;rcT;^"-'"^'"••^ '•-•---'"-•^^ l'e  e^i  n,Tl,  ',     °  "•"?"^"*-  "'  """«^-X"  ^-'n..-.    Così  por .-IVe    unVe  la  '''"'  '""'"<'-« -'"M'I/cemonto  ch'essa  r  jL   . i:;a;ir:ci;  „;^rr:uo\itmi:;"Mf'"''  "••''  lempo.  Ma   occuparo    luito   il    fn»ii.  .    \ una  propnoià,  non  «IoH'T.Ia.i  i„  tom,,,)   u impossibilità  logiche  ciie  quelle  inerenti  in  generale  alla r-  alizzazione  degli  astratti.  É  vero  però  che  essa  ha questo  (li  speciale,  di  presentare  una  insuperabile  diffi- coltà verbale.  Si  dirà  che  l'uomo  in  sé  nasce,  muore, cresce,  cammina,  ecc.  ?  Queste  espressioni  sono  impro- prie, perchè  esse  suggeriscono  necessariamente  V  idea che  questi  avvenimenti  hanno  luogo  nel  tempo.  Si  dirà invece  che  non  nasce,  non  muore,  non  cresce,  non  cam- mina, ecc.  ?  L'improprietà  non  sarà  minore,  perchè  ii significato  di  queste  parole  esc'ude  che  questi  atti ibuti  : nascere,  n.orire,  crescerò,  camminare,  ecc.  siano  rappre- santati  nel  mondo  ideah».  Siamo  in  una  regione  inacces- sibile  air  immaginazione,  e  per  cons'^guenza  anche  al linguaggio,  poiché  un  pensiero  che  può  essere  espresso nettamente  suppone  una  consistenza  logica,  che  cessa nece-su-iamant3  là  dove  finisce  il  dominio  dell'intuizione sensibile. Quando  IMatone  dice  che  lldea  è  sempre  la  stessa (icl  ;^  aOxyJ  (1  ),  sempre  uniforme  Oiovosieà^  àst  ov— il  bello in  sé  e  ciascun  esrjere  in  sé)  (2i,  sempre  allo  stesso  modo (àcì  (oaaOxo)^)  (:])  e  nello  stesso  stato  (àsL  xaxi  xaOxa)  (1), che  è  immobile  i  àsi  xaxà  xaOxà  i/^ov  àxivVixwc;)  (5),  che non  vi  ha  ia  es  a  cangiam^-nto  o  al'erczione  alcuna  (6), (1)  FU.  15  b,  Pnnìif'n,  185  b,  Polìt.  2(U3  d  ro*}i-.208  a-b,  rVrrr.  439 o,  ecc. (2)  Conv,  211  b,  Frdom'  78  d. (8)  Fu,  59  a-e,  Follt,  200  d,  ('ralA\\'ò  o,  Tini.2*d  i\  F.done'lf^  c-d, 79  d,  e,  HO  b,  Ik,'p,  471)  a,  e,  oce. ^4)  /'/'.  59  a-c,  5S  a.  Polii.  209  d,  Fedone  7S.  c-d,  79  a,  SO  b,  Tim- 2S  a,  29  a,  35  a,  37  b,  52  a,  y»VjA  479  a,  o,  500  e,  ecc. (5)  Ti,n,  38  a. (6)  Fedone  78  d. S •stSt 5 i ì * i ì che  non  nasce  ne  perisce  (1),  non  cresce  ne  decresce  (2), non  diviene  più  vecchia  nò  più  giovane  (3),  ecc.  ;  T  in- tenzione di  queste  e  simili  espressioiii  è  sia  di  escludere dall'Idea  i  cang'iamenti  che  avveogono  nel  tempo,  sia di  affermare  che  l'Idea  si  ritrova,  una  e  sempre  la  stessa, senza  cangiamento  o  differenza  alcuna,  in  tutti  gr  indi- vidui successivi  che  riempiono  il  tempo.  Ma  questa  ma- niera di  esprimersi,  d'altronde  inevitabile,  si  presta  fa- cilmente ad  un'interpretazione  inesatta  dell'Idea  plato- nica, come  una  forma  assolutamente  immobile  e  priva di  qualsiasi  attività;  anzi,  se  dovesse  prendersi  rigoro- samente alla  lettera,  la  giustificherebbe.  Per  dare  forza a  questa  interpretazione,  agli  equivoci  occasionati  dalle espressioni  platoniche,  si  aggiungerebbero  le  cs'genze della  nostra  facoltà  rappresentativa,  poiché  e  evidente che  rimmaginazione  può  rappresentarsi  j)iù  ffjcilinente una  sostanza  immobile  e  inattiva  che  esiste  sempre  la stessa  per  tutta  la  durata  del  tempo,  anziché  un'  entità nssolutflmente  astratta,  posta  fuori  d(  I  tempo,  e  in  cui vi  ha  del  cangiamento  e  della  succ»  ssioi;e,  ma  un  can- giamento e  una  successione  che  non  avvengono  nel  tempo. Questa  inlerpretaziore  delle  Idee  platoniche  ha  avuto effettivamente  luogo.  È  cosi  infatti  che  se  le  rappresenta Aristotile  :  in  un  gran  numero  di  luoghi  egli  attribuisce ad  esse  l'immobirtà  (4),  evidentemente  in  un  senso  as- ci) flL  15  b,  Tim.  :ì2  a,  Coni-,  211  a,  Fedujit'  79  d,  SO  b,  7iV^>.  485 b,  527  b,  585  e,  ecc. (2)  Coui'Uo  211  a (3)  Tim,  38  a. (4)  Mei.  1.  I.  VI.  3,  l.  I.  VII.  3,  l.  1.  IX.  23,  l.  III.  II.  22,  l.  III.  IV. 4,1.  VI.  1.15,  1.  XI.  11.6,1.  XII.  1.3,  1.  XIII.  I.  1-2,  1.  XIII.  II.  5. 7,  Top,\,ll.  VII. 3,1.  VI.  X.2,  Phys,  1.  II.  IL  3-4,  Kth.  Jùtd,  1.  I. VIII.  19,  ecc. soluto  che  esclude  pure  questo  mutamento  estratempo- raneo  di  cui  sopra  abb'amo  parlato,  e  le  chiama  anche le  sostanze  immobili  (1);  ed  è  notevole—è  un'osservazione che  potrà  giovarci  in  seguito  — che  esclude  esplicitamente da  esse  ogni  attributo  esprìmente  una  facoltà  di  ago  di  patire  (Tioir^xixòv  yj  TiaGyjTixóv)  (2).  Sembra  anche  che questo  fosse,  presso  i  contemporanei,  il  concetto  che volgarmente  sì  aveva  delle  Idee  :  ecco  p.  e.  un  argo- mento, che  Alessandro  d  Afrodisia  dice  impiegato  dai  so- fi  t',  per  concludere  il  ferzo  uomo  (il  terzo  uomo  era  una obbiez'one  che  i  contemporanei  facevano  al  sistema  delle Idee,  e  che  consisteva  a  dedurre  dai  principii  stessi  di Platone  la  ucceFS*tà  di  ammettere  una  terza  specie  di entità,  distinte  dalle  Idee  e  dagl'  individui)  :  «  Quando diciamo  Vuomo  cammina^  non  lo  diciamo  dell'Ideri,  che è  immobile,  nò  di  alcuno  dei  singolari,  che  sono  incono- scibili; lo  diciamo  dunque  di  un  terzo  uomo  »  (3).  Que- sta interpretazione  delle  Idee  ò  evidentemente  incompa- tibile con  le  esigenze  più  indispensabiii  del  sistema  :  il mondo  ideale,  cof-i  concepito,  rappresenterebbe  una  na- tura, per  dir  così,  morta,  non  la  natura  reale;  l'uomo  in »ò,  senza  movimento,  s'^nza  attività,  senza  sviluppo,  sa- rebbe, non  la  leabzzazione  del  concetto  dell'  uomo,  ma un'immagine  del  cadavere  umano* Nel  Sofista  248-249  Platone  respinge  questa  nozione delle  Idee  che  ne  fa  delle  sostanze  immobili  e  inattive. Lo  straniero  clea'e  (che  è  il  personaggio  che  in  que- sto dialogo  rappresenta  i  concetti  dell'autore),  dopo  aver distinto  du<»  classi  di  filosofi,    di   cui   gli    uni   riducono (1)  Mt't.  l.  XIV.  I.  1,  1.  XIV.  IV.  4,  ecc. (2)  Top,  1.  VI.  X.  2. (3)  Alex.  Aphr.  in  pUit,  pr.  1.  I,  t.  59. tutto  il  reale  al  taDgibile  e  alla  materia,  mentre  gli  al- tri «  sostengono  che  il  vero  essere  Fono  certe  specie  in- telligibili e  incorporali,  e  i  corpi  di  quelli  e  la  loro  pre- tesa realtà  riducono  in  polvere,  ch^'amandola,  non  cfs.  re, ma  una  certa  genesi  fluente  »;    propone   questa   defini- zione deiressere,  che  deve  convenire  tanto  al    corporeo, quanto  all'incorporeo  :  ciò  che  ha  una  facoltà   qualsiasi di  agire  o  di  patire.  I  materialisti  non  avranno  difficoltà ad  accettare  questa  definizione;  ma  come  l'accoglieranno gli  amici  delle  Specie  ?  Essi  ci  obbietteranno,  dice  lo  stra- niero eleate,  clic  «  la  facoltà  di  falire  e  di  agire  (xoD  7rd- oxsiv  xal  Twoistv)  compete  alla  genesi,  ma  all'  essere   non compete  né  l'una  né  l'altra.  »  L'eleate  combatte  questo concetto,  dimostrando  che  anche  le   Specie   ag'scono   e patiscono,  e  che  sarebbe  un'assurdità  di  credere  ch'esse siano  immobili,  o,  ciò  che  vale  lo  stesso,  di  non  ammettere del  movimento  e  delle  cose  mosse  in  quanto  mosse. Chi  sono  gli  amici  delle  Specie  ?  Alcuni  interpreti  mo- derni credono  che  si  tratti  di  qu?»lcuna  delle  scuole  filo- sofiche contemporanfe  o  anteriori  a  Platone  ;    chi    vede in   essi  gli  Eleati,  chi  i  Pitagorici,  chi    i    Megarici,  chi qualche  altra  scuola  di  socratici  distinta  da  quelle  di  cui conosciamo  le  dottrine.  Di    tutte   queste  supposizioni   é r  ultima    che    sarebbe  la   più   logica;   perché   la  teoria delle  Idee,  non  solo  non  si  ha  alcuna  ragione   di  attri- buirla ad  alcuna  di  quelle  scuole  di  cui  si  conoscono  le dottrine,  ma  sarebbe  anzi    assolutamente   incompatibile con  queste  dottrine  che  se  ne  conoscono  Ma  anche  que- sta supposizione    cade  innanzi  alla  testimonianza  d'Ari- stotile, che  dà  J^latone    come  l'introduttore  del   sistema doPe  Idee  (1);  obbiezione  insupcrabi'e  che   é   comune  a (I)  V.  Mi't  l.  T  VI.  1-5,  1.  XIII.  IV,  Klh.  yicoìH,  1.  I.  VI,    ecc. tutte,  e  alla  quale  bisogna  aggiungerne  un'  altra,  cioè che  la  teoria  delle  Idee,  vale  a  dire  la  realizzazione  dei concetti,  suppone  la  dialettica,  vale  a  dire  un  metodo che  produce  la  scienza  a  priori,  deducendo  questi  con- cetti realizzati  gli  uni  dagli  altri,  e  non  possiamo  attri- buire un  sim'le  metodo  a  nessuna  delle  i^cuole  filosofiche autcriori  o  contemporanee  a  Platone.  La  dottrina  delle Idee  essendo  csclusivanrnte  platonica,^//  amici  deUe Specie  non  possono  essere  altri,  per  conseguenza,  Uie Platone  e  i  suoi.  Noi  abbiamo  visto  che  correva  un'ine- satta interpretazione  del  sistema  delle  Idee,  secondo  cui queste  si  concepivano  come  delle  sos:aiize  immobili  e prive  di  qua^iasi  facoltà  di  agire  e  di  patire.  Il  Sofista, atiribueiido  questa  concezione  agli  amici  delle  Specie,  ci prova  che  (lue^t'interpretazione  trovava  anche  eredito nella  scuola  platonica.  Tuttavia  noi  non  dobbiamo  am- mtf.cre  che  Platone,  combattendo  nel  Sofista  l'immobi- lità delie  Idee  e  la  mancanza  in  esse  della  facoltà  di agire  e  di  patire,  intenda  solamente  respingere  questa falsa  interpretazione  della  sua  dottrina  :  se  cosi  fosse, non  si  comprenderebbe  come  egli  pò  es^e  attribuire  que- sta falsa  concezione  delle  Idee  agli  amici  delie  Specie  in generale.  Senza  dubbio,  il  su(»  intendimento  finale  é  di rigettare  !a  falsa  interpretazione  che  veniva  data  ai  suoi concetti;  ma  subordinatamente  a  questo,  ne  ha  anche un  altro,  ci(é  di  condannale  quelle  espiessioni  di  que- sti conceiti,  che  noi  iroNianio  nei  suoi  scritti  o  di  cui aveva  fatto  uso  nel  suo  insegnamento  orale,  le  quali avevano  dato  luogo  a  questa  falsa  interpretazione,  e  an- che, come  abb.amo  detto,  se  dovesseio  prendersi  in  un senso  sirettamente  letterale,  la  giustificherebbero.  proposizioni  che  egli  condanna  (che  le  Idee  sono  immo- bili e  sempre  nello  stesso  stato,  che  non  hanno  la  facoltà di  agire  e  di  patire,  che  l'essere   vero   non   vive,    non Ili pensa,  non  si  muove,  ecc.)  possono  prendersi  in  due sensi  :  come  dplle  espressioni  improprie  del  concetto  che le  Idee  non  sono  soggette  ai  cangiamenti  n*-l  tempo,  o in  questo  senso  appartengono  o  potrebbero  appartenere a  Platone  stesso;  o  come  Taifermaziono  che  le  Idee  non sono  soggette  assolutamente  ad  alcun  cangiamento  (cioè né  temporaneo  nò  estratemporan'^o),  e  in  questo  senso non  potrebbero  appartenere  che  ad  alcuni  degli  amici delle  Idee,  perchè  certamente  Platone  stesso  non  ha  mai potuto  pensare  cosi.  Platone  condanna  qu^^ste  proposizio- ni, tanto  se  si  considerino  come  semplici  improprieià  di  lin- guaggio, quanto  se  si  con^derioo  come  affermazioni  di  un concetto  erroneo;  ed  è  perciò  che  può  attribuire  le  propo- sizioni condannate  agli  amici  delle  Idee  in  genera'e  (1). Premesso  ciò,  ven'amo  ora  al  luogo  d^'l  Sofista  che ci  ha  portati  a  questa  dlsgressione.  Esso  fa  parte  delia discussione  contro  le  Idee  immobili,  ed  è  il  seguente  : «  Straniero  eleate  :  Ma  che  ?  per  Giove  !  crederemo veramente  che  il  movimento,  la  vita,  l'anima,  l' intelli- (1)  Tanto  è  vero  che  Platone  condanna,  nei  parUgiani  deU' i- nattività  e  impai^^ibilità  delle  Idee,  le  sue  proprie  espr3«jsioni  che hanno  dato  luogo  a  una  falsa  interpretazione  della  sua  dottrina' ohe,  per  indicare  gli  stessi  filosofi,  egli  si  serve  pure  dello  parole: «  quelli  che  dicono  che  gli  esperi    quanto   alle    Idee    sono    sempre nello  stesso  stato  e  allo  stesso  modo  Cxaxà  xaÙTà  (baaólto^)  », riguardando  indubbiamente  queste  determinazioni  come  equivalenti a  quella  dell'  immobilità  (2.V2  a).  Le  espressioni  essere  sempre xaxà  TaùxQC  e  ó)aaÓTW^,  applicate  alle  Idee,  s'incontrano  ad  ogni momento  nei  dialoghi  platonici— Questa  contraddizione  tra  il  So- fista che  afferma  il  movimento  e  l'azione  delle  Idee,  e  gli  altri dialoghi  che  li  negano— contraddizione,  badiamo,  meramente  ver- bole— spiega  l'indicazione  di  Diogene  Laerzio,  che  Platone  applica allo  Ideo  dei  termini  contrari,  chiamandolo  non  mohili  o  non  in (/uiete  (Diog,  Laert.  III.  64). ]genza  s^no  assenti  da  quello  che  realmente  è  (jiavTsXw^ ov),  e  che  cs^o  né  vive  né  pensa,  ma  sene  sta  immobile, senza pos-iedere  Tau^ustae  santa  iotelligcnza?— Teeteto: Sarebbe,  o  ospite,  concedere  una  proposizione  troppo strana— Stkan.  :  Ma  diremo  che  prssedc  Tintelligenza, e  nou  la  vita  ?— Teet.:  E  erme  dirlo  !—Stiian.  :  Ma  ac- cordandogli runa  e  l'altra,  negheremo  ch'egli  le  abbia nelTanima  ?-Teet  :  K  in  (jual  altra  parte  potrebbe  a- verl»^  ?-Stran.:  Ma  si  può  ammefere  che  abbia  l'intel- ligenza, la  vita  e  l'anima,  ma  che  Cf^sendo  animato  sia nondimono  iiiimol)ilc  ?— Teen.:  Tutto  ciò  mi  sembra  assur- do (1)— Stran.  :  Bisogna  dunque  ammettere  che  il  mosso e  il  movimento  sono— Thet.:  K  come  no?— Stran.:  Da ciò  risult»,  o  Tteteto,  che  se  gli  esseri  fossero  immobili, in  nessuno,  su  nessuno  oggetto  e  in  nessun  luogo  po- trebbe   esservi    intelligenza— Teet.:    Evidenteirente— (2) (lì  Questo  non  vuol  <lire,  come  intendono  alcuni,  che  si  deva attribuire  l'inteMigen/.a,  la  vita,  l'aniina  e  il  movimento  alle  Ideo in  generalo— porche  i'Tdoa  d'una  cosa  non  può  avere  che  gli  at- tributi stessi  che  ianuo  parte  dal  concetto  di  questa  cosa— ma  solo a  quella  di  cui  può  essare  quistione  sa  l'abbiano  o  no,  vale  a  dire alio  Idee  dagli  esseri  intolliganti,  animati,  viventi  a  mobili—  Sin qui  Platona  parla  evidtuitcmanta  dal  moviuianto,  della  vita,  dall'a- nima e  doll'intollig(»nza  nello  Idee,  vale  a  dire,  idaali. (2;  L'intelligonza  e,  per  consoguenza,  anche  il  movimento,  di vui  si  parla  qui,  sono  l'intolliganza  eil  movimento  reali,  cioè  nello cose,  e  non  |»lìi  corno  s()])ra,  l'intelligenza  e  il  movimento  ideali» cioè  nelle  Idee  :  quasi o  divarrà  più  chiaro  dal  seguito.  Intanto  ciò che  ri-julla  dal  ragionamento  precedente  è,  non  che  l'intelligenza reale  -appone  il  luovimanto  raalo,  ma  che  l'intelligenza  ideale sappone  il  movimento  idealo.  Per  consaguanza  Platone,  conside- rando la  prima  di  qunta  due  jii'o posizioni  coma  il  risultalo  del ragionamento  pracad'^nto,  la  riguarda  coma  equivalente  alla  se- conda; ciò  che  egli  non  potrab])e  fare,  se  il  movimento  e  l'intel- ligenza ideali  fossero  par  lui  separali  dall'intelligenza  e  dal  mo- vimento reali,  e  non  invece  identici  con  c^si.llt -^ *.!'     )'Hf.Stran.:  Ma  se  ammettessimo  che  tutto  ò  in  movimento e  in  agitazione,  anche  coi  qiesta  proposizione  leverem- mo rintelligeiza  dagli  esseri —Teet.  :  Come  ?- Stran.  : Pare  a  te  che  senza  il  riposo  possa  mai  esist'^re  ciò  che è  nello  stesso  stato,  della  stessa  maniera  e  nello  stesso rappoito  ?  —  Tbet.  :  Giammai— Stran.  :  E  senza  di  ciò credi  tu  che  vi  sia  o  vi  sia  stata  mai  in  (jiialche  luogo jntell'genza  ?— Teet.  :  No— Stran.  .  Ma  si  deve  com- battere con  tutte  le  ragioni  quello  che,  di^^truggendo  la scienza,  il  pensiero  e  l'intelligenza,  nft'enni  checchesia su  qualche  cosa  —  Teet.  :  t^  combatterlo  con  l'orza  — Stran.  :  E  dunque  necessario  che  il  filosofo  e  quegli che  tiene  in  pregio  queste  cose  nò  approvi  quelli  che dicono  il  tutto  immobile,  sia  come  uno  (gli  Eleati)  hia come  molte  Specie,  nò  dia  ascolto  a  qu^l'i  che  mettono Tessere  in  un  movimento  universale  (gli  Eraclitici),  ma voglia,  imitando  i  fanciulli  noi  loro  desiierii,  che  l'es- sere (il  mondo  ideale)  e  il  tutto  comprendano  tanto  le co^e  immobili  quanto  quelle  che  sono  in  movimento  » (248  e-249  d). Questo  luog")  non  esclude  solamente  riminobilità  as- soluta delle  Idte,  ma,  come  il  luogo  citato  del  Tedeto e  quelli  degli  altri  dialoghi  che  hanno  la  stessa  portata, esclude  anche  il  divenire  assoluto  delle  cose  sensibili. Di  più,  esso  esprime  nettamente  il  concetto  dell'imma- nenza delle  Idee  nel  divenire.  Noi  abbiamo  g  à  notato che  il  movimento  e  l'intelligenza  ideali  vengono  riguar- dati come  equivalenti  al  movimento  e  all'  intelligenza reali.  Notiamo  ancora  l'identificazione  tra  il  mondo  idea'c e  il  tutto  contenuta  nelle  parole  sugli  amici  delle  Idee  : «  quelli  che  dicono  il  tutto,  come  molte  Specie,  immo- bile»; e  aggiungiamo  infine  che  la  stessa  identificazione ha  luogo  a  252  a,  dove  ò  detto  di  essi  ;  «  quelli  che  di- cono elle  gli  esseri,  secondo  le  Idee  (xax's'idr^)  sono  sem- pre Urlio  stesso  stato  e  ('ella  stessa  maniera  ».  Platone non  potrebbe  esprimersi  cosi,  se  per  gU  amici  delle  Spe- cie—vale a  dire  per  lii  e  pei  suoi -il  mondo  immu  abile delle  Idee  e  quel'o  continuamente  cangiante  delle  cose fossero  due  mon  li  separati,  anziché,  come  abbiamo  detto, due  aspetti  d'un  solo  e  s  esso  mondo,  che  nel  suo  aspetto vevo^  cioè  come  un  comples-o  d'Idee,  è  immutabile— con le  re^^trizioni,  por  Platone,  che  sopra  abbiamo  fatte— e nel  suo  aspft^o  apparente^  ci<  ò  come  un  complesso  d'in- dividui, è  sottoposto  a  un  cangiamento  continuo. n. Noi  abbirmo  percorso  le  prove  più  importanti  della immanenza  ddle  lice  platoniche  :  ma  la  nostra  dimostra- zione sarebbe  incompletn,  se  non  esaminassimo  pure  le ragioni  dell' interpretazione  contrariai.  Queste  possono  ri- dursi alle  seguenti  : I.  Il  motivo  princip-'le  deh' int  rpre%azione  trascen- dentalista ò  nella  natura  stessa  del  sistema  delle  Id^^e. Quando  Platone  chiama  l'Idea  tó  6v,  oùata,  aOxò  xaO-'aOxó, Xwpoaxóv,  ecc.;  in  una  paro'a  quando  mo-^tra  chiaramente ch'egli  fa  delle  Idee  ?  Itret^ante  ipostasi,  cioò  che  le  ri- guarda come  sostanze,  di  cui  ve  ne  ha  una,  e  una  sola, per  tutti  gli  oggetti  che  si  raccolgono  sotto  un  nom^^  ge- nerale; l'interprete  trascendentalista  ne  conclude  imme-diatamente che  le  Idee  per  Platone  srno  separate  dalle cos*».  Que.ta  conclusione  è  fondata  sopra  un  principio perfettame  ite  giusto,  e  oè  che  una  sostanza  non  puòessere  al  tempo  stesso  uà  attributo,  e  non  può,  se  essa è  un  ca,  iu'^rire  simultaneamente  in  una  moltitudine  di FO sgotti.  Ma  la  dottrina  di  Platone  consiste  precisamen- te in  questo,  che  gli  attributi  generali  delle  cose  sono elevati  al  grado  di  sostanze,  senza  cessare  perciò  d'ine- rire  nelle  cose  come  loro  attributi,  e  che  ciascuna  di queste  sostanze  ò  riguarilata  come  Tudo  nei  molti,  cioè come  presente  al  tempo  stesso,  una  num- ricwmente  eia stessa,  in  tutti  i  soggetti  a  cui  T  attiibuti  è  comune. Senza  dubbio  questa  dottrina  è  inconeepib'le  e  contrad- dittoria :  dell^  ipostasi  come  le  Idee  platonich'^,  noi  lo abbiamo  più  volte  confessato,  non  potrebbero  concepirsi, per  quanto  la  loro  coccezione  è  possibile,  che  come  Fe- parate  dalle  c«^se.  Altre  inconcepibilità  noi  troviamo  nel sistema  delTimmanenzì,  se  dalla  formula  Viuio  nei  molti passiamo  a'ia  formula  rimo  émolfi:  è  un  non  seupo  di affermare,  come  f>i  Platone  e  come  è  una  cnns.»gueuza necessaria  della  realizz^izione  degli  astratti,  che  il  più astratto  e  il  più  concreto,  il  Genere  e  lo  S^pecie,  sono al  tempo  stesso  dift*erenti  ed  id.mtici;  né  Tinconcepibilità è  evitata  perchè  Tiino  e  i  molti  si  riguardano  com»».  duo stati  su^c'ssivi  n  l!o  sviluppi  dell'esser»,  (anteriorità  e e  posteriorità)  ;  perciò  la  huccessione  dovnbbe  essere cronologica  e  non  logica  soltanto.  L'interpret/iz'one  tra- scendent  lista  ha  dunque  il  vantaggio,  bisogna  ricono- scerlo, di  evitare  una  gran  parte  delle  inco-^copib  lità inerenti  al  sistema  del'e  Idee:  ciò  spiega  la  prevalenza di  quest'interpretazione,  se  sì  rifletta  alle  <l  ffi.'oltà  di  un esame  accurato  dei  testi  e  di  una  su'ficiento  intelli- genza dei  mo  ivi  del  sistema. Ma  vediamo  ora  gl'inconvenienti,  per  dir  co>i,  intrin- seci della  trascendenza  do  le  Idee.  Prima  di  tiitt>,  qnan- tunque  elevare  le  astrazioni  al  grado  di  realà  esi.stcnti per  se  stesse  sia  in  tutti  i  casi  un'  impos>ib  lità  man'fe-Jta, è  tuttavia  una  conseguenza  necessaria  del  e  U'ggi  della credenza  che  di  queste  due  ipotesi,  l'una  che  ammette che  queste  astrazioni  siano  parti  integranti  delle  cose concrete,  e  l'altra  che  ne  fa  delle  ipostasi  solitarie  col- locate al  di  fuori  dello  cose  concrete,  è  la  seconda  che ci  sembra   più  strana  e  p*ù   evidentemente   impossibile. La  rag  one  è  ovvia  :  è  che  essa  è  in  una  opposizione  più aperta  con  lo  nostre  abitudini  mentali  :  la  prima  ipotesi si  conforma  a  queste  abitudini  in  due  punti  importanti, cioè  non  ammettendo  altri  esperi    che  gli  esseri  concreti, quantunque  questii  siano  da  es^a  decomposti  in  elementi astratt',  e  facendo  dell'astratto,  non  un'enti'à  isolata,  ma un  che  d' inesistente  nel  concreto  stesso.  Ma  V  inconve- niente più  grava  dell'  interpretiziona  trascendentalista  è che  l'ipotesi  delle  Idee  diviene  in  qu-sc' interpretazione senza  motivo  e  senza  scopo.  Lo  scopo  di  un'  ipot -si  qua- lunque, legittima  o  illegittima,  è  di  spiegare  i  fenomeni  : ma  Tipof^si  delle  Idee  trascendenti  non  fa  niente  per  la 8piegaz'on<^  dei  fenomeni,  perchè  non  vi  ha  tra   le  Idee e  la  cose  alcuna  relaz'ooo  immaginabile  di    causa   e  di efiFetto.  La  capacità  delle  l^ee  a  produrra  la  cose  o  i  loro fenomeni  non  è  uè  una  verità  o  pretesi  venta   evidente per  se  stessa,  come  deve  essere  pertanto  una  connessione cau«=iale  propria  a   fornire  una   spiegazione   metafisica— poiché  nessuno  pretenderà  che  vi  ha  tra  l'esistenza  delle Id"e  e  l'i'sistenza  delle  cose  una   di    quella    connessioni visibili  a  priori,  in  cui  i    metafisici    fanno    consistere  la effic3nza  cansa'e— ;  e  non  è  nemmeno  un'induzione  del- l'esperienza, perchè  l'esperienza  non  ci  mostra  alcun  caso, in  cui  dei  moderi,  quali  gl'interpreti  trascendentalisti  si rappresentano  le  Idee,  producono  le  loro    cjpie.   Non  vi ha  lutanti  alcun'ipotesi  possibile— vale  a  dire  alcun'ipo- tesi  che  lo  spirito  umano  possa  ammettere,  vera  o  falsa, probabile  o  improbabih~che  non  si   conformi    a  questa condizione,  cioè  la  capacità  conosciuta  della  causa  sup- posta a  produrre  l'effetto,  sia  che  questa  capacità  si  am- metta come  una  verità  a  priori,  sia  che  si  ammetta  come un  risultato  della  esperienza.  Le  Idee  trascendenti   non hanno  dunque  alcun'attitudine  a   spiegare    le   cose  :    è -122- -•X  -     --.. questo  del  resto  an  fatfo  evidente  di  cui  convengono  ^li stessi  interpreti  trascendentalisti.  (1).  Tuttavia  Tintcrpre. te  trascendentali  ta  potrà    dira    che   questa   inettitudine alla  spiegazione  dei  fenomeni  è  anche  comune  alle  Idee immanenti.  Senza  dubbio,  la  presenza    delle    Idee  nelle cose  spiega,  come  abbiamo  altra  volta  osservato,  porche le  cose  possiedono  gli  attributi  corrispondenti  alle  Idee, e  lo  spiega  nel  senso  metafìsico  della  parola  spiegazione' cioè  in  quanto  vi  ha  tra  la  presenza  doll'Idei  e  la  pos- sessione  dell'attributo  una  connessione   necessaria  e  vi- sibile a  priori.  Ma    qu  sta    è,    come   abbiamo    osservato nel  cap.  VII,  una  di  quelle  spiegazioni  apparenti  o  illu- sorie che  consistono  a  ripetere  in  altri    termini    il    fatto stesso  che  si  tratta  di  spiegare;  e  quaniram-hv^.  non  fo  so tale,  siccome  la  possessione  dell'attributo  è  un  fatto   in- telligibile e  la  presenza  dell'Idea  un  fatto  as-olurjim-nto ininteMigibile,  cosi  non  vi  avrebbe  alcun  profitto  a  intro- durre l'ipotesi    delle   Idee,    perchè   non    si    farebbe    che spiegare  il  chiaro  per  l'oscuro.  Sembra  dunque,  a  que- sto punto  di  vista,  vale  a  dire  cods  derando  le  Idee  co- me cause  e  le  cose  come  effetti,  che  le  Idee   immaneuii (1)  Questa  evidente  inefficaci»  delle  Idee  neH' ini erprci azione trascendentalista,  qual  è  ammessa  daUa  più  parte  dji  critici  nio- derni,  vale  a  dire  quella  che  fa  delle  Idee  allrettanto  sostanze  se- parate, è  il  fondamento  precipuo  dell'  interpretazione  teislicn,  eioò di  queU' altra  forma  dell'interpretazione  trascendentalista  ohe  vede nelle  Idee  i  pensieri  dell'  intelligenza  creatrice.  Quest  'interpretazione dà  almeno  al  sistema  delle  Idee  un  motivo,  e  un  motivo  assai  tacile  a comprendere:  se  non  che  essa  è  interamente  arbitraria.  L'inter- pretazione che  fa  delle  Ideo  delle  sostanze  separate  da  Dio  e  dalle cose  è  anch'  essa  in  contraddizione  coi  testi,  ma  non  lo  è  d'una maniera  cosi  evidente,  oltre  che  può  appoggiarsi,  almeno  sino  ad un  oerto  punto,  soli'  autorità  d'  Aristotile. non  siano  p  ù  che  le  Idee  trascendenti  capaci  di  fornire una  spiegazione  della  natura:  ma  per  comprendere  la vera  causalità  delle  Idee  e  come  esse  diano  una  spiega- zione della  natura,  noi  dobbiamo  metterci  a  un  altro punto  di  vi^ta.  e  da  questo  vedremo  che  lo  scopo  del sistema  delle  Idee  suppone  come  condizione  necessaria la  loro  immanenza. Il  sistema  delle  Idee  è  un  realismo  dialettico,  vale a  dire  esso  ammette,  come  un  complemputo  neccessario della  realizzazione  dei  concetti,  un  metodo  per  iscopriro a  priori  questi  concetti  realizzati,  deducendoli  progres- sivamente gli  uni  dflgli  altri,  allo  scopo  di  identificare  il rapporto  logico  tra  il  principio  e  la  conseguenza  in  que- sta deduzione,  al  rapporto  ontologico  tra  la  causa  e r«ffet^o.  Platine  ha  dunque  realizzato  i  concetti,  affin- chè rincatenaincuto  logico,  ch'egli  stabilisce  fra  di  essi, possa  avi-re  l'aria  di  un  incatenamento  causale.  Infatti se  il  principio  e  la  conseguenza  fo*?sero  delle  semplici nozioni  e  noa  delle  nozioni  realizzate,  il  principio  non potri^bbe  considerarsi  come  la  causa  e  la  conseguenza come  l'effetto,  la  causa  e  l'effetto  essendo  df»lle  cose  o dei  fa'ti  reali  e  realmente  distìnti,  e  non  delle  semplici astrazioni  montali.  Ma  il  principio  e  la  conseguenza  es- sendo delle  ciitità  reali,  avviene  che  la  loro  sequenza logica  somiglia  a  una  sequenza  causale,  poiché  T  esi- stenza dell'entità  principio  trascina  necessariamente  la esistenza  dell'entità  conseguenza  ^  questa  esiste  perchè esiste  quella.  I)  principio  e  la  cons'^guenza  essendo,  non delle  semplici  proposizioni  generali,  ma  le  verità  obbiet-tive corrispondenti  a  qu  ste  propos'zioni,  ne  risulta  che il  principia  non  è  semplìceote  una  premessa  per  dimo- strare la  cons'cguenza,  ma  é  la  condizione  reale  dalla cui  esistenza  dip'^nde  l'esistenza  della  conseguenza  :  In una  parola  il  principio  non  è   semplicemente  il    prinei•K^ u pium  cognoscendi,  ma    é   anche    il    pHnctptum  essendt. QaestMncatenamcnto  causale  tra  le  nozioni    realizzate  è una  causazione  efficiente,  perchè  il  It^gam  ^  tra  la  causa e  reffetto  (cioè  tra  il  principio  e  la  conseguenza)   è  ne cessarlo  e  visibile  a  priori.  Cosi  lo  scopo  dell'ipotesi  delle Idee  é  d'introdurre  nella  natura  una  causalità,  che  sia, non    un   semplice  rapporto   di  sequenza  Invariabile,  ma una  caumlità  efficiente,  cioè  tale  che  tra  lacausaeTef- fetto  esista  un    legame   intrinsecamente   evidente  e  ne- cessario» •    Ecco  perciò  come  lo  scopo  deiripotesi  delle  Idee  sup- pone necessariamente  la  loro  immanenza.  Sq  le  Idee  sono gU  elementi  costitutivi  delle  cos^,  il  loro  incatenamento logico  sarà  lo  sviluppo  reale  d^lle  cose,  il  modo    in  cui le  cose  si  producono;  e  la  dialettica,  cioè  la   deduzione delle  Idee,  aarà  la  spiegazione  della  natura.    Ma   se    le Idee  sono  fuori  delle  cose,  la    filiazione  delle  Idee    non sarà  più  la  prodazione,   Tincatenamento  causale,    delle cose  stesse;  e  la  dialettica  non  sarà  più  una  spiegazione della  natura,  poiché  essa  avrà  per  oggetto,  non  il  mondo reale,  ma  un  altro  mondo,  ch^  non  ha  sul  mondo   reale alcun'influenza  immaginabile.  Aggiungiamo   ch^,   nella ipotesi    della   trascendenza,    la   stessa   filiazione   logica delle  Idee  sa-ebbe  impossibile,    perchè    questa    suppone ridentità  (e  non  semplcem'-nte  la  differenzi)  t  a  Tldea da  cui  altre  Idee  si  deduzione,  e  queste  altre   Idee    che se  ne  deducono.  In  effetto,  le  conseguenze  sono  le  con- seguenze del  principio,  perchè  sono  contenuto  implicita- mente nel  principio,  vale  a  dire  perchè  il  principio  è  le conseguenze  stesse  allo  stato  implicifì.  Senza  quest'iden- tità tra  il  principio  e  le  conseguenze  (cioè  tra  lo   verità obbiettive  che  corrispondono  alle  proposizioni  che  si  chia- mano, al  punto  di  vista  ordinario,    principio    e    conse- guenze)  non  vi  sarebbe  dedazione  possibile.  Nella    dia- lettica platonica  il  principio  é  V  Idea  generica,  e  le conspguenze  sono  le  Idee  specifiche:  cosi  questa  dialet- tica suppone  che  tra  Tldea  generica  e  \à  Ideo  specifiche vi  sia  identità,  e  non  semplicemente  differenza;  in  altri termini  suppone  che  Vuno  sia  molti  e  i  molti  siano  uno. Ora  nell'ipotesi  dell'immanenza,  in  cui  le  Idee  generiche e  le  Idee  speci6che  sono  i  generi  st**ssi  e  le  specie  delle cose  (quantunque  considerati  in  a  tratto,  l'Idea  generica è  necessariamente  identica  con  le  Idee  specifiche  (1).  Ma nell'ipotesi  del'a  trascendenza,  in  cui  le  Idee  sono  se- parate da  1»3  cose  e  le  une  da'le  altre,  t-a  l'Idea  generica e  le  Idee  specifiche  non  vi  ha  più  identità,  ma  sempli- cemente differetrza;  l'I  Ica  generica  non  è  più  le  Idee specifiche  allo  sfato  implicito,  e  Je  Id<  e  specifiche  non sono  più  l'Idea  generica  allo  stato  esplicito;  e  per  con- seguenza non  vi  ha  più  tra  le  Idee  rapf  orto  di  filiazione, percl.è  la  filiazione  delle  Idee  è  precisamente  qu  sta  e- splicazioue  progressiva  dell'implicito  primit'vo. II.  Tra  i  motivi  dell'  interpr  tazione  trascendentali-ta, dopo  la  sostanzialità  delle  Idee  e  le  inconccp  bilità  che ut  r  sultano  nel  sistema  dcirimmanenza,  dobb'amo  asse- gnare il  secourio  posto  a  un  malinteso  a  cai  si  prestano facilmente  molte  proposizioni  di  Platon*^,  in  cui  egli  non fa  in  realtà  che  d'stinguere  Io  Idee  dalle  cose  Quasi tutti  i  luoghi  degli  scritti  platoiiic',  in  cui  si  pretende vedo? e  u»ia  prova  diroila  della  srparaz'one  delle  Idee dalle  cos'%  appartengono  a  que  ta  casse  :  là  dove  Pla- tone iio.i  parli  che  di  distinzione^  l'iaterpictc  trascen- dentalista intende:  separazione. In  alcuni  di  qresti  luoghi  P.'at-^r.c    distingue  le  I  *ee (1)  V.  n.  V.  4.0 dalle  cose  stesse,  cioè  dalle  sostanze,  in  altri  dai  loro attributi.  Il  primo  caso  non  presenta  alcuna  difficoltà  : le  Idee  essendo  delie  sostanze,  è  naturale  clie  Platone parli  delle  Idee  e  delle  cose  come  di  sostanze  distinte— distinte,  badiamo,  non  «ejoaro/e— .Quando  Platone  distin- gue questo  mondo  e  il  Vivente  in  sé  di  cui  esso  è  Tira- magine  (1);  questi  belli  e  il  Bello  in  se  stesso  (2)  ;  que^ 8ti  cerchi  e  questa  sfera  umana  e  il  C*  rchio  e  la  Sfera stessa  divina  (3);  quando  cppone  l'oggetto  della  dialet- tica, che  si  riferisce  alle  cose  che  sono  semp  e  le  stesse, all'oggetto  delle  altre  arti  che  si  riferiscono  a  questo mondo  e  a  queste  cose  che  continuamente  divengono  (4); quando  dice  che  vi  hanno  tre  cose.  Tessere  (l'Idea),  il luogo  e  il  divenire  (ciò  che  diviene)  (5);  che  vi  hanno due  spei-ie  di  esseri,  gl'intelligibili  e  i  sensibili  (6);  che gli  oggetti  eguali  non  S(  no  gli  stessi  che  l'Eguaglianza, ma  questa  è  un  es5sere  altro  da  essi  (7);  che  oltre  (noLpd) le  cose  sensibili  (e  le  intelligibili  che  cadono  sotto  un concetto  comune)  si  deve  ammettere  un'Idea  di  quette cose  (8);  ecc.  (9):  se  gl'interpreti  trascendentalisti  vedono (J)  Tim,  30  c-d.  Cfr.  39  e. (2)  Conv.  211. (3)  FU.  62  a (4)  FU,  59  a-c. (5)  Tim.  52  d,  52  a-b,  50  c-d. (6)  Fedone  78  b-80  b (7)  Fedone  74 (8)  Fedone  74  a,   Tim.  51  e,  Sof.  250  b,  ecc. (9)  Anche  Aristotile  chiama  l'universale  «  runa  noLpd  i  molti,  che è  uno  e  lo  stesso  in  tutti  questi  „  (Anal.  Poster.  1.  II.  XV.  5. Talvolta,  por  indicare  la  distinzione  tra  le  Idee  e  le  cose,  Pla- tone si  serve  anche  deUa  parola  x^p^C  (separatamente).  È  ciò  che fa  nel  Parmenide,  dove  il  filosofo  oleate  domanda  a  Socrate  s'egli '•0-? in  qìiesti  e  negli  altri  lunghi  anàloghi  a  questi  degli  ar- gomenti contro  l'immanenza  delle  l 'e  •,  é  perchè  quelli che  anunottono  questa  seconda  interpretazione  non  hanno spiegato  abbastanza  chiaramente  che  le  Idee  platoniche, qnantunquenon  esistano  fuori  delle  cose,  S'^no  nondimeno delle  sost^^nze,  cioè  delle  realtà  sussistenti  per  sq  stesse, e  non  delle  semplici  astrazioni  mentali.  Il  pronome  que- sto^ questi  (65s,  ouiog),  indicante  il  mondo  e  gli  oggetti S'nsibil',  in  opposizione  alle  Idee,  non  significa  che  que- ste sono  in  un  altro  mondo,  ma  che  gli  oggetti,  a  cui esso  b\  rift-ridce,  smo  quelli  che  stanno  presenti  alla  no- stra vista  (1)  e  chr»  noi  possiamo  mostrare  cri  dito  o  con veramonle  disling  i3  «  X^P^C  ^^^  ^^  ^^^^^  certe  specie  stessa  (sTSy] aùxà  àxxa)  e  X^P^C  ^^^  ^^  altro  lato)  i  partecipi  di  esse  „  (130  b); s'egli  ere  le  che  vi  sia  una  somiglianza  stessa  "  X^P^C  (*  parte)  di quella  che  noi  abbiamo  „  (130  b);  un  el^o^  dell'uomo  «  j^oopCg  di  noi e  di  quanti  altri  sono  come  noi  »  (130  e);  un  elSog  del  pelo,  del fango,  della  macchia,  ecc.,  xwpig,  altri  dal  pelo,  dal  fango,  dalla macchia,  che  noi  possiamo  toccare  (130  c-d).  Nel  Sofista  248  a  1'  o- spite  eleate  chiede  agli  amici  delle  Idee  se  essi  **  dicono  la  genesi e  i*  essenza  X^P^S  distinguendole  „  La  parola  x^p^C»  bi^ogi^a  ^^^' fessarlo,  presa  in  tutto  il  suo  rigore,  significherebbe  la  trascendenzn  ; e  certamente  Platone  si  sarebbe  guardato  bene  di  servirsene,  se egli  avesse  potuto  prevedere  che  del  suo  sistema  si  sarebbe  data una  falsa  interpretazione  che  questo  termine  e  i  suoi  deterivati, coi  loro  corrispondenti  nelle  lingue  moderne,  sono  appunto  i  piii propri  a  formulara  con  ocncisione.  Ma  possiamo  noi,  foadanioci  sa delle  es  pressioni  isolate  ed  eccezionali,  interpretare  il  sistema  pla- tonico in  un  se.i-43  cha  è  in  coatraddiziona  con  tatti  i suoi  concetti tondamentp'-i,  attarmiiti  costantemente  in  quasi  tatti  i  luoghi  dei suoi  scritti  in  cui  si  parla  delle  Idee,  quando  d'altronde  queste  espres- sioni sono,  al  postutto,  suscettibili  di  un  significato  che  le  metta d'  accordo  con  questi  concetti  ? (1)  V.  Fedone  74  c-d,  Tim.  51  e,  eco. y tn  altro  segno  simile,  non  quelli  che  si  possono,  collie dice  Piatone,  contemplare  soltanto  con  rinteingenra  (1). Non  dobbiamo  per  altro  dimenticare  che  la  ditinzion'ì tra  le  Idee  e  le  co^e  non  è  che  uno  dei  due  Iati  di  que- sto rapporto  ambiguo,  al  tempo  stesso  d' identità  e  di difiFerenzJ»,  che  il  sistema  platonico  e  gli  altri  costruiti sullo  stesso  tipo  stabiliscono  tra  l'astratto  e  il  concreto, o,  generalmente,  tra  il  più  astratto  e  il  più  concreto. Talvolta  Platone  sembra  negare  V  identità,  come  nella Repubblica  476  c-d,  in  cui  dice  che  quelli  che  non  am- mettono il  Bello  in  sé  vivono  come  in  un  sogno,  perchè credono  che  gli  oggetti  che  somigliano  al  Bello,  cioè  che ne  partecipano,  siano,  non  semplicemente  simili  ad  cfso, (1)  Una  delle  maniere  più  abituali  a  Platone  di  esprimere  la distinzione  tra  le  Idee  e  le  cose  per  le  loro  determinazioni  contra- rie, è  r  opposizione  tra  l'intelligibile  e  il  sensibile  :  essa  implica ohe  le  Idee  non  sono  oggetti  dei  sensi,  ciò  che  del  resto  è  affermato esplicitamente  nel  Fedone  66  d,  79  a,  83  b,  Tim,  61  d,  52  a,  Hep. 507  b-c,  ecc.  Qaest'  opposizione  evidentemente  è  naturalissima  anche nel  sistema  dell'immanenza:  tuttavia  anch'essa  si  presta  all'equi- voco, e  può  essere  interpretata  come  una  prova  della  trascendenza. Se  si  ammette  che  le  Idee  sono  in  noi,  dice  Aristotile  (Top.  1.  II. VII.  3),  bisogna  attribuire  ad  esse  delle  derminazioni  contrarie  : perehè,  essendo  in  noi,  esse  cadrebbero  necessariamente  sotto  i  no- stri sensi,  poiché  per  il  senso  della  vista  conosciamo  la  forma  di ciascuna  cosa  ;  mentre  i  partigiani  delle  Idee  affermano  che  pos- sono percepirsi  per  la  sola  intelligenza.  Qui  Aristotile  dimentica ohe,  quantunque  l' Idea,  essendo  la  forma  delle  cose,  sia  per  con- seguenza, in  un  certo  senso,  un  oggetto  della  percezione  sensibile, pure  questa  non  la  percepisce  come  Idea,  cioè  come  sostanza  separa- bile (xcopi^XT^  ^,  e  perciò,  in  un  altro  senso,  l' Idea  non  è  un  o«r- getto  della  percezione  sensibile.  Peraltro  l'identità  tra  1'  Idea  e  il percepito  dai  sensi  è  chiaramente  affermata  nella  Repubblica  623-524, nel  Fedone  65  e,  82  e,  luoghi  già  citati  (an.  VI  sulla  fina  e  n.  IX), ai  quali  aggiungiamo  il  Fedro  250  d,  che  citeremo  in  appresso  (n.  IV). ma  la  stessa  cosa  con  rsso,  mentre  bisogna  distingnéré l'uno  dagli  altri.  Ma  queste  parole  non  sono  dirette  che contro  la  confusione  che  Topiniono  op^o-ta  a  quella  di Platone,  cioè  il  nominalismo,  fa  tra  le  Idee  e  le  cose.  Il nominalista  confonde  le  cose  con  le  Idee,  sia  perchè prende  le  imm^gin»,  cioè  le  cose,  per  esseri  reali,  men- tre gli  esperi  reali  non  sono  che  le  Idee;  sia  ancora  per- chè il  nominalismo,  an  mettendo  che  il  nome  generale non  significa  altra  cosa  che  gli  oggetti  concreti  e  indi- v'duali,  prrnde  crronean,ente  questi  oggetti  per  IVggetto a  cui  ^i  r  feri-ce  realmente  il  nome  e  il  concetto  gene- rale, cioè  ridea. La  distinzione  tra  la  sostanza  Idea  e  le  sostanze  cose ha  pure  p^r  effetto  di  stabilire  tra  V  una  e  le  altre  dei rapporti  che  nelT  esperienza  non  esistono  che  tra  oggetti separat*.  Quando  le  Id<  e  sono  chiamate  cause  delle  cose (come  ivi  Fedine  95  c-101  e),  anche  in  questo  può  ve- dersi una  prf  va  della  trascendenza,  perchè  infatii  le  cause e  gli  effetti  empirici  soi  o,  non  solo  discinti,  ma  anche separati.  Ma  ciò  mostra  sempl'c  mrnte  che  il -rapporto tra  le  Idee  e  le  cose  nrn  somiglia  ad  alcuno  dei  rap- porti che  cadono  sotto  la  nostra  esperienza.  Le  Idee  non sono  cause  delle  c<'Se  come  cause  eflficiebtì  propriamente dette,  come  c«use  motr'ci  (per  usare  V  espressione  d'  Ari- é^totile),  ma  sfno  cause  nel  scn-^o  che  la  ragione  dell' e- sir^tere  e  del  modo  di  esistere  deU»^  cose  è  nclh».  Idee.  Si- miltnen'c  qu-«n  io  le  I^ee  sono  chiamate  nodelli  (ixapa- 5eÌYfiaxa)  e  le  ces^  immagini  (etxóvs^,  stòcoXa,  6[ioiwjiaTa)  (1), (1)  V.  Tim.  29  a-c,  39  e,  50  e,  51  a,  b,  52  e,  Fedro  250,  Proclo in  Parm,  v.  133,  Alcinoo  Intr.  in  PI,  Vili,  ecc.— D' altronde  anche Aristotile  chiama  la  forma  n(X.pdòZl'{[iOL{Y.  Met,  1.  v.  II.  1,  Phys. 1.  II.  III.  2.). •  •r*  -^x^ ciò  suggerisce  naturalmente  l'idea  della  separazione, perchè  tutti  i  modelli  e  le  immagini  che  abbiamo  visto o  che  possiamo  rappreseutaref,  sono  separati,  e  non  sem- ])licemcnte  distinti,  gli  uni  dalle  altre.  Il  nomo  d'imma- gini dato  alle  cose,  in  molti  casi,  ha  evidentemente  lo scopo,  come  abbiamo  detto  (n.  IX),  d'indicare  la  loro mancanza  Ai  una  vera  realtà:  ma  facendo  anche  astra- zione da  questa  circostanza,  le  Idee  possono  a  buondritto riguardarsi  come  esemplari  delle  cose  anche  neir  ipotesi dell'immanenza,  poiché, immanenti o  trascendenti,  Tuomo in  sé  e  il  cavallo  in  sé,  che  Platone  ha  creati,  sono  sempre c'elle  immagini  degli  urmìni  e  dei  cavalli  reali,  imma- gini che,  rovesciando  il  ra^jporto  rrale,  egli  chiama  natu- ralmente esemplari,  perché  il  nome  di  esemplare  conviene a  ciò  che  è  anteriore,  e  il  nomo  d'  immagino  a  ciò  che è  posteriore,  e  le  Idee  sono  anteriori  alle  cose,  non  di un'  anteriorità  cronologica,  ma  di  un'  anteriorità  di  na- tura, cioè  logica  e  metaOsica. Le  Idee  sono  chiamate  paradigmi,  non  solo  delle  cose, ma  anche  dei  loro  attributi  È  che  Platone  distingue  le Idee,  non  solo  dalle  prime,  ma  anche  dai  socordi.  È  ciò che  egli  fa,  per  esempio,  nel  Fedro  249  d,  in  cui  la  bel- lezza sensibile  viene  opposta  alla  bellezza  vera,  cioè all'Idea  della  bellezza.  Questo  richiede  delle  spiegazioni, perchè  sembra  ia  contraddizione  col  concetto  stesso  del- l'immanenza, la  quale  consiste  essenzialmente,  come  ab- biamo detto,  neir  identità  delle  Idee  con  gli  attributi generali  delle  cose. L' Idea  è  il  concetta  astratto  e  generale,  realizzato. Per  conseguenza  gli  attributi  dille  cose  sono  identici  alle Idee,  ma  in  quanto  vengono  considerati  nel  loro  con- cetto generale,  in  astratto.  Ora  perciò  essi  devono  conce- pirt»i  astrazion  facendo  dai  soggetti  in  cui  ineriscono  : la  bellezza  di  questo  fanciullo,  la  grandezza  di    questa superficie,  la  bianchezza  di  questa  carta,  ecc.  differiscono dalla  Bellezza,  dalla  Grandezza,  dalla  Bianchezza,  ecc. in  se  s^e^ce,  pe'^chè  contengono  delle  determinazioni  che non  esistono  nel  concetto  astratto  e  generale  della  bellezza, della  grandezza,  della  bianchezza,  ece.  Prima  di  tutto la  bellezza,  la  bianchezza,  la  grandezza,  ecc.,  quali  at- tributi di  questi  soggetti  determinati,  non  sono  rigorosa- mente conformi  agli  attributi  omonimi  che  si  trovano  in altri  soggetti,  ma  ne  differiscono  per  il  grado,  per  la quantità  e  per  tante  altre  circostanze  :  cosi  esse  devono essere  distinte  dalla  bellezza,  bianchezza,  grandezza,  ecc. quali  oggetti  dei  concetti  generali,  perché  ciascuno  di questi  é  uno  e  lo  stesso  in  tutti  i  soggetti  che  ne  par- tecipane. Ma  anche  considerando  la  bellezza,  la  bian- chezza, la  grandezza  in  questi  soggetti  determinati  astra- zion facendo  dal  grado,  la  quantità  e  le  altre  circostanze ìq  cui  e  se  differiscono  dagli  attributi  omonimi  in  altri soggetti,  basta  questa  determinazione,  di  essere  l'attributo di  tal  soggetto  determinato,  perché  esse  noi  corrispon- dano rigorosamente  agli  oggetti  dei  concetti  generali, poiché  questa  d»  terminazione  non  é  una  nota  che  fa parte  del  concetto  generale.  Ne  segue  che  tutte  le  op- posizioni, che  Platone  stabilisce  tra  le  Idee  e  le  cose, hanno  pure  luogo  tra  lo  Idee  e  gli  attributi  considerati come  proprietà  d' individui  determinali.  La  Bellezza  in sé  è  eterna,  cioè  fuori  del  tempo,  ed  esente  dal  cangia- mento ;  la  bellezza  proprietà  di  un  oggetto  determinato nasfe,  per  sce,  cresce,  ecc.;  la  prima  é  polo  intelligibile, perchè  il  senso  non  percepisce  la  bellezza  come  sostanza, ma  J^olo  couìe  U'i  attributo;  la  bellezza  individualizzata, ehe  è  un  semplice  attributo,  è  sensibile,  perchè  il  senso la  percepisce  quale  essa  è;  quella  è  una,  perchè  il  con- cetto della  belh  zza  è  unico;  1^  bellezza  che  è  in  un  in- dividuo determinato  è  altra,  per  la  percezione  sensibile. dalla  bellezza    che  é  in  un  altro  individuo  determinato per  CU',  mentre  per  r  int-lligrenza  vi  ha  una  sola  bellezza,' una  sola  grandezza,  una  sola  bianchezza,   ecc.,  per  la percezione  sensibile  vi  hanno  molte  bellezza  molte  gran- d^^zze,  molte  bianchezze,   ecc.   Queste   oppo^izioni^^met- tono    cipo    infine    air  opposizione    suprema    dell'essere reale    e   del    fenomeno  :    queste    molte    bellezze    che    i sensi  percepiscono   non    sono   in   sostanza   che   la    Bel- lezza   in    realtà    unica,    ma  cho,  apparendo    qua   e   là, por  la  partecipazione  ad  essa  dolle   azioni  o   dei   corpi' )mre  molti  (1).   Ma  perchè  1'  intelligenza  risolva  questemolte  bellezze  fenomenali  nella    Bellezza    reah^    unica, essa  deve  fare  astrazione  da  tutte  le  determinazioni  che non  entrano  nel  concetto  comune    come  i  mo'ti  uomini si  risolvono    nell'Uomo    uno,    facendo   astrazione   dallo difiFerenze  individuali;  come  i  mo'ti  Animali  si  risolvono nell'Animale  uno,  facendo  astrazione  dalle  diff  renze  spe- cifiche; co  ì  perchè  le  molte  bellez/.c   si  risolvano   nella Bellezza   unica,    per   la  cui   parusia  i  molti    belli  sono belli,  bisogna  spogliarle  dall'inerenza  in  tnle  o  tal  altro individuo  determinato  e  da  tutte  le  altre  crcostanze  che le  differenziano  le  une  dalle  altre.  In  riassunto,   1'  attri- buto Idea  e  l'attributo  proprietà  di  un  tal  soggetto  par- ticolare si  distinguono  a  due  punti    di    vista  :    il    primo è  p'ù  indeterminato,  il  secondo  è  più  determinato,   per- chè contiene  delle  determinazioni  che  non    sono   conte- nute nel  concetto  comune,  se  non  altre,  quella  d'inerire in  un  tal  soggetto  particolare;  il  primo  è  l'essere  reale, il  secondo  è  il  fenomeno,  cioè  l'  apparenza   (obbiettiva) di  quest'essere  reale. i i,r Questa  distinzione  tra  l'Idea  e  l'attributo  individua- lizzato ha  por  effetto  naturale  che,  per  indicare  questa distinzione,  Platone  8i  serve  talvolta  di  certe  espressioni che  sembrano  negare  la  parusia  delle  Idee  nelle  cose. Cosi  nel  Fedro  247  e  distingue  la  scienza  che  è  nell'es- Fere  vero  da  q^iella  in  cui  vi  ha  cangiamento  e  che  e- si^^te  diflTercnte  nei  differenti  oggetti  cho  ora  (cioè  nella vita  terrestre  in  cui  l'anima  non  percepisce  che  delle apparenze)  chiamiamo  esseri.  Qui  la  distinzione  è  fatta sopratutto  al  pun»o  di  vista  dell'opposizione  tra  la  realtà e  il  leno  neno.  La  scienza  che  è  nell'essere  vero  è  l'Idea della  scienza,  la  quale,  quantunque  sa  aùxr]  xaG'aux^v, pure  é  l'atta  inerire  in  un  soggetto,  perchè,  il  mondo delle  I  ^ee  essendo  una  rappresentazione  astratta  del mondo  sensibile,  ciò  che,  come  la  scienza,  nel  mondo sensbl'.  inerisca  in  un  soggetto,  deve  inerire  inunsog- gc  to  anche  nel  mondo  delle  Idee  Nel  Convito,  dopo aver  descritto  il  progr.  sso  del  ret^o  amante  della  bellezza, che  dall'amore  di  un  bel  corpo  passa  a  quello  di  tutti i  b«  i  corpi,  e  poi  alTamore  e  alla  contemplazione  del!a bellezza  delle  anime,  dei  costu-ni,  delle  leggi,  delle Pcienz**,  per  pervenire  infine  alla  contemplazione  del bello  in  so  stesso,  determina  questo  bello  di  natura  me- ravigliosa, la  cui  contemplazione  è  il  termine  di  tutto  il progresso  anteriore.  Esso  «  in  primo  luogo  sempre  è, non  nasce  né  perisce,  non  cresce  né  decresce,  poi  non è  bello  in  una  parte,  brutto  in  un'altra,  né  ora  bello  ora no,  né  bello  a  que?to  fine,  brutto  a  quell'altro  (l), né  bello  in  un  luogo,  brutto  in  un  a^tro,  o  bello  per alcuni,    brutto  per   altri.  Né  si  deve  immaginare  que- (1)  Rep.  476  a. (1)  Cfr.  Senof.  Memorab,  1.  3.  e.  8. sto  bello  come  un  bel  viso  o  delle  belle  mani  o  qualche alrra  cosa  di  cui  il  corpo  è  partecipe,  né  come  un  bel discorso  o  una  b  Ila  scienza,  né  come  essente  in  qualche altra  cosa^  p,  e.  un'animale^  la  terrii^  il  cielo  o  un  altro oggetto  qualunque,  ma  esso  stesso  p^r  se  stesso  con  se scosso,  uniforme,  sempre  essente,  e  tutte  le  altre  cose belle  partecipi  in  certo  modo  di  ess  »,  in  modo  eoe  che nascendo  queste  e  perendo,  niente  gli  si  aggiunga  o  si sottragga,  e  niente  patisca»  (2ll  a-b).  Si  è  affermato che  basterebbe  questo  luogo  pir  provare  la  trascendenza delle  Idee  !  Ma  esso  non  contiene  che  le  solite  determi- nazioni delle  Idee,  come  sostanze,  come  astraete,  come immutabili,  ecc.  Si  dice  che  il  Bello  è  «  esso  stesso  per se  stesso  con  se  stesso  »,  per  significare  che  nella  sua astrattezza  è  una  portanza,  e,  cono  tale,  csi-»te  indipen- dentemente da  ogni  altra  sosta n  a:  si  aggiung  -,  è  vero, che  non  deve  immaginarsi  come  essente  in  qn.nl  jhe  altra cosa,  p.  e.  in  un  anma^e,  nrl'a  t  rra,  rei  ci  lo,  ecc., ma  queste  parole  non  fanno  che  distinguere  il  Bello, oggetlo  del  concetto  comune,  dal  b  ll«>,  proprieià  di  U'ia cosa  particolare.  Nel  Fedone  102  d  si  dice  che  «non  solo la  grandezza  stessa  non  può  essere  al  tempo  stesso grande  e  pic?ola,  ma  anche  la  grandezza  in  noi  non può  mai  ricevere  la  piccolezza  »,  e  p'>i  a  1(>3  b,  espri- mendo lo  stesso  concetto  (che  non  è  altro  al  fondo  che il  principio  di  contraddizione)  iu  u  la  forma  generalo, che  «  il  contrario  non  può  mai  essere  il  suo  contrario, nò  quello  in  noi  né  quello  ìiella  natura  (èv  t^  cpuget)». Che  Topposizione  tra  la  grandezza  stessa  e  la  grandezza in  noi  significhi  semplicemente  la  distinzione  tra  T at- tributo nel  suo  oncet'o  generale  e  lo  scesso  attributo individualizzato,  e  non  implichi  che  la  grandezza  stessa sia  fuori  delle  cose,  t-i  vede  della  m*^niera  p'ù  chiara  da ciò  che  si  è  detto  un  po'  prima  (lOi  b),  cioè  che,  dopo  che JS'ìa  1  L!J?*'LiBi' fi  fu  convenuto  che  vi  hanno  le  Specie  e  che  le  altre cose  ricevono  la  loro  denominazione  partecipandone,  So- crate soggiunse  che,  poiché  è  cosi,  quando  diciamo  che Simmia  è  più  grande  di  Socrate  e  più  p*ccolo  di  Fedone, veniamo  ad  affermare  che  vi  ha  in  Simmia  tanto  la grandezza  quanto  la  piccolezza  (cioè  le  Specie,  perchè altrimenti  quest'affermazione  non  sarebbe  più  una  con- seguenza di  ciò  di  cui  si  è  prima  convenuto).  Similmente che  la  distinzione  tra  il  contrario  (cioè  Tuno  qualunque di  due  attributi  contrari)  in  noi  e  il  contrario  nella  na- tura non  implica  la  trascendenza  di  questo,  si  rileva dalle  parole  che  seguono  immediatamente,  cioè  che  So- crate intende  parlare,  non  delle  cose  che  hanno  i  con- trari, ma  di  questi  stessi  contrari,  per  la  cui  inerenza (wv  èvóvTCDv)  le  cose  ricevono  la  loro  denominazione  ;  e basta  del  resto  a  provarlo  la  stessa  espressione  «  il  con- trario nella  natura  »,  la  quale  indica  nel  modo  più  e- vidente  che  l'opposizione  tra  Tattributo  m  not  e  lo  stesso attributo  nella  natura  non  è  che  quella  tra  il  particolare e  l'universele  (1).  Infine,  nel  Parmenide  si  distingue  la (1)  Ma,  dice  1' interpatre  trascendentalista,  il  contrario  èv  1%a)Óaet  vuol  dire,  non  il  contrario  nella  natur a,  m»,  il  cohìtatìo  nella bua  natura,  Non  è  vero  ;  e  se  né  ha  una  prova  nella  Rep.  497  b,  e, 498  a,  in  cui  la  stessa  espressione  £V  z%  cpuost  si  ritrova  impie- gata in  un  modo  che  non  permetto  alcun  dubbio  sul  suo  significato.  Ivi r  Idea  del  letto,  in  opposizione  al  letto  particolare,  che  costruisce il  fabbro,  è  chiamata,  non  solo  «  il  letto  nella  natura  »  (497  e),  ma anche  più  chiaramente  «  il  letto  che  è  nella  natura  »  (XXCvTQ  £V  1% cpóast  oòoa  —  497  b).  Queste  parole  potrebbero  mai  significare  :  il letto  nella  sua  natura  ?  Del  resto  la  quistione  sembra  oziosa,  perchè anche  il  letto,  o  un'  altra  cosa  qualunque,  nella  sua  natura,  nou p»ò  affatto  significare  un'entità  trascendente.]somiglianza  stessa  da  quella  che  abbiamo  noi  (130  b),  e poi  (133  c-134  e)  la  scienza  stessa  dalla  scienza  presso noi  (7iap'r][iCv)  o  nostra,  la  verità  stessa  dalla  verità  presso noi^  il  dominio  e  la  servitù /j/6«&*t  dai  dominio  e  la  servitù presso  noi,  e  in  generale  le  Specie  dalle  cose  presso  noi. Queste  distinzioni,  è  appena  necessario  di  dirlo,  hanno lo  stesso  significato  che  quelle  analoghe  del  Fedone:  vi ha  tuttavia  questa  differenza  che,  mentre  nei  luoghi  ci- tati del  Fedone  la  distinzione  é  fatta  al  punto  di  vista deir opposizione  tra  il  generale  e  l'individuale,  in  quelli del  Parmenide^  almeno  nel  secondo,  sembra  fatta  spe- cialmente al  punto  di  vista  delTopposizione  tra  il  reale e  il  fenomenale. Ma  questo  luogo  del  Parmenide  merita  che  ce  ne occupiamo  più  particolarmente,  essendo  il  più  favore- vole air  interpretazione  trascendentalista  che  io  ricordi negli  scritti  di  Platone,  poiché  esso  contiene,  olire  alle espressioni  indicate,  delle  proposizioni  che  hanno  l'aria di  negare  esplicitamente  la  presenza  delle  Idee  nelle  cose. Ecco  dunque  la  parte  di  questo  luogo  che  e'  interessa  a questo  riguardo  :  Tra  le  difficoltà  cho  presenta  la  teoria Si  comprende  dair  insieme  del  luogo  del  Fedone  ài  cui  si  è  par- lato che,  distinguendo  la  grandezza  e,  in  generale,  il  contrario  in noi  e  la  grandezza  stessa  e  il  contrario  nella  natura,  1'  intendi- mento di  Platone  è  di  esprimere,  quantunque  forse  non  lo  faccia d*  una  maniera  sutfìcientemente  esatta,  la  distinzione  tra  due  forme di  negare  il  principio  di  contraddizione  :  1'  una,  quella  che  ammet- terebbe che  il  contrario  nella  natura  possa  essera  il  suo  contrario, sarebbe  l' identità  dei  contrari;  1'  altra,  quella  che  ammetterebbe ohe  il  contrario  in  noi,  p.  e.  la  {grandezza,  possa  ricevere  il  suo contrario,  p.  e.  la  piccolezza,  sarebbe  la  contraddizione  propria- mente detta,  cioè  una  proposizione  ohe  affermerebbe  di  uno  st  e^so soggetto  due  attributi  contrari. IJ. i>l Iti delle  Idee,  la  più  grave  è,  dice  Parmenide,  che  sarebbe molto  difficile  dimostrare  il  suo  errore  a  colui  che  pre- tendesse che  le  Specie,  se  esse  esistessero,  sarebbero  inco- noscibili per  noi.  Perchè  ?  domanda  Socrate  —  «  Parm  : E  che  io  penso,  o  Socrate,  che  tu  e  chiunque  altro  am- mette che  vi  ha  un'  essenza  stessa  per  se  stessa  di  cia- scuna cosa,  dovete  da  prima  convenire  che  nes5wwac?/65se è  in  noi.  —  K  come  infatti  potrebbe  essere  allora  per  se stessa  ?  disse  Socrate-PARivi.  :  Dici  bene.  Per  conseguenza quelle  dello  Idee  che  sono  ciò  che  sono  relativamente  le une  alle  altre,  sono  relative  alle  Idee  stesse,  e  non  alle  cose presso  noi,  delle  quali  noi  partecipando  riceviamo  cia- scuna denominazione,  sia  che  queste  coso,  debbano  con- siderarsi come  simulacri,  sia  d'  un'  altra  maniera  qua- lunque. Similmente  le  cose  presso  di  noi  che  sono  omo- nime a  quelle,  sono  relative  ad  altre  cose  presso  di  noi, e  non  alle  Idee  che  hanno  la  stessa  denominazione.— Come  di'  tu  ?  domandò  Socrate-PARM.  :  Per  esempio,  se alcuno  di  noi  è  servo  o  padrone,  non  è  servo  del  pa- drone stesso,  0  padrone  del  servo  stesso  ;  ma  essendo  un uomo,  lo  è  di  un  altro  uomo.  Ma  la  padronanza  stessa éciò  che  è  della  servitù  stessa,  e  allo  stesso  modo  la  ser- vitù steesa  é  servitù  della  padronanza  stessa.  Ma  né  le cose  in  noi  si  riferiscono  a  quelle,  nò  quelle  si  riferiscono a  noi,  ma,  come  dissi,  quelle  sono  relative  fra  di  loro,  e le  cose  presso  noi  relative  similmente  fra  di  loro.  Com- prendi ora  ciò  che  dico?  —  Comprendo  perfettamente, ripose  Socrate- Pakm.  :  La  scienza  stessa  dunque  sarà  scien- za della  verità  stessa'?— -Socr.  :  Sì-Parm.  :  E  ciascuna delle  scienze  in  se  stessa  sarà  scienza  di  ciascuno  degli esseri  in  se  stesso?— Soca.  :  Si— Parm.  :  Ma  la  scienza prcò^^^o di  noi  lo  sarà  della  verità  presso  di  noi?  e  ciascuna delle  scienze  presso  di  noi,  di  ciascuo  degli  esseri  presso di  noi  fSocR.  :  Necessariamente  —  Parm.  :  Ma,  come  tu -iso- lili confessi,  noi  non  abbiamo  le  specie  stesse ^  ed  esse  non  pos. sono  essere  presso  di  noi  —  SocR.  ;  No  —  Parm.  :  Cia scudo dei  generi  stessi  non  è  conosciuto  dalla  specie  stessa della  scienza?  —  Socr.  :  Si.  —  Parm.  :  Specie  che  non  ab' Marno  —  SocR.  :  No  —  Parm.  :  Nessuna  specie  dunque  8^ conosce  da  noi,  poiché  noi  non  partecipiamo  della  scienza stessa — Socr.:  No,  a  quanto  pare  —  Parm.  :  Sicché  non sappiamo  cosa  sia  il  bello  stesso  e  il  bene  stesso  e  tutte le  cose  che  noi  riguardiamo  come  Idee  —  SocR.  :  Ne corriamo  il  rischio  »  (133  c-134  c). Cosi,  secondo  questo  luogo,    le   Idee   no7i   sono   nelle cose,  e  queste  non  le  hanno  e  non   ne  partecipano.    Ma queste  proposizioni,  se  dovessero  prendersi  in   tutta  l'e- stensione  dei    termini,    sarebbero   nella    contraddizione più   aperta  con  le  proposizioni  più  abituali  di  Platone, perchè   egli    afferma    costantemente   che  le  cose   parte- cipano   alle    Idee,  che    le  hanno,   e   che  Je  Idee  sono nelle  cose  (1).    Ne   segue    che,    se   non   vogliamo    met- tere   Platone    in    contraddizione    con    se    stesso,     noi non  dobbiamo  prendere  le   prime    in    tutta   l'estensione dei  termini;  perchè  per  evitare  la  contraddizione  tra  due proposizioni  di  cui  Tuna  afferma  ciò  che  l'altra  nega,  è la  negativa  che  si  deve  intendere  necessariamente  in  un senso  restrittivo.  Al  fondo  le  proposizioni  del  Parmenide di  cui  si  tratta  non  dicono  niente  di  più  che  quelle  già citate  del  Fedone  e  le  altre  analoghe  :  se  le  Idee  si  di- stinguono dalle  cose  che  sono  in  noi,  vuol  dire  che  esse non  sono  in  noi.  Vi  ha  tuttavia  questa   differenza,    che nelle  proposizioni  del  Fedone  la  negazione  della  parusia è  contenuta  d'una  maniera  implicita,  mentre  in    quelle (I  t  (1)  V.  n.  VI. del  Parmenide  lo  è  d'una  maniera  esplicita  (ben  inteso, se  queste  proposizioni  si  prendono  nel  senso  più  asso- luto). Ciò  mostra  che  la  distinzione  tra  le  Idee  e  gli  at- tributi  delle  cosp,  nel  Parmenide,  è  fatta  dal  punto  di vista  da  cui  nel  sistema  delle  Idee— interpretate  come immanenti— il  distacco  tra  le  Id(>e  e  gli  attributi  delle cose  apparisce  più  grande.  Questo  punto  di  vista  è  quello che  considera  il  mondo  sensibile  come  l'apparenza,  e  il mondo  delle  Idee  come  la  realtà.  Il  Bello  in  sé,  il  Buono in  sé,  ecc.  non  esistono  nel  mondo  dell'apparenza— cioè nell'aspetto  apparente  dell'essere—,  ma  nel  mondo  della realtà— cioè  nel  suo  aspetto  reale—;  nel  mondo  dell'ap- parenza non  esistono  che  le  molte  bellezze,  le  molte  bontà, ecc.,  che  sono  nei  molti  belli,  nei  molti  buoni,  ecc.,  per- chè il  senso  non  percepisce  che  la  moltiplicità,  Tunità  è solo  intelligibile,  e  apprendendola,  l'int^ligenza  si  mette la  contraddiz'one  con  la  percezione  del  senso.  Cosi  Piatone può  dire  che  le  Idee  non  sono  in  noi  o  presso  di  noi,  che  noi non  le  abbiamo  e  non  ne  parte,cipiamo,  in  questo  senso,  che esse  non  fanno  parte  del  mondo  dei  fenomeni  :  queste proposizioni  negano  la  presenza  fenomenale,  sensibile, delle  Idee  nelle  cose — perché  le  Idee  non  sono  nelle cose  sensibilmente,  come  una  cosa  fenomenale  è  in un'altra  cosa  fenomenale —,  ma  non  la  presenza  sovra- sensibile  che  nel  sistema  platonico  é  indicata  dal  termine tecnico  parusia.  Certo  etili  non  dice  esplicitamente,  nel luogo  citato,  che  considera  le  cose  come  delle  appa- renze dello  Idee  {iy  MarabiLudiue  di  Platone  non  é  di (1)  Taltavia  potrebbe  trovar-jene  un  accenno  là  dova  dice  che le  cose  possono  riguardarsi  come  simulacri  (ójiO'.tóiia'aì  delle  Idee (133  d,  e  più  ancora  dove  chiama  le  scienze  in  se  stesse  e  gli  es- peri in  «e  stessi  (cioò  le  Idee;  «  ciascuna  delle  scienze  che  è  (r\  loTlv) e  ciascuno  degli  esseri  cha  è  (o  laxiv)  (lìU  a). descriverci  minutamente  tutti  i  gradi  del  processo  mentale di  cui  le  sue  proposizioni  sono  il  risultato  :  di  tutte  le sue  speculazioni  (sulle  Idee,  suiraniraa,  ecc.)  egli  non ci  presenta  che  i  risultati,  saltando  sulle  idee  interme- diarie (quando  dà  le  prove  delle  sue  dottrine,  ai  veri motivi  di  esse,  cioè  ai  gradi  reali  del  processo  mentale che  lo  hanno  condotto  a  questi  risultati,  sostituisce  dei sofismi  puramente  artificiali,  che  non  potrebbero  sembrare concludenti  se  non  a  chi  è  già,  per  altri  motivi,  convinto della  verità  della  conclusione).  Non  si  deve  del  resto dimenticare  la  difficoltà  che  vi  ha,  nel  sistema  deirimma- nenza,  ad  esprimere  il  rapporto  tra  le  Idee  e  le  cose  : tutte  le  espressioni  per  cui  noi  possiamo  indicare  una  di- stinzione tra  sostanze,  implicano  pure  necessariamente  la 8e,parazione  tra  queste  sostanze,  perchè  tutte  le  sostanze distinte  che  noi  possiamo  percepire  o  immaginare  sono anche  delle  sostanze  separate;  per  conseguenza  Platone, quando  vuole  esprimere  con  concisione  la  distinzione  tra le  Idee  e 'le  cose,  è  facilmente  condotto  a  servirsi  di  pro- posizioni che,  se  non  s'interpretano  in  confronto  con  le altre  parti  dei  suoi  scritti,  danno  reagione  air  interprete trascendentalista.  Una  considerazione  che  bisogna  sempre tener  presente  in  questa  quistione  dell'immanenza  o  tra- scendenza delle  Idee  platoniche  è  che,  nell'  ipotesi  del- l'immanenza, si  può  perfettamente  rendersi  conto  delle proposizioni,  per  altro  isolate,  che  sembrano  contrarie, per  questa  difficoltà  di  esprimere  il  rapporto  tra  le  I- dee  e  le  cose— difficoltà  che  certamente  deriva  dall'incon- cepibilità di  questo  sistema,  perchè  le  Idee,  per  quanto è  possibile  d'immaginarle,  non  possiamo  immaginarle, bisogna  convenirne,  che  come  separate  dalle  cose—; mentre,  nell'ipotesi  della  trascendenza,  sarebbe  impossi- bile di  rendersi  conto  di  tutti  i  concetti  platonici  esposti nella  prima  parte  di  questo  Supplemento,  che  esprimono 0  implicano  la  presenza  delle  Idee  nelle  cose  o  l'identità tra  le  Idee  e  le  cose,  e  costituiscono,  non  delle  proposi- zioni isolate,  ma  la  dottrina  costante  dell'autore. In  altre  proposizioni,  in  cui  Platone  sembra  negare la  parusia,  egli  non  nega  in  realtà  che  una  parusia  lo- cale, l'esistenza  delle  Idee  in  un  luogo  determinato.  È ciò  che  fa  nel  tratto  seguente  del  Tmeo,  che  è  anch'esso dagl'interpreti  trascendentalisti  citato  come  una  delle prove  più  chiare  della  loro  interpretazione  :  «  Poiché  è cosi  (cioè  poiché  l'intelligenza  e  l'opinione  sono  due  cose diflFerenti),  bisogna  convenire  che  esiste  un'Idea,  che  è sempre  la  stessa,  non  nasce  e  non  perisce,  non  riceve  in se  stessa  altro  d'altronde  e  non  va  essa  atessa  in  altro  ad alcun  luogo  (oìjzs  cLÒxò  ^  V bIòoì; -^  el<;  àXXo  noi  tóv),  non può  percepirsi  né  per  la  vista  né  per  alcun  altro  senso, e  non  può  essere  contemplata  che  dall'intelligenza  ;  e un'altra  cosa,  omonima  e  simile  ad  essa,  sensibile,  ge- nerata, sempre  in  movimento,  esistente  in  un  luogo  de- terminato dal  quale  disparisce  pprendo,  e  che  può  es- sere appresa  dall'  opinione  congiunta  alla  s^^nsazione;  e una  terza  cosa,  il  genere  eterno  del  luogo  che  non  pe- risce, dà  un  posto  a  tutto  ciò  che  nasce,  percettibile  senza i  sensi  per  un  certo  concetto  spurio  (1),  appena  credibile; (I)  Platone  chiama  la  nozione  dallo  spazio  un  concetto  spurio, perchè  efFeltivamente  e^sa  non  è  un  vero  concetto:  un  concet- to,  nel  senso  rigoroso  della  parola,  è  la  rappresentazione  di  ciò che  vi  ha  di  comune  in  molti  oggetti,  ma  la  nozione  dello  spazio si  riferisce  a  un  oggetto  unico,  perchè  lo  spazio  è  uno  solo.  (Il  luogo, di  cui  Platone  nel  Timeo  fa  un  principio  e  un  elemento  delle  cose distinto  dalle  idee,  non  è  né  uno  spazio  particolare  né  l'Idea  ge- nerale degli  spazi  particolari,  ma  lo  spazio  infinito,  l'insieme  di tutti  gli  spazi  particolari)  Cfr.  Kant  Estel,  troscendent»  §  2  n.  3  e 4  e  I  4  n.  4  e  5. ai  quaie  rigrnardando,  sogniamo  e  diclamo  che  ò  neces- sario che  tutto  ciò  che  esiste  sia  in  qualche  luogo  e  oc- cupi uno  spazio  determinato,  e  che  ciò  che  non  è  né  in terra  né  in  cielo  non  ha  alcuna  esistenza»  (52  a-b)  (1). ^è  in  (erra  né  in  cielo— ciò  che,  come  mostrano  le  pa- role seguenti,  si  riferisce  alle  Idee — vuol  dire  evidente- mente: in  nessun  luogo.  L'Idea  è  fuori  dello  spazio  nello stesso  senso  in  cui  è  fuori  del  tempo;  cioè  in  quanto  l'e- sistere in  un  luogo  determinato,  come  V  esistere  in  un tempo  determinato,  sono  delle  determinazioni  che  com- petono a  tal  individuo  particolare,  ma  non  entrano  nel concetto  generale.  Com'è  possibile  ciò?  A  questa  do- manda non  vi  ha  che  una  risposta  :  è  che  V  Idea  non è  che  il  concetto  generale  realizzato  ;  e  1'  apparire  e  il disparire  degl'individui  sono  delle   circostanze  che  non (1)  Seguono  le  parole:  «  Tali  determinazioni  e  altre   simili   at- tribuiamo pure  all'essere  che  esiste  veramente  e  ohe  non  vediamo in  un  sogno;  e  perchè  noi  sogniamo,  siamo  incapaci  di  distinguere» come  uomini  svegliati,  e  di  dire  la  verità,    cioè   che   l' immagine, poiché  ciò  in  cui  è  nata  non  le  appartiene,  ed  è  il  fantasma  sem- pre agitato  d'un  altro   essere,    deve    per    conseguenza    esistere   in qualche  altra  cosa,  attaccandosi  in  qualche  maniera  all'esistenza, o  non  essere  assolutamente  niente  (Platone  dà  quilo spazio,  iden- tico per  lui  alla  materia,  come  un  altro  elemento  che  deve  aggiun- gersi necessariamente  all'  elemento  generale,  cioè  all'  Idea,  perchè sia  possibile  l'esistenza  del  particolare;  in  altri  termini  fa  dello  spa- zio o  deW&mAteTÌ&iì  principhim  individnationis.  Cfr.  Supplem.  C,  li, sulla  fine);  ma  l'essere  che  veramente  è,  è  difeso  da  questa  ragione vera  ed  esatta  che,   sinché  due  cose  saranno  differenti,  esse  non  po- tranno mai  essere  l'una   nell'altra  in  modo  da  essere  al  tempo  stesso due  coso  e  una  sola.  „  Per  queste  due  cose  che  non  possono  essere l'una  neir  altra  Platone  non  intende,  come  gli  fa  dire  Cousin  nella sua  traduzione,  l'essere  vero  e  l'immagine,  ma  l'essere  vero  e  lo  spa- «io  ;  perchè  l' intenzione  di  tutto  questo  luogo  è  di  escludere  dal- l' essere  vero  l' esistenza  nello  spazio. concernono  il  concetto  generale.  Dicendo  poi  che  V I- dea  non  va  in  altro,  Platone  non  esclude  la  presenza delle  Idee  n'^Ue  cose,  ma  ci  avverte  che  noi  non  dobbia- mo immaginare  che,  quando  una  nuova  forma  apparisce in  qualche  parte  della  materia,  cioè  dello  spazio,  Tldea corrispondente  a  questa  forma  si  muova,  per  dir  cosi,  e vada  ad  occupare  questa  parte  della  materia,  ma  il  na- scere e  il  perire  delle  cose  non  importa  nelle  Idee  nes- sun cangiamento.  È  un  concetto  analogo  a  quello  che  e- sprime  nel  luogo  citato  del  Convito,  quando  dice  che  le cose  bello  partecipano  al  Bello,  ma  «  in  modo  che  na- scendo esse  o  p-rendo,  niente  gli  si  aggiunga  o  gli  si sottragga,  e  niente  patisca  ». III.  Vi  ha  una  classe  d'Idee,  'a    cui    Platone    dà   un contenuto  che  sembra,  ed  è  in  realtà,  a  prendere  la  cosa a  rigor  di  logica,  incompatibile  con  la  loro  immanenza. Alcuni  concetti  non  si  applicano  rigorosamente  alle  co- se, non  corrispondendo  esattamente  ai  loro  attributi,  ma sono  piuttosto  come  dogi'  ideali  a  cui  questi  non  si  con- formano  che  d'una  maniera  più  o  meno  approssimativa. Tali  sono  i  concetti  che  ci  servono  di  norma  per  giudi- care le  azioni  morali-la  giustizia  assoluta,  il  dritto  as- soluto  non  si  realizzano  mai  perfettamente  negli  nomi- ni-;  tali  sono  pure  quelli  delle  figure  geometriche-nel- la  natura  non  vi  hanno   delle    rette,    dei    cerchi,    delle Ffere,  rigorosamente  conformi  alla  definizione  j;eometri- ca-.  In  questi  casi  noi  ci  serviamo  ordinariamente  dello stesso  nome  per  significare  tanto  l'attributo  considerato nel  suo  concetto  assoluto,  quanto  l'attributo    delle  cose reali  corrispondenti,  ma  inadeqaatamente,  a  questo  con- cetto :  ma  questo  nome  è  in  un    certo    modo   equivoco, poiché  è  evidente  che  giusto,  retto,  sferico  e  i  sostanti- vi corrispondenti,  quando  significano  la   giustizia   asso- luta e  la  rettitudine   e  la  sfericità  assolute   esattamente —  133  - conformi  allo  de  finizioni  geometriche,  hanno   un   senso differente  che  quando  significano    la   giustizia    relativa degli  uomini  e  la  rettitudine  e  la  sfericità  relative  delle linee  e  dei  solidi  reali.  Ora  alle   Idee   corrispondenti   a questi  nomi  Platone  dà  per  contenuto    V  attributo    con- siderato nel    suo    concetto    assoluto  —  p.  e.  T  Idea    del giusto  rappresenta  la  giustizia  assoluta,  l'Idea  della  retta e  delia  sfera  la  retta  e  la  sfera  geometriche— e  ammet- te al  tempo  stesso  che  queste  Idee  sono  le  Idee  delle  co- se reali  a  cui  i  nomi  non  convengono  che  in   un  Penso relativo -p.   e.    che  gli  uomini  giusti,  le  rette   e  le  sfc- re  imperfette  della  realtà  sono  tali  per  la  partecipazione dell'Idea  del  giusto,  della  retta  e  della  sfera,  cioè  della giustizia  assoluta  e  della  rettitudine  e  sfericità   «ssolute rigorosamente   conformi   alle  definizioni  geometriche —. Il  luogo  più  importante  per   questa  parte   della   dot trina  delle  Idee  è  il  seguente  del  Fedone  (74)  :  t  Diciamo noi  che  Teguale  è  qualche  cosa  V  io  non  parlo  di  un  le- gno uguale  a  un  legno  né  di  una  pietra  uguale  a  una pietra  ne  di  altre  cose  simili,  ma  di  qualche  altra  cosa oltre  di  queste,  deir eguale  stesso  :  diciamo  noi  che  esso è  qualche  cosa  o   no? —  Lo  diciamo,  per  Giove!,  disse Simmia,  e  meravigliosamente  —  E   sappiamo    che   cosa sia  ?— Senza  dubbio— Donde  abbiamo  attinta  questa  co- noscenza V  non  è  da  questi  oggetti  di  cui  abbiamo  par- lato ?  vale  a  dire  non  è  vedendo  dei  legni,    dei    sassi  o altri  oggetti  eguali,  che  abbiamo  concepito  reguale,che è  diverso  da  essi?  0  non  ti  sembra  diverso?  Considera la  cosa  in  questo  modo  :  i  legni  e  i  sassi  eguali  non  ci sembrano,  senz'aver  cangiato,  ora  eguali  ora  ineguali  ? —  Si  — Ma  l'eguale  stesso  ti  è  mai   sembrato   ineguale, o  l'eguaglianza  ineguaglianza  ?— Giammai,  o  Socrate- Dunque  non  sono  la  stessa  cosa  questi  eguali  e  l'eguale stesso— Non  mi  pare  afl'atto  che  siano  le  stessa  cosa,   o Socrate— Nondimeno  è  da  questi  eguali,  quantunque  di'* versi  dall'  eguale  stesso,  che  hai  attinto  col  pensiero  la conoscenza  di  esso.  —  È  vero  —  Sia  che  esso  somigli loro  sia  che  non  somigli  ?  —  Certamente  —  Ciò  infatti non  ha  alcuna  importanza  ;  perchè  dacché  la  vista d' una  cosa  ci  fa  pensare  a  un'  altra  cosa,  sia  che questa  le  somigli  sia  che  non  le  somigli,  vi  ha  ne- cessariamente reminiscenza— Senza  dubbio— Ma,  ripigliò Socrate,  quando  vediamo  dei  legni,  o  altri  oggetti  di  quelli di  cui  abbiamo  parlato,  eguali,  ci  sembrano  essi  eguali come  r  eguale  stesso,  o  piuttosto  vi  manca  qualche  cosa perchè  s  ano  tali  qual  è  l'eguale  stesso?— Vi  manca  mo!to-~ Conveniamo  dunque  che  quando  alcuno,  vedendo  una cosa,  pensa  che  questa  tonde  ad  essere  tale  quale  è  un'altra cosa,  ma  senza  poter  ess**>rlo  perf  ttamente,  e  restandole inferiore  ;  è  necessario  che  quegli  che  ha  questo  pensiero preconosca  già  queir  altra  cosa  a  cui  egli  dice  che  la prima  rassomiglia  d'una  maniera  imperfetta  ?— E  neces- sario—Che dunque  ?  non  è  questo  che  ci  accade  per  gli oo-s-etti  effuali  e  Teoruale  stesso  ?— Certamente— Dunque necessariamente  noi  abbiamo  avuto  la  conoscenza  del- l'eguale  prima  di  quel  tempo,  in  cui  vedendo  per  la prima  volta  degli  oggetti  eguali,  pensammo  che  questi tendono  ad  essere  quale  è  l'  eguale,  ma  non  sono  per- fettamente tali— Cosi  èp. Questo  liiogo,  benché  il  suo  scopo  diretto  s'a  di  di- mostrare la  preconosceuza  dell' Idea  e  la  sua  reminiscenza all'  occa«5Ìone  della  percezione  sensibile,  pure  contiene, come  abbian  o  visto,  una  prova  della  sua  esistenza  :  è un  caso  particolare  di  quella  a  cui  allude  Aristotile  in Mei.  I.  IX.  3,  rimproverandole  di  condurre  ad  ammet- tere Idee  di  i  relativi,  e  che  è  esposta,  quantunque  d'una maniera  alquanto  confusa,  nel  commento  d'  Alessandro -  134  - d'Afrodisia  (1).  Ì)*una  maniera  generaìe  possiamo  to^ mulare  questa  prova  cosi:  Ài  coDcetto  deve  corrispon- dere un  oggetto  reale  ;  ma  vi  hanno  dei  concetti,  ai quali  niente  corrisponde  rigorosamente  tra  gli  oggetti sensibili  ;  per  conseguenza  a  questi  concetti  devono  cor- rispondere degli  oggetti  distinti  dai  sensibili  ;  sono  le Idee. Le  Idee  che  Platone  riguarda  come  degli  esemplari che  nelle  cose  non  si  realizzano  se  non  d'una  maniera imperfetta,  appartengono  costantemente  alla  classe  che noi  abbiamo  detta;  vale  a  dire  corrispondono  sempre  a nomi  significanti  degli  attributi,  che  sono  suscettibili  di diversi  gradi,  e  che  hanno  un  grado  massimo  al  di  là di  cui  alcun  altro  non  potrebbe  esserne  concepito  ;  grado massimo  il  quale,  quantunque  non  sia  che  un  sf-mplice ideale  del  nostro  spirito,  può  tuttavia  considerarsi  come il  vero  significato  del  nome  preso  nel  senso  assolutamente rigoroso.  Così  nel  Fileho  62  a-b  il  circolo  e  la  sfera stessa  divina  sono  riguardati  come  regolari,  e  opposti, come  tali,  a  questi  cerchi  e  a  questa  sfera  umana  riguar- dati come  irregolari  (2).  Nel  Parmenide  134  e  si  sup- pone   che   il   genere    stesso  della   scienza  sìa   molto  più f (1)  L'argomento,  nella  forma  in  cui  l'e-^pone  Alessandro  d'  A- frodidia,  può  riassumersi,  io  credo,  così:  I  predicati  convengono  al- le cose  sia  esattamente  sia  come  ad  immagini:  p.  e.  storno  può designare  sia  gli  uomini  reali  sia  degli  uomini  dipinti.  Cosi  un predicato,  p.  e.  eguale,  che  non  conviene  alle  cose  sensibili  esat- tamente—perchè queste  non  sono  mai  tra  loro  perfettamente  e- guali  —  deve  convenire  ad  esse  come  ad  immagini  ;  e  per  conse- guenza deve  ammettersi  l'esistenza  d'un  esemplare,  di  cui  le  cose sensibili  sono  delle  immagini,  e  a  cui  il  predicato  conviene  esat- tamente. (2)  Cfr.  Arist.  Mei.  l.  III.  II.  19-20. esatto  (àxpi^éaxepov)    della   scienza  presso  di  noi,  e  cosi pure  la   bellezza   e  ogni  altra   cosa   (vale  a  dire   ogni altra  cosa  suscettibile  di  diversi   gradi  di  esattezza  sino all'esattezza  assoluta);  e  poi  (134  d),    in   conformità  di questa   suppos'zione,    l' Idea   della   scienza   e  della  pa- dronanza vengono  chiamate  la  scienza  e  la  padronanza assoluta   (àxptpsoxocxYjì.  Nella  Eep.  472  b-c   Socrate  dice ch'egli  ha  ricercato  cosa  sia  la  giustizia   stessa  a  scopo di  paradigma,  poiché  è  impossibile  che   V  uomo   giusto sia   perfettamente    tale  quale  è  la  giustizia  ;  e  nelle  di- verse  Etiche   d' Aristotile  o   che  portano   il    suo   nome {Eth,  Nic.  1.  I.  VI.  5-6,  Magri.  Mor.   1.    I.    I.    22,    Eth. Eud.  1.  I.  VIII.  1-2,  H,  18)  ai  filosofi  che  ammettono  un'I- dea del  bene  è  attribuita  la   dottrina  .^.he   quest'  Idea   è il  massimo  di  tutti  i  beni.   Dai    luoghi   aristotelici  indi- cati si  vede  anche  che  la  parola  stesso  (aOxórì   aggiunta al  nome  per  denotare  l'Idea,  nel  tempo  stesso  che  indi- cava che  l'attributo  di  cui  trattavasi  era   V  oggetto    del concetto  astratto  e  generale,  significava  pure    che   que- st'attributo doveva  prendersi  in  un  senso  assoluto    (cioè  . nella  sua  purezza,  nel  massimo  dei  gradi  di  cui  esso  è suscettibile). Questa  dottrina  di  Platone  che  V  Idea  rappresenta l'attributo  nel  suo  grado  assoluto,  è  espressa  anche  sotto un'altra  forma,  cioè  che  l'attributo  Idea  non  partecipa dell'attributo  contrario,  mentre  le  cose  sensibili,  subordi- nate all'Idea,  partecipano  sempre  di  tutti  e  due  gli  at- tributi contrari.  Si  è  gii  visto  nel  luogo  citato  del  Fe- done che  le  coso  eguali  sembrano  ora  eguali  ora  ineguali (cioè  possono  riguardarsi  tanto  dell'una  quanto  dell'al- tra manif^raj,  mentre  l'eguale  stesso  non  può  mai  aem- brarrt  ineguale,  o  reguaglianza  ineguaglianza.  Similmente nel  Convito  (211)  il  Bello  in  se  stesso,  che  è  uniforme, sincero,  puro,  immisto,  si  oppone    alle  cose  belle,    che -  135  - sono  belle  in  una  parte,  brutte  in  un'altra,  belle  per  un rispetto,  brutte  per  un  altro,  belle  per  alcuni,  brutte  per altri,  ecc.    Neir  Ippia  maggiore  (289),  avendo   il  sofista risposto  che  il  bello  in  se  stesso  è  una  bella  vergine,  So- crate gli  fa  osservare  che  una  bella  vergine  è  brutta  in  com- para/.ione  dì  una  dea,  e  conclude  che,  interrogato  che cosa  sia  il  bello  stesso,  egli  ha  risposto  una  cosa  che  è tanto  bella  quanto  brutta.  Nella  Rep.  523  a-52f>  a  si  di- ce che  il  senso  vede  Tuno  e  il  multiplo,    il   molle   e    il duro,  ecc.    confusi  l'uno  con  l'altro,  perchè  la  stessa  co- sa apparisce  al  tempo  stesso  una  e  multipla,  molle  e  du- ra, ecc.,    ma  Tintelligenza   li   distingue,   vedendoli  cia- scuno per  se  stesso  e  separato  dal  suo  contrario;  e  si  op- pone Tunità  ideale,  che  è  l'oggetto  della  matematica,  al- le unità  corporee,  che  sono  l'oggetto  dei  sensi,  in  quan- to queste  contengono  sempre   una   moltiplicità,    mentre quella  è  senza  moltiplicità  alcuna  (1).  Questo   luogo  ha qualche  analogia  con  quello  citato  del  Fedone,  perchè  vi si  attribuisce  ai  dati  della  percezione  sensibile   che   im- plicano degli  attributi  contrari,  la  proprietà  di  sollevare Tintelligenza  alla  contemplazione  delle  Idee,  eccitandola a  separare  ciò  che  è  confuso  nella  sensazione.  Infine,  nel- la stessa  opera,  479,  si  prova  che  il  solo  essere  vero  è  l'Idea  e che  le  cose  sono  un  misto  di  essere  e  di  non  essere,  mostran- do che  una  cosa  è  e  non  è  al  tempo  stesso  ciò  che  si  dice essere,  perchè  non  vi  ha  alcuno  dei  molti  belli  che  non sembri  anche  brutto,  dei  molti  giusti  che  non  sembri  in- giusto,  dei 'molti  santi  che  non  sembri  profano,  ecc.  In questi  due  luoghi  della  Repubblica  agli  attributi  contra- ri, suscettibili  di  gradi  diversi,  ma  che  hanno   pure   un (1)  Cfr-  Sof.  245  a-b,  Parm.  129  b-e. maximum  che  può  riguardarsi  come  il  significato  del nome  inteso  in  tutto  il  suo  rigore,  si  aggiungono  quelli in  cui  vi  ha  una  diversità  di  gradi,  ma  non  un  grado assoluto  al  di  là  del  quale  non  possa  concepirsene  un altro,  quali  grande,  piccolo,  grave,  leggiero,  ecc.  Queste due  classi  di  attributi  hanno  il  carattere  comune  di  non convenire  alle  cose  che  d'una  maniera  relativa  e  in  com- parazione con  altre  cose  :  un  uomo  si  dice  giusto  in quanto  è  più  giusto  di  altri  uomini— perchè,  come  dice Platone,  ne^^sun  uomo  giusto  e  tale  quale  è  la  giustizia ste-sa  —,una  linea  (sensibile)  si  dice  retta  in  quanto  è meno  flessuosa  di  altre  linee,  ecc.,  della  stessa  maniera che  un  oggetto  si  dice  grande,  piccolo,  grave,  leggiero, eec.  in  quanto  è  più  grande,  più  pìccolo,  più  grave,  più leggiero,  di  altri  oggetti. La  proposizione  che  la  bootà,  la  giustizia,  la  rettitu- dine, la  rotondità,  ecc.  Idee  rappresentano  questi  attri- buti ad  un  grado  assoluto,  mentre  essi  nelle  cose  non  si trovano  che  ad  un  g'-ado  relativo  e  comparativo,  è  in- compatibile, come  abbiamo  detto,  con  la  proposizione che  questo  Lice  sono  nelle  cose.  La  contraddizione  sta in  ciò,  che  Timmanenza  delle  Idee  nelle  cos^  significa  la loio  identità  con  gli  attributi  delle  cose  concepiti  d'una maniera  generale,  ma  la  bontà,  la  giustizia,  la  rettitu- dine, la  rotondila,  ecc.  assolufe  nen  possono  identificarsi ron  gli  attributi  delle  cose,  perchè  Platone  ammette  che li  bontà,  la  giustizia,  la  rettitudine,  la  rotondità,  ecc.  dello c(  se  sono  relative.  Noi  dobbiamo  dunque  costatare  questa contraddizione  in  Platone:  ma  vi  hanno  delle  considerazioni che  la  sp'egano,  e  ch-^  mostrano  che  la  dottrina  di  cui parliamo,  quantunque  contradditoria  al  punto  di  vista dell' iijiniaueuza,  è  nondimeno  a  questo  punto  di  vista che  è  nata,  e  non  a  quello  della  trascendenza. Noi  sappiamo  che  uno  dei  principii  del  sistema  delle -  136  - Idee  è  che  il  concetto  e  la  scienza  si  riferiscono  airidca  : da  questo  principio  segue  che  per  ogni  concetto  e  per ogni  conoscenza  scientifica  si  deve  ammettere  un*  Idea che  ne  sia  l'oggetto.  Ora  lo  spirito  umano  si  forma  ne- cessariamente il  concetto  del  buono,  del  giusto,  della retta,  del  cerchio,  della  sfera,  ecc.  assoluti  :  di  più  la scienza  che  tratta  del  buono,  del  giusto,  della  retta,  del cerchio,  della  sfera,  ecc.  si  riferisce  a  questi  concetti  as- soluti, poiché  Tetica  non  ha  per  oggetto  le  nozioni  mo- rali in  quanto  si  realizzano  d'una  maniera  relativa  nella condotta  degli  uomini,  ma  come  norme  di  questa  con- dotta, cioè  come  assolute,  e  così  la  geometria  non  ha  per oggetto  le  figure  approssimativamente  regolari  degli  og- getti reali,  ma  le  figure  perfettamente  regolari  che  non  esi- stono se  non  nella  definizione.  Platone  non  poteva  dunque rifiutare  resistenza  delle  Idee  corrispondenti  ai  nostri  con- cetti assolutij  senzA  mettersi  in  contraddizione  con  uno  dei principi!  fondamentali  del  sistema  delle  Idee;  e  si  noti che  questi  concetti  si  trovano  specialmente  nella  sfera dentro  cui  si  muovono  le  ricerche  più  abituali  di  Pia' tone,  cioè  Tetica  e  la  matematica.  L'ammissione  di  que- sta classe  d'Idee  è  inconciliabile  col  principio  che  le  I- dee  sono  gli  attributi  stessi  delle  cose  :  per  essere  coe- rente in  un  punto,  Platone  diviene  dunque  incoerente  in un  altro;  ma  la  premessa  che  lo  conduce  ad  ammetterti Idee  che  non  potrebbero,  in  buona  logica,  identificarsi con  gli  attributi  delle  cose,  quantunque  lo  forzi  ad  una conseguenza  inconciliabile  col  principio  dell'immanenza delle  Idee,  suppone  nondimeno,  considerata  per  se  stessa, questo  principio,  la  dottrina  platonica  che  il  concetto  e la  scienza  si  riferiscono  alle  Idee  essendo,  come  abbia- mo visto,  una  delle  prove  più  evidenti  della  loro  imma- nenza. Mn  ciò  ehe  si  deve  sovratutto  notare  è   che   la   con- ii I ( traddizione  che  vi  ha  tra  Tasssolutezza  della  bontà,  giu- stizia, rettitudine,    rotondità,    ecc.   Idee    e    V  immanenza di  queste  Idee  nelle  cose,  non  esiste  che  al  nostro  punto di  vista,  secondo  cui  bontà,    giustizia,    rettitudine,    ro- fondita^  ecc.    sono  dei  nomi  equivoci,  che  hanno  un  sen- so quando  indicano  questi  attributi  nel    loro    grado    as- soluUì,  e  un  altro  quando    indicano    gli    stessi    attributi quali  si  trovano  nelle  cose,  cioè  in  un  grado  relativo,  e per  conseguenza  la  bontà,  giustizia,    rettitudine,    roton- dità,  ecc.    assolute  non  possono  identificarsi    con  quelle che  sono  attributi  delle  cose.  Questo  punto  di  vista  è  il vero,  ma  non  è  quello  di  Platone.  La  bontà,  la   giusti- zia, la  rettitudine,  la  rotondità,  ecc.   in   se  stesse,    cioè astrattamente  considerate,  sono,  per  Platone,   come   ab- biamo visto,  la  bontà,  la  giustizia,  la  rettitudine,  la  ro- tondità, ecc.  assolute.  Ciò  non  è  logico,   perche   il    con- cetto astratto  di    ciascuno    di    questi    attributi  dovrebbe formarsi  facendo  astrazione  da   tutti  i  gradi  di  cui  essi sono  suscettibili,  tanto  dai  relativi  quanto  dall'assoluto. Se  noi  ci  domandiamo  il  perchè  di  questo  difetto  di   lo- gica in  Platone,  la  rispos;a  è  facile  :  è  che  dopo    aver fatto  delle  Idee  della  bontà,  della  giustizia,    della    retti- tudine, della  rotondità,  ecc.  assolute,  Platone  non  ha  al- tro mezzo  per  conciliare  l'esistenza  di    queste    Idee    con la  loro  immanenza  nelle  cose,  che  quello    di    ammettere che  la  bontà,  giustizia,  rettitudine,  rotondità,  ecc.  attri- buti delle  cose,  considerate  in  astratto,  sono  la  stessa  co- sa che  questi  stessi  attributi  elevati  ad  un  grado  assolu- to. Come  può  Platoue  identificare  l'attributo  considerato in  astratto  eoa  l'attributo  elevato  ad  un  grado  assoluto? Anche  qui  la  risposta  è  facile,    perchè   essa    si    desume   ' naturalmente  dall'opposizione  che  Platone  stabilisce   tra |e  Idee  di  ciascuno  di  questi  attributi,  nelle    quali   l'at- tributo esiste  nella  sua  purezza,  e  le  cose  subordinate  a r  i»| -  137  -- queste  Idee,  nelle  quali  l'attributo  esiste  mescolato   col suo  contrario.  l'iatoue  pensa  che,  per  concepire  la  giu- stizia, la  rettitudine,  ecc.    in  se  stesse,  bisogna  separare —nel  senso  della  parola  separare  (xa)?£!;eiv)  che  abbiamo spiegato  sulla  fine  del  n.  ^I-ciascuno  di   questi    attri- buti da  tutti  gli  altri  che  coesistono  con  esso  nelle  cose, per  conseguenza  anche  dall'attributo  contrario;  la  giu- stizia in  se  stessa  sarà  dunque  una  giustizia  pura,  sen- z'alcuna  mescolanza  d'  ingiustizia,  vale  a  dire   la  giu- stizia assoluta;  la  rettitudine  in  se  stessa,  una  rettitudine senz'alcuna  mescolanza  di  flessuosità,  vale  a  dire  la  ret- titudine assoluta,  conforme  rigorosamente  alla  definizio- ne geometrica;  e  il  simile  per  tutti  gli  altri  attributi  di questo  genere.  Gli  uomini  giusti,  le  linee   rette  (dell'e- sperienza),  ecc.  sono  tali  dunque  per  la  partecipazione della  giustizia,  della   rettitudine,  ecc.    assolute;   se   con tutto  ciò  la  loro  giustizia,  la  loro   rettitudine,   ecc.  non è  assoluta,  è  perchè  partecipano  anche  all'ingiustizia,  al- ia flessuosità,  ecc.  Dalla  mescolanza  delle  due  Idee  op- poste, quantunque  l'una  e  l'altra  assolute,    nascono  gli attributi  relativi   delle  cose,  che  sono    intermediari    tra i  due  a.ssoluti  oppo.sti,  e,  po.ssiamo  anche  ammettere  dalla diversa  proporzione  in  cui  le  due  Idee  opposte  sono  me- scolate-perche Platone  pensa  che  .si  può  partecipar<>  a un'Idea  a  gradi  differenti  (l)-i  gradi  differenti  di  que- sti attributi;  come  le   diverse   gradazioni    del   grigio-e tutti  i  colori,  come  ammette    Platone  nel   Protagora— nascono  dalla  mescolanza  del  bianco  e  del    nero,   della luce  e  dell'osciirità. I Alcuni  ammettono  che  la  dottrina  di  cui  parliamo  ha un  valore  generale  per  tutte  le  Idee,    cioè  che    Plalooe concepisce  ogu'Iiea  come  un  tipo  di  perfez'one    a    cui gl'individui  non  si  conformano  che  d'una    maniera    ap- prossimali  va.  E  un    punto  di  vista    che   potrebbe   sem- brare giustificato  da  questa  riflessione,  che    l'individuo non  corrisponde  mai  esattamente  al    tipo   normale    della sua  specie,  che  è  come  il  piano  che  la    natura    sembra prendere  per  regola  di  tutt<^  le  sue  produzioni  in  questa specie,  e  al  quale,  come  dice  Kant,    «  la  specie  tutta  in- tera è  solo  adeguata,  e  non  questo  o  quell'individuo  par- ticolare» (1).  la  ogni  individuo,  anatomicamente,  vi  ha sempre  qualche  anomalia  (2),  e  le  sue  funzioni  vitali  non si  compiono  forse  mai  tutte  d'una  maniera  perfettamente regolare.  Ma  l'Idea  deve  essere  concepita,  mettendo  da parte  tutto  ciò  che  vi  ha  nci^:!' individui   di   eccezionale, e  non  tenendo  conto  che  di  ciò  che  è  regolare,  perchè  una rappresentazione  qualsiasi  dell'Idea  sarebbe  impossibile, se  volessimo  farvi  entrare  solamente  gli   attributi    degli individui  della  specie   che   sono  rigorosamente  generala escludendone   quelii  che  sono   semplicemente   la  regola^ ma  con  qualche  eccezione.  Cosi  l'Idea  sarebbe  come  una media  di  tutti  gl'individui,  come    Kant    dice    della    sua idea  normale  estetica  (3);  e  potrebbe  paragonarsi    ai  en- trai ti  generici  o  tipici  di  Galton,  ottenuti  per  la  sovrap- posizione di  diverse  immagini,  ritratti  che  sono  più  belli, a  quanto  si  dice,  di  quelli  j»articolari  di  cui  sono  la  me- A  u^^J'  '  *•  ^®  <^os«  ^'ono  Simili  a  misura  che  partecipano della  Somiglianza,  dissimili,  della  Dissomiglianza. (1)  Crif,  del  giudizio,  %  XVII. (2)  V)  Darwin   Oririine  dell' ff omo  o„  4. (3)  Critica  del  giudizio,  ibid. —  138  — dia,  e  ai  qaali  i  concetti   generali    sono   stati   effettiva- mente paragonati  (1). Qualunque  sia  il  valore  intrinseco  di  questo  punto di  vista,  non  si  ha  alcuna  ragione  di  affermare  che  esso sia  stato  quello  di  Platone.  Se  Platone  avesse  determi- nato così  l'Idea,  egli  si  sarebbe  posto  in  contraddizione coi  principii  generali  del  sistema,  secondo  cui  Tldea  è ciò  che  vi  ha  di  uno  e  lo  stesso  in  tutti  gl'individui  della specie  :  ora  noi  non  possiamo  ammettere  altre  contrad- aizioni  a  questi  principii  generali  cl)e  quelle  che  risul- tano esplicitamente  dai  testi.  Ma  questi  ci  autorizzano ad  affermare  solamente  che  Platone  ha  riguardalo  come esemplari  a  cui  le  cose  sono  inadequate,  le  Idee  corri- spondenti ai  concetti  che  non  trovano  un'applicazione rigorosa  nel  mondo  reale.  L'  argomento  del  Fedone  74 per  dimostrare  che  Tldea  è  qualche  cosa  di  distinto  da- gli oggetti  sensibili,  e  quello  analogo  esposto  da  Ales- sandro d'Afrodisia,  non  potrebbero  applicarsi  al  di  fuori di  questi  concetti  :  non  potrebbe  dirsi  degli  uomini  o  dei cavalli  che  V  attributo  uomo  o  cavallo  non  conviene  ad essi  rigorosamente^,  come  si  dice  delTattr  buto  eguale  per gli  oggetti  eguali;  e  meno  ancora  ch'essi  sono  anche  non uomini  0  non  cavalli,  come  Platone  dice  che  gli  oggetti eguali  sono  anche  ineguali,  ì  belli  brutti,  i  giusti  ingiusti, i  santi  profani,  ecc.  Per  conseguenza,  a  difetto  di  prove  che permettano  di  attribuire  a  Platone  questa  dottrina  (2),  noi (1)  V.  Delboeuf  //  sonno  r  i  M>ffni  pag.  19S. (2)  Una  prova  di  questa  dottrina  potrebbe  vedersi  nel  luogo  seguente della  Repubòlica  :  «  Gli  ornamenti  di  cui  la  volta  dei  cieli  è  decorata, polche  apparteni^ono  all'ordine  delle  cose  visibili,  devono  certamente  ri- guardar^ji  come  ciò  che  vi  ha  di  più  belio  o  di  più  perfetto  nel  loro    or- I possiamo  dispensarci  di  esaminare  se  e  come  essa  sia  com- patibile con  quella  dell'immanenza  delle  Idee. IV.  Vi  hanno  dei  luoghi  in  Piatone  chp,  intesi  alla lettera,  significherebbero  certamente  la  trascendenza: ma  in  essi  i  concetti  platonici  non  sono  esposti  d'  una maniera  puramente  scientifica,  ma  intimamente  congiun- ti,  o,  a  dir  meglio,  fusi,  in  modo  da  perdere  il  loro  a- spetto  genuino,    con   elem'^nti   evidentemente  fantastici, dine,  ma  sono  molto  deficienti  se  .si  paragonano    ai    veri  (alla    vera    ma Knificenza,  come  traduce  Cousin).  cioè  ai  movimenti  con  cui  quella    che è  velocità  e  quelle  che  è  lentezza  (za  cv  TccxoG  xa:  r,  oùaa  ^paòùxrc cioè  la  velocità  e  la  lentezza  in  se  stesse,    in  astratto,   perchè    queste  e- spressioni   equivalgono  a    5    sait   zdxo<;,   ó   laxt  ppaetjxy]^)  nel  vero (àX7jOtV(fj)  numero  e  in  tulle  le  vere  (dXr^eÉaO  figure  si  muovono  runa rapporto  alValtro.  e  muovono  ciò  chg  ad  esse   inerisce    (xà     SV(5vxa)  : le  quali  cose  possono  apprendersi  solamente  col  pensiero  e  con  la  ra-ioné ma  non  con  la  vista.  O  pensi  tu  che  possano  apprendersi  con    la    vista  ? —  No,  disselli— Adunque  della  varietà  che  è  nel  cielo   bisogna   ser- virsi come  di  un  esemplare  per  Tinsegnamento  di  quelle  cose,  non  altri- menti che  se  alcuno  vedesse  delle  figure  fatte  da    Dedalo  o    da    un    altro eccellente  artefice  o  pittore.  Se  (piello  che  le  vedesse  tosse  un  abile  jreo- metra,  le  stimerebbe  certatnente  delle  belle  opere  :    ma    gli    sembrerebbe ridicolo  di  considerarle  attentamente  per  iscoprirvi  la  verità  degli  eguali, dei  doppi  o  di  qualsiasi  altD  rapporto  di  misura-E   sarebbe    veramente ridicolo,  disse  Glaucone— Non  tara  lo  stesso  il  vero   astronomo,  guardan- do i  movimenti  degli  astri  ?  egli  crederà  che  dallautore  del  cielo   esso  e le  cose  che  sono  in  esso  furono  costituiti  della  maniera  piii    hella    che   è possibile  in   tali  opere:  ma  il  rapporto   della  notte  col    giorno,  e  di  essi col  mese,  e  del  mese  mn  Tanno,  e   dei    periodi    degli    astri   con   questi e  Ira  di  loro,  riterrebbe  assurdo  di  credere  che  siano  sempre  della  stessa maniera  e  non  cangino  mai,  quando   sono  aventi    corpo  e  visibili,    e    di cercare  con  ogni  studio  in  queste  cose  delle  verità  rigorose -Certamente ora  che  ti  ascolto  pare  lo  stesso  anche  a  we,  disse  Hlaucone -Trattiamo dunque  l'astronomia  come  la  geometria,  servendoci    dei    problemi,  e   la-'  -s- à  sceverarli  dai  quali  non  vi  ha  altro  mezzo  che  il  confronto con  le  dottrine  deirautore  per  cui  non  vi  ha  alcun  dubbio che  egli  deve  essere  inteso  alla  lettera,  prendendo  per una  dottrina  reale  ciò  che  è  ad  esse  conforme,  e  tutto il  resto  per  un  semplice  rivestimento  poetico  o  un'  alle- goria. Queste  rappresentazioni  fantastiche  dei  concetti di  Platone  che,  prese  letteralmente,  proverebbero  la  tra- scendenza delle  Idee,  si  riducono  ai  due  miii  del  Timeo sciamo  là  i  lenomcni  del  cielo  (-à  èv  x^   oùpavép),   5e  vogliamo,  per lo  studio  deirastronomia,  d'inutile  rendere  utile  quest'organo  del   nostro spirito  che  la  natura  ha  destinato  airintelligenza  >»  {/^ep.  1.  VII.  5^9  c-530  e) Potrebbe  credersi  che  i  movimenti  con  cui      xò     cv    XOtYOC     6     iì oùoa   ppaSóxrjg  nel  vero  numero  e  in  tutte  le  vere  figure  si  muovono, ecc.  sij^'nifichi  le  Idee  do!  movimenti  dei  corpi  celesti;   e  che  il    senso  di questo  luogo  sia  che  i  movimenti  dei  corpi  celesti  non  si  fanno  con  pe- riodi costanti  e,  in    una    parola,  con    regolarità,    ma  questa   regolarità che  manca  nei  movimenti  reali,  esiste  nelle    Idee    di    questi    movimenti. Ma  Platone  non  dice  tutto  questo:  di  queste  due  proposizioni  egli  art'erma la  prima,  ma  non  la  seconda.  Tò   ov   zdyO(;  e  Tj  0»J0a   jipaeóxY^^  sono la  velocità  e  la  lentezza  astrattamente  considerate;  il  vero  numero   e   le vere  figure  sono  quelli  che    rcrraano  l'oggetto  della    matematica,    vale   a dire  dei  numeri  astratti  e  al  tempo  stesso  precisi  e  delle   figure   astratte e  al  tempo  stesso  regolari.  Per  ccnsejiuenza  *  i  movimenti  con  cui  xó  òv xax^?    e    Yt   QÒ^y.  3paò'3xY]f  nel    vero  numero  e  in    tutte   le  vere   fi- gure si  muovono  »  ecc.  vuol  dire  :     dei    movimenti  astratti,  cioè  per  con eepire  i  quali  deve  farsi  astrazione  da  qualsiasi  corpo  determinato   e  da ogni  altra  circostanza  in  cui  essi  possono  aver  luogo,  e  non  determinare altra  cosa  che  le  loro  velocità  relative  e  la  natura   delle    linee   che    essi seguono;   di  più  questi  movimenti  astratti  devono  pensarsi  avvenire    se- condo  rapporti  numerici   precisi    e    in    linee   perfettamente    regolari   (*  I movimenti  con  cui  xÒ  òv  zd/0^  e  f^  oùaa   ppa5'ixr^^  si  muovono  luno rapporto  all'altra  *  significa  :  dei  movimenti  più  veloci   e  dei   movimenti più  lenti  considerati  nel  loro  rapporto;  «  muovono  xà    évóvxa  *  :  questi e  del  J^dro—iì  chiamo  miti  per  conformarmi  ait  W,  ma sarebbe  forse  più  proprio  di  chiamarli  simboli  o  allegorie—. Nel  Timeo  Platone  ci  racconta  che  il  mondo  è  stato fabbricato  da  un  demiurgo,  il  quale  si  serviva  d' una materia  preesistente,  informe  e  in  un  movimento  disordi- nato,  e  compiva    la  sua    opera    contemplando  le   Idee stessi  movimenti  considerati  assolutamente).  Ma  Platone  non  dice  che questi  movimenti  ascratti  siano  le  Idee  dei  movimenti  dei  corpi  celesti: ciò  è  anche  escluso  dalle  parole  «  in  tutte  le  vere  figure  »,  poiché  i movimenti  dei  corpi  celesti  non  si  fanno  in  «  tutte  le  vere  figure  »,  ma soltanto,  secondo  i  contemporanei  di  Platone,  nella  figura  circolare.  In questo  luogo  Platone  raccomanda  di  studiare  il  njovimento  d'una  maniera puramente  ipotetica,  come  la  geometria  studia  le  figure,  supponendo, come  il  più  conveniente  per  lo  studio,  che  i  movimenti  si  facciano  secondo rapporti  numerici  precisi  e  in  linee  perfettamente  regolari,  perchè  questa supposizione  è  necessaria  per  sottometterli  a  un  calcolo  rigoroso  ;  senza curarsi  se  i  movimenti  reali  della  natura  corrispondano  o  no  ai  movi- menti ipotetici  della  teoria  (anzi  essendo  sicuri  che  non  vi  corrispon- dono mai  esattamente),  come  il  geometra  non  si  cura  se  nel  mondo reale  esistano  0  no  delle  figure  conformi  alle  definizioni  geometriche. Platone  vuole  che  l'astronomia  si  consideri  sovratutto  come  una  occa- sione per  questo  studio  ipotetico  del  movimento:  è  che  Io  studio  di  que- sta scienza  ha  sovratutto  per  lui  il  valore  d'un  esercÌ2fio  matematico; la  sua  utilità  non  è  tanto  per  la  conoscenza  dei  movimenti  reali  degli astri  quanto  per  i  problemi  matematici  a  cui  dà  luogo  la  considerazione di  questi  movimenti  («  studiano  T  astronomia,  come  la  geometria,  in grazia  dei  problemi,  e  lasciamo  là  le  cose  del  cielo  *).  Le  scienze  che  nell'e- ducazione platonica  di  cui  nei  VII  della  Repubblica,  formano  la  propedeutica della  dialettica,  hanno  lo  scopo  di  svegliare  il  bisogno  e  di  fornire  pre- ventivamente un  tipo  approssimativo  della  conoscenza  assoluta,  cioè  di  una scienza  puramente  deduttiva  che  lo  spirito  sviluppa  dal  suo  proprio fondo.  Ora  a  questo  scopo  non  possono  servire  che  le  matematiche  (.scienza dei  numeri  e  geometria):  ne  segue  che  le  scienze  affini,  come  l'astrono- mia, che  Platone  riunisce  con  le  matematiche  sotto  il  nome  comune  di StavO'.a,  non  hanno  per  lui  del  valore,  quasi  esclusivamente,  che  come applicazioni  delle  matematiche. éóme  modelli;  ciò  che,  se  dovesse  prendersi  sul  serio, implicherebbe  certanieote  la  separazione  tra  il  modello e  la  copia,  le  Idee  e  le  cose.  Il  carattere  mitico  del  rac- conto del  Timeo  è  generalmente  riconosciuto  dagF  inter- preti moderni  :  ma  i  più  ammettono  che  questo  e  gli altri  miti  filosofici  che  si  trovano  in  Platone  siano,  non già  il  rivestimento  fantastico  di  corcetti  che  V  autore  è pure  in  grado  di  determinare  d'una  maniera  scientifica, vale  a  dire  doi  simboli,  ma  dei  convincimenti  reali  d- Platcne,  il  quale  hi  dove  gli  mancava  il  concetto  filosoi fico,  vi  avrebbe  supplito  con  descrizioni  fantastiche  e  poe- tiche. Noi  non  possiamo  trattare  qui  questa  quistioiie  della natura  del  mito  del  Timeo,  non  avendo  ancora  stabilito  i dati  necessari  per  risolverla:  perciò  devo  rinviare  al Supplemento  C,  7u  IV.  Ivi  vedremo  che  la  cosmogonia del  Timto  è  un  semplice  simbolo,  qual  è  la  dottrina  che questo  simbolo  rappresenta,  e  perch*'-  Platrne  ha  pre- ferito  la  forma  simbolica  a  un'  esposizione  puramente scientifica.  Sono  dei  punti  che  ci  sarebbe  impossibile  di dimostrare  prima  di  avere  esposto  la  dottrina  simboleg- giata nella  dcFcrizione  mitica  del  Timeo  e  i  rapporti  di Platone  col  pitagorismo. Dimostrata  la  natura  simbolica  della  narrazione  del Timeo,  sarà  per  conseguenza  dimostrato  il  niun  valore della  prova  che  se  ne  può  tirare  per  la  trascendenza delle  Idee.  Per  ora  mi  contenterò  di  ricordare  un  epi- sodio di  qursta  narrazione,  di  cui  abbiamo  già  parlato al  n.  VI,  cioè  la  formazione  dell'anima,  da  cui  si  vede che  Platone  riguarda  le  Idee  come  un  elemento  costitu- tivo delle  cose;  e  di  aggiungere  che  l'immanenza  è  evi- dente nei  luoghi  di  questo  dialogo  in  cui  l'autore  parla, non  più  da  mitologo,  ma  da  filosofo,  per  esempio  in quelli  in  cui  chiama  le  Idee  V essere  (T,    o    dice    che    la (1)  V.  II.  IX. matèria  contiene  tutto  (1),  per  conseguenza  anche  le  fdee. Quantunque  la  narrazione  del  77'mco  porti  in  se  stessa delle  prove  chiarissime  dimostranti  che  non  deve  essere intesa  letteralmente,  tuttavia  non  è  difficile  di  capire  come essa  abbia  potuto  essere  presa  sul  s'irlo  :  è  che,  intesa letteralmente,  contiene  una  spiegazione  del  mondo— Pan- tropomorfistica— più  conforme  alle  tendenze  spontanee del  nostso  spirito,  e  per  conseguenza  d'  Un  valore  più facile  a  comprendere,  che  la  dottrina  reale  che  essa  si m- bolrggia  (la  quale  d«  1  resto,  per  essere  compresa,  ha  bi- sogno di  una  conoscenza  profonda  del  sistema).  Ma  il carattere  puramente  fantastico  e  poetico  della  narrazione del  Fedro  (246  e-248  e)  è  talmente  evidente,  che  nessuno potrebbe  es«^pre  tentato  di  prendere  questo  mito  in  un stnso  letterale.  Il  soggetto  del  ra'^conto  è  V  intuizione delle  Idee  che  l'anima  ha  a^uto  in  una  vita  anteriore. Platone  comincia  con  una  semplice  comparazione  :  Ta- nima  è  simile  a  un  cocchio  alato  con  un  auriga  e  duo cavalli;  i  cavalli  dell'anima  divina  sor.o  tutti  e  due  buoni e  di  buoni,  di  quelli  delTanima  umana  l'uno  è  buono  e l'altro  cattivo  (2).  La  virtù  delle  ali  è  di  portare  il  grave (1)  A  50  e:  Sé/sxai  toc  nàvxa  A  51  a  la  chiama  TiavSsxsS» e  a  50  e  TÒ  xà  :idvTa  £y.535ó|i£vov  sv  a'j'w  ysvyj. In  quanto  la  materia  contiene  le  Idee,  cioè  è  il  loro  suslrato, si  dice  she  partecipa  di  esse.  V.  Tim,  51  a  e  Arist.  Phys,  l.  IV.  II 5,  Met.  1.  I.  VIII.  11,  ecc.  Questo  sen«o  della  parola  partclpam cioè  dei  suoi  equivalenti  greci,  è  alquanto  differente  da  quello  in cui  la  troviamo  libata  negli  altri  scritti  di  Platone,  nei  quali  sono le  cose  che  partecipano  alle  Idee:  ma  anche  in  questo  senso  la  pa- rola prova  la  presenza  delle^  Idee  nelle  cose,  e  di  ami  maniera forse  ancora  più  evidente. (2)  L'anima  secondo  Platone  consta  di  tre  parti  :  l'auriga  rap- presenta la  parte  superiore,  cioè  la  razionale;  i  cavalli  le  due  parti inferiori;  il  buono  quella  dove  è  il  coraggio,  il  cattivo  quella  dove sono  i  desideri  s«nsaali. nell'alto,  dove  abitano  gli  dei  :  Tanima  a  cui  le  ali  sonò cadute,  tende  al  basso  e  si  unisce  ad  un  corpo  terreno. Le  ali  dell'anima  si  nutriscono  del  bello,  del  buono,  del saggio  e  di  tutto  ciò  che  è  di  questo  genere.    «  Quando '  (gli  dei  accompagnati  dalle   anime   che   possono   e   vo- gliono seguirli)  vanno  al  convito  e  alle  vivande,  salgo- no alla  sommità  più  elevata  della  volta  celeste.  I  carri degrimmortali,  sempre  in  equilibrio,    si   avanzano   con leggierezza;  gli  altri  saliscono  con  pena,  perchè  il  cat- tivo corsiero  s'aggrava,  s'inclina   e   precipita   verso   la terra,  se  non  è  stato  ben  allevato  dal  suo  cocchiere.    È l'ultima  e  la  più  grande  prova  che  l'anima  abbia  a  so- stenere. Le  anime  di  quelli    che   chiamiamo   immortali, dopo  essersi  elevate  sino  al    più  alto   del   cielo,    uscito fuori,  8i  mettono  sulla  parte  convessa  della   sua  volta; e  mentre  vi  stanno,  il  movimento  circolare  le  porta  in  gi- ro, ed  esse  contemplano  ciò  che  è  fuori  del  cielo.  Il  luo- go sovraceleste   (unspoupotvtoc)  non  è   stato   ancora   cele- brato da  alcuno  dei  nostri  poeti,  e  non  lo  sarà  mai  de- gnamente. Ecco  tuttavia  com'ò,  poiché  non  bisogna  te- mere di  dire  la  verità,  sovratutto  quando  si  parla  sulla verità.  L'es.venza  realmente  esistente,  senza  colore,  Fen- za  figura  (1),  impalpabile  non  può  essere  vista  che  dalla guida  dell'anima,   l'intelligenza.    Intorno    ad   essa   è   il luogo  della  vera  scienza.  Come  il  pensiero  degli  dei  che si  nutrisce    d'  intelligenza    e    di    sc'enza  senza    mesco- (1)  Platone  nega  alle  Idee  la  figura  e  il  colore  nello  stesso  senso in  cui  nega  ad  esse  il  cangiamento  :  egli  non  esclude  da  esse  la  fi- gura, il  colore,  il  cangiamento  irfea/i— vale  a  dire  non  nega  che queste  cose  siano  anch'esse  rappresentate  nel  mondo  ideale- ma solo  la  figura,  il  colore,  il  cangiamento  fenomeni. anza,  anche  quello  di  ogni   anima   che  deve   raggiun- gere il  suo  destino,  vedendo    1'  essere,  da  cui  era   da lungo  tempo   separato,    contento    della   contemplazione dell  a  verità,  se  ne  nutrisce  e  gode,  sinché  il  movimento circolare  riconduca  al  punto  di  partenza.  In  questo  giro vede  la  giustizia  stessa,  vede  la   temperanza,    vede   la i-cienza,  nrn  quella  in  cui  vi  ha  cangiamento  e  che    è diflereiite  nei  differenti  oggetti  che  ora   chiamiamo   es- seri, ma  la  scienza  che  è  in  quello  che  è  veramente  es- sere; e  dopo  aver  contemplato  allo  stesso  modo  gli    al- tri esseri  veri  ed  essorsene  abbondantemente  nutrita,  l'a- nima rientra  npirinterno  del   cielo,    e   se    ne   ritorna   a casa.  Subito  che  arriva,  l'auriga   conducendo   i   corsieri alla  stalla,  sparge  d'innanzi  ad  essi  l'ambrosia  e   versa il  nettare.  Tale  è  la  vita  degli  dei.  Fra  le  altre  anime, quella  che  segue  il  meglio  le   anime   divine  e  che   loro rassomiglia  il  più,  innalza  la  testa  del  suo  cocchiere  nel luogo  sovraceleste,  e  va  così,  portata  dal  movimento  cir- colare; ma  è  turbata  dai  suoi  corsieri,  e  vede  a    stento gli  esseri.    Un'altra   ora  s'innalza  ed   ora   si   abbassa; per  la  inobbedienza  dei  suoi  corsieri,  vede  alcuni  esseri ed  altri  no.  Le  alt»*e  vengono  dietro,  bruciando  dal  de- siderio di  contemplare  la  regione  superiore,  ma  non  po- tendolo :  sommerse,  sono  portate   intorno,    pigiandosi   « gettandosi  l'una  sull'altra  per  cercare   di   oltrepassars*. Ne  nasce;  un  tumulto,  una  lotta  e  un   sudore   estremo. Molte  sono  storpiate  per  colpa  dei  cocchieri,  molte  per- dono una  gran  parte  delle  penne  delle  loro  ali;  e  tutte, dopo  penosi  e  inutili  scorzi,  se  ne  vanno  prive  della  vista dell'essere,  e  si  pascono   d'  un   alimento    opinabile.    La causa  dei  loro  sforzi  per  vedere  il  campo  della  verità  è che  l'alimento  conveniente  alla  parte  migliòre  dell'ani- ma si  trova  in  questo  prato,  e  la  natura  delle   ali,  che innalzano  l'anima,  se  ne  nutrisce;  ed  è  una  legge  d'A- —  142  — \ drastia  che  qualunque  anima,  seguendo  gli  dei,  ha  ve- duto alcuno  dei  veri,  resti  immune  sino  all'altro  circuito, e  se  può  far  questo  sempre,  sia  sempre  illesa  »    (il  danno da  cui  quest'anima  sarà  preservata  è  rincarnazione)  (i). Tutti  i  particolari  di  questa  descrizione  sono  eviden- temente poetici  e  allegorici.   Il  luogo  sovraceleste  dove le  Idee  sono  collocate,  non  lo  è  meno  del  cocchio  alato con  Tauriga  e  i  due  cavalli  o  la  nutrizione  delle  ali  del- l'anima con  la  contemplazione  dell'essere:  noi    sappia- mo infatti  che  la  dottrina  di  Platone  è  che  le  Idee  non sono  in  alcun  luogo  (2).  Che  dritto  si   avrebbe   dunque di  ammettere  che  la  trascendenza  delle  Idee  non  sia  an- ch'essa una  circostanza  poetica,  quando   essa   non   ci  è data  che  nell'immagine   della    loro    collocazione    In   un luogo  fuori  del  cielo?  È  certamente  un  problema  di  de- terminare sin  dove  si  estenda,  nel  mito  del  Fedro,  l'ele- mento fantastico,  e  quale  sia  il  concetto  filosofico  che  vi è  racchiuso.  Io  non  posso   seguire   quegl' interpreti  che vedono  una  circostanza  poetica  e  allegorica  nella  stessa intuizione  delle  Idee.  Questa  è  ammessa,  oltre  che   nel I^edro,  nel   Timeo  (41  e)  e  in    tutti   quei    luoghi    in    cui Platone  parla  della  sua  dottrina  che  la   scienza    è    una reminiscenza,    poiché  questa    dottrina   ha    appunto    per fondamento  l'intuizione  delle  Idee  in  una  vita  anteriore. In  alcuni  di  questi    luoghi  (3)  la  dottrina  della  remini- scenza è  esposta  nella  forma  più   scientifica   che  possa trovarsi  in  Platone,  mancando,  per  conseguenza,  qualsiasi ragione  di  supporre  che  si  tratti  d'una  semplice  allego- (1)  Fedro  247  b-248  o. (2)  V.   Tim.  52  b-o,    Arist.  Phys,  l.  IV.  TI.  5,  I.  TU.  IV.  2,  eoe, (3)  Men,  80  d-86  a,  Fedo,  TI  e-77  d,  ofr.  91  e-92. ria  (a  meno  di  escludere  a  priori  la  pos3ibilìtà  che  Pla- tone abb-a  ammesso  seriamente  questa  dottrina  e  le  al- tre che  vi  sono  connesse),   ed   è   data   come   una    delle prove  più  forti  dell'immortalità  dell'anima.  I  più  conse- guenti tra  gl'interpreti  che  negano  che  la  reminiscenza sia  stata  una  dottrina  seria  di  Platone,    ammettono,    è vero,  che  non  solo  la    reminiscenza,    l'intuizione   delle Idee,  la  preesistenza,  ecc.,  ma  anche  la  stessa  immorta- lità dell'anima  sia  in  Platone  un    mito    e    un    semplice himbolo.  La  dottrina  rappresentata  da  quesU  simboli  sa- rebbe l'identità  tra   l'essenza  dell'anima  e  il   mondo  i- deale,  cioè  tra  l'intelligenza  e  l'intelligibile,  il  pensiero e  Tessere.  Non  è  qui  il  luogo  di  discutere  quest'opinione  : osserverò  semplicemente  che  sarebbe  impossibile  a  que- sti interpreti  di  assegnare  un  sol  luogo   negli  scritti  di Platone,  in  cui  la  dottrina  che  l'autore  avrebbe   simbo- leggiata con  l'intuizione  delle  Idee,    l'immortalità    del- l'anima, ecc.,  cioè  quella  dell'identità  dell'essere  e   del pensi»  ro,  sia  chiaramente  esposta,  in  una  forma,  non  al- legorica, ma  puramente  t^cientifica.  L'Idea  di  Platone  è appunto  in  ciò  che  differisce  da  quella  di  Hegel  ;  questa è  al  tempo  j^tesso  un'entità  generale  e  un  concedo   ge- nerale,    mentre    1'  Idea  di  Platone  è  solo  un'entità  ge- nerale,    che    non    è    identica  al  concetto  generale,  ma è    solo    V  oggetto    a    cui    questo  si    riferisce.    Non    vi ha  d'altronde  alcuna   ragione,    fondata  sull'indole  stes- sa   di    queste    dottrine,    che    impedisca    di    ammettere che    Platone  abbia    realmente    creduto  alla   reminiscen- za e  all'intuizione    delle    Idee    in    una    vita    anteriore. Il  problema  di  cui  Platone  cercava  la  soluzione,  era  lapo^s  b  lità  della  coincidenza  tra  il  pensiero  e    la   realtà mila  conoscenza  a  priori,  problema  che  diviene  d'un'ur- genza  speciale  nei  s  stemi  costruiti  sullo  stesso  tipo  che il  sistema  platonico,  perché  secondo  essi  tutta  la  scienza -  143  - è  a  priori,  e  inoltre  vi  ha  la  più  perfetta  corrispondenza tra  il  pensiero  e  Tessere,  questo  essendo  astratto  e  ^e nerale  come  quello,  e  l'ordine  ontologico  essendo  iden- tificato con  r  ordine  logico.  Ora  se  noi  esaminiamo  le risposte  che  si  sono  date  a  questa  quistione,  vale  a  dire di  spiegare  questa  coincidenza  tra  la  conoscenza  (a  priori) e  roggetto  conosciuto,  troviamo  che  la  più  parte  di  esse, compresa  la  dottrina  dell'identità  tra  Tessere  e  il  pen- siero, consistono  ad  assimilare  il  fatto  al  fenomeno  fa- miliare in  cui  questa  coincidenza  ci  pare  naturalissima appunto  perchè  il  fenomeno  è  familiare  (senza  di  che Tassimilazione  ad  esso  non  potrebbe  costituire  una  spie- gazione per  un  metafisico),  vale  a  dire  alla  percezione sensibile  (nella  quale,  secondo  la  credenza  naturale,  vi ha  la  presenzaimmediata  dell'oggetto  percepito)  (1).  He- gel assimila  il  rapporto  tra  il  pensiero  e  il  suo  oggetto alla  percezione  sensibile  solo  in  quanto  ammette  la  pre- senza del  secondo  nel  primo,  come  la  credenza  naturale ammette  la  presenza  del  sentito  nella  sensazione:  T  assi- milazione che  fa  Platone  è  più  completa,  perchè  il  rap- porto immediato  del  pensiero  con  le  Idee  è  per  lui  una vera  intuizione,  che  non  si  distingue  dalla  sensibile  (quale questa  è  secondo  la  credenza  naturale)  se  non  in  quanto la  facoltà  intuitiva  non  ò  il  senso  ma  Tintelligenza.  Cer- tamente vi  ha  nell'intuizione  platonica  una  circostanza, per  cui  essa  si  distingue  dalle  ipotesi  analoghe  di  altri metafisici,  e  sembra  avvicinarsi  a  un  semplice  mito  :  è che  quest'intuizione  ha  avuto  luogo  in  una  vita  anteriore. Ma  un'intuizione  attuale  delle  Idee  sarebbe  sembrata  a piatone  in  contraddizione  coi  fatti  :    in    effetto,    si    deve (1)  Cfr.  Append.  e.  2  §  9  e  Saggio  I.  o.  B  ^  7. supporre  che  quest'intuizione  è  permanente  nello  spirito  ? ma  in  questo  caso  la  scienza  sarebbe  innata  e  continua- mente presente  al  pensiero.  Si  deve  supporre  invece  che lo  spirito  intuisce  un'Idea  solo  quando  ha  coscientemente il  pensiero  corr'spondente  a  quest'Idea?  (dico  cosciente* mente,  perchè  Tipotesi  di  un'intuizione  permanente  im- plicherebbe quella  di  un  pensiero  permanente,  ma  inco- sciente, di  tutte  le  Idee)  ma  in  questo  caso  non  si  com- prenderebbe perchè  l'Idea  viene,  per  dir  cosi,  a  porsi dinnanzi  allo  spirito  intuente  precisamente  nel  momento richiesto  dalla  connessione  logica  o  psicologica  dei  con- cetti. Io  credo  dunque  che  non  si  ha  alcuna  ragione  di negare  che  Platone  abbia  realmente  ammesso  che  l'a- nima ha  intuito  le  Idee  in  un'altra  vita,  e  che  la  cono- scenza che  ne  acquista  nella  vita  attuale  è  una  remini- scenza. L'ipotesi  della  reminiscenza  poteva  essere  un complemento  di  quella  dell'intuizione,  perchè  anche  la prima  consiste,  come  la  seconda,  nell'assimilazione  del f  tto  che  si  trattava  di  spiegare  a  un  fenomeno  familia- rissimo,  uniformandosi  cosi  anch'essa  alla  condizione necessaria  di  ogni  spiegazione  metafisica. Ma  quali  sono  le  condizioni  di  questa  intuizione  delle Idee  in  una  vita  anteriore?  come  comprenderne  la  pos- sibilità ?  perchè  in  una  vita  anteriore  è  possibile  ciò  che non  lo  è  in  questa  ?  Sono  delle  quistioni  a  cui  non  si potrebbe  pretendere  da  Platone  una  risposta.  È  qui  che si  origina  il  mito  del  Fedro,  Platone,  volendo  rappresen-tare un  fatto  le  cui  circostanze  sono  irrappresentabili, non  poteva  darne  che  una  rappresentazione  poetica  :  ma questa,  quantunque  non  fosse  che  una  finzione,  doveva avere  tutta  quella  verosimiglianza  che  è  necessaria  in una  finzione  poetica.  Ora  la  circostanza  più  naturale  che si  presentasse  all'immaginazione  di  Platone,  e  la  quale spiegasse  d'una  maniera  poeticamente   verosimile  come :M X? rintuizione  delle  Idee,  non  possìbile  nella  vita  attuale, lo  è  in  una  vita  anteriore,  era  la  situazione  delle  Lieo in  un  luogo,  allora  accessibile  all'anima,  ma  ora  inac- cessibile. Tutte  le  altre  circostanze  del  mito,  il  cocchio alato,  la  nutrizione  dello  ali  dell'anima,  ecc.  non  sono che  degli  accessori  di  quest'idea,  cioè  di  quest'immagine, fondamentale.  L'esistenza  delle  Idee  ili  un  luogo  fuori del  cielo  si  prestava,  come  le  altre  circostanze  del  mito, ad  un  senso  allegorico  :  essa  significa  che  le  Idee  non fanno  parte  del  mondo  sensibile,  del  mondo  dei  fenome- ni, il  cielo  rappresentando  la  totalità  delle  cose  sen- aibili. Del  resto  Timmanenza,  nel  mito  del  Fedro^  oltre  che dalla  dottrina  stessa  della  reminiscenza — la  quale  sup- pone che  il  concetto  generale  ha  per  oggetto  Tldea,  poi- ché é  questo  che  viene  riguardato  come  la  reminiscenza dell'Idea  intuita  in  uaa  vita  anteriore  r249  b-cì— e  dalla designazione  delle  Idee  per  i  nomi  V essere,  il  vero,  ecc.,è  chiaramente  dimostrata  dal  luogo  seguente:  «  Ma  la belt<à  (xdXXogì,  come  dicevamo,  brillava  allora  tra  quelli (cioè  tra  le  Idee  intuite  dall'anima),  e  venuti  in  questo mondo,  l'abbiamo  percepita  (xax6iXy]'^ap,ev  aùxó),  risplen- dente della  luce  più  chiara,  per  il  più  acuto  dei  nostri sensi.  La  vista  è  in  effetto  il  più  sottile  degli  organi  del corpo;  tuttavia  essa  non  percepisce  la  saggezza...  mala sola  beltà  ha  avuto  questa  sorte,  di  essere  più  di  ogn» altra  cosa  manifesta  ed  amabile  »  (1).  La  beltà  Idea,  che l'anima  ha  intuito,  è  qui  identificata  con  la  beltà  che  i sensi  percepiscono.  La  bellezza  che  vediamo  qui  (in  que- sta vita)  è  pure  distinta,  è  vero,  da   quella  che    intui- i vamo  allora  (quando  eravamo  in  compagnia  degli  dei)  (1)  : ma  noi  abbiamo  già  osservato  che  il  rapporto  tra  le  Idee e  il  sensibile  è  al  tempo  stesso  d'identità  e  di  differenza, e  che  se  la  trascendenza  delle  Idee  spiega  la  differenza,  non può  spiegare  l'identità,  mentre  l'immanenza  spiega  tanto l'uno  quanto  l'altra. V.  Veniamo  infine  alla  prova  più  forte  dell'interpre- tazione trascendentalista,  la  testimonianza  d'  Aristotile. Io  non  mi  dissimulo  la  forza  di  questa  prova,  e  riconosco che  essa  costituirà  sempre  l'ostacolo  più  grave  che  in- contrerà Tinterpretazione  contraria.  E  certamente  que- st'ostacolo sarebbe  insormontabile,  se  la  testimonianza d'Aristotile  fosse  così  chiara  e  certa,  come  suppongono grinteppreti  trascendentalisti.  Ma  essa  è  ben  lungi  dal- l'essere tale.  Osserviamo  in  primo  luogo  che  l'interpre- tazione d'Aristotile  ha  bisogno  alla  sua  volta  di  essere interpretata,  e  gli  stessi  equivoci  a  cui  dà  luogo  l'inter- pretazione di  Platone,  s'  incontrano  naturalmente  in quella  dell'esposizione  che  Aristotile  fa  di  Platone.  Nesegue  che  le  prove  contro  l'immanenza  delle  Idee  con- tenute in  questa  esposizione  sono  assai  minori  in  realtà di  quante  ve  ne  trovano  gl'interpreti  trascendentalisti. Noi  abbiamo  già  visto  che  molte  espressioni  per  desi- o-nare  le  Idee  e  i  loro  rapporti  con  le  cose  in  cui  si pretende  di  vedere  gli  argomenti  più  forti  della  loro  tra- scendenza, p.  e.  il  x«>?'-^'^'^^)  1'**?* '^^  TioUa,  ecc.  non hanno  necessariamente  la  portata  che  loro  si  attribuisco. La  slessa  osservazione  vale  per  certe  obbiezioni  di  A- ristotile  contro  la  dottrina  delle  Idee,  che  secondo  gl'in- terpreti trascendentalisti  non  sarebbero  possibili  che  nel- (I)  25()  d, (1)  249-250. -145  - :K- ripotesi  della  trascendenza;  p.  e.  quella  del  terz'uomo. Noi  abbiamo  visto  ('nel  numero  V,  3°  B)  che  questa  obbiezio- ne si  comprende  facilmente  anche  nelTipotesi  dell'imma- nenza, ciò  che  è  anche  provato  dal  fatto  che  Platone, nel  Parmenide,  la  rivolge  contro  la  propria  dottrina  im- mediatamente dopo  quella  che  mostra  la  difficoltà  di  con- cepire come  Tuno  inerisca  simultaneamente  nei  molti. Una  prova  simile  si  ha  per  il  rimprovero  che  Aristotile fa  ripetutamente  a  Platone  di  avere  raddoppiato  inutil- mente gli  esseri  (1):  questo  raddoppiamento  degli  esseri, obbiettato  alla  dottrina  delle  Idee,  dimostra  così  poco la  loro  trascendenza,  che  noi  troviamo  la  stessa  obbie- zione rivolta  contro  la  dottrina  che  ammette  le  entità matematiche,  non  separate  dalle  cose  (xexoptoiiéva  tó5v alo^xdJv),  ma  nelle  cose  stesse  (év  Toig  alo^yjxorg). Si  deve  notare  inoltre  che  molti  luoghi,  in  cui  Ari- stotile si  rappresenta  certamente  le  Idee  come  separate dalle  eose,  non  importano  pertanto  necessariamente  che egli  attribuisca  a  Platone  questa  dottrina.  L'Idea  plato- nica, come  abbiamo  più  volte  osservato,  per  quanto  può essere  un  oggetto  di  rappresentazione,  non  può  essere rappresentata  che  come  separata  dalle  cose,  perché  è  im- sibile  di  concepire  come  una  sostanza  sia  al  tempo  stesso un  attributo,  e  inerisca  simultaneamente  in  una  molti- tudine di  soggetti.  Per  conseguenza  Aristotile  poteva  am- mettere la  separazione  delle  Idee  dalle  cose  e  ragionare su  questa  premessa,  anche  riconoscendo  che  i  Platonici affermavano  a  parole  il  contrario— a  parole,  perchè  nes- suna rappresentazione  reale  poteva  corrispondere  alle loro  affermazioni— in  quanto  egli  pensava   che  le   Idee, se  esse  esistessero,  non  potrebbero  esistere  che  separate dalle  cose.  É  chiaro  in  alcuni  casi  che  è  cosi  che  si  de- vono intendere  effettivamente  certe  proposizioni  in  cui Aristotile  nega  l'inerenza  delle  Idee  nelle  eose.  Cosi  in Met.  1.  I.  IX.  7  dice;  €  Né  (le  Idee)  giovano  alla  scienza delle  altre  cose— perche  non  sono  sostanze  di  queste,  poiché sarebbero  in  esse-iiè  all'essere,  non  inerendo  nei  par-  ' tecipantf:  intatti  potrebbe  credersi  ch'esse  sono  cause dell'estere  delle  cose  come  il  bianco,  mescolato,  è  causa a  una  cosa  di  esser  bianca;  ma  è  facile  di  confutare questo  concclLo,  che  Eudossio  ed  alcuni  altri  hanno  pro- posto, seguendo  Anassagora  »  (1)  Qui  Aristotile  mantiene la  sua  proposizione,  che  nega  l'inerenza  delle  Idee  nelle cose,  anche  di  fronte  alla  proposizione  di  Eudossio  e  de- gli altri,  che  l'affermano  della  maniera  più  energica  :  è che  egli  distingue  tra  Tipotesi  delle  Idee  considerata  in se  stessa,  vale  a  dire  nelle  sue  condizioni  necessarie,  e le  affermazioni  verbali  dei  platonici.  Similmente  in  Met. 1.  VII.  XV7.  4-6  dice:  <'  L'Uno  non  può  essere  una  so- stanza, per  la  stessa  ragione  per  cui  nessun  altro  comune può  essere  una  sostanza.  La  sostanza,  in  effetto,  non  i- nerisce  che  a  se  stessa  e  a  ciò  di  cui  é  sostanza.  Di  più nino  non  sarà  simultaneamente  in  molte  cose,  ma  il comune  esiste  simultaneamente  in  molte  cose.  Per  cui è  chiaro  che  nessuno  degli  universali  é  oltre  (rcapa)  i singolari  separatamente.  Ma  quelli  che  ammettono  le  Idee in  parte  dicono  bene,  cioè  quando  le  separano  (x^ptCiovisg), s'è  vero  che  sono  sostanze;  in  parte  dicono  mal^,  cioè quando  chiamano  l'Idea  l'uno  nei  molti».  Evidentemente (1)  Met.  1.  I.  IX.  1,  1.  XI.  Il-  2,  eoo. (1)  Cfr.  n.  VI.  verso  la  fino. -146- qui  la  proposizione  <<  l'Uno  non  sarà  simultaneamente in  molte  cose  »  non  ò  una  testimonianza  sulla  dottrina platonica—  perchè  anzi  Aristotile  rimprovera  ai  platonici di  asserire  che  l'Idea  è  l'uno  nei  molti—,  ma  una  dedu- zione dello  stesso  Aristotile,  che  nega  Tinerenza  dell'Idea nelle  cose  come  logicamente  impossibile  per  le  stesse ragioni  che  noi  abbiamo  dette,  cioè  perchè  una  sostanza non  può  inerire  in  un  altro  soggetto,  e  meno  ancora  in una  moltitudine  di  soggetti  allo  stesso  tempo  (I). Tuttavia  vi  hanno  dei  casi  in  cui  questa  spiegazione è  inapplicabile,  e  nei  quali  bisogna  riconoscere  che,  par-lando della  separazione  delle  Idee  dalle  cose,  Aristotile non  emette  un  apprezzamento  proprio  sulle  conseguenze logiche  dell'ipotesi  delTesistenza  delle  Idee  e  le  condi- zioni della  loro  rappresentabilità,  ma  attribuisce  ai  pia- ci) Cr'r.  M.  .Vor.  1.  I.  T.  12:  •«  Bisogaa  parlare  dell'l'loa  del  bcìie o  no,  ma  piuttosto  di  quel  bene  coraune  ch«»  inoriselo  in  t aiti  i  bftiìi parlicolari?  questo  bone,  in  «ffoltt),  parrà  giiist amento  Pss«^ro  di- ver:^o  dall'Idea.  L'Idea  iat'atti  è  neparabile   lympiaTÓv!   ftde^isleppr se  stessa  (  aOiò  xaft'aùxc),  ma  il  comune  inerisco  in  tutti  i  i>ar- ticolari.  Non  è  dunque  lo  stesso  «il  comune)  col  soparabile,  jxjiohò è  impossibile  che  ciò  che  è  nepHrabile  e  capace  .li  caislore  per  se atesso  inerisca  in  tutti  i  particolari  ^. Noir/;/;r  ;•'"./.!.  1.  Vlìl.  la  distiu/j.me  (k'l*l.lo.i  .lil  bone  dal bene  comune,  '»ltr^  che  da  que-»l 'impossibilità  ò'inerire  al  tempo stesso  in  molte  cose  (l.  l.  Vili.  11),  è  dedotta  anche  da  un'altra  ra- gione,  cioè  da  ciò  che  il  hene  cornane  **  inerisce  anche  ad  un  bene mediocre  n  (1.  1.  Vili.  IS— L'Idea  del  bene  era  riguardata  come  il bene  assolato,  senz'alcunM  inescolan^^a  di  mnl.»,.  <^ui  la  n(»cessità della  trascendenza  dell'Idea  si  fa  derivare  dalla  dt»lori)iÌJiazi(»ne  che Platone  attribuisce  ad  al'une  Idee,  di  rappresentare  l'attributo  ad un  grado  assoluto,  mentre  esso  nella  cose  non  si  trova  che  ad  un grado  relativo  (v.  n.  ili.) tonici  di  professare  in   effetto   la   dottrina    che   le  Idee sotio  separate  dalle  cose.  Nelle   Top.  1.  II.  VII.  3   dice: «  Si  deve  considerare  se  si  faccia  qualche    affermazione SII  qualche  soggetto,  dalla  quale  ne   seguirebbe    che   in questo  soggetto  inerirebbero   delle    proprietà   contrarie' come  se  si  affermi  che  le  Idee  siano  in  noi  ».Kcontnua mostrando  le  contraddizioni  che  risulterebbero  da  questa affermazione,  cioè  che  le  Idee  sarebbero  al  tempo  stesso immobìli  e  mosse  (perchè  noi  ci   moviamo',    intelligibili e  sensibili  (perchè  le  formo  delle  cose  si  percepiscono  coi sensi).  Qui  Aristotile  sembra  sapporre  almeno  che  Topi- nionc  più  abituale  di  quelli  che  ammettono    le   Idee,    o la  pili  autorevole,  sia,  non  Timmanenza,  ma  la  trascen- denza. Foise  però  questo  luogo  potrebbe   significare  so- lamente, come  altri  di  cui  ci  occuperemo  i a  s^guHo,  che Aristotile  ammette  la  possibilità  delle  due  interpretazioni contrarie  dei  sistema  delle  Idee    Ma  in  alcuni  luoghi  non può  esservi  dubbio  che  Aristotile  non  attribuisca  recisa- mente ai  partigiani  delle  Idee   la  dottrina  della  trascen- denza. Fra  di  essi  segnalerò:  P  Quelli  in  cui  le  entità  am- messe da  Platone  e  dai  platonici  (Idee  ed  entità    mate- matiche) vengono    designate    come    separate   dalle   cose (xsxf>?''.'3jJLsva  Te)v  ovxwv,  iG)f  aìaBy^ifov,  ecc.)    (1)    2^   Quelli in  cui  la  dottrina  platonica    sui    numeri    viene    distinta dalla  pitagorica,   perchè  i  numeri    pitagorici   sono    nelle cose  e  queste  constano  di  essi,    ma    i    numeri    platonici sono    separati    (yoif/.axot    o  xsxo>p'.a^l6VGl)    (2)  3^.  Quelli  in cui  sì  distinguono  due  frazioni  nella  scuola  p' atonica,  di cui  runa  ammetterebbe  le  entità  matematiche  nelle  cose (1)  V.  J/W.  1.  11!.  IV.  2.-),  l.  IH.  n.  15,  1.  Xlll.  1.  4,  n.  9,  111.  3,  5. (2)  V.  Mei.  l.  Xlll.  VI.  4,  7,  i'  XlV.  HI.  2.       . -  147- .^~ ■SpJX ì^ e  l'altra  separate  (1).  Si  noti  che  Aristotile  obbietta  al- Topinione  che  queste  entità  sono  nelle  cose,  che  in  que- sto cago  anche  le  altre  entità,  le  Idee,  dovrebbero  essere nelle  cose  (2). E  dunque  incontestabile  che  vi  hanno  in  Aristotile un  certo  numero  di  luoghi  in  cui  le  Idee  sono  chiara- mente  interpretate  come  separate  dalle  cose.  Non  ne  se- gue però  che  la  sua  testimonianza  sia  assolutamente favorevole  alla  interpretazione  trascendentalista,  perchè, a  iato  di  questi  luoghi,  l'esposizione  aristotelica  delle dottrine  platoniche  contiene  delle  prove  cosi  forti  della Immanenza  delle  Idee,  che  basterebbero,  anche  nel  caso che  noi  non  possedessimo  gli  scritti  di  Platone,  per  ro- vesciare l'interpretazione  tascendentalista,  e  restituire  a queste  dottrine  il  loro  significato  reale.  Nel  corso  di questo  Supplemento  abbiamo  già  utilizzato  alcune  di  que- ste prove;  ma  non  abbiamo  tenuto  conto  che  di  quelle  la cui  evidenza  ci  sembrava  al  di  fuori  d'ogni  dubbio,  e ci  siamo  astenuti  di  servirci  di  un  gran  numero  di  luo- ghi  che,  quantunque  probanti  per  se  stessi,  potevano  non- dimeno far  nascere  qualche  esitazione,  per  la  contraddi- zione con  gli  altri,  in  cui  Aristotile  sembra  ammettere,  oam- mette  effettivamente,  l'interpretazione  trascendentalista. Ma  cosi  facendo,  ci  siamo  privati  di  molte  prove  dell'imma- nenza delle  Idee,  che  sarebbe  tanto  meno  giusto  di  ne- gligere, che  alcuni  tratti  della  dottrina  platonica,  i  quali dimostrano  chiaramente  quest'immanenza,  risultano  più nettamente  ancora  dall'esposizione  di  Aristotile  che  da- gli scritti  stessi  di  Platone,  o  ancte  non  si  trovano  che nel  solo  Aristotile,  perchè  appartengono  alla  parte  non scritta  del  platonismo  ((Xypa^a  ÒÓY[iaxa).  Tali  sono: 1.  L'universalità  delle  Idee.  L'Idea  è,  secondo  Ari- stotile, ciò  che  si  attribuisce  a  tutti  gl'individui  d'  una specie  0  di  un  genere  (l),  il  comune  (xoivóv)  nelle  cose particolari  (2),  l'universale  (xaeóXoi>)  (3),  il  predicato  in  co- mune (xoiv^  xaxYjYopoójisvov)  (4)  o  universalmente  (xaGóXco xax.)  (5)  Si  dirà  che  questo  determinazioni  non  devono prendersi  in  un  senso  strettamente  rigoroso,  e  che  tutto ciò  significa,  non  che  le  Idee  siano  realmente  gli  attri- tributi  generali  delle  cose,  ma  che  Platone  ha  trasformato i  predicati  generali  in  altrettante  sostanze,  in  modo  che queste  sostanze  astratte  abbiano  lo  stesso  contenuto  che gli  attributi  generali  delle  cose,  ma  senza  identificarsi con  essi  (6).  E  certamente  bisogna  ammettere  che  le espressioni  designanti  Tldea  come  l'universale  non  aveano per  Aristotile  che  un  significato  vago  ed  incerto.  Ma  si deve  notare  che  Aristotile  non  dice  solamente  dell'  Idea che  essa  è  l'universale,  il  comune,  il   predicato   univer- (1)  Mei.  1.  111.  1.  15,  11.  17-22,  1.  XUl.  1.  4,  II,  IH.   V.  su  que.ta  di- stmzione  il  n.  Vi,  verso  la  fine. (2)  V.  MeL  l.  HI-  11.  21,  1.  Xlll.  U.  1. (1)  Mei.  l.  III.  1.  9,  1.  ITI.  III.  7,  10,  12,  13. (2)  Eih,  A'ic.  1.  1.  VI.  2,  3,  11,  FAh.  Eud,  1.  I.  Vili.  9,  10,  11 MeU  1.  I.  IX.  5,  l.  III.  III.  1,  1.  VII.  XVI.  4,    1.  XIII.    IV.   10,    1. XIV.  III.  12. (3)  Mei.  1.  III.  III.  7,  13,  IV.  1,  VI.  5,  6,  1.  VII.  XIII.  2,  4,  7, XVI.  5,  1.  X.  II.  1,  1.  XI.  I.  U,  1.  XIII.  IV.  4,  IX.  n-20,  Eth.  Nic. 1.  I.  VI.  3,  A«.  Post.  1.  I,  XXrV.  3,  ecc.. (4)  Eth.  Eud.  1.  I.  Vili.  10,  Met.  1.  III.  VI,  5,  1.  VII.  XIII.  7. (5)  Met.  1.  III.  III.  13,  VI.  6,  l,  VII.  XIII.  2,  1.  X,  II.  1. (6)  Cfr.  n.  V  in  principio. -.148  — salmente,  ma  ancora  ch'essa  è  universale  (1),  che  è  co mane  (2)  e  che  si  predica  universalmente  di  tutti  (3).  Le ultime  forme  non  sembrano  suscettibili,  come  le  prime del  senso  improprio  che  abbiamo  detto.  Più  importante è  ancora  di  segnalare  certe  obbiezioni  conti'O  la  sostan- tifìcazioue  degli  universali:  p.  e.  Avistocile  dice  (contro Platone):  l'universale,  o  il  comune,  ecc.  non  può  essere una  sostanza,  perchè  è  un  attributo  (4),  o  perchè  ine- risce in  molti  (5).  Queste  obbiezioni  suppongono  che  i termini  Vuninersale,  il  comune,  ecc.  si  applicano  all'I- dea in  un  senso  Rigoroso,  perchè  esse  non  valgono  che in  questo  caso.  Aggiungiamo  infine  che  V  individuo  è chiamato,  relativamente  allldea,  il  soggetto  (6). 2.  Le  Idee  essenze  o  sostanze  (oOaCai)  delle  cose.  E una  determinazione  che  Aristotile  attribuisce  a  ogni momento  alle  Idee  (7).  Perciò  noi  potremmo  rivolgere a  lui  stesso  la  domanda  che  egli  fa  ai  platonici:  Se  le Idee  sono  le  sostanze  delle  cose,  come  sarebbero  sepa- rate? {Met,  \.  I.  IX.  11).  Questa  domanda,  s'intende,  si rivolgerebbe  ad  Aristotile  come  interprete  trascendenta lista:  ma  vi  hanno  delle  ragioni  per  dubitare  almeno  che tutte  le  volte  ch'egli  afferma  o  suppone  che  le  Idee  sono le  essenze  delle  cose,  egli  si  tenga  fermamente  al  punto (1)  Elh,  Aie.  l.  1.  VI.  3,  MeL  1.    IH.  VI.  5,  €>,  l.  XIII.  IX.  17,  20. (2)  Kth.  yic,  1.  I.  VL  2,  3.  11,  Fih,  End.  1.  I.  Vili.  9,  MeL  1.  I IX.  5,  l.  XITJ.  IV-  10. (3)  MeL  1.  III.  III.  lU,  VI.  ti,  1.  X.  IL  1. (4)  Met,  1.  VII.  XHI-  4,  1,  Vii.  XVI.  4.  ecc. (5)  Met.  l.  VII.  XUI.  2,  l.  VII.  XVI.  5,  1.  X.  II.  1.  ecc. (6)  Mei,  1.  VII.  VI.  7. (7)  Mei,  1.  I.  VI.  7,  l.  1.  IX.  11,  21.  1.  lU.  IV.  6,  7,  l.  VII.  VI.  4-8, xm.  3,  4,  i.  Vili,  ni-  5,  i.  XI.  11. 10,  i.  xiii.  i.  2,  3,  x.  2,  i.  xiv.  v. 7-8,  eoo. •>,i di  vista  di  quest'interpretazione.  La  prima  è  eh'  egli  i- dentifi(ja  continuamente  re.<f»s'enza  della  filosofìa  platonica con  Vessenza  della  sua  propria  filosofia  (1)  (salvo,  be- ninteso,  che  nel  suo  proprio  sistema  l'essenza  non  ha che  un'  esistenza   concettuale,   e  si    distingue  dalla  ma- (1)  Cosi  p.  e.  in  Mt't,  1.  111.  IV.  6:   "  Ancora,   se    la    materia    è. perchè  è  ingenita,  molto  piti  ragionevole  è  che  sia  l'essenza,  vale a  dire  ciò  che  la  materia  diviene.  Infatti  se  non   è    nò    questa    né quella,  non  sarà  assolutamente  niente.  Che  se  ciò  è  impossibile,  è necessario  che  vi  sia  oltre  il  composto  (Tiapà  xò  at3voXov)  la  forma (jiOp^Tj'i  e  la  specie  (£l$oc;ì.   Ma  se  si  ammette    questa,  è    dubbio di  quali  cose  si  debba  ammettere,  e  di  quali  no.  É  chiaro  che  non è  possibile  di  tutte:  non  ammetteremo  infatti  che  vi  sia  una  casa oltre  (TCapd)  1©  f^ase  particolari  (i  platonici,  secondo  Aristotile,  non ammettevano  Idee  delle  cose  artilìciali)^  In  3/eM.XI.  II.  10:  «An- cora vi  ha  qualche    cosa   oltre   il    composto  (:iapà    iò     aiivoXov) o  no  ?  chiamo  così  la  materia  e  ciò  che  è  con  essa  (la  forma).  Se non  vi  ha,  tutto  ciò  che  è  nella  materia    è  corruttibile.    Ma  se  vi ha,  sarà  ceriamonte  la  specie  (sISol;)  e  la  forma  (pio pcpf/).  Questa in  quali  cose  vi  sia  e  in  quali  no,  è   difficile    determinare.    In    al- cuno cose  è  chiaro  infatti  che  la  specie  non  è  separabile  ;x(Op'.aiÓv),- p.  e.  nella  casa-  In  Met,  Vili.  HI.  5  (mentre  parla  della  dottrina della  detinizione,  o   dell'essenza   che  ne    è    l'oggetto):  -Se   poi  le essenze   delle   cose    corruttibili    siano    separabili    (xcopiaxatj    non è  ancora  manifesto  „ In  Met.  VII.  VI  spiegando  che  vi  ha  identità  tra  una  cosa  e  la sue  essenza,   dice    (4-8)  che    cosi  è    anche    necessariamente    nel  si- stema  delle  Jdeo,  r-oichè  è  necessario  che  il  bene  in  sé,  l'animale in  sé  ecc;  siano  identici  con  l'essenza  del  bene,  dell'animale,  ecc. L'essenza  d'una  cosa,  quando  Aristotile  fa  l'applicazione  del  prm- ci|>ìo  nel  sistema  delle  Ideo,  non  potrebbe  avere  un  altro  semso  che quando  la  fa  nel  suo  proprio  sistema.  Dunque   anche   nel   sistema delle  Idee  l'essenza  è,  come  nel  suo  proprio  sistema,  un  principio intrinseco  alla  cosa  di  cui  si  dice  l'essenza. -  149  — teria  solo  logicamente,  mentre  nel  sistema  platonico se  ne  distingue  realmente,  ed  ha  come  entità  distinta unNsistenza  reale).  Questa  identificazione  esige  che  Te- spressiene  essenza  delle  cose,  applicata  alle  Idee,  sia presa  nel  suo  significato  proprio,  e,  per  conseguenza, che  le  Idee  siano  immanenti.  Lo  stesso  deve  dirsi,  e a  più  forte  ragione,  dell'  obbiezione  che  Aristotile  fa  ai platonici,  che  sejuna  è  la  sostanza  di  tutte  le  cose— cioè di  tutte  le  cose  subordinate  a  un'Idea — tutte  queste  cose saranno  una  cosa  sola,  perchè  ciò  la  cui  sostanza  è una  è  necessariamente  uno  (1).  Qui  è  applicabile  la  stessa osservazione  fatta  al  numero  precedente  —  che  vale  per tutte  le  formule  platoniche  neiresposìzione  aristotelica—, cioè  che  non  deve  ammettersi  che  Aristotile  dia  costan temente  alla  proposizione  le  Idee  sono  le  essenze  delle cose  il  suo  sigMìficato  strettamente  letterale,  e  neanche un  senso  determinato  qualsiasi,  perchè  il  prenderla  nel senso  letterale,  come  Aristotile  sembra  fare  nei  casi  di cui  abbiamo  parlato  implica,  necessariamente  1'  ammis- sione dell'immanenza  delle  Idee,  e  sarebbero  quindi  ine- splicabili i  luoghi  in  cui  egli  mostra  di  ammettere  T  in- terpretazione trascendentalista  ;  e  d'altra  parte,  escluso il  suo  significato  letterale,  non  ve  ne  ha  alcun  altro  di cui  la  proposizione  sia  suscettibile. 3.  La  materia  il  soggetto  delle  Idee.  In  Mei.  1.  I. VI.  7,  facendo  1  esposizione  della  filosofia  di  Platone, dice  :  «  La  materia  soggiacente  (  òiioxstfiévY);  a  cui  si  at- tribuiscono rUno  nelle  Specie  e  le  Specie  nei  sensibili, (1)  V.  MeL  1.  IH.  IV.  7,  1.  VII.  Xm.    3,  1.  XlII.  X.  2, i  la  dualità  del  Grande  e  Piccolo  (1)»   Conformemente a  questa  proposizione—presa   in  un  senso   strettamente rigoroso— Aristotile  in  diversi  luoghi  riguarda  l'individuo» nel  sistema  platonico,  come  il  composto  dell'Idea  e  della materia.  E  cosi  che  egli  fa  nei  dne  primi  della  terz'ul- tima  nota  ;  e  a  questi    aggiungeremo  i   seguenti  :    Mei» 1.  III.  IV.  8:  <  £  come   la  materia  (se  vi   hanno    delle essenze   oltre  i  singolari,  tanto  nell'ipotesi.che  l'essenza di  tutti  gl'individui  sia  una,  come  vuole  Platone,  quanto in  quella  che  siano  molte  e  diverse)  diviene  ciascuna  di esse,  ed  il  tutto  (oóvoXov)  è  l'una  e  l'altra  (l'essenza  e  la materia)?*  Mei.  1.  XII.  X.  13:  «  Nessuno  ha  spiegato  come il  numero  sia  uno,  o  come  siano  uno  l'anima  e  il  corpo e  in  generale  l'eidos  e  la  cosa  »   (evidentemente   questo rimprovero  non  potrebbe  essere  rivolto  che  ai  platonici). Mei,   1.  XII.  V,  3  :  «In  atto  è  l'sISoc,  se  è  separabile (XCDpioxóv),  e  ciò  che  è   da  amendue  (dall'  eldo;  e  dalla materia,  vale  a  dire  l'individuo);  la  steresi  (la  privazione dell'  elòo^),  come  l'oscurità  o  la  malattia:  ma  la  materia è  in  potenza.  Essa  infatti  è  ciò  che  può  divenire  amen- due  (cioè  VbIòoq  e  la  steresi)»  Io  non  vedo  come    questi luoghi  si  potrebbero  accordare  con  l'interpretazione  tra- scendentalista. (1)  Osserviamo  che  il  rapporto  delle  Idee  con  le  cose  e  la  ma- teria delle  cose  non  può  essere  differente  da  quello  dell'Uno  con le  Idee  e  la  materia  delle  Idee.  Le  Idee  devono  essere  dette  e essenze  o  le  forme  delle  cose  e  ciò  che  ai  attribuisce  alla  materia delle  cose,  nello  stesso  senso  in  cui  TUno  è  detto  1'  essenza  o  la forma  delle  Idee  e  ciò  che  si  attribuisce  alla  materia  delle  Idee. Per  conseguenza,  l'immanenza  dell'Uno  nelle  Idee  e  nella  loro materia  essendo  incontestabile  (v.  n.  VII),  anche  le  Idee  devono essere  immanenti  nelle  cose  e  nella  loro  materia. -160- 4.  Il  rapporto  dei  numeri  (ideali)  con  le  cose.  L'im- manenza dei  numeri  anzitutto  è  supposta  dal  mottvo  che Aristotile  assegna  alla  dottrina  che  essi  sono  sostanze  e principii  delle  cose.  In  Mei.  1.  III.  V.  3-4  dice  (metten- dosi al  punto  di  vista  dei  platonici)  :  cMa  iJ  corpo  ò  me- no sostanza  che  la  superficie,  e  la  superficie  che  la  linea, e  la  linea  che  Tunità  e  il  punto  :  da  que.ste  cose  infatti il  corpo  è  determinato  ((opioxat)  (1).  E  queste  cose  sem- brano pot€^  essere  senza  il  corpo,  ma  non  il  corpo  senza di  esse  (in  altri  termini,  secondo  il  modo  di  esprimersi che  Aristotile  attribuisce  il  più  abitualmente^  a  Platone  : soppressa  la  superficie,  ola  linea,  o  il  punto  ounitA,  sa- rebbe soppresso  necessariamente  il  corpo;  ma  soppresso il  corpo,  non  sarebbe  soppressa  necessariamente  la  su- perficie, la  linea,  Tunità  o  punto).  Perciò,  mentre  i  più antichi  credono  che  la  sostanza  e  Tessere  sia  il  corpo, e  le  aitr^  cose  affezioni  di  esso,  in  modo  che  i  principi! dei  corpi  siano  i  principii  di  tutti  gli  esseri  ;  invece  i più  moderni  e  riputati  più  sapienti  ammettono  che  questi principii  siano  i  numeri»  (2).  E  in  Met.  1.  V.  Vili.  3: «  Inoltre  sono  chiamate  sostanze  le  parti  che  ineriscono (fiópia  évjTiapxovxa)  in  tali  erse  (nel  fuoco,  la  terra,  gli animali,  ecc.),  che  le  terminano  (ópC^ovTa),  e  le  quali soppresse,  è  soppresso  anche  il  tutto;  come  p.  e.  soppressa la  superficie,  è  soppresso,  come  dicono  alcuni,  anche  il corpo,  0  soppressa  la  linea,  anche  la  supertìce  :  ed  asso- ci) NeUa  costruzione  dell'esteso  per  i  suoi  termini  e  rinteryallo compreso  tra  di  essi,  immaginata  allo  scopo  di   ridarre   la    gran- dezza al  numero,  i  platonici  riguardavano  il  punto  come  una  naità, V.  Supplemento  C,  II, (2)  Ofr.,  per  comprendere  questa  conseguenza,  la  nota  seguente. lutamente  è  il  numero  che  sembra  essere  tale  ad  alcuni; niente  essere  infatti,  soppresso  questo,  e  questo  termi' nave  (ópec=tv)  tutte  le  cose  »  (questo  numero  riguardato come  sostanza  non  può  essere  che  il  numero— Idea,  per- chè i  platonici  non  sostantificano  che  T  Idf  a,  l'univer- sale) (1). L'immanenza  dei  numeri  è  ugualmente  supposta  (a meno  che  non  si  vogliano  intendere  le  parole  d'Aristotile in  un  Fenso  molto  lontano  dal  letterale)  in  questa  ob- biezione che  egli  fa  alla  dottrina  dei  numeri  :  t  Non  si è  poi  per  niente  determinato  come  i  numeri  (ideali)  sia- no cause  delle  essenze  e  dell'essere:  forse  come  termini, (1)  Eoco  come  Aless.  Afrod.  {Comui.  in  Met.  1.  I.  VI.  6,  t.  43)  ci spiega,  certamente  secondo  Aristotile,  perchè  i    platomci   ammet-     ^ te  vano  che  i  numeri  sono  i  principii  delle  cose,  e  identificavano  le Idee  con  essi  :  Secondo  loro  il    principio  era  il  più    anteriore    e    il pi'i  semplice,  o  dei  corpi  erano  più  anteriori  e  più  semplici  i  piani, dei  piani  le  linee,  e  di  queste  i  punti  che  essi  chiamavano  unità.... dello  unità  non  vi  era  niente  di  anteriore,  e  di   più    semplice.   Ora le  unità  sono  numeri:  dunque  i  numeri  erano  i  prinripu  di    tutti, gli  esseri.  E  poiché  per  loro  i  principii  di  tutte    le   cose   erano    le Idee,  non  potendo  esservi  un  principio   anteriore   ai   numeri,   non restava,  seconde  loro,  che  di  ammettere  che  le  Idee  sono    numeri .Platone   chiamava    una   cosa    anteriore    ad    un'altra,    quando    il concetto  della  soconda  racchiudeva  quello  della  prima;  vale  a  dire il  più  astratto  era  detto  da  lai  auteriore   al    più    concreto.    Questo rappono  di    anteriorità  importava  per  lui  una    sorta   di    causalità della  oosa-cioò   dell' entità- anteriore  verso  la  posteriore;    poiché il  principio   della  dialettica    platonica  è  che  il  più    astratto   e  pi  i generale  è  in  .'erto  modo  la  causa  del  più  concreto  e  più  particolare. Il  segno  dell'anteriorità  d'una  cosa  su  di  un'altra  era  che  soppressa la  prima    si    sopprimerebbe    anche    la    seconda,    mentre  soppressa qa..ta,    non  si   sopprimerebbe   quella:   p.    e.  ^*^PP^««^^, /Z^^-^^^;; ?arobbe  soppresso  perciò  anche  l'Uomo,  ma  soppresso  1  Lomo,  non sarebbe  soppresso  perciò  l'Animale). -161- k quali  i  punti  delle  grandezze?...  o  comerarmonia  è  una proporzione   di  numeri,  così  pure   V  uomo  e   ogni  altra cosa?...  Ma  è  chiaro  che  (nel  secondo  caso)  i  numeri  non sarebbero  le  essenze  né  le  cause  della  forma.  L'essenza infatti  sarebbe  la  proporzione;  il  numero  sarebbe  la  ma- teda  y>  (1).  In  diversi  luoghi  poi  Aristotile    sembra    rap- presentarsi i  numeri  (ideali)  come  gli  elementi  costitutivi delle  gr;indezze.  In  il/e/,  l.  XIV.  III.  9,  dico  che  quelli    che ammettono  le  Idee  «  fanno  le  grandezze  dalla  materia  e  dal numero  (ideale)».  S'egli  non  si  rappresentasse  effettiva- mente i  numeri  come  elementi  costitutivi  della  grandezza, non  si   comprenderebbero   delle  obbiezioni   come   le  se^ guenti  :  Met  1.  III.  IV.  29  (dopo  aver  detto  che  secondo i   Pitagorici  e  Platone  V  Uno  è  sostanza  per  se   stesso, cioè   nel   suo  concetto  astratto,    e  non  è  qualche  altra cosa,  p.  e.  qualcuno  degli  elementi  dei  Fisici)  :  «Ma  come  da un  tal  Uno  o  da  più  sarà  la  grandezza?  Sarebbe  come  se  si dicesse  che  la  linea  è  composta  di  punti  » .  Ibid.  30  :  (dopo aver  detto  che  per  produrre  i  numeri,  cioè  gl'ideali,  e  le grandezze,  alcuni  aggiungono  airUno  in  sé  un  altro  ele- mento, rineguaglianza)  «  Né  si  vede  come  dairUno  e  que- sta né  come  da  un  altro  numero  e  questa  possano  farsi  le grandezze  .^  Mei.,  l.  XII.  X.  11  :   «  Se  vi  hanno  le  Idee  o  i numeri,  non  saranno  causa  di  niente:  certo  almeno  non del  movimento.  K  poi   come  da   cose  senza  grandezza sarà  la  grandezza  e  il  continuo  ?  *.  In   alcuni  di  questi luoghi,  a  dir  vero,  non  si  parla  delle  grandezze  sensi- bili, ma  delle  grandezze  matemaUche,  che  erano   inter- mediarie tra  le  grandezze  sensibili  e  i  numeri  ideali  :  ma questa  differenza  importa  poco,  perchè,  se  le  Idee  fossero trascendenti  riguardo  alle  cose,  dovrebbero  essere  anche trascendenti,  come  abbiamo  altra  volta  osservato,  ri- guardo alle  entità  matematiche,  Infatti,  come  abbiamo detto,  le  stps-e  determinazioni  che  sembrano  esigere  la trascendenza  delle  Idee  riguardo  alle  cose  (aùxè  xaG'a'nó^ Xo>ptox'5v,  ecc.)  esigerebbero  pure  la  loro  trascendenza  ri- guardo alle  entità  matematiche;  e  l'immanenza  delle  Idee nelle  entità  matematiche  dà  luogo  alle  stesse  inconce- pibilità che  la  loro  immanenza  nelle  cose,  non  esclusa la  più  grave  che  è  quella  dell'inerenza  simultanea  del- l'uno nei  molti,  poiché  anche  delle  entità  matematiche ve  ne  erano  molte,  come  attesta  Aristotile  (1),  della  stessa specie,  vale  a  dire  partecipanti  a  un'Idea  (a  un  numero ideale)  unica. Si  dirà  che  tutti  i  luoghi  d'Aristotile  precedentemente citati,  se  possono  provare  che  le  Idee  platoniche  sono immanenti,  non  possono  provare  però  che  l'autore  se  le rappresentasse  come  tali,  perchè  bisogna  evitare  un'a- perta contraddizione  tra  questi  luoghi  e  quelli  in  cui  e- gli  è  chiaramente  favorevole  all'interpretazione  trascen- dentalista; e  per  conseguenza  si  deve  ammettere  che  A- ristotile  riproduce  le  formule  e  le  locuzioni  platoniche, che  in  se  stesse  implicano  l'immanenza,  ma  senza  dare ad  esse  alcun  significato  preciso,  anzi  riguardandole  co- me non  suscettibili  di  un  significato  preciso.  Ed  io  ri- conosco che  quest'osservaziene  é  in  gran  parte  giusta: essa  però  non  mi  sembra  applicabile  a  tutti  i  luoghi citati,  notevolmente  a  quelli  in  cui  Aristotile  fa  delle obbiez'oni  che  non  hanno  valore  se  non  nel  caso  che  le (1)  Met,  1.  XIV-  V.  6-7. (1)  Met.  1.  I.  VI.  3,  l.  III.  VI.  1-2,  000. -152  — formule  platoniche  si  prendano  nel  loro  significato  pro- prio, implicante  rinimanenza.  Ma  vi  hanno  anche  altri luoghi,  in  cui  r  immanenza  delle  Idee,  nel  concotto d'Aristotile,  è  più  evidente  ancora.  Di  essi  alcuni  con- cernono il  rapporto  tra  le  Idee  e  le  cose,  altri  solamente quello  tra  le  Idee  più  generali  e  le  più  particolari  :  ma questa  differenza  per  noi  ha  poca  importanza,  perchè Aristotile  non  poteva  non  comprendere  le  ragioni  di  coe- renza che  esigevano  che  l'uno  dei  due  rapporti  fosse'iden- tico  all'altro,  e  d'altronde  le  ragioni  prò  o  contro  V  im- manenza delle  Idee  più  generali  nelle  più  particolari erano  quelle  stesse  che  valevano  prò  o  contro  l'immanenza delle  Idee  nelle  cose. Dei  luoghi  che  concernono  il  rapporto  delle  Idee  ge- nerali con  le  Idee  particolari,  la  parte  più  considerevole sono  certamente  quelli  che  dimostrano  l'immanenza  (nel concetto  stesso  d'Aristotile)  dei  due  elementi,  cioè  deirU- no  o  Essere  e  della  Diade  indefinita  o  Non  essere,  in tutte  le  altre  Idee  (questi  stessi  luoghi,  la  più  parte  al- meno, provano  pure  l'immanenza  di  queste  due  Idee  le più  universali,  che  Platone  chiamava  gli  elementi,  nelle cose  stesse).  Noi  ne  abbiamo  parlato  ai  n.  VII  e  Vili, e  non  occorre  ritornarvi.  Ma  vi  hanno  anche  parecchi luoghi,  in  cui  sono  le  Idee  generali  indistintamente  che vengono  riguardate  come  immanenti  nelle  Idee  partico- lari. Cosi  in  Met,  1.  VII.  XV.  6-7  l'  Idea  del  genere  e quella  della  differenza  si  considerano  come  parti,  e  l'I- dea della  specie  come  il  tutto  composto  di  queste  parti  (1)* (1)  Altrove  invoee  lo  Idee  speoiliche  souo  oonsideraie  come  parti deU'idea  generica,  V.  Met.  1.  111.  III.  10,  ).  XI.  1.  12.  Noi  abbiamo Tisto  oh©  nel  sistema  delle  Idee  (immanenti)  vi  hanno  necessaria^ mente  al  tempo  stes-^o  fra  i  Generi  e  lo  Specie  fjuesti  due  rapporti apposti. IWd.  1.  XIIL  X.  6,  dopo  aver  obbiettava  alla  dottrina- dei  due  elementi  che,  se  ciascuno  di  essi  è  uno  di  nu- mero (come  vuole  Platone)  e  non  semplicemente  di  spe- cie, non  vi  saranno  altri  esseri  che  gli  elementi  stessi, agrgiunge  che  la  stessa  obbiezione  ha  luogo  quando,  ol- tre (noLpd)  le  Idee  aventi  lo  stesso  elfiog,  si  ammette  al- cun che  di  separato  (xexfoptoiiévov— vale  a  dire  quando si  ammette  un'Idea  generale  oltre  le  Idee  particolari  su- bordinate a  un  concetto  comune:  Tobbiezione  vale  anche allora,  perchò  nel  sistema  dell'immanenza  è  inconcepibile p.  e.  come,  TAnimale  essendo  unico,  possano  esservi  non- dimeno molti  animali,  TUomo,  il  Bue,  ecc.).  Ibid.  I.  XIV. III.  12,  dice  che  se  il  principio  del  numero  matematico fosse  qualche  uno,  diverso  dall' t/7io  che  è  il  principio  del numero  ideale,  VUno  in  se  stesso  sarebbe  ciò  che  vi  a- vrebbe  di  comune  in  questi  due,  e  inoltre  si  dovrebbe ricercare  come  VUno  potesse  essere  questi  molti.  Ibid. 1.  XIII.  Vili,  14  obbietta  alla  dottrina  dei  numeri  ideali che  l'unità  che  é  nella  Dualità  è  anteriore  a  questa, poiché,  soppressa  essa,  si  sopprimerebbe  anche  questa;  e per  conseguenza  tale  unità  dovrebbe  essere  un'Idea  d'I- dea, essendo  anteriore  a  un'Idea  (Un'Idea  d'Idea  signi- fica evidentemente  un'Idea  più  generale,  ossia  anteriore, a  cui  partecipa  un'altra  Idea  più  particolare,  o^^ia  po- steriore. Ora  quest'  unità  che  dovrebbe  essere  un'  Idea deiridea  della  Dualità,  è  in  questa;  perciò  Aristotile  si rappresenta  l'Idea  anteriore,  cioè  la  più  generale,  come inerente  nell'Idea  posteriore,  cioè  nella  più  particolare).  E in  diversi  luoghi  (I)  le  parole  ivipapxstv  (inerire),  Oitòlpxstv év  (essere  in)  vengono  impiegate  per  denotare  sia  la  re- (1)  V.  Mei.  I.  VII.  Xm.  4,  8..I.  XIII.  V.  12,  AH.  P<rtt.  1.  ìi  XXiV.  3. •^  153  — V Iasione  delle  Idee  generiche  con  ^  le   Idee   specifiche  sfa qaella  delle'  Idee  con  le  cose.  L'immanenza  delle  Idee  nel le*^ '  cose' é  pòi  supposta della  maniera  più  evidente  dairòtbiezione  che  Aristotile fa  ripetutamente  alla  sostantiàcazione  degli  ^  universali, di  condurre  all'assurdità  che  una  sostanza  unica  sia molte  sostanze.  «  Se  si  astrarrà  il  predicato  in  comune e- se  ne  farà  tina  sostanza,  Socrate  sarà  moiti  animali, egli  stesso,  TUomo  e  l'Animale,  s'è  vero  che  ciascuna  di queste  cose  significa  Una  so-^tanza  e  un  che  di  unico  (l).  > «Ciò  (che  nessuno  degli  universali  è  sostanza)  è  chiaro anche  per  quésta  ragióne,  che  è  impossibile  che  una sostanza  riéulti  da  sostanze  che  le  ineriscano  in  atto.  In- fatti le  cose  che  in  atto  sono  due  è  impossibile  che  siano uno  in  atto?  potrà  essere  uno  ciò  che  è  due  solo  in  po- tenza, come  il  doppio,  ia  cui  vi  hanno  in  potenza  le  due metà;  è  l'atto  che  separa  Per  cui,  se  la  sostanza  è  qualche cosa  di  unico,  es^^a  non  potrà  risultare  da  sostanze  ine- renti ;  e  in  questo  scuso  Democrito  ha  ragione  di  am- mettere che  è  imposs  bile  che  di  due  cose  se  ne  faccia una  sola  o  di  una  due:  le  sostanze  infatti  sono  se- condo lui  le  grandezze  indivisibili Tuttavia  la  no- stra conclusione  presenta  uria  difficoltà  :  se  è  impos- sibile che  una  sostanza  risulti  da  universali,  perchè  essi significano  delle  qualità  e  non  delle  sostanze  (è  uu'  altra obbiezione  che  precedentemente  ha  fatto  alla  sostantifi- cazione  d'egli  universali),  e  se  un*  sostanza  non  può  es- sere composta  di  più  sostanze  in  atto,  la  sostanza  sarà qualche  cosa  d'indecomponibile,  e  non  vi  potrà  essere  de (1)  Met,  L  III.  Vi.  6, finizione  della  sostanza  »  (perchè  i  platonici  riguardano la  definizione  come  una  decomposizione  del  definito  nei suoi  elementi— V.  n.  VII  B)  (1).  La  stessa  obbiezione  è  an- che presentata  sotto  un'altra  forma  :  «  La  definizione  non è  T^H  discorso  unico  per  la  congiunzione  delle  parti,  come l'Iliade,  ma  perchè  si  riferisce  ad  un  oggetto  unico.  Co- s'è dunque  che  fa  che  l'uomo  sia  uno,  e  perchè  esso  è uno  e  non  più,  p.  e.  l'animale  e  il  bipede,  specialmente se  vi  ha,  come  alcuni  dicono,  un  animale  in  sé  e  un bipede  in  sé?  perchè  l'uomo  non  è  questi,  e  perchè  gli uomini  non  sono  perla  partecipazione,  non  di  uno,  l'Uo- mo, ma  di  due,  l'Animale  e  il  Bipede?  allora  1'  uomo (l'individuo,  sembra)  non  sarebbe  Uno,  ma  più,  l'animale e  il  bipede»  (2)  «Perchè  ciò  che  diciamo  essere  l'og- getto della  definizione,  è  uno,  p.  e.  l'animale  bipede,"  à'è questa  la  definizione  dell'uomo  ?  Perchè  ciò  è  uno  e'iibn più,  r  animale  e  il  bipede?  Infatti  1'  nonio  e  il  bianco sono  più,  quando  l'uno  non  inerisce  all'kltro;  sono  uiio, quando  l'uno  inerisce  all'altro,  e  il  soggetto  (l'uomo^  ha un'  affezione  (la  bianchezza).  E  allora  che  ciò  diviene  ed è  uno,  l'uomo  bianco.  Ma  nel  nostro  caso  una  cosa  nou partecipa  dell'altra:  il  genere  infatti  non  sei»bra»parte- cipare  delle  differenze;  poiché  lo  stesso  parteciperebbe  dei contrari,  le  ditterenze  per  cui   ilgenere  differisce  essendo (\)  Met  1.  VII,  Xlir.  8-10. L'obbiezione  che  la  realizzazione  degli  universali  ha  per  conseguenza che  una  sostanza  sia  composta  di  pili  sostanze,  ò  pure  accennata  a  l.  VII. XVI.  Seal.  VII.  XIII.  5. (2)  Met.  contrarie.  (1)  E  quand'anche  ne  partecipasse,  vi  sarebbe sempre  la  stessa  difficoltA,  se  le  differenze  sono  più,  p.  e. pedestre,  bipede,  implume.  Perchè  tutto  ciò  è  uno  e  non molti  ?  che  esse  ineriscano  non  è  una  ragione  sufficiente, poiché  a  questo  patto  da  tutte  ne  risulterà  una  cosa  sola  » {da  tutte  vuoi  dire:  da  tutte  insieme  le  differenze  con- trarle che  si  producono  nella  divisione,  cioè  da  pedestre e  volatile,  bipede  e  quadrupede,  implume  e  piumato,  ecc., perchè  tutte  queste  differenze  ineriscono  egualmente  nei genere)  (2).  Forse  si  troverà  che  questi  due  luoghi  sup- pongono Timmanenza  del  Genere  e  della  Differenza  nella Specie,  ma  non  neirindividao.  E  sia  pure  !  ma  come  ab- biamo osservato,  il  rapporto  tra  le  Idee  generali  e  lel- doe  particolari  non  potrebbe  differire  da  quello  tra  le Idee  e  le  cose. Un'altra  obbiezione  che  suppone  V  immanenza  delle Idee  nelle  cose,  è  quella  dePa  Metafìsica  1.  IX.  Vili.  15, cif  è  che,  se  vi  hanno  le  Idee,  avranno  molto  più  essere le  cose  (p.  e.  lo  sciente  o  il  mosso)  che  le  Idee  (p.  e.  la scienza  o  il  movimento  in  sé),  perché  le  cose  hanno  più  at- tualità, mentre  le  Idee  sono  le  loro  potenze.  Nell'ipotesi deirimmanenza  le  Idee  sarebbero  effettivamente  le  cose  in potenza,  ma  solo  in  quest'ipotesi,  perché  il  potenziale  e  l'at- tuale sono,  non  due  cose  separate,  ma  due  stati  d'una  sola e  stessa  cosa,  stati  che  possono  succedersi  nel  tempo,  come (1)  Nel  metodo  platonico,  in  cai  la  definizione  è  il  risaltato  della divisione  per  diootomia — Aristotile  trova  impossibile  ohe  lo  stesso, cioè  il  genere,  partecipi  dei  oontrarii,  perchè  egli  ragiona  sull'ipo- tesi ohe  il  genere  sia  ana  sostanza,  cioè  an'idea:  in  qaest'  ipotesi, il  genere  partecipando  di  dae  differenze  contrarie,  si  ha  l'assordo che  ad  ana  stessa  cosa  ineriscono  dae  contrari,(?)  Met'  U  VU.  XU.  1-2, il  fanciullo  è  in  potenza  l*uòmo,  o  solo  iogicatóenfe,  c^iflé, secondo  Aristotile,  la  materia  è  tutte  le  cose  in  poteiis^a. Nel  secondo  ctìso,  il  jotenziale  è  Tatiuàle  stesso  codIbì- derato  in  uno  ^tato  d'indeterminazione:  rra  le  Idee,  se sono  immanenti,  sono  f  recisamente  le  cose  stesse  allo stato  indeterminato,  cioè  astratto.  Infine  citerò  qu'^sfal- tra  obbiezione  della  Phys.  1  IV.  II.  5  :  «  Platone  avrebbe dovuto  dire  com'è  che  le  Idee  e  i  numeri  non  sono  nello spazio,  se  ciò  che  ne  partecipa  è  lo  Spazio  (come  egli afferma)».  L'obbiezione  é  giusta  supponendo  che  il  par- tecipato sia,  secondo  Platone,  neZpartecipante  (l).  Ma  che significato  potrebbe  avere  neir  interpretazione  trascen- dentalista, per  cui  il  partecipato  è  fuoH  del  partecipante  ? Basterebbe  questo  luogo  per  mostrare  che  Aristotile  non si  .rappresenta  costantemente  le  Idee  come  trascendenti, e  che  la  sua  testimonianza  sul  rapporto  tra  le  Idee  e  le cose  è  contradittoria  ed  incerta. D'altronde  lo  stesso  Aristotile  confessa  la  sua  itìcer- tezza.  Cosi  in  Met.  1.  XIII.  IX.  5  dice  :  «  A  tutte  queste cose  (cioè  ai  numeri  e  alle  grandezze)  è  comune  il  dub- bio che  vi  ha  sul  rapporto  del  Genere  con  le  sue  Specie, quando  si  ammettono  gli  universali  ;  cioè  se  1'  animale che  è  in  un  animale  sia  Tanimale  stesso  o  un  altro  di- verso dall'animale  stesso  (vale  a  dire  se  l'attributo   ani- ci) Tattavia,  malgrado  la  giastezza  dell'ossesvazione  d'Aristotile, Platone  paò  affermare  al  tempo  stesso  che  lo  spazio  partecipa  alle Idee  e  che  qneste  non  sono  nello  spazio,  perchè  lo  spazio  riaiiisce nel  sao  sistema  dae  fanzioni  e  dae  concetti  differenti,  qaello  di materiale  a  qaesio  panto  di  vista  lo  spazio  è  rigaardato  come  l'e- stensione para— e  quello  di  luogo.  Lo  spazio  partecipa  alle  Idee  cbihe materia;  ma  le  Idee  non  sono  nello  spazio,  perchè  lo  spazio  è  an-che il  laogo,  e  le  Idee  non  sono  in  un  luogo. -166- malità  che  e  nell^uomo  p  nel  leane  ecc.  sia  l'Idea  del- ranimale— ipotesi  deirimmanenza— o  qualche  cosa  di  di- verso da  quest'Idea —ipotesi  della  trascendenza—).  Non  vi ha  alcuna  ragione  di  dubitare,  se  questo  non  è  separa/o (o  separabile:  xwpioxóv):  ma  se,  come  dicono  quelli  che  am- mettono tali  dottrine,  TUno  e  i  numeri  (idealij  sono  se- parati  (o  separabili),  non  è  facile  di  risolvere  questa  (lui- stione,  se  si  può^dire  che  non  è  facile  ciò  che  è  affatto impossibile.  Quando  si  concepisce  l'uno  nella  diade  oin un  altro  numero  qualunque,  é  l'uno  stesso  che  si  conce- pisce o  un  altro  uno  ?  »  (1).  E  in  Met.  1.  VII.  XIV:  «  Se esistono  realmente  le  Idee,  e  1'  animale  è  nell'  uomo  e nel  cavallo,  deve  ammettersi  che  sia  Dell'uno  e  nell'altro, 0  numericamente  uno  e  lo  stesso  (ipotesi  dell'immanenza), o  diverso  (ipotesi  della  trascendenza).  Dalla  nozione si  vede  che  è  uno;  poiché  esprime  la  stessa  nozione chi  lo  atribuisce  all'uno  e  all' altro.  Ora  se  vi  ha  un uomo  in  sé,  sostanza  e  separato,  è  necessario  che  an- che le  cose  da  cui  risulta,  quali  sono  l'animalo  e  il  bipe- de, siano  sostanze  e  separato  ;  iJicchò  anche  l'animale. .\'  '.^-A ^  ì    i  '.    •  •  1 'Il  '    én      ijfii^i'.. '  l  !' *  .  i    y (1)  Come  si  vede,  iMncertezzi  d* Aristòìile  suV'ry dee  più  generali  ejle  Idee  più  particolari  si  estende  anche,  com'è naturale,  a  quello  tra  i  due  elementi  e  tutte  le  Idee,  poichò  i  duo elementi  non  sono  che  le  Idee  più  generali  di  tutte.  Ciò,  malgrado che  in  altri  luoghi  sembri  indubitabile  ch'egli  ammetta  l'inerenza dei  due  elementi  nelle  Idee  e  nelle  còse  Vv(*^.^^I  e  VtM)M(0  stosso dubbio  sulla  quistione  dell'immanenza  o  trascttiidenza  dei  due  eie menti  è  espresso  in  Met.  1.  XIV.  V.  4  :  (dopo  aver  detto  che  quellj ohe  ammettono  che  i  numeri  e  gli  esseri  in  generale  risultano  da- gli elementi,  non  hanno  determinato  in  qual  modo  il  numero  ri- sulti da  essi,  se  per  la  loro  mescolanza  o  per  la  loro  composizione o  altrimenti)  •*  E  poiché,  quando  una  cosa  risulta  da  altre,  può  ri- saltarne sia  come  da  cose  che  le  ineriscono,  sia  oome  da  cose    che Se  dùnque  questo  è  uno  e  lo  stesilo  iieir  uomo  e  nei cavallo,  della  stessa  maniera  che  tu  sei  uno  e  lo stesso  con  te  stesso,  come  potrà  essere  lo  stesso  in esseri  separati?  e  come  non  sarà  anche  separato  da  F0 stesso  V  (1)  E  se  parteciperà  del  bipede  e  del  multtpede, ne  seguirà  una  cosa  impossibile  ;  poiché  i  contrari  ine- riranno simultaneamente  in  uno  stesso  soggetto.  Se  no (cioè  se  il  Genere  non  partecipa  delle  Differenze),  com'è che  potrà  dirsi  dell'animale  che  è  bipede  o  che  é  pedestre  ? 0  forse  queste  cose  (il  Genere  e  le  Diflerenze)  si  compon* gonc»  e  si  congiungono  o  si  mescolano  ?  ma  tutto  ciò  è  as- surdo (sin  qui  contro  l'ipotesi  dell'immanenza).  Si  ammet- t'^rà  invece  che  l'animale  é  diverso  in  ciascun  animale  par- ticolare? (ipotesi  della  trascendenza).  Mavì  saranno  al. lora  un'infinità  di  esseri,  di  cui  l'essenza  sarà  l'animale... E  di  più  l'animale  in  sé  sarà  molti  (cioè  vi  saranno molti  animali  in  sé),  poiché  l'animale  che  é  in  ciascun animale  particolare  é  sostanza...  Sicché   ciascuno    degli non  le  ineriscono,  in  quale  di  questi  due  modi  il  numero  viene  da- gli elementi  ?  Da  cose  che  ineriscono  non  vengono  se  non  le  cose che  sono  fatte.  Viene  forse  dagli  elementi  come  da  un  germe  ?  ma niente  può  uscire  dall'indivisibile.  O  forse  ne   viene    come   da  un contrario  non   permanente  (cioè   come   una  cosa   viene  dalla  sua contraria,  quando  questa  ha  cessato  di  esistere)  ?  ma  le    cose   ohe risultano  da  altre  a  questo  modo,  risultano  anche  da  qualche  altra cosa  permanente  (cioò  da  una  materia,  che  è    il  sustrato  dei  due contrari)  »,  Aristotile  cerca  una  rappresentazione  (voglio  dire  una imnKtffuie)  di  ciò  che  ò  irrappresentabile.  (Cfr.  Met,  1.  XIII.   IX.   7" quelli  che  ammettono  che  il  numero  viene  dall'uno  e  dalla  plura- lità,  Speusippo— non  hanno  determinato  il  come,  e  vanno  incontro alle  stesse  difficoltà  a  cui  qualli  che  ammettono  che  essio  viene  dal- l'uno e  dalla  dualità  indefinita,  sia  che  si  tratti  di  generazione, sia  di  mescolanza,  ecc.) (1)  Cfr.  Plat.  Parmen.  131  b. —  156  — imimali  ohe  sono  ne^i  animali  particolari  -è  un  «nimale In  sé.  E  questo  donde  verrà,  e  come  potrà  venire  dal- ridea  dell'animale  ?  o  in  che  modo  sarà  possibile  que- st'animale in  sè2 oltre  l'Idea  dell'animale?  Queste  stesse difficoltà  accadono  per  le  cose  sensibili,  ed  anche  WAg- glori  »  Le  ultime  parole  ci  mostrano  che  Aristotile  era altrettanto  incerto  sul  rapporto  tra  le  Idee  e  le  cose  che su  quello  tra  le  Idee  generali  e  le  Idee  particolari  (1). Quest'incertezza  d'Aristotile  sui  concetti  fondamentali del  suo  maestro  sembrerà  strana  :  ma  non  bisogna  di- menticare che  il  sistema  platonico  appartiene  alla  stessa classe  che  quello  al  cui  autore  si  è  attribuito  di  aver detto  che  nessuno  dei  suoi  discepoli  lo  aveva  compreso  (2). (1)  Qaest'inoertezsa  sai  rapporto  fra  le  Idee  generali  e  le  par- ticolari si  vede  an^he  in  Mei.  1.  VII.  XII.  4:  **  Se  non  vi  ha  affatto Genere  oltre  (napoc)  quelle  ohe  sono  come  le  specie  d'an  genere o  vi  ha,  ma  come  materia  di  esse,  è  chiaro  ohe  la  definizione  è  la nozione  che  risalta  dalle  differenze  „.  Qai  si  fanno  due  ipotesi,  d* coi  la  prima  è  che  non  vi  siano  assolatamente  Idee  dei  generi,  e la  seconda  che  queste  Idee  siano  immanenti  nelle  Idee  delle  specie, Aristotile  ammette  perciò  tanto  la  possibilità  dell'immanenza  quanto quella  della  trascendenza. (2)  Non  è  per  altro  necessario  a  un  metafisico  di  essere  un  He* gel  o  un  Platone  o  uno  Spinoza  per  essere  non  compreso  o  frain- teso da  quegli  stessi  che  sembrano  nelle  condizioni  più  favorevoli per  intenderlo  perfettamente.  È  una  sventura  che  può  accadere anche  ai  metafisici  meno  lontani  dal  senso  comune,  e  che  è  infatti accaduta  ai  filosofi  stessi  della  scuola  del  senso  comune.  La  dot- trina fondamentale  di  Reid,  che  nella  percezione  noi  abbiamo  una conoscenza  intuitiva  degli  oggetti  esteriori  (cioè  una  conoscenza in  cui  è  presente  l'oggetto  stesso,  e  non  una  sua  immagine  men- tale) è  stata  intesa  al  rovescio  da  un  altro  dei  più  illustri  filosofi della  scuola  scozzese,  cioè  da  Brown,  il  quale  attribuiva  invece  a Reid  la  dottrina  ordinaria  che  nella  percezione  noi  abbiamo  della Del  resto  le  ragioni  dell*  incertezza  d'Aristotile  sonò  ab- bastanza ovvie.  Egli  vede  da  una  parte  che  delle  entità come  le  Idee,  platoniche  non  potrebbero  concepirsi  che separate  dalle  cose,  e  che  l'ipotesi  deirimmanenza  è  una impossibilitrà  logica  e  una  contraddizione  ;  ma  vede  an- che dall'altra  porte  gli  sforzi,  benché  vani,  di  Platone per  collocare  le  Idee  nelle  cofe,  identificandole  coi  loro attributi.  Per  risolvere  i  dubbi  di  Aristotile  sarebbe  bi- sognato un'  esame  sufficiente  sui  motivi  e  lo  scopo  del sistema  delle  Idee  e  le  condizioni  indispensabili  per  rea- lizzare questo  scopo  :  ma  un  tale  esame  avrebbe  sup- posto un  grado  di  riflessione  psicologica,  che  sarebbe vano  di  attendersi,  anche  da  un  Aristotile,  in  un'epoca in  cui  lo  spirito  òomincia  appena  a  prendere  se  stesso per  oggetto. realtà  esteriore  una  semplice  rappresentazione.  Vi  ha  qualche  ana- logia tra  il  caso  di  Brown  e  quello  di  Aristotile,  perchè  Brown, oltre  d'essere  un  discepolo  della  scuola  stessa  di  cui  Reid  fu  il  capo era  in  relazioni  personali  intime  con  Stewart,  il  propagatore  delle dottrine  di  Reid  (Stuart-Mill  crede  che  l'interpretazione  di  Brown sia  la  vera,  e  sostiene  contro  Hamilton  che  la  percezione  per  Reid non  è  immediata  :  ma  i  luoghi  di  Reid  che  egli  cita  per  dimostrare il  suo  assunto-^v.  FU.  di  Hamilton  e,  X— mostrano  solamente  che secondo  Reid  la  concezione  dell'oggetto  esteriore,  nella  percezione è  suggerita  dalla  sensazione,  che  è  il  segno  naturale  della  presenza dell'oggetto  percepito.  Senza  dubbio,  se  chiamando  la  percezione immediata,  si  vuel  dire  ch'essa  è  un  atto  dello  spirito  che  non  è preceduto  e  occasionato  da  un  altro,  la  percezione  per  Reid  non è  immediata.  Ma  la  quistione  non  era  se  sia  o  no  immediata  in questo  sensOy  ma  se  per  Reid  sia  immediatamente  presente  nello spirito  che  percepisce  lo  stesso  oggetto  percepito,  o  solamente  la rappresentazione  di  quest'  oggetto,  come  ammettono  la  più  parte degli  altri  filosofi.  £  su  questo  punto  che  Hamilton  Aveva  rimpro- verato con  ragione  a  Brown  di  aver  fraiuteso  Reid). IL  PITAGORISMO  PLATONICO •d. t Alcune  dottrine  di  Platone,  per  cui  Ik  nostra  srirg^oìite' unica  o  principale  è  negli  scritti  di -Aristotile,  sam'.bbei'o inesplicabili  al  semplice  puntò  dì  Vi^tà  defila  teoria  delle Idee,  quantunque  mescoUce  e  fuse  con  le  propos'zìoni di  quelita  teoria;  e  noi  non  po«»siamo  spie«j^arlo,  cbe  per un  sincretismo  dei  concetti  propri  dì  Platone  con  quelli del  pita*^orismo.  Queste  dottrine  sono  assolutamente  prive di  qualsiagii  valore  filosofico,  ei  sarebbe  impossibile  di  as- segnare ad  esse  Porigino  da  cui  derivano  generalmente i  concetti  metafisici,  vale  a  dire  di  dedurle  d»«lle  illu- sioni naturali  o  sofismi  a  priori  del  nostro  spirito.  In- vece o^se  appariscono  ii  risultato  di  sneculazìoni  arbi- Ir-afie  .e  di  sofismi,  puramente  artificiali;  e,  sotto  questo rapporto,  escono  dall'arg-omento  di  questo  scritto,  che  è dt  mostrare,  hei  sistemi  che  ci  p-esenta  la  storia  della filosofia,  lo  sviluppo  della  metafisica  naturale  dello  spi- rito umano.  Tuttavia  è  per  noi  indispensabile  di  occu- parci anche  di  queste  dottrine  :  senza  di  ciò,  la  nostra in1;erpretazione  del  sistema  platonico  lascerebbe  dei  punti oscuri,  che  è  necessario  di  chiarire,  perchè  potrebbero  ri- torcersi contro  di  essa. Premettiamo  alcuni  cenni  sulla  filosofia  pitagorica.  Le dottrine  principali  e  più  caratteristiche  dei  Pitagorici consistano  in  queste  due  proposizioni  :  la  prima  che  le rose  sono  fatte  ad  imitazione  dei  numeri  (1)  e  sono  esse stesse  numeri  (2)  ;  la  seconda  che  tutto  consta  di  due elementi  contrari,  che  sene  delle  astrazioni  riguardate come  entità  sussistenti  per  se  stesse,  cioè  il  Limite  (tis- pag,  Tcspatvov)  o  Limitato  (TisTrspaaiiévov)  ^  che  era  idenfi- cato  con  1'  loipari,  e  rillimitato  (ineipov),  ehe  era  iden- tificato col  Pari  (3).  ^  ' Sull-a  .dottrina  che  le  cose  souo  numeri  Hegel  dice; <f  Ammiriamo  quest'arditezza  a  distruggere  d*  un  colpo tutto  il  mondo  sensibil»^,  e  a  considerare  il  pens'ero  com^^ l'essenza  dell'universo.  »  Per  m^,  io  devo  confesf^are  che non  posso  ammirare  altra  cosa  che  la  grandezza  di quelito  non  senso;  in  quanto  al  pensiero  essenza  deiru- niverso,  è  uno  di  quei  concetti  che  Hegel  presta  gratui- tamente agli  altri  filosofi,  per  fare  entrare  i  loro  siatemi nel  quadro  artificiale,  in  cui  egli  presenta  la  storia  della filosofia.  Su'le  dottrine  dei  Pitagorici  devo  ripetere  l'os- servazione fatta  sulle  dottrine  pitagoreggianti  di  Platone cioè  che  io  non  credo  che  es-^e  possano  essere  derivate dai  sofismi  naturali  del  nostro  spirito.  Io  non  vedo  cha un  mezzo  per  comprendere  in  qualche  modo  la  possibi- lità di  dottrine  come  quelle  della  filosofia  pitagoiica:  è di  ammette: e  nella  formazione  di  queste  dottrine^  rn/ione di    un    processo    simile    a  quello  a  cui    si  attrib»ii^ce  la (1)  Aristotile  Mt't,  1.  1.  VI.  2,  Aristr.ssene  ap.  Stob.  I  XVI,  ecc. (2)  Ari>;t.  Mei.  1.  I.  V,  I.  I.  VI  4,  L  Xlìl,  VI.  7,   Vili.  9-io,  I.  XIV. IH.  2-4,  ecc;  PI  ut.  l*lar.  1.  1.  IH.  14-24.  ecc. i'i)  Arist.  Met,  1.  I.  V té formazione  dei  miti,  ò  almeno  di  lina  gran  parte  di  essi, cioè  r  interpretazione  in  un  senso  strettamente  realista di  proposizioni  che  all'origine  non  avevano  che  un  senso figurato.  Le  dottrine  religiose  potrebbero  fornirci  parecchi esempi  di  credenze  che  hanno  avuto  evidentemente  que- st'origine; e  certo  le  condizioni  del  miluogo  in  cui  si  formò la  filosofia  pitagorica  si  prestavano  facilmente  all'azione di  un  tale  processo.  Questo,  oltre  che  dal  legame  tra  i discepoli  di  questa  filosofia,  che  erano  i  membri  della  so- cietà pitagorica,  e  il  carattere  semi-religioso  di  questa Focietà,  e  dall'ossequio  illimitato,  che  ne  seguiva,  all'au- torità del  fondatore  —  personaggio  a  metà  mitologico,  ch« i  proseliti  riguardavano  come  un  semidio  —,  era  favorito anche  dalla  circostanza  che  la  dottrina  non  si  tramandava che  oralmente.  (1)  Noi  possiamo  dunque  supporre  che  Pi- tagora si  era  limitato  ad  ammettere  l'esistenza  di  grandi analogie  tra  le  cose  i  numeri,  concetto  oscuro  e  non  su- scettibile di  un  significato  preciso,  ma  che  non  era  un  non senso  cosi  evidente  come  la  proposizione  che  le  cose  sodo numeri;  e  che  questa  proposizione  non  era  per  lui  che  un'e- spressione iperbolica  per  denotare  d'una  maniera  energica e  concisa  queste  pretese  analogie  delle  cose  coi  numeri, non  che  il  concetto  più  giusto,  che  le  ricerche  scientifiche della  scuola  ci  danno  il  dritto  di  attribuirgli,  della  pre- senza in  tutti  i  fenomeni  di  rapporti  numerici  regolari, e  dell'  importanza  di  questi  rapporti  per  determinare  la (i)  Fìlolao  fu  il  primo  che  mise  in  iscritto  la  dottrina  pitagorica  (un lecolo  e  forse  più  dopo  la  fondazione  della  scuola)  V.  Zeller  p.  260-261 e  P.  309. natura  delle  cose.  Ma  in  seguito,  per  un  effetto  della tendenza  naturale  a  prendere  in  uu  senso  strettamente proprio  le  proposizioni  ricevute  da  un'autorità  in  cui  si ha  una  ft-de  cieca,  si  venne  insensibilmente  nella  scuola a  dare  alla  proposizione  il  suo  significato  letterale  di  u- n'identità  assoluta  tra  i  numeri  e  le  cose  (i);  quantunque a  lato  di  questa  dottrina,  per  una  di  quelle  incoerenze, di  cui  i  s  stemi  tradizionalisti,  com'era  eminentemente  il  pi- tagorica, ci  presentano  frequenti  esempi,  coesistesse  pure r  altra,  più  conforme  al  pensiero  del  fondatore  della scuola,  che  le  cose  sono  fatte  ad  imitazione  dei  numeri.  (2) (1)  Questa  spiegazione  deve  applicarsi  naturalmente,  non  solo  alla formula  generale  che  tutto  è  numero,  ma  anche  alle  proposizioni  parti- colari che  facevano  l'applicazione  di  questa  formula.  P.  e.  le  proposizioni «  il  numero  due  è  l'opinione  »,  «  il  numero  quattro  è  la  giustizia  »,  all'o- rigine non  significavano,  come  vennero  intese  in  seguito,  l'identità  asso- luta del  numejo  due  con  Topinione  e  del  numero  quattro  con  la  giustizia, ma  volevano  dire  semplicemente  :  il  numero  due  rappresenta  o  simlx>- leggia  l'opinione,  e  il  numero  quattro  la  giustizia;  vale  a  dire  affermavano soltanto  l'esistenza  di  un'analogia  tra  questi  numeri  e  queste  cose. (2)  Aristotile  dà  pure  per  motivo  alla  dottrina  dei  Pitagorici  2e  ana- logie ch'essi  credevano  di  vedere  tra  le  cose  e  i  numeri  (v.  Met,  1.  I.  V.  2) e  i  rapporti  numerici  regolari  che  osservavano  nei  fenomeni  (^Met,  1.  XIV. III.  J.)  Tuttavia  (nel  primo  di  questi  due  luoghi)  egli  parla  anche  di  un altro  motivo,  cioè  che  i  numeri  sono  i  primi  di  tutti  gli  esseri,  sembrando attribuire  questo  concetto  ai  Pitagorici  stessi.  Ma  verisimilmente,  cosi  fa- cendo, egli  presta  al  pitagorismo  genuino  un  concetto  che  non  appartiene che  al  pitagorismo  di  Platone  e  dei  Platonici:  infatti,  che  i  numeri  siano primi  degli  esseri,  è  evidentemente  una  conseguenza  del  principio  pla- tonico che   una   cosa,  cioè  un'  entità,  è  anteriore  ad  un'  altra,    quando, soppressa  la  prima,  si  sopprime  anche  la  seconda  :  ora  non  vi  ha  alcuna  ra- gione per  attribuire  questo  principio  ai  Pitagorici. I   Pitagorici  non  dicevano  solamente  che  iuiio  e  numero^  ma  ancora I  numeri  dei  Pitagorici  sono  evidentemente  delle  astra- zioni realzzat  '.  Tuttavia  non  lo  sono  d*  una  maniera cosi  assoluta  come  p.  e.  le  Idee  di  Platone  o  quelle  di  11**- gel.  In  effetto  la  preposizione  che  le  cose  sono  num-^ri  può considerassi  a  duo  punti  di  vista  opposti  :  in  quanto  ri- guarda come  cose  reali  delle  semplici  astrazioni  quali sono  i  numeri,  questa  proposizione  è  una  realizzazione dì  astrazioni;  in  quanto  non  accorda  ai  numeri  un'esi- stenza distinta  da  quella  delle  cose,  e  non  pone  per  con- segueuza  altro  di  reale  che  le  cos^  stesse,  cioè  gli  og- getti concreti,  essa  non  lo  ò.  In  una  parola,  questi  nu- meri—cose dei  Pitagorici  sono  al  tempo  stesso  astratti  e concreti  —  questa  contraddiziooe  è  uno  degli  aspetti  iu cui  si  manifesta  la  contraddizione  originaria  contenuta nel  loro  concetto—  :  coni»,  numeri,  sono  astrati;  come cose,  sono  concreti. Ma  là  dove  il  regalismo  dei  Pitagorici  si  mostra  seu- z'alcuna  ambiguità,  ò  nella  dottrina  dei  due  elementi. Il  Limitato  e  rillimitato,  come  osserva  più  volte  Ari- stotile (I),  non  designano  delle  sostanze  (p.  e.  aria,  ac- t  ' che  tutto  e  armonia  (Arist.  Mei.  1.  I.  V.  2);  e  in  questa  proposizione  la parola  armonia  aveva  un  significato  musicale,  e  designava  l'ottava  (vedi Zeller  329)  All'  origine  di  questa  seconda  proposizione  può  applicarsi  la stessa  spiegazione  che  abbiamo  proposto  per  la  prima;  vale  a  dire  il  fon- datore della  dottrina,  dicendo  che  tutto  è  armonia,  intendeva  solamente alfermare  l'esistenza  di  analogie  proionde  tra  la  costituzione  delle  cose  e i  rapporti  dei  suoni  musicali;  l'identificazione  assoluta  tra  le  cose  e  1'  ar- monia non  avvenne  cbe  in  seguito,  per  un  etf'etto  della  tendenza  segna- 'làta  nel  testo,  a  prendere  in  un  senso  strettamente  letterale  le  proposi- zioni venute  da  un'autorità  ciecamente  rispettata. (1)  Met,  1.  I.  V.  13,  Phys,  1.  III.  IV.  2,  V.  1-4. qua  o  fuoco),  a*  cui*  questi  termini  vengono  attribuiti come  predicati,  ma  sono  gli  stessi  attributi  limitato  e  il- limitato che  vengono  riguardati  come  sostanze.  La  stessa osservazione  vale  per  l'Impari  e  il  Pari  :  questi  termini non  designavano  i  numeri  impari  e  i  numeri  pari,  ma delle  entità  corrispondenti  ai  concetti  astratti  dell'impari e  del  pari;  erano,  come  il  Limitato  e  V  Illimitato,  non degli  attributi,  ma  dei  soggetti.  Per  questa  sostantifica- zione  di  semplici  astrazioni,  la  filosofia  dei  Pitagorici  ha una  certa  aria  di  somiglianza  con  quella  di  Platone.  Vi ha  però  una  differenza  essenziale  tra  il  realismo  di  Pla- tone e  quel'o  dei  Pitagorici.  In  Platone,  come  In  Spi- noza o  in  Hegel,  il  realismo  deriva  dai  sofismi  a.  priori dello  spirito  umano,  ed  è  destinato,  con  la  dialettica  che ne  è  il  complemento  indispensabile,  a  dare  una  soluzione ai  problema  delle  cause  .efficienti.  Invece  nel  isisitema pitéigorico— come  in  altri  sistemi  che  si  sono  formati  in condizioni  analogh<e,  vale  a  dire  che  sono  1'  opera,  non del  lilkero  esame  individuale,  ma  della  tradizione  e  di  un dommatismo  cieco,  per  esempio  nella  filosofia  degP  In- diani o  nella  scolastica— il  realismo  è  senz'alcuna  utilità per  la  spiegaeione  dei  fenomeni;  e  la  migliore  ipotesi  0he si  possa  fare  per  rendersene  conto  è,  io  credo,  di^rioor- rere  a  un  processo  simile  a  quello  a  cui  abbiamo  attri- buito la  dottrina  che  le  cose  sono  numeri,  cioè  di  am- mettere che  la  realizzazione  delle  astrazioni  ^iw/a^o,  27- '  limitato^  impari^  pari  sia  stata  lettetto  di  malintesi  sul significato  di  formule  antiche,  ricevute  con,  uik^.  spirito ciecamente  autoritario,  e,  come  avviene  in  tal  caso,  in- tese d'una  maniera  troppo  rigidamente  letterale  (1). ?  -j 1   1 (1)  Cfr.  cap.  VU.  §  i. o>; ^    ij:    L    ^ «160-. ÀiTa  dottrhnr  dei  àné  eleménti  era  legata  quella  deHe dieci  oppos'^zioni,  che  però  non  era  ammessa  che  da una  parte  delia  scuola.  Queste  opposizioni  erano  :  il  li- mite  0  limitalo  e  Tillimitato,  Timpari  e  il  pari,  Tuno  e  il multipk),  il  destro  e  il  sinistro,  il  mascolino  e  il  femmi- nino, il  riposo  e  il  movimento,  il  retto  e  il  curvo,  la  luce e  Toscurità,  il  bene  e  il  male,  il  quadrato  e  il  rettan- golo. Queste  d'eci  coppie  di  opposti  erano  riguardate dai  Pitagorici  come  t  principii  degli  esseri  (1).  Aristo- tile osserva  eh'  essi  non  determinavano  chiaramente  a quale  delle  quattro  cause  —  materia,  forma,  causa  effi- ciente,  causa  finale  —  questi  principii  dovessero  ricon- dursi (2)  :  ma  risuk»  dai  frammenti  di  Filolao  (3)  che  li riguardavano  come  elementi  costitutivi  del  reale.  Evi- dentemente, il  concetto  racchiuso  nella  tavola  dt^lle  dieci opposizioni  è  la  coesistenza  da  per  tutto  di  cose  o  di  de- terminazioni contrarie  :  ma  que-sto  concetto  è  rivestito d'una  forma  assolutamente  arbitraria  Perchè  fra  tutte le  opposizioni  delle  cose  si  scelgono  queste  dieci,  e  si elevano  al  grado  di  principii  ed  eU  menti  degli  esseri  ? Forse  questa  dottrina  è  anch'  essa,  come  la  più  parte delle  altre  proposizioni  metafisiche  dei  Pitagorici,  Talte- razione  d'una  dottrina  primitiva  più  ragionevole,  e  nel pensiero  del  primo  autore  della  proposizione,  ch«  è  poi divenuta  la  dottrina  delle  dieci  opposizioni  quale  noi  la conosciamo,  qu  ste  oppos'zioni  determinate  non  erano che  degli  esempi  particolari  del  principio  generalo  della coesistenza  universale  degli  opposti.    In   ciascuna   delii) dieci  opposiaioni,  l'uno  dei  membri  era  ricondotto  al  Li- mitato e  Taltro  airilliniitato  (I).  Speiso,  in  effetto,  l'uno dei  due  concetti  opposti— 1' uno,  il  bene,  il  riposo,  il retto,  il  quadrato  —  rappresenta  qualche  cosa  di  definito, l'oggetto  corrispondente  al  concetto  non  potendo  essere che  in  un  sol  modr;  e  l'altro  — il  multiplo,  il  male,  il movimento,  il  curvo,  il  lettangolo  —  qualche  cosa  d'in- definito, l'oggetto  corrispondente  al  concetto  potendo  es- sere in  un'infinità  di  modi  (2).  Questa  riflessione  però  non potrebbe  applicarsi  a  tutte  le  opposizioni;  e  nella  ridu- zione di  queste  alla  opposiz  one  fondamentale  del  Limi- tato e  deirillimitato,  i  Pitagorici  sono  inoltre  guidati  dal concetto  che  il  perfetto  deve  mettersi  dalla  parte  del  Limi- tato (0  Finito),  e  l'imperfetto  dalla  parte  dell'Illimitato  (per r  analogia  che  vi  ha  tra  V  idea  di  perfetto  e  quella  di (1)  Met.  1.  I,  V.  6,  8, (2)  Mai.  1.  I-  V.  8. 0}  Ap.  Stob,  I.  458,  I.  456. (1)  V.  Arirft.  Eth,  Nk.  1.  II.  VI.  14  (il  male  è,  secondo  i  Pitago- rici, deirillimitato,  il  bene  del  limitato.  Cfr.  Kth.  Nic.  l.  I.  VI.  7 e  Met.  1.  XIV.  VI.  7,  in  cui  l'una  delle  due  serie  degli  opposti,  quella in  cui  è  compreso  l'uno,  l'impari,  il  retto,  è  chiamata  la  serie  dei beni  e  la  serie  del  bello)  ;  Eudemo  ap.  Simpl.  Ph^/s,  98  b  (i  Pita- gorici e  Platone  portano  nel  movimento  i'  infinito^;  Aless.  Afrod. in  Met.  I.  V.  t.  32,  Plutarco  Quaest.  rom.  102,  ecc.  (per  i  Pitagorici l'impari  è  mascolino,  il  pari  femminino);  Eudoro  ap.  Simj)!.  I*/iys 39  a  (i  Pitagorici  chiamano  l'uno  dei  due  elementi  impari,  masco- lino, destro,  luce,  l'altro  pari,  femminino,  sinistro,  oscurità);  eco. Filolao  (nei  Fr.  ap.  Stob.  I.   456  e  I.  458)  parla,  come  di  elementi costitutivi  delle  cose,  di /imt/afi  (cioè, propriamente  l imita nti.^TlBp OLÌ  - vovia— )  ed  ilUìììitatif  al  plurale:  è  ciò  che  egli  non  farebbe,  se  oltre  al Limitato  e  all'Illimitato  unico  non  ammettesse  molte  forme  di  li- ndtato  e  d'illimitato. (2)  Aristotile  (Kth.  Nie,  l.  II.  VI.  14)  dice  :  si  può  essere  cattivi in  mille  forme,  ma  non  si  può  essere  buoni  che  in  un  sol  modo;  e appoggia  questa  proi>osizione  sull'autorità  dei  Pitagorici,  che  pone- vano il  bone  nella  classe  del  finito  e  il  male  in  quella  dell'infinito. .-  (  r  ' -  161  - finito).  Infatti  la  nerie  del  Limitato   è  chiamata  la  serie (ouoToix^a)  del    bene  e  d<  1  btllo  (1). Un'altra  proposiz'one  iir  portante  dei  Pitagorici,  sia  per il  loro  stesso  sistema,  hia  per  l'intelligenza  dei  rapporti di  esso  con  quello  di  Plhtui«e,  è  che  i  numeri  vengono dall'Uno  (2).  Questa  preposizione  è  troppo  naturale,  per- chè occorrano  delle  spiegazioni:  solo  bisogna  avvertire che  Aristotile  applica  all'Uno  (3)  la  stessa  osservazione ch'egli  fa  sul  Limitato  e  T  Illimitato,  vale  a  dire  che rUno  non  significa  per  i  Pitagorici  una  sostanza  che  ha per  attributo  l'unità^  ma  è  lo  stesso  attributo  unità  q\ìq è  riguardato  da  essi  come  una  sostanza.  Questa  sostan- tificazione  dell'uno  è  ur a  conseguenza  naturale  della  so- stantifìcazif  ne  dei  nurreri  :  ma  nel!'  uno  il  carattere  di ast* azione  realizzata  appurisce  piùnetto  che  nei  numeri. In  questi  è,  come  notammo,  alquanto  incerto,  perchè essi  vengono  id<  nt'ficati  con  le  cose  stesse  :  ma  V  uno, come  prinrip'o  ed  elemento  dei  numeri,  non  può  iden- tificarsi con  ah  una  cosa  part'colare  (4). 0)  Arist.  Eth,  yic.  1. 1.  VI.  7,  1.  XIV,  VI.  7.  Cfr.  Eth,  Nic.  l.  IL' yi.  14. (2)  Arist.  Mi't.  1.  I.  V.  6,  1.   XIII.  VI.  4-6,  9. (3)  Mot,  i.  I.  V.  13, 1.  J.  VI.  4,  l.  III.  1. 12, 1.  HI.  IV.  21-22. 1.  X.  U.  1. (4)  I  Pitagori,  è  vero,  assegnano  l'ano  all'intelligenza,  air  anima, ecc.:  ma  il  concetto  dell'ano  ha  per  loro  evidentemente  pii  esten- sione che  le  cose  particolari  ch'essi  riconducono  a  questo  numero, e  non  è  in  quanto  principio  ed  elemento  dei  numeri  ohe  l'uno viene  identificato  con  queste  cose.  Come  nota  giustamente  il  Zel- ler  (pag.  353),  un  concetto  generalo,  nella  filosofia  dei  Pitagorici, riceve  in  un  caso  particolare  una  determinazione  speciale,  senza ohe  perciò  questa  determinazione  appartenga  al  concetto  generale essenzialmente  o  in  tutti  i  oasi. Questa  realizzazione  di  astrazioni  è  il  punto  di  con- tatto più  notevole  tra  il  sistema  dei  Pitagorici  e  quello di  Platone.  Ma  si  deve  anche  notare  un'altra  analogia. I  principii  degli  altri  filosofi  anteriori  a  Platone  sono  gli elem«  nti  materiali  di  cui  le  cose  sono  fatte  —  Pacqua, l'aria,  il  fuoco,  i  quattro  eh  menti  di  Empedocle,  gli atomi  di  Democrito,  ecc.  —  o  le  forze  motrici  generali della  natura  —  il  Nous  d'Anassagora,  TAmore  e  1'  Odio di  Emf  edocle,  ecc  — :  questa  o.«servazione  si  applica  an- che agli  Eleatì,  perchè  l'Uno  o  Essere  di  questi  filosofi non  è  che  la  materia  universale  delle  cose,  con  questa differenza  che  le  formo  diverse,  rivestite  da  questa  ma- t<»ria,  sono  dichiarate  delle  semplici  apparenze.  I  prin- cipii  di  Platone  invece  sono  le  essenze  delle  cose,  i  loro concetti  generici  e  specifici  (cioè  gli  oggetti  corrispon- denti a  questi  concetti).  Ora  i  numeri  pitagorici  corri- spondono anch'essi  ai  concetti  generali  delle  cose,  e  rap- presentano le  loro  essenze.  I  Pitagorici  dicono  :  la  giu- stizia è  il  numero  quattro,  il  matrimonio  è  il  numero cinque,  Topportunità  é  il  numero  sette,  V  opinione  è  il numero  due  (1),  ecc  ;  un  tal  numero  è  quello  dell'uomo, un  tal  altro  quello  del  cavallo  (2),  ecc.  Aristotile,  è  vero, liconduce  i  numeri  dei  Pitagorici  tanto  al  principio  es- senziale (3)  quanto  al  principio  materiale  (4)  :  ma  ciò vuol  dire  semplicemente  che,  a  differenza  dei  numeri ideali  di  Platone,  che  rappresentano  le  sole  forme  delle (1)  Arist.  Met.  L  J.  V.  2, 1. 1.  Vili.  7, 1.  XIII.  IV.3,  e  Aless.  Afrod. in  Met.  ì.  t.  32. (2)  Arist  Met.  1.  XIV.  V.  6,  Teofrasto  Mei    11. (3)  Met,  1.  1.  V.  13,  1.  I.  VJ.  4,  ecc. (4)  Met,  1.  I.  V.  6. -  162  - cose,  i  numeri  pitagorici  rappresentano  le  cose  stesse,  in entrambe  le  parli  che  cr stitu'scono  il  loro  concetto,  cioè, per  esprimerci  nel  linguaggio  di  Platone  e  d'Aristotile, il  composto  della  forma  e  della  maleria. L'ultima  forma  della  filosofìa  platonica  risulta  da  una fusione  dei  concetti  propri  del  sistema  delle  Idee  coi  con- cetti fondamentali  del  pitagorismo,  di  cui  abbiamo  par- lato. Le  dottrine  p^r  cui  questa  seconda  forma  del  si- stema differisce  dalla  prima,  sono  conosciute  col  nome di  «Ypa^a  SÓYfiaxa  (dottrine  non  scritte),  perchè,  quan- tunque alcune  si  trovino  già  nel  Timeo,  nel  loro  insieme non  sono  state  esposte  da  Platone  che  oralmente,  nelle sue  conf^rf  nze  sul  Bene.  Queste  dottrine  si  riducono  ai punti  seguenti  : 1"  Le  Idee,  e  per  conseguenza  le  cose,  sono  numeri. 2<^Le  Idee  e  le  cose  constano  di  due  elementi,  corrispon- denti al  Limite  e  Illimitato  dei  Pitagorici. ò^  Le  Idee  rappresentano  la  sola  forma  delle  cose. Cosi.  p(r  costituire  U  c(se,  concorre  con  le  Idee  un  al- tro fattore,  la  materia:  questa  è  identica  allo  spazio. 4'»  Le  entità  matematiche,  ci^ò  i  numeri  che  sono  Too-- getto  delTaritmetica  e  le  grandezze  geometriche,  quan- tunque s^ano,  come  le  Idee,  drgli  universali  realizzati, 81  distinguono  nondimeno  dalle  Idee  propriamente  dette, e  costituiscono  un  t**rzo  genere  di  esseri,  differenti  al tempo  stesso  dalle  Idee  e  dalle  cose,  e  intermediari  fra le  une  e  le  altre. Noi  esamineremo  successvamcnte  queste  quattro  dot- trine. I.  I  niitnrri  ideali La  proposiziono  che  le  Lire,   e  quindi  le  cose,  sono numeri  (1)    non  ha  alcun    legame   nntu-ale  col    sistema delle  Idee  — es^a  non  p  tnbbe  dcdursi  né  dalla   realiz- z«izione  degli  universali  né  dalla  dialetcica,  i  due  punti  a cui  il  sistema  ^i  riduce—;  ed  ò  d'altronde  evidente  che  Pla- tone non  sarebbe  arrivato  a  questa  dottrina  senza  l'in- flueaza  della  filosofia  pitagorica.  La  teoria  delle  Idee  — numeri  ci  apparisce  dunque  chiaramente   come  il  risul- tato di  un    sincretismo  tra  la  teoria  propriamente   pla- tonica  delle    Idee  e  quella    pitagorica    dei  numeri.  Ciò è  confermato   dalla   testimonianza   d'  Aristotile.    Questi comincia  V  esposizione    doli  i   filosofìa   platonica,    osser- vando   che   in    molte  cose  Platone  ni    un    seguace    dei Pitagorici,  ma  ne  ebbo  anche  alcune  che  gli  furono  pro- prie; e  poi,  facendo  la  dis-inzione  tra  ciò  che  è  proprio a  Platone  e  ciò  ch'egli  deve  ai  Pitagorici,  la  parte  che gli  attribuisce  come  propria  nella  dottrina  dei  numeri  è l'aver  posto  questi  al  di  là  delle  cose  (Trapàxà  ataeyjxa), mentre  i  numeri  pitagorici  erano  le  cose  stesse  (2).  Que- sta  differenza    significa    che  per   i  Pitagorici   i  numeri s'identificano   immediatamente  con  le  cose    particolari, per  Platone  invece  sono  delle  entità  universali,  che  non s'identificano  immediatamente  che  con  le  Idee,  e  con  le cose  solo  mediatamente,  in  quanto  l'essenza    dì  queste consiste  nelle  Idee. Aristotile  ci  attesta  inoltre  ch3  nella  forma  primitiva del  sistema  platonico  la  dottrina  delle  Idee  non  era  le- gata a  quella  dei  numeri,  e  che  la  identificazione  delle (1)  V.  per  questa  dottrina  Arist.  Mei.  1.  I.  VI,  l.  I.  VIU.  I7-I8,  1.  I. IX.  I3  sqq.  1.  XIII.  VI-IX,  «ce. (2)  Met.  1.  I.  VI.  4. —  163  ^ Idee  coi  numeri  avvenne  in  un  perfodo  posteriore.  (1)  Ciò risulta  anche,  indipendentemente  dalla  tfstimrnianza  di Aristotile,  dair  esame  delle  Fcritlure  platonkhe.  Se  hi eccettui  1'  Epinomide  (che  del  resto  è  di  un'  autenticità incerta)  e  il  Timeo,  nel  quale  la  costiuzione  dei  corpi per  le  superficie  (2)  suppone  certamente  la  dottrina  che il  reale  consiste  rei  nume/i,  non  vi  ha  negli  scritti  pla- tonici alcuna  traccia  di  questa  de  ttrina.  Vi  hanno  anzi dei  luoghi,  in  vari  dialoghi,  che  escludono  l'identità  tra le  Idee  e  i  numeri.  In  tutti  i  casi  in  cui  è  quistione  di numeri  come  entità  (tranne  néW Epinomide),  come  nella Repuhlica  522-526,  nel  Fedone  101  e  104-105,  nel  FlUhy 56-57,  nel  Parmenide  143-144,  Platone  non  intende  per  essi che  le  determinazioni  particolari  che  costituiscono  l'oggetto dell'aritmetica,  e  non  la  sostanza  stessa  delle  cose,  com'e- gli farebbe  se  ammettesse  già  la  teoria  delle  Idee  —  nu- meri. Aggiungiamo  che  in  parecchi  dei  luoghi  indicati  b. attribuita  ai  numeri  la  comhinabilUà,  cioè  si  fanno  con- stare tutti  da  unità  della  stessa  natura  (3),  mentre,  conio diremo  in  seguito,  il  carattere  dei  numeri  —  Idee  —  vale a  dire  dei  numeri  con  cui  tutte  le  Idee  sono  identifi- cate—è V incombinabilità,  cioè  la  composizione  di  ciascun numero  da  unità  che  non  sono  della  stessa  natura  che quelle  di  un  altro.  Né  potrebbe  dirsi  che  i  numeri  di cui  è  quistione  in  questi  luoghi  sono  quelli  che  nell'e- sposizione  aristotelica  vengono  distinti  dai  numeri— Idee col  nome  di  numeri  matematici,  e  dati  come  interme- diari fra  essi  e  i  sensìbili  ;  e  che  l'  autore,  oltre  questi numeri,   potrebbe  anche  ammftt^re   un  altro  genere  di numeri  (gì'  ideali),  rappresentanti,  non  H  semplici  de terminazioni  aritmetiche*,  ma  l'essenzi  stns^a  delle  cos^: è  evidente  infatti  che  egli  lìon  conosce  altri  numeriche quelli  di  cui  parla.  Ciò  rinulta  anzitutto  da  l'impiago  in tutti  questi  luoghi  del  nome  numero  e  di  q  lelli  che  de- signano i  diversi  numeri,  come  esprimenti,  il  primo  la specie  in  generale,  i  secon  li  la  specie  riguardata  come entità  individuale  alla  maniera  di  Platone.  Se  l'autore ammettesse  già  due  numeri,  l'ideale  e  il  matematico,  l'e- spressiono  generica  il  numero  non  potrebbe  significare per  lui  il  solo  numero  matematico;  impiegata  per  deno- tare una  sola  delle  due  specie  del  numero,  essa  designe-rebbe piuttosto  l'ideale,  perchè  i  numeri  ideali  erano  ri- guardati come  r  essenza  tanto  dei  numeri  matematici quanto  dei  sensibili,  e  il  nome  secondo  Platone  é  pro- prio dell'essenza  :  similmente  l'Unità,  la  Diade  o  la  Triade non  potrebbero  significare  che  l'Unità,  la  Diade  e  la Triade  ideali,  tanto  per  la  stessa  ragione,  quanto  perchè dei  numeri  matematici  —  dopo  la  loro  distinzione  dagli ideali  —  ve  ne  erano  molti  della  stessa  specie  (si  ammet- tevano molte  unità,  diadi,  triadi,  ecc.  matematiche)  (1). Di  più  :  nei  luoghi  del  Fedone  i  numeri  di  cui  vi  si parla  sono  chiamati  Idee,  e  posti  alio  stesso  rango  delle altre  Idee  — mentre  s^  l'autore  ammettesse  inoltre  i  nu- meri ideali,  ai  numeri  matematici,  cioè  rappresentanti le  semplici  determinazioni  aritmetiche  degli  esseri,  non assegnerebbe  che  la  qualità  d'intermediari  tra  le  Idee  e lecose—.  In  quello  della  Repubblica  questi  stessi  numeri che  rappresentano  1  soli  attributi  aritmetici  sono  chiamati l'essenza  (oOoia)  e  la  natura  (cpóai;)  dei  numeri;  ricevono, (I)  Mei,  1.  xiir.  IV.  1. (%)  V.  questo  Supplem.  n.  II.  H. (3)  V.  FiUbo  56  d-e,  Rep,  526  a,  Parm,  I43  e. (1)  V.  num.  III. —  464  — per   determinare    di  quali  numeri   si  tratta,    V  attributo aùxó;,  che,  come  sappiamo,   si^mifica  l'Idea,  e  che  Ari- stotile, nelle  sue   allusioni   «Ile  dottrine  platoniche,  im- piega per  indicare   che  il  nome  a  cui  si  riferisce  denota, non  le  cose  né  le  entità  intermediarie,  ma  la  loro  Idea  (1); -e  vengono  opposti    ai  numeri  sensibili  in   un  modo  che esclude   la  possibilità  di  una  terza  specie  di  numeri  (2) In  quello  del  Filebo  infine  si  distinguono  dne  sole  scienze sui   numeri,  quella  del  volgare,  che  addiziona    unità  di natura  differente,  e  quella  del  filosofo,  che  non  ammetto che   unità   tutte    della   stessa  natura    (il  numero   mate- matico);  non  vi  ha  luogo  per  una  terza  scienza,  che  am- mette, come  quella  del  volgare,  unità  che  non  sono  della stessa  natura,  ma  senza  addizionarle  (il  numero  ideale). Aristotile  fa  menzione  di  cinque  caratteri  che  distin- guono i  numeri  ideali,  s*a  dai  numeri  matematici  sia  dai numeri  dei  Pitagorici  : 1«  I  numeri  di  Platone  sono  xwptaioi  dalle   cose,  men- tre i  numeri  dei  Pitagorici  sono  le  cos«  stesse  (3). 20  I  numeri    di  Platone  sono   monadici,  vale  a  diro costituiti  di  vere  naità,  semplcì  e  incorporea,  meatrc  i numeri  dei  Pitagorici  hanno  grandezza  (4). 3°  Dei  numeri  matematici  ve  ne  hanno  m)lti  d.jlla stesm  specie  (vi  hanno  molte  uiità,  diadi,  triad-',  ecc. matematiche),  ma  dei  numeri  ideali  ciascuno  è  uno  solo (1)  V.  Af^i,  1.  I.  IX.  5,  1.  I.  IX.  16,  1.  llr.  II.  17-19,  1.  XI.  1.  7,  ecc.(2)  A.  525  d:  i  numeri  stessi,  non  i  numeri  aventi  corpi  visibili  e palpabili;  a  526  a  :  quei  numeri  ch«  possono  pensarsi,  ma  non  mai  toc- carsi altrimenti. (3)  Pàys,  I.  111.  IV.  2,  Mei.    1.  Xlll.  VI.  6-7,  I.  Xlll.  Vili.  9,  l  XIV 111.  2,  ecc.  .  ^       V.(4)  Mei.  I.  Xlll.  Vi.  7,  9. <vi  ha   una   sola  unità,  diade,  triade,  ecc.  ideale)  (1). 4^  I  numeri  matematici  sono  combinabili,  cioè  com- posti di  unità  omogenee,  e  quindi  capaci  di  addizionarsi fra  di  loro,  ma  i  numeri  ideali  sono  incombinabili,  cioè le  unità  che  compongono  uno  dì  questi  numeri  non  sono omogenee  con  quelle  che  ne  compongono  un  altro,  e  non possono,  per  conseguenza,  addizionarsi  con  esse  (2). 5^  I  numeri  ideali  hanno  fra  di  loro  anteriorità  e  po- steriorità-, i  numeri  matematici  no  (3). Di  questi  caratteri  il  P  non    ha  bisogno  di    ulteriori spiegazioni  :  esso  vuol  dire  semplicemente  che  1  numeri di  Platone  sono  degli  universali  realizzati,  al  contrario di  quelli  dei  I^itagoricì,  che  sono  le  cose  stesse  partico- lari.   Il    2<^    ò   legato    alla   dottrina    che    le    Idee     rap- presentano la  sola   forma  delle  cose  (senza  la  materia), e  il  3"'  e  il  4<^  a  quella  che  le  entità  matematiche   si  di- stinguono dalle  Idee  e  sono  intermediarie  tra  di  esse  e  le co3e  :  per   conseguenza   noi   potrem-)   occupircei3  che quando  parleremo  di  queste  due  dottrine.  Per  ora  ci  oc- cuperemo solamente  del  5®,  cioè  à}\V anteriorità  e  p Mi- riorità  dei  numeri  ideali. Quest'  anteriorità  e  posteriorità  consiste  in  ciò,  che i  numeri  ideali  si  generano  progressivamente  gli  uni dagli  altri.  Per  fare  questa  generazione,  Platone  riguarda (1)  Mei.  1.  1.  vi    3,  1.  1.  IX.  5,  1.  111.  vi.  1,  ecc. {2)  Mei.  Xlll.  VI.  6-8. (?)  Mei.  1.  I.  Xlll.  VI.  6. 1^'anterioritÀ  e  posteriorità  non  è  propria  esclusivamente  dei  numeri ideali  che  nel  senso  che  spieghiamo  in  seguito,  e  che  è  quello  ordinario e  tecnico  che  (jaesti  t<irmini  hanno  nella  filosofia  platonica.  L'aateriorità o  posteriorità  di  cui  in  Mei.  l.  111.  III.  11,  Eth,  Nic.  1.  I.  VI,  2  ei  Edi. Eud,  1.  1.  Vili.  9-10,  è  tutt'altracosuV.  qiiesto  Sappi. n.  III);  e  in  quest'al- tro senso  essa  conviene  certatnante  anche  ai  numeri  matematici. —  165  - ciascuQ  numero  come  una  combinazione  particolare  del- rUno  e  della  Dualità  indefinita  —  è  con  questi  nomi  che vengono  designati  i  due  elementi  delle  Idee  e  delle  cose, al  punto  di  vista  della  dottrina  dei  numeri  —  Il  numero Due  nasce  dalla  moltiplicazione  dell'Uno  per  la  Dualità indefinita,  e  il  numero  Tre  dall'aggiunzioGe  dell'Uno  al prodotto  dell'Uno  per  la  Dualità  indefinita;  il  numero Quattro  dalla  moltiplicazione  del  Due  per  la  Dualità  in- definita, e  il  numero  Cinque  dall'  aggiunzione  dell'  Uno al  prodotto  del  Due  per  la  Dualità  indefinita;  e  co^l  di seguito,  sempre  con  questa  regola  :  che  il  numero  pari nasce  dal  numero  equivalente  alla  sua  metà  moltiplicato por  la  Dualità  indefinita,  e  il  numero  impari  dall'  ag- giunzione dell'Uno  al  prodotto  del  numero,  equivalente alla  metà  del  numero  pari  immediatamente  inferiore,  per la  Dualità  indefinita.  Ogni  numero  dunque  —  cioè,  se il  numero  ideale  è  finito,  ogni  numero,  tranne  quelli  che sono  generati  gli  ultimi—  ne  produce  altri  due  :  uno  pari, che  nasce  dal  suo  raddoppiamento,  e  uno  dispari,  che nasce  dal  suo  raddoppiamento  e  dall'aggiunzione  dell'u- nità (1).  Il  numero  che  produce  è  detto  anteriore,  e  i  nu- meri che  sono  prodotti,  posteriori.  (2).  Nella  formazione dei  numeri  posteriori  dal  numero  anteriore,  concorrono con  esso  l'Uno  e   la  Dualità   indefinita  :  ma  questi   non Sono  qualche  cosa  di  esteriore  che  viene  ad  aggimngérsi  a questo  numero,  ma  Fono  gli  elementi  stessi  di  questo  nu- mero, sicché  in  realtà  i  numeri  posteriori  non  vengono prodotti  che  dal  numero  anteriore.  La  Dualità  indefinita è  chiamata  bisectiva,  perche  si  suppone  che,  nella  for- mazione dei  numeri,  essa  raddoppia  le  unità  del  numero anteriore,  dividendo  in  due  ciascuna  dì  queste  unità  (1): ciò  è  per  mostrare  che  le  unità  che  costituiscono  i  numeri posteriori  non  vengono  d'altronde  che  dal  numero  ante- riore. Per  rendere  conto  dell'  unità  soverchia  dei  numeri dispari  si  dice  che  in  questi  numeri  V  unità  media  è  lo stesso  Uno  in  sé  (2). Qual  è  era  il  significato  di  questa  generazione  suc- cessiva dei  numeri  ideali  ?  Noi  sappiamo  che  1'  anterio- rità e  posteriorità  delle  Idee;  è  il  movimento  dialettico  per cui  le  conseguenze  si  sviluppano  dai  principi!,  cioè  —il rapporto  tra  il  principio  e  la  conseguenza  essendo  iden- tificato a  quella  tra  la  causa  e  1'  eifetto  —gli  effetti  dalle cause  ;  e  che  l'idea  anteriore  è  il  Genere,  e  le  Idee  po- steriori le  Specie  m  cui  esso  si  divide.  Ora  l'anteriorità e  posteriorità  dei  numeri  non  può  essere  altra  cosa  che r  anteriorità  e  posteriorità  delle  Idee  corrispondenti  a questi   numeri.    I    rapporti    di    filiazione    tra   i    numeri (1)  Vedi    per  questa     formazione    dei  numeri   ideali  Ari^^t,  Afet. 1.  XIII.  VII.  4,  10-11,  16,  19-20,  1.  XIII.  Vili.  12-13,  16,  eoo. (2)  Platone  non  riguarda  un  numero  impari  corno  posteriore  al numero  pari  immadiat amente  inferiore,  ma  considera  i  due  numeri oome  nati  simultanea  mente  dal  numero  equivalente  alla  metà  del pari  ;  p.  e.  il  Due  e  il  Tre  nascono  simultaneamente  dall'  Uno,  il Quattro  e  il  Cinque  dal  Due,  eoo.  Cosi  tanto  le  unità  ohe  oompon gono  il  Due  quanto  quelle  che  compongono  il  Tre  vengono  riguar- date oome  immediatamente  consecutive  all'Uno  in  sé  (.Het.  l.  XIII IX.  1  — al  contrario  di  quelle  ohe  compongono  gli  altri  numeri, le  quali  non  gli  succedono  che  mediatamente)]  e  Aristotile  rimpro- vera a  Platone  di  far  produrre  a  un  numero,  da  una  stessa  ma- teria (cioè  dalla  Dualità  indefinita),  più  numeri,  facendolo  gene- rare una  volta  sola,  mentre  in  tutti  gli  oggetti  che  si  producono, la  materia  dell'  uno  non  può  mai  essere  la  stessa  che  quella  di  un altro,  e  chi  introduce  nella  materia  1'  bIòoq  deve  agire  tante  volte quanti  sono  gli  oggetti  prodotti  (Met.  1.  I.  VI.  6). (1)  Alex.  Aphrod.  ad  Arist,  Mat.  1.  I.  VI.  5.   (t.  43). (2)  Arist.  Met,  1.  XIII.  Vili.  13. —  166  ^ rappresentano  dunque  i  rapporti  di  filiazione  tra  le  Idee secondo  il  loro  nesso  dialettico.  Questa  corrispondenza  tra la  formazione  progressiva  dei  numeri  e  lo  sviluppo  dia- lettico delle  Idee  si  vedrà  subito,  gettando  uno  sguardo sulla  tavola  seguente,  che  noi  possiamo  chiamare  l'al- bero genealogico  dei  numeri  :    • 1 2. 3, 4. 5. Vr- 6. 7. «.     9.        10.      11. 12.     13.      14.      15. La  serie  naturale  dei  numeri,  coììì  disposti  secondo  i loro  rapporti  di  filiazione,  rappresenta  1'  ordine  con  cui le  Idee  corrispondenti  si  seguirebbero,  se  si  fajcrse  una divis-one  completa,  procedendo  dal  Genere  supremo  {VEn- sere  o  il  Bene)  alle  Specie  infime  per  tutti  i  Generi  in- termediari. La  produzioie  d»i  numeri  inferiori  dal  nu- mero superiore  rappresenta  la  produzione  delle  Idee  par- ticolari dairidea  generale  :  il  numero  anteriore  ha  sotto di  se  due  numeri  posteriori,  p3rchè  la  divisione  plato- nica è  una  dicotomia  (1). (1)  Non  bisogna  credere  però  che  Platone,  oell'assegnaro  i  nu- meri aUeldee,  si  tenga  scrupolosamente  ai  concetti  su  cui  ò  fondata la  dottrina  deUa  generazione  progressiva  dai  numeri.  Egli  fa  tal- volta rappresentare  a  dei  numeri  che  sono  fra  di  loro  ne7  rapporto di  anteriorità  e  posteriorità,  delle  Idee  che  non  sono  fra  di  loro nel  rapporto  di  genere  e  specie.  Cosi  egli  assegna  all'  intelligenza Il  numero  uno,  alla  scienza  il  num3ro  due,  all'opinione  il  numero tre  e  alla  sensazione  il  numero  quattro  (Arist.  De  an.  1.  I  II  Te Met.  1.  XIV.  III.  9.  Cfr.  Ps.  Alex,  tu  Met.  XIL  IX.).  Naturalmente ciascuno  di  questi  numeri  riceve  diversi  impieghi  (e  in  effetti  noi In  questa  formazione  dei  numeri  è  accolto  il  concetto pitagorico  che  i  numeri  procedono  dalTuno.  Come  os- s  rva  Aristotile,  l'altro  elemento  (V  Infinito  dei  Pitago- lici)  tu  ricondotto  a  una  dualità,  per  rendere  possibile questa  generazione  progressiva  dei  numeri,  senza  di  cui la  fusione  tra  il  sistema  dei  numeri  e  il  sistema  delle Idee  non  sarebbe  stata  completa,  poiché  la  dialettica, altrettanto  importante  per  questo  sistema  che  la  realiz- zazione degli  universali,  non  sarebbe  stata  rappresentata. «  Fece  (Platone)  dell'altra  natura  una  diade,  affinchè  i numeri,  dai  primi  in  fuori,  se  ne  generassero,  come  da sappiamo  che  il  due  è  anche  il  numero  della  linea,  il  tre  della  su- perficie, il  quattro  del  solido— 7V  an.  e  3fet.  1.  c.-e,  secondo  Xenocrate, l'uno  della  linea  indivisibile— v.  n.V.— L'uno  rappresenta anchel' Idea più  universale,cioè  l'Essere  o  il  Bene, che  è  (luellaehe  gli  compete  con- formemente alla  regola  che  la  filiazione  dei  numeri  corrisponde  al nesso  dialettico  delle  Idee;  e  cosi  il  due,  il  tre  e  il  quattro  devono anche  rappresentare  delle  Idee  subordinate  a  quelle  rappresentate dai  numeri  anteriori  e  superordinate  a  quelle  rappresentate  dai numeri  posteriori.  Neil'  applicazione  della  dottrina  dei  numeri, Platone  non  può  evitare  lo  stesso  inconveniente  che  era  accaduto ai  Pitagorici  (v.  Ari6l.  MH,  1.  I.  V.  U,  1,  I.  VITI.  17,  1.  VII.  XI. 5,  1.  XIV.  VI.  .S),  cioè  di  assegnare  a  uno  stesso  numero  dei  con- cetti affatto  differenti:  e  in  eftetto,  per  quanto  quest'attribuzione di  un  dato  numero  a  un  dato  concetto  fosse  arbitraria,  essa  doveva essere  pure  fondata  su  <iualche  analogia,  e  accadeva  facilmente che  in  concetti  differenti  si  trovasse  un'analogia  con  uno  stesso numero.  Questa  pluralità  di  significati  data  a  uno  stesso  numero, oltre  alla  identificazione  di  coso  differenti,  portava  necessariamente nel  sistema  [datonico  l'altra  inconseguenza  che  la  filiazione  dei  nume- ri non  corrispondeva  esattamente  alla  filiazione  delle  Idee:  per  l'e- sattezza di  questa  corrispondenza,  sarebbe  stato  necessario  che  cia- scun numero  rappresentasse  una  sola  Idea,  quella  che  nell'albero genealogico  delle  Idee  occupava  lo  stesso  posto  che  il  numero  nel- l'albero genealogico  dei  numeri. —  167  - un'effigie,  comodamente  »  (1).  Per  i  numeri  primi  di  cui parla  qui  Aristotile,  bisogna  intendere,  conformemente airinterpret^zione  d'Alessandro  d'Afrodisia,!  numeri  di- spari—;>Wwe  vuol  dire:  primi  con  due—;  e  il  senso dello  parale  dai  primi  in  fuori  è  che  i  numeri  dispari non  si  generano,  per  mezzo  della  Dualità  indefinita,  così comodomente  come  i  numeri  pari  (2). II.  I  due  elementi I  due  elementi  ^ono  chiamati  il  Fine  (Tiépag)  e  V  In- filato (àTisipov)  come  quelli  dei  Pitagorici  (3j,  e  identi- ficati, come  questi,  coi  Dispari  e  il  Pari  (4).  Per  questa rome  (cr  altre  circostanze  di  cui  diremo  in  seguito,  la dotti  ina  platonica  mostra  un  rapporto  evidente  di  pa- leutela  con  quella  d<i  Pitagorici  :  ma  essa  presenta  pure delle  differenze  eFsenzialt  corrispondenti  al  punto  di  vista proprio  del  sistema  delle  Idee.  Anzitutto  i  due  elementi di  Platone  sono  dei  predicati  generali  comuni  a  tutti  gli esseri  (5)  :  in  effetto  essi  si  trovano  presenti  in  tutti  gli esseri,  e  secondo  il  sistema  delle  Idee  la  presenza  di  una entità  in  molte  cos'^  è  la  partecipazione  in  comune  di queste  cose  all'attributo  corrispondente  all'entità.  A  que- (j)  Arkt.  Met.  1.  I.  VI.  5. (2)  Cfr.  Mct.  l.  XIII.  Vili.  13  e  l.  XIV.  III.  13. (3)  Arisi.  Met,  1.  IV.  II.  14  (cfr.  il  comm.  di  Aless.  Afrod),  Phys. I.  III.  IV.  2-3,  1.  III.  V.  1-3,  Simpl.  aMAris^P;<i/s.fol.  in,Aristoss. Harmonic,  eìam,  l.  II.  sul  princ,  eoo. (4)  Noi  sappiamo  almeno  che  quest'identificazione  era  fatta  da Senocrate.  V.  Stob.  Fxl.  P/sys,  U  I.  II.  29  e  Arist.  Mctaph.  1.  XIII. Vili.  21  (per  il  riforimonto  del  secondo  di  questi  due  luoghi  a  Se- nocrate cfr.  ciò  che  diremo  di  lai  al  num.  V.). (5)  V    Supplem.  B,  num.  VII,  B.     . sta  particolarità,  che  ha  la  sua  ragione  nella  dottrina dc'le  Idee,  se  ne  può  aggiungere  un'altra,  che  ha  la  sua ragione  nella  dialettica,  ed  è  che,  ch^'airando  le  due  en- tità elementi,  Platone  non  vuol  dire  solamente  che  sono gli  elementi  costitutivi  di  tutti  gli  esseri,  ma  ancora,  per quest'identificazione  costante  del  logico  e  dell'ontologico su  cui  è  fondata  la  sua  metafisica,  che  sono  gli  elementi costitutivi  della  conoscenza  di  tutti  gli  cs^'eri,  vale  a  dire i  principii  da  cui  questa  conoscenza  si  deduce  (1). Ma  la  particolarità  più  caratteristica  della  dottrina  di Platone  è  che  i  due  elementi  sono  riguardati,  l'uno  come la  forma  o   la  specie   (slSog)   di  tutte  le  Idee    e  di  tutte le  cose,  e  l'altro  come  la  loro  materia  (2). (oxotxsta). Come  osservammo  altra  volta  (3),  il  concetto  di  ma- teria ha  in  Platone  due  applicazioni  essenzialmente  dif- ferenti :  da  una  parte  le  Idee  sono  le  forme  delle  cose, e  per  costituire  le  cosp,  si  aggiunge  a  queste  forme  una materia  (lo  spazio)  ;  dall'  altra  parte  queste  forme  che sono  Id  Idre  vengono  da  due  elementi,  una /orma  e  una materia.  Cosi  quest'ultima  materia  che  si  trova  nelle  Idee si  trova  naturalmente  anche  nelle  cose,  perchè  le  Idee non  sono  che  nelle  cose;  ma  la  prima,  cioè  lo  spazio,  è fuori  delle  Idee,,  ed  è  propria  solamente  delle  cose.  L'una di  queste  materie  è  evidentemente  distinta  dall'altra:  tut- tavia, per  una  di  quelle  incongruenze  di  cui  è  piena  que- sta dottrina  dei  due  elementi,  Platone  non  parla  di  due matere,  ma  di  una  sola  —  l'Infinito,  il  Grande  e  Piccolo, 0)  V.  Mi't,  1.  I.  IX.  27-30.  Cfr.  Met.  1.  V.  IH.  3   e  1.  III.  III.  1, in  cui  si  trovji  la    siùt^gaziono  di    quest'uso    della  parola    olomenti .  (2)  Cfr  Supplem.  B.  VII.  B. (3)  Supplem.  B.  num.  VIII. -  <68  - il  Non  essere,  ecc.  significaDo  tanto  la  materia  comnuo alle  Idee  e  alle  cose  quanto  la  materia  proprie  delle  cose— riconducendo,  sf  condo  il  metodo  incoerente  dei  Pita- gorici, a  uca  stfssa  entità  dei  concetti  assolutamente distinti. L'elemento  formale  non  è  altra  cosa  che  V  Idea  del Bene  (1).  Cosi  la  modificazione,  che  la  dottrina  dei  due elementi  apporta  nella  forma  primitiva  del  sistema,  con- sista? nell'introduzirne  di  questa  nuova  entità,  che  con un  temine  che,  per  quanto  concerne  il  rapporto  dì  que- st'entità con  le  Idee,  non  potrebbe  intendersi  che  in  un significato  analogico,  è  chiamata  materia,  perchè  Platone riguarda  ancora  l'Idea  del  bene  come  il  genere  supremo di  cui  tutte  le  altre  Idee  sono  le  specie,  e  per  conse- guenza dei  due  elementi  non  considera  come  slSog  che quello  corrispondente  a  quest'Idea,  e  si  rappresenta  la relazione  di  quest'elemcDlo  con  l'altro  come  analoga  a qriella  della  forma  con  la  materia. Platone  dà  ai  due  elementi  diversi  nomi,  corrispon- denti ai  diversi  punti  di  vista  della  dottrina.  L'elemento formale,  oltre  che  il  Tiépa^  e  il  Bene,  è  chiamato anche  l'Es.^ere  (2),  perchè  è  l'Idea  generale  di  tutti  gli esseri,  e,  al  punto  di  vista  deila  teoria  dei  numeri, l'Uno  (3;,  perchè  è  i!  principio  da  cui  derivano  le  Idee- numeri,  e  i  numeri,  secondo  i  Pitagorici,  derivano dall' utio.  Per  giustificare  la  riduzione  dell'elemento formale  all'Uno,  si  dice  che  ciascuna  cosa,  in  quanto  è, è  una— la  d'ssoluzione  in  molti  ne  è  la  morte—,  e  la sua   fralvezza    consiste  nella    persistenza   in  una   stessa (1)  V.  Supplom.  H.  num.  VII.  H  o  Cap.  VII  paragr.  13. (2)  V.  Arisi.  Mei.  I.  I.  VII.  5,  1.  IH.  III.5,  I.  XIV.  II.  4-12,  occ. (3)  V.  Mct,  1.  I.  VI.  3-7. forma,  e  perciò  l'Uno  è  causa  alle  cosedeiresseree  del- l'esser bene  (1).  Di  quest'identificazioue  dell'Idea  supre- ma con  rUno  ha  potuto  anche  darsi  un'  altra  ragione, cioè  che  quest'Idea  è  l'uno  —tatto,  vale  a  dire  è  il  punto di  partenza  dell'evoluzione  dell'essere,  in  cui  il  tutto  esi- ste come  uno  (2).  L'Ono  è  riguardato  come  elemento  dei numeri  a  un  doppio  punto  di  vista,  cioè  tanto  perchè ciascun  numero  è  un  tutto  unico  —  ciò  che  è  conforme alla  funzione  di  elfio^  che  viene  assegnata  all'  Uno  —, quanto  perchè  i  numeri  sono  composti  di  unità— ciò  chb dà  occasione  al  rimprovero  d'Aristotile  che  l'Uno  funge anche  da  materia.  —(3). L'Infinito,  al  punto  di  vista  della  dottrina  dei  numeri,è  chiamato  la  Dualità  indefinita  (8uag  àóptoxoc)  (4),  per rendere  possibile  la  formazione  progressiva  dei  numeri  di  cui abbiamo  parlato  (5);  e  il  Grande  e  Piccolo,  per  mostrare che  esso  è  una  dualità,  e  stabilire  cosi  un  passaggio  dal concetto  d'infinito  a  quello  di  dualità  indefinita  (6).  Per giustificare  questa  riduzione  dell'  Infinito  al  Grande  e Piccolo,  si  dice  che  l' infinito  si  trova  tanto  nella  gran- dezza quanto  nella  piccolezza,  perchè  la  quantità  pro- ci) V.  Alex.  Aphr.  ad  Mei.  1.  I.  IX.  24. (2)  Cfr.  MeU  1.  :.  IX.  24. (3)  Arist.  Met,  1.  Xlll.  Vili.  25-28,  Alex.  Aphr.  ap.   Simpl.  ad  Phys,Ibi.  104. (4)  Arist.  Met.  1.  Xlll.  VII.  3,  4,  H,  I3,  16,  25,  IX.  7,  1.  XIV.  1.  9, 11.  3,  9,  111.  12,   Al.  Aphr.  ad  Mei.  /.  /.   VI.  5,  Simpl.  ai  Phys.  fol.-Si. fot.  104,  ecc. (5)  La  riduzione  delllllimitato  alla  Dualità  indefinita  sì  deduceva  per altro  naturalmente  dalla  sua  identità,  nella  dottrina  pitagorica,  col  Pari, n  Pari  infatti,  come  concetto  generale,  è  in  certo  modo  una  dualità  in- determinata; vale  a  dire  una  dualità  alle  cui  unità  non  si  attribuisce  un valore  determinato,  potendo  essere  dei  numeri  qualunque. (6)  Arist.  Met.  I.  I.  VI.  3-7. —  169  — ■^ cede  airinfinito  tanto  nelT  aumento  quanto  nella  dimi- nuzione (l).  Naturalmente  il  Grande  e  Piccolo  non  pos- sono essere  considerati  come  elemento  se  non  in  quanto 8i  riguardano  come  predicati  attribuiti  a  tutti  gli  esperi: tuttavia,  quantunque  la  grandezza  e  la  piccolezza  che si  attribuiscono  alle  cose  particolari  s^ano  necessaria- mente una  grandezza  e  una  piccolezza  finite,  Platone riguarda  il  grande  e  il  piccolo  in  sé  stessi  come  infiniti, perchè  non  vi  ha  alcun  limite  ne  nei  gradi  della  gran- dezza né  in  quelli  della  piccolezza.  Per  indicare  il  Grande e  Piccolo  nella  sua  funzione  speciale  di  elemento  dei numeri  —  poiché  il  Grande  e  Piccolo  é  una  decomina- zione  generica  che  designa  tanto  V  demento  materiale dei  numeri  quanto  quello  delle  grandezze  (v.  n.  IH) — 8'impìega  la  denominazione  più  particolare  di  Molto  e Poco  (2).  Sul  Molto  e  Poco  vale  naturalmente  la  stessa osservazione  ?he  abbiamo  fatta  sul  Grande  e  Piccolo; vale  a  dire  essi  non  sono  che  dei  predicati  generali  dei numeri,  ma  quantunque  il  molto  e  il  poco  che  sodo  nei numeri  siano  necessariamente  finiti,  pure  Platone  riguarda il  molto  e  il  poco  in  se  stessi  comeinfini  imperché  tanto  l'uno quanto  Taltro  progrediscono  airinfinito.  Per  indicare  che ai  tratta,  non  di  due  entità,  ma  di  una  sola,  il  Grande  e Piccolo  è  chiamato  l'Ineguale  (3):  infatti  l'ineguagliar.za consiste  nel  più  e  nel  meno,  e  il  grande  e  il  piccolo  sono delle  nozioni  comparative,  una  cosa  dicendosi  grande 0  piccola  in  quanto  é  maggiore  o  minore  di  un'altra. (1)  Arist.  Phys  1.  IH.  VI.  6,  Alex.  Aphr.  ap.  Simpl.  ad  Phys.  fol.  I04. (a)  Arist.  Mei.  1.  I.  |X.  19,  1.  XIV.  1.  4,  9,  13-14,  11.  11.  Alex.  Aphr. ad  MeU  1.  I.  VI.  st (3)  Arist.  MeU  1.  III.  IV.  30.  1.  X.  V.  1.  4,  1.  Xll.  X.3,  1.  XIV.  1.  3, 9.  11.  3,  lo,  11,  IV.  1,  6,  V.  4.  5,  Alex.  Aphr.  art  MeL  1. 1.VI.  5,  ecc. Uno  dei  punti  fondamentali  della  dottrina  è  che  i  due elementi  sono  contrari  (1),  e  Telemenlo  materiale  rappre- senta al  tempo  stesso  la  materia  e  la  steresi  (cioè  la privazione  dell'  slSog)  (2).  Per  indicare  la  seconda  fun- zione, quest'elemento  è  chiamato  il  Non  essere  (3);  e  in generale  a  un  nome  impiegato  per  designare  T  uno  de- gli elementi  corriponde  il  suo  contrario  come  designa- zione dell'  altro  elemento.  Cosi,  T  elemento  mat'^riale essendo  chiamato  T  Ineguale,  T  elemento  formale  ri- ceve il  nome  di  Eguale  (4).  Secondo  questo  principio, all'uno,  nome  dell'elemento  formale,  dovrebbe  corri- spondere, come  nome  dell'  elemento  materiale,  il  mul- tiplo', tuttavia  Platone  oppone  all'Uno  il  Grande  e  Pic- colo (5)  e  non  il  Multiplo,  ma  considera  il  Grande  e  Pic- colo come  equi  valente  al  Multiplo  (6).  In  effetto  il  Grande e  Piccolo,  come  elemento  dei  numeri,  cioè  delle  Idee,  è il  Molto  e  Poco  ;  e  il  Molto  e  Poco  non  è  che  V  espres- sione del  concetto  della  moltiplicità  sotto  una  forma  che (1)  Met,  1.  IV.  11.  14,  I.  Xll.  X.  2-3.  1.  XIV.  1.  I-3.  6,  IV.  6-8,  ecc. (2)  Arist.  Phys,  1.  1.  IX.  1  3,  1.  IH.  11.  1-2,  Met.  1.  XI.  IX.  6-7. (3)  Met,  1.  XIV.  11.  4-I4,  Phys,  1.  1.  IX.  1-3,  Phys.X,  IH.  H.  i-2,  ecc. (4)  V.  Arist.  Met,   1.  Xll.  X.    3,  1.  XIV.  1.  3,  Alex.    Aphr.  ad  Met, 1.  I.  VI. '5. (5)  ;»/«/.  I.  I.  VI.  4-7,  1.  XIV.  1.  3-6,  1.  XIV.  H.  IO  (cfr.  1.  XIV.  I.  lo), I.  XIV.  IV.  5-6,  ecc. (6)  Arist.  Met,  1.  XIV.  I.  3:  i  platonici  oppongono  all'  uno  T  ine- guale, riguardando  questo  come  la  natura  della  moltiplicità.— L*  equiva- lenza'tra  ilGrande  e  Piccolo  e  il  Multiplo  risulta  anche  dalla  dottrina che  la  Dualità  indefinita  è  la  causa  della  moltiplicità  degli  esseri  (v.  A- rist.  Met,  I.  XHl.  Vili.  3,  l.  XIV.  ll.)-perchè  secondo  il  sistema  delle  Idee la  causa  di  un  attributo  delle  cose  è  la  partecipazione  all'entità  corri- s  ondente  a  quest'attributo  —,  e  dalla  proposizione  che  il  numero  parte- cipa all'Uno  in  quanto  è  alcun  che  di  unico,  e  alla  Dualità  indefinita  in quanto  è  una  moltitudine  (v.  Alex.  Aphr.  ap.  Simpl.  ad  Phyz,  fol.  lo4). —  170  — -=r- 4.r  .   I  /■ fi il  Diverso  n  lo  n-  Tf  '  '*"«*<'t''e  indica  più  volte Ln/  .  -^  Diversità  come  denominazione  dell'ele- mento materiale  (1).  Evidentememe  l'elemento  formale  è ricondotto  al  concetto  dello  stesso,  perchè  i^ bone^olsl tat;trmr""'\"^"'^  P«'-"--  dell'^sseTn        'o a„u  4.,  P'uraiita  di  mozzi  verso  uno  st«sso  l'i- saltato  (come  si  vede  neffli  esseri  nro.««{,     .•     l IVo^mnU  «;,\       •  "  organizzati   che  sono sultare  d/  .'T*'**  '^'"*  «nitalità).  Sembra  anche  ri- mate ia  fé  e«h  """'"'  '''^"'^'"''  (2)   che  l'elemento opTottV^^rc;'^^:^^^^^^^^  -  '— « «.teresTin*,."""'?"'  ^  ^"°^'«"'  ^'  ™»««"a  e  di P^n  bulorn   '*'  '  ««'••'^°'«''*«  «""lei  lati aner»H     .1?''*'"''°°*    dello  Stesso  e  del    Diverso  o  di runl  dt    •  '  :"''  ''"'"P^^-  «'  P°*  comprendere  come uno  degli  opposti  sia  riguardato  come  la  materia  e  ra' r^J^TÌÌ  '""'"*  '  '•«•»  ««««"dovi  unità  «.nza moltiphcità   né   identità  senza  diversità     noi  Ile dirp  •  il  «»,.7/v7    1  u'versita,   noi   possiamo dando  la  moltiplicità  e  Ja  diversità  come  il  so^i^^etto  del- 1  umtà  e  deindentità.  Ma  come  il  Non  essere  or  ll fere  e  1?.^!'  ''''''^''''''  -™-  ^«  '-teria.  di  cui  l'Es- essere,  1  Ineguale  (dcvcaov),  ecc.  deve  significare  per  Pia- (1)  Phys.  1.  111.  11.  1,  M^i^,.  XI.  IX.  6,  1.  XIV.  I.  6. (2)  Ap.  Sinipl.  ad  Arùt.  Phys.  fol.  98  b. tone,  non  il  contrario  dell'Essere,  delFEguale,  ecc.,  ma ciò   che  non   è  V  Essere    né   partecipa,    considerato    in se  stesso,  air  Essere,  ciò  che  non  è   V  Eguale   né  par- tecipa, in  se   stesso,  air  Eguale,  ecc.    In    altri   termini, Fc  dallo  cose  si  sopprime  per  il  pensiero  rid-a  deir  es- sere, deiregu«le,  ecc.,  ciò  che  resterà,   considerato  nel suo  concetto  generale,  si  chiamerà  Non   essere,  Inegua- le, ecc.,  e  si    riguarderà  comft   il  sustrato   a  cui  Tldea delTe^sere,  deiregualo,  ecc.  inerisce  come  una  forma  (l). CIÒ  non  esclude  però  che  il  Non  essere  significhi  anche, a  un  altro  punto  di  vista,  il  contra-io  dell'Essere,  Tlne- guale  il  contrario  deirp:guale,  ecc  :  in  eflVjtto  Telemento materiale  non  funge  solamente  da  materia,  ma  anche  da stcresi.Il  rapporto  di  contrarietà  stabilito  tra  i  dueelem*  nti spiega  perché,  nel  periodo  pitagoreggìante,  Platone  prefe- risca, per  designare  Tldea  supn  ma,  la  denominazione  di uno  0  essere  a  quella  di  bene  :  è  che,  chiamando  l'elemento formale  il   Bene,  T  elemento    materiale  dovrebbe  essere chiamato  il  Male;  ma  il  Male    non  potrebbe    afiPatto    ri- guardarsi come  la  materia  degli  e-seri  (2). L'incompatibilità  delle  due  funzioni  ass^^gnate  all'ele- mento materiale  c'indica  chiaramente  che  la  dottrina  dei (1)  Questa  supposizione  é  confermata  dall'argomento  con  cui  Platon^ prova  l'esistenza  del  Non  essere,  cioè  che  se  non  esistesse  il  Non  essere, tutti  gli  esseri  si  ridurrebbero  a  un  solo,  l'Essere  (Met.  ì.  XIV.  11.  4). Infatti  il  senso  di  quest'argomento  e  che,  se  negli  esseri  non  vi  fossero, insieme  all'attributo  essere,  delle  detenninaxioni  distinte  da  quest'attri- buto, non  esisterebbe  che  V  attributo  essere;  sicché  la  moltiplicità  degli esseri  e  resa  possibile  dall'esistenpa  nelle  cose  di  determinazioni  distinte dair  attributo  essere.  Queste  determinazioni  distinte  dall'  K-sere  che  si trovano  negli  esseri,  guardate  in  astratto,  cioè  nel  loro  concetto  generale, sì  òhiamano  Non  essere.  Anche  nel  Sofista  (25Gd-239b)  Platone  dice  che  il Non  essere  non  è  il  cjntrario  dell'  Essere,  ma  semplicemente  ciò  che  è altro  che  l'Essere. (2>  Cfr.  Arist.  Mei,  1.  XIV.  IV.  4-8. —  171  — -Nf- -H- due  elementi  è  un  concetto  straniero,  clie  fiatone  si  sforza di  adattare  alla  meglio  ai  concetti  propri  del    suo  siste- ma. La  contrarietà   dei  due  elementi  è  data  a  Platone dalla  dottrina  dei  Pitagorici.  La  riduzione   dei  due  ele- menti air  elSog  e  alla  materia  ha   per  oggetto  di   conci- liare il  dualismo   della  nuova    dottrina  con  le   esigenze della  dialettica,  cioè  della  dieresi.    Questa  suppone,   al vertice  della  piramide  ideale,  un'Idea  unica  come  genere supremo  di  tutte  le  Idee  :  la  nuova  dottrina  invece  am- mette, non  uno,  ma  due  universali  supremi.  Per  conci- liare questi  due  punti  di  vista,  Platone  non  riconosce  il carattere  di  genere  sommo  di  tutti  gli  esseri  che  all'uno dei  due  universali    supremi  ;  per  conseguenza,  siccome egli  ammette  già,  nel  nuovo  assetto   che  dà  al  suo  si- stema, che  le  cose  sono  composte  di  sUo;  e  di  materia, e  che  il  conceìto  generale  delle  cose  è  rappresentato  dal- relSog,  cosi  trasporta  dalle  cos*^  alle  Idee  stesse  questa  distin- zione di  dòoz  e  di  materia,  e   riconduce  V  elemento  che deve  fungere  da  genere  alTelSo^,  e  l'altro  alla  materia. Questa   identificazione  dei   due  elementi  dei   Pitagorici con  TelSo^  e  la  materia  è  d'altronde  suggerita  dai  nomi stessi  con  cui  vengono  designati.  Se  si  prende  la  parola sISoc  nel  srnso    meno  astratto,    cioè  come   indicante  la forma  visibile  degli  oggetti  materiali,  Tiépa?  (termine)  ed sUog  sono  pressoché  equivalenti.  Come  per  un'estensione del  loro  significato  più  concreto  la  parola  slSog  e  il  suo sinonimo    jiopcpi^    acquistarono    il    senso    lato   che   esse hanno    nella    filosofia   di    Platone    e    d'  Aristotile,    cosi un'estensione  analoga  poteva  essere  data  alla  parola  Tiépa^, in  modo  che  i  significati  filosofici  di  questi   termini  ve- nissero a  coincidere.  Quando  l'elSog  di  cui  si  tratta  non è  più  la   forma  visibile   degli  oggetti,    la  parola  népa^, impiegata  come  sinonimo  di  sISo^,  riceve  certamente  un significato  assai  lontano  dall'originario  :  tuttavia,  Ttldoc essendo  ciò  che  definisce  o  determina  gli  esseri,  V  ana- logia  tra  il   concetto  di  definizione  o  determinazione  e quello  di  fine  o  termine  bastava  per  giustificare  il  pas- saggio al  nuovo  significato.  Cosi  tiépag  veniva   a  signi- ficare, ìq  un  scaso  generico,  l'eiSog  in  generale  ;  in  un sen^o  sp.^ciale,  1'  el5og  comune  di  tutti  gli  ess^^ri;  e  ciò, non  solo  p^r  una  specializzazione  convenzionale  del  ter- mine, ma  anche  porche  se  uépag,  nome  comune,  significa forma,  il  Tiépa;,   none  proprio  d' un' entità  unica,  deve significare  la  forma  nel  suo    concetto    generale,  cioè  il j.ene  e  di  tutte  le  forme,    1'  elSo;  dogli    elSr].  Il  termine Tiépa^  voltando  dire  la  form^^  il  termine  àiisipov  vorrà  di) e, e  ò  che  è  senza  forma,  cioè  la  materia  (1).  Aggiungiamo che  l'ideotìficaz'one  del  Tiépag  con  l'sldoc  comune  di  tutti gli  esseri,  vale  a  dire  con  1'  Idea  del  bene,   corrisponde anche  a    un    altro  significato  di  cui  il    termine  nipcLQ  è suscettibile,  quello  di  Jine  o  scopo. Ciò  che  è  stato  dett^  trova  la  sua  conferma  in  Ari- stotile. Egli  (in  Met.  1.  V.  XVII)  assegna  al  termine  Tiépag questi  significati  :  la  forma  della  grandezza  o  dell'  og- getto aveiite  grandezza;  il  fine  o  o^  Svaxa  (la  causa    fi- (j)  Con  questo  senso  qualitalivo  de!  termine   ^TlStpOV  coesiste  però il  senso  guanlilafivo,  come  si  vede  nella  riduzione  dell' aitsipov  al  Gran- de e  Piccolo.  Il  termine  ha  anche  altre  applicazioni,  più  conformi  al  suo significato  vol«;are,  quello  di  grandezza  superiore  a  qualsiasi  grandezza finita  :  è  ciò  che  avviene,  qn-indo  esso  designa  la  materia  delle  cose,  vale a  dire  lo  spazio  (v.  B.),  o  quando  si  afferma  che  i  sensibili  sono  infiniti per  la  materia,  cioè  per  laTlsipOV  (v.  Arist.  ap  Simpl.  in  Artsl.  Phys^ fol.in  —Porfirio,  ap;  Simpl.PA.VJ.  fol.  loi,  indica  un'altra  applicazione  dello àueipov  in  un  senso  quantitativo,  e  oè  che  la  divisibilità  airmtìnito  della grandezza  dimostra  che  in  ogni  grandezza  è  racchiusa  una  certa  natura d'infinito). —  17X  — Bftlej  ;  r  essenza  (la  causa  formale).  Nataralmente  Ari- stotile trova  questi  significati  nel  linguaggio  filosofico deirepoca,  e,  tra  i  suoi  predecessori,  noi  non  possiamo attribuire  i  concetti,  che  essi  suppongono,  che  a  Platone e  ai  platonici.  Lo  stesso  Aristotile  dalla  sua  parte  iden- tifica talvolta  il  Tcipac  con  VAòo^  (1)  e  V&ntipoy  con  la  ma- teria (2),  e  chiama  anche  Tcépa^  la  caasa  finale  (Mei.  1.  III. IV.  5,  luogo  in  cui  sembra  alludere  a  un  ragionamento dei  platonici). La  dottrina  platonica  dei  due  elementi,  malgrado  lo espediente  a  cui  si  ricorre,  di  non  riguardare  come  slòo<; che  un  solo  dei  due  universali  supremi,  resta  sempre evidentemente  in  contraddizione  coi  principii  della  dia- lettica (dieresi),  perchè  questi  richiedono,  alla  sommità del  mondo  ideale,  non  due  universali  supremi,  ma  uno solo.  La  contradizione,  è  vero,  potrebbe  essere  attenuata ancora  da  questa  rifiessione,  che  i  due  universali  su- premi essendo  ricondotti  alla  forma  e  alla  materia  di  tutti gli  esseri,  la  dualità  è  piuttosto  apparente  che  reale,  e non  vi  ha  al  fondo  che  un  universale  supremo  unico, TEssere  univeriale,  di  cui  i  due  elementi  sono  la  forma e  la  materia.  Ma  non  cesserebbe  con  tutto  ciò  Tincoerenza di  ammettere  dae  principii  primi,  mentre  la  dialettica  esige un  solo  princip  io  primo,  la  legge  del  mondo  ideale  essendo che  ogni  plur9  lità  si  riduca  costantemente  ad  una  unità  su- periore. La  «contraddizione  è  dunque  insolubile,  ed  essa ci  indica  che  la  dottrina  dei  due  elementi  è  una  modi- ficaziome  posteriore  del  sistema  delle  Idee,  dovuta  a  una nuova  influenza,  indipendentemente  dalla  qaale  questo sistema  si  era  formato.    £  noi  abbiamo    in  effetto   delle (1)  D^  Caelo  I.  11.  XIII.  3,  Phys.  I.  IV.  II.  i-2,  e  cfr.  De  getter  al.  \.  Il Vili.  4-5. (2)  Phys.  1.  m.  VI.  10,  VII.  6;  cfr.  M$t,  1.  I.  V.  lo. prove  che  non  lasciano  alcun  dubbio  su  questi  due  punti: cioè,  primo,  che  Platone  deve  la  dottrina  dei  due  eie" menti  ai  Pitagorici,  e,  secondo,  che  questa  dottrina  è  as- sente dal  sistema  di  Platone  nella  sua  forma  primitiva, e  segna,  insieme  alla  dottrina  dei  numeri  ideali,  un nuovo  periodo  nella  speculazione  di  questo  filosofò. Nel  e.  6^  del  1.  I.  della  Metafisica,  in  cui  fa  l'  espo- sizione della  filosofia  platonica,  Aristotile  dice:  «Dopo le  dette  filosofie  venne  quella  di  Platone,  che  in  molti punti  segui  questi  (i  Pitagorici,  di  cui  prima  ha  parlato), ma  alcuni  altri  no  ebbe  propri,  in  fuori  della  filosofia degritalici  » .  E,  accennato  alle  dottrine  principali  di Platone,  cioè  la  dottrina  d«lle  Idee,  delle  entità  interme- diari*», dei  due  elementi,  e  la  identificazione  delle  iJee ai  numeri,  continua  con  questo  confronto  tra  la  filosofia di  Platone  e  la  pitagorica,  in  cui  indica  i  punti  comuni lille  due  filosofie  e  quelli  propri  al  solo  Platone  :  «L'Uno stesso  essere  sostanza,  e  non  qualche  altra  cosa  a  cui  si attribuisca  V  unità,  questo  diceva  come  i  Pitagorici  ;  e ancora  come  essi,  che  i  numeri  siano  cause  alle  altre erse  della  loro  essenza.  Ma  invece  dell'Iofinito  come  uno porre  una  dualità,  perchè  egli  fa  V  Infinito  del  Grande e  Piccolo,  ciò  gli  è  proprio:  inoltre  egli  pone  i  numeri oltre  i  sensibili,  ma  quelli  dicono  i  numeri  le  cose  stesse, e  non  pongono  Tentità  matematiche  intermediarie  tra  i •  numeri  e  le  cose.  L'aver  posto  V  Uno  e  i  numeri  oltre le  cose,  e  non  come  i  Pitagorici,  e  l'introduzione  delle Specie  fu  per  lo  studio  della  dialettica  ^(della  quale  gli antichi  non  orano  partecipi);  V  aver  fatto  poi  dell'altra natura  una  dualità  fu  affinchè  i  numeri,  eccetto  i  primi, se  ne  generassero  comodamente,  come  da  un  sigillo.  s> Risulta  dunque    dalla  testimonianza  d'  Aristotile  che Platone  ha  imprestato  il  suo  elemento  materiale  dai  Pita- —  178- gorici,  ma  apportandovi  una  modificazione,  quella  di  ri- condurre quest'elemento  alla  dualità  del  Grande  e  Pic- colo. Senza  dubbio,  questa  non  è  la  sola  modificazione importantv^  che  Platone  ha  apportato  alla  dottrina  pita- gorica; Aristotile  no  passa  sotto  silenzio  un'altra  che  non ha  un'importanza  minore  (forse  perchè  la  riguarda  come una  conseguenza  del  sistema  delle  Idee)  :  è  la  ri  luzione dei  due  elementi  alla  forma  e  alla  mater'a  universali. Il  cangiamen'o  risultante  da  queste  e  le  altre  modifica- zioni, necessitate  dall'adattamento  della  dottrina  pitago- rica al  sistema  platonico,  è  co^i  profondo,  che  nasconde r  identità  fondamentale  della  dottrina  di  Platone  con quella  dei  Pitagorici,  e  fra  le  due  dottrino  sembra  non esistere  un  rapporto  più  intimo  che  quello  di  una  sem- plice analogia.  Ma  vi  ha  un  punto  che  non  bisogna  per- dere di  vista.  Qualunque  sia  stato  il  senso  originario della  proposizione  dei  Pitagorici  che  le  cose  constano di  fine  e  d'infinito,  dopo  che  queste  astrazioni  fine  e  in- finito cominciarono  a  riguardarsi  come  delle  sostanze  di cui  le  cose  sono  composte,  la  proposizione  divenne  un enigma  incomprensibile,  o  a  dir  meglio  una  formula vuota  a  cui  non  era  possibile  di  attaccare  alcun  senso determinato  :  per  conseguenza  Platone  poteva  riempire questa  f  rmula  vuo'^a  d^i  suoi  propri  concetti,  e,  usando di  quella  libertà  ch'egli  si  prende  abitualmente  coi  dati della  storia,  dare  questi  concetti  per  il  senso  riposto  della  • dottrina  pitagorica,  taciuto  o  forsa  anche  smarrito  dai più  recenti  filosofi  di  questa  scuola  che  re  avevano  di- vulgato le  dottrine.  In  effetto,  il  pit^igorismo  di  PUt  ne, come  vedremo  in  seguito,  non  cons'ste  solamente  ad appropriarsi  i  concetti  dei  Pitagorici,  mn  anche  ad  attri- buire a  questi  i  suoi  propri  concetti.  Per  altro  vi  erano nella  dottrina  pitagorica  dei   due  elementi   certi  lati  a •iS\^i3 cui  Platone  poteva  riattaccare  il  nuovo  senso  in  cui  egli prendeva  questa  dottrina.  L'identificazione  del  uépag  alla forma  generale  degli  esseri  e  dell'  àuetpov  alla  materia, che  è  il  carattere  più  essenziale  per  cui  si  distingue  la dottrina  di  Platone,  trovava  certamente  un  addentellato in  alcuni  concetti  dei  Pitagorici.  Cosi,  quantunque  Ari- stotile riconduca  tanto  Tuno  quanti  l'altro  dei  due  ele- menti dei  Pitagorici  alla  materia  —  ciò  che    egli  fa  tal- volta anche  j^er  i  due   elementi  di  Platone,    prendendo strettamente  alla  lettera  la  parola  elemento  (1)— tuttavia è  TtXTistpov  che  egli  considera  specialmente  come  il  prin- cipio materiale  (^);  e  benché  l'interpretazione  degli  au- tori posteriori  che  riguardano  il  Tiépag  e  l'àTieipov  come  cor- rispondenti ala  forma  e  alla  materia,  sia  senza  dubbio dovuta  a  una  confusione  con  la  dottrina  di  Platone,  tra le  proposizioni  conservateci  dei  Pitagorici  ve  ne  hanno talune  che  darebbero  a  questa  interpretazione  una  certa speciosità.  Tali  sono  sovratutto  quelle  in  cui  essi  si  rap* presentano  V  illimitato  (àustpov)    che  è   nelle  cose   come compreso  ientro  il  limite  (uépag)  e  limitato  da  questo  (3): in  questa  rappresentazione  del  rapporto  tra  il  Limite  e rilliroitato  questi  due  concetti  sono  assai  vic'ni  a  quelli della  forma  e  della   materia.  Ma    il  vero  punto    di  par- tenza  per    passare   dalla   dottrina   pitagorica  alla   pro- pria Platone  lo  trovava,  come   abbiamo  notato,    n«  ll'n- nalogia  del    concetto  stesso  di  limite  (Ttépa^)  con  quello di  forma,  e,  po-^Fiamò  anche    ag-giungere,   del   concetto d'  infinito    (àTtsipov)     con    quello  d'  indefinito  o  indeter- minato—che   p'r    Platone,    come   per    Aristotile,    è  il (1/  V.  Mei,  1.  XiV.  11.  1-2. (2)  V.  Met,  1.  I.  VII.  2 (3)  V.  Arist.  Phys,  l.  111.  IV.  3  «  Met,  1.  XIV-  HI.  1+  . m^fmai^tam^m -.ì-    ^„.  -/:;fi.:a^ carattere  distintivo  della  materia  (0-^  Egli  poteva  inol- tre fondarsi,  per  la  riduzione  del  Tiépag  al  bene,  sul  dato che  i  Pitagorici  chiamavano  la  Ferie  (oDoxotxia)  del  finito la  serie  dei  beni  (e  si  noti  che  non  solo  il  Finito  era  uno dei  prineipii  compresi  in  questa  serio,  ma  era  anche  ad esso  che  tntti  gli  altri  venivano  ricondotti).  In  quai.to alle  denominazioni  di  Grande  e  Piccolo  e  Dualità  inde- terminata date  all'elemento  materiale,  noi  abbiamo  vi- sto com'esso  si  riattaccavano  a  qnePe  pitagoriche  d'In- finito e  di  Pari.  Sulle  altre  modificazioni  della  dottrina pitagorica  osserveremo  :  che  V  identificazione  dell'  Uno con  uno  dei  due  elementi,  mentre  i  Pitagorici  lo  face- vano risultare  da  amendue  (e  lo  chiamavano  perciò  pari- dispari),  poteva  riattaccarsi  alla  sua  classazfone  ncMa auoxotx^a  del  limitato  ;  e  la  riduzione  dei  due  elementi alFEssere  e  al  Non  essere,  al  concetto,  emergente  dalla tavola  delle  dieci  opposizioni,  che  tutto  consta  di  con- trarietà,  e  che  queste  si  riducono  tutte  a  quella  del  li- mitato e  deirillimitato  (infatti  in  ogni  contrarietà  Tuno dei  termini  può  considerarsi  come  positivo  e  subordinarsi air  essere,  V  altro  come  negativo  e  subordinarsi  al  non essere;  e  nelle  opposizioni  dei  Pitagorici  i  termini  che potevano  preferibilmente  considerarsi  come  positivi  erano quelli  che  venivano  posti  dalla  parte  del  llmHato)  (2). (1)  V.  Arist.  Mei.  1.  I.  Vili.  9-11,  PhysA,  111.  VI.  U,  Alex.  Aphr.  ad Mei,  1.  I.  t.  43,  ecc. (2)  Cosi  Eudemo  attribuisc  •  al  non  essere,  nella  dottrina  pitagorica, un  posto  pressoché  equivalente  a  quello  che  esso  ha  nella  p!atonica  : «  Bene  i  Pitagorici  e  Platone  portano  nel  movimento  rindefinito....  e  Io imperfetto  e  il  non  essere  »  (ap.  Simpl.  ad  Arist,  Ph?/s.  I.  111.  11.).  Qui evidentemente  il  non  essere,  come  l'imperfetto  e  Tindefinito,  è,  per  quanto coniarne  i  Pitagorici,  una  generalizzazione  dei  prìncipii  della  O'JOTOtX^a deirillimitato.  ' Veliamo  ora  alle  prove  della  posteriorità  della  dot trina.  Questa  ri>uUa  prima  di  tutto  dagli  scritti  stessi  di Platine.  È  certo  che,  quando  scriveva  la  Repubblica^  Pla- tone non  ammetteva  ancora  la  dottrina  di  una  dualità di  principi!.  Nel  6®  e  7®  della  Repubblica  non  vi  ha,  alla sommità  del  mondo  ideale,  che  un^entità  unica  :  è  Tldea del  Bene,  sovrana  del  mondo  intelligibile,  in  cui  essa  è ciò  che  il  sole  è  nel  mondo  visibile,  e  principio  unico dell'essere  e  del  conoscere  (1).  Inoltre  la  dottrina  dei  due ilem^^nii,  quale  la  concsciamo  dairesposizione  d'Aristo- tile, sappone  quella  dei  numeri  ideali,  perchè  Aristotile riguarda  come  il  tratto  essenziale  e  caratteristico  del principio  materiale  di  Platone  che  esso  è  fatto  consitst^re (1)  V.  5oé-5ot*  d,  5io  b— sii  b,  516—517  e,  532533  d. Nello  stesso  dialogo,  478,  si  dà  come  un   carattere  delle   cose  sensi- bili» per  cui  esse  sono  opposte  alle  Idee,  quello  di    partecipare  al  tempo stesso  dell'essere  e  del  non  essere.  Certamente  questo    non  significa  che l'essere  e  il  n^n  essere  sono  due   elementi  di    cui  le  cose    sensibili  sola- mente, e  non  le  Idee,  sono  composte;  Platone  vuol  dire  semplicemente  che  la realtà  del  sensibile  non  è  un  a  realtà  piena,  assoluta:  ma  è  evidente  che egli  non  si  espr  imerebbe  cosi,  s'egli  conoscesse  già  la  dottrina  che  l'Es sere  e  il  Non  essere  sono  i  due  elementi  delle  Idee  e  delle  cose.  A  479, spiegando  perchè  le  cose  sensibili  partecipano  dell'  essere   e  del  non  es- ser*», dà  un  altro  carattere    per  cui  esse  si  distinguono   dalle  Idee,  cioè che  in  esse  si  trovano  al  tempo  stesso  degli  attributi  contrari.  Anche  nei Parmenide  (l29a-130a,  Isod-e)  le  cose  vengono  opposte  alle  Idee,  perchè quelle  partecipano  simultaneamente  di  attributi    contrari,  e  queste  no;  e liei  Fedone  (v    103  d-1o5a)  si  stabilisce  il  principio  che  un'Idei  non  può mai  partecipare  a  due  Idee  contrarie    (infatti  è    impossibile,  nel    metodo di  divisione,  di  subordinare  un'Idea  a  due  Idee  contrarie).  Noi  dobbiamo perciò  ammettere  che  questi  dialoghi  sono  anteriori  alla  dottrina  dei  due elementi,  perchè  secondo    questa  dottrina    ciascuna    Idea  partecipa  delle Idee  contrarie  dell'Essere  e  del  Non  essere,  dello  Stesso  e  del  Diverso, del  Finito  e  dell'Infinito,   ecc.  (vedi  ciò  che  diremo    appresso   sulle  due auoxoDciat  di  prìncipi!  opposti).  I  m nel  Graude  e  Piccolo  (1)  :  ora,  come  osserva  lo  stesso Aristotile,  Platone  sostital  airinfìnito  uno  dei  Pitagorici la  daaiità  del  Grande  e  Piccolo,  per  far  servire  questo principio  alla  generazione  dei  numeri  ideali  (2^  Noi sappiamo  del  resto  (3)  che  la  dottrina  dei  due  elementi di  cui  è  quistionein  ArÌ8totile,fu  esposta  da  Platone  nei suoi  discorsi  sul  Bene,  in  cui  egli  diede  i  risultati  delle sue  ultime  speculazioni.  Si  potrebbe  dire  che  ciò  non esclude  la  possibilità  di  una  forma  anteriore  della  dot- trina, in  cui  il  principio  materiale  non  sarebbe  stato  ancora considerato  come  il  Grande  e  Piccolo,  e  che  Platone  in seguito  avrebbe  modificata,  mettendola  in  armonia  con le  sue  nuove  dottrine  pitagoreggianti.  Ma  si  leggano  i luoghi  d'Aristotile  relativi  a  questa  d'-ttrina,  e  si  vedrà chiaramente  che  Platone  non  si  è  mai  sf^rvito  dei  due elementi  che  come  di  principii  dei  numeri  (4),  e  che  Ari- stotile non  conosce  altra  forma  di  essa  che  quella  in  cui il  principio  materiale  si  fa  consistere  nel  Grande  e  Piccolo (5).  Aggiungiamq  che  in  Met.  l.  XIV.  II.  4  le  speculazioni platoniche  sulla  materia  delle  Idee  vengono  date  come una  deviazione  (èxxpoTng)  dairindirizzo  primitivo. Alla  dottrina  dei  duo  elementi  è  legata  in  Platone, come  nei  Pitagorici,  quella  di  due  serie  (oooToixCat)  di  prin- cipii opposti.  Ad  essa  allude  Aristotile    in  Phys.  ].  III. (1)  V.  i  I.  indicati  nelle  due  note  dopo  la  seguente. (2)  V.  n,  I.  sulla  fine. (3)  V.  Arist.  Phys.  1.  IV.  11.  2,  5,  Simpllc.  in  Phys,  Ibi.  32,  lo4,ll7, J27,  Alcss.  Afrod.  zk  Met.  1.  I.  t.  43  e  t.  60,  ecc. (4)  V.  Mei,  l.  I.  vi.  3-6,  I.  Xm.  VII.  3,  1.   XIV.  1  .  1-14,  1.  XIV.  V. 3-5,  ecc. (5)  Mei.  1.  I.  VI.  3-',  1.  I.  VII.  e-3,  i.  I.  IX.  22-23,  1.  IH.  111.  5.  1.  XU. X.  3,  1.  XIV.  1.  3  sqq.,  1.  XIV.  11.  3-I4,  Phy4,  I.  l.  IX   1-2,  ecc. II.  1-2  e  Met.  1.  XI.  IX.  6-7.  Nel  primo  di  questi  luoghi d  cv»:  •  Alcuni  dicono  che  il  movimento  è  la  diversità  e rineguaglianza  e  il  non  essrre,  mentre  non  vi  ha  alcuna necessità  che  gli  aggetti  si  muovano,  se  sono  diversi  né se  ineguali  né  s'»,  non  esseri.  Il  mutamento  non  è  né que.'^t  »  cose  (la  diversità,  rineguaglianza,  il  non  essere) né  da  es-^e  piuttosto  che  dal'e  opp-^sto.  La  ragione  per cui  hanno  riconiotto  il  movimento  a  queste  cose  é  per- ché sembra  che  il  movimento  sia  qualche  cosa  d'indefi- nito, e  i  princ'pii  dell'altri  s'^ric  fooaxotx^a)  sono  indefi- niti perchè  privativi;  nessuno  di  essi  é  infatti  un'e  senza determiu'ita  né  una  qualità  né  alcuna  d**lle  altre  categorie.» Lo  stessa  quasi  parola  per  parola  nel  luogo  della  Meta- fisica.  Questi  luoghi  si  riferiscono  a  Platone,  perché  sap- piamo che  Platone  riconduce  il  movimento  airelemonto materiale  (1),  e  che  la  divers'tà,  rineguaglianza  e  il  non essere  sono  dellt^  denominazioni  di  quest'elemento.  Inol- tre vi  ha  un  luogo  d'Eudemo,  in  cui  é  certamente  qui- stione  della  stessa  dottrina  a  cui  alludono  i  due  luoghi citati  d'Aristotile,  e  questa  dottrina  é  attribuita  esplici- tamente a  P  atone  (2j. Ora,  quali  sono  i  priocipii  dell'  altra  aDoxoix'-a  di  cui parla  Aristotile  ?  e  —  poiché  Z'aZ/ra  auaxotx^a  suppone  una ouaxoixia  opposta  —  quali  sono  i  principii  della  ouaxoixta opposta  ?  Senza  dubbio  tra  i  principii  dell' «altra  auaxotxfa» (1)  V.  Mei.  1.  I.  IX.  23  e  1.  Xlll.  Vili.  21. (2)  Eudemo  ap.  Siinpl.  ad  Arist.  Phys.  1.  111.  Il:  «Platone  dice  che il  movimento  è  il  grande  e  piccolo  e  il  non  essere  e  l'anomalo  e  quanti  al- tri riduce  alla  stessa  cosa  :  ma  sembra  assurdo  dì  dire  che  il  movimento sia  questo;  infatti  l'oggetto  in  cui  è  presente  il  movimento  si  muove,  ma è  ridicolo  che,  un  oggetto  essendo  ineguale  o  anomalo,  sia  necessario che  esso  si  muova»  Questo  luogo  è  quello  che  abbiamo  indicato  sopia per  dimostrare  che  l'elemento  materiale  veniva  anche  chiamato  l'anomalo -176- ^^ sono  la  Dvarsità,  riaegaagliaaza  o  il  Non  essere;  poi- ché, qnaado  Aristotile  dice  :  «  perchè  sembra  che  il  mo- vimento sia  qualche  cosa  d'indefinito,   e  i  princìpii  d'ìl- Taltra  ouaxoix^a  sono  indefiniti  »,  evidentemente  e^li  in- tende assegnare  come  raocione  dell'aver  ricondotto  il  mo- vimento alla  diversità,  all'ineguaglianza  e  al  non  essere, r  indeterminatezza   per  cui  il  movimento   somiglia  alla diversità,  all'ineguaglianza  e  al  non  essere.  Di  più  il  mo- vimento fa  parte  anch'  esso  dei  principii  dell'  «  altra  ot>- axoix^a»:  infatti,  sq  per  ragione  della  riduzione  del  movi- mento al  non  essere,  alla  diversità  e  all'  ineguaglianza Aristotile  dà  la   somiglianza  che  il  movimento   ha,  non coi  soli  non  esser".,  diversità  e  inegualianza,  ma  coi  prin- cipii dell'  «  altra  oooxoixCa  »  in  generale,    co  è  parche  la riduzione  di  una  cosa  al  non  essere,  la  diversità  e  l'ine- guaglianza equivale  per  Aristotile  alla  sua  classazione tra  i  principii  dell'  «  altra  ouoxoixta».  Tra  i  principii  del- l' €  altra  ouoxotxCa  »  trovandosi   dunque  il  Movimento,  la Diversità,  T Ineguaglianza,  il  Non  e-sere,  tra  i  principii della  otioxoix^a  opposta  devono  trovarsi  gli  opposti,  cioè lo  Stato,  l'Identità  (lo  Stesso),  1'  Eguaglianza,  1'  Essere. E  siccome  VesseTe^Veguaglianza^Videniità  (lo  stesso)  sono dei  nomi  con  cui  viene  designato  l'elemento  formale,  e il  non  essere,  V ineguaglianza,  la  diversità  dei  nomi  con cui  viene  designato  Telemento  materiale,  noi  dobbiamo ammettere  che  i  nomi  dell'uno  dei  due  elementi  figurano anche   come    principii  dell'  una  delle  due  ouoxoix^ai,  e  i nomi  dell'  altro  come  principii    dell'altra.  Ma  di  là  non ne  segue  che  tutti  i   principii  dì  una  delle  due  ouoxoix^at figurino  anche  come  nomi  dell'elemento  corrispondente  : infatti  il  movimento   non  è  un   nomo  deir  elemento  ma- teriale.   Però  il    movimento,  quantunque   questo    nome non    venga   applicato  a  designare  l'elemento  materiale, è  ricondotto,  come  abbiamo  visto,  da  Platone  all'  elemento materiale  :  cosi  devono  anche  classarsi  tra  i  principii dell'  una  o  dell'  altra  delle  due  atioxotx^at  quelle  entità che,  senza  che  i  loro  nomi  vengano  impiegati  per  desi- gnare l'uno  o  l'altro  dei  due  elementi,  sono  nondimeno ricondotti  all'uno  o  all'altro  dei  due  elementi.  A  queste entità  accenna  Ari^^totile  in  generale  in  Mei,  1.  XIII.  Vili. 21,  con  queste  parole  :  «  Alcune  cose  assegnano  (i  Platoni- ci) ai  principii,  come  il  bere  e  il  male,  lo  stato  e  il  moto; le  altre  ai  numeri.»  Il  male  non  è  un  nome  delPelemento materiale,  ma  è,  come  il  movimento,  ricondotto  airele- mento  materiale  (1). Che  Platone  riguardi  i  diversi  nomi  ch'egli  dà  all'uno e  all'altro  dei  due  elementi  come  corrispondenti  a  dei principii  distinti,  è  una  proposizione  che  non  deve  sor- prenderci :  è  questa  anzi  la  sola  interpretazione  che  sia conforme  allo  spirito  del  sistema  delle  Idee  e  alle  abitu- dini del  linguaggio  platonico.  Un  nome,  nella  sua  appli- cazione metafisica,  non  designa  altra  cosa  per  Platone che  il  concetto  che  esso  comunemente  significa,  realiz- zato :  cosi  l'essere  e  il  non  essere,  l'eguale  e  l'ineo naie, lo  stesso  e  il  diverso,  ecc.  non  possono  designare  per lui  che  i  concetti  dell'  essere  e  del  non  essere,  del- Teguale  e  dell'ineguale,  dello  stesso  e  del  diverso,  ecc. realizzati.  Ma  i  concetti  dell'  essere,  dell'eguale,  dello stesso,  ecc.,  cosi  bene  che  quelli  del  non  essere,  deirine- guale,  del  diverso,  ecc.  essendo  distinti,  ne  segue  che le  entità  Er'sere,  Eguale,  Lo  stesso,  ecc.  cosi  bene  che Non  essere.  Ineguale,  Diverso,  ecc.  devono  anche  essere delle  entità  distinte.  Noi  non  possiamo  dunque  ammet- tere che  tra  1'  Essere,  1'  Eguale,  lo  Stesso,  ecc.    da  una (1)  V.  oltre  il  1.  e.  Mei.  l.  I.  VI.  8,  1.  Xll.  X.  4.  L  XIV.  IV.  - t parte,  e  dalPaltra,  tra  il  Non  essere,  V  Ineguale,  il Diverso,  ecc.  vi  sia  una  distinzione,  non  reale,  ma  sem- plicemente nominale,  a  meno  di  supporre  che  Plaone abbia  creduto  che  ciascuna  di  queste  due  serie  di  nomi significhi  uno  stesso  concetto.  La  stessa  osservazione  vale, a  più  forte  ragione,  per  il  movimento,  il  male  e  le  altre cose  che  Platone  riconduce  all'uno  o  air  altro  dei  due elementi,  ma  senza  dare  a  questi  i  nomi  corrispondenti: i  concetti  del  mnle  e  del  movimento  essendo  distinti  tra di  loro  e  dai  concetti  del  non  essere,  dell'ineguale,  del diverso,  ecc.,  il  Male  e  il  Movimento  devono  essere  delle entità  distinte  fra  di  loro  e  dalle  entità  Non  essere,  Ine- guale, Diverso,  ecc. Tuttavia  la  distinzione  che  Platone  stabilisce  tra  tutte queste  entità  non  gV  impedisce  di  riguardarle  al  tempo atesso  come  identiche.  Per  le  entiià  i  cui  nomi  servono a  designare  uno  dei  due  elementi,  qucst'  identificazione risulta  sufficientemente  da  questa  stessa  applicazione  che viene  fatta  dei  loro  nomi.  Ma  essa  non  è  meno  evidente per  le  altre:  roi  abbiamo  già  visto  nel  luogo  citato  di Aristotile  (1)  e  in  quello  d'Eudemo  (2)  che  il  movimento è  la  Diversità,  l'Ineguaglianza,  il  Non  essere,  il  Grande e  Piccolo,  ecc.  Di  quest'identità  degli  altri  principii  d'una o-KjToix^a  con  quelli  che  figurano  come  nomi  delleh  mento corrispondente  ai  hanno  le  prove  nella  più  parte  dei luoghi  d'Aristotile  in  cui  è  qui^^tione  della  relazione  évi movimento  o  del  male  con  l'elemento  materiale.  In  Met. 1.  I.  IX.  23  dice  :  «  la  quanto  al  movimento,  se  esso  é il  grande  e  piccolo,  si  muoveranno  anche  le  Idee». Ibid.   1.  XII.  X.  4  :    «  Tutte    le  cose   parteciperanno   al (1)  Phys.  1.  III.  II. (2)  Ap.  Simpl,  ad  ArisU  Phys.  l.  IIL  IL male,  salvo  l'Uno,  poiché  il  male  in  sé  é  l'altro  elemento.*» Ibid.  I.  XIV.  IV.  6-7  :  t  Alcuni  (dei  Platonici  —  vale  a dire,  per  quanto  possiamo  giudicarne,  tutti  gli  altri  tranne Speusippo  e  i  suoi)  dicono  l'Ineguale  la  natura  del  male. Ne  segue  che  tutti  gli  esseri,  salvo  uno  cioè  l'Uno  stesso, partecip'^ranno  al  male»,  ecc.  Come  si  può  intendere che  delle  entità  distinte  siano  al  tempo  stesso  identiche?Noi ritroviamo  qui,  mutai ìs  mutandis,  quello  stesso  rapporto ambiguo  che  abbiamo  già  incontrato  tra  l'uno  e  i  molti (i  molti  fcono  1'  uno  e  Tuno  è  i  molti).  Bisogna  rinun- ziare su  questo  soggetto  a  qualsiasi  concetto  intelligi- bile. Tutto  ciò  che  possiamo  dire  di  più  chiaro  è  che  i diversi  principii  di  ciascuna  delle  due  ooaTotx^at  sono  ri- guardati da  Platone  come  degli  aspetti  diversi— egual- mente obbiettivi— deirelemento  corrispondente.  L'espres- sione degli  aspetti  diversi  egualmente  obbiettivi  è  certa- mente un  non  senso  —  fra  i  diversi  aspetti  di  un  oggetto è  uno  solo  che  noi  possiamo  riguardare  come  obbiettivo— ma  essa  è  forse  la  più  appropriata  per  rendere  l'oscuro concelto  racchiuso  in  questa  dottrina. Ciascuno  dei  principii  dell'una  e  dell'altra  ouoxoixta é  certamente  considerato  come  un  attributo  d'una  uni- versalità assoluta,  prosante  in  tutti  gli  esseri.  In  effetto Ih  più  parte  di 'questi  principii,  per  quanto  possiamo giudicarne,  figurano  come  nomi  dell'  uno  o  1'  altro  dei due  elementi  ;  ed  è  evidente  che  Platone  non  potrebbe dire  che  l'Essere  o  l'Eguale  o  lo  Stesso  ecc.  è  la  forma di  tutte  le  Idee,  e  il  Non  essere  o  l'Ineguale  o  il  Diverso ecc.  la  materia,  se  l'Essere,  il  Non  essere,  l'Eguale,  lo Ineguale,  lo  Stesso,  il  Diverso,  ecc.  non  fossero  per  lui delle  determinazioni  comuni  a  tutti  gli  esseri.  In  quanto ai  principii  che,  come  lo  Stato  e  il  Moto,  non  figurano come  nomi  degli  elementi,  la  loro  universalità   assoluta -  178  — è  prorata,  oltre  che  dal'a  coerenza  della  dottrina,  dal fatto  che  gli  attributi  corrispondenti  a  questi  priiìcipii vengono  riguardati  come  determinazioni  inerenti  alla forma  o  alla  materia  universali.  È  ciò  che  vediamo  per .  il  Movimento.  Nel  Timeo  la  materia  di  tutti  gli  ess  ri  è simboleggiata  da  una  massa  in  un  movimento  conti- nuo (1),  e  Xenocrate  chiamava  la  materia  di  cui  tutte  le cose  sono  fatte  àévaov  (continuamente  fluente)  (2|  Qu-sto stesso  concetto  era  espret^so  da  Xenocrate  sotto  forma simbolica,  quando  chiamava  1'  Unità  1"  intelligenza  e  la Dualità  indefinita  l'anima  del  tutto  (3)  :  1  elemento  ma- teriale è  simboleggiato  dall'anima,  perchè  qu^s'a  è,  se- condo Platone,  perpetuamente  in  movimento,  e  comunica li  suo  movimento  a  tutto  le  altre  cose  (1*  elemento  tv  r- maleo  il  Bene  dallintelligenza,  erme  nel  Tiineo,  peicbè questa  è  la  sola  attività  .mpiri.a  che  operi  secondo  il principio  delle  cuse  finali)  (4).  Per  altro  1'  univer.-alità assoluta  di  tutte  que.ste  entità  è  infreute  alla  hro  qua- lità di  principi i,  perchè,  couformemente  alla  dialet  ira platonica,  ciò  the  è  di  una  universalità  solo  relativa CIÒ  che  è  contenuto  sotto  un'Idea  più  generale,  non  po- trebbe essere  riguardato  come  principio.  Cosi  la  dottrina (1)  V.  30  a,  52  e-53  a,  88  d. (2)  V.  MuUaoh  Pr.  78. (3)  Stob.  Ed.  Phys.  1.  I.  o.  2.  29.  (Muli.  Xenoor.  Fr.  I). (4)  Che  U  movimento  sia  un  attributo  universale  comune  a  tu(  t  e le  cose,  risulta  del  resto  dalla  dottrina  del  divenire  continuo  dei sensibiU.  Per  altro  non  bisogna  dimenticare  ohe  il  mofim.nto  (x{- VigoiS)  ha  nel  linguaggio  dei  filosofi  greci  un  significato  molto  lato, essendo  press'a  poco  un  sinonimo  di  cangiamento.  Platone  chiama anche  movimento  una  relazione  transitoria  d'  una  cosa  con  altre anche  che  non  importi  in  essa  un  cangiamento  reale;  p.  e.  l'esser conosciuta  è  un  movimento  deUa  cosa  conosciuta  {Sof.  248j,V delle  due  ouaxotxtat  di  principii  opposti  dà  una  risposta alla  quistione  quali  siano  propriamente  le  determina- zioni delle  co^e  che  i  due  universali  supremi,  cioè  la forma  e  la  materia  delle  Idee,  rappresentano;  la  riunione degli  attributi  corrispondenti  ai  principii  dell'una  o  del- l' altra  ouoxoix^a  ci  dà  il  significato  complelo  dell'  ele- mento rispettivo  (1). Qufsta  dottrina  di  due  serie  di  principii  opposti  è evidentemente  un'imta/ione  di  qu<'lla  corrispondente  dei Pitagorici.  Cosi  noi  dobbiamo  ammettere  che  questi  op- posti non  rappresentano  solamente  le  determinazioni universali  dell'essere,  ma  ancora,  come  quelli  dei  Pita- gorici, le  opposizioni  fondamentali  delle  cose.  È  a  ciò che  deve  riferirai  Tindicazione  d'Alessandro  d'Afrodisia  (2) che  Platone  vedeva  nell'Eguale  e  l'Ineguale  o  V  Uno  e la  Diade  indefinita  e  i  principii  degli  esseri  per  se  stessi e  degli  opposti  ».  I  «  principii  degli  opposti  »  è  certamente (3)  Fra  questi  principii  opposti,  riguardati  come  attributi  co- muni a  tutti  gli  esseri,  sono,  come  abbiamo  visto,  il  bene  e  il  male. Elevando  il  male  a  principio  e  attributo  universale  delle  cose,  Pla- tone si  mette  certamente  in  opposizione  con  la  forma  primitiva del  suo  sistema:  tuttavia  quest'opposizione  non  è  cosi  grande  co- me potrebbe  sembrare  a  prima  vista.  Potrebbe  credersi  infatti  ohe egli  dia  al  male  una  parte  eguale  a  quella  del  bene.  Ma  non  è  cosi. La  forma  e  l'essenza  degli  esseri  è  il  bene  :  ne  segue  che  il  male non  ò  che  un  accidente;  se  no,  perchè  l'essenza  delle  cose  sarebbe il  bene  piuttosto  che  il  male  ?  Noi  abbiamo  già  osservato  che  il male  non  è  nemmeno  riguardato  da  Platone  come  la  materia.  E- videntemente  il  concetto  di  Platone  ò  che  il  bene  è  il  tipo  che  tutti gli  esseri  tendono  a  realizzare,  ma  che  nessuno  realizza  se  non. d'una  maniera  approssimativa.  Nel  Timeo  Dio  realizza  da  per  tutto l'Idea  del  bene,  ma  per  quanto  è  possibile  (v.  29  e— 30  a,  46  c-d,  48  a, ^  b,  56  e,  68  e— 69  b).  Cosi  in  tutti  gli  esseri  vi  ha  a  lato  del  bene  il male  :  ma  la  regola  è  il  bene,  e  il  male  non  è  che  l'eccezione. (1)  Ad  MeU  1.  I.  t.  43. ^  119  — -r— >Un  ^espressióne  inesatta,  almeno  in  un  pnnio,  cioè  che Platone  non  poteva  rguardare  gli  altri  principi!  delledue  o^ozoix'^oLi  come  derivati  dal T  Eguale  e  l'Ineguale  o rUno  e  la  Diade  —  poiché  in  questo  caso  non  sarebbero stati  anch'essi  dei  principii—]  ma  gli  altri  dati  che  ab- biamo su  questa  dottrina  ci  autorizzano  ad  intendere  la indicazione  d'  Alessandro  in  questo  senso,  che  Platone riconduceva  le  opposizioni  fondamentali  delle  cose  ai due  elementi  delle  Idee.  Questo  concetto  dà  anche  la spiegazione  di  una  dottrina  d'Aristotile,  che, come  tante altre  di  questo  filosofo  (p.  e.  la  distinzione  de4a  forma e  della  materia),  non  si  comprende  che  per  il  rapporto della  sua  filosofia  con  quella  di  Platone.  È  la  proposi- zione che  tutte  le  contrarietà  si  riducono  a  quella  del- l'unità e  della  pluralità  (p.  e.  lo  stato,  l'eguale,  lo  st*',sso si  riconducono  all'unità;  il  moto,  T  ineguale;  il  diverso, alla  pluralità)  (1).  Questa  proposizione,  di  cui  non  po- trebbe vedersi  tilcun  legame  coi  concetti  della  filosofia d'Aristotile,  si  riattacca  invece  della  maniera  più  natu- rale a  quelli  d'una  filosofia  che,  come  quella  di  Platone,fa  consistere  l'essenza  delle  cose  nei  numeri.  E  in  effetto essa  è  contenuta  in  germe  nella  dottrina  delle  due  ouoxoi- xCai  di  principii  opposti.  Questi  principii  opposti,  al punto  di  vista  della  teoria  dei  numeri,  erano  ricon- dotti da  Platone  all'Uno  e  al  Grande  e  Piccolo,  e il  Grande  e  Piccolo,  specialmente  come  elemento  dei  nu- meri, cioè  come  Molto  e  Poco,  equivaleva  alla  Pluralità: cosi,  siccome  le  due  serie  di  principii  opposti  rappresen- tavano, come  abbiamo  detto,  le  opposizioni  fondamentali degli  esseri,  cioè  le  più  generali  e  a  cui  la  più  parte delle  altre,  se  non  tutte,  si  riconducono  ;  di  là  si  giun- (1)  V.  Met.  l.  IV.  II.  5-8,  14-15,  1.  X.  III.  3,  IV.  11, 1.  XI.  III.  4. gevà  facilmente  alla  generalizzazione  a*  Aristotile  —  se l'autore  di  questa  generalizzazione  è  stato  Aristotile,  e non  Platone  stesso  —  che  tutti  i  contrarli  si  riconducono all'unità  e  alla  pluralità.  Una  conferma  del  rapporto  di questa  dottrina  d'Aristotile  con  la  filosofia  platonica  po- trebbe vedersi  in  questa  circostanza,  che  Aristotile  trat- tava di  essa  nel  libro  sul  bene  (1),  nel  quale  esponeva gli   diypoLcpoL  SÓYjiaTa  di  Platone  (2). Probabilmente  le  due  ouaxotxfat  di  Piatoti»  compren- devano, come  quelle  d«  i  Pitagorici,  dieci  opposizioni (p«  rchè  dieci  era  il  numero  perfetto)  (3),  e  noi  possiamo supporre  con  qualche  verrsimiglianza  che  fossero  le  se- guenti :  1^  Fine  0  Finito  —  Infinito  (4).  2»  Unità —Mol- t  plicità.  3^  Dispari— Pari.  4^  Bene-Male.  5^  Stato-Moto. 6°  Essere- Non  Essere  (5).  1^  Lo  Stesso— Diverso.  8°E- gnaìe— Ineguale.  9"  Rego lare-Irregolare  (òjiaXóv-àv(i)|jiaXov) 10°  Ordinato— Inordinato  (xaxxóv-àxaxxov)  (6).  Di  queste (1)  V.  Alex.  Aphrod.  in  Met.  1.  IV.  t.  9  e  19,  l.  X.  t.  9,  1.  XI. t.  10. (2)  V.  Slmpl  in  Phys.  fol.  32  e  fol  104,  in  De  Anima  l.  I.  o.  II, Al3s^.  in  Met.  1.  I.  VI.  t.  43,  1.  I.  IX.  t.  60,  Filopono  in  Phys.  1.  IV. II,  eco. (3)  V.  Arist.  Met.  1.  I.  V.  3. (4)  Platone,  cerne  vediamo  nel  Filébo  (v.  16  e,  23  e,  24  a,  26  b,  d, 26  b,  ecc.),  doveva  riguardare,  all'esempio  dei  Pitagorici,  il  Fine e  il  Finito  come  equivalenti. (5)  Naturalmente  in  quest'opposieione  Non  essere  non  significa ciò  che  non  esiste,  ma  la  negazione  (p.  e.  non  uomo,  non  bello, non  grande)  e  la  privazione  (p.  e.  tenebre,  silenzio,  cecità).  Senza dubbio,  Platone  preferisce  per  l'elemento  materiale  la  denominazione di  Non  essere,  perchè,  come  dice  Aristotile,    i  principii  dell*  altra Q\}Q\0iyÌ0L  sono  privativi,  e  l'elemento  materiale  equivale  al  com- plesso di  questi  principii. (6)  Teofrasto  Metaf.  33  :  Platone  e  i  Pitagorici  pongono  Toppo- slzioue  dell'uno  e  della  dualità  indefinita:  in  questa  è  1'  infinito, —  180  — opposizioni  la  prima  metà  sono  comuni  coi  Pitagorici. Comparando  nel  loro  insieme  la  tavola  di  Platoae  e  quella d'i  Pitagorici,  la  prima  si  distingue  per  un  carattere più  astratto;  e  le  opposizioni  particolari  a  Platone  pos- sono riguardarsi,  per  la  più  parte,  come  delie  genera- lizzazioni di  quelle  dei  Pit»g  orici.  Per  giustificare  il  can- giamento ch'egli  apportava  nella  dottrina  dei  Pitagorici, Platone  poteva  dire  che,  tra  le  opposiz'oni  delle  cose,' quelle  che  meritavano  di  essere  elevate  al  grado  di  prin- cipi! ed  elementi,  erano  le  più  generali. II  tratto  essenziale,  per  cui  la  tavola  delle  opposizioni  di Platone  si  distingue  da  quella  dei  Pitagorici,  è  che  i  princi-pii  opposti  di  Platone  sono  degli  attributi  universalissiml comuni  a  tutti  gli  esseri,  e  che  i  principii  di   ciascuna serie,  riuniti,  costituiscono  uno  dei  due  elementi  di  tutte le  Idee  :  le  altre   differenze   dipendono  da  questa  diffe- renza fondamentale.   Essa  alla  sua   volta  è   una  conse- guenza della  dialettica  platonica.  Le  dieci  coppie  di  op- posti erano    per  i  Pitagorici  i  principii   delle  cose  :  ora un  principio  è,    secondo  Platone,  ciò  che  occupa  il  grado p.ù  elevato  nella  scala  del'a  generalità,  e  che,  come  tale, SI  trova  al  punto  di  partenza  della  dialettica,    conside- rando qne^ta  nella  sua  marcia  d  scensiva,  che  è  qnella che  corrisronde  al  progresso  reale  dell'essere.  Per  con- seguenza, delle  entità  distinte  dagli  Universali  Hnpremi cioò  dalla  forma  e  dalla    materia  di  tutte   le  Ide«,  non potrebbero  avere,  n.l  sistema  di  Platone,  il  carattere  di Nel  T.meo  l'elemento  materiale  è  rappreseatato  da  una  massa  che 81  muove  disordinatamente  (àtoéxxwc)  «  ohe  il  nom:,„„«  »i. presenta   l'Idea   del  bene. ^a    pas^  Jar^r^' oS principii^  perchè  sarebbero  loro  subordinate  in  genera- lità, e  deriverebbero  da  loro  :  cosi  le  due  oooxotx^at  di principii  opposti  non  potevano  essere,  in  questo  sistema, che  la  decomposizione  dei  due  Universali  supremi  in  due serie  di  attributi  egualmente  universali  e  aventi  ciascuno una  parte  della  loro  comprensione. Questa  modificazione  aveva  anche  V  effetto  di  ren- dere la  dottrina  pitagorica  delle  opposizioni  meno  arbi- traria. I  Pitagorici  prendevano  all'azzardo  certe  opposi- zioni, e  dichiaravano  che  esse  erano  gli  elementi  costi- tutivi delle  cose  :  ma  come  queste  oppjsizioni  potessero essere  gli  elementi  costitutivi  delle  cose,  e  perchè  que- ste precisamente  e  non  altre,  erano  delle  quistioni  che, nella  dottrina  dei  Pitagorici,  restavano  senza  risposta. A  questa  quistione  Platone  rispondeva  con  IVquivalenza tra  le  due  serie  di  principii  opposti  (presa  ciascuna  nel suo  complesso)  e  i  due  elementi  delle  Idee  —  Il  concetto più  nebuloso  di  questa  dottrina  di  Platone,  cioè  l'iden- tifìcazione  dei  diversi  principii  di  ciascuna  delle  due ouoxotx^at,  aveva  per  lo  meno  un  addentellato  nella  dot- trina corrispondente  dei  Pitagorici.  Quando  questi  chia- mano rimpari  mascolino  e  il  pari  femminino,  e  riguar- dano la  ouoToixta  del  Finito  come  quella  dei  beni  e  la oDOTO'-x^a  dell'  infinito  come  quella  dei  mali,  essi  sembrano considerare  il  bene  e  il  mascolino  erme  equivalerti  h\- l'impari  e  al  finito,  e  il  male  e  il  femminino  come  equi- valenti al  pari  e  all'  infinito.  L'  identificazione,  nel  s'- stema  pitagorico,  di  c'aj^cnno  dei  pr'ncip  i  dell'una  delle due  auoTO'-x^at  al  Fini'o  e  di  quflli  dell'altra  all'Infinito risulterebbe  anche  dall  indicazione  di  alcuni  autori  che  i Pitagorici  ch'amavano  l'uno  dei  due  elementi  impari,  ma- schio, luce,  destro,  retto,  slabile,  ecc.,  e  l'altro  coi  nomi —  IM  — contraTi  (1).  Per  Platone  quest'identificazione  era  neces- saria, s'egli  voleva,  ad  imitazione  dei  Pitagorici,  ricon- durre questi  principii  al  Fine  e  air  Infinito,  e  al  tempo sti  880  conservare  ad  essi  la  loro  qualità  di  principii.  In effetto,  oltre  quest'identificazione,  egli  non  avrebbe  avuto che  un  mezzo  per  ricondurre  ai  due  elementi,  cioè  al Fino  e  all'Infinito,  le  altre  entità  facienti  parte  delle  due serie  di  opposti  :  quello  di  riguardare  il  Fine  e  l'Infinito come  generi,  e  queste  altre  entità  come  specie.  Ma  allora queste  entità  non  sarebbero  i^tate  più  dei  principii;  poi- ché, come  abbiamo  più  volte  osservato,  nf Hi  dialettica platonica,  ciò  che  è  subordinato  a  qualche  cosa  di  più generale,  non  è  un  principio,  ma  un  essere  derivato. Inoltre  esse  non  avrebbero  avuto  più  coi  due  elementi il  rapporto  speciale  che  ammetteva  la  filosofia  pUagorica, ma  semplicemente  il  rapporto  comune  che  hanno  con questi  tutte  le  entità  platoniche,  tutte  le  Idee  essendo con  gli  elementi  nella  relazione  di  specie  a  genere.  Del resto,  senza  V  identificazione  dei  principe*  di  ciascuna ouoTotxta,  non  si  vede  come  Plafone  avrebbe  potuto  fare coesistere  la  dottrina  di  una  moltiplicità  di  principii  con quella  dell'unità,  almeno  con  quella  dell'unità  del  prin- cipio formai^,  indispeuj'abile  alla  dialettica  platonic?», perchè  l'sISo^  supremo  ron  potrva  essere  che  un.  solo. La  dottrina  delle  due  ouoxoixiai  di  principii  opposti  sup- pone evidenteme».to  qu»  ll;i  dei  du*».  elementi  :  per  conse- guenza le  prove  che  d  mostrano  che  la  se  conda  delle due  dottrine  è  nata  post<  rrormente  al  sistema  delle  Idee e  della  dialettica,  dimos'i-ano  qnesta  sfessa  posteriorità anche  per  la  prima.  Sar  bbc  superflua  qualsiasi    osser- (1)  y.  Eudoro  ap.  Simpl.  7  7<i/8.  39a,  1,  e.  e  Porfirio  Vita  Pytha^ gorue,  §.  38. vazjone  sulla  contraddizione  di  questa  dottrina  coi  prin- cipii della  dialettica  platonica,  e  la  necessità,  che  ne  se- gue, di  spiegarne  l'origine  per  una  fusione  dei  concetti primitivi  di  Platone  con  un  elemento  straniero,  indipenden- temente dal  quale  questi  concetti  si  erano  formati.  Ma un'osservazione  che  non  possiamo  tralasciare  è  la  rela- zione di  questa  dottrina  con  un  luogo  del  Sofista,  che senza  questa  recezione  sarebbe  incomprensibile.  In  questo dialogo  (254  d-2f)6  e,  2n8  d,  259  a,  260  b)  l'Essere  e  il Non  e«8c  e  e  lo  Stesso  e  il  Diverso  vengono  date  come delle  Idee  d'un'universalità  assoluta,  a  cui  tutte  le  altre Idee  partecipano.  Ora,  conformemente  ai  principii  della dialettica  platonica,  non  potrebbe  esservi  che  una  sola Idea  d'  una  universalità  as-oluta  e  a  cui  tutte  le  altre paitecipino.  Questa  incoerenza  ci  indica  dunque  che  il Sofista  è  stato  scritto  nel  periodo  pitagoreggiante,  e quando  Platone  ammetteva  già  la  dottrina  delle  due ouoToix^at  di  principii  rpposti.  E  in  effetto  l'Essere  e  il Non  essere  e  lo  Stesso  e  il  Diverso  fanno  certamente parte  di  queste  ouoToix^ai.  Noi  abbiamo  del  resto  altre prove  che  dimostrano  che,  quando  Platone  Fcrivevail  So- Jìsta,  egli  aveva  già  immaginato  la  dottrina  dei  due  ele- menti. Cosi  la  più  parte  degl'interpreti  hanno  compreso, indipendentemente  dalla  nuova  prova  che  noi  apportiamo, che  l'Essere  e  il  Non  essere  di  cui  si  tratta  nel  Sofista sono  quegli  stessi  di  cui  è  quistione  nella  Metafisica  di Aristrtile,  vale  a  dire  i  due  »1(  menti  d^^lle  Idee.  Ciò  ri- sulta prima  di  tutto  da  un'allusione  della  Met.  1.  XIV. II.  7-8,  cioè  che  Platone  ha  identificato  il  Non  e  sere, vale  a  dire  la  mat  aia,  con  la  natura  del  falso  :  questa allusione  convii  ne  perfettamente  al  Sofista,  perchè  in questo  dialogo  Platone  sostiene  che  il  discorso  e  l'opi- nione falsa    hanno   per   oggetto   il  Non  essere,    e  sono —  i82  — TT -^ falsi  ppF  la  partecipazione  del  Non  essere  (1).  Inoltre  la lunga  rìi^ressone  per  dimostrare  l'esistenza  del  Nones- sere  (236  d-260)  prova  che  quesò'  ent  tà  occupa  noi  si- stema un  posto  d'un'importanza  speciale:  Platone,  è  vero, dà  per  iscopo  a  questa  digressione  di  stabilire  resistenza del  falso,  difendendola  dalle  obbiezioni  capziose  dei  con- temporanei; ma  è  evidente  che  questo  non  è  che  un  pre- testo per  riattaccare  le  sue  speculazioni  alle  quistioni del  giorno.  Aggiungiamo  che  alla  sommità  del  mondo ideale  sta,  nel  Sofista,  non  l'Idea  del  Bene,  ma  quella dt^lFEssere  (3j. B.  Il  puntodi  partenza  della  dottrina  sulla  materia  delle cose  — cioè  sulla  materia  e.st'^riore  alle  Idee  e  che  si  ag- giunge ad  esse  per  costituire  le  cose  — è  la  costruzione del  corporale    II  corpo  si  compone  delle  superficie  e  dello (1)  V.  236  d-241,  2G0  b-264. (2)  Contro  l'equivalenza  del  Non  essere  del  So/;s/a  col  Non  essero della  Metafìsica  vi  sarebbe  l'obbiezione  che  nel  So/ìsta  il  Non  essere non  potrebbe  riguardarsi  come  un  principio  primitivo,porcUò  vi  si  dice che  quest'Idea  è  contenuta  sotto  quella  dal  Diverso  (257d-258d).  Ma quest'obbiezione  non  ha  un  gran  valore;  perchè,  siccome  tanto  il  Di- verso quanto  il  Non  essere  si  trovano  in  tutte  le  altro  Idee,  e  per conseguenza  anche  l'ana  nell'altra,  cosi  il  rapporto  di  contenenza tra  le  due  Idee  è  reciproco,  cioè  è  altrettanto  vero  di  dire  eh >  l'I- dea del  non  essere  è  contenuta  sotto qu^^lla del  diverso  — perchèdel non  essere  può  predicarsi  il  diverso- quanto  di  dira  cha  l'IdaadBl diverso  è  contenuta  sotto  quella  del  non  essere-perche,  reciproca- mente,del  diverso  può  predicarsi  il  non  essera—.  Se  l'Idea  contenente dovesse  riguardarsi,  in  questo  caso,  come  anlerìore  all'Idiia  conte- nuta, vi  sarebbe  per  conseguenza  altrettanta  ragione  di  riguardare il  Diverso  come  anteriore  al  Non  essere  che  di  riguardare  il  Non essere  come  anteriore  al  Diverso  :  cosi  il  rapporto  logico  di  conte- nente e  contenuto  non  può  importare,  in  questo  caso,  il  rapporto o  ntologico  di  anteriore  e  posteriore, (3;  V.  243  c-d  e  253  e-254  b. spaz'o  che  es -e  racchiudono;  le  superficie  similmente  delle linee  che  le  limitano  e  dello  spazio  compreso  fra  queste linee;  e  le  linee  dei  punti  che  le  limitano  e  dello  spazio compreso  tra  questi  punti.  Il  punto  viene  identificato  con r  unità.  Un'esposizione  completa  di  questa  costruzione delfesteso  non  la  troviamo,  a  dir  vero,  né  in  Platone  né in  Aristotile.  Nel  Timeo  vi  ha  solamente  la  composizione del  corpo  dalle  superficie  (1).  Ma  Aristotile  parla  spesso dell'opinione  che  le  superficie,  le  linee  e  i  punti  o  unità sono  soe^tanze,  e  che  il  punto  o  unità  è  più  sostanza  della linea,  la  linea  più  della  superficie,  e  la  superficie  più  del corpo  (2),  opinione  che  si  deve  afribuire  a  Platone  e  ai suoi,  perchè  essa  é  logrta  alla  dottrina  delle  Idee  (3),  e fondata  sul  motivo  che  so])presso  il  punto  si  sopprime- rebbe anche  la  linea,  soppressa  questa,  la  superficie,  esop- pressa  la  superficie,  il  corpo  (4).  E  evidentemente  alla  stessa opinione  che  allude  Aristotile,  quando  respinge  la  proposi- zione che  i  punti  e  le  linee  sono  la  materia  dei  corpi  (5).  In- fine Alessandro  d'Afrodisia  afferma,  come  abbiamo  visto altrove,  che  Platone  fa  venire  i  corpi  dalle  superficie, le  superficie  dalle  linee,  e  queste  dai  punti,  che consi^^era  come  unità;  e  che  è  questa  la  ragione  per  cui (1)  V.  53  c-57  d.  Cfr.  Arist.  De  gen,  1.  I.  II.  8-9,  1.  I.  Vili.  8-9, 1.  II.  T.  4.  De  Coeìo  l.  III.  I.  3  14,  1.  III.  VII.  1,5-10,  1,  III.  Vili. 1-3,  I.  IV.  II.   J-t),  13. (2)  MI,  1.  III.  V,  1.  V.  VITI.  3,  1.  VII.  IL  25,  l.  XI.  IL  7-8, l.  XIV.  IIL  6-7,  l'hijs.  l.  V.  IIL  9. (3)  V.  Met.  l.  VIL  IL  5  e  1.  XIV.  IIL  6-7. (4)  V.  Met.  1.  III.  V.  3  e  1.  V.  Vili.  3-questo  è,  come  sappiamo, il  criterio  di  cui  si  serve  Platone  \)er  stabilire  che  una  cosa  è  an- teriore ai  un'altra. Anche  Alessandro  Afrod.  riferisce  l'allusione  a  Platone  (ad  iJf^/, 1.  VIL  t.  3j. (5)  ])e  gen,  1.  I.  V.  6. -  183  ^ ..  i egli  ammette  che  i  numeri  sono  i  princìpi  degli  esseri (ad  Mei.  1.  I.  t.  43)  (1).  Com'  è  che  le  superficie  ven- gono dalle  linee  e  le  linee  dai  punti?  Della  stessa  ma- niera certamente  con  cui,  nel  Timeo,  i  corpi  vengono dalle  superficie.  La  costruzione  del  corpo  nel  Titueo^  in effetto,  sarebbe  da  sé  sola  incomprensibile  :  essa  non  si comprende  che  come  parte  di  un  processo,  che  ha  per risultato  di  comporre  il  corpo  dello  spazio  e  delle  unità che  lo  definiscono,  cioè  del  numero  (2). Per  le  superficie  di  cui  si  compongono  i  corpi  biso- gna intendere  dei  piani,  e  per  le  linee  di  cui  si  com- pongono le  superficie,  delle  rette.  La  costruzione  del corpo,  di  cui  abbiamo  parlato,  si  applica  particolarmente ai  corpuscoli  elementari;  poiché  Platone  nel  periodo  pi- tagoreggiante  ammette  la  fisica  corpuscoUre,  e  ciascuno di  questi  corpuscoli  6  un  poliedro  regolare.  Vi  hanno cinque  elementi  corrispondenti   ai  cinque    poliedri  rego- (1)  Quest'indicazione  d'Alessandro  d'Afrodisia,  al  fondo,  non  ci apprende  niente  di  nuovo  ;  perchè  la  formula  d'  Aristotile,  che  il punto  o  unità  è  più  sostanza  della  linea,  la  linea  della  saporticie  e  la superfìcie  del  corpo,  signitìca  precisamente  che  il  punto  o  unità  è  il principio  da  cui  deriva  la  linea,  la  linea  il  principio  da  cui  deriva  la superficie,  e  questa  il  principio  da  cui  deriva  il  corpo,  h* a n ter iore^ secondo  Platone,  ha  più  essere  che  ìì  posteriore.  Cosi  Aristotile  men- ziona pure  la  proposizione  (evidentemente  dei  Platonici)  ohe  i  ge- neri sono  più  sostanze  delle  specie  (v.  3/t'M.  Vili.  I.  3)—  In  alcuni dei  luoghi  citati  (Met.  1.  III.  V.  3-4,  1.  V.  Vili,  3;  Aristotile  dà anoh'egli  la  dottrina  che  i  principii  delle  cose  sono  i  numeri  come una  deduzione  dall'opinione  che  le  unità  e,  in  generale,  i  termini del  corpo  sono  sostanze  e  più  sostanze  del  corpo  stesso. (2)  Bisogna  anche  vedere  un'allusione  a  questa  costruzione  delcorpo  per  lo  spazio  e  le  unità  nella  domanda  che  Aristotile  rivolge ai  Platonici  :  com'è  che  i  numeri  sono  cause  dell'essere  e  dell'es- senza delle  cose  ?  forse  quali  termini,  come  i  punti  delle  grandezze  ? Met.  1.  XIV.  V.  6.  . lari:  il  corpuscolo  della  terra  che  e  un  cubo,  quello  del fuoco  che  è  un  tetraedro,  quello  dell'aria  che  è  un  ot- taedro, quello  dell'  acqua  che  è  un  icosaedro,  e  quello dell'etere  che  è  un  dodecaedro  (1).  Nel  Timeo  però  Pla- tone non  ammette  ancora  che  quattro  elementi,  ed esclude  esplicitamente  il  quinto,  cioè  il  dodecaedro  (l'e- tere). La  stessa  costruzione  dei  corpi  per  le  superficie,  per le  linee  e  per  i  punti  che  li  limitano  è  attribuita  dagli storici  della  filosofia  (2)  anche  ai  Pitagorici.  E  in  effetto Alesi^andro  d'Afrodisia  —  per  non  parlare  d'altri  autori meno  degni  di  fede,  p.  e.  Diog.  Laerz.  (Vili.  25),  i  quali confondono  sistematicamente  le  dottrine  dei  Pitagorici con  quelle  di  Platone— dice  tanto  dei  Pitagorici  quanto di  Platone  eh'  essi  derivano  i  corpi  dalle  superficie,  le superficie  dalle  linee,  e  le  linee  dai  punti  riguardati  come unità,  e  che  è  perciò  che  ammettono  che  i  principii  delle cose  sono  i  numi',ri  (3).  Inoltre,  come  nota  giustamente il  Zeller,  è  a  una  costruzione  pitagorica  del  corpo  simile a  quella  del  Timeo  che  sembra  alludere  Aristotile,  quando egli  dice  (Met.  1.  XIV.  III.  14)  che  i  Pitagorici  non  hanno determinato  se  è  dalle  superficie  o  in  qualche  altro  modo che  si  è  formato  il  primo  corpo  (l'uno).  È  dunqu«  pro- babile che  nella  sua  costruzione  drl'a  grandezza  estesa Platone  )ia  seguilo  i  Pitagorici  :  ma  per  attribuire  que- sta dottrina  ai  secondi  non  si  hanno  altrettante  prove che  p<*r  atiiibuirla  al  primo.  In  quanto  alla  dottrina  che gli  tlnienti  sono  i  jolicdii  regolari,  essa  ò  dovuta  cer- tamente ai  Pitagorici. (1)  V.  Tim.  53  c-57  e,  £>mom.  981,  Senocrate /'r.  TOMullach,  eco. (2)  V.  Zeller  Filos.  dei  Greci  voi.  I.  4.  ediz.  pag.  375^76,  Bitter Stor.  della  filos,  ant.  t.  I.  1.  4.  e.  2.  trad.  frane,  pag.  329  e  seg.,eco. (3)  Ad  Met.  l.  I.  t.  43,  l.  o. -  184  - Deducendo  il  corpo  dallo  spazio  limìtito  dalle  unità, Platone  ha  evidentemente  per  iscopo  di  ridurre  la  ma- teria al  semplice  spaz  o  e  di  risolvere  il  reale  nei  numeri  (1;. A  questa  deduzione  del  corpo  si  riattacca  la  distinzione della  forma  e  d'ella  materia,  e  la  riduzione  delle  Idee alle  sole  forme  delle  cose,  separaniole  dalla  materia.  Nella nuova  dottrina  di  Platon  ^  le  cose  constano  dunque  di  due elementi  :  l'Idea,  che  rappresenta  la  forma,  e  lo  spazio. (1)  Questo  concetto,  sviluppato  con  conseguenza,  condurrebbe a  spiegare  con  lo  stesso  processo   con   cui  si   spiega  la    grandezza estesa,  o  con  dei  processi  analoghi,    tutte  le  altre  determinazioni del  reale.  Che  Platone  abbia  l'atto  eifeltivamente  cosi,  sarebbe  ar- rischiato   di  affermarlo.    Tuttavia  alcune   proposizioni   platoniche potrebbero  essere  interpretate  in  questo  senso.  Nel  Timeo  (61c-68d) tutte  le  proprietà  sensibili  dei  corpi  —  salvo,  s'intende,  la  grandezza e  la  figura  —  sembrano  riguardarsi  come  dei  fenomeni   subbiettivi (Però  io  non  oserei  attribuire  recisamente  a  Platone  quest'opinione; perchè  Teofrasto  dice  che  per  le  proposizioni  del  Timeo  che  ricon- ducono le  proprietà  sensibili  dei    corpi  alle  impressioni  dei  nostri sensi,  Platone  si  è  messo  in  contraddizione  con  la  sua  propria  dot- trina, che  conservava  a  queste  proprietà  la  loro  natura  obbiettiva: V.  De  sensu  e/ «é'ns.  60-61).  Nel  Ttmeastesfeo  poi  e  tìqWq  Le(jgi  i  fatti mentali  pare  ohe  vengano  identificati  col  movimento.  V. //t'p^i  896e- 898b  (il  pensiero  e  tutti  gli   atti  dello  spirito    sono  dei    movimenti delPanima);  Tim,  37a-c,  47b-c,  89a,  90  d,  ecc.,Arist.  De  Anima  l.  I. III.  Jl-17  (l'  intelligenza  è  un    movimento    circolare);  tim,  43  c-d, 67  b  (le  sensazioni  sono  movimenti).  É  l'opinione  dei  più  risoluti  tra i  materialisti    moderni  —  di    cui  non    mancavano    gli    antecedenti nelle  dottrine  dei  Fisici  (v.  Arist.  Mei.  1.  IV.  V.  7-8)— salvo  che  il movimento,  con  cui  vengono  identificati  i  fenomeni  psichici,  è  at- tribuito da  Platone  alla  sostanza  anima:  ma  questa  differenza  non ha  per  noi  alcuna  importanza,  perchè  Platone  riguarda  la  sostanza anima  come  una  grandezza  estesa.  Sa  noi  congiungiamo  queste  due dottrine,  vale  a  dire  la  subhiettività  delle  qualità  sensibili  dei  corpi e  l'identità  delle  operazioni  dello  spirito  col  movimento,  noi  otte- niamo —  supposto    che   queste   dottrine    siano   appartenute    real- che  rappresenta  la  materia  (1).  Ciò  che  importa  sopfA- tutto  di  notare  per  V  intelligenza  dèi  motivi  di  questa dottrina  è  che  sono  propriamente  le  Idee  che,  in  un  senso stretto,  vengono  identificae  ai  numeri  —  quantunque  Pla- tone dica  anche,  in  un  senso  meno  rigoroso,  che  le  cose sono  numeri  (2),  perchè  IVlemento  che  si  aggiunge  alle Ide^  per  costituire  le  cose  essendo  lo  spazio,  cioè il  vuoto,  tutto  il  realrt  si  risolve  nelle  Idee,  e  per conseguenza  nei  numeri—.  Ciò  é  tanto  vero  che  Ari- stotile dà  come  carattere  distintivo  tra  la  dottrina  dei numeri  di  Platone  e  quella  dei  Pitagorici  che  per  quésti le  cose  constano  di  nunaerì  e  sono  esne  stesso  numeri, ma  per  quello  i  numeri  sono  oltre  (Tiapac)  le  cose  o  separati (XwptaxoC  o  xsx<*>P^afIAévot)  dalle  cose  (3)  A  questa  distin- zfonfe  ne  è  legata  un'altra,  la  quale  implica  anch'  eséa che  i  numeri  sono  per  Plaione  le  Idee;  cioè  che  i  nu- meri platonici  sono  monadici,  vale  a  dire  composti  di vere  unità,  mentre  le  unità  che  co  n pongono  i  numeri pitagorici  hanno  grandezza  (4).  I  numeri  platonici  sono moiiiidici,  cioè  composti  di  unità  incorport*ee  indivisibili, perchè  le  Idee  costituiscono  la  soia  forma  delle  co«p,  e Testensione  viene  a  queste  dall'altro  elemento,  cioè  dallo spazio  :  le  unità  che  compongono  i  numeri  pitagorici hanno  grandezza,    p  *rchè   qu  »>sti    numeri    sono  le  cose mente  a  Platone  -  una  di  queste  auddci  concezioni,  dinnanzi  a  cui questo  filosofo  non  era  solito  d'  indietreggiare  :  cioè  tutto  il  reale ridotto  all'estensione  e  al  movimento,  e  per  conseguenza,  mediante la  costruzione  della  grandezza  estesa  per  lo  spazio  limitato  dalle unità,  risoluto  nel  numero  e  lo  spazio. (1)  V.   Tim.  48-52,  Arist.  M-.t,  i.  I.  VI   7.  Phys,  l.  IV.  IL  2,  5,  eoo. (2)  V.  Met,  l.  I.  Vili.  18.(3)  Met.  l.  I.  VI.  4-5,  1.  XIII.  VI.  4,  6-7,  l.  XUl.  Vili.  9-10,  l.  XIV. TLl.%,  De  Coelo  l.  III.  I.  16. (4)  Mei,  1.  XIII.  TI.  7-9. —  186  — «te^se,  i  composti  di  forma  e  materia,  e  da  ciò  Aristo- tile ne  conclude  che  le  loro  unità  sono  gli  elementi  di cai  i  corpi  si  compongono,  e  devono  essere  anche  esse per  conseguenza  estese  e  corporee.  Questa  differenza  fra i  numeri  di  Piatone,  e  quelli  dei  Pitagorici,  cioè  che  1 primi  sono  le  Fole  forme  delle  cose  e  i  secondi  i  com- posti di  forma  e  di  materia,  spiega  anche  perchè  Ari- stotile non  estende  a  Platone  Tobbiezione,  ch'egli  fa  ri- petutamente ai  Pitagorici,  che  è  impossibile  che  la  gran- dezza estesa  si  componga  di  unità  (1).  Al  numero  se- guente vedremo  un'altra  prova  di  questa  proposizione, che  sono  le  Idee,  cioè  le  forme,  che  vengono  riguardate propriamente  come  numeri  :  è  la  distinzione  tra  le  Idee delle  grandezze  o  grandezze  ideali  e  le  grandezze  ma- tematiche. Di  questi  due  ordini  di  grandezze  le  prime sono  numeri,  perchè  rappresentano  delle  semplici  forme, le  seconde  no,  perchè  sono  costituite  dalle  forme  e  dalla materia:  per  conseguenza  le  prime  sono  riguardate  come Idee,  ma  le  seconde  (quantunque  siano  anch'esse  degli Universali)  come  entità  intermediarie  tra  le  Idee  e  le cose. La  dottrina  che  le  Idee  rappresentano  le  sole  forme delle  cosrt  è  evidentemente  in  contraddzione  coi  princi- pii  del  sistema  delle  Idee.  I  termini  di  cui  Platone  si serve  per  designare  Vlde&— specie,  genere,  essenza,  natura delle  cose  particolari-o  ch'egli  aggiunge  al  nome  per  indi- care che  questo  si  riferisce  all'Idea— aOxó,  aOxò  xae^aòxó, 6  Ioti—;  le  prove  con  cui  ne  dimostra  l'esistenza  — che quasi  tutte  si  riassumono  in  questa  proposizione:  l'  og- getto a  cui  si  riferisce  il  concetto  e  la  conoscenza  gene- rale è  ridea— ;  la  relazione  ch'egli  stabilisce  tra  le  Idee (1)  V.  De  Coelo  1.  III.  L  16-Ì7,  Met.  1.  XUl.  VUl*  9-10, e  le  cose  — che  l'Idea  è  l'uno  nei  molti,  il  comune,  l'u- niversale, l'astratto  (xwptoxóv)— ;  tutti  gli  aspetti,  in  una parola,  sotto  cui  può  considerarsi  la  dottrina  delle  Idee, non  sono  che  degli  sviluppi  diversi  di  questo  principio fondamentale:  l' Idea  è  il  concetto  generale  realizzato. Ora  il  concetto  di  una  cosa  non  rappresenta  la  sola  for- ma, ma  la  cosa  stessa,  il  composto  di  forma  e  materia, concepita  d'una  maniera  astratta  e  generale  (1).  Se  a questa  considerazione  ne  aggiungiamo  un'  altra,  cioè che  la  dottrina  di  una  materia  che  deve  aggiungersi  alle Idee  per  costituire  le  cose  non  si  trova  che  nel  Timeo, e  che  questa  dottrina,  peri'  identificazione  della  materia con  lo  spazio,  suppone  certamente  la  dottrina  dei  numeri, —  perché  questa  identificazione  non  si  concepirebbe  senza là  costruzione  del  corporale  per  lo  spazio  e  le  uaità  che lo  limitano  —,  noi  veniamo  naturalmente  a  questa  con- clusione che,  sinché  Platone  non  ha  oltrepassato  il  sem- plice punto  di  vista  del  sistema  delle  Idee,  l'Idea  ha  do- vuto rappresentare  tanto  la  forma  quanto  la  materia, cioè,  per  servirei  dell'espressone  d'Aristotile,  il  sinolo,  9 che  la  separazione  delle  Idee  dalla  materia  e  la  loro  ri- duzione a  delle  semplici  forme  è  una  modificazione  po- steriore del  sistema  delle  Idee,  sotto  l'influenza  d'un  mo- tivo straniero  all'origine  di  questo  sistema  e  legato  alle (1)  S.Tomm.  Summa,  /,  Quaesi,  LXXXV  art,  I  ;«  Alcuni  hanno  credu- to che  la  specie  d'un  essere  naturale  è  solamente  la  forma,  e  che  la  materia non  la  parte  della  specie.  Ma  se  fosse  c^sl,  nelle  definizioni  degli  esseri  natu- rali non  dovrebbe  entrare  la  materia.  Per  conseguenza  bisogna  dire  invece che  la  materia  è  doppia,  cioè  la  comune  e  la  segnata  o  individuale:  la  comune come  la  carne  e  l'osso,  l'individuale  come  questa  carne  e  queste  ossa. L'intelletto  astrae  dunque  la  specie  dell'essere  naturale  dalla  materia  in- dividuale, ma  non  dalla  materia  comune.  Cosi  astrae  la  specie  dell'uomo da  queste  carni  e  queste  ossa,  che  non  riguardano  la  specie,  ma  sono  part deirindividuo;  ma  non  può  astrarla  dalle  carni  e  dalle  ossa»*  . —  186  — nuove  dottrioe  pitagoreggiauti.  Qual^j  ha  potato  essere questo  motivo  ?  La  risposta  ci  è  suggerita  dal  fatto  che Platone  riconduce  ai  numeri,  non  le  cose  stesse,  imme- diatamente, ma  le  loro  Idee.  Platone  crede  che  vi  ha qualche  cosa  negli  esseri  che  è  irriduttibile  al  numero, e  gli  sembra  più  facile  d'identificare  ai  numeri  le  forme astratte  dalla  m«teria,  che  gli  esseri  stessi,  i  composti di  forma  e  di  materia. .  Nel  Filebo,  che  è  il  primo  pa^so  di  Platone  verso  il pitagorismo,  e  in  cui  si  trova  il  germe  di  tutt^  le  dot- trine pitagoieggianti  posteriori  (l),  si  distinguono  nelle cose  due  elementi  costitutivi  (2),  che  corrispondono  in certo  modo  ai  numeri  ideali  e  alla  materia  —  voglio  dire, alla  materia  delle  cose—.  Il  uépa;  del  i^^Vcfòo  non  sono  i numeri,  ma  dai  rapporti  numerici  :  numero  rapporto  a numero  e  misura  rapporto  a  misura  (25  ab).  Noi  vediamo dunque  che  Platone  non  arriva  alla  dottrina  pitagorica che  gli  esseri  sono  numeri  che  a  traverso  Tidea  che  la natura  degli  esseri  è  costituita  da  rapporti  numerici. Nel  JnlebOy  il  ^épag  e  TàTieipov  non  sono  ancora  identifi- cati alla  forma  e  alla  materia  :  tuttavia  il  grave  e  l'acuto, il  caldo  e  il  freddo,  ecc.,  che  determinati  da  certi  rap- porti numerici,  crstituiscoiio  Tarmonia,  le  stagioni,  ree, rappresentano  qualche  cosa  come  la  materia,  e  i  rap- porti numerici  che  li  determinano,  qualche  cosa  come  la forma.  La  materia-spazio  del  Timeo  e  degli  (Jtypa^ a  eóy- fiaxa  discende  direttamente  dalTànstpov  del  Filebo:  è,  come questo,  l'elemento  delle  cose  irriduttibile  al  numero.  So- lamente, nel  Filebo  quest'elemento  è  più  comprensivo, rappresenta  un  più  gran  numero  di  determinazioni  delle (1)  V.  questo  Supplera.  n.  IV. (2)  V.  Supplem.  B  parte  I,  n.  Vili,  carte  97-loo, Còse;  nel  Timeo  e  negli  i^pa^ct  aóYJiaxa  è  ridotto  a  ùiì minimum  :  la  differenza  tra  i  due  concetti  misura  il  pro- gresso di  Platone  verso  la  dottrina  pitagorica  dei  nu- meri; ma  Platone  non  fece  m%i  l'ultimo  passo,  quello d'identificare  puramente  e  semplicemente,  come  i  Pita- gorici, le  cose  coi  num  »ri. Sembra  dalle   obbiezioni  di  Aristotile   che  ciò  che  s! trovava  di  più   strano  nella  dottrina   dei  Pitagorici  era che  l'estensione  e    la  corporeità    si  facessero    cons  stero nel  numero  (1).    Platone,  da    un  lato,  evitava    in  parte qtie«ta  difficoltà,  facendo  d  jlla  materia  uri  elemento  delle co»<5  distinto  dai  numeri;  e  dall'altro  lato,  riconducendola  materia  allo  spazio,  risolveva,  come  i  Pitagorici,  tutto il  reale  nei  numeri.  Separando  la  materia  dai    numeri, questi    non    venivano  a  rappresentare    che  le    semplici forme.  Ma  ciò  che  ha  dovuto  essere  il  motivo  preponde- rante per  ricondurre  ai  numeri  le  forme  delle  cose  piut- tosto che  le  cose  stesse,   è  che  la  forma  sembra  potersi ridurre  ai  rapporti  numerici  tra  i  sustrati  materiali.  Ari- ptotile  infatti,  nella  sua  polemica  contro  la  dottrina  delle Idee,  confuta  il  concetto  che    le  Id^e  sono  numeri    per- che   1«    forme   delle    coss    consistono    mn    rapporti    nu- merici delle  parti  componenti  (2);  e  noi    possiamo,    per conseguenza,  fare  rimontire  questo  concetto  allo  stesso Platone.  Ccriamente  dire  che  le  forme  delle   cose  consi- stono in  rapporti  numerici  non  equivale  a  dire  che  que- ste forme  sono  numeri,    cioè  che  tal  forma  è  il  numero due,  tal  altra  il   numero  t'^e,  ecc.:  ma  Platone    trovava nella  prima  di    queste  due   proposizioni  un'  idèa   media (I)  V.  Arist.  De  Coelo  1.  III.  1.  16-17,  Mei,  1.  1.    Vili.  i6,  I.  Ul.  IV. 29,  I.  XML  Vili.  9-1  o.  I.  XIV.  111.  4. (2)  Mei.  l.  I.  IX.  J3-14,  1.  XIV.  V.  6-7. —  181-. per  passare  alla  seconda.  Questo  passaggio,  fondato  sulla sostituzione  tra  due  termini  non  equivalenti  ma  sempli- cemente analoghi,  cioè  i  due  concetti  di  rapporti  nu- merici e  di  numeri f  era  senza  dubbio  un  sofisma  assai evidente  :  ma  non  era  che  con  dei  processi  cosi  poco legittimi  che  poteva  arrivarsi  al  risultato  che  le  cose sono  numeri. Le  conside  razioni  precedenti  spiegano  perchè  non sono  le  cose  stesse,  ma  le  semplici  forme  delle  cose,  che vengono  ridotte  ai  numeri  :  ma  perchè  le  Idee  vengono ridotte  alle  semplici  forme  delle  cose?  Evidentemente  per identificarle  ai  numeri.  Come  spiegheremo  in  seguito, il  risultato  a  cui  tendono  le  speculazioni  pitagoreggianti di  Platone  è  l'identificazione  delle  sue  proprie  dottrine  con quelle  dplla  filoso6a  pitagorica.  Per  ottenere  questo  ri- sultato si  mettono  in  opera  al  tempo  stesso  due  processi: Tuno  è  Tintroduzioue  nel  proprio  sistema  dei  concetti più  caratteristici  del  sistema  pitagorico,  e  Taltro  un'in- terpretazione forzata  delle  formule  del  sistema  pitagorico per  ritrovarvi  i  concetti  più  caratterlFtici  del  proprio  si- stema. Ora,  da  una  parte,  la  proposizione  generale  della filosofìa  pitagorica  che  gli  es-teri  Fono  numeri,  e  le  pro- posizioni particolari  che  ne  fanno  l'applicazione,  cioè  che Tuomo  è  un  tal  numero,  un  tal  altro  numero  il  cavallo,  ecc., erano  troppo  caratteristiche,  perchè  Platone  potesse  non accogliere  nel  suo  proprio  sistema  la  stessa  proposizione generale  e  delle  proposizioni  particolari,  se  non  identi- che, analoghp.  Queste  proposiz  oni,  riferite  agli  esseri sensibili,  non  sono  per  Platone  rigorosamente  vere,  per- chè egli  vede  propriamente  nei  numeri,  non  le  cose stesse,  ma  le  forme  delle  cose.  Ma  nel  sistema  platonico esse  non  devono  riferirsi  agli  esseri  sensibili,  ma  alle Idee;  perchè  gli  esseri  sono  per  Platone  le  Idee,   e  una t)roposizione  che  parla  dell'uomo,  del  cavallo,  ecc.  in  ge- nerale, ha  per  oggetto  Tldea  dell'uomo,  del  cavallo,  ecc. Cosi,  riducendo  le  Idee  a  delle  semplici  forme  — che sono  del  resto  il  solo  reale,  perchè  la  materia  non  è  che lo  spazio  —  Platone  ottiene,  da  una  parte,  di  far  entrare nel  suo  proprio  sistema  le  proposizioni  pitagoriche  rela- tive alla  identificazione  delle  cose  coi  numeri.  Dall'altra parte,  l'identificazione  tra  le  Idee  e  i  numori  è  un  mezzo indispensabile  per  ricondurre  le  formule  pitagoriche  ai concetti  proprii  del  sistema  delle  Idee.  Attribuendo,  co- m'egli fa  —  è  un  punto  che  dimostreremo  in  seguito  — agli  antichi  filo^^ofi  p'tagorici  la  dottrina  delle  Idee,  Pla- tone si  fonda  naturalmente  sull'analogia  tra  questa  dot- trina e  le  dotitrine  pitagoriche.  Quest'analogia,  come  ab- biamo osservato,  è  doppia  :  primo,  i  numeri  e  le  altre entità  dei  Pitagorici  sono  delle  astrazioni  realizzate  come le  Idee  platoniche;  secondo,  i  numeri  pitagorici  rappre- sentano, non  la  causa  materiale  o  la  motrice,  come  i principii  degli  altri  filosofi  anteriori  a  Platone,  ma,  come e  Idee  platoniche,  la  specie  e  il  concetto.  È  dunque nella  dottrina  d»^i  numeri  che  Platone  crede  di  scoprire la  dottrina  delle  Idee  :  ma  se  le  Idee  non  fossero  anche per  lui  identiche  ai  numeri,  questa  pretesa  scoverta  non raggiungerebbe  il  suo  scopo,  che  è  d'identificare  la  sua propria  filosofia  con  quella  dei  Pitagorici,  o  piuttosto  dei loro  antichi  predecessori. 11  legame  della  dottrina  della  materia,  come  un  se- condo elemento  delle  cose  distinto  e  separato  dalle  Idee, con  la  dottrina  dei  numeri  è  dimostrato,  come  ab' biamo  detto,  dalla  identificazione  della  materia  con  lo spazio,  perchè  questa  suppone  la  costruzione  del  corpo per  lo  spazio  e  i  punti  che  lo  limitano,  concetto  che  evi- dentemente non   poteva  nascere  che   al  punto  di  vista —  IfiS  — delle  dottrine  pitagoriche  sui  numeri  (1).  ^  ciò  si  pi^rà obbiettare  che  Platone  ha  polnto,  nel  periodo  anteriore a  quello  in  cui  seguiva  le  dottrine  pitagoriche  sai  nu- meri, ammettere  la  separazione  delle  Idee  dalla  materia e  questa  come  un  principio  distinto,  senza  ancora  ricon- durla allo  spazio.  Ma  noi  non  troviamo  né  negli  scritti di  Platone  né  in  quelli  d'Aristotile  alcuna  traccia  di  una dottrina  della  materia  come  principio  distinto  diversa  da quella  del  Timeo.  Dalla  lettura  d'  Aristotile  risulta  anzi chiaramente  l'impressione  eh'  egli  non  conosceva  altra (1)  Per  altro,  che  la  costruzione  della  grandezza  per  i  limiti  eie  spa- 210  racchiuso   appartenga  alle  ultime  speculazioni  di  Platone,  é  provato dalle  contraddizioni  di  questa  dotttrina    coi  principii  della  sua  fìsica    La costruzione  piato  nica  non  potrebln:  applicarsi    ad  altre  superficie  che  a del  piani  né  ad  altre  linee  che  a  delle  rette,  e  per  conseguenza  essa  sup- pone la  dottrina  dei  corpusccli  poliedrici.    Ma  questa    dottrina  richiede necessariamente  l'ammissione  del  vuoto,  perchè,  come  osserva  Aristotile {D^  Coeìo)  1.  111.  Vili.  l),due  solidi  solamente,  cioè  il  cubo  e  la  piramide, potrebbero  riempire  ccmpletamente  lo  spazio.  Intanto  Platone  nega  lesi-' stenza  del  vuoto  (v.  7im,  sSa-c,  óob-c.  79b-80c,  Arist.  Degen.  1.1.  Vili. 9,  De  Coelo  1.  llj.  Vili.  1);  e  questo  è  uno  dei  punti   fondamentali  della* sua  fisica,  come  lo  mostra  sovratutto  la  teoria  dell'  impulsione  circolare V,  7im.  60b-  e  e  /9b-8oc),  che  ha  in  questa   fisica  un'importanza  capi- (lale,  e  che  Piatone   (come  gli  altri  filosofi  antichi    che  negano  il  vuoto) ammettere  per   ispiegare  la   possibilità  del    movimento   senza    il  vuoto. Questa  incoerenza  dimostra  che    Platone  non  cominciò  ad    ammettere  la dottrina  dei  corpi  geometrici,  e,  per  conseguenpa,  la  costruzione  del  cor- porale con  cui  essa  è  legata,  che  dopo  che  le  sue  idee  generali  sulla  fisica  si erano  già  fissate. Un'altra  incoerenza  non  meno  grave  è  la  coesistenza  nel  Timeo  della teoria  dei  quattro  elementi  con  quella  dei  corpuscoli  geometrici  (la  qnale  sup- pone  che  vi  siano  altrettanti  elementi  che  poliedri  regolari)  Più  tardi Platone  è  più  conseguente,  e  ammette  coi  Pitagorici  un  quinto  elemento. Il  carattere  provvisorio  della  dottrina  del  7im^o  prova  ch«  la  costruzione del  corpo  dallo  spazio  e  i  piani  e,  quindi,  la  dottrina  della  materia-spazio non  possono  datare  da  un'epoca  molto  anteriore  a  quella  in  cui  fu  scritto questo  dialogo,  nel  quale  tutti  i  critici  si  accordano  a  vedere  una  delle ultime  composiiioui  di  Platone. forcmi  doJto,  dattrina  pl^tQi^ca  della  mHt0rlaHr ben  jKvtem della  materia  come  entità  sussistente  per  se  stessa  e distinta  realmente  dalla  forma— che  qu«»lla  che  è  stata  espo- sta nel  Timeo  e  in  cui  essa  viene  idt  ntiflcata  allo  spa- zio (Ij.  Inoltre  una  vera  materia— cioè  una  materia  covi- ci )  In  De  gen.  et  corr,  I.  II.  0.  I,  stabilendo  ì!  principio  che  la  ma- teria è  inseparabile  dalle  contrarietà  (il  caldo  e  il  freddo,  il  secco  e  l'u- mido) e  non  vi  ha  una  materia  X^P^^'^'^Q  <lagji  elementi,  parla  delie  dot-» trine  opposte  a  questo  principio,  e  tutto  ciò  che  dice  di  Platone  si  rife- risce alla  descrizione  che  vi  ha  nel  Timeo  (5oac)  della  materia  come* massa  informe,  prima  che  essa  venga,  ricondotta  allo  tpasio  («  Ció>  poi  che è  scritto  nel  Timeo  non  ha  niente  di  definito;  poiché,  né  si  dice  chiara- ramente  se  quello  che  riceve  tutto  X^P^C^'Cat  dagli  elementi^  né  si  fa alcun  uso  di  alcun  principio  tale,  quantunque  prima  si  sia  detto  che  vi ha  qualche  cosa  che  serve  di  sustbato  agli  elementi  come  l'oro  agli  og- getti aurei  »).  Siccome  questa  rappreseniaaione  delia  materia  e  in  con- raddiaione  eoo  la  sua  identificazione  allo  spaaip,  Aristotile  crede  di  viti* dervi  un  accenno  a  un  concetto  distinto  della  materia,  in  cui  essa  ver- rebbe riguardata  come  un  sustrato  reale  e  non  come  un  semplice  spazio vuoto  (sustrato  che,  conformemente  alle  dottrino  esposte  nel  Timeo,  do- vrebbe essere  X^P^^'^^^  dagli  elementi,  ma  che  Platone  non  determina come  tale,  poiché  egli  invece  non  riconosce  altra  materia  X^P^^*^  che lo  spazio).  Questo    vago    acc»  nno    del  Timeo   è  tutto  ciò   che  Aristotile trova  nei  concetti  platonici  di  relativo  a  una  materia   X^P^^*^^    "•  ^"' inteso,  a  una  materia  X^P^^*^^  concepita  come  alcun  che  di  reale  e  non come  spazio  vuoto— .  In  Phys.  l.  IV.  II.  t  dice:  «  Perciò  (perchè  lo  spazia, pare  l' intervallo  della  grandezza)  Platone  dice  nel  Timeo  che  la  infiteria e  lo  spazio  sono  lo  stesso  :  infatti  il  partecipante  e  lo  spazio  sono  una sola  e  stessa  cosa.  Quantunque  ivi  e  in  quelli  che  si  dicono  dogmi  non scritti  chiami  il  partecipante  diversamente,  pure  egli  stabili  che  esso  è  il luogo  e  lo  spazio  ».  E  poi  (1.  IV.  II.  5)  :  «  Platone  aviebhe  dovuto  dire perchè  le  Idee  e  i  numeri  non  sono  nello  spazio,  se  il  partecipante  é  lo  spazio, sia  che  il  partecipante  sia  il  grande  e  piccolo,  sia  che  esso  sia  la  maicria. come  scrisse  nel  Ttmeo;  Aristotile  non  conosce  dunque  altre  dottrine  di Platone  sulla  materia,  quale  principio  distinto  dalle  Idee  e  partecipante ad  esse,  che  quella  del  Timeo  e  quella  dei;li  fiYP*9*  5ÓY|iaxa  (la  quali» —  189  — -TT" « »      « rispondente  al  concetto  ordinarlo  della  corporeità  —  se- parata dalle  Idee  sarebbe  inconcepìbile  nel  sistema  pla- tonico. L'essere  per  Platone  sono  le  Idee  ;  qnindi  egli non  avrebbe  potuto  ammettere  alcun  che  di  reale  che non  si  risolvesse  in  Idee.  Nel  Timeo  può  ancora  chia- mare  le  Idee  Tessere,  quantunque  con  esse  coesista  nelle cose  un  altro  elemento,  perchè  quest'altro  elemento  non  è che  lo  spazio  vuoto.  Tutto  nel  sistema  di  Platone  deve  essere ricondotto  a  dei  concetti  realizzati  :  nel  mondo  d^^lle  entità platoniche  i^n  principio  che  non  fosse  un  concetto  realizzato sarebbe  cosi  strano,  come  lo  sarebbe  un  concetto  realizzato in  mezzo  agli  esseri  del  nostro  mondo,  di  noi  che  non  am- mettiamo che  delle  esistenze  concrete.  La  materia  — spazio  era  conciliabile  col  sistema  dei  concetti  realizzati, non  solo  perchè  lo  spazio  non  è  niente  di  reale,  ma  an- che per  un  altra  ragione:  è  che  lo  Spazio  può  riguar- darsi anch'esso  come  un  concetto  realizzato.  Trattandosi dello  Spazio,  V  Idea,  cioè  il  concetto  realizzato,  non  si distìngue  dalla  cosa  stessa.  L' Idea  è  V  uno  nei  molt^ vale  a  dire  è  ciò  che  vi  ha  di  comune  in  tutti  i  parti- colari che  cadono  sott.o  uno  stesso  concetto  generale. Per  conseguenza  là  dove  non  vi  hanno  molti,  là  dove un  concetto  non  si  riferisce  che  ad  un  solo  particolare, la  cosa  e  Tldea,  T  individuo  e  la  specie,  si  confondono. Ciò  non  vuol  dire  che,  se  vi  fossero  Idee  d»^gli  oggetti concreti  unici  nella  loro  specie,  quali  il  sole  o  la  tTra — *»  dovrebbero  esservene,  secondo  la  definizione  dell'Idea: la  causa  esemplare  di  ciò  che  vi  ha  di  costante  nella natura  (1)  —  le  Idee  di  questi  oggetti  non   si  distìngue- non    sì  distingue  dalla  prima,  che  perchè  nel  Timeo  la  materia  non  è  ri- condotta al  Grande  e  Piccolo). (1)    V.  Proclo  in  Parm,  V.  I33. rebbero  dagli  oggetti  stessi.  Questi  essendo  sottoposti alla  successione  e  al  cangiamento,  il  molti  è  in  essi  rap- presentato dalla  moltiplicità  dei  loro  stati  successivi; e  l'uno  nei  molti,  cioè  l'Idea,  sarebbe  per  essi  ciò  che vi  ha  d'identico  in  questi  stati  successivi.  Ma  nello  Spa- zio non  vi  ha  né  successione  né  cangiamento  :  per  con- seguenza siccome  non  vi  ha  che  un  oggetto  unico  che corri<4ponda  al  concetto  dello  Spazio  —vale  a  d<re  dello spazio  infinito,  di  cui  tutti  quelli  che  in  un  altro  senso del  termine  Tchi amiamo  spazi  sono  delle  parti  — cosi  la Idea  dello  Spazio  e  lo  Spazio  non  fanno  che  una  com sola  (1).  Perciò  Platone,  quantunque  dica  dello  Spazio ch'esso  è  1'  oggetto  di  un  concetto  spurio  —  perchè  un concetto,  nel  senso  stretto  del  termine,  è  la  rappresenta- zione dell'  uno  nei  molti  —  pare  lo  chiama  elòo<;  (2)  e Yìvo^  (3).  Ma  trattandosi  della  materia  —  voglio  dire  della vera  materia  —,  l'Idea,  cioè  il  concetto  realizzato,  e  la cosa  sarebbero  necessaiiamento  distinte.  Ora  quale  sa- rebbe, nell'ipotesi  di  una  dottrina  della  materia  diversa dallo  spazio,  la  materia  che  Platone  avrebbe  riguardato come  un  principio  distinto  dalle  Idee  e  ch'^  bisogna  ag- giungere ad  esse  per  costituire  le  cose?  La  materia  reale (1)  Si  potrebbe  dire  che  l'Idea  dello  spazio  e  lo  spazio  diflerirebl>e:0 in  quanto  la  prima  saiebbe,  come  le  altre  Idee,  al  di  fuori  del  Unipo.  Ma se  si  fa  dell'astrazione  spazio  un'entità,  non  si  è  obbligati  —quando  si  pensa che  vi  hanno  delle  cose  fuori  del  tt-mpo-ad  ammettere  che  qm  si'entità è  nel  tempo;  né  Platone  dice  mai  che  lo  spazio  di  cui  egli  parla  nel  li- meo,  considerato  in  se  stesso  (aùxò  xaG'aOxó),  sia  sottoposto  alla  con- dizione del  tempo,  anzi  implicitamente  lo  esclude,  quando  fa  del  tempo una  cosa  generata  e  dice  che  Vera  e  il  satà  non  devono  attribuirsi  che alla  genesi  e  al  sensibile  (v.  Tim.  37  d-38  b). (2)  7im,  49  a,  5I  a. CV)  48  e,  5O  e,  52  a. -.-r'-" ù  Udea  della  materia?  Non  avrebbe  potuto   essere  (a materia  reale,  perchè   tutto  nel  sistema  platonico    deve riduwj  ad  Idee,  a  concetti  realizzati,  e  per  conse^^uenza egli  avrebbe  dovuto  ammettere  un  Idea,  un  concetto  rea- lizzato, anche  per  questa  materia,   e  allora  il  principio da  cui  e  dalle  Idee  le  cose  verrebbero,  sarebbe,  non  la materia  reale,  ma  ridea  della  materia.  Ma  questo  prin- cipio  non  ha  potuto  essere   nemmeno  Tldea  della  mate- ria,  perchè  è  evidente  che  il   principio  materiale    è  per Platone  un'entità   astratta  si,    ma  non   generale  (1).  Se fosse  un'entità  generale,  non  si   identificherebbe  con  lo spazio.  Piatene  riguarda  lo  spazio  come  identico,  non  al concetto  generale  dellVstens  one  corporea  realizzato,  ma all'estensione  reale  dei  corpi  individuali.  e Questo  carattere  che  distingue  la  materia  delle  cose dalle  altre  astrazioni  realizzate  del  platonismo,    di  non essere  cioè  un'entità  generale,   fa  che  essa  rappresenta, in  <iue8to   sistema,  il   principium   individuationis.   Non vi  ha  per  noi  niente  di  più  vano  che  le   discussioni  de- gli scolastici  sul  principio  d'individuazione.   È  che  noi siamo  nominalisti,  e  la  ricerca  del  principio,  cioè  della causa,  dell'individuazione  suppone  se  essa  ha  un  senso, che  l'essere  sia  dapprima  generale,  e  poi  s'individualizzi in  virtù  di  questo  principio.  La  quisfone  tanto  agitata dagh  scolast'ci  era   un  legato  del   platonismo.    La  cosa individuale  è  costituita  hi  condo  Platone  da  un  elemento che  essa  ha  in  comune  con  altre  cosp,  cioè  l'Idea,  e  da (M.i  1.  111.  IV.  6  8,  I.  XI.  11.  lo,  I.  XII.  V.  3,  ecc.)  in  cui  e|,li  riguarda, nel  sistema  platomco,  la  forn^a  come  equivalente  al  generale,  e  Usinolo] cioè  1  composto  della  forma  e  della  materia,  come  equivalente  airindi- viduale-ciò  che  non  farebbe,  se  la  materia  fosse  anch'essa  un'entità  ge- nerale come  la  forma.  ^ Uh  elemento  che  le  è  proprio  e  inoomutlicabile  con  aiti^ co -e,  cioè  la  materia -^  perchè  la  materia  di  un  ijorpo, vale  a  dire  lo  spazio  che  esso  occupa,  è  necessariamente dist  nta  dalla  materia  di  tutti  gli  altri  corp^,  e  per  tutte qut\ste  materie  individuali,  cioè  per  tutte  queste  porzioni di  materia  o  di  sp>«zio,  non  vi  ha  un  che  di  comune  a cui  esse  si  riducano,  lo  spazio  o  la  materia  non  risol- vendcisi  per  Platone,  come  le  altre  cose,  in  un'  entità universale — :  ne  segue  che  la  materia  — spazio  è  nel  si- Hiema  platonico  il  principio  alle  cose  dell'  essere,  come dicevano  gli  scolastici,  incomunicabili  y  cioè  dell'essere degl'individui  e  Lon  delle  ent  tà  comuni.  Non  è  ds^qme da  mettere  in  quistionc  ch»^  la  mate  ria  funga,  nel  si steiua  platonico,  da  principiujn  individtéationis  t  la  qui- siioue  che  potrebbe  farsi  sarebbe  al  più  se  Platone  l'ha e.<plic'itameute  riguardata  come  tale,  cioè  se  egli  si  è proposto  effettivamente  il  problema  della  causa  dell'  in- dividualità, dando  a  questo  problema  l'unica  soluzione per  lui  possibile,  e  che  era  contenuta  implicitamente  nella dottrina  dei  due  <  lementi,  l'uno  generale  e  l'altro  indi- \iduale,  di  cui  egli  componeva  le  cose.  Ora  a  questa quistione  dobbiamo  rispondere  affermativamente.  Noi  ab- biamo visto  infatti  che,  nel  Timeo,  la  ragione  per  cui l'immagine  dell'Idea  esiste  nello  spazio  è  che  essa  «  deve esistere  in  qualche  «Itra  cosa,  attaccandosi  in  qualche manieri  aU'tsistenza,  o  non  essere  assolutamente  nien^' te»  (i);  e  che,  nel '«  spc  sizione  d'Aristotile,  la  materia  è la  ciiUsa  dcila  moltiplicità  degli  esseri  (2).  Si  noti  che Aristotile  dà  anche  la  materia  come  la  causa  deila  inai- ci) V.  Suppleni.  B.  parte  II.  n.  11.  sulla  fine. (2)  V.  questo  stesso  Supplemenco,  carta  I70. -191  — t*m P^ tiplicità  delle  unità  (1),  e  che,  discutendo  il  sistema  di Speusippo  (2),  suppone  che  sia  una  necessità  per  questo filosofo  di  spiegare,  per  il  principio  materiale,  la  molti- tiplicità,  tanto  delle  unità  quanto  dei  punti  (che  per .  Speusippo  differiscono  dalle  un»tà):  ciò  prova  che  la  ma- teria non  é  solamente  la  causa  per  cui  Tessere  primitivo si  scinde  in  una  moltitudine  di  essenze  generali,  ma  an- che per  cui  ciascun'  essenza  generale  si  scinde  in  una moltitudine  di  esistenze  particolari. La  soluzione  che  Platone  dava  al  problema  deir  in- dividuazione era  la  stessa  che  poi  si  presentava  imme- diatamente agli  scolastici,  quando  si  proposero  la  prima volta  lo  stesso  problema.  Il  fatto  non  è  casuale,  perchè il  realismo  e  il  semi-realismo  del  medio  evo  si  riattac- »  cano  al  platonismo,  sia  direttamente  sia  per  i  vestigi  dei concetti  platonici  che  si  trovano  in  Aristotile  (3).  La  dot- trina tomista  sul  principio  d'individuazione  era  una  ri produzione  della  platonica,  perchè  essa  si  trovava  in germe  in  Aristotile,  e  questo  germe  era  uscito  da  Platone. Aristotile  adottò,  come  si  sa,  la  dottrina  platonica  che  le cose  constano  di  due  elementi,  la  forma  e  la  materia, salvo  che  questi  due  elementi  sono  per  Platone  degli esseri  reali  e  realmente  distinti,  mentre  per  Aristotile non  sono  che  delle  astrazioni  mentali  e  non  si  distìn- guono che  logicamente.  Aristotile  riguarda  anch'  egli, all'esempio  di  Platone,  la  forma  (eldo^)  come  l'oggetto  del concetto  generale  della  cosa,  e  perciò  come  l'elemento  co- mune a  tutta  la  specie,  e  la  materia  come  l'elemento  proprio e  differenziale  dell'individuo  —  in  altri  termini  questa  ma- ter'a,  che  è  l'uno  dei  due  elementi  in  etti  te  spirito  de- co'nponelacosa,  none  per  lui  la  materia  comune,  come  l'al- t' o  elemento,  la  forma,  è  la  forma  comune,  ma  è  la  materia, come  dice  S.  Tomma^^o,  segnata  o  Individuale— :  per conseguenza  l'opposizione  tra  l'elSog  in  se  stesso  e  il  si- nodo, cioè  il  composto  dell'elSog  e  della  materia,  equivale per  Aristotile  all' oppo'^izione  tra  il  generale  e  l'indivi- duale (lì.  La  distinzione  della  forma  e  della  materia, per  Aristotile,  non  è,  come  abbiamo  detto,  che  logica  : tuttavia  (come  può  vedersi  in  molti  dei  luoghi  indicati nella  nota  precedente)  egli  esprime  spesso  questa  distin- zione in  termini  più  appropriati  al  r«>alismo  platonico che  al  proprio  concettualismo,  e,  a  prendere  certi  luo- ghi isolatamente,  si  direbbe  che  le  sostanze  seconde  —  è cosi  che  veng^ono  chiamate  la  forma  e  la  materia— siano per  Aristotile  delle  sostanze  nel  senso  stretto  della  pa- rola, come  la  forme  e  la  materia  platoniche  (1).  Eviden- temente Aristotile  deve  a  Platone,  non  solo  la  distinzione tra  elòo^  e  materia,  con  le  due  funzioni  diverse  di  ele- mento generale  e  di  elemento  individuale  assegnate  al- l'uno e  alTalira,  ma  anche  la  forma  troppo  realista  in cui  egli  presenta  questa  distinzione.  È  alla  scuola  di Platone  che  Aristotile  ha  appreso  a  trattare  delle  sem- plici astrazioni  come  degli  esseri  reali  :  inoltre  i  suoi Bcritci  sono  indirizzati  a  un  pubblico   che  è  stato  anche 0)  Mei.  1.  XIV.  11.  11. (2)  AJci,  I.  XIII.  IX.  6-12. (3)  Cfr,  e.  VU.  pag.  46-53. (1)  V.  Mei.  1.  Ili  1.  lo,  IV.  3,  6,  1.  V.  VI.  i5,  1.  VII.  Vili.  I-4,  8, XV.  1-2,  1.  vili.  1.  6,  I.  X.  111.  3,  5.  IX.  2-3,  1.  XI.  11.  lo,  I.  XII.  III.  8-4, 1.  XII.  Vili.  12,  De  Coelo  I.  I.  IX.  2-5,  ecc.  Sono  notevoli  sovratutto  i due  ul  imi  luoghi  :  rultim>  l'u  1' occasione  della  quistione  sul  principio d'individuazione;  il  pcnuUinio  è  più  vicino  ancora  di  questo  e  di  qualsiasialtro  luogo  che  io  ricordi  in  Aristotile,  alla  dottrina  di  S.  Tomn^so, (I)  Cfr.  e,  VU.  pag.  47  e  seg., .^ -192- l'il  Sm '      - «880  kfla  scuola  di  Platone,  ed  egli  deve  presentare  i  auoi ooinoetti  nella  forma  più  prontamente  intellig:iblle  e  più accettabile  per  il  pubblico  per  cui  scrive  (I).  Gli  scola- stici, anche  quelli  che  non  sono  francamente  realisti,  rin- cariscooo  su  questa  tendenaa  d'Aristotile  a  trattare  dei meri  concetti  come  realtà  :  di  ìk  le  discussioni  sul  prin- cipio d*  individuazione.  Ora,  la  forma  rappresentando, come  abbiamo  detto,  per  Aristotile  Telemento  generico, e  la  materia  l'elemento  proprio  e  differenziale  dell'indi-idiwo,  gl'interpreti  più  fedeli  d'Aristotile  non  potevano trovave  il  i»riiicipio  d'individuazione  che  nella  materia. Può  parere  singolare  che  i  veri  realisti,  cioè  Duns  Scoto e  1  aioi,  respingessero  questa  soluzione,  quantunque  la più  vicina  a  quella  di  Platone,  al  quale  essi  erano  i  più vicini.  Ma  non  vi  ha  in  ciò  niente  di  sorprendente,  per- chè una  materia  che  non  venga  ricondotta  a  un'  entità universale,  è,  come  osservammo,  in  contradizione  coi postulati  fondamentali  del  sistema  realista.  Ora  se  si  fa anche  della  materia  un'entità  universale,  essa  finisce  di essere  l'elemento  proprio  e  incomunicabile  dell'individuo, e  diviene  invece,  come  la  riguardavano  gli  scoti sti,  ciò che  vi  ha  di  più  elevato  nella  scala  della  generalità. Prima  di  passare  all'argomento  del  numero  succes- «ivo,  aggiungiamo  qualche  osservazione  sui  rapporti  della dottrina  della  materia  delle  cose  con  le  dottrine  dei  Pi- tagorici. Questa  dottrina,  a  parte  la  costruzione  della grandezza  estesa  per  lo  spazio  e  i  limiti,  che  non  po- tremmo attribuire  con  sicurezza  ai  Pitagorici,  poteva Hattaccarsi  ai  loro  concetti  so vrututto  nei  punti  seguenti: Primo,  tanto  Platone  quanto  i  Pitagorici  (2)  riconducono i 7 I lo  spazio  air  STistpov.  Seconde»,  la  costruzione  del  corpo pf»r  lo  spazio  e  i  limiti,  e  anch**,  come  abb-ano  osser- vato, la  decomposizione  dello  cose  nei  due  elementi  for- ma e  materia  potevano  mettersi  in  rapporto  con  la  dot- trina pitagorica  che  le  cose  constano  del  népag  e  dello ànstpov.  In  fine,  in  certe  proposizioni  dei  Pitagorici  il concetto  della  materia  sembra  confuso  con  quello  dello spazio  (1). IH.  Le  entìtii  matematiche Le  entità  matematiche  sono  gli  oggetti  delle  scienze matematiche  (2),  in  altri  termini  i  concetti,  su  cui  vol- gono queste  scienze,  realizzati.  Per  sci^^nze  matematiche bisogna  intendere  le  matematiche  pure,  cioè  l'aritmetica e  la  geometria,  a  per  entità  matematiche  quindi  i  nu- meri e  le  grandezze  geometriche  (le  figure)  (3).  In  ef- fetto Aristotile  non  parla  mai  di  altre  entità  matemati- che (4):  di  più  egli  esclude  che  Platone  ne  abbia  am- messo delle  altre,  quando  gli  rimprovera  come  un'  in- conseguenza di  non  aver  supposto  delle  entità  simili, come  per  l'aritmetica  e  la  geometria,  anche  per  Tastro-(i)  Cfr.  oap.  VII.  pag,  52. (1)  V.  Arist.  Phjs.  U  IV.  Vi.  7,  (ofr.  l.  Ui.  IV.  2)  e  Stob.  1. 180. (1)  V.  i  l.  indicati  nella  nota  precedente  e  Zqììqt  FU.  ilei  Greci pag.  353,  382,  404-406. (•>)  V.  Mei.  1.  I.  IX.  16,  1.  III.  II.  15,  l.  VI,  I.  5,  l.  XT.  T.  8, l.  XIII.  II.  5-9,  l.  XIII.  Ili,  l.  XIII.  VI.  3,  l.  XIV.  III.  3-4,  eco. (3)  V.  Mei.  l.  III.  I.  15  (ofr.  l.  XJII.  I.  4  e  II),  l.  III.  II.  20, l.  III.  III.  11,  eoo. (4)  V.  Met,  l.  III.  I.  15,  1.  XIII.  I.  2,  1.  XIII.  II,  Iti,  VI.  6-8, IX.  2-14,  l.  XIV.  II.  9,  III,  4,  8-12,  eoo. 0 PVP maàti tìmiifssi nomia,  la  prospettiva,  V  armonia,  in  una  parola    per  le matematiche    applicate  (1). Le  entità  matematiche  non  sono  che  degli  universali sostantilicati  come  tutte  le  altre  entità  della  metafisica  pla- tonica (2)  :  ma  Platone  le  distingue  dalle  Idee,  perchè  le Idee,  nel  periodo  pitagoreggiabte,  sono  i  numeri  ideali,  ed egli  non  riconduce  i  concetti  u>atematici  a  dei  numeri  ideali. Il  carattere  generale  per  cui  le  entità  matematiche  si distinguono  dalle  Idee,  è  che  ve  ne  sono  molte  della stessa  specie  (3).  L'Unità,  U  Diade,  la  Triade,  ecc.  idea- le è  una  sola;  ma  vi  ha  un'  infinità  di  unità,  di  diadi, di  triadi^  ecc.  matematiche  (4)  Ciò  vuol  dire  evidente- mente che  nei  numeri  in  cui  V  uno,  il  due,  il  tre,  ecc. sono  contenuti  più  volte,  vi  hanno  altrettante  unità, diadi,  triadi,  ecc.  quante  volttì  bisogna  ripetere  Tuno,  il due,  il  tre,  ecc.  per  formare  questi  numeri  (5),  e  che Platone  ha  riguardato  tutte  queste  unità,  diadi,  triadi,  ecc. come  altrettante  entità  distinte.  Cosi  vi  ha  dapprima  il numero  due,  poi  T  altro  due  che  bisogna  aggiungere  a questo  numero  per  avere  il  numero  quattro,  poi  Taltro che  bisogna  aggiungere  ancora  per  avere  Jl  numero  sei, e  cosi  di  seguito.  Ciascuno  di  questi  d^e  è  un'entità  ma- tematica :  essi  sono  infiniti,  perchè  il  numero  aumenta sino  all'infinito;  sono  della  stessa  specie,  perchè  un  due non  differisce  da  un  altro.  iM a  questa  moltitudine  dì  due (1)  V.  Met,  1.  III.  II.  17-22,  1.  XIII.  II.  7-8. (2j  V.  Arisi.  Met.  l.  I.  VI.  3,  1.  111.  11.  15  sqq.,  1.  111.  Ul.Jl,  1.  XI. I.  6-8,  1.  Xlll.  I-lU,  VI,  An.  Pont,  1.  I.  XXlV.B,eco.  Cfr.  Fiat.  Ifep. 509  d-511,  521-527,  583  b-534  a.  Fedone  lOJ  o,  104  d,  ecc. (3)  V.  M^t.  1.  I.  VI.  3,  1.  m.  VI.  1-2,  ecc. (4)  V.  Met,  1.  I.  IX.  5,  1.  Xlll.  IV.  10,  ecc. (5)  Cfr.  Arisi.  Met,  1.  Xlll.  VII.  2,  7,  8,  11,  12,  U,  16,  11),  21,  24-25, Vili.  5-7,  18. non  possono  essere  tutti  dei  due  che  per  la  partecipa- zione comune  ad  un'  essenza  unica  :  questa  è  l'Idea  del due,  che  non  è  altra  cosa  che  il  numero  ideale  Due. Della  stessa  maniera  le  molte  unità  matematiche  non sono  tali  che  per  la  partecipazione  dell'unica  Unità  ideale; le  molte  triadi,  tetradi,  ecc.  matematiche,  per  la  parte- cipazione dell'unica  Triade,  Tetrade,  ecc.  ideali  (1).  La Unità,  la  Diade,  la  Triade,  ecc.  ideali,  in  quanto  sono le  essenze  comuni  di  tutte  le  unità,  le  diadi,  le  triadi,  ecc. particolari,  sono  chiamate  l'Unità  stessa  (aùxi^),  la  Diade stessa,  la  Triade  stessa  (2);  e  perchè  è  da  esse  che  pro- cedono le  molte  unità,  diadi,  triadi,  ecc.  particolari-  per la  relazione  dì  anteriorità  e  posteriorità  che  vi  ha  tra  il generale  e  il  particolare—  sono  anche  chiamate  ìsiprima unità,  la  prima  diade,  la  prima  triade,  ecc.  (3).  Tra  i numeri  ideali  e  i  numeri  matematici  non  vi  ha  dunque, al  fondo,  che  il  rapporto  che  corre  tra  le  Idee  generiche e  le  Idee  specifiche  :  ma  Platone  nega  ai  numeri  mate- matici il  nome  d'  Idee  e  di  Specie,  perchè  questi  nomi, nel  periodo  pitagoreggiante,  non  vengono  attribuiti  che ai  numeri  ideali. Per  ispiegare  come  nei  numeri  ideali  non  ve  ne  hanno molti  della  stessa  specie,  egualmente  che  nei  numeri  ma- tematici, Platone  mette  innanzi  un'altra  differenza  fra le  due  specie  di  numeri  :  è  che  i  numeri  matematici  sono comhinabiliy  cioè  si  addizionano  fra  di  loro,  ma  i  numeri (1)  V.  Met.  1.  I.  IX.  5,  1.  Xlll.  IV.  10,  1.  Xlll.  Vili.    5-7,  1.  I.  VI. 3-4,  1.  111.  VI.  5-2,  ecc. (2)  V.  Mei,  1.  I.  IX.  5,  1.  I.  IX.  16,  1.  Xlll.  VI.  2,  l.  Xlll.  VII.  1, 9,  12,  14,  15,  21,  22,  24,  1.  Xlll.  Vili.  13,  19,  ecc. {?.)  V.  Met.  1.  Xlll.  VI.  2,  l.  Xlll.  Vn.  1,  4,  7,  8,  11,12,  19,  20,  24, l.  XUl.  VIU.  5-7,  eco. —   i94  — iae ideali  sono  inconib inabili,  cioè  non  si  addizionano  fra  di loro  (1).  Cosi  un  numero  ideale  non  può  riguardarsi,  del pari  che  un  numero  matematico,  come  composto  dei  nu- meri più  piccoli  in  cui  può  decomporsi  (2)  ;  e  per  con- seguenza,  nei  numeri  ideali  in  cui  il  due,  il  tre,  ecc. sono  contenuti  più  volle,  non  possono  distinguersi  al- trettante Diadi,  Triadi,  ecc.,  e  considerarsi  quali  entità per  sé  come  avviene  nei  numeri  matematici.  Alla quistione  perchè  i  numeri  ideali  siano  incombinabili  Pla- tone risponde  che  l'addizione  suppone  l'omogeneità  del'e unità  che  si  addizionano,  ma  dei  numeri  ideali  distinti costituiscono  delle  specie  differenti,  e  per  conseguenza le  unità  di  un  numero  non  sono  omogenee  con  quelle di  un  altro  (3). (1)  V.  Met.  1.  Xni.  VI.  2-5,  VU,  VHl.  1-7,  26,  ecc. (2)  Infatti,  se  il  numero  minore  fosse  una  parte  del  numero maggiore,  l'Idea  rappresentata  dall'uno  sarebbe  una  parte  dell'I- dea rappresentata  dall'altro.  P.  e.  se  il  Tre  fosse  una  parlo  »lel Quattro,  e  il  primo  rappresentasse  1'  Idea  dell'  uomo  e  il  secondo quella  del  cavallo,  PIdea  dell'uomo  sarebbe  una  parte  di  quella  <lel oavallo  (V.  Arist.  Met.  1.  XIU.  VII.  25,  Vili.  19,  ecc.  L'  obbiezione contenuta  nel  secondo  di  questi  luoghi  è  diretta  contro  la  dottrina di  Xenoerate,  che  identificando  il  numero  ideale  col  matematico, oglìeva  necessariamente  a  quello  il  carattere   per  cui    Platone  lo aveva  distinto  da  questo,  e  lo  faceva  combinabile). Aristotile  {MetA,  XUl.  VII.  9-11  e  25-26)  accenna  anche  ad  un'al- tra ragione,  per  cui,  nei  numeri  ideali,  il  minore  non  potrebbe riguardarsi  come  una  parte  del  maggiore.  È  che  in  questo  caso  sa  - rebbe  impossibile  la  generazione  dei  numeri  quale  l'ammette  Pla- tone. Se  p.  e.  il  Due  (ideale)  fosse  una  parta  <lel  (Quattro,  questo nascerebbe  per  l'aggiunzione  di  due  altre  unità  a  quelle  del  Due  : ma  allora,  per  generare  il  Quattro,  non  dovrebbe  rendersi  conto ohe  dell'origine  dello  due  nuove  unità  soltanto,  e  per  conseguenza esso  non  potrebbe  generarsi  dalla  moltiplicazione  del  Due  per  la Dualità  indefinita. (3)  V.  i  I.  indicati  nella  nota  penultima,  e  inoltro  A/W.  1.  I.  IX.  15- 17,  1.  XIV.  VI.  9,  eoo. Le  entità  geometriche  sono  pure  molte  ed  infinite quelle  della  stessa  specie,  come  i  numeri  matematici. Platone  ammette  due  classi  di  entità  pei  concetti  delle grandezze,  come  per  quelli  dei  numeri  :  le  grandezze matematiche  e  le  Idee  di  queste  grandezze.  Le  grandezze matematiche— che  sono  anch'  esse,  come  abbiamo  detto, degli  universali  sostantificati  —  non  sono  delle  semplici forme  come  le  Idee,  ma  contengono  una  materia  iden- tica, al  fondo,  alla  materia  delle  cose,  cioè  allo  spazio, poiché  non  è  altro  che  le  dimensioni  dello  spazio  gene- ralmente considerate;  per  conseguenza,  siccome  il  nu- mero non  rappresenta  che  delle  pure  forme,  esse  non vengono  identificate  a  dei  numeri  (1).  La  materia  delle linee  si  chiama  W  Lungo  e  Corto'^  quella  dei  piani  il  Largo e  Stretto^  quella  dei  solidi  VAlto  e  Basso:  queste  sonodelle  forme  del  Grande  e  Piccolo  (-2)  (Dualità  indefinita). Cosi  nella  Dualità  indefinita  Platone  confonde  tre  con- cetti differenti,  facendola  servire  al  tempo  stesso  da  ma- teria delle  Idee,  da  materia  delle  cose  e  da  materia  delle grandezza  matematiche.  Questo  per  Telemento  materiale: in  quanto  all'elemento  formale  (l'elSoc),  le  grandezze  ma- tematiche lo  ricev  ono  dai  numeri  ideali  (3).  Le  linee  vcn- (1)  Met,  1.  1.  IX    18-19,  1.  ni.  IV.  30,  1.  XUl.  IX.  2-4,  1.  XIV.  11.9, 11,  1.  XIV.  111.  8-10,  eco. (2)  V.  Mei.  1.  1.  IX.  18-19,  1.  XUl.  IX.  2-4,  I.  XIV.  U.  11,  ecc. (3)  V.,  oltre  i  l.  indicati  nella  nota  seguente,  quelli  (che  indi- cheremo in  seguito)  in  cui  le  entità  matematiche  vengono  date come  intermediarie  tra  le  Idee  e  i sensibili;  ai  quali  aggiungeremo anche  quegli  altri  in  cui  Aristotile  riguarda  le  grandezze  come  po- steriori ai  numeri  ideali  o,  ciò  che  è  lo  stesso,  come  procedenti  da essi  (Met.  1.  XIU.  IX.  2-4,  1.  I.  IX.  19,  I.  lU.  IV.  30,  ecc.);  e  in  cui  dà le  Idee  come  specie,  non  solo  dei  sensibili,  ma  anche  delle  entità matematiche  {Mei.  1.  111.  VI.  1-2,  1.  A'IU.  Vili.  17,  ecc.),  e  come  cause tanto  dei  primi  quanto  delle  seconde  {Met,  I.  1.  VI.  3,  4,  7,  1.  XIV. U.  15|  eoo.). li Ém m gono  dal  numero  ideale  Due  (e  dal  Lungo  e  Corto);  i piani  dal  Tre  (e  dal  Largo  e  Stretto);  i  solidi  dal  Qua^ tro  (e  dall'Alto  e  Basso)  (1)  (a  questi  numeri  Platone  ad un'altra  epoca  o  alcuni  dei  suoi  discepoli  sembrano  averne sostituiti  degli  altri  (2);  ma  ciò  non  ha  per  noi  alcun'im- portanza).  Il  Due  ideale  dà  dunque  l'elSo^  alle  linee,  il Tre  ai  piani,  il  Quattro  ai  solidi  (3);  o,  ciò  che  vale  lo stesso,  il  Due  ideale  è  Velòo(;  generale  delle  linee,  il  Tre dei  piani,  il  Quattro  dei  solidi  (4).  Ma  quantunque  Pla- tone chiami  questi  numeri  1'  elòog  della  linea,  del  piano e  del  solido,  egli  non  vuole  che  si  dicano  la  linea  stessa, il  piano  stesso  e  il  solido  stesso  (5)  :  ciò  ò  evidentemente (1)  Arisi.  Met.  1.  XIV.  IH.  8-10,  1.  VH.    11.  3-4,  De  an.   1.  1.  U.  7, Ps.  Aless.  in  Mct.  1.  Xll.  IX,  ecc. (2)  V.  Met.  1.  XIV.  111.  9,  1.  Xlll.  IX.  3.  L'  autore  dell'  P:puw  .-. (V.  991  a)  sembra  riguardare  1'  otto  come  il  numero  del  solido  (e conseguentemente  il  quattro  come  quello  del  piano). (3)  Ps.  Aless.  in  Met.  1.  Xll.  IX. (4)  V.  Arisi.  Met.  1.  VII.  XI.  3-4,  De  an.  l.   I.  11.  7,  ecc. (5)  V.  Met.  1.  VII.  XI.  3-5.  In  questo  luogo  Aristotile   distingue due  scuole  platoniche:  l'una  riconduce  tutti  i  concetti,  anche  quelli delle  grandezze,  alle  semplici  forme,  e  per  questa  il  Due  ò  la  linea stessa  — è  la    scuola  di    Xenocrate,  che  sopprimeva  la   distinzione delle  entità  matematiche  dalle  Idee,  e  risolveva  per   conseguenza in  numeri   ideali  anche  le   grandezze    (v.  questo  Supplem.  n.  V)-- l'altra  —  sono  i  platonici  strettamente  ortodossi  —  non  ammette  che i  numeri  ideali  rappresentino  le  grandezze  stesse,  ma  solamente  il loro  elemento  formale,  e  per  questa  l'sISog  della  linea,  cioè  il  Due, differisce,  per  conseguenza,  daUa  linea  stessa  —  È  certamente  per questa  distinzione  tra  i  numeri  della  linea,  del  piano  e  del  solido e  la  linea,  il  piano  e  il  solido  stessi,  che  Aristotih>    domanda  se  si deve  ammettere    o  no    che  questi   numeri    siano    delle  Idee    {Met. 1.  XIV.  III.  10).  Ma  non  può  esservi  alcun  dubbio  che  i  Platonici  non li  considerassero  effettivamente  come  tali  :  ciò  risulta  chiaramente dai  1.  indicati  nelle  note  precedenti,  ei  è  incluso  nella  proposizione di  cui  in  seguito,    che  le  entità    matematiche  sono    intermediarie II /] perchè  essi  rappresentano  la  sola  forma  della  linea,  del piano  e  del  solido,  e  non  le  cose  stesse,  vale  a  dire  la forma  congiunta  alla  materia. Il  numero  della  linea,  del  piano  e  del  solido  erano  i soli  numeri  ideali,  e  per  conseguenza,  le  sole  Idee,  che Platone  ammettesse  per  le  grandezze  (1):  e  in  effetto, queste  Idee  erano  riguardate  come  le  specie,  nel  senso moderno  del  termino,  delle  grandezze  matematiche  (2); quantunque  tra  le  une  e  le  altre,  piuttosto  che  il  rap- porto tra  specie  ed  individui,  vi  fosse  in  realtà  quello tra  generi  e  specie. Oltre  alle  grandezze  matematiche,  ci  si  parla  anche dì  un  altro  genere  di  grandezze,  che  Aristotile  distingue con  la  designazione  di  jwsterlori  ai  numeri  (jisxà  toò^ àpt0|ioóc— Me/.  I.  I.  IX.  25-)o  jyosteriori  alle  Idee  (jjLSxà xàc;  Laéas--XIII.  VI.  8-).  Alessandro  d'Afrodisia  (ad  Met. 1.  I.  IX.  t.  80)  ci  spiega  che  queste  grandezze  erano  la Linea  stessa,  il  Piano  stesso  e  il  Solido  stesso,  che  Pla- tone riguardava  come  i  principii  da  cui  procedono  le linee,  i  piani  e  i  solidi  matematici,  e  che,  come  questi, tra  le  Idee  e  le  cose,  le  Idee,  tra  cui  e  le  grandezze  reali  tramez- zano le  grandezze  matematiche,  non  potendo  essere  ehe  i  numeri da  cui  queste  procedono  e  che  ne  rappresentano  l'SiSo^.  Del  resto questi  numeri  sono  chiamati  Idee  dallo  stesso  Aristotile  nelle  pa- role che  seguono  immediatamente  al  luogo  indicato  :  "  questi che  a  questo  modo  riattaccano  le  entità  matematiche  alle  Idee  f,; qui  la  parola  tSéat  riferendosi  evidentemente  ai  numeri  da  cui  de- rivano le  grandezze  matematiche,  dei  quali  sopra  ha  parlato. (1)  V.  Arist.  3/é^/.l.  Xlll.  in.  8-10,  Ps.  Aless   inMetA.XU.ìX.  ecc. (2)  V.  Arist.  Met.  1.  VII.  XI.  4-5.  Se  Platone  dice  che  delle  gran- dezze matematiche  ve  ne  hanno  molte  della  stessa  specie,  è  ap- punto perchè  considera  l'siSo^  della  linea,  del  piano,  del  solido come  la  specie,  nel  senso  stretto,  delle  linee,  dei  piani,  dei  solidi mAtematioi. Mti tm egli  dìstitigtieya  dai  numeri  ideali  (1).  Naturalmente  la Linea,  il  Piano  e  il  Solido  stessi  differivano  dalle  Idee (numeri  ideali)  della  linea,  del  piano  e  del  solido,  in  ciò, che  queste  erano  le  semplici  forme,  mentre  essi  compren- devano anche  la  materia  (2).  La  Linea  stessa  era  Vslòo<; della  linea  (il  numero  ideale  Due)  congiunto  col  Lungo e  Corto;  il  Piano  stesso  V  el8og  del  piano  (il  Tre)  con- giunto col  Largo  e  Stretto;  il  Solido  stesso  VBlòo^àeì  so- lido (il  Quattro)  congiunto  eoa  TAIto  e  Ba«so.  Per  con- ci) Questa  spiegazione  presenta,  a  dir  vero,  una  difficoltà,  ed  è ohe  Aristotile  parla  {Met.  1.  1.  IX.  26),  non  di  una  linea,  un  piano e  un  solido,  al  singolare,  ma  di  linee,  piani  e  solidi,  al  plurale. Tuttavia  noi  dobbiamo  accettarla,  perchè  essa  ci  permette  di  coor- dinare d'una  maniera  coerente  la  dottrina  a  cui  allude  Aristotile, all'insieme  delle  dottrine  platoniche  sulle  entità  matematiche.  Per conciliare  la  ipiegaziono  d'Alessandro  col  testo  d'  Aristotile,  non abbiamo  bisogno  di  supporre  un' innovazioae  di  alcuni  discepoli, che  avrebbero  aggiunto  alla  Linea,  Piano  e  Solido  in  sé  di  Pla- tone altre  entità  dello  stesso  ordine,  alle  quali  le  parole  d'Aristo- tile avrebbero  potuto  egualmente  applicarsi  :  basta  di  ammettere che  questi  intende  discutere  la  dottrina,  a  cui  allude,  nel  suooou- oetto  essenziale,  cioè  la  distinzione  tra  le  grandezze  fisxi  TOÒ^ aptOfiOÓg  e  le  matematiche,  anziché  nella  forma  accidentale  ohe Platone  ha  dato  a  questo  concetto  Non  è  senza  ragione  se  di  gran dezze  fiexà  TOÙ^  àpi0|JLOÓC  Platone  ne  ammette  queste  tre  solo:  A ohe  di  esse  non  potrebbe  esservene  che  una  per  ciascun'Idea  delle grandezze  e  per  ciascuna  forma  del  Grande  e  Piccolo  quale  mate- ria delle  grandezze;  ognuna  di  esse  non  essendo,  come  diciamo  in séguito,  che  un'Idea  di  grandezza  e  la  forma  corrispondente  del Grande  e  Piccolo,  pensate,  non  saparatamente,  ma  insieme.  Ma  Ari- stolile  pare  non  comprendere  ciò,  perchè  inclinato,  com'egli  è,  al- l'interpretazione trascendoit aliata  del  sirtema  delle  Idee,  sembra supporre  ohe  queste  entità  siano  separate  dalle  loro  ldee;e  perciò  crede arbitrario  ohe  se  ne  ammettano  di  pih  o  di  meno. Quando  Aristotile  parla  della  provenienza    delle   grandezze dalla  materia  (il  Lungo  e  Corto,  ecc.),  egli  usale  espressioni  gene- seguenza,  ammettendo  una  linea,  un  piano  e  un  solido in  se  stessi,  distinti  dagli  sISyj  della  linea,  del  piano  e del  soliJo,  Platone  non  introduce  delle  nuove  entità  oltre questi  eTSyj  e  la  materia  :  la  Linea  stessa  non  è  una  terza cosa  che  si  ag^iung^e  airsISog  della  linea  e  alla  sua  ma- teria; ma  non  è  altro  che  queste  due  cose,  pensate,  non a  parte,  ma  congiuntamente.  Questo  ci  fa  comprendere perché,  quantunque  la  linea,  il  piano  e  il  solido  in  sègi distinguano  dalle  Idee  e  dalle  grandezze  matematiche, pure  Platone  non  riconosce  che  due  generi  di  entità,  le Idee  e  \oi  entità  matematiche  ;  e  infatti  quando  Aristo- lile  parla  dei  geneii  di  entità  ammes-e  dalla  scuola  pla- tonica —  e  spesso  certamente  dà  la  sua  enumerazione come  completa  —  egli  non  fa  menzione  che  di  questi  due soli  (1).  In  Met.  1.  I.  IX.  25  fa  l'obbiezione  che  nella classazion»^  platonica  degli  essf*TÌ  non  vi  ha  alcun  posto p  r  le  grandezze  |jisxà  xoò^  àptGfjtoóg,  non  potendo  esse collocarsi  né  tra  le  Idee,  né  tr  i  le  entità  matematiche  o intt^rmediarìe,  né  tra  i  sensibili  (le  tre  sole  classi  am- messe, da  Platone).  In  questo  stesso  luogo  obbietta  pure a  Platone  che  egli  non  ha  spivigato  Torigine  di  queste grandezze:  questi  non  l'ha  fatto,  perché  la  loro  esistenza non  segna  un  nuovo    passo  nello  sviluppo    degli  esseri, fiche  :   le  grandezze,  le  linee,  le  su[)3rficie,  i    solidi,  o    anche:  la grandezza,  la  linea,  la    superficie,   il  solido,  al  singolare    (v.  Met, I.  l.  IX.  18-19,  1.  111.  IV.  30,  l.  Xlll.  IX.  2-4,  1.  XIV.  11.  11);  per  con- seguenza ciò  i^he  egli  dice  deve  applicarsi  a  tutte  le  grandezze  e non  alle  sole  matematiche,  quindi  anche  alla  Linea,  alla  Superfi- cie e  al  Solido  stessi.  Del  resto  Alessandro  d'  Afrodisia  nel  luogo indicato  dà  esplicitamente  come  principio  di  questi  il  Lungo  e  Corto, il  Largo  e  Stretto  e  l'Alto  e  Basso. (1)  V.  Met.  L  1.  Vi.  3-4,  l.lll.  1.6,  l.  111.  11. 15,17-22,  Vi.  1-2,  l.  VU. II.  3,  l.   XI.  1.  6-7,  l    XU.  1.  3,  1.  Xlll.  1.  2,  1.  XllL  11.  9,  eoe. -  197  - mtt noTi  essendo  esse  altra  cosa,  come  abbiamo  detto,  chele loro  Idee  e  la  materia;  ma  Aristotile,  per  la  sua  pro- pensione air  interpretazione  trascendentalista,  suppone che  siano  qualche  cosa  di  nuovo,  e  rimprovera  quindi a  Platone  di  non  avere  indicato  per  queste  entità,  come per  le  altre,  il  processo  secondo  cui  si  producono.  L'e- sistenza equivoca  dello  grandezze  [lexà  xoò?  àptOiioóc  quali entità  distinte  ci  fa  pure  comprendere  il  fatto  che  Ari- stotile non  ne  parla  che  in  qualche  luogo  isolato  (oltre i  due  indicati,  in  Dean,  1.  I.  IL  7,  in  cui  la  prima  lun- ghezza, larghezza  e  profondità  pare  che  denotino  la  li- nea, la  superficie  e  il  solido  in  sé),  e  che  e^li  anche talvolta  per  le  espressioni  generiche /(?  grandezze,  le  lun- ghezze, le  superficie,  i  solidi,  non  intende  senza  dubbio designare  che  le  grandezze  matematiche  (I).  La  linea, il  piano  e  il  solido  iu  sé  non  sono  compresi  tra  le  gran- dezze matematiche  propriamente  dette  (cioè  tra  quelle che,  come  diremo  in  seguito,  Platone  fa  intermediarie tra  le  Idee  e  le  cose),  perchè  queste  non  sono  che  le  spe- cie ultime  dei  generi  linea,  piauo  e  solido. Platone  non  ammette  df  lU*,  e  itila  per  i  concetti  gene- rici delle  fijiure  (p.  e.  del  poligono  o  d^l  poliedro),  ma solo  per  quelli  delle  figure  particolari  (p.  e.  del  triangolo, del  quadrato,  del  cubo,  à*AV  ottaedro)  (2).  C'ò  è    senza (1)  V.  Mei.  1.  nr.  r.  i5  (ofr.  i.  xni.  i-iu.)  e  i.  xiv.  ni.  s-ii. (2)  Come  risalta  da  Mei,  l.  III.  111.  11,  in  cai  *j' attribuisce  ai  par- tigiani delle  Mee  l'opiaiona  cbe  non  vi  ha  oXian  numero  (generi- co) oltre  (7^2C,o:c)  la  specie  dei  numeri  né  alcuna  figura  (generica) oltre  le  sp3CÌ9  delle  figura.  Lo  stesso  può  desumersi  da  uà  altro luocro  (l.  III.  vi  1-2),  in  cui  alla  dottrina  dell'  esistenza  delle  Idee oltre  le  entità  miitcmatiche  e  i  sensibili  si  dfi  per  ragione  che,  se esistessero  la  sol 3  entità  matematiche,  i  loro  principii  non  sareb- bero finiti  di  numero,  ma  solo  di  specie.  (Se  tra  le  entità  matema- tiche vi  fossero  anche  i  concetti  generici  e  non  solamente  gli  spe- dubbio  perchè,  se  tra  le  entità  geometriche  fossero  anche rappresentati  i  concetti  generici,  egli  non  potrebbe  ri- guardare l'sISog  della  linea,  del  piano  e  del  solido  come le  specie  —  nel  senso  stretto,  cioè  come  le  specie  infime— delle  linee,  dei  piani  e  dei  solidi  matematici,  e  dire  che queste  linee,  questi  piani  e  questi  solidi  sono  tutti  della stessa  specie.  Queste  proposizioni  suppongono  che  tra  le grandezze  mAtematiche  e  le  loro  Idee  corra  lo  stesso rapporto  che  tra  gì'  individui  e  le  loro  Idee  specifiche  : perciò  le  grandezze  matematiche  devono  essere  tra  di loro,  non  subordinate  nel  grado  di  generalità,  ma  tutte cifioi,  i  principii  di  queste  entità,  anche  se  non  si  ammettessero  che esse  sole,  sarebbero  finiti  di  numero,  non  semplicemente  di  specie perchè  è  il  generale,  nel  sistema  platonico,  che  è  il  principio). Quest'esclusione  dei  concetti  generici  dei  numeri  e  delle  figure dal  rango  di  entità  sussistenti  per  se  stesse  è  fondata  su  quest'ar- gomento capzioso:  che  nelle  cose  in  cui  vi  ha  anteriorità  e  poste- riorità— cioè  che  formano  una   serie  i  cui  termini    si  seguono  con un  ordine  determinato  —  il  comune  non  è  st^jaarabt/e  (x^ptOTÓv), perchè,  se  lo  fosse,  esso  sarebbe  anteriore  a  tutti  i  termini  della serie,  anche  al  primo,  e  per  conseguenza  vi  sarebbe  qualche  cosa prima  della  prima  (v.  Kth,  End.  1.  1.  Vili.  9-10;  cfr.  Met.  1.  Ul.  Ul. 11  ed  Klh,  Nic,  I.  1.  VI.  2).  Il  sofisma  volge  sul  doppio  senso  dei  ter- mini anteriore  e  p'isteriore,  i  quali  ora  significano  la  successione  dei termini  coordinati  di  una  serie  (p.  e.  quella  dei  numeri  o  dei  po- ligoni), ora  la  subordinazione  dei  concetti  secondo  il  grado  della generalità  (con  le  altre  idee  che  nella  filosofia  platonica  sono  asso- ciate a  questa  subordinazione). Il  motivo  realo  per  cui  Platone  non  ha  obbiettivato  i  concetti generici  delle  figure,  ò  quello  che  diciamo  in  seguito.  In  quanto  a quelli  dei  numeri,  il  motivo  è  ugualmente  chiaro  :  è  che  facendo un'entità  del  concel  lo  generale  di  numero  e  di  ogni  altro  dei  concetti a  cui  i  numeri  particolari  sono  subordinali,  queste  entità  o  dovreb- bero illogicamente  identificarsi  con  certi  numeri  particolari,  o  do- vrebbero porsi  anteriori  ai  numeri  particolari,  che  cesserebbero  cosi di  essere  i  primi  di  lutti  gli  esseri,  co.ne  esige  necessariamente  la loro  identificazione  con  le  Idee. -  198 sac coordioate,  come  grindividui,  e  tra  di  esse  e  le  loro  Idee non  deve  esservi  alcuna  entità  di  una  generalità  media, come  non  ve  ne  ha  tra  gì'  individui  e  loro  Idee  spe- cifiche. In  conclusione,    ciò  che   vi  ha    di    particolare    nella dottrina  delle  entità  matematiche  si  riduce  in  sostanza, per  quel  che  concerne  le  grandezze  geometriche,  a  non elevare  al  rango  d'Idee,   vale  a  dire  di    numeri    ideali, che  le   forme  dei   generi    supremi  di    queste  grandezze, cioè  della  lioea,  del  piano  e  del  solido  in  generale:  in quanto  al  piani,  ai  solidi  è  alle  linee  particolari,  i  loro concetti  vengono  bensì  realizzati,  ma  non  sono   ridotti a  delle  semplici  forme,  e  per  conseguenza  non  si  fanno rappresentare    da  numeri  ideali,    e  se  ne  fa  una  classe di  entità  distinte  dalle  Idee,  che  insieme  ai  numeri  ma- tematici vengono  ^'esignate  col  nome  di  entità  matema- tiche. Cosi  quando  Platone  dico  che  delle  entità  che  sono l'oggetto  della  gec  metriu  ve  n-  hanno  molte  della  stessa specie,  tutto  ciò   che  vi  ha    di  chiaro  nel    significato  di questa   proposizione    è  che  non  vi    ha  che  una   Specie, cioè  un'Idea  unica,    per   tutte  le  linee,  una    per  tutti  i piani,  una  per  tutti  i  solidi,  lldea  della  linea,  del  piano del  solido  ;  e  che  le   linee,  i  piani,  i  solidi    particolari, studiati  dalla  giometria,  non  sono  riguardati  come  Idee. E  evidentemente  un'inconseguenza,  come  gli  rimprovera Aristotile  (I),  di  non  riconoscere  nelle  diverse  figure  geo- metriche altrettante  specie  distinte  :  ma  siccome  le  Idee non  sono,    nel  periodo    pitagoroggiante,    che  i  numeri ideali,  e  queste  figure  non  vengono  ricondotte  a  dei  nu- meri, cosi  Platone  non  può  vedere  in  esse  delle  Idee,  e quindi  nemmeno  delle  specie. Le  entità  matematiche  erano  dette  dai    Platonici  in- (1)  Mei.  1.  VII.  XI.  5. termediarie  fra  le  Idee  i  sensibili  (2).  Ciò  si  spiega  per- fettamente per  quello  che  abbiamo  detto.  Le  grandezze matematiche  sono  intermediarie  tra  le  Idee  delle  gran- dezze e  le  grandezze  sensibili,  perchè  tramezzano,  per il  loro  grado  di  generalità,  tra  le  une  e  le  altre  :  sono superordinate  alle  sensibili,  che  sono  particolari,  mentre esse  sone  generali;  e  subordinate  alle  Idee,  che  sono  più generali  ancora  di  esse.  Della  stessa  maniera  i  numeri matematici  tramezzano  tra  i  numeri  Idee  e  i  numeri  fe- nomeni. Di  più,  siccome  tra  il  generale  e  il  particolare vi  ha,  nella  metafisica  platonica,  il  rapporto  di  principio e  cosa  derivata  (anteriorità  e  posteriorità),  cosi  le  entità matematiche  tramezzano  tra  le  Idee  e  i  sensibili  anche sotto  un  altro  rapporto  :  le  grandezze  e  i  numeri  mate- matici essendo  subordinati  in  generalità  alle  Idee  delle grandezze  e  dei  numeri,  essi  procedono  da  quelle  (sono posteriori  alle  Idee  delle  grandezze  e  ai  numeri  ideali); ed  essendo  superordinati  in  generalità  alle  grandezze e  i  numeri  fenomeni,  sono  i  principii  da  cui  questi  prò cedono  (sono  anteriori  alle  grandezze  e  i  numeri  feno- meni). Órinterpreti  trascendentalisti  danno  un'  altra  spie-gazione del  posto  d'intermediarie  tra  le  Idee  e  i  sensi- bili,  che  Platone  assegnava  a  queste  entità.  Secondo questi  interpreti,  le  entità  intermediarie  sarebbero,  per Platone,  le  Idee  nel  loro  rapporto  con  la  materia,  cioè come  leggi  del  mondo  sensibile.  Platone  avrebbe  cer- cati questi  intermediari  fra  le  Idee  e  le  cose,  perchè,  le Idee  trascendenti  essendo  incapaci  di  esercitare  diretta- mente un'elficienza  causale  sui  fenomeni,  vi  era  bisogno, (2)  V.  Mei.  I.  I.  VI.  3,  4,  1.  IX.  16,  25,  1.  111.  1.  6,  11.  15,  17-21,  VI. 1-2,  1.  XI.  1.  7,  l.  XUl.  11.  9,  1.  XIV.  ni.  11,  ecc. ittaai \ nel  suo  sistema,  di  mediatori,  per  cui   la  loro  influenza si  comunicasse  al  mondo  fenomenico,  e  li  avrebbe   tro- vati nelle  entità  matematiche,  perchè  le  leggi  del  mondo fenomenico  si  riducevano   per  lui  a  dei  rapporti     mate- matici. Sarebbe  superfluo  per  noi  di  discutere    quest'in- terpretazione, dopo  che  abbiamo  mostrato  Tinsussistenza della  base  su  cui  essa  è  fondata,  che  è  la  trascendenza delle  Idee.  Ma  essa  solleva  una  quistione,  <5he  non  pos- siamo lasciare  senza  risposta,  cioè  :    Le  entità  matema- tiche sono  semplicemente   la  realizzazione    dei    concetti matematici,  e  non  rappresentano  che  le  determinazioni delle  cose  studiate  dalParitmitica  e  dalla  g'^.ometria;  ov- vero il  pitagorismo   di  Platone   si  manifesta   anche  di- rettamente in  questa  parte  delle  sue  dottrine,  e  tutte  le determinazioni  delle  cose,  o,  come  dicono  gì'  interpreti di  cui  abbiamo  parlato,  le  leggi  del  mondo  fenomenico, sono  state  da  lui  ricondotte  agli  oggetti  matematici  ?  in modo  che  tutti  gli  attributi  rìegli  esseri  vengano  nel  suo sistema  rappresentati  tre   voUe  :  nel  mondo  delle   Idee, nel  mondo  delle    cose  e  in  quello  delle  entità    interme- diarie? In  altri  termini,  lo  entità  intermediarie  tramez- zano soltanto  tra  gli  attributi  matematici  delle  cose  e  le Idee  di  questi  attributi,  ovvero  tra  il  mondo    delle  cose e  il  mondo  delle  Idee  nella  loro  totalità?  Per  discutere d'una  maniera  completa  questa  quistione  dovremmo  oc- cuparci del  Ttépas  del  Fdebo,  perchè  è  sulla  pretesa  iden- tità di  esso  con  le  entità  matematiche  che  è  fondata  so- vratutto  l'opinione  che  vede  in  queste  entità  le  leggi  del mondo  sensibile  :  ma  noi  non  lo  potremmo  qui  senza  fare altrove  delle  ripetizioni  inutili,    perchè  questo   è  un  ar- gomento che  in  seguito  dovremo   trattare.  Per   ora  ba- sterà di  esaminare  la  testimoaianz\  d'Aristotile  :  quando verremo  all'interpretazione  del  Tiépa^  del  Filebo,    vedre- mo  che  non  vi  sarà  luogo  a  modificare  il  risultato  a  cai quest'esame  ci  avrà  condotto. Ora  dalla  testimonianza  d'  Aristotile  risulta  chiara- mente che  le  entità  matematiche  rappresentano,  non  tutte le  determinazioni  degli  essf^ri  —  come  sarebbe,  se  esse fos.sero  «  le  Id**o  stesse  nel  loro  rapporto  con  la  materia  » —, ma  semplicemente  le  determinazioni  matematiche  (cioè quelle  che  sono  1'  oggetto  delle  matematiche  pure).  La dottrina  delle  entità  matematiche  consiste  unicamente secondo  Aristotile  nella  realizzazione  dei  concetti  mate- matici. Cosi,  quando  egli  si  propone  di  esaminare  questa dottrina  platonica,  la  quistione  è  da  lui  formulata  in questi  termini  :  i  numeri  e  le  grandezze  geometriche  sono delle  sostanze  o  no  ?  e  se  sono  delle  sostanze,  esistono negli  stessi  esseri  sensibili  o  fuori  di  essi  ?  (1).  La  ne- gativa della  dottrina  è  per  lui  questa  proposizione  :  le  cose matematiche  (xà  ixaOYjjxaxtxoc)  non  sono  separate  (x(optoxoc  o X6xwpt0|iéva)  (2).  K  sul  principio  del  1.  XIII.  (e.  I-III),  in cui  la  discute  il  più  largamente,  si  limita  a  combattere la  proposizione,  attribuita  ai  platonici  ortodossi,  che  i numeri  e  le  grandezze  geometriche  —  e  per  numero  evi- dentemente egli  non  intende  in  qu»^sta  proposizione  che r  attributo  comune  di  una  collezione  qualunque  di oggetti  (v.  specialmente  IL  6)— sono  separati  dalie  cose, e  quella,  attribuita  ad  alcuni  dissidenti,  che  sono  delle sostanze  inesistenti  nelle  cose  stesse,  e  a  mostrare  che  i concetti  matematici  non  rappresentano  degli  esseri  sus- sistenti per  se  stessi,  ma  delle  proprietà  degli  oggetti sensibili,  che  il  matematico  astrae  (xtopC^eO  per  la  como- dità del  suo  studio.  Non  vi  ha  mai  in  tutte  le  allusioni (J)V.  Mct.  1.  IH.  1.  15,  1.  Xlll.  1.  2. (3)  V.  Mei.  1.  XI.  1.  8,  1.  Xlll.  IX.  12,  I.  XIV.  ili.  3,  eoo. —  200  — /v d*  Aristotile  a  questa  parte  del  sistema  platonico  una parola  che  supponga  che  le  altre  determinazioni  degli esseri  aiano  state  ricondotte  dai  Platonici  ai  concetti matematici,  e  che  le  entità  matematiche  rappresentino, come  i  numeri  ideali,  le  forme  stesse  e  le  leggi  del  mondo delle  cose.  Il  contrario  è  anzi  supposto  nel  modo  più evidente  in  parecchi  luoghi,  in  cui  la  dottrina  dei  nu- meri matematici  è  posta  in  confronto  con  quella  dei  nu- meri ideali  e  con  la  dottrina  pitagorica.  Nel  1.  ì'ò^  e.  1^ enunziando  Targomento  di  questo  libro,  dice  che  prima tratterà  «  delle  cose  matematiche,  senza  aggiungere  ad esse  un'altra  natura,  per  esempio  se  siano  Idee  o  no,  e se  siano  principii  e  sostanze  degli  esseri  o  no,  madell^^ cose  matematiche  semplicemente  se  esistano  o  non  esi- stano e  in  qual  moie  esistano»;  poi  delle  Idee  a  parte (cioè  a  part^  dwlla  tosi  che  le  identifica  coi  numeri);  e  in terzo  luogo  dei  numeri  ideal  .  Il  senso  ddle  parole  tra virgolette  è  ceriamente— coire  si  vede  dalle  materie  trat- tate nel  libro  e  dall'ordine  m  cui  si  seguono  —  che  pri- ma discuterà  la  dottrina  dellt^  entità  matematiche,  cioè quella  che  attribuisce  bensì  alle  cose  matematiche  una esistenza  reale  (ne  fa  delle  sostanze),  ma  non  aggiunge ad  esse  un'altra  natura  (non  fa  loro  rappresentare  d^lle determinazioni  d^gli  esseri  differenti  dalle  matematiche) come  fa  la  dottrina  dei  numeri  ideali  (la  quale  ricon- duce a  delle  co^e  matematiche,  cioè  ai  numeri,  le  Idee e  la  sostanza  d^^llc  cose).  Nel  e.  6®  dello  stesso  libro, parlando  delle  diverse  ipot^'si  metafìsiche  sui  numeri, dice:  «  Ancora  questi  numeri  possono  essere  o  s«»parati (xwptaxou^)  dalle  cose  (l'ipof  si  platonica),  o  non  separ.it", ma  negli  stessi  sensibili  (l'ipot^^si  pitagorica),  noi  però della  maniera  che  abbiamo  visto  precedentement-i  (cioè non  secondo  l'ipotesi,  attribuita  a  dei  platonici  dissidenti, che  i  numeri  matematici  sono  sostanze,  ma  inesistenti nelle  cose  stesse),  ma  in  modo  che  gli  esseri  sensibili risultino  dai  numeri  in  essi  inerenti».  Qui  la  dottrina pitagorica  sui  numeri  è  distinta  da  quella  dei  platonici che  ammettono  i  numeri  matematici  nelle  cose  stesse, perchè  secondo  qu(*lla  le  cose  risultano  dai  numeri  (cioè i  numeri  costituiscono  l'essenza  delle  cose),  secondo  que- sta no  :  ma  se  i  numeri  matematici  non  rappresentas- sero unicamente  le  determinazioni  aritmetiche  desrli  es- seri,  ma  fossero  le  Idee  nel  loro  rapporto  con  la  mate- ria 0  le  leggi  e  le  forme  del  mondo  fenomenico,  questa distinzione  non  potrebbe  farsi,  perchè,  in  tal  caso,  an- che pei  platonici  che  ammettono  i  numeri  matematici nelle  cose  stesse,  queste  risulterebbero  dai  numeri  ma- tematici. Nel  1.  XIV,  sulla  fine  del  e.  2^  e  il  principio del  3®  :  «  Si  potrebbe  pure  intorno  ai  numeri  insistere sulla  quistione  perché  si  debba  credere  alla  loro  esi- stenza. PiT  chi  ammette  le  Idee,  forniscono  qunlche  causa agli  es  eri,  s'  è  vero  che  ciascun  numero  è  un'  Idea,  e che  le  Idee  sono  cause  in  qualsiasi  modo  agli  altri  es- seri della  loro  es^'stenza;  teoria  che  noi  lasciamo  ai  suoi partigiani.  Ma  per  chi  non  è  di  quest'opinione,  perchè vede  le  difficoltà  intorno  alle  Idee,  e  perciò  non  fa  que- ste numeri,  ma  fa  il  numero  matematico,  perchè  credere a' l'esistenza  di  questo  numero,  e  in  che  esso  è  utile  alle altre  C3se?  Né  quelli  infatti  che  lo  ammettono  dicono che  questo  numero  sia  causa  di  alcuna  cosa— solamente ne  fanno  una  certa  natura  esistente  per  se  stessa  (in altri  termini  non  fanno  altro  che  realizzare  l'astrazione numero) — né  si  vede  di  che  sia  causa;  in  effetto,  tutti  i teoremi  dell'aritmetica  si  riferiscono,  come  si  è  detto,  ai sensibili  (vale  a  dire  :  tutta  l'utilità  che  si  attribuisce  a questo    numero  è   di  spiegare   la  conoscenza,  poiché  si -  201  - I  - pretende  che  le  matematiche  devono  avere  per  oggetto delle  entità  generali;  ma  questa  pretesa  é  vana,  perchè queste  scienze  si  riferiscono  invece  agli  oggetti  partico- lari)—Quelli  che  ammettono  le  Idee  e  dicono  che  esse SODO  numeri,  astraendo  tutto  ciò  che  è  uno  nei  molti, si  sforzano  di  mostrare  come  e  perche  ciascuno  di  que- sti uni  esista I  Pitagorici,  perchè  loro  sembrava che  molte  affezioni  dei  numeri  ineriscono  nei  sensibili, ammisero  che  le  cose  seno  numeri,  non  però  separati, ma  che  le  cose  stesse  constano  di  numeri.  E  perchè  ciò? perchè  le  affezioni  dei  nu'neri  si  trovano  nell'  armonia, nel  cielo  e  in  molte  altre  cose.  Ma  quelli  che  ammettono solamente  V  esistenza  del  numero  matematico  non  pos- sono dire  niente  di  simile,  secondo  le  loro  ipotesi;  ma  si pi-etende  che,  senza  questi  condizione,  la  scienza  dei numeri  noti  sarebbe  possibile».  Questo  luogo  afferma cosi  esplicitamente  che  i  numeri  matematici  sono  la  sem- plice sostantificazione  degli  attributi  matematici,  e  non costituiscono  le  leggi  e  le  forme  del  reale  —  né  come inerenti  nelle  cose  stesse,  quali  i  numeri  dei  Pitagorici e  i  numeri  ideali  di  Platone  nella  nostra  interpretazione, né  come  cause  esemplari,  quali  questi  numeri  neir  in- terpretazione trascendentali-^ta,  preferita  da  Aristotile  — che  grinterpreti  i  quali  vedono  nelle  entità  matematiche le  Idee  nel  loro  rapporto  con  la  materia^  non  potrebbero che  cercare  di  attenuarne  la  portata,  osservando  che  qui Aristotile  parla,  non  della  dottrina  stessa  di  Platone,  ma di  quella  di  un  platonico  dissidente  a  cui  egli  attribuisce di  non  ammettere  altre  entità  che  le  matematiche,  cioè di  Speusippo.  Ma  anche  quest'osservazione  non  potrebbe giovare  molto  alla  loro  tesi,  poiché  Aristotile  riguarda evidentemente  le  entità  matematiche  di  Speusippo  come equivalenti  a  quelle  di  Platone  (1);  salvo  che  Speusippo non  fa  queste  entità  intermediarie  fra  le  Idee  e  le  cose e  vede  nei  numeri  matematici  i  primi  di  tutti  gli  esseri  (2). Ma  da  qu(sta  differenza  non  potrebbe  seguirne  un  di- vario nel  significato  delle  entità  matematiche  tale  da impedirci  di  applicare  alla  dottrina  dei  platonici  in  ge- nerale sui  numeri  matematici  ciò  che  risulta,  dal  luogo citato,  su  quella  di  Speusippo.  Anzi,  i  numeri  matema- tici occupando  nel  sistema  di  Speusippo  il  posto  che  i numeri  ideali  occupavano  in  quello  di  Platone,  Speu- sippo avrebbe  avuto  più  motivi  che  Platone  di  dare  ad essi  un  significato  pitagorico,  facendo  loro  rappresentare h^  leggi  e  le  forme  del  mondo  reale,  e  non  le  semplici determinazioni  aritmetiche.  E  del  resto  questa  stessa  inu- tilità delle  entità  matematiche  alle  cose,  che  Aristotile, nel  luogo  citato  e  altrove  (3),  rimprovera  a  Speusippo, è  da  lui  rimproverata  anche  ai  platonici  ortodossi,  che fanno  quest'^  entità  intermediarie  tra  le  Idee  e  le  cose  (4); mentre,  so  le  entità  intermediarie  fossero  le  Idee  nel  loro rapporto  con  la  materia^  esse  avrebbero  un'efficacia  più reale  delle  Idee  stesse  (trascendenti),  e  più  utilità,  per cnnseguenza,  per  la  spiegazione  delle  cose. Questa  differenza  tra  la  dottrina  dei  numeri  ideali  e quella  dei  numeri  matematici,  e  in  generale,  delle  en- tità matematiche,  cioè  che  la  prima  implica  una  teoria del  reale  alla  pitagorica,  riducendo  ai  numeri  le  forme e  le  leggi  delle  cose,  mentre  la  seconda  non  è  che  la sostantificazione  delle  proprietà  studiate  dall'  aritmetica (1)  Met,  1.  XII.  I.  3, 1.  XIU.  l-lll,  vi,  IX.  2-6, 13-14,  1.  XIV.  III.  4-12,  ecc. (2)  Vedi  questo  Supplem.  n.  V. (3)  Mei.  1.  XII.    X.  14.  1.  XIV.  IH.  8. (4)  V.  Met.  1.  XIV.  lU.  lo. —  202  - e  dalla  gec nutria,  muKa  anche  chiaramente  dal  rap- porto che  si  stabilisce  tra  qiu  ste  entità  e  le  scienze  ma- tematiche. Noi  abbiamo  visto  che  le  entità  matematiche sono  gii  og'getti  a  cui  si  riferiscono  la  scienza  dei  numeri e  delle  grandezze;  e  Aristotile  assegna  questo  motivo  alla dottrina,  che  la  possibilità  delle  matematiche  (cioè  del- Taritraetica  e  della  geometria)  suppone  i  numeri  (mate- matici) e  le  grandezze  come  separabili  (xwptaxa),  cioè  co- me sostanze.  «  Quelli  che  ammettono  il  numero  (matema- tico) come  separato  (xcoptaióv),  è  perchè  le  proposizioni non  si  riferiscono  ai  sensibili,  ma  intanto  ciò  che  dicono è  vero  e  persuade  lo  spirito,  che  credono  che  il  numero sia,  e  sia  separato  (xwptaxóv),  e  similmente  le  grandezze matematiche  p.  (1)  È  un'  applicazione  della  prova  delle Idee  dalle  scienze.  Evidentemente  su  questo  fondamento non  potrebbe  stabilirsi  una  teoria  secoado  cui  i  numeri e  le  grandezze  costituirebbero  le  leggi  del  mondo  reale, ma  semplicemente  la  realizzazione  dei  concetti  dei  nu- meri e  delle  gran.lezze.  Ciò  poi  che  si  deve  notare  è  che la  funzione  di  essere  gli  oggetti  a  cui  si  riferiscono  le scienze  matematiche,  viene  assegnata  alle  entità  mate- matiche in  contrapposto  ai  numeri  ideali  Cosi  nel  1.  Ili II.  15  Aristotile  domanda  s(5  «bisogni  ammettere  altre sostanze  oltre  le  sensibili,  e  se  un  solo  genere  o  più  di queste  sostanzt^,  come  quelli  che  ammettono  le  Idee  e  le entità  intermediarie,  alle  quali  dicono  riferirsi  le  scienze matematiche  ».  E  nel  1.  I.  IX.  16  osserva  che,  se  le  Idee sono  numeri,  «  è  necessario  di  stabilire  un  altro  genere di  numero,  a  cui  si  riferisca  Taritmetìca,  e  tutte  quelle entità  che  alcuni  chiamano  intermediarie  >.  L'aritmetica non  può  riferirsi  al  nimero  ideale,  perchè  esso  rappre- (1)  M^i,  l  XIV.  III.  4. senta,  non  le  semplici  proprietà  aritmetiche  delle  cose, ma  le  leggi  e  le  forme  del  mondo  real  ;  e  si  riferisce  al numero  matematico,  appunto  perchè  questo  rappresenta, non  le  leggi  e  le  forme  del  mondo  reale,  ma  le  semplici proprietà  aritmetiche  delle  cose.  Per  conseguenza  Ari- stotile dice  dei  filosofi  che  ammettono  il  solo  numero matematico  —  per  i  quali  questo  num^^ro  non  è,  come per  Platone,  che  la  semplice  sostantificazione  degli  attri- buti matematici  —  ch'essi  parlano  delle  cose  matematiche matematicamente;  mentre  rimprovera  a  quelli  che  iden- tificano il  numero  matematico  con  l'ideale— e  perciò  gli fanno  rappresentare  dei  concetti  che  oltrepassano  la scienza  dei  numeri  —  di  parlare  delle  cose  matematiche non  matematicamente  (1),  e  di  sopprimere  in  realtà  il numero  matematico,  perchè  fanno  delle  supposizioni  loro proprie  e  non  matematiche  (2). Un'altra  prova  dell'equivalenza  dei  numeri  matema- tici dì  Platone  coi  numeri  di  cui  parla  1'  aritmetica,  si ha  nei  caratteri  per  cui  egli  distingue  i  numeri  mate- matici e  gl'ideali.  Questi  sono,  come  sappiamo,  la  com- binabilità e  V incombinabilità.  Attribuendo  l'  una  ai  nu- meri matematici  e  l'altra  ai  numeri  ideali,  Platone  evi- dentemente vuol  significare  che  i  primi  sono  i  numeri stessi  di  cui  sì  tratta  nell'aritmetica,  mentre  i  secondi  ne diflìeris^ono.  È  ciò  che  Aristotile  ci  indica  in  vari  luoghi, p.  e.  in  Met.  l.  XIII.  VI.  2-3,  in  cui  parla  delle  diverse ipotesi  possibili  sulle  entità  numeri,  cosi:  o  i  numeri sono  differenti  di  specie,  e  qualsiasi  unità  è  incombiriabile con  qualsiasi  altra;  o  tutte  le  unità  sono  combinabili  l'u- na  qualunque  con  un'  altra  qualunque,    <  come    dicono (i)  Mei.  1.  XIU.  vi.  8. (2)  li.  Xlll.  IX.  l3  e  VIU.  8. —  203  - (i  Platonici)  essere  11  numero  matematico  —  nel  nurnero matematico  infatti  nessuna  unità  differisce  da  un'altra» (è  evidente  che  qui  il  numero  matematico  vuol  dire,  non le  entità    che  Platone    designa  con  questo  nome,    ma  i numeri  nel  senso  ord'nario,  di  cui  tratta  la  matematica)—; o  le  unità  di  ciascun  numero  sono  combinabili  tra  loro, ma  incombinabili  con  quelle  di  cascun  altro  (è  l'ipotesi platonica  sui  numeri  ideali);  ovvero  infine  un  numero  è quale  abbiamo  detto  il  primo,  un  altro  quale  Tultimo,  e un'altro    «quale    dicono  i  matematici  » .    Altrove    \^Met. XIII.  VII.  4)  dice  :    «  Se  le  unità  sono  incombinabili,  e incombinabili  Tuna  qualunque  con  un'altra  qualunque, non  è    possibile   che  questo   numero  s'a  il  matematico; poiché  il  numero  matematico  è  costituito  di  unità  senza differenza,  e  tutto  ciò   che  si    dimostra  di   es-^o    (senza dubbio  dai  matematici)  gli  conviene  come  tale».  Non  è sorprendente  che  Platone  abbia  visto  nell'incombinabilità il  carattere  distintivo  per  eccellenza  del  numero    ideale da  quello  a  cui  si  riferisce  Taritmetica,  la  combinabilità dei  numeri    a  cui  essa  si    riferisce   essendo  il   postulato fondamentale  di  questa  scienza,  che  ha  appunto  p'^r  og- getto la  combinazione  di  questi  numeri.  Ma  se  i  numeri matematici  fossero  le  leggi  dtl  mondo  sensibile  e  le  Idee nel  loro  rapporto  con  la  materia,  essi  dovrebbero  essere incombinabili  come  gì'  ideali  :  noi  abbiamo  visto  infatti che  questi  sono  ineombinabili,.  perchè  un'Idea  non  è  una parte  delle  altre  Idee;  ora  anche  una  legge  della  natura (nalvo  l'inerenza  del  generale  nel  particolare,  che  esiste pure  nelle  Idee)  non  è  una  parte  delle  altre  leggi  della natura. lullne,  il  valore  puramente  aritmetico  e  geometrico delle  entità  matematiche  è  dimostrato  da  un'obbiezione che  Aristotele  fa  ripetutamente  alla  dottrina.  Per  le  stesse ragioni,  egli  dice,  per  cui  vi  hanno  delle  grandezze  e dei  numeri,  intermediari  tra  gl'ideali  e  i  sensibili,  do- vrebbero anche  esservi  un  alro  cielo  ed  altri  astri  oltre i  sensibili  e  le  loro  Idee  ;  e  sim  Imento  delle  entità  in- termediarie tra  le  Idee  e  i  sensibili  per  gli  oggetti  del- l'ottica e  dell' armonia;  e  sensi  ei  oggetti  dei  sensi  ed animali  intermediari  tra  gl'ideali  e  i  corruttibili;  e  una sanità  intermediaria  tra  la  sanità  in  sé  e  la  sanità  reale; e  un  terzo  uomo  intermediario  tra  1'  uomo  in  sé  e  gli uomini  particolari;  e  in  generale  per  tutte  le  cose  di  cui vi  hanno  Idee  dovrebbero  esservi  delle  entità  interme- diarie tra  le  cose  stesse  e  le  loro  Idee  (1).  È  chiaro  che quest'obbiezione  suppone  che  le  entità  matematiche  rap- presentano, non  tutte  le  determinazioni  del  reale,  ma  solole  matematiche  (cioè  quelle  studiate  dall'aritmetica  e  la geometria),  e  che  il  loro  titolo  d' intermediarie  significa che  esse  tramezzano,  non  tra  le  cose  e  le  Idee  nella  loro totalità,  ma  tra  gli  attributi  aritmetici  e  geometrici  delle cose  e  le  Idee  di  questi  attributi.  Se  esse  tramezzassero  tra le  cose  e  le  Idee  nella  loro  totalità,  e  fossero  le  Idee stesse  come  leggi  del  mondo  sensibile,  Aristotile  non potrebbe  rimproverare  alla  dottrina  di  non  ammettere per  le  altre  cose,  come  per  le  grandezze  e  i  numeri,  un che  d'intermediario  tra  l' Idea  e  il  fenomeno,  poiché  il mondo  delle  entità  intermediarie  sarebbe  già,  in  quest'i- potesi, un'altra  ripetizione  del  mondo  delle  cose,  come quello  delle  Idee. Stabilito  il  significato  puramente  matematico  delle  en- tità intermediarie,  possiamo  passare  ai  motivi  della  dot- trina. Il  concetto  che  deve  servirci  di  guida  è  la  dipen- denza di   questa  dottrina  da    quella  dei  numeri   ideali. (1)  Met.  1.  111.  11.  17  sqq.,  1.  XIll.  11.  7-8,  I.  XI.  I.  7.- —  204  — Questa  dipendenza  ci  è  att'^sfcata  da  Aristotile.  Eicor- diamo  il  luogo  cit*ito  di  M^t,  1.  I.  IX.  16.  «Se  le  Idee sono  numeri,  sarà  necessario  di  apparecchiare  un  altro genere  di  numero  circa  cui  V  aritmetica,  e  tutte  quelle entità  che  alcuni  ch'amano  interm'^diarie  ».  La  quistione si  riduce  dunque  per  noi  a  comprendere  :  perchè  Pla- tone ha  distinto  i  numeri  matematici— cioè  quelli  che  sono rogs:etto  dell'  ar  tmetìca  —  dai  numeri  ideali  —  cioè  da quelli  con  cui  venivano  identificate  le  Idee—,  e  li  ha  loro subordinati  come  più  particolari;  e  perchè  non  ha  riso- luto in  numeri  anche  le  grandezze  geometriche  —  come avrebbe  dovuto  seguire  dal  principio  generale  che  gli esseri  sono  numeri —,  ma  solo  ls3  forme  dei  generi  su- premi di  queste  grandezze. La  dottrina  pitagorica  dei  numeri,  rìg'damcnte  inter- pretata, avrebbe  certamente  condotto  a  fare  una  cosa sola  delle  Idee  -  numeri  coi  numeri  aritmetici  :  è  li  in effetto  che  arrivò  Xenocrate,  il  filosofo  che,  tra  i  plato- nici pitagoreggianti,  è  il  più  vicino  al  pitagorismo  ge- nuino. Tuttavia  non  è  sorprendente  che  Platone  abbia indietreggiato  dinnanzi  a  questa  conseguenza  logica  dellafusione  del  sistema  del'e  Idee  coi  concetti  pitagorici. Anche  tra  i  veri  Pitagorici,  pochi  verisimilmente  avreb- bero acconsentito  a  prendere  la  formula  che  le  cose  sino numeri  nel  senso  che  gli  esseri  non  sono  altra  cosa  che i  loro  attributi  aritmetici,  che,  per  esempio,  quando  si diceva  che  la  giustizia  è  il  numero  quattro,  il  matrimo- nio il  numero  cinque,  Tanima  il  numero  sei,  ciò  voleva dire  precisamente  che  la  giù  tizia  è  identica  perfetta- mente all'attributo  comune  a  una  collezione  qualunque di  quattro  oggetti,  il  matrimonio  di  cinque,  l'auima  di sei.  La  sostantificazione  platonica  degli  universali  ve- niva poi  al  accrescere  le  assurdità  di  una  talelnterpre- tazione.  Se,  p.  e.,  Tldea  deiruomo  è  il  numero  tre,  biso- gnerà intendere  per  ciò  che  il  complesso  degli  attributi comuni  a  tutti  gli  uomini,  considerato  come  uno  e  lo stesso  in  tutti,  è  Tattributo  comune  a  tutti  i  gruppi  di tre  oggetti,  considerato  anch'esso  come  uno  e  lo  stesso in  tutti  ?  o  semplicemente  che  V  entità  chiamata  il  Tre in  sé  rappresenta  al  tempo  stesso  l'Idea  dell'uomo  e  la es-enza  comune  di  tutti  i  gruppi  di  tre  oggetti,  quan- tunque qu'  ste  s'ano  due  cose  per  se  stesse  distinte  ?  Ma in  questo  s<  condo  caso,  per  la  stessa  ragione  per  cui  si fa  un'entità  distinta  dell'Idea  dell'uomo,  dovrebbe  anche farsi  un'enttà  distinta  dell'essenza  comune  di  tutti  i gruppi  di  tre  oggetti,  cioè  del  tre  matematico,  l'esigenza necessaria  del  sistema  delle  Idee  essendo  che  ciascun universale  venga  separato^  e  se  ne  faccia  un'entità  esi- stente per  se  stessa. Noi  comprendiamo  dunque  perfettamente  la  necessità, in  cui  Platone  si  è  trovato,  di  ricorrere  all'ipotesi  poco naturale  di  un  altro  numero  distinto  da  quello  che  è  l'og- getto dell'aritmetica.  Senza  dubbio,  quando,  dopo  aver affermato  che  le  cose  sono  numeri,  si  soggiunge  che  que- sti numeri  non  sono  quelli  con  cui  ha  da  fare  l'aritme- tica,  la  soc'ìnia  proposizione  ha  tutta  1'  aria  di  essere una  sconfessione  d^^lla  prima;  dei  numeri  differenti  dalle determinazioni  delle  cose  che  studia  l'  aritmetica,  non essendo,  a  parlar  propriamente,  dei  numeri.  Cosi  la  di- stinzione tra  i  numeri  ideali  e  i  numeri  matematici  ci  dà un'  altra  prova  di  un  fatto,  che  noi  abbiamo  notato  a proposito  della  riduzione  ai  numeri  della  sola  forma  delle cose,  cioè  che  il  pitagorismo  di  Platone  non  è  andato sino  ad  accettare  l'identificazione  pura  e  semplice  delle cose  coi  numeri  che  egli  trovava  nelle  formule  pitago- riche. Ma  l'allontanamento  di  Platone  dai  Pitagorici  non —  205  — t^  .r^-mt-jt^^'      \^ ^,;^  ;^^.  f-  ^^Vtvl  > poteva  esser  tale   da  metterlo  in  aperta   contraddizione con  le  loro  proposizioni.    È  ciò  le  sarebbe  avvenuto,  se la  distinzione  del   numero  ideale   dal  matematico    fosse assoluta,    Qaando  i  Pitagorici    rappresentavano    le  cose per  dei  numeri,   identificavano,  almeno  verbalmente,  i concetti  delle  cose  con  quelli  dei  numeri  :  essi  dicevano, p.  e.,  il  numero  quattro  è  la  giustizia,  il  sette  il  tempo opportuno,  l'uno  la  mente,  il  due  l'opinione  (1);  e  questi concetti  dei  numeri,  con  cui  quelli  delle  cose  venivano identificati,  non  erano  evidentemente  per  loro  che  i  con- cetti stessi  che  i  nomi  dei  numeri  esprimevano,  quando designavano  le   semplici   determinazioni    aritmetiche.  Il quattroy  il  sette,  il  due  non  erano  per  loro  dei  termini equivoci,  quando  indicavano  i  numeri  della  giustizia,  del tempo  opportuno  e  dell'opinione,  e  quando  venivano  im- piegati semplicemente  per  denotare  i  gruppi  di  quattro, di  sette  e  di  due  oggetti.  Per  conseguenza  i  numeri  ideali di  Platone  dovevano  rappresentare  i  concetti  (astratti  e generali)  dei  numeri,  a  cui  le  stesse  determinazioni  arit- metiche erano  subordinate;  dovevano  essere,  in  altri  ter- mini, i  numeri  in  sé,  le  essenze   dei  numeri,  per  la  cui partecipazione  gli  stessi  numeri    matematici  sono    chia- mati uno,  due,  tre,  ecc.  Cosi  Platone  identificava  in  un certo  modo,  nel  tempo  stesso  che  li  distingueva,  ì  numeri ideali  e  i  numeri  matematici.  In  eff'etto  il  rapporto  che vi  ha  fra  i  due  numeri,  è  quello  di  anteriorità  e  poste- riorità—ì  numeri  ideali,  cioè  quelli  con    cui  egli  iden- tificava i  concetti  obbiettivati  delle   cose,  sono   i  primi numeri,  perchè  il  primo  è  l' in  sé  (aùxó)  ;  i  numeri  ma- tematici sono  loro  posteriori,  perchè  il  partecipante  è  po- steriore al  partecipato— :  ora  il  posteriore  nonèchel'an- (1)  V.  Al,  Afrod.  in  Arist.  Met,  1.  1.  V.  t.  32. terirre  stesso,  a  un  grado  ulteriore  di  determinazione  o di  concretizzazione. Da  questa  relazione  che  Plarore  stabilisce  tra  i  nu- meri matematici  e  i  numeri  ideali   segue   V  altro    punto capitale  della  dottrina.  Secondo  i  principii  della  dialettica platonica,   1'  anteriore  e  il  partecipato  è  l'uno,  il    poste- riore e  il  partecipante,  il  multiplo.  Il  separàbile  (x^pioTÓv) è  il  comune,  Vuno  nei  molti  :  ora   Platone  dai    numeri matematici  separa  (xwpCIJei)  le  essenze   stesse  dei  nume- ri —  i  numeri  ideali—,  per  la  cui   partecipazione  il  due, il  tre,  il  quattro,  ecc.  matematici  sono  chiamati  due,  tre, quattro,  ecc.  :  per  conseguenza  il  due,  il  tre,  il  quattro, ecc.  ideali,  in  relazione  al  due,  al  tre,  al  quattro,  ecc. matematica,  da  cui  si  separano,   devono  essere  ciascuno Vuno  nei  molti.  Di  là  la  propos'zione  che  dei  numeri  ma- tematici   ve  re  hanno  molti  della  stessa  specie,  cioè  che vi  ha  una  moltitudine  di  unità,  di  dualità,  di  trinità,  ecc. matematiche,  altrettante   quante  volte  1'  uno,  il  due,    il tre,  ecc.  si  ripetono  nel  numero  infinito. Non  bisogna  credere  tuttavia  che  il  numero  ideale  sia ciò  che  vi  ha  di  comune  nei  molti  numeri  matematici ad  esso  subordinati;  che  l'Unità  o  la  Duulità  ideali  siano alle  unità  o  dualità  matematiche  ciò  che  la  specie  è  agli individui  o  il  genere  alle  specie.  Se  il  numero  ideale racchiudesse  nella  sua  comprensione  tutto  ciò  che  vi  ha di  comune  nei  numeri  matematici  di  cui  esso  è  l'uno  nei molti,  la  distinzione  tra  le  due  sorta  di  numeri  non  avrebbe più  alcun  siguificato  ;  perchè  in  questo  caso  i  numeri ideali  non  sarebbero  che  le  essenze  o  i  concetti  gene- rali dei  numeri  matematici.  Il  numero  ideale  comprende dunque,  non  la  totalità  delle  note  comuni  ai  numeri  ma- tematici subordinati,  ma  una  parte  solamente  di  queste note-,  non  è  il  concetto  comune  dei  numeri  matematici, ma  qualche  cosa  di  più  indeterminato.  È  ciò  che  Platone ci  indica,  quando  fa  deìVincombinibilità  il  carattere  di- stintivo  dei  numeri  matematici    dai  numeri  ideali.    Se  i numeri  ideali    fossero  i  concetti  comuni,  nel  senso  stretto, dei  numeri  matematici,  essi  dovrebbero  essere  combina- bili come  questi.  Per  Tincombinabilità  del  numeri  ideali non  bisogna  iotendere  la  presenza  in  questi  numeri  d'un attributo  positivo    contrario  a  quello   dei  numeri   mate- matici, cioè  alla  combinabilità,  ma  solo  Tassenza  di  que- sto  carattere  dei  numeri  matematici.  Essa  significa  dun- que  che,  tra  le  note  del  numero  matematico  di  cui  deve farsi  astrazione  per  concepire  il  numero  ideale,  vi  ha  la combinabilità;  che  questa  è  una  determinazione  nuova, che,  nella   concnHizzazione   progressiva    deir  essire     si aggiunge  al  numero  ideale,  per  formare  il  numero  ma- tematico (1).  Il  pensiero  di   Platone  è,  al  fondo,   che  il (1)  Secondo  Aristotile.  Platone  avrebbe  ammesso  che  le  unità  dei  di  - versi  numeri  ideali  sono  dtJTeren^t  fra  di  loro  e  non  semplicemente    non Identiche;  e,  per  conseguenza,  che  questi  numeri  sono  gli  xxvix  fuori  degli altri,  e  non  semplicemente  che  non  sono  contenuti  zV^yxmvie^W  altri  come 1  matematici  (vedi  il.   indicati    nelle  note  1  e   3  a  carta  19i  pagina  2  ) Ma,  malgrado  l'autorità  di  Aristotile,  io  non  posso  ammettere  che  Platone sia  caduco  in  una  contraddizione  si  evidente,  qual  è  di   fare  dei    numeri Ideali  delle  essenze  di  cui  i  numeri  matematici  partecipano,  ed  actribuire al  tempo  stesso  ad  essi  dei  caratteri  positivi  opposti  a  quelli  dei  numeri matematici.  Il  partecipato  può,  anzi  deve,  mancare  di  certi  attributi  del partecipante,  perché  esso  è  più  astratto  e  questo  più  concreto;  ma  è  im- possibile  che  abbia  degli   attributi   positivi  contrarli,    perchè  non  è   che una  parte  della  sua  comprensione.    Nel    sistema  delle  Idee,  la  negazione dell'identità  non  importa  necessariamente  latfermazione  della  differenza né  la  negazione  della  contenenza  di  una  cosa  in  un'  altra   T  affermazione dell' esteriorità  dell' una    cosa   all'altra.   Per   formarsi    un    concetto  più astratto,  bisogna  escludere  certe  note    dei   concetti  più    concreti    in  cui esso   è  compreso,    ma    questa    esclusione  non   importa    1'  inclusione  di note  positive  contrarie.  Ora  le  entità  platoniche  non  sono  che  i  concetti realizzata  Platone  può  dunque  negare  di  un'entità  pia  astratta  certe  de?- numero  su  cui  volge  T  aritmetica — vale  a  dire  ciò  che noi  chiamiamo  numero  —  non  è  che  un  caso  particolare del  numero;  che  i  numeri  in  se  stessi,  essenze  comuni delle  Idee  e  dei  numeri  matematici,  sono  alcun  che  di uno  e  lo  stes'.o  nelle  noe  e  negli  altri,  e  di  più  gene- rale» che  le  une  e  che  gli  altri  ;  che  vi  ha,  al  di  sotto delle  difierenze,  un'identità  fondamentale  tra  le  determi- nazioni aritmetiche  e  le  forme  degli  esseri,  e  il  punto di  coincidenza  in  cui  queste  e  quelle  convergono  e  s'i* dentificano,  sono  i  numeri  ideali.  Semplicemente  Platone non  può  dare  espressamente  le  Idee  (cioè  le  forme  degli esseri)  come  V altro  caso  particolare  del  numero  :  la  fu- sione del  sstema  delle  Idee  con  la  dottrina  pitagorica dei  numeri  esige  che  le  Idee  siano  identificate  coi  nu- meri in  se  stessi,  non  con  un  numero  particolare;  n^l secondo  caso  i  concetti  delle  cose  non  sMdentificherebbero, terminazioni  di  un'altra  entità  più  concreta  in  cui  quella  è  compresa, senza  intendere  perciò  affermare  di  essa  delle  determinazioni  contrarie. Egli  può,  p,  e.,  negare  dell'animale  in  sé  le  note  proprie  dell'uomo,  senza affermarne  perciò  quelle  del  bruto;  negare  dell'essere  in  sé  le  note  pro- prie del  mosso,  senza  affermarne  perciò  quelle  del  quieto.  Senza  dubbio è  impossibile  di  concepire  un  animale  che  non  è  nò  uomo  né  bruto,  un essere  che  non  è  né  mosso  né  quieto,  delle  cose  che  non  sono  né  iden- tiche né  differenti,  né  contenute  l'una  neiraltra  né  Tuna  fuori  dell'altra: ma  io  non  pretendo  che  le  entità  platoniche  siano  concepibili. Il  difetto  dell'interpretazione  d'Aristotile  del  sistema  platonico  è  la sua  tendenza  a  rappresentarsi,  più  che  é  possibile,  le  entità  astratte  del maestro  sul  modello  delle  cose  sensibili  e  immaginabili:  le  Idee  non  sono, secondo  lui,  che  dei  sensibili  eterni,  come  gli  dei  del  volgare  non  sono che  degli  uomini  eterni  (AJet,  l.  111.  11.  16).  Di  là  la  sua  propensione  al- l'interpretazione trascendentalista;  di  là  il  concepire,  eh'  egli  fa,  le  Idee come  delle  forme  immobili  e  inattive.  Per  un  effetto  della  stessa  tendenza, degli  attributi  indicanti  la  semplice  assenza  di  certe  determinazioni,  sono intesi  da  lui  come  se  significassero  la  presenza  delle  determinazioni  con- trarie. —  207  — come  nelle  formule  pitagoriche,  coi  concetti  dei  numeri, e  inoltre  i  numeri -I«lee  e  i  numeri  aritmetici  sareb- bero due  corse  assolu'amenfe  distìnte,  ciò  che  la  subor- dinazione dei  numeri  matematici  agl'ideali  ha  appunto per  rggetto  di  evitare. In  quanto  all'altra  parte  della  nostra  quistione,  cioè perchè  Platone  non  risolvesse  in  numeri  anche  le  gran- dezze geometriche,  nri  vi  abbiamo  già  dato  una  rispo- sta assai  ovvia  :  è  che  il  numero  ideale  rappresentava la  sola  forma  delle  cose,  menare  le  grandezze  matema- tiche rappresentavano  tanto  la  forma  quanto  la  materia delle  grandezze  reali.  Noi  abbiamo  visto  infatti  ch*^  le grandf^zze  matematiche  si  compongono  d'  un  elJog  che esse  ricevono  dai  numeri  ideali,  e  d'  una  materia  che non  è  altra  cosa  che  Testensione  (in  lunghezza,  in  super-» ficie  e  in  volume).  Dall'  altra  parte  abbiamo  visto  pure che  il  numero  platonico  si  distingue  dal  numero  pitago- rico perchè  monadico,  e  che  questa  distinzione  significa che  il  numero  pit«»gorico  ha  grandezza,  vale  a  dire  delle cose  rappresenta  anche  l'estensione,  mentre  II  numero platonico  e  senza  grandezza,  cioè  rappresenta  la  forma separata  dalla  materia  o  dalT  estensione  (termini  equi- pollenti,  perchè  la  materia  delle  cose,  è  per  Platone  lo spazio).  Ma  questa  risposta  che  abbiamo  data  provoca naturalmente  un'altra  quistione  :  perchè  Platone  non  ha ridotto  le  grandezze  matematiche  a  delle  semplici  forme come  gli  altri  concetti  obbietivati  della  sua  metafisica  ? Evidentemente  Platone  ritiene  V  elemento  materia  indi- spensabile a  costituire  il  concetto  della  grandezza.  L'Idea platonica  rappresenta,  è  vero,  la  sola  forma  :  ma  di questa  forma  egli  ne  fa  l'essenza  stessa,  il  concetto  com- pleto della  cosa.  E  ciò  che  risulta  dai  termini  per  cui egli  designa  le  Idee,  dalle  prove  con  cui  ne  dimostrala esistenza,  e  in  una  parola  da  tutti  i  dati  che  abbiamo per  determinare  la  natura  dell'Idea  platonica.  Se  questa non  rappresentasse  il  concetto  nella  sua  integrità,  Pla- tone non  le  darebbe  il  nome  stesso  d^lla  cosa,  con  Tag- giunzione  delle  parole  aOxó,  oìoxt,  ecc.,  che  indicano  ap- punto che  l'Idea  è  l'attributo  o  l'insieme  di  attributi  con- notato dal  nome;  non  la  chiamerebbe  il  genere  e  la  spe- cie, l'essenza  e  la  natura  ;  non  la  riguarderebbe  come l'oggetto  a  cui  si  riferisce  il  concetto  e  la  definizione; non  direbbe  che  è  l'universale,  l'uno  nei  molti,  ecc.  An- che per  Aristotile,  la  cui  dottrina  sul'a  forma  e  la  ma- teria non  è  che  la  riproduzione  di  quella  di  Platone,  salvo la  differenza  tra  il  concettualismo  dell'uno  e  il  realismo dell'altro,  l'elSo^  (la  forma)  equivale  all'  oùaCa  o  xò  -zi  y]v elvai  (l'essenza)  e  al  Xóyoc  (il  concetto).  Se  dunque  l^en- t'tà  corrispondenti  alle  grandezze  geometriche  ne  rap- presentassero la  sola  forma,  Platone  dovrebbe  ammette- re che  la  forma,  per  se  sola,  esaurisce  il  concetto  o  l'es- senza di  queste  grandezze.  Ma  sarebbe  strano  che  l'es- senza della  grandezza  (nel  senso  che  i  logici  danno  alla parola  es'^enza)  non  fosse  grandezza  essa  stessa— poiché, non  bisogna  dimenticarlo,  la  differenza  tra  il  numero platonico  e  il  numero  pitagorico  è  che  questo  ha  gran- dezza e  quello  no—;  che  l'attributo  estensione  (sinonimo, per  Platone,  di  materia)  non  entrasse  nel  concetto  della forma  geometrica,  la  cui  definizione  è  :  uà'  estensione circoscritta.  Senza  dubbio,  è  anche  strano  che  l'rstensione non  faccia  parte  del  concetto  dell'uomo;  del  dente,  del- l' albero,  e  in  una  parola  di  tutti  gli  oggetti  estesi.  Vi ha  tuttavia  tra  gli  oggetti  che  hanno  grandezza  e  le grandezze  in  se  stesse  una  differenza  importante.  Quando Platone  sopprime  l'attributo  estensione  dal  concetto  del- ruomo,  del  dente  o  dell'albero,  egli  può  credere  che  ne —  208  — ^  V Il  ' restì  ancora  qualche  cosa,  e  chiamare  quosto  resto  l'es- senza dell'uomo,  del  dente,  de'Talbero,  perchè,  oltre  Te- stensione,  la  nozione  di  un  oggetto  esteso  comprende tanti  altri  attributi  :  le  altre  qualità  sensibili,  le  energie di  cui  è  dotato,  la  funzione  o  lo  scopo  a  cui  è  d^^stinato  — è  sovratutto  per  quest  'ultimo  attributo  chePlatone  defi- nisce le  cose  (1)—;  ma  se  si  toglie  T» stensione  dal  con- cetto della  grandezza  geometrica,  è  evidente  che  non  re- sta assolutamente  niente,  perchè  una  grandezza  geome- trica non  é  che  una  porzione  limitata  dell'  estensione. Quest'impossibilità  assoluta  di  dare  per  oggetto  ai  con- cetti delle  grandezz»,  geometriche  delle  entità  in  cui  l'at- tributo estensione  non  sia  rappresentato,  era  un  fatto  di cui  Platone  aveva  un'  esperienza  continua  :  la  geome- tria —  che  era  una  delle  scieaze  di  cui  egli  si  occupava con  specialità  —  essendo  lo  studio  dei  rapporti  di  misura delle  grandezze  estese,  come  potrebbe  questa  scienza  ri- ferirsi ad  oggetti  senza  estensione,  e  non  suscettibili, per  conseguenza,  dì  rapporti  di  misura  ?  La  dottrina sulle  grandezze,  come  quella  sui  numeri  matematici,  è dunque  un  effetto  dell'adesione  incompleta  che  Platone fa  alla  dot  rina  pitflgorica  dtii  numeri  :  l' incoerenza  di distinguere  le  grandezzf^  matematiche,  quantunque  en- tità universali  anch'esse,  dalle  Idee  non  è  che  un  aspetto della  contraddizione  insolubile  in  cui  egli  necessariamente s'inviluppa,  riducendo  ai  numero  la  sola  forma  delle cose,  mentre  è  in  esso  che  n^  fa  consistere  l'essenza. Ma  quantunque  Piatone  si  rifiutasse  a  risolvere  le grandezze  in  numeri,  egli  non  poteva  tuttavia  sottrarsi all'esigenza  imperiosa  della  logica,  che  gl'imponeva,  s'è vero  che  il  reale  consiste  nel  numero,  a  ricondurre  tutto al  numeri  ideali.  Per  conseguenza  fgli  fa  risultare  le grandezze  dai  nnmeri  ideali  che  ne  costituiscono  le  for- me (sISyj)  e  dalla  materia  (Dualità  indefinita).  Ora  se- condo i  principii  del  sistema  delle  Idee,  queste  forme (sISyj)  delle  grandezze,  che  Platone  rappresenta  per  dei numeri,  devono  essere  necessariamente  più  elevate  in general  tà  delle  grandezze  stese,  cioè  delle  entità  com- poste di  forma  e  di  materia  e  che  egli  chiama  matema- tiche. Platone  non  può  ad  un  concetto  di  grandezza  far corrispondere  al  tempo  stesso  due  ent'tà  :  un'entità  ma- tematica, composta  di  forma  e  di  materia,  e  una  forma pura,  rappresentata  da  un  numero  ideale.  Ciò  è  perchè, nel  sistema  delle  Idee,  tra  il  più  astratti  e  il  più  con- creto, in  altre  parole,  tra  ciò  che  si  separa  (xwptl^sxatj e  ciò  da  cui  si  separa,  vi  ha  la  relaziona  dell'universale al  particolare,  deWuno  ai  molfL  Cosi,  le  entità  rappre- sentanti le  forme  pure  essendo  più  astratte  delle  entità rappresentanti  i  composti  di  forma  e  di  materia,  quelle devono  essere  più  universali  e  queste  più  piirtìcolari;  in nitri  termini  i  concetti  a  cui  si  fanno  corrispondere  delle Idee-numeri  devono  essere,  non  gli  stessi  concetti  a  cui si  fanno  corrispondere  dcìlle  entità  matematiche,  cioè composte  di  forma  e  di  materia,  ma  altri,  a  cui  questi siano  subordinati  in  generalità.  E  siccome  i  concetti, corrispondenti  alle  entità  matematiche,  sono  alla  loro volta  più  generali  che  le  cose  di  cui  essi  sono  i  concetti, noi  possiamo  pure  esprimere  lo  stesso  fatto  dicendo:  che le  grandezz'^  matematiche  devrono  essere  intermediarie— c*oè  devono  tramezzare  in  generalità,  e  perciò  anche occupare^n  posti  medio  nella  sequenza  log^ica  degli esseri  (anteriorità  e  posteriorità) -tra  le  idee  delle  gran- dezze e  le  grandezze  sensibili. Platone  divide  duugue  i  concetti  delle  grandezze   in "(1)  V.  Arist.  De  An.  1.  I.  I.  31. - - due  classi,  a  cui  fa  corrispondere  due  dififerenti  sorta  di entità:  ai  più  particolari  assegna  le  entità  matematiche, composte  di  forma  e  di  materia,  e  ai  più  generali  le Idee -numeri,  che  sono  delle  semplici  forme.  Ma  cosi facendo,  va  naturalmente  incontro  ad  un'evidente  in- coerenza, cioè  di  obbiettiva  re  di  alcuni  concetti  il  «iwo/o, il  crmposto  di  forma  e  di  materia,  e  di  altri  la  sola forma.  Perciò  egli  non  ammette  che  altrettanti  numeri ideali  per  le  gTtndezze  quante  sono  le  specie  del  Grande e  Piccolo  che  servono  loro  di  materia:  è  che  cosi  l'in- coerenza viene  in  un  certo  modo  evitata,  poiché,  unen- do ciascuno  di  questi  numeri  alla  specie  corrispondentKi  del Grande  e  Piccolo,  si  ha  il  concetto  obbiettivato  nella  sua integrità  (forma  e  materia) —ciò  che  Platone  chiama  la  linea stessa,  il  piano  stesso,  il  solido  stesso—',  mentre,  se  si  aggiun- gessero alcii  numeri,  si  avrebbero  necessariamente  delle forme  senza  materia.  Questo  ci  spiega  perchè  vi  hanno  delle Idee-numeri  pei  generi  supremi  delle  grandezze,  ma  non ve  ne  hanno  pei  generi  intermedi  fra  di  essi  e  le  specie  ulti- me. In  quanto  airesclusione  di  questi  generi  intermedi  an- che dal  rango  di  entità  matematiche,  noi  ne  abbiamo  già notato  il  perchè  :  è  V  assimilazione  del  rapporto  tra  le grandezze  matematiche  e  le  loro  Idee  al  rapporto  tra  gli individui  e  le  loro  Idee  specifiche  ;  assimilazione  che  è, alla  sua  volta,  una  cr nsegurnza  della  distinzione  delle entità  matematiche  dalle  Idee,  Platone  non  potendo  am- mettere questa  distinzione  senza  negare  a  queste  entità la  qualità  di  specie,  e  riguardare  come  loro  specie  le  Idee infime  a  cui  le  subordinava. Nella  dottrina  delle  entità  matematiche  bisogna  di- stinguere evidentemente  due  parti,  che  si  sono  formate in  due  periodi  distinti  della  speculazione  platonica.  L'uua è  Tobbiettirazione  dei  concetti  dei  numeri  e  delle  gran- dezze geometriche  :  essa  è  nata  dal  punto  di  vista  pu- ramente platonico,  essendo  una  sempMce  applicazione della  teoria  delle  Idee,  ed  è  per  conseguenza  anteriore air  epoca  del  sincretismo  con  le  dottrine  pitagoriche. L'altra  è  la  distinzione  di  questi  concetti  obbiettivati  da quelli  a  cui  si  riserba  il  nome  d'Idee,  e  il  posto  loro  as- segnato d'intermediari  fra  queste  e  le  cose  :  essa  sup- pone la  teoria  dei  numeri  id»*ah*,  e  non  può  esser  nata perciò  che  nel  periodo  p'tagoreggiante.  Ciò  è  provato, oltre  che  dalla  natura  stessa  di  questa  parte  della  dot- trina, dal  luogo  citato  della  Metafisica  (I.  I.  IX.  16),  in cui  Aristotile  dà  la  teoria  delle  entità  intermediarie  come una  conseguenza  della  identificazione  delle  Idee  coi  nu- meri; e  se  ne  ha  la  conferma  negli  stessi  dialoghi  di Platone.  È  evidente  in  effetto  che  nella  classe  delle  Idee o  delle  Specie  l'autore  comprende,  pressoché  dapertutto ov'è  quis'^ione  della  dottrina  delle  Idee,  non  una  parte solamente  ma  la  totalità  dei  suoi  concetti  obbiettivati  (1), e  talvolta  anche  e'^plicitamente,  come  nei  luoghi  del Fedone  (101  e  104-105)  indicati  al  n.  I,  quelli  che  in  Ari- stotile sono  classati  tra  le  entità  matematiche. Le  modificazioni  apportate  alla  dottrina  primitiva  su- gli oggeui  matematici,  per  distinguerli  dalle  Idee-nu- meri e  loro  subordinarli,  si  riducono  in  sostanza,  oltre alla  restrizione  arbitraria  deiruso  del  termine  Idea  e  si- nonimi, a  tre  punti  :  per  quel  che  riguarda  i  numeri, la  moltiplicità  delle  unità,  diadi,  triadi,  ecc.  matematiche, e  la  derivazione  di  queste  dall'unica  unità,  diade,  tria- de, ecc.  ideali;  per  quel  che   riguarda  le  grandezze,  la (1)  V.  Carmen.  129-135,  Fedone  99  d-1or),  Filebo  14  e- 19  b,  Rep. 476  a  sqj.,  484-486,  5o7  b-c,  596  a-b,  Sof.  246-349,  251-26o,  Tim.  61  b- 52  d,  ecc. —  210  — riduzione  degli  siStj  della  linra,  del  piano  e  del  solido, e  di  essi  soli,  a  numeri  ideali.  In  quanto  al  primo  punto, ch'esso  sia  stato  una  modificazione  posteriore  della  dot- trina primitiva  di  Platone,  risulta  da  parecchi  luoghi, in  cui,  pai  landò  chiaramente  del  numero  maten.atico, cioè  di  quello  che  è  IVgoetto  drir  aritmetica,  egli  non ammette  senza  dubbio  che  una  sola  unità,  una  sola  dua- lità, fcc.  (1).  In  quanto  agli  altri  due  punti,  per  ist«bi- lire  la  loro  pofcteriorità,  non  rccorrono  altre  prove  che quelle  esposta  al  n.  I,  che  dimostrano  la  posteriorità  della teoria  dei  numeri  ideali.  Qui  noteremo  soltanto  che  ciò che  i  luo;2:hi  di  Platone,  di  cni  ivi  si  tratta,  profano  d'una maniera  immediata,  é  sovratutto  la  posteriorità  della  dot- trina delle  entità  intermediarie.  Infatti,  se  essi  dimostrano che  r  autore  non  conrsceva  ancora  quella  dei  numeri ileal'*,  è  specialmente  perchè  le  entità  numeri,  ruppre- sentanti  i  semplici  attributi  aritmetici  delle  cose,  e  corrl- spondeuti  quindi  ai  numeri  matematici  dell'  esposizione aristot  lica,  sono  in  questi  luoghi  riguardate  come  le Idee  e  le  ess  'nze  dei  numeri,  e  per  conseguenza  come  i primi  numeri,  escuiendosi  cosi  V  esistenza  di  altri  nu- meri anteriori  (Cfr.  n.  I,  carte  163-164)  (2). (1)  V.  Fedinw  jol  e,  lo4,  Rep.  522-525,  ecc. (2)  Si  è  cre.lato  di  ritrovare  la  (listinzioae  delle  entità  mate- matiche daUe  Idee  sulla  Une  del  1.  W^eWok  Repubblica.  Ivi  Platone divide  l'intelligjibile  ed  il  visibile  in  due  parti,  ohe  stanno  fra  di loro,  per  l'evMenza  o  la  verità,  come  tutto  l'intelligibile  sta  a  tutto il  visibile.  Alle  due  parti  del  visibile  corrispondono  le  due  forme inferiori  della  conoscenza,  a  cui  Platone  dà  il  nome  comune  di  opi- nione :  alle  due  parti  dell'intelligibile  le  due  forme  superiori,  che egli  chiama  intelligenza.  Le  due  parti  del  visibile  sono  le  cose  reali e  le  loro  immagini  :  alla  prima  corrisponde   la   fede,  alla  seconda rimmaginazione  (slxaaia).  Delle^  due  parti  dell' intelligibile  l'un»  è quella  che  s'investiga  per  la  dialettica;  l'altra  è  quella  ohe  s'investiga IV.  Il  pÌtagorl«ino  nel  Tiiiiet>  e  nel  Fifeb» Risulta  dall'esposizione  pr  ccleate  che  le  altre    dot- trine di  Platone  oltre  quel'e  di  cui  abbiamo   parlato   al per  le  scienze  matematiche,  che,  oltr.ì  la  scienza  dei  numeri  e  la  geo- metria, comprendono  l'astronomia  e  l'armonia.  Queste  due  parti  del- l'intelligibile sono  determinate  da  Platone,  non  per  se  stesse,  ma per  il  metodo  con  cui  si  procede  nel  loro  studio;  così  i  loro  carat- teri distintivi  sono  :  3.  Nello  studio  della  seconda  parte  (quella  che è  l'oggetto  delle  scienze  matematiche)  lo  spirito  procede  bensì  col metodo  deduttivo,  oome  in  quello  della  prima,  ma  la  dimostrazione è  incompleta,  perchè  il  punto  di  partenza  delle  sue  deduzioni  sono delle  semplici  ipotesi  :  nello  studio  della  prima  parte  (quella  ohe  è l'oggetto  della  dialettica),  al  contrario,  il  metodo  è  assolutamente dimostrativo,  perchè  il  principio  è,  non  una  sdmplice  ipotesi  come in  quello  della  seconda,  ma  una  verità  d'una  certezza  assoluta. 2.  Nello  studio  della  seconda  parte,  quantunque  il  vero  oggetto  del pensiero  sia  l'universale  in  se  stesso  (il  quadrato  %le^%o^  la  diago- nale ^ie^ia^  i  numeri  .siedasi),  pure  ciò  che  esso  prende  immediata- mente per  oggetto  sono  delle  cose  particolari  e  sensibili;  nello  stu- dio della  prima  parte  invece,  il  pensiero  non  ha  altro  oggetto  che l'universale,  le  Specie  essendo  il  principio,  il  mezzo  e  il  termine di  tutta  la  dimostrazione  (per  queste  differenza  tra  il  metodo  dia- lettico e  quello  delle  matematiche,  cfr.  il  cap.  VII).  Alla  prima parte  dell'intelligibile,  tra  le  forme  della  conoscanza,  corrispoa  la la  scienza,  alla  seconda  la  raziocina  zìo  ne  (Stavoia).  Le  quattro forme  della  conoscenza,  corrispondenti  alle  parti  dell'intelligibile  e del  sensibile,  partecipano  dell'  evidanza  nella  stessa  misura  in cui  gli  oggetti,  a  cui  corrispondono,  partecipano  della  verità. La  prima  parte  dell'intelligibile  sono,  non  potrebbe  esservi  al- cun dubbio,  le  Idee  :  la  seconda  parte  é  stata  identificata  con  le entità  matematiche;  ma  questa  identificazione  presenta  delle  dif- ficoltà insormontabili,  quali  sono  le  seguenti  : 1.  Le  entità  matematiche  non  sono  che  i  numeri  e  le  gran- dezze geometriche;  mentre  la  seconda  parte  dell'intelligibile  com- prende anohe,  oltre  gli  oggetti  dalla  soienza  dal   naoiari  e    dalla 211  — cap.  VII  — e  che  consistono  in  sostanza  in  questi  tre  con- cetti :  la  realizzazione  degli  universali,  la  dialettica,  e  il bene  genere  supremo  o  forma  comune  di  tatti  gli  esseri- geometria,  quelli  deU'astronomia  e  dell'armoaia.  Dirà  l'interprete trasoendentaUsta,  per  risolvere  questa  difficoltà,  ohe  le  entità  ma- tematiche rappresentano  le  leggi  del   mondo   fenomenico,    e    per conseguenza  costituiscono  anche  l'oggetto  dell'astronomia    e   del- l'Armonia? Ma  allora  Platone  dovrebbe  dare  la  seconda  parte  del- l'intelligibile per  oggetto,  non,  com'egli  fa,  a  certe  scienze  speciali ma  a  tutte  le  scienze  del  reale,  perchè  tutte  hanno  per  oggetto  le* leggi  del  mondo  fenomenico.  E  in  questo  caso,  siccome    le    stesse •cienze  avrebbero  anche  per  oggetto  le  Idee-per  il    principio  ge- nerale che  la  scienza  si  riferisce  all'Idea-,  le  due  parti  dell'intelligi- bile non  potrebbero  venire  distinte  per  le  scienze  di  cui  sono  l'oggetto. 2.  Il  carattere   per  cui  le  entità   matematiche    si   distinguono dalle  Idee  è  ohe  ve  ne  hanno  molte  della  stessa  specie.  Nella  sua applicazione  ai  numeri,  questa  proposizione  significa,  come  abbiamo spiegato,  che  vi  ha  un'infinità  di  unità,  di  diadi,  di  triadi,  ecc.  ma- tematiche.  Ma  nella  Repubblica  Platone  non  ammette,  come  concetto realizzato,  che  una  sola   unità,    l'Uno   stesso    (v   524  d,  625  a   e)-  e per  conseguenza  pure  una  sola  Diade,    una    sola    Triade,  ecc    Ciò risulta  anche    da  tutto    il  contesto in    cui  l'Uno    e  gli altri  numeri  sono  classati  tra  gli  oggetti,  che  il  senso  vede  confusi 001  loro  contrari,  ma  che  l'intelligenza  separa,  vedendo    ciascuno dei  contrari  come  uno.  L'uno  e  i  numeri  di  cai  è  quistione  nei  luo- ghi indicati,  siccome  sono  dati  come  l'oggetto  dell'aritmetica,  sa- rebbero  quelli  formanti,  con  gli  altri  concetti   matematici,   la  se- conda parte  dell'intelligibile  (se  questa  equivalesse  alle  entità  mate- matiche) :  per  conseguenza    dovrebbero  essese   identici  ai    numeri matematici  dell'esposizione  aristotelica.  Ma  questa  identità,  come .1  è  visto,  non  esiste;  e  la  differenza  è   d'  un'importanza   capitale, trattandosi  del  carattere  delle  entità  matematiche  per  cui  esse  ve- nivano  distinte  dalle  Idee. 3.  La  distinzione  degU  oggetti    matematici  dalle  Idee  importa la  loro   subordinazione    ad  esse    come    intermediari   fra    esse    e  le cose,  e   questa   lappone,  come   risulta    da  tutta  la   nostra   esposi- zione  di  questa  parte  della  filosofia  platonica,  la  dottrina  dei   nu- men  ideali.  Ma  noi  mostrammo  al  n.  I  (cju-te  163-164)  ohe,  quando sono  il  prodotto  di  una  fusione,- avvenuta  in  un  periodo ulteriore  della  sua  specuUz'one,  dei  concetti  propri  a Platone  stesso  —  quelli  che  abbiamo  indicati  —  con  quelli Platone  scriveva  la  Repubblica^  egli  non  conosceva  ancora  questa  dot- trina. E  si  noti  che  gli  argomenti  con  cui  l'abbiamo  provato  acqui- stano una  forza  particolare  contro  qaelli  che  nella  seconda  parte dell'intelligibile  veleno  le  entità  matematiche.  In  effetto  essi  non potrebbero  revocare  in  dubbio  la  premessa  da  cai  partono  questi argomenti,  cioè  che  i  numeri,  di  cai  è  quistione  nel  VII  della  He- pubblica^  sono  i  matematici,  vale  a  dire  quelli  rapprasentanti  i  sempli- ci attributi  aritmetici;  questi  numeri  essendo,  secondo  la  loro  tesi,  di- stinti dalle  Idee  e  ad  esse  opposti  come  appartenenti  a  un'altra  se- zione del  mondo  intelligibile.  Ma  se  si  conviene  che  questi  numeri sono  i  matematici,  si  de^e  pure  convenire  che  1'  autore  non  am- metteva ancora  i  numeri  ideali,  poiché,  se  li  avesse  già  ammessi, egli  non  avrebbe  potuto  riguardare  i  numeri  matematici  come  i numeri  stessi  e  le  essenza  dei  numeri  (v.  earte  163-164  e  209>210). i.  Le  due  parti  dell'intelligibile  si  distinguono  in  qaanto  l'una è  l'oggetto  della  scienza  dialettica,  e  l'altra  di  un'altra  scienza, egualmente  deduttiva,  ma  d'un'evidenzi  inferiore.  Ora  quest'esclu- sione dal  dominio  della  dialettica  non  potrebbe  convenire  agli  og- getti delle  matematiche,  considerati  coma  eatità.  Essi  soao  dei concetti  obbiettivati  simili  a  tutti  gli  altri  dalla  mìtafisici  plato- nica. Qaesti  concetti  hanno  dei  gradi  differenti  di  generalità,  e  per conseguenza  il  metodo  di  divisii»ne  deve  applicarsi  anche  ad  essi — Platone,  è  vero,  dei  numeri  e  della  grandazze,  dopoché  ne  fa  delle entità  intermediarie,  non  realizza  che  i  concetti  specifici;  ma  ciò non  esclude  l'applicazione  del  matoio  dialettico,  i  concetti  gene- rici occorrenti,  che  non  si  trovano  tra  le  stesse  entità  intermedia- rie, trovandosi  nelle  Idee  a  cili  esse  sono  subordinate—.  Infina  l'u- nità di  metodo,  che  è  uno  dei  carattari  essenziali  a  qaesta  forma di  metafisica,  esige  che  anche  questi  concetti  entrino,  con  tutti  gli altri,  nel  sistema  universale,  e  si  deducano,  eoa  lo  stesso  processo, dall'Idea  suprema.  E  nel  fatto  Platone,  tra  gli  o^jgatti sa  cui  volge la  dialettica,  comprende,  in  diversi  luoghi,  i  concetti  matematici. Nel  Filebo  61  d-62  a,  riferendosi  a  53-59,  in  cai  oppone  la  scianza dialettioA,  che  ha  per  oggetto  ciò  che  esiste  sempre  ed  è  sampre allo  stesso  modo,  a  quella  che  ha  per  oggetto  ciò  che  ò  generato, -, dèi  Pitagorici.  Di  queste  dottrine  alcane  —  quelle  dei numeri  ideali  e  dei  due  elementi  delle  Idee  —  non  sono che  lo  dottrine  principali  dei  Pitagorici  con  le  modifica- dioe  di  aver  distinto  due  soienze,  l'ana  circa  le  cose  che  Dascono e  periscono,  l'altra  circa  quelle  che  non  nascono  né  periscono  e sono  sempre  allo  stesso  modo,  e  pone  tra  gli  oggetti  della  seconda, cioè  della  dialettica,  il  cerchio  stesso  e  la  sfera  stessa,  Neil'  Kit  ti' demo  890  b-c:  •  I  geometri,  gli  astronomi,  gli  aritmetici  sono  pure dei  cacciatori,  perchè  non  fanno  le  figire,  ma  vanno  alla  ricerca di  quelle  che  esistono;  e  siccome  non  sanno  usarne,  ma  solamente scoprirle,  quelli  tra  di  loro  che  non  sono  insensati  abbandonano  le loro  scoverte  ai  dialettici,  perchè  sa  ne  servano  „.  Neil'  Ephiomidy (che,  se  non  è  di  Platone,  è  certamente  di  u]\  discepolo  dell'  an- tica accademia)  991  e-992  a  :  "Bisogna  che  il  consenso,  <?he  è  uno, di  tutte  cosa,  d'ogni  figura,  ogni  costituzione  di  numero,  ogni  ra- giono d'armonia  e  di  rivoluzione  degli  astri,  si  manifesti  a  quello ohe  imparerà  secondo  il  vero  metodo;  e  si  manifesterà,  se  chi  im- para guarda  all'unità;  perchè  la  riflessione  gli  scoprirà  che  un  sol legame  unisce  naturalmente  tutte  cose  ^  (questo  legame  unico  di tutte  le  cose  non  è  che  il  legame  dialettico,  che  riconduce  ogni moltiplicità  all'unità,  e  per  cui  tutte  le  Idee  formano  un  slitema.  Cfr Hep,  637  e).  Nella  Repubblica  poi  non  può  esservi  dubbio  che  i  numeri (oggetto dell'aritmetica)  e  le  grandezze  geometriche  non  siano  inclusi nella  parte  dell'intelligibila  ohe  s'investiga  par  la  dialettica.  Da Una  parte  in  effetto  ci  si  dica  che  l'oggetto  della  dialettica  è  l'es- senza di  ciasou>ia  cosa  (534    b,  533    b,  eoo.)  ;    ciascuna    cosa    stessa (aùxò  Ixaoxov—  v.  532  a.  533  b);  l'essere  (ov,  oOofa— vedi  532  e, 537  d,  e  quei  luoghi  in  cui,  come  a  518  e,  521  e,  525  b,  525  e,  alle discipline,  la  cui  destinazione  neil'  educazione  platonica  è  di  pre- parare alla  dialettica,  si  dà  per  iscopo  di  operare  l'evoluzione  dello spirito  all'essere);  il  vero  ^v.  519  b,  525  e,  527  b).  Dall'  altra  parte si  prescrive  a  qualli  che  devono  occupara  le  prima  caricha  dello stato,  di  studiare  il  calcolo  per  contemplare  l'ei-ianza  dai  numeri (v.  523  a-525  e);  e  le  entità  a  cui  si  riferiscono  l'aritmetica  e  la  geo- metria ricevono  anch'eise  l'attributo  stesso  (aùxóg'—  a  510  d  il quadrato  slesso  e  la  diagonale  sles^a^  a  525   a,  d,  e  1'  uno  stesso  e   i numeri  slessi),  e  sono  anch'esse  chiamate  essere  (c-V  a  521  d,  525  a» M3  b-c,  537  e;  0\}QÌ0L  a  523  a,  524  e,  hìh  b,  e,  526  e)  e  verità  (525  b,  e, zionì  necessitate  dal  loro  aggiustamento  al  sistema  pla- tonico; le  altre  —  quelle  della  mat<»ria  delle  cose  e  delle entità  intermeiìarie  —  sono  un   effetto  dell'  adesione  in- 526  b,  527  b).  Aggiungiamo  che  l'ufficio  assegnato  alla  dialettica  è la  definizione  di  ciascuna  cosa  (v.  531  e,  533  b,  534  b),  e  i  numeri  e le  figure  non  potrebbero  non  essere  compresi  tra  le  cose  a  definire. Questa  inclusione  degli  oggetti  a  cui  si  riferiscono  le  matematiche tra  quelli  in  cui  versa  la  dialettica,  si  vede  pure  chiaramente  a  537  e, dove  si  raccomanda  che  le  discipline— 1'  aritmetica,  la  geometria, l'astronomia,  l'armonia  —  che  sono  state  studiate  isolatamente  nella fanoiullezza,    siano  più  tardi   presentate   nell'  insieme,    '^  per  dare una  veduta  d'insieme  (s^C  0'JVO'|»Lv)  dell'a 'finitiX  e  delle  discipline fra  di  loro  e  della  natura  dell'essere  „.  tessere  sono  i  concetti  rea- lizzati; e  questa  0'JVO']^t^  dell'  affinità  della  natura  dell'essere  non è  che  la  considerazione  dialettica  di  questi  concetti,  come  lo  pro- vano anche  le  parole    che  seguono   immediatamente  :  Con  ciò  si sperimaata  massimamente  l'ingegno  dialettico  o  no;  chi    è  O'ivOTl- Tixó^  è  dialettico,  chi  non  lo  è  no  „.  Notiamo  che  i  luoghi  citati sono  tutti  nel  libro  VII,  che  è  una  continuazione  della  digressione cha  comincia  sulla  fine  del  VI  con  la  bipartizione  del  visibile  e  del- l'intelligibila. Ohe  cosa  bisogna  dunque  intendere  per  la  parte  dell'intelligibiie che  s'investiga  per  la  scienza  matematicha  ?  Non  altro  che  le  ve- rità studiate  da  queste  scienze.  Quantunque  Platone  non  faccia  di queste  yerità  delle  entità  sussistenti  per  se  stesse  coma  le  Idee, pure,  siccome  le  considera  d'una  maniera  obbiettiva,  egli  può  op- porle alle  Idee  come  un'altra  spacie  dall'  intalligibile.  Dall'  altro canto  le  Idee  possono  e-jsare  opposte  alle  verità  dalle  matematiche, perchè  esse  non  sono  che  le  verità  della  dialettica  obbiettivamente considerate  :  la  dialettica  infatti  non  è  che  un  seguito  di  proposi- sùoni  esistenziali,  logicamenta  legate  tra  di  loro,  di  cui  ciascuna pone,  cioè  afi'arma,  un'Idea,  e  il  cui  logama  logico  non  è  altra  cosa che  il  legama  ontologico  fra  le  Idea  stesse  atfermate. Questa  distinzione  dalle  verità  scientifiche  in  dialettiche  e  ma- tematiche si  rapparta  dalla  maniera  più  naturale  all'oggetto  dalla fine  dal  VI  della  Ròpuhblica,  che  è  di  dare  una  nozione  generale  del metodo  dialettico,  indicanio  le  so  niglianz3  e  la  differenza  tra  le scienza  matematiche  e  la  scianza  dialettica— ban  inteso,  considerato  -i completa  che  Platoae  fa  alla  doitrina  pitagorica  dei  nu- meri. Ci  resta  a  parlare  dei  motivi  di  questa  evoluzione verso  il  pitagorismo. nella  loro  formo,  non  nella  loro  materia^:  che  avrebbe  da  fare  con quest'  oggetto    la    distinzione    delle  entità    platoniche   in  Idea  ed entità  matematiche?  Se  la  dae  parti  dell'iatellìgile  fossero  queste, né  si  comprenderebbe  perchè  Platone,  parlando  dei  rapporti  tra  il meto  io  dialettico  e  il  metodo  matematico,  abbia  messo  innanzi  que- sta distinzione;  né  perchè,  avendola  messo  innanzi,  quando  poi  si tratta  di  determinare  che  cosa  !*iano  le  due  parti  distinte   dell'in- telligibile, non  parli  che  dolle  difterenze  tra    le  matematiche  e  la dialettica.  Le  stesse  differenze  obbiettive  assegnate  tra  le  due  parti dell'intelligibile  non  sono  che  quelle    fra  i  due  metodi    scientifici, considerate    obbiettivamente:  per    consegaanza    esse    convengono perfettamente  come  differenze  tra  le  Idee  (le  verità  della  dialettica) e  le  verità  delle  scienze  matematiche,  ma  niente  affatto  tra  le  Idee e  la  entità  matematiche.  Qaando  Platone    dica  che    la  parta   del- l'intelligibile che  s'investiga  per  la  dialettica    ha   un'evidenza  su- periore che  quella  che  s'investiga  per  la  geometria  e  scienze  affini, egli  non  fa  che  ripetere,    in  un'altra   forma,  che   1'  evidenza  della dialettica  supera  quella  di  queste   scienze  :    ciò  è    tanto  vero   che dopo  che  Socrate  ha  spiegato  le  differenze  del  mato  lo    dialettico dal  metematico,  tra  cui   la  pia  saliente   che  quello  non  ha,   come questo,  per  principii  delle  ipotesi  (e  per  conseguenza  ha  un  grado superiore  di  certezza),  Glaucone  risponde  :  Comprendo  :  mi  sembri volere  stabilire  che  la  parte  dell'essere  e  dell'intelligibile  che  con- templiamo per  la   dialettica  è  più    evidente    di    quella   che  per  le chiamate  arti,  a  cui  sono  principii  le  ipotesi,  e  quelli  che  contem- plano queste  cose  (vale  adire  ciò  di  cui  trattano  queste  ar/i),  quan- tunque contemplino,  con  coi  sensi,    ma   col  pensiero,    pure  non  ti paiono  avere  intelligenza  intorno  ad  esse,  perchè  le  loro  ricerche partono  da  ipotesi,  non  risalendo  al  principio  (5JJ  e).  Lo  stesso  si- gnificato al  fondo  ha  l'altra  differenza  che  Platone  stabilisce  fra  le due  parti  dell'intelligibile,  cioè  che  quella    che  s'  investiga    per  la dialettica  partecipa  della  verità  più  di   quella  che  s'investiga    per le  matematiche  :  ciò  vuol  dire   semplicemente    che  le    verità  della dialettica  sono  più  certe  ohe  le  verità  delle  matematiche.  Alle  en- tità matematiche  Platone  non  avrebbe  assegnato  meno  verità  che alle  Idee  :  verità  in  questo  caso  non  avrebbe  potuto  significare  che Noi  dobbiamo  prima  di  tutto  stabilire  un  punto  di fatto,  che  può  gettare  la  più  gran  luce  su  questi  molivi, e  senza  tener  conto  del   quale  non  si  avrebbe   del  pita- rtfa/(«— noi  sappiamo  che  Platone  ammette,  quantunque  questo  sia per  noi  un  non  senso,  dei  gradi  differenti  di  realtà—;  ma  alle  en- tità matematiche,  che  esse  siano  la  semplice  sostantificazione  de- gli attributi  matematici,  oche  rappresentino  le  leggi  dei  fenomeni, non  potrebbe  assegnarsi  un  grado  relativo  di  realtà,  ma  solo  la realtà  assolata  come  alle  Idee,  perchè  eterne  e  immutabili  (v.  Arist. Met,  1.  1.  VI.  3,  1.  VIL  I.  3,  1.  XII.  L  3,  l.  XIIL  1. 1-2,  ecc.)  come qneste.  E  d«l  resto  Platone  non  chiamerebbe,  come  abbiamo  visto ch'egli  fa,  i  concetti  realizzati  dei  numeri  e  dalle  grandezze  essere e  verità,  s'egli  non  assegnasse  ad  essi  che  una  realtà  relativa. Platone  stabilisce  anche  tra  le  due  specie  d'intelligibili  un'al- tra relazione  :  quelli  che  s'investigano  per  le  matematiche  sono  da lui  riguardati  come  immagini  di  qaelli  che  s'iuvestigano  per  la dialettica.  Ciò  risulta  già  dalla  divisione  del  visibile  in  cose  ed  im- magini; tanto  più  se  si  riflette  che  tra  le  due  parti  del  visibile  e  delKin- telligibile,  considerate  luna  rispetto  all'altra,  deve  esservi  lo  stesso  rap- porto che  vi  ha  tra  il  visibile  e  l'  intelligibile  (v.  509  d-51oa),  e  che  il primo  è,  secondo  Platone,  un'  immagine  del  secondo.  Ma  la  prova  più esplicita  se  ne  ha  dove  descrive  rascensione  nella  regione  superiore  (5I5  e- 516  b),  e  spiega  il  significUo  di  questo  simbolo  (532  a-c),  il  rapporto  tra le  scienze  matematiche  e  la  dialettica  essendo  ivi  comparato  a  quello  tra Tintuizione  delle  immagini  e  l'intuizione  delle  cose  stesse.  Questa  relazione con  le  Idee,  bisogna  confessarlo,  converrebbe  assai  bene  alle  entità  inter- mediarie, specialmente  nell'interpretazione  trascendentalista,  secondo  cui esse  tramezzano,  non  tra  i  soli  attributi  matematici  delle  cose  e  le  loro Idee,  ma  tra  tutto  il  mondo  sensibile  e  tutto  il  mondo  ideale.  Ma  essa conviene  egualmente  alle  verità  matematiche.  Ciò  è  per  le  stesse  ragioni per  cui  Platone  fa  delle  m^cmatìche  la  propedeutica  della  dialettica.  I caratteri  della  scienza  per  Platone  sono  :  l'astrattezza  e  universalità  del- l'oggetto, e  rincatenamento  de<luttivo.  Tra  le  scienze  finite,  egli  non  trova realizzati  questi  due  caratteri,  quantunque  d'una  maniera  imperfetta,  che nelle  matematiche— d'una  maniera  imperfetta,  perchè  le  verità  matema- tiche, benché  astratte  e  universali  come  le  Idee,  non  sono,  come  queste, degli  oggetti  sussistenti  per  se  stessi:  e  perchè  la  e  atena  delle  loro  dedu- zioni, oltre  che  non  ha  un  valore  ontologico,  ma  semplicemente  logico, non  parte  dal  principio,  ma  da  ipotesi—.  Per  conseguenza  Platone  vede —  214  - « gorìsmo  platonico  che  un'idea  incompleta.  E  che,  come abbiamo  accennato,  il  pitagorismo  di  Platone  non  con- siste solamente  ad  appropriarsi  i  concetti  dei  Pitagorici, ma  anche  ad  attribuire  a  questi  i  suoi  propri  concetti. È  ciò  che  vediamo  nel  Filebo  16  c-e:  ivi  attribuisce  loro nelle  matematiche  Un  tipo,  quantunque  Imperfetto,    su  cui  Io  spirito  può formai-si  V  ideale    della    scienza   assoluta,   cioè   della    dialettica,   e  nelle loro  verità  (considerate    tanto    ciascuna    in   se    stessa  quanto    nella  loro connessione)  un  simulacro  delle  verità  di  questa  scienza,   vale  a    diro  del mondo  delle  Idee. Nell'allegoria  della  caverna,  in  cui  sono  rappresentate   le  diverse parti  del  visibile  e  dell'intelligibile  e  le  forme  corrispondenti  della  cono- scenza, il  rapporto  d'immagine  a  realtà  ha  tre  significati  distinti,  perchè net'li  oggetti  rappresentati  questo  rapporto  è  triplice.  Esso  esiste:  1.  tra le  due  parti  del  visibile,  2.  tra  il  visibile  e  l'intelligibile,  3.  tra  l'intelli- gibile matematico  e  rintelligibile  dialettico.  Le  ombre  della  caverna  cor- lispondono  alla  parte  più  oscura  del  visibile,  cioè  alle  immagini  propria- mente dette  :  esse  simboleggiano,  non  le  cose  stesse  che  noi  chiamiamo reali,  ma  le  loro  apparenze   sensibili,  Platone    non  accordati  lo    cosi  alla percezione  sensibile— che  è  rappresentata    dallo  stato  di  prigionia    nella caverna— che  un  valore  subbiettivo.  Le  cose  che  noi  chiamiamo  reali  sono simboleggiate  dagli  oggetti  che  portano    i  passanti  lungo    il  muro  tra  il fuoco  e  i  prigionieri,  e  di  cui  le  ombre  si  proiettano  nella  caverna:  cosi questi  oggetti  sono   anch'essi  delle  immagini,  perché    le    cose  reali  sono immagini  delle  Idee.  V.  532  b-c,  in  cui  essi  sono   chiamati  StJwXa,  e  le ombre   di  questi  slòooXa,   percepite  dai  prigionieri   nelU  caverna,    sono contrapposte  alle  ombre  degli  esseri,  guardale  dopo  l'uscita  dalla  caverna, prima  di  poter  guardare  gli  esseri  stessi;  e  cfr.  5l7d:  «  le  ombre  del  giu- sto o  i  simulacri  (àYaX|xaTa)  di    cui    sono    le    ombre».    Uopo    la    li- berazione,   il    progresso     del    prigioniero     nella    conoscenza    delle   cose comprende    due   stadi:    nel    primo    si  volge    verso  il    fuoco,  e    {«uarda gli  oggetti  di  cui  prima  vedeva  le  ombre  (qualli  che  a  532  b-c  sono  chia- mati sl5a)Xa)e  il  fuoco  stesso  (simbolo   del  sole);  nel  secondo  esce  dalla caverna,  e  ascende   nella  regione  superiore,  e  questo    stadio  comprende alla  sua  volta  due  gradi,   perchè  prima  guarda  le   ombre   e  le  immagini la  dottrina  delle  Idee  e  la  dialettica.  <  Questo  metodo  (il dialettico)  è,  dice  Socrate,  un  dono  degli  dei  agli  uomini, inviato  per  mezzo  di  qualche  Prometeo  con  una  sorta  di splendidissimo  fuf  co.  Gli  antich*,  che  erano  migliori  di noi  e  più  vicini  agli  dei,  ci  hanno  tramandato  come  un oracolo  che  le  cose  che  si  d  cono  e-sere  eternamente,  con- stando deir  unità  e  della  pluralità,  e  avendo    in  sé  per natura  il  fine  e  Pinfìnito;  bisogna  perciò,  nella  riceica di  ciascun  oggetto,  stabilire  sempre  un'Idea  unica   per tutto  —  e  si  può  ritrovarla  perchè  vi    esiste—;  scoverta questa,  cercare  se  dopo  Tuna  ve  ne  ha  due   o,    se    non due,  qualche  altro  numero;  e  ciascun  uno  di    que*»ti    e- saminare  ancora  così,  sinché  si  veda,  non  solo  che  l'u- no primitivo  é  uno  e  molti  ed  infiniti,  ma  acche  quanti è;  e  non  applicare  alla  moltitudine    l'Idea   delTinfinitn, prima  di  vedere  in  essa    ogni    numero    che  s'interpone tra  rinfinito  e  l'uno;  allora  solamente  lasciare  ciascuno di  tutti  gli  uni  andare  a    disperdersi    n*  ll'infinito.    Gli dei,  come  ho  detto,  ci  hanno  trasmesso    questo    metodo di  esaminare,  d'imparare  e  di  scambievolmente   istruir- ci... »  (1).  Questi  antichi,  i    quali  ci  hanno    tramandalo degli  esseri  reali,  poi  questi  esseri  stessi  (v,  5I5  C-5I6  b  e  532  a-c).  Que- ste ombre  ed  immagini  degli  esseri  reali  simboleggiano  gì'  intelligibili delle  matematiche,  e  gli  esseri  reali  le  Idea.  Nella  liberazione  dello  spi- rito o  la  sua  marcia  ascendente  nella  verità,  le  scienze  matematiche  hanno due  fun^ionl  (v.  532  b-c),  coi  rispondenti,  Tuna  al  primo  stadio  del  pro- gresso del  prigioniero  dopo  la  sua  liberazione  (la  conversione  dalle  om- bre verso  il  fuoco  e  j^li  sI5(oXa),  e  l'altro  al  primo  grado  del  secondo stadio  (l'intuizione  delle  ombre  ed  immagini  degli  esseri  reali  nell'ascen- sione nella  regione  superiore).  Platone  attribuisce  a  queste  scienze  anche la  prima  funzione,  cioè  di  convertire  lo  spirito  dall'apparenza  (le  ombre) alla  realtj\  sensibile  (pli  St5(oXa),  perchè  esse  danno  un'idea  più  giusta del  mondo  esteriore,  rettificando  lo  illusioni  della  percezione,  come  fa  la astronomia,  che  al  cielo  apparente  sostituisce  il  cielo  reale. (1)  Cfr.  Supplera.  B,  n.  V,  carta  37, —  215  — che  le  cose  consfano  dell'unità  e  della  pluralità,  ed  han- no in  sé  per  natura  il  fine  e    l'infinito,    sono  evidente- mente i  Pitagorici,  o  piuttosto  gli  antecessori  di   questi filose  fi -perchè  naturalmente  Platone  non  potrebbe  at- tribuire le  Idee  e  la  dialettica   ai   Pitagorici   contempo- ranei, di  cui  si  leggevano  gli  scritti-.  Altrove  nel  i^<«6eo stesso  (23  e  eqq.)  Platone  appoggia  su  questa  tradizione di  origine  divina,  di  cui  ha  parlato  nel  luogo  citato,  la sua  dottrina  sul  népa^  e  l'ac;:eipov,  quale  egli  l'espone  in questo  dialogo.  Noi  siamo  dunque  fondati  ad  ammettere che  Platone  dà  la  sua  propria  filosofia,  qual  es3a  ò  di- venuta dopo  il  sincretismo  coi   concetti   pitagorici,    per una  restaurazione  dell'antico  pitagorismo,  o  di  una  sa- pienza prepitagorica  di  cui  i  Pitagorici  non  conservavano che  delle  tracce  alterate.  Attribuendo   agli    antecessori dei  Pitagorici  la  dottrina  delle  Idee,  egli  attribuisce  loro implicitamente  quella  dei  numeri  separati  (xoipiczol).  Di più  nel  Timeo  egli  mette  in  bocca  a  un  pitagorico,    ol- tre alla  dottrina  delle  Idee,  quella  dei  due  elementi  con le  modificazioni  ch'essa  subisce  nel  suo  proprio  sistema (nell'epoca  in  cui  il  sincretismo  coi  concetti    pitagorici, verso  cui  nel  Filibeo  non  ha  fatto  ancora  che    il    primo passo,  è  già  compiuto),  e  la  distinzione  di  forma  (Idea)  e maceria  con  la  riduzione  di  questa  allo  spazio.  In  quan- to alle  altre  modificazioni  ch'egli  ha  apportato  alle  dot- trine pitagoriche  (la  formazione,  progressiva  dei  numeri, la  distinzione  del  numero  che    rappresenta    le   essenze delle  cose  dal  matematico,   ecc.),    noi  non  abbiamo   in verità  la  prova  specifica  che  Platone  le  abbia  attribuite al  pitagorismo  originario.  Ma  sappiamo  che  un  filosofo della  sua  scuola,  Speusippo,  intitola  e  dei  numeri  pita- gorici »  un  libro  in  cui  egli  espone  la  sua  propria  dot- trina sui  numeri  (1),  dando,  per  conseguenza,  questa  per la  dottrina  pitagorica. La  pretesa  di  Platone  e  dei  Platonici  che  il  loro  si- stema fosse  la  riproduzione  dell'antico  pitagorismo,  spie- ga come,  nel  concetto  degli  autori  posteriori,  le  due  fi- losofie finiscono  per  confondersi:  la  più  parte  di  questi in  effetto  attribuiscono  ai  Pitagorici  le  dottrine  proprie di  Platone  e  per  cui  la  sua  filosofia  si  distingueva  dalla loro,  le  Idee,  i  numeri  separati  (concep'ti  come  dei  pa- radigmi, comform'imente  all'interpretazione  trascenden- talista delle  Idee  platoniche),  e  l'opposizione  dell'Uno e  della  Dualità  indefinita  con  la  funzione  assegnata  a quello  di  principio  formale  e  a  questa  di  materiale  (2). È  notevole  che  questa  confusione  tra  le  dottrine  pla- toniche e  pitagoriche  comincia  già  negli  stessi  discepoli immediati  d'Aristotile:  cosi  l'opposizione  dell'Unità  e della  Dualità  indeterminata  (con  le  proprietà  piìi  ca- ratteristiche che  Platone  assegna  a  quest'  ultima)  è  at- tribuita ai  Pitagorici  anche  da  Teofrasto  (Met.  33) Quest'avvicinamento  ai  Pitagorici  non  è,  nella  vita speculativa  di  Platone,  un  fatto  isolato.  Si  sa  che  nei suoi  scritti  egli  non  espone  mai  le  sue  dottrine  nel  suo proprio  nome:  egli  le  mette  in  bocca  a  Socrate  (3),  a Parmende  (4)  e  agii  Eleati  (5),  a  un  pitagorico  (6).  Non bisogna  credere  che  questa  non  sia  che  una  finzione  poe- tica: senza  dubbio,  quando  gli  autori  antichi  trattano  i (1)  V.  lamblico  Theol.  arithm.  p.  6X  ed.  Ast. (2)  V.  Zeller  317-320,  33o-335. (3)  Nella  piìi  parte  dei  dialoghi. (4)  Nel  Parmenide» (5)  Nel  Sofisia  e  nel  Politico, (6)  Nel  Timeo. —  216  — (L'air ghi  di  Platore  coire  documenti  storici,  e,    fond^n- dosi    feulJa  sua    testinr.oDiaMza,    attribuiscono    il   sistema dHlc  Idre  a  Socrate,  a    Parmenide,   ai    Pitagorici,   cshi rivelano  il  difetto  di  senso  critico  proprio  della  loro  epoca; ma  non  è  meno  evidente  perciò  che  la  maniera  naturale di  ermi: rendere  Piatene  è  quella  di  questi  autori,  e  che è  ersi,  vale  a  dire  coire  un  testimonio  attendibile  sulle opinioni  attribuite  ai  p^rsonagu^i  dei    suoi  dialoghi,    che egli  vuole  et^sere  compreso.  Una  prova  di  ciò  è  la  cura che  ba,  in  parecchi  dialoghi,  dMiidicare  le  fonti   da   cui ha  attinto.  Queste  in  certi    casi    sono    immaginate    con l'intenzione  evidente  di    spiegare   come    dei  fatti  gene- ralmente ignorati  siano  potuti  v.'uire  a  conoscenza  del- Fautore.  Cosi  nel  Parmenide   il   colloquio  tra    Socrate  e Parmenide    (a  cui  si  mette  in  bocca,  della  maniera  più esplicita,  la  dottrina  delle  Idee),    è  narrato  da   un    fra- tello  uterino  di  Platone,  Antìfoiite,  il  quale  Pavrebbc  ap- preso da  un  suo  amico,  testimonio    auricolare   e    amico di  Zenone  (1).  Per  questo  dialogo -cosi  importante  per comprendere 'il  rapporto  che    Platone    intende   stabilire tra  la  propria  filosofia  e  quella  degli  Eleati— che  Tautora voglia  che  sì  dia  ad  esso  un  valore  storico  è  anche    di- mof^trato  dalla  menzione  che  f4  in  altri    dialoghi    della conversazioue  di  Socrate  con  Parmenide    (2).  \'incom- patibilità  tra  le  opÌDÌoni  conosciute  degli  Eleati  e  il    ai- stema  delle  Idee  non  è  per  la    fantasia    di    Platone    un ostacolo  insormontabile:  le  dottrine   es^  o^te    nei    poemi di  Senofane  e  di  Parneuide  non  sono,  secondo  Platone, che  dei  miti  (3),  e  per  comprendere  il  viro  pensiero    di (1)  V.  il  principio  del  Parmenide, (-i)  Teeleto  I83  e,  SìtUla  217  e. (3)  V.  Sof,  2i2  d. qu  sti  filosofi,  non  è  alla  lettera  che  dobbiamo  fermarci, ma  cercare,  più  oltre,  ciò  che  essi  non  esprimono,  ma sr^ttlntendono.  (1) Da  questi  fatti  emerge  con  evidenza  un  fatto  gene- ral^: è  lo  sforzo  di  Platone  di  riattaccare  il  proprio  si- stema alle  tradiz'oni  filosofiche  del  popolo  greco,  la  sua pretesa  di  dare  la  proprha  filosofìa,  non  come  una  ri- voluzione, ma  come  una  restaurazione.  E  lo  stesso  pro- cedimento dì  cui  <»gli  si  serve  per  accreditare  le  dottrine politiche  e  sociali  insegnate  nella  Repubblica,  Le  istitu- zioni inculcate  in  que«<t'  opera  non  sono,  pretende  Pla- tone, che  quelle  stesse  che  all'origine  ha  a^uto  il  popolo ateniese  :  ciò  si  r  1  »,va  da  una  storia  (una  guerra  an- ticamente  combattuta   tra  gli  Ate  liesi  e  i  popoli    della (l)  V.  Teet,  183  e-lS4  a. Su  che  ha  potuto  fondarsi  Platone  per  attribuire  le  Idee  agli  Eleati  ? Sovratutto,  senza  dubbio,  sulla  loro  dottrina  che  l'essere    vero  è  eterno c«l  immutabile.  Aristotile  (/><?  Coelo  1.  III.  I.  2),  dopo  aver  parlato  di  que- Ht'opioionc  di  Parmenide  e  di  Melisso,  osserva  che  «  se  anche  per  il  re- 8ti>  dicono  bene,  si  deva  credere  però  che  essi  non  parlano     da  fisici.  In elfctto  esservi  delle  cose  non  generate  e   assolutamente  immobili    spetta ad  una  considerazione  diversa  e  anteriore  che  la  fisica;    ma  essi,  perchè nienr,e  altro  credevano  esservi  che  la  sostanza  delle  cose  sensibili,  avendo compreso  per  i  primi  che  esìstono   certe  nature  ta^i     (cioè  non  generate e  assolutamente    immobili),  se    vi  ba  qualche    scienza  o    intelligenza,  le pro,>osizioai  adattate   a  queste  nature   trasportarono  alle    cose  di  qui  •. Veri  similmente  noi  abbiamo  in  questo   luogo  un  pensiero  di    Platone  ri- veduto e  corretto  da    Aristotile   (si  notino  le  parole  «  se  vi  ha    qualche 8 -lenza  o  intelligenza»,  che  ricordano  le  prove  per  dimostrare  l'esistenza delle  Idee).  Platone  non  avrebbe  detto  della  filosofia  degli   Eleati  di  non ammettere  che  la  realtà  sensibile,  e  trasportare  a  questa  ciò  che  non  é  vero che  di  una  realtà  sovrasen^ibile,  ma  solamente  dei  loro  mUi,  Per    il  rap-porto che  Platone  ha  potuto  stabilire  tra  le  proposizioni  degli  Eleati  e  il  siste- ma delle  Idee,  è  anche  notevole  l'argomentazione  di  Parmenide  per  provare; l'unità  dell'essere,  che  Teofrasto  (ap,  Si/np.  in  Phi/s,  25  a)  riassume  cosi: oltre  all'essere  non  vi  sarebbe  cheli  non  essere;  mail  non  essere  è  niente —  217  — favolosa  Atlantide)  scritta  nei  libri  sacri  degli  Egi- ziani e  che  quei  preti  raccontarono  a  Solone  (l). Platone  ci  presenta  dappertutto,  in  filosofia  come  in politica  e  in  religione,  la  strana  alleanza  di  un  ge- nio eminentemente  innovatore  con  delle  tendenze  che noi  non  siamo  abituati  a  trovare  che  associate  ad uno  stretto  conservatorismo.  Rispattoso  delle  antiche tradizioni  (2);  convinto  che  ogn'  innovazione  nelle  idee e  nei  costumi  è  il  pericolo  p  ii  grave  da  cui  la  società deve  guardarsi  (3);  non  eonosceado  il  dogma  moderno del  progresso,  e  vedendo  nella  libertà  e  neiroriginalità deirindividuo  piuttosto  un  agente  di  corruzion  e  che  di miglioramento  sociale  (4);  e  sotto  l'impero  deirillusione del  mondo  antico  che  il  bene  è,  no  a  neiravvenire,  ma nel  passato  (5);    non  è  sorprendente   ch'egli  abbia  fatto dunque  l'essere  è  uno.  Su  quest*argomentazione  Aristotile  nota  (in  Phys, 1.  I.  111.  4-5)  che,per  poter  cont^ludere,  si  dovrebbe  intendere  in  essa  per essere  V  essere  separabile ^  ciò  che  corrisponde  a  1  concetto  astratto  di  essere considerato  in  se  stesso  (in  altri  termini  l'Idea  platonica  dell'essere). (1)  V.  Timeo  17  c-27  b  e  Crizia'\o^  d-  II3  b.  Gran tore,  discepolo  di Platone,  aflerma  che  il  racconto  sugli  Atiantini  e  sulla  identità  della  isti- tuzioni della  Repubblica  con  le  istituzioni  antiche  di  Atene  è  una  pura storia;  e  racconta  che,  per  vincere  l'incredulità  dei  contemporanei,  Pla- tone mandò  la  sua  narrazione  agli  Egiziani,  i  quali  attestavano  la  verità dei  fatti,  alfermando  che  essi  si  trovavano  inscritti  in  colonne  tuttora esistenti  (V.  Proclo  Comm.  in  Plotonis  Timaenm  pag.  24  ed.  Basii.— in Mullach  Cranioris  Fragmenta  Fragm.  T— ). (2)  V.  FU.  16  e,  Fedro   274  e,  lim,  40  d-41  a,    Ugii  863  e,    872  e- 873  a,  881  a,  887  d,  93I  b,  948  b,  ecc. (3)  V.  Rep.  424.  Leggi  653-657,  659-660,  738  b-d,  741  a-h,  772  c-d, 71)7-799  b,  816  e,  8S3  e,  949  e-95o  a,  95o  d,  952  e,  9'>7  b,  ecc. (4)  V.  Rep.  397  d-398  b,  401  b,  424,  547  a,  565  c-553  d.  Uggì  656- 657,  659-6GO,  700-70I,  739  b-d,  78O  a,  78j  d,  788  b,  797-799  b,  801  c-d* 802  a-c,  8I7  b-d,  942  a-d,  952  c-d,  ecc. (5)  Le  altre  forme  dello  stato  sono,  secondo  Platone,  una  degenera- zione progressiva  della  forma  perfetta  (cioè  quella  di  cui  traccia  il  dise- gno nella  Repubblica),  V.  Rep,  1.  Vili,  e  cfr.  Arist.  Politica  1.  V  e.  Xll. o;:ni  sforzo  per  conciliare  con  la   tradizione  le  sue  idée auducemente  rivoluz'onarie. Questo  sterzo  di  Platone  di  riattaccarsi  hi  passato  non è  per  altro  wn  fatto  uu'co  nella  storia  della  metafisica. E  in  questo  senso  che  spinge  naturalmente  il  metafisico la  solitudine  int-llettua'e  in  cui  Io  lascia  il  carattere paradosastfco  delle,  sue  dottrine.  Nelle  scienze  speciali, il  pensatore  più  oripnale  non  può  aspirare  che  ad  ac- crescere, più  o  meno,  il  patrimonio  comune  dello  cono- scenze: di  più,  per  quanto  egli  voglia  rinnovare  radical- mente le  nostre  noz'oni  sulle  cose,  egli  divide  con  gli altri  uomini  certi  nozioni  fondamentali  ch^ costituiscono ciò  che  8i  chiama  il  senso  comune.  Ma  il  metafisico  pre- tende di  rifare  di  fondo  in  colmo,  con  un  piano  intera  • m^ntc  nuovo,  tutto  il  sistema  delle  conoscenze  umane; le  sue  dottrini*,  sono,  in  un  punto  o  io  un  altro,  in  aperta contraddÌ7Ìone  con  le  credenze  naturali;  il  suo  mondo rf-ale  non  é  il  mondo  reale  degli  altri  uomini;  ciò  che questi  chiamano  realtà,  per  lui  è  un'apparenza,  un  fe- nomeno; la  vera  realtà  non  è  conosciuta  che  da  lui  solo. A  lui  (supposro  che  il suo  sistema  fosso  vero)  potrebbe applicarsi  con  più  ragione  ciò  che  Omero  (1)  dice  di Tir  sii  agl'inferni,  e  che  Platone  (2)  applica  al  vero uomo  di  stato:  «  egli  solo  pensa,  gli  altri  non  sono  che dt  Ile  ombre  erranti  »  (;5).  Non  è  naturale  ch'egli  cerchi (1)  Odiss.  X  V.  495. (2)  Menoiie  loo  a. (3)  Una  condizione  della  possessione  delia  conoscenza  fìlosotìca  è, (XiC'i  Schelling  {Lezioni  sul  metodj  degli  ^ludi  accademici  Lea.  4),  una chiara  e  viva  concezione  delia  nullità  di  ogni  conoscenza  semplicemente finita  (la  conoscenza  finita  e  la  conoscenza  non  liiosofica,  e  la  filosofìa  è, s'intende,  quella  di  Sclieliing).  E  2i\trove  {D^^i  fnodo  assoluto  di  conoicere negli  Scritti  filosofici  tradotti  da  Benard  pag.  3I8):  Bisogna  aprirsi  vi- gorosamente un  accesso  sino  ad  essa  (alla  intuizione    intellettuale  o  co- 'W    I" dei  compagni  e  de^H  antecessori  negli  altri  filosofi,  sfor- zandosi di  diminuire  il  suo  isolamento  e  di  accorciare in  qualche  modo  la  distanza  che  lo  separa  dagli  altri uomini  ?  Ed  è  notevole  che  è,  nei  metafisici  che  si  al- lontanano il  più  dal  punto  di  vista  comune  che  questo sforzo  di  riattaccare  il  proprio  sistema  alle  tradizioni  filo- sofiche apparisce  più  energico;  p.  e.,  tra  i  moderni,  in Leibnitz  e  in  Hegel.  Si  sa  che  Tautore  delle  monadi  e deir  armonia  prestabilita  si  dava  per  un  eclettico. «  Io  ho  lungamente  riflettuto,  egli  dice,  sugli  antichi  m sui  moderni,  e  ho  trovato  che  pressoché  tutte  le  opinioni adottate  sono  suscettibili  di  un  buon  senso  »  (1).  Nel suo  sistema  si  trovano  riunita  «  la  poca  realtà  sostanziale delle  cose  sensibili  degli  scettici;  la  riduzione  di  tutto alle  armonie  o  numeri,  idee  e  percezioni  dei  Pitagorici e  di  Platone;  V  uno  e  anche  uno  tutto  di  Parmenide  e di  Plotino,  senza  Fpinozìsmo;  la  connessione  stoica,  com- patibile con  la  spontiineità  degli  altri;  la  filosofia  vitale dei  Cabalisti  ed  Ermttiji  che  mettono  del  sentimento da  per  tutto;  le  tV^rme  ed  entelechie  d'Aristotile  e  degli Scolastici;  e  con  tutto  ciò  la  spiegazione  meccanica  di tutti  i  fenomeni    particolari    hecondo    Democratico    e    i noscenza  fiIosoHca),  ed  isolarsi  da  tutti  i  iati  dal  sapere  comune,  a  tal punto  che  alcuna  v  a,  alcun  sentiero,  non  possa  condurre  da  questo  ad essa.  Qui  comincia  la  filosofìa— Vera  (Seconda  Introduzicne  alla  filos.  delio spirito^  pa^.  CU),  rispondendo  alle  obbiezioni  contro  il  sistema  di  Hegel, assimila  quesi;c  obbiezioni  (essendo  fatte  eia  un  punto  di  vista  che  non  ò l'hegeliano)  a  quelle  che  sarebbero  fatte  da  un  essere  che  non  pensa,  pcr« che,  egli  dice,  il  pensiero  non  filosofico  (cioè  non  hegeliano)  non  ò  un pensiero, (1)  Citato  da  Schelling   Delia  success,  dei  sUt.   flìos.  e  della  ma» niera  di  trattare  la  storia  delta  fllos,  (negli  Scritti    pfvsoflci  tradotti da  Benard  pag.  326). f    i  i  •    -. •.<%'. moderni;  ecc.:  si  è  mancato  (dagli  altri  filosofi)  per inno  spirito  di  setta,  limitandosi  per  la  reiezione  degli nitri  »  (1).  Si  sanno  egualmente  le  idee  di  Hegel  sulla storia  della  filosofia:  «  La  stoiia  della  filosofia  mostra nei  diversi  sistemi  che  sono  apparsi  una  sola  e  stessa filosofia  che  ha  percorso  diffr^renti  gradi,  ed  essa  prova che  i  principii  particolari  di  ciascun  sistema  non  sono che  dell'*  parti  d'un  solo  e  sttsso  tutto  iche  è  il  sistema di  Hegel).  L'ultima  filosofia  nrirordinc  del  tempo  ò  il risultato  di  luttc  le  filoscfie  precedenti,  e  deve  per  con- seguenza contenerne  i  principii   (2)  Senza  dubbio  il tradizlonaliamo  dì  Hegel— con  cui,  tra  i  filosofi  moderni, la  comparazione  e  la  più  ovvia— rfsta  ben  al  di  sotto di  quello  di  Platone.  Hrgel  si  limita  ad  int  rpretare arbitrariamente  le  filosofie  del  passato  e  a  falsarne  il carattere,  per  mostrare  che  ciascuna  di  esse  è  un  mo- mento  della  propria  filosofia  (e  che  è  perciò  al  tempo stesso  vera,  perchè  è  una  parte  della  vera,  e  falsa,  per- chè, essendo  una  parto,  pretende  di  essere  il  tutto);  ma non  va  sino  ad  attribuire  agli  antichi  filosofi  il  suo proprio  sistema,  e,  quel  che  è  più,  non  adotta  le  loro dottrine.  Ma  V  isolamento  di  Hegel  non  è  cosi  com- pleto come  quello  di  Platone:  i  suoi  contemporanei  era- no già  abituati  a  una  filosofia  che  aspirava  <-  a  ripro- durre nelle  sue  concezioni  Tordine  stesso  delle  cose  »  (3); egli  aveva  avuto  prima  di  sé  Schelling  e  Fichte  (per non  parlare  di  altri  minori,  come  Novali?,  Bardili,  ecc.), e,  prima  di  questi,  Sp'noza,    Cartesio  con  la    più   parte (1)  Op,  omn.  Dutens  t.  II.  parte  I.  pag.  79. (2)  Introd.  alVEncicL  g  XIIL <8)  Gfr.  oap.  VI,  paragr.  12. -  219  — degli  altri  filosofi  che  gli  sono  succeduti  (coi  quali  aveva comuoe  l'apriorismo,  lo  stesso  Platone,  1    neoplatonici (i  qunli  avevano    proclamato    il   principio   dell'  identità dell'essere  e  del  pensiero),  i  realisti  del  medioevo,  e  co.; nei  limiti  stessi  della  verità  storica,  Hegel    poteva    tro- vare molti  precursori.  Invece,  se  vi  ha  un  filosofo  di  cui possa  dirsi  ciò  che    Gioberii    (l)    dice    in    generale    del genio  speculativo,  dì  eas.^r^  quasi  prolessin^*.  maire  creata, questo  è  prima  d'ogni  altro  Platone.  Li  sua    filosofia  è nel  contrasto  più  spiccato  con  quella  di  tutti  i  suoi  pre- decessori:   egli  ha  abordato   il  problema  delle  causo  ef- ficienti da  un  lato  interamente  nuovo,  che  nessuno  pri- ma di  lui  aveva  mai  intravisto;  e  se  anch'egli    ha  cer- cato, come  i  suoi    predecessori,    l'elemento    permanente delle  cose,  non  è  come  cfsì  nella  materia  che  lo  ha  tro- vato, ma  nella  forma.  Certo  anche  Platone  è  fii>Ilo    dei passato,  e  ne  riceve  l'eredità:  da  Eraclito  prende  il  prin- cipio del  divenire  ;  da  Socrate  la  definizione  ;  ai    mate- matici deve  r  idea  del  metodo    dimostrativo;    prima    di lui  gli  Eleati  aveano  visto  nel    mondo    dei    sensi    l'ap- parenza cangiante  di  una  realtà  immutabile;  il  concetto teleologico  era  stato  adombrato  da  Socrate  e  da  Ippncratc, ed  era  contenuto  virtualmente  nelle  dottrino    di    Anas- sagora, di  Eraclito  e  di  altri  fisici;  la  sua  dottrina  sul- l'anima è  una  sistematizzazione  dell'antico  animi^ui^;  la sua  etica  uno  sviluppo  dell'etica  di  Socrate;  la  sua   fisi- ca una  continuazione  della  fisica  anteriore.  Ma  nessuno degli  elementi  der  sistema  delle  Idee,  né  lareal'zzaziono degli  unirversali,  né  il  metodo  a    priori,    come    metodo scientifico  universale- e  tanto  meno  perciò  la  dialettica, (1)  Inlrod.  allo  stud,  della  filot,  cap.  2.,  Milano  1851)  t.  1.  p;  150. quale  metodo  di  dedurre  i  concetti— non  trova  alcun  ri- scontro nelle  filosofie  del  passati.  Bisogna  pure  tener conto,  se  si  vuol  paragonare  Platone  con  Hegel,  della diffc*renza  tra  T  epoca  del  secondo  e  quella  del  primo, scarda  necessariamente  di  senso  storico,  e  in  cui  i  docu- menti sul  pensiero  dei  filosofi  che  si  trattava  d'interpre- tare, o  mancavano  affatto  (come  pei  primi  pitagorici),  o non  potevano  avere  quella  precisione  di  linguaggio  e quell'abbondanza  di  sviluppi,  che  sono  il  prodotto  della maturità  della  coltura. Ciò  che  dobbiamo  infino,  notare  é  che  questo  bisogno di  ritrovare  nelle  filosofie  precedenti  i  principii  della  pro- pria filosofia  e  in  questa  quelli  delle  filosofie  precedenti è,  in  Platone  come  in  He^el  e  negli  altri  filosofi  che hanno  seguito  la  stessa  forma  di  metafisica,  una  con- seguenza logica  del'c  loro  teorie  sulla  conoscenza.  La forma  di  metafisica  dì  cui  parliamo  consiste  nella  ob- biettivazionc  dfi  concetti,  e  nella  ricostruzione  a  priori del  n  ale,  deducendo  progressivamente  questi  concetti obbicttivati  gli  uni  dagli  altri  con  un  metodo  regolare  de- terminato, che  non  é  eh",  la  legge  stessa  secondo  cui  le  cose si  sviluppano.  Essa  ammette  cosi  tra  il  pensiero  cono- scente e  l'oggetto  conosciuto  una  corrispondenza  tale,  che, oltrepassando  di  gran  lunga  quella  che  noi  siamo  abi- tuati a  vedere  tra  il  pmsiero  e  le  cose,  esige,  come  tutti i  fatti  con  cui  non  siamo  familiari,  una  spiegazione;  e  le ipotesi  a  cui  si  ricorre  per  dare  questa  spiegazione,  sono tali  generalmente  che  e'sc  rendono  più  completo  an- cora, dopo  la  loro  adozione,  in  questa  metafisica,  questo parallelismo  primitivo  fra  il  pensiero  e  le  cose,  che  si trattava  di  spiegare.  Queste  ipotesi,  limitandoci  a  par- lare di  Platone  e  di  Hegel,  sono,  come  si  sa,  pel  secondo^ l'identità  deiressere  e  del   pensiero    (cioè    del   pensiero —  220  — generale  e  deir  essere  generale  ),  0    pel    primo,    l'intui- zione delle  Idee  in  una  vita  anteriore  e  la  conseguenio reminiscenza.  Conoscere,  per  Platone,  è   ricordarsi;   p  r Hegel,  è  l'evoluzione  doA  pensiero  per  una  forza  interna e  secondo  una  legge  di  sviluppo  che  gli  è  propria.  Nel- l'una e  nell'altra  ipotesi,   la    Pcienza    ci    ò    in    qualche modo  innata;  epsa  prf  esiste  nell'anima,  per  dir  cosi,  allo stato  latente,  e  non  ha  che  r d  estrirsecars'.  Con  queste premesse,  come  Platone  o  Hegel  potrebbero    ammettere che  il  proprio  sistema,    cioò    la    scienza    stessa— poiché tutta  la  scienza,  la  vera  scienza,  per  essi,  è    il    sistema delle  Idee- sia  esclusivamente  la  loro  creazione    indivi- duale? che  gli  altri  uomini  non  l'hanno  mai  connsciuto, né  in  tutto  nò  in  parte  ?  chu  tutta  la  filosofia  anteriore non  è  che  una  continua  aberrazioro?  che  la  verità  è  u ti privilegio  proprio,  e  che  al  di  fuori  d^lla    loro   filosofi  i personale  non  vi  ha  che  l'errore  ?  Con  queste  premesse anzi  l'eMstenza  dell'errore  e  dell'ignoranza  diviene  in- comprensibile; la  verità  dovrebbe    essere   il    patrimonio comune  di  tutti  gli  uomini.  E  qui    possiamo   osservare, per  incidente,  come  le  ipotesi  metafisiche    vadano    stra- namente al  di  là  del  loro  scopo.   Un'ipotesi    che    vuole spiegare  perchè  esiste  il  bene  (la  concezione  teleologica del  mondo)  dà  luogo  alla  insolubile  difficoltà:  qu«l  è^l'o- rigine  del  male  ?  Un'ipotesi    che    vuole    spiegare    comò possa  esistere  la  verità  e  la  scienza,  mette  i  suoi  autori in  faccia  a  un'altra  quistione  più  imbarazzante:    come può  esistere  l'errore  e  l'  ignoranza?  La  nuova  quistione in  cui  s'imbatte  il  realista  dialettico  (nella  sua    spiega- zione della  coincidenza  tra  il  pensiero  e  la  realtà)  è  cosi poco  suscettibile  di  una   soluzione  radicalo   che    quella in  cui  s' imbatte  il  teleologista  :  ma    come  questi  cerca almeno  di  attenuare  la  sua  difficoltà,  falsando  il   bilan- C'o  dei  beni  e  dei  mali  nel  monlo,  cosi  quegli  cerca  di fittenuare  la  sua,  falsan^^o  quello  della  verirà  e  dell'er- rore, della  scienza  e  dell'ignor  ^nza.  Di  là  lo  sforzo d  ir  uno  di  giustificare  il  passato  dei  suoi  errori  e  delle sue  ignoranze^  corrispondente  a  qu'^llo  dell'altro  di  giu- stificare la  natura  dei  suoi  mali  e  delle  sue  imperfezioni; e  per  conseguenza,  l'accostannento  alle  filosofie  del  pas- sato, attribuendo  ad  e^se  i  concetti  della  propria  filosofia o  anche  accogliendo  in  qu<^sta  i  concetti  di  e^se. Gl'impulsi  che  spingevano  Platone  a  riattaccarsi  allo tradizioni  filosofiche  era  naturale    che  si  dirigessero    di preferenza  verso  il  pitagorisrno.  Vi    erano    vari    motivi che  agivano  in  questo  senso.  Primo,  Talta    riputazione di  sapi^^nza,  di  cui.  godeva    necessariamente  una    vasta associazione  dedita  ai  Uvori    scientifici,   come    quella  a cui  app'irtenevano  i    filos'^fi    pitairorici;    poi,  l'analogia delle  idee  al  punto  dì    vista    politico,    sociale,    morale, religioso,  a  cui  possiamo  nuche  aggiungere  la  comunità degli  studi  matematici  e  l'importanza  pressoché  eguale che  entrambe  le  filosofie  attribuivano  a  questa  scienza. Ma  il  motivo  preponderaot*»,    senza    dubbio,    deve   cer- carsi nell'affinità  delle  due  filosofie,  maggiore  di   quella che  la  platonica  ha  con   qualsiasi    altra    delle    ant  che. Quefiit'affiniià,  come  abbiamo    notato,    consiste   special- mente in  questi  due  punti:  i^  I  princìpii  dei   Pitagorici (i  numeri,  gli  elementi  e,  sino  ad  un    certo    punto,    lo due  auaxotx^ai  di  contrari)  sono  delle  astrazioni  realizziate, come  quelli  di  Platone.  2®  Essi  rappresentano  sovratutto, non  la  causa  materiale  o  motrice,  come  quelli  degli  altri filosofi  anteriori  a  Platone,  ma  la  specie  o  il    concetto, come  lo  entità  platoniche.  Aggiungiamo  infine  la   man- canza, sino  ad  un'epoca  recente,    di    documenti    scritti sulla  filosofia  dei  Pitagorici;  la  loro  predilezione  per    il *' -t linguaggio  simbolico;  il  secreto  che  mantenevano  su certe  proposizioni— questo  simbolismo  e  questo  secreto concernevano  altri  punti  che  le  loro  dottrine  filosofiche  (I); ma  ciò  bastava  per  dare  qualche  credito  air  opinione che  tutta  la  filosofia  dei  Pitagorici  non  stava  in  ciò  che essi  ne  pubblicavano,  e  che  questo  stesso  non  doveva essere  preso  alla  lettera  —Era  quanto  occorreva  pcrchò Platone  potesse  appl'care  a  tutto  suo  agio  il  suo  metodo fantastico  d'interpretazione. A.  Il  pitagorismo  nel  Timeo.  Nel  Timeo,  alcune  delle dottrine  del  periodo  pitagoreggiante  sono  esposte  aper- tamente,  altro  involto  in  una  forma  simbolica.  Delle prime  (la  separazione  della  materia  dalle  Idee  e  la  sua  riduj zione  allo  spazio,  e  la  composizione  dei  corpuscoli  elemen- tari) ci  siamo  occupati  nel  numero  procedente:  qui  parlere- mo delle  seconde. L'  argomento  del  Timeo  è  la  narrazione  dell'  origine del  mondo,  e  il  supposto  narratore  è  un  filosofo  pita- gorico, da  cui  il  dialogo  prende  il  nome.  Il  mondo ha  avuto  un'origine  nel  tempo:  esso  è  stato  formato  da un  artefice  (demiurgo)  che  contemplava  le  Idee  come modelli  e  si  serviva  di  una  maf^ria  preesistente.  Al  priu- cipio  la  materia  era  agitata  da  un  movimento  confuso e  disordinato;  non  vi  erano  in  alcuna  parte  delle  forme regolari  e  costanti;  Dio  (il  demiurgo)  fece  passare  le cose  dal  disordine  alPordine,  «effettuando  da  pf*r  tutto ciò  che  era  il  migliore.  Egli  stesso  formò  Tanima,  gli elementi,  il  cielo,  il  tempo,  gli  astri  e  la  terra;  poi   co- (1)  V,  Zeller  297-298,  302,  426. mandò  agli  altri  dei,  ch'egli  aveva  prodotti,  di  produrre alla  loro  volta  gli  animali  mortali.  Questi,  ricevuta  da lui  la  parte  immortale  delTanima,  che  egli  compose  a somiglianza  dell'anima  del  mondo,  ne  eseguirono  il  co- mando, imitando  l'azione  creatrice  del  loro  demiurgo  e padre,  e  formarono  i  corpi  degli  animali  propriamente detti  e  delle  piante  che  sono  anch'esse  una  sorta  di  ani- mali, e  la  parte  mortale  dell'anima.  Timeo  mostra,  in ogni  opera  particolare  degli  autori  del  mondo,  le  ragioni provvidenziali  che  vi  hanno  presieduto,  e  l'aggiustamento dei  mezzi  ad  uno  scopo  determinato:  gli  dei,  in  effetto, sono  stati  obbligati  di  servirsi  delle  cause  materiali,  fa- tali nella  loro  azione  e  ribelli,  sino  ad  un  certo  punto, alTaziono  ordinatrice,  ma  hanno  realizzato,  per  quanto è  stato  pos<<ibile,  il  bene  in  tutto  ciò  che  hanno  prodotto. Se  si  ammette  Timmanenza  delle  Idee,  è  evidente  che  il racconto  di  Timeo  non  può  essere  proso  alla  lettera.  Dio  non avrebbe  potuto  creare  il  mondo  senza  creare  allo  stesso tempo  lo  Idre,  perchè  queste  non  «^ono  altrove  che  nej monio  stesso,  di  cui  costituiscono  l'elemento  formale: 80  il  mondo  attuale  ordinato  è  stato  preceduto  da  un mondo  disordinato,  il  Demiurgo  ha  annientato  le  Idee a  cui  prima  la  materia  partecipava,  e  ne  ha  prodotto, al  loro  posto,  delle  altre.  Perchè  la  cosmogonia  del Timeo  potes»<e  essere  presa  alla  lettera,  bisognerebbe ammettere  dunque  che  le  Idee,  che  Platone  dà  co" stantcmcnte  come  eterne  e  —  se  si  comprendono  bpne i  privici pii  della  sua  d'alettica— come  necessarie,  possano C'is^re  prodotte  ed  annientate.  Ma  indipendentemente  da quest'ordine  di  considerazioni,  che  il  racconto  cosmogo- nico del  Timeo  non  sia  che  un  semplice  mito  e  che  esso non  debba  essere  inteso  letteralmente,  noi  ne  abbiamo dello  prove  abbondanti,  sia  nel     Timeo    stesso,    sia    nel v»;ll complesso  dclFopera  di  Platone,  e    nello    testimonianze dei  suoi  dincepoli.  Ecco  le  più  importanti  : 1*^  L'antropomorfismo  grossolano  che  recrna  in  tutto il  racconto.  Le  operazioni  del  Demiurgo  e  dello  altre divinità  che  hanno  concorso  con  lui  alla  proiuziono  dol mondo,  sono  rappresentate  come  perfetta  mento  simili  a quelle  di  un  fabbro.  P.  e.  ecco  come  Dio  ha  prodotto  le ossa:  «  Dopo  aver  vagliato  della  terra  pura  e  molle,  egli la  impastò,  inzeppandola  di  midolla;  in  seguito  mise questa  mescolanza  nel  fuoco,  poi  laimmers»^  nclTacqua; poi  nuovamente  nel  fuoco  e  nuovamente  neH'acqaa;  e facendola  passare  più  volte  dall'uno  nlTaltro  di  questi due  elementi,  fece  si  che  es«^a  non  potesjjc  ossero  disciolra né  dall'uno  né  dalTaltro  »  (73  e).  L'impossib  lità  di  pren- dere sul  serio  simili  rappresentazioni  ò  de  Tuliima  evi- denza, quando  questo  processo  tutto  meccanico  attri- buito al  creatore  si  applica  ad  oggetti  nssolutimente insuscettibili  come  sono  le  entità  astratte  della  metafi- sica platonica.  E  ciò  che  avviene  nella  composizione  del- Tanima,  che  il  Demiurgo  formò,  mese  alando  dentrii  un vaso  Tessenza  indivisibile  (riiea)  con  la  divisibile  (la materia)    e  con    lo  Stesso    e  il    Diverso    (35  ab,  41  dj. 2®  L'intervento  miracoloso  del  Demiurgo,  che  é  un vero  Deuft  ex  machina.  Egli  non  spiega  la  sua  aziono nel  mondo  che  all'origine;  in  seguito  questo  basta  a  se stesso,  e  nrn  ha  bisogno  d  irintervento  di  alcun  agente straniero  (33  d,  34  b,  68  e).  Il  carattere  dei  principii filosofici  è  la  generalità  e  la  costanza  della  loro  azione: al  racconto  mosaico  della  creazione  in  sei  giorni  i  filo- sofi creazion'sti  sostituirono  la  dottrina  della  creazione continua.  Il  mito  concentra  tutto  in  un  punto  del  tempo: una  legge  generale  diviene,  in  esso,  un  fatto  particoUre. Bisogna  anche  notare   ciò    che    si    dice   del  Demiurgo, quando  questi  ha  già  rappre^^entata  la  parte  che  |?li  é spettata  nella  creazione:  «  E  quello  che  aveva  ordinate tutte  queste  cose  restava  nel  suo  stato,  secondo  la  sua abitudine  »  (42  e— ciò  vuol  dire  che  il  Demiurgo  aveva cessato  di  operare,  rientrando  nella  sua  quiete  abituale). L'azione  del  Demiurgo  apparisce  dunque  come  un  fatto isolato  ed  eccezionale,  non  solo  rapporto  al  mondo  in cui  si  é  esercitata,  ma  rapporto  al  soggetto  stesso  che Tha  esercitata. 3<>  Le  incoerenze  evidenti  nelle  circostanse  principali del  racconto.  La  più  sai 'ente  é  il  movimento  della  ma- teria, prima  della  nascita  del  tempo.  Per  risolvere  questa contraddizione  si  é  preteso  che  il  Demiurgo  ha  creato, non  il  tf  mpo,  ma  il  tempo  ordinato:  ma  Platone  dico chiaramente  (37  e- 38  a)  the  il  presente,  il  passato  e  il futuro  sono  forme  del  tempo  creato  dal  Demiurgo  (1).  Il movimoLto  disordinato  anteriore  alla  formazione  del cosmos,  e,  per  conseguenza,  dell'anima,  é  anche  in  con- traddizione col  principio  platonico,  ammesso  nel  Timeo stesFO  (2),  che  l'anima  é  il  principio  del  movimento. Inoltre,  se  come  si  stabilisce  a  50  e— 52  d,  e  come  ri- sulta necessariamente  dai  principii  del  sistema  delle  Idee, il  divenire  (^éveotc)  nasce  dal  concorso  delle  Idee  e  della materia,  come  sarà  esso  possibile  prima  deirazione  del Demiurgo,  che  ha  fatto  partecipare  la  materia  alle  Ideo?— Da  questa  contraddiz'one  ne  viene  un'  altra  pm  espli- cita ancora.  Gli  elementi  ora  si  fanno  creati  (53  b-c, 5r>  bc,  57  c-.l,  ()9  b-c),  ora  incr'^ati  (48  b,  52  d.53  a). Da  una  parto  infatti  efsi  devono  esseie  creati, primo  perchè  racchiude  no  il  principio    ideale,   e,   come .1 (1)  Cfr.  Proclo  in  Tim.  p.  250  B. (2)  V.  87  b  e  46  d-e. abbiamo  detto,  la  partecipazione  alle  Idee  è,  secondo  il 7*meo,  Topera  del  creatore;  e  poi  perchè  la  spiegazione teleologica  si  estende  anche  ad  essi,  e  anch'essi  devono per  consegneiìza  es-^ere  il  prodotto  dell'intelligenza  (1). Ma  da  un'altra  |  arte  devono  esistere  g  à  nella  ^ì^bok; anteriore  alla  creazione,  poiché  il  movimento  disordinato prima  della  formazione  del  osmos  non  può  avere  per sustrato  la  mat'^ria  indet'^rminata— questa  per  Platone non  è  che  il  semplice  spazio— ma  la  materia  divenuta dei  corpi  particolari  per  la  sua  circoscrizione  —  cioè  per la  circoscrizione  dello  spazio  —  dentro  superficie  deter- minate (2).  ' Aggiungiamo  infine,  per  limitarci  alle  incoerenze  più notevoli,  che  l*  supposizione  di  un  essere  int-lligcnt»» distinto  dall'anima  (Il  Demiurgo)  è  in  contraddzionc  col principio,  ammesso  nel  Timeo  (30  b,  46  d)  eripetiit-ì  nel Snjista  (249  a)  e  nel  Filebo  (30  e),  che  non  può  esservi intelli^senza  genz-anima. 40  I  punti  cnt)itali  della  cosmogonia  del  Timeo  sono questi  due:  T  origine  del  mondo  nel  tempo,  e  un  prin- cipia^ iot'^lligetite,  separato  da  esso  e  distinto  dairanima (il  Demiurgo),  che  l'ha  prodotto  :  ora  nell'uno  e  nell'al- tro punto  il  Timeo  è  in  contraddizione  col  complesso  del- l'opera platonica. In  quanto  al  Dera-urgo,  esso  non  si  trova  che  nel  solo (1)  Cosi  nel  Sofista  (e65  e,  266  b)  e  nelle  Laggì    (892,  896-897)  gli elementi  sono  prodotti  dnU'anima. (2)  Quando  verremo  alla  spiegazione   del  significato   del  mito, si  vedrà  perchè  è  al  soggetto  degli  elementi  che  si   manit'esta  so- vratutto  la  contraddizione  inerente  al  concetto    I  una  Y^veot-C  an- tenore  alla  formazione  del  mondo  e,  per  conseguenza,  alla  parte- cipazione della  materia  alle  Idee. Timeo  :  di  più  le  dottrine  esposte  negli  altri  scritti  di Platone  non  Usciano  alcun  posto  per  un  Dio  tsascen- d^'ute  come  il  Demiurgo  del  Timeo,  Certamente  la  dot- trina costante  di  Platone  è  che  la  divinità  è  la  causa prima  di  tutto— ben  inteso,  considerando  il  tutto  come  un complessD  di  fenomeni,  e  la  causazione  come  un  rap- porto tra  questi  fenomeni;— ma  la  divinità  none,  per  lui, ch6  Tanima  cosmica.  Secondo  il  X  delle  Leggi  (888-899) ciò  che  prova  l'  esistenza  della  divinità  è  che  il  movi- mento di  ciò  che  muov^e  se  stesso— cioè  delPanima  — è il  principio  di  tutti  i  movimenti  (893  c-897  b);  e  che,  per con»<ogueiiza,  le  cose  che  appartengono  air  anima,  come rintelligenza,  la  preveggenza,  Tart^,  ecc.,  sono  anteriori a  quelle  che  appartengono  ai  corpi  (892  a-b,  896  c-d),  e Tauima  è  la  causa  prim  i  dei  beni  e  dei  mali,  delle  cose belle  e  brutte,  giuste  ed  ingiuste,  e,  in  una  parola,  di tutt^  le  cos«  (891  e,  896  a.  896  d,  897  a,  899  b.).  Nel Fitebo  (26  e-3l  a),  Tintelligeazaè  T uno  dei  quattro  generi in  cui  gli  esseri  sono  stati  divisi  (30),  quello  che  è  la causa  di  tutti  gli  altri  (2G  e-27  b,  30  b,  30  e,  31  a):  ma c-'sa  non  è  che  una  facoltà  delT  anima  cosmica  (29-30), perchè  la  mente  e  la  sapienza  non  possono  esistere  al- trove che  nell'anima  (30  e,  1.  e).  Nel  T'udrò  si  dimostra che  Tanima  non  può  avere  un'origine  perchè  essa  è  il principio  di  tutte  le  cose  :  infatti  se  il  principio  venisse da  qualche  cosi,  non  verrebbe  dal  principio,  e  alloca non  sarebbe  vero  che  tutte  le  cose  vengono  dal  princi- pio (245  d).  Nel  Sofida  (265  c-266  d)  Dio  è  detto  l'au- tore degli  aniunli,  le  piante,  l'acqua,  il  fuoci,  in  una parola,  di  tutti  le  così  che  si  dicono  prodotte  dalla  natu- ra; ma  per  questo  Di  )  si  deve  intendere  V  anima  del mondo,  conformemente  al  principio  precedentemente (249  a  1.  e.)  -stabiliio,  che  l'intelligenza  non  può  trovarsi -  2«4- che  in  uu 'anima.  Nel  mito  del  Politico  (269-274)  s?  parla pure  di  un  demiurgo  del  mondo;  ma  questo  demiurgo «ppartieoe  al  genere  ciò  che  muove  se  stesso  (1),  va'e  h dire  al  genere  anima.  ìicW Epinomide,  infine,  il  mondo è  prodotto  come  nel  Timeo;  ma  quello  che  l'ha  prodotti non  è  un  dio  trascendente,  ma  Tanìma,  quella  stessa  che anima  il  cielo  e  gli  astri  e  li  muove  (97G  e-978  d,  983  h, 984  b-c)  :  l'anima  è  la  causa  di  tutte  le  cose,  la  buona delle  buone,  la  cattiva  delle  cattive  f9'<6  e-977  a,  981  b, 983  d,  988  d-e).  L'autore  deW Epinomide  (ò  per  noi,  sino ad  un  certo  punto,  indifferente  che  esso  sfa  Platone  o uno  dei  suoi  discepoli)  afferma  espressamente  che  non  vi ha  alcun  altro  essere  incorporeo  che  l'anima  (981  b,  983  d); e  non  riconosce  altre  divinità  —  a  part*^  le  supers'izioni relative  ai  demoni  aerei,  acquei  ed  eterei  —  che  il  cielo e  gli  astri,  cioè  le  loro  anime—  in  effetto,  dopo  aver  detto che  andrà  ad  esporre  le  vsue  dottrine  angli  dei,  egli  non paria  che  di  questi  (2)—;  il  Dio  supremo,  il  Dio  per  ec- cellenza, è  il  cif^lo  o  il  mondo,  che  noi  dobbiamo  ppc- cialmente  onorare  e  adorare,  com^i  fanno  fitti  gli  altri dei  e  demoni  (976  e-  977  a). Ma  vi  ha  di  più:  il  Demiurgo  del  Timeo  no  w  è  so  la- mente  in  contraddizione  con  le  dottrioe  sulla  niente  e  la divinità,  ma  con  la  stessa  dottrina  fondamentale  di  Pla- tone, vale  a  diro  il  sistema  delle  Idee.  Questo  esigo  che tutto  ciò  che  esiste  sia  ricondotto  alle  Idee  ;  ma  non  può esservi  Idea  del  Demiu'-go.  Infatti,  ammetteremo  che egli,  creando  il  mondo,  ha  creato  anche  l'elemento  ideale del  mondo  ?  Ma  allora  è  un  principio  sup^ir  ore  alle  Idee.(1)  V.  269  e-270  a  e  273  b,  d. (2)  V.  980  «qq. Ammetteremo  solamente  ch'egli  è  stato  la  causa  della individuazione  delle  Idee?  Ma  se,  perchè  le  Idee  s'indi- viduassero, è  stata  necessaria  V  azione  del  Demiurgo, come  avrebbe  potuto  Tldea  del  Demiurgo  individuarsi? Quest'  osservazione,  sia  detto  di  passaggio,  può  servire a  mostrare  la  poca  consistenza  deiropinione  di  quei  cri- tici, i  quali  ammettono  che  il  mito  del  T/m^oha  per  og- getto di  supplire  alPinsufficienza  del  sistema,  rappresen- tando d'una  maniera  fantastica  il  passaggio  dall'  ideale al  fenomenico,  che  Platone  non  poteva,  per  i  presupposti stessi  della  sua  metafisica,  spiegare  scientificamente.  Essi obbliano  che  quando  si  è  introdotto  un  creatore  perso- nale del  mondo  e  una  materia  in  movimento  preesistente— che  non  sono  certamente  delle  entità  generali  —  si  è  già fatto  questo  difficile  pa^ssaggio  dall'Idea  al  fenomeno  — cioè  airindividuale  —  che  si  sarebbe  trattato  di  spiegare. Aggiungiamo  che,  se  il  Derainurgo  del  Timeo  fosse un  convincimento  reale  di  Platone,  esso  occuperebbe  evi- dentemente nel  sistema,  essendo  irriduttibile  alle  Idee, il  posto  di  un  primo  principio:  intanto  Platone  non  am- mette altri  primi  principii,  prima  del  sincretismo  con  le dottrine  pitagoriche,  che  V  Idea  del  Bene,  e  dopo,  che quest'Idea  stessa,  cioè  l'Uno,  e  la  materia  o  Dualità  in- definita. In  quanto  all'  origine  del  mondo  nel  tempo,  la  con- traddÌ7.ione  del  Timeo  con  gli  altri  scritti  di  Platone  è sovratutto  manifesta  al  soggetto  dell'anima.  La  dottrina costante  di  Platone  è  che  l'anima  è,  non  solo  immortale, ma  eterna,  ch'essa  non  avrà  mai  fine  e  non  ha  avuto mai  cominciamento  0)-  P^i*  il  mondo  stesso,  cioè  per  il (J)  V.  Fedro  246  0-246  a,  Rcp.  611  a-b,  Meno,  86  a-b,  F^do,  70  c- 72  d,  eoo. —  225 corpo,  la  contraddizione  non  è  cosi  aperta,  perchè  in  al- tri scritti  del  periodo  pitag'oroggiante,  come  noi  Timeo e  per  motivi  analoghi,  la  relazioQC  tra  l'universo  visibile e  i  principii  da  cui  es9'>  deriva  è,  come  v(  dremc»  in  se- guito,  rappresentata  simbolicamente  come  un'efficienza nel  t-.mpo.  Così  il  motivo  principRle,  se  non  Punico,  per attribuire  a  Platone  la  dottrina  dell'eternità  del  mondo è  che  essa  è  una  conseguenza  necessaria  dell'  eternità delle  Idee.  Tuttavia  questa  dottrina  si  trova  d'una  ma- niera abbastanza  esplicita  in  più  luoghi  dei  dialoghi,  co»ne neìFiltbo  16  c-e  (1),  nel  Convito  20G  e  (2),  nelle  7.^5^^1721 e  (3),  ed  è  presupposta  nella  definizione  dell'Idea  conser\a- taci  da  Proclo  {in  Parmen,  V.  133):  la  causa  esemplare  di ciò  che  vi  ha  di  perpetuo  nella  natura. K*^  I  discepoli  immediati  di  Platone  intendono  la  co smogonia  del  Timeo  in  un  senso  allegorico.  Platone,  es-ii d'cono,  non  ignorava  che  il  mondo  è  eterno  e  non  ha avuto  cominciamento;  la  genesi  de3critta  nel  Timeo  non è  che  un  artifizio  di  metodo  a  cui  egli  ha  ricorso  per far  comprendere  più  chiaramente  i  suoi  concetti;  la  pro- duzione nel  tempo  simboleggia  l' or.iine  logico  tra  ciò che  vi  ha  nell'essere  di  primitivo  e  ciò  che  di  derivato.  Que- st'interpretazione è  attribuita  a  Crantore,  a  Senocrate,  a (1>  "  Le  ccMe  che  ai  dicono  essere  eternamente  constano  di  uno e  di  molti  e  hanno  in  sé  per  natura  la  tìnità  e  T  intìnità  r,  (t.  e.  a carte  37  e  215).  Queste  cose  a  cui  si  attribuisce  l'eternità  non  sono  le Idee  pure,  ma  le  Idee  già  individuale,  perchè  qui  T"  intìnità^  desi- gna la  moltitudine  intìnila  degl'individui. (2)  -  La  generazione  è  un  che  di  sempiterno  e  d'immortale  nel genere  mortale  r^ (3)  Il  genere  umano  è  esistito  ed  esisterà  in  ogni  tempo. .Sp'^usippo,  e  ai  discepoli  di  Platone  in  generale  (1).  Ari- stotile la  rigetta,  e  vuole  che  Porigine  nel  tempo  sia  in- tera letteralmente  :  ma  è  evidente  che,  in  questo  caso, V  opinione  dei  discepoli  fedeli  d'  Platone,  rimasti  sino aiPultimo  in  intimità  intellettuale  col  maestro,  e  che  ne dividono  il  punto  di  vista,  deve  avere  per  noi  più  peso che  quella  di  un  discepolo  che  ha  abbandonato  la  scuola (circostanza  importante,  perchè  Piatone  ha  certamente scritto  il  Timeo  negli  ultimi  anni  della  sua  vita)  ed  è divenuto  un  acre  avversario,  e  che  del  resto  mostra  ab- bastanza, per  le  sue  esitazioni  e  i  suoi  equivoci  nell'in- terpretazione  d*l  sistema  delle  Idee,  di  non  essersi  mai posto  sufficientemente  al  punto  di  vista  d*^.l  maestro.  An- che Teofrasto,  discepolo  d'Aristotile,  pensa  che  forse  la cosmogonia  del  Timeo  deve  intendersi  nel  senso  allego- rico voluto  dai  discepoli  di  Platone  (2).  Una  circo- stanza che  dà  più  autorità  alla  loro  interpretazione è  che  anch'essi  facevano  uso  del  metodo  simbolico  del maestro,  rappresentando  la  dipendenza  logica  del derivato  dal  primitivo  come  un'  origine  del  mondo  nel tempo  (3). Questo  per  l'  origine  nel  tempo.  In  quanto  al- l' altro  punto  fondamentale  della  cosmogonia  del 2'imeOy  cioè  il  creatore  personale,  noi  non  abbiamo  con- ci) V.  Arist.  De  Coelo  1.  I.  X.  4-6;  Simpl.  ad  Arist,  De  Coelo comm.  a  questo  luogo;  Schol,  cod,  Reg,  1853  pag.  489  ed.  Brandis; Schol,  cod,  Coisl.  166,  p.  489  ed.  Brandis;  Proclo  in  Tim,  pag.  85  A. ed.  Basii.;  Plutarco  Psicogonia  III. (2).  Teofrasto  Fr.  28  e  29  (ed.  Didot). (3)  Il  luogo  indicato  d'Aristotile  relativo  a  quest'interpretazione (/).'  Cnelo  I.  I.  X.  4-6)  comincia  con  queste  parole:  "  Il  sussidio  ohe cercano  di  darsi  alcuni  di  quelli  che  fanno  il  mondo  incorruttibile ma  generato,  non  è  vero.  Essi  dicono  di  aver  parlato  della  gene- razione del  mondo  come  i  geometri  che  descrivono  le  figure  ^  eco. —  226  - 1 tro  di  esso  delle  testimoDianze  cosi  esplicite  dui  disce- poli fedeli  di  Platone.  Ma  ia  compenso  Aristotile,  non solo  non  conta  il  Demiurgo  del  Timeo  tra  i  principii della  filosofia  platonica,  ma  non  dice  mai  una  parola che  gli  si  rif-risca:  anzi  le  sue  parole  implicitamente escludono  resistenza  di  questa  dottrina  o  altra  simile tra  quelle  del  suo  maestro  (1).  Se  Platone  e  la  sua  scuola avessero  preso  il  Demiurgo  sul  serio,  sarebbe  un  obblio in  molti  casi  assolutamente  inesplicabile,  per  esempio quando  è  qui8ti'>ne  della  eausa  etficiente  in  Platone  o de!  perchè  della  partecipazione  alle  Idee,  come  in  De. generaf.  et  corr.  1.  II.  IX.  5  6,  Met,  1.  I.  VI.  7,  1.  I.  IX. S,  1.  I.  IX.  21,  1.  XII.  X.  9,  1.  XII.  X.  13,  ecc.  Il  si- lenzio d'Aristotile  è  tanto  più  significante  che,  se  il  De- miurgo dovesse  riguardarsi  come  una  dottrina  reale  di Platone,  esso  non  costituirebbe  un  semplice   accessorio, (1)  Il  Chiapponi  crede  ohe  Aristotile  alluda  al  Demiurgo  del Timeo  in  Met,  l.  I.  IX.  8,  con  le  parole  :  T(  y^P  ^oit  xó  Ipya- Jófisvov  Tzpòz  T:à€  ESéag  ànopXsTiov  ;  che  egli  traduce  con  que- jàte  :  •*  Che  cosa  è  quest'artefice  che  contempla  le  Idee  ?  „,  e  para- frasa con  queste  altre  :  •*  che  vale  il  dire  ohe  vi  ha  un  demiurgo  il quMe  opera  secondo  gli  eterni  paradimmi  ohe  gli  stanno  dinnanzi  ?, Ma  bisogna  tradurre  invece  :  <*  ohi  è  che  opera  guardando  le  Idee?„; e  il  senso  è,  non,  come  vuole  il  Chiapponi,  che  Tartefice  che  con- templa le  Idee  non  vale  niente,  ma  che  vi  ha  bisogno  di  un'arte- fice che  contemplasse  le  Idee.  È  ciò  che  prova  tutto  il  contesto. Aristotile  vi  dice  :  Dire  ohe  le  Idee  sono  degli  esemplari  non  spiega come  le  cose  ne  vengano,  e  non  è  ohe  un  vaniloquio  e  una  meta- fora poetica,  poiché  bisognerebbe  (per  ispiegare  come  la  cose  ven- gano dalle  Idee)  qualcuno  che  guardasse  le  Idee  e  facesse  le  cose a  loro  imitazione.  In  effetto,  continua  Aristotile,  la  s»emplice  esi- stenza di  un  esemplare  non  può  essere  la  causa  di  una  cosa  essere o  divenire  simile  a  quest'esemplare,  una  cosa  potendo  egualmente essere  o  divenire  simile  ad  un'altra  tanto  se  questa  esiste  quanto se  non  esiste. ma  una  parte  principale  del  sistema,  speci  ilmente  nel- rinterpretazione  trascendentalista,  in  cui  sarebbe  la  sola soluzione  che  questi  avrebbe  tentata  del  problema  della partecipazione  (cioè  della  somiglianza  delle  cose  alle  Idee). 6®  Infine,  ch^  la  cosmogonia  del  Timeo  non  sia  che una  semplice  allegoria,  è  ciò  che  V  autore  stesso  ci  fa comprendere  assai  chiaramente.  Così  Timeo  fa  precedere il  suo  racconto  da  questo  proemio  :  «  In  ogni  cosa  il punto  principale  è  di  comiaciare  con  un  cominciamento conforme  alla  natura.  Bisogna,  rispetto  air  immagine (cioè  al  mondo  sensibile)  e  al  modello  (le  Idee),  fare  una distinzione,  cioè  che  i  di-jc^rsi  devono  avere  dell'aifìnità con  gli  oggetti  di  cui  trattano;  co4  quando  si  pirla  di un  oggetto  stabile,  solido  ed  evidente  (le  Ilee),  occor- rono dei  discorsi  stabili  ed  inconcussi,  che,  per  quanto è  possibile,  non  possano  essere  scossi  né  confutati,  e  non lascino  nit^nte  a  desiderare  sotto  questo  r  ipporto  ;  ma quando  si  parla  invece  di  ciò  che  è  fatto  a  somiglianza di  quello  e  non  é  che  un'immagine,  bastano  dei  discorsi verisimili  e  proporzionati  a  qa<*lli  (cioè  che  siano  a quelli  nella  stessa  proporzione  in  cui  Timmagine  è  al modello).  Come  il  divenire  è  aire-^sere,  cosila  fedeèalla verità  (vale  a  dire,  come  il  fenomeno  —  il  divenire  — è  un'immagine  dell'Idea  —  dell'essere  —,  cosi  la  fede  — cioè,  evidentemente,  la  credenza  che  ha  per  oggetto  un discorso  verisimile,  come  quello  ch'egli  farà  suirorigine del  mondo— è  un'immagine  della  verità).  Se  dunque,  o Socrat**,  dopo  che  tanti  hanno  detto  tante  cose  sugli  dei e  sull'origine  dell'  universo,  io  non  posso  proferire  un discorso  rigoroso  e  del  tutto  coerente  con  se  stesso,  tu non  devi  esserne  sorpreso;  se  non  è  meno  verisimile  che alcun  altro,  si  deve  esserne  contenti,  ricordando  che  io che  parlo  e  voi  che  giudicate  siamo  degli  uomini,  sicché —  227  - su  queste  cose  conviene  appagarsi  della  verisimiglianza del  milo  (|iu8o€),  e  non  richiedere  di  più»  (29  b-d). Questo  carattere  allegorico  del  racconto  cosmogonico di  Timeo  Piatone  lo  fa  intravedere  tanto  sul Tuno  quanto sull'altro  dei  due  punti  capitali  di  questo  racconto  —  il Demiurgo  e  V  origine  nel  tempo— .A  28  e  Timeo  dice: «E  difficile  di  scoprire  Fautore  e  il  padre  di  quest'u- niverso, e  scopertolo,  è  impossibile  di  parlarne  a  tutti  ». Le  ultime  parole  sono  un'allu-iione  evidente  alla  mas- sima pitagorica  che  tutto  non  è  da  dirsi  a  tutti  (1)»  ^ significano  che  ciò  che  Timeo  dice  del  padre  e  dell'au- tore dell'universo  —  questi  appellattivi,  nel  Tirrno^  desi- gnai)0  naturalmente  il  Demiurgo—  none  che.exoterico^ cioè  non  è  che  un'espression»-  popolare  di  una  dottrina rrcondita,  su  cui  Timpo  intende  mantenere  il  secreto verso  i  non  iniziati.  Il  luogo  e' tato  :  «  P]  quello  che  aveva ordinato  tutte  queste  cose  restava  nel  suo  stato,  secondo la  sua  abitudine  »  (42  e),  indica  pure  che  la  rappresen- tazione antropomorfistica  del  Timeo  del  principio  crea- tore e  della  sua  azione  creatrice  non  è  che  un  simbolo. Esso  significa  infatti  che  un'  azione  che  si  svolge  nel tempo,  o  —  poiché  il  tempo  si  dice  creato  dal  Demiurgo  - che  implica  la  successione  e  il  cangiamento,  è  in  con- traddizione con  la  natura  di  questo  principio,  a  cui  com- pete, invece  di  una  tale  attività,  la  permanenza  nello stesMo  stato,  l'immutabilità,  che  è  l'attributo  delle  entità della  metafisica  platonica  (2).    Un'altra    indicazione  che (1)  V.  ArÌ9tos36ne  ap    Diog.   VILI.  i5. (2)  Notiamo  col  Martin  ohe  la  frase  greca  è  ambigua  :  essa  può significare  o  che  il  creatore  restava  nello  stesso  stato  mentre  prò. duceva  il  mondo,  o  che  vi  ritornava  dopo  aver  agito  nella  proda- zione del  mondo  (v.  Martin  Timeo  v.  2.  pag.  153).  Quest'ambiguità potrebbe  essere  voluta  :  il  secondo  senso  corrisponderebbe  al  signi- ficato apparente  del  mito,  il  primo  al  recondito. il  Demiurgo  non  deve  essere  preso  alla  lettera,  è  la sua  scomparsa  là  dove  Platone  parla,  non  più  da  mito- logo, ma  da  filosofo  (48  e-o2  d).Ivi  egli  non  ammette  che tre  cose,  Vesaere  (le  Idee),  il  luogo  e  la  genesi  (50  c-d, 52  a-d)  :  il  Demiurgo  è  assente  da  questa  classificazione generale  degli  esseri,  e  non  può  trovarvi  alcun  posto. Anzi  la  restrizione  del  significato  della  parola  e.s.sere  alle Idee  esclude  nettamente  la  possibilità  di  un'  esistenza qualsiasi  irriduttibile  alle  Idee,  come  sarebbe,  il  Demiurgo. Di  più  nel  primo  dei  due  luoghi  indicati  l'Idea  è  riguar- data come  la  causa  efficiente  e  il  padre  dell'  u^iiver^o sensibile,  prendendo  cosi  il  posto  del  creatore  personale. Aggiungiamo,  infine,  l'avvertenza  di  Timeo  ch'egli  non parlerà  del  principio  o  dei  principii  di  tutte  le  cose,  per- chè ciò  non  gli  è  permesso  dal  metodo  se;i'UÌto  nel  suo discorso  (48  c-dj:  è  evid'^nte,  come  abbiamo  osservato, eh**,  se  il  Demiurgo  fosse  una  dottrina  reale,  sarebbe  il principio,  o  uno  dei  principii,    di  tutte  l«»    cose    (1). Il  carattere  simbolico  delT  origine  del  mondo  nel tempo,  poi,  è  indicato  della  maniera  p'ù  chiara  a  37  d, in  cui  il  tempo,  creato  dal  Demiurgo,  è  chiamato  «im- magine eterna  dell'eternità  >>—- il  tempo  è  la  condizione di  ciò  che  cangia,  l'e'ernità  di  ciò  che  è  esente  dal cangiamento  — .  Questo  luogo  deve  mettersi  in  con- nessione con  quello  che  viene  un  po'  dopo  (38  b-c), in  cui  si  dice  che  <<  il  tempo  ò  nato  insieme  col mondo»,  e  che  «  il  modello  (cioè  le  Idee)  è  per  tutta  la eternità,  e  il  mondo  è  esistito,  esi4e  ed  esisterà  per  tutto  il (l)  Notiamo  però  che  Timeo  non  vuol  dire  ch'egli  non  parlerà affatto  dei  principii  delle  cose;  infatti  soggiunge  che  si  limiterà, come  disse  al  principio,  al  discorso  verisimile,  indicando  cosi  che è  secondo  la  loro  natura  roalo  ch'egli  non  ne  parlerà,  ma  che, benché  non  ne  dirà  il  vero,  ne  dirà  il  verisimile. —  228  - tempo  ».  Dicendo  che  il  tempo  e,  per  coasegueiiza,  il mondo  sono  eterni  (I)  e  non  per  tanto  creiti,  Plato  le significa  anche  il  sen-»o  reale  del  simbolo,  cioè  una  pro- cessione ab  aeterno,  ìq  cui  tra  le  erse  procedenti  e  il principio  da  cui  procedono  Tanteriorità  e  posteriorità  non è  che  logica. Si  é  creduto  che  Felemento  rappresentativo  della  co- smogonia del  Timeo  consista  unicamente  nella  produ- zione nel  teuapo,  e  che  il  contenuto  filosofico  del  m^to sia,  per  conseguenza,  che  il  mondo  procede  eternamente da  Dio,  cioè  da  un'intelligenza  creatrice.  Ma  questa  in- terpretazione prima  di  tutto  lascia  intatta  la  difficoltà  prin- cipale. Se  il  mondo  t'osse  creato  da  Dio, [questi  creerebbe anche  le  Idee,  perchè  esse  non  sono  che  l'elemento  per- manente e  sostanziale  del  mond^.  Ma  noi  non  possiamo ammettere  che  le  Idee  sono  cr«^ate  :  primo  perchè,  se- condo il  Timeo^  esse  preesistono,  come  paradigmi,  alla creazione  —  cronologicamente  se  la  creazione  nel  tempo deve  prendersi  alla  letera,  logicamente  se  essa  è  il  sim- bolo di  una  processione  ah  aeterno^'^  poi  perchè  le  Idee sono  p"r  Piatone  le  cause  ultime,  e  i  loro  elementi  i principi!  ultimi,  delle  cose;  e  infine  perchè  ciò  che  è necessario  non  può  essere  creato,  e  Pldea  è  necessaria, di  questa  necessità  assoluta  che  consiste  in  ciò  che  la sua  non  esistenza   è  logicamente   impossibile    e  implica (1)  Il  luogo  del  Tiìneo  in  cui  si  stabilisce  che  il  mondo  è  un'im- magine (.29  b)  è  tradotto  cosi  da  Cicerone:  "ex  quo  effìcitur  ut flit  necesse  huuc,  quem  oernimus,  mundum,  simulaorum  aelernum esse  alieuius  ((eterni  y,.  (Oicer.  iJe  univers,)  Le  parole  aeternitm  e<l aeterni  non  hanno  le  loro  corrispondenti  nel  testo  greco,  almeno in  quello  che  noi  possediamo.  Noi  non  sappiamo  se  Cicerone  le leggesse  nel  suo  testo;  ma  ad  ogni  modo  il  pensiero  espresso  nella sua  tradazione  di  questo  luogo  non  ò  ohe  quello  implicitamente contenuto  a  37  d-38  e. contraddizione  (i).  In  questa  interpretazione  inoltre  re- stano ancora  tutte  le  difficoltà  relative  al  Demiurgo  :  la impossibilità  di  un  essere  che  non  si  risolva  in  Idee;  il silenzio  d'Aristotile;  le  opinioni  di  Platone  sulla  divinità; il  principio  che  Pintelligenza  non  può  trovarsi  che  nel- l*anima;  ecc. Ma  oltre  alle  difficoltà  che  la  ereazione  ab  aeterno  . (con  un  creatore  personale)  ha  in  comune  con  quella  nel tempo,  essa  ne  ha  un'altra  che  le  è  particolare.  Platone non  conosce  altra  causazione  —  a  parte  l'  anteriorità  e posteriorità  tra  le  Ide»»,  che  non  potrebbe  chiamarsi  una causazione  che  in  un  senso  analogico  —  che  quella  che avviene  nel  tempo  ed  è  una  successione  (ì).  Per  lui, come  per  Aristotile,  causa  efficiente,  vuol  dire  causa  mo- trice; e  la  causa  prima,  il  primo  motore.  L'  anima  è  la causa  prima  di  tutte  le  cose,  perchè  essa  produce  il  mo- vimento primitivo,  da  cui  vengono  tutti  gli  altri,  e  tutti i  cangiamenti  dipendono  dal  movimento  (3).  La  dottrina sulla  causalità  dell'anima,  che  è  la  sola  causa  iperfisica — nel  senso  proprio  della  parola  causa— che  noi  possiamo  con prove  attribuire  a  Platone,  ci  mostra  anche  che  egli concepisce  le  cause  al  di  là  dell'  esperienza,  più  che  è possibile,  sul  tipo  di  quelle  dell'  esperienza  ;  la  maniera in  cui  Pani  ma  produce  il  movimento  essendo  assimilata ai  casi  più  familiari   di  produzione   del  movimento    che \* (1)  Platone,  è  vero,  fa  produrre  le  Idee  le  une  dalle  altre,  e tutte,  in  definitiva,  dall'Idea  del  Bene;  ma  ciò  non  toglio  che  ogni Idea  sia  senza  causa  esterna  ed  esista  per  se  stessa,  perchè  l'Idea producente  è  immanente  nelle  Idee  prodotte,  e  per  conseguenza queste  hanno  in  se  stesse  la  ragione  della  loro  esisteaza. (2)  V.  Filebo  26  e-27  b  e  Sof.  265  b-e. (3)  V.  Leggi  891-89». I [ ci  presenta  l'osservazione,  poiché  essa  non  metto  in  mo- vimento  i  corpi  che  per  la  comunicazione  del  proprio movimento.  Interpretando  la  cosmogonia  del  Timeo corno  una  creazione  ab  ae(er>no,  noi  attribuiremmo  dun- que a  PJaton'ì  dei  concetti  sulla  causalità  che  gli  sono assolutamente  stranieri— e  che  del  resto  noi  non  po- tremmo attribuire  ad  alcun  filosofo  d  Ila  sua  epocao  di  un'e- poca vicina,  non  comparendo  essi  nella  storia  della  fi- losofia greca  che  coi  neopitagorici  e  i  neoplatonici—. Un  grave  inconveniente  di  qu  sta  interpretazione  è poi  di  attribuire  a  Platone  u»»a  doitrina  chVgli  non  ha mai  esposta  apert'imente,  (  ioè  svestita  dalla  sua  forma simbol'ca.  Evidentemente  noi  dobbiamo  cercare  nel  con- tenuto filosofico  del  mito  di  7/mf>o  una  dottrina  che  noi sappiamo  gìh  essere  appartenuti  certament  •  n  Plotone: un'interpretazione  che  non  soddisfa  a  (ju-sta  con-h'zione, nrn  solo  è  poco  sicura,  ma  è  intrinsecamente  inverosi- mile, non  essendo  ammissibile  ch'egli  abbia  esposto  so- lamente sotto  la  forma  enigmatica  del  simbolo  una  dot- trina tanto  importante  quanto  è  quella  contenuta  nel mito  del  Timeo,  che  ha  Fenza  dubbio  per  oggetto  le  cause ultime  dell'universo. I  risultati  a  cui  si*imo  già  pervenuti  ci  indicano  in qual  dìrc'/Aone  b  sogna  cercare.  Non  potendo  trovarci  nel Timeo  né  la  dottrina  di  una  creazirne  nel  tempo,  né quella  di  una  creazione  ab  atferno,  ne  segue  che  non può  in  a'cun  modo  trovarvs"  la  doitrina  di  un  creatore- vaie  a  dire  di  un  creatore  personale— e  che,  per  conse- guenza, il  Demiurgo  del  Tiìneo  non  può  essere  che  la personificazione  di  un  principio  astratto.  Di  più  l'azione del  Demiurgo  |  er  la  produzione  del  mondo  non  pot*-ndo realmente  in-en-h  r-'i  e  aiie  un'efficieiua  nel  tempo,  e  non potendo  nemmeno  r«ppi esentare  un'effioienza  senza  idea di  successione— che  è,  come  abbiamo  detto,  un  concetto straniero  a  Platone  e  alla  sua  epoca  -  ;  ne  segue  che  noi non  possiamo  vedervi  in  alcun  modo  un'efficienza  cau- sale nel  senso  proprio  del  termine,  e  che  essa  perciò  non può  essere  che  il  simbolo  di  questa  efficienza  causale  in un  senso  analogico,  che  nel  sistema  delle  Idee  è  deno- tata coi  termini  tecnici  anteriorità  e  posteriorità. Ora  non  vi  hanno  che  due  ipotesi  che  corrispondano a  queste  condizioni  :  o  il  Demiurgo  rappresenta  le  Idee nel  loro  complesso,  e  la  massa  in  movimento  disordinato anteriore  alla  creazione  la  materia  (delle  cose)  priva  della pariecipazione  del'e  Id^  e  ;  ovvero  essi  rappresentano  i due  princip'i  o  elementi  delle  Idee  e  delle  cose,  cioè  il primo  il  Bene  o  Uno,  e  l'altra  la  materia  (delle  Idee  e delle  crs  )  o  Dualità  indefinita.  Ma  di  queste  due  ipo- tesi la  prima  deve  escludersi,  perchè  il  Demiurgo  non sarebbe  una  rappr<  sentazione  conveniene  del  mondo ideale.  Esso  non  lo  potrebbe  essere  che  se  le  Idee  fos- sero pensieri,  ciò,  che  data  la  loro  immanenza,  non  po- trebbe avere  altro  senso  che  l'identità  dell'  essere  e  del pensiero  :  ma  questa  è  una  dottrina,  come  spiegheremo altrove  (l),  che  non  possiamo  attribuire  a  Platone.  Re- sta dunque  la  seconda  ipotesi. Platone  ci  dà  nel  Timeo  una  spiegazione  t(  leolrgica del  mondo.  La  teleologia  di  Platone  è  una  teleologia immanente^  la  cau^^a  della  finalità  deUe  co'^e  essendo  un principio  astratto  risiedente  nel C,  cose  stes-^e  :  ma  questa tt'leologia  diviene  nel  Timeo  una  tel'^ologia  trascendente, nella  quale,  cioè,  la  fi'  alita  interiore  d<  Ile  cose  appari- Fce  l'elfcttuazione  del  piano  d'un  fig'nte  personale.  L'ai- (1)  Supplem.  D. —  230  - ' legoria  del  Timeo  consiste  dunque  essenzialmente  in  ciò che  la  causa  impersonale  e  astratta  del  bene,  cioè  Tldea stessa  del  Bene,  è  rappresentata  come  una  causa  con- creta e  personale.  Questa  personificazione  dell*  Idea  del Bene  non  è  un  semplice  giuoco  deirimmaginazion^,  ma  ha per  Piatone  un  alto  valore  didattico— e  infatti  Aristotile e  i  suoi  comm<*ntatori  ci  rapportano  che,  secondo  i  di- scepoli di  Platone,  questi  ha  rappresentato  il  mondo  come creato  in  grazia  dell'insegnamento,  JtfiaoxaXCag  yL^P^"*  (1)— • Per  dilucidare  Tldea  del  Bene,  cioè  il  concetto  teleo- logico, ch'egli  pone  alla  base  della  spiegazione  del  mondo, Platone  ricorre  ad  una  similitudine.  Egli  dice:  l'universo non  ha  la  ragione  della  sua  esistenza  che  in  se  stesso, nella  sua  necessità  interiore;  ma,  considerato  nel  tutto così  bene  che  nelle  parti,  esso  é  costituito  come  se  fosse Pattnazione  di  un  disegno  intelligente;  per  conseguenza, siccome  la  causa  dell'  esistenza  di  ciascuna  cosa  e  di tutte  le  sue  proprietà  é—come  è  detto  nel  Fedone  (97  c- 98  b)— che  il  meglio  è  che  essa  sia  e  sia  tale,  noi  dob- biamo, per  comprendere  il  perchè  di  una  cosa  e  della sua  maniera  di  essere,  immaginare  che  questa  cosa  è 1'  opera  d'un  autore  intelligente,  e  spiegare  il  disegno sapiente  secondo  cui  è  stata  formata.  Il  carattere  del- Pallegoria  essendo  di  trasformare  l'astratto  in  concreto, anche  l'altro  principio  diviene  nel  Timeo^  da  un'  entità astratta,  una  realtà  concreta,  ed  è  rappresentato  perciò come  una  materia  determinata  preesistente  a  cui  si  ap- plica l'attività  del  Demiurgo  La  materia  premondana del  Timfo,  priva  delle  Idee  e  in  un  movimento  confuso e  disordinato,  è  una  rappresentazione  assai  chiara  del- l'elemento materiale- nella  sua  doppia  funzione  di  mate- ria delh  cose,  qnella  che  Platone  identifica  allo  spazio, e  di  materia  delle  Idee  (e,  per  conseguenza,  anche  delle cose  stesse)  -perchè  questo  è,  come  d'ceTeofrasto  (Met.  33) rinforme  e  il  disordinato  :  questa  mnterìa  è  rappresen- tata come  agitata  da  un  continuo  movimento,  perchè  uno dei  concetti  che  entrano  nella  significazione  del  princi- pio materiale  è  il  movimento,  per  cui  Xenocrate  chia- mava, come  abbiamo  detto  (1),  questo  principio  àsvaov (sempre  fluente),  e  lo  simboleggiava  per  l'anima.  Nella genesi  premondana  del  Timeo  possiamo  pure  trovare  rap- presentati tutti  gli  altri  concetti  della  ouoxoix^a  dell'infinito: essa  è  l'tìTieipov,  sia  nel  senso  qualitativo,  cioè  d' inde  fi- m7o— perhè  non  vi  era  in  essa  alcuna  forma  definita  — sia  nel  senso  proprio  e  quantitativo— perchè  la  variabi- lità in  essa  era  illimitata  (2)  (oltre  alla  divisibilità  all'in- finito della  materia  e  del  movimento)  — ;  è  l' Ineguale, il  Diverso  e  l'Anomalo,  perchè  allora  non  vi  era  la  ri- petizione costante  delle  stesse  forme,  come  nell'  attuale (1)  V.  Ari-it.  De  Coalo,  Simplic,  SchoL  cod.  Heg,  e  Schol,  rod. Cohl.,  i  l.  indicati  neUa  nota  a  carta  226. V.  pure  il  l.  di  Plutarco Piicog, 0)  V.  questo  Suppiem.  n.  II.  carta  178. (2)  Cfr.  nel  mito  del  Politico  —  che  a  269  e-  270  a  e  più  an- cora a  273  b-d  ricorda  evidentemente  il  mito  del  Tim^o— le  parole di  273  d:  •*  Il  dio  che  1'  ha  formato....  non  volendo  che  il  mondo (per  la  degenerazione  progressiva  dalla  primitiva  imitazione  pia esatta  del  governo  del  suo  demiurgo  e  padre) si  dissolva  e  s'im- merga nel  luogo  della  dissomiglianza  che  è  inJlnitOj  ritornato  al  go- verno di  esso„,  ecc.  Il  luogo  infinito  della  dissomiglianza  in  cui  il monio  s'immergerebbe  per  la  sua  dissoluzione,  è  quello  stesso  in cui  era  immerso  anteriormente  alla  sua  formazione  (cioè  alla formazione  del  cosmo»). -  23Ì  — mondo  ordioato  (i);  è  il  principio  del  male,  perchè  i) male,  nel  mondo  attuale,  è  una  sopravvivenza  del  di- sordine primitivo,  che  il  Demiurgo  non  ha  potuto  che incompletamente  ricondurre  all'ordine  (2)  ;  è  il  Non  es- sere, perchè  questo  equivale  alla  stef-esi,  cioè  alla  pri- vazione della  forma;  infine  è  la  MoUiplfcità  senza  unità, perchè  Tunità,  Tindividualità,  è  costituita  dalla  forma. Se  Tuno  dei  due  principii  del  mondo  che  compariscono nel  ThneOj  cioè  il  Demiurgo,  rappresentasse  le  Idee,  l'al- tro dovrebbe  rappresentare,  come  abbiamo  detto,  la  ma- teria delle  cose  — ciò  che  si  aggiunge  alle  Idee  per  co- stituire le  cose  —,  cioè,  come  si  ammette  già  in  questo dialogo,  la  semplice  estensione  :  ma  in  questo  caso  esso non  comprenderebbe  tante  altre  determinazioni  oltre  al- l'estensione, e  non  sarebbe  la  genesi  precosmica  che  ci descrive  Timeo. Questa  interpretazione,  indicataci  dalle  considerazioni generali  precedenti,  è  confermata  da  un  esame  partico- lareggiato del  t«»sto.  Il  significato  del  simbolo  traspare abbastanza  chiaramente  dal  cominciamento  del  racconto di  Timeo.  «  Diciamo  per  qual  causa  il  costruttore  della genesi  e  di  quest'universo  li  ha  costruiti.  Esso  era  òwono, e  nel  buono  non  vi  ha  mai  invidia  di  alcuna  cosa;  stra- niero a  questo  sentimento,  volle  che  tutto  fosse,  per quanto  era  possibile,  simile  a  se  stesso  (3).  Quegli  che da  uomini  sapienti  accetterà  questo  principio  potissimo della  genesi  e  del  mondo,  lo   accett<»rà  giustamente.  In (1)  Cfr.  il  1.  del  Politico  oitaio  nella  nota  precedente. (2;  V.  Tim.  2y  e,  30  a,  40  b,  46  d,  48  a,  53  b,  50  o,  HO  b,  e  cfr. Polit.  273  b-c. ;3)  L'efficienza  dell'Idea  del  Buono  è  di  rendere  le  cose  simili a  se  stessa,  tiuesla  essendo  in  generale  la  causalità  dell'Idea. ft 11 il effetto,  volendo  Dio  che  f(»^se  tutto  buono  e  niente  vi fo-se  di  cattivo,  per  quinto  era  poss  bile  ;  trovato  tutto ciò  che  era  visibile,  non  queto,  ma  agitato  da  un  mo- vimento confuso  e  disordinalo,  dal  disordine  lo  ridusse all'ordine,  stimando  che  questo  era  meglio.  Ora  non  era né  è  possibile  aìVottimo  fare  altro  che  il  più  bello » (29  e-30  a).  A  259 a  l'autore  dell  universo  (cioè  il  De- m  urgo )  è  chiamato  «  V  ottima  delle  cause»;  e  a  37  a *  l'ottimo  degli  esseri  eterni  (àst  ovxow)  e  intelligibili». Quest'ultimo  luogo  è  decisivo,  perchè  da  una  parte  gli «esseri  eterni»  (àel  ovTa)(l)egli  «esseri  intelligibili  »  (2) significano,  nel  linguaggio  abituale  di  Platon^,  le  Idee; e  da  un'altra  parte,  il  massimanumte  buono  è  per  lui ridea  dei  buono  (3),  il  supremo  grado  di  un  attributo spettando  all'Idea  stessa  corrispondente  all'attributo  (4). In  tnt'o  il  racconto  poi  l'aspetto  del  Demiurgo  che  Ti- meo motte  in  rilievo,  è  che  esso  è  la  causa  d(»l  bene, cioè  della  finalità  dellf  cose  (5)  :  esso  è  essenzialmente, com'è  chiamato  a  68  e,  <  il  demiurgo  deir  ottimo  e  del più  bello»,  perchè  questo  è  il  punto  di  coincidenza  con l'Idea  del  Bene,  su  cui  l'allegoria  è  fondata. Le  immagini  con  cui  l'Idea  del  Bene  è  rappresentata nel  Timeo  non  sono  senza  esempi  negli  altri  scritti  di Platone.  Nella  Rep.  b97  Dio  ha  generato  l'Idea  del  letto, e  per  questo  Dio  non  possiamo  intendere  che  l'Idea  del Bene,  perchè  è  e^sa  che  dà  h,\U  altre  Idee  l'essere  e  la "  i (1)  V.   Tiiiì,  27  d,  50  e,  51  a,  59  e,  Fedone  79  d,  eco- (2)  V.   Titn.  30  e,  30  d,  31  a,  51  b,  51  e,  51  d,52  a,  92  e,  Jx'ep,  507 b-c,  508  e,  524  e,  532  b,  Fedone  79  a,  80  b,  8.^  b,  ecc. (3)  V.  Arisi.  FAh,  Xu;  1.  I.  VI.  6,  Fth.  Kud.    l.  I.  Vili.  1-2,  11, IH,  .V.  Mor.  1.  I.  T.  22. (4)  Ctr.   Supplomen.  B  parte  II  n.  TU, (5)  V.   Timeo  29  e-  30  b,  30  c-d,    31  c-33  a,  33b-34  b,37  a,  39  b-c, 40  a-b,  46  o-e,  48  a,  53  b,  58  e,  54  a,  56  o,  68  e,  69  b,  ecc. —   232   ~ essenza  (Itep,  509),  e  le  Idee  non  hanno  potuto  essere prodotte  da  un  dio  propriamente  detto,  cioè  da  una  causa personale.  A  506  508  il  B*5ne  è  detto  il  padre  del  sole, e  implicitamente  perciò  di  tutto  T  universo  visibile.  Nel Tee.teto  176-177  «vi  hanno  du'^  paradigmi  nell'essere, Tuno  divino  e  felicitisi mo,  Taltro  senza  Dìo  e  miserrimo  ». Questi  due  paradigmi  sono  senza  dubbio  le  due  Idee universalissime,  cioè  i  due  elementi,  perchè  Platone  ri- guarda  l'universale  come  un  paradigma  rapporto  ai  par- ticolari che  gli  sono  subordinati  (1).  Anche  Xeno crate  (2)  rappresentava  1'  Uno  o  il  Bene  per  T  intel- ligenza, e  lo  chiamava  Giove,  il  primo  dio  e  padre degli  dei  (padre  degli  dei  è  detto  il  Demiurgo  nel Timeo  41  a  e  42  e).  Non  bisogna  dimenticare  che  il  no- me di  Dio  dato  all'Idea  del  Bene  none  che  una  semplice metafora— una  metafora  è  il  germe  d'un'allegoria—,  per- chè, quest'Idea  essendo  l'essenza  o  la  forma  comune  di tutti  gli  esseri,  essa  non  potrebbe  identificarsi  con  Tin- telligenza  senza  ammettere  questa  proposizione  priva  di senso,  che  la  forma  o  Tess  nza  comune  di  tutti  gli  es- seri è  Tintelligenza;  e  quand'anche  nelle  Idee  platoniche si  vedessero  i  pensieri  della  divinità,  l'Idea  del  Bene  sa- rebbe uno  dei  pensieri  divini,  ma  non  la  divinità  stessa che  è  il  soggetto  di  questi  pensieri. Ma  ciò  che  non  la-»cia  alcun  dubbio  sulla  nostra  inter- (1)  Prima  ha  detto:  *  è  necessario  che  vi  sia  sempre  qualche  cosa contraria  al  Bene,;  ciò  che  è  un'alt ja  prova  che,  all'epoca  in  cui scriveva  il  TeetelOy  Platone  ammetteva  già  la  dottrina  dei  due  prin- oipii  opposti— La  qualitìoa  sentir  Dio  data  al  principio  materiale  e privativo  ha  un  equivalente  nel  Timeo  53  b,  in  cui  della  genesi anteriore  alla  formazione  del  cosmos  si  dice  che  essa  si  trovava nello  stato  in  cui  deve  trovarsi  ciò  da  cui  Dio  è  assente. (2)  V.  Stobeo  EcU  Phys.  libro  I,  o.  2,  29. rrctaz'ore  è  che  eFsa  è  quella  dei  discepoli  immediati  dì Platone.  Secondo  Simplicio    (ad  Arist.  De  Coeìoì.  I.  X) Xenocr^te  e  i  platonici    in  generale    dicono  che    per  la produzione  deiruniverso,  nel    TYmco,  non  deve  intendersi una  produzione  nel  tempo,  ma  che  essa  ha  per  oggetti d'indicare  «  Tordine  d»lle  cose  che  in  esso  (nell'universo) sono  più  prime  e  più  composte».  Le  cose  più  prime  vuol dire  i  primi  principii;  in  esso,  che   questi  prinMpii    non sono  del'e cause  esteriori,  ma  inerirle mo  n  »,l  mìniis'jesso- infine  rop,)o<i^ioie  tri  le  cos»,  più  prime  e  le  più  com- poste è  la  prova  più  chiara  che  essi  Sino  gli  elementi  di tutte  le  cos'*,  cioè  TUno  e  la  Dualità  indettai  ta.  Questa interpretazione  é  attributi  aXeiocrate  anche  n '.Hi  Sco- lio cod.  Coisl.:  Platone,  facendo  il  mondo  prodotto,  non ha  inteso  parlare  d'uia  prò  luzoiie  reale,  rna  «  in  gra^'a deirinsegnamento  ha  detto  che  il  moad)  è  stato  prodotto dalla  materia  preesistente  e  dall'  sldos  ».  Qui    i  princpi del    mondo  di  cui  si  tratta  nel    Timeo,  sono    idt^.nt'fieati con  r  slSog  e  la  materia  :  V  sleog  e    la  materia    sono,  U sappiamo,  1'  Uno  e  la  Dualità    indefinita.    Più  esplicita ancora  è  la  testimonian/a  di  Teofrasto  (snllMdentità  dt^l, Demiurgo  con  l'Idea  de)  bene)  :  Platone  dopo   che  alla filr»8ofia  prima  si  diede  alla  storia  della  natura,  e  ammise due  principii,  V  uno  come  materia  (il  7iav5£X£s),  1'  altro come  causa  e  movente,  e  a  questo   dà  la  natura   di  dio e  del  bene  {Fr,  48).  Teofrasto  sa  che  il    Demiurgo    deve identificarsi  con  rid»*a  d^l  bene,  ma  prende   sul  snMo  il simbolismo  del  Timeo.  Altrove  (Me/.  33)  Teofrasto  st^isso sembra  identificare  la  genesi  anteriore  al  mondo  con  la Dualità  indefinita,  perchè,  dopo  aver  detto   che  Platon3 ha  ammesso  due  principii  contrari!,  TUno  e  la  Dualità indefinita,  e  che  questa  è  l'infiaito,  Tinform'^,  il  disordinnt^, soggiunge  :  «  per  cui  Dio  non  potrebbe  tutto  ricondurre -.  233  - air  ottimo,  ma  solo  per  quanto  gli  è  possìbile».  Queste parole  alludono  evidentemente  ai  concetto,  tante  volte ripetuto  nel  Timeo,  che  il  Demiurgo  non  ha  potuto,  per la  resistenza  della  materia  — cioè  della  massa  in  movi mento  disordinato  che  gli  è  servita  di  materiale  nella  co- struzione  del  mondo -attuare  il  bene  chu  d'una  maniera iQcompleta  (i).  Quest'identificazione  della  genesi  pre- mondana del  Timeo  con  la  Dualità  indefinita  spiega  pure il  fatto  che  questa  in  un  preteso  scritto  di  Pitagora  è chiamata  anche  Chao^  (2),  perchè  le  proposizioni"  attri- buite  a  Pitagora  sulla  Daalità  indefinita  non  sono  che quelle  di  Platone  e  i  platonici. Nella  crea/ione  del  mondo  nel  Timeo,  coi  Demiurgo concorrono  gli  dei  generati.  Bisogna  perciò  distinguere nel  mito  due  parti,  quella  che  si  riferisse  al  primo,  e quella  che  si  riferisce  ai  secondi.  Nell'una  T  allegoria consìste  tanto  nella  creazione  nel  te-npo  quanto  nella  na- tura personale  attribuita  all'uno  dei  principii  delle  cose. Nell'altra  invece  la  concezione  delle  forze  creatrici  come persone  non  è  una  semplice  allegoria,  e  questa  si  riduce in  sostanza  a  rappresentare  come  avvenuta  in  un  punto del  tempo,  all'origine  delle  cose,  l'azione  continua  della divinità  n^l  governo  del  mondo.  Il  significato  reale  di questa  parte  del  mito  non  è  dunque  che  la  dottrina  co- nosciuta di  Platone,  che  la  divinità,  cioè  V  anima  del mondo,  é  la  causa  prima  di  tutti  i  fenomeni.  La  parte che  nella  creazione  spetta  al  Demiurgo  e  quella  che spetta  agli  dei  generati  sono  nettamente  delimitate:  que- sti creano  ciò  che  ua-ce  e  periscp,  quello  ciò  che  è  im- (1)  V.  i  1.  indicati  a  carta  231,  pag.  2,  n.  2. (2)  V.  Siriano    citato    in   ZeUer  Filoz,  dei    Greci  voi.  1.   ed.  4. pag.  333. peribile  e,  per  conseguenza,  eterno  (questa  distinzione  è formulata  as.«ai  charamente  nell'allocuzione  del  Demiurgo agli  dei  Venerati,  a  41  e). L'oggetto    principale  della    ccsmogrn'a  del   Ti^nco  ^, come  abbiamo  detto,  di    dilucidare  la  crncfzione    teleo- logica del  mondo.  In  Plafone  vi  hanno,  come  nota  giu- stamente il  Janet,  due  teorie  della  finalità  (1):  l'una  Im- manente, che  suppone  una  causa  impersonale  (la  parte- cipazione dell'Idea  del  bene),   l'altra    trasc  ndrnte,    che suppone  una  causa  personale.  La  prima  abbraccia  nella sua  spiegazione  tutto  ciò  che  es'ste;  la  seconda    non  si applica  che  a  ciò  che  ha  un'  origine  nel  tempo,    perchè la  causa  personale    ch'essa  suppone  è  1'  anma,  e   leffi- cienza  di  questa  si  svolge  nel  tempo,  Platone  n^n  avendo ancora,  come  abb'amo  osservato,  l'i'^ea  di  una  cau<=a  ef- fic  ente  o  jroduttr.ce,  nel  senso  proprio  dei  termiui,  che non  preceda  nel  tempo  la  cosa  prodotta.  Siccome  il  con- cetto di  ui:a  finalità  tra<5cendente  è  più  chiaro  che  quello di  una  finalità  immanente,  cosi  Platone  si  serve  del  primo per  rischiarare  il  S' eondo.  Di  là  la  finzione  del  Demiurgo. Ma  questa  cau-a  personale  fittizia  non  viene  adibita  che per  ciò  che  l'anima  non  può  produrre  :  prodotte  le  cose eterne,  e  tra  esse  l'anima,  l'opera  del  Demiurgo    è  ter- minata, perchè  con    l'anima   si  ha  già,    all'oggetto    di rischiarare  il  concetto  teleologico    per  l' intn  duzione    di cause  personali,  una  causa  reale,  e  non  si  ha  più  quindi bisogno  di  una  causa  fitiizia.    Pt  r  lo    scopo  di    Platone una  causa   reale  vai  meglio  di  una    fittizia,  perchè   con essa  la  spiegazione  teleologica  delle  cose  viene,  non  solo resa  più  chiara,  ma  anche  confermata,  il  principio  che le  cose  procedono  da  una  causa  intelligente  avendo,  secondo  Platone,  come  noi  vediamo  nel  /^^e/one  97-99,  per conseguenza  necessaria  qneDo  delle  cause  fin«lf. I  motivi  per  cni  Platone  nel  Timeo  preferisce  di esporre  le  sue  dottrine  sotto  nna  forma  simbolica,  Fono di  due  ordini  :  gli  uni  tcngoco  alla  finzione  che  l'espo- sitore è  un  filosofo  pitagorico,  gli  altri  alla  natura  stcesa di  queste  dottrine. Timeo,  facendo  il  mondo  generato,  parla  da  pitago- rico. I  pitagorici,  e  in  generale  tutti  i  filosofie  i  teologi prima  di  Platone,  parlano  dfl  mondo  come  originato  nel tempo,  e  ne  descrivono  la  formazione  II  modo  di  espo- sizione del  Timeo  é  dunque  richiesto  anzitutto  dalla  ve- risimiglianza   della  finzione  di    questo   dialogo:  Platone espone  i  suoi  concetti  sui  principii  delle  cose  sotto  la  forma tradizionale  del  racconto    cosmogonico,  sia   per  confor- marsi alle  dottrine  della  scuola  a  cui  appartiene  il  per- sonaggio da  cui  fa  esporre  que;>ti   concetti,    sia  perchè questa  forma  è  come  una  marca    della  veneranda  anti- chità, e  le  dottrine,  ch'egli  attribuisce  a  Timeo,  proven- gono, a  quanto  pretende  Platone  (1),  da  una  tradizione antichissima  (2).  Ma  lo  scopo  di  Platone  non  è  semplice- mente di  dare  alla  sua  finzione  una  più  grande   verisi- mfgiìanza  storica:  facendo  trasparire  chiarameate  il  ca- rattere puramente  exoreri^o    ed  allegorico  del    racconto cosmogonico  di  Timeo,  Piatone  in^eade  al  tempo  gtesso indicare    che  la    cosmogonia    dei  Pitagorici    non   è  che un'  espressione  exoterica  di  una  dottrina  più    filosofica; che  essi  hanuo  reilmente  ammessa,  cime  lui,  Teternità (1  )  V.  Filebo  16  c-e (2)  Non  bisogna  dimantioare  ohe    le  finzioni    drammatiche  dei dialoghi  platonici    non  sono   deUe   semplici  finzioni    poetiche,  ma l'autore  intende  attribuire  realmente  ai  personaggi  di  questi  dia- loghi le  dottrine  ch'egli  mette  loro  in  bocca. del  mondo-  noi  sappiamo  ch'egli  pretende  stabilire  Ti- dentità  delle  dottrine  degli  antichi  pitagorici  con  le  sue proprie—;  e  che  l'orìgine  dell'universo  nel  tempo  è  per essi,  come  p»T  lui,  un  simbolo  significante  la  processione ab  aeterno  delle  cose  dai  loro  principii  (\). L'ogg'itto  principale  d»lla  cos-nogonia  del  Timeo  è, come  abbiamo  visto,  di  dare  una  spiegazione  teleologica del  monlo.  Il  concetto  teleo'ogico  era  sconosciuto  ai  Pi- tagorici; ma  data  l'importanza  di  questo  concetto  nella sua  filosofici,  egli  noa  può  rinunziare  a  ritrovarlo  anche in  quella  degli  antichi  Pitagorici,  di  cui  vuole  stabilire r  identità  con  la  propria.  I  Pitagorici  insegnavano  che tutto  è  stato  prodotto  da  Dio  (1).  Platone  prende  per punto  di  part^nzi  quest'Idola  a-xe^soria  della  loro  co- smogonia, ne  fa  l'idea  prlncpale,  la  sviluppa  facendola servire  di  base  a  una  concezione  finalistica  dell'universo, e  trasfigurata  cosi  la  cosmogonia  reale  dei  Pitagorici, l'attribuisce  ai  discepoli  fedeli  dei  preiecassori  di  questi (1)  Secondo  Stobeo  (1.450),    Pitagora   dice  il   mondo    generato par  un  artifìcio  logico  (xax'èJltvoCav),    ma    non    cronologicamente (xaià  XP^^^^)-  Ciò  vaol  dire,  come  bene  spiega  il  Zeller,  che  i Pitagorici,  parlando  dolla  formazione  del  mondo,  non  hanno  vo- luto insagnare  che  la  dipendenza  logica  del  derivato  riguardo  al primitivo,  e  non  un'origine  nel  tempo.  Stobeo  (1.420)  riporta  anche un  frammanto.  cartamante  apocrifo,  di  Filolao,  che  afferma  che  il mondo  è  esistito  sempre,  e  molti  autori  antichi  attribuiscono  a  Pi- tagora questa  dottrina  (V.  Zeller  Jh'ilos.  dei  Greci  pag.  378).  Che  l'o- pinione, secondo  cui  l'origine  del  mondo  nel  tempo,  di  cui  hann  u parlato  i  Pitagorici,  non  è  una  dottrina  reale  di  questi  filosofi,  esi- sta gi^i  all'epoca  di  Aristotile,  risalta  dal  luogo  della  Met,  l.  XIV. III.  14-15:  **  Né  vi  ha  \^ojri  a  dubitare  se  i  Pitagorici  facciano  o no  la  generazione;  dicono  infatti  chiarameate  y,  ecc. (1)  Filolao  dice  ohe  Dio  ha  fatto  il  limite  e  l'illimitato.  V.  Si- riano in  Afet.  SchoL  925,  b,   \i '\ 1   » filosofi,  interpretandola  come  un  semplice  simbolo  dì  una speculazione  superiore,  il  cui  contenuto  coincide  con  le sue  proprie  dottrine  sui  principii  delle  cose.  Fors'anche Timeo  non  è,  nell'intendimento  di  Platone,  il  rappre- sentante soltanto  del  pitagorismo,  ma  di  tutti  gli  anti- chi filosofi  e  teologi,  che  avevano  attribuito  alla  divinità o  alla  mente  o  ad  un  altro  principio  analogo  la  prima origine  deiruniverso;  e  il  Demiurgo  del  Timeo  noi  cor- risponde solamente  al  dio  creatore  dei  Pitagorici,  ma  a tutto  ciò  che  Platone  trova  nelle  tradizioni  dei  G.eci  e dei  barbari  suscettibile  di  essere  interpretato -secondo  il metodo  arbitrario  d'interpretazione  che  gli  ò  proprio- come  un'allegoria  dell'Idea  del  bene  (1).  È  a  ciò  che  fa  pen- sare Aristotile,  quando  dice  che,  se  si  tien  dietro  al  pen- siero d'Anassagora,  nella  sua  conseguenza  logici,  piut- tosto  che  a  quello  ch'egli  ha  esp:essammte  detto,  si  rie- sce  a  fargli  amm3ttere  per  principii  V  Uno  (corrspon- dente  al  Nous)  e  la  materia  indegnità,  come  i  platonici  (2); quando  assimila  lo  stesso  Anassagora  ed  Empedocle (questi  persihe  ha  posti  l'Amicizia  tra  gli  elementi)  e Ferecide  con  altri  teologi  e  i  Magi  ai  platonici  che  am- mettono  il  Bene  come  princ-pio  (3);  quando  attribuisce non  solo  ad  Anassagora,  ma  ad  Ermotimo,  a  Parmenide ed  Esiodo  (perchè  entrambi  pongono,  egli  dice,  come principio  l'Amore)  e  ad  Empeiocle  di  amin3ttìre  p^r principio  la  causa  del  bene  ed  anche,  in  un  certo  senso. (1)  Si  notino  le  parole  del  Tim9o  dopo  avere  spiegato  il  motivo per  cui  Dio  ha  creato  U  m3ado  (oioj  la  parte sipaziona  della  sua bontà)  :  -  Qaegli  che  da  uomini  sapienti  accetterà  questo  principio potissimo  della  genesi  e  del  mondo,  lo  accatterà  giunta  n  ante. (29  e,  1.  e). (2)  Met.  1.  I.  Vili.  9-11. (3)  Met.  1.  XIV.  IV.  2-4. il  bene  in  se  slesso  (i).  Visto  lo  sforzo  di  Platone  di  ri- trovare i  su'>i  concetti  nelle  tradizioni  dell'antica  sapienza, quenti  ravvlc  namenti  delle  dottrina  dei  suoi  predecessori con  le  sue  proprie  si  troveranno  certamente  più  natu- rali in  lui  che  in  Aristotile.  Il  principio  del  bene  non potendo  e-^sere,  secondo  le  sue  idee  sui  rapporti  della propria  filosofia  col  passata,  affatto  ignorato  dair  anti- chità, egli  ve  lo  trova  involto  in  oscuri  simboli.  Dire  che Dio  o  l'intelligenza  o  qualche  altra  cosa  di  simile  è  il principio  de'le  cose  è,  al  suo  punto  di  vista,  affermare implicitamente  la  d xtriiia  della  finalità;  di  più,  le  co- smogonie degli  antichi  non  fot^uido  essere  intese  lette- ralmente, per  il  loro  carattere  evidentemente  mitico  e per  r  assurdità  di  un'origiu»,  del  mondo  uel  t.unpo,  e quest'origine,  per  consegnenza,  non  potendo  significare che  il  rapporto  logico  tra  i  principii  e  le  cose  derivate, le  cans».  ptTsmali  o  sem-personali,  a  cui  i  Pitagorici  e gli  aliri  antichi  sapienti  hanno  attribuito  la  formazione dell'universo,  non  possono  es-^ere,  egli  pensa,  che  delle personificazioni,  più  o  meno  coscienti,  di  un  principio astratto,  e  questo,  non  altro  che  l'Idea  del  bene. Aggiungiamo  infine  che,  per  la  forma  simbolica  ed exoterica  del  Timeo,  Platone  vuol  mostrare  eh'  egli  si accoria  con  gli  antichi  Pitagorici,  non  meno  per  il  fondo dello  dottrine,  che  per  la  f<)rma  esteriore  della  lo^o  espo- sizione. Il  carattere  estremamente  paradoss  astice  della filosofia  pitagorica,  unito  alle  altre  ragioni  acni  abbiamo accennato  al  principio  di  questo  numero  (2),  hanno  do- vuto far  nascere  bei  presto  l'idea  che  le  dottrine  cono- sciu'^^e  dei  Pitigorlci  noi  eraio  che  dei    sìmboli  di  spe- (1)  Met,  1.  I.  III.  12-IV.  3 . (2)  Carta '. U- ir culazioni  più  alte:  Platone  doveva  farsi  promotore  dì quest'opinione,  s'egli  voleva  giustificare  la  sua  interpre- tazione del  pitagorismo,  tendente  a  indeutificare  questa filosofia  con  la  propria.  Esponendo  le  proprie  teorìe  sotto il  velo  deirallegorìa,  egli  usava  dunque  un  processo,  che faceva  parte  del  concetto  che  si  aveva  e  che  egli  voleva che  si  avesse  del  pitagorismo,  e  si  dava  cosi  anch'esso l'aria  di  un  pitagorico  (1). In  quanto  ai  motivi  dipendenti  dalla  natura  stessa delle  dottrine,  noi  vi  abbiamo  in  parte  accennato,  attri- buendo il  modo  di  esposizione  del  Timeo,  sull'  autorità di  Aristotile  e  dei  suoi  commentatori,  a  un  artifizio  me- todico in  graz'a  dell'insegnamento  (5t5aoxaXCas  xapw)  dcHa teoria  della  finalità.  Ma  qaesto  motivo  cosi  enunciato perde  gran  parte  della  sua  forzi.  Il  vero  si  è  eh*.  Pla- tone nel  Timeo  esprime  la  teoria  della  finalità  antropo- morfisticamente,  p?rchè  Tespressione  naturale  del  punto di  vista  teleologico  è  1'  antropomorfismo.  I  concetti    che (1)  Alla  finzione  del  Timeo,  di  attribuire  le  dottrine  esporle  nel dialogo  a  un  filosofo  pitagorico,  è  legato  anche  l'aspetto  sotto  cui vi  è  presentato  di  preferenza  il  rapporto  tra  le  Idee  e  le  co^a.  Qu  >- st'aspetto  è  l'esemplarità  delle  Idee:  siccome  la  formula  pia  iu  uso presso  i  Pitagorici,  per  indicare  la  relazione  tra  i  numuri  ole  cose, è  che  queste  sono  fatte  ad  imitazione  di  quelli  (v.  Arist.  Met.  1.  I. VI.  2),  e  le  Idee  platoniche    corrispondono    ai  numeri    pitagorici, Platone  deve  rappresentare  le  Idee  sovratutto  come  modelli,    per avere  più  facile  la  transizione  dal  sistema   pitagorico  dei    numari a  quello  delle  Idee.   Egli  ha  tantd    più  interesse   a  mettere  in  ri- lievo questo  carattere    comune  tra  i  numeri   pitagorici    e  le  Idee, cioè  l'esemplarità,  che  dalla  formula  pitagorica   che  le  cose    sono fatte  ad  imitazione  dei  numeri  può  dedursi    il  carattere    precipuo per  cui  i  numeri  di  Platone,  cioè  le  Idee,  si  distinguono  da  quelli del  pitagorismo  storico,  vale  a  dire  la  loro  distinzione  dalle  cose, l'essere  X^p'-oioC  dai  sensibiU. Platone  deve  esporre  sono  tali,  che  è  impossibile  di esprimerli  altrimenti  che  sotto  forma  analogica.  Il  con- cetto teleologico  è  un  concetto  essenzialmente  antropo- morfista,  un'as«imilazione,  più  o  meno  cosciente,  delle operazioni  della  natura  a  quelle  dell'uomo:  spiegare  i fenomeni  per  le  loro  cause  finali  è  necessariamente  at- tribuire alla  natura  un  disegno  e  delle  intenzioni  come all'uomo.  Il  metafisico  teologo,  che  ammette  una  fina- lità trascendente,  trasporta  seriamente  nelle  forze  della natura  questo  disegno  e  queste  intenzioni  :  ma  quando si  ammette  invece  una  finalità  immanente,  cioè  quando la  spiegazione  teleoloj;ica  non  è  al  tempo  stes30  una spiegazione»,  teologica,  noi  abbiamo  allora  un  concetto puramente  analogico,  che  ci  dice  che  la  natura,  quan- tunque non  abb'a  realmente  né  d'segno  né  intenzione, tuttavia  sì  comporta  nelle  sue  operazioni  come  se  avesse un  dis'^gno  e  delle  intenzioni.  Sarebbe  dunque  impossibile di  far  comprendere  il  punto  di  vista  teleologico,  senza  que- st'analogia delle  azioni  a  cui  presiede  un  dise^^no  cosciente: noi  potremmo  anche  dire  che  se  questa  finalità  incosciente o  immanente  dei  metafisici  non  teologi  costituisce  una  spie- gazione delle  cose,  ciò  avviene  appunto  —  spiegare  non essenio  altro  per  la  metafisica  che  assimilare  ai  fenomeni più  familiari— per  q'iesti  vaga  personificazione  delle forze  della  natura  ch'essa  suggerisce  airimmagìnazione, quantunqiie  si  rifiuti  di  ammetterla  apertamente  come tesi  filolofica.  Cosi  sì  avrebb3  forse  ragione  di  doman- darsi se  la  trasformaz'one  fantastica  del  Timeo  dell'Idea del  bjue  in  un  Demiurgo  che  produce  il  bene  con  in- telligenza, sia  S3mplicemente  p3r  Platone  un  artifizio metodico  dovuto  alla  necessità  di  ricorrere  a  delle  ana- logie di  questa  natura  p3r  far  comprendere   il  punto  di —  237  - vista  teleologie ->,  o  se  di  più  Platone,  pur  vedendo  nella personfìcazione  dell'Idea  del  bene  una  semplice  allegoria, si  compiaccia  di  qu*^8to  rivestimento  fantastico  dei  snoi concetti  astratti,  perchè  vi  trova  una  soddisfazione  più completa  a  questo  bis'^gno  dello  spirito,  su  cui  è  fondata la  spiegazione  teleologica,  di  assimilare  le  opere  della natura  alle  azioni  delPao  no.  Non  vi  ha  dubb  o  infatti che  il  punto  di  vista  tele  Jìgico  in  Platone  sia  s!:re^ta- mente  legato  al  punto  di  vista  teologico,  ei  è  verisimile che  la  deduzione  del  Fedone,  in  cui  la  teoria  delle  cause finali  è  presentata  come  una  conseguenza  della  causalità universale  deiriotellìgenza,  rappresenti  il  processo  reale del  punsero  platonico,  che  è  andato,  come  sembra  più naturale,  dal  punto  di  vista  teologico  al  teleologico,  an- ziché da  questo  a  quello. Ma  quando  i  discepoli  di  Platone  dicevano  che  la  ge- nerazione del  mondo  nel  r/meo  era  sta^a  fatta  5i5aaxaXix; Xapiv,  Vf^risimilmente  essi  non  avevano  soltanto  in  vista la  dihicidazione  del  concetto  della  finalità  per  la  pn-so- nificazione  dell'Idea  del  bene.  Per  la  concezione  djlPal- tro  principio,  detcrminato  d'una  manieri  purammte scientifica,  n^n  vi  ha  meno  difficoltà  q,\ì^  p^r  quella  d.5l Bene.  Uno  dei  lati  piìi  n5b  ilo^i  del  oncet'io  deirelemento materiale  è,  com  5  abb'amo  osservato,  ch'esco  è  consi  ie- rato  al  tempo  sesso  come  la  materia  e  come  la  sten»s'. In  quanto  è  la  steresi,  es^o  e  il  contrario  deirelemento formale:  non  è  senza  forma,  ma  ha  la  forma  opp-»s  a; è  Tineguale,  il  disordinato,  il  male,  ec3.  C)m^  ciò  puì essere  la  materia  di  cui  gli  esseri  sono  fatti,  se  per  ma- teria s'intende  quello  che  resta  della  cosa  arrazion  fa- cendo della  forma,  e  non  un  materiale  preesinte  it^  co  n^> quello  di  cui  si  servono  gli  artefici  per  prò  lurre  le  loro opere  ?  Evidentemente,  di  queste  due  maniere  di  rappre- sentarsi la  mat  ria,  è  solo  la  prima  che  Jcorrisponde  al concetto  di  materia,  filosoficamente  determinato;  ma  per far  entrare  in  questo  concetto  anche  la  steresi,  Platone è  obbligato  a  sostituirle  la  seconda,  e  a  rappresentare, per  consegu'^nza,  l'unione  dei  due  elementi  come  un  fatto avvenuto  nel  tempo.  Sembra  che  noa  fosse  solamente nel  Timeo  che  Platone  si  servisse  di  questa  rappresen- tazione. Almeno,  Aristotile  gli  attribuisce  la  proposizione che  il  Due,  il  primo  numero  generato,  viene  dall'Ine- guale eguagliato,  rimproverandogli  che  l'essere  ineguale e  l'essere  eguagliato  sono  dunque  due  stati  successivi  del- l'Ineguale, e  che  per  conseguenza  non  è  semplicemente  co- mmessi dicono,  in  grazia  della  contemplazione  (xoO  Gscrtp^oai Ivsxsv -questa  espressione  corrisponde  evidentemente  al St^aaxaXia;  x^P'-v  del  De  Coelo  1.  I.  X.)  che  i  platonici fanno  la  generazioae  dei  numeri  {Met.  1.  XIV.  IV.  1). Può  arguirsi  da  ciò  che,  anche  nella  generazione  dei numeri,  Piatone  Jrappreseatava  talvolta  1'  anteriorità  e posteriorità  fra  i  principii  e  le  coie  derivate  quasi  come un'anteriorità  e  posteriorità  cronologica.  È  forse  a  tali rappresentazioni  che  allude  la  proposizione,  attribuitagli pire  da  Aristotile  {Met.  1.  XIV.  II.  7),  che  «  bisogna  partire da  un'ipotesi  f^lsa,  come  i  geom3tri  che  suppongono  d'un piede  una  linea  che  realmente  non  è  d'un  piede  »:  questa proposizione,  in  effetto,  si  riferisce  senza  dubbio  a  una certa  rappresentazione  della  materia,  poiché  Aristotile Inda  come  ua'illazioned3l  principio,  ara:Ti3S4o  nel  Sofista, che  la  materia  (il  Non  essere)  è  la  natura  del  falso   (l). (1)  Il  Timeo  non  ò  la  sola  opara  di  Platoaa  in  cai  il  mondo  si faccia  generato.  Nel  mito  del  Politico  si  parla  pure  d'an  demiurgo e  padre  dell'universo  come   nel  Timeo  {Polit.  239  d-270  a,  273  b-d) —  238  — Un'altra  delle  dottrine  legate  al  pitagorismo  plato- nico, indicata  oscurainente  nel  Timeo  ^  ed  espressa  an- ch'essa  sotto  forma    mitica  e  simbolica,  è  quella    della il  mondo  deve  tutti  i  beni  a  qaallo  che  l'ha  formato,  e  tutti  i  mali alla  deformità  anteriore,  o  piuttosto  al  principio  materiale,  ohe  era partecipe  di  mólto  disordine  prima    di  essere   ricondotto   (dal  de- miurgo e  padre  del  mondo)  all'ordine  presente  (i6.  273  b-c — ofr.  an- che la  n.  2  a  carta  231  pag.  I)    La  coincidenza  di  queste  proposizioni coimito  del  Timeo  è  troppo  colpente,  par  non  vadarvi  un'allusione  a questo:  che  il  Politico  sia  degli  ultimi  scritti  di  Platone  ò  provato d'altronde  dalla  sua  posteriorità  al  Sofista,  che  contiene  già  la  dot- trina del  Non  essere.  Ancha  neìV K pino m irle  (se  questo  dialogo    è  di Platone)  il  mondo   è  generato  (v.  978  d,  981  b,  983  b,  984  b-c,  ecc.), ma    il  suo    autore,    coma  abbiamo  già  notato,  è  l'anima  del  mondo stesso,    e    non   un  dio    trascendente     (v.    carta   224).    Nelle  Lefffji, infine,  l'anima  è  la  pia    antica  di   tutte  le    cose  generate  :    essa  è nata  innanzi  a  tutti  i  corpi,  e  le  cose  che  appartengono  all'anima, come  la  preveggenza,  l'intelligenza,  l'arte,  la  volontà,    i  ragiona- menti, le  opinioni  vere,  sono  nate  prima  di   quelle  che   apparten- gono al  corpo,  come  la  lunghezza,  la  larghezza  e  la  profondità,  il molle  e  il  duro,  il  grave  e  il  leggiero,  e  in  una  parolaia  forza  dei corpi,    perchè  l'anima  è  la     causa  prima    di    tutte   le   cose    (892, 896,  966-967,  ecc.).  Siccome   questi   scritti   appartengono   indubbia- mente, come  il  Timeo,   al  pariodo   pitag^raggiaate,    noi    po-isiam) concluderne  che  Platone,  a  quest'epoca,  per  conformarsi  alle  dot- trine pitagoricha— o  piuttosto    a  ciò  che    egli  riteneva    un'espres- sione exoterica  e  allegorica  delle  dottrine  raali  dell'antico  pitago- rismo—rappresentava l'universo  come  originato  nel  tempo,  non  ve- dendo naturalmente  in  quast'origine    nel  tempo   oha  un    semplice simbolo.  'SeìV Epinomide  e  nelle  Lefigi  l'anima  apparisce  come  an- teriore anche  ai  corpi  che,  secondo  la  dottrina  reale  di  Piai ona,  non hanno  avuto  mai  cominciamanto  (il  mondo  come  un  tatto,  la  terra e  gli  astri),  e  come  la  loro  causa  efficiente,  perchè  la  conservazione del  cielo  e  dei  grandi  corpi    che  sono  in   esso,  la  Iopj    persiste  iza nella  forma  attuale  e  il  legame  che  tiene  unite  le  loro  parti,  sono dovuti,  secondo  Platone,  all'anima;   rappresentandosi    cosi  mitica- mente l'azione  continua  di  questa  com3  un  fatto    avv'enito  in  ui punto  del  tempo.  Aristotile  infatti  allude  alla  dottrina  che  il  cielo si  conserva  e  permane  eternamente  per  l'aziona  dell'anima  (quel- formazìone  deiranima.  Neirinterpretaz'cne  di  questa  dot trina,  l'importante  è  per  noi  di  determinare  il  significato delle  entità,  che  miticamente  vengono  rappresentate come  gl'ingredienti  di  cui  il  Demiurgo  compone  l'anima. Ecco  quali  sono  questi  ingredierii:  «  DelTessenza  in- divisibile e  sempre  la  stessa  e  di  quella  che  diviene  di- visibile nei  corpi  compose  (il  Demiurgo)  una  tei  za  specie di  essenza  intermedia,  la  quale,  anche  lispetto  ulla  na- tura dello  stesso  e  a  quella  del  divirsr,  compose  inter- media tra  r  indivisibile  di  essi  e  il  divisibile  per  i  corpi; e  prese  queste  tre  cose  (ciré,  come  rif-ulta  chiaramente da  ciò  che  segue,  lo  Stesso,  il  Diverso  e  l'essenza  int^^r- media,  ccmposta  dall'esFenza  ind. visibile  e  dalla  divisi- bile), le  mescolò  tutte  in  una  sprcie  unica,  adattando per  forza  allo  Stesso  la  natura  del  Diverso  refrattaria alla  mescolanza.  E  avendo  mescolato  ins  eme  con  V  es- senza (cioè,  evidentemente,  Tesseuza  intermecìia),  e  delle tre  cose  fattane  una  sola,  questo  tutto  nuovamente,  divise in  tante  parti  quante  bisognava,  tutte  composte  dello Stesso,  del  Diverso  e  delFessei'za. Le  difficoltà  dell'  interpictazione  di    questo  luogo    si l'anima  a  cui  è  dovuto  il  suo  movimento  —v.  De  Coelo  1.  II.  I.  6); e  noi  non  possiamo  attribuire  questa  dottrina  che  a  Platone,  per- chè egli  solo,  prima  di  Aristotile,  ha  ammesso  un'anima  cosmica, forza  motrice  del  cielo,  e  la  perpetuità  dell'universo.  Ciò  è  confer- mato dal  Timeo  38  e  e  58  a-b.  Nel    primo  di  questi    luoghi  si  dice ohe  i  corpi  degli  astri  vennero  legati   con  legami    animati;  e  nel- l'altro si  parla  d'uno  sforzo  del  contorno  del  mondo  per  congiungersi con  se  stesso,  che  preme  tutti  i  corpi  che  esso  contiene,  e  non  la- scia alcun  vuoto  tra  di  loro  :  evidentemente    Platone   ha  immagi- nato questo  sforzo  per  i«piegare  la  coesione  tra  le  parti  materiali dell'universo,  e,  secondo  i  suoi  principii,  egli  non   ha  potuto  attri- buirlo che  all'azione  dell'anima. (1)  Timeo  35  a-b. 1 V —  239  — m>mmm> 1 J! i   ' i' f- riducono  in  sostanza  a  sapere:  che  cosa  sì  debba  inten- dere per  Vessenza  indivisibile  e  per  lessema  divisibile;  e che  per  la  natura  dello  stesso  e  quella  d»  1  diverso. In    quanto  alla    prima  quist  one,  é  evidente  che  Ves- senza indivisibile  e  sempre  la  stessa  nel  lino-uag^io  pla- tonico è  ridea:  non  lo  ò  mono  che  per  il  hu>    contrap- posto,    r  essenza  divisibile,    deve  intendersi  la  materfa- spazio    (Platone    dice  :  T  essenza    che    diviene    divisibile nei   corpi,    perchè  lo    spazio   per    se    stesso  non  è  fisi- camente   divisibile;    non    lo    diviene  che    in  quanto  co- stituisce la  materia  delle    cose).  Ma    V  Ide^    designata dalle  parole  essenza  indivisibile  e  sempre  la  sfessa,  è  tutto il  mondo  ideale,  o  é  semplicemente  V  Llea  specifica,  la forma  eterna  e   generale,    deiranima?  Se  si  comprende il  senso  della  partecipazione  platonica,  l'anitra  non  po- trebbe partecipare  a  tutte  le  Idee  se  non  aVa  condizione che  essa  fos^e  tutte  le  cos-,  ident  ficand^si  col  tutto.  Ma la  dottrina  che  l'anima  è  identica  al  tutt^  —dottrina   a cui  non  si    potrebbe  dare    altro  seis)    int  lligibile    che quello  di  Hegel  e  dell'  interpretazione  del    Teichmuller, cioè  l'identità  del  soggetto  e  dell'  oggetto,  di    pensiero e  dell'essere -non  si  trova  mai  apertamente  in  Platone: ben  più,  noi  mostreremo  eh'  essa  sarebbe   inconciliabile con  la  sua  dialettica.  Per  V essema  indivisibile  noi  dob- biamo dunque  intendere  l'Idea  o  la  forma  dell'anima;  e  la composizione  dell'anima    dalla  mescolanza  dell'  essenza indivisibile  e    d^^lla  divis  bile  non  rappresenta  se  non  il concetto  che  essa  risulta,  come  tutte  le  altre  cose,   dal- l'Idea o  forma  e  dalla  materia.  Perchè  intendere  infatti il  luogo  in  quistione    in  un  senso    che  attribuirebbe    a Platone  una  dottrina  che  noi  non    sappiamo  se    gli    sia appartenuta,  quando  si  può  indendeila  in  uno  che  non gli  attribuisce  altre  dottrine  se  non  quelle  che  noi  sap- piamo certamente  essergli  appartenute? In  quanto  «Ho  Stf  sso  e  al  Diverso,  noi  abbiamo  visto altrove  i  motivi  che  si  hanno,  indipententemente  dalla intorprrfizione  di  questo  luogo  del  Timeo,  per  ammet- tere che  essi  erano  dei  principii  compresi  nelle  due  odotoi- X£at  di  contrari,  che  Platone  identificava  ai  due  elementi, e  delie  denominaz'oni  di  questi  elementi  stessi,  come l'Uno  e  la  Dualità  indeterminata,  l'Es^^ere  e  il  Non  es- sere, l'Eguale  e  Tlneguale,  ecc.  (1).  Ma  ciò  che  prova d'una  maniera  indubitabile  che  la  cosa  è  cosi,  é  l'au- torità d'Aristotile,  il  quale  afferma  (2)  che  Platone  nel 2'imeo  compose  l'anima  dagli  elementi  (e  per  elementi Aristotile  intende  costantemente  l'Uno  o  E >tsere  e  la  ma- teria) a  fine  di  spiegare  la  conos -enza  conformemente al  principio  dei  fisici  che  il  simile  si  conosce  dal  simile  (3). All'autorità  d'Aristotile  possiamo  aggiungere  anche  quella di  Xenocrate,  il  quale,  secondo  Plurarco,  interpretando la  composizione  dell'anima  nel  Timeo,  vede  negli  ele- menti di  cui  essa  è  stata  composta  i  due  elementi  dei numeri,    cioè    1'  Uno  e    la    Dualità    indeterminata    (4). «  t (1)  V.  Supplem.  1), (1)  V,  questo  Supplem.  carte  170,  176,  179,  182. (2)  De  Anima  I.  I.  II.  7. (3)  V.  per  questa  spiegazione  Tim^  37  a-c,  e  cfr.  44  a-b. (4)  V.  Plutarco  Psicogonia. Secondo  Plutarco,  Xenocrate  ag- giungeva all'Uno  e  alla  Dualità  indeterminata  lo  Stesso  e  il  Diverso come  principii  della  quiete  e  del  movimento:  cosi  egli  avrebbe  ri- guardato lo  Stesso  e  il  Diverso  come  due  altri  principii  dell'anima distinti  dall'Uno  e  dalla  Dualità  indeterminata.  Ma  vi  ha  qui  senza dubbio  un'inesattezza  di  Plutarco  o^dell'autore  secontlo  cai  egli  ri- ferisce l'opinione  di  Xenocrate  (Eudoro),  come  basta  a  provarlo  il fatto  ohe  Platone  e  i  platonici  identificavano,  come  abbiamo  visto -  240  — ì Platone,  chiamaDdo  lo  Stesso  indivisibile  e  il  Diverso divisibile^  non  intende  identificarli  con  V essenza  indivi' sibile  e  l'essenza  divisibile  di  cui  prima  ha  parlato:  egli vuol  dire  che  l'anima  è  per  la  sua  composi/ione  inter- media tra  il  divisibile  e  Tindivisibile,  non  solo  avuto riguardo  ai  fattori  immediati  da  cui  essa  risalta  (l'Idea (v.  questo  Supplem.  carta  176),  la  quiete  e  il  movimento,  e  per  con- seguenza anche  i  loro  principii— il  principio  d'una  casa  essendo  nel sistema  delle  Idee  il  concetto  universale,  obbiettivato,  a  cui  la  cosa è  subordinata  —  ai  due  elementi  delle  Idee  -  numeri  —  Xenocrate, sempre  secondo  Plutarco,  avrebbe  inteso  per  l'essenza  indivisibile rUno  e  per  l'essenza  divisibile  la  Dualità  indeterminata:  con  tutto ciò  la  sua  interpretazione  concorderebbe,  nel  punto  es43nziale,  con la  nostra,  perchè  l'importante  è  di  riconoscere  che  gli  elementi,  di cui  è  composta  l'anima,  non  sono  altra  cosa  che  quelli  di  cui  qual- siasi altro  essere  è  composto.-  Semplicemente,  mentre  secondo  la nostra  interpretazione  Platone  avrebbe  considerato  nell'anima,  come in  tutti  gli  altri  esseri,  una  doppia  composizione,  quella  dall'  Uno e  la  Dualità  indeterminata,  e  quella  dall'Idea  e  la  materia,  secondo l'interpretazione  ohe  Plutarco  attribuisce  a  Xenocrate,  egli  non ne  avrebbe  considerato  che  una  sola,  la  prim-i. Plutarco  riferisce  anche,  secondo  Euforo,  un'altra  interpreta- zione, che  rimonterebbe  a  Crantore.  Secondo  questa,  Platone  ha composto  l'anima  dalla  natura  intelligibile,  dalla  materia,  e  dal- l'identità e  la  diversità,  di  cui  tutte  le  cose  partecipano;  e  ciò,  con- formemente a  quello  che  dice  Aristotile  (v.  I)j  unA.  I.  II.  7  e  1. 1. V.  5  sqq.),  perchè  l'anima,  par  poter  conosoare  tutto,  deve  essere composta  di  tutte  cose.  In  questa  interpretazione  la  natura  intel- ligibile non  è,  come  in  quella  di  alcuni  critici  moderni,  tutto  il mondo  ideale,  ma  la  sola  Idea  o  forma  de  1'  anima  :  è  cosi  che  la comprende  certamente  Plutarco,  perchè  egli  dice  che  questa  in- terpretazione si  riduce  a  comporre  l'anima,  come  tutte  le  altre  cose, dalla  specie  o  forma  e  la  materia  (v.  Psicog.  III).  L' interpreta- zione di  Crantor#  è  identica  in  sostanza  alla  nostra,  parche  per  la Identità  e  la  Diversità  s'intendano  i  due  elomenti  delle  Idea  e  delle cose,  ciò  che  è  necessario  di  fare,  perchè  le  interpretazioni  di  Xe- pocrate  e  di  Aristotile  dovevano  pare  avere  qualche  fondamento. "  r e  la  materia';,  ma  anche  ai  fattori  più  remoti  (i  due  ele- menti). L'uno  dei  due  elementi  è  chiamato  indivisibile, perchè  è  l'Unità;  l'altro,  divisibile  per  i  corpi,  perchè uoa  delle  sue  funzioni  è  di  essere  la  materia  dell'i  cose —  quantunque  questa  denominazione  gli  convenga  sotto questo  rispetto  soltanto,  e  non  sotto  l'altro,  cioè  come materia  delle  Idee  —  E  ioutilc  di  discutere  l'opinione  di quei  critici  che  per  lo  Stesso  e  il  Diverso  intendono  le Idee  e  la  materia:  contro  di  essa  vale,  oltre  a  ciò  che  è stato  detto  ora,  quello  che  si  disse  sopra  a  proposito  dell'in- terpretazione dell'essenza  indivisibi'c  e  l'essenza  divisibile . Contro  questi'  interpretazione  dell'essenza  indivisibile e  l'essenza  divisibile  (cioè  quella  che  vede  nell'una  il mondo  ideale  e  nell'altra  la  materia)  ora  possiamo  ag- giungere che,  se  l'anima  venisse  composta  di  tutte  le Idee,  sarebbe  superfluo,  per  ispiegaro  la  conoscenza,  di comporla  anche  dei  due  elementi. Componendo  l'anima  dello  Stesso  e  del  Diverso  e della  terza  essenza  intermedia,  ch'egli  ha  già  composto dell'Idra  e  della  materia,  Platone  sembra  riguardare quest'essenza  come  distinta  dall'essmza  dell'anima,  e come  un  semplice  ingrcdicnt';  nella  composizione  di  essa, e  lo  Stesso  e  il  Diverso  come  degli  clementi  estranei all'essenza  intermedia,  che  bisogna  aggiungere  a  questa per  avere  l'essenza  dell'anima.  Ma  in  realtà  l'essenza  in- termedia, composta  dalla  indivisibile  e  dalla  divisibile, non  è  altra  cosa  che  l'essenza  stessa  dell'anima  —  ed  è perciò  che  Platone  la  ch'ama  semplicemente  Vessenza^,  e lo  Stesso  e  il  Diverso  non  sono  fuori  dell'essenza  inter- media, mane  sono  gli  elementi.  Semplicemente  la  forma sim))olica  scelta  da  Platone  (di  una  mescolanza  in  una caldaia;  non  può  rappresentare  d'una  maniera  adequata il  concetto  della  partecipazione.  Lo  Stesso  e  il  Divèrso, —  241  - i I cioè  le  due  Idee  più  uaiverjali  a  cui  tutte  le  altre  par- tecipano, sono  le  determinazioni  generali  che  1  'anima ha  in  comune  con  tutti  gli  altri  esseri:  a  queste  deter- minazioni comuni  bisogna  aggiungere  il  proprio,  il  dit- ferenziale,  dell'anima,  che  ne  fa  un'essenza  particolare distinta  dalle  altre.  Ma  questo  proprio,  questo  differen- ziale, non  può  considerarsi  come  separato  dall  'essenza deiranima  ed  esistente  per  se  senza  le  determinazioni comuni  che  esso  d'ffcr'^nzia,  perchè  nel  sistema  delle  Id^^e ciò  che  si  separa,  facendosene  un'entità  per  se,  è  la  spe- cie e  il  genere,  ma  non  la  difft^renza:  ne  segue  che  Pla- tone non  può  rappresentare  la  partecipazione  dell'anima agli  Universali  supremi  che  per  l'immagine  della  loro mescolanza  con  es«a.  Anche  nel  Sofista  la  partecipa- zione d'un'Idea  alle  altre  sotto  cui  essa  è  contenuta  è  chia- mata una  mescolanza  (di  quest'Idea  con  (juestc  altre)  (1). Platone  dà  all'essenza  dell'anima  un  posto  intermedio fra  i  suoi  ingredienti,  perchè  egli  assegna  alle  cose  una natura  intermedia  tra  le  entità  da  cui  esse  risultano  (2): ma  evidentemente  con  ciò  egli  intende  indicare  inoltre che,  in  virtù  della  sua  stessa  composizione,  .ranima  ha un  carattere  medio  tra  l'indivisibile  e  il  divisibile:  non è  assolutamente  indivisibile  com-;  l'Idea  e  l'Uno,  perchè estesa  e  quindi  composta  di  parti,  ni  assolutamente  divi- sibile come  la  materia,  perchè  indis.solubile  e  incorruttibile. Alla  nostra  interpretazione  della  comprsizione  del- l'anima nel  Timeo  può  farsi  l'obbiezione  che  Plutarco  (3j fa  a  quella  di  Crantore,  cioè  che  l'anima  esseado  com- posta allo  stesso  modo  che  tutte  lo  altre    cose,    non    si li)  V,  Sof.  251  il,  2r>2  h,  «,  'i-KJ  h,  e,  254  .1,  v,  2:^5  I.,  2r,V»a,  200a,  «ce. (2)  V^  il   Timeo  Atesso  50  d. (3)  Psiojii,     111. Vede  come  questa  composizione  convenga  ad  essa  più che  alle  altre.  La  risposta  è  che,  esponendo!  particolar- mente la  composizione  dell'anima,  Platone  non  ha  per iscopo  d' indicare  ch'essa  ha  un'  origine  e  dei  principii speciali:  il  suo  scopo  è  invece,  primo,  come  osserva  Ari- stotile, di  fare  un'applicazione  dal  principio  che  il  simile si  conosce  dal  simile;  e  poi,  siccome  le  rappresentazioni ordinarie  del  Zim^o,  intese  letteralmenle,  implicherebbero la  trascendenza,  di  contrapporre  ad  esse  un'  altra  rap- preseutazione,  in  cui  il  concetto  dell'immanenza  sia  ener- gicamente espresso,  qual  è  quella  della  mescolanza. B.  IL  pitagorismo  nel  Filebo,  Il  pitagorismo  del  Ih- lébo  consiste  in  sostanza  nella  dottrina  sul  limite  (itépag) e  l'illimitato  (àTisipov).  (1).  In  questo  dialogo  Piatone  di- vide tutto  ciò  che  esiste  in  tre  generi:  il  limite  o  limi- tato (2),  r  illimitato  e  il  composto  dell'  uno  e  dell'altro. Il  genere  dell'  illimitato  comprende  tutte  le  qualità  che (1)  Piatone  noa  prende  solamsnle  dai  Pitagorici  la  formula  che le  cose  sono  composte  di  limite  e  d'illimitato,  ma  anche  quella  eh 3 esse  constano  di  uno  e  di  molti  (v.  FU,  16  e  e  sqq.,  e  cfr.iSupplemento B,  V,  4.).  Ma  qui  il  pitap^orismo  di  Platone  è  rolla  forma  anziché nella  sostanza:  egli  non  vuol  dire,  com3  i  Pitagorici  e  come  egli stesso  in  un  parici^  ulteriore  dilla  sua  speculazione,  che  l'unità e  la  pluralitìi  sono  degli  elementi  di  cai  l3  cotì3  sono  composte, ma  che  tutto  è  al  tempo  stesso  uno  e  malti,  cioè  che  ciascuna Idea  generale  contiene  una  moltiplicità  d'Idee  particolari.  Con questa  formula  dunque  egli  non  innova  niente  nelle  sue  dottriije primitive;  semplicemente  le  esprime  in  una  forma  che  dà  ad  esse un  sembiante  di  affinità  con  quelle  d'di  Pitagorici— Un'altra  evidente aflfettazione  di  pitagorismo  vi  ha  nel  FUfho,  quando  il  metodo dialettico,  cioè  la  divisione  per  goniri  e  p3r  ispecie,  è  presentato come  una  ricerca  di  numeri  (v.  IH  d,  H  e,  e,  J8  a— b,  e,  li>  a):  an- che qui  il  pitagorismo  è  puramente  verbale,  e  non  importa  alcun avvicinamento  reale  alle  dottrine  dei  Pitagorici, (2)  Cfr.  la  nota  a  carta  i»7. —  24;j  - oaos  suscettibili  di  una  variabilità  all'infinito,  tan^.o  nel- r  aumento  quanto  nella  diminuz-one  :  tali  sono   il  caldo e  il  freddo,  il  forte  e  il  piano,  il  secco  e  rumido,  il  ve- loce e  il  tardo,  il    molto  e  il  poco,    il  grande  e   il  pic- colo, ecc.  Siccome  queste  qualità  non  vengono  attribuite che  in  un  senso  comparativo  —  chiamando  un  corpo  caldo o    freddo,    noi    vogliamo    diic   che    esso   è    più    caldo o  più  freddo    di  altri  corpi  ;    eh  amando  un    movimento veloce   o    tardo,    che   esso  è  più  veloce   o  più   tardo  di altri  moviment';  ecc.  —  così  Platone  si  serve,  per  deno- tare  queste  qualità,  di  termini  comparativi  :  più  caldo  e più  freddo,  più  veloce  e  più  tardo,    ma:  gioie  e  minor  % più  o  meno  numeroso,  ecc.,   e  dà    come    carattere    ge- nerale dell'illimitato  l'ammettere  il  più  e  il   meno.  Dalla natura  comparativa  dello  qualità  del    genero  deirillimi- tato    segue   che    esse  si    esprimono  per    una  coppia    di termini  oppost»,  uno  positivo,  che  indica  il  comparativo di  maggioranza,  e  uno  negativo,  che  indica  il  compa- rativo di  minoranza  :  il  termine  caldo,    attribuito   a  un corpo,    significa   che    esso   è    più    ca^do  di   altri    corpi, che  in  relazione  ad  esso  si  chiamano  freddi;  il    termine velocp,  attribuito  a  un  movimento,  significa  che  esso    è più  veloce  di  altri  movimenti,  c\v\  in  relazione  ad    cs-^o si  chiamano  tardi;  ecc.  Verisimilmente  (luesto    concetto, che  gli  attributi,  appartenenti  alla  classe  deirillimitato. da  cui  risultano  gli  e^^seri,  racchiudono  in  sé  una    dua- lità di  ternoioi  contrari,  è  anche  un'imitazione  della  dot- trina pitagorica  che  tutto  consta  di  contrarietà.  Al    ire- nere  del  limite  appartengono  i  rappoiti  numeiici   o,  più generalmente,  metrici:  l'eguale,  il  doppio,  il  triplo,  ecc. Dall'applicazione  dei  rapporti  numerici  o    metrici,    cioè del  limite,    alle    qualità   dell'  illimitato    nasco   il    terzo genere  {}{  composto  del    limite    e    deirillimitato  ):  p.  e. certi  rapporti  metric',  applicati  al  cahifo  o  al  freddo,  da- ranno luogo  alla  temperatura  particolare  delle  varie  di- visioni del  tempo;  altri  rapporti  metrici,  applicati  all'acuto e  al  grave,  daranno  luogo  agli  accordi  musicali;  ecc. Questa  temperatura  e  questi  accordi  appartengono,  per conseguenza,  al  terzo  genere    1). Il  pensiero  di  Platone  è  evidentemento  che  nelle  cose, o,  più  propriamente,  nei  loro  attributi,  bisogna  distin- guere due  elementi  — due  elementi  concettuali,  ma  che, secondo  le  abitudini  della  speculazione  platonica,  ven- gono elevati  ad  entità  sussistenti  p^r  sé—:  una  qualità astratta,  il  cui  concetto  ^i  ottiene  per  la  soppressione  di qualsiasi  grado  determinato,  e  che  è  suscettibile  di  ri- cevere un'  infinita  varietà  di  gradi,  che  crescono  e  de- crescono sino  all'infinito;  e  il  grado  che  questa  qualità ricevo  in  un  caso  determinato,  e  la  cui  espressione  e,  per conseguenza,  il  cui  concetto,  sono  dati  da  un  rapporto metrico  (cioè  riferendosi  a  una  certa  unità  di  misura).  Sic- come non  è  possibile  di  deterniinare  il  grado  cho  per mezzo  del  rapporto  metrico,  cosi  questo  secondo  elemento^ genericamente  considerato,  si  riduc*^  a  una  relazióne  fra quantità:  l'eguale,  il  doppio,  ecc.,  e  in  una  parola,  come dice  Platone,  tutto  ciò  che  è  numero  rapporto  a  numero e  misura  rapporto  a  mfsura  (vale  a  dire  ogni  rapporto di  un  numero  con  un  altro  numero  e  di  una  misura  con un'  altra  misura).  Certamente  le  qualità  che  Platone comprende  nel  genere  dell'illimitato,  non  assumono  mai, nella  realtà,  che  un  grado  finito  ;  e,  considerate  in  se stesse,  non  bisogna  concepirle  come  elevate  a  un  grado infinito— ciò  che  non  potrebbe  accordarsi  con  la  loro  fun- zione di  elementi  delle  co.-e  reali,  e  che  per  altro  sarebln* (i)  V.  ft/,  2$  e— 20  a,  luogo  c-ilalo  a  cario  97-1)8.  u !! una  contraddizione  nei  termini—nè  come  il  complesso  di tutti  i  gradi  finiti,  crescenti  e  decrescenti  all'infinito,  con cui  esse  si  trovano  negli  oggetti  particolari;  ma  devono pensarsi  facendo  astrazione  da  qualsiasi  grado  e  misura determinati,  perchè  il  grado  e  la  misura  è  un  alti-o elemento  che  si  aggiunge  ad  esse  per  formare  gli  attri- buti particolari  delle  cose,  e  d\altronde  un'entit/i  platonica non  é  il  complesso  degli  attributi  omonimi  degli  oggetti particolari,  ma  l'attributo  in  se  stesso,  cioè  nel  suo  concetto astratto  e  generale.  Tuttavia  queste  qualità  vengono  ri- condotte  air  illimitato,  perchè  non  vi  ha  alcun  limite neiraumento  e  ntUa  diminuzione  dei  gradi  di  cui  sono suscettibili  :  è  un'osservazione  analoga  a  quella  che  ab- biamo fatta  sul  Grande  e  Piccolo  e  il  Molto  e  Poco  de- gli  ìyP*"?*  8ÓY|Aa'ca. Per  completare  il  concetlo  àA  limite,  dobbiamo  ae:- giringere  che,  applicandosi  alle  qualità  della  categoria dell'inimitato,  esso  non  dà  a  queste  semplicemente  un grado  e  una  misura,  ma  un  grado  e  una  misura  con- venienti:  in  efl^etto  la  misura,  nel  Filebo{l),  è  uno  degli aspetti  in  cui  si  mostra  l'Idea  del  bene.  I  rapporti  nu- merici, che  costituiscono  il  limite,  non  fissano  solamente il  grado,  in  cui  gli  attributi  del  genere  dcU'  illimitato, considerati  d^  una  maniera  assoluta,  devono  attuarsi nelle  cose  particolari;  ma  determinano  anche  le  rela- zioni quantitative  tra  gli  e'ementi  di  cui  queste  sono composte,  introducendovi  della  proporzione  e  dcirarmo- nia.  In  questo  senso,  essi  si  applicano  specialmente  ai termini  opposti  deiriUimitato,  l'uno  relativamente  all'al- tro :  perciò  si  dice  che  il  limite  fa  cessare  la  discensione tra  i  due  contrari,  e  li  rende  proporzionati   e  accordati (o!Ì[i(^(t)va)  per  mezzo  dei  numero  (25  e).  Cosi  tutto  ciò che  vi  ha  di  bello  nella  natura— e  per  conseguenza  tutti gli  esseri  conformi  al  loro  tipo,  perchè  il  buono  e  il  bello 1%  per  Platone,  la  forma  delle  forme— risultano  da  una contemperazione  armonica  di  contrari  :  p.  e.  le  divisioni dell'  anno  da  quella  del  caldo  e  del  freldo  ;  1'  armonia musicale  da  quella  delT  acuto  e  del  grave;  ecc.  (26  aj. Questo  concetto  non  è  forse  senza  legame  con  la  dottrina pitagorica  che  tutto  r  annonìa. Ai  tre  «generi  di  cui  abbiamo  parlato  sin  qui  Platone ne  aggiunge  un  quarto:  è  la  causa  elìiciente-degli  altri e  della  mescolanza  del  lìmite  e  dell'  illimitato.  Questo quarto  geu'ìre  è  costituiti,  come  dimostreremo  in  seguito, dall'intelligenza  e  dall'  anima.  Platone  comincia  per  divi- dere tutti  gli  esseri  che  Fono  nell' universo  in  tre  generi, benché  poi  parli  anche  di  un  quaito,  perchè  questo  rientra in  uno  dei  tre  primi:  in  effetto  l'anima  e  l'intelligenza  de- vono essere  composte,  come  tutte  le  altre  cose,  di  limite e  di  illimitato. La  difiicoltà  dell'  interpretazione  dì  questa  dottrina del  Flkho  è  che  il  limite  e  l'illimitato,  di  cui  è  quistione in  questo  dialogo,  non  potrebbero  identificarsi  con  nes- suno dei  concetti  della  filosofia  platonica,  sia  tra  quelli che  troviamo  negli  altri  scrìtti  di  Platone,  sia  tra  quelli che  conosciamo  per  l'esposizione  d'Aristotile.  Molti  in- terpreti, è  vero,  identificano  l'illimitato  con  la  materia; in  quanto  al  lìmite,  alcuni  vedono  in  esào  le  Idee,  altri le  entità  matematiche  o  intermediarie.  Ma  tutte  queste opinioni  presentino  delle  impossibilità  evidenti,  che  noi indicheremo,  corninriando  dairillìmitato. L'illimitato  del  Jùlebo  ha  senza  dubbio  una  grande analogia  con  la  materia  degli  àypacpa  SóYiJtaia  :  «anche questa  è  chiamata  TaTis'.pov;  inoltre  essa  è  ricondotta  al (1)  V.  64  c-65  a. -  244  — I e f .-A i   f ( grande  e  piccolo,  e  IMlimitato  del  Filebo  è  definito  «  la natura  che  riceve  il  più  e  il  meno».  Ma  a  lato  a  <iaestc somiglianze    vi  ha  una  differenza  important'^   ed  essen- ziale: il  Grande    e  Piccolo  degli    ótypac^a  Òó^iiolzol    è  un concetto  semplice,  un'entità  unica;  rillimitato  del  Filebo è  un'unità  articolata,  cioè  in  esso  sotto  Tunità  generica (il  più  e  il  meno)  è  compresa  una  moltitudine  di  specie  (il più  caldo  e  il  più  freddo,  il  più  veloce  e  il  più  tardo,  il più  acuto  e  il  più  grave,  ecc.).  Ciò  che    corrisponde  al Grande  e  Piccolo  è   il  concetto    generico  dclP  illimitato (del  Filebo)  :  ma   quello  non  si  divide,  come  questo,  In più  specie  particolari;  dalla  determinazione  o  concretiz- zazione del  Grando  o  Piccolo  risultano  immediatamente le  Idee,  cioè  le  essenze  (sreneriche  e  specifiche)  delle  cose, non  delle  specie  particolari  di  grande  e  piccolo.  Al  Grande e  Piccolo,  6    vero,  è  anche    ricondotta  ima   pluralità  di concetti    distinti,  cia<^cuno    dei  quali   si  considera  come un'entità  per  se,  cioè  l'una  dcUe    due  a'iaTotyjai  di  con- trarli:   ma   questi   concetti    sono,  per    quanto  poFs'amo giudicarne,  affatto  diversi  da  quelli  che  costituiscono  le specie  deirillimitato  nel  Filebo  ;  ben  più,  il  carattere  delle due  dottrine    differisce  nei  punti  più   essenziali.  Primo, i  concetti  delle  due  ouoxoix^ai  di  contrari  sono  dei  prin- cipii,  cioè  non   sono  subordinati    ad   alcun  concetto  su- periore; le  specie  deirillimitato  nel  Filebo,  invece,  sono necessariamente  delle  cose  derivate  (dall'illimitato  in  sé stesso,  cioè  nel  suo  cmeetto  generico),  il  rapporto  tra  il principio  e  la  cosa  derivata  equivalendo,  nella  dialettica platonica,  a  quello  tra  il    genorale  e  Jl    particolare.   Se- condo, quelli  (il  Non  essere,  il  Diverso,  il  Multiplo,  ecc.) sono  tutti   di  una    universalità    assoluta  ;  queste  (il  più caldo  e  il  più  freddo,  il  più  secco  e  il  più  umido,  il  più acuto  e  il  più  grave,  ecc.)  non  valgono  ciascuna  che  per una  categoria  particolare  di  fenòmeni.  In  quelli,  infine, un  concetto  della  classe  dell'illimitato  ha  il  suo  contra- r'o  nel  concetto  corrispondente  di  quella  del  limitato;  le spese  dell'illimitato  del  /«/cfto  racchiudono  invece  la  con- trarietà in  se  stesse,  esprimendosi  ciascuna  per  una  cop- pia di  termini  opposti. Passando  ora  al  limite,  ecco  le  difficoltà  principali che  si  oppongono  alla  sua  identificazione  con  le  Idee: 1®  Il  mondo  ideale  è  Tinsieme  di  tutti  i  concetti  delle cose,  obbiettivati;  il  limito  del  7'7/c 60  non  comprende  che una  certa  classe  di  df'terminazioni  matematiche.  Tuttavia, ^iccome  le  Idre,  rell'uliimo  periodo  della  sppculazionc platonica,  Fono  stute  ricondotte  a  dei  numeri,  si  è  cre- duto che  il  I  mite  del  Filebo  equivalga  a  questi  numeri, eoe  agl'idea' i.  Ma  Platone  non  ha  ricondotto  le  Idee  a dei  rapporti  numerici,  quali  sono  quelli  che  nel  Filebo vengono  chiamati  lìmite,  ma  semplicemente  a  dei  numeri: anche  il  limite  del  File\o  consiste,  se  si  vuole,  in  numeri, ma  questi  numeri  sono  proporzionali^  non  cardinali  come i  numeri  ideali.  Come  dice  Aristotile  {Mei.  1.  I.  V.  14), da  ciò  che  la  dualità  è  la  prima  cosa  a  cui  può  attribuirsi il  doppio,  non  no  segue  che  il  doppio  hia  la  stessa  cosa che  la  dualità.  Lungi  che  le  Idee— numeri  possano  equi- valere a  dei  relativi,  come  quelli  che  costitni-jc^no  il lin.ite  del  Filebo,  Platone  anzi,  nell'ultitno  perodod-lla sua  speculazinn<*,  escludeva  i  relativi  dal  mondo  dello Idee  (1),  e  quandi  anche  i  concetti  d  1  limite  del  Filebo, 2^  Le  idee  Fono  le  essenze  delle  cose:  ma  l'essenza d'una  cesa  evidentemente  non  è  esaurita  dai  rapporti numerici,  che  corrono  tra  gli  elementi  di    cui    questa  è (1)  V.  Arist.  Met,  l.  I.  IX.  3,  e  cfr.  cap.  VII.  nota  4  a  pag.  227. —  245  — composta.  Non  lo  t>  nlmeno,  sé  quésti  rapporti  si  con- siderano d'  una  maniera  astratta,  come  vengono  consi- derati nel  Fdebo  :  per  avere  Tessenza  della  cosa,  si  do- vrebbero fare  entrare  nel  concetto  del  rapporto  numerico gli  elementi  stessi,  i  sustrati,  tra  cui  esso  sussiste.  Per esempio,  se  Tarmonia  è  un  rapporto  numerico  tra  i  suoni, l'essenza  dell'armonia  sarà  i  suoni  con  questo  rapporto numerico,  non  il  solo  rapporto  numerico  astratto.  Pla- tone, è  vero,  ncH'ultima  forma  della  sua  filosofìa,  toglie dairidea  o  essenza  la  materia,  e  la  riduce  alla  sola  for ma:  ma  questa  materia  non  ò  che  lo  s]>azìo,  o  Testen- sione.  Ora  l'illimitato  del  Mlebo  comprende  assai  più determinazioni  che  la  semplice  estensione  :  esso  ne  com- prende anche  assai  più  che  la  materia  nel  senso  più  lato, cioè  quale  uno  dei  due  elementi  delle  Idee  e  delle  cose. 3<»  Il  limite  e  Tillimitato,  nel  Filebo,  sono  dati,  non solo  come  elementi  delle  cose,  ma  anche  come  elementi delle  Idee  (1).  Come  potrebbe  dunque  il  limite  identifi- carsi con  le  Idee,  di  cui  non  è  che  un  elemento?      ' 40  Nel  Filebo,  Tillimitato  (òcTisipov)  non  fa  parte  del  li- mite, gli  è  anzi  opposto  come  un  altro  elemento  degli esseri.  Dunque  il  limite  non  può  equivalere  alle  Idee, perchè  queste,  secondo  l'esposizione  aristotelica,  con- stano anche  dall' ótTieipov. Siccome  il  limite  del  Pllébo  consiste  io  determinazioni matematiche,  la  sua  identificazione  con  le  entità  mate- matiche ha  più  plausibilità;  ma  anch'essa  incontra  dello difficoltà  insuperabili  : 1^  Anche  contro  di  essa  vale  la  prima  obbiezione  che abbiamo  fatto  alla   identificazione  con    le  Idee  ;  vale  a dire  che  i  concetti  del  \Fi7e6o  sono  dei  rapporti  numerici, mentre  i  numeri  matematici  (che  sono  le  sole  entità  ma- tematiche a  cui  questi  concetti  possono  assimilarsi)  sono dei  numeri  nel  senso  stretto,  cioè  cardinali. 2«  I  numeri  matematici  non  sono  che  i  nostri  con- cetti dei  numeri,  sostantificati,  cioè  questi  attributi  co-  ' ninni  delltì  diversa  collezioni  di  oggetti,  che  noi  chia- miamo numeri,  considerat',  nella  loro  astrattezza,  come s'i<»s'stonti  per  se  stessi.  Il  valore  di  questi  numeri  è,  in un  certo  senso,  assoluto,  vale  a  dire,  lo  stesso  numero ])uò  valere,  qualunque  sìa  la  natura  degli  oorgetti  nu- merabili: non  vi  ha  dunque  per  ciascuno  di  c^si  qualche cosa  che  sìa  il  suo  correlativo  necessario,  come  per  i rapporti  numerici  e  metrici  che  costituiscono  il  limite del  Fdebo.  Ciascuno  di  questi  ha  un  valore  relativo  a una  specie  determinata  dell'  illimitato,  che  è  quindi  il suo  contrapposto  e  il  suo  complemento  necessario.  Se tale  rapporto  numerico  vale,  per  esempio,  per  rarmonìa, ed  ha  perciò  come  relativo  il  grave  e  1*  acuto,  per  le stagioni  varrA,  non  lo  stesso  rapporto,  ma  un  altro, che^avrà  p^r  corrMatìvo  il  caldo  e  il  freddo.  In  una  pa- rola il  limite  e  l'illimitato/ e  le  specie  detcrminate  dcl- runo  e  dell'altro/ sono  dei  concetti  che  si  suppongono recìprocamente.  Se  i  numeri-  matematici  fo«s-ro,  non semplicemente,  come  noi  ammettiamo,  i  nosfi  roncpfì dei  numeri  sostantificati,  ma  le  leggi  del  mondo  feno- menico e  le  Idee  nel  loro  rapporto  con  la  materia,  se- condo un'interpretazione  che  noi  abbiamo  già  discussa  (1), anch'essi  supporrebbero,  è  vero,  un  opposto  come  cor- relativo necessario:  quest'opposto  sarebbe  la  materia, perche  essi  non  potrebbero  rappresentare,  come  le  Idee 0)  V.  Itf  e  e  23  e.  Cfr.  Supplem.  15,  Vili,  nota  tinaie  (carta  100). (1)  V.  questo  Supp.  n.  III. A    ' \ Stesse,  che  la  semplice  foi-ma.  Ma  allora,  perchè  il  limite del  FiUho  corrispondesse  ai  numeri  matematici,  Tillimi- tato  dovrebbe  corrispondere  al  semplice  spazio,  poiché  le entità  intermediarie,  essendo  posteriori  alle  Idee  (supposto, come  vu'^le  quest'interpretazione,  ch'esse  tramezzassero tra  la  totalità  del  mondo  ideale  e  la  totalità  del  mondo reale)  non  potrebbero  essere  meno  comprensive  (Ji  queste. 3^  Il  limite,  nel  Filébo,  è,  come  abbiamo  detto,  un elemento  delle  Idee.  Ma  le  entità  matematiche  non  ci sono  mai  date  per  elementi  delle  Idee:  ciò  sarebbe  anzi in  antitesi  colla  loro  qualità  di  eatità  intermediarie  tra le  Idee  e  le  cose.  L'elemento  infatti  è  anteriore  alla  cosa di  cui  è  elemento,  mentre  le  entità  intermediarie  sono invece  posteriori  alle  Idee. 4»  Perchè  Platone  potesse  riguardare  le  entità  mate- matiche come  uno  dei  quattro  generi  in  cui  vengono divisi  tutti  gli  esseri,  e?se  dovrebbero  costituire  per  lui una  classe  di  entità  distinta  dagli  altri  concetti  obbiet- tivati,  in  altri  termini,  egli  dovrebbe  ammettere  già  la distinzione  tra  le  Ide«  e  le  entità  matematiche.  Ma  quando scriveva  il  Fileòo,  Platone  non  conosceva  ancora  questa distinzione:  in  questo  dialogo  in  effetti  (l)  tutti  i  con- cetti obbiettivati  in  generale  sono  chiamati  Idee  e  riguar- dati come  oggetti  della  dialettica  (mentre  dopo  la  distin- zione tra  entità  matematiche  e  Idee,  il  metodo  dialet- tico non  si  applica  che  a  queste,  perchè  dei  numeri  e delle  figure  vengono  realizzati  i  concetti  specifici  soltanto e  non  i  genenci— v.  questo  Supplem.  Ili  carte  197-198)  (2). (1)  V.  14  C-i 9  b,  e  cfr.  questo  Supplem.,  Ili,  carta  210. (2)  Che  nel  Fiìeho  anche  i  concetti  matematici  siano  oom- presi  nella  sfera  della  dialettica,  si  vede  pure  da  58  a,  in  cui dopo  aver  distinto  le  matematiche  dallo  altre  arti  e   1'  aritmetica Di  più,  li  distinzione  delle  entità  matematiche  dalle  Idee Importa  il  posto,  assegnato  a  quelle,  di  intermediarie  tra qucHte  e  le  cose,  ciò  che  suppone  la  dottrina  dei  numeri ideali  (1):  ma  Platone,  nel  Filebo,  parla  come  se  egli  non conoscesse  ancora  questa  dottrina  (2)  Delle  entità  inter- mediarie,  inoltre,  ve  ne  sono  molte  della  stessa  specie: VI  ha  una  specie,  cioè  un'Idea,  unica  della  diade,  della triade,  ecc.,  ma  molte  diadi,  triadi,  ecc.  matematiche. Ma,  nel  FtYeòo,  ciascuno  dei  concetti  compreM  nella  cate- goria del  limite,  cioè  1'  eguale,  il  doppia,  ecc.,  è  eviden- temente riguardato  come  un'entità  unica,  perche  Platone dà  questi  concetti  come  i  molti  in  cui  si  divide  il  Li. mite  (dopo  aver  detto  che  mostrerà  come  tanto  il  limite quanto  r  illimitato  sono  al  tempo  stesso  uno  e  molti  — cfp.  Supplem.  B.  n.  VII!  sulla  fine)  (3).  Aggiungiamo infine  che  nei  concetti  del  limite  del  Filebo  la  moltiplicifà viene  ricondotta  ad  una  unità  supcriore,  ciò  che,  come abbiamo  osservato,  non  avviene  nei  numeri  matematici. e  la  geometria  dei  filosofi  da  quelle  del  volgare,  dice  che  la  dialet- tica è  la  scienza  che  conosce  tutte  le  scienze  di  cui  ha  parlato. La  dialettica  per  Platone  comprende  in  un  certo  senso  tutte  le  altre scienze,  perchè  ogni  scienza  è  virtualmente  compresa  nella  cono- scenza delle  essenz3  delle  cose,  che  è  l'  oggetto  della  dialettica. (1)  V.  questo  Supplem.  u.  III. (2)  V.  questo  Supplem.  n.  I  carte  168-164. (3)  FiO  specie  si  del  limile  che  dell'  illimitato  sono  insomma dello  Idee,  benché  IMatone,  quando  dice  che  le  cose  che  si  dicono essere  eternamonie  (cioè  le  Idee)  constano  di  limite  o  d'illimitato, non  riguardi  propriamente  come  Idee  che  i  concetti  del  terzo  ge- nere, vale  a  dire  di  quello  che  risulta  dalla  mescolanza  del  limite con  l'  illimitato.  Ciò  è  perchè  lo  scopo  della  dottrina  del  Filebo è  di  comporre  gli  esseri  di  questi  duo  elementi,  ad  imitazione  dei Pitagorici,  e  perciò  l'iatone  non  può  riguardare  propriamente  come esseri  che  i  Composti,  e  non  gli  elomenti  stessi. -247 5^  Se  Platone  coutnsse  tra  i  Inttori  del  reale  Io  en- tità matcraaticho,  sarebbe  inesplicabile  com'egli  passi invece  sotto  silenzio  le  Idee.  Per  evitare  questa  difficoltà, gl'interpreti  che  vedono  nel  limite  le  entità  matem«tieh<», ammettono  che  le  Idee  sono  comprese  nel  quarto  genero, quello  che  Platone  chiama  causa  della  mescolanza  (del limite  e  dell'illimitato)  e  della  generazione,  ed  anche causa  di  tutte  le  cose  (cioè  d-^gli  altri  tre  generi),  e semplicemente  causa.  E  in  effetto  le  Idee  sono  per  Pla- tone delle  cause,  e  nel  Fe^/one  (95  e— 101  e)  vengono  an- che chiamate  cause  della  generazione  e  della  corruzione; e  nel  Filcho  stesso  (G4  e- G-i  a)  l'Idea  del  bene  è  detta  la causa  per  cui  la  vita  mescolata  (di  piacere  e  di  saggezza) e  gradevolissima,  pregevole  e  buona,  ed  anche  la  causa di  tutto  ciò  che  vi  ha  nella  mescolanza  (del  piacere  con la  saggezza).  Ma  il  termine  cau«a,  attribuito  alle  Idee,  non ha  lo  stesso  senso  che  quando  Platone  l'applica  al  quarto genere  del  Filebo.  Questo  termine  non  conviene  alle Idee  che  in  un  senso  lato,  come  sinonimo  di  principio: le  Idee  sono  cause  delle  cose,  in  quanto  queste  sono ciò  che  sono  per  la  partecipazione  di  quelle.  Invece, quando  si  tratta  del  quarto  genere  del  Mlcbo,  la  causa deve  intendersi  nel  senso  stretto;  essa  vuol  dire:  un  fe- nòmeno—cioè un'«s'stenza  sottoposta  al  tempo  e  a  tutte le  altre  condizioni  d'^irindividuaMtà— che  è  la  condzione di  un  altro  tVnomeno  e  lo  spiega.  Cosi  Platone  deduce l'esistenza  del  quarto  genere  del  Filebo  dal  principio che  ciò  che  diviene  deve  divenire  per  una  causa  (:26  e): ora  l'ipotesi  delle  Idee  non  è  dedotta  da  questo  prin- cipio, nò  se  sì  guarda  ai  motivi  reali  della  teoria,  nò  se si  guarda  alle  prove  su  cui  Platone  la  stabilisce.  Quando poi  ci  si  dice  (2JJ  e— 27  a)  che  la  causa  equivale  a  ciò che   fa  Ttio'.oOv)   e   l' effetto  a   ciò   che  è   fatto   (uoio'jjis- vov),  è  chiaro  che  per  questa  causa  dobbiamo  intendere una  causa  attiva,  un  agente:  quest'agente  di  più  deve essere  personale,  perchè  ciò  che  è  classato  nel  quarto genere  ò  chiamato  l'opifice  (dr|[iiou(5Yo0v)  delle  cose  clas- sate negli  altri  tre  (27  b>  Il  genere  della  causa,  nel Fi/ebo,  corrisponde  a  ciò  che  Platone  altrove  chiama  la cau'^a  prima,  e  talvolta  anche  semplicemente  la  causa  (1), di  tutte  le  cose,  vale  a  dire  Tanima  del  mondo.  Che  il quarto  genere  del  Filebo  consista  unicanipnte  nell'anima e  neirintelligenza— la  quale  non  esiste  altrove  che  nel- l'anima (2)  -si  rileva  della  maniera  più  evidente  dall'esa- me particolareggiato  che  Platone  fa  di  questo  genere, perchè,  dopo  aver  detto  che  va  ad  esaminarlo  più  lun- gamente, non  parla  poi  che  di  osse  (28  e— 30  d):  dimo- stra (he  la  mente  governa  il  tutto,  perchè  questa  pro- posizione è  degna  dell'aspetto  del  mondo,  del  sole,  della luna,  delle  stelle  e  di  tutte  le  rivoluzioni  celesti  (28 d — e),  e  perchè,  come  noi  prendiamo  }>li  elementi  del nostro  corpo  dal  corpo  dell'universo,  cosi  l'anima  non può  venirci  d'altronde  che  da  un'anima  cosmica  (29  a— 30  a);  e  conclude  che  del  (juarto  genero,  che  è  in  tutte le  cose,  questa  parte  che  ci  dà  l'anima,  ohe  ripara  la salute  nelle  malattie,  ecc.  non  deve  stimarsi  la  Fapicoza tutta  quanta  e  di  tutte  le  forme,  e  che  nelTuniverso  vi ha  molto  illimitato,  sufìiciente  limite,  e  una  causa  che presiede  ad  essi,  la  quale  orna  e  dispone  ;;]i  anni,  el stagioni,  i  mesi,  ed  è  chiamata  a  buon  dritto  mente  e sapienza  (oO  b-c)  (3).  Por  fare  rientrare,  malgrado  ciò. (1)  V.    I.t'init    Si*«)  H-b,  8%  d,    Sl»U  b,  h'itiaohiUh'  '.W  e  —  1>77  rt.V»SJ b,  mn  d,  S>88  d-o  . (2)  V-  UO  e. (3)  In  senguito   Platone  dic3  che    "  l'^telligenza  è   del    genere deUa  causa  di  tutto  cose  »  (30  e),  ei  anche    che  essa  è  •*  affino  alla i -1 —  248  — nel  quarto  gciiertì  anche  le  Id^x;,  alcu  li  d^^l'iaterpre  ti che  identificano  il  limite  con  le  entità  matematiche,  Af- fermano che  per  Platone  le  Idee  e  il  Nous  in  fondo coincidono:  ma  questa  proposizione,  come  abbiamo  os- servato altrove,  non  sarebbe  intelligibile  che  nella  dot trina  dell'identità  dell'essere  e  del  pensiero,  dottrina  che non  possiamo  attribuire  a  Platone.' Aggiungiamo  che  la  classe  delle  entità  matematiche contiene,  oltre  i  numeri  matematici,  anche  le  grandezze (le  quali  non  procedono  da  questi  numeri,  come  ha  cre- duto qualche  interprete,  ma  immediatamente  dagl'  idea- li) (1);  cosi  se  il  limite  del  Filebo  8\  fa  identico  ai  pri- mi, non  si  comprende  nemmeno  perchè  Platone  non conti  fra  gli  elementi  costitutivi  del  reale  anche  le  se- conde. 6'*  Quelli  che  identificano  il  limite  con  le  entità  ma- tematiche sono  i  sostenitori  dell'interpretazione  trascen- dentalista del  sistema  delle  Idee.  Ciò  è  naturale,  perche lo  scopo  di  quest'identificazione  ò  di  appoggiare  la  tesi che  le  entità  matematiche  sono  le  leggi  e  le  forme  del mondo  fenomenico,  e  questa  tesi  suppone  elio  queste entità  siano  intermediarie  nel  senso  che  esse  tramezzino. causa  e  pressoché  dello  stosso  genere  „  (Bl  a),  donde  potrebbe  in- ferirsi che  r  inteUigenza  e  1'  anima  non  sono  isoli  oggetti  compresi nel  qaarto  genere,  e  che  anzi  esse  non  sono  aggregate  a  questo genere  che  d'una  maniera  un  po'  forzata  ed  impropria.  Ma  in  que- sti luoghi  Platona  parla  dell'  intelligenza  umana,  perchè  ri^ponde alla  quistione  a  qual  genere  appartenga  la  saggezza  che  ò  uno  dei due  ingredienti  della  vita  mescolata  (cioè  della  vita  felice);  ed  esita  S3 possa  classarla  rigorosamente  nel  genere  della  causa  del  tutto,  per- chè questo  è  propriamente  costituito  dall'  intelligenza  e  l'  anima cosmiche. (1)    V    questo  Supplem.  n.  III.  carte  105- V^C, non  tra  le  Idee  di  certi  attributi  e  questi  attributi  stessi nelle  cose  sensibili,  ma  tra  la  totalità  del  mondo  ideale e  la  totalità  del  mondo  sensibile  (1).  Ora  questa  inter- pretazione delle  entità  intermediarie  suppone  alla  sua volta  la  trascendenza  delle  Idee;  perchè  è,  ci  si  dice,  per l'impotenza  delle  Idee  trascendenti  a  esercitare  una causalità  reale  sulle  cose,  che  Platone  è  stato  condotto ad  immaginare  queste  entità,  affinchè  esse  servissero  da mediatori,  in  modo  che  Tinliuenza  delle  Idee  potesse comunicarsi  per  il  loro  mezzo  al  mondo  sensibile.  Ma se  le  Idee  sono  trascendenti,  anche  le  entità  matemati- che devono  essere  trascendenti.  Le  entità  matematiche sono  dei  predicati  universali  sostantificaii  della  stessa maniera  che  le  Idee  (2);  per  conseguenza  le  stesse  in- concepibilità che  risultano  dall'immanenza  delle  Idee  ri- sultano egualmente  dall'  immanenza  delle  entità  mate- matiche: le  stesse  espressioni  indicanti  la  relazione  tra le  cose  e  le  Idee,  in  cui  si  vedono  le  prove  più  forti della  trascendenza  di  queste,  servono  pure  ad  indicare la  relazione  tra  le  cose  e  le  entità  matematiche  (3);  i concetti  realizzati  dei  numeri  e  delle  figure,  della  stessa maniera  che  le  Idee  del  bello,  del  buono,  del  giusto,  ecc., vengono  riguardati  come  degl'  ideali  a  cui  le  cose  non si  conformano  che  d'  una  maniera  approssimativa  (4); se  è  evidente  in  certi  luoghi  d'Aristotile  ch'egli  si  rap- presenta le  Idee  come  poste  fuori  delle  cose,  non  è  meno evidente,  negli  stessi  o  in  altri   luoghi,    ch'egli  si    rap- 0)  V.  questo  Supplem.  n.  III.  carta  199. (2)  V.  Ji'p.  509  d-  511,  621-527,    533  b-534  a,  Fedone  101  o,  104  d, Met.  1.  I.  VI.  3,  l.  III.  II.  15  sqq.,  1.  XIII.  I-III,  VI,  eco. (3)  V-  Supplem.  B.  n.  VIII.  carta  99. (4)  V.  Fileho  62  a,  Hep.  525  d-526  a,  Arist.  Met.  l.  III.  IL  19-20 1.  XI.  I.  8,  eoo.  * -  M«~ presenta  cosi. anche  le  entità  matematiche  (1);  e  in  una paroU,  tutte  le  ragioni  che  si  avrebbero  per  ammet- tere la  trascendenza  delle  une,  varrebbero  egualmente per  ammettere  la  trascendenza  delle  altre.  Intanto  il  li- mite del  Filebo,  come  convengono  gli  stessi  interpreti trascendentalisti,  è  immanente,  è  un  elemento  delle  cos«^ stesso.  È  impossibile  dunque  che  esso  sia  identico  aUt», entità  matematiche. 7"^  Per  dotare  le  entità  matematiche  dell'efficienza  cau- sale che,  nella  loro  inerpretazione,  manca  alle  Llf*e,  e farle  supplire  cosi  a  questo  difetto  del  sistema,  che,  se- condo loro,  è  il  motivo  della  dottrini  d^^lle  entità  inter- mediarie, grinterpreii  trascendentalisti  sono  obbligati  a misconoscere  la  loro  natura  di  semplici  predicati  jicne- rali  sostantificati,  e  le  identificano  con  l'anima  del  mondo Cosi  quelli  che  vedono  nA  limite  d^^l  /^</eò>  le  entità  ma- tematiche, è  necessario  che  facciano  del  limite  e  della causa  (che,  come  abbiamo  mostrato,  non  è  che  l'anima del  mondo)  una  sola  e  stessa  cosa,  mentre  Platone  ne  fi due  generi  distinti— e  d'altronde  la  causa  non  potrebbe non  essere  distinta  dalle  cose  di  cui  è  la  causa— .  E  biso- gna notare  che  Piatone  stabilisce  espressamente  e  dimo- stra che  il  SYjiiLovYpoOv,  vale  a  dire  il  quarto  genero,  è altro  necessariamente  dagli  oggetti  compresi  nei  tre  primi generi  (27  a-b). (1)  V.  Met.  1.  III.  I.  15,  IT.  17  sqq,  1.  XIII.  I.  4,  1.  XIIT.  II, 1,  XIII.  in,  1.  XIV.  III.  3-7,  ecc.  Nella  più  parte  di  questi  luoghi» è  vero,  Aristotile  distingue  due  frazioni  nella  scuola  platonica,  di cui  1'  una  avrebbe  ammesso  le  entità  intermediarie  o  matematiche fuori  delle  yo»©.  ©  t'  altra  nelle  cose  stesse.  Ma  una  divergenza  ana" Ioga  di  opinioni  è  da  lui  attribuita  ai  platonici  anche  intorno  alle Idee,  quando  oppone  ni  resto  della  scuola  quelli  che,  come  Eudossio, a  ssimilavano  la  parusia  delle  Idee  nelle  cose  a  quella  di  una  so- stanza colorante  nell'oggetto  colorato  (v.  Supplemento  B  carte  70-71) Il  limite   del  Filebo  non  può  dunque  identificarsi  né con  le  le  Idee  né  con  le  entità  matematiche:  noi  abbiamo visto  inoltre  che  nemmeno  l'illimitato  equivale  alla  materia degli  àypa^a  S^yiiaxa  Sùcome  questi  concetti  non  trovano il  loro  equivalente  in  alcun  altro  dellt^  opere  stesse  di  Pla- tone 0  dell'espo-iizione  aristotelica,  ed  é  d'altronde  evidente la  loro  affinità  con  quelli   della    scuola   pitagorica,  noi siamo  fondati  perciò  a    vedere    in    questa    dottrina    del Filebo  un  primo  tentativo  dell'autore    di    avvicinare    la propria  filosofia  a  quella  dei  Pitagorici.  Sappiamo  infat- ti che  il  pitagorismo  di  Platone,  anziché  essere    dovuto a  un'influenza  che   questo    filosofo    abbia    passivamente subita,  é  stato  piuttosto  qualche  cosa  di  voluto,  di  cer- cato: non  é  quindi  sorprendente  che  la  sua  forma   defi- nitiva sia  stata  preceduta  da  un    primo    passi,    in    cui ravvicinamento  tra  le  due  filosofie  non  è  così  stretto  co- me diverrà  in  seguito.  Non  é  dubbia,  da  uu'a'tra  parte, Tanteriorità  del  Filebo  al  periodo  del  sincretismo  con  le dottrine  p  taj^oriche,  che  noi  conosciamo  dall'esposizione d'Aristotile:  all'epoca  del    Filebo    Platone    non   conosce ancora  la  dottrina    dei    numeri    ideali  (1),  e   nemmeno della  matova,  sia  perchè  questa  suppone  quella  (2),  sia perchè  il  limite  e  l'illimitato  del  Filebo    diff'eriseono    da quelli  dell'esposizione  d'Aristotile  (3),  e  se  Platone  co- noscesse già  la  dottrina  dei  due  elementi    degli   aypa^a dÓYfiaxa,  Cj^li  non    darebbe  ai    due  elementi    del  Fdebo u:\ì  stessi  nomi.  Che  il  pitagorismo  del    Filebo    non    sia stato  che  un  primo    passo,    risulta    poi    abbastanza    dal confronto  dei  concetti  di  questo  dialogo  con  quelli  degli òcYpa-^a  8ÓY[xaxa.  Limitandoci  alla  dottrina  dei    due    ele- (1)  V.  questo  Supplem.,  II,  carte  163-164. (2)  V.  questo  Supplem,  I,  carte  175  e  188-190. (3)  V.  sopra,  carta  244. —  250  — menti —perchè  sareb  supe  rfluo  di  notare  che  la  propo- sizione che  la  natura  degli  esseri  è  dominata  e  deter- minata da  rapporti  numerici,  è  meno  pitagorica  della proposizione  che  gli  esseri  sono  numeri—,  osserviamo:  che negli  (Xypacpa  SÓYiiaxa  il  limite  e  Tillimitato  sono  ciascuno un'entità  unica,  come  nella  filosofia  pitagorica,  mentre nel  Filebo  sono  due  generi  divisi  in  una  moltitudine  di specie;  che  le  coppie  dei  concetti  opposti  della  classe  del- l'illimitato, corrispondenti  alle  due  ouoxoix^at  di  prin- cipii  contrarli  dei  Pitagorici,  hanno  con  questi  poca  ana- logia,  mentre  le  due  aooxoixCai  degli  àypacpa  Sóyiiaxa sono  identiche  in  parte  a  quella  di  Pitagorici,  e  per  il resto  possono,  per  quanto  ne  sappiamo,  riguardarseae come  una  generalizzazione  ;  che  i  concetti  dello  due ouoxoixfai  degli  Sl-^^ol^cl  SÓYfxaxa  sono  dei  principii^  come quelli  delle  due  ouoxoix^oli  dei  Pitagorici,  mentre  le  coppie di  opposti  del  Mlebo  sono  subordinate  airillimitato  in  se stesso;  infine,  che  nel  Fi/eòo  l'opposizione  è  nel  seno  stesso dell'illimitato,  mentre  negli  atypacpa  Sóyixaxa  è  invece,  come nella  dottrina  pitagorica,  tra  un  principio  della  classe  del  li- mite e  un  altro  di  quella  dell'illimitato  (1).  Ma  malgrado  le diflerenze  profonde  tra  le  dottrine  pitagoreggiaati  degli fiypacpa  Sóyjiaxae  quelle  del  ^l/e&o,  tuttavia  la  più  parte  delle prime  hanno  evideutementc  un  antecedente  e  un  addentel- lato nelle  seconde.  Indipendentemente  dall'idea  generale che  le  cose  constano  di  liuiite e  d'illimitato,  è  da  notare: che  il  grande  e  piccolo,  a  cui  negli  àypacpa  8ÓY|iaxa  è  ri- condotto il  secondo  dei  due  elementi,  procedo  in  linea retta  dal  più  e  meno,  che  nel  Filebo  è  il  carattere  gene- rale e  aistintivo  della  natura  dell'illimitato;  e  che  la distinzione  del  limite  e  dell'illimitato  del  Filebo,   con  la (1)  Gfr.  carta  244. riduzione  del  primo  a  dei  rapporti  numerici,  è  assai  vicina alla  distinzione  di  forma  e  di  materia  del  Timeo  e  del- Tesposizione  aristotelica,  e  la  riduzione  della  prima  a dei  numeri  (1).  Se  ricordiamo  V  osservazione  già  fatta, che  il  concetto  che  le  forme  sono  numeri  sembra  sup- porre quello  che  esse  possono  ridursi  a  rapporti  nume- rici tra  i  sustrati  materiali  (2),  vedremo  più  chiaramente il  legame  tra  la  dottrina  dei  numeri  ideali  e  il  limite del  Filebo  (S). V.  Il  pitagori($iuo  nei  discepoli  di  Platone Quest'argomento  ha  per  noi  tanto  più  interesse,  che le  innovazioni  dei  platonici  dissidenti  riguardano,  non il  sistema  delle  Idee  in  se  stesso,  ma  la  fusione  di  que- sto sistema  coi  concetti  pitagorici.  Di  queste  innovazioni le  più  importanti,  anzi  le  sole  importanti,  per  quanto possiamo  giudicarne  dalK^  indicazioni  d'Aristotile,  sono quelle  di  Speusippo  e  di  Xenocrate,  e  concernono  sovra- tutto  la  dottrina  sui  numeri  matematici,  la  loro  relazione con  le  Idee  e  le  cose.  Aristotile  in  effetto  parla  spesso di  tre  dottrine  dei  platonici  sui  numeri:  alcuni  distin- guono il  numero  ideale  e  il  numero  matematico— èia dottrina  dello  stesso  Platone—;  altri  ammettono  che  il numero  ideale  è  lo  stesso  che  il  matematico;  altri  infine non  ammettono  che  il  numero  matematico  (4).    Delle  due (1)  Gfr.  questo  Sapplem.,  II,  carta  186. (2)  V.  questo  Supplem.,  II,  carta  187. (3)  V.  sopra,  carta  243. (4)  Queste  dottrine  sono  le  sole  di  cui  parla  Aristotile  :  di  più  in parecchi  luoghi  in  cui  egli  enumera  queste  tre  opinioni  sui  numer: {Met.  1.  XII.  1.  3,  1.  XUI.  I.  2,  1.  Xtll.  VIII.  8,  11,  1.  XIII,  IX,  13-14), —  362  — '  - ultime  dottrine  a  cui  allude  Aristotile,  la  prima  è  quella di  Xenocrate,  e  la  seconda  quella  di  Speusippo.  Malgrado la  cronologia,  noi  cominceremo  per  esporre  le  idee  del primo,  che  si  è  meno  allontanato  dal  platonismo  orto- dosso. Xenocrate.  La  dottrina  dell'identità  del  numero  ideale col  matematico  (I)  equivale  al  fondo,  com«3  osserva  Ari- stotile (2),  alla  soppressione  del  numero  matematico  di Platone.  In  questa  dottrina  in  efletto  non  vi  ha  più  posto per  le  molte  diadi,  triadi,  ecc.  matematiche,  che  Platone subordinava  alla  Diade,  Triade,  e  ce.  ideali.  La  Diade, Triade,  ecc.  ideali  sono  dette  anche  matematiche,  perchè esse  rappresentano  al  tempo  stesso  le  Idee  degli  esseri (p.  e.  dell'uomo,  delPanimale,  ecc.)  e  gli  attributi  arit- si  vede  eh*  egli  intende  fare  una  enumerazione  completa  delle  opinioni dei  platonici,  e  ch^  non  conosce  una  quarta  opinione.  Tuttavia  alcuni storici  hanno  veduto  un'allusione  ad  una  quarta  opinione  in  queste  pa- role della  Met,  1.  XIII.  VI,  7  :  «  Aìtri  crede  il  primo  numero,  quello della  Specie,  uno  essere:  alcuni  invece,  che  questo  stesso  sia  il  mate- matico »  Le  parole  in  corsivo  indicherebbero,  secondo  questi  storici, un'altra  dottrina  dei  platonici  sui  numeri,  la  quale  non  ammetterebbe che  il  solo  numero  ideale.  Ma  esse  non  indicano  in  realtà  che  la  dottrina stessa  di  Piatone,  nella  quale  il  primo  numero,  cioè  l'ideale,  ó  solamente ideale,  e  perciò  uno,  e  non  in  un  certo  mwlo  doppio,  come  nella  dottrina in  cui  il  primo  numero  è  al  tempo  stesso  ideale  e  matematico.  Oltre  che questo  ò  il  solo  senso  grammaticalmente  possibile,  l'ipotesi  di  una  dot- trina dei  platonici  sui  numeri,  la  quale  non  ammetterebbe  che  il  numero ideale,  e  rigetterebbe  assolutamente  il  matematico,  è  per  se  stessa  in- concep  ibile,  sia  perchè  anche  i  concetti  matematici  devono  essere,  ne sistema  delle  Idee,  realizzati,  sia  perchò  11  numero  ideale  non  potrebbe affatto  riguardarsi  come  numero,  se  esso  non  rappresentasse  pure  ini certo  modo  le  determinazioni  aritmetiche  delle  cose  (come  la  nella  dot- trina di  Platone,  in  cui  i  numeri  ideali  sono  anche  le  Idee  dei  numeri matematici». (1)  V.  per  questa  dottrina    Arist.    Met.  1.  XII.    I.  3,    1.    XIIl.    I.   2, 1.  XIU.  VI.  7,  i.  Xlll.  Vili.  8,  1.   Xlll.  IX.  13. (2)  Met.  1.  XIII.  Vili.  8,  1.  XIIl.  IX-  13. luetici.  Ma  anche  quelle  di  Platone  rappresentavano  gli Attributi  aritmetici,  perchè  i  numeri  ideali,  per  lui,  erano le  Idee  e  le  essenze  dei  numeri  matematici.  La  differenza dei  numeri  di  Xenocrate  dai  numeri  ideali  di  Platone  è che  questi  sono  iìicomhinahili,  mentre  Xenocrate,  sop- primeado  la  d'stinzione  tra  il  numero  ideale  e  il  mate- matico, aopprime  anche  necessariamente  il  carattere  di- stintivo per  eccellenza  fra  i  due  numeri,  e  fa  perciò  il iinmero  ideale  comhinqbiU.  Aristotile  infatti  (1)  parla rMla  dottrina  di  alcuni  platonici  sui  numeri  ideali,  in cui  le  unità  di  un  numero  sono  simili  e  combinabili  con quelle  di  un  altro  (2),  il  numero  minore  fa  parte  del  nu- mero magj>iore  (3),  e  tutti  i  numeri  s'no  a  dieci  equi- valgono alla  Decade  in  se  stessa  (4) -le  due  ultime  pro- p-isizioni  evidentemente  non  sono  che  altre  espressioni della  prima,  cioè  della  combinabilità— Ora  questa  dottrina è  certamente  quella  che  noi  attribuiamo  a  Xenocrate,  sia perchè  la  combinabilità  d*^i  numeri  ideali  suppone  il  ri- getto della  distinz'one  tra  questi  numeri  e  i  matematici, sia  perchè  Aristotile  attribuisce  ai  filosofi  a  cui  egli  al- lude la  dottrina  delle  linee  indivisibili  (5),  eh»,  secondo la  testimonianza  concorde  delle  antiche  autorità  (6),  ap- part'ene  a  Xenocrate  (7).(1)  Met.  1.  XIIl.  Vili  18-22, (2)  V.  18  e  I9. (3/  V,  19. (4)  V,  21. (5)  V.  22. (6)  V.  Mullach.  Fragm.  pkilos.  graec.  v.  Ili  pag.  118-12o. (7)  Anche  Platone  aveva  parlato  della  linea  indivisibile  (v.  Arlst.  Mei. \.  1.  IX.  2o):  ma  nella  dottrina  di  cui  è  quistione  in  Met.  1.  XIU.  Vili. 22  la  linea  indivisibile  viene  rappresentata  per  un  numero  particolare (l'unità— cfr.  il  commento  del  pseudo— Alessandro  e  di  Siriano  in  Ar\&i^ Met,  Xlll.  IX.  3),  mentre    per  Platone  non  vi  ha  certamente    che  un  sol ì  - 'r    •      • t   M Soppressi  i  uumerì  intermediari,  la  coerenza   del  sì- stema  esigeva  la  soppressione  delle  entità  intermediarie in  generale,  cioè  anche  delle  grandezze  matematiche.  E in  effetto  ai  partigiani  dell'identità  tra  il  numero  ideale e  il  matematico  Aristotile  attribuisce  pure  la    riduzione delle  grandezze  a  dei  numeri  ideali.  Cosi  in  Met.  1.  XII. I.  3,  per  indicare  le  tre  scuole  in  cui  si  dividono  i  pla- tonici, platonici  ortodossi,  scuola  di  Xenocrate  e  scuola di  Speusippo,  dice  :  alcuni  dividono  le  sostanze   separa- bili (cioè  le  entità  della  filosofia  platonica)  in  due  generi; altri  pongono   in  ima  sola   natura  le    Specie  e   le  entità matematiche   (non  semplicemente  i  numeri    matematici); e  altri  non  ammettono    che  le  sole  entità    matematiche. E  nel  1.  XIII.  Vili.  18-22,  rimproverando  ai  platonici  che ammettono  la  combinabilità  dei  numeri  ideali,  di  restrin- gere il  numero  alla  decade,  rappresentando  tutte  le  loro entità  per   i  soli    primi  dieci  numeri,  dice  che    per  loro anche  le  grandezze    vanno    sino    ad  un    certo    numero, «  prima  la  linea    indivisibile,  poi  la  diade  e  poi    ancora queste  (cioè  arcora  grandezze)  sino  alla  decade  ».  È  evi- dentemente  a  questa  dottrina  che  noi  attribuiamo  a  Xe- nocrate,  che  allude  pure  nrl  1.  VII.  XI.  3-4,  in  cui  rife- risce Topinione  di  alcuni    filosofi  che  nei    concetti   delle grandezze  non  fanno  entrare    che  la  sola    forma,  esclu- dendone la  materia,  e  riducono  per  conseguenza  le  gran- dezze a  dei   numeri  -  questi  filosofi  non  posano  essere che  dei  platonici,  perchè  i  pitagorici    non  conoscono  la distinzione  di  forma  e  materia  —,    e  divide   i  partigiani delle  Idee  in  due    scuole,    di  cui  V  una   ammette  che  il numero  per  tutte  le  linee  (la  diade),  perch..-  li  suo  sistema  non  ammette, e  non  potrebb  »  ammettere,  che  tre  Idee  di  grandezze,  della  Linea,  del Piano  e  del  Solido. Due  è  la  linea  stessa,  e  Taltra  che  è,  non  la  linea  stessa, ma  ridea  della  linea.  Platone  distingue  le  Idee-numeri delle  grandezze  (cioè  della  linea,  del  piauo  e  del  solido) dalle  grandezze  stesse,  perchè  le  prime  non  rappresentano che  la  sola  forma,  mentre  le  seconde,  per  lui,  compren- dono anche  la  materia  :  Xenocrate  invece,  sopprimendo le  grandezz  5  matematiche,  non  ammette,  per  le  gran  _ dezze  come  per  tutte  le  altre  cose,  altri  concetti  realiz  . zatl  che  quelli  che  rappresentano  le  semplici  forme,  e possono  per  coseguenza  ridursi  a  dei  numeri  ;  cosi  non essemdovi  più  nel  suo  sistema  dei  concetti  realizzati  di grindez^e  che  includano  anche  la  materia,  le  Idee  (i  nu- meri ideali)  delle  grandezze  non  si  distinguono  piìi  per lui  dalle  grandezze  stesse  (1). Per  attribuire  a  Xenocrate  la  dottrina  delPidentità  del numero  ideale  col  matematico  (e  quindi  anche  la  ridu- zione delle  grandezze  ai  numeri)  più  che  sulle  testimo- nianze incerte  dei  commentatori  di  Aristotile— di  cui  al- cuni, come  Siriano  e  Filopono  ad  Met,  1.  XIII.  Vili.  8, attribuiscono  effettivamente  questa  dottrina  a  Xenocrate, ma  Tattribuiscono  anche  a  Speusippo— noi  ci  fondiamo sul  legame  che  essa  ha,  nell'esposizione  d'Aristotile,  con quella  delle  linee  e,  più  generalmente,  delle  grandezze, indivisibili  (2).  E  ciò  che  abbiamo  visto  nel  luogo  indicato (1)  Gfr.  questo  Supplem,  n.  Ili,  e.  IpS-lgC. (2)  MeL  1.  XIII.  Vili.  8.  Xenocrate  non  ammette  soltanto  delle  linee indivisibili,  ma  delle  grandezze  indivisibili  in  generale  (V.  Stob.  Ed.  Phys. 1.  I  e.  I4,  Simpl.  in  Ari&t»  Phys,  pag.  30  A,  ecc.)— L'ipotesi  delle  linee indivisibili,  come  abbiamo  notato,  era  stata  già  emessa  da  Platone:  Xe- nocrate sembra  non  aver  fatto  altro  che  riprendere  quest'  ipotesi  d'una maniera  definitiva,  appog^^iarla  su  delle  prove  numerose  (v.  Arist.  De  liti, insecabilib.^  Phys  1,  1.  IH.  9,  De  general,  1.  I.  II.  II-I9,  Simpl.  tu  Arist, Phys,  pag.  3o  A,  Philop.  in  Arist,  Phys,  lib.  I,  fol.  B,  16  e  C,  1,  The- mist.  Paraphras,  Phys,  Arist,  1.  1,    fol.   18.   A,    ecc.),   e  legandola  con -  961  — MeL  l.  XIII.  Vili.  18-22-,  e  lo  ^te^^o  si  rileva  pure  da 1.  XIII.  VI.  8,  in  cui,  dopo  ave;  distint)  le  diverse  dot- trine dei  platonici  sui  numeri — quella  che  ammette  un numero  ideale  e  un  numero  matematico,  quella  che  iden- tifica i  due  numeri,  e  quella  che  ammette  il  solo  numero matematico— continua:  'Similmente  sulle  lunghezze,  i piani  e  i  S'alili.  Alcuni  distinguono  i  matMuatici  e  quelli |xexà  Tàc;  Idéa^  (1)  ;  dì  coloro  che  dicono  altrimenti,  gli uni  parlano  degli  oggetti  matematici  matematicamente, quelli  che  non  fanno  le  Id'e  numf^ri  né  dicono  esservi  le Idee,  (2);  gli  altri  parlano  pure  degli  og^^etn  matematici, ma  non  matematicamente,  poiché  per  loro  né  ogni  gran- dezza può  dividersi  in  grandezze,  ne  qualswogliano  unità possono  formare  una  dualità».  I  filosofi  a  cui  Aristotile rimprovera  di  non  parlare  degli  oggHti  matematici  ma- tematicamente, perchè  ammettono  delle  grandezza»,  indi- visibili, sono  senza  dubbio  quegli  stessi,  che,  sopprimendo le  entità  intermediarie,  riducono  le  gandezze  a  d**i  nu- meri :  in  effetto  anche  quf^st'altra  opiaioue  sulle  gran- dezze deve  essere  menzionata  a  lato  di  quelle  di  Platone l'altra  ipotesi  platonica  dei  coi  pascoli    elementari,    comporne  una    teoria completa  delle  grandezze  indivisibili— Platone  aveva  immaginato  la  linea indivisibile  per  sostituirla  al  punto,  cb'egli  non   potiva  ammettere  come entità,  perchè,  come  osserva  Aristotile  {MalA.  I.  IX.  20— v.  il  commento d'Aless.  d'Afrod.— \  non  gli  sarebbe  stato  possibile  di  dedurlo  da  qualche forma  del  Grande  e  Piccolo  (quale  materia  'delle  entità  geometriche).  Per Xenocrate  il  motivo  di  sostituire  la  linea  indivisibile  al  punto  non  può  essere precisamente  lo  stesso,  perchè  le  sue  entità  matematiche,  chenonsouD  che dei  numeri,  non  racchiudono  la  materia:  ma  per  non  fare  del  punto  un'en- tità ha  potuto  bastargli    questa   considìrazione,    che    esso  non  potrebbe comporsi,  cjme  le  {irandezze  e  ogni  altro  reale  nel  suo    sistema,  d'Idea forma)  e  di  materia. (1)  Platone.  V.  questo  Supplem.  n.  111.  e,  I96. (2)  Speusippo,  secondo  l'interpretaaiona  aristotelica  del  suo  sistema. e  di  Speusippo;  e  d'altronde  le  parole  «  similmente  sulle lunghezze,  i  piani  e  i  solidi  »  ci  indicano  chiaramente che  le  tre  opinionf,  di  cui  é  quistione  in  questo  luogo, dei  platonici  sulle  grandezze  corrispondono  alle  tre,  di cui  sopra,  sui  numeri.  Ag^^iungiamo  che  l'obbiezione  che qualsivogliano  unità  non  formano  una  dualità,  ha  di  mira certamente  i  numeri-Idee  (1)  :  ma  qui  serve  ad  appog- giare la  proposizione  che  i  filosofi  contro  cui  essa  è  di- retta, parlano  degli  oggetti  matematici  non  matemati- camente; dunque  per  questi  i  numeri  ideali  s'identificano coi  matvinitici. La  tiioria  di  Xenocrate,  eh  ì  i  numeri  a  cui  si  riducono g  i  esseri  sono  gli  stessi  che  i  matematici,  è  evidente- mente più  pitagorica  che  l'ipotesi  platonica  di  un  numero ideale  differente  dal  matematico,  perchè  i  numeri  di  cui parlano  i  Pitagorici  sono,  come  ossserva  Aristotile  (2), i  numeri  matematici.  La  riduzione  delle  grandezze  a  sem- plici numeri  è  anch'essa  un  nuovo  passo  verso  i  P.tago- rici,  perchè  questi  non  ammettono,  come  Platone,  che  le grandezze  siano  subordinate  ai  numeri,  ma  le  identificano, come  ogni  altra  cosa,  ai  num'^ri  stessi.  Un'  altra  imiti- zione  evidente  del  pitagorismo  è  la  restrizione  del  nu mero  alla  decade,  perchè  i  Pitagorici  consideravano  i numeri  seguenti  come  una  semplice  ripetizione  dei  primi dieci  (3)  Già  Piatone,  come  c'informa  Arist'^tile  (4), non  aveva  fatto  il  numero  ideale  che  sino  a  dieci  :  ma noi  non  dobbiamo  intendere  perciò  che  egli  non  ammet- tesse che  i  soli  primi  dieci  numeri,  perchè  lo  stesso  Ari- dì  V.  Mei,  1.  Xlll.  VII.  22-23. (2)  Mef,  1.  Xlll.  Vi.  /. (3)  V     Ilierocl.  In  carm.  aur,  XX.  45-4S,  Arist.  MeL\.  l.  V.  3,  Phi- lop.  De  an„  C,  2,  al  basso. (4)  Phjys,  1.  Ili  VI.  6. —  254  - stotìle  dà  questa  dottrina  come  particolare,  fra  tutti  ì partigiani  dei  numeri  ideali,  a  quelli  per  cui  questi  nu- meri erano  combinabili,  e,  per  consegueaza,  identici  ai matematici  (cioè  alla  scuola  di  Xenocrate)  (1).  Il  senso deirindicazione  d'Aristotile  (nel  luogo  della  Fisica)  sem- bra dunque  piuttosto  che  nella  formazione  dei  numeri ideali  Platone  si  è  fermato  alla  decade,  ma  senza  deci- dere se  dovessero  ammettersi  o  no  anche  i  numeri  se- guenti. L'incertezza  di  Platone  e  dei  suoi  su  questo  punto ci  è  attestato  in  quest'  altro  luogo  della  Met.  [}.  XII. Vili.  I)  :  «Quelli  che  ammettono  le  Idee  dicono  che  le Idee  sono  numeri  :  ma  dei  numeri  parlano,  ora  come  se fossero  infiniti,  ora  come  se  terminassero  alla  decade  ». Qaest'incerteza  si  sp'ega  per  due  esigenze  contrari»  del sistema.  Da  una  parte,  lo  sforzo  di  Platone  di  accostarsi ai  Pitagorici  avrebbe  dovuto  avere  per  conseguenza  di limitare  il  numero  alla  decada.  :  ma  d'altra  parte,  la  fu- sione della  dottrina  dei  numeri  coi  principi!  della  dialet- tica, manifestantesi  sovratutto  nella  loro  generazione  pro- gressiva gli  uni  dagli  altri  (che,  come  sappiamo,  rappre- senta  la  dieresi  delle  Idee),  richiedeva  che  a  ciascun'  Idea corrispondesse  un  numero  distinto,  e,  quindi,  che  i  nu- meri  ideali  fossero  altrettanti  quante  le  Idee. Xenocrate,  sacrificando  il  bisogno  di  accordare  la  teo- ria dei  numeri  con  la  dialettica  a  quello  deirimitazione pitagorica,  ci  mostra  la  stessa  tendenza  che  nelle  altre dottrine  che  gli  sono  particolari.  Cosi  Timpressione  d'in- sieme che  risulta  dalle  innovazioni  di  Xenocrate  è  in- somma ch'egli  si  è  avvicinato  ancora  di  più  ai  Pitagorici. Un'altra  prova  del  pitagorismo  più  accentuato  di  questo (1)  V.  Met.  1.  Xlll.  Vili.  18-22,  luogo  già  indicato. il filosofo  è  che  egli,  come  c'informa  Teofrasto  fi),  ha  fatto degli  sforzi  più  d'ogni  altro  platonico  nell'  applicazione della  teoria  dei  numeri  alle  cose.  Fra  questi  possiamo contare  la  celebre  definizione  dell'  anima  «  un  numero che  muove  se  stesso  »  (2),  quantunque  essa  non  sia  al- tra cosa  che  la  definizione  di  Platone  (ciò  che  muove  se stesso;  unita  al  concetto  generale  dello  stesso  Platone, che  gli  esseri  sono  numeri. Speusippo,  Fra  le  dottrine  dei  platonici,  enumerate da  Aristotile,  sui  numeri  e  gli  oggetti  della  matematica, una  è  quella  secondo  cui  non  vi  sarebbero  altre  entità che  le  matematiche  (3).  Confrontando  fra  di  loro  i  luo- ghi in  cui  si  allude  a  questa  dottrina,  e  segnatamente quelli  che  riportiamo  nella  nota  (4),  si  vede  che  è  qui- stione  del  sistema  di  Speusìppo.  I  concetti  principali  che caratterizzano  questo  sistema,  secondo    Aristotile,  sono: 1®  Non  vi  hanno,  come  abbiamo  detto,  altre  entità che  le  matematiche;  vale  a  dire  Speusippo  non  ammette le  Idee,  e  non  realizza  altri  concetti  che  quelli  dei  nu- meri (matematici)  e  delle  grandezze  geometriche. i! .1 (1)  Mei,   Fr.  12. (2)  V.  Mullach  Fragm  phil.  graec.  v.  111.  p.  12o-125- (3)  V.  per  questa  dottrina  Arist.  Metaph.  1.  VII.  11.  3-5,  1.  Xll.  1.  3, l.  Xlll,  1.  2,  VI.  6,  8,  vili.  5-7,  IX.  13,  17,  1.  XIV.  11.  16-III.  3,  111,8,  ecc. (4)  Mei.  l.VU.  11.  3-5:  «Ancora,  oltre  i  sensibili,  alcuni  credono  che non  vi  sia  alcuna  sostanza;  altri  piò,  e  massimamente  le  eterne,  come  Pla- tone le  Specie  e  le  entità  matematiche,  due  sostanze,  e  terza  la  sostanza dei  corpi  sensibili.  Speusippo  ammette  pure  più  sostanze,  a  cominciare dairUno;  e  principii  di  ciascuna  sostanza  altro  dei  numeri  e  altro  delle grandezze;  poi  dell'anima;  e  cosi  moltiplica  le  sostanze.  (Non  attribuisce a  Speusippo,  come  a  Platone,  le  Specie.  La  sola  sostanza  iperfica  che  gli attribuisce,  oltre  ai  numeri  e  alle  grandezze,  è  l'anima,  o  piuttosto  il  prin- cipio dell'anima  :  questo  è  menzionato  a  lato  dei  numeri  e  delle  grandezze e  dei  loro  principii,  non  perchè  sia  un  Universale,  un  concetto  realizzato, come  questi,  ma  perchè  ò  anch'esso  una  sostanza  sovrasensibile).  Alcuni I -i  : I •  il i i '»*.  T i 2<>  I  numeri  (matematici)  sono  i  primi  degli  esseri; poi  vengono,  nell'ordine  dì  anteriorità  e  posteriorità  {nel senso  platonico),  le  grandezze  geometriche;  infine  gli  es- seri fisici,  le  cose  (1). 3^  L'Uno  è  il  primo  principio,  come  per  Platone,  ma non  è  identico  al  Bene,  che  gli  è  posteriore.  Come,  negli animali  e  nelle  piante,  il  bello  e  il  perfetto  non  si  tro- vano nel  germe,  ma  appariscono   in  ciò  che  ne    deriva; poi  dicono  che  le  Specie  e  i  numeri  hanno  la  stessa  natura,  e  che  le  altre cose  ne  derivano,  cioè  le  linee  e  le  superficie  sino  alla  sostanza  del  cielo e  ai  sensibili,  (Qui  si  trat!.a  evidentemente  delia  dottrina  di  Xenocrate;  cosi numeri  vuol  dire  i  numeri  matematici;  per  conseguenza  sopra,  parlando di  Speusippo,  questa  parola  ha  pure  lo  stesso  senso)  ». Met,  1.  Xll.  X.  i4  :  «Quelli  che  ammettono  per  primo  numero  il  ma- tematico, e  cosi  sempre  un'altra  contigua  sostanza,  e  principii  diversi  di ciascuna,  fanno  la  sostanza  del  tufo  senza  legame  (S7lStao5t.tt)dy))^una sostanza  intatti  niente  giova  ad  un'altra,  sia  che  esista  sia  che  non esista— e  molti  principii  ;  ma  gli  esseri  non  vogliono  essere  mal  gover- nati. «Non  è  un  bene  il  principato  di  molti;  uno  solo  sia  il  principe  »  ». (Quelli  che  ammettono  per  primo  numero  il  matematico,  non  possono  es- sere che  Cfuelli  per  cui  non  vi  hanno,  secondo  Aristotile,  altre  entitA  che le  matematiche.  In  effetto,  oltre  a  questa,  Aristoti  e  non  conta  che  altre due  dottrine  sui  numeri  e  gli  oggetti  della  matematica:  quella  di  Pla- tone, per  cui  il  primo  numero  è  l" ideale;  e  quella  di  Xenocrate,  che  am- mette un  solo  numero,  al  tempo  stesso  ideale  e  matematico.  V.  Met.  1. Xlll.  VI,  6-8,  1.  XIU.  Vili.  5-8,  11,  1.  Xlll.  IX.  13-14). Met.  I.  XIV.  111.  8-9:  «  Si  potrà  inoltre  domandar»»  da  chi  non  sia troppo  facile  a  credere,  perchè  in  tutto  il  numero  e,  in  generale,  negli esseri  matematici  niente  giovino  Inno  ali  altro  l'anteriore  e  il  posteriore. Infatti,  anche  non  esistendo  il  numero,  esisterebbeio  nondimeno  le  gran- dezze, per  quelli  che  ammettono  lo  sole  entità  matematiche,  e  queste non  esistendo,  esisterebbero  l'anima  e  i  corpi  sensibili.  Ma.  da  quel  che si  vede,  la  natura  non  sembra  sconnessa  (è7l£tao5ta)5r|^)  come  una  c«it- tiva  tragedia.  Ciò  non  accade  a  quelli  che  ammettono  le  Idee  »  ecc. 0)  Met,  1.    VII.  Il,  4,  1.  Xlll,  VI.  0,    I.  Xlll.  Vili.    5,  I.  Xlll.  IX.  2-(i, ^  XIV.  111.  8-y,  1.   XIV.  IV.  .s,  1.  XIV.  V.  3. cosi,  nel  tutto,  il  buono  e  il  bello  non  sono  nel  princi- pio, ma  nascono  nel  progresso  dell'essere.  Questo  si  svi- luppa, come  un  organismo,  procedendo  da  uno  Ftato  più indet  -rmiDato  e  più  imperfetto  a  uno  stato  sempre  più determinato  e  più  perfetto  (1). 4^  Delle  tre  clas^si  di  esseri  ammesse  da  Speusippo (numeri,  grandezze  gv  ometriche  e  erse),  Vanteriore  non giova  niente  alla  posteriore.  I  numeri  non  sono  le  cause degli  altri  esseri  :  anche  non  esistendo  i  numeri,  esiste- rebbero le  grandezze  geometriche,  e  non  esistendo  i  nu- meri e  le  grandezze  gecmetriche,  esisterebbero  le  cose  (2). L'»  entità  matematiche  non  hanno,  per  Speusippo  come per  Platone,  che  un  significato  puramente  matematico; in  altri  termini,  i  numeri  non  rappresentano  che  le  de- terminazioni aritmetiche  delle  cose,  e  le  grandezze  le geometriche.  In  effetto  :  1^  Aristotile  fa  consistere  essen- zialmente la  dottrina  delle  entità  matematiche  di  Speu- sippo,  tonr.e  quella  di  Platone,  nella  sostantificazione degli  attributi  matematici  (aritmetici  e  geometrici),  nel- r  essere  questi  considerali  come  separabili  o  separati dallo  cose  fx^P-^'^^  ^  xsxwptoiiéva)  (3).  2^  Speusippo  dà, com«i  Platone,  le  entità  matematiche  piM-  gli  oggetti  delle scienze  matematiche  (aritmetica  e  geometria)  (4):  per  con-i: '    (1)  V.  Met.  1.  Xll.  VII.  9,  I.  XVI.  IV.  2-6,  1.  XIV.  V.  1. (2)  V.  Met.  1.  Xll.  X.  l4,  1.  XIV.  11.  I5-I6,  1.  XIV.  111.  8-9. (.3)  V.  Met,  1.  Xlll.  IX.  12  e  l,  XIV.  11.  15-111.  3;  e  cfr.  questo  Sap- plem.  n.  Ul.  carte  200-202.  Gli  altri  luoghi  d'Aristotile  ivi  citati,  meno Met,  1.  Xlll.  VI.  4,  si  riferiscono  certamente  anche  alla  dottrina  di Speusippo,  perchè,  come  abbiamo  osservato  (v.  e.  20J -202),  Aristotile riguarda  le  entità  matematiche  di  questo  lìlosofo  come  equivalenti a  quelle  degli  altri  piatonioi. (4)  V.  Met.  1.  XIV.  111.  3-4,  e  cfr.  gli  altri  luoghi  d'Aristotilr  ci- tati a  e.  193  p.  1  n.  2,  i  quali  devono  riferirsi  anche  alla  dottrina  di Speusippo,  meno  Met.  1.  I.  IX.  16  e  1.  111.  11.  15,  ohe  non  le  si  pos- i I  'I —  256  — I i^ seguenza  esse  nou  sono  che  la  realizzazione  dei  concetti di  queste  scienze,  la  sostantificazione  delle  propri<»tà  delle cose  che  queste  scienze  studiano.  La  prova  che  stabili- sce l'esistenza  di  tali  entità  è  che  le  matematiche  non devono  riferirsi  agli  oggetti  sensibili,  ma  a  delle  lealtà astratte,  universali  ed  eterne;  ed  Aristotile  riguarda  an- che questa  prova  come  il  motivo  reale  della  dottrina  (1). È  evidente,  come  abbiamo  osservato  (2),  che  su  questa base  non  potrebbe  fondarsi  una  teoria  che  vede  nei  nu- meri le  essenze  o  le  leggi  delle  cose,  ma  solo  la  realiz- zazione delle  astrazioni  numeri.  3^  Aristotile  oppone  Speu- sippo  a  Xenocrate,  in  quanto  quegli  parla  delle  cosa  ma- tematiche matematicamente  (e  il  suo  numero  é  vera- mente matematico),  mentre  questi  ne  parla  non  mate- maticamente, e  sopprime  in  realtà  il  numero  matematico. La  ragione  precipua  di  quest'  opposizione^  è,  come  ab- biamo già  detto,  che  i  numeri  matematici  di  Xenocrate sono  gli  stessi  che  gK  ideali,  e  non  si  limitano  quindi, come  quelli  di  Speusippo,  a'ia  rappresentazione  dei  sem- plici attributi  ariimetici  (3).  4<^  Il  luogo  citato  a  car- ta 201  (4)  prova  chiaramente  che  i  numeri  di  Speu- sippo non  costituiscono  1'  essenza  delle  cose  (come  po- trebbe credersi  che  sia  in  una  dottrina,  che  non  ammette, secondo  Aristotile,  altre  entità  che  le  matematiche),  né come  paradigmi,  quali  le  Idee    nelTinterpretazione  tra- II sono  riferire,  perchè  parlano    delle  entità    matematiche  come  in- termediarie. (1)  V.  Mot.  1.  XIV.  II.  16.  l.  XIV.  111.  3,  111.  4,  ecc.  Cfr.  n.  Ili,  e.  202, (2)  Carta  202. (3)  Cfr.  e.  203. (4;  Met.  l.  XlV.  II.  15-111.  3. scendentalista,  né  come  inerenti  nelle  cose  stesse,  quali le  Idee  nella  nostra  interpretazione  o  i  numeri  pitagorici* E  lo  stesso  risulta  dai  luoghi,  anch'essi  già  citati  (ì), in  cui  ci  si  dice  che,  delle  diverse  classi  di  sostanze  am- messe da  Speusippo,  le  anteriori  non  giovano  per  niente alle  posteriori,  e  che  le  cose  esìsterebbero  anche  non  esi- stendo i  numeri  e  le  grandezze,  o**  Infine,  Aristotile  ri- guarda, come  già  abbiamo  detto,  le  entità  matematiche di  Speusippo  come  equivalenti  a  quelle  d^gli  altri  plato- nici :  per  conseguenza  anche  le  altre  prove  per  cui  ab- biamo stabilito  (2)  il  significato  puramente  matematico delle  entità  matematiche  di  Platone,  valgono  pure  in- direttamente per  quelle  di  Speusippo. L'anteriorità  d^i  numeri  sulle  grandezza,  e  delle  en- tità matematiche  sulle  cosi  signific  i,  secondo  le  abitu- dini della  filosofia  platonica  :  i'^  che  i  concetti  delle  gran- dezze contengono,  nella  loro  comprensione,  quelli  dei  nu- meri, e  i  concetti  delle  cose  quelli  dei  numeri  e  delle grandezze;  e  2^  che  le  grandezze  procedono  dai  numeri, e  le  cose  dai  numeri  e  dalle  grandezze.  Ma  in  Platone il  rapporto  di  anteriorità  e  posteriorità  implica  che  il  po- steriore si  deduce  dall'anteriore,  ciò  che  importa,  come sappiamo,  che  questo  è  in  un  certo  modo  la  cau«a  di quello,  perchè  l'essenza  della  di?^lettica  platonica  consi- ste nella  identificazione  del  rapporto  logico  fra  il  prin- cipio e  la  conseguenza  col  rapporto  ontologico  tra  la causa  e  l'effetto.  In  Speusippo  invece  le  tre  classi  di  so- stanze da  luì  ammesse  non  si  deducono  Tuna  dall'altra: le  grandezze  non  si  deducono  dai  numeri,  né  le  cose  dai numeri  e   dalle  grandezze.  E    cosi  che   dobbiamo    com* -     ! (1)  Met.  1.  Xn.  X.  U,  l.  XlV.  Ul.  8-9-cfr.  n.  4  a  o.  255. (2)  A  0.  200-204. -  tól  - >Oji prendere  la  proposizione  citata  d*Aristotile,  secondo  cui la  classe  posteriore  esisterebbe,  anche  non  esistendo  la classe  anteriore.  Ciò  basta  perchè  Aristotile  possa  dire che  Je  sostanze  di  una  classe  non  sono  la  causa  di  quelle delle' altre,  benché  la  loro  anteriorità  e  posteriorità  im- plichi necessariamente,  come  abbiamo  detto,  che  le  po- steriori procedano,  come  di  regola,  dalle  anteriori   (1). Il  principio  di  Speusippo  che  V  essere  si  sviluppa  an- dando da  uno  stato  più   indeterminato  e  più   imperfetto a  uno  stato  più  determinato  e  più  perfetto  —  è  inutile  di osservare  che  questo  sviluppo  non  è  un   progresso  nel tempo,  ma  una  successione  puramente  logica  —  noa  è  in sostanza  che  quello  della  dialettica  platonica  che  la  legge dell'essere  è  di  arricchirsi  progressivamente   di    nuov^ determinazioni,  di  passare  continuamr'nte  da  uno  stato più  astratto  a  uno  stato  più  concreto.  Ma  hcnza  dubbio Speusippo  applica  particolarmente  questo  principio    alle sue  tre  classi  di  sostanz*»,  per  indicare  ch'esse  formano una  serie  logica  al  tempo  stesso  ed  ontologica,  iu  modo che  il  passaggio  da  un  termine  all'altro  importa  un  pro- gresso nella  determinazione  dei  concetti  e  de^li  esseri corrispondenti  a  questi  concetti,  e  nel  tempo  stesso  una processione  del  più  determinato  dal    più    inletermiaato. L'altra  applicazione  particolare  che  fa  Speusippo  del principio,  cioè  la  non  identità  dell'  Uno  col  Bene  e  U possteriorità  di  qu<»sto,  non  è  che  un  corollario  del  si- gnificato puramente  matematico  del  numero  e  della  sua anteriorità  sugli  altri  esseri  ;  l' identificazione  platonica del  Bene  con  1'  Uno  supponendo  evidentemente  che  gli altri  attributi  delle  cose  siano  ricondotti  al  numero. Ma  vi  ha,  nella  filosofia  di  Speusippo,  un  punto  d'un'im- (1)  Cfr.  «io  ohe  diremo  sulla  iine  di  questo  numera. I  i portanza  capitale  —  è  il  preteso  abbandono  della  teoria delle  Idee— su  cui  alla  testimonianza  d'Aristotile   pos- sono opporsi   delle   prove  contrarie,  che  mi    sembrano prevalenti. La  prova  più  forte,  e  che  anche  da  sé  sola  sarebbe decisiva,  sta  nell'inverosimiglianza  intrinseca  delle  stesse affermazioni  d'  Aristotile.  Se  noi  ammettiamo  che  questi ci  espone  esattamente  le  dottrine  di  Speusippo,  il  sistema di  questo  filosofo  sarebbe  il  più  insolubile  dei  problemi che  ci  presenti  la  storia  della  filosofia.  Perchè  Speusippo avrebbe  rigettato  le  Idee?  Per  le  difficoltà,  dice  Aristo- tile (1),  che  si  oppongono  al  sistema.  Ma  queste  diffi- coltà consistono  nelle  inconcepibilità  inerenti  alla  rea- lizzazione degli  universali.  Allora,  perchè  avrebbe  am- messo le  entità  matematiche  ?  queste  non  sono  anch'esse degli  universali  realizzati?  L'  ammissione  delle  entità  mate- matiche non  suppone  il  principio  che  1'  astratto  è'realmente separabile  (xtopwTóv),  che  la  vera  realtà  è,  non  il  particolare, ma  l'universale?  Se  si  ammette  che  ai  concetti  dei  numeri  e delle  figure  corrispoadono  dei  Numeri  e  delle  Figure  astratte e  generali,  che  coerenza  vi  sarebbe  poi  a  non  ammettere  che anche  ai  concetti  degli  altri  attributi  delle  cose  corrispon- dono altre  entità  egualmente  astratte  e  generali?  Se  le  en- tità matematiche  di  Speusippo  rappresentassero  l'essenza stessa  delle  cose,  si  potrebbe  rispondere  che  esse  bastavano alla  realizzazione  del  principio  che  1'  essere  si  risolve  in  en- tità universali  :  ma  poiché,  come  abbiamo  dimostrato,  esse non  rappresentano  che  le  determinazioni  aritmetiche  e geometriche,  per  lo  stesso  motivo  per  cui  di  queste  de- terminazioni si  fanno  degli  esseri  reali  sussistenti  per  se stessi,  anche  lo  altre  determinazioni  delle  cose   devono (1)  Met.  1.  XIII.  IX.  13  e  l.  XIV.  IL  16. —  268  - essere  elevate  ad  esseri  reali  e  sussistenti  per  se  stessi. Ma  vi  ha  di  più:  la  realizzazione  dei  concetti  non  ha  un motivo  e  uno  scopo,  che  unita  al  metodo  dialettico,  cioè al  metodo  deduttivo   applicato    alla    scoverta    di    quisti concetti  realizzati.  E  per  quest'  unione,  come  sappiamo, che  il  realismo  divieue  una  soluzione  del  problema  delle cause  efficienti,  perchè  il  rapporto  tra   principio  e   con- seguenza,  dopo    che   questo   principio  e    questa   conse- guenza  da  semplici  nozioni  mentali  sono   scati    trasfor- mati in  entità  sussistenti  per  se  stesse,  diviene  un    rap- porto tra  causa  ed  effetto.  Ora  quale  è  stata,  nell'ipotesi della  v^erità  dell*  esposizione  aristotelice,  V  attitudine    di Speusippo  verso  il  metodo  dialettico  ?  Ha  egli  rinunziato a  questo  metodo  ?   Ma,  in  questo   caso,  perchè  avrebbe ammesso  delle  realtà  universali?  Lo  ha  applicato  ni  soli concetti  dei  numeri  e  delle  grandezze  geometriche?  Ma il  metodo  dialettico,  come  ogni  altro  sistema  dei    meta- fisici sulle  cause  effìcient',  potrebbe  avere    altro  oggetto che  una  spiegazione   radicale   e   universale  del    mondo reale  ?  e  d'altronde,  ammesso   il  metodo  della   dieresi, avrebbe  potuto  esso  ricevere   soltanto   un'  applicazione parziale,  e  non  abbracciare    la  totalità  dei  concetti  ge- nerici e  specifici  ?  o  avere  in  una  parte  solamente  della sfera  della  sua  applicazione  il  valore  obbieltivo  ch'esso ha  nella  metafisica  platonica,  e  nel  resto  un  valore  pura- mente logico  ?  Da  un  altro  canto,  noi  abbiamo  dei  mo- tivi di  credere  che  Speusippo,  lungi   di    aver    abbando- nato la  dialettica  platonica,  come  metodo  scientifico  uni- versale, è  anzi  verso  questa  parte  che  ha  rivolto  a  pre- ferenza le  sue  speculazioni.  In  effetto,  egli  è    stato  il primo,  come  dice   Diodoro  (l),  che  ha  contemplato  nelle scienze  ciò  che  vi  ha  di  comune,  e  insieme  le  ha  con- giunte, per  quanto  è  stato  possibile,  Tuna  con  l'altra  »  (1); e  nei  suoi  Dialoghi  sui  simili  ha  cercato  le  affinità  degli esseri  della  natura  a  lui  conospiuti,  applicando  partico- larmente la  dieresi  platonica  a  quella  parte  del  reale  che più  ne  sembra  suscettibile,  cioè  il  mondo  vivente  (2).  E che  la  dieresi  fosse  anche  per  Speusippo  un  metodo  de- duttivo, noi  dobbiamo  inferirlo  dal  suo  apriorismo,  an- ch'egli  ammettendo,  come  Platone,  che  la  ragione  deve sforzarsi  di  ritrovare  tutte  le  verità,  partendo  da  quelle che  sono  evidenti  per  se  stesse,  e  ricavandone  gradata- mente le  altre  come  conseguenze  (3).  Se  dunque  Speu- (1)  Ap.  Diog.  Laert.  IV.  2. (1)  Cf^.  per  la  portata  di»  quest'indicazione  Platone  Pep,  531  d e  ^7  e,  1.  cit.  a  pag.  155  e  156. (2)  Cfr.  o.  VII.  S  19  nota  finale. (3)  V.  Proclo  Comment.  in  prim^  Fitclid.  elementor,   1.  111.  1  pa- gina 50  ed.  graeo.  in  Mullaoh  i'Y.  230. Filopono,  commentando  un  l.  dell'Ana?.  Post,  (1.  U.c.  XU.  13), in  cui  Aristotile  parla  dell'  opinione  —  che  Eudemo  attribuisce  a Speusippo che  per  definire  una  cosa  bisogna  anche  conoscere  tutte le  altre,  dice  che  Speusippo  rigettava  la  definizione  e  la  divisione. Ma  è  questa  senza  dubbio  un'  erronea  inferenza  di  Filopono  dal luogo  stesso  commentato.  L'opinione  di  Speusippo  non  è,  come  ha ben  avvertito  il  Bitter  (v.  2.  pag.  393  trad.  frane),  che  un  princi- pio dello  stefcso  Platone.  La  conoscenza  per/'^ffa  d'un'Idea  suppone, secondo  i  principii  della  dialettica  platonica,  la  conoscenza  di  tutto il  mondo  ideale.  Infatti  quest'  Idea  deve  essere  dedotta  dall'  Idea suprema,  passando  gradatamente  per  tutte  le  Idee  intermediarie. Di  più  questo  processo  discensivo  del  metodo  dialettico  ha  bisogno di  essere  preceduto  da  un  altro  processo  ascensivo,  per  la  scoverta delle  Idee  di  più  in  più  generali,  a  cui  l'Idea  di  cui  si  tratta  è  su- bordinata. (V.  Plat.  Rep.  1.  VI.  510  b-511  e,  e  cfr.  e.  VII.  §  12,  19  e 20).  Cosi,  siccome  questa  scoverta  d'un'Idea  generale  è  tirata  dalla conoscenza  di  tutte  le  Idee  particolari  che  le  sono  subordinate, perchè  non  è  che  la  generalizzazione  di  tutte  queste  Idee,  ne  se- gue ohe  l'ascensione  all'Idea  più  generale,  e  per  conseguenza  an- -  »9  — *ippo  ha  ammesso  il  metodo  dialettico,  s'egli  ha  Scono- sciuto inoltre  Tcsigtenza  di  entità  universali;  come   cre- dere   che,  dopo   aver   accettato  tutti  i  presupposti  del- Tidealismo  platonico,  dopo  essersi  addossate  tutte  le  gravi difficoltà  del  sistema,  che  sono    le  inconcepibilità   della realtà  degli   universali   e  l'impossibilità  di  applicare  ef- fettivamente il  metodo  dialettico  come  metodo  dimostra- tivo, abbia  rinunziato  a  fare  un'applicazione  coerente  dei principii,  che  sola  poteva  dare  al  sistema  un  valore  ii- losofico  ? A  ciò  dobbiamo  aggiungere  che,  senza  la  supposizione che  Speusippo  ammetteva  anche  le  Idee,   non  si  com- prenderebbe una  particolarità  del  suo  sistema,  su  cui tanto  iusiste  Aristotile,  cioè  inutilità  dei  numeri  e,  in generale,  delle  entità  matematiche,  alle  cose.  Questa  inu- tilità non  è  un  semplice  apprezzamento  d'Aristotile,  come p.  e.  quella  delle  Idee  dì  Filatone  -  vale  a  dire  le  en- tità matematiche  df  Speusippo  non  sono  inutili  nel  senso che  il  valore  loro  assegnato  nella  spiegazione  delle  co^e è  chimerico  —  ;  ma  essa  risulta  evidentemente  dalle  pro- posiz'oni  stesse  dell'autore  (si  notino  sovratutto  le  parole della  Mei.  I.  XIV.  II.  16,  1.  e:  Né  quegli  stesso  che  lo ammette  dice  che  esso,  cioè  il  numero  matematico,  sia causa  di  alcuna  cosa).  Se  Speusippo   ammette   le   Idee, noi  comprendiamo  perfettamente  come  il  suo  numero  non ohe  la  diioensione  da  essa  a  na'altra  Idea  qualunque,  cioè  una definizione  di  quest'Idea,  ottenuta  col  metodo  di  divisione  prati- cato in  tutto  il  suo  rigore,  richiede  necessariamente  che  tutte  le altre  Idee  siano  conosciute.  Se  Speusippo  avesse  rigettato  la  defi- nizione, certamente  egU  non  avrebbe  fatta  la  collezione  di  quelle di  Platone;  e  del  resto  essa  è  implicitamente  ammessa  neUa  sua proposizione  riferita  da  Simplicio  a  l  ArLt.  Categ.oA  fol.  2  (v  Mul- lach  Fr.  Speus.  207  e  208):  si  dicono  omonime  le  cose  di  cui  irnome è  «omnne,  ma  la  definizione  ò  diversa. sìa  causa  di  niente  (1),  òondè,  in  generale,  le  sue  entità matematiche  non  giovino  in  niente  alle  cose  (2),  e  perchè queste  esisterebbero,  anche  se  esse  non  esistessero  (3): è  che  ammesse  le  Idee,  cioè  le  Idee  degli  esseri  reali, questi  si  trovano  completamente  spiegati,  e  ogni  altra entità  è  superflua  (se  i  platonici  ammettevano  anche  le entità  matematiche,  era  perchè  la  coerenza  del  sistema delle  Idee  esigeva  che  tutti  gli  universali  fossero  sosta n- tificati).  Ma  se  h^  sole  entità  ammesse  da  Speusippo  sono le  matematiche  —  sia  che  faccia  loro  rappresentare  le sole  determinazioni  matematiche,  sia  che  vi  riconduca anche  le  altre  determinazioni  delle  cose  —  che  scopo  e che  motivo  potrebbe  avere  per  lui  tale  ipotesi,  poiché essa  non  è  fatta  servire  alla  spiegazione  del  reale? Queste  prove  intrinseche  sono  fiancheggiate  da  altre prove  estrinseche.  Vi  ha  prima  di  tutto  rinverosimiglianza che  quello  tra  i  discepoli  di  Platone,  a  cui  doveva  pre- mere più  che  ad  ogni  altro  la  gloria  del  maestro,  desi- gnato senza  dubbio  dallo  stesso  Platone  a  succedergli neirinsegnaraento  (4),  ed  egli  stesso  designante  a  suo successore  un  altro  partigiano  delle  Idee  (Xenocrate), abbia  rigettato  la  dottrina  fondamentale  della  filosofìa platonica,  e  che  costituisce  il  carattere  e  il  punto  di connessione  della  scuola.  Poi,  la   testimonianza  di  Dio- 0)  Mei.  l.  XIV.  U.  16. (2)  Met.  1,  XU.  X.  U  e  1.  XIV.  IH.  8. (3)  MeU  1.  XIV.  ni.  8. (4)  Bitter.  Storia  della  fllos,  ant.  t.  3.   trad.  frano,  pag.   : *  Noi  siamo  ora  in  un  tempo in  cui  la  carica   del   professorato sembra  essere  stata  trasmessa  dai  primi  maestri  ai  seguenti  (Diog. L.  IV.  3);  e  la  continuazione  della  scuola  accademica  tiene  verisi- milmente  alla  poisessione  del  giardino  dell'  aeea  lemia  che  aveva già  posseduto  Platone  (Plat.  De  exiU  10)   - :n grène  Laerzio  (1)  e  dì  Cicerone  (2),  che  affermano  che Speusippo  è  rimasto  fedele  alle  dottrine  del  maestro  ; Tindicazione  di  Stobeo  (3)  ch'egli  ha  posto  la  natura dell'anima  èv  lòécf,  xoO  tcocvtt)  Staoxaxou  (potrebbe  obbiettarsi che  qui  il  termine  lòéoL  non  va  preso  necessariamente  nel senso  tecnico  della  filosofia  platonica;  ma  è  questo  il senso  che  esso  ha  nella  definizione  deiranima  di  Posi- donio  (4),  la  quale,  nella  parte  che  c'interessa,  è  certa- niente  imprestata  a  Speusippo);  l'informazione  di  Ascle- pio ch'egli  ha  nmmesso  una  sostanza  distinta  per  tutti  i smiii  (5)  (ciò  vuol  dire  che  di  tutto  ciò  che  é  uno  nei  molti ha  fatti  un'entità  distinta);  quella  stessa  inesatta  d'  al- cuni commentatori  d'Aristotile  (6)  che  gli  attribuiscono come  a  Xenocrate  la  dottrina  d'un  solo  numero,  al  tempo stesso  ideale  e  matematico  (essa  si  spiega  per  l'affinità di  questa  dottrina  con  quella  reale  di  Speusippo,  perchè, come  diremo  in  seguito,  i  Numeri  matemateci  contene- vano le  Idee  delle  cose,  come  i  generi  le  specie).  Ag- giungiamo infine  che  le  affermazioni  d'Aristotile  si  mo- strano incerte  ei  anche  contraddittorie,  poiché  al  tempo stesso  che  attribuisce  a  Speusippo  di  rigettare  le  Idee, gli  attribuisce  pure  dì  ammettere  che  le  Idee  non  sono (1)  IV,  2. (2)  Aca^.  1.  9. (B)  Kcl    l.  I.  0.  52. (é)  V.  Plut.  Psicog.  XXII. (5)  *•  Anche  Speusippo  disse  esservi  molte  sostanze  :  altra  disse essere  delle  grandezze,  e  altra  dei  numeri,  e  in  tutti  i  st«n7t,  e  an- cora altra  la  sostanza  della  mente,  e  altra  dell'anima,  e  altra  del punto,  e  altra  della  linea,  e  altra  deUa  superficie  „.  Schol.  Arist. pag.  740.  a.  ed.  Brandis. (6)  V.  Siriano  ad  Met.  1.  XUl.  Vili.  8,  Filopono  allo  stesso  luogo, Scìiolia  in  Aristotelem  pag.  820  A  ed.  Brandis  (in  Mullaoh  Fragm^ phiì,  graec.  111.  pag.  113). nùmeri  (l),  proposizione  che  Implica  evideatemente  ch'egli ammettesse  le  Idee. Un  error?  d'Aristotile  nell'iatepretaziooc  di  questo punto  del  sistema  di  Speusippo  non  sembrerà  tanto  strano, se  si  rifletce  alla  d  fficoità  che  vi  ha,  tutte  le  volte  in cui  è  quistione  degli  universali  o  altre  astrazioni  dei  me- tafisici, a  comprendere  se  un  filosofo  dà  loro  un'esistenza reale  o  semplicemente  logica.  È  un  fatto  di  cui  lo  stesso Aristotile  può  fornirci  un  esempio.  Certamente,  per  lui, la  forma  e  la  materia  non  sono  distinte  che  logicamente; eppure  quant',  senza  contare  gli  oppositori  del  Rinasci- mento, che  rendevano  Aristotile  responsabile  degli  orrori degli  scolastici,  noa  l'hanno  inteso  come  se  egli  ammet- tesse tra  di  esse  una  distinzione  reale,  e  le  riguardasse come  vere  s" stanze,  nel  senso  che  noi  diamo  a  questo termine?  (2).  Viceversa  alcuni  fra  i  più  francamente  rea- listi degli  scolastici  sono  stati  compresi  talvolta  come se  il  loro  realismo  si  riducesse,  in  sostanza^  a  questa  pro- posizione, a  cui  niun  nominalista  contradirebbe,  che  i generi  e  le  specie  non  sono  semplici  concezioni  del  no- stro spirito,  ma  hanno  un  fondamento  nella  natura,  eoe nelle  affinità  reali  degli  esseri  (3).  E  passando  ai  filosofi (1)  Met,  1.  XUl.  VI.  8:  •  Quelli  che  non  fanno  le  Idee  numeri, né  esservi  dicono  le  Idee  „.  Met.  1.  XUl.  Vili.  5:  •*  Quelli  che  non credono  esservile  Idee,  né  assolutamente  né  come  essenti  certi  nu- meri,,. Met.  1.  XIV.  II.  16:  •*  Per  quello  che  eosl  non  crede,  perchè vede  le  difficoltà  circa  le  Idee,  sicché  perciò  non  le  fa  numeri,  ma  fa il  numero  matematico  „. (2)  V.  e.  VU.  pag.  46. (3)  V.  p.  e.  su  Duns -Scoto  Jourdain  Filos.  di  S.  Tomm.  1.  II. e.  11.  Dum.  111.  (ofr.,  per  il  senso  che  quest'autore  dà  alla  parola reaUsmo,  principalmente  l.  1.  sez.  3.  e.  111.  in  principio  e  num.  1,  e 1.  III.  e.  IV,  num.  l),  e  Conti  Storia  della  fllos,  voi.  2.  pag.  127  (cfr. p,  50-53  e  90)  —Alcuni  anche  (come  il  Weber,  Stor»  della  filos»  europ. —  261  - • moderni,  uno  dei  hiìgliori  storici  della  filosofia,   il  bit- ter (1),  non  dà  espressamente  Spinoza  per  un  nominali- sta ?  E  quanti  tra  i  lettori  di  Taine  hanno  compreso  che questi  è  un  filosofo   realista  (alla   scolastica)  ?  Il  malin- teso d'Aristotile  si  spiegherebbe,  in   ultima  analisi,  per le  stesse  ragioni  che  la  sua  preferenza  per  l'interpreta zione  trascendentalista  delle  Idee  di  Platone.  È  impossi- bile, come  abbiamo  osservato,  di  formarsi  una  rappresen- tazione qualsiasi  di  entità  sussistenti  per  sé  stesse  quali le  Idee  platoniche,    altrimenti  che   come  separate   dagli oggetti  reali.  Per  conseguenza,  se  noi  ammettiamo  che Speusippo,  ammaestrato  dairesperienza  della  falsa  Inter- pretazione  che  si  dava,  da  Aristotile  e  da  altri,  del  si- stema del  maestro,  abbia  energicamente  insistito  sull'im- manenza delle  specie  nelle  cose;  noi  comprenderemo  fa- cilmente come  Aristotile,  per  la  stessa  ragione  per  cui, dalla  evidente  sussistenza  per  se   stesse  delle   specie  dì Platone,  concludeva  che  esse  erano  trascendenti,   abbia potuto  concludere,  dall'evidente  immanenza  delle  specie di  Speusippo,  che  esse  non  erano  sussistenti  per  se  stesse. Ciò  che  parrà  più  difficile  a  comprendere  è  l'interpreta- zione, malgrado  ciò,  degli  oggetti  matematici  come  en- tità  reali  (separate,    naturalmente,  dalle  cose)  :  ma,  per la  novità  della  dottrina,  Speusippo  doveva  insistere  sul- Vanieriorità  dì  questi  oggetti  sulle  cose  reali,  non  meno che  sull'Immanenza  delle  specie.  Ora   T  anteriorità,  nel senso  platonico,  importa  evidentemente  un'esistenza  del- l' anteriore   distìnta  e  indipendente  da    quella  del  poste- riore. 8.  40  e  41)  danno  Dans-Sooto  per  un  oonoettaaliita  o  un  semi-no- mmaiiita. (1)  V.  Stor.  della  fidos.  mod.  t.  1.  trad.  frano,  pag.  2ff!. Vi  ha  un  altro  punto,  nella  filosofia  di  Speusippo, su  cui  l'impressione  che  risulta  dall'esposizione  d'Aristo- tile, ha  bisogno  di  essere  rettificata,  o  almeno  comple- tata :  è  la  relazione  tra  i  numeri  e  lo  cose.  Noi  abbiamo dimostrato,  fondandoci  su  Aristotile,  che  i  numeri  di Speusippo  non  sono,  come  i  numeri  matematici  di  Pla- tone, che  i  concetti— i  nostri  concetti—  dei  numeri,  rea- lizzati :  ma  ciò  non  toglie  che  la  teoria  dei  numeri  abbia in  Speusippo,  come  negli  altri  platonici,  un  carattere pitagorico.  In  questi  concetti  realizzati,  come  in  tutti gli  altri  della  metafisica  platonica  e  come  nei  semplici concetti  di  cui  parlano  i  logici,  bisogna  distinguere  la comprensione  e  V estensione  :  i  numeri  di  Speusippo  rap- presentano le  semplici  determinazioni  aritmetiche  delle co«e,  consid'  rati  nella  loro  comprensione]  ma  considerati nella  loro  estensione,  rappresentano  le  cose  stesse,  perchè sono  gli  Universali  supremi,  in  cui  queste  sono  conte- nute. Ciò  risulta  già  dair  anteriorità  dei  numeri  sulle grandezze  e  le  cose.  In  efletto  V anteriorità  e  posteriorità, nel  senso  platonico,  non  importa  solamente  che  il  con- cetto deiranteriore  è  una  parte  di  quello  del  posteriore, ma  ancora  che  il  po-^teriore  è  contenuto  neir  anteriore come  in  un  genere.  E  che  anche  in  Speusippo  il  rapporto di  anteriorità  e  posteriorità  debba  essere  inte^^o  nello stesso  senso,  è  confermato  da  un'obbiezione  che  Aristotile fa  alla  sua  dottrina  sulla  materia  delle  grandezze,  cioè  che se  vi  ha  una  materia  distinta  per  ciascuna  classe  di  gran- dezze—linee, superficie  e  solidi— e  questa  materie  si  se- ffuono,  vale  a  dire  stanno  fra  di  loro  nel  rapporto  di  an- teriorità e  posteriorità,  allora  la  superfìcie  sarà  una  linea e  il  solido  una  superficie  (1).  Lo  stesso  risulta  pure  dalle 1 (1)  Af«(.  1.  xm.  iz.  s. —  «62  - /Il'» indicazioni  che  attribuiscono  ai  iiùmerì  Una  causalità  sulle cose.  Aristotile  (1)  dice  di  Spensi ppo,  come  degli  altri  plato- nici, ch'egli  fa  dei  numeri  le  carne  prime  degli  esseri  i2);  e noi  sappiamo  da  Jambli^jo  (3)  ch'egli  ha  chiamato  la  de-* cade  il  più  efficaze  e  perfezionmte  (cfootxwxotxiQv  xal  xeXe- oxixwxocTTjv)  degli  esseri,  e  una  forma  per  se  stessa  autrice degli  effetti  del  mx>ndo  (xtov  xoo[iot(5v  à:ioxeX60|idxa)v  xexvtxóv). La  causalità  dr'Ue  entità  platoniche  sta  nella  derivazione dei  particolari  dal  generale  a  cui  sono  subordinati  :  le Idee  sono  le  cause  delle  cose,  e  le  Idee  generiche  delle Idee  specifiche;  è  uello  stesso  senso  che  i  numeri  possono essere  cause.  Infine,  questa  snperordinazione  dei  numeri alle  cose  come  generi  in  cui  queste  sono  contenute,  è lina  conseguenza  della  loro  esemplarità.  Secondo  Jam- blieo  (4),  Speusippo  ha  anche  chiamato  la  decade  il  pa- radigma più  perfetto  (x(p  xou  navxò^  tioit^x^  9e(ji  è  evi- dentemente un'addizione  di  Jamblico);  e  secondo  Aristo- tile (5),  il  punto,  per  lui,  non  è  Y  unità  stessa,  ma  è quale  Tunità,  e  la  viateria  delle  grandezze  (cioè  lo  spazio) non  è  la  pluralità  stessa  (la  materia  dei  numeri),  ma  è quale  la  pluralità.  Ciò  che  nel  platonismo  è  riguardato come  paradigma,  è  il  generale  nel  suo  rapporto  al  par- ticolare :  le  Specie  sono  i  paradigmi  delle  cose,  e  i  Ge- (1)  Met.  1.  Xlll.  VI. (2)  Questo  luogo  sembra  in  contraddizione  con  gli  altri  già  ci- tati, in  cui  si  nega  che  i  numeri  di  Speusippo  siano  cause  degli altri  esseri.  Essi  si  conciliano,  ammeltando,  come  abbiamo  fatto, che  quando  nega  ai  numeri  di  Speusippo  la  causalità  sulle  altre cose,  Aristotile  vuol  dire  che  nel  suo  sistema  le  altre  cose  non  si deducono  dai  numeri,  come  avviene  in  quello  di  Piatone.  Ctr.  ciò che  diremo  sulla  fine  di  questo  numero. (3)  V.  TheoU  arithm.  pag.  61  ed.  Ast. (4)  Ibid. (5)  Met.  1.  XllL.  IX.  6. neri  delle  Specie;  cosi  è  in  questo  rapporto  che  i  numeri di   Speu«iippo  devono  essere  con  le  gran  lezzo  e  con  le cose. Ma,  i  numeri  essendo,  per  Speusippo,  i  generi  delle cose,  ne  segue  che  anche  per  lui  le  cose  sono,  in  un certo  modo,  dei  numeri.  Questa  deduzione,  infatti,  è confermata  da  un  luogo  di  Tcofrasto  (1),  in  cui  Speu- sippo è  compreso  tra  i  platonici  che  fanno  risultare  le cose  dai  numeri  e  dai  loro  elementi.  E  una  conferma ancora  più  esplicita  si  trova  in  Jambitco  (2).  Questi  c'in- forma che  Speusippo  assegnava  alle  cose  particolari  dei numeri  distinti,  come  i  Pitagorici  e  Platone:  Tuno  era il  punto,  il  due  la  linea,  il  tre  il  triangolo  e  il  numero della  superfìcie,  il  quattro  la  piramide  e  il  numero del  solido.  Evidentemente  noi  dobbiamo  distinguere  tra questi  numeri  -  cose  e  i  numeri  matematici.  I  numeri matematici  sono  i  numeri  in  se  stessi,  le  cose  sono  nu- meri per  la  partecipazione  dei  numeri  in  se  stessi,  poi- ché, secondo  i  principi!  della  filosofìa  platonica,  le  cose ricevono  la  loro  essenza  e  la  loro  denominazione  dalle  Idee, cioè  dalle  entità  universali,  a  cui  partecipano. Questa  distinzione  tra  i  numeri  matematici  e  i  nu- meri -  cose  corrisponde  in  certo  modo  alla  distinzione abituale  tra  i  numeri  astratti  e  i  numeri  concreti  :  n  o potremmo  per  conseguenza  servirci  di  questi  stessi  ter- mini per  indicare  le  due  sorta  di  numeri  di  Speusippo. I  numeri  astratti  sono  i  numeri  matematici;  le  cose  sono questi  numeri,  concretizzati,  h' essatesi  sviluppa  secondo Speusippo,  noi  lo  sappiamo,  procedendo  dall'astratto  al concreto  :  esso  è  prima  numero,  poi  diviene  graadezza. (1)  Met.  Fr,  12. (2)  Theol.  arithm.,  ibid. —  261  - infine  cosa.  Sicché  gli  esseri  particolari  possono  consi- derarsi sotto  tre  aspetti,  secondo  il  grado  di  determina- tezza dei  loro  concetti.  Ciascun  essere,  a  un  primo  grado del  suo  sviluppo  logico,  è  un  numero  matematico,  e  per conseguenza,  considerato  a  questo  grado  di  determina- tezza del  suo  concetto,  è  un  numero;  al  secondo  grado del  suo  sviluppo  logico  é  una  grandezza  geometrica,  e per  conseguenza,  considerato  al  grado  corrispondente  di determinatezza  del  suo  concetto,  è  una  grandezza  •  al- Tultimo  grado  del  suo  sviluppo  logico  e  considerato  nel suo  concetto  completamente  determinato,è,inene,  una  co«a. Le  grandezze  geometriche  sono  i  numeri  a  un  primo  grado di  concretizzazione^  cioè  con  nuove  determinazioni  che  man- cano ai  numeri  astratti^  questi  stessi  numeri,  a  un  grado ulteriore  di  concretizzazione^  cioè  arricchiti  ancora  di altre  determinazioni,  sono  le  cose.  Il  rapporto  tra  i  nu- meri—cose e  i  numeri  astratti,  cioè  matematici,  è  dun- que identico,  in  sostanza,  a  quello  tra  i  Generi  e  le  Spe- cie, p.  e.  tra  V  Animale  e  V  Uomo  :  le  cose  non  sono  i numeri  in  se  stessi,  come  Tuomo  non  è  l'animale  in  se stesso,  r  animale  astratto  ;  ma  esse  sono  numeri,  come l'uomo  è  animale. Evidentem<»nte  secondo  Speusippo,  come  le  cose,  an- che le  Idee  delle  cose  devono  essere  numeri  (Ij .  In  ef- fetto, assegnando  le  cose  ai  diversi  numeri,  egli  deve prenderle  per  classi;  vale  a  dire  tutte  le  cose  d'una  stessa classe  devono  essere  per  lui  rappresentate  danno  stesso numero  (cosi  l'uno  non  è  solamente  questo  punto,  ma  il punto  in  generale;  il  due,  solamente  questa  linea,  ma  la lioea  in  generale).  Ora  siccome  le  proposizioni  che  hanno per  soggetto  tutta  una  classe,  secondo  i  principi!  della filosofia  platonica,  si  riferiscono  propriamente  all'  Idea, ne  segue  che  il  numero  assegnato  ad  una  classe  non  è che  il  numero  dell'Idea  corrispondente  a  questa  classe. Ne  segue  ancora  che  i  numeri  matematci  devono  essere anteriori,  non  solo  alle  cose  stcss'^,  ma  anche  alle  Idee delle  cose.  Se  infatti  si  d^ce  d'una  certa  classe,  p.  e.  l'uo- mo, l'animale,  ecc.,  ch'essa  è  un  certo  numero,  p  e.  il quattro,  ciò  vuol  dire  che  il  numero  matematico  corri- spondente è  un  elemento  astratto  comune  a  tutti  gì'  in- dividui della  classe.  Ma  tutto  ciò  che  è  comune  a tutti  gl'individui  della  classe  è  compreso  nell'Idea  del'a classe  (p.  e.  l'Uomo  o  l'Animale  in  sé  comprende  tutte le  note  comuni  a  tutti  gli  uomini  o  a  tutti  gli  animali);  per conseguenza  questo  numero  matematico  o  deve  essere  la stessa  cosa  che  quest'Idea— ciò  che  è  impossibile,  perché i  numeri  in  sé  di  Speusippo  difPeriscono  da  quelli  di  Pla- tone in  quanto  non  s' identificano  con  le  Idee  —  o  deve essere  un  che  di  più  astratto  che  quest'Idea  e  contenuto  in e^sa,  cioè  nella  sua  comprensione.  Quest'anteriorità  dei numeri  matematici  sulle  Idee,  o  meglio  sulle  Idee  delle co^e— poiché  i  Numeri  e  le  Grandezze  in  sé  sono  anch'^ essi  in  sostanzi  delle  Idee— è  del  resto  compresa  impli- citamente nelle  proposizioni  di  Speusippo  che  i  numeri sono  i  primi  di  tutti  gli  esseri  (1),  ch'essi  sono  le  cause prime  degli  esseri  (2),  e  che  il  primo  numero  è  il  mate- (1)  N^lla  proposizione,  venente  probabilmente  dallo  ttesgo  gpeu- lippo,  ohe  le  Idee  non  sono    numeri    (in  Arigt.   Met,  1.  XIU.  Vi.  8 1.  Xlll.  Vili.  5,  1.  XIV.  11.   16,  l.  e),  per    numeri  deve    intenderai  i numeri  in  se  stessi,  oioè  i  matematici. 0)  Arist.  M9t,  l.  XUl.  VI.  C,  1.  Xlll.  Vili.  6,  l.  XIV.  V.  3. (2)  Met,  1.  Xlll.  VI.  1. —  264  — matico  (1).  Inoltre  essa  può  desumersi  dairanalogia  del rapporto  tra  i  numeri  matematici  e  le  grandezze  in  se stesse,  cioè  le  Idee  delle  grandezze;  essendo  evidente, quando  Ari  totile  parla  deiranteriorità  dei  numeri  sulle grandezze,  che  per  queste  grandezze  intende,  non  le particolari,  i  fenomeni,  ma  le  generali,  le  entità. li  sistema  di  Speusippo  consiste  essenzialmente  in una  nuova  relazione  stabìlita*fra  i  numeri  ideali  —  cioè con  cui  le  Idee  e  le  cose  s'identificano— e  i  numeri  ma- tematici. Per  distinguere  i  numeri-cose  dai  numeri  del- l'aritmetica Platone  aveva  ricorso  al  concetto  arbitrario che  il  numero  in  se  stesso  differisce  dal  numero  di  cui parlano  i  matematici,  e  a  quello  non  meno  arbitrario che  le  entità  matematiche  sono  intermediarie  fra  le  Ideo e  i  sensibili.  Xenocrate,  per  evitare  questi  due  inconve- nienti, abolisce  la  distinzione  tra  i  due  numeri,  lasciando cosi  intatto  il  paradosso  pitagorico  che  identificava  i concetti  del'e  cose  coi  concetti  stessi  dei  numeri,  quelli di  cui  è  quistione  neiraritmetica.  Speusippo  di^tingup, come  Platone,  i  numeri  cose,  i  numeri  ideali,  da  quelli deir  aritmetica  ;  ma  facendo  il  contrario  di  quello  che aveva  fatto  Platone,  dichiara  anteriore  il  numero  mate- matico, e  r  ideale  posteriore.  La  dottrina  di  Speusippo ha  due  vantaggi  su  quella  di  Platone  :  il  primo  di  rico- noscere che  il  numero  in  se  stesso,  cioè  n^l  suo  concetto, non  può  essere  che  quello  dei  matematici  ;  e  l'altro  di dare  l'anteriorità  tra  i  due  numeri  a  quello  che  è  real- mente più  astratto,  essendo  dell'ultima  evidenza  che  gli attributi   aritmetici  delle   cose  sono  meno    comprensivi, (1)  Met.  1.  Xli.  X.  14  —Il  namero  matemntioo  è  chiamato  il  pri- mo numero,  in  rapporto  ai  numeri  o«n  cui  s'  identifloano  le  Idee e  le  cose,  ai  numeri  contriti. J hanno  meno  determinazioni,  che  le  loro  essenze  stesse, cioè  le  totalità  dei  loro  attributi.  Del  resto,  per  ^questa modificazione  apportata  al  pitagorismo  platonico,  Speu- sippo trovava  un  addentellato  nella  dottrina  stessa  del suo  maestro.  Come  infatti,  nel  sistema  di  Platone,  uno stesso  numero  poteva  essere  al  tempo  stesso  più  entità distinte?  (inconveniente  che  Aristotile  rimprovera  pure alla  dottrina  dei  pitagorici).  Se  il  numero  era  comune  a tutte,  non  doveva  essere,  per  conseguenza,  separabile da  loro  e  loro  anteriore?  Ben  più,  Speusippo  non  faceva altro  che  spingersi  più  avanti  nella  stessa  via  per  cui si  era  messo  Platone.  Questi  si  era  allontanato  dalla pura  dottrina  pitagorica,  vedendo  nei  numeri,  non  le  cose slesse,  ma  le  sole  forme  delle  cose;  Speusippo,  non  le forme,  ma  alcun  che  di  più  astratto  ancora,  di  meno comprensivo. Vediamo  ora  le  altre  modificazioni  che  Speusippo  ap- portava al  pitagorismo  platonico,  in  conseguenza  della nuova  relazione,  da  lui  stabilita,  dei  numeri  con  le  Idee e  le  cose.  Cominciamo  dai  caratteri  dei  numeri  in  sé. Primo,  i  numeri  in  sé  di  Speusippo  sono  combinabili  (1), perchè  questo  è  il  carattere  dei  numeri  matematici.  Se- condo, Speusippo  abbandona  la  generazione  progressiva dei  numeri  gli  uni  dagli  altri  (2j,  perchè  questa  rappre- (t>  V.  Arist.  MeL  l.  Xlll.  Vili.  6-7. (2)  V.  VI  Met,  ì,  XIV.  111.  8,  in  cui  Aristotile  rimprovera  a  quelli ohe  ammettono  le  sole  entità  matematiche,  che  per  loro,  non  solo fra  le  diverse  classi  di  esseri  da  loro  ammessi,  ma  anche  fra  gli  stessi numeri  matematici  (ixepi  zoi)  àpi^\iO\)  Tiavxóg),  l'  anteriore  non giova  per  niente  al  posteriore  (contrariamente  a  queUo  ohe  av- veniva nel  sistema  di  Platone).  Qui  le  parole  a*iteriore  e  poste- riore hanno  al  tempo  stesso  un  doppio  significato  come  nel- VEth,  End.  l.  l.  Vm.  9-10,  seooado  ohe  si  applicano  a  Sptusippo  o —  365  - sentava  il  movimento  dialettico  delle  Idee,  la  derivazione delle  p^ù  particolari  dalle  più  generali,  e  i  numeri  in  t^è per  Speusippo  non  s'identificano  più  coi  Generi  e  le  Spe- cie delle  cose.  Terzo  infine,  nei  numeri  matematici  di Speusippo  nou  ve  ne  hanno  molti  della  stessa  specie, come  in  quelli  di  Platone  (1),  perchè  qupsta  particolarità della  dottrina  platonica  era  legata  al  posto,  assegnato alle  entità  matematiche,  d'intermediarie  tra  lo  Sp^ce  e le  cose. I  due  elementi  di  Speusippo  sono  l'Unità  e  la  Plura- lità (2).  Egli  non  riduce  più  i'demento  contrario  all'Uno alla  Dualità  indefinita,  perchè  lo  scopo  di  questa  dottrina di  Platone    era  sovratutto    di  eftet»uare   la   generazione a  Platone  (alla  cai  dottrina  sui  numeri  viene  implicitamente  op- posta «juella  di  Speusippo).  Applicate  a  Platone,  hanno  il  signifi- cato tecnico  che  loro  si  dà  nella  dialettica  platonica;  applicale  a Speusippo,  non  possono  significare  che  l'ordine  dei  termini  di  una serie  progressiva  qualunque,  qual  è  quella  dei  numeri  matematici. (1)  Arist.  (Met.  1.  Xlll.  Vili.  5-7)  rimprovera  a  Speusippo  di  non distinguere,  come  Platone,  una  prima  diade,  una  prima  triade,  eoe danna  parte,  e  dall'altra  molte  diadi,  molte  triadi,  ecc.  Dunque Speusippo  o  ha  ammesso  solamente  una  diade  unica,  una  triade unica,  ecc.,  o  solamente  molte  diadi,  molte  triadi,  ecc.  (senza  su- bordmarle  a  un'altra  diade,  a  un'altra  triade,  ecc.  antoriori)  Or* la  seconda  ipotesi  è  inammissibile,  perchè,  secondo  i  principii  di tutta  la  scuola  platonica,  ogni  nioltiplicità  suppone  un'  unità  su- periore, a  cui  deve  essere  ricondotta (2)  V.  Afelaf.  1.  XIV.  IV,  in  cui  non  si  fa  il  no  ne  di  Speusippo, ma  SI  parla  di  quei  fil  isofi  che  non  identificano  l'uno  col  bene  e fanno  questo  posteriore  a  quello,  opinione  che,  come  sappiamo  dal 1.  Xll.  VII.  9,  è  quella  di  Speusippo  (e  ohe  del  resto,  nello  stesso 1.  XIV.  IV- V.  paragr.  5-  è  legata  all'altra,  certamente  pure  di Speusippo,  che  le  prime  sostanze  sono  i  numeri  matematici).  V.  an- che per  la  dottrina  che  stabilisce  come  elementi  l'Unità  e  la  Plu- ralità Met.  l.  Xll.  X.  2s},  7,  1.  Xlll.  Vi.  5,  y,  l.  XIU.  IX.  7-10,1.  XIV. 1.  1-ti,  1.  XIV.  IV.  2-6,  1.  XIV.  V.  3-5,  ecc. f -•  > progressiva  dei  numeri  (1)  che  Speusippo  ha  abbando- nata. L'Unità  naturalmente  è  l'essenza  (Oi^sia  la  forma), la  Pluralità  la  materia  (2).  Speusippo  identifica  s**nza dubbio,  ad  imitazione  di  Platone,  la  prima  ai  limite  o limitato  e  la  seconda  aWiltimiiato.  Aristotile  riguarda l'Unità  e  la  Pluralità  ora  con  e  principii  dei  soli  numeri matematici  (3),  ora  come  principii  di  tutti  gli  esseri  (4). Di  queste  due  versioni  noi  dobbiamo  amm»^ttere  la  se- conda, tanto  perchè  la  dottrina  dei  due  elementi,  nella scuola  platonica,  ha  per  iscopo  di  fondere  il  sistema  dello Idee  con  le  dottrime  pitagoriche,  e  i  due  elementi  dei  pi- tagorici erano  gii  elementi  di  luite  le  cose;  quanto  per- chè l'unità  di  sistema,  che  è  una  delle  condizioni  delle dottrine  metafisiche  fondate  sulla  realizzazione  dei  con- cetti e  sulla  dialettica  (cioè  sulla  deduzione  progressiva di  questi  concetti  realizzati  gli  uni  dagli  tìtn),  esigeva che  Speusippo  deducesse  tutte  le  sue  entità  da  un  prin- cipio unico  come  etdog  comune  di  tutte  (il  principio  con- tn»rio  essendo  conside-rato  come  la  materia).  Le  propo- sizioni d'Aristotile  che  si  trovano  in  contraddizione  con la  versione  che  noi  accettiamo  —  tra  cui  la  principale  è quella  che  Speusippo  stabiliva  dei  principii  distinti  per  cia- scuna delle  diverse  clast^i  di  sostanze  da  lui  ammesse  (5)  — non  sono  difficili  a  spiegarsi.  Evidentemente  1'  Unità e  la  Pluralità,  quantunque  loro  venga  data  la  funzione di  elementi    comuni    di  tutti  gli  esseri,  sono    particolar- (1)  V.  questo  Supplem.  carta  167. (2)  V.  Met,  1.  Xll.  X.  3,  1.  Xlll.  VI.  5,  1.  XIV.  1.  3. (3)  V.  Mei.  1.  VII.  11.  4,  1.  XU.  X.  14,  l.  XIU.  VUl.    5,  l.  Xlll.  IX. 6-12,  eco. (4)  V.  Met,  l.  Xll.  X.  2-3,  7,  1.  XU.  VU.  9,  l.  Xlll.  VI.  5,  9,  l.  XIV. V.  1,  evo. {b)  V.  3/«f.  1.  VU.  U.  4,  e  1.  Xll.  X.  14,  l.  e.  a  carta  265. 1 \ 1 '^ * • mente  adattate  a  quella  di  elementi  dei  numeri;  e  in  ef- fetto, gli  elementi  di  tutti  gli  esseri  essendo  delle  entità d*  una  universalità  assoluta,  e  i  numeri   matematici  es- sendo, tra  gli  esseri,  i  più  astratti  e  che  abbracciano  tutti gli  altri  nella  loro  estensione,  ne  seguiva  che  questi  ele- menti non  potevano  essere  altra  cosa  che  gli  Universali supremi   dei  numeri  matematici.  Ma  Aristotile  considera i  numeri    matematici    di    Speusippo   come  trascendenti, cioè  come  separati  (1);  per  conseguenza  la  parusia  del- rUnità  e  della  Pluralità  in  questi  numeri  non  importa, per  Ini,  come  por  Speusippo,  la  loro  parusia  in  tutti  gli altri  esseri.   Cohi  egli  non    può  riconoscere  la  loro   fun- zione di  elementi  costitutivi,  cioè  d'ingredienti,  degli  es- seri, che  nella  sfera  dei  numeri  matematici.  Da  un  altro canto  egli  non  tiene  alcun  conto  della  loro  causalità  su- gli altri  esseri,  perchè  questa,  che  non  è  altra  cosa  che il  legame  dialettico  tra  il  principio  e  le  cose  dedotte  dal principio,  è  una  sorta  di  causalità    che  non  può    ricon- dursi ad  alcuna  delle  quattro  specie  di  cause  riconosciute da  Aristotile.  Cosi  egli  non  può  vedere  neir  Unità  e  la Pluralità,  rispetto  agli  altri  esseri  oltre  i    numeri  mate- matici, il  carattere  di  principii,  in  nessuno  dei  sensi  di questo  termine.  Potrebbe  credersi  che    per  ragioni  ana- loghe Aristotile  dovrebbe  vedere  nell'  Uno  e  la  Dualità indefinita  di  Platone  i  principii  dei  soli  numeri  ideali  e non  degli  altri  esseri.    Ma  vi  ha  fra  i    primi    numeri  di Platone  e  quelli  di  Speusippo  una  differenza  importante. I  primi  numeri   di    Platone   sono  identici   alle   Idee,    e la  dottrina  che  le  Idee  sono  le   cause  di  tutti  gli  esseri tiene  troppo  posto  nella  filosofia  platonica .  perchè  Ari- stotile potesse  Don  tenerne   conto,  non   considerando  i principii  di  queste  cause  come  principii  ancora  dei  loro effetti.  Al  contrario  i  numeri  di  Speusippo  appariscono cosi  poco  le  cause  delle  entità  posteriori,  che  queste,  co- me dice  Aristotile  (1),  esisterebbero,  anche  se  quelli  non esistessero  (proposizione  che  esprime  esattamente  la  dot- trina di  Speusippo,  come  vedremo  sulla  fine  di  questo numero).  Un'altra  differenza  che,  quantunque  abbia  in se  stessa  poca  importanza,  ne  acquista  molta  agli  occhi d'Aristotile,  è  il  modo  in  cui  nel  sistema  platonico  le grandezze  vengono  dedotte,  facendole  risultare  dai  nu- meri e  dalla  materia.  Aristotile  (2)  mette  in  antitesi  que- sta dottrina  con  quella  di  Speusippo,  che  fa  la  natura sconnessa  come  una  cattiva  tragedia  (perchè,  come  ha detto  nel  numero  precedente,  le  cose  esisterebbero  non esistendo  le  entità  matematiche,  e  non  esistendo  i  nu- meri esiterebbero  le  grandezze).  La  derivazione  logica del  realismo  dialettico  non  ha  per  Aristotile  alcun  va- lore come  derivazione  reale  :  egli  dà  quindi  più  impor- tanza al  suo  simbolo  materiale,  che  la  esprime  come  la produzione  di  un  tutto  per  i  suoi  elementi,  e  vi  vede  il nesso  ontologico  fra  le  diverse  classi  di  entità,  che  non trova  nel  sistema  di  Speusippo. Non  vi  ha  dubbio  d'  altronde  che,  quando  Aristotile parla  di  principii  distinti  per  le  diverse  classi  di  sostanze ammesse  da  Speusippo,  questa  parolaprmctpu  non  abbia un  significato  differente  da  quello  tecnico  che  essa  e  il suo  sinonimo  elementi  hanno  nella  filosofia  platonica, vale  a  dire  di  concetti  (realizzati)  della  generalità  più elevata,  da  cui  tutti  ^\\  altri,  più  particolari  e  compresi flotto  di  essi,  sono  dedotti.  Cosi  per  i  principii  delle  gran- (2)  V.  Met.  1.  Xm.  vi.  6  9  1.  XIV.  111.  3-5. (1)  L.  XIV.  ni.  8. (2)  Met.  1.  XlV.  Ul.  9. —  267  - r-M dezze  Aristotile  intende  certamente  il  punto  e  lo  spazio— con  cui,  coroe  vedremo  in  seguito,  Speusippo  '  costruiva la  grandezza  estesa—:  è  ciò  che  risulta  dalla  Metafisica 1,  XIII.  IX.  6-12,  dove  il  moflo  in  cui  le  grandezze  ven- gono dal  punto  e  dallo  spazio  è  assimilato    a  quello  in cui  i  numeri    vengono  dall'unità    e  dalia  pluralità.  Ora evidentemente  il  punto  non  può  essere  considerato  come r  elSog  generale  delle  grandezze-  Aristotile  ne  riguarda lo  spazio  come  la  materia—.  In  quanto  poi  al  princìpio distinto  deiranima,  di  cui  si  parla   nel  1.  VII.  il.  4,  per esso  non  può  intendersi  che  il  sustrato  iperfisico  dei  fe- nomeni psichici  ammrsso    da  tutti  i  filosofi    animisti,  la parola  anima  designando  il  complesso  di  questi  fenomeni —  secondo  il  senso,  affatto  naturalista,  che  questa  parola ha  nella  filosofia  dello  stesso  Ar  stotile— e  non  la  sostanza anima.    Sarebbe    infatti  incomprensibile    che    Speusippo avess'^.  separato  Tanima  dal  sistema  aniversale  degli  es- seri, rinunziando,  per  un'inconcepibile  eccezione,  a  coor- dinarne ridea  con  quelle  delle  altre  cose  sotto  un'  Idea più  generale  :  è  ciò  intanto  che  significherebbero   le  pa- role :  nu  principio  distinto  dell'anima,  se  il  termine  jorm- cipio  dovesse  prendersi  nel  senso    tecnico  della   filosofia platonica  che  sopra  abbiamo  spiegato.  Del  resto,  si  vede chiaramf^nte  dalle  allusioni  di  Aristotile,  che   fra  tutti  i principii  in    generale,  attribuiti   a  Speusippo   (nel  senso vago  in  erti  il  termine  è  impiegato  dallo  stesso  Aristotile), il  carattere  di  elementi  (nel  significato  platonico)  nen  ap- partiene che  all'Unità  e  alla  Pluralità  (1). Potrà  sembrare  strano  che  Platone  chiami  i  due  Uni- versali supremi  elementi,  e  1'  uno  Vessenza  o  la  forma, l'altro  la  materia,  delle  Idee   e  delle  cose.    Questi  nomi (1)  V.  3/eM.  Xlll.  VII.  9,  X.  2^,1.  XIV.  1. 1-6.  IV.  2-6,  V.  1,  V.3-6 u T--7- iìnplìcherebbero  che  queste  due  astrAzìoni,  le  più  povere di  contenuto  di  tutte  le  astrazioni  realizzate  della  meta- fìsica platonica,  esauriscano,  nella  sua  totalità,  la  Fostanza di  tutte  le  cose,  che  basti  il  loro  concorso  a  costituire, integralmente,  gli  esseri,  e  che  i  concetti  delle  cose  non con<*tino  che  dei  loro  concetti.  Ma  noi  comprendiamo quest'apparente  paradosso,  mettendoci  al  punto  di  vista della  dialettica  platonica  :  siccome  tutte  le  Idee  si  de- ducono dalle  due  Idee  più  generali— o  meglio,  dall'Idea più  generale,  perchè  l'elemento  materiale  non  è,  nella dialettica  platonica,  che  un  vero  principio,  pep  dir  cosi, inerte  come  la  nostra  materia,  e  il  principio  attivo,  ve- ramente produttore,  non  è  che  V  slòoc,  —  ;  cosi  tutto  è implicitamente  contenuto  in  queste  due  Idee,  e  l'univer- salità d'agli  esseri,  con  tutti  gli  attributi  che  li  costitui- scono, risulta  realmente*,  in  un  certo  modo,  dalla  loro unione.  Naturalmente  quest'osservazione  deve  applicarsi anche  alla  dottrina  di  Speusippo  :  quando  Speusippo chiama  l'Unità  e  la  Pluralità  gU  elementi  (l),  eia  prima Vessenza,  l'altra  la  materia  (2),  degli  esseri,  ciò  suppone che  l'Unità  e  la  Pluralità  costituiscono,  per  lui,  la  so- stanza desili  esperi,  che  questi  sono  implicitamente  con- tenuti in  quelle,  e,  per  con«»eofiiPnza,  che  tutte  le  Idee de;»li  es<?eri  (Numeri,  Grandezze  e  Idee  delle  cose)  si deducono  dall'Unità  e  la  Pluralità— o  piuttosto  dalla  sola Unità,  perchè  la  Pluralità  è  la  materia,  e  il  vero  prin- cipio dialettico,  come  abbiamo  osservato,  non  è  che  l'sl- òo(;  — .  Lo  stesso  risulta  dalTappellativo  di  principii.  Ari- ci) V.  per  il  nome  di  elementi  dato  all'Unità  o  alla  Pluralità,  i 1.  indicati  nella  nota  2  a  carta  265  pag.  2.  (meno  quello  del  l.  Xll.  X, in  cui  questo  nome  non  è  impiegato). (2)  Per  que:4ti  nomi  v.  i  l.  indie,  nella  nota  2  a  carta  266  p.   1. -  268  - stotile,  è  vero,  osa  questo  tertnine  in  un  senso  vago,  ma che,  trattandosi  di  entità  platonich'*,  non  potrebbe  uscire, in  sostaozH,  da  questi  due  significati,  cioè,  l'uno,  di  ele- menti costitutivi,  d'ingredienti,  per  dir  cosi,  delle  cose, e  Tallro  (che  è  proprianiente  quello  della  dialettica  pla- tonica) di  cause  prime,    di  esseri    primitivi,    da  cui    gli altri  procedono.  Tuttavia  non  vi  ha  dubbio  che  in  alcuni ca*ii  egli  non  chiami  gli  elementi  di  Speusippo />rmct/>u in  questo  secondo  senso  :  è  cosi  che  fa  quando  attribui- sce ad  essi  al  tempo  stesso   la  doppia  qualità  di  elementi e  di  principii    (p.  e.  nel  1.  Xlll.    VI.  5:   «quelli    che  di- cono l'uno  principio,  essenza  cu    elemento    di  tutte   le cose:>;  e  sulla  tìne  dello    stesso   capitolo:    «tutti  quelli che  dicono   1'  uno  f^lemento  e  principio  degli   esseri»),  e più  chiaramente  ancora,  quando  allude  alla  dottrina  di Speusippo  che  il    bene  e   1'  essere   non  sono  identici  al principio,  ma  gli  sono  posteriori  (1),   tanto  più   che  egli oppone  questa  dottrina  alla  sua  propria  e    a  quelle    dei teologri  e  di  altri  filnsofi   che  fanno    della    divinità   o  di un  esHfr^  analooo  U  causa   prima  delle  cc.se  (nel  senso dialettico,  1'  appellativo  di  principio  non   conviene  pro- priamente choi  all'Uno;  e  infatti  è  a  quest^elemento  che lo  dà  a  preferenza  Aristotile,    nei  luoghi  indicati    e  al- trove-) Dallaa Priorità  dei  numeri  matematici  sugli  altri  es- seri, e  dall  i  loro  non  identità  con  le  Idee  e  le  cose,  ne segu'^  che  i  due  elementi  -i  quali,  come  abbiamo  notato, non  possono  essere  che  gli  attributi  universali  della  classe più  astratti  di  esseri,  per  conseguenza  dei  numeri  ma- teraaviei  —  non  hanno  in    Speusippo  che  un significato (1)  Met.  1.  Xll.  VII.  9,  1.  XIV.  IV,  2^,  V.  1. matematico.  Cosi  l'Uno  non  è  il  bene  (1)  né  Tessere  (2) —probabilmente  il  bene  e  il  male  (3)  e  Tessere  e  il  non essere  facevano  parte  delle  due  auoxotx^at  di  contrari, di  cui  stiamo  per  parlare,  e  che  Speusippo  non  identi- ficava, come  Plalone,  ai  due  elementi,  ma  loro  subordi- nava—né  può  identificarsi  con  alcun  altro  dei  principii che  esso  rappresentava  nella  dottrina  di  Platone  (cioè lo  stato,  l'eguale,  lo  stesso,  ecc,  tranne,  naturalmente, il  «èpa;).  Il  simile  potremmo  dire  della  Pluralità. Noi  sappiamo  da  un  luogo  delTJ^^A.  Nic,  (I.  I.  VI.  7) che  Speusippo  ammetteva,  come  i  Pitagorici  (e  come Platone),  la  dottrina  delle  due  auoxoixtat  di  contrari];  ma questo  luogo  non  ci  apprende  niente  sul  carattere  della dottrina   propria   di  Speusippo,    tranne   che    chiamava (1)  Met,  1.  XUl.  VII.  9  e  l.  XIV.  IV. (2)  L.  XIV.  V.  1. <3)  In  effetto,  quantunque  Speusippo  facesse  scendere  l'Idea  del bene  dal  grado  di  primo  principio,  e  mettesse  al  suo  posto,  al  ver- tice della  piramide  ideale,  l'Unità  matematica,  egli  non  poteva  ri- nunziare però  interamente  al  concetto  platonico  della  supremazia del  bene  nella  natura,  cioè,  in  sostanza,  al  concetto  teleologico. Che  egli  non  1'  abbia  fatto  noi  possiamo  desumerlo  infat  ti  dagli stessi  luoghi  indicati  d'Aristotile  sulla  non  identità  del  bene  col primo  principio  (Met,  1.  Xll.  VII.  9  e  1.  XIV.  IV.  3),  Siccome  le  due ouaxoixfat  erano  formate  di  concetti  della  generalità  più  ele- vata, aggregandovi  il  bene,  egli  avrebbe  conservato  almeno  all'an- tico principio  platonico,  per  quanto  era  possibile  nella  sua  propria dialettica,  una  specie  d'  universalità.  —  Che  il  bene  non  abbia  più nella  dialettica  di  Speusippo  la  funzione  di  principio,  nemmeno delle  sole  Idee  delle  cose,  si  desume  anche  da  uno  dei  m<>tivi,  attri- buitogli da  Aristotile  {Met.  l.  XIV.  IV.  5-6),  per  allontanarsi  dalla dottrina  di  Platone  :  è  che  se  il  bene  fosse  identico  all'  uno,  le specie  essendo  numeri,  tutte  le  specie,  tutti  gli  animali  e  le  piante, sarebbero  del  beni.  Inconveniente  che  resterebbe  anche  se  le  spe- cie non  fossero  numeri  e  il  bene,  senza  identificarsi  con  l'uno,  fosse tuttavia  il  principio  delle  specie  (delle  Idee  delle  cose). k~ 1^ runa  deile  due  serie,  pure  come    i  Pitagorici,  la  serie dei  beni,  e  vi  ^comprendeva  l'Unità  (e,  per  conseguenza, nell'altra  la   Pluralità).    Evidentemente,  dalla   funzione deirUnità  e  la  Pluralità  di  principi  di  tutti   gli  esseri, ne  seguiva  che  tutte  le  altre  opposizioni  delle  dueouoxot- X^at  dovessero  ricondursi  a  quest'  opposizione  primitiva, subordinando,  in  ciascuna,  V  uno  dei  termini  all'  unità, identica  al  limitato,  e  l'altro  alla  pluralità,   identica  al- Tillimitato.  Questa  riduzione  delle  altre  coppie  di  oppo- sti alla  primitiva  era  in    Platone,  come  sappiamo,  una vera  identificazione;  ma  in  Speusippo  non  poteva  essere che  una  semplice  subordinazione    identica,  al  fondo,  a quella  delle  specie  al  genere.  Queste  coppie,  in  effetto, che  dovevano  rappresentare  le  opposizioni  fondamentali del  reale,  cioè  le  più  universali  e  a  cui  tutte  le  altre  o la  più  parte  possono  subordinarsi,  non  avrebbero  potuto, evidentemente,  ridursi  ai  due  semplici  concetti  dell'unità e  della  pluralità,  nel  significato  puramente  matematico. Verisimilmente  Speusippo  imprestava  le  opposizioni  delle sue  auaxotx^ai  una  parte  da  Platone,  e    il  resto    dai  Pi- tagorici :  è  almeno  ciò  che  potrebbe  inferirsi  da  un  luogo della  Met  (l.  XIV.  VI.  7)  in  cui  si  attribuisce  ad  alcuni filosofi  che  vedono  nei  numeri  e,  in  generale,  nelle  en- tità matematiche,  le  cause  della  natura,  di  contare  nella ouoTotxCa  dei  beni  l' impari,  il  retto,    V  eguale,  il    qua- drato (1).  Questa   indicazione    sembra   doversi  riferire  a (1)  "  Ciò  solo  mettono  in  chiaro,  ohe  il  bene  esiste,  e  ohe  della ooaxoixia  del  bello  sono  V  impari,  il  retto,  l' eguale,  le  potenze (àt  òuvoc^isig,  cioè  i  quadrati)  di  certi  numeri  „,  Se,  come  conget- turiamo da  questo  luogo,  Speusippo  comprendeva  in  una  delle  due ouaTOtX^at  il  quadrato  (naturalmente  in  quella  del  limitato),  esso e  il  suo  opposto  l'oblungo  (éTspó|iy)X£g)  dovrebbero  evidentemente Speusippo,  perchè  nò  i  Pitagorici,  né  Platone,  né,  per quanto  pappiamo,  altri  platonici,  tranne  Speusippo,  ri- guard^ivano  come  cause  delle  cose  le  entità  matematiche in  generale,  cioè,  non  solamente  i  numeri,  ma  anche  le grandezze  geometriche  (\), Alla  dottrina  che  gli  rlementi  sono  TUnità  e  la  Plu- ralità (e  non  la  Dualità  indefinita)  è  legala,  in  Aristo- tile (2),  quella  che  le  grandezze  vengono  dal  punto  e dallo  spaz'O,  la  quale,  per  conseguenza,  noi  dobbiamo attribuire  anch'essa  a  Speusippo.  Non  si  tratta,  eviden- temente, che  di  una  leggiera  variante  delia  costruzione platonica  della  grandezza  estesa  :  i  solidi  risultano  dallo spazio  racchiuso  e  dalle  superficie  che  lo  racchiudono; le  superficie  dallo  spazio  e  dalle  linee  che  lo  circoscri- vono ;  le  linee  dallo  spazio,  cioè  dall'intervallo,  e  dai punti  da  cui  sono  limitate.  Solamente,  mentre  Platone non  aveva  applicata  questa  costruzione   che  alle  gran- prendersi,  in  questa  sua  dottrina,  non  nel  significato  puramente geometrico,  ma  in  uno  più  largo,  in  cui  quest'opposizione  potesse applicarsi  anche  ai  numeri  (forse  della  stessa  maniera  che  nel  Tee- teto  147  e-  148  a). (1)  Bel  resto  io  credo  che  tutta  la  prima  parte  del  cap.  VI.  del 1.  XIV,  della  Met,^  sino  al  parag.  8,  alluda  alle  dottrine  di  Speusippo Vi  si  parla  infatti  d'una  teoria  dei  numeri,  alla  pitagorica,  e  non potrebbe  essere  quistione  degli  stessi  pitagorici,  perchè,  in  questa teoria,  il  rapporto  tra  i  numeri  e  le  cose  è  la  partecipazione  (xoi- VCDvCa — V.  parag.  3),  e  la  conclusione  di   tutto  il   capitolo  è  che  gì oggetti  matematici  non  sono  i  principii  e  non  sono  X^P^^'^^  <iai sensibili.  Di  più,  la  dottrina  di  cui  si  parla  dal  paragrafo  1  all'S viene  distinta  da  quella  dei  numeri  ideali  (v.  paragr.  9):  non  po- trebbe dunque  essere  che  la  dottrina  dei  numeri  matematici,  come cause  delle  cose,  !a  quale  non  avremmo  alcun  motivo  di  attribuire ad  altra  scuola  platonica  che  a  quella  di  Speusippo. (2)  Met.  1.  Xlll.  IX.  6-12. —  270  — dezzé  Cullerete  e  particolari,  cioè  ai  corpi,  Speusippo invece  Tapplica  immediatamente  alle  grandezze  astratte e  generali,  cioè  alle  geometriche  (i)  Vi  ha  però  tra  la dottrina  di  Platone  e  quella  di  Speusippo  una  differenza, dipendente  dalla  modificazione  che  queliti  apportava  alla teoria  dei  numeri.  Platone  non  faceva  risultare  propria- mente le  linee  dallo  spazio  e  dai  punti— poiché  egli  non ammetteva  il  punto  come  entità  reale  (2)— ma  dallo  spazio e  dalle  monadi,  benché  in  questa  costruzione  le  monadi fungessero  in  sostanza  da  veri  punti  ;  Speusippo  invece non  poteva  identificare  più  il  punto  con  V  unità,  perchè gli  esseri,  p  r  lui,  non  erano  più  identici  ai  numeri  in  se stessi.  Ma  questa  differenza  era  ben  sottile,  le  unità  di Platone,  danna  parte,  in  quanto  servivano  alla  formazione delle  grandezze  estese,  non  potendo  riguardarsi  come  vere unità  (oè  ideali  né  matematiche),  e  dall  'altra  parte,  il punto  di  Speusippo,  come  abbiamo  visto,  venendo  dal- rUnità,  ed  essendo,  per  consegu<»nza,  non  in  verità  una unità  asfraffa,  ma  una  unità  concreta.  Quanto  Aristotile (1)  Per  conseguenza  la  parola  spazio,  trattandosi  della  dottrina di  Speusippo,  deve  prendersi  in  un  senso  un  po' differente  da  quello ch'esso  ha  nella  dottrina  di  Platone.  Lo  spazio  del  Timeo,  dovendo servire  alla  produzione  di  oggetti  individuali,  è  anch'  esso  un  og- getto individuale,  cioè  il  tutto  di  cui  gli  spazi  particolari,  finiti, sono  delle  parti.  Lo  spazio  di  Speusippo  invece,  in  quanto  almeno serve  alla  produzione  di  entità  generali,  deve  essere  un'entità  ge- nerale anch'esso,  quella  di  cui  tutto  ciò  a  cui  diamo  il  nome  di spazio,  sia  Io  spazio  totale,  infinito,  sia  uno  spazio  finito,  è  una partioolariazazione  (nel  senso  in  cui  le  cose  lo  sono  delle  Idee).  Quale materia  dell'esteso,  lo  spazio  non  è  chiamato  da  Speusippo  xónog, come  da  Platone,  ma  StdaTTìjJia  (v.  >/«M,  Xlll.  1X:.J11-12  ccfr.l.  XIV. V.  2),  forse  perchè  esso  non  è  lo  spazio  esteso  in  tutte  e  tre  le  di- tensioni  che  in  una  sola  delle  tne  classi  di  entità  — linee,  superfi- cie e  solidi— che  egli  costruisce. 0)  V.  Arist.  Met.  I.  I.  IX.  20. -. . y. parla  della  dottrina  che  la  superfìcie,  la  linea,  il  punto e  r  unità,  o  semplicemente  la  superficie,  la  linea  e  il punto,  sono  sostanze  e  più  sostanze  del  corpo  stesso  (1); certao^ente  egli  non  allude  alla  sola  costruzione  dell'e- steso che  noi  attribuiamo  a  Speusippo,  ma  a  quella,  in generale,  della  scnrla  platonica.  Tuttavia,  se  l'entità,  da cui  (e  dallo  spazio)  procedevano  le  linee,  è  da  lui  chia- mata un  punto,  ciò  sembra  supporre  che  alcuno  dei  fi- losofi che  ammettevano  questa  costruzione  avesse  già dato  questa  entità  esplicitamente  come  punto  —  Senza dubbio  Speusippo  vedeva  anche  in  questa  costruzione dell'esteso,  come  aveva  dovuto  fare  pure  Platone  —  il punto  essendo  ricondotto  all'unità  o  limite,  e  lo  spazio alla  pluralità  o  tVZimiYa^o— un'applicazicne  del  principio pitagorico  che  le  cose  constano  del  limite  e  àeW illimitato. Non  ci  resta,  infine,  che  ad  esaminare  quali  modifica- zioni ha  potuto  apportare  nella  dialettica  platonica  la nuova  relazione  che  Speusippo  stabiliva  tra  i  numeri, da  una  parte,  e  le  Idee  e  le  cose,  dall'altra  (oltre  alla detronizzazione  dell'Idea  del  bene,  di  cui  abbiamo  già parlato).  Dalla  dottrina  che  V  Uno  e  la  Pluralità  sono gli  elementi  di  tutti  gli  esseri,  non  che  dal  bisogno  del- l'unità sistematica,  necessaria  al  tipo  di  metafisica  a  cui appartiene  il  sistema  di  Speusippo,  segue  che,  come  ab- biamo detto,  tutt(5  le  entità  di  questo  filosofo  devono secondo  lui,  dedursi  dall'Uno  e  la  Pluralità,  o,  più  propria- mente, dall'  Uno,  perchè  nella  dialettica  platonica  (mo- dificata per  la  fusione  del  sistema  delle  Idee  coi  con- cetti pitagoricij  il  vero  principio,  in  sostanza,  è  quello dei  due  elementi  che  funge  da  slSog.  In  altri  termini, tutte  le  Idee,    secondo  Speusippo,    quelle   dei    numeri. •'4 (1)  Cfr.  questo  Supplem.   carta  quelle  delle  grandezze  geometriche  e  quelle    delle  coso, devono  nascere    dalla    dieresi  progres^^iva    deir  Uno.  A quest'oggetto,  Speusippo  non  avrebbe  potuto  servirsi  che deir  uno  o  dell'  altro  di  questi   due  processi.    Cioè  o  di dedurre— s'intendr>,  col  metodo  di  divisione  -  prima  dal- l'Uno i  Numeri,  e  poi  da  ciascun  Numero  le  Grandezze e  le  Idee  deMe  cose  ad  esso  subordinate.  Ovvero -siccome tutto  ciò   che   esiste  è  al  tempo   stesso  un  numero,  una grandezza  e  una  cosa- di  dividere  gli  esseri,    nella  loro universalità,  tre  volte,  ciascuna  ad  uno  di  questi  tre  di- versi punti  di  vihta,  cioè  come  numeri,  come  grandezze e    come   cose,  partendo  in  ciascuna  di  queste  tre  divisio- dairUno  come  sIòoq  generale    di  tutti    gli  esseri,  sia  ri- guardati   quali  numeri,  sia  quali  grandezze,    sia  quali cose.  A  questo    modo  si  avrebbero    tre  scale    dialeit'che distinte,  ma   convergenti    alla  loro  «emmHà   nell'  Udo, rappresentanti    ciascuna  la   totalità    degli  esseri  :  quelU delle  Idee  dei  numeri,  quella  delle  Idee  delle  grandezze e  quella  delle    Idee  delle  cose.    Di    questi    due    processi Speusippo  non  ha  potu'o  s-guire  il  primo,  perchè,  se  nel suo  sistema  le   grandezze  si    deducessero  dai    numeri  e le  cose    dai    numeri  e    dalle  gran-i»  zze,    Aristotile    non potrebbe  dire  che  le   cose  esisterebbero    anche    non  esi- stendo  le    entità    matematiche,    e   le   grandezze    anche non  esistendo    i  jnumeri.    D'  altvon'^e    è  solo  il    secondo di  questi  due  processi  che  perii»ettcva  di  nou    violebtare troppo  apertamente  le  affinità  reali  delle  cose.  Noi  dob- biamo   dunque    ammettere    che    secondo    Speusippo    le Idee     di    cose  —  cioè   delie   cose    concrete,    dei    numeri all'ultimo    gradì  di    concntlz '.azione  —  s'    deducevano progressivamente,  alla  maniera  di  Platone,  dalle  Idee  di cose  più   generali,  a  partire  dall'Uno,  da  cui  cohi  queste Idee  provenivano  direttamente,  e  non  a  traverso  quelle dei  numeri  e  delle  grandezze.  Così  Aristotile  ha  ragione di  dire  che  ciascuna  delle  tre  classi  di  entità  esistereb- be anche  se  le  altre  non  esistessero*  Tuttavia,  se  le  tre classi  di  entità  non  si  deducevano  l'una  dall'altra,  ciò non  impediva  che  vi  fosse  tra  di  loro  quella  derivazione logica  e,  per  conseguenza,  anche  ontologica,  necessaria per  chiamarle  anteriori  e  posteriori.  Questa  derivazione, nel  sistema  di  Speusippo,  era  un  risultato  non  cercato del  principio  platonico  che  tutto  ciò  che  esiste  è  logica- mente impossibile  che  non  esista,  e  tutto  ciò  che  non esiste  logicamente  impossibile  che  esista.  I  numeri  sono, come  abbiamo  detto,  una  i|orta  di  generi  relativamente alle  cose  e  alle  grandezze,  che  ne  sarebbero  come  delle specie.  Ora,  in  conseguenza  di  questo  principio,  ciascuno di  questi  generi  si  concretizza  necessariamente  nelle  sue specie  esistenti  e  in  queste  sole  specie.  E  questo  carat- tere che,  unito  all'esistenza  pure  necessaria  del  genere- che,  in  virtù  dello  stesso  principio,  compete  anche  ai numeri  di  Speusippo— e  all'  essere  questa  data  anterior- mente a  qu«»lla  delle  specie,  fa  della  dieresi  platonica una  derivazione  logica  e,  mediante  la  realizzazione  dei concetti,  anche  ontologica.  Speusippo  può  dunque,  per le  stesse  ragioni,  considerare  come  una  derivazione  lo- gica ed  ontologica  —  benché  in  questo  caso  non  si  ap- plichi il  metodo  di  divisione — anche  il  passaggio  dai  nu- meri alle  grandezze  e  alle  cose.  Per  le  grandezze  rela- tivamente alle  cose  vale  lo  stesso  che  abbiamo  detto  per i  numeri  relativamente  alle  grandezze  e  alle  cose.  E  cosi che  Speusippo  può  stabilire,  tra  le  sue  tre  classi  di  so- stanze, un'anteriorità  e  posteriorità  conforme  al  signifi- cato che  questi  termini  hanno  nella  filosofia  platonica. Quest'anteriorità  e  posteriorità,  esistente  tra  le  tre  sfere in  cui  egli  divide  il  reale,  esiste,  a    più  forte   ragione nell^interno  di  ciascuna  sfera;  e  ciò  che  riassume  il  si- stema di  Speusippo,  come  del  resto  anche  quello  di  Pla- tone, è  Tidea  di  uno  sviluppo  estratemporale,  ohe  va sempre  da  uno  stato  più  indeterminato  a  uno  stato  più determinato,  e  di  cui  egli  vede  Timmagine  nello  sviluppo delle  piante  e  degl’animali.DOTTRINE  DI  PLATONE  SULL'ANIMA  E  LA  DI- VINITÀ' NEL  LORO  RAPPORTO  COL  SISTEMA DELLE  IDEE I    L'auiina  e  suo  rapporto  con  le  Idee e  coi  fenomeni (1)  V.  Arist.  Met.  1.  XIV.  V.  1,  I.  o. Quantunque  nel  corso  dì  questo  scritto  abbiamo  toccato parecchi  punti  delle  dottrine  di  Platone  sulT  anima,  gio- verà forse  di  presentare  queste  dottrine  nel  loro  insieme, malgrado  che  ciò  debba  colarci  delle  ripetizioni  inevi- tabili. Il  nostro  scr^po  na turai ment'*.  non  sarà  di  fare  un'e- sposizione di  questa  parte  della  filosofia  di  Platone:  ci basterà  d' indicare  i  puati  più  rilevanti  p3r  mettere  in luce  il  significato  reale  delle  dottrine  platoniche,  contro le  interpretazioni  erronee,  e  più  o  meno  arbitrarie,  che se  ne  sono  date. Il  sistema  di  Platone  suM'anima  è  Tanimismo  antico, sviluppato  con  più  conseguenza  che  in  alcun  altro  filo- sofo, e  trasportato  cosi,  dalPuomo  e  gli  altri  esseri  ani- mati dell'esperienza,  all'universo,  considerato  anch'esso come  un  essere  animato.  Il  carattere  dell'  animismo  an- tico è  che  l'anima  è  riguardata,  non  solo  come  una  so- stanza, ma  come  una  sostanza  analoga  a  quelle  dell'os- servazione, cioè  materiale  o  semi-materiale.  Questo  con-   j 4 —  273  — H i  _ f\ cetto  dell'  anima  si  trova,  quasi  senza  eccezione,  in  tutti i  filosofi  greci  prima  d'Aristotile.  Quelli  fra  di  essi  che  noi pos3Ìamo  considerare  come  i  rappresentanti  dello  spiritua- lismo antico,  come^  oltre  a  Platone,  Anassagora,  non sono  spiritualisti  nel  nostro  senso,  perchè  non  hanno  idea d'una  sostanza  assolutamente  immateriale,  cioè  che  non occupa  uno  spazio.  Da  un'altra  parte  i  rappresentanti  più genuini  del  materialismo,  come  Democrito,  non  sono  ma- terialisti nel  senso  moderno,  perchè  anch'  essi  riguardano l'anima  come  una  sostanza  distinta  dal  corpo,  benché  ma- teriale come  questo.  Un  materialismo  rigoroso,  cioè  che  non ammette  il  dualismo  d'anima  e  di  corpo,  non  si  trova, prima  d'Aristotile,  che  in  alcuni  pensatori  isolati  e  d'una importanza  secondaria  :  Ippone  (secondo  cui  l'anima  era acqua  e  il  seme  era  la  prima  anima)  (1),  Crizia  (che identificava  l'anima  col  sangue)  (2),  e  gli  autori  scono- sciuti della  dottrina  che  l'anima  è  l'armonia  del  corpo  (3), sono  forse  i  soli,  tra  i  filosofi  ricordati  da  Aristotile,  che noi  possiamo  riguardare  come  materialisti,  nel  senso  mo- derno e  rigoroso  del  termine.  Anche  dopo  Aristotile,  in cui  (a  parte  la  sua  dottrina  sul  Nous)  apparisce  per  la prima  volta  il  concetto  scientifico  dell'anima  (poiché  per lui  la  distinzione  dell'  anima  e  del  corpo  si  riduce  a quella  della  forma  e  della  materia),  il  concetto  dominante continua  ad  essere  quello  della  sostanzialità,  e  noi  lo ritroviamo  anche  in  Lucrezio,  che  si  rappresenta  l'anima come  una  sostanza  sottile,  che  è  diffusa  in  tutto  il  corpo, e  di  cui  la  parte  dominante,  cioè  1'  animo  o  la  mente, abita  nel  cuore  (4). (1)  Arist.  De  An,  1.  1.  e.  2,  18. (2)  Ibid  19. (3)  Arist.  De  An,  1, 1.  o.  4. 1-8;  ofr.  Plat.  Fedo  85  e- 86  d  e  91  d-  9ò  a. (é)  De  ver,  nat,  1,  111. Le  dottrine  platoniche  sull'anima  entrano  dunque  per- fittamente  nell'ordine  di  idee  dell'epoca,  anzi  general- mente del  mondo  antico.  Cosi  Platone  non  sente  il  bi- sogno di  provare,  ma  afterma  come  un  principio  che nes  uno  potrebbe  contestargli,  questo  presupposto  fonda- mentale di  tutta  la  teoria  :  che  l'essere  animato  è  com- posto di  due  sostanze,  un'anima  e  un  corpo;  che  la  vita risulta  dall'  unione  di  queste  due  sostanze,  e  la  morte dalla  loro  separazione  (1).  Tuttavia  sulla  base  di  questo dualismo  egli  fonda  una  dottrina  che,  tra  quelle  del doppio  materialismo  antico,  è  la  più  conforme  ai  con- cetti del  moderno  spiritualismo,  riguardando  1'  anima  e la  materia  (cioè  il  substratum  di  tutti  i  corpi)  come  due sostanze  diverse  e  radicalmente  opposte.  Ma  con  ciò  Pla- tone non  fa  che  sviluppare  logicamente  il  concetto  fon- damentale d'  ogni  animismo.  Questo  è  che  il  principio della  vita  e  della  coscienza  deve  essere  qualche  cosa  di distìnto  dalle  sostanze  che  costituiscono  il  corpo,  poiché è  impossibile  di  comprendere  che  una  stessa  sostanza passi  dallo  stato  di  vivente  e  di  cosciente  a  quello  di non  vivente  e  di  non  coscientt»,  e  viceversa  (2).  Ora,  se è  cosi,  sarà  pure  incomprensibile  una  conversione  reci- proca tra  la  sostanza  anima  e  una  sostanza  materiale qualsiasi  :  per  conseguenza,  tutte  le  sostanze  materiali essendo,  secondo  Platone,  convertibili  1'  una  nell'  altra, non  vi  sarà  nell'universo  che  una  sola  dualità  irridutti- bile  e  veramenie  fondamentale,  quella  dello  spirito  e della  materia.  Nondimeno  sarebbe  un  errore  fare  di  Pla- tone un  campione  dello  spiritualismo  nel  senso  moderno. Egli  resta  ancora,    in  sostanza,  sul  terreno   del  doppio .  t (1)  V.  Fedo,  64  e,  67  d,  105  d,  Gorffio  524  b,  Epinom,  981  a,  eco (2)  V.  App,  e.  2.  §  4-6. —  274  - '1 '1 I  I ] maUrialismo  primitivo  :  ranima,  secondo  lui,  è  estesa  (I) e  si  muove  (2),  e  non  afferma  senza  restrizione  che  non può  essere  oggetto  dei  sensi  esterni  (3).  Il  movimento deir  anima  é  una  conseguenza  logica  della  sua  semi- materialità :  l'anima  infatti  è  il  principio  motore  dei corpi  (perchè  il  movimento  spontaneo  è  il  carattere  di- stintivo deir  essere  animato),  e  non  si  comprendo  come una  sostanza  materiale  o  quasi  materiale  possa  muovere se  non  comunicando  il  proprio  movimento  (4).  Così Platone  applica  all'anima  stessa  la  definizione  che  con- verrebbe all'essere  animato,  «  ciò  che  muove  se  stesso  •>  (5), vedendo  nell'  attributo  della  spontaneità  del  mos^imento un'espressione  più  completa  dell'essenza  dell'anima  che in  quello  della  coscienza,  forse  perchè  gli  sembra  che  il movimento  spontaneo  implica  necessariamente  la  co- scienza, mentre  questa  non  implica  quello.  Il  movimento spontaneo  non  solo  è  1'  attributo  essenziale  dell'  anima, ma  si  trova  in  essa  continuamente  (6),  perchè  da  una parte  la  vita,  negli  esseri  animati  che  noi  osserviamo sulla  terra,  consiste  in  un  movimento  incessante,  la  cui sorgente  secondo  Platone  non  può  trovarsi  che  neli'  a- nima,  e  da  un'  altra  parte  gli  astri  (il  cui  movimento spontaneo  prova  che  sono  anch'essi  degli  esseri  animati) non  cessano  mai  nemmeno  essi  di  muoversi.  Il  doppio materialismo  in  Platone  dà  luogo  ad  una  dottrina,  che non  è  senza  analogia,  almeno  se  si  prende  strettamente (1)  V.   Tim.  34  b,  36  e,  35  a,  41  d,  eco* (2)  V.  le  note  seguenti. (3)  V,  Append,  e.  2.  pag.  CLXX. (4)  V.  e.  2  S  2  pag.  57-60. (5)  V.  Lefjgi  896  a  e  Fedro  245  e, (6)  V.   Tim.  36  c-37  e,  42  e,  43  a,  43a-44  d,  47  c-d,83  a,  iH)d,  91  e 92  a,  Fedro  245  e,  ecc. alla  lettera,  con  quella  del  moderni  materialisti  estremi dell'identità  dei  fatti  psxhici   e  aei  movimenti    organici che  ne  sono  la  causa  :  il  p3nsiero  e  tutti  i  fatti  psichici in  generale   sono  per    Platone  dei    movimenti  dell'  ani- ma (1),  proposizione    che,  intesa    in  un  senso    rigoroso, risolverebbe  il  subbiettivo  nell'obbiettivo,  e  potrebbe  avere per  iscopo  di  far  consistere  tut!;o  il  reale  nell'estensione e  le  sue  modificazioni,  per  poi  ridurlo  più  facilmente  allo spazio  limitato  dalle  unità,  per  conseguenza  al  numero. Tuttavia  la  proposizione   non    deve  forse    prendersi  nel suo  senso  rigoroso:  essa    potrebbe  significare   semplice- mente che  i  movimenti  deil'ani ma  sono  la  causa  del  pen- siero e  degli  altri  fatti  psichici.  Ma  anche  in  questo  caso si  avrebbe  evidentemente  una  sorta  di  dottrina  seoiima- terialista,  che  spiegherebbe  anch'  essa  i  fenomeni    della coscienza  per  quelli  del  mondo  obbiettivo,    e  non  diffe- rirebbe dal  materialismo  propriamente  detto,  che  perchè ai  movimenti  dell'organismo  verrebbero   sostituiti  quelli di  questa  specie  di  maieria   imponderabile,   invisibile  e impalpabile,  che  è,  secondo  Platon^».,  l'anima.  Il  concetto che  l'anima  muove  gli  organi  per  impulsione,  cioè  co- municando loro  il  proprio  movimento  (2),  ci  fa  compren- dere quello  della  sua  tripartizione.  Platone  crede  eviden- temente che  i  movimenti    vitali  si  propagano    a  partire da  certi  centri  indipendenti    fra  di     loro.    Questi    sono, almeno  sovratutto,  il  cervello,  il  cuore  e  il  fegato.  Cosi egli  divide  l'anima  in  tre  parti  separate,  dando  loro  per sedi  le  tre  cavità  del  corpo  in  cui  soao  contenuti'questi r^ a. (1)  V.  carta  J84,  in  nota. (2)  V.  Leggi  894  e-896  b,  Fedro  245  c-246  a,  Arisi. 2-4,  ni.  9-11,  V.  1-2. rie  an,  l.  l.  U. —  875  — •f'ì It organi— dottrina  ammessi  pure  da  Ippocrate,  e  che  poi fa  adottata  da  Galeno  (1)—.  La  parte  deiranima  che  è il  substratura  dell'intelligenza  (il  Xoyioxixóv)  abita  nella cavità  cranica;  quella  in  cui  risiedono  la  collera  e  il  co- raggio (il  0D|xós)  è  alloggiata   nella   cavità  toracica  ;  la terza  a  cui  appartengono  gli  appetiti  sensuali,  la  più  parte dei  quali  sono  in  rapporto  eoa  le   funzioni  della    nutri- zione (r  èTTiGDfAYjiixóvì  è  alloggiata   nella  cavità   addomi- nale, nella  regione  posta  tra  il  diaframma  e  Tombelico  (2). L'esame  psicologico  viene  a  confermare  questa  triparti- z'one  dell'anima,  fondata  senza  dubbio    su  una  base  fi- siologica; poiché  le  attività  psichiche  corrispondenti  alle tre  partì  manifestano,  per  la  contrarietà  delle   loro  ten- denze, ch'esse  apparrengono   a  dei  soggetti    distinti  (3\ Al  concetto  delia  sostanzialità  dell'anima  è  unita  se- neralmente  la  dottrina  della  sua  sopravvivenza,  e  spesso anche  quella  della   sua  preesistenzi.    Tanto    la  soprav- vivenza quanto  la  preesistenza  sono  per  Platone  illimi- tate :  Tanima,  secondo  lui,  non  è  solamente  immortale, ma  eterna.  Questa  dottrina   del  nostro   filosofo  è,  come quella  deir  opposizione    radicale  tra  lo  spirito   e  la  ma. teria.  uno   sviluppo   perfettamente    logico  del   principio dell'animismo.  L'ipotesi  della  sostanza  anima,  come  sap- piamo, è  destinata  a  spiegare  il  passaggio  della  materia dallo  statD  di  vita  e  di  cìseienza  allo  stato  coatrario,  e viceversa  :  siccome  ci  sembra   incomprensibile    che  una stessa  sostanza  si  trovi  alternativamente    in  questi    due stati  contrari  (per  l'induzione  istintiva,   tirata  dalle  no- stre esperienze  più  familiari,  che  l'essenza  delle  cose  non (1)  V.  Galeno  De  placitis  Hippocratii  et  Platonis. (2)  Tineo  69  o  e  sqq. (3)  V.  Rep,  1.  IV.  431  e  sqq. può  cangiare),  ne  concludiamo  che  questo  passaggio  è dovuto  a  un'altra  sostanza  distinta,  che  è  ilsubstratum della  vita  e  della  coscienza,  e  che  ora  si  unisce  alla  ma- teria,  ora  se  ne  depara.  Ma  se  si  ammette  che  questa sostanza  supposta,  cioè  la  sostanza  anima,  è  soggetta ossa  stessa  alla  nascita  e  alla  morte,  si  va  incontro  alla stessa  difficoltà  che  si  è  voluto  evitare  con  la  sua  sup- posizione, cioè  rincomprensibilità  che  una  stessa  sostanza da  vivente  e  cosciente  diventi  non  vivente  e  non  co- sciente, e  viceversa  :  infatti,  una  creazione  e  un  annien- tamento assoluti  essendo  inconcepibili,  rincominciare  ad esistere,  per  l'anima,  non  potrebbe  essere  che  una  tra- sformazione di  qualche  sostanza  preesistente,  che  acqui- sterebbe le  nuove  proprietà  della  vita  e  della  coscienza (che  sono  quelle  che  caratterizzano  l'animaj,  e  il  cessare di  esistere  un'altra  trasformazione  della  stessa  sostanza, che  perderebbe  le  nuove  proprietà  acquistate.  Le  ragioni stesse  per  cui  si  suppone  una  sostanza  anima,  condu- cono dunque  ad  ammettere  che  questa  sostanza  non  può cominciare  ad  esistere  né  cessare  di  esistere.  Queste  ra- gioni,  a  dir  vero,  non  proverebbero  rigorósamente  l'e- ternità dell'anima  individuale,  ma  quella  della  sostanza deiranima,  di  cui  una  certa  individualità  determinata potrebbe  essere  uno  stato  transitorio.  Ma  la  forma  più naturale,  anzi  la  sola  naturale,  che  possa  rivestire  il  con- cetto della  preesistenza  e  sopravvivenza  della  sostanza dell'anima^  è  evidentemente  ia  preesistenza  e  la  soprav- vivenza dell'  anima  individuale.  L' identità  dell'  anima, infatti,  suppone  l'identità  della  coscienza;  per  conseguenza alla  persistenza  dell'  anima  deve  corrispondere  la  persi- stenza della  coscienza;  ora  noi  non  possiamo  concepire che  la  coscienza  persista  (cioè  che  la  stessa  coscienza continui  ad  esistere)  se  non  conservando  la  sua   indivi- —  276  - dualità.  La  dottrina  platonica  deirimmortalità,  anzi  dcl- Teternità,  delTanima  ha  dunque  una  basa  logica  perfet- tamente naturale  (quantunque  d'  un'  evidenza  illusoria, come  lutti  i  sofismi  a  priori  del  nostro  spirito):  ma  Pla- tone, per  dimostrare  quest'immortalità,  si  serve  di  sofismi artificiali y  che  evidentemente  non  possono  essere  dei  mo- tivi reali  della  dottrina.  Ciò  si  spiega  per  la  natura  in- cosciente del  processo  logico  di  cui  questa  dottrina  ò  la conclusione.  II  concetto  della  sostanza  anima  non  sup- pone necessariamente  una  deduzione  dal  principio  ge- nerale che  le  sostanze  non  possono  cangiare  nelle  loro proprietà  essenziali,  e  meno  ancora  un'induzione  co«c^6/^^e dalle  nostre  esperienze  più  familiari  che  ci  suggeriscono questo  principio  gener.ile.  La  spiegazione  della  vita  e della  morte  per  la  unione  e  la  separazione  della  sostanza anima  sembra  evidente  perchè  permette  di  assimilare questi  fenomeni  alle  esperienze  più  familiari,  che  mo- strano che  le  cose  non  cangiano  nella  loro  natura,  ma solo  nei  loro  rapporti  reciproci  di  posizione  :  ma  si  può non  aver  coscienza  del  processo  di  assimilazione,  ma solo  del  suo  risultato,  cioè  delT  evidenza  della  spiega- zione, la  quale  ^Jembra  perciò  un*  evidenza  intrinseca. Così  pure  T ipotesi  che  la  sostanza  anima  non  muore  né nasce  sembra  evidente,  perchè  permette  un'assimiliazione più  compieta,  che  V  ipotesi  contraria,  alle  stesse  espe- rienze più  familiari    da  cui  si  è  conclusa  V  esistenza  di questa  sostanza;  ma  si  può  anche  in  questo    caso  aver • coscienza  solamente  deirevidenzx  dell'ipotesi,  e  non  del processo  d'assi  in  ilazonc  di  cui  quest'evidenza  è  il  risul- tato. Non  è  du  ique  sorprenientj  che  Platone,  per  di- mo strare',  l  i  nmortalità  dell'anima,  invece  che  delle  prove Itali.  cioi>  dt^i  sofismi  naturali^  su  cui  questa  dottrina  è fon  lati,  si  serva  di  sofismi  puramente  artificiali^   inca- paci  per  se  stessi  di  determinare  uoa  convinzione  :  egli non  ammette  la  dottrina  che  in  virtù  della  sua  evidenza intrinseca  (cioè  per  un'inferenza  incosciente);  cosi  si comprenle  com%  e  rcando  di  dimostrarla  agli  altri,  al passaggio  reale  per  cui  é  pervenuto  alla  sua  conclus^'one, del  quale  non  ha  cosnenza,  egli  sostituisca  dei  passaggi fittizi.  Tuttavia  si  sarebbe  ingiusti  verso  alcuni  degli argomenti  di  Platone,  riguardandoli  come  semplici  sofi- smi artificiali  :  essi  sono  (oltre  quello  della  reminiscenza, di  cui  parleremo  ia  seguito)  quello  del  Fedro  (245c-246  a) e  l'ultimo  del  Fedone  (102  b-107  a)  (1),  il  solo,  come  no- tammo altrove  (^),  che  Platone  dia  come  decisivo  (3). Il  primo  di  questi  due  argomenti  conclude  l'eternità  del- l'anima da  (io  che  essa   è  il  principio   motore  (4).  Alla (1)  Qaest'argomento  è  riportato,  nella  sia  parte  essenziale,  nel Supplem.  B,  a  carte  45-47. (2)  Append.  p.  CXCIII. (3)  V.  Fedone  95  d-93  a,  100  b,  107  b. (4)  **  Ogni  anima  è  immortale,  poiché  ciò  ohe  sempre  si  maove è  immortale,  ma  ciò  che  muove  altro  ed  è  mosso  da  altro,  avendo un  termine  del  movimento,  ha  un  termino  della  vita.  Solo  dunque ciò  che  muova  sa  stos^o,  poiché  mai  non  manca  a  se  stesso,  non ca^sa  mai  di  miov^er-ii,  aazl  a  quante  altre  cosa  sono  mossa  è  la sorgente  e  il  principio  del  movimento.  Ora  il  principio  è  non  ge- nerato, poiché  è  necessario  che  tutto  ciò  che  si  genera  sia  gene- rato dal  principio,  ma  qaasto  da  nessuna  cosa  :  se  infatti  il  prin- cipio fosse  generato  da  qualche  cosa,  tutte  le  cose  non  sarebbero geaerate  dal  principio.  Ma  poiché  non  é  generato,  è  anche  neces- sario che  esso  sia  incorruttibile,  poiché,  se  il  principio  venisse  a mancare,  né  esso  potrebbe  nascere  da  qualche  cosa,  né  altra  cosa da  esso....  Cosi  dunque  il  principio  del  movimento  é  ciò  che  muove so  stesso:  questo  poi  non  può  né  nascere  né  morire;  altrimenti  tutto il  cialo  e  ogni  generazione  si  fermerebbero  necessariamente,  né  si avrebbe  mai  donde,  ricuperato  il  moto,  potessero  rinascere.  Ciò ohe  è  mosso  da  se  stesso  apparendoci  essere  immortale,  se  alcuno —  277  — »  T' conclusione  sì  giunge  per  dei  passaggi  che,  quantunque non  siaoo  perfettamente  logici,  non'sono  però  arbitrari: dal  concetto  che  l'anima  è  il  principio  motore  (suggerito dalla  esperienza  più  familiare,  che  ci  dà  come  carattere distintivo  deir  essere  animato  la  spontaneità    dei  movi- mento), se  si  suppone  la  necessità  d'  una  causa    prima (per  l'inconcepibilità  di  un  regresso  all'infinito  nella  ri- cerca delle  cause),  è  naturale  d'inferirne  che  questa  causa prima  è  Tanima  cosmica.  Di  là  ne  segae  rigorosamente che  quert'auima  non  ha  avuto   cominciamento  :   inoltre il  più  logico  é  di  supporre  che  e^isa  non  avrà  nemmeno fine  (perchè  nella    supposizione  contraria    bisognerebbe ammettere  o  che,  estinto  il  principio  del  movimento,  Tu- fliverso  cada  nell'immobilità,  o  che  air  anima  cosmica estinta  succeda,  nel  governo  del  mondo,  un'altra  anima cosmica,  la  quale  avendo  avuto  cominciamento,  si  avrebbe l'incoerenza  di  fare  dell'anima  cosmica  ora  una  coìsl  sen/.a cominciamento  e  una  causa  prima,    e  ora  una  cosa  di-i venuta  e  avente  una  causa).  Concluso   che  V  anima  co- mica è  senza  cominciamento  e  senza  fine,  è  naturale  d ^estendere  questa  conclusione  alle  anime  individuali,  che ne  differiscono  di  grado,  ma    non  di  natura.  L'  ultimo argomento  del  Fedone  s'impernia  nella  proposizione   che ciò  che  apporta  la  vita   dovunque  si  trova    non  può  ri- cevere  la  morte  :  essa  è  1'  espressione  del    motivo  reale della  dottrina  dell'immortalità,  che  è  il  le^'^ame  locrico dirà  ohe  qaeata  è  l'e^^enza  e  la  defiaiziona  dall'  animi,  noa  se  ne pentirà.  Infatti  ogni  corpo,  a  cui  il  movimanto  viene  dal  di  fuori è  inanimato;  ma  quello  che  lo  ha  da  se  ste^o,  è  animato  coms' se  questa  sia  la  natura  dell'anima.  Ma  se  è  ooil,  non  esservi  altro che  muova  se  stesso  sj  non  l'  animi,  per  nesa^sità  l'anima  è  non generata  e  immortale  „.  Fedro  245  e-  240  a. che  vi  ha  tra  la  spiegazione  animista— cioè  che  la  vita  e la  morte  sono  dovute  alla  unione  e  alla  separazione  d'una sostanza  distinta  che  e  il  substratum  della  vita  e  della  co- scienza—e  il  concetto  che  la  vita  e  la  coscienza  devono essere  inseparabili  da  una  tale  sostanza  (l).  Se  Platone prendesse  la  proposizione  (o  meglio  il  concetto  eh'  essa indica,  senza  esprimerlo  sufficientemente)  come  principio, r  argomento  sarebbe  naturale  :  la  parte  artificiale  del sofisma  è  la  pretesa  dimostrazione  di  ciò  cho  egli  do- vrebbe invece  dare,  e  che  effettivamente  ammette,  come una  verità  intuitiva. Le  sorti  dell'anima  dopo  la  morte  formano  il  soggetto della  più  parte  dei  miti  di  Platone  (che  bisogna  distin- guere dai  simboli,  quali  il  Demiurgo  e  la  cosmogonia del  Timeo,  o  la  contcmplaz'one  delle  Idee  nel  luogo  i- peruranio  del  Fedro):  in  questi  miti  è  difficile  di  fare  le parti  tra  ciò  che  è  un  convincimento  serio  dall'  autore e  ciò  che  per  lui  stesso  è  una  congettura  più  o  meno verisimile  o  anche  una  semplice  finzione;  ma  è  certo ch'egli  ha  fede  nel  concetto  generale  che  vi  campeggia, cioè  i  premi  e  le  pene  in  un'esistenza  futura  (2).  Platone accoglie  la  dottrina,  insegnata  nei  misteri,  della  tra- smigrazione delle  anime  ;  e  generalizzando  questo  dato tradizionale  —  quantunque,  oltre  al  ritorno  in  questo mondo,  reincarnandosi  in  corpi  d'  uomini  o  d'  animali, parli  anche  del  soggiorno  delle  anime  in  altri  luoghi  di premio  o  di  punizione— giungle  al  concetto  che  l'anima è  sempre  congiunta  ad  un  corpo,  animando   successiva- (1)  Cfr.  Append.  e.  2.  p.  CXCIII. (2)  V.  FedoAii  d-e,  63  e,  64  a,  72  d-e,  liep.  608  e,  612  b-o,  613  a, 614  a,  621  0,  Gora.  522  e-523  a,  524  b,  526  d,  527  a,  527  e,  U-ij.  903  d- 905  a,  eoo. —  278  — mente  cirpi  differenti  secondo  lo  stati  di  perfezione  o d'  imperfezione  a  cui  è  pervenuta  {Leggi  903  d-  ma  al- trove, in  dialoghi  verisimilmente  anteriori,  parla  d'iioo stato  dell'anima  ìq  cui  è  libera  da  qualsiasi  corpo,  p.  e. nel  Fedone  lU  e,  ìq  cui  una  tale  esistenza  è  promessa durante  Teteruità  a  quelli  che  si  sono  purificati  suffi- cientemente per  la  filosofia).  É  inn^^gabile  che  la  dottrina della  metempsicosi,  sovratutto  in  questa  forma,  per  quanto possa  sembrare  strana  a  uà  filosofo  moderno,  ha  un  va- lore filolofico  superiore  che  quella  deir  esistenza  eterna dell'anima  dopo  la  morte  in  ui  mondo  as^olutameote immateriale,  poiché  ossa  lega  par  sempre  il  principio spirituale  alia  natura,  continuando  ad  ass^ffnarffli,  in tutte  le  epoche  della  saa  esi -utenza,  la  sua  fuizione  pro- pria, senza  di  cui  è  un'ipotesi  seaza  motivo  e  senza  scopo, di  forza  animatrice  e  vivificatrice  della  materia. La  dottrina  dell'immortalità  dell'anima  in  rapporto  a quella  della  sua  tripartizione  solleva  un  problema,  a  cui Platone  dà  delle  soluzioni  differenti  :  sono  immortali  tutte e  tre  le  parti,  ovvero  una  sola,  che  sarebbe  come  il  sub- stratum  della  personalità  ?  Nel  Fedito  (1)  e  ammessa  la prima  delle  due  soluzioni  ;  ma  la  dottrina  definitiva  di Platone,  che  troviamo  nella  RepubblLia  (2)  e  nel  Timeo  (3), è  l'immortalità  del  solo  XoYiaxixóv  (nel  Fedone  (4)  sembra (1)  246  a  e  seg. (2)  V.  1.  X.  611  b-612  a. (3)  V.  41  c-43  a,  69  c-72  d,  73  d,  89  e-90  d,  eco.  Il  Timeo  è  cer- tamente una  delle  ultime  opere  di  Platone,  perchè  appartiene  al periodo  del  sincretismo  con  le  dottrine  pitagoriche.  Anche  nel  Po- litico,  ohe  possiamo  pure  riguardare  come  uno  degli  ultimi  dialoghi (cfr.  Suppl.  C,  carta  238,  in  nota)  si  distingaono  la  parte  immor- tale dell'anima  (cioè  la  razionale)  e  la  mortale  (v.  309  o;. (4)  V.  78  b-80  0. ohe  Platone  non  ammetta  la  dottrina  della  tripartizione). La  soluzione  del  Fedro  é  quella  che  esiggono  i  motivi fiksofici  della  dottrina  dell'immortalità,  poiché  1'  anima è  immortale  perchè  è  la  sostanza  che  ò  il  principio  della vita,  e  sostanze  e  principii  della  vita  sono  anche  le  parti inferiori.  I  motivi  etici  e  Fontimentali  della  dottrina  del- l'immortalità esiggono  invrce  Tnltra  soluzione,  po'chè  le speranze  dell'altra  vita  lichiedono  uno  j-t^to  d'IT  anima in  cui  sia  cs':'nte  dalle  passioni  e  dai  bisogni  del  co'po, e  in  cui  per  conseguenza  le  parti  inferiori  resterebbero senza  funzione.  Forse  Platone,  negando  1'  immortalità delle  parti  iiiferioii,  intendi  rifiutare  solamente  ad  esse la  persistenza  dell'esistenza  individuale,  non  quella  della sostanza.  Questa  ò  una  conseguenza  inevitabile  dei  pre- supposti di  tutta  la  dot^rirn;  e  infatti  i  discepoli  imme- diati di  Platone  insegnano  1'  immortalità,  non  del  solo (XoY'.aiixóv),  ma  dì  lut*:a  TaMima  (l). L'  immoitilità  e  preesistmza  dell'  anima  si  lega  col sistema  delle  Id^e  per  la  dottrina  della  intuizione  delle Idee  in  un'alt  "a  vita  e  della  remiirscenza  (2).  Noi  abbiamo notato  come  il  problema  di  spiegare  la  coincidenza  tra il  p3nsitU'o  e  la  realtà  nelU  conoscenza  a  priori  divenga più  urgenti  nel  realismo  dialettico  (3):  e  infatti  in  quasi tutti  i  sistemi  appartenenti  a  questo  tipo  (oltre  il  sistema adi  Platone,  in  quelli  di  H^gel,  di  Schelling,  di  Spinoza  (4 noi  troviamo  delle  ipotesi  destinate  alla  soluzione  di  questo problema.  Fra  le  tre  ipotesi  pò  sibili,  cioè  o  che  l'oggetto determina  il  pensiero,  o  che  il  pensiero  determ'na  l'oggetto, (1)  V.  Olimpiodori  Gommoni .   in  Platon.  Phaedo.  ap.  Cousin  in Journnl  des  saranls  1835  p.  145. (2)  V.  e.  VII  p.  144  e  Sappi.  B  varto  142-H4. (3)  V.  e.  143. (4)  V.  e.  va.  p.  431-412,  in  nota. .  .1- ^  HI o  che  VI  ha  identità  tra  Tog-getto  e  il  pensiero  (I),  sola- mente la  prima  e  l'ultima  sono  compatibili  col  realismo dialettico:  col  sistema  platonico  non  è  compatibile  che  la prima,  cioè  queììadeW intuizione  razionale,  perchè  le  Idee di  Platone  non  sono  dri  peusieri,  come  quelle  di  Hegel   ma delle  realtà  puramente  obbiettive  (2).  Noi  abbiamo  pure •indicato  perchè  alla  dottrina  meao  mistica  di  un'  intui- zione m  questa  vita  Platone  preferisca  quella  deirintui- zione  m  una  vita  anteriore  e  della  reminiscenza  di  que- sta intuizione  (3).  Non  ci  resta  da  aggiungere  che  un  os- servazione, cioè  che,  quantunque  il  pro^r^esso  reale  del pensiero  di  Platone  sia    stato  evidentemente    dalla  dot- trina  delP  immortalità  e  preesistenza  a    quella  della  re- miniscenza, e  non  al  contrario,  non  è  strano  chVgli  ri- guardi  la  reminiscenza  come  una   prova    della   preesi- stenza ed  immortalità  (4)  :  quest'argomento,  al  suo  punto di  vista,  e  un  ragionamento  perfettamente  naturale  — è il  solo  di  quelli  del  Fedone,  oltre  l'ultimo,  ch'egli  crede rigoroso,  almeno    come  prova    della  preesistenza  (5)  - perchè  egli  vede  nella  reminiscenza,  e  quindi  nella  pree' sistenza  che  essa  suppone,  l'unica   spiegazione  possibile della  conoscenza  a  priori. Passando  all'anima  cosmica,  cominceremo  ricordando che  essa  è  V  unica  divinità  ammessa  da  Platone  (6).  Il Demiurgo  del  Timeo  è  un  simbolo  che  rappresenta  l'I- 0)  V.  Saggio  J  e.  3  §  7. (2)  V.  questo  Sappi,  n.  ili. (3)  V.  Sappi.  C  carte  U3-144. (4)  V.  Fedo.  71  e-77  a  e  Meno.  85  0-86  b. (5)  V.  Fedo,  91  e-92  e. (6)  V.  Sappi.  C,  carta  224. dea  del  Bene  (1>  Il  nome  di  dio  dato  al  Bene  e  ad  al- tre Idee— e  da  Xenocrate  tnche  al  principio  materiale—, e  quello  dì  divino  dato  a  tutte  le  Idee  in  generale,  è evidente  che  non  devono  prendersi  nel  senso  proprio, perchè  Platone  non  può  avere  Tintcnzione  di  personifi- care le  sue  astrazioni  realizzate,  che  non  sono  che  gli attributi  generali  delle  cose,  considerati  cerne  .sussistenti per  se  stess*.  La  parola  divino,  in  questo  come  in  tanti altri  casi  (2\  non  significa  che  l'eccellenza  dell'oggetto a  cui  si  applica:  quando  insieme  ali'  idea  della  supe- riorità, viei  e  evocata  vagamente  rjuella  della  persona- lità (3),  dair  aggettivo  divino  Platone  p?ssa  al   sostan- (1)  V.  Sapplem.  C,  carte  2:2-237. (2)  V*  il  nana.  seg. (8)  Questo  para  essere  generalmente  il  caso  in  tatti  i  laoghi  in cui  Platone  chiama  dei  delle  Idee  altre  che  quella  del  Bene.  Nel Parmenide  134  c-e  si  chiamano  dei  gli  esseri  ideali  in  cui  risiedono come  attributi  la  scienza  in  sé  e  la  padronanza  in  sé  (la  scienza e  la  padronanza  devono  essere  attributi  e  devono  inerire  in  qual- che sostanza  nel  mondo  delle  Idee  come  in  quello  dei  fenomeni). Sulla  fine  del  TimeOf  dove  il  mondo  è  chiamato  **  dio  sensibile  im- magine del  dio  intelligibile  n,  questo  "  dio  intelligibile  „  è  certa- mente l'animale  che  contiene  tutti  gli  animali  intelligibili,  di  cui a  30  c-d,  cioè  l'Idea  dell'animale,  parche  è  a  sua  somiglianza  che il  mondo  è  stato  fatto.  Nel  principio  dell'allocuzione  del  Demiurgo alle  divinità  generate,  *  dei  di  del  (cioè  figli  di  dei),  opere  di  cui io  sono  l'artefice  e  il  padre  •*  {Tim.  41  a),  la  parola  dei,  la  seconda volta,  deve  denotare  altre  Idee  oltre  quella  del  Bene  (rappresentata dal  Demiurgo):  noi  pensiamo  naturalmente  all'  Idea  dell'  animale (il  dio  intelligibile  di  cui  sopraì  e  alle  altre  Idee  meno  estere  a cui  gli  dei  individui  sono  subordinati.  Anche  a  37  e,  in  cui  il  mondo semovente  e  animato,  prodotto  dal  Demiurgo,  è  chiamato  un  "si- mulacro degji  dei  eterni  „,  è  naturale  d'intendere  per  questi  "  dei eterni  «  delle  Idee,  più  o  meno  generali,  di  esseri  animati,  di  cui il  mondo  è  la  realizzazione, —  2«0  — tivo  dio,  senza  che  intenda  perciò  assegnare  alle  astra- zioni che  decora  di  questo  nome,  una  funzione  analoga, anche  lontanamente,  a  quella  degli  esseri  personali  d'una forma  qualsiasi  della  filosofìa  teologica.  In  quanto  all'I- dea del  Bene,  abbiamo  osservato  che  Platone  non  può chiamarla  dio  che  perchè  vede  in  essa  il  primo  principio delle  cose  (1)-  la  stessa  ragione  spiega  naturalmente  per- chè Xenocrate  possa  estendere  qu'^.sto  nome  anche  al principio  materiale—.  Al  nostro  punto  di  vitata  moderno sembrerà  strano  che  la  divinità,  nt-l  senso  proprio,  non sìa  per  Platone  che  un  principio  derivato.  Per  un  filo- sofo moderno  Dio  è  Vassoliito  (2),  e  perciò  egli  trove- rebbe assurdo  di  supporre  un  principio  superiore  a  Dio stesso:  ma  questo  concetto  dell'assoluto,  come  carattere essenziale  della  divinità,  manca  ancora,  come  vedremo in  seguito,  in  Platone,  e  in  generale  nella  filosofia  teo- logica antica  non  si  sviluppa  che  d'una  maniera  incom- pleta. Il  teismo  in  Platone  è  ass'so  sulle  sue  basi  naturali. Vi  hanno  secon  lo  lui  due  prove  della  divinità:  la  prova teleologica  (tirata  sovratutto  dalla  regolari  à  dei  movi- menti deg^i  astr)  e  quella  fon<lata  sul  concetto  chcì  l'a- nima è  il  principio  del  movimento  (:<).  C«  si  Dio  è  per Platone  il  principio  motore  (4)  e  ordinatore  (5)  dell'uni- verjo-U  doppia  furi/Jone  che  li  divinità,  come    princi- (1)  V.  cap.  VII.  p.  194. (2)  V.  e.  II  §  5. (3)  V.  voi.  I  o.  2  §  2  pajr.  53-54  e  ^,  3.  p.  83. (4)  V.  Fedro  245  c-e,  Lefiffi  894  e-  896  b,  Epinom.  988  d-e,  ecc. (6)  V.  Filebo  26  e-  27  e,  28   d-e,  30  ed,    Sot\&la    265  c-e,  266  b-d, Fedoni^  97  e-  99  e,  Timeo  4i  e  e  seg.  (cfr.  Sappi.  C,  carte  233-234), Leuai  892  a-890  b,  Oo3  d-3,  937  d,  Kpbijmidc  981  b,  982  a-  983  e,  991 c-d,  ecc. cipio  esplicativo  dei  fenomeni,  ha  nella  filosofia  teologica amica,  e  possiamo  anche   aggiungere,    nella    teologia naturale  d)  — .  Come    abbiamo  osservato  (2),    vi  hanno in  Platone    due    dottrine    della    finalità,    1' una    imma- nenie  e  1'  altra  trascendente.  La  prima   consiste  ad  am- mettere   che  il    Bene  è  V  Idea    delle  Idee,    il  tipo    uni- versale su  cui  tutti  gli  esseri   sono  costruiti,  e  che  esso esiste  per  una  necessità  primitiva,  tale  che    la  sua  non e.^istenza  sarebbe  inconcepibile  e  contradittoria.    La  se- conda spiega  la  finalità  -  d.^gli  oggetti  materiali  e  che hanno  avuto  un  cominciamento  —  vedendo  in  essi  degli efl'ctti  d'una  causa    personale,    agente  con  un  piano  e per  ano  scopo.  Queste  due    dottrine  non  sono  incompa- tibili, perchè   non  vi  ha  contraddizione  ad  ammettere  al tempo  stesso  che  è  una  necessità  logica  che  i  fenomeni si  producano  in  grazia  d'uno  scopo,  e  che  tra  gli  ante- cedenti dei  fenomeu'  che  si  producono  cosi  ve  ne  hanno alcuni  inacc'ssìbilì  aircsperienz^;  e  se  si  ammette  que- sta seconda  ipotesi,  non  solo  non  iV  contradditorio,  ma è  naturale  di  supporre  che  gli  antecedenti  di  cui  si  tratta devono  essere  tali  da  spiegare  la  natura  dei  loro  conse- guenti. É  vero  però  che  una  volta  che  la  finalità  viene spiegata  per  la  sua  necessità  logica,  un'altra  spiegazione non  potrà  più  riguardarsi  come   indispensabile.    Ma  ciò non  toglie  che  l'analogia  suggerisca,    anche  in  questo caso,  delle  cause  personali:  semplicemente  non  si  potrà più  pretendere  che  il  ricorso   a  queste  cause    sia  neces- sario, e  l'argomento  teleologico,  per   conseguenza,  non potrà  più  aspirare  al  valore  di  una  prova  completa  (3). \  ' (1)  V.  voi.  J  e.  2  s  2-0. (2)  V.  cap.  VII  §  16  pag.  2U  o  «uppl.  C.    V  carta  234. (3)  Clr.  e.  2,  j»  7,  1- -  281  - Il  concetto  che  Tanima  è  la  forza  motrice  si  sviluppa  in Platone  nella  dottrina  che  essa  è  la  causa  prima  di  tutti i  fenomeni  (1),  e  in  lui  troviamo  già,  quantunque  in  una forma  meno  precisa  che  in  Aristotile,  Vargomento  della causa  prima  per  provare  la  divinità  (2).  La  dottrina  che Tanima  e  la  causa  prima    implica  quella   dtilla  sua  du- rata infinita,  almeno  nel  passato.  Tuttavia  nel  Timeo  le sì  dà  un'  origine  nel  tempo,  come  all'universo  in  gene- rale; ma  noi  abbiamo  visto  che  la    cosmogonia   del  Ti- meo è  un  semplice  simbolo,  che  rappresmta    la  deriva- zione lo/ica  di  tutte  le  cose  dai    due  primi   principìi  (I Bene  e  la  Materia)  (3).  Nelle  Leggi  si  parla  pure  dcirn- nima  come  generata  (anteriormente  a  tutte  le  altre  coso, di  cui  è  la  causa  prim?iì:  è  ch^,  come  abbiamo  osservato, Platone  nei  suoi  ultimi  scritti,  dandosi  per  un  pitagorico, vuol  conformarsi  alia  dottrina,  secondo  lui  exoterica,  dei Pitagorici,  che  attribuiva  al  mond)  un'origine  nel  tempo (benché  la  loro  dottrina  reale  fosse  che  esso  è  eterno)  (4). L'insieme  della  teoria  psicologica  di  Platone  e  il  sistema delle  Idee  (che  suppone  Teternità  e  la  necessità  dell'or- dine attuale  del  mondo)  esiggono  indispensabilmente  la dottrina  deireternità  dell'anima,  insegnata,  del  resto,  nel Fedro  e  in  altri  dialoghi  (5). Ai  motivi  filosofici  della  credenza  nella  divinila  e  alle sue  funzioni  corrispondenti  si  aggiungono  (come  per la  credenza  nell'  immortalità  dell'  anima  individuale) i  motivi  etici  e  sentimentali  e  le  funzioni  che  corrispon- (1)  V.  Suppl.  e,  caria  224. (2)  V.  oap.  2^2  pag.  63-54. (3)  V.  Sappi.  C,  carte  222-238. (4)  V.  Sappi.  C,  carte  235  e  238. <5)  V.  Sappi.  C,  carta  225, dono  a  questi.  Platone  si  diffonde  a  dimostrare  che gli  dei  hanno  cura  delle  cose  umane,  non  meno  delle piccole  che  delle  grandi  (1).  Che  i  nostri  aflfari  siano piccoli  0  grandi  agli  occhi  degli  dei,  non  può  con- venire ad  essi  di  negligerli,  perchè  la  negligenza, l'inerzia,  la  mollezza  non  possono  appartenere  a  dio, a  cui  bisogna  attribuire  l'eminenza  in  ogni  virtù.  D'al- tronde le  cose  piccole  sono  più  facili  a  curare  che  le grandi  (2)— riflessione  notevole,  perchè  ci  mostra  quanto Platone  è  lontano  dal  concetto  delT  onnipotenza — .  La provvidenza  divina  ha  sovratutto  per  oggetto  che  cia- scuno abbia  la  sorte  che  merita,  mettendo  V  anima  che è  divenuta  migliore  in  un  posto  migliore,  e  la  peggiore in  uno  peggiore  (3):  del  divenire  poi  ciascuno  di  noi  mi- gliore o  peggiore  ne  ha  lasciato  le  cause  alla  nostra  vo- lontà; ordinariamente  infatti  ciascuno  diviene  di  animo quale  desidera  di  essere  (4).  Non  bisogna  credere  però, come  dicono  i  più,  che  Dio  è  causa  di  tutte  le  cose:  egli è  buono,  e  per  conseguenza  può  essere  causa  dei  soli beni,  ma  non  dei  mali  (5).  Vi  hanno  due  sorta  di  anime, l'una  buona  e  l'altra  cattiva  :  i  movimenti  tendenti  al bene  sono  prodotti  dall'anima  buona,  quelli  teadenti  al male  dalla  cattiva  (6).  Quella  che  governa  l'universo  è Tanima  buona:  tuttavia  Platone  afferma  che  la  somma dei  mali  sorpassa  quella  dei  beni  (7),  ciò  che,  tenuto conto  delle  proposizioni  precedenti,  non  permette    di  at- I (1)  Le(jiii  899  d-  905  d. (2)  Leggi  902  e-  9(^  a. (3)  Leggi  9(»  d-  904  e. (4)  Leggi  904  o.  Qaesto  concetto  è  espresso  simbolicamente  aeUa scelta  delle  anime  nel  mito  salla  fine  della  Repubblico, (5)  R$p.  379  a-380  e. (6)  Leggi  896  e-  897  b,  Kptnom.  988  e. (7)  Leggi  906  a,  R^u  379  o. —  2«2  —tribuire  a  Dio  che  una  potenza  molto  limitata.  Platone combatte  le  idee  della  religione  popolare  che  e<^Vi  erodo indegne  della  divinità,  p.  e.  che  gli  dei  si  svisano  sotto forme  diverse  ingannando  gli  uomini  (l),  che  vi  hanno fra  di  essi  delle  ingiurie  e  delle  inimicizie  reciproche  (2), che  i  cattivi  possono  propiziarseli  con  doni  ed  adula- zioni {ii),  ecc.  Naturalmente,  sarebbe  vano  di  cercare  in Platone  i  concetti  della  spiritualità  e  della  seinplicifà  di Dio.  La  divinità,  cioè  l'anima  cosmica,  è  una  specie  del genere  anima:  essa  ha  dunque  la  stessa  natura  spmì- materiale  dell'anima  dell'uomo  e  degli  altri  esseri  ani- mati, vale  a  dire  è  estesa  (4),  si  muove  continuamente  if)), e  muove  i  corpi  comunicando  loro  il  proprio  movimen- to (6).  Da  ciò  che  precede  si  vrd  5  anche  che  mancano nella  teologia  platonica  i  concetti  di  r|uplla  che  abbiamo chiamato  teologia  frascendenfale  (7),  cioè  le  dottrine  che Dio  è  immutabile  e  fuori  del  tempo,  e  che  è  V  infinito 0  r  assoluto  {cioè  che  tutti  i  suoi  attributi  si  elevano  a un  grado  infinito  o  assoluto).  Il  Dio  di  Platone,  lungi di  essere  immutabile,  è,  come  abbiamo  detto,  in  un  mo- vimento continuo:  inoltre  egli  ragiona,  prevede,  si  ri- corda, ecc.  (8>;  d'  altronde  Platone  non  avrebbe  potuto immaginare  una    coscienza    che  non  consiste    in  muta- \*i ^ (1)  h'ep.  38U  d  e  Siiq. (2)  Kep.  377  d-  378  e. (3)  Le(j(ji  905  d-  907  b. (4)  V.  Tlm,  U  b,  35  a,  30  o,  Ar.  De  un.  1.  1.  111.  12,  ecc. (5)  V.  T'na.  36  e-  37  e,  47  b-c,  90  d,  Fnlro  245  o,  Ar.   ì>e  >'„,  I.  1 ili.  15,  ecc. (6)  V.  Legni  804  e-  89G  b,  Fedro  245  e-    246  a,  Arisi,  he  an.  l.  l. n.  4,  111.  11. 17)  V.  e.  2  !^'  5. (8)  V.  e.  2  j»  5  p.  131. menti,  perche-  per  lui  i  fatti  della  coscienza  non  sono che  movimenti  dell'animi  (l).  Il  concetto  che  Dio  è  l'as- soluto 0  l'infioito  implica  quelli  della  sua  potenza  e  cau- salità infinite  (2).  l^a  la  causalità  e  la  potenza  del  Dio di  Platone  trovano  un  limite  nella  materia  e  negli  altri esseri  spirituali  (tra  cui  l'anima  cattiva»,  che  sono  egual- mente primitivi  che  lui:  di  più  la  sua  efficienza  si  ri- duce unicamente  all'  azione  motrice,  e  <|ue9ta  non  può esercitarla,  come  l'uomo  o  qualsiasi  altro  essere  corpo- reo,  che  a  contatto  e  per  impulsione  (3).  Uisulta  pure dall'esposizione  precedente  che  la  teologia  di  Platone  è un  dualismo  radicale,  in  cui  Dio  e  la  materia— o,  me- glio, la  sostanza  del  mondo—sono,  non  solo  due  sostanze distinte,  come  in  quasi  tutti  i  sistemi  della  filosofia  teo- logica antica,  ma  due  sostanze  egualmente  primitive, coeterne  e  inconvertibili  l*  una  nelP  altra.  Non  è  foi-ae inutile  di  osservare  che,  siccome  Dio  e  le  Idee  sono  due cose  interamente  differenti,  questo  dualismo  non  ha  niente di  contrario  alla  immanenza  delle  Idee  nel  mondo,  né  al monismo  della  prima  forma  del  sistema  platonico,  in  cui l'Idea  del  Bene  è  il  tutto  allo  stato  implicito.  Per  la  stessa ragione  esso  non  ha  nie  te  di  comune  col  dualismo  della forma  posteriore,  in  cui  al  Bene  si  aggiunge,  come  altro /.i   li (1)  V.  e.  184  in  nota.  I  luoghi  ivi  citati  sall'id3nlità  del  pensiero al  movimento  si  riferiscono  o   esclusivjun ante  o    anche  all'  anima dei  mondo. (2)  V.  e.  2  Si  5  p.  135. (3)  V.  Suppl.  C,  IV.  o.  229  e  la  p.  prec.  n.  0.  Oltre  alla  sua  azione motrioa  per  impulsione,  Platone  sembra  attribaire  all'  anima  «osmica uno  sforzo  per  mantenere  la  coesione  dell'universo  e  dei  corpi  celesti e  la  periistenza  della  loro  forma  (v.  Suppl.  C,  IV. U  nota  a  e.  238  e 239).  Questo  sforzo  non  è  in  verità  un'azione  motrice,  ma  è  eviden. temente  immaginato,  come  questa,  sul  tipo  della  nostra  azione mnscolare. —  2<s:ì principio  primo,  k  Materia,  nò  vi  ha  fra  questi  due  daa- liami  alcuna  relazione  logica.  L'influenza  reciproca  tra la  psicologia  platonica  e  la  sua  teologia  è  evidente  Al dualismo  antropologico  tra  l'anima  e  il  corpo  corrisponde il  dualismo  cosmologico  tra  Do  e  il  mondo  materiale  : alla  indipendenza  deli'  anima  cosmica  dalla  materia  e alla  sua  primordialità  e  inconvertibilità  con  essa,  richieste dalla  sua  funzione  di  causa  prima,  corrispondono  l'ind- pendenza  della  psiche  umana  dalle  condizioni  somatiche e  la  sua  esenzione  dalla  nascita  e  dalla  morte. Ciò  che  vi  ha  di  più  oscuro  nelle  idee  di  Platone  sul- animaèil  carattere  vago  del  suo  concetto  dell'indi vidua- htà  psichica.  Noi  abbiamo  visto  che  l'anima  individuale è  composta  secondo  lui  di  tre  parti,  ciascuna  delle  qaali costituisce  in  realtà  un'anima  distinta.  Qualche  cosa  di simile  SI  ha  nella  sua  dottrina  dell'  anima  cosmica.  Ri- guardando  il  mondo  come  un  grande  individuo  animato egli  concepisce  l'anima  che  lo  vivifica  come  unica,  come quella  di  qualsiasi  altro  individuo  animato  («).  Quest'a- nima è  per  lui,  come  abbiamo  detto,  la  divinità  :  ma  la sua  unità  non  importa,  per  lui    come  per  gli  altri  filo- sofi greci  che  ammettono  un'anima  del  mondo,  il  mono- teismo, almeno  rigoroso.  Egli  riguarda  pure  come  indi- Tidui  animati  la  terra  e  tutti   gli  astri,  sì  i  pianeti  che le  stelle  fi^se,  e  attribuisce  quindi  un'anima  a  ciascuno di  questi  corpi  (2).  Ognuaa  di  queste   anime  è  conside- rata naturalmente   come    una  divinità   particolare    (3) (1)  V.  Filebo  30  a,  Tim.  30  h-o,  34  b-c,  36  d.37  o.  eoo •83  e,  984  e,  985  d-  988  d,  ecc.  •  «"j*  b (3)  V.  i  1.  ihd.  nella  nota  precedente. Platone  chiama  dei  non,olo  I'  anima  del   mondo  e  qnelle  dei '  H lQollr3  egli  ammette  dei  demoni,  esseri  d'  una  divinità imperfetta  (tra  cui  ve  ne  hanno  anche  dei  malefìci)  (1). Ora  per  !e  anicne  della  terra  e  degli  astri,  è  evidente che,  secondo  Platone,  esse  non  esìstono  al  di  fuori  del- Tamica  cosmica,  di  cui  sono  come  delle  parti.  Infatti nel  Timeo  il  Demiurgo  non  costruisce  che  V  anima  del mondo  e  quelle  degli  animali  mortali  (2):  degli  astri  non costruisce  che  i  corpi  (3),  quantunque  1'  autore  li  dia espressamente  come  esseri  animati;  e  che  vi  siano  altro anime  oltre  quelle  che  il  Demiurgo  ha  costruite,  è  escluso dal  luogo  in  cui  si  dice  (dopo  che  si  è  narrata  la  for- mazione degli  animali  divini,  cioè  degli  astri)  che  egli ha  composto  V  anima  degli  animali  mortali  coi  residui degr  ingredienti  con  cui  aveva  composto  V  anima  del mondo  (4).  Un'altra  prova,  anche  più  decisiva,  è  la  di- visione dell'anima  cosmica  nel  cerchio  della  natura  dello stesso  (che  rappresenta  il  movimento  diurno  del  cielo  e i  cerchi  della  natura  del  diverso  (che  rai)presentano  le orbite  dei  pianeti)  (5)  :  se  i  movimenti  planetari  sono  at corpi  celesti,  ma  anche  il  mondo  slesso  e  gli  stessi  corpi  celesti. Questa  estensione  dell'  attributo  della  divinità  dall'  anima,  a  cui propriamente  appartiene,  all'  essere  animato  (cfr.  e.  2  §  1  p.  47  e S  a  pag.  167)  è  troppo  ovvia,  per  poter  farsene  un  argomento  con- tro il  dualismo  di  Platone,  che  risulta  nettamente  dalla  sostantifi- oazione  del  principio  spirituale  e  dalla  opposizione  radicale  tra  esso e  la  materia. (1)  V.  Platone  Fedro  246  e,  Conv,  202  e-  2(»a,  to/r/t717b,  906  a, K^iinom.  984  b-  985  b,  Plutarco  de  h.  ut  Oslr.  25-26  e  de  orarul.  de^ feci  li  17,  ecc. (2)  Tim.  34  e-  36  d  e  41  d-  42  e. (3)  V.  38  c-e  e  40  a. (4)  Tim.  41  d  . (5)  Tim,  36  c-d.  Cfr.  37  a-c. -  284  - A   -4- l  . tribuitì  airanima  cosmica,  siccome  il  principio  del  mo- vimento di  ciascun  '  pianeta  deve  essere  la  sua  anima particolare,  le  anime  particolari  dei  pianeti  non  possono essere  che  delle  parti  deiranimii  cosmica,  (/aes'a  è  dun- que per  Platone  un  individuo  superiore  che  contifne  n  I suo  seno  altri  individui  inferiori.  Noi  non  troviamo  al- cuna difficoltà  ad  ammettere,  nA  mondo  fisico,  delle  in- dividualità di  ordine  divergo,  in  modo  che  un  individuo di  grado  superiore  contenda  in  se  stesso  degl'  iii'iividui di  grado  inferiore  (p.  e.  l'organismo  e  le  cellule  che  lo costituiscono).  Platone  suppono  che  qualche  cosa  di  ana- logo si  dia  anche  nel  mondo  psichico  :  egli  non  trove- rebbe niente  di  strano  nel  concetto  di  Haeekel  e  di  altri filosofi  contemporanei,  che  riguardano  V  anima  di un  organismo  vivent:^  come  la  risultante  delle  anime delle  sue  cellule.  A  dir  vero  Platone  non  può  ri- guardare r  anima  cosmica  come  una  risultante  delle anime  degli  astri:  queste,  rapporto  alla  prima,  piuttosto che  agli  elementi  che  compongono  un  tutto,  potrebbero paragonarsi  a  dei  rami  divergenti  da  un  tronco  comune, o  a  dei  punti  emer;2:enti  in  una  superficie,  ciascuno  dei quali  costituisce  un'unità  distinta,  quantunque  sia  al  tempo stesso  una  parte  di  un'  unità  più  comprensiva.  Que- sto concetto  d'  un  individuo  psichico  che  contiene  altri individui  psichici,  in  Platone  come  negli  altri  filosofi antichi  in  cui  lo  troviamo,  per  quanto  poco  naturale  in se  stesso,  e  una  conaeguenza  logica  d'  un'  idea  natura- lissima al  punto  di  vista  della  concezione  animista  della natura,  cioè  che  in  (jucsto  grande  individuo  vivente  che ò  luaiverso,  vi  hanno  delle  parti,  vale  a  dire  i  grandi corpi  che  si  m?iovono  in  esso,  che  manifestando  una  vita sino  al  un  certo  punto  indipendente,  devono  riguardarsi anch'essi  come  individii  viventi.    Se  si  suppone    che  la vita  e  i  movimenti  di  un  essere  animato  sono  prodotti dall'anima  che  lo  vivifica,  siccome  le  vite  e  i  movimenti degl'individui  inferiori  fanno  parte  della  vita  e  <lei  mo- vimenti deiriiiiividuo  più  vasto  che  li  contiene,  sarà  lo- gico di  concluderne  che  le  anime  dei  primi  fanno  parte dell'anima  del  secondo,  estendendo  al  concetto  dell'  in- dividualità psichica  la  relatività  che  vi  ha  in  quello  del- Pindividualltà  fisica.  A  questo  punto  di  vista  le  anime stesse  degli  animali  propriamente  detti  non  potranno  ri- guardarsi come  assolutamente  distinte  dalla  grande  anima del  tutto  :  cosi  secondo  il  Flleboìa.  no,;tra  anima  ci  viene da  quella  dell'universo  (T),  come  se  ne  fosse  una  parte, che  le  condizioni  della  vita  terrestre  (2  hanno  isolata, ma  che  prima  era  congiunta  al  tutto  con  legami  più  in- timi, benché  avesse  già  un'esistenza  individuale,  perchè l'eternità  d^lPanima  importa,  come  abbiamo  detto,  la persistenza  dell'individuo,  e  non  semplicemente  della  so- stanza. Vi  hanno  in  Platone,  come  abbiamo  già  osservato  (3)* due  spiegazioni  del  mondo,  corrispondenti  a  due  concetti differenti  della  causa  efficiente.  L'una  è  la  dottrina  del- l'anima cosmica:  essa  è  una  varietà  della  filosofia f.v^m- tiva  dello  spirito  umano,  e  corrisponde  al  concetto  spon- taneo della  causalità,  che  ci  fa  considerare  come  causa- zioni efficienti  le  sequenze  tra  fenomeni  che  ci  sono  le più  familiari.  L'altra  è  il  realismo  dialettico,  che  intro- duce fra  i  concetti  un  nesso  logico  continuo,  e,  mediante (J)  Fileho  28-29. (^)  T/anìmadeH'aomo  e  degli  altri  animali  b a  abitato  negli  astri, parteoipando  al  governo  del  mondo,  o,  purilicata,  ritornerà  ad  a- bitarvi.  V.  Tim.  41  d-  4^  d  •  90  a  e  Fedro  246  b-  257  a. (H)  (!ap.  VII.    pag.  14:vl44. —  285  — T*" -  '     ^«n  \*« r : la  loro  i'<*alizzaziond,  dà  a  questo  nesso  logico  il  valore di  un  nesso  ontologico,    cioè  trasforma  il   rapporto    tra principio  e  conseguenza  in  un  rapporto  tra  causa  ed  ef- fetto. L'  uno  di   questi    due  generi    di    spiegazione  non esclude  l'altro,  perchè  non  vi  ha  alcuna  incompatibilità tra  i  due  concetti  della  causalità  su  cui  sono  fondati.  Il realista  dialettico  non  può  non  ammettere  anch'egli,  ol- tre alla  nuova  specie  di  causazione   che  egli  introduce cioè  la  filiazione  tra  i  concetti  realizzati,  quest'altra  spe- cie di  causazione  che  tutti  ammettiamo,  e  che  si  riduce a  una  successione    costante  tra  fenomeni.    Le  tendenze istintive  del  nostro  spirito  lo  spingeranno  a  immaginare, in  queste  sucessioni  costanti  tra  i  fenomeni  che  egli  non può  non  ammettere,  de^li  antecedenti  tali  che  possano spiegare  ì  loro  conseguenti,  cioè  che  ne  siano  delle  cause produttrici  o  efficienti  :  questo  processo  di  efficienza  cau- sale può    coesistere  con  quello    del   realismo    dialettico, perchè  Tuno  produce  dei  fenomeni  concreti  e  individuali, mentre  Taltro  non  produce  che  delle  entità  astratte,  cioè le  forme  e  le  leggi  generali    di  questi  fenomeni.  Il  rea- lista dialettico  considera,    è  vero,  le  sue  entità  astratte come  le  cause  dei  fenomeni  di    cui  sono    le  forme  e  le l^ggì  generali  :  ma  questa  causazione    non    sarebbe  in- compatibile con  quella  dei   loro  antecedenti    fenomenali (cioè  che  sono  dei  fatti  o  degli  esseri  individuali  e  con- creti) che   neir  ipotesi,  sconosciuta  a  qualsiasi   realista dialettico,  che  le  entità    astratte  fossero  fuori    dei  feno- meni (come  neir  interpretazione  trascendentalista    delle Idee  platoniche).  Le  entità  astratte,    secondo  il  realista dialettico,  sono    cause  dei  fenomeni,    non  in    quanto  li producono,  ma  in  quanto  sono  delle  condizioni  senza  di cui  essi  non  potrebbero  esistere,  costituendo  la  loro  essenza la  loro  vera  realtà.  Ma  se  fossero  fuori  dei  fenomeni, I—m  1 1  «ii"ii   "  ^-O  ^.^*^— WsT"^'M  - non    potrebbero  esserne    le  cause  che  produoendoli  :  in questo  caso  la  loro  causalità  e  quella  degli   antecedenti fenomenali  (ammessi    a  titolo  di  cause  efficienti,    com'è evidentemente  Tanima  del  mondo    di  Platone)    si  esclu- derebbero a  vicenda,  e  bisognerebbe  scegliere  tra  Tuna e  l'altra  ipotesi  (1).  Potrà   sembrare  tuttavia  che,  se  la spiegazione  del  realismo  dialettico  e  quella  della  filoso- fia istintiva  non  sono  incompatibili  in  quanto  Tuna  esclu- de l'altra,  lo  sono  però  in  quanto  Tuna  rende  l'altra  su- perflua. Le  due  spiegazioni,  in  effetto,  si  applicano  agli stessi  fatti  (tutti  i  fenomeni  in  generale);  ma  qnando  un fatto  si  è  già  spiegato,  è  perfettamente   inutile  di  cer- carne un'altra  spiegazione.  Questo  ragionamento  sarebbe valevole,  se  Tuna  o  l'altra  delle  due  spiegazioni  potesse sembrare  soddisfacente,  anche  ad  un  metafisico;  ma  esse non  lo  possono  né  l'una  né  l'altra.  Limitandoci  a  Pla- tone, è  facile  di  mostrare  che  la  sua  dottrina  dell'anima del  mondo— anche  senza  tener  conto  delle  difficoltà  ine- renti a  quest'ipotesi — non  può  dare  che  una  soddisfazione incompleta  a  questo  bisogno  di  conoscere  le  cause  per cui  tali  ipotesi  sono  immaginate.  Prima  di  tutto  un'ipo- tesi sulle  cause,  per  essere    una  spiegazione   completa- mente soddisfacente  dei  fenomeni,  dovrebbe  essere  tale da  poterne  dedurre  la  natura  degli  eff*etti,  cioè  da  poter concludere,  come  conseguenza  dell'ipotesi,  che  i  fenomeni devono  essere  cosi  come  sono  in  realtà,  e  non  altrimenti. Ma  r  anima  del  mondo   può  spiegare  solamente  perchè esiste  il  movimento  e  perchè  vi  ha  un  ordine  nella  na- tura   (ciò  che    il  metafisico  chiama   finalità)  :   essa  non spiega  perchè   hanno  luogo    precisameute    questi  movimentì  e  perche  esiste  precisamente  quest'ordine,  che  noi osserviamo  nel  mondo   reale  (noi    non  sappiamo,  p.  e-, perchè  l'anima  del  mondo,  da  cui,  secondo  Platone  (1), sono  prodotti    gli  animali,  le  piante  e  tutti    i  corpi  che vediamo  sulla  terrfl.  produce  queste  specie  piuttosto  che altre,  pure  dotate  di  tìnalità,  ma  più  o  meno  differenti). Di  più,  nei  limiti    stessi  dentro  cui  si  restringe  questa spiegazione,  per  il  fatto  stesso  che  è  desunta  dall'ipotesi di  agenti  trascendenti,  a  cui  non  si  può  attribuire  che un  modo  d'azione  in  gran  parte  diverso  da  quello  degli agenti  dell'esporienza,  essa  non    può  assimilare  comple- tamente il    modo    di  produzione   dei  fenomeni  alle  cau- sazioDi  che  ci  sono  le  più  familiari,  ciò  *\he  sarebbe  ne- cessario perchè  la  spiegazione  fosse  completamente  sod- disfacente  (p.  e.  Platone  attribuisce  airanimadel  mondo la  percezione  degli  oggetti  (2>,  ma  senza  i  nostri  organi dei  sensi  :  è  quanto  basta  per  rendere  il  suo  modo  d'a- zione incomprensibile).  Un'altra  oscurità  viene  alla  spie- gazione animista  dalla  sostantitìcazione  dell'  anima.  La conseguenza  dì  questa  è,  come  abbiamo  visto,   che  l'a- nima  muove  il  corpo  per  il  proprio  movimento,  ciò  che, importando  che  il  movimento    che  essa   produce  imme- diatamente non  è  quello  voluto,  ma  un  altro  non  voluto ne  saputo,  allontana  l'ipotesi  animista  dal  tipo  su  cui  è modellata,  cioè  la  nostra    aziono   volontaria  secondo  il modo  più  familiare  di  rappresentarcela,  e  ne  diminuisce quindi  il  valore  esplicativo.  Dall'altra  parte,  il  realismo dialettico  piuttosto  che  una  spiegazione  è,  come  abbiamo detto,  un  sembiante  di  spiegazione  :   quand'  ^che  il  si- ti) V.  Sof.  265  e-  266  b. (2)  V.   Tim.  IVI  b,  Leggi   d,  ecc. Stema  fosse  vero,  es^o  no:i  darebbe  una  soddisfazione reale  al  nostro  bisogno  di  conr scere  le  cause  efficienti, ma  a  queste  cause  che  aspiriamo  a  cuioecere,  sostitui- rebbe un  succedaneo  (1).  L'insufficienza  delle  due  spie- gazioni, «{uella  del  realismo  dialett''co  e  quella  della  filo- sofia istintiva,  ci  dà  ragione  del  fatto  che  non  vi  ha  un sist  ma,  in  cui  la  prima  di  queste  spiegazioni  non  sia accompagnata  dall'  altra  {•>),  Tra  le  varie  forne  della filosofia  istintiva,  quella  che  era  più  in  armonia  col  si- stema dell  1  Idee  pUtonich^,  era  la  teologica.  Il  sustrato della  filosofia  di  Platone  è  una  concezione  del  mondo che  abbiamo  chiamato  organlcista,  cioè  domiuata  dai concetti  desunti  dall'osservazione  degli  esseri  viventi,  e in  cui  Tessere  vivente  stesso  è  elevato  a  tipo  di  tutti  glesseri  in  generale  (3).  L' infiiunza  di  questa  eonce/ione organichta  del  mondo  sul  sistema  delle  Idee  si  osserva nell'ipotesi  delle  Idee  stesse  e  sovratutto  nei  due  tratti  ca- ratteristici della  dialettica  f»latonica,  cioè  la  dieresi,  e  TI. dea  del  Bene  elevata  a  forma  universale  e  principio  primo di  tutti  gli  esseri  (4).  Questa  stessa  concezione  condu  ce per  una  doppia  via  alla  dottrina  dell'  anima  cosmica  : cioè  assimilando  il  mondo  e  i  corpi  celesti  agli  esseri  vi* venti,  e  suggerendo  una  spiegazione  teleologica  dell'  u- niverso,  che,  se  consiste  in  concetti  chiari  e  non  in  una vaga  e  incosciente  personlfieaz'one  di  ciò  che  si  sa  es- sere impersonale  (o),  non  può  non  essere  al  tempo  stesso (1)  Cfr.  voi.  2.  p.  4455. (i)  V.  voi.  2.  p.  464-465. (3)  V.  nota  3  a  pag.  263,  voi.  2. (4)  V.  la  stos-ja  nota  3  a  p.  263,  voi.  2. (5;  V.  «appi.  C,  IV,  caria  2:?T. —   -J.ST   — . /-  \ -ar--     Jf-» m una  spieg^azione  teologica.  Naturalmente  questa  spie- gazione teleologica  delle  cose  per  un  agente  perso- nale è  suggerita  più  immediatamente  dal  posto  e  la funzione  deir  Idea  del  Bene  nella  dialettica   se  non  è essa  piuttosto  che  li  ha  suggeriti  (1)—.  Cosi  le  due  parti della  metafìsica  di  Platone,  cioè  la  teoria  delle  Idee  e quella  dell'anima,  lungi  di  essere  in  contraddizione,  si completano  e  si  chiamano  Tuna  con  l'altra.  Noi  abbia- mo visto  pure  la  dipendenza  reciproca  tra  le  dottrine  di Platone  suir  anima  cosmica  e  quelle  sull'  anima  indivi- duale (2), Quantunque  Tanima  sia  un  essere  metaemplrico  e  la causa  prima  deh'  universo  fenomenale,  è  evidente  che nella  grande  divisione  degli  esseri  di  cui  è  quistione nella  filosofia  platonica,  essa  deve  classarsi  insieme  coi fenomeni.  Al  punto  di  vista  del  sistema  delle  Idee,  la distinzione  più  profonda  è  quella  tra  l'astratto  e  il  con- creto, tra  Tuniversale  e  l'Individuale.  Cosi  vi  hanno  da una  parte  le  entità  astratte  e  universali— che  nella  prima forma  della  filosofia  platonica  sono  considerate  tutte  come Idee,  e  nella  seconda  forma  si  distinguono  in  Idee  ed entità  matematiche  (3)-e  da  un'altra  parte  le  cose  con- crete e  individuali.  Le  prime  sono  riguardate  come  la vera  realtà,  le  seconde  come  fenomeni  (4).  Non  vi  ha fra  queste  due  classi  alcun  termine  medio,  e  V  anima, non  esseado  un'entità  astratta  ma  una  sostanzi  concreta, deve  far  parte  evidentemente  della  seconda.  Ne  segue che  il  rapporto  dell'  anima  con  le  Idee  non    può  essere (1)  Cfr.  Sappi.  C,  IV,  e.  237. (2)  V. sopra,  carta  283,  p.  2*. (3>  V.  Sappi,  C,  111,  o.  210. U)  V.  Sappi.  B,  parto  I  n.  IX. diverso  da  quello  che  le  altre  cose  fenomenali  hanno con  esse.  Questo  è,  come  sappiamo,  che  in  tutte  le  cose appartenenti  a  una  stessa  classe  è  presente  un'Idea  unica/ che  non  è  che  la  sostantifìcazione  dell'attributo  o  somma d'attributi  comune  a  tutta  la  classe.  Per  conseguenza  in tutte  le  sostanze  che  si  chiamano  anima  è  presente  una Idea  unica,  V  Idea  dell'  anima,  come  in  tutti  gli  esseri che  si  chiamano  uomo,  animale,  albero,  ecc.  è  presente l'Idea  unfca  dell'  uomo,  dell'  animale,  dell'  albero,  ecc. Naturalmente  l'Idea  dell'anima,  come  tutte  le  altre,  ha i  suo  posto  determinato  nella  gerarchia  del  mondo  idealei vale  a  dire  essa  è  contenuta  in  un'Idea  più  generale, questa  in  un'altra  ancora  più  generale,  e  cosi  di  seguito, sicché  si  giunga  al  contenente  universale,  che  è  l'Idea del  Bene  :  l'Idea  dell'  anima  dunque,  e  quindi  1'  anima stessa,  parteciperà  a  tutte  queste  Idee  di  più  in  più  ge- nerali a  cui  è  subordinata.  Se  la  classe  generale  anima cuotiene  altre  classi  inferiori,  che  bisogna  distinguere per  difierenze  essenziali,  l'Idea  generale  dell'anima  con- terrà altre  Idee  meno  generali,  corrispondenti  ciascun  a a  ciascuna  di  queste  classi  inferiori.  Ma  tutte  le  anime individuali  (compresa  l'anima  cosmica,  che  è  anch'essa un  essere  individuale  e  concreto,  e  non  un'entità  astratta e  generale)  non  potranno  partecipare  che  all'Idea  che  è l'obbiettivazlone  del  loro  concetto  comune,  e  alle  Idee più  generali  che  sono  1'  obbiettivazione  dei  concetti  più estesi  in  cui  esso  è  contenuto  :  V  anima  avendo  un'  es- senza particolare  e  distinta  da  tutte  le  altre  cose,  a  que- st'essenza deve  corrispondere  un'Idea  pariicolare  e  di- stinta da  tutte  le  altre  Idee.  Vi  hanno  tuttavia  degl'in- terpreti che  pretendono  che  l'anima  non  partecipa  a  u- n'Idea  unica,  cioè  l'Idea  speciale  dell'anima,  ma  a  tutto il  mondo  ideale.    Questa   interpretazione   misconosce  il —  288  -^ concetto  tbndamentale  della  dottrina  di  Platone  sul!'  a- nima,  cioè  che  questa  è  una  srstanza  distinta,  e  non, p.  e.,  la  forma  del  corpo,  come  per  Aristotile.  E:«sa  po- trebbe avere  un  senso,  se  ranima  cosmica  fosse  per  Pla- tone la  forma  deiruoiverso:  ma  con  una  tale  ipotesi  ^li si  presterebbe  gratuitamente  un  concetto,  che  non  tro- viamo rò  in  lui  nò  in  alcun  altro  d<i  filosofi  antichi, compresi  i  panteisti,  che  hanno  ammesso  un'  anima  del mondo  (perche  lutti  presuppongono  Panimismo,  cioè  la teoria  della  sostanza  anima,  quantunque  questa  secondo alcuni  sa  convertibile  con  le  sostanze  materiali,  secon- do altri,  come  Platone,  inconvertibile)  0).  I/interpreta- zione  in  verità  può  anche  avere  un  altro  senso,  indipen- dente da  (|uest'ipotesi;  sarebbe  la  dottrina  dcir  identità dell'essere  e  del  pensiero:  ma  anche  questa,  come  ve- dremo nel  n.  Ili,  non  può  prestarsi  a  Platone  che  gra- tuitamente. Il  concetto  che  l'anima  partecipa  a  tutto  il mondo  ideale  si  fonda  su  un'  interpretazione  arbitraria della  composizione  dell'anima  cosmica  nel  Timeo,  che abbiamo  discusso  nel  Supplcm.  C,  n.  IV  A  (sulla  fine). Ivi  abbiamo  visto  cho  la  composizione  dell'  anima  non difìeri^ce  da  quoli.i  delle  altre  erse  nel  porlo  lo  pita^o- reggiante  della  filosofia  platonica.  Oltre  che  dt-lla  sua Idea  speciale  e  della  materia,  essasi  compone  anche  dri due  clementi  (l'Uno  e  la  Dualtà  indefinita,  eh"»  nel  Ti- nieo  sono  chiamati  lo  Stesso  e  il  Diverso).  Ma  anche questa  seconda  composizione  non  è  particolare  all'ani- ma; perchè  tutte  le  Idee  e  tuite  le  cose,  nel  periodo  pi- tagoreggiaute,  sono  composti^  dei  due  elementi     2  :  ciò (1)  V.  e.  2  5^  i». ri)  V.  Sappi.  C,  II.  11. che  è  particolare  all'anima  non  è  chela  sua  applicazione gnoseologica  (1),  cioè  la  spiegazione  della  possibilità  della conoscenza  per  l'identità  degli  elementi  del  soggetto  co- noscente  e  degli  oggetti  conoscibili. Secondo  alcuni  interpreti  V  anima  sarebbe  per  Pla- tone un'  entità  intermediaria  e,  siccome  le  entità  inter- mediarie sono  le  entità  matematiche,  anche  un'  entità matematica.  Questo  concetto,  che  rimonta  ai  neoplatonici. è  fondato  sull'interpretazione  trascendentalista  delle  Idee platoniche,  quantunque,  come  suole  avvenire  quando  si tratta  delle  opinioni  stabilite,  esso  si  dia  spesso  come  una prova  di  quest'interpretazione  stessa  di  cui  è  una  con- spguenza.  Nell'interpretazione  trascendentalista,  come abbiamo  osservato,  la  causalità  universale  delle  Idee verso  i  fenomeni  è  incompatibile  con  quella  dell'anima: p«  r  risolvere  questa  contraddizione  si  suppone  che  le Idee  non  siano  che  le  cause  remote  dei  fenomeni,  ed agiscano  sul  mondo  sensibile  per  l'intermediario  dell'a- nima, che  sarebbe  la  causa  prossima.  Questa  fanzione dell'anima  di  intermediaria  fra  le  Idee  e  le  cose  sembra più  necessaria  nella  forma  dell'interpretazione  trascen- dentalista preferita  dai  critici  moderni,  secondo  cui  le Idee  sarebbero,  non  dei  pensieri  dell'intelligenza  crea- trice, ma  delle  sostanze  obbiettive  separate  dalle  cose  : in  questo  caso  infatti  ogni  efficienza  diretta  delle  Idee diviene  incomprensibile,  e  si  crede  perciò  indispensabile Pintervento  di  un  principio  attivo  come  l'anima,  per mezzo  di  cui  possa  esercitarsi  la  loro  influenza  sui  fe- nomeni. Ora,  se  l'anima  è  una  sostanza  intermediaria fra  le  Idee  e  le  cose,  essa  deve  essere  anche,  come  ab- 0)  V.  Sappi.  C,  IV,  o.  240  e  242. —  28y  - biamo  osservato,  un'entità  matematica,  perchè  nel  si- stema platonico,  come  sappiamo  da  Aristotile,  il  posto d'intei  mediar!  fra  le  Idee  e  le  cose  non  è  assegnato  che alle  entità  matematiche.  Per  noire  poi  dei  concetti  cosi disparati  quali  sono  quelli  dell'anima  e  delle  entità  ma- temati'^he,  si  ricorre  come  termine  medio  a  quest'  altro concetto  che  le  entità  matematiche  sono  le  Idee  nel  loro rapporto  con  la  materia,  cioè  come  leggi  del  mondo sensibile— perchè,  Platone  riguardando  il  mondo  come  un essere  vivente,  si  crede  di  poter  identificare  le  leggi  dei fenomeni  alle  funzioni  di  un  essere  vivente,  e  queste  al- Taniroa  che  lo  vivifica— .Che  le  entità  matematiche,  in- fine, siano  le  Idee  nel  loro  rapporto  con  la  materia  o  le leggi  del  mondo  sensibile,  sarebbe  provato  dal  FiZeò^,  il TzépoLz  di  cui  si  tratta  in  questo  dialogo,  equivalendo,  se- condo questi  interpreti,  ai  Numeri  matematici  dell'espo- sizione aristotelica. Cosi  questa  costruzione  è  fondata  sui  presupposti seguenti  : ì^  Che  le  Idee  siano  fuori  delle  cose.  Noi  l'abbiamo confutato  nel  Suppl.  B. 2<*  Che  le  entità  matematiche  rappresentano  tutti  gli attributi  delle  cose,  e  sono  intermediarie  in  quanto  tra- mezzano tra  le  Idee  e  le  cose  considerate  nell*  insieme dei  loro  attributi.  Noi  abbiamo  visto  invece  (nel  Sup- plem.  C,  n.  Ili)  che  esse  non  rappresentano  che  i  soli attributi  aritmetici  e  geometrici  delle  cose,  e  che  non tramezzano  che  tra  i  numeri  ideali,  in  quanto  costitui- scono le  Idee  (cioè  i  concetti  obbiettivati  più  generali) dì  questi  attributi,  e  questi  attributi  nelle  cose  stesse, cioè  individualizzati.  Questo  2"  presupposto  è  il  punto di  partenza  per  identificare  l'anima,  come  principio  me- diatore, alle  entità  matematiche,  ed  è  contenuto  impli- citamonte  nella  sopposiz'one  che  le  entità  matematiche sono  le  Idee  nel  loro  rapporto  con  la  materia  o  le  leggi del  mondo  sensibile. 3<>  Che  il  TzépoL(;  del  Filébo  equivalga  ai  Numeri  ma- tematici, ciò  che  proverebbe  (vista  l'evidente  immanenza del  «épas)  che  questi  numeri  sono  nelle  cose  stesse— altro presupposto  implicato  nella  supposizione  che  le  entità matematiche  sono  le  Idee  nel  loro  rapporto  con  la  ma- teria 0  le  leggi  del  mondo  sensibile. — Noi  abbiamo  visto che  questa  equivalenza  tra  il  népa^  del  /^ilebo  e  i  Numeri matematici  è  inammissibile,  e  che  la  supposizione  che  i Numeri  matematici  e  in  generale  le  Entità  matematiche sono  nelle  cose,  è  in  contraddizione  col  1*^  presupposto che  è  il  fondamento  ultimo  di  tutta  la  costruzione,  cioè che  le  Idee  sono  fuori  delle  cose  (1). 4^  Che  le  leggi  del  mondo  sensibile  possano  identi- ficarsi con  Tanima  cosmica.  Questa  identificazione  è  una assurdità,  perchè  l'anima  per  Platone  è  una  sostanza  di- stinta :  essa  sarebbe  tutto  al  più  possibile  se  1'  anima fosse  per  lui,  come  p.  e.  per  Aristotile,  una  semplice  a- strazione,  designante  l'insieme  delle  funzioni  della  vita. Inoltre  essa  implica  l'identità  del  népa^  del  Filebo  e  del- l'anima, mentre  Platone  ne  fa  due  generi  assolutamente distinti. Evidentemenle  gP  interpreti  trascendentalisti  delle Idee  platoniche  devono  avere  una  ben  misera  idea  di Platone  come  pensatore,  per  potergli  attribuire  il  cumulo di  non  sensi  espresso  in  questa  proposizione  che  l'anima è  identica  agli  oggetti  matematici  e  ai  rapporti  numerici (1>  V.  Sappi.  C,  IV.  e.  246-249 —  200  - e  metrici  del  Tispag  del  Filebo.  L'anima  per   Platone   è, lo  sappiamo,  una  sostanza  particolare,  invisibile^  almeno per  gli  uomini^  ma  estesa,  in  un   movimento  continuo, muovente  la  materia  per  la  comunicazione    del   proprio movimento,  e  avente  col  corpo  ch'essa   anima    determi- nati rapporti  di  posizione  reciproca  (I).  Il  népa;  e  le  en- tità matematiche  non  sono  che  certi  attribuii  delle  cose, considerati  come  esistenti  per  gè  stessi,  come  tutte  le  al- tre entità  della  metafisica  platonica.  L'anima  del  mondo dunque  e  il  mondo  stesso  sono  due  sostanze  distiiite  ed esteriori  l'una  all'altra  ;  il  Tiépag,  al  contrario,  come  sono costretti  ad  ammetterlo  gli  steFsi  interpreti    trascenden- talisti, e  quindi  anche   le    entità    matematiche,    poiché gli  equivalgono,  esistono  negli  oggetti  stessi   che   com- pongono Jl  mondo,  non  sono  un'altra  cosa  che  viene  ad aggiungersi  a  questi  cggelt»,  ma  un  loro  elemento  ccn- cettuale,  distinto  realmente  dagli  altri,  ma  come   in  un tutto  una  parte  si  distingue  dalle  altre.    Il  Tiépag  e    le entità  matematiche  sono  degli  astratti, l'anima  del  mondo è  una  realtà  concreta;  quelli  sono  degli  universali,  que- sta è  un  essere  individuale;  i  primi  sono  esenti  dal  can- giamento, come  tutte  le  astrazioni  realizzate  di  Platone e  di  qualsiasi  altro  realista  dialettico,    la   seconda    è  il tipo  più  completo  del  divenire    eraclitico.    L'  identifica- zione di  concetti  cosi  disparati  farebbe  cosi  poco    vero. (1)  Noi  abbiamo  visto  che  le  tre  parti  deU' anima  umana  sono alloggiate  nelle  tre  cavità  del  corpo.  Sull'anima  del  sole  Platone fra  tre  ipotesi  (Leggi  898e-899a)  :  o  sta  dentro  il  sole  come  la  nostra anima  dentro  il  nostro  corpo,  o  lo  spinge  dal  di  fuori  «tando  in  un altro  corpo,  ovvero  lo  conduce  essendo  essa  stessa  s«nza  corpo  (ciò che,  secondo  i  prinoipii  di  Platone,  implica  pure  la  supposizione che  lo  spinge  dal  di  fuori). Simile— non  solo  nel  divino  Platone,  come  lo  chiamano, certamente  per  un  omaggio  puramente  convenzionale, gl'interpreti  trascendentalista',  ma  in  qualsiasi  filosofo  a cui  possa  farsi  la  modesta  lode  che  sa  quello  che  dice— che  quand'anche  essa  fosse  l' interpretazione  più  natu- rale dei  testi,  noi  dovremmo  rigettarla,  e  preferirne  qua- lunque altra  possibile,  purché  avesse  un  senso  qualsiasi, anche  il  meno  ovvio. Ma  questa  identificazione,  lungi  di  essere  l'interpre- tazione più  naturale  dei  testi,  è  interamente  gratuita  ed arbitraria.  L'identità  dell'anima  col  Tiépa;  non  potrebbe essere  provata  che  dal  Filebo^  perchè  il  concetto  del  Jiépag è  particolare  al  solo  Filébo\  ma  noi  abbiamo    visto    che in  questo  dialogo  gli  esseri  sono  divisi  in  quattro  generi, e  che  del  Tcépa;  e  dell'anima   si    fanno    due    generi   di- stinti (1).  Né  Aristotile  né  alcun  altro  autore,  che  possa considerarsi  come  una  fonte  storica  par  la  filosofia  pla- tonica, parla  dell'identità  dell'anima  con  gli  oggetti  ma- tematici 0  di  alcun  altro  concetto  simile.  Le  proposizioni in  cui  l'anima  o  la  sua  attività  é  mesm  in  rapporto  coi numeri,  non  possono  pro\rare  l'identità,  o  anche  un  le- game speciale,  tra  essa  e  i  numeri  matematici,    perché non  sono  evidentemente  che  delle  applicazioni  della  dot- trina generale  del  picagorismo  e  del  platonismo    pitago- reggiante  che  ress3nza  di  tutte  le  cose  consiste  nei  nu- meri. Xenocrate  definisce  l'anima:  un  nume  roche  muove se  stesso;  ma  qu^jsta  definizione  non  è  che  la  fusione  di due  concetti  che  noi  conosciamo  suU'  essenza    dell'  ani- ma, l'uno  che  essa  é  un  numero,  come  quella    di    tutte le  altre  cose  nel  periodo  pitagoregglante,    e    1'  altro  che è  ciò  che  muove  S3  stesio.  Vi  ha  d'altron le  un'altra  ra- (1)  V.  Sappi.  B  carte  97-100  e  Sappi.  C,  IV,  e.  247-249. —  291  — >^ hi gione  per  cui  il  numero,  con  cui  Xeuocrate  identifica  Ta- nima,  non  potrebbe  essere  il  numero  matematico,  quale entità  d'Stinta  dal  numero  ideale  e  intermediaria  :  è  che egli  non  distingue  più  il  numero  ideale  e  il  matema- tico,  e  non  ammette  più,  quindi,  le  entità  matema- tiche come  intermediarie  (1).  Platone,  come  ci  rife. risce  Aristotile  fin  De  an.  1.  i«  e.  2°  7),  ha  ammesso che  r  intelligenza  è  il  numero  uno,  la  scienza  il  nu- mero due,  r  opinione  il  numero  della  superficie,  e  il senso  il  numero  del  solido  :  ma  si  vede  da  questo  luogo stesso  che  questi  numeri  non  sono  che  dei  numeri  ideali, perchè  i  numeri  della  soperficie  e  del  solido  rappresen- tano  le  Idee  a  cui  sono  subordinati  tutte  le  superficie  e tutti  i  solidi  matematici  (2),  e  Asistotile  afferma  inoltre espliciUmente  che  i  numeri  di  cui  si  tratta  sono  la  stessa cosa  che  le  Idee.  La  costruzione  dell'anima  nel  Timeo^ su  cui  si  fonda  sovratutto  V  interpretazione  che  discu- tiamo, non  è  più  probante,  in  sostanza,  delle  proposi- zioni precedenti.  Le  prove  che  vi  si  vedono  sono  : 1*^  L'anima,  si  dice,  è  composta  del  mondo  ideale  e della  materia  :  se  ne  conclude  che  essa  deve  equivalere agli  oggetti  matematici,  poiché  questi  sono  Idee  ranno- date con  la  materia,  cioè  come  leggi  del  mondo  sensi- bile—Noi abbiamo  visto  che  non  vi  ha  alcuna  ragione per  ammettere  che  Tanima  è  composta  del  mondo  ideale, poiché,  dovendo  essa  avere  un'  Idea  propria,  il  più  na- turale è  d'intendere  per  Vessenza  indivisibile^  non  tutte le  Idee,  ma  l'Idea  dell'anima,  e  in  quanto  allo  Stesso^ questo  non  può  essere  che  l'uno  dei  due  elementi   (3). (1)  V.  Sappi,  e,  n.  V. (2)  V.  Sappi.  C,  n.  III.  e.  196-198. (3)  V.  Sappi.  C,  IV,  e.  839-242,  e  cfr.  qae^to  Sappi,   o.   Ma  quand'  anche  V  anima  fos^e  composta  di  tutte  le Idee,  non  se  ne  potrebbe  concludere  la  sua  equivalenza con  le  entità  matematiche.  Questa  conclusione  suppone che  queste  entità  partecipano  a  tutte  le  Idee,  tramez- zando tra  esse  eie  cose  considerate  nell'insieme  dei  loro attributi.  Noi  sappiamo  invece  (ì)  che  le  entità  mate- matiche, non  avendo  per  contenuto  che  gli  attributi  ma- tematici delle  cose,  partecipano  ai  numeri  ideali  solo  in quanto  essi  rappresentano  le  Idee  di  questi  attributi,  e non  tramezzano  che  tra  queste  Idee  e  questi  attributi nelle  cose,  cioè  individualizzati. 2^  L'anima  ha  una  natura  media  tra  V  essenza  in- divisibile, cioè  le  Idee,  e  l'essenza  divisibile,  cioè  la  ma- teria (2)  :  ciò  confermerebbe  che  essa  equivale  alle    en- tità matematiche,  poiché  le  entità  intermediarie  non  sono che  le  matematiche—Questa  prova  è  fondata,   come    la precedente,  sui  duo  presupposti  erronei  che  1'  anima  è composta  di  tutte  le  Idee,  e  che  le  entità   matematiche tramezzano  tra  la  totalità  delle  Idee  e  le    cose   conside- rate nella  totalità  dei  loro    attributi.   Inoltre  essa  con- clude affrettatamente  dalla  somiglianza  dei  termini  alla identità  dei  concetti,  supponendo  come  una  cosa  che  va da  sé  che  l'anima  deve  essere  media  nello  stesso  senso in  cui  lo  sono  le  entità  intermediarie  ch3  conosciamo  da Aristotile,  e  trascurando  come  di  nessun  rilievo   la  dif- ferenza  che  queste  sono  medie  tra  le  Idee  e  le  cose  sen- sibili, mentre  l'anima  non  sarebbe  media  che  tra  le  Idee e  la  materia  (cioè  uno  dei  principi!  da  cui   risultano  le cose  sensibili).  Qaesta  differenza  è  invece  d'  un'  impor- -]i (X)  V.  Sappi.  C,  n.  ITT. (2)  V.  Sappi,  C,  IV,  e.   239. —  292  - fcanza  capitale,  perchè  le  entità  intermediarie    che  ci  fa conoscere  Aristotile  sono  dette  tali,  in  quanto   sono  po- steriori  alle'Idee>  anteriori  alle  cose  sensibili,  o  (a  un punto  di  vista^l^seniplicemente  log-ico)  in    quanto   hanno un  grado  di  generalità  medio  fra  le  Idee  e  le  cose  sen- sibili, essendo  comprese  sotto  le  une  come   più  partico- lari, e  comprendendo  le  altre  come  più   generali.    Ma  è evidente  che  Platone  non  può  voler  dire  che  l'anima  è posteriore  alle  Idee  e  anteriore    alla   materia,   o    che  è compresa  sotto  le  Idee,  essendone  più  particolare,  e  com- prende la  materia,  essendone  più  generale.  In  qual  sen- so Tanima  sia  media  tra  il  principio  ideale  e  la  materia ci   è   indicato  dal  Timeo  smesso  50  d,  dove  ciò  che  nasce (il  fenomeno)  è  chiamato  la  natura  media  tra  e  ò  in  cui nasce  (la  materia)  e  ciò  a  somiglianza  di  cui  nasce  (ri- dea).  L'anima,  come  le  altre  cose  individuali,  ha  una  na- tura media  tra  Tldea  e  la  materia,  perchè  tutte   le  cose individuali  sono  composte  dell'  Idea    e   della  materia,  e un  composto  deve  avere  delle  qualità  medie   tra    quelle degli  elementi  che  lo  compongono  (1). 3^  L'  anima  cosmica  deve  equivalere  agli  oggetti matematici,  perchè  essa  comprende  in  sé  i  rapporti  ar- monici «matematici  del  sistema  astronomico— infatti  e.-^sa è  divisa  in  parti  proporz  onali  ai  numeri  del  diagramma musicale,  e  poi  in  cerchi  rappresentanti  le  rivoluzioni degli  astri,  e  di  cui  quelli  che  rappresentano  le  orbite dei  pianeti  sono  proporzionali  ai  numeri  fondamentali del  diagramma  stesso  (Tim.  35b-36d)— Ma  che  l'anima comprenda  in  sé  dei  rapporti  armonici  e  matematici  non è  una  ragione  per  identifìearla  con   le   entità  matema- é tlche.  Sì  avrebbe  lo  stesso  dritto  di  identificare  con  esse gli  elementi  materiali,  perchè  formano  una  proporzione geometrica  (l)"*e  sono  distinti  p^r  mezzo  di  figure  e  di numeri  (2).  Non  vi  ha,  nell'uno  e  nelì'  altro  caso,  che un'  applicazione  dei  principii  generali  del  pitagorismo.  Sj dirà  che  ciò  che  prova  che  V  anima  cosmica  equivale alle  entità  matematiche,  non  è  solamente  che  essa  com- prendejn  se  dei  rapporti  armonici  e  matematici,  ma  che questi  sono  quelli  del  sistema  astronomico.  Ma  la  corri- spondenza di  questi  rapporti  nell'anima  e  neiruniverso, quand'anche  fosse  compi  ta,  non  potrebbe  significare  la loro  identità,  nel  senso  stretto  d^lla  parola;  e  d'altronde questa  corrispondenza  si  spiega  sufficientemente  al  punto di  vista  dell'animismo,  l'anima  di  un  essere,  in  tutte  le forme  di  questa  dottrina,  essendo,  con  più  o  meno  e- sattezza,  un  duplicato  dell'essere  stesso. II  L'  interpretazione  teistica del  sislema  delle  Idee Secondo  alcuni  Dio  equivale  per  Platone  al  Bene, 0  all'insieme  di  tutte  le  Idee,  o  all'uno  e  all'altro,  perchè il  Bene  comprenderebbe  in  sé  Tinsieme  di  tutte  le  Idee. Queste  opinioni  si  fondano  sull'interpretazione  delle  Idee platoniche-anche  oggi  la  più  diffusa  tra  le  persone  colte, quantunque  abbandonata  dalla  più  parte  dei  critici-che vede  in  esse  i  pensieri  eterni  della  divinità  creatrice,  di U)  Cfr.  Sappi.  C,  IV.  carta  241. (1)  Tim.  31c-32c. (2)  Tim,  53b  e  «eg. —  293  — cui  Tuoi  verso  sarebbe  la  realizzazione.  Questa  interpre- tazione della  doftrina  delle  Idee  è  stata  da  noi   implici- tamente confutati  nel  Supplemento  B,  dove  abbiamo  sta- bilito invece  che  le  Id^  non  sono  che  gli  attributi   ge- nerali delle  cose,  considerati  come  delle  realtà  sussistenti per  se  stesse,  e  di  cui  ciascuno,  uno  in  se  stesso,  esiste simultaneamente,  senza  moltiplicarsi  e  senza  dividersi,  in tutti  gli  oggetti  a  cui  viene  attribuito.  Tuttavia,  siccome nella  2^  parte  del  Supplemento   stesso,    in  cui  abbiamo" esaminato  i  motivi  dell'interpreta  «ione  trascendentalista, abbiamo  tenuto  conto  sovratutto  di  quelli  su  cui  è  fon- data  la  forma  di  quest'interpretazione  che   considera    le Idee  come  delle  forme  puramente  obbiettive,  gioverà  forse di  esaminare  a  parte  quelli  su  cui  si  basa  Taltra  forma, cioè  la  teistica,  ciò  che  potrà  servire  di  complemento  alla dimostrazione  della  nostra  interpretazione. Dopo  ciò  che  abbiamo  detto   nel  Supplemento   B  si spiega  facilmente  parche  airinterpretazione  teistica   sia stata  dai  critici  moderni  preferita  T  altra  forma   deirin- terpretazione  trascendentalista.  Questa  comprende  almeno il  tratto  più  caratteristico  e  più   evidente  della   dottrina delle  Idee,  cioè  che  e'^sa  sono   delle  entità   astratte,   gli attributi  generali  delle  cose  considerati   come   sostanze, quantunque  fraintenda  la  dottrina   in  un  altro  punto  im- portante, cioè  ammettendo  che  questi  attributi   generali delle  cose  non  sono  quelli  delle  cose  stesse,  ma  un  loro duplicato.  Ma  l'Interpretazione  teistica  la  fraintende  anche nel  primo  punto,  e  per  conseguenza  non  vi  ha  un  luogo di  Platone  con  cui  non  sia  nella  contraddizione  più  aperta. Una  delle  determinazioni  più  importanti  delle  Idee,   ol- tre  quelle  che  dimo3trano  immediatamente  che  sono  gli attributi  delle  cose  Hosfcautificati,  è  che  vengono  riguar- date come  il  solo  essere  varo,  e  le  cose  individuali  come un  semplice  fenomeno,  Anch*essa  è  più  manifestamente incompatibile  con  Tinterpretazione  teistica  che  con  l'al- tra forma  dell'interpretazione  trascendentalista  :  alla  dif- ficoltà che  ha  in  comune  con  la   seconda,   cioè   di   am- mettere un'altra  realtà  distinta  e  separata  dall'essere  véro^ la  prima  ne  aggiunge  un'altra  più  evidente,  cioè  che  le Idee,  che  non  sarebbero  che  dei  possibili  concepiti  dal- l'intelligenza creatrice,  verrebbero  riguardate   come  più reali  delle  cose,  che  ne  sarebbero*  la   realizzazione.    SI aggiunga  che  T interpretazione  teistica  ha  contro   di  sé, non  solo  le  prove  dell'immanenza  delle  Idee,  ma  anche le  più  importanti  delle  prove  contro  di  questa,  quali  so- no la  sostanzialità  delle  Idee  (che,  come  abbiamo  osser- vato, è  il  motivo  principale  dell' Inter  pretaztone  trascen- dentalista) (1),  la  testimonianza  d'Aristotile,  e  i  miti  del Timeo  e  del  Fedro^  in  cui   le   Idee    sono   rappresentate come  degli  oggetti  separati  dal  mondo^  ma  distinti  pure dal  pensiero  che  li  contempla.  Lo  stesso  vantaggio  del- l'interpretazione teistica,  di  dare  all'  ipotesi  delle  Idee uno  scopo,  che  le  manca  assolutamente  nell'  interpreta- zione più  ricevuta,  costituisce,  in  ultima  analisi,  un  al- tro argomento  contro  di  essa,  perchè,  se  le  Idee  fossero I  pensieri  dell'intelligenza  creatrice,  sarebbero   le  cause efficienti  delle  cose,  nel   significato   proprio   e   naturale della  causa  efficiente  (il  sistema  delle  Idee,    secondo  la interpretazione  teistica,  non  essendo  che  un  caso    della filosofia  istintiva  del  nostro   spirito).  Ora   ciò   è    escluso dalla  testimonianza  d'Aristotile,  che  nega  alle  Idee  ogni causalità  nel  senso  proprio,  e  afferma  che    Platone  non ha  ricercato  che   la  causa    formale   e   la   causa    mate- (1)  V.  Sappi,  B  carta  riale  (O-Arrstotile,  nella  sua  esposizione  della   lllosofìa platonica,  non  fa  parola  deiranima  del  mondo,    e  tiene conto  unicamente  del  sistema   delle   Idee-.La   testimo- nianza d'Aristotile  è  confermata,  in  sostanza,  da   un  e- same  attento  della  dialettica   platonica,    che   ci    mostra che  le  Idee  sono  causp,   ma   in   un   senso   analogico   e molto  lontano  dalla  nozione  spontanea  che  ci  formiamo della  causalità;  e  d'altronde,  in  questo  senso  stesso,  esse sono  cause  le  une  delle  altre,  ma  non  dei  fenomeni.  Alle prove  contro  l'interpretazione  teistica  fondate  sulla  dot- trina stessa  delle  Idee,  «e  ne  aggiungono  altre   fondate su  altri  concetti  della  filosofia  platonica,    cioè   che   Pia- tone  non  ammette  altra  divinità  che  l'anima  cosmica  (2), che  l'intelligenza  secondo  lui  non  si  trova  altrove  che nell'anima  (3),  che  egli  non  conosce  altra  causazione,  nel senso  proprio,  che  quella  che  consiste  in  una  successio- ne (4),  ecc.  Le  due  forme  dell'  interpretazione   trascen- dentalista delle  Idee  platoniche  ci  danno  gli  esempi  più colpenti  delle  due  maniere  più    abituali   di    trattare   la storia  della  filosofia  :  l'una  che  pretende  fondarsi  su  un esame  scrupoloso  dei  testi,  ma  per  difetto  di  sìntesi  e  di un  concetto  esatto  dei  motivi  e  della  genesi   della   spe- CQlazione  metafisica,  non  riesce   a   dare   ai   sistemi    un significato  intelligibile;  Taltra  che   pretende   costruire    i sistemi,  ed  è  interamente  arbitraria.   Naturalmente   T  e- sempio  della  seconda   maniera  è   l' interpretazione    tei- stica. L'oggetto  di  questa  seconda  parte    di  questo    Sap- 0)  Met,  1.  I.  JX.  6,  8,  11-12,  13,  21,  VI.  7,  ecc. (2)  V.  Sappi.  C,  IV,  e.  224. ^)  V.  Sappi.  C,  IV,  o.  223  pag.  2-. (4)  V.  Sappi.  C,  IV,  e.  229. E plemento  non  è  un  eFame  completo  dell'  interpretazione teistica.  Esso  importerebbe  delle  ripetizioni  inutili,  per- chè bisognerebbe  ritornare  sulle  prove  dell'  immanenza delle  Idee  che  abbiamo  date  nel  Supplemento  B.  Qui  ci limiteremo  dunque  a  discutere  le  prove  su  cui  e  fondata quest'interpretazione.  Siccome  l'immanenza  delle  Idee  ci sembra  sufficientemente  stabilita,  se  queste  prove  fossero coacludenti,  dovremmo  confessare  che  vi  ha  in  Platone una  contraddizione  insolubile.  Noi  mostreremo  che  questa contraddizione  non  esiste,  e  che  le  proposizioni  di  Pla- tone su  cui  si  basa  l' interpretazione  teistica,  si  spie- «•ano  anche,  e  d'una  maniera  più  sodlisfacpnte,  nella nostra  interpretazione. I  motivi  precipui,  se  non  unici,  dell'interpretazione teistica  possono  ridursi  ai  seguenti  : !•  Il  significato  che  U  parola  idea  ha   nelle    lingue moderne.  Noi  abbiamo  osservat'^,    dopo  tanti   altri,    che in  greco  lÒi%   non  ha  questo  significato  0).  Se  si  riflette che  gli  errori  del  volgare  influiscono  spesso  anche  suUe memi  dei  pensatori,  non  si   troverà   strano   che    questo equivoco  sul  significato  della  parola  idea  figuri  anch'esso tra  i  motivi  dell'interpretazione  teistica.  E hso,  a  dir  vero, non  ha  potuto  contribuire  che  alla    sua    diffusione,    ma non  alla  sua  ergine,  essendo  anzi  quest'interpretazione che  ha  determinato  il  passaggio   dal   significato   antico del  termine  al  suo  significato  moderno.  Certamente  l'in- terprete teistico  non  ignora  che  ISsa  non  significa   pen- siero-,  ma  quando  egli  dice  che  le  Idee  platoniche   sono i  pensieri  dt>ll  i  divinità,  una  gran  parte  del   pubblico  a cui  si  rivolge  trova  naturalissimo  che  un'idea  deve  es- ci) V.  Sappi.  B,  caria  12  nota  1. —  295  — sere  il  peDsiero  di  qualcuno,  e  si  sa  che,  nelle  quistioni filosofiche,  il  successo  delle  opinioni  non  dipende  sola- mente dal  suffragio  dei  dotti. 20  II  teismo  di  Platone  e  la  sua  dottrJna  cLe  la  di- vinità è  la  causa  prima  di  tutti  i  fenomeni.  Siccome  per Platone  le  cause  delle  cose  sono  le  Idee  e  la  causa  di tutto  é  l'Idea  del  Bene,  se  ne   conclude   che    Dio  deve essere  identico  a  tutte  le  Idee  o  alPIdea  del   Bene— Noi abbiamo  osservato  che  vi  hanno  nella  filosofia  platonica due  sensi  della  parola  causa,  corrispondenti  a  due  spie- gazioni del  mondo,   simultanee    ma   assolutamente   di- stinte. In  un  senso,  la  causa   vuol  dire   la   causa   effi- ciente, nel  significato   proprio   del   termine   (quello    che esso  ha  nella  filosofia  istintiva  dello  spirto  umano).    É in  questo  senso  che  la  causa  prima  è  la  divinità.  Il  se- condo senso  della  parola  causa  è  quello  che  essa  ha  nel realismo  dialettico,   e  non  è  che  T  obbietti vazione  del rapporto  logico  fra  i  concetti  realizzati.  É  in  questo  sen- so che  la  causa  di  tutto  è  Pldea  del  Bene.    Le  Idee,  a parlar  propriamente,  non  sono  cause  delle  cose  in  questo secondo  senso,  ma  nemmeno  nel  primo.  La   causa,  nel primo  senso,  è  esteriore  airefletto,  mentre  le   Ide«i  sono nelle  cose,  ne  sono  Telemento  costante  e  veramente  reale, da  cui  dipende  il  loro  essere  e  la  loro  essenza.  Il  senso in  cui  le  Idee  sono  cause  delle  cose,  se   non   è  precisa- mente identico  al  secondo  senso  (cioè  a  qu«^llo  che  è  Tob- biettivazione  del  rapporto  tra   il    principio   e    la   conse guenza),  può  però  ricondursi   con  esso    a    un    concetto comune,  perchè  in  entrambi  i   casi    è   il  generale   che viene  riguajdato  come  causa,  e  i  particolari  subordinati come  effetti.  L'interprete  teistico  confonde  questi    sensi evidentemente  distinti  della  causa  in  Platone,  perchè  non comprende  né  l'immanenza  delle  Idee  ne  il    vero  signi- ficato della  dialettica. 3^  Il  nome  di  dio  che  Platone  dà  al  Bene  e  ad  altre Idee,  e  quello  di  divino  che  dà  a  tutte  le  Idee  in  gene- rale. Il  Bene  è  chiamato  dio  nel  X  libro  della  Repub- blica, dove  dice  che  Dio  ha  prodotto  Tldea  del  letto  e ogni  altra  Idea  (i).  Ma  qualunque  sia  la  maniera  d'in- terpretare le  Idee  platoniche,  non  può  vedersi  in  questa deificazione  del  Bene  che  una  semplice  metafora,  poiché il  Bene  è  evidentemente  un'Idea  come  tutte  le  altre,  e non  differisce  dalle  altre  che  perchè  occupa  il  primo  po- sto nella  gerarchia  del  mondo  ideale  (cioè  perché  è  la più  universale  dì  tutte,  e  per  conseguenza,  secondo  i principii  della  dialettica  platonica,  quella  da  cui  tutte le  altre  si  deducono).  L'Idea  del  Bene,  in  qualsiasi  in- terpretazione delle  Idee,  non  può  essere  che  Tastrazione bene  (cioè  l'attributo  comune  a  tutte  le  cose  che  si  dì- cono  buone)  esistente  sotto  una  forma  o  sotto  un'altra  : se  si  ammette  che  queste  astrazioni  che  Platone  chiama Idee  non  hanno  che  un'esistenza  mentale,  e  sono  i  pen- sieri dell'intelligenza  divina,  l' Idea  del  Bene  sarà  un pensiero  dell'intelligenza  divina,  ma  non  l' intelligenza divina  stessa  che  è  il  substratum  o  il  complesso  di  questi pensieri  (2).  Si  dirà  che  l'Idea  del  Bene  comprende  in sé  l'insieme  di  tutte  le  Idee,  e  che  è  perciò  che  Platone può  identificarla  con  l'intelligenza  divina.  Ma  l'Idea  del Bene  non  può  contenere  le  altre  Idee  che  come  un  con- cetto generale  contiene  i  concetti  più  particolari  subor-  * dinati,  cioè  in  estensione,  e  non  in  comprensione  (ciò che  sarebbe  necessario  perchè  potesse  riguardarsi  come equivalente  a  tutto  il  mondo  ideale).   Nel   secondo  caso (1;   (2)  Cfr.  Sappi.  C,  IV,  o.  232. —  2%  — il  cooteouto  dell'Idea  del  Bene  sarebbe  tuti'  altro  che quello  del  concetto  astratto  di  6ew^;  mentre  è  evidente che  le  Idee  platoniche,  che  esse  esistano  nelle  cose  o fuori  delle  cose,  che  siano  delle  realtà  obbiettive  o  dei semplici  pensieri,  non  potrebbero  avere,  in  ogni  caso, altro  contenuto  che  quello  dei  concetti  «stratti  che  loro corrispondono.  Delle  Idee  altre  che  il  B.3ne  sono  chia- mate dio  nel  Timeo  die  e  nel  Parmenide  134c-d.  Nel primo  di  questi  luoghi  II  mondo  è  detto  «  dio  sensibile immagine  del  dio  intelligibile»,  e  l'interprete  teistico  ne conclude  che,  questo  «  dio  intelligibile  »  essendo  il  mo- dello del  mondo.  Dìo  è  per  Platone  la  stessa  cosa  che l'insieme  delle  Idee.  Ma  l'altro  luogo  del  Timeo  stesso. 37c,  in  cui  il  mondo  è  chiamato  «  simulacro  degli  dei eterni  »,  mostra  che  questa  conclusione  è  affrettata,  e  che Platone  chiama  dio  anche  delle  Idee  particolari,  la  cui personificaz'one  nell'interpretazione, teistica  è  altrettanto impossibile  che  nella  nostra,  perchè  non  sarebbero  se- condo essa  che  dei  pensieri  particolari  della  divinità. Un'osservazione  analoga  vale  pel  luogo  del  Parmenide. Ivi  è  chiamato  dio  il  soggetto  in  cui  risiedono  la  scienza in  sé  e  la  padronanza  in  8è  (donde  potrebbe  conclu- dersi che  le  Idee  secondo  Platone  risiedono  in  Dio)  Ma in  seguito  (134  d-e),  invece  di  un  sogifetto  unico,  si parla  di  più  soggetti,  cioè  di  dei  al  plurale,  co  che  e- sclude  che  la  scienza  e  la  padronanza  in  sé  risiedano nel  Dio  di  cui  è  quistiooe  n^W  interpretazione  teistica, che  è  naturalmente  uno  solo  (1).  lu  quanto  all'  epiteto divino  dato  alle  Idee  in  genera'o,  esso  non  é  per  Pla- tone (e  quest'uso  del  tcrmme  non  gli  è  particolare)  che (1)  Cfr.  questo  «uppl.  e.  280  e  cap.  VII  pag.  J89, un  sinonimo  di  eccellente,  E  ciò  che  si  vede  chiaramente nel  Fedone  85e-86  a  (l'armonia  è  divina,  la  lira  e  le corde  sono  terrestri  e  affini  al  mortale),  86c  (l'  anima  è divinissima— nell'ipotesi  che  sia  l'armonia  del  corpo—), 9i  d  (è  più  divina  del  corpo  —  nella  stessa  ipotesi—), Fedro  246  e  (il  divino  è  il  bello,  il  saggio,  il  buono  e tutto  ciò  che  è  tale),  Bep.  500  d  (sono  chiamati  divini tanto  le  Idee  quanto  il  filosofo  che  le  contempla),  e  ia tanti  altri  luoghi,  in  cui  nessuno  potrebbe  essere  tentato d'intendere  per  divino  un  attributo  o  un'  appartenenza della  divinità. 4«  Il  Demiurgo  del  Timeo.  Il  racconto  del  TimeOj se  si  prende  alla  lettera,  è  una  prova  dell'  altra  forma dell'interpretazione  trascendentalista,  perchè  ci  si  parla di  un  demiurgo  che  ha  costruito  il  mondo  contemplando le  Idee  come  modelli.  Ma  l'interprete  teistico  osserva  con ragione  che  questa  non  è  filosofia,  ma  mitologia  :  egli ne  conclude  che  la  distinzione  tra  il  demiurgo  che  con- templa e  il  modello  che  è  contemplato  è  una  semplice immagine  che  non  deve  prendersi  alla  lettera,  e  che  in realtà  il  demiurgo  contempla  il  modello  in  se  stesso,  in altri  termini  che  le  Idee  sono  i  pensieri  del  demiurgo, cioè  dell'intelligenza  creatrice.  Ma  se,  non  contenti  del significato  apparente  del  racconto  del  Timeo,  si  crede necessario  di  cercargliene  uno  riposto,  non  bisogna  pre- ferire quello  che  sembra  all'interprete  stesso  più  soddi- sfacente come  dottrina  filosofica,  ma  quello  che  è  indi- cato dalle  proposizioni  del  Timeo  stesso,  dall'  insieme delle  dottrine  di  Platone  e  dalla  testimonianza  dei  suoi discepoli  immediati  e  dei  loro  contemporanei.  Ora  noiabbiamo  visto  che  queste  indicazioni  concordano  nel mostrarci  che  il  Demiurgo  non  è  un  essere  realmente personale,  ma  la  personificazione  di  un'  entità   astratta^ —  297  ^ 1 cioè  un  simbolo  dell'Idea  del  Bene,  e  che  la  cosmogonia del  Timeo  è  un'allegoria  della  derivazione  delle  cose  dai due  primi  principii  (1).  L'opinione  deirinterprete  teistico è  senza  dubbio  più  filosofica  e  più  intelHgibMe  che  quelle dei  sostenitori  dell'altra  forma  dell'  interpretazione  tra- scendentalista, che  prendono  il  Demiurgo  alla  lettera, considerandolo  sia  come  un  elemento  filosofico  dei  si- stema platonico  sia  come  un  semplice  elemento  rappre- sentativo (cioè  privo,  per  Fautore  stesso,  che  lo  ammette, di  qualsiasi  valore  filoso  fico -situazione  psicologica  che non  è  certamente  facile  a  concepire)  :  ma  questo  van- taggio relativo  non  può  bastare  a  provarla,  quantunque basti  per  vedere  nella  cosmogonia  del  Timeo  uno  dei motivi  precipui  dall'interpretazione  teistica. 50  L'arduità  del  sistema  delle  Idee  e    la  familiarità del  concettualismo  e  della  filosofia  teologica.  Ciò  fa  che, sfuggendo  il  significato  reale  del  primo,  si  cerca  di  dar- gliene uno  riconducendolo  ai  secondi.  Quantunque,  come abbiamo  mostrato  nel  V  capitolo  del  Saggio  P,  un  pen- siero astratto  e  generale  è  altrettanto   inconcepibile  che un  essere  astratto  e  generale,  vi  ha  però  tra  le  due  ipotesi questa  dififerenza,  che  la  prima  è  ammessa  da  quasi  tutti i  filosofi  e  tutte  le  persone  colte,  ed  è  un  prodotto  spon- taneo dei  sofismi  a  priori  del  nostro  spirito,    mentre   la seconda  non  ha  avuto,  almeno   nella  filosofia   moderna, che  un  numero  molto  esiguo  di  partigiani, ed  èia  meno naturale  delle  spiegazioni  del  mondo  escogitate  dai  me- tafisici. All'epoca  di  Platone   l'equivoco   dell'interprete teistico  di  prendere  un'entità   astratta   per  un   pensiero astratto  non  sarebbe  stato  cosi  facile  come  ora,  non  solo perchè  la  teoria  dei  concetti  verisimilmente  non  era  ancora (1)  V.  Sappi.  C,  n.  IV. stabilita,  ma  anche  perchè  Aristotile,  a  quanto  sappiamo, è  il  primo  che  abbia  ammesso  la  dottrina  dell'immuta- bilità  di  Dio,  e  per  conseguenza  quella  dell'eternità  dei pensieri  divini,  che  dà  al  Dio  della  filosofia  teologica  mo- derna (tanto  più  se  si  riguarda  come  una  pura  intelligenza) una  certa  aria  di  somiglianza  col  mondo  ideale  di  Platone, specialmente  interpretato  alla  maniera  trascendentalista. L'altro  elemento  della  dottrina  delle  Idee,  cioè  la  dialettica, non  è  meno  arduo  che  l'ipotesi  delle  Idee  stesse.  Que- st'arduità della  dialettica  è  dovuta,  oltre  che  alla  diffor- mità del  concetto  di  causalità  su  cui  essa  è  fondata,  dal- l'idea spontanea  della  causalità,  alla  maniera  imperfetta in  cui  applica  questo  concetto.  Aggiungiamo  che  nella supposizione  della  trascendenza  delle  Idee  (ammessa  da quasi  tutti  gl'interpreti)  essa  diviene  necesssariamenle incomprensibile  (1).  Da  queste  difficoltà  di  comprendere la  dialettica,  senza  di  cui  la  dottrina  delle  Idee  è  una ipotesi  senza  motivo  e  senza  scopo,  nasce  naturalmente il  tentativo  di  trasformarla  in  una  varietà  della  filosofia istintiva  (cioè  fondata  sul  concetto  spontaneo  della  causa- lità), come  dalle  inconcepibilità  del  realismo  nasce  quello di  trasformarla  in  un  sistema  concettualista.  Questi  due tentativi  riuniti  costituiscono  il  motivo  principale  dell'in- terpretazione teistica. Ma  per  mostrare  su  quali  deboli  basi  si  fondi  questa interpretazione,  sarà  meglio  di  esaminare  le  prove  che ne  dà  uno  dei  suoi  principali  sostenitori,  cioè  il  Fouillée, nella  sua  opera  La  Filosofia  di  Platone  (2).  Il  Fouillée, a  dir  vero,  non  ammette  che  le  Idee  non  siano  altra  cosa (1)  Gfr.  Sappi.  B  carte  123—124. (2)  V.  parte  I,  lib.  IX,  oap.  IV. .-  29«  — rflS?.*-  •nj "Tj r    f 1' ì chA  ì  peDsitri  deirintellfgeDza  divina;  egli  conviene  che ÌQ  qaest'ipotesi  non  sarebbero  che  dei  semplici  possibili concepiti  da  Dio,  e  Platone  non  potrebbe  chiamarle  delle realtà  :  ovitog  ovxa.  Secondo   lui  le  Idee  sono   primitiva- mente le  perfezioni  divine  (rimedio   peggiore   del   male, perchè  che  cosa  può  significare  che  il  leone,  p.  e,  o  l'al- bero in  se  stessif  cioè  come  semplici  complessi  degli  at- tributi generali  che  costituiscono  queste  specie,  sono  delle perfezioni  di  Dio?);  ma  per  conseguenza   sono  anche  i pensieri  divini,  perchè  Dio  «  ha  coscienza  di  se  stesso  e delle  determinazioni  che   inviluppa   il  suo   eesere».  Ma questo  concetto  del  Fcuillèe  non  può  impedirci  di  dare la  sua  arg(  mentazione  come  efemjio  deirargomentazione dr gl'interpreti  teistici  in  generale,  perchè  è  evidente  che egli  si  serve  di  tutti  gli  argomenti  che  crede  i  più  propri a  dimostrare  Tinterpretazione  teistica,  sia  che  provino  che le  Idee  tono  le  perfezioni  divine,  sia  che  provino  che  Fono i  pensieri  divini.  L'argomentazione  del  Fouillèe  può  di- vidersi in  due  parti  :  gli    argomenti   della  prima   parte sono  dei  luoghi  del  Timeo,  con  cui  egli  cerca  di  provare che  le  Idee  non  sono  separate  dal  Demiurgo,   ma  sono nel  Demiurgo  stesso,  cioè  in  Dio;   quelli  della    seconda parte  sono  dei  luoghi  raccolti  dagli  altri  dialoghi.    Noi esamineremo  questijargomentì  a  uno  per  uno,  cominciando dalla  prima  parte. V  II  modello,  dice  il  Fouillèe,  è  ciò  che  vi  ha  di  più perfetto,  è  uno  ed  è  vivente,  cioèè  un  animale  intelligibile. Egli  ne  conclude  che  non  vi  ha  alcuna  differenza  tra  esso e  Dio—//  modello  è  ciò  che  vi  ha  di  più  per f etto.  Ma  Pla- tone definisce  forse  Dio,  come  Cartesio:  Tessere  perfet- tissimo ?  Noi  abbiamo  osservato  che  l'idea  della  filosofia teologica  moderna  che  Dio  è  l'infinito  o  l'assoluto,  cioè che  possiede  tutti  gli  attributi  che  giudichiamo  dèlie  péi^- fezioni  a  un  grado  infinito  o  assoluto,  è  un  coticetto  chS non  si  trova  in  Platone— quantunque  le  sue  dottrine  sitila divinità  occupino  un  posto  elevato  nei   gradi  dello   svi- luppo di  cui  questo  concetto  è  il  termine  ultimo  —  uè  in generale  nella  filosofia  teologica  antica.    Nei  luoghi  del Timeo  a  cui  allude  il  Fouillèe  (1)  per   perfetto   bisogna intendere  completo.  Platone  dice   che  il  mondo  è   statò fatto  a  somiglianza  dell'Idea  universale  di  animale,  com^ prendente  in  sé  tutte  le  Idee  generiche  e  specifiche  degli animali.  Per  conseguenza  egli   chiama   il    modello  del mondo  l'animale  intelligibile  perfetto  o  completo,  perchè comprende  tutti  gli  animali  intelligibili  (cioè  tutte  16  Idee degli  animali)    Egli  sembra  chiamarlo  pure  (2)  Il  più  per- fetto degli  esseri  intelligibili  (e  non  semplicemente  deglf animali  intelligibili):  ciò  è  perchè  l'Idea  universale  df  a- nimale  con  tutte  le  Ide3  generiche  e  specifiche  degli  a- nimali  contengono  in  sé,  in  qualche  modo,  tutto  il  mondo ideale— senza  di  che  Platone   non  potrebbe  riguar latte come  il  modello  del   mondo  — (3).   Questi   concetti    nou hanno  niente  di  comune  con  V  essere  perfettissima   del moderni  filosofi  spiritualisti  —  Il  mt)dello  è  uno.  Questo argomento  potrebbe  valere  contro  l'altra  forma    dell'in- terpretazione trascendentalista,  che  ammette,  o  dovrebbe ammettere,  che  le  Idee  sono  separate  le  une  dalle  altre, come  dalle  cose.  Nella  nostra  interpretazione   il  mondo ideale  non  è  una  moltiplicità  Senza  unità,  ma  un'unità multipla,  perchè  l'Idea  generale  risiede  nelle  Idee  parti- ci) Tim,  30o-31b,  39  d-e.  Cfr.  41b-c,  69c,  92o. (2)  Tira.  39  d. (8)  Cfr.  Sappi.  B  carta  82  e  cap.  VII  pag.  265. --  299  -. colarì,  ed  è,  ìmplieltanlente,  queste  Idee  stesse  —  Infine il  modello  è  vivente.  Ma  Platone  dice  solamente  che  è ridea  universale  delPanimale  con  le  altre  Idee  degli animali  che  essa  comprende.  Qaesto  potrebbe  prendersi in  tre  sensi,  corrispondenti  alle  tre  interpretazioni  delle Idee  in  generale.  Queste  Idee,  nella  nostra  interpretazione, sono  gl'insiemi  degli  attributi  comuni  a  tutti  gli  animali e  a  ciascun  genere  e  ciascuna  specie  particolare  di  a- nimali,  esistenti  negli  stessi  animali  reali.  Nell'interpre- tazione  trascendentalista  seguita  dalla  più  parte  dei  critici moderni,  sarebbero  questi  stessi  insiemi  di  attributi,  ma fuori  degli  animali  r>ali.  Neirioterpretazione  teistica,  in- fine, i  pensieri  divini  degli  animali,  e,  secondo  il  Fouillèe, anche  le  perfezione  divine  corrispondenti.  Di  questi  tre sensi  il.FouUlèe  non  potrebbe  ammettere  T  ultimo  che arbitriariamente;  e  del  resto  non  è  quello  ch'egli  attri- bjsce  alle  parole  di  Platone. ^  Il  testo  stesso  del  Timeo  identifica  il  Demiurgo  e il  modello.  Infatti  Platone  d'ce  :  «  Esente  da  invidia,  Dio volle  che  tutte  le  cose  fossero,  per  quanto  era  po->sibile, simili  a  se  stesso».  Ma  Platone  dice  ancora:  Simili  alle Idee,  al  Vivente  intelligibile.  Dunque  Dio  è  egli  stesso questo  Vivente  che  abbraccia  in  sé  le  Idee  —  Ma,  come si  vede  da  tutto  il  contesto,  il  Demiurgo  volle  chetuttJ le  cose  fossero  simili  a  se  stesso,  in  quanto  egli  era  buono, e  volle  che  tutte  le  cose  fossero  buone.  Questa  proposi- zioae  presentarebbe  un  senso  soddisfacente,  anche  pren- dendo il  Demiurgo  e  i  paradigmi  alla  lettera,  e  consi- derandoli come  due  cose  distinte.  Non  si  è  contenti  del senso  letterale?  ma  allora  questo  luogo  ci  permette  d'i- dentificare il  Demiurgo,  non  all'insieme  delle  Idee,  ma all'Idea  del  Bene,  porche  ciò  ch'^  renda  le  cose    buone, rendendole  simili  a  se  stesso,  noa  è  l'insieme  delle  Idee, ma  l'Idea  del  Bene  (1).  Il  Fouilièe,  a  dir  vero,  crede che  questo  luogo  identifichi  il  Demiurgo  tanto  all'insieme delle  Idee  quanto  all'Idea  del  Bene,  perchè  queste  due cose  per  lui  si  equivalgono.  Ma  noi  abbiamo  osser- vato (2)  che  quest'equivalenza  ò  impossibile  anche  nei presupposti  deirinterpretazìone  teistica,  perchè  il  conte- nuto dell'Idea  del  Bene,  come  di  tutte  le  altre,  non  può essere,  in  qualsiasi  interpretazione,  che  quello  stesso  del concetto  corrispondente. Per  confermare  l'identità  tra  il  Demiurgo  e  1'  Idea del  Bene,  il  Fouillèe  aggiunge  che,  se  Platone  chiama Dio  buono,  e  perchè  è  il  Bene  stesso;  infatti  «si oserà sostenere  che  Dio  è  buono  per  la  sua  partecipazione  a qualche  cosa  dì  superiore  (cioè  all'Idea  del  Bene  distinta da  Dio  stesso)  ?  »  Senza  dubbio  :  Platone  osava  sostenere ciò  e  tante  altre  dottrine  egualmente  incompatibili  col concetto  moderno  che  Dio  è  l'assoluto,  p.  e.  che  vi  hanno molti  dei,  che  la  divinità  non  ha  creato  la  materia,  che la  sua  potenza  è  limitata,  ecc.  (3),  e  tutti  i  filosofi  antichi osavano  sostenere  cDme  lui  tali  dottrine  ed  altre,  secon- do il  teismo  moderno,  non  meno  indegne  della  divinità. 3*  Il  Fouillèe  cita  il  Timeo  3la-b  (luogo  che  abbia- mo riportato  e  spiegato  nel  Supplemento  B,  carta  82),  e lo  commenta  cosi  :  «  Non  ssmbra  che  Platone  abbia  vo- luto confutare  anticipatamente  quelli  che  moltiplicano gli  esseri  senza  necessità,  obbliando  che  l'unità  è  il  ter- mine della  dialettica  ?  Due  dei  che  non  differissero  che (1)  V.  Sappi,  e,  IV,  carte  231-232. (2>  V.  sopra,  carta  296. (3)  V.  aue«to  Sappi.,  T,  carte  282-283» -*  300  -» per  La  loro  funzione  di  modello  o  di  artigiano,  suppor- rebbero al  di  sopra  di  loro  un  dìo  unico,  che  li  abbrac- cerebbe T  uno  e  T  altro  nella  sua  comprensione».  Ma Platone  in  questo  luogo  non  parla  di  due  dei,  ma  so- lamente di  due  Idee  dell'animale  :  egli  dice  che  due  Idee dell'animale  sarebbero  impossibili,  perche  supporrebbero al  di  sopra  di  loro  un'  Idea  unica  deir  animale  che  le conterrebbe  tutte  e  due.  Del  resto  né  è  una  conseguenza dei  principi!  della  dialettica  platonica  che  due  del  sup- porrebbero al  di  sopra  di  loro  un  dio  unico  che  li  ab- braccerebbe runo  e  Taltro,  né j Platone,  nella  supposi- zione che  combatte  il  Fouillèe,  potrebbe  riguardare  il modello  come  un  dio  altrimenti  che  per  metafora. 4?  Platone,  enumerando  le  cose  che  egli  ammette, non  parla  che  di  tre,  le  Idee,  lo  spazio  e  la  genesi,  e non  di  una  quarta,  che  dovrebbe  essere  il  Demiurgo.  E cosi  che  fa  a  48e-49a,  SOc-d,  52d  (1).  Il  Fouillèe  cita questi  luoghi,  e  ne  conclude  che,  poiché  il  Demiurgo manca  nella  enumerazione,  esso  deve  essere  identico  a una  delle  tre  cose  enumerate,  cioè  alle  Idee.  Questo  é senza  dubbio  il  migliore  degli  argomeati  ch'egli  impiega per  dimostrare  Tidentità  tra  il  modello  e  il  Demiurgo. Ma  esso  non  é  probante  che  nella  sua  parte  negativa, cioè  contro  quegrinterpreti  che,  come  il  Martin,  pren- dono il  Timeo  alla  lettera  e  ammettono  che  Platine  ha pensato  realmente  che  il  mondo  e  stato  costrait'>  da  un artefice  che  ha  copiato  un  modello.  Contro  la  sua  parte positiva,  cioè  che  il  senso  riposto  del  Timeo  é  che  le  I- dee  esistono  in  Dio,  valgono  le  osservazioni  che  abbiamo fatto  sopra,  sul  4«  motivo  dell'interpretazione  teistica,  e sarebbe  inutile  di  ripeterle. Il  Fouillèe  osserva  pure  sul  secondo  dei  luoghi  in- dicati che  il  modello  deve  essere  identico  al  Demiurgo, perché  in  questo  luogo  le  Idee  vengono  riguardate  come le  cause  delle  cose,  e  paragonate  al  padre  (lo  spazio essendo  paragonato  alla  madre,  e  la  genesi  al  figlio)  (I). Quest'argomento  non  può  valere  anch'  esso  che  contro l'altra  forma  dell'interpretazione  trascendentalista,  se- condo cui  le  Idee  non  potrebbero  essere  che  dei  sem- plici esemplari,  e  la  loro  causalità  sulle  cose  é  assolu- tamente incomprensibile. 5*»  Nel  Timeo  68e  Piatone  dice  :  «  Dio  impiegava tutte  queste  cause  per  ausiliarie,  ma  mise  egli  stesso  il bene  in  tutte  le  cose  generate.  É  per  ciò  che  bisogna distinguere  du*^  sorta  di  cause,  Tuna  necessaria  e  l'altra divina,  e  noi  dobbiamo  cercare  in  ogni  cosa  la  causa divina».  Il  Fouillèe  commenta  :  «Platone  nondistingue due  cause  divine,  1'  una  efficiente  (cioè  il  Demiurgo), l'altra  esemplare  o  finale  (cioè  il  modello)  ;  egli  non  ne pone  che  una,  l'Idea» —Ma  in  questo  luogo  non  é  qui- stione  della  causalità  delle  Idee.  Le  cause  che  si  distin- guono in  due  generi  sono  le  cause  fenomenali,  cioè  fa- cienti  parte  dell'universo  come  complesso  di  tutte  le  esir stenze  individuali.  Confrontando  questo  luogo  con  due altri  del  Timeo  stesso,  cioè  46c-e  e  48a,  in  cui  é  espresso evidentemente  lo  stesso  concetto,  si  vede  che  per  le  cause divine  bisogna  inteudere  quelle  «  che  producono  con  in- telligenza il  buono  e  il  bello  »  ;  le  cause  necessarie  sono naturalmente  gli  agenti  materiali.  In  questa  bipartizione delle  cause  le  Idee  non  vanno  né  nell'una  né  neir altra 1 0)  Cfr.  Sappi.  C»oarta228. (1)  Cfr.  Sttppl.  C,  carta   parte,  benché  la  parusìa  delle  Idee  vi  sia  necessaria- mente tanto  nelle  cause  dell*  una  quanto  in  quelle  del- l'altra, poiché  tanto  gli  agenti  materiali  quanto  gli  a- genti  spiritaali  sono  la  realizzazione  delle  Idee  e  agi-scono secondo  le  necessità  ideali.  Fra  le  cause  di- vine é  compreso  il  Demiurgo,  che,  se  si  prende  alla lettera,  è  anch'  esso  una  causa,  come  abbiamo  detto, fenomenale,  essendo  eviient3mente  un  individuo,  e  non un'entità  astratta.  Secondo  noi  il  Demiurgo  non  dev^e prendersi  alla  lettera,  e  simboleggi i  V  Ide%  del  Bene  : per  conseguenzi  le  cause  divine,  oltre  le  cau^e  intelli- genti (cioè  le  divinità  generate),  significano  anche,  al- legoricamente, la  causalità  del  Bene.  Questo  però  non ci  costringe  ad  oltrepassare  V  ordine  causale  nei  feno- meni, perchè  la  causalità  del  Bene  non  è  in  sostanza che  la  teleologia  immanente  nella  natura.  Siccome  anche le  cause  intelligenti,  nel  senso  proprio,  agiscono  teleolo- gicamente,  le  cause  divine  equivalgono  alle  cause  finali, come  le  cause  necessarie  alle  cause  meccaniche  (1).  Que- sta divisione  delle  cause  in  due  generi  non  è  dunque che  quella  abituale  a  tutti  i  teleologisti,  e  non  giustifica per  niente  la  conclusione  del  Fouillèe. 6*  L'ultimo  degli  argomenti  del  Fouillèe  tratti  dal  Ti- meo k  che  non  vi  ha  per  Platone,  egli  dice,  che  «  un  solo Dio  intelligibile,  padre  e  modello  del  dio  sensibile  »  (cioè del  mondo  —  mentre,  se  il  Demiurgo  e  il  mondo  ideale fossero  distinti,  ve  ne  sarebbero  due).  Per  provare  ciò egli  cita  il  Timeo  34a  :  t  É  cosi  che  il  Dio  che  esiste da   ogni   tempo,    avea   concepito   il   Dio   che   doveva (1)  Cfir.  oap.  2.  8  3  pag.  87-88,  oap.  7.  pag.  209  e  Sappi.   C,    IV, e.  232  p.  !•  n.  6. nascere»,  e  ìa  conclusione  del  dialogo,  in  cui  il  moh- do  è  chiamato  «  dio  sensibile,  immagine  del  dio  in- telligibile ».  Il  primo  di  questi  luoghi  proverebbe  che  vi ha  un  solo  dio  che  esiste  sempre  (e  non  due,  cioè  il  De- miurgo e  il  modello);  il  secondo  proverebbe  al  tempo stesso  che  vi  ha  un  sol  dio  intelligibile  (ciò  che  è  la stessa  cosa  che  un  sol  dio  c?ie esiste  sempre),  e  che  questo dio  non  è  altra  cosa  che  il  modello.  Dunque  il  Demiurgo e  rinsieme  delle  Idee  sono  una  sola  e  slessa  cosa— Sa questo  ragionamento  si  può  osservare  prima  di  tutto  che nel  secondo  luogo  il  significato  del  dio  intelligibile  è  tìr- coscritto  per  designare  unicamente  il  modello,  si  dalla parola  immagine  che  dalla  parola  stessa  intelligibile  (che nel  linguaggio  di  Platone  non  significa  che  l'Idea);  per conseguenza  da  questo  luogo  non  potrebbe  concludersi che,  oltre  questo  dio  intelligibile,  Platone  non  ha  potato ammettere  un  altro  dio,  anch'esso  distinto  dal  dio  sen- sibile, cioè  il  Demiurgo.  Ma  ciò  che  rovescia  tutto  il ragionamento  è  l'osservazione  che  qui  Platone  non  può deificare  il  modello,  considerato  come  uno  (cioè  V  ani- male intelligibile  che  comprende  tutti  gli  animali  intel- ligibili), che  nello  stesso  senso  in  cui  altrove  (1)  deifica  i modelli,  considerati  come  più,  cioè  per  semplice  meta- fora (2). Passiamo  agli  argomenti  tratti  dagli  altri  dialoghi  : lo  Nel  6«  della  repubblica  il  Bene  ci  è  rappresen- tato come  principio  sostanziale  delle  Idee  e  come  causa efficiente  degli  oggetti  sensibili.  Naturalmente  il  Fouillèe ne  conclude  che  il  Bene  per  Platone  non  è  altra  cosa che  Dio— Vi  ha  appena  bisogno  di  osservare   che   que- (1)  37  e. (2)  Cfr.  questo  Sappi,  n.  I  o.  880  e  n.  Il  o.  290. —  ao2  — »>  ^       .ini 8t*argomento  non  è  che  un  caso  dell'equivoco  gfà  ìadi^ cato  deiridijer prete  teistico,  di  scambiare  la  causa  nel senso  del  realismo  dialettico  con  la  causa  nel  senso  che gli  è  pili  familiare,  cioè  rantropomorfìstìco. 2^  Nel  10^  della  stessa  Repubblica  si    dice   che   Dio ha  prodotto  1'  Idea   del   letto   e  tutte  le   altre  Idee— Ma ne'.rinterpretazione  del  Fouillòe  com'è  che  Dio  potrebbe produrre  le  Idee  ?  se  Dio  non  è  secondo  lui  che  Tinsieme delle  Idee  stesse  ?  La  proposizione  che  Dio  ha  prodotto le  Idee  potrebbe  avere  un  senso  nella  forma   dell'  inter- pretazione teistica  (che  non  è  quella  ammessa  dal  Fouil- lèe),  secondo  cui  Dio  sarebbe  il  substratum e  la  sorgente delle  Idee,  cioè  dei  suoi  pensieri    eterni,  press'  a   poco come,  secondo  lo  psicologo  spiritualista,  la  sostanza  me è  il  substratum  e  la  sorgente  dei  fenomeni   della  nostra coscienza.  Ma  in  questo  senso  o  in  qualsiasi  altro  è  as- solutamente incompatibile  con   le   dottrine    di    Platone, ohe. considera  evidentemente  le  Idee  come  iprincipii  ul- timi (sia  che  dobbiamo  intendere  per  esse   delle   entità astratte  sia  dei  semplici  pensieri)  (1).  L'interprete  teistico dirà  che  Platone  riguarda  l'Idea  del  Bene  come  la  causa di  tutte  le  altre,  e  che  Dio  è  appunto  per  lui  l'Idea  del Bene.  Noi  conveniamo   con  V  interprete  teistico   che  il Dio  del  10^  della  Repubblica,    che    produce   1'  Idea  del letto  e  lo  altre  Idee,  non  può  es3ere  che  l'Idea  del  Bene. Ma  aggiungiamo  che   questa  deificazione  dell'  Idea  del Bene  non  può  essere  che  una  metafora  tanto  nella  nostra interpretazione  quanto  nella  sua,  poiché    secondo  questa ebsa  non  potrebbe  essere  che  uno  dei  pensieri   della  di- ci) Cfr,  Sappi.  C,  IV,  e.  228-229. vinità,  e  la  perFonificazione  di  un  pensiero  è  altrettanto inconcepibile  che  quella  di  un'entità  astratta  (1). Il  Fouillèe  ammette  anch'egli  che  questo  Dio  che produce  l'Idea*  del  letto  e  le  altre  Idee  è  la  stessa  cosa che  il  Bene,  e  ne  dà  come  prova  che  esso  è  chiamato in  seguito  (2)  il  re,  espressione  che  si  applica  pure  al Bene.  Su  questa  prova  basterà  di  ripetere  l'osservazione precedente  e  l'altra  dell'incongruenza  del  Fouillèe  di ammettere  che  V  insieme  delle  Idee  (equivalente  per  lui al  Bene)  sia  la  cau^a  delle  Idee  stesse. 3<>  Nel  Fedro  (249c)  si  dice  che  dio  é  divino  perché è  con  le  Idee— Ma  dio  é  con  le  Idee  in  quanto  le  con- templa (nel  luogo  iperuranio)  (3).  Anche  le  anime  che sono  al  seguito  degli  dei  le  contemplano,  senza  che  siano perciò  i  loro  pensieri. 4«  Nel  Convito  (211e-212^)  l' Idea  del  Bello  é  chia- mata il  bello  stesso  divino^  e  si  dice  che  chi  la  contem- pla d  viene  am'co  di  Dio.  Il  Fouillèe  intende  che  que- st'Idea è  «  la  beltà  di  Dio  »,  e  che  chi  la  contempla  di- viene amico  di  Dio  perché  il  Bello  é  identico  al  Bene  e per  conseguenza  a  Dio— Ma  è  evidente  che  1'  Idea  del bello  non  può  essere  chiamata  divina  che  nello  stesso senso  in  cui  sono  chiamate  divine  le  altre  Idee.  Quando nel  Filebo  (4)  le  Idee  del  cerchio  e  della  slera  sono  chia- mate il  cerchio  e  la  sfera  stessa  divina,  dovremo  in- tendere che  queste  Idee  sono  degli  attributi  di  Dio?  Se- condo gl'interpreti  teistici  in  generale,  queste  Idee  sa- rebbero dei  pensieri  particolari  della  divinità  :   ma  pare (1)  Cfr.  carta  296. (2)  597  e. (3)  Cfr.  Supplem.  B  cario  141-144. (4)  62  a. -  òOo  — ad  essi  naturale  che  i  pensieri  che  Dio  ha  del  cerchio  e della  sfera  siano  chiamati  il  cerchio  divino  e  la  sfera divina  ?  Inoltre  un  pensiero  di  Dio  è  tutt'altra  cosa  che un  attributo  di  Dio.  Il  f  ouillèe  dirà  che  le  Idee  del cerchio  e  della  sfera  sono  anche  delle  perfezioni  divine e  non  semplicemente  dei  pensieri  divini.  Noi  potremo discutere  questa  proposizione,  quardo  il  Fouillèeo  altri ci  farà  comprendere  che  cosa  significa— Aggiungiamo, suir  altra  parte  deir  argomento,  che  Platone  stesso  ci spiega  sufficientemente,  e  senza  che  resti  alcun  bisogno della  spiegaeione  del  Fouillèe,  perchè  chi  contempla  l'I- dea del  Bello  diviene  amico  di  Dio  (o  piuttosto  amato da  Dio,  esocpar^s)  :  è  perchè  partorisce  e  nutrisce  la  vera virtù,  e  non  delle  immagini  di  virtù,  avendo  visto  il vero  (cioè  il  Bello  in  se  stesso,  tipo  della  virtù  e  di  tutto ciò  che  è  bello),  e  non  un'immagine  (I). 5«  Nel  Teeteto  la  virtù,  che  è  l'imitazione  del  Bene, è  definita  la  somiglianza  con  Dio— Dunque,  secondo  il Fouillèe,  se  non  ammettesse  che  il  Bene  è  identico  a Dio,  Platone  non  potrebbe  dire,  come  qualsiasi  altro  teista, filosofo  0  non  filosofo,  che  il  virtuoso  è  amato  da  Dio, o  che  gli  somiglia  ?  Notiamo  che  nel  luogo  del  Teeteto a  cui  allude  il  Fouillèe  (2)  Platone  noa  dice  che  la  virtù si  definisce  la  somiglianza  con  Dio,  ma  semplicemente che  divenire  giusto,  santo  e  prudente  è  rendersi  simile a  Dio. 60  Nel  IV  libro  delle  Leggi  (:\)  Dio  è  chiamato  il il  principio,  il  fine  e  il  mezzo  di  tutte  le  cose.  Dunque  egli è  il  Bene,  poiché  è  il  Bene  il  principio  primo  e   il    fine (1)  Cont\  212». (2)  I76b. (B)  715  e. ultimo—Ma  la  proposizione  citata  dal  Fouillèe  (che  d'al- tronde lo  stesso  autore  afferma  ricevere  da  un'  antica tradizione)  potrebbe  provare  tutto  al  più  che  il  sistema teologico  di  Platone  è  il  panteismo.  Da  ciò  non  potrebbe concludersi  niente  sulla  dottrina  delle  Idee,  perchè  que- ste due  parti  della  filosofia  platonica  sono,  come  abbiamo osservato,  assolutamente  distinte.  Del  resto  Platone  non dice  «Dio  é»  ma  «  Dio  tiene  (exei)  it  principio,  il  fine e  il  mezzo  di  tutte  le  cose  »,  proposizione  naturalissima in  qualsiasi  forma,  alquanto  evoluta,  della  filosofia  teo* logica. 7^  «  La  tua  intelb'genza  non  è  il  bene,  dice  Filebo a  Socrate -Si,  la  mia  forse,  o  Filebo,  ma  per  V  intelli- genza vera  e  divina,  io  non  penso  che  sia  cosi  »  (i)— -E il  migliore  argomento  che  Tinterprete  teistico  possa  im- piegare per  provare  che  T  Idea  del  Bene  è  identica  a Dio.  Infatti  in  questo  luogo  Socrate  sembra  affermare che  Tintelligenza  divina  è  i!  Bene  stesso.  Ma  la  propo- zione potrebbe  anche  avere  nn  altro  sens^,  cioè  che  la semplice  intelligenza  è  insufficiente  alla  felicità  nostra, ma  è  sufficiente  a  quella  di  Dio.  Infatti  il  bene  nel  Fi- lebe  è  considerato  sovratutto  nel  suo  aspetto  subbietti- vo,  cioè  come  felicità  degli  esseri  viventi,  V  argomento del  dialogo  essendo  appunto  di  ricercare  in  che  consiste la  felicità.  Lo  stesso  luogo  citato  fa  parte  della  conclu- sione di  una  discussione  per  cui  si  mostra  che  né  una vita  di  pura  intelligenza  né  una  vita  di  puro  piacere basta  a  costituire  la  felicità,  ma  per  ciò  è  necessaria una  vita  mescolata  di  piacere  e  d' intelligenza.   La    ri- i (1)  FUcbo  22  0. -  304  - sposta  di  Socrate  a  Filebo  avrebbe  dunque  qaesto  si- gnificato natnraliFSì'mo,  di  una  riserva  fatta  in  favore dell'intelligenza  divina,  cioè  che  Dio  è  felice,  quantunque non  viva  che  una  vita  di  pura  intelligenza.  Questo  si- gnificato sarebbe  confermato  da  ciò  che  si  dice  in  se- guito (1),  che  non  solo  non  è  verisimile,  ma  è  anche sconveniente,  di  ammettere  che  la  divinità  provi  del piacere  e  del  dolore.  Ora  Tinsieme  del  dialogo  non  per- mette di  dubitare  che  il  senso  delle  parole  di  Socrate non  sia  effettivamente  questo.  Quello  preferito  dall'  in- terprete teistico  è  incompatibile  col  contenuto  dell'  Idea del  bene  —  che  è  evidentemente  un  attributo  delle  cose, di  cui  la  felicità  degli  esseri  viventi  possa  essere  un  caso particolare— e  con  la  sua  immanenza,  cosi  chiara  in  qae- sto dialogo,  che  noi  vi  abbiamo  visto  a  buon  dritto  una delle  prove  più  forti  dell'immanenza  delle  Idee  in  ge- nerale (2).  Aggiungiamo  che  esso  è  anche  incompati- bile coi  presupposti  dell'interpretazione  teistica,  perchè secondo  questi,  come  abbiamo  tante  volte  osservato,  l'I- dea^dei  Bene  non  potrebbe  essere  che  uno  dei  pensieri della  divinità,  ma  non  l'intelligenza  divina,  che  è  il  sog- gètto 0  r  insieme  di  qiesti  pensieri  (3). (1)  33  b. (2)  Cfr.  Sappi.  B  carte  92-95. (3)  Alcuni  interpreti  che  seguono  l'altra  forma  dell'interpreta- sione  trascendentalista,  credono,  fondandosi  su  questo  luogo  del Filebo f  che  il  Bene  per  Platone  non  sia  Dio,  ma  la  ragione  imma- nente nel  mondo,  a  cui  egli  non  intende  attribuire  propriamente la  personalità.  Questo  senso  è  anche,  se  si  pnò  dir  cosi,  più  im- possibile che  quello  dell'interprete  teistico.  Questi  almeno,  identi- ficando il  Bene  con  l'intelligenza  divina,  è  coerente  allo  spirito •Iella  sua  interpretazione,  che  vedo  nelle  Ideo  platoniche  delle  con- 8**  Dopo  aver  posto  (nel  Filebo)  Tindeterminato,  la determinazione  o  le  Idee,  e  il  genere  misto,  Platone  dice che  bisogna  porre  la  causa  di  tutte  queste  cose.  Dio sarebbe  dunque  la  causa  delle  Idee  e  della  materia — La base  di  quest'argomento  (che  del  resto  il  Fouillèe  non propone  s^nza  esitazione)  è  il  concetto,  di  cui  abbiamo visto  l'inammissibilità  (i),  che  il  Tiépag  del  Fihbo^  che egli  chiama  la  determinazione,  sia  identico  alle  Idee,  e r^TiELpov  alla  materia.  Tuttavia,  siccome  il  Ttépag  e  l'dc- Tieipov  sono  anche,  come  abbiamo  mostrato,  gli  elementi delle  Idee  (2),  alcuno  potrebbe  giungere  per  questa  via, con  qualche  apparenza  di  ragione,  alla  stessa  conclu- sione del  Fouillèe,  cioè  che  la  causa^  vale  a  dire  Dio,  è causa  anche  delle  Idee.  Ma  questi  non  potrebbe  essere l'interprete  teistico,  perchè  il  iispag  e  V  ànstpov  sono  e- >identemente  gli  elementi   delle   cose   reali    (3),    e  non oezioni  dello  spirito.  Ma  per  l'interprete  trascendentalista  che  con- sidera le  Idee  come  delle  forme  obbiettive,  quantunque  esistenti  in un  altro  moido,  come  l'Idea  del  Bene  può  essere  la  stessa  cosa che  la  Ragione?  Per  lui  come  per  noi  le  Idee  non  sono  che  gli attributi  omonimi  dello  cose  sostantificati,  per  noi  nelle  cose  stesse, per  lui  fuori  delle  cose.  La  ragione  è  dunque  un  attributo  di  tutti gli  oggetti  che  chiamiamo  buoni?  e  siccome  per  Platone  tutto  ciò che  esiste  è  buono  (perchè  egli  vede  nell'Idea  del  Bene  la  forma universale  e  la  identitìca  a  quella  dell'Essere),  tutto  ciò  che  esiste per  Platone  (che  non  è  un  ilozoista),  partecipa  dunque  alla  ra- gione ?  È  evidente  che  l'interprete  trascendentalista  non  attribui- rebbe a  un  filosofo  moderno  un  non  senso  simile;  ma  a  Platone gli  è  lecito  di  attribuire  tutti  i  non  sensi,  perchè  effettivamente, secondo  la  sua  interpretazione,  la  filosofìa  platonica  non  potrebbe spiegarsi  che  per  una  tendenza  irresistibile  verso  le  proposizioni prive  di  senso. (1)  V.  Suppl.  C,  IV,  carte  244-245. (2)  V.  Suppl.  B,  vili,  carta  100. (8)  V.  Suppl.  B  carta  97  e  seg. possono  riguardarsi  come  f  le  menti  anche  delle  Idee  che nella  nostra  interpretazione,  che  identifica  in  qualche modo  le  Idee  con  le  cose,  ma  non  in  un'interpretazione che  ne  fa  dei  pensieri  o  delle  perfezioni  della  divinità. Per  altro,  noi  torniamo  a  domandare  al  Fouillèe  com'è possibile  che  Dio  sia  causa  delle  Idee,  mentre  non  è  che le  Idee  stesse.  Aggiungiamo  (tralasciando  per  amore  di brevità  tante  altre  osservazioni  non  meno  ovvie)  che  la causa  non  potrebbe  essere  causa  anche  delle  Idee  perchè non  lo  è  che  delle  cose  divenute  (1)  (mentre  le  Idee sono  eterne),  perchè  la  sua  efficienza  è  assimilata  alla nostra  attività  sul  mondo  esterno  (2),  e  perchè  essa  non é  evidentemente  che  l'anima  del  mondo  (3),  che  non  può produrre  che  del  movimento,  e  per  la  comunicazione  del movimento  proprio  (4). 9<*  L'anima,  nel  suo  viaggio  al  seguito  di  Dio,  con- templa la  scienza  in  sé,  non  questa  scienza  seggetta  al cangiamento,  ma   quella    che   si    trova    nell'  essere vero  (5).  L'Idea  della  scienza  è  dunque  compresa  in  Dio. E  d'altra  parte  il  Parmenide  c'insegna  che  la  scienza in  sé  ha  per  oggetto  le  Ide  ch'essa  racchiude.  Le  Idee divengono  così  dei  pensieri  divini— Ma  che  cosa  prova al  Fouillèe  che  l'essere  vero  in  cui  si  trova  la  scienza in  sé,    è    Dio  ?    L'  essere    vero   (3  èoxtv  6v  ovxcog)  in  lin- ci) FU.  26e-27a.  Cfr.  Sappi.  C.  IV,  o.  247,  p.  2% (2)  La  causa  è  ciò  che  fa,  e  gli  eifetti  le  cose  che  sono  fatte {Filebo  26e-27a).  La  causa  è  anche  chiamata.ropilice(5Yj|xtoupYo0v) degli  altri  tre  generi  {FU.  27b).  Dio,  per  oonseguenjsa,  seconao  l'ia- terprete  teistico,  farebb'*,  anzi  fabbricherebbe,  i  propri  pensieri. (3)  V.  Suppl.  C,  IV,  o.  247-248.  Cfr.  e.  224. (4)  V.  questo  SujìjìL  n.  I,  e.  280,  282  e  283. (5)  Fedro  247d-e. guaggio  platonico  des^'gna  l'Idea,  e  per  conseguenza qui  non  può  significare  che  l'Idea  di  sostanza  di  cui  la scienza  in  sé  è  l'attributo,  perché  ciò  che  è  sostanza  nel mondo  à.*\\e  cose  deve  essere  sostanza  anche  nel  mondo delle  Idee,  e  ciò  che  è  attributo  in  quello  deve  essere attributo  anche  in  questo.  Quando  poi  il  Fouillèe  afferma che  «  il  Parmenide  c'insegna  che  la  scienza  in  sé  ha per  oggetto  le  Idee»,  la  sua  proposizione  è  incontesta- bile (1),  ma  quando  aggiunge  «  che  essa  racchiude  », non  fa  che  un'asserzione  interamente  gratuita,  perchè Platone  non  lo  dice  né  nel  Parmenide  né    altrove. 10^  E  dio  e  non  l'uomo  che  è  la  misura  di  tutte  h». cose  (Leggi  IV,  llGc).  Cosi  per  Platone  il  principio  e  il fondamento  della  verità  è  Dio— Ma  le  parole  precise  di Platone  sono  :  «  Dio  é  la  misura  di  tutte  le  cose  molto più  che  alcun  uomo.  »  Dunque  secondo  il  Fouillèe  anche l'uomo  sarebbe  per  Platone  principio  e  fondamento  della verità,  quantunque  meno  che  Die,  proposizione  che  è un  non  s(  nso  tanto  se  si  ammette  che  la  verità  è  og- gettiva quanto  se  si  ammette  che  è  soggettiva  come  pre- tendeva Protagora;  perchè,  se  è  oggettiva,  come  l'uo- mo potrebbe  esserne  principio  e  fondamento?  e  se  è soggettiva,  come  Dio  potrebbe  esserlo  più  che  l'uomo? La  proposizione  che  Dio  è  la  misura  di  tutte  le  cose,  in quanto  essa  ha  uoa  portata  gnoselogica,  può  significare, in  Platone,  non  che  il  vero  e  il  falso  dipendono  da  Dio, ma  semplicemente  che  in  Dio  vi  ha  un  criterio  infalli- bile del  vero  e  del  falso,  perchè  noi  dobbiamo  interpre- tare questa  proposizione  conformemente  alle  sue  dottrine conosciute,  e  secondo  queste  è  il  pensiero   che  è  deter- (1)  V.  Parmen.  133o-134d. -  306  — minato  dalle  cose  (teoria  dell'intuizione  e  della  remini- scenza), non  seno  le  cose  che  sono  determinate  dal  pen- siero. li*'  Aristotile  parla  di  alcuni  che  hanno  detto  che Vanima  e  il  luogo  delle  specie  (xójiog  stSwv)  (1).  Il  Fouil- lèe  ne  conclude  che  Platone  ha  chiamato  V  intelligenza divina  il  luogo  deMe  Idee,  perché  quest'espressione  che troviamo  in  Aristotele  è,  egli  dice,  evidentemente  pla- tonica. Noi  diciamo  invece  che  è  evidentemente  anti- platonica— é  una  conseguenza  delle  prove  dell'  imma- nenza delle  Idee  date  nel  Supplem.  ^—,  e  appartiene  pro- babilmente ai  Cinici,  che  contrapponevano  al  realismo di  Platone  il  concettualismo,  affermando  che  gli  univer- sali non  esistono  che  nel  pensiero  (2). Ili  Ite  Idee  e    il  pensiero Secondo  un'interpretazione  di  Platone,  che  rimonta ad  Hegel,  ed  è  stata  ripresa  e  sviluppata  da  un  critico contemporaneo,  il  Teichmuller,  la  reminiscenza,  l'in- tuizione delle  Idee  in  una  vita  anteriore,  V  immortalità dell'anima  e  le  altre  dottrine  connesse  non  devono  in- tendersi nel  senso  letterale,  ma  sono  dei  simboli  d'  una teoria  gnoseologica  ed  ontologica,  in  cui  Platone  avrebbe preceduto  Hegel.  Questa  è  che,  nel  pensiero  filosofico, il  soggetto  conoscente  s'identifica  con   V  oggetto    cono- (1)  De  an.  1.  111.  IV.  4. -  t2>  V,  Zeller  FUos,  dei  Greci  trad.  frano,  t.  IIL  pag.  273    n.  1. sciuto,  cioè  con  le  Idee;  che  questo  pensiero  costituisce l'essenza  intima  dell'anima,  ed  è,  per  conseguenza,  u- niversale,  e  quindi  eterno,  come  il  suo  oggetto;  infine che  esso  è  il  momento  ultimo  dello  sviluppo  eterno  del- l'essere, TAssoluto,  che  comprende  ogni  cosa,  e  in  cui tutti  i  contrari  si  unificano.  L'immortalità  dell'anima simboleggerebbe  l'eteroarsi  dello  spirito,  quando  rientra nella  sua  vera  essenza,  identica  al  mondo  ideale,  e  ha luogo  cosi  la  conoscenza  filosofica.  L' intuizione  delle Idee  in  una  vita  anteriore  significherebbe  la  presenza delle  Idee  nel  pensiero:  essa  é  rappresentata  come  la percez'one  di  un  oggetto  esteriore,  perchè  è  il  solo  caso, nell'esperienza,  in  cui  l'oggetto  sia  presente  immediata- mente al  soggetto,  e  trasportata  in  una  vita  anteriore,  per- chè ressenza  universale  dell'anima,  da  cui  deriva  l'a- nima individuale,  si  rappresenta  come  V  antica  natura (àpxaia  cpOoi^)  di  questa.  La  reminiscenza,  infine,  signi- ficherebbe che  la  conoscenza  è  a  priori,  e  che  lo  spi- rito la  ritrac  dalla  sua  antica  natura,  identica  alle  Idee conosciute.  Ma  perchè  Platone,  come  dice  uno  di  que- 8t'  interpreti,  «  ha  insegnato  il  vero  mediante  il  fal- so?» (i).  Perchè,  invece  di  esporre  la  sua  dottrina  aper- tamente, ha  preferito  d'invilupparla  in  oscuri  simboli  ? Ciò  é  stato,  ci  si  dice,  per  due  ragioni.  Primo,  la  verità nella  sua  forma  pura  è  inaccessibile  ai  molti;  a  questi, affinchè  ne  partecipino  in  qualche  modo,  è  necessario  di presentarla  sotto  un  involucro  fantastico,  in  forma  di miti  e  di  allegorìe.  Secondo,  Platone  era  convinto  che la  religione  é  il  vincolo  più  forte  dell'  ordinamento    so- (1)  Vera  Platone  e  VimmortaUtà  dulVaniina  pag.   48. —  307  — ciale;  perciò  ha  cercato  di  mettere  d'accordo,  almeno  in apparenza,  il  pensiero  filosofico  con  le  credenze  religiose, e  tra  le  altre  naturalmente  con  la  più  efficace  di  tutte, cioè  quella  deirimmortalità. L'obbiezione  più  ovvia  che  si  presenta  prima  facie contro  quest'interpretazione  è  V  inverosimiglianza   della situazione  psicologica  ch'essa  suppone  in  Platone.  Que- st'arte di  dire  una  cosa  e  intenderne  un'  altra,  qualun- que siano  le  frasi  di  cui  si  rivesta  per    darle  un'  appa- renza speciosa,  è  sempre  una  maschera  che  si  mette  al pensiero,  una  diplomazia  che  il   filosofo    usa  verso   gli altri  0  verso  se  stesso.  Noi  comprendiamo  questo    stato di  spirito  in  un  professore  moderno,  che    nrn  vuole  a- lienarsi  il  favore  di  chi  sta  in  alto    urtando   troppo  ru- demente delle  idee  che  fanno  parte  di  un  ordine   stabi- lito, 0  in  un  dottore  protestante,  che  deve  fare    il   ser- mone della  festa  di  pasqua,  ma  non  ammette   la   venta storica  del  racconto  degli    evangeli    sulla   resurrezione. Anche  quel  nobile  carattere  di  filosofo  che  fu    Spinoza parla,  nel  senso  in  cui  questo  linguaggio  pretende    at- tribuirsi a  Platone,    oltre  che    dell'immortalità    dell'  a- nima,  di  Dio,  del    figlio    di    Dio,    dell'  amore    di    Dio, ecc.,    parole    che    nel    suo    sistema  non  sono  che    una decorazione  :    ma    dobbiamo    noi    maravigliarci    di    ciò quando,  malgrado  questo  velo  prudente  di    cui    ricopre le  sue  dottrine,  che  un  teista  ha  tutta  la  ragione   di  ri- guardare come    atee,  lo    vediamo    diventare    1'  oggetto della  riprovazione  universale  ?  Ma  in  Piatone,  e  al  so»-- getto  dell'iminortalità  dell'anima,  questa  diplomazia  sa- rebbe stata  seuza    motivo.    Oltre  che   la    mitologia    dei Greci  non  accordava  all'anima,  dopo  la  morte,  che  u- n'ombra  d'esistenza,  oggetto  piuttosto  di  timore    che   di speranza,   e  a  cui   non   era  legato   alcun  interesse  e- tico  (i),  la  credenza  all'  immortalità,  o  semplicemente alla  sopravvivenza,  non  sarebbe  stata  riguardata,  almeno all'epoca  di  Platone,  come  una  condizione  di  ortodossia. Come  sappiamo  da  Platone  stesso,  i  suoi  contemporanei — che  consideravano  come  un  dovere  il  culto  degli  dei dello  stato— erano  generalmente  scettici  riguardo  alle antiche  tradizioni  sui  premi  e  le  pene  dell'alira  vita  (2);  i più  pensavano  che  l'anima,  appena  uscita  dal  corpo,  si dissipa  e  si  annienta  (3);  e  Socrate  (nella  Repubblica  di Platone)  (4)  eccita  la  sorpresa  del  suo  interlocutore, quando  afferma  che  è  immortale.  Platone  non  si  sarebbe dunque  trovato  in  urto  con  la  coscienza  popolare,  s'egli non  avesse  accolto  tra  le  sue  dottrine,  o  avesse  anche rigettato,  implicitamente  o  esplicitamente,  la  credenza in  un'altra  vita  :  tanto  meno,  per  fare  atto  di  ossequio alla  fede  dei  suoi  connazionali,  avrebbe  potuto  credersi in  obbligo  d'  insegnare  e  di  dimostrare  V  immortalità dell*  anima,  nel  senso  rigoroso,  e  la  sua  eternità.  Ma supponiamo  che  1'  epoca  di  Platone  fosse  tale  da  im- porre a  un  filosofo  un  ossequio  apparente  a  queste  dot- trine :  che  cosa  dovremmo  aspettarci  da  lui,  supposto ciò  ?  ch'egli  mettesse  in  luce  i  soli  punti  in  cui  i  suoi concetti  filosofici  si  accordassero  coi  concetti  popolari, lasciando  nell'ombra  quelli  in  cui  ne  difterissero.  Pla- tone dovrebbe  dunque    limitarsi    in   questo  caso,    come Ci)  V,  ZeUer  Filos,  dei  Grecia  Introd.  gener.  o.  2  §  5  L'antro^ pologia,  V.  anche,  sul  timore  dell'altra  vita,  Q-ayau  La  morale  d*E" picuro,  l.  II,  o.  Ili,  I  (pel  paganesimo  In  generale),  e  ofr.  Platone stesso  Jiep.  386b-387o. (2)  Jiep.  330  d-e. (3)  Fedo.  80  d.  Cfr.  70a  e  77b. (4)  V.  608d. ^  308  — Spinoza  e  come  Hegel  nei  casi  analoghi,  a  cercare  delle formule  ambigue,  che,    quand'  anche    più   adattate   alle ci-edenze  popolari,  potessero  pure  applicarsi,  anche   for- zandole alquanto,  ai  concetti  filosofici.  Egli  non  insiste- rebbe quindi  sul  lato  etico  e  sentimentale  della  credenza all'immortalità  :  non  parlerebbe  dei  premi  e  delle  pene nell'esistenza  futura  (1);  non    farebbe   esprimere   conti- nuamente ai  suoi  personaggi  le  speranze   della   felicità che  attende  nell'altro  mondo  il  saggio  che   si  è   purifi- cato dalle  passioni  (2),  e  il  timore  della    morte    da   cui la  sicurezza  di  un'altra  vita  deve  liberarli  (3);  sovratutto non  metterebbe  in  bocca  queste  speranze  a  un  caro  mo- rente, col  pensiero  sottinteso  che  sono   delle   illusioni— quasi  per  una  irrisione  a  ciò  che  vi  ha    di    più   umano nel  sentimento   religioso,    nelle   persone   e   nella   circo- stanza in  cui  è  il  più  umano  di  rispettarlo  —  Tutto  ciò che  vi  ha  nelle  idee  sull'altra  vita  di  mitico  e  di  saper- stizioso,  nel  senso  stretto  di  questi  termini,  non  sarebbe meno  fuori  di  luogo;  p.  e.,  nel  Fedone,  i  fantasmi    che vagano  attorno  ai  sepolcri  (4j,  e  la  descrizione  del  sog- giorno futuro  dei  buoni  nell'alta  superficie   della    terra (di  cui  noi  abitiamo  una  cavità)  e  dei  cattivi   neo-li   a- bissi  che  sono  nel  suo  interno  (5);  perchè  qual    signifi- (1)  V.  Fedo.  63c,  64a,  67b-c,  69c,   72d-e,   8Ja-82b,   95c,  lOTcOUc, 115b,  TiìYì,  42  b-d,  90  d-9la,  Meno,  81b,    Teet.  176b-177a,  Fedro  248e- 249b,  Gorgia  622e  e  seg.,  Rep,  614a  e  seg.,  Legtji   903d-905a,    959b-c. 870d-o,  872e-873a,  880e— 881b,  ecc. (2)  V.  il  Fedone  63b-c,  63e-64a,  67b-c,  68a,   69c-e,   70b,    82  c.84b, 84e-85b,  95c,  114c-115a,  115  d,  J17  b-o, (3ì  V.  pure  il  Fedone  63b-c,  64a,  67e,  68b,  69e,  77e,  84b,  84e-85b, 87e-88b,  91b-o,  95  d. (4)  81c-e. (ò)  108c-114c. cato  potrebbe  darsi  a  queste  circostanze  come  simboli della  dottrina  filosofica  ?  Infine  Platone  non  darebbe delle  dimostrazioni  dell'immortalità- ed  è  stato  il  primo a  farlo—,  o  almeno  queste  dimostrazioni  dovrebbero  es- sere ambigue  lome  l'immortalità  stessa,  cioè,  mentre apparent<»mente  proverebbero  1'  immortalità  personale, dovrebbero  essere  suscettibfli  di  essere  interpretate,  nel loro  senso  reale,  come  prove  delle  dottrine  che  essa simboleggia;  mentre  è  evidente  che  le  dimostrazioni  pla- toniche concludono  univocamente,  cioè  alla  sola  immor- talità personale,  e,  per  quanto  si  torturino,  non  si  riu- scirà mai  a  far  loro  dimostrare  l'eternità  dell'essenza  uni- versale dell'anima  o  1'  identità  del  soggetto  e  dell'  og- getto (1).  Ora  possiamo  noi  concepire  un  filosofo  della  sini- stra hegeliana,  che  cerchi  di  dimostrare,  senza  equivoco, la  verità  (la  verità  storica,  come  sopra)  dei  racconti  de- gli evangeli?  Un'altra  testimonianza  in  favore  della  sin- cerità di  Platone  nella  dottrina  dell'immortalità  dell' a- nirna  è  il  feuo  atteggiamento  in  faccia  alla  religione  in generale  (che,  conformemente  all'  interpretazione  hege- liana dell'immortalità,  non  potrebbe  essere  per  lui  che un  sistema  di  miti,  a  cui  bisogna  tributare  un  ossequio esteriore  e  cercare  di  farne  dei  s'mboli  di  verità  filoso- fiche). Platone  non  si  contenta  di  fare  atto  di  adesione, reale  o  apparente,  alle  idee  religiose  dei  suoi  connazio- nali, ma  cerca  di  migliorarle,  di  correggerle,  e  di  assi- (2)  Vedi  queste  prove    nel  Fedone  l^a-ll^^  78b-80c,  91e-94e,  I02b- 107a,  Meno**e  85c-86b,  Fedro  245c-246a,  Repubblica  608d-61lk.  Un'  a- nalisi  di  questi  luoghi  ingrosserebbe  inutilmente  questo  volume,  e d'altronde  niente  potrebbe  sostituire  l'impressione  di  evidenza  che risulta  dalla  loro  lettura. —  309  — i  " i" ierle  su  una  base  filosofica.  É  ciò  che  fa  per  le  idee sulla  divinità,  che  egli  fonda  sulla  dottrina  deir  anima cosmica,  ed  eleva  si  al  punto  di  vista  morale  che  me- tafisico, combattendo  le  superstizioni  popolari  incompa- tibili coi  nuovi  concetti  da  lui  insegnati  (1).  Lo  stesso fa  pure  per  le  idee  sulla  vita  futura,  sovratutto  in  due punti:  elevando  la  credenza  popolare  nella  sopravvi- venza e  la  preesistenza  al  concetto  rigoroso  (conseguenza logica  deiranimismo)  (2)  di  una  durata  senza  comin- ciamento  e  senza  fine,  che  cerca,  oltre  che  di  fondare su  prove  razionali,  di  legare  alle  altre  parti  del  suo  si- stema filosofico,  cioè  alla  dottrina  delle  Idee  (3)  e  a quella  dell'anima  cosmica  (4);  e  basando  la  metempsi- cosi e  le  altre  credenze  sul  destino  futuro  dell'  anima sul  concetto  di  una  ricompensa  morale  (5),  che  mancava nei  dati  tradizionali  (6),  benché  egli  non  facesse  in  ciò che  aiutare  un  movimento  cominciato  prima  di  lui,  e  a cui  doveano  cooperare    tutti  gli    spiriti  religiosamente (1)  V.  questo  Sappi,  n.  I,  o.  282. (2)  V.  n.  1,  o.  275-276. (3)  V-  n.  I,  o.  279.  Tra  gli  argomenti  deU'  immortalità  dell'  a- nima,  oltre  quello  per  la  reminiscenza,  sono  fondati  pure  sulla dottrina  delle  Idee  1'  ultimo  del  Fedone  (riportato  in  parte  nel Suppl,  B,  carte  45-47)  e  quello  per  l'affinità  dell'anima  con  le  Idee (cfr.  carta  830  p.  1»  note  1  e  2). (4j  V.  n.  I,  e.  277  e  283. (5]  V.  n.  I,  e.  278  e  282. (6)  Cfr.  o.307p.  2»-308  p.  KSeoondoi  primi  Pitagorici  le  migra- «ioni  delle  anime  non  erano  regolate  da  ragioni  di  giustizia,  ma  era l'azzardo  che  determinava  un'anima  ad  entrare  in  un  corpo  piut- tosto ohe  in  un  altro  (V.  Martin  Studi  sul  Timeo  voi.  2.  p.  38J). diù  avanzati  della  sua  epoca.  Ma  da  un  filosofo  incre- dulo, quand'anche  non  prenda  apertamente,  in  faccia alla  religione,  la  posizione  d'avversario,  non  potremmo aspettarci  che  Tindiffereoza  religiosa,  o  al  più  un'  ade- sione passiva  (naturalmente  esteriore)  alle  credenze  sta- bilite:  ma  egli  non  opporrà,  come  faceva  Platone,  a queste  credenze  delle  idee  religiose  più  elevate,  non  sarà un  riformatore,  perchè  questi  non  si  trovano  che  tra  i credenti  più  fervidi. Ci  si  dice,  è  vero,  che  Platone  non  si  limitava  a  ve- lare prudentemente  la  sua  irreligiosità,    ma  si   giovava della  religione  come  strumento  politico,    credendo   utile e  necessario  che  il  Demo  fosse  ingannato.    Con    questa supposizione  il   seguace    dell'  interpretazione    hegeliana può  credere  di  evitare  le  inverosimiglianze   precedenti, ma  andando  incontro  in  compenso  ad  altre  non  minori! La  più  colossale  è  naturalmente  che  un  filosofo,  prima, creda  le  proprie  idee  dannose  e  le  contrarie  utili,  e  poi di  buona  voglia  (e  non  per  prudenza   come  nella    sup- posizione  precedenle)  si  metta  il  bavaglio  sulle   proprie dottrine,  non  solo,  ma  predichi  invece  di  esse -noi  non parliamo  di  un  filosofo  salariato-\e  dottrine    contrarie. Ammettiamo  tuttavìa  che  questo  prodigio  sia  possibile: è  certo  che    potremmo    attendercelo  da   chiunque    altro piuttosto  che  da  Platone.  Non  vi  ha  sistema  in  cui  do- vrebbe esservi  meno  bisogno  di  un  codice  religioso,  co- me strumento  di  polizia  e  di  moralità,  che  in   quello  di Platone  e,  in  generale,  dei  moralisti  usciti  da    Socrate. In  questo  sistema,  che  stabilisce  come   principio   fonda- mentale dell'etica  che  la  virtù  e  la  felicità  sono  identiche, dovrebbe  bastare,  per  la  polizia  e  la   moralità,    la    filo- sofia soia-se  per  moralizzare  è  necessario  di  far  credere —  310  — che  si  può  essere  al  tempo  stesso  santi  e  prrfetti  egoisti—. Ma  si  dirà  che  la  filosofìa  non  può  penetrare  nella  mol- titudine, ed  è  a  questa  che  sono  destinati  T  immortalila dell'anima  e  gli  altri  miti.  Ma  è  per  la  moltitudine  che ha  scritto  Platone?  È  ad  essa  che  sono    indirizzati   gli argomenti  deirimmorlalità  dell'anima,  di  cui    alcuni,  e i  soli  che  l'autore  creda  decisivi,  fondati  sulla    dottrina delle  Idee,  cioè  la  più  astrusa  che  si    trovi    in    tutta   la storia  della  metafisica  ?  O  si  deve  ammettere   che   Pla- tone mascherava  il  suo  pensiero  anche  innanzi  agl'ini- ziati, per  paura  che  trapelasse  ai  profani?   Ma   ciò  si- gnifica   eh'  egli  ha  voluto  soffocare,  per   una   specie  di infanticidio  intellettuale,  la  verta  appena  nata   nel  suo spirito— a  meno  che  si  chiami  verità  quella  che   «  inse- gnava mediante  il  falso  »,  ma  con  l'intenzione  che  ne-*- suno  potesse  apprenderla- Noi  non   diremo   che  questo sarebbe  un  fatto  senza  esempio  nella  storia  della  filosofia e  della  letteratura  in  generale,  perchè,  ammessa  la  sua possibilità,  con  qual  dritto  potremmo  affermare  che  tutto ciò  che  un  filosofo  teista  qualunque  ha  scritto   o    detto su  Dio  e  sull'anima  non  è  stata  una  finzione,  prudente o  filantropica,  e  un'allegoria  simboleggiante,  per  esem- pio, per  quanto  riguarda  Dio,  la   Realtà   inconoscibile, o  la  finalità  immanente  nella  natura,  o  l'ordine  morale del  mondo  dovuto  a  cause  naturali  (come  nella  dottrina buddista  del  karma,    che,    per   quanto   strana,   non   è almeno  un  non  senso  come  l'identità  del  soggetto  e  del- l'oggetto), e  per  quanto  riguarda  l'immortalità   dell'a- nima, oltre  all'identità  del  soggetto  e  dell'oggetto  e  al- l'immortalità della  specie,  l'indistruttibilità   della   forza di  cui  la  psiche  è  una  forma  transitoria,  o  la  persistenza della  sensibilità  negli  atomi  che  compongono    il   nostro i corpo  e  tutta  la  materia  ?  Del  resto,  che  si  ammetta come  motivo  di  Platone  una  diplomazia  prudente  o  una santa  impostura,  questo  motivo  non  potrebbe  spiegare che  l'immortalità  dell'anima,  la  metempsicosi  e  gli  altri miti  ch'egli  ha  in  comune  con  la  religione:  ma  come spiegare  la  reminiscenza  e  l'intuizione  delle  Idee  in  una vita  anteriore?  Esse  suppongono  l'immortalità  dell'a- nima, ma  questa  non  le  suppone,  né  è  incompatibile  con la  dottrina  che  tutte  e  tre  rappresentano  :  questa  iden- tificazione del  per  s'ero  col  suo  oggetto,  possibile  in  uno spirito  d'una  durata  limitata,  perchè  infatti  diverrebbe impossibile,  se  questa  durata  si  prolungasse  indefinita- mente ? Una  conseguenza  necessaria  dì  quest'  interpreta- zione dell' immortalità  è  di  sopprimere  completamente la  dottrina  di  Platone  sull'anima,  cioè  metà  della sua  metafis'ca.  Il  concetto  fondamentale  della  parte  di questa  dottrina  che  si  riferisce  all'  anima  individuale,  è il  dualismo  tra  anima  e  corpo,  in  altri  termini  l'anima considerata  come  sostanza  distinta  :  ora  questo  concetto è  incompatibi'e  cfn  l'interpretazione  dell'immortalità come  simbolo  dell't-ternarsi  del  pensiero  nella  conoFcenza filose  fica.  L'immortalità  dell'anima  non  potrebbe  s'm- boleggiare  l'eterniià  del  pensiero  (cioè  del  pensiero  spe- culativo) che  se  questo  fosse,  come  è  iof' tti  per  Hegel e  per  Spinoza,  Tesscnza  dell'anima:  ma  per  Platone  il pensiero  non  è  che  un  attributo  dell'anima;  la  sua  es- senza, cioè  la  sua  sostanza,  è  un  che  di  esteso,  che  è  il suhstratum  dei  suoi  movimenti,  compresi  quelli  che  si chiamano  sentire,  pensare,  ecc.,  cerne  le  sostanze  mate- riali sono  il  subsiratum  dei  loro  movimenti  e  di  tutti  gli altri  fenomeni  del  mondo  esteriore.  Il  dualismo  tra  anima -  m  - e  corpo,  0  la  fi08tan2Ìalità  dell'  anima,  nrn   pnò  essere dunque  in  quest'interpretazione  che   un   8«>mpliie   mito (che  cosa   simboleggerà  ?)   come  l' immortalità,   la  me- tempsicosi, la  reminiscenza,  ecc.  Se  è  un   mito    la  so- stanzialità dell'anima,  sarà  anche  un  mito  la  sua  gran- dezza spaziale,  il  suo  movimento  (e  per  conseguenza  la definizione  che  è  ciò  the  muove  te  stesso),   la   dottrina che  muove  il    corpo   comunicandogli   il   proprio    movi- mento,  quella  che  occupa  nel  corpo   un   posto   determi- nato, quella  della  sua  tripartizione,  e,  in  breve,  di  tutto CIO  che  Platone  ha  detto   dell'  anima  non   resterà   una parola  che  abbia  detto  sul  serio  (e  se  questi    miti  sono dei  simboli,  e  noi  vogliamo  interpretarli,  il  nostro    im- barazzo non  sarà  minore  di   quello   di   Platone    stesso, quando,  dopo  avere  spiegato  allegoricamente  il  mito  di Borea  che  rapisce  Oritia,  si  vede  nella  necessità  di  spie- gare   della  stessa  maniera  gl'Ippocentauri,  la  Chimera,  i Pegasi,  le  Gorgoni  e  una  moltitudine  d'altri  mostri,  che per  essere  spiegati  allegoricamente,  esiggono  «  una  certa sapienza  rustica  »  e  una  gran  perdita  di  tempo)  (1).  Lo dottrine  sull'  anima   cosmica   (cioè  sulla   divinità)    non dovranno  essere  prese  sul  serio  più  che  quelle  sull'ani- ma individuale.  Se  infatti  Platone  parlava   dell'  immor- talità per  nn  ossrquio  apparente  alle  credenze  popolari, o  perchè  la  credeva  una  favola  necessaria  all'ordine  so- ciale, come  non  ammettere  che  era  per  lo  stesso  motivo che  parlava  di  dio  e  della  provvidenza  ?  Di  più  la   dot- ti-ina sull'  anima   cosmica    suppone    lo   st(  sso   dualismo (incompatibile,  come  abbiamo  detto,    con    l' intrcrpreta- (1)  Fedro  229b-e. zìone  hegeliana  deirimmortalità)  su  cui  è  fondata  quella suiranima  individuale  :  la  prima  è   descritta,   come    la seconda,  come  una  sostanza   distinta    dalla   materia,   e- stesa,  in  movimento,  causa  del  movimento  della  materia per  la  comunicazione  del   proprio    movimento,    ecc.    Si dirà  che  qui  il  mitico  sta  nel  dualismo  e  negli  altri  con- cetti che  ne  dipendono,  mentre  la  vera  dottrina  di  Pla- tone era  un  panteismo  ilozoista,  in  cui  Dio   era   conce- pito come  Tanima  del  mondo,  ma  senza  che  questa  fos- se sostantificata  e  separata  dalla  materia.  Ma— oltre  che questa  forma  di  panteismo    è    quasi    totalmente    scono- sciuta all'antichità  (perchè,  come  abbiamo  visto  (1),  quasi tutti  i  panteisti  antichi  pensano,  come  i  dualisti,  che  l'a- nima del  mondo  è  una  sostanza  distinta  dal    corpo   del mondo)— con  qual  dritto    potremmo   ammettere    che    la dottrina  di  Platone  era  il  panteismo,  quando   egli  inse- gnava invece  il  dualismo  ?  Coerentemente   all'  interpre- tazione hegeliana  dell'immortalità,    tutto    ciò   che    Pla- tone ha  detto  della  divinità,  o    dell'anima    del   mondo, noi  non  dobbiamo  intenderlo    che   come   un  simbolo,  e non  possiamo  attribuirgli  altro  Dio    che  la  sfera    totale delle  Idee  (che,  secondo  quest'interpretazione  sarebbero anche  dei  pensieri),  o  il  pensiero  assoluto,  che  sarebbe l'ultimo  momento  dell'evoluzione  del  mondo  ideale.   In- tanto tutti  questi  concetti  di  Platone  sull'anima,  sia  co- smica sia  individuale,  hanno  tutti  i  caratteri  di  una  seria dottrina  filosofica,  e    noi    non    potremmo   aspettarci   di trovarli  in  una  semplice  finzione.  Noi   noteremo  :  i*  La naturalezza  di  questi  concetti,  cioè   il    fondamento    che ^fi (1)  Gap.  2.  §  6. 312  — essi  hanDo,  come  tutti  ì  concetti    metafis'ci,  nei  sofismi naturali  o  a  priori  del  nostro  spirito.  Platone  ha  anche stabilito  il  teismo  sulle  sue  vere  basi,  che  sono  la  spie- gazione teleologica  del  mondo  (per    uca    teleologia    co- sciente) e  quella  del  movimento  per  Tanima  (i).  Il  con- cetto della  scstanzfal  tà  dell'anima,    o  del  dualismo  tra anima  e  corpo,  fa  parte  anch'esso,  come    i    precedenti, della  metafisica  naturale  del  nostro  spirito,  e  la  dottrina dell'eternità  dell'anima  e  della  sua  distinzione    radicale dalla  materia,  che  Platone  ne  ha  dedotto,  è  la  forma  più conseguente  di  questo  concetto  (2).  Le  dimostrazioni  del- l'immortalità sono,  é  vero,  sofistiche;  ma  quelle  dell'esi- stenza delle  Idee  non  lo  sono  altrettanto?  e  d'altronde l'argomento  del  Fedro  e  quello  fondato  sulla  reminiscenza non  sono  dei  semplici  sofismi  artificiali,  e  V  ultimo  del Fedone  accenna  al  processo  logico  (quantunque    il    più delle  volte  incosciente)  per  cui   si    passa   dal    dualismo all'idea  dell'immortalità  (3).  2«  Il  carattere    rigoroso   di certi  concetti  che  Platone  sembra  essere  stato    il  primo ad  ammettere.  Tale  é,  oltre  quello  dell'  eternità  dell'  a- nima,  quello  di  Dio  come  causa  pi  ima,  che   è  uno   svi- luppo rlell'idfa  che  Tanin  a  è  il    jrncipio    motore,    al- trettanto rigoroso  che  Taltro  dt^l  dualismo  tra    anima  e corpo  (4).  3^ La  coerenza  fra  tutte  le  parti  della  dottriua. Questa  non  consiste  so'ameate  nell'assenza  d'  incompa- tibilità delle  une  con  le  alt  e,  ma  nella  loro  solidarietà, (1)  Cfr.  n.  1.  e.  280  p.  2«,  e  cap.  II.  §  2-4. (2)  Cfr.  n.  I,  e.  274-276. (3)  Cfr.  n.  I,  o.  277-278  p.  1"  e  279. (4)  Cfr.  n.  I,  e.  281. nella  conseguenza  con  cui  tutte  si  sviluppano  a  partire da  un  primo  principio.  Data  la  sostanzialità  de' l'anima, ne  vengono  naturalmente,  se   non   tutte   con    neces'^ità logica,  queste  conseguenze  :  che  essa  è    estesa,    che   si muove  e  muove  il  corpo  per  il  proprio  movimento  (am- messo che  essa  è  la  forza  motrice),  che    questo    proprio movimento  è  contiuuo,  che  occupa  nel  corpo   una  posi- zione determinata,  che   è  divisa    in    più   parti   separate (data  una  certa  ipotesi  fisiologica),  che  è   immortale  ed è  eterna,    che    è    radicalmente    distinta    dalla    materia, ecc.  (1).  La  metempsicosi,  quantunque  non  sia  una  con- seguenza dell'eternità  dell'anima,  è  la  maniera  più  na- turale di  concepire  la  sua  sopravvivenza  e  preesistenza, perchè  aFsegna  all'anima  per  tutta  la  sua  durata  la  fun- zione di  principio  di  vita,  per  cui   essa   è   stata  imma- ginata (2).  In  quanto  all'intuizione  delle  Idee  in   un'e- fì utenza  anteriore   e  alla    reminiscenza,  abbiamo  osser- vato che,  tra  le  ipotesi  per  ispiegare  la  coincidenza  tra il  pensieio  e  la  realtà,  l'unica  compatìbile  con   le    Idee platoniche  era  l'intuizione  razionale,  e  che  vi  erano  dei motivi  per  pieferire  all'intuizione  in  questa  vita  stessa quella  in  una  vita  anteriore  (3).  Il  dualismo  tra    anima e  corpo  si  riflette  in  quello  tra  Dio  e  il  mondo.   Di  più con  la  stessa  conseguenza  con  cui  sviluppa  il  dualismo antropologico,  spingendolo  alla  dottrina  dell'immortalità, Platone  sviluppa  anche  il  dualismo  teologico,  che  in  lui è  radicale  (cioè  ò  un  dualismo  nel  senso  stretto),  la  con- ci) V.  n.  I,  o.  274-276. (2)  Cfr.  n.  I,  o.  278. (3)  V.  <iuosto  Supplem.  n.  I,  e.  279,  e  Suppl.  C,  carte  143-144, -  313  - vertibilità  reciproca  tra  la  sostanza  deiranima  cosmica e  le  sostanze  nrìateriali,  che  troviamo  nfi  panteisti  an- tichi, essendo  altrettanto  incompatibile,  che  la  mortalità dell'anima  individuale,  col  principio  stesso  del  dualismo, cioè  r  imposFibilità  che  il  cosciente  verga  dall'  inco- sciente e,  viceversa,  questo  da  quello.  Una  conseguenza di  questo  dualismo  teologico  radicale  è  pure  il  concetto di  Dio  come  causa  prima,  V  idea  di  causa  prima  non potendo  aver  luogo  nella  forma  antica  del  pantei- smo (1).  4^  L'assiomaticità  che  il  principio  fondamentale di  tutta  la  dottrina,  cioè  il  dialisnro  tra  l'anima  e  il corpo,  doveva  avere  agli  occhi  di  un  contemporaneo  di Platone.  Non  solo  esso  è  un  risultato  immediato  dei  so- fismi a  priori  del  nostro  spirito,  ma  è  ammesso  quasi senza  recezione  (oltre  che  dalla  credenza  popolare)  da tutti  i  fitosofi  anteriori  e  da  tutti  i  pensatori  antichi  in generale  (2)— Tutti  questi  caratteri  delle  dottrine  pla- toniche sull'anima  (a  cui  dobbiamo  aggiungere  la  co- stanza con  cui  sono  irsegnate  dall'autore)  costituiscono altrettante  prove  intrinseche  della  loro  veridicità:  ve- dendovi delle  finzioni,  ci  metteremmo  in  contraddizione coi  più  semplici  canoni  della  logica  dell'ipotesi,  perchè invocheremmo  una  causa  ipotetica  per  ispiegare  un  fatto che  sì  spiega  abbastanza  per  le  causeche  sappiamo  cer- tamente essere  esistite  (cioè  i  sofismi  naturali  del  nostro spirito  e  il  getìio  eminentemente  metafisico  di  Platone), e  di  più  questa  causa  ipotetica  sarebbe  insufficiente  a spiegare  l'efiietto,  p(ichè  una  semplice  finzione  non  da- rebbe luogo  a  un  sistema  di  concetti,    in   cui   troviam(1)  Cfr.  cap.  IT.  §  2.  pag.  66. (2)  Cfr.  n,  I,  0.  273  e  288  p.  2.* tutta  quella  solidità  che  può  trovarsi  in  una  costruzione metafisica. Ma  si  pretende  che  l'immortalità    dell'anima   è    in- compatibile con  la  dottrina  fondamentale  di  Platone,  cioè quella  delle  Idee.  Platone,  si  dice,  non    avrebbe   potuto ammettere  l'eternità  delle  anime  individuali,  che  facendo di  esse  altrettante  Idee:  per  lui  infatti    l'eterno    non    è che  l'universale;  i  su'^i    principii    non   sono   individuali, come  nell'atomismo  o  nel  sistema  delle  monadi;  nel  suo sistema  l'elemento  essenziale  del  mondo  è   1'  universale, e  l'individuo  è  l'elemento  accidentale,  e  non  può  avere, per  conseguenza,  che  un'esistenza  transitoria.    É  il  solo argomento    contro    l'immortalità    platonica    che    abbia qualche  speciosità,  perchè  Platone  in    effetto   mette    più volte  in  opposizionfi  ciò  che  è   sempre,    cioè    le   Ide»»,    e ciò  che  nasce  e  perisce,  cioè  le  cose  individuali  (i),  donde è  facile  di  concludere  che  ogni  cosa  individuale  per  lui deve  essere  soggetta  alla  nascita  e  alla  morte.    Non  bi- sogna però  accordare  al  Teichmùller,  come  hanno  fatto alcuni  critici,  pur   non   accettando    la    sua    conclusione centro  l'immortalità,  che  questa  è  in  contraddizione  coi principii  stessi  del  sistema  delle  Idee  :  la  contraddizione non  è  che  con  certe  formule  dì  cui  Platone  si  serve  per mettere  in  contrasto  le  Idee  e  le  cose  per  uoa  delle  loro diflerenze  più  ovvie— ben   inteso,    se    queste   formule   si prendono  in  un  senso  assolutamente  rigoroso— L'eternità delle  Idee  e  la  peribilità    degl'  individui    non    sono    per Platone  una  conseguenza  del  principio    che   ciò    che   vi ha  di  sostanziale  nel  mondo  deve  essere  eterno  e  ciò  che (1)  V.  le  note  seguenti* -  311  — vi  ha  di   accidentale  peribile.  Tanto  l'una  quanto  l'altra non  sono  per  lui  che  un  risultato  deiresperienza  :  questa ci  mostra  che  le  specie  sono  stabili,  mentre  grindividiii nascono  e  periscono;  per  questa  tendenza  innata  del  no- stro spirito  alle  generalizzazioni  eccessive,  che  è  secondo Baiu  uua  conseguenza  dell'attività   inerente  air  organi- smo (1),  egli  ne  conclude,  come  sembra  il   più  caturale prima  delle  scoverte  della  scienza  moderna,  che   questa stabilità  ò  assoluta,  ciré  che  esse  sono  eterne  ed  immu- tabili, proposizione  la  cui  traduzione  in  linguaggio  reali- sta è  che  le  Idee  esistono  sempre  e  sono  sempre  le  stesse. Questa  deduzione  dalTesperienza  non  può  escludere    che egli  concluda,  per  altre  deduzioni,  che  vi  hanno,  oltre  alle Idee,  altre  cose  eterne  (benché  non  potrebbe  dire  anche di  queste  che  sono  sempre,  perchè  ogni   esistenza   indi- viduale non  si  classa  per  lui  neire,s,sere,  ma,  nel  diveìiire) . Ma  che  le  stesse  formule  che  sembrano  in  contraddizione con  l'eternità  dell'  anima  non   devono   prendersi   in   un senso  assolutamente  rigoroso,  si  vede  da  ciò,  che  in  que- sto caso  esse  sarebbero  anche  in  contraddizione    con  se stesse,    perchè    negherebbero    implicitamente   V  eternità delle  stesse  Idee  :  se  infatti  ogni    esistenza    individuale, senza  eccezione,  è  soggetta   alla  nascita    e  alla    morte, anche  la  terra,  gli  astri  e  il  cielo,  che  Platone  considera come  un  individuo  vivente,  saranno  soggetti  alla  nascita e  alla  morte,  ciò  che  è  la  negazioue    dell'  eternità   del- l'ordine attuale  del  mondo,  di  cui  l'eternità  delle  Idee  è l'espressione  metafisica.  In  molti  casi,  per  altro,    in  cui Platone  sembra  opporre  le  Idee  eterne  e  gl'individui  che (1)  V.  Bttin  Lofjk'o  l.  VI  e.  3. nascono  e  periscono,  non  abbiamo  aVuna  ragione  di vedere  altra  cosa  che  l'opposizione  solita  tra  1'  essere  e il  divenire— da.  cui  non  si  potrebbe  niente  concludere contro  l'immortalità  dell'anima,  poiché  il  divenire  con- tinuo delle  cose  non  è  più  incompatibile  con  essa  che con  la  persistenza,  anche  per  un  sol  giorno,  di  qualsiasi oggetto  individuale— L'espressione  xò  ov  àsC  (ciò  che  è  sem- pre) oxà  ovxa  às{  (le  cose  che  sono  sempre),  per  designare le  Idee  (1),  non  implicano  necessariamente  che  le  cose opposte  alle  Idee,  cioè  le  individuali,  hanno  tutte  una durata  limitata,  perchè  di  quelle  aventi  una  durata illimitata  Platone  non  direbbe  che  sono  sempre,  ma che  f^empre  divengono.  Nella  più  farle  dei  casi  (p.  e. quando  è  opposto  a  5v— l'essere— )  (2),  ily^Tvótisvov  equi- vale evidentemente  alla  ysvsai;  (il  divenire— che  indica  in Platone  il  complesso  delle  cofc  fenomeniche,  perchè  sog- gette a  un  divenire  continuo)  (3),  e  nei  dobbiamo  tra- durre, non  cib  che  nasce,  ma  semplicemente  ciò  che  di- viene (cioè  con  un'  espressione  più  vaga,  non  signifi- cante che  il  cangiamento  continuo  a  cui,  secondo  Era- clito e  secondo  Platone,  le  cose  sono  sottoposte).  Quando a  fix^oiiB^ov  Platone  aggiunge  y.at  àTioXX'Jjjtsvov  (e  che  peri" sce)  (4),  non  è  necessario  ch'egli  pensi  perciò  ad  altro che  alla  dottrina  stessa  del  divenire,  perchè,  se  è  vero, come  dice  Eraclito,  che  tutto  scorre,  come  un  fiume,  e niente  permane,  sarà  vero,  non  solo  che  tutto  continua- <1)  V.  Tim.  27  d,  37a,  50c,  51a,59c,    Ffdo.  79d,  Conr,    211a,    FU. 59a,  Kep,  527b,  Glie,  eco. (2)  Come  nel  Tim.  28a  e  neUa  /»*<'i).  518o  e  521  d. i'à)  V-  Sof.  2é6c,  248a,  e,  liep,  525b,  e,  52Ge,  534a,  Tim.  38a,   52d, eoe. (4)  V.  Tim.  28a,  52a,  Rep.  521e,  527b,  FU,  15a,    Conr.     211b.    V. anche  Jfep.  485b,  Coììv,  211a,  FU.  15b. —  315  — mente  diviene,  ma  anche  che  tutto  continuimente  peri- sce, l'esistenza  degli  oggetti  elie  noi  cliiamiamo  durevoli, risolvendosi  in  una  successione  di  stati  differenti,  di  cui  cia- scuno sparisce  appena  che  è  apparso,  erme  le  orde  del fiume,  a  cui  le  cose  si  paragonano  (1).  Ma  in  quei  casi stessi  in  cui  p'^r  ciò  che  é  sempre  dobbiamo  intendere semplicemente  quello  che  ha  una  durata  illimitata  (fa- cendo astrazione  dalT  esenz^'one  da  q«a!s'asi  divenire implicata  nella  parola  è),  e  per  co  che  diviene  e  ciò  che perisce  quello  che,  pur  avendo  una  certa  permanenza, incomincia  ad  esistere  e  finisce  di  es'stere  (2),  basta, per  ispiegare  come  questa  opposi/Jone  possa  rappresen- tare per  Platone  quella  tra  le  Idee  eie  cfseindivi.Juali, che  la  nascita  e  la  morte  sia  in  queste  la  regola,  e  l'e- senzione dall'una  e  dall'altra  Teccez'one.  Anche  Aristotile, quando  parla  delle  dottrine  platoniche,  chiama  le cose  individuali  i  corrutiibili  (c^Bapid),  e  h»  oppone,  come tali,  alle  cose  eterne,  cioè  alle  Idee  (3);  ma  ciò  non  gli (1)  E  a  questa  decomposizione  delle  cose  in  una  successione  di fenomeni  fuggitivi,  che  Platone  sembra  alludere,  quando  dice  (nel Sofista  246l>c)  che  gli  amici  delle  Idee  dividono  gli  esseri,  am- messi dai  Fisici,  in  minime  parli  (xaxdc  0|JllXpà  fitaBpa'JOVxeg), chiamandoli  non  •*  essenza  «,  ma  "  una  certa  genesi  fluente  „.  Come si  T3de  dall'opposizione  tra  V essere  e  il  divenire^  Plalone  si  serve della  dottrina  di  Eraclito  per  negare  alle  cose  individuali  una vera  realtà.  Per  conseguenza  egli  deve  preferire  di  presentarle sotto  un  aspetto  in  cui  sembrino  prive  di  qualsiasi  sostanzialità, e  quindi  di  qualsiasi  permanenza,  la  sostanza  nelle  cose  essendo appunto  il  permanente. (2)  Come,  p.  e.,  nel  Conv,  211a-b  e  nel  FU,  15a-b  e  36c. ^3)  V.  Met.  1.  I.  IX.  5, 13,25,1.  III.  II.  16,  l.  VII.  XVI.  7,  1.  Vili. III.  5,  6,  1.  XI.  IL  2,  ecc. impedisce  di  domandare  ai  platonici  in  che  le  Idee  gio- vino sia  ai  sensibili  eterni  hia  a  quelli  che  nascono  e periscono  (1),  e  di  afl'ermare,  al  comìnciamento  della  sua esposizione  del  sistema  di  Platone,  che  questi  ha  fatto un'Idea  di  tutto  ciò  che  vi  ha  di  uno  nei  molti  tanto nelle  cose  di  qui  (cioè  le  terrestri)  quanto  nelle  eterne (cioè  le  celesti)  (2).  Con  lo  stesso  dritto  con  cui  il  se- guace dell'interpretazione  hegeliana  può,  con  una  certa apparenza  di  rigore  logico,  fondandoci  su  certe  locu- zioni di  Platone,  concludere  che  l'anima  per  lui  è  mor- tale, altri  potrebbe  concludt  re,  fondandosi  su  altre  lo- cuzioni, che  essa  si  vede  o  si  tocca  o  si  percepisce  per qualche  altro  dei  nostri  sensi.  Infatti  allo  stesso  modo che  ciò  che  é  aempre  e  ciò  che  nasce  e  perisce^  egli  op- pone anche,  e  non  meno  frequentemente.  Vinteli igibilt,  e il  sensibile  (3)  :  ora  in  quest'opposizione  V intelligibile  non è  evidentemente  che  Tldea;  dunque,  si  concluderà,  Ta- nima,  non  essendo  un'Idea,  non  può  essere  per  Piatone che  qualche  cosa  di  sensibile  (4). Il  vero  motivo  per  cui  si  nega  la  sincerità  della  dot- trina di  Platone  del  l'ini  mortalità  dell'  anima,  è    che    si (J)  Afet,  i.  I.  IX.  6. (2)  Met,  1.  I.  IX.  1. (3)  V,  T,m.  28a,  37b-c,  38a,  48e-49a,  51a-b,c,  d,  52a,  Sof,  248a, Fedro  2i9h-c,  Fedo,  lòQ-7Qe,  79a-c,  83a-b,  99e,  Jeep.  507b,  eco. V.  anche  Arist.  Met.  1.  1.  VI.  3,  IX.  6.  10,  1.  Ili,  IL  15-17,  21,  I.  VII. II.  3,  XVI.  7,  1.  XI.  II.  1,  2,  1.  XIII.  I.  I,  4,  II.  1,  6,  16,  III.  1,  IV.' 2,  5,  ecc. (1)  Per  l'accordo  e  il  legame  della  dottrina  dell'  anima  in  ge- nerale con  quella  delle  Idee  rimandiamo  a  ciò  che  abbiamo  detto nel  n.  I,  carte  285-287,  Ivi  noi  parliamo  della  dottrina  dell'  anima cosmica  ;  ma  questa  è  legata  strettamente  con  quella  dell'  anima individuale. —  31G  — I  t Vuol  trovare  nel  nostro  filosofo  quella  di  Hegel  dell' i- dentità  del  pensiero  col  suo  oggetto.  Questa  dottrina  sa- rebbe incompatibile  con  quelle  della  reminiscenza  e  del- rintuizione  delle  Idee  in  una  vita  anteriore,  (d  tsso sup- pongono Timmortalità  dell'anitra:  inoltre,  non  riuscendosi a  trovarla,  nelle  opere  platoniche,  esposta  in  una  forma puramente  filosofica,  si  cerca  di  vedervela  involta  in  m'ti e  in  allegorie,  quali  sarebbero  l'immortalità  deir  anima e  quelle  due  altre  dottrine  che  la  suppongono.  Ma  non solo  la  dottrina  hegeliana  non  si  trova,  in  Platone,  e- sposta  in  una  forma  filosofica,  ma  vi  gi  trova  invfce  la dottrina  contraria,  cioè  il  punto  di  vif-ta  ordinario,  se- condo cui  il  pensiero  e  le  cose  crstituiscono  una  dua- lità irriduttibile  di  termini  radicalmente  diff'erenti  e  ir- reconciliabilmente opposti. La  dottrina  che  il  pcLsiero,  nella  conoscenza  filoso- fica, s'ident'fica  col  suo  oggetto,  implica  quella  che  le  Idee sono  pensieri.  Se  le   Idee  non   fofsero   pensieri   per    se stesse,  esse  non  potreblero  divenire  pensieri  nostri,  (juan- do  entrano  nella  stVra  della  nostra   conoscenza.    Ma    le Idee  di  Platone,   a  diflerenza  di  quelle  di    Hegel,    sono delle  entità  puramente  obbiettive.  Esse  non  sono  che  le cose  stesse,  considerate   nel    loro    elemento    sostanz'ale, cioè  spogliate  di  tutto  ciò  che  Platone  riguarda,  nell'es- sere, come  accidentale    L'Idea  d'una  cosa  è  Veasenza  di questa  cosa  (t),  e  le  Idee  in  generale  sono  anche  chia- mate gli  esseri  e  le  cose  (2).  //  movimento,  lo  stato,  Ves- serey  ecc.  significa  l'Idea  4el    movimento,    dello    stato, (1)  V.  carte  12  e   148-149. (2)  V.  e.  100. dell'essere,  ecc.  (1);  le  entità  d'^l  Tispa^  e  dell' àTistpov  del i^t7e6o— elementi  delle  Idee  euniversali  sostantificati  come le  Idee  stesse— sono  le  une  il  più  caldo  e  il  più  freddo, il  più  secco  e  il  piì^  umido,  il  forte  e  il  piano,  il  grave e  y acuto,  ecc.,  le  altre  V eguale,  il  doppio,  ecc.,  e  le cose  risultano  dalla  loro  mescolanza  (2);  la  Beltà  che l'anima  ha  intuito,  quando  era  in  compagnia  degli  Dei, è  questa  stessa  beltà  che  ora  percepiamo  con  la  vi- sta (3ì;  ridea  del  bene  è  identificata  con  la  felicità  de- gli esseri  viventi  (4),  e  chiamata  V ottimo  negli  esseri  e il  più  felice  ddVessere  (5).  Certamente  le  Idee  non  sono le  cose  che  trasfigurate;  ma  i  processi  per  trasformare le  cose  in  Idee  le  lasciano,  quali  erano,  dei  semplici  og- getti,  non  ne  fanno  dei  pensieri.  Il  primo  di  que- sti processi  è  l' astrazione.  L'Idea  dell'uomo  è  un uomo  astratto  o  indeterminato,  cioè  avente  gli  attri- buti comuni  a  tutta  la  specie,  ma  senza  le  parti- colarità proprie  di  uno  o  di  alcuni  individui.  Per 'ttenore  quest'  Idea  basta  perciò  di  separare  (xw- pt^^eiv)  (G)  in  un  uomo  ciò  che  è  comune  con  tutti  gli altri  uomini  da  ciò  de  non  lo  è:  il  risultato  di questa  separazione  si  chiamerà  V  uomo,  senz'  altro,  o, per  far  comprendere  che  ron  si  tratta  di  un  uomo detei  minato,  ma  dell'  uomo  indeterminato  o  astratto, l'uomo  stesso  (aOióc),  l'uomo  .s/fs.<fo  p<r  se  stesso  (aOxòg xaO'aOxóv),  ciò  che  è  (S  eoTv)  uomo,  l'uomo  separabile  (xw- pioTÓ?),  ecc.  Il  nome  uomo  designa  propriamente  que- st'uomo astratto,  od  è  esso  il  vero  oggetto  della   defini- (1)  v.  o.  13  e  100. (2)  V.  e.  97-100. (3)  V.  e.  144. (4)  V,  e.  91-OG. (5)  V.  e.  87,  p.  2.» (6)  V.  carte  76-78. —  317  - zìoae  deiruomo;  il  norrìe  e  la  definizione  non  si  appli- cano a^li  uomini  individui,  che  perchè  sono  delle  parti- colarizzazioni  o  delle  determinazioni  dell'uomo  inaeter- minato.  L'Id^^a  non  è  dunque  che  un  astratto  (cioè,  conie dice  il  Taine,  un  estratto,  una  porzione,  di  un  o^^get^o concreto),  considerato  come  esÌ5»tente  per  se  stes-^o  :  essa non  è  propriamente,  come  suoi  dirsi,  il  concetto,  ma l'oggetto  del  concetto,  realizzato  ;  il  suo  contenuto  è quello  stesso  del  concetto,  ma  questo  contenuto  che  nel concetto  esiste  sotto  la  forma  del  pensiero,  in  essa  esi-^te sotto  quella  della  realtà,  deirobbiettività.  É  perchè  le Idee  platoniche  sono  Tobbiettivazione  delle  «strazioni, cioè  dei  contenuti  dei  concetti,  e  niente  di  più,  che  Pla- tone può  esprimere  compendiosamente  la  sua  dottrina, affermando  che  l'astratto  è  reale  (p.  e.,  come  dice  nel Fedone,  che  il  giusto,  il  buono,  il  bello  è  qualche  cosa, o,  come  dice  nel  Timeo,  che  gli  slòri  intelligibili  delle  cose esistono  realmente  e  non  sono  dei  semplici  nomi)  (1). L'altro  processo  per  trasformare  le  cose  in  Idee  è  la  ge- neralizzazione. L'Idea  deiruomo  non  è  solamente  T  uo- mo astratto,  ma  è  anche  l'uomo  universale  (2),  e  la  sua antitesi  è  qualchenomo,eìmolti  nomini  singolari  (^).  Per noi  dì  universale,  come  di  astratto,  non  vi  hanno  che dei  nomi,  e  per  il  concettualista,  che  dei  pensieri  ;  ma gli  universali  di  Platone  sono  degli  universali  in  re, e  semplicemente  in  re  :  sono  le  specie  e  i  generi  (4),  ciò a  cui  si  applica  la  dieresi  (5);  e  il  contrario  e  il  letto Idee,  in  opposizione  ai   contrari  e    ai    letti    particolari, (1)  V.  Suppl.  B   parte  I  n.  II,  e  ofr.  n.  III.  e  IV, (2)  V.  o.  148. (3)  V.  e.  29. (4)  V.  Sappi.  B  n.  I  e  VII. (5)  V.  n,  IV  (parte  I). vengono  chiamati  il  contrarioeil  letto  nella  natura  (1).  Cia- scuno di  questi  universali  essendo,  non  la  totalità  degli individui  d'uoa  classa,  ma  una  sostanza  unica  che  rap- presenta questa  totalità,  il  processo  di    generalizzazione per  cui  dalle  cose  si  giunge  alle  Idee,  è  un  processo  di unificazione.  Esso  si    chiama    o'jvaYoiyi^,    cioè    riunione, riduzione  del  multiplo  alTuno  ('i);  e  consiste  a  sostituire, per  eia  cuna  classe,  un  individuo  unico  alla  moltitudine degl'individui  offerti  dall'esperienza,  riguardandolo  come la  vera  realtà,  di  cui  questi  sono  il  fenomeno.  É  quanto basta  per  ottenere  l'Idea  platonica—ben  inteso  che  que- sto proces-o  di  unificazione    suppone    già    quello  di    a- Ftraz'one,  cioè  la  elim-nazione  di   tutte    le   particolarità che  differenziano  il  multiplo  —  :  cosi,    per   esprimere    la dottrina  delle  Idee,  Platone  dice  :  uno  è  il  bello,  uno  é il  giusto,  ecc.  (3);  o  —  dopo    aver   detto    che   vi    hanno molti  belli,  molti  buoni,  ecc. —che  ciò  che  si  è  posto  come molti  sì  deve  porre  nuovamente  come  uno  (il  bello  stesso, il  buono  stesso,  ecc.)  (4).  Questo  è  dunque  l'Idea  plato- nica, considerata  in  se  stessa  :  un   individuo  astratto,  a cui  si  riduce  la  moltitudine  degl'individui    di   ciascuna class'»,  e  per  rappresentarsi  il  quale  si  fa  astrazione  da tutto  ciò  che  non  è  comune    a    tutti    gì'  individui.    Per completare  la  dottrina,  non  si  ha  che  ad  aggiungere  la relazione  tra  quest'individuo  astratto  e  grindividui con- creti (cioè  ad  aggiungerla   espressamente,    perchè   essa è  data  implicitamente  nella  auvaYWYr^).  Questa    relazione (1)  V.  carte  45  e  129. (2)  V.  e.  29-30. (3)  V.  e.  30-31 . (4)  V.  e.  38. —  318  — }}, è  espressa  compendiosaraente  nella  formula  V  uno  nei molti  (I),  e  designata  dai  termìai  temici  napojjta  e|xi- Osgig  (2).  L'Idea  è  il  comune  (3),  ciò  chi  si  p-edìca  di tutti  i  singolari  come  uno  e  Jo  stesso  in  tutti  (4),  ciò  per la  cui  presema  o  partecipazione  le  erse  sono  ciò  che  hi dicono  esspre  (belli  per  la  presenza  o  partecipazione dell'Idea  del  bello,  uomini,  dell'Idea  dell 'uomo,  ecc.)  (5), e  che  (per  questa  sua  presenza  o  partecipazione  in  co. mune)  è  la  causa  agli  ogs^etti  simili  dell'esser  simili  (6).  La grandezza  che  è  in  tutti  gli  oggetti  grandi,  la  bellezza che  è  in  tutti  gli  oggetti  belli,  ecc.,  è  una  sola  e  stessa grandezza,  una  sola  e  stessa  bellezzi»,  ecc.,  e  queste sono  le  Idee  del  grande,  del  bello,  ecc.;  l'Idea  della  fi- gura è  la  figura  che  é  la  stessa  in  tutte  le  figure;  V  1" dea  del  simulacro  è  il  simulacro  unico  che  è  in  tutti  i simulacri;  ecc.  (7).  Tutte  queste  proposizioni  e  le  altre simili  non  dicono  in  sostanza  se  non  che  1'  astratto  è uno  di  numero;  che  gli  astratti,  che  si  possono  isolare nei  diversi  individui  d'una  classe,  per  la  soppressione dei  caratteri  particolari  e  la  conservazione  dei  soli  at- tributi generali,  non  sono  semplicemente  eguali,  ma identici;  che  non  sono  molti  e  distinti  fra  di  loro,  ma si  risolvono  in  un  essere  unico.  In  un  solo  individuo astratto,  che  si  ritrova,  uno  e  lo  stesso,  in  tutti  gl'indi- vidui concreti.  Noi  possiamo  dunque   cosi   definire    1'  I- (1)  V.  0.  32. (2)  V.  Sappi.  B  n.  VI. (3)  V.  o.  148. (4)  V.  o. 18. (5)  V.  Sappi.  B  p.  f  n.  VI. (6)  V.  carta  32. (7)  V.  0.  31-35. dea  platonica  :  un  individuo  astratto  (cioè  non  avente che  i  caratteri  generali  della  classe),  che  è  presente  si- multaneamente in  tutti  gl'indiNÌdui,  e  che,  per  quef-ta Fua  presccza  simultarea  in  molt%  pare  molti  ceso  stesso, benché  in  realtà  mn  sia  che  uno.  Quando  i  due  processi per  trasformare  le  cose  in  Idee  si  applicano  alle  cose considerate  nella  loro  successione,  si  ha  la  determina- zione deiridea  come  ciò  che  vi  ha  di  costante  e  di  per- petuo  nella  natura.  Con  le  Idee  sono  descritte  come  de- gli oggetti  etorni  e  immutabili,  e  opposte  alle  cose  che nascono  e  periscono,  e  non  sono  mai  ma  continuamente divengono  (1).  Ciò  vuol  dire  che  l'Idea  e  l'elemento permanente  del  divenire,  che  nel  flusso  continuo  dei  fe- nomeni le  Specie  sono  stabili,  che  1'  individuo  astratto si  ritrova,  sempre  uno  e  lo  stesso,  nella  suc-^essione  de- gV  individui  concreti  (2);  e  a  questo  punto  di  vista  la dottrina  delle  Idee  è  espressa  dalla  propos'zione  che  la forma  di  ciascuno  degli  esseri  (cioè  di  ciascuna  specie  di esseri)  é  sempre  la  stessa  {eadem  nnmero)  (3).  Se  si  fa astrazione  dalla  loro  inerenza  nelle  cose,  si  ha  il  con- cetto delle  Idee  come  paradigmi  (4),  cioè  come  modelli  a cui  la  natura  si  conforma  costantemente  nelle  sue  pro- duzioni. E  Taspitto,  il  più  appariscente,  della  dottrina delle  Idee,  a  cui  si  ferma  l'interprete  irascendentalista, ed  é  co:*i  che  sovratutto  sono  presentate  da  Aristotile. Ma  che  le  Idee  siano  dei  semplici  oggetti,  è  altrettanto evidente  quando  si  tiene  conto    delia    loro    immanenza (1)  V.  e.  108-109  e  117. (2)  V.  Sappi.  B.  n.  X . (3)  V.  e.  KW  nota  2. (4)  V.  0.  m. ai9  - nelle  cose  che  quando  se  ne  fa  astrazione  :  nel  pn'mo caso  sono  un  elemento  delle  cose  (1),  o  piuttosto  le  cose stesse  considerate  astrattamente;  nel  secondo,  ne  sono  i duplicati.  Secondo  Aristotile,  le  Idee  non  dift'eriscono dalle  cose  che  per  la  loro  eternità  (2);  sono  dei  sensibili eterni,  come  gli  dei  del  volgare  sono  degli  uomini  e- terni  (3).  La  loro  essenza  non  differisce  da  quella  delle cose;  nelle  une  e  n^lle  altre  il  concetto  è  uno  e  lo stesso  (4).  Le  fanno  (i  platonici)  della  stessa  specie  che 1  sensibili;  non  fanno  che  ag-giurgere  la  parola  aùió  (5). Cosi,  per  significare  che  i  platonici  non  ammettono  una Idea  della  casa,  Aristotile  dee  che  non  vi  ha,  secondo essi,  uca  casa  oltre  (Tiapa)  le  case  part  colari  (6);  e  ob- bietta che,  secondo  i  loro  principii,  si  dovrà  ammettere un  terzo  uomo  (oltre  V  ucmo  sensibile  e  T  uomo  idea- le) (7),  e  che,  come  vi  hanno  delle  entità  intermediarie per  le  grandezze  e  pei  numeri,  vi  sarà  un  altro  cielo oltre  il  cielo  sensibile  e  altri  animali  medi  fra   gli   an'- (1)  Le  Idee  dei  generi,  e  specialmente  dei  due  generi  supremi (l'Uno  e  la  Dualità  indefinita),  sono  chiamate  elemuuti  detjli  esseri. V.  e.  88-91. (2)  V.  Met,  1.  I.  VI.  3,  1.  I.  IX.  8.  13,  1.  III.  II.  16,  1,  XI.  11.  2- Un  altro  carattere  differenziale  è  l'immobilità  :  cosi,  secondo  il primo  luogo  citato,  Id  entità  matematiche  differiscono  dai  sensibili perchè  eterne  ed  immobili  (come  le  Idae),  dalli  liee  perchè  ve ne  hanno  molte  della  stessa  spacie.  Ma  probabilmente  Aristotile  ri- guarda l'immobilità  come  data  implicitamente  nell'eternità  (perchè  la eternità  delle  Idee  platoniche  è  l'assenza  della  condizione  del  tempo). (3)  L.  111.  II.  16. (4)  Met,  1.  I.  IX.  5,  Eth.  Xic.  U  I.  VI.  5. (5)  Met.  1.  VII.  XVI.  7. (6)  V.  e    149,  nota  1. (7)  V.  e  33,  in  nota. .  \ li' mali  stessi  e  gli  animali  corruttibili  (1).  Nel  periodo  pi- tagoreggiaiite  si  flggiunf:e  una  nuova  astrazione  a  quella per  cui  si  ottiene  )1  concetto  geneja'e  (o  piuttosto  il  con tenuto  di  questo  conc  tto);  si  sopprime,  cioè,  la  materia," e  si  fa  dell'Idra  una  semplice  foima.  Questo  teryo  pro- cesso per  ottenere  Tld  a  ci  mostra  d'una  maniera  an- cora più  evideLtc  ch'essa  ncn  è  che  un'  entità  pura- mente obbiettiva.  La  foima  infatti  non  esiste  altrove che  nella  materia;  e  in  efiTetto  noi  sappiamo  dal  Timeo e  da  Aristotile  che  ciò  che  partecipa  alle  Idee  è  la  ma- teria, che  es.'-a  è  il  loro  substratum  o  il  soggetto  di  cui si  pi  edicano,  e  che  l'individuo  è  un  composto  della  ma- teria e  de'l'Idea  (2);  e  siccome  la  materia  per  Platine  è identi«*a  allo  spaz'o,  Arisvtile  ne  inferisce  anche  che  le Idee  ('ovrcbbiro  essrre  nello  spfz'o(3). Senza  dubb'o,  ^e  Platone  amnwttesse  la  dottrina de  l'identità  d«  ll'essere  e  del  pen»ievo,  nonholo  le  Idee, ma  anche  le  cose  fu  lumeijali  dovr^bbeio  essere  per  lui dei  pensieri.  E  «llora,  astraendo  il  comune  dalle  cose, unificandolo,  contemplando  queste  cose  sub  specie  aeter- nifatis  (secondo  il  concetto  d'  Aristoii'e  the  le  Idee sono  dei  sensib  li  eterni),  separando  le  loro  forme  dalla materia,  siccome  le  cose  sarebbero  anche  dei  pensieri, se  ne  tirerebbero,  non  del  semplici  o\^^eW,  ma  degli oggetti  che  sarebbero  al  u  mpo  stesso  dei  pensieri.  Ma siccome  Piatone  no  i  dice  mai  che  le  cose  sono  anche dei  pensieri,  e  gli  u  >mini  pensano  generalmente  che non  sono  che  delie  cose,  noi  dobbiamo  ammettere  ch'e- (1)  Met,  l.  UT.  II.  17-22  e  1.  Xlll..  II.  7-8. (2)  V.  e.  132,  141,  I4i)-150. (3)  V.  e.  155. -  320  -- gli  divide,  su  questo  soggetto,  il  punto  di  vista  comune; e  perciò  che  Tldea  platonica,  tirata  dalle  cose  mediante i  processi  che  abbiamo  indicati,  non  è  un  oggetto  che é  al  tempo  slesso  un  jensiero,  ma  un  semplice  oggetto, che  non  si  distingue  dagli  nini,  quali  gli  uomini  abi- tualmente se  li  rappresentano,  che  perchè  è  astratto, unico  nella  sua  specie,  eterno,  e  una  semplice  forma senza  materia. Altre  prove  della  semplice  obbiettività  delle  Idee  si avranno,  esaminando  le  determinazioni  che  loro  ven- gono attribuite  per  se  stesse,  o  anche  nel  loro  rapporto con  le  cose,  ma  indipendentemente  d«l  processo  per  cui il  loro  concetto  e  ricavato  da  quello  delle  cose.  Le  Idee sono  per  Platone  V essere  o  gli  esseìH  (I),  e  Aristotile  le chiama  continuamente  sostanze  (2),  Questa  sostanzialità si  vede  altrettanto  dagli  attributi  delle  sostanze  sensibili che  vengono  loro  negati  (p.  e.  quando  Platone  le  chia- ma «l'essenza  senza  colore,  senza  figura,  impalpabi- le »  (3),  o  quando  Aristotile  e  gli  amici  delle  Idee  del •Sb/?s^a  pretendono  che  Fono  assolutamente  immobili  e  prive della  facoltà  di  agire  e  di  patire  (4)),  che  da  quelli  che vengono  loro  conservati  (p.  e.  quando  Platone  afferma, (1)  V.  e.  100-101. (2)  V.  Met.  1.  I.  IX.  4-5,  1.  111.  1.  6,  15,  VI.  2-3,  1.  VII.  II.  H,  6, Xlll.  2,  7,  XIV.  5-2,  XVI.  6,  8,  1.  X.  II.  1-2,  1.  XI.  II.  1,  2,  7,  1.  XlU- 1.  2,  IX.  16,  17,  20,  X,  1,  7,  ecc.  Nel  l.  XIV.  1. 1  e  IV.  4  e  altrove  le chiama  le  sostanze  immobili;  e  nel  1.  111.  VI.  5,  1.  VII,  Xlll.  8—10  e altrove  obbietta  che,  nell'ipotesi  delle  Idee,  in  una  sostanza  vi saranno  più  sostanze  (perchè  una  cosa  o  un'Idea  partecipa  a  più Idee— V.  o.  153-154). i3)  Fedro  2Alc. U)  V.  e.  110-1-20. fi contro  rinterpretazione  degli  amici  delle  Idee,  che  Tes- sere vero  pensa,  vive,  ha  un'anima  e  si  muove)  (1).  Essa si  vede  pure  dal  loro  rapporto  con  le  cose  rie  Idee  sodo la  realtà,  e  le  cose  le  immagini  e  le  apparenze  (2);  eia parusia  è  assimilata  alla  presenza  di  una  sostanza  ma- teriale in  un'altra  (3).  Nel  periodo  pitagoreggiante  le  Idee sono  identificate  ai  numeri— che  certamente  sono  degli oggetti,  per  quanto  1'  antitesi  tra  soggetto  ed  oggetto può  applicarsi  a  delle  astrazioni  (4)—;  e  composte  di forma  e  di  materia  (5)  come  le  cose.  Insieme  a  queste determinaz'oni  e  ale  alire  che  ci  mostrano  le  Idee  come semplici  oggetti,  non  ne  incontriamo  alcuna  che  ce  le mostri  erme  pensieri.  Cosi,  siccome  al  punto  di  vista comune— che  d'altronde  è  il  solo  intelligibile— l'essere  un oggetto  è  incompatibile  con  1'  essere  un  pensiero,  non trovando  mai  in  Platone  una  proposzione  che,  in  un caso  particolare  o  come  priifcipio  generale,  escluda questa  incompatibilità,  noi  dobbiamo  ammettere  ch'essa esiste  anche  per  lui,  e  vedere  nelle  determ  nazioni  delle Idee  come  degli  ogg«  fi  la  negazione  implcita  della dottrina  che  sono  dei  pensieri. Noi  non  possiamo  immaginare  altra  prova  più  completa delie  precedenti  che  una  proposizione  in  cui  Platone  ne- gasse espressamente  la  dottrina  del  'identità  dell'  essere e  del  pensiero.  E  ciò  ch'^  egli  avrebbe  certamente  fatto, (1)  V.  e.  120. (2)  V.  e.  100-102  e  126. (3)  V.  e.  65  e  70-71. (4)  E  d'altronde  questi  numeri  a  cui  s'identificano  le  Idee,  sono essi  stessi  identificati  ai  punti  che  sono  i  termini  delle  grandezze, e  considerati  come  gli  elementi  costitutivi  di  queste.  V.  carte  150-151. (5)  V.  Supplem.  C.  n.  II. —  381  - '  *  .'i; 'f'^^vr^f^-^f --^p-r ee  fosFe  venuto  dopo  Hegel.  Ma  siccome  Platone,  e  chic- chessia alla  sua  epoca,  ignorava  che,  fra  le  pseudo-idee che  avrebbero  immaginato  1  met.  fisici,  vi  sarebbe  stata ridentità  deiressere  e  del  pensiero,  sarebbe  assurdo  di cercare  in  lui  questa  prova  assolutamente  completa.  E non  per  tanto  noi  troviairo  nel  7V?rwiew/c?e  qualche  cosa che  vi  si  avvicina.  E  la  confuta2ione  del'a  proposizione di  Socrate,  quando  questi,  battuto  dalle  obbiezioni  del filosofo  eleate  contro  la  partecipazione,  abbandona  la realtà  degli  universali,  e  fa  la  supposizione  che  le  specie non  sono  che  dei  pensieri,  e  vov  possono  esistere  altrove che  nelle  anime— queste  parole  dimostrano  che  la  suppo- sizione di  Socrate  non  è  l'identità  dell'essere  e  del  pen- siero, ma  semplicemente  il  ccncettualismo— .  «  Che  dun- que V,  dice  Parmenide,  ciascuno  di  questi  pensieri  è  uno, ma  è  il  pensiero  di  niente?— Ciò  èimpossibile— E  il  pen- siero di  qualche  cosa?— Si-  Di  qualche  cosa  che  esiste o  che  non  esiste  ?— Che  esiste— Non  è  di  qualche  cosa di  uno,  che  questo  pensiero  pen^a  in  tutti  gli  oggetti, come  una  certa  forma  reale  ?—  Si— E  non  sarà  una  Specie questa  qualche  cosa  che  si  pensa  essere  una,  essendo sempre  la  stessa  in  tutti  gli  oggetti  ?  —  Anche  questo sembra  necessario— Ma  che?  non  è  necessario,  poiché le  altre  cose  partecipano  alle  Specie,  o  che  ogni  cosa consti  di  pensieri  e  tutto  pensi,  o  che  le  cose  non  pen- sino essendo  dei  pensieri  ?  »  In  questo  luogo  abbiamo la  propos'zione  che  le  cose  sono  dei  pensieri  (o,  ciò  che è  lo  stesso,  constano  di  pensieri)  presentata  come  una assurdità,  perchè  implicante  o  che  tutte  le  cose  pen- sino, 0  che  non  pensino  mentre  sono  dei  pensieri;  e considerata  pure  come  assurda,  perchè  conducente  a  que- sta pro|.osizioue,  quella— non  formulata  esplicitamente, ma  sottii'tesa  nel  ragionamento    di   Parmenide- che   le Specie,  essendo  dei  pensieri,  sono  al  tempo  stesso  Vuno nei  molti  negli  oggetti  reali;  e  quindi  anche  la  supposi- zione di  Socrate,  da  cui  essa  è  dedotta,  che  le  Specie sono  dei  pensieri.  Che  fa  infatti  Parmenide  ?  Dimostra a  Socrate  che  la  proposizione  che  1  concettualisti  op- pongono alla  teoria  delle  Idee,  cioè  che  esse  sono  dei pensieri— siccome  un  pensiero  generale  ha  per  oggetto (secondo  la  mariera  di  argomentare  abituale  a  Platone) un  essere  generale— implica,  quantunque  il  concettuali- sta non  lo  comprenda,  che  questi  pensieri,  a  cui  egli pretende  ridurre  gli  universali,  devono  essere  al  tempo stesso  degli  uni\  ertali  in  re;  donde  la  conseguenza  as- surda che  tutto  il  reale  si  ribclve  in  pensieri,  e  quindi —ciò  che  mostra  più  palpabilmente  la  sua  assurdità — che  le  cose  o  pensano,  o  sono  prive  del  pensiero  essendo pensieri.  L'interprete  che  attribuisce  a  Platone  l'identità dell'essere  e  del  pensiero,  alla  prova  schiacciante  contro la  sua  interpretaz  one  ccntenuta  in  questo  luogo  del Parmenide,  non  potrebbe  dare  che  una  risposta  :  cioè che  in  questo  dialrgo  Platone  (o  meglio,  l'interlocutore che  rappresenta  il  huo  pensiero,  cioè  Parmenide)  mostra che  l'ipotesi  delle  Idee  e  tutte  le  supposizioni  che  pos- sono farsi  sul  rapporto  tra  le  Idee  e  le  cose,  fra  cui quella  che  l'Idea  è  Vuno  nei  molti  eh'  egli  ammette  in tutti  i  suoi  scritti,  conducono  (o  sembrano  condurre)  a delle  conseguenze  assurde,  e  non  pertanto  <^gli  mantiene tanto  la  dottrina  delle  Idee  quando  quella  che  un*  Idea è  presente  simultaneancnte,  una  e  la  f-t'ssa,  in  tutti  gli individui  della  specie;  cosi  egli  potrebbe  mantenere  anche la  dottrina  dell'identità  dell'essere  e  del  pensiero,  quan- tunque mostri  che  anche  da  questa  derivano  (o  piuttosto sembrano  derivare)  delle  assurdità.  Ma  vi  ha  fra  i  due -  332  - casi  Tiiia  diffnei  za  ìmyortai  te.  N*  i  dobbiamo  guardarci dal  credei  e  che  le  obbiezioni  di  PartneDide  contro  le Idee  abbiano  per  Platone  lo  ^trsso  Valore  logico  che  vi troviamo  noi  stessi.  L' obbiezioi  e  contro  la  partecipa- zione a  131a-e  (1),  per  noi,  è  petfettàmente  concludente, mentre  quella  del  luogo  di  cui  ora  parliamo,  contro  la proposizione  concettualista  di  Socrate,  è  patentemente sofistica,  perchè  le  assurdità  che  si  pretende  far  derivare da  questa  proposizione,  non  ne  derivano  che  animrssa la  validità  dei  soliti  argomenti  di  Platone  per  dimostrare resistenza  delle  Idee.  Ma  tul  valore  di  queste  due  ob- biezioni Platone  doveva  pensale  precisamente  il  con- trario di  ne  i.  La  prima,  come  tulle  le  altre  dirette  con- tro le  Idee  concepite  secondo  il  sistema  realista  (rreno forse  quella  di  i32d-13i3a,  che  scmbia  dirij:ere  contro l'interpretazione  irayc(7id(niolista  della  sua  dottrina), doveva  parere  a  Platone  necepsariamentc  sofistica,  poi- ché egli  mantiene,  malgrado  essa,  il  suo  realismo— senza dubbio  egli  doveva  considerarla  come  fondata  sovra  una concezione  inesatta  delle  Idee  e  del  loro  rapporto  con  le cose,  per  cui  si  pretendeva,  avrebbe  forse  detto  come  Car- tesio, «  immaginare  ciò  che  non  sì  può  se  non  inten- dere »  (2) — ;  la  seconda  invece  doveva  parergli  Tunica fra  tutte  (meno  forse  Teccezone  di  cui  sopra)  che  fosse concludente,  poiché  l'impiegava,  come  l'arma  più  forte di  cui  potesse  avvalerci,  e  ntro  la  negazione  dei  suoi oppositori,  cioè  il  concettualismo.  L'assurdo  a  cui  Par- menide riduce  la  supposizione  di   Socrate,    era    dunque ij  i. per  Platone  realm^ìnt^.  un  assurdo;  e  il  seguace  dell' ia- terpreta/.ioue  hegelia  la  gli  attribuisce  una  dottrina  ch'e- gli ha  condannata,  nel  modo  più  esplicito  possibile  in cui  un  filosofo  possa  condantiare  una  dottrina  che  gli  è sconosciuta. Veniamo  ora  al  pun'o  che  è  direttamente  in  qui- s'ione,  cioè  alla  dottrina,  non  dell'  identità  dell'essere  e dol  pensiero,  ma  dell' identità  dell' e^^sere  e  del  no- stro pensiero,  dell'oorgeto  conosciuto  (le  Idee)  e  della conoscenza.  Quand'anche  il  segnncc  dell'interpretazione hegeliana  potesse  provare  che  Platone  ha  ammesso  la |,rima  dottrina,  egli  non  proveribbe  ancora  che  ha  affi- mi sso  la  seconia  :  al  contrario,  provando  che  non  ha ammesso  quella,  si  è  provato  pure  che  non  ha  ammesso questa,  (ssendo  evidente,  come  abbiamo  not^ìto,  che  se le  Idee  non  sono  per  se  stesse  dei  pensieri,  non  possono divenire  dei  nostri  pen^^ieri.  Ma  alle  prove  precedenti che,  dimostrando  che  le  Idee  non  sono  per  Platone  che dei  semplici  oggetti,  dimostrano  pure indiret' amente  che per  lui  non  può  esservi  identità  fra  la  conoscenza  e l'oggetto  conosciuto,  noi  possiamo  aggiungere  delle  prò. ve  dirette.  Vi  ha  prima  di  tutto  la  prova  negativa,  cioè l'assenza  di  proposizioni  in  cui  Platone  affermi  aperta- mente quest'identità;  e  a  questo  riguardo  sono  notevoli i  luoghi  in  cui  parla  dei  caratteri  che  distinguono  la scienza  dall'opinione  (1),  poche  quest' ident  tà,  se  1'  a- vesse  ammessa,  sarebbe  stata  certamente  uno  di  questi caratteri,  la  presenza  immediata  dell'oggetto  al  soggetto conoscente  essendo  necessariamente  per  lo  spirito  uma- (1)  V.  Sappi.  B  carte  34-35. (2)  V.  e.  33  in  nota. (1)  V.  specialmente  Meno.  97d-98a  e  Tim.  5ld-e.  Qfr.  oap.  VII pag.  149-161. / li : I. no  il  tipo  supremo  della  certezza.  Tra  le  prove  positive daremo  il  primo  posto  ai  luoghi  numerosi    in    cui    Pla- tone riguarda  evidentemente    (come    farebbe    chiunque altro  tranne  un  h'^geliano)  la  conoscenza  e  l'oggetto  co- nosciuto come  due  cose  affatto  distinte    e    separate.    Io citerò  quelli  che  mi  sembrano  più  importanti.  Sulla  fine del  Cratilo  (439d-440b)  (1)  dice  .^,he,  se  tutto   diviene,  il bello  slensoj  il  buono  s'esso,   ecc.    non    potranno   essere conosciuti  da  alcuno,  perché,  mentre  la   potenza    cono- scitiva tenterebbe  di  a^mgerli,   essi  diverrebbero    altri (difficoltà  che  non  potrebbe  aver  luogo  nella  dottrina  del- Tidentiià);  e  mostra  che,  neiripotesi  di  Eraclito,  non  vi sarà  né  il  conoscente  (cioè  la  conoscenza)  né    il    cono- sciuto (due  cose  distinte).  Nel  Filebo  la    distinzione    tra la  conoscenza  e  l'oggetto  conosciuto  é  affermata  quando dice  (2)  che  1'  intelligenza    e   la    saggezza    non    consi- stono   che    nelle   conoscenze    intorno    all'  essere    reale (le   Idee   —  Tiepl    xò    òv    ovitog),    perchè  «  intorno  a  ciò che    non   ha    alcuna    stabilità   (il    diveirre)    coTie    po- trebbe esservi  in  noi  qualche  cosa  di  stabile?»,  ma  «Io stabile,  il  puro,  il  vero,  il  sincero  non  può    aver    luogo in  noi  che  intorno  a  ciò  che  è  sempre  nello  stesso  stato, della  stessa  maniera  esenz'alcuna  mescolanza  ».  Questa distinzione  è  affermata  pure  dove  si  tratta   dei    quattro generi  in  cui  gli  esseri  vengono  divisi  (3),  poiché   1'  in- telligenza, cioè  la  causa,  è  un  quarto  genere  oltre  i  tre primi,  e  si  dice  espressamente  (4)  ch'essa  è  laltra  che  le (1)  Laogo  riportato  nel  Suppl.  B  o   116. (2)  59  b-d. (8)  23O-30. (4)  A  27  a-b. CÒS3  appartenenti  agli  altri  tre  generi  (cioè  gli  esseri, cose  e  Idee,  e  il  Tiépa;  e  l'^Tisipov  che  ne  sono  gli  ele- menti) (1).  Nella  Repubblica  437  d-439  a  (2)  la  scienza  e il  suo  o2:s:etto  sono  n'o-iarlati  come  due  cose  diverse  e correlative,  come  la  sete  e  la  bevanda,  la  fame  e  il  cibo, il  maggiore  e  il  miuore,  il  doppio  e  la  metà,  il  più  ve- loce e  il  pili  tardo,  ecc.;  e  si  nega  (3)  che  la  scienza  (e in  generale  un  correlativo)  sia  tale  quale  è  Toggetto  a cui  si  riferisce,  p.  e.  che  la  Fcienza  del  salubre  e  del- Tinsalubre  sia  essa  stessa  s«lub  e  e  insalubre,  e  quella del  buono  e  del  cattivo  buona  e  cattiva  (mentre  è  evi- dente vlie,  nell'ipotesi  dell'identità  della  conoscenza  col suo  oggetto,  la  scienza  del  salubre,  essendo  il  salubre stesso,  non  potrebbe  non  essere  salubre,  e  cosi  pure quella  del  buono  buona,  ecc.)  Nel  Carmide  Socrate  ob- bietta al  suo  interlocutore  che  la  scienza  è  dì  qualche offffetto,  che  è  altro* che  la  scienza  stessa,  p.  e.  la  lo- gistica  è  del  pari  e  dell'impari,  che  sono  altri  che  la logistica,  la  statica  del  grave  e  del  leggiero,  che  sono altri  che  la  statica  (4);  e  gli  dimostra  (5)  che  non  è  pos- sibile una  scienza  che  abbia  se  stessa  per  oggetto  (in- tanto, se  la  conoscenza  fosse  identica  all'oggetto  cono- sciuto, la  conseguenza  necessaria  sarebbe  che  la  scienza non  avrebbe  per  oggetto  che  se  stessa).  La  scienza,  dice Socrate  per  dimostrare  quest'impassibilità,   è   relativa  a 0)  Cfr.  Sappi.  B  carta  100  n.  I,  e  Sappi.  C  e    247  p.  2«248  p.  • (2)  Luogo  riportato,  in  parte,  a  caria  14  in  nota. (3)  438  e. (4)  166  a-b. (6)  167  c-168  e. —  324  - L qualche  cosa,  come  il  mag^gìore  è  relativo  al  minore,  Il doppio  alla  metà,  il  piti  al  meno,  il  più  grave  al  più leggiero,  ecc.  (proposizione  che  g'k  incontrammo  nel luogo  della  Repubblica)*^  cosi  una  scienza  che  avrebbe se  stessa  per  oggetto  sarebbe  come  un  maggiore  che fosse  maggiore  di  se  stesso,  un  doppio  che  fosse  il  dop- pio di  se  stesso,  un  p'ù  che  fosse  p'ù  che  se  scesso, ecc.,  con  le  cons'^guenze  contraddittorie  implicate  in  cia- scuna di  queste  ipot -si.  Essa  sarebbe  pure,  aggiunge Sccrate,  com*^.  una  vìpta  che  vedrebbe  se  stes^^a  e  come un  udito  che  udrebbe  se  stesso,  ciò  che  supporrebbe  che la  vista  avrebbe  colore  e  l'udito  avrebbe  voce  (confuta- zione che  converrebbe  perfettamente  alla  dottrina  deiri- dentità  della  conoscenza  e  dell'oggetto  conosciuto,  per- chè secondo  questa  la  conoscenza  racchiuderebbe  in  se stessa  il  suo  oggetto,  come,  nelle  comparazioni  di  Platone, Tudiro  la  voce  e  la  vista  il  colore). 'Si  dirà  che  il  Car- mide  non  ha  uno  scopo  dogmatico,  ma  è  un  semplice esercizio  dialetii.'o;  ma  Platone  non  dinbbe,  anche  in un  esercizio  dialettico,  delle  preposizioni  in  contraddizione con  le  proprie  dottrina.  Nel  Sofista  248  lo  straniero  e leate  (che  in  questo  dialogo  rappresenta  le  dottrine  dol- Tautore)  stabilisce,  contro  gli  amici  delle  Specie^  che  il conoscere  è  un'azione,  e  Pesser conosciuto  una  passione, e  per  conseguenza  un  movimento  (questo  conosciuto  che, come  tale,  subisce  uaa  passione  e  un  movimenta,  è  la essenza^  cioè  le  Idee)  :  ciò  importa,  primo,  la  distinzione fra  i  due  termini  antitetici,  l'ageote,  cioè  lo  spirito  che conosce,  e  il  paziente,  cioè  le  Idee  che  sono  conosciute; e  secondo,  che  la  conoscenza  dellcs  I  lee  è  uà  cangia- e  ha  luogo  quindi  nel  t^mpo,   mentre    essa,    se- condo la  dottrina  che  si  vorrebbe  attribuire  a  Platone, essendo  identica  al  suo  oggetto,  dovrebbe  essere  etrrna (cioè  fuori  del  tempo)  come  quest'  oggetto  sfesso.  Nel Tteteto  09lc-196b)  i  pensieri  sono  rappresentati  come delle  effigie  degli  oggetti  su  tavolette  di  cera  esistenti nelle  anime,  e  fra  queste  effigie  vi  sono  quelle  del  cin- que HiessOy  del  sette  stesso,  del  dodici  stesso,  e  in  gene- rale dei  numeri  astratti  (che,  secondo  i  principii  di  Pla- tone, non  possono  essere  che  delle  Idee,  o  almeno  delle entità  matematiche— queste,  nel  periodo  pitagoreggìante, si  distinguono  dalle  Idee,  ma  non  sono  in  sostanza  che Idee  come  le  altre,  e  non  differiscono  dalle  altre  che perchè  non  se  ne  fanno  dei  numeri  ideali).  Questa  rap- presentazione implica  evidentemente  il  concetto  che  il pensiero,  anche  quando  ha  per  oggetto  le  Idee,  lungi d'identificarsi  con  la  cona  pensata,  ne  è  una  semplice immagine.  L'esteriorità  delle  Idee  al  nostro  pensiero  è provata  pure  dalle  espressioni,  cosi  fiequenti  sovratutto nel  VII  della  Repubblica^  che  nel  senso  proprio  deno- tano la  percezione  visuale,  ma  che  Platone  impiega  per designare  la  conoscenza  delle  Idee;  p.  e.  vedere  il  bello in  se  steFSo  {Rep,  476b),  rivolgere  V  ott'mo  nell'  anima allo  spettacolo  dell'ottimo  negli  esseri  (cioè  dell'Idea  del bene— lò.  532c),  dirigrrein  su  l'occhio  dell'anima  e  guar- dare ciò  che  dà  la  luce  a  tutte  le  cose  (cioè  ancora  l'I- dea del  bene— 16.  540a),  ecc.  (1).    Quand'  anche    queste (1)  V.  Rep,  476b,  d,  4796,  486a,  610e,  511c,  517o,   d,    e,    518   o-d, 6J9b,  d,  620c,  524c,  525a,  526e,  529a-b,  533a,  e,  d,    540a,    596b,    Conr. 210e,211b,  d,  e,  2J2a,  Fedo.  82c,  Sof,  247d,  Meno,  72o,  Crai,  389b,  d, FiU  16d,  Tim,  39e,  eco. —  325  — espressioni  volessero  inteadersi  come  indicanti  la  prsenza immediata  delle  Idee  al  pensiero  (come,  secondo la  credenza  naturale,  l'oggetto  percepito  è  presente  im- mediatamrnte  a'ia  percezione  sensibile) —dottrina  che non  possiamo  attribuire  a  Platone  che  quando  si  tratta della  conoscenza  primitiva  delle  Idee  in  una  vita  an- teriore—, resterebbe  sempre  la  distinzione  tra  lo  spirito conoscente  e  le  Idee  conosciute,  perchè  la  p'»rcezione sensibile,  sia  secondo  il  concetto  del  volgare  sia  secondo quello  del  filosofo,  implica  la  dualità  di  soggetto  ed  og- getto come  due  termini  opposti  e  al  di  fuori  Tuno  del- l'altro. Un'altra  prova  della  distinzione  fra  il  pensiero e  la  conoscenza  dell'Idea  e  l'Idea  stessi  sono  gli  argo- menti p<»r  dimostrare  l'esistenza  delle  Idee,  tirati  dalla scienza  e  dal  concetto  (I).  Questi  a'-gomenti  suppongono che  l'Idea  è  l'oggetto  a  cui  si  riferisce  la  conoscenza scientifica  e  il  concetto,  comi  le  cose  particolari  sono l'oggetto  a  cui  si  riferiscono  le  coio^cenz^  e  i  pensieri particolari  (2)  :  da  ciò  che  il  concetto  e  la  conoscenza scientifica  si  riferiscono  a  qualche  cosa  di  astratto  e  ge-nerale, se  ne  conclude  che  vi  hanno  delle  entità  astratte e  generali.  Se  Platone  ammettesse  che  il  nostro  pensiero s'identifica  con  le  Idee,  la  sua  argomentazione,  eviden- temente, dovrebbe  essere  condotta  altrimenti  :  egli  do- vrebbe sovratutto  fermare,  come  base   della   sua   argo- (1)  V.  Sappi.  B,  n.  Ili,  carte  18-19. (2)  Aristotil3  obbietta  ad  uqo  di  qaesti  argomenti   (sembra,    il secondo  riportato  a  carta  18j  ch3  sesoado  esi^oyi  dovrebbero  essere Idee  anche  delle  co^e  paribili  (cioè  digl'ialivldai),  perchò  di  qae  * ste  esiste  ancora  un  /*a>i(asma  (cioè  un'immagine  nella  nostra  mente) dopo  che  Q^iò  sono  parile,  V.  Mit,  l.  I.  IX.    2. mentazìone,  il  principio  che  il  pensiero  è  identico  air  es- sere; stabilito  questo  principio,  dall'esistenza  di  pensieri astratti  e  generali— che  è  stata  sempre  considerata  come un  fatto  di  coscienza— ne  seguirebbe  naturalmente  quella di  esseri  astratti  e  generali.  E  noi  vediamo  infatti  in Hegel  che  la  dottrina  che  è  messa  in  rilievo  non  è  che l'identità  dell'essere  e  del  pensiero  :  la  realtà  degli  uni- versali (quantunque  non  abbia  per  lui  meno  importan- za) non  è  stabilita  espressamente,  ma  data  implicitamente in  questa  dottrina;  e  a  molti  parrà  forse  un  paradosso che  Hegel  sia  un  realista.  Aggiungiamo  infine  che  l'i- dentità del  nostro  pensiero  con  le  Idee  sarebbe  incom- patibile con  certe  proposizioni  di  Platone,  quantunque non  implichino,  come  le  precedenti,  la  distinzione  tra  il pensiero  e  il  suo  oggetto.  Tali  sono:  La  composizione dell'anima  dai  due  elementi  nel  Timeo  (1)— essa  ha  per iscopo  di  spiegare  la  possibilità  della,  conoscenza  (cioè in  sostanza  la  coincidenza  tra  il  pensiero  e  la  realtà),  e sarebbe  quindi  un'ipotesi  completamente  inutile  data  l'i- dentità del  pensiero  col  suo  oggetto—.  Il  principio  am- messo nel  Fedone  che  l'anima,  come  ogni  altra  cosa,  non può  accogliere  in  sé  le  Idee  opposte  (2) -mentre,  nella dottrina  dell'identità  dell'essere  e  del  pensiero,  essa  com- prenderebbe necessariamente  tutti  i  contrari— .La  dottrina del  Timeo  e  delle  Leggi  che  il  pensiero  é  un  n-ovi- mento  (3)  (e  si  tratta  il  più  spesso  del  nous,  il  cui  og- getto sono  le  Idee)  (4)— essa  implica  che  il  pensiero,  a- (1)  V.  Tim.  35a-b  e  37a-c,  e  cfr.  Sappi.  C,  IV,  carte  239-242. (2;  Fedo.  103d-106.  V.  Sappi.  lì,  carte  45-47. (8)  V.  questo  Sappi.,  I,     e.  276., (4;  V.  Leggi  897c,  898a,  Tim.  37a-c,  4Òb,  42c,  43d-44b,  47b-c,  85a*b, 89a,  90d,  91e.  Cfr.  Arist.  De  an.   l.  I.  III.  12-17. —  326  — vente  per  oggetto  le  Idee,  è  un  semplice  fenomeno,  che si  svolge  nel  tempo;  mentre,  neiripotesi  delPidentitàdel pensiero  con  l'essere,  il  pensiero  (il  vero  pensiero,  cioè quello  che  ha  per  oggetto  le  Idee)  è  un'Idea  che  com- prende ia  se  tutte  le  altre,  e,  per  conseguenza,  eterna come  le  altre—.  R  cordiamo  pure  la  proposizione  del Teeteto  (i)  che  il  pensiero  è  un  discorso  dell'anima  con se  stessa—essa  è  incompatibile  con  l'identità  dell'essere e  dtl  pensiero  per  la  stessa  ragione  che  la  dottrina  pre- cedente—. Tra  le  prove  contro  l'identità  deir  essese  e del  pensiero  (cioè  del  nostro  pensiero)  non  contiamo  l'in- tuizione delle  Idee  in  una  vita  anteriore  e  la  reminiscenza, perchè  il  seguace  dell'interpretazione  hegeliana  direbbe che  sono  dei  semplici  7niti\  che  noi  prendiamo  a  torto per  dottrine  reali. Ora,  che  cosa  può  opporre  quest'interprete  alle  prove precedenti  ?  Nessuna  afiTermazione  esplicita  di  Platone, ma  solo  delle  proposizioni  che,  interpretate  più  o  meno forzatamente,  possono  riguardarsi  come  delle  allusioni alla  dottrina  ch'egli  pretende  attribuirgli.  Cosi  il  luogo del  X  della  Repubblica^  in  cui  si  dice  che  per  conoscere la  vera  natura  dell'anima  bisogna  guardare  alla  suayf- Zoso/?a,  significherà,  secondo  lui,  che  «se  si  vuol  ricono- scere rfssenza  dell'anima  e  sollevarsi  dalla  sua  tempo- ranea e  mortale  manifestazione,  si  deve  filosofare,  poi- ché la  filosofia  sola  ha  per  oggetto  1'  eterno,  il  mondo ideale,  che  è  identico  alla   natura   dell'  anima  »    (2).   Il }ur>go  del  Timeo  (90),  che  ci  esorta  a  rendere  simile  Tin- telligenza  air  intelligibile,  per  conseguire  il  fine  della vita  più  perfetta  propostaci  dagli  dei,  vorià  dire  che  il fine  ultimo  dello  sviluppo  dello  spirito  e   di  tutto    V  es (1)  189e-190a. (2)  TeiohmiiUer  Quistione  platonica^  pag.  20— Ma   Platone   non dice  che  l'essenza  dell'anima  consiste  nella  filosofia,  ma  sempUce- mente  che  qaesta  ci  dà  un  indizio  di  ciò  che  l'auiina   è  nella  sua vera  natura,    cioè  nella    sua    parte    eterna   (il  XoYlOTlVwóVi    sciolta dall'unione  con  con  le  due  parti  inferiori  e  ritornata  all'eccellenza del  suo  stato  originario  (quando  contemplavate  Idee  in  compagnia degli  dei).  Ecco  il  luogo  in  quistione:  "  Né  crederemo  che  tale  sia l'anima  nella  sua  verissima  natura  da  aver  molta  varietà   e  disso- miglianza  e  differenza  con  se  stessa    (cioè  che  sia   un  comporto  di parti  eterogenee  e  non  qualche  cosa  di    semplice).     Non   è   faci  e che  sia  eterno  il  composto  di  molti  né  formato  della  più  bella  com- posizione, come  ora  ci  apparve  l'  anima   (che  ha  mostrato  compo- sta di  tre  parti,  che  hanno  fra  di  loro  tendenze  contrarie).  La  detta ragione  (la  prova  precedente  dell'immortalità)    e  le    altre  provano che  l'anima  è  immortale.  Ma  per  conoscere  quale   essa    sia   nella verità,  non  si  deve  guardarla  deformata  dalla  comunione  ol  cirpo e  con  gli  altri  mah,  quale  ora  la  vediamo;  ma  quale   è,    divenata pura    (cioè     liberata  dal  corpo  e  dalle  due  parti  inferiori,   e  dagli altri  mali  che  derivano  dalla  comunione  con    essi),     tale    bisogn.i guardarla  diligentemente  con  la  ragione;  e  allora  si  troverà  molto più  bella,  e  si  conoscerà  più  chiaramente  la  giustizia  e  tutte  le  altre cose  di  cui  abbiamo  parlato.  Ora  abbiamo  detto  la  verità    intorno ad  essa,  ma  quale  appare  nel  presente.  Come  quelli  che  vedessero il  marino  Glauco  difficilmente  potrebbero  riconoscere  la    sua   an- tica natura,  perchè  le  antiche  parti  del   suo    corpo    sono   state    le une  spezzate,  le  altre  corrose  e  totalmente  sfigurate  dalle  onde,  e ne  sono  formate  delle  nuove  di  conchiglie,  d'alghe   e   di   sassi, sicché  più  somiglia  a  una  fiera  anziché  parer   tale   quale   era   per natura;  cosi  noi  vediamo  l'anima  sfigurata  da  mali  innumerevoli. Ma  ciò  a  cui  bisogna  guardare,  o  Glaucone,  è  la  saa  filosofia  (cioè il  suo  amore  del  sapere);    bisogna    considerare  ^uali  cose   e-jsa  at- tinge, di  quali  cose  ricerca  il  commercio,  come  qnella  che  è  affine al  divino,  immortale  e  sempre  essente   (cioè  alle  Idee— questa   af- finità dell'anima,  cioè  della  parte  razionale  che  è  la  sua  vera  na- —  327  — VI sere  sta  oeiridentifìcazione  del  soggetto  e  dell'  oggetto, che  ha  luogo  nella  conoscenza  filosofica  (1).  Nella  morte filosofica  del  Fedone,  per  cui  V  anima    si   distacca,  per tura,  con  le  Idee,  proverebbe,  come  nel  Fedone^  la  saa  semplicità), e  quale  diverrebbe  datasi  tutta  a  perseguire  un  tale  oggetto (tutta,  perchè  si  è  separata  dalle  due  parti  inferiori),  ed  elevata per  questo  slancio  dal  pelago  in  cui  ora  è  immersa,  e  scossi  i  ciot- toli e  le  conchiglie,  ohe  ora  ha  d'attorno  molte  e  rudi  e  piene  di terra  e  di  sassi,  come  quella  che  si  pasce  di  terra  nei  conviti  chia- mati felici  (la  filosofia  ci  fa  presentire  quale  diverrebbe  1'  anima, ridotta  alla  sola  parte  razionale— che  è  la  vera  essenzza  dell'anima, che  degli  accidenti  transitori—e  datasi  tutta  quanta  alla  contem- plazione delle  Idee,  come  nella  sua  a*t^tica  natura^  cioè  nello  stato originarlo  da  cni  è  decaduta).  E  allora  potrebbe  vedersi  la  vera  na- tura di  essa,  e  se  sia  multiforme  (cioè  composta)  o  uniforme  (sem. plice)  ed  in  qual  guisa  essa  stia  e  come  „  Rep,  6]lb-613a. (1)  V.  Chiappelli  U interpretazione  panteistica  di  P/afonc^,  pagina 90  nota  ]~Platone  dice  :  «  Bisogna  correggere  lo    rivoluzioni   ohe si  operano  nella  nostra  testa  (quelle  del  XoYtOTtxóv)  turbate  sin dalla  nostra  nascita,  studiando  le  armonie  e  i  movimenti  dell'  u- niverso,  e  rendere  simile  (égo|iotd)oat)  ciò  che  pensa  a  ciò  che  è pensato,  secondo  l'antica  natura,  e  resolo  simile,  conseguire  il  fine della  vita  ottima  proposta  agli  uomini  dagli  dei  e  per  il  presente  e per  l'avvenire,  „  Rendere  simile  è  ben  altro  che  rendere  identico; ed  è  inoltre  completamente  arbitrario  di  dare  al  fine  di  cui  parla Platone  il  significato  hegeliano  di  momento  ultimo  del  processo eterno  dell'anima  e  dell'universo.  Prima  Timeo  ha  detto,  è  vero, ohe  chi  si  abbandona  alle  passioni  sensuali  non  può  avere  che delle  opinioni  mortali,  e  diviene  perciò  egli  stesso,  pi^  che  è  pos- sibile,  mortale,  ma  chi  è  dedito  alla  scienza,  se  consegue  la verità,  è  necessario  che  abbia  pen<jieri  divini  e  immortali,  e  per  - che  non  perda  nessuna  parte  dell'  immortalità,  per  quanto è  possibile  alla  natura  umana  di  parteciparne.  È  forse  ciò  che può  trovarsi  in  tutti  gli  scritti  di  Platone  di  più  favorevole all'  interpretazione   dell'  immortalità  che  vede  in  essa  1'  eternarsi quanto  è  possibile,  dal  coi  pò,  e  pensa  essa  stessa per  se  stessa  gli  esseri  stessi  per  se  stessi,  si  vedrà  il vero  significato  dell'immortalità  platonica,  cioè  il  rien- trare dell'anima  nella  sua  essenza  intima,  il  suo  ritorno all'unità  primitiva  del  soggetto  e  dell'oggetto  (1).  Ai  luoghi del  Convito,  in  cui  è  quistione  dell'immortalità  confe- guita  per  la  generazione  e  per  la  contemplazione  del- l' Idea    del    bel'o,    si  darà  il  senso  che  non  vi   ha   per del  pensiero  per  la  sua  identificazione  col  mondo  ideale.  Ma questa  immortalità  metaforica,  che  consiste  nell'avere  pensieri immortali,  non  può  essere  per  Platone,  per  dir  cosi,  che  una giunta  alla  vera  immortalità,  e  non  può  escludere  questa,  in- segnata in  tutto  il  dialogo  e  in  questo  lufgo  stesso,  comesi  vede dalle  ultime  parole  per  il  presente  e  per  V avvenire, (1)  Il  Teichmiiller  capovolge  il  vero  rapporto  tra  la  morte  filosofica e  la  dottrina  dell'immortalità.  Egli  vede  nella  seconda  un'  imma- gine della  prima  (interpretata  come  un  eternarsi  del  pensiero  e  nna identificazione  di  esso  col  suo  oggetto),  mentre  per  Platone  è  la prima  che  è  un'  immagine  della  seconda.  La  filosofia,  dice  Pla- tone, ò  un  esercitarsi  a  morire  o  a  vivere  come  se  si  fosse  morto. Che  cosa  è,  infatti,  la  morte  ?  È  il  distacco  dell'anima  dal  corpo, in  modo  che  l'anima  esista  essa  stessa  per  se  stessa  separatamente dal  corpo,  e  il  corpo  esso  stesso  per  se  stesso  separatamente  dalla anima.  Ora  il  filosofo  distacca,  quanto  più  è  possibile,  l'anima  dal  cor- po, e  aspira  a  vivere  con  l'anima  sola  :  infatti  egli  disdegna  i  piaceri del  corpo,  e  non  prende  cura  di  esso  che  per  quanto  vi  è  costretto dalla  necessità;  di  più  egli  non  fa  gran  caso  della  conoscenza  delle  cose per  gli  organi  dei  sensi,  ma  cerca  di  cono^;cerle  per  la  sola  ragione,  con- templando con  l'anima  stessa  per  se  stessa  le  cose  stesse  per  se  stesse, cioè  le  Idee)  L'espres-jione  V anima  stessa  per  se  stessa  —  aOiY)  xaO'aO- TT^V  —  e  le  altre  simili  che  s'incontrano  ad  ogni  tratto  dov'è  quistione della  morte  fil  )sofica,  siccome  aOxò^  xaO'aOxóv  nel  linguaggio  pla- tonico significa  le  Idee,  farebbero  pensare  al  concetto  del  seguace dell'interpretazione  hegeliana,  che  la  morte  filosofica  è  una    sop- —  328  -. ranima  altra  immortalità  che  la  dialettica,  e  quella  che le  è  comune  eoa  tutte  le  altre  cose,  cioè  la  permanenza dell'Idea  nel  nascere  e  il  perire  degrind'vidui  (1).  Senaa pressione  dell'individualità  e  un  rientrare  ell'anima  nella  sua  es- senza intima,  cioè  nella  sua  Idea;  l'anima  stessa  per  se  stessa  ohe pensa  gli  esseri  stessi  per  se  stessi  vorrebbe  dire,  secondo  questo concetto,  che  la  conoscenza  del  mondo  ideale  non  compete  all'a- nima come  esistenza  individuale»  ma  come  Idea.  Mao  evidente  che queste  espressioni  nel  nostro  caso  non  significano  che  il  dualismo di  Platone,  cioè  la  sua  dottrina  animista  :  l'  anima  stessa  per  se stessa  vuol  dire  l'anima  sola,  distaccata  dal  corpo,  come  il  corpo stesso  per  se  stesso  vuol  dire  il  corpo  solo,  separato  dall'anima.  V. 64  c).  La  morte  filosofica"  non  è  solo  un'immagine  dell'immortalità, cioè  della  vita  avvenire,  ma  è  ancho  una  preparazione  a  questa  : essa  è  intatti  una  purificazione  (xaOapot^),  e  solo  le  anime  che  si sono  purificate,  cioè  quelle  dei  filosofi,  saranno  ricevute,  dopo  la  loro uscita  dal  corpo,nel  soggiorno  degli  dei,  dove  conseguiranno  infine  ciò che  hanno  tanto  amato  quaggiù,  vale  a  dire  la  sapienza,  che  non è  possibile,  per  l'ostacolo  del  corpo,  di  conseguire  in  questa  vita. Perciò,  parlando  della  morte  o  catarsi  filosofica,  Socrate  fa  l'apo- logia di  se  stesso,  che  non  è  dolente  di  morire,  ma  intraprende  con buona  speranza  il  viaggio  che  gli  è  imposto,  come  quegli  che  ha l'anima  preparata,  perchè  purificata  dalla  filosofia.  V.  Fedone  64  a- 69  e  e  cfr.  80  e-84  b. (ì)  V.  a  nvito  208C-212  b.  Dopo  aver  detto  che  il  mortale  non ottiene  l'immortalità  che  per  la  generazione  (per  cui  la  specie  si perpetua),  Socrate  aggiunge  che  l'individuo  stesso  non  si  conserva che  per  un  processo  simile  a  quello  per  cui  si  conserva  la  specie. Infatti,  p3r  tutto  il  tempo  della  sua  vita,  ciascun  animale  non  è  * mai  lo  stesso,  ma  diviene  sempre  nuovo  e  sempre  perisce  e  nei  peli dubbio,  oltre  che  dei  luoghi  isolati,  il  seguace  dell'  in- teipretazione  hegeliana  potrà  anche  invocare  in  suo  ap- e  nelle  carni  e  nelle  ossa  e  nel  sangue  e  in  una  parola  in  tutto  il corpo.  Qualche  cosa  di  simile  avviene  anche  nell'anima  :  le  abitu- dini, i  costumi,  le  opinioni,  gli  appetiti,  i  piaceri,  i  dolori,  i  ti- mori, le  conoscenze  medesime  non  persistono  mai  gli  stessi,  ma nascono  e  periscono;  solamente  ciò  che  nasce  è  simile  a  ciò  che è  perito,  sicché  sembra  lo  stesso.  Cosi  si  conserva  il  mortale,  non perchè  sia  sempre  assolutamente  lo  stesso,  come  il  divino,  ma  perchè il  simile  si  sostituisce  sempre  al  simile.  "Per  questo  mezzo  il  mor- tale partecipa  all'immortalità,  e  il  corpo  e  tulle  le  altre  cose;  l'im» mortale  altrimenti  „  —Secondo  il  seguace  dell'interpretazione  hege- liana fra  queste  altre  cose  mortali  come  il  corpo  bisogna  compren- dere anche  l'anima,  perchè  questo  processo  di  sostituzione  del  si- mile al  simile,  per  cui  il  mortale  si  conserva,  è  applicato  da  Pla- tone anche  all'anima.  Ma  Platone,  che  è  un  animista,  cioè  am- mette una  sostanza  anima,  un  suhstrat'umf  distinta  dalle  sue  mo- dificazioni, non  può  ap[)licare  questo  precesso  che  alle  modificazioni dell'anima,  ma  non  al  loro  substratinn  :  egli  non  affermerebbe  evi- dentemente che  questo  si  conserva,  come  il  corpo,  per  un  ricambio di  sostanza,  per  cui  alle  molecole  vecchie  se  ne  sostituiscono  altre simili.  Le  parole  e  lidie  le  altre  cose  alludono  dunque  alle  cono- scenze, le  abitudini,  i  costumi,  ecc.,  di  cui  sopra  ha  parlato,  in  una parola  alle  modificazioni  dell'anima,  ma  non  possono  alludere  all'a- nima stessa.  Ciò  è  confermato  dalle  ultime  parole  V  immortale  al- trimenti, che  devono  intendersi  come  una  riserva  in  favore  dell'a- nima (Invece  di  àGavaTOV  S'àXXyj  -l'immortale  altrimenti-,  il Teichmiiller  legge  àSóvaxov  e' àXXir)- impossibile  altrimenti— ;  ma è  la  prima  lezione  che  si  trova  in  quasi  tutti  i  codici). Poi  Socrate  dice  (parlando  della  contemplazione  dell'  Idea  del bello  come  fine  dell'amore)  che  chi  guarda  il  Bello  con  quell'occhio con  cui  esso  è  visibile,  diviene  «  anch'egli,  se  altro  uomo  mai,  im- mortate  „  (212a).  Ciò  significherà,  pel  seguace  dell'interpretazione hegeliana,  che  l'immortalità  platonica  consiste   nella   contempla- \ —  329  - poggio  certe  proposizioni  costanti  di  Platone,  quali  Taf- zione  del  mondo  ideale,  cioè  nella  identificazione  dello  spirilo  con esso;  e  per  confermare  questo  significato,  egli  potrà  anche  t'ondarsi sulla  proposizione  precedente  di  Socrate  che  l'amore  è  il  desiderio dell'immortalità  (207a),  concludendone  che,  poiché  Platone  assegna come  fine  all'amore  ora  l'immortalità  e  ora  la  contemplazione  del- l'Idea,  queste   due    cose    per   lui  devono  essere    identiche.    Ma   il desiderio  dell'immortalità  in  cui  Platone  fa  consistere  l'amore,  viene appagato  per  lui,  non  con  la  contemplazione   dell'  Idea  del  belio» ma,  per  quelli    che    sono    fecondi   nel   corpo,  con  la    generazione (v,  207d,208b,  208e),  e  per  quelli  che  sono  fecondi  nello  spirito,  con la  perpetuazione  del  pensiero  mediante  la  tradizione  e  l' insegna- mento (209),  Del  resto,  dicendo  che  chi  comtempla  l'Idea  del  bello diviene  immortale,  Socrate  non  afferma  che  l'immortalità  consiste nella    contemplazione  dell'Idea,  ma  che  ne  è  una  conseguenza;  e  la ragione    per     cui    ne    è    una     conseguenza,    basta  a   provare    che l'immortalità  di  cui  si  tratta  non  é  che  quella  insegnata  dalla  re- ligione :  chi  guarda  l'Idea  del  bello,  dice  Socrate,  siccome  si  motte in  rapporto  col  vero  bello,  e  non  con  immagini  del  bello,  partorirà e  alimenterà  la  vera  virtù,  e    non  delle  immagini  della   virtù,    e perciò  diverrà  amico  di  Dio,  e  immortale,  se  altro  uomo  mai,  anche lui  (2J2{i).  È  vero  però  che  l'immortalità  accordata  a  chi  contempla l'Idea  del  bello  non  può  essere  l'immortalità   nel   senso   ordinario, perchè  questa  non  è  un  favore  elio  dio   d  spensa    a   ohi  gli    piace» né  un  premio  concesso  ai  soli  virtuosi,  ma  una  necessità  inerente alla  natura  stessa  dell'anima  (che  deve  essere  senza  cominciamonto e  senza  fine,  perchè  né  potrebbe,  come  ogni  altra    cosa,  crearsi  o annichilarsi,  e  nemmeno  venire  da  qualche  forma  della  materia  o tramutarsi     in  essa,   essendo  radicalmente  distinta  dalla  materia) P«r  quest'immortalità,  che  è  il  privilegio  di  pochi  eletti,  non  possiamo intendere  che  l'esenzione  dalla  metempsicosi  e  la  deificazione,  che il  Fedone  promette  ai  soli  filosofi  (v.  80e-82b  e  lUc),  e    il    Timeo    a tutti  gli  uomini  che  hanno  domato  le  passioni  e  sono  vissuti  nella giustizia    (v.    42b-d).  GÌ'  Indiani    chiamano    anch'  essi   immortalità (amrita)  lo  stato  di  felicità  a  cui   giungono  i  santi   perfetti,  in  cui l'anima  è  liberata  compietamente  dal  male  ed  esente  da  trasmigra- zioni susseguenti  (V.  Colebrooke  iSagyi  sulla  flos.  dcijl'Jnd,  trad.  frane, pag.  2di), finità  deiranima  con  le  Idee  (1)  (ch'egli  interpreterà  per un'identità  di  natura)  (2),  e  Timmortalità  accordata  alla (1)  Fedone  78  b-80  b  e  Rep,  49o  b  e  611  e, (2)  Ma.  per  Platone  essa  non  è  invece  che  una  vaga  analogia.  Nel Fedone  (1.  e)  i  punti  di  somiglianza  dell'anima  con  le  Idee  che  provano quest'affinità  sono:  1®  L'anima  è  invisibile  come  le  Idee,  mentre  il  corpo  é visibile.  2*  Quando  l'anima  considera  le  cose  col  corpo,  cioè  per  mezzo dei  sensi,  il  corpo  la  costringe  a  prendere  per  oggetto  le  cose  che  non sono  mai  le  stesse  :  allora  «  vaga  essa  stessa,  si  conturba  e  barcolla  come ubbriaca  »,  perchè  tali  sono  le  cose  con  cui  é  in  rapporto.  Quando  invece considera  le  cose  per  se    stessa  (aOxYj  xaO'aOxT^v),   prende  per   oggetto ciò  che  è  sempre  allo  stesso  modo  (a)oaùxo)g  ^X®^)?  ^  allora  cessa  dal vagare,  ed  è  relativamente  a  quest'oggetto  (cioè  alle  Idee)  sempre  la stessa  e  allo  stesso  modo  (dei  xaxà  xaùxà  xal  (boaùxco^),  perchè  tali sono  le  cose  con  cui  è  in  rapporto;  e  questo  stato  dell'anima  si  chiama intelligenza.  Dunque  Ta^iima  somiglia  più  a  ciò  che  è  sempre  allo  stesso modo  (cbaa'Jxw^ — cioè  alle  Idee),  e  il  corpo  a  ciò  che  cangia  sempre, (Siccome  in  questo  luogo  vengono  applicate  all'anima  delle  espressioni  che per  il  solito  si  applicano  alle  Idee,  aOxYi  xaG'aOxr^v,  xaxà  xaòxot,  <b- oaÓXWg,  il  seguace  dell'interpretazione  hegeliana  potrà  dire  che  qui  l'ani- ma è  identificata  alle  Idee,  perchè,  nella  conoscenza  filosofica,  il  soggetto conoscente  s'identifica,  per  Platone,  con  l'oggetto  conosciuto.  Ma  è  evidente che  non  si  tratta  d'altro  che  dell'opposizione,  abituale  a  Platone  —  v,  c^ VII.  p.  15o-tra  la  rnutahilità  dell'ophiione— che  ha  per  oggetto  le  cose sensibili,  quelle  che  l'anima  considera  col  corpo— e  l*  immutabilità  della scienza— che  ha  per  Ofigetto  le  Idee,  le  cose  che  l'anima  considera  per  se stessa—:  l'espressione  àsì  xaxà  xaOxà  xal  waaÙXWg  applicata  all'ani- ma significa  questa  specie  d'immutabilità,  che  ha,  secondo  Platone,  dell'af- finità con  l'immutabilità  assoluta  che  è  propria  delle  Idee— iu  quanto  ad aÙXY]  xaO'aOxr^v,  ne  abbiamo  già  parlato  in  una  nota  precedente  — ). 30  Nell'associazione  deHaninia  col  corpo,  quella  comanda  e  questo  ubbidisce, Ma  é  proprio  del  divuto  (in  cui  Platone  comprende,  come  sappiamo,  le Idee)  di  dominare,  e  del  mortale  di  essere  dominato.  Dunque  l'animasomi- gb  a  pia  al  divino,  e  il  corpo  al  mortale— Oltre  a  questi  tre  punti  di  somi- glianza tra  l'anima  e  le  Idee,  Platone  accenna  anche  a  un  altro  indizio  della —  330  — sola  paite  razionale  (1),  (doode  coccludrrà  che,    poiché la  ragione  è  universale  o  impersonale  (2),  l'immortalità appartiene,  non  airanima  individuale,   ma   all'essenza comune  deiranima),  e  eovratutto  cei  te  dottrine  erronea- mente attribuitegli,  quali  l'identità  di  Dio  o  della  Ragione con  le  Idee  (per  dimostrare  la  quale  si  servirà  natural- mente degli  stessi  argomenti  dell'interprete  teistico,  per quanto  non  sono  incompatibili  con    1'  immanenza    dello Idee)  (3),  la  composizione   dell'  anima   da  tutte   le  Id»  e (nel   Tìiwifo—intendendo  per  Visnenza  indivisibile   e   per lo  sfesso  le  Idee  nella  loro  totalità)  (4),  eia  proposizione che  l'anima  è  il  luogo  delle  specie,  riferitaci  da  Aristo- tile,   e    attribuita,    anche    da   qualche   suo    commenta- tore (5),  ai  flaton'ci  (6).  Infine,  egli  potrà   avvalersi  di certe  espressioni  del  nostro  filosofo,   che,    prese   per  se sole  e  interpretate  d'una  maniera  rigidamente  letterale, sembrerebbero  supporre  la  dottrina  eh'  egli  pretende  at- loro  affinità  :  è  la  tendenza. innata  dell'anima  alla  conoscenza  dell'universale, cioè  delle  Idee  (v.  Fedo.  79  d  e  I^ep,  19o  b  e  C13  e).  Questa  indica  che  è alfine  con  esse,  secondo  il  principio  che  il  simile  si  conosce  dal  simile (V.  Suppl.  C,  IV,  e.  240  pag.  !•). (1)  V.  n.  I,  o,  278  p.  2'-279  p.  1-. (2)  Perchè  il  seguace  dell'interpretazione  hegeliana  trova  rosi  semplice che,  tra  le  facoltà  dell'anima,  Ja  sola  ragione  sia  universale  ?  Unicamente perchè  é  la  dottrina  di  Hegel  e  di  alcuni  altri  metafisici.  È  evidente  che una  ragione  universale  (cioè  una  e  la  stessa  in  tutti  gli  uomini)  è  un non  senso  cosi  perfetto  che  un'immaginazione  o  una  sensibilità  o  un'emozio- nalità, ecc.  universali.  Semplicemente,  alcun  metafisico  non  ha  mai  parlato di  queste. (3)  Cfr.  il  n.  II. (4)  Cfr.  Suppl.  G,  IV,  e.  239-242. (5)  V.  Filopono  ad  Arisi,  De  Atì.  lib,  I  fol.  K,  M, (6)  Cfr.  il  n.  II,  e,  3oO trlbuirgli,  quali  il  termine  Xó^ot  (concetti)  applicato  alle Idee  nel  Fedone  99d-100a  (1),  la  frase  dello  atesso  dia- locro  76e,  in  cui  sì  dice  che  noi  troviamo  l'esssenza  (cioè acquistiamo  la  conoscenza  delle  Idee)  perché  è  no- stra (2),  e  i  tsrmini  che  in  senso  tecnico  indicano  la partecipazione  degli  oggetti  individuali  alle  Idee,  impie- gati qualche  volta  per  denotare  il  rapporto  che  ha  con esse  il  soggetto  coaoscente  (3).  Ma  è  evidente  che  non sono  queste  le  vere  ragioni  su  cui  si  fonda  la  sua  in- terpretazione. La  vera  ragione  è  che  egli  ritiene  che  un sistema  come  quello  di  Platone  non    si   comprende    che (1)  V.  cap.  VII  pag.  J72  nota  1,  in  cui  questo  luogo  è  riportato  per intero. (2)  «Se  esistono  il  Hello,  il  Buono  e  ogni  essenza  tale,  e  ad  essa riferiamo  gli  oggetti  percepiti  dai  sensi,  ad  essa  che  prima  ci  era  presente e  che  ritroviamo  essendo  nostra  (OTiap^ODaav  TipÓTSpov  àvsopCoxov- TS^  if]]Ji£X&pav  0^5aav)....Ia  nostra  anima  esisteva  prima  della  nostra  na- scita ».  Naturalmente  la  frase  in  quistione  non  significa  che  la  remini- scenza :  l'essenza  è  detta  nostra^  perchè  prima  ci  era  presente^  perchè l'anima,  nel  suo  stato  originario,  ne  godeva  come  di  cosa  propria,  ne  aveva l'intuito  permanente. (3)  Sof.  248  a:  col  corpo  noi  comunicare  (  xciVCDveiv  )  con  la  ge- nesi, con  l'anima  per  la  ragione  eon  l'essenza  reale.  liep,  485  e  :  l'anima che  deve  partecipare  (jiexaXrjCpsoOai)  sufficientemente  e  perfettamente dell'essere.  Ibi^.  533  :  le  altre  arti  (le  matematiche)  che  abbiamo  detto  parte- ci^me  (è7iiXa|i3dv£39ai)  in  qua'che  modo  all'essere.  Tim,z^h\  il  sole  fu creato  affinchè  gli  animali  a  cui  ciò  convenisse  partecipassero  (liexdoxoO del  numero— Tutto  ciò  che  può  concludersi  da  questi  luoghi  è  che  Platone non  impiega  sempre  i  termini  in  quislione  nel  senso  tecnico.  Quando  dice (nel  Fedro  253  a)  che  ciascuu'anìma  imita  il  carattere  del  dio  di  cui  è stata  al  seguito  «per  quanto  l'uomDpuò  partecipare  (  |ji£xaaX£t'v  )  di dio  »,  possiamo  noi  intendere  :  per  quanto  dio  può  esistere  nell'  uomo come  un  suo  attributo  o  come  un  suo  pensiero  ì —  331  — per  analogia  a  quello  di  Hegel— col  quate  effettivamente ha  una  stretta  affioità—,  e  perciò  crede  necessario  di  pre- stare al  primo  i  concetti  propri  del  secondo.  Ma  dopo ciò  che  abhiamo  detto  nel  capitolo  VII  ci  sarà  f«ci'e  di mostrare  che  il  s'stema  platonico,  non  solo  si  comprende senza  1  concetti  hegelian»,  ma  si  comprende  anche  me- glio, ed  é  con  essi  che  sarebbe  invece  diliicile  a  com- prendere. L'opinione  che  le  Idee  platoniche    sono    pensieri  si deve  certamente,  o'tre  che  alTintiueiiza  dell'  interpreta- zione teistica,  a  un'inferenza  dal  sistema    hegeliano,  in cui  la  realtà  degli    universali    è    presentata   come    una conseguenza  dell'identità  dell'essere  e   del   pensiero   (vi hanno  dei  pensieri  generali,  dunque,  il  pensiero  essendo identico  all'essere,    questi   pensieri   generali    sono   pure degli  esseri  generali).  Da  ciò  si  conclude  che   la   prima delle  due  dottrine  è  logicamente  connessa  con  las(conda, e  che  perciò,  trovandosi  in  Pla'one  l'una,  deve  trovarsi in  lui  anche  l'altra.  Ma  questa   conclusione   è  evidente- mente affrettala.  Noi  abbiamo  visto  nel  capitolo  VII  eh'*, a  lato  dei  siatemi  di  Schelling  e  di  Hegel,  in    cui  gli  a- stratti  sono  riguardati  al  tempo  stesso  come  delle  realtà e  come  dei  pensieri,  vi  hanno  altri  sistemi  realisti,  quali quelli  di  Spinoza  e  di    Taine   (senza   contare    i    realisti scolastici),  in  cui  essi  sono  riguardati  unicamente  come realtà,  cioè  come  entità  puramente  oggettive.  La  storia del  realismo  ci  prova  dunque  che   esso   è   indipendente daUa  dottrina  delPidentità  dell'ersere  e  del  pensiero.  Ciò è  confermato  dall'esame  dei  motivi  di    questa   forma  dì metafìsica.  La  realizzazione   degli    universali,    unita    al metodo  dalettico  (nel  senso  che  noi  diamo  a  questo  ter- mine quando  parliamo    di    realLstao    ilialetiico),    ha   per Iacopo,  come  sappiamo,  di  trasformare  il  rapporto  logico tra  principio  e  conseguenza  nel  rapporto   ontologico  tra causa  ed  effetto,  per  ottenere    una    nuova   applicazione d'-l  concetto  di  causalità  efficiente.    Questo  scopo   esige che  le  astrazioni,  tra  cui  il  metodo  dialettico   introduce il  rapporto  di   principii   e    conseguenze,    si   considerino come  realtà,  ma  non  che  si  considerino  al  tempo  stesso come  pensieri.  A  questa  spiegazione   del   mondo   a   cui mira  il  realismo  dialettico,  nei  sistemi  di  Schelling  e  di Hegel  se  ne  aggiunge  un'altra  indipendente  da  essa,  e che  può  riguardarsi  come  una   varietà    della   metafisica istintiva  del  nostro  spirito  (cioè  quella  che  è  l'applicazione spontanea  e  immediata   del    concetto    di   causalità   effi- ciente) :  è  la  spiegazione  idealista,  cioè  l'attività  imma- nente del  pensiero  elevata  a  tipo   universale    del    modo essenziale  di  produzione   dei    fenomeni.    La    spiegazione idealista  suppone  che  le  cose  siano  riguardate  come  rap- presentazioni; e,  perchè  questa  spiegazione  sia  compati- bile col  realismo,  bisogna  che  si  vedano  nelle  cose  delle rappresentazioni  permanenti   di  uno  spirito  eterno  ed  uni- versale, in  modo  che  la  loro  qualità  di  rappresentazioni si  concilii  in  qualche  modo  con   la  loro  obbiettività.  Al- lora si  ha  l'idealismo  obbiettivo.  L'idealismo  obbiettivo è  dunque  un'  applicazione,    non    solo    del    concetto    di causalità  efficiente  (in  quanto  eleva  l'attività  del  pensiero a  tipo  universale  di  causazione),  ma  anche  di  quello  di cosa  in  sé  :  il  presupposto  da  cui  esso  parte,  cioè  che  le C0S3  soao  delle  rappresentazioni  permanenti  di  uno  spi- rito eterno  ed  universale,  ha  infatti  per  oggetto  di  con- ciliare il  risultato  della  riflessione  filosofica  che  le  cose sono  rappresentazioni  (nel  senso  lato  di    questa    parola che  comprende  anche  la  p3rcezio  ne),    con    la    credenza naturale  del  genere  umano  ch3  esse   soio  degli  oggetti perma lenti  e  di  una  realtà  a:JS)luta,    cioè    indipendente —  332  — dal  sogrgetto  percepente.  Quando  il   seguace   delP  intee- pretazione  hegeliana  attribuisce  a   Platone    la   dottrina che  le  Idee  sono  pensieri,  gli  attribuisce  anche  implici- tamente questa  dottrina  sulla  cosa  in  sé  che  è  il  presup- posto della  spiegazione  idealista  (nel  senso  proprio  della parola  idealismo,  m  cui  noi  naturalmente  non  Tappliche- remmo  al  sistema  platonico  delle  Idee).  Ma,  mentre  nella filosofia  ant'ca  vediamo  rappresentati  tutti  i  tipi  di  me- tafisica relativi  al  semplice  concetto   di    causa  efficiente (le  tre  prime  forme  dell'antropomorfismo  di  cui  abbiamo parlato  nel  cap.  2^  l'apriorismo,  il  realismo  dialettico), noi  non  vi  troviamo  invece  nò  questa    né    alcuna   delle altre  dottrine  relative  a  quello  di  cosa  in  sé.  È  cosi  vano di  cercare  nella  filosofia  greca  V  idealismo  obbiettivo  (o la  dottrina  che  abbiamo   detto    esserne    il    presupposto) come  lo  sarebbe  di  cercarvi  il   panpsichismo   o   la   dot- trina delle  monadi  (nel  senso  non   leibnizinno,    cioè   di sostanze  o  forze  semplici  e  inestese,  ma  ditter^nti    dallo spirito).  Ciò  è  perchè  la    riflessione   scientifica    non    ha distrutto  ancora,  nel  mondo  antico,  il  concetto    sponta neo  della  cosa,  che  non  è  che  Tobbiettivazione  delle  no- stre sensazoni.  In  tutti  i  filosofi  antichi,  in  generale,  e penz'alcuna  eccezione,  noi  non  troviamo  che  il  realismo vafura/e,  e  non  mai  ii  realismo  trasformato  :  nella  sop- pressione d'Ile  qualità  sensibili  nessuno  è  andato  mai  al di  là  degli  fi  tomisti,    e    la    più   parte    non    giungevano nemmeno  sia  là.  L'idealismo  obbiettivo,    come   tutte   le altie  dottrine  metafisiche  relative  alla  cosa  in  sé,  non  si concepisce  che  nella  filosofia  moderna,  perchè    suppone questo  punto  di  vista  che  si  è  imposto    mano    mano   al pensiero  mo'^erno,  sino  a  diventare  un    luogo    comune, che  le  cose,  quali  noi  le  percepiamo,  non    esistono    che' per  la  percezione  e    nella    percezione.    Uno   dei   fonda- menti dello  scetticismo^  antico  è,  è  vero,  il  dubbio  sulla realtà  obbiettiva  :  ma  per  cercare  di  conciliare  la  rela- tività del  mondo  esteriore  al  soggetto  conoscente  con  la sua  obbiettività,  come  fa  l'idealismo  obbiettivo,  o  sosti- tuire, come  fa  il  r«*alis  no  trasformato,  alla  realtà  sen- sibile un'altra  realtà  superiore  ai  sensi,  conoscibile o  inconoscibile,  non  basta  il  semplice  dubbio  sulla realtà  assoluta  degli  oggetti  quali  noi  li  percepiamo, ma  è  necepsario  che  si  ammetta  già,  come  una  ve- rità incontestabile,  che  essi,  come  tali,  non  esistono che  per  la  percezione,  e  non  sono  che  relativi  al soggetto  conoscente.  Certamente  la  relatività  dell'oggetto al  soggetto  percepente,  come  proposizione  dogmatica, non  è  completamente  straniera  alla  filosofia  greca  :  noi la  troviamo,  prima  dello  stesso  Platone,  nella  tesi  di Protagora,  di  cui  è  evidentemente  la  base,  che  l'uomo  è la  mibura  di  tutte  le  cose,  e  che  la  verità  è  ciò  che  pare a  cia«^cuno  che  sia.  Ma  la  tesi  di  Protagora,  che  d'  al- tre nde  non  sembra  aver  lasciato  molti  proseliti  (1),  ci mostra,  per  la  sua  esorbitanza  stessa,  questo  carattere sofistico,  nel  senso  moderno  della  parola,  vale  a  dire questa  assenza  evidente  di  sincerità  (2),  che  vediamo generalmente  nelle  proposizioni  gnoseologiche  dei  Sofisti (quali,  oltre  questa  di  Protagora,  quel'a  di  LEONZIO (vedasi)  che non  vi  ha  niente,  o  se  vi  ha  qualche  cosa,  è  incono- s  ibile,  o  almeno  inesprimibile,  quella  di  Eutidemo  (3)  che ogni  attributo  conviene  egualmente  ad  ogni  soggetto, quella  dì  Licofrone  (4)  che  non  ammette  alcuna  unione (1)  V.  Platone  Teeteto  16  S  e-165a. (2)  V.  Arist.  Met.  1.  IV.  IV.  24-26  (ctr.  V.  1)  e  V.  I7. (3)  V.  Platone  CratUo  386  d. (4)  V.  Arist.  Phys.  1.  I.  II.  15.  di  UQ  so^^^getto  con  un  predicato,  percLè  l'uno  non  può essere  molli,  ecc.).  Noi  ci  spieghiamo,  del  resto,  perfet- tamente perchè  la  filosofia  antica  non  abbia  mai  oltre- passato, in  sostanza,  il  realismo  naturale:  la  dottrina della  subbiettività  di  tutti  i  dati  dei  nostri  sensi  non  ha potuto  stabilirsi  nella  filosofia  moderna,  che  perchè  èia conseguenza  inevitabile  del  concetto  scientifico  moderno della  materia  (semplice  ipotesi  di  alcuni  filosofi  nell'an- tichità), che  la  spoglia  delle  qualità  secondarie,  la  sub- biettività di  queste  trascinando  necessariamente  quella delle  qualità  primarie,  che  divengono,  senza  di  esse, assolutamente  irrappresentabili  (i). Ma,  accordato  anche  che  Platone  abbia  potuto  am- mettere la  dottrina  che  le  Idee  sono  pensieri,  e  quindi pure  quella,  che  vi  è  implicata,  che  le  cose  sono  rap- presentazioni, resterebbe  a  mostrare  all' interpretazione hegeliana  come  essa  possa  conciliarsi,  negli  altri  punti, con  la  dialettica  platonica.  Essa  non  attribuisce  sempli- cemente a  Platone  la  dottrina  che  le  Idee  sono  pensieri, e  l'altra  che,  nella  conoscenza  filosofica,  il  nostro  pen- siero s'identifica  con  le  Idee,  ma  quella  deir  identità  del soggetto  e  dell'oggetto,  cioè  che  è  il  nostro  spirito,  nella sua  essenza,  e  non  solamente  il  nostro  pensiero  specu- lativo, che  s'identifica  con  l'universo,  nella  sua  essenza, vale  a  dire  con  la  totalità  del  mondo  ideale.  Per  distin- guere questa  terza  dottrina  dalla  Feconda,  noi  suppor- remo che  Platone  ammetta  realmente  che  le  Idee  sono pensieri  e  che,  nell'atto  della  conoscenza  filosofica,  questi pensieri  sono  presenti  immediatamente  al  nostro    spirito. (1)  V.  questo  volume  Appendice  alla  parte  i*  pag.  CI-GV,  il  mio Saggio  /pag.  524-526,  e  il  mio  studio  sìiììsl  Dottriua  di  Jiosm  ini  suWeS' senza  della  materia  fase,  l»  la  nota  a  pag,  15. cioè  noi  ne  abbiamo  coscienza.  S'egli  non  ammettesse  che ciò,  siccome  questi  pensieri,  quantunque,  nella  conoscenza filosofica,  entrerebbero  a  far  parte  della  nostra]coscienza, esisterebbero  per  se  stessi  indipendentemente  dalla  no- stra coscienza,  come,  nell'  ipotesi  della  percezione  im- mediata, gli  rggetti  esteriori,  quantunque,  nell'atto  della percezione,  siano  percezioni  nostre,  esistono  per  se  stessi indipendentemente  dalla  nostra  percezione;  cosi  in  questa dottrina  che  supponiamo  ammessa  da  Platone,  piuttosto che  l'identità  dell'essere  e  del  pensiero,  dovremmo  ve- dere una  forma  dell'intuizione  razionale,  nella  quale, come  nella  visiono  in  Dio  dì  Malebranche,  gli  oggetti intuiti,  invece  che  delle  realtà  puramente  obbiettive,  sa- rebbero dei  pensieri.  Ma  che  si  accordi  o  no  chela  dot- trina di  Platone,  in  questo  caso,  sarebbe  suscetftbile  di essere  chiamata  identità  dell'*  s: ere  e  del  pensiero  (dei nostro  pensiero),  ciò  che  è  certo  è  che  non  potrebbe  af- fatto chiamarsi  identità  del  soggetto  e  dell'  oggetto,  né potrebbe  vedersi  simboleggiata  nell'eternità  dell'  anima, perchè  ciò  che  s'identificherebbe  con  l'oggetto  e  che  si eternerebbe  non  sarebbe  il  soggetto  stesso,  cioè  lo  spirito nella  sua  essenza,  ma  un  suo  atto  o  fenomeno  partico- lare, il  pensiero  filosofico.  Per  poter attribuire  a  Platone l'identità  del  soggetto  e  dell'oggetto  e  interpretare  la sua  doitrina  dell' immortalità  dell'anima  come  1' eter- nar.M  del  pensiero  nella  conoscenza  filsofica,  sarebbe dunque  necessario  ch'egli  avesse  ammesso,  consolo  che le  Idee  sone  pensieri  e  che  ques:i  pc  ubicri  divengono, nella  conoscenza  filosofica,  pensieri  no.»^tri,  ma  ancora ihe  la  conoscenza  filosofica  costituisce  l'essenza  del  no- stro spirito,  e  che  ques*a  essenza  del  nostro  spirito è  identica  all'essenza  d(  11'  universo,  cioè  a  ciò  che vi  ha  in  questo  di  costante  e  di  generale  (vale  a  dire che  nella  conoscenza  filosofica  egli   avrebbe   dovuto  ri- —  334  — guardare  come  essenza  del  nostro  spirito,  non  semplice- mente, come  potrebbe  siipporsi,  la  coscienza  o  intuizione che  abbiamo  delle  Idee,  ma  anche  le  Idee  stesse  chein- tuiamo  o  di  cui  abbiamo  coscienza).  E  evidente  che  que- ste due  proposizioni  sarebbero  considerate  da  tutti  come delle  assurdità  impossibili  a  trovarsi  in  un  filosofo  qual- siasi, e  che  nessuno  ardirebbe  di  attribuirle    a  Platone, se  non  si  sapesse  che  sono  state  insegnate   da   Hegel  e dal  suo  predecessore   Schelling.    Ma,    per  attribuirle   a Platone,    bisogna    vedere    se  queste   proposizioni,    che nei    due   sistemi    tedeschi     hanno    un    significato  —  per quanto  può  dirsi  dì  una  proposizione  metafisica  che  ha un  significato—,  possono  averne  ancora  uno  nel  sistema platonico.  In  Hegel  la  conoscenza  filosofica    può    costi- tuire l'essenza  dello  spirito,  perchè  essa  è  nel  suo  sistema il  termine  ultimo  della  s  rie  di  Idee  che  cf  stituisconolo spirito,  e  nel  termine  ultimo  di  uoa  serie,   secondo  uno dei  principi!  della  sua  dialettica,  anzi  in  generale  d'ogni dialettica  (nel  nostro  senso),   fì  ritrovano  tutti   gli    altri termini  della  serie  stessa.  Qussta    essenza    dello    spirito poi  piò  iìeotifiea'-si  on  l'essenza  di    tutto    T  universo cioè  con  tutto  il  mondo  ideale,  perchè  V  ultimo  termine della  serie  d'Idee  che  costituiscono  la  sfera  dello  spirito, é  pure,  secondo  Hrgel,  l'ultimo  termine   della   serie  to- tale delle  Idee,  e  deve  quindi,  per  il  principio  dialettico poc'anzi  invocato,  comprendere  in  fé  tutto  il  resto    del mondo  ideale.  Si  pretende  che  anche  per  Platone  la  co- noscenza filosofica  è  r  ultimo    momento    dello    sviluppo dello  spirito  e  di  quello  di  tutto  l'universo   (questo  svi- luppo dobbiamo  intenderlo  nel  senso  hegeliano,  cioè  co- me una  successione  di  termini,  procedenti  l'uno  dall'al- tro, e  la  cui  processione   e   successione    non   sono    che logiche).  Ma  bisogna  vedere  se  queate  psivole  ultimo  mo- mento dello  sviluppo  dello  spirito  e  ultimo  mo7f lento  dello sviluppo  dell* universo— co\  sottinteso  che   1'  ultimo    mo- mento dello  sviluppo  dello  spirito  deve  comi  rendere  tutti gli  altri  momenti  dello  spirito,  e  l'ultimo  nOomento  dello sviluppo  dell'universo  tutti  gli  altri    momenti    dell'uni- verso, cioè  tutte  le  altre    Id(e    the   ccstiiuiscono,    con esso,  ridea  apsoluta— bisogna  vedere,    dico,    se   queste parole  hanno  ancora  un  senso,  trasportate    dal   sistema di  Hegel  a  quello  di  Piatene.  Nella  dialettica  di  Platone, come  in  quella  di  Hegel,  ne-rultimo  termine  d'una  se- rie devono  ritiovarsi  lutti  i  termini  precedenti  della  serie stcsFa  :  ma  può,  nella  diklt-ttica  di  Piatene,  esservi,  co- me in  quella  di  Hegel,  per  tutta  una  sezione  del  mondo ideale  (p.  e.  lo  spinto,  l'orgaDismo,   ecc.)    un   termine finale  unico,  in  cui  si  ritroviEO  tutte   le   altri    parti   di questa  sezione  ?  e  per  tutto  il  mondo  ideale  nel  suo  in- sieme, un  altro  termine  finale  unico,  in  cui  si  ritrovino tutte  le  altre  parti  del  mondo  ideale,  cicè  tutte  le  altre Idee  che  costituitcono,  con  esso,  il  sistema  totale    delle Idee  ?  Questo  é  post^ibile  nella  dialettica  hegeliana,  per- chè secondo  essa  vi  ha,  nello  sviluppo  delle  Idee,    oltre a  un  movimento  di  espansione,  per  cui  le  Idee  si  scin- dono e  si  moltiplicano  (passaggio  dalla  tesi  all'antitesi), un    movimento  sui-seguente  di  concentrazione,    per  cui ritornano  all'unità  (passaggio  dalla  tesi  e  l'antitesi  alla sintesi).  Ma  nella  dialettica  platonica    i  on   è    possibile, perchè  in  essa  lo  Idee  non  si  sviluppano  che  dividendosi; il  movimento  è  sempre  di  scissione,  e  Don  \i  La  mai  i movimento  contrario,  cioè  il  ritorno  all'unità.   Alla  fine dello  sviluppo  di  uaa  sezione  del  mondo  ideale,     o    del mondo  ideale  nel  suo  insiem",  non  vi  ha  così,  per    Pla- tone, un  termine  unico,  ma  una  moltiplicità  di    termini -  335  - distinti  e  separati  :  Tunità  non  esiste    che  al  punto   di partenza  deirevoluzfone,  questa  consiste  in  una   molti- plicazione progreFFiva,  e  al  punto  d'arrivo  la   moltipli- cità  è  massima.  Airultimo  momento  dello  sviluppo  dello spirito  non   pcFsiamo   dunque   trrvarr,    nella   dialettica platonica,  che  le  Specie  Ultime  dello  spirito,   o,   se  essa si  applica,  non  allo  spirito  stesso,  ma  alle  sue  attività, le  Specie  ultime  dei  fenomeni  dello  spirito.  Che  si  tratti di  una  sezione  del  mondo  ideale   o    di    tutto    il   mondo ideale  nel  suo  complesso,  il  termine  unico  che  comprende tutti  gli  altri  non  può  essere  per  Platone   che  il  più  a- stratto  di   tutti,    e   non  può   ccmpiecderli  che   virtual- mente :  i  termini  più  concreti   (anche    nel    senso   hege- liano), più  ricchi  di  detern»ii  azicn^    Fono    i   più   parti- colari, e  questi  non   possoro  comprendere  che   quelli  di più  in  più  generali  a  cui  Fono  Fubordinati.  L'  Assoluto, che  comprende  ogni  cosa  e  in  cui  tutti  i  contrari  si  uni- ficano, non  potrebbe  essere  duuqu'%  nel  sistema  di  Pla- tone, che  l'Idea  più  astrati»,  la  più  povera  di   determi- nazioni e,  per  dir  ersi,  la  meno    attuale   di   tutte,    cioè quella  del  Bene  o  dell'ICsscre.  Se,  per  una  me  tafoi  a  ar- dita, chiamiamo  quest'Assoluto  Dio  (come  del  resto    ha fatto  lo  stesso  Platone),  noi  pos^^iamo    dire,    applicando una  locuzione  di  Schelling  (!),  che  vi    ha    nel    sistema platonico  il  Deus  iwplicitus^  ma  n^n  il  Deus  cxplicitus. (1)  V.    Willm  .Sfar,  della  flos.  olenu  ecc.  l.  HI  {>.  3*23, T =as t-j-u. mBOSBmammaSK che  riempisce la  teoria vengono  considerate del  primo  caso del  secondo  caso in  quest'ultimo  caso t.  II il  posto  determinato pag.  9,  nota,  lin.  4 incompatibile  non  quello  inc«'mpatibile  con  quello p.  14  1.  21 che  riempisse p.  18  l.  25 la  tesi p.  22   1.  7 Tdngonn  considerati p.  23  1.   2 del  secondo  caso 1.  4 del  primo  caso 1.  5 in  questo  primo  caso p.  25,  n.  5,  I.  1 1.  II p.  28  I.  23 il  posto  determinati p.  34  1.  20-21 (e  nonsemp'icemente  che  se  ne    dal  primo    (e   non  semplicemente ti  edipee)  dal  primo,  che  se  ne    deduce), p.  44  n.  2 R  tre  gravi  spposizioni  a  tre  gravi  opposizioni p.  60,  nota,  1.  6-7 le  necessità.  la  necessità p.  51  1.  16-17 dobbiamo    sforzarvi  dobbiamo  sforzarci p.  79   1.  5 quali  forme  viventi  quali  forzo  viventi n.  5 il  luogo    che   riporteremo   nella    luogo    che    riporteremo    in    una nota iio^a  seguente. p.  80,  n.  1,  1.2 295,  297  5^Ì>5-297. l.  9 (noi  diremo  asiratti)  (noi  diremmo  astratti) 1.  18 p.  393;  gli  assiomi  p.  393  :  gli  :i-:siomi  p,  81,  note,l.  1 delle  prime p.  89,  nota,  1.  25 e  preceduto p.  91,  testo,  1.  terzalt. —  si  noti  l'analogia p.  99,  note,  1.  15-16 (9C40    gli  Appartiene   in  non  im-    e^ao   gli    appartiene    in    non    tm« porta p.  107,  nota,  1.  5 degli  astratti p.  108  1.  3 ma  contemplato p.  117  1.  0 di  fatti  più  particolari p.  129  1.  8-9 dei  fatti  generali n.  1 p.  358-362 p.  137  1.  8 teoria  nominalista p.  U9,  n.  1.1.7 tuttociò  che  mi  sembra  più  valido    non  leggere  queste  parole p.  152  1.  6-7 senso  più  ristretto  senso  più  stretto p.  1Ò9  1.  1 come  un'immaginazione  come  un'immagine della  prima e  proceduto %ì  noti  l'analogia o    gli porta dagli  astratti contemplato di  fatti  particolari dei  fatti  generali p.  358-862 teoria  nominalista 1.  1.  e  8,  1.  2  e  5 I.  e  6. ma  di  direzioni  opposte gli  oggetti  visibili (533  b-c) al  S  6'  n.  4* p.  166,  n.  2, 1.  2 1.  1.  e.  8,  1.  2.  e.  5 1.  3 1.  e.  6. p.  168  1.   18 ma  le  direzioni  opposte p.  188  1.  22 gli  oggetti  sensibili p   205  1.  12-13 (534  b-c) 1.  ult.  note al  §  13°  n,  4» ERRATA CORRIGE ri05  d*6 T7  e-79  a Hep,  519  d L  II.  VII.  7, in  pìiil,  prino. del  gradino p.  213,  note,  1.  1 506  d-e nota  7 77  c-79  a p.  217,  n.  3,  l.  2 591  d p.  218;  n.  5,  1.  2 1.  II.  VII.  3,7, p.  224,  n.  1,  1.  2-3 in  phil  prim, p.  231,  1.  8-9 nel  gradino 1.  10-Jl  note /  i^wif  elementi  delle  Idee  I  due  clementi,  A n.  2,  1.   1 Sot\  219  a-263  e 5^4  e  e  seg. non  è  rappresentata 277  b-e Tesisi  enea Am4l,  Post.  I.  I.  V.  6 le  Idee •rmine  di  diinoblrazione Idea  dal  genere V.  §  6°  n.  6- puramente  dialettico y  à»  n.  4*» Sof.  219  a-236  e p.  233,  n.  1,1.  1 264  e  0  seg. p.  244    1.  23 non  è  presentata p.  249,  note,  1. 1 277  b-o p.  253  1.    27 l'esistenza p.  257,  nota,  1.  13 Anol.  Posi.  1.  IL  V.  e p.  258  1.  7 le  idee p.  259  i.  1-2 termine  dimostrazione p.  261   I.  6 Idea  del  genere p.  278  nota V.  !!j  li'  n.  6" p.  283  1.  4 puramente  deduttivo n.  3 S  12'  n.  4"  I     I  I         I.    I SXIC 'SfStfi  677  b-0 la  1*  parte Met.  1.  V.  II.  1.  8 Categ,  1.  X.  2-5 An.  Post,  1.  I.  IX.  9 p.  286  n.   3 617  b-o p.  300  1.  22-23 la  2>  parte p.  315,  note,  1. 1 il/^f.  I.  V.  II.  ],  8 p.  317,  n.'l,  l.  1 Catefi.  X.  2-5 n,  3,  1.  1 An,  Post,  l,  I.  IL  9 p.  318  1.  3 ma  anche  della  cosa  stessa  ma  cause  della  cosa  stessa p.  327,  n.  2,1.2 Fth  End.  1.  I.  Vili.  l.  3  Klh.  Knd.  l.  I.  Vili.  1-3 p.  328    1.    IO Met.  1.  XIII.  VII.  23-26  Met.  l.  XIII.  Vili.  23-26 p.  331,  nota,  1. 1 dauno  più  essere  hanno  più  essere p.  SB4,  nota,  l.  ult. Sappi.  (C.  Ili)  Sappi.  C.  Ili) p.  335,  n.  1,  l.  6 Il  principio  e  la  causa  **  Il  principio  e  la  causa p.  338   1.  24 delle  entità  più  universali  dalle  entità  più  universali p.  339,  nota,  1.  quintult . cioè  che  queste p.  340  1.  1 §23 p.  351  1.  19 che  abbiano p.  363,  n.  2, 1.  2 Kpist.  41 p.  36:>  I.    10 e  i  suoi  inodi p.  366    n.  6 Eth,  p.  II p.  371,  r,  4,  1.2 pag.  356 è  che  queste «24 che  abbiamo Epht.  44 e  suoi  modi Eth,  p.  e  2. pag.  o  l'estensione a  uno  più  astratto dipendente naturare JJio  e  della  natura propteraque tutte  cose nota  pure rationis  es Schol.  pr.  29 dell'essenza  di  Dio la  constanllfieazione da  cui  le  forniamo abbiamo  per  causa runa  il  fenomeno, nei  molti; realeà  distinte n.  2"  pag.  45-46 CORRIGE p.  377  1.  11 o  l'estensione) 1.  16 a  uno  stalo  più  astrai  lo p.  379,  n.  1,1.2 dipende p.  380,  n,  1,   1.   penult. naturae p.  383,  testo,  1.  penult. Dio  o  della  natura p.  386,  n.  2,  1.    4 proptereaque p.  390,  n.  1,  l.  3-4 tHttu  le  cose 1.  7 nota  1  pure p.  392,  n.  S,l,2 rationis  est p.  394,  n.  1,  I.  1 Schei.,  Prop.  29 p    400  testo,    I.  quintult. dall'essenza  di  Dio p.  407  1.  7 la  sostantificazione p.  41 i  I.  9 da  cai  le  formiamo l.  14 abbiano  per  causa .    p.  423  l.  4-r> runa,  il  fenomeno, p.  424    l.  sestult. nei  moUii; p.  431,  nota,  1.  quartult. realtà  distinte p.  436,  nota,  I.  quintult. n.  2    con  pag.  4')-4('. p.  438,  1.  1 dall'animale,  dall'essere  vivente    dell'animale,  dell' »*ssere  vivente —   Ò'M)  '— V iXuanto  dice temporanietà eoslitaiscono App.  alla  p.  I  p.  II nazione  astratta <ii  molli  commenti inonimo Met.  1.  I.  III.  2-3,  l p.  439,  nota,  l.  27 quando  dice p.  440,  nota,  lin.  lerzult. e  p.  441,  nota,  1.  3 temporaneità p.  441,  nota,  1.  13-14 costituiscano p.  446,  n.  1,    1.    2 App.  alla  p.  I,  p.  II p.  4481.  8 nozione  astratta p.  453  l.   24 di  molti  commenti p.  460,  nota,  1.    3 monismo p.  VII,  n.,  1.  1 ^fet,  1.  I.  III.  2-3,  10, p.  VIII  1.  23-25 che  ciò  che  non  esìsteva  prima    che  ciò  che  è  nato    non   esisteva della  nascita  e  non  esisterà  prima  della  nascita  e  non  esi- più  è  nato  dopo  la  morte  sterà  più  dopo  la  morte p.  IX,  note,  1.  ult. Stob.  I,  414 p.  X,  note,  1.  ult. dei  loro  sistemi p.  XIV,  n.  2,  1.  1 l)(f  Coelo  1.  III.  III.  3 p.  XVI  n.  1 Phys,  1.  I.  IV. n.  6 Stob.  Ed, p.  XXIX,  n.  4,  1.  ult. Phys,  1.  II.  I.  9,  ecc. p.  XXX,  n.  2,  1.   3 flueretiue 1.  7 III.  2-4 Stof.  I.  414 del  loro  sistema Jh'  Coelo  I.  III.  3 Phìjs.  1.  I.  VI Stah,  KcL Pliya,  ecc. Auireqae III.  2  4 ERRATA CORRIGE ectirae 1.  17 lecticae n.  3 Pys.  1.  I.  Vili,  Gi'H  i't  corr.    1.      Phya.  1.  1.  Vili,  Gen.    et   corr,    l. I.  I.  2-(5.  I.  I.  2,  6. p.  XXXII,  testo,  1.   terzult. nei  rapporti  di  spazio  nei  loro  rapporti  di  spazio p.  XXXVI,  note,    1.   16-17 i  domini  religiosi  i  dommi  religiosi 1.  18 questi  domini  questi  dommi n.  1 Stab.  KcL  Stob.  Ed. n.  2 Eth.  Eud.  1.  Vili.  1.    J1,   Plut.      Eth,  Eud.  1.  VII.  I.  11,    Plut.  De De  h,  et  ()sii\  ap.  48  Is.  et  Osir.  cap.  48 p.  XXXVII,  note,  1.  9 582,  2  588,  2 p.  XXXIX  1.  6 Tutte  è  uno  Tutto  è  uno p.  XLI  n.  2 Top.  1.  Vili.  IV.  1  Top.  1.  Vili.  IV.  11 p.  XLIII,  nota,  1.18-19 perc(»rso p.  XLIV,  testo,  l.  penult. nella  varietà nota,  1.  8 secondo  Cratilo p.  LI  1.  24-25 non  leggerlo p.  LII  1.  20 <     conducesse  gli  Eleati  a  negare p.  LV  1.  6 o  movimento  senza  causa  o  del  movimento  senza  causa n.  2,  1.   3 <gli  Ebati)  (gli  Eleati) p.  LVII,  nota,  1.  5 Ssvocpavr^v  Ssvot^ocvrjV por  corso nelle  varietà secondo  Eraclito nel-cepirsi conducesse  a  negare *<^«••i^ t Generante  et  corrente sappone e  sqq.  V,  143, p.  LXIl,  note,  1.  5-6 General,  et  cornipf, 1.  quftrtult. supporre p.  LXV,  nota,  1.  30 e  sqq.,  143, p.  LXXIIl,  1.    30 la  sankya,  la  raisfschiha  la  sànìi,/a,  la  cckesilui note,  1.  terzult. Timeo  53c.  1.  57b,    Arist.    De    Coe-     Ti.neo  53c.57b.  Arisi,  i^a  Coeio lo  1.  111.  I-IIl  1.  jii.  i^  j.  iij p.  LXXIV  1.  14 Nella  rait-esika p.  LXXV  1.  5 il  vedanta P.LXXVII,  1.  18 il  yógi p.  LXXIX,  nota,  1.  1 Nelle   VponiAafli 1.  7  e  8 nutra p.  LXXX,  testo,  1.  ult. esplicato p.  LXXVII.  nota,  1.  6 fenomeni  meccanici p.  XCVI,  nota,  l.  7 omogenea i.  18 queste  proprietà p.    C    1.  16 In  questo  stato p.  CI  1.  20 della  concezione  meccanico  della  concezione  moocanìca p.  CXlll  l.  qui)itult. la  nostra  asserzione  la  nostra  attenzione p.  CXV,  nota,  1.15-16 giungendo  ai  ceatri  giungendo  ai  centri 1.  ult. il  trasporto  del        a  H  trasporto  dell'onda p.  ex  VI,  nota,  1.  8-9 si  forte  a  il  bisdgno  si  forte  è  il  bisogno Nella  roiseschiìiii la  yedanta l'yogi Negli  l'panichdd ifouira esplicito processi  meccanici omogea questa  proprietà n  questo  stato 1.  penult. a  un  certo  grado  della  cultura      a  un  grado  interiore  dello  sviluppo dell<a  cultura p.  CXXII  1.  6 Darwin  ha  dato  Darwin  ne  ha  dato p.  CXXVI,  nota,  1.  8-9 i'rìtkn    ffct    giudizio    paragr.        6rt/ic«  dt^/ f/é<«dè5to  paragr.  LXXIV LXXVII p.  CXXIX  1.    4-5 viventi  allora  non  viventi,  allora  - nota,  1.  7  • che  rassomiglia,  ai  che  rassomigli  ai p.  CXXX,  note,  l.  terzult. notare  di  ratliludine  Tentare  l'attitudine p.  CXXXII,  }iota ser.  !■  anno  •  ser.  1"  anno  7 p.  ,  l.    16 l'analogia  dalle  l'analogia  delle p.  CXL  1.  3-4 ed  avventizio;  la  materia  ed  avventizio,  la  materia p.  OLII    l.  1 esistenza  presente 1.  7 la  sua  esistenza  » 1.  16,  nota p.  CLV  l.  ult. l'uno  con  l'altro p.  CLIX  1.    10-11 coi  cangiamenti  con  cui  coi  cangiamenti  anteriori  con  cui p.  CLXXIII  1.  4-5 come  il  S.  Ambrogio  come  S.  Ambrogio p.  ,  nota,  1.  16 dopo  esservi  riscaldato  dopo  di  esservi  riscaldato p.  ,  nota,  1.  1 ha  i  due  ordini  tra  i  due  ordini p.  10 suppongano  suppongono p.  CLXXXL  1.2 dilferenli  deiranimismo  differenti  dall'animismo -  341  — *i esistenza  poesente la  sua  esistenza l'uno  per  l'altro ERRATA CORRIGE ci  trova p.  CLXXXVljUlt. si  trova p.    l.  17 problemi  fisiologici  problemi  biologici p.  CLXXXVII   1.  U Tale,  in  effetto  Tal  è  in  effetto p.  CLXXXIX  1.  8 riflettuta;  p.  e.  dall'aoqaa  riflettuta  p.  e.   dall'acqua p.  CXCII,  note,  l.  ult. vai^esika p.  CXCTII,  nota,    1.  6 del  Fedone p.  CCI  1.  8 convenire,  come p.  CCITI  1.  U-t5 della  ragione' p.  CCV    I.  14 ammettersi,   come p.  CCXII,  nota.  1.  2 domandava  :  Chi  sa  di  essi    ohi    che  domandava  :  Chi  sa  dirmi  chi sono  io  ? p.  CCXIII   l.    17 le  concezioni p.  CCXVII,  nota,  1.  3 Cartesio 1.  4 sulla  sostanza l    8 in  ultima  analisi p.  CCXXI,  nota,  1.  ult. è  immanente p.  CCXXIII    1.   15-16 perchè  di  qualunque  cosa  perchè,  qualunque  cosa carta  5  pag.  2.  1.  23 i  flutti,  la  spuma,  ecc.;  i  flutti,  la  spuma,  ecc., o.  6,  p.  2.,  n.    i A.  S.  177  n,  2,  N.  S.  177  n.  2, e.  12,  p.  1.,  nota,  l.  ult. nelogismo  neologismo vaisechika di  Fedone convenire  come, detta  ragione ammettersi  come nandava sono  io  ? le  eonoezioni, Carlerio nella  sostanza in  ottima  analisi è  immanante ERRATA CORRIGE e.  IB,  p.  1.,  note,  1.  4 1.  Vili.  III.  5,  ecc. p.  2.,  1.  11 eoe;  quando  e&si  designano  le      ecc.,    quando    essi   designano    le Idee, 1.  15 II.  I  termini  * n.  2 V.  num.  III o.  15,  p.  1.,  nota,  1.  1 denotazione o.  17,  p.  1.,  note,  1.  1 Met.  1.  VII,  XI.  11, 1.  terzult. Ad  aÙTÓ,  aùxò  xaG'aOxó, e.  18,  p.  2.,  l.  4-5 la  più  parte e.  19,  p.  1.,    note,    l.  2 di  Aless.  Afrod. p.  2,  nota,  1.  4 e  questi  sono  le  Idee e.  20,  p.  1,  testo,  1.    16  ' J^ep.  525c-526a e.  20,  p.  1.,  nota,  l.  t nel  Filebo 1.8 non  da  capo o.  23,  p.  2.,  1.  19-20 proporzionata  alla  vista  proporzionato  alla  vista e.  24,  p.  1.,  1.8 ha,  ma  non  ò  ha,  ma  non  è e.  25,  p.  1.,  testo,    l.  4 p'oggetto  l'oggetto nota,  1.  4 dei  primi  indicati  dei  luoghi  indicati p.  2.,  1.  23-24 dei  secondo;,  diremo  del  secondo  diremo o.  26,  p    1.,  I    15-16 •con  causa  concausa i.  Vili,  III.  5. ;  quar Idee: 2^  I  termini V.  nota  III detonazione Met.  l.  VII,  XI.  2, Ad  aÙTÓ,  xaO'auxd, la  più  alparte •  di  Aless.  Aprod. e  questi  sono  Idee Rep.  525-526a nel  Fibbo È  perciò —  342  • ERRATA CORRIGE Cor. Siccome e.  27,  p.  2..  n.  2.  1.   1 o.  28.  p.  1.,  1.  1 siccome e.  29,  p.  1.,  1.  « belli  e  ìq  tutti  gli  oggetti  non  leggere  queste  parole p.  2.,  1.  li» e.  30,  p.  1.,  1.4 ciascuno  nuovamente  in  uno p.  2..  I.  H.4 nel  bue,  eco    è 1.  6 risoluzione e.  31,  p.  J.,  1.  IH il  grande  slessoj  ecc.) e.  33,  p.  1.,  1.  3 è  precisamente  questa o.  34,  p.  2.,  1.  6-7 vengono  proposte e.  38,  p.  2.,  1.8 insomma 1.  quintult. coi  molti, o.  40,  p.  2.,  1.  13 generiche  e  le  specifiche o.  44,  p.  1.,    l.  20 prima,  ma  presente o.  46,  p.  1.,  1.    18 della  misura  ? p.  2..  1.  19 Ibid,  1Q8g  e  segg. e.  60,  p.  1.,  1.  16-16 necessario p.  2.,  1.  3 di  un'Idea 1.  19 non  è   una    connessione   neces-    non  una    connessione    necessaria saria e.  51,  p.  2.,  nota,  l.  7 significa  al  tempo  stesso  significa  dunque  al  tem|iu   stesso nuovamente  in  uno nel  bue  è riduzione il  grande  stesso) e  precisamente  questa vengano  proposte insom- coi  molli, generiche  e  specifiche prima,  presente della  scienza  ?  ^ Jbid,  1(B  e  segg. neoestrario dell'Idea ^  S ERRATA CORRIGE il  letture e  in  tale  nasce  ? nei  lunghi  citati 0,  54,  p.  1.,  1.  15-16 il  lettore 0.  55,  p.  2.,  testo,  l.  terzult. e  in  un  tale  nasce  ? o.  56,  p.  2.,  1.  8 nei  luoghi  citati e.  57,  p.  2.,  1.  1 la  possessione  dell'attributo  ?         possedere  un  attributo  ? nota,  l.  2 (V.  IV.  3°  B)  (V.  V.  3»  B) o.  58,  p.  2.,  nota,  1.4-5 argomento  procedente  argomento  precedente e.  59,  p.  1.,  1. 1 Dunque  nelle  altre  Dunque  nelle  altre  cose p.  2.,  1.  3 né  uno  né  due  né  una  né  due e.  60,  p.  2.,  1.17-18 se  fossero  simili  e  dissimili  se  fossero  simili  o  dissimili e.  61,  p,  2.,  1.   14 àTiaXXsxxéov  àTraXXaxxéov o.  62,  p.  1.,  1.  8-9 È  vero.  Affinchè  È  vero— Affinchè o.  73,  p.  1.,  1.   4-5 queste  spiegazioni  queste  altre  spiegazioni e.  81,  p.  2.,  1.  12 a  un  soggetto  particolare  a  un  oggetto  particolare e.  82,  p.  2.,  1.  20 dalla  prova  dalle  prove e.  86,  p.  2.,  n.  2 l.  XIV.  II.  1-5  1.  XIV.  II.   1-2 e.  91,  p.  2,  1.  23-24 che  indicano  i  rapporti  ohe  indicano  il  rapporto o.  93,  p.  2.,  1.  quintult. non  potrebbe  esistere  non  potrebbe  esistere  veramente e.  95,  p.  1.,  1.  18 pia  prezioso  nella   mescolanza     pi  i  prezioso  nella  mescolanza  (64c); (64o,  d,  65a)  ohe  esso  è  la  causa  della  bontà di  questa  mescolanza  (64  e,  d, 65  a) —  343  — -^,^r,n ERIIATA CORRIGE ERRATA CORRIGE o.  99,  p.  1.,  note,  1.  ult. III.  3,  4,  7, o.  JOO,  p.  2.,  testo,  1.   quintult. Tuttavia  Platone  non  può e.  J05,  p.  2.,  1.  8 un  mondo  di  Idee,   di  entità    a- stratte  e  generali e.  108,  p.  2.,  n.  1,    1.  1 i.  XI.  VI.  6-12 n.  4,  l.  1 Tim.  27  d o.  109,  p.  1.,  1.  Il a  generalizzare o.  110,  p.  2.,  I.  quartult. Timeo  28  a e.  114,  p.  1.,  1.    7 Fedone  a  78e-80b o.  «5.  p.  2.,    1.  1 e.  117,  p.  1.,  n.  3,  1.    1 Fedone  78  c-d e.  121,  p.  1.,  1.  19 X03ptaTÓv 0.  122,  p.  1.,  1.  26 producono  le  loro  copie  producano  le  loro  copie o.  125,  p.  1.,  nota.  1.  13 e  i  suoi  deterivati  e  i  suoi  derivati e.  127,  p.  2.,  1.   14 nel  concetto  comune  come  nel  concetto  comune  :  come e.  132,  p.  2.,  nota,   1.  3 e  perchè  noi  sogniamo  e  perchè  cosi  sogniamo e.  139,  p.  2.,  nota,    1,   sestult. dei  periodi  degli  astri  degli  altri  periodi  degli   astri e.  142,  p.  ].,  1.   quintult. e  si  pascono  e  si  pascono  poi e.  145,  p.  2.,  1.  14 xsxoptajiéva  x£xwpto|i£va e.   148,  p.  2.,  1.  3 come  le  prime  come  le  prime, I.  I.  3,  4,  7, Platone  non  può un  mondo  d'Idee 1.  XI.  VI.  612 Tim,  22  d di  generalizzare Timto  29  a Fedone  a  78  e  80  b YVWoGYjoófJtsvov)  — Fedone  28  c-d Xcopoaxóv parlato  implica, e  essenze l    XIII.  V.  12 e.   149,   p.  «..  1.  19 parlato,  implica e   150,  p.  1.,  nota,  l.  3-4 le  essenze e.  153,  p.   1.,   nota 1.  XIII.  IV.  12 e.  168,  p.  2.,  1.17 tra  le  cose  i  numeri  tra  le  cose  e  i  numeri o.  159,  p.  l.,  note,  l.  quintult. primi  degli  esseri  i  primi  degli  esseri e.  165,  p.  1.,  n.2 3M.  l.  XIII.  VI.  6-8  iMet.  1.  XIII.  VI-VIII e.  166,  p.  1.,  1.    15 delle  Idee;  è  il  movimento  delle  Idee  è  il  movimento e.  167,  p.  1.,  nota,  1.    3 —v.  n.  V—), p.  2.,  1.  9 A.  I  due  elementi 1.  11 col  Dispari e.  168,  p.  1.,  1.  14 non  leggerlo p.  2.,  1.  2 propria  delle  cose e.  170,  p.  2.,   1.   4 lo  Stesso e.  175,  p.  l.,  nota.  1.    l 532—533  d. p.  2.,  n    5,  1.  1 1.  I.  VII.  2-3 e.  176,  p.  1.,  1.  5-0 non  è  né  in  queste  cose p.  2,  1.  7 l'indefinitezza e.  181,  p.  l.,l.  15 A  queste  quistioni 0.  183,  p.  2,  M i  principii  degli  esseri — V.  n.  V.— I  due  elementi coi  Dispari (oxoixs^a proprie  delie  co.se lo  stesso 532533d. i.  1.  VII  e    3 non  è  né  queste  cose, l'indeterminatezza A  questa  quistione i  principi  degli  esseri 11- oapi-<tale ammettere 1.  IX.  16,25 per  provare; è  niente pag.  24  e'.  Basii. i  una  yévso'.^ o  immanente o.  188,  p.  2.,  nota,  1.  13-14 capitale 1.  15 ammette o.  199,  p.  1.,  nota,  1.    l 1.   I.  IX.  16,  25 e.   217,  p.  1..  nota,  I.  terzult. per  provare 1.  alt. è  niente; p.  2.,  n.  1.,  1.  penult. pag.  24  A  ei.  Basii, e.  223,  p.  2.,  n.  2,  1.  3 di  una  yévsotf e.  237,  P.I.,  1.21 f  1  e  im manente c.  238,  p.  1,  1.  13-14 non  è  semplicemente   com'essi      non    è   semplicemente,   com' ossi «dicono,  dicono, e.  239,  p.  1.,  note,  1.  4 e  la  perpetuità  doiruniverso  e  la  perpetuità  della  forma  att  ualo dell'universo 0.  242,  p.  2.,  1.    1 ouo»  gono 1.13 più  o  meno  numeroso  più  e  meno  numeroso 0,  246,  p.  1.,  1.  19 come  relativo  come  correlativo e.  248,  p.  1.,  testo,  1.  terzult. et  le o.  251,  p.  2.,  note,    1.   15-16 ne  sistema  delle  Idee  nel  sistema  delle  Idee o.  253,  p.  1.,  n.  2,  1.  1» Met,\.  XIII.  VIII.  8  non  leggerlo p.  2.,  note,  1.    terzult. forma)  (forma) e.   254,  p.  1.,  1.  10 ci  è  attestato  oi  è  attestata ERRATA CORRIGE delle  ooqa  matematicho n  o  potremmo Met.  l.  XIII.      VII.  9 e.  270, da  cui  sono  limitale di  queste  tre  divisio— ^, a  di  Platone di  Spinoza  (4 supplem.  C.  V la  loro  vera  realtà l  suo  posto cuotiene dih  avanzati e.  328, le  Idee).  L'espressione non  vi  ha  mai  i R.  250,  p,  2.,  I.  12-13 delle  cose  matematiche e.  203,  p.  1.  l.  24 noi  potremmo e.  269,  p.  1,  n.  1 Met.  1.  Xll.  VII.  9 l>.  1.,  tosto,  I.  penult. da  cui  sono  limitato  (3) Co)  Da  questo  processo  non  potreb- bero venirne  che  dei  poliedri,  per- chè esso  non  «  applicabile,  tra  i  so- lidi, che  ai  poliedri,  tra  le  superfi- cÌ3,  che  ai  piani,  tra  le  linee,  che alle  rette  :  ma  siccome  per  i  pla- tonici i  corpi  erano  composti  di poliedri  regolari,  esso  rendeva conto  suttìcientemente  delle  gran- «iezze  reali, e.  271,  p.  2.,  I.  12 di  queste  tre  divisioni 279,  p.  1.,  testo,  l.  quartult. di  Platone di  Spinoza  (4)j 0.  281,  p.  1.,  n.  2 supplem.  C.  IV e.  285,  p.  2.,  1,  ult. e  la  loro  vera  realtà e.  288,  p.  1.,  l.  11 il  suo  posto 1.  18 contiene e.  310,  p.  1.,  1.  1. più  avanzati p.  1.,  note,  1.  quintalt. le  Idea.  (L'espressione 335,  p.  1.,  l.  quintult. non  vi  ha  mai  il —  345 I  > 't I I IL   REALISMO    DIALETTICO 1.  Perchè  si  realizzano  le  astrazioni  ?  Spiega- zioni correnti  e  precisazione  della  quistione.    pag. 2.  Il  realismo,  in  quanto  è  una  spiegazione  del mondo  (realismo  dialettico),  ha  lo  scopo  di identificare  il  rapporto  logico  tra  il  principio e  la  conseguenza  al  rapporto  ontologico  tra la  causa  efficiente  e  1' effetto— Origine  del realismo  degti  scolastici        ...  » 6.  Il  sistema  di  Hegel  Il  sistema  di  Taine 4.  Realismo  (realizzazione    dei    concetti)    del Taine     Il  suo  metodo  dialettico  (cioè  di  dedurre  i concetti  realizzati) 6.  L'idea  fondamentale  di  questo  sistema  è  Ti- dentifìcazione  del  rapporto  tra  il  principio e  la  conseguenza  a  quello  tra  la  causa  ef- ficiente e  reffetto . 11  sistema  di  Platone 7.  Cenni  generali  sulla  filosofìa  di  Platone. 8.  Apriorismo  di  Platone  Suo  metodo  puramente  deduttivoImportanza  capitale  attribuita  al  metodo;  uni- versalità della  filosofia  e  sua  sistematicità,      pag. ì\.   Affinità  del  metodo  dialettico   col   metodo matematico • 12.  Caratteri  prepri  del  metodo  dialettico,   per cui  differisce  dal  matematico  Tutte  le  altre  Idee  si  deducono  da  quella del  Bene  L'Idea  del  Bene  non  è  solo  il  principio  lo- gico, ma  anche  il  principio  ontologico  (la causa  produttrice)  delle  altre  Idee,  e  non  ne è  il  principio  ontologico  che  in  quanto  ne  è il  principio  logico 15.  La  deduzione  progressiva  delle  Idee  le  une dalle  altre  é  una  derivazione  reale  delle  Idee che  si  deducono  da  quelle  da  cui  si  deducono.   » 16.  L'Idea  del  Bene  è  la  piùgenerale  di  tutte. Contenuto  di  quest'Idea  Metodo  di  divisione  e  gerarchia  delle  Idee.   » 18.  Teoria  della  definizione        ...  » 19.  La  dieresi  è  una  deduzione  in  cui  V  Idea divisa  funge  da  principio,  e  le  Idee  in  cui si  divide  da  conseguenza   Come  la  dieresi  è  una  deduzione,  e  come si  trovino  in  essa  i  caratteri  distintivi  del metodo  dialettico  di  cui  al  §  12. Il  metodo  indiretto  del  Parmenide— E  con questo  metodo  che  deve  dimostrarsi  il  primo principio  (cioè  l'Idea  del  Bene) Un'Idea  generale  non  è  solo  il  principio logico,  ma  anche  onfoZo^rico  (la  causa),  delle Idee  più  particolari  in  cui  si  divide.  L'ohbiettivazione  dei  concetti  e  il  metodo dialettico  hanno  per  iscopo  l'identificazione del  rapporto  tra  il  principio  e  la  conseguenza a  quello  tra  la  causa  efficiente  e  Teffotto.  pag.  340-360 Il  sistema  di  Spinoza 24.  Idea  generale  della  filosofia  di  Spinoza— Il concetto  del  parallelismo  psico-fisico  e  suoi sviluppi »     360-370 25.  Metodo  puramentededuttivo— Identità  dello sviluppo  logico  e  dello  sviluppo  ontologico    »     370-384 26.  Le  cose  considerale  sua  specie  aeternitatis L'essere,  secondo  Spinoza,  è  una  serie  di astrazioni  realizzate  che  derivano  logica- mente e  ontologicamente  le  une  dalle  altre, in  modo  che  il  rapporto  tra  il  principio  e  la conseguenza  é  identico   con  quello    tra   la causa  (efficiente)  e  l'effetto.  »    429456 28.  Differenze  e  omologia  fra  tutti  questi  siste- mi—Come il  realismo  dialettico  deriva  dalla tendenza  naturale  del  nostro  spirito  da  cui derivano  tutti  gli  altri  concetti  metafisici. NIHIL  ORITUR,  NIHIL  INTERIT §    1 .  Tendenza  naturale  a  supporre  che  il  reale nella  sua  essenza  é  immutabile       .        pag.  I-VI 2.  I  fisici  greci  in  generale  -Dottrine di  Empedocle  e  di  Anassagora Il  sistema  degli  atomisti  Dottrine  dei  fisici  che  ammettevano una  sostanza  unica Dottrina  di  Eraclito  della  identità  dei contrari 6.  Dottrina  degli  Eleati 7.  Spiegazioni  meccaniche  dei  fisici  in generale Dottrine  dei  filosofi  indiani 9.  Dottrine  di  Bruno  e  di  Telesio. 10.  La  teoria  meccanica  (cioè  la  riduzio- ne di  tutti  i  fenomeni  a  quelli  mecca- nici) nella  scienza  moderna — Appli- cazione della  teor'a  alla  costituzione della  materia    .... 11.  Ancora  della  teoria  meccanica-  Ap- plicazione ai  fenomeni  psichici. 12.  Spiegazione  meccanica  dei  fenomeni della  vita.  Il  principio  della  persistenza  delle  co- nelle stesse  proprietà  nelTatomismo metafisico,  nei  sistemi  monisti,  nel realismo,  nel  criticismo  Dottrine  di  Herbart  e  del  prof.  Corico    » 15.  Dottrina  delTidentità  della  causa  e del  l'effetto IL  CONCETTO  DELL'ANIMA §     \,  L'animismo  (sostantificazionedeira- uima)  è  il  prodotto  d'una  tendenza naturale  dello  spirito  umano. 2.   Le  prove  della  sostanzialità  dell'  a-  Materialiià  dell' anima  nella  for- ma primitiva  dell'animismo, L'animismo  è  anch'esso  un' ap- plicazione del  principio  dell'im- mutabilità dell'essenza  dollecose  Le  concezioni  moniste  si  fonda- no su  questo  principio  egual- mente che  le  dualiste. 6.  E  per  esso  che  deve  spiegarsi anche  l'animismo  dell'uomo  pri- mitivo    ..... 7.  Il  concetto  dell'immortalità  del- l'anima e  quello  delia  sua  im- materialità sono  degli  sviluppi naturali  della  teoria  animista. 8.  Il  substratum,  supposto  indi sponsabiie,  dei  fenomeni  psi- chici non  è  che  il  fantasma  del corpo. La  terza  forma  dell'animismo, cioè  la  dottrina  che  la  sostanza dello  spirito  è  un  fatto  psichico permanente  che  è  il  substratum di  tutti  gli  altri nima. carte IMMANENZA  DELLE  IDEE  PLATONICHE Pavte  I.  —  Prove  di  quest'  Immanenza I.  I  termini  designanti  le  Idee  in  generale I  termini  designanti  ciascon'Idea.  carte    13-18 III.  Il  concetto  e  la  conoscenza  generale  si riferiscono  all'Idea La  definizione  e  la  dieresi,  che  hanno  per oggetto  le  Idee,  si  riferiscono  alle  eose considerate  d'una  maniera  generale  ed astratta  L'Idea  è  l'universale,  ciò  che  è  lo  stesso in  tatti  gl'individui  del  genere     . VI.  La  TiapouoCa,  la  fiéGegtg  e  le  altre  espres- sioni dell'inerenza  nelle  Idee  nelle  cose VII.  Contenenza  reciproca  tra  le  Idee  gene- riche e  le  Idee  specifiche VIII.  Gli  elementi  delle  Idee  sono  anche  gli elementi  delle  cose IX.  Tutto  il  reale  si  risolve  nelle  Idee X.  h'essere  non  è  fuori  del  divenire,  ma  nel divenire  stesso.  » Parte  II.  —  Discussione  degli  argomenti contro  l' immanenza I.  La  sostanzialità  delle  Idee IL  La  distinzione  fra  le  Idee  e  le  cose  inter- pretata come  una  separazione III.  Le  Idee  considerate  come  esemplari  a  cui le  cose  non  si  conformano  che  appros- simativamente Le  allegorie  del  Fedro  e  del  Timeo V.  La  tesHmonianza  d'Aristotile . Cenni  snlle  dottrine  dei  Pitagorici e  sul  pitagorismo  di  Platone  in  generale I  numeri  ideali II.  I  dne  elementi A.  La  forma  e  la  materia  delle  Idee B.  La  forma  e  la  materia  delle  cose IIL  Le  entitli  matematiche (come  intermediarie  fra  le  Idee  e  le  cose)  Il  pitagorismo  nel  Timeo  e  nel  Filebo Motivi    deirevoluzione   di  Platone  verso  il  pi- tagorismo         A.  Il  pitagorismo  nel  Timeo  (Carattere  simbolico della  cosmogonia  del  Timeo  e  suo  significato). B.  Il  pitagorismo  nel  Filebo  (il  limite  e  Villimi- tato  di  questo  dialogo) V.  11  pitagorismo  nei  discepoli    di  Platone Le  tre  dottrine  dei  platonici  sui  numeri  carta  251 La  dottrina  di  Xenocrate carte   La  dottrina  di  Speusippo L  L'anima  e  suo  rapporto  con  le  Idee  e eoi  fenomeni  (l'anima  individuale   carte 273-279— Panima  cosmica  e.  280-293).        carte  273-293 IL  L'interpretaasione  teistica  del  siste- ma delle  Idee  (che  le  Idee  sono  i  pen- sieri della  divinità  creatrice) HI.  Le  Idee  e  il  pensiero  (Interpretazione  di Hegel  e  del  Teichmiiller  dell'immortalità dell'anima  e  altre  dottrine  connesse — Pla- tone non  ammette  l'identità  dell'  essere  e del  pensiero,  e  la  sua  Idea  è  un'  entità puramente  obbiettiva) 




  ^>>^^^lriS/t .i:*.?.i*  ;!iV^J i      *t»«ii ::tr:!! !i:r, n  •i u s VM lA  '^^^  e\V  è \^0\ 0\  <i \ \\      i^Ua.    \v\ \  i  tviia^ Nihil  opitup,  nihil  interit. ' §  1.  La  nozione  di  causa  efficiente  con  le  sue  ap- plicazioni è  la  manifestazione  incomparabilmente più  importante  della  tendenza  naturale  del  nostro spirito  ad  assimilare  tutti  i  fenomeni  a  quelli  che ci  sono  i  più  familiari  :  ma  la  metafìsica  ci  presenta altre  manifestazioni  di  questa  tendenza,  di  cui  una non  può  non  formare  un  oggetto  speciale  del  nostro studio,  per  il  gran  posto  che  essa  non  ha  mai  ces- sato di  tenere  nella  storia  del  pensiero. Se  noi  dividiamo  tutti  i  fenomeni  della  nostra esperienza,  vale  a  dire  tutta  la  massa  delle  perce- zioni che  noi  abbiamo  avute  sin  dal  primo  momento della  nostra  esistenza,  in  due  grandi  categorie,  met- tendo nell'una  tutte  le  esperienze  che  ci  hanno  mo- strato un  cangiamento  nelle  proprietà  delle  cosè,^^ale a  dire  nei  caratteri  per  cui  noi  distinguiamo  le  cose particolari  e  il  cui  complesso  si  chiama  1'  essenza d'una  cosa,  e  mettendo  nell'altra  le  esperienze  che ci  hanno  presentato  le  cose  con  le  stesse  proprietà IV che  essi  ci  avevano  prima  mostrato,  è  evidente  che quelle  della  seconda  categoria  sono,  senza  compa- razione, le  più  frequenti,  le  più  familiari.  Inoltre, se  noi  facciamo  un'altra  divisione  in  questa  massa totale  delle  nostre  esperienze,  riunendo  in  una  classe tutte  quelle  che  ci  hanno  presentato  un  cangiamento in  qualsiasi  qualità  delle  cose  (e  non  semplicemente nei  loro  caratteri  distintivi,  essenziali),  e  in  un'altra classe  tutte  quelle  che  ci  hanno  presentato  un  non cangiamento  qualitativo  e  niun  altro  cangiamento che  nelle  posizioni  reciproche  delle  cose,  è  evidente ancora  che,  quantunque  la  differenza  numerica  tra le  due  classsi  non  sia  in  questo  caso  così  grande come  nel  caso  precedente,  la  seconda  classe  sorpassa pure  di  gran  lunga  la  prima  per  la  frequenza  o  fa- miliarità dei  fenomeni  (si  devono  anche  compren- dere sotto  la  parola  fenomeno  le  esperienze  di  un assoluto  non  cangiamento).  Perchè  la  verità  di  queste osservazioni  venga  pienamente  compresa,  non  sarà forse  inutile  di  far  notare,  primo,  che  di  una  gran parte  dei  cangiamenti  che  noi  osserviamo  nella  na- tura gli  antecedenti  sfuggono  alla  nostra  percezione attuale  —  p.  e.  noi  vediamo  cadere  la  pioggia  ma  non vediamo  la  trasformazione  del  vapore  in  acqua; noi  vediamo  il  filo  d'erba  sorgere  dal  suolo,  ma  non vediamo  la  trasformazione  del  germe  in  filo  d'erba — e  che  in  questi  casi  perciò  il  cangiamento  delle  pro- prietà non  deve  contarsi  fra  le  nostre  esperienze  ; e  secondo,  che  la  più  parte  dei  cangiamenti  quali- tativi delle  cose  non  si  producono  che  mediante  una gradazione  continua,  impercettibile— p.  e.  il  fanciullo cresce,  il  giovane  invecchia,  ma  senza  che  noi  ab- biamo mai  attualmente  la  percezione  del  cangiamento, il  quale  non  è  conosciuto  che  dalla  riflessione  che compara  degli  stati  separati  da  lunghi  intervalli  — sicché,  in  questi  casi,  le  percezioni  stesse  che  ci  ven- gono dagli  esseri  sottoposti  ad  un  continuo  cangia- mento, vanno  ad  accrescere  nel  fatto  la  massa  delle esperienze  del  non  cangiamento,  e,  per  conseguenza la  forza  che  questa  massa  esercita  sulle  associazioni tra  le  nostre  idee.  La  conseguenza  di  ciò  che  ab- biamo detto  è  che,  conformemente  alla  tendenza  ge- nerale ad  assimilare  ciò  che  ci  è  meno  familiare  a ciò  che  ci  è  più  familiare,  noi  siamo  naturalmente inclinati  ad  ammettere  che  il  fondo  dell'essere  è  per- manente, immutabile,  e  che  il  cangiamento  non  è <5he  superficiale  o  anche  apparente,  e  a  spiegare  la natura,  partendo  dalla  ipotesi  che  non  vi  ha  mai in  realtà  un  cangiamento  nella  essenza  del  reale, in  altri  termini  che  niente,  al  fondo,  nasce  ne  muore, o  anche  dalla  ipotesi  più  radicale  che  non  vi  ha  mai nelle  cose  un  cangiamento  qualitativo,  intrinseco, ma  il  cangiamento  si  riduce  al  mutamento  dei  rap- porti reciproci  di  posizione  e  non  attinge  mai  le  cose in  se  stesse.  La  tendenza  a  concepire  le  cose  di  questa maniera  è  così  naturale  al  nostro  spirito,  che  essa 8i  mostra  anche  nelle  nostre  metafore  più  ordinarie —  il  piacere  che  dà  una  metafora  è  forse  dovuto  in parte  a  una  soddisfazione  del  profondo  bisogno  della nostra  intelligenza  di  identificare,  di  assimilare  — e  nelle  forme  più  abituali  dei  linguaggio:  p.  e.  si dice  che  la  scintilla  si  sprigiona  dalla  selce,  e  la  pa- rola sviluppo  o  evoluzione  serve  ad  indicare  i  can- giamenti ordinati  che  si  producono  in  un  tutto,  come VI se  ciò  che  viene  in  seguito  fosse  già  contenuto  in ciò  che  era  prima,  d'una  certa  maniera  latente,  in- viluppata. §  2.  L'  esempio  forse  più  notevole  del  sofisma  a priori  di  cui  parliamo,  lo  troviamo  nel  primo  periodo della  filosofia  greca,  cioè  nei  fisici  ionici  e  negli oleati.  Ciò  che  questi  filosofi  si  propongono  in  primo luogo,  è  la  ricerca  dell'essenza  immutabile  delle  cose, del  fondo  permanente  dell'essere  che  non  attinge  il cangiamento.  Siccome  la  tendenza  filosofica  che  ca- ratterizza questo  periodo  del  pensiero  ellenico  non è  messa  sufficientemente  in  luce  dagli  espositori — più  desiderosi  di  trovare  una  connessione  logica nella  successione  dei  concetti  filosofici  che  di  com- prendere la  loro  derivazione  dalle  disposizioni  na- turali dello  spirito  umano  —  noi  dobbiamo  darne un'esposizione  al  nostro  punto  di  vista,  esposizione che  sembrerà  forse  troppo  diffusa  per  il  soggetto  di questo  scritto,  ma  noi  saremo  nella  necessità  di  giu- stificare le  affermazioni  che  avanzeremo. Noi  sappiamo  da  Aristotile  che  il  principio  co- mune di  tutti  i  fisici  j  ammesso  da  loro  come  una pruposizione  assiomatica,  è  che  l'essere  non  può venire  dal  non  essere  né  ridursi  al  non  essere.  11 senso  di  questa  proposizione  non  è  semplicemente che  la  materia  non  può  crearsi  dal  niente  né  di- ventare niente,  ma  anche,  come  ci  spiega  lo  stesso Aristotile,  che  le  cose  non  possono  cangiare  di  na- tura, cioè  che  delle  cose  aventi  una  natura  deter- minata non  possono  cangiarsi  in  altre  di  una  na- tura differente,  o,  per  parlare  il  linguaggio  di  questo filosofo  e  di  quelli  di  cui  egli  espone   le   opinioni» VII che  gli  esseri  non  possono  né  nascere  né  perire, che  non  vi  ha  in  realtà  né  generazione  né  corru- zione (1).  I  diversi  sistemi  dei  fisici  non  sono,  an- zitutto, che  delle  realizzazioni  differenti  di  questo principio  generale,  a  tutti  comune. La  maniera  più  chiara  e  più  coerente  di  realiz- zare questo  principio  é  quella  seguita  dai  fisici  che il  Bitter  chiama  meccanisti^  cioè  di  ammettere  una pluralità  di  sostanze  qualitativamente  immutabili, e  di  cui  non  cangiano  che  i  reciproci  rapporti  nello spazio.  Dal  principio  che  l'essere  non  può  comin- ciare né  finire  questi  fisici  ne  concludono  così,  non solo  l'immutabilità  della  natura  o  essenza  delle  cose, ma  la  loro  assoluta  immutabilità  qualitativa:  e  in verità  non  vi  ha  tra  le  due  specie  di  mutazioni  una distinzione  precisa,  le  qualità  non  potrebbero  net- tamente separarsi  in  due  categorie,  le  une  essenziali, le  altre  non  essenziali.  Per  altro  Timmutabitità  delle qualità,  cosi  bene  che  l' immutabilità  dell'  essenza, era  anch'essa  compresa  nel  senso,  necessariamente vago  ed  ondeggiante,  dell'assioma  dei  fisici^  questa proposizione  (a  parte  l'enunciazione  che  essa  rac- chiude della  persistenza  della  materia)  essendo  l'e- spressione di  questa  oscura  tendenza  del  nostro  spi- rito che  ci  spinge  a  ricondurre  più  che  possiamo il  fenomeno  meno  familiare,  che  é  il  cangiamento nello   stato    delle  cose,  al  fenomeno  più  familiare, (1)  V.  Arlst.  Phys  1.  I  VUI;  1.  I.   IV.  2-3;  Met.  1.  I.  III.  2-3,  1 1.  lU.  V.   3;  1.  X.  VI.  1-4,  ecc. vili 1 1-; |.v €he  è  la  loro  persistenza  nello  stesso  stato.  La  fisica meccanista  si  presenta  in  una  forma  più  primitiva  — perchè  conforme  alla  credenza  spontanea  della  ob- biettività di  tutti  i  dati  della  percezione  sensibile  — e  al  tempo  stesso  più  metafisica  —  per  le  ipotesi  tra- scendenti sulle  forze  motrici  —  in  Anassagora  ed Empedocle;  negli  atomisti,  in  una  forma  più  scien- tifica e  rigorosamente  naturalista,  che  l'ha  resa  su- scettibile di  sopravvivere  a  tutti  gli  antichi  concetti filosofici,  e  di  ritrovarsi,  la  stessa  per  il  fondo,  nella scienza  moderna. Empedocle  ammette,  come  tutti  sanno,  quattro  so- stanze materiali  :  la  terra,  Pacqua,  l'aria  e  il  fuoco^ che  sono  le  forme  più  comuni  e  al  tempo  stesso  più inarcatamente  differenti  con  cui  la  materia  si  pre- senta ai  nostri  sensi.  Le  particole  di  queste  sostanze elementari,  cangiando  la  loro  posizione  rispettiva, €ongiungendosi  e  separandosi,  danno  luogo  a  tutto ciò  che  vi  ha  di  variabile  nell'universo;  ma  ciascuna sostanza  in  sé  è  sempre  la  stessa,  sempre  simile  a se  stessa  (1).  Empedocle  nel  suo  poema  sgrida  gli stolti  checredono  che  qualche  essere  possa  nuova- mente prodursi  e  poi  cessare  di  esistere;  che  ciò  che non  esisteva  prima  della  nascita  e  non  esisterà  più è  nato  dopo  la  morte.  Ciò  è  un'illusione;  non  vi  ha, a  parlar  propriamente,  ne  nascita  né  morte;  non  vi ha  che  congiunzione  e  separazione  di  sostanze  che persistono  sempre  le  stesse,  poiché  l'essere  non  può (1)  V.  Versi  96-97.  128-133  Munach. IX venire  dal  niente  né  diventare  niente  (1).  Ciò  che gli  antichi  chiamano  alterazione  (cioè  il  cangiamento nelle  proprietà  sensibili,  p.  e.  da  bianco  in  nero,  da caldo  in  freddo,  da  secco  ad  umido,  da  molle  in duro,  e  viceversa)  non  è  al  punto  di  vista  di  Em- pedocle —  e  di  tutti  i  fisici  che  ammettevano  più sostanze  primordiali  —  meno  impossibile  che  ciò  che gli  antichi  chiamano  generazione  e  corruzione  (2); ciascuna  sostanza  conserva  sempre  le  sue  proprietà sensibili  particolari;  come  un  pittore,  con  un  nu- mero limitato  di  colori,  convenientemente  mescolati. (1)  Versi  98-119  Mullach  : Aliud  vero  tlbl  dlcam:  nec  ortus  est  ullius  rerum inortalium,  nec  funestae  mortis  interitus, sed  sola  iiilxtlo  mixtoruiiique  secretlo, ^eneratlo  vero  In  hls  rebus  ab  honiinibus  voeatur. Ex  eo  enlm,  quod  non  est,  fieri  neqult  ut  quldquam  oriatur, ens  vero  Interlre  nullo  pacto  potest; semper  enlm  superablt,  quocumque  quis  lllud  propulerlt. Sed  uialls  utlque  mos  est  diffiderò  veris  ac  legltlmls; tu  vero,  quemadmodum  certa  Musae  nostrae  arg^umenta  jubent, tenete,  mente  In  praecordlls  divisa. At  UH,  quld(iuld  ad  honilnis  slniUitudlnem  mixtum  In  aetheris  lucem [pervaserit vel  ex  agrestlum  anlniantluni  genere  vel  fruticuni vel  volucrlum,  Id  quidem  natum  putant; quum  vero  Illa  secernuntur,  hoc  Infaustum  fatum Inepte  appellant,  sed  ad  consuetudlnem  Ipse  rae  accomodo. 8tultl  :  neque  enlm  perspicax  tpsis  mentis  acles  est,  ^ ut  qui  (juod  prius  non  erat  Id  glgnl  existlment Hut  emorl  allquid  et  penltus  Intercidere. Neque  vlr  sapiens  tal  la  opinetur, quamdlu  vivant  mortales,  quam  UH  certe  vltani  vocant, tamdlu  Ipsos  esse  et  bona  IIs  malaque  evenire, anteciuam  vero  concreti  et  postquam  dissoluti  slut,  nlhll  esse. (2)  Arist,  Qen  et  corr,  1.  I.  I.  6-9.  1.  II.  I.  7,  Mei.  1.  I.    III.  7, ecc.  V    anche  Plut  Plac  I.  24,  Stof.  I.  414.4 ILU! M_-  -3^ XI V può  riprodurre  tutta  la  A^arietà  che  noi  osserviamo nella  natura,  così  questa  può  produrre  tutta  questa varietà  mescolando  convenientemente  le  quattro forme  elementari  (1).  Ma  nella  mescolanza  ciascuno degli  elementi  si  conserva  inalterato;  non  vi  ha  fu- sione tra  un  elemento  e  un  altro,  ma  semplicemente juxta  -  posizione  (2).  Secondo  questo  punto  di  vista le  proprietà  sensibili  del  composto  risultano  dalle proprietà  sensibili  degli  elementi  della  stessa  ma- niera in  cui  il  grigio  risulta  dal  bianco  e  dal  nero. Una  quistione  che  s' impone  necessariamente  ai fisici  meccanisti  è  quella  dell'origine  del  movimento. Essi  non  possono  contentarsi  di  quest'idea  vaga  dei fisici  unizzanti,  loro  predecessori,  secondo  cui  il tutto .  cioè  il  mondo  considerato  nel  suo  insieme, avrebbe  la  proprietà  di  produrre  spontaneamente il  movimento,  proprietà  che  noi  non  osserviamo nelle  sue  parti,  cioè  negli  elementi  materiali  che lo  costituiscono.  In  queste  noi  non  vediamo  che Vinerzia,  l' incapacità  di  passare  da  se  stesse  dalla quiete  al  movimento  (3);  e  sarebbe  contrario  al  prin- (1)  Versi  i:U-U4  M. (2)  Arlst.  De  Geu,  et  Corr,  1.  II.  VII.  3;  (xaleno  In  lilppocr.  De nat,  hom.  Comment.  prim.  al  testo  2,  fine,  e  al  testo  12. (3)  In  verità  Empedocle  ammette  un  movimento  naturale  del  corpi pesanti,  come  la  terra,  verso  11  basso,  e  del  fuoco  verso  l'alto  (Arlst. De  An.  1.  II.  IV.  7,Gen.et  corr.  1.  II.  ^^.  9:  movimento  in  cui  egli sembra  vedere  un  caso  della  tendenza  che  ha  secondo  lui  il  simile ad  unirsi  al  suo  slmile,  v.  Versi  M.  262-266,  321-323.  338-.339).Ma  quan- d'anche egli  avesse  ammesso  che  questo  movimento  fosse  dovuto  a una  tendenza  Inerente  agli  elementi  stessi  (e  non  alle  forze  motrici di  cui  diremo),  questa  opinione  isolata  di  Empedocle,  come  (luelle analoghe  che  gli  altri  fisici  meccanisti  hanno  avuto  o  hanno  potuto avere,  non  può  Impedirci  di  attribuir  loro  la  dottrina  dell'  inerzia della  materia,  che  risulta  dall'Impressione  generale  del  loro  sistema cipio    dell'  immutabilità    qualitativa    della  sostanza l'ammettere  che  una  sostanza,  ordinariamente  inerte, possa    acquistare  in  certi  casi  la  proprietà  di  met- tersi spontaneamente  in  movimento.  Supporre  d'al- tronde   che    il    mondo,    considerato  come  un  tutto, abbia  una  spontaneità  di  movimento  che  manca  alle sue  parti  costitutive,  sarebbe  sempre  ammettere  un cangiamento   qualitativo  in  queste  parti,   poiché  è in  esse,  al  postutto,  che  dovrebbe  prodursi  questo movimento  spontaneo  della  cui  facoltà  il  tutto  vor- rebbe supporsi  dotato.  Ne  segue  che  la  produzione del  movimento  non  può  essere   attribuita  agli  ele- menti materiali:    perchè    essi    fossero  in  certi  casi capaci    di    mettersi  spontaneamente  in  movimento, bisognerebbe,  essendo  essi  qualitativamente  immu- tabili, che  il  movimento,  e  la  stessa  specie  di  mo- vimento, si  producesse  in  essi  costantemente,  cioè d'una  maniera  continua.  Ora,  supposta  l'inerzia  de- gli  elementi  materiali,  bisognerà  ammettere  ovvero che  non  vi  ha  mai  produzione  di  nuovo  movimento, e  che  il  movimento    di   un  corpo  è  sempre  dovuto alla  spinta  o  alla  trazione   di   qualche  altro  corpo, ovvero,  se  vi  ha  produzione  di  nuovo  movimento, ch'essa  è  dovuta  a  delle  forze  motrici  distinte  e  se- parate   dagli    elementi    materiali.    Empedocle   am- mette   la    seconda   di  queste  due  ipotesi  :  così  egli ^ggi^nge    ai    quattro   elementi  materiali  due  forze motrici  (del  resto   concepite   anch'esse  come  estese nello  spazio  secondo  le  concezioni  semi-materialiste dell'antico  spiritualismo),  cioè  l'amore  e  l'odio,  di cui  il  primo  è  la  causa  della  riunione  delle  sostanze e  quindi  della  produzione  delle  cose,  e  il  secondo il XII della  separazione  delle  sostanze,  e  quindi  della  dis- soluzione delle  cose  (1).  La  dualità  delle  forze  mo- trici è  data  ad  Empedocle  dal  principio  stesso  del- l'immutabilità qualitativa  della  sostanza  :  egli  non comprenderebbe  che  una  stessa  forza  producesse  al- ternativamente i  due  movimenti  contrari  di  attra- zione e  di  I epulsione,  di  riunione  e  di  separazione, delle  particole  elementari. Un'altra  quistione,  che  si  presenta  naturalmente al  punto  di  vista  dei  fisici  meccanisti,  è  quella  del- l' origine  della  sensibilità  e  del  pensiero.  Che  la stessa  materia  da  incosciente  diventi  cosciente  e  vi- ceversa è  contrario  al  principio  dell'  immutabilità qualitativa  della  sostanza.  Per  conseguenza  bisogna ammettere  o  che  la  materia  è  sempre  e  in  tutte  le sue  parti  dotata  di  sensibilità  e  di  pensiero;  ovvero che  queste  sono  delle  proprietà  inerenti  sia  a  qual- che sostanza  materiale  particolare,  sia  ad  una  so- stanza diversa  dalla  materia.  Noi  ritroviamo  le tre  differenti  ipotesi  nei  tre  diversi  sistemi  della fisica  meccanista.  L'ipotesi  di  Empedocle  è  la  pri- ma, cioè  egli  ammette  che  ogni  elemento  senta  e pensi  (2);  e  il  principio  dell' immutabilità  della sostanza  è  da  lui  spinto  sino  al  punto  di  non  attri- buire a  ciascun  elemento  che  una  funzione  sen- soriale ed  intellettuale  sempre  invariabile  ed  iden- tica: ciascun  elemento  non  conosce  che  il  suo  si- mile (secondo  il  principio  di  alcuni  antichi  iilosofl (1)  Versi  M.  64-69,  77-87,  126-127,  149-153, 191  sqq.;  Ai-lst.  Mot.  1.  I. IV.  2-6,  WL,  3-4,  1.  XI.  X.  5,  Gen,  et  corr.  1.  II.  VI.  5  e  sqq,  ecc. (2)  M.   Versi  298,  378-382. XIII che  il  simile  si  conosce  dal  simile),  e  così  anche  noi con  la  terra  conosciamo  la  terra,  col  fuoco  il  fuoco, con  l'amore  l'amore,    ecc.,  la  sensibilità  ed   intel- ligenza di    un  tutto    essendo  la  somma   delle   sen- sibilità   ed    intelligenze    elementari   (1).    L'ilozoi- smo di  Empedocle  è  una  conferma   della  esattezza della  deduzione,  da  noi  data,    della  dottrina  sulle forze  motrici.  Potrebbe   sembrare  infatti  che  l'ipo- tesi dell'animazione  degli  elementi  materiali  avrebbe dovuto  dis}rensare  Empedocle  dal  ricorrere  a  delle forze    motrici    distinte    dalla  materia  stessa.  Ma  il problema    della  causa  del  movimento  è  per  Empe- docle subordinato  al  problema  di  conciliare  la  pro- duzione del  movimento  col  principio    dell' immuta- bilità qualitativa  della  sostanza:  l'ipotesi  dell'ani- mazione   della    materia  non  modificava  per  niente questo  fatto  dato  dall'osservazione^  che  la  materia è  ordinariamente  inerte,  ed  Empedocle  non  poteva attribuire,  in  certe  condizioni  particolari,  a  questa materia,  quantunque  senziente  e  pensante,  la  pro- prietà   di    mettersi    spontaneamente  in  movimento, senza  contraddire    al    suo    principio  fondamentale, cioè  quello  della  immutabilità  della  sostanza. La  dottrina  di  Anassagora  sugli  elementi  mate- riali è  più  radicale  che  quella  di  Empedocle.  Egli non  crede  che  un  numero  limitato  di  elementi  pos- sano spiegare,  per  la  loro  aggregazione  e  disgre- gazione, Tinfìnita  varietà  che  si  osserva  nella  na- (Ij  Per  cui  Arist.  elice  che  Eiii|.ed.  fa  constare  l'anima  da^li  ele- juenti.  V.  De  Afi.  1.  I.  IL  C.  V.  5-13.  ecc.     '  t — "— ^ XIY tura.  Secondo  lui  devono  esservi  tante  sostanze  ele- mentari quante  specie  vi  hanno  di  corpi  che  pos- sono distinguersi  per  le  loro  proprietà  sensibili  : il  ferro,  V  oro,  la  carne,  1'  osso,  il  sangue,  ecc.,  e in  una  parola  tutti  i  corpi  che  Aristotile  chiama omeomeri  (1),  cioè  tali  che  la  natura  delle  parti in  cui  possono  dividersi  è  identica  a  quella  del tutto,  sono  per  lui  delle  sostanze  tutte  primordiali ed  eterne,  che  nou  possono  provenire  da  altre  so- stanze né  cangiarsi  in  altre  sostanze  (2).  Di  più  sic- come ciascuna  delle  specie  di  sostanze  che  noi  pos- siamo distinguere  contiene  in  se  stessa  delle  diffe- renze individuali,  Anassagora  ammette  che  vi  ha un  numero  infinito  di  elementi  (di  germi),  di  cui nessuno  è  esattamente  simile  ad  un  altro  (3),  ma che  tutti  differiscono  sia  per  la  forma,  sia  pel  co- lore, sia  pel  gusto,  sia  per  qualsivoglia  altra  pro- prietà sensibile  (4).  Questi  elementi,  ora  congiun- gendosi ora  separandosi,  producono  tutti  i  cangia- menti che  noi  osserviamo  nelle  cose,  ma  ciascuno si  conserva  sempre  identico  a  se  stesso.  Se  delle sostanze  differenti  sembrano  procedere  le  une  dalle altre,  è  questa  un'illusione,  la  quale  si  spiega  per il  fatto    che  nessuna  sostanza  è  pura,  ma  ciascuna (1)  Donde  il  nome  di  omeomerie  con  cui  vengono  designati  1  prln- clpll  materiali  di  Anassagora  (V.  Zeller  pag.  877-879). (2)  Arlst.  De  gen.  et  corr*  1.1.  I.  2-9;  De  Coeto  1.  HI.  3,  Met.  l.I. III.  8;  Lucrezio  I.  v.  8110  e  sqq  ;  ecc. (3)  Fr.  4  Mullach,  Arlst.  Phys  1.  I.  TV,  1-3,  1.  III.   IV.  4,  Geiu et  corr,  1.  I.  I.  3,  De  Coelo  1.  in.  IV.  1-4,  Met,  1.  I.  III.  8,  VII.  2. (4)  Fr,  3  M. XV è  mescolata  a  particole  di  tutte  le  altre  sostanze  (1). Così  l'assimilazione  degli  alimenti  nella  nutrizione non  avviene  perchè  questi  si  trasformano  in  ossa, in  sangue,  in  carne,  ecc.:  queste  sostanze  esistevano già  preformate  negli  alimenti  stessi  (2);  esse  non fanno  che  separarsi  dalle  altre  sostanze  con  cui erano  mescolate,  e  riunirsi  alle  sostanze  omologhe del  corpo  dell'  animale  (3)  Anassagora  non  nega meno  energicamente  di  Empedocle  che  qualche  cosa possa  cominciare  ad  esistere  o  finire  di  esistere. «  Quando  gli  Elleni,  egli  dice,  parlano  di  nascere e  di  morire,  essi  fanno  uso  di  termini  di  cui  non dovrebbero  servirsi.  In  realtà  niente  nasce  e  nien- te muore,  ma  delle  cose  già  esistenti  si  riunisco- no, e  poi  si  separano.  A  parlar  propriamente, bisognerebbe  dunque  chiamare  il  cominciamento delle  cose  una  composizione,  e  la  fine  una  disgre- gazione »  (4).  Ciò  che  è  stato  detto  della  inalterabi- lità degli  elementi  di  Empedocle  si  applica  pure agli  elementi  di  Anassagora;  e  a  più  forte  ragione, poiché  a  ogni  minima  differenza  qualitativa  corri- spondendo per  quest'ultimo  una  sostanza  elementare differente,  il  minimo  cangiamento  di  qualità  equi- varrebbe per  lui  a  un  cangiamento  di  essenza.  Gli antichi,  a  cominciare  da  Aristotile,  fanno  derivare la  dottrina  delle  omeomerie  dal  principio  che  l'es- (1)  Fr.  3,  5,  6,  13,  16;  Arist  Phys,  l.  I.  IV.  3,  1.  III.  IV.  5. (2)  Placita  1.1.111.8-10. (3)  Confr.  e.  2.  pag.  90  n.  2. (4)  Fr.  17  M. v i XYI sere    non   può  venire  dal  non  essere  né  ridursi  al non  essere  (1). Il  problema  delPorigine  del  movimento  e  quella dell'  origine  della  coscienza  sono  risoluti  da  Anas- sagora, ammettendo  che  tra  le  altre  sostanze  eterne ed  immutabili  ve  ne  sia  una  che  abbia  la  proprietà di  pensare  e  di  sentire,  cioè  la  Mente,  il  Nous.  Il concetto  dell'inerzia  della  materia  è  espresso  in  lui della  maniera  più  energica,  poiché  egli  ammette che  all'origine  il  tutto  era  in  un'immobilità  assoluta, e  che  il  movimento  non  cominciò  che  per  l'azione del  Nous  sulla  materia  (2).  Il  Nous  (ch'egli  conce- pisce come  esteso  nello  spazio,  e  costituito,  come tutte  le  omeomerie,  di  parti  omogenee  fra  di  loro e  col  tutto)  è  partecipato  dai  diversi  esseri  animati, in  maggiore  o  minor  quantità,  ma  da  per  tutto  iden- tico nella  qualità  (3),  e  produce  in  essi  la  sensazione e  il  pensiero  (4).  Il  Nous  non  cessa  mai  di  agire nella  maniera  che  gli  è  propria  :  il  corpo  dorme, ma  l'anima  veglia  sempre  (5). §.  3.  Il  principio  che  l'essere  non  può  cominciare ne  finire  (6)  condusse  Leucippo  e  Democrito  a  un'ia- (1)  ArifiUPhi/s  l.I.VI.2.3,  Met,  1.  III.  V.3,  Placita  1.  e,  l.I.  lU.H-lO. (2)  Fr.  6-7  Mullach;  Arlst.  Fhys  l.VIII.  1  2. (3)  Fr.  5-6  M.  Arlst.  De  art,  1.  I.  II.  5. (I)  Aristotile  {De  an,  l.I. II.  1.  e.  cfr.  1. 1. II.  13)  dice  che  Anassagora non  fa  differenza  fra  II  nous  e  l'anima,  perchè,  mentre  per  lo  stesso Aristotile  alla  sostanza  nous  non  appartiene  che  la  funzione  superiore dell'anima,  cioè  V  Intelligenza,  essa  Invece  per  Anassagora  è  anche 11  principio  delle  funzioni  inferiori. (5)  Placita  l.V.  XXV.  3. (6)  V.  Diog.  IX.  44,  Alex.  ad.  MeU  IV.  5,  Stab,  Ed.  I.  414,  Plu- t.^rco  adv*  Col*  8.  4-.5. XYII « terpretazione  dei  fenomeni  fisici,  in  cui  l'inaltera- bilità assoluta  della  sostanza  derivava  dal  concetto stesso  della  materia.  Concepita  infatti  la  materia, come  destituita  di  qualità  sensibili  e  perfettamente solida  (cioè  di  una  densità  e  durezza  assoluta)^  non' è  possibile  d'immaginare  in  essa  altro  cangia- mento che  nella  posizione  reciproca  delle  sue  partii e  noi  abbiamo  così  le  condizioni  generali  di  una fisica  costruita  sullo  stesso  tipo  che  quelle  di  Em- pedocle e  di  Anassagora. Ciò  che  caratterizza  in  primo  luogo  il  sistema degli  atomisti  è  la  dottrina  della  subbiettività  del colore  e  dello  altre  qualità  sensibili  (le  qualità  se-- condarie  dei  moderni).  Democrito  prova  questa  dot- trina per  la  relatività  della  percezione  sensibile  (1); ma  essa  può  direttamente  dedursi  dal  principio,  che è  la  presupposizione  dei  fisici  meccanisti,  della, immutabilità  qualitativa  della  sostanza.  Se  in  ef- fetto queste  qualità  dei  corpi  fossero  reali,  esse sarebbero  invariabili  ;  ma  ciò  è  contrario  all'  e— sperienza.  Noi  vediamo  infatti  che  una  cosa,  con- servando la  sua  identità  materiale,  può  nondimeno cangiare  di  colore  (2),  e  dei  corpi,  composti  di  ele- menti eterogenei,  presentano  all'occhio  una  massa perfettamente  omogenea,  ciò  che  non  avverrebbe,, se  ciascuno  di  questi  elementi  diversi  avesse  il  suo colore  proprio  ed  invariabile  (3).  Anassagora  ed Empedocle,  dotando  ciascuno  dei   loro   elementi  di (1)  Teofrasto  De  sensn  ecc.  63-64. (2)  V.  Arlst.  Generai,  et  corr,  1.  I.  II.  9. (3  )  V.  Lucret  1.  v.   777-781. XYIII proprietà  sensibili  determinato,  si  trovavano  ad x)gni  momento  in  contraddizione  con  la  testimo- nianza dei  sensi:  di  là  la  loro  diffidenza  verso  la  per- cezione sensibile  (1);  di  là  ancora  dello  proposizioni paradossastiche  come  quella  di  Anassagora,  cosi celebre  presso  gli  antichi,  che  la  neve  è  oscura v{poichò  l'acqua  di  cui  è  formata  è  oscura)  (2). L'ipotesi  della  solidità  assoluta  della  materia  nei suoi  elementi  ultimi,  insieme  all'ipotesi  del  vuoto, sono  destinate  a  conciliare  col  principio  dell'immu- iabilità  della  sostanza  i  fenomeni  del  cangiamento nella  densità  dei  corpi,  e  sov^ratutto  nel  loro  stato fisico  (cioè  il  cangiamento  da  solido  in  liquido,  da liquido  in  gazoso,  e  viceversa).  È  il  secondo  di  questi fenomeni  che  è  particolarmente  in  contraddizione col  principio  della  immutabilità  della  sostanza  —  il qual  principio  non  è,  come  abbiamo  detto,  che  una suggestione  delle  nostre  esperienze  più  familiari.  — Il  cangiamento  nello  stato  fisico  dei  corpi  è  un  fe- nomeno relativamente  straordinario  ;  il  fenomeno ordinario,  familiare,  è  la  persistenza  in  quello  stato in  cui  si  trovano.  Così  Leucippo  e  Democrito  am- mettono la  solidità  come  lo  stato  invariabile  della materia  in  se  stessa,  e  il  vuoto  interposto  tra  le particole  solide  come  la  causa  della  diminuzione  di •densità  che  accompagna  la  trasformazione  dei  corpi solidi  in  liquidi  e  di  questi  in  gazosi.  (3)  Ma  am- (1)  V.  Emped.  v.  57  MuUach,  Sesto  Math.  VII.  90. (2)  Sesto  Pyrrh.  1.  33,  Cicer  Acad,  II.  23,31,  Galeuo  De  siinplic, medicamente  II.  1,  ecc. (3)  I  fisici  anteriori  aveano  già  ricondotto  il cangiamento  di  stato -fisico  alla  rarefazione  e  condensazione. XIX messa  una  volta  la  solidità,  come  carattere  comune di  tutti  gli  elementi  della  materia,  e  il  vuoto,  si trovava  più  coerente  di  attribuire  a  questi  elementi, non  un  certo  grado  di  densità,  ma  una  densità  asso- iuta  (cioè  di  concepirli  come  resistenti  a  qualsiasi compressione),  e  di  spiegare  per  il  vuoto  tutte  le differenze  di  densità  che  si  osservano  nei  corpi, tanto  più  che  il  cangiamento  di  densità  della  ma- teria è  al  postutto  un  fenomeno  meno  familiare,  e quindi  meno  intelligibile,  che  la  sua  persistenza nello  stesso  grado  di  densità  (1). Alla  densità  assoluta  degli  elementi  si  aggiunge la  durezza  assoluta,  cioè  la  resistenza  a  qualsiasi sforzo  tendente  a  cangiarne  la  figura  ;  e  ciò  sia perchè   la   durezza   sembra  legata   alla  densità  (2), (1)  Arisi.  (Phys.  1.  IV^.VI  4,6)  espone  gli  argomenti  degli  Ato- misti per  provare  il  vuoto,  1  quali  si  riducono  In  sostanza  a  questi tre  :  1"  il  movimento  non  sarebbe  possibile  senza  il  vuoto,  per- chè uno  spazio  pieno  non  potrebbe  dar  posto  al  corpo  che  si  muove. 2"  la  compressione,  la  condensazione  dei  corpi,  per  cui  uno  stesso corpo  può  occupare  uno  spazio  minore  di  prima,  suppone  il  vuoto. 3"  un  corpo  può  introdursi  nello  spazio  occupato  da  un  altro  cor- po, in  modo  che  i  due  corpi  insieme  occupino  lo  stesso  spazio cne  prima  era  occupato  da  un  solo  di  essi.  Di  questi  argomenti  il 2.  corrisponde  al  motivo  che  noi  abbiamo  assegnato  all'origine  della dottrina  :  gli  altri  due  per  essere  probanti  devono  presupporre  l'im- possibilità che  una  materia  continua  occupi  uno  spazio  ora  maggiore e  ora  minore,  dilatandosi  e  condensandosi,  vale  a  dire  prendere  come concesso  ciò  che  era  appunto  in  qulstlone  tra  i  partigiani  della  con- tinuità della  materia  e  quelli  del  vuoto.  Il  primo  argomento  deve presupporre  anche  che  tutta  la  materia  sia  solida,  ipotesi  la  quale alla  sua  volta  presuppone  il  vuoto.  Sicché  noi  dobbiamo  ammettere, come  vero  scopo  della  dottrina,  quello  di  spiegare  la  rarefazione  e la  condensazione. (2)  V,  Teofrasto  De  sensa  62. XX sia  per  una  ragione  di  coerenza  nella  spiegazione dei  fenomeni.  Infatti  la  facilità  a  cangiare  di  figura dei  corpi  non  solidi  spiegandosi  per  la  mobilità  de- gli elementi  solidi  separati  che  li  costituiscono,  il cangiamento  di  figura  di  un  corpo  solido  (p.  e.  di di  un  corpo  elastico)  deve  spiegarsi  pure,  se  si Tuol  essere  coerenti,  per  il  moAÙmento  di  particole divise  e  separate  fra  di  loro,  e  quindi  i  corpuscoli solidi,  le  particole  ultime  in  cui  la  materia  è  divisa, ciascuna  delle  quali  è  necessariamente  continua  ed indiA^isa  {indivisa^  non  indivisibile,  perchè  non  ab- biamo ancora  dedotto  il  concetto  dell'atomo)  non possono  concepirsi  come  suscettibili  di  un  cangia- mento di  figura. Un'altra  conseguenza  che  Leucippo  e  Democrito tirano  dal  principio  dell'immutabilità  della  sostanza è  il  rigetto  della  dottrina  deirunità  delhi  materia, della  convertibilità  reciproca  di  tutte  le  sostanze ammessa  dai  più  antichi  fisici.  Questa  dottrina, come  lo  prova  il  fatto  ch'essa  fu  universalmente abbracciata  dai  primi  fisici,  e  che  essa  prevalse in  ogni  tempo  nella  filosofia  greca,  era  l' inter- pretazione più  ovvia  dei  dati  dell'osservazione,  la quale  mostrava  che  le  sostanze  più  marcatamente differenti  (i  quattro  elementi  degli  antichi)  erano convertibili  T  una  nell'altra:  ma  la  dottrina  am- messa invece  da  Leucippo  e  Democrito,  d'una  plu- ralità di  sostanze  primordiali,  di  cui  ciascuna  con- serva eternamente  la  sua  propria  natura  e  le  pro- prietà particolari  che  la  distinguono,  era  più  confor- me al  principio  a  priori  che  gli  esseri  non  possono né  nascere  nb  perire. XXI Ora  una  materia  di  una  solidità  assoluta  (cioè  di una  densità  e  di  una  durezza  assolute),  in  tutte  le sue  parti,  e  destituita  di  colore  e  di  tutte   le  altre proprietà  che  non  siano  tangibili,   è   una   materia assolutamente  omogenea:  tra  le  sue  parti  non  po- trebbero concepirsi   altre   differenze   che   di   figura o  di  grandezza.  Così  è  per  la  figura  e  per  la  gran- dezza che  secondo    Leucippo    e  Democrito   gli    ele- menti  materiali    si   distinguono   fra   di  loro  (1).  Si potrebbe  forse  supporre   ch'essi   avrebbero    potuto distinguere  gli  elementi  di  diversa  natura  per  delle energie  o  attività  differenti:  ma  anzitutto  per  Leu- cippo  e  Democrito,  come  per  gli  altri  fisici  mecca- nisti,  la  materia  è,  come  diremo,  inerte,  non  è  attiva; e  poi  non  si  comprenderebbe  come  un  sustrato  per- fettamente omogeneo  in  tutte  le  parti  potesse  mani- festare nelle  sue  parti  distinte  delle  attività  insite differenti.  Così,  le  sostanze  differenti  distinguendosi per  la  grandezza  e  la  figura  degli  elementi    costi- tutivi j  la  inalterabilità  di  queste  sostanze,  la  in- convertibilità delle  une  nelle  altre,  suppone  che  gli elementi    costitutivi    conservino    sempre    la    stessa grandezza  e  la  stessa  figura,  cioè  ch'essi  siano  in- divisibili (2).  Allora  il  concetto  àeWaiomo  si  trova costituito. Il  concetto  dell'inerzia  della  materia  a  Leucippo e  Democrito  risultava  d'una  maniera   più   necessa- (1)  Arist.  Met  1. 1.IV.8;  Gen,  et  corr.  1.1. II. 4-9;  Vili. 8, 12, 16,  De Coelo  1.  I-VIM8,  1.  III.IV.5,8,  P%«.  1.  I.II.l,  1.  III.IV.4.6  ecc. (2)  Cfr.  Arlst.  De  Coelo  1.  lU.  VII,  10. 'I XXII ria  ancora  che  ad  Anassagora  e  ad  Empedocle; poiché  la  materia  allo  stato  solido  sembra  manife- starci la  sua  inerzia  d'una  maniera  più  evidente che  ad  un  altro  stato  fisico.  Ma  gli  atomisti  inten- dono mantenersi  in  un  terreno  rigorosamente  na- turalista, e  non  ricorrono  a  delle  ipotesi  trascen- denti per  ispiegare  1'  origine  del  movimento  :  essi ammettono  perciò  che  il  movimento  non  ha  origine^ che  non  vi  ha  movimento  che  sia  spontaneo,  e  che il  movimento  dei  corpi  è  sempre  prodotto  dall'urto di  altri  corpi  (1).  Come  essi  si  rappresentano  la materia  universale  sul  tipo  dei  corpi  solidi,  così  essi elevano  a  tipo  univ^ersale  del  modo  di  produzione del  movimento  l'azione  meccanica  che  noi  osser- viamo tra  i  corpi  solidi  (2). (1)  Arist.  De  Gen,  et  corr,  1.  I.  VITI,  5,  Plac,  1.  I,  23,  26,  Stob. Ed.  I,  348,  394;  Slmpl.  De  Coelo  260  b;  Alex,  ad  Met.  I.  4,  Clc.  De fato  20. (2)  Noi  nou  possiamo  ammettere  con  Zeller,  Lange  ad  altri  espo- sitori che  Leuclppo  e  Democrito  abbiano  spiegato   l'origine  del  mo- vimento attribuendo  agli  atomi  11  peso  alla  maniera  di  Epicuro,  cioè una  tendenza  naturale  al  movimento  verso  11  basso.  Ciò  è  esplicita- mente contraddetto  da  molti  autori  antichi,  quali  Alessandro,  Ps.  Plu- tarco, Stobeo,  Cicerone  nel  luoghi  citati  nelPultima  nota,  che  mettono In  opposizione  sotto  questo  rapporto  la  dottrina  di  Democrito  e  quella di  Epicuro,  e  queste  testimonianze  sono  tanto  più  attendibili,  che  vi era  più  motivo  d'Ingannarsi,  confondendo  a  torto  le  due  dottrine  an- ziché distinguendole  a  torto.  Inoltre  questa  interpretazione  è  Impli- citamente contraddetta  dallo  stesso  Aristotile,  il  quale  dice  che  Leu- cippo  e  Democrito  non  hanno  cercato  la  causa  del  movimento   (Met, 1,1.  IV,  8;  1.  XI,  VI,  7),  e  non  hanno  accordato  agli  atomi  alcun  mo- vimento naturale  {De  Coelo  1.  IH.    II,  3).  Se  malgrado  ciò  11  Zeller attribuisce  agli  antichi  atomisti  la  dottrina  degli  atomisti  posteriori, è  perchè  egli  assegna,   come  scopo    precipuo,  alla  fisica  meccanista quello  di  spiegare  11  divenire,  e  perciò  ritiene  che  una  causa  prima del  movimento  sia  un  elemento  essenziale  di  una  tale  fisica.  Ma  l'og- getto principale  del  meccanisti,  come  degli  altri  fisici,  era  la  ricerca della  essenza  Immutabile  delle  cose,  noi  dobbiamo  perciò  considerare^ XXIil  ^ In  quanto  al  problema  dell'origine  della  coscienza,. si  crederà  forse  che  gli  atomisti  l'hanno  abbando- nato come  affatto  insolubile  secondo  i  loro  princi- pii;  o  almeno  che  essi  non  hanno  potuto,  in  ognt caso,  darne  una  soluzione  che  si  avvicinasse  a  quella, della  dottrina  animista.  Tuttavia  questo  che  sembra naturale  e  necessario  al  punto  di  vista  del  mate- rialismo moderno,  non  era  tale  al  punto  di  vista del  materialismo  antico:  gli  atomisti,  come  quasi tutti  gli  altri  materialisti  antichi,  accettavano  la  di- stinzione comune  tra  anima  e  corpo  (quantunque, conformemente  per  altro  alle  concezioni  dell'animi- smo primitivo,  l'anima  fosse  per  loro  anch'essa materiale).  Così  bastava  di  dare  all'anima  un  sustrato materiale  specificamente  distinto  da  quello  delle  altre sostanze  — ciò  che  era  assai  conforme  ai  principii della  fìsica  nfeccanista  —  ^ev  avvicinarsi  al  punto  di del  dualismo  spiritualista.  Noi  abbiamo  visto che  la  distinzione  del  Nous  dalle  sostanze  materiali come  essenziale  alla  loro  fisica  la  dottrini  dell'inerzia  della  materia,, ma  non  quella  di  una  causa  prima  del  movimento. Dall'altra  parte,  noi  non  possiamo  nemmeno,  a  difetto  di  testi-- monlanze  precise,  affermare  col  Lewes  che  Democrito  abbia  spiegato il  peso  stesso  per  l'Impulsione  (quantunque  Aristotile,  i)^  Coelo  1.  I. Vni.  14,  sembri  alludere  a  questa  dottrina,  la  quale  potrebbe  con- venire agli  atomisti  meglio  che  a  qualsiasi  altro  degli  antichi  filosofi). Sembra  più  verisimile  che  Leuclppo  e  Democrito,  con  tutti  gli  altri fisici,  considerassero  la  caduta  del  gravi  (cioè  del  corpi  aventi  un certo  grado  di  densità,  perché  pare  che  gli  antichi  atomisti  attrlbuls- «ero  al  corpi  meno  densi,  non  una  tendenza  a  cadere,  ma  una  tendenza a  portai-sl  In  alto- v.  Aristotile  De  Coelo  1.  IV.  II)  come  un  fatto  abba- stanza naturale  ed  Intelligibile,  in  ragione  della  sua  familiarità,  del quale  non  occorreva  di  dare  una  splegazioue. r -7-^ i XXIY era  anzitutto  in  Assagora  una  conseguenza  della dottrina  delle  omeornerie.  Democrito  non  distingue l'anima  da  tutte  le  sostanze  corporee;  egli  la  iden- tifica ad  una  sostanza  particolare,  il  calore,  in  modo •che  il  calore  e  l'anima  sembrano  per  lui  due  concetti assolutamente  coestensivi,  due  termini  perfetta- mente sinonimi,  il  calore  essendo  per  se  stesso anima,  come  l'anima  calore  (1).  Cosi  egli  sembra fare  della  coscienza  un  attributo  inseparabilmente congiunto  al  calore,  e  perciò  diffonde  l'anima  in tutto  r  universo  (2),  dal  quale  gli  esseri  animati l' assorbono,  assorbendo  il  calore.  Questa  dottrina di  Democrito,  data  la  sua  spiegazione  perfettamente naturalista  del  mondo,  non  si  comprende  che  come uno  sforzo  por  rendere  conto  dell'origine  della  co- scienza,  conformemente  al  principio  della  fisica jneccanista  che  l'essere  non  può  nò  miscere  nò  pe- xire  (3). §.  4.  Potrebbe  sembrare  che  la  concezione  mec- «canista  essendo,  come  abbiamo  notato,  l'applicazione più  chiara  e  più  coerente  del  principio  comune  dei fisici  che  l'essere  nou  può  venire  dal  non  essere  nò Tidursi  al  non  essere,  noi  dòA^remmo  trovare  questa 'Concezione  al  punto  di  partenza  della  fisica  greca, e  non  quella  che  vi  troviamo  in  effetto,  di  una  so- ft) Arist.  De  An.  1.I.II.3,  De  respirata  e.  4. (2)  V.  oltre  I  1.  citati  neirultima  nota,  Plut.  Plac,  l.  IV.  IV.  4, 1,  I.  \TI.  13,  Stob.  Ed,  I.  56.  Clilllo  cantra  Jnlianum  I.  4,  Clc.  Nat. J)eor.  I.  XLIU.  120,  ecc. (3)  E  a  questa  dottrina  «^ulFanlma  degli  antichi  atomisti  che  si  riat- l'Indicazione  del  Ps.  Plut.  (Plac.  V.  254)  che,  secondo  Lenclppo, la  morte  convlena  al  corpo,  non  all'anima. XXY stanza  primordiale  unica,  e  della  convertibilità  re- ciproca di  tutti  i  corpi  (1).  Ma  noi  abbiamo  osservato che  una  fisica  medoanista  si  trova  necessariamente in  contraddizione  con  la  testimonianza  dei  sensi,  e che,  nella  sua  forma  più  sviluppata,  questa  fisica arriva  a  un  sistema  che  nega  la  realtà  dei  dati immediati  della  percezione  sensibile.  Inoltre  una pluralità  di  sostanze  primordiali  inconvertibili  l'una nell'altra  ò  un'idea  contraria  alle  prime  apparenze. (1)  Si  potrebbe  tuttavia  ammettere  col  Kitter  che  la  fìsica  mecca" nista  abbia  avuto  anche  tra  1  più  antichi  fisici  il  suo  rappresentante, cioè  Anassimandro.  E  ciò  che  sembra  risultare  da  due  testi  di  A  risto- tlìe  in  cui  la  dottrini  d'Anassimandro  è  assimilata  a  quella  del  fisici meccanisti.  Nell'uno  di  questi  testi  (Phys  1.  I.IV.  1)  Aristotile  divide 1  fisici  In  due  categorie,  di  cui  gli  uni  ammettono  una  sostanza primordiale  unica  facendone  derivare  le  altre  cose  per  via  di  condensa- e  di  rarefazione,  e  gli  altri  fanno  separare  le  contrarietà  conte- nute nell'uno,  cioè  nell'indistinto  primitivo,  ed  è  in  questa  seconda  ca- tegoria ch'egli  comprende  Anassimandro.  Insieme  ad  Empedocle  e  ad Anassagora.  Nell'altro  testo  (  Met. l.XI. II.  3)  attribuisce  ad  Anassi- mandro, al  tempo  stesso  che  ad  Empedocle  e  ad  Anassagora,  l'Idea di  una  mescolanza  primitiva,  e  assimila  la  sua  dottrina  a  quella  dello stesso  Anassagora  e  di  Democrito  di  uno  stato  originarlo  del  mondo in  cui  tutte  cose  erano  insieme  (cioè  In  cui  tutto  il  reale  preeslsteva allo  stato  di  attualità,  e  non  semplicemente  di  potenza  come  nella materia  dello  stesso  Aristotile).  Se,  seguendo  questo  indicazioni  (a cui  si  potrebbe  aggiungere  quella  di  Teofrasto  np,  Simpl,  in  PUijs. fot.  6  b,  che  assimila  la  dottrina  di  Anassagora  sugli  elementi  mate- riali a  quella  di  Anisslmandro,  per  non  parlare  di  Simplicio  stesso in  Fht/s  fol.  6  a,  ^  b,  51  b,  e  di  altri  testimoni  posteriori),  si  fa  di Anassimandro  un  meccanista,  bisognerebbe  attribuirgli  una  fisica analoga  a  quella  che  Parmenide  espone  nelta  2**  parte  del  suo  poema, cloò  la  dottrina  di  due  elementi,  l'uno  caldo  (e  al  tempo  stesso  tenne, luminoso,  mobile),  l'altro  freddo  (e  al  tempo  stesso  denso,  oscuro, Inerte).  E  ciò  che  risulterebbe  combinando  l'indicazioue  di  Aristotile di  una  separazione  delle  contrarietà),  con  un'altra  indicazione  di Plutarco  (ap.  Eus.  Praep,  evang.  I.  8,  che  dice   che  alla  formazione y f, V XXVI alle  inferenze  risultanti  dalle  osservazioni  più  ovvie: queste  mostravano  che  le  forme  più  marcatamente differenti  della  materia,  cioè  i  4re  stati  fisici  dei corpi,  a  cui  si  aggiungeva  il  fuoco  come  una  quarta forma  non  meno  spiccatamente  distinta,  potevano procedere  le  une  dalle  altre;  se  ne  concludeva  che le  forme  meno  differenti  erano  anch'esse  converti- bili,  e  che  vi   era  una   materia   unica   che   poteva del  mondo  avvenne  una  separazione  del  germe,  YÓVIULOV,  del  caldo e  del  freddo!,  e  un'  altra  di  Stobeo  [Ed,  I.  500,  secondo  cui  il  cielo  ò formato  dalla  mescolanza  del  caldo  e  del  freddo).  Una  tale  Interpre- tazione spiegherebbe  anche  11  fatto  altrimenti  difficile  a  compren- dere, che  Parmenede  dà  questa  dottrina,  che  egli  non  ammette,  come degli  nomini. Ma  questa  Interpretazione,  e  in  generale  qualsiasi  interpretazione della  fisica  di  Anass!raandro,  ha  contro  di  so  le  testimo- nianze della  più  parte  degli  autori  posteriori,  1  quali  gli  attribui- scono invece  la  dottrina  di  una  sostanza  primordiale  unica  diversa dai  quattro  elementi.  Sicché  noi  non  possiamo  niente  affermare  di sulla  vera  dottrina  di  Anassimandro,  tanto  più  che  queste  te- stimonianze, quand'anche  dovessimo  seguirle,  non  c'insegnano  niente sullo  spirito  della  fisica  di  Anassimandro,  poiché  esse  non  c'indicano per  qual  processo,  secondo  questo  filosofo,  11  multiplo  sarebbe  uscito dall'uno  (l'indicazione  che  le  diverse  sostanze  derivano  dalla  costanza, per  rarefazione  e  condensazione  essendo  esplicitamente contradetta  da  Aristotile).  L'interpretazione  del  Zeller secondo  cui Anassimandro  si  sarebbe  contentato  dell'  idea  vaga  che  la  sostanza omogenea  primitiva  si  divise  in  una  moltipllcltà  di  sostanze diffe- renti, oltre  che  fa  discendere  a  un  livello  troppo  basso  II  valore  fi- losofico di  Anassimandro,  è  obbligata  a  torturare  1  testi  indicati  di Aristotile,  e  non  rende  conto  dell'Incontestabile  analogia  che,  secondo questi  testi,  deve  ammettersi  tra  la  fisica  di  Anassimandro  e  quella meccanisti, SI  potrebbe  forse  Immaginare  un'interpretazione  che  mettesse  di accordo  le  indicazioni  che  assimilano  Anassimandro  ai  fisici  mecca- nisti con  quelle  secondo  cui  egli  avrebbe  ammesso  una  sostanza  unica indeterminata  (v.  Diog.  Laert.  II.  I.  Plac,  1.  3.,  e  principalmente  Teo- frasto  1.  c.^  che    sembra   attribuirgli  la  dottrina  di  una  sostanza  in- XXVII prendere  tutte  le  forme.  Ma  ammettendo  l'unità della  materia  e  la  convertibilità  reciproca  di  tutte le  sostanze  immediamente  date  dall'  osservazione, 1  primi  fisici  non  rinunziavano  perciò  al  princi- pio, considerato  come  evidente  perse  stesso,  che l'essere  non  può  nascere  nò  perire,  e,  quindi, che  delle  cose  aventi  una  natura  determinata  non possono  cangiarsi  in  altre  cose  di  una  natura  dif- ferente. Quando  essi  dicono  che  tutto  è  aria  o  fuoco o  acqua,  il  loro  pensiero  non  è  semplicemente  che vi  ha  una  materia  unica,  e  che  perciò  la  sostanza che  costituisce  le  cose  diverse  dall'aria  o  dal  fuoco o  dall'acqua,  nell'eterna  circolazione  dei  suoi  stati ha  già  attraversato  quello  di  aria  o  di  fuoco  o  di  acqua. definita  secondo  la  specie  e  secondo  la  grandezza)  :  si  potrebbe,  cioè, l'idea  di  Telesio  della  materia  indeterminata,  e  del  caldo e  del  freddo,  concepiti  come  due  entità  sussistenti  per  se  stesse,  che dividono  il  dominio  di  questa  materia.  Infatti  Aristotile  (Pliys. 1.  III.  V.  10)  parla  dell'opinione  secondo  la  quale  Vinftnito  non  può alcuna  delle  proprietà  contrarie  per  cui  1  differenti  corpi  si distinguono  fra  di  loro,  perchè  una  sostanza  infinita  avente  certe proprietà  determinate  renderebbe  impossibile  l'esistenza  di  altre  so- stanze aventi  delle  proprietà  opposte.  Se  riferiamo  quest'indicazione Anassimandro,  come  fanno  i  commentatori  d'Aristotile,  sembre- rebbe risultarne  che  l'infinito  di  Anassimandro  (supposto  ch'egli  ab- ammesso  un  principio  materiale  unico)  resta  nei  suo  stato  d'in- determinazione, anche  dopo  che  le  sostanze  particolari  ne  sono  state formate.  La  materia  di  Anassimandro  sarebbe  dunque,  per  usare  una espressione  di  Rosmini,  un'  indeterminato  reale,  o,  in  altri  termini un'astrazione  realizzata  (e  in  effetto  Aristotile,  De  gen,  et  corr.  l.II. I.  3,  5,  per  dlstln'.?uere  questa  materia  senza  alcuna  delle  proprietà contrarle  dalla  materia  qual  essa  è  nella  sua  propria  dottrina,  dice che  la  seconda  non  è  separabile  come  la  prima,  assegnando  cosi  tra le  due  dottrine  lo  stesso  carattere  differenziale  per  cui  egli  suole  di- stinguere 1  suoi  propri  concetti  da  quelli  di  Platone).  Ora  la  realiz- zazione dell'  astratto  materia  supporrebbe  necessariamente  la  reallz- XXYIII Ciò  che  permane  nelle  trasformazioni  continue  della materia  non  è  soltanto,  per  essi,  il  sustrato  comune indeterminato  delle  div^erse  sostanze  materiali  :  in questo  caso,  non  si  avrebbe  ragione  di  elevare  una qualunque  delle  forme  che  prende  alternativamente la  materia  a  base  ed  elemento  di  tutte  le  altre  ;  non sarebbe,  in  ultima  analisi,  vera  differenza  tra  le varie  oi3Ìnioni  dei  fisici  unizzanti:  ben  più  tra  queste e  quella  di  Aristotile  non  vi  sarebbe  al- cuna opposizione  reale,  e  la  polemica  di  questo  fi- losofo  contro  i  fisici  che,  come  lui,  ammettevano l'unità  della  materia,  si  ridurrebbe  a  una  semplice logomachia.  Noi  non  dobbiamo  dunque  interpretare dottrina  dei  fisici  unizzanti  semplicemente  nel senso  che,  al  punto  di  partenza  e  al  punto  di  arrivo della  evoluzione  del  mondo,  tutto  ///,  e  nuovamente sarà^  aria  o  fuoco  o  acqua:  noi  dobì)iamo  intendere invece  che  tutto  attualmente  è  aria  o  fuoco  o  acqua,zazlone  di  aUrl  astratti,  cioè  delle  forme  che  differenziano  la  mate- ria; e  noi  dovremmo  quindi  comprendere  le  contrarietà  della  cui  separazione  (j[uistione  nel  luogo  indicato  della  Fisica,  nel  senso  più rigoroso  della  parola  contrarietà,  che  indica,  non  le  cose  aventi  le proprietà  contrarie,  ma  le  stesse  proprietà  contrarie.  Queste  cantra» rietà  si  ridurrebbero,  per  Anassimando,  alla  contrarietà  fondamentale del  caldo  e  del  freddo,  che  Anassimandro  avrebbe  trattato  come  de- gli esseri  reali  [separabili,  per  usare  l'espressione  abituale  di  Ari- stotile), rappresentandoseli  come  Ingenerablli  e  imperlblll.  e  sempre gli  stessi  e  nella  stessa  quantità,  e  determinanti  per  il  semplice  pas- saggio da  un  luogo  ad  un  altro  tatti  i  cangiamenti  del  mondo  mate- riale. Di  là  la  proposizione,  attribuitagli  da  Diogene  Laert.  (II.  1), che  l'universo  cangia  continuamente  nelle  sue  parti,  ma  11  tutto  resta immutabile.  Sarebbe  senza  profitto  per  il  nostro  argomento  svilup- pare più  lat*gamente  un'  ipotesi  dalla  quale,  non  potendo  venii'e  ap- poggiata  su  dati  storici  precisi,  non  si  potrebbe  tirare  alcuna  conse- guenza. XXIX che  la  sostanza  primitiva,  di  cui  tutte  le  cose  sono state  fatte,  persiste  ancora,  al  di  sotto  delle  sue nuove  parvenze,  nelle  cose  derivate.  Questo  mondo dice  Eraclito  (1),  è  stato,  è  e  sarà  sempre  un  fuoco immortale;  egli  non  dice  soltanto:  questo  mondo  è stato  fuoco,  e  tornerà  ad  essere  fuoco.  Similmente Diogene  d'Apollonia  non  dice  semplicemente  che tutto  viene  dallo  stesso  (l'aria)  e  si  risolve  nello stesso,  ma  ancora  che  tutto  è  lo  stesso  (2).  E  i  testi- moni più  autorevoli,  come  Aristotile,  attribuiscono a  tutti  i  fisici  che  ammettono  un  principio  materiale unico  la  dottrina  che  una  sostanza  determinata  (Taria o  il  fuoco  o  l'acqua,  ecc.)  è  la  materia  universale  (3), la  sostanza  (4)  o  la  natura  (5)  di  tutte  le  cose,  il sustrato  di  tutti  i  fenomeni    (6),   Tessere   unico  che (1)  Fr.  27.  Mullach. (2)  Fr»  2  Mullach:  la  prova  che  tutto  è  lo  stesso  è  che  altrimenti le  cose  non  potrebbero  venire  l'una  dall'altra  (cti*.  Fr,  (i)  né  mesco- larsi né  agire  l'una  sull'altra  (secondo  il  principio  che  solo  il  simile può  agire'snl  simile). (3)  Met  1.  IV  IV  5i,  Gen.  et  corr,  1.  II I  2.  1.  II  III  4,  Met,  LI  Vili 1,  De  Coelo  1.  Ili  V  10,  Phys.  1.  I IV  1,  (ien,  et  corr.  1.  II  V  1. (4)  Arist.  Met.  1.  1-III.2-4:  Plurimi  eorum  qui  primo  i)hilosophati sunt.  solas  illas  causas  existimarunt  esse  principia .  quae  in  mate- riae  specie  sunt.  Ex  quo  enim  omnia  ontia  sunt.  et  ex  quo  primo fìunt.  et  ad  quod  ultimum  corrumpuntur,  snbstantia  qui^Iem  perma- nente, mutata  vero  passionibus,  hoc  elementum  et  hoc  omnium  en- tium  esse  principium   aiunt  :  et  ob  lioc  nihil  Aeri   neque   corrumpi opinantur,  tanquam  liuiuscemodi  natura  semper  conservata Oportet  enim  aliquam  naturaci  aut  unam  aut  plurcs  esse,  e  quibus caetera  tiunt,  illa  conservata.  Pluralitatem  tamen  et  speciem  huius principii  non  eandem  omnes  dicunt,  sed  Tliales aquam  ait  esse- etc.  v.  a.  Met.  1.  I.  IV.S,  Phif8.  ecc. (5.  J^J^  1.  I  III  3,  1.  IV  IV  3  Phys,  1.  II.  1. 7-9,  1.  I  VI  4. «i)   Vet.  1.  I  III  2-3,  1.  1  IV  H,  Phys.  1.  II  1  9. XXX è  al  fondo  di  tutti  gli  esseri  (  l  ).  Questi  fisici pensano  adunque  che  l'elemento  primitivo  di  cui tutte  le  cose  sono  fatte,  si  mantiene  identico  a  se stesso,  attraverso  tutti  i  mutamenti  del  mondo  mate- riale; che  gli  esseri  derivati  passano,  ma  la  sostanza primordiale  resta,  ed  è  incorruttibile  ed  eterna  (2); e  che  perciò,  a  parlar  propriamente,  niente  nasce e  niente  perisce  (3),  il  fuoco  o  l'acqua  o  l'aria  che costituisce  l'essenza  di  tutte  le  cose,  non  cessando mai  di  essere  quello  che  è. Di  là  sembrerebbe  seguirne  che  di  tutti  gli  stati (1)  Met.  1.  I.  V  9,  1.  II.  IV  23,  1.  IX  II 1,  Gen,  et  corr.  1.  1. 1.  2. (2)  Diog.  Fr,  7.  «  Atqne  hoc  ip»ani  est  corpus  aeternum  et  immor tale:  caetera  partirà  fiunt,  partim  defìciunt*  Arist.  De  Coelo  1. 111.1,3: «  Quidam  autem,  caetera  quidem  omnia  fieri,  fluireque  dicunt,  ac  ni- hil  prorsus  stabile  esse;  unum  autem  quid  solum  permanere,  ex  quo haec  universa  transfigurari  sint  apta:  quod  quidem  et  alii  complu- res  et  Heraclitus  Ephesins  dicero  velie  videntur.  »  Arist.  Met,  1.  I. Ili  2  4,  1.  e.  Arist.  Met.  1  IV  IV  3:  Item  natura  dicitur,  ex  quo primo  inordinato  oxsistente  et  immobile  ex  sua  potentia  est  aut  fit aliquid  eorum  quae  natura  sunt,  ut  statuae  vasorumque  aeneorum aes  natura  dicitur,  ligneorum  vero  lignum:  similiter  autem  et  de ceteris.  Ex  hi»  enim  unumquodque  est,  prima  materia  salva.  Hoc enim  modo  etiam  eorum  quae  natura  sunt  dementa  dicunt  esse naturami  quidam  ignem,  quidam  terram,  quidam  aerem,  quidam aquam,  quidam  aliud  tale  dicentes,  et  quidam  aliqua  horum,  qui- dam vero  hacc  omnia».  Arist  Fhi/s,  1.  II.  1.7-10:  «  Jam  vero  quibus ■dam  videtur  natura  et  essentia  eorum  quae  natura  Constant,  esse  id quod  primum  cuique  rei  inest,  informe  per  se:  ut  lectirae  natura  est lignum,  statuae  vero  aes. . . .  Idcirco  alii  terram,  alii  ignem,  alii  aèrem, alii  aquam,  alii  nonnulla  ex  his,  alii  haec  homnia,  inquiunt  esse rerum  naturam.  Quod  enim  quisque  existimavit  esse  tale,  sive  unum sive  multa,  hoc  et  tot  inquiunt  esse  universam  essentiam,  reliqua autem  omnia  esse  horum  affectiones  et  habitus  et  dispositiones.  Et horum  quidem  quodvis  esse  sempiternum  (non  enim  esse  ipsis  mu- .tationem  ex  se  ipsis);  cetera  vero  fieri  et  interire  infinities  «. (3)  Met  1.  I.IU.3.10.  Pys  1.  I.VIII,  Gen. et, corr. LI.  1,2S. XXXI che  noi  vediamo  attraversare  successivamente  alla materia,  secondo  questi  fisici,  uno  solo  è  reale,  e gli  altri  non  sono  che  apparenti;  che  le  sostanze materiali  non  sono  da  noi  percepite  secondo  la  loro realtà,  all'infuori  dell'elemento  primitivo;  che  quan- do p.  e.  Paria  di  Anassimene  si  è  cangiata  in  acqua o  in  terra,  è  a  noi  che  pare  acqua  o  terra,  mentre in  realtà  non  vi  ha  ancora  che  l' aria  primitiva. Tale  è  il  senso  in  cui  Lucrezio  comprende  queste dottrine;  così  egli  dice  contro  Eraclito  (1): Bicere  porro  ignem  res  omneis  esse,  neqne  nllam Rem  veram  in  numero  rerum  constare.,  nisi  ignem, Quod  facit  Ilice' idem,  perdelirum  esse  videtur. Nani  contra  sensus  ah  sensibus  ipse  repugnat, Et  labefactai  eos,  unde  omnia  eredita  pendent; linde  ìiic  cognitus  est  ipsi,  quem  nominai  ignem. Credit  enim  sensus  ignem  cognoscere  vere; Caetera  non  credit,  quae  nilo  darà  minus  sunt. Ma  in  verità  nò  Eraclito  ne  gli  altri  fisici  uniz- zanti  pensavano  ridurre  a  semplici  apparenze  il- lusorie le  forme  in  cui  l'elemento  primitivo  si  tra- smutava, quantunque  sia  questo  il  risultato  a  cui essi  sarebbero  stati  condotti  se  avessero  sviluppato rigorosamente  le  conseguenze  contenute  nelle  loro  af- fermazioni. Dal  principio  a  priori  (a  priori  in  quanto era  non  una  conclusione,  ma  un'anticipazione  dell'e- (1)  I.  sperienza)  che  l'essere  non  può  nascere  né  perire,  e che  una  cosa  perciò  non  può  cangiarsi  in  un'altra  di una  natura  differente,  essi  concludevano  che  il  fuoco o  l'aria  primitiva  non  poteva  cessare  di  essere  lo stesso  fuoco  o  la  stessa  aria;  Tesperienza  (quale  essi l'interpretavano)  mostrava,  al  contrario,  che  l'ele- mento primitivo  si  trasformava  in  altre  sostanze di  cui  tutte  le  proprietà  erano  essenzialmente  dif- ferenti dalle  sue:  essi  non  sacrificavano  il  fatto  al principio,  ma  nemmeno  il  principio  al  fatto;  e  ciò che  vi  ha  di  caratteristico  nelle  loro  vaghe  e  oscure concezioni  è  la  coesistenza  nel  loro  spirito  di  que- ste due  idee  incompatibili,  la  forza  con  cui  l'una e  Taltra  s'imponevano  non  permettendo  loro  di  ri- nunziare all'una  o  airaltra,  ne  di  vedere  che  vi  era tra  di  esse  una  contraddizione  insolubile  (1). L'idea  che  nelle  trasformazioni  della  materia  la sostanza  si  conservava  nondimeno  identica  a  se stessa,  doveva  condurre  i  fisici  unizzanti  a  una  ma- niera di  vedere  analoga  a  quella  dei  fisici  ineccU" nisti,  che  non  ammettevano  altro  cangiamento  nelle cose  che  nei  rapporti  di  spazio.  Essi  credevano  che ffli  stati  differenti  della  sostanza  unica  erano  do- vuti  ai  gradi  differenti  della  sua  condensazione  (2), (1)  Naturalmente  Aristotile  non  ha  mancato  di  notare  11  carattere eontradittoi-lo  della  dottrina  di  questi  fisici  V.  De  Gen.  et  cor rA,  11, V.   1-2. (2)  Per  Anasslmene:  Plut.  ap.  Eus.  Praep.  Erano-  I.  S,  Plut./>e^ Prim.  Frig,  e.  7;  Slmplic.  ///  Phijs,  fol.  32.  Ippol.  Rcf,  haeres.,  1,7. (Orljjenls  Phllosophoumena).  Per  DIo2:ene  d'Apollonia:  Dio^.  Laert.  IX» 57.  Per  Eracl.:  DIog.  Laert.  IX.  H  e  sejrg. .  Plut.  P/rtrr//«  1.3,  2.5-26, Slmpl.  ///  PhiiS^  a,  :nO  a.  Per  tutti:  Arlst.   Met,  1.  I.  IV.  H,  P////.S-,  1.  I. e  siccome  la  condensazione  e  la  rarefazione  non sono  che  un  avvicinamento  e  un  allontanamento  dello particole  fra  di  loro,  il  movimento  della  materia spiegava  secondo  essi  tutti  i  cangiamenti  che  si  os- servano nella  natura  (1).  Così  è  alla  congiunzione e  alla  disgiunzione  delle  parti  della  sostanza  ele- mentare che  essi  riconducono,  come  i  fisici  mecca- nisti,   tutti    i   mutamenti  apparenti  di   sostanza  (2) IV,  1,  1.  I.  VI.  6,  De  Gen,  et  corr,  1.  II.  III.  4,  Gal.  in  Hippocr.  De nat.  hoiii,  I.  2,  ecc.  Avvertiamo  che  per  la  esatta  comprensione  del concetti  del  fisici  unizzanti  bisogna  tener  presente  che  essi  non  am- mettevano 11  vuoto,  e  perciò  nemmeno  ciò  che  noi  diciamo  la  costi- tuzione molecolare  della  materia,  cioè  la  sua  divisione  In  particole ultime  separate  le  une  dalle  altre  e  conservanti  sempre  in  se  stesse la  stessa  densità. (1)  Ippol.  Ref*  haeres  1.  e;  Simpllc.  in  Phtjs,  fol.  6  a  (per  Anas- slmene); Plirt.  ap.  Eus.  Praep.  evang,  I,  8  (per  Diog.  d'Apoll.);  per tutti:  Arist.  De  gen.  et  corr,  1.  II.  IX,  7,  Phgs,  1.  Vili.  IX.  3. (2)  Arlst.  De  Coelo  1.  III.  V.  5:  quelli  che  ammettono  11  fuoco  co- me corpo  primitivo,  e  lo  distinguono  per  la  tenuità  delle  particole (cioè  Eraclito  e  1  fisici  che  professano  una  dottrina  analoga,  in  op- posizione al  platonici  che  lo  distinguono  per  la  figura),  da  esso  com- postosi (èx  TOÓTOD  O'JVTlOsaévOD,  cioè  dalla  integrazione,  dalla confluenza  delle  sue  particole)  dicono  prodursi  le  altre  cose  come  per rammassamento  di  un  pulviscolo  (xaGàxsp  àv  £1  aU[JLCpDaa)[JL£VOl> (}>YlY[JLaTO?)  V.  anche  ibid,  1,  Met  1.  I.  Vili.  3-6,  Phgs,  1.  Vili.  IX.  3, ecc:  È  questo    processo   meccanico   nella   produzione   delle  sostanze che  fa  dire  a  Lucrezio  contro  Eraclito  : (1.   Versi  ()46-665 Nam  cur  tam  varlae  res  possent  esse,  requlro. Ex  uno  si  sunt  Igni  puroque  creatae. Nlhll  prodesset  enlni  calldum  denserler  Ignem, Nec  rarefierl,  si  partes  Igmls  eandem Xaturam,  quam  totus  habet  super  Ignls,  haberent. Acrlor  ardor  enlm  conductls  partlbus  esset: L.anguldlor  porro  dlsjectis  disque  supatls. Ampllus  hoc  fieri  nlhll  est  (piod  posse  rearls Tallbus  In  causls;  nedum  varlantla  rerum Tanta  queat  densls  rarlsqne  ex  Ignibus  esse. I xxxrv^ (apparenti  perchè,  come  abbiamo  detto,  niente  nasce al  fondo  e  niente  perisce);  e  Aristotile  fa  consistere la  differenza  fra  di  essi  e  gli  Eleati,  i  quali  negano qualsiasi  specie  di  cangiamento,  in  ciò  che  i  primi, d'accordo  coi  secondi  per  ogni   altro   cangiamento, non  negano  però  il  movimento,  il  cangiamento  nello spazio  (1).  Le  forme  e    le    differenze    del   multiplo non  sono,  secondo  i  fisici  unizzanti,  che  gradi  dif- ferenti di  densità  e  di  rarità,  di  concentrazione   e di  dilatazione  della  materia  universale  (2):  divenuta più  densa  o  più  rara  essa  pare  differente  (3);  ogni differenza  tra  le  cose  non  è  al   fondo   che   quanti- tativa, riducendosi  alla  maggiore  o  minor  quantità di  materia  che  occupa  uno  spazio  dato  (4).  Da  que- ste imlicazioni  degli  antichi  testimoni  noi  possiamo concluderne    che,    secondo  questa   scuola  di  fisici, la    rarefazione   e   la   condensazione   della   sostanza universale  non  è  semplicemente  la  causa  dei    suoi eangiamenti  di  stato  e  delle  differenze  qualitative ehe  si  manifestano  in    questi    stati   differenti;    ma ancora  che  questi  stati  differenti  e   le   qualità   dif- ferenti che  li  caratterizzano  non   consistono,   in  se stessi,  che  nei  diversi  gradi  di  densità  e  di  rarità, di  concentramento  e  di  diffusione    di  una  sostanza qualitativamente  immutabile,  o  piuttosto  1  cui  can- giamenti   qualitativi   non  sono  nella    loro    essenza (1)  MeU  1.  I.  V,  9;  cfr.  1.  I.  UI.  10. (2)  Arlst.  Phìjs*  1.  I.  ly.  1.  ^ <3)  Ippol.  1.  e.    TWXVOÓJJLSVOV   (raria,  secondo  Anasslmene)  yap xot  àpato6[j.svov  Btàcpopov  cpaCvsoOai. (4)  De  Coelo  1.  ni.V.  2. ti <jhe  cangiamenti  quantitativi  e  puramente  spaziali  (1), qualche  cosa  come  una  concentrazione  e  una  diffu- sione di  certe  qualità  fondamentali  che  la  sostanza non  perde  mai.  Per  quanto  tali  idee  siano  oscure, anzi  affatto  inconcepibili,  esse  si  presentavano  na- turalmente al  punto  di  vista  dei  fisici  unizzanti, i  quali  per  conciliare  il  principio  preteso  assioma- tico deirimmutabilità  della  sostanza  con  le  trasmu- tazioni che  presenta  l'esperienza,  non  avevano  altro mezzo  che  di  ridurre  tutti  i  cangiamenti  della  na- tura al  cangiamento  di  posizione  nello  spazio,  come poi  fecero,  con  idee  più  chiare  e  coerenti,  i  fisici meecanisti. (1)  Ciò  che  precede  è  negato  recisamente  da  Zeller,  almeno  per Eraclito.  Non  si  deve,  egli  dice,  avanzare  con  alcuni  autori  (tra  i quali  egli  ha  il  torto  di  non  comprendere  Aristotile:  v.  De  Coelo ].  III.  V,  5,  1,  e,  e  9,  in  cui  estende  a  quelli  che  ammettono  il  fuoco -come  elemento,  il  rimprovero  che  per  i  fisici  nnizzanti  la  differenzi! tra  le  sostanze  è  soltanto  quantitativa  e  quindi  un  che  di  puramente relativo)  che,  secondo  Eraclito,  le  sostanze  secondarie  procedono dai  fuoco  e  si  risolvono  in  fuoéo  per  via  di  condensazione  e  di  di- latazione. Senza  dubbio  quando  il  fuoco  si  cangia  in  umidità  e  l'u- midità in  terra,  vi  ha  condensazione,  come,  nel  caso  contrario,  vi ha  dilatazione.  Nondimeno,  nel  pensiero  di  Eraclito,  questa  conden- sazione e  questa  dilatazione  non  sono  la  causa,  ma  la  conseguenza del  cangiamento  di  sostanza.  In  effetto,  secondo  lui,  non  è  il  rav- -vicinamento  delle  particole  del  fuoco  che  fa  passare  l'elemento  igneo hUo  stato  umido,  e  l'elemento  umido  allo  stato  solido  o  terroso;  ma se  un  elemento  meno  denso  diviene  un  elemento  più  denso,  è  perchè il  fuoco  si  è  ti  asformato  in  umidità,  e  l'umidità  in  terra.  Così  pure perchè  il  fuoco  rinasca  dalle  altre  sostanze,  non  basta  che  gli  ele- menti primitivi  di  queste  sostanze  s'allontanino  gli  uni  dagli  altri: bisogna  una  nuova  trasformazione,  un  cangiamento  qualitativo tanto  delle  parti  quanto  del  tutto.  (Certamente  un  cangiamento qualitativo  è  necessario,  ma  esso  non  ó  per  Eraclito,  come  per  gì «litri  fisici  della  stessa  scuola,  che  una  coìiseguenza,  —  nel  senso  lo- §.  5.  Il  principio  dell- unità  e  immutabilità  della, sostanza  è  sostenuto  della  maniera  più  radicale  da,  il  quale  spinge  questo  principio  sino  alla conseguenza  estrema  della  .identità  dei  contrari. Eraclito  riconduce  tutte  le  differenze  dell'essere, costituiscono  la  moltiplicità  e  il  divenire,  alla opposizione  per  contrarietà.  La  legge  delle  cose  è, secondo  lui^  la  loro  opposizione  mutua:  tutte  le  cose per  coppie  di  contrarli;  ogni  cangiamento  è il  passaggio  da  uno  stato  al  suo  stato  opposto  (1). Tutto  nasce  dalla  discordia,  dice  Eraclito  nel  suo linguaggio  figurato;  la  guerra  è  la  madre  e  la  so- vrana di  tutte  le  cose  (2);  larmonia  del  tutto  è  co- gico,  non   semplicemente  un  effetto -de\  cangiamento  di   densità  o di  posizione   reciproca   delle   parti).  La  ragione  decisiva   per  cui  si deve  ammettere  questa  interpretazione  è,  secondo  Zeller,  che  ogni altra  sarebbe  incompatibile  con  la  dottrina  fondamentale  di  Eraclito del  flusso  di  tutte  le  cose.  Una  sostanza   immutabile   non   sarebbe compatibile  con  questa  dottrina.  Per  la  stessa  ragione,  nella <lottrina che  tutto  è  fuoco  t^gli  non  vede  che  un  simbolo  della  legge  del  divenire, quantunque  Eraclito  nella  sua  propria  coscienza  non  sappia  ancora  di- stinguere, egli  dico,  tra  l'idea  generale  e  la  forma  sensibile  sotto  cui quest'idea  è  espressa.   (la  altri  termini  quantunque  Eraclito  prenda *    questa  dottrina  nel  senso  letterale,  e  non  come  un  semplice  simbolo. Molti  saranno,  come  me,  incapaci  di  rappresentarsi  un  simile  processo mentale  in  un  pensatore  qualunque:  se  Eraclito  prende  in  un  senso letterale  la  proposizione  che  tutto  è  fuoco,  essa  può  essere  un   sim- bolo per  un  altro  che  filosofa  sulla  dottrina  di   Eraclito,   ma   non per  Eraclito  stesso.  È  come  quando  Hegel  dicj  che   i   domini  reli- giosi sono  dei  simboli  della  sua  propria  lìlosofta  :    il   ciedente   am- mette questi  domini  come  dottrine  positive  e  non  come  simboli:  per Hegel  sono  simboli,  precisamente  perchè  per  lui  non  sono  più  ve- li) Diog.  Laort.  I.  X,  7.8,  Stab.  EcU  I.  58,  Filone  quis  divinarum rerum  heren  hU.  p.  509-510,  Quaest  in  Gen.  III.  5  fine. (2)  Muli.  iV.  bT,  39,  44,  FJh.  Eud,  1.  Vili,  I,  U,  Plut  De  Uid.  et  Onir, stituita  dall'opposizione  reciproca  delle  parti  (1|.  Que- sta proposizione  che  Fopposizione  è  una  legge  uni- versale delle  cose  si  spiega  sufficientemente  per  una generalizzazione  dell'osservazione:  questa  in  verità non  la  giustifica  che  sino  ad  un  certo   punto   (non essendo  vero   che   tutte  le   nostre  nozioni    possano distribuirsi  per  coppie  di  termini  contrari,  come  luce e  tenebre,  maschio  e  femmina,  salute  e  malattia,  ecc. a  meno  che  alcuni  dei  termini  non  siano  puramente negativi,  come  non  uomo,  non  bianco,  ecc.,  nel  qual la  pretesa    legge    delle    cose   diverrebbe   una proposizione  verbale);  ma  non  deve   sor- prenderci che,  in  un'epoca  scientifica  si  primitiva, Eraclito,  come  già  prima  di  lui  altri  filosoli,  quali Alcmeone   e  i  Pitagorici,    sia   stato  così  profonda- mente   colpito   dall'  osservazione   delle    opposizioni rità).Ma  noi  non  abbiamo  alcun  motivo  per  prendere  la  proposizione di  Eraclito  che  tutto  è  fuoco  in  un  senso  differente  delle  proposi- zioni analoghe  degli  altri  fisici,  p.  e.  di  quella  d'Anassimene  o  di Diogene  d'Apollonia  che  tutto  è  aria.  (Sia  detto  di  passaggio,  la differenza  tra  le  due  proposizioni  non  è  tanto  grande  quanto  sem- bra a  prima  vista;  perchè  Eraclito  non  sembra  rappresentarsi  il fuoco  primitivo  da  cui  tutto  è  stato  fatto,  come  una  fiamma,  ma piuttosto  come  una  sostanza  calda  e  aeriforme.  V.  Zeller  stesso p.  588,  5a9  e  sovratutto  la  nota  582,2)  Se  Zeller  fosse  stato  con- seguente, avrebbe  dovuto  dare  un'interpretazione  simbolica,  non della  sola  dottrina  di  Eraclito,  ma  delle  dottrine  corrispondenti  di tutti  i  fisici  che  ammettono  un  solo  elemento.  La  dottrina  del  di- venire (di  cui  d'altronde  le  Zeller  dà  un'interpretazione  iperbolica e  puramente  fantastica,  intentendo  che  le  cose  sono  ad  ogn'istante distrutte  e  nuovamente  create  come  per  incanto,  ogni  cosa  cambiando ad  ogni  momento  le  particole  materiali  che  la  costituiscono  -  v.  p.  619  - -620)  non  è  una  prova  che  Eraclito  nega  l'immutabilità  della  sostanza (nel  senso  che  ho  spiegato  perle  dottrine  dei  fisici  unizzanti  in  generale),,        (1)  Eht.  End.  1.  VII.  I,  11,  MuU.  Fr.  37,  38  e  93. delle  cose,  da  vedervi  una  legge  importante  della  na- tura.  Noi  non  dobbiamo  per  altro  lungamente  fermar- ci su  questa  dottrina  di  Eraclito:  essa  non  c'importa per  se  stessa,  ma  solo  per  il  suo  rapporto  con  l'al- tra legge  dei  contrari,  stabilita  da  questo  filosofo. Come  l'essere  si  è  scisso  in  una  moltiplicità  di  esi- stenze reciprocamente  opposte,  e  come  passa  in- cessantemente  da  uno  stato  ad  un  altro  stato  op- posto, cosi  esso,  secondo  Eraclito,  mantiene  la  sua identità  a  traverso  di  tutte  le  opposizioni.  Tutti  i contrari  sono  identici:  la  stessa  cosa  sono  il  giorno e  la  notte  (1),  il  bene  e  il  male  (2),  il  puro  e  Tim- perchè  appunto  egli  vuole  eccettuato  dalla  legge  del  cangiamento- universale  l'uno  cheè  il  sustrato  permanente  di  tutti  i  cangiamenti e  di  cui  ogni  cangiamento  non  è  che  una  diversa  configurazione  (v.  A- rist.  De  Coelo  1.  Ili,  I.  3,  1.  e.  a  n.2)  Per  un'illusione  di  prospet- tiva assai  naturale,  nella  tesi  del  continuo  flusso  delle  cose,  perchè  à la  più  decantata  dagli  antichi,  per  il  suo  carattere  paradossastioo- (V.  Arist.  Top.  1.  I.  IX,  5),  si  vede  il  pensiero  fondamentale  di  Era- clito; e  poi,  per  resagerazionejdi  un  concetto  giusto  in  se  stesso,  che è  quello  della  connessione  intima  tra  tutte  le  parti  di  un  sistema filosofico  e  la  subordinazione  necessaria  di  certe  parti  ad  altre  più -inanti  come  in  ogni  tutto  organico  (esagerazione  che  discende direttamente  dal  preconcetto  hegeliano  di  vedere  in  ogni  sistema della  storia  la  realizzazione  di  una  categoria  logica,  o,  in  generale, di  un  momento  del  sistema  vero  e  universale  —  il  quale,  del  resto^ per  gli  storici  hegeliaj\o  —  eclettici,  alla  maniera  di  Zeller,  è  ancora e  sarà  sempre  in  incubazione  —  )  si  pretende  che  tutte  le  idee  del devono  logicamente  derivarsi  dal  preteso  pensiero  fonda- mentale. Ma  se  vi  ha  in  Eraclito  un  pensiero  che  merita  di  esser considerato  come  fondamentale,  è  quello  ch'egli  ha  in  comune  con tutti  i  filosofi  dell'epoca  :  l'assioma  che  l'essere  non  può  venire  dal non  essere,  e  che  perciò  niente  nasce  al  fondo  e  niente  perisce.    E (1)  Fr.  89. (2)  Fr.  90;  Arist.  Top.  1.  VIII.  IV.  11,  Phys.  1.   I.  II,  14. H XXXIX puro  (1),  l'alto  e  il  basso  (2),  l'ascensione  e  la  di- scesa ^3),  il  retto  e  il  tortuoso  (4).  La  nascita  è  morte e  la  morte  nascita  (5);  il  mortale  è  immortale,  e  l'im- mortale mortale  (6).  La  stessa  cosa  è  il  vivente  e il  morto,  il  vegliante  e  il  dormente,  il  giovane  e il  vecchio  (7).  Tutte  è  uno  (8);  Dio  è  giorno  e  notte, està  ed  inverno,  guerra  e  pace,  fame  e  sazietà,  e tutti  i  contrari  (9);  come  tutti  gli  opposti  procedono dall'uno,  così  da  tutti  risulta  l'uno  (10).  Questo  di- scordando sempre  da  se  stesso,  concorda  sempre  con se  le  altre  proposizioni  di  Eraclito  devono  derivarsi  dal  suo  pensiero fondamentale,  la  legge  stessa  del  divenire,  cioè  la  dottrina  che  tutto è  in  movimento  e  niente  in  quiete,  (perchè,  come  abbiamo  visto,  1 fisici  unizzanti,  ugualmente  che  i  meccanisti,  riducono  tutti  i  can- giamenti al  movimento)  deve  derivarsi  anch'essa  dall'assioma  dei fisici.  Il  che  non  è  difficile,  perchè,  se  le  proprietà  essenziali  del reale  sono  sempre  le  stesse  (ciò  che  è  il  senso  di  quest'assioma),  come la  sostanza  primitiva,  che  è  vivente  ed  in  un'agitazione  perpetua, potrebbe  trasmutarsi  in  una  massa  affatto  morta  ed  inerte?    (Plut. I.  23  :  'HpàK>»iTO?  Y)p£[xiav  >tai  axàaiv  èx  twv  5>.(ov àvY)p£l'  SOTl  yÒLp  TOQtO  t5)V  VSXpWV).  Con  la  stessa  conseguenza con  cui  gli  Eleati  concludono  dall'  assioma  della  fisica  che  tutto  è immobile  (vedi  più  giù  su  questi  filosofi),  Eroclito  ne  conclude  invece che  tutto  è  in  movimento;  ciò  che  è  dotato  di  un  movimento  spon- taneo ed  incessante  non  potendo  diventare  una  materia  inerte. (1)   KaOapóv  e  [xiapóv.  Fr  88. (2)  Fr.  91 (3)  Fr.  32;  91. (4)  Fr.  91. (5)  Clem.  Stroni.  III.  434. (6)  Ippol.  Befut.  Haeres.lX.  10  (in  Muli,  illustr.a  Fr.  G2). (7)  Fr.  46. (8)  Fr.  9.i;  Filone  Leg  alleg.  II.  62. (9)  Fr.  86.  Le  due  ultime  antitesi,  guerra  e  pace,  fame  e  sazietà, indicano  i  due  stati  fra  cui  alterna  il  mondo  :  quello  della  divisione o  del  cosmos,  e  quello  dell'unità  e  omogeneità,  in  cui  tutto  è  fuoco. (10)  Fr.  45. 'A XL XLI se  stesso  (1);  la  costituzione  dell'essere  è  come  quella dell'  arco  e  della  lira  (di  cui  le  due  metà  sono  al tempo  stesso  identiche  ed  opposte)  (2). Ora  in  qual  senso  dobbiamo  noi  comprendere  le proposizioni  di  Eraclito  affermanti  l'identità  dei  con- trari ?  Siccome  queste  proposizioni,  prese  alla  let- tera, sono  inintelligibili  e  implicitamente  contrad- dittorie, perciò  potrà  credersi  necessario  di  sforzarsi a  darne  un'  interpretazione  che  le  adatti  al  senso comune,  e  tolga  ciò  che  vi  ha  in  esse  di  ripugnante. Così  p.  e.  quando  Eraclito  dice  che  il  giorno  e  la notte  sono  la  stessa  cosa,  s'intenderà,  come  fa  Zel- ler,  che  lo  stesso  essere  ora  è  chiaro  e  ora  oscuro, ovvero,  come  fa  Schuster,  che  essi  sono  la  stessa  cosa in  quanto  l'uno  e  l'altra  sono  egualmente  delle  di- visioni del  tempo  (3).  Così  ancora,  quando  Eraclito dice  che  la  stessa  cosa  è  il  vivente  e  il  morto  s'in- tenderà che  la  stessa  materia  attraA^ersa  a  vicenda i  due  stati  della  vita  e  della  morte  (4).  Ma  tali interpretazioni  non  solo  sono  lontane  dal  signi- ficato naturale  delle  parole  di  Eraclito,  ma  han- no anche  contrarie  le  più  gravi  testimonianze  de- gli  autori   antichi.   Cosi  è  nel   senso   più  letterale (1)  Plato  Conv,   187  a;  So2>h,  242  d.  e. (2)  Fr,  38  e  ^. (3)  Ippolito  {Refut  Haeres  IX  10)  che  ha  conservato  le  parole  di ]Braclito,  intende  che  la  luce  è  identica  all'oscurità,  il  bene  al  ma- le, ecc. (4)  Questa  sembra  essere  l'interpretazione  di  Plutarco  {Consolai, <id  ApolL  j  X).  Il  Fr,  60  Muli,  (la  vita  e  la  morte  è  tanto  nella  nostra vita  quanto  nella  morte)  è  una  prova  che  l'identità  non  è  solo  del sustrato  materiale  della  vita  e  della  morte,  ma  della  vita  e  della morte  medesime. *i t possibile  che  Aristotile    comprende  le  proposizioni di  Eraclito:  egli  attribuisce  a  questo  filosofo    l'opi- nione che  l'esser  bene  e  Tesser  male  è  la  stessa  cosa, e  che  i  contrari  sono  identici  per  Vessen^a  o  per  la definizione  (1)  (e  non  semplicemente  per  la  materia, come  nella  precedente  interpretazione  della  propo- sizione: lo  stesso  è  il  vivente  e  il  morto).  Secondo lo  stesso  Aristotile  (2)  ed  altri  autori  antichi  (3),  E- raclito  nega  il  principio  di  contraddizione,  ammette che  allo  stesso  soggetto  appartengono  degli  attributi opposti,  e  che  le  due   proposizioni    contraddittorie sono  vere  1' una  e  l'altra.  In  effetto,  se  i  contrari sono  identici,  tanto  varrà  predicare  d'un    soggetto un  attributo  quanto  l'attributo  contrario.  È  proba- bile che  questa  conseguenza  del  principio  dall'iden- tità dei  contrari  —  che  verisimilmente  Eraclito  avreb- be respinta  —  sia  stata  dedotta  da  quegli  eraclitiz- zanti  che,  come  Cratilo,  esageravano  grottescamente le  dottrine  di  questo  filosofo,  e  ne  deiucevano  delle proposizioni  scettiche:  ma  siccome  la   conseguenza derivava  effettivamente  dalla  premessa,  essa  poteva venire    attribuita,  non  senza    fondamento,  ad  Era- clito stesso  (4). (i)  pnys,  1.  I.  II.  14. (2)  Met,  1.   III.   III.  8,  VII.  9,  Vili.  1,  1.   X.   V.  8,  VI.  16,  Top. 1.  Vili.  IV.   1. (3)  V.   Specialm.  Sesto  Emp.  PUrrh,  I.  210-213. (4)  Tanto  più  che  questo  filosofo,  per  arrivare  alla  tesi  della  iden- tità dei  contrari  (in  astratto),  cominciava  mostrando  che  lo  stesso fatto  o  la  stessa  cosa  (concreta)  presenta  degli  aspetti  contrari:  p.  e. per  provare  l'identità  del  bene  e  del  male  mostra  come  i  rimedi  dei medici  possono  essere  riguardati  al  tempo  stesso  come  beni  e  come mali  (Fr.  90) —Aristotile  non  vuole  assicurare  che  la  tesi  della  verità XLIl XLIII y Noi  dobbiamo  dunque  rigettare  come  inutile  qual- siasi tentativo  di  rendere  più  intelligibile  la  tesi  di Eraclito  della  identità  degli  opposti:  per  dare  a  que- sta tesi  un  senso  concepibile,  bisognerebbe  liberarla dalla  contraddizione  che  è  in  essa  implicata;  ma  al- lora non  sarebbe  più  la  tesi  della  identità  degli  op- posti, la  dottrina  di  Eraclito  non  sarebbe  spiegata, ma  sostituita  da  un'altra  dottrina.  11  caso  è  lo  stesso  che per  la  tesi  corrispondente  di  Hegel:  non  vi  ha  alcun mezzo  per  renderla  intelligibile,  non  è  possibile  di  da- re un  senso  a  ciò  che  è  un  controsenso.  Comprendere una  dottrina  metafisica  in  questi  casi  non  è  altra  cosa di  tutte  e  due  le  proposizioni  contradittorie  debba  attribuirsi  aUo stesso  Eraclito.  In  Mti.  1.  III.  III.  8  dice  «  È  impossibile  di  pensare che  la  stessa  cosa  sia  e  non  sia,  come  alcuni  credono  che  dica  Era- clito ;  poiché  non  é  necessario  che  si  creda  tutto  ciò  che  si  dice». (Queste  ultime  parole  non  significano,  come  crede  il  Zeller  — pag.  483-1 —,  che  se  Aristotile  non  vuole  attribuire  categoricamente ad  Eraclito  l'opinione  in  quistione,  è  perchè  questi  1'  ha  effettiva- mente enunziata,  ma  senza  credervi  o  senza  comprenderne  il  senso^ ma  spiegano  in  generale  come  il  fatto  che  vi  hanno  delle  persone che  a  parole  ammettono  la  realtà  della  contraddizione,  non  sia  con- trario al  principio  che  è  impossibile  di  pensare  che  la  contrada pizione  si  realizzi).  Il  Zeller  attribuisce  ad  Eraclito  la  dottrina, della  coesistenza  dei  contrari  nello  stesso  sogetto  (invece  di  quella della  identità  dei  contrarli),  e  la  deduce  dalla  dottrina  del  dive- nire continuo  di  tutte  le  cose  (Filo8,dei  Greci  p.  595-HU8  ;  confr.  p.678 •6S2).  Questa  deduzione  non  è  secondo  me  ammissibile,  quantunque possa  sembrare  che  abbia  l'appoggio  dell'autorità  d'  Aristotile.  Per comprendere  il  valore  di  questa  deduzione,  bisogna  farsi  una  giusta idea  della  conseguenza  scettica  che  gli  eraclitizzanti  come  Cratilo tiravano  dalla  dottrina  di  Eraclito  del  divenire,  cioè  che  di  ciò  che diviene  niente  può  con  verità  affermarsi,  e  non  vi  ha  perciò  alcuna scienza  possibile  né  alcuna  proposizione  che  sia  vera  (Arist.  Met. 1.  III.  V.  12,  1.  I.  VI.  1,  1.  Xn.  IV.  2,  Nel  I.  di  questi  luoghi  Ari- stotile assegna  questa  dottrina  a  «  quelli  che  dicono  di  eraclitizzareB; che  indicarne  il  motivo  e  l'origine.  Per  Hegel  il  motivo è,  come  abbiamo  detto  altrove,  la  necessità  della  iden- tità delle  idee,  perchè  possano  dedursi  le  une  dalle altre:  naturalmente  Eraclito  non  potè  esser  condotto alla  sua  dottrina,  come  Hegel,  da  considerazioni dialettiche;  Tassioma  comune  dei  fisici  spiega  que- sta dottrina  di  Eraclito  come  la  maggior  parte  delle altre  dottrine  di  questi  filosofi. negli  altri  due  la  chiama  semplicemente,  «eraclìtica».  Noi  non dobbiamo  perciò  attribuirla  allo  stesso  Eraclito,  perchè  essa  è  uno scetticismo  e  un  agnosticismo  assoluto,  ed  è  incompatibile  con  la filosofia  di  Eraclito  come  con  qualsiasi  filosofia  dogmatica).  Per  in- tendere la  proposizione  di  Cratilo,  si  consideri  un  punto  in  movi- mento nell'  atto  che  esso  passa  da  un  punto  determinato  dello spazio,  A,  ad  altro  punto  qualunque,  B,  concepito  il  più  vicino che  sia  possibile  ad  A.  Per  quanto  il  punto  B  si  concepisca  pros- simo al  punto  A,  vi  saranno  sempre  delle  posizioni  tra  A  e  B, che  il  punto  in  movimento  deve  occupare  dopo  di  aver  lasciato  la posizione  A  e  prima  di  passare  nella  posizione  B:  ma  ciascuna  di queste  posizioni  interposte,  essendo  un  punto  distinto  da  A,  sarà separata  da  A  da  qualche  intervallo,  ed  è  necessario  perciò  che  tra essa  ed  A  s'interpongano  altre  posizioni.  Qua!  è  dunque  la  posi- zione che  il  punto  in  movimento  occupa  immediatamente  dopo  la posizione  A  ?  E  impossibile  di  dirlo,  perchè  qualsiasi  pnnto  si  as- segni prossimo  ad  A,  esso,  essendo  distinto  da  A,  ne  sarà  separato da  qualche  intervallo,  che  il  punto  in  movimento  deve  aver  per corso  prima  di  passare  nel  punto  assegnato,  e  perciò  questo  non può  essere  la  posizione  immediatamente  successiva  alla  posizione  A. La  posizione  immediatamente  successiva  ad  A  è  dunque  un  che  d'in- determinabile e  d'indeterminato,  di  cui  può  dirsi  soltanto  che  essa deve  essere  distinta  da  A  e  da  tutti  i  punti  distinti  da  A,  ma  sen- za poterla  in  so  stessa  indicare;  di  essa  saranno  vere  delle  proposi- zioni negative  :  non  è  A,  non  è  B,  non  è  C,  ma  non  sarà  vera  al- cuna proposizione  affermativa:  è  D.  Che  si  generalizzi  questa  dif- ficoltà implicata  nella  idea  della  continuità  del  movimento  (cfr. 2.  parte.  Le  antinonne  della  ragione),  si  avrà  il  concetto  di  un  cangia- mento universale  continuo  in  cui  ciascuno  degli  stati  successivi  è XLIV Per  l'identità  degli  opposti  ciò  che  Eraclito  vuole stabilire  è  l'unità  e  l'identità  del  tutto;  la  eterna permanenza  nella  sua  propria  identità  di  quest'es- sere unico  che  diviene  tutte  cose.  Il  cangiamento essendo  da  uno  stato  ad  un  altro  stato  opposto,  per- chè r  essere  resti  identico  a  se  stesso  nel  cangia- mento, bisogna  che  gli  opposti  siano  identici.  L'uno essendo  divenuto  multiplo,  e  la  varietà  essendo  co- stituita dall'  opposizione,  perchè  i  molti  siano  uno, un  uno  che  nelle  varietà  si  ritrova  dapertutto  iden- tico a  se  stesso,  bisogna  che  gli  opposti  siano  iden- sempre  un  punto  di  transizione,  e  perciò  un  che  d'indeterminabile, posto  tra  due  stati  determinati  qualunque  :  questo  è  il  fondamento della  proposizione  di  Cratilo  che,  ciò  che  continuamente  diviene non  essendo  mai  in  uno  stato  determinato,  non  vi  ha  alcuna  deter- minazione che  possa  con  verità  attribuirsi  alle  cose,  le  quali  sono tutte  in  un  continuo  divenire. Ora  è  evidente   che  la  conseguenza   della  dottrina  del    divenire assoluto  non  è  secondo  Eraclito  e  secondo  la  logicala  proposizione che  tutto  è  vero,  cioè  che  l'affermativa  e  la  negativa  sono  entrambe vene  e  che  i  contrari  coesistono  allo  stesso  tempo  nello  stesso  sog- getto ;   ma   piuttosto   la   proposizione   che   niente  è  vero,  che  nes- suno dei  due  attributi  contrari  appartiene  in  realtà  al  soggetto  che diviene,  che  passa  dall'uno  all'altro   dei  due  stati  contrari,    e   che ogni  affermazione  è  falsa  (e  quindi  anche,  può  dirsi,  ogni  negazione, quanto  la  proposizione  negativa  si  consideri  come  implicante  l'af- fermazione  di  uno  o  un  altro  degli  attributi   positivi   compresi  nel giro  del  termine  negativo,  che  è  l'attributo  della   proposiziono  ne- gativa, se  si  dà  a  questa  la  forma  infinitiva— p.  e    é  non  bianco  im- plica l'affermazione  di  uno  o  un  altro  dei  colori  distinti  dal  bianco—). Perciò    quando    Aristotile  parla  della  dottrina  eiaclitica  che  tutto è  vero,  non  può  essere  quistione  di  una  deduzione  dalla   dottrina del    divenire,    ma   noi   dobbiamo    pensare    piuttosto    a    una    dedu- zione dalla  dottrina   della   identità  dei  contrari.   Lo  stesso  Aristo- tile parla,  è  vero,  come  di  una  conseguenza   della   dottrina  del  di-,   dell'  opinione  che  le  due  proposizioni   contraddittorie   pos- .sono  emettersi  egualmente  sullo  stesso  soggetto  {Mei.  1.   X.   VI.  9): XLV tici.  In  una    parola  il  principio    di  Eraclito    è  che l'essere  non  può  cangiare  di  natura  e  di  proprietà; perciò  tutti  gli  stati  differenti  che  esso  successiva- mente attraversa  devono  essere,  al  fondo,  identici. Eraclito    spinge   assai  più  in  là  che  gli  altri  fisici unizzanti  il  concetto  dell'immutabilità  della  sostan- za :  per  questi  l'identità  dell'essere  non  è  che  una identità  materiale;  ma  per  Eraclito  l'unità  e  Tiden- tità  del  tutto  non  consiste  semplicemente  in  ciò  che un  sustrato    materiale    uno  e  sempre  identico  a  se esseri  differenti  (dando  anche  alla  identità  materiale senso,  che  noi  abbiamo  attribuito  alle  dottrine  di ma,  come  risulta  dal  contesto,  quest'opinione  non  consiste  a  proten- dere che  le  due  proposizioni  sono  vere  l' una  e  l'altra,  ma  che,  l'una non  essendo  vera  più  dell'  altra,  si  ha  tanta  ragione  di  affermare l'una  quanta  se  ne  ha  di  affermare  l'altra  (Cfr.Plat.  TeetAS2  d-lS3  b). D'  altronde  Aristotile  riconosce  che  la  dottrina  del  divenire  è  in contraddizione  con  la  proposizione  che  tutto  è  vero  o  che  i  contrari coesistono  nello  stesso  soggetto  (mt  l.  IH.  V.  16),  e  che,  mentre Eraclito  fa  tutto  vero,  la  conseguenza  della  dottrma  dei  divenire è  invece  che    tutto  è  falso    (Cfr.  specialmen    Met.  1.  III.  VII.  9  con Mei.  1.  Ili    Vili.  H). Aggiungeremo  infine  sull'interpretazione  di  Zeller    della    teoria dei  contrari  di  Eraclito,  che,  quand'anche  la  coesistenza  dei  con- trari  potesse  riguardarsi  come  una  conseguenza  della  dottrina  del continuo  divenire,  nessuna  forse  delle  proposizioni  particolari  di Eraclito  che  noi  conosciamo  (lo  stesso  è  il  giorno  e  la  notte,  il  vi- vente e  il  morto,  ecc.)  si  presterebbe  al  una  tale  deduzione  (dato  e non  concesso  che  tali  proposizioni  affermino  la  coesistenza  dei  con- trari, e  non  la  loro  identità)  ;  perciò  bisognerebbe  che  ciascun  mo- mento  del  tempo  fosse  il  punto  di  transizione  tra  il  giorno  e  la  notte, che  ciascun  istante  della  nostra  esistenza  fosse  il  confine  tra  la vita  e  la  morte,  ecc.  Cos'i  pure  quando  Sesto  Empirico  (l.  e.)  attri- buisce ad  Eraclito  l'opinione  che  il  miele  è  al  tempo  stesso  dolce  ed amaro,  noi  possiamo  pensare  ad  una  dedu>Jone  dalla teoria  dell'i- dentità dei  conlrari,  ma  non  da  quella  del  continuo  divenire. Il questi  fisici,  di  una  sostanza  materiale  sempre  iden- tica a  se  stessa  di  cui  non  cangia  che  la  posizione nello  spazio)  ;  le  forme  stesse  che  riveste  successi- vamente il  sustrato  materiale,  cioè  le  qualità  diffe- renziali e  le  energie  specifiche  per  cui  i  vari  esseri, costituiti  dalla  stessa  materia,  si  distinguono,  si  ri- solvono, per  Eraclito,  nell'  uno  e  nell'  identico  (1). Ma  alla  quistione  :  come  queste  forme  differenti siano  identiche,  cioè  come  la  loro  differenza  possa conciliarsi  con  la  loro  identità,  sarebbe  inutile  di attendersi  da  Eraclito  una  risposta  precisa  o  sem- plicemente intelligibile.  Perciò  egli  dovrebbe  fare le  parti  tra  ciò  che  vi  ha  nelle  cose  d' identico  e che  vi  ha  in  esse  di  differente  o  di  opposto;  in- non  troviamo  in  lui  che  quest'  asserzione  — contraddittoria  se  la  prendiamo  alla  lettera,  vaga se  vi  cerchiamo  un  senso  qualunque  —  che  gli  op- posti sono  identici.  La  proposizione  di  Eraclito  che gli  opposti  sono  identici  non  è  per  altro  né  più né  meno  contraddittoria  delle  proposizioni  dei  fisici unizzanti  in  generale  che  tutto  è  aria  o  che  tutto  è fuoco  (proposizioni  incompatibili  con  l'esistenza  di altre  sostanze  distinte  dall'  aria  o  dal  fuoco).  Noi -abbiamo  osservato  che  in  quest'ultimo  caso  la  con- (1)  Arist.  Phìjs,  1.  I.  II  14  :  Se  gli  Eleati  dicono  che  tutto  è  uno secondo  la  definizione,  ciò  tornerà  a  sostenere  la  tesi  di  Eraclito. Lo  stesso  sarà  il  bene  e  il  male,  lo  stesso  1'  nomo  e  il  cavallo  — Asclepio(Schol  ia  Arist.  652  a)  dice  che  per  Eraclito  vi  ha  una  defi- nizione unica  per  tutte  le  cose,  proposizione  che  certamente  non attribuirsi  ad  Eraclito,  ma  che  esprime,  quantunque  in  una forma  troppo  rigida,  il  pensiero  di  questo  filosofo  dell'  unità  eèètn- ziaUj  e  non  semplicemente  materiale^  di  tutte  le  cose. traddizione  nasce,  perchè  il  principio  ammesso  a priori,  in  forza  di  un  sofisma  naturale,  dell'immu- tabilità della  sostanza,  coesiste  nello  spirito  di  que- sti filosofi  col  fatto,  dato  dall'osservazione,  del  can- giamento di  una  sostanza  in  un'altra  sostanza;  così nel  caso  di  Eraclito,  il  principio,  ammesso  a  priori in  virtù  dello  stesso  sofisma,  che  tutte  le  cose  sono identiche  di  natura,  perchè  la  natura  delle  cose  (le quali  tutte  sono  costituite  della  stessa  materia  e perciò  reciprocamente  convertibili)  non  può  can- giare,  coesiste,  nel  pensiero  di  questo  filosofo,  col fatto,  dato  dall'  osservazione,  dell'  esistenza  di  cose aventi  delle  nature  differenti  e  reciprocamente  op- poste. 11  principio  e  il  fatto,  l' identità  e  l' opposi- zione,  non  si  escludono  per  Eraclito,  quantunque siano  esclusive  l'una  dell'altra;  esse  si  congiungono, ma  non  si  conciliano,  nella  formula  contraddittoria della  identità  degli  opposti  (1). (1)  Aristotile  dà  come  motivo  di  una  delle  opinioni  che  negano il  principio  di  contraddizione,  l'assioma  dei  fisici  ehe  1'  essere  non può  venire  dal  non  essere  (il  qual  motivo  prova  l'origine  fisica  della dottrina  fondata  su  di  esso,  dottrina  perciò  che,  tra  le  diverse  opi- nioni sovversive  del  principio  di  contraddizione,  noi  dobbiamo  rico- noscere per  quella  della  scuola  di  Eraclito).  Quando  una  cosa  passa da  uno  stato  ad  un  altro,  il  §econdo  stato  verrebbe  dal  non  essere, se  i  due  stati  fossero  semplicemente  contrari,  e  non  al  tempo  stesso identici,  di  guisa  che  il  secondo  stato  preesistesse  in  certo  modo  nel primo:  questo  non  deve  essere  perciò  uno  solo  dei  due  contrari,  ad esclusione  assoluta  dell'altro,  ma  in  certo  modo  anche  l'altro  (V. MeU  1.  X.  VI.  2-3;  cfr.  1.  III.  V.  3.)  Il  motivo  addotto  da  Aristotile  coin- cide al  fondo  con  quello  che  noi  abbiamo  assegnato  alla  dottrina  di Eraclito  :  non  si  deve  che  applicare  alla  dottrina  dell'  identità  dei contrari  l'argomento  che  Aristotile  applica  invece  alla  sua  conse- guenza, cioè  a  quella  della  coesistenza  dei  contrari  nello  stesso  sog- getto. «f  ' XLVIII §  6.  Gli  Eleati  si  accorsero  che  il  principio  dell'u- nità  e  immutabilità  della  sostanza  è  incompatibile  col fatto  (Iella  pluralità  e  del  cangiamento:  così,  per salvare  il  principio,  essi  rigettarono  il  fatto,  dichia- randolo una  semplice  apparenza  senza  realtà. La  proposizione  fondamentale  degli  Eleati,  come di  Eraclito,  e  in  generale  dei  fisici  unizzanti,  è  che tutto  è  uno  (1).  Quest'  uno  è  per  gli  Eleati,  come pei  fisici  ionici,  il  sustrato  unico  e  permanente  di tutto  ciò  che  i  sensi  ci  presentano,  la  sostanza  co- mune di  tutti  i  corpi.  Gli  Eleati  descrivono  VEssere come  una  massa  continua,  senza  lacune  prodotte dal  non  essere  cioè  dal  vuoto  (2),  omogenea  (3),  senza differenza  di  densità  (4),  immobile  tanto  nella  tota- lità quanto  nelle  parti  (5).  Esso  è  inlinito  di  gran- dezza, secondo  Melisso  (6);  finito  e  di  forma  sferica, secondo  Parmenede  (7).  La  differenza  tra  Tuno  de- (1)  Proposizione  che  noi  dobbiamo  distinguere  da  quest'  altra: Tessere  è  uno  ;  perchè  mentre  questa  non  indica  che  la  soppressione deUa  moltiplicità,  la  prima  indica  pure  la  riduzione  della  moltipli- cità  all'unità.  Cosi  Timone  fa  dire  a  Xenofane  che  dapertutto  ove rivolge  U  suo  pensiero,  tutto  si  risolve  per  lui  in  un'essenza  unica sempre  identica  a  se  stessa  (Versi  B2-:n  Mullach)  V.  anche,  per  Xeno- fane, Toofrasto  ap.  Simpl.  Phìfx,  5b,  Sesto  Empir.  Pyrrh.  I.  225.  ecc. Per  gli  Eleati  posteriori,  oltre  il  luogo  di  Parmenide  che  fra  poco  ri- porterò nel  testo,  v.  Plato.  Teet.  INO  e,  Soph.  242  d,  Arist.  Phys  I.  II. (8,  11,  U),  III.  (1,  3),  Gen.  et  Corr.  I.  Vili.  (3-4),  Met.  I.  3  (lO-U),  II. IV.   (26),  XI.  X.   (8V  ecc. (2)  Parmen.  V.  78-81,  90-H  tOG-108;  Mei.  Fr.  5, 14;  cfr.  Arist.  De Gen.  et  Corr.  I.  Vili.   (2). (B)  Parmen.  78  e  sqq. (4)  Mei.  Fr.  5,  14;  cfr.  Parmen  1.  e. (5)  Parmen.   V.  60,  82-87,  90-^,  97-101  ;  Mei.  Fr.  5,  14. (6)  Mei.    Fr.  2,  3,  8,  10;    Arist.    Do  Gen.    et  Corr.   I.    Vili.   <B), Phys  I.   II.   (10,  13),  Met.   I.    V.   (10). (7)  Parmen.  V.  82-80,  102-109;  Teofrasto  ap.  Alex,  ad  Met.  I.  3. IL gli  Eleati  e  l'uno  dei  fisici  ionici  è,  come  osserva Aristotile  (1),  che  i  primi  non  negano  soltanto,  co- me i  secondi,  la  generazione  e  la  corruzione,  ma anche  il  movimento  e  ogni  specie  di  cangiamento in  generale;  per  conseguenza  anche  ogni  moltipli- cità, questa,  secondo  la  dottrina  dei  fisici  unizzanti, non  essendo  che  un  risultato  del  cangiamento.  Que- st'universo,  dice  Parmenide,  tutte  queste  cose  che gli  uomini,  ritenendole  come  reali,  dicono  essere  e non  essere,  nascere  e  perire,  mutar  di  luogo  e  cam* biar  di  colore^  tutto  ciò  non  è  in  realtà  che  un  solo essere,  unico,  immobile,  senza  principio  e  senza  fine, permanente  sempre  nello  stesso  stato  (2).  Il  pensiero rientra  anch'esso  in  quest'unità;  esso  non  è  distinto dall'essere,  perchè  non  vi  ha  niente  all'infuori  dei- Tessere,  e  questo  è  unico  e  sempre  identico  a  se stesso  (3). Alcuni  espositori,  come  il  Zeller,  trovano  il fondamento  del  sistema  eleatico  in  un  argomento capzioso,  per  cui  Parmenide  cerca  di  provare  1'  u- nità  assoluta  dell'essere.  AU'infuori  dell'essere,  egli dice,  non  potrebbe  esservi  che  il  non  essere;  ma il  non  essere  è  niente;  dunque  l'essere  è  unico  (4). Noi  non  possiamo  ammettere,  come  abbiamo  al- tre volte    osservato,    che    un    sistema  metafisico  si (1)  Met.  I.  III.  10. (2)  V.  96-101,  82-85. (3)  Parmen.    V.  94  sqq.,  43-44. 4)  Io  ho  esposto  l'argomenfo  sotto  la  forma  in  cui  lo  dà  Teofra- sto (ap.  Simplic.  in  PhyK  25  a).  V.  anche  per  questo    argomento  (che^ non   potrebbe   ricavarsi   dai  soli   frammenti   di   Parmenede)  Arist. Phlfs  I.   III.  4  sqq.,  MeU   I.   V.    11,  JI.   IV.   26,  XIII.   II.   4 '  «    ^ig^ LI fondi  sovra  un  sofisma  puramente  fittizio,  perchè allora  la  metafìsica  non  sarebbe  che  una  volgare sofistica.  Tra  il  processo  del  metafisico  e  quello  del sofista  non  vi  sarebbe,  in  questo  caso,  altra  diffe- renza che  nell'intenzione  :  ma  questa  differenza  ren- derebbe anche  più  incomprensibile  l'origine  della metafisica;  ciò  che  è  inconcepibile  è  che  delle  con- vinzioni così  contrarie  al  senso  comune  siano  pro- dotte da  motivi  così  poco  idonei.  Parmenide  ha potuto  credere  alla  forza  probante  del  suo  sofisma, ma  dopo  che  già  era  convinto  della  sua  tesi  per  altri motivi,  e  questi  motivi  non  possiamo  cercarli  che in  qualcuno  dei  sofismi  naturali  dello  spirito  umano. Per  ricondurre  il  sistema  degli  Eleati  ai  sofismi  a priori  del  nostro  spirito,  e  metterlo  al  tempo  stesso in  connessione  con  le  idee  dominanti  dell'epoca, noi  non  possiamo  che  dedurle,  con  Aristotile  (1), dall'assioma  della  pica  che  l'essere  non  può  né  co- minciare né  finire,  deduzione  che  in  effetto  noi  tro- viamo nei  frammenti  stessi  di  questi  filosofi  (2). Gli  Eleati  non  concepiscono,  non  solo  che  la  ma- teria possa  cominciare  e  finire,  ma  anche  che  le cose  possano  cangiare  di  natura  e  di  qualità  (ciò che,  non  bisogna  dimenticarlo,  é  il  senso  dell' as- sioma dei  fisici).  Così  secondo  loro  la  moltiplicità non  sarebbe  possibile  che  ad  una  sola  condizione  : che  vi  fossero   molte   sostanze  inconvertibili  1'  una (1)  Phys.  I.  vili. (2)  V.  Parmen  V.  B7-77,  82^  e  Mei  Fr.  1,  6,  U,  12,  13,  17.  Per Xenofane  vedi  De  Melxsm  ecc.  e.  3  in  principio,  Simplicio P/iy«  f.  6, Plutarco  ap.  Euseb.  Pr,  ev    I.  8. nell'  altra    e    qualitativamente  immutabili.    «  Se  vi fossero    molte  cose,  dice  Melisso,  esse  dovrebbero essere  tali  quale  io  suppongo  l'uno.  Se  é  in  realtà la  terra  e  l'acqua  e  l'aria  e  il  ferro  e  l'oro  e  il  fuoco,  e questo  vivente  e  quello  morto,  e  il  bianco  e  il  nero,  e tutte  le  altre  cose  che  gli  uomini  credono  reali;  se queste  cose  sono,  e  noi  rettamente  vediamo  e  udia- mo ;   ciascuna   cosa    deve    continuare  ad  esser  tale quale  ci  é  sembrata  la  prima  volta,  e  non  mutarsi né  divenire  altra,  ma  essere  sempre  tale  quale  essa è.  Ora  noi  diciamo  che  rettamente  vediamo  e  udia- mo e  intendiamo;  intanto  ciò  che  é  caldo  ci  sembra diventare  freddo  e  ciò  che  è  freddo  caldo,  ciò  che  é molle  duro  e  ciò  che  é  duro  molle,  e  il  vivente  morire e  risultare  dal  non  vivente,  e  tutte  queste  cose  mutarsi, e  ciò  che  é  stato  ed  è  non  essere  mai  simile  a  se  stesso. Sicché  é  chiaro  che  non  rettamente  noi  A^ediamo  né rettamente  queste  cose  sembrano  esser  molte.  Non  si muterebbero  infatti,  se  fossero  vere  ;   ma  ciascuna •cosa   sarebbe   sempre   tale  qual   essa  ci  è  apparsa. Se   ciò   che  é  si  mutasse,   l' essere   perirebbe,   e  il non  essere  verrebbe  air  esistenza  »  (l).  Parmenide, nella  seconda  parte  del  sno  poema,  in  cui  egli  vuol mostrare    come  le  cose  dovrebbero   concepirsi  nel- cepirsi  nell'ipotesi  che  l'opinione  comune  (che  am- mette la  realtà  del  multiplo  e  del  cangiamento)  fosse vera,  espone  una  fisica  meccanista,  in  cui  le  cose si  producono  per  la  mescolanza  di  due  sostanze primordiali,  contrarie  l'una  all'altra  e  ciascuna  sem- el) Fr.  17. LII LUI pre  identica  a  se  stessa  (1).  Questa  fìsica  non  sem- bra a  Parmenede  soddisfacente,  essendo  per  lui  un errore  di  ammettere  più  sostanze  primordiali  —  non bisogna  ammetterne,  egli  dice,  che  una  sola  (2)  —  ; e  se  si  domanda  perchè  gli  Eleati,  dopo  avere  in- travista la  possibilità  di  una  tal  fìsica,  le  avessero non  pertanto  preferito  la  dottrina  per  noi  mena soddisfacente  dell'Uno  immobile,  non  si  può  dare  al- tra risposta  se  non  che  la  supposizione  di  una  plu- ralità di  principii  materiali,  con  tutte  le  altre  ipo- tesi accessorie  della  fìsica  meccani  sta,  sembrava loro  in  contraddizione  coU'esperienza;  dall'osserva- zione che  le  forme  più  differenti  della  materia  (cor- rispondenti a  ciò  che  gli  antichi  chiamano  i  quattro elementi)  sono  convertibili  l'una  nelValtra,  essi  ne concludevano,  come  tutti  i  fisici  che  li  avevano  pre- ceduti, che  vi  ha  una  sostanza  materiale  unica,  la quale  prende  a  vicenda  tutte  le  forme. Noi  non  abbiamo  alcuna  difficoltà  a  comprendere come  V  assioma  dei  fisici  conducesse  a  negare  la realtà  di  ciò  che  gli  antichi  chiamano  generazione e  corruzione  (p.  e.  la  trasformazione  degli  elementi materiali  l'uno  nell'altro,  o  la  produzione  di  un  es- sere vivente  e  il  suo  ritorno  allo  stato  di  materia bruta);  in  effetto  questi  fatti  sono  direttamente  in contraddizione  col  principio  che  V  essere  non  può avere  conjinciamento  ne  fine.  Nqi  riattacchiamo pure  facilw.^nte  allo  stessp  principio  la  negazione della  re,'\ltà:  di  9ÌÒ  che  gli  antichi  chiamano  altera- ti) Versi  113-1?>1. (2)  V.  114. I zione  (p.  e.  il  cangiamento  di  colore  o  delle  altre proprietà  sensibili):  noi  abbiamo  visto  infatti  che  i  fi- sici  meccanisti  tiravano  da  questo  principio  la  stessa conseguenza.  Ciò  che  sembra  diffìcile  è  di  derivare dall'assioma  dei  fisici  la  negazione  della  realtà  del movimento.  Infatti  se  i  fisici  concepiscono  più  fa- cilmente che  le  cose  conservino  le  loro  qualità  an- ziché il  cangiamento  di  queste  qualità,  e  preten- dono per  conseguenza  o  di  ricondurre  al  primo  il secondo  di  questi  fatti  (i  meccanisti)  o  di  ridurlo a  un  semplice  fenomeno  senza  realtà  (gli  eleati),  è perchè  il  primo  fatto  è  per  noi  assai  più  familiare <5he  il  secondo  :  ma  il  cangiamento  di  luogo  non essendo  per  noi  un  fatto  meno  familiare  che  la persistenza  nello  stesso  luogo,  non  si  vede  quale difficoltà  gli  Eleati  potessero  trovarvi. Tuttavia,  quantunque  la  negazione  della  realtà  del movimento  non  derivi  immediatamente  dall'assioma dei  fisici,  ne  può  essere  dedotta  indirettamente  :  si vedrà  in  effetto,  considerando  la  quistione  dell'ori- gine del  movimento,  che  vi  ha  connessione  tra  que- sta negazione  e  la  conseguenza  immediata  dell'as- sioma, che  è  la  non  realtà  del  cangiamento  di  es- senza e  di  proprietà  ;  connessione  la  quale  parrà più  evidente,  se  si  rifletterà  che  per  gli  antichi, ignorando  essi  la  dottrina  moderna  della  conserva- zione dell'energia,  e  credendo  che  vi  ha  ad  ogni istante  annichilazione  di  movimento,  la  perdura- zione  del  movimento  nell'universo  supponeva  ne- cessariamente che  r  annientamento  del  movimento in  una  parte  venisse  compensato  dalla  produzione di  movimento  in  un'  altra   parte.  Perciò  bisognava LIV o  che  la  materia  avesse  in  qualcuna  delle  sue  forme il  potere  di  produrre  spontaneamente  il  movimento (p  e  l'aria,  secondo  Anassimene  e  Diogene,  il  fuoco, secondo  Eraclito),  o  che  questo  potere  appartenesse ad  un  essere  diverso  dalla  materia  (come  nei  siste- mi  degli  spiritualisti,  Anassagora,  Platone,  Ariste- tile    ai  quali  Parmenide    stesso    sembra    accostarsi nella  seconda  parte  per  le  figure  mitiche  di  Afro- dite e  di  Eros).  Neil'  ipotesi  d'  una  sostanza  unica, la    possibilità    di  qualche   cosa  capace  di  produrre spontaneamente  il  movimento,  era  legata  alla  pos- sibilità  del  cangiamento  nelle  proprietà  e  l'essenza delle  cose,  cioè  a  quella  che  la  stessa  sostanza  da materia    inerte    (che  è  la  forma    più  abituale  sotto cui  essa  ci  apparisce)  si  mutasse  in  un  essere  attivo e  vivente.  Non  ammettendo   questa  possibilità,  gli Eleati    rendevano    impossibile  l'origine  del  movi- mento, e  quindi  il  movimento  stesso.  Essi  non  po- trebbero   nemmeno    cercare    l'origine    del    movi- mento nei  mutamenti  di  luogo   che   accompagnano r  alterazione   delle   sostanze  (p.  e.  quando  l' acqua si   cangia   in   vapore   o   il   vapore    in    acqua)    (1) . perchè  quest'alterazione   non  essendo   secondo  essi reale,  il  movimento  che  l'accompagna  non  può  essere nemmeno  reale.  Un  movimento  originario  (cioè  che non  fosse  l'effetto  di  un  movimento  anteriore),  .iella •    supposizione    della    unità   e   immutabilità    assoluta della    sostanza,  non  sarebbe    possibile  che  ad  una condizione  :  cioè  che  la  facoltà  di  produrre  questo movimento  potesse   considerarsi   come  una   qualità LY immutabile  della  sostanza,  e  quindi  che  esso  si  pro- ducesse continuamente  in  tutta  la  materia — in  tutte le  sue  pirti  e  a  ciascun  istante  della  durata  —  con la  stessa  energia  e  la  stessa  direzione.  Sarebbe  un'i- potesi simile  a  quella  di  Herbart  del  divenire  assO' luto  o  movimento  sema  causa  nel  suo  trilemma  del movimento  (1).  Una  tale  ipotesi  essendo  in  contradi- zione con  l'esperienza,  gli  Eleati  ne  concludono  che il  movimento,  impossibile  nella  sua  origine,  non  è che  un'apparenza  senza  realtà  (2). Applicando  ìxWuno  dei  fisici  ionici  il  principio della  non  realtà  di  qualsiasi  specie  di  cangiamento, noi  avremo  Vano  degli  Eleati,  coi  caratteri  astratti e  negativi  con  cui  questi  filosofi  lo  concepiscono. L'idea  dirigente  è  che  bisogna  eliminare  dal  reale tutto  ciò  che  è  variabile,  e  non  ritenere  per  vero se  non  ciò  che  resta  invariabile  a  traverso  tutti  i cangiamenti.  Di  là  l'omogeneità  assoluta  dell'Essere in  tutte  le  sue  parti.  Tutte  le  differenze  che  noi  per- cepiamo nelle  diverse  parti  della  materia  essendo delle  forme  che  una  stessa  materia  può  successiva- mente prendere  e  lasciare  (poiché,  secondo  la  dot- trina dei  fisici  unizzanti,  una  stessa  materia  sog- giace a  tutte  le  forme),  ne  segue  che  alcuna  di  esse non  è  reale,  secondo  gli  Eleati,  poiché  il  reale  non è,  secondo  essi,  che  l'invariabile.  Per  conseguenza (1)  Confr.  Plato  Tim.  5B  a-c. (1)  Introduzione  alla  filosofìa,  §  104-110, (2)  Aristotile  {Met,  1.  I.  Ili,  10),  dopo  aver  parlato  della  quistione del  principio  del  movimento,  dice  :  Alcuni  di  questi  che  ammisero V uno  {gli  Kb Ati),  come  vinti  da  guasta  difficoltà,  dicono  immobile  l'uno e  tutta  la  natura. i '/ «r-** ótes / LYI le  parti  dell'Uno  non  possono  differire  per  il  co- lore  (l)  o  per  la  densità  (2)   o  per   qualsiasi   altra qualità  sensibile,  tutte  queste   determinazioni   non essendo    che  semplici    fenomeni,    apparenze   senza realtà.  L'Essere  degli  Bleati  è,  al  fondo,  un  essere astratto  (3),  il  cui  concetto  si  ottiene  per  la  soppres- sione di  tutte  le  determinazioni  che  differenziano  i diA^ersi  esseri  particolari;  esso  non  può  che  essere assolutamente  omogeneo,   una  volta  che  si  è  fatta astrazione  di  tutte  le  differenze  del  reale  dato  dai sensi.  Secondo  questo  processo  di  eliminazione  gli Eleati   aA-rebbero   dovuto  negare  dell'Uno   tanto  il riposo  quanto  il  movimento,  poiché  l'inerzia  e  l'at- tività ci   sono  date   l'una  e  l'altra  come   due   stati variabili  dello  stesso  essere  (di  una  stessa  materia). Ma   non  era   possibile  di  concepire   che  un   essere esteso  nello  spazio  (come  gli   Eleati  si    rappresen- tavano l'Uno  e  come  doveano  necessariamente  rap- presentarselo, non  essendo  esso  altra  cosa  che  il  su- strato  comune  e  immutabile  di  tutti  gli  esseri  sen- sibili)    non   fosse   né   in   riposo  né   in   movimento. Tuttavia  (visto   che  un   essere  esteso   senza  colore, senza  densità  determinata,  ecc.  non  è,  al  postutto, meno  inconcepibile)  noi  potremmo  forse  ammettere <1)  V.  Melisso  Fr.  17  1.  e. (2)  V.  Fr.  5,  1.  e. (3)  È  notevole  che  Aristotile  chiama  V  Essere  degli  Elati  aÒTÒ TÒ  5v  {Phm,  1.  1,  Vili,  2),  applicandogli  una  denominazione  ch'egli non  suole  applicare  che  alle  Idee  platoniche  (del  resto,  conforme- mente aUo  stesso  Platone),  e  talvolta  anche  ai  principii  dei  Pitago- rici, eho  non  sono  anch'essi  che  delle  entità  astratte. LVII che  gli  Eleati,  negando  dell'Essere  il  movimento, non  intendevano  perciò  affermarne  la  quiete:  il  loro vero  pensiero  potrebbe  essere  quello  che  Teofrasto sembra  attribuire  a  Xenofane,  cioè  che  l'Essere  non è  né  in  movimento  né  in  riposo,  e  che  la  sua  eterna^ permanenza  nello  stesso  statò  deve  intendersi  di uno  stato  che  esclude  tanto  il  riposo  quanto  il  movi- mento (1).  Al  processo  di  eliminazione  di  cui  abbia- mo parlato  aggiungiamo  la  nega^.ione  del  vuoto  (dot- trina comune  a  tutti  i  fisici  eccetto  gli  atomisti), avremo  tutti  i  caratteri  distintivi  dell'Essere  eleatico. Non  essendovi  alcun  vuoto  che  possa  separarne  le parti,  e  queste  non  potendo  nemmeno  staccarsi  le  une dalle  altre  per  il  movimento,  l'Essere  é  necessaria- (1)  V.  Simplicio   in    Phijn   commonto  al  1.  I,  e.  II  d'  Aristotile; cfr.  De  Melnm  ecc.  e.  3.  977  b..  Tootrasto  dico,   secondo    Simplioio: TUSTcecaaijivov  outs  àrsicov,  oSts  xivo'Jasvov  outs  Y)osao3v liSVOCpàvYjV...  'JTTOTlOs'lOai  (l'essore  e  il  tutto  non  è  né  finito  né  infi- nito, sia  pere  h  >,  come  e  indicato  nel  /><?  MhIìhho  ecc.  1.  e,  quantunque esso  non  sia  infinito,  la  limita/.ione  non  potrebbe  nemmeno  attribuir- glis',  perchè  in  (jucsto  caso  dovrebbe  essere  limitato  da  qualche  altra cosa;  sia  perché  Xenofane  si  é  contraddett.>,  ora  attribuendo  al  mondo la  forma  sferica,  con  che  egli  veniva  a  negare  la  sua  infinitft.  e  ora ammettendo  che  la  profondità  delhi  terra  e  l'alt-iz/.a.  dell'aria  si  e- stendono  airinfinito,  con  che  veniva  a  negare  la  finità  del  mondo). Il  Zeller  crede  che  Simplicio  ha  mal  compreso  le  parole  riferite  di TeolrHSto,  spiegandole  egli  stesso,  s^nza  appoggiarsi  più  su  questo autore,  nel  modo  che  é  stato  esposto  nel  testo,  e  che  il  vero  senso di  queste  parole  é  che  Xenofane  non  dice  se  l'essere  primitivo  é  in riposo  o  in  movimento.  Ma  quest'interpretazione  mi  sembra  inam- missibile, non  fosse  altro  per  la  ragione  che,  se  Xenofane  non  si fosse  pronunziato,  e  :me  erodo  Zeller,  sulla  quistione  del  movimento dell'essere,  Teofrasto  non  potrebbe  concluderne  eh'  egli  non  ha  sta- bilito niente  su  qnesta  quistione:  ciò  che  dovrebbe  concludersi  in- vece dal  silenzio  di  Xenofane  é  che  egli  ha  m  vntenuto,  al  contrario \- mente  unico  e  indivisibile  (1),  e  noi  comprendiamo come  la  realtà  del  multiplo  sia  negata  dagli  Eleati d'una  maniera  tanto  recisa  quanto  quella  del  can- giamento. Ora  qual  è  il  senso  che  gli  Eleati  attaccavano  a •queste  negazioni?  Annientavano  essi  d'una  maniera assoluta  la  pluralità  e  il  cangiamento,  per  conse- guenza tutta  la  natura  sensibile,  o  conservavano  ai fenomeni  un  resto  di  realtà?  È  una  quistione  di- battuta fra  gli  espositori:  la  prima  interpretazione sembra  la  più  conforme  al  senso  più  ovvio  delle  propo- sizioni degli  Eleati,  ma  la  seconda  ha  una  verosimi- glianza intrinseca  assai  più  grande,  e  può  anche invocare  in  suo  appoggio  Tautorità  di  molti  autori antichi,  tra  cui  alcuni  conoscevano  certamente  nella loro  integrità  gli  scritti  di  questi  filosofi  (2).  Il  con- cetto di  fenomeno,  di  apparenza,  e  quello  correlativo di  essere,  di  realtà,  che  netti  e  recisi  come  sono  per il  senso  comune,  sembrerebbero  non  poter  dar  luogo dei  suoi  sncctssori,  la  realtà  del  movimento,  poiché  quando  un  fi- losofo non  no.a  un  dato  del  senso  comune,  si  deve  intendere  ch'egli lo  ammette;  e  nel  fatto  lo  «tesso  Zeller,  inferendo  dal  presunto  si- lenzio di  Xenofane,  é  quest'opinione  che  gli  attribuisce.  In  verità noi  potremmo  intendere  le  parole  riferite  di  Teofrasto  (ammettendo col  Zeller  che  nell'esposizione  di  Simplicio  non  vi  sia  niente  altro che  si  debba  a  quest'autore)  nel  senso  che  Xenofane  non  ha  stabi- lito né  la  realtà  del  movimento  né  la  sua  non  realtà,  ma  nell'ipotesi che  in  questa  quistione  vi  fosse  in  questo  filosofo  qualche  contrad- dizione come  in  quella  della  limitazione  del  mondo.  Più  giù  avrema occasione  di  tornare  su  questa  indicazione  di  Teofrasto. (1)  V,  Parmenide  versi  78-Sl,  Melisso  Fr.  15,  Arist.  De  yenerat  et corrupt.  1.  I.  Vili.  2. (2.  Come  di  Plutarco  (v.  Ade.  Coi.  13;  e  Simplicio  (v.  in  Phytt,  com^ mento  al  1.  I,  e.  II  d'Aristotile). ad  alcuna  incertezza  od  equivoco,  non  hanno,  per alcuni  metafìsici,  che  un  senso  vago,  il  quale  non potrebbe  indicarsi  senza  riunire  dei  termini  contrad- dittori. Per  Platone,  per  Hegel  e  per  altri  filosofi, i  quali,  come  gli  Eleati,  non  riconoscono  per  vera- mente reale  che  l'essenza  eterna  ed  immutabile  delle cose,  la  natura    sensibile   non   è  che   un   fenomeno senza  realtà,   un'apparenza;    ma  per   ciò   essi   non intendono  che  essa  non  sia  altra  cosa  che  un  feno- meno   subbiettivo,   il   quale    non    esiste   che   nella sensazione.   Vìi  apparenza  obbiettiva  è  per  noi  una contraddizione    nei    termini,    il    concetto   di   appa- renza  essendo   per  noi   identico   a   quello   di  feno- meno   subbiettivo:   tuttavia   tale   è   secondo   Hegel la    natura   sensibile  —  un'  apparenza   obbiettiva  —, e  quantunque   questa   espressione    non  sia  propria che  di   lui,   essa    potrebbe    convenire    egualmente, per  designare  il   valore   della   natura   fenomenale, in  tanti   altri   sistemi  in  cui,  come  nel  suo,  il  fe- nomeno,    cioè    r  individuale,    il    cangiante,    è   un che  di  medio,  come  dice  Platone,   tra  l'essere  e  il non  essere.  Si  potrebbe   d'altronde  dubitare  se,   in tutti  i  momenti  dello  sviluppo  intellettuale  dell'uomo, il  concetto  di  apparenza  sia  costantemente  legato  a quello    della   subbiettività,    come   lo   è    certamente nella  sua  forma  più  chiara  e  sviluppata:  un'ombra, un'  immagine    nell'  acqua  o   nello   specchio,   quella proiettata  da  una  lanterna  magica,    sono  delle  ap- parenze per  il  fanciullo  e  per  l'uomo  privo  di  qual- siasi coltura  ;    ma  sono  anche  per  essi    necessaria- mente subbiettivo?  Quando  più  fanciulli  guardano rimmagine  della  lanterna  magica,  non  pensano  LX piuttosto  che  vedono  tutti  la  stessa  cosa,  come  Beici dice  che  gli  uomini  vedono  tutti  lo  stesso  sole? Queste  considerazioni  possono  far  ammettere  la  pos- sibilità che  il  fenomeno,  cioè  il  diverso  e  il  can- giante, sia  per  gli  Eleati  un^ apparenza  obbiettiva, e  non  un  semplice  fenomeno  subbiettivo  che  non esiste  se  non  in  quanto  è  sentito. Certamente  di  questa  maniera  si  attribuirebbe  agli Eleati  una  contraddizione  :  quella  che  il  loro  siste- ma era  destinato    a  risolvere,  tra  il  principio  del- l' immutabilità  della  sostanza  e  il  cangiamento  dato dall'esperienza^  verrebbe  a  riapparire  sotto  un'altra forma.  Ma  una  tale  contraddizione  è  inevitabile  nel sistema    eleatico  :    ammettiamo    pure  che  i  cangia- menti e  la  varietà  della  natura  non  siano  per  loro che  dei  fenomeni  subbiettivi  ;  essi  esisteranno  non- dimeno   a    titolo  di  fatti  dello  spiritose  quest'é'S/- steiiza  sarà  sempre  incompatibile  col  principio  del- l'unità e  dell'immutabilità  assoluta  dell'essere.  Una conseguenza   di   quest'  osservazione  è  che  ci  è  im- possibile di  prendere  alla  lettera  e  in  tutto  il  loro rigore  le  affermazioni  degli  Eleati  sull'unità  e  l'im- mutabilità di  ciò  che  esiste;  come  queste  affermazioni non  possono    essere    una  prova  che  essi  negavano l'esistenza    dei    fatti  subbiettivi,  quantunque  com- presi   nella    pluralità   e  il  cangiamento  di  cui  essi non  volevano  ammettere  la  realtà,  cosi  non  provano d'una    maniera    decisiva  che  la  pluralità  e  il  can- giamento del  mondo  esteriore  fossero  privi  per  essi di  qualsiasi  esistenza  obbiettiva.  Noi  non  compren- diamo una  dottrina  che  riduce  la  natura  visibile  a puri  fenomeni  subbiettivi,  a  semplici  sensazioni,  che come  il  risultato  di  una  profonda  critica  della  co- noscenza, di  una  riflessione,  almeno,  sul  carattere relativo  delle  nostre  percezioni  :  ma  tutto  ciò  manca negli  Eleati;  manca  ancora  nei  loro  continuatori,  i Megarici;  e  sarebbe  certamente  molto  inverosimile che  questi  ultimi,  in  un'epoca  in  cui  il  pensiero  dei Greci  si  era  già  rivolto  verso  le  ricerche  di  que- st'ordine (a  cominciare  almeno  da  Protagora),  non si  fossero  dati  anch'essi  a  speculazioni  così  in  ar- monia coi  loro  principii,  se  fosse  vero  che  la  na- tura sensibile  non  consisteva  per  loro  che  in  feno- meni subbiettivi.  Qualunque  sia  il  motivo  del  si- stema eleatico,  esso  non  può  avere  infine  che  lo scopo  di  rendere  il  reale  più  comprensibile:  ma sopprimere  il  reale  —  c:ó  che  è  semplicemente quello  che  gli  Eleati  avrebbero  fatto  nell'ipotesi della  subbiettività  del  fenomeno  —  non  è  compren- derlo. Secondo  noi  questo  sistema  non  si  spiega  che per  uno  sforzo  di  conciliare  l'esperienza,  la  natura varia  e  cangiantf^,  col  principio  dell'unità  e  dell'im- mutabilità  della  sostanza,  concepito  in  tutto  il  suo rigore  :  neir  ipotesi  dell'  obbiettività  del  fenomeno, l'esperienza,  la  natura,  non  viene  immolata  a  que- sto principio  —  nel  qual  caso  V  esistenza  dell'  Uno stesso  non  avrebbe  più  fondamento—,  ma  si  cerca di  accordarla  con  esso  per  mezzo  dell'idea  vaga  di apparenza  obbiettiva,  distinguendo  il  fenomeno  can- giante e  Vessensa  immutabile  (1). (1)   L*obblezIon9   più   forte  contro  quest'interpretazione  sono  le proposizioni   dejrll  Eleati  sul  valore  della   conoscenza  sensibile  e  le Su  tutto  il  periodo  della  filosofìa  greca  rap- presentato dai  fisici  dobbiamo  fare  un'osservazione generale,  che  si  riattacca  pure  all'argomento  di  que- sto capitolo.  Se  questo  periodo  si  mette  in  rapporto col  susseguente,  rappresentato  da  Platone  e  da  Ari- stotile, si  vede  immediatamente  fra  le  due  tendenze filosofiche  un'opposizione,  che  Aristotile  esprime  di- cendo che  i  fisici  non  hanno  ricercato  che  il  prin- cipio materiale,  trascurando  e  anche  sopprimendo l'altro  elemento  costitutivo  della  natura  degli  esseri, cioè  il  principio  formale  o  essenziale  (1).  Ciascun  es- sere,   nella  filosofia  di  Platone  e  di  Aristotile,  ha Indicazioni  corrispondenti  degli  antichi  testimoni,  proposizioni  e  in- dicazioni che  possono  riassumersi  cosi:  bisogna  rigettare  la  testimo- nianza dei  sensi  che  ci  mostrano  il  reale  come  multiplo  e  cangiante, e  non  credere  che  alia  ragione,  la  quale  ci  prova  che  esso  è  uno  e Immutabile  (v.  Parmenide  versi  49,  53-56,  Melisso  Fr.  17,  Arist.  Ge- nerane et  corrent  l.  I.  VIU.  2-4,  Met,  1.  I.  V.  11,  De  Melisso  ecc. 974  b,  Aristocle  ap.  Euseb.  Praep.  evang,  XIV.  17,  Plutarco  ap. Easeb.  Pr,  ev.  I.  8,  Sesto  Math.  VII.  111-114,  Cfr.  Aristot.  De  Coelo 1.  III.  I.  -2,  Timone  ap.  Diog.  IX.  23).  Ma  quest'obbiezione  non  po- trebbe essere  decisiva.  Platone  si  esprime  similmente  al  soggetto della  conoscenza  dei  seMsi  e  della  realtà  del  senslbUe  (v.p.e.  Phaedo 83  a-b:  qnam  fallax  oculornm,  qnam  faìlax  anriam  caeterornmqae sensunm  sii  considerano neqne  nlli  credat  praeterqnam  sibi, qnatenns  ipse  per  se  cogitet  quodlibet  eornm  qnae  sani  per  se,  qaod vero  per  alia  consideret  exsistens  in  aliis  alind  nt  nihil,  existimet vernm;  esse  vero  talia  qnidem  visibilia  ac  sensibilia,  ecc.):  tuttavia Piatone  non  intende  certamente  negare  I-obbiettività  della  percezione sensibile. Né  ci  sembra  sicuro,  come  crede  il  Zellei,  che  Aristotile  abbia compreso  la  dottrina  eleatlca  nel  senso  della  subblettività  dei  feno- meni. Non  mancano  in  Aristotile  dei  luoghi  che  sembrano  Invece suppone  il  contrario.  Tale  ò  notevolmente  quello  che  è  già  stato  citato (1)  Met.  1.  I.  III.  2  1.  I.  Vili.  3,  De  an,  1.  I.  I.  11,  De  pari,  ani- mai, 1.  I.  I,  De  geii.  et  corr,  1.  II.  IX.  7  sqq.,  1.  II.  VI.  4-6,  Physa. 1.  II.  Vili.  2,  10,  De  Coelo  1.  III.  H.  5,  ecc. 1 in  se  stesso,  considerato  come  un  tutto  individuale, un  principio  interno  di  attività,  che  è  irrudutfcibile alle  energie  proprie  agli  elementi  materiali  da  cui esso  è  costituito.  Questo  principio  è  riposto  nella essenza  o  nella  forma  speciale  di  ciascun  essere, vale  a  dire  esso  è  differente  negli  esseri  specifica- mente differenti:  ciascuna  specie  di  esseri  è  gover- nata da  leggi  proprie  ed  è,  per  dir  cosV,  autonoma, queste  leggi  non  essendo  dei  semplici  casi  delle leggi  universali  della  materia,  dei  risultati  neces- sari del  concorso  delle  forze  generali  della  natura. I  ^sici  invece  tendono  a  spiegare  le  forme,  cioè  le a  proposito  di  Eraclito,  contenente  un  ravvicinamento  tra  qnesto  filo- sofo e  gli  Eieati.  C'ome  si  deve  intendere,  domanda  Aristotile  (Phys, 1. 1.  II.  11, 14),  la  proposizione  che  tutto  è  uno  ?  forse  nel  senso  che  vi  ha per  tutte  cose  una  stessa  definizione?  ma  allora  per  gli  Eieati,  come per  Eraclito,  sarà  la  stessa  cosa  il  bene  e  II  male,  l'uomo  e  11  caval- lo; ecc.  (cfr.  Physs.  1.  I.  III.  3:  è  Impossibile  che  tutto  sia  uno  per la  forma,  ma  è  solo  possibile  per  la  materia;  è  per  la  forma  che  le cose  differiscono— pure  contro  gli  Eieati).  Qui  Aristotile  sembra  at- tribuire agli  Eieati  un  monismo  che  non  sopprime  la  moltipllcità  fe- nomenale, ma  la  riconduce  all'unità  della  sostanza. Del  più  antichi  testimoni  l'altro  che  noi  possiamo  consultare  sugli Eieati  più  che  in  semplici  frammenti,  cioè  Platone,   è  incontestabil- mente più  favorevole  alla  Ipotesi  della  obbiettività  che  a  quella  della subblettività  del  fenomeno.   Infatti  Platone  stabilisce  un  rapporto  sì Intimo  tra  la   sua  propria   metafisica  e  (quella  degli  Eieati,   che  va sino  ad  attribuire  a   Parmenide   la  dottrina    delle  Idee-finzione  che naturalmente   non  si  può    riguardare  come   un'  immaginazione  pura- mente capricciosa,  ma  in  cui  deve  vedersi  l'espressione  in  forma  fan- tastica della  proposizione  astratta  che  vi  ha  una  stretta  connessione tra  la  dottrina  delle  Idee  e  la  filosofìa  eleatlca  -.  L'analogia  fra  V idea- lismo platonico  e  la  metafìsica   degli  Eieati  sarebbe  in  effetto   assai colpente,  se  questi  considerassero,  al  pari  di  Platone,  il  particolare e  il  cangiante  come  V apparenza  obbiettiva  dell'Essere  immutabile. Ma  se  gli  Eieati  sopprimevano  d'una  maniera  assoluta  il  multiplo  e il  cangiante,  cioè  tutta  la  natura,  la  dottrina  eleatlca  sarebbe  la  più s* LXI V nature  particolari  degli  esseri,  per  le  proprietà  de- gli elementi  materiali  e  per  le  forze  generali  da  cui questi  sono  animati.  Essi  non  concepiscono  che  un tutto  abbia  delle  energie  che  non  siano  il  risultato delle  energie  dei  suoi  elementi  costitutivi,  e  perciò gli  esseri  particolari,  p.  e.  gli  esseri  viventi,  non potrebbero,  secondo  essi,  essere  governati  da  leggi particolari  ;  da  per  tutto  essi  non  possono  vedere che  l'azione  delle  leggi  generali  che  governano  la materia.  In  una  parola  noi  troviamo  nei  fisici  i primi  rudimenti  di  una  concezione  della  natura prevalente  nella  scienza  moderna,  cioè  della  spie- gazione fisico-chimica   o   semplicemente  meccanica opposta  al  sistema  delle  Idee  (più  opposta  che  qualsiasi  altra  fra  le dottrine  del  fisici),  poiché  le  Idee  non  sono  altra  cosa  che  lo  stesso multiplo  e  cangiante  considerati  nelle  loro  leggi,  nelle  loro  forme generali. Gli  argomenti  di  Zenone  e  di  Melisso  contro  li  movimento,  sic- come negano  slnanche  la  possibilità  di  questo  — 11  primo  facendo  ri- sultare dal  concetto  del  movimento  delle  conseguenze  contraddittorie, 11  secondo  negando  11  vuoto  e  sostenendo  che  esso  è  la  condizione del  movimento  —  possono  sembrare  una  prova  decisiva  contro  l'In- terpretazione che  farebbe  del  movimento  un  fenomeno  obbiettivo*  Ma del  filosofi  moderni  hanno  ritenute  le  obbiezioni  di  Zenone  contro  11 movimento  Insolubili,  e  tuttavia  non  ne  hanno  negato  l'obbiettività. Hamilton,  p.  e.,  dice:  Gli  argomenti  di  Zenone  provano  che  11  movi- mento^ quantunque  certo  come  fatto,  non  può  essere  concepito  come possibile,  perchè  esso  implica  contraddizione  (V.  Mlll.  Filos.  di  Ha- millon  e.  24".  In  queste  difficoltà  del  movimento  Hamilton  vede  un caso  della  legge  che  condanna  lo  spirito  umano  a  delle  antinomie insolubili,  tutte  le  volte  che  tenta  di  oltrepassare  la  conoscenza  del fenomeno,  in  cui  esso  è  necessariamente  circoscritto:  queste  antino- mie provano,  secondo  lui,  che  noi  non  conosciamo  l'assoluto,  ma  solo il  condizionato,  cioè  solo  «  le  manifestazioni  relative  d' un'esistenza in  se  stessa  iacomprensiblle.  »— /,a  fllos,  dell'assoluto  nei  Frammenti della  fllos,  di  Hamilton  tradotti  da  Peisse  pag.  20. —)  Così  gli  argo- menti di  Zeuone  dimostrerebbero,  secondo  Hamilion,  che  il  mondo di  tutti  i  fenomeni  del  mondo  fisico.  Ma  ascoltiamo Aristotile  :  «  I  fisici,  i  quali  dicono  che  è  la  mate- ria che  produce  gli  esseri  per  il  suo  movimento, distruggono  l'essenza  e  la  forma.  Essi  attribuiscono certe  forze  ai  corpi,  e  ne  fanno  produrre  le  cose d'una  maniera  puramente  meccanica,  sopprimendo  la causa  secondo  la  specie  (cioè  il  principio  formale  o l'essenza).  Dopo  avere  supposto  che  la  natura  del freddo  è  di  concentrare  le  parti  della  materia  e  quella del  caldo  di  disgregarle,  e  che  ciascuno  degli  altri principii  di  quest'ordine  agisce  naturalmente  o  pa- tisce d'una  certa  maniera,  è  da  tali  principii  e  psensibile  non  è  la  realtà   assoluta,   ma   non  che  è  un  semplice  feno- meno subbiettivo. Ma  ciò  che  prova  d'una   maniera  più  diretta  che  Zenone  poteva «conservare  al  movimento  un  resto  di  realtà  obbiettiva,  anzi  ciò  che può  riguardarsi  come  un  indizio  importante  che  tale  effettivamente sia  stata  la  sua  opinione,  è  la  forma  in  cui  1  Megarlcl  presentano  gli argomenti   del   loro  predecessore.  Il  megarlco  Diodoro  Crono,  dopo, aver  provato,  secondo  Zenone,  l'impossibilità  del  movimento,  aggiun- geva che,  se  non  è  vero  dire  del  mobile  che  si  muove,  si  può^tutta- vla  dire  che  si  è  mosso.  i\.  Sesto  Empir.  iV«/A.X.  48,  85  e  sqq.  V,  U3 Pyrrh,  11.242,245,111.71,  ecc.).  Per  comprendere  questa  distinzione,, bisogna   tener   presente   che   gli   argomenti  di  Zenone  erano  fondati sulle  difficoltà  derivanti  dal  concetto  della  continuità  del  movimento (cioè   del  passaggio  successivo  del  mobile  per  tutti  1  punti  interme- diari fra  due  posizioni  distinte  —  v.  questo  Saggio  parte  2"  Le  anti- nomie della  ragione).  Secondo  Diodoro  Crono,  si  può  dire  si  è  mosso perchè   effettivamente   il   mobile  occupa  successivamente  delle  posi- zioni  distinte;   ma   non  si  può  dire  si  muove,  perchè  il  movimento non  è  continuo.  Non  essendovi  continuità    nel    movimento,  Il  corpo Sta  successivamente  in  ciascuna  delle   posizioni  successive  che  esso occupa,  e  non  si  muove  mal  ;    per  indicare  che  11  corpo  occupa  una nuova  posizione,  si  può  usare  il  perfetto,  che  Indica  11  termine  del- l'azione, l'azione  compiuta,  ma  non  mal  il  presente,  che  indica  l'azione stessa,  l'azione  che  si  compie.  (Confr.,  per  il  senso  della  distinzione tra  si  muove  e  si  è  mosso,  Arist.  Fhffs,  I.  VI.  I.  8).  La  distinzione  di LXTI tali  cause  eh'  essi  dicono  tutte  le  cose  esser  prodotte e  perire.  Essi  fanno  come  qualcuno  che  attribuisse alla  sega  e  agli  altri  strumenti  la  causa  della  produ- zione degli  oggetti  fabbricati  da  un  artigiano  »  (1). E  altrove:  Non  bisogna  imitare  gli  autori  antichi, i  quali  dicevano  piuttosto  come  gli  esseri  si  gene- rassero che  come  fossero;  poiché  gli  esseri  non  sono così  perchè  così  sono  prodotti,  ma  piuttosto  sono prodotti  così  perchè  così  sono,  cioè  perchè  tale  è la  loro  forma,  come  avviene  per  un  edifìzio,  la  ge- nesi di  ciascuna  cosa  essendo  in  grazia  della  sua essenza,  e  non  viceversa.  Non  bisogna  dunque  fare Dlodoro  Crono,  per  la  stessa  forma  eonti-addlttorlacon  cui  è  espressa, t;l  indica  che  es.«4a  non  era  destinata,   nell' Intenzione  di  questo  filo- sofo, a  salvare  11  movimento,  rettificandone  11  concetto  per  la  elimi- nazione di  un  elemento  falso,  cioè  della  continuità.   Dlodoro  Inten- deva dimostrare,  come  Zenone,  la  natura  contraddittoria  e  V  Impos- sibilità del  movimento,  quantunque  esso  fosse  un  fatto  attestato  dal- l'esperienza ;   V  essersi  mosso  senza  muoversi  mal,   l'esistenza  d'un fatto  Impossibile,  provava  che  questo  fatto  non  era  veramente  rraìe, che  esso  non  era  che  un  semplice  fenomeno,  quantuntiue  obbiettivo (dal  luoghi  citati  di  Sesto  risulta  chiaramente  che  Diodoro  ammetteva la  non  realtà   del    movimento  e  al  tempo  stesso  la  sua  obbiettività}. In  ogni  caso  11  movimento,  per  1  Megarlcl  come  per  gli  Eleatl,  non poteva   consistere   In   altra   cosa  che    nell'  apparizione  successiva  di fenomeni   perrettameute   slmili  (p.  e.  una   certa   forma  cou  un  certo colore)  in  posti  differenti,   non  nel   trasporto,  a  traverso  lo  spazio, della  sostanza  stessa,  del  sustrato  di  questi  fenomeni;   poiché  tutte le  differenze  del  reale,  che  costituiscono  una  moltlplicltà  di  cose,  non sono  per  loro  che  delle  apparenze  che  si  mostrano  in  diversi  punti  del sustrato  comuna,  par  se  stesso  omogeneo  (e  ciò  tanto  nell'ipotesi  della obbiettività  di  queste  apparenze,  quanto  in  quella  della  subblettività). Data  questa  concezione   del  movimento,  la  sua  obbiettività  fenome- è  conciliabile  con  l 'immobilità  dell'essere  vero* La  dottrina   di  Dlodoro   Crono  sul  movimento  è,   per    la    nostra qulstlone,  un  dato  tanto  più  importante,  che  da  questa  dottrina  si  può (1)  De  Cren,  et  corr,  1.  II.  IX.  7  e  sqq. come GIRGENTI (vedasi),  il  quale  spiegava  molti  caratteri degli  animali  per  qualche  accidente  loro  avve- nuto quando  furono  prodotti;  attribuendo  p.  e.  tal conformazione  della  spina  all'  essersi  spezzata  per contorsione.  Se  l'uomo  consta  di  tali  membra,  è perchè  tale  è  l'essenza  dell'uomo  :  senza  di  queste membra  non  sarebbe  uomo,  ed  è  così  perchè  non potrebbe  essere  altrimenti,  o  perchè  così  è  il  me- glio. Ma  gli  antichi  non  cercarono  che  il  principio materiale  e  la  causa  analoga  :  quale  fosse,  e  come il  tutto  ne  nascesse,  e  per  qual  causa  motrice,  p.  e. la  concordia  e  la  discordia,    o  la  mente,  o   anche argomentare  che  la  scuola  megarlca  in  generale  non  rigettava  d'una maniera  assoluta  la  pluralità  e  il  divenire.Ora  questa  scuola  non  fa- ceva che  continuare  la  filosofia  defjrli  Eleati  (l'opinione  che  1  Megarlcl hanno  -ammesso  le  Idee  prima  di  Platone,  non  che  è  una  congettura  ar- bitraria di  alcuni  critici  moderni,  ch'è  impossibile  di  ammettere  quan- do si  è  compreso  lo  scopo  e  l'origine  dell'ipotesi  delle  Idee).  La  stessa conclusione,  cioè  che  1  Mogarlcl  (e  quindi  probabilmente  anche  gli Eleati)  non  rigett;ìvano  assolutamente  il  cangiamento,  sembra  risul- tara  dalla  confutazione  della  dottrini  megarica  sulla  pos^ilbilltà,  che troviamo  In  Aristotile  Met,  1.  Vili.  III.  I  Magarlci  negano  ciò  che In  linguaggio  aristotelico  si  chiama  la  distinzione  tra  potenza  ed  atto: essi  non  ammettono  che  Vatto,  ma  non  la,  potenza;  per  loro,  in  altri termini,  non  è  possibile  se  non  ciò  che  e  reale,  ciò  che  è  avvenuto  o ch3  avverrà;  ciò  che  non  è  avvenuto  e  non  avverrà,  secondo  loro,  non poteva  avvenire  e  non  potrà  avvenire,  (v.  Cicero  De  fato  7.  9,  Plu- tarco Ds  Stoicor,  repugnant.  XLVI,  ecc.  su  Dlodoro  Crono  —  non  ab- biamo alcun  motivo  per  ammettere  che  la  tesi  di  Diodoro  Crono  fosse differente  da  quella  dei  primi  Megarlcl.)  Aristotile  obbietta  che  questa tosi  renle  impossibile  il  divenire  (o,  com'egli  dice,  11  movimento  e  la ffenerasioue),  perchè  so  ciò  che  non  è  in  atto  non  è  nemmeno  i?i  po- tenza, ne  segue  che  ciò  che  presentemente  non  è,  non  è  possibile  che  di- venga in  avvenire  (art.  4|.  È  evidente  che  nessuno  dimostrerebbe  per l'assurdo  la  falsità  d'una  tesi,  mostrando  che  essa  condurrebbe  logi- camente afl  uni  proposizione,  che  per  lui  è  evidentemente  falsa,  ma «he  per  1  sostenitori  della  tesi  confutata  è  la  verità  fondamentale  del I una  causa  puramente  meccanica;  la  materia  soggia- cente avendo  insita  una  certa  natura  necessaria,  co- me fervida  il  fuoco,  fredda  la  terra,  e  l'uno  leggiera, l'altra  grave;  ed  è  così  che  essi  generano  Tuniverso. E  così  anche  dicono  della  produzione  delle  piante e  degli  animali;  p.  e.  che  scorrendo  l'acqua  nel  corpo» si  sia  prodotto  il  ventre  e  ogni  ricettacolo  del  cibo e  dell'escremento,  e  le  narici  si  siano  aperte  per  il passaggio  dell'aria.  I  fisici  espongono  l'origine  e  la causa  delle  forme  degli  esseri  viventi  come  un  fab- bro che  parlasse  d'  una  mano  di  legno  :  dicono  da quali    forze  siano  state  fabbricate  ;  il  fabbro  parla foro  sistemi.  (Il  Zeller  —  2*  parile  pag.  220— crede  che  la   negrazlone^ della  potenza  è  le;j:ata,  nel  con?3tto  dei   Megarlcl,  a  quella  del  dive- nire:   ma  la  d:^duzlon3   di  Aristotile  è   forzata;    fra  le  due   dottrine non  può  e^^servl  In  realtà  alcuna   connessione,   tanto  più  che  n^n  vi ha  ragione,  come  abb'amo  osservato,  di  distinoruere  la  tesi  del  primi Megarlcl  da  quella  di  Diolora  Crono).  La  stessa  osservazione  vaie,  «^ a  più  forte  ragione,  pe.'  l'obbiezione  Immediatamente  prv?cedente.  In conseguenza  della  tesi  del  Megarlcl.  dica  Aristotile,  «  non  vi  sarfi  nò e  lido  né  freddo  né  dolce  né  assolutamente  alcun  sensibile  all'infuorl della  sensazione;  per  cui  avverrà  loro  «li  <llre  la  proposizione  di  Pro- tagora «(art.  2.)  Qui  la  forma  stessa  In  cui  è  espressa    T  obbiezione esclude  indubbiamente  che  i  Megai'lci  ammettano  gifi  la  dottrina  di Protagora  (cioè  che  il  sensibile  non  esista)  se' non  in  quanto  è  sentito) Intanto,  se  secondo  1  Megarlcl  e  gli  Eleatl  !1  multiplo  e  il  cangiante non  consistesse  che  in  fenomeni  subbiettlvl,  la  loro  dottrina  sarebbe glfi  quella  di  Protagora,  cioè  essi  ammetterebbero  della  maniera  più esplicita  l'assurdità  a  cui  vuole  forzarli  Aristotile.  *  che  non  vi  ha né  caldo  né  freddo  né  dolce  nò  assolutamente  alcin  sensibile  all'in^ fuori  della  sensazione  ». Ma  il  più  forte  argomento  contro  V  interpretazione  del  sistema eleatlco  nel  senso  della  subbiettiviti\  del  fenomeno  ci  sembra  il  rap- porto tra  Xenofane  e  gli  eleatl  posteriori.  Pare  certo,  sia  per  ce»-te proposizioni  di  questo  filosofo  sulla  divinità  (v.  Fr.  3  Muli.  :  Dio muove  o  governa  il  tutto  —  che  cosa  governerebbe  Dio,  se  non  esi- stesse una  natura?—-),  sia  per  le  sue  opinioni  cosmologiche,  ch'egli d  iscure  e  di  trapano,  essi  di  terra  e  d'  aria.  Ma meglio  il  fabbro,  il  quale  sa  che  non  basta  il  dire come  mediante  lo  strumento  si  sia  formato  il  cavo e  il  piano,  ma  aggiunge  che  ciò  avvenne,  perchè egli  aggiustò  i  colpi  d'una  tale  maniera  e  a  tal  og- getto,  cioè  affinchè  l' opera  ricevesse  una  forma tale  (1).  Altrove  Aristotile  paragona  i  fisici  a  qual- cuno che  pretendesse  di  spiegare  la  forma  di  un edifizio,  dicendo  che  i  gravi  si  portano  natural- mente in  basso  e  i  leggieri  in  alto,  e  che  è  perciò che  le  pietre  e  le  fondamenta  si  trovano  nella  parte inferiore  dell'  edifizio,   al  di  sopra  la  terra  perchè non  rigettava  assolutamente  II  cangiamento  e  la  natura  sensibile  (v. pure  nel  Ds  Melisso  ecc.  e.  ì9  sul.  prJno.  un'  obbiezione  coatro Xenofane  dalla  quale  risulta  ch'egli  manteneva  l'esistenza  del  mul- tiplo). Intanto  le  testimonianze  più  autorevoli  attribuiscono  allo  stesso Xenofane  la  dottrina  dell' Immutabilità  assoluta  dell'essere  e  della non  realtà  del  cangiamento  (Aristotile  Met,  1.  I.  V.  910,  Arlstocle ap.  Ettseb.  Pr,  er,  XIV.  17,  Plutarco  ivi  1-8,  Sesto  Empir.  P(jrr1t, I.  225,  esc.  I  Quand'anche  l'Indicazione  già  citata  di  Teof  rasto  sul  ri- poso e  il  movimento  dell'uno— tutto  dovesse  intendersi,  non  nel  senso che  Xenofane  esc»ludeva  da  esso  tanto  l'uno  quanto  l'altro,  ma  in  quello che  Teofrasto  non  può  attribuirgli  la  dottrina  nò  della  realtà  né  della non  realtà  del  movimento,  questa  indicazione  non  potrebbe  farci  ri- gettare le  altre  tostimonianze,  che  identificano  la  dottrina  di  Xeno- fane con  quella  degli  Eleatl  posteriori:  essa  proverebbe  soltanto  che nella  prima  vi  era  qualche  incoerenza,  che  si  spiegherebbe  suppo- nendo che,  per  gli  Eleatl,  la  realtà  del  movimento  e,  in  generale,  del sensibile  era  qualche  cosa  di  equivoco.  Ma  se  si  suppone  col  Zeller che  Xenofane  ammetteva  assolutamente  la  realtà  dei  cangiamento  e del  sensibile,  e  che  gli  Eleatl  posteriori  la  rigettavano  assolutamente, non  si  comprende  più  il  rapporto  tra  l'uno  e  gli  altri,  e  non  si  vede come  gli  antichi  potessero  identificare  le  due  dottrine. La  quistlone  :  i  fenomeni  hanno  per  gli  Eleatl  un'esistenza  ob- biettiva o  subbiettiva  ?  non  deve  confondersi  con  quest'altra  :  la  fi- sica che  Parmenide  espone  nella  2^^  parte  del  suo  poema  ha  o  no  un (1)  De  parU  anim,  1.  I.  I. meno  pesante,  e  alla  sommità  il  legno  perchè  piti leggiero  di  tutti  gli  altri  materiali  (2). Non  è  semplicemente  la  teleologia  e  il  carattere dialettico  della  filosofia  di  Platone  e  di  Aristo- tile che  mettono  questa  filosofia  in  opposizione  a quella  dei  iisici.  Vi  ha  fra  di  esse  un'antitesi  fon- data su  due  concezioni  della  natura,  di  .cui  la  meno metafisica  non  è,  in  tutti  i  punti,  quella  dei  fisici. Senza  dubbio  le  speculazioni  sul  principio  formale o  essenziale  sono  strettamente  legate  in  Aristotile con  la  sua  teoria  della  definizione  —  che,  come  ab- biamo visto,  è  un'  applicazione  di  quella  forma  di valore  reale  ?  La  risposta  a  questa  seconda  quistlone,  lo  credo,  non  po- trebbe essere  In  ogni  caso  che  negativa:  Parmenide  dichiara  catego- rie imento  che    nella   seconda  parte  del  suo  poema  egli  non  esprime le  sue  proprie  opinioni,  ma  delle  opinioni  che  gli  sembrano  erronee. Certamente   Parmenide  qualifica    pure   come  una  semplice  opinione del  volgo  la  realtà  d^lla  moltlpllcltà  e  del  cangiamento   (Versi   99  e seg.,  luogo  riportato  nel  testo;  Teofrasto  ap.Alex.  In  Phil.  pr.   Ari- stotells  1.3.  ),  e  perciò  potrebba  credersi  che  la  realtà  ch'egli  attribuisce alla  fisica  della  2*  parte  del  suo  poema  sia  necessariamente  eguale  a quella  ch'egli  attribuisce  al  multiplo  e  al  cangiante.  Ma  non  è  così.  Se Parmenide  ha  ammesso,  come  ci  sembra  più  verisimile,  l'obbiettività del  fenomeno,  la  realtà  del  multiplo  e  del  cangiante  è  secondo  lui  un'o- pinione falsa.  In  ciuanto  V apparenza  dell'essere  veramente  reale  viene presa  per  1'  essere  reale  stesso;  ed  egli  crede  che,  se  quest'opinione fosse  vera,  sarebbe  Indispensabile  una  fisica  qual  è  quella  della  2*  partd^ del  suo  poema,  fondata  sul  principio  di  una  pluralità  di  sostanze  primor- diali qualitativamente  Immutabili  (V-  Arlst.  MeU  1.  I.  V.  11  e  Teofra- sto 1.  e.  ). Ma  egli  non  chiamerebbe  la  sua  fìsica  un  discorso  fallace, un'opinione  che  non  merita  alcuna  fede,  per  la  semplice  ragione  che  1 fenomeni  di  cui  essa  tratta  non  sono  degli  esseri  reali,  come  credono gli  uomini,  ma  dei  semplici  fenomeni  :  se  questa  fisica  contiene  un'e- sposizione esatta  dei  fenomeni,  essa  è  vera,  quantunque  non  abbia  per oggetto  che  del  fenomeni  privi  di  vera  realtà.  Oli  antichi  autori  (Plu- tarco, Simplicio,  ecc.  )  che  confondono  la  qulstione  del   valore  della (2)  Pft|/«.  1.  II.  IX.  1.  (Confronta  Plato.  LeQcii  889). spiegazione  metafisica    che    abbiamo  chiamato  filo- sofia apriorista  —  e  con  la   sua  concezione  teleolo- gica del  mondo  —  che  è  un'  applicazione  delPaltra forma,  la  più  spontanea,  di  spiegazione  metafisica, implicando,  anche  in  quanto  questa  teleologia  è  im- manente,  una  certa  assimilazione  delle  operazioni della  natura  a  quelle  dell'uomo—:  a  questi  concetti Platone  ne  aggiunge  degli  altri  più  spiccatamente metafisici,   cioè    la    realizzazione    delle    astrazioni e  le  altre   dottrine  connesse.   Ma  se  noi  sbarazzia- mo dai  concetti  metafisici  con  cui  è  legata,  questa introduzione  del  principio  formale  o  essenziale  co- me   principio    così    primitivo    e    irriduttibile  nella costituzione    degli  esseri  che  quello  della   materia, e  avente  delle    léggi    proprie  così   primordiali  che quelle    della    materia    stessa;    in    altri    termini    se noi  la   riduciamo   alla   proposizione    che  gli  esseri manifestano  delle  proprietà  che  non  sono  la  risul- tante o  la    somma    delle    proprietà    degli    elementi materiali  che  li  costituiscono;  noi  dobbiamo  vedere in  questa  proposizione  il  risultato  di  una  semplice osservazione  dei  fatti  scevra  da  anticipazioni  delVe- sperienza  e  da  qualsiasi  ipotesi.  L'ipotesi  dei  fisici che    non    lascia  negli  esseri  alcun  principio  di  di- fislca  del  poema  di  Parmenide  con  quella  della  obbiettività  del  sensi- bile secondo  Parmenide,  non  considerano  U  vero  motivo  e  1'  origine del  sistema  eleatlco:  questo  sistema  sarebbe  Incompatibile  col  concetto di  una  pluralità  di  sostanze  materiali  tutte  egualmente  primordiali^ perchè  l'uno  degli  Eleatl,  come  l'uno  degli  altri  fisici,  non  è  che  11 sustrato  comune  di  tutti  1  corpi  (l'essere,  per  1  fisici  e,  al  fondo,  anche per  gli  Eleatl,  non  è  che  11  corpo),  e  suppone  la  convertlblUtii  reciproca di  tutte  le  sostanze  materiali. •■'j M^^  ^^  /  '      '>«*l*fcr  ;  ts^TXatD-         L  riiiiprover< *^  AMIiftA*  <|j  dn^ftiiii^p^f»'  il  ^rmi'ifiic*  fk4iia  lormÈH <  <leiLi  i,^^',,^  ^  iuujf  juLiÈii  pari/  .iiirnHfilt-  a  rappi^ ^^^UàMti  ai  ^u^^c^u  iki^i't  e  J,^-'iij.M-ni-  *"  i!^.iTnQiiitici 4^  ^:Mpe44M:àA-  nui  AtL^i^jiià*^  i..  -.^i-^na-  i.  ratti  i /toi';/  A<}  i6hA*fmà^,  1  metuuf:  :  mì,  i^nn*^  la  laro /i.*ii4/  i^CM  piii  MMUfTim  *  più  K^iiiippaifc.  f^ii  ij^rdi^ ^tì^éi  «ippJif4t'v<tiio  C  umx  uiixnk^rkk  \àu  netta  4- Tx«roro#*i* #Mt?,«iiV4Hit,  piti  </<>;iiftioiii-  n:  rimprov4fro  di  Ari«iatiÌ€: i«n;;4^  i^ix  MU^  «;Ofi*>if^w*friza  (l*^i  principio  4rt*?feKo  fh*- 4f#ii  j  a/*«ivjiai  <ij  miti  i  fiisici  .  quM^o  iinplii:ando ^  'Mip»y»nioiijUi  «in:  i  if...y, nau  di  UD  tiitu.  diff*-rit^fa <iitii  e/ij>eti^At  iUt)^Vì  i^ii^mhnù  da  *-uJ -  «UOo  ^rHitituito <  ili  <;ui  hi  iAr><>M  l'fia  »  |i*^r  ironM^iru*fn2Ui  una  npi**- i^ii^/Àvui    iii«.*i;<  litJLica  d»fllit  vita  *-  d*^lla  natura  in  s*^ è  K'  ^<^uaiituu<^u*-  la  liloMMia  ;^re'-a  poM^riore *ij  /f;^///  piHii^Mi^-  momU'dìi'ì  aJtri  *^M>nipi  defila  ten- 4t'u/>a  filo*>*^h<a  «li*-  noi  studiamo  in  que*jt*appen- d>4^  (Ij,  tuttavia  h,iiM)m.h  non  vi  trov«^r*-nimo  dei  si- '1/  //i««««M>ii/,Éi  ^Ì4?i  ^tiuAityÌMj  e*Mf  y^mmn  mm  può  ne  nascere  né JM»IM«  ^*/i#-v*>U'  nii-</y4ii-<>i  /lÉfj  «</u«;*-U#>  «ieJlm  mMWrui  d^-llo  stesso  A- LXXllI sterni  in  cui  l'impronta  di  questa  tendenza  sìa  cosi marcata  come  in  quelli  di  cui  abbiamo  parlato — ad eccezione,  s'intende,  delle  dottrine  che,  come  quella di  Epicuro,  non  tanno  che  continuare  delle  dottrine più  antiche — :  cosi  sarà  per  noi  più  interessante  di osservare  l'influenza  dello  stesso  sofisma  a  priori che  ha  inspirato  i  fisici  greci  nella  filosofia  di  un altro  popolo  antico,  cioè  degl'Indiani. Le  tre  principali  dottrine  ontologiche  della  fi- losofia Indiana,  la  sankifa,  la  vaiseschika  e  la  vedan- tina,  corrispondono  in  un  certo  modo  alle  tre  scuole in  cui  possono  dividersi  i  filosofi  greci  di  cui  abbia- mo parlato,  cioè  fisici  unizzanti,  fisici  meccanisti  ed Eleati. Secondo  Colebrooke,  la  sankya  (la  scuola  di  Ra- pila) ha  in  comune  coi  fisici  greci  il  principio  ex nihilo  nihil  fit,  «  Ciò  che  non  esiste,  dicono  i  fi- losofi di  questa  scuola,  non  può  per  alcuna  opera- zione possibile  d'una  causa  ricevere  l'esistenza». Cosi  l'olio  è  nella  semenza  del  sesamo  prima  che  ne sia  estratto.  La  natura  della  causa  e  dell'effetto  è la    stessa:    un  drappo  non    può  differire   essenzial- deUa  materia,  questa  «  p-sofonda  verità»  :  «Tldentità  del  fondo  per- manente deUo  cose,  l'eternità  dell'  oceano  di  essere,  alla  superfìcie del  quale  si  svolgono  le  linee  sempre  oscillanti  e  variabili  dell'indi- vidualità». (Renan  Aoerroe  e  l'averroismo  pag.  115).  — Ricorderemo pure  la  singolare  dottrina  del  Timeo  di  PI  itone,  secondo  la  quale  i corpi  elementari  —  i  quali  sono  dei  poliedri  regolari  e  consistono nelle  superficie  da  cui  sono  terminati  —  si  trasformano  gli  uni  negli altri  per  la  1  >ro  decomposizione  nei  piani  che  li  costituiscono  e  una nuova  composizione  degli  stessi  piani  in  altri  solidi  di  una  forma differente  (v.  Plato  Timeo  53  e.  1.  57  b,  Arist.  De  Coelo  1.  HI.  I-III VII,  ecc.).  È  una  specie  di  atomismo,  in  cui  gli  adorni  sono  non  dei corpi  ma  delle  superficie. LXXII stinzione,  non  vedendo  nelle  loro  proprietà  speci- fiche che  il  risultato  delle  proprietà  degli  elementi materiali  e  delle  forze  che  agitano  tutta  la  materia, non  è  meno  metaempirica  nella  sua  origine  che  le concezioni  teleologiche  e  dialettiche  di  Platone  e di  Aristotile.  Questa  ipotesi  non  è  semplicemente  le- gata alla  fisica  meccanista  :  certamente  il  rimprovero di  Aristotile,  di  distruggere  il  principio  della  forma o  della  specie,  s'indirizza  particolarmente  ai  rappre- sentanti di  questa  fisica,  a  Democrito  e  sovratutto ad  Empedocle  ;  ma  Aristotile  lo  estende  a  tutti  i fisici  in  generale.  I  meccanisU\  sia  perchè  la  loro fisica  era  più  moderna  e  più  sviluppata,  sia  perchè essi  applicavano  d'una  maniera  più  netta  e  rigorosa il  principio  che  Tessere  non  può  né  nascere  né  pe- rire, davano  più  occasione  al  rimprovero  di  Aristotile: ma  la  concezione  della  natura  a  cui  esso  viene  di- retto era  una  conseguenza  del  principio  stesso  che era  l'assioma  di  tutti  i  fisici,  questo  implicando l'impossibilità  che  Y  essenza  di  un  tutto  differisca AM^'essensa  degli  elementi  da  cui  è  stato  costituito •e  in  cui  si  risolverà,  e  per  conseguenza  una  spie- gazione meccanica  della  vita  e  della  natura  in  ge- jierale. §.  8^  Quantunque  la  filosofia  greca  posteriore ai  fisici  potrebbe  mostrarci  altri  esempi  della  ten- denza filosofica  che  noi  studiamo  in  quest'appen- dice (1),  tuttavia  siccome  non  vi  troveremmo  dei  si- (1)  L'influenza  del  principio  che  Tessere  non  può  né  nascere  né perire  potrebbe  ritrovarsi  nel  concotto  della  materia  dello  stesso  A- xistotile.   Secoudo  Renan,  Aristotile  ha  ammesso,  per  la  sua  teoria Il  « stemi  in  cui  l'impronta  di  questa  tendenza  sia  così marcata  come  in  quelli  di  cui  abbiamo  parlato — ad eccezione,  s'intende,  delle  dottrine  che,  come  quella di  Epicuro,  non  fanno  che  continuare  delle  dottrine più  antiche — :  cosi  sarà  per  noi  più  interessante  di osservare  l'influenza  dello  stesso  sofisma  a  priori ehe  ha  inspirato  i  fisici  greci  nella  filosofia  di  un altro  popolo  antico,  cioè  degl'Indiani. Le  tre  principali  dottrine  ontologiche  della  fi- losofia Indiana,  la  sankya,  la  vaiseschika  e  la  vedan- tina,  corrispondono  in  un  certo  modo  alle  tre  scuole in  cui  possono  dividersi  i  filosofi  greci  di  cui  abbia- mo parlato,  cioè  fisici  unizzanti,  fisici  meccanisti  ed Eieati. Secondo  Colebrooke,  la  sankya  (la  scuola  di  Ka- pila)  ha  in  comune  coi  fisici  greci  il  principio  ex nihilo  nihil  fit,  «  Ciò  che  non  esiste,  dicono  i  fi- losofi di  questa  scuola,  non  può  per  alcuna  opera- zione possibile  d'una  causa  ricoA^ere  l'esistenza». Così  l'olio  è  nella  semenza  del  sesamo  prima  che  ne sia  estratto.  La  natura  della  causa  e  dell'effetto  è la    stessa:    un  drappo  non    può  differire   essenzial- della  materia,  questa  «  psofonda  verità»  :  «l'Identità  del  fondo  per- manente dello  cose,  l'eternità  dell'  oceano  di  essere,  alla  superficie del  quale  si  svolgono  le  linee  sempre  oscillanti  e  variabili  dell'indi- vidualità». (Renan  Amrroe  e  l'averroismo).  — Ricorderemo pure  la  singolare  dottrina  del  Timeo  di  PI  itone,  secondo  la  quale  i corpi  elementari  —  i  quali  sono  dei  poliedri  regolari  e  consistono nelle  superficie  da  cui  sono  terminati  — si  trasformano  gli  uni  negli altri  por  la  1  »ro  decomposizione  nei  piani  che  li  costituiscono  e  una nuova  composizione  degli  stasai  piani  in  altri  solidi  di  una  forma differente  (v.  Plato  Timeo  53  e,  1.  57  b,  Arist.  De  Coelo  1.  IH.  I-IIf VII,  ecc.).  È  una  specie  di  atomismo,  in  cui  gli  adorni  sono  non  dei corpi  ma  delle  superfìcie. mente  dalla  lana  con  cui  è  stato  tessuto.  Conforme- mente a  queste  premesse,  i  sankyas  ammettono  che il  primo  principio,  da  cui  le  altre  cose  derivano,  la Prakriti  o  Pradhana,  che  è  la  causa  materiale  del tutto,  contiene  tutto  in  uno  stato  indistinto  o  invi- luppato. Tutto  esce  dal  primo  principio,  e  tutto  vi rientra  (alla  fine  del  mondo),  senza  che  perciò  niente di  assolutamente  nuovo  si  produca  e  niente  assolu- tamente perisca.  La  uscita  o  emissione  degli  effetti dalla  causa  e  la  riunifìcazione  del  tutto,  cioè  il  ri- torno dell'universo  al  primo  principio,  ha  per  tipo la  tartaruga  che  fa  uscire  le  sue  membra  dal  guscio e  ve  le  fa  rientrare  di  nuovo  (1). Nella  vaiseschika  (scuola  di  Kanada)  si  trova  qual- che cosa  come  una  combinazione  della  dottrina  degli Atomisti  e  di  quella  di  Empedocle.  Come  elementi materiali  questa  scuola  ammette  cinque  generi  di atomi,  corrispondenti  ai  quattro  elementi  dei  Grecia a  cui,  come  alcuni  dei  Greci  stessi,  ne  aggiunge  un quinto,  l'etere.  Questi  atomi  non  sono  tutti  solidi  ne destituiti  di  qualità  sensibili,  come  quelli  di  Demo- crito; ma,  come  gli  elementi  di  Empedocle,  ciascuno è  dotato  delle  qualità  che  noi  osserviamo  nella  so- stanza corrispondente.  Secondo  l'esposizione  di  Co- lebrooke  si  può  ammettere  che  questi  atomi  sono inalterabili,  e  che  le  proprietà  dei  composti  sono  la risultante  di  quelle  degli  elementi  (2).  L'  anima  è una  sostanza  distinta  dagli  elementi  materiali,  come Colebrooke  Saggio  sulla  filos,  degV Indiani  trad.  frane,  pa- gine 37.39  Cfr.   pag.   17. (2)  V.  Saggio  mila  fllos,  degVInd,   pag.  63-83.  Cfr.  pag.   218.220. lo  provano  le  sue  proprietà  differenti  ;  ed  è,  come essi,  imperibile  ed  eterna.  La  materia  è  per  se  stessa inerte,  e  il  movimento  le  viene  impresso  dallo  spi- rito (1). La  proposizione  che  condensa  la  vedanta  è:  L'essere supremo  (Brahma)  è  la  causa  materiale  così  bene che  la  causa  efficiente  dell'universo.  Brahma  è  l'e- lemento etereo  dal  quale  tutte  le  cose  procedono  e al  quale  ritornano  tutte  (2).  Ma  trasformandosi  negli esseri  finiti,  Brahma  non  perde  la  sua  identità, perchè  i  Vedantini  non  comprendono  che  l'essere reale  possa  nascere  o  perire.  Nel  Bhagavad-gìta (un  episodio  filosofico  del  Mahà-Bhàrata),  che  è  una delle  grandi  autorità  della  filosofia  vedantina,  vi  ha questa  proposizione  :  Quod  vere  non  est  id  fieri  nequit ut  existat,  nec  ut  esse  desinat  qiiod  vere  est.  La  con- seguenza di  questo  principio  è  che  Brama  è  l'essenza unica  in  cui  tutte  le  cose  si  risolvono.  Già  il  Veda dice:  Tutto  ciò   che  esiste  ò  Brahma;  tutto  ciò  che (X)  Colebrooke    Op.  ciU  pag.    56  57,   52-5J   (nota  di  Paut'aier),  73 (nota  di  Pauthier),  (jcc. (2)  Questo  panteismo  è  fondato,  come  notammo  altrove,  sul  con- cetto della  materialità  doU'  anima  e  di  Dio,  e  della  convertibilità reciproca  di  tutte  le  sostanze  materiali  (cfr.  FU,  t£olog.  §  6).— Lo  idee degl'Indiani  sugli  demeriti  e  «ull'ordine  della  loro  conversione  re- ciproca sono  analoghe  a  quelle  dei  Greci.  Secondo  il  codice  di  Manu (V.  Schlegel  Saggio  sulla  lingua  e  la  fllos,  degl'Indiani,  lib.  4.  II)  e secondo  i  Vedantini  (v.  Calebrooke  pag.  202),  gli  elementi,  nell'or- dine con  cui  procedono  gli  uni  dagli  altri,  sono:  l'etere,  l'aria, il  fuoco,  l'acqua  e  la  terra.  I  Vedantini  ora  identificano  Dio  con l'etere  (Colebr.  p.  163),  ora  ne  lo  distinguono  (v.  Regnaud  in  Rev. phil.  t.  5.  p.  536)  e  in  questo  caso  fanno  dell'etere  l'elemento  che^ procede  immediatamente  da  Dio  o  dallo  Spirito  (sempre  concepito nel  senso  del  semimaterialismo  dell'animismo  primitivo). - I noi  sentiamo  per  l'odorato  o  toechiamo  per  il  tatto è  Brahma.    Dio  è  sotto   fórma    di    schiavi    e    sotto quella  di  fuggitivi;    egli   è   l'animale   quadrupede in  un   luogo,  e  in  un   altro   è   pieno  di  gloria  (1). La  differenza  tra  la  causa  e  l'effetto  non  invalida, dicono  i   Vedantini,   la    identità   di  Brahma   come causa  e  come  effetto.  Un  effetto  non  è  altro  che  la sua  causa;  Brahma  è  unico  e  senza  secondo,  egli  non è  separato  da  se  stesso  esistente  nel  mondo  deF  corpi. Brahma  è  come  il  mare,  il  quale  non  è  che  acqua, ma  in  cui  si  osservano  modiHcazioni  distinte,  quali la  spuma,  i  flutti,  ecc.;  in  realtà  da  una  parte  niente nel  mare  differisce  dall'acqua  di  cui  esso  è  foi-mato, <;ome,  dall'altra   parte,  niente  differisce  dall'anima universale,  di  cui  il   mondo   intero  non  è  che  una modificazione.  Come  causa  dell'universo  Brahma  è simile   ad   una   pezza   di   stoffa   inviluppata,  ed  il mondo    è    simile  a  questa  stessa   stoffa  sviluppata, di  cui  si  riconosce  la  identità  con  la  stoffa  già  in' viluppata  (-2). Ma  tiili  comparazioni  —  le  quali  suppongono  che nell'essere  assoluto  vi  siano  delle  modificazioni reali  — non  esprimono  d'una  maniera  adequata  il pensiero  definitivo  dei  Vedantini:  questo  è  che  l'Es- sere assoluto  in  se  stesso  resta  immutabile  attraverso tutti  i  cangiamenti  a  cui  l'universo  è  sottoposto. Brahma  è  impassibile,  inaffettato  dalle  modificazioni del  mondo,  come  il  puro  cristallo  che  pare  colorato (1)  Colebr.   Op,  cit,  p.  285-286. (2)  Colebrooke  Op,  cit.  pag.178,  Rognaud  Studi  di  filosofia  indiana m  Rev,  phiL  t.  5.   p.   166,  171. LXXYir per  il  fiore  rosso  d'un  ibisco,  ma  che  in  realtà  non cessa  di  essere  trasparente.  Egli  è  lo  stesso  in  tutte cose:  non  vi  ha  in  lui  diversità  né  variabilità;  ne^ suna  moltiplicità  (1).  La  contraddizione  tra  quest'u- nità e  immutabilità  dell'Essere  che  è  la  sostanza universale^  e  i  cangiamenti  e  la  pluralità  delle  cose è  risoluta  dai  Vedantini,  come  dagli  Eleati,  distin- guendo il  fenomeno  e  la  realtà:  questa  distinzione corrisponde  a  quella  del  costante  e  del  transitorio. Brahma,  il  solo  oggelito  costante^  è  distinto  da  tutto il  resto  che  è  transitorio;  Brahma  solo  è  reale,  il resto  non  è  che  apparenza  (2).  Diverse  forme  illu- sorie e  diversi  svisamenti  sono  rivestiti  dallo  stesso spirito.  «Il  soleluminoso,  quantunque  unico,  tuttavia,* riflelituto  nell'acqua,  diviene  multiplo:  tale  è  pure  l'ani- ma divina  increata,  per  uno  svisamento  sotto  diversi modi  »  (3).  «  Il  mondo  sembra  reale,  sinché  Brahma non  è  compreso;  ma  Vgogi\  di  cui  l'intelletto  è  per^- fetto,  con  l'occhio  della  conoscenza  percepisce  che  o- gni  cosa  è  Spirito;  egli  conosce  che  queste  forme  cor- porali delle  cose  sono  Spirito,  e  che  fuori  dello  Spi- rito non  esiste  niente.  Di  tutto  ciò  che  è  visto,  di tutto  ciò  che  è  inteso,  non  esiste  che  Brahma:  tutto ciò  che  sembra  esistere  fuori  di  lui  non  è  che  un'il- lusione, come  l'apparenza  dell'acqua  (il  miraggio)  nel deserto  »  (4).  Brahma  non  si  trasforma  dunque  che  in apparenza:  le  forme  cangianti  degli  esseri  finiti  non sono  che  vane  immagini  a  cui  non  corrisponde  altro ^ (1)  V.  Colebrooke  Op.  cit,  p.  183-187   e  p.  272  Atma-Bodha  35). (2)  Kegnaud.  (Studi  di  filosofia  indiana)  in  Rev.  phil.  t.  4.   p.  598. (3)  V,  Colebrooke  Op.  cit.  pag.   178,  187. (4,  Atni-Iiodha  ("^ono.^c.  dello  spirito)  di  S'ankara,  7,  47,  48,  65,  64.. K di  reale  che  Brahtna,  l'essere  immutabile  ciie  appa- risce sotto  queste  forme  diverse. Qui  si  presenta  la  stessa  quistione  che  per  gli Eleati.  Quando  i  Vedantini  chiiimano  il  multiplo  e cangiante  una  semplice  apparenza,  intendono  perciò ridurre  la  natura  a  dei  fenomeni  puramente  subbiet- ti  vi,  o  quest'apparenza  è  per  loro  nn!  apparenza  obbieU Uva?  Il  QB^vaii^vQ  fenomenale  delle  cose,  per  i  Vedan- tini come  per  gli  Eleati,  non  è  il  risultato  di  ricerche sulla  natura  della  nostra  conoscenza,  dimostranti  il v^alore  relativo  e  puramente  subbiettivo  della  perce- zione, ma  è  la  conseguenza  di  questa  premessa,  che l'essere  non  può  cominciare  né  finire,  che  le  cose  non possono  cangiare  di  natura  e  di  proprietà,  unita  a quest'altra,  che  non  vi  ha  una  pluralità  di  sostanze primordiali  inconvertibili  l'una  nell'altra,  ma  una  so- stanza unica  che  prende  forme  differenti.  Dato  questo motivo  della  dottrina,  noi  dobbiamo  preferire  d'inter- pretarla nel  senso  della  obbiettività  piuttosto  che  in quello  della  subbiettività  del  fenomeno.  Quest'ultimo senso  sarebbe  d'altronde  incompatibile  con  altre  pro- posizioni dei  Vedantini,  notevolmente  con  le  altre rappresentazioni  del  rapporto  tra  Dio  e  il  mondo. Quando  paragonano  Brahma  a  una  stoffa  inviluppata e  il  mondo  a  questa  stoffa  sviluppata;  quando  dicono che  Brahma  si  trasforma  nelle  sostanze  corporali come  l'acqua  in  ghiaccio,  e  che  queste  sostanze  sa- ranno da  lui  riassorbite  alla  consumazione  di  tutte le  cose;  quando  tra  Brahma  e  le  cose  particolari stabiliscono  lo  stesso  rapporto  che  tra  la  terra  e  i vasi  fatti  di  questa  terra  o  tra  Toro  e  gli  ornamenti d'oro;  ecc.;  i  Vedantini  affermano  chiaramente  l'ob- biettività delle  forme  finite.  Questi  concetti  potreb- bero difficilmente  coesistere  con  quello  di  M/igu, (cioè  della  fenomenalità  degli  esseri  finiti),  non  vi sarebbe  tra  gli  uni  e  l'altro  alcuna  gradazione  pos^ sibile,  se  i  Vedantini  riguardassero  il  multiplo  e cangiante  come  dei  fenomeni  subbiettivi,  e  non oome  l'apparenza  obbiettiva  dell'Essere  immuta- bile (1). §  9.  Nella  filosofia  moderna  il  principio  della  im- mutabilità della  sostanza  si  afferma  sin  dal  risor- gimento del  pensiero  filosofico.  La  più  parte  dei primi  filosofi  moderni  o  inaugurano  la  spiegazione meccanica  della  natura  o  proclamano  un  panteismo, in  cui  Dio  è  concepito  come  1'  essenza  sempe  iden- tica a  se  stessa  degli  esseri  transitori  e  variabili. Sotto  la  forma  unitaria  e  panteistica,  il  principio deirimmutabilità  della  sostanza  si  trova,  nel  modo più  accentuato,  in  (iiordano  Bruno.  Nelle  esistenze finite  egli  non  vede  che  lo  manifestazioni  diverse e  cangianti  di  un  essere  in  se  stesso  unico  ed  im- mutabile. «  Quel  tutto  che  si  vede  di  differenza  ne  li (1)  Negli  Upanichad  (sezioni  finali  dei  Veda)  vi  ha  già  il  concetto deirimmutabilità  di  Brahma,  non  che  quello  di  Brahma  sostanza comune  di  tutti  gli  esseri;  ma  non  ancora  quello  di  niaffci  o  del  ca- rattere illusorio  dolio  cose  sensibili  (v.  Regnaud  Rev.  phil.  4.  p^  589- -5)3).  La  successione  cronologica  dei  concetti  corrisponde  cosi  alla loro  successione  logica— Regnaud  mostra  che  in  S'ankara  (il  più  ce- lebre commentatore  dei  vedanta-soutra,  che  sono  il  testo  dei  filosofi vedantini)  o  negli  stessi  ttoutra  si  trova  già  il  concetto  di  mal/ a {Rev.  phil.  t.  5.  p.  16]-166  e  t.  6.  p.  598),  ciò  che  Colebrooke  avoa negato  (Colebr  p.  206— Per  S'ankara  del  resto  ciò  risulta  abbastan^sa dalla  citazione  precedente).  Manca  perciò  di  fondamento  la  suppo- sizione di  Colebrooke  che  questo  concetto  sia  un  impiestito  degli ultimi  scrittori  vedantini  a  qualche  altra  scuola. corpi,  quanto  alle  formazioni,  complessioni,  figure, colori  ed  altre  proprietadi  e  comunitadi  non  è  altro che  un  diverso  volto  di  medesima  sustanza,  volto  la- bile, mobile,  corrottibile  di  un  immobile,  perseverante et  eterno  essere,  in  cui  son  tutfce  forme,  figure  e  mem- bri, ma  indistinti  e  come  agglomerati,  non  altrimenti che  nel  seme  »,  ^cc.  (1).  L'essere  primordiale  non  è dunque  soltanto  secondo  Bruno  il  sustrato  perma- nente di  tutte  le  cose,  di  cui  tutto  ciò  che  vi  ha in  queste  di  vario  e  di  cangiante  non  è  che  un modo  di  essere  :  esso  è  ancora  il  seno  fecondo  di tutto  ciò  che  nasce,  in  cni  ogni  cosa  preesiste,  per dir  cos^,  allo  stato  latente,  in  modo  che  tutto  ciò che  viene  all'esistenza  non  viene  dal  niente,  non comincia  d'una  maniera  assoluta,  ma  si  spicca  dal fondo  permanente  dell'essere,  diventa  manifesto, mentre  prima  era  occulto.  Ricordiamo  la  stoffa  in- viluppata che  si  sviluppa  dei  filosofi  indiani,  e  la tartaruga  che  fa  uscire  le  sue  membra  dal  guscio  e ve  lo  fa  rientrare.  «  Ogni  potenza  et  atto,  che  nel principio  è  come  complicato,  unito  et  uno,  ne  le  al- tre cose  è  esplicato,  disperso  e  moltiplicato  »  (2). Tutto  ciò  che  vi  ha  di  vario  negli  esseri  si  trova nell'essere  primordiale,  ma  fuso  insieme,  in  modo da  formare  un'essenza  assolutamente  semplice  e,  per dir  così,  una  massa  perfettamente  omogenea.  «  L'u- niverso è  tutto  quel  che  può  essere,  secondo  un modo  esplicito,  disperso,  distinto:  il  principio  suo  è \ unitamente  et  indifferendemente,  perchè  tutto  è  tutto et  il  medesimo  semplicissimamente,  senza  differenza e  distinzione  »  (1).  «  La  potestà  si  assoluta  non  è semplicemente  quel  che  può  essere  il  sole,  ma  quel ch'è  ogni  cosa,  e  quel  che  può  essere  ogni  cosa^ potenza  di  tutte  le  potenze,  atto  di  tutti  gli  atti,, vita  di  tutte  le  vite,  anima  di  tutte  le  anime,  essere di  tutti  gli  esseri.  Onde  altamente  è  detto  dal  rive- latore: Quel  ch'è  me  invia,  colui  ch'è  dice  così.  Però quel  che  altrove  è  contrario  et  opposito,  in  lui  è uno  e  medesimo,  et  ogni  cosa  in  lui  è  medesima»  (2). Noi  vediamo  qui  come  Bruno,  per  conciliare  l'unità dell'  essere  primordiale  con  la  varietà  degli  esseri derivati,  è  condotto  a  delle  idee  analoghe  a  quelle di  Eraclito  (3).  Il  principio  dell'identità  dei  contrari^ in  Bruno,  come  in  Eraclito,  non  deriva  da  conside- razioni dialettiche,  come  nell'idealismo  tedesco,  ma dal  jirincipio  che  l'essere  non  può  venire  dal  niente. La  differenza  tra  Eraclito  e  Bruno  è  che,  mentre» da  questo  principio  il  primo  ne  conclude  immedia- tamente che  gli  opposti  sono  identici  nelle  cose^ stesse,  il  secondo  immediatamente  non  ne  conclude se  non  che  tutti  gli  attributi  delle  cose  devono  tro- varsi nell'Essere  primordiale,  e  solo  mediatamente che  in  quest'Essere  per  conseguenza  gli  opposti  de- vono essere  identici,  senza  di  che  gli  attributi  re- ciprocamente incompatibili  delle  cose  non  potreh— bero  coesistere  in  un  essere  unico  e  semplice.. (1)  De  la  causa^  principio  et  uno,  ed.  Wagner  p.  2Bi. (2)  0/>.  ciU  pag.  261. (1)  Ivi. (2)  Op,  cit.  p.  263. (3)  Questo  rapporto  con  Eraclito  è  sto,bilito  dallo  stesso  autore Un'altra  filosofia  antica  con  cui  il  sistema  di  Bruno Ila  uno  stretto  rapporto  è  quella  degli  Eleati,  di  cui egli  loda  e  difende  le  dottrine.    «  Tutto  quello,  egli -dice,  che  fa  diversità  di  geni,  di  specie,  differenze, proprietadi,  tutto  che  consiste  ne  la  generazione,  cor- ruzione, alterazione  e  cangiamento,  non  è  ente,  non è  essere,  ma  condizione  e  circostanza  d'ente  e  d'es- sere, il  quale   è  uno,  infinito,  immobile,  soggetto, materia,  vita,  anima,  vero  e  buono  »  (1).  «  Quello che  fa  la  moltitudine  ne  le  cose  non  è  lo  ente,  non è  la  cosa,  ma  quel  che  appare^  che   si  rappresenta mI  senso  ^  et  è  ne  la  superficie  de    la  cosa  »  (2).  In :un  altro   luogo    della  stessa  opera  (3)   1'  universo  è 'Chiamato   un  simulacro^  un'  immagine^  un'  ombra  del suo  principio.  (Eicordiamo  che  «  quel  tutto  che  si  vede di  differenza  ne  li  corpi  »  non  è  che  «  nn    diverso volto  »  di  «  un  immobile,  perseverante  et  eterno  es- sere »).  Noi  vediamo  qui  quanto  Bruno  è  vicino  al 'Concetto  della  fenomenalità  del  mondo  degli  Eleati ^  dei  Vedantini    (ammesso    che    per  questi    filosofi questa  fenomenalità  debba  intendersi  nel  senso  ob- biettivo), concetto  che  solo    potrebbe  dare  un  sebiante di    soluzione    alla  contraddizione   che  vi  ha tra  l'immutabilità  dell'Uno  tutto  e  i  cangiamenti  del- l'universo.  Potrebbe  forse    credersi  che  per  Bruno questa  contraddizione  non    esiste,  perchè    egli  non attribuisce  l'immutabilità  che  all'  Uno  in  se  stesso, nel  suo  stato  implicito.  Ma  tale  osservazione  non toglie  la  contraddizione,  indica  soltanto  il  punto preciso  in  cui  questa  si  trova.  L'  uno  e  il  mondo non  sono,  nel  sistema  di  &.  Bruno,  che  è  un  pan- teismo rigoroso,  due  esseri  distinti  e  separati:  l'Uno vive  nel  mondo,  vi  è  contenuto,  perchè  esso  è  la sostanza  stessa  del  mondo.  Ma  Bruno  astrae  questa sostanza  del  mondo  dai  suoi  modi  di  essere  parti- colari,  e  ne  fa  un  essere  sussistente  per  se  stesso, senza  però  staccarlo  dal  mondo,  di  cui,  anche  in questo  stato  di  astrazione,  esso  continua  ad  essere la  sostanza  (1).  L' Uno    esiste    dunque   simultanea- (1)  Per  questa  facilità  a  realizzare  delle  astrazioni  Bruno  ci  ri- vela la  sua  posizione  storica  :  come  quasi  tutti  gli  altri  pensatori della  Rinascenza,  egli  non  é  ancora  un  filosofo  moderno,  egli  non  e che  a  met  l  emancipato  dalla  scolastica.  Molti  concetti  fondamentali della  metafisica  di  Bruno  portauo  l'impronta  di  questa  tendenza  ad elevare  a  realtil  .sussistente  per  se  stessa  l'indeterminato,  ciò  che  non «  che  un  prodotto  dell'astrazione.  Ciò  non  è  vero  soltanto  del  con- cetto dell'Uno  (che,  come  abbiamo  osservato,  è  una  sostanza  senza gli  accidenti,  quindi  un'astrazione,  e  al  tempo  stesso  una  realtà,  a cui  competono  degli  attributi  opposti  a  quelli  del  mondo,  di  cui  non- dimeno è  la  sostanza).  Bruno  consini  era  le  anime  degli  esseri  partico- lari come  le  individuazioni  di  un'Anima  universale  unica,  la  quale non  è  già  l'insieme  delle  anime  o  delle  vite  particolari,  ma  il  loro principio,  che  esiste  per  sé  stesso  prima  di  particolarizzarsi  e  mol- tiplicarsi (s'intende  d'una  priorità  logica  e  metafisica),  press'  a  poco come  un'Idea  di  Platone.  La  stessa  materia  (in  astratto)  sembra  tal- volta vagamente  realizzata.  Cosi  quando  egli  dice  (in  un  luogo  che cita  Lange  —  t.  1",  2*  parte  e.  3"  —  per  provare  la  tendenza  mate- rialista di  questo  filosofo)  che  la  materia  contiene  nel  suo  seno  tutte le  forme,  e  che  queste  escono  dall'  interiore  della  materia  per  l'at- tività della  materia  stessa,  la  quale  le  fa  uscire  da  sé,  simile  alla parturiente,  che  per  i  suoi  sforzi  convulsivi  spinge  il  figlio  fuori  del suo  seno;  allora,  accordando  alla  materia  un'  anteriorità  metafisic sulla  formia,  egli  sembra  considerarla   come   esistente  per  se  stessa mente  in  due  stati  contrari  :  in  se  stesso,  cioè  nel suo  stato  astratto,  egli  è  il  tutto,  ma  allo  stato  im- plicito; nel  mondo,  egli  è  ancora  lo  stesso  Uno,  ma allo  stato  esplicito,  disperso,  moltiplicato.  Ora  è  e- vidente  che  questi  due  stati  opposti  non  potrebbero appartenere  simultaneamente  allo  stesso  essere,  a meno  che  Bruno  non  dica  con  Platone  e  con  Hegel (i  quali  tra  le  Idee  e  le  cose  stabiliscono  lo  stesso rapporto  che  Bruno  tra  1'  Uno  e  il  mondo)  che  di questi  due  stati  Tuno  solo  è  reale,  e  V  altro  non  è che  apparente. In  Telesio  il  principio  dell'immutabilità  della  so- stanza arriva  ad  una  concezione  della  natura  che è  assai  vicina  alla  spiegazione  meccanica,  ma  che al  tempo  stesso  tiene  strettamente  ancora,  come  i concetti  di  G.  Bruno,  all'  ambiente  intellettuale  di un'epoca,  in  cui  i  prodotti  dell'astrazione  vengono trattati  come  degli  esseri  concreti.  Gli  elementi  delle cose  sono  secondo  Telesio  una  materia  indetermi- nata, senza  qualità,  e  il  caldo  e  il  freddo  che  de terminano  e  qualificano  questa  materia.  Il  caldo  e il  freddo  sono  delle  nature  sussistenti  per  se  stesse, che  si  contendono  il  dominio  della  materia:  la  ma* teria  esiste  dunque  per  se  stessa  indipendentemente indipendentemente  daUa  forma— Il  principio  generale  applicato  in questi  concetti  di  Bruno  è  che  il  reale,  considerato  nella  sua  essen> za,  la  quale  si  risolve  in  principii  astratti  o  indoterminati,  é  immu- tabile, e  che  il  cangiamento  non  attinge  che  la  superficie  dell'essere; di  più  queste  stesse  determinazioni  particolari  e  cangianti,  che  si producono  alla  superficie  dell'essere,  sono  considerate  non  come  pro- dotte dal  niente,  ma  come  tirate  dal  suo  fondo  permanente,  che le  cbntiene  in  se  stesso  ad  uno  stato  implicito  •  involuto. dalle  sue  qualità,  e  queste  indipendentemente  dalla materia.  Le  altre  proprietà  contrarie  che  differen- ziano la  materia  sono  ricondotte  alla  contrarietà fondamentale  del  caldo  e  dèi  freddo:  col  caldo  sono congiunte  la  tenuità,  la  luce,  la  mobilità;  col  freddo la  spessezza,  l'oscurità,  l'inerzia.  Le  proprietà  dif- ferenti dei  corpi  provengono  dunque  dalla  presenza nella  materia  dell'uno  o  l'altro  dei  due  principi! contrari,  o  dalla  proporzione  in  cui  l'uno  e  Taltro vi  coesistono.  Le  proprietà  medie  sono  la  risultante del  concorso  delle  proprietà  opposte,  che  abbiamo indicato  :  così  i  colori  provengono  dalla  mescolanza del  bianco  e  del  nero,  cioè  della  luce  e  dell'  oscu- rità. Ogni  cangiamento  si  riduce  perciò  alla  diversa distribuzione  nello  spazio  del  caldo  e  del  freddo  e- sistenti  nell'universo:  questi,  della  stessa  maniera che  il  loro  sustrato  materiale,  non  nascono  ne  pe- riscono, sono  sempre  gli  stessi  e  nella  stessa  quan- tità, e  soltanto  passano  da  un  luogo  ad  un  altro. Così  niente  si  produce  di  assolutamente  nuovo  e niente  assolutamente  si  distrugge  :  ogni  cangiamento qualitativo  si  riduce  al  cangiamento  nei  rapporti degli  stessi  elementi,  sempre  identici  a  se  stessi. Anche  nel  suo  insieme  l'universo  resta  immutabile, perchè  i  cangiamenti  che  si  producono  in  un  punto sono  compensati  da  cangiamenti  contrari  che  devono prodursi  in  qualche  altro  punto.  Il  caldo  e  il  freddo sono  forniti  di  senso  :  infatti,  dice  Telesio,  questo non  potrebbe  trovarsi  negli  animali,  nei  composti, se  esso  non  esistesse  negli  elementi  (1). (1)  V.  Fiorentino,  Bernardino  Telesio, Telesìo  ci  fornisce  un  esempio  molto  evi- dente del  fatto  che,  tutte  le  volte  che  lo  spirito umano  cerca  di  formarsi  una  concezione  delle  cose in  conformità  del  principio  dell'immutabilità  della sostanza,  egli  è  obbligato  a  girare,  quando  non  arriva sino  ad  essi,  attorno  ai  concetti  del  meccanismo,  che soli  permettono  di  realizzare  questo  principio  d'una maniera  intelligibile.  Noi  abbiamo  già  osservato come  gli  stessi  fisici  greci  che  ammettevano  una  so- stanza unica  cercavano,  come  i  meccanisti,  di  ridurre al  movimento  tutti  i  cangiamenti  della  natura.  Le stesse  immagini  impiegate  dai  filosofi  monisti  i  cui concetti  sembrano  i  più  lontani  da  quelli  del  mec* canismo  —  la  stoffa  inviluppata  che  si  sviluppa,  la tartaruga  che  spinge  fuori  le  sue  membra  e  poi  le ritira,  l'unione  e  complicazione  delle  cose  nell'Uno e  la  loro  dispersione  ed  esplicazione  nel  mondo,  ecc. — ci  mostrano  che  tutto  ciò  che  vi  ha  di  rappresen- tabile nelle  loro  oscure  concezioni,  perchè  è  la  sola base  sensoriale  o  empirica  su  cui  esse  si  sono  svi- luppate, si  riduce  a  quelle  stesse  esperienze  che, generalizzate  d'una  maniera  coerente,  danno  ori- gine  alla  concezione  meccanista,  cioè  a  quelle  e- sperienze  che  ci  offrono  come  fenomeno  il  più  fa- miliare la  persistenza  delle  cose  nelle  loro  proprietà e  il  movimento  per  cangiamento  unico.  Così  niente dì  più  naturale  che  il  ritorno  della  concezione  mec» canica  insieme  a  quello  della  chiarezza  del  pen- siero (1),  e  la  pronta  prevalenza   di  questa  conce- (1)  Per  meccanica  noi  qui  intendiamo  una  concezione    deUii  na- tura che  consiste  ad  ammettere  che  tutti  i  fenomeni  del  mond»  ob- zione  nella  filosofia  moderna.  Già  Gralileo  dice  contro il  concetto  peripatetico  della  generazione  e  corru- zione :  «  Io  non  ^on  mai  restato  ben  capace  di  questa trasmutazione  sustanziale,  per  la  quale  una  materia A^enga  talmente  trasformata,  che  si  deva  per  neces- sità dire  quella  essersi  del  tutto  destrutta,  sì  che nulla  del  suo  primo  essere  vi  rimanga,  e  che  un  altra corpo,  diversissimo  da  quella,  se  ne  sia  prodotto;  ed il  rappresentarmisi  un  corpo  sotto  un  aspetto,  e  di lì  a  poco  sotto  un  altro  differente  assai,  non  ho  per impossibile  che  possa  seguire  per  una  semplice  tra- sposizione di  parti,  senza  corrompere  o  generar nulla  di  nuovo  »  (1).  Ma  è  a  dei  filosofi  un  poco  po- steriori, a  Cartesio  e  agli  altri  celebri  pensatori  suoi contemporanei,  fra  cui  bisogna  mettere  in  prima linea  Gassendi,  il  rinnovatore  dell'atomistica,  che  si deve  l'espressione  rigorosa  di  questo  principio,  di- venuto quasi  un  assioma  nella  scienza  moderna,  che tutti  i  cangiamenti  del  mondo  fisico  si  riducono  allo spostamento  di  parti  materiali  in  se  stesse  inalterabili. Fra  le  due  dottrine  sull'  essenza  della  materia che  possono  servire  di  base  a  una  concezione  mec- biettivo  sono  dei  fenomeni  meccanici.  Per  conseguenza  il  significato^ in  cui  usiamo  questo  termine  in  questo  paragrafo  e  nei  due  seguenti deve  essere  distinto  da  quello  in  cui  l'abbiamo  usato  nel  capitolo  III, in  cui  filosofia  meccanica  è  stato  por  noi  Tequivalente  di  filosofia  im- jmlsionista  (cioè  di  una  spiegazione  della  natura  in  cui  non  solo  tutti i  fenomeni  del  mondo  fisico  si  riducono  a  processi   meccanici,    ma anche  tutti  i  fenomeni   meccanici  al   movimento   prodotto  per  im- pulsione). Allora,  conlormandoci  all'uso  di  molti  sostenitori  di  que- sto sistema,  conia  parola  meccanica  abbiamo  designato  utia  specie  j. di  cui  ora  con  la  stessa  parola  designiamo  il  genere. (1)  Dialoghi  dei  massimi  sistemi  Giornata  l*". -r— j—I' canica  soddisfacente  alle  esigenze  della  scienza  mo- derna —  quella  di   una  materia   continua  e  perfet- tamente omogenea  in  tutte  le  sue  parti,  e  quella  di molecole  separate  dal  vuoto,  omogènee  qualitativa- mente e  inalterabili,  e  solo  suscettibili  di  differire per  la  forma  o  per  la  grandezza— è  l'ultima  senza dubbio  che  noi  possiamo  rappresentarci  d'una  ma- niera più  netta.  Quantunque,  al  punto  di  vista  della possibilità  di   formarsene  una  rappresentazione,  il concetto  di  molecole  non    aventi   altra  qualità   che l'estensione  e  l'impenetrabilità  non  manchi   anche esso  di  gravi  difficoltà  (che  noi  svilupperemo  nella 2.  parte  di  questo  Saggio),  tuttavia  queste  non  sono «osi   evidenti  come   quelle   inerenti   al   concetto   di una  materia  continua  ed  omogenea,  quella  sovra- tutto  a  cui  si  va  incontro  quando  si  cerca  di  rap- presentarsi il  movimento  e  delle  forme  distinte  al  seno d'una  massa  continua  ed  assolutamente  indifferente(l). Sarebbe    interessante,    ma  molto  al  di  sopra  della nostra    competenza,  di  -cercare    se  sia  stato  questo vantaggio    della   dottrina  della  discontinuità,  cioè, nel  fatto,  dell'atomistica,  che  ha  determinato  la  sua vittoria    definitiva    sulla    dottrina  della  continuità, procedente    da    Cartesio.  Ma,  comunque  sia  di  ciò, non  vi  ha  dubbio  che  l'atomistica  non  sia  stata  al- l'origine,   come  la  dottrina  rivale  di  Cartesio,  una speculazione  a  priori,  cioè  derivata  dalle  tendenze spontanee  dello  spirito,  e  non  un'induzione  logica tirata  dai  fatti.  Gassendi,  a  cui  si  deve  l' introdu- (1)  V.  il  mio  studio  sulla  dottrina  della  materia  in  Rosmini,  fa- scicolo 1"  la  nota  a  pag.  15. il zione  degli  atomi  nella  scienza  moderna,  non  in- tende che  risuscitare  la  dottrina  di  Epicuro  :  così l'atomistica  di  Gassendi  e  dei  fisici  che  lo  segui- rono, non  è  ancora  essenzialmente  che  quella  di  E- picuro  e  di  Democrito.  «  Gli  atomi  di  Boyle  (che introdusse  l'atomistica  nella  chimica)  sono  quasi  gli stessi,  dice  Lange  (1),  che  quelli  di  Epicuro,  quali Gassendi  li  ha  fatto  rientrare  nella  scienza.  Essi hanno  ancora  delle  forme  differenti,  che  influiscono sulla  stabilità  e  l'inconsistenza  delle  combinazioni. Un  movimento  violento  ora  rompe  la  coesione  di certi  atomi,  ora  ne  riunisce  altri,  i  quali,  come  nel- l'atomistica antica,  si  appiccano  gli  uni  agli  altri con  le  loro  facce  piene  di  scabrosità,  per  mezzo  di sporgenze,  di  dentelli,  ecc.  Quando  avviene  un  can- giamento nella  combinazione  chimica,  le  più  piccole molecole  d'  un  terzo  corpo  s' introducono  nei  pori che  separano  due  corpi  combinati.  Esse  possono allora  combinarsi  con  l'uno  di  loro,  grazie  alla  con- formazione delle  loro  facce,  meglio  che  questo  non era  combinato  prima  col  secondo  corpo;  e  il  movi- mento precipitato  degli  atomi  porterà  via  le  mole- cole di  quest'ultimo  ».  Naturalmente,  come  osserva Lange,  questa  forma  dell'atomistica  (che  assimilava l'azione  reciproca  tra  le  molecole  alle  più  familiari tra  quelle  che  noi  vediamo  fra  le  masse  sensibili) dovette  soccombere  allorché  fu  accettata  la  legge di  Newton  sull'attrazione  :  allora  s'  introdussero  le attrazioni  e  le  repulsioni  tra  le  molecole,  e  le  forme svariate    di    prima    non   furono  più  necessarie  per (1)  Stor,  del  mater,  IV  parte  2*  e.  2'*. \ xc ispiegare  la  loro  unione.  Ma  questa  modificazione non  spostava  la  base  logica  dell'atomismo:  non  si  po- trebbe vedere,  sotto  il  apporto  del  loro  valore  scien- tifico, una  differenza  essenziale  tra  l'atomistica  del secolo  17^  e  18*^  e  quella  di  Democrito  e  di  Epicuro, perchè  nessuna  delle  prove,  in  cui  la  scienza  at- tuale riconosce  il  fondamento  della  teoria  atomica, era  conosciuta  prima  di  Dalton.  Dalton  mostrando che  nell'ipotesi,  generalmente  ammessa,  degli  atomi si  poteva  spiegare  la  regolarità  dei  rapporti  di  peso nelle  combinazioni  delle  sostanze  (la  legge  delle proporzioni  fisse  e  quella  delle  proporzioni  multiple) supponendo  che  gli  atomi  di  ciascuna  sostanza  han- no un  peso  definito,  e  che  ciascun  atomo  di  una  so- stanza si  combina  con  uno  o  con  due,  ecc.,  atomi di  un'  altra  sostanza,  diede  alla  teoria  atomica  la base  che  essa  ha  attualmente  nella  chimica.  Così gli  atomisti  contemporanei  ammettono  che  è  Dalton che  fece  entrare  la  teoria  atomica  nella  sua  fase sperimentale:  nessuno,  dice  Naumann,  ha  dimostrato coi  fatti,  prima  di  Dalton,  i  dritti  e  l'utilità  dell'a- tomistica (1).  Noi  possiamo  dunque,  senza  esitazione, classare  Tatomistica  moderna,  prima  di  Dalton,  non meno  che  quella  di  Democrito  e  di  Epicuro,  tra  i prodotti  di  questa  tendenza  spontanea  che  ha  il  no- stro spirito  ad  ammettere  che  1'  universo  è  sostan- zialmente immutabile^  o,  come  dicevano  i  fisici  greci, che  l'essere  non  può  venire  dal  non  essere,  né  ri- dursi al  non  essere.  Così  1'  assioma  dei  fisici  greci noi  lo  ritroviamo  negli  atomisti  moderni,  in  termini che  ricordano,  della  maniera  più  precisa,  Anassagora^ Empedocle  e  Democrito.  D'Holbach,  p.  e.,  dice  :  «  A parlar  esattamente,  niente  nasce  e  muore  nella  na- tura; vi  ha  solamente  una  combinazione  ed  una  se- parazione di  ciò  che  era  combinato  »  (1). Sembrerà  una  coincidenza  singolare  che  la  scienza sia  venuta  a  confermare  ciò  che  non  era  che  una semplice  veduta  a  priori  dello  spirito,  la  quale,  co- me tutte  le  altre  ipotesi  che  si  sono  immaginate  sui così  detti  principi i  ultimi  delle  cose,  non  aveva  la sua  sorgente  che  nella  sofistica  naturale  dello  spi- rito umano.  Potrà  anche  sembrare  più  sorprendente che  la  conferma  del  principio  degli  antichi  fisici che  non  vi  ha  né  generazione  né  corruzione,  cioè che  le  cose  non  'possono  cangiare  di  natura  e  di proprietà,  sia  venuta  appunto  dalla  chimica,  la quale,  se  dobbiamo  stare  ai  risultati  immediati  del- l'osservazione,  ci  mostra  invece  che  tutto  cangia continuamente  e  della  maniera  più  radicale  di  na- tura e  di  proprietà,  poiché  il  carattere  proprio  della combinazione  chimica,  che  la  distingue  da  una  sem- plice mescolanza^  é  di  far  disparire  completamente le  qualità  fisiche  delle  sostanze  che  si  combinano, dando  luogo  ad  una  nuova  sostanza,  le  cui  proprietà, ad  eccezione  del  peso,  non  possono  dedursi  dalle proprietà  degli  elementi  da  cui  essa  risulta.  Qui  il progresso  delle  acquisizioni  positive  della  scienza si  fa  in  una  direzione  opposta  a  quella  seguita  dalle (1)  Eleni,  di  termo  chimica,    citato  da  Lange  St,  del  vint.  voi.   l" nota  2  alla  S'*  partj. (1)  SisU  della  rutt,  2.  p.  e.  V. h XCII sue  ipotesi.  Mentre  i  primi  chimici  supponevano, conformemente  alle  tendenze  spontanee  della  cre- denza, che  il  composto  doveva  avere  delle  proprietà identiche  o  simili  a  quelle  degli  elementi  —  a  prio- ri, noi  ci  attenderemmo  infatti  che  le  proprietà  del composto  dovrebbero  essere  la  somma  o  la  media di  quelle  dei  componenti,  ciò  che  è  la  suggestione delle  nostre  esperienze  più  familiari —,  la  chimica, moderna  invece,  mostrando  il  contrario,  si  è  for- mata in  opposizione  a  queste  tendenze  spontanee  — è  perciò  che  il  risultato  di  una  combinazione  chi- mica sembra  un  fenomeno  sorprendente  e  misterioso:  ma  la  teoria  atomica  procede  assolutamente nel  senso  di  queste  tendenze  stesse,  riducendo  ad una  semplice  congiunzione  e  separazione  di  ele- menti,  senza  cangiamento  qualitativo,  ciò  che  la semplice  osservazione  immediatamente  dà  come  una conversione  dì  più  sostanze  in  una  nuova  sostanza unica,  e  una  riconversione  di  questa  sostanza  nelle sostanze  primitive.  Ciò  che  si  deve  osservare  è  que- sto carattere  comune  che  la  teoria  atomica  ha  con le  dottrine  metafìsiche,  cioè  di  ricondurre  dei  fatti che  ci  sembrano  sorprendenti,  perchè  relativamente poco  familiari  —  e  si  noti,  dei  fatti  generali,  delle uniformità  della  natura,  che  potrebbero  ben  essere dei  fatti  ultimi  che  non  ammettono  spiegazione  — ad  altri  fatti  che  ci  sembrano  naturali  ed  evi- denti per  se  stessi,  perchè  estremamente  familiari. Noi  abbiamo  osservato  che,  quando  Democrito  ri- conduceva i  fenomeni  del  cangiamento  nello  stato fisico  dei  corpi  ai  diversi  rapporti  di  elementi  co- stitutivi invariabilmente  solidi,  egli  da\  a  una  spxeni gazione    di    questi  fenomeni,  nel  senso  popolare  o metafisico  della  parola  spiegazione,  cioè  riducendo ciò  che  è  meno  famliare  a  ciò  che  è  più  familiare  : questa  osservazione    si    applica  pure  naturalmente alla  odierna    ipotesi  della    costituzione  molecolare della  materia,  poiché,    qualunque  sia  la  differenza del   modo    in    cui   Democrito   e  di  quello  in  cui  il fisico    moderno    si    rappresentano  i  rapporti  tra  le molecole  per  costituire  i  differenti  stati  fisici  della materia,  e  quali  si  siano  i  motivi  che  il  fisico  mo- derno può  avere,  in  più  di  Democrito,  per  ammet- tere che  un  fluido  non  è  fluido  in  tutte  le  sue  mi- nime parti,  come  si  presenta  all'osservazione,  ma  è un  aggregato  di  particole  solide  ;   malgrado  queste differenze,  vi  ha  l'uguale  risultato  di  ricondurre  dei. fenomeni   relativamente   poco   familiari  a  un  feno- meno  estremamente   familiare,  qual  è  quello.,  cnoi  vediamo  a  ciascun  istante,  di  corpi  che,  restando gli  stessi,   cangiano   unicamente   le   loro   posizioni reciproche.  Questa  riduzione  di  ciò  che  è  relativa- mente strano  e  non  familiare  a  ciò  che  per  la  sua familiarità    sembra    assolutamente   naturale   e    non avente    bisogno   di  alcuna  spiegazione,  è  più  evi- dente ancora  nella  spiegazione  del  chimico  che  ri- conduce   ciò  che  per  la  semplice  osservazione  non è  che  una  conversione   reciproca   di   sostanze  —  le combinazioni  e  decomposizioni  chimiche  —  alla  con- giunzione   e    separazione   di   particole  inalterabili. Non   è   meno   evidente    infine   che   quando  il  fatto della  regolarità  dei  pesi  secondo  cui  si  combinano le  sostanze,  viene  spiegato,  supponendo  che  ciascuna, sostaiza   semplice   è   costituita   di   particole  eguali indivisibili,  e  che  le  particole  pure  eguali  in  cui si  divide  la  sostanza  composta  si  formano  per  l'u- nione di  queste  particole  ultime  delle  sostanze  ele- mentari, di  cui  ciascuna  conserva  la  propria  inte- grità; allora  il  fenomeno  che  serve  di  intermediario esplicativo  è,  come  nelle  spiegazioni  metafìsiche, un  fatto  che  sembra  più  comprensibile  in  se  stesso, perchè  è  più  familiare,  del  fatto  che  si  tratta  di  spie- gare. La  regolarità  dei  rapporti  di  peso  nelle  combi- nazioni chimiche  sembra,  per  una  necessità  psicolo- gica, al  chimico  stesso,  un  fenomeno  sorprendente  e misterioso,  perchè  non  è  un  dato  della  sua  esperienza di  tutti  gl'istanti  (come,  p.  e.  l'urto  o  il  movimento volontario),  ma  non  si  rivela  a  lui  che  nelle  ricer- che ch'egli  fa  nel  suo  laboratorio;  al  contrario,  noi siamo  perfettamente  abituati  (non  meno  che  alle  espe- rienze dell'urto  o  del  movìmentc  volontario)  a  ve- dere gli  oggetti  più  familiari  che  ci  circondano  con- servare In.  loro  integrità,  e  non  cangiare  che  di posto;  e  un'esperienza  egualmente  familiare  mo- strandoci che  questa  facoltà  che  hanno  gli  oggetti materiali  di  conservare  la  propria  integrità  è  in rapporto  con  la  loro  durezza,  noi  troviamo  affatto naturale  che  dei  corpi  infinitamente  duri,  come  si suppongono  gli  atomi,  siano  anche  assolutamente indivisibili  (l).  A  questo  tratto  comune  che  l'ipotesi (1)  L'Ipotesi  di  alcuni  fisici    moderni  della  elasticità  degjli  atomi è  evidentemente  una  deviazione  dal  tipo,  per  dir  cosi,  naturale  dei <;oncetto  dell'atomo.  L'elasticità  de^li  atomi  si  ritiene  indtspenfiiabile per  la  teoria  cinetica  dei  gas,  secondo  la  quale  un  gaz  è  costituito  da tlarticole  solide  che  si  muovuono  continuamente  In  tutte  le  dlrezlonj xcv della  costituzione  molecolare  e  atomica  della  mate- ria ha  con  le  ipotesi  metafìsiche  bisogna  aggiungerne un  altro:  è  che  le  molecole— intendendo  per  questa parola  i  corpuscoli  distinti  e  separati  in  cui  la  ma- teria si  suppone  in  atto  divisa,  ma  senza  includervi possibili.  Affinehò  dopo  jjli  urti  delle  particole  11  movimento  non  sia perduto,  ed  esso  possa  essere  perpetuo,  le  particole  devono  essere  per- fettamente elastiche;  se  fossero  ine'astiche  o  imperfettamente  elasti- che, vi  snrebbe  perdita  di  movimento  ad  ogni  incontro.  Si  ritiene  pure che  relasticità  assoluta  dej^M  atomi  sia  reclamata  dal  principio  della «conservazione  dell'energia;  poiché  la  perdita  di  movimento  nell'urto  dei corpi  duri  e  inelastici  si  concilia  con  questo   principio    ammettendo che  1!  movimento  della  masse  diviene  un  movimento  Interiore  delle loro  molecole;  spiegazione  naturalmente  Inapplicabile  nell'urto  delle particole  ultime  della  materia,  che  non  sono  esse  stesse  costituite  di particole  più  piccole.  Ma  è  evidente  che  l'atomistica  non  può  ammettere il  concetto  dell'elasticità  degli  elementi  ultimi  della  materia,  che  fa- cendo violenza  a!le  sue  esigente    più  naturali:  sia  pò. che  1'  indivisi- bilità   dell'atomo  non  si   spiega  e  non  sì  concepisce  che  nell'  ipotesi della  sua  durezza  e  rigidità  assoluta;  sia  perchè  la   contrazione  e  la dilatazione    del    corpi    è,  ualla  teoria    atomica,  Teffetto   della    dimi- nuzione o  dell'aumento  del  vuoto  compreso  tra  le   parti  materiali. — TTn'idea  notevole,  perchè  mostra  di  una  maniera  palpabile  la  contra- dizionl  tra  il  con  ;etto   dell'elasticità  dell'atomo  e    l  presupposti   ge- nerali dell'atomismo,  è  (luella  emessa  dal  Lange  [St,  del  mater  v.  2^ parte  2*  e.  2")  secondo  la  quale  l'atomo  (elastico)  si  comporrebbe  di  sotto atomi,  e  <iuesti    ancora   di  sottoatomi    inferiori,  e  così  all'infinito.  E evidente  che  di  questa  maniera  11  concetto  stesso  dell'atomo  sparirebbe, perchè  ogni  minima  porzione  di  materia  sarebbe,  non  solo  divisibile, ma  divisa  già  In  atto.  DI  più  noi  abbiamo  in  quest'idea  di  Lange  la inconcepibilità  latente  della  divisibilità  della  materia  all'infinito  resa evidente,  e,  per  dir  così,  sensibile,  per  questa  sostituzione  al  concetto della  divlslbUità  «lei  concetto  di  una  divisione  attuale,  e  in  parti  se- parate dal  vuoto.— Un'altra  deviazione  dall'atomismo  naturale,  desti- nata a  risolvere  le  accennate  ed  altre  difficoltà  della  teoria,  è  l'ipo- tesi di  Thomson,  secondo  cui  gli  atomi  sarebbero  del  turbini  formati da  movimenti  rotatori  in  un    fluido    continuo  e    assolutamente   omo- geneo.  In  un  tal  fluido  questi    turbini  sarebbero  permanenti.   E  una ipotesi  fondata  sulle  ricei'che  che  Helmholtz  avea  fatte  sugli  anelli  - l'idea  deir  indivisibilità  di  questi  corpuscoli — (1)  e tanto  più  gli  atomi,  non  sono,  come  gli  esseri  tra- scendenti della  metafìsica,  delle  vere  cause,  nel  senso che  questi  termini  hanno  nella  celebre  regola  di Newton;  vale  a  dire  si  tratta  di  esseri  ipotetici  di una  natura  affatto  particolare,  tale  che  l'esperienza turbini  —  un  Mottil©  anello  di  ]i<iuIdo  di  cui  clascunH  molecola  è  ani- mata da  un  movimento  di  rotazione  attorno  dell'aneUo  In  un  piano  per- pendicolare a  quello  di  quest'anello— .Helmoitz  mostrò  che, se  non  esi- stono attriti  esteriori,  un  tale  sistemasi  manterrà  indefinitamente  in  e- quilibrio  (  V.Henrlot  Ipotesi  attuali  sulla  costituzione  della  materia  p.9). L'ipotesi  di  Thomson  è,  come  si  vede  una  fusione  dell'atomistica  con  la dottrina  cartesiana  d*una  materia  continua  e  assolutamente    omoo:ea, ed  essa  si  conforma  alla  condizione  jrenerale  della  teoria  meccanica, di  ammett3re  cioè   1'  inalterabilità  della  materia  e  di  ridurre    tutti  i canj?lnmenti  al  movimento.   Se  non    che  ciò  che  nella    concezione   di Thomson  fa  la  funzione  di  materia  b  una  materia,  per  dir  così,   tra- scendentale, non  è  la  nostra  materia:  la   nostra  materia  consiste,  nel- l'ipotesi di  Thomson,  nel  turbini,  cioè  In  certi  movimenti,  che  hanno luogo  in  questa  materia  trascendentale.  Ciò  sujarj?erisce  una  riflessione sulla  natura  di  (juesta   ipotesi,  la  (juale  dimostrerebbe  forse  che  essa non  ha   che  ///   apparenza  una  base   sperimentale.  Thomson  dota   di certe  proprletrX    il  suo  fluido  ipotetico   per  anaioj;ia  al  nostri    fluidi, al  fluidi  dell'esparienza,  e  da  questa  proprietà  deduce  la  sua  ipotesi. Ma  la  inferenza  dai  nostri  fluidi  al  suo  fluido  ipotetico  è  leggittimat Io  credo  che  Thomson  non  sia  autorizzato  a  trasportare  al  suo  fluido Ipotetico    né  le   proprietà  del    nostri  fluidi  né   qualsiasi    altra  leg^e del  mondo  materiale.  Le  legaci  della  natura  fisica,  cioè  della  materia, non  possono  essere,  secondo  Tomson,  che  l'espressione  generale  del modo  di  comportarsi  del  suoi  atomi— turbini  nei  loro  reciproci  rap- porti  In  condizioni  determinate.  Un'  inferenza   sperimentale   è   dun- que un'inferenza  dal  modo  In  cui  questi  turbini  si  sono    comportati in  date   condizioni  al  modo  In  cai    gli  stessi    turbini  o  altri    turbini analoghi  si  comporteranno  nelle  identiche  condizioni.  Dalle  proprietà (1)  Avendo  bisogno  di  un  termine    por  indicare  il  concetto    ge- nerale che  tutti  i  corpi,  qualunque  sia  il  loro  stato  fisico,  sono  co- stituiti di  particole  solide,  facendo  astrazione  della  forma  particolai e di  questo  concetto  che  vede  nelle  particole  costitutive  degli  atomi, cioè  delle  piccole  masse  indivisibili,  ci  serviamo  a  quest'oggetto  della parola  molecola,  impiegandola  non  nel  senso  che  essa  ha  nella  scien- za moderna,  ma  in  un  senso  più  conforme  aliti  sua  etimologia. XCVII non  ci  fornisce  alcun  esempio  degli  attributi  di  cui questi  esseri  si  suppongono  dotati.  La  solidità  asso- luta che  si  suppone  nelle  molecole,  questa  potenza  < infìnita,  come  dicova  Bernouilli,  di  resistenza  alla, compressione  e  alla  deformazione,  ò  un'attributo  sco- nosciuto all'esperienza.  Lo  stesso  deve  dirsi  natural- mente di  questa  potenza  infinita  che  si  suppone nell'atomo,  di  resistenza  a  qualsiasi  forza  tendente a  dividerlo.  Tra  le  parti  della  molecola  o  dell'atomo si  suppone  una  forza  di  coesione  di  una  natura affatto  speciale,  una  forza  la  cui  esistenza  non  è stata  mai   costatata   nel  mondo   dell'esperienza  (1). della  nostra  materia  —  fluida   o  altra  —  che  è  un  aggregato   di  tur- bini, non  può  niente  inferirsi  sulle  proprietà  di  un'altra  materia  Ipo"* tetica,  che  sarebbe   altra  cosa   che  un  aggregato   di  turbini.    Tra  la nastra  materia    e  la  materia  trascen lentale,  che,   secondo  Thomson,, serve  ad  essa  di  sustrato  come  la  nostra  materia    serve  di  sustrato al  suo  proprio   movimento,  non   vi  ha  identità  e  perciò,  mi  sembra,, nessuna  Inferenza  legittima.  —  Le  deviazioni  dal  tipo  normale  dell'a- tomistica di  un  carattere  assolutamente  metafisico,  quale  la  dottrina che  riduce  gli  atomi  a  punti  matematici,  o^  come  si   dice  per  il    so- lito, a  centri  di  forze,  si  rapportano  alla  qulstione  del  mondo  esteriore e  noi  ne  parleremo  nella  2*  parte.  Notiamo  per  ora   che   il   nome  di dinamiche  date  a  queste  dottrine  non   toglie  che   anch'esse  —  partcolarmente quella  sunnominata  degli  atomi  —  punti  o  centri  di  for- ze —  siano.  In  un  senso,  meccaniche,  conformandosi  anch'esse  al  prin-- cipio  generale   della   concezione   meccanica,  cioè  la  spiegazione    dei cangiamenti  del  mondo  fisico  per  il  cangiamento  dei  rapporti  di  ele-- mentl  in  se  stessi  inalterabili. Naturalmente  é  qui  che  si  è  sempre  vista  la  grande  difficoltà della  teoria.  Cosi  Thomson  chiama  «  supposizioni  mostruose  »  quelle di  «  frammenti  di  materia  infinitamente  duri  e  infinitamente  rigidi, frammenti  di  materia  di  cui  alcuni  dei  chimici  più  eminenti  non temono  d'affermare  temerariamente  l'esistenza  come  un'ipotesi  pro- babile »  (citato  da  Henriot  Ipot,  alt,  sulla  contit,  d£lla  mat,  p.  10)  • Secondo  Du  Bois-Reymond  1'  atomo  indivisibile,    inattivo  e,  sede  di Un'ipotesi  che  ricorre  a  cause  non  vere,  cioè  a  forze di  cui  non  si  è  costatata  l'esistenza  nella  natura,  è necessariamente  un'ipotesi  illegittima,  come  vuole la  regola  di  Newton,  o  questa  circostanza  costituisce semplicemente  un  grado  d'improbabilità  intrinseca dell'ipotesi  che,  per  compenso,  deve  rendere  più esigenti  sul  numero  e  la  qualità  delle  sue  prove? È  una  delle  più  ardue  quistioni  della  logica,  a  cui non  ci  attenteremo  di  dare  una  risposta  :  ma  la  so- mit'lianza  clie  abbiamo  notata  tra  la  dottrina  mole- colare  o  atomica  e  le  dottrine  dei  metafìsici  sugge- risce inevitabilmente  una  riflessione,  che  io  sotto- metterò al  lettore  non  senza  un'esitazione  assai  na- turale in  chi  non  ha  alcuna  competenza  né  in  fìsica ne  in  chimica. La  teoria   molecolare  e  atomica  è,   come  si   con- viene dai  suoi  stessi  fautori,  una  semplice  ipotesi, •^  un'ipotesi   che  non  sembra   suscettibile  di  essere moi   provata  (1).   Misurare   il  grado   di  probabilità forze  che  agiscono  attraverso  il  vuoto,  é  un  controsenso  e  una  chi- mera (/  limiH  della  filos,  naturale  in  Rev.  scieni,  2^  ser.  v.  7). Un'idea  che  meriterebbe  forse  d'essere  sviluppata,  è  che  ordi- nariamente le  cause  non  vere  supposte  dai  fisici,  quali  gli  atomi,  le molecole,  1'  etere,  i  fluidi  imponderabili  che  si  ammettevano  pri- ma, ecc.  hanno  la  funzione  di  spiegare  i  fenomeni  nel  senso  metafì- sico della  parola  spiegazione,  cioè  assimilandoli  ai  fenomeni  più  fa- miliari, p.  e.  a  quelli  della  trasmissione  del  movimento  per  l' im- pulsione (come  l'etere),  o  a  quelli,  più  generali,  del  mutam.3nto  dei rapporti  di  spazio  senza  cangiamento  qualitativo  (Cfr.  ciò  che  di remo  più  giù  sui  fluidi  imponderabili). (1)  «  Nessuno  oggi,  dice  Bain,  vede  più  in  questa  teoria  (l'atomica) che  una  finzione  rappresentativa,  che  non  é  suscettibile  di  alcuna prova,  e  che  non  ha  altro  valore  che  di  esprimere  facilmente  i  fatti  » <(Log.  1  5  e.  3.,  12  —  Bain  chiama  finzioni  rappresentativo  le  ipotesi di  un'ipotesi  —  quando  si  conviene  d'altronde  sul punto  più  importante,  cioè  che  quest'ipotesi  non  è rigorosamente  provata  — è  un'operazione  estrema- mente ardua  e  delicata  del  giudizio,  che,  per  essere ben  compiuta,  esigerebbe  il  concorso  delle  più  pro- fonde conoscenze  nelle  scienze  speciali  relative,  e dell'abitudine,  unita  a  una  preparazione  conveniente, di  considerare  le  quistioni  al  punto  di  vista  della logica  e  della  teoria  della  conoscenza;  concorso  che è  sventuratamente  molto  raro  a  trovarsi  in  un  fisico o  in  un  chimico^  e  più  ancora  in  un  filosofo.  Nel caso  dell'ipotesi  molecotare  o  atomica,  la  quistione che  non  possono  essere    stabilite  come  fatti  reali,  cioè  provate,  e  la cui  importanza  òche  servono  a  rappresentarsi  i  fenomeni  d'una  ma- niera sistematica:  fra  queste  finzioni  rappresentative  egli  enumera oltre  la  teoria  degli  atomi,  quella  della  costituzione  molecolare  della materia,  quella  delle  ondulazioni  eteree    per  ispiegare   i   fenomoni della  luce,  la  spiegazione  dello  stato  solido,  liquido  e  gazoso  per  le attrazioni  molecolari  e  la  repulsione  dovuta  al  calore,  ecc.  Log,  1.  3 e.  Ib,  5).   Per  dimostrare  la  proposizione   di    Bain  che   1'  ipotesi  de gli  atomi  e  ìMttQÌeRitve  flnzio ai  rappresentative  non  nono  suscettibil- di  diventare  delle  verità  provate,    basta  torse  la  considerazione    sei guente.  Per  provare  la  realtà  d'un  ipotesi  sarebbe  necessario  di  sod- disfare a  queste  due  condizioni  :  di  stabilire,  in  primo  luogo,  che un'ipotesi  è  indispensabile,  cioè  che  il  fatto  che  si  tratta  di  spiegare reclama  assolutamente  una  spiegazione;  e  in  secondo  luogo  che  l'i potesi  che  si  ammette  è  la  sola  ammissibile,  cioè  la  sola  che  possa spiegare  il  fatto.  Ma  sembra  che  le  ipotesi  scientifiche   che  il  Bain chiama  finzioni   rappresentative  (e  che  sono,  su  per  giù,  quelle    che suppongono  delle  cause  non  vere),  quand'anche  potessero  soddisfare alla  seconda  condizione,  non  potrebbero  mai  soddisfare  alla  prima. Ciò  è  perchè  esse  non  hanno  per  iscopo  di  spiegare  dei  fatti  isolati e  particolari,  ma  dei  fatti  costanti  e  generali,  delle  uniformità  della na  tura.  Nel  primo  caso  un'ipotesi  è  indispensabile,  perché  è  neces- sario che  il  fatto  sia  spiegato,  nel  senso  scientifico,  cioè  che  sia  sot- t  oposto  alle  leggi  generali  dei  fenomeni  :  nel  secondo  caso  (se  si  ha "  n e CI della   misura  del  suo  grado  di  probabilità  si  com- plica per  questa  sua  conformità,   che  noi  abbiamo notata,  alle  tendenze  spontanee  del  nostao  pensiero, conformità  che  per  se  stessa  non  costituisce  la  mi- nima prova  in  favore  di  una  teoria.  Allora  si  ren- derebbe indispensabile  una  specie  di  equazione  per- sonale, per  la  quale  nella  forza  con  cui  l'ipotesi  ci s'impone,  bisognerebbe  fare  la  parte  di  ciò  che  vi ha  in  essa  di  obbiettivo,  cioè  di  dipendente  dal  va- lore delle  prove  sperimentali,  e  di  ciò  che  vi  ha  di subbiettivo,  cioè  di  derivante  dalla  tendenza  spon- tànea del  nostro  pensiero,  che,  in  virtù  della   con- formazione stessa  del  nostro  spirito  e  delle  sue  abi- tudini prescientifìche,  ci  spinge  ad  acc^ettare  Tipo- tesi,  indipendentemente  dal  valore  dello  suo  prove» n  questo  stato  della  questione  sembra  naturale  di demandarsi  :  il  credito  di  cui  l'ipotesi  molecolare  e atomica  gode  nella  scienza  moderna  è  assolutamente commisurato  alla  forza  delle  sue  prove,  o  non  vi  ha un  eccesso,  di  cui   bisogna   rendersi   conto   per   la forza   addizionale    di   questo   sofisma   naturale    del nostro  spirito,  che  gli  rappresenta  il  fondo  dell'essere come  immutabile,    e  il  cangiamento  come  superfi- ciale e  limitato  ai  rapporti  delle  cose,  senza  toccare le  cose  stesse  ?  Tra  queste  due  supposizioni,  il  fatto ragione  di  riguardare  il  fatto  come  una  vera  uniformità,  una  leggo rigorosamente  generale,  dei  fenomeni)  l'esigenza  di  una  spiegazione potrebbe  essere  illusoria  e  fondata  sul  concetto  metafisico  corrispon- dente a  questo  termine,  poiché  la  supposizione  che  il  fatto  è  senza spiegazione  (cioè  che  si  tratta  di  uua  leggo  primitiva  della  natura) non  è  in  contraddizione  con  l'assioma  dell'uniformità  di  legge,  che è  quello  ehe  nel  primo  caso  ci  obbliga  a  cercare  una  spiegazione. incontestabile  che  la  teoria  era  generalmente  am- messa prima  che  si  trovassero  le  prove  che  at- tualmente costituiscono  la  sua  base  logica;  la  con- tinuità tra  la  forma  più  antica  e  la  forma  più  mo- derna dell'atomistica  (1);  non  è  un'indizio  ohe  la  ve- rità sta  nella  seconda  ?  Qaeste  domande  non  sem- breranno troppp  audaci  a  quelli  che  sono  abituati a  considerare  i  concetti  dal  punto  di  vista  storico. «  Quegli,  dice  il  Lange,  clie  vede  nella  storia  Fin- dissolubile  mescolanza  di  errore  e  di  verità;  quegli che  comprende  che  per  avvicinarsi  di  più  in  più allo  scopo  inliniiamente  lontano,  cioè  la  coxioscenza perfetta,  bisogna  oltrepassare  innumerevoli  gradi intermediari;  quegli  che  vede  come  l'errore  stesso diviene  un  agente  di  progresso  variato  e  durevole; quegli  non  concluderà  facilmente,  dall'incontestabile progresso  del  presente,  al  valore  '^definitivo  delle nostre  ipotesi  »  (2). Noi  aggiungeremo  infine  un'  altra  osservazione sul  principio  generale  della  concezione  meccanico, cioè  che  tutti  i  cangiamenti  della  materia  si  ridu- cono al  movimento  delle  sue  parti.  Il  presupposto su  cui  questo  principio  è  fondato  è  la  distinzione, comunemente  ammessa,  tra  le  proprietà  primarie e  le  proprietà  secondarie  dei  corpi  :  le  prime,  che, secondo  Cartesio,  si  riducono  alla  semplice  esten- sione, e,  secondo  l'opinione  più  accettata,  all'esten- sione e  alla   resistenza  o  impenetrabilità,  sono  ob- (1)  V.  Lange  Storia  del  materialismo, (2)  Ihid,  V.  2«  parte  2*  e.   1°. cu biettive  ;  le  seconde,  cioè  il  colore  e  tutte  le  altre, non  sono  che  subbiettive.  Ma  questa  distinzione  sol- leva delle  difficoltà  insolubili,  che  hanno  dato  luogo a  tutte  le  dottrine  trascendenti  sulla  cosa  in  sé  :  qui dobbiamo  limitarci  ad  indicarne  sommariamente  al- cune, riserbandoci  di  svilupparle  nella  2*  parte. Se  il  solo  attributo  obbiettivo  della  materia  è  la estensione,  come  pretende  Cartesio,  allora  è  impos- sibile di  distinguere  la  materia  dallo  spazio  vuoto, e  il  mondo  corporale  si  ridurrà  a  una  massa  con- tinua e  perfettamente  omogenea.  Ora  non  solo  ò  im- possibile di  concepire  V  estensione  come  esistente per  se  stessa — non  potendo  noi  pensarla  che  come un  attributo  del  reale  e  non  come  lo  stesso  reale, come  un  astratto  e  non  come  un  concreto — ma  è  di di  più  impossibile,  come  abbiamo  già  accennato,  di concepire,  al  se'no  di  una  massa  continua  e  senza alcuna  differenza  fra  le  sue  parti,  delle  forme  di- stinte e  del  movimento,  perchè  queste  cose  suppon- gono delle  differenze.  Concepire  il  movimento  in una  massa  continua  sarebbe  concepire,  in  questa massa,  delle  parti  tra  loro  discernibili,  che  si  scam- biano il  posto  l'una  con  V  altra;  se  queste  parti  di cui  si  afferma  che  l'una  ha  preso  il  posto  dell'altra non  sono  discernibili,  questo  cangiamento,  che  si afferma  a  parole,  non  è  né  percettibile  né  pen- sabile. In  realtà  alcun  cangiamento  non  è  possibile in  una  massa  concepita  alla  maniera  cartesiana,  poi- ché tutti  gli  stati  successivi,  in  cui  essa  si  trova  in tutti  gl'istanti  della  durata,  sono  assolutamente  iden- tici fra  di  loro.  Queste  difficoltà  ///  apparenza  spa- riscono nella  dottrina  della  discontinuità  della  ma- .  ) CHI teria,  perchè  allora  il  pieno  e  il  vuoto  ci  danno questa  differenza  indispensabile  per  concepire  la distinzione  delle  cose  e  il  movimento  ;  di  più,  di- stinguendo la  materia  dal  puro  spazio,  si  ammette in  questa  dottrina  che  vi  sia  nella  materia  un  at- tributo diverso  dall'  estensione,  che  si  aggiunge  a questa,  e  fa  della  materia  un  concreto,  e  non  un semplice  astratto  qual  è  la  sola  estensione.  Ma  la difficoltà  è  appunto  di  dire  in  che  consista  questo attributo,  distinto  dall'estensione  e  dai  suoi  modi,  che concretista,  s'è  lecito  dir  cosi,  la  materia,  e  la  dif- ferenzia dalla  semplice  estensione,  cioè  dal  puro spazio.  Quest'attributo  é,  si  dice,  la  resistenza  o  la impenetrabilità  :  ma  ciò  che  non  si  dice  né  potrebbe dirsi  è  che  cosa  esprimano  queste  parole  resistenza e  impenetrabilità  di  più  che  dei  semplici  rapporti  tra gli  estesi — se  se  ne  toglie  le  sensazione  che  noi  pro- viamo nelle  dita  quando  tocchiamo,  la  quale  natu- ralmente non  possiamo  trasportare  nella  materia  e farne  una  qualità  obbiettiva  delle  cose  stesse  — .  La resistenza  della  materia  non  è  altra  cosa  che  la  dif- ficoltà che  vi  ha  a  spostare  le  sue  parti  :  essa  in- dica dunque  semplicemente  che  certi  cangiamenti nei  rapporti  spaziali  tra  gli  estesi  non  sono  possi- bili. L'impenetrabilità  è  l'impossibilità  che  un  esteso occupi  la  posizione  d'  un  altro,  in  altri  termini  che due  estesi  si  confondano  in  un'estensione  unica,  che cessino  di  essere  due  estesi  e  -diventino  uno  solo. Ma  ciò  non  indica  altra  cosa  che  la  persistenza  di ciascun  esteso  a  conservare  la  sua  propria  esten- sione; non  ci  dice  qual'è  l'attributo  che  quest'esteso ha  in  più  dell'estensione   stessa.  Tutti  gli  attributi CIV cv della  materia  —  nella  supposizione  della  non  realtà del  colore  e  delle  altre  proprietà  secondarie  —  non indicano  che  l'estensione,  i  suoi  modi  (forma,  gran- dezza,  ecc.),  i  rapporti  di  posizione,  e  il  cangia- mento di  questi  rapporti;  ma  noi  non  possiamo  dire che  cosa  sia  ciò  che  si  estende,  ciò  che  è  il  soggetto a  cui  si  attribuiscono  questi  rapporti  di  posizione. Xia  materia,  si  dice,  si  distingue  dal  puro  spazio, perchè  essa  è  impenetrabile,  divisibile,  mobile,  ecc., attributi  che  non  possono  convenire  allo  spazio:  senza dubbio;  ma  siccome  questi  e  tutti  gli  altri  attributi  che si  predicano  della  materia,  non  si  riducono  infine  che all'estensione  e  alla  posizione,  attributi  che  conven- gono pure  allo  spazio,  o  bisognerà  rassegnarsi  ad identificare  la  materia  e  lo  spazio,  come  fu  costretto a  fare  Cartesio^  o  bisognerà  ammettere,  come  carat- tere che  differenzia  la  materia  dallo  spazio,  non  la mobilità,  l'impenetrabilità,  ecc.,  ma  qualche  cosa  di più  primitivo  che,  aggiungendosi  all'estensione,  co- stituisce questo  concreto  materia,  la  quale,  senza questa  qualche  cosa,  non  potrebbe  essere  né  im- penetrabile, né  mobile,  ecc.,  perché  non  sarebbe  che un  semplice  esteso,  in  altri  termini  una  pura  esten- sione, che  niente  distinguerebbe  dallo  spazio  vuoto. Questa  qualche  cosa  che,  diffusa,  per  dir  così,  qua »e  là  nella  pura  estensione  senza  forme  né  limiti,  ne differenzia  le  parti,  costituisce  il  concreto  materia, e  distingue  il  reale  dallo  spazio,  cioè  dal  niente; non  è  che  il  colore,  o,  in  generale,  le  proprietà  se- condarie. Quando  si  è  analizzato  sufficientemente  il concetto  di  materia,  si  vede  che  lo  spirito  umano, se  vuole  formarsi  una  concezione  netta  e  coerente del  mondo  esteriore,  e  al  tempo  stesso  restare  sul terreno  dell'esperienza  e  dell'intuizione  sensibile  — condizione  che  è  superfluo  di  aggiungere,  perchè  al di  fuori  di  questo  terreno  non  vi  hanno  concezioni netto  né  coerenti — è  costretto  in  quest'  alternativa  : o  il  fenominismo  di  Mill  e  Bain,  che  riduce  la realtà  esteriore  a  sensazioni  e  possibilità  di  sensa- zioni; o  il  realismo  naturale — non  quello  di  Eeid — che  non  spoglia  la  materia  delle  sue  proprietà  sen- sibili, ma  accorda  l'obbiettività  al  colore  e  alle  altre, e  non  alla  sola  estensione,  la  quale  senza  le  pro- prietà sensibili  non  è  che  il  niente  realizzato  (1). Ora  à  evidente  che  chi  accetterà  l'una  o  l'altra  di queste  due  soluzioni,  non  ammetterà  la  pretesa  della filosofia  corpuscolare  o  di  qualsiasi  altra  forma  pos- sibile della  concezione  meccanica,  di  ridurre  tutti  i cangiamenti  dell'universo  al  solo  movimento. §  11.  Ad  una  concezione  meccanica  coerente,  se essa  vuol  realizzare  completamente  il  principio  che niente  nasce  e  muore  nella  natura,  non  basta  di riddurre  al  movimento  tutti  i  cangiamenti  del  mondo materiale;  bisogna  ancora  che  la  materia  mantenga invariabilmente  le  stesse  facoltà  relativamente  al movimento  ;  cioè  o  che  l' inerzia  sia  lo  stato  inva- riabile della  materia,  o,  se  essa  è  attiva,  che  que- st' attività,  e  la  forma  sotto  cui  essa  si  manifesta, siano  egualmente  invariabili.  Su  questo  punto  Ba- cone può  essere  riguardato  come  il  precursore. «  È  evidente,    egli  dice,  che  ogni  uomo  che  cono- (1)  V.,  il  mio  stu  Ho  sulla  dottrina  di  Rosmini  sulla  materia  1.  e. e  il  Saggio  1.  e.  9.  §  8.  pag.  524-526. evi e  VII scesse  le  passioni,  gli  appetiti  e  i  processi  primi- tivi della  materia,  avrebbe  per  ciò  solo  una  cono- scenza generale  e  sommaria  dei  fatti  passati,  pre- senti e  futuri  »  (1).  «  Si  deve  affermare  che  la  ma- leria  è  munita,  provvista  e  formata  di  tal  maniera, che  ogni  virtù,  ogni  essenza,  ogni  atto  e  ogni  mo- vimento possono  esserne  delle  conseguenze  o  delle emanazioni  naturali  »  (2).  L'  idea  di  Bacone  è  che tutti  i  fenomeni  possono  dedursi  da  un  fenomeno primordiale,  che  è  il  movimento  naturale  della  ma- teria. Così  egli  paragona  la  scienza  ad  una  pira- mide o  ad  un  cono,  alla  cui  sommità  sta  «  la  legge sommaria  della  natura  »,  «  V  opera  che  Dio  opera dal  cominciamene  sino  alla  line  »  (3).  «  Tutte  le  cose si  elevano  per  una  sorta  dì  scala  all'unità  ».  Que- sto fenomeno  universale,  collocato  alla  sommità  della piramide  scientifica,  in  cui  «  la  natura  sembra  riu- nirsi in  un  sol  punto  »  (4),  questa  «  causa  di  tutte le  cause  »,  è  «  l'appetito  o  lo  stitmilus  (la  tendenza primitiva  o  la  forza  primordiale)  della  materia,  o, per  sviluppare  un  po'  più  il  nostro  pensiero,  il  mo- vimento naturale  dell'atomo.  È  questa  forza  unica, che  agendo  sulla  materia,  forma  e  costituisce  tutti i  composti  »  (5). Ma  il  meccanismo  di  Bacone  (che  d'altronde  que- sto  filosofo  non  sviluppò  d'una  maniera  sistematica), (1)  Della  myyezza  de<ili  antichi  XI. (2)  De  Fri  ne.  atque  Oria. (3)  Dignit,  et  anffm.  scienf.  1.  a.  e.  4. (4)  Da  diijnit,  et  anym  acient.  1.  2.   e.  IB '5)  Sa(/(jezsa  degli  antichi  Cnpidon. fondato  sull'idea  fantastica  di  una  materia  attiva e  vivente,  doveva  cedere  il  passo  all' altro  mecca- nismo, inaugurato  da  Cartesio,  fondato  sul  concetto più  positivo  d'  una  materia  inerte,  che  non  fa  che ricevere  e  comunicare  il  movimento  per  l'impul- sione. Nel  capitolo  S""  abbiamo  considerato  questa dottrina   alla  quale  esclusivamente  abbiamo  dato allora  il  nome  di  meccanica  —  sotto  un  altro  punto di  vista,  cioè  come  una  realizznzione  del  principio delle  cause  efficienti:  ma  è  evidente  che  essa  è  al tempo  stesso  una  realizzazione  del  principio  del- l'immutabilità essenziale  dell'  essere   almeno  del- l'essere materiale   poiché  non  attribuisce  ai  corpi che  la  proprietà,  sempre  e  da  per  tutto  identica,  di conservare  il  movimento  ricevuto  e  di  comunicar- selo reciprocamente  per  l'urto,  riducendo  ad  una sola  e  sempre  la  stessa  le  forme  apparentemente differenti  e  variabili  dell'energia.  Oltre  questa  for- ma del  meccanismo,  fondata  sul  concetto  dell'iner- zia o  passività  assoluta  della  materia,  non  ne  è è  possibile  che  un'altra,  che  realizzi  il  principio dell'immutabilità  essenziale  dell'essere,  ma  che  al tempo  stesso  faccia  della  materia  qualche  cosa  di attivo— sia  che  quest'attività  si  attribuisca  alla  ma- teria per  se  stessa,  sia  che  si  faccia  provenire  dalle for^e  di  cui  si  suppone  che  la  materia  è-  la  sede—: è  la  dottrina  che  spiega  anch'essa  tutti  i  fenomeni del  mondo  fisico  per  le  leggi  dell'equilibrio  e  del movimento,  ma  come  cause  motrici  riconosce  le forze,  attrattive  e  repulsive,  inseparabili  dagli  ele- menti della  materia  —  sia  che  si  supponga  che  que- ste forze    sono    ad    essi  essenziali,   sia  che  si  sup- CVIII CIX ponga  che  sono  con  essi  costantemente  associate  — . Queste  due  forme  della  teoria  meccanica,  che  sono le  concezioni  della  natura  prevalenti  nella  scienza moderna,  possono  far  pensare  che  questa  ha  com- pletamente realizzato  l'assioma  dei  fisici  greci  che l'essere  non  può  venire  dal  non  essere  né  ridursi al  non  essere  y  che  non  vi  ha  generazione  ne  cor- ruzione ;  poiché  secondo  la  teoria  meccanica,  nel- l'una e  l'altra  delle  due  forme,  il  reale,  considerato nei  suoi  elementi  ultimi,  si  mantiene  sempre  iden- tico a  se  stesso,  e  non  vi  ha  mai  nelle  cose  un  can- giamento essenziale,  questi  elementi,  in  tutti  gli aggregati  che  essi  formano  successivamente  —  nei quali  non  si  manifestano  altre  proprietà  che  quello degli  elementi  stessi  —  essendo  invariabili  tanto nella  loro  sostanza  e  qualità  quanto  nel  loro  modo di  agire  e  di  patire. Ma  è  evidente  che  la  teoria  meccanica,  se  essa vuol  applicare  rigorosamente  il  principio  che  la materia  non  può  mai  manifestare  delle  proprietà essenzialmente  nuove,  e  che  perciò  le  proprietà  di un  tutto  non  possono  essere  che  la  somma  delle proprietà  degli  elementi  materiali  che  lo  hanno  co- stituito, deve  estendersi  anche  ai  fenomeni  della  co- scienza, facendo  dell'attività  psichica  una  risultante delle  attività  proprie  agli  elementi  della  materia. Senza  dubbio  il  problema  di  ricondurre  i  fenomeni della  coscienza  alle  proprietà  degli  elementi  della  ma- teria non  nasce  esclusivame:ite  al  punto  di  vista  del meccanismo,  essendo  esso  una  conseguenza  imme- diata del  principio  generale  che  il  meccanismo  rea- lizza sotto  una  forma  speciale,  cioè  che  l'essenza  delle cose  non  può  cangiare  :  ma  al  punto  di  vista  del meccanismo  il  problema  s' impone  con  una  forza particolare,  appunto  perchè  il  meccanismo  è  l'ap- plicazione più  coerente  di  questo  principio. Applicando  il  principio  dell'immutabilità  dell'es- senza delle  cose  alla  quisfcione  della  coscienza,  lo spirito  umano  incontra  naturalmente  due  soluzioni opposte,  ma  che  sono  non  pertanto  1'  una  e  l'altra delle  conseguenze  dello  stesso  principio.  Dal  fatto che  i  fenomeni  della  coscienza,  di  cui  certi  as^o^re- gati  degli  elementi  della  materia  sono  temporanea- mente la  sede,  differiscono  essenzialmente  dalle proprietà  di  questi  elementi  isolatamente  conside- rati, in  virtù  del  principio  che  le  cose  non  possono cangiare  nella  loro  natura,  lo  spiritualista  conclche  è  necessario  che  un  altro  elemento,  differente essenzialmenta  dalla  niat3ria,  e  di  cui  la  coscienza è  la  proprietà  immutabile,  si  sovraggiunga  all'  ag- gregato materiale,  e  sia  con  questo  temporanea- mente associato.  Dal  fatto  che  ciò  che  è  la  sede  dei fenomeni  della  coscienza  è  un  aggregato  di  elementi materiali,  il  materialista  conclude  invece,  in  virtù dello  stesso  principio,  che  questi  fenomeni  non  pos- sono essenzialmente  differire  dai  fenomeni  che  sono propri  agli  elementi  materiali  isolatamente  consi- derati (1).   Ma   se   la   soluzione   spiritualista  è  sem- el) È  evìdonto  che  il  purodosso  cartesiano  che  gli  animali  sono dogli  automi  è  nna  conseguenza  rigorosa  dello  stesso  principio,  nel- l'ipotesi spiritualista;  un  aggregato  non  potendo  avere  delie  pro- prietà essenzialmente  differenti  da  quelle  degli  elementi,  la  coscien- za non  può  trovarsi  ne/;li  animali,  m  cui  non  vi  ha,  conio  nell'uo- mo, un  elemento  essenzialmente  differente  digli  elementi  materiali, c'io  viene  ad  aggiungersi  all'aggregato. f  ex plice,  la  soluzione  materialista  è  doppia,  potendo farsi  due  ipotesi  :  1*^  che  i  fattti  della  coscienza  non siano  dei  fenomeni  assolutamente  nuovi,  che  si  pro- ducono la  prima  volta  negli  aggregati  che  noi  chia- miamo esseri  animati,  ma  dei  fenomeni  preesistenti negli  elementi  che  hanno  costituito  questi  aggregati (e  persistenti  in  essi  dopo  la  dissoluzione  degli  ag- gregati stessi);  e  2^  che  questi  fatti  non  siano  asso- lutamente distinti  dai  fenomeni  fisici,  propri  agli elementi  che  hanno  costituito  gli  aggregati,  ma sostanzialmente  identici  con  essi.  La  prima  delle duo  soluzioni  materialiste  —  le  sole  che  siano  in armonia  con  una  concezione  rigorosamente  mecca- nica dell'universo  —  si  trova,  oltre  che  nel  sistemi ilozoisti  in  generalie,  in  quei  sistemi  panpsichisti, in  cui,  come  in  quelli  di  Clifford.  Wundt,  Taine, ecc.,  la  psiche  dell'uomo  e  degli  animali  è  riguar- data come  una  risultante  degli  elementi  psichici corrisponrleati  a  ciò  che  noi  chiamiamo  elementi della  materia,  o  in  cui,  come  in  quello  di  Leibnitz (  il  quale,  a  parlar  propriamente,  è  una  conci- liazione della  soluzione  materialista  con  la  spiri- tualista), essa  è  riguardata  come  una  delle  unità psichiche,  delle  monadi,  che  costituiscono  il  compo- sto che  noi  percepiamo  come  materia.  L'altra  solu- zione —  la  quale  consiste  nell'affermaie  un'identità sostanziale  tra  i  fenomeni  fisici  (processi  nervosi) che  sono  le  condizioni  dei  fenomeni  della  sensa- zione e  del  pensiero  e  questi  fenomeni  stessi  —  è stata  ammessa  sotto  due  forme  :  1**  estendendo  ai  fe- nomeni mentali  la  dottrina  che  vede  nelle  diverse forze  fìsiche  gli  aspetti  differenti  di  una  forza  unica CXI che,  identica  al  fondo,   apparisce  successivameirte sotto  forme  diverse,  si  è  ammesso  che  la  sensazione e  il  pensiero  è  un  altro  aspetto  o  un'altra  forma  di questa  forza  medesima,  il  movimento  che  è  l'ante- cedente  della  sensazione  e  del  pensiero  divenendo sensazione  e  pensiero,  come  il  calore  suono  o  l'elet- tricità luce.  2^ -è  la  forma  che  ha  incontrato  più favore  —  si   è  ammesso  che  il  fenomeno  fisico  che è  la  condizione   del   fenomeno   mentale  e  lo  stesso fenomeno  mentale  sono,    non    due    fatti    distinti  e successivi,  ma  un  solo  e  stesso  fatto,  che  presenta due  facce  differenti,   l'interna  e  l'esterna,  la  sub- biettiva  e  l'obbiettiva,  la  distinzione  non  essendo, come    dice   Lewes,    che   nel  modo  di  apprensione, vale   a   dire,    quello   che  i  sensi  apprendono  come fisico,  come  movimento,  essendo   appreso  dalla  co- scienza come  mentale,  come  sensazione  e  pensiero. Questa  identità  del  fisico  e  del  mentale  —  l'iden- tità  nel  senso  più  stretto,   cioè  nella  seconda  for- ma—è stata   affermata  a  tre  punti  di  vista  diffe- renti :    del    materialismo,    cioè    subordinando   e   ri- conducendo lo  spirito  alla  materia,  come  nelle  dot- trine di  Hobbes  (1),   Erasmo    Darwin   (2),    d' Hol- (1)  V.  De  Corpore  pars  IV.  cai).  25  art.  2.  La  sensazione  non  è «ho  il  movimento  degli  organi  del  senso,  e  precisamente  quella  par- te di  questo  movimento  immaginata  da  Hobbes,  che  sarebbe  un  ri- torno dall'organo  centrale  verso  Testerno,  cioè  verso  i  punti  della periferia  da  cui  è  partita  l'eccitazione  (ipotesi  destinata  a  spiegare la  localizzazione  alla  periferia  e  la  proiezione  al  di  fuori  delle  sen- sazioni). (2)  Nella  sua  Zoonomta  definisce  l'idea  :  «  una  contrazione,  un movimento  o  una  configurazione  delle  fibre  che  costituiscono  l'or- bano immediato  del  senso.  »   «  Le  nostre  idee,  dice  egli  ancora,  sono ateB=c 3s: bach  (1),  Molesohott  (2),   Sfcrauss  (3),   Spencer  (4), dei  movimenti  animali  dell'organo  sensitivo».  Questa  confusione tra  il  fatto  psichico  e  la  sua  condizione  fisica  regna,  dice  Mill,  dal principio  alla  fine  nei  quattro  volumi    della   Zoonomia   (Mill.    Log. Uh,   V.  cap.  3.,  §  8). (1)  Le  sensazioni,  le  percezioni,  le  idee  tutte  lo  operazioni  del- l'anima, sono  dei  movimenti  degli  organi  dei  sensi  e  del  cervella V.  SìhL  della  natura  1.  p.  e.  VII  e  VIII-D'Holbach  ammette  pu- re  la  possibilità  della  soluzione  ilozoista. (2)  «Il  pensiero  è  un  movimento  della  materia»  Circolnz,  della vit4ij  lettera  18. (8)  V.   Vecchia  e  nuova  fede,  §  65. (4)  Ciò  che,  sotto  l'aspetto  obbiettivo  o  dal  lalo  esterno,  è  un cangiamento  nervoso  (un  movimento  molecolare),  è,  sotto  il  suo  a- spet'to  subbiettivo  ó  dal  suo  lato  interno,  uno  stato  di  coscienza V.  Frinc,  di  PsicoL  t.  1.  1.  p.  e.  6.  e  altrove);  lo  spirito  e  l'azione nervosa  sono  i  due  lati,  subbiettivo  e  obbiettivo,  d'una  sola  e  stessa cDsa  (e.  7.  §  06  e  altrove). L'aver  classato  la  dottrina  di  Spencer  fra  (luelle  che  ricondu- cono lo  spirito  alla  materia  richiede  una  giustificazione.  In  eflFetto questo  filosofo  si  difende  d'essere  materialista  e  dichiara  illusoria il  tentativo  di  tradurre  sia  lo  spirito  in  termini  di  materia  sia  la materia  in  termini  di  spirito  (§  63  e  altr.)  I  fenomeni  dello  spirito e  quelli  della  materia  sono  le  due  facce,  subbiettiva  ed  obbiettiva, sotto  cui  si  manifesta  una  sola  e  stessa  realtà,  ma  questa  realtà  ul- tima non  può  essere  chiamata  né  spirito  né  materia,  lo  spirito  e  la materia  non  essendo  che  le  sue  manifestazioni  fenomenali  ed  essa stessa  restando  inconoscibile  nella  sua  essenza  (§  272.  273  e  altr.) Che  ragione  può  aversi  allora  di  chiamare  la  dottrina  di  Spen- cer una  dottrina   materialista,    che   riconduce  lo  spirito  alla  mate- ria? Questa  ragione  è  secondo  me,  che  dei  due  aspetti  sotto   cui  si manifesta  l'inconoscibile,  l'uno,  il  fisico,  è  costante,  e  l'altro,  il  psi- chico,  non  è  che  transitorio  :  esso  non  apparisce  che  là  dove  esiste una  struttura  fisica  appropriata  (lo  spirito  non  è  diffuso  da  per  tutto neir  universo,  come  nelle  dottrine  panpsichiste  o  in  quella   dell' i- dentità  del  reale  e  deWideale,.  Ne  segue  che,  l'essenza  d'una  cosa  es- sendo per  noi  determinata  dai  suoi  attributi  costanti  e  non  dai  suoi attributi  transitori,  e  qualsiasi   nozione  che  noi   possiamo  formarci dell'Inconoscibile  dovendo  tirarla  dal  conoscibile,  quest'essènza  sco- nosciuta che  si  manifesta  come  spirito  e  come  materia  noi  dobbiamo necessariamente  rappresentarcela  in  termini  di  materia.   Ma  contro ciò  potrà  dirsi  che  questa  distinzione  tra  i  fenomeni  della  matoria» che  sarebbero  costanti,  e  quelli  dello  spirito,  che  sarebbero  transitori,, non  ha  al  fondo  niente  di  reale,  le  manifestazioni  fenomenali  dell'In- conoscibile essendo  per  Spencer  tutte  egualmente  subbiettive  e  psi- chiche, poicltè  il  conoscibile,  il  fenomeno,  non  consiste,  in  ultima  ana- lisi, che  negli  stati  della  nostra  coscienza.  Niente  di  più  giusto  che quest'osservazione;  ma  essa  dimostra  d'una  maniera  anche  più  diretta che  la  dottrina  di  Spencer  riconduce  lo  spirito  alla  materia.  Se  si  va al  fondo  delle  cose,  la  vera  dottrina  di  Spencer  è,  non  che  vi  sia  una realtà  a  due  facce,  l'una  subbiettiva  e  l'altra  obbiettiva,  ma  che  vi  ha una  realtà,  l'Inconoscibile,  e  un  fenomeno  o  un'apparenza  di  questa realtà,  lo  spirito  o^gli  stati  di  coscienza.  Lo  spirito  non  è  dunque  che unfenomeno;  la  realtà  appartiene  all'opposto  dello  spirito,  al  fuori  di me,  a  ciò  che  non  ha  coscienza.  L'Inconoscibile  non  è  per  Spencer che  la  materia  e  la  forza  :  l'affermazione  d'una  realtà  assoluta  in- ^  conoscibile  equivale  nei  Primi  principii  all'affermazione  della  persi- stenza della  forza,  e  quantunque  l'Inconoscibile  non  abbia  in  realtà degli  attributi  spaziali,  vi  ha  nondimeno  in  lui    un   nexus  che    noi dobbiamo  rappresentarci  come  spazio  o  estensione,  e  Spencer  sente cosi  fortemente  questa  necessità  di  dare  un  fondamento  obbiettivo, nell'Inconoscibile,  ai  rapporti  di  spazio,  che  talvolia  sembra  consi^ dorare  questi  rapporti  come  reali,  come   obbiettivi   (p.    e.   nei   Pr, Princ,  par.  20    sulla    fine).  La    verità    di    questa   proposizione,    che Spencer  riconduce  lo  spirito  alla  materia,  si  mostra  della  maniera più   evidente   nelle    sue    affermazioni   relative    alla   sostanza    dello spirito.    La  sostanza  dello   spirito  è    naturalmente  l' Inconoscibile  : ma  ciò    che    bisogna    notare  è   il   rapporto   che    Spencer   stabilisce tra  lo  spirito  qual  è  da   noi  conosciuto,   cioè  l' insieme    dei    nostri- stati    di    coscienza,    e    la   sostanza    dello    spirito.    Qaesto    rapporto» è  quello  del  fenomeno  alla  realtà.  L'esistenza,  nel  vero  senso  della parola,  appartiene  nello  spirito  a  ciò  che  persiste,  alla  sua  sostanza; i  fenomeni  dello  spirito,  come  quelli  della  materia,    non   sono  che* delle  apparenze  cangianti  della  realtà  permanente  inconoscibile,  (v.. Princ.  di  Psic,  paragr.  59,  473,  475).  Ora  se  noi  domandiamo  che  co- sa  sia  questa  realtà  persistente  di  cui  i  fenomeni  dello  spirito  sono- delle  apparenze,  la  risposta  è  che  la  sostanza  dello  spirito,  il  m€  tra- ascendente  non  é  altra  cosa  che  l'organismo    «  Dire  che  il  me  è  qual- che cosa  di  più  che  la  serie  delle  sensazioni  o  delle  idee   che   sono, date  come  presenti,  è  vero  o  falso  secondo  il  grado  di  comprensio- ne che  si  dà  alla  parola.  É   vero  se  noi  vi  comprendiamo  il  corpo, con  tutte  le  sue    strutture  e  le   suo    funzioni  ;  ma    è    falso    se    noi limitiamo  la  nostra  asserzione  al  me  cosciente  ».  «Il  me  sostanziale, inconoscibile  nella  sua  natura  ultima,  ci  è   fenomenalmente   cono- sciuto, sotto  la  sua  forma  statica,   come  l'organismo;   sotto    la   sua forma  dinamica,  come  una  forza  che  si  diffonde   nell'organismo». «  Il  me  che  sopravvive  continuamente  come  soggetto  di  questi  stati \  ' CXIY Lewes  (1),  Sergi  (2),  ecc.;  del  panpsichismo,  cioè  ri- cangianti  (di  quest'aggregato  di  stati  subbiettivi  che  fiostituisceno il  me  mentale)  è  questa  porzione  dell'Inconoscibile,  che  è  condizio- nata staticamente  in  certe  strutture  nervose,  le  quali  sono  penetrato da  questa  porzione  dell'Inconoscibile,  dinamicamente  condizionata, che  noi  chiamiamo  energia»  (Addizione  al  paragr.  220  in  fine  del 2.  voi.  dei  Princ.  di  PsicoL  trad.  frane.) L'identificazione  del  mentale  e  del  fisico,  in  un  sistema  che  non riconosce  altri  fatti  mentali  che  quelli  che  accompagnano  le  funzio- ni del  sistema  nervoso,  e  necessariamente  una  riduzione  del  men- tale al  fisico,  perchè,  ripetiamolo,  l'essenza  di  una  cosa  è  per  noi determinata,  non  dai  suoi  attributi  transitori,  ma  dai  suoi  attributi permanenti,  e  perciò  questa  realtà  a  due  facce,  che  si  manifesta come  spirito  e  come  materia,  so»  lo  spirito  non  è  riguardato  che  co- me un  fenomeno  transitorio,  noi  dobbiamo  necessariamente  rappre- sentarcela, nella  sua  essenza,  come  materia. Noi  dobbiamo  aggiungere  che  talvolta  Spencer,  invece  della  dot- trina dell'identità  dei  fenomeni  mentali  e  delle  loro  condizioni  fi- siche, sembra  ammettere  la  dottrina  affine  della  trasformazione  del- le energie  fisiche  nelle  energie  mentali  (Primi  principi  par.  71). (1)  Lo  stato  psichico  e  lo  stato  corporale,  che  ne  è  la  condizione, non  sono  due  fatti,  ma  un  sol  fatto  In  cui  si  distinguono  1  due  aspetti, •come  si  può  dlstlnu:uere  In  una  stessa  linea  curva  11  lato  conversa  e 11  lato  concavo.   Per  comprendere  questa   dottrina  di  Lewes  nel  suo v9ro  significato,  clof^  come  una  riduzione  del  mentale  al  fisico,  bisogna notare  che  essa  non  è  che  un'applicazione  del  suo  principio  dell'iden- tità della  causi  e  dell'effetto  :  un  fatto  è  identico  all'insieme  delle  sue condizioni,  non  è  qualche  CDsa  che  si  sovrag^lunge  ad  ess?.  Per  Lewes vale  la  stessa  osservazione  che  abbiamo  fatta  per  Spencer:    Il  fisico è  il  costante,  e  11  mentale  non  è  ehe  11  transilorlo  ;  perciò  questa  real- tà a  due  facce,  che  si  mostra  come  Hpirlto  e  come  materia,  non  può essere  al  fondo,  nella  sua  essenza,  che  materia.  É  vero  che  la  dottrina di  Lewes  che  le  cose  hanno  sampre  una  doppia  faccia,  l'una  obbiet- tiva e  l'altra  subblettlva,  11  mondo  matarlale,    per  quanto  ne  cono- sclamo,  risolvendosi  In  sensazioni  nostre,  non  potrebbe  essere  censi- slderata   come   una  dottrina   materialista.   Ma  se  noi  non    facciamo, sino  ad  un  certo  punto,  astrazione  dalle  qulstionl  gnoseologiche  sul mondo  esteriore,   diffìcilmente  troveremo   tra  l  filosofi  moderni   un materialista,  per  la  semplice  ragione  che  difficilmente  vi  troveremo un  realista  naturale,  cioè  questa  fede  Ingenua  nella  i-ealtà  obbiettiva del  dati  dei  sensi  che  11  materialismo  classico  accetta  dal'.a  credenza naturale. (2)  Il  fatto   psichico  o  cosciente  è  composto  di  elementi   fiMci  o CXV solvendo  la  materia  in  spirito,  come  nella  dottrina  di incoscienti  (negli  Elementi  di  Psicologia  e  In  altre  opere)  ;  proposi- zione che  evidentemente  contiene  l'identificazione  del  fatto  della  co- scienza con  le  sue  ccnlizionl  somatiche.  Tuttavia  11  Sergi  afferma pure  che  11  processo  fisico  è  V antecedente  àe\  fenomeno  della  coscienza (ciò  che  è  Impossibile  se  sono  un  solo  e  stesso  fatto),  e  va  anche  sino a  parlare  di  una  trasformazione  dei  due  fenomeni  l'uno  nell'  altro, sembrando  così  passare  dalla  teoria  dell' ldentlti\  del  fisico  e  del  men- tale —  uel  senso  plìi  stretto  —  alla  teoria  vicina  della  trasformazione reciproca  fra  le  energie  fìsiche  e  le  mentali  (V.  Origine  dei  fenomeni psichici  e  loro  significazione  biologica  cap.  8. É  notevole  nna  coinpideuza— senza  dubbio  fortuita-  -tra  la  dottrina di   Hobbes  e  lineila  del  prof.  Sergi,    11  quale,  slmilmente  al   primo, spiega  la  localizzazione  delle  sensazioni  negli  organi  periferici  e  nello spazio  esteriore,  per  l'ipotesi  di  un'onda  nervea  ri/lessa,  cioè  ammet- tendo che  *  le  onde  nervee  che  partono  dalla  periferia,  giungendo  ai ce.itrl,  si  riflettono  per  la  stessa  via,  e  si  fermano  al  luogo  d'  ec^cita- zlone.  »  Il  Sergi,  come  Hobbes,    chiama  questa  riflessione   della  cor- rente  nervosa    «  una  tendenza  alla  causa  esterna.  »   K  evidente   che questa  non  è  una  spiegazione  nel  senso  scientifico  della  parola;  polche ammesso   anche  il  fatto  dell'onda    riflessa,  siccome  la  cosclensa   non sa  niente  dell'esistenza  di  questo  fatto,  esso  uon  potrebbe  essere  un motivo  di  localizzare  la  percezione  al  posto  In  cui  arriva   l'onda  ri- flessa, che  l'esperienza  non  ha  mal  trovato  in  connessione  con  la  sen- sazione.  Ma  è  si  familiare  questo  fatto,  che  la  sen=?azlone  viene  Istin- tivamente localizzata  al  posto  dove  si  osserva  la  causa  materiale  della sensazione,  che  non  si  vede,  o  si  dimentica,  che  ciuesto  fatto,  appa- rentemente Istintivo,  sarebbe  Incomprensibile,  se  noi  non  sapessimo che  è  l'esperienza  che  ha  formato  n3l  nostro   spirito   le  connessioni mentali  corrispondenti.  Il  proprio  del  fenomeni  molto  familiari  è,  noi lo  sappiamo,  che  essi  sembrano  non  aver  bisogno  di  spiegazione,   e poter  servire  anche  di  spiegazione  agli  altri  fenomeni.  Così  l'identità del  luogo  i;i  cui  si  produce  la  causa  fìsica  della  sensazione,  e  di  quello In  culla  sensazione  viene  spontaneamente  localizzata,  sembra  un  fatto perfettameute  naturale  e  che  si  spiega  da  se  stesso:  1'  onda  nervea, partita  da  un  certo  punto,  ritorna  a  questo  stesso  punto;  è  evidente dunque    che  è  là  che  dobbiamo  localizzare  la  sensazione.   Inoltre,  In una  concezione  materialista —  nel  senso  più  stretto  della  parola  — in cui  il  fatto    psichico  è  concepito    come  un  fenomeno   dinamico   della materia  nervosa,  non  è  sorprendente  che  si  applichino  al  fatti  della coscienza  1  rapporti  di  spazio  propri  alle  loro  condizioni  fìsiche,  e  ehe si  trovi  quindi  una  connessslone  naturale  tra  il  trasporto  dell*     *• \ ex  VI I Taine  (1)  e  di  altri  panpsichisti  (è  sotto  un  altro  aspet- to la  dottrina  stessa  che  già  abbiamo  considerato  co- me una  forma  della  prima  soluzione  materialista);  e infine  del  sistema  della  identità  del  reale  e  dell' ideale (Fechner),  che  non  subordina  ne  lo  spirito  alla  ma- teria ne  la  materia  allo  spirito,  ma  fa  del  fisico  e del  mentale  i  due  aspetti  paralleli,  e  costantemente uniti,  dell'essere  assoluto.  Ma,  all'uno  o  all'altro  di questi  punti  di  vista,  il  risultato  della  teoria  è  sem- pre lo  stesso:  identificare  i  due  ordini  di  fenomeni, che  sembrano  i  più  essenzialmente  differenti,  quelli nervea   dal   centro   nervo>*o   all' organo    pei-ifei-lco  e  11  trasferimento cella  sensazione  dal  primo  al  secondo  punto. Ma  ([uando  la  sensazione  st  locai izza,^'non  nolPorganlsrao  stesso, ma  al  di  fuori,  come  uella  perenzione  visuale -ciò  che  ordinar  lame. ito si  chiama  pi'olezlona  dell'Immagine  sensoriale— quale  spiegazione  del fatto  può  dare  la  teoria  dell'onda  riflessa?  Chi  ha  meditato  abbastanza sulla  storia  del  concetti  metafisici,  o  sa  che  le  analogie  pia  vaghe  e imprendibili  spesso  hanno  tenuto  il  luogo  di  spiegazioni-si  forte  a 11  bisogno  che  ha  lo  spirito  umano  di  una  spiegazione  del  fenomeni (nel  senso  metafìsico  delia  parola;— «inesti  non  troverà  umoristica,  mn perfettamente  seria,  la  riflessione  che,  nel  pensiero  degli  autori  della teoria,  vi  ha  forse  qualche  cosa  come  l'idea  vaga  di  uni  continua- zione ideale  del  movimento  percezlonale,  (^uasl  che  la  percezione  aves- se qualche  analogia  con  un  proiettile,  il  cui  movimento,  impressogli dalla  mano,  si  continua  nella  stessa  direzione,  anche  dopo  che  la  mano si  è  staccata  da  esso. Queste  osservazioni,  naturalmente,  non  tolgono  niente  al  valore reale  delle  opere  del  prof.  Sergi,  come  non  tolgono  niente  alla  gloria  dei suo  predecessore  Hobbes.  Un'Idea  originale  e  ingegnosamente  espres- sa, anche  quando  è  un'idea  metafisica,  è  sempre  una  pmva  di  forza Intellettuale:  è  ciò  che  alcuni  positivisti  contemporanei  sembrano  non comprendere,  perchè  essi  non  comprendono  che  la  metafisica  è  un fatto  naturale  dello  spirito  umano  —  come  lo  prova  anche  un  certo numero  delle  loro  dottrlue-e  non  un  fatto  arbitrarlo  o  inerente  sol- tanto a  un  certo  grado  della  cultura. (1)  V.  Jj'IntellUi,  parte  l.  1.  4.  e.  2. della  natura  fìsica  e  quelli  della  coscienza,  in  modo che  il  più  grande  saltiis  della  natura,  il  passaggio dall'inanimato  all'  animato,  dall'  incosciente  al  co- sciente, e  viceversa,  si  concilii  in  qualche  modo  col principio  evidente  per  se  stesso  che  l'essenza  delle cose  resta  sempre  la  stessa  e  che  le  proprietà  di  un tutto  non  possono  essenzialmente  differire  dalle  pro- prietà degli  elementi.  Non  vi  ha  dubbio  che,  fra  le diverse  applicazioni  di  questo  principio  alla  qui- stione  dell'  origine  della  coscienza,  non  sia  questa la  più  conforme  alle  idee  della  concezione  meccanica, sovratutto  quando  si  considera  —  ciò  che  è  certa- mente il  pensiero  intimo  di  molti  sostenitori  della teoria  —  il  fisico,  cioè  il  movimento,  come  la  realtà, e  il  mentale,  cioè  la  sensazione  e  il  pensiero,  come una  specie  di  apparenza  di  questa  realtà  (1). Qui  ci  troviamo  in  presenza  della  seconda  delle due  difficoltà  insolubili  delle  teoria  meccanica  (ri- guardando come   la  prima  l' impossibilità    indicata (1)  Un  autore  tedesco,  Langwieser,  in  una  polemica  contro  la conferenza  di  Du-Bois-Reymond  al  congresso  di  Lipsia,  che  ricono- sceva l'irriduttibilita  dei  fenomeni  della  coscienza  ai  fenomeni  fisici, e  quindi  l'impossibilità  di  applicare  ad  essi  la  spiegazione  meccanica, dice:  «La  nostra  coscienza  non  può  farci  conoscere  l'anatomia  del nostro  corpo  o  almeno  le  fibre  del  nostro  cervello  :  cosi  essa  non è  una  coscienza  nel  senso  obbiettivo  della  parola;  perciò  noi  non possiamo  riconoscere  sub])iettivamente  le  nostre  sensazioni  per  quel- lo che  sono  »  Il  Lange  che  riferisce  queste  parole,  le  fa  precedere da  questo  commento  :  Il  materialismo  si  afferra  si  forte  alla  realtà e  ai  movimenti  della  sua  materia,  che  un  partigiano  sincero  di  que- sta dottrina  noa  esita  lungamente  a  sostenere  che  il  movimento  dej cervello  è  il  reale  e  l'obbiettivo,  mentre  la  sensazione  non  è  che  u- na  specie  di  apparenza  o  di  riflesso  ingannatore  dell'obbiettività». Lange  Stor,  del  mater,   t.  2.  parte  2.  e.   1. (li  rappresentarci  la  materia  destituita  delle  pro- prietà sensibili).  La  logica  forza  la  teoria  meccanica ad  ammettere  l'una  o  l'altra  delle  due  soluzioni  ma- terialiste della  quistione  dell'origine  della  coscienza —  l'ilozoismo  o  l'identità  del  fisico  e  del  mentale—: ma  è  impossibile  di  ammettere  l'una  o  l'altra  di queste  soluzioni  senza  contraddire  ad  altre  esigenze non  meno  imperiose  della  teoria.  Si  ammetterrà  la soluzione  materialista  propriamente  detta,  che  iden- tifica il  pensiero  al  movimento  ?  non  lo  si  può,  sen- z'abbandonare quella  chiarezza  delle  idee,  quella quella  intelligibilità,  che  distingue  la  concezione meccanica  da  tutto  le  altre  concezioni  che  realiz- zano il  principio  comune  della  immutabilità  dell'es- senza delle  cose.  Si  ammetterà,  invece,  la  soluzione ilozoista?  ma  allora  la  meccanica  degli  atomi  di- viene il  romanzo  degli  atomi;  la  concezione  mecca- nica perde  quel  carattere  di  rigoi-e  scientifico  che costituisce  la  sua  superiorità  sulle  concezioni  rivali del  mondo.  Sembrerà  forse  che  la  soluzione  ilozoi- sta —  a  differenza  della  soluzione  materialista  pro- priamente detta,  cioè  della  identità  del  fisico  e  del mentale  —  ci  offra  almeno  delle  nozioni  perfetta- mente intellegibili  :  ma  se  ciò  può  ammettersi  per l'ilozoismo,  considerato  in  se  stesso,  non  si  può  am- mettere per  l'ilozoismo  applicato  alla  soluzione  del problema  deirorigine  della  coscienza.  La  nozione di  un  atomo  animato  e  cosciente  è  senza  dubbio una  rappresentazione  perfettamente  realizzabile;  ma è  impossibile  di  rappresentarsi  che  dalla  riunione delle  coscienze  distinte  degli  atomi  risulti  la  co- scienza unica  che  appartiene  all'aggregato  degli  atomi;  un  me,  una  coscienza  unica,  non  può   essere ccncepito  come  la  somma  di  Uiia  moltitudine  di  me odi  coscienze  distinte.  L'una  e  l'altra  delle  due  so- luzioni materialiste  della  quistione  dell'origine  della coscienza    mostrano   così   il  tratto    distintivo   delle concezioni  metafìsiche  propriamente  dette;  cioè,  ol- tre all'assenza  completa  di  prove,  l'impossibilità  dì essere  rappresentate,  il  racchiudere  delle  impossibi- lità intrinseche,  delle  contraddizioni.  Vi  hanno  dun- que due  punti  in  cui  viene  a  mancare  l' intellegi- bilità  della  teoria  meccanica  :  l'uno  è  la  distinzione delle  proprietà  primarie  e   secondarie   della   mate- ria, che  è  il  fondamento  della  teoria,  e  l'altro  l'ap- plicazione della  teoria  ai  fenomeni  della  coscienza. §.  12.  Le  considerazioni  precedenti  spiegano  per- chè la  maggior  parte  dei  fautori  della  teoria  mec- canica si  sottraggano  alla  necessità,  per  quanto  im- periosa, di  sottomettere  alla  teoria  i  fenomeni  delle coscienza.  Il  valore  assoluto  della  teoria  meccanica non  viene  ordinariamente  reclamato  che  nel  domi- nio del  mondo  fisico;  ma  in  questo  dominio  si  am- mette  che  l'applicazione  della  teoria  è  illimitata,  e che  non  vi  ha  altra  maniera  possibile  di  compren^ dere  i  fenomeni.  Noi  possiamo  considerare  DuBois- Reymond  come  il  fedele  rappresentante   di  questa tendenza  filosofica,  nella  forma  in  cui  essa  ha  l'a- desione della  maggior  parte  dei  pensatori  che  sono alla  testa  del  movimento  scientifico  contemporaneo. «La  filosofia  naturale,  egli  dice,  ha  per  isc3po  di comprendere   il  mondo   materiale,  e  a   questo   fine tende  a  ricondurne  i  cangiamenti  a  dei  movimenti d'atomi  causati  dalle  loro  forze  centrali  costanti,  o cxx in  altri  termini,  a  risolvere  i  fenomeni  della  natura in  meccanica  degli  atomi.  È  un  fatto  d'esperienza psicologica  che,  tutte  le  volte,  che  una  tale  riduzione è  effettuata  con  successo,  il  nostro  bisogno  di  cau- salità  è,    per  il    momento,   completamente    soddi- sfatto »  (1).  L'autore  non  ammette  che  un   limite  a questa  spiegazione  meccanica  di  tutti    1   fenomeni della  natura:  questo  limite. è  il  limite  stesso,  o  più propriamente  l'uno  dei  due  limiti,  della  nostra   co- noscenza (l'altro    essendo   l'incomprensibilità   della essenza  della  materia  e  della  forza),  e  consiste  nel- l'impossibilità  di  ricondurre  il  pensiero  o  la  sensa- zione   al   movimento   degli   atomi.  «  Con  la    prima sensazione  di  piacere  e  di  dolore  che  provò  l'essere più   semplice,   all'inizio   della  vista    animale   sulla terra,  s'aprì  quest'abisso  insuparabile;   d'allora  il mondo  divenne  doppiamente  incomprensibile  ».  Ma nella  quistione  dell'origine  della  vita  l'autore  non trova  un  limite  della   nostra  conoscenza,  e    perciò nemmeno  della  teoria  meccanica:  la  quistione  non è,  egli  dice,  che  un  problema  di   meccamica  estre- mamente arduo.  Quantunque  la   meccanica  mo- lecolare che  presiede  alla  costituzione  degli    esseri organizzati,  come  quella  che  presiede  alla  cristal- lizzazione e  alle  reazioni  chimiche,  non  ci  siano,  al- meno per  ora,  accessibili  ;  tuttavia  la  realizzazione -del  nostro  ideale  della  conoscenza  suppone  che  que- sti fenomeni  siano  spiegati    meccanicamente.   Non •(1)  /  Limiti  della  Filos,  natnr.  in  Ber.  scient.  2«  ser   voi.  7 ^2)  lòid. CXXi vi  ha  per  noi  altra  conoscenza  che  quella  dei  fatti meccanici  :  solo  le  leggi  fisico  —  matematiche  sono delle  vere  leggi,  che  s'impongono  por  una  neces- sità logica  (1). Il  lato  particolarmente  paradossastico  della  teoria meccanica,  come  concezione  generale  del  mondo  fi- sico, è  la  sua  applicazione  ai  fenomeni  della  vita. Qualunque  sia  il  successo  della  teoria  meccanica nel  dominio  della  natura  inorganica,  vi  sarà  sempre, per  questa  teoria,  la  grande  difficoltà  di  identificare due  ordini  di  fenomeni,  la  cui  distinzione  essenziale sembra  così  evidente,  quelli  della  materia  bruta  e quelli  della  materia  vivente.  Senza  dubbio,  la  dif- ficoltà che  incontra  la  teoria  meccanica  nella  qui- stione dell'essenza  della  vita,  è  dovuta  in  parte  a dei  pregiudizii  tradizionali  e  naturali  al  nostro  spi- rito,  di  cui  la  scienza  moderna  ha  fatto  giustizia. L'uno  è  questa  spontaneità  del  movimento,  questa attività  caratteristica  dell'  essere  vivente,  per  cui egli  sembra  avere  in  se  stesso  la  causa  dei  propri cangiamenti;  e  l'altro  questa  teleologia,  queste  tracce di  disegno,  che  si  sono  sempre  viste  specialmente nella  struttura  e  nelle  funzioni  degli  esseri  orga- nizzati. È  conformemente  a  questi  concetti  che  A- ristotile  definisce  gli  esseri  che  sono  per  natura  — con  una  definizione  che  è  evidentemente  una  gene- ralizzazione tirata  dalla  natura  degli  esseri  viventi: — le  cose  il  cui  movimento  procede  da  un  principio interno  ed  è  indirizzato  ad  un  fine  (1).  Ma   la  dot- (1)  DuriL'in  contro  GalianL (2)  V.   Pìiys.  1.   II.   Vili.   trina  della   coaservazione   dell'  energia  mostra  che questa  spontaneità  del  movimento  è  una  pura  illu- sione, tutte  le  forze  che  si  manifestano  negli  esseri viventi  non  potendo  essere  che  l'equivalente  di  altre forze  fisiche  disparse  dando  loro  origine.  In  quanto alla  finalità  degli  organismi,  Darwin  ha  dato  una spiegazione,  che  la  teoria  meccanica  può  conside- rare come   un   gran   passo   verso   la   sua   completa realizzazione.  Ma  con  .tutto  ciò,  deduzione  fatta  di queste   due   difficoltà  su  cui  i  metafisici  hanno  so- vratutto  insistito,  resta  sempre  nei  corpi  viventi  un carattere  essenzialmente  differenziale,  col  quale  non si  trova  alcuna  analogìa  nei  fenomeni  della  mate- ria  bruta:  è   questa   persistenza  del   tipo  generico nella  successione  delle  generazioni  e  del  tipo  indi- viduale attraverso  gli  scambi  incessanti  della  ma- teria—carattere per  cui  la  scienza  moderna  definisce la  vita,  con  Treviranus  :  «  la  vita  è  l'uniformità -co- stante dei  fenomeni  nella  diversità  delle  influenze esteriori  >>;  con  Flourens  :  «  la  vita  è  una  forma  ser- vita dalla  materia  »  ;  e  meglio   ancora  con  Cuvier: «  l'essere  vivente  è  un  turbine  a  direzione  costante, nel  quale  la  materia  è  meno  essenziale  che  la  forma  ». Vi  hanno  nell'essere  vivente,  dice  Ber- nard,    due   ordini   di   fenomeni  :    1.    i   fenomeni  di creazione  vitale  o  di  sintesi  organissatrice;  2.  i  feno- meni  di   morte  o  di  distruzione  organica.   «  Se  al punto  di  vista  della,  materia  e  della  forza,  nel  mondo vivente  come  nel  mondo  bruto,    niente  si  perde    e niente  si  crea,  non  è  cosi  al  punto  di  vista   della forma.  Nell'essere  vivente  tutto  si  crea,  s'organizza morfologicamente.  Nell'uovo  in  isviluppo,  i  muscoli^ f  le  ossa,  i  nervi  appariscono,  e  prendono  il  loro  po- sto, ripetendo  una  forma  anteriore  da  cui  l'uovo  è uscito  ».  «  Di  questi  due  ordini  di  fenomeni,  il  primo solo  è  senza  analogo  diretto,  particolare,  speciale all'  essere  vivente,  È  una  sintesi  evolutiva.  È  ciò che  vi  ha  di  veramente  vitale.  È  la  vita  ».  L'altro al  contrario  è  puramejite  fisico-chimico.  «  Sono  dei fenomeni  di  morte  vera,  quando  si  producono  in  un organismo».  «Ora,  ed  è  ciò  i^he  vi  ha  di  più  ri- marchevole,  noi  siamo  vittime  d'  un'  illusione  abi- tuale, e  quando  vogliamo  caratterizzare  la  vita,  noi indichiamo  un  fenomeno  di  morte.  Noi  non  vedia- mo i  fenomeni  della  vita.  La  sintesi  organizzatrice resta  interiore,  silenziosa,  nascosta,  raccogliendo senza  rumore  i  materiali  che  saranno  spesi  nell'e- spressione fenomenale.  Noi  non  vediamo  dunque  di- rettamente i  fenomeni  di  creazione  vitale.  Solo  lo istologo,  l'embriogenista^  seguendo  lo  sviluppo  del- Telemento  o  dell'essere  vivente,  prende  dei  cangia- menti^ delle  fasi  che  gli  rivelano  questo  lavoro sordo  :  qui  un  deposito  di  materia,  là  una  forma- zione d'  inviluppo  o  di  nucleo,  là  una  divisione  o una  moltiplicazione,  una  rinnovazione.  Al  contrario i  fenomeni  di  distruzione  vitale  o  di  morte  sono quelli  che  ci  saltano  agli occhi,  e  per  i  quali  siamo tentati  di  caratterizzare  la  vita.  I  segni  ne  sono  e- videnti,  eclatanti  :  quando  il  movimento  si  produce, quando  un  muscolo  si  contrae,  quando  la  sensibi- lità e  la  volontà  si  manifestano,  quando  il  pensiero si  esercita,  quando  la  gianduia  secerne,  la  sostanza dei  muscoli,  dei  nervi,  del  cervello,  del  tessuto  glan- dulare  si  disorganizza,  si  distrugge  e  si   consuma.  /^ Di  sorta  che  ogni  manifestazione  di  un  fenomeno, nell'essere  vivente,  è  necessariamente  legata  a  una distruzione  organica,  e  sotto  una  forma  paradossale si  può  enunciare  questa  verità  che  io  ho  espressa altrove  :  la  vita  è  la  morte  »  (1). L'opposizione  che  la  concezione  meccanica  della vita  incontra  nella  scienza  moderna  non  è  dunque dal  punto  di  vista  metafisico  della  teleologia,  né  dal punto  di  vista,  prescientifico  che  riguarda  quest'at- ti  vita  esteriore  dell'essere  vivente-in  cui   Claudio Bernard  non  vede  che  dei  fenomeni  di  morte  e  che egli  riconduce  ai  fenomeni  generali   della   materia —come  il  carattere  distintivo  per  cui  i  corpi  viventi sono  separati  come  da  un  abisso  dalla  materia  bruta. La  quistione  tra  i  meocanisti  e  quelli  che  non  am- mettono  la  loro  teoria  è  :  il  fenomeno  dell'eredità  e quest'altro  fenomeno  analogo  della  continua  restau- razione  che  fa  di  se  stesso  l'individuo  vivente  se- W  U  defluizioni  della  vita,  nella  Sev   8cieut.  2.  ser.  t.  13. .cient    :.rTTly  ''r'^'r   "'^*-'-'-  -«""'ti.  nella  Ifev scent.  HOT   3.  t.  12.  Ivi  l'autore,  oltre  alle  opinioni  analoghe  di  al tr.  naturalisti    riferisce  queste  parole  di  C'hevreul  :    .  Un   oorpo  o^-' ^Trrnena'"*;'  "^ r,r "*'  ""'-'  «>-  -»  costaniaal ^dlvilniohè  .  *  'P""'"'  "  '*  ""'°^'"  di  dar  nascita  ad ndlyidui  che    riproducono  alla  loro  volta  questa   stes.sa  forma    È le  fi/a    *'•"  ""'' ^'**  «  non  nella  natura  deU le  forze  a  cui  si  possono  rapportare  immediatamente  i  fenomeni  .. Ricordo  pure  delle  proposizioni  simili  di  Matteucci  :  (dopo  aver  det- to  che  1  fenomeni  della  vita  devono  ridursi  a  fatti  fisico-chimici, vi  ha.  nell  organismo  vivente,  qualche  cosa  che  pare  inviluppata  dal- chimici  Io  voglio  parlare  di  questa  grande  incognita  che  si  nascon- de  in  un  grano,  producent*  sempre  la  stessa  pianta  dal  comincia- mento  sino  alla  fine..  (V.  Pev.  scie„t.    1.  ser.   t.  2,  p.  *«u ^ cxxv     • condo  la  forma  determinata  che  gli  è  propria— re- staurazione che  dal  fatto  più  ordinario  della  rein- tegrazione degli  elementi  per  la  nutrizione  va  salla  rigenerazione,  in  certi  organismi,  degli  organi più  complessi— questi  fenomeni  essenziali  della  vita sono  riduttibili  alle  leggi  generali  della  materia  e del  moto?  La  teoria  della  conservazione  dell'eneraia non  decide  la  quistione  in  favore  del  meccanismo; essa  prova  semplicemente  che  le  forze  vitali  —  in- tendendo con  questa  parola  non  degli  agenti  miste- riosi, delle  ipostasi,  ma  un  asemplice  espressione  a- stratta  dei  fenomeni  della  vita— non  possono  creare energia,  ma  solo  trasformarla.  La  teoria  dell' evo- luzione fa  intravedere  la  possibilità  di  ricondurre tutti  i  fenomeni  svariati  del  mondo  vivente  a  un piccolo  numero  di  leggi  comuni,  ma  i  fenomeni  es- senziali della  vita,  cioè  l'eredità  e.  generalmente,  la persistenz^i  della  forma  nella  continua  rinnovazione della  materia,  lungi  di  dedurli,  essa  li  suppone come  le  premesse  ultime  delle  sue  deduzioni.  Questi fenomeni  sin  qui  inesplicabili  —  e  che  non  vi  ha alcuna  difficoltà  intrinseca  a  considerare  come  dei fatti  ultimi  che  non  ammettono  spiegazione  ulteriore, ma  solo  un'espressione  più  rigorosa  sotto  forma  di leggi  precise — avranno  mai  il  loro  Newton,  che  li riconduca  alla  meccanica  degli  elementi  della  ma- teria? Quello  che  sembra  evidente — tanto  evidente che  r  autorità  degli  eminenti  fisiologi  che  propu- gnano la  teoria  meccanica  non  è  una  ragione  che deve  impedire  di  dirlo— è  che  sinché  questo  Newton non  sarà  venuto — ciò  che  Kant  trovava  assurdo  di sperare  — la  teoria  meccanica  della  vita  non  sarà che  un'ipotesi,  meno  ancora  che  un'ipotesi,  una  sem- plice congettura  sulla  scienza  avvenire,  poiché  essa m  riduce  all'affermazione  che  questo  Newton  verrà o  potrebbe  venire  (cioè  verrebbe,  se  l'ideale  della conoscenza  umana  fosse  conseguibile).  L'autorità  dei sommi  maestri  della  scienza  che  emettono  quest'af- fermazione dà  certamente  ad  essa  un  gran  peso:  ma dei  lisiologi  non  meno  autorevoli  dichiarano  che quest'affermazione  è  affatto  gratuita  e  senza  fonda- mento nella  scienza,  e  classano  la  teoria  meccanica (1)  «  Egli  è  in  effetto  assolutamente  certo  ohe  noi  non  possiamo  iip- pieudere  a  'conoscere  d'una  maniera  sufficiente,  e  a  più  forte  ra^io* ne  a  spiegarci,  gli  esseri  organizzati  e  la  loro  possihilitt\  interiore per  dei  prlnclpli  puramente  meccanici  della  natura;  e  si  può  soste- nere arditamente  con  un'i?guale  certezza  ch'egli  ò  assurdo  per  degli uomini  di  tentare  qualche  cosa  di  slmile,  e  di  sperare  che  qualche  nuo- vo Newton  verrà  un  giorno  a  spiegare  la  produzione  d'un  filo  d'erba per  leggi  naturali  a  cui  alcun  disegno  non  ha  presieduto».  {Critica dei  (/indizio  paragr.  LXXVI).  Come  si  vede  da  (jueste  parole,  l'ap- prezzamtnto  di  Kant  è  sovratutto  fondato  su  considerazioni  d'ordine teleologico.  Del  resto,  come  si  sa,  lo  stesso  punto  di  vista  teleologi- co njn  ha  per  Kant  alcun  valore  obbiettivo,  ma  non  ^  fondato  che sopra  una  necessità  subbiettiva  della  nostra  Intelligenza.  Nella  qui- «tiene  della  spiegazione  degli  esseri  organizzati,  li  nostro  pensiero si  avvolge  necessariamente,  secondo  Kant,  in  un  antinomia  insolubi- le; perchè  da  una  parte  noi  non  concepiamo  che  alcuna  produzione  di «OOS3  materiali  sia  possibile  se  non  secondo  leggi  puramente  meecn- niche;  ma  dall'altra  parte,  la  spiegazione  meccanica  applicata  a  certe produzioni  della  natura  (gli  esseri  organizzati)  sarà  sempre  insuffi- ciente e  d'un'estanslone  limitata  (quantunque  non  possiamo  sapere sin  dove  questa  spiegazione  possa  estendersi),  e  noi  dobbiamo  neces- sariamente giudicare  della  natura  e  della  possibilità  di  queste  pro- duzioni secondo  il  concetto  delte  cause  finali,  senza  vedere  alcun  mo- do possibile  di  conciliare  questi  due  punti  di  vista  antitetici,  ma  h- gualmente  necessari,  il  teleologico  e  il  meccanico.— L'alternativa  Ine- vitabile che  Kant  suppone  tra  il   meccanismo   e   la   teleologia   nella tra  le  ipotesi  relative  alla  «  ricerca  delle  cause  pri- me, che  la  scienza  non  potrebbe  attingere  »  (1). qulstione  della  vita,  s'Incontra  pure  negli  autori    contemporanei,  p. e.  in  Wundt  Trattato  di  Fisiologia  nmana,  Introduzione,  dove  sta- bilisce che  l'antico  concetto  della  vita  era  fondato  sul  punto  di  vista deUe  causa  finali,  mentre  *  la  maniera  di  vedere  oggi  dominante  e  che si  chiama  ordinariamente  l'ipotesi  fìsica  o  meccanica,  ha  la  sua  ori- gine nella  concezione  causale  della  natura,  1p  quale  è  da  lungo  tem- po prevalsa  nelle  branche  affini  della  scienza  naturale,  e  secondo  la quale  la  natura  è  una  semplice  catena  di  cause  e   d'effetti,    le    leggi ultime  dell'azione  causale  essendo  le  leggi  della  meccanica  ».— Notia- mo quest'affermazione  di  Wundt  che  la  teoria  fish^a   o   meccanica  è la  sola  che  realizzi  l'incatonamenlo  causale  tra  1  fenomeni  :  la  stessa affermazione  si  trova  in  altri  fisiologi  meccanlsti,  p.e.  in  Du  Bois— Reymond  (parole  citate)  e  in  Haeckel  Libera  scienza  e  libero  inse- fjnnniento,  pag.  9,  10,  11. (1>  Bernard  Dcflniz.  della  vita. Sinché  il  Newton  non  sarà  venuto,  noi  non    possiamo    sapere  se la  dottrina  meccanica  (o,  In  generale,  fisico-chlmlca)  della  vita  ha  ef- fettivamente un  senso  o  è  una  di  quelle  che  Spencer  chiama  pseudo- idee (e  quindi  nn  concetto  metafisico  nel  senso  più  stretto  del  termi- ne).  Questa  dottrina  infatti  si  riduce  a  questa  ])roposizione  :  le  leggi della  vita  sono  deducibili  dalle  leggi  generali  del  mondo  fisico.  Ora se  questa  deduzione,  qualunque  ipotesi  possa  immaginarsi,  è  impos- sibile  (non  per  i  limiti  della  nostra    conoscenza,    ma    per    la    natura stessa  delle  cose);  se  le  leggi  della  vita  non  i^ssono  essere  una  con- seguenza d,*lle  leggi  generali  del  mondo  fisico:  affermare  che  lo  so- no"  che  la  deduzione  è  possibile,  è  evidentamente  enunciare,  non  un semplice  errore  di  fatto,  ma  un'impossibilità  logica.  Questa  Impossi- biuta  logica  o,  ciò  che  è  lo  stesso,  (luest'assurdità  intrinseca,  che  po- trebbe essere  contenuta  nella  concezione  meccanica,  attualmente  deve per  necessità  sfuggirci,  perchè  la  proposlztoue  astratta:  le  leggi  del- Ja  vita  sono  deducibili  dalle  leggi  generali  della  materia,  è,  come  o- gnl  proposizioni  astratta,  un  puro  simbolo.  Il  cui  significato  consiste nelle  rappresentazioni  concrete  corrispondenti.   Se  una   rappresenta- zione concreta  corrispondente  al  simbolo  (al    cosi   detto    concetto   a- stratto)  è  possibile.  Il  simbolo  ha  un  senso,  è  intelligibile;  se  non  vi ha  una  rappresentazione  (concreta)  possibile  che  gli  corrisponda,  U simbolo  non  ha  senso,  vi  ha  un  non  senso,   un'impossibilità    logica. La  rappresentazione  concreta  corrispondente  alla  proposizione  astrat- ta •  le  leggi  della  vita  sono  deducibili  dalle  leggi  generali  della  ma-  Il  fondamento  della  concezione  fisica  o  meccanica della  vita  è  semplicemente  in  un'  induzione  tirata dall'  osservazione  che  i  progressi  della  scienza  si sono  fatti  nel  senso  della  spiegazione  fisica  dei  fe- nomeni, o  si  deve  ammettere  l'influenza  di  qualche principio  considerato  come  evidente  per  se  stesso? Se  si  riflette  all'influenza  che  il  principio  che  l'es- sere non  può  venire  dal  non  essere,  cioè  che  il reale  non  può  cangiare  di  natura  e  di  proprietii, ha  sempre  avuto  nella  storia  del  pensiero  umano; alla  forza  con  cui  quest'altro  principio,  che  ne  è  una conseguenza,  cioè  l'impossibilità  che  un  tutto  abbia delle  proprietà  essenzialmente  distinte  da  quelle, riunite,  degli  elementi  fuori  del  tutto,  s' impone  al nostro  spirito;  infine  al  carattere  assiomatico  delle affermazioni  dei  meccanisti — che  la  spiegazione  mec- canica è  la  sola  maniera  possibile  di  comprendere i  fenomeni,  eh'  essa  è  la  sola  che  possa  realizzare tra  questi  l'incatenamento  causale,  che  le  leggi  della meccanica  sono  le  sole  vere  leggi,  perchè  s'impon- gono con  una  necessità  logica  —  si  troverà  verisimile che  delle  considerazioni  a  priori  non  siano  estranee ai  motivi  che  fanno  abbracciare  questa  teoria.  Ben teria^  «crebbe  la  deduzione  effettuata.  Effettuata  questa  deduzione,  si vedrebbe  al  tempo  stesso  che  la  concrezione  meccanica  ò  Intelll^ibite e  che  essa  è  vera  (o  almeno  verisimile,  se  questa  deduzione  si  ottenessa Immaginando  qualche  agente  Ipotetico,  Il  cui  modo  d'azione  però  fos- se conforme  alle  leggi  generali  della  materia  e  del  moto).  Ma  sinché questa  deduzione  non  sarà  effettuata,  o  non  sarà  provato  che  una  ta- le deduzione  è  Impossibile,  noi  n^n  possiamo  sripere,  non  solo  se  la concezione  meccanica  è  vera  o  falsa,  ma  nemmeno  se  ossa  ha  un  sen- so o  è  un  non  senso,  se  è  un'idea  vera,  noi  sen-io  leibuitziano,  o  una Idea  falsa,  cioè  unMmposslbilltà  logici. più,  noi  troviamo  nei  suoi  fautori  delle  affermazioni più  esplicite  e  precise.  «  Se  nei  corpi  viventi,  dice Preyr,  la  materia  possedesse  altre  forze  fìsiche  o di  qualsiasi  natura  che  nei  corpi  non  viventi  al- lora gli  elementi  costituenti  la  materia  dovrebbero possedere  ora  tali  forze,  cioè  a  dire  tali  proprietà ora  tali  altre;  perciò  gli  elementi  non  sarebbero più  invariabili  e  immutabili,  essi  non  sarebbero più  delle  sostanze  elementari,  ciò  che  implica  con- traddizione »  (1).  Lo  stesso  presupposto,  cioè  che gli  elementi  devono  essere  invariabili,  e  che  perciò un  composto  non  può  avere  delle  proprietà  che  non siano  la  risultante  di  quelle  dei  suoi  componenti, vediamo  nel  seguente  ragionamento  di  Huxley.  Do- po aver  parlato  delle  proprietà  fìsiche  e  chimiche dell'acqua  e  del  ghiaccio,  tra  le  quali  e  quelle  del- l'idrogeno e  dell'ossigeno  non  esiste  la  più  leggiera rassomiglianza,  egli  continua  :  «  Questi  fenomeni  e (1)  Rev,  scient,  3^  ser.  t.  7.  Le  forze  dei  corpi  viventi. In  verità  Preyer  crede  «  che  airinfuorl  delle  loro  affinità,  qualche» cosa  d'essenzialmente  differente  da  tutte  le  forze  fisiche  e  chimiquali  si  considerano  oggi,  l'eredità,  deve  determinare  il  modo  secondo cui  reagiscono  le  une  sulle  altre  le  combinazioni  chimiche  esistenti nell'uovo,  come  anche  l'ordine  e  la  disposizione  delle  loro  molecole, In  maniera  che  un  embrione  di  un  essere  vivente  che  ra«somlglla,  ai generatori  dell'uovo,  se  ne  sviluppi,  e  che,  anche  con  una  composi- zione degli  uovi  qualitativamente  e  quantitativamente  slmile,  degl'lur dlvidui  differenti' possano  risultarne».  Ma  l'eredità  si  spiega  per  la memoria  Inconsclente  della  materia  vivente,  e  per  mettere  d'accordo questa  spiegazione  coi  fatti  della  fisica  e  della  chimica,  bisogna  attri- buire la  stessa  facoltà  a  tutta  la  materia  (V.cap.  2"  paragr.  9,  in  fine). Io  non  so  se  questa  possa  dirsi  una  spiegazione  fisica  della  vita  :  ad ogni  modo  essa  si  conforma  al  principio  generale  della  spiegazione fisica,  Cloe  che  le  proprietà  del  corpi  viventi  non  differiscono  essen- zialmente dalle  proprietà  della  materia  in  generale. /  -* cxxx molti  »ltri  cosi    curiosi   costituiscono   ciò   che   noi «hiamiamo  le  proprietà  dell'  acqua,  e  noi  non  esi- iiamo  a  credere  che,  d'  una    maniera  o  d'  un'altra, queste  proprietà  risultano  da    quelle    dei  suoi  ele- menti componenti.  Noi  non    supponiamo  una  forza misteriosa,  chiamata  acquosità,   che  entra  in  scena e  prende  possesso  delFossido  d'idrogeno  tosto  ch'esso è  formato,  e  guida  in  seguito  le  particole    acquose verso  i  posti    eh'  esse    devono    occupare   sulle  fac- cette del  cristallo  o  nel  mezzo  delle  foglioline  della trina.    Noi   viviamo  al   contrario   colla   speranza  e la   confidenza    (^he  un   giorno,   grazie   ai   progressi della   fisica  molecolare,    noi    potremo   passare   dai costituenti    dell'  acqua    alle    preprietà    deir  acqua stessa,  cosi  facilmente    che  oggi  possiamo  dedurre il  movimento  di  un  orologio  dalla  forma  delle  sue parti  e  dalla  maniera  in  cui  esse  sono  disposte  (1). Vi  ha  altra  cosa  allorché  dell'acido  carbonico,  l' acqua  e  dell'  ammoniaca    dispariscono,    e  al  loro posto  nasce,  sotto  l'influenza  del  protoplasma  già  esi- stente,  un  peso  equivalente  di  materia  vivente?  »  (2). Ciò  che  dobbiamo  pure  notare  nelle  parole  citate  di (1>  La  confidenza  di  Huxley  non  è  divisa  dal  due   più   eminenti logici  suol  connazionali.  Nell'azione  chimica,  dice  Baln.  non  si  può predire  U  carattere    del    composto   dal    caratteri    degli  elementi   La tjomposlzlone  delie  chiuse  è  la  legge,  considerando  la  causa  come  un patere  motore,  una  forza:  ma  nelle  azioni  chimiche  non  si  tratta  di una  composizione  di  forze,  ma  di  sostanze   (Logica  l.  3"  e.  4"  20-21; E  Stuart.  Mlll  :  È  Impossibile  di  dedurre  tutte   le   verità   della  chi- mica e  della  fisiologia  dalle  leggi  o  proprietà  delle  sostanze  semplici o  agenti  elementari  {Logica  t.  1"  l*br.  3"  e.  6"  §  2").  E  Interessante  di ttotare  di  l'attitudine  del  rappresentanti  della  filosofia  dell'enperlenza verso  la  teoria  meccanica  come  conoezion©  generale  della  natura. (2)  La  base  fisica  della  vita,  nella  Rev.  seient,  ser.  1*  t.  6".Huxley  è  Talternativa  che  esse  propongono  tra  Tipo- tesi  AaW  acquosi  fa  e  quella  che  le  proprietà  dell'acqua sono  deducibili  dalle  proprietà  dei  suoi  componenti, cioè,  facendo  Tapplicazione  della    similitudine,  tra l'ipotesi  della  forsa  vitale  e  quella  che  le  proprietà degli  esseri  viventi  sono  deducibili  dalle  proprietà degli  elementi  materiali.  Abbiamo  osservato  che  le ipotesi  contrarie  dello  spiritualista  e  del  materialista, per  rendere  conto  dell'origine  della  coscienza,  par- tono egualmente  dallo  stesso  principio,  cioè  che  le cose  non  poscono  cangiare  nella  loro  natura  :  di  là lo  spiritualista  concludo  che  la  coscienza,  non  tro- mbandosi negli  elementi  materiali,    deve  essere  ap- portata (la  un'  altro    principio    distinto  da  questi  e di  cui  essa  sia  la  proprietà  immutabile;  il  materia- lista ne  conclude  invece    che  la  coscienza  che  ap- parisce nel  tutto  non  può  essere  essenzialmente  di- stinta dalle  proprieià  degli  elementi  costitutivi.  Dalle diliicoltà  delle  ipotesi    materialiste    lo   spiritualista argomenta  la  necessità  della  sua  propria  ipotesi,  e viceversa  dalle  difficoltà  dell'ipotesi  spiritualista  il materialista  la  necessità  della  sua.  Così  ora  possiamo osservare  che  Tipotesi  fìsica  o  meccanica  e  l'ipotesi vitalista  sono  l'applicazione  di  un  principio  comune alla  quistione  dell'origine  e  dell'essenza  della  vita, cioè  dello  stesso  principio  che  la  natura  delle  cose non  può  cangiare.  Dall'osservazione  che  i  fenomeni dell'essere  vivente  sono  essenzialmente  distinti  dai fenomeni  degli  elementi  materiali  che  l'hanno  co- stituito,    il  vitalista    conclude,    in    virtù  di  questo principio  ammesso  come  evidente  per  sé  stesso,  che la  vita  è  apportata  da   un'altro    elemento  distinto dagli  elementi  materiali  che  viene  ad  aggiungersi al  composto  (diciamo  :  un  elemento  distinto  dagli elementi  materiali,  quantunque  il  principio  vitale sia  stato  spesso  concepito  come  una  specie  di  fluido^ p.  es.  la  matiera  ritae  diffusa  di  Hunter,  di  cui  un autore  quasi  contemporaneo  ha  potuto  dire  che  in Inghilterra  essa  è  una  parte  della  reìigio  medici  (1). ma  è  evidente  che  in  questo  caso,  come  in  quello dell'animismo  primitivo,  a  una  sostanza  materiale particolare  si  attribuiscono  delle  proprietà  essen- zialmente differenti  da  quelle  della  materia  comune). Dairosservazione  che  i  corpi  che  manifestano  i  fe- nomeni della  vita  non  sono  che  aggregati  degli  ele- menti della  materia  bruta,  e  finiscono  per  risolversi in  questa  materia  bruta,  il  meccanista  conclude  in- vece, in  virtù  dello  stesso  principio,  che  le  proprietà degli  esseri  viventi  non  possono  differire  essenzial- mente dalle  proprietà  della  materia  bruta.  Dall'as- surdità di  un  principio  vitale  sostantificato  si  ar- gomenta da  una  parte  la  necessità  della  spiega- zione fisico  -  chimica  o  meccanica  della  vita,  come pall'altra  parte  dall'impossibilità  di  questa  spiega- zione, che  distrugge  la  differenza  essenziale  tra  la materia  vivente  e  la  materia  morta,  si  argomenta la  necessità  di  una  sostanza  speciale,  che  si  associ agli  elementi  materiali,  e  aggiunga  ad  essi,  finché dura  1'  ossociazione,  le  nuove  proprietà  della  vita. Dall'una  e  dall'altra  parte  la  terza  ipotesi  che  rompe la  pretesa  necessità  dell'alternativa,  ipotesi  che  non (1)  Bence  Jones  V.  Materia  e  forza  In  Rei\  scirnf.   ser  l"  anno pag.  62  e  98. suppone  niente  ma  si  limita  a  costatare  il  fatto, <;ioè  che  la  stessa  materia  in  condizioni  differenti possiede  delle  proprietà  essenzialmente  differenti^ viene  respinta  a  priori:  ciò  che  è  perfettamente  na- turale, perchè  essa  è  contraria  alla  tendenza  spon- tanea del  nostro  spirito  a  ricondurre  il  meno  fa- miliare al  più  familiare,  e  per  conseguenza  a  spie- gare i  fatti  per  la  supposizione  che  il  reale  persiste nelle  stesse  proprietà,  questa  persistenza  essendd per  noi  un  fenomeno  assai  più  familiare  che  il cangiamento  delle  proprietà  (1). (1)  Evidentemente  ciò  che  abbiamo  detto  In  questo  paragrafo  e nel  precedente,  non  si  applica  soltanto  alla  concezione  ìiieccanica  del mondo,  ma  a  tutte  le  forme  della  coacezlone  flslco-chiinica.  Noi  non ci  siamo  limitati  a  pnrlare  della  prima  che  perchè  ne  è  la  forma  più <»omunemente  ammessa,  e  quella  che  sembra  la  conseguenza  più  na- turale del  principio  della  fisica  moderna  che  tutti  1  cangiamenti  del mondo  fisico  si  riducono  ai  movimento  degli  elementi  di  una  materia che  noa  ha  altre  qualità  che  l'estensione  e  l'Impenetrabilità:  ma  è  e- vidente  che  la  identificazione  del  fenomeni  della  materia  vivente  e cosciente  a  quelli  della  materia  bruta  è  una  conseguenza  del  concetto generale  che  riduce  tutti  1  fenomeni  a  quelli  fisico-chimici,  e  non della  forma  particolare  di  questo  concetto  che  riduce  inoltre  tutti  1 fenomeni  fisico-chimici  a  quelli  meccanici.  Questo  elemento  specifico, differenziale,  della  concezione  meccanica  (la  riduzione  di  tutti  1  fe- nomeni fisico-chimici  al  fenomeni  meccanici)  non  ha  avuto  nel  testo alcuna  spiegazione.  E  In  effetto  esso  non  potrebbe  riguardarsi  come una  semplice  applicazione  del  principio  che  noi  abbiamo  formulato con  le  parole  tiichil  oritar^  nichil  interit.  Così,  se  vogliamo  spiegare anch'esso  per  questo  processo  d'inferenza  incosciente  da  cui  derivano 1  concetti  metafisici,  e  quelli  in  generale  che  si  ammettono  d'una  ma- niera assiomatica  ma  che  1'  osservazione  non  potrebbe  giustificare, noi  dobbiamo  cercarne  l'origine  pire  in  uni  suggestione  deli'  espe- rienza più  familiare,  ma  indipendente  da  quella  a  cui  si  devono  i -concetti  di  cui  parliamo  In  quest'Appendice. É  evidente  che  il  principio  su  cui  è  fondata  la  teoria  che  tutti  I  fe- nomeni del  mondo  fisico,  anche  (luelli  della  chimica,  non  possono  essere -*/    .  x" J. §.  13.  La  metafisica  dei  metafisici — non  quella  che i  fisici  fanno  senza  saperlo,  come  il  borghese  gen- tiluomo faceva  della  prosa  senza  saperlo— ci  mostra altre  applicazioni  del  principio  dell'  immutabilità dell'essenza  delle  cose,  che  unite  alle  precedenti,  ci possono  far  concludere  che  F  influenza  di  questo principio,  nella  storia  del  pensiero  umano,  non  è stata  quasi  meno  universale  che  quella  del  principio di  causalità  efficiente.  Noi  indicheremo,  d' una  ma- niera generale,  i  seguenti  gruppi  di  sistemi: 1.  I  sistemi  di  atomisìno  metafisico^  in  cui  agli  ato- mi, cioè  masse  indivisibili  ma  estese,  dei  fisici,  co- ^~ che  l'effetto  delle  leg-gl  della  meccanica,  (almeno  quando  non  si  sup- pone che  II  movimento  deve  spiegarsi    unicamente  per  1*  impulsione) è  che  tutta  la  materia,  al  fondo,  deve  avere  un'essenza  e  delle  pro- prietìi    identiche.  É  facile  di   vedere  in  quesio  pr/nr^lplo  una   sugge- stione delle  esperienze  più  fauiillarl,  se  si  tien  conto  di  questo  fatto, die  la  scienza  moderna,   negando  1' obbiettività  delle  qualità  sensi- bili (le  secondarle),  e  componendo    tutti  I  corpi    di  elementi  di    una solidità  e  di  una  durezza  assolute,  sopprime,  in  definitiva,,  ogni  ca- rattere  differenziale  tra  materia  e   materia.  Un  elemento   materiale n^n  potrebbe  differire  da  un  altro  che  per  la  grandezza  e  la  figura. Noi  possiamo  supporre,  è  vero,  che  essi  slan^  dotati  di  energie  par- ticolari, che  l'nno  abbia  un  modo  d'agire  e  di   patire  x?he  gli  ò  asso- lutamente proprio  e  pe/  cui  si  distingue  essdnzialmente  dall'altro— ed è  in  ciò  che  dovrebbe  consisterà  la  differenza  frn  gli  elementi  chimici, supponendo  che  e^sa  sia  primordiale  e  irrlduttlbile— .  Ma  ciò  che  ap. punto  è  conti'ario  alla  suggestione  delle  nostre  esperienze  più  familiari, è  che  dei  frammenti  di  una  materia  qualitativamente  omogenea  —  sol potremmo  dire:  della  stessa  materia— 1  quali  non  differiscono  che  per la  grandezza  e  la  figura  in  cui,  per  dir  così,  sono  stati  tagliati,  pos- sano avere  dei  modi  di  agire  e  di  patire  radicalmente  differenti. Noi abbiamo  osservato  tante  volte  che  le  diverse    porzioni  di  una  stessa specie  di  stoffa  o  di  legno  o  d'un'altra  materia  qualsiasi,  se  differiscono per  la  grandezza  e  per  la  figura,  non  hanno  perciò  una  natura  e  delle proprietà  differenti,  salvo  ((uelle  proprietà  che  sono  una  conseguenza della   figura  e  della  gi'andezza  stesse.   Se  noi  chiamiamo  staticìie  lo- me  unità  costanti  o  elementi  del  reale,  vengono  so-* stituiti  degli  esseri  semplici  o  inestesi— monadi,  sia nel  senso  panpsichista  sia  nel  senso  dinamista,  forze o  centri  di  forze,  atomi  semplici  o  punti  materiali,, ecc.   i  cangiamenti  del  mondo  fenomenale  essendo spiegati,  come  nell'atomismo,  pei  cangiamenti  dei  rap- porti tra  le  unità  elementari.  I  sistemi  di  atomismo metafìsico  non  sono  al  fondo  che  delle  forme  tra- scendenti della  concezione  meccanica,  tutti  i  can- giamenti del  mondo  materiale  essendo  ridotti,  in questi  sistemi,  al  cangiamento  nelle  relazioni  di spazio,  sia  che  in  queste  relazioni  si  veda  un  at- tributo reale  degli  esseri  semplici — ciò  che  è  certa- mente una  contraddizione  nei  termini,  poiché  un  es- sere semplice,  cioè  inesteso,  non  occupando  uno spazio,  non  potrebbe  essere  nello  spazio  —  sia  che non  si  veda  in  esse  che  delle  manifestazioni  feno- menali d'un  ordine  reale  «intelligibile».  In  questo gruppo  è  a  segnalare  il  sottogruppo  dei  sistemi  pan» psichisti,  nei  quali,  col  dualismo  dello  spirito  e  della materia,  viene  soppresso  il  più  profondo  dei  cangia- proprlelà  per  cui  sogliamo  distinguere  le  diverse  sostanze  secondo  11 giudizio  immediato  dei  sensi,  e  dinamiche  quelle  che  esse  manifestano. In  circostanze  determinate,  noi  possiamo  formulare  li  risultato  delle nostre  esperienze  più  familiari  cosi;  delle  sostanze  identiche  nelle loro  proprietà  statiche  non  possono  differire  nelle  proprietà  dinamiche (tranne  in  qnelle  che  non  potrebbero  riguardarsi  come  caratteri  dif- ferenziali nelle  sostanze,  quali  sono  quelle  che  sono  uni  conseguenza della  grandezza,  della  figura,  della  posizione  ecc.  )  Il  concetto  fonda- mentale della  spiegazione  meccanica,  per  cui  essa  si  distingue  dalla semplice  spiegazione  fisico-chimica,  cioè  l'identità  essenziale  di  tutta la  materia,  sarebbe  l'estensione  di  questa  conclusione  agli  elementi della  materia,  dato  il  concetto  moderno  della  materia,  che  sopprime; tra  le  sostanze,  miteriali  ogni  differenza  nelle  (lualltà  statiche.  i menti  della  natura,  e  perciò  la  più  evidente  con- traddizione che  il  principio  che  l'essere  non  può venire  dal  non  essere  incontra  neiresperienza. 2.  I  sistemi  monisti  che  risolvono  tutte  le  cose  in una  sostanza  unica,  sempre  identica  a  se  stessa,  sia che  di  questa  sostanza  facciano  un  che  di  spiri- tuale, come  Dio,  r  Idea  (Hegel),  la  Volontà  (Scho- penauer),  Flncosciente  in  cui  sono  associate  la  vo- lontà e  Tidea  (Hartmann),  ecc.;  sia  che  ne  faccia-io un  che  di  differente  dallo  spirito  e  dalla  materia (vale  a  dire  da  tutto  ciò  che  conosciamo),  come  la Forza  inconoscibile  di  Spencer,  ehe  egli  si  rap- presenta come  qualche  cosa  di  cui  le  forme  can- giano, mentre  la  sostanza  resta  sempre  la  stessa  (1). Come  si  vede,  noi  impieghiamo  qui  il  termine monismo  in  un  senso  più  stretto  di  quello  che  esso ha  il  più  abitualmente  nel  linguaggio  filosofico  con- temporaneo,  secondo  il  quale  indica  tutti  quei  si- stemi che  non  ammettono  la  dualità  dello  spirito e  della  materia.  In  questo  senso  il  monismo  equi- vale il  più  spesso  sia  alFilozoismo  sia  alla  dottrina deir  identità  del  fisico  e  del  mentale  :  noi  abbiamo già  parlato  di  queste  applicazioni  del  principio  del- l'immutabilità. (1)  «  La  scienza  obbiettiva  non  può  spiegare  ciò  che  noi  chiamiamo il  mondo  esteriore  senza  riguardare  i  suoi  cangiamenti  di  forma «ome  delle  manifestazioni  di  qualche  cosa  che  rimane  costante  sotto tutte  le  forme  »  Primi  principii  paragr.  191.  Qui  Spencer  non  parla che  dei  cangiamenti  del  mondo  esteriore:  in  quanto  ai  cangiamenti del  mondo  interiore,  noi  abbiamo  visto  che  questi  si  distinguono fenomenalmente  da  quelli  del  mondo  esteriore,  ma  realmente  sono identici  con  essi  (cioè  con  quella  parte  di  essi  che  costituiscono  le condizioni  fisiche  dei  fenomeni  psichici)* 3.  Il  Realismo^  che  risolve  le  cose  in  un  sistema di  concetti  realizzati,  cioè  di  entità  astratte  e  ge- nerali (Platone,  Spinoza,  Schelling,  Hegel,  Taine, ecc.)  Queste  entità  astratte  e  generali  essendo  ciò che  vi  ha  di  permanente  e  d'immutabile  nella  na- tura— le  leggi  eterne  e  le  forme  eterne  degli  es- seri— e  il  cangiante,  il  particolare,  essendo  riguar- dato come  Vapparenm  obbiettiva  di  quest'Essere  im- mutabile, la  conseguenza  del  Realismo  è  che  l'es- sere non  nasce  né  perisce  e  che  non  vi  ha  nel  reale alcun  cangiamento  (1). 4.  Il  Criticismo.  Vi  ha,  secondo  questo  sistema, nella  varietà  delle  nostre  conoscenze,  un  elemento invariabile  :  è  la  forma  stessa  della  nostra  cono- scenza, che,  nella  sua  applicazione  agli  oggetti  co- nosciuti^ si  manifesta  come  legge  generale  del  mondo dei  fenomeni.  Quest'elemento  invariabile  della  no- stra conoscenza,  che  è  ciò  che  vi  ha  di  permanente nella  scena  perpetuamente  cangiante  delle  appari- zioni, è  la  forma  inerente  al  soggetto  stesso  cono- scente, la  funzione  invariabile  per  cui  egli  coor- dina la  varietà  delle  impressioni  sensibili.  È  evi- dente che,  secondo  il  criticismo,  se  la  forma  della nostra  conoscenza  fosse  variabile,  se  le  funzioni  e la  natura  del  soggetto  conoscente  cangiassero,  For- dine  della  natura  conosciuta  sarebbe  alterato,  non vi  sarebbe  più  in  essa  un  corso  uniforme.  Così  a questa  quistione  :  perchè  vi  ha  un  ordine  uniforme o  delle  leggi  costanti  nei  fenomeni  ?  il  criticismo risponde  :  perchè  la  forma  di  cui  il  soggetto  conoscente  impronta  gli  oggetti  conosciuti  è  sempre  la stessa,  perchè  la  natura  di  questo  soggetto  cono- scente è  costante.  Facendo  questa  risposta,  il  cri- ticismo applica  —  non  in  verità  il  principio  che l' essenza  delle  cose  è  immutabile  —  ma  un  altro principio  più  fondamentale  di  cui  questo  è  la  con- seguenza, cioè  che  la  persistenza  degli  oggetti  nella stessa  essenza  o  nelle  stesse  proprietà  è  una  cosa naturale  e  che  si  comprende  da  sé  stessa,  e  che quindi  può  servire  di  base  alla  spiegazione  dei  fe- nomeni. Spiegando  l'ordine  uniforme  o  le  leggi  co- stanti dei  fenomeni  per  la  invariabilità  della  for- ma della  conoscenza,  e  quindi  per  la  costanza  della natura  del  soggetto  conoscente,  esso  suppone  infatti che  questa  costanza,  come,  in  generale,  la  persi- stenza di  una  cosa  nella  stessa  natura  e  nelle  stesse proprietà,  è  un  fatto  che  si  comprende  senza  bi- sogno di  spiegazione,  e  che  perciò  può  servire  d'in- termediario esplicativo  del  fatto  che  ha  bisogno  di essere  spiegato,  cioè  1'  esistenza  di  leggi  costanti^ di  un  ordine  uniforme,  nel  mondo  dei  fenomeni,  o delle  apparizioni. A  ciò  che  abbiamo  detto  potrebbe  farsi  un'ob- biezione :  il  principio  che  la  persistenza  delle  coso nelle  stesse  proprietà  è  comprensibile  (mentre  il cangiamento  delle  proprietà  non  lo  è),  non  può  ap- plicarsi alle  cose  se  non  in  quanto  si  concepiscono nel  tempo  (questa  persistenza  non  essendo  che  una permanenza  nel  tempo).  Ma,  nel  criticismo,  il  tempo essendo  una  forma  subbiettiva  della  nostra  cono- scenza, questo  principio  perciò  non  può  applicarsi al  soggetto  conoscente,  considerato  come  soggetto e  non  come  oggetto  della  conoscenza,  cioè  come semplice  apparizione  —  perchè  questo  soggetto,  con- siderato in  sé  stesso,  non  è  sottomesso  alla  condizione del  tempo.  La  stessa  obbiezione  può  farsi  riguardo  al gruppo  antecedente  cioè  ai  sistemi  realisti^  le  Idee  di Platone  e  di  Hegel  e  le  altre  astrazioni  realizzate congeneri  essendo  anch'esse  al  di  fuori  del  tempo. La  risposta  a  quest'obbiezione  è  che  per  la  costi- tuzione stessa  della  nostra  intelligenza,  è  impossi- bile di  formarci,  come  abbiamo  spiegato  nel  Saggio 1*^,  una  rappresentazione  reale  del  sovrasensibile, del  non  fenomenale.  Ne  segue  che,  mentre  il  me- tafìsico parla  di  cose  non  sottoposte  al  tempo  e  alle altre  condizioni  del  sensibile  e  del  fenomeno,  è  sotto queste  condizioni  nondimeno  che  egli  è  costretto in  realtà  a  rappresentarsele.  L'  analogia  dalle  sue rappresentazioni  reali  con  le  esperienze  che  sono le  premesse  della  sua  inferenza  incosciente,  basta a  quest'  assimilazione  che  costituisce  la  base  e  il valore  esplicativo  dei  concetti  metafisici.  La  nostra osservazione  sul  criticismo,  che  esso  spiega  l'uni- formità dell'  ordine  della  natura  per  la  costanza delle  proprietà  del  soggetto  conoscente,  si  applica^ meglio  ancora  che  a  Kant,  ai  sistemi  posteriori  di criticismo,  nei  quali  l'elemento  propriamente  idealista del  Kantismo — cioè  l'attività,  l'efficienza  causale, dell'  intendimento  e  dei  concetti  puri  nella  forma- zione del  mondo  dell'esperienza — è  lasciato  nell'om- bra o  è  anche  sparito,  come  in  Renouvier,  in  Lange e  in  altri  filosofi  (p.  e.  Ferrier)  che  si  riattaccano più  o  meno  da  vicino  a  Kant.  In  questi  sistemi non  resta  del  criticismo  originale  che    la   dottrina. del  doppio  elemento  della  conoscenza,  l'uno  inva- riabile ed  essenziale  al  soggetto  conoscente,  la  for- ma cioè  la  legge,  l'altro  variabile  ed  avventizio;  la materia  cioè  le  sensazioni;  e  questa  dottrina,  de- stinata evidentemente  alla  spiegazione  dei  fenomeni, non  potrebbe  spiegare,  come  il  criticismo  originale, che  perchè  i  fenomeni  non  si  succedono  all'azzardo, ma  vi  ha  in  essi  un  ordine  stabile  ed  uniforme. §  14.  Fra  i  sistemi  a  cui  abbiamo  accennato,  ve ne  ha   alcuno    nel  1*"  gruppo  (atomismo  metafisico) che  merita  un'  attenzione  particolare.  Tale  è  sovra- tutti  quello  di  Herbart.  Non  vi  ha  forse  nella  filo- sofia  moderna  un  altro  sistema  che  porti  così  spie- catamente  l'impronta  del  sofisma  a  priori  che    stu- diamo in  quest'Appendice.  Gli  elementi  ultimi  delle cose  non  sono  per  Herbart  degli    atomi  fisici  —  la materia  della  fìsica  non  essendo  per  lui  che  un'ap- parenza,  un   fenomeno   subiettivo  —  ma  essi  sono calcati  della  maniera  più  evidente  sul  concetto  del- l'atomo   fìsico.   Herbart    chiama    il  suo  sistema    un atomismo  qualitativo,  perchè  le  qualità  semplici  che costituiscono  gli  esseri.  —  i  quali  sono  qualitativa- mente  differenti  e  non  omogenei  come  gli  atomi— vi tengono  il  posto  dei  frammenti  indivisibili  di  ma- teria dell'atomismo.  L'essere  di  Herbart  è  assoluta- mente semplice  :  non  solo  esso  è   senza    estensione ed  indivisibile,  ma  non  vi  ha  in  esso  una  pluralità di  proprietà;  un  reale  non  ha  che  una  qualità,  o, a  parlar  propriamente,  non  è  che  una  qualità  unica e    semplice.   (1)  Le   sostanze  —  qualità   di  Herbart (1)  La  sostanza -vale  a  dire  ciò  che  vi  lia  di  permanente  neUe sono,  come  le  sostanze  materiali  degli  atomisti,  as- solutamente immutabili  :  non  vi  ha  nel  reale  alcun cangiamento  interiore,  in  altri  termini  niente  can- gia negli  elementi  considerati  in  se  stessi;  il  can- giamento, ciò  che  accade,  non  è  che  un  cangiamento nei  rapporti  degli  elementi,  nella  loro  disposizione, o,  come  dicono  gli  horbartiani,  nel  loro  collega^ mento. Quando  il  meccanismo  vuol  ridurre  tutti  i  can- giamenti al  cangiamento  dei  rapporti  nello  spazio, la  più  grave  difficoltà  è  per  esso  di  rendere  conto dei  cangiamenti  interni  che  deve  riconoscere  iu  al- cuni esseri,  cioè  i  fenomeni  psichica:  un  meccani- smo rigoroso  non  indietreggia  innanzi  alla  conse- guenza che  questi  fenomeni  sono  anch'  èssi  movi- mento, per  quanto  questa  proposizione  sia  eviden- temente inintelligibile.  La  stessa  difficoltà  si  presenta nel  sistema  di  Herbart,  ma  d'una  maniera  più  ge- cose— non  è,  nel  concetto  comune,  che  l'esteso,  ciò  che  persiste  nello spazio  :  Herbart  toglie  al  reale  l'estensione,  ma  fa  delle  sue  qualità delle  soHtanze,  vale  a  diro  attribuisce  loro  (juella  permanenza  asso- luta elio  ordinariamente  non  si  attribuisce  che  a  ciò  che  occupa  lo spazio  (e  in  quanto  occupa  lo  spazio).  Una  conseguenza  di  ({uesta trasformazione  di  qualilà  inestese  in  nontanze  è  che  la  coesistenza di  pili  qualità  in  un  essere  é  impossibile.  Una  (lualità,  riguardata come  un  che  di  assolutamente  permanente,  è  già  — supposto  d'al- tronde che  essa  possa  concepirsi  per  se  stessa— una  sostanza:  di  più noi  non  possiamo  concepire  che  una  di  questo  qualità  inerisca  in un'altra  o  tutte  e  due  ineriscano  in  un  soggetto  comune,  poiché  noi non  possiamo  rappresentarci  altrimenti  la  coesistenza  di  più  qua- lità (p.  e.  odore,  sapore,  calore  —  non  sono  le  qualità  di  Herbart, ma  il  sovrasensibile  non  può  modellarsi  che  sul  sensibile)  in  uno stesso  soggetto,  se  non  rappresentandocele  come  inerenti  tutte  egual- mente in  une  stesso  esteao. nerale.  Non  solo  egli  ammette  —  ciò  di  cui  non potrebbe  fare  a  meno  —  degli  stati  interni  nella monade  anima,  ma  tutte  le  monadi,  tutti  i  reali, hanno  secondo  lui  degli  stati  interni,  i  quali  ci  sono sconosciuti  nella  loro  natura,  ma  che,  come  osserva Lotze  (1),  non  bisogna  credere  molto  dissimili  da quelli  dell'anima.  È  da  questi  stati  interni,  da  que- sta attività  interiore  delle  monadi,  che  deriv^ano  i cangiamenti  delle  cose  nello  spazio.  Questo  concetto non  deve  sorprenderei  in  un  sistema  dinamista  quale quello  di  Herbart  :  noi  vediamo  in  esso  un  altro  e- sempio  di  questo  vago  antropomorfismo  che  abbia- mo più  volte  segnalato  in  certi  concetti  metafìsici, e  il  cui  germe  si  trova  già  nell'idea  comune  della forza  (nel  senso  trascendente  di  questo  termine). Supponendo  degli  atti  interni  anche  negli  elementi della  materia,  di  cui  egli  ammette  uon  pertanto  l'as- soluta immutabilità,  Herbart  non  introduce  una contraddizione  nuova  nel  suo  sistema  —  questa  esi- ste dacché  la  coscienza  ci  obbliga  a  riconoscere  in noi  stessi  dei  cangiamenti  interiori  —  ma  non  fa che  generalizzarla.  Herbart  pretende  che  gli  stessi cangiamenti  negli  stati  interni  delle  monadi  non sono  che  semplici  cangiamenti  nei  rapporti  fra  di esse,  nel  loro  collegamento,  come  il  meccanista  con- seguente pretende  che  la  sensazione  e  il  pensiero non  sono  che  movimenti  degli  atomi. La  conseguenza  rigorosa  del  principio  di  Herbart che  non  vi  ha,  nell'essere  reale  considerato    in  se (1)  PsicoL  fisioh  trad.  frane,  stesso,  alcun  cangiamento  possibile,  sarebbe  di  non accordare  al  cangiamento,  almeno  al  cangiamento interno,  che  un  valore  puramente  fenomenale^  di non  vedervi,  come  gli  Eleati,  che  una  semplice appai*enza  —  della  stessa  maniera  che  il  principio del  meccanismo  che  ogni  cangiamento,  e  quindi anche  il  pensiero,  si  riduce  al  movimento  di  elementi immutabili  in  se  stessi,  condurrebbe  a  nen  vedere  nel pensiero  che  un'apparenza  illusoria  del  movimento. È  cosi  che  talvotta  è  stata  interpretata  la  dottrina  di Herbart  (1);  ma  tale  non  è  veramente  il  suo  pensiero. Egli  non  nega  che  i  cangiamenti  interni  siano  reaU., ma  afferma  al  tempo  stesso  —  ciò  che  contraddice  a questa  proposizione  —  che  tutti  i  cangiamenti  si  ri- ducono a  quello  della  relazione  tra  gli  esseri.  Una cosa,  egli  dice,  può  cangiare,  per  la  sua  relazione con  altre  cose^  senza  cangiare  in  se  stessa  :  così  una stessa  nota  musicale  può  essere  giusta  o  falsa,  se- condo i  rapporti  in  cui  si  trova  con  altre  note  ;  una stessa  retta  ò  una  tangente  relativamente  ad  un  cer- chio, e  diviene  una  secante  relativamente  ad  un  altro cerchio. A  questo  concetto  inintelligibile,  che  gli  stati  in terni  delle  cose  non  esistono  assolutamente,  ma  non sono  che  semplici  relazioni  fra  queste  cose,  si  riat- tacca pure  la  dottrina  delle  perturbazioni  e  degli  atti di  conservazione  di  se,  per  cui  Herbart  pretende  di  ri' sotvere  il  problema  della  possibilità  del  cangiamen- to. Gli  stati  interni  delle  monadi,  come  le  rappre- (1)  V.  Dwf.  liloè.  di  A.  Frank,  arfcic.   Herbart. sentazioni  deiranima,  sono  degli  atti  di  conserva- zione di  se    di  questi  monadi,  per  cui    esse   reagi- scono contro  le  pertubazioni  prodotte  da  altre  mo- nadi. Quando  due  monadi,  aventi  qualità  contrarie, s'incontrano  a  uno  stesso  punto,  nasce  fra  di  loro un'opposizione,  una   lotta,  essendo   impossibile    la coesistenza  di  qualità   contrarie:  ciascuna   monade resiste    all'invasione   dell'altra,   fa  uno  sforzo   per conservarsi   quale   essa   è,  cioè   nella   sua   propria qualità.  Questa  mutua  opposizione  importa  in  cia- scuna delle  due  monadi  una  passione  —  è  la  pertur- bazione —  e  un'azione  —  è    Fatto   di   conservazione di  se.  —  La    periiurbazione  può   paragonarsi  a   una pressione,  la  conservazione  di  sé  a  una  resistenza. Pressandosi  o  turbandosi  reciprocamente,  ciascuna delle   due    monadi   eccita  l' altra  alla  resistenza,   a uno  sforzo  di  conservazioiie  di  se:  ma   le   due  so- stanze, con  tutto  ciò,  non  provano  alcun  mutamento; come,  pressando  l'uno  contro  Taltro  due  atomi,  cia- scuno si  opporrebbe  alFinvasione  dell'altro,   mani- festando la  sua  forza  di  resistenza,  ciò  che  sarebbe uno   sforzo   contro   lo   sforzo  contrario    tendente   a comprimerlo,  ma  senza  che  perciò  i  due  atomi  ces- sassero  un  istante   di   restare  nel  loro    stato  inva- riabile. Come  dal  rapporto  particolare  in  cui  gli  a- tomi   sono  posti,  nasce  questo  sforzo  di   resistenza di  ciascun  atomo,  che    è  un  avvenimento    ma    che non    importa    alcun   cangiamento    reale   nell'atomo stesso,  non  essendovi  stato  in  realtà  altro    cangia- mento che  nella  posizione  reciproca  dei  due  atomi, cioè  in  una  loro  relazione;  così  dal  rapporto  partico- lare in  cui  le  monadisono  poste,  nasce  l'atto  di  conser- vazione  di  sé  di  ciascuna  monade,  che  è  un  avveni- mento ma  che  non  importa  alcun  cangiamento  reale nella  monade  stessa,  non  essendovi  stato  in  realtà altro  cangiamento  che  nelle  relazioni,  nel  collega- mento, delle  monadi. Ciò  che  vi  ha  di  particolare  nel  sistema  di  Her— bart,  ciò  che  mette  questo  sistema  in  contrasto  con la  concezione  meccanica,  e  che  diffonde  su  di  essa un'oscurità  a  cui  non  è  comparabile  quella  che  può trovarsi  in  alcuni  punti  della  concezione  meccanica,, è  l'unione  di  questi  due  punti  di  vista  incompati-^ bili,  quello  dell'  assolufa  immutabilità  della  so- stanza e  quello  della  sua  attività  interiore,  in  altri termini,  di  un  concetto  dinamico  e  di  un  concetto meccanico  che  riduce  tutti  i  cangiamenti  del  reale ài  cangiamento  nelle  relazioni  tra  le  unità  costitu- tive. La  stessa  unione  di  questi  due  concetti  si trova  nel  sistema  del  filosofo  siciliano  prof.  Corleo, che  fu  senza  dubbio  un  pensatore  distinto,  e  merita anch'egli  di  essere  ricordato.  Il  concetto  fondamen- tale del  prof.  Corleo  è  ciò  che  egli  chiama  la  «  ret- tificazione dell'idea  di  sostanza  ».  Bisogna  rigettare l'idea  conmune  che  vede  nella  sostanza  qualche «cosa  di  uno  e  al  tempo  stesso  di  multiplo  :  la  so- stanza reale  non  è  il  soggetto  d' inerenza  di  una pluralità  di  fenomeni  (accidenti),  non  è  qualche  cosa che  ha  la  potenza  di  fare  successivamente  degli  attii differenti,  di  ricevere  successivamente  delle  modi- ficazioni diverse.  Una  sostanza  semplice  non  rac- chiude alcuna  potenza  :  la  sostanza  non  è  che  atto,, sempre  lo  stesso  atto,  un  atto  identico  ed  invariabile; La  rettificazione   dell'  idea  della   sostanza  consiste dunque  nel  togliere  alle  sostanze  reali,  agli  ele- menti ultimi  delle  cose,  qualsiasi  mutamento,  qual- siasi successione  di  stati,  qualsiasi  moltiplicità. Ma  la  sostanza,  quantunque  immutabile  come  Fa- tomo,  non  bisogna  perciò  concepirla  come  1'  atomo dei  fisici.  Prima  di  tutto  la  sostanza  è  assolutamente indivisibile,  senza  parti,  senza  estensione  (la  divisi- bilità all'infinito  della  materia  essendo  un'idea  con- traddittoria) :  inoltre  essa  differisce  ancora  dall'ato- mo, quale  lo  concepiscono  i  fisici,  perchè  mentre  que- sto è  un  che  di  passivo  e  d'inerte,  il  cui  attribuito non  è  che  la  sua  proprietà  di  occupare  uno  spazio, le  la  cui  realtà  non  è  che  la  sua  presenza  nello  spazio; al  contrario  la  sostanza  reale  è  essenzialmente  at- tiva,  l'attività  essendo  1'  essenza  stessa  dell'  essere reale.  A  parlar  propriamente,  non  vi  hanno  due cose,  la  s(>stam'<a  e  la  sua  azione  :  1'  azione  non  si distingue  dalla  sostanza,  sostanza  ed  azione  sono due  termini  equipollenti;  l'essere  reale  è  un^uzione sostantiva  o  una  sosfan^a^a^ione.  Ij'' azione  non  biso- gna concepirla  come  una  modificazione  della  so- stanza —  non  vi  hanno  modificazioni  nella  sostanza —,  come  una  seccessione  di  stati  ;  ma  come  lo Btato  immanente,  sempre  lo  stesso,  della  sostanza. La  contraddizione  tra  il  concetto  dinamico,  e  il  con- cetto/«^C6*««/if;o  dell'assoluta  immutabilità  dell'essere — che  nel  sistema  di  Herbart  si  manifesta  come  con- traddizione tra  il  concetto  di  un  essere  senz' alcun cangiamento  interiore  e  quello  di  una  moltiplicità di  stati  di  cui  quest'essere  è  successivamente  il  sog- getto —  qui  prende  un'altra  forma  :  l'azione,  che  noi non   possiamo    rappresentarci    altrimenti  che  come un  cangiamento,  una  successione,  è  concepita  come uno  stato  permanente,  immutabile.  L'idea  della  sem- plicità assoluta  della  sostanza  (assenza  di  ogni  mol- tiplicità interiore),  che  Corleo  ha  in  comune  con Herbart,  deriva,  per  il  primo,  come  per  il  secondo, dai  due  concetti  riuniti  dell'  assoluta  immutabilità della  sostanza — che  esclude  il  moltiplice  come  suc- cessivo —  e  della  sua  inestensione  e  indivisibilità  — €he  lo  esclude  come  coesistente — . La  sostanza  essendo  assolutamente  invariabile, come  si  deve  comprendere  dunque  1'  esistenza  del fenomeno,  cioè  del  variabile,  nella  natura  ?  È  la concezione  meccanica  naturalmente  che  offre  il  tipo su  cui  il  Corleo  modella  la  spiegazione  del  cangia- mento. Ogni  cangiamento  non  è  ('he  un  cangiamento nelle  relazioni,  nella  posizione  reciproca  degli  ele- mcmti,  ciascuno  di  questi  in  se  stesso  restando  inva- riabile. Non  bisogna  credere  che  gli  elementi  per  il loro  concorso  possano  mai  produrre  qualche  fenome- no nuovo,  che  sia  qualche  cosa  di  più  o  di  diverso che  la  somma  delle  proprietà  degli  elementi  stessi: il  rapporto  tra  il  fenomeno,  A^ale  a  dire  ciò  che  esi- ste d'una  maniera  transitoria,  e  la  sostanza,  vale  a dire  ciò  che  esiste  d'una  maniera  permanente,  è  il rapporto  tra  il  composto  e  il  semplice,  tra  ìlpiìi  e  Vano, La  sostanza  è  un'azione  semplice,  un'azione  sostanti- va; il  fenomeno  è  un'azione  composta,  un  insieme  di azioni  sostantivo  o  di  sostanze  —  azioni.  «  È  la  com- posizione che  muta  e  passa,  non  i  singoli  atti  so- stantivi che  sono  sempre  gli  stessi  ».  Ciò  si  applica al  pensiero  :  esso  non  è  una  serie  di  modificazioni di  una   sola   sostanza  —  ciò  che  sarebbe  incompatibile,  con  l'immutabilità  della  sostanza  —  ma  è  una azione  composta  di  quest'azione  sostantiva  che  noi chiamiamo  anima,  e  delle  azioni  sostantive  che  noi chiamiamo  elementi  materiali;  esso  cangia  e  si  muta, perchè  il  composto  cangia  e  si  muta^  per  l'addizione^ sottrazione,  o  trasposizione  degli  elementi. La  sostanza,  lo  sappiamo,  non  è  per  Corico  come un  atomo,   inattivo  in  se  stesso,   e  che  può,  sotto l'azione  di  forze  a  lui  straniere,    manifestare  suc- cessivamente forme  differenti  di  attività  :  al  contra- rio, la  sostanza  è  per  essenza  attiva,  e  quest'attività è  immutabile,  costituendo  l'essenza  stessa  della  so- stanza. Ne  segue  che  il  contingente,  per  dir  così,  di a»ione,  che  esiste  nel  mondo,  è  quantitativamente e  qualitativamente   invariabile  :    le   azioni  possono comporsi,  decomporsi,  ricomporsi  in  aggregati  dif- ferenti,   ma  ciascuna  delle  azioni  elementari,  così bene  che  il  loro  totale  esistente  nel  mondo,  restano sempre  invariabili.  La  natura,  considerata  nei  suoi stati  successivi,  è  sempre,  al  fondo,  identica;  non soltanto  identica  come  il  mondo  degli  atomisti,  com- posto sempre  degli  stessi  atomi,  ma  identica  ancora in  quanto  le  azioni  elementari,  e  quindi  anche  le azioni  composte,  cioè  i  fenomeni,  dello  stato  ante- cedente, sono  sempre  identiche,  al  fondo,  a  quelle dello  stato  susseguente.  In  altri  termini,  vi  ha  iden- tità tra  i  fenomeni  antecedenti  e  i  fenomeni  conse- guenti, tra  le  cause  e  gli  effetti:  l'effetto,  il  conse- guente,   non  è  che  la  somma  delle  sue  cause,  dei suoi  antecedenti,  ed  è  identico  con  esse.  Se  la  causa e  r  effetto   ci   sembrano  due  cose  differenti,   è  che noi,  per  una  sorta  di  sezione  arbitraria,  stacchiamo- dall'  insieme  una  delle  condizioni  del  fenomeno,  e la  consideriamo  come  causa  del  fenomeno,  senza tener  conto  delle  altre  concause  che  con  essa  con- tribuiscono al  risultato  :  ma  «  se  tutte  le  cercassimo e  le  ponessimo  sott'occhio,  l'identità  dell'effetto  to- tale con  tutte  le  concause  che  lo  producono  e  lo .fanno  essere  quel  che  è,  risulterebbe  evidente- mente ». Vi  ha  tra  il  sistema  del  Corleo  e  quello  di  Herbart una  somiglianza  si  colpente,  che  si  è  creduto  di  vedere nel  primo  un  plagiario  del  secondo:  la  supposi- zione di  un  legame  tradizionale,  per  ispiegare  i  punti di  contatto  tra  i  sistemi,  s'impone,  quando  si  vede nei  concetti  metafisici  qualche  cosa  di  fortuito  e  di arbitrario.  Ma  noi  sappiamo  che  la  metafisica  è  un tatto  naturale  dell'intelligenza  umana,  e  che  il  me- tafisico, anche  nei  suoi  concetti  i  più  apparentementi lontani  dal  pensare  comune,  non  fa  che  sviluppare certi  germi  che  tutti  gli  spiriti  naturalmente  porta- no in  se  stessi.  I  tratti  comuni  tra  Heybart  e  il prof.  Corleo  si  spiegano,  io  credo,  sufficientemente, senza  bisogno  di  supporre  che  questi  li  abbia  im- prestati da  quello.  La  dottrina  della  semplicità  as- soluta della  sostanza  risulta,  come  abbiamo  notato, dai  concetti  della  sua  immutabilità  e  della  sua  ine- stensione e  indivisibilità:  questi  costituiscono  il  ca- rattere comune  dell'atomismo  metafisico  —  che,  come vedremo  nella  2^  parte,  è  una  delle  forme  naturali che  prende  il  realismo  nella  sua  inevitabile  evolu- z  ione — ;  quello  è,  come  abbiamo  visto,  un  prodotto  di questa  tendenza  naturale  del  nostro  spirito  —  che costituisce  la  base  ultima  della  metafisica — a  ricon- ta CL durre  tutti  ì  fenomeni  a  quelli  che  ci  sono  i  più familiari.  Questa  tendenza  spiega,  nel  tempo  stesso che  il  concetto  dell'immutabilità  della  sostanza,  quello di  ridurje  il  fenomeno,  il  variabile,  al  cangiamento dei  rapporti  tra  le  sostanze  :  il  tipo  per  questi  concetti era  per  altro  esibito  dalla  teoria  meccanica. §  15.  La  dottrina  dell'identità  della  causa  dell'ef- fetto—che noi  abbiamo  già  incontrato  nel  prof.  Cor- leo  —  ci  fornirà  l'ultimo  esempio  del  sofisma  a  priori, che  studiamo  in  quest'appendice,    applicato  a  una concezione  generale  dei  fenomeni.  Questa   dottrina non  bisogna  confonderla  né  col  principio  di  alcuni filosofi  greci,  che  il  simile  non    può  agire  che    sul simile,  né  con  l'altro,  più  analogo,  che  la  causa  dove essere  simile  all'effetto.  Questi  due    principii    sono delle  generalizzazioni  eccessive  dell'esperienza,  assai comprensibili  in  uno  stadio  primitivo  della  ricerca scientifica;  ma  non  potrebbero  riguardarsi  come  con- cezioni metafisiche,  se  si  vuol  dare  a  questa  parola,  un  senso  definito.  Mancano  ad  essi  l'uno  e  l'altro  dei tratti  generali  che  caratterizzano  le  concezioni  me- tafìsiche ;  essi  non  sono,  come  la  dottrina  stessa  del- l'identità della  causa  e  dell'effetto,  delle  nozioni  ir- rappresentabili o  implicanti  delle  impossibilità  in- trinseche;  e,  quel   ch'é  più,  non   sono  nemmeno  il prodotto  di  alcuna  di  queste  tendenze  spontanee,  e quasi  fatali,  dello  spirito  umano,  che  noi  chiamiamo con  Mill  sofismi  a  priori.  Al  contrario,  la  dottrina  del- l'identità della  causa  e  dell'  effetto  si  riattacca  della maniera  più  evidente  a  queste  tendenze  spontanee dello  spirito  -  di  cui  la  principale  é  quella  che  ci spinge  a  ricondurre  tutti  i  fenomeni  a  quelli  che  ci GLI sono  i  più  familiari  —,  non  essendo  che  uno  degli sviluppi  più  estremi  del  principio  che  il  reale  é  nella sua  essenza  invariabile,  o,  come  dicevano  gli  antichi fisici,  che  l'essere  non  può  venire  dal  non  essere  né ridursi  al  non  essere. Ascoltiamo  Hamilton:  <^  Quando  noi  apprendiamo, egli  dice,  che  una  cosa  comincia  ad  esistere,  noi siamo  costret-ti  dalle  leggi  della  nostra  intelligenza a  credere  ch'essa  ha  una  causa.  Ma  che  vuol  dire quest'espressione:  avere  una  causa?  Se  analizziamo il  nostro  pensiero,  troveremo  che  ciò  significa  sem- plicemente che,  poiché  noi  non  possiamo  concepire il  cominciamento  d'  una  nuova  esistenza,  bisogna che  tutto  ciò  che  si  vede  apparire  sia  esistito  prima sotto  un'altra  forma.  Noi  siamo  affatto  incapaci  di concepire  che  il  contingente  d'esistenza  possa  au- mentare o  diminuire.  Da  una  parte  noi  siamo  inca- paci di  concepire  che  niente  divenga  qualche  cosa, e  d'altra  parte  che  qualche  cosa  divenga  niente.  L'a- forisma :  ex  niìiilo  nihil,  in  nihilum  nil  posse  reverti, esprime  nella  sua  forma  più  netta  il  fenomeno  intel- letuale  della  causalità.  —  Si  concepisce  dunque  che un  effetto  e  le  sue  cause  sono  una  sola  e  stessa  cosa. Noi  crediamo  che  le  cause  contengono  tutto  ciò  che è  nell'effetto,  e  che  l'effetto  non  racchiude  niente  di più  che  ciò  che  era  contenuto  nelle  cause.  Omnia  mu- tanturj  nihil  interit,  è  questo  quello  che  noi  pensiamo, che  noi  dobbiamo  pensare.  È  là  il  fenomeno  mentale della  causalità:  noi  neghiamo  necessariamente  che la  cosa  che  sembra  cominciare  ad  assere  cominci  in realtà;  e  identifichiamo  necessariamente  la  sua  esi- stenze! presente  con  la  sua  esistenza  passata  ».  Questa 'r     -r:^. Idenitfìcazione  dell'esistenza  poesente  della  cosa  che sembra  cominciare  ad  essere  con  la  sua  esistenza  pas- sata consiste  ad  ammettere  che,  come  dice  l'autore^ «  le  cause  continuano  sempre  ad  esistere  attualmente nei  loro  effetti  »,  e  che  «  un  effetto  non  è  niente  di più  che  la  somma  o  totalità  di  tutte  le  cause  parziali di  cui  il  concorso  costituisce  la  sua  esistenza  (1). Xia  dottrina  della  causalità  di  Hamilton  ha  la :adesione  di  Spencer.  «  Io  penso,  egli  dice,  d'accordo in  ciò  con  Hamilton,  che  la  nostra  credenza  alla necessità  delle  cause  viene  dalla  nostra  impotenza a   concepire   un   accrescimento  o  una   diminuzione (l)  La  dottrina  di  Hamilton  contiene  due  proposizioni  che  biso- gna distinguere:  Tuna  ha  una  portata  ontologica,  o  afferma  l'iden- tità della  causa  e  dell'effetto;  L'altra  ha  una  portata  psicologica,  e ;afferma  che  il  principio  di  causalità  —  che  Hamilton  riguarda,  non <«ooine  un'acquisizione  dell'esperienza,  ma  oome  nna  legge  o  una  ne- cessità del  pensiero  —  si  deduce  da  un  principio  o  da  una  necessità del  pensiero  più  primordiale,  cioè  l'impossibilità  di  concepire  che rl'essese  venga  dal  non  essere.  Di  queste  due  proposizioni,  la  prima h  una  concezione  metafisica,  nel  senso  più  rigoroso  della  parola  — •essa  è  un  prodotto  di  una    tendenza   spontanea  e  generale .    di   un ^sofisma  a  pintori,  dello  spirito  umano  — ;  la  seconda  non  potre))be  ri- guardarsi, seirondo  me,  come  nna  concezione  metafìsica  propriamente •<letta,  n<il  senso  vho    non   può   riattaccarsi   alle   tendenze   generali sofistiche  a  priori  del  nostro  spirito,  quantunque  il  suo  punto  di  par- itenza,  l'apriorità  del  principio  di  causalità;  sia  un  prodotto  del  «o- rflsma  a  priori  XOCt'    èc,OY,T\y  della  psicologia,  di  cui  diremo  nella 3*  parte  di  questo  Saggio,  e  perciò  una  vera  dottrina  metafìsica.  La pretesa   deducibilità  del  principio  di  cjiusalitA    dall'  inconcepibilità di  un  cominciamento  assoluto  dell'essere  ha  lo  scopo  di  ricondurre la  legge  (mentale)  della  causalità  a  una  legge  più  generale,  quella del  condizionato,  che  è  secondo   Hamilton  la  legge   fondamentale deirintelligenza,  e  consiste  a  stabilire   che   il  solo   concepibile  è  il «ondizionato,  e  questo  sta  fra  due  incondizionati  egualmente  incon- >icepibili,   che  sono  1'  uno  l'illimitato  e  l'altro   l' incondizionalmente CLIII dell'essere  considerato  nella  sua  totalità  ».  (1)  Cosi nei  Primi  principii  (2)  egli  deduce  il  principio  di causalità  da  quello  della  persistenza  della  forza  (cioè dell'immutabilità  della  quantità  del  reale» (3),  dedotto, alla  sua  volta,  dall'impossibilità  di  concepire  che il  niente  diventi  qualche  cosa  o  qualche  cosa  niente. Ricordiamo  infine  la  dottrina  di  Lewes.  L'effetto e  la  causa  non  si  distinguono  che  logicamente.  Un fatto  è  identico  alle  sue  condizioni^  e  non  è  niente di  sovraìrijiunto  ad  esse.  Non  vi  hanno  due  cose  — ora da  una  parte  un  gruppo  di  condizioni  (cause)  e  d'al- tra parte  un  risultato  leffetto)  —  ma  una  sola  e  stessa cosa  vista  differentemente.  Ciò  che  noi  chiamiamo le  condizioni  di  un  fatto  sono  i  fattori  analitici  che noi  abbiamo  scoverti  nel  fatto  :  questi  fattori,  con- siderati analiticamente,  si  chiamano  cause  ;  la  loro limitato  (l'incondizionalmente  limitato  sarebbe  un  tutto  assoluto, limitato,  che  non  fosse  una  parte  di  uu  tutto  più  grande  —  come dovremmo  cojicepire  l'essere,  se  potessimo  concDpire  un  comincia- mento assoluto—,  ovvero  una  parte  assoluta^  che  non  fosse  divi- sibile in  parti  minori  V.  nei  Frammenti  tradotti  da  Peisse  Filosofia dell' assoluto).  La  legge  del  condizionato  è,  come  si  sa,  la  dottrina che  dà  un  carattere  personale  alla  filosofìa  di  Hamilton.  Cos'i  la  sua deduzione  del  principio  di  causalità  dalla  legge  ael  condizionato  é un  esempio  utile  a  mostrare  che  sopxma  a  priori  e  sofisma  naturale non  sono  due  termini  perfettamente  equivalenti.  Facendo  questa deduzione,  Hamilton  fa  un'  applicazione  troppo  estesa  d'  una  sua idea  favorita:  questo  ó  un  sofisma  naturale,  ma  non  è  un  sofisma a  priori  (come  quelli  su  cui  è  fondata  la  metafisica),  perchè  non  dà luogo  a  delle  conclusioni  che  s' impongono  al  nostro  spirito  cerne verità  evidenti  per  se  tiesse. (1)  Saggi  scientifici,  Obbie^.  e  risp.  sui  primi  principii,  Conclas. (2)  //  conoscibile  cap.  VIL (3)  Obbies*  e  risp.  sui  pr,  princ.   Conclns. i '. somma,  considerata  sinteticamente,  sì   chiama  ef- fetto. La  teoria  dell'identità  della  causa  e  dell'effetto fa  riscontro  alla  teoria  d'Eraclito  dell'identità  dei contrari.  Se  noi  facciamo  astrazione  del  modo  in cui  viene  concepita  la  legge  del  divenire — che  il  fi- losofo antico  si  rappresenta  come  un  passaggio  con- tinuo da  uno  stato  al  suo  stato  opposto,  mentre  i filosofi  moderni  se  la  rappresentano  per  l'idea  più scientifica  di  un  rapporto  definito  tra  ciascun  can- giamento e  dei  cangiamenti  antecedenti  determi- nati (legge  della  causalità)  —  le  due  dottrine  si  ri- ducono egualmente  a  questa  proposizione,  che  il reale  divenendo  incessantemente  altro^  resta  nondi- meno costantemente  lo  stesso^  cioè  che  il  diverso  è Identico,  che  il  cangiamento  non  è  un  cangiamento. È  per  altro  a  questa  formula,  a  questa  contraddi- zione nei  termini,  che  arrivano  egualmente  tutti gli  sviluppi  più  estremi  del  sofisma  «r^r/o/v  che  fa l'argomento  di  quest'appendice,  la  dottrina  degli  E- leati,  dei  Vedantini.  di  G.  Bruno,  dei  fiiosofi  ren^ listi  (nel  senso  tlegli  scolastici),  che  riduce  il  cangia- mento ad  un'apparenza,  non  meno  che  la  dottrina dell'identità  degli  opposti  o  quella  dell'identità  della causa  e  dell'effetto  (se  il  cangiamento  è  un'p-ppa- renza,  l'apparenza  di  una  realtà  immutabile,  il  can- giamento è  dunque  in  realtà  un  non  cangiamento, il  diverso  l' identico).  Ciò  che  diciamo  della  dottrina dell'identità  della  causa  e  dell'effetto  può  pure  na- turalmente riferirsi  airapplicazione  particolare  di questa  dottrina  ai  fenomeni  psichici  —  l'identità del  fisico  e  del  mentale — ;  anche  qui  pretendendosi CLY identificare  dei  termini  che  non  possiamo  rappre- sentarci che  come  essenzialmente  ed  assolutamente differenti. Porse  si  dirà  che  se  la  dottrina  dell'identità  della causa  e  dell'effetto,  presa  alla  lettera,  non  è  che  una flagrande  contraddizione,  ciò  prova  semplicemente che  questa  dottrina  non  deve  intendersi  nel  senso rigorosamente  letterale.  Ma  se  noi  non  cerchiamo in  questa  proposizione  che  dei  concetti  perfetta- tamente  intellegibili,  non  tardiamo  ad  avvederci che  la  proposizione  non  è,  in  questo  caso,  suscet- tibile di  un  senso  qualsiasi.  Quando  si  dice  che  la causa  e  l'effetto  sono  la  stessa  cosa,  che  la  causa continua  ad  esistere  nell'effetio,  noi  dobbiamo  in- tendere per  le  parole  cause  ed  effetti  i  cangiamenti del  reale  —  poiché  la  legge  della  causalità  non  è che  la  legge  dei  cangiamenti.  —  Ora  è  assurdo  di attribuire  la  persistenza  a  dei  cangiamenti,  di  dire con  Hamilton  <^-he  la  «  cosa  »  che  noi  vediamo  esi- stere attualmente  come  effetto  non  comincia  ora  ad esistere,  ma  è  già  esistita  prima  come  causa  di quest'effetto.  Se  questa  persistenza,  che  la  dottrina dell'identità  della  causa  e  dell'effetto  attribuisce  alle cause  e  agli  effetti^  noi  vogliamo  limitarla  a  que- sto elemento  del  reale  che  noi  possiamo  effettiva- mente rappresentarci  come  persistente,  allora  noi non  ammettiamo  più  in  alcun  modo  un'identità  tra le  cause  e  gli  effetti,  poiché  la  legge  della  causa- lità non  si  applica  all'elemento  persistente,  ma  al- Telemento  cangiante  del  reale.  E'  l'obbiezione  di Mill  contro  Hamilton.  Hamilton,  dice  Mill,  scam- bia l'uno  per  l'altro  due  dei  quattro  sensi   distinti che  la  parola  causa  ha  nella  filosofia  peripatetica-- la  causa  materiale  e  la  causa  efficiente  —  :  nei  suoi esempi  egli  mostra  che  un  composto  è   identico   ai suoi  elementi  materiali  ;  ma  gii  elementi  non  sono le  cause   del  composto,  perchè  la  legge    della  cau- salità non  si  applica  alla  materia,  ma  ai  suoi  can- giamenti, e  perciò  le  cause  sono  le  azioni  che  han- no determinato  una  nuova  posizione  degli  elementi, e  l'effetto  la  nuova  posizione  di  questi  elementi.  (1) In  favore  della  dottrina  dell'Identità  della  causa e  dell'effetto  potrà   Invocarsi  la  teoria  della  persi- stenza e  trasformazione  dell'energia.  È  press'a  poco In  questo   senso    che  il  Baln    dice   che    «  Hamilton ha  dato,  per  la  legge  di  causalità,  una  formula  che equivale  esattamente  al  principio  di  conservazione  » (dell'energia).  «  SI  può  dire,  continua  il  Baln,    che egli  ne  ha  scoverto  il  primo  l'espressione  »  (2)  E  In- (1)  Se  Hi  ammette  la  teoria  rtfoy« ira  o  almeno  woiero^a re  deUa  ma- teria, l'elemento  persistente  del  roale,  che  resta  fuori  del  dominio della  legge  di  causalità,  sarà  un  che  di  qualitativamente  invariabile di  cui  non  cangiano  che  i  rapporti  spaziali  tra  le  sue  parti;  e,  con- siderando il  mondo  dal  punto  di  vista  obbiettivo,  tanto  gli  effetti quanto  le  cause  non  saranno  che  dei  cangiamenti  di  posizione.  Se invece  si  respingesse  questa  sostanza  qualitativamente  invariabile come  un  prodotto  dei  sofismi  a  priori  del  nostro  suirito,  allora  l'e- lemento persistente  del  reale  (si  parla  naturalmente  deUa  realtà  fi- sica) non  avrebbe  altro  d'invariabile  che  li  marni,  cioè,  al  foudo,  la costanza,  con  cui  la  stessa  materia  riceve  la  stossa  velocità  dall' izione di  forze  eguali.  Ma  che  vi  siano  nella  materia  dei  car.giamenti  qua- litativi o  Interiori,  corno  in  quest'ipotesi,  o  che  tutti  i  cangiamenti della  materia  siano  puramente  esteriori  e  si  riducano  al  cangiamento di  posizione,  resta  sempre  che  è  ai  cangiamenti,  e  non  a  ciò  che permane  durante  i  cangiamenti,  che  si  applica  la  logge  della  cau- salità, e  quindi  i  termini  di  causai  e  d'effetto. (2)  Log,  l.  3"  e.  l**  n.  17. fatti,  tutti  i  cangiamenti  della  materia  ridrcendosi a  delle  forme  dell'energia,  e  l'energia  non  creandosi né  annichilandosi  mai,    sembra   che    cosi  potrebbe darsi  un  soxiso  intelligibile  all'affermazione  che  la causa  continua  ad  esistere  neireffetto,  ed  è  identica all'effetto.  Non  vi  ha    dubbio  che    questo   concetta non  sia  uno  dei  fondamenti  della  dottrina,   se  non nel  pensiero  di  Hamilton,    in    quello    degli  autori posteriori.  Ma  per  Istablllre  la  dottrina  sul  principio della  conservazione  e  trasformazione   dell'energia, è  necessario  di  comprendere  questo  principio  in  un senso  trascendente,  metaemplrlco.  Al  punto  di  vista empirico,  questo  principio  non  fa  che  stabilire  dei rapporti    quantitativi    definiti    tra  l  fenomeni:  per la  costatazione  di  questi  rapporti   questi   fenomeni non  hanno  cessato  di  essere  distinti  e  differenti  gli uni  dagli  altri.  Quand'  anche  si    ammetta  la  teoria dell'  unità  delle  forze  fisiche  —  nel  senso  non  tra- scendente,  cioè  quello  secondo    cui    tutte  le  azioni fìsiche  vengono  ridotte  alla  trasmissione  del  movi-mento per  r  impulsione  —,  siccome  11  movimento, nella  sua  circolazione  incessante  nella  materia,  can- gia continuamente,  non  solo  per  questo  mutamento del  suo  sustrato  meterlale,  ma  nella  velocità,  nella direzione,  in  tutte  le  qualità  per  cui  un  movimento può  differire  da  un  altro  movimento;    così    non  si potrebbe  dire,  anche  In   quest'  ipotesi,  che  i  movi- menti antecedenti  (le  cause)  sono  una  sola  e  stessa cosa  col  movimenti  conseguenti  (gli  effetti).  Per  af- fermare che,  nella    trasmissione    e    trasformazione dell'energia,  vi  ha  quahihe  cosa  che  persiste  sempre la  stessa,  bisognerà  fare  della  forza  un  quid  di  so- stanziale,  di  cui  non  cangia  che  la  forma  —  pren- dendo alla  lettera  la  parola  trasformazione,  come se  si  trattasse  d'un  oggetto  materiale  —  e  Passocia- zìone  con  una  porzione  determinata  della  meteria. Ma  in  questo  caso  si  abbandonerà  il  dominio  del sensibile  e  del  rappresentabile  —  al  di  fuori  del quale  sarebbe  evidente  per  tutti  che  non  vi  ha niente  d'intelligibile,  se  non  fosse  questa  tendenza fatale  che  spinge  lo  spirito  umano  ad  oltrepassare l'esperienza  (tendenza  di  cui  noi  cerchiamo  l'espres- sione generale  e  la  spiegazione  psicologica) — .Di più, se  noi  ammettiamo  questa  sostanza — forza,  che  migra di  corpo  in  corpo,  e  prende  successivamente  delle forme  differenti,  la  forza  entrerà,  con  la  materia,  a far  parte  di  questo  elemento  persistente  del  reale, a  cui  non  si  applica  la  legge  di  causalità;  la  legge di  causalità,  e  i  termini  cause  ed  effetti,  non  sareb- bero applicabili  a  ciò  che  della  forza  è  sempre  iden- tico, alla  sostanza,  ma  a  ciò  che  di  essa  passa  e  si muta,  ai  cangiamenti  della  sostanza  (trasmigrazioni, trasformazioni,  ecc.)  ;  sicché  né  anche  allora  si  riu- scirebbe a  dare  un  senso  alla  proposizione  che  le cause  sono  una  sola  e  stessa  cosa  coi  loro  effetti, ohe  vi  ha  identità  fra  questi  e  quelle. Sembra  dunque  vano  ogni  sforzo  per  rendere  in- telligibile la  proposizione.  Noi  non  possiamo,  rela- tivamente a  questa  dottrina,  che  ripetere  press'  a poco  un'  osservazione  che  abbiamo  fatto  relativa- mente alla  dottrina  dell'identità  degli  opposti  di Eraclito.  Essa  non  contiene  la  soluzione  di  una quistione,  ma  il  postulato  che  la  quistione  è  solu- bile, il  postulato,  cioè,   che,  quantunque  il  principio  a  priori — vale  a  dire  ammesso  in  virtù  delle tendenze  spontanee  della  credenza  —  che  il  reale è  in  sostanza  invariabile,  che  non  vi  ha  mai  nelle <30se  un  cangiamento  assoluto,  essenziale,  sembri — e «ia  effettivamente,  per  noi — in  contradizione  coi  can- giamenti dati  dall'  osservazione  ;  nondimeno  i  fatti dell'osservazione  devono  necessasiamente  conciliarsi €ol  principio,  che  è  evidente  per  sé  stesso;  e  che  questa conciliazione  sappone  la  possibilità  d'identificare  i cangiamenti  successivi  della  natura  coi  cangiamenti con  cui  hanno  ima  relazione  costante.  Ma  la  dottrina non  ci  mostra  come  la  conciliazione  sia  possibile: questa  identificazione,  che  si  suppone  come  una  con- dizione per  ottenerla,  é  irrealizzabile  nel  pensiero. Se  noi  la  prendiamo  alla  lettera,  lungi  di  risolvere la  contraddizione,  essa  non  fa  che  darle  una  forma più  palpabile;  se  ci  rifiutiamo  a  prenderla  alla  lettera, noi  cerchiamo  inutilmente  quale  possa  essere  il senso  definito  che  si  debba  annettere  alla  propo- sizione. Il  concetto  dell’anima. §  1.  Parlando  dell' animismo  primitivo,  abbiamo visto  che  in  esso,  col  concetto  dell'animazione  della natura,  o,  più  generalmente,  con  l'assimilazione  delle forze  della  natura  alla  nostra  attività  umana,  è  ini- plicato  il  concetto  della  dualità,  della  distinzione di  duo  sostanze,  nell'  uomo  e  nell'  essere  animato. Questo  secondo  elemento  della  metafisica  dell'uomo primitivo  restò  allora  senza  spiegazione  :  ma  ora siamo  in  grado  di  ricercare  quale  sia  il  suo  rapporto con  le  tendenze  naturali  dello  spirito  umano  da  cui derivano  generalmente  i   concetti  della  metafisica. È  evidente  che  se  vi  ha  una  dottrina  a  cui  con- venga il  nome  di  metafisica  —  nel  senso  definito  in cui  noi  intendiamo  la  parola,  comprendente  il  con- cetto che  la  dottrina  ha  la  sua  base  nella  costitu- zione stessa  della  intelligenza  umana  —  questa  è senza  dubbio  la  dottrina  animista  (come  ipotesi  sulla natura  degli  esseri  animati),  che  noi  \ncontriamo  in tutti  i  luoghi,  in  tutte  le  epoche,  in  tutte  le  razze, in  tutti  i  gradi  dello  sviluppo  della  cultura.  Questa considerazione  deve  farci  rigettare  quelle  spiega- zioni dell'idea  à^Wanima  che  ne  cercano  l'origine, non  in  un  lato  permanente  dello  spirito  umano,  ma I' I  v  li I 1'  ' Il  : in  un  certo  stato  intellettuale  dell'umaiiitti  preisto- rica, che  per  noi,  uomini  attuali,  è  un  mondo  inte- ramente scomparso,  e  che  noi  difficilmente  potrem- mo oggi  riprodurre  in  noi  stessi,    anche  in  imma- ginazione. Tale  è  la  spiegazione  di  Spencer,  secondo la  quale  l'idea  dell'  anima  è  nata  dalla  interpreta- zione, grossolana  e  infantile,  che  Tuomo  primitivo dava    di    certi  fenomeni,  sovratutto  le  ombre  e  le immagini  viste,  per  esempio,  nell'acqua  e  le  rappre- sentazioni del  sogno.  Lo  Spencer,  partendo  dal  fatto <3he  alcune  popolazioni  selvagge  identificano  l'ani- ma  con  l'ombra  del  corpo  umano  o  con  la  sua  im- magine, ammette  che  l'uomo  primitivo,  scambiando questi  fenomeni    per    oggetti  reali,  ne  concludeva che  ciascun  essere  ha  un  duplicato.  I  fenomeni  del sogno  confermavano  e  davano  una  forma  più  defi- nita a  questa  concezione  di  un  doppio,  di  un  altro ^è  dell'uomo;  l'uomo  primitivo  è  incapace  di  distin- guere il  subbiettivo  e  l'obbiettivo;  non  avendo  an- cora l'idea  di  un  mondo  interiore,  egli  realizza  ne- cessariamente i  suoi  sogni.  Così,  non  solo  le  inima- gini  viste    nel  sogno  sono  per  lui  i  duplicati  degli esseri  reali  conosciuti  nella  veglia,  ma  egli  suppone che,  mentre  1'  uomo  è  immerso  nell'  immobilità  del sonno,  l'anima,  il  duplicato  -  che  è  la  stessa  cosa che,  l'ombra  o  l'immagine  —  va  vagando  qua  e  là, facendo  le  az/oni  e  visitando  i  luoghi  che  gli  ap- pariscono nel  sogno.  Per  conseguenza,  quando  l'in- dividuo è  in  uno  stato  momentaneo   d'insensibilità —  di  sincope,  di  apoplessia,   di  catalessi  —  l'uomo primitivo    crede    che  l' altro  se  siasi   momentanea- mente assentato  :  questa  stessa  assenza  dell'altro  se, CLXni prima  creduta  temporanea  —  perchè  l'uomo  primi- tivo, secondo  Spencer,  comincia  per  isperare  nella resurrezione  —  poi  definitiva,  spiega  l'insensibilità della  morte  (1). Ora,  ammettendo  che  questo  sia  il  processo  psi- chico da  cui  è  risultata  primitivamente  l'idea  del- l'anima -—  processo  che  non  potrebbe  concepirsi  se non  nello  stato  selvaggio  il  più  estremo  —  come spiegare  la  persistenza  dell'animismo,  quando  non si  tratta,  più  delle  razze  inferiori  e  del  grado  infimo dello  sviluppo  della  civiltà  ?  Secondo  l' ipotesi  di Spencer  e  le  altre  analoghe  sull'origine  della  teoria animista,  questa  non  potrebbe  essere,  nelle  razze pervenute  a  un  certo  grado  di  sviluppo  intellet- tuale —  io  non  dico  semplicemente  negli  attuali popoli  inciviliti  —  che  la  sopravvivenza,  dovuta  a una  cieca  tradizione,  di  una  vecchia  idea  non  più adattata  al  nuovo  ambiente  intellettuale;  una  super- stizione nel  senso  dell'  etimologia  che  alcuni,  al punto  di  vista  dei  concetti  moderni,  assegnano  a questo  termine  —  ciò  che  persiste  delle  antiche  eia  — ; in  una  parola,  una  specie  di  organo  rudimentario neir  organismo  sociale.  Ma  noi  non  possiamo  con- siderare la  dottrina  animista,  nei  popoli  inciviliti, ed  anche  nei  popoli  barbari,  come  un  semplice  or- gano rudimentario  :  l'energia  vitale  di  questa  dot- trina, la  sua  influenza,  dimostrano  che  la  sua  forza deriva  da  un'  impulsione  attuale,  e  non  da  un'  im- pulsione già  una  volta  ricevuta,  e  il  cui  effetto  per- /  _ (1)  Principii  di  sociol»  voi.  I.  e.  8-13  e  26. Il  siste  per  un'inesplicabile  inerzia  dello  spirito  umano* Forse  si  dirà  che  nei  popoli  pervenuti  a  una  certa maturità,   o   piuttosto  che  hanno  sorpassato  il  cer- chio d'idee  della  prima  infanzia,  la  base  dell'ani- mismo  non   è   più  nell'intelligenza,  ma  nel  senti- mento soltanto  :  ma  allora  sarebbe  stato  più  coerente di   assegnare    lo    stesso    fondamento  anche  all'  ani- mismo  primitivo.  Lo  Spencer  e  gli  altri  pensatori che  studiano  le  idee  di  quest'ordine  al  punto  di  vi- sta antropologico^  hanno  ragione,  io  credo,  di  con- siderare l'animismo  come  una  vera  teoria  filosofica, cioè  come  un'ipotesi  destinata  sovratutto  a  rendere conto  dei  fenomeni  :  quantunque  1'  uomo  sia  certa- ^  mente  portato  a  realizzare  le  sue  speranze  e  i  suoi timori,  questa  tendenza  del  nostro  spirito  non  ba- sterebbe per  sé  sola  a  spiegare  l'origine  delle  cre- denze umane,  la  speranza  e  il  timore  stessi  suppo- nendo che  l'intelligenza  ha  qualche  motivo  per  am- mettere r  esistenza  o  la  verisimiglianza  di  ciò  che si  spera  o  si  teme.  Ma  se  si  ammette  che  l'idea  del- l'anima è  un  concetto  filosofico  —  allo  stesso  titolo che  l'altro  elemento  della  teoria  animista,    cioè  la concezione  antropomorfistica  della  natura—,  non  si può  considerare  l'animismo  dei  popoli  pervenuti  a un  certo  grado    di    cultura   come  una  semplice  su- per stisione;  e  allora  si  deve  ammettere  che  i  motivi e  il  fondamento  dell'  animismo   primitivo  non  pos- sono essere  essenzialmente  differenti  da  quelli  dello spiritualismo  moderno,  e  che  l' idea  dell'  anima  è, sin  dalle  prime  origini  della  civiltà,  il  prodotto  di una  tendenza    naturale    ed    essenziale  dello  spirito umano  —  come  abbiamo  visto  che  l'autropomortismo del  filosofo  selvaggio  è  il  prodotto  di  quella  stessa tendenza,  naturale  ed  essenziale  al  nostro  spirito, €he  spinge  il  filosofo  incivilito  alla  più  parte  delle sue  concezioni  metafisiche—. §  2.  Se  noi  cerchiamo  i  motivi  della  filosofia  spi- ritualista, quali  essi  possono  desumersi  dallo  studio storico  della  quistione,  noi  possiamo,  con  Lotze  (1), riassumerli    insomma   nei  tre  seguenti  :  1^  La  sen- sazione, il  pensiero,  il  desiderio,    in  una   parola  i fatti   della    coscienza,  sono  dei  fenomeni  essenzial- mente differenti  dai  fenomeni  della  materia  (dal  mo- vimento  e  dagli   altji   cangiamenti   di    cui  i   corpi inanimati  sono  suscettibili).  Per  rendere  conto  dun- que dell'apparizione  di  questi  fenomeni  (e  della  loro scomparsa  dopo  la  morte),  è  necessario  di  ammettere l'intervento  (e    la    separazione)  d'un  principio  di- stinto dalle  sostanze  che  costituiscono  il  corpo,  e  la cui  natura  possa  spiegare  la  natura  speciale  di  que- sti fenomeni.  Osserviamo  che  quest'argomento  non è  semplicemente   impiegato   dagli  spiritualisti  mo- derni —  per    cui  r  anima  è  una  sostanza  spirituale nel  senso  stretto  della  parola  —  :  noi  lo  incontriamo pure  presso  gli  animisti  antichi— che,  come  vedre- mo,    riguardavano    l' anima    come  qualche  cosa  di semi-materiale—.  Così    Cicerone  dice:  Non  è  pos- sibile di  trovare  sulla  terra  un'origine  per  l'anima: essa    non    può  essere  formata  da  alcuno  degli  ele- menti che  noi  conosciamo,  perchè  in  questi  non  si trova  il  pensiero  (2).  E  i  filosofi    ortodossi  indiani M (1)  Priuc,  di  paic,  fisiol.  e.  1. (2)  Tiisrulane  r opponevano  ai  materialisti  che  il  sentimento  e  il pensiero  non  appartengono  ai  corpi,  agli  elementi materiali  (1).  2°  La  materia  (inanimata)  è  inerte, passiva:  nel  suo  movimento  obbedisce  alle  leggi  del meccanismo,  ed  è  necessariamente  determinata  da t;ause  esteriori.  Ma  gli  esseri  animati  hanno  in  se stessi  il  principio  del  movimento:  essi  possiedono un'attività  spontanea,  possono  da  se  stessi  dar  comin- ciamento  a  una  nuova  serie  di  cangiamenti  nel  mondo materiale,  di  cui  essi  sono  la  causa  prima  (2).  Questa facoltà  prova,  della  stessa  maniera  che  la  facoltà  pre- cedente, la  presenza,  negli  esseri  animati,  d'un  prin- cipio distinto  dagli  elementi  della  materia.  Quest'ar- gomento della  necessità  di  un  principio  attivo  che  si sovra^o-iunira  alla  materia  inerte,  sembrava  a  Leib- nitz  preferibile,  per  provare  resistenza  dell'  anima cóme  principio  distinto  dalla  materia,  all'argomento antecedente,  cioè  alla  differenza  del  pensiero  e  della sensazione  dai  fenomeni  materiali  (3).  Qui  è  appli- cabile la  stessa  osservazione  del  numero  precedente. Questo  motivo  conviene  tanto  allo  spiritualismo  mo- derno quando  al  semi-materialismo  degli  antichi  a- (1)  Colebrooke  Snijuio  sulla  filo-t,  deuV Indiani  trad.  fran.p.   239. (2)  In  LoUe  l'argomento  e  condotto  in  modo  da  «apporre  il  libero arbitrio.  Io  ho  creduto  più  conforme  ai  dati  storici  di  presentarla sotto  una  forma  più  generile,  cioè  come  implicaiite  semplicemente l'attività  spontanea,  la  libertà  /?^Jca,  la  quale  esiste  necessariamente se  e  quando  esiste  la  cosidetta  libertà  morale  (il  libero  arbitrio),  men- tre al  contrario  l'esistenza  della  prima  non  suppone  necessariamente l'esistenza  della  seconda. (3;  Opera  ed.  Dutens  t.  II.  pars  I.  p.  207-208.  Cfr.  p.  84,  p.  2oO e  231,  pars  II  p.  155  {Responsiones  ad  Stahlianas  obaervationeHj  ad  XXI. 7),  ecc. nimisti.  L'  uomo,  a  tutti  i  gradi  del  suo  sviluppo intellettuale,  ha  sempre  distinto  1'  animato  dall'ina- nimato per  la  sua  attività  spontanea,  e  1'  animista ha  sempre  trovato  nella  natura  dell'anima  la  causa di  quest'  attività.  Si  sa  che  Platone,  il  gran  siste- matizzatore dell'antica  filosofia  animista,  dà  come  es- senza o  definizione  dell'  anima  «  ciò  che  muove  se stesso  »,  e  stabilisce  die  1'  anima  è  il  principio  del movimento  nel  mondo  dei  corpi,  ciò  che  prova  che essa  è  indipendente  da  questi,  ed  è  loro  non  poste- riore, come  pretendono  i  materialisti,  ma  anterio- re (1).  Con  ciò  Platone  non  fa  che  compiere  uno sviluppo  naturale  del  concetto  dell'anima  nella  filo- sofia greca  :  Aristotile  osserva  infatti  che  uno  dei caratteri  per  cui  gli  antichi  filosofi  in  generale  a- veano  distinto  l'anima  era  di  concepirla  come  causa di  movimento  nel  corpo  (per  il  suo  proprio  movi- mento) (2).  3^  L'unità  della  coscienza  non  permette di  rapportare  l'attività  intellettuale  a  un  aggregato di  elementi  uniti  fra  loro  :  il  soggetto  delle  sensa- zioni e  dei  pensieri  che  costituiscono  una  coscienza, unica  deve  essere  semplice,  indivisibile,  e  quindi immateriale.  Se  questo  soggetto  fosse  la  materia, questa  ha  delle  parti,  e  perciò  le  sensazioni  e  i  pen- sieri dovrebbero  dividersi  tra  le  sue  parti  :  ma  da ciò  non  potrebbe  risultarne  l'unità  della  coscienza. Naturalmente  io  non  pretendo  che  questa  sia  una enumerazione  completa  degli  argomenti  dei  filosofi (1)  Fedro  245,  Le(j(/i  X.  891  e  e  sqq. (2)  Arist.   De  An,  1.  1.   e.   2. spiritualisti  ;  ma  sono  questi  quelli  che  sono  stati impiegati  più  frcquentamente  e  che  sembrano  avere più  forza  probante. §  3.  Tuttavia,  queste  tre  prove  della  filosofia  spi» ritualista  non  potrebbero  essere  riguardate  tutte  e- gualmente  come  motivi  delV animismo.  Distinguiamo tra  animismo  e  spiritualismo:  il  primo  è  un  genere, di  cui  il  secondo  è  una  specie.  Il  Tylor  ha  soddis- fatto a  un'esigenza  indispensabile  del  linguaggio  fi- losofico, servendosi  del  primo  di  questi  due  termini per  indicare  la  riconoscenza,  in  tutte  le  razze  li- mane, dell'anima  come  sostanza  distinta,  uso  a  cui il  secondo  termine  non  sarebbe  stato  proprio,  perchè legato  al  concetto  dell'assoluta  immaterialità  di  que- sostanza.  L'anima  non  è  una  sostanza  spirituale nel  senso  moderno  della  parola,  cioè  assolutamente immateriale,  che  nella  fase  più  recente  della  teoria animista  :  è  bisognato  che  l' intelligenza  umana  si fosse  lungamente  esercitata  all'astrazione  filosofica, e  familiarizzata  con  le  idee  astruse  del  sovrasensi- bile,  prima  di  ammettere  un  concetto  a  cui  non  cor- risponde niente  di  sensibile  né  d'immaginabile.  Cosi la  dottrina  della  dualità  (anima  e  corpo)  non  è  al- l'origine, come  dice  Bain  (l),  che  un  doppio  materia- lismo  :  la  sostanza  spirituale  è  opposta  alla  sostanza corporale,  non  perchè  la  seconda  è  materiale  e  la prima  no,  ma  perchè  la  seconda  è  costituita  di  una materia  più  grossolana,  e  la  prima  di  una  materia più  sottile.  Le  razze  inferiori,  come  ancora  fra  di noi  gli  uomini  privi  di  coltura,  concepiscono  per  il solito  l'anima  come  qualche  cosa  di  vaporoso  o  di etereo  avente  la  forma  umana,  ordinariamente  im- palpabile e  invisibile,  ma  che  può  manifestarsi  ai sensi  in  certe  occasioni,  p.  e.  nel  sogno  e  nella  vi- sione. A  questo  concetto  è  talvolta  illogicamente  as- sociato quello  di  una  materialità  più  grossolana, come  lo  indica,  p.  e.,  il  costume  molto  diffuso  di spargere  della  cenere  o  della  farina  per  potervi  os- servare le  impronte  lasciate  dai  passi  degli  spiriti: quest'uso  esisteva  anche  presso  gli  Ebrei,  e  può  tut- tora incontrarsi  nell'Europa  incivilita.  L'esistenza che  l'anima  conduce  nell'altra  vita  non  è  che  una copia  dell'esistenza  attuale  :  essa  può  mangiare,  bere, parlare,  camminare,  e  darsi  alle  occupazioni  solite nella  vita  corporale  (1). Questo  stesso  doppio  materialismo,  che  caratterizza l'animismo  popolare,  è  ammesso  pure  generalmente dagli  antichi  filosofi.  Senza  dubbio  noi  troviamo  una tendenza  crescente  a  distinguere  lo  spirito  dalla  ma- teria—tendenza la  quale  deve  finalmente  arrivare al  concetto  dell' immaterialità  assoluta — .Aristotile osserva  che  uno  dei  caratteri  per  cui  i  suoi  ante- cessori hanno  definito  Tanima  è  l'incorporeità^  cioè la  composizione  dalla  materia  più  sottile  (2).  Fra  gli elementi  materiali  è  l'aria  o  il  fuoco  (questi  due  e- lementi  non  sono  nettamente  distinti  presso  i  primi fisici)  che  i  filosofi  greci,  i  quali  ammettono  quasi -0 /- (1)  Lo  spirito  e  il  corjw  e.  7. # I (1)  V.  Tylor  La  civili-:zaz,priniit,  e.   11,  12,  13,  15. (2)  De  an.  1.  I.  e.  2.   2ì \ tutti  la  distinzione  dell'anima  e  del  corpo,  riguar- dano preferibilmente  come  sostanza  dell'anima.  Nel mondo  antico,  queste  non  erano  delle  concezioni  ma- terialiste :  gli  stoici,  che  nella  filosofia  antica  rap- presentano evidentemente  la  tendenza  anti-materia- lista,  considerano  l'anima  come  del  fuoco  o  come uno  spirito  {tz^zu^ol)  caldo  (1),  ciò  che  è  l'essenza  del- l'elemento divino  che  penetra  e  governa  tutto  l'u- niverso. Similmente  Cicerone  dà  all'anima  gli  attri- buti di  divina,  immortale,  ed  anche  semplice;  ma  ciò non  esclude  la  sua  materialità  :  l'anima  si  eleva  in alto  sino  agli  astri  per  la  sua  purezza  e  leggerezza; noi  non  conosciamo  la  sua  forma,  la  sua  grandezza, la  sua  sede;  noi  non  sappiamo  se  possa  cadere  sotto i  sensi  o  vi  sfugga  per  la  sua  sottigliezza  (2);  egli non  sa  comprendere  cosa  possa  essere  un  Dio  asso- lutamente incorporale  (3).  Quegli  stessi  filosofi,  che stabiliscono  la  più  recisa  opposizione  tra  lo  spirito e  il  mondo  dei  corpi,  non  hanno  ancora  la  nozione di  una  sostanza  spirituale,  cioè  inestesa  :  secondo  A- nassac'ora  il  Nous  è  la  più  sottile  di  tutte  le  so- stanze  (4),  o  si  fraziona  nei  diversi  esseri  animati, nei  quali  si  trova  in  maggiore  o  minor  quantità  (5); secondo  Platone,  l'anima  è  invisibile,  a/meno  per noi  (6),  ma  ha  una  grandezza,  e  si  muove  continua- (1)  V.  Cicero.  TasciiL  I.  X.    Plut.  Plac.  1.   IV.  e.   III.  ecc. (2)  Tmcuì.  1.   l.   17-19  o  22. (3)  Nat.   Deor,   I.  30. »4)  Muli.   Ft\  6. (5)  Muli.   iV.  5,  6;  Arist.   De  An,  1.  I.  II.   5. (6)  Leg(fi  S98  d-e,  Fedone  79  b. mente,  comunicando  ai  corpi  il  proprio  movimento, come  potrebbe  farlo  un  corpo  ad  altri  corpi  (1).  In verità  potrebbe  credersi  che  il  concetto  della  spiri- tualità si  trovi  già  in  Aristotile,  perchè  il  Nous separato  è  per  lui  indivisibile,  senza  grandezza, senza  materia  (2):  ma  per  poter  attribuire  ad  Ari- stotile la  nozione  della  sostanza  spirituale,  nel  senso moderno,  bisognerebbe  che  questo  filosofo  avesse ammesso  nel  Nous,  al  di  là  del  pensiero,  un  quid  co- me substratum  del  pensiero,  ciò  che  non  è  (3),  il  Nous non  essendo  che  una  semplice  attività  intellettuale, un'  intelligenza  identica  airintelligibile,  in  cui  ciò che  pensa  e  ciò  che  è  pensato  non  è  che  il  pensiero stesso  (4).  Noi  possiamo  dunque  affermare  che  nel periodo  veramente  classico  della  filosofìa  greca,  la nozione  di  sostanza  spirituale  resta  ancora  scono- sciuta. Il  doppio  luaterialismo  è  pure  la  dottrina  dominante }iresso  i  primi  padri  della  chiesa,  sino  al  5^  secolo, quantunque  presso  i  filosofi,  notevolmente  i  neo- plutonici, si  fosse  già  iniziata  la  dottrina  della  im- materialità. I  primi  padri  della  Chiesa  avevano  due motivi  per  ammettere  che  l'anima  è  materiale:  primo, ciò  che  non  è  materiale  non  è  una  sostanza,  e  se- condo, se  lo  spirito  non  fosse  corporale,  esso  non potrebbe  essere  affettato  dalle  ricompense  e  sovra- tutto  dalle  punizioni  dell'altra  vita.  Se  l'anima  non (1)  Plato  Legai  X.   894    b   sqq.,     Timeo   B4    b    sqq,  Aristotile    De an*  1.  l.   e.  3,  ecc. (2)  Phìjs,  vili.  e.  ult.;  MeL  XI.  e.  6,  7,  S,  ecc. (3)  V.  De  An.  1.   HI.  e.  4. (4j  De  an,  1.  3.  e.  5.  Mefaf,  1.  XI.  e.  7.  e.  9.  ecc. è  un  corpo,  chi  è,  domanda  Tertulliano,  quest'essere che  discende  agl'inferni  dopo  la  morte,  e  vi  resta sino  al  giorno  del  giudizio  ?  L'animii  ?  ma  ciò  è  im- possibile se  l'anima  è  niente  :  ora  ciò  che  non  è  un corpo  non  è  che  niente.  D'altronde  un  essere  incor- porale  non  potrebbe  soffrire  prigionia,  e  sarebbe immune  da  pena  :  se  l'anima  è  capace  di  sentire  il tormento  e  il  piacere,  in  mezzo  al  fuoco  dell'inferno o  nel  seno  di  Abramo,  ciò  dimostra  la  sua  corpo- ralità, poiché  una  cosa  incorporale  sarebbe  neces- sariamente impassibile  (1).  Non  vi  ha  niente,  dice S.  Ilario  (2),  che  non  sia  corporale  nella  sua  sostanza; e  Arnobio  (3)  domanda  chi  sarà  tanto  imbecille  e illogico  per  ammettere  che  delle  anime  inestese  e per  loro  natura  incorruttibili  possano  essere  toccate dalle  fiamme  e  sottomesse  agli  altri  tormenti  dello inferno.  L'anima,  dice  S.  Ireneo  (4),  ha  degli  occhi, una  lingua,  delle  dita,  ed  è  di  una  forma  simile  in tutto  a  quella  del  corpo,  ma  non  è  un  corpo. L'  ultima  proposizione  non  include  la  sua  assoluta incorporalità;  essa  è  incorporale  comparativamente ai  corpi  grossolani  dei  mortali  (5).  Taziano  ammette, come  gli  stoici,  che  lo  spirito  umano,  non  che  quello degli  animali,  delle  piante,  degli  astri,  ecc.,  è  una parte  dello  spirito  divino,  diffuso  da  per  tutto  nelle natura  (6).  Così  lo  spirito  è  secondo  lui  divisibile  : (1)  Tertull.  Lib.  de  Anima  e.   7. (2)  S.  Ilar  su  S.  Matt. (3)  Adv.  Geni,,  1.  2. (4)  Iren.  1.  2.   e.  63. (5)  L.  2.  e.  34,  1.  9.  e.  7. (6)  V.  e.  2.  §  12.   p.   111-112. Il 11 il I d'altronde  se  l'anima  non  avesse  delle  parti  e  non fosse  divisibile,  essa  non  potrebbe  essere  diffusa  per il  corpo  (1),  Alcuni  padri  ammettevano  la  materia- lità tanto  di  Dio  quanto  dell'  anima,  altri,  come  il S.  Ambrogio  (2),  non  accordavano  l' immaterialità che  alla  sostanza  divina.  La  dottrina  dell'  immate- rialità dell'onima  non  oominciò  a  prevalere  che  al 5^  secolo,  per  opera  sovratutto  di  alcuni  padri  pla- tonizzanti,  fra  i  quali  bisogna  assegnare  il  primo posto  a  S.  Agostino. §  4.  Questa  rapida  escursione  nel  dominio  della steria  ci  mostra  che  un  argomento  che  conclude  alla semplicità  o  spiritualità  dell'anima  non  potrebbe essere  uno  dei  fondamenti  delVanintiSììio^  considerato come  la  filosofia  generale  e  spontanea  del  genere umano  :  di  più,  siccome  il  concetto  della  spiritualità è,  come  mostreremo,  il  risultato  naturale  dell'evolu- lusione  della  teoria  animista,  potenzialmente  impli- cato nei  presupposti  stessi  dell'animismo  primitivo, noi  non  potremmo  vedere  nemmeno  in  un  tale  ar- gomento il  motivo  reale  della  filosofia  spiritualista. Così  delle  tre  prove  indicate  come  motivi  della  dot- trina della  sostanzialità  dello  spirito,  noi  non  pos- siamo riguardare  come  veri  fondamenti  della  dot- trina che  le  prime  due  soltanto,  ed  escludere  la terza,  quella  che  conclude  dall'unità  della  coscienza alla    semplicitn  e    indivisibilità    del    soggetto   pen— (1)  Omt.  Adv,    (ir. (2)  Ambr.  de  Abrahinit, f ialite  (1).  Ora  è  evidente  che  le  due  prove  non  sono che  due  casi  particolari  d'un'argomento  più  gene- rale, nel  quale  perciò  dobbiamo  riconoscere  la  vera base  deiraniraismo,  e  che  potrebbe  formularsi  così: Certi  corpi  che  si  chiamano  animati,  ai  fenomeni generali  della  materia  aggiungono  altri  fenomeni d'una  natura  affatto  speciale,  e  sono  perciò  netta- mente opposti  ad  altri  corpi,  che,  per  l'assenza  di questi  fenomeni  speciali,  si  chiamano  inanimati;  ora siccome  i  corpi  animati  si  formano  dagl'inanimati, e  ritornah^dopo  un  certo  tempo  allo  stato  inani- mato, non  essendo  cosi  che  per  un  tempo    limitato (1)  Quest'argomento  è  fondato  suUa  falsa  assimilazione  delle  di- verse parti  dell'organismo  senziente  a  dei  soggetti  senzienti  distinti e  separati.    «  Se  una  sostanza  che  pensa,  dice  Bayle,  non  fosse  una che  come  un  globo  é  uno,  essa  non  vedrebbe  mai  un  albero  intero, non  sentiiebbe  mai  il  dolore  eccitato  da  un  colpo  di  bistone.  Ecco un  mezzo  onde  convincersi  di  ciò.  Considerate  la  figura  delle  quattro parti  del  mondo  su   di   uà  globo  ;  voi  non  vedrete  in  questo  globo cosa  alcuna  che  contenga  tutta  l'Asia  o  anche  un  fiume  intero,  il luogo  che  rappresenta  il  regno  di  Siam,  e  voi    distinguete  un  lato dritto  e  un  lato  sinistro  nel  luogo  che  rappresenta  l'Eufrate.  Nasce da  ciò  che,  se  questo  globo  fosse   capace   di   conoscere  le  figure   di cui  è  stato  adornato,  non  conterrebbe  cosa  alcuna  la  quale  potesse dire  :  io  conosco  tutta  VEuropa,  tutta  la  Francia,  tutta  la  città  di  Am- sterdam,  tutta  la  Vistola  :  ciascuna  partì  del    globo   potrebbe    sola- mente conoscere  la  parte  della  figura  che  le  sarebbe  caduta  in  sorte; e  come  questa  parte  sarebbe   si   piccola  che   non   rappresenterebbe luogo  alcuno  per  intero,  sarebbe  assolutamente  inutile  che  il  globo fosse    capace   di   conoscere  ;    da   questa   capacità   non    risulterebbe alcun  atto  di  conoscenza,    o   per  lo    meno  sarebbero  atti  di  cono- scenza molto  diversi  da  quelli  che  noi  sperimentiamo,  poiché  i  no- stri rappresentano  un  albero  intero,  un  intero   cavallo.    Prova  evi- dente che  il  soggetto  colpito  da  tutta  l'immagine  di  questi  oggetti non  è  divisibile  in  molte  parti;  e  perciò  che  l'uomo,  in  quanto  pensa^ non  è  corporeo  o  materiale  o  composto  di  molti  esseri.  Se  egli  fosse Aalc,  sarebbe  niente  sensibile  ai  colpi  del  bastone,  poiché  il  dolore la  sede  di  questi  fenomeni  che  caratterizzano  lo stato  animato,  se  ne  deve  concludere  che,  durante questo  tempo  limitato,  al  corpo,  alla  materia  visibile e  tangibile,  è  associata  un^altra  sostanza,  invisibile e  intangibile,  che  è  l'agente  e  il  soggetto  reale  di questi  fenomeni.  Le  due  prove  particolari  appli- cano l'argomento  generale  all'uno  e  all'altro  dei  due caratteri  più  salienti,  che  distinguono  l'animato  dal- l'inanimato, cioè  la  coscienza  e  l'attività  spontanea  : l'una  e  l'altra  prendono  per  punto  di  partenza  la differenza  essenziale  di  questi  due  ordini  di  feno- meni, caratteristici  dello  stato  animato,  dai  fenomeni si  dividerebbe  in  tante  particelle  quante  ve  ne  sono  negli  organi colpiti.  Ora  questi  organi  contengono  un'  infinità  di  particelle,  e cosi  la -porzione  del  dolore  che  converrebbe  a  ciascuua  parte,  sa- rebbe si  piccola  che  non  si  sentirebbe  affatto.»  Diz,  art.  Leucippo. E  Galluppi,  dopo  aver  citato  Bayle,  aggiunge  :  «  La  coscienza  del- l' unità  sintetica  della  percezione  comprende  dunque  la  percezione dell'  unità  o  della  semplicità  del  me  che  sintetizza.  Meditando  sul paragone  che  noi  facciamo  degli  oggetti  che  agiscono  su  dei  nostri sensi,  sui  giudizi  ai  quali  danno  luogo  le  loro  impressioni,  il  senti- mento dell'unità  semplice,  indivisibile,  immateriale  dell'essere  pen- sante risulterà  luminosamente.  Quando  voi  vi  riscaldate  la  mano,  è sicuro  che  provate  una  sorte  di  piacere  :  se  nel  tempo  medesimo venga  avvicinato  al  vostro  naso  uu  odor  piacevole,  sentirete  un'altra specie  di  piacere.  Se  io  vi  domando  quale  di  questi  due  piaceri maggiormente  vi  piaccia,  voi  mi  risponderete  quello  o  questo  :  voi dunque  paragonate  insieme  questi  due  piaceri  e  giudicate  di  essi nel  tempo  medesimo.  Se  dopo  esservi  riscaldato  e  di  avere  odorato, io  vi  faccia  gustare  una  vivanda,  voi  potrete  certamente  dire  quale di  questi  due  piaceri  sia  il  maggiore  ;  bisogna  dunque  che  ciò  che in  voi  giudica  abbia  sentito  tutto  ciò.  Questo  stesso  io  che  giudica, conosce  se  un  piacere  dei  sensi  sia  maggiore  del  piacere  della  sco- verta di  una  verità,  o  di  quoUo  che  reca  1'  esercizio  della  virtù,  e sceglie  fra  queste  due  cose;  il  medesimo  soggetto,  dunque,  il  quale prova  i  piaceri  sensibili,  prova  altresì  gli  spirituali,  e  giudica  e vuole  :  è  questa  una  prova  che  la  coscienza  del  me,  che  si  sente  af- / 11.dello  stato  inanimato,  e  dairidentità  della  materia, che  passa  alternativamente  dall'uno  all'altro  di  que- sti due  stati,  concludono,  1'  una  che  ciò  che  fa  che l'essere  animato  senta  e  pensi  —  o  piuttosto  ciò  che è  esso  stesso  il  soggetto  della  sensazione  e  del  pen- siero —,  l'altra  che  ciò  che  fa  che  l'essere  animato sia  dotato  di  attività  spontanea  —  o  piuttosto  ciò  che è  esso  stesso  il  soggetto  di  quest'attività  spontanea — non  è  il  corpo,  ma  un  quid  distinto  dal  corpo  e  con questo  temporareamente  associato.  Ma  in  che  con- siste il  legame  fra  tale  conclusione  e  i  dati  su  cui essa  è  fondata?  come  si  giustifica  il  passaggio   da «  a letto  da  tutte  questo  sensazioni,  e  che  opera  in  seguito,  non  è  mica la  coscienza    del    vostro   naso    che  sente  gli  odori,    né  della  vostra mano  che  sente  il  calore;  poiché  come  la  mano  o  il  naso  sono  due cose  assolutamente  distinte,   egli  è  tanto  possibile  che  V  una  senta ciò  che  sente  l'altro,  quanto  è  possibile  che  noi  sentiamo  in  questa camera  il  piacere  che  ora  sentono  quelli  i  quali  sono  al  teatro;  bi- sogna dunque  che  la  coscienza  che  avete  del  me  il  qaale  sente  l'o- dore ed  il  caloie  nello  stesso  tempo,  non  solo  non  sia  la  percezione del  naso  e  della  mano;  ma  bisogna  altresì  che  sia  la  percezione  di un  soggetto  unico,  semplice  e  privo  di  parti;  perchè  se  avesse  parti, l'una  sentirebbe  l'odore,  mentre   l'altra  sentirebbe  il  calore,  e  non vi  sarebbe  giammai  il  sentimento  di  una  cosa,  la  quale  sentisse  in- sieme 1'  odore  ed  il  calore,   li  paragonasse,   e  giudicasse  che  l'uno è  più  piacevole  dell'altro  »  {Elem,  di  fllos,  1.  3.  e.  3).  Tutta  la  forza dell'argomento  svanisce,  se  noi  togliamo  la  supposizione  che  la  mano il  naso  —  o,  secondo  la  fisiologia,  le  diverse  parti  del  cervello  in  cui sarebbe  la  sede  dei  fenomeni  fisici  che  sono  i  supposti  antecedenti della  sensazione  e  del  pensiero  —  sono,  secondo  il  materialista,  dei soggetti  senzienti  e   pensanti  distinti,  come  noi  che  siamo  in  questa camera  e  le  persone  che  sono  al  teatro.  Ma  chi  nega  la  sostanzialità dello  spirito  non  é  perciò  obbligato  a  concepire  le  diverse  cellule  o molecole  del  cervello  corre  altrettante  persone  distinte. Ciò  che  sente o  pansa  non  è  la  mano  o  il  naso,  né  questa  o  quella  porzione  della corteccia  cerebrale,  ma  1'  uomo,   all'  occasione  di  un  contatto  della mano  o  del  nasD,  o,  supponiamolo,  d'  un  movimento  molecolare  in questi  a  quella  ?  Se  noi  rivolgessimo  queste  do- mande ad  alcuno  dei  filosofi  spiritualisti  che  fanno quest'  inferenza,  egli  risponderebbe  forse  che  il legame  fra  i  dati  da  cui  s'  inferisce  (la  differenza essenziale  dei  fenomeni  dello  stato  animato  da  quelli dello  stato  inanimato,  e  la  identità  del  sustrato  ma- teriale che  è  ora  nell'  uno  ora  nell'altro  di  questi stati),  e  la  conclusione  che  se  ne  inferisce,  è  evidente per  se  stesso,  e  non  ha  bisogno  di  una  giustifica- zione ulteriore.  Ma  noi  che  sappiamo,  che  la  evi- denza intrinseca  non  può  essere  il  fondamento  ul- timo di  una   connessione  tra  le  nostre    idee,  e  che qualche  parte  del  cervello.  Supponiamo    queste  parti  isolate,  fuori del  concerto  organico,  non  vi  sarebbe  più  né  sensazione  né  pensiero. Non  bisogna,  per   altro,  prestare  gratuitamente  al  materialista  l'as- surda immaginazione  che  il  fatto  della  coscienza  abbia  una  località, nel  senso  stretto  della  parola,  come  p.  e.  il  movimento  o  la  figura e  in  una  parola  ciò  che  può  essere  oggetto  della  percezione  visuale. Bayle,  nella  sua  finzione  del  globo  che  prende  conoscenza  delle  fi- gure su  di  esso   dipinte,    supj)one    tra   le   percezioni  e  le  differenti parti  del   globo   lo   stesso  rapporto  che  tra  queste  e  le  figure  :  cosi egli  immagina    la   coscienza  divisa  in  frammenti  e  sparsa  nelle  di- verse parti  della  materia,  e  anche  divisibile,  come  la  materia,  all'in- finito. Quando  si  dice  che  1'  uomo,    quale  oggetto  della  percezione esteriore,  è  il  soggetto  della  coscienza,  si  vuol  dire  semplicemente  che tra  i  fenomeni  materiali,  cioè  esistenti  in  un  luogo,  i  quali  hanno la  loro  sedo  nel  corpo  dell'  uomo,  e  i  fenomeni  spirituali,  cioè  non esistenti   in  alcun  luogo,  i  quali  costituiscono  la  coscienza  o  il  me mentale  dell'  uomo,  vi  ha  una  corrispondenza  secondo  rapporti  de- finiti di  simultaneità  o  di  successione.  E  quando  si  dice  che  le  por- zioni differenti  di  questa  coscienza  o  di  questo  me  mentale  —  il  quale non  è,  è  vero,  che  una  serie  di  stati  di  coscienza,  ma  una  serie  che bisogna  concepire,  non  come  un  aggregato  di  elementi  separati  ed aventi  ciascuno  un'  esistenza  indipendente,  ma  come  un  tutto  uno e  continuo,  in  cui  non  si  distinguono   delle   porzioni  separate  che per  una   sorta   di   astrazione  —  corrispondono  a  dei  fenomeni  fisici esistenti    in   porzioni   differenti   del  me   della  percezione  esteriore. / tutte  le  connessioni  mentali  (quelle  almeno  che hanno  per  oggetto  l' esistente)  derivano,  in  ultima analisi,  dall'esperienza,  dobbiamo  cercare  se  vi  sia un  principio  generale,  fondato  sull'esperienza,  che il  ragionamento  sottintende,  e  che  è  un  altro  ante- cedente logico  indispensabile  per  giustificare  il  pas- saggio dagli  antecedenti  enunciati  della  conclusione alla  conclusione  stessa.  Questo  principio  generale supposto,  questo  altro  antecedente  logico  che  noi cerchiamo,  non  è  che  il  principio  stesso  su  cui  sono fondati  tutti  gli  altri  concetti  metafisici  che  noi  ab- biamo percorsi  in  quest'  Appendice,  vale   a  dire  il cioè  del  corpo,  non  si  stabilisce  ha  i  due  ordini  di  fenomeni  che  un semplice  rapporto  esteriore,  non  si  rompe  1'  unità  e  continuità  del me  mentale,  spargendone  i  frammenti  tra  le  diverse  parti  del  me fisico.  Il  me  mentale  può  essere  concepito  come  una  semplice  serie di  stati  di  coscienza  ?  È  un'  altra  quistione,  a  cui  più  giù  avremo occasione  di  toccare. L'  argomento  che  dall'  unità  empirica  della  coscienza  conclude all'unità  assoluta  del  substratum  della  coscienza,  è  talmente  diffusa tra  i  filosofi  spiritualisti,  e  questa  scuola  gli  dà  tanto  peso,  che  noi non  possiamo  vedere  in  esso  un  semplice  sofisma  artificiale,  ma  dob- biamo vedervi  l'espressiona  di  un  sofisma  a  priori  o  naturale,  I  so- fismi di  questa  natura,  che  stabiliscono  come  intrinsecamente  evi- dente l'impossibilità  di  una  connessione  obbiettiva,  suppongono  una inconcepibilità  relativa ^  u^a  difficoltà  subbiettiva  a  formare  la  con- nessione ideale  corrispondente,  e  questa  difficoltà  non* può  essere che  un  risultato  dell'esperienza.  Ma,  in  questo  caso,  sembra  difficile di  spiegare  in  che  consista  e  donde  abbia  origine  l'inconcepibilità, poiché  non  vi  ha  un  concetto  più  abituale  e  fondato  su  esperienze più  familiari  che  quello  che  la  coscienza  ha  la  sua  sede  in  un  substra- tum, la  cui  unità  non  esclude  la  moltiplicità,  e  che  le  diverso  sen- zazioni  sono  localizzate  nelle  parti  differenti  di  questo  substratum (la  mano,  il  piede,  ecc.).  Noi  abbiamo  però  la  conoscenza  di  un  fe- nomeno psicologico  che  può  venirci  in  aiuto;  noi  sappiamo  cioè  che i  fatti  più  familiari  diventano  incomprensibili  dopo  che  la  scienza ha  mutato   il  modo   prescientifico    di   coj\cepire   questi  fatti.  L'in- principio  secondo  cui  le  cose  non  possono  cangiare di  natura,  e  una  stessa  sostanza  non  potrebbe,  in tempi  differenti,  avere  delle  proprietà  essenzialmente differenti.  Ammesso  questo  principio,  se  si  riconosce d'altra  parte  che  vi  ha  una  differenza  essenziale tra  le  proprietà  dell'essere  animato  e  quelle  della materia  inanimata  da  cui  esso  procede  e  a  cui  esso ritorna,  non  se  ne  deve  concludere  che  le  proprietà differenziali  dell'  essere  animato,  il  sentimento,  il pensiero,  l'attività  spontanea,  ecc.  suppongano  la  coo- perazione col  corpo  di  un'altra  sostanza  distinta  dal corpo  e  con  esso  temporaneamente  congiunta?  non se  ne  deve  concludere  inoltre  che  quest'altra  sostanza è  il  soggetto  reale,  il  vero  possessore,  del  sentimento, del  pensiero  e  delle  altre  proprietà  distintive  del— concepibilità  o  piuttosto  l' incomprensibilità,  su  cui  è  fondato  l'ar- gomento degli  spiritualisti,  potrebbe  derivare  da  questo,  che  la  teo- ria corpuscolare  ha  sostituito  al  concetto  naturale  di  un  corpo  uno e  continuo,    quale   sede  della  coscienza,  quello  di  una  moltiplicità- di  corpuscoli  separati  e,  nella  forma  più  ordinaria  della  teoria,  non solo  senza  continuità,  ma  anche  senza  contiguità  (o,  nell'atomismo metafisico,  di  una  moltiplicità  di  monadi).  Allora,  l'idea  dell'unità della  coscienza  essendo  per  noi  strettamente  associata  a  quella  del- l'unità  del   corpo,  una   coscienza   unica  che  sia  la  proprietà  di  un aggrega-to  di  corpuscoli  ci  sembra  cosi  incomprensibile  come  se  que- sta coscienza  unica  si  attribuisse  ad  un  gregge  o  ad  un  esercito.  Io- credo  che    sia   questa  la  difficoltà  che  costituisce  la  forza  probante del  sofisma,  quantunque,   nell'  espressione  dell'  argomento,  questo- punto   possa    talvolta   esser   perduto  di  vista,  e,  per  dare  all'  argo- mento una  portata  generale,  non  si  distingua  tra  una  materia  con- tinua, e  una  materia,  quale  si  ammette  effettivamente,  costituita  di corpuscoli  separati.  Si  ricordi  l'idea  di  Diderot  che,  per  evitare  la difficoltà  dell'unità  della  coscienza,  al  punto  di  vista  dell'ilozoismo» crede  necessario   di   ammettere   la   continuità    materiale  (e  non  la costituzione  molecolare)  dell'organismo. l'essere  animato,  in  modo  che,  come  è  essa  che  le ha  apportato  nel  corpo,  così  è  ad  essa  che  spettano dopo  avvenuta  la  separazione  dal  corpo,  quando questo  è  ricaduto  neirincoscienza  e  nell'inerzia  della materia  inanimata  ? Non  bisogna  però  dimenticare  che  l'inferenza  del filosofo  animista  non  è  ordinariamente,  come  le  al- tre inferenze  su  cui  sono  fondati  i  concetti  della metafisica,  che  un'  inferenza  incosciente.  Il  principio dell'immutabilità  dell'essenza  delle  cose,  che  la  con- clusione suppone,  non  determina  questa  come  un principio  coscientemente  invocato  e  riconosciuto; l'inferenza,  espressa  sotto  la  forma  logica  del  ragio- namento cosciente,  avrebbe  bisogno  di  questo  prin- cipio; ma  invece  di  esso  è  la  massa  delle  nostre esperienze  passate  di  cui  esso  è  la  generalizzazione, che  agisce  d'una  maniera  cieca  e  puramente  orga- nica, e  la  conclusione  che  esse  determinano  è  o  può essere  la  sola  cosa  di  cui  si  abbia  coscienza.  Noi comprendiamo  così  come  il  filosofo  animista  può non  ammettere  in  tutti  i  casi  il  principio  generale che^  praticamente,  egli  ammette  nel  caso  speciale; e  comprendiamo  pure  come,  per  giustificare  la  con- clusione, siano  spesso  impiegati  dei  ragionamenti capziosi  e  puramente  artificiali^  invece  del  ragiona- mento naturale  di  cui  essa  è  il  risultato. Una  conferma  della  spiegazione  data  dell'  o- rigine  dell'animismo  la  troviamo  nel  fatto  che  le altre  soluzioni  dello  stesso  problema,  che  lo  spirito umano  incontra  naturalmente  quando  respinge  la soluzione  animista,  sono  fondate  sullo  stesso  prin- cipio su  cui  questa,  secondo  noi,  è  fondata.  L'ilozoi- smo  e  la  dottrina  dell'identità  del  fisico  e  del  men- tale—le soluzioni  differenti  dell'animismo  del  pro- blema dell'origine  della  coscienza— riconoscono  an- ch'esse, lo  abbiamo  visto,  con  1'  animismo,  il  prin- cipio che  l'essenza  delle  cose  non  può  cangiare;  ed essi  non  evitano  la  conclusione  animista  che  ne- gando il  dato  di  fatto  che  ne  è  la  premessa,  cioè la  differenza  essenziale,  assoluta,  tra  il  cosciente  e r  incosciente.  Lo  stesso  fatto  si  osserva,  passando dalla  quistione  della  coscienza  a  quella  dei  caratteri puramenti  fisici  che  distinguono  i  corpi  animati: quando,  per  la  spiegazione  di  questi  caratteri,  non si  accetta  il  concetto  dell'anima  o  altri  concetti  ana- lot^hi,  si  ammette  invece  la  teoria  meccanica,  o  più generalmente  fisico-chimica,  della  vita  che  nega  la differenza   essenziale  tra  i  fenomeni  della  materia « animata  e  vivente  e  quelli  della  materia  bruta,  sal- vando così  il  principio  eh  'esso  ha  in  comune  con le  dottrine  rivali,  dell'  impossibilità  di  un  cangia- mento neiressenza  delle  cose.  Quest'osservazione  ci conduce  a  una  considerazione  generale  sui  concetti diversi,  e  apparentemente  opposti,  che  lo  spirito  u- mano  si  forma  delle  forze  e  della  loro  relazione con  la  materia,  e  sull'influenza  che  il  principio dell'invariabilità  essenziale  del  reale  ha  su  questi concetti.  Sarebbe  una  ripetizione  inutile,  se  insistes- simo sull'analogia,  da  una  parte,  tra  la  teoria  ani- mista e  la  teoria  vitalista  — la  quale,  sia  detto  per incidente,  si  presenta  pure,  come  la  prima,  sotto  le due  forme  distinte  della  materialità  (fluido  vitale  e concetti  simili)  e  dell'immaterialità  (for/.a  vitale  pro- priamente detta)— e  dall'altra  parte,  tra  le  dottrine materialiste  opposte  all'animismo  e  al  vitalismo,  il carattere  comune  delle  quali  è  l'identificazione  dei fenomeni  caratteristici  dell'animato  e  del  vivente  a quelli  dell'inanimato  e  del  non  vivente.  Ciò  che  ora dobbiamo  notare  è  che,  anche  nei  limiti  del  dominio della  semplice  materia  bruta,  noi  troviamo,  insieme all'antagonismo  di  una  concezione  materialista  che unisce  inseparabilmente  la  forza  alla  materia,  e  una concezione  dualista  che  fa  della  materia  e  della  forza due  entità  distinte  e  separabili,  l'accordo,  tra  Icxdue concezioni  antagoniste,  sopra  un  principio  comune, che  è  lo  stesso  nel  quale  convengono  le  soluzioni opposte  dei  problemi  della  coscienza  e  della  vita, cioè  l'invariabilità  dell'essenza  delle  cose.  Quando la  materia  presenta  dei  fenomeni  nuovi  che  prima non  presentava,  quando  viene  riscaldata,  illuminata, elettrizzata,  ecc.,  e  cessa  poi  di  presentare  questi  fe- nomeni, è  una  vera  concezione  dualista,  analoga  a quella  dell'  anima  o  della  forza  vitale,  di  spiegare il  fatto,  ammettendo,  come  giù  facevano  i  fisici,  dei fluidi  imponderabili  speciali,  la  cui  presenza  o  as- senza è  la  causa  della  presenza  o  assenza  nella materia  delle  proprietà  corrispondenti.  Si  suppo- neva che  il  calorico  o  l' elettrico  entrassero  nei corpi,  producendovi  lo  stato  particolare  rhe  si  chia- ma con  lo  stesso  nome  di  calore  o  di  elettricità, e  poi  ne  uscissero,  alla  cessazione  dei  fenomeni corrispondenti  (quantunque  in  verità  si  fosse  co- stretti ad  ammettere  che  i  fluidi  potessero  trovarsi nei  corpi  d'una  maniera  occulta  o  dissimulata,  cioè senza  manifestarvisi  con  dei  fenomeni  sensibili,  co- me il  calore  che  si  diceva  latente,  o  l'uno  dei  due I I .  I i? fluidi  elettrici  che  si  supponeva  neutralizzato  dal fluido  di  natura  contraria),  come  lo  spirito  o  la  forza vitale  sono  supposti  entrare  in  altri  corpi  per  pro- durvi la  coscienza  e  la  vita,  e  poi  separarsene,  alla cessazione  di  questi  stati  particolari.  Dal  principio che  una  sostanza  non  può  cangiare  di  natura  e  di proprietà,  si  concludeva  nell'  un  caso,  come  si  con- clude nell'  altro,  che  il  cangiamento  del  corpo  era dovuto  alla  presenza  e  all'  assenza  di  un'  altra  so- stanza distinta  dal  corpo  stesso,  la  sostanza  supposta ritenendosi  anch'essa  come  invariabile  nella  sua  es- senza, donde  la  necessità  di  distinguere  una  plu- ralità di  fluidi,  ciascuno  non  potendo  produrre  che un  ordine  di  fenomeni,  senza  di  che  si  sarebbe  ri- nunziato al  principio  dell'invariabilità  dell'essenza. Questo  dualismo  in  fisica  sembra  definitivamente abbandonato,  almeno  sotto  la  forma  semimaterialista, perchè  sotto  la  forma,  per  dir  così,  spiritualista,  che sostituisce  delle  forze  immateriali  ai  fluidi  impon- derabili, esso  ha  ancora  dei  rappresentanti  fra  i  fisici moderni,  come  Hirn,  che  partendo  «  dalla  diversità dei  fenomeni  per  concludere  alla  diversità  delle cause  »,  riconosce  nel  mondo  fisico  l'esistenza  di  tre elementi  almeno,  specificamente  distinti  dalla  ma- teria, capaci  di  manifestarsi  come  potenze  dinamiche (questi  elementi  sono,  oltre  alla  forza  gravifica,  che non  ha  rapporto  alla  presente  quistione,  la  forza  e- lettrica  e  la  forza  calorica).  Ora  la  fisica  non  ha potuto  abbandonare  questa  concezione  dualista  del rapporto  tra  la  forza  e  la  materia,  prima  di  iden- tificare le  varie  categorie  di  fenomeni,  già  attribuite ciascuna   a   ciascuno  di   questi  agenti  distinti,  che erano  supposti  per  rendere  conto  dell'  apparizione, a  un    certo    momento,  di   fenomeni    nuovi,  prima non  esistenti,  nella  materia,  e  dei  quali  perciò  non potè  farsi  a  meno  se  non  quando  cominciò  ad  am- mettersi che  i  fenomeni    non    sono  essenzialmente nuovi,  cioè  che  la  materia,   cominciando  a  mani- festarli e   poi  cessando  dal  manifestarli,  non  can- gia  perciò   di   proprietà  —  secondo    la   spiegazione meccanica  di  questi  fenomeni,  che  riducendoli  tutti al  movimento  che  i  corpi  si  trasmettono  secondo  le leggi  dell'urto,  non  vede  nella  materia  che  la  prò- prietà,  sempre  invariabilmente  la  stessa,  di  appro- priarsi il  movimento  ricevuto   per  impulsione  e  di trasmetterlo   per  lo  stesso   mezzo—.   Così   è   salvo, nella   nuova   teoria,  il   principio   dell'invariabilità dell'essenza  delle  cose,  che  già  avea  condotto  all'ipo- tesi antica    degli  imponderabili  come  agenti  speci- ficatamente distinti;  e  noi  vediamo  anche  qui.  come nella   quistione   della    vita   e    in    quella   della    co- scienza, da  una  parte  una   concezione    materialista (cioè  che  non  fa  la  forza  separabile  (falla  materia), fondata  sulla  identificazione  dei  fenomeni  differenti che  la  materia   in  condizioni   differenti    manifesta; dall'altra  parte  una  concezione  duaìista  (per  cui  là forza  è  separabile  dalla  materia),  che  suppone  degli agenti  speciali  per  ispiegare  la  presenza  e  assenza alternativa  di  speciali    fenomeni    nella    materia  ;  e l'una  e  l'altra  delle  due  concezioni  opposte  fondata sul  principio  comune  che  l'essenza  delle  cose  è  in- variabile.   Ciò  che  può  servire  a  mostrare    quanto vi  sia  di  vero  nell'osservazione  di  Bacone,  che  le opinioni  più  opposte  (io  non  dirò,  com'egli  effettivamente  dice,  le  illusioni  più  opposte)  derivano   il più  spesso  da  una  sorgente  comune. §  6.  D'una  maniera  generale,  l'ipotesi  del'anima è  destinata  a  spiegare  il  passaggio  della  materia, sia  dallo  stato  inanimato  allo  stato  animato,  sia dallo  stato  animato  allo  stato  inanimato  :  ma  noi non  potremmo  attenderei  dall'intelligenza  dell'uomo primitivo  che  egli  si  fosse  proposto  il  problema della  Aita  sotto  una  forma  rigorosamente  generale. Probabilmente  il  filosofo  selvaggio  non  si  dice  che la  materia  che  costituisce  l'essere  vivente  è  la  stessa materia  che  è  già  esistita  allo  stato  di  materia  bruta, e  che  perciò  la  trasnaturazione  di  questa  materia,  la acquisizione  delle  nuove  proprietà  vitali,  necessita riiitervento  di  un  altro  principio.  Ma  ciò  di  cui egli  non  può  mancare  di  essere  colpito  è  il  feno- meno della  morte,  1'  opposizione  fra  il  cadavere  e Tuomo  già  un  istante  prima  ancora  vivente.  «  Egli ha  visto,  dice  Huxley,  il  guerriero  pieno  di  una feroce  energia,  il  capo  dispotico  della  sua  tribù forse,  rovesciato  da  un  colpo  inatteso.  Un  fanciullo può  insultare  impunemente  1'  uomo  che  era,  non  è già  che  un  istante,  sì  terribile;  una  mosca  riposa  tran- quillamente sulle  sue  labbra  da  cui  uscivano  degli ordini  sempre  ubbiditi.  Pertanto  l'aspetto  lisico  di quest'  uomo  sembra  pressoché  lo  stesso  che  allor- quando egli  dormiva,  e  che  dormendo  si  immagi- nava esso  stesso  staccato  dal  suo  corpo  ed  errare nella  terra  dei  sogni.  Non  è  che  questa  qualche  cosa che  è  l'essenza  dell'uomo,  è  stata  costretta  in  effetto di  partire,  e  d'errare  al  di  fuori  per  la  violenza  che le  si  è  fatta  subire,  e  ci  trova  ora  incapace,  ovvero I l'i. 1> ^ìimentica,  di  ritornare  nel  suo  inviluppo?  Non  con- serva alcuni  dei  poteri  che  possedeva  durante  la vita  ?  »  (1)  Confrontiamo  questo  ragionamento,  che noi  prestiamo,  con  Huxley,  al  filosofo  selvaggio, col  ragionamento  di  un  filosofo  incivilito.  «  L'aspetto di  un  cadavere,  dice  Schopenhauer,  mi  mostra  che là  ogni  sensibilità,  irritabilità,  circolazione,  ripro- duzione, ecc.,  hanno  cessato.  Io  ne  concludo  con certezza  che  il  principio,  a  me  sconosciuto,  che metteva  tutto  ciò  in  attività,  ha  cessato  di  agire; che  esso  se  ne  è  dunque  separato  ».  (2) La  nostra  spiegazione  dell'origine  dell' animismo si  accorda  sino  ad  un  certo  punto  con  quella  di Tylor,  di  cui  ecco  il  riassunto  con  le  parole  stesse dell'autore:  «L'intelligenza  umana,  ad  uno  stato  di coltura  ancora  poco  avanzato,  sembra  sovratutto preoccupata  di  due  categorie  di  problemi  fisiologici. Cioè  :  primo  ciò  che  costituisce  la  differenza  tra  un corpo  A^ivente  e  un  corpo  morto,  la  causa  della  ve- glia, del  sonno,  della  catalessia,  della  malattia,  della morte.  Poi,  la  natura  di  queste  forme  umane  che appariscono  nel  sogno  e  nelle  visioni.  Meditando  su questi  due  ordini  di  fenomeni,  gli  antichi  filosofi  sel- vaggi devono  essere  stati  portati,  al  principio,  a  que- sta induzione  tutta  naturale  che  vi  ha  in  ciascun  uomo una  vita  e  un  fantasma.  Questi  due  elementi  sono  in istretta  connessione  col  corpo.  La  vita  lo  rende  atto a  sentire,  a  pensare,  ad  agire;  il  fantasma  è  la  sua  im- magine, un  secondo  se  stesso.  Tutti  e  due  pure  sono //  posìt.  e  la  se.  contenip.  in  Reu.  scient,  ser.  I.  t.  6.<> (2)  //  mondo  come  volontà  e  come  rappresentazione,  T.2.eap.  41. nettamente  separabili  dal  corpo,  —  la  vita  è  suscet- tibile di  ritirarsene,  di  lasciarlo  insensibile  o  morto; il  fantasma  può  apparire  a  persone  lontane.  Un  se- condo passo  ci  sembra  facile  per  questi  selvaggi, se  noi  consideriamo  l'estrema  difficoltà  che  provano le  genti  incivilite  a  romperla  con  questa  dottrina. Esso  consiste  semplicemente  a  combinare  la  vita  e il  fantasma.  Tutti  e  due  appartengono  al  corpo:  per- chè non  apparterrebbero  pure  l'uno  all'altro  ?  Perchè non  sarebbero  le  manifestazioni  d'una  sola  e  stessa anima?  Si  considerano  come  uniti?  si  ottiene  per risultato  questa  concezione  ben  conosciuta,  che  si potrebbe  chiamare  la  dottrina  àoìVanima  apparirlo' naie  o  AvWamìna-fantaswn.  Tale,  in  effetto  l'idea  che le  razzo  inferiori  si  fanno  dell'anima  personale  o  spi- rito. È  un'immagine  umana,  sottile,  immateriale,  un vapore  in  qualche  sorta,  una  nebbia,  un'ombra;  essa è  la  causa  della  vita  e  del  pensiero  nell'individuo che  anima,  la  padrona  indipendente  della  coscienza e  della  volontà  del  suo  possessore  corporale,  pre- sente o  passato;  essa  può  lasciare  il  corpo  dietro  di  sé e  trasportarsi  rapidamente  di  luogo  in  luogo;  gene- ralmente impalpabile  e  invisibile,  ma  suscettibile  an- che di  manifestare  qualche  proprietà  fisica,  apparisce agli  uomini,  nella  veglia  o  nel  sonno,  come  un  fan- tasma separato  dal  corpo  ma  di  cui  conserva  l'ap- parenza ;  dopo  la  morte  di  questo  corpo  continua ad  esistere  e  ad  apparire,  ed  ha  la  facoltà  di  pe- netrare, di  dominare  e  d'agire  nel  corpo  d'altri  uo- mini, d'animali,  ed  anche  nel  seno  d'oggetti  inani- mati. Senza  dubbio,  questa  maniera  di  comprendere Tanima  non  potrebbe  essere  universalmente  appli- cata;  ma  essa  è  sufficientemente  generale  per  ben renderei  V  idea  tipo,  che  non  fa  che  modificarsi  in ciascun  paese  con  divergenze  più  o  meno  pronun- ziate. Perchè  queste  idee,  che  si  ritrovano  dapper- tutto sulla  terra,  non  sono  delle  produzioni  pura- mente arbitrarie  e  convenzionali  dello  spirito  u- mano.  Sono  delle  teorie  che  derivano  forzatamente dalla  testimonianza  indubitabile  dei  sensi,  quale  la interpreta  una  filosofia  primitiva  realmente  conse- guente e  razionale.  D'altronde,  l'animismo  originale rende  conto  così  bene  dei  fatti,  ch'esso  ha  conser- vato il  suo  posto  nelle  sfere  più  elevate  della  col- tura. Modificato,  rimaneggiato  dalla  filosofia  classica, da  quella  del  medio  evo,  trattato  con  più  libertà ancora  dalla  filosofia  moderna,  esso  ha  si  chiara- mente conservato  le  tracce  del  suo  carattere  primi- tivo, che,  nello  psicologia  attuale  del  mondo  inci- vilito, le  prime  età  potrebbero  riconoscere  e  recla- mare il  loro  bene  »  (1). Come  si  vede,  il  Tylor — conformemente  d'altronde alla  maggior  parte  dei  pensatori  contemporanei  che hanno  considerato  la  quistione  dal  punto  di  vista dell'etnologia — annette  un'importanza  capitale,  per la  spiegazione  dell'animismo,  alla  interpretazione realista  del  sogno.  Ma,  si  può  domandare,  tale  in- terpretazione è  veramente  il  principio,  o  è  piuttosto la  conseguenza  della  dottrina  animista?  Ciò  che  fa pensare  che  uno  dei  punti  di  partenza  dell'idea  del- l'anima  sia  l'oggettivazione   delle  immagini    viste i nel  sogno,  è  specialmente  questo  tratto  dell'animi- smo popolare  per  cui  il  Tylor  lo  chiama  «  la  dottrina dell'anima — fantasma  »,  vale  a  dire  il  concetto  che l'anima  ha  la  forma  stessa  dell'uomo,  e  ne  è  come un'immagine.  È  sullo  stesso  fatto  che  è  fondata  laidea  di  v^edere  un  altro  dei  punti  di  partenza  del- l'animismo neiroggettivazione  dell'ombra  e  dell'ima- gine  riflettuta;  p.  e.,  dall'acqua.  Ma  se  noi  pensiamo alla  grande  importanza  che  il  semplice  principio dell'associazione  delle  idee  —  senza  niente  che  abbia la  rassomiglianza  più  lontana  con  un'inferenza  lo- gica —  ha  avuto  nella  formazione  delle  credenze  u- mane,  si  ammetterà  forse  che  questo  principio  può dare  una  spiegazione  soddisfacente  del  fatto  in  qui- stione, «  Se  si  esamina,  dice  Mill,  in  che  si  accor- dano la  più  parte  delle  cose  che  in  differenti  tempi e  da  diverse  nazioni  e  razze  sono  state  considerate come  dei  presagi  di  qualche  avA^enimento  impor- tante,  felice  o  infelice,  si  troverà  che  esse  offrono generalmente  questa  particolarità,  che  fanno  nascere nello  spirito  l'idea  del  fatto  che  sono  supposte  an- nunziare »  (1).  Il  Tylor  stesso  estende  questa  spiega- zione allo  arti  magiche  ed  alle  scienze  occulte  in generale  (2).  «  Ciò  che  ci  dà  principalmente,  egli dice,  l'intelligenza  delle  scienze  occulte  è  questa osservazione  che  esse  riposano  suU'  associazione delle  idee,  facoltà  che  si  ritrova  alla  base  stessa della  ragione  umana,  come  a  quella  della  sragione. (1)  Logica  1.  3"  o.  3". (2)  C.  IV. (1)  Civilizzaz.  primitiva  voi.   l*  cap.  11 cxc L'uomo,  benché  in  uno  stato  intellettuale  ancora molto  inferiore,  dopo  essere  pervenuto  ad  associare nel  suo  pensiero  delle  cose  che  l' esperienza  gli  ha insegnato  essere  materialmente  con  nesso,  arriva per  errore  a  intervertire  questo  rapporto  e  a concludere,  dalla  loro  associazione  subbiettiva, un'  associazione  obbiettiva  corrispondente.  Egli  ha cercato  così  d'indovinare,  di  predire  e  di  provocare degli  avvenimenti  per  mezzo  di  processi  di  cui noi  possiamo  oggi  riconoscere  il  carattere  pura- mente immaginario.  Un  vasti  insieme  di  testimo- nianze preso  nel  mondo  selvaggio  barbaro  e  in- civilito,  mostra  che  le  arti  magiche  risultano  da questo  errore  che  fa  prendere  un'associazione  ideale per  un'associazione  reale  ».  È  evidente  che  molte  idee dell'animismo  popolare  non  hanno  un'origine  di- versa :  sarebbe  inutile,  p.  e.,  di  cercare,  per  la  cre- denza generalmente  diffusa  che  gli  spiriti  frequen- tano i  cimiteri,  o  la  casa  che  essi  abitavano  quando erano  congiunti  col  corpo,  un'  altra  ragione  che quella  assai  naturale  che  questi  luoghi  sono  i  più propri  a  sugrerire  l'idea  degli  spiriti  dei  morti. Quando  un'associazione  d' idee  è  molto  intima,  noi abbiamo  qualche  cosa  che  si  avvicina  ad  una  vera necessità  mentale,  a  un  sofisma  naturale  o  a  priori — il  risultato  di  questo  Saggio  sarà  di  mostrare  che è  in  ciò  che  consiste  1'  essenza  di  questo  processo psicologico  a  cui  sono  dovuti  i  concetti  metafìsici in  generale  — .  L'  associazione  tra  delle  facoltà  psi- chiche che  noi  non  abbiamo  sperimentate  che  nel- l'uomo o  nell'animale  e  una  forma  esteriore  d'uomo o  d'animale  è  talmente  intima,  che  noi  potremmo vedere  quasi,  nell'idea  di  associare  a  un'entità  che è  supposta  godere  della  personalità  umana,  una  forma umana,  il  prodotto  di  un  sofisma  a  priori  del  nostro spirito:  non  solo  questa  era  un'immaginazione  na- turale, ma  l'intelligenza  dell'uomo  primitivo  doveva trovare  più   facile   a   comprendere  che  questa  ma- teria, di  cui  lo  spirito  era  costituito,  potesse  sentire, pensare,  ecc.,  avendo  la  forma  umana,  che  se  essa avesse  avuto  invece  una  forma  con  la  quale  il  sen- timento, il  pensiero,  ecc.  non  erano  stati  mai  tro- vati associati  nell'  esperienza.  Senza  dubbio  l'asso- ciazione che  legava  l'idea  dello  spirito  d'un  indi- viduo a  quella  della  figura  di  quest'individuo  non era  talmente  forte  da  agire   d'  una  maniera    simile sull'intelligenza    del  selvaggio:  ma    ammesso   una volta  il   principio   che  lo  spirito  aveva  una   forma umana,  niente  di  più  ovvio  che  di  attribuirgli  quella stessa  forma  individuale  con  cui  era  associato  nel- rimmaginazione.  Naturalmente  il  sogno  alimentava l'idea,  quantunque  nata  sopra  un  altro  terreno,  e l'allucinazione,  originata  dall'idea  stessa,  veniva  a darle  la  riconferma  più  evidente.  In  quanto    all'i- dentificazione dell'anima  con  l'ombra,  che  s'incontra in  alcune  popolazioni,  e  ad  altre  idee  analoghe,  si potrebbe    vedervi   delle   interpretazioni    posteriori, brutalmente    letterali,    di   espressioni    destinate    al principio  ad  indicare  l'incorporeità  dell'anima  e  la sua  forma  umana,  per  un  caso   di   quella   malattia del  lìiif/uaf/f/ìo,  in    cui    M.  Muller  vede  il   processo fondamentale  della  formazione  dei  miti. §  7.  Tra  le  idee  essenziali  della  metafisica  dei  po- poli poco  coltivati  non  si  trova  quella  dell'immor- f cxcn talità    assoluta    dell'  anima,   non    si    trova    almeno come  credenza  generale  :   la   credenza  alla  soprav- vivenza al  corpo  —  alla  quale  è  spesso  unita  quella alla  preesistenza  —  è  quasi  universale,  ma  è  molto diffusa   pure  l' idea   che    V  anima    può    subire    una seconda  morte  (1).  E'  evidente  tuttavia  che  il  con- <*.etto  dell'  immortalità  è  il   prodotto  naturale  e  ne- cessario d'  un  animismo    conseguente.  In   effetto   il presupposto  dell'animismo  è,  come  abbiamo  detto,  la impossibilità  che  ciò  che  sente,  pensa,  agisce,  ecc. divenga  insensibile,  incosciente,  inattivo,  ecc.,  e  vi- ceversa :  ora  la  conseguenza  di  questo    principio  è di  stabilire  fra  queste  due  forme  dell'esistenza  un dualismo  radicale,  in  modo  che  V  una  sia  assoluta- mente   inconvertibile    nell'  altra.  Allora,   non  sono possibili  per  un  animista  realmente  conseguente  che due  dottrine  :  s'  egli    non  ammette  la  possibilità  di una  creazione  e  d'un  annientamento  assoluti,  deve pensare  che  l'anima  (nella  sua  sostanza  almeno,  se non  nella  sua  esistenza  individuale)  è  senza  comin- ciamento  ne  fine,  eterna — è  la  dottrina  di  molti  fi- losofi antichi,  come  Platone,  i  Platonici,  i  Vedan- tini  (2)  e  le  altre  celebri  scuole  indiane  (3),  filosofi che  noi  possiamo  considerare  come  i  rappresentanti della  forma  più  sviluppata  dell'animismo  nel  mondo antico — ;  o  s' egli  ammette  la  possibilità  della  crea- ci) V.  Tylor  e.  XII. (2)  V.  Colebr.  trad.  Panth.  p.  179,  181-182,  Regnaud  In  Jiev,  phil. t.  5°  p.   171-172. (3)  V.  Colebr.  trad.  Pauth.  p.  22  (sankhya),  52-53  e  56-57  (nyaya), J70-71  e  73  (vaisechlka). zione  e  dell'annientamento  assoluto,  egli  deve  pen- sare che  l'anima  non  può  cominciare  ad  esistere  che per  creazione  né  potrebbe  finire  d'esistere  che  per un  annientamento  assoluto— è  la  dottrina  dello  spi- ritualismo moderno  (1)—.  Ma  l'uomo  primitivo  natu- ralmente non  è  capace  né  di  stabilire  dei  principii generali  né  di  sviluppare  sistematicamente  un'idea sino  alle  sue  conseguenze  ultime  :  egli  può  ben  im- maginare una  spiegazione  per  un  fenomeno  parti- colare da  cui  é  vivamente  colpito,  qual  è  la  morte del  suo  simile;  ma,  quantunque  nel  caso  particolare egli  ammetta  praticamente  il  principio  che  il  cosciente e  attivo  non  può  trasformarsi  nell'incosciente  e  inat- tivo,  egli  non  pensa  che^  per  la  stessa  ragione,  l'a- nima  non  deve  mai  morire;  perciò  egli  dovrebbe concepire  la  quistione  sotto  una  forma  universale, e  applicare  la  sua  meditazione  a  un  soggetto  troppo (4)  L'anima,  dice  S.  Aj?ostlno,  è  la  vita,  e  11  principio  della  vita per  ogni  essere  vivente.  Essa  dunque  non  può  morire  :  perchè,  se potesse  essere  senza  vita,  non  sarebbe  Panlma,  ma  una'-cosa  animata (che  non  ha  la  vita  per  se  stessa,  ma  la  deve  alla  presenza  dell'ani- ma). De  immortalit,  aniinae  e.  9.  L' argomento  di  Sant'Agostino  — che  non  è  al  fondo  che  quello  di  Fedone  fPhaedo  102  b  sqq;  11  solo tra  tutti  quelli  del  dialogo  che  Platone  dia  come  decisivo),  svolto dalla  mescolanza  con  la  dottrina  delle  Idee,  ed  espresso  sotto  una forma  più  propria  e  più  vibrata  — è  perfettamente  concludente:  l'al- ternativa della  vita  e  della  morte  nell'  anima  sarebbe  (n  contraddi- zione con  l' ipotesi  dell'  animismo  che  quest'  alternativa  negli  esseri viventi  deve  spiegarsi  per  la  presenza  e  la  separazione  del  principio della  vita.  Secondo  quest'ipotesi,  l'anima  stessa  non  potrebbe  perdere la  vita  che  perchè  il  principio  della  vita  si  separa  da  essa:  ma  al- lora la  vera  anima  sarebbe  questo  principio  della  vita  dell'anima,  e questa  sarebbe,  come  dice  S.  Agostino,  non  V  anima,  ma  un  che  di animato. CXCIY lontano  dalle  sue  percezioni  attuali  per  poterla  sol- lecitare. D'altra  parte,  l'esistenza  futura  dell'anima egli  non  l'immagina  che  sul  tipo  dell'esistenza  pre- sente —  conformandosi  a  questa  tendenza  naturale del  nostro  spirito  ad  assimilare  il  non  conosciuto  e il  non  familiare  al  conosciuto  e  al  familiare—.  L'a- nima nell'altro  mondo  mangia,  beve,  danza,  caccia, lavora  la  terra,  combatte,  ecc.;  i  suoi  beni  e  i  suoi mali  sono  i  beni  e  i  mali  stessi  di  questa  vita  (1)  : spinto  da  questa  tendenza  assimilatrice,  il  selvaggio finisce  per  ammettere  che  l'anima  può  essere  anne- gata, uccisa,  ecc.,  senza  accorgersi  che  perciò  egli si  mette  in  contraddizione  col  suo  punto  di  par- tenza. • L'idea  antica  della  materialità  dell'anima  sembrerà certamente  ad  alcuno  strana  ed  antifìlosofìca— tale è  la  forza  dell'abitudine—:  per  noi  invece  il  proble- ma è,  non  di  spiegare  come  sia  nata  l'idea  della  ma- terialità dell'anima,  ma  come  sia  nata  quella  della  sua immaterialità.  Il  concetto  della  materialità  si  spiega da  se  stesso,  poiché  è  evidente  che  noi  non  possia- mo concefttre  se  non  una  sostanza  materiale,  l'idea di  sostanza— cioè  di  un  quid  permanente  che  sia  il tìutìtrato  di  fenomeni  cangianti  —  essendo  per  l'in- telligenza umana  affatto  equivalente  all'idea  di  corpo. Ma  bisogna  riconoscere  nondimeno  nel  concetto  del- l'immaterialità  il  risultato  naturale  dello  sviluppo della  filosofìa  animista.  Questo  sviluppo  ci  mostra, come  dice  Spencer,  una  dhmaterializzazione  progres- <1)  V.  Tylop  e.  XUI. cxcv -    ■ siva  dello  spirito,  di  cui  il  primo  passo,  inevitabile per  non  mettersi  in  una  contraddizione  troppo  di- retta con  l'esperienza,  si  fa  già  nella  fase  più  an- tica della  dottrina,  concependo  l'anima  come  un  che d'impalpabile  ed  invisibile.  Noi  abbiamo  visto  inoltre che  la  conseguenza  logica  dell'  animismo  è  di  sta- bilire un  dualismo  radicale  tra  l'anima — l'essere  co- sciente e  attivo — e  il  corpo  —  l'essere  incosciente  e inattivo —,  in  modo  che  non  sia   possibile  il  pas- saggio dall'una  all'altra  di  queste  due  forme  della esistenza.  È  un  altro  passo  considerevole  verso  l'op- posizione assoluta  tra  le  due  sostanze,  il  quale  nella storia  della  filosofia  greca  è  rappresentato  dalle  teorie di   Anassagora   e   di  Platone:  ma  questo  dualismo non  è  ancora  incompatibile  con  l'idea  che  l'anima sia  una  cosa  estesa  nello  spazio,  una  sostanza  ma- teriale  particolare,    distinta    ed    opposta   a  tutte  le altre.  L'ultimo  j)asso  —  il  più  importante  al  punto di  vista  della   teoria   della    conoscenza,    perchè  si tratta  di  varcare  il   confine  che  separa  il   dominio del  rappresentabile  da  quello  dell'irrappresentabile —  è  anch'esso  un  portato  naturale  dei  presupposti generali  della  concezione  animista  :  l'idea  della  ma- teria ordinaria  è  già  strettamente  associata  nel  no- stro spirito  a  quella  della  incoscienza  e  della  inat- tività; quando  lo  stesso  corpo  vivente  diviene,  per usare  l'espressione  di  un  filosofo  spiritualista  (1)  un 4^orpo  di  morto^  in  cui  la  vita  non  risiede  che  come in  un  ricettacolo,  allora  il  concetto  di  materia  finisce (l)  Malebranche  Ricerca  della  verità,  XI  Schiarimento. CXCVI per  essere  V  equivalente  perfetto  di  una  sostanincosciente,  morta,  inattiva,  e  insuscettibile  di  mai acquistare  la  coscienza,  la  vita,  l'attività.  Questi  at- tributi non  sono  soltanto  legati  alla  materia  per un'associazione  intima  tra  le  idee;  il  legame  è  anche logico  ;  se  tutti  i  corpi  dell'  esperienza  sono  inco- scienti e  inattivi  e  incapaci  di  divenire  il  contra- rio, non  se  ne  deve  concludere  che  il  corpo  in  ge- nerale è  incapace  di  coscienza  e  di  attività  ?  Ne  se- gue che  l'anima  non  può  essere  una  sostanza  ma- teriale, e  il  dualismo  iniziale  arriva  cosi  al  concetto iperfisico  della  sostanza  spirito,  della  stessa  maniera che,  nel  dominio  della  natura  inanimata,  il  duali- smo analogo  dei  corpi  concepiti  come  assolutamente inerti  e  passivi  e  di  qualche  cosa  che  deve  ad  essi sopraggiungersi  come  principio  di  ogni  attività  ar- riva al  concetto  analogo  di  forze  trascendenti,  im- materiali, l'idea  di  forza  divenendo  necessariamente incompatibile  con  quella  di  materialità,  dopo  che  a questa  si  è  legata  l'idea  opposta  della  assoluta  inat- tività. Ma  ciò  che  dobbiamo  notare  è  che  tra  le  due forme  successive  dell'animismo  —  la  materialista  e la  spiritualista  —  1'  opposizione  non  è  così  assoluta come  pare  a  prima  vista  :  tutti  i  vari  modi  di  con- cepire la  sostanza  dell'anima,  dalla  grossolana  ma- terialità di  quelle  intelligenze  primitive  che  cer- cano le  impronte  dei  passi  degli  spiriti,  sino  al  più puro  spiritualismo  del  filosofo  moderno  che  nec^a che  l'anima  sia  in  un  luogo,  non  sono  che  dei  gradi differenti  di  un'evoluzione  continua,  in  cui  vediamo all'  opera  un  processo  di  sottilizzazione  e  di  astra- zione  progressiva   applicato  al  concetto  della  ma- teria,   quale  esso   risulta   immediatamente   dai   dati della  percezione  sensibile,  cioè  di  uia  cosa  che  può «ssere  vista  e  toccata.  Quando  l'antico  filosofo  ani- mista ha  soppresso,  nella  sostanza  dell'anima,  la  vi- sibilità e  la  palpabilità,  ma  lasciandovi    sussistere altre  determinazioni  della  materia,  quali    l'esten- sione,  il  movimento  ecc.,   una  tale  sostanza   non più  una  materia,  secondo  l'idea  primitiva  che  i  sensi ci  hanno  dato  della  materia,   ma,  siccome,  sin  da Cartesio,  noi  siamo  abituati  a  fare  dell'  esteso  1'  e- quivalente  esatto  del  corporeo,  noi  non  esitiamo  a riconoscere  che  la  sostanza  anima  di  un  tal  filosofo non  è  al  fondo  che  un  corpo.  Ora,  quando  il  filo- sofo spiritualista  moderno,  dall'antico  concetto  gros- solanamente materialista  dello  spirito,  oltre  la  vi- sibilità e  la  palpabilità,  toglie  anche  l'estensione, ma  lasciando  sussistere  la  sostanzialità,  l'operazione è  in   questo   secondo    caso  della   stessa   natura  che nel  primo;    si  tratta  di  una  nuova  astrazione  ope- rante sul  concetto  primitivo  della  materia;  e  ilresiduo è,  nel  secondo  caso,  una  determinazione  della  ma- teria,  come  nel  primo,   poiché  la  categoria  di  so- stanza, per  dirla  con  Kant,  non  è  applicabile   che ««gli  oggetti  dell'esperienza  esteriore,  o  a  ciò  che  ci è  dato  in  una  intuizione  nello  spazio  (1).  Il  concetto della  sostane  spirituale  non  può  dunque  essere  mo- dellato che  sul  tipo  delle  sole  sostanse  che  noi  co- nosciamo e  possiamo  rappresentarci,  le  materiali: (1)  V.  Analit,  trascendenU,l.2''  Scoi,  gener.  al  sistema  dei priH- eipii  2^  edlz.  Cfr.  Dialett,  trascendent.  1.  2°  Paralog,  della  rag. pura.  In  fine  del  capit.  e  Confutai,  delVargom,  di  Mendelsolm. Telemento  positivo  di  questo  concetto— la  sostanzia- lità —  non  è  tratto  che  della  materia  ;  il  semplice, rinesteso  e  il  resto  che  si  aggiunge  alla  parola  so- stanza, non  sono  che  degli  elementi  negativi,  espri- menti che  si  intende  fare  astrazione  di  certe  deter- minazioni della  materia. §  8.  L'idea  che  lo  spirito  è  una  sostanza,  cioè  che oltre  alle  sensazioni,  sentimenti,  pensieri,  volizio- ni, ecc.,  vi  sia  qualche  cosa  di  permanente  —  mate- riale o  immateriale— come  sustrato  di  questi  feno- meni, è  prima  di  tutto  una  conseguenza  necessaria dell'ipotesi  animista,  che  vede  nella  vita  il  risultato della  congiunzione  dei  due  elementi  di  cui  l'uomo e  ogni  essere  animato  si  suppone  composto,  e  nella morte  il  risultato  della  loro  separazione.  Non  vi  ha altra  rappresentazione  possibile  di  due  elementi  ca- paci di  stare  ora  uniti  ed  ora   separati  che   quella di  due  sostanze  materiali,  di  due  corpi,  che  possono /  cangiare  il  loro  rapporto  nello  spazio  —  ciò  che  ci mostra  sotto  un  altro  aspetto  la  verità  d'  un'  osser- vazione antecedente,  vale  a  dire  la   comunanza  di origine  tra  l'animismo  e  la  teoria  meccanica,  le  e- sperienze  familiari  che  servono  di  tipo  all'una  delle due  dottrine  potendo  riconoscersi  per  le   stesse,  al fondo,   che  quelle  che  servono  di  tipo  all'  altra  — . Così,  quando  il  doppio  materialismo  primitivo  è  stato rigettato,  questa  rappresentazione  non  potrebbe  più considerarsi  come  adequata  alla  realtà,  ma  resta  il concetto  astratto  di  due  sostanze  capaci  di  unirsi  e di  separarsi,  concetto  che  non  è  più  un4dea  rappre- sentabile dopo  che  runa  delle  due  sostanze  finisce di  considerarsi  come  un  corpo  e  come  capace  di  en- trare  con  l'altra  in  rapporti  di  spazio,  ma  che,  come tutti  i  concetti  trascendenti,  cioè  oltrepassanti  il  sen- sibili e  l' immaginabile,  non  è  modellato  che  sul sensibile  e  l' immaginabile,  vale  a  dire,  nel  nostro caso,  sulla  rappresentazione  primitiva  di  due  corpi che  si  uniscono  e  si  separano,  e  trova  in  questa rappresentazione  —  per  esprimerci  sotto  una  forma che  non  implichi  una  teoria  determinata  sulla  na- tura dei  concetti  trascendenti  —  un'approssimazione e  un  simbolo  indispensabili. Ma,  oltre  l'animismo  come  spiegazione  della  vita e  della  morte,  l' idea  che  lo  spirito  è  una  sostanza ha  un'  altra  sorgente.  Per  dilucidare  questo  punto, dobbiamo  entrare  in  alcune  considerazioni  che  non hanno  un  rapporto  molto  stretto  col  nostro  presente argomento,  ma  che  non  possiamo  evitare,  essendo esse,  oltre  alla  loro  importanza  per  la  quistione  del valore  dell'  idea  della  sostanza  spirito,  indispensa- bili per  comprendere  certi  sviluppi  di  quest'  idea che  ci  presenta  la  storia  della  metafìsica. Tutte  le  volte  che  lo  spirito  è  concepito  come  e- sistente  per  sé,  separatamente  dal  corpo,  noi  abbia- mo una  tendenza  quasi  invincibile  a  considerarlo come  una  sostanza,  cioè  a  supporre,  al  di  sotto  della serie  fluente  degli  stati  di  coscienza  che  costitui- scono lo  spirito  quale  fenomeno  dell'esperienza,  un quid  permanente  come  loro  sustrato.  Ciò  può  aver luogo,  anche  indipendentemente  dalla  teoria  animi- sta, del  che  possiamo  trovare  un  esempio  in  alcune proposizioni  di  Stuart — Mill.  Stuart — Mill  non  è  uno spiritualista,  e  nondimeno  egli  non  ammette  che  lo spiriso  sia  una  semplice  serie  di  stati  di  coscienza. H ce CCI «  Noi  siamo  forzati,  egli  dice,  di  riconoscere  che  cia- scuna parte  della  serie  è  attaccata  alle  altre  parti mediante  un  legame  che  loro  è  comune  a  tutte,  e che  non  è  la  catena  dei  sentimenti  per  se  stessi:  e come  ciò  che  è  lo  stesso  nel  primo  e  nel  secondo, nel  secondo  e  nel  terzo,  nel  terzo  e  nel  quarto,  e così  di  seguito,  deve  essere  lo  stesso  nel  primo  e nel  cinquantesimo,  quest'elemento  comune  è  un  e- lemento  permanente  »  (1).  Quest'elemento  permanen- te, distinto  dalla  catena  degli  stati  di  coscienza,  non può  essere  altra  cosa  che  la  sostanza  spirito  dei  fi- losofi spiritualisti,  quantunque  il  Mill,  poco  prima del  luogo  citato,  neghi  di  adottare  «  la  teoria  co- mune che  riguarda  lo  spirito  come  una  sostanza». Noi  dobbiamo  prima  di  tutto  sbarazzare  la  qui- stione  da  un  possibile  equivoco.  La  proposizione  che lo  spirito,  il  me,  è  una  collezione  di  sensazioni intendendo  naturalmente  per  sensazioni  tanto  i  dati della  percezione  esteriore  quanto  quelli  del  senso intimo^^non  è  che  la  semplice  espressione  dei  fatti dell'esperienza  interiore,  senza  mescolanza  d'ipotesi o  interpretazione  di  qualsiasi  natura:  ma  essa  non deve  intendersi  come  se  queste  sensazioni  che  co- stituiscono la  collezione,  fossero  altrettanti  elementi aventi  ciascuno  un'esistenza  propria  e  indipendente, come  degli  atomi,  fra  di  cui  non  vi  fosse  che  il rapporto  puramente  esteriore  di  una  semplice  juxta — posizione.  Tra  le  cose  esteriori  non  vi  hanno  altri rapporti  che  quelli  di  tempo  e  di  spazio  :  ma  tra  gli (1)  Ftlo8,  di  Hamilton  Appendice  ai  e.  11.  e  12.,  sulla  fine. stati  di  coscienza  che  costituiscono  un  me,  una  co- scienza unica,  oltre  i  rapporti  di  tempo,  cioè  di  suc- cessione e  di  simultaneità— qui  naturalmente  non  è a  parlare  di  quelli  di  spazio—,  vi  ha  un  rapporto più  intimo,  che  non  ha  niente  di  analogo  nelle  cose del  mondo  esteriore,  ma  che  se  noi  vogliamo  indi- i^are  con  un   termine  che  nel   suo   senso  proprio  e originario  non  può  convenire  come,  quasi  tutti  quelli che  appresta  il  linguaggio,  che  alla  realtà  esteriore, lo  possiamo  fare  con  le  parole  :  continuità  della  co-- scienza.   La   coscienza   è   un    tutto   uno   e  continuo, non  un  aggregato  di  elementi  indipendenti  :  è  que- sto un  fatto  evidente  deir  esperienza   interiore,   di cui  lo  stesso  Hume  sarebbe  convenuto,   se   la  qui- stione  gli  si  fosse  presentata  in  questi  termini.  Sta- bilire un  rapporto  tra  le  nostre  idee,  fare  un   ra- gionamento,   avere  la  percezione  di  un  tutto  com- plesso,    sarebbero   degli  atti   impossibili,  se  fra  le idee  successive  o  simultanee  da   cui  essi  risultano, non  vi  fosse  che  un  semplice  rapporto  di  simulta- neità o  di  successione,  come  quello  che  esiste  tra  le idee  di  Sé,   di  coscienze,  differenti.  Se  tra   queste idee  che  appartengQno  a  me  che  stabilisco  il  rap- porto, ragiono,  percepisco  il  tutto  complesso,  non  vi fosse  un  legame   particolare,  che   non    esiste  tra  le idee  di  spiriti  distinti,  sarebbe  altrettanto   possibile in  questo  caso  che  questi  elementi  si  riunissero  per costituire  l'atto  unico  del  rapporto,  del  ragionamento, della  percezione,   quanto   nel  caso  che  ciascuno  di essi  fosse  uno  stato  di   coscienze    differenti.    Pren- diamo per  esempio  un  semplice  rapporto  di  succes- sione o  di  coesistenza— ai  quali  si  riducono,  in  ul- Ti CCII tima  analisi,   al   punto  di  vista  semplicemente  ob- biettivo, tutti  i  rapporti  che  noi  possiamo  stabilire fra  le  nostre  idee  (l)~.Noi  non  percepiamo  le  suc- cessioni e  le  coesistenze  obbiettive  che  per  delle  suc- cessioni e  coesistenze  fra  le  nostre  percezioni,  e  non ci  rappresentiamo  questi  rapporti  che  per  dei  rap- porti corrispondenti  tra  le   nostre   rappresentazioni (in    quanto   alle   coesistenze   vi  sarebbero   delle  ri- serve da  fare,  ma  non  importano  alla  quistione  pre- sente). La  conoscenza   della  successione  e  della  si- multaneità  è  dunque  la  coscienza  della  successione e  della  simultaneità   delle   nostre  idee,  cioè  la  co- scienza delle  nostre  idee  come  successive  e  simul- tanee. Ora  avere  coscienza  della  successione  o  si- multaneità delle  idee  A  e  B,  o  di  queste  idee  come successive  o  simultanee,   importa    uno    sguardo   u- nico  della  coscienza,  una  coscienza  unica  che  riu- nisce la  coscienza  di  A  e  quella  di  B.  La  coscienza di  A  e  quella  di  B,  prese  ciascuna  isolatamente  e succedentisi  l'una  all'altra,  non  potrebbero  dare  la coscienza   del  rapporto   di  successione  tra   A  e  B: questa  coscienza  non  è  dunque  una  semplice  juxta- posizione,  un  aggregato,  delle  due  coscienze  succes- sive di  A  e  di  B,  ma  è  una  coscienza  unica,  conti- nua^ in  cui  le  due  coscienze   successive  sono  com- prese. Ma  costatare  l'unità  della  coscienza,  la  continuità tra  i  suoi  stati  successivi,  non  è  costatare  l'esistenza di    un    elemento   permanente,   accompagnante   eia- il)  V.  Saggio  1    e.  2. ceni scuno  di  questi  stati  successivi,  e  che  persiste,  sem- pre lo  stesso,    dal  primo  all'  ultimo  di  questi  stati (e  che    esiste    anche    negl'  intervalli    in  cui  alcuno stato  di  coscienza  non  esiste).  Sono  due  cose  diffe- renti,  di  cui  la  prima  è  un  fatto   d'  esperienza  in- terna, la  seconda  un'ipotesi  metafìsica.  È  evidente che  quando  MìU  conclude  dall'  una  delle  due  cose all'altra,  come  fanno  i  metafìsici,  egli  si  allontana dai  principii  fondamentali  della  sua  filosofìa,  cioè di  quella  dell'  esperienza.   Il   principio  supremo  di questa  filosofìa  è  che  non  bisogna  niente  ammettere in  virtù  di  una  semplice  evidenza  intrinseca,  spesso fallace,    ma  tutto  provare  —  senza  altra  eccezione che  i  portulati  indispensabili  ad  ogni  operazione  detta ragione,  che  è  impossibile  di  stabilire  col  ragionamen- to, perchè  ogni  ragionamento,  li  presuppone  (1)  —,  e provare  non  è  che  estendere  a  nuovi  casi  particolari  un rapporto  (di  sequenza,  di  coesistenza,  ecc.)  già  costata- to per  l'esperienza  nei  casi  identici,  tutte  le  volte  che quest'esperienza  è  tale  che  la  generalizzazione  del rapporto  ne  sia  garentita.  Nel  nostro  caso^  alle  dif- ficoltà logiche  che  solleva  il  criterio  della  evidenza intrinseca,    se    si    ammette  che  il  Me  trascendente è  conosciuto  a   priori,   per   un'  intuizione  della  ra- gione, si  unisce  l'impossibilità  psicologica  di  porre nello  spirito  un'  idea  di  cui  non    potrebbe  trovarsi l'origine  nell'esperienza.  Ma  noi  non  possiamo  nem- meno ammettere  che  l'atto  dello  spirito,  per  cui  il Me  trascendente  è  conosciuto,  sia  un'  inferenza  lo- ri) V.  Saggio  V  e.  9. cciccv I N * gioa.  Questa  proposizione:  «  la  continuità  della  co- scienza richiede  l'esistenza  di  un  Me  sostanziale, permanente  »,  stabilisce  fra  le  due  cose  un  legame che  —  se  si  ammette  che  esso  è  una  semplice  infe- renza —  r  esperienza  non  ha  mai  potuto  in  alcun caso  costatare.  Questa  proposizione  non  può  essere un  caso  particolare  di  una  proposizione  più  gene- rale già  induttivamente  stabilita,  perchè  il  fatto  di cui  si  tratta,  la  continuità  della  coscienza,  è  un fatto  unico  nel  suo  genere,  di  cui  l'esperienza  non presenta  un  analogo.  Ad  una  sola  condizione  po- tremmo noi  dunque  inferire  dalla  continuità  della coscienza  la  cosa  che  si  pretende  con  essa  legata, cioè  il  Me  sostanziale,  alla  condizione  cioè  che  noi conoscessimo  dei  casi  in  cui  il  legame  tra  le  due  cose fosse,  non  una  verità  d'inferenza,  ma  un  dato  del- l'osservazione. Non  vi  ha  dunque  che  un  mezzo  per rendere  la  proposizione  conciliabile  coi  principii  del metodo  sperimentale,  cioè  con  quelli  della  logica: è  di  supporre,  come  fanno  una  gran  parte  dei  filo- sofi spiritualisti,  che  il  legame  è  effettivamente  un dato  dell'osservazione,  che  il  Me  sostanziale  non s'inferisce,  ma  si  esperimenta,  si  percepisce.  Ma, per  questa  supposizione,  l'accordo  coi  principii  del metodo  sperimentale  non  è  che  apparente.  La  per- cezione è  uno  stato  di  coscienza  del  soggetto  per- cepente,  che  può  interpretarsi  sia  come  un  feno- meno puramente  subbiettivo,  che  non  esce  dal  sog- getto percepente,  sia  come  un  atto  che  oltrepassa questo  soggetto  ed  attinge  l'oggetto  percepito,  che perciò  si  suppone  presente  nella  coscienza.  Ma  per preferire    questa  seconda  interpretazione,  come  fa ripotesi  di  cui  parliamo,  non  vi  ha  che  questa  ra- gione da  poter  addurre,    che  la  portata  obbiettiva della  percezione,  la  presenza  dell'oggetto  nella  co-^ scienza,  è  una  credenza  naturale,  irresistibile,  che accompagna  la  percezione.  E  così  l'ipotesi  presup^ pone    il   principio  in  cui  noi  abbiamo  riconosciuto l'antitesi    di    quello  del  metodo   sperimentale,  cioè che  la  semplice    evidenza    intrinseca  è  un  criteria sufficiente,  che  la  credenza  è  una  prova  della  realtà della  credenza   stessa.  Ben  più,  in  questo  caso,  il rimedio  è  peggiore  del  male  perchè  l'evidenza  in- trinseca della    proposizione  che   l'unità   della   co- scienza suppone  un  Me  permanente,  sostanziale  pò- trebbe  forse  ammettersi  come  fatto  psicologico,  se non  come  criterio  logico,  ma  non  quella  della  pro- posizione   che  questo    Me  è  una   percezione  imme- diata   della    coscienza.  Quando  la  teoria  della  per- cezione immediata  si  applica  agli  oggetti  del  mondo esteriore,  essa  si  giustifica  per  un  appello  alla  cre- denza naturale  del  genere  umano;  ma  la  teoria  della percezione  immediata  della  sostanza  Me  non  è  una credenza    naturale    del    genere    umano;  non  è  che un'ipotesi  di  alcuni  metafisici,  immaginata  per  ispie- gare    la    possibilità  della  conoscenza  di  questa  so- stanza. E  un'ipotesi  delle  non  meno  strane,  che  pre- senta delle  inconcepibilità  come  queste:  1^  Si  ammet- te generalmente  che  la  sostanza  dello  spirito  è  un  che di  sconosciuto  e  d'inconoscibile,  e  la  divergenza  delle opinioni  dei  metafìsici  sulla  natura  di  questa  sostan- za è  una  prova  che  essa  non  può  essere  l'oggetto  di una  conoscenza  immediata;  come  la  natura  di  una. imme! latamente  presente  alla  coscienza  potreb COVI  be  restare  assolutamente  sconosciuta?  2^  La  perce- zione  suppone  una  dualità  di  termini,  un  soggetto percepente  e  un  oggetto  percepito,  mentre  qui  non vi  sarebbe  che  un  termine  unico  che  sarebbe  al  tem- po stesso  il  soggetto  e  I-oggetto  (1). Sembra  nondimeno  che  quando  noi  consideriamo il  Me,   il  complesso  dei   fenomeni  della  coscienza, separatamente  dal  suo  sustrato  corporale,  l' idea  di una  sostanza,  d'  una  cosa  che  perniane  durante  la successione  di  questi  fenomeni,  sia  una  suggestione naturale,    che  noi  non   possiamo    impedire   che   ci venga  allo  spirito,  per  quanto  possiamo  respingerne il  valore  obbiettivo.  È  un  fatto  d'osservazione  psi- cologica,   e  di  cui  Stuart-Mill  può  fornirci  un  e- sempio,    quest'idea  dovendo   avere  in   lui  un  mo- tivo  indipendente    dallo  spiritualismo   o,  general- mente, dall'animismo,  che  potrebbe  essere  appunto OCVII (1)  Stuart-Mill  non   si   f^nda,   per   istabUire  V  esistenza  del  me permanente,  suir  unità  della  coscienza  direttamente,   ma  sul  fatto della  memoria  come  implicante  l'attermazione  dell'unità  di  coscien- za, cioè,  per  dire  la  cosa  con  le  sue  stesse  parole,  la  credenza  che le  sensazioni  rammentate  hanpo  formato  realmente  una  parte  deUa stessa   catena   di   coscienza  di  cui  il  ricordo  di  queste  sensazioni  è la  parte  attualmente  presente.  Il  solo  fatto,  egli  dice,  che  rende  ne- cessaria la  credenza  a  un  Me,  il  solo  fatto  che  la  teoria  psicologica (la  quale  risolve  lo  spirito,  come  la  materia,  in  sentimenti  e  possi- bilità  di  sentimenti)  non   può   spiegare,  è  la  memoria.  La  nozione del  Sé  è  perciò  secondo  lui  un  accompagnamento   deUe  operazioni di  questa  facoltà,  ma  egli  non  vuol  decidere  se  noi  ne  abbiamo  di- rettamente  coscienza  neU'  atto  di  ricordarci,  o  se,  non  avendo  co- scienza di  un  Sé,  noi  siamo  forzati  d'  ammetterlo  come  una  condi- zione necessaria  deUa  memoria;  in  altri  termini,  se  noi  conosciamo Al  Sé  por  una  percezione   immediata  o  per  un'  inferenza  {ITilos.  di Hamilton  e.  12  e  App.  ai  e.  11  e  12). Non  vi  sarà  certamente  alcuno   che   metterà  in  dubbio  ii  fatto questo,  che,  negando  la  realtà  obbiettiva  della  ma- teria, egli  deve  rappresentarsi  lo  spirito  separata- mente da  un  sustrato  materiale.  Ora  quale  può  es- sere la  spiegazione  di  questo  fenomeno  psicologi- co ?  Ciò  che  deve  mostrarci  la  via  in  questa  ricerca è  il  principio  che  le  illusioni  naturali,  i  sofismi  a priori  del  nostro  spirito,  sono  il  risultato  di  coe- sioni mentali  puasi  inseparabili,  coesioni  mentali che  non  hanno  potuto  essere  formate  se  non  dal- l'esperienza :  ora  la  sola  sostanza,  la  sola  cosa  per- manente, con  cui  l'esperienza  ci  mostra  associato lo  spirito  o   la  coscienza,  e  con  la  cui   idea  l'idea che  la  memoria  implica  la  credenza  che  io  stesso,  l'io  che  ricorda, e  non  un  altro,  ho  avute  le  sensazioni  ricordate,  né  la  realtà  di questa  credenza  :  ma  questa  credenza  non  é  che  la  semplice  affer- mazione di  ciò  che  noi  abbiamo  chiamato  unità  della  coscienza. Ammettere  che  essa  contiene  inoltre  la  nozione  di  un  me  perma- nente—a meno  che  per  questo  me  permanente  non  s'intendala  per- sona  fisica^  la  cui  rappreseutazione  in  effetto  è  un  aacompa-gnamento abituale  del  ricordo  delle  sensazioni  passate  (vedi  il  seguito  del  te- sto) —  non  è  che  un  caso  di  queir  errore,  tante  volte  rimproverato al  metodo  introspettivo  nella  ricerca  psicologica,  di  vedere  nella  co- scienza dei  fatti  che  non  vi  sono,  prendendo  per  fatti  della  coscienza le  proprie  interpretazioni  di  questi  fatti.  L'esistenza  di  un  me  per- manente e  trascendente  (cioè  cha  non  è  né  i  fenomeni  della  coscienza né  la  persona  fisica  che  li  accompagna)  è  poi  cosi  poco  la  condizione necessaria  della  memoria  e  della  sua  realtà,  che,  nella  supposizione di  questo  me,  niente  vi  l.a  di  più  naturale  che  il  dubbio  di  Locke, se  l'identità  della  persona,  cioè  della  coscienza,  non  possa  conti- nuare, malgrado  che  la  sostanza  che  pensa  non  sia  più  la  stessa,  e se  questa  sostanza  rimanendo  la  stessa,  non  possano  esservi  nondi- meno più  persone  o  coscienze  distinte  (infatti  é  perfettamente  con- cepibile che  una  sostanza  abbia  la  convinzione  di  aver  fatte  certe azioni  o  avute  certe  sensazioni  che  un'  altra  invece  ha  realmente fatte  o  avute,  come  anche  che  questa  sostanza  perda  totalmente  il sentimento  deUa  sua  esistenza  passata  —  ciò  che  non  sarebbe  una pura  ipotesi,  ma  nn  fatto  dell'  esperienza  —  Saggio  sulVintend,  um. ■  -1  •  ;.- I   ■*>■ ff  «Il CCVIII dello  spirito  o  della  coscienza  ha  una  coesione  stret- tissima, quasi  inseparabile,  è  il  Me  fisico,  il  su- strato  materiale  di  questa  coscienza.  È  vero  in un  senso  che  la  concezione  del  Me  non  è  sem- plicemente quella  di  una  serie  di  sensazioni,  pen- sieri,  volizioni,  ecc.,  ma  comprende  inoltre  la  no- zione di  qualche  cosa  che  perdura  e  resta  sempre la  stessa  durante  lo  svolgersi  di  tutta  la  serie,  e che  questa  cosa  che  perdura  ce  la  rappresentiamo come  il  soggetto,  in  cui  le  sensazioni,  i  pensieri,  le Abolizioni,  ecc.,  ineriscono.  L'io,  che  nel  linguaggio dello  psicologo  non  è  che  il  nome  dello  spirito,  della coscienza,  nel  linguaggio  ordinario  significa  invece 1.  2.  e.  27).  Del  resto  lo  stesso  Mill  conviene  che  il  fatto  della  me- moria (e  quello   della    previsione   in   cui  egli  vede  pure  un  motivo per  ammettere  un  me  permanente,  ma  che  egli  riconduce  al  feno- meno della  memoria)  resta  egualmente  inesplicabile  tanto  se  si  am- mette la  teoria  che  il  Me  non  è  che  la  serie  dei  sentimenti,  quanto se  si  ammette  la  teoria  che  esso  è  altra  cosa  che  questa  serie.  «  La verità,  egli  dice,  è  che  noi  siamo  in  faccia  all'inesplicabilità  finale, alla  quale,  come  lo  fa  osservare  Hamilton,  arriviamo  inevitabil- mente quando  tocchiamo  ai  fatti  ultimi  j  e  in  generale  si  può  dire che  una  maniera   di   formularla   non   pare  più  incomprensibile  di un'altra  che  perchè  il  linguaggio  intero  è  appropriato  all'una,  e  si accorda  si  male  con  l'altra,  che  non  si  trovano  per  esprimere  questa che    delle   parole   che   la  negano.  La  vera  pietra  d' inciampo  è forse  meno  in  una  teoria  del  fatto  che  nel  fatto  stesso.  Ciò  che  vi ha  di  realmente   incomprensibile   è  forsa  che  una  cosa  che  ha  ces- sato d'  esistere,  o  che  non  ha  ancora    cominciato  ad  esistere,  possa nondimeno  essere,  in  eualche  sorta,  presente  :  che  una  serie  di  sen- timenti, di  cui  l'infinitamente  più  gran  parte  è  passata  o  avvenire, possa  essere  raccolta,  per  cos'i  dire,  in  una  sensazione  presente  ac- compagnata dalla  credenza  nella  sua  realtà  »  (e.  12.  sulla  flne). Una  proposizione  di  MiU  ha  per  noi  tanta  importanza  che  non possiamo  farla  passare  senza  discuterla,  quantunque  il  luogo  possa sembrare   inopportuno.   Ammettiamo   che   il    fatto  della  memoria, CCIX lo  spirito  e  il  corpo  insieme,  anzi  il  corpo  a  pre- ferenza dello  spirito.  È  evidente  infatti  che  il  pro- nome ?ne,  della  stessa  maniera  che  un  nome  desi- gnante un  sé  qualsiasi,  non  è  la  rappresentazione della  serie  degli  stati  di  coscienza  che  richiama  im- mediatamente al  pensiero,  ma  quella  della  persona fisica.  Di  più,  come  nel  modo  abituale  di  concepire  i fenomeni  psichici,  la  persona  fisica  è  il  soggetto  di questi  fenomeni,  così  è  mediante  la  rappresentazione dell'unità  e  identità  della  persona  fisica,  che  noi concepiamo  ordinariamente  l'unità  e  identità  della catena  di  cui  questi  fenomeni  fanno  parte.  Ciò  è evidente  quando  si  tratta  di  altre  persone:  come noi    non    possiamo    attribuire   un  fatto    psichico    a con  le  credenze  che  essa  implica,  sia  un  fatto  ultimo,  cioè  che  essa non  possa  ricondursi  a  delle  leggi  psicologiche  più  generali:  ne  se- gue che  fsso  è,  come  tutti  i  fatti  ultimi,  inesplicabile;  ma  ne  se- guirà pure  che  esso  è  incomprensibile  ?  Ciò  sarebbe  contrario  ali» teoria  della  conoscenza,  i  cui  principii  sono  stati  solidamente  stabi- liti dallo  stesso  Mill.  Se  noi  ammettiamo  che  il  fenomeno  è  l'unica esistenza  di  cui  possiamo  essere  certi,  bisogna  ammettere  pure  che* la  parola  incomprensibile,  quando  si  applica  ai  fatti  ultimi,  costanti,^ generali,  della  natura  o  dello  spirito,  non  ha,  senso,  che  essa  non indica  niente  almeno  che  abbia  un  valore  obbiettivo,  quantunque possa  indicare  un  fatto  psicologico  reale.  Un  fatto  particolare  è  in- comprensibile, se  esso  non  è  stato  sin  qui  ricondotto  alle  leggi  ge- nerali, ai  fatti  ultimi  :  ma  i  fatti  ultinìi  essi  stessi  non  possono  pre- sentare questa  specie  d'incomprensibilità,  la  sola  che  abbia  un  va- lore obbiettivo;  per  essi,  incomprensibile  non  può  significare  se  non che  che  vi  ha  qualche  cosa  che  oltrepassa  l'esperienza  e  i  fenomeni, la  quale,  se  la  conoscenza  umana  potesse  attingervi,  spiegherebbe  i fatti  in  quistione.  Noi  abbiamo  stabilito  che  questa  specie  d'incom- prensibilità non  è  che  un  fenomeno  psicologico,  senz'alcuna  portata obbiettiva.  Ma  nel  caso  presente  può  sembrare  difficile  di  assegnare l'origine  dell'  incomprensibilità,  perchè  questa  accompagna  i  fatti poco  o  niente  familiari.  Come  un  fenomeno  cosi  familiare  qual  è  la 4|1 l'    \ ccx CCXI nn  me  determinato  che  rappresentandocelo  in  con- nessione con  un  individuo  fisico  deteioninato,  cosi non  possiamo  attribuire  due  fatti  psichici  successivi a  uno  stesso  me  determinato  che  rappresentandoceli -entrambi  in  connessione  con  uno  stesso  individuo fisico  determinato.  Quando  si  tratta  di  noi  stessi, forse  la  regola  non  è  così  assoluta  :  ma  io  credo  che ciascuno  può  osservare  in  se  stesso  che  ordinaria- mente non  si  rappresenta  come  sua  una  situazione psicologica  in  cui,  in  un  passato  più  o  meno  lon- tano, si  è  trovato,  che  rappresentandosela  congiun- tamente al  suo  proprio  individuo  fisico;  e  che  una parte  almeno  di  questa  credenza  accomqagnante  ogni atto  della  memoria,  che  io  stesso,  e  non  un  altro, sono  quello  che  ha  fatto  l'azione  o  provato  la  sen- sazione ricordata,  è  Taffermazione  dell'identità  del me  fisico,  che  era  il  sogggtto  di    quest'azione  o  di memoria  può  dunque  sembrare  incomprensibile?  (quando  lo  afferma un  peraatore  come  Mill,  noi  dobbiamo  ammettere  che,  se  esso  non è  realmente  incomprensibile,  bisogna  almeno  che  quest'  apparenza d' incomprensibilità  sia  reale).  Io  credo  che  questa  difficoltà  si  ri- solva, ricordando  il  principio  che  i  fatti  stessi  più  familiari  diven- tano incomprensibili  quando  la  interpretazione  scientifica  di  questi fatti  è  differente  dalla  loro  in  tei  pret»*zione  prescientifica  e,  per  dir 'COSI,  natvirale,  e  riflettendo  che  questo  principio  trova  la  sua  appli- cazione anche  nel  fenomeno  della  memoria,  la  quale,  secondo  la •credenza  naturale,  non  è  una  rappresenrazione,  un'immagine  della cosa  ricordata,  come  ammettiamo  noi,  ma  attinge  e  involge  la  cosa stessa,  come  ammetteva  Reid  che  pretendeva  essere  il  restauratore delle  credenze  naturali.  Ciò  che  non  si  vede  però  è  come  questa incomprensibilità  della  memoria,  cosi  intesa,  possa  servire  a  pro- vare l'esistenza  di  un  me  trascendente);  ma,  come  abbiamo  visto,  il Mill  riconosce  che  rincomprensibilità  «nssiste  egualmente  tanto  se si  respinge  quanto  se  si  ammette  questa  ipotesi. questa  sensazione,  col  me  fisico  che  è  il  soggetto delle  mie  azioni  e  sensazioni  attuali.  Il  me  fisico,  oltre  che  è  concepito  come  il  soggetto,  il «ubstratum  necessario,  dei  fatti  psichici,  rappresenta, nel  nostro  pensiero,  l'unità  e  identità  della  coscienza, e  dà  la  coesione  alla  collezione  delle  sensazioni, formando  la  base  comune  a  cui  tutte  stanno  attac- -cate  :  ne  segue  che,  quando  noi  concepiamo  lo  spi- rito, la  serie  dei  fatti  della  coscienza,  come  separato dal  corpo,  ci  sembra  che  questi  fatti  siano  quasi delle  astrazioni  realizzate,  degli  accidenti  senza  so- stanza,  e  che  la  collezione  delle  sensazioni  abbia perduto  ciò  che  ne  costituiva  il  legame  e  la  continui- tà. Di  là  lo  sforzo  di  restitufre  alla  serie  il  suo  sub- stratum  e  il  principio  della  sua  coesione,  in  altri termini,  di  sostituire  un  equivalenie  al  me  fisico «oppresso.  Il  me  trascendente  è  dunque  un  succe- daneo della  persona  fisica,  che  il  metafisico  imma- gina naturalmente,  per  conformarsi  il  più  che  è possibile  a  un'abitudine  quasi  irresistibile  della  no- stra intelligenza — abitudine  che  genera  una  corri- spondente tendenza  a  credere,  per  la  legge  psico- logica, segnalata  da  Mill,  che  noi  tendiamo  a  cre- dere necessariamente  legate  le  cose  stesse  le  cui  idee sono  necessariamente  legate  —,  dopo  che  quest'abi- tudine non  può  essere  più  soddisfatta  nella  forma primitiva  e  genuina,  per  la  separazione  dello  spi- rito dalla  sua  base  materiale.  Noi  sappiamo  infatti —  ciò  di  cui  la  forma  secondaria  della  nozione  di causa  efficiente  ci  ha  mostrato  un  esempio  evidente —  che  il  nostro  spirito,  tutte  le  volte  che  una  cir- •costanza  qualunque  viene  a  contrariare  le  sue  ten- CCXII (lenze  naturali,  e  che  così  esso  è  costretto  ad  abban- donare le  prime  concezioni  che  si  era  spontanea- mente formato  dei  fenomeni,  è  inclinato  a  model- lare le  sue  concezioni  ulteriori  e  riflesse  intorno  a questi  fenomeni  sulle  spontanee  e  primitive.  Ora  il me  trascendente  non  si  concepisce  che  prer  analogia alla  persona  fìsica  :  esso  è,  come  questa,  una  so- stanza,  cioè  un  essere  che  sussiste  d'una  maniera permanente  ed  è  sempre  lo  stesso  nella  successione fenomeni  psichici;  il  soggetto  o  snbstratum,  a  cui questi  fenomeni  ineriscono  ;  e  ciò  la  cui  unità  e identità  è  la  base  dell'unità  e  identità  della  pei  sona. È  sempre  il  fantasma  del  corpo,  per  quanto  le  for- me sotto  cui  il  filosofo  moderno  lo  concepisce  pos- sano essere  lontane  dall'  antica  teoria  dell'  anima- fantasma. §  9.  Quando  la  sostanza  spirito  è  concepita  come immateriale,  e  al  tempo  stesso  come  un  che  di  di- stinto dai  sentimenti,  "pensieri,  ecc.,  in  una  parola dai  fatti  della  coscienza,  si  ha  necessariamente  l'i- dea di  una  sostanza  sconosciuta  e  misteriosa  (1)  di  cui non  ci  è  possibile  di  formarci  alcuna  nozione,  tutte le  nostre  nozioni  reali  non  avendo  altri  oggetti  che i  corpi,  le  presentezioni  dei  sensi  esterni,  e  i  fatti del  senso  intimo^  della  coscienza:  inoltre  la  dottri- na ha  questo  difetto  evidente,  al  punto  di  vista della  logica,  di  supporre  una  forma  dell'esistenza  che non  ha  alcuna  analogia  nell'esperienza.  Così  la  dot- trina dei  cartesiani  e  di  altri  filosofi^  che  la  sostan- ti) Il  filosofo   spiritualista   somiglia   al  re  Lear  di  Shakespeare, (|omandava  :  Chi  sa  di  essi  chi  sono  io  ? COXITI za  dell'anima  consiste  nel  pensiero  (ovvero  nel  sen- timento, nella  percezione,  ecc.)  —  quantunque  essa fiia  quella  che  si  allontana  di  più  dalla  forma  na- turale della  teoria  della  sostanza  anima,  vale  a  dire dal  doppio  materialismo  primitivo,  e  dalle  esperienze familiari  su  cui  la  teoria  in  generale  è  modellata,  e, per  conseguenza,  non  possa  dare  che  una  soddisfa- zione meno  completa  alle  tendenze  dello  spirito  che l'hanno  fatto  immaginare  —  pure  si  spiega,  non  solo come  uno  sforzo  assai  naturale  di  penetrare  1'  es- senza delle  cose,  ma  ancora  per  questo  vantaggio che  essa  ha  sullo  spiritualismo  ordinario,  di  non ammettere  altre  forme  della  realtà  che  quelle  che sono  date  dall'esperienza.  Ma  è  strano  che,  sia  che si  tratti  dell'  essenza  dello  spirito  sia  che  si  tratti di  quella  della  materia,  delle  due  ipotosi  tra  cui il  metafìsico  può  scegliere  quando  le  concezioni, pili  spontanee  sono  state  abbandonate,  e  di  cui  l'una consiste  ad  ammettere  una  forma  della  realtà  asso- lutamente sconosciuta  ed  inconoscibile,  e  l'altra  a  non riconoscere  altra  forma  della  realtà  che  quella  che, è  data  nella  conoscenza  immediata,  nella  coscien- za —  modo  di  vedere  che,  applicato  alla  materia,  dà luogo  al  panpsichismo  oppure  all'idealismo,  e  appli- cato allo  spirito,  alla  dottrina  che  la  sua  sostanza consiste  nel  pensiero  o  nel  sentimento  ecc.  —  è  stra- no,  dico,  che  delle  due  ipotesi  è  la  più  sperimen- tale che  è  il  punto  di  partenza  della  metafìsica  più astrusa   e    più   arrischiata. La  prima  conseguenza  che  si  offre  allo  spirito —  e  senza  dubbio  la  meno  allarmante  —  della dottrina  che  la  sostanza  dell'  anima  consiste  nel pensiero   (qui   la   parola   pensiero   deve    intenders CCXIY CCXY come  il  sinonimo  di  stato  di  coscienza  in  gene- rale) è  la  proposizione  cartesiana  che  l'anima  pen- sa sempre.  In  effetto  una  sostanza  deve  esistere d'una  maniera  continua  ;  così  se  in  questa  sostan- za non  vi  ha  altra  cosa  che  il  pensiero,  o  piuttosto se  essa  non  è  altra  cosa  che  il  pensiero,  non  può mai  darsi  un  istante  in  cui  essa  non  abbia  qualche pensiero.  Se  l'anima  cessasse  un  istante  di  pensare, la  sostanza  sarebbe  allora  annichilata,  e  una  nuova sostanza  sarebbe  creata,  quando  l'anima  ricomin- classe  a  pensare. Un'alra  conseguenza  è  la  teoria  delle  idee  innate. Questa  teoria  è  già  virtualmente  contenuta  nella dottrina  che  l'anima  pensa  sempre.  È  ciò  che  Locke comprese  perfettamente,  quantunque  egli  sembri  non aver  visto  che  il  punto  essenziale  a  decidere  tra  lui  e  i cartesiani  era  precisamente  se,  come  egli  1'  assume senza  provarlo,  la  sostanza  dell'anima  dovesse  ri- porsi in  qualche  cosa  di  sconosciuto,  ovvero  in  ciò che  solo  è  attestato  dalla  coscienza.  Se  l'anima  pen- sa sempre,  domanda  Locke,  quali  sono  le  idee  che si  trovano  nell'anima  d'un  fanciullo,  prima  della sua  unione  col  corpo,  o  al  momento  preciso  di  que- sta unione,  prima  d'aver  ricevuto  alcuna  idea  per la  via  dei  sensi?  Bisogna  allora  che  lo  spirito  abbia delle  idee  che  gli  sono  naturali,  e  che  egli  non  ha ricevuto  per  l'intermediario  del  corpo  (1).  In  verità, dalla  supposizione  che  1'  anima  pensa  sempre,  non ne  segue,  come  osserva  il  traduttore  francese  Coste, che  l'anima  abbia  avuto  delle  idee  prima  di  essere stata  unita  al  corpo,  poiché  essa  potrebbe  aver  co- minciato ad  esistere  nel  momento  stesso  eh'  essa  è stata   unita  al  corpo  :    ma  il    Coste   non    dovrebbe concludere  da  quest'osservazione  che  sin  dal  primo, momento  dell'esistenza  dell'anima,  i  sensi  possono, fornirle   delle   idee,    comunicandole  le  impressioni degli  oggetti  esteriori.  Prima  che  l'anima  abbia  una, sensazione,  il  corpo  deve  comunicarle  l'impressione ricevuta  dall'oggetto  esteriore;  la  sensazione  è  la  rea- zione dell'anima  che  segue  all'azione  del  corpo  su di  essa   (nell'ipotesi   che  il   corpo  e  l'anima    siano due  sostanze);  dunque  l'anima  deve  esistere  prima di  sentire.  Ma  inoltre  la  necessità  che  vi  sia  nello spirito  qualche  cosa  che  non   sia  dovuta  al    corpo, è  una  conseguenza    necessaria  del   concetto   che  lo spirito  esiste   indipendentemente   dal  corpo,   senza di  che  esso  non   potrebbe  essere   una  sostanza.   Se tutto  ciò  che  vi  ha  nello  spirito  di  reale  non  è  che un  effetto,  sia  immediato,  sia  mediato,  dell'azione del  corpo,  allora  l'esistenza  stessa  dello  spirito  sarà una  conseguenza  dell'  azione  del  corpo,  lo  spirito,, per  esistere,  dipenderà  dal  corpo,  non  esisterà  per sé  stesso,  e  per  conseguenza  non  sarà  una  sostanza»^ La  necessità  delle  idee  innate  derivava  per  Carte- sio dalla  definizione  stessa  della  sostanza  (una  volta che  egli  concepiva  lo  spirito  come  una  sostanza,  e come  una  sostanza  consistente  nel  pensiero)  :  «  una cosa  che  non  ha  bisogno  se  non  che  di  se  stessa  per esistere  »,  o,  per  non  pregiudicare  alla  dipendenza ■:-*v (1)  Saggi  snll'intend.  U  2^  e.  1"  §  17  sqq. /'l'f l CCXVI CCXVII A delle  cose  finite  da  Dio,  «  che  può  esistere  senza l'aiuto  d'  alcuna  cosa  creata  »  (1).  E  la  definizione è  perfettamente  esatta:  i  fenomeni,  cioè i  cangiamenti,  delle  sostanze,  vale  a  dire  dei  corpi, dipendono  dall'  azione  di  altre  sostanze,  di  altri corpi;  ma  l'esistenza  stessa  dei  corpi  è  indipendente da  quella  di  altri  corpi.  Deve  esservi  dunque  nella sostansa  anima,  come  nei  corpi,  qualche  cosa  di  pro- prio che  le  appartentenga  per  sua  natura  e  che non  sia  una  conseguenza  dei  suoi  rapporti  con  al- tre sostanze  :  ma  niente  resterebbe  all'anima  di  pro- prio e  appartenente  ad  essa  per  sua  natura  —  nella supposizione  che  tutto  ciò  che  vi  ha  in  essa  non  è ehe  pensiero  —  se  tutte  le  sue  idee  fossero  nate dai  sensi,  e,  quindi,  avventizie  e  dipendenti  dal oorpo  (2). (1)  Principii  della  filosofia,  I  parte,  51-52. (2)  Ecco  come  V  anonimo  cartesiano,  autore  del  Trattato  della natura  delV anima  e  dell'origine  delle  sue  conoscenze  contro  il  sistema di  Locke  e  dei  suoi  partigiani,  stabilisce  che  vi  sono  delle  idee  che l'uomo  riceve  da  Dio  prima  che  1  sensi  possano  agire  su  di  lui  : *  L'anima  essendo  essenzialmente  spirituale,  essendo  stata  creata  pen- «ante,  bisogna  necessariamente  che  sin  da  questo  primo  istante  vi  sia qualche  o";;3tto  raale  al  quile  es^ia  p?n^a;  perchè  potrebbe  dirsi  che Jh  questo  primo  momento  Tanima  pensa  a  nulla  ?  Pensare  a  nulla  e non  pensare  affatto  è  la  stessa  cosa.  Se  dunque  si  ammette  che  l'a- nima pensa  tosto  che  essa  comincia  ad  esistere,  si  deve  indispensabil- convenire  ancora  che  essa  ha  sin  d'allora  un  oggetto  a  cui •essa  pensa  ». Leibnitz   obbietta   a   Locke  :    «  Questa  tavola  rasa  di  cui  tanto  si parla   nan  è  a  mio  avviso  che  una  finzione Quelli  oke  {uirUno tanto  di  questa  tavola  rasa,  dopo  d'averle  tolto  le  idee,  non  potreb- bero  dire   che   cosa  le  resti Mi  si  risponderà   forse  che  questa tavola  rasa  del  filosofi  vuol  dire  che  l'anima  non  ha  naturalmente «d  originariamente  che  delle  facoltà  nude.  Ma  le  facoltà  senza  qual- che atto,  In  una  parola,  le  pure  potenze  della  scuola,  non  sono  ';he Il  concetto  delle  idee  innate  non  è  così  innocente al  punto  di  vista  della  correttezza  intrinseca  come quello  della  continuità  del  pensiero  nell'anima.  Se, come  abbiamo  visto  nel  saggio  1^,  è  dell'essenza stessa  del  pensiero  di  risolversi  in  elementi  sensoriali, un  preteso  pensiero  che  non  constasse  di  elementi sensoriali,  non  sarebbe  un  pensiei'O  —  mcondo  il  solo concetto  concepibile  che  noi  possiamo  formarci  del pensiero  —  :  la  teoria  delle  idee  innate  è  dunque  un concetto  metafìsico  nel  senso  più  stretto,  non  es- sendo un  semplice  errore  di  fatto,  ma  un'impossi- bilità logica. Ma  quand'anche  non  fosse  così,  questa  teoria  me- finzlonl,  che  la  natura  non  conosce,  e  che  non  si  ottengono  che facendo  delle  astrazioni  ».  (iT.  S.  sull'inte/id.  1.  2"  e.  1"  §  2).  Le  Idee innate  In  Leibnitz  riposano  sulla  base  stessa  che  In  Carlerlo  :  quan- tunque talvolta  egli  si  o:)ponga  alia  dotti-ina  cartesiana  nella  sostanza dell'  anima  (p.  e.  neW  Esame  di  Melebranclie,  ed.Dutens.t.  2"  p.  1" pag.214,  ove  dice:  lo  spirito  non  è  11  pensiero,  come  dicono  1  carte- siani, ma  un  soggetto  o  an  concretnm  che  pensai  tuttavia  la  sua  pro- pria dottrina,  in  ottima  analisi,  non  differisce  essenzialmente  da  quella di  Cartesio.  Nelle  monadi  non  vi  ha  altra  cosa  che  percezioni  ed  ap- petiti ;  anzi,  le  monadi  non  sono  altra  cosa  che  rappresentazioni  di ienomeul  col  transito  a  nuovi  fenomeni,  cioè  che  percezioni  ed  ap- petiti (Cfr.  e.  2"  §  16  p.  15H).  È  In  (lueste  proposizioni  che  dobbiamo vedere  l'espressione  del  vero  pensiero  pi  Leibnitz,  perchè  la  mona- dologia,  come  tutte  ie  altre'varletà  del  panpsichismo,  suppone  II principio  che  non  si  può  ammettere  altra  forma  della  realtà  che ^luella  che  è  data  nella  es^)erlenza  Immediata,  nella  coscienza. Citiamo  infine  Rosmini  :  «  I  filosofi  che  immaginano  1'  uomo  a principio  pi  ivo  di  ogni  sentimento,  lo  fanno  veramente  una  statua: «  (luando  in  questa  statua,  che  non  è  un  soggetto  sensitivo,  praten- dono  che  al  toccamento  del  corpi  esterni  nascano  le  sensazioni,  seb- bene nella  statua  nulla  ci  sia  di  slmile,  descrivono  allora  un  proce- dimento Inesplicabile,  un  mistero  contrarlo  all'ordine  consueto  della natura.  Dico  un  procedimento  inesplicabile,  perchè  sì  fatta  origine del  sentimento,  che  comincia  di  tratto  a  trovarsi  là  dove  punto  non c'è,  oltrepassa  V  Intelligenza  nostra  quanto  la  creazione  dal  nulla. Tale  Ipotesi  è  altresì  contro  l'ordine  costante  della  natura,  la  quale 1CCXYIII COXTX riterebbe  sempre  di  avere  un  posto  nella  storia  dei concetti  metafisici  (in  questo  senso  più  stretto),  in grazia  almeno  della  dottrina  della  visione  ideale^  di cui  essa  è  uno  dei  punti  di  partenza.  Tutte  le  volte che  si  ammettono  nello  spirito  delle  conoscenze  in- dipendenti dall'  esperienza,  nasce  il  problema  di spiegare  la  possibilità  e  l'origine  di  queste  cono- scenze; e  una  delle  soluzioni  che  si  presenta  natu- ralmente al  metafìsico  è  che  queste  conoscenze  ven- gono da  una  percezione  sovrasensibile,  intellettuale. Questa  spiegazione  si  conforma  perfettamenfe  al tipo  generale  delle  spiegazioni  metafìsiche,  che  con siste  a  ricondurre  il  fatto  a  spiegare,  vero  o  sup- posto, alle  nozioni  che  ci  sono  più  familiari.  Ciò  è tanto  vero  che  la  dottrina  della  intuizione  ideale suppone  che  l'oggetto  intuito  è  immediatamente  pre- sente al  pensiero  intuente,  della  stessa  maniera  che  il realismo  naturale  suppone  che  1'  oggetto  percepito dai  sensi  è  immediatamente    presente   nella  perce- non  opera  per  salto  :  e  eerto  vi  sarebbe  uu  saUo,  ove  noi,  al  tocco che  (U  noi  fa  un  corpo  esterno,  passassimo  dal  non  sentir  punto  noi stessi,  a  sentire  di  repente  e  noi  stessi. e  qualche  cosa  fuori  di  noi. Contemporaneo  a  (luel  movimento  esterno,  clie  non  ha  nulla  di  slmile con  la  sensazione,  si  sarebbe,  per  così  dire,  acceso  in  noi  e  creato uno  spirito;  polche  quale  idea  ci  possiamo  noi  formare  dello  spirito privo  al  tutto  di  qualunque  sentimento  e  di  quaitn  [ue  pensiero?  Lo spirito  non  ha  estensione  né  altre  qualità  di  corpo;  togliete  a  lui anche  le  qualità  dello  spirito,  che  sono  il  sentire  e  l'Intendere,  e  voi l'avete  annullato,  o  certo  nella  vostra  mente  V  idea  di  uno  spirito  è al  tutto  svanita;  purché  supplendo  voi  a  quella  con  un  giuoco  della vostra  immaginazione,  non  v'immaginiate  poi,  o  fingiate  d'Immagi- narvi,  uno  spirito  d'una  specie  quale  non  è  data  nò  dall'osservazione né  dalla  coscienza,  e  noi  mettiate  nel  luogo  dello  spirito  vero  del quale  avete  cancellata  l'idea  »,(N>S,  snlVorig»  delle  idee,  v.  2"  n.  718). * zio  ne  sensibile,    quantunque  la  gran  maggioranza dei  filosofi  moderni  rigetti,  su  questo  punto,  la  cre- denza naturale,  sostituendole  la  teoria,  che  ciò  che lo  spirito  percepisce  immediatamente  è,  non  1'  og- getto stesso,  ma  una  rappresentazione  dell'oggetto. Ora  la  prevalenza,  nella  scienza,  della  teoria  rap- presentativa non  impedisce  che  la  maniera  più  fa- miliare di  concepire  il  fatto  della   percezione  —  in cui  lo  stesso  filosofo  rappresentazionista   lo  conce- pisce spontaneamente   tutte  le  volte  eh'  egli  ha  una perceziona— sia  appunto  quella  del  realismo  natu- rale. Cosi  è  su  questa,  non  sulla  nozione  scientifica della  percezione  rappresentativa,  che  il  metafisico modella  la  sua   visione    ideale:    Malebranche    non dubitava  della  dottrina  generalmente  ammessa  dai filosofi  della  sua  epoca,  che  noi  non    percepiamo  i corpi  che  per  l' intermediario  di  una  rappresenta- ziene;  ma  se  egli  avesse  ammesso,  in  conseguenza, che  è  di  questa  stessa    maniera    che    noi    vediamo le  idee  in  Dio,  la  visione  ideale  non  sarebbe  stata più  per  lui  una  spiegazione  delle  idee  innate,  per- chè egli  non  avrebbe  ricondotto,  allora,  il  fatto  da spiegare  alle  nozioni  più  familiari  del  nostro  spi- rito (1). La  dottrina  che  lo    spirito  è  una  cosa    che  dura- ci) La  dottrina  delle  idee  innate  può  essere  così  bene  II  principio, che  la  conseguenza,  della  dottrina  dell'intuizione  intellettuale.  Quan- do troviamo  la  dottrina  dell'  intuizione  intellettuale  unita  a  quella che  la  sostanza  dell'anima  consiste  nel  pensiero,  o  ad  un'altra  ana- loga sulla  sostanza  dell'anima,  la  quale  supponga  che  questa  conten- ga in  sé  delle  idee  anteriormente  all'  esercizio  dei  sensi  (come  p.  e. nei  sistemi  di  Matebrauche  e  di  Rosmini),  evidentemente  noi  dobblama considerare  come   uno  almeno  dei   punti  di   partenza  della   dottrina ■"^T ccxx CCXXI i f i i f  • continuamente  (che   esso   pensa  sempre),   e   quella che  esso  esiste  per  se,  che,  per  esistere,  non  dipende dal  corpo,    aA^vicinano  certamente  la  nozione  dello spirito,  concepito  come  non  contenente  in  se  altra •cosa  che  il  pensiero,  alla  nozione  di  una  sostanza: ma    perchè    l'assimilazione   dello    spirito    alla    so- stanza sia  la  più  completa  possibile,  bisogna  anche ammettere  in  lui  un  fondo  permanente,  un  elemento che  persiste   sempre  lo  stesso,  nel  mutamento  con- tinuo  dei   fenomeni,   e   che   sia  il  sustrato    in   cui questi  fenomeni   cangianti  ineriscono.    È  questa  la proprietà  più  caratteristica  della  sostanza,   per  cui noi    r  abbiamo    definita.    Ora,    nella    supposizione che    nello    spirito  non   vi  sia   altra   cosa  che  pen- siero, o  sentimento,   ecc.,   in  una   parola  che   tutto il  suo  contenuto  debba   essere   concepito   per   ana- logia ai  dati  della  coscienza^   questo  fondo  perma- nente dello  spirito,   questo  sustrato  dei  suoi   feno- meni   cangianti,    non    può    essere    altra    cosa    ohqualche  pensiero,  o  sentimento,  ecc.,  in  una  parola qualche  cosa  di  analogo  ai  fatti  reali  della  ooscionza. Di  là  il  concetto  che  la  sostanza  dello  spirito  è  un sentimento  o  un  pensiero  sostanziale,  cioè  imma- nente e  continuo,  di  cui  tutti  i  fenomeni  transitori della  coscienza  sono  dei  modi  di  essere,  come  tutti i  fenomeni  transitori  del  corpo  sono  dei  modi  di essere  della  sostanza  del  corpo,  che  persiste  al  di sotto  di  questi  cangiamenti. I  Cartesiani  non  potevano  mancare  di  sviluppare in  questo  senso  la  dottrina  del  maestro.  «  L'essenza dello  spirito,  dice  Malebranche,  non  consiste  che nel  pensiero,  come  l'essenza  della  materia  non  con- siste che  nell'estensione Per  questa  parola  pen- siero io  non  intendo  le  modificazioni  particolari dell'anima,  tale  o  tal  altro  pensiero,  ma  il  pensiero sostanziale,  il  pensiero  capace  di  ogni  sorta  di  mo- dificazioni o  di  pensieri,  come  per  l'estensione  non s'intende  una  tale  o  tal  altra  estensione^  la  rotonda i^ dev'Intuito  la  dottrina  delle  idee  Innate,  e  quella  sulla  sostanza  del- l'anima come  punto  di  partenza  più  lontano.  Ma  la  dottrina  dell'In- tuito non  è  stata  Immaginata  soltanto  per  Lspiegare  le  Ideo  Innate: considerata  in  generale,  essa  ha  per  o;?getto  di  spiegare  le  idee  e  le concsi-enze  che  si  suppongono  indipendenti  dall'esperienza,  qualun- que sia  il  motivo  che  faccia  ammette^'e  delle  Idee  e  dello  conoscenze di  questa  specie. È  evidente  che  ([uesto  motivo  non  è  unicamente  una certa  dottrina  sulla  sostanza  dell'anima:  quasi  tutti  1  metafisici,  qua- lunque  siano  le  loro  Idee  sull'essenza  dello  spirito,  ammettono  che le  verità  che  ci  sembrano  intrlnslcamente  evidenti,  sono  Indipendenti dall'esperienza,  opinione,  che,  come  abbiamo  detto  nel  Saggio  1",  può riguardarsi  come  11  risultato  di  un'  inclinaaione  naturale  del  nostro spirito.  Alla  tendenza  spontanea  che  ci  fa  considerare  lo  verità  che «ombrano  intrlnslcamente  evidenti  come  a  priori,  si  aggiunge  questa forma  di  speculazione  metafìsica,  che  abbiamo  studiata  nei  cnp.  VI. e  VII.,  il  cui  oggetto  ò  di  convertire  le  verità  (o  pi^etese  verità)  In- duttive in  verità  Intrlnslcamente  evidenti,  e  quindi  a  priori.  Ciascuno di  questi  motivi  della  teoria  delie  conoscenze  a  priori  può  avere  per effetto  mediato  la  dottrini  dell'intuito  razionale,  e  quella  delle  idee innate  che  ne  è  la  conseguenza. Un  altro  m<»tivo  che  produce  la  dottrina  delle  idee  innite  per  la  me- diazione di  quella  dell'intuito,  può  trovarci  nella  stessa  teoria  ordinarla sulla  sostanza  dello  spirito,  che  considera  questo  come  un  che  di  di- stinto  dal  fenomeni  della  coscienzi,  e  di  sconosciuto  nella  sua  essenza (spiritualismo).  Quando  11  filosofo  spiritualista  ammette  la  dottrina della  percezione  immediata  degli  oggetti  esteriori  —  ciò  che  è  la  re- gola nella  filosofia  spiritualista  dell'ultimo  secolo -egli  è  natural- mente portato  ad  estendere  per  analogia  la  stessa  dottrina  alla  so- stanza me,  dò  che  Implica  Videa  innata  del  me  come  sostanza  (al- meno (juan  lo  si  «uppo»»e .  come  sembra  11  più  naturale,  che  questa percezione   che  il    me  hi  di    se  stesso,    è  Immauante). •^^tmma^rmtm CCXXII CCXXIII o  la  quadrata,  ma  Testensione  capace  di  ogni  sorta di  modificazioni  o  di  figure  »  (1).  L'autore  paragona altrove  le  differenti  percezioni  particolari  dell'ani- ma, relativamente  alla  sostanza  dell'anima,  cioè  alla percezione  o  pensiero  sostanziale  che  ne  costituisco l'essenza,  alle  differenti  figure  che  può  ricevere  la cera,    relativamente  alla  cera  stessa  (2).  Kegis  de- finisce l'anima  :  un  pensiero  che  esiste  in  se  stesso e  che  è  il  soggetto  delle   diverse    maniere  di  pen- sare. Egli  distingue  il  pensiero,   che  costituisce  la sostanza  dell'  anima,    e  i  pensieri  particolari,  che non  ne  sono  se  non  delle  modificazioni    differenti: vi  ha  questo  divario  tra  il  pensiero,  che  costituisce la  mia  natura,    e  quelli  i  quali  non    sono  che  dei modi  di  essere,  che  il  primo  è  un  pensiero  fisso  e permanente,  e  gli  altri  sono  cangianti  e  passeggieri. Ma  il  pensiero  che   costituisce  la    mia    natura  non è  il  pensiero  in  generale  (una  semplice  astrazione) ma  un  pensiero  fisso,  singolare  e  determinato,  che è  il  soggetto  dei    pensieri    particolari  (3).  Arnauld dice  :  «  I  cangiamenti  che  avvengono  nelle  sostanze semplici  non  le  fanno  essere  una  cosa  diversa  da quella  che  erano.  Ciò  è  appunto  quello,  per  cui  le  cose o  le  sostanze  si  distinguono  dai  modi  o  maniere  di essere,  che  si  possono  anche  chiamare  modificazioni. Ma  le  vere  modificazioni  non  potendosi    concepire senza  concepire  la  sostanza  di  cui  esse  sonò  modi- ficazioni;  se  la  mia  natura  è  di  pensare,  ed  io  posso (1)  Rie,  della  ver,  1.  3"  e.  1". (2)  Rie,  della  ver,  1.  1"  e.  1". (3)  Plouiiuet  Eòame  del  fatai,  t.  2"  sez.  3"  e.  H". pensare  a  diverse  cose  senza  cangiare  di  natura,  è necessario  che  questi  diversi  pensieri  non  siano  se non  che  differenti  modificazioni  del  pensiero  che  fa la  mia  natura.  Forse  vi  ha  in  me  qualche  pen- siero che  non  cangia,  e  che  si  potrebbe  prendere per  l'essenza  della  mia  anima.  Io  ne  trovo  due  che potrebbero  credersi  tali  :  il  pensiero  dell'  essere universale,  e  quello  che  1'  anima  ha  di  se  stessa; perchè  sembra  che  1'  uno  e  l' altro  si  trovi  in  tutti gli  altri  pensieri  :  quello  dell'essere  univ^ersale,  per- chè tutti  i  pensieri  racchiudono  1'  idea  dell'  essere, non  conoscendo  l'anima  nostra  alcuna  cosa  se  non sotto  la  nozione  di  essere  o  possibile  o  esistente  (è il  germe  della  dottrina  di  Rosmini  sull'essere  ideale); e  il  pensiero  che  l'anima  nostra  ha  di  se  stessa,  per- chè di  qualunque  cosa  io  conosca,  conosco  che  la conosco,  per  una  certa  riflessione  virtuale,  che  ac- compagna tutti  i  miei  pensieri  »  (1). L'esempio  più  notevole  di  quesf applicazione  del concetto  di  sostanza  ai  fenomeni  della  coscienza  ^i trova  senza  dubbio  nella  filosofia  di  Rosmini  :  la sua  dottrina  sul  sentimento  fondamentale  e  quella sull'intuizione  dell'essere  ideale  non  hanno  altro scopo  che  di  trovare  tra  i  fenomeni  del  sentimento e  del  pensiero  la  sostanza  dell'anima,  cioè  questa cosa  permanente,  di  cui  i  pensieri  e  i  sentimenti successivi  non  sono  che  dei  modi  di  essere.  Ma  per l'importanza  di  questa  dottrina  nel  sistema  di  Ro- smini, e  l'importanza  di  questo  sistema   nella  filo- (l)  Delie  vere  e  delle  false  idee,  e.  2. i^" CCXXIY CCXXV sofìa  nazionale,  ne  faremo  un'esposizione  particola- reggiata ih  un  Snpplemento  alla  fine  elei  volume: è  ad  esso  che  rimandiamo  per  una  maggiore  delu« cidazione  di  questa  forma  del  concetto  di  sostanza anima,  che  cerca  questa  sostanza  nei  fatti  stessi della  coscienza.  Qui  termineremo  per  un'  osserva- zione generale  sulle  diverse  forme  di  questo  con- cetto: è  che  i  diversi  modi  in  cui  è  stata  concepita l'essenza  della  sostanza  anima  non  sono,  al  fondo, che  quelli  stessi  in  cui  è  stata  concepita  l'essenza della  materia.  La  materia  è  stata  concepita  :  1^  Come materiale  (mi  si  permetta  di  esprimermi  così),  cioè conformemente  alla  nozione  ordinaria  e  naturale  che gli  uomini  si  fanno  della  materia,  come  una  cosa estesa,  visibite,  palpabile,  ecc.,  ciò  che  è  la  sola  rap- presentazione reale  che  lo  spirito  umano  può  for- marsi della  materialità  (questo  concetto  della  ma- teria ha  il  suo  riscontro  nella  forma  primitiva  della dottrina  animista,  che  il  Bain  ha  chiamato  il  doppio materialismo).  2^  Come  una  cosa  sconosciuta  e  inco- noscibile, punto  di  vista  al  quale  devono  anche  ri- condursi le  dottrine  così  dette  dinamiche,  che  risol- vono la  materia  in  elementi  semplici,  cioè  assolu- tamente indivisibili  e  inestesi  (a  questa  concezione della  materia  corrisponde  lo  spiritualismo  ordinario). 3^  Come  consistente  in  percezione  e  appetito  (mo- nadologia di  Leibuitz)  o  volontà  (Schopenauer,  M. de'  Biran,  ecc:)  o  tendenza,  ecc:,  in  una  parola  come analoofa  alla  realtà  che  ci  è  data  nella  coscienza  (è, d'una  maniera  generale,  la  dottrina  che  abbiamo chiamato  panpsichismo,  alla  quale  corrisponde  quella che  la  sostanza  dell'anima  consiste  nel  pensiero,  o nel  sentimento,  ecc.).  Che  i  tre  soli   modi   possibili di  concepire  la  materia  siine  pure  i  tre  soli  modi possibili  di  concepire  la  sostanza  dello  spirito,  non è  un  fatto  sorprendente,  anzi  è  necessario,  perchè  noi non  possiamo  pensare  che  con  le  idee  che  abbiamo, e  l'idea  della  materia  e  quella  della  sostanza,  che  ciò si  riconosca  o  no,  non  sono  due  idee  distinte,  ma una  sola  e  stessa  idea. Ma  prima  di  finire  non  sarà  forse  inutile  di  met- tere in  guardia  il  lettore  contro  un  possibile  ma- linteso. La  dottrina  che  non  ammette  che  lo  spirito sia  una  sostanza^  non  sopprime  l'opposizione  radi- cale tra  lo  spirito  e  il  corpo,  anzi  è  una  conseguenza di  questa  opposizione,  perchè  se  si  nega  ta  sostan- zialità dello  spirito,  è  appunto  per  l'impossibilità di  applicare  allo  spirito  un  concetto,  che  non  con- viene se  non  alla  materia.  Da  ciò  che  lo  spirito  non è  una  8ostj,nza  non  si  deve  concludere  che  lo  spi- rito è  niente,  o  che  la  materia  ha  una  realtà  più grande  che  quella  dello  spirito.  Al  contrario,  tutti coloro  per  cui  lo  sviluppo  della  filosofia  moderna, da  Cartesio  sino  ai  nostri  giorni,  non  è  il  libro  chiu- so dai  sette  sigilli,  sanno  che  lo  spirito  è  un  fatto mentre  la  materia  non  è  che  un'ipotesi,  e  un'  ipo- tesi che  presenta  le  più  gravi  difficoltà  —  che  noi svilupperemo  e  discuteremo  nella  II  parte,  perchè sono  esse  che  danno  l'impulso  alla  evoluzione  della concezione  realista  del  mondo  esteriore,  determinan- do le  forme  metafisiche  di  questa  concezione. r-r--  •j-.ti»--— 1SUPPLEMENTI "T»~a<*r  ^ Supplemento  A DOTTRINA   DI   ROSMINI SULLA  SOSTANZA  DELL'ANIMA La  dottrina  di  Rosmini  sulla  sostanza  dell'  anima  è una  conseguenza  dei  principio  fondamentale  della  sua filosofia  —  principio  in  se  stesso  rigorosamente  speri- mentale —  che  la  realtà  è  costituita  dal  sentimento.  Cosi il  suo  concetto  della  sostanza  dell'anima  si  ottiene  fon- dendo insieme  queste  due  idee  incompatibili,  quella  di xin  sentimento  e  quella  di  una  sostanza. L'anima,  dice  Rosmini,  è  un  sentimento  originario e  stabile,  principio  e  soggetto  di  tutti  gli  altri  sentimenti. L'io  è  un  sentimento  sostanz*'ale  o  un  sentimento- sostanza: l'io  d'  una  persona  è  il  sentimento  proprio  e  incomuni- cabile di  questa  persona  (1).  La  facoltà  di  sentirò  è  co- stituita da  un  atto  primitivo  e  permanente  che  è  la  base e  la  radice  di  tutti  gli  atti  avventizi  e  mutabili  di  questa facoltà  (2):  quest'atto  originario  e  immanente  del  senso Rosmini  lo  chiama  il  sentimento  fondamentale,  ed  è  in esso  che  fa  consistere  la  sostanza  del  principio  senziente, dell'anima  puramente  sensitiva. Le  prove  di  cui  Rosmini  si  vale  per  istabiLro  1'  esi- stenza del  sentimento  fondamentale^  sono  generalmente (1)  P$ic,  53,  75,  79,  81,  82,  91,  106,  124, 129  ecc.;  iV.  <^.  440  e  n.,  528 n.  2,  626,  627,  719,  1195  e  segg.,  ecc. (2)  N,  S,  1008,  1021  —  1025,  Psic,  \^,Teos,  5.  279,  eoo. fondate  sul  concetto  della  sostanzialità  dell'  anima  (1), non  che  su  quello  dell'  unità  e  dell'  identità  del  me,  le quali  suppongono  secondo  lui  1'  unità  e  V  identità  del nostro  sentimento  nella  pluralità  e  il  cangiamento  degli stati  della  nostra  sensibilità,  in  modo  che  sia  sempre  lo stesso  sentimento  nei  suoi  diversi  modi  (2). Il  sentimento  fondamentale   è   il    sentimento    dell'  io percettivo  del  proprio  corpo  (3):  esso  è  unico,  ma  com- prende, come  due  poli  opposti  e  inseparabili,  un  principio e  un  termine,  cioè  un  soggetto  che  percepisce  e  una  cosa che  è  percepita  (4).  Questa  cosa  che  è  percepita  col  sen- timento fondamentale  è  il  proprio  corpo:  il  nostro  corpo (o  almeno  tutte  le  parti  sensitive  del  nostro  corpo)  è  da noi  abitualmente  e  uniformemente  sentito  d'una  maniera intima  che  non  bisogna  confondere  con  le  percezioni  dei sensi  esterni,  quantuLque  questo  sentimento,  per  essere coniinuo  e  sempre  il  medesimo,  suole  sfuggire  alla  no- stra osservazione.    Questo    sentimento    intimo,    per   cui l'anima  percepisce  il  proprio  corpo,  ò,  nel  suo  stato  nor- male, un  sentimento  di  piacere  blandamente  e  equabil- mente diffuso  in  tutta  Testensione  del  corpo  (almeno  del corpo  sensitivo)  (o),  o  più  propriamente  l'  estensione  di questo  corpo  è  una  proprietà,  uo  modo   del    sentimento stesso  (poiché  secondo  Rosmini  il  corpo  non  è  se  non  in quanto  è  sentito,  e  non  esiste  se  non  nel  sentimento  (6). (1)  Ps,  82-91  98-106,  N,  S.  717-719,  eco. (2)  Ps,  93  n,  97,  171-173,  2216,  N.  S,  887,  eoo. (3)  iV.  S.  716,  1025,  1027  eoo. (4)  Ps.  145-149,  251-254,  459,  718  n.  5,  eoo. (5)  y,  S,  sez.  5.  parte  5.  o.  3.  e  4. (6)  V.  il  mio  studio  sulla  dottrina  di  Rosmini  sull'essenza  della materia  Notiamo  che  questa  dottrina  e  quella  del  fcientimento  fon- damentale sono  intimamente  connesse,  e  si  suppongono  Tona  con Il  sentimento  fondamentale  è  a  noi  innato,  perchè  esso è  rio,  e  noi  siamo  innati  a  noi  stessi  (1)  ;  esso  non  ci manca  mai,  in  alcun  momento  della  nostra  esistenza, perchè  noi  non  possiamo  mancare  a  noi  stessi  (2)  ;  in- fine esso  persiste  nel  flusso  continuo  degli  altri  fenomeni avventizi  dello  spirito,  perchè  il  me,  la  persona,  persiste ed  è  sempre  identica  a  sé  stessa  (3). Ma  è  evidente  che  questa  persistenza  del  sentimento fondamentale,  nella  successione  dei  sentimenti  avventizi e  transitori,  non  sarebbe  sufficiente  per  se  sola  a  riguar- dare questo  sentimento  come  il  me  o  la  sostanza  dell'a- l'altra.  Mentre,  da  una  parte,  senza  la  permanenza  del  sentimento fondamentale  la  permanenza,  e  quindi  la  realtà ^  del  corpo  sarebbe impossibile,  dall'altra  parte,  senza  l'inesistenza  del  corpo  nel  prin- cipio senziente,  senza  il  2)<^^ìpsi^cJilsnu)  di  Rosmini,  la  sua  dottrina *sulla  sostanzialità  dell'anima  sensitiva  sarebbe  senza  motivo.  Per- chè Rosmini  cerca  una  sostanza,  un  quid  permanente,  che  sia  il sustrato  dei  fenomeni  dell'anima  sensitiva  ?  Perchè  questo  sustrato non  può  essere  più  per  lui  il  me  fisico,  il  corpo  :  infatti  come  i  fe- nomeni dello  spirito  potrebbero  avere  per  sustrato  il  corpo  se  que- sto non  è  esso  stesso  che  un  fenomeno  dello  spirito  ?  L'ipotesi  della sostanzialità  dell'anima  in  Rosmini  non  ha  per  oggetto,  oome  nel- 'animismo  primitivo,  di  spiegare  l'origine  della  vita  e  il  passaggio dalla  vita  alla  morte  :  la  vita,  per  Rosmini,  non  sorge,  né  si  perde, nel  seno  della  materia  bruta;  tutta  la  materia  è  per  lui  animata, e  le  anime  degli  elementi  materiali  che  costituiscono  un  individuo vivente,  organizzato,  sono  degli  elementi  costitutivi  dell'anima  di quest'individuo.  L'esempio  di  Rosmini  ci  mostra  della  maniera  più evidente  l'importanza  capitale  del  secondo  dei  due  motivi  che  noi abbiamo  assegnato  alla  dottrina  che  lo  spirito  è  una  sostanza  —  cioè quello  risultante  dall'associazione  intima  dell'idea  dello  spirito  con quella  del  corpo  —  per  ispiegare  le  forme  della  dottrina  che  ripon- gono questa  sostanza  negli  stessi  fenomeni  della  coscienza. (1)  N.  S,  438  n.  2,  441,  ecc. (2)  N,  S,  538  n.  2,  Psic.  103  n.,  ecc. (3)  Psic.  97,  171-173,  Teos.  5.  42,  45,  279,  eoe. —  3  — ;2c ■  »■«  .» Dima  :  perciò  è  necessario  àncora  che  questo  sentimento abbia  con  gli  altri  fenomeni  della  sensibilità  lo  stesso rapporto  che  la  sostanza  ha  coi  suoi  accidenti  o  modi di  essere.  In  efiTetto  se  il  sentimento  fondamentale  non fosse  in  tale  rapporto  con  gli  altri  sentimenti,  se  esso non  fosse  il  soggetto  a  cui  questi  si  riferiscono,  Tipotesi del  sentimento  fondamentale  non  farebbe  che  aggiungere un'altra  sensazione  a  questa  collezione  di  seuv^^aziòni,  in cui  fanno  consistere  il  me  quelli  che  non  ammettono  che il  me  sia  una  sostanza:  mentre  Rosmini  cerca  ciò  che dà  Tunità  alla  collpzione  delle  sensazioni,  questa  sostanza me  che  tutte  le  raccoglie  ed  uuizza,  perchè  tutte  in  essa ineriscono. Il  sentimento  fondamentale  è  cosi  chiamato  da  Ro- smini, perchè  è  in  esso,  secondo  lui,  che  sono  fondate tutte  le  altre  sensazioni  (1)  (e  fra  queste  bisogna  com- prendere le  riproduzioni  che  fa  V  immaginazione  delle sensazioni  passate)  (2).  Il  sentimento  fondamentale  è dunque  la  sede  delle  sensazioni  avventizie,  e  queste  ad esso  si  attengono  come  a  loro  sustrato  (3).  E  in  effetto l'estensione  del  nostro  corpo  da  noi  continuamente  per- cepita col  sentimento  fondamentale,  è  la  sede  in  cui tutte  le  sensazioni  avventizie  vengono  percepite;  poiché secondo  Rosmini  Testensione  è  un  dato  comune  di  tutte le  sensazioni,  l'estensione  percepita  di  ogni  sensazione essendo  l'estensione  stessa  dell'organo  in  cui  essa  ha  la sua  sede  (4).  Ciò  non  è  vero  soltanto  delle  sensazioni interne,  che  noi  localizziamo   in    punti    determinati   del (1)  N.  S,  716,  1196,  Teos.  5.  32,  42,  Ps.  856,  eoo. (2)  V.  Psic,  parte  1.  1.  3.  o.  9.  art.  2. (3)  Ps,  22J6,  Teos,  5.  36,  eco. (4)  N.  S.  426,  729,  734,  837,  868-868,  Ps,  774-777,   Teos.    3.    376,  6. 19,  32   eoo. nostro  corpo:  ma  le  stesse  sensazioni  esterne,  che  ci  danno le  nozioni  degli  oggetti  esteriori,  hanno  un'  estensione identica  a  quella  dell'organo  percipiente,  poiché  tutte le  percezioni  dei  sensi  esterni  si  riducono  secondo  Rosmini al  tatto,  e  noi  non  percepiamo  che  la  superficie  dei  corpi esterni,  in  quanto  essa  coincide  e  s'identifica  con  la  su- perficie dell'  organo  percipiente,  sicché  V  estensione  im- mediatamente percepita  nelle  sensazioni  esterne  non  é che  l'estensione  stessa  del  sentimento  fondamentale  (1). Di  più,  siccome  il  sentimento  fondamentale,  che  è  na- turalmente un  sentimento  di  piacere,  ma  che  può  variare, rendendosi  più  o  meno  piacevole  o  anche  doloroso  (se- condo i  cangiamenti  del  corpo),  sostiene  e  contiene  tutte le  sensazioni  avventizie,  cosi  il  piacere  o  il  dolore  ac- compagna, in  qualche  grado,  tutte  le  sensazioni,  se  pure non  voglia  dirsi  che  tutte  le  sensazioni  sono  dei  modi del  piacere  e  del  dolore  (2). Potrebbe  dirsi  che  il  sentimento  fondamentale  é  nella costituzione  dello  spirito  ciò  che  lo  scheletro  o  il  nucleo nella  costituzione  dei  corpi:  ma  Rosmini  trova  che  queste comparazioni  non  sono  adequate  (3).  Queste  compara- Bioni,  in  effetto,  non  danno  un'  idea  esatta  della  natura del  rapporto  tra  il  sentimento  fondamentale  e  le  sensa- zioni avventizie:  questo  rapporto  non  è  di  quelli  che possono  correre  tra  fenomeni  distinti  e  separati,  fra  atti distinti  e  separati  dello  spìrito.  Vi  è  al  contrario  una relazione  d'inerenza  reciproca  tra  il  sentimento  fonda- mentale e  le  sensazioni  avventizie,  perché  il  sentimento fondamentale  é  il  me  o  la  sostanza  dello  spirito,  e  perciò (1)  V.  N,  S,  sez.  6.  parte  5.  o.  9. (2)  N.  S.  726-727,  766,  837  e  n.  1.,  889,  eoo. (8)  Teos.  6.  36. ì '  » .1 -f ■■  •  *■ < i f —  4  — /,1 la  relazione  fra  esso  e  gli  altri  fenomeni  dello  spirito  è quella  che  vi  ha  fra  la  sostanza  e  gli  accidenti,  fra  Tente e  i  modi  di  essere  deirente.  Le  sensazioni  avventizie  (e tra  esse  bisogna  comprendere,  come  abbiamo  detto,  le rappresentazioni  delPimmaginazione)  sono  delle  modifi- cazioni del  sentimento  fondamentale:  quando  una  sen- sazione nuova  sopravviene  nello  spirito,  essa  non  è  già nuovamente  creata,  ma  è  una  nuova  forma  che  prende il  sentimento  fondamentate  preesistente,  è  il  sentimento fondamentale  stesso  eccitato  e  modificato,  il  quale  di- venendo  una  nuova  sensazione,  il  sentimento  non  mu- ta l'essere,  ma  il  modo  doir  essere  (1).  La  sostanza dello  spirito,  cioè  del  sentimento,  resta  la  stessa,  non cangia  che  la  forma  :  è,  per  ripigliare  la  similitudine di  Malebranche,  la  slessa  cera  che  prende  un'altra figura. Per  conseguenza  Rosmini  va  anche  sino  ad  affermare che  le  sensazioni  avventizie  preesistono,  quantunque  in  un modo  diverso,  nel  sentimento  fondamentale  (cioè  nel  sen- timento abitnaie  e  primitivo  deiranima  per  cui  essa  per- cepisce se  stessa  in  unione  col  proprio  corpo).  In  que- sto sentimento  originario  che  costituisce  la  sostanza  del- l'anima si  contengono  tntte  queste  appendici  ch'essa prende  poscia  nel  suo  sviluppo  (2).  Perchè  il  senziente resti  identico  a  se  stesso,  egli  deve  avere  inerente,  sin dal  principio  della  sua  esistenza,  un  sentito  nel  quale  vir- tualmente  si  compren'ìano  tutte  le  future  sensazioni  (3). (1)  N.  S.  701-706,  7aj-727,  735-736,  887  e  segg,  1026,    Ps,  279,  442 •  segg-»  tav.  sinott.  del  senso,  1880,  2079,  Teos,  5.  32-36  eoo. (2)  Ps,  130. (8)  Ps.  171,  175,  178,  184,  2079,    Teos,    5.    88.66,    241,  279,    .V.    S. 887-888,  eoo. Il  principio  senziente  prima  di  sentire  attualmente  la nuova  sensazione,  la  sentiva  dunque  virtualmente.  Ma che  cosa  vuol  dire  sentirla  virtualmente  ?  «  Se  per  sen- tire virtualmente  s'  intendesse  non  sentire  niente  af- fatto, dimodoché  vi  avesse  un  passaggio  tra  il  non  sen- tire affatto  e  il  sentire  attualmente,  in  tal  caso  con  la nuova  sensazione  sorgerebbe  un  principio  nuovo  di  sen- tire, non  resterebbe  il  precedente  identico;  la  sensa- zione nuova  non  sarebbe  modificazione  di  un  senti- mento j.i ecedente,  sarebbe  un  sentimento  del  tutto  nuo- vo ella  Si  ssa Conviene  dunque  dire  che  la  nuova sensazione  preesiste  in  un  altro  modo,  quasi  nasco- sta e  confusa  in  un  sentimento  maggiore,  in  quel  sen- timento  che  costituisce  l'energia  propria  del   principio senziente Secondo  questo   concetto  (della  virtualità sensitiva)  un  principio  senziente,  un  soggetto,  contiene in  sé  (sentimento  fondamentale)  tutte  le  sensazioni  di cui  è  suscettivo  restando  identico;  ma  le  contiene  in- distinte, fuse  insieme,  senza  l'ultima  perfezione  dell'atto, in  un  primo  grado  di  atto,  a  cui  manca  l'ultimazione. Laonde  fé  si  considera  quale  operazione  si  faccia  nel- l'anima nostra  allorché  noi  ascoltiamo  un  concerto  di musica,  converrà  dire  che  tutta  quell'armonia  che  si  sente si  sveglia  ed  eccita  nell'anima  stessa,  dove  si  trovava latenie;  ella  dimorava  nel  sentimento  fondamentale  e  so- stanziale adunata  insieme  e  fusa  con  tutte  le  altre  pos- sibili sensazioni  formanti  un  sentimento  solo  che  è  ap- punto il  fondamentale,  manchevole  dell'atto  ultimo  e  di. stinto,  al  quale  venne  provocato  dall'organico  eccita- mento »  (i).  Le  sensazioni  non  sono  dunque  «  create  di nuovo  quando  cadono  nella  nostra  coscienza,  ma  si  estrin- (1)  Teo$.  5.  35-86. Uh secano,  da  implicite  diventano  esplicite,  il  sentimento  non cangia  Tessere,  ma  il  modo  deir  essere»  (1).  Nei  luoghi citati  e  in  più  altri  Rosmini  si  rappresenta  la  mutazione del  sentimento,  che  avviene  alla  nascita  di  una  sensa- zione avventizia,  come  un  passaggio  dall'  implicito  allo esplicito,  dairinvoluto  alTevoluto,  dallo  stato  latente  alla manifestazione  esteriore  Noi  abbiamo  visto  che  è  a  simili rappresentazioni  che  si  è  generalmente  ricorso  per  mo- strare come  nei  cangiamenti  apparenti  delle  cose  V  es- sere in  se  stesso  resti  nondimeno  identico  ed  immuta- bile.  E  cosi  che  i  Vedantini  (per  far  comprendere  come Tuniverso  è  identico  a  Brama  da  cui  esso  è  uscito)  usano Timmagine  di  una  stoffa  inviluppata  che  si  sviluppa 0  della  testuggine  che  fa  uscire  le  membra  dalla  sua scaglia. Vi  ha  un'altra  immagine  usata  dai  filosofi  vedantini che  può  fornirci  una  rappresentazione  conveniente  del rapporto  che  Rosmini  stabilisce  tra  il  sentimento  fonda- mentale e  le  sensazioni  avventizie.  I  Vedantini  compa- ravano Brama  al  mare,  il  quale  non  è  che  acqua,  ma in  cui  si  osservano  dei  flutti,  della  spuma  e  altre  modi- ficazioni dell'acqua.  L'acqua  del  mare  rappresentava  per essi  l'essere  primitivo,  e  i  flutti,  la  spuma,  ecc.;  l'uni- verso creato.  Noi  possiamo  invece  rappresentare  per  quella il  sentimento  originario  e  abituale  dell'anima,  e  per  que- sti le  sensazioni  avventizie.  Come  i  flutti,  la  spuma,  ecc., non  sono  fuori  del  mare,  ma  in  esso,  cosi  le  sensazioni avventizie  non  sono  fuori  del  sentimento  fondamentale, ma  in  esso  :  e  come  i  flutti,  la  spuma,  ecc.  :  non  sono che  l'acqua  stessa  modificata,  cosi  le  sensazioni  avventi- (1)  Psic,  2079. \\ zie  non  sono  che  lo  stesso  sentimento  originario  e  imma- nente dell'anima  modificato. Rosmini  spinge  sino  al  limite  estremo  l'assimilazione dello  spirito  (i  fenomeni  della  coscienza)  ad  una  sostanza; egli  applica  al  mondo  interiore  della  coscienza  l'assioma degli  antichi  filosofi  che  l'essere  non  può  venire  dal  non essere,  che  niente  nasce  e  muore,  che  il  reale  è,  al  fon- do, immutabile;  principio  che  é  una  generalizzazione  dei fenomeni  r>iù  familiari  dell'e^^perienza,  ma  semplicemente dell'esperienza  esterna  ;  ma  una  volta  che  Rosmini  con- cepisce lo  spi I ito  come  una  sostanza,  il  soggetto  come un  oggetto,  non  deve  trovarsi  strano  ch'egli  applichi  al mondo  subbiettivo  un  principio  che  i  filosofi  ordinaria- mente non  applicano  che  al  mondo  obbiettivo. Il  sentimento  fondamentale,  quale  T  abbiamo  sin  qui descritto,  non  es'iurisce  tutta  la  sostanza  dell'  anima.  L'a- nima umana  non  è  solo  un  principio  senziente  :  se  non fosse  che  questo,  essa  non  potrebbe  sopravvivere  alla morte  del  corpo  ;  perchè  1'  attività  del  senso  è  condizio- nata dalle  funzioni  degli  organi  e  quindi  dall'esistenza del  corpo  vivente.  L'  anima  sensitiva  non  perisce  del  tutto secondo  Rosmini  alla  morte  dell'  animale,  ma  essa  perde la  sua  individualità  :  come  essa  si  è  formata,  con  la  forma- zione del  corpo  vivente,  per  la  composizione  delle  anime dpgli  elementi  materiali  di  cui  il  corpo  è  stato  composto, cosi  essa  si  discioglie  in  queste  anime  elementari,  con  la dissoluzione  del  corpo  nei  suoi  elementi  (1).  0  piuttosto, siccome  la  vera  sostanza  non  è  per  Rosmini  che  1'  anima, il  corpo  non  essendo  che  un  sentito,  e  non  esistendo  che in  e  per  il  principio  senziente  (2),    cosi  è    l'anima    sola •I (1)  Psic,  459,  6(«-6J2,  663-667,  eoo. (2)  V.  il  mio  studio  saUa  dottrina  dell' es^^enza  della  materia  in Bosmini. —  6  - ì ■f ! il I in  realtà  che  si  compone  e  si  discioglie,  queste  anime elementari  di  cui  essa  si  compone  e  in  cui  si  discio- glie, essendo  al  pari  di  essa  dei  sentimenti  sostanziali,  in ciascuno  dei  quali  inerisce  come  suo  termine  un  corpo. L'  anima  sensitiva  è  dunque  in  un  senso  immortale  se- condo Rosmini  :  ma  questa  immortalità  non  è  quella  che il  dogma  religioso  attribuisce  allo  spirito  umano.  Per salvare  V  immortalità  individuale  dello  spirito  umano  Ro- smini unisce  nell'uomo  al  principio  senziente  un  princi- pio intelligente  :  questo  sopravvive  alla  dissoluzione  del- l' animale  umano,  e  può  avere  un'  esistenza  st»parata  dal corpo,  perchè  1'  attività  dell'  intelligenza  secondo  Rosmini non  è  condizionata  necessariamente  come  quella  del  senso a  degli  organi  corporali  (1). Come  il  principio  sensitivo  è  costituito  da  un  atto  ori- ginario ed  immanente  del  senso,  cosi  il  principio  intel- lettivo è  costituito  da  un  atto   originario  ed   immanente dell'  intelligenza    (2).    Un    atto    primitivo    ed    essenziale dell'intelligenza,  un  pensiero  essenziale,  è  dunque  il  su- strato  di   tutti  i   pensieri   avventizi,   come  un    atto   pri- mitivo ed  essenziale  del   senso   è  il  sustrato   di  tutte  le sensazioni  avventizie.  Questo  pensiero  e'^senziale,  in  cui tutti  i  p-^nsieri  sono  contenuti  e  che  tutti    suppongono, come  tutte  le  sensazioni  sono    contenute    nel    sentimen- to fondamentale  e  lo   suppongono,   è   la  più  universale e  la  più  astratta    di    tutte    le   idee,    l' idea  dell'  essere. L' intellezione  dell'  essere  è  la  sostanza  del  principio  in tellettivo,   come   il  sentimento  fondamentale  del  princi- pio  sensitivo  (3).  L' idea   deli'  essere   indeterminato   che (1)  V.  N.  S.  177  n,  2,  685  n.  2. (2)  JV.  S.  48J-484,  521,  535,  537,  545,  552,  eoo. (3)  Ps.  307-309,  566,  628,  657,  679,  685,  687,  688,  694, 1006,  1009,  1176, 1195,  eoo. il  principio  intellettivo  ha  inerente  sin  dall' origine  della sua  esistenza,  contiene  virtualmente  tutte  le  intellezioni future,  come  il  sentimento  fondamentale,  tutte  le  future sensazioni,  perchè  tutte  le  intellezioni  possibili  non  sono che  delle  determinazioni  dell'idea  dell'essere  (1).  Que- 8t*  idea  è  perciò  innata,  non  è  un  risultato  dell'astrazione, non  viene  all' anima  dal  di  fuori  per  il  canale  dei  sensi: tutte  le  altre  idee  sono  acquisite,  e  nascono  dall' unione deir  idea  dell'  essere  con  una  percezione  dei  sensi  che  dà a  quest'  idea  una  determinazione  particolare  (2).  Ro- smini paragona  l' idea  dell'  essere,  che  costituisce  la  na- tura stessa  dell'intelligenza,  alla  tavola  rasa  d'  Aristotile, o  ad  una  pagina  bianca  su  cui  le  esperienze  dei  sensi  ven- gono ad  imprimere  dei  caratteri  (S),  La  natura  dell'  in- tendimento, dice  Rosmini,  consiste  in  uno  sguardo  conti- nuo che  mira  1'  essere,  e  che  vede  tutto  ciò  che  spetta alla  ragione  dell'  essere,  come  sono  le  condizioni  e  de- terminazioni dell'  essere  stesso  (4).  «  L'  ente  indetermi- nato che  sta  a  noi  continuamente  ed  immobilmente  pre- sente è  come  la  carta  bianca  ove  il  nostro  spirito  mira e  riguarda.  Ora  le  determinazioni  di  quest'  oggetto  non sono  che  un'  aggiunta  accidentale  al  medesimo,  una  scrit- tura sulla  detta  carta  ».  Quindi  con  queir  atto  medesimo col  quale  vediamo  l'essere,  vediamo  ancora  in  lui,  e giammai  senza  lui,  le  sue  determinazioni,  come  guardando la  carta,  noi  vediamo  pure  con  lo  stesso  sguardo  tutti i  caratteri  che  vengono  in  essa  tracciati  (5). (1)  I\\  171,  178,  184,  ecc. (2)  N,  S.  sez.  5.  parte  1.  e  2. (8)  N.  S.  538. (4)  N.  S.  624. (5)  y,  S.  623. \\ 1 1 L'atto  del  principio  intellettivo,  considerato  per  se  solo, consiste  nella  semplice  apprensione  dell'  essere  universale e  indeterminato  :  ma  1'  apprensione  dell'  essere  rivestito delle  determinazioni  particolari  somministrate  dal  seoso, non  è  r  atto  del  solo  principio  intellettivo,  come  noQ  è quello  del  solo  principio  sensitivo,  ma  e  l'atto  di  questa unica  e  semplice  anima  dell'  uomo,  che  è  al  tempo  stesso intellettiva  e  sensitiva,  perchè  in  essa  si  comprendono, unificati,  tanto  il  principio  sensitivo  quanto  l'intellet- tivo. Rosmini  chiama  1'  anima  dell'  uomo,  questa  unità  del principio  sensitivo  e  del  principio  intellettivo,  il  principio razionale,  perchè  egli  considera  la  ragione  come  una  ri- sultante dell'unione  della  sensibilità  e  dell'  intelligenza  (1) Gli  oggetti  che  cadono  sotto  la  nostra  conoscenza constano  secondo  Rosmini  di  due  elementi  :  un  elemento che  viene  dalla  pura  intelligenza  ;  è  l'  essere  universale, r  idea  del  quale  costituisce  la  forma  stessa  dell'  intendi- mento, e  deve  perciò  trovarsi  in  tutti  gl'intesi  —  e  un  ele- mento che  viene  dal  senso  ;  sono  le  determinazioni  o differenziazioni  dell'  essere,  separate  dall'  essere  stesso. Di  là  la  distinzione  di  Rosmini  tra  la  percezione  sensitiva e  la  percezione  intellettiva  (che  con  più  proprietà  egP avrebbe  potuto  chiamare  percezione  razionale)  (2^  :  la percezione  sensitiva  non  coglie  che  il  secondo  elemento degli  oggetti,  vale  a  dire  le  determinazioni  dell'  essere senza  l'essere  slesso  (per  cui  un  sentito  come  puramente tale  non  è  un  essere  secondo  Rosmini)  (3)  ;  la  percezione (1)  Psic.  187,  189,  227,  228,  264,  287,  291,  689,  719,  1012,  1013,  1121, 1122,  1186,  1195,  X  .S'.  480-482,  eoo. (2)  JV.  S,  55,  56,  63,  64,  132,  326,  338,  454,  455,  458,  474-478,  480-482, 536,  538,  622-624,  ecc. (3)  Psk.  76-78,  291,  641,  675,  1176-1177,  1184,   Teo&.  6.  37-42,  ecc. 1/ . intellettiva  completa  la  sensitiva,  aggiungendo  a  questa il  primo  elemento,  cioè  1'  essere,  e  contemplando  cosi  ì sentiti  nella  forma  dell'  essere,  cioè  come  esseri.  La  per- cezione intellettiva,  questa  sintesi  primitiva  del  sentito con  l'idea  dell'essere,  ò  il  talamo  in  cui  il  principio  in- tellettivo si  congiunge  col  principio  sensitivo  (1)  :  essa è  r  atto  primitivo  del  principio  razfonale,  di  questo  prin- cipio unico  e  duplice  al  tempo  stesso,  che  costituisce  1'  es- senza dell'anima  umana  (2). Come  la  sostanza  del  principio   sensitivo  è  costituita da  un  atto  immanente  del  senso,  il  sentimento  fondamen- tale animale,  e  la    sostanza  del    principio    intellettivo   è costituita    da   un   atto   immanente  dell'  intelligenza,    la apprensione   dell'  essere    universale,    cosi   la    sostanza del  principio  razionale,  risultante  dall'unione   dell'uno con  V  altro,  è  costituita   da   un   atto  immanente,  che   è la  sintesi  dell'atto  immanente  del  senso    con    l'atto  im- manente   dell'  intelligenza.  L'  atto   immanente   del  prin- cipio razionale    è    una  percezione  intellettiva,  il  cui  og. getto    è    il    sentimento    fondamentale    animale,    cioè   il principio  senziente  congiuntamente  al  suo   termine  cor- poreo :    questa   percezione   intellettiva    fondamentale   si distingue  dal  sentimento  fondamentale  animale,  in  quanto ciò    che   nel    sentimento    animale   è   puramente   sentito, diviene    inteso   nella    percezione    razionale,    cioè    viene appreso  nella  forma  intellettuale  dell'  essere  o  come  es- sere (3). Quantunque  Rosmini  affermi  energicamente  l'unità  e -i; /' (1)  Cfr.  Ps,  264. (2)  N.  S.  1025-1026,  Pslc.  266,  ecc. (8)  Ps.  75,  264,  265,  266,  286,  287,  291,  420,  641,  645,  671,  689,   719 1012,  1013,  1023,  eoo. 1 I ■  \ la  semplicità  dello  spirito  nmano  (1),  è  evidente  tuttavia che  la  sua  dottrina  è  al  fondo  un  vero  dualismo  :  il  prin- cipio sensitivo  e  il  principi*  intellettivo  sono  associati durante  la  vita,  ma  essi  si  separano  alla  morte  deiruo- mo.  Alla  quistione  come  questi  due  principii  possano  co- stituire un  soggetto  unico  e  semplice,  Rosmini  risponde che  ciò  avviene  per  la  percezione  che  Tun  principio  ha dell'altro.  Questa  percezione  è  immediata,  cioè  il  perce- pito si  percepisce  in  se  stesso,  e  non  mediante  una  sua rappresentazione  (2):  per  essa  avviene  Tunificazione  dei due  principii,  perchè,  quando  un  principio  sente  un  altro principio,  siccome  il  principio  sentito  non  è  altra  cosa che  un  sentimento,  e  si  tratta  di  una  percezione  immediata, cosi  il  principio  percepiente  s'identifica  col  principio  per- cepito, e  si  veritìca  la  massima  che  ex  percipiente  et  per- ceplo  fit  unum  (3j.  Questa  percezione  unificatrice  dei due  principii  non  è  che  la  stessa  percezione  fondamentale che  costituisce  la  sostanza  dell'anima  razionale  :  nella percezione  immanente  del  sentimento  fondamentale  ani- male, Rosmini  considera  questo  come  il  percepito,  e  il  prin- cipio intellettivo  (che,  secondo  lui,  è  il  portatore  dell'i- dentità del  soggetto  umano)  (4)  come  il  percipiente  (5). Il  principio  intellettivo,  che  mira  continuamente  l'essere, vede  anche  in  esso  la  sua  determinazione  particolare, cioè  il  sentimento  fondamentale  animale  :  questa  perce- zione che  il  principio  intellettivo  ha  del  sentimento  ani- ci) Ps,  125-126,  174-184,  227,  264,  430  e   sgg.,  686  e  sgg.,  716   e sgg.,  ecc. (2)  Psic,  291  n.  J,   Teo&.  5.  494,  eoo. (3)  Ps,  264,  266,  292,  420,  578,  641,  671,  689,  719,  1012,  1023,    Teos, 5.  220-221,  824,  339,  373,  450,  461,  474,  493-494,  eoo. (4)  Psic,  187-190,  687-688,  eoo. (5)  Psic,  641,  645,  671,  1176-1177,  Ttfos.  5.  381-382,  450,  474,  493,- eco. male  si  concilia,  secondo  Rosmini,  con  la  dottrina,  la quale  esige  che,  perchè  un  principio  conservi  la  sua  i- dentìtà,  ciascuno  d^i  suoi  atti  deve  essere  virtualmente compreso  nell'atto  primo  che  ne  costituisce  l'essenza; poiché,  il  sentimento  animale  esj-endo  una  determinazione particolare  dell'essere,  esso  è  virtualm^'ute  contenuto  nel- l'essere universale,  e  quindi  la  percezione  del  sentimento animale  è  virtualmente  compresa  nella  percezione  dei- Tessere  universale  che  costituisce  la  sostanza  del  princi- pio intellettivo  (1). Noi  dobbirTino  agi^iungerc  che,  nuntr»^  da  una  parte, Rosmini  spiega  l'unificazione  dei  due  principii  mediante la  percc  zioiie  intellettiva,  dall'altra  parte  egli  dà  l'unità del  soggetto  umano  come  ragione  e  londamento  di  que- sta sintesi  del  sensibile  e  df  U'intelL  ttual^,  che  ha^uogo nella  percezione  intellettiva  (2).  Cosi  la  p  rcezione  in- tellettiva è  spiegata  per  l'unità  dello  spirito  umano,  e  que- sta alla  sua  volta  è  spieofata  per  ìa  p^rcozione  intellet- tiva: Rosmini  non  spiega  dunque  l'unita  del  nostro  spi- rito, essa  è  inesplicabile  nel  suo  s  sterna,  che,  come  ab- biamo detto,  è  un  vero  dualismo  ;  (  ppure  la  dottrina  di Rosmini  sulla  sostanza  dell'anima  aveva  lo  scopo  di  dare un  londamento  all'unità  e  all'identità  del  me  !  Cosi  qui accade  questo  fatto  strano,  che  non  è  pertanto  nuovo nella  storia  delle  dottrine  metafisiche,  cioè  che  il  feno- meno stesso,  che  l'ipotesi  è  destinata  a  spiegare,  diviene un'obbiezione  invincibile  contro  questa  ipotesi. La  dottrina  di  Rosoiini  sulla  sostanza  dell'arini  i  non si  limita  a  dare  una  risposta  a  questa  quistione  partico- lare della  psicologia  metaempirica  :  al    contrario  essa  è (1)  V.  Psic,  J90,  264,  671,  eoo. (2)  N,  S.  128,  338,  454,  511,  622,  eoo. -  9  — il  punto  di  partenza  di  una  moltitudine  di  speculazioni tanto  psicologiche,  quanto  ontologiche,  sicché  il  sistema filosofico  di  Rosmini  non  è  in  gran  parte  che  uno  svi- luppo e  una  conseguenza  di  questa  dottrina.  La  teorica dell'essere  ideale  è  il  fondamento,  non  solo  di  una  psi- cologia arbitraria  (perchè  Rosmini  vuol  mostrare,  per  la analisi  delle  operazioni  deirintelligenza  umana,  che  esse suppongono  tutte  l'idea  innata  dell'essere),  ma  anche  quello di  una  metafisica  non  meno  arbitraria,  quest'idea  innata dell'essere,  afiìnchè  essa  possa  avere  un  valore  obbiettivo, e  si  comprenda  la  sua  presenza  nel  nostro  spirito  indipen- dentemente dall'  esperienza,  supponendo,  secondo  Rosmi- ni, che  lo  spirito  umano  abbia  l'intuizione  immediata  del- l'oggetto reale  corrispondenttj  a  quest'idea  (l'essere  uni- versale 0  indeterminato,  che  noi  predichiamo  di  tutti  gli  es- seri, è  un  attributo  divino,  che  viene  comunicato   agli esseri  creati  ;  noi  percepiamo  in  Dio  quest'attributo,  ma senza  percepire  la  sostanza  divina;  questa  percezione  è immanente,  e  costituisce  l'idea"  deiressere  continuamente presente  al  nostro  spirito).  Di  là  un'ontologia  delle  più ardue,  che  non  è  se  non  il  contracolpo  dell'ideologia  ro- sminiana.  La  dottrina  dell'essere  ideale  é  ciò  che  vi  ha  di più  caratteristico  nella  filosofia  di  Rosmini,  e  ne  è  ordma- riamente  considerata    come  la  parte  fondamentale;  ma chi  studia  i  concetti  metafìsici  per  darsi  ragione  sovratutto del  loro  perchè  e  della  loro  origine,  non  può  vedere  al- tra cosa  in  questa  dottrina  e  in  tutti  i  suoi  sviluppi  psi- cologici e  ontologici  che  una  conseguenza  di  un  risultato a  cui  Rosmini  è  pervenuto  nella  sua  ricerca  della  sostanza dell'anima  [!)• (1)  La  dottrina  giobertiana  dell'intuito  ohe  sostituisce  ali*  es- sere ideale  o  astratto  di  Rosmini  l'essere  reale  o  concreto,  cioè  Dio stesso  (e  non  uno  dei  suoi  attributi)  ha  dei  motivi  in  parte  analoghi aUa  dottrina  rosminiana. Gioberti  ammette,  come  Rosmini,  che  in  tutte  le   facoltà  del- l'anima vi  hanno  due  stati  o  due  modi  di  esercitarsi,  l'uno  imma- nente e  continuo,  l'altro  successivo  e  discontinuo:  il  primo  è  la  baso e  la  radice  del  secondo.  Il  sentimento  fondamentale  di  Rosmini  è lo  stato  immanente  del  senso;  l'intuito  di  Dio  è  lo  stato  immanente del  pensiero  o  il  pensiero  immanente.  Il  pensiero  immanente  non è  mai  assente  daUo  spirito  umano;  efciso  si  trova  nel  fanciullo,  nel dormiente,  ecc.;  e,  se  si  parla  di  questo  pensiero,  è  vero  di  dire  che l'anima  pensa  sempre.  Il  pensiero  immanente  non  è  un  atto  parti- colare del  pensiero,  ma  la  stessa  attività  pensante,  l'essenza  stessa del  pensiero  (analogamente,  il  sentimento  fondamentale  non  è  una sensazione  particolare,  ma  la  stessa  facoltà  sensitiva,  e  il  simile  per le  altre  facoltà  dello  spirito).  Esso  è  dunque  una  potenza,  ma  non nel  senso  ordinario  della  parola,  che  fa  della  potenza  una  sempUce astrazione,  ma  una  potenza  nel  senso  leibnitziano,  quae   conatum involvit,  un  che  di  concreto  e  perciò  includente  un  principio  di  a- zione.  Il  pensiero  immanente  essendo  l'atto  iniziale  che  costituisce la  potenza  di  pensare,  ne  segue  che  il  pensiero   successivo   non   è che  un'applicazione,  un'attuazione  particolare  determinata,  del  pen- siero immanente.  Il  pensiero  immanente  ha  per  oggetto  l'ente  u- niversale,  il  pensiero  successivo,  le  esistenze  particolari;  quello  per- cepisce Dio  come  ente  puro,  questo  percepisce  Dio  come  ente  in relazione  con  le  esistenze,   cioè  Dio  creante  gli  esseri  finiti  (V.  Pro- toh  t.  1.,  Intuiz.  e  rifless.).  E  siccome  la  creazione  è  secondò   Gio- berti l'individuazione  delle  idee  generali  (v.  Inlrod.  Milano  1850  1. 1. 294-295,  Err.  filos,  di  A,  Rosmini  Brusselle  1843  1. 1.  335-344,  ecc.)  che tutte  sono  comprese  nell'Idea,  cioè  in  Dio,  noi  possiamo  dire  anche che  il  pensiero  immanente  ha  per  oggetto  l'Idea  pura,  e  il  pensiero successivo  l'Idea  individuantesi  o  espUcantesi  esteriormente. Ciò  che  vi  ha  di  comune  tra  la  dottrina  di  Gioberti  e  quella  di Rosmini  è  il  concetto  di  un  fenomeno  stabile,  immanente,  dell'at" tività  psichica,  che  è  il  substratum  dei  fenomeni  transitori.  AppU- cato  all'attivila  intellettuale,  questo  concetto  importa  la  necessità di  ammettere  un'  idea  o  delle  idee  essenziali  allo  spirito  e  perciò innate.  Per  giustificare  poi  il  valore  obbiettivo  di  queste  idoe  innate, quindi  indipendenti  dall'esperienza,  e  spiegare  la  loro  coincidenza con  la  realtà,  tanto  Gioberti  quanto  Rosmini  ammettono  un'intui- zione raclonale  dell'oggetto  intelligibile.  Ma  le  dottrine  dei  due  fi- losofi non  si  fondano  sovra  un  principio  assolutamente  identico.  Il principio  della  dottrina  di  Rosmini  è,  come  abbiamo  visto,  che  la sostanza  dell'anima  consiste  nel  sentimento  (o,  con  un  termine  più generale,  nel  fenomeno  della  coscienza);  ciò  che  è  un'appUcazione .  10  - particolare  del  principio  più  genera/e  ohe  il  reale  è  costituito  da, sentimento.  Ma  non   è  questo  principio  (o  un  principio  analogo)  che può  essere  il  fondamento  della  dottrina  di  Giobejrti.  Perchè,  quan- tunque la  filosofia  delle  opere  postume  di  Gioberti   sia   un  panpsi- chismo che  risolve  ogni  essere  nel  pensiero  (e  quindi  anche  la  so- stanza dell'anima),  la  prima  forma  della  sua  filosofia  invece  riguarda le  sostanze,  e  per  conseguenza  anche  la  sostanza  anima,  come  delle forze  sconosciute,  dichiarando  la  loro   essenza  assolutamente   ine- scogitabile. Ora,  nella  prima  forma  della  filosofia  di  Gioberti,  si  trova già  non  solo  la  dottrina  dell'intuito  razionale  come  atto  immanente dell'intelligenza  (e  quella  del  sentimento  fondamentale),  ma  anche il  concetto  che  quest'intuito  costituisce  la  sostanza  sta^-ia    dell'  in- telligenza (Il  pensiero  è  l'intuito  dell'Idea;  senza  questo,  esso  non sarebbe  pensiero.  Tntr.  Mil.  J850,  t.  1.  164,  173,  249,  ecc.  :  Il  possesso intuitivo  dell'Idea  forma  la  nostra  intelligenza  ;  la  creazione  della intelligenza  non  è  altra  cosa   che   la  comunicazione,  nell'  intuito, dell'Intelligibile  divino.  Ihid,  t.  1.  468,  527-528— cfr.  Errori  Filos,  di A.  Rosmini  Brusselle  1843  1. 1.  pag.  301-302—,  t.  2.  29,  57,  ecc.).  Il  fon- damento della  dottrina  giobertiana  deve  essere   cercato   in   questa tesi:  che  la  potenza  non  è  un'astrazione,  ma  una  cosa  reale  e  con- creta, e  consiste  in  uno  sforzo  spontaneo,  in  un  atto  incoato  (v.  In- trod.  2.  243,  1.  106,  Proleg,  del  Priinato  1.  ed.  napoletana  pag.  46-48, Protol.  Napoli  186J  t.  2.  pag.  190,  ecc.).  Questa  tesi  è  secondo   Gio^ berti  una  conseguenza  della  concezione  dinamica  delie  cose.  E  in- fatti questa  concezione  (di  cui  spiegheremo  l'origine  nella  2.  parte) risolvendo  il  reale  in  forze  senza  materia,  toglie  dalle  cose  questo substratum  permanente  che  fa  si  che  noi   le   chiamiamo  sostanze' (poiché,  come  abbiamo  avvertito,  la  sola  idea  che  noi  abbiamo  della sostanza  si  riduce  alla  materia).  Ma  per  un  effetto  di  questa  incon- scia tendenza  che  ci  spinge  ad  assimilare   tutte   le   nostre  idee   a quelle  che  ci  sono  le  lùù  l^miliari,  il  metafisico  dinamista  si  sforza di  restituire  agli  esseri  la  loro  sostanzialità,  ristabilendo,  sotto    u- n'altra  forma,  questo  substratum  permanente  ch'essi  hanno  perduto nella  sua  dottrina  filosofica:  in  altri  termini,  egli  cerca  di  rappre- sentarsi la  forza,  cioè  l'attività,  la  potenza,  come  una  sostanza.  Di là  risulta,  primo,  l'idea  che  la  potenza  non  è  mai  inattiva  (poiché la  sostanzialità  importa  la  continuità   dell'  esistenza);   e,  secondo, perchè  la  sostantificazione  sia  più  completa,  la  supposizione  di  un atto  continuo,  immanente,  quale  substratum    degli   atti   transitori della  forza  o  potenza,  substratum  che  è  alla  sostanza  forza  ciò  che là  materia  alle  sostanze  corporee  (vale  a  dira  il  fondo  permanente 8U  cui  appariscono  successivamente  i  fenomeni  variabili).   Questa I I. tesi,  che  ogni  potenza  è  un  atto  primo  e  costante,  da  cui  risultano degli  atti  secondi  e  variabili,  è  comune  anche  a  Rosmini  (v,  N.  S. 1008)  :  ma  per  Rosmini  essa  risulta  dal  principio  che  il  concetto  di realtà  é  sinonimo  di  quello  di  attività  psichica,  di  coscienza  ;    per Gioberti  invece  dal  principio  che  il   concetto   di   realtà  ^inonima, non  con  quello  di  attività  psichica,  ma  con  quello  più  generale  di attività.  Dalla  fusione  del  concetto  di  attività  con  quello  di  sostanza nasce,  per  l'uno  e  per  l'altro  di  questi  filosofi,  l'idea  di  un  atto  im- manente come  substratum  degli  atti  transitori  di  ciascuna  potenza: ma  l'uno  si  rappresenta  ciascuno  di  questi  atti  immanenti  come  un fenomeno  stabile  della  coscienza,  perchè  ogni  attività  è  per  lui  at- tività psichica,  coscienza;  per  l'aitro  il  concetto  di  atto  immanenteè  più  esteso  che  quello  di  fenomeno  stabile  della  coscienza,  perchè il  concetto  di  attività  è  più  esteso  che  quello  di  coscienza.  Ne  segue ohe  per  Rosmini  i  fanomeni  stabili  della  coscienza,  che  egli  si  rap- presenta come  il  substratum  dei  fenomeni  variabili,  esauriscono  la sostanza  dello  spirito,  qu3sto,  come  tutti  gli  altri  esseri,  non  essen- do per  lui  che  coscienza:  por  Gioberti  invece  questi  fenomeni  sta- bili della  coscienza  non  possono  costituire  tutta  la  sostanza  dell'a- nima, perché  egli  suppone,  al  di  là  dei  fenomeni  della  coscienza,  un principio  sconosciuto,  da  cui  essi  derivano,  che  egli   chiama    1'  es- senza  dell'anima.  Cercando  un  substratum  permanente  ai  fenomeni successivi  dello  spirito,  affinchè  sia   possibile   di   concepire    questo come  una  sostanza,  e  cercandolo  in  qualche  atto  continuo   e   im- manente, Gioberti,  come  Rosmini,  non  può  trovare  altro  di  rappre- sentabile che  dei  fenomeni  della  coscienza,  immaginati  con  l'attri- buto della  continuità  e  della  stabilità;  ma  per  Rosmini  questo  rap- presentabile è  tutta  la  sostanza  dell'anima;  per  Gioberti  invece    vi ha  di  più  in  questa  sostanza  un  nucleo  oscuro,  una  cosa  che  sfug- ge assolutamente  alla  rappresentazione,  e  si  chiama  l'essenza.  Cir- coscritta nei  limiti  delle  forze  di  cui  possiamo  formarci   una   rap- presentazione—cioè le  potenze  psichiche  che  sono  le  sole  forze  im- materiali di  cui  abbiamo  l'idea- la  dottrina  di  Gioberti  che  la  po- tenza consiste  in  un  atto  immanente  (e  per  conseguenza  l'applica- zione di  questa  dottrina  alle  facoltà  del  nostro  spirito)  riposa  dun- que sullo   stosso   fondamento  che  quella  di  Rosmini  :  la  differenza tra  i  due  filosofi  è  che  mentre  il  secondo  non  vuole  ammettere  delle forze  d'una  natura  diversa  da  quelle  di  cui  può  formarsi  una  rap- presentazione (donde  il  suo  panpsichismo),  il  primo  estende  al  di  là dei  limiti  del  rappresentabile  il  concetto  di  forza   immateriale,  e, con  esso,  quello  di  un  atto  immanente  quale  substratum  degli  atti transi  tori  di  questa  forza. Noi  dobbiamo  aggiungere  infine,  perché  non  si  dia  alle  consi- —  u  — derazioni  ohe  precedono  an' importanza  troppo  assolata,  ohe,  mentre la  dottrina  di  Bosmini  delle  idee  innate  (cioè  dell'idea  innata  del- l'essere), e  quella  connessa  dell'intuizione  intellettuale,  non  sono che  un  risultato  delle  sue  speculazioni  sulla  sostanza  dell'anima, noi  non  possiamo,  al  contrario,  vedere  in  quest'ordine  di  specula- zioni il  motivo  unico  delle  dottrine  corrispondenti  di  Gioberti.  E- videntemente  Gioberti,  e  gli  altri  filosifi  che,  come  ^ui,  ammettono un'intuizione  razionale  di  Dio  e  della  verità  in  Dio  (S.  Agostino, S.  Bonaventura,  Malebranche,  Cousin,  ecc.),  ciò  che  vogliono  spie- gare per  questa  dottrina,  è,  in  generale,  la  possibilità  delle  cono- scenze indipendenti  dall'esperienza,  la  loro  coincidenza  con  la  realtà. In  Bosmini,  l'intuizione  razionale  non  spiega  che  l'idea  innata  del- l'essere; in  questi  filosofi,  oltre  le  idee  innate,  spiega  anche  i  giu- dizi a  priori.  Cosi  essa  è  anzitutto  in  questi  filosofi  una  conseguenza dell'apriorismo  e  dei  sofismi  naturali  da  cui  esso  deriva.  La  dottrina delle  idee  innate,  come  abbiamo  osservato  (App.  e.  2  §  9.),  è,  in  tutto o  in  parte,   una   conseguenza   di  questa  conseguenza. f.' r  • i \^ Come  prova  deirimmaneDza  noi  possiamo  addurre in  primo  luogo  i  termini  di  cui  Platone  si  serve  per  in- dicare le  Idee.  Questi  sono  :  I8éa  (specie,  forma)  (1),  il  suo sinonimo  sISo^,  y^^o?  (genere),  cpuoig  (natura),  oùoCa  (es- senza) ed  altri  simili  :  p  :  e:  T  t5éa  (forma  o  essenza)  del pari  (Fedone  104-105),  TelSos  (forma  o  essenza)  della  co- noscenza (Crat.  440  a-b),  gli  sTJyj  (specie)  del  piacere  (Fi- lebo  19  b,  20  a  e,  ecc.),  il  T^vo^  deirinfinito  (Fil.  25  a,  52 e,  ecc.),  la  cpóotc  del  bene  (Fil.  60  b),  roùoCa  del  colore (Crat.  423  e).  Questi  termini  non  si  riferiscono  sempre alle  Idee,  ma  solo  quando  denotano  Tuniversale,  come negli  esempi  citati,  indicando  sia  le  diverse  specie  di  es- seri (l'uomo,  l'animale,  il  bianco,  ecc.)  considerati  in generale,  sia  Tattributo  o  insieme  di  attributi  comuni  a (J)  Rammentiamo  che,  nell'interpretazione  del  sistema  platonico, bisogna  guardarsi  dal  lasciarsi  influenzare  dal  senso  che  la  parola idea  ha  nelle  lingue  moderne.  Come  nota  il  Martin  e  tanti  altri  e- gpositori  di  Platone,  furono  gli  Stoici  i  primi  ohe  diedero  a  questo termine  un  senso  psicologico  e  analogo  a  quello  che  ci  è  familiare . I  neo-platonici,  conformemente  alla  loro  interpretazione  del  sistema di  Platone,  intendevano  per  idee  i  pensieri  dell'intelligenza  creatrice, cause  esemplari  delle  cose,  e  la  parola  ritenne  lungamente  questo siguificato  neoplatonico  e  teologico,  per  tutto  il  periodo  della  sco- lastica, ed  anche  dopo  la  rinascenza.  La  diffusione  del  termine  nel senso  attuale  si  deve  a  Cartesio,  e  Locke  si  scusa  di  usarlo  in  questo senso,  come  di  un  nelogismo  (gag.  suU'int.  um.  Preamb.  sulla  fine). -M-^ ciascuna  specie  (V umanità,  ranimalità,  la  bianchezza, ecc.)  considerati  pure  in  generale.  Naturalmente  vi  ha un'infinità  di  luoghi  in  cui  q'iesci  termini  sono  impiegati con  questo  significato  generale,  e  in  cui  è  evidente  chVlòéoL,  l'sISo^,  il  ysvos,  ecc.,  di  cui  si  tratta,  non  sono delle  entità  trascendenti,  cioè  poste  fuori  delle  cose  di cui  si  dicono  laéa,  sl8og,  yévog,  ecc.  (1)  :  se  non  che,  Tin- (1)  Vedi,  per  es.,  per  il  termine  slSog  :  Polit.  258  e;  e;262b,  d, e;  263  b;  267  b;  278  e;  286  a;  b;  287  e;  288  a;  d;  e;  289  b;  291  e;  304  e; 306  a;  e;  307  d;  Sof.  219  a;  e;  d;  220  a;  e;  222  d;  e;  223  e;  225  o;  226 e;  e;  227  e;  228  a;  229  e;  234  b;  235  d;  236  e;  d;  259   e;   260   d;    264  e; 266  d;  Fil.  18  o;  19  b;  20  a;  e;  23  e;  d;  32  b;  33  e;  35  d;  48  e;  Teet. 157  e;  178  a;  181  c-d;  187  e;  205  d;  208  b-c;  Crat.  386  e;  389  b;  390  a; b;  e;  411  a:  424  e;  d;  440  a-b;  Fedro  265  a;  e;  266  a;  270  d;  271  d;  273 e;  277  b;  e;  Conv.  205  b;  210  b;  Meno.  72  e;  e:  Eutiphr.  6  d;  Rep. 434  d;  437  e;  d;  445  e;  d;  449  a;  477  e;  e;  510  e;  530  e;  532  e;  544  a:  581 e;  e;  585  b;  o;  597  e;  Tim.  53  e;  57  e;  d;  58  d;  59  b;  e;  Leggi  864  b; 893  a;  Parm.  13B  b  e  135  b  (le  Idee  sono  chiamate  le  specie  degli  es- seri: sT5r]  Twv  òvxwv);  ecc. Per  il  termine  I8éa:  Fil.  16  d;  25  b;  60  d;  Fedo.  104  b;  d;  e;  106 d;  PoUt.  258  e;  262  b;  307  o;  Sof.  235  d;  253  d;  Fedro  265  d;  273  e; Eutiphr.  5  d;  6  e;  Crat.  390  a;  Conv.  204  o;  Tim.  46  e;  Rep.  544  d; Parm.  135  a  e  b  (le  Idee  sono  chiamate  c5saL  TWV  OVTCDV  V.  pure perciò  Ar.  Met.  1.  I,  VI,  2  e  1.  XIII,  IV,  4);  ecc. Per  la  parola  yévog:  Sof.  253  b-c;  e;  254  d;  260  a;  b;  261  a;  263  d. 264  e;  266  e;  268  a:  224  e;  e;  226  a;  228  b;  235  e;  Fil.  23  d;  24  a;  25  a; 26  d;  e;  32  d;  44  e;  62  e;   63  b;  Polit.  260  b;  e;  263  a;  e;  266  a;  b;  e;  e; 267  b;  279  a;  285  b;  e;  Tim.  50  e;  51  d;  53  e;  54  b;  e;  55  d;  e;  56  e;  57  e; 58  e;  d;  69  b;  e;  ecc.  Aristotile  chiama  le  Idee  platoniche  yévYj  TWV OVTWV  (Met.  1.  Ili,  III). Per  la  parola  cp'jai^:  Fil.  18  a;  24  e;  25  a;  26  e;  60  a;  b;  Crat.  387  a; 393  e;  Teet.  174  b;  175  e;  Fedro  270  b-e;  Tim.  55  b.;  58  a;  Polit.  278  b; Leggi  862  e;  ecc. Per  la  parola  oÒoLol:  Fedo  65  e;  Crat.  338  e;  423  d-e;  424  b;  eco. Il  termine  oòoioL  (nel  significato  di  essenza)  prova,  d'  una  maniera più  palpabile  che  gli  altri,  l'inerenza  delle  Idee  nelle  cose  :    come I terprete  cho  ammette  la  trascendenza  delle  Idee  plaloni- che,  dirà,^  in  molti  casi  in  cui  questo  significato  imma- nenie  è  indiscut  bile,  che  i  termini  Idèa,  slSog,  ecc.  non veì'gono  usati  nel  senso  tecnico,  e  non  designano  le  I- dee.  Ma  questa  scappatoia  dell'  interprete  trascendenta- lista, la  quale  por  altro  non  è  possibile  in  tutti  i  casi, potrà  valergli  ben  poco  anche  per  quelli  in  cui  crederà di  potervi  ricorrere,  perchè  è  un  principio  platonico  che Toggetti  (IL  concetto  e  d^Ua  conoscenza  gene  ra  le  è  ri- do*, e  quin  li,  tutte  le  volte  che  alcuno  di  questi  termini indica  il  punto  di  vista  generalo,  noi  dobbiamo  presu. mere  ch'esso  si  riferisce  all'Idea.  Senza  dubbio,  è  pos- sibile che  Platone  abbia  alcune  volte  usato  questi  ter- mini v-on  un  significato  generale,  senza  pensare  perciò ;i  fare  dell'universale  a  cui  si  riferivano,  un'entità  uni- rà sussìstent  ter  se  sto?sa;  è  certo  anzi  che  vi  h^nno drì  casi  eccezionali,  in  cui  il  significato  generale  non potrebbe  affatto  implicale  la  snpprsizione  di  un'entità generale  corrispondente (1);  e  l'interprete  trascendentalista potrà  anche  aggiungere,  a  difesa  della  sua  proposizione, che,  nell'ipotesi  stossa  della  trascendenza  delle  Idee,  Pla- tone sarebbe  stato  tuttavia  costretto,  in  un  gran  numero di  ca««i.  cioè  quando  egli  voleva  indicare  il  punto  di  vi- sta generale  nella  cons'derazione  delle  cose,  ad  impie- gare i  termini  ISéa,  sI§os»  ecc.  in  un  senso  immanente, perchè  la  lingua  non  gli  offeriva  altri  termini   per  s'gni- infatti  l'essenza  potrebbe  essere  concapita  fuori  delle  cose  di  cui  è l'essenza  ?  Che  le  Idee  siano  per  Platone  le  essenze  delle  cose,  è poi  confermato  da  Aristotile  in  Met.  l.  I.  VII,  3,  l.  I.  IX.  11,  21, 1.  III.  IV.  6,  7,  1.  VII.  XIII.  3,  1.  Vili.  III.  5. (1)  Per  es.  quando  l'universalità  delle  cose  fenomenali  o  un  ge- nere di  queste  cose  vengono  opposto  alle  loro  Idee,  come  nel  Tim. 48  e  e  50  e  e  nella  Repubbl.  597  b. -  13  - ficare  l'universale  nelle  cose,  che  quegli  stessi  che  nel senso  tecnico  particolare,  proprio  esclusivamente  del  suo sistema,  significavano  l'universale  fuori  delle  cose.  (Que- st'espressione :  l'universale  fuori  d«»lle  cose,  è  evidente- mente un  controsenso;  ma  l'interprete  trascendentalista ha  bisogno  di  questo  controsenso  per  definire  le  Idee platoniche).  Ma  cosi  egli  confesserà  che,  nell'ipotesi  della trascendenza,  Platone,  oltre  che  si  metterebbe  persisten- mente  in  contraddizione  col  suo  principio  cbe  il  concetto generale  si  riferisce  all'Id^^a,  userebbe  i  termini  I8éa,  slòoq, ecc;  quando  essi  designano  le  Idee  :  in  un  senso  affatto diverso  dal  loro  significato  più  ovvio,  e  che  è  quello stesso  in  cui  vengono  usati  il  più  abitualmente  da  lui stesso. 2^  I  termini  designanti  ciascun'Idea,  cosi  bene  che quelli,  di  cui  abbiamo  parlato,  designanti  le  Idee  in  ge- nere, provano  l'immanenza.  Le  stesse  parole  che  indi- cano le  cose,  indicano  pure  le  loro  Ideo  :  il  movimento, lo  stato,  la  somiglianza,  la  dissomiglianza,  ecc.,  senz'al- tro, significano  l'Idea  del  movimento,  dello  s*ato,  della somiglianza,  della  dissomiglianza,  ec?.,  (1).  Qual  è  il criterio  per  distino:uere  quando  il  nome  indica  l'Idea  e quando  le  cose  ?  non  ve  ne  può  essere  che  un  solo  :  quan- do il  nome  significa  il  concetto  generale  (l'uomo,  il  mo- vimento, ecc.,),  noi  dobbiamo  presumere  ch'esso  si  rife- risce all'Idea  (2);  quando  il  suo  significato  viene  ristretto a  denotare  degli  oggetti  particolari  (quest'uomo,  il  mo- vimento di  questo  corpo,  ecc.,),  allora  non  può   riferirsi (1)  V.  Parmen,  129,  131  a,  d,  136  e,  136  a-b,  Fedo,  65  d,  74  a,  o, d,  75  a,  e,  76  d,  77  a,  100  d,  e,  101  a,  b,  e,  103  e,  104  a,  b,  RepnbbL 524,  Tim,  30  o,  Fedro  251  a,   eco. (2)  V.  nota  III. che  alle  cose.  Non  è  questa  la  prova  più  palpabile    che le  Idee  non  sono  separate  dalle  cose,  ma  sono    le    cose stesse  considerate  in  ciò  che  vi  ha  in  esse  di  generale  ? Gli  aggiunti,  quali  aÙTÓ,  aùxó  xae'aOxó,  8  laxi,  che  si  uni- scono al  nome  della  cosa,  quando  occorre  un  segno  per  di- stinguere le  Idee  dalle  cose  particolari,  non  possono  mutare il  significato  immanente  del  nome  a  cui  si  uniscono,  per- chè essi  non  indicano  che  il  punto  di  vista  dell'astrazione: aùxò  fivOpwTioc  (1'  uomo  stesso)  vuol    dire  l'uomo  in  ge- nerale,   considerato    negli    attributi  che  costituiscono  il concetto  htes'o  di  uomo,  astrazion   facendo   da  tutte    le differ.-nzo  individuali,  di  nazionalità,  di  razza,  ecc.;  aùxò xè  xaXóv  (il  bello  stesso)  vuol  dire  la  beltà    in  generale, la  stessa  beltà  che  è  l'oggetto  del  nostro  concetto  di  beltà, astrazion  facendo  da  tutti  gli  altri  attributi  che,  insieme alla  beltA,  si  trovano  negli  oggetti  particolari  a  cui  que- sto concetto  si  riferisce,  cioè,  che  si  chiamano  belli  (1); (1)  L'aùxó,  dice  Aristotile  Eth.  Eud.  (l.I.VIII,11)  si  aggiunge  per indicare  il  concetto  generale.— Il  significato  di   auxó^  risulta    della maniera  più  netta  da  un  luogo  del  quinto  libro  della  Repubbl.  La sete,  in  quanto  è  sete,  si  dice  in  questo  luogo,  non  è  che  l'appetito della  bevanda,  e  non  di  una  bevanda  molta  o  poca,  calda  o  fredda,  ecc.t in  una  parola  di  una  certa  bevanda.  Se  per  la  T^apODaia    della  mol- titudine la  sete  è  molta,  sarà  l'appetito  di  molta  bevanda,  se  è  poca di  poca;  se  alla  sete  si  aggiunge  il  calore,  si  avrà  l'appetito  di  una bevanda  fredda,  se  si  aggiunge  il  freddo,  l'appetito  di  una  bevanda calda:  ma  la  sete  stessa  (aùxò   U<^0(Ùy  n»»  è  cbe  l'appetito  deUa be- vanda stessa  (aùxoO  7i(i)|iaxo€),  f  animo  di  chi  ha  sete,  in  quanto ha  sete,  non  vuole  altra  cosa  che  bere.  E  in  generale,  per  le  cose relative  ad  altre  cose,  ciascuna  cosa  stessa    (xà    aùxà    Ixaoxa)     è relativa  holtanto  a  ciascuna  cosa  stessa  (aùxot)  éxàaxoo),  ma  quel- le che  sono  a  un  certo  modo  determinato  sono  relative  a  cose  che gono  pure  a  un  certo   modo   determinate  :  p.  e.  il  maggiore  (sem- pUoemente)  è  relativo  al  minore  (sempUcemente),  ma  il  molto  mag- -  14  - 0  loxt  xXCvY],  0  laxiv  àyaeóv,  ecc.  ciò  ch*^  è  letto,  ciò  che  è bene,  ecc.),  vuol  dire  ciò  che  è  propriamente  significato dal  nome  letto,  dal  nome  bene,  ecc.,  e  che  non  è  altro se  non  quello  che  ciascuno  dì  questi  nomi  propriamente significa,  ciò  che  noi  propri  amen  t:^.  chiam'amo  letto,  be- ne, ecc.,  nelle  cose  particolari  a  cui  applichiamo  questi nomi,  cioè  quell'attributo  o  insieme  dì  attributi  che  i  ter- mini letto,  bene  ecc.  connotano,  astrazion  facendo  daoH altri  attributi  con  cui  e^si  .^ono  congiunti  nelle  cose  par- ticolari che  questi  termini  denotano,  cioè  ancora  il  letto in  generale,  il  bene  in  generale,  ecc.  (1)  Il  significato  di giore  è  relativo  al  moJto  minore.  Cosi   per   le   scienze  :   la   scienza stesso  (èniGzri\xri  olòzÌ])     è  scienza  deUo  scibilo  stesso^    (|xa0%axo^ OtÙTOu),  ma  una  certa  scienza  determinata  d'un  certo  scibile determinato:  p.  e.  essendovi  una  scienza  di  edificare  le  case,  si  di- stingue da  tutte  le  altre  scienze  particolari,  prendendo  il  nome  di architettura:  essendo  d'una  com  particolare  e  determinata,  anch'es- sa si  fa  particolar-^  a  determinata.  Cosi  pure  la  s'»ienza  dfti  salubri e  degl'insalubri,  essendo  scienza  non  dell'oggretto  stesso  di  che  è scienza  la  scienza  (s^mnlicem^^ntoV  ma  di  un  certo  oggetto  partico- lare, cioft  il  salubre  e  rinmlubr3,  anch'essa  si  fa  determinata  e  parti- colare, e  si  chiama  perciò,  non  sci'^nza  semplicemente,  ma,  per  l'ag- giunzione d'una  determinazione  particolare,  scienza  medica  (Rep. 437  d-439  a).  Non  è  evidente  cho  a'nò  òi'])oq,  d»  ^'©te  stessa),  aùxò TCWjia  (la  bevanda  sf6>S6Y'\  aOxrj  iTriaxi^jiy)  (la  scienza  sfé?ssrt.  a»jxó p,OC0y3|JLa,  (lo  scibile  stesso)  non  designano  delle  entità  trascendenti (fuori  delle  cose>,  ma  quello  stesso  cho  noi  chiamiamo  sete,  be- vanda, scienza,  scibile,  considerati  in  astratto  ?  Questo  significato di  OLÒzó^  si  troverà  anche  aV  astanza  chiaro  in  Toet.  175  e;  Pam. i?9  b;  Crat.  439  c-d;  Fedone  74;  78  d;  1(^  b;  Rep.  472  e;  476  a-c; 479  a,  e;  525  a,  e  (cfr.  524),  Eutifr.  6  d-e;  Tpp.  magg.   286  e;  ecc. (1)  Vedi  Crat.  38q  b,  d.  Par.n.  129  a,  b,  Fedone  74  d,  75  b.  l?ep. 532  a,  597  a,  e,  eco  Cfr.  Meno.  74  b-e  Per  compi  andare  bene  il  valore  di 6  Soxi,  aùxóg  e  simili  nel  linguaggio  platonico,  è  utile  di  tener  presente aùxò  xaO'aOxó  è  il  medesimo  che  quello  di  0  soxt  e  del  sem- plice aùxó  :  il  xaO'aOxó  (per  se  stesso)  si  aggiunge  per indicare  d'una  maniera  più  energica  che.  dell' oggetto, designato  dal  nome,  non   deve   prendersi  che  quel  solo la  distinzione  tra  la  detonazione  e  la  connotazione  dei  nomi.  Secondo questa  distinzione  cìie  i  logici  peripatetici  facevano  nei  significato  del nomi  (e  che  Stuart-Mili  ha  introdotto  nella  logica  contemporanea),  il  no- me denota  ciascuno  degli  oggecti  concreti)  appartenenti  a  una  classe,  e connota  l'attributo  o  y;ii  attributi  (astratti)  comuni  a  questa  classe  (se non  tutti,  quelli  almeno  che  entrano  nella  definizione  della  classe).  Per un  vero  nominalista,  il  vero  significato  del  nome  consisterà  nella  sua  de- notazione; ma  per  un  concettualista  cousisterà  iavece  nella  sua  connota- zione; inl'atti,  nell'ipotesi  dell'esistenza  di  concetti  generali,  un  nome  ge- nerale è  il  segno  d'un  concetto  generale,  e  questo  è  costituito  dall'attributo o  insieme  di  attributi  comuni  a  una  classe  o  per  cui  la  classe  si  definisce. Tale  è  la  dottrina  dello  stesso  Stuart-MiU  (il  quak-,  quantunque  si  dia per  nominalista,  è  in  realtà  un  concettualista  (V.  il  Saggio  J.  e.  I.):  la significazione  reale  d'un  nome  generale  non  è  secondo  lui  che  la  sua connotazione,  questa  consistendo  negli  attributi  inclusi  nel  concetto  (v. Log  1.  1.  e.  i.  §  5,  e.  5,  §  2,  §  7,  e.  7.  $  1.  e.  S,  s  1,  1.  4.  e.  3.  g  4.  e. 4.  S  1,  e  0.  §  5,  ecc.),  e  una  proposizione,  i  cui  termini  sono  dei  nom^ generali,  non  aflernia  che  una  reluiione  tra  attributi  (v.  Log.  1.  3.  e.  5. S  4,  e.  6.  S  5,  Fu,  di  HamiUon.  e  18.  sulla  fine,  e.  22.  sul  principio ecc.)  Oi-a  se  al  concettualismo^  come  teoria,psicologica,  si  aggiunge  il  rea- iisìno^  come  dottrina  ontologica,  in  altri  termini  se  si  ammette  che  ai concetti  astratti  e  generali  «corrispondono  delle  entità  astratte  e  generali, allora  il  vero  significato  dei  nomi  si  riferirà  a  queste  entità,  perchè  esse non  sono  che  i  concetti,  cioè  le  connotazioni  dei  nomi  generali,  realizzate. In  efl*etto  secondo  l^latone  i  nomi  sono  propriamente  i  segni  delle  idee, e  le  cose  prendono  la  denoruinazione  di  queste  per  la  loro  presenza  e partecipazione  (V.  Fedo  102  b,  103  b,  e,  io4  a,  Parm.  I3O  e-Jsi  a.  Meno. 74  d-75  a,  70  a,  Sof.  ^40  a,  Lacìi.  I92  a,  ecc.  Cft-,  Arist.  Etli.  End,  1.  I Vili.  2,  Met,  1.  i.  VI.  2,  ecc.)  È  questa,  al  fondo,  la  dottrina  dei  concet- tualisti, secondo  cui  i  nomi  sono  i  segni  degli  attributi,  e  vengono  dati agli  oggetti  in  vista  degli  attributi  che  essi  possiedono,  tradotta  in  lin- guaggio realista.  Vi  ha  tuttavia  tra  la  dottrina  di  Platone  e  la  concet- tualista questa  difierenza:  secondo  Piatone,  i  nomi  generali  sono  i  nom: delle  Idee;  il  concettualista  invece,  quantunque  egli  ammetta  che  i  riomj -15  - attributo  o  insieme  di  attributi  che  costituisce  la  nozione generale  di  quest'oggetto,  lasciando  in  disparte  tutte  le particolarità  individuali,  tutti  gli  attributi  concomitanti che  differenziano  i  concreti,  tutto  ciò,  in  una  parola,  che non  è  incluso  nel   concetto  generale  (1).  Senza  dubbio© generali  concreti,  p.  e.  uomo,  animale,  bianco,  buon),  ecc.  significano propriamente  gli  attributi— perchè  la  loro  applicazione  agli  oggetti  indica la  presenza  di  certi  attributi,  e  viene  fatta  in  ragione  di  questi  attribu- ti—, non  dirà  però  che  questi  nomi  sono  i  nomi  degli  attributi  .  perché gli  attributi  vengono  denotati,  non  da  essi,  ma  dai  nomi  astratti  che  ne derivano,  p.  e.  umanità,  animalità,  bianchezza,  bontà,  eec.  Sicché  mentre secondo  Platone  le  cose  prendono  il  nome  delle  Idee,  secondo  li  concet- tualista ai  contrario  sono  gli  attributi  che  prendono  il  nome  delle  cose» perchè  animalità  viene  da  animale,  bianchezza  da  bianco,  ecc.  La  ragione di  questa  differenza  é  che  secondo  il  concettualista  gli  attributi  sono  sem- plicemente degli  attributi— che  non  si  concepiscono  per  sé  S9  non  p^r  una astrazione  della  mente— e  non  allo  stesso  tempo  delle  sostan?e,  cioè  delle realtà  sussistenti  per  se  stesse;  per  conseguenza  non  può  applicarsi  ad essi  un  nome  concreto,  perchè  questi  nomi  non  denotano  che  le  sostanze. Ma  le  Idee  sono  per  Plat  ne  non  solo  attributi— delle  cosa  che  ne  parte- cipano—ma  anche  sostanze,  potendo  darsi  per^definizione  dell'Idea  ch'essa è  un  attributo  sostantificatc;  per  conseguenza  egli  può  denotare  gli  at- tributi quali  esistenti  per  sé.  cioè  le  Idee,  coi  nomi  concreti. Si  osservi  che  la  dottrina  platonica  di  cui  parliamo  è  una  prova   evidente  della  immanenza  delle  Idee,  perchè  é  chiaro  che  ciò  che   i  nomi propriamente  significano  non  può  essere  che  gli  attributi  delle  cose  nelle cose  stesse,  e  non  delle  entità  trascendenti /t*on  delle  cose. Tornando  ora  al  significato  di  ò  £0X1,  aUTÓg,  ecc.  nel  linguaggio platonico,  noi  possiamo  formularlo  brevemente,  dicendo  che  questi  ter- mini, aggiunti  a  un  nome,  identificano  la  denotazione  di  questo  nome alla  sua  connotazione,  indicano  che  ciò  che  il  nome  denota  non  è  che quello  stesso  che  esso  connota. (1)  V.  Parm.  129,  Meno,  loo  b,  liep.  476  b,  524  d,  ec«.  Cfr.  Rep, 528  b,  in  cui  si  oppone  al  solido  in  movimento  che  è  l'oggetto  dell'astro- nomia, il  solido  aOiò  xaO'aOxó  che  é  l'oggetto  della  geometria.  L'aùxò xaG'aOxó  le  il  femminile  aOxYj  xae'auxr^v),  oltre  che  ai  nomi  delle  co- loxt  xXCvT),  aòxó  xaXóv,  xaXèv  aòxó  xaO'aOxó  ecc.,  non  si- gnificano solamente  che  il  letto,  il  bello,  e  ogni  altra  cosa di  cui  è  quistìono,  devono  concepirsi  d'una  maniera  astrat- ta, ma  di  più  ch'essi  hanno  un'esistenza  reale  in  quelito stato  astratto,  ch'essi  sono  delle  sostanze  nel  tempo  stesso che  delle  astrazioni  —  la  determinazione  della  sostanzia- lità è  chiaramente  espressa  sovratutto  dal  termine  aOxò xaO'aOxó,  perchè  e^s'^re  xaB'aOxó  significa  sussistere  per  se stesso,  essere  non  un  semplice  predicato,  ma  un  sogget- to (1):  ma  da  ciò  V  inierprf  te  trascendentalista  non  deve affrettarsi  a  concludere  che  il  letto,  il  bello,  ecc.,  di  cui si  tratta,  sono  delle  entità  situate  in  un  altro  mondo, al  di  fuori  dei  letti,  delle  cose  belle,  ecc.,  particolari. La  quistiobe  non  è  già  se  Piatone  abbia  o  no  conce- pito le  Idee  come  sostanze;  ma  se  queste  sostanze  egli le  abbia  o  no  considerate  al  tempo  stesso  come  inerenti nelle  cose  e  costituenti  i  loro  attributi.  Non  vi  ha  dub- bio che  queste  due  nozioni,  essere  delle  sostanze,  e  ine- rire nelle  cose  come  loro  attributi,  sembrino  al  nostro punto  di  vista  contraddittorie,  ma  è  in  questa  contrad dizione  che  sta  l'essenza  della  dottrina  delle  Idee  e  del realhmo  in  generale,  e  il  significato  di  aOxò  xaG'aOxó  e degli  altri  termini  equivalenti  designanti  le  Idee  riunisce appunto  queste  due  nozioni,  per  noi  incompatibili.  Am- se,  può  essere  aggiunto  ai  termini  e^SoC»  omioL  e  altri  designanti  le  1- dee  in  gen<^re,  per  indicare  che  le  forme  o  essenze  di  cui  si  tra  "ita  devono essere  considerate  ciascuna  per  sé  sola,  astrazion  facendo  dalle  altre  tor- me o  essenze  con  cui  si  trova  mescolata  nelle  cose  (come  pure  che,  cosi considerate,  esse  non  sono  delle  semplici  astrazioni,  ma  anche  delle  realtà — delle  astrazioni  realizzate — ).  La  stessa  osservazione  per  aiiXOg. (1)   V.  Arist.  Magn,  Mor.  I.  J.  I.  J2.    Met,    1.    XI     X.   3,    ecc.    Cfr Mei.  1.  V.  XVIII.  8,  Anal.  Post  1.  I.IV.  5. —  16  — mettere  che  le  Idee  platoniche  sono  iliori  delle  cose  è  ani- mettere  che,  quando  bì  p^nsa  e  quando  si  parla,  i  nrstri concetti  e  i  nostri  nomi  generali  si  riferiscono  a  dello,  en- tità poste  fuori  delle  cose.  Ma  se  si  conviene  eh*»,  quando si  pensa  e  quando  si  parla,  i  nostri  concetti  e  i  nostri nomi  generali  si  riferiscono  agli  attributi  esistenti  nelle cose  stesse,  bisogna  anche  convenire  che  le  Idte  plato- niche esistono  nelle  cose  atesse  come  loro  atiribut».  In  ef- fetto i  valore  dei  termini  aOxó,  aùxò  xaG'aOió,  o  èoii  e  simili è  precisamente  questo,  di  far  significare  ai  nomi,  a  cui essi  si  aggiungono,  quello  stesso  appunto  [quello  stesso,  noi qualche  cosa  di  s  mile  o  di  eguale)  a  cui  i  nostri  con- cetti e  i  notri  nomi  generali,  tutte  le  volte  ch»^  pensia- mo o  che  parliamo,  s'  riferiscono,  in  quanto  questi  con- cet'i  e  questi  nomi  sono  i  segui  e  i  rappresentanti,  non delle  cose  concrete,  ma  degli  attributi  di  queste  cose  (1). (j)  Il  senso  immanente  di  questi  termini  è  abbastanza  chiaro  negli esempi  cne  abbiamo  citato  nelle  note,  e  gii  altri  che  si  potrebbero  ag g.ungere,  per  illustrare  il  loro  significato  nella  lingua  filosofica  di  Platone. Contro  alcuno  di  questi  esempi  V  interprete  frascendenfaiisla  potrebbe fare  l'obbiezione  che  non  vi  si  parla  delle  Idee:  e  sia  p-jre  !  ma  ciò  non  in- validerebbe la  forza  dell'argomento,  perche  se  aÙTÓg  e  gli  altri  termini  e* quivalenti  designano,  quando  non  sono  impiegati  in  un  senso  tecnico, cioè  implicante  la  realizzazione  dei  concetti,  gli  attributi  delle  cose  stes- se considerati  nella  loro  generalità  e  nella  loro  purezza  astratta,  essi  non possono  designare  altra  cosa,  quando  il  loro  senso  è  tecnico,  cioè  quando implica  questa  realizzazione  dei  concetti.  La  cosa  designata  nei  due  casi deve  essere  la  stessa:  salvo  che  nel  primo  caso  non  si  pensa,  come  nel secondo,  ad  elevare  questa  cosa,  cioè  quest'astrazione.,  al  grado  di  entità reale,  sussistente  per  sé  stessa Una  prova  del  signifìcazo  immanente  dei  termini  platonici  aÙXÓ  e xaO'aÒTÓ  si  ha  anche  nell'  uso  che  fa  Aristotile  di  questi  termini, quando  se  ne  serve,  come  Platone,  per  indicare  il  punto  di  vista  deli'  a- strazione,  perche  e  certo  che  i  concetti  che  essi  esprimono  in  Aristotile non  possono  rappresentare  delle  entità  trascendenli.   V.  per  ciò  De  Coe io Come  può  ridea,  che  è  un^,  identificarsi  cm  gli  attri- buti dell^  cose  particolari,  che  sono  multiple  ?  Come  può l'uno  essere  nei  moti  ?  Certamente  ciò  è  difficile  a  con- cepire; ma  lo  stesso  Platone  confes-a  che  qii'  sta  è  la grande  difficoltà  del  sistema  dello  Idee  (I). I.  I.  IX.  2,  5,  Met.l  VJI.  X[.  2,  I.  VII.  JII.  4,  X.  l.S,  1  VI.  IV,  3.  1,  XI in.  8,  ecc.  È  sovratutto  notevole  ii  primo  dei  luoghi  citati,  in  cui  distingue la  forma  stessa  per  se  slessa  (aOxT^  xaO'aOiT^v)  e  questa  forma  mesco- lata con  la  materia:  p.  o.  la  forma  (genei-ale  e  astratta)  del  circolo  e  un circolo  pinicolare,  quella  della  sfera  e  una  sfera  particolare,  quella  del cielo  (che  potrebbe  ritrovarsi  in  una  moltitudine  «li  cieli  possibili)  e  que- st'unico cielo  reale  che  noi  osserviamo  (La  stessa  distinzione  un  po'  più innanzi^l.  I.  IX.  5— <>  espressa  con  le  parole:  il  cielo  staso  —  aOxo) oOpav^   —  e  questo  cielo). In  altri  casi  Aristotile  usa  questi  termini  in  un  senso  identico  quasi assolutamente  al  platonico  (cioè  indicante,  oltre  aUastrazione,  anche  la sostanzialità):  è  quando  essi  gli  servono  ad  esprimere  dei  concetti  di  altri filosofi  che,  come  Platone,  hanno  realizzato  dello  astrazioni;  ed  anche  in questi  casi  il  significato  immanente  «  indubitabile,  perchè  i  filosoli  di cui  si  tratta  hanno  incontestabilmente  considerato  !e  loro  astrazioni  rea- lizzate come  inerenti  alle  cose,  e  non  come  delle  etitilà  trascendenli.  Cosi vengono  chiamati  aOxó  l'Uno,  il  Finito  e  1'  Infinito  dei  Pitagorici  (v. P/i!/s  I.  IH.  V.  1-4  —  cfr.  Mei.  I.  XI.  X.  2-6—,  Met,  1.  I,  V.  13,  I.  Ili, I^'  22— cfr.  25—,  1.  X.  Il  1),  dicendo  che  questi  filosofi  consideravano  queste astrazioni,  non  come  s<nnplici  attributi  degli  esseri  concreti,  ma  come realtà  sostanziali  (in  F/u/s.  1.  I.  Vili.  2  aÙTÓ  viene  anche  applicato  al l'Essere  degli  Kleati.  perchè  anclie  questo  era  in  un  certo  modo  la  realiz- zazione del  concetto  astratto  dell'essere):  e  l'Infinito  degii  stessi  Pitagorici viene  anche  detto,  per  questa  ragione,  xaG'aOTÓ  (V.  Phys  1.  II;  ;  /  2>, confermando  la  nostra  osservazione  antecedente  che  la  determinazione della  sostanzialità  espressa  da  questo  termine  non  porta  come  conseguenza quella  della  trascendenza. (1)  Ad  aOió,  xaB'aOxó,  6  san  corrispondono  gli  epiteti,  dati alle  Idee,  di  xaBapÓV  (pure;  v.  Fedone  67  a-b,  79  d,  83  e,  Conv.  211  e), slXtxptVSC  (schietto  —  V.  Fedone  66  a,  67  a-h,  Conv.  211  e)»  òcjiixxov t  •< —  17  — Prima  dì  passare  a  un  altro  ordine  di  prove,  segna- lerò una  formula  di  cui  Platone  si  serve  per  indicare  bre- vemente la  sua  dottrina  :  il  bello  (  o  il  bello  stesso  o  il bello  stesso  pei*  se  stesso)  è  qualche  cosa,  il  buono,  il  giusto e  ciascuna  specie  degli  esseri  è  qualche  cosa  (1);  vuol dire  :  si  deve  ammettere  un'  Idea  del  bello,  del  bene, della  giustizia  e  di  ogni  altro  attributo  generale  dcll-r cose.  La  predicazione  è  qualche  cosa  attribuisce  al  bello, al  buono,  al  giusto,  ecc.,  in  astratto,  la  realtà,  affer- ma che  essi  non  sono  puri  nomi  né  semplici  concetti, ma  entità  reali  aventi  ciascuna  un'  esistenza  propria  e distinta.  Ora  m  queste  proposizioni  :  f  il  bello,  il  buono, ecc.  è  (jualche  cosa  »,  questi  astratti,  di  cui  Platone af- feroia  la  sussistenza  reale,  sono,  per  lui,  delle  entità  im- manenM  o  trascendenti  ?  sono  gli  attributi  delle  cose  ndl*' cose  stesse,  o  gli  esemplari  di  questi  attributi  posti  fuori delle  cose  V  È  una  semplice  quistione  grammaticale.  E evidente  che  la  proposizione  :  «il  bello,  o  il  buono,  ecc. (immisto  —  V.  Conc,  211  e,  FU.  59  o),  jiOVOSlSé?  (uniforme—  v.  Be- (fune  78  d,  80  b,  83  e,  Conv.  211  b,  e),  eoe.  :  questi  termini  signifi- cano,  come  quelli,  che  noi  dobbiamo  rappresentarci  l'Idea  por  un concetto  rigorosamente  astratto,  isolando  ciascun  attributo  gene- rale delle  cose  da  tutte  le  circostanze  concomitanti,  non  perchè  esi- sta realmente  isolato  da  esse,  ma  perchè,  concepito  astrazion  facendo da  esse,  ha  tuttavia  una  realtà  propria,  un'esistenza  distinta  e  in- dipendente. (1)  P.  e.  nel  Fedone  66  d.  "  Diciamo  che  il  giusto  è  qualche  cosa o  niente  ?  —  Qualche  cosa,  per  dio  !  —  E  il  bello,  e  il  buono,  sono qualche  cosa?  — E  come  no?—  Hai  visto  mai  alcuna  di  queste  co- se ?- Giammai,  disse -O  forse  l'hai  percepito  per  qualche  altro  dei sensi  corporei?  io  parlo  di  tutte,  della  grandezza,  della  sanità,  della robustezza,  e  in  una  parola  dell'essenza  di  tutte  le  coso,  vale  adiro di  ciò  che  è  ciascuna  cosa.  „ V.  anche  Fedone  74  a-b,  100  b,  102  b,  Crat  431)  o,  Ippia  uiami.  287 Q-d,  Protag.  330  b,  d,  Rep,  476  o-d,  480,  ecc. 6  qualche  cosa  »  è  un;i  proposizione,  non  verbale  e  ana- litica, ma  reale  e  sintetica,  vale  a  dir^,  in  cui  la  nota, espressa  dall'attributo,  non  era  contenuta  nel  concetto  del soggetto,  ma   gli  è  aggiunta  nell'  atto  stesso  che    viene attribuita   al   soggetto.    L' essere  qualche  cosa,    cioè  la realtà,  la  sussistenza  per  sé  stesso,  è  dunque  una  nota che  non  è  compresa  nel  significato  del  soggetto  il  bello, il  buono,  ecc.;  il  bello,  il  buono,  ecc.,  quale  semplice  sog' getto  della  proposizione,  designa  semplicemente  V  astratto, ma  noa  ancora  1'  astratto  sostantificaio;  la  determinazione della  sostanzialità  è  aggiunta  posteiiormente    air  enun- ciazione del  soggetto.  Ma  se  il  bello,  il  buono,  ecc.,  come semplice  soggetto  della  proposizione,   non   desi-na  V  a- stratto   sostantificato,    cioè   r  Idea   platonica,  cosa  de- signerà?  non  altro   che    lo  stesso    astratto  che   nel    lin- guaggio comune  è  significato  dalle  parole  il  bello,  il  buono, ecc.  (  dacché  queste  parole  non  possono  qui  essere  com- prese nel  senso  tecnico,  qualunque  esso  .sia,  particolare alla  dottrina    delle   Idee)  ;  vale  a  dire    V  attributo    della beltà,  della  bontà,  ecc.  nelle  cose  stesse,  c(  nsiderato  d'una maniera,  non  solo    astratta,    ma    «nchc    generale.    Per conseguenza  é  a    questa    beltà,   bontà,    ecc,    che   sono nelle  cose,    considerate   d' una   maniera   astratta   e   ge- nerale, che,  nelle  proposizioni    di    cui    parliamo,    viene attribuita  la  sussistenza  per  se    stesse  ;  e   le  Idee  plato- niche sono  gli  attributi  generali  delle  cose,  sostantificati, ma  nelle  cose  stesse,  e  non  degli  attributi  simili  o  eguali, fuori  delle  cose,  quali  sarebbero  neir  interpretazio-  ••  tra- scendentalista (1). (1)  Nel  Timeo  la  quistione  tra  il  realismo  e  il  nominalismo,  con- tenuta nella  domanda  della  nota  precedente,  è  posta  in  termini, per  noi  moderni,  più  netti.  «  Il  fuoco  stesso  in  se  stesso,  domanda \ • IV II - !; ■■ « il III.  fcj  come  già  accennammo,   un  principio  platoniche  il   concetto  e   la   conoscenza  generale  si   riferiscono air  Idea.  Ciò  risulta  in  primo  luogo  dalle  prove  per  cui Platone  dimostra  resistenza  delle  Idee,  di  cui  la  più  al- parte  non  sono  che  delle  applicazioni  di  questo  principio. Tali  sono  le  seguenti  :  Il  concetto  si  riferisce  vìWukìo  nei molti,  a  qualche  cosa  che  si  predica  di   tutti  i  singolari come  uno  e  lo  stesso  in  tutti,  senza  identificarsi  con  alcuno di  essi  :  ma  ciò  a  cui  si  riferisce  il  concetto  è;  vi  hanno dunque,  oltre  ì  singolari,  le    Idee  -  Il    concetto  non  si riferisce  alle  cose  particolari,  perchè   queste  periscono, mentre  esso  permane  e  resta  sempre  lo  stesso  :  vi  ha  dun- que, oltre  le  cose  particolari  e  peribili,  (gualche  cosa  che permane  e  resta  sempre  la  stessa,  e  a  cui  il  concetto  si riferisce  ;    e    V  Idea  —  Non    vi    ha  scienza  dei   singolari, perchè  essi  sono  infiniti  di  numero    e    indeterminati  ;   la scienza  invece  non  può  avere  che  un  oggetto  finito  e  deter- minato; qu'^sto  è  ridea.-La  medicina,  la  geometria,  ecc. Timeo,  e  tutte  le  altre  cose  di  cui  diciamo  ohe  sono  aOià  xaB'a'JTd, hanno  veramente  un'esistenza  reale,  o  una  tale  esistenza  non  con- viene che  agli  oggetti  che  vediamo  e  percepiamo  con  gli  altri  sensi, e  non  vi  ha  niente  oltre  di  questi,  ma  vanamente  diciamo  esservi  un slSo^  intelligibile  di  ciascuna  cosa,  mentre  esso  non  è  ohe  una  pa- ro\2.UiTiyaeo  51  b-c).  È  di  uno  stesso   slSo?  che  qui  si  domanda  se ha  una  sussistenza  reale,  come  pretende  Platone,  o  se  è  una  parola, come  vuole  il  nominalismo  :  dunque,  l'elSo^,  ol^e,  secondo  il  nomi- nalismo,  è  una  parola,  essendo  nelle  cose,  cioè  l'universale;  l'sleo^ platonico,  che  ha  una  sussistenza  reale,  deve  essere  pure  nelle  cose, cioè  anch'esso  l'universale.  Se  fosse  fuori  delle  cose,  l'eleo;  che  Pla- tone ha  di  mira,  quando  dichiara  che  è  un'entità  reale,  non  sarebbe queir  slSo?  stesso,  che  il  nominalista  ha  di  mira,  quando  dichiare che  è  un  nome. sono  la  scienza,  non  della  sanità  di  questo  o  dì  quello, ma  della  sanità  semplicemente,  non  di  questo  o  di  quel cerchio,  di  questo  o  quel  commensurabile,  ma  det  cerchio e  del  commensurabile  semplicemente  ;  vi  ha  dunque  la sanità  stessa,  il  cerch^'o  stesso,  il  commensurabile  stesso, ecc.— La  scienza  non  si  riferisce  ad  alcun  particolare,  ma air  universale,  a  ciò  che  è  uno  e  lo  stesso  in  tutti  1  par- ticolari :  ma  ciò  a  cui  si  riferisce  la  scieuza  è  ;  vi  ha dunque  T  Idea.  (La  prova  antecedente  è  fondata  suir  a . strattezza della  scienza,  questa  sulla  sua  universalità)  —  (1), La  dimostrazione  suppone  che  ciò  di  cui  si  dimostra  è  : ma  non  si  dimostra  di  alcun  particolare,  ma  del  r  uni- versale,  di  alcun  che  di  uno  e  lo  stesso  che  si  dice  di molte  cose;  la  dimostrazione  suppone  dunque  che  vi  hanno nelle  cose  (Guapxetv  èv  zoX^  orni  Arìst.  An.  Post.  l.I.  XXIV.  3) delle  nature  universali  a  cui  essa  si  riferisce  (2). Non  insistiamo  sull'espressione  aristotelica  nizd^yjòi^  iv Tot^  o'joi  (che,  se  non  èia  riproduzione  esatta  d'una  formula platonica,  è  certamente  modellata  sulle  formule  platoniche), e  nemmeno  sulla  designazione  deiroggetto  del  concetto — cioè  deiridea—  come  qualche  cosa  che  è  una  e  la  stessa in  tutti  gli  oggetti  particolari  :  sono  degli  esempi  di  altre prove  deir  immanenza  che  esamineremo  a  suo  luogo.  Per ora  dobbiamo  limitarci  a  questa  quistione:  i  nostri  con- cetti e  le  nostre  scienze  —  cioè  le  nostre  conoscenze  ge- nerali —  si  riferiscono  agli  attributi  generali  dello  cose nelle  cose  stesse  o  a  degli  attributi  simili  fuori  delle  cose? questa  sanità,  p.  e.,  che  è  V  oggetto  della  medicina,  è la  sanità  degli  uomini  e  degli  animali,  o  un'  altra  sanità (1)  V.  per  queste  prove  Arist.  Met.  1.  I.  IX.  (2),  l.  Ili,  IV.  (i),  ecc.,  e  il commento  di  Aless.  Aprod.  (in  phil.  pr.  Arist.)  al  primo  di  questi  luoghi. (2)  V.  Arist.  Anal.  Post.  1.  I.  XI.  (1),  1.  I.  XXIV.  (3,0). ^"^r fuori  degli  uomini   e   di  ogni  altro   estere  reale?  A  ciò r  interprete  trascendentalista  risponderà  che  i  nostri  con- cetti e  le  nostre  scienze  sì  riferiscono  agli  attributi  delle cose  nelle  cose  stesse,  ma  che  Platone  parla,  non  dello oggetto  a  cui  si  riferiscono  effettivamente  i  concetti  umani e  le  scienze  umane  in  generale,  ma  dell'  oggetto  a  cui essi  devono  riferirsi,   se  si   vuol   salvare  la  loro  verità, dopo   che  si  è  riconosciuto   che    questa   verità  non   può fondarsi   sulla    loro    relazione   con   gli  oggetti  sensibili. Le  prove  platoniche  delle  Idee  conterrebbero  dunque,  se- condo questa  interpretazione,  una  teoria  della  conoscenza, la  quale  rettificherebbe  quest'  illusione  naturale,  per  cui  gli uomini  riferiscono   spontaneamente   i  loro   concetti  e  le loro  conoscenze  generali   agli  attributi    delle   cose   nelle cose  stessa,  e  sostituirebbe  a   quest'  oggetto    immanente un  oggetto  trascendente.  Ma  Platone  non  dice  :  i  concetti e  le  conoscenze  generali,  che  gli  uomini  erroneamente  ri- feriscono agli  attributi  stessi  delle  cose,  essi  dovrebbero riferirli  invpce  agli  esemplari  di  questi  attributi  fuori  dello cose  — quali  sono   le  Idee   nell'interpretazione  trascen- dentalista, —  Al  contrario,  egli  suppone  che  gli   oggetti a  cui  gli  uomini  riferiscono  —  e  non  :  a  cui    dovrebbero riferire  —  i  loro  concetti  e  le  loro  conoscenze  generali, sono  le  Idee  (1)  È  ciò  che  noi  vediamo,  non  solo  negli  ar- (3)  Naturalmente  Platone  non  pretende  che  tutti  quelli  che  hanno  una nozione  generale  sanno  che  l'oggetto  di  questa  nozione  è  un'Idea:  tutti riferiscono  le  loro  nozioni  generali  agli  attributi  generali  delle  cose,  agli astratti,  e  questi  sono  Idee;  ma  solo  il  filosofo  sa  che  sono  Idee,  cioè  che ciascuno  di  questi  astratti  ha  un'  esistenza  propria  e  distinta;  e  per  ciò della  sola  conoscenza  filosofica  è  vero  di  dire,  nel  senso  stretto,  che  ha per  oggetto  le  Idee.  Cosi  non  vi  ha  contraddizione  tra  il  principio  che ogni  nozione  generale  si  riferisce  alle  Idee,  e  V  opposizione  che  Platone stabilisce  tra  l'opinione,  che  ha  per   oggetto  i    fenomeni— anche  quando gomenti  per  V  esiste  nza  delle  Idee  che  ci  sono  perve- nuti per  il  tramite  di  altri  autori,  ma  in  una  moltitudine di  luoghi  degli  scritti  stessi  di  Platone.  Cosi  egli  dice che  i  fabbri  del  letto,  della  mensa,  della  spola  fanno  le loro  opere,  guardando  alle  Idee  di  queste  cose,  a  ciò  che é  letto,  ciò  che  è  mensa,  ciò  che  é  spola  (Rep:  596  b,  Crat. 389  b)  ;  che  il  facitore  dei  nomi  impone  i  nomi,  guardando a  ciò  che  è  nome  (Crat.  389  d);  che  il  geometra  si  serve di  figure  visibili  come  di  immagini,  ma  il  suo  pen- siero è  diretto  a  quelle  di  cui  queste  sono  le  immagini, al  quadrato  stesso  e  alla  diagonale  stessa,  non  al  quadrato e  alla  diagonale  particolari  eh'  egli  descrive  (Rep.  510 c-e);  che  V  aritmetico  ragiona  sui  numeri  smessi  ^  e  non sui  numeri  aventi  corpi  visibili  e  palpabili  (cioè:  non sulle  cose  concrete  a  cui  i  concetti  dei  numeri  si  applicano —  Rep.  525  526  a)  ;  che  lo  spirito,  distinguendo  gli  at- tributi contrari  delle  cose  (l'uno,  il  multiplo,  il  grande, il  piccolo,  ecc.)  che  sono  confusi  nella  percezione  sensi- bile, e  contemplandoli  separatamente  gli  uni  dagli  altri, si  eleva  dal  sensibile  e  dal  fenomeno  all'  intelligibile  e air  essenza  (Rep.  523-524).  Se  si    afferma   di   due    cose, essa  si  riferisce  al  generale,  come  p,  e  nel  Fibbo  59  a-b  e  nel  Timeo  69 c-d-e  la  scien?a,  nel  senso  stretto  cioè  la  dialettica,  che  sola  ha  per  og- getto le  Idee.  Fiatone  dà  le  Idee  per  oggetto  alla  dialettica,  perché  que- ste due  parti  del  sistema  platonico,  la  dottrina  delle  Idee  e  la  dialettica, sono  fatte  l'una  per  Taltra,  talmente  che  la  realizzazione  dei  concetti  re- sterebbe senza  valore  e  senza  scopo,  se  fosse  scompagnata  dal  metodo  dia- lettico. È  perciò  che  alle  proposizioni  generali  del  filosofo  stesso  ^  quando  esse non  sono  il  risultato  del  metodo  dialettico,  vengono  dati  per  oggetto, non  le  Idee,  ira  i  fenomeni,  come  si  vede  nel  luogo  citato  del  Timeo.  Il metodo  empirico  (il  quale  non  può  dare  per  risultato  che  la  semplice  opi- idone)  studia  le  coesistenze  e  sequenze  (cronologiche)  tra  i  fenomeni,  e perciò  ha  per  oggetto  i  fenomeni  ;  il  metodo  dialettico  (che  è  deduttivo, e  dà  quindi  per  risultato  la  scienza  vera)  studia  le  sequenze  (logiche-anterio- rità e  posteriorità  di  natura — )  tra  le  Idee,  e  perciò  ha  per  oggetto  le  Idee, -20  - p.  e.  del  moto  e  dello  stato,  che  tutte  e  due  .sono,  Platone ne  conclude  che  si  pone  per  il  pensiero  una  terza  entità, r  Essere,  corno  contenente  le  due  prime  (Sofista  250  a-b V.  pure  243  e).  Il  principio  è  espresso  poi  d'una  maniera generale  nel  Fedro,  secondo  il  quale  alcun'  anima  non può  ven're  in  un  corpo  umano,  se  non  ha  contemplato le  Idee,  perchè  è  il  proprio    deir  uomo  di    comprendere secondo  la  specie,  raccogliendo  la  moltitudine  dei  sensi- bili in  una  unità    razionale,  ciò  che  è  la   reminiscenza delle  Idee  che  l'anima  ha  contemplato  (249  b-c).  A  questi luoghi,  per  non  moltiplicare  inutilìT.ente  le  citazioni,  non ne  aggiungerò  che  un  altro:  è  nella  Rep.  486  a,  in  cui dice  che  lo  spirito  del  filosofo  aspira  ad  abbracciare  Tu- uiverso,  a  comprendere  tutto  il  divino  e  Tumano,  e  ch'egli contempla  tutto   il  tempo  e   tutto   1'  essere,   riferendosi a  quello  che  ha  detto  un  poco    prima  (485  b),   cioè  che il  filosofo  studia  l'e.^senza  che  sempre  è  (le  Idee),  e  tuiia questa  essenza.  Ciò  prova,  non  solamente  che  la  scienza si  riferisce  nlle  Idee,  ma  ancora,  della  manier.^  più  di- retta,  che  la  scienza   delle  Idee  è  la  scienza  delle  coso stesse.  E    questo   d'  altronde  un  punto  su  cui    troviamo le  informazioni  più  esplicite  nello  stesso  Aristotile,  il  quale attribuisce  ai  partigiani  delle  Ideo  il  principio  che  avere la  scienza  delle  cose  è  avere  la  scienza  delle  specie  secondo cui  le  cose  si  dicono.{M^t.  1.  III.  III.  4, 1.  Ili,  VI.  6,  ecc.)  (1  ). (4)  Per  indicare  il  punto  di  vista  (ìel'.a  te:>ria  delle  Idee  Platone  dice nel  Fedone  (99  e)  ch'egli  ha  ricorso  ai  concetti  (sl^  TOÒ^  XÓyO'J?), guardando  in  essi  la  verità  deirli  esseri  —  è  T  equivalente  di  ci«)  che  ci dice  Aristotile,  cioè  che  la  scienza  delle  cose  é  la  scienza  delle  Idee  secondo esse  si  dicono—  ;  e  poi  (loo  a)  oppone  quello  che  guarda  gli  esseri  nei concetti  a  quello  che  li  guarda  n«i  fatti-Sono  gli  stessi  esseri  clie  ven- gono guardati  ora  nei  tatti  (nell'esperienza  )  ora  nei  concetti  :  il  mondo intelligibile  e  il  mondo  sensibile  noi  sono  che  lo  stesso  m->ndo,  guar dato  da  due  punti  di  vista  diti'erenti;  ciò  che  all'  intelligenza  apparisce come  un  mondo  di  entità  astratte,  non  è  che  quello  stesso  che  ai  sensi apparisce  come  un  mondo  di  cose  concrete. Rendiamoci  ora  un  conto  esatto  della  teoria  della conoscenza  che  gl'interpreti  trascendentalisti  attribui- scono a  Piatone,  secondo  la  quale  i  concetti  si  riferiscono, non  agli  attributi  stessi  delle  cose,  ma  ad  altri  attributi simili  separati  dalle  cose.  Ciò  è  tanto  più  importante, che  gV  interpreti  trascendentalisti^  vedendo  l'assoluta  inu- tilità delle  Idee  trascendenti  per  la  spiegazione  delle  cose, danno  per  iscopo  alla  dottrina  delle  Idee,  non  di  spiegare le  cose,  ma  di  salvare  la  realtà  della  conoscenza.  Ve- diamo come  la  teoria  in  quistione  salva  la  realtà  della conopc  nza.  I  predicati  dei  giudizi,  ci  dicono  i  logici, sono  in  generale  delle  nozioni  astratte,  dei  concetti;  i  sog- getti possono  essere  sia  dei  concetti  sia  delle  rappresenta- zioni concrete  e  particolari.  Il  giudizio  afferma  che  al genere  o  air  individuo,  a  cui  si  riferisce  il  concetto  o  la rappre«:entazione  particolare  che  fa  da  soggetto,  inerisce V  attributo  a  cui  si  riferisce  il  concetto  che  fa  da  predi- cato. L' interprete  trascendentalisti  di  Platone  aggiunge che,  secondo  Platone,  gli  attributi,  a  cui  si  riferiscono 1  concetti  che  fanno  da  predicati  —  cioè  le  Idee  —  non ineriscono  nelle  cose,  a  cui  si  riferiscono  le  rappresenta- zioni particolari  che  fanno  da  soggetti.  Di  più,  siccome gli  argomenti  che  provano  V  immanenza  delle  Idee  nelle cose  sono  quegli  stessi  che  provano  l' immanenza  delle Idee  più  generali  nelle  Idee  più  particolari,  e  gli  argo- menti chn  secondo  V  interprete  trascendentalista  prove- rebbero la  separazione  delle  Idee  dalle  cose,  proverebbero pure  la  separazione  delle  Idee  più  generali  dalle  Idee più  partidolari  ;  cìsl  egli  aggiunge  ancora  che  gli  Attri- buti, a  cui  si  riferiscono  i  concetti  che  fanno  da  predi- cati, non  ineriscono  nei  Generi  a  cui  si  riferiscono  i  con- cetti che  fanno  da  soggetti.  Uomo  non  inerisce  9^  Socrate, Animale  non  inerisce  ad  Uomo.  Ma  se  è  cosi,  come  pos- siamo affermare  che  Socrate  è  uomo,  che  V  uomo  è  ani- »  ' i male  ?  La  conseguenza  della  teoria  che  gì'  interpreti  ti^a- scendentalisfi  attribuiscono  a  Platone  —  ciò  è  tanto  evi- dente che  alcuni  di  questi  interpreti  lo  hanno  apertamente riconosciuto  (1)  —  è  il  paradosso  di  quegli  eristici  (2) di  cui  Platone  si  ride  nel  Sofista,  e  contro  cui  0  diretto ciò  che  si  dice  in  questo  dialogo  della  comunione  o  me- scolanza dei  Generi  —  i  quali  permettono  che  il  buono Pia  buono  e  1'  uomo  sia  uomo,  ma  non  soffrono  che  si dica  di  un  uomo  che  è  buono.  Lo  stesso  giudizio  anali- tico, che  né  Hume  credette  possibile  di  attaccare,  né  Kant necessario  di  giustificare,  sarebbe  impossibile  secondo Platone  interpretato  dagP  interpreti  trascendentalisti,  (^ non  ci  resterebbero  che  le  proposizioni  puramente  iden- tiche, cioè  tautologiche. IV.  La  definizione  secondo  Platone  si  riferisce  all'Idea, e  solamente  all'Idea.  Questa  dottrina  non  solo  è  implicita- mente contenuta  nel  principio  che  il  concetto  e  la  cono- scenza generale  si  riferiscono  all'Idea,  e  in  quello  che la  dialettica  —  di  cui  la  definizione  è  un  elemento  essen- ziale —  versa  nelle  Idee,  ma  è  espressamente  attribuita a  Platone  da  Aristotile,  che  la  dà  anzi  come  il  fon- damento  del  sistema  delle  Idee  (3). Noi  dobbiamo  dunque  ammettere  che  quando  un dialogo  platonico  ha  per  oggetto  la  ricerca  della  de- finizione, quest-^  definizioni  che  Platone  cerca,  o  che egli  dà,  sia  comn  definitive  sia  come  semplici  ten- tativi, si  riferiscono  alle  Idre:  in  ofTetto,  lo  scopo  di Platone  in  questi  dialoghi  é  di  illustrare  con  esempi  la teoria  della  definizione,  e  sarebbe  inconcepibile  che  in (1)  V.  p.  e.  Tosco  Ricerche  platoniche  p.  35.(2)  I  Megarici,  e  secondo  ropinioiic  di  alcuni  storici—che  io   riten^'o erronea— anche  i  Cinici. (3)  V.  Met.  1.  I.  VI  1-2,  1.  Xni.  IV.  2-4. questi  esempi  egli  si  mettesse  ih  contraddizione  con  uno  dei prlncipii  fondamentali  della  teoria  di  cui  essi  devono  fare l'applicazione.  D'altronde,  che  l'oggetto  della  definizione sia  r  Idea,  é  quello  che  Platone  dichiara  esplicitamente  in molti  di  questi  dialoghi.  Cosi  nell'Eutifrone  Socrate  do- manda al  suo  interlocutore:  cosa  è  il  santo  che  é  lo  stesso  in tutte  le  azioni  sante  (5c-d),  e  lo  prega  di  spiegargli,  non uno  0  due  dei  molti  santi,  ma  queir aùxò  xò  sl6o^,  queir  còsa unica,  per  cui  tutte  le  cose  sante    sono  sante,  aftinché po.^sa   servirsene   come  di   un   paradigma    nell'  applica- zione del  nome:  santo  (6  d-e).  Nell'Ippia  maggiore  co- mincia per  istabilire  che  tutte  le  cose  belle  sono  belle  per il  bello,  e  questo  è  qualche  cosa  (287  c-d)— noi  sappiamo il  significato  di  questa  formula  platonica),  e  domanda  al sofista:  che  è  questo  bello?  che  é  il  bello  stesso,  di  cui tutti  gli  altri  belli  sono  adorni;  che  quando  è  presente  b. una  cosa  qualunque,  pietra,  legno,  uomo,  dio,  ecc.,  a  questa appartiene  di  esser  bella  V  (289  d,  292d.294  a,  e,  ecc.  —la presenza  (TtapouoCa)  é  uno  dei  termini  soliti  di  cui  Platone si  serve  per  indicare  il  rapporto  dell'Idea  con  le  cose). Nrl  Menone  la  virtù,  di  cui  si  cerca  ciò  che  essa  sia,  é l'sl^oc  che  hanno  lo  stesso  tutte  le  virtù  (72  e),  la  virtù che  é  una  e  non  molte  (72  a,  74  a,  77  a),  l'uno  in  tutti (73  d),  la  virtù  che  è  una  e  la  stessa  in  tutte  le  virtù  e in  tutti  i  virtuosi  (73  a,  e,  d,  74  a,  b),  ciò  che  corrisponde propriamente  a  questo  nome:  virtù  (74  de)  —  tutte  que- ste designazioni,  per  cui  Platone  suole  indicare  le  Idee, provano  chiaramente  la  loro  immanenza,  ma  noi  suppor- remo per  ora  ch'esse  potrebbero  convenire  indiflerente- mente  tanto  alle  Idee  immanenti  quanto  alle  trascendenti; lo  stesso  vale  per  la  presenza  dell'Ippia  maggiore—;  e  per giustificare  la  possibilità  della  ricerca  contro  Tobbiezfone di  Menone  che  sopprime  ogni  conoscenza^    s' invoca   la dottrina  che  la  conoscenza  é  una  reminiscenza  (81  e  seg.)^ -  22  - -s ciò  che  suppone  che  la  virtù,  che  si  vuol  conoscere,  è quella  stessa  virtù,  che  T  anima  ha  intuito^  vale  a  dire l'Idea  della  virtù.  Nel  Politico,  si  avverte  che  le  dieresi, che  devono  condurre  alla  scovorta  dell'arte  politica  e  del politico,  hanno  per  og^getto  le  Idee  (262  b,  286  a),  e  nel Solista  si  dice  che  l'oggetto  della  ricerca  ò  Tldea  del sofista  (235  d). Ma,  da  un  altro  lato,  è  incontestabile  che  le  definizioni di  Platone  si  riferiscono  alle  cose  stesse.  Così  nel  Sofista, in  cui  si  cerca  la  definizione  del  Sofista  e  dell'arte  sofi- stica, questo  sofista,  di  cui  si  vuol  conoscere  ciò  ch'egli è,  è  quello  stesso  che  successivanìente  apparisce:  come un  cacciatore  mercenario  di  uomini  giovani  e  ricchi,  co- me un  mercante  di  conoscenze  che  si  riferiscono  all'ani- ma, come  un  rivenditore  in  dettaglio  di  queste  conoscenze, come  un  venditore  di  prima  mano  delle  stesse,  come  un atleta  nella  lotta  di  parole,  il  quale  si  arroga  l'arte  eri- stica, come  un  purgatore  dell'  anima  dalle  opinioni  che le  impediscono  l'acquisto  della  scienza  (231  de),  ma  so- vratutto  come  contraddittore  e  maestro  agli  altri  di  que- sto stesso  (232  b)  ;  che  ha  una  scienza  appaiente,  ma  non vera  (233  c;;  che,  quando  noi  affeimiamo  ch'egli  ha  un'ar- te fantastica,  e  lo  chiamiamo  un  facitore  di  simulacri,  ci domanderà  cosa  sia  un  simulacro,  e  s°t  noi  gli  risponde- remo citandogli  le  immagini  degli  specchi,  dell'acqua  ecc., si  riderà  di  noi  che  gli  parliamo  come  ad  un  uomo  che vede,  fingendo  di  tìon  aver  visto  mai  ne  specchi  nò  ac- qua e  di  non  sapere  nemmei^o  che  cosa  sia  la  vista  (239 d-e),  e  infine  ci  costringerà  a  confessare  che  ciò  che  non è,  in  un  certo  modo  é  (240  e)  ;  che  nega  che  si  dia  il falso,  poiché  ciò  che  non  è  non  può  partecipare  all'es- sei^,  e,  dopo  che  si  è  visto  che  partecipa  all'essere,  forse dirà  che  alcune  specie  partecipano  del  non  essere  e  altre no,  e  l'opinione  e  il  discorso  sono  di  quelle  che  non  ne partecipano  r260  c-d);  ecc.  E  l'arte  sofistica  è  quella che  ha  questo  stesso  8(  fista  (221  d,  239  e,  240  e,  d  ecc;) l'arte  che  fa  protVssioiìe  di  disputare  in  grazia  della  virtù ed  esige  danaro  per  mercede  (223  a)  ;  la  caccia  ai  gio- vani ricchi  e  nobili  (223  b)  ;  l'arte  per  cui  si  possono  in- cantare con  discorsi  i  giovani  e  ancora  lontani  dalla  ve- rità, mostrando  loro  delle  immagini,  in  parole,  di  tutte cose,  in  modo  da  far  loro  credere  che  si  dice  la  verità e  si  è  il  più  sa p  ente  di  tutti  gli  uomini  in  tutte  le  cose (234  e);  un'arte  n.enzognera  da  cui  la  nostia  anima  è  tratta ad  opinare  il  falso  (240  d);  ecc.  Nel  Politico,  la  scienza regale  o  politica,  di  cui  si  ricerca  ciò  che  es?a  è,  è  una scienza  che  non  può  trovarsi  nella  moltitudine  né  dei  ric- chi nò  di  tutto  il  popolo,  ma  in  uno  o  due  o  pochissimi, che  si  devono  chiamare  re,  s'a  ch'essi  comandino  o  che vivano  da  privati,  che  comandino  ai  volenti  o  ai  no- lenti, con  leggi  scritte  o  senza,  ecc.  (259  a-c,  292  d — 293  e,  297  b  —  e,  300  e)  ;  questa  scienza  non  comporrà di  buon  grado  lo  stato  di  buoni  e  di  cattivi,  ma  quelli  che possono  formarsi  ai  costumi  saggi  li  rimett  rà  a  persone capaci  di  educarli,  essa  dando  degli  ordini  e  presiedendo a  tutto,  gli  altri  li  condannerà  alla  morte  o  all'esilio,  o li  .-ottometterà  alla  schiavitù,  e  tra  i  buoni  naturali  pren- derà i  caratteii  forti,  simili  ai  fili  dell'ordito,  e  i  mode- rati, simili  a  quelli  del  ripieno,  e  li  intreccerà  gli  uni  con gli  altri,  t(  rmandone  il  più  bello  di  tutti  i  tessuti  (308  d  — 309  b,  311  e);  ecc.  E  il  politico  che  si  tratta  di  definire è  quello  d  e  ha  questa  scienza  (266  e,  276  e,  ecc.);  a  cui bisogna  consegnare  le  redini  dello  stato  (266  e)  ;  che  ha cura  del  gregge  umano  come  un  pastore  (275  b);  ecc. Il  bello  deirippia  maggiore  è  quel  bello  che  è  bello  per tutte  le  cose  e  in  tutte  le  circostanze  (idi  e  —  293  e),  e Socrate  propone  di  definirlo:  ciò  che  ha  la  potenza  di produrre  qualche  bene  (  296  d  —  297  d)  ;  e  :  ciò  che  ci  reca ■j. i «■■ f —  23 diletto  mediante  il  senso  della  vfsta  o  deir  udito  (297  e e  seggo.  NeirEutifrone,  Eutifrone  risponde  alla  domanda di  Socrate,  che  il  santo  è  ciò  che  è  aggredevole  agli  dei (6  e),  e  Socrate  dice  (7  a)  che  infine  ha  risposto  com'egli desiderava  (vale  a  dire  che  questa  risposta  definisce,  bene o  male,  il  santo  stesso,  la  specie);  e  inseguito  si  propon- gono queste  altre  definizioni  :  il  santo  è  la  parte  del  giu- sto che  ha  per  oggetto  la  cura  degli  dei  (12  e)  ;  é  la  scienza delle  domande  e  dei  doni  che  bisogna  fare  agii  dei  (14  c-d). Nel  Menone,  la  virtù,  di  cui  si  domanda  ciò  che  essa  sia, é  la  stessa  virtù,  di  cui  si  domanda  come  essa    soprav- venga agli  nomini,  se  possa  insegnarsi  o  no  (71  ab,    86 c-d,  87  b,  100  b,  ecc.);  e  si  propongono  queste  definizioni  : la  virtù  é  il  saper  comandare  agli   uomini    (73  d),;  è    il desiderare  le   belle   cose   e  potersele   procurare    (77   b). Nello  stesso  dialogo  Socrate,  per  dare  dei  modelli  d'uoa definizione  secondo  la  sua  intenzione,  deOnisce  la  figura  : in  ogni  figura  dico  essere  figura  ciò   in  cui    termfna   il solido  (76  a  );  e  il  colore  :  un  flusso  di  figure  proporzio- nata alla  vista  e  sensibile  (77  b.)  Evidentemente,  questo colore,  questa  figura,  questa  virtù,  questo  santo,  questo bello,  questo  politico  e  arte  politica,    questo    sofista    e arte  sofistica,  di  cui  si  ricerca  ciò  che  ciascona   di  que- ste  cose  è,  sono  le  cose  stesse  che  tutti  chiamiamo   con questi  nomi,  e  non  ddlle  entità  trascendenti:  e  lo  stesso deve  dirsi  della  giustizia  della  Repubblica  (v.  1.  1,  1.  11 357-368,  1.  IV  427  d  e  segg.),  della  scienza  del  Teeteto, della  fortezza  del  Protagora  e  del  Laches,  deiramico  del Lisis,  della  temperanza  del  Carmide,  e  in  una  parola  di tutto  ciò  di  cui  Platone  dà  o  cerca  la  dednizione  in  tutti i  dialoghi  che  hanno  per  oggetto  questa  ricerca. Ma  se  le  definizioni  platoniche  non  si  applicano  che alle  cose  stesse,  come  può  Platone  aff*ermare  ch'esse  si riferiscono  alle  Idee,  e  solamente  alle  Idee?  Nell'ipotesi della  trascendenza  delle  Idee,  ciò  sarebbe  incomprensibile; ma  nell'ipotesi  delT  immanenza,  si  comprende  perfetta- mente. Piatone  sostiene  che  la  definizione  ha  per  oggetto l'Idea,  e  Tldea  sola,  perchè  quello  che  si  definisce,  quello di  cui  si  vuol  sapere  ciò  che  esso  è,  non  è  T  individuo — l'individuo,  considerato  nella  sua  individualità,  è  indefi-* nibile,  e  ad  ogni  modo  egli  non  è  quello  stesso  che  dice la  definizione  comune;  Tizio  ha,  ma  non  è,  questo  gruppo di  attributi  che  costituisce  la  nozione  dell'uomo,  la  sua definizione;  per  dire  ciò  che  egli  è,  bisognerebbe  ag- giungere agli  attributi  di  uomo  le  particolarità  individuali che  gli  sono  proprie—;  quello  che  si  definisce,  quello  di cui  si  vuol  sapere  ciò  che  esso  è,  è  l'essenza  comune  de- gli individui,  l'oggetto  della  nozione  generale,  e  questo è,  secondo  Platone,  l'Idea.  K  perchè  quest'essenza,  che  è l'oggetto  della  definizione,  è  l'essenza  comune  degl'indi- vidui, e  non  si  trova  altrove  che  negl'individui  stessi, che  la  definizione  si  applica  alle  cose;  ma  indirettamente, e  in  quanto,  e  solamente  in  quanto,  queste  partecipano alle  Idee,  vale  a  dire,  in  queanto  si  considera  in  esse,  non l'elemento  indivuale,  ma  l'elemento  comune;  Tizio  si  de finisce,  non  corno  Tizio,  ma  come  uomo;  Protagora  non come  Protagora,  ma  come  sofista.  Quando  poi  la  defi- nizione si  applica,  non  a  questo  o  quell'individuo,  ma  a tutti  gl'individui  della  classe,  p.  e.  a  tutti  gli  uomini,  a tutti  i  sofisti  ;  allora,  per  il  fatto  stesso  che  si  emette  una proposizione  generale,  l'elemento  individuale  sparisce,  e non  resta  che  l'elemento  comune,  quello  a  cui  si  applica direttamente  la  definizione,  l'Idea;  perchè,  secondo  Pla- tone la  conoscenza  generale  si  riferisce  all'Idea.  Per  con- seguenza, cercare  o  dare  la  definizione  degli  uomini  o  dei sofisti,  non  è  altra  cosa  che  ccicare  o  dare  la  defini- zione dell'Idea  dell'uomo  o  di  (|uella  del  sofista;  dire  ciò che  è  l'uomo  o  il  sofista  considerato  in  generale,    è  dire —  24  — ciò  che  è  l'Idea  dell'uomo  o  quella  del  sofista;  perchè l'uomo  e  il  sofista,  considerati  in  generale,  non  sono  altra cosa  che  l'Idea  dell'uomo  e  l'Idea  del  sofista. In  verità,  noi  potremmo,  per  la  stessa  ragiono,  rìgu'ir- dare  tutte  le  proposizioni  generali  che  si  trovano  negli *  scritti  platonici,  qualunque  sia  il  loro  contenuto,  come altrettante  prove  dell'immanenza  delle  Idee,  perchè,  da una  parte,  è  evid»*nte  che  queste  proposizioni  si  riferi- scono allo  cose,  e  d'altra  parte,  secondo  i  principii  pla- tonici, ogni  nozione  generale  non  può  avere  per  ogget  o che  l'Idea.  Ma  io  non  ho  creduto  potermi  avvalere  di questo  genere  di  provo,  perchè  non  è  rara  nei  filosofi  una contraddizione  tra  la  teoria  e  la  prat  ca  :  ma  una  tale  con- traddizione sarebbe  inammissibile,  quando  questa  pratica è  precisamente  un  esempio  destinato  a  mettere  in  azione la  teoria. Cosi  noi  non  cercheremo  un'altra  prova  analoga  del- rimmanenza  che  nelle  dieresi  platoniche.  La  dieresi  è  la divisione  del  genere  nelle  sue  specie;  essa  prende  per  punto di  partenza  uno  dei  generi  più  vasti,  lo  divide  nei  ge- neri immediatamente  inferiori  cioè  meno  est  si,  qursti  in quelli  ancora  immediatamente  inferiori,  e  co?l  di  Feguif^, sinché  si  trovino  le  specie  infimo,  che  souo  quelle  di  cui si  cerca  la  definizione.  Tutta  la  dialettica  platonica  sta nella  dieresi:  la  definizione  stessa  vi  è  compresa,  per che  non  ne  è  che  il  termine  e  il  risultato.  11  metodo della  dieresi  è  praticato  nel  Sofista  e  nel  Politico,  e  lo dieresi  di  questi  due  dialoghi  hanno  appunto  per  iscopo, come  ci  avverte  lo  stesso  Platone  (1\  di  dare  degli  esempi di  questo  metodo,  che,  come  abbiamo  detto,  non  è  che la  dialettica  stessa.  Noi  dobbiamo  ammettere,  per  conse- guenza che  le  dieresi  del  Sofista  e  del  Politico  si  appli- cano alle  Idee  cioè  che  i  generi  divisi    e    le    specie   in cui  si  dividono  sono  delle  Idee,  perchè    è  l'Idea    che  è p^oggetto  proprio  ed  unico  della  dialettica  (1).  E  quello el  resto  che  Platone    dice  espressamente    nei    luoghi  di questi  due  dialoghi  superiormente  citati  a  proposito  della definizione  (come  anche  in  uno  dei    luoghi    del    Politico che  riporteremo  tra  poco).  Intanto  è  evidente  che  le  dieresi del  Sofista  e  del    Politico  si  riferiscono  alle  cose  stesse,  e non  ad  entità  iperfisiche.  Non  per  provarlo— perchè    ciò non  ha  bisogno  di  essere  provato— ma  perchè  il  pensiero possa  fissarsi  su  qualche  cosa  di  concreto,  e  non  si  resti nel  vago  dell'astrazione,  io  darò  qualche  esempio.  Ecco dunque    la  prima  dieresi  del  Sofista  ;  L  Osp.    Eleate. Delle  arti,  si  può  dire,  tutto,  vi  hanno  due  specie.  Teb- TBTO  :  Quali?  L'Osp.    El.:  L'rgrlcoltura,    e  ogni  lavoro relativo  a  qualsiasi  corpo  corruttibile,  e  quello    relativo a  ogni  oggetto  fabbricato  che  noi  chiamiamo  suppellettile, e  Tarte  imitativa,  lutto  ciò  potrebbe  a  buon  dritto  chia- marsi con  un  sol  nome— Teet.:  Cerno,  e  conqualnome? L'Osp.    El.:  Per  tutto  ciò  che  prima  ugnerà  e  poi  viene (1)  Folit.  285  e— 28/  a. (l)  Per  la  dottrina  che  le  Idee  sono  l'oggetto,  e  l'oggetto  unico,  della dialettica,  V.  FU.  58-59,  Kep.  476-480,  509-511,  532-534  Parmen  135  b-d, lini,  5J  b-52  a.  Fedone  99  d-loo  a.  Sof,  253  b-254  b,  ecc.  Per  l'identità della  dialettica  e  della  dieresi  v,  oltre  l'ultimo  dei  primi  indicati,  ciò  che ne  abbiamo  detto  nel  cap.  7.  -  Aristotile  dà  come  motivo  della  dottrina delle  Idee,  non  solo  la  proposizione  chela  delìnizione  non  può  a  ere  per loggetto  che  le  Idee  (e  non  le  cose),  ma  anche  quella  più  generale  che a  dialettica  (cioè  tanto  la  definizione  quanto  la  dieresi)  non  può  avere  che quest'oggetto,  V.  Mct.  1.  I,  VI,  5  e  il  commento  d'Aless.  d'Afrod.  a  que- sto Inogo— Del  resto,  che  le  dieresi  di  Platone  si  riferiscono  alle  Idee,  é provato  abbastanza  dalle  prove  stesse  che  dimostrano  che  le  sue  defini- zioni si  riferiscono  alle  Idee  ;  poiché  ciò  a  cui  si  applica  la  definizione non  sono  che  le  sezioni  ultime,  gl'indivisibili  a  cui  arriva  la  dieresi. -  25  - portato  airesistenza,  noi  diciamo  di  quello  che  lo  porta all'esistenza,  che  fa,  e  di  quello  che  vi  è  portato,  che  è fatto.  Teet.:  Giustamente—L'Osp.  El.:  È   questo   l'og- getto della  potenza  ch'i  hanno  tutte  le  arti  che  abbiamo enumerate— Teet  :  Si,  è  questo—  L'Osp.  El.  :  Noi  le  chia- meremo dunque  in  generale  l'arte    dì    fare— Teet  :  Sia L'Osp.   El:  Poi,  ogni  specie  di  disciplina  e  di  scienza, e  il  negozio  e  la  lotta  e  la  caccia,  siccome  non  producono niente,  ma,  tra  le  cose  che  esistono  e  sono  state  prodotte, delle  une  s'impadroniscono  per  la  potenza  del    discorso e  dell'azione,  le  altre  difendono   contro   quelli    che   vo- gliono   impadronirsene,  cosi    tutte    queste   parti  potreb- bero riunirsi  convenientemente    sotto  il  titolo  di  arte   di acquistare.  »— Le  due  ultime  dieresi  dello  stesso  dialogo  : «L'Osp.    El.  :  L'imitatore  opinante  è  moltiplice;   perchè l'uno  è|  uno  sciocco  che  crede  di  sapere  le  cose    che  o- pina,  ma  la  specie  dell'altro,  per  la  volubilità  dei    suoi discorsi,  dà  molto  a  sospettare  e  a  temere  che  ignori  le cose,  che  innanzi  agli  altri  si  dà  l'aria   di    conoscere — Teet.  :  Ve  ne  ha  certamente  dell'uno  e  dell'altro  genere che  hai  detto  — L'Osp.  El.  :  Chiameremo   dunque  l'ano imitatore  semplice,  e  l'altro  imitatore  simulatole  ?— Teet.: E  con  ragione— L'Osp.    El.:  E  il  genere  del    secondo;, diremo  unico  o  doppio  ?— Teet.  :  Vedi  tu— L'Osp      El  : Guardo,  e  due  me    ne  appariscono:  vedo  l'uno  capace di  simulare  in  pubblico  con  lunghi  discorsi  alla  moltitu- dine, l'altro  in  privato,  con  brevi  discorsi,  costringendo l'interlocutore  a  mettersi  in  contraddizione  con  se  stesso  » — La  prima  dieresi  del  Politico:  «  L'Ospiste:  Come  trovare la  via  della  scienza  politica  ?  (vale  a  dire  :  in  quale  classe di  scienze  dobbiamo  cercare  questa    scienza  V)    bisogna scoprirla,  e  separandola  dalle  altre,  imprimerle  un'Idea unica,  e  le  altre  direzioni  segnando   d'un    altra    Specie unica,  far  concepire  al  nostro  spirito  tutte  le  scienze  come essenti  due  Specie   ..........    L'aritme- tica e  altre  arti  consimili  non  sono  scevre  da  ogni  azione, e  non  esibiscono  una  semplice  conoscenza?— Sociiate  il giovane:  Cosi  è  —  L'  Osp  :    Ma    quelle,  che    spettano alla  fabbricazione  e  ad  ogni  altra  operazione   manuale, possiedono  invece  una  conoscenza  che   si    rapporta    na- turalmeate   all'  azione,    e  fanno  gli    oggetti  materiali  a cui  danno  1'  esistenza,  e  che  prima  non    erano  —  So- crate   il    giovane:    È    chiaro  —  L'Osp.:    Cosi    dividi dunque  tutte  le  scienze,  chiamando  l'uua  attiva,   l'altra semplicemente  speculativa— Socrate  il  giovane  :  Siano questo  le  due  specie  della  scienza,  una  essendo   tutta  la scienza  »  (1)  —  Nello  stesso  dialogo  a  281  d-e  :   «L'Osp.  : «  Prima  consideriamo  due  art»,  che  sono  circa  tutte  le  cose che  SI  fanno.  Socr.  :  il  giov.  :  Quali  ?— L'Osp.  :  L'una,  con causa  della  produzione,  l'altra  la  causa  stessa— Socr.  :  il Giov:  Come?— L'osp.:Tutte  quelle,  che  non  fabbricano  la cosa  stessa,  ma  sommin'strano  ai  fabbr'canti  gli  strumenti, nella  cui  assenza  ciascuna  arie  non    potrebbe  compiere l'opera  che  le  è  assegnata,  chiaraif  mo  concause,   quelle che  fanno  la  cosa  stessa,  cause  »— E  a  305  e,  d'stinguendo la  politica  dalle  arti  più  affini  (l'oratoiia,  la  militare  e la  giudiziaria):  «  L'Osp.:  Quella  poi  che  presiede  a  tutte queste,  e  veglia  alle  leggi  e  a  tutti  gli  affari  dello  stato, e  tutte  cose  rettamente  contesse,  denotandola  sua  facoltà (1)  Notiamo  le  parole  in  corsivo .  Socrate  risponde  cos'i,  per mostrare  ch'egli  ha  compreso  che  la  dieresi  si  riferisce  alle  Idee^ come  l'ospite  eleate  ha  detto  al  principio  del  luogo  citato.  —  È  per- chè la  dieresi  si  riferisce  propriamente  all'ano  (l'Idea)  e  non  ai  molti (le  cose),  che  nel  Politico  e  nel  Sofsta  i  nomi  designanti  i  generi che  si  tratta  di  dividere,  e  le  specie  in  cui  vengono  divisi  (cioè  i nomi  comuni  degli  oggetti  appartenenti  a  questi  generi  e  a  queste specie),  si  trovano,  di  regola,  al  singolare. -  26  - còl  nome  comune,  chiameremo  giustamente,  mi  sembra, scienza  politica.  » Io  devo  avvertire  il  lettore,  che  non  conoscesse  questi due  dialoghi— e  un'avvertenza  analoga  avrei  potuto  fare sulle  definizioni — che  non  è  i.i  questo  o  in  quel  punto isolato,  ma  è  dal  principio  sino  alla  fine,  che  le  dieresi del  Sofista  e  del  Politvo  ci  mostrano  con  la  più  grande chiarezza  che  esse  si  applicano,  non  ad  entità  iperfisiche, ma  alle  cose  stesse  (1)  :  ciò  è  tanto  evidente,  che  nes- sun interprete  trascendentalista  certamente  oserebbe  so- stenere che  in  queste  dieresi  si  tratta  delle  Idee  trascen- dente forse  però  alcuno  dirà  che  in  esse  non  potrebbe nemmeno  trattarsi  delle  Idee  immanenti,  perchè  anche queste  sarebbero  al  postutto  delle  entità  ultrafenomenali, metaempiriche,  mentre  è  incontestabile  che  le  arti  e  le  scien- ze, di  cui  si  fa  la  divisione  nel  Sofista  e  nel  Politico,  sono le  sc'enze,  e  le  arti  fenomeni^  e  fenomeni  egualmente, cioè  oggetti  d^lla  nostra  esperienza,  sono  gli  oggetti  su cui  versano  queste  arti  e  queste  scienze,  e  i  soggetti  in cui  esse  risiedono  (ai  quali  si  applica  pure  la  divisione). (1)  Che  le  dieresi  di  Platone  si  applicano  alle  cose  nel  tempo stesso  che  egli  aiferma  ohe  hanno  per  oggetto  le  Idee  -  e  quindi  che le  Idee  per  lui  si  identificano  con  le  cose  —  non  si  vede  solamente dai  dialoghi  destinati  a  mettere  in  pratica  il  metodo  di  divisione, cioè  dal  Sofista  e  dal  PolilicOy  ma  anche  da  quei  luoghi  degli  altri dialoghi,  in  cui,  inculcando  la  divisione  come  regola  generale  di metodo,  ne  dà  qualche  esempio  particolare;  perchè  in  questi  casi, mentre  nella  regola  si  parla  di  una  dieresi  delle  Idee,  negli  esempi si  tratta  invece  di  una  dieresi  delle  cose.  E  cosi  che  si  fa  nel  Ft- lébo  14-19,  dove  si  deduce  dalla  costituzione  stessa  degli  esseri  eterni (cioè  le  Idee),  di  cui  ciascuno  è  al  tempo  stesso  uno  e  molti,  che  bi- sogna in  ogni  ricerca  stabilire  un'Idea  unica  per  tutto,  e  sforzarsi di  scoprire  il  numero  d'Idee  comprese  sotto  di  quella,  e  poi  quello che  è  compreso  sotto  ciascuna  di  queste,  e  cosi  di  seguito,  sinché Ma   quegli    che    facesse   quest'obbiezione,    mostrerebbe ch'egli  non  sa  porsi  esattamente  al  punto  di  vista    del- l'ipotesi dell'immanenza.  Le  Idee  non  sono   che    le  cose considerate  d'una  maniera  astratta  e  generale,  e  le  cose considerate  d'una  maniera  astratta  e  generale  non  sono che  le  Idee.  La  dieresi  avendo  per    oggetto,    non    delle cose  particolari,  ma  i  generi  eie  specie  delle    cose,    ha perciò  per  oggetto  le  Idee,  anche  quando    Platone    non parla  esplicitamente  che  dì  una  divsione  delle  cose;  perchè secondo  Platone,  ogni  nozione  generale  direttamente  non si  riferisce  che  alle  Idee.  Come  i  concetti  e  i  nomi,  che sono  i  segni  dei  concetti,  non  si  riferiscono  direttamente che  alle  Idee,  cioè  agli  Attributi,  e  alle  cose  solo  indi- rettamente, in  quanto  partecipano    dogli   Attributi;  cosi ogni  proposizione  generale,  ch'essa   sia  una  definizione, o  una  dieresi,  o  che  abbia  un  altro  contenuto  qualunque, non  ha  per  oggetto  che  le  I«lee;  essa    si    riferisce    pure alle  cose,  ma  indirettamente,  in  quanto  queste  possiedono gli  Attributi,  i    cui  rapporti,  astrattamente    considerati, costituiscono  il  vero  significato  della  proposizione.  Ogni proposizione  generale  é  dunque,  in  certo  modo,  per  Pla- tone, un'espressione  a  doppio  senso  :    essa    significa    al tempo  stesso  le  cose  e  le  Idee;  questo  doppio   senso  non si  scopra  tutta  la  moltitudine  compresa  nell'unità  primitiva  ;  e  si danno  come  applicazioni  di  questo  metodo  la  divisione  delle  lettere che  fa  la  grammatica,  e  quella  dei  suoni  che  fa  la  musica— le  quali certamente  non  trattano  di  suoni  e  di  lettere  trascendenti —,  e  si esorta  ad  applicarlo  al  piacere  e  alla  saggezza,  cioè  incontestabil- mente al  nostro  piacere  e  alla  nostra  saggezza,  perchè  si  tratta  di quel  piacere  e  di  quella  saggezza,  di  cui  si  ticerca  se  il  bene — que- sto bene  la  cui  possessione  deve  renderci  felici — consista  nell'uno  o nell'altra  -  È  cosi  che  si  fa  pare  nel  Fedro  265  a  -266  b  e  270  b- 273  e  (cfr.  quest'ultimo  luogo  con  277  b-c). èche  il  doppio  significato  dei  nomi,  la  connotazione, che  si  riferisce  all'astratto  e  al  general»»,  e  la  denota- zione, che  si  riferisce  al  concreto  e  al  particolare. Supponiamo,  per  chiarire  il  punto  dì  visto  di  Platone, che  vi  hanno  rialmonte,  come  ammettono  la  più  parte  dei filosofi,  dei  concetti,  cioè  delle  rappresentazioni  astratte  e generali  (1).  Quale  sarà  per  un  filosofo  logico,  che  ammette la  teorica  dei  concetti,  il  vero  significato  di  una  proposizione generale  ?  Una  proposizione  generale  è  V  espressione  di un  giudizio  generale,  e  un  giudizio  generale  consta  d'i- dee generali,  di  concetti;  dunque  la  proposizione  ge- nerale non  può  riferirsi  che  a  ciò  a  cui  i  concetti  si riferiscono,  cioè  agli  attributi,  agli  astratti;  direttamente, essa  ron  può  riferirsi  alle  cose  particolari  e  concrete, perché,  quando  facciamo  il  giudizio,  non  vi  hanno  nel nostro  pensiero  le  rappresentazioni  di  queste  cose  parti- colari e  concrete,  ma  i  loro  concetti,  cioè  delle  rappre- sentazioni astratte,  delle  rappresentazioni  diattrlbuti.il significato  diietlo  della  proposiziono  sarà  dunque  Taffor- inazione  di  un  rapporto  tra  attributi  :  p  :  e  :  l'uomo  è  un animale,  significherà  propriamente  che  l'attributo  ani- male   fa   parte   del   gruppo   di   attributi   uomo   (2).   Ma (1)  Avverto  una  volta  per  tutte  che  quando,  per  rendere  conto  deUe idee  dei  metafisici  realisti,  parlo  delle  operazioni  del  pensiero  in  termini che  implicano  la  teoria  dei  concetti,  io  non  intendo  fare  adesione  effetti- vamente a  questa  teoria.  Non  intendo  decidere  se  la  verità  stia  in  essa o  nella  teoria  contraria  che  non  ammette  altre  idee  che  rappresentazioni di  cose  concrete  e  particolari.  Ma  mi  attengo  alla  teoria  dei  concetti,  pri- mo perchè  è  conformemente  a  questa  teoria  che  i  metafisici  di  cui  si  tratta si  rappresentano  necessariamente  le  operazioni  deli'  intelligenza:  e  poiperchè  questa  è  la  dottrina  stabilita  e  la  sola,  pei  conseguenza,  che abbia  a  sua  disposizione  un  linguagjiio  già  fatto  che  permette  di  essere breve  e  di  farsi  facilmente  comprendere. (2)  Cor.  Min.  Log.  Ir  1.  o.  5.  §  4,  e.  6  §  5,  Pil.  di  Hamilton,  oap. 18  suUa  fÌDe,  22.  sul  principio,  ecc. Siccome  il  gruppo  di  attributi  uomo  non  si  trova altrove  che  negl*  individui  concreti  e  particolari,  cosi  la proposizione  si  riferirà  p,ure  a  questi,  ma,  come  abbiamo detto,  non  direttamente,  perchè  non  é  alcun  individuo  ne tutti  d'individui  che  noi  ci  rappresentiamo,  affermando che  l'uomo  é  un  animale,  ma  semplicemente  l'uomo  a- stratto,  l'oggetto  del  concetto. Aggiungiamo  ora  all'ipotesi  concettualista  l'ipotesi realista  :  supponiamo,  cioè,  che  gli  oggetti  dei  concetti, vale  a  dire  gli  attributi,  gli  astratti,  abbiano  ciascuno un'esistenza  propria  e  distinta,  ch'essi  siano,  parlando il  linguaggio  di  Piatone,  delle  Idee.  Quale  sarà  il  signi- ficato diretto  di  una  proposizione  generale  ?  sarà  l'affer- mazione di  un  rapporto  tra  Idee.  L'uomo  è  animale,  af- fermerà l'inerenza  dell'Animale  nell  Uomo.  Ma  siccome l'Uomo  non  si  trova  altrove  che  negli  uomini,  così  la proposiziono  si  riferirà  pur.*.  agU  uomini,  cioè  agl'indi- vidui concreti  e  particolari;  ma  questo  secondo  signifi- cato sarà  indiretto,  perchè,  affermando  che  l'uomo  è  a- nimale,  non  è  quest'uomo  né  quello,  né  la  totalità  degli uomini,  che  si  trova  presente  al  nostro  pensiero,  ma  sem- plicemente l'Uomo,  l'astratto. Cosi,  che  Platone  affermi  che  delle  proposizioni,  ch'e- gli riferisce  evidentemente  alle  cose— definizioni,  dieresi, e  in  una  parola  tutte  le  proposizioni  generali— si  rife- riscono alle  Idee  di  queste  cose,  è  una  conseguenza  lo- gica della  teoria  dei  concetti,  unita  alla  realizzazione degli  oggetti  di  questi  concetti  :  ma  quest'  affermazione implica  l'identificazione  delle  Idee  con  le  cose,  cioè  con le  cose  considerate  d'una  maniere  generale  ed  astratta. Essa  sarebbe  un'inconcepibilità  nell'ipotesi  della /rasccn- denza,  che  sopprime  l'identità  tra  le  Idee  e  le  cose,  e  fa del  sensibile  e  dell'intelligibile,  del  concreto  e  dell'astratto, due  realtà  assolutamente  dififerenti  e  separate  Tana dall'altra,  e  non,  come  vuole  Platone,  una  sola  e  stessa realtà  vista  da  due  lati  differenti. V.  L' idea  platonica  essendo    V  oggetto  del   concetto, sostantificato,  i  caratteri  dell'Idea  sono  i  caratteri  stessi del  concetto,  cioè  V  astrattezza  e  T universalità.  Ora,  di questi  due  caratteri,  l' interpretazione  trascendentalista ammette  il  primo,  ma  nega,  in  sostanza,  il  secondo.  Dico in  sostanza,  perchè  gì'  interpreti  trascendentalisti,  trasci- nati dalla  forza  stessa  della  verità,  chiamano,  come  noi, le  Idee  platoniche  universali  ;  essi  convengono  del  nome, se  non  della  cosa  ;  ma  è  evidente  che  bisognerebbe  can- giare radicalmente  il   significato  di  questo  nome  prima di  poterlo  applicare  convenientemente  alle  Idee  platoni- che quali  essi  se  le  rappresentano.  Universale  vuol  dire: ciò  che  può  essere  attribuito  a  tutti  gl'individui  di  una classe,  l'attributo  comune  di  tutti   questi  individui;   ma l'Idea,  per  l'interprete  trascendentalista,  non  è  un  attri- buto di  questi  individui,  né  di  tutti  né  di  alcuno,  perché l'attributo  inerisce  nel  soggetto,  mentre  l'Idea,  secondo lui,  non  inerisce  nelle  cose,  ma  é  fuori  di  esse.  L'inter- prete   trascendentalista  parlerebbe  con  più  proprietà,  se dicesse  che  le  Idee  platoniche  sono,  non  gli  universali, ma  i  contenuti  dei  concetti  universali,  realizzati;  perchè, secondo  la  sua  interpretaziore,  le  Idee  corrispondereb- bero ai  concetti  nella  loro  comprensione  solamente,  ma non  nella  loro  estensione;  ora  l'universalità  si  rapporta all'  estensione,  e  non  alla  comprensione.  Sicché  la   qui- stione  sull'immanenza  o  trascendenza  delle  Idee  sì  riduce, al  fondo,  a  questa  :  l'Idea  é  sempì  crn  ente  l'astratto  o  è anche  l'universale?  Ma  per  l'abuso  che  gl'interpreti  tra- scendentalisti fanno  della  parola  universale,  noi  dobbia- mo sostituire  a  questa  parola  una  perifrasi,  e  formulare la  quistione  cosi:  l'Idea  platonica   è  o  no  un  attributo comune  delle  cose,  che  Platone  si  rappresenta  come  uno e  lo  stesso  (nel  senso  più  stretto  di  queste  parole)  in  tutte le  cose  che  possiedono  quest'attributo?  il  bianco  stesso,  il bello  stesso,  l'uomo  stesso,  é  una  bianchezza,  una  bellezza, una  umanità  fuori  degli  uomini,  degli  oggetti  belli  e  degli oggetti  belli  e  in  tutti  gli  oggetti  bianchi,  o  é  questa  bian- chezza, questa  bellezza,  quest'umanità  che  é  1'  attributo comune  degli  uomini,  degli  oggetti  belli  e  degli  oggetti bianchi,  ma  concepita  come  qualche  cosa  che  é  una  e la  stessa  (e  non  semplicemente  simile  o  uguale)  in  tutti gli  uomini,  in  tutti  gli  oggetti  belli  e  in  tutti  gli  oggetti bianchi?  L'universalità— cosi  definita— delle  Idee  platoni- che é  sufficientemente  dimostrata  dalle  prove  antecedenti; ma  vi  hanno  delle  prove  ancora  più  esplicite,  che  passere- mo in  rassegna  in  questo  numero.  Tra  queste  prove  io  non comprenderò  i  luoghi  numerosi,  in  cui  Aristotile  affernia ^esplicitamente  o  suppone  che  le  Idee  platoniche  sono  uni- versali, ch'esse  si  predicano  universalmente  o  in  comune  di tutte  le  cose  (cioè  di  tutte  le  cose  appartenenti  a  una  classe determinata),  che  sono  i  generi  degli  esseri,  ecc.,  perchè l'interpetretrascendentilista  potrebbe  dire,  e  con  qualche apparenza  di  ragione,  che  Aristotile  fa  qui   del   termine universale  e  dei  suoi  sinonimi  Tuso  improprio  che  abbiamo rimproverato  a  lui  stesso;  mi  limiterò  per  conseguenza  ai soli  testi  di  Platone,  «  di  Aristotile  non  aggiungerò  che alcuna  di  quelle   indicazioni  il  cui   significato   non  può lasciar  luogo  ad  alcun  dubbio. V  II  modo  in  cui  Platone  mette  in  antitesi  l'Idea  e le  cose  prova  che  l'Idea  è  l'univerdale,  perché  le  cose sono  opposte  ad  essa  come  particolari  :  p .  e  :  «  il  fabbro fa,  non  la  Specie  del  letto,  ma  qualche  letto  •>  (1)  ;  ma (1)  nep,  597  a. I I     '  (■«. 1  B Dio  (il  Bene)  produce  «  il  letto  che  realmente  é,  e  non qualche  letto  »  (1);  «  il  vero  amante  della  scienza  aspira^ all'essere  vero,  e  non  si  ferma  ai  molti  singolari  che  sono creduti  essere  »  (2)  ;  <  invece  di  considerare  lo  Stesso stesso  (cioè  l'Idea  dello  stesso),  abbiamo  considerato  1 singoli  stes:ji  (cioè  le  cose  particolari  a  cui  conviene  il predicato  :  stesso)  »  (3);  «  bisogna  prendere  chiaramente o  il  bene  (cioè  senz'alcun  dubbio,  l'Idea  del  bene),  o qualche  forma  di  esso  »  (4);  ecc.  Se  l'Idea  fosse  trascen- dente^ mancherebbe  la  ragione  dell'antitesi;  al  particolare deve  corrispondere  il  suo  opposto,  il  generale. 2^  Astrarre,  generalizzare,  è,  secondo  Platone,  riunire il  multiplo  nell'uno,  cioè  le  cose  nell'Idea,  ole  Idee  spe- cifiche nell'Idea  generica.  Cosi  nel  Sofista  253  d  dice  che il  dialettico    o  vede    acutamente    un'  Idea    unica    sparsa per  una  moltitudine  di  coso,  separate  le  une  dalle  altre, e  molte  Idee  distinte  contenute  sotto    un'  Idea    unica,  e un'Idea  unica  per  molti  tutti  (cioè  sparsa  per  molte  spe- cie) in  uno  raccolta  »  (df  oXwv  tioXXwv  èv  évi  g'jvY]|i|xésvYjv); nel  Fedro  265  d,  che  «  bisogna  ricondurre  ciò  che  è  qua e  là  disperso,  guardandolo  con  una  veduta  d'insieme,  ad un'Idea  unica  »,  e  chiama  questa  riconduzione  delle  cose all'Idea,  o  delle  Idea  più  particolari  a  un'idea  più  gene- rale, una  riunione  (ouvaYwvxri  266  b);  nello  stesso  dialogo, 273  e,  rifiuta  la  perizia  nell'arte  del  dire   a    chi    non  è capace  di  «  dividere  gli  cs-cri    per    ispecie   e   di    nuovo comprendere  i  singoli  in  un'Idea  unica  »;  nel  PoZt7  285  b, raccomanda  di  «  racchiudere  tutto  ciò  che  è  atfine  den- tro una  somiglianza  unica  (l)  e    rivestirlo   dell'  essenza d'un  certo  genere  »;  nel  Filébo  Socrate  si  sforza  di  «  guar- dare prima  il  finito  e  l'infinito  ciascuno  diviso  in   molti e  disperso,  e  poi  di  riunire  (ouvcxyslv)  nuovamente  in  uno, per  vedere  come  l'uno  e  l'altro  è  al  tempo   stesso   uno e  molti  »  (2)  ;  ecc.  Tutte    queste  espressioni   potrebbero anche  essere  impiegate  da  un  concettualista  o  da  un  no- minalista—ma  è  ciò  precisamente  che  prova  l'immanenza delle  idee  platoniche  —  :  in   quelli,    non   sarebbero    che de'lc  metafore  un  po'  ardite,  in   Platone   devono    pren- dersi il  più  letteralmente  possibile;  l'unità,  in  cui  si  rac- chiudo, o  a  cui  si  riduce,  il  multiplo,  non  è,  per  quelli, ch^>  un'unità  mentale,  trasportata,  per   metafora,  nelle cose,  ma  per  Platine  è  un'unità  reale;  unificare,  iden- tificare, per  quelli  non  è  che  «ssimilare,  per  Platone  si tratta  d'  ura  unificazione   e   d'  una   identificazione   nel spnso  più  stretto  di  queste    parole.    Sui    luoghi  citati    e gli  altri  che  si  potrebbero  aggiurgere,  si  deve  osservare ch'eFsi  possono  dividersi  in  due    categorie  :   in   tutti   vi ha  il  concetto  dell'unificazione  del  multiplo;  ma  in  alcuni quest'unificazione  è  il  riconoscere  chej'attributo  comune che  é  in  molte  cose  (p.  e.  il  bianco  che  è  in  questa  carta, quello  che  è  nella  parete,  quello  che  è  in  questo    libro, ecc.)  è  un'entità  unica,  e   non    tante   entità    quante   vi hanno  cose  che  possiedono  l'attributo;  negli  altri  ciò  che si  tratta  di  unificare  sono  le  cose  stesse  (o  le   Idee)  che possiedono  l'attributo  comune,  o,  più  propriamente,  gli  at- tributi omonimi,  e   non   semplicemente    questi    attributi (1)  597  d. (2)  490  a-b. (3)  Alcib.  1.  130  d. (4)  Filebo  61  a. (1)  Per  somiglianza  (ójloCoxYJs)  bisogna  intendere  non  la  rela- zione tra  gli  Oggetti  simili,  ma  il  fondamento  di  questa  relazione, il  carattere  loro-  comune  par  cui  ossi  sono  chiamati  simili. (2)  23  e. -  30  - omonimi;  vale  a  dire  non  sì  dice  semplicemente  che  l'u- manità che  è  in  me,  in  voi,  in  quello,  ecc.  è  un'umanità unica,  che  l'animale  che  è  nell'uomo,  nel  cavallo,  nel bue  è  un'Animalità  unica,  ma  ancora  che  tutti  gli  uo- mini diventano  uno  neirUomo,  tatti  gli  animali  uno  nel- l'Animale, ecc.  (1).  Questi  duo  aspetti  della  riduzione  del multiplo  neir  uno  si  vedranno  più  chiaramente  nei  due numeri  seguenti. 3^  La  risoluzione  degli  attributi  omonimi  di  tutte le  cose  in  un'  entità  unica  è  espressa  da  Platone  sotto due  forme  un  po'  differenti,  ma  equivalenti  disignifìcato. A.  Uno  è  il  bello,  uno  il  buono,  uno  il  grande,  uno è,  in  una  parola,  tutto  ciò  che  è  connotato  da  ciascun nome  generale,  e  questo  bello,  questo  buono,  questo grande,  ecc.  è  Tldea  del  bello,  del  buono,  del  grande, ecc.  Cosi  nella  Rep,  475  e— 476  a  :  «  Poiché  il  bello  è il  contrario  del  brutto,  questi  sono  due;  ed  essendo due,  ciascuno  è  uno.  E   lo  stesso  deve  dirsi   del  giusto t (I)  Un'altra  distinzione  ohe  si  potrebbe  fare  è  dei  luoghi  che  si riferiscono  al  rapporto  tra  l'Idea  e  le  cose  e  quelli  che  si  riferiscono al  rapporto  tra  l'Idea  generica  e  le  Idee  specifiche.  Non  ho  cre- duto necessario  di  fare  questa  distinzione,  sia  perchè  nella  più  parte dei  casi  Platone  ha  di  mira  tanto  la  unificazione  del  multiplo  reale nell'Idea,  quanto  quello  del  multiplo  ideale  in  un'  Idea  superiore; sia  perchè  un'interpretazione  coerente  del  sistema  delle  Idee  deve ammettere  tra  le  Specie  e  le  cose  lo  stesso  rapporto,  o  d'immanenza o  di  trascendenza,  che  tra  i  Generi  e  la  Specie  (v.  num.  VII).  La stessa  osservazione  vale  per  il  num.  4. Come  genelizzare  è  per  Platone  astrarre  l'Idea  comune  a  molte cose,  che  è  riguardata  come  una  e  la  stessa  in  tutte  ;  cosi  ragionare per  ana'ogia  è  per  lui  trasferire  la  stessa  Idea,  già  costatata  e  deter- minata nell'oggetto  da  cui  si  tira  l'analogia,  nell'altro  oggetto  la cui  natura  si  vuole  rischiarare  per  quest'analogia.  V.  Polii,  278  e, Rep,  434  d. i e  dell'ingiusto,  del  bene  e  del  male  e  di  tutti  gli  et^Y]: ciascuno  é  uno  esso  stesso,  ma  per  la  xotvoovCa  (cioè la  partecipazione  ad  esso)  delle  azioni  e  dei  corpi e  la  reciproca  (la  partecipazione  degli  slSr]  gli  uni  agli altri),  da  per  tutto  apparendo,  ciascuno  pare  molti  ».  E a  479  a  :  «  Che  ci  risponda  dunque  questo  buon  uomo,  che non  crede  al  bello  stesso^  né  ammétte  che  vi  sia  alcuna  Idea del  bello  sempre  la  stessa,  ma  crede  molti  i  belli  ;  que- st'amatore di  spettacoli  che  non  acccrderà  mai  che  uno è  il  bello,  uno  il  giusto,  e  cosi  ogni  altra  cosa».  E  a 493  e  :  «  Il  volgo  crederà  mai  o  soffrirà  che  si  dica  che  vi  ha il  bello  stesso,  ma  non  molti  belli,  e  qualsiasi  stesso  (cioè il  bene  stesso,  il  giusto  stesso,  il  grande  stesso),  e  non molti  qualsiansi  (cioè  molti  beni,  molti  giusti,  molti grandi,  ecc.)?»  Se  le  Idee  del  bene,  del  bello,  del  giu- sto,  ecc.  fossero  trascendenti,  come  potrebbe  dire  Pla- tone che  vi  ha  un  solo  bene,  un  solo  bello,  un  solo  giu- sto, ecc.  ?  In  questo  caso  vi  sarebbero  altrettanti  beni,  belli, giusti,  ecc.,  quante  vi  hanno  cose  che  possiedono  que- sti attributi,  più  il  bene  stosso,  il  bello  stesso,  il  giusto bteFso,  ecc. E  a  questa  prima  forma  con  cui  viene  espressa Tunificazfone  degli  attributi  omonimi  delle  cose,  che  noi possiamo  rapportare  pure  una  delle  prove,  riferita  da Alessandro  d'Afrodisia  (1),  per  cui  si  dimostrava  resi- stenza delle  Idee  :  Ciò  che  noi  affermiamo  come  vero  è; ma  noi  affeiniiamo  come  vero  che  vi  hanno  cinque  con- centi, tre  armonie,  ecc.:  dunque  ciascuno  di  questi  con- centi é  realmente  uno,  ciascuna  di  queste  armonie  è  real- mente una,  ecc.,  e  vi  hanno  le  Idee  di  questi  concenti, di  queste  armonie,  ecc.  Alessandro  d'Afrodij^ia  presenta (1)  In  phil.  pr,  Arut,  1.  1.  o.  9.  testo  62. —  31  - -'^^ quest'argomento  un  po'  diversanìentc,  ma  che  Platone lo  presentasse  press'a  poco  nella  forma  che  abbiamo  det- to, è  anche  confermato  dal  cominciamcnto  del  primo  dei luoghi  citati  (1),  che  ne  è  una  variante,  o  piuttosto  una applicazione  particolare. B.  La  grandezza  che  è  in  tutti  gli  oggetti  grandi,  la bellezza  che  è  in  tutti  gli  oggetti  belli,  è  una  sola  e  stessa grandezza,  una  sola  e  stessa  bellezza,  ecc.,  e  questa  gran- dezza, questa  bellezza  ecc.,  una  e  la  stessa  in  tutti,  è  la Ide(k"  della  grandezza,  della  bellezza,  ecc.  Cosi  nel  Par- menide 132  a  :  «  Io  penso,  dice  a  Socrate  il  filosofo  oleate, che  tu  credi  che  ciascuna  Specie  è  una,  per  questo  :  quan- do molte  co^e  ti  semb-ano  grandi,  forse,  cootemplandole, una  certa  Idea  unica  la  stessa  ti  sembra  essere  in  tutte, e  perciò  ammetti  che  la  grandezza  è  una  ».  E  poco  dopo, quando  Socrate,  confuso  dalle  obbiezioni  del  vecchio  fi- losofo, batte  in  ritirata,  e  passando  dal  realismo  al  con- cettualismo, dice  che,  «  forse  ciascuna  specie  è  una  no- zione, e  non  esiste  altrove  che  nelle  nostre  anime  »,  Par- menide,  che  in  questo  dialogo  è  il  vero  rappresentante della  teoria  delle  Idee,  gli  domanda  :  «  Ma  che  ?  Ciascuna di  queste  nozioni,  che  è  una,  è  la  nozione  di  niente  ?  — Socrate  :  Ciò  è  impossibile  —  Parmenide  :  E  dunque  la nozione  di  qualche  cosa  ?  —  SocR.  :  Si  —  Parm.  :  Di  qual- che cosa  cosa  esistente  o  non  esistente  ?  —  Socr.  :  Esi- stente —  Parm.  :  Non  è  di  qualche  cosa  di  uno,  che  que- sta nozione  concepisce  come  presente  in  tutti  gli  oggetti, ed  essente  una  certa  forma  unica  ?  —  Socr.  :  Si —  Parm.  : E  non  sarà  un'Idea  questa  cosa  che  si  concepisce  essere una,  essendo  sempre  la  stessa  in  tutti  gli  oggetti  ?  »  (2). (1)  Rep,  475  e-476  a. (2)  132  b-o. Nelle  Leggi  965  c-d,  T Ateniese  :  «  Si  può  più  esatta- mente esaminare  checchesia  che  guardando  ad  un'Idea unica  dai  molli  dissimili?  — Clinia.  Forse  — L'Atemhsk: Non  forse,  ma  certamente  non  vi  ha  metodo  più  lumi- noso di  questo  per  lo  spirito  umano.  Ci  bisognerà  dun- que, sembra,  obbligare  i  custodi  della  nostra  divina  città a  vedere  prima  esattamente  cos'  è  che  per  tutte  quattro (le  virtù)  è  lo  stesso,  che  essendo  uno  nella  fortezza,  nella temperanza,  nella  giustizia  e  nella  prudenza,  giusta- mente chiamiamo  con  un  sol  nome,  virtù».  Nel  Con- vito 210  b  si  chiama  una  demenza  il  non  credere che  uno  e  lo  Messo  è  il  bello  in  tutti  i  corpi  ;  nel Menone  si  cerca  che  cosa  sia  la  virtù  unica  che  è  per tutte  le  virtù (l);  che  cosa  sia  la  figura  che  è  la  stessa in  tutte  le  figure  (2)  ;  nel  Sofista  (240  a)  che  cosa  sia  il simulacro  unico  che  è  in  tutti  i  simulacri;  ecc.:  Nella Metafisica  1.  XIII,  IV,  10  Aristotile  domanda  «Se  la diade  è  una  e  la  stessa  nelle  diadi  corruttibili  e  le  molte ma  eterne  (3),  perchè  non  sarà  pure  la  stessa  nella  diade stessa  e  nelle  particolari?  »  —  qui  Aristotile  fa  a  Platone Tobbiezione  del  terzo  uomo,  ma  ciò  che  c'importa  èia  pro- prsizione  che  gli  attribuisce,  cioè  che  la  diade  è  una  e la  stessa  in  tutte  le  diadi  —  ;nel  1.  Ili,  IV,  J,  9  fa  ap- poggiare la  dottrina  della  realtà  degli  universali  sull'ar- gomento che  «  in  t«nto  conosciamo  tutte  le  cose,  in  quanto vi  ha  un  che  di  universale,  un  che  di  uno  e  lo  stesso»,  e che  «  non  vi  sarebbe  scienza,  se  non  vi  fosse  un  che  di (1)  74  a-b. (2)  76  a,  76  a. (3)  I  numeri  matematici,  che,  nell'ultima  forma  del  suo  sistema, Platone  faceva  intermediari  tra  il  numero  ideale  e  i  numeri  sen- sibili. V.  Sffpjìtem,  C. —  32  - tf^ — -.u^ uno  in  tutti  »  (i)  ;  e  in  una  moltitudine  di  luoghi  afferà ma  esplicitamente  o  indubbiamente  suppone  che  i  Pla- tonici chiamavano  Tldea  Vano  nei  molti  (2).  Noi  sappia- mo pure  da  Alessandro  d'Afrodisia,  che  certamente  lo aveva  attinto  da  Aristotile,  che  uno  degli  argomenti,  e di  quelli  tenuti  in  magior  conto,  per  dimostrare  l'esistenza delle  Idee,  era  questo:  che  gii  ogg:etti  che  sono  simili tra  di  loro  (cioè  che  hanno  questa  somiglianza  definita per  cui  si  riuniscono  in  una  stessa  classe)  non  possono  es- sere tali  che  perchè  partecipano  a  qualche  cosa  la  stessa che  è  propriamente  quello  che  viene  predicato  in  comune di  questi  oggetti,  e  questa  cosa  è  Tldea  (3). (1)  Cfr.  num.  III. (2)  Met,  1.  I.  IX.  1,  2,  5,  1.  VII.  XVI.  6,  ecc. (3)  In  Metaph.  Arist,  1.  1,  e.  9.  testo  59. Alessandro  d'Afrodisia  c'informa  anche  di  una  variante  di  que- st'argomento, ch'egli  espone  cosi:  che  vi  ha  una  causa  deUe  cose costantemente  farsi,  e  farsi  secondo  un  tipo  costante;  e  questa  causa è  l'Idea  comune  a  queste  cose.  Anche  esposto  sotto  questa  forma* che  non  sappiamo  se  sia  esattam  ente  quella  con  cui  Platone  lopro- poneva, quest'argomento  prova  l'immanenza  dell'Idea,  cioè  che  la Idea  è  l'Attributo  che  è  uno  e  lo  stesso  in  tutti  gli  esseri  della  stessa specie.  Infatti,  se  l'Uomo  fosse  una  semplice  causa  esemplare  degli uomini,  posta  al  di  fuori  di  essi,  essa  non  ci  spiegherebbe  perchò uno  stesso  tipo  si  riproduce  costantemente  in  esseri  distinti  fra  di loro;  per  la  semplice  ragione  che  l'Idea  separata  non  sarebbe  una causa  efficiente,  vale  a  dire  una  causa  che  a  priori  si  riconosce  ca- pace di  produrre  l'effetto  ohe  le  viene  attribuito— e  naturalmente nemmeno  una  causa  empirica,  cioè  la  cui  azione  è  stata  dimostrata dall'esperienza — .Al  contrario,  se  si  ammette  che  l'Idea  è  nelle  cose, la  somiglianza  delle  cose  che  partecipano  alla  stessa  Idea  può essere  dedotta  a  priori  da  questa  partecipazione  a  una  stessa Idea;  tra  la  causa  e  l'effetto  vi  ha  un  legame  necessario;  e  per- ciò, dato  l'effetto  —  la  somiglianza  di  tutti  gli  uomini  —  noi possiamo  inferirne  la  causa  —  la  partecipazione  a  una  Idea comune  --,  perchè  questa  causa  è  una  causa  che  noi  già  sappia- mo essere  capace  dì  produrre  l'effetto,  ciò  che  è  la  condizione  in- A  questi  dati  non  aggiungerò  alcun  commento.  L'e- spressione più  netta  sotto  cui  può  formularsi*  r  ipotesi daW immanenza  e  precisamente  questa,  contenuta  nelle citazioni  precedenti,  che  gli  attributi  omonimi  di  tutti gli  esseri  non  sono  in  sostanza  che  un  Attributo  unico, e»,  questo  è  Tldea;  che  quest'Attributo  inerisce,  uno  e  lo stesso,  nella  moltitudine  degli  esseri  dei  quali  predichiamo dispensabile  di  qualsiasi  ipotesi,  fisica  o  metafisica,  vera  o  falsa,  che lo  spirito  umano  possa  fare  sulle  cause  dei  fenomeni. Jj'argomento  di  Platone  che  gli  oggetti  simili  non  possono  es- sere tali  che  per  la  partecipazione  a  qualche  co>4a  comune,  suggeriva agli  avversari  della  sua  teoria  1'  obbiezione  del  terzo  uomo,  della quale  gl'interpreti  trascendentalisti  delle  Idee  platoniche  fanno  gran caso,  perchè  essa  prova,  secondo  essi,  che  la  teoria  contro  cui  era diretta,  era  quella  delle  Idee  trascendenti.  L'obbiezione  del  terz'uo' tno  è  questa  :  se  tutti  gli  uomini  sono  simili  perchò  partecipano  a uno  stesso,  all'Uomo  in  sé,  l'Uomo  in  sé  e  gli  uomini  debbono  pure essere  simili  perchè  partecipano  a  qualche  cosa  di  comune  ;  vi  ha dunque,  oltre  l'uomo  fenomenale  e  l'Idea  dell'uomo,  un  terzo  uomo distinto  dal  fenomeno  e  dall'Idea;  e  l'obbiezione  continuava  preten- dendo che  la  somiglianza  del  terz'uomo  con  gli  altri  supporrebbe  un quarto  uomo,  a  cui  tutti  gli  altri  uomini  partecipassero,  e  cosi  di  se- guito all'  infinito  (V.  per  quest'obblez.  Plato.  Parmen.  132  a-b,  132  d,- IB3  a,  Arist.  Met.  1.  I,  IX,  3,  5  e  Aless,  d' Afrod.  commento  al  primo  di questi  due  luoghi).  Non  vi  ha  dubbio  che,  perchè  quest'obbiezione fosse  logicamente  inappuntabile,  essa  dovrebbe  essere  diretta  contro le  Idee  tera scendenti  -  se  l'Idea  è  nelle  cose,  non  vi  ha  motivo  di  do- mandare la  causa  della  somiglianza  tra  le  Idee  e  le  cose,  perchè  l'Idea non  è  altro  che  questo  punto  di  coincidenza  comune  per  cui  tutte  le cose  simili  si  dicono  simili  -  ma  resterebbe  a  provare  che  l'obbi  ozione del  terzo  uomo  era  logicamente  inappuntabile.  Nella  dottrina  delle Idee  immanenti  vi  ha  quel  tanto  che,  se  non  è  sufficiente  perchè  que- st'argomento sia  perfettamente  concludente,  basta  perchè  esso  abbia quella  plausibilità  necessaria  a  un  argomento  perchè  gli  avversari di  una  teoria  ne  facciano  uso.  In  effetto,  Platone  ha  un  bell'affer- mare  che  le  Idee,  quantunque  siano  sostanze  per  se  stesse,  ineri- scono nondimeno  nelle  cose,  e  che,  quantunque  ciascuna  sia   una.!^Ki fvs- rattribiito.  Certamente  questa  prova  deiriminanenza  — che  in  Terità  non  è  una  prova,  ma  la  ripetizione,  in  ter- mini più  chiarì,  della  tesi  stessa  che  si  tratta  di  prova- re— non  sembra  con  tutto  ciò  soddisfacente  agl'interpreti trascendentalisti  :  ma  che  si  può  fare  di  più  ?  non  altro che  pregare  questi  interpreti  che  cerchino  di  rappresen- tarsi nettamente  la  tesi  dell'immanenza  delle  Idee,  vnle !! si  trova  nondimeno  simultaneamente  in    una  moltitudine!  queste determinazioni  sono  incompatibili,  noi  non  possiamo  rappresentar- cele insieme;  noi  non  possiamo  concepire  che  una  sostanza  inerisca in  altre  sostanze  come  un  attributo,  che  un  essere  unico  si  trovi  al tempo  stesso,  senza  frazionarsi,  in  una  moltitudine  di  esseri  diffe- renti. Ne  segue  che  delle  sostanze  quali  Platone  fìnge  le  Idee,  non potremmo  rappresentarcele  che  esistenti  separatamente  dalle  cosa  ; l'Uomo  in  sé,  in   quanto  noi  possiamo  immaffbiarlo,  non  lo  possiamo che  come  un  uomo   particolare,  distinto  e  separato  dagli  altri  uo- mini, questi  nati  e  peribili,  esso  eterno:  è  questa  la  base  dell'inter- pretazione trascendentalista  delle  Idee  platoniche,  e  la  chiave  per comprendere  tutte  le  vicende  di  questa  teoria.  Cosi,  se  l'obbiezione del  terzo  uomo  non  vale  contro  le  Idee  quali  Platone  le   afferma- direbbe  egli,  quali  oggetti  dell'intelligenza,  poiché  egli  a/ferma  esse  sono  nelle  cose  ;  vale  però  contro  le  Idee  quali  noi  possiamo rappresentarcele,  quali  oggetti,  direbbe  Platone,  d' un'immaginazione circoscritta  nelle  condizioni  del  sensibile  *.*;  perchè  noi  non   pos- siamo rappresentarcele  che  separate  dalle  cose  :  è  quanto  basta  alla vis  probante  dell'obbiezione  del  terz'uomo,  quantunque  quest'argo- mento, in  sostanza,  non  sia  che  un  sofìsma. *.*  I  metafìsici  hanno  un  mozzo  assai  comodo  per  superare  tutte le  difficoltà  :  é  di  distinguere  tra  'uimuijinare  ed  intenrìere.  Se  noi  tro- viamo le  loro  teorie  inconcepibili,  essi  rispondono  che  ciò  è  perchè "  si  pretende  d'immaginare  ciò  che  non  si  può  se  non  intendere,  come se  si  volessero  vedere  "i  suoni  o  udire  i  colori  „.  Vedi  Cartesio  t.  I, p.  1^,  ed.  Cousin,  Leibnitz  N,S,  suìVint.  ìtm,  l.  IV,  e.  III,  §  6,  De ipsa  nat,  sive  de  vi  ins,  7,  Epist,  ad  P,  Des-Iiuss.  16  Griug.  1712  (ed.  Du- tens  t.  2,  p,  1.  I).  298),  Spinoza  I>e  intelL  emend,  84-91,  ecc.  Tra  l'em- pirismo e  la  metafìsica  tutta  la  quistione  è,  al  fondo,  se  questa  di- stinzione deve  ammettersi  o  no. I a  dire  la  dottrina  che  le  Idee  sono,  delle  sostanze  si,  ma inerenti  nelle  cose  come  loro   attributi  —  nozioni   certa- mente incompatibili,  io  sarò  il  primo  a  convenirne —,  e di  fare  per  un  istante  la  supposizione  che  tale  sia  stata realmente  la  dottrina  di  Platone — ciò  cho  non  è  chiede^ poco,  perchè  si  può  essere  sicuri  che  la    più   parte   de- gl'interpreti  trascendentalisti,  per  non   dire    tutti,    non hanno  fatto  mai  seriamente  questa  supposizione —,  e  poi di  saperci  dire  come,    in  questo   caso,    Platone   avrebbe potuto  esprimere  la  sua  dottrina  d'una  maniera  più  chiara e  più  C:<plidta  che  elicendo  che  intuiti  gli  oggetti  grandi la  grandezzate  una  e  la  stessa,  e  questa  è   l'Idea  della grandezza,  e  cosi  la  bellezza  in  tutti   gli   rggetti   belli, Pumanità  in  tutti  gli  uomini,    Panimr^lità  in  tutti  gli  ani- mali, ecc.  Negare  che  la  dottrina  di  Platone  pia  realmente quello  che  essa  suona,  porche  questa  dottrina,    cosi   in- tesa, ci  sembra   racchiudere    una    impossibilità   logica, prima  di  tutto  non  è  conforme  ai  criteri  di    una   buona ermeneutica;  e  poi,  oltre  che  per  assolvere   Platone   da una  contraddizione  gliesene  addrssen  bboro  cento  altre, si  otterrebbe  per  risultato,  che  si  ffi romberò   dire   a  Pla- tone delle  assurdità— perchè  chi    vorrà  sostenere  che    la dottrina  delle  Idee,  immanenti  o  trascendenti,    non    sia un'assurdità  ?— senz'ai cun  motivo  né  scopo,  perchè  il  si- stema delle  Idee  trascendenti  non   spiegherebbe   niente, non  conterrebbe  alcuna  di  queste   vedute   ardite    e   ge- niali, che  scusano  e  fanno  comprendere    gli    errori    dei grandi  pensatori  metafisici,    perchè  di  natura  da  s  durre l'intelligenza  con  la  prospettiva  di  una  spiegazione uni- verèsale  e  radicale   delle  cose,  cui  la  scienza   positiva  si dichiara  incapace  di  attingere. D'altronde  Platone  ha  avuto  cura  di  togliere  al- l'interprete trascendentalista  qualsiasi  pretesto  per  rifiu- targli la  dottrina  che  le  idee  sono  gli  Attributi  generali ixr delle  cose,  ciascuno  dei  quali  inerisce,  uno  e  lo   stesso, in  tutte  le  cose  aventi  degli  attributi  omonimi,  fondan- dosi sulle  difficoltà  logiche  contenute  in  questa  dottrina: noi  sappiamo  infatti  dallo  stesso  Platone  che  queste  dif- ficoltà sono  precisamente  quelle  stesse  che  gli  avversari obbiettavano  alla  teoria  delle  Idee.  Ecco  come  esse  ven- gano proposte  nel  Parmenide  :  a  Parmenide  :  Dimmi  dun^ que,  penai  tu,  come  dicevi,  che  vi  hanno   certe   Specie^ da  cui  le  cose,  partecipandone,  prendono  le   loro  denminazioni? che  p.  e.  le  cose  sono  simili   per   la    parte- cipazione della  somiglianza,   grandi,    belle,   giuste,    per quella  della  grandezza,  della  bellezza,  della'giustizia  ?—  Io ne  sono  persuaso,  disse  Socrate— Ora  ogni  cosa  che  par- tecipa  della  Specie,  non  è  necessario  che  partecipi  o  di tutta  la  Specie  o  di  una  parte  ?  o  vi  ha,  oltre  di  questi, un  altro  modo  di  partecipazione?  —E  come   ve   ne    po- trebbe essere  un  altro  ?-Credi  tu  che  la  Specie  sia  tutta in  ciascuno  dei  molti,  una  essendo,  o   altrimenti  ?— Che cosa  può  impedire,  o  Parmenide,  disse  Socrate,  che  ine- risca tutta?— È  che  essendo  una  e  la  stessa,  ìnv.vìrk  tuUa simultaneamente  in  molte  cose  che  sono  separate  le  une dalle  altre,  e  cosi  essa  stessa  sarà  separata  da  se  stessa —  Ma  no,  disse  Socrate  ;  come  il  giorno,  essendo  uno  e lo  stesso,  esiste  simultaneamente  in  molti  luoghi,  e  non è  perciò  separato  da  se  stesso  ;  cosi  niente  impedisce  che ciascuna  Specie  esista  simultaneamente,  una  e  la  stessa. in  tutti  gli  oggetti,  senza  separarsi  da  se  stessa.  —  Be] modo  è  il  tuo,  o  Socrate,  di  far  esistere  una  sola  e  stessa cosa   simultaneamente   in    molti  oggetti!  è  come  se  co- prendo molti  uomini  con  un  velo,  tu  dicessi  che  Tuno  è tutto  intero  nei  molti.  Non  è  vero  che  dici  qualche  cosa di  simile?  -  Forse,  disse  Socrate  —  Ma  il  velo  sarà  tutto intero  in  ciascuno,  o  soltanto  una  parte  in  uno,  e  un'al- tra parte  in  un  altro  ?— Una  parte  soltanto  —  Le  Specie dunque,  o  Socrate,  saranno  divisibili,  e  le  cose  che  par- tecipano di  esse  parteciperanno  di  una  parte,  e  non  vi sarà  più  in  ciascuna  cosa  tutta  la  Specie,  ma  una  parte soltanto— Cosi  pare.  —  Vorresti  dunque,  o  Socrate,  che  la Specie  sia  veramente  divisa  ?  e  sarà  ancora  una  dopo  que- sta divisione  ?  —  No,  affatto  —  Vedi  in  effetto  :  se  tu  di- viderai la  grandezza  stessa^  ciascuno  dei  molti  grandi  sarà grande,  non  per  la  grandezza,  ma  per  una  parte  della grandezza,  necessariamente  più  piccola  della  grandezza stessa;  ora  ciò  non  ti  sembra  assurdo?— Assolutamente— ... In  che  modo  dunque,  o  Socrate,  le  altre  cose  partecipe- ranno alle  Specie,  se  non  possono  riceverle  né  in  parte  né in  totalità?  »  (i).  Questa  stessa  obbiezione  del  Parmenide si  ritrova,  in  riassunto,  nel  Filebo  15  b,  dove  Socrate spiega  quali  siano  le  controversie  quando  si  stabilisce un  Uomo,  un  Bue,  e  il  bello  uno,  e  il  buono  uno,  e  al- trettali unità:  «Prima  di  tut*o,  egli  dice,  si  contesta  se si  devono  ammettere  questa  sorta  d'unità  come  realmente esistenti  ;  poi  si  domanda  come  ciascuna  di  esse,  essendo una  e  sempre  la  stessa,  e  non  ammettendo  né  genera- zione né  corruzione,  possa  tuttavia  essere  immutabilmente una  e  la  stessa  (2)  ;  e  in  seguito  se  negli  esseri  gene- rati e  infiniti  di  numero  deve  porsi  divenuta  molti  e  fra- zionata, 0  tutta  intera  in  ciascuno,  separata  essa  stessa da  se  stessa,  ed  é  questa  che  sembra  la  cosa  più  impos- sibile dol  mondo,  che  un  solo  e  lo  stesso  essere  sia  allo stesso  tempo  in  uno  ed  in  molti  ».  Potrebbero  tali  ob- biezioni dirigersi  alle  Idee  trascendenti?  se  il  rapporto tra  ridea  e  le  cose  non  fosse  che  quello  tra  l'esemplare (1)  131  a-e. (2)  Che  difficoltà  potrebbe  trovar^^ì  nell'essere  l'Idea  ana  e  sem- pre la  stessa,  se  essa  fosse  fuori  delle  cose? ".■1 *.  '.y. Xn  i«<t'i|i ■r   *»■ '         "f e  le  copie,  che  difficoltà  vi  sarebbe  a  concepire  che  uno stesso  esemplare  potesse  servire  di  modello  a  molte  co- pie ?  sarebbe  perciò  necessario  di  ammettere  o  che  Tesem- plare  si  trova  tutto  intero  in  ciascuna  delle  copie,  o  che esso  si  fraziona  in  tante  parti  quante  sono  le  copie,  e  che una  di  queste  parti  esiste  in  una  delle  copie,  e  un'altra in  un'altra?  Non  è  evidente  che  queste  obbiezioni  non possono  comprendersi  altrimenti  che  come  lo  sviluppo delle  impossibilità  logiche  contenute  in  una  dottrina,  che afferma  che  un  solo  e  stesso  Attributo  inerisce  simulta- neamente in  una  moltitudine  di  soggetti? dubbio  Platone  doveva  pensare  che  queste  ob- biezioni non  toccavano  il  segno,  e  che  la  sua  dottrina sfuggiva  al  dilemma  proposto  nel  Filebo  e  nel  Parmenide: ma  tutto  ciò  che  possiamo  concluderne  è  che  queste  dif- ficoltà con  sembravano  a  Platone  insolubili  come  sem- brano a  noi.  Quale  sia  la  soluzione  egli  non  lo  dice  né nel  Parmenide  (ì)  né  nel  Filebo:  ma  egli  ne  ha  imma- ginato una  ;  noi  la  troviamo  in  uno  dei  luoghi  citati  :  Il (1)  Alcuni  interpreti  credono  che  la  parte  dialettica  del  Parme- nide  contiene  una  dottrina  riposta  destinata  appunto  a  risolvere  le obbiezioni  del  principio  del  dialogo:  per  me  io  non  posso  vedervi se  non  quello  per  cui  Platone  la  dà  nianilestamente,  cioè  un  sem- plice esercizio  dialettico  di  cui  nel  cap.  VII  §  2J  abbiamo  mostrato la  relazione  con  la  dialettica  platonica.  Del  resto  le  ipotesi  che  tro- vano nella  seconda  parte  del  Parmenide  le  soluzioni  delle  obbiezioni contenuto  nella  prima,  non  fanno  al  nostro  caso,  perché  esse  sono state  immaginate  nella  supposizione  che  le  obbiezioni  siano  dirette contro  lo  Idee  trascendenti,  quantunque  Ira  queste  obbiezioni  una sola,  quella  del  terz'uomo,  possa  essere  interpretata  a  questo  modo; ma  basta  che  Platone  dichiari  che  le  Idee  esistono  per  se  stesse  (cioè come  sostanze),  o  che  egli  le  distingua  dai  fenomeni,  perchè  1'  in- terprete trascendentalista  ne  concluda  immediatamente  che  esse sono  separate  dalle  cose. 1 f  I' •Vi il H 1 II bello,  il  brutto,  il  giusto,  Tingiusto  e  ciascun  altro  elSo^ è  uno  in  se  stesso,  ma  apparendo  qua  e  là,  nelle  cose  e negli  altri  stdyj  che  ne  partecipano,  ciascuno  pare  molti  (1). E  in  effetto,  la  quistione,  ridotta  ai  minimi  termini,  è  que- sta :  L'esperienza  ei  mostra  il  bello,  il  brutto,  in  una parola,  ciascun  attributo  generale  delle  cose,  non  come uno,  come  suppone  la  teoria  4elle  Idee,  ma  come  mul- tiplo, l'attributo  che  è  in  un  soggetto  essendo  numerica- mente distinto  dallo  stesso  attributo  che  é  in  un  altro soggetto.  Come  risolvere  questa  contraddizione  tra  Tcspe- rienza  e  la  teoria  delle  Idee  ?— se  le  Idee  sono  immanen- ti ;  poiché  è  solo  in  quest'ipotesi  che  la  moltiplicità  del- Tattributo  nella  moltitudine  dei  soggetti  esclude  Tunità dell'Idea—.  Il  concetto  vago  che  una  delle  due  contraddit- torie, cioè  il  dato  dell'e^^perienza,  la  moltiplicità  dell'at- tributo,  non  è  che  un'apparenza  —  un'apparenza,  s'in- tende, obbiettiva— dk,  non  una  soluzione  reale  della  con- traddizione ^  perciò  bisognerebbe  sopprimere  realmente l'una  delle  due  contraddittorie,  dichiarando  la  moltipli- cità dell'attributo  una  vera  apparenza,  cioè  un'apparenza subbiettiva  —,  ma  un  sembiante  di  soluzione,  per  questa vaga  assimilazione  del  fatto^  che  è  in  contraddizione  con la  teoria,  ad  un'illusione  senza  realtà,  assimilazione  vaga che  è  tutto  il  significato  del  termine  apparenza,  quando esso  non  ha  il  suo  significato  proprio  di  apparenza  sub- biettiva o  semplice  illusione.  Su  questo  concetto  della  dot- trina platonica  dovremo  ritornare  in  uno  dei  numeri seguenti. 4*  L'  astratto  e  il  concreto  non  sono  due   cose   dif- ferenti, ma  una  sola  e  st*^ssa  cosa  a   gradi    differenti  di (1)  Rep.  ^6  a. -  36  ~ determinazione  :  l'astratto  è  il  concreto,   ma   indetermi- nato; il   concreto   é  l'astratto,  determinato.  Siccome  poi r  astratto   è   suscettibile  di  più  determinazioni  distinte  e divergenti  (l'animHle,  determinandosi,  diviene  uomo,  ca- vallo, ecc:;  Tuomo,  quest'uomo  alto  o  basso,  dotto  o  igno- rante, ecc:);  cosi  il  movimento  di  concretizzazione  o  deter- minazione progressiva  deiridea— perchè  l'Idea  non  è,  per dir   cosi  inerte,  ma  vivente,  e  la  sua  vita,  il  suo  sviluppo, nel  sistema  di  Platone  come  in  quello  di  Hegel  o  di  qual- siasi altro  filosofo  realista^  è  il  suo  passaggio   continuo da  uno  stato  più  indeterminato,  più  astratto,  anno  stato più  determinato,  più  concreto— questo  movimento   è   al tempo  stesso  una   moltiplicazione   progressiva,    per   cui ciò  che  è  unità  nel  momento  anteriore,  nel  mome.nto  po- steriore diviene moltiplicità  (si  tratta,  ben  inteso,  di  un'an- teriorità e  posteriorità,  non  cronologica,  ma  logica  e  me- tafisica). Di  là  la  formula  platonica  che  tutto  (cioè  tutto ciò  che  corrisponde  a  un  nome  generale  :    l'uomo,    l'a- nimale, il  bene,  ecc  .)  è  al  tempo  stesso  uno  e  molti  (un Genere    e   molte   Specie,    ovvero   una    Specie   e   molti individui)  o  ancora  uno,  molti  ed   infiniti   (un    Genere, molte  Specie  ed  infiniti   individui).    Nel   Filebo,    in   cui questa  formula  principalm  ntc  è  impiegata,  dopo  che  si è  convenuto  tra  gl'interlocutori  che  vi  hanno   molte  spe- cie del  piacere  e  della  scienza,  Socrate  dice  :  «  Fermiamo ancora  di  più  per  una  confessione  mutua   questo   prin- cipio, che  causa  grandi  imbarazzi  a  tutti  gli  uomini,  ai volenti  ed  anche  qualche  volta  ai  nolenti.  Io   parlo  del principio  in  cui  ci  siamo  imbattuti,  e  che  è  di   una  na- tura ben  sorprendente;  è  in   cfiFetto  una  cosa   strana   a dire  che  ìaolti  sono  uno  e  che  uno  è  molti;  ed  è   facile di  muovere   controversia  a  chi    sostiene  in  ciò  il    prò   o il  contro  >  (1).  Filebo  crede  che  Socrate  alluda  alla  dif- (1)  14  ficoltà,  divulgata  presso  gli  eristici  del  tempo,  come  ad un  soggetto  unico  possano  inerire  molti  attributi;  ma Socrate  si  spiega,  soggiungendo  che  la  diflficoltà  di  cui egli  parla,  nasce  «  non  quando  l'uno  è  preso  tra  le  cose soggette  alla  nascita  e  alla  morte— quando  si  tratta  di un  tale  uno,  si  conviene  che  non  bisogna  disputare  in ciò  con  alcuno— ma  quando  si  cerca  di  stabilire  un  uomo, un  bue,  e  il  bello  uno,  e  il  bene  uno  (vale  a  dire  quando il  multiplo  fenomenale  si  risolve  nell'uno  ideale)'^  è  su queste  unità  e  le  altre  della  stessa  natura  che  i  senti- menti sono  divisi  e  vi  ha  della  contestazione...  Io  dico che  lo  stesso,  fatto  uno  e  molti  dalle  ragioni,  si  trova da  per  tutto  e  sempre,  per  il  passato  come  oggi,  in  cia- scuna delle  cose  di  cui  si  parla  {dalle  ragioni  vuol  dire: dalla  dialettica;  questa  trasforma  continuamente  l'uno in  molti,  per  la  dieresi,  e  i  molti  in  uno,  per  la  ouvaYWYig; e  Socrate  intende  dire  che  questo  fatto,  che  la  stessa  cosa diviene  per  la  dialettica  ora  uno  e  ora  molti,  è  un  fatto generale)  :  ciò  non  cesserà  mai,  e  non  è  ora  che  inco- mincia, ma  è,  mi  sembra,  una  proprietà,  immortale  e incapace  d'invecchiare,  delle  ragioni  stesse Gli  an- tichi, che  erano  migliori  di  noi,  e  stavano  più  vicini  agli dei,  ci  hanno  tramandato  quest'oracolo,  che  tutte  le  cose che  si  dicono  esistere  eternamente  (le  specie)  constano di  uno  e  di  molti,  ed  hanno  insite  in  sé  la  finità  e  l'infinità (constano  di  uno  e  di  molti,  non  è  che  un'altra  maniera di  dire  che  ciascuna  è  uno  e  molti;  Platone  si  serve  di questa  espressione,  perchè  cerca  una  forma  che  possa convenire  tanto  alla  sua  propria  dottrina  quanto  a  quella dei  Pitagorici,  nella  quale,  cioè  nell'affinità  dei  suoi  con- con  quelli  del  platonismo,  sta  tutto  il  fondamento storico  della  supposizione  fantastica  di  una  dottrina,  tra- mandata dagli  antichi  fotto  la  forma  oscura  di  un  ora- colo, e  il  cui  senso  riposto  era  la  teoria  delle  Idee  e  la —  37  — i. ■f^ dialettica.  Egli  può  attribuire  ai  Pitagorici    la    proposi- zione che  tutto  consta,  non  solo  dell'uno  ma    anche  dei molti,    perché    questa   seconda   entità   faceva   parte   di una  delle  loro  due  serie  di    elomenti   contrari).    E   che, tale  essendo  l'ordine  di  queste  cose,  noi  dobbiamo  sempre, nella  ricerca  di  ciascun  oggetto,  stabilire  unldea  unica per  tutto;  e  ni  può  ritrovarla,  perchè  vi  esiste;   scoverta questa,  cercare  se  dopo  una  ve  ne  ha   due,    o,   se   ndue,  tre  o  qualche  altro  numero;  e  ciascun  uno  di  questi (cioè  ciascuna  di   queste   Idee)   esaminare   ancora   cosi, sinché  si  veda,  non  solo  che  Vano  primitivo  è  uno  e  molti ed  infiniti^  ma  anche  quanti  è  (cioè  quante  Specie  com- prende l'Idea  da  principio  stabilita)  ;  e  non  si  deve  appli- care alla  moltitudine  l'Idea  dell'infinito,  prima  di  vederne ogni  numero  che  s'interpone  tra  l'infinito  e  l'uno  (cioè non  si  deve  considerare  la  moltitudine  infinita,  vale  a  dire gl'individui,  prima  di  considerare   successivamente  tutte le  moltitudini  determinate,  vale  a  dire  tutte  le  divisioni e  suddivisioni  del  Genere  stabilito  in  principio;  p.  e.  se questo  genere  è  l'Animale,  e  Platone  ammettesse  la  clas- sificazione dei  naturalisti  moderni,  prima  di  enumerare i  Tipi,  le  Classi,  gli  Ordini,  le  Famiglie,  i  Generi,  le Specie)  ;    solo    allora   si    può   lasciare   ciascuno   di    tutti i  uni   andare   a    disperdersi    nell'infinito Ciò    che ho  delti  è  chiaro  nelle  lettere,  e  puoi  vederlo  nelle  cose che  hai  appreso  nell'infanzia.  Li  voce  che  ci  esce  dalia è  una  e  al  tempo  stess-ì  infinita  in  moltitudine,  per tutti  e  per  ciascuno.  Ma  per  nessuna  delle  due  cose  di- veniamo sapienti,  né  perchè  conosciamo  della  voce  l'in- finito, né  perché  conosciamo  l'uno,  ma  ciascuno  di  noi diviene  grammatico  perché  conosce  quanti  e  quali  essa é  (cioè,  come  spiega  a  18  bc,  perché  neirinfinito  della voce  sa  discernere  i  diversi  generi  e  specie  di  suoni).  E per  la  stessa  cosa  che  si  diviene  musico  :  una  è  la  voce i anche  per  quest'arte;  pure  bisogna  porne  due,  il  grave e  l'acuto,  e  terzo  il  tono  medio ed  è  a  questo  modo che  bisogna  esaminare  tutto  ciò  che  è  uno  e  molti  »  (i). Posto  questo  principio  generale,  Socrate  vuol  farne  Tap- plicazione  alla  sapienza  e  al  piacere:  «  Uno  diciamo  es- sere ciascuno  di  essi:  ora  il  discorso  precedente  ci  chiede come  ciascuno  è  uno  e  molti,  e  come  ciascuno  non  è  su^ bito  infiniti,  ma  V  uno  e  V  altra  hanno  un  certo  numero prima  di  divenire  infiniti  ».  Filebo,  comprendendo  l'inter- rogazione di  Socrate,  dice:  «  Socrate  sembra  domandarci se  il  piacere  ha  o  no  delle  specie,  e  quante  e  quali  siano, e  cosi  similmente  per  la  sapienza  ».  E  Socrate  :  «  È  come dici  :  in  effetto,  come  ha.  mostrato  il  discorso  precedente, nos-iuno  di  nri  sarà  di  alcun  valore  in  checchesia,  se non  è  capace  di  rispondere  a  questa  domanda  su  tutto ciò  cho  è  uno  e  simile  e  lo  stesso  e  il  contrario  (vale  a  * dire:  su  tutto  ciò  che  è  attempo  stesso  uno  e  molti,  e perciò  anche  lo  stesso  e  diverso,  simile  e  dissimile)  »  (2). Poi,  il  principio  viene  applicato  ai  quattro  generi,  in  cui Socrate  divide  tutti  gli  esseri  che  sono  nell'universo,  o piuttosto  a  tre  di  questi  generi,  (il  finito,  l'infinito  e  il composto  dei  due)  :  Socrate  ricerca  come  ciascuno  di  essi è  uno  e  molti  (;j),  riunendolo  —  come  dice  nel  luogo  ri- portato al  num.  2«— in  uno,  dopo  averlo  guardato  diviso in   molti  e  disperso. La  formula  che  lo  stesso  è  uno  e  molti,  non  si  trova solamente  nel  Filebo,  Così,  nelle  Leggi  963  e  l'Ateniese dice:  «  Giacché  vi  hanno  quattro  specie  di  virtù,  ciascuna è  una,  poiché  sono  quattro:  e  tuttavia  abbiamo  chiamato (1)  15  a— 17  d. (2)  18  e  —  19  b. (3)  V.  23  e,  24  a,  25  a,  d,  26  d. i<naM»i 'f    ■^'■'i' \ij uno  tutte  queste;  diciamo  infatti  la  fortezza  virtù,  la  pru- denza virtù,  e  cosi  le  due  altre,  come  se  realmente  siano non  molti,  ma  quest'uno  solo,  virtù».  E  a  964  a:  «  Io t'ho  spiegato  come  la  prudenza  e  la  fortezza  sono  diffe- renti e  due:  tu  spiegami  come  sono  uno  e  lo  stesso.  Fi- gurati che  tu  devi  dirmi  come,  essendo  quattro,  sono  uno; e  domandami,  dopo  avermi  insegnato  che  sono  uno,  che  io t'insegni  come  sono  quattro»  (l'Ateniese  domanda  insom- al  suo  interlocutore  la  definizione  comune  della  virtù). E  a  966  a  :  «  Ma  che?  non  diremo  noi  lo  stesso  del  bello e  del  buono  ?  i  nostri  custodi  devono  sapere  soltanto  co- me l'uno  e  l'altro  sono  molti,  o  anche  come  sono  uno  ?» Nel  Menane  72  a,  dopo  che  Menpne,  interrogato  cosa  sia la  virtù,  risponde  quale  sia  la  virtù  dell'uomo,  quale  della donna,  quale  del  fanciullo,  quale  del  vecchio,  ecc.,  So- '  crate  dice  che,  cercando  una  virtù,  ha  trovato  presso  di lui  uno  sciame  di  virtù,  e  a  17  a,  lo  esorta  a  lasciare  la virtù  intera  e  sana,  e  a  cessare  di  fare  di  uno  molti.  In questi  luoghi  il  molti  rappresenta  le  Specie  rispetto  al  Ge- nere :  ma  altrove  rappresenta  gl'individui,  le  cose,  ri- spetto air  Idea.  Così  nella  Rep.  507  a-b  :  «  Diciamo  che vi  hanno  molti  belli  e  molti  buoni  e  similmente  ogni  al- tra dosa,  e  li  distinguiamo  col  discorso  ;  e  poi  il  bello stesso  e  il  buono  stesso,  e  cosi  tutti  quelli  che  poneva- mo come  molti,  di  nuovo  ponendo  secondo  un'Idea  unica di  ciascuno,  come  unica,  chiamiamo  cÌ9SCuno  ciò  che  è; e  quelli  diciamo  vedersi,  ma  non  intendersi,  le  Idee  In-, ma  non  vedersi  ». Ora  io  domando  al  lettore  :  1®  e  chiaro  o  no  che  nei luoghi  citati  l'uno  è  identificato  coi  molli,  e  i  molti  con l'uno?  che  i  molti  sono  riguardati,  non  come  un'altra cosa  dall'uno,  ma  come  l'uno  stesso,  e  l'uno  non  come un'altra  cosa  dai  molti,  ma  come  i  molti  stessi?  che  l'uno e  i  molti  sono,  non  due   cose   completamente    diflTerentl e  separate,  da  una  parte  l'uno,  da  un'altra  parte  i  molti, ma  una  sola  e  stessa  cosa,  che  si  considera  sotto  due  a- spetti  differenti,  ora  come  uno,  ora  come  molti  ?  2^  è chiaro  o  no  che  quest'uno  e  questi  molti  sono  l'Idea  e le  cose,  ovvero  l'Idea  generica  e  le  Idee  specifiche  ?  3<>  é chiaro  che,  questi  due  punti  ammessi,  ne  risulta  un  terzo, cioè  che  l'Idea  e  le  cose,  l'Idea  generica  e  le  Idee  spe- cifiche, sono  una  sola  e  stessa  realtà  considerata  sotto  due aspetti  differenti,  e  non  due  realtà  completamente  dif- ferenti e  separate?  Ora  se  le  Idee  platoniche  sono  im- manenti, so  esse  sono  gli  universali  nel  senso  rigoroso della  parola,  cioè  i  concetti  generici  e  specifici,  rea- lizzati,  ma  nelle  cose  stesse;  è  questo  appunto  che deve  avvenire  :  che  V  Idea  generica,  quantunque  di- stinta dalle  Idee  specifiche,  e  sussistente  per  se  stessa, deve  identificarsi  nondimeno  con  queste  Idee  specifiche, cioè  con  la  loro  totalità,  e  l'Idea  specifica,  quantunque distinta  dagli  indivìdui,  deve  non  pertanto  identificarsi eon  la  totalità  degli  individui;  perchè,  come  abbiamo detto,  l'universale  e  il  particolare,  l'astratto  e  il  concreto (o,  più  generalmente,  il  più  astratto  e  il  più  concreto)  non possono  essere,  anche  nel  s' stema  realista,  che  una  cosa stessa  a  gradi  differenti  di  determinazione  —  gradi  diffe- renti di  determinazione  chp,  per  noi,  non  sono  che  delle vedute  mentali  diffcrerti  Fotto  cui  il  medesimo  oggetto viene  considerato,  ma  che  il  metafisico  realista,  con  quella confusione  sistematica  tra  l'obbiettivo  e  il  subbiettivo  che è  il  carattere  proprio  di  questa  forma  di  metafisica,  tra- sporta nell'oggetto  stesso,  e  ne  fa  degli  stati  differenti,  dei momenti  diversi  di  sviluppo  (non  successivi,  ma  simulta- nei) di  un  solo  e  stesso  essere—.  L'identificazione  dell'uno coi  molti,  risultante  dalla  inevitabile  identità  fra  l'astratto e  il  concreto  (cioè  fra  il  più  astratto  e  il  più  concreto) tiene  nel  sistema  platonico  un  posto  più  cospicuo  che  ne- -«  39 gli  altri  sistemi  analoghi,  per  Ti u. portanza  supn^ma  che la  dialettica  platonica  dà  alla  relazione  tra  i  generi  e  le specie;  ma  è  evidente  ohe  questa  identificazione  ha  luogo in  tutti  i  sistemi  realisti.  L'Idea  deiressere, p.  e.,  non  si identifica,  per  Hegel,  con  tutte  le  altre  Idre,  le  quali  non sono  che  l'Essere  primitivo,  che  riceve  successivamente nuovi  gradi  di  determinazione?  e  ciascuna  di  queste  Idee, una  in  s=»>  stessa,  non  apparisce  in  finiti  nello  spazio  e  nel tempo  ?  Quest'Essere  è  dunque,  cooie  V  Essere  di  Pla- tone, uno,  molti,  rd  infiniti  allo  stesso  tempo.  Ma  questa conseguenza  inevitabile  del  realismo  non  ha  luogo  che quando  lo  astrazioni  obbieitivate  dal  realista  si  suppon- gono nelle  cose  stesse  —  supposizione  che  d'altronde  fanno tutti  i  realisti;  il  proprio  d^'ll'interpretazione  trascenden- talista, cioè  di  questa  forma  dell'interpretazione  trascen- dentalista che  vede  nelle  Idee  platoniche  tutt' altra  cosa che  i  pensieri  della  divinità,  è  di  attribuire  a  Platone  una dottrina  che  non  trova  riscontro  in  alcun'  altra  dottrina conosciuta—  ;  se  le  Idee  platoniche  non  fossero  che  gli archetipi  delle  cose  fuori  delle  cose,  e  le  Idee  generiche che  gli  archetipi  delle  Idee  specifiche,  egualmente  se- parati da  queste,  il  rapporto  tra  le  Idee  e  le  cose,  tra le  Idee  generiche  e  le  specifiche,  sarebbe  esclusivamen- te un  rapporto  di  differenza,  e  non  questo  rapporto  am- biguo,  di  differenza  al  tempo  stesso  e  d'identità,  che 1  filosofi  realisti  sono  obbligati  di  supporre  tra  l'astratto e  il  concreto  —  o  più  propriamente  tra  il  più  astratto  e il  più  concreto  —,  appunto  perchè  i  loro  astratti  non  sono fuori  dei  concreti,  ma  i  concreti  stessi  guardati  dal  punto di  vista  dall'astrazione.  Evidentemente,  Platone  trascen- dentalista avrebbe  calunniata  la  sua  dottrina,  facendone uscire  la  conseguenza  —  ch'egli  si  contenta  di  chiamare strana,  ma  che  è  in  verità  inconcepibile  e  contradditto- ria —  che  l'uno  é  molti  e  i  molti  sono  uno  :  questo  corol- )| il lario  del  sistema  platonico  è  cosi  chiaramente  connesso con  l'immanenza  delle  Idee,  che  l'interprete  trascenden- talista potrebbe  a  buon  dritto  farne  una  delle  più  forti obbiezioni  contro  Tintei pi etazione  delle  Idee  come  imma- nenti, Sii  Platone  ravesse  dissimulato,  invece  di  proclamar- lo arditamente,  come  ha  fatto,  sventuratamente  per  Tin- terpretadone  trascendentalista. L'identità  tra  i  molti  e  l'uno  suppone  l'assorbimento dei  molti  nell'uno,  cioè  delle  cose  nell'Idea,  e  delle  Idee specifiche  neir  Idea  generica.  Diie  che  tutti  gli  animali sono  l'Animale,  e  che  l'Animale  è  tutti  gli  animali,  è  ri- solvere tutti  gli  esseri  animati  in  un'essenza  unica,  l'A- nimale. Óra  siccome  tutte  le  Idee  sono,  secondo  Platone, subordinate  ad  un'  Idea  suprema,  la  più  universale  di tutte,  che  tutte  le  abbraccia  nella  sua  universalità,  ed  é l'elSoc  di  tutti  gli  sI5y],  l'Idea  di  tutte  le  Idee,  ne  segue che  tutte  le  Idee,  e  quindi  tutte  le  cose,  si  risolvono  in  que- sta essenza  univcrsalissima,  che  Platone  chiama  il  Buono, l'Essere,  l'Uno,  ecc.  Quest'Idea  è,  come  dee  Schelling  del suo  Assoluto,  l'universo  concentrato  in  un  punto  :  il  mondo delle  Idee  e  delle  cose  non  sono  che  il  Buono  o  l'P^ssere  allo stato  esplicito,  e  il  Buono  o  l'Essere  è  il  mondo  delle  Idee  e delle  cose  allo  staio  implicito,  È  a  questa  dottrina  della  ri- soluzione del  tutto  in  una  Unità  suprema,  che  t^i  riferisce questa  indicazione  d'Aristotile  in  Met,  1. 1,  IX,  24:  «  E,  ciò che  sembra  facile,  dimostrareche  tutto  èuno,  non  riesce:poi- che  dall'astrazione  (exesaic;)  non  risulta  che  tutti  sono  uno, ma  risulta  semplicemente  qualche  cosa  in  sé  (qualche  Idea) una,  se  pure  si  concedono  tutte  le  loro  supposizioni:  ma nemmeno  ciò,  se  non  si  concede  che  ogni  universale  è genere;  ora  questo  per  alcuni  universali  è  impossibile». Aristotile  fa  qui  alla  proposizione  di  Platone  due  obbie- zioni: una  (è  la  seconda)  che  Platone  non  ha  il  dritto  di htabilire  un'Idea  unica  comune  per  tutto  le  cose  di  cui  si 40  - predica  Tessere  o  Timo,  perchè  queste  cose,  quaatunquo loro  si  applichi  lo  stesso  nome,  non  costituiscono  un  ge- nere ;  e  l'altra  (la  prima)  che,  ancorché  si  fosse  autoriz- zati a  stabilire  un'Idea  unica  comune  per  tutte  le   cose di  cui  si  predica  Tessere  o  l'uno  -  cioè  per  tutte  le  cose, perchè  di  tutte  si  predica  l'essere  e  l'uno-, ne  segui- rebbe semplicemente  che  vi  ha  un'Idea  dell'essere  o  del- l'uno, ma  non  che  tutte  le  cose  si  risolvono  in  una  cosa unica,  l'Essere  o  l'Uno.  Facendo  quest'ultima  obbiezione, Aristotile  dimentica  la  dottrina  del  Filebo,  ciò  che  in  lui non  é  sorprendente,  perchè  tutta  la  sua  interpretazione del  platonismo  tende  ad  esagerare  il  rapporto   di  diffe- renza tra  le  Idee  e  le  cose  (e  tra  le  Idee  generiche  e  spe- cifiche)  a  scapito  di  quello  ^'identità:  ma,  qualunque  sia il  valore  delle  obbii^zioni  d'Arist'^tile,  ciò  che  risulta  in- contestabilmente dal   luogo  citato,  è  che  Platone  tirava dal  sistema  delle  Idee  la   conseguenza  che  tutto  è  uno. Ora  questo  monismo  sarebbe  inconcepibile,  se  le  Idee  fos- sero separate  d«lle  coso,  e  le  une  dalle  altre:  in  questo caso  il  mondo  ideale  sarebbe,  non  un'unità  multipla,  ma una  moltiplicità  senza  unità;  e  s-,  p-r  un'inconseguenzasi  ammettesse  che  le  Idee,  pur  essmdo  fuori  delle  cose, Pi  riducono  all'unità  in  un'Idea  suprema,  questa  suppo- sizione non  basterebbe  ancora  a  rendere  conto  della  pro- posizione platonica  riferitaci  da  Aristotile,  perchè  ciò  che é  affermato  da  questa  proposizione  è  che  tutto  è  uno,  e non  semplicemente  che  tutte  le  Idee  sono  uno. Su  qu'^sto  concetto  di  una  Unità  suprema  che  contiene virtualmente  il  tutto,  rimandiamo  a  ciò  ch'^  abbiamo  detto parlando  della  dialettica  platonica. VI.  Per  indicare  il  rapporto  tra  V  attributo  e  il  sog- getto,' noi  diciamo  che  l'attributo  è  nel  soggetto,  e  che il  soggetto  ha  l'attributo.  Questi  termini  e  i  loro  sinoni- mi sono  in  un  certo  modo  dei  traslati,  come  tutti  quelU esprimenti    delle   coucez'oni   astratte,   i  quali  primitiva- ra»»nte  non  significano  che  delle  idee  più  concrete,   ma che  hanno  con  queste  concezioni  astratte  una  certa  ana- logia su  cui  è  fondato  il  passaggio  dall'uno  all'altro  dei due  significati.  Nel  nostro  caso,  questo  significato  primi- tivo e  più  concreto  è,  per  i  termini  che  indicano  il  rap- porto dell'attributo  al  soggetto,  la  presenza  locale,  e  per quelli  che  indicano  il  rapporto  del  soggetto  all'attributo, il  possesso.  Nel  sistema  realista,  in  cui  gli  attributi  ven- gono considerati  come  sostanze,  inesistenti  nei  soggetti, ma  avc^iti,  in  essi,  uu'esistenza  propria  e  distinta,  que- ht'analogia  tra  il  significato  primitivo  e  più  concreto  dei termini  indicanti  il  rapporto  tra  il  soggetto  e  l'attributo, o  il  significato  nuovo  e  più  astratto  in  cui  vengono  ap- plicata, è  naturalmente  più  grande.  Pf  r  conseguenza  Pla- tone, per  indicare  il  rapporto  tra  le  Idee  e  le  cose,  pre- ferisce, fra  i  termini  che  esprimono  il  rapporto  tra  il  sog- getto e  l'attributo,  quelli  che,  anche  usati  in  questo  nuovo significato,  suggeriscono  più  vivamente  le  idee  dtl  loro sif^nifica  o  primitivo,  vale  a  dire  della  presenza  locale  e del  possesso.  Di  pin,  il   possesso   dell'attributo  essendo, nel  sistema  realista,  comune  a  molti  soggetti,  noi  possia- mo attenderci  a  priori  che,  per  indicare  il  rapporto  delle cose  alle  Idee,  cioè  dei  soggetti  agli  Attributi,  verrà  data la  preferenza  a  quei  termini  che  esprimono,  non  solo  il possasso,  ma  la  comunanza  nel  possesso.  Di  là,  nel  pla- tonismo, i  termini  tecnici  presenza,  esser  presente  {t^^^o^ò- qìol,  Tiapslvat  e  sinonimi),  per  indicare  la  relazione  delle I  ieo  alle  cose,  e  partecipare,  partecipazione  ([isiéxe^v,  {is- xaXaji^àveiv,  ototvwveiv,  ecc.,  e  i  nomi  corrispondenti  iiéOsgi?, jisTàXY]'|t€,  xoivo)v{a,  ecc.  )  per  indicare  la  relaz^'one   delle cos^  alle  Idee.  Naturalmente  questi  termini  non  sono  i  soli che  Platone  impieghi  per  denotare  il  rapporto  tra  le  Idee e  le  cose:  degli  altri,  alcuni  esprimono  il  concetto  della immanenza  d'una  maDiera  anche  più  energica.  L'aso  di tutti  questi  termini  (parusìa,  partecipazione  e  gli  altri) è  cosi  naturale  neiripot'^si  dt^H'imnaanenza  delle  Idee,  e diviene  si  imbarazzante  in  quella  della  trascendenza,  che basterebbe  di  enunciarli  per  provare  la  prima  delle  due ipotesi  :  .ma  siccome  il  soggetto  è  stato  molto  discusso,  e le  lunghe  discussioni  hanno  per  risultato  di  spargere  dei dubbi  sulle  cose  più  chiare,  così  noi  siamo  obbligati  ad un'esposizione  più  minuziosa,  per  il  comodo  della  qua'c li  divideremo  in  due  gruppi,  riunendo  gli  altri  attorno  ai due  termini  tipici  parusia  e  partecipazione. Quando  Platone  dice  che  gli  oggetti  sono  bianchi  per la  presenza  (jiapoooCa),  in  issi,  della  bianchezza,  belli per  la  presenza  della  bellezza,  ecc.,  chi  vorrà  negare che  l'idea  che  ci  suggerisce  immediatamente  la  parola presenza,  sia  la  presenza  dell'attributo  nel  soggetto?  Noi saremmo  autorizzati  a  cercare  un  altro  significato,  so  ciò che  si  dice  essere  presente  non  fo9S3  la  bianchezza,  la bellezza,  ecc.,  in  una  parola  se  le  Idee  platoniche  fossero altra  cosa  che  degli  attributi  realizzati.  Se  si  trattasse p.  e.  delle  divinità  delle  specie  di  alcuni  popoli  selvaggi, a  cui  il  Tylor  ed  altri  paragonano  le  Idee  platoniche  (1), ch'essi  intendono,  alla  maniera  tradizionale,  come  degli archetipi,  noi  dovremmo  intenderò  per  la  parola  paru-ia la  dimora  di  uno  spirito  feticcio  in  un  oggetto;  p.  e.,  una cosa  ò  bella  per  la  presenza  dell'Idea  del  bello,  signifi- cherebbe allora  che  essa  e  bella  perchè  è  posseduta  dallo spirito  che  presiede  alla  specie  delle  cose  bello.  Ma  l'Idea del  bello  essendo,  non  uno  spirito  feticcio,  nò  una  divi- nità, né  una  forza,  ne  alcun  altro  degli  agenti  iperfisiei (1)  V.  Tylor  La  civilizzai,  primit.  U  2,  o.  XV,  suUa  Uno, che  sono  stati  riguardaci  come  cause  efficienti  dei  feno- meni, ma  l'attributo  bell'azza,  considerato  come  un'entità reale,  è  ragionevole  cercare  alla  proposizione  un  altro  si- gnificato che  questo  si  ovvio,  che  la  cosa  è  bella  perchè inerisce  in  essa  l'attributo  Bellezza  ?  Alcun  interprete  tra- scendentalista non  ha  mai  detto,  per  quel  che  io  sappia,- d'una  maniera  precisa  quale  sia  il  significato  della  pa- rola parusia  Fecondo  questa  interpretazione:  mail  para- irone  del  Tvlor  ci  sugr^ensce  Tunica  soluzione  che  l'in- terprete  trascentaMsta  possa  dare  al  problema  (problema nell'ipotesi  della  trascendenza)  della   parusia   platonica. Le  Idi  e  di  Platone,  potrebbe  dirsi,  sono  presenti   nelle cose  come  noi  diciamo  che  Do  è  presente  nel  mondo:  la parola  presenza,  trattandosi  di  un   oggetto  inesteso  che non  è  nello  spazio,  non  potrebbe  avere  alcuna  significa- z'one  precisa;  essa  indica  semplicemente  una  vaga  assi- milazione, che  si  lenta  di  fare,  del  rapporto  tra  due  og- getti, che  si  suppongono  tra  di   loro  nella   relazione  di causa  e  di  effetto,  di  agente  e  di  paziente,   a  quel  rap- porto locale,  che  solo  può  far  comprendere  la  possibilità dell'azione  di  una  cosa  su  di  un'altra,  lo  spirito  uma^o avendo  sempre  trovato  inconcc|»ibile  che  una  cosa  agisca dove  essa  non  è. Per  quanto  questa  interpretaz'one  della  parusia  pla- tonica s'a  intrinsecamente  inverisimile— e  in  effetto  l'at- titudine di  un  modello,  qual  è  l'Idea  nell'interpretazione trascendentalista,  a  produrre  delle  copie,  è  altrettanto inconcepibile  nell'ipotesi  d'  un'  azione  a  contatto  quanto in  quella  d'un'azione  a  distanza-,  sicché  Platone  avrebbe senza  alcun  profitto  complicato  il  suo  sistema'  d'uù'ipo- tesi  tanto  onerosa  che  introduce  nel  sistema  delle  Idee trascendenti  quella  stessa  esistenza  simultanea  dell'uno nei  molti,  che  è  la  più  grave  difficolta  del  sistema  delle Idee  immanenti— pure  è  tutto  quello,  io  credo,  che  IMn- —  42 terprete  trascendentalista  può  dire  per  rendere  conto  dei- Fuso  che  Platone  fa  del  termine  parusia  e  degli  altri dello  stesso  ordine.  Per  conseguenza,  è  in  questi  ter- mini che  io  proporrò  la  questione  delT  interpretazione della  parusia  platonica  :  la  presenza  delle  Idee  nelle cose  è  la  presenza  dell'attributo  nel  soggetto,  o  è  una presenza  quasi  locale,  per  cui  le  Idee,  separate  dalle cose,  quantunque  non  siano  in  alcun  luogo,  pure  si trovano  in  un  certo  tnodo  dove  sono  le  cose  {non  in  loco sed  ubi,  come  dicevano  gli  scolastici  dell'ani  ma),  d'  una maniera  che,  del  resto,  è  impossibile  di  dire  con  più precisione  ?  Tra  le  due  interpretaziooi  il  lettore  potrà giudicare  dagli  esempi  seguenti., Ipp.  Magy.  289  d:  **  Il  bello  atesso,  di  cui  tutti  gli altri  belli  (le  cose  belle)  sono  orna/i  (xoojxerxat.),  e  appaiono belli,  tulle  le  volte  che  è  pre/jen/e  (irpooYévrjxai)  quella  spe- cie » (Le  cose  belle   potrebbero  essere   ornate   di  un bello,  che  non  è  una  loro  proprietà?  Intanto  questo  bello di  cui  si  cerca  la  definizione  è  certamente  Tldea  del bello.  Cfr.  n.  IV.)  Ib.  294  a  :  «  Il  convenicnle  (per  cui  si è  propo-ito  di  definire  il  bello),  diremo  che  è  ciò  che, essendo  presente  (uapaYsvójisvov),  fa  parer  bello  ciascuno degli  oggetti  a  cui  è  presente  (^lap^),  o  ciò  che  lo  ia  es- sere bello  ? Se  il  conveniente  fa  parere  le  cose  più belle  di  quel  che  sono,  il  conveniente  è  una  sorta  d' in- ganno intorno  al  bello,  è  non  è  ciò  che  noi  cerchiamo  (1). Poiché  noi  cerchiamo  ciò  per  cui  tuttci  le  cose  belle sono  belle,  come  è  per  Teccesso  che  tutte  le  erse  grandi sono  grandi  :  per  esso  infatti  tutte  sono  grandi,  e,  quan- d'anche non  sembrino  tali,  purché  eccedano,  é  necessario che  siano  grandi  »  (1)  Ippia  dice  (294  e.)  «  Ma  il  con- conveniente, o  Socrate,  fa  le  cose  ed  essere  e  parer  belle, quando  è  presente  (iiapóv)  »;  a  cui  Socrate  :  «  E  dunque impossibile  che  le  cose  realmente  belle  non  sembrino belle,  essendo  presente  (Trapóvxog)  ciò  che  le  fa  parere tali  »  (2j. Parmen  :  149  e  :  ♦  Se  o  TUno  avesse  piccolezza  e  le altre  cose  grandezza,  o  TUno  grandezza  e  le  altre  cose piccolezza,  quella  delle  due  specie  a  cui  fosse  presente (irpoaefY])  la  grandezza  non  sarebbe  maggiore,  quella,  a cui  la  piccolezza,  minore  ?  -Necessariamente— Sono  dun- que queste  due  specie,  la  grandezza  e  la  piccolezza  ?  se infatti  non  fossero,  non  sarebbero  contrarie  fra  di  loro, e  non  inerir ehhei  o  (lYYtY^o£o0'r]v)  negli  esseri.  »  (Il  seguita mostra  più  chiaramente  ancora  che  la  grandezza  e  la piccolezza  di  cui  si  tratta  sono  delle  Idee,  delle  astra-^ zlonì  realizzate).  Filebo  60  e.  t  La  «yùat^  del  bene  in  ciò. d  fferisce  dalle  altre,  che  chiunque  dei  viventi  a  cui  è presente  (Tiaps^Yj)  sempre,  in  tutto  ed  assolutamente,  non ha  più  bisogno  di  niente  altro,  ed  ha   tutto  ciò  che  gli (1)  QujBsto  oonYeniente  è  pure  uà' entità  trascendente  ?  ma  chia- mandolo un  inganno,  Socrate  suppone  evidentemente  eh'  es-io  en- tra nella  sfera  delle  nostre  percezioni. (1)  Quest'eccesso  è  anch'esso  un'entità  trascendente?  dovrebbe esserlo  se  il  bello  lo  è,  poiché  Socrate  dice  che  le  cose  grandi  sono grandi  per  l'eccesso,  come  le  cosa  belle  sono  belle  per  il  bello.  In- tanto qui  è  evidente  che  la  proposizione:  le  cose  grandi  sono  grandi per  l'eccesso,  significa  puramente  e  semplicemente  ch'esse  souq tali  perchè  eccedono. (2)  Ippia,  ch3  non  sa  niente  dalla  teoria  delie  Idee,  può  iiit^ix- dere  altro  per  la  presenta  del  conveniente  che  la  presenza  di  un attributo  nel  soggetto?  anche  Socrate  quindi  deve  intendere  la  stes- sa cosa,  se  tra  i  due  interlocutori  non  vi  ha  un  equivoco. —  43 basta  perfettamente  »  (1)  Rep.  437  d-e  :  «  Socr.  :  La  séte, in  quanto  è  sete,  non  è  Tappetito,  neiranima,  di  qual- che cosa  di  più  che  ciò  che  noi  diciamo  (cioè  la  bevanda); non  è,  p.  e.,  l'appetito  di  una  bevanda  calda  o  fredda, molta  o  poca,  in  una  parola  di  qualche  bevanda  deter- minata; ma  se  alla  sete  si    aggiunge    (npooi)    il   calore, apporterà  di  più  l'appetito  del  freddo,  se  si  aggiunge  il freddo,  del  caldo;  e  se  per   la   presenza   (jiapotiaCav)    del molto  la  sete  è  molta,  apporf^rà  l'appetito  del  molto,  se è<  poca,  del  poco  ;  ma  la  sete  stessa  non  é  Tappetito  di altro  che  di  ciò  di  cui  lo  è  per  sua  natura,  vale  a  dire della  bevanda  stessa  ;  e  cosi  la  fame  del  cibo.  —  Cosi  è, disse  Glaucone;  ciascun  appetito  in  se  stesso  é  V  appe- tito  solamente   dell'  oggetto  per  se  stesso  a  cui   esso  si riferisce  per  sua  natura;  Tesserlo  di  un  tal    oggetto    o tal  altro  oggetto  determinato  sono  dell.3  cose  che  si  ag- giungono. »  (2)  Carmide  159  a  :  «  É,  chiaro  che  se  in  te è  presente  (napsoit)  la  temperanza,  tu  hai  di  che  formarti un'opinione  intorno  ad  essa.  È  necessario  infatti  che  ine- rendo (IvoOaav)  essa  apporterà,  s'è  vero  che  inerisce  (Iveotiv), qualche  sentimento  di  se    stessa,  da  cu!  ti  verrà   un'o- (3)  Il  bene,  di  cui  si  tralt»  nel  Fileho,  è  incontestabilmente  una Idea,  un  concetto  realizzato,  come  si  vede,  p.  e.,  a  66  a,  in  cui  è chiamato  il  primo  bene  (denominazione  per  cui  si  designa  l'Idea- V.  Arist.  fra  gli  altri,  Klh.  End.  1.  I,  VIII),  e  gli  è  assegnata  una  na- tura  eterna  (ciò  che  è  il  carattere  distintivo  delle  Idee).  Si  negherà che  la  cptiatg  del  bene,  di  cui  si  parla  a  60  e,  sia  la  stessa  cosa  che n  primo  bene,  di  cui  si  parla  a  66  a  ?  Ma  perchè  ?  Il  primo  bene, l'Idea,  non  può  essere  che  ciò  che  corrisponde  al  concetto,  cioè  ap- punto la  cpóoi^  del  bene. (2)  Questo  molto  di  cui  vi  ha  la  parasia  nella  sete  è  dunque  una nuova  circostanza,  come  il  caldo  e  il  freddo,  non  compresa  nel  con- cetto di  sete,  e  che  si  aggiunge  alla  sete  considerata  secondo  il  con- oetto,  cioè  in  astratto,  come  una  differenza. pinione  su  ctó  che  sia  e  quale  sia  la  temperanza.  Non lo  credi  ?  -Lo  credo—  E  avendone  un'  opinione,  polche «ai  parlare  greco,  potrai  dire  ciò  che  essa  ti  sembra.  - Forse-Dieci  dunque  che  cosa  sia,  secondo  la  tua  opi- nione, la  temperanza,  affinchè  possiamo  congetturarne  se essa  inerisce  (Ivsaxiv)  in  te  o  no.»  (Questa  temperanza  è l'oggetto  a  cui  si  riferisce  la  definizione,  per  conseguenza l'Idea  della  temperanza). Usis  217    c-e  :  «  Alcune  cese  dico  essere  tali  quale è  ciò  che  è  ad  esse  presente  (tò  Tiapóv),  alcune  altre  no. Così  fc  un  oggetio  si  tinge  d'  un   certo  colore,  é  presente (««psoxO,  mi  sembra,  a  ciò  che  si  è  tinto  ciò  con  cai  s. è  tinto.-È  present«-Ma  ciò  che  si  ò  tinto  è  al  ora  dello stesso  colore  di  cui  è  ciò  che  gl'inerisce  (tò  itióv)  ì  -  Non comprendo- Co.ì  forse  comprenderai.  Se  i  tuoi   capelli, che  sono  biondi,  si  tingessero  con  la  biacca,   sarebbero bianchi,  o  piuttosto  lo  sembrerebbero  ?- Lo  sembrereb- bero-Eppure  sarebbe  presente  (uapsCv))  in   essi   la  bian- chezza --Sì  -  Con  tutto  ciò  non  sarebbero  più  bianchi  di prima,  presente  (^«poùarif)  la  bianchezza   non  sarebbero L  bianchi  nò  ner.-È  vero  -  Ma  quando,  o  amico,  la wcdlia  apporterà  questo  .tesso  colore,  allora  saranno tali  quale  è,  ciò  che  sarà  presente  (.6  u«p6v),  bianchi  per la  presenza  (^apouo(«)  del  bianco.  -E  come   «oj-^^» questo  io  ti  domando  :  ciò  a  cuiépre«en/e(u«p,)  qualche 2oHa   ^  sempre  tale  ..naie  è  la  cosa  che  e  presente  {^o r.apó'v)  ?  ovvero  lo  è,  se  questa  cosa  è  presente  (««p,)  in „n  certo  modo,  se  no,  no  ?-Così  P-"-^«'  f--,^^^^' Platone  distingue  la  parusia  in  due  specie,  d.  cu   luna,a    più    intima,  è  evidentemente   l' inerenza    del    at  ri buto  nel   soggetto.  Ora  è  questa  sola   specie  d.  paru sUche  readrciò  a  cui  una  cosa  è  presente   tale  quale èquesta  cosa  :  così  è  questa   la  specie  di   parusia  che compete  all' Idea,  perchè  la  parusia  dell'Idea  rende  le cose  tali  quale  è  l'Idea). -44- Naturalmente  V  interprete   trascendentalista    dirà   al suo  solito   che   in  alcuni   dei   luoghi  precedenti  o  forse anche  in   tutti   Platone   non   parla  delle  Idee.    Ma  per- chè,  se  è  un   principio   platonico   che  il  concetto  gene- rale si   riferisce   all'  Idea  ?   A  questo  perchè   egli   non potrebbe   dare  che   una   «ola  risposta  :   che  nei  casi  in cui   evidentemente   si   tratta   d'nna   realtà    immanente, noi   non   possiamo   ammettere   che   Platone   parli   delle Idee,  perchè  un'Idea  platonica  non  pnò  essere  che  un'en- tità trascendente.    Ma   non   è    questo  un   mettersi    al  di fuori  di  ogni  discussione,  e  sostituire  alle  prove  il  pro- prio capriccio  ?  Sì  può   sfidare   V  interprete  trascenden- talista a  separare  nettamente  i  casi  in  cui  Platone  parla delle  Idee  e  quelli  in  cui   no -tutte  le  volte,  s'intende, in  cui  si  tratta  d'un  concetto  generale — ;  a  dirci,  limitan- doci alla  quistione  presente,  per  esempio,  come  noi  pos- siamo distinguere  i  casi,  in  cui  la  parusia  significa  l'i- nerenza deirattributo  nel  soggetto,  da  quelli,   in  cui  si- gnifica non  si  sa  qual  rapporto  misterioso  tra  un'entità trascendente  e  un  oggetto  della  natura.    L' impossibilità di  fare  questa  distinzione  dovrebbe  renderlo  accorto  che il  significato  di  questo  tei  mine  non  può  in  un  caso  dif- ferire sostanzialmente  da  quello  che   chiaramente   ha  in un  altro. Gli  esempi  seguenti  —  come  anche  in  parte  alcuno  del precedenti,  segnatamente  il  penultimo  —  si  riferiscono, nott  ai  termini  7iapo'jo(a,  uapsivai  ed  equivalenti,  ma  ad altri  analoghi,  che  esprimono  l'inerenza  delle  Idee  nelle cose  d'una  maniera  anche  più  ch'ara. Cratilo  389  b  (subito  dopo  aver  detto  che,  se  si  rompe la  spola,  il  fabbro  guarderà,  per  farne  un'altra,  non  alla spola  rotta,  ma  all'sISo?,  a  ciò  che  è  spola):  '*  Quando si  tratta  di  fabbricare  delle  spole  per  delle  stoffe  fine  o grossolane  di  filo  o  di  lana  o  di  qualaiasi  altro  genere, non  è  necessario  che  tutte  abbiano  (l/s^v)  V  si8o^    della spola?  „ Eutrif.  5  d  :  '*  Che  cosa  dici  essere  il  santo  e  l'em- pio nell'omicidio  e  in  ogni  altra  azione?  non  è  lo  stesso il  santo  in  tutte  le  azioni  ?  e  V  empio,  il  contrario  del santo  ?  non  è  lo  stesso  e  simile  e  avente  (Ixov)  un'Idea unica,  secondo  l'empietà,  tutto  ciò  che  è  empio?  „ Menone  12  e:  **  Le  virtù,  quantunque  molte  e  dì- verse,  hanno  {Ix^'^^^)  tutte  un  certo  elòoq,  lo  stesso  per  cui sono  virtù,  al  quale  bisogna  guardare  per  rispondere  alla domanda  :  che  cosa  è  la  virtù?,,(!). Filebo  65  :  **  Non  potendo  prendere  il  bene  in  un'Idea unica,  prendiamolo  in  tre  Idee,  la  beltà,  la  proporzione e  la  verità  (qui  tutti  gl'interpreti  convengono  che  si  tratta del  bene  Idea)....  Compariamo  ciascuna  di  queste  trcol  piacere  e  l'intelligenza,  e  vediamo  se  l'uno  o  Taltra ha  più  affinità  con  esse-Parli  della  beltà,  della  verità  e della  scienza?  —  Si....  Dopo  la  verià,  considera  la  mi- sura, se  il  piacere  Ia possegga  (xéxTYjtai)  più  della  sapienza o  la  sapienza  più  del  piacere  —  Anche  questa  quistione è  facile  a  risolvere  Io  penso  che  non  vi  ha  niente  di  più smisurato  che  il  piacere  e  la  gioia,  né  di  più  misurato  che l'intelligenza  e  la  scienza  —  Ottimamente.  Rispondimi  an- cora sulla  terza  cosa;  l'intelligenza  partecipa  della  beltà più  che  il  piacere,  in  modo  che  l'intelligenza  sia  più  bella del  piacere,  o  al  contrario?  (2)...  Il  piacere  non  è  dun- (1)  Qui  vi  ha  la  parusia  dell'Idea  generica  nelle  Idee  specifi- che :  ma  come  l'abbiamo  tante  volte  osservato,  il  rapporto  tra  la Idea  generica  e  le  specifiche  non  può  essere  diverso  di  quello  tra l'Idea  specifica  e  le  cose  particolari. (2)  Esser  più  bella  è  l'  effetto,  partecipare  di  più  alla  beltà  è la  causa;  ciò  prova  che  questa  è  una  partecipazione  nel  senso  tee nico,  cioè  quella  delle  cose  alle  Idee. —  45  - ■ que  né  il  primo  né  il  secondo  bene  :  ma  il  primo  bene  é circa  la  misura  e  il  misurato  e  Topportuno  e  quant^altre cose  tali  devono  credersi  aver  sortito  una  natura  eter- na....,,  (Non  è  chiaro  che  questa  misura  e  questa  beltà cheVhiteWigenzsL possiede  o  a  cui  partecipa  più  del  piacere, sono  delle  Idee?). Fedone  103  b  :  "  Allora  (nella  prima  prova  dell'  im- mortalità) si  diceva  che  dalla  cosa  contraila  viene  la  con- traria, ora  si  dice  invece  che  il  contrario  stesso  non  può mai  divenire  contrario  a  se  stesso,  né  quello  in  noi  (p.  e.  la mia  0  la  vostra  piccolezza,  la  mia  o  la  vostra  grandezza) né  quello  nella  natura  (la  piccolezza  e  la  grandezza  in generale,  cioè  le  Idee  del  piccolo  e  del  grande).  Allora, o  amico,  si  parlava  delle  cose  che  hanno  (sxóvxwv)  i  con- trari e  che  chiamiamo  cel  nome  di  questi  (1),  ora  di  que- sti stessi,  dei  quali  inerenti  (Ivóvtwv)  le  cose  prendono  il nome  con  cui  le  chiamiamo  :  è  di  questi  stessi  che  dicia- mo che  l'uno  non  può  mai  divenire  l'altro,,  (2) Ibid,  103esegg.  :  *'Vi  ha  qualche  cosa  che  chiami  Caldo e  qualche  cosa  che  chiami  Freddo  ?-C<'rtamente-E  forse un  caldo  quale  il  fuoco  e  un  freddo  quale  la  neve?— No, per  dio  !  —  Ma  un  Caldo  che  é  altra  cosa  che  il  fuoco  e un  Freddo  che  è  altra  cosa  che  la  neve?  — Si  (3)— Ora tu  ammetterai,  io  credo,  che  giammai  la  neve,  ricevuto (5ega|jiévY]v)  il  Caldo,  resterà  quale  era  prima,  ma,  venuto 0)  Cfr.  num.  IT.  caria  lo,  nota. (2)  Cosi  tanto  il  contrario  in  noi  quanto  quello  nella  natura sono  inerenti  nelle  cose,  e  il  contrario  nella  natura  non  può  ine- rire in  essa  che  nel  senso  stesso  in  cui  v'  inerisce  il  contrario in  noi,  cioè  come  un  attributo  nel  soggetto. (3)  Distingue  il  Caldo  e  il  Freddo  Idee,  che  sono  propriamente oggetti  a  cui  si  riferiscono  questi  nomi,  dalle  cose  fredde  e calde,  dai  partecipanti. (Tipootóvxoc)  ad  essa  il  Caldo,  è  necessario  che  si  sottragga o  che  perisca  —  Senza  dubbio  —  E  similmente  il  fuoco,  ve- nuto  ad  esso  il  Freddo,  deve  o  sottrarsi  o  perire,  ma  giam- mai potrà,  ricevuto  il  Freddo,  restare  ciò  che  era  prima  — È  ve.o  —  Tale  è  dunque  la  natura  di   certe   cose   come queste,  che  non  solo  l'eleoc  stesso  deve  essere  chiamato sempre  dello  stesso  nome,  ma  anche  qualche  altra  cosa, che  non  è  quello,  ma  ha  sempre,  sinché  é,  la  forma   di quello.  Ciò  che  io  dico  sarà  forse  più  chiaro  con  questo esempio:  l'Impari   (l'elSo^  stesso)  non  é   necessario  che ««bbia  sempre  lo  stesso  nome  ?  —  È  necessario  —  Ora  io  ti domando  :  è  la  sola  cosa  che  abbia  sempre  questo  nome, o  vi  ha  anche  qualche  altra  cosa,  che  senza  essere  ciò che  è  r Impari,  tuttavia  deve  sempre  chiamarci,  non  solo col  suo  proprio  nome,  ma  anche  con  quello  d'impari,  per- ché tale  é  la  sua  natura  che  non  può  mai  essere  abban- donata (àTioXeiTisaeat)  dall'Impari  ?  (Se  la  parus^a  dell'im- pari  non  fosse  quella  dell'attributo  nel  soggetto,  il  non essere  mai  abbandonata  dall'Impari  sarebbe  una  ragione per  chiamare  sempre  una  cosa  col  nome  dell'Impari  ?)  Per esempio,  la  triade  non  deve  sempre  chiamarsi  e  col  suo proprio  nome  e  cen  quello  dell'Impari,  quantunque  que- sto non  sia  la  stessa  cosa  che  la  triade?  ma  tale  é  tut- tavia la  natura  e  della  trirde  e  della  pentaic  e  della  metà di  tutti  i  numeri,  che  ciascuno,  quantunque  non  s'a  ciò cheè  l'Impari,  é  nondimeno  sempre  impari  U).-.  Ecco  dun- que c^ò  che  io  voglio  dimostrare  :  che  non  solo  i  contrari non  si  ricevono  (où  dsxóiisva)  fra  di  loro,  ma  ancora  tutte quelle  erse  che,  senza   essere  reciprocamente   contrarie, (6)  Queste  ultime  parole  spiegano  ciò  che  vuol  dire   non  easere fnai  abbandonata  dall'Impari, hanno  (Ixsi)  sempre  i  contrari,  non  ricevono  mai  quella Idea  che  è  contraria  a  quella  che  è  in  esse  (èv  aùxor;  o5oib); ma  venendo  (èTrioùoYj^)  questa,  o  periscono  o  si    sottrag- gono. I  tre,  per  esempio,  non  diremo  noi  che  periranno 0  accadrà  loro  checchesia,  avanti  di  divenire  pari,  men- tre sono  tre?  (L'esempio  spiega   che  una  cosa  ricevere ridea  contraria  a  quella  che  è  in  essa,  significa  :  questa cosa  acquistare  V  attributo   contrario  a   quello   che  ha). Non  solo  dunque   le    Specie  contrarie  non  soffrono  Vac- cesso   reciproco  {oùx   ÙTioiiévst  èmóvx'àXXyjXa),    ma    anche certe  altre  cose  (sia  Specie  sia  cose  particolari)  non  sof- soffrono  Vaccesso  dei  contrari  (cicè  delle  Specie  contrarle) Queste  cose  sono  quelle,  le  quali  forzano  ciò  che  occupano (xaxàax^)  ad  avere  (toxsiv),  non  solo  la  propria  Id-^ii,  ma anche  quelladi  qualche  contrario.— Come  dici  ?— Como  di- cevamo poco  fa  :  sai  infatti  che  ciò  che  occiijm  l'Idea  del tre,  è  necessario,  non  solo  che  sia  tre,  ma  anche  dìspari (L'esempio,  al  solito,  prova  che  la  p«rasia  dell'Idea  non è  che  il  possesso  dell'attributo) -Certamente— Ora  io  dico che  in  una  tal  cosa  (nell'Idea  del  tre)  non  enirenì  (sXeoimai  l'Idea  contraria  alla  forma  che  è  la  causa  di  ciò  — Giammai  —  Questa  forma  è  la  dispari  — Si  —  La  contraria ad  essa  è  quella  del  pari  —  Sì  —  Nel  Tre  dunque  non  en- trerà (^gsO  mai  l'Idea  del  pari  —  Giammai  —  Cofì  il  Tre é    privo   (àjjLoipa)   del   Pari  —  Privo  —  Dunque   e   im- pari —  Si  —  Vediamo   dunque    come    possiamo    deter- minare quali  siano  quolle    cose,  che,  quantunciue    non siano  contrarie  a  una  certa  cosa,  pure  non  ricevono  («é- Xsxai)  mai  questa;  come  la  Triade,  che,  pur  non  essendo contraria  al  Pari,  non  ricette  mai  il  Pari,  perchè  sempre apporta    (sTii^épsi)   il   contrario  di  questo;  e  la  Diade  il contrario  deHImpari,  e  il  fuoco  quello  del  Freddo,  e  cosi via  via.  Vedi  se  possiamo  determinarle  cosi:  non  soKo  il contrario  non  può  ricevere  il  contrario,  ma  ancora  quello che  apporta  qualche  contrario  alle  cose  in  cui  va  {IrJ)  non  può ricevere  il  contrario  di  quello  che  apportai!) Io  rlco mincerò  a  farli  delle  domande,  e  tu  rispondimi,  non  quello stesso  che  io  ti  domando,  ma  un'altra  crsa,  seguendo  lo esempio  che  io  ti  darò  :  io  voglio  dire  che  .  oltre  quella risposta  sicura  che  abbiamo  stabilito  in  principio  (cioè che  le  c^se  belle  sono  belle  per  il  Bello,  le  cose  grandi grandi  per  la  Grandezza,  ecc.  :—v.  100-101),  ne  vedo  una altra  che  nasce  dalle  cose  che  abbiamo  detto  ora.  Per  esem- pio, se  tu  mi  domandassi  cosa  è  che  trovandosi  in  uno oggetto  (q)  àv  zi  lYYsvr]xat)  questo  diviene  c^ldo,  io  non ti  darei  quella  risposta  sicura  ed  ignorante  che  è  il  Caldo, ma  un'altra  più  dotta,  che  segue  da  quello  che  abbiamo detto  ora,  cioè  che  è  il  fuoco.  Similmente  se  mi  doman- dassi cosa  è  che  trovandosi  nel  corpo,  questo  diviene  ma- lato, non  ti  risponderci  che  è  la  Malattia,  ma  che  è  la febbre;  e  se  mi  domandassi  cosa  è  che  trovandosi  nel  nu- mero, questo  è  impari,  non  ti  risponderei  che  è  l'Impari, ma  che  è  1'  unità  ;  e  cosi  per  le  altre   cose  (2).  Intendi (6)  Ciò  che  l'Idea  apporto  alle  cose  in  cui  ra,  è  evidentemente un  attribnto  di  queste  cose;  ma  è  anche  un'Idea,  perchè  i  conlrari in  tutto  questo  ragionamento  sono  considerati  come  delle  Idee;  per conseguenza  noi  dobbiamo  intendere  questo  apportare  (éTll^épeLv) noi  senso  più  letterale,.o  meglio  più  etimologico,  possibile,  cioè come  se  l'Idea  portasse  nelle  cose  in  cui  va  il  suo  proprio  attri- buto— quella  delle  Idee  contrarie  a  cui  essa  partecipa  -  della  stessa maniera  che  noi,  entrando  in  un  luogo,  vi  portiamo  con  noi  ciò che  teniamo  addosso.  Questo  senso  realista  della  parola  è  perfet- tamente conforme  al  carattere  delle  altre  espressioni  di  cui  Pla- tone si  serve  in  tutto  questo  luogo,  e  prova  l'identità.  -  numerica  - dell'attributo  nell'Idea  che  ajrporta  il  contrario  e  nelle  cose  in  cui lo  apporta, (2)  Questo  caldo,  questa  malattia,  questo  impari  sono  le  Idee; se  no,  rispondere  che  un  oggetto  è  caldo  per  il  caldo,  ecc.  non sarebbe  quella  risposta  ignorante  o  sicura  stabilita  nel  principio, perchè  questa  consisteva  a  spiegare  l'essere  e  il  divenire  delie  cose -  47  - I  - ciò  che  voglio  dire  ?  -  Perfettamente  -  Rispondimi  dun- que cosa  "è  che  trovandosi  (in^v^xo.  e.  «.)  in  «n  corpo, lesto  è  vivente?  -  L'anima -E  sempre  cos  ?  -  Sem- iJe-  L'anima  apporta  dunque   sempre  m  c.o  che  oc- ^  t  „vv^  la  Vita  '  -  Senza  dubbio  -  Vi  ha  un  con- cupa (xataoxiQ),  la  vita  .       ocu trario  della  Vita,  o  non  ve  ne  ha  ?  -  Vi  ha  -  Qual  è  .  La Morte -Dunque  l'anima  non  nc«,«.rà  mai  il  contrario dTò  che  eei  apporta  sempre,  secondo  il  pnnc.p.o  d, cui  sopra  siamo  convenuti  -  Senza  'l'ib^'«-^**  ^f™; abliamo  chiamato  poco  fa  ciò  che  non  può  '•'<^7;  >  1^«» del  nari  •>  -  Impari  -  E  ciò  che  non  può  ricevere  la  Morte, come  lo  chiameremo  V-Immortale  -  Ma  l'anima  non  può I"  ere  la  Morto  -  No  -  L'anima  6  dunque  immortale  > —  Immortale.  »  .     .•  e,,  fnHn  \\  poh- Bisogna  ora  fare  alcuno  osservazoni  su  tutto  U  con tPsto    La  prima  è  che  non  potrebbe  esservi  alcun  dub- K     .hH  nomi  cho  io  ho  scritti  con  la  maiuscola  o  che lo  Ire  e"u"  d  ila  parola  Idea,  non  designino  realmente r:,^::rr,n":,cu„e  den»  -o^  0  Ohe  H,e.»r„  h. nello  stesso  senso  in  cui  it  si  ^'^^  Platone,  secondo  la  quale giusta  1.  ^^^^^^-^ZTIZT^^^^^^^^'^^  ^—  ^"'^ quella  di  una  parte  nel  tutto. potuto  notare  da  se  stesso;  ma  è  dichiarato  esplicitamente dallo  stesso  Platone.  E  in  effetto  egli  fa  precedere  questa prova  dell'immortalità,  che  ritiene  la  più  rigorosa,  da  una esposizione  della  teoria  delle  Idee,  perchè  per  ottenere  una tal  prova  è  necessario,  egli  dice,  di  es-iminare  a  fondo la  causa  della  generazione  e  della  corruzione  (95  e-9G  a), 0  questa  causa  è  la  presenza  o  partecipazione  delle  Idcn e  la  loro  sottraziono  (99  d  e  ^^g^»)  ;  e  a  100  b  Socrate dice  a  Cobete  che,  se  questi  gli  accorda  Trsìstenza  delle Idee,  egli  gli  dimostrerà  che  Tanima  è  immortale.  Qual  è il  legame  tra  qu'^sta  dimostrazione  dell'immortalità  del- Tanima  e  la  teoria  delle  Idee?  E  che  questa  teoria  ap- presta la  base,  per  dir  cosi,  induttiva  al  principio  che  è il  cardine  deirargomento,  cioè  che  una  cosa  che  confe- risce sempre  un  certo  attributo  alle  co^e  che  essa  occu- pa, non  può  mai  avere  l'attributo  contrario.  Platone  fa vedere  prima  che  questo  principio  si  verifica  nel  rapporto tra  le  Idee  e  le  cose,  che  il  Tre,  p.  e.,  che  rende  sem- pre impari  tutto  ciò  che  occupa,  non  può  mai  essere  pnri  ; e  ne  conclude  per  analogia  che  il  principio  deve  pure verificarsi  nel  rapporto  tra  Tanima  e  il  corpo,  per  con- seguenza che  Tanima,  la  (juale  rende  sempre  vivente  tutto ciò  che  occupa,  non  può  m«i  morire.  Cosii  tutta  la  forza dall'argomento  sta  nell'analogia  tra  la  parusia  dell'Idea nelle  cose  e  qaella  dell'anima  nelT  ess»»re  vivente  (se- condo la  dottrina  aiiimìsta)  :  se  l'astratto  non  fosse  nel concreto  come  l'anima  è  nell'essere  animato,  vale  a  dire come  una  realtà  avente  un'esistenza  propria  e  distinta; se  il  Tre,  p.  e.,  fosse  un  semplice  attributo  delle  cose  che Hi  dicono  tre,  e  non  un  attributo  elevato  al  grado  di  realsostanziale;  1'  aoa'ogia  non  esisterebbe,  e  mancherebbe all'argomento  ogni  forza  probante.  L'argomento  suppone dunque  la  dottrina   delle   Idee  —  la    realizzazione   delle -  48  — »»i-i astrazioni  —,  e  al  t^mpo  stesso  che  le  Idee  siano  presenti nelle  rose,  come  ranima  è  presente  neiressere  animato. Qualche  dubbio  potrebbe  forse  sorgere  relativamente allo  Idee  dei  contrarli:  caldo,  freddo,  pari,  impali,  ecc. Siccome  Platone  ha  distinto  un  po'  sopra  il  contrarlo  in noi  e  il  contrario  iiella  natura,  l 'interprete  trascendenta- lista potrebbe  obbiettare  che  nel  nostro  contesto  il  caldo, il  freddo,  il  pari,  V  impari,  ecc.    corriFpondono  forse  al contrario  in  noi,  e  non  al  contrario  nella  natura,  e  che non  è  necespario  che  siano  il  caldo,  il  freddo,  il  pari,  lo impari,  ecc.  Idee.  Ma  quest'obbiezione  non  varrebbe  nien- te, perchè  per  il  contrario  in  7wi  Platone  intendeva  l'at- tributo considerato,  non  nel  suo  concetto  generale,  ma come  proprit  tà  di  una  cosa  particolare,  fenomenalmente, quantunque  non  realmente,  distinta  dalle  proprietà  omo- nime delle  altre  cose  particolari  (1)  ;  e  Pattributo  consi- derato  cosi,  cioè  individualizzato,  fenomenalizzato,  Pla- tone non  lo  considera  come   avente  una  realtà  propria e  distinta  ;  questa  non  compete  che  all'attributo  conside- rato secondo  il  concetto  generale,  all'Idea  Ora  nel  nostro luogo  il  caldo,  il  freddo,  il  pari,  Pimpari  ecc.,  designano i^conte^tabihnente  ciò  che  corrisponde  al  concetto  gene- rale, e  delle  entità  reali:   quindi  non    può   trattarsi  che del  Caldo  e  del  Freddo,  del  Pari  e  dell'Impari,  ecc.  nella natura,  vale  a  dire  delle  Idee.  In  secondo  luogo  si  deve osservare  che  tale  è  l'energia  dei  termini   designanti   la parusia  dtllo  Idee  (venire,  andare,  entrare,  occupare,  es- sere in,  ecc.  da  parte  delle  Idee,  e  da  parte  delle  cose  o delle   Idee  inferiori  overe,  ricevere,  ecc.),  e  la  compara- zione  con  la  presenza  dell'anima  nell'essere  vivente  è  tal- (1)  V.  11.  vin. mento  indispensabile  all' argomento  di  Platone,  che  se per  questa  parusia  non  si  deve  intendere  la  presenza  del- l'attributo nel  soggetto,  non  ci  resta  che  di  ammettere che  Platone  paragona  la  presenza  delle  Idee  nelle  cose a  quella  dell'anima,  non  nell'essere  animato,  ma  nel  corpo, o,  prendendo  quest'analogia  nel  senso  più  stretto,  che  le Idee  sono  presenti  nelle  cose  d'una  presenza  locale,  come l'anima  nel  corpo,  e  che  esse  sono  la  causa  della  gene- razione e  della  corruzione  entrando  nelle  cose  ed  uscen- done, precisamente  come  la  teoria  animista  suppone  che l'anima  è  la  causa  della  vita  e  della  morte  entrando  nel corpo  ed  uscendone—  la  presenza  di  Dio  nel  mondo  a cui  abbiamo  paragonato  la  parusia  delle  Idee  secondo l'interpretazione  trasccndentali^^t*»,  è  una  comparazione troppo  inadequata  alla  energia  delle  espress'oni  di  cui 8i  serve  Platone  e  al  parallelo  eoa  la  presenza  dell'ani- ma nel  corpo  —  Io  credo  che  non  vi  sìa  alcun  interprete che  voglia  dare  questo  significato  alla  parusia  platonic*», prestando  a  Platone  un  concetto,  che  oltre  a  dotare  le Idee  della  prodigiosa  facoltà,  attribuita  a  certi  santi  del cattol'cismo  e  di  ultre  rcli>:ioni,  dì  trovarsi  al  tempo  st*»>so in  molti  luoghi,  sarebbe  in  contraddizione  con  le  affer- mazioni dell'autore,  il  quale  diithiara  che  le  Idee  non sono  in  alcun  lu'^go  (l)  —  naturalmente  noi  non  possia- mo dare  alcuna  importanza  alla  frivola  distinzione  degli scolastici  non  in  loco,  sed  ubi,  perchè  queste  parole  si- gnificano semplicemente  che  l'anima  è  in  luogo  e  non lo  è  —;  ma  Fé  ve  ne  fosse  qualcuno,  bisognerebbe  fargli riflettere  che  quest'inconseguenza  di  dare  una  posizione "nello  spazio  a  ciò  che  è  immateriale,  se   si   comprende (J)  Tim,  52  b-c.  Lg  Idee  non  sono  in  alcun  luogo,  quantunque  le  co^, di  cui  sono  gii  attributi,  sono  in  un  luogo,  perciiè  l'essere  in  un  luogo non  compete  che  a  ciò  che  è  esteso. —  49  — If- quando  l'essere  immateriale  di  cui  si  tratta  è  uno  spirito, sarebbe  inanimissi  jilc  trattandosi  di  eat'tà  come  le  Idee platoniche.  Ciò  è  perchè  questo  quid,  questo  substratum sconosciuto,  che  si  chiama  sostanza  nello  spirito,  noi  non lo  concepiamo  che  sul  tipo  di  ciò  che  si  chiama  sostanza nel  covpo,  vale  a  dire  di  questa  cosa  che  persiste  nello hpazio,  della  materia;  e  tutto  ciò  che  ci  sugjferisce  di  rap- presentabile la  parola  sostanza -nel  senso  della  parola In  cui  si  dice  che  l'anima  è  una  sostanza  (l)-,nori  è  che la  sos'anza  materia,  ciò  che  riempie  lo  spaz'o;  non  è  dun- que strano  che,  anche  dopo  che  la   concezione,    affatto materialista,  dell'animismo  primitivo  è  stata  sost.tu-t  i  da concezioni    più   raffinate,  si  continui    ad  attribuire   allo sparito,  considerato  come  una  sostanza,  delle  determnia- zioni  che  non  competono  se  non  alla  materia.    Ma   Pla- tone non  potrebbe  rappresentarsi  le  Idee  come  aventi  una posizione  nello  spazio,  p-.rchè  egli  non  immagina  in  esse niente  di  analogo  a  questo  substratum,  concepito,  corno abbiamo  detto,  sul  tipo  della  materia,  che  lo  spirituali- sta immagina  nello  spirito  ;  poiché  l'Idea  platonica  non è  che  il  contenuto  del  concetto  realizzato,  l'attributo  con- siderato, nella  sua  astrazione,  come  avente  un'esistenza propria  e  distinta,  e  niente  altro  di  pivi. Si  osservi,  in  terzo  luogo,  che,  se  la  p=»ru>ia  dell'Idea non  è  l'inerenza  dell'attributo  nel  foggctto,  il  ragiona- namento  di  Platone  non  può  avere  alcuna  pretesa  a  quel- l'evidenza dimostrativa  eh»  l'autore  si  propone.  I.-i  pro- posizioni che  Platone  stabilisce  come  evidenti  per  se  stesse non  sono  tali  che  nell'ipotesi  dell'immanenza  delle  Idee. Per  esempio,  egli  stabilisce  il  principio  che  le  cose  che hanno  sempre  l'uno  di  due  attributi  contrari  non  poFsono (1)  V.  App.  al'a  parte  prima. mai  ricevere  Tldea  contraria  a  quella  che  emesse:  che p.  e.  il  fuoco,  essendo  essenzialmente  caldo,  non  può  ri- cevere l'Idea  del  freddo,  il  Tre,  essendo  dispari,  quella del  Pari,  ecc.  :  neiripotesì  àaW immanenza,  nient^.  di  più evidente  di  questo  principio,  perchè  esso  non  è  che  l'enun- ciato, in  termini  realisti,  del  principio  di  contraddizione. Ma  se  l'Idea  è  trascendente,  quale  inconseguenza— io  parlo d'un'inconseguenza  assoluta,  d'un'impossibilità  logica- vi sarebbe  a  supporre  che  in  una  cosa  possa  esservi  la parusia  dell'Idea  corrispondente  all'attributo  contrario  a quello  posseduto  da  questa  cosa?  e  perche  la  parusia  di un'Idea  sarebbe  incompatibile  con  quella  simultanea  del- l'Idea contraria,  se  queste  Idee  fossero   separate   T  una dall'altra  e  tutte  e  due  dalle  cose  a  cui  si  dicono  essere presenti?  Similmente,  quando  Socrate  dice:  '*  È  neces- trario  che  le  cose  che  occupa  l'Idea  del  tre  siano,  non  solo tre,  ma  anche  impari,„  si  potrebbe  rispondergli  :  Ma  per- chè? Perchè  le  cose  a  cui  è  presente  l'Idea  del  tre  — se questa  presenza  deve  intendersi  nel  senso  trascendenta- lista—non sarebbero  invece  quattro  e  pari?  In  effetto, neir  ipotesi    della   trascendenza,  non  vi  sarebbe  alcuna connessione  necessaria,  visibile  a  priori,  tra  la  parus'a dell'Idea  e  l'iaeronza  dell'attributo  corrispondente  a  que- st'Idea. E  della  stessa  maniera  che,  in  quest'ipotesi,  si perderebbe  1'  evidenza  delle  proposizioni  che  servono  di premesse  al  ragionamento,  si  perderebbe  egualmente  quel- la della  crnnessione  tra  una    proposizione   ed  un'  altra, perchè  questa  connessione  è  il    più    delle  volte   fondata sulla  sostituibilità  reciproca  tra  la  inerenza  dell'attributo e  la  parupia  dell'Idea  corrispondente.  Dalla  proposizione che  in  un  numero  non  vi  può  essere  la  parusia  del  Pari non  si  potrebbe  concludere  coìi  necessità  che  questo  nu- mero è  dispari  ;  dalla  proposizione  che  nell'  anima   non vi  può  essere  la  parusia  della  Morte  non  si  potrebbe  con- cludere con  necessità  che  l'anima  è  immortale,  perchè, come  abbiamo  detto,  non  vi  sarebbe  alcuna  contraddi- zione a  supporre  simultaneamente  in  una  cosa  la  paru- sia  deiridea  e  l'inerenza  dell'  attributo  di  nome  coiit-a- rio.  Ma  per  vedere  la  giustezza  della  nostra  osservazioup, basterà  di  restringersi  alla  proposizione  fru  cui  s'incar- dina tutto  il  ragionamento  di  Platone  e  che  noi  abbiamo chiamato  la  b?se  induttiva  di  questo  ragionamento,  cioè che  un'Idea  non  può  avere  l'attributo  contrario  a  quello che  essa  conferisce  alle  cose  con  la  sua  parusia.  E  indu- bitabile che  Platone  riguarda  questa  proposizione  come evidente  per  se  stessa,  e  non  avente  bisogno  per  essere ammessa  che  di  essere  enunciata  e  ccmpresa  —  si  rilegga la  pai  te  del  luogo  citato  in  cui  questa  proposizione  viene staliliia  —  ;  e  tale  è  in  effetto  ueiripotesi  dell'immanenza delle  Idee:  ma  iicU'ipotesi  della  trascendenza,  in  cui  la coincidenza  tra  la  parusia  dell'Idea  in  una  cosa  e  la  par- tecipazi(»ne.  di  questa  cosa  all'attributo  omonimo  (e  quindi a  ciascuno  degli  attributi  più  astratti  ;  acchiusi  in  que- st' attributo)  è,  non  e  uni  conrcssione  necessaiia  ed  a |TÌori,  ma  un  mistero  inesplicabile,  la  proposizione  diviene una  pura  affermazione  dommatica.  Senza  dubbio,  purché si  ammetta  il  principio  che  la  parusia  doU'Idea  e  la  causa per  cui  le  cose  possiedono  l'attributo  dello  stesso  rome, il  rrgionamento  di  Platone  corre,  anche  neiripot**si  della trascendenza  :  uìa  siccome  (luesto  principio  è,  in  questa ipotesi,  non  un  assioma,  ma  un  postulato  —  nel  senso aristotelico  della  parola  postulato  —  e  questo  postulato  è sottinteso  a  ciascun  passo  del  ragionamento,  questo  per- de ogni  chiarezza,  e  non  può  più  aspirare  ad  essere  una dimostrazione^  come  Platone  evidentemente  pretende  (1). (i)  Aggiungiamo  che,  secondo  gl'interpreti  trascendentalisti,  questo postulato  non  ha  per  Platone,  almeno  nel  Fedone,  che  il  valore  di  una semplice  ipotesi.  In  efletto  il  luogo  del  Fedone  (loo   d)   in   cui   Platone Se  le  Idee  sono  gli  attributi  generali  delle  cose  nelle cose  stesse,  ma  considerati  come  entità  reali,  di  cui  cia- scuna ò  una  e  la  stessa  in  tutte  le  cose  di  cui  l'attributo viene  predicato,  l' impiego  della  parola  partecipazione (|ié0sEi;)  e  sinonimi,  per  indicare  il  rapporto  delle  cose alle  Idee,  uon  è  meno  naturale  che  quello  della  parola presenza  e  sinonimi  per  indicare  il  rapporto  delle  Idee alle  cose.  Partecipare  ad  una  cosa  letteralmente  significa averne  una  parte,  o  avere  il  tutto,  ma  in  comune  con altri;  e  ciò,  quando  questa  cosa  è  un  Attributo,  qual  è l'Idea  anche  secondo  l'interpretazione  trascendentalista, non  può  voler  dire  altro  se  non  che  essere  uno  dei  sog- getti ai  quali  quest'Attributo  è  comune.  Di  più  questo significato  adempie  all'altra  condizione,  a  cui  deve  con- formarsi il  (lignificato  di  questo  termine,  che  è  di  asse- gnare, nel  tempo  stesso  che  indica  il  rapporto  tra  le  cose e  le  Idee,  la  ragione  per  cui  le  cose  sono  ciò  che  sono  : in  effetto,  la  causa  per  cui  una  cosa  è  buona,  è  bella,  è grande,  ecc.,  è,  secondo  Platone,  perchè  essa  partecipa all'Idea  del  buono,  del  bello,  del  grande,  ecc.  La  par- tecipazione delle  Idee  —  e  la  stessa  osservazione  vale  an- che per  la  parusia  —  è  una  causa  che  spiega^  nel  senso metafisico  della  parola  spiegazione,  perchè  le  cose  hanno i  loro  attributi  ;  tra  la  causa— la  partecipazione  o  paru- Rupponc  la  parusia  delle  Idee  come  causa  alle  cose  dei  loro  attributi, Sembra  ri^^uardare  la  parusi;i  e  'a  partecipazione  come  due  ipotesi  distinte, di  cui  si  può  ammettere  luna  o  l'altra,  per  ispiegare  l'assimilazione  delle cose  alle  Idee.  Noi  vedremo  più  giù  che  il  vero  senso  del  luogo  non  è questo,  perchè  la  parusia  e  la  partecipazione  non  sono  due  cose  divei'se,  ma due  espressioni  che  significano  una  sola  e  stessa  cosa  :  ma  V  in  erprete trascendentalista  deve  necessariamonte  intenderlo  cosi,  perchA,  per  dare di  questi  due  termini  un'interpretazione  conlorme  all'ipotesi  della  trascen- denza, egli  è  obbligato  ad  attribuire  ad  essi  due  signifirati  ditterentl. —  51  — i<        r. 1  * •f: sia  dellldea  -  e  l'effetto  -  la  possessione  dell'  attributo corrispondente  -  essendovi  un  legame  necessario  e  visi- bile a  priori,  e  senza  questa  coudizione  la  ragione  che si  assegna  di  un  fatto  non  potendo  essere,  per  un  meto- fisico,  una  spiegazione  di  questo   fatto  (1). Ma  non  solo  questo  significato  del  termine  partecipa- zione -  cioè  la  possessione  di  un  Attributo  che  si  ha  m comune  con  altri  soggetti  -  è  quello  che  è  il  più  natu- rale   ma  è  anche  il  solo  che  dia  alla  parola  un  senso  reale, vale  a  dire  che  le  faccia  esprimere  un  concetta  determi- nato. Neil'  ipotesi  della  trascendenza  delle  Idee,  non  vi ha  tra  le  cose  e  le  Idee  altro  rapporto  immaginabile  che la  somiglianza:  dicendo  che  le  cose  partecipano  alle  Idee, Platone  vuol  dire,  fecondo  l'interpretazione  trascenden- talista, che  le  Idve,  separate  dalle  cofc  .  comunicano  a queste  degli  attributi  simili  ad  esse  ;  che  le  cofc  diven- gono somiglianti  alle  Idee,  per  un'influenza  delle   Idee sulle  cose.  Ma  quale  è  il  modo  di  questa  comunicazione? in  che  consiste  questa  influenza  ?  Il  come  dell  efficienza delle  Idee  trascendenti  è  inconcepibile  ;  noi  non  possia- mo formarci  alcun'  idea  di  quest'azione  per  cui  esse  ren- (1)  t  evidente  che,  .,uan,1o  Platone  .lice  cl.e  una  cosa  P»^««'P''  «  '^•""• al  buono  ecc.,  ..el  significato  di  queste  proposiziom  è  contenuta  1  a^lenna zione  che  la  cosa  è  bella.  <>  buona  ecc..   Ma  non  i  n.eno  «vWente  che  le stesse  proposizioni  assegnano  al  tempo  stesso  la  causa  per  '^•"  '^"^  « bella, /buona,  ecc.:  se  no  come  potrebbe  egl,  dire  che  '- J- j  ^"^J", la  partecipazione  del  bello,  buona  per  la  partec.p.7..one  del  bnono.  ecc.  1,1  termine  partecipu.iou.  signiHca  -A  tempo  stesso  ""/f "°  "j '»  P^'^^^,': sessione  di  un  certo  attributo  -,  e  la  causa  .1.  .,ues  o  latto   C     è  perche qui  il  fatto  e  la  sua  causa  non  so..o  due  '"""J'"""  '  X'"'  '"  f",^ del  fatto -vale  a  dire  la  partecipazione  o  p.rusta  dell  f  >  -  "°°  '^."^^^ il  fatto  stesso -la  possessione  dell'attributo  corrispondente  -  .nten.reta^o secondo  una  teoria   particolare,  tradotto,  dal  linguaggio  comune,  nel  Un- guaggio  della  dottrina  recluta^ derebbero  le  cose  simili  a  se  stesse.  Platone,  con  la  pa- rola partecipazione,  intende  indicare  nn  rapporto  tra  le erse  e  le  Idee,  che  contenga  una  ragione  dell'essere  delle cose  e  dei  loro  attributi.  Ma  supposta  la  trascendenza  ^qWq Idee,  non  può  tra  le  cosce  le  Idee  immaginarsi  alcun  rap- porto che  spieghi  perchè  le  cose  sono  ed  hanno  i  loro  attri- buti; tanto  meno  quindi  potrebbe  immaginarsene  qualcuno che  aggiungesse  a  questa  condizione  quella  di  poter  essere denominato  con  la  parola  partecipazione  :  ne  segue  che, nella  supposizione  della  trascendenza,  non  vi  ha  alcun concetto  determinato  che  possa  corrispondere  a  questa parola.  Ciò  è  tanto  vero  che  ^V  int<  rpreti  trascendeur talisti  sono  obbligati  a  convenirne  :  Platone,  dicono  que- st'interpreti, non  ha  determinato  la  vera  naUira  del  rap- porto tra  lo  Idee  e  le  cose,  egli  non  ha  detto  che  cosa è  la  metessi,  la  paiusia,  ecc.  (1);  e  in  prova  della  loro tesi  citano  certi  luoghi  d'Aristotile,  che  io  devo  mettere sotto  gli  occhi  del  lettore,  per  fissar  bene  lo  stato  della quistione  sull'interpretazione  della  metessi  platonica.  Ecco dunque  questi  luoghi.  Mei,  l.I.  VI.  2:  «  I  Pitagorici  di- cono che  gli  esseri  sono  per  l'imitazione  dei  numeri;  Pla- tone, mutando  il  nome,  p(  r  la  partecipazione  delle  Spe- cie; ma  che  cosa  sia  questa  imitazione  o  questa  parte- cipazione, vattel'a  pesca  (àcpsiaav  sv  xotvqj  ^rjxsrv)  v .  Ibid  1.  I. IX.  21  :  **  Volendo  dire  la  sostanza  delle  cose  sensibili,  po- niamo (noi  platonici)  altre  sostanze;  ma  come  queste siano  sostanze  di  quelle,  lo  diciamo  vanamente  (5ià  xsv^^), poiché  la  partecipazione,  come  abbiamo  già  detto,  è  nien- (1)  V.  Chiappelli.  V  interpretai,  panteist.  di  Piatone,  pzg.  104,  149, 166,  ecc. ^  52  - \ te  »  (1)  Ibid.  1.  1.  IX.  8  :  €  Dire  chele  Specie  sono  degli esemplari  e  che  le  altre  cose  ne  partecipano,  è  pronun- ziare delle  parole  vuote  di  senso  (xsvoXoystv)  e  fare  delle metafore  poetiche». Sui  due  primi  di  questi  luoghi  dobbiamo  osservare che  la  critica  che  essi  contf»ngono  non  ha  necessaria- mente il  senso  che  le  danno  gì'  interpreti  trascendenta- listi, vale  a  dire  che  Platone  non  attaccava  alla  parola partecipazione  alcun  concetto  preciso.  Forse  gl'interpreti trascendentalisti  hanno  ragione  d' intenderla  così  e  di ammettere  ch'essa  suppone  (nel  concetto  d'Aristotile)  la trascendenza  delle  Idee  :  ma  questa  critica  Aristotile avrebbe  potuto  farla,  anche  supponendo  l' immanenza delle  Idee;  in  questo  caso  esfa  vorrebbe  dire,  non  che la  parola  partecipazione  non  significa  alcun  concetto determinato,  ma  che  la  partecipazione  —  la  cosa  corri- spondente al  concetto  significato  da  questa  parola  —  è un  che  d' inintelligibile- ciò  che  è  perfettamente  vero  -, perchè  non  si  comprende,  e  Platone  non  ha  fatto  niente per  fare  comprendere,  come  una  sostanza  può  inerire  in altre  sostanze  quale  attributo,  come  l'uno  può  esistere  si- multaneamente nei  molti,  e  tutte  le  altre  impossibilità  della dottrina  delle  Idee.  Che  il  senso  della  critica  sia  questo  o sia  piuttosto  quello  che  vogliono  gl'interpreti  trascendebta- lisli,  è  ciò  che  io  non  oserei  affermare  ;  perchè,  come vedremo  a  suo  luogo,  le  testimonianze  d'Ai  istotile  sulla (1)  Notiamo  che  V  indicazione  contenuta  in  questo  luogo,  cioè  che  per la  partecipazione  i  platonici  intendevano  spit-gare  come  le  Idee  fossero  le sostanze  delle  cose,  è  una  prova  che  il  signitì'-ato  della  parola  partecipa- zione è  quello  che  noi  diciamo:  se  intatti  la  partecipazione  non  sigiiili- casse  r  inerenza  del  partecipato  nel  partecipante,  come  Platone  avrchbe potuto  pretendere  di  spiegare  [)er  la  partecipazione  come  le  Idee,  cioè  i partecipati,  fossero  la  sostanza  delle  cose,  cioè  dei  parteciiianti  i quistione  del^immanénza  o  trascendenJid  delle  Idee  soùó incerte  e  discordi;  e  per  conseguenza,  per  alcune  dello sue  critiche,  è  difficile  decidere  se  esse  sono  fatte  nella suppos'Z'one  dell'immanenza  o  In  quella  della  trascen- denza 0  abbracciano  l'una  e  l'altra  supposizione  (com'è probabilmente  il  caso  per  quella  di  cui  parliamo)  In quanto  all'ultimo  dei  luoghi  citati,  il  rimprovero  ch'esso contiene  è  diretto  senza  dubbio  alle  Idee  t'ascendenti; perchè  Aristotile  suppone  che  il  rapporto  tra  le  Idee  e le  cose  non  sia  che  quello  tra  il  modello  e  le  copie  (vedi tutto  il  contesto  Mei.  1.  I.  IX.  8-10);  e  ci  dice  nettamente ciò  che,  con  o  senza  la  confessione  degl'  interpreti  tra- scendentalisti, sarebbero,  nella  loro  interpretazione,  la partecipazione  e  tutti  gli  altri  termini  indicanti  il  rap- porto tra  le  Idee  e  le  cose  :  delle  metafore  poetiche  e delle  parole  vuote  di  senso  (1)., Forse  il  lettore  dirà  ch'egli  non  comprende  quale sia  la  d^flPercnza  tra  una  parola  vuota  di  senso  e  una cosa  inintelligibile;  e  che,  se  è  vero,  come  io  lo  confesso, che  la  partecipazione,  nel  senso  che  io  attribuisco  a  que- sto termine,  è  un  che  d'inintelligibile  e  racchiude  delle impossibilità  logiche,  non  si  vede  qual  vantaggio  abbia l'interpretazione  che  io  ammetto,  tu  quella    degl'  luter- ei) Ai  Inoghl  citati  d'Aristotile  possiamo  aggiunja^erne  un  altro  che  é in  Met,  1.  vili.  VI.  6,  in  cui  dice  che  i  platonici  sono  incerti  nel  deter- minare che  cosa  sia  la  partecipazione  e  quale  sia  la  sua  causa.  Ma  dob- biamo noi  realmente  ammettere  nei  platonici  quest'  incertezza  che  loro  at- tribuisce Aristotile^  o  dobbiamo  supporre  piuttostd  che  Aristotile,  esitante sul  significato  della  dottrina  platonica,  attribuisce  alla  dot^rina  stessa quell'incertezza  che  ò  nel  suo  proprio  spirito-  Cioè  tanto  più  verisimile che  questa  dottrina,  oltre  di  riunire  degli  elementi  fra  di  loro  incompati- bili, è  vestita  talvolta,  come  nel  Timeo,  di  certe  rappresentazioni  che,  sel'ossero  prese  alla  lettera,  sarebbero  in  contraddizione  coi  ccncelti  filoso- fici di  cui  esse  non  sono  che  un'espressione  simbolica. —  63  — l>-t III preti  trascendentalisH,  che  confessano  che  a  questo  ter- mine non  cosrisponde  alcun  concetto   determinato.  Non ò  qui  il  luogo  di  determinare  d'una  maniera  rigorosa  la differenza  tra  una  parola  vuota  di  senso  (cioè  a  cui  non corrisponde  alcun  concetto  determinato)  e  una  cosa  inin- telligibile :  ma,   all'ingrosso,    possiamo  dire  che   vi   ha questa  differenza  che,  mentre  delle  parole  vuote  di  senso non  indicano  alcun"  idea,  almeno  alcun'idea  precisa,  delle parole  che  significano  xina  cosa  inintelligibile,  indicano delle  idee  determinate,  precise,  ma  queste  idee  sono  tra di  loro  incompatibili,  non  possono  fondersi  in  una  rap- presentazione unica.  Per  me,  e  per  tutti  quelli  che  am- mettono 1  princlpii  della  filosofia  dell'  esperienza,   ogni ipotesi  metafìsica  o,  più  generalmente,  metaempirica  — l'Idea  di  Hegel  o  la  Sostanz.-\  di   Spinoza  o  1'  Assoluto della  metafisica  ordinaria,  ecc.,  della  stessa  maniera  che lo  spazio  pseudosferico  o  a  n  dimensioni  degli  odierni  me- ta<rcometri-è  una  cosa  inintelligibile,  in   questo   senso della  parola  inintelligibile;  e  il   perchè  è  facile  a  dirsi  : è  che  rappresentarsi  per  noi  equivale    ad  immaginare, e  noi  non  possiamo  immaginare  se  non  ciò  che  può  es- sere l'oggetto  dei  nostri  sensi  o  della  nostra  coscienza, 0  che  ha  con  gli  oggetti  dei  nostri  sensi  o  della  nostra coscienza  una  somiglianza  definita.  Per  tutte  le  idee  che i  mrtaempirici  pretendono  di   farci   concepire,   essi   ne prendono  gli  elementi  nel  mondo  dell'  esperienza,   cioè dei  sensi  e  della  coscienza;  ciascuno  di  questi   elementi è  un  predicato  generale  che  conviene  a  una  classe  di  og- getti sperimentabili  o  almeno  immaginabili  ;  ma  non  vi ha  alcun  oggetto,  né  sperimentabile  né  immaginabile,  a cui  tutti  questi  predicati  generali,  presi  insieme,  possano convenire  (1) .  Macon  tutto  ciò  nessuno  pretendi-.rà  seriamen- te che  Spinoza,  Hegel  e  tutti  i  metafisici  e  i  metaempinci  in generale  non  sanno  quello  che  si  dicano  :  ora  quando  io dico  che  la  partecipazione  è  una  cosa  inintelligibile,  io affermo  semplicemente  che  Platone,  come  tutti  i  metafi- sici e  roetaempirici,  ha  detto  delle  cose  che  non  possia- mo immaginare;  ma  quando  l'interprete  trascendentalista afferma,  sulla  testimonianza  o  pretesa  testimonianza  d  A- ristotile,  che  la  partecipazione  è  una  parola  a  cui  non corrisponde  alcun  concetto  determinato,  che  Platone  non ha  detto  che  cosa  sia  la  partecipazione,  la  parusa,  ecc., ciò  che  questo  significa,  in  lingua  povera,  è  appunto che  Platone,  il  divino  Platone  (come  lo  chiamano  quest  In- ter petri),  non  sa  quello  che  si  dica. Premesso  ciò,  diamo  degli  esempi  dell'  uso   che  Pla- tone fa  del  termine  metessi  e  sinonimi  :   da  essi   il  let- ture potrà  vedere  che  il  senso  di  questi   termini  e  chia- rissimo-quantunque  implichi  delle  impossibilità  logiche- e  che  noi  non  siamo  ridotti  alla  necessitàdi  ammettere  che essi  sono  delle  parole  vuote  di  senso  come  vogliono  gli interpreti  trascendentalisti.  Naturalmente  il  solo  impiego di  questi  termini  che  ci  interessa,  e  a  cui  si  limiteranno  i nostri  esempi,  è  quando  la  cosa  a  cui  si  partecipa  e  un astratto,  e  la  cosa  che  partecipa  riceve,  per  questa  jiarte- cipazione,  il   predicato  corrispondente  a  quesf  astratto. Neil'  immensa  maggioranza  dei  casi  -  di  quelli,  s'intende, in  cui  l'uso  dei  termini  è  questo  che  ho  d.  tto  - 1  imma- nenza del  partecipato  nel  partecipante  è  evidente;  ma,  il p  ù  spesso,  non  lo  è  altrettanto  che  il  partocipato  sia  un  Idea, cioè  che  esso  sia  considerato  da  Platone  come  un'entità  sus- sistente per  se  stessa  -  quantunque  ciò  possa  presumers', in  viriù  del  principio  platonico  che  l'oggetto  del  concetto (1)  V.  Saggio  I  p.  421  e  425,  629,  KJ3. —  54- generale  è  l*Idea  (1).  Ma  anche  allora  il  luògo  non  é  senì^a importanza  come  prova  del  significato  della  metcssi  :  per- ciò alcuni  dei  nostri  esempi  saranno  presi  da  questa  nu- merosa classe  di  luoghi,  in  cui  il  senso  immanente  è  in- contestabile,  ma  si  può  dubitare  che  Platone  consideri come  un'Idea  V  astratto  a  cui  si  partecipa  ;  e  comince- lemo  da  essi: Leggi  902  b:  (per  provare  che  gli  dei  hanno  cura  de- gli affari  umani).  «  Gli  affari  umani  non  partecipano  (^is- Téx^O  della  9001^  animata,  e  di  tutti  gli  animali  non  è l'uomo  che  venera  massimamente  gli  Dei  ?— Certamente — Ora  tutti  gli  animali  mort^ili  appartengono  agli  Dei,  a cui  appartiene  tutto  l'universo  ». Ibid.  963  e  :  (spiegando  la  distinzione  tra  la  fortezza e  la  prudenza)  « Tuna  (la  fortezza)  si  riferisce  al  ti- more, e  ne  partecipano  (iisiéxeo  anche  le  bestie  e  i  co- stumi dei  piccoli  fanciulli;  infatti  per  natura  e  senza  ra- gione Tanimo  diviene  forte;  al  contrario  senza  ragione Tanirno  non  fu  né  è  né  diverrà  mai  prudente  e  dotato d'intelligenza,  ciò  essenlo  un'altra  cosa.» (1)  In  qualche  caso  vi  hanno  anzi  delle  circostanze  che  sembrano  eslu* dere  che  Platone  pensi  a  realizzare  l'astratto  a  cui  egli  dice  che  una  cosa partecipa,  P.  e.  nel  Politico  273  b,  dove  dice  che  la  natura  corporea  par- tecipava di  molto  disordine  prima  di  essere  ridotta  all'ordine  presente;  o nel  Filebo  18  e,  dove  parla  della  specie  di  lettere  che  partecipano,  non della  voce,  ma  di  qualche  suono  (in  questi  esempi,  le  parole  molto  e  qual- che^ particolarizzando  il  concetto,  indicano  che  il  discrdine  e  il  suono  a cui  si  partecipa,  non  devono  essere  prosi  nella  loro  generalità,  e  non  pos- sono, per  conseguenza,  essere  delle  Idee) — Nel  Par#/i<rw.  133  e  —  13  i  h,  in cui,  distinguendosi  gli  attributi  fenomeni   dalle    Idee,  si  dice  che  le  coso partecipano  ai  primi  ma  non  alle  seconde,  la  parola  partecipare  (|A£TéX£«v) ha  un  siguidcato  did'erente  dall'ordinario  e  affatto  speciale  a  questo  luogo isolato. |l TYm.  51  e  :  (per  provare  che  rintelligenza  e  l'opinione vera  sono  due  generi  diiferenti)  « Tuna  nasce  in  noi per  ristruzione,  Taltra  per  la  persuasione;  Tuna  è  sem- pre accompagnata  dalla  vera  ragione,  l'altra  è  senza  ra- gione; runa  non  può  esser  mutata  per  alcuna  persuasione, l'altra  è  soggetta  a  questo  mutamento;  dell'opinione  vera partecipa  ({jLsxéxsO  ^g'^l  uomo,  dell'intelligenza  gli  dei  e solo  un  piccolo  numero  degli  uomini  ». Sof.  24^^  c-d;  «  Noi  abbiamo  stab'l  ta  come  sufficient<5 questa  definizione  dell'essere,  cioè  quando  in  qualche cosa  è  presente  (Tiap^)  la  potenza  di  patire  o  di  agire rapportò  a  qualche  altra  cosa,  anche  la  minima  — Si  — Ma  a  ciò  rispondono  Tgli  amici  delle  Idee)  che  il  divenire è  partecipe  (ysvéasi  iiéxsoxi)  della  potenza  di  agire  e  di patire,  ma  questa  potenza  non  conviene  all'essere  —  Ed hanno  ragione?  — A  ciò  noi  diremo  che  li  preghiamo  di dichiararci  più  nettamente  se  consentono  che  l'anima  co- nosce e  Tessere  è  conosciuto.  —  Essi  lo  confessano  —  Ma che?  il  conoscere  o  l'esser  conosciuto  chiamate  voi  azione o  passione  o  l'una  e  l'altra  cosa?  o  l'uno  passione  e  l'al- tro azione?  o  dite  che  nò  l'uno  nò  l'altro  partecipano (•isxaXaii^avsiv)  ad  alcnna  di  queste  due  cose?  » liep,  M2  b-c:  ♦  Se  traveremo  quale  sia  la  giustizia, esigeremo  forse  che  l'uomo  giusto  non  debba  niente  dif- ferire da  c<?sa,  ma  esigere  assolutamente  quale  ò  la  giu- stizia? o  basterà  se  si  approssima  ad  essa  e  ne  partecipa (jisxéxiù)  più  di  ogni  altro  ?  » Itep.  178  de  :  «  Non  abbiamo  detto  sopra  (1)  che  fc qualche  cosa  ci  apparisse  tale  che  fosse  e  non  fosse  al tempo  stesso,  questa  sarebbe  media  tra  il  puro  essere  e U)  V.  iT7  a-b. —  55  - il  non  essere  assoluto,  e  non  le  spetterebbe  né  la  scienza DÒ  rignoranza,  ma  ciò  che  apparirebbe  medio  tra  la  scien- za e  l'ignoranza?— Si  — Ora  media  tra  di  queste  ci  ap- parve ciò  che  chiamiamo  opinione  (1)  —  Si  —  Quello  che ci  resta  dunque  a  trovare  è  ciò  che  partecipa  (iisxéxov) dell'uno  e  dciraltro,  cioè  deir essere  e  del  non  essere, e  che  non  può  rettamente  chiamarsi  ne  essere  puro  nò puro  non  essere,  affine  di  chiamarlo  a  buon  dritto,  se noi  lo  troveremo,  opinabile,  attribuendo  il  med'o  al  me- dio e  gli  estremi  agli  estremi  >  (In  seguito  mostra  che questo  medio  tra  1'  essere  e  il  non  essere  sono  le  cose sensibili,  perchè  di  esse  può  dirsi  al  tempo  stesso  che  sono e  che  non  sono.  V.  479  a-d.) Rep.  585  b-d:  (per  provare  ehe  i  p'acerì  dello  spirito sono  più  veri  che  quelli  del  corpo).  «  Qual  riempimento è  più  vero,  quello  che  si  fa  per  le  cose  che  sono  più  (cioè, come  spiega  in  seguito,  che  hanno  più  essere),  o  quello che  si  fa  per  le  cose  che  sono  meno  (cioè  che  hanno  meno essere)  ?  —  Senza  dubbio  quello  che  si  fa  per  le  cose  che sono  più.— Ora  quali  generi  credi  che  partecipino  (|xsxéxe'->') più  al  puro  essere,  quelU  del  cibo  e  della  bevanda  e  di tutto  ciò  di  cui  il  corpo  si  nutrisce,  o  l'elSo;  deiropinioae vera,  della  scienza,  dell'intelligenza  e  in  una  parola  di tutte  le  virtù?  É  cosi  che  devi  giudicarne:  ciò  che  è  con- giunto al  sempre  simile  e  immortale  e  alla  verità,  e  tal è  esso  stesso,  e  in  un  tale  nasce,   ti  sembra  essere  più, che  ciò  che  è  congiunto  al  mortale  e  non  mai  simile,  e tale  è  esso  stesso,  e  in  tale  nasce? -Di  gran  lunga  è superiore  ciò  che  è  congiunto  al  sempre  simile  —  E  l'es- senza dei  sempre  simile  partecipa  (fiexéxeO  più  all'essere (1)  V.  477  b  -  478  d. che  alla  scienza?— No— O  che  alla  verità?— Nemmeno  (1)  — Se  partecipasse  meno  alla  verità,  non  parteciperebbe  meno all'essere?  —  Necessariamente  —  In  generale  dunque  i  ge- neri che  spettarne  alla  cura  del  corpo  partecipano  diexéxsO alla  verità  e  all'essere  meno  di  quelli  che  spettano  alla cura  dell'anima?  —  Molto  meno  —  E  il  corpo  stesso  meno dell'anima?  —  Si  —  Dunque  ciò  che  si  riempie  di  cose che  p'ù  sono  ed  esso  stesso  più  è,  si  riempie  più  real- mente che  ciò  che  si  riempie  di  cose  che  sono  meno  e meno  è  esso  stesso  ?  — E  come  no?»Leggi  859  e-860  a  :  (per  mostrare  che,  chiamando turpi  le  pene  inflitte  ai  delitti,  ci  mettiamo  in  contraddi- zione con  la  massima  che  ciò  che  è  giusto  è  bello)  «  .... se  tutte  le  cose  che  si  attengono  alla  giustizia  sono  belle, nel  numero  di  tutte  sono  anche  le  passioni  che  subiamo, le  quii  li  sono  pressoché  uguali  alle  azioni  che  facciamo  — E  che  perciò? — Ogni  azione  che  è  giusta,  quanto  par- tecipa (xoivwv^)  del  giusto,  altrettanto  è  partecide  (jisxéxov) (1)  L'essenza  del  sempre  simile  partecipa  alla  scienza,  perchè  l'esser sempre  smii'e  è  un  attributo  della  scienza.  In  questo  caso  la  metessi  ha dunque  un  senso  digerente  dall'  ordinario.  Ordinariamente  è  l' individuo che  si  dice  partecipare  della  specie,  e  la  specie  del  genere  :  ma  in  questo caso  è  il  genere  che  si  dice  partecipare  della  specie,  il  concetto  di  sempre simile  essendo  più  esteso  che  quello  di  scienza,  e  comprendendolo  nella sua  estensione.  Tuttavia  quest'altro  senso  della  partecipazione  potrebbe ricondursi  al  senso  ordinario,  in  quanto  il  genere,  so  non  partecipa— nel senso  ordinario  della  parola  —  alla  specie  nella  sua  totalità,  vi  partecipa in  parte,  cioè  in  alcuni  degl'  individui  che  esso  comprende.  Si  noti  che  se il  genere  fosse  separato  dagl'  individui,  come  sarebbe  nell'  interpretazione trascendentalista  del  sistema  delle  Idee,  e  non  immanente  in  essi,  e  iden tico  in  certo  modo  con  essi— perchè,  come  abbiamo  visto,  l'uno  è  i  molti e  i  molti  sono  l'uno—;  Platone  non  potrebbe  atti ibuire  ad  esso  uu  rapporto di  partecipazione  che  in  senso  rigoroso  non  conviene  che  ai  suoi  individui. —  56  - del  bello— E  come  no  ?— Dunque  anche  ogni  passione  che partecipa  (xoivwv^)  del  giusto,  se  converremo  che,  quanto e  partecipe  del  giusto,  altrettanto  è  bella,  il  nostro  di- scorso non  sarà  discordante    È  vero    Ma  se  afferme- remo che  vi  sia  alcuna  passione  giusta  ma  turpe,  il  giu- sto e  il  bello  discorderanno,  perchè  le  cose  giuste  si  di- ranno turpissime  ». Nessuno  negherà,  io  credo,  che  nei  lunghi  citati  e  in un'infinità  d'altri  in  cui  la  parola  partecipare  —  cioè  le parole  che  noi  traduciamu  cosi  —  viene  impiegata  d'una maniera  simile,  la  cosa  a  cui  si  partecipa  sia  un  attri- buto della  cosa  che  ne  partecipa,  e  partecipare  non  si- gnifichi altro  che  possedere  l'attributo.  Ciò  è,  sia  perchè, come  nei  primi  cinque  esempi,  vi  hanno  delle  ragioni  che mostrano  che  la  cosa  a  cui  si  partecipa  è  una  proprietà degli  oggetti  delTesperienza,  e  non  un'entità  trascenden- te ;  sia  perchè,  come  negli  ultimi  tre,  se  la  partecipa- zione s'  intendesse  nel  senso  dell'  interpretazione  tra- scendentalista, verrebbe  inopportunamente  interrotta  la connessione  dtlle  idee,  la  quale  richiede  semplicemente che  alla  cosa  che  è  detta  partecipare,  venga  attribuito  un certo  predicato;  f^ia  per  altri  motivi.  Certamente  l' in- terprete trascendentalista  dirà,  in  questi  casi,  che  la  cosa a  cui  si  partecipa  non  è  un'Idea;  e  noi  confessiamo  che non  si  potrebbe^  il  più  delle  volte,  né  affermare  recisa- mente, né  negare,  ehe  l'autore  pensasse  ai  elevare  lo astratto  di  cui  parlava  al  rango  di  entità  reale,  benché egli  avrebbe  dovuto  farlo  per  essere  strettamente  coe- rente alle  proposizioni  cardinali  della  sua  dottrina.  Ma questo  dnbbio  non  annulla  il  valore  dei  luoghi  di  cui  si tratta  come  prove  del  senso  immanente  della  metessi  pla- tonica :  in  effetti,  se  nella  più  parte  dei  casi  partecipare a  un  astratto  significa  per  Platone  possederlo  come  un proprio  attributo,  non  si  vede  perchè  gli  si  debba  dare ferenti dai  primi  p?r  la  circostanza  che  Platone  fa un'applicazione  esplicita  del  suo  principio  che  un  astratto è  un'entità  reale;  tanto  più  che  è  impossibile,  come  ab- biamo osservato  aiira  volta,  di  tracciare  una  linea  di  se- parazione tra  i  casi  in  cui  Platone  pensa  a  realizzare  le astrazioni  di  cui  egli  parla,  e  quelli  in  cui  non  vi  pensa. Nei  luoghi  seguenti  le  cose  a  cui  si  partecipa  sono incontestabilmente  delle  Idee. Tc/rm.  132  e  (per  confutale  la  supposizione  che  le Idee,  s^nn  d'-i  pensieri)  :  «  Ma  che  ?  non  è  nece?rario, poiché  dici  che  le  altre  cose  partecipano  (jisxsxs'-v)  alle Idee,  di  ammeHerc  o  che  ogni  cosa  costa  di  pensieri  (ex voYjjidxov  slvai)  e  tutto  pon-^a,  o  che  le  cose  non  pensano, mentre  sono  p'^nsieri?  »  ^Lc  Idee  sono  dunque  elementi costitutivi  delle  cose  che  ne  partecipano). Ibid,  142  e  :  «  Quando  si  dice  compendiosamente  :  l'uno è;  ciò  non  s'gnifica  lo  stesso  che  :  Tuno  partecipa  all'es- sere?»  (1).  (Potrebbe  Platone>ffermare  d'una  maniera  più esplicita  che  partecipare  a  un'Idea  non  significa  altra (1)  L'uno  e  l'essere  nel  l'annenidc  ^ono  seuz'alcun  dubbio  delle  Idee. Infatti  resercizio  dialettico  sull'uno  rarmenide  lo  dà  come  un  esempio  del metodo  di  cuj  e^H  prima  ha  parlato  in  generale,  il  quale,  a  diiferenza della  dialettica  di  Zenone,  che  volgeva  sul  sensibile,  doveva  avere  per o;?,;etto  le  Idee.  In  quanto  all'ess-^re,  Platone  lo  tratta  evidentemente,  non come  una  semplice  astrazione,  ma  come  un'entità  reale  (v.  specialmente 142  b-l'i4  e);  e  ingenerale  qucscarealizzazionesembraaver  luogo  per  tutti gli  attributi,  a  cui  l'uno  e  le  altre  cose  sono  detti  partecipare  (v.  p.  e.  sulla grandezza  e  la  piccolezza  149  e- 150  d).  Alcuni  dei  luoghi  citati  si  rifeii- scono.  non  alla  partecipazione  dello  cos-  alle  Idee,  ma  a  quella  delle  Idee ad  altre  Idee  :  ma  ciò  non  può  impedirci  di  presentarli  come  prove  della immanenza  delle  Idee  nelle  ccse,  perchè  ò  chiaro  che  la  metessi  non  può avere  che  lo  stesso  signilicato,  sia  che  si  tratti  di  quella  d'una  cosa  ad  una Idea,  sia  che  si  tratti  di  ([nella  d'un  Idea  ad  un'altra  Idea. -  57  - y cosa  che  la  possessione  deirattributo  ?  La  stessa  afferma- zione sì  trova  a  152  a  :  «  Essere  è  altra  cosa  che  la  par- tecipazione (|Jié0£gtg)  dell'essere  col  tempo  presente?  Ed era  e  sarà  sono  altra  cosa  che  la  partecipazione  (xotvwvta) dell'essere  col  tempo  passato  e  col  futuro)  ?  ». Ibid.  i44  ab  :  «  Se  V  uno  è .  è  necessario  che  anche il  numero  sia  —  Senza  dubbio  —  Ma,  se  il  numero  è,  vi saranno  più  cose  e  una  moltitudine  infinita  di  esseri  :  o il  numero  infinito  in  moltitudine  non  ò  anche  partecipe (fisxéxwv)  deiref-scre?  (Come  nel  luo^^o  prccrden'.e,  parte- cipare all'essere  è  riguardato  come  l'equivalente  di  avere l'attributo  essere).  E  se  tutto  il  numero  panccpa  (iJtexéxsO dell'essere,  ciascuna  delle  sue  parti  non  no  parteciperà (liexéxoi)  pure  ?  —  Si  —  L' essere  è  dunque  distribuito  (vsvé- lirjxaO  per  tutti  i  molti  esseri,  e  non  è  assente  (ànooxaxst) da  alcuna  delle  cose  che  sono,  sa  la  più  grande,  sia  la più  piccola.  O  è  assurdo  di  fare  una  simile  domanda?  in effetti,  come  l'essere  potrebbe  essere  assente  ( àTiooxaxoir]) da  una  cosa  che  è?  —  In  nessun  modo  —  L'essere  ò  dun- que diviso,  per  quanto  è  possibile,  in  parti  grandissime e  piccolissime,  e  di  ogni  sorta  di  maniere  ;  esso  è  ciò  che ha  ài  più  frazionato,  e  le  sue  parti  sono  infinite  s>  (l). Parm.  149  e:  «  Di  Marno  che  le  altro  cose  dall'uno  nò 0)  Quello  luogo,  come  tanti  aUri  dei  seguenti  e  queUo  del  Par- menide stesso  131  a  — e  che  abbiamo  già  citato  (v.  IV.  3°  B>,  mo- strano chiaramente  che  la  partecipazione  d'una  cosa  a  un'I  lea  non significa  altro  che  la  parusia  dell'Idea  nella  cosa.  Una  cosa  parteci- pare al  Bello,  non  vuol  dire,  come  ammettono  gì'  interpreti  trascen- dentalisti, che  r  Ideadel  bello  comunica  alla  cosa  un  attributo  simile a  se  stessa,  ma  vuol  dire  semplicemente  che  la  cosa  ricave  (dé^exat), ha  in  sé  (sxsO  1'  Idea  del  bello.  È  esattamente  lo  stesso  rapporto ohe  si  chiama  parusia,  quando  si  prende  come  soggetto  di  esso  la Idea  (o    piuttosto,  In    generale,  il  partecipato),  e  partecipazione, quando  si  prende  come  soggetto  la  cosa  (o,  in  generale,  il  parteci- pante). Dopo  ciò  che  abbiamo  detto  sulla  parusia,  è  inutile  d'insistere ancora  su  questo  fatto  evidente,  che  la  presenza  o  ine>3Ìstenza  dell'Es- sere, del  Bello,   del  Grande  ecc.  (o  dell'Essanza,  della   Beltà,  della Grandezza,  ecc.,  perchè  le  Idee  sono  pura  dasignate  da  Platone  coi nomi    astratti)   negli  esseri,    nelle   cose    belle,    nelle  cose   grandi, ecc.    non  jaiè  signiticara  altra  cosa  che  la  presenza    o    inesistenza dell'attributo  nel  soggetto.  Tuttavia  l'uso  che  Platone  fa-dei    ter- mine che  noi  traduciamo  por  la  parola  partecipazione,  ci  fornisce un'altra  prova  che  non  dobbiamo  negligere.  La  partecipazione,  ab- biamo detto,  non  significa  altro  che  la  parusia  nella  cosa   o   Idea' che  si  dice  partecipare,  dell'Idea  a  cui  si  dice  partecipare.  Ma  d'al- tra parte,  è  incontestabile  che  la  partecipazione  significa  la  posses" sione  dell'attributo  corrispondente  all'Idea  a  cui  si  partcipa.  È  ciò che  si  può  vedere,  non  solo  da  questo  luogo  e  dai  due  precedenti, ma  da  tutti  i  luoghi  che  abbiamo  citati  sulla  partecipazione;  per- chè, quand'anche  in  alcuno  di  questi  luoghi  per  la  cosa  partecipata si  volesse  intendere   un'Idea  I rosile )i(ìentc%  ciò  che  sarebbe  assoluta- mente impossibile  di  negare  è  che,  quando  Platone  dice,  p.  e.,  che le  cose  sensibibili  partecipano  dell'essere  e  del  non  essere  (/?t?jt)  478 d-e,  1.  e),  che  lo  azioni  partecipano  dol  bello  altrettanto  che  del  giu- sto (Lefl.  859  e,  l.  e.)  eoe,  ciò  che  egli  vuole  esprimere  è  che  le  cose sensibili  sono  al  tempo  stesso  e  non  sono,  che  lo  azioni  sono  altret- tanto belle  ([uanto  giuste,  occ.  Ma  un'espressione  il  cui  significato e  la  parusia  dell' Idaa,  non  potrebbe  significare  la  possessione  dell'at- tributo, se  la  parusia  dell'Idea  e  la  possessione  dell'attributo  non  fos- sero la  stessa  cosa.  Per  infirmare  questa  conclusione  si  dirà  forse  che non  è  necessario  cha  la  parusia  dell'Idea  fosse  per  Platone  l'equiva- lento  dalla  possessione  dell'attributo,  ma  basta  che  per  lui  il  secondo dei  «lue  fatti,  pur  es-jando  distinto  dal  primo,  fosse  legato  al  primo  co- me l'affetto  alla  causa,  perchè  un'espros-jione,  che  direttamente  si- gnificava l'uno  dai  due  fatti— la  parusia  dall'Idea  (quand'anche  que- sta s'intendessa  nel  senso  trascendentalista,  cioè  come  una  semplice presenza  locale  o  quasi  locala)— suggerisse  pure  l'altro  fatto  che  ne era  la  conseguenza  —  la  po:sessiono  dell'attributo  —  E  ciò    è  vero: ma  la  possessione  dell'attribito  non   è   semplicemente   un'associa- zione dell'idea  direttamente  espressa  dalle  parole  partecipare  alVes' serCf  al  non  essere,  al  bello,  d  (jinslo^  occ.  ;  ma  è,  come  si  può  ve-^ 58  - sono  l'uno  né  partecipano  ([istsxsO  all'uno,  se  pure  sono derlo  dai  luoghi  citali,  l'idoa  slessa  che  questo  parole  esprimono  di- rettamente, il  loro  sujniflcatOt  ciò  che  è  ben  altra  cosa  che  una  sem- plice suggestione. una  parte  almeno  —  ed  ò  quanto  basta  all'argomento  pro- cedente —  del  significato  delle  parole  che  noi  traduciamo  per  par- tecipare e  partecipazione,  sia  la  possessione  dell'attributo  omonimo all'  Idea  a  cui  si  partecipa,  è  talmente  evidente  che  è  anche  am- messo dagl'interpreti  trascendenralisti:  perciò  possiamo  dispensarci di  provare  più  abbondantemente  questo  punto  con  luoghi  scolti  a questo  scopo;  basteranno  quelli  che  ci  è  accaduto  e  ci  accadrà  di  ci- tare, quantunque  con  un  altro  scopo,  cioè  di  provare  immediata- mente il  senso  immanente  della  metessi.  La  differenza  tra  noi e  gl'interpreti  trascendentalisti  è  che  per  questi  la  po-:sessione  dello attributo  omonimo  all'Idea  partecipata  ò  foIo  una  parte  del  signi- ficalo della  partecii)Uzione  —  l'altra  parte  essendo  che  quest'attri- buto è  comunicato, non  si  sa  come,  dall'Idea—;  per  noi  invece  è  tutto il  significato.  Ciò  non  vuol  dire  che  esser  bello,  buono,  ecc.  e  par- tecipare al  Bello,  al  Buono,  ecc.,  sono  delle  proposizioni  perfetta- mente identiche:  se  cosi  ibsse,  Platone  non  potrebbe  dire,  senza avvolgersi  in  una  vana  tautologia,  che  la  causa  a  una  cosa  di  es- sere balla  è  la  sua  partecipaztune  al  Bello,  né,  com'egli  spesso  fa, inferire,  dalla  t)artecipazions  di  una  cosa  all'Idea,  che  questa  cosa possiede  l'attributo  corrispondente,  e  viceversa,  dalla  posses  ùone dell'attributo,  che  la  cosa  che  lo  possiede  partecipa  all'Idea  corri- spondente. Platone  può  farlo  senza  rimprovero  di  frivolezza,  per- chè, quantunque  le  due  proposizioni:  esser  bello  o  buono,  ecc.,  e: partecipare  al  Bello  o  al  Buono,  ecc.,  indicano  lo  stesso  fatto,  que- sto fatto  però  è  considerato  a  due  punti  di  vista  diflfjrenti:  una proposizione  lo  considera  al  punto  di  vista  comune,  che  non  im- plica alcuna  teoria  particolare,  e  l'altra  al  punto  di  vista  del  rra- lismo,  che  considera  gli  attributi,  non  come  semplici  attributi,  ma come  attributi-sostanze. Prendiamo  qui  l'occasione  di  ripetere  sulla  part  »cipaziene  due osservazioni  che  abbiamo  già  fatto  sulla  parusia.  (Quando  Platone dice  che  una  cosa  è  bella'  è  buona,  ecc.  per  la  sua  partecipazione al  Bello,  al  Buono,  ecc.,  è  altrentanto  naturale  d'intendere  ch'ossa lo  è  perchè  possiede  l'attributo  B*)ntà,  Beltà,  ecc.  (considerate  come entità  reali),  che  quando  egli  dice  che  la  cosa  è  bolla  per  la  parusia altre  da  esso  —  Certamente  —  Dunque  nelle  altre  non  ine- del  Bello,  buona  per  la  parusia  del  Buono,  ecc.  Ciò  è  perchè,  come abbiamo  tante  volte  notato,  se  le  Idee  non  fossero  gli  attributi  delle cose,  non  vi  sarebbe  per  le  parole  metessi  e  parusia  alcun  senso  pos- sibile che  facesse  comprendere  come  Platone  possa  dare  la  metessi  o parusia  delle  Idee  come  la  ragione  degli  attributi  delle  cose:  è  sol- tanto quando  per  le  Ideo  s'intendono  gli  attributi  delle  cose— sostan- tificati— che  vi  ha  tra  la  metessi  o  parusia  dell'Idea  e  l'inerenza  nella cosa  dell'attributo  corrispondente  questo  legame  necessario  ed  evi- dente per  se  stesso  che  deve  esservi  tra  la  ragione  che  si  adduce  per ispiegare  un  fatto  e  questo  fatto.  È  per  lo  stesso  motivo  che  noi  dob- biamo vedere  una  prova  dell'immanenza  delle  Idee  nei  luoghi  nu- merosi —  di  cui  ci  asteniamo  di  d?ire  degli  esampi,  perchè  sa  que- sto soggetto  basta  ciò  cha  è  stato  detto  parlando   della   parasià — nei  quali  Platone  concludo  immediatamente  dalla   partecipaziona all'Idea  alla  possessione  dell'attributo  omonimo,  e  viceversa  dalla possessione  di  un  attributo  alla  partecipazione  all'Idea  omonima; come  una  prova  simile  abbiamo  già  vista  nei  luoghi  in  cui  Platone procede  della  stessa  maniera  riguardo  alle  parusia.  Platone  non  po- trebbe passare  immediatamente  dalla  premessa  alla  conseguenza, considerando  quest'inferenza  come  una  cosa  che  va  da  sé,  se  non fosse  d'un' evidenza  immediata  che  la  metessi  o  parusia  dell'  Idea importa,  nelle  cose,  la  poss3-:sione  dell'attributo  omonimo,  e   que- sta —  data  la  ipotesi  dell'esistenza  delle  Idee  —  la  metessi  o  parusia dell'Idea  omonima:  ma  questa  evidenza  non  esiste  che  dando  alla metessi  e  alla  parusia  un  senso  immanente.  Bisogna  convenire,  è vero,  che,  quando  si  tratta  della  partecipazione,  anche  l'interprete trascendentalista  può  rendere  conto  di  quest'inferenza  immediata, nel  caso  almeno  in  cui  la  premossa  è  la  partecipazione  all'Idea  e la  conseguenza  la  possessione  dell  attributo  :  ma  ciò   avviene  per- chè egli  non  ammette,  contro  l'evidenza  dei  testi,  che  ciò  che  la    . metessi  di  una  cosa  a  un'Idea  significa,  è  la  parusia  dell'Idea  nella cosa.  Per  gl'interprexi  trascendentalisti,  come  per  noi,  la  metessi air  Idea  include  nel  suo  significato  la  possessione  dell'attributo  omo- nimo :  ma  questa  inclusione,  nell'ipotesi  della  trascendenza,  è  inam- missibile, se  si  fa,  com'è  necessario,  della  metessi  l'equivalente  per- fetto della  parusia.  Una  sola   è   V  interpretazione   Imscendentalhta possibile,  che  permettano  i  testi  evidenti  che  provano  che  i  termini che  noi  traduciamo  per  partecipare  (|ji£TéX£t.v,  |i£xaXaiigàvsiv,  ecc.) ^59  - risce  (svsoTtv)  il  nnmerr,  non  inerendo  ([iyj  è'^óvzo^)  in  esse 1  uno  (1).  —  Come  potrebbe  inerirvi  ?  —  Le  altro  cose  dun- que non  sono  nò  uno  uè  due  nò  designate  per  il  nome di  alcun  altro  numero  ».  (L'inerenza  dell'uno  e  del  numero nelle  altre  cose  è  co^i  l'inerenza  dell'attributo  nel  sog- getto). Ibid.  157  b-e  :  «  Diciamo  ciò  che  accadrà  alle  altre  co- se, se  Tuno  ò  V  —  D.'ciamolo  — Poche  sono  altre  dall'uno^ rsse  i.on  sono  l'uno,  poichò  in  questo  caso  non  s'ireb- bero altre  dall'uno  —  È  giusto  —  Tuttavia  le  altre  coso non  sono  prive  (axspsxa'.)  affatto  dell'  uno,  ma  ne  par- tecipano ({jtsTsysi)  in  qualche  modo  (2)  —  Perchò  ?  —  Per- chè le  altre  co-^e  dall'uno  sono  altre  da  esso,  perchò  hanno delle  parli;  se  non  avessero  parti,  sart'bbero  assoluta- mente  uno  —  E  giusto  —  Ma  Ij  parti  non  sono  parti  che di  ciò  che  ò  un  tutto  ....  (3).    Re    dunque   le  altre  coso sono  per  Platone  i  sinonimi  di  avjra  (sx^'-v),  ricavere  (^SX^^^^O e  altri  simili,  con  cui  egli  dasigna  quello  stesso  rapporto  tra  le  cose e  le  Ilea  ch'egli  indica  coi  lei-mini  esser  presente  (Tiapstvat),  ine- sistere (èvsrvai),  ecc.,  qiianio  consi  lera  come  soggetto  di  questo rapporto,  non  le  cose,  ma  le  Idee:  è  di  ammettere  che  la  metessi, come  la  parusia,  significa  che  le  Idee  s:ono  nallo  cose  press' a  peco come  Torricelli  diceva  ch3  la  l'orza  è  nella  materia,  cioè  come  in un  vaso.  Ma  è  vero  yevò  che  sa  l'interprete  trascendentalista  ac- cettasse questo  senso  della  metessi,  egli  rfi  metterebbe  in  contrad- dizione coi  testi  non  meno  evidenti  che  provano  che  il  senso  di questo  termine  deve  includere  la  posses-;ione  dell'attributo  omonimo all'Idea  a  cui  la  cosa  è  detta  partecipare. (1)  Cosi  la  partocipazioTìtì  di  una  co^a  all'uno  è  equivalente  all'i- nerenza dell'uno  in  questa  cosa. (2)  Quest'  antitesi  tra  esser  privo   e   p.xrtecipare  indica   che   la partecipazione  all'uno  «ignitica  la  pariisia  dell'uno. (3)  Nelle  i)aro!e  che  mancano  mostra  che  la  parte  non  si  dice hanno  delle  part»,  partecipano  (fisxéxe'O  anche  al  tutto  e all'uno  »  (i). Ibid,  158  b-c:  «  Le  altre  cose  dall'uno  partecipano  (jis- xaXafipòtvei)  all'uno,  quando  non  sono  nò  l'uno  nò  parte- C'pi  (|iex£xovxa)  dell'uno  —  Dunque  quando  sono  moltitu- dini, in  cui  non  ine?7,<?ce  (ivi)  l'uno  ».  (La  partecipazione all'uno  equivale  cosi  all' l'inerenza  dell'uno). Ibid.  159  b-160  a:  «  Diciamo  da  capo,  se  l'uno  ò,  ciò che  ò  necepsario  che  accada  alle  altre  cose  dall'uno  — Diciamolo  —  L' uno  noi  ò  separato  (x^pC^)  dalle  altre cose,  eie  alr.re  così  separata  IX^*^?^?)  dall'uno?....  Inoltre diciamo  che  il  vero  uno  non  lia  parti.  —  Com3  potrebbe averne?  —  Dunque  nò  l'uno  intf>ro  sarà  nelle  altre  coso (etrj  év  xor^  àXXot^j  nò  de'lc  parti  di  es^r>,  se  l'uno  ò  se- parato (xwpi?)  dalle  altre  cose,  e  non  ha  parti  —  Cosi  ò —  Le  altre  cose  non  parteciperanno  ({xsxsxo'-)  dunque  in niun  modo  dell'uno,  non  partecipando  (jisxéxovxa)  nò  del- l'ano intero  nò  dì  alcuna  parte  di  esso  (2)— Io  niun  modo, a  quanto  pare  —  Le  altre  cose  dunque  non  saranno  in niun  modo  uuo,  nò  avranno  in  fò  alcun  che  di  uno  (8). parte  dei  molti  che  costituiscono  un  tutto,  ma  di  un  certo  uno,  che è  ciò  che  si  chiama  tutto;  e  dopo  ciò  conclude  immediatamente con  la  proposizione  seguente. (1)  Questa  conclusione  ci  prova  che  partecipare  al  tutto  e  al- l'uno significa  essere  un  tutto  e  un  uno,  perchè  il  ragionamento  da  cui essa  è  tirata  non  stabilisce  altro  sa  non  che  ciò  che  ha  delle  parti — vome  le  altre  cose,  di  cui  si  è  convenuto  che  ne  hanno — deve  es- sere un  tutto  e  un  uno. (2)  Le  altre  cose  jìaì'tccipare  alVuìio  è  equivalente  a:  Vtino  essere nello  (dire  cose,  ed  è  in  antitesi  con  :  l'uno  essere  separalo  dalle  al- tre cose.  Potrebbe  provarsi  più  chiaramente  che.  la  partecipazione a  un'Idea  non  significa  altro  che  la  parusia  o  inerenza  di  quest'Idea? (3)  Conseguenza  immediata  dalla  non  partecipazione  all'  Idea alla  non  possessione  dell'  attributo  corrispondente.  V.  la  nota  1  a carta  57  p.  2« ^fo  certamente—  Né  per  conseguenza  saranno  molte: se  fossero  molt^,  ciascuna  di  e<5se,  quale  parte  del  tutto, sarebbe  una;  ma  al  presente  le  altre  c^se  dall'uno  non sonò  né  una  nò  molte  né  parti  né  tutto,  poiché  non  par- tfcipano  (iisxéxsO  in  alcun  modo  dell' uno  —  E  giusto  — Le  altre  cose  non  sono  dunque  né  due  né  tre,  né  vi  ha in  esse  alcun  che  di  tale,  se  sono  prive  (oxspsxai)  affatto dell'uno  (l)— Così  é— Dunque  né  sono  Q^se  stesse  simili  o dissimili,  né  vi  ha  in  esse  alcuna  somiglianza  o  dissomi- glianza. In  effetto  se  fossero  simili  e  dissimili,  o  vi  fosse in  esse  qualche  somiglianza  e  disomiglianza,  lo  altre cose  dair  uno  avrebbero  in  sé  (s^ot  av  év  éauxor?)  due  spe- cie contrarie  fra  di  hro  —  Co>ì  pare  — Ma  é  impossibile che  partecipi  (jisxéxs'-v)  a  duo  ciò  che  non  può  partecipare ([iExéxo'O  a  nessuno  (2)  —  E  impossibile  —Lo  altre  cose non  sono  dunque  né  simili  né  d  ssimili  né  simili  e  dis- simili al  tempo  htc^so  :  poiché  se  fossero  simili  e  dissi- mili, partecipe! cbbrro  ({isxé/oi)  ad  una  una  delle  due  spe- cie ;  se  fossero  simili  e  dissimili  al  tempo  stesso,  parte- ciperebbero alle  due  specie  contrarie  (3);  ovi\  c'ò  è  parso impossibile  —  E  vero  —  Le  attre  cose  dall'  u'io  non  sono dunqu^-  né  le  stesse  né  diverse,  né  in  movimento  né  in riposo  ;  non  divengono  i  é  periscono  ;  non  sono  né  più grandi  né  più  picc<^le  né  eguali;  né  hanno  alcun  altro di  tali  attributi;    pciclié   se    avessero    alcuno  di  tili  at- ei) Eascr  prive  dvIV  uno  equivale  a  non  p(n'lrrij)(fre  all'nuo^  ciò che  prova,  coma  gìt\  os-jorvammo,  l'identità  di  >:igniticato  Ira  la partecipazione  e  la  parusia. (2)  Sinonimia  tra  iMìt^riporc  a  un'Ideo  e  averla  in  sé  la  «o- miglianza  e  la  di-isomiglianza  essondo  qui  evidentemente  consida- rate  come  Idee —,  e  conseguenza  immediata  dalla  possessione  dell'at- tributo alla  partecipazione  dell'Idea  omonima. (3)  Conseguenza  immediata,  come  sopra. tributi,  parteciperebbero  (ixsGégst)  ad  uno  e  a  due  e  à  tre, e  al  numero  pari  e  all'impari,  a  cui  abbiamo  visto  es- sere impossibile  partecipare  (iisxéxe'-v),  e;sendoprive  (axs- pojiévoi^)  interamente  dell'uno  (1).  » Parm.  163  c-d:  «  Non  cerchiamo  noi  ciò  che  deve  ac- cadere all'uno  se  esso  non  é  ?  — Si  —  Quando  diciamo non  é,  ciò  significa  altro  che  l'assenza  (àTcouaCav)  dell'es- sere da  ciò  che  diciamo  che  non  è  V  — Niente  altro  (2j— (1)  .\nti'.esi  tra  esser  prive  d'un'Idea  e  parievifìarc  a  quest'Idea,  e conclusione  immediata  dalla  possessione  di  certi  attributi  alla  partecipa- zione delle  Idee  corrispondenti  e  delle  Idee  dei  numeri  a  cui  ({uestc  Idee partecipano. Notiamo  che  se  la  partecip 'zione  avesse  il  significato  che  le  danno pl'interjTeti  trascendentalisti,  il  ragionam-nto  di  Platon 3  sarebbe  impos- sibile. Platone  ragiona  cosi  :  ciò  che  non  partecipa  all'Idea  dell'uno  ne  a quella  di  alcun  altro  numero  non  può  essere  ec  snnile  né  dissimile  né  avere alcun  altro  attributo,  perchè  non  può  partecipare  alle  Idee  corrispondenti a  questi  attributi,  e  la  ragione  per  cui  non  [mh  parteciparvi  è  che,  ciascuna di  queste  Idee  essendo  una,  partecipa  all'Idea  dell'uno,  e  più  di  loro  prese insieme  formando  un  certo  numero,  partecipano  all'Idea  di  questo  numero, e  per  conscRuenza  ciò  che  parteciperebbe  ad  uua  o  più  di  queste  Idee parteciperebbe  all'Idea  dell'Uno  o  all'Idea  di  questo  numero.  11  ragiona- mento corre,  se  per  partecipazione  s'intende  la  parusia  .  perche  e  chiaro che  in  una  cosa,  in  cui  ù  presente  un'Idea,  deve  cssefc  anche  presente ogni  altra  Idea  che  è  presente  in  quest'  Idea.  Ma  se  la  partecipazione  d'una cosa  a  un'Idea  significasse,  come  vo-liono  gì'  interpreti  trascendentalisti, che  la  cosa  e  latta  sull'  esemplare  di  quest'  Idea,  non  sarebbe  sempro vero  che  la  cosa  che  partecipa  a  un'Idea,  partecipa  anche  alle  altre  Idee a  cui  quest'Idea  partecii)a  ;  nel  caso  particolare  sarebbe  falso,  poiché  l'a- vere o  uno  o  due  o  tre,  ecc.  esemplari  non  porta  per  conseguenza  l'avere per  esemplare  l'Idea  dell'uno,  del  due,  del  tre,  ecc.,  della  slessa  maniera che,  per  impiegare  un  esempio  d'Aristotile  ^Met.  I.  I.  IX,  4)  1  avere  per esemplare  una  cosa  eterna,  qual  e  1'  Idea,  non  porta  per  conseguenza  di avere  per  esemplare  l'Idea  dell'eterno. (2)  Se  l'assenza  dell'Idea  significa  la  stessa  cosa  che  la  pi  ivazione  del- l'attributo, la  presenza  dell'Idea  significherà  dunque  la  stessa  cosa  che  la possessione  dell'attributo. Quando  diciamo  che  una  cosa  hon  è,  intendiamo  dire  che essa  in  qualche  modo  è  e  in  qualche  modo  no;  o  dire  non è  significa  semplicemente  ch'essa  non  è  affat'>o,  e  non  es- sendo, non  partecipa  ({isTéxsO  in  niun  modo  all'essere? —  Questo  semplicemente  —  Dunque  ciò  che  non  è,  né potrà  essere  ne  potrà  partecipare  Oisxéxsiv)  in  alcun  al- tro modo  all'essere —  Non  lo  potrà  —  Ora  divenire  e  pe- rire sono  altra  cosa  se  non  l'uno  ricevere  (jisxaXaixPavsiv) Tessere,  e  l'altro  perderlo  ?  (àTioXXóvai)  ?— Niente  altro  — Ma  ciò  che  non  partecipa  (q)...  iiìtsotiv)  per  niente  di  esso, non  potrà  nò  riceverlo  (o5x'àv  Xaixgavoi)  nò  perderlo  (o5x'à- TioXXóoi)  —  Come  lo  potrebbe  V — All'uno  dunque,  poiché  as- solutamente non  ò,  non  conviene  nò  dì  possedere  (o56'éx- TSGv)  nò  di  perdere  ((o5x  dcTiaXXsxxéov)  nò  di  ricevere  (oSxs jjisxaXyjTCxéov)  1'  essere  in  alcuna  maniera  —  Pare  —  Dun- que l'uno  che  non  ò  non  perisce  nò  diviene^  poiché  non partecipa  ([isxéxsO  in  alcun  modo  all'essere  (1).  » Sof.  251  a-2G0  b  :  «  Diciamo  eome  diamo  ad  una  stessa cosa  più  nomi  —  Apporta  un  esempio  di  ciò  — L'uomo 251  B  chiamiamo  con  molti  nomi^  attribuendogli  dei  colori,  delle forme,  delle  dimensioni,  delle  virtù  e  dei  vizi,  pei  quali attributi  e  molti  altri  non  solo  lo  diciamo  uomo,  ma anche  buono,  e  altre  cose  innumerevoli;  e  lo  stesso  fac-ciamo per  gli  altri  oggetti,  ponendo  ciascuno  come  uno, e  »1  tempo  stesso  come  molti  per  i  molti  nomi  con  cui lo  chiamiamo  —  È  vero  —  Così  abbiamo,  io  penso,  prepa- rato un  festino  ai  nostri  giovani  e  ai  nostri  vecchi  tardi L'essere  che  ricevono  le  cose  che  divengono,  e  che  perdono  le cose  che  periscono,  é  certamente  un  essere  immanente  in  queste  cose;  ora quest'essere  evidentemente  è  quello  stesso  a  cui  ciò  che  e  partecipa  e  a  cui l'uno  che  non  è  non  può  partecipare;  dunque  la  partecipazione  è  di  un'Idea, non  trascendente,  ma  immanente  nelle  cose  che  ne  partecipano. € D istruiti  ;  ai  quali  Farà  facile  di  obbiettarci  che  ò  impos- sibile che  uno  sia  molti  e  molti  uno,  e  che  sono  al  colmo della  gioia  quando  non  permettono  che  l'uomo  si  dica buono,  ma  soltanto  che  il  buono  si  dica  buono,  e  l'uomo uomo  Senza  dubbio  tu  incontri  spesso  delle  persone,  che s'applicano  a  simili  arguzie,  e  qualche  volta  anche  dei vecchi  che,  per  povcnà  di  spirito,  ammirano  queste  cose, e  credono  di  avervi  trovato  il  colmo  della  sapienza— È vero.  Affinché  il  nostro  discorso  abbracci  tutti  quelli  che PI  sono  rccupati  d'  una  maniera  qualunque  dell'  essere, le  ntstrc  domande  devono  intendere  come  dirette  tanto a  questi  quanto  ngii  altri  con  cui  abbiamo  precedente- mento  disputato  (cioè  i  fisici  e  gli  amici  delle  Idee)— Quali sono  queste  domande?— Se  non  congiungeremo  nò  l'essere col  movimento  e  col  riposo,  nò  alcun'altr.x  cosa  con  al- cun' altra,  ma  le  ammetteremo  nei  nostri  discjorsi  come immiste  (àjitxxa)  e  incapaci  di  partecipare  (iisxaXaiJipdvsiv) l'una  dell'altra;  o  le  identificheremo  tutte,  ammettendo  che sono  tutte  capaci  di  una  comunione  reciproca;  o  per  al- cune lo  i^minetteremo  e  per  altre  no?  quali  di  questi  tre partiti  diremmo  che  essi  sceglieranno?— Io  non  saprei  che cosa  rispondere  per  loro  :  perché  non  fai  tu  ciascuna dello  tre  risposte  possibili,  cercando  quali  conseguonzo risultano  da  ciascuna?— Tu  dici  bene;  e  supponiamo,  se vuoi,  ch'fssi  rispondano  prima  che  non  vi  hi  ^Icnua comunione  possibile  di  alcuna  cosa  con  un'  altra;  p  r conseguenza  il  moto  e  il  riposo  non  parteciperanno  f'is- \ì;)2  A  OégsTov)  in  alcun  modo  all'essere  ?  -Non  parLeeipcraniio — Ma  che  ?  sarà  l'uno  o  l'altro  di  essi,  non  partecipindo  ((7:po$- xotvwvouv)  dell'essere?  —  Non  sarà  —  Questa confe  sione,  a quanto  pare,  ha  subito  tutto  rovesciato,  e idommi  dì  quelli che  mettano  tutto  in  movimento,  e  di  quelli  che  lo  lasciano in  riposo  come  uno,  e  di  quegli  altri  che  ammettmio  che, sotto  il  rapporto  delle  loro  Idee,  gli  esseri  sono  sempre  inva- E -  G2  - e B riabili  e  nello  stesso  stato:  tutti  infatti  aggiungono  Tes- sere, dicendo  gli  uni  che  le  cose  sono  realmente  in  mo- vimento, e  gli  altri  che  sono  realmente  in  riposo  —  Cosi è  —  E  quelli  che  ora  compongono  e  ora  decompongono  il tutto,  sia  riducendo  tutto  ad  uno,  e  facendo  uscire  dal- l'uno una  varietà  infinita,  sia  decomponendo  il  tutto  ili un  numero  finito  di  elementi,  e  componendolo  da  questi stessi  elementi,  sia  supponendo  che  ciò  si  faccia  a  vicen- da, sia  continuamente,  in  tutti  i  casi  non  potrebbero  dire niente  di  vero,  se  non  vi  ha  alcuna  mescolanza  (gó|i|i'.£t^)— È  giusto— Ciò  che  vi  ha  di  più  piacevole  è  che  essi stessi  hanno  bisogno  del  discorso  questi  che  non  permet- tono che  di  una  cosa  se  ne  dica  un'altra  per  la  parteci- pazione di  quest'  altra  (xotvcDvta  TcaGr^jiaxog  izipo^ò)  (1)  — Come?— Essi  sono  costretti  di  servirsi  a  ogni  momento  delle parole  essere^  separatamente^dagli  altri,  per  sé  e  di  mille altre  che  nou  possono  astenersi  di  adoperare  e  di  con- nettere nei  loro  discorsi;  dimodoché  ossi  non  hanno  bi- sogno di  un  altro  che  li  confuti,  ma,  come  suol  dirsi, hanno  il  nemico  in  casa,  e  portano  da  per  tutto  con  se st«  ssi  il  loro  contradittore,  che  mormora  dentro  di  loro, come  quel  pazzo  di  Euricle  (un  ventriloquo  che  preten- deva di  avere  nel  ventre  un  demone  profetico)— Gli  so- migJ.ano  in  effetto,  e  tu  dici  la  verità— Ma  cbcV  se  la- sciamo a  tutte  cose  la  facoltà  di  una  comunione  recì- pioca  V— Questa  supposizione  posso  confutarla  anch'io— (1)  Avere  il  7ià0Y]jJia  d'  nn*  Idea  significa   partecipare  a  questa Idea.  V.  Suflsla  stesso  245  a-c.   Per  conseguenza   la    X0lV(i)v(a    del :T:aOyj|Jia  (ji  un'altra  cosa— cioè  di  un  altro  Genere,  perchè  le  cose di  cui  yi  tratta  qui,  sono,  come  si  dice  in  seguito,  dei  Generi— si- gnifica aver  parte  a  questo  raprorto  delle  cose  col  Genere,  ohe  PiaioDe chiama  ordinariamente  partecipazione. f B Come?  —  È  ehe  il  movimento  sarebbe  in  riposo,  e  il  ri- poso in  movimento,  se  si  mescolassero  V  uuo  colV  altro (èTttyLYvoCaOyjv  èn'iXXi^Xwv)  —  Ma  è  assolutamente  impossì- bile che  il  movimento  sia  in  riposo  e  il  riposo  in  mo- vimento —  P]  come  no?  —  Resta  dunque  Foltanto  la  terza supposizione— Si— Infatti  è  necessario  che  sia  vera  una di  queste  tre  supposizioni,  o  tutto  mescolarsi  (a'j|ji}iLYv^a0at), 0  niente,  o  alcune  cose  si  e  alcune  no.  —  È  necessario  — Ma  le  prime  due  abbiamo  visto  che  sono  impossibili— Si  — Dunque  chi  vuol  rispondere  giustamente  deve  ammettere la  terza  supposizione— Certamente— Poiché  alcune  cose 153  A  possono  mescolarsi  e  altre  no,  esse  sono  press'  a  poco comti  le  lettere,  delle  quali  alcune  possono  congiungersì fra  di  loro,  altre  non  lo  possono.  Ma  tutti  conoscono  quali lettere  possono  associarsi  fra  di  loro,  o  vi  ha  bisogno  dì un'arlc  per  chi  vuol  fare  ciò  d'una  maniera  conveniente?— D'uu'aite-Quale?— La  gratnmatìca— E  non  è  lo  stesso  pei suoni  gravi  ed  acuti?  Chi  ha  l'arte  di  conoscere  quali  si accordano  e  quali  no,  ò  mu^iico;  chi  l'ignora,  è  straniero alla  musica...  Ebbene!  poiché  siamo  convenuti  che  i  ge- neri si  mescolano  (|ii£sa)c  sx^^"^)  similmente  tra  dì  loro,  non ha  bisogno  dì  procelcre  nei  suoi  ragionamenti  con  una certa  scienza  chi  vuol  mostrare  quali  generi  si  accordano (o'j}icf(!)V£l)equali  non  sì  ammettono  (oO  §éx£Tai)  fra  dì  loro?... E  come  chiameremo  questa  scienza? Dividereper  generi. e  non  prendere  la  stessa  specie  per  un'altra  né  un'altra per  la  ste-sn,  non  é  questo  l'ufficio  della  scienza  dialet- tica?—Sì— Chi  éeapf.co  di  far  ciò,  vede  acutamente  un'Idea unica  diffusa  per  meltc  cose  (dia  tto^.Xwv...  TràvxY]  S'.axsxaiié vy]v)  che  esistono  separatamente  l'una  daU'altra,  e  molte Idee  diverse  compresa  so!to  un'Idea  unica,  ed  un'Idea unica  per  molti  intii  in  uno  raccolta,  e  molte  Idee  di- stinto e  separate  Ira  di  loro:  (lucsto  é  saper  discernere, per  mezzo  della  divisione  per  geneii,  quali  sono  in  co- munione fra  di  loro,  e  quali  no -  63  — D 254  B      Poiché  siiino  convenuti  che  dei  generi  alcuni  souo  in  co- munione recìproca  e  alcuni  no,  alcuni  con  pochi,  alcuni  con C  molti,  e  di  altri  niente  impedire  la  loro  comunione  con  tutti intuiti*,  cose,  continuiamo  la  nostra  discusslcn'*,  non  f  si- minando  tutte  le  Specie,  per  non  restare  confusi  dalla loro  moliitudino,  ma  scogl  eadonc  alcune  di  quelle  che hanno  una  più  grande  estensione,  e  vedendo  prima  quale sia  ciascuna  di  esse,  e  poi    quale  comunione  abbia  con ]>  le  altre I  generi  più  (stesi,  tra  quelli  di  cui  abbiamo parlato,  sono  l'essere,  lo  ttato  e  il  movimento— I  più  e- steM  di  gran  lunga— E  due  di  essi  diciamo  die  non  si meacclano  (àiiixKo)  l'uno  con  l'altro  —  Certamenlo  —  Ma l'essere  si  mescola  (jjlixxóvj  a  tutti  e  due  :  lutti  e  due  in effetto  sono-Senza  dubbio— Essi  sono  tre— Certamente  — Dunque  ciascuno  è  altro  dagli  altri  due,  e  lo  stesso  con E  se  stesso?— Si— Ma  che  sono  questi  lo  stesso  e  altro  che abbiamo  nominat  ?  sono  due  generi  diversi  dai  tre  supe- riori, necessariamente  sempre  mescolali  (£'J|i|uyv'J|jiìv(o)  con essi,  e  cosi  bisogna  esaminare  cinque  generi  in  luogo  di 255 A  tre;  o  senz'accorgercene,  abbiamo  chiamato  qualcuno dei  tre  generi  superiori  lo  stesso  e1  altro?  —  Forse— Ma il  moto  e  lo    stato  mai    seno  nò  lo  stesso  rè  l'altro B     Tuttavia  tutti  e  due  partecipano  (iisiéx^'cov)  dello  stesso e  dell'altro.  ..Poniamo  dunque  lo  stesso  come  una  quarta €     specieoltre  le  tre  specie  superiori? -Poniamolo— ....Quinta B     deve  dirsi  la  naiura  deh' altro  che  é  nelle-    spece(£v  zoi. E     stSsaiv  o'jaav)  che  noi  abbiamo  scelte— SI— E  diremo  ch'essa é  diffusa  per  tut'.e  queste  (òca  rcocvicov slvai  òisXr^XoO'jrav  ), poiché  ciascuna  è  aUvn  ('alle  altre,  non  per  U  natura  di 8e  stessa,  ma  per  il  partecipare  (|x£TÌxe-v)  all'Idea  del- l'altro  —  Certamente. Cosi  diremo  adunque  dei  cimine  generi  riprenden- doli ad  uno  ad  uno  —  Com-?  —  Primo  che  il  nìovimento è  affatto  altro  dallo  stato;  o  ncn  diremo  così?  — Cosi  — Dunque  non  e  lo  stato  —  Giammai  —  Ma  è  per  il  par- 256Atecipare  Oistéxsw)  all' essere— È— Ancora  il  movimento  è altro  che  lo  Stesso-  Si— Non  è  dunque  lo  Stesso— No— Tut- tavia si  é  convenuto  tra  noi,  che  è  lo  stesso  per  il  par- tecipare (jjtsTÉxs'.v)  allo  Stesso— Si-  Bisogna  dunque  rico- scere  senza  difficoltà  che  il  movimento  è  lo  stesso  e  non è  lo  stesso;  non  è  infatti  nello  stesso  senso  che  noi  di- ciamo che  è  lo  stesso  e  che  non  è  lo  stesso;  ma  quando diciamo  che  è  lo  stesso,  è  per  la  partecipazione  ((jisGeÈiv) dello  stesso  relativamente  a  se  stesso  (cioè  in  quanto osso  è  lo  stesso  con  se  stesso);  quando  diciamo  che  non è  lo  stesso,  è  per  la  partecipazione  (xoivcoviav)  dell'Altro, per  cni,  distinguendosi  dallo  Stesso,  è,  non  questo,  ma un  altro,  sicché  giustamente  si  dice  che  non  è  lo  Stesso— Spnza  dubbio— Cosi  se  il  movimento  partecipasse  fjiexa- Xaix^avev)  dello  stato,  non  sarebbe  assurdo  di  chiamarlo stabile  — Sarebbe  con  ragione,  poiihè  siamo  convenuti che  dei  generi  alcuni  si  mescolano  (jjttYvuaGat)  fra  di  loro e  altri  no— Sosterremo  senza  timore  che  il  movimento è  altro  che  l'essere  ?  —  Senza  il  miinmo  timore  —  Dunque è  evidente  che  il  movimento  è  non  essere,  ed  è  essere,  poi- ché partecipa  ([isxsxsO  delT  Essere?  —  È  evidente  —  Ne segue  che  il  Non  e?sere  è  nel  movimento  (ìkì  ts  xivr/- 050)^  slvat)  e  in  tutti  i  generi  ;  polche  in  tutti  la  natura dell'Altro,  rendendo  ciascuno  altro  dall'Essere,  ne  fa  un non  essere;  e  perciò  tutti  diremo  con  ragione  non  ent', e  ancora,  perchè  partecipano  (lasxéxsO  dell'Essere,  essere ed  enti A  I  generi  sono  mescolati  (a»j|i|itYV'jxaO  fra  di  loro,  e  l'Es- sere e  l'Altro  sono  d-ffusi  per  tutti  e  l'uno  nell'altro  ($'.à Tcavxwv  xat  Si'àXXi^Xcov  SisXyjX'jBóxa) ;  l'Altro,  partecipando («jLsxaaxóvj  dell'Essere,  per  questa  partecipazione  (laéOsgiv) è,  ma  non  è  quello  di  cui  partecipa  (iisxéaxsv),  ma  altro; ed  essendo  altro  dall'Eiesere,  è  evidentemente  necessario D 259 i' che  sia  non  esfere;  l'Essere  poi,  essendo  partecipe  (|ie TsiXYjcpós)  dell'Altro,  è  altro  dagli  altri  generi,  ed  essendo altro  da  essi  tutt*,  non  è  ciascuno  di  e-si  nò  tutu  gli  altri insieme  fuori  di  se  s'esso,  sicché  l'Essere  senza  dubbio  in maniero  innumerevoli  non  è,  e  gli  altri  generi,  ciascuno proso  a  parte  e  tutti  insieme,  sono  in  molte  maniere  e  in molte  maniere  non  sono Voler  separare  (àTioxwp^^s'-v)  ogni  cosa  da  rgni  al  ira manca  di  grazia,  ed  annunzia  nno  spirito  straniero  alle Muse  e  alla  fiksofla— Perchè? — Il  separare  (ÒtaXuetv)  eia- Fcuna  cosa  da  tutte  le  altre  è  la  distruzione  ccmplea  di ogni  discorso:  in  effetto  noi  abbiamo  il  discorso  per  l'in- treccio (oufiTiXoxT^v)  delle  specie  fra  di  loro.  —  E  vero  — 2G0  A  Vedi  con  quale  opportunità  abbiamo  combattuto  costoro, e  li  abbiamo  costretti  a  lasciare  che  .si  mene  olino  Oi^yv-jaGat) runa  con  l'altra — Perchè? — Perchè  il  discorso  sia  anche esso  uno  dei  generi  che  esistono.  SI  sopprimerebbe,  se B  si  concedesse  non  esservi  alcuna  mescolanza  TjAtgiv)  di niente  con  niente.  » Facciamo  alcune  osservazioni  su  questo  luogo  del Sofista . 1*^  Siccome  gl'interpreti  generalmente  cenvengoro  cin  questo  luogo  si  tratta  dei  rapporti  di  partccipfìzirne tra  le  Idee,  ci  limiteremo  alla  quistione  se  questi  rapporti implichino  o  no  l'inerenza  dell  Idea  partecipata  nell'Idea partecipante— nel  senso  speciale  che  questa  parola  ine- renza ha  nella  nostra  interpretazione  del  sistema  delle Idee—.  Se  noi  vedremo  che  la  implicano,  ciò  sarà  una  prova dell'immanenza  delle  Idee,  es  ondo  evidente  che  se,  quan- do si  tratta  della  partecipazione  d'un'Idea  ad  un'altra, partecipazione  significa  l' inerenza  del  partecipato  nel partecipante,  essa  non  può  significare  il  contrario,  quan- do si  tratta  della  partecipazione  d'una  cosa  ad  un'Idea. Come  prove  deiriuerenza,  notiamo  prima  di   tutto  le espressioni  mescolarsi  (ixCyvDaO-at,  auiijx^Yvya^at)  e  Twe^co/arzza (jA^Etc»  Sw^S^O  e  quelle  che  ìd dicano  la  diffusione  d'una cosa  in  una  moltitudine  di  altre  cose  (Ij— tralascio  altre espressioni  non  meno  probanti,  perchè  identiche  o  simili ad  alcune  di  quelle  che  abbiamo  già  incentrate  nei  luoghi precedentemente  citati  (2)  —  Il  termine  mescolanza  signi- fica, è  appena  bisogno  di  dirlo,  la  parusia.  Esso  esprime l'immanenza  d'una  maniera    anche  più  energica,  a  un certo  punto  di  vista,  che  il  termine  parusia  :  per  questo potrebbe  intendersi,  come  si  è  detto  sopra,  che  il  parteci- pato è  presente  nel  partecipante  d'una  semplice  presenza loca'e  0  quasi  locale;  la  parola  parusia  non  esprime  que- sta unione  di  due  sostanze  in  una  sola,  indicata  dalla  pa- rola mescolanza  — si  pensi  al  significato  di  questa  parola (jiigig)  nella  fisica  d'Aristotile —,  Aggiungiamo  che,  sic- come Platone  considera  senza  alcun  dubbio  la  mescolanza di  due  Idee  come  un'espressione  affatto  equivalente  nel lignificato  alla  partecipazione  dell'una  delle  due  Idee  al- P  altra,  noi  abbiamo    qui    la   prova  più  evidente   della verità  di  un'  osservazione  precedente,  cioè  che  il   senso della  parola  partecipazione  è  la  parusia  dell'Idea  parte- cipata nella   cosa  o  nell'Idea  partecipante,  e  che,    per conseguenza,  sapendo  anche  che  questa  parola  significa per  Platone  la  possessione  dell'attributo  omonimo  all'I- dea a  cui  si  partecipa,  noi  possiamo  concluderne  che  la parusia  dell'Idea  non  è  altro  che  la  possessione  dell'at- tributo omonimo,  e  quindi  che  l'Idea  e  l'attributo  sono la  stessa  cosa. Senza  dubbio,  la  parola  mescolanza  è  un'espressione (1)  V.  253  d,  255  e,  259  a.  E  biscia  aggiungere  260  b,  in  cui  dice che  il  Non  essere  è  di*4seminato  (SieaTcapp-évov)  in  tutti  gli  esseri. (2)  V.  252  d,  253  e,  255  e,  256  d. <t - I I, r V li inadequata  al  concetto  che  essa   significa,   come   più  o meno  lo  sono  necessariamente  tntte  le  altre  di  cui    Pla- tone si  serve  per  indicare  i  rapporti   tra   le   Idee  o,   tra queste  e  le  cose,  per  la  semplice  ragione  che  questi  rap- porti differiscono  iolo  coeio  da  tutto  ciò  che  le  parole  di ogni  linguaggio  umano  sono  destinate  a  significare.  La parola  mescolanza  esprime  con  proprietà    questo   cant- iere del  rapporto  tra  le  due  Idee,  che  e^^se  sono  delle  so- stanze di  cui  runa  si  trova  contenuta  ncll'alrra,  [ur  es- sendo due  sostanze  distinte  luna  dalPaltra  — l'Idea  del- l'Uomo e  quella  dell'  Animale,  quantunque   la   seconda sia  compresa  nella  prima  come  una  parte  di  essa,   sono nondimeno  due  sostanze  distinte,  poiché  l'Idea  dell'ani- male si  trova  anche  fuori  dell'Idea  dell'uomo,  fn  quella del  leone,  del  cavallo  ecc.  —  Ma  ess:ì  è  inesatta,  percbé le  sostanze  che  si  mescolano  sono  completan.en te  distinto runa  dall'altra  :  Tura  non  fa  parto  dell'altra,  come  l'I- dea partecipata  della  partecipante.  Per   conseguenza   lo interprete  trascendentalista  può  dire  che   la    mescolanza dei  generi  del  Sofista  indica  bensì    un'intima  congiun- zione tra  le  Idee,  ma  non  Viwwarìenza  dell'Idea    parte- cipata  nell'Idea  partecipante,  poiché  per  immanenza  noi intendiamo  piecisamente  questo  inrsistere  del  partecipato nel  partecipante  come  una  parte  di  e^so,  che    la   parola mescolanza  non  esprime.  Ma  quale  sarà  allora,  secondo l'interprete  trascendentalista,  qursta  intima  congiunzone tra  le  Idee  che  Platone  chiama  mescolanza  ?   e  che  ra- gione egli  ha  potuto  avete  per  ammetterla  ?  Nell'ipotesi à^W  immanenza  la  parola    mescolanza  ha  un  significato perfettamente    determinato  (quantunque    non    sia  porf*<i- bile  una  rappresentazione  corrispondente,  ciò  che,  come abbiamo  notato,  é  un  difetto  comune  a  tutte  le  dottrine metafisiche)  e  di  cui  si  trova   facilmente  la  ragione  nel realismo  dell'  autore  :  cioè   che,    siccome  le   Idee  sono i  concetti  realizzati,  cosi  vi  hanno  tra  di  esse  gli  stessi rapporti  di  contenenza  reciproca,  in  comprensione  e in  estensione,  che  si  ammettono  tra  i  concetti.  Ma  che significherà  la  mescolanza  nell'ipotesi  della  trascendenza'^ qual  è  il  senso,  il  concetto  determinato,  che  può  corri- sponde: e  a  questa  parola,  applicata  a  delle  sostanze  im- matc  riali  ed  esenti  dai  rapporti  di  posizione?  Questo  stesso vago  conato  di  assimilazione  —  dei  rapporti  tra  le  Idee a  questo  rapporto  tra  le  sostanze  materiali  che  chiamia- mo moFcolanza  —  a  cui  si  ridurrebbe  tutto  il  significato della  parola,  sarebbe  inoltre  senza  motivo  e  senza  scopo; poiché  quest'assimilazione,  né  avrebbe  alcun  legame  lo- gico con  l'ipotesi  delle  Idee,  né  gioverebbe  a  rendere  que- st'ipotesi più  coerente  o  più  verisimile  o  più  propria  a spiegare  i  fenomeni,  né  darebbe  alcun  soccorso  per  ri- spondere alla  quistione,  cosi  imbarazzante  nell'ipotesi  del- la trascendenza,  della  possibilità  di  predicare  un  concetto di  un  altro,  alla  cui  soluzione  è  destinato  da  Platone  ciò che  dice  su  (juesto  rapporto  tra  le  Idee  a  cui  dà  il  no- me di  mescolanza. Delle  considerazioni  simili  valgono  per  i  termini  che esprimono  la  diffusione  di  un'Idea  in  una  moltitudine di  altre  Idee:  questa  parusia  dell'uno  nei  molti,  che,  nel- l'ipotesi dell'immanenza,  ha  un  senso  preciso  e  di  cui  si comprende  perfettamente  il  legame  con  la  realizzazidegli  Universali,  non  avrebbe,  nell'ipotesi  della  trascen- denza, né  significato  né  ragione  alcuna,  e  inoltre  intro- durrebbe gratuitamente,  come  abbiamo  già  detto,  nel  si- stema delle  Idee  trascendenti  quella  stessa  inconcepibilità che  é  la  difiicoltà  più  grande  del  sistema  delle  Idee  im- manenti. 2^  La  quistione  a  cui  Platone  risponde  con  la  teoria  della partecipazione,  é:  come  noi  diamo  ad  una  cosa  più  nomt^ vale  a  dire,  in  ultima  analisi,  come  possiamo  congiun- —  66  — gere  un  soggetto  e  un  predicato.  Si  sa,  in  effi  tto,  che  gli altri  nomi  che  si  aggiungono  al  nome  soggetto  per  d  - terminarlo,  possono  considerarsi  come  equivalenti  al  al- trettante proposizioni  incidenti  di  cui  essi  sono  i  predi- cati: e  d'altronde  la  parteclpnzione,  ch'esca  s'intenda  nel senso  dell'immanenza  o  in  quello  della  trascendenza,  non potrebbe  render  conto  della  congiunzione,  nel  discors'^, di  altre  parole  che  del  soggetto  e  d^'l  predicato,  perchè Platone  dice  che  una  cosa  partpcipa  a  un'Idea— o  un'I- dea ad  un'altra  Idea—,quando  della  rosa  può  predicarsi l'attributo  corrispondente  all'Idea— o  della  prima  Idea quello  corrispondente  alla  Feconda—. La  quistione  della  possibilità  di  unire  un  nome  ad  un altro  è  presentata  da  Platone  in  termini  generali  :  es^a comprende  tanto  il  caso  in  cui  il  nome  sog^'et  o  è  preso universalmente— -p.  e.  l'uomo  o  tutti  gli  uomini— quando il  caso  in  cui  è  preso  particolarmente— p.  e.  un  uomo o  alcuni  uomini— Tuttavia  è  evidente  che  la  partecipa- zione tra  le  Idee  (se  almeno  noi  vogliamo  intendere  la partecipazione  nel  senso  ordinario  che  qu»  sia  parola  ha in  Platone)  non  potrebbe  rendei  e  conto  che  della  possi- bilità delle  proposizioni  universali  :  l'Idea  dell'uomo  non può  parteciparvi  a  U!i'»ltra  Idea,  il  cui  attributo  omoni- mo non  appartiene  che  ad  un  uomo  o  ad  a'cuni  uomini; quantunque  in  questo  caso  potrebbe  dirsi  che  la  specie umana— intesa  come  la  collettività  degl'individui  uomini  — partecipa  a  quest'Idea,  non  potrt»bbe  dirsi  che  vi  parte- cipa l'Idea  dell'LTomo,  perchè  l'Idea  non  rappresenta  la specie  come  collettività  degl'individui,  ma  l'insieme  degli attributi  comuni  a  questa  collettività.  Platone  ha  dun- que dimenticato  di  rispondere  alla  quistione  propostasi, per  il  caso  in  cui  il  nome  soggetto  è  preso  particolar- mente ?  o  se  egli  nella  sua  risposta  ha  contemplato  an- che questo  caso,  come  si  applica  ad  esso  ciò  che  egli  dice salla  co-nunione  dei  generi  ?  Sono  delle  quistioni  che noi  tralasceremo,  perchè  non  hanno  una  relazione  molto stretta  col  nostro  soggetto,  e  ci  limiteremo  al  caso  che Platone  ha,  se  non  esclusivamente,  almeno  specialmente, di  mira,  cioè  alle  proposizioni  universali  e  alla  partecipa- zione tra  le  Idee  come  fondamento  della  possibilità  di queste  proposizioni. Noi  abbiamo  già  notato  che,  nell'ipotesi  della  trascen- don/,a  delle  Idee,  la  congiunzione  del  soggetto  e  del piedicaio  sarebbe  impossibile,  perchè,  gli  oggetti  dei  con- cetti es>endo  le  Idee,  e  il  rapporto  del  predicato  col  sog- getto essendo  quello  dell'inerenza  dell'ano  nell'altro,  que- sta congiunzione  suppone  l'inerenza  delle  Idee  nelle  cose e  nelle  altre  Idee  subordinate;  e  che  perciò  la  conse- guenza logica  della  dottrina  della  trascendenza  sarebbe la  tesi  erisiea  che  non  si  può  affermare  che  l'uomo  è buono,  ma  solo  che  l'uomo  è  uomo,  e  il  buono  è  buono  (1); tesi  alla  cui  confutazione  è  appunto  destinata  la  teoria della  partecipazione  dei  generi  gli  uni  agli  altri.  Cosi se  la  partecipazione  dovesse  intendersi  nel  senso  degli interpreti  trascendentalisti,  lungi  di  poter  fornire  una risposta  alla  quistione  :  com'è  possibile  la  congiunzione di  un  soggetto  e  di  un  predicato?  essa  renderebbe  la quistione  insolubile,  questa  congiuazione  essendo  impos- (1)  Platone  stesso  dichiara  che  il  sr'^jr/rcrrf  ogni  cosa  da  ogni  al- tra renderebbe  impossibile  il  discorso  (v.  259  e);  ciò  che  implica  la condanna  della  dottrina  che  gli  attribuiscono  gl'interpreti  trascen- dentalisti—dico implira,  perchè  sarebbe  impossibile  di  trovare  in Platone  un  rifiuto  espi  ir  ito  della  dottrina  dell3  Idee  separate,  per la  semplice  ragione  ch'essa  gli  è  affatto  sconosciuta—.  La  proposi- zione citata  coQterrebbe  questo  rifiuto  e^pìicitn^  se  i  Megarici,  co- me credono,  secondo  me  erroneamente,  alcuni  critici,  avessero  am- messa questa  dottrina. sibile  in  qualsiasi  rapporto  tra  le  Ide  e  tra  le  Idee  e  le cose  che  non  sia  quello  d'immanenza;  e  sarebbe  singolare che  Platone,  per  confutare  la  tesi  dei  Megarici— dell'impos- sibilità di  ogni  giudizio  non  tautologico— mettesse  in- nanzi la  teoria  delle  Idee  e  dei  loro  rapporti  tra  di  loro e  con  le  cose,  che,  nell'ipotesi  della  trascendenza,  sa- rebbe precisamente  rappoggio  più  forte  della  tesi  con- futata. Ma  ciò  che  dobbiamo  ancora   osservare   è   che   Pla- tone, nel  luogo  citato- del  Sofista,  non  solo  dà  la  teoria della  partecipazione  per  il   fondamento  e   la   giustifica- zione della  sintesi  tra  il  soggetto  e  il  predicato,  ma,  quel ch'è  più,  identifica   il    rapporto  di   partecipazione    delle Idee  le  une  alle  altre    al    rapporto    che  noi —cioè   tutti quelli  che  pensano  e  che  parlano,  anche  quelli  che  non ammettono  la  teoria   delle  Idee— stabiliamo   tra   il  sog- getto  e  il  predicato,  quando  formiamo  un  giudizio   o  e- nunciamo  una  proposizione.  Per   es-mp*o,    quando  Pla- tone domanda  se  noi  dobbiamo  non  congiungere  lo  stato e  il  movimento  con  l'essere,  né  alcun  altro  genere    con un  altro,  ma  ammetterli  nei  nostri  discorsi  come  immìsti e  incapaci  di  partec'pire  gli  uni  agii  altri,  evidentemeale egli  considera  la  partecipazione  deiridea  del  movimento  e dello  stato  a  quella  dell'essere  come  equivalente  al  rapporto che  noi  stabiliamo  tra  il  soggetto  movimento   o  stato   e il  predicato  essere,  quando  congiungiamo  lo    stato  e    il movimento  con  l'essere,  cioè  diciamo  che  il   movimento o  lo  stato  è.  Similmente  quando  egli  paragona  la  mutua mescolanza  delle  Idee,  cioè  la  partecipazione  delle   une alle  altre,  alla  capacità  che  hanno  lo   lettere   di   essere unite  e  all'accordo  dei  suoni  musicali,  e  dice  che,  poiché i  geoeri  alcuni  b\  mescolano  fra  di  loro  e  altri  no,  vi  ha bisogno  per  essi,  come  per  le  lettore  e  i  suoni  musicali, di  una  scienza  che  mostri   quali   si   accordano   e   quali non  sì  ammettono  fra  di  loro;  quest'accordo  o    associa- bilita dei  generi— per  cui  naturalmente  dobbiamo  inten- dere la  possibilità  della  loro  sintesi  quali  soggetti  e  pre- dicati nelle  proposizioni— non  ha  uà  significato  differente che  la  loro  mescolanza  o  partecipazione  degli   uni    agii altri.  Ma  se  le  Idee  fossero   separate    dalle    cose  e    cia- scun'Idea  da  ciascun'altra,  come   vogliono   gl'interpreti trascendentalisti,  le  Idee  non  potrebbero  essere  gli  attri- buti delle  cose,  ma  solo  gli  esemplari  di  questi  attributi, e  parimenti  un'Idea  non  potrebbe  essere   V  attributo    di un'altra  Idea,  ma  solo  l'esemplare  di    quest'attributo. Quando  noi  congiungiamo  l'essere  al    movimento— cioè quando  aft'ermiamo  :  il  movimento  è -quest'essere  che  noi congiungiamo  al  movimento  è,  secondo  l'interprete  tra- scendentalista, un'imitazione  o  un  simulacro  dell'Essere a  cui  il  movimento  partecipa,  mentre  è  evidente  che  per Platone  è  qu  ^st'Essere  stesso  :  in  efi'etto  egli  direbbe  in- differentemente, per  esprimere  lo  stesso  fatto,  sia  che   i due  generi  possono  congiungersi  tra  loro  e  si  accorda- no—considerando il  fatto  sotto  il  suo  aspetto  logico— sia che  essi  partecipano  l'uno  dell'altro  o  si  mescolano  l'uno con  l'altro— considerando  il  fatto  sotto  il  suo   aspetto  on- logico— .Ma  questa  stessa  distinzione   di  un   aspetto  lo- gico e  di  un  aspetto  ontologico,  sotto  di  cui  le  due  dif- ferenti sorta  di  espressioni  di  cui  si  serve  Platojie,   con- sìderebbero  il  rapporto  tra  i  generi,  abbiamo  avuto  forse torto  di  farla;  poiché  il  sistemi  platonico  è  essenzialmente una  realizzazione  dei  rapporti  logici,    per    conseguenza il  logico  e  l'ontologico  per  Platone  s'identificano;  e  cosi, nel  caso  presente,  il  rapporto   ontologico   tra    i   generi, cioè  la  partecipazione  di  un'Idea  ad  un'altra,  non  è  al- tro—nell'ipotesi,  ben  inteso,  dell'immanenza  delle  Idee- che  )1  loro  rapporto  logico,  cioè  l'inerenza  dell'attributo nel  soggetto,  obicttivato.  E  i  a  effetto,  per   V  immanenza V "T'i- deile Idee,  noi  noa  iatendiamo  altra  cosa  se  non  che  le Idee  ineriscono  nelle  cose  e  le  Idee  più  generali  nelle più  particolari— in  una  parola  i  partecipati  nei  parteci- panti— della  maniera  in  cui  l'attributo  inerisce  nel  so^-- getto. Che  Platone  consideri  il  rapporto  tra  il  partecipante e  il  partecipato  come  identico  al  rapporto  tra  il  soggetto e  il  predicato,  è  dimostrato  pure  da  questa  circostanza, che  egli  fa  della  quistione  della  partecipazione  una  qui- stione  comune  a  tutti  i  filosofi,  anche  a  quelli  che  non ammettono  la  teoria  delle  Idee.  Quando  egli  domanda  ai Fisici  se  essi  ammetteranno  che  né  il  movimento  e  lo  stato partecipano  all'essere  né  alcun'altr^  cosa  ad  un'altra,  ov- vero che  ciascuna  cosa  partecipa  di  ciascun' altra  cosa, ovvero  infine  che  vi  hanno  delle  rose  che  partecipano  l'una dell'altra  e  altre  che  non  partecipano;  e  mostra  che  se non  vi  ha  alcuna  mescolanza,  fioé  partecipazione,  i  Fisici non  potrebbero  dire  né  che  vi  ha  il  movimento  né  rhc vi  ha  lo  stato,  e  che  tutte  le  altre  proposizioni  dei  Fisici Farebbero  ugualmente  f<ilse;  che  si  deve  intendere  por queste  cose,  di  cui  si  domandano  i  rapporti  di  p^irtecipa- zione,  e  la  cui  mescolanza  sarebbe  indispensabile  per  la verità  delle  teorie  dei  Fisici  ?  (1)  Senza  dubbio,  queste  cose sono  nel  sistema  di  Platone  le  Idee:  ma  egli  non  pò trebbe  domandare  ai  Fisici  quali  siano  i  rapporti  tra  le Idee,  né  potrebbe  dire  che  le  proposizioni  dei  Fisici  — in  cui  si  afferma  un  termine  generale  d'un  altro  termine (1)  Per  iadicara  qaO'Sli  ogg<^1ti,  di  cai  e^jli  domanda  ai  fi«jici quali  »4Ìano  i  rappoi-ti  dì  partecipazione,  Platone  non  dice  né  Idee né  specie  né  generi  né  niente  altro  di  simile,  ma  si  serve  sempli- cemente dell'aggettivo  al  neutro:  cosi  io  ho  tradotto  aggiungendo all'aggettivo  il  termine  vago  cosa. gf»nerale  —  suppongono  la  partecipazione  d'un' Idea  ad un'altra,  poiché  i  Fisici  non  sanno  niente  delle  Idee,  e non  conoscono  che  la  realtà  fenomenale.  Per  queste  cose di  cui  hi  domanda  quali  siano  i  rar porti  di  partecipazione, si  deve  durcjue  intendere  alcun  che  che  possa  essere  co- mune tanto  a  Platone,  che  fa  la  domanda,  quanto  ai  Fi- sici, a  cui  la  domanda  è  fatta:  ciò  non  può  essere  altro che  gli  oggetti  dei  concetti  generali,  considerati  senza determinare  se  essi  siano  delle  entità  iperfisiche,  confor- memente al  sistema  realista,  ovvero  semplicemente  le classi  degli  oggetti  fenomenali  e  i  loro  attributi,  confor- memenie  all'opinione  volgare  che  é  il  puntò  di  vista  dei Fisici.  Per  coneguenza  il  rapporto  di  partecipazione  di cui  é  quistione  tra  Piatone  e  i  Fisici,  deve  essere  un  rap- porto che  può  correre  egualmente  tanto  tra  le  entità  iper- fi-jìche  del  primo  quanto  tra  le  classi  e  gli  attributi  fe- nomenali dei  secondi.  Ma  queste  classi  e  attributi  dei  Fi siei  sono,  non  delle  cose  trascendenti,  ma  immanenti;  e perciò  il  solo  rapporto  di  partecipazione  che  può  esistere fra  di  loro,  è  quello  deirinerenza  del  predicato  nel  sog- getto. Dunque  anche  il  rapporto  di  partecipazione  tra  le entità  iperfisiche  di  Platone  deve  essere  il  rapporto  d'ine- renza del  predicato  nel  soggetto. Allo  stesso  risultato  si  perverrà,  esaminando  la  po- lemica con  gli  erist'cì  che  nes^ano  la  validità  di  qual- siasi giudizio  non  identico.  Platone  attribuisce  a  questi filosofi  di  negare  la  partecipazione  di  qualsiasi  cosa  ad un'altra;  cosi  egli  dice  che  essi  non  permettono  che  una cosa  sia  detta  di  un'altra  per  la  partecipazione  di  que- st'altra (1);  che  essi  separano  ogni  cosa  da  ogni  altra  (2); che   egli   li   ha   combattuti   e   forzati    a  permettere   che (1)  2oi  b-c. (2)  239  e. —  69  — una  cosa  sì  iLescolì  con  un'altra  (1).  Le  cose  dì  cui  essi negano,  secondo  Platone,  la  partecipazione  dell'una  al- l'altra, per  loro,  come  per  i  Fisici,  non  possono  essere  le Idee  (2  ),  ma  semplicemente  le  classi  degli  oggetti  feno- menali e  i  loro  attributi;  e  la  so'a  partecipazione  cln essi  nrghino  è  quella  del  soggetto  al  predicato,  vale  a dire  la  possibilità  di  attribuire  questo  a  quello.  Dunque per  la  partecipazione  di  una  cosa  ad  un'altra,  che  que- ste cose  siano  delle  Idee  ovvero  semplicemonte  delle  classi e  degli  attributi  di  queste  classi,  Platone  intende  che  la seconda,  la  partecipata,  inerisce  nella  prima,  la  parteci- pantp,  come  il  predicato  nel  soggetto. L'ossprvazìone  precedente  ne  suggeriscp,  o  piuttosto ne  implica,  un'altra,  a  cui  non  sarà  forse  inutile  di  dare un  posto  a  sé,  quantunque  essa  non  abbia  un'attinenza diritta  con  la  qaisiione  della  parteeipazion- .  Le  cose, sui  cui  rapporti  di  partecipazione  Plato'io,  interroga  i Fis'ci,  e  di  cui  attribuisce  agli  eristici  che  non  ani- m  ttono  se  non  i  giudizi  identici,  di  negarci  questi rapporti,  sono,  come  abbiamo  detto,  degli  oggetti  che prssono  ess'^re  considerati  di  due  maniere  dift'erent',  cioè come  astrazioni  realizzate,  come  Idee  — da  Platone—,  e come  sempl  ci  classi  degli  oggetti  d'esperienza  e  loro attributi  (non  realizzati)— dai  Fisici  e  gli  eristici  — Ma  lo classi  e  i  loro  attributi  di  questi  filosofi  non  sono  cer- tamente delle  cose  trascendenti  :  dunque  anche  le  Idee platoniche  devono  essere  immanenti.  E  in  elfeiti  è  e  vi- ci) 260  a. (2)  Che  i  Megarici  abbiano  ammesso  la  teoria  deUe  Idee,  è  una supposizione  d'alcuni  autori  moderni  che  non  ha  né  verosimiglianza intrinseca  né  alcun  fonlamento  storico.  Confr.  (jaesto  Supplemento parte  I,  n.  X. dente  che  quando  Platone  domanda  ai  Fisici  se  essi  am- mettono o  no  che  il  movimento  e  lo  stato  partecipano,  egli  non  può  parlare  di  un  movimento,  di uno  stato  e  di  uà  essere  fuori  delle  cose,  ma  di  questo movimento,  stato  ed  essere  che  sono  degli  attributi  delle cose— da  Piatone  riguardati  come  Idee,  cioè  come  at- tributi—sostanze e  dai  Fisici  come  semplici  attributi  --. Similmente  quando  agli  eristici,  che  non  vogliono  che si  dica  che  l'uomo  è  buono  né  che  un  altro  predicato qualunque  si  predichi  di  un  soggetto  differente  da  esso, Platone  attribuisce  di  separare  il  buono  dall'uomo  e ogni  cosa  da  ogni  altra  v.  di  non  permettere  la  loro  me- scolanza, q  leste  cose  che  essi  separano  e  di  cui  non  per- mettono la  mescolanza,  non  possono  essere  certamente gli  esemplari  trascendenti  dell'uomo,  della  bontà  e  di ogni  altra  cosa  espressa  dai  nomi  generali,  che  questi filosofi  ci  proibiscono  di  affermare  l'uno  dell'altro;  per- chè l'uomo  è  buono  e  tutte  le  altre  proposizioni  che  questi filosofi  c'inibiscono,  noi  non  le  riferiamo  ad  esemplari trascendenti  delle  cose,  ma  alle  così  stesse.  E  in  una parola  quando  Platone  dice  che  il  discorso  nasce  dalla mutua  complicazione  (aD|i7iXoxr^)  delle  specie,  per  queste specie— che  sono  evidentemente  le  Idee— noi  non  pos- siamo intendere  delle  entità  trascendenti,  perchè  i  nomi generali  di  cui  i  discorsi  umani  si  compongono,  e  i  con- cetti  che  ad  essi  corrispondono,  non  si  riferiscono  ad oggetti  trascendenti,  ma  immanenti.  Ma  questo  è  un punto  che  escp,  come  abbiamo  detto,  dall'argomento  del presente  numero,  ed  eutra  in  quello  del  numero  III  (1). (1)  ITn'aUra  prova  evidente  che  i  generi,  di  cui  Platone  discute nel  Solista  l  rapporti  di  partecipazione,  soao  delle  realtà  immanentiy l'abbiamo  in  ciò  che  Platone  dice  del  discorso  sulla  fine  del  luogo —  70  — Nella  mescolanza  del  Sofista  vi  ha  il  germe  d'un'im- mag'inp,  a  cui  alcuni  platonici  ricorrevano  per  nippre- sentarsi  il  rapporto  tra  le  Idea  e  le  cose.  Alcuno,  dice Aristotile  {Mei,  1.  1.  IX.  1),  potrà  credere  che  le  Idee sono  causa  alle  cose  dclTcssere  ciò  che  sono,  come  il bianco,  mescolato,  è  cau«»a  a  un  oggetto  di  essere  bianco. Egli  attribuisce  questa  proposizione  ad  Eudossìo  e  a molti  altri  (1),  e  la  paragona  alla  dottrina  delle  omeo- merie  di  Ana'asagora.  Questa  comparazione  del  rapporto tra  le  cose  e  le  Idee  a  cui  e  sse  devono  i  loro  attributi, a  quello  tra  Toggettì  coloralo  e  la  sostanza  colorante, mostra  d'una  maniera  cosi  evidente  Vimmanenza  del'e Idee  nelle  cose,  che   Tinterprete    trascendentalista,    per citato  (260  a)  e  nel  seguito  (260  b-264  b):  e^rM  classa  il  discorso  tra i  generi  di  cai  ha  discusso  qa3sti  rapporti  di  parteoi;)a.«ian<»,  a  do- manda se  il  non  essere  si  mescoli  a  qa3sta  specie  come  ha  visto ohe  si  mescola  alle  altre  (v.  260  a-a).  Ora  il  discorso  di  cui  Platone parla,  è  incontestabilmente  il  xo.s/ro  discorso,  non  l'archetipo  di esso:  ma  se  questo  genere  è  una  realtà  immanente,  gli  altri,  con cui  esso  è  classato,  non  possono  essere  delle  entità  trascendenti. Aggiungiamo  che  il  Non  essere,  che  è  uno  dei  generi  di  cui  si cercano  i  rapporti  di  partecipazione  con  gli  altri,  e  che  ù  anzi  l'og- getto precipuo  di  tutta  la  digressione  di  cui  fa  parte  questa  discus- sione sui  rapporti  di  partecipazione  tra  i  generi,  è  riguardato  co- me l'oggetto  dell'opinione  falsa  (della  reale,  della  nostra) —v.  236- 264.  —  Ma  l'oggetto  dell'opinione  falsa  sono  i  non  esseri  —  cioè  la cose  che  non  sono  e  che  noi  crediamo  falsamente  che  siano  —  : dunque  Platone  concepisce  il  Noti  css<'re,  non  come  un  archetipo dei  non  esseri,  separato  da  essi,  ma  come  la  loro  forma  generale, in  essi  immanente.  È  certamente  una  stranezza  di  realizzare,  come fa  Platone,  anche  il  concetto  di  ciò  cha  non  ò;  ma,  facendolo,  egli non  può  considerare  il  rapporto  tra  questo  concetto  realizzato  e  lo cose  particolari  comprese  sotto  il  concetto  di  cui  è  la  realizzazione, come  differente  da  quello  fra  gli  altri  concetti  realizzati  e  le  cose particolari  subordinate. (1)  Cfr.  il  oomm.  d'Aless.  Afrod. conciliare  quest'indicazione  d'Aristotile  con  la  sua  in- terpretazione,  non  potrebbe  dire  altro  se  non  che  la propos  zone  appartieu'*,  non  a  tutti  i  platonici,  ma  ad una  fraz'one,  e  questa  poteva  ben  essere  una  scuola  di d'ssident*.  Ed  è  vero  che  Aristoti'e  sembra  riguardare questa  proposizione  come  una  doitrii  a  particolare:  in- certo, com'egli  era,  sulla  qaistione  se  il  rapporto  tra  le Idee  e  le  cose  fosse  un  rapporto  d'immanenza  o  di  tra- scendenza, non  è  diftìcile  di  comprendere  com'egli  po- tasse vedere  delle  differenze  reali  nella  maniera  di  con- cepire que-to  rapporto  là  dove  non  si  trattava  che  di una  spmpl  ce  differenza  nell'ecpress'one  dello  stfFso  con- cetto. Co^ì  nel  1.  3"  e.  2«  e  1.  13«  e.  V\  2»  e  3^>egli  distingue quelli  che  ammettono  le  entità  matematiclìe  {\  Numeri  e le  Figure  geometriche)  nelle  cose  e  quelli  che  le  ammet- tono separate  dalle  cose:  verosiml  spente  non  vi  era  tra  gli gli  uni  e  gli  altri  una  differenza  di  dofirina,  come  afferma Aristotile,  ma  semplicemente  gli  uni  esp-imevano  V  imma- nenza di  queste  entità  di  uaa  maniera  più  energica  che  gli altri.  La  quistinn**.  del  rapporto  tra  le  Idee  e  le  co-^e  era  di troppo  momento  pel  significato  e  lo  scopo  deH'ipotesi stessa  delle  I^lep,  perchè  potes«-x^  essere  To^-getto  di  una divergenza  reale  tra  i  partigiani  di  qufst'  ipotesi.  Nella proposizione  d'  Eudossfo  non  bisogna  vedere  che  una rappresentazione  materiale  della  dottrina  ordinaria  della partecipazione  :  anche  Platonf^  si  f^erviva  Hi  rappre-en- tR'/ioni  sirn  1',  p.  e.  n'I  Fé  Jone,  in  cui  le  luf>e  «i  fanno venire   nelle    cose    e    ritirarsene   (1),    determinando   in VI (1  )  La  grandezza  che  è  in  noi,  dice  a  102  e,  quando  viono  il  suo contrario,  si  deve  credere  o  che  fugge  o  si  ritira,  o  che  perisce.  Vedi pure  10B  a  e  104  e.  Platone  non  fa  due  ipotesi,  non  intende  dire, cioè,  che  alla  grandezza  che  è  in  noi  deve  avvenire  e  l'una  o  l'ai- 'H esse,  per  questa  venuta  e  questo  ritiro,  V  apparizione e  la  disparizione  degli  attributi  corrispondenii.  Queste proposizioni  evidentemente  ncn  potrebbero  essere  prese alla  lettera,  perchè  cosi  le  Idee  si  sottoporrebbero  alle condizioni  dell'esistenza  nello  spazio,  del  mutamento,  ree, condizioni  che,  secondo  Platone,  non  competono  che  al lenomeno  :  esse  non  sono  che  1'  espressione,  sotto  una forma  sensibile,  del  concetto  scvrasensibile  della  parteci- pazione e  della  panisia,  cioè  della  dottrina  che  gli  attri- buti omonimi  di  tut  i  gli  esseri  non  sono  io  sostanza  che una  ì"0la  entità,  un  solo  Attributo,  uno  e  lo  stesso  in  tutt'. A  queste  rappresentazioni  mj^ter'ali  (^el  rapporto  tra le  cose  e  le  Idee  dobbiamo  Aggiungere  la  descrizione simbolica  della  formazione  delF  anima  nel  Timeo,  Ivi Platone  racconta  che  il  Demiurgo  compose  l'anima— no-, l'anima  cosa,  non  l'anima  Idea—,  mescolando  in una  caldaia  Vessenza  indivisibile  e  sempre  la  stessa  con V essenza  che  diviene  divisibile  circa   i  corpi,   e   facendo tra  di  ilUQ^te  dna  cose,  perchè  ciò  non  avrebbe  alcun  senso:  ma vuol  dire  che,  quando  una  cosa  cessa  di  essere  grande,  questa  per- dita della  grandezza  può  considerarsi  sotto  due  punti  di  vista,  cioè sia  com3  una  cessazione  del^esiJ^tenza  di  quest'attributo,  sia  come la  cassazione  deUa  parusia  dell'Idea  oorrisi)ondente  a  quest'  attri- buto. In  quanto  la  grandezza  che  è  in  una  cosa  si  considera  co- me f'»'H)metiOy  cioti  come  individualizzata  e  distinta  dalla  grandez- za che  è  nelle  altre  cose,  essa  perisce  :  ma  in  quanto  si  considera nella  sua  essenza  reale,  cioè  came  la  grandezza  una  e  la  stessa  che è  in  tutte  le  coso  grandi,  essa  non  perisce,  ma  cessa  soltanto  la  sua parusia  nella  cosa,  (iue-^t'interpretaziono  è  confermata  dall'auto- rità d'Aristotile,  il  quale  dice  {De  ficncrat.  1.  II,  IX,  5)  che  nel  iV- donn  le  Idee  si  considerano  come  cause  ettìcienti,  perchè  le  cose si  fanno  nascerò  per  la  receziona  (»i£TàXTj'>j;tv)  delle  Idee  e  perire  per la  loro  sottrazione  .  àTio^oXr^v)  :  quest'ultima  indicazione  non  può alludere  che  ai  luoghi  citati. anche  entrare  nella  mescolanza  la  natura  dello  stesso e  quella  del  diverso  {Tim,  35  a-b,  41  d).  Che  cosa  si debba  intendere  precisamente  per  queste  entità  di  cui  il Demiurgo  compose  l'anima,  ò  controverso.  Io  intendo: per  V  essenza  indivisibile  e  sempre  la  sfessa  l'Idea  dell'anima; per  r essenza  che  diviene  divisibile  circa  i  corpi  la  mate- teria,  di  cui  Pia' one -nell'ultima  forma  del  suo  sistema —fa  un  elemento  delle  cose  distinto  dalle  Idee;  per  lo stesso  e  il  diverso  le  due  entità  che  egli- sempre  nell'ul- tima forma  del  suo  sistema,  in  cui  J^i  avvicina  ai  Pita- gorici—riguarda, runa  come  la  forma  comune  di  tutte le  Idee,  e  per  conseguenza  anche  delle  cose,  l'altra  come la  materia  tanto  delle  Idee  qua»ito  delle  cose,  e  che chiama  pure  fluita  e  infinito,  essere  e  non  essere,  bene e  male,  uno  e  dualità  indefinita,  eguale  e  ineguale, ecc.  (l). Ma  che  si  ammetta  questa  interpretazione  o  un'altra, è,  per  la  qaistionc  presente,  un  punto  d'un'importanza secondaria;  perchè  le  diverse  interpretazioni  si  accordano sul  pun'o  più  importante,  cioè  che  alcuni  degli  elementi, di  cui  Platone  compone  l'anima,  sono  Idee.  Ora  l'anima della  cui  composizione  egli  p-^rla,  è  una  cosa  :  dunque bisogna  anche  ammettere  che  il  rapporto  tra  le  Idee  e le  cose  è  quello  che  vi  ha  tra  gli  elementi  e  illorocon- posto,  ciò  che  è  l'affermazione  più  energ  ca  dell'imma- nenza delle  Lice.  La  più  parte  degl' iater preti  tra  cen- deritalisti,  se  non  tutti,  non  accorderebbero,  è  vero,  che l'anima  è  per  i^Jatone  una  cosa,  cioè  una  semplice  realtà fenomenale:  essi  ammettono  invece  che  l'anima  fa  parte della  classe  delle  entità    matematiche,    che    Platone  di- ci) V.  por  quest'interpretaziune  Suppt.  C,  IV,  A. —  12  — rlf  T^  fT^  '^-^»'^~ stingueva,  nel  periodo  pìtagoreggìante,  dalle   Idee   prò- priamente  dette  o  numeri  ideali,  e    che   venivano   chia- mate entità  intermediarie  (tra  le  Idee  e  le  cose);  e  danno della  composzione  dell'aaima  nel  Timeo  questa  interpre- tazione, che  Platone  la  compone    delle  Idee   e    delPele- mento  sensibile  o  della  materia,  perchè  essa  è   per  lui d'una  natura  intermediaria  fra  le  Idee  e  le  cose.  None qui  il  luogo  di  discutere  questa  identificazione  deiranima ad  un'entità  matematica  :  qui  basterà  di  osservare   che essa  lascia  intatta  la  contraddizione   che   vi    ha   tra   la interpretazione  trascendentalista  delle  Idee  e    la  compo- sizione dell'anima  nel   Timeo.  In  effetto,  secondo  l'inter- prete trascendentalista,  le  Idee    devono    essere  t-asccn- dents  tanto  di  fronte  alle  cose,  quan  o  di  fronte  aUe  en- tità  matematiche  o  intermediari^».    Tutte    le    determina- zioni chH  Piatone  o  Aristotile  attribuiscono  alle  Ide-,  di essere  delle  sostanze,  di  essere  ciascuna    aOxò   xaG'aOxó, di  essere  jìsì^/,z\±  o  xsxwpiojisva  (separabili    o    separate), ecc.,  che  provano,  secondo  l'interprete  trascendentalista, che  le  Idee  sono  fuori   delle   cose,    prov.rvibbero   ugual- mente che  e^^se  sono  fuo.i  delle  entità  intermeiiarie.  Per cons'^guenza  1  interprete  trascendentalista  è  costretto  in quest'iilternativa  :  o  di  ammettere  che  U  Idee  sono  im- ma'ienti  nelle  entità  intermedia  ie,  e  allora  si  avrà  l'in- congruenza che  le  stesse  determinazioni  significheranno ora  la  trascendenza  delle  Idee  e  ora  la  loro  immanenza; o  di  ammettere  che  le  Idee  sono  fuori  delle  entità  Inter- mediarle,  e  allora  gli  elementi  di  cui  l'anima  è  compo- sta saranno  fuori  dell'anima. L'  identificazione,  che  noi  abbiamo  fatto,  tra  la  me- tessi  e  la  ])arusia  sembra  contraria  a  un  luogo  del  Fe- done (100  d),  di  cui  noi  dobbiamo  tralasciare  di  occu- parci, tanto  più  che  gl'interpreti  trascendentalisti  vi  ve- dono una  prova  della  'loro  interpretazione.  Ivi   Socrate, dopo  avere  stabilito  che  vi  ha  un  bello,  un  buono,  un grande  ecc.,  per  se  stesso,  e  che  una  cosa  è  bella  per- chè partecipa  ([isxsxst)  di  quel  bello,  dice  :  «  Dunque  io non  comprendo  più  né  potrei  comprendere  queste  spie- gazioni sapienti  (acxiac;  ao^a?)  che  ci  si  danno  :  ma  se alcuno  mi  dice  che  una  cosa  è  bella  a  causa  dei  suoi colori  vivi  0  della  sua  forma  o  di  altre  proprietà  simili, io  lascio  andare  tutte  queste  ragioni  che  non  fanno  che turbarmi,  e  dico  a  me  stesso  semplicemente  e  senz'arte, fors'anche  troppo  semplicemente  (Taco^  sOVjGws)  che  non altro  fa  bella  una  cosa  se  non  il  bello,  per  la  sua  pre- senza (Tiapouofa)  0  per  la  sua  partecipazione  (xoivwvCa)  o in  qualunque  modo  esso  sopravvenga  (TrpoaytYvsxai);  che su  questo  non  voglio  affermare  niente,  ma  ciò  che  so- stengo è  che  tutte  le  cose  belle  sono  belle  per  il  bello. Questa  mi  pare  la  risposta  più  sicura  per  me  e  per  ogni altro,  e  appoggiandomi  su  questa  base,  penso  di  non c-ider  mai,  ma  di  poter  rispondere  sicuramente,  io  e chiunque  altro,  che  le  cose  belle  sono  belle  perii  bello  ». Gl'interpreti  trascendentalisti  vedono  in  queste  parole  la prova  che  Platone  non  determinò  mai  esattamente  il  rappor- to tra  le  cose  e  le  Idee,  perchè  essi  le  intendono  come  se la  Tiapo'jaia,  la  xoivovfa  e  le  altre  espressioni  di  cui  egli  suole 8**rvirsi  per  indicare  questo  rapporto,  significassero  delle ip  »tesi  differenti  che  possono  farsi  su  di  esso,  e  l'autore confessasse  che  egli  era  incerto  a  quale  di  queste  ipotesi si  dovesse  dare  la  preferenza.  Ma  contro  questa  inter- pretazione sta  il  fatto  evidente  che  tutte  le  volte  che Platone  allude  alla  metessi  o  alla  parusia,  egli  non  ne parla  come  di  semplici  ipotesi,  ma  il  suo  linguaggio  è intcamente  affermativo.  E  per  vederlo,  non  è  necessario di  u-^cire  dallo  stesso  Fedone.  Nella  dimostrazione  del- l'immortalità dell'anima  che  noi  abbiamo  citato— vale  a dire  un  po'  più  giù  del  luogo  di  cui  si  tratta— la  parusia -  73  - è  espressa  della  maniera  più  energica,  e,  certo,  non  in un  modo  dubitativo;  e  nel  luogo  stesso  di  cui  sì  tr<atta la  parola  TipooYiYvsxat,  la  quale  esprime  evidentemente la  parusia,  deve  valere  per  tutti  i  casi,  qualunque  sia nome  che  si  debba  dare  al  rapporto  delle  Idee  con  le cose.  Della  metessì  si  parla  immediatamente  piimaeun poco  dopo  di  questo  luogo  stesso  (100  e,  101  e)— due  luo- ghi strettamente  connessi  con  esso —,  e  se  no  parla  d'u- na maniera  egualmente  categorica.  In  quanto  allaxoivojvia, essa  è  per  Platone,  come  si  vede  abbflstapza  da  alcuni dei  luoghi  citati,  un  perfetto  sinonitno  della  iiiOs^t?. Ma  se  la  Tiapo'joCa,  la  xoivwvia,  la  ixéGsJig  non  sono delle  ipotesi  differenti  sul  rapporto  delle  Idee  i  on  le  cose, qual  è  allora  il  senso  del  luogo  di  cui  parliamo?  Queste parole  e  tutte  le  altre  fspress'onl  di  cui  Platon^^  si  srve per  indicare  il  rapporto  tra  le  cose  e  le  Ideo,  i-ignificano lo  stesso  concetto,  ma  nessuna  di  esfe  lo  esprima  d'uua maniera  adequata.  È  che  questo  rapporto  essendo  una cosa  unica  nel  suo  genere,  non  vi  ha,  come  abbamo  già detto,  alcuna  parola  che  possa  esprimerlo.  Ciò  che  vi  ha sovratutto  d'inesprimibile  ò  naturalmente  il  carattere  di questo  rapporto  che  è  la  cftusa  principale  delT  oscunt\ del  sistema  delle  Idee,  vale  a  dire  l'cs-stenza  simultanea deir  uno  nei  molti.  Questo  carattere  essendo  necessa- riamente assente  da  tutti  i  fatti  osservabili  o  semplice- mente rappresentabili,  che  le  parole  jiapoDoCa,  iisBegi^,  xoi- v(ov(d,  ecc.  potevano  evocare  all'in  maginaziore,  ciò  ba stava  perchè  queste  parole  fosseio  giudicate  impossenti ad  esprimere  la  relazione  ti  a  le  toso  e  le  Id(e.  La  pa- rusia ha  il  vantaggio  di  esprimere  della  maniera  più  e- nergica  Tinesistenza  delle  Idee  nelle  cose  ;  ma  non  im- plica, anzi  esclude,  l'esistenza  simultanea  di  una  stessa Idea  in  molte  cose,  perchè  la  presenza  di  una  cosa  in un  luogo  — che  è  il  fatto  rappresentabile  corrispondente II alla  parola  parusia — circoscrive  l'esistenza  di  questa  cosa nei  limiti  di  questo  luogo  particolare.  La  [ié0sgtg  e  la xoiv(!)v(a  hanno  sulla  Tiapooota  il  vantaggio  di  esprimere che  una  stessa  Idea  è  comune  a  molte  cose  :  ma  i  fatti rappresentabili  significati  da  queste  parole  si  distinguono dal  rapporto  delle  cose  con  le  Idee,  perchè,  quando  più erse  partecipano  r.d  una  sola,  è  necessario  che  questa  si divida  in  più  parti,  o,  se  resta  indivisa,  è  impossibile  che la  cosa  partecipata  entri  a  far  parte  della  sostanza  delle cose  partecipanti,  come  l'Idea  delle  cose.  Platone  non dice  dunque,  nel  luogo  di  cui  parliamo,  che  la  Tiapouafa, la  xoiv(i)v{a,  ecc.  sono  delle  ipotesi  diverse  che  possono farsi  sul  rapporto  tra  le  Idee  e  le  cose,  e  che  egli  non intende  affermare  categoricamente  nessuna  di  queste  ipo- tesi ;  ma  che  il  rapporto  fra  le  cose  e  le  Idee  potrebbe in  certo  modo  classarsi  tra  gii  uni  o  gli  altri  di  quelli  che i  Greci  indicano  con  le  parole  TcapouaCa,  xotvtovCa,  ecc., ma  egli  non  intende  affermare  che  esso  debba  classarsi tja  gli  uni  0  gii  altri,  per  la  semplice  ragione  che  que- ste classazioni  sono  tutte  inesatte.  Che  questo  rapporto, qualunque  sia  il  nome  con  cui  si  debba  chiamarlo,  sia un  rapporto  d'immanenza,  è  del  resto  ciò  di  che  il  no- stro luogo  porta  in  se  stesso  delle  prove  sufficienti.  Il Bello  deve  essere  causa  della  beltà  delle  cose  belle  nel senso  stesso  in  cui  lo  sono  le  altre  cause  sapienti  che Platone  non  approva  e  a  cui  viene  messo  in  opposizione, vale  a  dire  i  colori  vivaci,  la  forma,  ecc.  ;  ma  queste  non sono  delle  cause  esteriori,  ma  delle  proprietà  delle  cose che  fauno  si  che  si  dia  ad  esse  il  predicato  hello:  dun- que il  Bello,  dovendo  essere  una  causa  della  stessa  na- tura, non  può  essere  una  causa  esteriore  alle  cose  belle, ma  una  proprietà  di  queste  cosUn'altra  prova  evidente  dell'immanenza  é  l'opposizione che  Plalone  stabilisce  tra  le  spiegazioni  che  egli  non  approva  e  quelJa  che  egU  propone:  le  prime  sono  delle  spie- gazioni sapienti;  la  sua  è  una  spiegazione  sicura,  c<^n cui  non  si  rischia  di  ingannarsi,  ma  semplice,  senz'arto e  quasi  quasi  un'ingenuità.  La  stessa  opposizione  è  ri- petuta un  po'  più  giù,  101  e,  dove  dice:  «  Ma  che?  he si  aggiunge  uno  ad  uno,  non  avrai  timore  di  dire  che è  l'addizione  la  causa  di  divenire  due,  o  che  questa  cau  a è  la  divisione  se  l'uno  si  divide  in  due?  e  ron  d  chia- rerai  altamente  che  tu  non  conosci  altro  modo  con  cui una  cosa  si  produca  che  partecipando  (jieTaoxóv)  al'a  es- senza a  lei  propria,  della  quale  partecipa  (fiexaoxr^), e  che  per  conseguenza  tu  non  sai  altra  cansa  di  dive- nire due,  che  la  partecipazione  (lisiaoxsaiv)  della  dua- lità, e  che  è  necessario  che  partecipi  (fjLsxaoxsìv)  di  essa tutto  ciò  che  diviene  due,  come  dell'unità  tut  o  ciò  che diviene  uno?  non  abbandrnerai  le  addizion',  le  divisioni e  le  altre  sottigliezze  di  questo  genera,  lasciandole  a  dei più  sapienti  di  te?  per  te,  temendo,  come  suol  dirsi,  la tua 'ombra  e  la  tua  ignoranza,  non  risponderai  co^i,  con- tentandoti della  ipotesi  sicura  che  abbiamo  stabilita  ?  * Sulla  stessa  idea  si  ritorna  a  105  b-c  :  ivi  Socrate,  do mandando  a  Cebet^  qual  è  la  cosa,  che  quando  sovrag- giunge a  un  oggetto,  qutsto  si  liscalda,  dice  a  costui che  non  deve  rispon(^ergli  con  quello  stesso  che  egli  do- manda, non  deve  dargli  quella  risposta  sicura,  ma  ij:nn- rante,  stabilita  al  princip  o,  cioè  che  questa  cosa  ò  il caldo,  ma  una  risposta  più  dotta,  cioè  che  è  il  fuoco.  Ora Platone  non  potrebbe  pai  lare  cosi,  se  /e  cose  belle  sono belle  per  il  bello  volesse  dire  ehe  esso  sono  tali  pe:chò sono  state  fatto  ad  imitazione  dell'Idea  trascendente;  del bello,  perchè  questa  spiegazione  sarebbe  più  ric^rcat»,  o come  dice  Platone,  più  sapiente  di  qualsiasi  altra  :  le parole  di  Platone  al  contrario  sono  naturalissime,  se  la Idea  è  un  attributo  delle  cose,  perchè  in  questo  caso  la spiegazione  ha  tutta  l'aria  di  essere  una  mera  tautolo- gia, somigliando,  come  abbiamo  detto,  a  quella  del  me- dico di  Molière  che  l'oppio  fa  dormire  perchè  ha  la  virtù dormiti  va. E  qui  il  luogo  di  parlare  di  un  epiteto  che  Aristotile dà  alle  Idee  platoniche,  e  in  cui  gl'interpreti  trascen- dentalisti vedono  una  delle  prove  più  forti  della  loro  in- terpetazi  «ne.  Qu*>st' epiteto  è  x^ptatóg  (separabile  o  se- parato), e  Aristotile  Io  dà  alle  Idee  per  indicare  il  loro rapporto  sia  con  le  cose  sìa  tra  di  loro.  Quantunque  noi non  troviamo  questa  parola  negli  scritti  platonici,  tutta- via l'uso  frequente  che  ne  fa  Aristotile,  quando  parla delie  Idee,  non  lascia  pressocchè  alcun  dubbio  che  sì tratti  di  un'espressione  platonica,  tanto  più  che  in  certi casi  in  cui  egli  Tusa  TI),  ha  tutta  l'aria  di  riprodurre  le proposizioni  di  Platone  o  dei  platonici  con  le  loro  pro- prie espressioni.  Gl'interpreti  trascendentalisti  intendono per  questa  parola  che  le  Idee  sono  separate  dalle  cose e  ciascuna  da  ciascun'altra  :  ma  noi  dobbiamo  cercare per  essa  un  significato  che  non  sia  in  contraddizione  coi risultati  evidenti  a  cui  conduce  sulla  quistione  dell' im- manenza o  trascendenza  delle  Idee  l'esame  imparziale degli  scritti  platonici.  Noi  cerchiamo,  ben  inteso,  non  il significato  che  Aristotile  dà  alla  parola  —  ciò  riguarda direttamente,  non  la  dottrina  di  Platone,  ma  l'interpre- tazione aristotelica  di  questa  dottrina  —,  ma  quello  che esso  ha  potuto  avere  per  lo  strs^o  Platone, Un  primo  dato  che  può  metterci  sulla  via  per  trovare qupsto  significato,  noi  lo  abbiamo  nel  luogo  della  Repub- blica, 523-524,  in  cui  Piatone  distingue  le  percezioni  dei sensi  che  eccitano  l'intelligenza  alla  ricerca  e  quelle  che <1)  V.  p.  e.  EtJi.  End.  1.  1,  VITI. non  lo  fanno.  Le  seconde  sono  quelle  che  non  inviluppano una  contrarietà  :  p.  e.  alla  vista  di  tre  dita,  rintelligen7a non  è  obbligata  a  ricercare  cosa  sia  il  dito;  il  sersolo giudica  sufficientemeDtP,  perchè  ciò  che  apparisce  come dito  non  apparisce  al  tempo  stesso  come  il  contrario  del dito.  Le  prime  invece  inviluppano  qualche  contrarietà  : p.  e.  noi  non  possiamo  percepire  una  cosa  molle  che  non ci  sembra  al  tempo  stesso  dura,  una  cosa  grande  che  uon ci  sembri  al  tempo  stesso  piccola,  e  viceversa.  Il  senso non  dichiara  che  la  cosa  sia  ciò  piuttosto  che  il  suo  con- trario, e  la  stessa  percezione  viene  annunziata  all'anima come  percezione  al  tempo  stesso  del  molle  e  del  duro, del  grande  e  del  piccolo,  ecc.  «  In  tali  cose,  continua Socrate,  l'anima  eccita  la  ragione  e  l'intell'genza  a  ri- cercare se  ciò  che  le  viene  annunziato  sia  una  sola  cosa ovvero  due  —  Glaucome  :  E  come  no  ?  —  Sock.  E  se  ap- paiono due,  ciascuna  delle  dne  non  apparirà  differente ed  una  ?  —  Glauc.  :  Si  —  Socr.  :  Se  dunque  ciascuna  ap- pare una  e  amendue  due,  queste  due  penserà  separate (xsxwptojiéva)  :  se  le  pensasse  non  separate  (àxwptoTa),  non penserebbe  due  cose,  ma  una  soia  —  Gl.  :  È  giusto  — Socr.  :  La  vista,  noi  diciamo,  vedeva  il  grande  e  il  pic- colo; ma  non  come  un  che  di  separato  (xsxwpiojxévov),  ma come  un  che  di  confuso  (a'jY>tsxufisvov).  Non  è  vero?  — Glauc.  :  Si— Socr.  :  Ma  per  rischiarare  ciò,  l'intelligenza è  costretta  a  vedere  il  grande  e  il  piccolo,  non  confusi (ooYxsxoiJiéva),  ma  distinti  (aiwpiaixiva),  al  contrario  del senso— Glauc.  :  È  vero— Sccr.  :  E  non  siamo  così  eccitati a  ricercare  cosa  sia  il  grande  e  cosa  sia  il  piccolo  ?— Gl.  : Certo— Socr.  :  Ed  è  pure  cosi  che  abbiamo  distinto  Tin- t^lligibile  dal  sens  bile— Gl.  :  Giustamente.  »  Qui  cviden- temetite  la  parola  x£xo3pia}iévov  non  significa  che  il  grande e  il  piccolo  esistono  isolatamcnle  l'uno  dall'altro  e  dalle cos'^,  m>  la  parola  àxwptaiov  il  co   erario  di  questo  isola- mento :  qui  non  sì  tratta  di  altra  separazione  che  di  quella che  r  intelligenza  opera  nella  formazione  dei  concetti; separato  (yw£xo)pia|X£vov)  vuol  dire  semplicemente  astratto, e  vedere  il  grande  e  il  piccolo  separati  (x£xo)pia|xéva) vuol  dire  considerarli  in  astratto,  cioè  nei  loro  concetti^ del  resto  questo  grande  e  questo  piccolo  che  T  intelli- genza, cioè  l'astrazione,  vede  distinti  e  separati,  lungi di  essere  de^li  oggetti  trascendenti,  sono  quello  stesso grande  e  quello  stesso  piccolo  che  il  senso  vedeva  in- separati e  confusi  nella  percezione  degli  oggetti  concreti. Aristotile  usa  pure  spesso  le  parole  x'^P^^'^óg  e  xexw- piojiévog  nel  senso  di  astratto^  e  x^P^S^^v  nel  senso  di  a- Htrarre,  Cosi  egli  dice  che  gli  oggetti  della  matematica, vale  a  dire  i  numeri  e  le  grandezze,  sono  per  il  pensiero Xwp'.oxa  dal  movimento  (1);  che  il  matematico  x^pC^Et  que- 81  i  oggetti  (2);  che  li  pone  come  x£xwpio}x£va  dagli  acci- denti (cioè  dagli  attributi  concomitanti  con  cui  esistono nelle  cose)  (3);  o  Femplicemente  che  li  apprende  o  li  con- templa come  x£xwpta}iéva  (4)  o  come  x^ptoioc  (5).  Simil- mente la  forma  (£l5oo)  è  per  Aristotile  x^P^^'cóv  secondo il  concetto  (6),  quantunque  non  lo  sia  nella  realtà;  e  cosi pure  la  materia  (7).  Il  senso  della  parola  yjiiip^(Z'zò(;,  per Platone,  per  metterlo  d'accordo  coi  concetti  di  questo  fi- losofo che  noi  conosciamo  dalle  sue  proprie  opere,  deve essere  determinato  in  conformità  di  questi  dati;  e  allnoi  otteniamo  per  questa  parola   un   significato    presso- (1)  Phh.  1.  IT,  II,  3. (2)  Jbid. (3)  Mei.  1.  XIII,  UT,  8,  0. (4)  De  aii,  1.  UT,  VII,  7. (:>)  MH.  1.  VI,  I,  5. (0)  Pln/s.  1.  II,  I,  12,  Met.  l.  V,  VITI,  5,  l.  VITI,  I,  6,  ecc. (7)  JJe  Qetu  1.  I,  V.  0. —  76  — che  identico  a  quello  deir  espressione  aòxò  xaG'aOxó.  Xw- pioTÓg— che  noi  dobbiamo  tradurre  non  per  separato,  ma per  separaò/Ze—significa  che  ciascuna  Idea,  c':oè  ciascun attributo,  a  cui  questo  nome  viene  applicato,  può  isolarsi, per  il  pensiero,  da  tutti  gli  altri   attributi    con   cui  esso coesiste  nelle  cose,  e  che,  concepito  in  questo  isolamento, è  ancora  una  realtà,  perchè,  essendo  una  sostanza  e  non semplicemente  un  attributo,  la  sua  esistenza  è  indipen- dente dall'esistenza  degli  altri  e  da  quella  delle  cose  in cui  coesiste  con  gli  altri.  L'Idea  è  deìtsi  separabile  dalle cose  e  dalle  altre  Idee— e  dalla  materia,  che,  nell'ultima forma  del  sistema  platonico,  è  un   olementj  delle   cose distinto    dalle   Idee  (l)  —  come  in  un  oggetto  materiale una  parte  si  dice  separabile  dal  tutto  e  dalle  altre  parti con  cui  forma  questo  tutto  ;  cioè  perchè  avendo  un'esi- stenza propria  e  distinta,  il  pensiero  può  rappresentar- sela come  separata,  quantunque  in  fatto  non  lo  sia.  An- che  secondo  il   concettualista   noi   possiamo  rappresen- tarci ciascun   attributo  separatamente  dagli  altri,  suc- candolo  per  il  pensiero  dai  tutti  concreti  nei  quali  coe- siste con  essi:  ma  il   concettualsmo   non   ammette   che gli  attributi  esistano  nel   tutto   concreto  di   cui  sono  le parti  concettuali,  di  un'esistenza  propria  e  distinta  come vi  esistono  le  parti   materiali.  Per   conseguenza  il  con- cettualista Aristotile  non  può  attribuire  all'sleo?  il  nomo XwpLoxGv  senza  fare    delle   riserve  :  è   che  questo    nome non  gli  conviene  propriamente  che  nel   sistema  realista di  Platone,  perchè  dire  una  cosa  separabile  importa,  non solo  che  essa  può  essere  concepita  separatamente,  ma  che può  essere  concepita  separatamente  come  reale. Delredto,  quantunqae  il  termine  vopiacó^,  applicato  alle (1)  V.  Supplem.  C. entità  platoniche,  implichi  spesso,  nell'uso  che  ne  fa Aristotile,  la  scparaz'one  di  queste  entità  nel  senso  del Tinterpretazione  trascendentalista  —  per  la  ragione  che egli  nn  può  concepire  che  ciò  cli^*.  è  una  sostanza  sia al  tempo  stesso  un  attributo  e  un  attributo  comune  a molte  cose—,  pure  non  mancano  nello  stesso  Aristotile degli  esempi  che  confermano  che  il  senso  del  termine Platone  è  quello  che  noi  abbiamo  detto.  Cosi  egli chiama  xwpioxóv  lo  spazio  che  secondo  i  Platonici  costi- tuisce la  materia  dei  corpi  e  non  esiste  altrove  che  nei corpi  stessi  (1),  e  dice  (2'  che  Platone  nel  rimeo  non ha  spiegato  se  ciò  che  riceve  tutto  (tò  Tiav^s^s^)  si  separi (xctìpi?:£Tai)  dagli  elementi  (il  r.avasxé?  a  cui  allude  Ari- stoiile  è  la  materia  quale  viene  rappresentata  nel  Timeo 50  a-c,  in  cui  Platone  la  det'^rmina  d'una  maniera  che l'avvicina  al'a  materia  aristotelica,  e  sembra  per  conse- guenza farne  un  principio  distinto  dallo  spazio).  Siccome la  materia  platonica  è  certamente  un  principio  imma- nente, cosi  in  questi  casi  non  può  trattarsi  di  una  sepa- razione rea'e,  nel  senso  trascendentalista,  ma  di  questa Feparabiliià  ideale  che  nel  sistema  realista  compete  al- l'astratto, quantunque  questo  sistema  non  lo  consideri che  come  un  elemento  del  concreto.  Xo^piaxóv  è  chiamato pure  da  Aristotile  Vinfinito  che  secondo  Platone  è  la materia  tanto  delle  cose  quanto  delle  Idee  (p.  e.  :  in Mei,  1.  XI.  X.  2)  ;  ed  anche  questa  è  senza  dubbio  una entiià  immanente,  come  lo  stesso  Aristotile  attesta  nei termini  più  chiari  nella  Phys,  1.  III.  IV.  2,  in  cui  dice che  per  Piatone  Tinfinito  è  nelle  cos3  sensibili  e  nelle Idee  (3). (1)  Phys.  1.  rV,  VII,  3. (2)  De  general.  1.  II,  I,  3. (8)  V.  pure  U  numero  seguente. -77- Il  senso  che  noi   diamo   alla   parola   y^opio^òq,   risulta anche  netlameute  dalla  Mei.  1.  XIV.  V.  3:  ivi   Aristo- t'ie   domanda   come   il    numero    venga   dagli   elementi (l'Uno  e  la  Dualità  indermira);  sesia  per  la  mescolanza \\dli<;)  o  per  la  compcsizioue  (aùvOsais)  di  questi  elementi. Nel  primo  caso,  egli  obbietta,  l'uno  non  sarebbe  x^P'-aióv. Qui  /wpiaTÓv  non  deve  intendersi  nel   senso  trascenden- talista, perchè  allora  robbiezìoue  sussisterebbe  anche  nel- l'ipotesi che  il  numero  venisse  dagli  elementi  per  com- pos'zione;  mentre  per   Aristotile   essa  non   sussiste  che nell'ipotesi  in  cui  esso  ne  viene  per  mescolanza.  Il  senso dell'obbiezione   d'Aristotile  è  che  nella   mescolanza   gli elementi  non  conservano  un'esistenza  propria  e  distinta come  nella  composizione,  perchè  il  proprio  della  mesco- lanza {\iiliz)  è  l'annullamento   delle  sostanze   mescolata come  sostanze  distinte  e  la  sostituzione   ad  »  s^e  di  una nuova  sostanza;  per  conseguenza  se  il    numero  venisse dalla  mescolanza  delTUno  e  della  Dualità  indefinita,  que- sti  lamenti  non  potrebbero  esistere  nel  numero  di  una esist»^nza  propria  e  di&tinta  come  vuole  Platone.  Aggiun- gerò infine  che  in  Mei,  1.  VII.  XIV.  2,  facendo  due  ipo- tesi sul  rapporto  tra  le  Idee  generiche  e  le  specifiche,  di cui  l'una  è  che  l'Idea   generi^^a  esista,  numerica  nente una  e  la  stessa,  in  ciascuna  delle  Idee  specifiche,  applica a  quella   il  termine   xopiaxó;   (tanto   riguardo   a    (jueste quanto    riguardo  agF  individui)  in  quest'ipotesi    stessa, che  è  evidentemente  quella  dell'  immanenza. L'uso  che  Aristotile  e  Platone  stesso  nel  luogo  citato della  Repubblica  fanno  del  verbo  x^pi^siv  e  dei  suoi  derivati, ci  autorizza  a  supporre  che  questo  verbo  era  un  termine tecnico  di  cui  Platone  si  serviva  per  denotare  quest'ope- razione del  pensiero  che  noi  chiamiamo  astrarre,  con  que- sta differenza,  ben  inteso,  che,  mentre  per  noi  l'astrazione è  un  artifizio  puramente  subbiettivo  che  non   ha  alcun riscontro  nella  realtà,  al  contrario  per  Platone,  come  per tutti  i  filosofi  rpii listi,  essa  è  l'organo  per  cui  lo  spirito apprende  la  realtà  vera,  e  quindi  l'operaziore  doveva  in- cluderò, per  Platone  un  momento  di  più  che  per  noi,  vale a  dire  l'afft^rmaz'one  dell'esist'^nza  indipendente  dell'og- getto  che  ne  era  il  risultato.  E  certo  almeno  che  Pla- tone usa  in  questo  senso  delle  espressioni  analoghe,  p.  e. àcpatpstv  (Pldeadel  bene  da  tutte  le  altre)  (1),  àcpopit^siv  (2), ecc.  Qu<*st'uso  della  parola  x''>P^bS'-v  spiegherebbe  perfet- tamente quello  di  y^opiozó^^  che  significherebbe,  secondo la  sua  etimologia,  astraibile  o  astratto,  implicando  natu- ra'mente  nel  senso  di  ques'e  parole  l'idea  dell'esistenza per  sé,  che  secondo  noi  è  agli  antipodi  dell'  astrazione, ma  secondo  Platone  ne  era  inseparabile. Oltre  all'epiteto  di  x^piaxó^,  Aristotile  dà  alle  entità platoniche  quello  di  xexwp'-afiévo;  (che  però  non  usa  cosi spesso  come  il  primo).  Sul  senso  di  questa  parola  biso- gna fare  una  distinzione:  l'sl^oc:  può  es<»ere  detto  o  xsxw- pia|jL£vov  semplicemente,  o  xsxwptajjiévov  dalle  cose  sensibili, dagli  esseri,  ecc.  Il  primo  di  questi  due  casi  non  presenta alcuna  difficoltà:  nell'ipotesi  dell'immanenza,  cosi  bene che  in  quella  della  trascendenza,  ciascuna  Idea  è  sepa- rata dalle  altre  (cioè  non  da  tutte,  ma  da  tutte  quelle  di cui  non  è  né  un  genere  né  una  specie)  e  dalla  materia, quantunque  unita  con  esse  negli  oggetti  concreti  in  cui essa  è  presente;  perchè  l'Iblea  è  una  sostanza,  e  una  so- stanza es^'ste  in  se  stessa  e  al  di  fuori  delle  altre.  In  quanto al  secondo  caso,  xsxo)pto[iévog  dalle  cose  potrebbe  signifi- care: che  é  stato  separato  p^r  il  pensiero  dalle  cose;  e  in (1)  Rep,  534  b.  L'Idea  del  bene  è  l'sI^O^  degli  £t5r^  >  e  perciò  si trova  in  tutte  le  Idee. (2)  Pnrmen,  133  b. ^78  — questo  senso  l'espressione  si  applicherebbe  alle  Idee  consi- derate, non  assolutamente,  ma  in  relazione  all'operazione dello  spirito  che  noi  chiamiamo  astrarre,  e  che  Platone avrebbe  chiamato  x^p^^isiv.  Il  bello,  il  buono,  il  grande,  ecc. xsytopiaiiéva  dalle  cose  vorrebbe  dire  il  bello,  il  buono,  il grande,  ecc.  coacepiti  in  se  stessi,  cioè  quali  appariscono al  pensiero  dopo  che  questo  ha  isolato  ciascuno  dì  essi dagli  altri  attributi  e  da  tutte  le  circostanze  particolari che  lo  accompagnano  negli  oggetti  concreti.  Ma  Ari<»to- tile  applica  questa  e  simili  espressioni  alle  Idee,  consi- derandole evidentemente,  non  in  relazione  all'operazione dello  spirito  per  cui  l'Idea  viene  appresa  in  se  stessa,  ma assolutamente:  p.  e.  egli  dice:  secondo  alcuni  le  entità matematiche  sono  xsxwp'.ajjisva  dai  sensibili,  secondo  al- tri nei  sensibili  stessi  (1).  Quest'uso  della  parola  xsy/opi- o|isvo;  sembra  implicare  la  trascendenza  de'le  I  loe,  ed  af- fettivamente Aristotile  la  impiega  in  questo  senso.  Ma siccome  non  vi  ha  alcuna  ragione  per  ammettere  che  lo espressioni  d'Aristotile  siano  la  riproduzione  fedele  di quelle  di  Platone,  cosi  non  può  farsi  di  quest'uso  deMa parola  xsxopiaiiévo;;  un  argomento  diretto  a  favore  della trascendenza,  a  parte  quello,  certamente  grave,  ma  in- diretto, che  può  tirarsi  dall'autorità  d'Aristotile  come  in- terprete del  sistema  platonico. VII.  Il  rapporto  tra  le  Idea  generiche  e  le  Idee  spe- cìfiche non  può  essere  che  identico  a  quello  tra  le  Idee e  le  cose:  se  il  primo  rapporto  è  d'immanenza,  il  secondo non  può  essere  di  trascendenza.  Ciò  risulta  prima  di  tutto dall'indole  stessa  della  teoria  delle  Idee.  Gli  stessi  mo- tivi che  Platone  aveva  per  ammettere  l'immanenza  dei (1)  V.  Met.  l.  Ili,  I,  15,  1.  Xni,  I.  4,  1.  XIII,   II. Generi  nelle  Specie,  dovevano  anche  fargli  ammettere  la immanenza  delle  Specie  negl'individui  :  s'egli  riguardava i  Generi  come  inerenti  nelle  Specie,  ciò  non  jìoteva  es- sere che  per  questa  ragione  assai  semplice,  che  il  gene- rale non  si  trova  altrove  che  nel  particolare  ;  ma  per  la stessa  ragione  egli  doveva  riguardare  le  Specie  come  ine- renti negl'individui.  DaiU'altra  parte,  tutte  le  inconcepi- bilità legate,  nella  dottrina  dell'immanenza,  al'a  sostan- tificazione  degli  universali,  esistevano  egualmente,  tanto nel  rapporto  tra  le  Idee  e  le  cose  quanto  in  quello  tra le  Idee  generiche  e  le  Idee  specìfiche.  Se  Platone  avesse ammesso  la  trascendenza  delle  Idee  rispetto  alle  cose  prr evitare  l'assurdità  che  una  sostanza  inerisca  in  altre  so- stanze come  attributo,  che  l'uno  si  trovi  simultaneam«mte in  ciascuno  dei  molti,  ecc.  ;  per  gli  stessi  motivi  egli  a- vrebbe  dovuto  ammettere  la  trascendenza  delle  Idee  dei generi  rispetto  alle  Idee  delle  specie.  Per  conseguenza tutte  le  determinazioni  delle  Idee,  che  alTinterprete  tra- scendentalista sembrano  una  prova  della  separazione  delle Idee  dalle  cose,  proverebbe!  o  pure  la  separazione  delle Idee  generali  dalle  Idee  più  particolari.  S'*.  i  termini  ov, oOata,  aOxó  xaO'aOxó,  e  gli  altri  attribuiti  alle  Idee  per  in- dicare la  loro  sussistenza  per  s^  stesse,  significano,  non solo  che  l'Idea  è  una  sostanza,  ma  che  è  una  sostanza che  esiste  separatamente  da  ogni  altra;  l'Idea  sarà  sepa- rata tanto  dalle  cose  quanto  da  tutte  le  altre  Idee.  Se  il yjùpi.Gz6^  (»  il  x£y/'>P-<5|A*vo;  d'  Aristotile  provano  la  tra- scendenza dell'Idea  di  fronte  all'oggetto  riguardo  a  cui questi  termini  le  vengono  attribuiti,  essi  proveranno  la trascendenza  delle  Idee  gen'^riche  di  fronte  alle  Idee spe -ifiche,  \  ciche  Aristotile  li  attribuisce  alle  prime  a riguardo  delle  seconde  (1).  Se  quando  le  Idee  si  dicono 0)  V.  JÙh.  EuiL  1.  I,  Vili,  0-10,  Mei.  1.  HI,  UT,  ij,  1.  VU,  XIV, 2,  XV,  6,  1.  X,  II,  2,  1.  XIII,  X,  6,  t^oc. -  79  -~   >    I  .•  »'  »   ^— 1  ' essere  Tcapa  i  sensibili,  noi  dobbiamo  intendere,  non solo  che  esse  sono  delle  sostanze  distinte  dalle  sensi- bili,  ma  ancora  che  esistono  al  di  fuori  di  queste;  bi- sognerà ammettere  pure  che  le  Idee  dei  generi  sono  al di  fuori  delle  Idee  delle  Specie,  perchè  le  prime  soro  dette essere  r^apa  le  seconde  (1).  E  in  una  parola,  tutte  le  prove che  secondo  grinterpreti  trascendentalisti  dimostrano  la trascendenza  dille  Idee  di  fronte  ali»»,  cose,  dimostrereb- bero egualmente  quella  delle  Idee  più  generali  di  fronte alle  Idee  più  part  colari,  perchè  queste  prove  si  riducono, in  uliima  aaalisi,  alla  sostantificazione  delle  Idee  e  alla loro  dist'nzione  dalle  cose.  Aggiungiamo  che  gli  stessi termini  e  le  stessi  formule  di  cui  Piatone  si  serve  per indicare  il  rapporto  tra  le  Idee  e  le  cose,  gii  servono  u^u^l- meute  per  indicare  il  rapporto  tra  le  Idee  più  generali  e  le Idee  più  particolari.  Cosi,  quando  Platone  chiama  la  gene- ralizzazione una  oDvaYWYYi,  ciré  una  riduzione  del  multiplo «H'unità;  quando  chiama  l'Idea  l'uno  nei  molti  ;  quando dice  che  l'uno  è  molti  e  i  molti  sono  uno  ;  quest'uno  di cui  ej>li  parla  è  tanto  l'Idea  rispetto  alle  cose,  quanto  la Idea  generica  rispetto  alle  Idee  specifiche,  e  i  molti,  tanto le  cose  rispetto  all'Id'^a  quanto  le  Idee  specifiche  rispetto all'Idea  generica  (2j  :  ora,  la  relazione  che  Platone  sta- bilisce tra  l'uno  e  i  molti,  non  può  nei  due  casi  essere differenie.  Cosi  pure  la  parola  partecipare  —  cioè  le  pa- role grc.he  che  le  corrispondono  —  non  può  avere  due sensi  differenti,  quando  Piatone  dice  delle  cose  che  parte- cipano alle  Idee,  e  quan  io  dice  delle  Idee  che  parteci- pano ad  a'tre  Idee  più  geuerali  (3). (1)  V.  Aii^t.  M,-ì,  I.  TU,  ITI,  jl,  1.  VII,XIU,  6,  XV,  7,1.  XIII, X,  e,  Elh,  End.  1.  I,  VITI,  9,  Plato.  Sof.  250  b,  tìcc. <2)  V.  num.  V. (3)  V.  num.  precedente. Segue  da  ciò  che  abbiamo  detto  che  ciò  che  prova immediatamente  l'immanenza  delle  Idee  più  generali  nelle Idee  più  particolari,  prova  anche  mediatamente  l'imma- nenza delle  Idee  nelle  cose.  È  a  questa  classe  di  prove che  appartengono,  almene  in  parte,  alcune  di  quelle  espo- ste nei  numeri  precedenti  —  notevolmente  la  comunione dei  generi  del  Sofista^  l'identità  tra  l'uno  e  i  molti  del Fllebo,  la  generalizzazione  considerati  come  una  ridu- zione del  multiplo  all'uno--:  le  prove  che  esporremo  nel presente  numero  appartengono  pure  alla  stessa  classe. Il  rapporto  fra  le  Idee  generali  e  le  Idee  particolari è  considerato  da  Platone  a  un  doppio  punto  di  vist^, corrispondente  al  doppio  punto  di  vista  sotto  cui  possono considerarsi  i  concetti,  quello  dell'  eslensione  e  quello dell'  intensione, A  Considerando  i  concetM,  e  (luindi  le  Idee,  che  non sono  se  non  i  concetti  realizzati,  al  punto  di  vista  del- l'estensione, le  Idee  specifiche  sono  contenute  nelle  Idee generiche.  Questo  punto  di  vista  è  n^itural mente  quello della  dialettica,  poiché  la  dialettica  platonica  è  la  divi- sione del  genere  nelle  specie,  e  considera  quindi  il  ge- nere nella  sua  estensione. S'ccome  nella  divisione  (diatpsoi;)  le  specie  sono  ri- guardate come  parti  del  gen^TC,  e  l'o^'getto  proprio  dì c|uesto  metodo  sono  esclusivamente  1^,  Id  e,  cosi  la  dia- lettica —  vale  a  dire  1'  uno  dei  due  elementi  costitutivi d*lla  teoria  delle  Idee  —  ha  p.'r  bas«,  il  concetto  che  le Idee  specifiche  fono />a?'// dell'Idea  generica.  Per  la  prova della  proposizione  che  l'oggetto  proprio  ed  esclusivo  della divisione  so:io  le  Idee,  rimando  -A  num.  IV:  in  quanto alla  propos  zione  che  n^lla  divisione  le  spec'e  sono  ri- guardate come  parti  del  genere,  sembrerà  una  puerilità di  credere  che  sia  necessario  di  provai  ria.  Tuttavia  scome può  esservi  qualche  lettore  che  noj  abbia  alcuna 80  - nozioDC  della  dieresi  p'atoDÌca,  e  questi  potrebbe  iram^- ginare  che  Platone  nelle  sue  dieresi  noQ  riguarda  le  spe- cie iu  cui  il  genere  viene  diviso  come  parti  di  esso  —  ciò che  infatti  sarebbe  la  conseguenza  inevitabile  dell'  ipo- tesi della  trascendenza  —,  così  non  sacà  forse  inutile  di provare  coi  testi  anche  questa  proposizione.  Perciò  ba- «teranno  i  due  luoghi  seguenti  : Polii,  2G2  a  26o  b  :  Lo  straniero  (riprovando  una  di- visione di  Socrate)  :  «  Non  separiamo  una  pi«*cola  parte per  opporla  ad  altre  grandi  e  numerose,  né  prendiauna  parte  soiza  la  specie,  ma  la  parte  abbia  al  tempo stesso  specie.  È  bello  di  separare  subito  da  tutto  il  resto ciò  che  si  cerca ma  vale  di  più  andare  dividendo  per metà,  e  meglio  cosi  scopriremo  le  Id*'e  ;   ora  è   ciò    che importa  sovratutto  in  ogni  ricerca —  SocR.  :  Ma  come si  può  il  tendere  più  chiaramente  che  la  parte  e  la  sp^v eie  non  sono  la  stessa  cosa,  ma  due  cos'*^  differemiV  — Lo    STRAN.:    Ottimo    fra    gli    uomifii,   non    è   lieve    ciò che  mi  domandi Guardati  bene  però  di   pensare  dì aver  udito  da  me  alcuna  cosa  determiaata  intorno  a  que- sto —  SocF.  :  Intorno  a  che?  —  Lo  stran.  :  Che  la  part^ e  la  specie  siano  due  cose  differenti  —  Socr.  :  Perchè?  — Lo  STRAN.  :  La  specie  è  necessariamente  una  parte  di  ciò di  cui  si  dice  clfe  è  una  specie,  ira  non  è  necessario  che una  parte  sia  al  tempo  stesso  una  specie.  Non  dimenti- care mai,  o  Socrate,  che  io  cerco  di  dividere  di  questa maniiM-a  (cioè  p^r  parti  che  sono  specie)  anziché  delPal- ira  (ciaè  per  semplici  pani)  >. Fedro  265  c-26(;  b  :  « Vi  hanno  due  cose  che  sarebbe interessante  che  un  uomo  ab'le  potesse  trattare  con  arte. Prima,  di  ricondurre  ad  un'Idea  unica,  guardandolo  con una  veduta  comprensiva,  tutto  ciò  che  e  sparso  da  una parte  e  dall'altra e  poi  di  sapere  di  nuovo  dividere  per ispecie  come  per  altrettante  articolazioni    naturali,  cer- cando di  non  mutilare  alcuna  parte  come  farebbe  un  eat- tivo scalco.  Così  poco  fa  i  nostri  due  discorsi  (fatti  Pano  in lode,  ePaltroin  biasimo  dell'amore)  hanno  cominciato  per prendere  la  specie  generale  del  delirio,  e  come  un  sol  corpo si  compone  di  membra  doppie,  chiamate  con  lo  stesso  nome, cioè  le  destre  e  le  sinistre,  similmente  essi  hanno  conside- rato il  delirio  come  una  specie  unica,  e  Puno,  dividendo  la parte  sinistra  e  suddividendola,  non  si  è  fermato  che  dopo aver  trovato  un  certo  sinistro  amore,  ch'esso  ha  colmato  di rimproveri  ben  meritati  ;  Paltro,  avendo  preso  la  destra del  delirio,  vi  ha  trovato  un  altro  amore,  simile  ai  pri- mo di  nome,  ma  divino,  che  ha  colmato  di  lodi,  vantan- dolo come  l'autore  dei  più  grandi  beni.  Per  me,  o  Fe- dro, io  sono  amante  di  queste  divisioni  e  riunioni  (ao- vaYo>Ywv),  per  essere  più  in  grado  di  ben  pensare  e  di  ben parlare;  e  se  credo  di  scorgere  in  alcuno  la  capacità  di guardare  all'uno  e  ai  molti,  io  seguo  le  sue  orme  come quelle  d'un  dio.  Quelli  che  hanno  questa  capacità,  dio  sa se  a  torto  o  a  ragione,  io  li  chiamo  sin  qui  dialettici  ». In  questi  luoghi  non  potrebbe  supporsi  che  Platone, mentre  riguarda  le  specie  come  parti  del  genere  diviso, dimentica  il  suo  principio  che  l'oggetto  a  cui  si  applica la  dieresi  sono  le  Idee  —  ciò  che  è  la  sola  risorsa  a  cui potrebbe  ricorrere  P  interprete  trascendentalista  per  ne- gare che  le  Idee  specifiche  siano  considerate  come  parti dell'  Idea  generica  —  Infatti  in  essi  è  affermato  esplicita- mente che  il  vero  oggetto  della  dieresi  sono  le  Idee  :  e oltre  di  ciò  la  supposizione  i)otrebbe  al  più  essere  am- missibile nei  casi  in  cui  questo  metodo  non  '>  che  praticato; la  pratica,  potrebbe  dirsi  in  questi  casi,  non  corrisponde alla  teoria;  ma  nei  due  luoghi  citati  Platone  si  mette al  punto  di  vista  teorico,  dandone  nell'uno  delle  regole, e  nell'altro  inculcandolo  come  metodo  generale,  e  ciò  con un'enfasi  che  basterebbe  essa  sola  a  provare  che  egli  lo -  81  - considera  nella  sua  applicazione  alle  Idee,  poiché  è  in quest'applicazione  che  esso  d' viene  una  soluzione  del  pro- blema delle  cause,  efficienti,  e  acquista  perciò  il  pregio inestimabile  in  cui  è  tenuto  da  Platone. Del  resto,  oltre  alle  dieresi  e  ai  luoghi  relativi  a  que- sto metodo,  che  Platone  riguardi  le  Idee  specifiche  come parti  dell'  Idea  generica,  risulta  anche  da  altri  luoghi, nei  quali  non  vi  ha  alcun  dubbio  che  le  specie  e  i  generi di  cui  si  tratta  .«ono  le  Idee.  Così  nel  Sofista  257  c-2r)8  d  : «  La  cpuat?  del  diverso  mi  pare  essere  frazionata  (xa-ca/.s- xspixaxfoO-ai)  come  la  scienza.  Questat^ò  pure  una;  ma  cia- scuna parte  di  e«^sa,  riferendosi  a  un  soggetto  particolare, prende  un  nome  particolare;  e  perciò  vi  hanno  molte  arti e  molte  scienze  —  Senz^  dubbio  —  Non  vale  la  stessa  cosa per  le  parti  Oiópia)  della  cpOai?  del  diverso,  una  in  fò stessa  V  —  Forse,  ma  spiega  in  che  modo  — Vi  ha  una parte  (jiópiov)  del  Diverso,  che  si  oppone  al  Bello  V  —  Sì  — Ha  qualche  nome  o  non  ne  ha?  —  Lo  ha  ;  perchè  ciò  che chiamiamo  non   bello  non  è  che  ciò  che  è  diverso  dalla cpóotc;  del  bello- Bisogna  porre  nel  numero  degli esseri  il  Non  bello  non  meno  che  il  Bello?  -  Non  meno  — K  bisogna  pure  dire  che  il  Non  grande  è  similmente  che il  Grande?  — Similmente— Dunque  anche  il  Non  giusto porremo  di  fronte  al  (Husto,  come  se  il  primo  non  esis  a meno  che  il  secondo  ?  — Certamente  — E  lo  stesso  vale per  le  altre  cose,  poiché  noi  abbiamoo  visto  che  la  ^ioi? del  diverso  è  nel  numero  d<»gli  esseri;  e  ammettendo  che essa  è,  bisogna  anche  ammettere  che  le  sue  parti  (iiópia) sono  — K  come  no?  — Ter  conseguenza  l'opposizione  di una  parto  ( jiópiou)  della  cfOc-s  del  diverso  a  quella  dell'esere non  è  meno  un  essere  che  l'Essere  stesso;  e  signi- fica, non  il  contrario  di  questo,  ma  solamente  il  diverso  — Evidentemente  —  Come  la  chinmercmo?  —  E  chiaro  che è  il  Non  essere,  che  noi  cercavamo  per   cause   del  sofi- sta  Noi  abbiamo  non  solo  dimostrato  che  i  non  es- seri sono,  ma  spiegato  ancora  che  cosa  sia  la  specie  del non  essere;  poiché  avendo  provato  che  esiste  la  (^ óot^  del diverso,  e  che  si  trova  divìsa  (xaxaxsxspiaaxtaiiévyjv)  in  tutti gli  esseri,  nella  loro  relaz^'one  reciproca,  abbiamo  osato di  dire  che  la  parte  i  «lópiov)  di  essa,  opposta  a  ciascun  es- sere, ò  realmente  il  Non  essere.  » Nel   7im€o  30  c-d  si  cerca  quale  sia  Tanimale  —  l'ani- male Idea,  non  l'animale  cosa  —  a  somiglianza  del  quale il  mondo  è  stato  fatto.  Quest'  animale,  dice  Timeo,  non può  essere  uno  di  quelli  che  sono  nel  genere  della  parte (|i£po%  —  cioè  che  sono  delle  parti),  perchè  ciò  che  è  fatto a  somiglianza  dell'  imperfetto  non  può  essere  bello;  ma è  l'animale  «  di  cui  tutti  gli  altri  animali,  presi  per  ge- neri e  per  individui  (cioè  ppr  ispecie,  perchè  gì'  individui di  cui  (jui  si  tratta  sono  Idee),  sono  delle   parti  (fiópia). Es80  contiene  in  sé  (èv  éauTtp  nspiXa^òv  sxsi)  tutti  gli  ani- mali intelligibili,  come  questo  mondo  contiene  noi  e  tutti gli  animali    visibili».  Por  conseguenza  (31  ab)  essendo fatto  sopra  un  tale  esemplare,  il  mondo  è  unico  :  «  poiché (|Up1Io  che  contiene  (xòTispisxov)  tutti  gli  animali  iutelligibili non  può  essere  un  secondo  con  un  altro;  perché  allora  esi- sterebbe necessaria  mente  un  altro  ancora,  di  cui  ciascuno dei  due  sarebbe  una  parie  (jiépo;),  e  il  mondo  sarebbe  stato fatto  a  somiglianza,  non  di  questi  due,  ma  di  quest'altro che  conterrebbe  (Tispisxov)  tutti  e  due.  Afhoché  dunque  que- sto mondo  fosse    .imile  per  la  sua  unità  all'  animale  as- soluto (;:avTcÀ£t),  il  suo  autore  non  ne  ha  fatto  né  due  né un'  infinità,  ma  non  ha  prodotto  che  questo    solo  cielo, che  è  e  sarà  unico».  A  39  e  poi,  cominciando  a  narrare la  produzione  degli  animali,  Timeo  dice  che  il  mondo, in  quanto  al  resto,  somigliava  al  modello  alla  cui  imita- zione è  stato  fatto,  e  ma  non  racchiudendo  tutti  gli  ani- mali che  sono  nati  nel  suo  seno,  per  questa  ragione  era —  82  - ancor<a  dissimili  ;  perciò  il  Demiurgo  aggiungeva  ciò  che gli  mancava,  riproducendo  la  natura  del  suo  modello. Per  conseguenza,  (filali  e  quante  specie  l' intelligenza vede  inesistenti  (évoóoa;)  in  ciò  che  è  animale  (xiT)  'i  Izv, ^tpov),  tali  e  tante  stabili  che  questo  mondo  dovesse  ri- ceverne». Quest'animale  assoluto  o  intero,  che  contiene tutti  gli  altri  animali  intelligibili  come  delle  parti,  non può  essere  che  l'Idea  generale  deiran^'male.  In  etTetti, quando  un  nome  si  riferisce  alle  Idee,  non  può  signifi- care nel  linguaggio  di  Platone  che  l'Idea  delle  (ose  a cui  questo  nome  appartiene.  Ciò  ò  con  fermato  inoltre dall'argomento  con  cui  Platone'  dimostra  che  (luest'aiìi- male  e  unico,  cioè  che  se  ve  ne  fossero  due,  ve  ne  sa- rebbe anche  necessariamente  un  altro,  che  li  conterrebbe amendue,  e  sarebbe  questo  l'animale  assoluto.  Lo  stej^so argomento  si  trova  nel'a  Rep,  597  c-d  per  dimostrare  che non  |,uò  esistei  e  che  una  sola  Idea  del  letto;  e  sotto  una forma  generai'  può  svilupparsi  cesi  :  per  tutti  i  molti compresi  sotto  un  concetto  comune  vi  ha  un*  Idea  (ciò che  è  dimostrato  dalla  prova  per  l'esistenza  delle  Idee), e  non  può  esser  vene  che  una  sola,  poiché,  se  ve  ne  fos- sero di  più,  queste  farebbero  parte  dei  molti  compresi sotto  il  concetto  comune,  perciò  al  di  sopra  di  questa  mol- liplicità  bisognerebbe  cercare  ancora  un'unità,  e  sarebbe quella,  e  non  le  precedenti,  l' Idea  dei  molti  compresi sotto  il  concetto  comune.  Infine  ciò  che  toglie  ogni  dubbio è  la  denominazione  di  ò  sari  ^coov,  perchè  o  soxi  equivale, come  abbiamo  visto  (n.  II),  ad  ano,  e  significa  che  il  nome a  cui  si  aggiunge  viene  applicato  all'  Idea  delle  cose  de- notate da  questo  nome  Pla:ore  può  riguardare  l'Idea dell'animale  come  l'esemplare  del  mondo,  perchè,  siccome egli  amiìiette  l'animazione  delle  piante,  della  terra  e  degli astri,  cosi  ogni  sostanza  è  per  lui  un  essere  animato  o almeno  una  parte  dì  un  essere  animato  ;  e  per  conse- guenza, tutti  gli  oggetti  dei  no^ri  concetti  essendo  con. tenuti  nelle  sostanze,  le  Idee  degli  esseri  animati,  cioè le  parti  dell'  Idea  dell'animale,  esauriscono  in  un  certo modo  tutto  il  contenuto  del  mondo  idealLa  relazione  di  tutto  e  parti  stabilita  tra  l'Idea  ge- nerale e  le  Idee  particolari  subordinate  ])reseuta  una  dif- ficoltà. La  specie  è  certamente  una  parte  del  genere,  se per  genere  e  per  ispecie  s  intende  la  collettività  degl'  in- dividui ;  ma  l'Idea  non  •'  la  collettività  degl'individui, ma  solamente  l'attributo  o  insieme  d'attributi  comune  a questa  collettività.  Ora  l'insieme  degli  attributi  specifici non  è  contenuto  come  una  parte  nell'insieme  degli  at- tributi generici.  Sembra  dunque  che  il  concetto  che  l'I- dea specifica  abbia  con  l'Idea  generica  la  relazione  della parte  col  tutto,  sia  incompatibile,  tanto  con  l'ipotesi  della trascendenza  delle  Idee,  quanto  con  quella  della  loro  im- manenza. Per  risolvere  questa  difficoltà  bisogna  ricor- darsi della  formula  platonica  che  l'uno  è  i  molti  e  i  molti sono  l'uno,  e  della  sp'egazione  che  ne  abbiano  data  (V,  4*^). Tra  l'uno  e  i  molti  —  cioè  tra  il  (Jenere  e  le  Specie,  tra la  Specie  e  gl'individui  —  vi  ha  una  relazione  che  è  al tempo  stesso  di  differenza  e  d'identità.  L'uno  e  i  molti, neir ipotesi  dell'immanenza,  s'identificano  necessariamen- te, perchè  sono  la  stessa  cosa,  il  primo  in  astratto,  i  se- condi in  concreto;  quantuaciue  al  tempo  stesso  si  distin- guano, perchè  l'astratto  e  il  concreto  non  sono  solamente dne  punti  di  vista  subbiettivi  sottc^  cui  la  stessa  cosa viene  considerata,  ma  due  gradi  o  momenti  successivi (logicamente)  dello  sviluppo  dell'essere,  che,  pur  con- servandosi identico  a  se  stesso,  pissa  continuamente  — questa  è  la  vita  dell'Idea  —  da  uno  stato  più  astratto  o più  indeterminato  a  uqo  stalo  più  concreto  o  più  deter- minato. Questa  determinazione  o  concretizzazione  pro- gressiva dello  ste^^so  essere,  ammessa  necessariamente  in tutti  i  sistemi  che  realizzano  gli  universali,  nel  sistema ^83  — (li  Platone,  per  la  maniera  in  cui  egli  concejn'sce  la  fl'a- Icttica,  cioè  il  metodo  di  dedurre  le  Idee  —  metodo  che non  è  altra  cosa,  in  Platone  come  negli  altri  metafisici realisti,  che  la  riproduzione  subbiettiva  di  questo  stesso processo  per  cui  Tessere  si  sviluppa  per  una  concretiz- zazione progressiva  —  è  al  tempo  stes-^o  una  divisione progressiva,  ciò  che  nel  momento  anteriore,  più  inde- terminato, è  uno^  nel  momento  posteriore,  più  determi- nato, trovandosi  molti,  Platone  chiama  dunque  ciascuno dei  ììiolti  una  parte  dell'  «no,  poiché  i  molti  non  sono che  Vuno  stesso  che,  det'^rminandosi,  si  divide.  Certa- mente questo  concetto  non  è  facile  a  comprendere,  «nzi, per  dire  la  cosa  com'è,  é  assolutamente  inintelligibile; ma  è  la  conseguenza  inevitabile  de' la  reaMzzazione  de- gli universali.  Questa  conseguenza  però  non  ha  lungo che  quando  dell'universale  si  fa  un'entità  immanente, vale  a  dire  quando,  reaiizzanlos',  esso  non  cessa  di  es- sere veramente  uq  universale,  cioè  la  proprietà  coni  me dei  particolari.  Ma  se  l'Idea  è  trascendente,  essa  non  è più,  a  parlar  propriamente,  Tunivers^ile,  non  è  più  le  c^se stesse  considerate  dal  punto  di  vista  dell'astrazione:  al- lora l'astratto  e  il  concreto,  l'uno  e  i  molti,  sono  sola- mente distìnti,  e  noa  al  t^>mpa  stesso  distinti  e  iden- tificati. Il  rapporto  di  tutto  e  parti  stabilito  tra  l'Idea  geae- rlca  e  le  Idee  specifiche  ci  fa  comprendere  certe  locu- zioni che  al  punto  di  vista  ordinario  sarebbero  strane. Platone  chiama  le  specie  di  un  genere  parti  fjispyj,  ii6- P'.a,  xjiTQjjiaxa,  ecc.  )  dall'oggetto  deaoaco  dal  nome  gene- rico, e  questo  tutto  (oXoc,  r.à;,  eccì-  rel?',tivamente  alle specie  del  genere.  Co3Ì,  oltro  agli  esempi  di  queste  locu- zioni nelle  dieresi  delle  arti  e  delle  scienze  del  Sofista  e del  Politico,  dice:  le  parti  del  delirio  [Fedro  265  b,  266  a), dell'imprudenza  {Alcib.  1^"  140  e),   dell'  ignoranza    {Sof. 221)  b-c),  del  piacere  (FU.  55  e,  61  e,  62  d),  della  figura (FiL  12  e),  ecc.,  intendendo  le  loro  specc;  neM'Eutifr. 12  d-e  dice  che  il  santo  è  una  parte  del  giusto  ;  nel  Po- lit,  266  a,  ch'egli  ha  diviso  tutto  ((uanto   l'animale  do- mestico e  vivente  in  gregge;  nel  Conc.  205  b-d,  che  un st5o;  particolare  dell'amore  é  chiamato  col  nome  del  tutto, amore;  ecc.  (1).  Il  delirio,  il  piacere,  la  figura,  ecc.,  non significano  la  collettivi!;'!  delle  cose  o  dei  fenomeni  chia- mati con  questi  nomi,  ma  il  concetto  della  cosa  o  del  fe- nomeno in  generale:  così  le  loro  specie  non  potrebbero, al  punto  di  vista  comune,  esserne  ch'amate  delle  parti. Se  Platone  lo  fa,  è  perchè,  secondo  luì,  il  concetto  si  ri- ferisce all'Idea,  e  le  Idee  specifiche  sono  parti  dell'Idea generica.  Per  conseguenza,  per  questo  delirio,  per  que- sto piacere,  per  questa  figura,  ecc.,  bisogna  intendere  la Idea  del  delirio,  del  placare,  della  figura,  ecc.  :  e  sicco- me nella  più  parte*di  questi  casi,  se  non  in  tutti,  è  evi- dente che  Platone  non  parla  di  entità  trascendenti,  ma del  delirio,  del  piacere,  della  figura,  ecc.  in  noi  e  nelle cose,  cosi  noi  dobbiamo  vedervi  un'altra  prova  —  imme- diata   -  dell'immanenza  delle  Idee. Un'altra  maniera  di  formulare  il  rapporto  tra  l'Idea più  generale  e  le  Idee  più  particolari  ad  essa  subordi- nate, è  di  riguardare  la  prima  come  contenente  e  le  se- conde come  contenute.  È  ciò  che  si  vede  nei  luoghi  ci- tati del  Timeo  e  in  tanti  altri,  tra  cui  basterà  d'indicare Sof.  250  b  (luogo  citato  al  num.  III  carta  20)  e  Sof.  253  d, Pedro  273  e,  l'olit.  2S5  b  (luoghi  citati  al  n.  V.  2«). Evidentemente  Platone  non  può  dire  che  l'Idea  generale contiene  le  Idee  particolari  che  nello  stesso  senso  in  cui  noi (1)  Cfr.  Menoyie  77  a,  luogo  citato  a  carta  38  (u.  V,  4»),  e  79  a. diciamo  che  il  concetto  generale  contiene  i  concetti  par- ticolari ;  vale  a  dire  in  quanto  le  sfere,  in  estensione, delle  seconde  cadono  dentro  la  sfera,  in  estensione,  della prima.  Ora  l'estensione  non  è  una  proprietà  che  appar- tiene agli  oggetti  dei  nostri  concetti,  agli  astrati),  con- siderati in  se  stessi,  cioè  nel  loro  contenuto  intrinseco; ma  appartiene  ad  essi  in  ragione  degli  oggetti,  i  con- creti, di  cui  essi  sono  gli  attributi.  Noi  diciamo  che  ani- male è  più  esteso  di  iioviOy  e  io  contiene,  in  quanto  gli oggetti  di  cui  si  predica  animale^  sono  più  numerosi  di quelli  di  cui  si  predica  uovio,  e  la  totalità  dei  secondi è  una  parte  della  totalità  dei  primi.  In  assenza  di  og- getti, di  cui  uomo  e  animale  siano  gli  attributi,  non  po- trebbe parlarsi,  per  essi,  di  estension-^,  non  potrebbe  dirsi che  il  secondo  è  più  esteso  del  primo  e  lo  contiene.  Ora, secondo  gl'interpreti  trascendentalisti,  non  vi  hanno,  per Platone,  oggetti,  di  cui  tiomo  e  animale,  considerati  co- me Idee,  siano  gli  attributi  :  l'Idea  dell'uomo  non  t>  un attributo  degli  uomini,  l'Idea  dell'  animale  non  è  un  at- tributo degli  animali,  né  degli  animali  cose,  nò  degli  ani- mali Idee.  Per  conseguenza,  Platone  non  potrebbe  dire dell'Idea  dell'animale  ch'essa  contiene  l'Idea  dell'  uomo e  degli  altri  animali  :  le  Idee,  separate  dalle  cose  e  le une  dalle  altre,  avrebbero  semplicemente  intensione,  non avrebbero  esten^^ione  (1).  Io  ho  creduto  di   dover  distin- (1)  Noi  dobbiamo  vedere  perciò  una  prova  dell'immanenza  delle Idee  in  tutti  i  casi  in  generale  in  cui  Platone  attribuisce  ad  esso un'  estensione.  P.  e.  nel  Sof.  254  c-d  (luogo  citato  nel  numero  pre- cedente), dove  chiama  le  Idee  dell'essere,  dello  stato  e  del  movi- mento i  generi  pia  grandi  (jiSYiaxa)  tra  quelli  di  cui  egli  ha  par- lato :  non  potrebbe  chiamarli  cosi,  se  non  li  riguardasse  come  con- tenenti, nella  loro  estensione,  un  più  gran  numero  di  oggetti  che •ili  altri. guere  la  proposizione  che  l'Idea  generica  contiene  le  Idee specifiche  da  quella  che  le  Idee  specifiche  sono  parti  del- l'Idea generica,  quantunque  in  certi  casi,  come  nei  luo- ghi cH<itì  del  Timeo,  le  due  proposizioni  siano  evìden-r temente  equivalenti,  perche  la  prima  non  include  neces- sariamente nel  suo  significato  questa  identificazione  del- l'uno coi  molti  inclusa  nel  significato  della  seconda.  Per rappresentarsi  un'Idea  come  inviluppante,  nella  sfera  del- la sua  estensione,  un'altra  Idea,  Platone  non  ha  bisogno di  riguardare  la  seconda  come  una  parte  della  prima,  ma solo  di  riguardare  la  totalità  degli  oggetti  in  cui  si  trova la  seconda  come  una  parte  della  totalità  degli  oggetti  in cui  si  trova  la  prima. B.  Considerando  le  Idee  al  punto  di  vista  dell'inten- sione, le  Idee  genf  rali  sono  contenute  nelle  Idee  parti- colari. Una  delle  prove  più  palpabili  di  questa  proposi- zione ci  è  fornita  dallo  stesso  Aristotile,  malgrado  la  sua innegabile  inclinazione  verso  l'interpretazione  trascen- dentalista :  ù  la  dottrina  dei  due  elementi  delle  Idee  e delle  cose— dottrina  appartenente  alle  ultime  speculazioni di  Platone,  e  per  la  cui  conoscenza  noi  siamo  ridotti quasi  unicamente  all'autorità  d'Aristotile— Secondo  que- sta dottrina,  tutte  le  Idee  sono  costituite  da  due  elementi (oTotxeta)  che  corrispondono  al  Fine  e  Infinito  dei  Pita- gorici, e  che  Aristotile  chiama  talvolta  con  questi  stessi nomi,  ma  il  più  ordinariamente  con  quelli  di  Essere  e Non  essere  o  (al  punto  di  vista  della  teoria  dei  numeri, ai  quali  le  Idee  venivano  identificate)  di  Uno  e  Dualità indefinita  (o  Grande  e  Piccolo).  L'  uno  o  essere  era  la essenza  (oOoia)  o  forma  o  specie  (sl^o;)  di  tutte  le  Idee; la  dualità  indefinita  o  non  essere  ne  era  la  materia  (2). (2)  Met.  1.  I,  VI,  3-8,  1.  Ili,  III,  5,  IV,  21-30,  l.  IV,  II,  14,1.  XIV, I,  II,  IV,  eco. —  85  — Il  nome  di  elementi  dato  ai  due  principi!  ultimi  delle cose  non  deve  farci  illusione  sul  vero  siouificato  di questa  dottrina  :  queste  due  entità  non  sono  al  fondo che  due  Idee  generiche,  a  cui  tutte  le  altre  sono  subor- dinate come  loro  specie,  vale  a  diro  d^ì  predicali  uni- versali, comuni  a  tutti  gli  esseri  ^^1),  considerati  come delle  sostanze  (per  cui  vengono  loro  applicati  i  termini aùxó,  xatì'a?iTÓ,  /opiaTiv,  indicanti  l'astrattezza  dell'Idea e  insieme  la  sua  sostanzialità)  (2),  e  ciascuno  come  uno nei  molti  (3).  In  verità  Piatone  non  considera  come  Idea di  genere  nel  senso  stretto  che  quello  dei  due  elementi che  fa  da  slSog,  e  che  non  è  altra  cosa  che  l'Idea  del bene  (4),  che  nel  6"^  e  7^  libro  della  /^ep,  è  data  come il  principio  dell'  essere  e  della  conoscenza  —  è  questo, come  vedremo  a  suo  luogo,  un  artifizio  destinato  a  con- ciliare la  dottrina,  dovuta  ai  Pitagorici,  di  una  dualità  di principii  con  l'esigenza  della  dialettica,  cioè  della  die- resi, la  quale  richiedeva  al  vertice  della  piramide  che costituiva  il  mondo  ideale,  non  due  Idee,  ma  una  Idea  u- nica  come  genere  supremo—:  ma  la  denominazione  stessa di  materia  delle  Idee  data  all'altro  elemento,  per  distin- guerlo da  un'Idea  di  genere  propriamente  detta,  ci  dica (1)  Met.  l.  I.  VI.  4-7,  IX.  24,  1.  III.  III.  5,  7-8,  13,  IV.  24,  1.  V. III.  4,  1.  X.  II.  1-2,  1.  XI.  I.  11,  1.  XIII.  Vlir.  25-28,   1.    XIV.    I.    13, IV.  5-6,  ecc.  V.  a.  pel  Non  essere  Plato.  Sof.  256  d-259  b. (2)  Phys.  1.  III.  IV.  2,  V.  1-3,  3/W.  1.  I.  VJ.  4,  IX.  17,  1.   III.  I.  12, IV.  21-30,  l.  VII.  XVr.  3-6,  1.  X.  li,  1.  XI.  II.  6-7,  X.  2-5,  1.  XIV.  V. 3,  eoo. (3)  McH,  1.  I.  VI.  6,  IX.  24,  1.  III.  I.  11,  IV.  9,  26,  VI.  1-8,  1.  V.  HI. 4,  1.  VII.  XVI.  5-6,  1.  X.  II.  1,  1.  XI.  II.  11,  1.  XIII,  X»  1-6, 1.XIV.  II. 4,  11,  12,  IV.  7,  eoo. (4)  Met.  1.  I.  VI.  8,  VII.  5,  IX.  21,  1.  XII.  X.  1,  4,  1.  XIV,  IV.  2-7, V,  1,  Etn.  Eitd.  1.  I.  VIII.  14,  eoo. abbastanza  che  anch'esso  è  al  fondo  un  predicato  gene- rale, comune  a  tutte  lecose— meno,  s'intende,  l'elemento opposto— poiché  il  nome  d'una  materia  (il  legno,  l'oro,  ecc.): è  un  nome  generico  applicabile  alle  cose  che  sono  fatte interamente)  di  questa  materia.  Per  conseguenza  tra  i due  elementi  e  le  Idee  dev^e  esservi  lo  stesso  rapporto, d' immanenza  o  di  trascendenza,  che  vi  ha  tra  le  Idee dei  generi  e  «luelle  delle  specie,  e  questo  non  può,  come abbiamo  detto,  differire  da  quello  che  vi  ha  tra  le  Idee (ielle  specie  e  le  cose  individuali.  Tanto  più  che  il  rap- I  orto  tra  i  due  elementi  e  le  Idee  è  designato  dagli stessi  termini  che  designano  quello  tra  le  Idee  generi- che e  le  specifiche  o  Ira  le  Idee  e  le  cose  :  p.  e.  le  Idee sono  dette  partecipare  (jisxsxs'.v)  (l)  agli  elementi,  e  que- sti sono  chiamati  separabili  o  separati  (xwp'.aia  o  xsxco- pia'iéva)  (2).  Gli  stessi  termini,  come  abbiamo  più  volte o^^servato,  non  potrebbero  indicare,  in  un  caso,  un  rap- porto d'immanenza,  e  in  un  altro,  un  rapporto  di  tra- scendenza. Ora  non  vi  ha  dubbio  che  il  rapporto  dei d'ie  principii  con  le  Idee  sia  quello  dell'immanenza:  se non  fosse  così,  non  potrebbero  essere  chiamati  elementi, v'  l'uno  materia,  l'altro  forma  o  essenza,  delle  Idee..  E  si noti  che  Aristotile  prende  la  parola  elemento  nel  senso stretto:  cosi  egli  fa  inerire  {'my.y/t\^^  svjTiapxs^^?  ^'^^oct Iv)  i  due  principii  negli  esseri  derivati  (3);  chiama  que- sti, rapporto  ad  ess',  dei  composti  (a'JvB-sia)  (4);  paragona (1)  M^'l.  1.  I.  VI.  4,  1.  XII.  X.  4,  1.  XIV.  IV.  7,  ecc. (2>  Ml'L  i.  IV.  II.  16,  1.  XF.  II.  6,  X.  2,  l.  XII.  X.  1,  1.  XIV.  I.  2, II.  13,  V.  3,  ooc. (3)  McL  1.  V.  ai.  4-5,  l.  XII.  IV.  3,  l.  XIV.  II.  2,  Phy^.  l.  III.  IV. 2,  eoe. (4)  Met.  U  XU.  IV.  3,  1.  XIV.  il.  1. il —  8G  — ì il  modo  ìu  cui  essi  formaiia  gli  esseri  a  quello  in  cui  le lettere  formano  le  sillabe  (1);  li  considera  entrambi  co- me materia  dei  composti  (2)  ;  e  fa  l'obbiezione  che,  se ciascun  elemento  è  uno  di  numero  (come  dice  Platone), e  non  semplicemente  di  specie,  non  vi  saranno  altri  es- seri  che  gli  elementi  stessi  (3).  Un'osservazione  analoga vale  per  il  nome  di  materia  dato  all'uno  dei  duo  priiici- pii:  questo  principio  è  per  Aristotile  il  sustrato  (Ortoxsi- lisvov),  nelle  Idee,  al  quale  la  forma  inerisce  (4);  para- gona il  rapporto  delle  Ilee  con  esso  a  quello  della  meusa col  legno  di  cui  è  fatta  (5);  considera  la  sua  funzione nel  sistema  platoaico  come  identica  a  quella  che  ha  la materia  nel  suo  proprio  sistema  (6),  tranne  che  l^latono confonde  la  materia  con  la  privazione,  mentre  egli  le  stingue (7)  ;  e  lo  riguarda  come  la  potenzialità  di  tutte le  cose,  come  il  tutto  allo  stato  indeterminato,  prima  di determinarsi  per  la  partecipazione  delle  far.mfHK  La pi'oposizione  che  il  principio  materiale  è  gli  esseri  stessi in  potenza  è  attribuita  anche  a  Platone  stesso  (i))  ;  e  ve- diamo una  singolare  applicazione  di  questo  concetto  nella formazione  dei  numeri,  le  u'iità  del  prlni')  n'inoro  che viene  formato,  cioè  della  dualità  definita,  essen  ;0  riguar- (1)  Met,  1.  I.  IX.  29-aO,  1.  XU,  IV.  3,  l.  XML  X.  2^,  r,,  eoe. (2)  Met.  1.  XUl.  Vni.  23-28,  1.  XIV.  U.  1-5. (3)  Met,  l.  ni.  IV.  D,  1.  Xl.  U.  Il,  1.  XIU.  X.  2-3,  6. (4)  Met.  1.  1.  VI.  7,  1.  1.  IX.  22,  eco.  L'clemaato  mal  orlala  ì-  an- che detto  luogo  (xwpa)  derelemento  fonuale  {\fel.  1.  XIV.  IV.  7), ciò  ohe  prova  rimmanenza  dell'ano  e  dell'altro. (5)  Met,  1.  1.  VI.  6. (6)  Phys.  1.  1.  IX.  1-8,  Met,  1.  XlV,  1.  12,  11.  13,  IV.  7,  eco. (7)  Phys.  1.  1.  IX.  1-3. (8)  Met.  1.  1.  Vm.  9-11. C»)  Mei.  L  XlV.  U.  12. date  da  Platone   come  le  unità   steFse  della   dualità  in- definita   (il  Grande   e   il    Piccolo),    eguagliate   (1).    In quanto  a'Telemento  che  serve  di  forma,  la  cnnseguenza naturale   delia    teoria   dei    numeri   v    di    fargli    qualche volta   rappresentare    una    parte   ch"5    conviene  alla  ma- teria piuttosto   che   alla   forma;  la  qnal   cosa,  se  dissi- mula la  funziono  e  il  significato  reale  di  questo  princi- pio, è  però  la  prova  più  palpabile  del'a  sua  immanenza. Aristotile  osserva  che  i  platonici  corsiderano  l'uno  al  tem- po Ptesuo  come  f(  mia  e  specie  dei  numeri  —  perchè  cia- scun numero  è  uno  —  e  come  parte  e  materia  di  essi— ]erch('  i  numeri  sono  composti  di  unUà  —  (2).  E  a  (|ue- sta  funzione  dell'uno  come  materia  dei  Dumeri  che  può riferirsi  pure  l'obbiezione  che  le  unità  che  compongono i  diversi  numeri  non  possono  diflfeiire,  come  vogliono  i platonici,  perchè  essi  parlano  dell'uno  in  sé,  da  cui  tutte le  unità  sono  costituite,  come  se  questo  fosse  un  elemento di  parti  similari  (ijioioiispé^)  come  il  fuoco  o  l'acqua  (3)  ; e  riodicazione  che  nella  formazione  dei  numeri  (dall'uno in  fò  e  d.illa  dualità  indefinita)  l'Uno  in  se  era  riguar- dato come   l'unità  media  nei  numeri  impari  (4)  —  i  nu- meri di  cui  si  t»atta  in  tutti    questi    cas',    non   bisogna obliarlo,  non  sono  altra  cosa  che  le  Id'^e  — . Infine,  come  prova  del r  immanenza  dell'uno  o  essere, citerò  rargomci  to  con  cui  Platone  dimostra  l'esistenza (,,  V.  M  t.  1.  Xill.  Vn.  -t,  Vili.  12-lB,  l.  XlV.  IV.  1.  La  dualità indefinita  f^ra  anche  chiainata  l'ineguale,  e  l'uno,  aHa  cui  parleci- pazi«   le  era  dovuta  la  formazione  dei  numeri,  l'eguale. Ci)  Met.  i.  XIU.  Vili.  23-28. (3)  Met,  ì.  I.  IX.  17. (4)  Met.  1.  XUl.  VII.  13. 4 -  *fi —  87  - del  non  essere  (FaUro  elemento);  cioè  che  se  non  esistesse  il non  essere,  non  potrebbe  darsi  ima  moltiplicità  di  esseri, poiché  allora  tutti  gli  esseri  sarebbero  un  solo  essere,  Tes- sere slcsso  (lì.  Platone  non  potrebbe  dire  :  tutti  gli  esseri sarebbero  l'essere  stesso,  se  l'essere  fosse  fuori  d^gli  es- seri. Il  senso  dell'argomento  è  che,  se  insieme  allVss^'re (cioè  all'attributo  connotato  da  questo  nome)  non  vi  fosse negli  esseri  ciò  che  non  è  l'essere,  vale  a  dire  il  non  es- sere, tutti  gli  esseri  non  sarebbero  altra  cosa  che  Tessere; e  TargomeDto  suppone,  per  conseguenza,  che  tanto  Tes- sere stesso  quanto  l'elemento  opposto  siano  negli  esseri. Negli  scritti  platonici,  l'immanenza  dell'Idea  del  beoe — che,  come  abbiamo  detto,  corrisponde  al  principio  che Aristotile  chiama  Tuno  o  Tessere—nelle  altre  Idee  n^  n è  meno  evidente  :  cosi  nel  VII  della  Republica  si  dice  (  h'ì non  ha  alcuna  conoscenza  del  bene  chi  non  sa  detinirne 1  Idea,  attraendola  da  tutte  le  altre  (534  b-o;  e  quest'Idea é  chiamata  Voi  timo  negli  esseri  (.*)32  e),  il  jnh  chiaro  (518  c; e  il  piti  felice  (52ò  e)  delVesaere  il'^^ssere  signitica  gb*  es- seri, vale  a  dire  le  Idee,  considerato  generahnent  %  cioè nel  loro  concetto  comune,  e  per  conseguenza,  /^  più chiaro  e  il  pia  felice  dell'essere  vuol  dire  :  ciò  che  vi  ha di  più  chiaro  e  di  più  felice  negli  esseri,  cioè  nelle  Idee). Aggiungiamo  che,  se  al  punto  di  vista  dell'  intensione, i  due  Generi  supremi  sono  nelle  Specie,  al  punto  di  vi- sta dell'estensione  invece  queste  sono  in  (juelli  :  e  in effe  to  Platone  dice  tanto  dell'Uno  quando  della  Dualità indefinita  che  esrji  contengono  (r.ep'.sxsiv)  tutti  gli  esseri  (2). Platone  non  considera  solamente  come  clementi  delle (1)  V.  Met,  1.  XIV.  II.  L 02)  V.  Mei.  I.  XI.  I.  11,  P'/s.  I.  m.  vi.  11. Idee  i  due  Universali  supremi,  ma  tntti  i    Generi   sono da  lui  riguardati  come  elementi  e  parti  delle  loro  Specie. Infatii  Aristotile   agita  la  quistione  se   bisogna   riguar- dare come  elementi  (oxotxsìa)  degli  esseri  gl'ingredienti materiali  di  cui  le  cose  si  compongono,    ovvero    i    ge- neri (1),  considerando  la  seconda  opinione    come  legata alla  realizzazione  degli  universali  (2)  e  alle  proposiz'oni— proprie  della  scuola  platonica— che  ciascuna  cosa  si  co- nosce per  la  definizione,  e  che  avere  la  scienza  degli  es- seri non  è  che  avere  quella  della  specie  (3).  E  nel  l.  V della  Metafisica,  in  cui  spiega  i  significali    dei  teimini filosofici,  dice  che  alcuni  chiamano  elementi  (aioixsta)  i generi  (e.  III.  5— aggiungendo  subito  che,  in  tutti  i   si- gnificati dati  alla  parola,  l'elemento  è  riguardato  come inerente  (svjTiàpxov)  nelle  cose  di  cui  si  dice   elemento); e  che,  mentre  a  un  punto  di  vista  la  specie  è  chiamata parte  (liépog)  del  geaere,  a  un  altro  punto  di  vista  è  ii  ge- nere che  è  chiamato  parts  ijiépo;.)  della  specie  (e.  XXV.  5). I  filosofi  che  fanno  quest'uso  delle  parole  parte  ed    eie- metito  non  possono  essere  che  i    platonici,    perchè   evi- dentemente esso  implica  la   realizzazione    dei    concetti  : il  gen«re,  considerato   come  la  collettività    degl'indivi- dui, non  potrebbe  efsere  chiau.ato  parte  ed  elemento  della specie,  perchè,  in  questo  senso,  il  genere  non  è  contenuto nella  sp^-ie;  e  considerato  come  una  semplice  astrazione (come  il  complesso  degli   attributi    che   costituiscono    il concetto  generico),  non  lo  potn  bbe  nemmeno,  perchè  le parole  parte  ed  elemento  implica». o  la  re(dtà  della  cosa a  cui  vengono  applicate.  Altrove  iMtt.  l.  Vii.  XIII.  10), dopo  aver  obbiettato  ai  platonici  che,  sd  hi    ammettesse la  realtà  degli  universali,  in  una  sost*inza  individuale  vi (1)  V.  si»eciaImento  Mct.  1.  IH.  HI. (2)  ma.  13. - 'ti| sarebbero  più  sostanze,  mentre  è  impossibile  che  una  so- stanza consti  di  più  sostanze  che  le  ineriscano  in  atto; Aristotile  si  propone  questa  ditficoltà  :  ma  «  so  alcuna  so- stanza non  può  risultare  da  universali,  nò  comporsi  di più  sostanze  attualmente  esistenti^  la  sostanza  sarà  al- lora «gualche  cosa  di  non  composto,  e  non  sarà  possibile di  darne  la  definizione.  »  Ciò  suppone  che  alcuni  filosofi riguardavano  la  definizione  come  una  decomposizione del  definito  nei  suoi  elementi  costitutivi  (il  genere  e  la differenza),  e  che  (laesti  elementi  erano,  secondo  essi,  de- gli universali  e  delle  sostanze.  Questo  concetto  era  in- fatti naturalissimo  al  punto  di  v'sta  delia  teoria  delle Idee  :  poiché,  quantunque  Platone  non  elevasse  al  grado d'Idea  che  il  genere  solo,  e  non  la  differenza— perche  il multiplo,  per  lui,  deve  sempre  poter  ricondursi  alTuno—, pure,  se  si  ammette  che  il  Grenere  esistei  nella  Specie  d'un'esi- stenza  propria  e  distinta,  la  conseguenza  inevitabile sarà  che  anche  la  differenza  vi  esisterà  d'  un*  esistenza propria  e  distinta  (t).  Infine,    che    Platone   chiamasse  i (1)  Siccome  Piatene  stabilisce  tra  le  Idee  piii  generali  e  le  più  pariicolari ad  esse  subordinate  un  rapporto  di  priorità  e  posteriorità  (perchè  la  dialettica platonica  è  t'ondata  sul  principio  che  11  più  particolare  deriva,  logicamente  e ontologicamente,  dal  più  generale),  cosi  egli  ammette  che  la  sostanza  consta di  elementi  di  cui  gli  uni  sono  anteriori  e  gli  altri  posteriori.  È  a  questo concetto  platonico  che  allude  evidentemente  Aristotile  in  Mei.-  1.  Vii. XII.  9,  dove  dice  :  «  Nella  sostanza  non  vi  lia  alcun  ordine  :  infatti  che senso  ha  il  dire  che  in  essa  una  parte  è  anteriore  e  un'altra  è  posteriore  t  » Ciò  prova  almeno  ohe  Platone  riguarda  le  Idee  più  generali  come  ele- menti costitutivi  delle  Idee  più  particolari  (ammettendo  che  qui  per  sO' stanze  Aristotile  intenda,  non  le  cose  stesse,  ma  le  loro  essenze,  i>oich<' egli  parla  della  sostanza  quale  oggetto  della  definizione).  Intatti,  se  le  Idee, a  cui  una  sostanza  (ld«^a  o  cosa)  partecipa,  tbssero  separate  da  essa,  non vi  avrebbe  ragione  di  comporre  questa  sostanza  di  parti  distinte,  corri- spondenti alle  Idee  a  cui  partecipa.  Inoltre  il  rapporto  di  priontà  e  p'h- stefioriln  deve  essere  esclusivamente  proprio  alle  Idee,  i»erchè  esso  si- gnifica, come  abbiamo  accennato,  un  processo,  logieo  e  al  temi>o  stesso entolegico,  di  filiazione,  che  non  ha  luogo  che  nelle  Idee. Generi  elementi,  e  confermato  da  un  luogo  del  Politico  ^ ^1  d-278  d,  in  cui  spiega  rerchè  si  deve  ricorrere  ad esempi  per  illustrare  i  soggetti  difficili.  «  Noi  sappiamo, egli  d'c^,  che  i  fanciulli,  mentre  imparano  a  leggere, riconoscono  assai  bene  ciascuna  delle  lettere  (axotxera) nelle  sillabe  più  corte  e  più  facili,  e  sono  capaci  di  par- larne con  giustezza.  Ma  se  essi  incontrano  queste  stesse lettere  in  altre  sillabe,  restano  incerti,  e  ne  giudicano e  parlano  falsamente.  Ora  la  maniera  ])iù  facile  o  più bella  dì  condurli  a  ciò  che  non  sanno  ancora,  non  sa- rebbe questa?  Bi.-ognprebbe  prima  ricondurli  alle  silla- be in  cui  hanno  opinato  rettamente  su  queste  stesse lettere,  e,  rieonducendoveli,  porre  a  lato  le  sillabe  che ancora  non  sanno,  e  mostrare,  conia  comparazione,  che in  entrambi  i  composti  vi  ha  una  stessa  somiglianza  (1) e  una  stessa  natura,  sinché  le  sillabe  in  cui  hanno  o- pinato  rettamente,  essendo  state  comparate  con  tutte quelle  non  sapute  ed  essendo  divenute  degli  esempi, loro  apprendano,  per  ciascuna  di  queste  lettere,  in  tutte le  sillabi»,  in  cui  si  trovano,  a  des^'gnarc  come  diversa quella  che  e  diverga  dalle  nllre,  v.  come  sempre  la  stessa «  identBÉa  a  se  s^efsa  quella  che  è  realmente  la  stessa. Non  è  abbastanza  chiaro  ora  por  noi  che  vi  ha  esempio, quando  ciò  che  è  lo  stesso  è  appunto  riconosciuto  come t'ìle  in  due  cose  separate,  e  quando  ben  inteso  e  consi- derato come  uno  in  questi  due  casi  distinti,  ma  analoghi, diviene  l'oggetto  d'una  sola  e  stessa  opinione  vera? Dobbiamo  dun(iue  sorprenderci  se  la  nostra  anima,  che ò  naturalmente  nello  stesso  stato  per  gli  elementi    (ai(1)  Sulla  parola  somiglianza  (òjxoiÓTYjg)  cfr.  la  nota  1  a  carta  30 pag.  I. —  89 X«a)  di  tutte  cose,  trova  qualche  volta  la  verità  su  cia- scun  elemento  particolare  in  ceni  composti  e   vi  si   at- t-cne,  e  poi  cade  nell'errore  su  tutti  questi  elementi  con- siderati m  altri  soggetti;  se  essa  si   torma  un'  opinione giusta  su  certi  elementi  quando  li  incontra  in  certi  tutti, e  li  misconosje  interamente  trasportati  nelle  sillabe  lun- ghe e  difficili  dello  cose?»  Questa  realizzazione  degli  at- tribuii  generali  delle  cose,  implicata  dal  nome,  che  viene loro  dato,  di  elementi,  e  dalla  comparazione  con  le  let- tere,  in  un  altro  autore  sarebbe  una  semplice  metafora- ma  in  un  realista  come  Platone  deve  prendersi  al  senso proprio.  Vi  ha  appena  bisogno  di  osservare  che  questo luogo   prova  l'immanenza  dei   Generi,    non   solo   nelle Specie,  ma  anche  nelle  cose  ste-se. Vili.  Gli  elementi  delle  Idee  sono  anche  per  Platone gli  elementi  delle  cose  (1):  l'Uno  o  Essere  è  l'essenza  di tutte  le  cose  cosi  bene  che  di  tutte  le  Idee  (2),  la  Dua- lità indcfluita  o  Non   essere,  la  materia  (3).  Io  non  ag- (1)  V.  Arisi.  Mei.  1.  I. VI.  3-4,   1.  I.    IX.   26-30,   I.  HI.    UT.   5, I.  XIII.  IX.  17,  1.  XIV.  I,  II.  eoe. (2)  V.  Mei.  1.  I.  VI.  3-4,  1.  Ili,  J.   12,   IV.   21,  1.   VII,  XVI    3 I.  XIII,  VI.  5,  ecc:.  i.   -vvi,  a, (3)  V,  Mei.  l.  I.  VI.  3-4,  I.  XII.  X.  3-4,  1.  XIV.  I.  Is»,  9-12,  TV. 6-7,  ecc  : Bisogna  distingaere  in  Platone  due  prinoipii  differenti,  ai  quali viene  dato  egualmente  il  nome  di  materia:  cioè  la  materia  delle cose  e  la  materia  comune  tanto  alle  cose  quanto  alle  Idea.  La prima  è  lo  spazio,  al  quale  Platone  riconduce  l'estensione  dai  corpi, e  corrisponde  a  ciò  che  noi  chiamiamo  propriamonto  materia;  è una  determinazione  che  si  trova  esclusivamente  nella  cose,  e  munca nelle  Idee,  le  quali  rappresentano  solamente  la  forma,  le  cose  ri- sultando cosi  dalla  sintesi  delle  Idea  (forma)  e  dello  spazio  (ma- teria^. La  materia  comune  alle  Idea  e  allo  co^e  rapprasenta  una serie  di  determinazioni  generali  degli  esseri  -  p.  e.  il   non  essere g'iungerò  niente  per  provare  che  questi  termini  dementi, essenza,  raateria,  devono  intendersi  nel  loro  significato naturale,  che  iniphca  Tiramanenza  :  sarebbe  fare  delle ripetizioni  inutili,  perchè  la  più  parte  dei  luoghi  d'Ari- stotile, citati  nel    numero   precedente   come   prove    del- l'mfinito,  la  moltiplicità,  il  male,  la  diversità,  il  movimento,  ecc - opposte  a  quelle  di  un'altra  serie-p.  e.  l'essere,  il  finito,    l'unità Il  bene,  l'identità,  lo  stato,  ecc. -che  vengono  riunite  nel  principio' opposto  a  questa  materia,  vale  a  dire  nell'elemento  formale.  I  due elementi  vengono  il  più  abitualmente  chiamati  Essere  e  Non  essere perchè  Platone  riguarda  le  determinazioni  della  serie  dell'elemento formale  come  positive,    e    le    determinazioni    corrispondenti    della sene  opposta  come  negative;  e  Uno  e  Dualità  indefinita  al   punto di  vista  della  teoria  dei  numeri  (V.   per   questa   dottrina   Supple- mento C.)  La  materia  propria  delle  cose  e  la  materia  comune  alle cose  e  alle  Idee  vengono  ricondotte  a  un  principio  unico,  la  Dua- lità indefinita,  uno  dei  caratteri  del    pitagorismo  platonico,   come del  pitagorismo  genuino,  essendo  questa  riduzione   illogica  a   uno stesso  numero  o  a  uno  stesso  principio  di  concetti    essenzialmente differenti;  ma  ciò  non  toglie  che  le  due  materie  siano  due  entità  di- stinte l'una  dall'altra  Qu  andò  Aristotiledice  che  secondoPlatonegli elementi  delle  Idee  sono  pure  gli  olomenti  delle  cose,  senza    dubbio egli  comprende  nell'elemento  matonaie  anche  lo  spazio,  quantunque questo  non  sia  un  elemento  delle  Idee  :  ciò  è  perchè,  come  abbiamo detto,    lo  spazio,  quantunque  sia  un'entità  distinta    dalla    materia delle    Idee,  viene  ricondotto  con  essa  a  uno  stesso   principio.    Sa- rebbe però  un  errore  di  credere  ohe,  anche  ammettendo  che  nelle cose  non  vi  sia  altra  materia  che  lo  spazio,  basi  crebbe  questa  ridu- zione dello    spazio  a  uno  stesso  principio  insieme  con    la  materia delle  Idee,  perchè  questa  potesse  eisere  identificata  con  la  materia delle  cose;  e  che  la  proposizion3  d'Aristotile  che  gli  elementi  delle Idee  sono  gli  elementi  delle  co^e  non   importa   quindi  necessaria- mante,  come  noi  ammettiamo,  che  la  materia  delle  Idee  si  ritrova realmente  nelle  cose.    Certamente  tra  gli  elementi  delle  cose  e  gli elementi  delle  Idee   non    potrebbe    essarvi    un'  identità    completa  • l'elemento  materiale  delle  cose  deve  differire  in  ogni  caso    dall'  e- lemento  materiale  delle    Idee,  perchè   questo    non  comprende   lo -  90  — rimrnancnza  dei  due  priiicipii  nelle  Idee,  provano  egual- mente la  loro  immanenza  nelle  cose.  In  effetto  le  indica- zioni o  allusioni  d'Aristotile  reUtivc  alia  dottrina  dei due  elementi, 'si  riferiscono  il  pui  spesso,  non  alla  pro- posizione che  questi  due  principii  sono  gii  elementi  delle spazio.  Ma  l'impos^ilnlità  di  proadero  ima  proposiziono  in  un  senso perfettamento  rigoroso  non  è  una  ragione    per   proferire    il    mono rigoroso  dei  sensi  di  cui  ossa  sarebbe  suscettibile.  Ora  ò  questo  che noi  faremmo  per  la  jìi-oposizione  d'Ari  .totilo  in  «juestione   o   a  dir meglio  per  la  dottrina  di  Platone  che  questa  proposizione   ci  rife- risce, se  per  l'elemento  materiale  nelle  co jo  non  intendessimo  cho lo  spazio;  perchè  allora  la  materia  delle  cose  e  quella    delle    Idee sarebbero  due  entità  completamente  distinte,    non   vi  sarebbe   fra di  esse  alcuna  reale  identità,  né  totale  né  parziale.  D'altronde  l'o- lemento  materiale  delle  Idee  deve  essere  identico  all'elemento   cor- rispondente delle  cose  nello  stesso  senso  in  cui  lo  è  l'elemento  for- male :  l'Uno  non  rappresenta  due  concetti  distinti  come  la  Dualità indetìnita;  noi  non  potremmo  assegnargliene  uno  come  forma  delle Idee,  e  un  altro  differente  come  forma  delle  cose;  per  conseguenza anche  l'elemento  materiale  deve  rappresentare  uno  stosso  concetto nelle  Idee  e  nelle  cose.   Che  sia  cosi,  è  confermato  dalle   determi- nazioni che  Aristotile   attribuisce  alla  materia  platonica,  in  luoghi in  cui  egli  la  considera  come  elemento  della  cose  cosi  bene  che  delle Idee  :  cioè  che  essa  è  un  genere  (v.  1.  III.  III.  SS),   che  è  l'uno  nei molti  (p.   e.     quando    fa    l'obbiezione  che  se  gli  elementi  degli  es- seri fossero  ciascuno  uno  di  numero,  e   non   solamente    di  specie, non  vi  sarebbero  che  isoli  elementi— v.  1.  III.  IV.  0-10,1.  XI.  II.  11, l.  XIII.  X.  2-3),  che  rappresenta  al  tempo  stesso  la    parte  di  ma- teria e  di  steresi  (v.  Phijs  1.  I.  IX.  1-3),    che  è  il    lutto  allo   stato d'indeterminazione  (v.  Met,  1.  I.  Vili.   9-11),  che  è  la    natura    del male  (v,  1.  XII.  X.  3-4,  1.  XIV.  IV.  6-7),  che  è  il  non  essere  (cioè l'opposto  dell'attributo  essere— v.  Met  1.  XIV.  II.  4  e  seg.),  che  è  il contrario  dell'altro  elemento  (v.  Phys  1.  I.  IX,'A,  Met.ì.  IV.  11.14, 1.  XII.  X.  2-3,  l.  XIV.  I.  1-3,  «,  IV.  G-8),  eoe:  Queste  determinazioni non  potrebbero  convenire  al  semplice  spazio,  ma  convengono  per- fettamente sia  alla  materia  dello  Idee  per  se  sola,  sia   ad   es^a    in unione  con  lo  spazio. tdee,  e  a  quella  che  sono  gli  elementi  delle  cose,  consi- derate luna  a  parte  dell'altra,  ma  alla  proposizione  che sono  gli  elomenti  di  tutti  gli  esseri,  cioè  delle  co3e  cosi bene  che  delle  Idee  (1). Ciò  che  si  deve  notare  ò  la  connessione  logica  che viene  affermato  esistere  tra  la  proposizione  che  i  due principii  sono  gli  elementi  delle  Idee  e  quella  che  sono gli  elementi  delle  cose,  «  E  perchè,  dice  Aristotile  (2),  le Specie  sono  le  cause  delle  altre  cose,  gli  elementi  di quelle  credè  (Platone)  che  fossero  gli  dementi  di  tutti gli  esseri»  (3).  Ora  questa  connessione  non  esiste,  e- videntemente,  che  mir  ipotesi  dell'  immanenza  de'lc Idee.  S,5  le  Idee  sono  clementi  delle  cos%  necessariamente anche  i  loro  elementi  saranno  elementi  delle  cose:  ma  se le  Idee  non  sono  che  dogli  archetipi  di  cui  le  cose  sono le  copie,  tutto  ciò  che  potrà  seguirne  sarà  che  le  cose hanno  degli  elementi  che  sono  le  copie  degli  elementi delle  Idee,  ma  non  mai  che  gli  clementi  delle  cose  sono una  sola  e  stessa  cosa  con  gli  elementi  delle  Idee.  L' i- dentità  tra  questi  e  quelli  non  si   spiega   dunque   d'una (1)  indicherò  nondimeno  un  certo  numero  di  luoghi,  la  più parte  citati  nel  numero  precedente.  V.  dunque,  per  tutti  e  due gli  elementi:  Met.  1.  I.  IX.  29-BO,  1.  III.  IV.  0-10,  1,  IV.  IL  14,  1.  XI. II.  11,  1.  XII.  IV.  3,  1.  XIII.  X.  2-3,  1.  XIV.  IV.  7,  ecc.  Per  l'ele- mento materiale:  PJnj^,  l.  I.  IX.  1-3,  1.  III.  IV.  2,  VI,  11,  Met.  1.  I. Vili.  9-11),  IX.  22,  l.  XIV.  II.  8,  12-13,  ecc.  Per  l'elemento  formale  : Met,  1.  I.  IX.  24,  1.  V.  III.  4-5,  1.  XI.  I.  11, 1.  XIII.  VIII.  27,  1.  XIV. II.  4,  ecc. (2)  Met.  1.  I.  VI.  3. (3)  Notiamo  che  Aristotile  distingue  quattro  specie  di  cause,  di cui  una  è  la  causa  essenziale,  l'essenza;  e  che  questa  è  delle  quattro specie  di  causalità  la  sola  che  conviene  secondo  lui  alle  Idee  pla- toniche. V.  Met.  lo  stesso  cap.,  g  7. —  91  — taaiiiera  naturale  che  neiripotesi  dell*  imnianenza  delie Idee.  Ma  non  teniamo  conto  di  questa  considerazione  : ammettiamo,  ciò  che  non  è,  eh'*,  anclie  nell'ipotesi  della trascendenza  delle  Idee  possa  darsene  una  spiega^jione plausibile.  Resterà  sempre  T  incoerenza  di  riguardare alcune  entità  come  immanente  e  alcune  altre  come  tra- scendenti, mentre  queste  entità  appartengono  tutte  allo stesso  tipo  :  concetti  realizzati. I  due  elementi  hanno,  come  abbiamo  detto,  tutti  i caratteri  delle  Idee  :  ciascuno  è  un  predicato  universale degli  esseri  di  cui  si  dice  elemento,  riguardato  come sussistente  per  se  stesso  e  come  uno  e  lo  stesso  in  tutti; uno  di  essi  è  anche  certamente  da  Platone  chiamato un'Idea,  nello  stesso  senso  che  tutte  le  altre,  perchè  ciò che  neiresposizione  d'Aristotile  è  detto  TUno  o  TEiscre non  è  che  la  slessa  entità  che  negli  scritti  platonici  è  detta l'Idea  del  bene.  Le  stesse  inconcepibilità  che,  nel  sist  Mna deirimmanenza,  sono  lega*;e  alla  realizzaz'one  degli  altri concetti  —  r  impossibilità  di  comprendere  come  una  so- stanza sia  al  tempo  stesso  un  attributo  di  elitre  sostanze, come  r  uno  sì  trovi  simultaneamente  nei  molti,  f  ce— esi- stono egualmente  ])er  la  realizzazione  dei  concetti  ra|)pre- sentati  dai  due  elementi,  (ili  stessi  termini  che  indicano  i rapporti  tra  le  altre  Idee  e  le  cose  indicano  il  rapporto  tra i  due  elementi  e  le  cose,  tanto  quelli  che  possono  addursi come  prove  dell'immanenza,  quanto  quelli  in  cui  gì'  inter- preti trascendentalisti  vedono  una  prova  della  trascen- denza :  così  la  relazione  degli  elementi  alle  cose  è  chiamata pai'usia  (1),  e  quella  dello  cose  agli  elome.iti  metessi  (2); gli  elementi  sono  detti  essere  Tiapa  le  cose  (3),  e    sono chiamati  x^ptatoc  e  xsxwpio|X£va  (sémplicemente  o  daììtì cos**)  (1)  ;  ecc.  Se  ammettiamo  la  trascendenza  dello Idee,  dovremmo  dunque  aannettere  necessariamente  an- che la  trascendenza  degli  elementi;  se  ammettiamo,  co- me  siamo  forzati  di  farlo,  l'immanenza  di  questi,  dob- biamo anche  ammettere,  non  meno  necessariamente  la immanenza  di  quelle.  ' Per  l'immanenza  di  uno   dei    due   elementi   noi  non abbiamo  alcuna  prova  diretta  negli   scritti   di   Platone perchè  in  questi  scritti  non  si  trova  la  dottrina  dei  due elemenii  (tranne,  come  vedremo,  d'una  maniera  simbo- lica nel   Timeo)  :  ma  l'immanenza  dell'altro,   cioè  dell'I- dea del  ben^,  è  naturalmente   in    Platone   più   evidente che  nello  stesso  Aristotile.   Cobi  mi  Timeo  (46  e  d)  dice che  le  cause  materiali  (quelle  che  riscaldano   e  raffred- dano,  condensano  e  dilatano,  e  producono   altri   effetti simili)  sono  doi  mezzi  di  cui  Dio  si  serve  per  compiere (àTToxeXwv)  l'Idea  dell'ottimo.  Nel  J^edone,  dopo  avere  spie- gato che  per  ogni  cosa   la   causa   di   essere<c  di  essere nel  modo  in  cui  è  e  non  altrimenti,    è   il  bene   di   cia- scuna cosa  in  particolare  e  di  tutte  in   generale,  e  che questa  soluzione  del  problema  delle   cause   è    la 'conse- guenza logica  della  dottrina  di  Anassagora  (97  c-99  b), rimprovera  a  costui  e  agli  «Uri  fisici  che  non  si  servono, nella  spiegazione  dei   fenomeni,    che   di    semplici  cause meccaniche,   «  e  la  potenza  prr  cui  le  cose  sono  disposte nel  miglior  modo  in  cui  potevano  esserlo,  né  ricercano né  stimano  che  vi  sia  in  essa  qualche  forza  divina,  ma credono  di  aver  trovato  un  Atlante  più  forte  di  questo, (1)  V.  p.  e.  Et/i.  Eud,  1.  I.  vili.  1,  2. (2)  Kth,  End.  1.  I.  Vili.  2,  3,  Met.  1.  XII.  X.  4,  1.  XIV^  IV.  7,  ecc. (3)  Met.  1.  I.  VI.  5,  1.  III.  IJJ.  13,  1.  X.  II.  1,  ecc. 0)  Met.  1.  IV.  ri.  16,  I.  XI.  II.  fi,  X,  2,  1.  XII.  X.  1,    1.    XIV.  II.  3 Pli!/^,  I.  III.  V.  1,  Eth,  Sic.  1.  I.  VI,  13.  ecc. y —  92  — più  immortale  e  più  capace  di  contenere  fjjidtXXov  guvlxovxa) Tuniverao,  e  non  ammettono  che  ò  il  buono  (làYaO^óvj  e conveniente  che  collega  (g'jv$£tv)  e  contiene  (£?>véxs'-v) tutte  le  cose  (99  b— e— -lo  stesso  verbo  guvéxetv  attribuito prima  air^//an/^  più  forte  ecc.,  e  poi  al  buono  e  con- veniente^  prova  che  il  buono  e  conveniente  é  la  stessa  cosa c\ì^\2L  potenza  per  cui  tutte  le  cose  sono  disposte  ecc,  che  è roggetto  con  cui  VAtlante  più  forte  ecc.  viene  con- frontato). In  queste  parole  vi  ha  evidentemente  la  rea- lizzazione dell'astrazione  il  bene  (Tàya^dv)  :  ma  questo bene  non  può  essere  che  quello  stesso  di  cui  sopra  ha parlato,  e  d'altronde,  se  fosse  un  bene  trascaidente,  non si  potrebbe  dire  di  esso  che  contiene  e  collega  tutte  le  cose. Ma  la  prova  più  forte  dell' immanenza  dell'Idea  del bene,  in  Platone,  è  l' identificazione  di  quest'Idea  con  la  fe- licità degli  uomini  (o  generalmente  degli  esseri  viventi). Quest'identificazione  si  vede  della  maniera  più  sensi- bile nel  Filebo,  In  questo  dialogo  si  cerca  che  sia  il bene  (Tàya^-óv)  :  so  sia  il  piacere  (come  ritengono  i  più), 0  la  sapienza  (come  ritengono  altri,  p.  e.  i  Megarici), 0  qualche  altra  cosa  (11-14  b).  Fjlebo  sostiene  che  é  il piacere;  Socrate  comincia  per  ammettere  che  è  la  sa- pienza; ma  poi  muta  d'avviso,  e  dice  che  il  bene  non  ò né  runa  né  l'altra  cosa,  ma  una  terza,  diversa  da  esse e  migliore  di  amendue  (20  b).  In  effetti,  egli  domanda, «  la  condizione  del  bene  non  è  necessario  che  sia  il  p?r- fetto,  o  deve  essere  il  non  perfetto  ?— Protarco  :  Ciò che  vi  ha  di  più  perfetto,  o  Socrate  —  Socr.  :  Ma  che? il  bene  non  è  sufficiente  per  se  st*»sso  ? Prot.  :  Senza' dubbio,  ed  e  in  ciò  che  differisce  da  tutt'?  le  altre  cose— Socr.  Questo  ancora  mi  sembra  sovratutlo  necessario  di affermare  di  esso,  che  lutto  ciò  che  lo  conosce  lo  ricerca e  lo  desidera,  sforzandosi  di  attingerlo  e  di  possederlo, e  niente  si  cura  delle  altre  cose,  fuori  di    quelle   che  si e  ffettuano  insieme  ai  beni   Prot.  :  A  questo  i;on  si può  contrastare— Socr.  :  Esaminiamo  dunque  e  giudi- chiamo la  vita  di  piacere  e  la  vita  d'intelligenza,  pren- dondolc  ciascuna  a  parte  — Prot.  :  In  che  modo  ?  — SoLR.  :  In  moJo  che  l'intelligenza  non  entri  assoluta- mente nella  vita  di  piacere,  e  il  piacere  nella  vita  d'in- telligenza :  infatti,  se  1'  uoo  o  1'  altra  fossero  il  bene, non  avrebbero  più  bisogno  di  altra  cosa  ;  ma  se  1'  uno o  l'altra  sembreranno  aver  bisogno  di  qualche  altra  cosa, non  potranno  essere  per  noi  il  vero  bpne;>  (20  d— e). Risulta,  dall'esame  del'e  due  ♦ite,  che  nessuno  vorrebbe vita  con  tuitì  i  piaceri,  ma  senz'alcun'intclligenza, nò  con  tutta  l'intelligenza  ma  senz'alena  piacere;  e  ch^ la  vita  che  tutti  vorrebbero  sarebbe  quella  in  cui  il  pia- cere fosse  uì'^scolato  con  TintpHigenza.  «  E  dunque  evi- dente che  ne  V  una  nò  1'  altra  delle  due  vite  (quella  di piacere  e  quella  d' intelligenza)  ha  il  bene  :  poiché  essa sarebbe  sufficiente,  perfetta,  e  degna  della  scelta  di tutti  gli  esseri,  che  potessero  vivere  per  sempre  cosi.  Qui  nasce  un'  altra  quistionc  :  quantunqu'^  né  il piacere  né  la  sapienza  sia  il  bene,  pure  1'  uno  o  l'al- tra potrebbe  credersene  la  causa  :  ora  Socrate  sostiene che,  checchesia  ciò  che  ricevuto  dalla  vita  mista  (di piacere  e  d'  intelligenza)  questa  si  fa  desiilerabile  e buona,  l' intelligenza  gli  somiglia  e  gli  é  affine  più  che il  piacere,  e  perciò  questo  non  otterrà  né  il  primo  né il  secondo  posto  (22  d).  Seguono  delle  digrcs-^ioni  che non  c'int'-ressano,  e  sulla  fine  ì\q\  dialogo  viene  ripi- gliata la  quis'.ione  sulla  natura  del  bene  e  se  esso  sia più  affine  al  piacere  o  all'intelligenza;  ma  prima  Socrate, riassumcnio  il  cominciamcnto  della  discussione,  dice: «  Filebo  affermava  che  il  piacere  é  il  fine  legittimo  di tutti  i  viventi,  lo  scopo  a  cui  tutti  devono  tendere;  che esso  é  il  bene  per  tutti,  e  che  questi  due  nomi,   bene  e -  93  - piacere,  competono  alla  stessa  có8à  e  ad  una  ^ùok;  unica. Socrate  lo  negava,  e  affermava  che,  come  vi  hanno  due nomi  differenti,  coj*l  il  bene  e  il  piacere  hanno  nna  cpOaig differente  l'uno  dall'altro,  e  che  la  sapienza  è  più   che il  piacere  partecipe  della  condizione  del  bene  (60  a-b) La  ^'jot^  del  bene  in  ciò  differisce  dalle  altre  cose,  che qualunque  dei  viventi  a  cui  è  presente  (Tiapsir])  sempre ed  assolutamente,  non  ha  più  bisogno  di  altro,  ma  ha quanto  gli  basta  perfettamente  (60  b-c)  ....  Ma  abbiamo visto  che  né  il  piacere  né  la  sapienza  è  sufficiente Né  Tuno  né  l'altra  é  dunque  il  perfetto,  il   desiderabile per  tutti,  il  bene  assoluto Bisogna  per   conseguenza o  scoprire  il  bene  chiaramente  o  qualche  forma  (v'moy) di  esso,  per  vedere,  come  abbiamo  detto,  a  chi  dobbia- mo assegnare  il  secondo  posto  (60  a-6l  a)  t. Ora,  soggiunge  Socrate,  «non  abbiamo  noi  incon- trata una  via  che  conduce  al  bene?— Prot.  :  Quale  via?— SocR.  :  Se  alcuno,  cercando  un  uomo,  apprendesse  la casa  dove  egli  abita,  non  avrebbe  un  grande  aiuto  per trovarlo  ?-Prot.  :  Certo-SocR.  :  Cosi  il  presente  e  il precedente  discorso  ci  avvertono  che  non  dobb'amo  cer- care il  bene  nella  vita  semplice,  ma  nella  vita  mescolata (di  piacere  e  d'intelligenza) Prot.  È  vero SocrI  :  E abbiamo  più  speranza  di  trovarlo  in  quella  che  é  ben mescolata  che  neTopposta.— Prot.  :  Molto  più— Socr.  : Facciamo  dunque  la  mescolanza  »  (61  a-b).  Questa  si  fa unendo  i  piaceri  veri  e  quelli  che  accompagnano  la  sa- lute e  la  virtù,  con  le  scienze,  e  facendovi  anche  en- trare la  verità,  perché  ciò  a  cui  non  si  mescola  la  verità (w  |iyj  [i{£o|x£v  àXì^O-siav)  non  potrebbe  esistere  {CA  b);  e compiuta  cosi  la  mescolanza,  Socrate  dice  :  «  Se  noi  di- cessimo di  essere  pervenuti  al  vestibolo  del  bene  e  della sua  abitazione,  non  avremmo  in  certo  modo  ragione  ?  Prot.  :  Cosi  mi  pare  Socr.  :  Che  vi  ha  dunque  in  que- lì sta  mescolanza  dì  più  prezioso  e  che  sembri  specialmente la  causa  dell'essere  una  tal  condiziono    desiderabile  per tutti  ?  (6i  e.) In  ogni   mescolanza    non   é   difficile di  vedere  quale  sia  la  causa  che  la  rende    pregevole    o di  ncbsun  pregio Ogni  mescolanza  che  non  partecipi della  misura  e  della  c^Oot?  del  proporzionato  rovina  ne- cessariamente le  cose  mescolate  e  se  stessa  la  prima. Cosi  la  natura  del  bene  se  n'  é  fuggita  in  quella  del bello,  perché  la  misura  e  la    proporzione   sono    da    per tutto  beiti  e  virtù Ma  noi  abbiamo    detto   che  la verità  entra  con  esse  nella  mescolanza  (aOioCg  sv  x^  xpaasi lxsnlxeai-64  e) Por  confegmnza,  se  non  possiamo prendere  il  bene  in  una  forma  (cSéa)  unica,  prendiamolo in  tre  forme,  beltà,  mi.ura  e  verità,  e  diciamo  che  tutto ciò  come  uno  é  la  causa  di  ciò  che  vi   ha  di  pregevole nella  mescolanza,  e  perché  é  bene,  perciò  la  mescolanza è  pure  un   bene  »  (65   a).    Ora  é  facile   di   giudicare  se il  piacere  o  la  sapienza  sia  più  affine  al  bene  (xoD  àptaxo-j)  : perciò  bisogna  comparare  l'uno  e  l'altra  con  le  tre  for- me in  cui  il  bene  é  apparso.  Fatta  ciuesta  comparazione, risulta  che  l'intelligenza  è  più  che  il  piacere  affine  alla verità  (65  c-d),  ch'essa  possiede  (xsxTrixai)  di  più  la  mi- sura (65  d),  e  che  partecipa  (fisxsayjcps)  di   più  alla  bclrà (65  e).  Cosi  la  conclusione  di  questo  paragone  e  di  tutto il  dialogo  é  che  «  il  piacere  non  é  il  primo  bene  (xxy^jia) né  il  fecondo;  ma  il  primo  é  circa  la  mi>ura,   il    mode- rato, l'opportuno  e  quant'altre  cose  tali  si  deve  credere aver  sortilo  la  natura  eterna  (cité  il  primo  bene  é  ripo- sto nella  misura,  nel  moderato,  ecc.,  ma  nella    misura, nel  moderato,  ecc.  che  hanno   sortito  la  natura    eterna, vale  a  dire  gl'ideali,  non  1  fenomenali) il  secondo  é circa  il  misurato,  il  bello,  il  perfetto,  il  sufficiente  e  tutte le  altre  co -e  di  questo  genere  »  (questa  seconda  seriu  é identica  alla  prima,  ma  ciascuno  dei  termini  nella  pri- ma significa  l'astratto,  l'attributo  aÙTÒ  xaB'aOxó,  nella tributo); e  nella  scala  dei  beni  (xx-^fiaxa)  il  piacere  è inferiore  alla  sapienza,  e  cccupa  l'ultimo  grado. Ma  prima  di  finire,  Socrate,  riassumendo  un'altra  volta la  discussione,  dice  :  Filebo  afferma  che  il  bene  (xàya- 0óv)  è  per   noi  il  piacere  tutto    intero io   indignato dell'opinione  di  Filebo,  che  è  pure  quella  di  moltissimi altri,  ho  detto  che  l'intelligenza  è  di  gran  lunga  migliore e  più  vantaggiosa  alla  vita  umana  che  il  piacere  (66  d-e) Noi  abbiamo  visto  in    seguito  della    maniera  più chiara  che  né  l'uno  né  l'altra   è    sufficiente Perciò tanto  il  piacere  quanto  l'intelligenza  essendo  apparsi  in questo  discorso  privi  della  sufficienza  e  della  perfezione, né  l'uno  né  l'altra  potè  essere  il  bene  sfesso  (aùxó) Ma  essendo  apparso  un  altro  terzo,  superiore  ad  amen due,  l'intelligenza  di  gran  lunga  più  che   il  piacere   e apparve  affine  alla  essenza   llòéo^)  del  vincente. Facciamo  ora  qualche  osservazione.  Che  il  primo  he n€j  di  cui  si  parla  a  G6  a,  sia  l'Idea  del  bene,    non    pò trebbe  esservi  alcun  dubbio.  Ciò  è,  non  solo  perché  alla misura,  il  moderato,  l'opportuno  e  simili,  che  sono  come tanti  aspetti  del  bene,  viene  attribuita  la  natura  eterna, ma  anche  perché  noi  sappiamo  che   il  primo  bene  vuol dire  per  Platone  l'Idea  del  bene  (1),  conformemente  al- l'uso ch'egli  fa  dei  termini  significanti  l'anteriorità  e  la posteriorità,  di  cui  abbiamo  detto  nel  capitolo    VII.  Ma non  bisogna  credere  che  questo  primo  bene  sia   qualche cosa  di  differente  dal  bene  di  cui  si  tratta  nel  resto  del dialogo.  Che  il  bene  sulla  cui  natura  si  discute   tra   So- crate »c  i  suol  interlocutori  sia  riguardato  come  un'Idea è  ciò  che  sarebbe  già  sufficientemente  provato  dal  prin- cipio platonico  che  il  concetto  generale  e  la  ricerca  del- l'essenza Fi  r  feriscono  all'Idea,  non  che  dall'uso  dei  ter- mini chti  nel  linguaggio  platonico  significano  le  Idee — il  bene  stesso  (aOxó-67  a),  la  q^Oai^  del  bene  (60  b),  del  pro- porzionato (61  d),  d«l  bello  (64  e),  l'cdéa  (67  a)— e  il  rap- porto tra  le  Idee  e  le  cose— esser  presente  (7iap£tvai-60  e), partecipare  (jxsxaXajifidv  £iv-65  e)—.  Ma  la  prova  più  forte l'abbiamo  in  una  moltitudine  di  circostanza^  che  dimostrano che  Vii<ivH'/Àom\bene  e  elevata  al  rango  di  realtà  sussistente per  se  stessa.  E  a  (fu^sta  realizzazione  che  si  pensa  natu- ralmente, quando  Platone  dice  che  né  la  vita  di  piacere uè  la  vita  d'intelligenza  ha  (slxs)  il  bene  (22  b);  che  è  rice- vendo (Xa^civ)  il  ben^*,  che  la  vita  mista  si  fa  buona f22  d);  che  ogni  vivente  a  cui  é  presente  la  cpóoi;  del bene  urn  ha  bisogno  di  a'tro  ((ìO  e);  che  il  bene  è  ciò che  vi  ha  di  più  prezioso  nella  mesco'anza  (64  e,  d,  65  a); ecc..  Ma  questa  rf  alizzaz'tne  si  vede  della  maniera  più evidente  quando  Platone  dice  che  la  verità  (64  b,  e)  e le  altre  forme  del  bene fanno  parte  della  mes:o- lanza,  e  sovratutto  quando  paragona  il  rapporto  tra  il bene  e  la  vita  mista  a  quello  di  una  persona  e  la  sua abitazione  ((U  a-b),  e  chiama  questa  stessa  vita  l'abita- zione d*»l  Bene  (64  e).  Il  bene,  di  cui  si  discute  tra  So- crat«^,  Filebo  e  Protarco,  é  dunque  incontestabilmente l'Idea  del  bene  (noi  sappiamo  come  le  premesse  per  cui Piatone  prova  l'esìstenzi  delle  Idee  giustificano  la  stra- nezza che  Filebo  o  Protarco,  i  quali  non  sanno  niente diìlla  teoria  delle  Idee,  discutano  nondimeno  sopra  un'I- dea) :  ma  questo  bene  è  quello  che  alcuni  fanno  consi- Hlcre  nel  piacere,  e  altri  nella  sapienza;  che  chi  lo  co- nosce cerca  e  appetisce,  sforzandosi  di  attingerlo  e  di possederlo;  che  quando  si  ha,  non  si  ha  più  bisogno  di 11 < .^  il (1)  V.  Arist.  Ehi.  Kud.  1.  I.  VIIL -  95  — altro;  ecc.;  in  una  parola  lo  stato  dell'anima  in  cui  Pia- tone fa  consistere  la  felicità.  Aggiungiamo  che  Timma- ncnza  deirid^a  è  provata  inoltre  dalle  espressonì  signi- ficanti la  parusia,  che  noi  abbiamo  già  segnalate  in  parte come  prove  della  realizzazione  del  concetto  ;  p.  e.  che la  vita  mista  non  potrebbe  esistere  veramente,  se  non vi  fosse  mescolata  la  verità— che  è  una  forma  del  Bene— (64  b);  che  con  la  verità  si  mescolano  in  questa  vita  le altre  forme  del  Bene  (64  e);  che  essa  é  T  abitazione del  Bene  (61  ab,  64  e);  che  questo  è  ciò  che  vi  ha  di più  prezioso  r?e//a  mescolanza  (sv  x^  £'j|i|jiig«'.  — 64  e);  ecc. Infine,  il  nome  y.i%\ì'x  Tposscpso)  con  cui  è  chiamato  il primo  bene,  e  la  classazione  di  esso  insi^^me  agli  altri xxf^ixaxa,  cioè  la  sapienza,  il  piacere,  ecc.  (a  ^G  a-c,  do- ve si  fa  la  granduflzione  dei  beni),  ci  dicono  abb  istanza che  qnesto  bene  ò  anch'esso,  come  il  piacere,  la  sa- pienza e  gli  al'iri,  un  bena  nostro,  un  bene  che  noi  pos- sediamo o  [K)treramo  possedere. La  stessa  identificazione  tra  il  bene  obbiettivo— l'Idea— e  il  bene  subiettivo -la  felicità  degli  uomini— ha  luo^'-o nella  Repubblica,  con  questa  differenza  che,  mentre  nel Filebo  prevale  l'a^^pett  )  subbiettivo,  per  cui  alcuni  in- terpreti hanno  potuto  negare -erme  abbiamo  vsto,  con- tro Tevidenza  —  che  il  bene  di  cui  si  tratti  in  questo dialogo,  sia  l'Idea,  invecs  nella  Itepubblica  prevale  l'a- spetto obbiettivo.  Ivi  (I.  V^I.  e  VII.)  il  bene  è  presentato come  la  più  alta  del'e  Idee,  sovrana  del  mondo  intelli- gibile, e  principio  al  tempo  stesso  dell'essere  e  del  co- noscere. Ma  questo  stesso  bene  6  il  bene  nostro,  un  pos- sesso del  nostro  rj)irit'>.  tfj  ciò  ch(5  si  vede  chiaramente dal  luogo  Fegueute  (503  a-506  a):  «Socrate:  La  mas- sima disciplina  è  l'Idea  del  bene  (cioè  quella  che  ha  per oggetto  quest'Idra),  della  quale  (Idea)  le  cofc  giuste  e le  altre  avvalendosi  (::pooxpr^aa|i£va)   divengono    vantag- giose e  convenienti  (cioè  le  cose  giuste  e  le   altre  sono vantaggiose  per  la  presenza  dell'Idea  del  bene) Noi non  conosciamo  suffìeientem-nte  quest'Idea;  ma,  igno- randola, non  ci  sarebbe  di  alcuna  utilità  di  conos'care le  altre  cose  senza  di  essa,  come  non  ci  gioverebbe  di possedere  qualche  cosa  senza  il  bene.  0  credi  tu  che  sia utile  di  avere  qualsiasi  possesso,  ma  non  buono  V  o  di conoscere  tutte  le  altre  ccse  senza  il  bene,  e  niente  co- nosci re  di  buono  e  di  bello  ?  U)— Adimante  :  Non  lo  credo, per  Giovo  !-SocR.  :  Tu  sai  che  i  più  credono  che  il bene  sia  il  piacere,  e  altri,  più  eleganti,  l'intelligenza— Ad.  :  Si— SocR.  :  K  che  questi  ultimi  non  sanno  spiegare che  cosa  sia  quest'intelligenza,  ma  infine  sono  ridotti  a dire  che  ò  l'intelligenza  del  bene Ma  che?  quelli  che definiscono  il  bene  il  piacere,  non  sono  nell'  errore  non meno  eh*,  gli  altri?  non  sono  essi  costretti  a  con- fessare che  vi  hqnno  dei  piaceri  cattivi  ?— Ad.  :  Senza dubbio— SocR.  :  Accade  dunque  ad  essi  di  ammettere  che le  stesse  cose  sono  al  tempo  stesso  buone  e  cattive E  non  è  chiaro  che  mentre  molti  sarebbero  contenti  di agire  e  di  possedere  le  co-»e  giuste  e  belle  apparenti  ma non  reali,  a  nessuno  però  basterebbe  di  possedere  dei beni  apparenti,  ma  tutri  cercano  i  reali,  e  dispregiano in  c:ò  l'apparenza?  — Ad.  Certamente— Socr.  :  Ora  su questo  bene,  che  ogni  anima  ricerca,  e  tutto  fa  in  grazia (1)  Notiamo  che  quando  Platone  dice  :  «  cono-jcere  tutte  le  altre coso  senza  il  bene  ^  la  parola  'x'^jt- significa  evidantemonto  rJ<lea; dunque  ancho  <iuaudo  ha  dotto:  -  possedere  qualche  cosa  senza  il bjne  ^,  questo  bene,  della  cui  possessione  si  tratta,  deve  essere  l'I- dea. Aj^giunjrìjimo  che  "  poss.3do.-e  qualche  cosa  senza  il  bene cioè «anza  l'Idea,  equivale,  non  meno  evidentemente,  ad  avere  qualsiasi possesso  ma  non  buono;  per  conseguenza  il  bene  non  è  che  il  bene attributo  delle  cose  buone. —  96  — di  esso,  in«iovìnanlo  che  è  qualche  cosa,  ma  dubitando e  non  comprendendo  sufficientemente  che  cosa  sia,  ne «vendo  i atomo  ad  esso  una  stabile  credenza,  quale  ha intorno  alle  altre  cose,  per  cui  perde  anche  le  altre  cos^ se  vi  ha  alcun  che  di  utile;  su  tale  e  tanto  ogg;ctto  di- remo noi  che  dovranno  essere  ciechi  i  migliori,  a  cui dobbiamo  affidare  la  somma  delle  cose?»  Socrate  vuol mostrare  con  queste  parole  la  necessità  che  i  magistrati siano  istruiti  nella  disciplina  ch<^  ha  per  oggetto  il  bene. Convenutesi  di  ciò,  Adimante  gli  domanda  :  «  Ma  tu,  o Socrate,  credi  che  il  bene  sia  la  scienza,  o  il  piacere,  o qualche  altra  cosa  differente?  »  (506  b).  Socrate  risponde che  non  ha  la  scienza  del  bene,  e  non  vuol  parlarne  se- condo una  semplice  opinione;  perciò  invece  di  dire  che cosa  sia  il  bene,  parlerà  piuttosto  del  figlio  di  esso,  so- migliantissimo al  padre  (506  ce).  Questo  è  il  sole,  ehe il  bene  generò  analogo  a  se  stesso  :  ciò  che  esso  è  nel luogo  intelligibile  rapporto  airintelligenza  e  agrintellì- gibili  (le  Idee),  il  sole  e  nel  luogo  visibile  rapporto  alla vista  e  alle  cose  visibili.  L'uno  regna  nel  mondo  intel- ligibile, Taltro  nel  mondo  visibile;  come  il  sole  dà  agli oggetti  visibili  la  possibilità  di  efser  visti  e  insieme  la genesi  e  raccresciraenlo,  cosi  il  bene  dà  agrintelligibili la  possibilità  di  essere  intesi  e  insieme  V  essere  e  IVs- senza  (507-509  d)  (I). dottrina  dei  due  elementi  ha  molta  analogia,  senza esserle  identica,  con  una  dottrina  esposta  nel  Fileho^  che è  anch'essa  una  dcl'e  prove  più  evidenti  dell'immanenza (1)  Per  il  san-^o  di  que4a  identificazione  del  bene  etico  (la  fe- licità) col  bene  ontologico  (la  forma  generale  di  tutti  gli  esseri) V.  Gap.  VII.  §  16. delle  Idee.  Io  porrò  sotto  gli  occhi  del  lettore  la  parte del  Filebo  che  si  riferisce  a  questa  dottrina. €  SoCR.  :  Dividiamo  in  due,  o    piuttosto    in  te,  tutti gli  esseri  che  sono  neirunivers^ Noi  dicevamo  che Dio  ha  insegnato  che  degli  esseri  l' uno  è  illimitato (^Tisipov)  e  l'altro  limite  (Tuspac;).  Contiamo  dunque  questi per  due  specie  e  mettiamo  per  terza  ciò  che  risulta  dalla mescolanza  di  amendue....  Per  due  di  questi  generi  cer- chiamo di  vedere  come  ciascuno  di  essi  ò  uno  e  molti, guardandolo  prima  diviso  in  molti  e  disperso,  e  poi  ri- ducondolo  nuovamente  ad  uno.  I  due  generi  di  cui  parlo sono  qm^lii  ohe  ho  posti  dapprima,  cioè  il  limitato  fTiépac; exov)  e  Tillimitato.  (I)  Cercherò  di  mostrare  come  Tilli- mitato  è  in  certo  modo  m^lti  :  il  limitato  ci    aspetti Considera  in  primo  kugo  il  più  caldo  e  il  piiì  freddo, se  scopri  in  essi  qualche  limite,  o  se  piuttosto  il  più  e il  meno  che  si  trovano  in  ques  e  specie,  finche  visi  tro- vano, impediscano  loro  di  avere  un  fine  :  infatti  soprav- venendo il  fine,  anch'essi  finiscono  e  non  sono  più — Prot.  :  È  vero— Socu.  :  Del  più  caldo  e  il  più  freddo diciamo  dunque  che  vi  ha  Fcmpre  in  essi  il  più  e  il meno— Prot.  :  Senza  dubb'o  — Socr.  :  Questa  ragione  ci mostra  che  queste  due  co.^c  non  hanno  fine  :  e  non  a- vendo  fine,  esse  sono  necessariamente  infinite  (àTisfpoj) Il  forte  e  il  piano  hanno  la  stes-a  natura    che (1)  Come  si  vede,  Platone  chiama  l'uno  dei  tre  generi— l'opposto dell'illimitato— ora  limite  e  ora  limitato.  Anche  questa  è  un'  imi- tazione dei  Pitagorici:  intatti  questi  chiamano  pure  l'uno  del  due el3menti  dei  numeri  e  delle  cose  ora  limite  o  limitante  (Tcépa^,  7l£- patvov)  ora  limitato  (TiSTiepaajxévov)  V.  perciò  Fr.  di  Filolao ap.  Stob.  I.  454,  I.  4.56,  I,  458,  Plato.  Filebo  1%  e,  Arisi.  Met.  1.  I.  V. 5-6,  13,  1.  I.  Vili.  15,  l.  XIV.  111.  14,  ecc.  il  più  e  il  meno;  perchè  dovunque  si  trovino,  fnnno  che la  cosa  noM  abb'a  una  quanttà  drterminata,  ma  sia sempre  più  forte  che  un'ahra  più  piana  e  p'ù  piana  che un'altra  più  fort%  introduccrdo  in  tu'te  1(5  azioni  il maggiore  e  il  minore  e  facendone  sparire  il  quanto.  In- fatti, come  si  è  detto,  se  non  facessero  sparire  il  quanto, ma  lasciassero  qi;esto  e  la  misura  entriire  n(  I  luogo  del più  e  del  meno,  del  forte  e  del  i)iano,  questi  s'irebbero respinti  dal  luogo  che  occupavano.  Né  il  più  c^ildo  e  il più  freddo  resterebbero,  se  ricevessero  il  quanto;  poic'nè il  più  caldo  e  il  più  freddo  progrediscono  sempri»  senza mai  fermarsi;  il  quanto  invece  si  v  fermato,  e  ha  ces- sato di  progredire.    Il  più   callo  e  il    p*ù    freddo    sodo. per  conseguenza,  illimitaii Vedi   ora   se    aTr.mettc- remo  questo  canitrere  distintivo  della  natura  deirilliml- tato,  p<  r  non  e?tenderoi  troppo  percorrenioli  tutti  -Prot.: Quale  carattere?— Soc.?.  :  Tutto  ciò  che  ammette  il  più e  il  meno,  il  forte  e  il  piano,  il  troppo  e  tutte  le  qua- lità simili,  bisogna  pori?,  com^  in  una  unità  iw;  sic;  §v) n^l  genere  dell'illimitato,  conformemente  a  ciò  che  si  è detto  sopra,  ciré  che  bisogna,  per  quanto  è  possibile, riunendo  (a'jvayaYÓvTa;)  ciò  che  è  diviso  e  disperèo,  im- primergli il  contrassegno  di  una  natura  unica Così tutte  le  cose  che  non  ammettono  queste  qualità  ma le  contrarie,  in  primo  luogo  T  eguale  e  T  eguaglianza, poi  il  doppio  e  tutto  ciò  che  è  come  un  numero  è  a  un altro  numero  o  una  misura  a  un'altra  misura,  pare  che faremo  bene  riterenlole  al  limite....  Quale  Idea  poi  di- remo avere  il  terzo,  cioè  quello  che  risulta  dalla  me- scolanza di  questi  due? Nt)ì  parlavamo  poco  fa  del più  caldo  e  del  più  freddo  — Prot.  :  Si— Sock..  :  Aggiungi il  più  secco  e  il  p  ù  umiJo,  il  più  e  il  meno  numeroso, il  più  veloce  e  il  più  tard^,  il  più  grande  e  il  più  pic- colo, e  tutto  ciò  che  sopra  abbiamo  posto  nelPunità  della natura  che  ammette  il  piùe  il  meno  Prof.:  Parli  della  na- tura deirillimitato?— Soc  '.  :  Sì.  Mescola  (a'j}jL{iiYvo)  ora  con essa  la  progenie  del  limite  — Phot.:  Quale  progenie?— Quella che  avriunmo  dovuto  raccoglie  e  in  uno  (a'JvayaYslv  sìg  sv), come  abbiamo  fatto  per  quella   dell'illimitato,    ma   non abbiamo  ancora  raccolta li   proge  lie  dell'eguale, del  doppio  e  di  tutto  ciò  che  fa  cessare  la  dissensione  tra i  duo  contrari,  e  v'introduce  la  misura  e  l'accordo  per mezzo  d^'l  numero— Prot.  Comprendo  :  mi  pare  che  tu dica  che,  se  si  mesv:olano  insieme  queste  due  specie,  ri- sulteranno da  cias  '.una  mesco'anza  certe  produzioni — SoCR.  :  E  ti  pare  giustamente Prot.  :  Di'  adunque  — Soc'R.:  Non  e  vero  che  nelle  malattie  la  giusta  mesco- lanza di  queste  due  specie  produce  la  sanità?— Prot.  : Senza  dubbio— Socu:  Che  nell'aouto  e  il  grave,  il  ve- loce e  il  tardo,  che  sino  illimitati,  la  stessa  mescolanza introduce  il  limite,  e  dà  la  p'ù  grande  ])erfezione  a  tutta la  musica  ? Prot.  :  Beuissìmo- Socr.  :  Similmente,  nel caldo  e  il  freddo,  essa  fa  ce.-sare  il  troppo  e  l'illimitato, e  vi  sostituisce  la  misura  e  la  proporzione? — Prot.: Certamente— SocR.  :  Le  stagioni,  e  tutto  ciò  che  vi  ha di  bello  nella  natura,  nasce  dunque  da  questa  mesco- lanza del  limitato  e  dell' illimitato? Prot.  :  Senza  dub- bio—Socr.  :  Lascio  da  parte  un'  infinità  d' altre  cose, quali  la  bellezza  e  la  forza  con  la  sanità,  e  nell'anima altre  qualità  bellissime  e  in  gran  numero.  In  effetto  la t'ia  dea  stessa  (la  dea  del  piacere,  cioè  Venere),  o  bel Filebo,  considerando  la  depravazione  degli  uomini  e  i loro  eccessi  d'  ogoi  genere,  e  vedendo  che  non  vi  ha alcun  limite  nei  piaceri  e  nella  soddisfazione  della  con- cupiscenza, vi  ha  stabilito  la  legge  e  l'ordine  che  sono del  genere  del  limitato—..  .  Prot.:  Tu  metti,  mi  sem- bra, nella  natura  delle  cose,  primo  V  illimitato;  secondo il  limite  ;  in  quanto   al   terzo,    non   comprendo   ancora sufficientemente  quello  che  vuoi  dire— Socr.  :  Ciò  è  per- chè la  moltitudine  dei  generi  di  questo  terzo  ti  ha  stor- dito. Tuttavia  anche  l' illimitato  presentava  molti  ge- neri (ysvtj),  ma  segnati  della  nota  comune  (xo)  ysvsi)  del più  fì  del  meno,  apparvero  una  cosa  unica  (iv  ècpotvY])  — Prot.  :  E  vero— Socr.  :  Il  limite  non  ne  presentava  uà gran  numero,  e  non  abbiamo  avuto  difficoltà  ad  am- mettere che  fosse  uno  di  sua  natura— Prot.  :  Che  diffi- coltà poteva  esservi  V— Socr.  :  Nessuna.  Di'  dunque  che io  metto  per  terzo  quest'uno  :  tutto  ciò  che  é  prodotto dalla  mescolanza  degli  aliri  due,  tutto  ciò  che  viene  al- l'esistenza per  le  misure  stabilite  col  limite.  » L'interpretazione  della  dottrina  contenuta  nel  luogo citato  p'-esenta  agl'interpreti  delle  difficoltà,  sovratuto perché  essi  si  ostinano  a  identificare  il  limite  (Tcépa^)  e l'illimitato  (Sps'.pov)  del  Filiho  con  altri  concetti  plato- nici, conosciuti  indipendentemente  da  questo  dialogo. Alcuni  vedono  nel  Tispa;  le  Idee,  altri  le  entità  mate- matiche :  l'àTisipov  equivarrebbe  alla  materia,  che  nel- Tespos'zione  aristotelica  del  sistema  platonico  viene  ch'a- mata Non  essere  o  Grande  e  Piccolo.  Siccome  1*  imma- nenza del  :iépac;  e  delT  'iTisipov  del  Fdebo  nelle  cose  è iacoot^>3iabile,  e  gli  stessi  interpreti  trascendentalisti  sono obbligati  ad  ammetterla,  dall'  identificazione  del  Tiépag con  le  Ideo  segU3  necessariamente  Timmanenza  di  queste. Quindi  gl'interpreti  trascendentalisti  preferiscono  di  ve- dere nel  Tcépac;,  piuttosto  che  le  Idee,  le  entità  mate- matiche. Ma  l'ipotesi  della  trascendenza  delle  Idee  non vi  fa  un  gran  guadagno.  Infatti  le  entità  matematiche, quantunque  Platone  le  distingua  dalle  Idee  propriamente dette,  hanno  nondimeno  tutti  i  caratteri  delle  Idee  :  vale a  dire  sono  degli  attributi  generali  delle  cose,  conside- rati come  sostanze,  e  ciascuno  come  uno  e  lo  stesso in  tutte  le  cose  di  cui  ò  l'attributo  (l'uno  nei  molti)  La distinzione  delle  entità  matematiche  dalle  Idee,  come vedremo  a  suo  luogo  (1),  è  stata  fatta  al  punto  di  vista della  teoria  dei  numeri  ideali,  ed  e  una  dottrina  del- l'ultimo periodo  della  speculazione  platonica  :  cosi  negli scritti  di  Platone  noi  non  troviamo  mai  questa  distin- zione, e  in  alcuni  luoghi  anzi,  come  nel  Fedone  101  e e  104  d,  queste  entità  sono  po?te  chiaramente  allo  stesso rango  che  tntte  le  altre  Idee.  Aggiungiamo  che  gli  stessi argomenti  che,  secondo  gl'interpreti  trascendentalist', provano  la  trascendenza  delle  Idee  propriamente  dette, proverebbero  egualmente  quella  delle  entità  matematiche: p.  e.  anche  le  entità  matematiche  sono  dette  essere  Tiapoc le  cose  (2),  e  chiamate  x^piozd  e  xs^copiaiiéva  da  esse  (3). Se  le  entità  matematiche  sono  immanenti,  le  Idee  non possono  dunque  essere  trascendenti  :  ne  segue  che  se  il Tiépag  del  Filebo  equivale  alle  entità  matematiche,  sic- come esso  è  immanente,  anche  le  Idee  devono  essere immanenti. Ma  io  non  posso  ammettere  l'equivalenza  del  Tiipag né  con  le  Idee  nò  con  le  entità  matematiche.  Del  siffni- ficato  di  questa  dottrina  del  FUeòo  ci  occuperemo  in seguito:  ivi  vedremo  che  il  Tiépa^  e  Tàpetpov del  Filebo  sono  speciali  a  (jucsto  dialogo,  e  non  hanno un  equivalente  perfetto  in  altri  concetti  platonici;  e  che questa  dottrina  rappresenta  una  fase  transitoria  nell'  e- voluzione  di  Platone  verso  il  pitagorismo,  il  cui  risuN tato  definitivo  fu  la  teoria  dei  numeri  ideali  e  dei   due (1)  Supplem.  C,  III. (2)  V.  Arist.  Met.  1.  III.  I.  (5,  II.  15,  17,  18,  22,  I.  XIII.    I.  1-2,  II. 3,  5-8  ecc. Arist.  Met.  I.  XI.  II.  7,  1.  XII.  I.  3,    I.  XIII.    VI.    6,    1.    XIV. 1.1  3,^  4,  7.  ecc. I li elementi  delle  tclee  e  delle  cose,  che  noi  conosciamo  per mezzo  di  Aristotile.  Quello  che  c'importa    per  ora   è   di costatare  un  fatto  che  è  al  di  sopra  di    tutto   le   conte- stazioni a  cui  ha  dato  luogo  l'interpretazione  della  dot- trina del  Filebo,  È  che  tanto  le  entità  che   Platone  r.u- Disce  sotto  il  termine  comune  di  Tiépa^,  quanto  le  entità che  egli  riunisce  sotto  quello  di  ocTisipov,  sono   evidentemente delle  astrazioni  realizzate  della  stessa  natura  che tutte  le  altre  che  noi  troviamo  nella   filosofia  platonica. Il  più  freddo  e  il  più  caldo,  il  più  veloce  e  il  più  tardo, ecc.  da  uoa  parte,  e  l'eguale,  il  doppio,  ecc.  dall'altra, sono  degli  attributi  delle  cose  elevati,  non  potrebbe  es- servi alcun  dubbio,  al  gra  lo  di  eniitf\  sussistenti  per  se stesse.  Di  più  que4ì  attributi  sono,  mn   solo   sostantifi- cati,  ma  considerati  ciascuno  com'3  una  sostanza  nume- ricamente unica,  della  j-tes^a  maniera  che  tutti  gli  altri attributi  delle  cose  che  PUtonc   eleva   al    grado  di    so- stanze. È  ciò  che  risulta  chiaramente  dalle  proposizioni in  cui  Platone  riguarda  il  r^spa;  e  l'ccTisipov  ciascuno  co- me  uno    e  al  tempo  stesso  molti  (23  e,  24  a,  25  a,  2od, 26  d).  Iq  effetto  quest'unità  a  cui  il  muliiplo  viene  ricon- dotto, non  è  per  Platone  uu'  unità  semplieementa   con- cettuale, ma  un'  unità  reale  (l).   Il   r.épa?,   e   cosi    pure 1'  àTis'.pov,   non   è   uno   semplicemente   nel    senso    che  le entità    a   cui   il  termine  viene  applicato  s  no  comprese in  un  genere  unico;  ma  quest'unità  importa  dì   più  che questo  genere  ò  riguardato  come  una  sostanza  unica,  co- me un'Idea.  Per  conseguenza,  anche  calcano  dei  molti compresi  nell'unità  del  Tispa?  e  dell' scTis'.pov-rrguale,    il doppio,  ecc    da  una  parte,  e  il  più  caldo  e  il  più  freddo, (1)  V.  n.  v,  4.0 il  più  veloce  e  il  più  tardo,  ecc.  dall'altra— e  uno  nello stesso  senso  in  cui  il  Tiépa;  e  l'àr-sipov  ò  uno  :  vale  a dire  ciascuna  delle  specie  del  r^épa^  e  dcll'àTistpov  è  ri- guardata egualmente  com-^  una  sostanza  unica,  come un'idea.  ÌMa  gl'interpreii  tiascendentalistì  sono,  come abbiamo  detto,  obbHgati  a  convenire  che  il  Tiépa^  e  l'à- Tieipov  del  Filebo  sono  inmanenti  nelle  cose  :  dunque  es- si devono  anche  convenire  che  le  Ideo  platoniche  sono immanenti  nelle  cose  (l). IX.  Tutto  il  reale  per  Telatone  sì  ridme  alle  Idee.  Cosi egli  chiama  le  Idee  gli  ess-ri  (xà  òvia)  (2)  o  l'essere (  Tó  ov  (3),  y^  oOatx  (4  j  ),  e,  considerate  in  relazione  al  sog- (1)  Un'alt  i-a  prova  (lell'iminanenzx  dolio  Ido3  è  cho  Platone  ri- guarda la  propo!^izion3  elio  il  izipoLC,  e  l'àpsipov  sono  gli  olomenti dalle  COS3— cio>  la  dottrina  contenuta  noi  luogo  citato— coma  equi- valente alla  propo-;iziono  che  il  tzì^jOLC,  o  l'àpeLpov  sono  gli  eie-, monti  dello  Idtee.  In  etfotto,  sul  principio  del  luogo  citato,  dica: "  Noi  abbiamo  dotto  ch3  Dio  ha  infognato  elio  degli  o-sseri  l'uno  è aTiS'.pov  e  1'  altro    TzipoLC,  n  (soggiungendo  cho,  oltre  a  questi  due, vi  ha  un  terzo  genero,  cioè  qu(?llo  che  risulta  dalla  loro  mescolanza, e  che  poi  definisce:  ciò  cho  Tiene  all'esistenza  por  le  misure  sta- bilito col  limite).  Ora  quosto  è  un  richiamo  che  si  riferisce  a  16  e, dove  ha  detto  cho  «  gli  antichi  che  furono  migliori  di  noi  e  più vicini  alla  divinità  ci  hanno  trasmesso  quest'oracolo,  che  lo  cose cho  si  dicono  essere  et  ornamento  sono  di  uno  e  di  molti,  e  com- prendono in  se  il  limite  e  l'illimit azione.  »  (Le  cose  che  si  dicono  es- sere eternamonto  sono  naturalmont e  lo  Idee).  Platone  non  potrebbe considerare  le  duo  proposizioni  come  equivalenti,  se  le  Idee  per lui  non  si  identificassero  in  un  corto  modo  con  le  cose,  ciò  che sarebbe  impossibile  nell'ipotesi  della  trascendenza. (2)  r,'(lro  249  e,  Crai.  439  e- 1,  440  b,  Fedoiw  G6  a,  65  e,  82  e,  83  b, 101  e,  Jirp,  590  b,  532  e,  ecc. (3)  Fedro  248  b,  247  d,  Ti.n.  52  d,  F,'d>iie  (55  e,  60  a-c,  FU.  58  a, lieih  477  a,  b,  478  a,  b,  e,  480  a,  484  e,  d,  48o  e,  490  a,  501  d,  511  e, 518  e,  521  e,  d,  525  a,  526  e,  529  b,  533  b,  e,  537  d,  ecc. (4)  Sof.  246  b,  e,  lirj).  486  a,  523  a,  524  e,  525  b,  e,  526  e,    534  a. Il  reale  risolvendosi  nelle  Idee,  cìascmìa  cosa   (Ixaaxov)  signi- —  100 4 getto  conoscente,  i  veri  (xiXr^^^  (1)  o  il  vero  (  xàXr^a-é;  (2), ri  aXr^B-s'.a  (3))  Ciò  non  si  comprende  che  neiripotesì  del- r  immanenza.    Se  le  Idee  fissero  trascendenti,    le   Idee e  le  cose   sarebbero   due   realtà   distinte   o   separato,  e Platone   non    potrebbe   dire   che   tutto   il  reale  con8Ìste nelle  Idee.  Ma  se  le  Idee   sono   gli   attributi  delle  cose, siccome  tutto  Tessere  sì  risolve   nei    loro  attributi,  cosi le  cose  si   risolvono   nelle   Idee,  e   queste  costituiscono tutta  la  rei  Uà.    NelTipotesi    dell'immanenza,    il    mondo delle  Idee  e  il  mondo  delle  cose.  Vintdligibile  e  il  sensibile^ non  sono  due  mondi  differenti,  m^,  come  abbiamo  detto, un  solo  e  stesso  mondo  visto  da  due  lati  differenti  :  ciò che  Tintelligeuza  vede   come   un   complesso    di    astratti cioè  d'Idee,  è  quello  stesso  che  i  sensi  vedono  come  un complesso  di  concreti  c:oè  di  cose.  Tra  V  intelligibile   e il  sensìbile  vi  ha  in  certo  modo  il  rapporto  che  vi  ha  tra il  semplice  e  il  composto  :  Tintelligenza  decompone  i  con- creti in  astratti,  le  cose  in  Idee  (4).  Platone  non  può  ne- gare che  il  mondo  sensibile  differisce   dal    mondo   iniei- ligibile.  Se  la  realtà  consiste  nel  mondo  intelligibile,  cioè nelle  Idee,  ne  segue  che  il  mondo   sensibile,   cioè   delle cose,  in  quanto  differisce  dal  mondo  delle  Ic^e^^  non  ha fica  talvolta  in  Platone  :  ciascuna  Idea.  V.  Fedone  65  e.  Ihid,  66d-e le  Idee  sono  anche  chiamate  le  rose  stesse  (aOxà  xà  TtpaYtiaia). Noi  abbiamo  viste  (al  n.  II)  che  per  dire  :  1'  Idea  «lei  movimento, dello  stato,  dell'essere,  ecc.,  Platone  si  serve  semplicemente  delie parole  :  il  tiiovimcnto,  lo  stato,  {'essere,  ecc.  :  ciò  suppone  evidente- mente che  le  cose  per  lui  si  ri«-{olvoiio  nelle  Idae. (1)  Fedro  248  e,  247  d,  A'ejj.  519  b,  520  e. (2)  Fedone  66  d,  67  b,  84  a. (3)  Fedro  249  b,  A'èp.  475  e,  Jx^ep.  525  e,  b,  523  b,  ecc. (4)  Coìifr.  Taine  Posit,  in(jL  §  JI.  JI.  VII,  L'InteUUjA.    1.  l.  1.  e. 2.  IV,  t.  II.  p.  II,  l.  4.  e.  2.  Ili,  ecc.. 1 realtà.  E  tale  è  in  effetto  la  dottrina  di  Platone.  In  altri casi,  in  cui  per  verità  si  deve  inteniere  la  conoscenza vera,  e  non  l'oggetto  di  questa  conoscenza,  la /;en7à  si- gnifica la  conoscenza  delle  Idee  (l).  Altrove  la  verità vuol  dire  la  condizione  degli  oggetti  veri,  la  proprietà che  e^si  hanno  di  esser  veri,  e  questa  condizione  o  pro- prietà è  atiribuiia  unicamente  alle  Idee  (2).  Cosi  l'Idea è  chiamata  il  vero  essere  (6v  oviwc;  (3),  TiavisXtog  5v  (4), zikim^  ov  (5),  elX'.xptvto-  ov,  ©Oata  ovito^  o'jaa  (7),  àXyj^wc; cp'jai^  OTiapxouaa  (8),  ecc.),  ciò  che  implica  che  l'indi- viduo non  è  tale;  e  questo  vero  ess3re  ò  opposto  alle co^e  che  son  credute  essere  (9),  cioè  le  cose  particolari. Il  divenire  (Ysvsai;)  o  ciò  che  diviene  (yt^vófisvov)  —  è  per quest'attributo  che  Platoae  caratterizz  i  il  sensibile  — è  opposto  all'essere  (10)  e  al  vero  (11),  e  s!  dice  di  esso che  mn  ò  mai  realmente  (12),  che  non  è  un  essere  (13). (1)  V.  Fedro  248  b.  Fedone  G5  b,  63  a,  b,  eo3. (2)  Rep,  508  d,  597  b,  e,  eoo. (3)  Fedro  247  e,  249  e,  Tim,  52  e,  FiL   59  d,  R'p.  400  b. (4)  Sof,  249  a,  AVp.  477  a. (5)  liep.  (6)  Rej),  ili  a,  478  d,  479  d. (7)  Fedro  247  e. (8)  Tim.   52  b. (9)  Rep,   490  a-b,  Fedro  249  e,  247  e. (10)  Ti.rt.  29  e,  52  d,  Rep.  508  d,  518  e,  521  d,  525  b,  525  e,  525  e, 534  a,  ecc. (11)  Rep.  508  d,  525  e,  ecc. (12)  Tini.  28  a,  Crat.  439  e. (13)  Tim,  50  b.  Nel  Sof.  246  b  dioc  :  i  partigiani  deUe  Specie pongono  in  queste  la  vera  oùota;  in  quanto  a  ciò  che  i  Fisici  chia- mano verità,  essi  lo  chiamano  non  oOata,  ma  una  certa  genesi fluente. V   ti -•  Il 101  — ^   ' 1^  «'  y'      '  ', Il  Iettò  reale  (y.Xivr^  ovxo)^  o»joa)  (1)  significa  l'Idea  del letto;  la  bellezza  vera  (xò  àXrjB'ès  xaXXXo;)  (2)  l'Idea  della bellezza;  il  vero  nuoiero  (ò  àXyjBtvò;  àp'.Ojjtó^)  e  le  ver.) figure  (xà  àXyjB-^  oxigiiaxa)  (3)  le  Idee  dei  numeri  e  deUe figure  (cioè,  propriamente,  le  entità  matematiche).  L'in- dividuale non  è  un  essere,  ma  qualche  cosa  di  simile aires3ere  (4);  non  è  né  essere  nò  non  es^^ere  ma  parte- cipa dell'uno  e  dell'altro,  è  un  che  di  medio  tra  il  puro essere  e  l'assoluto  non  essere  (5).  I  sensi  non  ci  fanno conoscere  il  vero  (6;;  il  sensibile  è  creduti  vero,  ma  non lo  è  (7),  almeno  non  ha  una  verità  assoluta  (8);  questi non  si  trova  che  nelle  Idee  (9).  Tra  gli  argomenti  per dimostrare  Resistenza  delle  Idee  vi  hanno  que^ì:  se  vi ha  qualche  cosa  di  vero,  esistono  le  Idee,  perchè  niente delle  cose  presso  di  noi  è  vero;  il  numero  è  degli  esperi, ma  le  cose  presso  di  noi  non  sono  esseri,  dunque  il  nu- mero è  delle  Idee,  e  queste  esistono;  le  definizioni  sono degli  esseri,  ma  nessuna  di  queste  cose  è,  Fono  dunque  le Idee  (IO).  Le  forn.e  che  riveste  sucerssivament  *.  la  materia sono  apparenze  (^avxotojiaxa)  degli  esperi  veri,  cioè  de(1)  Rep,  597  ti. (2)  Fedro  24^)  d. (3)  Ii*ep.  529  d.. (4)  Rep.  597  a. (5)  liep,  477-479. (6)  Fedone  66  a,  d,  83  a-b,  ecc.  Fedo,  83  b,  83  d,  liep,  597  b,  e,  516  a,  ecc. (8)  Fedo.  83  e,  FiL  59  b.  Rep,  511  e  (ctr.  534  a),  occ. (9)  FedOy  65  e,  FiL  58  e— 59  e,  Fep,  484  e,  511  e,  ecc. L'Idea  è,  come  il  solo  essere  vero,  cosi  pure  il  solo  e^isere  certo (Pépaiov— V.  Tim.  29  b,  51  d-e).  11  sensibile   noa  è  certo,   perchè   ò qualche  cosa  di  ambiguo,  di  cui  non  può  diiNi  nò  che  ò  nò  che  non  ò* (10)  Aless.  Afrod.  in  phil  pr.  I.  t.  56. Hi Idee  (1);  ciascun  sISo;  è  uno  in  se  stesso,  ma  per  là  parteci- pazione ad  es«o  dei  corpi  e  delle  azioni,  da  per  tutto  appa- rendo (cfavxa^ó|i£vov),  pare  (cpatvsxai)  molti,  L'acqua, il  fuoco,  Tari-i,  la  terra  non  sono,  ma  appariscono  (cpav- xal^exai)  (.1);  la  materia  pare  (^atvexai)  acqua,  fuoco,  ecc. secondo  che  riceve  le  immagini  di  questi  (4),  (cioè  delle Idee  dell'acqua,  del  fuoco,  ecc.  Platone  si  esprime  cosi, perchè  V  acqua  reale,  il  fu^co  reale,  ecc.  sono  le  Idee dell'acqua,  del  fuoco,  ecc.)  Le  cose  non  sono  che  im- magini de-le  Idee;  e  chiamandole  immagini  (slxóvs^  (5), stSwXa  (6),  ecc.),  Platone  non  vuoi  dire  semplicemente ch'esse  sono  fatte  ad  imitazione  delle  Idee,  ma  ancora ch'esse  non  hanno  una  vera  realtà  ;  infatti  queste  sl- xóvec,  st8(i)Xa,  ecc.  vengono  opposti  agli  esseri  veri  (le I  Ice).  Il  volgare,  che  non  ammette  la  teoria  delle  Idee, vive  come  in  un  sogno  (7),  perchè,  come  colui  che  Fogna, prende  delle  semplici  immagini  per  esseri  reali.  Ciò  che vi  ha  di  reale  negli  oggetti  che  ci  mostrano  i  sen-i,  so- no le  Idee  :  della  grandezza,  della  sinità,  della  robu- stezza e,  in  una  parola,  dell'essenza  di  tutte  le  cose,  il verissimo  non  è  ciò  che  ne  percepiscono  i  sensi,  ma  ciò che  ne  percepisce  la  ragione,  vale  a  dire  le  Idee  (8);  i sensi  c'ingannano,  e  per  conoscere  la  Vi,*rità  delle  cose, dobbiamo  rinunziare,  per  quanto  è  possibile,  all'uso  de- gli organi  del  corpo,  e  contemplare  con  la  mente  stesa Tim,  52  e. Rep,  476  a. Tim,  49  d-50  b. Tlm.  50  e,  51  b,  52  e. (5)  Fjdì'o  2:il)  b,  Tim,  2,è  b,  e,  52  e,  eco. («)  Fedro  250  d,  Rep.  520  e,  532  e,  534  e,  Cjnmlo  212  a,  eC3. (7)  Rep,  476  e,  Rep,  534  e,   Tiìn,  52  b,  ecc, (8)  Fedone  65  e. I  ti per  se  stessa  gli  esseri  stessi  per  se  stessi,  cioè  rintelli- gibile  ed  invisibile  (1);  a  traverso  il  corpo,  noi  vediamo gli  essrri  (le  Ide?),  come  a  traverso  un  carcere^  (2). Da  tutte  queste  proposizioni  risulta  con  la  più  grandrì evidenza,  quantunque  Platon",  bisogna  confessarlo,  non lo  formuli  mai  nettamente,  il  conct^tto  che  le  cose  sono alle  Idee  ciò  che  l'apparenza  è  alla  realtà:  ciò  che  è  in realtà  un  mondo  d'Idee  apparisce  come  un  mondo  di cose,  d'individui  concreti.  In  effetto,  se  le  cose  non  sono una  realtà,  saranno  un' apparen7a  :  ma  un'apparenza suppone  una  realtà  che  apparisce  diver-a  da  quello  che è;  per  conseguenza,  non  essendovi  altro  di  reale  che  le Idee,  la  realtà,  di  cui  il  mondo  sensibile  è  l'apparenza, non  può  essere  che  il  mondo  ideal»*.  Se  le  Ideo  fossero separate  dal'e  cose,  noi  non  comprenderemmo  come  possa negare  la  realtà  del  sensibile,  e  ridurre  tutto  il  reale  alle Idee  :  uà  se  le  Idee  sono  comprese  nelle  cose,  e  costi- tuiscono la  sola  realtà,  ciò  che  vi  hi  di  reale  nel  mondo sensibile  non  sarà  ch'3  il  mondo  d'elle  Idee,  e  allora  il mondo  sensibile,  come  tale,  sarà  l'apparenza  del  mondo delle  Idee.  Considerando  il  mondo  sensibile  come  un'appa- renza, Platone  non  intende  negare  la  sua  obbiettività,  per- chè egli  non  ammette  che  ciò  che  i  sensi  percepi>cono  sia un  semplice  fenomeno  subbiettivo.  Per  Platone,  come  per Hegel,  il  mondo  che  noi  chiamiamo  reale  è  un'  appa- renza delle  Idee,  ma  un'apparenza  obbiettiva.  Senza  dub- bio wn' apparenza  obbiettiva  è  una  contraddizione  nei  ter- mini; perchè  una  cosa  non  reale,  un'apparenza,  signi- fica un  fenomeno    subbiettivo  che  si  prende  a  torto  per Fedo  05  e-G()  a,  66  d-e,  83  a-b. (2)  Fedo  82  e. una  cn.ca  obbiettiva.  Una  cosa,  di  cui  si  riconosce  l'ob- biettività, non  può,  d'una  maniera  intelligibile,  clas^^arsi tra  le  cose  il  cui  carattere  essenziale  è  la  mancanza  di  ob- biettività; ma  questa  classazione  inintelligibile  era  il  solo mezzo  che  Platon'^,  potesse  tentare  [er  conc:liare  l'esi- stenza di  un  mondo  di  cose  col  principio  che  ogni  realtà consiste  ne'le  Idee.  Questa  ridnzione  del  sensibile  a  una app^-enza  dell'intelligibile  spiega  perchè,  tra  tutte  le filosofie  preced^'nts  P  eleatica  fo?se,  dopo  la  pitagorica, quella  di  cui  Platone  riconoscesse  il  legame  più  intimo con  la  sua  propria  filosofia  :  e  che  per  Platone,  come  per gli  Eleati  (1),  il  mondo  mutabi'e,  percepito  dai  sensi,  è l'apparenza  obbiettivi  d'una  realtà  immutabile. Il  concetto    che  le  cose  sono   l'apparenza  delle  Idee sarebbe  evidentemente  incompatibile  con  la  dottrina  della trascen  lenza.  Primo,  perché,    come   abbiamo  notato,  se le  Idee  fissero  separate  ddle  cose,  Platone  non  potrebbe ridurre  tuito  il  reale    alle   Id-e,  e  non    avrebbe    alcuna ragione  per  negare  la  realtà  del  sensibile.  Secondo,  per- chè questo  concetto  suppone   che  il  mondo  delle    Idee  e il  mondo  degl'individui,  Pintelligibile  e  il  sensibile,  siano, non   due  cose  differenti,  ma  due  aspetti  differenti  di  una sola  e  stessa    cosa.  Noi  abbiamo  confessato,  è  vero,  che questo  concetto   non  si  trova  in  Platone  nettamente  for- mulato.  iMa    l'identità    tra   le  cose  e  le  Idee,   che   esso suppone,  è  ammessa    della   maniera  più  netta  in  molte delle    proposizioni    da    cui    lo    abbiamo  ricavato  :  p.    e. quando  dice  che  ciò  che  vi   ha  di  verissimo  nelle   cose è    quello   che   ne    percepisce    1'  intelligenza,  vale  a  di- re  le   Idee;    che   a    traverso   gli    organi  del    corpo (J)  V.  Append.  alla  parte  pnma,  e.  jo,  §  6.°Fedone  65  e,  luogo  citato. —  103  - noi  vedi*iino  gli  esseri,  ci^è  le  Idee,  come  a  traver- so un  carcerii  (Ij  ;  quand)  chiama  le  Idee  gli  ea- seri  ;  quando  dice  :  ciascuna  cosa  (  gxaoxov),  per  signi- ficare :  ciascuna  Idea  (2j  ;  ecc:.  Questa  iJonti  h  tra  le Idee  e  le  erse,  iaconcepibileneiripotesi  d^lla  trasceii  lenz;ì, è  una  cons(»gucn7a  logica  di  quella  deirimmanenza.  lu effetti,  come  abbiamo  più  volte  osservato,  l'astratto  e  il concreto,  o,  più  generalmente,  il  più  astratto  e  il  più concreto,  non  sono  degli  oggetti  differenti,  ma  uno  stesso oggetto  a  gradi  differenti  di  determiuazione  :  questi  gradi differenti  di  determinazione,  che  al  puuto  di  vista  ordi- nario non  esistono  ch'i  nella  nostra  intelligenza,  sono elevati  dalla  mi-tafì-ica  realista  a  realtà  obiettive;  ma questa  stessa  metafisica  non  può  non  riconoscere  l'iJen- tità  dell'oggetto,  di  cui  essi  sono  i  gradi  differenti  di determinazione;  e  perciò  uè  fa  degli  aspetti  o  d^gli  stati diff.^renti  di  uno  stfsso  essere,  che  nei  gradi  successivi di  determinazione  che  c^'so  percorre,  si  conserva  nondi- meno sempre  identico  a  se  stesso.  Ci  resta  a  spiegare perchè  quest'ultimo  grado  della  de'erminaz'one.  dell'es- sere, che  è  l'individuo,  non  abbia  per  Platone  (e  in  ge- nerale per  tutti  i  filosofi  che  uniscono  al  realismo  il metodo  dialettico)  che  il  valore  di  una  semplice  appa- renza. La  ragione  più  ovvia  per  riguardare  il  sensibile  come un'apparenza  è  ch'esso  è  in  contraddizione  con  l'altro aspetto  dell'essere,  la  cui  realtà  deve  stare  più  a  cuore a  Platone,  cioè  con  l'Idea.  Ciasc\in  slto^  è  uno,  ma  noi lo  vediamo  come  molli,  disseminato  nello  spazio  e  nel tempo  :  di  questi  due  aspetti   contraddittori  dell'  essere, h Pintelligibile  e  il  Svinsibile,  Platone,  sacrificando,  come lutti  i  metafisici,  il  dato  dell'esperienza  al  risultato  della speculazione,  dichiara  che  il  reale  è  il  primo  e  il  secondo è  un'apparenza,  che  l'sleoc;  è  uno  in  se  stesso,  ma,  pare molti.  Tuttavia  una  considerazione  più  attenti  mostra che  questa  ragione  non  basterebbe  per  se  sola  a  negare lei  realtà  del  sensibile. In  effetto  questa  centra Idizione  tra  l'uno  e  i  molti  sì trova  a  ciascun  passo  della  determinazione  progressiva d^iridcìa  :  come  l'Idea  specifica  diviene  molti  negl'indi- vidui che  ne  partecipano,  co>i  l'Idea  generica  diviene molti  nelle  Idee  specifiche  che  ne  partecipano.  Questa moliiplicazione  dell'  Idea  nelle  Idee  più  particolari  ad essa  subordinate  è  per  Platone  anch'e>!sa  una  semplice apparenza:  ciascun  slSog  pare  molti,  tanto  per  la  parte- cipazione delle  azioni  e  dei  corpi,  quanto  per  la  partecipa- zione degli  altri  elòri  (1).  Ma  Platone  non  dichiara  perciò che  le  Idee  particolari  sono  delle  semplici  apparenze  del- l'Idea generale  :  è  che  vi  ha  in  esse,  oltre  l'elemento  ^e. nerico,  che,  come  molti  e  diverso  nelle  diverse  Idee,  è un'apparenza  dell'Idea  generica,  un  elemento  differen- ziale; e  questo  è  irrìduttibile  all'Idea  generica,  e  reale come  essa.  Ora  anche  nell'individuo  vi  ha  un  elemento differenziale,  che  si  aggiunge  all'  elemento  specifico  : sembra  perciò  che  Platone  dovrebbe  conservare  la  realtà degl'individui  in  grazia  delle  differenze  individuali,  come conserva  quella  della  Specie  in  grazia  delle  differenze specifiche. Al  cominciamento  di    questo    numero,  per  ispiegare la  dottrina  di  Platone  che  tutto    il   reale   consiste   nelle (1)  Fedone  82  e,  loogo  citato. Fedone  65  e,  luogo  citato. (J)  V.  liej),  476  a. \^ 1  •' Idee,  noi  abbiamo  detto  che  gli  esseri  si  decompongono nei  loro  attributi,  i  quali,  considerati  gen'-ralmeate,  sono d^lle  Idep.  Infittì  questa  è   la    sola   ragione    plausib'le, che  Platone  e  ogni  altro  metafisico  che  professa  lastessa dottrina,  potrebbe  addurre  per  giustificarla;  ed  io  ho  ci- tato il  Taine,  il  quale  ammette  effett'vamento  che  il  rap- porto  tra  le  entità   generali  —  corri-^pondonti    alle   Idee platoniche  —  e  le  cose  è  quello  che  vi  ha  tra  le  parti  e 1  tutti,  i  componenti  e  i  composti.  A  questo  punto  di  vista» relemento  differenziale,  che  si  aggiunge  alla  Specie  per costituire  Tindividuo,  sarebbe  un  complesso  di  caratteri,  di cui  ciascuno  e  generale  e  corrisponde  a  un'Idea,  e  che  ba- sta a  determinare  T  individuo,  perchè  il  concorso  di  tutti non  ha  luogo  che  in  un  singolo  individuo.  Va  questo  punto di  vista  è,  rigorosamente  parlando,  iuammissibile.  Vi  ha necessariamente  nell'  individuo  un  elemento,  chi*,  è  irridut- tibile  al  generale,  allldea.  Prima  di  tutto,  la  posizione  in un  punto  determinato  dello  spazio  e  del  tempo.  Poi,  un cumulo  di  caratteri  generali,  per  quanto  si  moltiplichino, non  potrebbe  fornire  una  rappresentazione  adequata,  pre- cisa, dell'  individuale.  È  perciò  che  i  realisti  del  medio  evo ammettevano  un  principio  particolare,  V  ecceifà,  che  si aggiungeva  agli  Universali  per  formare  V  individuo.  Il vero  motivo  per  cui  Platone  e  gli  altri  filosofi,  i  cui  si- stemi sono   costruiti  sullo  stesso  tipo  del  sistema  plato- nico, non  fanno  come  i  realisti  del  medio  evo,  ma  risol- vono tutto  il  reale  in  entità  generali,  bisogna  cercarlo, non  nel  realismo  per  se  stesso,  ma  nella  dialettica. Io  chiamo  dialettica  ogni  metodo  in  generale  di  de- durre i  concetti  realizzati  (che  Platone  chiama  Idee)  gli uni  dagli  altri,  allo  scopo  di  assimilare  il  rapporto  tra il  principio  e  la  conseguenza  a  quello  tra  la  causa  e  lo effetto.  La  dialettica  non  ò  un  semplice  processo  sub- biettivo  per  dimostrare  le  cose,  ma  è  il  processo  stesso per  cui  le  cose  si  producono,  la  bgge  della  loro  causazione reale.  Questa  legge  non  determina  le  successioni  cronolo- giche dei  fenomeni,  ma  le  succe-isioni  logiche  delle  entità in  cui  la  metafìs'ca  realista  risolve  il  reale.  Queste  en- tità si  deducono  le  une  dallo  altre  secondo  un  metodo costante  (che,  p.  e,  per  Platone  è  la  divisione  del  genere nelle  sue  specie,  per  Hegel  il  passaggio  dalla  tesi  all'an- titesi e  poi  alla  shitesi);  e  il  proprio  di  questa  deduzione è  che  fra  lo  entità  che  si  deducono  e  quelle  da  cui  sì deducono,  non  vi  ha  semplicemente  il  rapporto  logico di  conseguenze  e  di  principii,  ma  anche  il  rapporto  on- tologico di  effetti  e  di  cause,  poiché  l'essenza  della  me- tafisica di  cui  parliamo  consiste  nella  identificazione  di questi  due  rapporti.  Il  metcdo  per  cui  procede  questa deduzione  essendo,  come  abbiamo  detto,  la  legge  di causazione  delle  entità  eh*',  secondo  la  metafisica  rea- lista, costituiscono  il  reale,  Kon  può  esservi  niente  nel reale  che  non  si  uniformi  a  que-ta  legge,  cioè  che  non possa  dedursi  secondo  questo  metodo;  della  stessa  ma- niera che  tra  i  fenomeni  non  può  esservene  alcuno  che non  si  uniformi  alle  legji  di  causazione  dei  fenomeni. Ora  nessun  metafisico  potrebbe  pretendere  di  dedurre l'individuale;  poiché  la  scienza  non  aspira  a  conoscere l'individuale,  ma  solo  il  generale.  L'individuale  non  può dunque  uniformarsi  alla  legge  dialettica  che  governa  il reale  :  la  sua  esistenza  è  in  contraddizione  con  questa legge;  quando,  nella  determinazione  progressiva  dell'es- sere, arriva  il  momento  finale  (finale  almeno  nel  siste- ma platonico),  in  cui  si  passa  dall'astratto  al  concreto, dal  generale  all'  individuale,  accade  tin  avvenimento senza  causa.  Ecco  perchè  il  metafisico  realista  non  conta quest'avvenimento  fra  i  gradi  7*eali  dello  sviluppo  del- l'essere, e  dichiara  il  sensibile  una  semplice  apparenza.  Il metafisico  realista  non  fa  che  quello  che  noi  stessi  faremmo  innanzi  ad  un  avvenimento,  di  cui  saremmo  certi che  non  vi  hanno  nel  mondo  esteriore  degli  antecedenti capaci  di  determinarlo  :  noi  lo  dichiareremmo  un  sogno o  un'illusione,  il  criterio  principale,  se  non  Tuiiico,  per- distinguere  il  sogno  o  V  illusione  dalla  realtà,  essendo  la possibilità  o  meno  di  mettere  un  fenomeno  in  connes- sione causale  cogli  altri  fenomeni  che  costituiscono  la serie  che  noi  chiamiamo  il  mondo  reale. Tutti  i  metafisici  che.  come  Platone,  realizzano  i  concetti,  e  am- mettono che  questi  concetti  realizzati  possono  deduisi  gli  uni   dagli  al-, tri  secondo  un  metodo  costante  (che    noi    chiamiamo    dialettico,   perchè cosi  è  stato  chiamato  dai  più  celebri  rappresentanti  di  questa    forma   di metafisica,  Platone  ed  Hegel),  riguardano   il  sensibile,   l'individuo,  come non  reale,  ma  soltanto  apparente.  Schelling  dice:  Non    vi   ha  passaggio continuo  dall'assoluto  (l'entità  suprema  da  cui  tutte  le   altre   procedono, la  più  astratta  di  tutte)  al  mondo  Fensibile;  non  si  può    concepire   l'ori- gine del  mondo  fenomenale  che  per  un  salto,  per    una    discontinuazione perfetta  dell'azione  dell'assoluto.  Perchè  fosse  possibile  di  dedurre  dall'as- soluto   la  nascita  delle    cose  reali   (cioè   che  noi   chiamiamo  tali),  biso- gnerebbe   che    esse  avessero  in  lui  la  loro   ragione  positiva  :  ora  n^n  vi ha  in  Dio  (cioè  nell'assoluto)  che  la  ragione  delle  Idee,  e  le  Idee  alla  loro volta  non    producono  che  delle   Idee,  e  niuna  azione   positiva  procedente da  esse  o  dall'assoluto  può  formare  un  passaprgio  dall'  infinito  (il    mondo delle  Idee)  al  finito  (il  mondo   dei  fenomeni).    Ln    filosofia    non    ha   alle cose  fenomenali  che  una  relazione  negativa  :  essa  ha  meno    per   o«rgetto di  provare  che  esse  sono,  che  di  mostrare  che  esse  non  sono  (Stor,  della  fiL  alem,  da  Kant  sino  ad  Hegel)    Hegel nella  Logica  paragr.   :  k  L'idea  è  il  vero;  perchè  il  vero  consiste  nella conformità  tra  la  nozione  e  il  suo  oggetto....    Ogni  essere    reale    tira    la sua  realtà  dall'Idea,  e  non  è  che  per  l'Idea  che  è  un  essere  reale...  L'in- dividuo non  corrisponde  alla  sua  nozione  (e  per  conseguenza    manca    di verità).  »  Nell'Introduzione  all'Enciclopedia  parag.  VI  :  «  Un'osservazione attenta  del  mondo  distingue  ciò  che,    nel    vasto    dominio   dell'  esistenza interna  ed  esterna,  non  è  che  un'apparenza  fuggitiva  ed  insignificante  da ciò  che  ba  una  vera  realtà.  ..  Dio  (cioè  l'Idea)  é  la  realtà  più   alta  e    la sola  realtà,  e,  relativamente  alla  forma,  l'esistenza  è  in  parte  apparenza 'f, Il  Zeller,  quantunque  sia  l'uno  dei  principali  rap- pres-entanti  dell'interpretazioue  trascendentalista,  rico- nosce che  dalle  proposizioni  di  Platone  sulla  realtà  delle sole  Idee  e  la  non  rca'tà  del  sensibile,  ne  segue  il  con- cetto che  il  mondo  sensibile  non  è  che  un  fenomeno  del mondo  ideale.  Egli  ammette  che  questo  lato  della  dot- trina platonica  è  in  contraddizione  con  l'altro  lato  che rgli  le  attribuisce,  cioè  la  separazione  tra  le  Idee  e  le cose;  ma  secondo  lui  esso  imj-orta,  non  l'immanenza delle  Idee  nelle  cose,  ma  l'imuìanenza  deUe  cose  nelle Idee  (1).  E  in  verità  si  deve  convenire  che  sarebbe  più e  in  parte  realtà.  Nella  vita  ordinai  ia,  tutti  gli  avvenimenti,  l'errore,  i] male  e  tutto  ciò  che  appartiene  a  quest'ordine  di  cose,  come  anche  ogni esistcilza  passeggiera  e  peribile,  sono  accidentalmente  chiamati  delle  real- tà ».  Nota  di  Vera;  «  Vi  ha  nel'e  cose  un  elemento  apparente,  accidentale» esteriore,  e  un  elemento  reale,  necessario  ed  interiore.  È  quest'elemento  che è  l'oggetto  della  filosofia».  Vera  nell'Introduzione  alla  Filosofia  della  natura di  He^el,  e.  IX  :  «  Il  tempo  e  lo  spazio  costituiscono  il  sustrato  e  come  i  due fattori  dcl'a  natura;  di  tal  sorta  che  ciò  che  è  uno  vi  ipparìsce  come  molti,  e ciò  che  è  simultaneo  vi  apparisce  come  successivo.  E  questo  apparire non  è  un  fatto  o  uno  stato  puramente  subbiettivo  ed  esteriore  alla  na- tura, ma  costituisce  la  condizione  e  la  forma  stessa  della  sua  esistenza.  » Taine  nel  Po^iU,  imjl.  ;  Questo  magnifico  mondo  in  movimento, questo  caos  tumultuoso  d'avvenimenti  che  s'incrociano,  questa  vita  in" cessante  infinitamente  variata  e  multipla,  si  riducono  ad  alcuui  elementi  e  ai loro  rapporti.  Tutto  il  nostro  sforzo  consiste  a  passare...  dal  complesso al  semplice,  dai  fatt  alle  leggi,  dalle  esperienze  alle  formule.  Sinché  non guardiamo  la  natura  che  per  l'osservazione  sola,  noi  non  la  vediamo quale  è  ;  noi  non  abbiamo  di  essa  che  un'idea  provvisoria  e  illusoria. Essa  ù  propriamente  una  tappezzeria  che  noi  non  vediamo  che  dal  rovescio. Ecto  perchè  cerchiamo  di  voltarla.  Noi  ci  sforziamo  di  distinguere  delle leggi..,  noi  scopriamo  delle  coppie  (di  entità  astratte)...  noi  passiamo dall'accidentale  al  necessario,  dal  relativo  all'assoluto,  dall'apparenza  alla verità  ». (1)  Filos.  dei  Greci  II,  I,  pag.  625. -  106  — 3. afci  I  iftj>i     I   iti esatto  di  rinsaldare  il  fenomeno  come  inerente  nella  so- stanza,  che  la  sostanza  come  inerente  nel  fenomeno.  E qui  dunque  il  luogo  di  domandarci  se  8*a  più  giusto  di formulare  il  rapporto  tra  le  Idee  e  le  cose  nel  sistema platonico,  dicendo  che  le  Idee  sono  immanenti  nelle  co- se, 0  dicendo  piuttosto  che  le  cose  sono  immanenti  nelle Idee. Effettivamente  il  rapporto  tra  lo  Idee  e  le  cose,  o, più  generalmente,  tra  il  generale  e  il  particolare,  è  con- cepito da  Platone  dell'una  e  dell'altra  maniera.  Queste due  concezioni  corrispondono  alle  due  formule,  Vuno nei  molti  e  Vuno  è  molti.  Secondo  la  prima,  l'Idra  ge- nerica è  contenuta  nell'Idea  specifica,  e  questa  negl'in- dividui. Secondo  l'altra,  l'Idea  genrrica  è  la  stessa  cosa che  la  totalità  delle  Idre  specifiche,  e  contiene  quinii  le Idee  specifiche;  e  s-milmente  l'Idea  specifica  è  la  6,tessa cosa  che  la  totalità  degl'iudìvidui,  e  contiene  quindi grindividui.  Vi  ha  però  una  differenza  tra  il  rapporto dell'Idea  generale  con  le  Ideo  più  particolari  ad  «  ssa subordinate  e  quello  dell'Idea  con  le  erse;  ed  è  che  nel primo  caso  l'uno  e  i  molti— cioè  Tldea  generale  e  le Ide:^>  particolari  subordinate— sono  riguardati  da  Platone come  due.  aspetti  o  due"  stati  egualmciite  n'ali  che  Tes- sere attraversa  successivamente  neUa  sua  progressiva determinazione;  invece,  quando  Tuno  rappresenta  l'Idea e  i  molti  le  erse,  di  questi  due  appetti  dell'  essere  uno solo,  Vano,  è  riguardato  come  reale,  e  l'altro,  i  molli^  è riguardato  come  una  semplice  apparenza. Questi  rapporti  contrari  di  contenenza  reciproca  tra il  generale  e  i  particolari  non  sono  al  IVndoche  la  dop- pia relazione  che  può  stabilirsi  tra  i  concetti,  secondo che  si  guardano  nella  loro  estensione  o  n»lla  loro  inten- sione: guardati  neir  intensione,  il  particolare  contiene  il generale;  guardati  nell'estensione,  il  generale  contiene  il particolare.  Tuttavia  bisogna  riconoscere  che  queste  due maniere  di  concepire  la  relazione  tra  le  Idee  generali  e  le Idee  psrt'colari  e  tra  le  Idee  e  le  cose  non  sono  perfetta- mente congruenti  :  ciò  non  è  solo  p.^r  la  contraddizione  che vi  ha  a  rappresentarsi  una  cosa  come  parte  di  un'altra,  e  al tempo  stesso  quest'altra  come  parte  della  prima  (secondo la  formula  dell'immanenza  delle  Idee  nelle  cose  e  delle Idee  generiche  nel'e  Idee  specifiche,  l'Idea  sarpbbe  nella cosa  e  l'Idea  generica  nell'Idea  specifica  come  una  parte nel  tutto;  se.'.ondo  la  formula  contraria  invece  le  Specie sarebbero  parti  del  Genere  e  gl'individui  della   Specie); ma  aiicora  perchè  le  due  concezioni  suppongono   in  so- stanza due  concezioni  differenti    dell'Idea.    II    concetto può  considerarsi  a  due  punti  di    vista  differenti  : come rappresentante  l'oggetto,  a  cui  si  riferisce,   considerato d'una  maniera  astratta  e  generale;    e   come   rappresen- tante l'attributo,  per    la   possessione   del    quale  a  que- st'oggetto viene  dato  il  nome  corrispondente  al  concetto. Questi  due  punti  di  vista    corrispondono    al    nome  con- creto e  al  nome  astratto;   p.    e.  animale   ed   animalità. Di  questi  due  aspetti  o,  se  si  ama  meglio,  di  queste  due forme  del  concetto,  qual  è  che   realizza   Platone  ?   è  la rappresentazione  astratta  del  soggetto  aiiimale,  o  quella d'^H'attributo  animalità  ?  L'una  e  l'altra;  e  quantunque  la realizzazione  dell'una  non  sia   perfettamente  identica  a quella  dell'altra,  egli  non  vi  fa  alcuna  differenza.  Infatti egli  chiama  indifferentemente  l'Idea  sia  col   nome   con- creto :  p.    e.   il  grande  (1).  il  piccolo  (2),  il  padrone  (3), (1)  redo  100  b,  VELIA (vedasi) d. l'I  il  servo  (1),  Tuomo  (2),  il  bue  (3);  sia  col  nome  astratto  : p.   e.    la  grandezza (4),  la  piccolezza  (5),  la  padronanza (6),  la  servitù  (7),  ìa  mensaliià  (z^oLTieì^ózYiióazpdizeZoL mensa)  (8).  Evidentement»^,  per  riguardare    Tldea  come contenuta  nelle  cose  e  l'Idea  generica  come  contenuta nelle  liee  specific:he,  Tldea  deve  essere  la   realizzazione dell'attributo,  p.    e.    dell'animalità;  ma   per   riguardare le  Idee  generiche  come  contenenti  le   Idee   specifiche  e queste  come  contenenti  le  cose,    l' Idea   devo   essere  la realizzazione  del  soggetto,  p.   e.  dell'animale,  astratta- mente considerato.  Di  queste  duo  concezioni  dell'Idea  è la  prima  che  prevale,    come    apparisce   da   tutte   le   e- spressioni  del  rapporto  Ira  le  Ideo  e  le  cose  significanti o  implicanti  la  parusia  :  è  che  è  cosi  che  noi    possiamo rappresentarci  della  maniera  possibilmente  più  netta   le Idee  e  la  loro  relazione  con  le  cose  e  tra  di  loro;  per conseguenza  qurl'i  che  rj*gftta)io  la  sepai anione  tra   le IJee  e  le  cose  preferiranìio  sempre  la   formula   dell'im- manenza delle  Idee  nelle  co^^e.    Ma  quando   Platone    si mette  più  specialmente  al  punto  di  vista  della  dialettica, egli  deve  abbandonare   questa    concezione   per    l'altra  ; poiché  è  evidente  che  non  è  p.    e.    la  sostanzialità  (l'at- tributo) che  si  divide  in  corporeità  e  spiritualità,    ma  è la  sostanza  (il  soggetto)  che  si  divide  in  spirito  e  corpo; (1)  Parm,  133  d-e, (2)  FU,  15  a. (3)  Ibid. (4)  redo,  100  e,  101  a,  Parm.  131  e,  d,  132  a. (5)  Fedo.  100  e,  101  a. (6)  Parm.  133  e.   Parm.  133  e. Diog.  Laert.  VI.  53. e  che  non  è  Tanimalità  che  si  divide  in  umanità  e  bru- talità, ma  è  l'animale  che  si  divide  in  uomo  e  bruto.  A questo  punto  di  vista  la  formula  più  giusta  del  rapporto tra  il  generale  e  il  particolare  è  l'immanenza  del  secondo nel  primo,  cioè  delle  Idee  specifiche  nel'c  Idee  generiche conformemente  al  Timeo  39  e,  in  cui  Platone  dice  che r  intelligenza  vede  le  Specie  degli  animali  inesistenti (èvouoag)  nell'Animale  in  gè— e  per  coDseguenza  anche delle  cose  nelle  Idee.  Bisogna  dunque  riconoscere  que- st'oscillazione di  Platone  nel  concepire  l'Idea  :  ma  non si  deve  dimenticare  che  Je  due  co)icezioni  differenti  sono l'una  e  l'altra  esclusive  della  trascendenza  delie  Idee; che  l'Animale  in  se  stesso,  cioè  l'astratto,  non  è  sepa- rato dall'animale  concreto,  ma  è  identico  con  esso,  per- chè Vuno  è  i  molH^  e  i  molti  sono  Vuno-^  e  l'Animalità in  se  stessa  non  è  separata  dall'animalità  che  è  l'attri- buto dell'animale  concreto,  ma  è  questa  stessa  animalità, perchè  Vuno  non  è  fuori  dei  molti,  ma  nei  molti, X,  La  dottrina  della  non  realtà  delle  cose  sensibili  è legata  in  Platone  con  quella  dil  loro  continuo  divenire. Egli  ammette  la  tesi  di  Eraclito,  con  gli  sviluppi  che le  aveano  dato  gli  eraclitizzanti  più  recenti.  Il  presup- posto su  cui  erano  fondate  le  conseguenze  che  questi tiravano  dalla  dottrina  del  maestro  era  che  ciò  che  can- gia di  un  cangiamento  continuo  non  è  mai,  nel  tem- po in  cui  cangia,  in  uno  stato  detcrminato:  essi  ne concludevano  che  delle  cose,  che  sono  in  un  continuo divenire,  non  vi  ha  alcuna  conoscenza  possibile,  poiché niente  potrebbe  dirsi  di  vero  di    ciò    che  non   è    d'una (1)  V.  per  questa  proposizione  Append.  alla  1 .  parte  cap.  1.  §  5, e  parte  2.  Le  antinomie  della  ragione. maniera  determinata.  A  questa  coiiseguenza  della tesi  eraclitiea,  che  Platone  restringe  naturalmente  al sensibile,  egli  ne  aggiunge  un'altra,  cioè  checiòche diviene  non  è,  proposizione  che  senza  dubbio  viene  an- ch'essa dedotta  dal  medesimo  presupposto  (3).  Per  l'e- satta comprensione  del  legame  tra  la  dottrina  del  con- tinuo divenire  delle  cose  o  le  conseguenze  che  gli  Era- cìitizzauti  e  Platone  ne  deducevano,  io  rinvio  perciò  ai luoghi  di  qu'^sto  scritto  sopra  indicati.  La  quistione  che per  ora  c'interessa  è  un'altra,  cioè  :  quando  Platone  op- pone l'Idea  eterna  e  sempre  la  stessa  alle  cose  che  na- scono e  periscono  e  sono  in  un  divenire  continuo,  parla egli,  come  intendono  gì'  interpreti  trascendentalisti,  di due  mondi  separati  e  contrari,  1  uno  sottoposto  a  un perpetuo  cangiamento,  e  l'altro  csentf^  da  qualsiasi  can giamento;  o  di  un  mondo  so'.o,  che  può  consiaevarsi  a  due punti  di  vista  oppo=^ti,  come  in  un  divenire  continuo,  guar- dato in  ciò  che  ej-so  ha  di  fenomenale,  d' individuale,  di contingente,  e  come  immutabile,  guardato  in  ciò  che  ha di  rea^e,  di  generale,  di  necessario? Prima  di  tutto  si  deve  osservare  che  questi  stessi  ca- ratteri di  eternila  (4)  e  d'immutabilità  (5),  attribuiii  allo Idee,  non  si  comprendono  perfeltamente  che  nell'ipotesi dell'immanenza.  Le  Idee  sono  eterne  e  sempre  le  stesse  non  ò (1)  V.  Arì^t.  Mei.  1.  I.  Vl,l,  l.  IV.  V.  12-16,  U  XI.  VI.  612,  1.  XUI. IV.  2.  . (2)  V.  Met.  1.  I.  VI.  1,  1.  XIII.  IV.  2,  IX.  19. (3)  V.  Arist.  Mei.  1.  IV.  V.  12-13. (4)  V.   Fedone  79  d,  Com\  £11  a,  FU,  15  b,  59  a,  Ti»*?.  22  d,  29  a 37  a,  37  c-38  e,  50  e,  51  a,  62  a,  59  e,  ecc. VELIA (vedasi),  Con%\  211  b,  PoUt.  269  d,  FU,  15  b,  59  o,  Fe- do. 78  c-d,  79  a,  d,  e,  80  b,  Tim.  28  a,  29  a,  38  a,  52  a,  ecc. che  la  traduzione  in  linguaggio  reali&ta  di  questo  risultato, dell'ossei  vazione  più  volgare  :  che  nei  cangiamenti  inces- santi che  avvengono  nel  mondo,  le  forme  generiche  e Sfccifiche  d^'gli  esseri  non  cangiano;  che  gl'individui periscono,  ma  le  specie  sono  stabili.  Per  l'eternità  delle Idee,  Platone  esprime  lo  stesso  concetto,  espresso  da  A- ristotile  quando  egli  dice  che  le  forme  non  nascono  né perscono  (1)  :  l'uno  e  l'altro  aTa  dottrina  ai  teriore  dei F.sìci  di  un'origine  e  di  una  fine  del  cosmos  attuale  so- s'iiuiscono  la  dottrina— più  conforme  alla  tendenza  innata del  nostro  h pirite  di  generalizzare,  quanto  più  e  pos- sibile, la  nostra  esperienza— dell'eiernità  dell'ordine  pre- sente del  mondo  (2).  Ma  se  le  Idee  non  sono  le  forme generiche  e  specifiche  degli  esseri,  l'eternila,  di  cui  ven- gono dotate,  e  arbi.raria  come  tutti  gli  altri  caratteri, che  ad  e  se  si  attribuiscono  :  in  effdt^,  il  male  radicale e  incurabile  del  sistema  delle  Idee  trascendenti  è  la  loro assoluta  incapacità  di  esercitare  sulle  cnse  un'efficienza qualsiasi;  sicché  qualunque  ipotesi  secondaria  di  cui venga  circondata  l'ipotesi  della  loro  esistenza,  è,  come questa,  gratuita  e  priva  di  scopo,  la  loro  causalità  re- stando, in  tutti  i  casi,  egualmente  misteriosa. Un'altra  prova  dell'immaTienza  delle    Idee  è  V  argo- (1)  V.  Met.  1.  IX.  X.  4,  l.  VII.  Vili.  1-4,  IX.  7,  XV.  1,  eoo. (2)  Se  non  che  rer  Aristotile  la  l'orma  non  può  considerarci  co- me identica  negl'individui  differenti  che  per  metafora;  per  Platone invece  que^it 'identità  è  reale.  Nel  Parm  135  b,  per  significare  riget- tando la  dottrina  delle  Idee^  dice  :  non  lasciando  che  la  forma  (lòécf.) di  ciascuno  de(;li  esseri  (cioè  di  ciascuna  specie  di  esseri)  sia  sem- pre la  stes&a.  Ciò  prova  che  l'Idea  non  è  che  la  forma  di  ciascuna specie  di  esseri  riguardata  come  sempre  la  stesso,  cioè  come  nume- ricamente identica  in  tutti  gl'individui  che  rivestono  questa  forma. -  109  - mento  per  cai  Platone  dimostra  la  loro  esistenza  dal divenire  continuo  delle  cose.  Conformemente  alla  tesi degli  Eraclitizzanti,  è  impossibile  di  avere  la  conoscenza di  ciò  che  diviene  :  Platone  ne  conclude  che  bisogna ammettere  un  essere  permanente,  che  sia  il  vero  og- getto della  conoscenza  ;  questo  è  l' Idea  (1).  Quest'  ar- gomento che  Aristotile  dà  come  il  vero  motivo  del  si- stema delle  Idee  —  apprezzamento  su  cui  dobbiamo  fare le  nostre  riserve,  perchè  i  sistemi  metafisici,  secondo noi,  non  hanno  per  motivi  dei  sofismi  artificiali  come questo,  ma  i  sofismi  naturali  dello  spirito  umano  (2)  — era  fondato,  come  la   più  parte   degli    altri  argomenti (1)  V.  Met.  l.  I.  VI,  1-2,  1.  XIII.  IV.  2,  IX.  18-20. (2)  Io  credo  anzi  che  si  debba  prendere  al  rovescio  il  rapporto  che Aristotile — in  un'epoca  in  cui  non  potremmo  attenderci  che  lo  spirito umano  avesse  già  acquistato  la  coscienza  delle  sue  tendenze  metafìsiche e  dei  processi  per  cui  esse  si  realizzano — stabilisce  fra  la  tesi  degli  era- clitizzanti e  la  dottrina  delle  Idee.  La  dottrina  delle  Idee  non  è  una  con- seguenza della  tesi  degli  eraclitizzanti,  ma  è  questa  che  è,  in  Platone, una  conseguenza  di  quella.  Io  non  pretendo  che  Platone  ammettesse  U dottrina  del  continuo  divenire  delle  cose  in  conseguenza  della  sua  dot- trina delle  Idee,  perchè  non  vi  ha  tra  le  due  dottrine  una  oonnessione naturale.  Si  deve  dunque  ritenere  che  Platone  adottasse  la  tesi  di  Era- clito—che al  punto  di  vista  moderno  è  l'espressione  esatta  della  verità, che  anche  al  punto  di  vis';a  antico  era  un'  interpretazione  plausibile  dei dati  dell'osservazione — per  dei  motivi  indipendenti  dal  sistema  delle  Idee. Ma  le  conseguenze  esorbitanti,  che  gli  Eracletiszanti  come  Cratilo  dedu- cevano da  questa  tesi,  cioè  l'indeterminatezza  delle  cose,  che  continua- mente divengono,  e  la  loro  inconoscibilità,  non  dovettero  essere  accolte da  Platone,  che  perchè  egli  vi  trovava  delle  prove  per  dimostrare  l'esi- stenza delle  Idee.  Similmente,  quando  Platone  aggiunge,  come  conse- guenza deirindeterminatezza  di  ciò  che  diviene,  che  ciò  che  diviene  non è,  egli  ammette  la  legittimità  di  quest'inferenza,  perchè  vi  vede  una  con- ferma della  dottrina  della  non  realtà  del  sensibile,  ch'egli  ha  dedotta  dal sistema  delle  Idee. deiresistenza  delle  Idee  tirati  dalla  scienza  e  dal  con- cetto, sul  presupposto  che  tra  le  nostre  nozioni  e  i  loro oggetti  deve  esservi  una  conformità  assoluta.  Per  la dottrina  delFindeterminatezza  dì  ciò  che  continuamente diviene,  non  potrebbe  esservi  una  rappresentazione  assolu- tamente conformo,  e  quindi  nemmeno  una  conoscenza, deirindividuUe,  perchè  questa  lo  rappresenterebbe  d'una maniera  determinata,  mentre  ciò  che  diviene  non  è  mai d'una  maniera  determinata. A  questo  noi  obbietteremmo-ed  è  in  effetto  l'obbie- zione che  Aristotile  faceva  alla  tesi  degli  Eraclitizzanti  —che,  per  conoscere  le  cos-»,  non  è  necessario  di  for- marsi una  rappresentazione  esatta,  precisa,  dello  stato o  degli  stati  successivi  in  cui  si  trova  l'individuo,  ma basta  avere  la  conoscenza  della  forma  specifica,  dell'eidos comune  degl'individui;  ora  questa  forma  non  è  attinta dal  divenire,  perchè  i  cangiamenti  dell'individuo,  qua- lunque sia  la  loro  natura,  sono  sempre  contenuti  dentro i  limiti  di  essa,  e  per  conseguenza  la  sui  conoscenza, e  quindi  quella  delh  crs\  è  possibile..  Ma  di  questa maniera  noi  non  faremmo  la  confutaz'one  dell'argomento platonico,  invece  lo  continueremmo  :  in  effetto  Platone soggiungerà  che  l'oggetto  di  questa  conoscenza  dell'sldog comune  degl'individui  non  sono  gl'individui  — la  cono- scenza che  ha  per  oggetto  l'individuo  sarebbe  la  rap- prosentaz'one  esatta  e  completa  dello  stato  in  cui  esso si  trova,  e  questa  si  è  dimostrata  impossibile  ma  è TsISo^  in  se  st?ss'>,  perchè  deve  esservi  una  conformità assoluta  tra  la  nozione  e  il  suo  oggetto,  e  perciò  una nozione  astratta  e  generale,  qual  è  la    conoscenza    del- ti; Met.  1.  IV.  V.  14;  cfr.  1.  XI.  VI.  9, —  110   Vetòo(;  comune,  non  può  riferirsi  che  ad  un  oggetto  e- gualmente  astratto  e  generale.  Ciò  che  prova  che  Tar- gomento  di  Platone  mira  a  dimostrare  un  el5og  che  è Degl'individui,  quantunque  separabili  (xwpvoxóv)  —  nel senso  che  abbiamo  spiegato   da  essi,  e  non  un  dòoz che  è  fuori  di  essi,  è  che  nel  primo  caso  si  attribuisce a  Platone  una  proposizione  incontestabile,  cioè  che  Tog- getto  della  scienza  non  è  ciò  che  vi  ha  nelle  cose  d'in- dividuale, ma  ciò  che  vi  ha  in  e  so  di  generale;  nel  se- condo caso  invece  gli  si  attribuirebbe  questa  proposi- zione stran»,  che  la  scienza  sì  riferisce,  non  al  mondo reale,  ma  ad  un  mondo  fantastico,  posto,  non  si  sa  dove, al  di  fuori  del  mondo  reale.  Forse  V  interprete  trascen- dentalista dirà  che  Platone  non  vuole  dimostrare  quale sia  l'oggetto  a  cui  si  riferisce,  nel  fatto,  la  scienza,  ma quale  sia  quello  a  cui  essa  deve  riferirsi.  E  sia  pure.  Ma si  può  attribuire  a  Piatone  V  idea  che  la  scienza  deve riferirsi  a  un  altro  mondo,  e  non  a  questo  che  ò  il  solo che  cMntercssa  di  conoscere? Passiamo  alle  prove  dirette,  contenute  negli  scritti di  Platone,  che  ci  mostrano  che  l'essere,  T  immutabile, non  è  fuori  del  divenire,  ma  nel  divenire  stesso.  La prima  è  l'attitudine  ambigua  di  Platone  verso  la  tesi eraclitica.  Aristotile  dice  (Mei,  1.  I.  VI.  1)  :  «  Conversato (Platone)  da  giovane  con  Cratilo,  e  familiarizzatosi  con le  opinioni  eraclitee  che  tutti  i  sensibili  continuamente fluiscono  e  non  vi  ha  di  essi  sc'enza,  mantenne  anche  in appresso  le  stesse  opinioni.  »  E  infatti  la  dottrina  del continuo  divenire,  delle  cose  noi  la  troviamo  nel  Fedone 78  e-80  b,  nel  Filelo  59  a-b,  nel  Sofista  246  b-c,  nTimeo  2y  a,  52  a,  ecc.  Ma  intanto  vi  hanno  altri  luo- ghi in  cui  Platone  si  mostra  avversario  risoluto  di  questa dottrina.  È  ciò  che  fa  specialmente  nel  Teeieto.  In  questo dialogo  la  presenta  come  conducente  logicamente  alla  tesi di  Protagora  che  le  cose  non  hanno  in  se  stesse  una natura  determinata,  ma  sono  quello  che  sembrano  a ciascuno  (152-157,  160  d,  ecc.),  ciò  che  deve  riguardar- sene come  una  sorta  di  confutazione  per  l'assurdo  (1); e  la  combatte  apertamente  a  179  d-183  e,  luogo  di  cui basterà  di  citrreil  tratto  seguente,  che  è  il  più  impor- tante :  «  SocR.  ;  Tutto  si  muove,  voi  dite,  tutto  fluiscp. Non  è  così  ?  —  Teodoro  :  Si  —  Socr.  :  Senza  dubbio  del doppio  movimento  che  noi  abbiamo   dìst'nto,    di    trasla- (1)  Alcuni  vedono  nel  Teeteto  una  testimonianza  storica  sul  rap- porto tra  Protagora  ed  Eraclito,  e  ammettono,  fondandosi  su  di essa,  che  la  tesi  di  Protagora  deriva  realmente  dalla  dottrina  era- clitica del  divenire.  Ma  che  il  legame  tra  le  due  dottrine  sia  una semplice  speculazione  di  Platone,  è  ciò  che  egli  stesso  confessa chiaramente,  quando  dice  che  espone,  non  ciò  che  Protagora  e  i suoi  partigiani  dicono  apertamente,  ma  il  loro  secreto  (152  c-d» 155  d-e,  156  a).  D'altronde  che  la  deduzione  del  Teeteto  non  abbia alcun  valore  storico,  risulta  sufficientemente  dalla  mancanza  di  una connessione  naturala  tra  le  due  dottrine,  poiché  è  evidente  che  la tesi  di  Protagora  è  dedotta  dal  valore  puramente  subbiettivo  delle sensazioni,  e  questo  dalla  loro  relatività;  ora  non  vi  ha  alcun  rap- porto logico  tra  questi  principii  e  la  dottrina  del  divenire  continuo delle  cose.  Aggiungiamo  che  fra  la  tesi  di  Protagora  e  quella  di Eraclito,  non  solo  non  vi  ha  un  legame  logico,  ma  vi  ha  anzi  una aperta  contraddizione;  perchè  la  prima  distrugge  l'obbiettività  delle cose,  ed  è  incompatibile  con  qualsiasi  sistema  dommatico.  Il  Zel- ler  dice,  è  vero,  che  Protagora  «  ha  incontestabilmente  attribuito alle  cose  un'  esistenza  obbiettiva»  (I.  paite  t.  2.  e.  3.  §  4.  980);  ma quest'affermazione  non  ha  altra  base  che  l'esposizione  del  Teeteto^ poiché  Sesto  Empirico  (Pìjrrh.)  che  è  1'  altra  autorità  su cui  si  appoggia  Zeller,  non  è  un  testimonio  diretto,  e  si  fonda  an- ch'egli  evidentemfcte  sul  Teeteto.  L'antecedente  storico  della  tesi di  Protagora  deve  cercarsi,  come  ben  nota  il  Lange  (Stor.  del  ma- ter,  t.  I.  n.  31  alla  I  parte),  piuttosto  che  nella  dottrina  di  Eraclito, nell'atomismo  (di  Leucippo),  perchè  questo  era  il  primo  passo  verso la  negazione  assoluta  del  valore  obbiettivo  della  sensazione. -  Ili  — ^^ zione  e  di  alterazione  ?  —  Teod.  :  E  come  do,  se  si  vuole che  tutto  si  muova  perft^ttamente  ?— Sccr.  :  Se  le  cose  can- giassero semplicemente  di  luogo,  e  non  si  alterassero, potremmo  dire  quale  sia  la  natura  di  ciò  che  flui^ce  can- giando di  luogo.  Non  è  vero  ?  — Teod.  :  Certamente  — SocR.  :  Ma  siccome  nemmeno  è  una  cosa  f-tabile  che  ciò che  fluisce  fluisca  bianco,  ma  anche  in  questo  vi  ha  can- giamento, in  modo  che  la  bianchezza  stessa  fluisce  e  si muta  in  un  altro  colore,  affinchè  non  si  sorprenda  in uno  stato  fisso;  è  mai  possibile  di  dare  a  un  colore  un nome,  in  modo  che  questa  denominazione  sia  giusta?  — Teod.  :  Come  sarebbe  ciò  possibile,  o  Socrate,  sia  per il  colore,  sia  per  un'altra  di  tale  cose,  se,  mentre  par- liamo, esse  fuggono,  poiché  fluiscono  continuamente  ?  — SocR.  :  E  che  diremo  delle  sensazioni,  p.  e.  di  quelle della  vista  e  dell'udito  ?  che  esse  permangono  nello  stato di  visione  o  di  audizione  ?— Teod.  :  No,  s'è  vero  che  tutto si  muove— SocR.  :  Non  si  deve  dunque  dire  che  si  vede qualche  cosa  anziché  che  non  si  vede,  né  che  si  ha  qualche altra  sensazione  anziché  che  non  si  ha,  se  tutto  é  assoluta- mente in  movimento— Teod.  :  No,  senza  dubbio— Socr.  : Ora  la  sensazione  é  la  scienza,  abbiamo  detto  io  e  Tce- teto— Teod.  :  Si— Socr.  :  Interrogati  dunque  che  cosa  f«ia la  scienza,  abbiamo  risposto  qualche  cosa  che  non  é  scienza piuttosto  che  non  scienza— Teod.  :  Cosi  p«re  —  Socr.  : Abbiamo  giustificato  la  nostra  risposta  d'una  bella  ma- niera, noi  che  ci  siamo  sforzati  di  mostrare  che  tutto  si muove  per  far  ved'^re  la  giustezza  di  questa  risposta  (1)  : quello  che  sì  é  visto  è,  mi  sembra,  che  se  tutto  si  muove, qualsiasi  risposta,  su  qualunque  c'>sa  si  risponda,  è  egual- mente giusta,  sia  che  si  risponda  che  la  cosa  è  coi-i,  sia che  non  é  co>i,  o,  se  ti  piace  meglio,  che  diviene  cosi,  o che  non  divien'5  cosi,  affinchè  le  nostre  parole  non  attri- bu'scaao  ad  essi  (ai  partigiani  della  dottrina  del  divenire) alcuna  permanenza— Teod.  :  Dici  bene  -Socr.  :  Tranne  in questo,  Teodoro,  che  ho  detto  così  e  non  così  :  queste  pa- role non  devono  essere  usate,  poiché,  essendo  così  o  non così,  le  cose  non  sarebbero  più  in  movimento;  infatti  né così  né  7ion  così  è  movimento.  I  partigiani  di  questo  si- stema dovrebbero  inventare  qualche  altra  parola,  poiché sin  qui  non  hanno  termini  adattati  alla  loro  ipotesi,  tranne forse  quvjsto  :  in  nessun  modo.  Questa  espressione,  ripe- tuta all'infinito,  è  la  più  conveniente  per  essi. È  ev:d(».nte  che  qni  Plotone  non  accoglie,  ma  rigetta come  assurda,  la  tesi  di  Cratilo  che  non  vi  ha  a'cuna proposizione  vera  sulle  cose  ch*^  continuamente  diviu- gono  ;  e  che  egli  la  presenta  come  una  conseguenza inevitabile  della  dottrina  del  continuo  divenire,  per  mo- strare che  questa  conduce  ad  una  conse2:uenza  assurda. Ora  come  conciliare  quest'attitudine  ostile  coi  luoghi  dei suoi  aeriti  in  cui  si  mostra  un  propugnatore  di  questa dottrina,  e  con  la  testimonianza  d'Aristotile  ?  La  cosa  si spiega  perfettamente,  se  si  ammetie  che  l'immutabile  e ciò  che  continuamente  divien'ì  non  sono  per  Platone  due L'argomento  del  Teelelo  è  la  definizione  della  scienza.  Tee- teto,  interrogato  da  Socrate,  risponde  che  la  scienza  è  la  sensa- zione. Qaesta  defi.nizione,  secondo  Socrate,  equivale  all'opinione  di Protagora,  la  quale  alla  sua  volta  equivale  alla  dottrina  di  Era- olito  e  degli  altri  sapienti  del  divenire  continuo  di  tutte  le  cose. Di  là  l'esame  di  questa  dottrina,  allo  scopo  di  confermare  o  d'in- firmare  la  definizione  di  Teeteto. -112- t^mmmmmm mondi  separati  ed  opposti,  ma  un  solo  e  stesso  mondo che  può  considerarsi  a  due  punti  di  vista  opposti  :  co- me in  un  divenire  continuo,  nel  suo  elemento  Apparenti^, individuale,  e  come  immutabile,  nel  suo  elemento  reale, generale.  Quando  si  mette  al  primo  punto  di  vista,  Pla- tone è  un  partigiano  di  Eraclito;  quando  si  mette  al  se- condo punto  di  vista,  è  un  avvcsario  di  Eracli'o,  e  un amico  degli  Eleati  (1)  Se  il  mondo  non  presentflssp»  a Platone  quest'  due  aspetti  opposti,  le  due  attitudini  op- poste verso  la  dottrina  del  divenire  sarebbero  incompr(>n- sibili.  Del  resto,  non  bisogna  credere  che  quando  Pla- tone parla,  nelle  sue  prove  per  dimostrare  l'esistenza  delle Idee,  della  inconoscibilità  dei  sensibili,  che  continuamente divengono,  egli  ammetta  tale  quale  la  tesi  di  Cratilo  che non  può  enunciarsi  di  essi  alcuna  proposiziore  vera:  la inconoscibilità  dei  sensibili  è  una  sott:glie7za  di  cui  Pla- tone si  serve  per  il  comodo  della  tua  argomentazione, ed  essa  non  importa  che  non  possiamo  assegnare  con verità  ad  una  cosa  alcun  attributo,  come  pretendeva Cratilo,  ma  semplii'emente  che  non  è  possibile,  come  ab- biamo spiegato,  alcuna  nozione  adequata  e  completa dell'individue,  che  lo  rappresenti  esattamente  nella  sua fisonomia  individuale  e,  per  dir  cosi,  nel  suo  colorito preciso,  perchè  questa  fisonomia  e  questo  colorito  can- gia continuamente,  e  non  si  trova  mai  perciò  in  uno stato  determinato.  È  questa  rappresentazione  solamente ch'egli  chiamerebbe  una  conoscenza  dell'individuo,  per- chè egli  suppone,  come  abbiamo  detto,  che  tra  la  crno- (1)  Nel  Teeieto,  in  cui  combatte  tutti  i  filogoti  precedenti,  ai quali  tutti  attribuisce  l'opinione  di  Eraclito,  non  parla  in  tono  a- michevole  che  di  Parmenide  e  degli  altri  Eleati  (V.  183  e). scenza  e  il  suo  oggetto  deve  esservi  una  coutbrniità  as- soluta. La  tesi  di  Cratilo  che  non  può  enunciarsi  di  una cosa  alcuna  proposizione  vrra,  sarebbe  in  contraddizione con  la  dottrina  che  le  cose  partecipano  alle  Idee,  perchè che  una  cosa  pariecipa  a  un'Idea  vuol  dire  per  Platone che  della  cosa  può  predicarsi  V  attributo  corrÌ8])ondente all'Idea.  La  presenza  dell'Idea  nel  sensibile  mette  ne- cessariamente un  limite  al  suo  divenire  continuo,  e  alla indeterminatezza  che  ne  è  la  conseguenza  :  le  cose  can- giano continuamente,  ina  questi  cangiamenti  non  oltre- passano mai  i  Miniti  necessari  perchè  esse  abbiano  una essenza  determinata  e  partecipino  ad  attributi  determinati. Noi  abbiamo  già  visto  (num.  IV.)  che,  quantunque  la  de- finizione non  abbia  propriamente  per  oggetto  che  l'Idea, tuttavia  essa  si  applica  agl'individui,  perchè  l'Idea  è  l'es- senza comune  degl'  individui. Secondo  gl'interpreti  trascendentalisti  vi  ha  per  Pla- tone, non  un  mondo  solo,  immutabile  sotto  un  aspetto e  sotto  un  altro  in  continuo  divenire,  ma  due  mondi,  di cui  nell'uno  domina  un'  assoluta  immutabilità  e  nell'al- tro un  divenire  assoluto.  In  questa  interpretazione  Pla- tone ammetterebbe  pcrt'<  ttamente  la  tesi  di  Eraclito,  li- mitandola al  mondo  reale— c'oè  che  noi  chiamiamo  co- si—, e  non  respingerebbe  che  un'applicazione  universale di  questa  tesi  per  cui  essa  si  estenderebbe  anche  al  inondo trascendente  delle  Idee.  Ma  è  incontestabile  che  nel  Tee- tefo  non  è  rigettata  la  tesi  del  divenire  assoluto,  inquanto essa  si  applicherebbe  al  inondo  ideale,  ma  quella  del  di- venire assoluto  nel'o  stesso  mondo  sensibile:  è  questa che  Platone  combatte,  perchè  i  partigiani  della  dottrina del  divenire  non  avevano  parhato  di  altro  mondo  che del  sensibile,  ed  egli  stesso,  nell'esposiz'one  che  fa  di «luesta  dottrina  (152  d-157  bì,  non  ha  evidentemente  in vista  che  il  mondo  sensibile.  Quando  poi  comincia  a  di- -  113 scuterla,    egli    dichiara   (179   d)   chfi   va    ad    esaminano, quest'essenza  sempre  in  movimento  di  cui  sopra  ha  par- lato :  quesVessenzi  sempre  in  movimento  non  può  signi- ficare che  il  mondo  sensibile  concepito  secondo  il  siste- ma di  Eraclito  e  dei  suoi  partigiarji;  e  del  resto  nel  trat- to di  questa  discussione  che  e  stato  citato,  si  vede  chia- ramente che  Platone  non  esamina  quali  siano  le  conse- guenze dell'ipotesi  che  tut^o  Tessere,  vale  a  dire    tanto il  mondo  delle  cose  quando  il  mondo  delle  Ide'^,  sia  sot- toposto al  un  flusso  continuo,  ma  quali  siano  le  conse- guenze dell'ipote-i  che  le  cose— cioè  le  cose  particolari, sensibili— fluiscano  e  si  muovano  continuamente,    tanto di  un  movimento  di  traslav.ioue  quanto  di  un  movimento dì  alterazione perchè  la  tesi  eraclitica  include  necessa- riamente l'uno  e  l'altro  di  questi  due    movimenti— .Ag- giungiamo che  la  limitazione  ciie  la  dottrina  dr-lle  Ide apporta  a  quella  del  divenire  continuo,   non  può  salvare questa,  se  le  Idee  sono  tvasiendentl,  dafle   conseguenze assurde  che  Platone  ne  fa    derivare:    la    presenza    delle Idee  nel  mondo  sarebbe  incompa^iibile   con    l' indetermi- natezza che  la  tesi  di  Prota:zora  e  qu^dla  di  Cratilo   at- tribuiscono alle  cos";  ma  Te^istenz^i  del  li».   Id»-e    trascen- denti sarebbe  perfettamente,  conciliabihi    con    quella    di un  m(»ndo,  in  cui  non  vi  fo  se  che    un    Unire    continuo 8enza  niont-ì  di  lisso  e  di  deterniinal)i!e,  come    [)retende Cratilo,  o  delle  sem[)lici    apparenze   senz'alcuna    realtà, come  pretende  Protagora a  parte  naturalm^ìnte  la  con- traddizione intrinseca  inerontt^  nel  concetto  di  un  mondo simile,  considerato  i)er  se  stesso  — . 1/opposizionc  del  Tecteto  alla  dottrina  del  divenire  è così  evidente,  e  la  contrad  l  zione  che  ne  risulta  ndla filosofìa  platonica  è  cosi  insolnbi'e  nell'interpretazione tradizionali  di  questa  fl  osoila,  che  si  potrebbe  essere tentati  ad  ammettere  che  Platone  non  adottò  la  dottrina del  divenire  che  in  un'epoca  posteriore  a  quella    in  cui scrisse  il  Teeteto.  Ma  la  testimonianza  d'Ar'stotile  (il/e/. 1.  I.  VI.  1,  1.  e  )    ò    troppo   esplicitamente    contraria    a quest'ipotesi:  e  d'altronde  noi  vedianrìo  Piatone,   in  uno stesso  dialogo,  mostrarci  in  un  luogo    un   propugnatore di  questa  dottrina,  e  in  un  altro  un  avversario.  Così  nel Fedone  a  78  e  80  b  oppone  alle  Idee   che   sono    sempre nello  sfesso  stato  le  cose  che  non  sono  mai  nello  stesso stato,  e  a  90  e  esorta  a  guardarsi  dall'opinione  di   quei sedicenti  saggi  che  non  ammettono   che  niente  nò    nelle cose    (twv    TipayiiaTcov)    nò    nelle    r»»gioni    sia   costante, ma  che  tutto  sia  in  un  flusso  e  riflusso   continuo   come l'Euripo,  e  alcuna  cosa  non  resti  7?er  alcun  tempo  nello stes  o  stato;  nel  Ftìebo  4.]  a  parla    con    ironia   evidente della  bontà  della  dottrina  che  tutto  si   muove   continua- mente in  ogni  senso  (si  tratta  dell'applicazione  di    que- sta dottrina  ai  cangiamenti  del  nostro  corpo,  non   della sua  estensione  a    un    mondo    trascendente),  e  a  59  ab nrga  che  possa  darsi    una   scienza    assolutamente    vera delle  cose  sensibili,  perchè  esse  non  sono,  non   furono, e  non  saranno  mai  nello  stesso  stato.  Queste  contraddi- zioni non  hanno  niente  di  stiano,  perchè  corrispondono, come  abbiamo  detto,  ai  due    punti  dì  visti  opposti,    da cui  le  coie,  nel  sistnna  platonico,  possono   considerarsi. Nel  Cratilo,  mostrando  che  una  moltitudine  di   nomi implicano  per  la  loro  etimologia  la  dottrina  del  divenire continuo,  Socrate  dice:  «Si,  per  il  Cane,    io    credo    df non  aver  male  indovinata»,    osservando  poco   fa   che   gli antichissimi  autori  dei  nomi,  come  la  più  parte  dei    sa- pienti dei  nostri  giorni,  a  forza   di    rivolgersi    in    ogni senso  ricercando  la  natura  del'e  cose,   sono    stali    presi da  vertigine;  perciò  è  avvenuto  di  parer  loro  che  le  cose stesse  si  volgono  e  si  muovono  assolutamente.  E  la  cadi  quest'apparenza  essi  non  l'attribuiscono  aUa  maniera -  lU in  cui  sono  interiormente  affetti,  ma  stimano  che  le  cose stesse  abbiano  una  tal  natura  che  niente  vi  sia  in    esse di  stabile  e  di  fermo,  ma  fluiscano  tutte  e  si  muovano,  e  si agitino  in  ogni  senso,  e  sempre  divengano.  Que- ste parole  condannano  rapplicaziono  della  dottrina  del  di- venire al  mondo  stesso  dei  nostri  sensi,  e  non  semplicemente la  sua  estensione  a  un  mondo  iperfisico  :  e  ciò  di  cui  si  vede la  conferma  a  436-437  dove,  per  mostrare  a  Cratilo  che  la conformità  dei  nomi  a  questa  dottrina  non  prova  la  sua  ve- rità, Socrate  gli  fa  vedere  che  molti  nomi  non  vi  si  confor- mano, ma  indicano  invece  la  permanenza;  perchè  questi nomi  indicano  la  permanenza  (supponendo  Tesattezza  delle etimologie  fantastiche  del  Cratilo)  nelle  cose  stesse,  non in  un  mondo  trascendente.  Nel  luogo  citato   non    vi    ha niente  di  più  che  nel   Teeteio  :  ma  sulla  fine  del  diaPlatone  spiega  chiaramente  che,, se  eg'i  rigetta  il   dive- nire assoluto  delle  cose,  è  per  la  presenza,    in    esse,    di un  elemento  immutabile,  cioè  dell'Idea.  «Socii.:  Gli  au- tori dei  nomi  li  hanno  stabiliti    secondo   il   sistema   che tutto  è  in  un  movimento  e  in  un  flusso  continuo  —tale sembra  essere  stata  la  loro  opinione— ma  quest'opinione, se  realmente  essi  l'hanno  avnta,  non  è    vera,    ma    sono caduti    in  un    turbine,  in  cui    sono  stati  presi  da  verti- gine e  in  cui   trascinano  e  precipitano    noi  stess'.  E^a- mina,  o    ammirabile    Cratilo,    ciò    che    io    spesse  volt^ sogno.    Diremo  noi  che  il  bello  stesso  e  il  buono  e  cia- scuno degli  esseri  sono  qualche  cosa?  (si  sa  che  nel  linguaggio platonico  ciò  vuol  dire  :  esiste  l'Idea  del  bello, del  buono,  e  di  ciascun'altra  cosa?)  o  lo  negheremo?   Cratilo  :  Per  me,  o  Socrate,  io  credo  che  sono  (lualche cosa SocR.:  Noi  non  cerchiamo  se  quak-hs  viso  o  qual- che altro  oggetto  di  qu  sta  sorta  è    bello,  e    tutto    ciò sembra  fluire;  ma domandiamo  :  il  bello    stesso  0  i^^a) è  sempre  tale  qual  è?-CR.vr.:  Necessariamente— SocR.: Sarebbe  forse  possibile  di  rettamente  denominarlo,  se  sem- pre  fugge,  e   di   dire  che   esso  è  e  che  è  ta'e  ;  o   sa- rebbe necessario  che,  mentre  noi  parliamo,  esso  divenga subito  un  altro,  e  fugga,  e  non  sia  più  tale?   Crat.  : Sarebbe  necessario- Sorc:  Come  potrebbe   essere   qual- che cosa  ciò  che  non  è  mai  nello  stesso  stato  ?  se  infatti vi  ha  un  tempo  in  cui  è  neMo  stesso  stato,  è  chiaro  che per  quel  tempo  non  vi  ha  in  esso  il  minimo  cangiamento; ma  se  è  sempre  nello  stesso    stato  e   sempre  lo   stesso, come  potrebbe  cangiare  e   muoversi,    poiché  non   lascia mai  la  sua  forma  (ì^sa)  ?-Crat.:  Inniun  modo-SocR.: Inoltre  non  potrebbe  essere  conosciuto  da  alcuno:  poiché mentre  la  potenza  conoscitiva  tenterebbe  di attingerlo, esso  diverrebbe  altro,  in  modo  che   sarebbe   impossibile di  sapere  che  e  come  sia,  e  perciò  non  potrebbe  esservi alcuna  conoscenza  di  ciò  che  non  è  in  alcun  modo  deter- minato Crat.  :  È  come  tu  dici— SocR.:  Ma  nemmeno  si deve  affermare,  o  Cratilo,  che  esiste  la  conoscenza,  se  tutte le  erse  sì  mutano  e  niente  pecmane.  Se  infatti  questo  stesso, la  conoscenza,  non  si  muta  dal  l'esser  conoscenza,  permarrà sempre  la  conoscenza,  e  sarà  conoscenza  :  ma  se  1'  sldog stesso  della  conoscenza  sì  muta,  e  si  cangia  in  un  altro sl5o;  di  conoscenza,  non  sarà  neppure    conoscenza;    se perpetuamente  si  muta,  perpetuamente  non    sarà   conoscenza.  E  secondo  questo  ragionamento  non  vi  sarà  né È  evidente  che  1'  sl5o^  della  conoscenza  di  cui  qui  si  tratta è  la  f^pecie  o  la  forma  stessa  della  conoscenza  reale,  di  questo mondo,  non  un  suo  archetipo  trascendente;  ma  non  lo  è  meno  che quest'  sXÒO^  è  l'Idea,  il    concetto   realizzato,    perchè   tutto    questo luogo  ha  per  iscopo  di  mostrare  che  il  divenire  continuo  delle  cose non  attinge  le  Idee.—  il  conoscente  (yvcooójisvov)  né  il  conoscibile  (rvwoer.oóixsvov)- che  non  vi  sarà,  neiripotr sì  del  divcDire  assoluto,  il  co- noscente,  lo  ha  provato  nel  tratto  ch>,  immediatamente precede;  che  non  vi  sarà  il  conoscibile,    lo    ha    provato sopra,  mostrando  che,  in  quest'ipotesi,   niente   potrebbe essere    conosciuto).  Ma  se  sempre  é    il   conoscente   (t^- Yvwaxov)  0  il couoscibile    (Y'-Yv^avcóiisvov)    e il    bello  e  il buono  e  ciascuno  degli  esseri,  le  cose  che   ora    diciamo non  sembrano  in  niun  modo  sim-li  al  flusso  e  al   movimento.  Che  questo  sia  il  vero  o  quello  che   vogliono i  partigiani  di  Eraclito  e  molti  altri,  non  è  forse    tacile di  decidere;  ma  non  e  di  un  uomo  saggio    sottomettere se  stesso  e  la  sua  aoima  all'impero  delle  parole,    e   ti- dando  in  esse  e  nei  loro  autori,    affermare, come   uno che  sa,  e  avere  di  se  stesso  e  delle  co^e  la  cattiva   opi- nione, che  niente  vi  ha  di  slabile,  ma  tutto  cangia  come raroùlla,  e  credere  che  le  cose  (xà  r.pdYiiaxa)  abbiano  la stessa  disposizione  che  gli  uomini  malati    di   flussione, cioè  che  tutto  (zavxa  y/A\^oLz^)  ^"^  ^«  "  scorrimento  e in  tiu«so  continuo  »  (Lo    parole  TipdY^iaxa    e    XP'^iV-^'^^  e sovratutto  le  parole  sottolineate  cìl  se  sfesso  provano  che  //  brJìo,  iì  buono  e  ciascuno  dcf.U  esseri  «ono  ovidentemente il  Mio  .lesso,  il  buo.o  e  ciascuna  rlenli  esseri,  di  cai  .opra  ha  do- mandato  se  deve  dirsi  o  no  che  sono  qualche  co.a.  vale  a  dire  e Wee  Dunque  il  conoscente  e  il  conoscibile,  che  appartengono  alla .te..a  s.rie,  sono  puro  della  Idee.  Ma  a^xe^io  conosc.nW  ^  conosabUe non  possono  essere  qualche  cosa  di  diverso  dal  conoscnte  e  co n ose. b  le di  cuiè  quistione  nella  proposizione  immediatamente  precedente. Ora  in  questa  proposizione  si  tratta  certamonte  del  conoscente  e eZZZTÌilJio..on^o  reale,  non  di  qu3lli  di  un  mondo trasclndeute.  Notiamo  che  questo  conoscente  è  la  stessa  cosa  ce la  conoscenza  e  l'sldo;  della  conoscenza  di  cui  sopra:  si  .a  inta  ti che  Platone  d.'i  allo  Idee  ora  il  nome  astratto  e  ora  il  nome  concreto. la  dottrina  del  divenire  contìnuo,  che  Platone  respinge, è  quella  del  divenire  continuo  delle  cose  sensibih*). L'immanenza  dell'essere,  cioè  delle  Idee,  nel  dive- nire è  confermata  dal  Sofista  248  e-249  d.  Ma  prima  dì mettere  questo  luogo  sotto  gli  occhi  del  lettore,  occor- rono dello  spiegazioni  sulla  dottrina  dell'  immutabilità dell'  Idea,  che,  quantunque  non  abb'aiio  il  legame  più intimo  con  rargomeiito  del  presente  numero,  pure  non saranno  una  digressione  inutile,  perchè  il  nostro  Fcopo non  è  solo  di  provare  l'immanenza  delle  Idee  platoni- che, ma  anche  di  elucidare,  per  quanto  ci  è  possibile,  la loro  nozione. L'Idea  ò  il  concetto  realizzato,  e  riguardato  come uno  nei  molti.  Così  le  determinazioni  dell'Idea  non  sono che  le  deteniiinazioni  stesse  delle  cose  subordinate  al- l'Idea, cioè  quelle  che  sono  comuni  a  tutti  gì'  indi- vidui della  specie.  Bisogna  dunque,  rappresentarsi  l'I- dea come  un  individuo  astratto,  vale  a  dire  spogliato di  quegli  attributi  cLe  non  sono  comuni  a  tutta  la  spe- cie :  quest'individuo  astratto  à  presente  in  tutti  gì'  indi- vidui concreti,  uno  e  lo  stesso  in  tutt'.  Sarebbe  per  con- seguenza in  contradòizione  con  la  nozione  stessa  del- l'Idea platonica  il  supporre  che  degli  attributi,  che  ap- partengono a  tutti  gl'individui  della  specie,  non  appar- tengano all'Idea,  ovvero  che  eappaitengano  all'Idea  degli attributi  che  non  appartengono  agl'individui  della  specie. Dra  ò  un  attributo  comune  a  tutti  gl'individui  p.  e. della  specie  umana  di  vivere,  di  nascere,  di  morire,  di svilupparsi,  di  pensare,  di  camminare,  ecc.  Bisogna dunque  ammettere  nell'uomo  in  se,  neiridea,  questi  at- tributi e  tutti  gli  altri  simili  denotanti  un  cangiamento, e  quindi  una  successione.  Senza  dubbio  il  cangiamento e  la  successione  che  questi  attributi  denotano  nell'uomo in  se,  devono  distinguersi  da  (quelli    che   essi    denotano  1-4' negli  uomini  individuali  :  in  questi  si  tratta  di  un  can- giamento e  di  una  successione  che  occupano  una  por- zione determinata  di  (juesta  Ferie  che  noi  chiamiamo  il tempo;  invece  il  cangiamento  e  la  sucessione  che  esi- stono neir  uomo  in  se,  non  possono  occupare  una  por- zione determinata  di  questa  serie,  perche  T  esistere  in un  tempo  o  in  un  altro  tempo  determinato  è  un  attri- buto che  compete  a  questo  o  a  quell'altro  individuo  de- termioato,  e  non  all'uomo  coDsiderato  in  astratto,  cioè nel  concetto  comune  (1).  Una  successione  che  non  ha luogo  in  alcun  tempo  detcrminato  non  ò  né  ])iii  né  meno inconcepibile  di  una  grandezza  che  non  ha  alcuna  quan- tità determinata  o  di  un  animale  che  non  è  di  alcuna specie  determinata  :  questa  concezione  non  implica  altre   L'Idea,  come  Platone  dice  nel  Tihico  37  e-38  b,  è  fuori  del tempo,  La  Biia  eternità  non  significa  che  ossa  esiste  per  tutto  il tempo,  perchè,  se  cosUosse,  l'esistenza  per  tutto  il  tempo  sarebbe  un attributo  connina  a  tutti  grindividui.  L'esistenza  per  tutto  il  tempo compete  alla  specie  come  collottività  dv^gl'individui,  ma  l'Idea  non è  la  collettività  degl'individui,  ma  il  loro  concetto  comune,  obl)iet- tivato.  All'Idea  in  se  stessa  non  bi«-:ogna  quindi  attribuire  nò  l'esi- stenza in  un  temi)o  determinato,  perchè  questa  non  compete  che a  un  individuo  determinato;  né  l'esistenza  per  tutto  il  tempo,  per- chè questa  non  compete  che  alla  collettività  degl'individui.  Per concepire  l'Idea  bisogna  dunque  l'are  astrazione  del  tempo— consi- derato come  una  porzione  o  come  la  totalità  della  serio  infinita dei  momenti  succes«.ivi— come  bisogna  tare  astrazione  di  tutte  le  alt  ro determinazioni  che  non  competono  al  concetto  comune.  Cosi  per l'eternità  dell'Idea  bisogna  intendere  semplicemente  ch'essa  r  pre- sente,  una  e  la  stessa,  in  tutti  gl'indi vi«lui,  che  prosi  n(dla  loro  col- lettività occupano  tutto  il  tempo.  Ma  occupare  tutto  il  tempo  è una  proprietà,  non  dell'Idea  in  sé  stessa,  ma  degl'individui  in  cui essa  è  preaentr:  in  altri  termini  non  dell'essere  vero,  ma  delle  sue manifestazioni  fenomenali. impossibihtà  logiche  che  quelle  inerenti  in  generale  alla ralizzazione  degli  astratti.  É  vero  però  che  essa  ha questo  di  speciale,  di  presentare  una  insuperabile  difficoltà verbale.  Si  dirà  che  l'uomo  in  sé  nasce,  muore, cresce,  cammina,  ecc.  ?  Queste  espressioni  sono  impro- prie, perche  esse  suggeriscono  necessariamente  l'idea che  questi  avvenimenti  hanno  luogo  nel  tempo.  Si  dirà invece  che  non  nasce,  non  muore,  non  cresce,  non  cam- mina,  ecc.  ?  L'improprietà  non  sarà  minore,  perchè  ij significato  di  queste  pnrole  esc'udc  che  questi  attributi  : nasccic,  n.orire,  crescere,  camminare,  ecc.  siano  rappre- sentati nel  mondo  ideal^^.  Siamo  in  una  regione  inacces- sibile all'immaginazione,  e  per  conseguenza  anche  al linguaggio,  poiché  un  pensiero  che  può  essere  espresso nettamente  suppone  una  consistenza  logica,  che  cessa nece«siriamant<ì  là  dove  finisce  il  dominio  dcirintuizionsensibile. Quando  Platone  dice  che  l'Idea  ò  sempre  la  stessa (àsi  ;^  %ùz7i)  (1  ),  sempre  uniforme  0iovo£t5sg  àsc  ov— il  bello in  sé  e  ciascun  essere  in  sé)  (2),  sempre  allo  stesso  modo (ist  (oaa'jKoc;)  (.*])  e  nello  stesso  stato  (àsl  xaxà  TaOxa), che  é  immobile  (àst  xaxà  xaOià  sy^ov  àxivr^xo;),  che non  vi  ha  in  rs  a  cangìamrnto  o  al'er,;zione  alcuna  (6), (1)  FU.  15  b,  PorHif'n,  135  h,  Polit,  2m)  d    ro)iV,20H  a-b,  rVrt/.  439 e,  ecc. (2)  Conv,  211  b,  F,'(ìo,ìe  78  d. f3)  /••//.  59  a-c,  Pi,/it.  260  d,  CralAm  e,   Ti,u,  2'^  a,  r.'done  2S  c-d, 79  d,  e,  SO  b,  /»V;>.  479  a,  e,  ecc.  Fi',  59  a-c,  58  a,  ]»o/U. ,  Fedone  78  c-d,  79  a,  80  b,  Tim. 28  a,  29  a,  35  a,  37  b,  52  a,  Fep,  479  a,  e,  500  e,  ecc. Tini,  38  a. Fedone  78  d. —  117  - che  non  nasce  né  perisce  (1),  non  cresce  ne  decresce  (2), non  diviene  più  vecchia  nò  più  giovane,  ecc.  ;  T  in- tenzione dì  queste  e  simili  espressiorii  ò  sia  di  escludere dall'Idea  i  cangiamenti  che  avvengono  nel  tempo,  sia di  affermare  che  l'Idea  si  ritrova,  una  e  sempre  U  stessa, senza  cangiamento  o  differenza  alcuna,  in  tutti  gì'  iadi- vidui  successivi  che  riempiono  il  tempo.  Ma  questa  ma- niera di  esprimersi,  d'altronde  inevitabile,  si  presta  fa- cilmente ad  un'interpretazione  inesatta  dell'Idea  plato- nica, come  una  forma  assolutamente  immobile  e  priva di  qualsiasi  attività;  anzi,  se  dovesse  prendersi  rigoro- samente alla  lettera,  la  giustificherebbe.  Per  dare  forza a  questa  interpretazione,  agli  equivoci  occasionati  dalle espressioni  platoniche,  si  aggiungerebbero  le  fs'genze della  nostra  facoltà  rappresentativa,  poiché  è  evidente che  l'immaginazione  può  rappresentarsi  più  facilmente una  sostanza  immobile  e  inattiva  che  esiste  sempre  la stessa  per  tutta  la  durata  del  tempo,  anziché  un'  entità assolutn mente  astratta,  posta  fuori  dv\  tempo,  e  in  cui vi  ha  del  cangiamento  e  della  siu*c<  s>ioDe,  ma  un  can- giamento e  una  successione  che  non  avvengono  nel  tempo. Questa  interpretazione  delle  Idee  platoniche  ha  avuto effettivamente  luogo.  È  cosi  infatti  che  se  le  rappresenta Aristotile  :  in  un  gran  numero  di  luoghi  egli  cittribuisce ad  esse  l'immobil'tà,  evidentemente  in  un  senso  as- ci) FiL  15  b,  Tim.  52  a,  Couv,  211  a,  Fcdo.ìt:  79  d,  80  b,  7vV^>.  485 b,  527  b,  585  e,  ecc. (2)  ConrUu  21J  a  .  . Tim,  38  a. Mt't.  l.  I.  VI.  3,  l.  I.  VII.  3,  1. 1.  IX.  23,  l.  III.  IL  22,  l.  III.  IV. 4, 1.  VI.  1.  15,  1.  XI.  11.6,1.  Xlf.  1.3,  l.  XIII.  I.  1-2,  1.  XIII.  II.  5. 7,  Top.  ì.  11.  VII.  3,1.  VI.  X.  2,  Phys.  l.  II.  II.  3-4,  PJtli,  Kitd.  1.  I. Vili.  19,  ecc. \ soluto  che  esclude  pure  questo  mutamento  estratempo- raneo  di  cui  sopra  abbiamo  parlato,  e  le  chiama  anche lo  sostanze  immobili  (1);  ed  ò  notevole— è  un'osservazione che  potrà  giovarci  in  seguito— che  esclude  esplicitamente da  esse  ogni  attributo  esprìmente  una  facoltà  di  agire o  di  patire  (TiotyjTtxòv  r\  TiaOyjxixóv)  (2).  Sembra  anche  che questo  fosse,  presso  i  contemporanei,  il  concetto  che vo'garmente  si  aveva  delle  Idee  :  ecco  p.  e.  un  argo- mento, che  Alessandro  d  Afrodisia  dice  impiegato  dai  so- ft t',  per  concludere  il  terzo  uomo  (il  terzo  uomo  era  una obbiez  one  che  i  contemporanei  facevano  al  sistema  delle Idee,  e  che  consisteva  a  dedurre  dai  principii  stessi  di Platone  la  necess'tà  di  ammettere  una  terza  specie  di entità,  distinte  dalle  Idee  e  dagl'  individui)  :  «  Quando diciamo  l'uomo  cammina,  non  lo  diciamo  dell'Idea,  che è  immobile,  né  di  alcuno  dei  singolari,  che  sono  incono- scibili; lo  diciamo  dunque  di  un  terzo  uomo.  Que- sta interpretazione  delle  Idee  ò  evidentemente  incompa- tibile con  le  esigenze  più  indispensabili  del  sistema:  il mondo  ideale,  co^i  concepii o,  rappresenterebbe  una  na- tura, per  dir  così,  morta,  non  la  natura  reale;  l'uomo  in  • 8Ò,  senza  movimento,  s^nza  attivila,  senza  sviluppo,  sa- rebbe, non  la  realizzazione  del  concetto  dell'  uomo,  ma un'immagine  del  cadavere  umano. Nel  Sofista  248  249  Platone  respinge  questa  nozione delle  Idee  che  ne  fa  delle  sostanze  immobili  e  inattive. Lo  straniero  elea*e  (che  è  il  personaggio  che  in  que- sto dialogo  rappresenta  1  concetti  dell'autore),  dopo  aver distinto  du^  classi  di  filosofi,    di    cui    gli    uni    riducono Mi'l.  ì.  XIV.  I.  1,  1.  XIV.  IV.  4,   ecc. Top.  l.  VI.  X.  2. (3)  Ab3X.  Ai)hr.   in  pJtit,  ^j>*.  l.  I,  tutto  il  reale  al  tangibile  e  alla  iDciteria,  mentre  gli  al- tri «  sostengono  che  il  vero  essere  Fono  certe  specie  in- telligibili e  incorporali,  e  i  corpi  di  quelli  e  la  loro  pre- tesa realtà  riducono  in  polvere,  chiamandola,  non  essrre, ma  una  certa  genesi  fluente  »;  propone  questa  defini- zione dell'essere,  che  deve  convenire  tanto  al  corporeo, quanto  allMncorporoo  :  ciò  che  ha  una  facolià  qualsiasi di  agire  o  di  patire.  I  materialisti  non  avranno  difficoltà ad  accettare  questa  definizione;  ma  come  raccoglieranno gli  amici  delle  Specie  ?  Essi  ci  obbietteranno,  dice  lo  stra- niero eleate,  che  «la  facoltà  di  patire  e  di  agire  (xoO:iot- ax£'-v  xat  Tioisiv)  compete  alla  genesi,  ma  all'  essere  non compete  né  l'una  nò  l'altra.  »  L'eleate  combatte  questo concetto,  dimostrando  che  anche  le  Specie  ag'scono  e patiscono,  e  che  sarebbe  un'assurdità  di  credere  ch'esse siano  immobili,  o,  ciò  che  vale  lo  stesso,  di  non  ammettere un'Idea  del  movimento  e  delle  cose  mosse  in  quanto  mosse. Chi  sono  gli  amici  delle  Specie  ?  Alcuni  interpreti  mo- derni credono  che  si  tratti  di  qualcuna  delle  scuole  filo- sofiche contemporanfe  o  anteriori  a  Platone  ;  chi  vede in  essi  gli  Elcati,  chi  i  Pitagorici,  chi  i  Megarici,  chi qualche  altra  scuola  di  socratici  distinta  da  quelle  dì  cui conosciamo  le  dottrine.  Di  tutte  queste  supposizioni  è r  ultima  che  sarebbe  la  più  logica;  perchè  la  teoria delle  Idee,  non  solo  non  si  ha  alcuna  ragione  di  attri- buirla ad  alcuna  di  quelle  scuole  di  cui  si  conoscono  le dottrine,  ma  sarebbe  anzi  assolutamente  incompatibile con  queste  dottrine  che  se  ne  conoscono  Ma  anche  que- sta supposizione  cade  innanzi  alla  testimonianza  d'Ari- stotile, che  dà  Platone  come  l'introduttore  del  sistema del'c  Idee  (1);  obbiezione  insupcrabi'c  che   è   comune  a (I)  V.  Met  1.  I  VI.  1-5,  1.  XIII.  IV,  Eth.  Nicom.  l.  I.  VI,    eco. tutte,  e  alla  quale  bisogna  aggiungerne  un'  altra,    cioè che  la  teoria  delle  Idee,  vale  a  dire  la  realizzazione  dei concetti,  suppone  la  dialettica,  vale a   dire   un   metodo che  produce  la  scienza  a  priori,  deducendo  questi   con- cetti realizzati  gli  uni  dagli  altri,  e  non  possiamo,  attri- buire un  simile  metodo  a  nessuna  delle  scuole  filosofiche anteriori  o  contemporanee  a  Platone.  La  dottrina   delle Idee  essendo  csclusivaniontc   platonica,  gli   amici   delle Spece  non  possono   essere  altri,    per  conseguenza,  che Platone  e  i  suoi.  Noi  abbiamo  visto  che  correva  un'ine- satta interpretazione  del  sistema  delle  Idee,  secondo  cui queste  si  concepivano  come   delle   sostanze  immobili   e prive  di  qual^iasi  facoltà  di  agire  e  di  patire.  Il  Sofista, attribuendo  questa  concezione  agli  amici  delle  Specie,  ci prova  che  queòt'interpretazione   trovava    anche    credito nella  scuola  platonica.  Tuttavia  noi  non  dobbiamo  am- mettere che  Platone,  combattendo  nel  Sofista  l'immobi- lità delle  Idee  e  la  mancanza  in   (sse   della   facoltà   di agire  e  di  patire,  intenda  solamente   respingere   quesfalsa  interpretazione  della  sua   dottrina  :    se   cosi   fosse, non  si  comprenderebbe  come  egli  polesine  attribuire  que- sta falsa  concezione  delle  Idee  agli  amici  delle  Specie  in generale.  Senza  dubbio,  il  su(»  intendimento  finale  é  di rigettare  la  falsa  interpretazione  che  veniva  data  ai  suoi concetti;  ma  subordinatamente  a  questo, ne   ha    anche un  altro,  ciiè  di  condannare  quelle  espiessioni    di    que- sti concetti,  che  noi  troviamo   nei    suoi    scritti  o   di  cui aveva  fatto  uso  nel  suo   insegnamento   orale,    le   quali avevano  dato  luogo  a  questa  falsa  interpretazione,  e  an- che, come  abbiamo  detto,  se  dovessero  prendersi    in  un senso    sirettameut(5   letterale,    la  giustificherebbero.    Le proposizioni  che  egli  condanna  (che  le  Idee  sono  immo- bili e  sempre  nello  stesso  stato,  che  non  hanno  la  facoldi  agire  e  di  patire,  che  l'essere   vero   non   vive,    non pensa,  non  si  muove,  ecc.)  possono  prendersi  in  due sensi  :  come  delle  espressioni  improprie  del  concetto  che le  Idee  non  sono  soggette  ai  cangiamenti  mi  tempo,  e in  questo  senso  appartengono  o  potrebbero  apparcenero a  Platone  stesso;  e  come  Talfermaziono  che  le  Idee  non sono  soggette  assolutamente  ad  alcun  cangiamento  (ci<»ò né  temporaneo  nò  estratemporanco),  e  in  qm  sto  senso non  potrebbero  appartenere  che  ad  alcuni  d^'gli  amici delle  Idee,  perche  certamente  Platone  stesso  non  ha  mai potuto  pensare  cosi.  Platone  coudanna  queste  proposizio- ni, tanto  se  si  considerino  come  semplici  improprieià  di  lin- guaggio, quanto  se  si  con=JÌdcrÌQO  come  afTermazioni  di  un concetto  erroneo;  ed  è  perciò  che  può  attribuire  le  propo- sizioni condannate  agli  amici  delle  Idee  in  genera'e  (1). Premesso  ciò,  veniamo  ora  al  luogo  d^l  Sofista  che ci  ha  portati  a  questa  dlsgressione.  Esso  fa  parte  della discussione  contro  le  Idee  immobili,  ed  è  il  seguente  : «  Straniero  elbate  :  Ma  che  ?  per  Giove  !  crederemo veramente  che  il  movimento,  la  vita,  l'anima,  V  intelli- (1)  Tanto  è  vero  che  Platone  condanna,  nei  parlif;iani  deU' i- nattivilà  o  impassibilità  delle  Idee,  le  sue  proprie  osprassioni  che hanno  dato  luogo  a  una  falsa  interpretazione  della  sua  dottrina* che,  per  indicare  gli  stessi  filosofi,  egli  si  serve  pure  delle  parole: «  quelli  che  dicono  che  gli  esseri  quanto  alle  Idee  sono  sempre nello  stesso  stato  e  allo  stesso  modo  Cxaià  TaOià  tbaa'JKO^)  », riguardando  indubbiamente  queste  determinazioni  come  equivalenti a  quella  dell'  immobilità  (252  a).  Le  espressioni  essere  sempre xaxGC  xa'jxa  e  tboa'Ji03c;,  applicate  alle  Idee,  s'incontrano  ad  ogni momento  nei  dialoghi  platonici— Questa  contraddizione  tra  il  So- fista che  afferma  il  movimento  e  l'azione  delle  Idee,  e  gli  altri dialoghi  che  li  negano  contraddizione,  badiamo,  meramente  ver- sele—spiega  l'indicazione  di  Diogeno  Laerzio,  che  Platone  applica alle  Idee  dei  termini  contrari,  chiamandole  non  mohUi  o  )ion  in quiete  (Diog,  Laort.  III.  64). g^enza  smio  assenti  da  quello  che  realmente  è  (TcavxsXwG 6v),  e  che  esso  ne  vive  né  pensa,  ma  se  ne  sta  immobile, senza  possedere  l'au  rus^a  e  santa  iotelligcnza?— TeetetSare])bc,  o  ospite,  concedere  una  proposizione  troppo strana-STUAN.  :  Ma  diremo  che  prssede  rintelligenza, e  non  la  vira  ?-Teet.:  E  cerne  dirlo  !— Stran.  :  Ma  ac- cordandogli runa  e  l'altra,  negheremo  ch'egli  Jc  abbia neiranima?-TEET  :  E  in  (lual  altra  pearte  potrebbe  a- verle?-STRAN.:  Ma  si  può  ammettere  che  a»>bia  l'intel- ligenza, la  vita  e  l'anima,  ma  che  essendo  animato  sia noiidiiupno  immobile  ?-Tebn.:  Tutto  ciò  mi  sembra  assur- do (I)-Stran.  :  Bisogna  dunque  ammett-re  che  il  moFso e  il  movimento  sono—TcET.:  K  come  no?— Stran.:  Da ciò  risulta,  o  Treteto,  che  se  gli  esseri  fossero  immobili, in  nessuno,  su  nessuno  oggetto  e  in  nessun  luogo  po- trebbe   esservi    intelligenza Tbet.:   Evidentemente (V  Questo  non  vuol  dire,  come  intendono  alcuni,  che  si  dove attribuire  l'intelligenza,  la  vita,  l'anima  e  il  movimento  alle  Idee in  generale— perchè  l'Idea  d'una  cosa  non  può  avere  che  gli  at- tributi stessi  che  faniio  parte  del  concetto  di  questa  cosa— ma  solo a  quelle  di  cui  può  essere  quistione  se  l'abbiano  o  no,  vale  a  dire alle  Ideo  dagli  esseri  intelligenti,  animati,  viventi  o  mobili—  Sin qui  Platone  parla  evidentemente  del  movimanto,  della  vita,  dell'a- nima e  dell'intelligenza  nelle  Idee,  vale  a  dire,  idoali. L'intelligenza  e,  per  conseguenza,  anche  il  movimento,  di oui  si  parla  qui,  sono  l'intelligenza  eil  movimento  reali,  cioè  nelle cose,  e  non  più  come  sopra,  l'intelligenza  e  il  movimento  ideali, cioè  nell»  Idee  :  questo  diverrà  più  chiaro  dal  seguito.  Intanto  ciò che  risulta  dal  ragionamento  precedente  ò,  non  che  l'intelligenza reale  «juppone  il  movimanto  reale,  ma  che  l'intelligenza  ideale -cappone  il  movimento  ideale.  Per  consegusnza  Platone,  conside- rando la  prima  di  qu  wt  e  due  pL-oposizioni  coma  il  risultalo  del ragionamento  i>rec3dv):ite,  la  riguarda  coma  equivalente  alla  se- conda; ciò  che  egli  non  poti-ebbj  fare,  se  il  movimento  e  l'intel- ligenza ideali  tessero  par  lui  separati  dall'intelligenza  o  dal  mo- vimento reali,  e  non  invece  identici  con  essi.  Stran.:  Ma  se  ammettessimo  che  tutto  ò  in  movimento e  in  agitazione,  anche  coi  qae^ta  proposizione  leverem- mo l'intelligeaza  dagli  esperi— Test.  :  Come  ?-Stra.n.  : Pare  a  te  che  senza  il  riposo  possa  mai  esistere  ciò  che è  nello  stesso  stato,  della  stessa  maniera  e  nello  stesso rapporto  ?   Teet.  :  Giammai 3tran.  :  E  senza  di  ciò credi  tu  che  vi  sia  o  vi  sia  stata  m^i  in  «pialche  luogo intelligenza  V  Teet.  :  No  Stran.  .  Ma  si  deve  com- battere con  tutte  le  ragioni  quello  che,  distruggendo  la scienza,  il  pensiero  e  rintelligenza,  affermi  checchesia su  qualche  cosa   Teet.  :  ti  combatterlo  con  forza  Stran.  :  E  dunque  necessario  che  il  filosofo  e  quegli che  tiene  in  pregio  queste  cose  né  approvi  quelli  che dicono  il  tutto  immobile,  sia  come  uno  (gli  Eleati)  sia come  molte  Specie,  nò  dia  ascolto  a  qu'*lli  che  mettono l'essere  in  un  movimento  universale  (gli  Eraclitici),  ma voglia,  imitando  i  fanciulli  nei  loro  desiderii,  che  l'es- sere (il  mondo  ideale)  e  il  tutto  comprendano  tanto  le co«e  immobili  quanto  quelle  che  sono  in  movimento  » (248  e-249  d). Questo  luogo  non  esclude  solamente  1" immobilità  as- soluta delle  idee,  ma,  come  il  luogo  citato  del  Teefefo e  quelli  degli  altri  dialoghi  che  hanno  la  stessa  portata, esclude  anche  il  divenire  assoluto  delle  cose  sensibili. Di  più,  esso  esprime  nettamente  il  concetto  dell'imma- nenza delle  Idee  nel  divenire.  Noi  abbiamo  g  à  notato che  il  movimento  e  l'intelligenza  ideali  vengono  riguar- dati come  equivalenti  al  movimento  e  all'  intelligenza reali.  Notiamo  ancora  l'identificazione  tra  il  mondo  idea'e e  il  tutto  contenuta  nelle  parole  sugli  amici  delle  Idee  : «  quelli  che  dicono  il  tutto,  come  molto  Specie,  immo- bile»; e  aggiungiamo  infine  che  la  stessa  identificazione ha  luogo  a  252  a,  dove  è  detto  di  essi  :  «  quelli  che  di- cono che  gli  esseri,  secondo  le  Idee  (xax'sidrj)  sono  sempre  nello  stesso  stato  e  ('ella  stessa  miniera  ».  Platone non  potrebbe  esprimersi  cosi,  se  per  gli  amici  delle  Spe- cie~vale  a  dire  per  lui  e  pei  suoi -il  mondo  immu  abile delle  Idee  e  quel'o  continuamente  cangiante  delle  cose fossero  due  mondi  separati,  anziché,  come  abbiamo  detto, due  aspe  ti  d'un  solo  e  sesso  mondo,  che  nel  suo  aspetto vero,  cioè  come  un  complesso  d'Idee,  è  immutabile— con le  restrizioni,  por  Plafone,  che  sopra  abbiamo  fatte-e nel  suo  aspetto  apparente,  ciré  come  un  complesso  d'in- dividui, è  sottoposto  a  un  cangiamento  continuo. II. Noi  abbirmo  percorso  le  prove  più  importanti  della immanenza  drlle  Idee  platoniche  :  ma  la  nostra  dimostra- zione sarebbe  incompleta,  se  non  esaminassimo  pure  le ragioni  dell'  interpretazione  contraria.  Queste  possono  rì- dur-ii  alle  seguenti  : I.  Il  motivo  principale  dell' int  rpre'azìoiie  trascen- dentalista è  nella  natura  stessa  del  sistema  delle  Idre. Quando  Platone  chiama  l'Idea  xó  ov,  oOaia,  aOxò  xaO-'auxó, Xctìpoaxóv,  ecc.;  in  una  paro'a  quando  mo^ra  chiaramente ch'egli  fa  delle  Idee  altrettante  ipostasi,  cioè  che  le  ri- guarda come  sostanze,  di  cui  ve  ne  ha  una,  e  una  sola, per  tutti  gli  oggetti  che  si  raccolgono  sotto  un  nom'*.  ge- nerale; l'interprete  trascendentalista  ne  conclude  imme- diatam^.nte  che  le  Idee  per  Platone  srno  separate  dalle cos-^».  Que.ta  conclusione  è  fondata  sopra  un  principio perfettame  ite  g'usto,  c^oè  che  uaa  sostanza  non  può ess'ìre  al  toni  pò  stessi  iv\  attributo,  e  non  può,  se  essa è  unca,  inerire  simultaneamente  in  una  moltitudine  di Fo .sgotti.  Ma  la  dottrina  di  Platone  consisre  precisamen- te in  qtiesto,  che  gli  attributi  generali  delle  cose  sono elevati  al  grado  di  sostanze,  senza  cessare  perciò  d'ine-  7^f^^- rlre  Delle  cose  come  loro  attributi,  e  che  ciascuna  d/ queste  sostanze  è  riguardata  come  Tuno  nei  molti,  cioè come  presente  al  tempo  stesso,  una  numericamente  eia stessa,  in  tutti  i  soggetti  a  cui  V  attiibuto  è  comune- Senza  dubbio  questa  dottrina  è  inconcepibile  e  contrada dittoria  :  de\U  ipostasi  come  le  Idee  platonich  %  noi  lo abbiamo  più  volte  confessato,  non  potrebbero  c•oncepi^^i, per  quanto  la  loro  concezione  è  possibile,  che  come  se- parate dalle  erse.  Altre  inconcepibilità  noi  trov'amo  noi sistema  delTimmanenza,  se  dalla  formula  Vuno  nei  molti passiamo  a'ia  formula  runo  émolii:  è  un  non  senso  di affermare,  come  f-i  Platone  e  come  è  una  cons»»gucnza necessaria  della  realizzazione  degli  astratti,  che  il  più astratto  e  il  più  concreto,  il  Genere  e  le  Specie,  sono al  temjo  stesso  diflFerenti  ed  identici;  nò  rmconcepibilità è  evitata  perchè  l'uno  e  i  molti  si  riguardano  com»^  duo stati  sufcf*ssivi  n  Ho  sviluppo  deiressen^  (anteriorità  e e  posteriorità);  perciò  la  t-uccessìone  dovrebbe  essere cronologica  e  non  logica  soltanto.  L'interpretnz'one  tra- scendent «lista  ha  dunque  il  vantaggio,  bisogna  ricono- scerlo, di  evitare  una  gran  parte  delle  inco-copib'lità inerenti  al  sistema  del'e  Idee:  ciò  spiega  la  prevalenza di  quost*ÌQterpretazioae,  se  si  riflette  alle  d  ftì  -oltà  di  un esame  accurato  dei  testi  e  di  una  su'fi^iento  intelli- genza dei  mo;ivi  del  sistema. Ma  vediamo  ora  gì'  inconvenienti,  per  dir  cosi,  intrin- seci della  trascendenza  delle  Idee.  Prima  di  tutt^,  quan- tunque elevare  le  astrazioni  al  grado  di  reahà  esintonti per  se  stesse  sia  in  tutti  i  casi  un'  impos>ib  lità  man4esta, è  tuttavia  una  conseguenza  necessaria  del  e  leggi  della credenza  che  di  queste  due  ipotesi,  l'una  che  ammette che  queste  astrazioni  siano  parti  integranti  delle  cose concrete,  e  l'altra  che  ne  fa  delle  ipostasi  solitarie  col- locate al  di  fuori  delle  cose  concrete,  è  la  seconda  che ci  sembra  più  strana  e  p'ù  evidentemente  impossibile. La  rag'ono  è  ovvia  :  è  che  ossa  è  in  una  opposizione  più aperta  con  le  nostre  abitudini  mentali  :  la  prima  ipotesi si  conforma  a  queste  abitudini  in  due  punti  importanti, cioè  non  ammettendo  altri  esperi  che  gli  esseri  concreti, quantunque  questi  siano  da  os^a  decomposti  in  elementi astratt',  e  facendo  dell'astratto,  non  unVntiià  isolata,  ma un  che  d' inesist  mte  nel  concreto  stesso.  Ma  V  inconve- niente-più grava  dell' interpretazione  trascendentalista  è che  r  ipotesi  delle  Idee  diviene  in  qu'^st'  interpretazione senza  motivo  e  senza  scopo.  Lo  scopo  di  un'  ipot  »si  qua- lunque, legittima  o  illegittima,  è  di  spiegare  i  fenomeni  : ma  l'ipofisi  delle  Idee  trascendenti  non  fa  niente  per  la spiegazione^  dei  fenomeni,  perchè  non  vi  ha  tra  le  Idee e  le  cose  ahuna  relaz'oae  immaginabile  di  causa  e  di effetto.  La  capacità  delle  l'iee  a  produrre  le  cose  o  i  loro fenomeni  non  è  uè  una  verità  o  pretesi  verità  evidente per  se  stossa,  come  deve  ossero  pertanto  una  connessione causale  propria  a  fornire  una  spiegaz'one  metafisica— poiché  nessuno  pretenderà  che  vi  ha  tra  l'esistenza  delle Id^e  e  resistenza  delle  cose  una  di  quelle  connessioni visibili  a  priori,  in  cui  i  metafisici  fanno  consistere  la efficenza  causale—;  e  non  è  nemnneno  un'induzione  del- l'esperienza, perchè  l'esperienza  non  ci  mostra  alcun  caso, in  cui  doi  raode'li,  quaU  gl'interpreti  trascendentalisti  si rappresentano  le  Idee,  producono  le  loro  cjpie.  Non  vi ha  intanto  alcun'ipotesi  possibile— vale  a  dire  «Icun'ipo- tesi  che  lo  spiriti  umano  possa  ammettere,  vera  o  falsa, probabile  o  improbablH— che  non  si  conformi  a  questa condiziono,  cioè  la  capacità  conosciuta  della  causa  sup- posta a  produrre  l'effetto,  sia  che  questa  capacità  si  am' metta  come  una  verità  a  priori,  sia  che  si  ammetta  come un  risultato  della  esperienza.  Le  Idee  trascendenti  non hanno  dunque  alcuu'attitudine  a   spiegare    le   cose  :    è questo  del  resto  un  fat^o  evidente  di  cui  convengono  ^li stessi  interpreti  trascendentalisti.  (1).  Tuttavia  Tinterpre- te  trasceud-ntali  ta  potrà    diro    che   questa   inettitudine alla  spiegazione  d<^i  fenomeni  è  anche  comune  «Ile   Idee immanenti.  Senza  dubbio,  la  presenza   dello    Ideo  nelle cose  sp'ega,  come  abbiamo  altra  volta  osservata,  porr  he le  cose  possiedonì  gli  attributi  corrispondenti  nlle  Lioe, e  lo  spiega  nel  senso  metafisico  della  parola  spi»'gaz?one, cioè  in  quanto  vi  ha  tra  la  presenza  d^'Il 'Idei  e°Ia  pos- sessione  dell'attributo  una  connessione   necessaria  e  vi- sibile a  priori.  Ma    qu  sta    è,    come    abbiamo    osservato nel  cap.  VII,  una  di  quelle  spiegazioni  Apparenti  o  illu- sorie che  consistono  a  ripetere  in  altri    termini    il    fatto stesso  che  sì  tratta  di  spiegare;  e  quan  ramhe  non  fo  se tale,  siccome  la  possessione  dell'attributo  è  un  fntto   in- telligibile e  la  presenza  dell'Idea  un  fatto  as-olut/im-nte IninteMigibile,  cosi  non  vi  avrebbe  alcun  profitto  a  intro- durre l'ipoteni    delle   Idee,    porche   non   si    farebbe    che spiegare  il  chiaro  per  l'oscuro.  Sembra  dunque,  a  que- sto punto  di  vista,  vale  a  dire  coDs^derando  le  Idee  co- me cause  e  le  cose  come  effetti,  che  le  Idee   immanciui Questa  evidente  inefficacia  delle  Idee  neU' interpretazione trascendentalista,  qunl  è  ammessa  dalla  più  parte  dai  critici  mo- derni, vale  a  dire  quella  ohe  fa  delle  Idee  altrettante  sostanze  se. parate,  è  il  fondamento  precipuo  dell'  interpretazione  teistica,  cioè di  quell'altra  forma  dell'interpretazione  trascendentalista  che  vede nelle  Idee  i  pensieri  dell'  intelligenza  creatrice.  Quest'interpretazione dà  almeno  al  sistema  delle  Idee  un  motivo,  e  un  motivo  assai  facile  a comprendere:  se  non  che  essa  è  interamente  arbitraria.  L'inter- pretazione che  fa  dalle  Ide3  delle  sostanze  separate  da  Dio  e  dalle cose  è  anch'  essa  in  contraddizione  coi  testi,  ma  non  lo  è  d'una maniera  cosi  evidente,  oltre  che  può  appoggiarsi,  almeno  sino  ad un  certo  punto,  suU'  autorità  d'  Aristotile. non  siano  pù  che  le  Idee  trascendenti  capaci  di  fornire una  spiegazione  della  natura:  ma  per  comprendere  la vera  causalità  delb  Idee  e  come  esse  diano  una  spiega- zione della  natura,  noi  dobbiamo  metterci  a  un  altro punto  di  vi.ta.  e   da  questo  vedremo  che   lo   scopo    del sistema  delle  Idee  suppone  come    condizione   necessaria la  loro  immanenza. Il  sistema  delle  Idee  è  un  realismo  dialettico, vale a  dire  esso  ammette,  come  un    complemento    necessario della  realizzazione  dei  concetti,  un  metodo  per  iscoprirc a  priori  questi  co  icetti  realizziti,    deducendoli    proores- sivamente  gli  uni  d«gli  altri,  allo  scopo  di  identifìcrre  il rapporto  logico  Ira  il  prìiicip'o  e  la  conseguenza  in  qusta   deduzione    al    rapporto    ontologico  tra  la    causa  e l%ffi4^o.  Piat-ne  ha  dunque  realizzato  i  concetti,    affla- che  rincatenameuto  logico,  ch'egli  stabili.>ce  fra  di  essi, possa  av.  re  l'aria  di  un  incatenamcnto  caus»le.   Infatti se  il  principio  e  la    conseguenza  fossero    delle    semplici nozioni  e  noi  delle  nozioni  realizzate,  il  principio    non potrebbe  considerarsi  come    la  causa  e   la    consegupnza come  l'efifetto,  la  causa  e  refifetto  essendo  delle   cose   o dei  fa^ti  reali  e  realmente  distinti,  e  non  d»^lle   semplici astrazioni  montali.  Ma  il  principio  e  la  conseguenza  essendo delie  (  iitità  reali,  avviene   che  la    loro    sequenza logica  somiglia  a  una  sequenza    causale,    poiché    V  esi- stenza dell'entità  principio  trascina   necessariamente    la esiv,tenza  dell'entità  conseguenza,  questa    esìste    perchè esisto  quella.  I)  principio  e  la  conseguenza  essendo,  non delle  semplici  proposizioni  general?,  ma  le  verità  obbiet- tive corrisponienti  a  qu  ste  proposizioni,  ne  risulta  che il  pr.ncipi^)  non  é  sempliceote  una  premessa    per  dimo- strare la  cons'^guenza,  ma  é   la   condizione   reale   dalla cui  esistenza  dip^^nde  resistenza   della   conseguenza  :  in una  parola  il  principio  non  è   semplicemente   il    princi-   s '^l 'il' iptum  cognoscendi,  ma  é  anche  il  principiutn  essendu Qaest'lncateaamonto  causale  tra  le  nozioni  realizzate  è una  causazione  efficiente,  perchè  il  h»gam  5  tra  la  causa e  Tefifetto  (cioè  tra  il  principio  e  la  conseguenza)  è  ne cessario  e  visibile  a  priori.  Cosi  lo  scopo  dell'ipotesi  delle Idee  é  d'introdurre  nella  natura  una  causalità,  che  sia, non  un  semplice  rapporto  di  sequenza  invariabile,  ma una  causalità  efficiente,  cioè  tale  che  tra  la  causa  e  l 'ef- fetto esista  un  legame  intrinsecamente  evidente  e  ne- cessario. Ecco  perciò  come  lo  scopo  dell'ipotesi  delle  Idee  sap- pone necessariamente  la  loro  immanenza.  Se  le  Idee  sono gli  elementi  costitutivi  delle  cose,  il  loro  incatenamento logico  sarà  lo  sviluppo  reale  delle  cose,  il  modo  in  cui le  cose  si  producono;  e  la  dialettica,  cioè  la  deduzione delle  Idee,  sarà  la  spiegazione  della  natura.  Ma  se  le Idee  sono  fuori  delle  cose,  la  filiazione  delle  Idee  non sarà  più  la  produzione,  l'incatenamento  causale,  delle cose  stesse;  e  la  dialettica  non  sarà  più  una  spiegazione della  natura,  poiché  essa  avrà  per  oggetto,  non  il  mondo reale,  ma  un  altro  mondo,  che  non  ha  sul  mondo  reale alcun'influenza  immaginabile.  Aggiungiamo  ch^,  nella ipotesi  della  trascendenza,  la  stessa  filiazione  logica delle  Idee  sarebbe  impossibile,  perchè  questa  suppone l'identità  (e  non  semplicem-^nte  la  differenzi)  t  a  l'Idea da  cui  altre  Idee  si  deducono,  e  queste  altre  Idee  che se  ne  deducono.  In  effetto,  le  conseguenze  sono  le  con- seguenze del  principio,  perchè  sono  contenuto  implicita- mente nel  principio,  vale  a  dire  perchè  il  principio  è  le conseguenze  stesse  allo  stato  implicito.  Senza  quest'iden- tità tra  il  principio  e  le  conseguenze  (cioè  tra  le  verità obbiettive  che  corrispondono  ale  proposizioni  che  si  chia- mano, al  punto  di  vista  ordinario,  principio  e  conse- guenze) non  vi  sarebbe  dedazione  possibile.  Nella    dia- letttfca  platonica  il  principio  è  l' Idea  generica,  e  le conseguenze  sono  le  Idee  specifiche:  cosi  questa  dialet- tica suppone  che  tra  Tldea  generica  e  le  Idee  specifiche vi  sia  identità,  e  non  semplicemente  differenza;  in  altri termini  suppone  che  Vuno  sia  molti  e  t  molti  siano  uno. Ora  nell'ipotesi  dell'immanenza,  in  cui  le  Idee  generiche e  le  Idee  specifiche  sono  i  generi  stess'  e  le  specie  delle cose  (quantunque  considerati  in  a  tratto,  l'Idea  generè  necessariamente  identica  con  le  Idee  specifiche  (1).  Ma nell'ipotesi  drl'a  trascendenza,  in  cui  le  Idee  sono  se- parate da  le  cose  e  le  une  da'le  altre,  t-a  l'Idea  generica e  le  Idee  specifiche  non  vi  ha  più  identità,  ma  sempli- cemente differenza;  l'Ilea  generica  non  è  più  le  Idee specifiche  allo  stato  implicito,  e  le  Id<  e  specifiche  non sono  più  l'Idea  generica  allo  stato  esplicito'^  e  per  con- seguenza non  vi  ha  più  tra  le  Idee  rapporto  di  filiazione, perde  la  filiazione  delle  Idee  è  precisamente  qu  sta  e- splicaz'Oiie  progr«'ssiv^a  delTimplicito  primit'vo. II.  Tra  i  molivi  dell'  interpr*  tazione  trascendentali  ta, dopo  la  sostanzialità  delle  Idee  e  le  inconcrp  bilità  che ne  r  sultano  nel  sistema  dclTimmanerza,  dobb'amo  ass»»- gnare  il  secondo  posto  a  un  malinteso  a  cui  si  prestano facilmente  mrlte  proposizioni  di  Platon'»,  in  cui  egli  non fa  in  naltà  che  distinguere  le  Idee  dalle  cose  Quasi tutti  i  luoghi  degli  scritti  platonica*,  in  cui  si  pretendo ved'»ie  una  prova  diretta  della  soparazone  delle  Idee dalle  cos'%  appartengono  a  que  ta  casse  :  là  dove  Pla- tone non  parU  che  di  disfinzloììe,  l'iiiterpicte  trascen- dentalista int(  nde  :  separazione. In  alcuni  di  qresti  luoghi  Piatire   distingue  le  L'ee N (1)  V.  n.  V.  4.0 delle  cose  stesse,  cioè  dalle  sostanze,  in  altri  dai  loro attributi.  Il  primo  caso  non  prrsen'^a  alcuna  difficoltà  : le  Idee  essendo  delle  sostanze,  è  naturale  che  Platone parli  delle  Idee  e  delle  cose  come  di  sostanze  diÉ-tinte— distinte,  badiamo,  non  sejDara^e— .Quando  Platone  distin- gue questo  mondo  e  il  Vivente  in  sé  di  cui  esso  è  Tim- magine  (1);  questi  belli  e  il  Bello  in  se  stesso  (2)  ;  que- sti cerchi  e  questa  sfera  umana  e  il  Cerchio  e  la  Sfera stessa  divina  (3);  quando  rppone  IVggetto  della  dialet- tica, che  si  riferisce  alle  cose  che  sono  semp  e  le  stesse, alFoggetto  delle  altre  arti  che  si  riferiscono  a  questo mondo  e  a  queste  cose  che  continuamente  divengono  (4); quando  dice  che  vi  hanno  tre  cose,  Tessere  (Tldea)  il luogo  e  il  divenire  (ciò  che  diviene)  (5);  che  vi  hanno due  speoie  di  esseri,  grintclligibili  e  i  sensibili  (6);  che gli  oggetti  eguali  non  sono  gli  stessi  che  l'Eguaglianza, ma  questa  è  un  essere  altro  da  essi  (7);  che  oltre  (uapi) le  cose  sensibili  (e  le  intelligibili  che  cadono  sotto  un concetto  comune)  si  deve  ammettere  un'  Idra  di  queste cose  (8);  ecc.  (9):  se  gl'interpreti  trascendentalisti  vedono (J)  Tim.  30  c-(i.  Cfr.  39  e. (2)  Conv,  211 .  FU,  62  a  FU,  59  a-c. Tim.  62  d,  52  a-b,  50  c-d. (6)  Fedone  78  b-80  b (7)  Fedone  74 (8)  Fedone  74  a,   Tim.  51  e,  Sof.  250  b,  ecc. (9)  Anche  Aristotile  chiama  l'universale  «  Vuno  Tiapoc  i  molli,  che è  uno  e  lo  stesso  in  tutti  questi  „  (Anal.  Poster.  1.  II.  XV.  5. Talvolta,  per  indicare  la  distinzione  tra  le  Idee  e  le  cose,  Plu- tone si  serve  anche  deUa  parola  x^P^C  (separatamente).  È  ciò  che fa  nel  Parmenide,  dove  il  filosofo  eleate  domanda  a  Socrate  s'egli in  questi  e  negli  altri  lunghi  analoghi  a  questi  degli  ar- gomenti contro  l'immanenza  delle  l 'e-,  é  perchè  quelli che  aomiottono  questa  seconda  interpretazione  non  hanno spiegato  abbastanza  chiaramente  che  le  Idee  platoniche, qnantunquenon  esistano  fuori  delle  cose,  s^no  nondimeno delle  sostanze,  cioè  delle  realtà  sussistenti  per  se  stesse, e  non  delle  semplici  astrazioni  mentali.  Il  pronome  que- sto, questi  (Sds,  o'jxog),  indicante  il  mondo  e  gli  oggetti s.'usibilt,  in  opposizione  alle  Idee,  non  significa  che  que- ste sono  in  un  altro  mondo,  ma  che  gli  oggetti,  a  cui esso  si  rifVrisce,  seno  quelli  che  stanno  presenti  alla  no- stra vista  (1)  e  ch^  noi  possiamo  mostrare  col  dito  o  con veramonte  dislingaa  ^  X^?k  (da  un  lato)  certe  specie  stessa  (sISy] aùxà   àxTa)  e  X^P^C  (da  un  altro  lato)  i  partecipi  di  esse; s'egli  ere  le  che  vi  sia  una  somiglianza  stessa  «  X^P^S  (a  parte)  di quella  che  noi  abbiamo  „  (130  b);  un  elSo^ dell'uomo  «  xcopi?  di  noi e  di  quanti  altri  sono  come  noi  »  (130  e);  un  eidos    del    pelo,    del fango,  della  macchia,  ecc.,  ^cop^s,  altri  dal  pelo,  dal  fango,  dalla macchia,  che  noi  possiamo  toccare  (130  c-d).  Nel  Sofista  248  a  1'  o- spite  eleate  chiede  agli  amici  delle  Idee  se  essi  «^  dicono  la  genesi e  r  essenza  x^P^C  distinguendole  „  La  parola  xwpi^,  bisogna   con- fessarlo, presa  in  tutto  il  suo  rigore,  significherebbe  la  trascendenza; e  certamente  Platone  si  sarebbe    guardato   bene  di    servirsene,  se egli  avesse  potuto  prevedere    che  del  suo   sistema  si  sarebbe  dauna  falsa  interpretazione  che  questo   termine  e  i   suoi  deterivati, coi  loro  corrispondenti  nelle  lingue    moderne,  sono   appunto  i  pia propri  a  formulare  con  ccncisione.  Ma  possiamo  noi,  foadan  loci  su delle    espressioni  isolate  ed  eccezionali, interpretare  il  sistema  pla- tonico in  un  se.i-i>  cha  ò  ia  coutraddizioaa  con  tutti  i suoi  concetti fondamentiili,  attermuti  costantemente  in  quasi  tutti  i    luoghi  dei suoi  scritti  in  cui  si  parla  delle  Idee,  quando  d'altronde  queste  espres- sioni sono,  al  postutto,  suscettibili  di  un  significato   che  le  metta d'  accordo  eoa  questi  concetti  ? Fedone  74  c-d,  Tim.  51  e,  ecc. tin  altro  segno  simile,  non  quelli  clie  si  pòFSótlò,  cottlé dice  Platone,  contemplare  soltanto  con  TintelUgenza  (1). Non  dobbiamo  per  altro  dimenticare  che  la  distinzione tra  le  Idee  e  le  cofc  non  è  che  uno  dei  due  lati  di  que- sto rapporto  ambigno,  al  tempo  «tesso  d*  identità  e  di differenza,  che  il  sistema  platonico  e  gli  altri  costruiti sullo  stesso  tipo  stabiliscono  tra  l'astratto  e  il  concreto, 0,  generalmente,  tra  il  più  astratto  e  il  più  concreto. Talvolta  Platone  sembra  negare  V  identità,  come  nella Repubblica  476  c-d,  in  cui  dice  che  quelli  che  non  am- mettono il  Bello  in  sé  vivono  come  in  un  sogno,  perchè credono  che  gli  oggetti  che  somigliano  al  Bello,  cioè  che ne  partecipano,  siano,  non  semplicemente  simili  ad  Cfso, (1)  Una  delle  maniere  più  abituali  a  Platone  di  esprimere  la distinzione  tra  le  Idee  e  le  cose  per  le  loro  determinazioni  contra- rie, è  V  opposizione  tra  l'intelligibile  e  il  sensibile  :  essa  impliohe  le  Idee  non  sono  oggetti  dei  sensi,  ciò  che  del  resto  è  affermato esplicitamente  nel  Fedone  65  d,  79  a,  83  b,  Tim,  51  d,  52  a,  Rep, 507  b-c,  eco.  Qaest'  opposizione  evidentemente  è  naturalissima  anche nel  sistema  dell'immanenza:  tuttavia  anch'essa  si  presta  all'equi- voco, e  può  essere  interpretata  come  una  prova  della  trascendenza. Se  si  ammette  che  le  Idee  sono  in  noi,  dice  Aristotile  (  Top,  1.  II. VII.  3),  bisogna  attribuire  ad  esse  delle  derminazioni  contrarie  : perchè,  essendo  in  noi,  esse  cadrebbero  necessariamente  sotto  i  no- stri sensi,  poiché  per  il  senso  della  vista  conosciamo  la  forma  di ciascuna  cosa  ;  mentre  i  partigiani  delle  Idee  affermano  che  pos- sono percepirsi  per  la  sola  intelligenza.  Qui  Aristotile  dimentica che,  quantunque  l' Idea,  essendo  la  forma  delle  cose,  sia  per  con- seguenza, in  un  certo  senso,  un  oggetto  della  percezione  sensibile, pure  questa  non  la  percepisce  come  Idea,  cioè  come  sostanza  separa- bile (j^topt^TTQ^,  e  perciò,  in  un  altro  senso,  l'Idea  non  è  un  og- getto della  percezione  sensibile.  Peraltro  l'identità  tra  1'  Idea  e  il percepito  dai  sensi  è  chiaramente  affermata  nella  Repubblica  523-524i nel  Fedone  65  e,  82  e,  luogM  già  citati  (an.  VI  sulla  fine  e  n.  IX), ai  quali  aggiungiamo  il  Fedro  850  d,  che  citeremo  in  appresso  (n.  IV). ma  la  stessa  còsa  con  rgso,  mentre  bisogna  distinguente l'uno  dagli  altri.  Ma  queste  parole  non  sono  dirette  che contro  la  confusione  che  Topinione  op^o.-ta  a  quella  di Platone,  cioè  il  nominalismo,  fa  tra  le  Idee  e  le  cose.  Il nominalista  confonde  le  cose  con  le  Idee,  sia  perchè prende  le  immwgin?,  cioè  le  cose,  per  esseri  reali,  men- tre gli  es«*eri  reali  non  sono  che  le  Idee;  sia  ancora  per- chè il  nominal'smo,  an  m(  ttendo  che  il  nome  generale non  s'gnifica  altra  cosa  che  gli  oggetti  concreti  e  indi- v'duali,  prrnde  erroneamente  questi  oggetti  per  IV ggetto a  cui  A  r.feri-ce  realmente  il  nome  e  il  concetto  gene- rale, cioè  ridea. La  distinzione  tra  la  sostanza  Idea  e  le  sostanze  cose ha  pure  per  effetto  di  stabilire  tra  V  una  e  le  altre  dei rapporti  che  nrir  cf^perienza  non  esistono  che  tra  oggetti separat\  Quando  le  Idre  sono  chiamate  cause  delle  cose (come  n«l  Fedone  95  e-101  e),  anche  in  questo  può  ve- dersi una  prc  va  della  trascendenza,  perchè  infatti  le  cause e  gli  effetti  empirici  soi  o,  non  solo  distinti,  ma  anche separati.  Ma  ciò  mostra  srmplc  m^nte  che  il  rapporto tra  le  Idee  e  le  cose  non  somiglia  ad  alcuno  dei  rap- porti che  cadono  sotto  Ih  nostra  esperienza.  Le  Idee  non sono  cause  delle  c<'Se  come  cause  efficienti  propriamente dette,  come  cause  motrci  (per  usare  V  espressione  d'  Ari- stotile), ma  sfno  cause  nel  senso  che  la  ragione  dell' e- sintere  e  del  modo  di  esistere  delh-ì  cose  è  i\q\U  Idee.  Smiltneii'c  qu^nio  le  I^ee  sono  chiamale  n  oielli  (;:apa- isCyriaxa)  e  le  c«  s^  immagini  (etxóvsg,  etdwXa,  6[ioio3fjLaTa)  (1), (1)  V.  Tim,  29  a-c,  39  e,  50  e,  61  a,  b,  52  e,  Fedro  250,  Proclo in  Parm,  v.  133,  Alcinoo  Intr.  in  PI,  Vili,  ecc.— D' altronde  anche Aristotile  chiama  la  forma  7iapòc5s'.YlAa  (V.  Mdt.  1.  v.  II.  1,  Phys. 1.  II.  Ili.  2.). "tin  altro  segno  simile,  non  quelli  cte  si  pòFSótiò,  cottié dice  Platone,  contemplare  soltanto  con  Tìnteingenza  (1). Non  dobbiamo  per  altro  dimenticare  che  la  distinzione tra  le  Idee  e  le  cofc  non  è  che  uno  dei  due  lati  di  que- sto rapporto  «mbigno,  al  tempo  «tesso  d' identità  e  di differenza,  che  il  sistema  platonico  e  gli  altri  costruiti sullo  stesso  tipo  stabiliscono  tra  Tastratto  e  il  concreto, 0,  generalmente,  tra  il  più  astratto  e  il  più  concreto. Talvolta  Platone  sembra  negare  V  identità,  come  nella Repubblica  476  c-d,  in  cui  dice  che  quelli  che  non  am- mettono il  Bello  in  sé  vivono  come  in  un  sogno,  perchè credono  che  gli  oggetti  che  somigliano  al  Bello,  cioè  che ne  partecipano,  siano,  non  semplicemente  simili  ad  cfso, (1)  Una  delle  maniere  più  abituali  a  Platone  di  esprimere  la diì^tinzione  tra  le  Idee  e  le  cose  per  le  loro  determinazioai  contra- rie, è  r  opposizione  tra  l'intelligibile  e  il  sensibile  :  essa  implica ohe  le  Idee  non  sono  oggetti  dei  sensi,  ciò  che  del  resto  è  affermato esplicitamente  nel  Fedone  65  d,  79  a,  83  b,  Tim,  51  d,  52  a,  Rep» 507  b-c,  eoo.  Qaest'  opposizione  evidentemente  è  naturalissima  anche nel  sistema  dell'immanenza:  tuttavia  anch'essa  si  presta  all'equi- voco, e  può  essere  interpretata  come  una  prova  della  trascendenza. Se  si  ammette  che  le  Idee  sono  in  noi,  dice  Aristotile  (  Top.  1.  II. VII.  3),  bisogna  attribuire  ad  esse  delle  derminazioni  contrarie  : perehè,  essendo  in  noi,  esse  cadrebbero  necessariamente  sotto  i  no- stri sensi,  poiché  per  il  senso  della  vista  conosciamo  la  forma  di ciascuna  cosa  ;  mentre  i  partigiani  delle  Idee  affermano  che  pos- sono percepirsi  per  la  sola  intelligenza.  Qui  Aristotile  dimentica che,  quantunque  l' Idea,  essendo  la  forma  delle  cose,  sia  per  con- seguenza, in  un  certo  senso,  un  oggetto  della  percezione  sensibile, pure  questa  non  la  percepisce  come  Idea,  cioè  come  sostanza  separa- bile (/(tìpiS'CTQ S  ©  perciò,  in  un  altro  senso,  l'Idea  non  è  un  og- getto della  percezione  sensibile.  Per  altro  l'identità  tra  1'  Idea  e  il percepito  dai  sensi  è  chiaramente  affermata  nella  Repubblica  523-524f nel  Fedone  65  e,  82  e,  luoghi  già  citati  (an.  VI  sulla  fine  en.  IX), ai  quali  aggiungiamo  il  Fedro  850  d,  che  citeremo  in  appresso  . ma  la  stessa  còsa  coti  esso,  mentre  bisogna  distinguere Tuno  dflgli  altri.  Ma  queste  parole  non  sono  dirette  che contro  la  confusione  che  Topinione  op^o.-ta  a  quella  di Platone,  ciré  il  nominalismo,  fa  tra  le  Idee  e  le  cose.  Il nominalista  confonde  le  cose  con  le  Idee,  sia  perchè prende  le  immpgin?,  cioè  le  cose,  per  essrrl  reali,  men- tre gli  es-^eri  reali  non  sono  che  le  Idee;  sia  ancora  per- chè il  nominalismo,  anradtendo  che  il  nome  generale non  significa  altra  cosa  che  gli  oggetti  concreti  e  indi- vdualf,  prrnde  erroneamente  questi  oggetti  per  IVggetto a  cui  A  r.feri-ce  realmente  il  nome  e  il  concetto  gene- rale, cioè  ridea. La  distinzione  tra  la  sostanza  Idea  e  le  sostanze  cose ha  pure  per  effetto  di  stabilire  tra  V  una  e  le  altre  dei rapporti  che  nr ir  esperienza  non  esistono  che  tra  oggetti separat*.  Quando  le  Idre  sono  chiamate  cause  delle  cose (come  \\*\  Fedone  95  e-101  e),  anche  in  questo  può  ve- dersi una  prc  va  della  trascendenza,  perchè  infatti  le  cause e  gli  effetti  empirici  soio,  non  solo  distinti,  ma  anche separati.  Ma  ciò  mostra  srmpl'c  m^^nte  che  il  rapporto tra  le  Idee  e  le  cose  non  somiglia  ad  alcuno  dei  rap- porti che  cadono  sotto  Ih  nostra  esperienza.  Le  Idee  non sono  cause  delle  cose  come  cause  efficienti  propriamente dette,  come  cause  motr'ci  (per  usare  V  espressione  d*  Ari- stotile), ma  srno  cause  nel  senso  che  la  ragione  dell' e- siHtere  e  del  modo  di  esistere  dello  cose  è  nell^*.  Idee.  Si- milmente qunnio  le  I^lee  sono  chiamale  u  oielli  (Tiapa- «s^YliaTa)  e  le  c<  s<^  immagini  (etxóvs^,  stSwXa,  ò\i.om\iOLioL)  (1), (1)  V.  Tim,  29  a-c,  39  e,  50  e,  51  a,  b,  52  e,  Fedro  250,  Proclo in  Parm,  v.  133,  Alcinoo  Intr.  in  PI,  Vili,  ecc. D' altronde  anche Aristotile  chiama  la  forma  n(X.p<iòtiy[i7.(V,  Mdt,  1.  v.  11.1,  Phys. 1.  II.  III.  2.).  iS«i ^^ clÀ  suggerisce  naturalhiente  Tidea  della  separazione, perchè  tutti  i  modelli  e  le  immagini  che  abbìanoo  visto o  che  possiamo  rappresentarci,  sono  separati,  e  non  sem- plicemente distinti,  gli  uni  dalle  altre.  Il  nome  d'imma- gini dato  alle  cose,  in  m^^lii  casi,  ha  evidentemente  lo scopo,  come  abbiamo  detto  (n.  IX),  d'indicare  la  loro mancanza  di  una  vera  realtà:  ma  facendo  anche  astra- zione da  questa  circostanza,  le  Idee  possono  a  buon  dritto riguardarsi  come  esemplari  delle  cose  anche  nelT  ipotesi deir  immanenza,  po*chè,  immanenti  o  trascendenti,  Tuomo in  f^è  e  il  cavallo  in  sé,  che  Piatone  ha  creati,  sono  sempre cecile  immagini  degli  u<  miui  e  dei  cavalli  reali,  imma- gini che,  rovesciando  il  ra^iporto  rrale,egli  chiama  natu- ralmente esemplari,  perchè  il  nome  di  esemplare  conviene a  ciò  che  è  anteriore,  e  il  nome  d'  immagino  a  ciò  che è  posteriore,  e  le  Idee  sono  anteriori  alle  cose,  non  di un'  anteriorità  cronologica,  ma  di  un'  anteriorità  di  na- tura, cioè  logica  e  metafisica. Le  Idee  sono  chiamate  paradigmi,  non  solo  delle  cose, ma  anche  dei  loro  attributi  E  che  Platone  distingne  le Idee,  non  solo  dalle  prime,  ma  anche  dai  srcordi.  È  ciò che  egli  fa,  per  esempio,  nel  Fedro  249  d,  in  cui  la  bel- lezza sensibile  viene  opposta  alla  bellezza  vera,  cioè all'Idea  della  bellezza.  Questo  richiede  delle  spiegazioni, perchè  sembra  in  contraddizione  col  concotto  stesso  del- Pimmanonza,  la  quale  consiste  essenzialmente,  come  ab- biamo detto,  neir  identità  delle  Idee  con  gli  attributi generali  delle  cose. L' Idea  è  il  concetto  astratto  e  generale,  realizzato. Per  conseguenza  gli  attribuii  dt  Ile  cose  sono  identici  alle Ideo,  ma  in  quanto  vengono  conside-rati  nel  loro  con- cetto generalo,  in  astratto.  Ora  perciò  essi  devono  conce- pirai astrazion  facendo  dai  soggetti  in  cui  ineriscono  : la  bellezza  di  questo  fanciullo,  la  grandezza  di   que&ta superficie,  la  bianchezza  di  questa  carta,  ecc.  differiscono dalla  Bellezza,  dalla  Grandezza,  dalla  Bianchezza,  ecc. in  se  s^e<^e,  pcchè  contengono  delle  determinazioni  che none^iistono  nel  concotto  astratto  e  generale  della  bellezza, della  grandezza,  della  bianchezza,  ec(^.    Prima   di    tutto la  bellezza,  la  bianchezza,  la  grandezza,  occ,  quali  at- tribuii di  questi  soggetti  determinati,  non  sono  rigorosa- mente conformi  agli  attributi  omon'mi  che  Si  trovano  in altri  soggetta  ma  ne  difl\3riscono    per  il  grado,    per  la quanti  A  e  per  tante  altre  circostanze  :  cosi  esse  devono essere  distinte  dalla  bellezza,  bianchezza,  grandezza,  ecc. quali  oggetti  dei  concetti  generali,    perchè  ciascuno    di questi  è  uno  e  lo  stesso  in  tutti  i  soggetti  che   ne  par- tecipano. Ma  anche   considerando  la  bellezza,    la  bian- chezza, la  grandezza   in  questi  soggetti  determinati  astra- zion facendo  dal  grado,  la  quantità  e  le  altre  circostanze in  cui  e  se  d  feriscono  ^a gli  attributi  omonimi    in  altri sogge*  ti,  basta  questa  determinaz'one,  di  essere  l'attributo di  tal  soggefo  determin«ito,  perché  esse  non    corrispon^ dano  rigorosamente  agli  oggetti    dei  concetti    generali, poiché   questa   d«tinmi nazione  n(»n  è   una  nota   che   fa parte  del  concetto  generale.  Ne  segue  che  tutte  le    op- posizioni, che  Platone   stabilisce  tra  le   Idee  e   le  cose, hanno   pure  luogo  tra  le  Idee  e  gli  attributi  considerati come  proprietà  d' individui  determinati.  La  Bellezza    in sé  è  eterna,  cioè  fuori  del  tempo,  ed  esonte  dal  cangia- mento ;  la  bellezza  proprietà  di  un  oggetto  determinato nasr'e,  per  sce,  cresce,  ecc.  ;  la  prima  e  solo  intelligibile, perchè  il  senso  non  percepisce  la  b  Mezza  come  sostanza,' ma  .^-'olo  come  ui  attributo;  la  bellezza  individualizzata^ che  è  un  semplice  attributo,  è  sensibile,  perchè  il  senso la  percepisce  quale  essi  è;  quella  è  una,  perchè  ii  con- cetto della  bellezza  è  unico;  la  bellezza  che  è  in  un  in- dividuo determinato  è  altra,  per  la  percezione  sensibile, -  127  - >fm .^ f dalla  bellezza    che  é  io  uq  altro  individuo  determinato, per  CU',  mentre  per  V  int'^lligrenza  vi  ha  una  sola  bellezza, una  sola  grandezza,  una  sola  bianchezza,    ecc.,  per  la percezione  sensibile  vi  hanno  molte  bellezza»,  m^^lte  gran- dt^zze,  molte  bianch'^zze,   ecc.  Queste   oppo-^izioni  met- tono   cipo    iofìne    air  opposizione    suprema    dell'essere reale    e   del   fenomeno:    queste    molte    bellezze    che   i sensi  percepiscono   non   sono   in   sostanza   che   la    Bel- lezza   in   realtà    unica,    ma  ch'^,  apparendo    qua   e   là, per  la  partecipazione  ad  essa  dolle   azioni  e   dei    corpi, pare  molti.   Ma  perchè  V  intelligenza   risolva  queste molte  bellezze  fenomenali  nella    Bellezza    reale    unica, essa  deve  fare  astrazione  da  tutte  le  determinazioni  che non  entrano  nel  concetto  comune    come  i  moHi  uomini si  risolvono   neirUomo   uno,    facendo   a^^t^azlone   dallo differenze  individuali;  come  i  mo'ti  Animali  si  risolvono nell'Animale  uno,  facendo  astraz'on^  dalle  difiT  ronze  spe- cifiche; co-l  perche  le  molte  bellezze   si  risolvano   nella Bellezza   unica,    per   la  cui   parusia  i  molti    belli  sono beili,  bisogna  spogliarle  dall'inerenza  in  t«le  o  tal  altro individuo  determinato  e  da  tutte  le  altre  c'rcostanzeche le  differenziano  le  une  dalle  altre.  In  riasnunto,    V  attri- buto Idea  e  l'attributo  proprietà  di  un  tal  soggetto  par- ticolare si  distinguono  a  due  punti   di    vista  :    il    primo è  più  indeterminato,  il  secondo  è  più  determinato,   per- chè contiene  delle  determinazioni  che  non   sono   conte- nute nel  concetto  comune,  se  non  altre,  quella  d'inerire in  un  tal  soggetto  particolare;  il  pr'mo  è  Tessere  reale, il  secondo  è  il  fenomeno,  cioè  l'  apparenza   (obbiettiva) di  quest'essere  reale. 1Questa  distinzione  tra  l'Idea  e  l'attributo  individua- lizzato ha  per  effetto  naturale  che,  per  indicare  questa distinzione,  Platone  sì  serve  talvolta  di  certe  espressioni che  sembrano  negare  la  parusia  delle  Idee  nelle  cose. Cosi  nel  Fedro e  distingue  la  scienza  che  è  nell'es- sere vero  da  qaella  in  cui  vi  ha  cangiamento  e  che  e- 8i»<te  differente  nei  differenti  oggetti  che  ora  (cioè  nella vita  terrestre  in  cui  l'anima  non  percepisce  che  delle apparenze)  chiamiamo  esseri.  Qui  la  distinzione  è  fatta sopratutto  al  pun^o  di  vista  dell'opposizione  tra  la  realtà e  il  fono  neno.  La  scienza  che  è  nell'essere  vero  è  l'Idea della  scienza,  la  quale,  quantunque  s'a  aùir]  xaG'aux^v, pure  é  latta  inerire  in  un  soggetto,  perchè,  il  mondo delle  l'iee  essendo  una  rappresentazione  astratta  del mondo  sensibile,  ciò  che,  come  la  scienza,  nel  mondo sens  b'1'5  inoriseli  in  un  soggetto,  deve  inerire  inunsog- geito  anche  nel  mondo  delle  Idee.  Nel  Convito,  dopo aver  descritto  il  progresso  del  ret^o  amante  della  bellezza, che  dall'amore  di  un  bel  corpo  passa  a  quello  di  tutti i  bei  corpi,  e  poi  all'amore  e  alla  contemplazione  della bellezza  delle  anime,  dei  costu-ni,  delle  leggi,  delle scienz*^,  per  fervenire  infine  alla  contemplazione  del bello  io  se  stesso,  determina  questo  bello  di  natura  me- ravigliosa, la  cui  contemplazione  è  il  termine  di  tutto  il progresso  anteriore.  Esso  «  in  primo  luogo  sempre  è, non  nasce  né  perisce,  non  cresce  né  decresce,  poi  non è  bello  in  una  parte,  brutto  in  un'altra,  né  ora  bello  ora no,  né  bello  a  quc^to  fine,  brutto  a  quell'altro, né  bello  in  un  luogo,  brutto  in  un  aUro,  o  bello  per alcuni,    brutto  per   altri.  Né  si  deve  immaginare  que- (1)  Rep.  476  a. (1)  Cfr.  Senof.  Memorab,  1.  3.  o.  8. -X28- /, 11 sto  bello  come  un  bel  viso  o  delle  belle  mani  o  qualche altra  cosa  di  cui  il  corpo  è  partecipe,  nò  come  un  bel discorso  o  una  bilia  scienza,  né  come  essente  in  qualche altra  cosa,  p.  e.  un^animale,  la  terra^  il  cielo  o  un  altro oggetto  qualunque^  ma  esso  stesso  p^r  se  stesso  eoa  se stosso,  uniforme,  sempre  essente,  e  tutte  le  altre  cose belle  partecipi  in  certo  modo  di  ess^%  in  modo  c»oè  che nascendo  queste  e  perendo,  niente  gli  si  aggiunga  o  si sottragga,  e  niente  patisca.  Si  è  affermato che  basterebbe  questo  luogo  per  provare  la  trascendenza delle  Idee  !  Ma  esso  non  contiene  che  le  solite  determi- nazioni delle  Idee,  come  sostanze,  come  astrale,  come immutabili,  ecc.  Si  dice  che  il  Bello  è  «  esso  stesso  per se  stesso  con  se  stesso  »,  per  significare  che  nella  sua astrattezza  è  una  Fostanza.  e,  conne  tale,  esiste  indipen- dentemente da  ogni  altra  sostan  a:  si  aggiung,  è  vero, che  non  deve  immaginarsi  come  essente  in  qnjihhe  altra cosa,  p.  e.  in  un  an'ma^e,  nel'a  t  rra,  rei  ci^lo,  ecc., ma  queste  parole  non  fanno  che  distinguere  il  Bello, oggetlo  del  concètto  comune,  dal  b  11  >,  proprietà  di  una cosa  particolare.  Nel  Fedone  102  d  si  dice  che  «non  solo la  grandezza  stessa  non  può  essere  al  tempo  stesso grande  e  piccola,  ma  anche  la  granJezza  in  noi  non può  mai  ricevere  la  piccolezza  »,  e  poi  a  lo3  b,  espri- mendo lo  stesso  concetto  (che  non  è  altro  al  fondo  che il  principio  di  contraddizione)  in  uia  forma  generale, che  «  il  contrario  non  può  mai  essere  il  suo  contrario, né  quello  in  noi  nò  quello  nella  natura  (èv  x^  cpóget)». Che  l'opposizione  tra  la  grandezza  stessa  e  la  grandezza in  noi  significhi  semplicemente  la  distinzione  tra  T  at- tributo nel  suo  C'incetto  generale  e  lo  scasso  attributo individualizzato,  e  non  implichi  che  la  grandezza  stessa sia  fuori  delle  cose,  ti  vede  della  m'^niera  p'ù  chiara  da ciò  che  si  è  detto  un  po'  prima  (102  b),  cioè  che,  dopo  che fi  fu  convenuto  che  vi  hanno  le  Specie  e  che  le  altre cose  ricevono  la  loro  denominazione  partecipandone,  So- crate soggiunse  che,  poiché  é  così,  quando  diciamo  che Simmia  è  più  grande  di  Socrate  e  più  p'ccolo  di  Fedone, veniamo  ad  affermare  che  vi  ha  in  Simmia  tanto  la grandezza  quanto  la  piccolezza  (cioè  le  Specie,  perchè altrimenti  quest'affermazione  non  sarebbe  più  una  con- soguenza  di  ciò  di  cui  si  è  prima  convenuto).  Similmente che  la  distinzione  tra  il  contrario  (cioè  l'uno  qualunque di  due  attributi  contrari)  in  noi  e  il  contrario  nella  na- tura non  implica  la  trascendenza  di  questo,  si  rileva dalle  parole  che  seguono  immediatamente,  cioè  che  So- crate intende  parlare,  non  delle  cose  che  hanno  i  con- trari, ma  di  questi  stessi  contrari,  per  la  cui  inerenza (u)v  èvóvxwv)  le  cose  ricevono  la  loro  denominazione  ;  e basta  del  resto  a  provarlo  la  stessa  espressione  «  il  con- trario nella  natura»,  la  quale  indica  nel  modo  più  e- vidente  che  l'opposizione  tra  l'attributo  m  note  lo  stesso attributo  ne/la  natura  non  è  che  quella  tra  il  particolare e  l'universsle  (1).  Infine,  nel  Parmenide  si  distingue  la (1)  Ma,  dice  1' interpetre  trascendentalista,  il  contrario  év  T'jj ^Ooct  vuol  dire,  non  il  contrario  nt'/Za  >i a /wra,  ma  il  contrario  nella iua  ìiatura,  Non  è  vero  ;  e  se  ne  ha  una  prova  nella  Bep.  497  b,  e, 498  a,  in  cui  la  stessa  espressione  sv  x^  ^óoet  si  ritrova  impie- gata in  un  modo  che  non  permette  alcun  dubbio  sul  suo  significato.  Ivi 1'  Idea  del  letto,  in  opposizione  al  letto  particolare,  o^e  costruisce il  fabbro,  è  chiamata,  non  solo  «il  letto  nella  natura  *  (.497  e),  ma anche  più  chiaramente  «  il  letto  che  è  nella  natura  »  (VcXtvY]  Iv  T'5 qjuasi  ouaa  —  497  b).  (Queste  parole  potrebbero  mai  significare  :  il letto  nella  sua  natura  V  Del  resto  la  quistione  sembra  oziosa,  perchè anche  il  ìetto^  o  un'  altra  cosa  qualunque,  nello  sua  natura,  non pmò  affatto  significare  un'  entità  trascendente. j somiglianza  stessa  da  quella  che  abbiamo  noi  (130  b),  e poi  (133  c-134  e)  la  scienza  stessa  dalla  scienza  presso noi  (noLpruiiy)  o  nostra,  la  verità  stessa  dalla  verità  presso fioi,  il  dominio  e  la  servitù  stessi  dai  dominio  e  la  servitù presso  noi,  e  in  generale  le  Specie  dalle  cose  presso  noi, Queste  distinzioni,  è  «ppena  necessario  di  dirlo,  hanno lo  stesso  significato  che  quelle  analoghe  del  Fedone:  vi ha  tuttavia  questa  differenza  che,  mentre  nei  luoghi  ci- tati del  Fedone  la  distinzione  é  fatta  al  punto  di  vista dell'opposizione  tra  il  generale  e  Tindividuale,  in  quelli del  Parmenide,  almeno  nel  secondo,  sembra  fatta  spe- cialmente al  punto  di  vista  deiropposizione  tra  il  reale e  il  fenomenale. Ma  questo  luogo  del  Parmenide  merita  che  ce  ne occupiamo  più  particolarmente,  essendo  il  più  favore- vole air  interpretazione  trascendentalista  che  io  ricordi negli  scritti  di  Platonp,  poiché  esso  contiene,  olire  alle espressioni  indicate,  delle  proposizioni  che  hanno  l'aria di  negare  esplicitamente  la  presenza  delle  Idee  nelle  cose. Ecco  dunque  la  parte  di  questo  luogo  che  e'  interessa  a questo  riguardo  :  Tra  le  difficoltà  che  presenta  la  teoria Si  compreude  dall'insieme  del  luogo  del  Fedone  ài  cui  si  è  par- lato che,  distinguendo  la  grandezza  e,  in  generale,  il  contrario  in noi  e  la  grandezza  stessa  e  il  contrario  nella  natura,  1'  intendi- mento di  Platone  è  di  esprimere,  quantunque  forse  non  lo  faccia d'  una  maniera  sutficientemente  esatta,  la  distinzione  tra  due  forme di  negare  il  principio  di  contraddizione  :  1'  una,  quella  che  ammet- terebbe che  il  contrario  nella  natura  possa  essere  il  suo  contrario, sarebbe  l' identità  dei  contrari;  1*  altra,  quella  che  ammetterebbe ohe  il  contrario  in  noi,  p.  e.  la  {grandezza,  possa  ricevere  il  suo contrario,  p.  e.  la  piccolezza,  sarebbe  la  contraddizione  propria- mente detta,  cioè  una  proposiziono  che  affermerebbe  di  uno  stesso soggetto  due  attributi  contrari. delle  Idee,  la  più  grave  è,  dice  Parmenide,  che  sarebbe molto  difficile  dimostrare  il  suo  errore  a  colui  che   pre- tendesse che  le  Specie,  se  esse  esistessero,  sarebbero  inco- noscibili per  noi.  Perchè  ?   domanda  Socrate  Parai.  : È  che  io  penso,  o  Socrate,  che  tu  e  chiunque  altro  am- mette che  vi  ha  un'  essenza  stessa  per  se  stessa   di  cia- scuna cosa,  dovete  da  prima  convenire  che  nessuna  t?e  me è  in  noi. -E  come   infatti  potrebbe  essere  allora   per  se stessi?  disse  Socrate-PARM.  :  Dici  bene.  Per  conseguenza quelle  delle  Idee  che  sono  ciò  che  sono  relativamente  le une  alle  altre,  sono  relative  alle  Idee  stesse,  e  non  alle  cose presso  noi,  delle   quali  noi   partecipando  riceviamo   cia- scuna denominazione,  sia  che  queste  coso,  debbano  con- siderarsi come  simulacri,  sia   d' un'  altra    maniera   qua- lunque. Similmente  le  cose  presso  di  noi   che   sono  omo- nime a  quelle,  sono  relative  ad  altre  cose  presso  di  noi, e  non    alle  Idee  che  hanno  la  stessa  denominazione. Come  di'  tu?  domandò  Socrate-PARM.  :  Per   esempio,  se alcuno  di  noi  è  servo    o  padrone,  non  è   servo    del   pa- drone stesso,  o  padrone  del  servo  stesso  ;  ma  essendo  un uomo,  lo  è  di  un  altro  uomo.  Ma    Ja  padronanza    stessa éciò  che  è  della  servitù  stessa,  e  allo  stesso  modo  la  ser- vitù steesa  è  servitù  della   padronanza   stessa.  Mane  le cose  in  noi  si  riferiscono  a  quelle,  né  quelle  si  riferiscono a  noi,  ma,  come  dissi,  quelle  sono  relative  fra  di  loro,  e le  cose  presso  noi  relative  similmente  fra  di  loro.   Com- prendi ora  ciò  che  dico?  Comprendo   perfettamente, ripose  Socrate-PARM.  :  La  scienza  stessa  dunque  sarà  scien- za della    verità  stessa  ?— Socr.  :    Sì-Parm.  :   E   ciascuna delle  scienze  in  se  stessa  sarà  scienza  di  ciascuno  de^-li esseri  in  se  stesso?— Soca.  :  Sì— Parm.  :  Ma  la  scienza  presso di  noi  lo    sarà   della    verità   presso   di  noi?  e   ciascuna delle  scienze  presso  di  noi,  di  ciascuo  degli  esseri  presso di  noi?— SocK.  :  Necessariamente  —  Parm.  :  Ma, come  tu confessi,  noi  non  abbiamo  le  specie  stesse,  ed  esse  non  pos sono  essere  presso  di  noi  -  SocR.  :  No  -  Parm.  :  Ciascuno dei  generi  siessi  non  è  conosciuto  dalla  specie  stessa della  scienza?  Socr.  .-  Si.  -  Parm.  :  Specie  che  non  ab- biamo -  Socr.  :  No  -  Parm.  :  Nessuna  specie  dunque  si conosce  da  noi,  poiché  noi  non  partecipiamo  della  scienza stessa -Socr.:  No,  a  quanto  pare  -  Parm.  :  Sicché  non sappiamo  cosa  sia  il  bollo  stesso  e  il  bene  stesso  e  tutte le  cose  che  noi  riguardiamo  come  Idee -Socr.:  Ne corriamo  il  rischio. Cosi,  secondo  questo  luogo,  le  Idee  non  sono  nette cose,  e  queste  non  le  hanno  e  non  ne  partecipano.  Ma queste  proposizioni,  se  dovessero  prendersi  in  tutta  l'e- stensione dei  termini,  sarebbero  nella  contraddizione più  aperta  con  le  proposizioni  più  abituali  di  Platone, perchè  egli  afferma  costantemente  che  le  cose  parte- cipano alle  Idee,  che  le  hanno,  e  che  le  Idee  sono nelle  cose.  Ne  segue  che.  se  non  vogliamo  met- tere Platone  in  contraddizione  con  se  stesso,  noi non  dobbiamo  prendere  le  prime  in  tutta  lestensioue dei  termini;  perchè  per  evitare  la  contraddizione  tra  due proposizioni  di  cui  l'una  afferma  ciò  che  l'altra  nega,  è la  negativa  che  si  deve  intendere  necessariamente  in  un senso  restrittivo.  Al  fondo  le  proposizioni  del  Parmenide di  cui  si  tratta  non  dicono  niente  di  più  che  quelle  già citate  del  Fedone  e  le  altre  analoghe;  se  le  Idee  si  di- stinguono dalle  cose  che  sono  in  noi,  vuol  dire  che  esse non  sono  in  noi.  Vi  ha  tuttavia  questa  differenza,  che nelle  proposizioni  del  Fedone  la  negazione  della  parusia è  contenuta  d'una  maniera  implicita,  mentre  in    quelle del  Parmenide  lo  è  d'una  maniera  esplicita  (ben  Inteso ^  qneste  proposizioni  si  prendono  nel  senso  più   ass^ uto)C,o  mostra  che  la  distinzione  tra  le  Idee  e  gli  al tributi  del  e  cose,  nel  Parmenide,   è   fatta  dal    punt   dì ZlnL^nt  T"""  'f  '    Wee-interpretate   come cose  «n^!  "  '"''  '"  ^^"^  «   ^"    ««ributi  delle cose  «ppansce  più  grande.  Questo  punto  di  vista  è  quello che  cons-dcra,1  mondo  sensibile  come  l'apparenza  e  i^ mondo  delle  Idee  come  la  realtà.  I,  Bello  iS  sé  i,  Buono m  sé,  ecc.  non  esistono  nel  mondo  dell'apparenza-cioè ne  'aspetto  apparente  dell'essere-,  ma  nel  mondo  dell realtà-cioè  nel  suo  aspetto  reale-;  nel  mondo  dell'an- parenza  non  esistono  che  le  molte  bellezze,  le  molte  bontà ecc.,  che  sono  ne.  molli  belli,  nei  molti  buoni,  ecc.,  peri «oln Irn'"*!!?  P^'''  '•^^  moltiplicità,  l'unità  è solo  intelligibile,  e  apprendendola.  l'int.lligenza  si  mette a"!,   .  f  T  "" P^'-cezione  del  senso.  Cosi  Platone può  dire  che  le  Idee  non  sono  in  noi  o  presso  di  noi,  che  noi non  le  abb'arno  e  non  ne  partecipiamo,  in  questo  senso,  che esse  non  fanno  parte  del  mondo  dei  fenomeni  :  queste proposizioni  negano  la  presenza  fenomenale,  sensibile delle  Idee  nelle  ccse -perchè  le  Idee  non  sono  nello cose  sensi  oilmente,  come  una  cosa  fenomenale  è  in un'altra  cosa  fenomenale-,  ma  non  la  presenza  sovra- sensibile  che  nel  sistema  platonico  è  indicata  dal  termine tecnico  parusia.  Certo  e. li  non  dice  esplicitamente  nel luogo  citato,  che  considera  le.  cose  come  delle  Ippa- renze  delle  Idee  il)-  Ma  l'abitudine  di  Platone  non  è  di J  i.  (1)  Y.  n.  VI. (1)  Tuttavia  potrebbe  trovarsene  un  accenno  là  dovj  dice  che 1  e  cose  possono  riguardarsi  come  simulacri  (i.aoitónaxa)  delle  Idee (133  d,  e  più  ancora  dove  chiama  le  scienze  in  se  stesse  e  gli  es- »«ri  in  se  stessi  (cioè  le  Idee  i  «  ciascuna  delle  scienze  che  è  (^  sanv) e  ciascuno  degli  esseri  dia  <•  (S   soT'.v)  (131  a). —  descriverci  minutamente  tutti  i  gradi  del  processo  mentale di  cui  le  sue   proposizioni   sono  il  risultato  :  di  tutte  le sue  speculazioni  (sulle  Idee,  sull'anima,  ecc.)   egli   non ci  presenta  che  i  risultati,  saltando  sulle  idee    interme- diarie (quando  dà  le   prove   delle   sue  dottrine,  ai    veri motivi  di  esse,  cioè  ai   gradi  reali  del  processo  mentale che  lo  hanno  condotto  a  questi  risultati,  sostituisce   dei sofismi  puramente  artificiali,  che  non  potrebbero  sembrare concludenti  se  non  a  chi  è  già,  per  altri  motivi,  convinto della   verità   della   conclusione).    Non  si  deve  del   resto dimenticare  la  difficoltà  che  vi  ha,  nel  sistema  deirimma- nenza,  ad  esprimere  il  rapporto   tra  le  Idee  e  le  cose  : tutte  le  espressioni  per  cui  noi  possiamo  indicare  una  di- stinzione tra  sostanze,  implicano  pure  necessariamente  la separazione  tra  queste  sostanze,  perchè  tutte  le  sostanze distinte  che  noi  possiamo  percepire  o   immaginare  sono anche  delle  sostanze  separate;  per  conseguenza  Platone, quando  vuole  esprimere  con  concisione  la  distinzione  tra le  Idee  e  le  cose,  è  facilmente  condotto  a  servirsi  di  pro- posizioni che,  se  non  s'interpretano  in  confronto  con  le altre  parti  dei  suoi  scritti,  danno  ragione  all'  interprete trascendentalista.  Una  considerazione  che  bisogna  sempre tener  presente  in  questa  quistione  dell'immanenza  o  tscendenza delle  Idee  platoniche  è  che,    nell'  ipotesi    del- l'immanenza, si  può  perfettamente  rendersi   conto   delle proposizioni,  per  altro  isolate,  che  sembrano    contrarie, por  questa  difficoltà  di  esprimere    il  rapporto    tra   le   I- dee  e  le  cose— difficoltà  che  certamente.dcriva  dall'incon- cepibilità di  questo  sistema,  perchè  le  Idee,  per  quaè  possibile  d'immaginarle,  non   possiamo    immaginarle, bisogna    convenirne,    che  come   separate  dalle   cose-; mentre,  nell'ipotesi  della  trascendenza,  sarebbe  impossi- bile di  rendersi  conto  di  tutti  i  concetti  platonici  esposti nella  prima  parte  di  questo  Supplemento,  che  esprimono 0  implicano  la  presenza  delle  Idee  nelle  cose  o  l'identità tra  le  Idee  e  le  cose,  e  costituiscono,  non  delle  proposi- zioni isolate,  ma  la  dottrina  costante  dell'autore. In  altre  proposizioni,  in  cui  Platone  sembra  negare la  parusia,  egli  non  nega  in  realtà  che  una  parusia  lo- cale, l'esistenza  delle  Idee  in  un  luogo  determinato.  È ciò  che  fa  nel  tratto  seguente  del  2Ymeo,  che  è  anch'esso dagl'interpreti  trascendentalisti  citato  come  una  delle prove  più  chiare  della  loro  interpretazione  :  «  Poiché  è cosi  (cioè  poiché  l'intelligenza  e  l'opinione  sono  due  cose differenti),  bisogna  convenire  che  esiste  un'Idea,  che  è sempre  la  stessa,  non  nasce  e  non  perisce,  non  riceve  in se  stessa  altro  d'altronde  e  non  va  essa  stessa  in  altro  ad alcun  luogo  {oxìiz  aùxò  — l'slaos  —  et^  ^Xko  noi  cóv),  non può  percepirsi  né  per  la  vista  né  per  alcun  altro  senso, e  non  può  essere  contemplata  che  dall'intelligenza  ;  e un'altra  cosa,  omonima  e  simile  ad  essa,  sensibile,  ge- nerata, sempre  in  movimento,  esistente  in  un  luogo  de- terminato dal  quale  disparisce  pprendo,  e  che  può  es- sere appresa  dall'  opinione  congiunta  alla  sensazione;  e una  terza  cosa,  il  genere  eterno  del  luogo  che  non  pe- risce, dà  un  posto  a  tutto  ciò  che  nasce,  percettibile  senza i  sensi  per  un  certo  concetto  spurio,  appena  credibile; Platone  chiama  la  nozione  dillo  spazio  un  concetto  spurio, perchè  effettivamente  essa  non  è  un  vero  concetto  :  un  concet- to,  nel  senso  rigoroso  della  parola,  è  la  rappresentazione  di  ciò che  vi  ha  di  comune  in  molti  oggetti,  ma  la  nozione  dello  spazio si  riferisce  a  un  oggetto  unico,  perchè  lo  spazio  è  uno  solo.  (Il  luogo, di  cui  Platone  nel  Timeo  fa  un  principio  e  un  elemento  delle  cose distinto  dalle  Idee,  non  è  né  uno  spazio  particolare  né  l'Idea  ge- nerale degli  spazi  particolari,  ma  lo  spazio  infinito,  l'insieme  di tutti  gli  spazi  particolari)  Cfr.  Kant  Kslel.  trasccndf-nt,  §  2  n.  3  e 4  e  g  4  n.  4  e  ò.  ài  quale  riguardando,  sogniamo  e  diciamo  che  è  neces- sario che  tutto  ciò  che  esiste  sia  in  qualche  luogo  e  oc- cupi uno  spazio  determinato,  e  che  ciò  che  non  è  né  in terra  né  in  cielo  non  ha  alcuna  esistenza»  (52  a-b)  (1). -^è  in  terra  né  in  cielo— ciò  che,  come  mostrano  le  pa- role seguenti,  si  riferisce  alle  Idee— vuol  dire  evidente- mente: in  nessun  luogo.  L'Idea  è  fuori  dello  spazio  nello stesso  senso  in  cui  è  fuori  del  tempo;  cioè  in  quanto  l'e- sistere in  un  luogo  determinato,  come  V  esistere  in  un tempo  determinato,  sono  delle  determinazioni  che  com- petono a  tal  individuo  particolare,  ma  non  entrano  nel concetto  generale.  Com'è  possibile  ciò?  A  questa  do- manda non  vi  ha  che  una  risposta  :  è  che  V  Idea  non è  che  il  concetto   generale  realizzato  ;  e  V  apparire  e  il disparire  degl'individui  sono  delle    circostanze  che  non (1)  Seguono  le  parole:  «  Tali  determinazioni  e  altre   simili   at- tribaiamo  pare  all'essere  che  esiste  veramente  e  che  non  vediamo in  un  sogno;  e  perchè  noi  sogniamo,  siamo  incapaci  di  distinguere  » come  uomini  svegliati,  e  di  dire  la  verità,    cioè   ohe   l' immagine, poiché  ciò  in  cui  è  nata  non  le  appartiene,  ed  è  il  fantasma  sem- pre agitato  d'un  altro  essere,   deve    per   conseguenza    esistere   in qualche  altra  cosa,  attaccandosi  in  qualche  maniera  all'esistenza, o  non  essere  assolutamente  niente  (Platone  dà  qui  lo  spazio,  iden- tico per  lui  alla  materia,  come  un  altro  elemento  che  deve  aggiun- gersi necessariamente  all'  elemento  generale,  cioè  all'  Idea,  perchè sia  possibile  l'esistenza  del  particolare;  in  altri  termini  fa  dello  spa- zio ode\ìa,iriAteTÌSLÌ\  pi  incipiurn  individ natio )iis,  Cfr.  ii^upplem.  C,  il, sulla  fine);  ma  l'essere  che  veramente  è,  è  difeso  da  questa  ragione vera  ed  esatta  che,   sinché  due  cose  saranno  differenti,  esse  non  po- tranno mai  essere  l'una   nell'altra  in  modo  da  essere  al  tempo  stesso due  cose  e  una  sola,  „  Per  queste  due  cose  che  non  possono  essere l'una  nell'altra  Platone  non  intende,  come  gli  fa  dire  Cousin  nella sua  traduzione,  l'essere  vero  e  l'immagine,  ma  l'essere  vero  e  lo  spa- zio ;  perohè  l' intenzione  di  tutto  questo  luogo  ò  di  escludere  dal- l' essere  vero  l' esistenza  nello  spazio. concernono  il  concetto  generale.  Dicendo  poi  che  T  I- dea  non  va  in  altro,  Platone  non  esclude  la  presenza delle  Idee  n^lle  cose,  ma  ci  avverte  che  noi  non  dobbia- mo immaginare  che,  quando  una  nuova  forma  apparisce in  qualche  parte  della  materia,  cioè  dello  spazio,  l'Idea corrispondente  a  questa  forma  si  muova,  per  dir  cosi,  e vada  ad  occupare  questa  parte  della  materia,  ma  il  na- scere e  il  perire  delle  cose  non  importa  nelle  Idee  nes- sun cangiamento.  È  un  concetto  analogo  a  quello  che  e- sprime  nel  luogo  citato  del  Convito,  quando  dice  che  le cose  belle  partecipano  al  Bello,  ma  «  in  modo  che  na- scendo esse  0  parendo,  niente  gli  si  aggiunga  o  gli  si sottragga,  e  niente  patisca  ». III.  Vi  ha  una  classe  d'Idee,  a  cui  Platone  dà  un contenuto  che  sembra,  ed  è  in  realtà,  a  prendere  la  cosa a  rigor  di  logica,  incompatibile  con  la  loro  immanenza. Alcuni  concetti  non  si  applicano  rigorosamente  alle  co- se, non  corrispondendo  esattamente  ai  loro  attributi,  ma sono  piuttosto  come  degl'  ideali  a  cui  questi  non  si  con- formano che  d'una  maniera  più  o  meno  approssimativa. Tali  sono  i  concetti  che  ci  servono  di  norma  per  giudi- care le  azioni  morali — la  giustizia  assoluta,  il  dritto  as- soluto non  si  realizzano  mai  perfettamente  negli  uomi- ni—; tali  sono  pure  quelli  delle  figure  geometriche — nel- la natura  nrn  vi  hanno  delle  rette,  dei  cerchi,  delle hfere,  rigorosamente  conformi  alla  definizione  geometri- ca—. In  questi  casi  noi  ci  serviamo  ordinariamente  dello stesso  nome  per  significare  tanto  l'attributo  cousiderato nel  suo  conc<  tto  assoluto,  quanto  l'attributo  delle  cose reali  cniTÌ>pondenti,  ma  inadequatamente,  a  questo  con- cetto :  ma  questo  nome  è  in  un  certo  modo  equivoco, poiché  è  evidente  che  giusto,  retto,  sferico  e  i  sostanti- vi corrispondenti,  quando  significano  la  giustizia  afso- luta  e  la  rettitudine   e  la  sfericità  assolute   esattamente - conformi  allo  definizioni  geometriche,  hanno   un   senso differente  che  quando  significano    la   giustizia    relativa degli  uomini  e  la  rettitudine  e  la  sfericità  relative  delle linee  e  dei  solidi  reali.  Ora  alle   Idee   corrispondenti   a questi  nomi  Platone  dà  per  contenuto    V  attributo    con- siderato nel    suo    concetto    assoluto  —  p.  e.  V  Idea    del giusto  rappresenta  la  giustizia  assoluta,  Tldea  della  retta e  della  sfera  la  retta  e  la  sfera  geometriche— e  ammet- te al  tempo  stesso  che  queste  Idee  sono  le  Idee  delle  co- se reali  a  cui  i  nomi  non  convengono  che  in   un  penso relativo— p.   e.   che  gli  uomini  giusti,  le  rette   e  le  sfe- re imperfette  della  realtà  sono  tali  per  la  partecipaziodeiridea  del  giusto,  della  retta  e  della  sfera,  cioè  della giustizia  assoluta  e  della  rettitudine  e  sfericità   assolute rigorosamente   conformi    alle  definizioni  geometriche—. Il  luogo  più  importante  per   questa  parte   della   dot trina  delle  Idee  è  il  seguente  del  Fed&ne:  «  Diciamo noi  che  l'eguale  è  qualche  cosa  V  io  non  parlo  di  un  le- gno uguale  a  un  legno  né  di  una  pietra  uguale  a  una pietra  né  di  altre  cose  simili,  ma  di  qualche  altra  cosa oltre  di  queste,  dell'eguale  stesso  :  diciamo  noi  che  esso è  qualche  cosa  o   no?  —  Lo  diciamo,  per  Giove!,  disse Simmla,  e  meravigliosamente  —  E    sappiamo    che   cosa già  ?— Senza  dubbio— Donde  abbiamo  attinta  questa  co- noscenza V  non  è  da  questi  oggetti  di  cui  abbiamo  par- lato ?  vale  a  dire  non  è  vedendo  dei  legni,    dei   sassi  o altri  oggetti  eguali,  che  abbiamo  concepito  l'eguale,  che è  diverso  da  essi?  0  non  ti  sembra  diverso?  Considera la  cosa  in  questo  modo  :  i  legni  e  i  sassi  eguali  non  ci sembrano,  senz'aver  cangiato,  ora  eguali  ora  ineguali  ? —  Si  — Ma  l'eguale  stesso  ti  è  mai   sembrato   ineguale, o  l'eguaglianza  ineguaglianza  ?— Giammai,  o  Socrate- Dunque  non  sono  la  stessa  cosa  questi  eguali  e  l'eguale stesso— Non  mi  pare  affatto  che  siano  le  stessa  cosa,   o Socrate—Nondimeno  è  da  questi  eguali,  quantunque  di* versi  dall'  eguale  stesso,  che  hai  attinto  col  pensiero  la conoscenza  di  esso.  —  È  vero  —  Sia  che  esso  somigli loro  sia  che  non  somigli  ?  — Certamente  —  Ciò  infatti non  ha  alcuna  importanza  ;  perchè  dacché  la  vista d' una  cosa  ci  fa  pensare  a  un'  altra  cosa,  sia  che questa  le  somigli  sia  che  non  le  somigli,  vi  ha  ne- cessariamente reminiscenza— Senza  dubbio— Ma,  ripigliò Socrate,  quando  vediamo  dei  legni,  o  altri  oggetti  di  quelli di  cui  abbiamo  parlato,  eguali,  ci  sembrano  essi  eguali come  r  eguale  stesso,  o  piuttosto  vi  manca  qualche  cosa perchè  siano  tali  qual  è  l'eguale  stesso?— Vi  manca  mo'to— Conveniamo  dunque  che  quando  alcuno,  vedendo  una cosa,  pensa  che  questa  tende  ad  essere  tale  quale  è  un'altra cosa,  ma  senza  poter  esserlo  perf»  ttamente,  e  restandole inferiore  ;  è  necessario  che  quegli  che  ha  questo  pensiero preconosca  già  quell'  altra  cosa  a  cui  egli  dice  che  la prima  rassomiglia  d'una  maniera  imperfetta  ?— È  neces- sario—Che dunque  ?  non  è  questo  che  ci  accade  per  gli oggetti  eguali  e  l'eguale  stesso  ?— Certamente— Dunque necessariamente  noi  abbiamo  avuto  Ja  conoscenza  del- l'eguale prima  di  quel  tempo,  in  cui  vedendo  per  la prima  volta  degli  oggetti  eguali,  pensammo  che  questi tendono  ad  essere  quale  è  1'  eguale,  ma  non  sono  per- fettamente tali   Così  è  v>. Questo  luogo,  benché  il  suo  scopo  diretto  s-a  di  di- mostrare la  preconosceuza  dell' Idea  e  la  sua  reminiscenza all'  occasione  della  percezione  sensibile,  pu'e  contiene, come  abbiano  visto,  una  prova  della  sua  esistenza:  è un  caso  particolare  di  quella  a  cui  allude  Aristotile  in Mei.  I.  IX.  3,  rimproverandole  di  condurre  ad  ammet- tere Idee  di  i  relativi,  e  che  è  esposta,  quantunque  d'una maniera  alquanto  confusa,  nel  commento  d’Alessandro d’Afrodisia.  D'una  maniera  generale  possiamo  fb/» mulare  questa  prova  cosi  :  Al  concetto  deve  corrispon- dere un  oggetto  reale  ;  ma  vi  hanno  dei  concetti,  ai quali  niente  corrisponde  rigorosamente  tra  gli  oggetti sensibili  ;  per  conseguenza  a  questi  concetti  devono  cor- rispondere degli  oggetti  distinti  dai  sensibili  ;  sono  le Idee. Le  Idee  che  Platone  riguarda  come  degli  esemplari che  nelle  cose  non  si  realizzano  se  non  d'  una  maniera imperfetta,  appartengono  costantemente  alla  classe  che noi  abbiamo  detta;  vale  a  dire  corrispondono  sempre  a nomi  significanti  degli  attributi,  che  sono  suscettibili  di diversi  gradi,  e  che  hanno  un  grado  massimo  al  di  là di  cui  alcun  altro  non  potrebbe  esserne  concepito  ;  grado massimo  il  quale,  quantunque  non  sia  che  un  semplice ideale  del  nostro  spirito,  può  tuttavia  considerarsi  come il  vero  significato  del  nome  preso  nel  senso  assolutamente rigoroso.  Cosi  nel  Fileho  62  a-b  il  circolo  e  la  sfera stessa  divina  sono  riguardati  come  regolari,  e  opposti, come  tali,  a  questi  cerchi  e  a  questa  sfera  umana  riguar- dati come  irregolari.  In VELIA (vedasi) e  si  sup- pone   che   il    genere    stesso  della   scienza  sia   molto  più (1)  L'argomento,  nella  forma  in  cui  l'e<4pone  Ales<9andro  d'  A- frodisia,  può  rias;4umersi,  io  credo,  cosi:  I  predicati  convengono  al- le cose  sia  esattamente  sia  come  ad  immagini  :  p.  e.  uomo  può designare  sia  gli  uomini  reali  sia  degli  uomini  dipinti.  Cosi  un predicato,  p.  e.  eguale  y  che  non  conviene  alle  cose 'sensibili  esat- tamente—perchè queste  non  sono  mai  tra  loro  perfettamente  e- guali  deve  convenire  ad  esse  come  ad  immagini  ;  e  per  conse- guenza deve  ammettersi  l'esistenza  d'un  esemplare,  di  cui  le  cose sensibili  sono  delle  immagini,  e  a  cui  il  predicato  conviene  esat- tamente. Cfr.  Arist.  Met.  1.  III.  II.  19-20. ?! esatto  (àxpi^éoxspov)  della  scienza  presso  di  noi,  e  cosi pure  la  bellezza  e  ogni  altra  cosa  (vale  a  dire  ogni altra  cosa  suscettibile  di  diversi  gradi  di  esattezza  sino all'esattezza  assoluta);  e  poi,  in  conformità  di questa  supposizione,  T  Idea  della  scienza  e  della  pa- dronanza vengono  chiamate  la  scienza  e  la  padronanza assoluta  (àxpipsoxdxy]).  Nella  Bep,  il2  b-c  Socrate  dice ch'egli  ha  ricercato  cosa  sia  la  giustizia  stessa  a  scopo di  paradigma,  poiché  è  impossibile  che  T  uomo  giusto sia  perfettamente  tale  quale  è  la  giustizia  ;  e  nelle  di- verse  Etiche  d'Aristotile  o  che  portano  il  suo  nome (Eth.  Nic.  1.  I.  VI.  5-6,  Magri.  Mar.  1.  I.  I.  22,  Eth. Eud.  1.  I.  Vm.  1-2,  H,  18)  ai  filosofi  che  ammettono  un!I- dea  del  bene  è  attribuita  la  dottrina  .^he  quest'  Idea  è Il  massimo  di  tutti  i  beni.  Dai  luoghi  aristotelici  indi-, cati  si  vede  anche  che  la  parola  stesso  (aùxó^  aggiunta al  nome  per  denotare  l'Idea,  nel  tempo  stesso  che  indi- cava che  l'attributo  di  cui  trattavasi  era  V  oggetto  del concetto  astratto  e  generale,  significava  pure  che  que- st'attributo doveva  prendersi  in  un  senso  assoluto  (cioè nella  sua  purezza,  nel  massimo  dei  gradi  di  cui  esso  è suscettibile). Questa  dottrina  di  Platone  che  V  Idea  rappresenta l'attributo  nel  suo  grado  assoluto,  è  espressa  anche  sotto un'altra  forma,  cioè  che  l'attributo  Idea  non  partecipa dell'attributo  contrario,  mentre  le  cose  sensibili,  subordi- nate all'Idea,  partecipano  sempre  di  tutti  e  due  gli  at- tributi contrari.  Si  è  gi^  visto  nel  luogo  citato  del  J^e- done  che  le  cose  eguali  sembrano  ora  eguali  ora  ineguali (cioè  possono  riguardarsi  tanto  dell'una  quanto  dell'al- tra maniera),  mentre  l'eguale  stesso  non  può  mai  sem- brare ineguale,  o  l'eguaglianza  ineguaglianza.  Similmente nel  Convito  il  Bello  in  se  stesso,  che  è  uniforme, sincero,  puro,  immisto,  si  oppone    alle  cose  belle,    che -  135  - sono  belle  iu  una  parte,  brutte  in  un'altra,  belle  per  un rispetto,  brutte  per  un  altro,  belle  per  alcuni,  brutte  per altri,  ecc.  Neir  Ippia  maggiore,  avendo  il  sofista risposto  che  il  bello  in  se  stesso  è  una  bella  vergine,  So- crate gli  fa  osservare  che  una  bella  vergine  è  brutta  in  com- para/àone  di  una  dea,  e  conclude  che,  interrogato  che cosa  sia  il  bello  stesso,  egli  ha  risposto  una  cosa  che  é bella  quanto  brutta.  Nella  Rep.  523  a-52(>  a  si  di- ce che  il  senso  vede  l'uno  e  il  multiplo,  il  molle  e  il duro,  ecc.  confusi  Tuno  con  l'altro,  perchè  la  stessa  co- sa apparisce  al  tempo  stesso  una  e  multipla,  molle  e  du- ra, ecc.,  ma  l'intelligenza  li  distingue,  vedendoli  cia- scuno per  se  stesso  e  separato  dal  suo  contrario;  e  si  op- pone l'unità  ideale,  che  è  l'oggetto  della  matematica,  al- le unità  corporee,  che  sono  l'oggetto  dei  sensi,  in  quan- to queste  contengono  sempre  una  moltiplicità,  mentre quella  è  senza  moltiplicità  alcuna  (1).  Questo  luogo  ha qualche  analogia  con  quello  citato  del  Fedoney  perchè  vi si  attribuisce  ai  dati  della  percezione  sensibile  che  im" plicano  degli  attributi  contrari,  la  proprietà  di  sollevare l'intelligenza  alla  contemplazione  delle  Idee,  eccitandola a  separare  ciò  che  è  confuso  nella  sensazione.  Infine,  nel- la stessa  opera,  479,  si  prova  che  il  solo  essere  vero  è  l'Idea  e che  le  cose  sono  un  misto  di  essere  e  di  non  essere,  mostran- do che  una  cosa  è  e  non  è  al  tempo  stesso  ciò  che  si  dice essere,  perchè  non  vi  ha  alcuno  dei  molti  belli  che  non sembri  anche  brutto,  dei  molti  giusti  che  non  sembri  in- giusto,  dei  molti  santi  che  non  sembri  profano,  ecc.  In questi  due  luoghi  della  Repubblica  agli  attributi  contra- ri, suscettibili  di  gradi  diversi,  ma  che  hanno   pure   un (1)  Cfr  Sof.  245  a-b,  VELIA (vedasi)  b-e. maximum  che  può  riguardarsi  come  il  significato  del nome  inteso  in  tutto  il  suo  rigore,  si  aggiungono  quelli in  cui  vi  ha  una  diversità  di  gradi,  ma  non  un  grado assoluto  al  di  là  del  quale  non  possa  concepirsene  un altro,  quali  grande^  piccolo,  grave,  leggiero,  ecc.  Queste due  classi  di  attributi  hanno  il  carattere  comune  di  non convenire  alle  cose  che  d'una  maniera  relativa  e  in  com- parazione con  altre  cose  :  un  uomo  si  dice  giusto  in quanto  è  più  giusto  di  altri  uomini— perchè,  come  dice Platone,  nessun  uomo  giusto  é  tale  quale  è  lagiustiz'a ste-sa  —,una  linea  (sensibile)  si  dice  retta  in  quanto  è meno  flessuosa  di  altre  linee,  ecc.,  della  stessa  maniera che  un  oggetto  si  dice  grande,  piccolo,  grave,  leggiero, eec.  in  quanto  è  più  grande,  più  piccolo,  più  grave,  più leggiero,  di  altri  oggetti. La  proposizione  che  la  bontà,  la  giustizia,  la  rettitu- dine, la  rotondità,  ecc.  Idee  rappresentano  questi  attri- buti ad  un  grado  assoluto,  mentre  essi  nelle  cose  non  si trovano  che  ad  un  g'-ado  relativo  e  comparativo,  è  in- compatibile, come  abbiamo  detto,  con  la  proposizione che  queste  Idee  sono  nelle  cose.  La  contraddizione  sta in  ciò,  che  Timmanenza  delle  Idee  nelle  cos-d  significa  la loro  identità  con  gli  attributi  delle  cose  concepiti  d'una maniera  generale,  ma  la  bontà,  la  giustizia,  la  rettitu- dine, la  rotondità,  ecc.  assolute  nen  possono  identificarsi con  gli  attributi  delle  cose,  perchè  Platone  ammette  che la  bontà,  la  giustizia,  la  rettitudine,  la  rotondità,  ecc.  delle caie  sono  relative.  Noi  dobbiamo  dunque  costatare  questa contraddizione  in  Platone:  ma  vi  hanno  delle  considerazioni che  la  spiegano,  e  ch^  mostrano  che  la  dottrina  di  cui parliamo,  quantunque  contradditoria  al  punto  di  vista dell' i«iimaneu/.a,  è  nondimeno  a  questo  punto  di  vista che  é  nata,  e  non  a  quello  della  trascendenza. Noi  sappiamo  che  uno  dei  principii  del  sistema  delle -  136  - Idee  è  che  il  concetto  e  la  scienza  s!  riferiscono  all'Idea  : da  questo  principio  segue  che  per  ogni  concetto  e  per ogni  conoscenza  scientifica  si  deve  ammettere  nn*  Idea che  ne  sia  Toggetto.  Ora  lo  spirito  umano  si  forma  necessariamente il  concetto  del  buono,  del  giusto,  della retta,  del  cerchio,  della  sfera,  ecc.  assoluti  :  di  più  la scienza  che  tratta  del  buono,  del  giusto,  della  retta,  del cerchio,  della  sfera,  ecc.  si  riferisce  a  questi  concetti  as- soluti, poiché  l'etica  non  ha  per  oggetto  le  nozioni  mo- rali in  quanto  si  realizzano  d'una  maniera  relativa  nella condotta  degli  uomini,  ma  come  norme  di  questa  con- dotta, cioè  come  assolute,  e  cosi  la  geometria  non  ha  per oggetto  le  figure  approssimativamente  regolari  degli  og- getti reali,  ma  le  figure  perfettamente  reg:olari  che  non  esi- stono se  non  nella  definiziooe.  Platone  non  poteva  dunque rifiutare  l'esistenza  delle  Idee  corrispondenti  ai  nostri  con- cetti assoluti^  senza  mettersi  in  contraddizione  con  uno  dei priDcipii  fondamentali  del  sistema  delle  Idee;  e  si  noti che  questi  concetti  si  trovano  specialmente  nella  sfera dentro  cui  si  muovono  le  ricerche  più  abituali  di  Pitone,  cioè  Tetica  e  la  matematica.  L'ammis^jione  di  que- sta classe  d'Idee  è  inconciliabile  col  principio  che  le  I- dee  sono  gli  attributi  stessi  delle  cose  :  per  essere  coe- rente in  un  punto,  Platone  diviene  dunque  incoerente  in un  altro;  ma  la  premessa  che  lo  conduce  ad  ammettere Idee  che  non  potrebbero,  in  buona  logica,  identificarsi con  gli  attributi  delle  cose,  quantunque  lo  forzi  ad  una conseguenza  inconciliabile  col  principio  dell'immanenza delle  Idee,  suppone  nondimeno,  considerata  per  se  stessa, questo  principio,  la  dottrina  platonica  che  il  concetto  e la  scienza  si  riferiscono  alle  Idee  essendo,  come  abbia- mo visto,  una  delle  prove  più  evidenti  della  loro  imma- nenza. Ma  ciò  ehe  si  deve  sovratutto  notare  è   che   la   con- traddizione che  vi  ha  tra  rasssolutezza  della  bontà,  giu- stizia, l'ettitudine,  rotondità,  ecc.  Idee  e  l'immanenza di  queste  Idee  nelle  cose,  non  esiste  che  al  nostro  punto di  vista,  secondo  cui  bontà,  giustizia,  rettitudine,  ro- tondilà^  ecc.  sono  dei  nomi  equivoci,  che  hanno  un  senso quando  indicano  questi  attributi  nel  loro  grado  as- soluto, e  un  altro  quando  indicano  gii  stessi  attributi quali  si  trovano  nelle  cose,  cioè  in  un  grado  relativo,  e per  conseguenza  la  bontà,  giustìzia,  rettitudine,  roton- dità,  ecc.  assoluto  non  possono  identificarsi  con  quelle che  sono  attributi  delle  cose.  Questo  punto  di  vista  è  il vero,  ma  non  è  quello  di  Platone.  La  bontà,  la  giusti- zia, la  rettitudine,  la  rotondità,  ecc.  in  se  stesse,  cioè astrattamente  considerate,  sono,  per  Platone,  come  ab- biamo visto,  la  bontà,  la  giustizia,  la  rettitudine,  la  ro- tondità, ecc.  assolute.  Ciò  non  è  logico,  perchè  il  con- cetto astratto  di  ciascuno  di  questi  attributi  dovrebbformarsi  facendo  astrazione  da  tutti  i  gradi  di  cui  essi sono  suscettibili,  tanto  dai  relativi  quanto  dall'assoluto. Se  noi  ci  domandiamo  il  perchè  di  questo  difetto  di  lo- gica in  Platone,  la  risposta  è  facile  :  è  che  dopo  aver fatto  delle  Idee  della  bontà,  della  giustizia,  della  retti- tudine, della  rotondità,  ecc.  assolute,  Platone  non  ha  al- tro mezzo  per  conciliare  l'esi^^tenza  di  queste  Idee  con la  loro  immanenza  nelle  cose,  che  quello  di  ammettere che  la  bontà,  giustizia,  rettitudine,  rotondità,  ecc.  attri- buti delle  cose,  considerate  in  astratto,  sono  la  stessa  cosa che  questi  stessi  attributi  elevati  ad  un  grado  assolu- to. Come  può  Plalooe  identificare  T attributo  considerato in  astratto  con  l'attributo  elevato  ad  un  grado  assoluto? Anche  qui  la  risposta  è  facile,  perchè  essa  si  desume naturalmente  dall'opposizione  che  Platone  stabilisce  tra |e  Idee  di  ciascuno  di  questi  attributi,  nelle  quali  l'at- tributo esiste  nella  sua  purezza,  e  le  cose  subordinate  a queste  Idee,  nelle  quali  l'attributo  esiste  mescolato    col suo  contrario.  Platone  pensa  che,  per  concepire   la  c^iu. stizia,  la  rettitudine,  ecc.    in  se  stesse,  bisogna  separare —nel  senso  della  parola  separare  (xwpi^e.v)  che  abbiamo spiegato  sulla  fine  del  n.  Vl-ciascuno  di   questi    attri- buti  da  tutti  gli  altri  che  coesistono  con  esso  nelle  cose, per  conseguenza  anche  dall'attributo  contrario;  la   giù' stizia  in  se  stessa  sarà  dunque  una  giustìzia  pura,  sen- z'alcuna  mescolanza  d*  ingiustizia,  vale  a  dire   la  giù- stizia  assoluta;  la  rettitudine  in  se  stessa,  una  rettitudine senz'alcuna  mescolanza  di  flessuosità,  vale  a  dire  la  ret- titudine assoluta,  conforme  rigorosamente  alla  defìnizio- ne  geometrica;  e  il  simile  per  tutti  gli  altri  attributi  di questo  genere.  Gli  uomini  giusti,  le  linee   rette   (delPe- sperienza),  ecc.  sono  tali  dunque  per  la  partecipazione della  giustizia,  della   rettitudine,  ecc.    assolute;   se   con tutto  ciò  la  loro  giustizia,  la  loro    rettitudine,    ecc.   non è  assoluta,  è  perchè  partecipano  anche  airingiustizia,  al- la  flessuosità,  ecc.  Dalla  mescolanza  delle  due  Idee*op- poste,  quantunque  Tuna  e  Taltra  assolute,    nascono    crii attributi  relativi    delle  cose,  che  sono   intermediari   Tra i  due  assoluti  opposti,  e,  possiamo  anche  ammettere,  dalla diversa  proporzione  in  cui  le  due  Idee  opposte  sono  me- scolate-perche Platone  pensa  che  si  può   partecipare  a unldea  a  gradi  diff'erenti  (l)-i  gradi  differenti  di  que- sti  attributi;  come  le   diverse    gradazioni    del   grigio -e tutti  i  colori,  come   ammette    Platone   nel    Protagora^ nascono  dalla  mescolanza  dei  bianco  e  del nero della luce  e  dell'oscurità.  VELIA (vedasi)  a:  le  coso  sono  slmili  a  misura  che  partecipano della  Somiglianza,  dissimili,  della  Dibsomigl] tianza. Alcuni  ammettono  che  la  dottrina  di  cui  parliamo  ha un  valore  generale  per  tutte  le  Idee,    cioè  che    Plalooe concepisce  ognliea  come  un  tipo  di   perfez  one    a    cui gl'individui  non  si  conformano  che  d'una    maniera   ap- prossimativa. È  un    punto  di  vista    che    potrebbe   sem- brare giustificato  da  questa  riflessione,  che    l'individuo non  corrisponde  mai  esattamente  al    tipo   normale    della sua  specie,  che  è  come  il  piano  che  la    natura    sembra prendere  per  regola  di  tutte  le  sue  produzioni  in  questa specie,  e  al  quale,  come  dice  Kant,   «  la  specie  tutta  in- tera è  solo  adeguata,  e  non  questo  o  quell'individuo  par- ticolare» \\),  In  ogni  indiviauo,  anatomicamente,  vi  hA sempre  qualche  anomalia  (2),  e  le  sue  funzioni  vitili^on si  compiono  forse  mai  tutte  d'una  maniera  perfettiMPente regolare.  Ma  l'Idea  deve  essere  concepita,  mettendo  da parte  tutto  ciò  che  vi  ha  ne;> l'individui   di   eccezionale, e  non  tenendo  conto  che  di  ciò  che  è  regolare,  perchè  una rappresentazione  qualsiasi  dell'Idea  sarebbe  impossibile, se  volessimo  farvi  entrare  solamente  gli   attributi    degli individui  della  specie   che   sono   rigorosamente  generala escludendone   quelii  che  sono   semplicemente   la  regola, ma  con  qualche  eccezione.  Cosi  l'Idea  sarebbe  come  una media  di  tutti  gl'individui,  come   Kant dice della    sua idea  normale  estetica  (3);  e  potrebbe  paragonarsi    ai  rt- tratti  generici  o  tipici  di  Galton,  ottenuti  per  la  sovrap- posizione di  diverse  immagini,  ritratti  che  sono  più  belli, a  quanto  si  dice,  di  quelli  particolari  di  cui  sono  la  me- (V)  Crit,  del  qiudizio,  %  XVII. (2)  V)  Darwin  Origine  delVvoYAO  e.  4. (3)  Critica  del  giudizio»  ibid. —  138  - dia,  e  ai  quali  i  concetti   generali    sono    stati   effettiva- mente paragonati  (1). Qualunque  sia  il  valore  intrinseco  di  questo  punto di  vista,  non  si  ha  alcuna  ragione  di  affermare  che  esso sia  stato  quello  di  Platone.  8e  Platone  avesse  determi- nato così  l'Idea,  egli  si  sarebbe  posto  in  contraddizione coi  principii  generali  del  sistema,  secondo  cui  l'Idea  è ciò  che  vi  ha  di  uno  e  lo  stesso  in  tutti  gl'individui  della specie  :  ora  noi  non  possiamo  ammettere  altre  contrad- aizioni  a  questi  principii  generali  che  quelle  che  risul- tano esplicitamente  dai  testi.  Ma  questi  ci  autorizzano ad  affermare  aolamenie  che  Platone  ha  riguardato  come esemplari  a  cui  le  cose  sono  inadequate,  le  Idee  corri- spondenti ai  concetti  che  non  trovano  un'applicazione rigorosa  nel  mondo  reale.  L'  argomento  del  Fedone  74 per  dimostrare  che  l'Idea  è  qualche  cosa  di  distinto  da- gli oggetti  sensibili,  e  quello  analogo  esposto  da  Ales- sandro d'Afrodisia,  non  potrebbero  applicarsi  al  di  fuori di  questi  concetti  :  non  potrebbe  dirsi  degli  uomini  o  dei cavalli  che  l'attributo  uomo  o  cavallo  non  conviene  ad essi  rigorosamente,  comesi  dice  doll'attr  bufo  eguale  [)er gli  oggetti  eguali;  e  meno  ancora  ch'essi  sono  anche  non uomini  0  non  cavalli,  come  Platone  dice  che  g'i  oggetti eguali  sono  anche  ineguali,  i  belli  brutti,  i  giusti  ingiusti, i  santi  profani,  ecc.  Per  conseguenza,  a  difetto  di  prove  che permettano  di  attribuire  a  Platone  questa  dottrina  <  2),  noi (1)  V.  Pelboeuf  //  hohììo  p  i  sortni  pag.  198. (2)  Una  prova  di  questa  dottrina  potrebbe  vedersi  nel  luogo  seguente della  Repubblica  :  «  Gli  ornamenti  di  cui  la  volta  dei  »  ieli  è  decorata, poiché  appartengono  all'ordine  delle  cose  visibili,  devono  certamente  ri- guardarsi come  ciò  che  vi  ha  di  più  bello  e  di  piu  perfetto  nel  loro    or- possiamo  dispensarci  di  esaminare  se  e  come  essa  sia  com- patibile con  quella  dell'immanenza  delle  Idee. IV.  Vi  hanno  dei  luoghi  in  Piatone  ch^,  intesi  alla lettera,  significherebbero  certamente  la  trascendenza  : ma  in  essi  i  concetti  platonici  non  sono  esposti  d'  una maniera  puramente  scientifica,  ma  intimamente  congiun- ti, o,  a  dir  meglio,  fusi,  in  modo  da  perdere  il  loro  a- spetto  genuino,    con    elementi   evidentemente  fantastici, dine,  ma  sono  molto  delicienti  se  si  paragonano    ai    veri  (alla    vera    ma frnilioenza,  come  traduce  Cousin),  cioè  ai  movimenti  con  cui  quella    che è  velocità  e    quella  che  è  lentezza  {zò  òv  Ta^OC  ^aì  ri  O'JOa   ^pOL^ùir)^ cioè  la  velocità  e  la  lentezza  in  se  stesse,    in  astratto,   perchè    queste  e- spressioni   equivalgono  a    5    lOTl   xa^Ote»    0   lav.   ^paSÓTYj^)  nel  vero (àXr^8lV(j))  numero  e  in  tulle  le  vere  (àXY]Béa'.)  figure  si  muovono  runa rapporto  aWaltra  e  phuovovo  ciò  che  ai  esse    inerisce    (xà     èvóvxa)  : le  quali  cose  possono  apprendersi  solamente  col  pensiero  e  con  la  ragione ma  non  con  la  vista.  O  pensi  tu  che  possano  apprendersi  con    la    vista? —  No,  diss'egli — Adunque  delia  varietà  che  è  nel  cielo   bisogna    ser- virsi come  di  un  esemplare  per  l'insegnamento  di  quelle  cose,  non  altri- menti che  se  alcuno  vedesse  delle  figure  fatte  da    Dedalo  o    da    un    altro eccellente  artefice  o  pittore.  Se  (}uello  che  le  vedesse  fosse  un  abile  geo- metra, le  stimerebbe  certamente  delle  belle  opere  ;    ma    gli    sembrerebbe ridicolo  di  considerarle  attentamente  per  iscoprirvi  la  verità  degli  eguali, dei  doppi  o  di  qualsiasi  altr>  rapporto  di  misura — K   sarebbe    veramente ridicolo,  disse  Glaucone — Non  far;»  lo  stesso  il  vero   astronomo,  guardan- do i  movimenti  degli  astri  ?  egli  crederà  che  dall'autore  del  cielo   esso  e le  co<?e  che  sono  in  esso  furono  t:ost imiti  della  maniera  più    bella    che   è possibile  ih   tali  opere  :  ma  il  rapporto   della  notte  col    giorno,  e  di  essi col  mese,  e  del  mese  mn  l'anno,  e   dei    periodi    degli    astri   con    questi e  fra  di  loro,  riterrebbe  assurdo  di  credere  che  siano  sempre  della  stessa maniera  e  non  cangino  mai,  quando    sono  aventi    corpo  e  visibili,    e    di cercare  con  ogni  studio  in  queste  cose  delle  verità  rigorose —Certamente ora  clie  ti  ascolto  paie  lo  .>.tes>>o  uncho  a  me,  disse  Glaucone — Trattiamo dunque  l'astronomia  come  la  geometria,  servendoci    dei    problemi,  e   la- i  sceverarli  dai  quali  non  vi  ha  altro  mezzo  die  il  confronto con  le  dottrine  dell'autore  per  cui  non  vi  ha  alcun  .dubbio che  egli  deve  essere  inteso  alla  lettera,  prendendo  per una  dottrina  reale  ciò  che  è  ad  esse  conforme,  e  tutto il  resto  per  un  semplice  rivestimento  poetico  o  un'alle- goria. Queste  rappresentazioni  fantastiche  dei  concetti di  Platone  che,  prese  letteralmente,  proverebbero  la  tra- scendenza delle  Idee,  si  riducono  ai  due  miti  del  rimeo sciamo  là  i  lenomeni  del  cielo  (là  sv  xcji  oOpavco),  se  vogimmo,  per lo  studio  dell'astronomi»,  d'inutile  rendere  utile  quest'organo  del  nostro spirito  Cile  la  natura  ha  destinato  all'i nteKigenza  ^  (Rcp,  1.  VII.  529  cójo  e) Potrebbe  credersi  che  i  movimenti  con  cui  xò  dv  lOtYCC  e  ti 0?>aa  ppadÙTY]^  nel  vero  numero  e  in  tutte  le  vere  figure  si  muovono, ecc.  significhi  le  Idee  dei  movimenti  dei  corpi  celesti;  e  che  il  senso  di questo  luogo  sia  che  i  movimenti  dei  corpi  celesti  non  si  fanno  con  pe- riodi costanti  e,  in  una  parola  .  con  regolarità,  ma  questa  regolarità che  manca  nei  movimenti  reali,  esiste  nelle  Idee  di  questi  movimenti. Ma  Platone  non  dice  tutto  questo:  di  queste  due  proposizioni  egli  arierma la  prima,  ma  non  la  seconda.  Tò  òv  -ò.yo^  e  r^  oooa  ^paÒÙTY)^  sono la  velocità  e  la  lentezza  astrattamente  considerate;  il  vero  numero  e  le vere  figure  sono  quelli  che  formano  l'oggetto  della  matenjatica,  vale  .a dire  dei  numeri  asti  atti  e  al  tempo  stesso  precisi  e  delle  figure  astratte e  al  tempo  stesso  regolari.  Per  ccnseguenza  «  i  movimenti  con  cui  xó  Òv TOtxo^  e  fj  où^a  Ppaò'JTY)^  nel  vero  numero  e  in  tutte  le  vere  fi- gure si  muovono  >  ecc.  ^^ol  dire  :  dei  movimenti  astratti,  cioè  per  con cepire  i  quali  deve  farsi  astrazione  da  qualsiasi  corpo  determinato  e  da ogni  altra  circostanza  in  cui  essi  possono  aver  luogo,  e  non  determinale altra  cosa  che  le  loro  velocità  relative  e  la  natura  delle  linee  che  essi seguono;  di  più  questi  movimenti  astratti  dexono  pensarsi  avvenire  se- condo rapporti  numerici  precisi  e  in  linee  perfettamente  regolari  («  I movimenti  con  cui  xò  òv  xa/o?  e  y^  ouoa  3pa5'Jxr^?  si  muovono  luno rapporto  all'altra significa:  dei  movimenti  più  veloci  e  dei  movimenti più  lenti  considerati  nel  loro  rapporto:  «  muovono  xà    svóvxa:  questi è  dèi  Pedro—\\  chiamo  miti  per  conformarmi  all'uso,  ma sarebbe  forse  più  proprio  di  chiamarli  simboli  o  allegorie — . Nel  Timeo  Platone  ci  racconta  che  il  mondo  è  stato fabbricato  da  un  demiurgo^  il  quale  si  serviva  d' una materia  preesistente,  informe  e  in  un  movimento  disordi- nato,  e  compiva    la  sua    opera    contemplando  le   Idee stessi   movimenti  considerati  assolutamente).   Ma   Platone  non  dice  che questi  movimenti   astratti  siano   le  Idee  dei  movimenti  dei  còrpi  celesti: ciò   è   anche  escluso   dalle   parole   «  in    tutte   le  vere  figure  »,  poiché  i movimenti  dei   corpi  celesti  non   si  fanno  in  «  tutte  le  vere  figure  »,  ma soltanto,  secondo   i  contemporanei  di  Platone,  nella   figura  circolare.  In questo  luogo  Platone  raccomanda  di  studiare  il  movimento  d'una  maniera puramente  ipotetica,    come   la  geometria   studia  le  figure,  supponendo, come  il  pift  conveniente  per  lo  studio,  che  i  movimenti  si  facciano  secondo rapporti  numerici  precisi  e  in  'inee  perfettamente  regolari,  perchè  questa supposizione  è  necessaria   per  sottometterli  a  un  calcolo  rigoroso  ;  senza curarsi   se   i   movimenti  reali   della  natura  corrispondano  o  no  ai  movimenti  ipotetici   della   teoria  (anzi  essendo  sicuri  che  non   vi   corrispon- dono  mai    esattamente),   come    il    geometra   non   si  cura  se  nel  mondo reale   esistano   0   no   delle   figure  conformi  alle  definizioni   geometriche. Platone  vuole  che  V  astronomia  si   consideri  sovratutto   come  una  occa- sione per  questo  studio  ipotetico  del  movimento:  è  che  lo  studio  di  que- sta  scienza    ha   sovratutto  per    lui   il  valore  d'un  esercizio  matematico; la  sua    utilità   non    è  tanto  per  la   conoscenza  dei  movimenti  reali  degli astri  quanto  per  i  problemi  matematici  a  cui  dà  luogo  la  considerazione di    questi    movimenti    («  studiano   l' astronomia,    come   la  geometria,  in grazia  dei  problemi,  e  lasci;imo  là  le  cose  del  cielo  »).  Le  scienze  ohe  nell'e- ducazione platonica  di  cui  nel  VII  della  Repubblica,  formano  la  propedeutica della  dialettica,  hanno  lo  scopo  di  svegliare  il  bisogno  e  di  fornire  pre- ventivamente un  tipo  approssimativo  della  conoscenza  assoluta^  cioè  di  una scienza    puramente  deduttiva  che   lo    spirito   sviluppa   dal    suo  proprio fondo.  Ora  a  questo  scopo  non  pos.sono  servire  che  le  matematiche  (scienza dei  numeri  e  geometria):  ne  segue  che  le  scienze  affini,  come   l'astrono- mia, che  Platone   riunisce   con  le  matematiche  sotto  il  nome  comune  di Siocvota,   non  hanno  per  lui  del  valore,  quasi  esclusivamente,   che  come applicazioni  delle  matematiche. BE»«« ^«*i  r éoine  raodelll;  ciò  ohe,  se  dovesse  prendersi  sul  serio, implicherebbe  certamente  la  separazione  tra  il  modello e  la  copia,  le  Idee  e  le  cose.  Il  carattere  mitico  del  rac- conto del  Timeo  è  generalmente  riconosciuto  dagl'  inter- preti modp-rni  :  ma  i  più  ammettono  che  questo  e  gli altri  miti  filosofici  che  si  trovano  in  Platone  siano,  non già  il  rivestimento  fantastico  di  coccetti  che  1'  autore  è pure  in  grado  di  determinare  d'una  maniera  scientifica, vale  a  dire  dei  simboli,  ma  dei  convincimenti  reali  d- Platone,  il  quale  là  dove  i>li  mancava  il  concetto  tìlosoi fico,  vi  avrebbe  supplito  con  descrizioni  fantastiche  e  poe- tiche. Noi  non  possiamo  trattare  qui  questa  quistione  della natura  del  mito  del  Timeo,  non  avendo  ancora  stabilito  i dati  necessari  per  risolverla:  perciò  devo  rinviare  al Siipplemenio  C,  n.  IV.  Ivi  vedremo  che  la  cosmogonia del  TiTìuoè  un  senrplice  simbolo,  qual  è  la  dottrina  che questo  simbolo  rappresenta,  e  perchò  Piatene  ha  pre- ferito la  forma  simbolica  a  un'  esposizione  puramente scientifica.  Sono  dei  punti  che  ci  sarebbe  impossibile  di dimostrare  prima  di  avere  esposto  la  dottrina  simboleg- giata nella  descrizione  mitica  del  Timeo  e  i  rapporti  di Platone  col  pitagorismo. Dimostrata  la  natura  simbolica  della  narrazione  del Timeo,  sarà  per  conseguenza  dimostrato  il  niun  valore della  prova  che  se  ne  può  tirare  per  la  trascendenza deHe  Idee.  Per  ora  mi  contenterò  di  ricordare  un  epi- sodio di  questa  narrazione,  di  cui  abbiamo  già  parlato al  n.  VI,  cioè  la  frrmazione  dell'anima,  da  cui  si  vede che  Platone  riguarda  le  Idee  come  un  elemento  costitu- tivo delle  cose;  e  di  aggiungere  che  l'immanenza  è  evi- dente nei  luoghi  di  questo  dialogo  in  cui  l'autore  parla, non  più  da  mitologo,  ma  da  filosofo,  per  esempio  in quelli  in  cui  chiama  le  Idee  Vessere,    o    dice    che    la V.  n.  TX. materia  contiene  tutto  (1),  per  conseguenza  anche  le  fdeé. Quantunque  la  narrazione  del  Tim^o  porti  in  se  stessa delle  prove  chiarissime  dimostranti  che  non  deve  essere intesa  letteralmente,  tuttavia  non  è  difficile  di  capire  come essa  abbia  potuto  essere  presa  sul  serio  :  è  che,  intesa letteralmente,  contiene  una  spiegazione  del  mondo— l'an- iropomorfistica-più  conforme  alle  tendenze  spontanee del  nostso  spirito,  e  per  conseguenza  d'un  valore  più facile  a  comprendere,  che  la  dottrina  reale  che  essa  sim- boleggia (la  quale  dt  l  resto,  per  essere  compresa,  ha  bi- sogno di  una  conoscenza  profonda  del  sistema).  Ma  il carattere  puramente  fantastico  e  poetico  della  narrazione del  Fedro  (24f>  e-248  e)  è  talmente  evidente,  che  nessuno potrebbe  essore  tentato  di  prendere  questo  mito  in  un senso  letterale.  Il  soggetto  del  racconto  è  l'intuizione delle  Idee  che  l'anima  ha  a\uto  in  una  vita  anteriore. Platone  comincia  con  una  semplice  comparazione  :  l'a- nima è  simile  a  un  cocchio  alato  con  un  auriga  e  duo cavalli;  i  cavalli  dell'anima  divina  solo  tutti  e  due  buoni e  di  buoni,  di  quelli  dell'anima  umana  Funo  è  buono  e l'altro  cattivo.  La  virtù  delle  ali  è  di  portare  il  grave  A  50  e:  eéxsTat  toc  TiàvTa  A  51  a  la  chiama  Tcav^sxsg, e  a  50  e  lò  xà  ::àvxa  sxdsfójisvov  sv   a'jxw  y^vY]. In  quanto  la  materia  contiene  le  Idee,  cioè  è  il  loro  sustrato, si  dice  «he  partecipa  di  esse.  V.  Tim.  ">!  a  e  Arist.  Phys,  1.  IV.  II 5,  Met.  1.  I.  vili.  IJ,  ecc.  Questo  senso  della  parola  parteciparti cioè  dei  suoi  equivalenti  greci,  è  alquanto  differente  da  quello  in cui  la  troviamo  usata  negli  altri  scritti  di  Platone,  nei  quali  sono le  cose  ohe  partecipano  alle  Idee:  ma  anche  in  questo  senso  la  pa- rola prova  la  presenza  delle  Idee  nelle  cose,  e  di  una  maniera forse  ancora  più  evidente. L'anima  secondo  Platone  consta  di  tre  parti  :  l'auriga  rap- presenta la  parte  superiore,  cioè  la  razionale;  i  cavaUi  le  due  parti inferiori;  il  buono  quella  dove  è  il  coraggio,  il  cattivo  queUa  dove sono  i  d»i»ideri  sensuali.    l. lì  ' nell'alto,  dove  abitano  gli  dei  :  Tanima  a  cui  le  ali  sono cadute,  tende  al  basso  e  si  unisce  ad  un  corpo  terreno. Le  ali  dell'anima  si  nutriscono  del  bello,  del  buono,  del saggio  e  di  tutto  ciò  che  è  di  questo  genere.    «  Quando (gli  dei  accompagnati  dalle  anime   che   possono   e  vo- gliono seguirli)  vanno  al  convito  e  alle  vivande,  salgo- no alla  sommità  più  elevata  della  volta  celeste.  I  carri degl'immortali,  sempre  in  equilibrio,    si   avanzano  con leggierezza;  gli  altri  saliscono  con  pena,  perchè  il  cat- tivo corsiero  s'aggrava,  s'inclina   e   precipita   verso   la terra,  se  non  è  stato  ben  allevato  dal  suo  cocchiere.    E rultima  e  la  più  grande  prova  che  Tanima  abbia  a  so- stenere. Le  anime  di  quelli   che   chiamiamo   immortali, dopo  essersi  elevate  sino  al    più  alto   del   cielo,    uscite fuori,  si  mettono  sulla  parte  convessa  della  sua  volta; e  mentre  vi  stanno,  il  movimento  circolare  le  porta  in  gi- ro, ed  esse  contemplano  ciò  che  è  fuori  del  cielo.  Il  luo- go sovraceleste    (OuepoopavioO  no»  ^   s^^to    ancora    cele- brato  da  alcuno  dei  nostri  poeti,  e  non  lo  sarà  mai  de- gnamente. Ecco  tuttavia  com'è,  poiché  non  bisogna  te- mere di  dire  la  verità,  sovratutto  quando  si  parla  sulla verità.  L'es,<jenza  realmente  esistente,  senza  colore,  Fen- za  figura  (1),  impalpabile  non  può  essere  vista  che  dalla guida  dell'anima,   l'intelligenza.    Intorno    ad   essa   è   il luogo  della  vera  scienza.  Come  il  pensiero  degli  dei  che si  nutrisce    d'  intelligenza    e    di    scienza  senza   mesco-  Platone  nega  alle  Idee  la  figura  eli  colore  nello  stesso  senso in  cui  nega  ad  esse  il  cangiamento:  egli  non  esclude  da  esse  la  fi- gura, il  colore,  il  cangiamento  eVea/i-vale  a  dire  non  nega  che queste  cose  siano  anch'esse  rappresentate  nel  mondo  ideale-ma solo  la  figura,  il  colore,  il  cangiamento  feuomeni. ianza,  anche  quello  di  ogni    anima   che  deve   raggiutì- gero  il  suo  destino,  vedendo    1'  essere,  da  cui   era   da lungo  tempo   separato,    contento    della  contemplazione dell  a  verità,  se  ne  nutrisce  e  gode,  sinché  il  movimento circolare  riconduca  al  punto  di  partenza.  In  questo  giro vede  la  giustizia  stessa,  vede  la   temperanza,    vede   la Fcienza,  ncn  quella  in  cui  vi  ha  cangiamento  e  che   è difl'ereute  nei  differenti  oggetti  che  ora  chiamiamo   es- seri, ma  la  scienza  che  è  in  quello  che  è  veramente  es- sere; e  dopo  aver  contemplato  allo  stesso  modo  gli    al- tri esseri  veri  ed  essersene  abbondantemente  nutrita,  Ta- iiiina  rientra  neiriuterno  del   cielo,    e   se    ne   ritorna   a casa.  Subito  che  arriva,  l'ain'iga   conducendo   i   corsieri alla  stalla,  sparge  d'innanzi  ad  essi  l'ambrosia  e   versa il  nettare.  Tale  è  la  vita  degli  dei.  Fra  le  altre  anime, quella  che  segue  il  meglio  le   anime   divine  e  che   loro rassomiglia  il  più,  innalza  la  testa  del  suo  cocchiere  nel luogo  sovraceleste,  e  va  cosi,  portata  dal  movimento  cir- colare; ma  è  turbata  dai  suoi  corsieri,  e  vede  a    stento gli  esseri.    Un'altra   ora  s'innalza  ed   ora   si   abbassa; per  la  inobbedieuza  dei  suoi  corsieri,  vede  alcuni  esseri ed  altri  no.  Le  alt'-e  vengono  dietro,  bruciando  dal  de- siderio di  contemplare  la  regione  superiore,  ma  non  po- tendolo :  sommerse,  sono  portate  intorno,    pigiandosi   e gettandosi  i'una  sull'altra  per  cercare   di   oltrepasaars'. Ne  nasce  un  tumulto,  una  lotta  e  un   sudore   estremo. Molte  sono  storpiate  per  colpa  dei  cocchieri,  molte  per- dono una  gran  parte  delle  penne  delle  loro  ali;  e  tutte, dopo  penosi  e  inutili  scorzi,  se  ne  vanno  prive  della  vista dell'essere,  e  si  pascono  d'  un   alimento    opinabile.    La causa  dei  loro  sforzi  per  vedere  il  cnmpo  della  verità  è che  l'alimento  conveniente  alla  parte  migliore  dell'ani- ma si  trova  in  questo  prato,  e  la  natura  delle   ali,  che innalzano  Tanima,  se  ne  nutrisce;  ed  è  una  legge  d'A-  u^^-^ .i-iiau>  wtom drastia  che  qualunque  anima,  seguendo  gli  dei,  ha  ve- duto alcuno  dei  veri,  resti  immune  sino  all'altro  circuito, e  se  può  far  questo  sempre,  sia  sempre  illesa  »    (il  dunno da  cui  quest'anima  sarà  preservata  è  l'incarnazione)  (1). Tutti  i  particolari  di  questa  descrizione  sono  eviden- temente poetici  e  allegorici.    Il  luogo  sovraceleste  dove le  Idee  sono  collocate,  non  lo  è  meno  del  cocchio  alato con  Tauriga  e  i  due  cavalli  o  la  nutrizione  delle  ali  del- l'anima con  la  contemplazione  delFessere  :  noi    sappia- mo infatti  che  la  dottrina  di  Platone  è  che  le  Idee  non sono  in  alcun  luogo  (2).  Che  dritto  si   avrebbe   dunque di  ammettere  che  la  trascendenza  delle  Idee  non  sia  an- ch'essa una  circostanza  poetica,  quando   essa   non   ci  è data  che  nell'immagine   della    loro   collocazione   in  un luoo*o  fuori  del  cielo?  È  certamente  un  problema  di  de- terminare  sin  dove  si  estenda,  nel  mito  del  Fedro,  Tele- mento  fantastico,  e  quale  sia  il  concetto  filosofico  che  vi è  racchiuso.  Io  non  posso   seguire   qnegl' interpreti  che vedono  una  circostanza  poetica  e  allegorica  nella  ste-^sa intuizione  delle  Idee.  Questa  è  ammessa,  oltre  che   nel J^edro,  nel   T\meo  (41  e)  e  in    tutti   quei    luoghi    in    cui Platone  parla  della  sua  dottrina  che  la   scienza   è   una reminiscenza,    poiché   questa    dottrina    ha    appunto    per fondamento  rintuizioue  delle  Idee  in  una  vita  anteriore. In  alcuni  di  questi    luoghi  (3)  la  dottrina  della  remini- scenza è  esposta  nella  forma  più    scientifica   che  possa trovarsi  in  Platone,  mancando,  per  conseguenza,  qualsiasi ragione  di  supporre  che  si  tratti  d'una  semplice  allego- (1)  Fedro  247  b-248  o. (2)  V.   rim.  52  b-c,    Arisi.   Phys.  l.  IV.  IT.  5,  l.  III.  IV.  2,  ecc, (3)  Men.  80  d-86  a,  Fedo,  72  e-77  d,  ofr.  91  6-92. ria  (a  meno  di  escludere  a  priori  la  possibilità  che  Pla- tone abbia  ammesso  seriamente  questa  dottrina  e  le  al- tre  che  vi  sono  connesse),    ed   è   data   come   una    delle prove  più  forti  deirimmortalità  dell'anima.  I  più  conse- guenti tra  gl'interpreti  che  negano  che  la  reminiscenza sia  stata  una  dottrina  seria  di  Platone,    ammettono,    è vero,  che  non  solo  la    reminiscenza,    l'intuizione   delle Idee,  la  preesistenza,  ecc.,  ma  anche  la  stessa  immorta- litcà  dell'anima  sia  in  Platone  un    mito    e    un   semplice simbolo.  La  dottrina  rappresentata  da  questi  simboli  sa- rebbe l'identità  tra    l'essenza  dell'anima  e   il   mondo  i- deale,  cioè  tra  l'intelligenza  e  l'intelligibile,  il  pensiero e  Tessere.  Non  è  qui  il  luogo  di  discutere  quest'opinione  : osserverò  semplicemente  che  sarebbe  impossibile  a  que- sti interpreti  di  assegnare  un  sol  luogo   negli  scritti  di Platonp,  in  cui  la  dottrina  che  l'autore  avrebbe    simbo- leggiata con  l'intuizione  delle  Idee,    l'immortalità    del- l'anima, ecc.,  cioè  quella  dell'identità  dell'essere  e   del pen8i(  ro,  sia  chiaramente  esposta,  in  una  forma,  non  al- legorica, ma  puramente  scientifica.  L'Idea  di  Platone  è appunto  in  ciò  che  differisce  da  quella  di  Hegel  :  questa è  al  tempo  stesso  un'entità  generale  e  un  concento   ge- nerale,    mentre    1'  Idea  di  Platone  è  solo  un'entUà  ge- nerale,    f'he    non    è    identica  al  concetto  generale,  ma è    solo    r  oggetto    a    cui    questo  si    riferisce.    Non    vi ha  d'altronde  alcuna   ragione,    fondata  sull'indole  stes- sa   di    queste    dottrine,    che    impedisca    di    ammettere che    Platone  abbia    realmente    creduto  alla   reminiscen- za e  all'intuizione    delle    Idee    in    una    vita    anteriore. Il  problema  di  cui  Platone  cercava  la  soluzionp,  era  la poss  b  lità  della  coincidenza  tra  il  pensiero  e    la   realtà ni  Ila  crnoscenza  a  priori,  problema  che  diviene  d'un'ur- genza  speciale  nei  s  stemi  costruiti  sullo  stesso  tipo  che il  sistema  platonico,  perché  secondo  essi  tutta  la  scienza è  a  priori,  e  inoltre  vi  ha  la  più  perfetta  corrispondenza tra  il  pensiero  e  l'essere,  questo  essendo  astratto  e  gè nerale  come  quello,  e  l'ordine  ontologico   essendo  iden- tificato con  l'ordine  logico.   Ora  se  noi esaminiamo   le risposte  che  si  sono  date  a  questa  quistione,  vale  a  dire di  spiegare  questa  coincidenza  tra  la  conoscenza  (a  priori) e  l'oggetto  conosciuto,  troviamo  che  la  più  parte  di  esse, compresa  la  dottrina  dell'identità  tra  Tessere  e   il   pen- siero, consistono  ad  assimilare  il  fatto   al  fenomeno  fa- miliare  in  cui  questa  coincidenza  ci    pare   naturalissima appunto  perchè  il  fenomeno  è  familiare   (senza   di    che rassimilazione  ad  esso  non  potrebbe  costituire  una  spie- gazione per  un  metafisico),  vale  a  dire   alla   percezione sensibile  (nella  quale,  secondo  la  credenza   naturale,  vi ha  la  presenzaimmediata  dell'oggetto  percepito.   He- gel  assimila  il  rapporto  tra  il  pensiero  e  il  suo  oggetto alla  percezione  sensibile  solo  in  quanto  ammette  la  pre-senza del  secondo  nel  primo,  come  la  credenza  naturale ammette  la  presenza  del  sentito  nella  sensazione:  l'  assi- milazione che  fa  Platone  è  più  completai,    perchè    il    rapporto immediato  del  pensiero  con  le  Idee  è  per  lui  una vera  intuizione,  che  non  si  distingue  dalla  sensibile  (quale .  questa  è  secondo  la  credenza  naturale)  se  non  in  quanto la  facoltà  intuitiva  non  ò  il  senso  ma  T intelligenza.  Cer- tamente  vi  ha  nell'intuizione  platonica  una  circostanza, per  cui  essa  si  distingue  dalle  ipotesi  analoghe  di    altri metafisici,  e  sembra  avvicinarsi  a  un  semplice   mito  :    e che  quest'intuizione  ha  avuto  luogo  in  una  vita  anteriore. Ma  un'intuizione  attuale  delle  Idee  sarebbe  sembrata  a Platone  in  contraddizione  coi  fatti:    in   eifetto,    si    deve (i) Cfr.  Append.  e.  2  §  9  e  Saggio  I.  e.  3  ^  7. supporre  che  quest'intuizione  è  permanente  nello  spirito  ? ma  in  questo  caso  la  scienza  sarebbe  innata  e  continua- mente presente  al  pensiero.  Si  deve  supporre  invece  che lo  spirito  intuisce  un'Idea  solo  quando  ha  coscientemente il  pensiero  corrispondente  a  quest'Idea?  (dico  cosciente- monte^  perchè  Tipotegi  di  un'intuizione  permanente  implica quella  di  un  pensiero  permanente,  ma  inco- sciente, di  tutte  le  Idee)  ma  in  questo  caso  non  si  com- prenderebbe perchè  Tldea  viene,  per  dir  cosi,  a  porsi dinnanzi  allo  spirito  intuente  precisamente  nel  momento richiesto  dalla  connessione  logica  o  psicologica  dei  con- cetti. Io  credo  dunque  che  non  si  ha  alcuna  ragione  di negare  che  Platone  abbia  realmente  ammesso  che  l'a- nima ha  intuito  le  Idee  in  un'altra  vita,  e  che  la  cono- scenza che  ne  acquista  nella  vita  attuale  è  una  remini- scenza. L'ipotesi  della  reminiscenza  poteva  essere  un complemento  di  quella  dell'intuizione,  perchè  anche  la prima  consiste,  come  la  seconda,  nell'assimilazione  del f  tto  che  si  trattava  di  spiegare  a  un  fenomeno  familia- rissimo,  uniformandosi  cosi  anch'essa  alla  condizione necessaria  di  ogni  spiegazione  metafisica. Ma  quali  sono  le  condizioni  di  questa  intuizione  delle Idee  in  una  vita  anteriore?  come  comprenderne  la  pos- sibilità ?  perchè  in  una  vita  anteriore  è  possibile  ciò  che non  lo  è  in  questa  ?  Sono  delle  quistioni  a  cui  non  éi potrebbe  pretendere  da  Platone  una  risposta.  È  qui  che si  origina  il  mito  del  Fedro.  Platone,  volendo  rappresen- tare un  fatto  le  cui  circostanze  sono  irrappresentabili, non  poteva  darne  che  una  rappresentazione  poetica  :  ma questa,  quantunque  non  fosse  che  una  finzione,  doveva avere  tutta  quella  verosimiglianza  che  è  necessaria  in una  finzione  poetica.  Ora  la  circostanza  più  naturale  che si  presentasse  all'immaginazione  di  Platone,  e  la  quale spiegasse  d'una  maniera  poeticamente   verosimile  come Hi l'intuizione  delle  Idee,  non  possibile  nella  vita  attuale, lo  è  in  una  vita  anteriore,  era  la  situazione  delle  Idee in  un  luog:o,  allora  accessibile  airanima,  ma  ora  inac- cessibile. Tutte  le  altre  circostanze  del  mito,  il  cocchio alato,  la  nutrizione  delle  ali  dell'anima,  ecc.  non  sono che  degli  accessori  di  quest'idea,  cioè  di  quest'immagine, fondamentale.  L'esistenza  delle  Idee  in  un  luogo  fuori del  cielo  si  prestava,  come  le  altre  circostanze  del  mito, ad  un  senso  allegorico  :  essa  significa  che  le  Idee  non fanno  parte  del  mondo  sensibile,  del  mondo  dei  fenome- ni, il  cielo  rappresentando  la  totalità  delle  cose  sen- sibili. Del  resto  Timmanenza,  nel  mito  del  Fedro,  oltre  che dalla  dottrina  stessa  della  reminiscenza— la  quale  sup- pone che  il  concetto  generale  ha  per  oggetto  Tldea,  poi- ché é  questo  che  viene  riguardato  come  la  reminiscenza deiridea  intuita  in  una  vita  anteriore  r249b-cì— e  dalla designazione  delle  Idee  per  i  nomi  Vessere,  il  vero,  ecc., è  chiaramente  dimostrata  dal  luogo  seguente: Ma  la beltà  (xdXXo^ì,  come  dicevamo,  brillava  allora  tra  quelli (cioè  tra  le  Idee  intuite  dall'anima),  e  venuti  in  questo mondo,  l'abbiamo  percepita  (xaTetXT^cpajjiev  aù-có),  risplen- dente della  luce  più  chiara,  per  il  più  acuto  dei  nostri sensi.  La  vista  è  in  effetto  il  più  sottile  degli  organi  del corpo;  tuttavia  essa  non  percepisce  la  saggezza...  mala sola  beltà  ha  avuto  questa  sorte,  di  essere  più  di  ogni altra  cosa  manifesta  ed  amabile  »  (1).  La  beltà  Idea,  che l'anima  ha  intuito,  6  qui  identificata  con  la  beltà  che  i sensi  percepiscono,  La  bellezza  che  vediamo  qui  (in  que- sta vita)  è  pare  distinta,  è  vero,  da   quella  che    intui-  250  d, yanio  allora  (quando  eravamo  in  compagnia  degli  dei)  (1)  : ma  noi  abbiamo  già  osservato  che  il  rapporto  tra  le  Idee e  il  sensibile  è  al  tempo  stesso  d'identità  e  di  differenza, e  che  se  la  trascendenza  delle  Idee  spiega  la  differenza,  non può  spiegare  l'identità,  mentre  l'immaneuza  spiega  tanto Tuno  quanto  i'altra. V.  V'eniamo  infine  alla  prova  più  forte  dell' interpre- tazione trascendentalista,  la  testimonianza  d'  Aristotile. Io  non  mi  dissimulo  la  forza  di  questa  prova,  e  riconosco che  essa  costituirà  sempre  l'ostacolo  più  grave  che  in- contrerà r interpretazione  contraria.  P]  certaix.jnte  que- st'ostacolo sarebbe  insormontabile,  se  la  testimonianza d'Aristotilt^  fosse  così  chiara  e  certa,  come  suppongono gl'inteppreti  trascendentalisti.  Ma  essa  è  ben  lungi  dal- l'essere tale.  Osserviamo  in  primo  luogo  che  l'interpre- tazione d'Aristotile  ha  bisogno  alla  sua  volta  di  essere interpretata,  e  gli  stessi  equivoci  a  cui  dà  luogo  l'inter- pretazione di  Platone,  s'  incontrano  naturalmente  in quella  dell'esposizione  che  Aristotile  fa  di  Platone.  Ne segue  che  le  prove  contro  l'immanenza  delle  Idee  con- tenute in  questa  esposizione  sono  assai  minori  in  realtà di  quante  ve  ne  trovano  gl'interpreti  trascendentalisti. Noi  abbiamo  già  visto  che  molte  espressioni  per  desi- gnare le  Idee  e  i  loro  rapporti  con  le  cose  in  cui  si pretende  Ci  ve«l?re  gli  argomenti  più  forti  della  loro  tra- scendenza p.  e.  il  xwptoxó^,  l'sv  Txapà  xà  :ioXXà,  ecc.  non hanno  ne<  ^ssar-aniente  la  portata  che  loro  si  attribuisce. La  stessa  osservazione  vale  per  certe  obbiezioni  ài  A- ristotile  contro  la  dottrina  delle  Idee,  che  secondo  gl'in- terpreti trascendentalisti  non  san^bbero  possibili  cli3  uel- (1)  2Ì9-250.  ripotcsi  della  trascendenza;  p.  e.  quella  del   terz'uomo. Noi  abbiamo  visto  (nel  numero  V,  3*  B)  che  questa  obbiezio- ne si  comprende  facilmente  anche  nell'i potesi  dell'imma- nenza, ciò  che  è  anche  provato  dal  fatto    che    Platone, nel  Parmenide,  la  rivolge  contro  la  propria  dottrina  im- mediatamente dopo  quella  che  mostra  la  ditticoltà  di  con- cepire come  l'uno  inerisca   simultaneamente   nei   molti. Una  prova  simile  si  ha  per  il  rimprovero  che   Aristotile fa  ripetutamente  a  Platone  di  avere  raddoppiato  inutil- mente gli  esseri  (1):  questo  raddoppiamento  degli  esseri, obbiettato  alla  dottrina  delle   Idee,   dimostra   cosi   poco la  loro  trascendenza^  che  noi  troviamo  la  stessa  obbie- zione rivolta  contro  la  dottrina   che   ammette   le  entità matematiche,  non   separate   dalle   cose  (xs/optaiiéva    tc5v ala^Y^TCtìv),  ma  nelle  cose  stesse  (sv  loìq,  ala^Yjxots). Si  deve  notare  inoltre  che  molti  luoghi,  in  cui  Ari- stotile si  rappresenta  certamente  le  Idee  come  separate dalle  cose,  non  importano  pertanto  necessariamente  che egli  attribuisca  a  Platone  questa  dottrina.  L'Idea  plato- nica, come  abbiamo  più  volte  osservato,  per  quanto  può essere  un  oggetto  di  rappresentazione,  non  può  essere rappresentata  che  come  separata  dalle  cose,  perché  è  im- sibile  di  concepire  come  una  sostanza  sia  al  tempo  stesso un  attributo,  e  inerisca  simultaneamente  in  una  molti- tudine di  soggetti.  Per  conseguenza  Aristotile  poteva  am- mettere la  separazione  delle  Idee  dalle  cose  e  ragionare su  questa  premessa,  anche  riconoscendo  che  1  Platonici affermavano  a  parole  il  contrario— a  parole,  perchè  nes- suna rappresentazione  reale  poteva  corrispondere  alle loro  affermazioni— in  quanto  egli  pensava   che  le   Idee, Met.  1.  1.  IX.  1,  l.  XI.  11-2.  ecc. se  esse  esistessero,  non  potrebbero  esistere  che  separate dalle  cose.  É  chiaro  in  alcuni  casi  che  è  cosi  che  »i  de- vono intendere  effettivamente  certe  proposizioni  in  cui Aristotile  nega  l'inerenza  delle  Idee  nelle  cose.  Cosi  ia Met.  1.  I.  IX.  7  dice;  €  Né  (le  Idee)  giovano  alla  sdeate delle  altre  cose— perchè  non  sono  sostanze  di  queste,  poiché sarebbero  in  esse— né  all'essere,  non  inerendo  nei  par- tecipant?:  infatti  potrebbe  credersi  ch'esse  sono  cause deircstcre  delle  cose  come  il  bianco,  mescolato,  é  causa a  una  cosa  di  esser  bianca;  ma  é  facile  di  confutare questo  concetto,  che  Eudossio  ed  alcuni  altri  hanno  pro- posto, seguendo  Anassagora Qui  Aristotile  mantiene la  sua  proposizione,  che  nega  l'inerenza  delle  Mee  nelle^ cose,  anche  di  fronte  alla  proposizione  di  Eu^Qssip  e  de- gli altri,  che  l'affermano  della  maniera  più  energica:  é che  egli  distingue  tra  l'ipotesi  delle  Idee  considerata  in se  stessa,  vale  a  dire  nelle  sue  condizioni  necessarie,  e le  affermazioni  verbali  dei  platonici.  Similmente  in  Met. 1.  VII.  XVI.  4-6  dice:  «  L'Uno  non  può  essere  una  so- stanza, per  la  stessa  ragione  per  cui  nessun  altro  Ateiuoe può  essere  una  sostanza.  La  sostanza,  in  effetto,  Qon  i- nerisce  che  a  se  stessa  e  a  ciò  di  cui  é  sostanza.  Di  più rUno  non  sarà  simultaneamente  in  molte  cose,  ma  il comune  esiste  simultaneamente  in  molte  cose.  Per  cui é  chiaro  che  nessuno  degli  universali  è  oltre  (iiapa)  i singolari  separatamente.  Ma  quelli  che  ammettono  le  Idee in  parte  dicono  bene,  cioè  quando  le  separano  (x<«>P^Covx6g), s'è  vero  che  sono  sostanze;  in  parte  dicono  mal»^,  cioè quando  chiamano  lldea  l'uno  nei  molti»,  KWdentemente -•-( '     (1)  Off.  n.  VI.  TOMO  la  ftns. -146- qui  la  propcsizione  <^  l'Uno  non  sarà  simultaneamente in  molte  coso  .  non  è  nini  testiinoniair/a  sulla  dottrina platonica^perchè  anzi  Aristotile  rimprovera  ai  platonu-i di  asserire  che  Fldea  è  Tuno  nei  molti  -,  ma  una  dedu- zione dello  stesso  Aristotile,  che  nega  l'inerenza  deiridea nelle  cose  come  logicamente  impossibile  per  le  stesati ragioni  che  nói  abbiamo  dette,  cioè  perchè  una  sostanza non  può  inerire  in  un  altro  so^rgetto,  e  meno  ancora  m una  moltitudine  di  soggetti  allo  stesso  tempo  (1). Tuttavia  vi  hanno  dei  casi  in  cui  questa  spiegazione è  inapplicabih',  e  nei  quali  bisogna  riconoscere  che,  par landò  della  separazione  dolle  Idee  dallo  cose,  Aristotile non  emetta  un  appre^zamenlo  proprio  sulle  conseguenze logiche  dellMpotesi  delVesistenza  delle  Idee  e  le  condi- zioni della  loro  rappresentablità,  ma  attribuisce  ai  pia- Gir.  .V.  Mn,.  l.  T.  1.  12:  «  Bisogaa  parlare  dellLÌpa  ^ol  bene o  no  ma  piuUoslo  di  quel  bene  coiìiuuo  che  inornce  iu  lutti i  boDi parlicola.iVquB.tobeae.  iuetfHUo,  p^irrà  giu^nunento  es^er».  di- vergo dall'Idea.  I.'ldoaiafatti  è  separabile  iyj'K^iZ'i^'  ede.i.teper se  stes-a  (  a'KÒ  xaO'a'JTÓj,  ma  il  romune  iuBri,.--  i.  lotti  i  p:*r. licola.i.  Xon  ^  dunque  lo  stesso  (it  comune)  o..l  c..par«*hilo,  poioh^ è  impossibile  cb«  oi^  nhe  ò  separRbilo  e  capare  di  esi.ten'^  \9r  .e. stesso  inpri-jca  in  tutti  i  particoli.ri,. Nell'Aia     Ev^X  l.   Vili.  ladisHn/ione    dtd'ldea   dol  bone    dal bene  comune,  cìtre  olu>  da  que,t'impo.^:biV.-.    .l'inerire   «l    temp) stesso  in  molte  co.e  {l.  1.  Vili.  11;.  è  dedottn  nuche  da  un'alt  ra  ra- gione .  cioè  da  ciò  che  il  bene  cornane  -  inerisce  »nohe  ad  un  bene mediocre  „  (1.  l.  Vili.  18-L'liea  del  bene  era riguardata   come  il bone  assoluto,  Honz'alcuna  mescolanza  di  mal  M.    gui    la    uocessila della  ira^cmiden/a  .(«oU'ldea  .i  ia  derivare  dalla  dnterminaxione  eh. Flatrme  attribuisce  ad  alcune  Idee,  dj  rappresentare  l'attributo  ad un  grado  assoluto,  mentre  e«so  nelle  cose  non  ^i  trova  ohe  ad  un l^rado  relativo  (v.  n.  ìli.) III tonici  di  professare  in   effetto    la   dottrina    che    le  Idee sono  separate  dalle  cose.  Nelle   Top.  1.  II.  VII.  3    dice  : «  Si  devo  considerare  se  si  faccia  qualche    att'ermazione su  qualche  soggetto,  dalla  quale  ne   seguirebbe    che   in questo  soggetto  inerirebbero    delle    proprietà   contrariei come  se  si  aflermi  che  le  Idee  siano  in  noi  »,E  continua mosti-ando  le  coatraddizioni  che  risulterebbero  da  questa affermazione,  cioè  che  le  Idee  sarebbero  al  tempo  stesso immobili  e  mosse  (perchè  noi  ci   moviamo;,    intelligibili e  sensibili  (perchè  le  forme  delle  cose  si  percepiscono  coi sensi).  Qui  Aristotile  sembra  supporre  almeno  che  l'opi- nione più  abituale  di  quelli  che  ammettono    le   Idee,    o la  più  autorevole,  sia,  non  rimmanenza,  ma  la  trascen- denza. Forse  però  questo  luogo  potrebbe   significare  so- lamente, come  altri  di  cui  ci  occuperemo  iu  s'-guito,  che Aristotile  ammette  la  possibilità  delle  due  interpretazioni contrarie  del  sistema  delle  Idee    Ma  in  alcuni  luoghi  non può  esservi  dubbio  che  Aristotile  non  attribuisca  recisa- mente ai  partigiani  dello  Idee   la  dottrina  della  trascen- denza. Fra  di  essi  segnalerò:  1  ^  Quelli  in  cui  le  entità  am- messe da  Platone  e  dai  platonici    Idee  ed  entità    mate matichel  vengono    designate    come   separate   dalle   cose (x£xo)?'.afi£va  xcov  cvtwv,  xolv  atc»ir.:o)v.  ecc.)  2"   Quelli in  cui  la  dottrina   platonica    sui    numeri    viene    distinta dalia  pitagorica,  perchè  i  numeri    pitagorici   sono    nelle cose  o.  queste  constano  di  fssi,    ma    i    numeri    platonici sono    separati   ix<'>pt7ToJ    o  /.cxfop.ajiivo.}   (2)  3^  Quelli  in cui  si  distinguono  due  frazioni  nella  scuola  platonica,  di cui  runa  ammetterebbe  le  entità  matematiche  nelle  cose V.  j;w.  1.  III.  IV.  25,  i.  ni.  li.  lò,  I.  xm.  i.  4,  n.  9,  ni.  a,  6. (2)  V.  Mei,  l.  Xni.  VI.  4,  7,  1    XIV.  Ili,  2. —  147  - si- .  \ .A. e  Taltra  separate  (i).  Si  noti  che  Aristotile  obbietta  al- ropinione  che  queste  entità  sono  nelle  cose,  che  in  que- sto caso  anche  le  altre  entità,  le  Idee,  dovrebbero  essere nelle  cose  (2). È  dunque  incontestabile  che  vi   hanno  in   Aristotile un  certo   numero  di  luoghi  in  cui  le  Idee  sono   chiara- mente interpretate  come  separate  dalle  cose.  Non, ne  se- gue  però  che  la   sua   testimonianza  sifi    assolutamente favorevole  alla  interpretazione  trascencjent^ista,  perchè, a  lato  di  questi  l^OghÀ,.^ l'esposizione   aristotelica    delle dottrine  platoniche  contiene  delle  prove  cosi  forti   d^la immanenza  delle  l4ee,  che  basterebbero,  anche  nel  caso che  noi  non  po8sed€|8simo  gU  scritti  di  Platon^  P^:  rp- vesciare  rinterpr^tazione  tascendentalista,  e  restituire  a queste  dottrine  Jl^  loro  signi^cato  reale,^, Nel -corso   4i questo  Supplem^ip^to  abbiaiijip  già. utilizato  alcione  d^i^q^i^- ste  prove;  ma  l^9p  abbiamo  tenuto  i^onto  che  di  qnc^^M^Ja cui  evidenza  ci  sembrava  al  di  fuori    d'ogni   dubb|Oj>„,e ci  siamo  astenuti  di  servirci  di  un  gran  numero  di  iw- ghi  che,  quantunque  probanti  per  se  atessi,  potevano  ;ian- dimeno  far  nascere  qualche  esitazione,  per  la  contraddi- zione con  gli  altri,  in  cui  Aristotile  sembra  ammettere,  o  am- mette effettivamente,  Tinterpretazione  trascendentalista. Ma  cosi  facendo,  ci  siamo  privati  di  molte  prove  deirimma- nenza  delle  Idee,  che  sarebbe  tanto  meno  giusto  di  ue^ gligere,  che  alcuni  tratti  della  dottrina  platonica,  i  quali dimostrano  chiaramente  quest'immanenza,  risultano  più nettamente  ancora  dall'esposizione  di  Aristotile  che  da- (1)  Mot.  I.  Ul.  l.  16,  a.  Ì7-22,  l.  XIU.  l.  4,  II,  HI.  V.  su  que»ta  di- stinzione il  n.  VI,  verso  la  fine. (2)  V.  Met.  1.  Ili-  li.  21,  1.  XIU.  11.  1. gli  scritti  stessi  di  Platone,  o  anche  non  si  trovano  che nel  solo  Aristotile,  perchè  appartengono  alla  parte  non scritta  del  platonismo  (àrpa^a  dÓYtiaxa).  Tali  sono: 1.  L'universalità  delle  Idee.  L'Idea  è,  secondo  Ari- stotile, ciò  che  si  attribuisce  a  tutti  gl'individui  d'  una specie  o  di  un  genere  fi),  il  comune  (xo'.vóv)  nelle  cose particolari,  l'universale  (xaOóXoj)  (3),  il  predicato  in  co- mune (xotvfj  xaxTjYopoójisvov)  o  universalmente  (xaGóXcu xax.) Si  dirà  che  queste  determinazioni  non  devono prendersi  in  un  senso  strettamente  rigoroso,  e  che  tutto ciò  significa,  non  che  le  Idee  siano  realmente  gli  attri- tributi  generali  delle  cose,  ma  che  Platone  ha  trasformato i  predicati  generali  in  altrettante  sostanze,  in  modo  che queste  sostanze  astratte  abbiano  lo  stesso  contenuto  che gli  attributi  generali  delle  cose,  ma  senza  identificarsi con  essi  (6j.  K  certamente  bisogna  ammettere  che  le espressioni  designanti  Tldea  come  l'universale  non  aveano per  Aristotile  che  un  significato  vago  ed  incerto.  Ma  si deve  notare  che  Aristotile  non  dice  solamente  dell'  Idea che  casa  è  l'universale,  il  comune,  il    predicato    univer- (1)  MeU  l.  III.  I.  9,  l.  III.  HI.  7,  10,  12.  13. (2)  Eth.  Nic,  1.  1.  VI.  2,  3,  11,  Eth,  End.  l.  I.  Vili.  9,  10,  11 Met.  1.  I.  IX.  5,  l.  ili.  III.  1,  I.  VII.  XVI.  4,  1.  XIII.  IV.  10,  l. XIV.  III.  12. (3)  Met.  1.  III.  III.  7,  IH,  IV.  1,  VI.  5,  6,  1.  VII,  XIU.  2,  4,  7, XVI.  5,  l.  X.  II.  1,  1.  XI.  I.  11,  l.  Xlll.  IV.  4,  IX.  17-20,  Eth,  Nic, 1.  I.  VI.  3.  Àn,  Post,  1.  I,  XXIV.  3,  eoe. (4)  Eth,  End.  1.  I.  Vili.  10,  Mei.  1.  III.  VI,  5,  1.  VII.  XTII.  7. Met,  1.  III.  III.  13,  VI.  6,  1,  VII.  XIII.  2,  1.  X.  II.  1. Cfr.  n.  V  in  principio. almcnte,  ma  ancora  ch'essa  è  universale  (I  ),  che  è  co mune  (2)  e  che  si  predica  universalmente  di  tutti  (3).  Le ultime  forme  non  sembrano  suscettibili,  come  le  prime del  senso  improprio  che  abbiamo  detto.  Più  importante è  ancora  di  segnalare  certe  obbiezioni  contro  la  sostan- tifìcazione  degli  universali:  p.  e.  Aristotile  dice  (contro Platone):  l'universale,  o  il  comune,  ecc.  non  può  essere una  sostanza,  perchè  è  un  attributo  (4ì,  o  perchè  ine- risce in  molti  (5).  Queste  obbiezioni  suppongono  che  i termini  Vuninersale,  il  comune,  ecc.  si  applicano  all'I- dea in  un  senso  rigoroso,  perchè  esse  non  valgono  che in  questo  caso.  Aggiungiamo  infine  che  T  individuo  è chiamato,  relativamente  allldea,  il  soggetto  (6). 2.  Le  Idee  essenze  o  sostanze  (oOoìaO  delle  cose.  E una  determinazione  che  Aristotile  attribuisce  a  ogni momento  alle  Idee  (7)  ^«rciò  noi  potremmo  rivolgere a  lui  stesso  la  domanda  che  egli  fa  ai  platonici:  Se  le Idee  sono  le  sostanze  delle  cose,  come  sarebbero  sepa- rate? i>M.  1.  I.  IX.  11).  Questa  domanda,  s'intende,  si rivolgerebbe  ad  Aristotile  come  interprete  trascendeva^ listarma  vi  hanno  delle  ragioni  per  dubitare  almeno  ohe tutte  le  volte  ch'egli  afferma  o  suppone  che  le  Idee  sono le  essenze  delle  cose,  egli  si  tenga  fermamente  al  punto (1)  FAh.  Mr.  l.  I.  VI.  3,  3M.  1.  III.  VI.  5.  f>.  l    XIII.  IX.  17.  20. Kth,  Sic.  1.  1.  VI.  2.  B,  11.  t:th.  Fuii,  l.  i.   VUL  9,  M^i-  L  I rx.  5,  i.  XI n.  rv'  io.  Mtt.  l.  III.  UT.  13,  VI.  6,  1.  X.   II.  1. <4)  Mei,  1.  VII.  Kill-  4,  1,  VII.  XVl.  4.  eoo. (5-,  Mei.  l.  VII.  XIIJ.  2,  l.   VII.  XVI.  5,  l.  X.  II,  1.  E Met.  l.  VII.  VI.  7. (7.  Met.  l.  I.  VI.  7,  l.  1.  IX.  11.  21,  l.m.  IV.  6,  7,  l.  VII.  VI.  4-8, xm.  3,  4,  i.  vm.  ni-  o,  i.  xi.  n.  io,  i.  xm.  i.  2, 3,  x.  2, 1.  xiv.  v, 7-b,  ©oc. di  vista  di  quest'interpretazione.  La  prima  è  eh'  egli  i- dentiiìoa  continuamente  Vcifsenza  della  filosofia  platonica con  Vessenza  della  saa  propria  filosofia  (1)  (.«^alvo,  be- ninttso,  che  nel  suo  proprio  sistema  T  essenza  non  ha che  un'  esistenza   concettuale,    e  si   distingue  dalla  ma- (1)  Cosi  p.  e.  ìa  Sifl,  1.  Ili.  IV.  6:  "  Ancora,  se  la  materia  è, perchè  è  ingenita,  iriollo  più  ragionevole  è  che  sia  l'essenza,  vale a  dire  ciò  ohe  la  materia  diviene.  Infatti  se  non  è  né  questa  né quella,  non  sarà  assolatamente  niente.  Che  se  ciò  è  impossibile,  è necessario  che  vi  sia  oltre  il  composto  (Tcapà  TÒ  aóvoXov)  la  forma f'iopcpYj)  e  la  tpeo.io  (£i5o^).  Ma  se  si  ammette  questa,  è  dubbio di  quali  cose  si  debba  ammettere,  o  <li  quali  no.  E  chiaro  che  non è  possibile  di  tuUe:  non  ani inet  {.eremo  infatti  che  vi  sia  una  casa oltre  [noLpd]  le  <^ase  particolari  {ì  platonici,  secondo  Aristotile,  non anfiàUottevano  Idee  delle  cose  artiliciali).  In  ^fet.ì.yil.  II.  10:  «An- cora vi  ha  qual<  ho    cosa    olire   il    composto   (Twapà     XÒ     aÓvoXov) o  no  ?  chiamo  cosi  la  miitorìa  g  ciò  che  e  con  essa  (la  forma).  Se non  vi  ha,  tuUo  ciò  che  è  nelh»  iiiateria  è  corruttibile.  Ma  se  vi ha,  sarà  oertamMnt.i  la  specie  v=lòo;i  e  la  forma  (liOpcpV^)  Qnesla in  quali  ^ose  vi  sia  e  in  <iuali  no,  è  di;ììcile  determinale.  In  al- cune cose  è  chiaro  intalti  ch<>  laspécio  none  separabile  /(iJp'.OTÓv), p.  e.  nella  ca«,a.,  ];i  Mrf.  Vii!,  l  i  f .  '>  ùneutce  parla  ttella  dottrina della  dotìnizione,  e  dell'essen/a  che  ne  è  l'oggoUo):  -  Se  poi  le e^sonze   delle    cose    corruttiìnli    siano    separabili    (/(Mp'.oxat*    non 'è  ancora  manifesto-.,  In  Met.  VII.  VI  spiegan  lo  ch.^  vi  ha  identità  tra  una  cosa  e  la sue  essenzji,  dico  •:4-8t  che  co^l  è  anche  nocessariamente  nel  sU sterna  delle  Ideo,  poiché  è  necessario  che  il  bene  in  sé,  l'animale in  st-,  ecc,  siano  iileutici  con  l'essenza  del  b«me,  dell'animale,  ecc. L'essenza  u'una  co-a,  iuamu>  Aristolile  tu  l'Hi)plicazione  del  prin- cipio nel  sistemn  delle  Ideo,  non  potrebbe  avere  un  altro  senso  che quando  la  la  nel  suo  proprio  sistf^ma.  Dunque    anche   nel   sistema delh*  l<lee  l'essenza  è,  come  nel  «uo  proprio  sistema,  un  principio intrinseco  alla  cosa  di  cui  si  dico  l'essenza. -  149  - li lì teria   solo   logicamente,   mentre   nel  sistema    platonico se  ne   distingue   realmente,  ed  ha   come  entità  distìnta un'fsistenza  reale).  Questa  identificazione  esige  che  V  e- spressiene  essenza  delle  cose,   applicata  alle  Idee,   sia presa  nel   suo   significato   proprio,  f,  per  conseguenza, che   le   Idee  siano  immanenti.  Lo   stesso   deve  dirsi,  e a  più  forte   ragione,  dell*  obbiezione  che  Aristotile  fa  ai platonici,  che  se;una  è  la  sostanza  di  tutte  le  cose— cioè di  tutte  le  cose  subordinate  a  un'Idea— tutte  queste  cose saranno   una   cosa   sola,  perchè   ciò   la   cui  sostanza  è una  è  necessariamente  uno  (l).  Qui  è  applicabile  la  stessa osservazione  fatta  al  numero  precedente  —  che  vale  per tutte  le  formule  platoniche  neiresposizione  aristotelica, cioè  che  non  deve  ammettersi  che  Aristotile  dia  costan temente   alla   proposizione   le   Idee  sono  le  essenze  delle cose  il  suo  significato  strettamente  letterale,  e  neanche un  senso    determinato  qualsiasi,  perchè  il  prenderla  nel senso  letterale,  come  Aristotile  sembra   fare  nei  casi  di cui  abbiamo  parlato  implica,   necessariamente  V  ammis- sione dell'immanenza  delle  Idee,  e  sarebbero  quindi  ine- splicabili i  luoghi  in  cui  egli  mostra  di  ammettere  V  in- terpretazione trascendentalista  ;  e  d'altra  parte,  escluso il  suo  significato  letterale,  non  ve  ne  ha  alcun  altro  di cui  la  proposizione  sia  suscettibile. 3.  La  materia  il  soggetto  delle  Idee.  In  Mei.  1.  I. VI.  7,  facendo  l'esposizione  della  filosofia  di  Platone, dice  :  «  La  materia  soggiacente  (  OTioxsiiiévYj)  a  cui  si  at- tribuiscono l'Uno  nelle  Specie  e  le  Specie  nei  sensibili, (1)  V.  Met,  1.  Ul.  IV.  7,  1.  VII.  XIU.    3,  1.  XlII.  X.  2. é  la  dualità  del  Gkande  e  Piccolo Conformemente a  questa  proposizione—presa   in  un  senso   strettamente rigoroso— Aristotile  in  diversi  luoghi  riguarda  Tindividuo) nel  sistema  platonico,  come  il  composto  dell'Idea  e  della materia.  É  cosi  che  egli  fa  nei  due  primi  della  terz'ul- tima  nota  ;  e  a  questi   aggiungeremo  i  seguenti  :   Mei. 1.  III.  IV.  8:  <  E  come   la  materia  (se  vi   hanno    delle essenze  oltre  i  singolari,  tanto  nell'ipotesi  che  l'essenza di  tutti  gl'individui  sia  una,  come  vuole  Platone,  quanto in  quella  che  sjano  molte  e  diverse)  diviene  ciascuna  di esse,  ed  il  tutto  TaóvoXov)  è  l'una  e  l'altra  (l'essenza  e  la materia)?»  Mei.  1.  XII.  X.  13:  «  Nessuno  ha  spiegato  come il  numero  sia  uno,  o  come  siano  uno  l'apii^a,  e  il,<^prpo ^  in  generale  l'sl??^  ®  '*   (evidentemente   questo rimprovero  non  potrebbe  essere  rivolto  che  ai  platonici). Mei.   1.  XlJirV^.,^  :  «  In  atto  è  l'elSo^,  se  è  separabile (X<oDt9xóv),  e  cig;  che  è   da  amendue  (dall'^ISo^  e  dalla materifi^  y^le^  a,  ^ìre  l'individuo);  la  steresi  (la  privazione deir^clsW),  com^^ l'oscurità  o  la  malattia  :  ma  la  materia è  in  potenza.  Es^a  infatti  è  ciò  che  può  divenire  amen- ne  (cioè  \  tlooc  e  la  bteresi]»  Io  non  vedo  come   questi luoghi, SI  potrebbero  acc^ijdareco^.rj^terpretazione  tra- scendentalista. .    .  .  r.  '.^.- ?lff' (1)  Osserviamo  ohe  il  rapporto  delle  Idee  con  le  cose  e  la  ma- teria delle  cose  non  può  essere  differente  da  quello  dell'Uno  oon Le  Idee  e  la  materia  delle  Idee.  Le  Idee  devono  essere  dette  e essenze  o  le  forme  delle  cose  e  ciò  ohe  kì  attribuisce  alla  materia delle  oose,  nello  stesso  senso  in  cui  l'Uno  è  detto  V  essenza  o  la forma  delle  Idee  e  oiò  ohe  si  attribuisce  alla  materia  delle  Idee. Per  conseguenza,  l'immanenza  deirUno  nelle  Idee  e  nella  loro materia  essendo  incontestabile  (v.  n.  YII),  anche  le  Idee  devono essere  immanenti  nelle  cose  e  nella  loro  materia. -160- 4.  Il  rapporto  dei  numeri  (ideali)  con  le  cose.  V'\m- manenza  dei  numeri  anzitutto  è  supposta  dal  mot'vo  che Aristotile  assegna  alla  dottrina  che  essi  sono  sostanze  e principi!  delle  cose.  In  Mei.  V  III.  V.  3-4  dice  (metten- dosi al  punto  di  vista  dei  platonici)  :  «  Ma  il  corpo  è  mo- no sostanza  che  la  superficie,  e  la  superficie  che  la  linea, e  la  linea  che  Tunità  e  il  punto  :  da  queste  cose  infatti il  corpo  é  determinato  (wptoxai)  (1).  E  queste  cose  sem- brano poter  essere  senza  il  corpo,  ma  non  il  corpo  senza di  esse  (in  altri  termini,  secondo  il  modo  di  esprimersi che  Aristotile  attribuisce  il  più  abitualmente  a  Platone  : soppressa  la  superficie,  ola  linea,  o  il  punto  o  unitj\,  sa- rebbe soppresso  necessariamente  il  corpo:  ma  s-»ppresso il  corpo,  non  sarebbe  soppressa  necessariamente  la  su- perficie, la  linea,  l'unità  o  punto).  Perciò,  mentre  i  più antichi  credono  che  la  sostanza  e  Tessere  pia  il  corpo, e  le  altr.5  cose  affezioni  di  esso,  in  modo  che  1  principi! dei  corpi  siano  i  principii  di  tutti  gli  esseri  ;  invece  i più  moderni  e  riputati  più  sapienti  ammettono  che  questi principii  siano  i  numeri  »  (2).  E  in  Met.  l,  V.  VIII.  3  : «  Inoltre  sono  chiamate  sostanze  le  parti  che  ineriscono (•jiópta  ivoTcapxovia)  in  tali  erse  (nel  fuoco,  la  terra,  gli animali,  ecc.\  che  le  terminano  (òpJ^^ovia),  e  le  quali soppresse,  è  soppresso  anche  il  tutto:  com(?  p.  e.  soppressa la  superficie,  è  soppresso,  come  dicono  alcuni,  anche  il corpo,  e  soppressa  la  lìnea,  anche  la  superfice  :  ed  asso- ci) Nella  costruzione  dell'esteso  per  i  saoitormiuie  l'iatemillo compretjo  tra  di  essi,  immaginata  allo  scopo  di   ridurre    la    gran- dezza al  numero,  i  platonici  riguardavano  il  punto  coma  una  unità, V.  Supplemento  C,  IL (2)  Cfr.,  per  comprendere  questa  conseguenza,  la  nota  seguente. lutamente  è  il  numero  che  sembra  essere  tale  ad  alcuni; niente  essere  infatti,  soppresso  questo,  e  questo  termi- nare (ópiJcLv)  tutte  le  cose  »  (questo  numero./riguardato come  sostanza  non  può  essere  che  il  numero-  Idea,  per- chè i  platonici  non  sostantificano  che  l'Idra,  T  univeFale)  -1). L'immanenza  dei  numeri  è  ug'ualmente  supposta  (a mono  che  non  si  vogliano  intendere  le  parole  d'Aristotile in  un  K'nso  molto  lontano  dal  letterale)  in  questa  ob- biezione che  eji^li  fa  alla  dottrina  dei  numeri  :  «  Non  si è  poi  per  niente  deti*rniinato  come  i  numeri  (ideali)  sia- n<»  cause  defilo  essenze  e  dell'essere:  forse  come  termini, 0)  Koco  come  Aless.  Afrcd.  (Comr.u  in  Met,  l.  I.  VI.  5,  t.  ^)  ci- spiega,  certamente  secondo  Aristotile,  perchè  i  platonici  ammet-^ (evano  cho  i  numeri  sono  i  principii  delle  cose,  e  identificavano  le ld«^n  con  essi  :  Secondo  loro  il  principio  era  il  più  anteriore  e  il pia  semplice,  e  dei  corpi  erano  più  anteriori  e  più  semplici  i  piani, dei  piani  le  linee,  e  di  quasle  i  punti  che  essi  chiamavano  unità.... dellj  unità  non  vi  era  niente  di  anteriore  e  di  più  semplice.  Ora le  uniià  sono  numeri:  dunque  i  numeri  erano  i  prinripii  di  tutti, gli  esserf.  E  poiché  per  loro  i  principii  di  tutto  lo  cose  eraiio  le Idea,  non  potendo  esservi  un  principio  anteriore  ai  numeri,  non restava,  seconde  loro,  che  di  ammettere  che  le  Idee  sono  numeri rlMatourt  chiamava  una  cosa  anteriore  ad  un' altra,  quando  il oncetto  della  se'^onda  racchiu'ieva  quello  della  prima;  vale  a  dire il  più  astratto  era  d'atto  da  lui  anteriore  al  più  <!ioncreto.  Questo rupport  )  di  anteriorità  importava  por  lui  una  sorta  di  causalità dolla  cosa -cioè  dell' entità anteriore  verso  la  posteriore;  poiché il  principio  della  dialettica  platonica  è  che  il  più  astratto  e  pii generalo  è  in  Cf^rto  modoÌA  causa  del  più  concreto  e  più  particolare. \\  sMgno  dell'anteriorità  d'una  casa  su  di  un'altra  era  che  soppressa la  prima  si  sopprimerebbe  anche  la  soconda,  mentre  soppressa questa,  non  si  sopprimerebbe  quella  :  p.  e.  soppresso  l'Animale, f-arebbe  soppresso  perciò  anche  l'Uomo,  ma  so|ppresso  l'  Uomo,  non sarebbe  soppresso  perciò  l'Animale).  quali  i  punti  delle  grandezze?...  o  come Tarmonia  è  una proporzione    di  numeri,  cosi  pure   V  uomo  e    ogni  altra cosa?...  Ma  è  chiaro  che  (nel secondo  caso)  i  numeri  non sarebbero  le  essenze  ne  le  cause  della  forma.  L'essenza infatti  sarebbe  la  proporzione;  il  numero  sarebbe  la  ma- teria» (l).  In  diversi  luoghi  poi  Aristotile    sembra    rap- presentarsi i  numeri  (ideali)  come  gli  elementi  costitutivi delle  grandezze.  In  Met.  1.  XIV.  III.  9,  dico  che  quelli   che ammettono  le  Idee  «  fanno  le  grandezze  dalla  materia  e  dal numero  (ideale)».  S'egli  non  si  rappresentasse  efTettiva" mente  i  nùmeri  come  elementi  costitutivi  della  grandezza, non  si   comprenderebbero   delle  obbiezioni   come   le  se- guenti :  Met.  1.  III.  rV.  29  (dopo  aver  detto  che  secondo i   Pitagorici  e  Platone  V  Uno  è  sostanza   per  se   stesso, cioè   nel   suo  concetto  astratto,   e  non  è  qualche  altra cosa,  p.  e.  qualcuno  degli  elementi  dei  Fisici)  :  «Ma  come  da un  tal  Uno  o  da  più  sarà  la  grandezza?  Sarebbe  come  se  si dicesse  che  la  linea  è  composta  di  punti  » .  Ibid.  30  :  (dopo aver  detto  che  per  produrre  i  numeri,  cioè  grideali,  e  le grandezze,  alcuni  aggiungono  all'Uno  in  sé  un  altro  ele- mento, rineguaglianza)  «  Né  si  vede  come  dall'Uno  e  que- sta né  come  da  un  altro  numero  e  questa  possano  farsi  le grandezze  »  Met,,  1.  XII.  X.  11  :  «  Se  vi  hanno  le  Idee  o  i numeri,  non  saranno  causa  di  niente  :  certo  almeno  non del  movimento.  E  poi   come  da  cose  senza  grandezza sarà  la  grandezza  e  il  continuo  ?  ».  In   alcuni  di  questi luoghi,  a  dir  vero,  non  si  parla  delle  grandezze  sensi- bili, ma  delle  grandezze  matemaiichey  che  erano    inter- mediarie tra  le  grandezze  sensibili  e  i  numeri  ideali  :  ma questa  differenza  importa  poco,  perchè,  se  le  Idee  fossero (1)  Met.  l.  XrV-  V.  6-7. trascendenti  riguardo  alle  cose,  dovrebbero  essere  anche trascendenti,  come  abbiamo  altra  volta  osservato,  ri- guardo alle  entità  matematiche.  Infatti,  come  abbiamo detto,  le  stPs-e  determinazjoni  che  sembrano  esigere  la trascendenza  delle  Idee  riguardo  alle  cose  (aÙTò  xaO'aOTÓ^ ytoptaxóv,  ecc.)  esigerebbero  pure  la  loro  trascendenza  ri- guardo alle  entità  matematiche;  e  l'immanenza  delle  Idee nelle  entità  matematiche  dà  luogo  alle  stesse  inconce- pibilità che  la  loro  immanenza  nelle  cose,  non  esclusa la  più  grave  che  è  quella  dell'inerenza  simultanea  del- l'uno nei  molti,  poiché  anche  delle  entità  matematiche ve  ne  erano  molte,  come  attesta  Aristotile  (1),  della  stessa specie,  vale  a  dire  partecipanti  a  un'Idea  (a  un  numero ideale)  unica. Si  dirà  che  tutti  i  luoghi  d'Aristotile  precedentemente citati,  se  possono  provare  che  le  Idee  platoniche  sono immanenti,  non  possono  provare  però  che  l'autore  se  le rappresentasse  come  tali,  perchè  bisogna  evitare  un'a- perta contraddizione  tra  questi  luoghi  e  quelli  in  cui  e- gli  è  chiaramente  favorevole  all'interpretazione  trascen- dentalista; e  per  conseguenza  si  deve  ammettere  cheA- ristrtile  riproduce  le  formule  e  le  locuzioni  platoniche, che  in  se  stesse  implicano  l'immanenza,  ma  senza  dar»? ad  esso  alcun  significato  preciso,  anzi  riguardandole  'co- me non  suscettibili  di  un  significato  preciso.  Ed  io  ri- conosco che  quest'osservaziene  è  in  gran  parte  giusta: essa  però  non  mi  sembra  applicabile  a  tutti  i  luoghi citati,  notevolmente  a  quelli  in  cui  Aristotile  fa  delle obbioz*oni  che  non  hanno  valore  se  non  nel  caso  che  le Met,  1.  1.  VI.  3,  1.  TU.  VI.  1-2,  ooo.  formule  platoniche  si  prendano  nel  loro  signilìcnto  pro- prio, implicante  T immanenza.  Ma  vi  hanno  anche  altri luoghi,  in  cui  r  immanenza  delle  Idee,  nel  concetto d'Aristotile,  è  più  evidente  ancora.  Di  essi  alcuni  con- cernono il  rapporto  tra  le  Idee  e  lo  cose,  altri  solamente quello  tra  le  Idee  più  generali  e  le  più  particolari  ;  ma questa  differenza  per  noi  ha  poca  importanza,  perchè Aristotile  non  poteva  non  comprendere  le  ragioni  di  coe- renza che  esigevano  cheTuno  dei  due  rapporti  fosse  iden- tico all'altro,  e  d'altronde  le  ragioni  prò  o  contro  V  im- manenza delle  Idee  più  generali  nelle  più  particolari erano  quelle  stesse  che  valevano  prò  o  contro  l'immanenza delle  Idee  nelle  cose. Dei  luoghi  che  concernono  il  rapporto  delle  Idee  ge- nerali con  le  Idee  particolari,  la  parte  più  considerevole sono  certamente  quelli  che  dimostrano  l'immanenza  (nel concetto  stesso  d'Aristotile)  dei  due  elementi,  cioè  dell'U- no o  Essere  e  della  Diade  indefinita  o  Non  essere,  in tutte  le  altre  Idee  (questi  stessi  luoghi,  la  più  parte  al- meno, provano  pure  l'immanenza  di  queste  due  Idee  le più  universali,  che  Platone  chiamava  gli  elementi,  nelle cose  stesse).  Xoi  ne  abbiamo  parlato  ai  n.  VII  e  Vili, e  non  occorre  ritornarvi.  Ma  vi  hanno  anche  parecchi luoghi,  in  cui  sono  le  Idee  generali  indistintamente  che vengono  riguardate  come  immanenti  nelle  Idee  partico- lari. Così  in  Met.  1.  VII.  XV.  6-7  V  Idea  del  genere  e quella  della  differenza  sì  rousiderano  come  parti,  e  l'I- dea della  specie  come  il  tutto  composto  di  queste  parti  (!)• (1)  Altrovf3  invece  le  Idoo  spef^iiiohesoao  consklorato  oome  parti doiridea  generica.  V.  Met.  1.  IH.  ili.  IO,  1.  XI.  l.  12.  Noi  abbiaiuo vi^to  ohe  nel  sistema  dello  Ideo  (iramanenli)  tì  hanno  necessaria- mente al  tempo  stesso  fra  i  Generi  e  le  Specie  questi  due  rapporti opposti. Ibid.  1.  XIII.  X.  6,  dopo  aver  obbiettaito  alla  dottriila dei  due  elencanti  che,  se  ciascuno  di  essi  è  uno  di  nu- mero (come  vuole  Platone)  e  non  semplicemente  di  spe- eie,  non  vi  saranno  altri  esseri  che  gli  elementi  stessi, aggiunge  che  la  stessa  obbiezione  ha  luogo  quando,  ol- tre (Tcapd)  le  Idee  aventi  lo  stesso  eldo^,  si  ammette  al- cun che  di  separato  (xexo>pio{iévov— vale  ^i  dire  quando si  ammette  un'Idea  generale  oltre  le  Idee  particolari  su- bordinate a  un  concetto  comune:  l'obbiezione  vale  anche allora,  perchè  nel  sistema  dell'immanenza  è  inconcepibile p.  e.  come,  rAnimtfle  essendo  unico,  possano  esservi  non- dimeno molti  animali,  l'Uomo,  il  Bue,  ecc.).  Ibid.  1.  XIV. III.  12,  dice  che  se  il  principio  del  numero  matematico fosse  qualche  uno,  diverso  daiVuiio  che  è  il  principio  del numero  ideale,  VUno  in  se  stesso  sarebbe  ciò  che  vi  a- vrebbe  di  comune  in  questi  due,  e  inoltre  si  dovrebbe ricercare  come  VUno  potesse  essere  questi  molti.  Ifnd, I.  XIII.  Vili,  14  obbietta  alla  dottrina  dei  numeri  ideali che  l'unità  che  é  nella  Dualità  è  anteriore  a  questa, poiché,  soppressa  essa,  si  sopprimerebbe  anche  questa;  e per  conseguenza  tale  unità  dovrebbe  essere  un'Idea  d'I- dea, essendo  anteriore  a  un'Idea  (Un'Idea  d'Idea  signi- fica evidentemente  uu'Idea  più  generale,  ossia  anteriore, a  cui  partecipa  un'altra  Idea  più  particolare,  os^ia  po- steriore. Ora  quest'  unità  che  dovrebbe  essere  un'  Idea dell'Idea  della  Dualità,  è  in  questa;  perciò  Aristotile  si rappresenta  l'Idea  anteriore,  cioè  la  più  generale,  come inerente  nell'Idea  posteriore,  cioè  nella  più  particolare).  E in  diversi  luoghi  (l)le  parole  èvipdpxetv  (inerire),  5Tcdpx«tv év  (essere  in)  vengono  impiegate  per  denotare  sia  la  re- Met.  1.  VII.  XIII.  4,  8._I.  XIII.  V.'l2,  An.  Posi.  1. 1.  XXIV.3. - làtioDe  delle  Idee  generiche  con   le   Idee   specifiche  da quella  delle  Idee  con  le  cose. L'immanenza  delle  Idee  nelle  cose  é  poi  supposta della  maniera  più  evidente  dalFobbiezione  che  Aristotile fa  ripetutamente  alla  sostantìficazione  degll^  universali, di  condurre  all'assurdità  che  una  sostanza  unica  sia molte  sostanze.  «  Se  si  astrarrà  il  predicato  in  comune e  se  ne  farà  una  sostanza,  Socrate  sarà  molti  animali, egli  stesso,  l'Uomo  e  l'Animale,  s'è  vero  che  ciascuna  di queste  cose  significa  una  sostanza  e  un  che  di  unico  (1).  » «  Ciò  (che  nessuno  degli  universali  è  sostanza)  è  chiamo anche  per  questa  ragione,  che  è  impossibile  che  una sostanza  risulti  da  sostanze  che  le  ineriscano  in  atto.  In- fatti le  cose  che  in  atto  sono  due  è  impossibile  che  siano uno  in  atto  :  potrà  essere  uno  ciò  che  è  due  solo  in  po- tenza, come  il  doppio,  in  cui  vi  hanno  in  potenza  le  due metà;  è  l'atto  che  separa.  Per  cui,  se  la  sostanza  è  qualche cosà  di  unico,  essa  non  potrà  risultare  da  sostanze  ine- renti; e  in  questo  senso  Democrito  ha  ragione  di  am- mettere che  è  impossibile  che  di  due  cose  se  ne  faccia una  sola  o  di  una  due  :  le  sostanze  infatti  sono  se- condo lui  le  grandezze  indivisibili Tuttavia  la  no- stra conclusione  presenta  una  difficoltà  :  se  è  impos- sibile che  una  sostanza  risulti  da  universali,  perchè  essi significano  delle  qualità  e  non  delle  sostanze  (è  un'  altra obbiezione  che  precedentemente  ha  fatto  alla  sostantìfi- cazione degli  universali),  e  se  un^  sostanza  non  può  es- sere composta  di  più  sostanze  in  atto,  la  sostanza  sarà qualche  cosa  d'indecomponibile^  e  non  vi  potrà  essere  de tt)  ^ci,  l  Wt  VI,  6, finizione  della  sostanza  (perchè  i  platonici  riguardano la  definizione  come  una  decomposizione  del  definito  nei suoi  elementi— V.  n.  VII  B)  (1).  La  stessa  obbiezione  è  an- che presentata  sotto  un'altra  forma  :  «  La  definizione  non è  UB  discorso  unico  per  la  congiunzione  delle  parti,  cpme l'Iliade,  ma  perchè  si  riferisce  ad  un  oggetto  unico.  Co- s'è dunque  che  fa  che  l'uomo  sia  uno,  e  perchè  esso  è uno  e  non  più,  p.  e.  l'animale  e  il  bipede,  specialmente se  vi  ha,  come  alcuni  dicono,  un  animale  in  sé  e  un bìpede  in  sé?  perché  l'uomo  non  è  questi,  e  perchè  gli uomini  non  sono  per  la  partecipazione,  non  di  uno,  l'Uo- mo, ma  di  due,  l'Animale  e  il  Bipede?  allora  1'  uomo (l'individuo,  sembra)  non  sarebbe  uno,  ma  più,  l'animale e  il  bipede  »  (2j  t  Perchè  ciò  che  diciamo  essere  l'og- getto della  definizione,  è  uno,  p.  e.  l'animale  bipede,  a'è questa  la  definizione  dell'uomo  ?  Perchè  ciò  è  uno  e  non più,  r  animale  e  il  bipede?  Infatti  1'  uomo  e  il  liàapco sono  più,  quando  l'uno  non  inerisce  all'altro;  sono  uuo, quando  l'uno  inerisce  all'altro,  e  11  soggetto  (l'uQmo)  ha un'  affezione  (la  bianchezza).  È  allora  che  ciò  diviene  ed è  uno,  l'uomo  bianco.  Ma  nel  nostro  caso  una  cosa  non partecipa  dell'altra  :  il  genere  infatti  non  sembra  par^te- ciparc  delle  difibrenze;  poiché  lo  stesso  parteciperebbe,  dei contrari,  le  dififerenze  per  cui  il  genere  differisce  essendo e-'  Met  1.  VII,  Xlir.  8-10. L'obbiezione  che  la  realizzazione  degli  universali  ha  per  conseguenza che  una  sostanza  sia  composta  di  più  sostanze,  è  pure  accennata  a  1.  VII. XVI.  Seal.  vii.  XIII.  5. McU  1.  VUI,  VI.  8. -lU- contrarie.  E  quand'anche  ne  partecipasse,  vi  sarebbe sempre  la  stessa  difficoltà,  se  le  differenze  sono  più,  p.  e. pedestre,  bipede,  implume.  Perchè  tutto  ciò  à  uno  e  non molti  ?  che  esse  ineriscano  non  è  una  ragione  sufficiente, poiché  a  questo  patto  da  tutte  ne  risulterà  una  cosa  sola  » (da  tutte  vuol  dire  :  da  tutte  insieme  le  differenze  con- trarYe  che  si  producono  nella  divisione,  cioè  da  pedestre e  volatile,  bipede  e  quadrupede,  implume  e  piumato,  ecc., perchè  tutte  queste  differenze  ineriscono  egualmente  nel genere.  Forse  si  troverà  che  questi  due  luoghi  sup- pongono Timmanenza  del  Genere  e  della  Differenza  nella Specie,  ma  non  neirindividao.  E  sia  pure  !  ma  come  ab- biamo osservato,  il  rapporto  tra  le  Idee  generali  e  le  I- dee  particolari  non  potrebbe  differire  da  quello   tra   le Idee  e  le  cose. Un'altra  obbiezione  che  suppone  V  immanenza  delle Idee  nelle  cose,  è  quella  df  l^a  Metafisica  1.  IX.  Vili.  15, ciré  che,  se  vi  hanno  le  Idee,  avranno  molto  più  essere le  cose  (p.  e.  lo  sciente  o  il  mosso)  che  le  Idee  (p.  e.  la scienza  o  il  movimento  In  sé),  perché  le  cose  hanno  più  at- tualità, mentre  le  Idee  sono  le  loro  potenze.  Neiripotesi dell'immanenza  le  Idee  sarebbero  effettivamente  le  cose  in potenza,  ma  solo  in  quest'ipotesi,  prrché  il  potenziale  e  l'at- tuale sono,  non  due  cose  separate,  ma  due  stati  d'una  sola e  stessa  cosa,  stati  che  possono  succedersi  nel  tempo,  come Nel  metodo  platonico,  in  cai  la  definizione  è  il  risaltato  della divisione  per  dicotomia— Aristotile  trova  impossibile  che  lo  stesso, cioè  il  genere,  partecipi  dei  oontrarii,  perchè  egli  ragiona  sall'ipo- tesi  che  il  geneire  sia  una  sostanza,  cioè  un'Idea:  in  qaest'  ipotesi, il  genere  partecipando  di  due  differenze  contrarie,  si  ha  l'assurdo che  ad  una  stessa  cosa  ineriscono  due  contrari. (2)  Mev  u  yn.  XU,  1-2, il  fanciullo  6  in  potenza  Tuomo,  o  solo  logicamente,  còme, secondo  Aristotile,  la  materia  è  tutte  le  cose  in  potenza.  . Nel  secondo  caso,  il  potenziale  è  l'attuale  stosso  consi- derato in  uno  f^tato  d'indeterminazione:  rra  le  Idee,  se sono  immanenti,   sono  precisamente  le  cose  stesse   allo stato  indeterminato,  cioè  astratto.  Infine  citerò  qu«.st'al- tra  obbiezione  della  Phys.  1  IV.  II.  5  :  Platone  avrebbe dovuto  dire  com'è  che  le  Idee  e  i  numeri  non  sono  nello spazio,  se  ciò  che  ne  partecipa  è  lo  spazio   (come   egli afferma)  ».  L'obbiezione  é  giusta  supponendo  che  il  par- tecipato sia,  secondo  Platone,  nel  partecipante  (l).  Ma  che significato  potrebbe  avere   nell'  interpretazione   trascen- dentalista, per  cui  il  partecipato  è  fuori  del  partecipante  ? Basterebbe  questo  luogo  per  mostrare  che  Aristotile  non si  rappresenta  costantemente  le  Idee   come  trascendenti, e  che  la  sua  testimonianza  sul  rapporto  tra  le  Idee  e  le cose  è  contradittoria  ed  incerta. D'altronde  lo  stesso  Aristotile  confessa  la  sua  incer- tezza. Cosi  in  Met.  1.  XIII.  IX.  5  dice  :  «  A  tutte  queste cose  (cioè  ai  numeri  e  alle  grandezze)  è  comune  il  dub- bio che  vi  ha  sul  rapporto  del  Genere  con  le  sue  Specie, quando  si  ammettono  gli  universali  ;  cioè  se  1'  animale che  è  in  un  animale  sia  l'animale  stesso  o  un  altro  di- verso dall'animale  stesso  (vale  a  dire  se  l'attributo   ani- ci) Tuttavia,  malgrado  la  giustezza  dell' ossesvazione  d'Aristotile, Platone  può  affermare  al  tempo  stesso  che  lo  spazio  partecipa  alle Idee  e  che  queste  non  sono  nello  spazio,  perchè  lo  spazio  riunisce nel  suo  sistema  due  funzioni  e  due  concetti  differenti,  quello  di materia— e  a  quesio  punto  di  vista  lo  spazio  è  riguardato  come  l'e- stensione pura— e  quello  di  luogo.  Lo  spazio  partecipa  alle  Idee  come materia;  ma  le  Idee  non  sono  nello  spazio,  perchò  lo  spazio  è  an- che il  luogo,  e  le  Idee  non  sono  in  un  luogo. -166- inàlità  che  è  neiruomo  o  nei  leone  ecc.  sia  l^Idea  del- l'animale— ipotesi  deirimmanenza— 0  qualche  cosa  di  di- verso da  qnestldea— ipotesi  della  trascendenza—).  Non  vi ha  alcuna  cagione  dì  dubitare,  se  questo  non  è  separato (o  separabile:  xwpwcóv):  ma  se,  come  dicono  quelli  che  am- mettono tali  dottrine,  l'Uno  e  i  numeri  (idealij  sono  «e- pa^at{t(>  separabili),  non  è  facile  di  risolvere  questa  qui- stiOne,  se  si  può'dire  che  non  è  facile  ciò  che  è  affatto impossibile.  Quando  sì  concepisce  Tuno  nella  diade  oin un  altro  numero  qualunque,  é  l'uno  stesso  che  si  conce- pisce o  un  altro  uno  ?  »  (1).  E  in  Met.  1.  VII.  XIV:  «  Se esistono  realmente  le  Idee,  e  V  animale  è  nell'  uomo  e nel  cavallo,  deve  ammettersi  che  sia  nell'uno  e  nell'altro, o  numericamente  uno  e  lo  stesso  (ipotesi  dell'immanenza), o  diverso  (ipotesi  della  trascendenza).  Dalla  nozione si  vede  che  è  uno;  poiché  esprime  la  stessa  nozione chi  lo  atribuisce  all'uno  e  all'altro.  Ora  se  vi  ha  un uomo  in  sé,  sostanza  e  separato,  è  necessario  che  an- che le  cose  da  cui  risulta,  quali  sono  l'animale  e  il  bipe- de, siano  sostanze  e   separate  ;  sicché  anche  1'  animale. (1)  Come  si  vede,  rincertezza  d'Aristotile  sul  rapporto  tra  le  I- dee  più  generali  e  le  Idee  più  particolari  si  estende  anche,  com'è naturale,  a  quello  tra  i  due  elementi  e  tutte  le  Idee,  poiché  i  due elementi  non  sono  che  le  Idee  più  generali  di  tutte.  Ciò,  malgrado che  in  altri  luoghi  sembri  indubitabile  ch'egli  ammetta  l'inerenza dei  duo  elementi  nelle  Idee  e  nelle  cose  (v.  n.  VII  e  Vili).  Lo  stesso dubbio  sulla  quistione  dell'immanenza  o  trascandenza  dei  due  ele^ menti  è  espresso  in  Met.  l.  XIV.  V.  4  :  (dopo  aver  detto  che  quellj ohe  ammettono  che  i  numeri  e  gli  esseri  in  generale  risultano  da- gli elementi,  non  hanno  determinato  in  qual  modo  il  numero  ri- sulti da  essi,  se  per  la  loro  mescolanza  o  per  la  loro  composizione o  altrimenti)  "  E  poiché,  quando  una  cosa  rÌ!»ulta  da  altre,  può  ri- saltarne sia  come  da  cose  che  le  ineriscono,  sia  come  da  cose   ohe -•  .^ .-. Se  dunque  questo  è  uno  e  lo  stesso   néÙ-  nomo  e   nel cavallo,    della   steissa    maniera   che   tu   sei   uno   e   lo stesso  con  te    stesso,    come    potrà   esFere    lo    stesso   in esseri  separati  ?  e  come  non  Farà  arche  separato   da  Fé ste?so  ?  (l)    E  se  parteciperà  del  bipede  e  del  multìpede, ne  seguirà  una  cosa    impossibile  ;  poiché  i  contrari  ine- riranno   simultaneamente  in  uno  stesso  soggetto.  Se  no (cioè  se  il  Genere  non  partecipa  delle  DiflTerenze),  com'è che  potrà  dirsi  dell'animale  che  è  bipede  o  che  è  pedestre  ? 0  forse  queste  cose  (il  Genere  e  le  Diflerenze)  si  compon*- gonc»  e  si  congiuogono  o  si  mescolano  ?  ma  tutto  ciò  è  as- surdo (sin  qui  contro  l'ipotesi  dell'immanenza).  Si  ammet- terà invece  che  l'animale  è  diverso  in  ciascun  animale  par- ticolare? (ipotesi  della  trascendenza).  Mavì  saranno  al- lora un'infinità  di  esseri,  di  cui  l'essenza  sarà  l'animale..» E  di  più  l'animale  in    sé  sarà    molti    (cioè    vi    saranno molti  animali  in  sé),  poiché  l'animale  che  è  in  ciascun animale  particolare  è  sostanza...  Sicché   ciascuno    degli non  le  ineriscono,  in  quale  di  questi  due  modi  il  numero  viene  da- gli elementi  ?  Da  cose  che  ineriscono  non  vengono  se  non  le  cose che  sono  fatte.  Viene  forse  dagli  elementi  come  da  un  germe  ?  ma niente  può  uscire  dall'indivir^ibile.  O  forse  ne   viene    come   da  un contrario  non  permanente  (cioè  come  una  cosa  viene  dalla  sua contraria,  quando  questa  ha  cessato  di  esistere)  ?  ma  le    cose   che risultano  da  altre  a  questo  modo,  risultano  anche  da  qualche  altra cosa  permanente  (cioè  da  una  materia,  che  è il  sustrato  dei  duecontrari)  »,  Aristotile  cerca  una  rappresentazione  (voglio  dire  una immagine)  di  ciò  che  è  irrappresentabile.  (Cfr.  Met,  l.  XIII.   IX.   7: quelli  che  ammettono  che  il  numero  viene  dall'uno  e  dalla  plura- lità— Speusippo— non  hanno  determinato  il  come,  e  vanno  incontro alle  stesse  difficoltà  a  cai  quelli  ohe  ammettono  che  esso  viene  dal — l'uno  e  dalla  dualità  indefinita,  sia   che  si  tratti  di    generazione, sia  di  mescolanza,  ecc.) (1)  Cfr.  Plat.  Parmen.  131  b. -166-,  t 1  il ailioiaU  che  sono  negli  animali  particolari  è  un  animale in  sé.  E  questo  donde  verrà,  e  come  potrà  venire  dal- l'Idea deiranimale  ?  o  in  che  modo  sarà  possibile  que* st'animale  in  sèj oltre  Tldea  deiranimale?  Queste  stesse difficoltà  accadono  per  le  cose  sensibili,  ed  anche  mag- giori »  Le  ultime  parole  ci  mostrano  che  Aristotile  era altrettanto  incerto  sul  rapporto  tra  le  Idee  e  le  cose  che su  quello  tra  le  Idee  generali  e  le  Idee  particolari. Quest'incertezza  d'Aristotile  sui  concetti  fondamentali del  suo  maestro  sembrerà  strana  :  ma  non  bisogna  di- menticare che  il  sistema  platonico  appartiene  alla  stessa classe  che  quello  al  cui  autore  si  è  attribuito  di  aver detto  che  nessuno  dei  suoi  discepoli  lo  aveva  compreso.  Qaest'inoerteMa  sul  rapporto  fra  le  Idee  generali  e  le  par- tioolari  si  Tede  an^he  in  Met.  1.  VII.  XII.  4  :  Se  non  vi  ha  affatto Genere  oltre  (napot)  quelle  ohe  sono  come  le  specie  d*un  genere, o  yì  ha,  ma  come  materia  di  esse,  è  chiaro  ohe  la  definlsione  è  la nozione  che  risulta  dalle  differenze  „.  Qui  si  fanno  due  ipotesi,  d^ cui  la  prima  è  che  non  vi  siano  assolutamente  Idee  dei  generi,  e la  seconda  che  queste  Idee  siano  immanenti  nelle  Idee  delle  specie, Aristotile  ammette  perciò  tanto  la  possibilità  dell'immanenza  quanto queUa  della  trascendenza.  Non  è  per  altro  necessario  a  un  metafisico  di  essere  un  He- gel o  un  Platone  o  uno  Spinoza  per  essere  non  compreso  o  frain- teso da  quegli  stessi  che  sembrano  nelle  condizioni  più  favorevoU per  intenderlo  perfettamente.  È  una  sventura  che  può  accadere anche  ai  metafisici  meno  lontani  dal  senso  comune,  e  che  è  infatti accaduta  ai  filosofi  stessi  della  scuola  del  senso  comune.  La  dot- trina fondamentale  di  Reid,  che  nella  percezione  noi  abbiamo  una conoscenza  intuitiva  degli  oggetti  esteriori  (cioè  una  conoscenza in  cui  è  presente  l'oggetto  stesso,  e  non  una  sua  immagine  men- tale) è  stata  intesa  al  rovescio  da  un  altro  dei  piii  illustri  filosofi della  scuola  scozzese,  cioè  da  Brown,  il  quale  attribuiva  invece  ft Beid  la  dottrina  ordinaria  che  neUa  percezione  noi  abbiamo  della *  'li* Del  resto  le  ragioni  dell*  incertezza  d'Aristotile  sonò  ab- bastanza ovvie.  Egli  vede  da  una  parte  che  delle  entità come  le  Idee  platODiche  non  potrebbero  concepirsi  che separate  dalle  cose,  e  che  Tipotesi  delTimmanenzaèuna impossibilità  logica  e  una  contraddizione  ;  ma  vede  an- che dairaltra  porte  gli  sforzi,  benché  vani,  di  Platone per  collocare  le  Idee  nelle  cose,  identificandole  coi  loro attributi.  Per  risolvere  i  dubbi  di  Aristotile  sarebbe  bi- sognato un'  esame  sufficiente  sui  motivi  e  lo  scopo  del sistema  delle  Idee  e  le  condizioni  indispensabili  per  rea- lizzare questo  scopo:  ma  un  tale  esame  avrebbe  sup- posto un  grado  di  riflessione  psicologica,  che  sarebbe vano  di  attendersi,  anche  da  un  Aristotile,  in  un'epoca in  cai  lo  spirito  comincia  appena  a  prendere  se  stesso per  oggetto. realtà  esteriore  una  semplice  rapprci^entazione.  Vi  ha  qualche  ana- logia tra  il  caso  di  Brown  e  quello  di  Aristotile,  perchè  Brown, oltre  d'essere  un  discepolo  della  scuola  stessa  di  cui  Reid  fu  il  capo era  in  relazioni  personali  intime  con  Stewart,  il  propagatore  delle dottrine  di  Reid  (Stuart-Mill  crede  che  l'interpretazione  di  Brown sia  la  vera,  e  sostiene  contro  Hamilton  che  la  percezione  per  Reid non  è  immediata  :  ma  i  luoghi  di  Reid  che  egli  cita  per  dimostrare il  suo  assunto V.  FU.  di  Hamilton  e.  X mostrano  solamente  che secondo  Reid  la  concezione  dell'oggetto  esteriore,  nella  percezione è  suggerita  dalla  sensazione,  che  è  il  segno  naturale  della  presenza dell'oggetto  percepito.  Senza  dubbio,  se  chiamando  la  percezione immediata,  si  vuel  dire  ch'essa  è  un  atto  dello  spirito  che  non  è preceduto  e  occasionato  da  un  altro,  la  percezione  per  Reid  non è  immediata.  Ma  la  quistione  non  era  se  sia  o  no  immediata  in questo  senso,  ma  se  per  Reid  sia  immediatamente  presente  nellospirito  che  percepisce  lo  stesso  oggetto  percepito,  o  solamente  la rappresentazione  di  quest'  oggetto,  come  ammettono  la  più  parte degli  altri  filosofi.  É  su  questo  punto  che  Hamilton  aveva  rimpro- verato con  ragione  a  Brown  di  aver  frainteso  Reid). Alcune  dottrine  di  Platone,  per  cui  la  nostra  sorgente unica  o  principale  è  negli  scritti  di  Aristotile,  sarebbero inesplicabili  al  semplice  punto  di  vista  della  teoria  delle Idee,    quantunque  mescolate  e  fuse  con  le  proposizioni di  questa  teoria;  e  noi  non  possiamo  spiegarle,  che  per un  sincretismo  dei  concetti  propri  di  Platone  con  quelli del  pitagorismo.  Queste  dottrine  sono  assolutamente  prive di  qualsiasi  valore  filosofico,  e  sarebbe  impossibile  di  as- segnare ad  esse   l'origine  da  cui  derivano  generalmente i  concetti    metafisici,  vale  a  dire  di   dedurle   dalle   illu- sioni   naturali  o  sofismi  a  priori  del  nostro   spirito.  In- vece  esse  appariscono  il  risultato   di  speculazioni   arbi- trarie e  di  sofismi  puramente  artificiali  ;  e,  sotto  questo rapporto,  escono  dall'argomento  di  questo  scritto,  che  è di  mostrare,    nei  sistemi  che  ci  presenta   la  storia  della filosofia,  lo  sviluppo  della  metafisica  naturale  dello  spi- rito umano.  Tuttavia  è  per  noi  indispensabile  di  occu- parci anche  di  queste   dottrine  :  senza  di  ciò,  la  nostra interpretazione  del  sistema  platonico  lascerebbe  dei  punti oscuri,  che  è  necessario  di  chiarire,  perchè  potrebbero  ri- torcersi contro  di  essa. Premettiamo  alcuni  cenni  sulla  filosofia  pitagorica.  Le hi dottrine  principali  e  più  caratteristiche  dei  Pitagorici consistono  in  queste  due  proposizioni  :  la  prima  che  le cose  sono  fatte  ad  imitazione  dei  numeri  e  sono  esse stesse  numeri ;  la  seconda  che  tutto  consta  di  due elementi  contrari,  che  sone  delle  astrazioni  riguardate come  entità  sussistenti  per  se  stesse,  cioè  il  Limite  {né- pa^,  Tisparvov)  o  Limitato  (usTispaoiiévov),  che  era  idenfì- cato  con  V  Impari,  e  rillimitato  ((JcTistpov),  ehe  era  iden- tificato col  Pari. Sulla  dottrina  che  le  cose  sono  numeri  Hegel  dice- ^  Ammiriamo  quest'arditezza  a  distruggere  d'  un  colpo tutto  il  mondo  sensibile,  e  a  considerare  il  pensiero  corno l'essenza  dell'universo.  »  Per  m**,  io  devo  confessare  che non  posso  ammirare  altra  cosa  ehe  la  grandezza  di questo  non  senso;  in  quanto  al  pensiero  essenza  dell'u- niverso, è  uno  di  quei  concetti  che  Hegel  presta  gratui- tamente agli  altri  filosofi,  per  fare  entrare  i  loro  sistemi nel  quadro  artificiale,  in  cui  egli  presenta  la  storia  della filosofia.  SU'le  dottrine  dei  Pitagorici  devo  ripetere  Toa- servazione  fatta  sulle  dottrine  pitagoreggianti  di  Platone cioè  che  io  non  credo  che  es^e  possano  essere  derivate dai  sofismi  naturali  del  nostro  spirito.  Io  non  vedo  ehe un  mezzo  per  comprendere  in  qualche  modo  la  possibi- lità di  dottrine  come  quelle  della  filosofia  pitagorica  :  è di  ammettere  nella  formazione  di  queste  dottrine  l'azione di   un    processo   simile   a  quello  a  cui    sì  attribriisce  la Aristotile  Met,  I.  I.  VI.  2,  Arlstossene  ap.  Stob.  I  XVI,  ecc. (2)  Arist.  Met.  1.  I.  V,  I.  I.  VI  4,  I.  XIII,  VI.  7.   Vili.  9-iO,  I.  XIV. 111.  2-4,  eoe;  Plut.  Plac,  I,  1.  111.  14-241  ecc. C6)  Arist.  Met,  1.  I.  V. ~u»  formazione  dei  miti,  ò  almeno  di  una  gran  parte  di  essi, cioè  r  interpretazione  in  un  senso  strettamente  realista di  proposizioni  che  airorigine  non  avevano  che  nn  senso figurato.  Le  dottrine  religiose  potrebbero  fornirci  parecchi esempi  di  credenze  che  hanno  avuto  evidentemente  que- st'origine; e  certo  le  condizioni  del  miluogo  in  cui  si  formò la  filosofia  pitagorica  si  prestavano  facilmente  all'azione di  un  tale  processo.  Questo,  oltre  che  dal  legame  tra  i discepoli  di  questa  filosofia,  che  erano  i  membri  della  so- cietà pitagorica^  e  il  carattere  semi-religioso  di  questa pocietà,  e  dall'ossequio  illimitato,  che  ne  seguiva,  all'au- torità  del  fondatore  personaggio  a  metà  mitologico,  chn i  proseliti  riguardavano  come  un  semidio  —,  era  favorito anche  dalla  circostanza  che  la  dottrina  non  si  tramandava che  oralmente.  (1)  Noi  possiamo  dunque  supporre  che  Pi- tagora si  era  limitato  ad  ammettere  resistenza  di  grandi analogie  tra  le  cose  i  numeri,  concetto  oscuro  e  non  su- scettibile di  un  significato  preciso,  ma  che  non  era  un  non senso  cosi  evidente  come  la  proposizione  che  le  cose  sono numeri;  e  che  questa  proposizione  non  era  per  lui  che  un'e- spressione iperbolica  per  denotare  d'una  maniera  energica e  concisa  queste  pretese  analogie  delle  cose  coi  numeri, non  chft  il  concetto  più  giusto,  che  le  ricerche  scientifiche della  scuola  ci  danno  il  dritto  di  attribuirgli,  della  pre- senza in  tutti  i  fenomeni  di  rapporti  numerici  regolari, e  dell'importanza  di  questi  rapporti  per  determinare  la Filolao  fu  il  primo  che  mise  in  iscritto  la  dottrina  pitagorica  (un secolo  e  forse  più  dopo  la  fondazione  della  scuola)  V.  Zeller  p.  260-261 e  p.  309. natura  delle  cose.  Ma  in  seguito,  per  un  effetto  della tendenza  naturale  apprendere  in  uu  senso  strettamente proprio  le  proposizioni  ricevute  da  un'autorità  in  cui  si ha  una  f-^de  cieca,  si  venne  insensibilmente  nella  scuola a  dare  alla  proposizione  il  suo  significato  letterale  di  u- n'ìdentità  assoluta  tra  i  numeri  e  le  cose;  quantunque a  lato  di  questa  dottrina,  per  una  di  quelle  incoerenze, di  cui  i  s's'^emi  tradizionalisti,  com'era  eminentemente  il  pi- tagorica, ci  presentano  frequenti  esempi,  coesistesse  pure r  altra,  più  conforme  al  pensiero  del  fondatore  della scuola,  che  le  cose  sono  fatte  ad  imitazione  dei  numeri. Questa  spiegazione  deve  applicarsi  naturalmente,  non  solo  alla formula  generale  che  tutto  è  numero,  ma  anche  alle  proposisioni  parti- colari che  facevano  l'applicazione  di  questa  formula.  P.  e.  le  proposizioni il  numero  due  è l’opinione, il  numero  quattro  è  la  giustizia,  all'o- rìgine non  significavano,  come  vennero  intese  in  seguito,  Tidentità  asso- luta del  numejo  due  con  l'opinione  e  del  numero  quattro  con  la  giustizia, ma  volevano  dire  semplicemente  :  il  numero  due  rappresenta  o  simbo- leggia l'opinione,  e  il  numero  quattro  la  giustizia;  vale  a  dire  atferraavano soltanto  l'esistenza  di  un'analogia  tra  questi  numeri  e  queste  cose. Aristotile  dà  pure  per  motivo  alla  dottrina  dei  Pitagorici  le  ana- logie ch'essi  credevano  di  vedere  tra  le  cose  e  i  numeri  (v.  Met,  1.  I.  V.  2) e  i  rapporti  numerici  regolari  che  osservavano  nei  fenomeni  (J/e/.  1.  XIV. III.  2  )  Tuttavia  (nel  primo  di  questi  due  luoghi)  egli  parla  anche  di  un altro  motivo,  cioè  che  i  numeri  sono  i  primi  di  tutti  gli  esseri,  sembrando attribuire  questo  concetto  ai  Pitagorici  stessi.  Ma  verisimilmente,  cosi  fa- cendo, egli  presta  al  pitagorismo  genuino  un  concetto  che  non  appartiene che  al  pitagorismo  di  Flacone  e  dei  Platonici:  infatti,  che  i  numeri  siano primi  degli  esseri,  è  evidentemente  una  conseguenza  del  principio  pla- tonico che   una   cosa,  cioè  un'  entità,  è  anteriore  ad  un'  altra,   quando, soppressa  la  prima,  si  sopprime  anche  la  seconda  :  ora  non  vi  ha  alcuna  ra- gione per  attribuire  questo  principio  mi  Pitagorici. I   Pitagorici  non  dicevano  solamente  che  tulio  è  numero^  ma  ancora I  numeri  dei  Pitagorici  sono  evidentemente  delle  astra- zioni reaVzzat  '.  Tuttavia  non  lo  sono  d'  una  maniera cosi  assoluta  come  p.  e.  le  Idee  di  Platone  o  quelle  di  R^- gel.  In  effetto  la  prc  posizione  che  le  cose  sono  num'^ri  può considerassi  a  due  punti  di  vista  opposti  :  in  quanto  ri- guarda come  cose  reali  delle  semplici  astrazioni  quali sono  i  numeri,  questa  proposizione  è  una  realizzazione di  astrazioni;  in  quanto  non  accorda  ai  numeri  un'esi- stenza distinta  da  quella  delle  cose,  e  non  pone  per  con- seguenza altro  di  reale  che  le  cos'^  stesse,  cioè  gli  og- getti concreti,  essa  non  lo  è.  In  una  parola,  questi  nu- meri—cose dei  Pitagorici  sono  al  tempo  stesso  astratti  e concreti  —  questa  contraddizione  è  uno  degli  aspetti  in cui  si  manifesta  la  contraddizione  originaria  contenuta nel  loro  concetto  :  com^  numeri,  sono  astratti  ;  come cose,  sono  concreti. Ma  là  dove  il  realismo  dei  Pitagorici  si  mostra  sen- z'alcuna  ambiguità,  è  nella  dottrina  del  due  elementi. Il  Limitato  e  llUimitato,  come  osserva  più  volte  Ari- Btot'le  (!),  non  designano  delle  sostanze  (p.  e.  aria,  ac- che iuiio  è  armonia  (Arist.  Mei.);  e  in  questa  proposizione  la parola  armonia  aveva  un  significato  musicale,  e  designava  l'ottava  (vedi Zeller  329)  All'  origine  di  questa  seconda  proposizione  può  applicarsi  la stessa  spiegazione  cha  abbiamo  proposto  per  la  prima;  vale  a  dire  il  fon- datore della  dottrina,  dicendo  che  tutto  è  armonia,  intendeva  solamente affermare  l'esistenza  di  analogie  profonde  tra  la  costituzione  delle  cose  e i  rapporti  dei  suoni  musicali;  l'identificazione  assoluta  tra  le  cose  e  1'  ar- monia non  avvenne  che  in  seguito,  per  un  effetto  della  tendenza  segna- lata nel  testo,  a  prendere  in  un  senso  strettamente  letterale  le  proposi- zioni venute  da  un'autorità  ciecamente  rispettata. (1)  M9t,  1.  I,  V.  13,  Phyn,  1.  JU.  IV,  2,  V.  1-4, qua  0  fuoco),  a  cui  questi  termini  vengono  attribuiti come  predicati,  ma  sono  gli  stessi  attributi  limitato  e  il- limitato  che  vengono  riguardati  come  sostanze.  La  stessa oFservazione  vale  per  l'Impari  e  il  Pari  :  questi  termini non  designavano  i  numeri  impari  e  i  numeri  pari,  ma delle  entità  corrispondenti  ai  concetti  astratti  dell'impari e  del  pari;  erano,  come  il  Limitato  e  V  Illimitato,  non degli  attributi,  ma  dei  soggetti.  Per  questa  sostantifica- zione  di  semplici  astrazioni,  la  filosofia  dei  Pitagorici  ha una  certa  aria  di  somiglianza  con  quella  di  Platone.  Vi ha  però  una  differenza  essenziale  tra  il  realismo  di  Pla- tone e  quello  dei  Pitagorici.  In  Platone,  come  in  Spi- noza 0  in  Hegel,  il  realismo  deriva  dai  sofismi  a  priori dello  spirito  umano,  ed  è  destinato,  con  la  dialettica  che ne  è  il  complemento  indispensabile,  a  dare  una  soluzione al  problema  delle  cause  efficienti.  Invece  nel  sistema pitagorico— come  in  altri  sistemi  che  si  sono  formati  in condizioni  analoghe,  vale  a  dire  che  sono  V  opera,  non del  libero  esame  individuale,  ma  della  tradizione  e  di  un dommatismo  cieco,  per  esempio  nella  filosofia  degl'  In- diani o  nella  scolastica — il  realismo  è  senz'alcuna  utilità per  la  spiegaeione  dei  fenomeni;  e  la  migliore  ipotesi  che si  possa  lare  per  rendersene  conto  è,  io  credo,  di  ricor- rere a  un  processo  simile  a  quello  a  cui  abbiamo  attri- buito la  dottrina  che  le  cose  sono  numeri,  cioè  di  am- mettere che  la  realizzazione  delle  astrazioni  limitato^  il- limitato^  impari^  pari  sia  stata  leffetto  di  malintesi  sul significato  di  formule  antiche,  ricevute  con  uno  spirito ciecamente  autoritario,  e,  come  avviene  in  tal  caso,  in- tese d'una  maniera  troppo  rigidamente  letterale  (1). (1)  Gir.  ctp.  Vn.  s  1. et   Alla  dotttfna  dei  due  elementi  era  legata  quella  delle dieci  opposizioni,  che  però  non  era  ammessa  che  da una  parte  della  scuola.  Queste  opposizioni  erano  :  il  li- mito o  limitato  e  Tillimitato,  l'impari  e  il  pari,  Tuno  e  il multiplo,  il  destro  e  il  sinistro,  il  mascolino  e  il  femmi- nino, il  riposo  e  il  movimento,  il  retto  e  il  curvo,  la  luce e  Toscurità,  il  bene  e  il  mate,  il  quadrato  e  il  rettan- golo. Queste  d'eci  coppie  di  opposti  erano  riguardate dai  Pitagorici  come  t  principii  degli  esseri  (1).  Aristo- tile osserva  eh'  essi  non  determinavano  chiaramente  a quale  delle  quattro  cause  —  materia,  forma,  cau'ia  effi- ciente, causa  finale  — questi  principii  dovessero  ricon- dursi (2)  :  ma  risulta  dai  frammenti  di  Filolao  (3)  che  li riguardavano  come  elementi  costitutivi  del  reale.  Evi- dentemente, il  concetto  racchiuso  nella  tavola  dt-lle  dieci opposizioni  è  la  coesistenza  da  per  tutto  di  cose  o  di  de- terminazioni contrarie  :  ma  questo  concetto  è  rivestito d*una  forma  assolutamente  arbitraria  Perchè  fra  tutte le  opposizioni  delle  cose  si  scelgono  queste  dieci,  e  si elevano  al  grado  di  principii  ed  ehmentì  degli  esseri  ? Forse  questa  dottrina  è  anch'  essa,  come  la  più  parte delle  altre  proposizioni  metafisiche  dei  Pitagorici,  TaUc- razione  d'una  dottrina  primitiva  più  ragionevole,  e  nel pensiero  del  primo  autore  della  proposizione,  che  è  poi divenuta  la  dottrina  delle  dieci  opposizioni  quale  noi  la conosciamo,  qu  ste  opposizioni  determinate  non  erano che  degli  esempi  particolari  del  principio  generale  della coesistenza  universale  degli  opposti.    In   ciascuna   de\U (1)  Met.  1.  I,  V.  6,  8, (2)  Mei.  1.  I-  V.  8. (3)  Ap.  Stob,  I.  458,  I.  * •^'^ dieci  opposizioni,  l'uno  dei  membri  era  ricondotto  al  Li- mitato e  l'altro  airiJliniitato  (I).  Spesso,  in  effetto,  Tuno dei  due  concetti  opposti— 1' uno,  il  bene,  il  riposo,  il retto,  il  quadrato  rappresenta  qualche  cosa  di  definito, l'oggetto  corrispondente  al  concetto  non  potendo  essere che  in  un  sol  modr;  e  l'altro  il  multiplo,  il  male,  il movimento,  il  curvo,  il  rettangolo  qualche  cosa  d'in- definito, l'oggetto  corrispondente  al  concetto  potendo  es- sere in  un'infinità  di  modi.  Questa  riflessione  però  non potrebbe  applicarsi  a  tutte  le  opposizioni;  e  nella  ridu- zione di  queste  alla  opposiz'one  fondamentale  del  Limi- tato e  dell'Illimitato,  i  Pitagorici  sono  inoltre  guidati  dal concetto  che  il  perfetto  deve  mettersi  dalla  parte  del  Limi- tato (0  Finito),  e  l'imperfetto  dalla  parte  dell'Illimitato  (per r  analogia  che  vi   ha  tra  V  idea  di  perfetto  e  quella  di  V.  Arist.  Eth.  Nic,  1.  II.  VI.  14  (il  male  è,  secondo  i  Pitago- rici, dell'illimitato,  il  bene  del  limitato.    Cfr.  Kth,  Nic.  1.  I.  VI.  7 e  Met,  1.  XIV.  VI.  7,  in  cui  l'una  delle  due  serie  degli  opposti,  quella in  cui  è  compreso  l'uno,  l'impari,  il  retto,  è  chiamata  la  serie  dei beni  e  ìa  serie   del  hello)  ;   Eudemo   ap.  Simpl.  Phys. (i  Pita- gorici e  Platone  portano  nel  movimento   i'  infinito';  Aless.  Afrod. in  MeL  I.  V.  t.  32,  Plutarco  Quaest.  rom.  102,  ecc.  (per  i  Pitagorici l'impari  è  mascolino,  il  pari  femminino);  Eudoro  ap.    Simpl.  Phys 39  a  (i  Pitagorici  chiamano  l'uno  dei  due  elementi  impari,  masco- lino, destro,  luce,  l'altro  pari,  femminino,  sinistro, oscurità);  ecc. Filolao  (nei  Fr.  ap.  Stob.  I.   456  e  I.  458)  parla,  come  di  elementi costitutivi  delle  cose, di /imt^a/i (cioè, propriamente  /imeìrtnft.— 7i£pa{- vovxa— )  ed  i/limitati,  al  plurale:  è  ciò  che  egli  non  farebbe,  se  oltre  al Limitato  e  all'Illimitato  unico  non  ammettesse  molte  forme  di  li- mitato e  d'illimitato. Aristotile  (Kth.  xWic,  l.  II.  VI.  14)  dice  :  si  può  essere  cattivi in  mille  forme,  ma  non  si  può  essere  buoni  che  in  un  sol  modo;  e appoggia  questa  proposizione  sull'autorità  dei  Pitagorici,  che  pone- vano il  bene  nella  classe  del  finito  e  il  male  in  quella  dell'infinito. -  161  ^ finito).  Infatti  la  serie  del  Limitato   è  cbiamata  la  serie (ouaxoix^a)  del    bene  e  d<  1  bello  (1). Un'altra  proposiz'onc  in^ portante  dei  Pitagorici,  sia  per il  loro  stesso  sistema,  Ma  per  l'intelligenza  dei  rapporti di  esso  con  quello  di  PUtone,  è  che  i  numeri  vengono dall'Uno.  Questa  prr  posizione  è  troppo  naturale,  per- chè occorrano  delle  spiegazioni:  solo  bisogna  avvertire che  Aristotile  applica  all'Uno  (3)  la  stessa  osservazione eh'  egli  fa  sul  limitato  e  V  Illimitato,  vale  a  dire  che rUno  non  significa  per  i  Pitagorici  una  sostanza  che  ha per  attributo  l'unità,  ma  ò  lo  stesso  attributo  unità  che è  riguardato  da  essi  come  una  sostanza.  Questa  sostan- tificazione  dell'uno  è  ura  conseguenza  naturale  della  so- sta nti  fica  zi<  ne  dei  nunneri  :  ma  nell'uno  il  carattere  di ast' azione  realizzata  apparisce  più  netto  che  nei  numeri. In  questi  è,  come  notammo,  alquanto  incerto,  perchè essi  vengono  identificati  con  le  cose  stesse  :  ma  V  uno, come  prinrip'o  ed  elemento  dei  numeri,  non  può  iden- tificarsi con  ah  una  cosa  particolare. Arisi.  Fth.  yic.  1. 1.  VI.  7,  l.  XIV.  VI.  7.  Cfr.  Eth,  Nic.  1.  II. VI.  14. Arisi.  Met.  1.  I.  V.  5,  1.  XIII.  VI.  4-6,  9. (3)  Met,  1.  I.  V.  13, 1. 1.  VI.  4,  1.  III.  1. 12,  l.  III.  IV.  21-22. 1.  X.  11.  1.  I  Pitagori,  è  vero,  assegnano  l'uno  all'intelligenza,  airanima, ecc.:  ma  il  concetto  dell'ano  ha  per  loro  evidentemente  pii  esten- sione che  le  cosa  particolari  ch'essi  riconducono  a  questo  numero, e  non  è  in  quanto  principio  ed  elemento  dei  numeri  ohe  1'  uno viene  identificato  con  queste  cose.  Come  nota  giustamente  Zeller  Cpag.),  un  concetto  generalo,  nella  filosofia  dei  Pitagorici, riceve  in  un  caso  particolare  una  determinazione  speciale,  senza che  perciò  questa  determinazione  appartenga  al  concetto  generale essenzialmente  e  in  tutti  i  oasi. Questa  realizzazione  di  astrazioni  è  il  punto  di  con- tatto più  nftevole  tra  il  sistema  dei  Pitagorici  e  quello di  Platone.  Ma  si  deve  anche  notare  un'altra  analogia. I  priHcipii  degli  altri  filosofi  anteriori  a  Platone  sono  gli elementi  materiali  di  cui  le  cose  sono  fatte  —  l'acqua, l'aria,  il  fuoco,  i  quattro  eh  nienti  di  Empedocle,  gli atomi  di  Democrito,  ecc.  —  o  le  forze  motrici  generali della  natura  —  il  Nous  d'Anassagora,  TAmore  e  1'  Odio di  Empedocle,  ecc  — :  questa  osservazione  si  applica  an- che agli  Eleati,  perchè  l'Uno  o  Essere  di  questi  filosofi non  è  che  la  materia  universale  delle  cose,  con  questa differenza  che  le  forme  diverse,  rivestite  da  questa  ma- teria, sono  dichiarate  delle  semplici  apparenze.  I  prin- cipii  di  Platone  invece  sono  !e  essenze  delle  cose,  i  loro concetti  generici  e  specifici  (cioè  gli  oggetti  corrispon- denti a  questi  concetti).  Ora  i  numeri  pitagorici  corri- spondono anch'essi  ai  concetti  generali  delle  cose,  e  rap- presentano le  loro  essenze.  I  Pitagorici  dicono  :  la  giu- stizia è  il  numero  quattro,  il  matrimonio  è  il  numero cinque,  l'opportunità  é  il  numero  sette,  V  opinione  è  il numero  due  (1),  ecc  ;  un  tal  numero  è  quello  dell'itorao, un  tal  altro  quello  del  cavallo  (2),  ecc.  Aristotile,  è  vero,' liconduce  i  numeri  dei  Pitagorici  tanto  al  principio  es- senziale (3)  quanto  al  principio  materiale:  ma  ciò vuol  dire  semplicemente  che,  a  differenza  dei  numeri ideali  di  Platone,  che  rappresentano  le  sole  forme  delle (1)  Arisi.  Met,  1.  I.  V.  2, 1. 1.  Vili.  7,  l.  XIII.  IV.  3,  e  Aless.  Afrod. in  Mot.  i.  t.  32. Arisi  Met,  1.  XIV.  V.  6,  Teofrasto  Mei    11. (3)  Met,  1.  1.  V.  13,  1.  I.  Vi.  4,  ecc. Met.  l.  I.  V.  5.   •il     II cose,  i  numeri  pitagorici  rappresentano  le  cose  stesse,  in entrambe  le  parti  che  crstitu^scono  il  loro  concetto,  cioè, per  esprimerci  nel  linguaggio  di  Platone  e  d'Aristotile, il  composto  della  forma  e  della  materia. L'ultima  forma  della  filosofìa  p'atonica  risulta  da  una fusione  dei  concetti  propri  del  sistema  delle  Idee  coi  con- cetti fondamentali  del  pitagorismo,  di  cui  abbiamo  par- lato. Le  dottrine  pf^r  cui  questa  seconda  forma  del  si- stema differisce  dalla  prima,  sono  conosciute  col  nome di  àypacpa  5ÓY|xaxa  (dottrine  non  scritte),  perchè,  quan- tunque alcune  si  trovino  già  nel  Timeo,  nel  loro  insieme non  sono  state  esposte  da  Platone  che  oralmente,  nelle sue  conft^nnze  stùl  Bene,  Queste  dottrine  si  riducono  ai punti  seguenti  : 1^  Le  Idee,  e  per  conseguenza  le  cose,  sono  numeri. 2^  Le  Idee  e  le  cose  constano  di  due  elementi,  corrispon- denti al  L  mite  e  Illimitato  dei  Pitagorici. 3°  Le  Idee  rappresentano  la  sola  forma  delle  cose. Cosi,  prr  costituire  l^*  ce  se,  concorre  con  le  Idee  un  al- tro fattore,  la  materia  :  questa  è  identica  allo  spazio. 4*^  Le  entità  matematichp,  cioè  i  numeri  che  sono  l'og- getto dell'aritmetica  e  le  grandezze  geometriche,  quan- tunque s^ano,  come  le  Idee,  d^gli  universali  realizzati, fli  distinguono  nondimeno  dalle  Idee  propriamente  dette, e  costituiscono  un  t<^rzo  genere  di  esseri,  dift'erenti  al tempo  stesso  dalle  Idee  o  dalle  cose,  e  intermediari  fra le  une  e  le  altre. Noi  esamineremo  success'vamente  queste  quattro  dot- trine. > I.  I  numeri  ideali La  proposizione  che  le  Idre,  e  quindi  le  cose,  sono numeri non  ha  alcun  legame  natu-ale  col  sistema delle  Idee  — essa  non  p  tribbe  dedursi  nò  dalla  realiz- zazione degli  universali  né  dalla  dialetcica,  i  due  punti  a cui  il  sistema  si  riduce—;  ed  è  d'altronde  evidente  che  Pla- tone non  sarebbe  arrivato  a  questa  dottrina  senza  l'in- fluenza  della  filosofia  pitagorica.  La  teoria  delle  Idee  — numeri  ci  apparisce  dunque  chiaramente  come  il  risul- tato di  un  sincretismo  tra  la  teoria  propriamente  pla- tonica delle  Idee  e  quella  pitagorica  dei  numeri.  Ciò è  confermato  dalla  testimonianza  d'  Aristotile.  Questi comincia  P  esposizione  della  filosofia  platonica,  osser- vando che  in  molte  cose  Platone  m  un  seguace  dei Pitagorici,  ma  ne  ebbe  anche  alcune  che  gli  furono  pro- prie; e  poi,  facendo  la  disrjnzione  tra  ciò  che  è  proprio a  Platone  e  ciò  ch'egli  deve  ai  Pitagorici,  la  parte  che gli  attribuisce  come  propria  nella  dottrina  dei  numeri  è l'aver  posto  questi  al  di  là  delle  cose  (Tiapàxà  alaeyjxa), mentre  i  numeri  pitagorici  erano  le  cose  stesse.  Que- sta difterenza  significa  che  per  i  Pitagorici  i  numeri s' identiOcano  immediatamente  con  le  cose  particolari, per  Platone  invece  sono  delle  entità  universali,  che  non s'identificano  immediatamente  che  con  le  Idee,  e  con  le cose  solo  mediatamente,  in  quanto  1'  essenza  di  queste consiste  nelle  Idee. Aristotile  ci  attesta  inoltre  che  nella  forma  primitiva del  sistema  platonico  la  dottrina  delle  Idee  non  era  le- gata a  quella  dei  numeri,  e  che  la  identificazione  delle   V.  per  questa  dottrina  Arist.  Mei.  I.  I.  VI,  I.  I.  Vili.  I7-I8,  1.  I. IX.  I3  sqq.  1.  XIII.  VI-IX,  «ce, (2)  Mei.  I.  I.  VI.  4.  Idee  coi  numeri  avvenne  in  un  periodo  posteriore.  Ciò risulta  anche,  indipendentemente  dalla  tfstimrnianza  di Aristotile,  dall'esame  delle  Fcritture  platoniche.  Se  t-ì eccettui  1'  Epinomide  (che  del  resto  è  di  un'  autf  nticità incerta)  e  il  Timeo,  nel  quale  la  costruzione  dei  corpi per  le  superficie  (2)  suppone  certamente  la  dottrina  che il  reale  consiste  rei  numeri,  non  vi  ha  negli  scritti  pla- tonici alcuna  traccia  di  questa  dcttrina.  Vi  hanno  anzi dei  luoghi,  in  vari  dialoghi,  che  escludono  l'identità  tra le  Idee  e  i  numeri.  In  tutti  i  casi  in  cui  è  quistione  di numeri  come  entità  (tranne  ueW Epinomide) y  come  nella Bepublica  522-526,  nel  Fedone  101  e  104-105,  nel  Eiiebo 56-57,  nel  Parmenide  143-144,  Platone  non  intende  per  essi che  le  determinazioni  particolari  che  costituiscono  l'oggetto deir aritmetica,  e  non  la  sostanza  stessa  delle  cose,  com'e- gli farebbe  se  ammettesse  già  la  teoria  delle  Idee  —  nu- meri. Aggiungiamo  che  in  parecchi  dei  luoghi  indicati  è attribuita  ai  numeri  la  comhinabiliià,  cioè  si  fanno  con- stare tutti  da  unità  della  stessa  natura  (3),  mentre,  come diremo  in  seguito,  il  carattere  dei  numeri-Idee   vale a  dire  dei  numeri  con  cui  tutte  le  Idee  sono  identifi- cate—è  V incombinabilità,  cioè  la  composizione  di  ciascun numero  da  unità  che  non  sono  della  stessa  natura  che quelle  di  un  altro.  Né  potrebbe  dirsi  che  i  numeri  di cui  è  quistione  in  questi  luoghi  sono  quelli  che  nell'e- sposfzione  aristotelica  vengono  distinti  dai  numeri— Idee col  nome  di  numeri  matematici,  e  dati  come  interme- diari fra  essi  e  i  sensibili  ;  e  che  1'  autore,  oltre  questi numeri,   potrebbe  anche  ammt timore   un  altro  genere  di (1)  MeL  1.  Xlir.  IV.  I. (2)  V.  questo  Supplem.  n.  II.  H. (3)  V.  Fileòo  56  d~e,  Hgp.  526  a,  Parm,  I43  e. numeri  (gV  ideali),  rappresentanti,  non  1*^  sem;)lìci    de terminazioni  aritmetiche,  ma  Te-senzi  stf^s^a  delle  cose J è  evidente  infatti  che  egli  ron  conosco  altri  numeriche quelli  di  cui  parla.  Ciò  risulta  arzifUto  da  l'impiego  in tutti  questi  luoghi  del  nome  numero  e  di  qielli  che  de- signano i  diversi  numeri,  come  esprimenti,  il  primo  la specie  in  generale,  i  seconli  la  specie   riguardata  come entità  individuale  alla  maniera  di    Platone.  Se  l'autore ammettesse  già  due  numeri,  l'ideale  e  il  matematico,  l'e- spressiono generica  il  numero  non  potrebbe   significare per  lui  il  solo  numero  matematico;  impiegata  per  deno- tare una  sola  delle  due  specie  del  numero,  essa  designe- rebbe piuttosto  l'ideale,  perchè  i  numeri  Ideali  erano  ri- guardati come   r  essenza  tanto  dei    numeri    matematici quanto  dei  sensibili,  e  il  nome  secondo    Platone  é  pro- prio delPessenza  :  similmente  l'Unità,  la  Diade  o  la  Triade non    potrebbero    significare  che  PUnità,  la  Diade    e  la Triade  ideali,  tanto  per  la  stessa  ragione,  quanto  *  perchè dei  numeri  matematici  —  dopo  la  loro  distinzione   dagli ideali— ve  ne  erano  molti  della  stessa  specie  (si  ammet- tevano  molte  unità,  diadi,  triadi,  ecc.  matematiche)  (1). Di  più  :    nei  luoghi    del   Fedone  i  numeri    di  cui    vi  si parla  sono  chiamati  lde3,  e  posti  allo  stesso  rango  delle altre  Idee  — mentre  se  l'autore  ammettesse  inoltre  i  numeri ideali,  ai  numeri  matematici,    cioè  rappresentanti le  semplici  determinazioni  aritmetiche  degli  esseri,  non assegnerebbe  che  la  qualità  d'intermediari  tra  le  Idee  e le  cose— .  In  quello  della  Repubblica  questi  stessi   numeri che  rappresentano  i  soli  attributi  aritmetici  sono  chiamati l'essenza  (oOa(a)  e  la  natura  (cpóat;)  dei  numeri;  ricevono, V.  num.  ITI. per  determinare  di  quali  numeri  si  tratta,  V  attributo auTÓs,  che,  come  sappiamo,  sig^nifica  r  Idea,  e  che  Ari- stotile, nelle  sue  allusioni  *lle  dottrine  platoniche,  im- piega per  indicare  che  il  nome  a  cui  si  riferisce  denota, non  le  cose  né  le  entità  intermediarie,  ma  la  loro  Idea; e  vengono  opposti  ai  numeri  sensibili  in  un  modo  che esclude  la  possibilità  di  una  terza  specie  di  numeri  (2). In  quello  del  Fìlebo  infine  si  distinguono  due  sole  scienze sui  numeri,  quella  del  volgare,  che  addiziona  unità  di natura  differente,  e  quella  del  filosofo,  che  non  ammette che  unità  tutte  della  stessa  natura  (il  numero  mate- matico); non  vi  ha  luogo  per  una  terza  scienza,  che  am- mette, come  quella  del  volgare,  unità  che  non  sono  della stessa  natura,  ma  senza  addizionarle  (il  numero  ideale). Aristotile  fa  menzione  di  cinqiie  caratteri  che  distin- guono i  numeri  ideali,  s'a  dai  numeri  matematici  sia  dai numeri  dei  Pitagorici: 1«  Innumeri  di  Platone  sono  xo3pwxoC  dalle  cose,  men- tre i  numeri  dei  Pitagorici  sono  le  cose  stesse  (3). 2^  I  numeri    di  Platone  sono   monadici,  vale  a  dire costituiti  di  vere  naità,  semplxi  e  incorporee,  mentre  i numeri  dei  Pitagorici  hanno  grandezza. 3°  Dai  numeri  mateaiatici  ve  ne  hanno  milti  della stessa  specie  (vi  hanno  molte  uuità,  diadi,  triad»,  ecc. matematiche.),  ma  dei  numeri  ideali  ciascuno  è  uno  solo 0)  V.  Mei.  1.  I.  IX.  5,  I.  I.  IX.  16,  1.  Ifl.  II.  IT-lg.  1.  XI.  1.  7,  ecc. A.  525  d:  i  numeri  stessi,  non  i  numeri  aventi  corpi  visibili  e palpabili;  a  526  a  :  quei  numeri  che  possono  pensarsi,  ma  non  mai  toc- carsi altrimenti. (3)  Pàys.  I.  111.  IV.  2,  Mei. 1.  XIIL  VI.  6-7,  1.  Xlll.    Vili,  y,  I.  XIV ai.  2,  ecc. (4)  Mei.  1.  Xlll.  VI.  7,  9. (vi  ha  una  sola  unità,  diade,  triade,  ecc.  ideale. I  numeri  matematici  sono  combinabili,  cioè  com^ posti  di  unità  omogenee,  e  quindi  capaci  di  addizionarsi fra  di  loro,  ma  i  numeri  ideali  sono  incombinabili,  cioè le  unità  che  compongono  uno  di  questi  numeri  non  sono omogenee  con  quelle  che  ne  compongono  un  altro,  e  non possono,  per  conseguenza,  addizionarsi  con  esse  (2). 5^  I  numeri   ideali  hanno  fra    di  loro  anteriorità  e  po- stenorità;  ì  numeri  matematici  no. Di  questi  caratteri  il  P  non   ha  bisogno  di    ulteriori spiegazioni  :  esso  vuol  dire  semplicemente  che  1  numeri di  Platone  sono  degli  universali  realizzati,  al  contrario di  quelli  dei  Pitagorici,  che  sono  le  cose  stesse  partico- lari.   Il    2«    è   legato    alla   dottrina    che    le    Idee     rap- prescutano  la  sola   forma  delle  cose  (senza  la  materia), e  il  3^  e  il  40  a  quella  che  le  entità  matematiche   si  di- stinguono dalle  Idee  e  sono  intermediarie  tra  di  esse  e  le cose:  per  conseguenza   noi   potremo   occupirceiQ  che quando  parleremo  di  queste  due  dottrine.  Per  ora  ci  oc- cuperemo solamente  del  5^  cioè  dììVanteriorlt^i  e  poste- riorità dei  numeri  ideali. Quest'  anteriorità  e  posteriorità  consiste  in  ciò,  che i  numeri  ideali  si  generano  progressivamente  gli  uni dagli  altri.  Per  fare  questa  generazione,  Platone  riguarda (1)  iMef.  1.  1.  vi    3,  I.  1.  IX.  5,  1.  111.  VI.  1,  ecc. (2)  Mei.  Xlll.  vi.  6-8. (?)  Me/.  1.  I.  Xlll.  VI.  6. J/anterlorità  e  pDsteriorità  non  è  propria  esclusivamente  dei  numeri ideali  che  nel  senso  che  spieghiamo  in  seguito,  e  cho  è  quello  ordinario e  tecnico  che  ({u«sti  t«3rmini  hanno  nella  filosofia  platonica.  L'aoteriorità e  posteriorità  di  cui  in  Mei.  I.  IH.  IH.  il,  Eih.  Nic.  1.  1.  VI.  2  e  1  Edi., End.  I.  1.  Vili.  9-10,  è  tutt'altracosuV.  questo  Siippi.n.  Ili);  e  in  quest'al- tro senso   essa  conviene  certamsute  anche  ai  numeri  matemitici.  N ciàscTiQ  numero  come  una  combinazione  particolare  del- l'Uno e  della  Dualità  indefinita  —  è  con  questi  nomi  che vengono  designati  i  due  elementi  delle  Idee  e  delle  cose, al  punto  di  vista  della  dottrina  dei  numeri   Il  numero Due  nasce  dalla  moltiplicazione  deirUno  per  la  Dualità indefinita,  e  il  numero  Tre  dall'aggiunzione  dell'Uno  «1 prodotto  deir  Uno  per  U  Dualità  indefinita  ;  il  numero Quattro  dalla  moltiplicazione  del  Due  per  la  Dualità  in- definita, e  il  numero  Cinque  dall'  aggiunzione  delT  Uno al  prodotto  del  Due  per  la  Dualità  indefinita;  e  co^i  di seguito,  sempre  con  questa  regola  :  che  il  numero  pari nasce  dal  numero  equivalente  alla  sua  metà  moltiplicato per  la  Dualità  indefinita,  e  il  numero  impari  dall'  ag- giunzione dell'Uno  al  prodotto  del  numero,  equivalente alla  metà  del  numero  pari  immediatamente  inferiore,  per la  Dualità  indefinita.  Ogni  numero  dunque— cioò,  se il  numero  ideale  è  finito,  ogni  numero,  tranne  quelli  che sono  generati  gli  ultimi—  ne  produce  altri  due  :  uno  pari, che  nasce  dal  suo  raddoppiamento,  e  uno  dispari,  che nasce  dal  suo  raddoppiamento  e  dairaggìunzìonc  dell'u- nità (1).  Il  numero  che  produce  è  detto  aw/enore,  e  i  nu- meri che  sono  prodotti,  posteriori, .  Nella  formazione dei  numeri  posteriori  dal  numero  anteriore,  concorrono con  esso  l'Uno  e   la  Dualità   indefinita  :  ma  questi   non Sono  qualche  cosa  di  esteriore  che  viene  ad  aggiungersi  a questo  numero,  ma  fono  gli  elementi  stessi  di  questo  nu- mero, sicché  in  realtà  i  numeri  posteriori  non  vengono prodotti  che  dal  numero  anteriore.  La  Dualità  indefinita è  chiamata  bisectiva,  perche  si  suppone  che,  nella  for- mazione dei  numeri,  essa  raddoppia  le  unità  del  numero anteriore,  dividendo  in  due  ciascuna  di  queste  unità  (1): ciò  è  per  mostrare  che  le  unità  che  costituiscono  i  numeri posteriori  non  vengono  d'altronde  che  dal  numero  ante- riore. Per  rendere  conto  dell'  unità  soverchia  dei  numeri dispari  si  dice  che  in  qnes:i  numeri l’unità  media  è  lo stesso  Uno  in  se. Qual  è  era  il  significato  di  questa  generazione  suc- cessiva dei  numeri  ideali  ?  Noi  sappiamo  che  1'  anterio- rità e  posteriorità  delle  Idee;  è  il  movimento  dialettico  per cui  le  conseguenze  si  sviluppano  dai  principi!,  cioè  —il rapporto  tra  il  principio  e  la  conseguenza  essendo  iden- tificato a  quella  tra  la  causa  e  1'  efi'etto gli  effetti  dalle cause  ;  e  che  l'idea  anteriore  è  il  Genere,  e  le  Idee  po- steriori le  Specie  m  cui  esso  si  divide.  Ora  l'anteriorità e  posteriorità  dei  numeri  non  può  essere  altra  cosa  che r  anteriorità  e  posteriorità  delle  Idee  corrispondenti  a questi   numeri.    I    rapporti   di   filiazione   tra   i    numeri Vedi    per  questa     formazione    dei  numeri   ideali  Arisi.  Met, 1.  XIII.  VII.  4,  10-11,  16,  19-20,  1.  XIII.  Vili.  12-13,  IG,  ecc. (2)  Platone  non  riguarda  un  numero  impari  goto^q  posteriore  al numero  pari  imm3diat  amente  inferiore,  ma  considera  i  due  numeri come  nati  simultaneamente  dal  numero  equivalente  alla  motti  del pari  ;  p.  e.  il  Due  e  il  Tre  nascono  simultaneamente  dall'  Uno,  il Quattro  e  il  Cinque  dal  Due,  eco.  Così  tanto  le  unità  che  oompon gono  il  Due  quanto  quelle  che  compongono  il  Tre  vengono  riguar- date come  immediatamente  consecutive  all'Uno  in  sé  (Met,  l.  XIII IX.  1   al  contrario  di  quelle  che  cqmpongono  gli  altri  numeri, le  quali  non  gli  succedono  che  mediatamente);  e  Aristotile  rimpro- yera  a  Platone  di  far  produrre  a  un  numero,  da  una  stessa  ma- teria (cioè  dalla  Dualità  indefinita),  più  numeri,  facendolo  gene- rare una  volta  sola,  mentre  in  tutti  gli  oggetti  che  si  producono, la  materia  dell'  uno  non  può  mai  essere  la  stessa  che  quella  di  un altro,  e  chi  introduce  nella  materia  l'  el5o^  deve  agire  tante  volte quanti  sono  gli  oggetti  prodotti  (Met.  1.  I.  VI.  6). (1)  Alex.  Aphrod.  ad  Arist,  Met.  l.  I.  VI.  5.   (t.  43). Arist.  Met,  1.  XIII.  Vili.  13. fappresentano  dunque  i  rapporti  di  filiazione  tra  le  Idee secondo  il  loro  nesso  dialettico.  Questa  corrispondenza  tra la  formazione  progressiva  dei  numeri  e  lo  sviluppo  dia- lettico delle  Idee  si  vedrà  subito,  gettando  uno  sguardo sulla  tavola  seguente,  che  noi  possiamo  chiamare  l'al- bero genealogico  dei  numeri  : 1 2. 3. 4. 5. 6. 7. «.     d.  10.  11. 12.     13.  14.  15. La  serie  naturale  dei  numeri,  cosi  disposti  secondo  i loro  rapporti  di  filiazione,  rappresenta  1'  ordine  con  cui le  Idee  corrispondenti  si  seguirebbero,  se  si  fajcese  una divislowe  completa,  procedendo  dal  Genere  supremo  (l'Es- sere o  il  Bene)  alle  Specie  infime  per  tutti  i  Generi  in- termediari. La  produzione  d^\  numeri  inferiori  dal  nu- mero superiore  rappresenta  la  produzione  delle  Idee  par- ticolari dall'Idea  generale  :  il  numero  anteriore  ha  sotto di  sé  due  numeri  posteriori,  parche  la  divisione  plato- nica è  una  dicotomia  (1). (1)  Non  bisogna  credere  però  ohe  Platone,  oell'assegnare  i  nu- meri alle  Idee,  si  tenga  scrupolosamente  ai  concetti  su  cui  ò  fondata la  dottrina  della  generazione  progressiva  dei  numeri.  Egli  fa  tal- volta  rappresentare  a  dei  numeri  che  sono  fra  di  loro  nei  rapporto di  anteriorità  e  posteriorità,  delle  Idee  che  non  sono  fra  di  loro nel  rapporto  di  genare  e  specie.  Cosi  egli  assegna  all'  intelligonza Il  numero  uno,  alla  scienza  il  numero  due,  all'opinione  il  numero tre  e  alla  sensazione  il  numero  quattro  (Arist.  De  an,  l.  I.  II  7  e Met.  1.  XIV.  HI.  9.  Cfr.  Ps.  Alex,  tu  Met.^U,  IX.).  Naturalmente ciascuno  di  questi  numeri  riceve  diversi  impieghi  (e  in  effetti  noi •y?s^ In  questa  formazione  dei  numeri  è  accolto  il  concetto pitagorico  che  i  numeri  procedono  dall'uno.  Come  os- s' rva  Aristotile,  l'altro  elemento  (1'  Infinito  dei  Pitago- liei)  fu  ricondotto  a  una  dualità,  per  rendere  possibile questa  generazione  progressiva  dei  numeri,  senza  di  cui la  fusione  tra  il  Fistcma  dei  numeri  e  il  sistema  delle Idee  non  sarebbe  stata  completa,  poiché  la  dialettica, altrettanto  importante  per  questo  sistema  che  la  realiz- zazione degli  universali,  non  sarebbe  stata  rappresentata. «  Fece  (Platone)  dell'altra  natura  una  diade,  affinchè  i numeri,  dai  primi  in  fuori,  se  ne  generas-sero,  come  da sappiamo  che  il  due  è  anche  il  numero  della  linea,  il  tre  della  su- perfìcie, il  quattro  del  solido  De  an.  e  Met,  1.  c.-e,  secondo  Xenocrate, l'uno  della  linea  indivisibile — v.  n.V.— L'uno  rappresenta anchel' Idea più  universale,cioè  l'Essere  o  il  Bene, che  è  quella  che  gli  compete  con- formemente alla  regola  che  la  filiazione  dei  numeri  corrisponde  al nesso  dialettico  delle  Idee;  e  cosi  il  due,  il  tre  e  il  quattro  devono anche  rappresentare  delle  Idee  subordinate  a  quelle  rappresentate dai  numeri  anteriori  e  superordinate  a  quelle  rappresentate  dai numeri  posteriori.  Nell'applicazione  della  dottrina  dei  numeri, Platone  non  può  evitare  lo  stesso  inconveniente  che  era  accaduto ai  Pitagorici  (v.  Arist,  Met.  l.  I.  V.  U,  1,  I.  VIII.  17,  1.  VII.  XI. 5,  1.  XIV.  VI.  3),  cioè  di  assegnare  a  uno  stesso  numero  dei  con- cetti affatto  differenti:  e  in  effetto,  per  quanto  quest'attribuzione di  un  dato  numero  a  un  dato  concetto  fosse  arbitraria,  essa  doveva essere  pure  fondala  su  qualche  analogia,  e  accadeva  facilmente che  in  concetti  differenti  si  trovasse  un'analogia  con  uno  stesso numero.  Questa  pluralità  di  significati  data  a  uno  stesso  numero, oltre  alla  identificazione  di  cose  differenti,  portava  necessariamente nel  sistema  platonico  l'altra  iuconseguenza  che  la  filiazione  dei  nume- ri non  corrispondeva  esattamente  alla  filiazione  delle  Idee:  per  l'e- sattezza di  questa  corrispomlenza,  sarebbe  stato  necessario  che  cia- scun numero  rappresentasse  una  sola  Idea,  quella  che  nell'albero genealogico  delle  Idee  occupava  lo  stesso  posto  che  il  numero  nel- l'albero genealogico  dei  numeri. ,    \ 1 un'effìgie,  comodamente  »  (1).  Per  i  numeri  primi  di  cui parla  qui  Aristotile,  bisogna  intendere,  conformemente all'interpretazione  d'Alessandro  d'Afrodisia,  i  numeri  di- spari—/)r/wi  vuol  dire:  primi  con  due—;  e  il  senso delh^  par(»le  dai  primi  in  fuori  è  che  i  numeri  dispari non  si  generano,  per  mezzo  della  Dualità  indefinita,  cosi comodomente  come  i  numeri  pari  (2). II.  I  due  elementi I  due  elemcDti  hono  chiamati  il  Fine  (Tiépag)  e  V  In- fii  ito  (àr.sipov)  come  quelli  dei  Pitagorici  (3j,  e  identi- ficati, come  questi,  coi  Dispari  e  il  Pari  (4).  Per  questa come  \eY  altre  circostanze  di  cui  diremo  in  seguito,  la dotti  ina  platonica  mostra  un  rapporto  evidente  di  pa- )  Olitela  con  quella  d(i  Pitagorici  :  ma  essa  presenta  pure delle  differenze  essenziali  corrispondenti  al  punto  di  vista proorio  del  sistema  delle  Idee.  Anzitutto  i  due  elementi di  Platone  sono  dei  predicati  generali  comuni  a  tutti  gli esseri  (5)  :  in  efft-tlo  essi  si  trovano  presenti  in  tutti  gli esseri,  e  secondo  il  sistema  delle  Idee  ìr  preseiiza  di  una entità  in  molte  cose  ò  la  partecipazione  in  comune  di queste  cose  all'attributo  corrispondente  all'entità.  A  que- UH (1)  Arist.  Met,  1.  I.  VI.  5. (2)  Cfr.  Met,  l.  XIII.  Vili.  13  e  l.  XIV.  III.  13. (3)  Arist.  Mrt,  1.  IV.  II.  U  (cfr.  il  comm.  di  Aless.  Afrod),  P/ji/s. l.  Ili  IV.  2-3,  1.  III.  V.  1-3,  Simpl.  m  Arise.  P/ii/s.fol.  117,  Aristoss. Harmonic.  elem.  l.  II.  sul  princ,  eoe. Noi  sappiamo  almeno  che  quest'identificazione  era  fatta  da Senocrato.  V.  Stol>.  Ed.  Phys.  1.  I.  IT.  29  e  Arist.  Metaph.  1.  XIII. Vili.  21  (per  il  rilerimunto  del  secondo  di  questi  due  luoghi  a  Se- nocrate  cfr.  ciò  che  diremo  di  lui  al  num.  V.). (5)  V    Supplem.  B,  num.  VII,  B. Sta  particolarità,  che  ha  la  sua  ragione  nella  dottrina dcUe  Idee,  se  ne  può  aggiungere  un'altra,  che  ha  la  sua ragione  nella  dialettica,  ed  è  che,  chiamandole  due  en- tità elementi,  Platone  non  vuol  dire  solamente  che  sono gli  elementi  costitutivi  di  tutti  gli  esseri,  ma  ancora,  per quest'identificazione  costante  del  logico  e  dell'ontologico su  cui  è  fondata  la  sua  metafisica,  che  sono  gli  elementi costitutivi  della  conoscenza  di  tutti  glies=»eri,  vale  a  dire i  principii  da  cui  questa  conoscenza  si  deduce  (1). Ma  la  particolarità  più  caratteristica  della  dottrina  di Platone  è  che  i  due  elementi  sono  riguardati,  l'uno  come la  forma  o   la  specie   olaog)   di  tutte  le  Idee    e  di  tutte le  cose,  e  l'itltro  come  la  loro  materia. (oxotxsta). Come  osservammo  altra  volta  (3),  il  concetto  di  ma- teria ha  in  Platone  due  applicazioni  essenzialmente  dif- ferenti :  da  una  parte  le  Idee  sono  le  forme  delle  cose, e  per  costituire  le  cose,  si  aggiunge  a  queste  forme  una materia  (lo  spazio);  dall'altra  parte  queste  forme  che sono  le  Idfc  vengono  da  due  elementi,  una /orma  e  una materia.  Così  quest'ultima  materia  che  si  trova  nelle  Idee si  trova  naturalmente  anche  nelle  cose,  perchè  le  Idee non  sono  che  nelle  cose;  ma  la  prima,  cioè  lo  spazio,  è fuori  delle  Idee,  ed  è  propria  solamente  delle  cose.  L'una di  queste  materie  è  evidentemente  distinta  dall'altra:  tut- tavia, per  una  di  quelle  incongruenze  di  cui  è  piena  que- sta dottrina  dei  due  elementi,  Platone  non  parla  di  due materie,  mi  di  una  sola  —  l'Infinito,  il  Grande  e  Piccolo, (1)  V.  Mvl.  1.  I.  IX.  27-.?0.  Cfr.  Mei,  1.  V.  III.  3   e  1.  III.  III.  1, in  cui  si  Irov.'i  la   spir^gaziono  di    quest'uso    dolla  parola    elementi (axo'.xeta). Cfr-  Supplem.  B.  VII.  B. (3)  Supplem.  B.  num.  VIII. -   \m  - I il  Non  essere,  ecc.  significano  tanto  la  materia  comune alle  Idee  e  alle  cose  qnanto  la  materia  proprie  delle  cose— riconducendo,  secondo  il  metodo  incoerente  dei  Pita- gorici, a  una  stfssa  entità  dei  concetti  assolutamente distinti. L'elemento  formale  non  è  altra  cosa  che  V  Idea  del Bene  (1).  Cosi  la  modificazione,  che  la  dottrina  dei  due elementi  apporta  nella  forma  primitiva  del  sistema,  con- siste neirintroduzione  di  questa  nuova  entità,  che  con un  term  ne  che,  per  quanto  concerne  il  rapporto  di  que- st'entità con  le  Idee,  non  potrebbe  intendersi  che  in  un significato  analogico,  è  chiamata  materia,  perchè  Platone riguarda  aucora  l'Idea  del  bene  come  il  genere  supremo di  cui  tutte  le  altre  Idee  sono  le  specie,  e  per  conse- guenza dei  due  elementi  non  considera  come  slSog  che quello  corrispondente  a  quest'Idea,  e  si  rappresenta  la relazione  di  quest'elemento  con  Taltro  come  analoga  a quella  della  forma  con  la  materia. Platone  dà  ai  dne  elementi  diversi  nomi,  corrispon- denti ai  diversi  punti  di  vista  della  dottrina.  L'elemento formale,  oltre  che  il  népag  e  il  Bene,  è  chiamato anche  l'Es.^ere  (2),  perchè  è  l'Idea  generale  di  tutti  gli esseri,  e,  al  punto  di  vista  deila  teoria  dei  numeri,' l'Uno  (3j,  perchè  è  i!  principio  da  cui  derivano  le  Idee- numeri,  e  i  numeri,  secondo  i  Pitagorici,  derivano dall'uno.  Per  giustificare  la  riduzione  dell'elemento formale  all'Uno,  si  dice  che  ciascuna  cosa,  in  quanto  è, è  una  —  la  dissoluzione  in  molti  ne  è  la  morte,  e  la sua   calvezza    consste  nella    persistenza   in  una   stessa (1)  V.  Su|)plem.  B.  iium.  VII.  B  o  Gap.  VII  i.aragr.  13 (2)  V.  Arist.  Mei.  1.  I.  VII.  5,  1.  III.  IIL5,  1.  XIV.  II.  4-12,  eco. (3)  V.  AA'i.  1.  I.  VI.  3-7. forma,  e  perciò  l'Uno  è  causa  alle  cose  dell'essere  e  del- l'esser bene  (1).  Dì  quest'identificazione  dell'Idea  suprè- ma con  l'Uno  ha  potuto  anche  darsi  un'  altra  ragione, cioè  che  quest'Idea  è  l'uno  —tatto,  vale  a  dire  è  il  punto di  partenza  dell'evoluzione  dell'essere,  in  cui  il  tutto  esi- ste come  uno  (2).  L'Uno  è  riguardato  come  elemento  dei numeri  a  un  doppio  punto  di  vista,  cioè  tanto  perchè ciascun  numero  è  un  tutto  unico  —  ciò  che  è  conforme alla  funzione  di  elfio?  che  viene  assegnata  all'  Uno, quanto  perchè  i  numeri  sono  composti  di  unità— ciò  che dà  occasione  al  rimprovero  d'Aristotile  che  l'Uno  funge anche  da  materia. L'Infinito,  al  punto  di  vista  della  dottrina  dei  numeri, è  chiamato  la  Dualità  indefinita  (8óag  àóptoxoc)  (4),  per rendere  possibile  la  formazione  progressiva  dei  numeri  di  cui abbiamo  parlato  (5);  e  il  Grande  e  Piccolo,  per  mostrare che  esso  è  una  dualità,  e  stabilire  cosi  un  passaggio  dal concetto  d'infinito  a  quello  di  dualità  indefinita  (6).  Per giustificare  questa  riduzione  dell'  Infinito  al  Grande  e Piccolo,  si  dice  che  l' infinito  si  trova  tanto  nella  gran- dezza quanto  nella  piccolezza,  perchè  la  quantità  pro- li) V.  Alex.  Aphr.  ad  Met.  1.  1.  IX.  24. (2)  Cfr.  Met,  1.  I.  IX.  24. (3)  Arist.  MeL  1.  Xlll.  Vili.  25-28,  Alex.  Aphr.  ap.   Simpl.  ad  Phys. fol.  I04. (4)  Arist.  M^t.  1.  Xlll.  VII.  3,  4,  11,  I3,  16,  25,  IX.  7,  L  XIV.  1.  9, li.  3,  9,  in.  12,  Al.  Aphr.  ad  Mei,  /.  /.  K/.  5,  Simpl.  af  Phys,  fol.  3j, fol.  104,  tee. (5)  La  riduzione  dtiriUimitato  alla  Dualità  indefinita  si  deduceva  per altro  naturalmente  dalla  sua  identità,  nella  dottrina  pitagorica,  col  Pari, n  Pari  infatti,  come  concetto  generale,  è  in  certo  modo  una  dualità  itì- determinata;  vale  a  dire  una  dualità  alle  cui  unità  non  si  attribuisce  un valore  determinato,  potendo  essere  dei  numeri  qualunque. Arist.  Mfi.  I.  I.  VI.  3-7. (  'I cede  airinfinito  tanto  neir  aumento  quanto  nella  diminuzione.  Naturalmente  il  Grande  e  Piccolo  non  pos- sono essere  considerati  come  elemento  se  non  in  quanto si  riguardano  come  predicati  attribuiti |^a  tutti  gli  esperi: tuttavia,  quantunque  la  grandezza  e  la  piccolezza  che si  attribuiscono  alle  cose  particolari  siano  necessaria- mente una  grandezza  e  una  piccolezza  finite,  Platone riguarda  il  grande  e  il  piccolo  in  sé  stessi  come  infìniti, perchè  non  vi  ha  alcun  limite  uè  nei  gradi  della  gran- dezza né  in  quelli  della  piccolezza.  Per  indicare  il^Grando e  Piccolo  nella  sua  funzione  speciale  di  elemento  dei numeri  —  poiché  il  Grande  e  Piccolo  è  una  decomina- zione  generica  che  designa  tanto  V  elemento  materiale dei  numeri  quanto  quello  delle  grandezze  (v.  n.  III1  — 8*impiega  la  denominazione  più  particolare  di^Molto  e Poco.  Sul  Molto  e  Poco  vale  naturalmente  la  stc^t^a ossei*vazione  che  abbiamo  fatta  sul  Grande  e  Piccolo; vale  a  dire  essi  non  sono  che  dei  predicati  generali  dei numeri,  ma  quantunque  il  molto  e  il  poco  che  sono  nei numeri  siano  necessariamente  fìuiti,  pure  Platone  riguarda il  molto  e  il  poco  in  se  stessi  come  infinii,  perchè  tanto  Tuno quanto  Taltro  progrediscono  all'infinito.  Per  indicare  che si  tratta,  non  di  due  entità,  ma  di  una  sola,  il  Grande  e Piccolo  è  chiamato  rineguale:  infatti  Tineguaglianza consiste  nel  più  e  nel  meno,  e  il  grande  e  il  piccolo  sono delle  nozioni  comparative^  una  cosa  dicendosi  grande o  piccola^in  quanto  è  maggiore  o  minore  di  un'altra. (1)  Arist,  Phys  1.  111.  VI.  6,  Alex.  Aphr.  ap.  Sirapl.  ad  Fhys,  fol.  I04. Arist.  Met.  1.  I.  IX.  19,  1.  XIV.  1.  4,  9,  13-14,  11.  11.  Alex.  Aphr. ad  Met.  1.  I.  VI.  5. (3)  Arist.  Met.  1.  III.  IV.  30,  1.  X.  V.  1,  4,  1.  XU.  X.  3,  l.  XIV.  1.  3, 9,  11.  3,  lo,  11,  IV.  1,  6,  V.  4,  5,  Alex.  Aphr.  ad  Mei,  1. 1.Vl.  5,  ecc. Uno  dei  punti  fondamentali  della  dottrina  è  che  i  due elementi  sono  contrari  (l),  e  TeleiAenlo  materiale  rappre- senta al  tempo  stesso  la  materia  e  la  steresi  (cioè  la privazione  dell'  slSog)  (2).  Per  indicare  la  seconda  fun- zione, quest'elemento  è  chiamato  il  Non  essere  (3);  e  in generale  a  un  nome  impiegato  per  designare  V  uno  de- gli elementi  corriponde  il  suo  contrario  come  designa- zione deir  altro  elemento.  Cosi,  1*  elemento  materiale essendo  chiamato  V  Ineguale,  P  elemento  formale  ri- ceve il  nomo  di  Eguale  (4).  Secondo  questo  principio, all'uno,  nome  delPelemento  formale,  dovrebbe  corri* spondere,  come  nome  dell'  elemento  materiale,  il  mu2- tiplo  :  tuttavia  Platone  oppone  all'Uno  il  Grande  e  Pic- colo (5)  e  non  il  Multiplo,  ma  considera  il  Grande  e  Pic- colo come  equivalente  al  Multiplo.  In  effetto  il  Grande e  Piccolo,  come  elemento  dei  numeri,  cioè  delle  Idee,  è il  Molto  e  Poco  ;  e  il  Molto  e  Poco  non  è  che  1'  espres- sione del  concetto  della  moltiplicità  sotto  una  forma  che (1)  Met.  1.  IV.  11.   14,  1.  Xll.  X.  2-3.  1.  XIV.  1.  1-3.  0,  IV.  6-8,  ecc. Arist.  Phys.  1.  l.  IX.  1  3,  1.  111.  11.  1-2,  M9t.  1.  XI.  IX.  6-7.  Met.  l.  XIV.  11.  4-I4,  Phyi,  1.  1.  IX.  1-3,  PhysA.  IH.  11.  i-2,  ecc. V.  Arist.  MeU   1.  Xll.  X.    3,  L  XIV.  i.  3,  Alex.    Aphr.  ad  Met. I.  I.  VI.  5. (5)  ;»/*/.  I.  I.  VI.  4-7,  l.  XIV.  1.  3-6,  1.  XIV.  11.  la  (cfr.  1.  XIV.  1.  lo), 1 .  XIV.  IV.  5-6,  ecc (6)  Arist.  Met.  1.  XIV.  1.  3:  i  platonici  oppongono  all'uno  T ine- guale, riguardando  questo  come  la  natura  della  moltiplicità.— L*  equiva- lenza tra  il  Grande  e  Piccolo  e  il  Multiplo  risulta  anche  dalla  dottrina che  la  Dualità  indefinita  è  la  causa  della  moltiplicità  degli  esseri  (v.  A- rist.  Mei.  I.  Xlll.  Vili.  3.  1.  XIV.  ll.)-perchè  secondo  il  sistema  delie  Idee la  causa  di  un  attributo  delle  «:ose  è  la  partecipazione  all'entità  corri- s  ondente  a  quest'attributo  —,  e  dalla  proposizione  che  il  numero  parte- cipa all'Uno  in  quanto  e  alcun  che  di  unico,  e  alla  Dualità  indefinita  in quanto  è  una  moltitudine  (v.  Alex.  Aphr.  ap.  Simpl.  ad  Phyi.  fol.  lo4).y permette  di  ricondurre   questo   concetto  a   quello  della Dualità  indefinita. Nel  Timeo  (35a-b,  37a)  i  due  elementi  vengono  chia- mati lo  stesso. e  il  Diverso,  e  Aristotile  indica  più  volte il  Diverso  ola  Diversità  come  denominazione  deM' ele- mento; materiale  (1).  Evidentemente  l'elemento  formale  è ricondotto  al  ^concetto  dello,s/f,wo,  perchè  il  bene  cònsl- ate-^nella  regolarità,  nella  permanenza  deiressere  nel  suo stata  normale,  e,  potremmo  anche  aggiungere,  nella  con- vergenza di  una  pluralità  d<  mezzi  verso  uno  stesso  ri- sultato, (come  si  vede  negli  esseri  organizzati  che  sono ressmpio.  più  ^spiccato  della  fìnitalità).  Sembra  anche  ri- iuUare  da  un'indicazione  d'Eudemo che  T  elemento materiale  era  chiamato  ràvwjiaXov  (che  potremmo  tra- durre: llrcrtgolare),  ciò  che  supporrebbe  che  l'elemento opposto  fosse  TófiaXóv  (il  Regolare). Questa  riunione  delle  due  funzioni  di  materia  e  di stéreai  in  uno  stesso  elemento  è  certamente  uno  dei  lati più  nebulosi  di  questa  dottrina  di  Piatene.  Quando  si tratta  dell'  opposizione  dello  Stesso  e  del  Diverso  o  di qqeUa  deirUno  e  del  Multiplo,  si  può  compren.lere  come Tuno  degli  opposti  sia  riguardato  come  la  materia  e  l'al- tro come  la  Jorma  ;  perchè,  non  essendovi  uniià  st  nza molt'plicità^  né  identità  senza  diverbità,  noi  possi  amo dire:  il  rmdtiplo  è  uno,  o  il  diverso  è  identico]  riguar- dando la  moltiplicità  e  la  diversità  come  il  soggetto  del- l'unità e  deiridentiià.  Ma  come  il  Non  essere  o  V  Ine- guale potranno  considerarsi  come  la  materia,  di  cui  l'Es- sere e  l'Eguale  sono  la  forma  ?  Sembra  che  perciò  il  Non essere,  l'Ineguale  (àvtoov),  ecc.. deve  significare  per  Pia- li ( Phys.  1.  in.  11.  1,  Afet.  I.  XI.  IX.  6,  1.  XIV.  1.  6. (2)  Ap.  Simpi:  ad  ArUi,  Phys.  fol.*  98  b. tone,  non  il  contrario  dell'Essere,  delF Eguale;  ecc.^  ini ciò  che  non  è  l'Essere  né  partecipa,  con«^iderfcto  in> se  stesso,  all'Essere,  ciò  che  non.  è  l' Eguale  uè  par- tecipa,  in  se  stesso,  ^W  Eguale,  ecc.  In  altri  termini^ se  dalle  cose  si  sopprime  per  il  pensiero  l'Idea  dell' e*, sere,  dell'eguale,  ecc.,  ciò  che  resterà,.  considerato  nel suo  concetto  generale,  si  chiamerà  Non,e.^ere,  Inc^ua^ 1^  ecc.,  e  si  rtguarderà  come  il  sustrato  a  cui  VMpr dell'essere,  dell'eguale,  ecc.  inerisce  come  u nrt' forma. Ciò  non  esclude  però  che  il  Non  essere  lignifichi  anche, a  un  altro  punto  di  vista,  il  contr^irio  dell'Essere,  l'Ine- guale il  contrario  dell'Eguale,  ecc.:  in  eff'etto  l'elemento materiale  non  funge  solamente  da  materia,  ma  anche  da< stcresi.Il  rapporto  di  contrarietà  stabilUo  tra  idueelemi  nti spiega  perchè,  nel  periodo  pitagoreggiante,  Platone  prefe- risca, per  designai-e  l'Idea  suprema,  la  denominazione  dì unoo  essere  a  quella  di  òene  :  è  che,  chiamando  Pefementò formale  il  Bene,  l'  elemento  materiale  dovrebbe  essere chiamfvto  il  xMale;  ma. il  Male  non  potrebbe  affatto  rf- guardarsi  come  la  materia  degli  esseri.:;  :  ?  i  v  ^ L'incompatibilità  delle  due  funzioni  assegnate -ali 'ele- mento materiale  c'indica  chiaramente  che  la  dottrina 'dèi' (1)  Questa  supposizione  é  confermata  dairargomérfto  con  é«i^l^l'atoné prova  l'esistenza  del  Non  essere,  cioè  che  se  non  esistesse ril  Nan:esier*, tutti  gli  esseri   si  ridurrebbero   a  un    solo,  l'Essere  .(A/^/.L  XJy.  H.  J  Infatti  il  senso  di  quest'argomento  è  che,  se  neglV.esseri  non  vi  Ibssero insieme  all'attributo  essere,  delle    detenninaiiòAi%istinte  "da'qiiest'attri- butu,  non  esisterebbe  che  l'attributo  essere;   sicché- la  moltiplicità*  '  de^H- esseri  è  resa  possibile  dairesisten?a  nelle  cose  di  ^t^rHiroasJioftì  distinte    " dall'attributo    essere.  Queste  determinazioni    di^tipte  (J^ir,l!;-sserf9  chf  si trovano  nefe'li  esseri,  guardate  in  astratto,  doè  nel  loro  ^concetto  generale, si  chiamano  Non  essere.  Anche  nel  So^sla  (256  a-2^9b)  fatine  dice'ihe'il Non  essere  non  è  il  cantrario    dell'  Essere,  ma   semplicemente   ciò  che  ò altro  che  l'Essere. (2)  Cfr.  Arist.  Afef.  I.  XIV.  IV.  4-8. -HI  — ^ne  elementi  è  un  éoiicetfo  straniero,  che  Platone  si  sforza di  adattare  alla  meglio  ai  concetti  propri  del    suo  siste- ma. La  contrarietà   dei  due  elementi  è  data  a  Platone dalla  dottrina  dei  Pitagorici.  La  riduzione   dei  due  ele- menti air  tlòoc  e  alla  materia  ha   per  oggetto  di  conci- liare il  dualismo  della  nuova    dottrina  con  le   esigenze della  dialettica,  cioè  della  dieresi.    Questa  suppone,   al vertice  della  piramide  ideale,  unldea  unica  come  genere supremo  di  tutte  le  Idee:  la  nuova  dottrina  invece  am- mette, non  uno,  ma  due  universali  supremi.  Per  conci- liare questi  due  punti  di  vista,  Platone  non  riconosce  il carattere  di  genere  sommo  di  tutti  gli  esseri  che  all'uno dei  due  universali   supremi  ;  per  conseguenza,  siccome egli  ammette  già,  nel  nuovo  assetto   che  dà  al  suo  si- stema, che  Je  cose  sono  composte  di  sl8o;  e  di  materia, e  che  il  concetto  generale  delle  cose  è  rappresentato  dal- )'«I«o?,  cosi  trasporta  dalle  cose  alle  Idee  stesse  questa  distzione di  eUo€  e  di  materia,  e   riconduce  V  elemento  che deve  fungere  da  genere  airelòo^,  e  l'altro  alla  materia. Questa   identificazione   dei   due   elementi  dei   Pitagorici con  l'elSog  e  la  materia  è  d'altronde  suggerita  dai  nomi stessi  con  cui  vengono  designati.  Se  si  prende  la  parola 8l8o€  nel  senso    meno>stratto,    cioè  come   indicante  la forma  visibile  degli  oggetti  materiali,  nipctt;  (termine)  ed .elSoc  sono  pressoché  equivalenti.  Come  per  un'estensione del  loro  significato  più  concreto  la  parola  tlòot;  e  il  suo sinonimo    jiopcp^     acquistarono    il    senso    lato   che   esse hanno   nella   filosofia   di Platone   e d'  Aristotile,    cosi un'estensione  analoga  poteva  essere  data  alla  parola  iiépag, in  modo  che  i  significati  filosofici  di  questi  termini  ve- nissero a  coincidere.  Quando  l'sISoc  di  cui  si  tratta  non è  più  la  forma  visibile   degli  oggetti,   la  parola  Tiépa^, impiegata  come  sinonimo  di  tldo?,  riceve  certamente  un significato  assai  lontano  dall'originario  :  tuttavia,  VbÌòo^ essendo  ciò  che  definisce  o  determina  gli  esseri,  1'  ana- logia tra  il  concetto  di  definizioìie  o  determinazione  e quello  di  /ine  o  termine  bastava  per  giustificare  il  pas- saggio al  nuovo  significato.  Cosi  irépag  veniva  a  signi- ficare, in  un  senso  generico,  l'elSog  in  generale;  in  un senso  speciale,  1'  glSog  comune  di  tutti  gli  esseri;  e  ciò, non  solo  p^r  nna  specializzazione  convenzionale  del  ter- mine, ma  anche  perchè  so  Tiépag,  nome  comune,  significa forma,  il  uépag,  nome  proprio  d'  un'  entità  unica,  deve significare  la  forma  nel  suo  concetto  generale,  cioè  il fienere  dì  tutte  le  forme,  V  slòo^  degli  sTÒy].  Il  termine ixépa;  volendo  dire  la  form^r^  il  termine  àiistpov  vorrà  dire co  che  è  senza  forma ^  cioè  la  materia  (1).  Aggiungiamo che  l'identificazione  del  :iépag  con  Tel^og  comune  di  tutti gli  esseri,  vale  a  dire  con  l' Idea  del  bene,  corrisponde anche  a  un  altro  significato  di  cui  il  termine  iiépa^  è suscettibile,  quello  di  fine  o  scopo.  * Ciò  che  è  stato  dett<>  trova  la  sua  conferma  in  Ari- stotile. Egli  (in  Met.  1.  V.  XVII)  assegna  al  termine  nipoL^ questi  significati  :  la  forma  della  grandezza  o  dell'  og- getto avente  grandezza;  il  fine  o  o^  Ivexa  (la  causa    fi- Con  questo  senso  qualitativo  del  termine  àiistpov  coesiste  però il  senso  guaniilaiivo,  come  si  vede  nella  riduzione  dell'^TCSipOV  al  Gran- de e  Piccolo.  Il  termine  ha  anche  altre  applicazioni,  più  conformi  al  suo significato  volgare,  quello  di  grandezza  superiore  a  qualsiasi  grandezza finita  :  è  ciò  che  avviene,  quando  esso  designa  la  materia  delle  cose,  vale a  dire  lo  spazio  (v.  B.)*  o  quando  si  afferma  che  i  sensibili  sono  infiniti per  la  materia,  cioè  per  l'àTlStpOV  (v.  Arist.  ap  Simpl.  m  Artsl.  Phys.^ Ibi.  in  —Porfirio,  ap.  Simpl.PAvJ.  fol.  lo4,  indica  un'altra  applicazione  dello aTieipOV  in  un  senso  quantitativo,  e  oè  che  la  divisibilità  airinfinito  della grandezza  dimostra  che  in  ogni  grandezza  è  racchiusa  una  certa  natura d'infinito).   m  — naie)  ;  V  essenza  (la  causa  formale).  Naturalmente  Ari- stotile trova  questi  significati  nel  linguaggio  filosofico deirepoca,  e,  tra  i  suoi  predecessori,  noi  non  possiam^ attribuire  i  concetti,  che  essi  suppongono,  che  a  Platone e  ai  platonici.  Lo  stesso  Aristotile  dalla  sua  parte  iden- tifica talvolta  il  nipoLQ  con  TelJo;  e  Tàiistpov  con  la  ma- teria (2),  e  chiama  anche  Tiépag  la  caasa  finale  (Mef.  1.  IIL IV;  5,  luogo  in  cui  sembra  alludere  a  un  ragionamento dei  platonici). La  dottrina  platonica  dei  due  elementi,  malgrado  lo espediente  a  cui  si  ricorre,  di  non  riguardare  come  elòog che  un  solo  dei  due  universali  supremi,  resta  sempre evidentemente  in  contraddizione  coi  principii  della  dia- lettica (dieresi),  perchè  questi  richiedono,  alla  sommità del  mondo  ideale,  non  due  universali  supremi,  ma  uno solo.  La  contradizione^  è  vero,  potrebbe  essere  attenuata ancora  da  questa  rifiessione,  che  i  due  universali  su- premi essendo  ricondotti  alla  forma  e  alla  materia  di  tutti gli  esseri,  la  dualità  è  piuttosto  apparente  che  reale,  e non  vi  ha  al  fondo  che  un  universale  supremo  unico, TEssere  uni  ver  mie,  di  cui  i  due  elementi  sono  la  forma e  la  materia.  Ma  non  cesserebbe  con  tutto  ciò  Tincoerenza di  ammettere  dae  principii  primi,  mentre  la  dialettica  esige un  solo  princip  io  primo,  la  legge  del  mondo  ideale  essendo che  ogni  plur»  lità  si  riduca  costantemente  ad  una  unità  su- periore. La  »5ontraddizione  è  dunque  insolubile,  ed  essa ci  indica  che  la  dottrina  dei  due  elementi  è  una  modi- ficazione posteriore  del  sistema  delle  Idee,  dovuta  a  una nuova  influenza,  indipendentemente  dalla  quale  questo sistema  si  era  formato.    E  noi  abbiamo    in  effetto   delle (1)  D£  Coélo  1.  11.  Xin.  3,  Pàys.  1.  IV.  11.  1-2,  e  cfr.  Degenerata  1. 11 Vili.  4-5. (2)  Phyi.  1.  IIL  VI.  10,  VII.  6;  cfr.  Atei,  1.  I.  V.  lo. prove  che  non  lasciano  alcun  dilbbjo  in  qtlésfti  due  putiti: cioè,  primo,  che  Platone  deve  la  dottrina  dei  due  eie' menti  ai  Pitagorici,  e,  secondo,  che  questa  dottrina  è  as- sente dal  Fistema  di  Plutone  nella  sua  forma  primitiva,' e  segT^a,  insieme  alla  dottrina  dei  numeri  ideali,  un nuovo  periodo  nella  speculazione  di  questo  filosofo. Nei  e.  6<^  del  1.  I.  della  Metafisica^  in  cui  fa  V espo- sizione della  filosofìa  platonica,  Aristotile  dice:  «Dopo le  dette  filosofie  venne  quella  di  Platone,  che  in  molti punti  segui  questi  (i  Pitagorici,  di  cui  prima  ha  parlato), ma  alcuni  altri  ne  ebbe  propri,  in  fuori  della  filosofia degritalici  :< .  E,  accennato  alle  dottrine  principali  di Platone,  cioè  la  dottrina  delle  Idee,  delle  entità  interme^ diarif»,  dei  due  elementi,  e  la  identificaz'Oùe  delle  Idee ai  numeri,  continua  con  questo  confronto  tra  la  filosofia di  Platone  e  la  pitagorica,  in  cui  indicai  punti  comuni lille  due  filosofie  e  quelli  propri  al  solo  Platone  :  «L'Uno stesso  essere  sostanza,  e  non  qualche  altra  cosa  a  cui  si attribuisca  V  unità,  questo  diceva  come  i  Pitagorici  ;  e ancora  come  essi,  che  i  numeri  siano  cause  alle  altre cose  della  loro  essenza.  Ma  invece  deirinfinito  come  uno porre  una  dualità,  perchè  egli  fa  V  Infinito  del  Grande e  Piccolo,  ciò  gli  è  proprio:  inoltre  egli  pone  i  numeri oltre  i  sensibili,  ma  quelli  dicono  i  nftìmeri  le  cose  stesso, e  non  pongono  Pentita  matematiche  intermediUrie  tra  i numeri  e  le  cose.  L'aver  posto  V  Uno  e  i  numeri  oltre le  cose,  e  non  come  i  Pitagorici,  e  l'introduzione  delle Specie  fu  per  lo  studio  della  dialettica  (della  quale  gli antichi  non  erano  partecipi);  1'  aver  fatto  poi  delTaltra natura  una  dualità  fu  affinchè  i  numeri,  eccettoi  primi, se  ne  generassero  comodamente,  come  da  un  sigillo.  » Risulta  dunque  dalla  testimoniania  d'  Ariìstotile  che Platone  ha  imprestato  il  suo  elemento  materiale  dai.  Pita- —  118- |lS^ -^^ ^--~ -^ *i  *   '    I   »  ^'Ti   -'  >  »j:~^ 3E=,ià»mmm^^ ^f^^y ! górici,  ma  apportandovi  una  modificazione,  quella  di  ri- condurre quest'elemento  alla  dualità  del  Grande  e  Pic- colo. Senza  dubbio;,  questa  non  è  la  sola  modificazione importantercbe  Platone  ba  apportato  alla  dottrina  pi^>a- gorica;  Ari^stotile  ne  passa  sotto  silenzio  un'altra  cbenon ha  unMmportanza  minore  (forse  perchè  la  riguarda  come una  conseguenza  del  sistema  delle  Idee)  :  è  la  riduzione dei  due   elementi  alla   forma  e  alla   materia  universali. Il  cangiamento  risultante  da  queste  e  le  altre  modifica- zioni, necessitate  dall'adattamento  della  dottrina  pitago- rica al  sistema  platonico,  è  cobl  profondo,  che  nasconde r  identità  fondamentale   della    dottrina   di  Platone   con quella  dei  Pitagorici,  e  fra  le  due  dottrine  sembra  non esistere  un  rapporto  più  intimo  che  quello  di  una  sem- plice analogia.  Ma  vi  ha  un  punto  che  non  bisogna  per- dere di  vista.    Qualunque  sia   stato   il  senso    originario della  proposizione  dei  Pitagorici    che  le  cose  constano di  fine  e  d'infinito,  dopo  che  queste  astrazioni  fine,  e  infinito cominciarono  a  riguardarsi  come  delle  sostanze  di cui  le  cose  sono  composte,  la  proposizione   divenne  un enigma   incomprensibile,    o  a  dir   meglio   una  formula vuota  a  cui  non  era  possibile   di  attaccare  alcun   senso determinato  :  per  conseguenza  Platone  poteva    riempire questa  formula  vuo^a  dei  suoi  propri  concetti,  e,  usando di  quella  libertà  ch'egli  si  prende  abitualmente  coi  dati della  storia,  dare  questi  concetti  per  il  senso  riposto  della dottrina  pitagorica,  taciuto   o  forse  anche   smarrito  dai più  recenti  filosofi  di  questa  scuola  che  ne  avevano  di- vulgato le  dottrine.  In  effetto,  il  pitagorismo  di  Platone, come  vedremo  in  seguito,  non   consiste   solamente   ad appropriarsi  i  concetti  dei  Pitagorici,  ma  anche  ad  attri- buire a  questi  i  suoi  propri  concetti.  Per  altro  vi  erano nella  dottrina  pitagorica  dei   due  elementi   certi  laU  a \\ cui  Platone  poteva  riattaccare  il  nuovo  senso  in  cui  egli prendeva  questa  dottrina.  L'identificazione  del  Tcépa^  alla forma  generale  degli  esseri  e  dell'  ànstpov'alla  materia, che  è  il  carattere  più  essenziale  per^cui  siMistingueMa dottrina  di  Platone,  trovava  certamente  un  addentellato in  alcuni  concetti  dei  Pitagorici.  Cosi,  quantunque  Ari- stotile riconduca  tanto  l'uno  quanto  l'altro  dei  due  ele- menti dei  Pitagorici  alla  materia  ciò  che  egli  fa  tal- volta anche  per  i  due  elementi  di  Platone,  prendendo strettamente  pila  lettera  la  parola  elemento  tuttavia è  r^Tieipov  che  egli  considera  specialmente  come  il  prin- cipio materiale  (^);  e  benché  l'interpretazione  degli  au- tori posteriori  che  riguardano  il  népa^  e  l'àTieipov  come  cor- rispondenti aTa  forma  e  alla  materia,  sia  senza  dubbio dovuta  a  una  confusione  con  la  dottrina  di  Platone,  tra le  proposizioni  conservateci  dei  Pitagorici  ve  ne  hanno talune  che  darebbero  a  questa  interpretazione  una  certa speciosità.  Tali  sono  sovratutto  quelle  in  cui  essi  si  rap- presentano r  illimitato  (àTietpov)  che  è  nelle  cose  come compreso  ientro  il  limite  (,7tépa^)  e  limitato  da  questo: in  questa  rappresentazione  del  rapporto  tra  il  Limite  e rillimitato  questi  due  concetti  sono  assai  vicini  a  quelli della  forma  e  della  materia.  Ma  il  vero  punto  di  par- tenza per  passare  dalla  dottrina  pitagorica  alla  pro- pria Platone  lo  trovava,  come  abbiamo  notato,  nell'a- nalogia del  concetto  stesso  di  limite  (^tépa^)  con  quf'llo di  forma,  e,  po:?siamo  anche  ag^giungere,  del  concetto d'  infinito  (àneipov)  con  quello  d'  indefinito  o  indeter- minato—che   prr   Platone,    come   per   Aristotile,    è  il (1;  V.  Mei,  1.  XiV.  11.  1-2. (2)  V.  M9t,  1.  I.  VII.  2 Arist.  Phys.  1.  lU.  IV.  3  •  Mei,  1.  XIV*  111.  14, -114- t eàrattere  distintivo  della  materia.—  E^]i  jx^và  irioU tre  fondarsi,  per  la  riduzione  del  icépa^  al  bène,  sul  dato che  i  Pitagorici  chiamavano  la  perie  (aDoxoixCa)  del  finito la  serie  dei  beni  (e  si  noti  che  non  solo  il  Finito  era  and dei  principii  compresi  in  questa  serie,  ma  era  anche  ad esso  che  tutti    gli  altri  venivano  ricondotti).  In  quatto alle  denominazioni  di  Grande  e  Piccolo  e  Dualità  inde- terminata date  all*elemento  materiale,  noi  abbiamo  vi- sto com'essa  si  riattaccavano  a  qnel*e  pitagoriche  d'In- finito e  di  Pari.  Sulle  altre  modificazioni  della  dottrina pitagorica osserveremo  :  che  V  identificazione  dell'  Uno con  uno  dei  due  elementi,    mentre  i:  Pitagorici  lo  face- vano risaltare  da  amendue  (e  lo  chiamavano  perciò  pari- dispari),  poteva  riattaccarsi  alla  sua    classazfone  ncMa oooxoix^a  del  limitato  ;  e   la  riduzione   dei  due  elementi airEssere  e  al  Non  essere,  al  concetto,  emergente  dalla tavola    delle  dieci  opposizioni/  che  tutto  consta  di  con- trarietà,  e  che   queste  si  riducono  tutte  a  quella  del  li- mitato e  deirillimitato  (infatti  in  ogni  contrarietà  Tuno dei  termini  può  considerarsi  come  positivo  e  subordinarsi air  essere, l’altro  come  negativo  e  subordinarsi  al  non essere;  e nelle opposizioni  dei  Pitagorici  i  termini  che potevano  preferibilmente  considerarsi  come  positivi  erano quelli  che  venivano  posti  dalla  parte  del  limHato). V.  Arist.  Afet.  1.  I.  Vili.  9-Jl.  Phys.l  III.  VI.  11,  Alex.  Aphr.  arf Afei,  1.  I.  t.  43,  ecc., Cosi  Eudemo  attribuisca  al  non  essere,  nella  dottrina  pitagorica, un  posto  pressoché  equivalente  a  quello  che  esso  ha  nella  platonica: «  Bene  i  Pitagorici  e  Platone  portano  nel  movimento  l'indefinito....  e  lo imperfetto  e  il  non  essere  »  (ap.  Simpl.  ad  Arisi.  Phys.  I.  III.  11.).  Qui evidentemente  il  non  essere,  come  Tìmpcrfetto  e  l'indefinito,  è,  per  quanto concerne  i  Pitagorici,  una  generalizzazione  dei  principii  della  OUGTOix^K deirilliiaitato. Ve  liauio  ora  alle  prov^  della  posteriorità  della  dot trina.  Questa  risulta  prima  di  tutti  dagli  scritti  stessi  di Platone.  È  certo,ehp,  quando  scriveva  \a,  Repubblica,  Pla- tine, non  ammetteva  ancora  la  dottrina  di  una  dualità di  principii.  Nel  6«  e  7<>  della  Beptkbblica  non  vi  ha,  alla sommità  del  mondo  ideale,  che  un'entità  unica  :  è  l'Idea del  Bene,  sovrana  del  mondo  intelligibile,  in  cui  essa  è ciò  che  il  sole  è  nel  mondo  visibile,  e  principio  unico dell'essere  e  del  conoscere  (1).  Inoltre  la  dottnna  dei  due «lemnnti,  quale  la  conosciamo  dall'esposizione  d'Aristo- tile, suppone  quella  dei  numeri  ideali,  perchè  Aristotile riguarda  come  il  tratto  essenziale  e  caratteristico  del principio  materiale  di  Platone  che  esso  è  fatto  consist«»re (1)  V.  50^-5c9  d,  5io  b— 5II  b,  516—557  e,  532533  d. Nello  stesso  dialogo,  478,  si  dà  come  un  carattere  delle  cose  sensi- bili, per  cui  esse  sono  opposte  alle  Idee,  quello  di  partecipare  al  tempo stesso  dell'essere  e  del  non  essere.  Certamente  questo  non  significa  che l'essere  e  il  n^n  essere  sono  due  e!emenci  di  cui  le  cose  sensibili  sola- mente, e  non  le  Idee,  sono  composte;  Platone  vuol  dire  semplicemente  che  la realtà  del  sensibile  non  è  una  realtà  piena,  assoluta:  ma  è  evidente  che egli  non  si  espr  imerebbe  cosi,  s'egli  conoscesse  già  la  dottrina  che  l'Es sere  e  il  Non  essere  sono  i  due  elementi  delle  Idee  e  delle  cose.  A  479, spiegando  perchè  le  cose  sensibili  partecipano  dell'  essere  e  del  non  es- ser*», dà  un  altro  carattere  per  cui  esse  si  distinguono  dalle  Idee,  cioè che  in  esse  si  trovano  al  tempo  stesso  degli  attributi  contrari.  Anche  nel VELIA (vedasi) le  cose  vengono  opposte  alle  Idee,  perchè quelle  partecipano  simultaneamente  di  attributi  contrari,  e  queste  no;  e nel  Fedone  (v  103  d-lo5a)  si  stabilisce  il  principio  che  un'Idei  non  può mai  partecipare  a  due  Idee  contrarie  (infatti  è  impossibile,  nel  metodo di  divisione,  di  subordinare  un'Idea  a  due  Idee  contrarie).  Noi  dobbiamo perciò  ammettere  che  quesU  dialoghi  sono  anteriori  alla  dottrina  del  due elementi,  perchè  secondo  questa  dottrina  ciascuna  Idea  partecipa  delle Idee  contrarie  dell'Essere  e  del  Non  essere,  dello  Stesso  e  del  Diverso» del  Finito  e  dell'Infinito,  ecc.  (vedi  ciò  che  diremo  appresso  sulle  due atiaxoixCai  di  principi!  opposti). "  H 'il ::i -176- nel  Grande  e  Piccolo  (i)  :  ora,  come  osserva  lo  stesso Aristotile,  Platone  sostituì  all'Infioito  uno  dei  Pitagorici la  dualità  del  Grande  e  Piccolo,  per  far  servire  questo princìpio  alla  generazione  dei  numeri  ideali  {2\  Noi sappiamo  del  resto che  la  dottrina  dei  due  elementS di  cui  è  quistione  in  ArÌ8totile,fu  esposta  da  Platone  nei suoi  discorsi  utU  Bene,  in  cui  egli  diede  i  risultati  delle sue  ultime  speculazioni.  Si  potrebbe  dire  che  ciò  non esclude  la  possibilità  di  una  forma  anteriore  della  dot- trina, in  cui  il  principio  materiale  non  sarebbe  stato  ancora considerato  come  il  Grande  e  Piccolo,  e  che  Platone  in seguito  avr«ibbe  modificata,  mettendola  in  armonia  con le  sue  nuove  dottrine  pitagoreggianti.  Ma  si  leggano  i luoghi  d'Aristotile  relativi  a  questa  dottrina,  e  si  vedrà chiaramente  che  Platone  non  si  è  mai  servito  dei  due elementi  che  come  di  principii  dei  numeri  (4),  e  che  Ari- stotile non  conosce  altra  forma  di  essa  che  quella  in  cui il  principio  materiale  si  fa  consistere  nel  Grande  e  Piccolo (5).  Aggiungiamo  che  in  Met.  1.  XIV.  IL  4  le  speculazioni platoniche  sulla  materia  delle  Idee  vengono  date  come una  deviazione  {èy.zpon-fi)  dall'indirizzo  primitivo. Alla  dottrina  dei  due  elementi  è  legati  in  Platone, come  nei  Pitagorici,  quella  di  due  serie  (orioxotx^aO  di  prio- cipii  opposti.  Ad  essa  allude  Aristotile    in  Phys.  1.  III. (1)  V.  i  l.  indicati  nelle  due  note  dopo  la  seguente. (2)  V.  n.  I.  sulla  fine. (3)  V.  Arist.  Phys.  1.  IV.  U.  2,  5.  Siinpllc.  in  Phys.  fol.  32,  lo4,ll7, 127,  Alcss.  Afrod.  in  Mèi.  1.  I.  t.  43  e  t.  60.  ecc. (4)  V.  Mei.  l.  I.  VI.  3-6.  1.  Xlll.  VII.  3.  I.   XIV.  V.  1-14,  l.  XIV.  V. 3"  5    ecc '(5)  Mei.  1.  I.  VI.  3-',  I.  I.  VII.  £-3,  1.  I.  IX.  22-23,  1.  IH.  111.  .s.  1.  XU. X.  3,  l.  XIV.  l.  3  sqq.,  l.  XIV.  11.  3-I4,  ^Ajv*.  1.  l.  IX   1-2,  ecc. IL  1-2  e  Met.  1.  XI.  IX.  6-7.  Nel  primo  di  questi  luoghi d  ce:  Alcuni  dicono  che  il  movimento  è  la  diversità  e rineguagllanza  e  il  non  essere,  mentre  non  vi  ha  alcuna necessità  che  gli  oggetti  si  muovano,  se  sono  diversi  né se  ineguali  né  s^^  non  esseri.  Il  mutamento  non  é  né queèt  ».  cose  (là  diversità,  Tin^guaglianza,  il  non  essere) né  da  esse  piuttosto  che  dalle  opposte.  La  ragione  per cui  hanno  ricondotto  il  movimento  a  queste  cose  é  per- ihè  sembra  che  il  movimento  sia  qualche  cosa  d'indefi- nito, e  i  princ'pii  dell'altra  serio  fa'jaxotx^a)  sono  iudefi- niti  perché  privativi;  nessuno  di  essi  é  infatti  un'e  senza determinata  né  una  qualità  né  alcuna  delie  altre  categorie.» Lo  stesso  quasi  parola  per  parola  nel  luogo  della  Meta- fisica.  Questi  luoghi  si  riferiscono  a  Platone,  perché  sap- piamo che  Platone  riconduce  il  movimento  all'elemento materiale  (1),  e  che  la  divers'tà,  rioeguaglianza  e  il  non CFScre  sono  delle  denominazioni  di  quest'elemento.  Inol- tre vi  ha  un  luogo  d'Eudemo,  in  cui  é  certamente  qui- stione della  stessa  dottrina  a  cui  alludono  i  due  luoghi citati  d'Aristotile,  e  questa  dottrina  é  attribuita  esplici- t«imente  a  Platone  (2). Ora,  quali  sono  i  principii  dell'  altra  ariaxoix^a  di  cui parla  Aristotile  ?  e  —  poiché  V altra  atioxotx^a  suppone  una oooxoix^a  opposta  —; quali  sono  i  principii  della  ouoxotx^a opposta  ?  Senza  dubbio  trai  principii  dell' «altra  auoxotx^a» (1)  V.  Met.  1.  I.  IX.  23  e  1.  Xlll.  Vili.  21. (2)  Eudemo  ap.  SiinpI.  ad  Arist.  Phys.  1.  111.  Il:  «Platone  dice  che il  movimento  è  il  grande  e  piccolo  e  il  non  essere  e  l'anomalo  e  quanti  al- tri riduce  alla  stessa  cosa  :  ma  sembra  assurdo  di  dire^che  il  movimento sia  questo;  infatti  l'oggetto  in  cui  è  presente  il  movimento  si  muove,  ma è  ridicolo  che,  un  oggetto  essendo  ineguale  o  anomalo,]^ sia2[necessario che  esso  si  muova».  Questo  luogo  ^  quello  che  abbiamo  indicato  sopia per  dimostrare  che  Telemento  materiale  veniva  anche  c|iiamato  l'anomalo -176  — I sono  la  Dytìrsit^,  riae^aaglianza  e  il  Non  essere;  poi- ché, quando  Aristotile  dice:  «perchè  sembra  che  il  mo- vimento sia  qualche  cosa  d'indefinito,   e  i  principii  del- l'altra ouoxoixCa  sono  indefiniti  »,  evidentemente  e^jli  in- tende assegnare  ^ome  ragione  dell'aver  ricondotto  il  mo- vimento alla  diversità,  airineguaglianza  e  al  non  essere, r  indieterminatezza   per  cui  il  movimento   somiglia  alla diversità,  airineguaglianza  e  al  non  essere.  Di  più  il  mo- vimento fa  parte  anch'  esso  dqi  principii   dell'  «  altra  oti- oxoixta»:  infatti,  se  per  ragione  della  riduzione  del  movi- mento al  non  essere,  alla  diversità  e  all'  ineguaglianza Aristotile  4à  la   somigliflinza  che  il  movimento  ha,  non coi  soli  noijesser'^,  diversità  e  inegualianza,  ma  coi  prin- cipii dell'  «  altra  oaoToix^a  »  In  generale,   ciò  è  perchè  la riduzione  di  una  cosa  al  non  essere,  la  diversità  e  l'ine- gaaglianza  equivale  per  Aristotile  alla  sua  classazione tra  i  principii  dell'  «  altra  o'joxotxta».  Tra  i  principii  del- l' f  altra  ooaxoixCa  »  trovandosi  dunque  il  Movimento,  la Diversità,  TlneguagHanza,  il  Non  e*?sere,  tra  i  principii della  oDoxoix^a  opposta  devono  trovarsi  gli  opposti,  cioè lo  Stato,  l'Identità  (lo  Stesso),  l'  Eguaglianza,  1'Essere. E  siccome  Vessere^  V eguaglianza,  Videniità  {lo  stesso)  sono dei  nomi  con  cui  viene  designato  l'elemento  formale,  e il  non  essere,  V ineguaglianza,  la  diversità  del  nomi  con cui  viene  designato  l'elemento  materiale,  noi  dobbiamo ammettere  che  i  nomi  dell'uno  dei  due  elementi  figurano anche   come    principii  dell'  una  delle  due  ouoxotxtai,  e  i nomi  dell'  altro  come  principii    dell'altra.  Ma  di  là  non ne  segue  che  tutti  i  principii  di  una  delle  due  ouoxotx^at figurino  anche  come  nomi  dell'elemento  corrispondente  : infatti  il  movimento  non  è  un   nome  dell'  elemento  ma- teriale.  Però  il    movimento,  quantunque    questo    nome non    venga   applicato  a  designare  l'elemento  materiale, è  ricondotto,  come  abbiamo  visto,  da  Platone  all'  elemento materiale  :  cosi  devono  anche  classarsi  tra  i  principii dell'  una  o  dell'  altra  delle  due  auaxoixtai  quelle  entità che,  senza  che  i  loro  nomi  vengano  impiegati  per  desi- gnare Tuno  o  l'altro  dei  due  elementi,  sono  nondimeno ricondotti  alcuno  o  all'altro  dei  due  elementi.  A  queste entità  accenna  Ari'^totile  in  generale  in  Me^  1.  XIII.  Vili. 2i,  con  queste  parole:  Alcune  cose  assegnano  (i  Platonici) ai  principii,  come  il  bene  e  il  male,  lo  stato  e  il  moto; le  altre  ai  numeri.  »  Il  male  non  è  un  nome  dell'elemento materiale,  ma  è,  come  il  movimento,  ricondotto  all'ele- mento materiale  (1). Che  Platone  riguardi  i  diversi  nomi  ch'egli  dà  all'uno e  all'altro  dei  due  elementi  come  corrispondenti  a  dei principii  distinti,  è  una  proposizione  che  non  deve  sor- prenderci :  è  questa  anzi  la  sola  interpretazione  che  sia conforme  aUo  spirito  del  sistema  delle  Idee  e  alle  abitu- dini del  linguaggio  platonico.  Un  nome,  nella  sua  appli- cazione meta'fisica,  non  designa  altra  cosa  per  Platone che  il  concetto  che  essi  comunemente  significa,  realiz- zato :  cosi  l'essere  e  il  non  essere,  l'eguale  e  l'ineguale, lo  stesso  e  il  diverso,  ecc.  non  possono  designare  per lui  che  i  concetti  dell'  essere  e  del  non  essere,  del- l'eguale e  dell'ineguale,  dello  stesso  e  del  diverso,  ecc. realizzati.  Ma  i  concetti  dell'  essere,  dell'eguale,  dello stesso,  ecc.,  cosi  bene  che  quelli  del  non  essere,  dell'ine- guale, drl  diverso,  ecc.  essendo  distinti,  ne  segue  che le  entità  Essere,  P]guale,  Lo  stesso,  ecc.  cosi  bene  che Non  essere.  Ineguale,  Diverso,  ecc.  devono  anche  essere delle  entità  distiate.  Noi  non  possiamo  dunque  ammet- tere che  tra  1'  Essere,  l'  Eguale,  lo  Stesso,  ecc.    da  una V.  oltre  il  1.  e.  Mei.  1.  I.  Vi.  8,  1.  Xll.  X.  4.  1-  XIV.  IV.  parte,  e  dairaltra,  tra  il  Non  essere,  V  Ineguale,  il Diverso,  ecc.  vi  sia  una  distinzione,  non  reale,  ma  som- plicemente  nominale,  a  meno  di  supporre  che  Plaone abbia  creduto  che  ciascuna  di  queste  due  serie  di  nomi significhi  uno  stesso  concetto.  La  stessa  osservazione  vale, a  più  forte  ragione,  per  il  movimento,  il  male  e  le  altre cose  che  Platone  riconduce  all'uno  o  all'altro  dei  due elementi,  ma  senza  dare  a  questi  i  nomi  corrispondenti: i  concetti  del  male  e  del  movimento  essendo  distinti  tra di  loro  e  dai  concetti  del  non  essere,  deirinegua'e,  del diverso,  ecc.,  il  Male  e  il  Movimento  devono  essere  delle entitA  distinte  fra  di  loro  e  dalle  entità  Non  essere.  Ine- guale, Diverso,  ecc. Tuttavia  la  distinzione  che  Platone  stabilisce  tra  tutte queste  entità  non  gì'  impedisce  di  riguardarle  al  tempo stesso  come  identiche.  Per  le  entità  i  cui  nomi  servono a  designare  uno  dei  due  elementi,  qucst'  identificazione risulta  sufficientemente  da  questa  stessa  applicazione  che viene  fatta  dei  loro  nomi.  Ma  essa  non  è  meno  evidente per  le  altre:  roi  abbiamo  già  visto  nel  luogo  citato  di Aristotile  (1)  e  in  quello  d'Eudemo che  il  movimento è  la  Diversità,  l'Ineguaglianza,  il  Non  essere,  il  Grande e  Piccolo,  ecc.  Di  quest'identità  degli  altri  principii  d'una o'iOToix^a  con  quelli  che  figurano  come  nomi  delleh  mento corrispondente  si  hanno  le  prove  nella  più  parte  dei luoghi  d'Aristotile  in  cui  è  qui^tione  della  relaziono  di  1 movimento  o  del  male  con  l'elemento  materiale.  In  Mef. 1.  I.  IX.  23  dice  :  f  In  quanto  al  movimento,  se  esso  é il  grande  e  piccolo,  si  muoveranno  anche  le  Idee^.  Tutte    le  cose  partecipeiauno   al (1)  Phys.  l.  III.  II. Ap.  Simpl.  ad  Arisi.  Phys.  1.  III.  II, male,  salvo  l'Uno,  poiché  il  male  in  sé  è  l'altro  elemento.^* Ibid.  1.  XIV.  IV.  6-7:  e  Alcuni   (dei   Platonici  vale  a dire,  per  quanto  possiamo  giudicarne,  tutti  gli  altri  tranne Speusippo  e  i  suoi)  dicono  l'Ineguale  la  natura  del  male. Ne  segue  che  tutti  gli  esseri,  salvo  uno  cioè  l'Uno  stesso, parteciperanno  al  male»,    ecc.   Come    si  può   intendere che  delle  entità  distinte  siano  al  tempo  stesso  identichePNoi ritroviamo  qui,  mutatis  mutandis,  quello  stesso  rapporto ambiguo  che  abbiamo  già  incontrato  tra  Tuno  e  i  molti (i  molti  fcono  1'  uno  e  Tuno  è  i  molti).    Bisogna   rinun- ziare su  questo   soggetto  a  qualsiasi    concetto  intelligi- bile. Tutto  ciò  che  possiamo  dire  di  più   chiaro  è  che  i diversi  principii  di  ciascuna  delle  due  ooaxoixiat  sono  ri- guardati   da  Platone  come  degli    aspetti  diversi— eguid- mente  obbiettivi dell'elemento  corrispondente.  L'espres- sione degli  aspetti  diversi  egualmente  obbiettivi  è  certa- mente un  non  senso  —  fra  i  diversi  aspetti  di  un  oggetto è  uno  solo  che  noi  possiamo  riguardare  come  obbiettivo— ma  essa  è  forse  la  più  appropriata  per  rendere  l'oscuro concetto  racchiuso  in  questa  dottrina. Ciascuno  dei  principii  dell'una  e  dell'altra  ouoxotxCa è  certamente  consideralo  come  un  attributo  d'una    uni- versalità assoluta,  pres'^nte  in  tutti  gli  esseri.   In  effetto Ih  più  parte  di    questi    principii,    per  quanto    possiamo giudicarne,  figurano    come  nomi  dell'  uno  o  l'altro  dei due  elementi  ;  ed  è  evidente  che  Platone    non    potrebbe dire  che  l'Essere  o  l'Eguale  o  lo  Stesso  ecc.  ò  la  forma di  tutte  le  Idee,  e  il  Non  essere  o  l'Ineguale  o  11  Diverso ecc.  la  materia,  se  l'Essere,  il  Non  essere,  l'Eguale,    lo Ineguale,  lo  Stesso,  il  Divers'^,  ecc.  non  fossero  per  lui delle  determinazioni  comuni  a  tutti  gli  esseri.  In  quanto ai  principii  che,  come  lo  Stato  e  il  Moto,  non  figurailo come  nomi  degli  elementi,  la  loro  universalità   assoluta - Un è  provata,  oltre    che  dal'a  coerenza  della  dotlrìna,  dal fatto  che  gli  attributi    corrispondenti  a   questi    principii Vengono    riguardati    come  determinazioni    inerenti    alla forona  o  alla  materia  universali.  È  ciò  che  vediamo  [«er Il  Movimento.  Nel  Timeo  la  materia  di  tutti  gli  ess  ri  ò simboleggiata   da   una   massa  in   un    movimento  conti- tiuo,  e  Xcnrcrate  chiamava  la  materia  di  cui  tutte  le cose  sono  fatte  àévaov  (continuamente  fluente)  Questo stesso concetto èespresso  da  Xeiiocrato    Sfato  forma simbolica,  quando  chiamava  V  Unità  V  intelligenza  e  la Dualità  indefinita  Tanima  del  tutto:  lelemento  ma- teriale è  simboleggiato  dalPanima,  perchè  questa  e,  s«»- condo  Platone,  perpetuamente  in  movimento,  e  comunica il  suo  movimento  a  tutte  le  altre  cose    (l'elemento  tv  r- maleo  il  Bene  dairinteHigenza,  erme  rei  Tiineo,    peichò questa  è  la  sola    attività  «mpirica  che  operi    secondo  il principi»  delle  cnuse  finali.  Per  altro  V  univer-alità -assoluta  di  tutte  quelite  entità  è  inerente  alla  1«  ro  qua- lità di  principii,  perchè,    con forn emonte  alla   dialet  ica platonica,  ciò  che  è    di  una  universalità   solo    relativa, ciò  che  è  contenuto  sotto  un'Idea  più  generale,  non  po- trebbe essere  riguardato  come  principio.  Cosi  la  dottrina  V.  30  a,  62  e-53  a,  88  d. (2)  V.  MaUaoh  Fr,  78. Stob.  Ed.  Phys.  (Muli.  Xenocr.  Fr.  I). Che  il  movimento  sia  un  attributo  universale  comune  a  tutto ie  cose,  risulta  del  resto  dalla  dottrina  del  divenire  continuo   dei ÉensibiU.  Per  altro  non  bisogna  dimenticare  che  il  moi'imento  (^f- VtJOlg)   ha  nel  linguaggio  dei  filosofi  greci  un  significato  molto  lato, essendo  press'a  poco  un  sinonimo  di  cangiamento.  Platone  chiama anche  movimento  una  relazione  transitoria  d'  una  cosa  con  altre, anche  che  non  importi  in  essa  un  cangiamento  reale;  p.  e.  l'esser eonosciata  è  un  movimento  della  cosa  conosoiata  {Sof.  248), delle  due  ouoxotxfat  di  principii  opposti  dà  una  risposta alla  quistione  quali  S'ano  .propriamente  le  determina- zioni delle  cose  che  i  due  universali  supremi,  cioè  la forma  e  la  materia  delle  Idee,  rappresentano;  la  riunione degli  attributi  corrispondenti  ai  principii  dell'una  o  del- l' altra  a4>oxoixta  ci  dà  il  significato  complelo  dell'  ele- mento rispettivo. Qu^8ta  dottrina  dì  due  serie  di  principii  opposti  è evidentemente  un'im  ta/ione  di  qu(  Ila  coni-^pondente  dei Pitagorici.  Cosi  noi  dobbiamo  ammettere  che  questi  op- posti non  rappresentano  solamente  le  determinazioni universali  dell'essere,  ma  ancora,  come  quelli  dei  Pita- gorici, le  opposizioni  fondamentali  delle  cose.  È  a  ciò che  deve  riferrsi  l'indicazione  d'Alessandro  d'Afrodisia  (2) che  Platone  vedeva  nell'Eguale  e  l'Ineguale  o  1'  Uno  e la  Diade  indefinita  €  i  principii  degli  esseri  per  se  stessi e  degli  opposti  ».  I  «  principii  degli  opposti  »  è  certamente Fra  quasti  principii  opposti,  riguardati  come  attributi  co- muni a  tutti  gli  esseri,  sono,  coAie  abbiamo  visto,  il  bene  e  il  male. Elevando  il  male  a  principio  e  attributo  universale  delle  cose,  FU- tone  si  mette  certamente  in  opposizione  con  la  forma  primitiva del  suo  sistema:  tuttavia  quest'opposizione  non  è  cosi  grande  co- me potrebbe  sembrare  a  prima  vista.  Potrebbe  credersi  infatti  ohe egli  dia  al  male  una  parte  e^juale  a  quella  del  bene.  Ma  non  è  cosi. La  t'orma  e  l'essenza  degli  esseri  è  il  bene:  ne  segue  che  il  male non  è  che  un  accidente;  se  no,  perchè  l'essenza  delle  cose  sarebbe il  bene  piuttosto  che  il  male  ?  Noi  abbiamo  già  osservato  che  il male  non  è  nemmeno  riguardato  da  Platone  come  la  materia.  E- videntemente  il  concetto  di  Platone  è  ohe  il  bene  è  il  tipo  che  tutti gli  esseri  tendono  a  realizzare,  ma  che  nessuno  realizza  se  non d'una  maniera  approssimativa.  Nel  Timeo  Dio  realizza  da  per  tutto l'Idea  del  bene,  ma  per  quanto  è  possibile  (v.  29  e 30  a,  46  c-d,  4S  a, 53  b,  56  e,  68 e— 69 b).  Cosi  in  tutti  gli  esseri  vi  ha  alato  del  bene  il male  :  ma  la  regola  è  il  bene,  e  il  male  non  è  ohe  l'eccesione. Ad  Met,  l.  I.  t.  43. •  *'  I -V  179   Il 1 M *  ùti'  espressione  inesatta,  almeno  in  un  ponto,  cioè  che Platone  non    poteva  rguardare   gli  altri   principii  delle du(B  a\}  azoix^oLi  come  derivati    dall'Eguale  e  T  Ineguale  o rUno  e  la  Diade poiché  in  questo  caso  non  sarebbero stati  anch'essi  dei  prindpii—;  ma  gli  altri  dati  che  ab- biamo su  questa  dottrina  ci  autorizzano  ad  int^derc  la indicazione   d'  Alessandro  in  questo  senso,  che  Platone riconduceva    le   opposizioni    fondamentali    delle   cose  ai due  elementi    delle  Idee.   Questo    concetto  dà   anche  la spiegazione  di  una  dottrina  d'Aristotile,  che,  come  tante altte  di   questo  filosofo  (p.  e.  la  distinzione  de'la  forma e  della  materia),  non  si  comprende   che  per  il  rapporto della  sua  filosofia    con  quella  di  Platone.    È  la  proposi- zione che  tutte  le  contrarietà    si  riducono  a  quella  del- l'unità e  della  pluralità  (p.  e.  lo  stato,  l'eguale,  lo  stesso si  riconducono  all'onità;  il  moto,  l'ineguale,  il  diverso, alla  pluralità)  (1).  Questa  proposizione,  di  cui   non  pò- trebbe  vedersi    «Icun  legame  coi    concetti   della  filosofia d'Aristotile,  si  riattacca  invece  della  maniera  più  natu- rale a  quelli  d'una  filosofia  che,  come  quella  di  Platone, fa  consistere  l'essenza  delle  cose  nei  numeri.  E  in  effetto essa  è  contenuta  in  germe  nella  dottrina  delle  due  ouoxoi- xCat   di    principii     opposti.    Questi    principii    opposti,  al punto    di  vista     della    teoria    dei  numeri,  erano   ricon- dotti   da    Platone   all' Uno  e  al    Grande  e    Piccolo,    e il  Grande  e  Piccolo,  specialmente  come  elemento  dei  nu- meri, cioè  come  Molto  e  Poco,  equivaleva  alla  Pluralità: cosi,  siccome  le  due  serie  di  principii  opposti  rappresen- tavano, come  abbiamo  detto,  le  opposizioni  fondamentali degli  esseri,  cioè  le  più    generali  e  a  cui    la  più  parte delle  altre,  se  non  tutte,  si  riconducono  ;  di  là  si  ginn-  geva  facilmente  alla  generalizzazione  d»  Aristotile  —  i^ Pautore  di  questa  generalizzazione  è  stato  Aristotile,  e non  Platone  stesso  —  che  tutti  i  contrarii  si  riconducono all'unità  e  alla  pluralità.  Una  conferma  del  rapporto  di questa  dotti  ina  d'Aristotile  con  la  filosofia  platonica  po- trebbe vedersi  in  questa  circostanza,  che  Aristotile  trat- tava di  essa  nel  libro  sul  bene  (1),  nel  qua!e  esponeva gli  S.ypcLcpcf.  SÓYjiaxa  di  Platone. Probabilmente  le  due  ouaxotxfat  di  Platone  compren- devano, come  quelle  d-  i  Pitagorici,  dieci  opposizfoni (pi  rchè  dieci  era  il  numero  perfetto) ,  e  noi  possiamo supporre  con  qualche  verosimiglianza  che  fossero  le  se- jiuenti:  V  Fine  o  Finito  ~  Infinito  (4).  2«  Unità -Mol- t  plicità.  3^  Dispari- Pari.  4^  Bene-Male.  5^  Stato-Moto. 6^  Essere- Non  Essere  (5).  7»  Lo  Stesso-- Diverso.  8^E- gua!e -Ineguale.  9-  Regolare -Ir  regola  re  (ójxaXóv-àvwixaXov) 10°  Ordinato—Inordinato  (xaxTÓv-aciaxTov).  Di  queste Met.  l.  IV.  II.  5-8,  14-15,  l.  X.  III.  3,  IV.  11, 1.  XI.  III.  4. (1)  V.  Alex.  Aphrod.  in  3fet.  1.  IV.  t.  9  e  19,  1.  X.  t.  9,  1.  XI. V.  Slmpl  in  Pht/s.  fol.  32  e  fol  104,  in  De  Anima  l.  I.  o.  II, Ales.}.  in  Met,  1.  I.  VI.  t.  43,  1.  I.  IX.  t.  60,  Filopono  in  Phys.  1.  IV. II,  ecc. (3)  V.  Arist.  Met.  1.  I.  V.  3. Platone,  cerne  vediamo  nel  Filebo  (v.  16  e,  23  e,  24  a,  25  b,  d, 26  b,  ecc.\  doveva  riguardare,  aU'esempio  dei  Pitagorici,  il  Pine e  il  Finito  come  equivalenti. Naturalmente  in  quest'opposizione  Non  essere  non  significa fio  che  non  esiste,  ma  la  negazione  (p.  e.  non  uomo,  non  bello, non  grande)  e  la  privazione  (p.  e.  tenebre,  sHenzio,  cecità),  Senaa dubbio,  Platone  preferisce  per  l'elemento  materiale  la  denominazione di  Non  essere,  perchè,  come  dice  Aristotile,    i  principii  dell*  altra ouoxoixfa  sono  privativi,  e  l'elemento  materiale  equivale  al  com- plesso di  questi  principii. (6)  Teofrasto  Metaf.  33  :  Platone  e  i  Pitagorici  pongono  l'oppo- sizioue  dell'uno  e  della  dualità  indefinita:  in  questa  è  l'infinito, .."» t.  i ; Opposizioni  la  prima  metà  sono  comuni  coi  Pitagorici. Comparando  nel  loro  insieme  la  tavola  di  Platoae  e  quella dn  Pitagorici,  la  prima  si  distingue  per  un  carattere più  astratto;  e  le  opposizioni  particolari  a  Platone  pos- sono riguardarsi,  per  la  più  parte,  come  delle  genera- lizzazioni di  quelle  dei  Pit«g  orici.  Per  giustificare  il  can- giamento ch'egli  apportava  nella  dottrina  dei  Pitagorici, Platone  poteva  dire  che,  tra  le  opposiz'oni  delle  cose, quelle  che  meritavano  di  essere  elevate  al  grado  di  prin- cipii  ed  elementi,  erano  le  più  generali. Il  tratto  essenziale,  per  cui  la  tavola  delle  opposizioni  di Platone  si  distingue  da  quella  dei  Pitagorici,  è  che  i  princi- pii  opposti  di  Platone  sono  degli  attributi  universalissimi comuni  a  tutti  gli  esseri,  e  che  i  principii  di   ciascuna Ferie,  riuniti,  costituiscono  uno  dei  due  elementi  di  tutte le  Idee  :  le  altre   differenze    dipendono  da  questa  diffe- renza fondamentale.   Essa  al'a  sua   volta  è   una  conse- guenza della  dialettica  platonica.  Le  dieci  coppie  dì  op- posti erano    per  i  Pitagorici  i  principii   delle  cose  :  ora un  principio  è,    secondo  Platone,  ciò  che  occupa  il  grado più  elevato  m*lla  scala  (^el'a  generalità,  e  che,  corno  tale, si  trova  al  punto  di  partenza  della  dialettica,    conside- rando questa  nella  sua  marcia  d'scensiva,  che  è  quella che  corrisponde  al  progresso  real»^  deiressore.    Per  con- seguenza, delle  entità  distinte  dagli  Universali  suprem', cioè  dalla  forma  e  dalla    materia  di  tutte   le  Idee,  non potrebbero  avere,  nel  sistema  di  Platine,  il  carattere  di Vinordinato  (àxaXTOv)  e,  per  cosi  dire,  ogn'informità  per  se  stessa  — Nel  Timeo  l'elemento  materiale  è  rappresentato  da  una  massa  che si  muove  disordinatamente  (àiaxxcD^)  e  che  il  Demiurgo,  che  rap- presenta r  Idea  del  bene,  fa  passare  dal  disordine  all'  ordine (sic  Totgtv  f^^oL-^vi  ex  x^c  dxagiag).  . principii y  perche  sarebbero  loro  subordinate  in  genera- lità, e  deriverebbero  da  loro  :  cosi  le  due  auoxoix^at  di principii  opposti  non  potevano  essere,  in  questo  sistema, che  la  decomposizione  dei  due  Universali  supremi  in  due serie  di  attributi  egualmente  universali  e  aventi  ciascuno una  parte  della  loro  comprensione. Questa  modificazione   aveva  anche    V  effetto   di  ren- dere la  dottrina  pitagorica  delle  opposizioni   meno  arbi- traria. I  Pitagorici  prendevano  all'azzardo  certe  opposi- zioni, e  dichiaravano  che  esse  erano  gli  elementi  costi- tutivi delle  cose  :  ma  come  queste  oppjsizioni  pot*^ssero essere  gli  elementi  costitutivi  delle   cos^,  e  perchè  que- ste precisamente  e  non  altre,  erano  delle  quistioni  che, nella  dottrina  dei  Pitagorici,  restavano  senza  risposta. A  questa  quistione  Platone  rispondeva  con  Tequivalenza tra  le  due  serie  di  principii  opposti  (presa  ciascuna  nel suo  complesso)  e  i  due  elementi  delle  Idee—  Il  concetto più  nebuloso  di  questa  dottrina  di  Platone,    cioè  Tiden- tifìcazione  dei    diversi    principii  di    ciascuna    delle   due auoxotxiat,  aveva  per  lo  meno  un  addentellato  nella  dot- trina corrispondente  dei  Pitagorici.  Quando  questi  chia- mano rimpari  mascolino  e  il  paii  femminino,  e  riguar- dano la  ouoxoiyja  del    Finito  come    quella  dei    beni  e  la ouoxoix^a  deir  infinito  come  quella  dei  mali,  essi  s^'inb:  ano considerare  il  bene  e  il  mascolino  erme    equivaler. ti  al- l'impari e  al  finito,  e  il  male  e  il  femminino  come  rqui- vaicnti  al  pari  e  all'  infinito.  L'  identifica/ione,    nel  si- stema pitagorico,  di  c'ascnno  dei  principi  dell'una  delle due  GDozoiyioLi  al  Fini'o  e  di  qiulli  dell'altra  all'Infinito risulterebbe  anr^he  dallindlcazioue  di  alcuni  autori  che  i Pitagorici  ch'amavano  l'uno  dei  due  elementi  impari,  ma- schio, luce,  destro,  retto,  stabile,  ecc.,  e  l'altro  coi  nomi 1«1">  tl T^ contrari.  Per  Platone  quest'identificazione  era  neies- Haria,  s'egli  voleva,  ad  imitazione  dei  Pitagorici,  ricon- durre questi  principi!  al  Fine  e  all'  Infinito,  e  ftl  tempo st<  sso  conservare  ad  essi  la  loro  qualità  di  principiL  In effeito,  oltre  questMdentificazione,  egli  non  avrebbe  avuto che  un  mezzo  per  ricondurre  ai  due  elementi,  cioè  al Fine  e  all'Infinito,  le  altre  entità  facienti  parte  delle  due serie  di  op|:osti  :  quello  di  riguardare  il  Fine  e  l'Infinito come  generi,  e  queste  altre  entità  come  specie.  Ma  allora queste  entità  non  sarebbero  htate  più  dei  principii;  poi- ché, come  abbiamo  più  volte  osservato,  ni  lU  dialettica platonica,  ciò  che  è  subordinato  a  quah  he  cosa  di  più generale,  non  è  un  principio,  ma  un  essere  derivato. Inoltre  esse  non  avrebbero  avuto  più  coi  due  elementi il  rapporto  speciale  che  ammetteva  la  filosofia  pHagorica, ma  semplicemente  il  rapporto  comune  che  hanno  con questi  tutte  le  entità  platoniche,  tutte  le  Idee  essendo con  gli  elementi  nella  relazione  di  specie  a  grenere.  Del resto,  senza  V  identificazione  dei  priacip'i  di  ciascuna ouoToix^a,  non  si  vede  come  Platone  avrebbe  potuto  fare coesistere  la  dottrina  di  una  moltiplicità  di  principii  con quella  dell'unità,  almeno  con  quella  dell'unità  del  prin- cipio formalf*,  indispensabile  alla  dialettica  platonica, perchè  VelZo^  supremo  i  on  potrva  (  ssere  che  un  solo. La  dottrina  delle  due  a'jaxoixtai  di  princif»ii  opposti  sup- pone evidcnu  mei  to  qu*  ll;i  dei  du<>  olcmenti  :  per  conse- guenza le  prove  che  d  mostrano  cht^  la  seconda  delle due  dottrine  è  nata  posti  r'ormeiite  al  sistema  delle  Id<  o e  della  dialettica,  dimostrano  questa  s'essa  posteriorità anche  per  la  prima.  Sar  bbe  suferflua  qualsiasi    osser- Eudoro  ap.  Simi>l.  Jhijs,  30a,  1,  e.  e  Poriirio  Vita  Pytha- gorae,  §.  38. vazìone  sulla  contraddizione  di  questa dottrina  coi  prin- cipii della  dialettica  platonica,  e  la  necessità,  che  ne  se- gue, di  spiegarne  Forigine  per  una  fusione  dei  concetti primitivi  di  Platone  con  un  elemento  straniero,  indipenden- temente dal  quale    questi  concetti  si  erano  formati.  Ma un'osservazione  che  non  possiamo  tralasciare  è  la  rela- zione di   questa  dottrina  con  un  luogo    del  Sofista,  che senza  questa  relazione  sarebbe  incomprensibile.  In  questo dialogo 6  e,  2rj8  d,  259  a,  260  b)  l'Essere  e  il Non  esse  e  e  lo  Stesso  e  il  Diverso  vengono  date  come delle  Idee  d'un'universalirà  assoluta,  a  cui  tutte  le  altre Idee  partecipano.  Ora,  conformemente  ai  principii  della dialettica  p^aton'ca,  non  potrebbe  esservi    che  una  sola Idea  d'  una  universalità  assoluta   e  a  cui   tutte  le  altre paitecipino.  Questa    incoerenza  ci  indica   dunque  che  il Sofista   è   stato scritto   nel    perìodo    pitagoreggiante,  e quando Platone ammetteva   già    la  dottrina   delle  due oDOTotx^ai  di  principii    opposti.  E  in  eft'etto  l'Essere  e  il Non    essere  e  lo    Stesso  e  il    Diverso  fanno    certamente parte  di   queste    oDOToix^ai.  Noi  abbiamo    del  resto   altre prove  che  dimostrano  che,  quando  Platone  Fcrivevail  So- Jista,  egli  aveva  già  immaginato  la  dottrina  dei  due  ele- menti. Così  la  più  parte  degl'interpreti  hanno  compreso, indipendentemente  dalla  nuova  prova  che  noi  apportiamo, che  l'Essere  e  il  Non  essere  di  cui  si  tratta  nel  Sofista sono  quegli  stessi  di  cui  è  quistione  nella  Metafisita  di Aristotile,  vale  a  dire,  i  due  ik  menti  d^^Ilc  Idfe.  Ciò  ri- sulta prima  di  tutto  da  un'allusione  della   Met.  1.  XIV. II.  7-8,  cioè  che  Platone    ha  identificato il  Non    e  sere, vale  a  dire  la  matria,  con    la  natura  del  falso:  questa allusione   convirne    perfettamente    al  Sofista,    perchè  in questo  dialogo   Platone  sostiene    che  il  discorso   e  l'opi- nione falsa    hanno   per oggetto    il  Non  essere,    e  sono  -i ;-> •W4.  •>  A^^'  }t%j  »?!«  .  . ' ^    I TV I falsi  ppr  la  partecipazione  del  Non  essere.  inoltre  la lunga  di^ress'one  per  dimostrare  Te-iistenza  del  Non  es- sere prova  che  ques'/  ent  tà  occupa  n*^l  si-^ stema  un  posto  d'un'importanza  speciale:  Platone,  è  vero, dà  per  iscopo  a  questa  digressione  di  stabilire  Tes^'stenza del  falso,  difendendola  dalle  obbiezioni  capziose  dei  con- temporanei; ma  è  evidente  che  questo  non  è  ch»^  un  pre- testo per  riattaccare  le  sue  specul«zioni  alle  quistioni del  giorno  (2).  Aggiungiamo  che  alU  sommità  del  mondo ideale  sta,  nel  Sofista,  non  l'Idea  del  Bene,  ma  quella deirEssere  (3). B.  Il  puntodi  partenza  della  dottrina  suUa  materia  delle cose  cìoii  sulla  materia  esteriore  alle  Idee  e  che  si  ag- ffiunire  ad  esse  per  costituire  le  cose è  la  cns^ru/.icme del  corporale    II  corpo  si  compone  delle  superficie  e  dello Contro  l'equivaler  za  del  Non  essere  del  Sopsla  col  Non  essere de\ÌQ>  Mt-ta  fi  sica  vi  sarebbe  l'obbiezione  che  nel  Sofista  il  Non  essere non  potrebbe  riguardarsi  come  un  principio  primilivo,pBrchè  vi  si  dice che  quest'Idea  è  contenuta  sotto  quella  del  Diverso  (257d-258d).  Ma quest'obbiezione  non  ha  un  gran  valore;  perchè,  siccome  tanto  il  Di- verso quanto  il  Non  essere  si  trovano  in  tutte  le  altre  Idee,  e  per consej^uenza  anche  l'una  nell'altra,   cosi  il  rapporto  di  contenenza tra  le  due  Idee  è  reciproco,  cioè  è  allroltanto  vero  di  diro  ch^  l'I- dea del  non  essere  è  contenuta -joltoqualladel  diverso  —  perchè d^l non  essere  può  predicarsi  il  diverso- quanto  di  diro  chs  l'Idea  del diverso  è  contenuta  sotto  quella   del  non   essere-perche,    reciproca- mente,del  diverso  può  predicarsi  il  non  essere—.  Se  l'Idea  contenente dovesse  riguardarsi,  in  questo  caso,  come  anteriore  all'Idea  conte- nuta, vi  sarebbe  per  conseguenza  altrettanta  ragione  di  riguardare il  Diverso  come  anteriore  al  Non    essere  che  di  riguardare   il  Non essere  come  anteriore  al  Diverso  :  cosi  il  rapporto  logico  di  conte- nente e  contenuto  non  può  importare,  in  questo  raso,  il  rapporto ontologico  di  anteriore  e  posteriore, (3;  V.  243  e— d  e  253  e— 254  b. J spaz'o  che  es  -e  racchiudono;  le  superfìcie  similmente  delle linee  che  le  limitano  e  dello  spazio  compreso  fra  queste lince;  e  le  linee  dei  punti  che  le  limitano  e  dello  spazio compreso  tra  questi  "punti.  Il  punto  viene  identificato  con r  unità.  Un'  esposizione  completa  di  questa  costruzione deire^teso  non  la  troviamo,  a  dir  vero,  né  in  Platone  né in  Aristotile.  Nel  Timeo  vi  ha  solamente  la  composizione del  corpo  dalle  superficie.  Ma  Aristotile  parla  spesso dell'opinione  che  le  superficie,  le  linee  e  i  punti  o  unità sono  so>tanze,  e  che  il  punto  o  unità  é  più  sostanza  della linea,  la  linea  più  della  superficie,  e .  la  superficie  più  del corpo  (2),  opinione  che  si  deve  attribuire  a  Platone  e  ai suoi,  perché  essa  é  leg«ta  alla  dottrina  delle  Idee,  e fondata  sul  motivo  che  soppresso  il  punto  si  sopprime- rebbe anche  la  linea,  soppressa  questa,  la  superficie,  esop- pressa  la  superficie,  il  corpo  (4).  E  evidentemente  alla  stessa opinione  che  allude  Aristotile,  quando  respinge  la  proposi- zione che  i  punti  e  le  linee  sono  la  materia  dei  corpi  (5).  In- fine Alessandro  d'Afrodisia  afferma,  come  abbiamo  visto altrove,  che  Platone  fa  venire  i  corpi  dalle  superficie, le  superficie  dalle  linee,  e  queste  dai  punti,  che consiglerà  come  unità;  e  che  é  questa  la  ragione  per  cui (1)  V.  53  c-57  d.  Cff.  Arist.  De  gen,  1.  I.  II.  8-9,  1.  I.  Vili.  8-9, 1.  II.  I.  4.  De  ('oeìo  1.  III.  I.  3  14,  1.  III.  VII.  1,5-10,  1.  III.  Vili. IsJ,  l.  IV.  IT.   U\,  13. (2)  .1/7.  l.  III.  V,  l.  V.  VITI.  3,  1.  VII.  IL  25,  l.  XI.  II.  7-8, l.  XTV.  III.  6-7,  l'hi/s.  l.  V.  ITI.  9. (3)  V.  Met,  1.  VIT.  IL  5  e  1.  XIV.  IIL  6-7. (4)  V.  Met.  1.  ITI.  V.  3  e  1.  V.  VITI.  3-questo  è,  come  sappiamo, il  criterio  di  cui  si  serve  Piatone  per  stabilire  che  una  cosa  è  anterlore  al  un'altra. Anche  Alessandro  Afrod.  riferisce  l'allusione  a  Platone  (ad  Met^ l.  VII.  t.  3). (5)  De  yen,  1.  I.  V.  6. .  à i'i n '    \ » \  I -  1 -  183  - f egli  ammette  che  i  numeri  sono  i  princìpi  degli  esseri {ad  Mei.  l.  I.  t.  43)  (1).  Com'è  che  le  superficie  ven- gono dalle  linee  e  le  linee  dai  punti?  Della  stessi  ma- niera certamente  con  cui,  nel  Timeo,  i  corpi  vengono dalle  superficie.  La  costruzione  del  corpo  nel  Tiaieo,  in efl^elto,  sarebbe  da  se  sola  incomprensibile  :  essa  non  si comprende  che  come  parte  di  un  processo,  che  ha  per risultato  di  comporre  il  corpo  dello  spazio  e  delle  unità che  lo  definiscono,  cioè  del  numero  (2). Per  le  superficie  di  cui  si  compongono  i  corpi  biso- gna intendere  dei  piani,  e  per  le  linee  di  cui  si  com- pongono  le  superficie,  delle  rette.  La  costruzione  del corpo,  di  cui  abbiamo  parlato,  si  applica  particolarmente ai  corpuscoli  elementari;  poiché  Platone  nel  periodo  pi- tagoreggiante  ammette  la  fisica  corpuscoUre,  e  ciascuno di^uesii  corpuscoli  e  un  poliedro  regolare.  Vi  hanno cinque  elementi  corrispondenti   ai  cinque    poliedri  rego- (1)  Quest'indicazione  d'Alessandro  d'Afrodisia,  al  fondo,  non  ci apprende  niente  di  nuovo;  perchè  la  formula  d'Aristotile,  che  il punto  o  unità   h  più  soManza  della  linea,  la  linea  dellasaperhcie  e  la superficie  del  corpo,  significa  precisamente  che  il  punto  o  unità  ò  il principio  da  cui  deriva  la  linea,  la  linea  il  principio  da  cui  deriva  la superficie,  e  questa  il  principio  da  cui  deriva  il  corpo.  L'rn.fcv.or., secondo  Platone,  ha  più  essere  che  il i^osteWar^.  Così  Aristotile  men- ziona  pure  la  proposizione  (evidentemente  dei  Platonici)  che  i  go- neri  sono  più  sostanze  delle  specie  (v.  3/c'M.  Vili.  I.  3)-  In  alcuni dei  luoghi  citati  iMet.  1.  III.    V.  3-4,  1.  V.  VIII,  3;     Aristotile    dà anch'egli  la  dottrina  che  i  principii  deUe  cose  sono  i  numeri  come una  deduzione  dall'opinione  che  le  unità  e,  in  generale,  i  termini del  corpo  sono  sostanze  e  più  sostanze  del  corpo  stesso. (2)  Bisogna  anche  vedere  un'allusione  a  questa  costruzione  del corpo  per  lo  spazio  e  le  unità  nella  domanda  che  Aristotile  rivolge ai  Platonici  :  com'è  che  i  numeri  sono  cause  dell'essere  e  dell  es- senza delle  cose  ?  forse  quali  termini,  come  i  punti  delle  grandezze  r* Met.lari:  il  corpuscolo  della  terra  che  e  un  cubo,  quello  del fuoco  che  ò  UQ  tetraedro,  quello  dell'aria  che  è  un  ot- taedro, quello  deir  acqua  che  è  un  icosaedro,  e  quello dell'etere  che  è  un  dodecaedro  (i).  Nel  Timeo  yerò  Pla- tone non  ammette  ancora  che  quattro  elementi,  ed esclude  esplicitamente  il  quinto,  cioè  il  dodecaedro  (l'e- tere). La  stessa  costruzione  dei  corpi  per  le  superficie,  per le  linee  e  per  i  punti  che  li  limitano  è  attribuita   dagli storici  della  filosofia  (2j  anche  ai  Pitagorici.  E  in  effetto Alessandro  d'Afrodisia  —  per  non  parlare   d'altri  autori meno  degni  di  fede,  p.  e.  Diog.  Laerz.,  i  quali confondono  sistematica  mori  te    le  dottrine  dei   Pitagorici con  quelle  di  Platone- dice  tanto  dei  Pitagorici  quanto di  Platone  eh'  essi  derivano  i  corpi    dalle  superficie,  le superficie  dalie  linee,  e  le  linee  dai  punti  riguardati  come unità,  e  che  è  perciò  che  ammettono  che  i  principii  delle cose  sono  1  numr,ri.  Inoltre,  come  nota  giustamente il  Zeller,  è  a  una  costruzione  pitagorica  del  corpo  simile a  quella  del  Tmeo  che  sembra  alludere  Aristotile,"  quando egli  dice  (Met.  1.  XIV.  III.  14)  che  i  Pitagorici  non  hanno determinato  se  è  dalle  superficie  o  in  qualche  altro  modo che  «i  è  formato  il  primo  corpo  (l'uno).    È  dunque  pro- babile che  nella  sua  costruzione  del'a  grandezza   estesa Platone  Jia  seguito  i  Pitagorici  :  ma  per  attribuire  que- sta drttrina  ai  secondi    non  si  hanno    altrettante    prove che  p«T  att!Ìl)uirÌH  al  primo.  la  quanto  alla  dottrina  che gli  t  Ih. enti  sono  i  poliedri  regolari,  essa  e  dovuta  cer- tamente ai  Pitagorici. Tim,  53  e -57  e, /i> ino m.  981,  Senocrate  i^r.  TOMulIach,  ecc. Zeller  rUos,  dei  Greci,  Ritter Xtor.  della  fUos,  ani..  trad.  frano.,ecc. (3)  Ad  Mei,  1.  I.  t.  43,  1.  e. -  184  - ;i '  j  i «,1 VÌI ^  I lì    a 't'i Dftducendo  il  corpo  dallo  spazio  liuiitito  dalie  unità, Platone  ha  evidentemente  per  iscopo  di  ridurre  la  ma- teria al  semplice  spaz  o  e  di  risolvere  il  reale  nei  numeri  (l). A  questa  deduzione  del  corpo  si  riattacca  la  di4inzione della  forma  e  d-Ha  materia,  e  la  riduzione  delle  Idee alle  sole  forme  delle  cose,  separan  iole  dalla  materia.  NelU nuova  dottrina  di  Platon  ^  le  cose  constano  dunque  di  due elementi  :  l'Idea,  che  rappre-ienta  la  forma,  e  lo  spazio. (1)  Qaesto  concetto,  sviluppato  con  conseguenza,  condurrebbe a  spiegare  con  lo  stesso  processo   con   cui  si   spiega  la    grandezza estesa,  o  con  dei  processi  analoghi,    tutte  le  altre  determinazioni del  reale.  Che  Platone  abbia  fatto  effettivamente  cosi,  sarebbe  ar- rischiato   di  affermarlo.    Tuttavia  alcune   proposizioni    platoniche potrebbero  essere  interpretate  in  questo  senso.  Nel  Timeo  (61c-68d) tutte  le  proprietà  sensibili  dei  corpi  -  salvo,  s'intende,  la  grandezza e  la  figura  —  sembrano  riguardarsi  come  dei  fenomeni   subbiettivi (Però  io  non  oserei  attribuire  recisamente  a  Platone  quest'opinione; perchè  Teofrasto  dice  che  per  le  proposizioni  del  Timeo  ohe  ricon- ducono le  proprietà  sensibili  dei    corpi  alle  impressioni  dei  nostri sensi,  Platone  si  è  messo  in  contraddizione  con  la  sua  propria  dot- trina, che  conservava  a  que4e  proprietà  la  loro  natura  obbiettiva: V.  De  sensH  ef  sms.  60-61).  Nel  Timeo  siesho  poi  e  nelle /<f/f/i  i  fatti mentali  pare  ohe  vengano  identificati  col  movimento.  V.  Lepyi  896e- 898b  (il  pensiero  e  tutti  gli   atti  dello  spirito    sono  dei    movimenti delPanima);  Tim.  37  a-c,  47b-c,89a,  90  d,  ecc.,  Arist.  De  Aniyna  1.  I. III.  U-17  (1'  intelligenza  è  un   movimento    circolare);  Tim,  43  c-d, 67  b  (le  sensazioni  sono  movimenti).  É  l'opinione  dei  più  risoluti  tra i  materialisti    moderni  di cui non mancavano gl’antecedenti nelle  dottrine  dei  Fisici  (v.  Arist.  Met.  1.  IV.  V.  7-8) salvo  che  il movimento,  con  cui  vengono  identificati  i  fenomeni  psichici,  è  at- tribuito da  Platone  alla  sostanza  anima:  ma  questa  differenza  non ha  per  noi  alcuna  importanza,  perchè  Platone  riguarda  la  sostanza anima  come  una  grandezza  estesa.  Se  noi  congiungiamo  queste  due dottrine,  vale  a  dire  la  subbiettività  delle  qualità  sensibili  dei  corpi e  l'identità  delle  operazioni  dello  spirito  col  movimento,  noi  otte- ^i  amo  — supposto   che   queste   dottrine    siano  appartenute   real- che  rappresenta  la  materia  (1).  Ciò  che  importa  sopra- tutto di  notare  per  V  intelligenza  dei  motivi  di  questa dottrina  è  che  sono  propriament(^  le  Idee  che,  in  un  senso stretto,  vengono  identifica "^e  ai  numeri  —  quantunque  Pla- toae  dica  anche,  in  un  senso  meno  rigoroso,  che  le  cose sono  numeri,  perchè  l\lemento  che  si  aggiunge  alle Idei  per  costituire  le  co>e  essendo  lo  spazio,  cioè il  vuoto,  tutto  il  realti  si  risolve  nelle  Ide^,  e  per cons«^guenza  noi  numeri.  Ciò  é  tanto  vero  che  Ari- stotile dà  come  carattere  distintivo  tra  H  dottrina  dei numeri  di  Piatone  e  quella  dei  Pitagorici  che  per  questi le  cose  constano  di  numeri  e  sono  es^e  stesse  numeri, ma  per  quello  i  numeri  sono  oltre  (napoc)  le  cose  o  separati (XtóptoToC  o  Kcx«)pio|iivot)  dalle  cose  A  questa  distinzoone  ne  è  legata  uo'  altra,  la  quale  implica  anch*  easa che  i  nunieri  sono  per  Platone  le  Idee;  cioè  che  i  nu- meri platonici  sono  monadici,  vale  a  dire  composti  di vere  unità,  mentre  le  unità  che  cornpongono  i  numeri pitagorici  hanno  grandezza.  I  numeri  platonici  sono monadici,  cioè  composti  di  unità  incorporee  e  indi  visibili, perchè  le  Idee  costituiscono  la  sola  forma  delle  cose,  e restensione  viene  a  queste  dalfaltro  elemento,  cioè  dallo spazio  :  le  unità  che  compongono  i  numeri  pitagorici hanno  grandezza,  p  *rchè   qu  ;sti   numeri    sono  le  cose mente  a  Platone  —  una  di  que-jte  audaci  concezioni,  dinnanzi  acni questo  filosofo  non  era  solito  d'  indietreggiare  :  cioè  tutto  il  reale ridotto  all'estensione  e  al  movimento,  e  per  conseguenza,  mediante la  costruzione  della  grandezza  estesa  per  lo  spazio  limitato  dalle unità,  risoluto  nel  numero  e  lo  spazio.  V.   Tim.  48-52,  Arist.  Af'it,  1.  I.  VI   7,  Phys,  l.  IV.  II.  2,  5,  eoo. V.  Met.  l.  I.  VIII.  18. (8)  Met.  l.  I.  VI.  4-6,  l.  XIII.  VI.  4,  6-7,  l.  XIU.  VUUMO,  UXIV. III.,  De  Coelo  1.  III.  I.  16. (4)  Met.  l.  XIU.  VI.  7v9. V .li stesse,  i  t^omposti  di  forma  e  materia,  e  da  ciò  Aristo- tile ne  conclude  che  le  loro  unità  sono  gli  elementi  di cui  i  corpi  si  compongono,  e  devono  essere  anche  esse per  conseguenza  estese  e  corporee.  Questa  differenza  fra i  numeri  di  Piatone,  e  queUi  dei  Pitagorici,  cioè  che  i primi  sono  le  pole  forme  delle  cose  e  i  secondi  i  com- posti di  forma  e  di  materia,  spiega  anche  perchè  Ari- '  stotile  non  estende  a  Platone  Tobbiezione,  ch'egli  fa  ri- petutamente ai  Pitagorici,  che  è  impossibile  che  la  gran- dezza estesa  si  componga  di  unità  (1).  Al  numero  se- guente vedremo  un'altra  prova  di  questa proposizione, -  che  sono  le  Idee,  cioè  le  forme,  che  vengono  riguardate propriamente  come  numeri  :  è  la  distinzione  tra  le  Idee delle  grandezze  o  grandezze  ideali  e  le  grandezze  ma- tematiche. Di  questi  due  ordini  di  grandezze  le  prime sono  numeri,  perchè  rappresentano  delle  semplici  forme, le  seconde  no,  perchè  sono  cobtituite  dalle  forme  e  dalla materia  :  per  conseguenza  le  prime  sono  riguardate  come Idee,  ma  le  seconde  (quantunque  siano  anch'esse  degli Universali)  come  entità  intermediarie  tra  le  Idee  e  le cose. La  dottrina  che  le  Idee  rappresentano  le  sole  forme delle  cose  è  evidentemente  in  contradd'zione  coi  princi- .  pii  del  sistema  delle  Idee.  I  termini  di  cui  Platone  si serve  per  d^^signare  Tldea  specie^  genere^  essenza,  natura delle  cose  particolari— o  chVgli  aggiunge  al  nome  por  indi- care che  questo  si  riferisce  alTIdea  — aOxó,  aùxò  xaO'aOxó, 6  Ioti—;  le  prove  con  cui  ne  dimostra  resistenza  che qiuasi  tutte  si  riassumono  in  questa  proposizione:  V  og- getto a  cui  si  riferisce  il  concetto  e  la  conoscenza  gene- rale è  ridea ;  la  relazione  ch'egli  stabilisce  tra  lo  Ideo e  le  cose  che  l'Idea  è  l'uno  nei  molti,  il  comune,  l'u- niversale, l'astratto  (xtópiaxóv) ;  tutti  gli  appetti,  in  una parola,  sotto  cui  può  considerarsi  la  dottrina  delle  Idee, non  sono  che  degli  sviluppi  diversi  di  questo  principio fondamentale:  l' Idea  è  il  concetto  generale  realizzato. Ora  il  concetto  di  una  cosa  non  rappresenta  la  sola  for- ma, ma  la  cosa  stessa,  il  composto  di  forma  e  materia, concepita  d'una  maniera  astratta  e  generale.  Se  a questa  considerazione  ne  aggiungiamo  un'  altra,  cioè che  la  dottrina  di  una  materia  che  deve  aggiungersi  alle Idee  per  costituire  le  cose  non  si  trova  che  nel  Timeo, e  che  questa  dottrina,  pell’identificazione  della  materia con  lo  spazio,  suppone  certamente  la  dottrina  dei  numeri, —  perché  questa  identificazione  non  si  concepirebbe  senza la  costruzione  del  corporale  per  lo  spazio  e  le  u  lità  che lo  limitano  —,  noi  veniamo  naturalmente  a  questa  con- clusione che,  sinché  Platon?  non  ha  oltrepassato  il  sem- plice punto  di  vista  del  sistema  delle  Idee,  l'Idea  ha  do- vuto rappresentare  tanto  la  forma  quanto  la  materia, cioè,  per  servirci  dell'espressione  d'Aristotile,  il  sinolo,  9 che  la  separazione  delle  Idee  dalla  materia  e  la  loro  ri- duzione a  delle  semplici  forme  è  una  modificazione  po- steriore del  sistema  delle  Idee,  sotto  l'influenza  d'un  mo- tivo straniero  all'origine  di  questo  sistema  e  legato  alle De  Coelo  l.  III.  L  16-17,  Met.  l.  XUL  YUl.  9-10, AQUINO (vedasi), Summa, Quaesi, Alcuni  hanno  credu- to che  la  specie  d'un  essere  naturale  è  solamente  la  forma,  e  che  la  materia non  fa  parte  della  specie.  Ma  se  fosse  c«sl,  nelle  definizioni  degli  esseri  natu- rali non  dovrebbe  entrare  la  materia.  Per  conseguenza  bisogna  dire  invece che  la  materia  è  doppia,  cioè  la  comune  e  la  segnata  o  individuale:  la  comune come  la  carne  e  Tosso,  l'individuale  come  questo,  carne  e  queste  ossa. L'intelletto  astrae  dunque  la  specie  dell'essere  naturale  dalla  materia  in- dividuale, ma  non  dalla  materia  comune.  Cosi  astrae  la  specie  dell'uomo da  queste  carni  e  queste  ossa,  che  non  riguardano  la  specie,  ma  sono  part dell'individuo;  ma  non  può  astrarla  dalle  carni  e  dalle  ossa». ^1   s nuove  dottrine  pitagoreggiantì.  Quale  ha  potato  essere questo  motivo  ?  La  risposta  ci  è  suggerita  dal  fatto  che Platone  riconduce  ai  numeri,  non  le  cose  stesse,  imme- diatamente,  ma  le  loro  Idee.  Platone  crede  che  vi  ha qualche  cosa  negli  esseri  che  è  irriduttibile  al  numero, e  gli  sembra  più  facile  d'identificare  ai  numeri  le  forme astratte  dalla  materia,  che  gli  esseri  stessi,  i  composti di  forma  e  di  materia. Nel  Filebo,  che  è  il  primo  passo  di  Platone  verso  il pitagorismo,  e  in  cui  si  trova  il  germe  di  tutte  le  dot- trine pitagoieggianti  posteriori,  si  distinguono  nelle cose  due  elementi  costitutivi,  che  corrispondono  in certo  modo  ai  numeri  ideali  e  alla  materia  voglio  dire, alla  materia  delle  cose.  Il  Tiépag  del  Filebo  non  sono  i numeri,  ma  d'5i  rapporti  numerici  :  numero  rapporto  a numero  e  misura  rappoi^to  a  misura  (25  a-b).  Noi  vediamo dunque  che  Platone  non  arriva  alla  dottrina  pitagorica che  gli  esseri  sono  numeri  che  a  traverso  IMdea  che  la natura  degli  esseri  è  costituita  da  rapporti  numerici. Nel  Filebo,  il  Tiépa^  e  TàTistpov  non  sono  ancora  identifi- cati alla  forma  e  alla  materia  :  tuttavia  il  grave  e  Tacuto, il  caldo  e  il  freddo,  ecc.,  che  determinati  da  certi  rap' porti  numerici,  costituiscono  Tarmonia,  le  stagioni,  ecc., rappresentano  qualche  cosa  come  la  materia,  e  i  rap- porii  numerici  che  li  determinano,  qualche  cosa  come  la forma.  La  mate  ria- spazio  del  Timeo  e  degli  àypacpa  eóy- liaxa  discende  direttamente  dall'àTisipov  del  Filebo:  è,  come questo,  relemento  delle  cose  irriduttibile  al  numero.  So- lamente, nel  Filebo  quest'elemento  è  più  comprensivo, rappresenta  un  più  gran  numero  di  determinazioni  delle (1)  V.  questo  Supplem.  n.  IV. V.  Supplem.  B  parte  I.  n.  Vili,  carte  97-loo. cose;  nel  Timeo  e  negli  «ypa^a  8<5Y[iaTa  è  ridotto  a  un minimum:  la  differenza  tra  i  due  concetti  misura  il  pro- gresso di  Platone  verso  la  dottrina  pitagorica  dei  nu- meri; ma  Platone  non  fece  mai  l'ultimo  passo,  quello d'identificare  puramente  e  semplicemente*,  come  i  Pita- gorici, le  cose  coi  num  'ri. Sembra  dalle   obbiezioni  di  Aristotile    che  ciò  che  si trovava  di  più    strano  nella  dottrina dei  Pitagorici   era i-he  l'estensione  e    la  corporeità   si  facessero    cons  stere nel  numero  (1).    Platone,  da    un  lato,  evitava    in  parte questa  difficoltà,  facendo  d^^lla  materia  un  elemento  delle cose  distinto  dai  numeri;  e  dall'altro  lato,  riconducendo la  materia  allo  spazio,  risolveva,  come  i  Pitagorici,  tutto il  reale  nei  numeri.  Separando  la  materia  dai    numeri, questi    non    venivano  a  rappresentare    che  le    semplici forme.  Ma  ciò  che  ha  dovuto  essere  il  motivo  preponde- rante per  ricondurre  ai  numeri  le  forme  delle  cose  piut- tosto che  le  cose  stesse,   è  che  la  forma  sembra  potersi ridurre  ai  rapporti  numerici  tra  i  sustrati  materiali.  Aristotile infatti,  nella  sua  polemica  contro  la  dottrina  delle Idee,  confuta  il  concetto  che    le  Idee  sono  numeri    per- ch''^    lo    forme   delle    c^s^.    consistono    nei    rapporti    nu- merici delle  parti  componenti  (2);  e  noi    possiamo,    per conseguenza,  fare  rimont  ire  questo  concetto  allo  stesso Platone.  Cerramente  dire  che  le  forme  delle   cose  consi- stono in  rapporti  numerici  non  equivale  a  dire  che  que- ste forme  sono  numeri,    cioè  che  tal  forma  è  il  numero due,  tal  altra  il   numero  tre,  ecc.:  ma  Platone    trovava nella  prima  di    queste  due   proposizioni  un'  idea   media (i)  V.  Arist.  De  Coelo  1.  HI.  1.  16-17,  Met.  1.  l.    Vili.  16,  1.  m.  IV. 29,  1.  Xlll.  Vili.  9-lo.  1.  XIV.  111.  4. (2)  Met.  L  L  IX.  13-14,  1.  XIV.  V.  6-7. (, /!ì per  passare  aJla  seconda.  Questo  passaggio,  fondato  sulla sostituzione  tra  due  termini  non  equivalenti  ma  sempli- cemente analoghi,  cioè  i  due  concetti  di  rapporti  nu- merici e  di  numeri,  era  senza  dubbio  un  sofisma  assai evidente  :  ma  non  era  che  con  dei  processi  cosi  poco legittimi  che  poteva  arrivarsi  al  risultato  che  le  cose sono  numeri. Le  considerazioni  precedenti  spfegano  perchè  non sono  le  cose  stesse,  ma  le  semplici  forme  delle  cose,  che vengono  ridotte  ai  numeri  :  ma  perchè  le  Idee  vengono ridotte  alle  semplici  forme  delle  cose?  Evidentemente  per identificarle  ai  numeri.  Come  spiegheremo  in  seguito, il  risultato  a  cui  tendono  le  speculazioni  pitagoreggianti di  Platone  è  Tidentificazione  delle  sue  proprie  dottrine  con quelle  della  filosofia  pitagorica.  Per  ottenere  questo  ri- sultato si  mettono  in  opera  al  tempo  stesso  due  processi: Tuno  è  Tìntroduzione  nel  proprio  sistema  dei  concetti più  caratteristici  del  sistema  pitagorico,  e  Taltro  un'in- terpretazione forzata  delle  formule  del  sistema  pitagorico per  ritrovarvi  i  concetti  più  caratteriFtici  del  proprio  si- stema. Ora,  da  una  parte,  la  proposizione  generale  della filosofia  pitagorica  che  gli  esperi  Fono  numeri,  e  le  pro- posizioni particolari  che  ne  fanno  l'applicazione,  cioè  che Tuomo  ò  un  tal  numero,  un  tal  altro  numero  il  cavallo,  ecc., erano  troppo  caratteristiche,  perchè  Platone  potesse  non accogliere  nel  suo  proprio  sistema  la  stessa  proposizione generale  e  delle  proposizioni  particolari,  se  non  identi- che, analoghe.  Queste  proposiz  oni,  riferite  agli  esseri sensibili,  non  sono  per  Platone  rigorosamente  vere,  per- chè egli  vede  propriamente  nei  numeri,  non  le  cose stesse,  ma  le  forme  delle  cose.  Ma  nel  sistema  platonico esse  non  devono  riferirsi  agli  esseri  sensibili,  ma  alle Idee;  perchè  gli  esseri  sono  per  Platone  le  Idee,   e  una proposizione  che  parla  dell'uomo,  del  cavallo,  ecc.  inge- neltile,  ha  per  oggetto  Tldea  deiruòmo,  del  cavallo – Grice, ‘horseness’,  ecc.  ' Cosi,  riducendole  Idee  a  delle  semplici  forme  — che  ' sono  del  resto  il  solo  reale,  perchè  la  materia  non  è  che lo  spazio  —  Platone  ottiene,  da  una  parte,  di  far  entrare  ' nel  suo  proprio  sistema  le  proposizioni  pitagoriche  rela- tive alla  identificazione  delle  cose  coi  numeri.  Dall'altra parte,  Tidentificazione  tra  le  Idee  e  i  numeri  è  un  mezzo indispensabile  per  ricondurre  le  formule  pitagoriche  ai concetti  proprii  del  sistema  delle  Idee.  Attribuendo,  co- m'egli fa  —  è  un  punto  che  dimostreremo  in  seguito —  - agli  antichi  filosofi  ptagoricì  la  dottrina  delle  Idee,  Pla- tone si  fonda  naturalmente  sull'analogia  tra  questa  dot- trina e  le  dottrine  pitagoriche.  Quest'analogia,  come  ab- biamo osservato,  è  doppia  :  primo,  i  numeri  e  le  altre entità  dei  Pitagorici  sono  delle  astrazioni  realizzate  come le  Idee  p'atoniche;  secondo,  i  numeri  piragoriqi  rappre- sentano, non  la  causa  materiale,  o  la  motrice,  come  i principii.  degli  altri  filosofi  anteriori  a  Platone,  ma,  come e  Idee  platoniche,  la  specie  e  il  concetto.  È  dunque nella  dottrina  d^^i  numeri  che  Platone  crede  di  scoprire la  dottrina  delle  Idee  :  ma  se  le  Idee  non  fossero  anche per  lui  identiche  ai  numeri,  questa  pretesa  scoverta  non raggiungerebbe  il  suo  scopo,  che  è  d'identificare  la  sua propria  filosofia  con  quella  dei  Pitagorici,  ©piuttosto  dei loro  antichi  predecessori. Il  legame  della  dottrina  della  materia,  come  un  se- condo elemento  delle  cose  distinto  e  separato  dalle  Idee, con  la  dottrina  dei  numeri  è  dimostrato,  conie  ab- biamo detto,  dalla  identificazione  della  materia  con  lo spazio,  perchè  questa  suppone  la  costruzione  del  corpo per  lo  spazio  e  i  punti  che  lo  limitano,  concetto  che  evi- dentemente non    poteva   nascere  che   al  punto  di  vista della  diottrlae  pitagoriche  sui  nnmeFi  (l).  A  ciò^  si  potrà' obbiettare  che  Platone  ha  potuto,  nel  periodo  aaleriore a  quello  in  cui  seguiva  le  dottrine  pitagoriche  sui  nu- meri, atnnaettere  la  si'parazione  delle  Idee  dalla  materia e  questa  come  un  principio  distinto,  senza  ancora  ricon- durla allo  spazio.  Ma  noi  non  troviamo  né  negli  scritti di  Platone  né  in  quelli  d'Aristotile  alcuna  traccia  di  una dottrina  della  materia  come  principio  distinto  diversa  da quella  del  Timeo.  Dalla  lettura  d'  Aristotile  risulta  ansi chiaramente  l'impressione  eh'  egli  non  conosceva  altra U)  Per  altro,  che  la  costruzione  della  grandezza  per  i  limiti  e  lo  spa* zìo  racchiuso   appartenga  alle  ultime  speculazioni  di  Platone,  é  provato dalle  contraddizioni  di  questa  dotttrina   coi  princìpii  della  sua  fisica.  La costruzione  piato  nica  non  potrebbe  applicarsi   ad  altre  superficie  che  t dei  piani  né  ad  altre  linee  che  a  delle  rette,  e  per  conseguenza  essa  sup-- pone  la  dottrina  dei  corpuscoli  poliedrici.    Ha  questa   dottrina  richiede necessariamente  Tainroissione  del  vuoto,  perchè,  come  osserva  Aristotile {De  Coelo)  1.  111.  Vili.  1),  due  solidi  solamente,  oioè  il  cul>o  e  la  piramide, potrebbero  riempire  ccmpletamente  lo  spazio.  Intanto  Platone  nega  l'esi- stenza del  vuoto  (v.  7im,  sSa-c,  6ob-c.  79b-80c,  Arist.  Degen,  1.1.  Vili. 0,  De  Coelo  1.  IH.  Vili. ;  e  questo  é  uno  dei  punti    fondamentali  della sua  fisica,  come  lo  mostra  sovratutto  la  teoria  dell'  impulsione  circolare v,  7im.  60b-  e  e  ì9b-$oc),  che  ha  in  questa   fisica  un'importanza  capi- (tale,  e  che  Platone   (come  gli  altri  filosofi  antichi    che  negano  il  vuoto) ammettere  per   ispiegare  la   possibilità  del    movimento   senza    il  vuoto. Questa  incoerenza  dimostra  che    Platone  non  cominciò  ad    ammettere  la dottrina  dei  corpi  geometrici,  e,  per  con8eguen?a,  la  costruzione  del  cor- porale con  cui  essa  è  legata,  che  dopo  che  le  sue  idee  generali  sulla  fisica  si erano  già  fissate. Un'altra  incoerenza  non  meno  grave  è  la  coesistenza  nel  Timeo  della teoria  dei  quattro  elementi  con  quella  dei  corpuscoli  geometrici  (la  qnaie  aup- pone  che  vi  siano  altrettanti  elementi  che  poliedri  regolari)  Più  tardi Platone  è  più  conseguente,  e  ammette  coi  Pitagorici  un  quinto  elemento. Il  carattere  provvisorio  della  dottrina  del  Timeo  prova  che  la  costruzione del  corpo  dallo  spazio  e  i  plani  e,  quindi,  la  dottrina  della  materia-spazia non  possono  datare  da  un'epoca  molto  anteriore  a  quella  in  cui  fu  scritto questo  dialogo,  nel  quale  tutti  i  critici  si  accordano  a  vedere  una  delle uUrme  composizioni  di  Platone. t  »  ti», forma  d€llia^  doétvina  ptatoaioa  della  materia -^beiv  intesa della^  materia  come  entità  sussistente  per  se  stessa  e distinta  realmente  dalla  forma che  quella  che  é  stata  espo- sta nel  Timeo  e  in  cui  essa  viene  id(  ntiflcata  allo  spa- zio (i).  Inoltre  una  vera  materia— cioè  una  materia  cor- In  De  gen,  et  corr,  1.  Ili  e.  I,  stabilendo  il  principio  che  la  ma- teria è  inseparabile  dalle  contrarietà  (il  caldo  e  il  freddo,  il  secco  e  l'u- mido) e  non  vi  ha  una  materia  X^P  dagli  elementi,  parla  delle  dot- trine opposte  a  questo  principio,  e  tutto  ciò  che  dice  di  Platone  si  rife- risce alla  descrizione  che  vi  ha  nel  Timeo della  materia  come massa  infbrme,  prima  che  essa  venga  ricondotta  allo  spasio Ciò  poi  che è  scritto  nel  Timeo  non  ha  niente  di  definito;  poiché,  né  si  dice  chiara- ramente  se  quello  che  riceve  tutto  X^P^!d^^^  dagli  elementi,  né  si  la alcun  uso  di  alcun  principio  tale,  quantunque  prima  si  sia  detto  che  vi ha  qualche  cosa  che  serve  di  sustrato  agli  elementi  come  Toro  agli  og- getti aurei  »).  Siccome  questa  rappresentazione  della  materia  é  in  con- raddiiione  con  la  sna  identificaaione  allo  spazio,  Aristotile  crede  di  ve- dervi un  accenno  a  un  concetto  distinto  della  materia,  in  cui  essa  ver- rebbe riguardata  come  un  sustrato  reale  e  non  come  un  semplice  spazio vuoto  (sustrato  che,  conformemente  alle  dottrine  esposte  nel  Timeo,  do- vrebbe essere  yjtùp^Qià^è  dagli  elementi,  ma  che  Platone   non  determina come  tale,  poiché  egli  invece  non  riconosce  altra  materia  X^P*-^*^^  che lo  spazio).  Questo    vago    acct-ndo    del  Timeo   é  tutto  ciò   che  Aristotile trova  nei  concetti  platonici  di  relativo  a  una  materia  X^^^Q'^'h   hen inteso,  a  una  materia  y(tùp\.Q'ZÌ\  concepita  come  alcun  che  di  reale  e  non come  spazio  vuoto.  In  Phys.  1.  IV.  II.  2  dice: Perciò  (perché  Io  spazio pare  l' intervallo  della  grandezza)  Platone  dice  nel  Timeo  che  la  materia e  lo  spazio  sono  lo  stesso  :  infatti  il  partecipante  e  lo  spazio  sono  una sola  e  stessa  cosa. Quantunque  ivi  e  in  quelli  che  si  dicono  dogmi  non scritti  chiami  il  partecipante  diversamente,  pure  egli  stabiU  che  esso  è  il Fuogo  e  lo  spàzio  ».  E  poi: Platone  avrebbe  dovuto  dire perchè  le  Idee  e  i  numeri  non  sono  nello  spazio,  se  il  partecipante  é  lo  spazio, sia  che  il  partecipante  sia  il  grande  e  piccolo,  sia  che  esso  sia  la  materia- come  scrisse  nel  Timeo.  Aristotile  non  conosce  dunque  altre  dottrine  di Platone  sulla  materia,  quale  principio  distinto  dalle  Idee  e  partecipante ad  esse,  che  quella  del  Timeo  ìì  quella  dei»li  (X^Pa^a  5ÓY|xaxa  (la  quale f. i; rispondente  ai  coneetto  ordinario  della  corporeità   e^   • parata  dalle  Idee  sarebbe  inconcepibile  nel  sistema  pla- tonico. L'essere  per  Platone   sono  le  Idee  ;   quindi    egli non  avrebbe  potuto  ammettere    alcnn  che  di    reale  che non  si  risolvesse  in  Idee. Nel  Timeo  può  ancora   chia- mare le  Idee  l'essere,  quantunque  con  esse  coesista  nelle cose  un  altro  elemento,  perchè  quest'altro  elemento  non  è che  lo  spazio  vuoto.  Tutto  nel  sistema  di  Platone  deve  essere ricondotto  a  dei  concetti  realizzati  :  nel  mondo  delle  entità platoniche  un  principio  che  non  fosse  un  concetto  realizzato sarebbe  cosi  strano,  come  lo  sarebbe  un  concetto  realizzato in  mezzo  agli  esseri  del  nostro  mondo,  di  noi  che  non  am- mettiamo  che    delle  esistenze    concrete.   La  materia  spazio  era  conciliabile  col  sistema  dei  concetti  realizzati, non  solo  perchè  lo  spazio  non  è  niente  di  reale,  ma  an- che per  un  altra  ragione:  è  che    lo  Spazio  può    riguar- darsi anch'esso  come  un  concetto  realizzato.  Trattandosi dello  Spaz'o,  l' Idea,  cioè  il  concetto  realizzato,  non  ai, distingue  dalla  cosa   stessa.  L' Idea  è  l'  uno   nei  molti, vale  a  dire  è  ciò  che  vi  ha  di  comune  in  tutti   i  parti- colari che    cadono  sotto  uno    stesso concetto   generale. Per  conseguenza  là  dove  non  vi    hanno  molti,  là  dove un  concetto  non  si  riferisce  che  ad  un  solo  particolare, la  cosa  e  l'Idea,  l'individuo  e  la  specie,  si  confondono. Ciò  non  vuol  dire  che,  se  vi  fossero   Idee  d^gli   oggetti concreti  unici  nella  loro  specie,  quali  il  sole  o  la  t  rra- «.  dovrebbero  esservene,  secondo  la  definizione  dell'Idea: la  causa    esemplare  di  ciò  che  vi  ha  di  costante  nella natura   le  Idee  di  questi  oggetti  non   si  distmgue- non   si  distingue  dalla  prima,  clie  perchè  nel  Timeo  la  materia  non  è  ri- condotta al  Grande  e  Piccolo).  V.  Proclo  in  Parm.  V.  133- il' rebbero  dagli  oggetti  stessi.  Questi  essendo  sottopósti' alla  BUccessìoDe  e  al  cangiamento,  il  molti  è  in  essi  rap- preFentato  dalla  moltiplicità  dei  loro  stati  successivi; e  Tuno  nei  molti,  cioè  Tldea,  sarebbe  per  essi  ciò  che vi  ha  d'identico  in  questi  stati  successivi.  Ma  nello  Spazio non  vi  ha  né  successione  né  cangiamento  :  per  con- seguenza siccome  non  vi  ha  che  un  oggetto  unico  che corrisponda  al  concetto  dello  Spazio  —vale  a  d're  dello spazio  infinito,  di  cui  tutti  quelli  che  in  un  altro  senso del  termine  chiamiamo  spazi  sono  delle  parti— cosi  la Idea  dello  Spi  zio  e  lo  Spazio  non  fanno  che  una  coda sola  (1).  Perciò  Platone,  quantunque  dica  dello  Spazio ch'esso  è  l*  oggetto  di  uà  concetto  spurio  perchè  un concetto,  nel  senso  stretto  del  termine,  è  la  rappresenta- zione deir  uno  nei  molti   pare  lo  chiama  elòoQ  e Yévo^.  Ma  trattandosi  della  matera  voglio  dire  della vera  materia,  Tldea,  ci'^è  il  concetto  realizzato,  e  la cosa  sarebbero  nrcessaiìamento  distinte.  Ora  quale  sh- rebbe,  neiriprtosi  di  una  dottrina  della  materia  diversa dallo  spazio,  la  materia  che  Platone  avrebbe  riguardato come  un  principio  distinto  dalle  Idee  e  ch^  bisogna  ag- giungere ad  esse  per  costituire  le  c^se?  La  materia  reale  Si  potrebbe  dire  che  l'Idea  dello  spazio  e  lo  spazio  differirebbero in  quanto  la  prima  sai  ebbe,  come  le  altre  Idee,  al  di  fuori  del  ttiiipo.  Ma se  si  fa  dell'astrazione  spazio  un'entità,  non  si  è  obbligati  quando  si  pensa che  vi  hanno  delle  cose  fuori  del  tt-mpo-ad  ammettere  che  qu«st*entilà è  nel  tempo;  né  Platone  dice  mai  che  lo  spazio  di  cui  egli  parla  nel  2i- meo,  considerato  in  se  stesso  (aùxò  xaG'aOxÓ),  sia  sottoposto  alla  con- dizione del  tempo,  anzi  implicitamente  lo  esclude,  quando  fa  del  tempo una  cosa  generata  e  dice  che  Vera  e  il  satà  non  devono  attribuirsi  ch« alla  genesi  e  al  sensibile  (v.  Tim,  37  d-38  b).  7im,  49  a,  5I  a. 48  e,  5O  e,  52  a. V,' il t  ;   '  t i  f 1, n 0  rldea  deUa  maieria?  Non  avrebbe  potuto  essere  la malfria  reale,  perchè  tutto  nel  sistema  piato  qìco  deve ridursi  ad  Idee,  a  concetti  realizzati,  e  per  conseguenza egli  avrebbe  dovuto  ammettere  un  Idea,  un  concetto  rea- lizzato, anche  per  questa  materia,  e  allora  il  principio da  cui  e  dalle  Idee  le  cose  verrebbero,  sarebbe,  non  la materia reale,  ma  Tldea  della  materia.  Ma  questo  prin- cipio non  ha  potuto  essere  nemmeno  Tldea  della  materia, perchè  è  evidente  che  il  principio  materiale  è  per Platone  un'entità  astratta  si,  ma  non  generale  (1).  Se tosse  un'entità  generale,  non  si  identificherebbe  con  lo spazio.  Platone  riguarda  lo  spazio  come  identico,  non  al concetto  generale  deirestens'one  corporea  realizzato,  ma airestensione  reale  dei  còrpi  individuali. Questo  carattere  che  distingue  la  materia  delle  cose dalle  altre  astrazioni  realizzate  del  platonismo,  di  non essere  cioè  un'entità  generale,  fa  che  essa  rappresenta, in  questo  sistema^  il  principium  individuationis. Non vi  ha  per  noi  niente  di  più  vano  che  le  discussioni  de- gli scolastici  sul  principio  d' individuazione.  È  che  noi siamo  nominalisti,  e  la  ricerca  del  principio,  cioè  della causa,  deirindividuazione  sapponf*^  se  essa  ha  un  senso, che  Tessere  sia  dapprima  generale,  e  poi  s'individualizzi in  virtù  di  questo  principio.  La  quist'one  tanto  agitata dagli  scolastici  era  un  legato  del  platonismo.  La  cosa individuale  è  costituita  sf  condo  Platone  da  un  elemento che  essa  ha  in  comune  con  altre  cos^,  cioè  l'Idea,  e  da (1)  V.  7im.  48-52  e  Arist.  Afei.  1.  1.  VI.  7;  e  cfr.  i  luoghi  d'Arist. (Mei  l  111.  IV.  6,  8,  1.  XI.  11.  lo,  1.  Xll.  V.  3,  ecc.)  in  cui  egli  riguarda, nel  sistema  platonico,  la  forma  come  equivalente  al  generale,  e  il  sinolo^ cioè  il  composto  della  forma  e  della  materia,  come  equivalente  all'indi- viduale— ciò  che  non  farebbe,  se  la  materia  fosse  anch'essa  un'entità  ge« nerale  come  U  forma. un  elemento  che  le  è  proprio  e  incomunicabile  con  altre co^e,  cioè  la  materia  perchè  la  materia  di  un  corpo, vale  a  dire  lo  spazio  che  esso  occupa,  è  necessariamente dist  nta  dalla  materia  di  tutti  gli  altri  corp%  e  per  tutte queste  materie  individuali,  cioè  per  tutte  queste  porzioni di  materia  o  di  spwz'o,  non  vi  ha  un  che  di  comune  a cui  rsse  si  riducano,  lo  spazio  o  la  materia  non  risolvendosi per  Platone,  come  le  altre  cose,  in  un'  entità universale:  ne  segue  che  la  materia  spazio  è  nel  si- stema platouico  il  principio  alle  cose  dell'  essere,  come dicevano  gli  scolastici,  incomunicabili,  cioè  dell'essere degl'iDdividui  e  non  delle  ent  tà  comuni.  Non  è  dunque da  mettere  in  quistione  ch'^  la  mat^  ria  funga,  nel  si stema  platonico,  da  principium  individìmtionis  :  la  qui- stione che  potrebbe  farsi  sarebbe  al  più  se  Platone  l'ha e.-5plieitameute  riguardata  come  tale,  cioè  ^e  egli  si  è proposto  effettivamente  il  problema  della  causa  dell'  in- dividualità, dando  a  questo  problema  l'  unica  soluzione per  lui  possibile,  e  che  era  contenuta  implicitamente  nella dottrina  dei  due  «  lementi,  l'uno  generale  e  l'altro  iudi- \iduale,  di  cui  egli  componeva  le  cose.  Ora  a  questa quintioue  dobbiamo  rispondere  affermativamente.  Noi  ab- biamo visto  infatti  che,  nel  Timeo,  la  ragione  per  cui l'immagine  dell'Idea  esiste  nello  spazio  è  che  essa  «  deve esistere  in  qualche  altra  cosa,  attaccandosi  in  qua'che maniera  all'tsistenza,  o  non  essere  assolutamente  nieu" t^»;  e  che,  nel 'i  spc  sizioue  d'Aristotile,  la  materia  è la  chusa  deila  moltipLcità  degli  esseri.  Si  noti  che Aristotile  dà  anche  la  materia  come  la  causa  della  mol- Supplem.  B.  parte  11.  n.  11.  sulla  fine. V.  questo  stesso  Supplemento,  carta   j I  II li tiplicità  delle  unUà,  e  che,  discutendo  il  sistema  di Speusippo,  suppone  che  sia  una  necessità  per  questo filosofo  di  spiegare,  per  il  principio  materiale,  la  molti- tiplicità,  tanto  delle  unità  quanto  dei  punti  (ohe  per Speusippo  differiscono  dalle  unità):  ciò  prova  che  la  ma- teria non  é  solamente  la  causa  per  cui  Tessere  primitivo si  scinde  In  una  moltitudine  di  essenze  generali,  ma  an- che per  cui  ciascun'  essenza  generale  si  scinde  in  una moltitudine  di  esistenze  particolari. La  soluzione  che  Platone  dava  al  problema  dell'  in- dividuazione era  la  stessa  che  poi  si  presentava  imme- diatamente agli  scolastici,  quando  si  proposero  la  prima volta  lo  stesso  problema.  Il  fatto  non  è  casuale,  perchè il  realismo  e  il  semi-realismo  del    medio  evo  si   riattac- cano al  platonismo,  sia  direttamente  sia  per  i  vestigi  dei concetti  platonici  che  si  trovano  in  Aristotile.  La  dot- trina tomista  sul  principio  d' individuazione  era  una  ri produzione  della  platonica,    perchè  essa   si  trovava  in germe  in  Aristotile,  e  questo  germe  era  uscito  da  Platone. Aristotile  adottò,  come  si  sa,  la  dottrina  platonica  che  le cose  constano  di  due  elementi,  la  forma  e  la   materia, salvo che  questi   due  elementi   sono  per  Platone   degli esseri reali  e  realmente  distinti,   mentre  per    Aristotile non  sono  che  delle    astrazioni  mentali   e  non  si  distin- guono che    logicamente.  Aristotile   riguarda  anch'  egli, all'esempio  di  Platone,  la  forma  (sl5oc)  come  l'oggetto  del concetto  generale  della  cosa,  e  perciò  come  l'elemento  co- mune a  tiltta  la  specie,  e  la  materia  come  l'elemento  proprio 0  differenziale  dell'individuo  -  in  altri  termini  qur  sta  ma- (1)  Mei.  1.  XIV.  11.  11. (2)  AUt.  1.  XUl.  IX.  6-12. Cfr,  e.  vn.  pag.  46-53. •Ni ter'a,  che  è  l'uno  dei  due  elementi  in  cui  lo  spirito  de- co'nponelacosa,  none  per  lui  lamateria  comune,  come  l'al- t'O  elemento,  la  forma,  è  la  forma  comune,  ma  è  la  materia, come  dice  S.  Tommaso,  segnata  o  individuale:  per conseguenza  l'opposizione  tra  l'slSog  in  se  stesso  e  il  si- nodo, cioè  il  composto  dell'elSo^  e  della  materia,  equivale per  Aristotile  all'opposizione  tra  il  generale  e  l'individuale.  La  distinzione  della  forma  e  della  materia, per  Aristotile,  non  è,  come  abbiamo  detto,  che  logica  : tuttavia  (come  può  vedersi  in  moiri  dei  luoghi  indicati nella  nota  precedente)  egli  esprime  spesso  questa  distin- zione in  termini  più  appropriati  al  realismo  platonico che  al  proprio  concettufllismo,  e,  a  prendere  certi  luo- ghi isolatamente,  sì  direbbe  che  le  sostanze  seconde  è cosi  che  vengono  chiamate  la  forma  e  la  materia— siano per  Aristotile  delle  sostanze  nel  senso  stretto  della  pa- rola, come  la  forme  e  la  materia  platoniche  (1).  Eviden- temente Aristotile  deve  a  Platone,  non  solo  la  distinzione tra  tltoQ  e  materia,  con  le  due  funzioni  diverse  di  ele- mento jsenerale  e  di  elemento  individuale  assegnate  al- l'uno e  all'alira,  ma  anche  la  forma  troppo  realista  in cui  egli  prebenia  questa  distinzione.  È  alla  scuola  di Platone  che  Aristotile  ha  appreso  a  trattare  delle  sem- plici astrazioni  come  degli  esseri  reali  :  inoltre  i  suoi scritti  sono  indirizzati  a  uu  pubblico    che  è  stato  anche V.  AU/.  l.  ili  1.  lo,  IV.  3,  6,  I.  V.  VI.  l5,  I.  VII.  Vili.  I-4,  8, XV.  1-2,  i.  Vili.  i.  6,  i.  X.  lil.  3,  5.  IX.  2-3,  I.  Xi.  II.  lo,  i.  Xil.  ili.  8-4, i.  XII.  vili.  12,  Ve  Coeio  I.  l.  IX.  2-5,  ecc.  Souo  notevoli  sovratutto  i <hie  ul  imi  luoghi  :  l'ultimo  in  T  occasione  della  quistione  sul  principio d'individuazione;  il  penultimo  è  più  vicino  ancora  di  questo  e  di  qualsiasi altro  luogo  che  io  ricordi  in  Aristotile,  alla  dottrina  di  S.  Tommaso. Clr.  e.  VII.  pag.  47  e  seg. -192  - :i esso  alla  scuola  di  Platone,  ed  egli  deve  presentare  i  suoi concetti  nella  forma  più  prontamente  intelligibile  e  più accettabile  per  il  pubblico  per  cui  scrive  (I).  Gli  scola- «tici,  anche  quelli  che  non  sono  francamente  realisti,  rin- cariscono  su  questa  tendenza  d'Aristotile  a  trattare  dei meri  concetti  come  realtà  :  di  là  le  discussioni  sul  prin- cipio d' individuazione.  Ora,  la  forma  rappresentando, come  abbiamo  detto,  per  Aristotile l’elemento  generico, e  la  materia  Telemento  proprio  e  differenziale  dell' indi- viduo, gl'interpreti  più  fedeli  d'Aristotile  non  potevano Érovare  il  principio  d'individuazione  che  nella  materia. Può  parere  singolare  che  i  veri  realisti,  cioè  Duns Scoto e  i  suoi,  respingessero  questa  soluzione,  quantunque  la più  vicina  a  quella  di  Platone,  al  quale  essi  erano  i  più vicini.  Ma  non  vi  ha  in  ciò  niente  di  sorprendente,  per- chè una  materia  che  non  venga  ricondotta  a  un'  entità universale,  è,  come  osservammo,  in  contradizione  coi postulati  fondamentali  del  sistema  realista.  Ora  se  si  fa anche  della  materia  un'entità  universale,  essa  finisce  di essere  l'elemento  proprio  e  incomunicabile  dell'individuo, e  diviene  invece,  come  la  riguardavano  gli  scotisti,  ciò che  vi  ha  di  più  elevato  nella  scala  della  generalità. Prima  di  passare  all'argomento  del  numero  succes- sivo, aggiungiamo  qualche  osservazione  sui  rapporti  della dottrina  della  materia  delle  cose  con  le  dottrine  dei  Pi- tagorici. Questa  dottrina,  a  parte  la  costruzione  della grandezza  estesa  per  lo  spazio  e  i  limiti,  che  non  po- tremmo attribuire  con  sicurezza  ai  Pitagorici,  poteva riattaccarsi  ai  loro  concetti  sovrututto  nei  punti  seguenti: Primo,  tanto  Platone  quanto  i  Pitagorici riconducono ; f 4 lo  spazio  air  «jieipov.  Secondo,  la  costruzione  del  corpo pf>r  lo  spazio  e  i  limiti,  e  anch^,  com«  abb'a  no  osser- vato, la  decomposizione  dellp.  cose  nei  due  elementi  for- ma e  materia  potevano  mettersi  in  rapporto  con  la  dot- trina pitagorica  che  le  cose  constano  del  Tispas  e  dello «Tistpov.  In  fine,  in  certe  proposizioni  dei  Pitagorici  il concetto  della  materia  sembra  confuso  con  quello  dello spazio  (1). IH.  Le  enti  tu  mateniatìehe Le  entità  matematiche  sono  <^li  oggetti  delle  scienze matematiche  (2),  in  altri  termini  i  concetti,  su  cui  vol- gono queste  scienze,  realizzati.  Per  sci^^nze  ipatematiche bisogna  intendere  le  matematiche  pure,  cioè  l'aritmetica e  la  geometria,  e  per  entità  matematiche  quindi  i  nu- meri e  le  grandezze  geometriche  (le  figure)  (3).  In  ef- fetto Aristotile  non  parla  mai  di  altre  entità  matemati- che (4):  di  più  egli  escludo  che  Platone  ne  abbia  am- messo delle  altre,  quando  gli  rimprovera  come  un'  in- conseguenza di  non  aver  supposto  delle  entità  simili, come  per  Taritmctica  e  la  geometria,  anche  per  l'astro- (1)  Gfr.  oap.  Vn.  pag.  52. a)  V.  Arist.  Phys.  U  IV.  VI.  7,  (ofr.  l.  Ul.  IV,  2)  e  Stob.  1.  WO. (1)  V.  i  l.  indicati  nella    nota  precedente  e  Zeller  FU.  dfd  Greci pag.  353,  382,  404-406. (2)  V.  Met.    1.  I.  IX.  16,    1.  IH.  II.  15,    l.  VI,  I.   5,    l.  XI.  I.  8. 1.  XIII.  II.  5-9,  1.  XIII.  Ili,  I.  XIII.  VI.  3,  1.  XIV.  III.  3-4.  ecc. (3)  V.  Met,   1.  III.  I.  15  (ofr.    1.  XIII.  I.  4  e  II),    1.  III.   II.  20 l.  III.  III.  11,  eoo. (4)  V.  MeL  I.  III.  I.  15,  1.  XIII.  I.  2,  1.  XIII.  II,  ITI,  VI.  6-8, IX.  2-14,  1.  XIV.  II.  9,  III,  4,  8-12,  eoo.  I "^1  '41 nomia,  la  prospettiva,  V  armonia,  in  nna  parola    per  le matematiche    applicate  (1). Le  entità  matematiche  non  sono  che  degli  universali sostantificati  come  tntto  le  altre  entità  della  metafisica  pla- tonica (2)  :   ma  Platone  le  distingue  dalle  Idee,  perchè  le Idee,  nel  periodo  pitagoreggiante,  sono  i  numeri  ideali,  ed egli  non  riconduce  i  concetti  matematici  a  dei  numeri  ideali. Il  carattere  generale  per  cui  le  entità  matematiche  si distinguono    dalle  Idee,  è   che  ve  ne  sono molte  della stessa  specie  GO-  L'Unità,  li  Diade,  la  Triade,  ecc.  idea- le  è  una  sola;  ma  vi  ha  un*  infinità  di  unità,  di  diadi, di  triadi,  ecc.  matematiche Ciò  vuol  dire    evidente- mente che  nei  numeri  in  cui  1'  uno,  il  due,  il  tre,  ecc. sono    contenuti  più    volte,  vi  hanno    altrettante   unità, diadi,  triadi,  ecc.  quante  volte  bisogna  ripetere  l'uno,  il due,  il  tre,    ecc.  per  formare    questi  numeri,  e  che Platone  ha  riguardato  tutte  queste  unità,  diadi,  triadi,  ecc. come  akrettante  entità  distinte.   Cosi  vi  ha  dapprima  il numero  due,  poi  1'  altro  due  che  bisogna  aggiungere  a questo  numero  per  avere  il  numero  quattro,  poi  l'altro che  bisogna  aggiungere  ancora  per  avere  il  numero  sei, e  cosi  di  seguito.  Ciascuno  di  questi  cZwe  è  un'entità  ma- tematica :   essi  sono  infiniti,  perchè  il  numero    aumenta sino  all'infinito;  sono  della  stessa  specie,  perchè  un  due non  differisce  da  un  altro    Ma  questa  moltitudine  dì  due (1)  V.  Met.  Arisi.  Met.  l.  I.  VI.  3,  1.  Ul.  II.  15  sqq.,  1.  lU.  ULU,  l.  XI. I.  6-8,  1.  Xm.  I-m,  VI,  An.  Post.  1.  I.  XXIV. 3,  eoo.  Cfr.  Piai.  Bep. 509  d-511,  521-527,  533  b-534  a.  Fedone  JOJ  e,  104  d,  ecc.  V.  Mrt.  1.  I.  VI.  3,  1.  Ul.  VI.  1-2,  ecc. Met. ecc. (5)  Cfr.  Arisi.  Mei.  1.  Xlll.  VII.  2,  7,  8,  11,  12,  14,16,19,21,24-25, Vili.  5-7,  18. tn il 11 11 non  possono    essere  tutti  dei  due  che  per  la    partecipa- zione comune  ad  un'  essenza  unica  :  questa  è  l'Idea  del due,  che  non   è  altra    cosa   che  il  numero    ideale  Due. Della  stessa  maniera    le  molte  unità    matematiche   non sono  tali  che  per  la  partecipazione  dell'unica  Unità  ideale; le  molte  triadi,  tetradi,  ecc.  matematiche,  per  la  parte- cipazione dell'unica  Triade,  Tetrade,  ecc.  ideali  (1).  La Unità,  la  Diade,  la  Triade,  ecc.  ideali,    in  quanto  sono le  essenze  comuni  di  tutte  le  unità,  le,  diadi,  le  triadi,  ecc. particolari,  sono  chiamate  l'Unità  stessa  (aùxì^),  la  Diade stessa,  la  Triade  stessa  (2);  e  perchè  è  da  esse  che  prò- cedono  le  molte  unità,  diadi,  triadi,  ecc.  particolari-  per la  relazione  di  anteriorità  e  posteriorità  che  vi  ha  tra  il generale  e  il  particolare  —  sono  anche  chiamate  ÌSiprima unità,  la  prima  diade,  la  prima  triade,  ecc.  (3).  Tra  i numeri  ideali  e  i  numeri  matematici  non  vi  ha  dunque, al  fondo,  che  il  rapporto  che  corre  tra  le  idee  generiche e  le  Idee  specifiche  :  ma  Platone  nega  ai  numeri  mate- matici il  nome  d'  Idee  e  di  Specie,  perchè  questi  nomi, nel  periodo  pitagoreggiante,  non  vengono  attribuiti  che ai  numeri  ideali. Per  impiegare  come  nei  numeri  ideali  non  ve  ne  hanno molti  della  stessa  specie,  egualmente  che  nei  numeri  ma- tematici, Platone  mette  innanzi  un'altra  diiferenza  fra le  due  specie  di  numeri  :  è  che  i  numeri  matematici  s-^-no combinahiliy  cioè  si  addizionano  fra  di  loro,  mai  numeri (1)  V.  Met.  ecc. (2)  V.  Met.  1.  I.  IX.  5,  1.  I.  IX.  16,  1.  Xlll.  VI.  2,  1.  Xlll.  VII.  1, 9,  12,  14,  15,  21,  22,  24,  1.  XUl.  Vili.  13,  19,  eoo. V.  Met.  1.  Xlll.  VI.  2,  1.  Xlll.  VII.  1,  4,  7,  8,  11,12,  19,  20,  24, i.  XUl.  Via.  5-7,  eoo. w .  I  li i ».  ideali  sono  incombinabiU,  cioè  non  si  addizionano  fra  di loro.  Cosi  un  numero  ideale  non  può  riguardarsi,  del pari  che  un  numero  matematico,  come  composto  dei  nu- meri più  piccoli  in  cui    può  decomporsi  (2)  ;  e  per  con- seguenza,  nei    numeri    ideali  in  cui  il  due,  il  tre,  ecc. sono  contenuti  più  volte,  non    possono    distinguersi  al- trettante Diadi,  Triadi,  ecc.,  e  considerarsi   quali  entità per    sé    come     avviene    nei    numeri     matematici.    Al'a quistione  perchè  i  numeri  ideali  siano  incombinabili  Pla- tone risponde  che  l'addizione  suppone  l'omogeneità  del'e unità  che  si  addizionano,  ma  dei  numeri  ideali  distinti costituiscono  delle    specie  differenti,  e  per  conseguenza le  unità    di  un  numero  non  sono    omogenee  con  quelle di  un  altro. V.  MrL  1.  Xm.  VI.  2-5,  Vii,  VUl.  1-7,  26,  eco.  Intatti,  se  il  numero  minore  tosse  una  parte  del  numero maggiore,  l'Idea  rappresentata  daU'uno  sarebbe  una  i»arte  dell'I- dea rappresentata  dall'altro.  P.  e.  se  il  Tre  fosse  una  parie  del Quattro,  e  il  primo  rappresentasse  l'  Idea  dell'  uomo  e  il  secondo quella  del  cavallo,  PIdea  dell'uomo  sarebbe  una  parte  di  quella  del oavallo  (V.  Arist.  Met.  1.  Xlll.  VII'.  25,  Vili.  19,  ecc.  L'  obbiezione contenuta  nel  secondo  di  questi  luogbi  è  diretta  contro  la  dottrina di  Xenocrate,  che  identificando  il  numero  ideale  col  matematico, ogUeva  necessariamente  a  quello  il  carattere   per  cui    Platone  lo aveva  distinto  da  questo,  e  lo  faceva  combinabile). Aristotile  (.^fetA.  XIU.  VII.  9-11  e  25-26)  accenna  anche  ad  un'al- tra ragione,  per  cui,  nei  numeri  ideali,  il  minore  non  potrebbe riguardarsi  come  una  parte  del  maggiore.  È  che  in  questo  caso  sa  - rebbe  impossibile  la  generazione  dei  numeri  quale  l'ammette  Pla- tone. Se  p.  e.  il  Due  (ideale)  fosse  una  parta  del  Quattro,  questo nascerebbe  per  l'aggiunzione  di  due  altre  unità  a  quelle  del  Due  : ma  allora,  per  generare  il  Quattro,  non  dovrebbe  rendersi  conto ohe  dell'origine  delle  due  nuove  unità  soltanto,  e  per  conseguenza esso  non  potrebbe  generarsi  dalla  moltiplicazione    del  Due    per  la Dualità  indefinita. V.  i  l.  indicati  nella  nota  penultima,  e  inoltre  Mei.  l.  I.  IX.  lo- 17,  1.  XIV.  VI.  9,  ecc. Le  entità    geometriche sono pure  molte  ed    infinite quelle    della  stess^a  specie,    come   i  numeri    matematici. Platone   ammette  due  classi    di  entità  pei  concetti  delle grandezze,  come    per  quelli  dei  numeri  :    le  grandezze matematiche  e  le  Idee  di  queste  grandezze.  Le  grandezze matematiche— che  sono  anch'esse,  come  abbiamo  detto, degli  universali  sostantificati  -  non  sono    delle  semplici forme  come  le  Idee,  ma  contengono  una  materia    iden- tica, al  fondo,  alla  rnaferla   delle  cose,  cioè    allo  spazio, poiché  non  è  altro  che  le  dimensioni  dello  spazio  gene- ralmente considerate;  per   conseguenza,  siccome    il  nu- mero non  rappresenta    che  delle  pure  forme,    esse  non vengono  identificate  a  dei  numeri.  La  materia  delle linee  si  chiama  il  Lungo  e  Corto-,  quella  dei  piani  il  Lari/o e  Stretto-,  quella    dei  sobdi  VAlto  e  Basso:    queste  sono delle  forme  del  Grande  e  Piccolo  (2)  (Dualità  indefinita). Cosi  nella  Dualità  indefinita    Platone  confonde   tre  con- cetti differenti,  facendola  servire  al  tempo  stesso  da  ma- teria delie  Idee,  da  materia  delle  cose  e  da  materia  delle grandezz-  matematiche.  Questo  per  l'elemento  materiale: in  quanto  all'elemento  formale  (l'eleo^),  le  grandezze  ma- tematiche lo  ricevono  dai  numeri  ideali.  Le  linee  ven- (1)  Met.  1.  1.  IX    18-19,  l.  111.  IV.  30,  l.  Xlll.  IX.  2-é,  1.  XIV.  11.9. 11,  1.  XIV.  111.  8-10,  ecc.   V.  Met.  ecc.  V.,  oltre  i  1.  indicati  nella  nota  seguente,  quelli  (che  indi- cheremo in  seguito)  in  cui  le  entità  matematiche  vengono  date come  intermediarie  tra  le  Idee  e  i  sensibili  ;  ai  quali  aggiungeremo anche  quegli  altri  in  cui  Aristotile  riguarda  le  grandezze  come  po- steriori ai  numeri  ideali  o,  ciò  che  è  lo  stesso,  come  procedenti  da oasi  (Met.  1.  Xlll.  IX.  2-4,  1.  1.  IX.  19.  1.  111.  IV.  30,  ecc.);  e  in  cui  dà le  Idee  come  specie,  non  solo  dei  sensibili,  ma  anche  delle  entità matematiche  {Met.  1.  111.  VI.  1-2,  1.  AHI.  Vili.  17,  ecc.),  e  come  cause tanto  dei  primi  quanto  delle  seconde  {Met,  1.  1.  VI.  3,  4  7  1.  XIV. U.  16,  eco.). gono  dal  numero  ideale  Due  (e  dal  Lungo  e  Corto);  i piani  dal  Tre  (e  dal  Largo  e  Stretto);  i  solidi  dal  Qua^ tro  (e  dall'Alto  e  Basso)  (l)  (a  questi  numeri  Platone  ad un'altra  epoca  o  alcuni  dei  suoi  discepoli  sembrano  averne sostituiti  degli  altri;  ma  ciò  non  ha  per  noi  alcun'im- portanza).  11  Due  ideale  dà  dunque  V  elSog  alle  linee,  il Tre  ai  piani,  il  Quattro  ai  solidi;  o,  ciò  che  vale  lo stesso,  il  Due  ideale  è  Vslòot;  generale  delle  linee,  il  Tre dei  piani,  il  Quattro  de!  solidi  (4).  Ma  quantunque  Pia- tone  chiami  questi  numeri  1'  elSo^  della  linea,  del  piano e  del  solido,  egli  non  vuole  che  si  dicano  la  linea  stessa, il  piano  stesso  e  il  solido  stesso:  ciò  è  evidentemente Arisi.  Met.  1.  XIV.  HI.  8-10,  l.  VII.    IL  3-4,  De  an.   1.  1.  U.  7, Ps.  Aless.  in  Mct.  1.  Xll.  IX,  eoo (2)  V.  Met.  1.  XIV.  m.  9,  l.  Xlll.  IX.  3.  L'  autore  dell'  PJpino  r, sembra  riguardare  l'  olio  come  il  numero  del  solido  (e conseguentemente  il  quattro  come  quello  del  piano). Ps.  Aless.  in  Met,  1.  Xll.  IX. (4)  V.  Arisi.  Met.  1.  VII.  XI.  3-4,  De  an,  l.  I.  U.  7,  ecc. V.  Met,  l.  VII.  XI.  3-5.  In  questo  luogo  Aristotile   distingue due  scuole  platoniche:  l'una  riconduce  tutti  1  concetti,  anche  quelli delle  grandezze,  alle  semplici  forme,  e  per  questa  il  Due  è  la  linea stessa  la    scuola  di    Xenocraie,  che  sopprimeva  la    distinzione delle  entità  matematiche  dalle  Idee,  e  risolveva  per   conseguenza in  numeri   ideali  anche  le  grandezze    (v.  questo  Supplem.  n.  V)-; l'altra  —  sono  i  platonici  strettamente  ortodossi  —  non  ammette  ohe i  numeri  ideali  rappresentino  le  grandezze  stesse,  ma  solamente  il loro  elemento  formale,  e  per  questa  l'elSo^  della  linea,  cioè  il  Due, diiferisce,  per  conseguenza,  dalla  linea  stessa  -  K  certamente  per questa  distinzione  tra  i  numeri  della  linea,  del  piano  e  del  solido e  la  linea,  il  piano  e  il  solido  jj/c-ss/,  che  Aristotile    domanda  se  si deve  ammettere  o  no    che  questi   numeri siano    delle  Idee (Met, \,  XIV.  in.  10).  Ma  non  può  esservi  alcun  dubbio  che  i  Platonici  non li  considerassero  effettivamente  come  tali  :  ciò  risulta  chiaramente dai  l.  indicati  nelle  noto  precedenti,  el  è  incluso  nella  proposizione, di  cui  in  seguito,    che  le  entità    matematiche  sono    intermediarie perchè  essi  rappresentano  la  sola  forma  della  linea,  del piano  e  del  solido,  e  non  le  cose  stesse,  vale  a  dire  la forma  congiunta  alla  materia. Il  numero  della  linea,  del  piano  e  del  solido  erano  i soli  numeri  ideali,  e  per  cons(»,^uenza,  le  sole  Idee,  che Platone  ammettesse  per  le  grandezze  (1):  e  in  effetto, queste  Idee  erano  riguardate  come  le  specie,  nel  senso moderno  del  termina,  delle  grandezze  matematiche; quantunque  tra  le  une  e  le  altre,  piuttosto  che  il  rap- porto tra  specie  ed  individui,  vi  fosse  in  realtà  quello tra  generi  e  specie. Oltre  alle  grandezze  matematiche,  ci  si  parla  anche di  un  altro  genere  di  grandezze,  che  Aristotile  distingue con  la  designazione  di  posteriori  ai  numeri  (jisxà  xoòg àpt0[iouc Me/.  1.  I.  IX.  25-)o  posteriori  alle  Idee  ([isTà xà€  t8éag--XIII.  VI.  8-).  Alessandro  d'Afrodisia  (ad  Met.)  ci  spiega  che  queste  grandezze  erano  la Linea  stessa,  il  Piano  stesso  e  il  Solido  stesso,  che  Pla- tone riguardava  come  i  prineipii  da  cui  procedono  le linee,  i  piani  e  i  solidi  matematici,  e  che,  come  questi. ira  le  Idee  e  le  cose,  le  Idee,  tra  cui  e  le  grandezze  reali  tramez- zano le  grandezze  matematiche,  non  potendo  essere  ehe  i  numeri da  cui  queste  procedono  e  che  ne  rappresentano  l'sISo^.  Del  resto questi  numeri  sono  chiamati  Idee  dallo  stesso  Aristotile  nelle  pa- role che    seguono    immediatamente    al    luogo    indicato  :  questi ohe  a  questo  modo  riattaccano  le  entità  matematiche  alle  Idee  „; qui  la  parola  t5éat  riferendosi  evidentemente  ai  numeri  da  cui  de- rivano le  grandezze  matematiche,  dei  quali  sopra  ha  parlato. Arisi.  Met,  1.  XUl.  111.  8-10,  Ps.  Aless  in  Met.  1.  XII.  IX.  eco. Arist.  Met.  1.  VII.  XI.  4-5.  Se  Platone  dice  che  delle  gran- dezze matematiche  ve  ne  hanno  molte  della  stessa  specie,  è  ap- punto perchè  considera  l'sISo^  della  linea,  del  piano,  del  solido come  la  specie,  nel  senso  stretto,  delle  linee,  dei  piani,  dei  solidi matematici. i  i egli  distingueva  dai  numeri  ideali.  Naturalmente  la Linea,  il  Piano  e  il  Solido  stessi  differivano  dalle  Idee (numeri  ideali)  della  linea,  del  piano  e  del  solido,  in  ciò, che  queste  erano  le  semplici  forme,  mentre  essi  compren- devano anche  la  materia  (2).  La  Linea  stessa  era  l'eleo? della  linea  (il  numero  ideale  Dueì  congiunto  col  Lungo e  Corto;  il  Piano  stesso  V  sISo^  del  piano  (il  Tre)  con- giunto col  Largo  e  Stretto;  il  Solido,s/c/f.<?o  Tsl^oc  del  solido (il  Quattro)  congiunto  con  TAlto  e  Ba«so.  Per  con- ci) Questa  spiegazione  presenta,  a  dir  vero,  una  difficoltà,  ed  è che  Aristotile  parla  {Mei.),  non  di  una  linea,   un  piano e  un  solido,  al    singolare,  ma  di  linee,  piani e  solidi,  al    plurale. Tuttavia  noi  dobbiamo  accettarla,  perchè  essa  ci  permette  di  coordinare d'una  maniera  coerente  la  dottrina  a  cui  allude  Aristotile, all'insieme  delle  dottrine  platoniche  sulle  entità  matematiche.  Per conciliare  la  spiegazione  d' Alessandro  col  testo  d'  Aristotile,  non abbiamo  bisogno  di   supporre  un’innovazioae   di  alcuni discepoli, che  avrebbero  aggiunto   alla  Linea,  Piano    e  Solido  in  sé   di  Pla- tone altre  entità  dello  stesso  ordine,  alle  quali  le  parole  d'Aristotile avrebbero  potuto  egualmente  applicarsi  :    basta  di    ammettere che  questi  intende  discutere  la  dottrina,  a  cui  allude,  nel  suo  con- cetto essenziale,    cioè  la  distinzione  tra    le  grandezze    fiexà TOÒg àpiGfiOÓ^  e  le  matematiche,  anziché    nella  forma   accidentale  ohe Platone  ha  dato  a  questo  concetto Non  è  senza  ragione  se  di  gran dezze  fiexà  toÒ^   àpt9|ioóc  Platone  ne  ammette  queste  tre  sole  :  è ohe  di  esse  non  potrebbe  esservene  che  una  ver  ciascun'Idea  delle grandezze  e  per  ciascuna  forma  del  Grande  e  Piccolo  quale  mate- ria delle  grandezze;  ognuna  di  esse  non  essendo,  come  diciamo  in seguito,  che  un'Idea  di  grandezza  e  la  forma    corrispondente    del Grande  e  Piccolo,  pensate,  non  s3parfltamente,  ma  insieme.  Ma  Aristotile pare  non  comprendere  ciò,  perchè  inclinato,    com'egli  è,    al- l'interpretazione trascendoit alista  del  sistema  delle  Idee,  sembra supporre  ohe  queste  entit  à  siano  separate  dalle  loro  ldee;e  perciò  crede arbitrario  che  se  ne  ammettano  di  più  o  di  meno. Quando  Aristotile  parla  della  provenienza    delle    grandezze dalla  materia  (il  Lungo  e  Corto,  ecc.),  egli  usale  espressioni  gene- seguenza,  ammettendo  una  linea,  un  piano  e  un  solido in  se  stessi,  distinti  dagli  eldy]  della  linea,  del  piano  e del  solilo,  Platone  non  introduce  delle  nuove  entità  oltre questi  e!5Y3  e  la  materia  :  la  Linea  stessa  non  è  una  terza cosa  che  si  ag;^iuno:e  all'sldog  della  linea  e  alla  sua  ma- teria; ma  non  è  altro  che  queste  due  cose,  pensate,  non a  parte,  ma  congiuntameiìte.  Questo  ci  fa  comprendere perché,  quantunque  la  linea,  il  piano  e  il  solido  in  sé  si distinguano  dalle  Idee  e  dalle  grandezze  matematiche, pure  Platone  non  riconosce  che  due  generi  di  entità,  le Idee  e  le  entità  matematiche  ;  e  infatti  quando  Aristo- tile parla  dei  geneii  di  rntiià  ammes-^e  dalla  scuola  platonica  e  spe&so  certamente  dà  la  sua  enumerazione come  completa  egli  non  fa  menzione  che  di  questi  due soli.  l!i  yiet.  1.  I.  IX.  25  f.i  r  obbiezione  che  nella classa/ ion*  }  la  tonica  degli  ess'*ri  non  vi  ha  alcun  posto p  r  le  grandezze  «isTà  xo'Jc;  6Lpi^[ioò(;y  non.  potendo  esse collocarsi  né  tra  le  Idee,  uè  tr  i  le  entità  matematiche  o intermediario,  né  tra  i  sensibili  (le  tre  sole  classi  am- messe da  Piattaie).  In  questo  stesso  luogo  obbietta  pure a  Platone  che  egli  non  ha  spi  rigato  l'origine  di  queste grandezze:  questi  non  l'ha  fatto,  perché  la  loro  esistenza non  segna  un  nuovo    passo  nello  sviluppo    degli  esseri, riche  :   le  grandezze,  le  linee,  le  su;)3rftcie,  i    solidi,  o    anche:  la grandezza, la  linea,  la superficie,   il  solido,  al  singolare    (v.  Met, I.  1.  IX.  18-19,  l.  ni.  IV.  30,  l.  Xlll.  IX.  2-4,  1.  XIV.  II.  11);  per  con- seguenza ciò  <?he  egli  dice  deve  applicarsi  a  tutte  le  grandezze  e non  alle  sole  maternhliche,  quindi  anche  alla  Linea,  alla  Superfi- cie e  al  Solido  stessi.  Del  resto  Alessandro  d'  Afrodisia  nel  luogo indicato  dà  esplicitamente  come  pdncipio  di  questi  il  Lungo  e  Corto, il  Largo  e  Stretto  e  l'Alto  e  Basso. (1)  V.  Mei. ecc.  4 non  essendo  esse  altra  cosa,  come  abbiamo  detto,  che  le loro  Idee  e  la  materia;  ma  Aristot  le,  per  la  sua  pro- pensiohe  air  interpretazione  trascendentalista,  suppone che  siano  qualche  cosa  di  nuovo,  e  rimprovera  quindi a  Platone  di  non  avere  indicato  per  queste  entità,  come per  le  altre,  il  processo  secondo  cui  si  producono.  L'e- sistenza equivoca  dell. ^  grandezze  [isxà  loùg  àptefioóc  quali entità  distinte  ci  fa  pure  comprender**,  il  fatto  che  Ari- stotile non  ne  parla  che  in  qualche  luogo  isolato  (oltre i  due  indicati,  in  Dean,  l.  I.  IL  7,  in  cui  la  pnma  lun- ghezza, larghezza  e  profondità  pare  che  denotino  la  li- nea, la  superfìcie  e  il  solido  in  sé),  e  che  e^li  anche talvolta  per  le  espressioni  generiche /e  ^randez^e,  le  lun- ghezze, le  superficie,  i  solidi,  non  intende  senza  dubbio designare  che  le  grandezze  matematiche  (I).  Li  linea, il  piano  e  il  solido  in  sé  non  sono  compres:  tra  le  gran- dezze matematiche  propriamente  dette  (cioè  tra  qu'^lle che,  come  diremo  in  seguito,  Platone  fa  intermediarie tra  le  Idee  e  le  cose),  perchè  queste  non  sono  che  le  spe- cie ultime  dei  generi  linea,  piano  e  solido. Platone  non  nmmettt^  dello  e  itità  per  i  concetti  gene- rici del'e  figure  (p.  e.  <lel  poligono  o  d"l  poliedro),  ma solo  per  quelli  delle  figure  particolari  (p.  e.  del  triangolo, del  quadrato,  del  cubo,  d'^lT  ottaedro)  (2).  Co  è    senza (1)  V.  M^t.  i.  iir.  I.  15  (ofr.  i.  xni.  i-m.)  e  i.  XIV.  ni.  s-ii. (2)  Come  rkulta  da  MeL  l.  Ul.  Ul.  11,  in  cai  ^'attribawce  ai  par- ti<riaai  deUe  l  lea  l'onimoQ3  obe  noa  vi  ha  al'san  numero  (generi- co)  oltre  (Ttxpx)  la  specie  dei  numeri  né  alcuna  figura  (generica) oltre  le  spBoia  delle  figure.  Lo  stesso  può  de^umer-^i  da  un  altro luogo,  in  cui  alla  dottrina  dell'  esistenza  delle  Idee oltr'e  le  entità  matematiche  e  i  sensibili  si  dà  per  ragione  che,  se esistessero  la  sola  entità  matematiche,  i  loro  principii  non  sareb- bero finiti  di  numero,  ma  solo  di  specie.  (Se  tra  le  entità  matema- tiche vi  fossero  anche  i  concetti  generici  e  non  solamente  gli  spe- dubbìo  perchè,  se  tra  le  entità  geometriche  fossero  anche rappresentati  i  concetti  generici,  egli  non  potrebbe  ri- guardare Velòoq,  della  linea,  del  piano  e  del  solido  come le  specie  nel  senso  stretto,  cioè  come  le  specie  infime— delle  lineej  dei  piani  e  dei  solidi  matematici,  e  dire  che queste  linee,  questi  piani  e  questi  solidi  sono  tutti  della stessa  specie.  Queste  proposizioni  suppongono  che  tra  le grandezze  matematiche  e  le  loro  Idee  corra  lo  stesso rapporto  che  tra  gì'  individui  e  le  loro  Idee  specifiche  : perciò  le  grandezze  matematiche  devono  essere  tra  di loro,  non  subordinate  nel  grado  di  generalità,  ma  tutte eifioi,  i  principii  di  queste  entità,  anche  se  non  si  ammettessero  ohe esse  sole,  sarebbero  finiti  di  numero,  non  semplicemente  di  specie perchè  è  il  generale,  nel  sistema  platonico,  che  è  il  principio). Quest'esclusione  dei  concetti  generici  dei  numeri  e  delle  figvre dal  rango  di  entità  sussistenti  per  se  stesse  è  fondata  su  quest'ar- gomento capzioso:  che  nelle  cose  in  cui  vi  ha  anteriorità  e  poste- riorità— cioè  che  formano  una   serie  i  cui  termini    si  seguono  con un  ordine  determinato  il  comune  non  è  separabile  (X.'^P^'^ìj l>erchè,  se  lo  fosse,  esso  sarebbe  anteriore  a  tutti  i  termini  della serie,  anche  al  primo,  e  per  conseguenza  vi  sarebbe  qualche  cosa prima  della  prima  (v.  Klh.  Eud,  1.  1.  Vili.  9-10;  cfr.  Met,  1.  Ul.  HI. 11  ed  Klh,  Aie,  I.  1.  VI.  2).  II  sofisma  volge  sul  doppio  senso  dei  termini anteriore  e  posteriore,  i  quali  ora  significano  la  successione  dei termini  coordinati  di  una  serie  (p.  e.  quella  dei  numeri  o  dei  po- ligoni), ora  la  subordinazione  dei  concetti  secondo  il  grado  della generalità  (con  lo  altre  idee  che  nelln  filosofia  platonica  sono  asso- ciate a  questa  subordinazione). 11  motivo  reale  per  cui  Platone  njn  ha  obbiettivato  i  concetti generici  delle  figure,  è  quello  che  diciamo  in  seguito.  In  quanto  a quelli  dei  numeri,  il  motivo  è  ugualmente  chiaro  :  è  che  facendo un'entità  del  concetto  generale  di  numaro  e  di  ogni  altro  dei  concetti a  cui  i  numeri  particolari  sono  subordinati,  queste  entità  o  dovreb- bero illogicamanle  identificarsi  con  certi  numeri  particolari,  o  do- vrebbero porsi  anteriori  ai  numeri  particolari,  che  cesserebbero  cosi di  essere  i  primi  di  tutti  yìi  esseri,  co  .ne  esige  necessariamente  la loro  identificazione  con  le  Idee. -  198  — coordinate,  come  grindividui,  e  tra  di  esse  e  le  loro  Idee non  deve  esservi  alcuna  entità  di  una  generalità  media, come  non  ve  ne  ha  tra  gV  individui  e  loro  Idee  spe- cifiche. In  conclusione,  ciò  che  vi  ha  di  particolare  nella dottrina  delle  entità  matematiche  si  riduce  in  sostanza, per  quel  che  concerne  le  grandezze  geometriche,  a  non elevare  al  rango  d'Idee,  vale  a  dire  di  numeri  ideali, che  le  forme  dei  generi  supremi  di  queste  grandezze, cioè  della  linea,  del  piano  e  del  solido  in  generale  :  in quanto  al  piani,  ai  solidi  e  alle  linee  particolari,  i  loro concetti  vengono  bensì  realizzati,  ma  non  sono  ridotti a  delle  semplici  forme,  e  per  conseguenza  non  si  fanno rappresentare  da  numeri  ideali,  e  se  ne  fa  una  classe di  entità  distinte  dalle  Idee,  che  insieme  ai  numeri  ma- tematici vengouo  «'c^ignate  col  nome  di  entità  matema- tiche. Cosi  quando  Platone  dico  che  delle  entità  che  sono l'oggetto  della  gec  metriii  ve  n«-  hanno  molte  della  stessa specie,  tutto  ciò  che  vi  ha  di  chiaro  nel  significato  di questa  propcsizione  è  che  non  vi  ha  che  una  Specie, cioè  un'Idea  unica,  per  tutte  le  linee,  una  per  tutti  i piani,  una  per  tutti  i  solidi,  l'Idea  della  linea,  del  piano del  solido  ;  e  che  le  linee,  i  piani,  i  solidi  particolari, studiati  dalla  giometria,  non  sono  riguardati  come  Idee. E  evidentemente  un'inconsegaenza,  come  gli  rimprovera Aristotile,  di  non  riconoscere  nelle  diverse  figure  geo- metriche altrettante  specie  distinte  :  ma  siccome  le  Idee non  sono,  ne;  periodo  pitngoroggiante,  che  i  numeri ideali,  e  queste  figure  non  vengono  ricondotte  a  dei  nu- meri, cosi  Pl7tone  non  può  vedere  in  osse  delle  Idee,  e quindi  nemmeno  delle  specie. Le  entità  matematiche  erano  dette  dai    Platonici  in- termediarie fra  le  Idee  i  sensibili.  Ciò  si  spiega  per- fettamente per  quello  che  abbiamo  detto.  Le  grandezze matematiche  sono  intermediarie  tra  le  Idee  delle  gran- dezze e  le  grandezze  sensibili,  perchè  tramezzano,  per il  loro  grado  di  generalità,  tra  le  une  e  le  altre  :  sono Huperordinate  alle  sensibili,  che  sono  particolari,  mentre esse  sene  generali;  e  subordinate  alle  Idee,  che  sono  più generali  ancora  di  esse.  Della  stessa  maniera  i  numeri matematici  tramezzano  tra  i  numeri  Idee  e  i  numeri  fe- nomeni. Di  più,  siccome  tra  il  generale  e  il  particolare vi  ha,  nella  metafisica  platonica,  il  rapporto  di  principio e  cosa  derivata  (anteriorità  e  posteriorità),  cosi  le  entità matematiche  tramezzano  tra  le  Idee  e  i  sensibili  anche sotto  un  altro  rapporto  :  le  grandezze  e  i  numeri  mate- matici essendo  subordinati  in  generalità  alle  Idee  delle grandezze  e  dei  numeri,  essi  procedono  da  quelle  (sono posteriori  alle  Idee  delle  grandezze  e  ai  numeri  ideali); ed  essendo  superordinati  in  generalità  alle  grandezze e  i  numeri  fenomeni,  sono  i  principii  da  cui  questi  prò cedono  (sono  anteriori  alle  grandezze  e  i  numeri  feno- meni). Gl'interpreti  trascendentalisti  danno  un'  altra  spie- gazione del  posto  d'intermediarie  tra  le  Idee  e  i  sensi- bili,  che  Platone  assegnava  a  queste  entità.  Secondo questi  interpreti,  le  entità  intermediarie  sarebbero,  per Platone,  le  Idee  nel  loro  rapporto  con  la  materia,  cioè come  leggi  del  mondo  sensibile.  Platone  avrebbe  cer- cati questi  intermediari  fra  le  Idee  e  le  cose,  perchè,  le Idee  trascendenti  essendo  incapaci  di  esercitare  diretta- mente un'elficicnza  causale  sui  fenomeni,  vi  era  bisogno. Mei.  1.  Vii.  XI.  6. (2)  V.  Mei,  ecc. t I nel  suo  sistema,  di  mediatori,  per  cui  la  loro  influenza si  comunicasse  al  mondo  fenomenico,  e  li  avrebbe  tro- vati nelle  entità  matematiche,  perchè  le  leggi  del  mondo fenomenico  si  ri  ducevano  per  lui  a  dei  rapporti  mate- matici. Sarebbe  superfluo  per  noi  di  discutere  quest'in- terpretazione, dopo  che  abbiamo  mostrato  Tinsussistenza 4ella  base  su  cui  essa  è  fondata,  che  è  la  trascendenza delle  Idee.  Ma  essa  solleva  una  quistione,  «;he  non  pos- siamo lasciare  senza  risposta,  cioè:  Le  entità  matema- tiche sono  semplicemente  la  realizzazione  dei  concetti matematici,  e  non  rappresentano  che  le  determinazioni delle  cose  studiate  dairaritm<*tica  e  dalla  g'sometria;  ov- vero il  pitagorismo  di  Platone  si  manife-ita  anche  di- rettamente in  questa  parte  delle  sue  dottrine,  e  tutte  le determinazioni  delle  cose,  o,  come  dicono  gì*  interpreti di  cui  abbiamo  parlato,  le  leggi  del  mondo  fenomenico, sono  state  da  lui  ricondotte  agli  oggetti  matematici  ?  in modo  che  tutti  gli  attributi  degli  e -se  ri  vengano  nel  suo sistema  rappresentati  tre  volte  :  nel  mondo  delle  Idee, nel  mondo  delle  cose  e  iu  quello  delle  entità  interme- diarie? In  altri  termini,  le  'entità  intermediarie  tramez- zano soltanto  tra  gli  attributi  matematici  delle  cose  e  le Idee  di  questi  attributi,  ovvero  tra  il  mondo  delle  cose e  il  mondo  delle  Idee  nella  loro  totalità?  Per  discutere d*una  maniera  completa  questa  quistione  dovremmo  oc- cuparci del  Tiépas  del  Fdebo^  perchè  è  sulla  pretesa  iden- tità di  esso  con  le  entità  matematiche  che  è  fondata  so- vratutto  l'opinione  che  vede  in  queste  entità  le  leggi  del mondo  sensibile  :  ma  noi  non  lo  potremmo  qui  senza  fare altrove  delle  ripetizioni  inutili,  perchè  questo  è  un  ar- gomento che  in  seguito  dovremo  trattare.  Per  ora  ba- sterà di  esaminare  la  testimonianz\  d'Aristotile  :  quando verremo  all'interpretazione  del  Jiépa^  del  Filebo, vedremo che  non  vi  sarà  luogo  a  modificare  il  risultato  a  cui quef^t'esame  ci  avrà  condotto. Ora  dalla  testimonianza   d'  Aristotile  risulta   chiara- mente che  le  entità  matematiche  rappresentano,  non  tutte le  determinazioni    degli  esseri  come  sarebbe,   se  esse fossero  le  Id»'o  stesse  nel  loro  rapporto  con  la  materia, ma  semplicemente  le  determinazioni  matematiche   (cioè quelle  che  sono  1'  oggetto  dello  matematiche  pure). La dottrina   delle  entità    matematiche  consiste    unicamente secondo  Aristotile  nella  realizzazione  dei  concetti  mate- matici. Cosi,  quando  egli  si  propone  di  esaminare  questa dottrina  platonica,    la  quistione   è  da  lui    formulata  in questi  termini:  i  numeri  e  le  grandezze  geometriche  sono delle  sostanze o  no  ?  e  se  sono  delle  sostanze,  esistono negli  stessi   esseri  sensibili   o  fuori  di  essi  ?.  La  ne- gativa della  dottrina  è  per  lui  questa  proposizione  :  le  cose matematiche  (xà  fiaOrj^axtxa)  non  sono  separate  (xwptaxa  o xEXtópwfiéva)  (2;.  E  sul  principio  del  1.  XIII.,  in cui  la  discute  il  più  largamente,  si  limita  a  combattere la   proposizione,  attribuita  ai    platonici  ortodossi,  che  i numeri  e  le  grandezze  geometriche  e  per  numero  evi- dentemente egli  non  intende  in  questa  proposizione  che r  attributo    comune    di    una    collezione     qualunque    di oggetti  — sono  separati  dalle  cose, e  quella,  attribuita  ad  alcuni  dissidenti,  che  sono  delle sostanze  inesistenti  nelle  cose  stesse,  e  a  mostrare  che  i concetti  matematici  non  rappresentano  degli  esseri  sus- sistenti  per  se  stessi,    ma  delle   proprietà  degli    oggetti sensibili,  che  il  matem  Uici  astrae  (xa)p(Cei)  per  la  como- dità del  suo  studio.  Non  vi  ha  mai  in  tutte  le  allusioni (1)V.  Mei.  ecc. d'  Aristotile  a    questa  parte  del    sistema  platonico    una parola  che  supponga  che  le  altre   determinazioni    degli esseri    siano   state    ricondotte   dai   Platonici   ai  concetti matematici,  e  che  le  entità  matematiche    rappresentino, come  i  numeri  ideali,  le  forme  stesse  e  le  leggi  del  mondo delle  cose.  Il  contrario    è  anzi    supposto  nel    modo  più evidente  in  parecchi   luoghi,    in  cui  la  dottrina  del  nu- meri matematici  è  posta  in  confronto  con  quella  dei  nu- meri ideali  e  con  la  dottrina  pitagorica.  Nel  1.  13^  e.  1®, enunziando  l'argomento  di  questo  libro,  dice  che  prima tratterà  «  delle  cose  matematiche,  senza  aggiungere  ad esse  un'altra  natura,  per  esempio  se  siano  Idee  o  no,  e se  siano  principii  e  sostanze  degli  esseri  o.no,  ma  dell»», cose  matematiche  semplicemente  s^  esistano    o  non  esi- stano e  in  qual  molo  esistano»;    poi  delle  Idee  a  parto (cioè  a  partì  d«lla  tosi  che  le  identifica  coi  numeri);  o  in terzo  luogo  dei  numeri  ideal  .  Il  senso   d-lle  parole  tra virgolette  è  coriamente— come  si  vede  dalle  materie  trat- tate nel  libro  e  dall'ordino  ni  cui  si  seguono che  pri- ma discuterà  la  dottrina  dello  entità  matematiche,  cioè quella  che  attribuisce  bensì  aHe  cose    matematiche   una esistenza  reale  (ne  fa  delle  sostanze),  ma  non  aggiunge ad  esse  un'altra  natura  (non  fa  loro  rappresentare  d'elle determinazioni  dogli  esseri   differenti  dalle  matematiche) come  fa  la 'dottrina    dei  numeri  ideali    (la  quale    ricon- duce a  delle  cose    matematiche,  cioè  ai  numeri,  le  Idee e  la  sostanza  d^llc  cose).    Nel    e.  6^   dell'»    stesso    libro, parlando    delle  diverso    ipotesi    metafisiche  sui    numeri, dice:   «Ancora  questi    numeri  possono  essere  o  separati (XwpioToùs)  dalle  cose(l'ip>t -si  platonica),  o  non  separati, ma  negli  stessi    sensibili  (l'ipot'vsi  pitagorica),  no  ì  però della  maniera  che  abbiamo  visto  precedentement-ì    (cioè non  secondo  l'ipotesi,  attribuita  a  dei  platonici  dissidenti, che  i  numeri   matematici  sono  sostanze,  ma   inesistenti nelle  cose  stesse),    ma  in  modo  che  gli    esseri  sensibili risultino  dai  numeri   in  essi  inerenti».    Qui  la   dottrina pitagorica  sui  numeri  è  distinta  da  quella  dei   platonici che  ammettoao  i   numeri  matematici    nelle  cose   stesse, perche  secondo  qu-lla  le  cose  risultano  dai  numeri  (cioè i  numeri  costituiscono  l'essenza  delle  cose),  secondo  que- sta no:  ma  se  i  numeri    matematici  non    rappresentas- sero unìcament3  le  determinazioni  aritmetiche  degli  es- seri, ma  fossero    le  Idee  nel  loro  rapporto  con  la^'mate- ria  o  le  leggi  e  le  forme  del  mondo  fenomenico,  questa distinzione  non  potrebbe  farsi,  perchè,    in  tal  caso,  an- che pei  platonici   che  ammettono    i  numeri    matematici nelle  cose  stesse,  queste  risulterebbero   dai  numeri    ma- tematici.   Nel  1.  XIV,  sulla  fine  d'-l   e.  2»  e  il   principio del  3«  :  «  Si    potrebbe   pure  intorno    ai  numeri  insistere sulla   quistione   perché   si  debba   credere  alla  loro   esi- stenza. Pt  r  chi  ammette  le  Idee,  forniscono  qu«lche  causa agli  esperi,  h'  è  vero  che  ciascun  numero  è  un'  Idea,  e che  le  Idee  sono  cause  in  qualsiasi    modo  agli    altri  es- seri della  loro  esistenza;  teoria  che  noi  lasciamo  ai  suoi partigiani.  Ma  per  chi  non  è  di  quest'opinione,   perchè vede  le  dìffi>zo\tk  intorno  alle  Idee,  e  perciò  non  fa  que- ste numeri,  ma  fa  il  numero  matematico,  perchè  credere a  l'esistenza  di  questo  numero,  e  in  che  esso  è  utile  alle altre  cose?    Né  quelli  infatti  che   lo  ammettono    dicono che  questo  numero  sia  causa  di  alcuna cosa solamente ne  fanno   una  certa    natura  esistente    per  se  stessa    (in altri  termini  non  fanno  altro  che  realizzare  l'astrazione numero) né  si  vede  di  che  sia  cnu^a;  in  effetto,  tutti  i teoremi  dell'aritmetica  si  riferiscono,  come  si  è  detto,  ai sensibili  (vale  a  dire  :  tutta  l'utilità  che  si  attribuisce  a questo    numero  è   di  spiegare   la  conoscenza,  poiché  si pretende  che  le  matematiche  devono  avere  per  oggetto delle  entità  generali;  ma  questa  pretesa  é  vana,  perchè queste  scienze  si  riferiscono  invece  agli  oggetti  particolari) Quelli  che  ammettono  le  Idee  e  dicono  che  esse sono  numeri,  astraendo  tutto  ciò  che  è  uno  nei  molti, s^  sforzano  di  mostrare  come  e  perchè  ciascuno  di  que- sti uni  esista I  Pitagorici,  perchè  loro  sembrava che  molte  affezioni  dei    numeri  ineriscono  nei   sensibili, ammisero   che  le  cose  seno  numeri,  non  però   separati, ma  che  le  cose  stesse  constano  di  numeri.  E  perchè  ciò  ? perchè  le  affezioni  dei  nunaeri  si  trovano  neir  armonia, nel  cielo  e  in  molte  altre  cose.  Ma  quelli  che  ammettono solamente  V  esistenza  del  numero   matematico   non  pos- sono dire  niente  di  simile,  secondo  le  loro  ipotesi;  ma  si pretende  cjie,  senza  quest  i   condizione,  la  scienza  dei numeri  non   sarebbe   possibile».    Questo  luogo  afferma co>i  esplicitameute  che  i  numeri  matematici  sono  la  sem- plice sostantificazione   degli  attributi  matematici,  e  non costituiscono    le  leggi  e  le   forme   del    reale   né  come inerenti  nelle  coso  stesse,  quali  i  numeri  dei  Pitagorici e  i  numeri  ideali  di  Platone  nella  nostra  interpretazione, né  come  cause   esemplari,  quali   questi  numeri  neir  in- terpretazione trascendentalista,  preferita  da  Aristotile che  gl'interpreti  i  quali  vedono  nelle  entità  matematiche le  Idee  nel  loro  rapporto  con  la  materia,  non  potrebbero che  cercare  di  attenuarne  la  portata,  osservando  che  qui Aristotile  parla,  non  della  dottrina  stessa  di  Platone,  ma di  quella  di  un  platonico  dissidente  a  cui  egli  attribuisce di  non  ammettere  altre  entità  che  le  matematiche,  cioè di  Speusippo.  Ma  anche  quest'osservazione  non  potrebbe giovare  molto  alla  loro  tesi,  poiché  Aristotile   riguarda evidentemente  le  entità  matematiche  di  Speusippo  come equivalenti  a  quelle  di  Platone;  salvo  che  Speusippo non  fa  queste  entità  intermediarie  fra  le  Idee  e  le  cose e  vede  nei  numeri  matematici  i  primi  di  tutti  gli  esseri. Ma  da  qmsta    differenza  non  potrebbe  seguirne    un  di- vario   nel    significato  delle  entità    matematiche  tale   da impedirci  di  applicare  alla  dottrina  dei   platonici  in  ge- nerale sui  numeri  matematici  ciò  che  risulta,  dal  luogo citato,  su  quella  di  Speusippo.  Anzi,  i  numeri  matema- tici occupando    nel  sistema  di  Speusippo    il  posto  che  i numeri    ideali    occupavano  in  quello  di  Platone,  Speu- sippo avrebbe  avuto  più  motivi  che  Platone  di  dare  ad essi  un  significato  pitagorico,  facendo  loro  rappresentare le  leggi  e  le  forme  del  mondo  reale,  e  non  le  semplici determinazioni  aritmetiche.  E  del  resto  questa  stessa  inu- tilità delle  entità   matematiche  alle  cose,  che   Aristotile, nel  luogo  citato    e  altrove,  rimprovera  a  Speusippo, è  da  lui  rimproverata   anche  ai  platonici    ortodossi,  che fanno  quest  »  entità  >utermediarie  tra  le  Idee  e  le  cose; mentre,  se  le  entità  intermediarie  fossero  le  Idee  nel  loro rapporto  con  la  materia,  esse  avrebbero  un'efficacia  più reale  delle  Idee  stesse  (trascendenti),  e  più  utilità,    per conseguenza,  per  la  spiegazione  delle  cose. Questa  differenza  tra  la  dottrina  dei  numeri  ideali  e quella  dei  numeri  matematici,  e  in  generale,  delle  en- tità matematiche,  cioè  che  la  prima  implica  una  teoria del  reale  alla  pitagorica,  riducendo  ai  numeri  le  forme e  le  le^gl  delle  cose,  mentre  la  seconda  non  è  che  la sostantificazione  delle  proprietà  studiate  dall'  aritmetica   iV^/.  1.  XII.  1.  3, 1.  Xlll.  1-111,  Vi,  IX.  2-6, 13-14,  1.  XIV.  111.  4-I2,  ecc, Vedi  questo  Supplem.  n.  V. (B)  Afei.  1.  XU.    X.  14.  1.  XIV.  IH.  8. (4)  V.  MeL  1.  XIV.  IH.  lo. —  202  - e  dalla  geometria,  risulta  anche  chiaramente  dal  rap- porto che  si  stabilisce  tra  queste  entità  e  le  scienze  ma- tematiche. Noi  abbiamo  visto  che  le  entità  matematiche sono  gli  oggetti  a  cui  si  riferiscono  la  scienza  dei  numeri e  delle  grandezze;  e  Aristotile  assegna  questo  motivo  alla dottrina,  che  la  possibilità  delle  matematiche  (cioè  del- l'aritmetica e  della  geometria)  suppone  i  numeri  (mate- matici) e  le  grandezze  come  separabili  (xoptaxot),  cioè  co- me sostanze.  «  Quelli  che  ammettono  il  numero  (matema- tico) come  separato  (xwptaxóv),  è  perchè  le  proposizioni non  si  riferiscono  ai  sensibili,  ma  intanto  ciò  che  dicono è  vero  e  persuade  lo  spirito,  che  credono  che  il  numero sia,  e  sia  separato  (xwptaxóv),  e  similmente  le  grandezze matematiche  ».  È  un'  applicazione  della  prova  delle Idee  dalle  scienze.  Evidentemente  su  questo  fondamento non  potrebbe  stabilirsi  una  teoria  secondo  cui  i  numeri e  le  grandezze  costituirebbero  le  leggi  del  mondo  reale, n^  semplicemente  la  realizzazione  dei  concetti  dei  nu- nferi  e  delle  gran.iezze.  Ciò  poi  che  si  deve  notare  è  che la  funzione  di  essere  gli  oggetti  a  cui  si  riferiscono  le scienze  matematiche,  viene  assegnata  alle  entità  mate- matiche in  contrapposto  ai  numeri  ideali  Cosi  nel  1.  Ili II.  15  ArÌNtotile  domanda  se  «  bisogni  ammettere  altre sostanze  oltre  le  sensibili,  e  se  un  solo  genere  o  più  di queste  sostanza  come  quelli  che  ammettono  le  Idee  e  le entità  intermediarie,  alle  quali  dicono  riferirsi  le  scienze matematiche  ».  E  nel  1.  I.  IX.  16  osserva  che,  se  le  Idee sono  numeri,  «  è  necessario  di  stabilire  un  altro  genere di  numero,  a  cui  si  riferisca  l'aritmetica,  e  tutte  quelle entità  che  alcuni  chiamano  intermediarie  ».  L'aritmetica non  può  riferirsi  al  nimero  ideale,  perchè  esso  rappre- (1)  Mei.  1,  XIV.  111.  4. senta,  non  le  semplici  proprietà  aritmetiche  delle  coma  le  leggi  e  le  forme  del  mondo  real  ;  e  si  riferisce  al numero  matematico,  appunto  perchè  questo  rappresenta non  le  leggi  e  le  forme  del  mondo  reale,  ma  le  semplici proprietà  aritmetiche  delle  cose.  Per  conseguenza  Ari- stotile dice  dei  filosofi  che  ammettono  il  solo  numero' matematico  -  per  i  quali  questo  numero  non  è,  come per  Platone,  che  la  semplice  sostantificazioue  degli  attri- buti matematici  -  ch'essi  parlano  delle  cose  matematiche matematicamente;  mentre  rimprovera  a  quelli  che  iden- tificano il  numero  matematico  con  l'ideale -e  perciò  gli fanno  rappresentare  dei  concetti  che  oltrepassano  la scienza  dei  numeri  -  di  parlare  delle  cose  matematiche non  matematicamente  (1),  e  di  sopprimere  in  realtà  il numero  matematico,  perchè  fanno  delle  supposizioni  loro proprie  e  non  matematiche  (2). Un'altra  prova  delMequivalenza  dei  numeri  matema- tici di  Platone  coi  numeri  dì  cui  parla  1'  aritmetica,  si ha  nei  caratteri  per  cui  egli  distingue  i  numeri  mate- matici e  gl'ideali.  Questi  sono,  còme  sappiamo,  la  com- binabilìtà  e  V incombinabilità.  Attribuendo  T  una  ai  nu- meri matematici  e  l'altra  ai  numeri  ideali,  Platone  evi- dentemente vuol  significare  ch3  i  primi  sono  i  numeri' stessi  di  cui  sì  tratta  nell'aritmetica,  mentre  i  secondi  ne differiscono.  È  ciò  che  Aristotile  ci  indica  in  vari  luoghi, p.  e.  in  Met.  1.  XIII.  VI.  2-3,  in  cui  parla  delle  diverse ipotesi  possibili  sulle  entità  numeri,  cosi  :  o  i  numeri sono  differenti  di  specie,  e  qualsiasi  unità  è  incombinabile con  qualsiasi  altra;  o  tutte  le  unità  sono  combinabili  ru- na qualunque  con   un' altra  qualunque, come    dicono (1)  Met.  1.  Xlll.  Vi.  8.  L.  Xlll,  IX.  l3  e  Vni.  8. (i  Platonici)  essere  il  numero  matematico  —  nel  numero matematico  infatti  nessuna  unità  differisce  da  un'altra» (è  evidente  che  qui  il  numero  matematico  vuol  dire,  non le  entità   che  Platone   designa  con  questo  nome,    ma  i numeri  nel  senso  ord'nario,  di  cui  tratta  la  matematica); o  le  unità  di  ciascun  numero  sono  combinabili  tra  loro, ma  incombinabili  con  quelle  di  c'ascua  altro  (è  l'ipotesi platonica  sui  numeri  ideali);  ovvero  infine  un  numero  è quale  abbiamo  detto  il  primo,  un  altro  quale  l'ultimo,  e un  altro  quale    dicono  i  matematici.    Altrove    i^Met.)  dice:    «Se  le  unità  sono  incombinabili,  e incombinabili  l'una  qualunque  con  un'altra  qualunque, non  è   possibile   che  questo   numero  s*a  il  matematico; poiché  il  numero  matematico  è  costituito  di  unità  senza differenza,  e  tutto  ciò   che  si    dimostra  di   es-^o  (senza dubbio  dai  matematici)  gli  conviene  come  tale».  Non  è sorprendente  che  Platone  abbia  visto  neirincombinabilità il  carattere  distintivo  per  eccellenza  del  numero    ideale da  quello  a  cui  si  riferisce  l'aritmetica,  la  combinabilità dei  numeri   a  cui  essa  si   riferisce   essendo  il  postulato fondamentale  di  questa  scienza,  che  ha  appunto  p'^r  og- getto la  combinazione  di  questi  numeri.  Ma  se  i  numeri matematici  fossero  le  leggi  dt^l  mondo  sensibile  e  le  Idee nel  loro  rapporto  con  la  materia,  essi  dovrebbero  essere incombinabili  come  gì'  ideali  :  noi  abbiamo  visto  infatti che  questi  sono  incombinabili,  perchè  un'Idea  non  è  una parte  delle  altre  Idee;  ora  anche  una  legge  della  natura (salvo  l'inerenza  del  generale  nel  particolare,  che  esiste pure  nelle  Idee)  non  è  una  parte  delle  altre  leggi  della natura. Infine,  il  valore  puramente  aritmetico  e  geometrico delle  entità  matematiche  è  dimostrato  da  un'obbiezione che  Aristot'le  fa  ripetutamentealladottrina.Per  le  stesse ragioni,  egli  dice,  per  cui  vi  hanno  delle  grandezze  e dei  numeri,  intermediari  tra  gl'ideali  e  i  sensibili,  do- vrebbero anche  esservi  un  alro  cielo  ed  altri  astri  oltre i  sensibili  e  le  loro  Idee;  e  sin^lmento  delle  entità  in- termediarie tra  le  Idee  e  i  sensibili  per  gli  oggetti  del- l'ottica e  dell'armonia;  e  sensi  ei  oggetti  dei  sensi  ed animali  intermediari  tra  grideali  e  i  corruttibili;  e  una sanità  intermediaria  tra  la  sanità  in  sé  e  la  sanità  reale; e  un  terzo  uomo  intermediario  tra  V  uomo  in  sé  e  gli uomini  particolari;  e  in  generale  per  tutte  le  cose  di  cui vi  hanno  Idee  dovrebbero  esservi  delle  entità  interme- diarie tra  le  cose  stesse  e  le  loro  Idee  (i).  È  chiaro  che quest'obbiezione  suppone  che  le  entità  matematiche  rap- presentano, non  tutte  le  determinazioni  del  reale,  ma  solo le  matematiche  (cioè  quelle  studiate  dairaritmetica  e  la geometria),  e  che  il  loro  titolo  d' intermediarie  significa che  esse  tramezzano,  non  tra  le  cose  e  le  Idee  nella  loro totalità,  ma  tra  gli  attributi  aritmetici  e  geometrici  delle cose  e  le  Idee  di  questi  attributi.  Se  esse  tramezzassero  tra le  cose  e  le  Idee  nella  loro  totalità,  e  fossero  le  Idee stesse  come  leggi  del  mondo  sensibile,  Aristotile  non potrebbe  rimproverare  alla  dottrina  di  non  ammettere per  le  altre  cose,  come  per  le  grandezze  e  i  numeri,  un che  d'intermediario  tra  l' Idea  e  il  fenomeno,  poiché  il mondo  delle  entità  iijitermediarie  sarebbe  già,  in  quest'i- potesi, un'altra  ripetizione  del  mondo  delle  cose,  come quello  delle  Idee. Stabilito  il  significato  puramente  matematico  delle  en- tità intermediarie,  possiamo  passare  ai  motivi  della  dot- trina. Il  concetto  che  deve  servirci  di  guida  é  la  dipen- denza di    questa  dottrina  da    quella  dei  numeri    ideali. (1)  Met,  — Questa  dipendeuasa  ci  è  att^^stata  da  Aristotile,  Ricor- diamo il  lungo  citato  di  Mi.  1.  I.  Se  le  Idee SODO  numeri,  sarà  necessario  di  apparecchiare  un  altro genere  di  numero  circa  cui  V  aritmetica,  e  tutte  quelle entità  che  alenai  ch'amano  intermediarie  ».  La  quistione si  riduce  dunque  per  noi  a  comprendere  :  perchè  Pla- tone ha  distinto  i  numeri  matematici— cioè  quelli  che  sono Tog^etto  deirartmetica  — dai  numeri  ideali  — cioè  da quelli  con  cui  venivano  identificate  le  Idee—,  e  li  ha  loro subordinati  come  più  particolari;  e  perchè  non  ha  riso- luto in  numeri  anche  le  grandezze  geometriche  —  come avrebbe  dovuto  seguire  dal  principio  generale  che  gli esseri  sono  numeri—,  ma  solo  le  forme  dei  generi  su- premi di  queste  grandezze. La  dottrina  pitagorica  dei  numeri,  rìgidamente  inter- pretata, avrebbe  certamente  condotto  a  fare  una  cosa sola  delle  Idee  -  numeri  coi  numeri  aritmetici  :  è  11  in effetto  che  arrivò  Xenocrate,  il  filosofo  che,  tra  i  plato- nici pitagoreggianti,  è  il  più  vicino  al  pitagorismo  ge- nuino. Tuttavia  non  è  sorprendente  che  Platone  abbia indietreggiato  dinnanzi  a  questa  conseguenza  logica  della fusione  del  sistema  deUe  Idee  coi  concetti  pitagorici. Anche  tra  i  veri  Pitagorici,  pochi  verisimilmente  avreb- bero acconsentito  a  prendere  la  formula  che  le  cose  sono numeri  nel  senso  che  gli  esseri  non  sono  altra  cosa  che i  loro  attributi  aritmetici,  che,  per  esempio,  quando  si diceva  che  la  giustizia  è  il  numero  quattro,  il  matrimo- nio il  numero  cinque,  Tanima  il  numero  sei,  ciò  voleva dire  precisamente  che  la  giustizia  è  identica  perfetta- mente all'attributo  comune  a  una  coUezione  qualunque di  quattro  oggetti,  il  matrimonio  di  cinque,  l'anima  di sei.  La  sastantificazione  platonica  degli  universali  ve- niva poi  al  accrescere  le  assurdità  di  una  tale  interpre- tazione.  Sp,  p.  e.,  l'Idea  dell'uomo  è  il  numero  tre,  biso- gnerà intendere  per  ciò  che  il  complesso  degli  attributi comuni  a  tutti  gli  uomini,  considerato  come  uno  e  Io stesso  in  tutti,  è  l'attributo  comune  a  tutti  i  gruppi  di tre  oggetti,  considerato  anch'esso  come  uno  e  lo  stesso in  tutti?  o  semplicemente  che  1'  entità  chiamata  il  Tre in  sé  rappresenta  al  tempo  stesso  l'Idea  dell'uomo  e  l’essenza  comune  di  tutti  i  gruppi  di  tre  oggetti,  quan- tunque queste  s'ano  due  cose  per  se  stesse  distinte?  Ma in  questo  secondo  caso,  per  la  stessa  ragione  per  cui  si fa  un'entità  distinta  dell'Idea  dell'uomo,  dovrebbe  anche farsi  un'enttà  distinta  dell'essenza  comune  di  tutti  i gruppi  di  tre  oggetti,  cioè  del  tre  matematico,  l'esigenza necessaria  del  sistema  delle  Idee  essendo  che  ciascun universale  venga  separato,  e  se  ne  faccia  un'entità  esi- stente per  se  stessa. Noi  comprendiamo  dunque  perfettamente  la  necessità^ in  cui  Platone  si  è  trovato,  di  ricorrere  all'ipotesi  poco naturale  di  un  altro  numero  distinto  da  quello  che  è  l'og- getto dell'aritmetica.  Senza  dubbio,  quando,  dopo  aver affermato  che  le  cose  sono  numeri,  si  soggiunge  che  que- sti numeri  non  sono  quelli  con  cui  ha  da  fare  l'aritme- tica,  la  scconia  proposizione  ha  tutta  1'  aria  di  essere una  sconfessione  d^lla  prima;  dei  numeri  differenti  dalle determinazioni  delle  cose  che  studia  l'  aritmetica,  non essendo,  a  parlar  propriamente,  dei  numeri.  Cosi  la  di- stinzione tra  i  numeri  ideali  e  i  numeri  matematici  ci  dà un'  altra  prova  di  un  fatto,  che  noi  abbiamo  notato  a proposito  della  riduzione  ai  numeri  della  sola  forma  delle cose,  cioè  che  il  pitagorismo  di  Platone  non  è  andato sino  ad  accettare  l'identificazione  pura  e  semplice  delle cose  coi  numeri  che  egli  trovava  nelle  formule  pitago- riche. Ma  Tallontanamento  di  Platone  dai  Pitagorici  non poteva  esser  tale  da  metterlo  in  aperta  contraddizione con  le  loro  proposizioni.  È  ciò  le  sarebbe  avvenuto,  se la  distinzione  del  numero  ideale  dal  matematico  fosse assoluta.  Quando  i  Pitagorici  rappresentavano  le  cose per  dei  numeri,  identificavano,  almeno  verbalmente,  i concetti  delle  cose  con  quelli  dei  numeri  :  essi  dicevano, p.  e.,  il  numero  quattro  è  la  giustìzia,  il  sette  il  tempo opportuno,  l’uno  la  mente,  il  due  l’opinione;  e  questi concetti  dei  numeri,  con  cui  quelli  delle  cose  venivano identificati,  non  erano  evidentemente  per  loro  che  i  con- cetti stessi  che  i  nomi  dei  numeri  esprimevano,  quando designavano  le  semplici  determinazioni  aritmetiche.  Il quattro,  il  sette,  il  due  non  erano  per  loro  dei  termini equivoci,  quando  indicavano  i  numeri  della  giustizia,  del tempo  opportuno  e  deiropinione,  e  quando  venivano  im- piegati semplicemente  per  denotare  i  gruppi  di  quattro, di  sette  e  di  due  oggetti.  Per  conseguenza  i  numeri  ideali di  Platone  dovevano  rappresentare  i  concetti  (astratti  e generali)  dei  numeri,  a  cui  le  stesse  determinazioni  arit- metiche erano  subordinate;  dovevano  essere,  in  altri  ter- mini, i  numeri  in  sé,  le  essenze  dei  numeri,  per  la  cui partecipazione  gli  stessi  numeri  matematici  sono  chia- mati uno,  due,  tre,  ecc.  Cosi  Platone  identificava  in  un certo  modo,  nel  tempo  stesso  che  li  distingueva,  ì  numeri ideali  e  i  numeri  matematici.  In  effetto  il  rapporto  che vi  ha  fra  i  due  numeri,  è  quello  di  anteriorità  e  poste- riorità  i  numeri  ideali,  cioè  quelli  con  cui  egli  iden- tificava i  concetti  obbiettivati  delle  cose,  sono  i  primi numeri,  perdio  il  primo  è  V  in  sé  (aOxó);  i  numeri  ma- tematici sono  loro  posteriori,  perchè  il  partecipante  è  po- steriore al  partecipato:  ora  il  posteriore  nonèchel'an- V.  Al.  Afrod.  in  Arisi.  Mtt,  1.  1.  V.  t.  32. tori<re  stesso,  a  un  grado  ulteriore  di  determinazione  o di  coDcretizzazione. Da  questa  relazione  che  Platone  stabilisce  tra  i  nu- meri matematici  e  i  numeri  idt»ali    segue   V  altro    punto capitale  della  dottrina.  Secondo  i  principii  della  dialettica platonica,   V  anteriore  e  il  partecipato  è  l'uno,  il    poste- riore e  il  partecipante,  il  multiplo.  Il  separàbile  (xwptaxóv) è  il  comune,  Vuno  nei  molti:  ora   Platoae  dai    numeri matematici  separa  (xwpC^sO  le  essenze stesse  dei  numeri  i  numeri  ideali,  per  la  cui    partecipazione  il  due, il  tre,  il  quattro,  ecc.  matematici  souo  chiamati  due,  tre, quattro,  ree.  :  per  consegut^nza  il  dup,  il  tre,  il  quattro, ecc.  ideali,  in  relazione  al  due,  al  tre,  al  quattro,  ecc. matematica,  da  cui  si  separano^   devono  essere  ciascuno Vuno  nei  molti.  Di  là  la  proposzione  che  dei  numeri  ma- tcmat'ci    ve  uè  hanno  molti  della  stessa  specie,  cioè  che vi  ha  una  moltitudine  di  unità,  di  dualità,  di  trinità,  ecc. matematiche,  altrettante   quante  volte  V  uno,  il  due,    il tre,  ecc.  si  ripetono  nel  numero  infinito. Non  bisogna  credere  tuttavia  che  il  numero  ideale  sia ciò  che  vi  ha  di  comune  nei  molti  numeri  matematici ad  esso  subordinati;  che  TUnità  ola  Dualità  ideali  siano alle  unità  o  dualità  matemitiche  ciò  che  la  specie  è  agli individui  o  il  genere  alle  specie.  Se  il  numero  ideale racchiudesse  nella  sua  comprensione  tutto  ciò  che  vi  ha di  comune  nei  numeri  matematici  di  cui  esso  è  T  uno  nei molti,  la  distinzione  tra  le  due  sorta  di  numeri  non  avrebbe più  alcun  significato  ;  perchè  in  questo  caso  i  numeri ideali  non  sarebbero  che  le  essenze  o  i  concetti  generali dei  numeri  matematici.  Il  numero  ideale  comprende dunque,  non  la  totalità  delle  note  comuni  ai  numeri  ma- tematici subordinati,  ma  una  parte  solamente  di  queste note;  non  è  il  concetto  comune  dei  numeri  matematici, ma  qualche  cosa  di  più  indeterminato.  È  ciò  che  Platone ci  indica,  quando  fa  déìVincombinabilità  il  carattere  di- stintivo dei  numeri  matematici  dai  numeri  ideali.  Se  i numeri  ideali  fossero  i  concetti  comuni,  nel  senso  stretto, dei  numeri  matematici,  essi  dovrebbero  essere  combinabili come  questi.  Per  Tincombinabilìtà  dei  numeri  ideali non  bisogna  iotendere  la  presenza  in  questi  numeri  d'un attributo  positivo  contrario  a  quello  dei  numeri  mate- matici, cioè  alla  combinabilità,  ma  solo  l'assenza  di  que- sto carattere  dei  numeri  matematici.  Essa  significa  duu-' que  che,  tra  le  note  del  numero  matematico  di  cui  deve farsi  astrazione  per  concepire  il  numero  ideale,  vi  ha  la combinabilità;  che  questa  è  una  determinazione  nuova, che,  nella  concro.tizzazione  progressiva  dell'  essere,  si aggiunge  al  numero  ideale,  per  formare  il  numero  ma- tematico.  Il  pensiero  di   Platone  è,  al  fondo,   che  il Secóndo  Aristotile,  Platone  avrebbe  ammesso  che  le  unità  dei  di- versi numeri  ideali  sono  differenti  fra  di  loro  e  non  semplicemente  non identiche;  e,  per  conseguenza,  che  questi  numeri  sono  gli  wnX  fuori  degli altri,  e  non  semplicemente  che  non  sono  contenuti  gli  uni  negli  altri  come i  matematici  (vedi  i  1.  indicati  nelle  note  1  e  3  a  carta) Ma,  malgrado  l'autorità  di  Aristotile,  io  non  posso  ammettere  che  Platone sia  caduto  in  una  contraddizione  si  evidente,  qual  è  di  fare  dei  numeri ideali  delle  essenze  di  cui  i  numeri  matematici  partecipano,  ed  attribuire al  tempo  stesso  ad  essi  dei  caratteri  positivi  opposti  a  quelli  dei  numeri matematici.  Il  partecipato  può,  anzi  deve,  mancare  di  certi  attributi  del partecipante,  perché  esso  è  più  astratto  e  questo  più  concreto;  ma  è  im- possibile che  abbia  de^li  attributi  positivi  contrarli,  perchè  non  è  che una  parte  della  sua  comprensione.  Nel  sistema  delle  Idee,  la  negazione deir identità  non  importa  necessariamente  l'atfermazioue  della  differenza, né  la  negazione  della  contenenza  di  una  cosa  in  un'  altra  1'  alfcrmazione dell'  esteriorità  dell'  una  cosa  all'  altra.  Per  formarsi  un  concetto  più astratto,  bisogna  escludere  certe  note  dei  concetti  più  concreti  in  cui esso  è  compreso,  ma  questa  esclusione  non  importa  V  inclusione  di note  positive  contrarie.  Ora  le  entità  platoniche  non  sono  che  i  concetti realizzati;  Platone  può  dunque  negare  di  un'entità  più  astratta  certe  de- numero  su  cui  volge  V  aritmetica  vale  a  dire  ciò  che noi  chiamiamo  numero  non  è  che  un  caso  particolare del  numero;  che  i  numeri  in  se  stessi,  essenze  comuni delle  Idee  e  dei  numeri  matematici,  sono  alcun  che  di uno  e  lo  stesso  nelle  une  e  negli  altri,  e  di  più  gene- rale che  le  une  e  che  gli  altri;  che  vi  ha,  al  di  sotto delle  differenze,  un'identità  fondamentale  tra  le  determi- nazioni aritmetiche  e  le  forme  degli  esseri,  e  il  punto di  coincidenza  in  cui  queste  e  quelle  convergono  e  sM- dentificHUo,  sono  i  numeri  ideali.  Semplicemente  Platone non  può  dare  espressamente  le  Idre  (cioè  le  forme  degli esseri)  come  V altro  caso  particolare  del  numero:  la  fu- sione del  s  stema  delle  Idee  con  la  dottrina  pitagorica dei  numeri  esige  che  le  Idee  siano  identificate  coi  nu- meri in  se  stessi,  non  con  un  numero  particolare;  nel secondo  caso  i  concetti  delle  cose  non  s'identificherebbero. terminazioni  di  un'altra  entità  più  concreta  in  cui  quella  è  compresa, senza  intendere  perciò  affermare  di  essa  delle  determinazioni  contrarie. Egli  può,  p.  e.,  n^ìgare  dell  animale  in  sé  le  note  proprie  dell'uomo,  senza affermarne  perciò  juelle  del  bruto;  negare  dell'esseie  in  sé  le  note  pro- prie del  mosso,  senza  atferrcarne  perciò  quelle  del  quieto.  Senza  dubbio è  impossibile  di  concepire  un  animale  che  non  è  né  uomo  né  bruto,  un essere  che  non  è  Jié  mosso  né  quieto,  delle  cose  che  non  sono  né  iden- tiche né  differenti,  né  contenute  l'una  nell'altra  né  l'una  fuori  dell'altra: ma  io  non  pretendo  che  le  entità  platoniche  siano  concepibili. Il  difetto  dell'interpretazione  d'Aristotile  del  sistema  platonico  é  la sua  tendenza  a  rajipresentarj^i,  più  che  é  possibile,  le  entità  astratte  del maestro  sul  modello  delle  cose  sensibili  e  immaginabili:  le  Idee  non  sono^ secondo  lui,  che  dei  sensibili  eterni,  come  gli  dei  del  volgare  non  sono che  degli  uomini  eterni  (A/e/,  l.  111.  11.  16).  Di  là  la  sua  propensione  al- l'interpretazione trascendentalista;  di  là  il  concepire,  eh*  egli  fa,  le  Ide<i come  delle  forme  immobili  e  inattive.  Per  un  effetto  della  stessa  tendenza, degli  attributi  indicanti  la  semplice  assenza  di  certe  determinazioni,  sono intesi  da  lui  come  se  significassero  la  presenza  delle  determinazioni  con*^ trarlo.  j:__j y.  come  nelle  formule  pitagoriche,  coi  concetti  dei  numeri, e  inoltre  i  numeri -Idee  e  i  numeri  aritmetici  sareb- bero due  cose  assoluf amente  distinte,  ciò  che  la  subor- dinazione dei  numeri  matematici  agi*  ideali  ha  appunto per  r gge tto  di  evitare. In  quanto  all'altra  parte  della  nostra  quist'one,  cioè perchè  Platone  non  risolvesse  in  numeri    nuche  le  gran- dezze geometriche,  noi  vi  abbiamo  già  dato   una  rispo- sta assai  ovvia  :  è  che  il  numero  ideale   rappresentava la  sola  forma  delle  cose,  mentre  le  grandezze  matema- tiche rappresentavano  tanto  la  forma  qnanto  la  materia delle  grandezze  reali.  Noi    abbiamo  visto  infatti  ch*^    le grandezze   matematiche  si    compongono    d'  un  elìo^  che esse  ricevono  dai   numeri  ideali,    e  d'  una  materia   che non  è  altra  cosa  che  l'estensione  (in  lunghezza,  in  Rir^r- ficie  e  in  volume).  Dall'  altra  parte  abbiamo  visto   pure che  il  num'^ro  'Matooico  si  distingue  dal  numero  pitago- rico perchè  mn;  idico,  e  che  questa  distinzione  significa che  il  numero  pitagorico  ha  grandezza,  vale  a  dire  delle cose  rappresenta  anche  V  estensione,  mentre  il  numero platonico  è  senza  grand  zza,  cioè  rappresenta  la  forma separata  dalla  materia  o  dair  est'^nsione (termini  equi- pollenti,  perchè  la  materia  delie  cose  è  per    Platone  lo spazio).  Ma  questa  risposta  che    abbiamo  data   provoca naturalmente  un'altra  quistione  :  perchè  Platone  non  ha ridotto  le  grandezze  matematiche  a  delle  semplici  forme come  gli  altri  concetti  obbi^t  ivati  della  sua  metafisica  ? Evidentemente  Platone  ritiene  V  elemento  materia  indi- spensabile a  costituire  il  concetto  della  grandezza.  L'Idea platonica    rappresenta,  è  vero,    la  sola   forma  :  ma    di questa  forma  egli  ne  fa  l'essenza  stessa,  il  concetto  com- pleto della  cosa.   È  ciò  che  risulta    dai  termini   per  cui egli  designa  le  Idee,  dalle  prove  con  cui  ne  dimostrala '»!    t esistenza,  e  in  una  parola  da  tutti  i  dati  che  abbiamo per  determinare  la  natura  dell'Idea  platonica.  Se  questa non  rappresentasse  il  concetto  nella  sua  integrità,  Pla- tone non  le  darebbj  il  nome  stesso  d'ella  cosa,  con  l'ag- giunzione delle  parole  aÙTÓ,  5  Ioti,  ecc.,  che  indicano  ap- punto che  l'Idea  è  l'attributo  o  Tinsieme  di  attributi  con- notato dal  nome;  non  la  chiamerebbe  il  genere  e  la  spe- cie, Tessenza  e  la  natura  ;  non  la  riguarderebbe  come l'oggetto  a  cui  si  riferisce  il  concetto  e  la  definizione; non  direbbe  che  è  l'universale,  l'uno  nei  molti,  ecc.  An- che per  Aristotile,  la  cui  dottrina  sulla  forma  e  la  ma- teria non  è  che  la  riproduzione  di  quella  di  Platone,  salvo la  differenza  tra  il  concettualismo  dell'uno  e  il  realismo dell'altro,  TelSog  (la  forma)  equivale  all'  oòoiot,  o  xò  zi  y)v rivai  (l'essenza)  e  al  lógos, il  concetto.  Se  dunque  l'^en- t'tà  corrispondenti  alle  grandezze  geometriche  ne  rap- presentassero la  sola  forma,  Platone  dovrebbe  ammettere che  la  forma,  per  se  sola,  esaurisce  il  concetto  o  l'es- senza di  queste  grandezze.  Ma  sarebbe  strano  che  l'es- senza della  grandezza  (nel  senso  che  i  logici  danno  alla parola  essenza)  non  fosse  grandezza  essa  stessa— poiché, non  bisogna  dimenticarlo,  la  differenza  tra  il  numero platonico  e  il  numero  pitagorico  è  che  questo  ha  gran- dezza e  quello  no ;  che  l'attributo  estensione  (sinonimo, per  Platone,  di  materia)  non  entrasse  nel  concetto  della forma  geometrica,  la  cui  definizione  è  :  un'  estensione circoscritta.  Senza  dubbio,  è  anche  strano  che  l'estensione non  faccia  parte  del  concetto  dell'uomo,  del  dente,  del- l' albero,  e  in  una  parola  di  tutti  gli  oggetti  estesi.  Vi ha  tuttavia  tra  gli  oggetti  che  hanno  grandezza  e  le grandezze  in  se  stesse  una  dìflerenza  importante.  Quando Platone  sopprime  l'attributo  estensione  dal  concetto  dei- Tuomo,  del  dente  o  dell'albero,  egli  può  credere  che  ne C M 208 (  r,  l'I !'   I    »J   •m'.'' ^ resti  ancora  qualche  cosa,  e  chiamare  questo  resto  Tes- senza  deiruomo,  del  dente,  deiralbero,  perchè,  oltre  l'e- stensione, la  nozione  di  un  oggetto  esteso  comprende tanti  altri  attributi  :  le  altre  qualità  sensibili,  le  energie di  cui  è  dotato,  la  funzione  o  lo  scopo  *a  cui  è  destinato è  sovratutto  per  quest  'ultimo  attributo  chePlatone  defi- nisce le  cose;  ma  se  si  toglie  IVstensione  dal  con- cetto della  grandezza  geometrica,  è  evidente  che  non  re- sta assolutamente  niente,  perchè  una  grandezza  geome- trica non  é  che  una  porzione  limitata  dell'  estensione. Quest'impossibilità  assoluta  di  dare  per  oggetto  ai  con- cetti delle  grandezza  geometriche  delle  entità  in  cui  Tat- tributo  estensione  non  sia  rappresentato,  era  un  fatto  di cui  Platone  aveva  un'  esperienza  continua  :  la  geometria  che  era  una  delle  scienze  di  cui  egli  si  occupava con  specialità  essendo  lo  studio  dei  rapporti  di  misura delle  grandezze  estese,  come  potrebbe  questa  scienza  ri- ferire ad  oggetti  senza  estensione,  e  non  suscettibili, per  conseguenza,  di  rapporti  di  misura  ?  La  dottrina sulle  grandezze,  come  quella  sui  numeri  matematici,  è dunque  un  effetto  dell'  adesione  incompleta  che  Platone fa  alla  dottrina  pitagorica  dei  numeri  :  l' incoerenza  di distinguere  le  grandezze  matematiche,  quantunque  en- tità universali  anch'esse,  dalle  Idee  non  è  che  un  aspetto della  contraddizione  insolubile  in  cui  egli  necessariamente s'inviluppa,  riducendo  al  numero  la  sola  forma  delle cose,  mentre  è  in  esso  che  ne  fa  consistere  l'essenza. Ma  quantunque  Platone  si  rifiutasse  a  ris«  Ivere  le grandt'zze  in  numeri,  egli  non  poteva  tuttavia  sottrarsi all'esigenza  imperiosa  della  logica,  che  gl'imponeva,  s'è vero  che  il  reale  consiste  nel  numero,  a  ricondurre  tutto (1)  V.  Arist.  De  An.  1.  I.  I.  n. ai  numeri  ideali.  Per  conseguenza  fgli  fa  risultare  le grandezze  dai  numeri  ideali  che  ne  costituiscono  le  for- me (el^Yj)  e  dalla  materia  (Dualiià  indefinita).  Ora  se- condo i  principii  drl  sistema  delle  Idee,  queste  forme (et^rj)  delle  grand«5zze,  ch(3  Platone  rappresenta  per  dei numeri,  devono  essere  necessariamente  più  elevate  i)i generartà  delle  grandezze  stes  e,  cioè  delle  entità  com- poste di  forma  e  di  materia  e  che  egli  chiama  matema- tiche. Platone  non  può  ad  un  concetto  di  grandezza  far corrispondere  al  tempo  stesso  due  ent'tà  :  un'entità  ma- tematica, composta  di  forma  e  di  materia,  e  una  forma pura,  rappresentata  da  un  numero  i^ieale.  Ciò  è  perchè, nel  sistema  delle  Idee,  tra  il  più  astratto  e  il  più  con- creto, in  altre  parole,  tra  ciò  che  si  separa  (xcoptl^sxaij e  ciò  da  cui  si  separa,  vi  ha  la  relazione  dell'universale al  particolare,  dell'uno  ai  molti.  Così,  le  entità  rappre- sentanti le  forme  pure  essendo  più  astratte  delle  entità rappresentanti  i  composti  di  forma  e  di  mat^Tia,  quelle devono  essere  più  universali  e  queste  più  particolari;  in nitri  termini  i  concetti  a  cui  si  fanno  corrispondere  delle Idee-numeri  devono  essere,  non  gli  stessi  concetti  a  cui si  fanno  corrispondere  delle  entità  matematiche,  cioè composte  di  forma  e  di  materia,  ma  altri,  a  cui  questi siano  subordinati  in  generalità.  E  siccotne  i  concetti, corrispondenti  alle  entità  matematiche,  sono  alla  loro volta  più  geìierali  che  le  cose  di  cui  essi  sono  i  concetti, noi  possiamo  pure  esprimere  lo  stesso  fatto  dicendo:  che le  grandezz'ì  matematiche  devono  essere  intermediarie c'oè  devono  tramezzare  in  generalità,  e  perciò  anche occupare  un  po^^to  medio  nella  sequenza  logica  degli esseri  (anteriorità  e  posteriorità) tra  le  idee  delle  grandezze e  le  grand'^zze  sensibili. Platone  divìde  dunque  i  concetti  delle  grandezze    in   - 1  »l f due  classi,  a  cui  fa  corrispondere  due  differenti  sorta  di entità:  ai  più  particolari  assegna  le  entità  matematiche, composte  di  forma  e  di  materia,  e    ai    più    generali    le Idee -numeri,  che   sono  delle   semplici  forme. Ma    cosi facendo,  va  naturalmente  incontro   ad    un'evidente    in- coerenza, cioè  di  obbiettivi!  re  di  alcuni  concetti  il  smo/o, il  composto  di  forma  e  di  materia,   e  di    altri    la    sola forma.  Perciò  egli  non  ammette  che   altrettanti    numeri ideali  per  le  grandezze  quante  sono  le  specie  del  Grande e  Piccolo  che  servono  loro  di  materia:  è  che    cosi   l'in- coerenza viene  in  un  certo  modo  evitata,  poiché,  unen- do ciascuno  di  questi  numeri  alla  specie  corrispondenbe  del Grande  e  Piccolo,  si  ha  il  concetto  obbiettivato  nella  sua integrità  (forma  e  materia)— ciò  che  Platone  chiama  la  linea stessa,  il  piano  sfesso,  il  solido  stesso,  mentre,  se  si  aggiun- gessero aldi  lìumeri,  si  avrebbero  necessariamente  delle forme  senza  materia.  Questo  ci  spiega  perchè  vi  hanno  delle Idee-numeri  pei  generi  supremi  delle  grandezze,  ma  non ve  ne  hanno  pei  generi  intermedi  fra  di  essi  e  le  specie  ulti- me. In  quanto  airesclusione  di  questi  generi  intermedi  an- che dal  rango  di  entità  matematiche,  noi  ne  abbiamo  già notato  il  perchè  :  è  V  assimilazione   del  rapporto    tra  le grandezze  matematiche  e  le  loro  Idee  al  rapporto  tra  gli individui  e  le  loro  Idee  specifiche  ;  assimilazione  che  è, alla  sua  volta,  un  a   crnsegucnza  della  distinzione   delle entità  matematiche  dalle  Idee,  Platone  non  potendo  am- mettere questa  distinzione  senza  negare  a  queste  entità la  qualità  di  specie,  e  riguardare  come  loro  specie  le  Idee infime  a  cui  le  subordinava. Nella  dottrina  delle  entità  matematiche  bisogna  di- stinguere evidentemente  due  parti,  che  si  sono  formate in  due  periodi  distinti  della  speculazione  platonica.  L'una è  robbiettirazione  dei  concetti  dei  numeri  e  delle  gran- dezze geometriche  :  essa  è  nata  dal  punto  di  vista  pu- ramente platonico,  essendo  una  semplice  applicazione della  teoria  delle  Idee,  ed  è  per  conseguenza  anteriore all'epoca  del  sincretismo  con  le  dottrine  pitagoriche. L'altra  è  la  distinzione  di  questi  concetti  obbiettivati  da quelli  a  cui  si  riserba  il  nome  d'Idee,  e  il  posto  loro  as- segnato d'intermediari  fra  queste  e  le  cose  :  essa  sup- pone la  teoria  dei  numeri  id^a'i,  e  non  può  esser  nata perciò  che  nel  periodo  p'tagopeggiante.  Ciò  è  provato, oltre  che  dalla  natura  stessa  di  questa  parte  della  dot- trina, dal  luogo  citato  della  Metafisica,  in cui  Aristotile  dà  la  teoria  delle  entità  intermediarie  come una  conseguenza  della  identificazione  delle  Idee  coi  nu- meri; e  se  ne  ha  la  conferma  negli  stessi  dialoghi  di Platone.  È  evidente  in  effetto  che  nella  classe  delle  Idee o  delle  Specie  l'autore  comprende,  pressoché  dapertutto ov'è  quisr.ione  della  dottrina  delle  Idee,  non  una  parte solamente  ma  la  totalità  dei  suoi  concetti  obbiettivati  fi), e  talvolta  anche  e^^plicitamente,  come  nei  luoghi  del Fedone  (101  e  104-105)  indicati  al  n.  I,  quelli  che  in  Ari- stotile i-ono  classati  tra  le  entità  matematiche. J^e  modificazioni  apportate  alla  dottrina  primitiva  su- gli oggetti  matematici,  per  distinguerli  dalle  Idee-nu- meri e  loro  subordinarli,  si  riducono  in* sostanza,  oltre alla  restrizione  arbitraria  delTuso  del  termine  Idea  e  si- nonimi, a  tre  punti  :  per  quel  che  riguarda  i  numeri, la  moltiplicità  delle  unità,  diadi,  triadi,  ecc.  matematiche, e  la  derivazione  di  queste  dall'unica  unità,  diade,  triade, ecc.  ideali;  per  quel  che   riguarda  le  grandezze,  la Parmen. VELIA (vedasi),  Fedone  99  d-1or>,  FìUbo  14  e- 19  b,  Rep, 476  a  sq^,  484-486,  5o7  b-c,  596  a-b,  Sof.  246-249,  251-26o,  Tim.,  ecc.  210  - V I ti, riduzione  degli  steyj  della  lìnra,    del  piano  e  del  solido, e  di  essi  soli,  a  numeri  ideali.  In  quanto  al  primo  punto, ch'esso  sia  stato  una  modificazione  posteriore  della  dot- trina primitiva   di  Platone,  risulta  da  parecchi    luoghi, in  cui,  parlando   chiaramente  del  numero   matematico, cioè  di  quello  che  è  Tog^etto  deir  aritmetica,  egli  non ammette  senza  dubbio  che  una  sola  unità,  una  sola  dualità ecc.  In  quanto  agli  altri  due  punti,  per  istabi- lire  la  loro  posteriorità,  non  occorrono  altre    prove  che quelle  esposta  al  n.  I,  che  dimostrano  la  posteriorità  della teoria  dei  numeri  ideali.  Qui  noteremo  soltanto    che  ciò che  i  luoghi  di  Platone,  di  cni  ivi  si  tratta,  provano  d'una maniera  immediata,  é  sovratuttola  posteriorità  della  dot- trina delle  entità  intermediarie.  Infatti,  se  essi  dimostrano che  r  autore  non  conosceva    ancora    quella  dei    numeri i  leali,  è  spocialmente  perchè  le  entità  numeri,    rappre- sentanti i  semplici  attributi  aritmetici  delle  cose,  e  corri- spondenti quindi  ai  numeri    niatematici  dell'  esposizione aristot  WC'i,  sono    in  questi  luoghi    riguardate   come  le Idee  e  le  essenze  dei  numeri,  e  per  conseguenza  come  i primi  numeri,  escUvlcndosi  così  V  esistenza  di  altri  nu- meri anteriori  (Cfr.  n.  I,  carte V.  frd'nff  lol  e,  I04,  R^P-  522-525,  ecc. (2)  Si  è  ere  lato  di  ritrovare  la  distinzione delle  entità    matematiche dalle  Idee  sulla  line  del  1.  VI  della /e.'pubWica.  Ivi  Platone divide  l'intelligibile  ed  i\  visibile  in  due  parti,  che   stanno  fra  di loro,  per  l'evidenza  e  la  verità,  com«  tutto  l'inteUigibile  sta  »  tutto il  visibile.  Alle  due  parti  del  visibile   corrispondono    le  due  forme inferiori  della  conoscenza,  a  cui  Platone  dà  il  nome  comune  di  opi- nione :  alle  due  parti  dell'intelligibile  le  due  forme  superiori,  che egli  chiama  intelligenza.  Le  due  parti  del  visibile  sono  le  cose  reali e  le  loro  immagini  :  alla  prima  corrisponde    la    fede,  ali»  seconda l'immaginazioue  (slvcaaia).  Delle  due  parti  dell'  intelligibile  l'una  è quella  Tho  s'investiga  per  la  dialettica;  l'altra  è  quella  che  s'investiga I IV.  Il  pitaKoriflimo  nel  Tiiiieu  e  nel  Fllebo Risulta  dall'esposizione  pr  ce  lente  che  le  altre   dot- trine di  Platone  oltre  quel'e  di  cui  abbiami parlato al per  le  scienze  matematiche,  che,  oltra  la  scienza  dei  numeri  e  la  geo- metria, comprendono  l'astronomia  e  l'armonia.  (Queste  due  parti  del- l'intelligibile sono  determinate  da  Platone,  non  per  se  stesse,  ma per  il  metodo  con  cui  si  procede  nel  loro  studio;  così  i  loro  carat- teri distintivi  sono  :  1.  Nello  studio  della  seconda  parte  (quella  che è  l'oggetto  delle  scienze  matematiche)  lo  spirito  procede  bensì  col metodo  deduttivo,  come  in  quello  della  prima,  ma  la  dimostrazione è  incompleta,  perchè  il  punto  di  partenza  delle  sue  deduzioni  sono delle  semplici  ipotesi:  nello  studio  della  prima  parte  (quella  che  è l'oggetto  della  dialettica),  al  contrario,  il  metodo  è  assolutamente dimostrativo,  perchè  il  principio  è,  non  una  samplice  ipotesi  come in  quello  della  seconda,  ma  una  verità  d'una  certezza  assoluta. 2.  Nello  studio  della  seconda  parte,  quantunque  il  vero  oggetto  del pensiero  sia  l'universale  in  se  stesso  (il  quadrato  classo ^  la  diago- nale stesm^  i  numeri  .s/^ssi),  pure  ciò  che  esso  prende  immediata- mente per  oggetto  sono  delle  ooie  particolari  e  sensibili;  nello  stu- dio della  prima  parte  invece,  il  pensiero  non  ha  altro  oggetto  che l'universale,  le  Specie  essendo  il  principio,  il  mezzo  e  il  termine di  tutta  la  dimostrazione  (per  queste  differenze  tra  il  metodo  dia- lettico e  quello  delle  matematiche,  cfr.  il  cap.  Vii).  Alla  prima parte  dell'intelligibile,  tra  le  forme  dalla  conosaanza,  corrispoaia la  scienza,  alla  seconda  la  raz  loci  nazione  (5idvoia).  Le  quattro forme  della  conoscenza,  corrispondenti  alle  parti  dell'intelligibile  e del  sensibile,  partecipano  dell'  evid.mza  nella  stessa  misura  in cui  gli  oggetti,  a  cui  corrispondono,  partecipano  della  verità. La  prima  parte  dell'intelligibile  sono,  non  potrebbe  esservi  al- cun dubbio,  le  Idee  :  la  seconda  parte  é  stata  identificata  con  le entità  matematiche;  ma  questa  identificazione  presenta  delle  dif- ficoltà insormontabili,  quali  sono  le  seguenti  : 1.  Le  entità  matematiche  non  sono  che  i  numeri  e  le  gran- dezze geometriche;  mentre  la  seconda  parte  dell'intelligibile  com- prende anche,  oltre  gli  oggetti  della  scienza   dai    numeri  e    della e  che  consistono  in  sostanza  in  questi  tre  con- cetti :  la  realizzazione  degli  universali,  la  dialettica,  e  il bene  genere  supremo  o  forma  comune  di  tutti  gli  esseri— sono  il  prodotto  di  una  fusione,  avvenuta  in  un  periodo ulteriore  della  sua  specuUzfone,  dei  concetti  propri  a Platone  stesso   quelli  che  abbiamo  indicati  con  quelli geometria,  quelli  dell'astronomia  e  dell'armonia.  Dirà  l'interprete trascendentalista,  per  risolvere  questa  difficoltà,  che  le  entità  ma- tBmatiohe  rappresentano  le  leggi  del  mondo  fenomenico,  e  per conseguenza  costituiscono  anche  l'oggetto  dell'astronomia  e  del- Pftrmonia?  Ma  allora  Platone  dovrebbe  dare  la  seconda  parte  del- l'intelligibile per  oggetto,  non,  com'egli  fa,  a  certe  scienze  speciali, ma  a  tutte  le  scienze  del  reale,  perchè  tutte  hanno  per  oggetto  le leggi  del  mondo  fenomenico.  E  in  questo  caso,  siccome  le  stesse icienze  avrebbero  anche  per  oggetto  le  Idee per  il  principio  ge- nerale che  la  scienza  si  riferisce  all'Idea,  le  due  parti  dell'intelligi- bile non  potrebbero  venire  distinte  per  le  scienze  di  cui  sono  l'oggetto. 2.  il  carattere  per  cui  le  entità  matematiche  si  distinguono dalle  Idee  è  ohe  ve  ne  hanno  molte  della  stessa  specie.  Nella  sua applicazione  ai  numeri,  questa  proposizione  significa,  come  abbiamo spiegato,  che  vi  ha  un'infinità  di  unità,  di  diadi,  di  triadi,  ecc.  ma- tematiche. Ma  nella  Repubblica  Platone  non  ammette,  come  concetto realizzato,  che  una  sola  unità,  l'Uno  stesso;  e per  conseguenza  pure  una  sola  Diade,  una  sola  Triade,  ecc.  Ciò risulta  anche  da  tutto  il  contesto  in  cui  l'Uno  e  gli altri  numeri  sono  classati  tra  gli  oggetti,  che  il  senso  vede  confusi coi  loro  contrari,  ma  che  l'intelligenza  separa,  vedendo  ciascuno dei  contrari  come  uno.  L'uno  e  i  numeri  di  cai  è  quistione  nei  luo- ghi indicati,  siccome  sono  dati  come  l'oggetto  dell'aritmetica,  sa- rebbero quelli  formanti,  con  gli  altri  concetti  matematici,  la  se- conda parte  dell'intelligibile  (se  questa  equivalesse  alle  entità  matematiche) :  per  conseguenza  dovrebbero  essese  identici  ai  numeri matematici  dell'esposizione  aristotelica.  Ma  questa  identità,  come si  è  visto,  non  esiste;  e  la  differenza  è  d'  un'importanza  capitale, trattandosi  del  carattere  delie  entità  matematiche  per  cui  esse  ve- nivano distinte  dalle  Idee. 3.  La  distinzione  degli  oggetti    matematici  dalle  Idee  importa la  loro    subordinazione    ad  esse    come    intermediari   fra    esse    e  le cose,  e    questa    suppone,  come   risulta    da  tutta  la   nostra   esposi- zione di  questa  parte  della  filosofia  platonica,  la  dottrina  dei   nu- meri ideali.  Ma  noi  mostrammo  al  n.  I  (carte)  ohe,  quando t' Platone  scriveva  la  Ropubblica,  egli  non  conosceva  ancora  questa  dot- trina. E  si  noti  che  gli  argomenti  con  cui  l'abbiamo  provato  acqui- stano una  forza  particolare  contro  quelli  che  nella  seconda  parte dell'intelligibile  vedono  le  entità  matematiche.  In  effetto  essi  non potrebbero  revocare  in  dubbio  la  premossa  da  cui  '  partono  questi argomenti,  cioè  che  i  numeri,  di  cai  è  quistione  nel  VII  della  i^o pubblica^  sono  i  matematici,  vale  a  dire  quelli  rappresentanti  i  sempli- ci attributi  aritmetici;  questi  numeri  essendo,  s3condo  la  loro  tesi,  di- stinti dalle  Idee  e  ad  esse  opposti  come  appartenenti  a  un'altra  se- zione del  mondo  intelligibile.  Ma  se  si  conviene  che  questi  numeri sono  i  matematici,  si  de^e  pure  convenire  che  1’autore  non  am- metteva ancora  i  numeri  ideali,  poiché,  se  li  avesse  già  ammessi, egli  non  avrebbe  potuto  riguardare  i  numeri  matematici  come  i numeri  stessi  e  le  essenze  dei  numeri  (v.  carte). 4.  Le  due  parti  dell'intelligibile  si  distinguono  in  quanto  l'una è  l'oggetto  della  scienza  dialettica,  e  l'altra  di  un'altra  scienza, egualmente  deduttiva,  ma  d'un'evidanz  i  inferiore.  Ora  quest'e-jclu- sione  dal  dominio  della  dialettica  non  potrebbe  convenire  agli  og- getti delle  matematiche,  considerati  come  entità.  Es^i  sono  dei concetti  obbiettivati  simili  a  tutti  gli  altri  della  metafisica  i)lato- nica.  Questi  concetti  hanno  dei  gradi  differenti  di  generalità,  e  per conseguenza  il  metodo  di  divisii»ne  deve  applicarsi  anche  ad  ossi- Platone,  è  vero,  dei  numeri  e  delle  grandezze,  dopo  che  ne  tu  delle entità  intermediarie,  non  realizza  che  i  concetti  specifici;  ma  ciò non  esclude  l'applicazione  del  metodo  dialettico,  i  concetti  gene- rici occorrenti,  che  non  si  trovano  tra  le  stesse  entità  intermedia- rie, trovandosi  nelle  Idee  a  cui  esse  sono  subordinate.  Infine  l'u- nità di  metodo,  che  è  uno  dei  caratteri  essenziali  a  questa  forma di  metafisica,  esige  che  anche  questi  concetti  entrino,  con  tutti  gli altri,  nel  sistema  universale,  e  si  deducano,  con  lo  stesso  processo, dall'Idea  suprema.  E  nel  fatto  Platone,  tra  gli  oggettiva  cui  volge la  dialettica,  comprende,  in  diversi  luoghi,  i  concetti  matematici. Nel  Filebo  61  d-62  a,  riferendosi  a  68-59,  in  cui  oppone  la  scienza dialettic*,  che  ha  per  oggetto  ciò  che  esiste  sempre  ed  è  sempre allo  stesso  modo,  a  quella  che  ha  per  oggetto  ciò  che  è  generato, —  212  - dei  Pitagorici.  Di  queste  dottrine  alcune  —  quelle  dei numeri  ideali  e  dei  due  elementi  del'e  Idee  —  non  sono che  le  dottrine  principali  dei  Pitagorici  con  le  modifica- dìoe  dì  aver  distinto  due  soiense,  Tana  circa  le  cose  che  Dascono e  periscono,  l'altra  circa  quelle  che  non  nascono  né  periscono  e sono  sempre  allo  stesso  modo,  e  pone  tra  gli  oggetti  della  seconda, cioè  della  dialettica,  il  cerchio  stesso  e  la  sfera  stessa,  Neil'  Entidemo: I  geometri,  gli  astronomi,  gli  aritmetici  sono  pure dei  cacciatori,  perchè  non  fanno  le  fìgare,  ma  vanno  alla  ricerca di  qaelle  che  esistono;  e  siccome  non  sanno  usarne,  ma  solamente scoprirle,  quelli  tra  di  loro  ohe  non  sono  insensati  abbandonano  le loro  scoverte  ai  dialettici,  perchè  se  ne  servano  „.  Neil'  Epinomide (ohe,  se  non  è  di  Platone,  è  certamente  di  un  discepolo  dell'  an- tica accademia)  991  e-992  a  :  "Bisogna  che  11  consenso,  <?he  è  uno, di  tutte  cose,  d'ogni  figura,  ogni  costituzione  di  numero,  ogni  ra- giono d'armonia  e  di  rivoluzione  degli  astri,  si  manifesti  a  quello che  imparerà  secondo  il  vero  metodo;  e  si  manifesterà,  se  chi  im- para guarda  all'unità;  perchè  la  riflessione  gli  scoprirà  che  un  sol legame  unisce  naturalmente  tutte  cose  „  (questo  legame  unico  di tutte  le  cose  non  è  che  il  legame  dialettico,  che  riconduce  ogni moltiplicità  all'unità,  e  per  cui  tutte  le  Idee  formano  un  sistema,  Cfr Jiep. Nella  Repubblica  poi  non  può  esservi  dubbio  che  i  numeri (oggetto dell'aritmetica)  e  le  grandezze  geometriche  non  siano  inclusi nella  parte  dell'intelligibile  che  s'investiga  per  la  dialettica.  Da una  parte  in  effetto  ci  si  dice  che  l'oggetto  della  dialettica  è  l'es- senza di  ciascuna  cosa  (534    b,  ^3    b,  ecc.)  ;    ciascuna    cosa    stessa (aÙTÒ  SxaOTOV;  l'essere  (ov,  oOoia—  vedi  532  e. 537  d,  e  quei  luoghi  in  cui,  come  a  518  e,  521  e,  525  b,  525  e,  alle discipline,  la  cui  destinazione  ne[l'  educazione  platonica  è  di  pre- parare alla  dialettica,  si  dà  per  iscopo  di  operare  l'evoluzione  dello spirito  all'essere);  il  vero.  Dall'  altra  parte si  prescrive  a  quelli  che  devono  occupare  le  prime  cariche  dello stato,  di  studiare  il  calcolo  per  contemplare  l'essenza  dei  numeri (v.  523  a-525  e);  e  le  entità  a  cui  si  riferiscono  l'aritmetica  e  la  geo- metria ricevono  anch'else  l'attributo  stesso  (aOxÓ^—  a  510  d  il quadrato  stesso  e  la  diagonale  slessM^  a  525   a,  d,  e  1'  uno  stesso  e  i numeri  stessijt  e  sono  anch'esse  chiamate  essere  (^v  a  521  d,  525  &t 533  b-c,  537  e;  OÒoioL  a  523  a,  524  e,  5*^5  b,  o,  526  e)  e  verità  (525  b,  e, zioni  necessitate  dal  loro  aggiustamento  al  sistema  pla- tonico; le  altre  quelle  della  mat'»ria  delle  cose  e  delle entità  intermediarle —  sono  un    effetto  dell'  adesione  in- Aggiungiamo  che  l'ufficio  assegnato  alla  dialettica  è la  definizione  di  ciascuna  cosa  (v.  531  e,  533  b,  534  b),  e  i  numeri  e le  fìgare  non  potrebbero  non  essere  compresi  tra  le  cose  a  definire. Questa  inclusione  degli  oggetti  a  cui  si  riferiscono  le  matematiche tra  quelli  in  cui  versa  la  dialettica,  si  vede  pure  chiaramente  a  537  e, dove  si  raccomanda  che  le  discipline l'  aritmetica,  la  geometria, l'astronomia,  l'armonia  che  sono  state  studiate  isolatamente  nella faneiullezza,    siano  più  tardi   presentate    nell'  insieme,    "  per  dare una  veduta  d'insieme  (etg  ouvo^/iv)  dell'affinità  e  delle  discipline fra  di  loro  e  della  natura  dell'essere  „.  L't^s.s<??Y^  sono  i  concetti  rea- lizzati; e  questa  O'JVOcJ^tg  dell'  affinità  della  natura  dell'essere  non è  che  la  considerazione  dialettica  di  questi  concetti,  come  lo  pro- vano anche  le  parole    che  seguono  immediatamente Con  ciò  si sperimenta  massimamente  l'ingegno  dialettico  o  no;  chi  è  0*)yOTZ- Tixóg  è  dialettico,  chi  non  lo  è  no  „.  Notiamo  che  i  luoghi  citati sono  tutti  nel  libro  VII,  che  è  una  continuazione  della  digressione che  comincia  sulla  fine  del  VI  con  la  bipartizione  del  visibile  e  del- l'intelligibil3. Che  cosa  bisogna  dunque  intendere  per  la  parte  dell'intelligibiie ohe  s'investiga  per  le  scienze  matematiche  ?  Non  altro  che  le  ve- rità studiate  da  queste  scienze.  Quantunque  Platone  non  faccia  di queste  verità  delle  entità  sussistenti  per  se  stesse  come  le  Idee, pure,  siccome  le  consilera  d'una  maaiera  obbiettiva,  «gli  può  op- porle alle  Idee  come  un'altra  specie  dell'intelligibile.  Dall'altro canto  le  Idee  possono  e-jsare  opposte  alle  verità  delle  matematiche, perchè  esse  non  sono  che  le  verità  della  dialettica  obbiettivamente considerate  :  la  dialettica  infatti  non  è  che  un  seguito  di  proposi- zioni esistenziali,  logicamenta  legate  tra  di  loro,  di  cui  ciascuna X)one,  cioè  aff"erma,  un'Idea,  e  il  cui  legame  logico  non  è  altra  cosa che  il  legame  ontologico  fra  le  Idee  stesse  affermate. Questa  distinzione  delle  verità  scientifiche  in  dialettiche  e  ma- tematiche si  rapporta  della  maniera  più  naturale  all'oggetto  dalla fine  dal  VI  della  llòp ubbllca ^  che  è  di  dare  una  nozione  generale  del metodo  dialettico,  indicando  le  so  niglianza  e  la  differenza  tra  le scienze  matematiche  e  la  scienza  dialettica— ben  inteso,  considerato completa  che  Platone  fa  alla  doitrina  pitagorica  dei  nu- meri. Ci  resta  a  parlare  dei  motivi  di  questa  evoluzione verso  il  pitagorismo. nella  loro  forma,  non  nella  loro  maceria-:  ohe  avrebbe  da  fare  con quest'  oggetto    la   distinzione    delle  entità,    platoniche  in  Idee  ed entità  matematiche?  Se  le  dae  parti  dell' iatellì  gii  e  fossero  queste, né  si  comprenderebbe  perchè  Platone,  parlando  dei  rapporti  tra  il metodo  dialettico  e  il  metodo  matematico,  abbia  messo  innanzi  que- sta distinzione;  né  perchè,  avendola  messo  innanzi,  quando  poi  si tratta  di  determinare  che  cosa  «ano  le  due  parti  distinte   dell'in- telligibile,  non  parli  che  delle  difterenze  tra   le  matematiche  e  la. dialettica.  Le  stesse  differenze  obbiettive  assegnate  tra  le  due  parti dell'intelligibile  non  sono  ohe  quelle    fra  i  due  metodi   scientifici, considerate    obbiettivamente:  per    conseguenza    essa    convengono perfettamente  come  differenze  tra  le  Idee  (le  verità  della  dialettica) e  le  verità  delle  scienze  matematiche,  ma  niente  affatto  tra  le  Idee e  le  entità  matematiche.  Quando  Platone    dica  che    la  parta  del- l'intelligibile che  s'investiga  per  la  dialettica    ha   un'evidenza  su- periore che  quella  che  s'investiga  per  la  geometria  e  scienze  affini, egli  non  fa  che  ripetere,    in  un'altra   forma,  che   1'  evidenza  della dialettica  supera  quella  di  queste   scienze  :    ciò  è    tanto  vero   che dopo  che  Socrate  ha  spiegato  le  differenze  del  meto  lo    dialettico dal  metematico,  tra  cui la  pia  saliente   che  quello  non  ha,   come questo,  per  principii  delle  ipotesi  (e  per  conseguenza  ha  un  grado superiore  di  certezza),  Glaucone  risponde:  Comprendo  :  mi  sembri volere  stabilire  che  la  parte  dell'essere  e  dell'intelligibile  che  con- templiamo per  la   dialettica  è  più evidente  di  quella   che  per  le chiamate  arti,  a  cui  sono  principii  le  ipotesi,  e  quelli  che  contem- plano queste  cose  (vale  adire  ciò  di  cui  trattano  queste  r/rfi),  quan- tunque contemplino,  con  coi  sensi,    ma   col  pensiero,    pure  non  ti paiono  avere  intelligenza  intorno  ad  esse,  perchè  le  loro  ricerche partono  da  ipotesi,  non  risalendo  al  principio.  Lo  stesso  si- gnificato al  fondo  ha  l'altra  differenza  che  Platone  stabilisce  frale due  parti  dell'intelligibile,  cioè  che  quella    che  s'  investiga    per  la dialettica  partecipa  della  verità  più  di   quella  che  s'investiga    per le  matematiche:  ciò  vuol  dire   semplicemente    che  le    verità  della dialettica  sono  più  certe  ohe  le  verità  delle  matematiche.  Alle  en- tità matematiche  Platone  non  avrebbe  assegnato  meno  verità  che alle  Idee  :  ferità  in  questo  caso  non  avrebbe  potuto  significare  che Noi  dobbiamo  prima  di  tutto  stabilire  un  punto  di fatto,  che  può  gettare  la  più  gran  luce  su  questi  motivi, e  senza  tener  conto  del   quale  non  si  avrebbe   del  pita- realtà-^noì  sappiamo  che  Platone  ammette,  quantunque  questo  sia per  noi  un  non  senso,  dei  gradi  differenti  di  realtà;  ma  alle entità matematiche,  che  esse  siano  la  semplice  sostantificazione  de- gli attributi  matematici,  o  che  rappresentino  le  leggi  dei  fenomeni, non  potrebbe  assegnarsi  un  grado  relativo  di  realtà,  ma  solo  la realtà  assolata  come  alle  Idee,  perchè  eterne  e  immutabili  (v.  Arist. Met,  ecc.)  come* qneste.  E  del  resto  Platone  non  chiamerebbe,  come  abbiamo  visto ch'egli  fa,  i  concetti  realizzati  dei  numeri  e  delle  grandezze  essere e  verità,  s'egli  non  assegnasse  ad  essi  che  una  realtà  relativa. Platone  stabilisce  anche  tra  le  due  specie  d'intelligibili  un'altra relazione  :  quelli  che  s'investigano  per  le  matematiche  sono  da lui  riguardati  come  immagini  di  quelli  che  s'investigano  per  la dialettica.  Ciò  risulta  già  dalla  divisione  del  visibile  in  cose  ed  im- magini; tanto  più  se  si  riflette  che  tra  le  due  parti  del  visibile  e  dell'in- telligibile, considerate  luna  rispetto  all'altra,  deve  esservi  lo  stesso  rap- porto che  vi  ha  tra  il  visibile  e  1'  intelli-ibile,  e  che  il primo  è,  secondo  Platone,  un'  immagine  del  secondo.  Ma  la  prova  più esplicita  se  ne  ha  dove  descrive  rascensione  nella  regione  superiore,  e  spiega  il  significato  di  questo  simbolo,  il  rapporto  tra le  scienze  matematiche  e  la  dialettica  essenio  ivi  comparato  a  quello  tra Tintuizione  delle  immagini  e  l'intuizione  delie  cose  stesse.  Questa  relazione con  le  Idee,  bisogna  confessarlo,  converrebbe  assai  bene  alle  entità  inter- mediarie, specialmente  nell'interpretazione  trascendentalista,  secondo  cui esse  tramezzano,  non  tra  i  soli  attributi  matematici  delle  cose  e  le  loro Idee,  ma  tra  tutto  il  mondo  sensibile  e  tutto  il  mondo  ideale.  Ma  essa conviene  egualmente  alle  verità  matematiche.  Ciò  è  per  le  stesse  ragioni per  cui  Platone  fa  delle  matematiche  la  propedeutica  della  dialettica.  I caratteri  della  scienza  per  Platone  sono  :  l'astrattezza  e  universalità  del- l'oggetto, e  l'incatenamento  deduttivo.  Tra  le  scienze  finite,  egli  non  trova realizzati  questi  due  caratteri,  quantunque  duna  maniera  imperfetta,  che nelle  matematiche d'una  maniera  imperfetta,  perchè  le  verità  matematiche, benché  astratte  e  universali  come  le  Idee,  non  sono,  come  qneste, degli  oggetti  sussistenti  per  se  stessi;  e  perchè  la  catena  delle  loro  dedu- zioni, oltre  che  non  ha  un  valore  ontologico,  ma  semplicemente  logico, non  parte  dal  principio,  ma  da   ipotesi  Per  conseguenza  Platone  vede gorisino  platonico  che  ua'idea  iacompleta.  È  che,  come abbiamo  accennato,  il  pitagorismo  di  Platone  non  con- siste solamente  ad  appropriarsi  1  concetti  dei  Pitagorici, ma  anche  ad  attribuire  a  questi  i  suoi  propri  concetti. È  ciò  che  vediamo  nel  Filebo  16  c-e:  ivi  attribuisce  loro nelle  matematiche  un  tipo,  quantunque  imperfetto,  su  cui  lo  spirito  può formarsi  1'  ideale  della  scienza  assoluta,  cioè  della  dialettica,  e  nelle loro  verità  (considerate  tanto  ciascuna  in  se  stessa  quanto  nella  loro connessione)  un  simulacro  delie  verità  di  questa  scienza,  vale  a  dire  del mondo  delle  Idee. Nell'allegoria  della  caverna,  in  cui  sono  rappresentate  le  diverse parti  del  visibile  e  deirintelligibile  e  le  forme  corrispondenti  della  cono- scenza, il  rapporto  d'immagine  a  realtà  ha  tre  si^nifìcati  distinti,  perchè negli  oggetti  rappresentati  questo  rapporto  è  triplice.  Esso  esiste:  1.  tra le  due  parti  del  visibile,  2.  tra  il  visibile  e  rintelligibile,  3.  tra  Tintelli- gibile  matematico  e  Tintelligibile  dialettico.  Le  ombre  della  caverna  cor- lispondono  alla  parte  più  oscura  del  visibile,  cioè  alle  immagini  propria- mente dette  :  esse  simboleggiano,  non  le  cose  stesse  che  noi  chiamiamo reali,  ma  le  loro  apparenze  sensibili,  Flacone  non  accordan  lo  cosi  alla percezione  sensibile  che  è  rappresentata  dallo  stato  di  prigionia  nella caverna che  un  valore  subbiettivo.  Le  cose  che  n«i  chiamiamo  reali  sono simboleggiate  dagli  oggetti  che  portano  i  passanti  lungo  il  muro  tra  il fuoco  e  i  prigionieri,  e  di  cui  le  ombre  si  proiettano  nella  caverna:  cosi (]ues(.i  oggetti  sono   anch'essi  delle  immagini,  perchè    le    cose  reali  sono iuimagini  delle  Idee.  V,  532  b-c,  in  cui  essi  sono   chiamati  £t5(i)Xa,  eie ombre  di  questi  eI5(i)Xa,  percepite  dai  prigionieri  nella  caverna,  sono contrapposte  alle  ombre  degli  esseri,  guardate  dopo  l'uscita  dalla  caverna, prima  di  poter  guardare  gli  esseri  stessi;  e  cfr.  5l7d:  «  le  ombre  del  giu- sto o  i  simulacri  (àYaXjJiaxa)  di  cui  sono  le  ombre».  Uopo  la  li- berazione, il  progresso  del  prigioniero  nella  conoscenza  delle  cose comprendo  due  stadi:  nel  primo  si  volge  verso  il  fuoco,  e  ^'uarda gli  oggetti  di  cui  prima  vedeva  le  ombre  (quelli  che  a  532  b-c  sono  chia- mati Si^wXa^e  il  fuoco  stesso  (simbolo  del  sole):  nel  secondo  esce  dalla caverna,  e  ascende  nella  regione  superiore,  e  questo  stadio  comprende alla  sua  volta  due  gradi,  perchè  prima  guarda  le   ombre   e  le  immagini la  dottrina  delle  Idee  e  la  dialettica.  '  Questo  metodo  (il dialettico)  è,  dice  Socrate,  un  dono  degli  dei  agli  uomini, inviato  per  mezzo  di  qualche  Prometeo  con  una  sorta  di splendidissimo  furco.  Gli  antichi,  che  erano  migliori  di noi  e  più  vicini  agli  dei,  ci  hanno  tramandato  come  un oracolo  che  le  cose  che  si  dicono  essere  eternamente,  con- stando dell'unità  e  della  pluralità,  e  avendo  in  sé  per natura  il  fine  e  Pinfinito;  bisogna  perciò,  nella  ricerca di  ciascun  oggetto,  stabilire  sempre  un'Idea  unica  per tutto — e  si  può  ritrovarla  perchè  vi  esiste—;  scoverta questa,  cercare  se  dopo  Tuna  ve  ne  ha  due  0,  se  non due,  qualche  altro  numero;  e  ciascun  uno  di  questi  e- saminare  ancora  così,  sinché  si  veda,  non  solo  che  l'u- no primitivo  è  uno  e  molti  ed  infiniti,  ma  anche  quanti è;  e  non  applicare  alla  moltitudine  l'Idea  dell'infinito, prima  di  vedere  in  ossa  ogni  numero  che  s'interpone tra  l'infinito  e  l'uno;  allora  solamente  lasciare  ciascuno di  tutti  gli  uni  andare  a  disperdersi  m  H'infinito.  Gli dei,  come  ho  detto,  ci  hanno  trasmesso  questo  metodo di  (saminare,  d'imparare  e  di  scambievolmente  istruirci..  Questi  antichi,  i    quali  ci  hanno    tramandato degli  esseri  reali,  poi  questi  esseri  stessi  (v.  5I5  C-5I6  b  e  532  a-c).  Que- ste ombre  ed  immagini  degli  esseri  reali  simboleggiano  gì'  intelligibili delle  matematiche,  e  gli  esseri  reali  le  Idee,  Nella  liberazione  dello  spi- rito e  la  sua  marcia  ascendente  nella  verità,  le  scienze  matematiche  hanno due  funzioni,  coi  rispondenti,  l'una  al  primo  stadio  del  pro- gresso del  prigioniero  dopo  la  sua  liberazione  (la  conversione  dalle  om- bre verso  il  fuoco  e  ^li  et5(oXa),  e  l'altro  al  primo  grado  del  secondo stadio  (l'intuizione  delle  ombre  ed  immagini  degli  esseri  reali  nell'ascen- sione nella  regione  superiore),  Platone  attribuisce  a  queste  scienze  anche la  prima  funzione,  ciot.^  di  convertire  Io  spirito  dall'apparenza  (le  ombre) alla  realtA  sensibile  ({2li  £l5(oXa},  perchè  esse  danno  un'idea  più  giusta del  mondo  esteriore,  rettificando  le  illusioni  «Iella  percezione,  cotuc  i'-x  la astronomia,  che  al  cielo  apparente  sostituisce  il  cielo  reale. Cfr.  Supplem.  B,  n.  V,  carta  che  le  cose  constano  dell'unità  e  della  pluralità,  ed  han- no in  sé  per  natura  il  fine  e Tinfinito,    sono   evidente- mente i  Pitagorici,  o  piuttosto  gli  antecessori  di    questi filosofi  —perchè  naturalmente  Platone  non  potrebbe  at- tribuire le  Idee  e  la  dialettica   ai    Pitagorici    contempo- ranei, di  cui  si  leggevanogliscritti—.  Altrove  nel  2^/Zi6eo steeso. Platone  appoggia  su  questa  tradizione di  origine  divina,  di  cui  ha  parlato  nel  luogo  citato,  la sua  dottrina  sul  ^lépas  e  TàTisipov,  quale  egli  l'espone  in questo  dialogo.  Noi  siamo  dunque  fondati  ad  ammettere che  Platone  dà  la  sua  propria  filosofia,  qual  essa  è  di- venuta dopo  il  sincretismo  coi    concetti    pitagorici,    per una  restaurazione  deirantico  pitagorismo,  o  di  una  sa- pienza prepitagorica  di  cui  i  Pitagorici  non  conservavano che  delle  tracce  alterate.   Attribuendo    agli    antecessori dei  Pitagorici  la  dottriaa  delle  Idee,  egli  attribuisce  loro implicitamente  quella  dei  numeri  separati  (xwptaxoQ.  l^i più  nel   Timeo  egli  mette  in  bocca  a  un  pitagorico,    ol- tre alla  dottrina  delle  Idee,  quella  dei  due  elementi  con le  modificazioni  ch'essa  subisce  nel  suo  proprio  sistema (nell'epoca  in  cui  il  sincretismo  coi  concetti    pitagorici, verso  cui  nel  Filibeo  non  ha  fatto  aacora  che    il    primo passo,  è  già  compiuto),  e  la  distinzione  di  forma  (Idea)  e maceria  con  la  riduzione  di  questa  allo  spazio.  In  quan- to alle  altre  modificazioni  ch'egli  ha  apportato  alle  dot- trine pitagoriche  (la  formazione  progressiva  dei  numeri, la  distinzione   del  numero  che    rappresenta  le    essenze delle  cose  dal  matematico,    ecc.),    noi  non  abbiamo    in verità  la  prova  specifica  che  Platone  le  abbia  attribuite al  pitagorismo  originarlo.  Ma  sappiamo  che  un   filosofo della  sua  scuola,  Speusippo,  intitola  «  dei  numeri  pita- gorici »  un  libro  in  cui  egli  espone  la  sua  propria  dot- trina sui  numeri,  dando,  per  conseguenza,  questa  per la  dottrina  pitagorica. La  pretesa  di  Phtone  e  dèi  Platonici  che  il  loro  si- stema fosse  la  riproduzione  dell'antico  pitagorismo,  spie- ga come,  nel  concetto  degli  autori  posteriori,  le  due  fi- losofie finiscono  per  confondersi:  la  più  parte  di  questi in  effetto  attribuiscono  ai  Pitagorici  le  dottrine  proprie di  Platone  e  per  cui  la  sua  filosofia  si  distingueva  dalla loro,  le  Idee,  i  numeri  separati  (concepiti  come  dei  pa- radigrnì,  comform*,ment*^  all'interpretazione  trascenien- talista  delle  Idee  platoniche),  e  Toppo^izione  dell'Uno e  della  Dualità  indefinita  con  la  funzione  assegnata  a quello  di  principio  formale  e  a  questa  di  materiale  (2). È  notevole  che  questa  confusione  tra  le  dottrine  pla- toniche e  pitasroriche  comincia  ^ià  negli  stessi  discepoli immediati  d'Aristotile:  cosi  l'opposizione  dell'Unità  e della  Dualità  indeterminata  (con  le  proprietà  più  ca- ratteristiche che  Platone  assegna  a  quest'  ultima)  è  at- tribuita ai  Pitagorici  anche  da  Teofrasto  (Mei,  33) Quest'avvicinamento  ai  Pitagorici  non  è,  nella  vita speculativa  di  Platone,  un  fatto  isolato.  Si  sa  che  nei suoi  scritti  egli  non  espone  mai  le  sue  dottrine  nel  suo proprio  nome:  egli  le  mette  in  bocca  a  Socrate  (8),  a Parmende  (4)  e  alla scuola di VELIA (vedasi),  a  un  pitagorico  (6).  Non bisogna  credere  che  questa  non  sia  che  una  finzione  poe- tica: senza  dubbio,  quando  gli  autori  antichi  trattano  i (1)  V.  lamblico  Theol.  arithm.  p.  61  ed.  Ast. (2)  V.  Zeller  317-320,  33o-335. Nella  più  parte  dei  dialoghi. (4)  Nel  Parmenide. (5)  Nel  Sofista  e  nel  Politico, (6)  Nel  Timeo. --r   -1  r.if.i dialoghi  di  Platoce  coire  documenti  ^toiici,  e,  fondfiu- dosi  sulla  sua  testimoDianza,  attribuiscono  il  sistema delle  Idre  a  Socrate,  a  Parmenide,  ai  Pitagorici,  e,s8Ì rivelano  il  difetto  di  senso  critico  proprio  della  loro  epoca; ma  non  è  meno  evidente  perciò  che  la  maniera  naturala di  comprendere  Platone  è  quella  di  questi  autori,  e  che è  ersi,  vale  a  dire  come  un  testimonio  attendibile  sulle opinioni  attribuite  ai  pprsonag^i  dei  suoi  dialoghi,  che egli  vuole  essere  compreso.  Una  prova  di  ciò  è  la  cura che  ha,  in  parecchi  dialoghi,  d'indicare  le  fonti  da  cui ha  attinto.  Queste  in  certi  casi  sono  immaginate  con Pintenzìone  evidente  di  spiegare  come  dei  fatti  gene- ralmente ignorati  siano  potuti  V(»nire  a  conoscenza  del- Pautore.  Cosi  nel  Parmenide  il  colloquio  tra  Socrate  e Parmenide  (a  cui  si  mette  ia  bocca,  della  maniera  più esplicita,  la  dottrina  delle  Idee),  è  narrato  da  un  fra- tello uterino  di  Platone,  Antifonte,  il  quale  l'avrebbe  ap- preso da  un  suo  amico,  testimonio  auricolare  e  amico di  Zenone  (1).  Per  questo  dialogo  — cosi  importante  per comprendere  il  rapporto  che  Platone  intenda  stabilire tra  la  propria  filosofìa  e  quella  della scuola di VELIA (vedasi) che  Pautorrt voglia  che  si  dia  ad  e.^so  un  valore  storico  è  anche  di- mostrato dalla  menzione  che  fa  in  altri  dialoghi  della conversazione  di  Socrate  con  i^armenide  (2;.  L'incom- patibilità tra  le  opinioni  conosciute  degli  Eleati  e  il  si- stema delle  Idee  non  è  per  la  fantasia  di  Platone  un ostacolo  insormontabile:  le  dottrino  esj  o^te  nei  poemi di  Senofane  e  di  Parmenide  non  sono,  secondo  Platone, che  dei  miti  (3),  e  per  compren-lere  il  vrro  pensiero    di qn  sii  filosofi,  non  <S  alla  lettera  che  dobbiamo  fermarci, ma  cercare,  più  oltre,  ciò  che  es^i  noa  esprimono,  ma sottintendono,  Da  questi  fatti  emerge  con  evidenza  un  fatto  gene- rale: ò  lo  sforzo  dì  Platone  di  riattaccare  il  proprio  si- ste:na  alle  t-adizoni  filosofiche  del  popolo  greco,  la  sui pretesa  dì  dare  la  propria  filosofia,  non  come  una  ri- vo'uzione,  ma  come  una  rcstaur.'iziono.  È  lo  stesso  pro- ccdìmentn  di  cui  ^gli  si  s?rvc  per  accreditare  le  dottrine politiche  e  socìhIì  insegnate  nella  Repubblica,  Le  istitu- zioni inculcate  in  quc4' opera  non  sono,  pretende  Pla- tone, che  quelle  stesse  che  all'origine  ha  a/uto  il  popolo ateniese:  ciò  si  r  1  *va  da  una  storia  (una  guerra  an- ticamente  combattuta   tra  gli  A*e  lesi  e  i  popoli    della   V.  il  princìpio  del  Parmniide. Teeleto  \^$  e,  S  sfatta  217  e.  V.  Sof,  2i2  d. (l)  V.   Teet.   1S3  C-IS4  a. Su  che  ha  p  ituto  {andarsi  Platone  per  attribuirò  le  Idee  agli  Eleati  ? Sovratutto,  senza  dubbio,  sulla  loro  dottrina  che   l'essere    vero  è  eterno ed  immutabile.  Aristotile  (/>tJ  Coelj  1.  IH.  I.  2),  dopo  aver  parlato  di  que- ht*o|ji'iione  di  Parmenide  e  di  Melisso,  osserva  che  «  se  anche  per  il  re- st»>  dicono  bene,  si  deve  croJere  però  che  essi  non  parlano     da  fisici.  In etlw-tto  esservi  delle  cose  non  generate  e   assolutaniante  immobili   spetta ad  una  considerazione  diversa  e  anteriore  che  la  fisica:    ma  c^si,  perchè nii'U'.e  altro  credevano  esservi  che  la  sostanzi  de'.le  cose  sensibili,  avendo comjircsa  per  i  primi  che  esistono    certe  nature  ta'i    (cioè  non  generato e  assolutamtjnte    immobili),  se    vi  ha  qualche    scienza   o    intelligenza,  le prò  )Osizioui  a  lattate    a  queste  nature   tras-)Drt:uo.io  alle    cose  di  qui». V«ii;imilmeute  noi  abbiamo  in  ques'io    luogo  un  pensiero  di    Platone  ri- vediito  e  corretto  da    Aristotile   (sì  notino  le  parole  «se  vi  ha    qualche s  lenza  0  intelligenza»,  che  ricordano  le  prove  per  dimostrare  l'esistenza ilelle  Idee).  Platone  non  avrebbe  detto  della  filosofia  degli    Eleati  di  non ammettere  che  la  realtà  sensibile,  e  trasportare  a  questa  ciò  che  non  ó  vero che  di  una  realtà  so vrascn cibile,  ma  solamente  dei  loro  fn'Ui,  Per    il  rap- porco  che  Platone  ha  po.uto  stabilire  tra  ie  proposizioni  degli  Eleati  e  il  siste- ma delle  Idee,  è  anche  notevole  l'argomentazione  di  Parmenide  per  provare; l'unità  dell'essere,  che  Teafrasto  (ap.  Simp.  i/i  Ph>/s,  25  a)  riassume  cosi: oltre  all'essere  non  vi  sarebbe  che  il  non  essere;  mail  non  essere  è  niente favolosa  Atlantide)  scritta  nei  libri  sacri  degli  Egi- ziani e  che  quei  preti  raccontarono  a  Solone  (l). Platone  ci  presenta  dappertutto,  in  filosofìa  come  in politica  e  in  religione,  la  strana  alleanza  di  un  ge- nio eminentemente  innovatore  con  delle  tendenze  che noi  non  siamo  abituati  a  trovare  che  a<;sociate  ad uno  stretto  conservatorismo.  Rispattoso  delle  antiche tradizioni  (2);  convinto  che  ogn'  innovazione  nelle  idee e  nei  costumi  è  il  pericolo  p  ù  grive  da  cui  la  società deve  guardarsi;  non  conoscendo  il  dogma  moderno del  progresso,  e  vedendo  nella  libertà  e  neiroriginalità dell'individuo  piuttosto  un  agente  di  corruzione  che  di miglioramento  sociale  (4);  e  sotto  Timpero  dciriliusiono del  mondo  antico  che  il  bene  ò,  no  a  nelTavvenire,  ma nel  passato  (5);    non  e  sorprendente  ch'egli  abbia  fatto dunque  l'essere  i"  uno.  Su  quest'argomentazione  Aristotile  nota  (in  Phys, 1.  I.  Ul.  4-5)  clie,per  f)Oter  concludere,  si  dovrebbe  intendere  in  essa  per essere  V  essere  separabiUf  ciò  che  corrisponde  al  concetto  astratto  diesssre considerato  in  se  stesso  (in  altri  termini  l'Idea  platonica  dell'essere). (1)  V.  Timeo  17  c-27  b  e  Crizia  loS  d-  II3  b.  Gran tore,  discepolo  di Platone,  afferma  che  il  racconto  sugli  Atlantini  e  sulla  identità  della  isti- tuzioni della  Repubblica  con  le  istituzioni  antiche  di  Atene  ò  una  pura storia;  e  racconta  che,  per  vincere  Tincredulità  dei  contemporanei,  Pla- tone mandò  la  sua  narrazione  agli  Egiziani,  i  ({uali  attestavano  la  verità dei  fatti,  atfermando  che  essi  si  trovavano  inscritti  in  colonne  tuttora esistenti  (V.  Proclo  (fomm.  in  Plotoni^  Timaeum  pag.  24  ed.  Basii, in Mullach  Crantoris  Fragmenta  Fragm.  1—). (2)  V.  FU.  16  e,  Fedro   274  e,  7im,  40  d-41  a,    Leg^i  853  e,    872  e- 87  3  a,  881  a,  887  d,  93I  b,  948  b,  ecc.   V.  Rep,  424,  Leg0  653-65;,  659-6(>0,  738  b-d,  741  a-b,  772  c-d, 797-799  b,  816  e,  8i3  e,  949  c-95o  a,  95o  d,  952  e,  9">7  b,  ecc. (4)  V.  Rep.  397  d-398  b,  401  b,  424,  547  a,  562  c-553  d,  Lc/r^i  G56- 657,  659-660,  700-70I,  739  b-d,  7.SO  a,  78o  d,  788  b,  797-799  b,  801  c-d* S02  a-c,  8I7  b-d,  942  a-d,  952  c-d,  ecc.  Le  altre  forme  dello  stato  sono,  secondo  Platone,  una  degenera- zione progressiva  della  forma  perfetta  (cioè  quella  di  cui  traccia  il  dise- gno nella  Repubblica).  V.  Rep.  1.  Vili,  e  cfr.  Arist.  Politica  1.  V  e.  XII. i' ì r ^ 1^ ? 1^ o;;ni  sforzo  per  conciliare  con  la   tradizione  le  sue  idee audacemente  rivoluz'onarie. Questo  sforzo  di  Platone  di  riattaccarsi  b1  passato  non è  per  altro  un  fatto  un'co  nella  storia  della  metafisica. E  in  questo  senso  che  spinge  naturalmente  il  metafisico la  solitudine  intellettuale  in  cui  lo  lascia  il  carattere pnrado  sastìco  delle  sue  dottrine.  Nelle  scienze  speciali, il  pensatore  più  originale  non  può  aspirare  che  ad  ac- crescere, più  o  meno,  il  patrimonio  comune  delle  cono- scenze: di  più,  per  quanto  egli  voglia  rinnovare  radical- mente le  nostre  nozioni  sulle  cose,  egli  divide  con  gli nitri  uomini  cert^  nozioni  fondamentali  ch'i  costituiscono ciò  che  si  chiama  il  senso  comune.  Ma  il  metafisico  pre- tende di  rifare  di  fondo  in  colmo,  con  un  piano  intera- mente nuovo,  tutto  il  sistema  delle  conoscenze  umane; lo  sue  dottrin  »  s'alio,  in  un  punto  o  in  un  altro,  in  aperta contraddi/ione  con  le  credenze  naturali:  il  suo  mondo r»*alp  non  é  il  mondo  reale  degli  altri  uomini;  ciò  che questi  chiamano  realtà,  per  lui  è  un'apparenza,  un  /e- 7ìome?ìo;  la  vera  realtà  non  e  conosciuta  che  da  lui  solo. A  lui  (supposto  che  il  suo  sistema  fosse  vero)  potrebbe applicare  con  più  ragione  ciò  che  Omero dice  di Tir  si  i  agrinterni,  e  che  Platone  (2)  applica  al  vero unmo  di  stato:  «  egli  solo  pensa,  gli  altri  non  sono  che d<  Ile  ombre  erranti.  Non  è  naturale  ch'egli  cerchi Odiss.  X  v.  495. Menane  loo  a.   Una  condizione  della  possessione  della  conoscenza  filosofica  è, dic-3  Schelling  {Lezioni  sul  melodj  degli  òludi  accademici  Lez.  4),  una chiara  e  viva  concezione  della  nullità  di  ogni  conoscenza  semplicemente finita  (la  conoscenza  finita  è  la  conoscenza  non  filosofica,  e  la  filosofia  è, s'intende,  quella  di  Schelling).  E  Sihrove  (D^i  modo  assol'trto  di  conoscere negli  Scritti  /lloso/lci  tradotti  da  Henard  pag.  3IS):  Bisogna  aprirsi  vi- gorosamente un  accesso  sino  ad  essa  (alla  iniuizione    intelleituale  o  co-  ! dei  compagni  e  degli  antecessori  negli  altri  filosofi,  sfor- zandosi di  diminuire  il  suo  isolamento  e  di  accorciare in  qualche  modo  la  distanza  che  lo  separa  dagli  altri uomini  ?  Ed  è  notevole  che  è  nei  metafisici  che  si  al- lontanano il  più  dal  punto  di  vista  comune  che  questo sforzo  di  riattaccare  il  proprio  sistema  alle  tradizioni  filo- sofiche apparisce  più  ener;;ico;  p.  o.,  tra  i  moderni,  in Leibnitz  e  in  Hegel.  Si  sa  che  l'autore  delle  monadi  e dell'  armonia  prestabilita  si  dava  per  un  eclettico. 4f  Io  ho  lungamente  riflettuto,  egli  dice,  sugli  antichi  « sui  moderni,  e  ho  trovato  che  pressoché  tutte  le  opinioni adottate  sono  suscettibili  di  un  buon  senso.  Nel suo  sistema  si  trovano  i  iunit-^  «  la  poca  realtà  sostanziale delle  cose  sensibili  degli  scettici;  la  riduzione  di  tutto alle  armonio  o  numeri,  idee  e  |  ercezioni  dei  Pitagorici e  di  Platone;  1'  uno  e  anche  uno  tutto  di  Parmenide  e di  Plotino,  senza  spinozismo;  la  connessione  stoica,  com- patibile con  la  sponuaieità  degli  altri;  la  filosofia  vitsle dei  Cabalisti  ed  Ermeti  1  che  mettono  del  sentimento da  per  tutto;  le  ì\  rnie  ed  entelechie  d'Aristotile  e  degli Scolastici;  e  con  tutto  ciò  la  .«spiegazione  meccanica  di tutti  i  fenomeni    particolari    j-econdo    Democratico    e    i noscenza  lìioso/ica),  ed  isolarsi  da  tutti  i  lati  dal  sapere  co  mine,  a  tal punto  che  alcuna  va,  alcun  sentiero,  non  possa  conihin\ì  di  questo  ad essa.  Qui  comincia  la  filosofia VERA (vedasi)  (Seconda  introduzÌLne  alla  /-t/os.  dello spirito,  pag.  CU),  rispondendo  alle  obbiezioni  contro  il  sistema  di  IIckcI, assimila  (fuesto  obbiezioni  tessendo  latte  da  un  punto  di  vista  che  non  è l'hegeliano)  a  quelle  che  sarebbero  ratte  da  un  essere  che  non  pen>;a.  per- chè, egli  dice,  il  pensiero  non  tìlosotico  («ioc  non  hegeliano)  non  ò  un pensiero, Citato  da  Schelling    ììcHa  success,  dei  sUt,    fìfos.  e  della  ma^ niera  di  traUare  la  storia  dt-lfo  fllus.  (negli  Ucrilti   flosoflci  tradotti da  Benard). ir ì ^ moderni;  ecc.:  si  è  mancato  odagli  altri  filosofi)  per uno  spìrito  di  Fetta,  limitandosi  per  la  reiezione  degli rtltri.  Si  sanno  egualmente  le  idee  di  Hegel  sulla storia  della  filosofìa:  «  La  ston'a  della  filosofia  mostra nei  diversi  sistemi  che  sono  apparsi  una  sola  e  stessa filosofia  che  ha  percorso  differenti  gradi,  ed  essa  prova che  i  principii  particolari  di  ciascun  sistema  non  sono che  dell'*  parti  d'un  solo  e  stesso  tutto  iche  è  il  sistema di  Hegel).  L'ultima  filosofia  n<irord'ne  del  tempo  è  il risultato  di  tutte  lo  filosofie  precedenti,  e  deve  per  con- seguenza contenerne  i  principii  Senza  dubbio  il tradlzionaliumo  di  Hegel con  cui,  tra  i  filosofi  moderni, la  compara7!Ìono  ò  la  più  ovvia— resta  ben  al  di  sotto di  quello  di  Platone.  Hrgel  si  limita  ad  int-rpretare arbitrariamente  le  filosofie  del  passato  e  a  falsarne  il carattere,  per  mostrare  che  cia^^cuna  di  esse  è  un  mo- mento  della  propria  filosofìa  (e  che  è  perciò  al  tempo 8tt»sso  vera,  perchè  ò  una  parte  della  vera,  e  falsa,  per- chè, essendo  una  parto,  pretende  di  e-s?re  il  tatto);  ma non  va  sino  ad  attribuire  ag!i  «intichi  filosofi  il  suo proprio  sistema,  e,  quel  che  è  nin,  non  adotta  le  loro dottrine.  Ma  V  isolament'^  di  Hegel  non  è  cosi  com- pleto come  quello  di  Platone:  i  suoi  contemporanei  era- no già  abituati  a  una  fìlo-iofia  che  aspirava  e  a  ripro- durre nelle  sue  concezioni  Tordine  stesso  delle  cose; egli  aveva  avuto  prima  di  sé  Schelling  e  Fichte  (per non  parlare  di  aUri  minori,  come  Novali?,  Bardili,  ecc.), e,  prima  di  questi,  Sp'noza,    Cartesio  con  la    più    parte  Op,  omn.  Dutens    hitrod.  aWKncicL Cfr.  oap.  VI,  paragr.  12. degli  altri  filosofi  che  gli  sono  succeduti  (coi  quali  aveva comune  T  apr'orismo,  lo  stesso  Piatone,  i  neoplatonici (i  quali  avevano  proclamato  il  principio  dell'  identità dell'essere  e  del  pensiero),  i  reali  «iti  del  medioevo,  ecc.; nei  limiti  stessi  della  verità  storica,  Hegel  poteva  tro- vare molti  precursori.  Invece,  se  vi  ha  un  filosofo  di  cui possa  dirsi  ciò  che  Gioberti  (I)  dice  in  generslc  del genio  speculativo,  di  ess  u'e  quasi  proles  sin",  maire  creata^ questo  è  prima  d'ogni  altro  Platone.  Ln  sua  filosofia  è nel  contrasto  più  spiccato  con  quella  dì  tutti  i  suoi  pre- decessori: egli  ha  abordato  il  problema  delle  cause  ef- ficienti da  un  lato  interamente  nuov«">,  che  nessuno  pri- ma di  lui  aveva  mai  intravisto;  e  se  anch'agli  ha  cer- cato, come  i  suoi  predecessori,  l'elemento  permanente delle  cose,  non  è  come  cfsì  nella  materia  che  lo  ha  tro- vato, ma  nella  forma.  Certo  anche  Platone  è  figlio  del passato,  e  ne  riceve  l'eredità:  da  Eraclito  prende  il  prin- cipio del  divenire  ;  da  Socrate  la  definizione  ;  ai  mate- matici deve  r  idea  del  metodo  dimostrativo;  prima  di lui  gli  Eleati  aveano  visto  nel  mondo  dei  sensi  l'ap- parenza cangiante  di  una  realtà  immutabile;  il  concetto teleologico  era  stato  adombrato  da  Socrate  e  da  Ippncrate, ed  era  contenuto  virtualmente  nelle  dottrine  di  Anas- sagora, di  Eraclito  e  di  altri  fisici;  la  sua  dottrina  sul- l'anima è  una  sistematizzazione  dell'antico  animii-mr»;  la sua  etica  uno  sviluppo  dell'etica  di  Socrate;  la  sua  fisi- ca una  continuazione  della  fisica  anteriore.  Ma  nessuno degli  elementi  del  sistema  delle  Idee,  nò  la  real'zzaziono degli  unirversali,  né  il  metodo  a  priori,  come  metodo scientifico  universale e  tanto  meno  perciò  la  diaKttica, Introd,  allo  stud.  dtUa  filoi,  Milano] quale  metodo  di  dedurre  i  concetti— non  trova  alcun  ri- scontro nelle  filosofie  del  passat).  Bisogna  pure  tener conto,  se  si  vuol  paragonare  Platone  con  Hegel,  della diffvirenza  tra  1’epoca del  secondo  e  quella  del  primo, scar^a  necessariamente  di  senso  storico,  e  in  cui  i  docu- menti sul  pensiero  dei  filosofi  che  si  trattava  d'interpre- tare, o  mancavano  affato  (come  pei  primi  pitagorici),  o non  potevano  avere  quella  precisione  di  linguaggio  e quell'abbondanza  di  sviluppi,  che  sono  il  prodotto  della maturità  della  coltura. Ciò  che  dobbiamo  infin»»,  notare  è  che  questo  bisogno dì  ritrovare  nelle  filosofie  precedenti  i  principii  della  pro- pria filosofia  e  in  questa  quelli  delle  filosofie  precedenti è,  in  Platone  come  in  He;^el  e    negli    altri    filosofi   che hanno  seguito  la  stessa  forma  di   metafisica, una conseguenza logica  delle  loro  teorie  sulla    conoscenza. La forma  di  metafisica  di  cui  parliamo    consiste    nella    ob- biettivazionc  df i  concetti,  e  nella  ricostruzione  a    priori del  n  ale,  deduce ndo    progressivamente    questi    concetti obbiettivati  gli  uni  dagli  altri  con  un  metodo  regolare  de- terminato, che  non  è  ch«,  la  legge  stessa  secondo  cui  le  cose si  sviluppano.  E^sa  ammette  cosi  tra  il   pensiero    cono- scente e  l'oggetto  conosciuto  una  corrispondenza  tale,  che, oltrepassando  di  gran  lunga  quella  che  noi  siamo    abi- tuati a  vedere  tra  il  pensiero  e  le  cose,  esige,  come  tutti i  fatti  con  cui  non  siamo  familiari,  una  spiegazione;  e  le ipotesi  a  cui  si  ricorre  per  dare  questa  spiegazione,  sono tali  generalmente   che  c-\se  rendono    più    completo    an- cora, dopo  la  loro  adozione,  in  questa  metafisica,  questo parallelismo  primitivo  fra  il  pensiero  e  le  cose,    che    si trattava  di  spiegare.  Queste  ipotesi,  limitandoci  a    par- lare di  Platone  e  di  Hegel,  sono,  come  si  sa,  pel  secondo l'identità  deiressere  e  del   pensiero    (cioè    del   pensiero generale  e  dell' essere  genoraltO»  ^'    P^'    primo,    rintui- zione  delle  Idee  in  una  vita  anteriori^  e  la  con-seoMiPn^e reminiscenza.  Conoscere,  yier  Pl?ìtone,  ò   ricordarsi;   p  r Hegel,  e  Tevoluzioue  dfìl  pensiero  per  una  forza  iiiierna e  secondo  una  legge  di  sviluppo  che  gli  è  propria.  Nel- l'una e  nell'altra  ipotesi,    la    seienya    ci    ò    in    qua'clie modo  innata;  eFsa  prfes'ste  nell'anima,  per  dir  cosi,  allo stato  latente,  e  non  ha  ch«>  td  estrirsecars*.  Con  queste premesse,  come  Platone  o  Hegel  potrebbero    ammettere che  il  proprio  sistema,    cioè    la    scienza    stessa— poche tutta  la  scienza,  la  vera  scienza,  per  e^sì,  è    il    si-tenua delle  Idee-  sia  esclusivamente  la  loro  t-nazione    indivi- duah'V  che  gli  altri  uomini  non  l'hanno  mai  connsciuto, .  ne  in  tutto  ne  in  parte  ?  ch'i  tutta  la  filosofia  anterio* e non  è  che  una  continua  a»  errazioi  e?  che  la  vrritA  è  n  i privilegio  proprio,  e  che  al  di  fuori  d-  Ila    loro    filosofi  i personale  non  vi  ha  che  l'errore?  Cnn  questa  premesso anzi  re.-irftf*nza  dell'errore  e  dell'  ignoranva  divi^^re  in- comprensibile; la  verità  dovrebbe    Chsere    il    jatrimonio comune  di  tutti  gli  uomini.  E  qui    pOvSMamo    osservare, per  incidente,  come  le  ipotesi  metafisich«^    vallano    stn- namente  al  di  là  del  loro  scopo.  Un'ipotesi    <he    vuole spiegare  perchè  esiste  il  brne  (la  concezione  teh  elogila del  mondo)  dà  luogo  alla  ins^lub=le  difficoltà:  qn>«l  M'o- rigine  del  male  V  Un'ipotesi    che    vuole    spiegare    e  »ni.'. possa  esistere  la  verità  e  la  scienza,  mette  i  suoi  autori in  faccia  a  un'altra  quistione  più  imbaraz/ant* :    come può  esistere  l'errore  e  1'  ignoranza?  La  nuova  (luistione in  cui  s'imbatte  il  realista  dialettico  (nella  sua    sp'cga- zione  della  coincidenza  tra  il  pensiero  e  la  realià)  èiosl poco  suscettibile   di  una    soluzione  radicalo   (he    quella in  cui  s' imbatte  il  teleologista  :  ma    come  questi   cerca almeno  di  attenuare  la  sua  difficoltà,  falsando  il    bilan- cio dei  beni  e  dei  mali  nel  moa  lo,  cosi  quegli  cerca  di «  ttenuare  la  sua,  falsan^^o  q")ello  d<l|a  verirà  e  dell'er- rore, della  scienza  e  dell'^gnor-nza.  Di  là  lo  sforzo d  ir  uu'^  di  gi'issificare  il  passato  dei  suoi  errori  e  delle sue  ignoranze,  corrispondente  a  quello  dell'altro  di  giu- stificane, la  natura  dei  suoi  mali  e  d-lle  sue  imperfezioni; e  per  consegu'^nza,  l'accosta'nento  alle  filosofie  del  pas- sato, attribuendo  ad  e^se  i  corcelti  drlla  propria  filosofia o  anche  accoglieirdo  in  questa  i  concetti  di  esse. Gl'impulsi  che  spingevano  Platone  a  riattaccarsi  alle tradizioni  filosofiche  era  naturale    che  si  dirio^ssero    di CD preferenza  verso  il  pitagorismo.  Vi  erano  vari  m'itivi che  agivano  in  questo  senso.  Primo,  Talta  riputazione di  sapienza,  di  eui  g.idr^va  necessariamente  U'ia  vasta associazione  dedita  ai  lavori  scientitici,  co  ne  quella  a cui  appirtcinevaru»  i  filos  fi  pìi adorici;  poi,  l'analogia dr Ile  idee  ni  punto  di  vista  politico,  s^cah»,  morale, H'I'gioso,  a  cui  porsi^mo  ;inche  agg  ungere  la  comunità degli  studi  »i»atematiei  e,  l'.m portanza  pres-^ochè  eguale che  entrambe  le  filosofie  attribuivnno  a  questa  scieiizn. Ma  il  motivo  preponderante,  s^n/.a  dubbio,  deve  cer- carsi nell'affinità  de!le  due  filosofie,  maggiore  di  quella che  la  r»latoiiica  ha  e  ìu  qualsiasi  altra  delle  ant  che. Que-t'^ffiniià,  come  abbiamo  notato,  consiste  special- mente in  qu\sti  due  punti:  1^  I  piincipii  di  Pitagorici (i  numeii,  gli  elementi  e,  sino  ad  un  c<Tto  punto,  le due  ouoTG'./Ja'.  di  crntrari)  sono  delle  astrazioni  realizzarle, come  quelli  di  Platone.  2"  Essi  rappresentano  sovratutto, no?i  la  causa  materiale  o  motrice,  come  quelli  degli  altri filosofi  anteriori  a  Platone,  ma  la  specie  o  il  concetto, comi»  le  entità  platoniche.  Aggiungiamo  infine  la  man- canza, s'no  ad  un'epoca  recente,  di  documenti  scritti sulla  filosofia  dei  Pitagorici;  la  loro  predilezione  per    il -A  ^'J •1 V linguaggio  simbolico;  il  secreto  che  mantenevano  su certe  proposizioni qu^st'^  simbolismo  o  questo  secreto concernevano  altri  punti  che  le  loro  dottrine  filosofiche  (1); ma  ciò  bastava  per  dare  qualche  credito  all'  opinione che  tutta  la  filosofia  dei  Pitagorici  non  stava  in  ciò  che essi  ne  pubblicavano,  e  che  questo  stesso  non  doveva essere  prc^o  alla  lettera  Era  quanto  occorreva  perdio Piatone  potesse  applicare  a  tutto  suo  ngio  il  suo  metodo fantastico  d'interpretazione. Il pitagorismo  nel  Timeo,  Nel  Timeo,  alcune  delle dottrine  del  periodo  pitagoreggiante  sono  esposte  aper- tamente,  altre  involte  in  una  forma  simbolica.  Delle prime  (la  separazione  della  materia  daUe  Idee  e  la  sua  riduj zione  allo  spazio,  e  la  composizione  dei  corpuscoli  elemen- tari) ci  siamo  occupati  nel  numero  precedente:  qui  parlere- mo delle  seconde. L'  argomento  del  Timeo  è  la  narrazione  dell'  origine del  mondo,  e  il  supposto  narratore  è  un  filosofo  pita- gorico, da  cui  il  dialogo  prende  il  nome.  Il  mondo ha  avuto  un'origine  nel  tempo:  esso  è  stato  formato  da un  artefice  (demiurgo)  che  contemplava  le  Idee  come modelli  e  si  serviva  di  una  materia  preesistente.  Al  prin- cipio la  materia  era  agitata  da  un  movimento  confuso e  disordinato;  non  vi  erano  in  alcuna  parte  delie  forme regolari  e  costanti;  Dio  (il  demiurgo)  fece  passare  le cose  dal  disordine  airordine, effettuando  da  p^r  tutto ciò  che  era  il  migliore.  Egli  stesso  formò  Tanirna,  gli elementi,  il  cielo,  il  tempo,  gli  astri  e  la  terra;  poi   co- Zeller] mandò  agli  altri  dei,  ch'egli  aveva  prodotti,  di  produrre alla  loro  volta  gli  animali  mortali,  Qu  sti,  ricevuta   da lui  la  parte  immortale  dell'anima,  che  egli    compose    a somiglianza  dell'anima  del  mondo,  ne  eseguirono  il  co- mando, imitando  l'azione  creatrice  del  loro  demiurgo  e padre,  e  formarono  i  corpi  degli  animali    propriamente detti  e  delle  piante  che  sono  anch'esse  una  soita  di  ani- mali, e  la  parte  mortale  dell'anima.  Timeo    mostra,    in ogni  opera  particolare  degli  autori  del  mondo,  le  ragioni provvidenziali  che  vi  hanno  presieduto,  e  l'aggiustamento dei  mezzi  ad  uno  scopo  determinato:  gli  dei,  in   effetto, sono  stati  obbligati  di  servirsi  delle  cause  materiali,  fa- tali nella  loro  azione  e  ribelli,  sino  ad  un  certo    punto, all'azione  ordinatrice,  ma  hanno  realizzato,  per quanto è  stato  pos-iibile,  il  bene  in  tutto  ciò  che  hanno  prodotto. Se  si  ammette  limmanenza  delle  Idee,  è  evidente  che  il racconto  di  Timeo  non  può  essere  prrso  alla  lettera.  Dio  non avrebbe  potuto  creare  il  mondo  senza  creare  allo  stesso tempo  le  Idre,  perchè  queste  non  <^ono  altrove che    nej monio  stesso,  di  cui costituiscono    rclcracnto    formale: se  il  mondo    attuale  ordinato    è  stato    preceduto  da  un inondo  disordinato,  il    Demiurgo    ha    annientato  le  Idee a  cui  prima    la  materia    partecipava,  e  ne   ha  prodotto, al    loro    posto,  delle    altre.    Perchè    la   cosmogonia    del Timeo    potes^^e  essere    presa    alla    lettera,    bisognerebbe ammetta* re    dunque    che  le    Idee,    che  Piatone    dà costantemcnte come  eterne    e   se  si    comprendono bene i  priiicipii  della  sua  dialettica come  necessarie,  possano c-JHfre  prodotte  ed  annientate.   Ma  indipendentemente  da quest'ordine  di  considerazioni,    che  il  racconto  cositogo- nico  del  Timeo  non  sia  che   un  semplice  mito  e  che  esso non  debba  essere  inteso  letteralmente,  noi    ne    abbiamo delle  prove  abbondanti,  sia  nel    Timeo    stesso,    sia    pel A"  \   ì,  t  ' I  : ? comples-0  doìropera  di  Platone e    nelle    testimonianze dei  suoi  diseeprli.  Ecco  le  più  importantf: P  L*antropomorfismo  grossolano'  che  rejrna  in  tutto il  racconto.  Le  operazioni  del  Deniiurg^o  e  delle  jiltre divin'tà  che  hanno  concorso  con  lui  alla  pvoiuzion^'  d»*l mondo,  sono  rappresentate  come  perfettamente  simili  a quelle  di  un  fabbro.  P.  e.  ecco  come  Dio  ha  prodotto  le ossa:  «  Dopo  aver  vagliato  della  terra  pura  e  molle,  e^li )a  impastò,  inz'ippandola  di  midolla;  in  seguito  mise questa  mescolanza  nel  fuoco,  poi  la  immersa  nell'acqua; poi  nuovamente  nel  fuoco  e  nuovamente  nell'acq'ia;  e facmdola  passare  più  volte  dall'uno  all'altro  di  questi due  elementi,  fece  si  che  es*<a  non  potesse  es  jore  di^ciol'a nò  dall'uno  nò  dall'altro.  L'impessib  lità  di  pren- dere sul  serio  simili  rappresentazioni  ò  de  l'ultima  evi- denza, quando  questo  processo  tutto  meccanico  attri- buito al  creatore  si  applica  ad  oggetti  assoliit  unente insurcettibili  come  sono  le  entità  astratte  della  metafi- sica platonica.  E  ciò  che  avviene  nella  composizione  del- Tanima,  che  il  Demiiirgo  formò,  mese  -lamio  dt»ntr.ì  un vaso  l'essenza  indivisibile  (riiea)  con  la  divisibile  (la materia)    e  con    lo  Stesso    e  il    Diverso, 2^  L'intervc'ito  miracoloso  del  D 'iniurg.i,  che  é  un vero  DcH'<  ex  machina.  Egli  non  spiega  la  sua  azione nel  mondo  t.-he  all'origine;  in  seguito  questo  b?sta  a  se stesso,  e  nrn  hi  l.is-ìgno  d  H'iiitervento  di  alcun  agente straniero  (33  d,  34  b,  68  e).  Il  carattere  dei  princip'i filolofici  è  la  generalità  e  la  costanza  della  loro  azione: al  racconto  mosaico  della  crraz-one  in  sei  giorni  i  filo- sofi creazionsti  sostituirono  la  dottrina  della  creazione continua.  Il  mito  concentra  tutto  in  un  punto  del  tempo: una  legge  generale  diviene,  in  essr>,  un  fatto  particolife. Bisogna  anche  notare   ciò    che    si    dice    del  Demiurgo, qifando  questi  ha  già  rappresentata  la  parte  che  g^li  é sp'^t^ata  nella  creazione:  «  E  quello  che  aveva  ordinate tutto,  queste  cose  restava  nel  suo  stato,  secondo  la  sua abitndioe  »  (42  e ciò  vuol  dire  che  il  Demiurgo  aveva cessato  di  operare,  rientrando  nella  sua  quiete  abituale). L'azione  del  Demiurgo  apparisce  dunque  come  un  fatto isolato  ed  eccezionale,  non  solo  rapporto  al  mondo  in cui  si  è  esercitata,  ma  rapporto  al  soggetto  stesso  che Tha  esercitata. 30  L'i  incoerenze  evidenti  nelle  circostanze  principali del  racconto.  La  più  sal'ente  ò  il  movimento  della  ma- teria, prima  della  nascita  del  tempo.  Per  risolvere  questa contraddizione  si  è  preteso  che  il  Demiurgo  ha  creato, non  il  trmpo,  ma  il  tfmpo  ordinato:  ma  Platone  dice chiaramente  che  il  presente,  il  passato  e  il futuro  sono  forme  del  tempo  creato  dal  Demiurgo  (1).  Il n»ovimeLto  disordinato  anteriore  alla  formazione  del toFmos,  p,  per  conseguenza,  dell'anima,  è  anche  in  con- traddizione col  principio  platonico,  ammesso  nel  Timeo stesso  (2j,  che  l'anima  ò  il  principio  del  movimento. Inoltre,  so  come  si  stabil'sce  a  50  e52  d,  e  come  ri- sulta necessariamente  dai  principii  del  sistema  delle  Idee, il  divenire  (Ysvsatc)  n«sce  dal  concorso  delle  Idee  e  della materia,  come  sar^  esso  possibile  prima  delTazione  del Demurgo,  che  ha  fatto  partecipare  la  materia  aUe  Idee?— Da  questa  contraddiz  one  ne  viene  un'  altra  p'ù  espli- cita ancora.  Gii  elementi  ora  si  fanno  creati  (o3  l»-c, r^}  bc,  57  C-I,  ora  increati. Da  una  parte  :iì fatti  ersi  devono  esseie  creati, primo  perchè  racdiiudcno  il  principio    ideale,    e,    come 0)  Cfr.  Proclo  in  Tim.  p.  250  B. (2)  V.  37  b  e  46  d-e. abbiamo  detto,  la  partecipazione  alle  Idee  è,  secondo  il Timeo^  Topcra  del  croatoro;  o  poi  pr^rchè  la  spiegazione teleologica  si  estende  anche  ad  essi,  e  anch'essi  devono per  conseguenza  cs^^ere  il  prodotto  dcirintelligenza  (1). Ma  da  un'altra  [arte  devono  e«jistere  g  à  nella  Y^veot^ anteriore  alla  creazione,  poiché  1  movimento  disordinato prima  della  formazione  del  csmos  non  può  avere  per sastrato  la  materia  indet'^rminata— questa  per  Platone non  è  che  il  semplice  spazio— mi  la  materia  divenuta dei  corpi  particolari  per  la  sua  circoscrizione  —  cioè  per la  circoscrizione  dello  spazio  —  dentro  superfìcie  deter- minate. Aggiunsiamo  infine,  per  limitarci  alle  incoerenze  più notevoli,  che  U  r^upposizione  di  un  essere  intelligente» distinto  dairanima  (il  Demiurgo)  è  in  contradd  zione  col principio,  ammesso  nel  Timeo  (30  b,  46  d)  e  ripetuta  nel Sofista  (249  a)  e  nel  Filebo  (30  e),  che  non  può  esservi intelligenza  senz'anima. 4P  I  punti  capitali  delli  co^m^gonia  del  Timeo  sono questi  duo:  T  origine  del  mondo  nel  tempo,  e  un  prìn cipi*^  iotdiigerite,  separato  da  esso  e  distinto  dalPanima (il  Demiurgo),  che  Tha  prodotto:  ora  nell'uno  e  nell'al- tro punto  il  Timeo  h  in  contraddi /Jone  col  complesso  del- l'opera platonica. In  quanto  al  Dem  urgo,  esso  non  si  trova  che  nel  solo II Cosi  nel  Sofiiita  (265  e,  266  b)  e  neUe  Laggi gli elementi  sono  prodotti  duU'anima. (2)  Quando  verremo  alla  spiegazione    del  significato   del  mito, si  vedrà  perchè  è  al  fioggetto  dagli  elamenti  che  si   manic'esta  so- vratatto  la  contraddizione  inerente  al  concetto    i  una  yévsat^  an- teriore alla  formazione  del  mondo  e,  per  conseguenza,  aUa  parte- cipazione della  materia  alle  Idee. Timeo  :  di  più  le  dottrine  esposte  negli  altri  scritti  di Pistone  non  lisciano  alcua  posto  per  un  Dio  tsascen- d*^nte  come  il  Demiurgo  del  Timeo,  Certamente  la  dot- trina costante  di  Platone  è  che  la  divinità  è  la  causa prima  di  tutto— ben  inteso,  considerando  il  tutto  come  un complesso  di  fenomeni,  e  la  causazione  come  un  rap- porto tra  questi  fenomeni;— ma  la  divinità  none,  per  lui, che  l'anima  cosmica.  Secondo  il  X  delle  Lzggi  (888-899) ciò  che  prova  l'  esistenza  della  divinità  è  che  il  movi- mento di  ciò  che  muove  se  stesso  —cioè  dell'anima  — è il  principio  di  tutti  i  movimenti;  e  che,  per conseguenza,  le  cose  che  appartengono  airanima,  come l'intelligenza,  la  preveggenza,  l'art**,  ecc.,  sono  anteriori a  quelle  che  appartengono  ai  corpi  (892  a-b,  896  c-d),  e l'anima  è  la  causa  primi  dei  beni  e  dei  mali,  delle  cose bello  e  brutte,  giuste  ed  ingiuste,  e,  in  una  parola,  di tutt^  le  cosn  (891  e,  896  a,  896  d,  897  a,  899  b.).  Nel Filebo  (26  e-3l  a),  l'intelligenza  è  l'uno  dei  quattro  generi in  cui  gli  esseri  sono  stati  divisi  (30),  quello  che  è  la causa  di  tutti  gli  altri  (26  c-27  b,  30  b,  30  e,  31  a):  ma o-'sa  non  è  che  una  facoltà  dell'  anima  cosmica, perchè  la  mente  e  la  sapienza  non  possono  esistere  al- trove che  nell'anima  (30  e,  I.  e.).  Nel  Fedro  ^\  àxmo^tvn, che  l'anima  non  può  avere  un'origine  perchè  essa  è  il principio  di  tutte  le  cose  :  infatti  se  il  principio  veiiis-e da  qualche  cosi,  non  verrebbe  dal  principio,  e  allo  a non  sarebbe  vero  che  tutte  le  cose  vengono  dal  princi- pio.  Nel  Sofista Dio  è  detto  Pan- t'^re  degli  animili,  le  piante,  Tacqua,  il  fuoci,  in  una parola,  di  tutt:5  le  cos».  che  si  dicono  prodotte  dalla  natu- ra; ma  per  qu*»sto  Dio  si  deve  intendere  l'  anima  del mondo,  con  torni  e  mente  p1  principio  precedentemenie stabiliio,  che  rintelligenza  non  può  trovarsi che  in  Un'anima.  Nel  mito  del  Politico  (269-274)  si  parla pure  di  un  demiurgo  del    mondo;    ma  quosto demiurgo i»ppartieue  al  genere  ciò  che  muove  se  sfesso  (1),  va'e  a dire  al  genere  iìuìmfi.  ìicW Epino mide^  infine,  il  mondo è  prodotto  come  u^^l   Timeo;  ma  quello  che  l'ha  prodotti non  è  un  do  trascendente,  ma  l'anima,  quella  stessa  che anima  il  cielo  e  gli  astri  e  li  muove  (97(i  e-l)78  d,  1)83  b, 984  b-c)  :  l'anima  è  la  causa   di  tutte  lo  cose,  la  buona delle  buone,  la  cattiva  dell*^  cattive  (9  <6  e-977  a,  981  b, 983  d,  988  d-e).  L'ancore  ùtW Epinomide  (è  per  noi,  siad  un  certo  punto,    indifferente  che  esso  sia    Platone  o uno  dei  suoi  discepoli)  afferma  espressamente  che  non  vi ha  alcun  altro  essere  incorporeo  che  l'anima, e  non  riconosce  altre  divinità  a  part^  le  siipersizioui relative  ai  demoni  aerei,  acquei  ed  eterei  che  il  rie  lo e  ffli  astri,  cioè  le  loro  anime — in  effetto,  dopo  aver  detti che  andrà  ad  esporre  le  sue  dot"rine  s'igli  dei,  egli  non parla  che  di  questi  -;  il  Dio  supremo,  il  Dio  por  O'- cellenzf»,  è  il  ci^  lo  o  il  mondo, che  noi  dobbiamo specialmente onoraiv  e  adorare,  eom»».   fanno  fitti  gì;  altri d'-i  e  demoni. Ma  vi  ha  di  più:  il  Demiurgo  del  Timeo  non  è  sola- mente in  contr.\dlizione  con  le  «lottriue  sulla  m  Mite  e  la divinità,  ma  con  la  stessi  dottrina  fondamentale  dì  Pla- tone, vale  a  dire  il  si  tema  delle  Idee.  Questo  esige  che tutto  ciò  che  esiste  sia  ricondotto  alle  Idee;  ma  non  può esservi  Idea  del  Demiurgo.  Inf'attì,  ammetteremo  che eaii,  creando  il  mondo,  ha  creato  anche  IMeinento  ideal»* del  mondo?  "!a  allora  è  un  principio  sup^n-cn-e  alle  Idee. Ammetteremo  solamente  ch'egli  è  stato  la  causa  della individuazione  delle  Idee?  Ma  so,  perchè  le  Idee  s'indi- viduassero, è  stata  necessaria  1'  azione  del  Demiurgo, come  avrebbe  potuto  l'Idea  del  Demiurgo  individuarsi? Quest’osservazione,  sia  detto  di  passaggio,  può  servire a  mostrare  la  poca  consistenza  delTopinione  di  quei  cri- tici, i  quali  ammettono  che  il  mito  del  Tm^oha  per  oggetto di  supplire  all'insufficienza  del  sistema,  rappresen- tando d'una  maniera  fantastica  il  passaggio  dall'  ideale al  fenomenico,  che  Platone  non  poteva,  per  i  presupposti stessi  della  sua  metafisica,  spiegare  scientificamente.  P]ssi obbliano  che  quando  si  è  introdotto  un  creatore  perso- nale del  mondo  e  una  materia  in  movimento  preesistente che  non  sono  certamente  delle  entità  generali   si  ò  già fatto  questo  difficile  passaggio  dall'Idea  al  fenomeno  — cioè  all'individuale  che  si  sarebbe  trattato  di  spiegare. Aggiungiamo  che,  se  il  Deminurgo  del  Timeo  fosse un  convincimento  reale  di  Platone,  esso  occuperebbe  evi- dentemente nel  sistema,  essendo  irriduttibile  alle  Idee, il  posto  di  un  primo  principio:  intanto  Platone  non  am- mette altri  primi  principii,  prima  del  sincretismo  con  le dottrine  pitagoriche,  che  l' Idea  del  Bene,  e  dopo,  che quest'Idea  stessa,  cioè  l'Uno,  e  la  materia  o  Dualità  indefinita. In  quanto  alP  origine  del  mondo  nel  tempo,  la  con- traddÌ7.ione  del  Timeo  con  gli  altri  scritti  di  Platone  è Bovratutto  manifesta  al  soggetto  dell'anima.  La  dottrina costante  di  Platone  è  che  l'anima  è,  non  solo  immortale, ma  eterna,  ch'essa  non  avrà  mai  fine  e  non  ha  avuto mai  cominciamento -  P<^i"  il  mondo  stesso,  cioè  per  il V.  Fedro  245  c-246  a,  Ucp.  611  a-b,  Meno,  86  a-b,  Fèdo,  eoo. corpo,  la  contraddizione  non  è  cosi  aperta,  perchè  in  al- tri scritti  del  periodo  pitagoreggiante,  come  nel  IHmeo e  per  motivi  analoghi,  la  relazione  tra  T universo  visibile e  i  principii  da  cui  esso  deriva  è,  come  vedremo  in  se- guito,  rappresentata  simbolicamente  come  un'efficienza nel  tempo.  Cosi  il  motivo  principale,  se  non  Tunico,  per attribuire  a  Platone  la  dottrina  dell'eternità  del  mondo è  che  essa  è  una  conseguenza  necessaria  dell'  eternità delle  Idee.  Tuttavia  questa  dottrina  si  trova  d'una  ma- niera abbastanza  espilata  in  più  luoghi  dei  dialoghi,  come nel  Filebo  16  c-e ,  nel  Convito e,  nelle  i.f'^^i  721 e ,  ed  è  presupposta  nella  definizione  dell'Idea  conserva- taci da  Proclo  {in  Parmen. VELIA (vedasi), ):  la  causa  esemplare  di ciò  che  vi  ha  di  perpetuo  nella  natura. 5^  I  discepoli  immediati  di  Platone  intendono  la  co smogonia  del  Timeo  in  un  senso  allegorico.  Platone,  essi dicono,  non  ignorava  che  il  mondo  è  eterno  e  non  ha avuto  cominciamento;  la  genesi  descritta  nel  Timeo  non è  che  un  artifizio  di  metodo  a  cui  egli  ha  ricorso  per far  comprendere  più  chiaramente  i  suoi  concetti;  la  pro- duzione nel  tempo  simboleggia  1'  ordine  logico  tra  ciò che  vi  ha  nell'essere  di  primitivo  e  ciò  che  di  derivato.  Que- st'interpretazione è  attribuita  a  Crantore,  a  Senocrate,  a Le  cose  che  si  dicono  («ssere  eternamente  constano  di  uno e  di  molti  e  hanno  in  sé  per  natura  la  finità  e  l' infinità  „  (l.  e.  a carte).  Queste  cose  a  cui  si  attribuisce  l'eternità  non  sono  le Idee  pure,  ma  le  Idee  già  individuale,  perchè  qui  1'"  infinità  „  desi- gna la  moltitudine  infinita  degl'individui. La  generazione  è  un  ohe  di  sempiterno  e  d'immortale  nel genere  mortale  Il  genere  umano  è  esistito  ed  esisterà  in  ogni  tempo. Speusippo,  e  ai  discepoli  dì  Platone  in  generale  (1).  Ari- stotile la  rigetta,  e  vuole  che  Torigine  nel  tempo  sia  in- tera letteralmente  :  ma  è  evidente  che,  in  questo  caso, r  opinione  dei  discepoli  fedeli  d'  Platone,  rimasti  sino all'ultimo  in  intimità  intellettuale  col  maestro,  e  che  ne dividono  il  punto  di  vista,  deve  avere  per  noi*  più  peso che  quella  di  un  discepolo  che  ha  abbandonato  la  scuola (circostanza  importante,  perchè  Platone  ha  certamente scritto  il  Timeo  negli  ultimi  anni  della  sua  vita)  ed  è divenuto  un  acre  avversario,  e  che  del  resto  mostra  abbastanza, per  le  sue  esitazioui  e  i  suoi  equìvoci  nell'in- terpretazione dA  sistema  delle  Idee,  di  non  essersi  mai posto  sufficientemente  al  punto  di  vista  del  maestro.  An- che Teofrasto,  discepolo  d'Aristotile,  pensa  che  forse  la cosmogonia  del  Timeo  deve  intendersi  nel  senso  allego- rico voluto  dai  discepoli  di  Platone.  Una  circo- stanza che  dà  più  autorità  alla  loro  interpretazione è  che  anch'essi  facevano  uso  del  metodo  simbolico  del maestro,  rappresentando  la  dipendenza  logica  del derivato  dal  primitivo  come  un'  origine  del  mondo  nel tempo. Questo  per  1'  origine  nel  tempo.  In  quanto  al- l' altro  punto  fondamentale  della  cosmogonia  del Timeo,  cioè  il  creatore  personale,  noi  non  abbiamo  con- ci) V.  Arist.  Da  Conio  1.  I.  X.  4-6;  Simpl.  ad  ArisU  De  Coolo comm.  a  questo  luogo;  SchoL  cod.  Reg.  1853  pag.  489  ed.  Brandis; Schol.  cod,  Coisl.ed.  Brandis;  Proclo  in  Tim.  pag.  85  A. ed.  Basii.;  Plutarco  Psicogoti ia.  Teofrasto  Fr,  28  e  29  (ed.  Didot). (3)  Il  luogo  indicato  d'Aristotile  relativo  a  quest'interpretazione (De  Coelo)  comincia  con  queste  parole: Il  sussidio  che cercano  di  darsi  alcuni  di  quelli  che  fanno  il  mondo  incorruttibile ma  generato,  non  è  vero.  Essi  dicono  di  aver  i)arlato  della  gene- razione del  mondo  come  i  geom.etri  che  descrivono  le  figure  »  eco. tro  di  esso  drlle    testimonianze  cosi  esplicite   dai  disce- poli foieli  di  Platone.  Ma  in  compenso    Aristotile,  n'>n solo  non  conta  il  Demiargo    del    Timeo   tra  i    principii della  filosofia  platonica, ma non  dice  mai     una  parola che  gli  si    riferisca:  anzi le  sue parole   implicitamente escludono  V  esistenza  di  quo.-»ta  dottrina    o  aUra    simile tra  quelle  del  suo  maestro  (1).  Se  Platone  e  la  sua  scuola avessero  preso  il  Demiurgo  sul  serio,  sarebbe  un  obblio in  molli  casi    assolutamente  inesplicabile,  per   esempio quando  è  quisti^ne    della  canna  efficiente  in  Platone  o del  perchè  della    partecipazione  allo  Idee,  come    in  De. general,  et  corr.  l.  II.  IX.  5  6,  Met.  ecc.    Il  silenzio  d'Aristotile  è  tanto  più  significante  chp,  se  il  De- miurgo dovesse  riguardarsi  come  una  dottrina   reale  di Platone,  esso  non  costituirebbe  un  semplice   accessorio,  CHIAPPELLI (vedasi) crede   ohe  Aristotile allude al  Demiurgo    del Timeo  in  Met.  l.  I.  IX.  8,  con  le  parole  :  Tt  yccp     éoxt  xò    IpY»- t^ójjisvov  npòz  xàg  ISéag  ànopXéTiov  ;     che  egli  traduce  con  que- ste :  •*  Che  cosa  è  quest'artefice  che  contempla  le  Idee  ?  »,  e  parafrasa con  queste  altre  :  "  che  vale  il  dire  ohe  vi  ha  un  demiurgo  il quale  opera  secondo  gli  eterni  paradimmi  ohe  gli  stanno  dinnanzi  ?  « Ma  bisogna  tradurre  invece  :  **  ohi  è  che  opera  guardando  le  Idee?„; e  il  senso  è,  non,  come  vuole  il  Chiappelli,  che  l'artefice  che  con- templa le  Idee  non  vale  niente,  ma  che  vi  ha  bisogno  di  un'arte- fice che  contemplasse  le  Idee.    È  ciò  ohe  prova  tutto   il  contesto. Aristotile  vi  dice:  Dire  che  le  Idee  sono  degli  esemplari  non  spiega come  le  cose  ne  vengano,  e  non  è  che  un  vaniloquio  e  una  meta- fora poetica,  poiché  bisognerebbe  (per  ispiegare  come  la  cose  ven- gano dalle  Idee)  qualcuno  che  guardasse  le  Idee  e  facesse  le  cose a  loro  imitazione.  In  effetto,  continua    Aristotile,  la  semplice  esi- stenza di  un  esemplare  non  può  essere  la  causa  di  una  cosa  essere o  divenire  simile  a  quest'esemplare,  una  cosa  potendo  egualmente essere  o  divenire  simile  ad  un'altra  tanto  se  questa  esiste    quanto se  non  esiste. ma  una  parte  principale  del  sistema,  speci  ilmente  nel- Tinterpretazione  trascendentalista,  in  cui  sarebbe  la  sola soluzione  che  questi  avrebbe  tentata  del  problema  della partecipazione  (cioè  della  somiglianza  delle  cose  alle  Idee). 6®  Infine,  che  la  co!*mogonia  del  Timea  non  sia  che una  semplice  allegoria,  è  ciò  che  T  autore  stesso  ci  fa comprendere  assai  chiaramente.  Cosi  Timeo  fa  precedere il  suo  racconto  da  questo  proemio  :  «  In  o^ui  cosa  il punto  principale  ò  di  comi  iciare  con  un  comiucianif^uto conforme  alla  natura.  Bisogna,  rispetto  air  immagine (cioè  al  mondo  sensibile)  e  al  modello  (le  Ideo),  fare  una distinzione,  cioè  che  i  di^cìrsi  devono  avere  deiraffinità con  gli  oggetti  di  cui  trattano;  co-<i  quanlo  si  pa-la  di un  oggetto  stabile,  solido  ed  evid**nte  (le  I  lee),  occor- rono dei  discorsi  stabili  ed  inconcussi,  che,  per  quando è  possibile,  non  pos-^ano  essere  scossi  né  confutati,  e  non lascino  nit^nte  a  desiderare  socto  questo  r  ipporfco  ;  ma quando  si  parla  invece  di  ciò  che  è  fatto  a  somiglianza di  quello  e  non  é  che  un'immagine,  bastano  dei  discorsi verisimili  e  proporzionati  a  quelli  (cioè  che  siano  a quelli  nella  stessa  proporzione  in  cui  Timmagine  è  al modello).  Come  il  divenire  è  all'essere,  cosila  fede  è  alla verità  (vale  a  dire,  come  il  fenomeno  il  divenire è  un'immagine  dell'Idea  deU'e-'sere,  cosi  la  fede  — cioè,  evidentemente,  la  credenza  che  ha  per  oggetto  un discorso  verisimile,  come  quello  ch'egli  farà  sull'origine del  mondo è  un'immagine  della  verità).  Se  dunque,  o Socrat-*,  dopo  che  tanti  hanno  detto  tante  cose  sugli  dei e  sull'origine  dell'  universo,  io  non  posso  proferii^e  un discorso  rigoroso  e  del  tutto  coerente  con  se  stesso,  tu non  devi  esserne  sorpreso;  se  non  è  meno  verisimile  che alcun  altro,  si  deve  esserne  contenti,  ricordando  che  io che  parlo  e  voi  che  giudicate  siamo  degli  uomini,  sicché  Il r  ) SU  queste  cose  conviene  appagarsi  della  verisimiglianza del  rmlo  (jiuOog),  e  non  richiedere  di  più»  (29  b-d). Questo  carattere  allegorico  del  racconto  cosmogonico di  Timeo  Platone  lo  fa  intravedere  tanto  sulTuno  quanto sull'altro  dei  due  punti  capitali  di  questo  racconto  —  il Demiurgo  e  V  origine  nel  tempo .A  28  e  Timeo  dice: «È  diffìcile  di  scoprire  l'autore  e  il  padre  di  quest'u- niverso, e  scopertolo,  è  impossibile  di  parlarne  a  tutti  ». Le  ultime  parole  sono  un'allusione  evidente  alla  mas- sima pitagorica  che  tutto  non  è  da  dirsi  a  tutti,  e significano  che  ciò  che  Timeo  dice  del  padre  e  dell'au- tore dell'universo   questi  appellattivi,  nel  Timeo,  desi- gnano naturalmente  il  Demiurgo non  è  che  exoterico, cioè  non  è  che  un'espressione;  popolare  di  una  dottrina recondita,  su  cui  Timeo  intende  mantenere  il  secreto verso  i  non  iniziati.  Il  luogo  c'tato  :  «  E  quello  che  aveva ordinato  tutte  queste  cose  restava  nel  suo  stato,  secondo la  sua  abitudine,  indica  pure  che  la  rappresen- tazione antropomorfìstiea  del  Timeo  del  principio  crea- tore e  della  sua  azione  creatrice  non  è  che  un  simbolo. Esso  significa  infatti  che  un'  azione  che  si  svolge  nel tempo,  o  poiché  il  tempo  si  dice  creato  dal  Demiurgo che  implica  la  successione  e  il  cangiamento,  ò  in  con- traddizione con  la  natura  di  questo  principio,  a  cui  com- pete, invece  di  una  tale  attività,  la  permanenza  nello stesso  stato,  l'immutabilità,  che  è  l'attributo  delle  entità della  metafisica  platonica.   Un'altra   indicazione  che V.  Aristogsene  ap   Diog.   Vili.  i5. (2)  Notiamo  col  Martin  ohe  la  frase  greoa  è  ambigua  :  essa  può significare  o  che  il  creatore  restava  nello  stesso  stato  mentre  prò. duceva  il  mondo,  o  che  vi  ritornava  dopo  aver  agito  nella  proda- zione del  mondo  (v.  Martin  Timeo).  Qaesl'ambigaità potrebbe  essere  volata  :  il  secondo  senso  corrisponderebbe  al  &igni- fìcato  apparente  del  mito,  il  primo  al  reoondito. il  Demiurgo  non  deve  essere  preso  alla  lettera,  è  la sua  scomparsa  là  dove  Platone  parla,  non  piìi  da  mito- logo, ma  da  filosofo  (48  e-o2  d).  Ivi  egli  non  ammette  che tre  cose,  V essere  (le  Idee),  il  luogo  e  la  genesi:  il  Demiurgo  è  assente  da  questa  classificazione generale  degli  esseri,  e  non  può  trovarvi  alcun  posto. Anzi  la  restrizione  del  significato  della  parola  e.ssere  alle Idee  esclude  nettamente  la  possibilità  di  un'  esistenza qualsiasi  irriduttibile  alle  Idee,  come  sarebbe  il  Demiurgo. Di  più  nel  primo  dei  due  luoghi  indicati  l'Idea  è  riguar- data come  la  causa  efficiente  e  il  padre  dell'  universo sensibile,  prendendo  cosi  il  posto  del  creatore  personale. Aggiungiamo,  infine,  l'avvertenza  di  Timeo  ch'egli  non parlerà  del  principio  o  dei  principii  di  tutte  le  cose,  per- chè ciò  non  gli  è  permesso  dal  metodo  seguito  nel  suo discorso:  è  evidente,  come  abbiamo  osservato, che,  se  il  Demiurgo  fosse  una  dottrina  reale,  sarebbe  il principio,  o  uno  dei  principii,    di  tutte  le   cose . Il  carattere  simbolico  delT  origine  del  mondo,  nel tempo,  poi,  è  indicato  della  maniera  più  chiara  a  37  d, in  cui  il  tempo,  creato  dal  Demiurgo,  è  chiamato  «  im- magine eterna  dell'eternità  il  tempo  è  la  condizione di  ciò  che  cangia,  l'eternità  di  ciò  che  è  esente  dal cangiamento.  Questo  luogo  deve  mettersi  in  con- nessione con  quello  che  viene  un  po'  dopo  (38  b-c), in  cui  si  dice  che  «  il  tempo  è  nato  insieme  col mondo»,  e  che  «il  modello  (cioè  le  Idee)  è  per  tutta  la eternità,  e  il  mondo  è  esistito,  esiste  ed  esisterà  per  tutto  il 'ti Notiamo  però  che  Timeo  non  vuol  dire  ch'egli  non  parlerà affatto  dei  principii  delle  cose;  infatti  soggiunge  che  si  limiterà, eome  disse  al  principio,  al  discorso  verisimile,  indicando  cosi  che è  secondo  la  loro  natura  reale  ch'egli  non  ne  parlerà,  ma  che, benché  non  ne  dirà  il  vero,  ne  dirà  il  verisimile.  tempo  0.  Dicendo  che  il  tempo  e,  per  coasegnenza,  il mondo  sono  eterni  e  non  per  tanto  creiti,  Plato  le significa  anche  il  sen-jo  reale  del  simbolo,  cioè  una  pro- ce'ssione  ah  aeterno,  ia  cui  tra  le  erse  procedente  e  il principio  da  cui  procedono  l'anteriorità  e  posteriorità  non è  che  logica. Si  é  creduto  che  Telemento  rappreseatativo  della  co- smogonia del   Timeo   consista  unicamente   nella    produ- zione nel  tempo,  e  che    il  contenuto  filosofico  del    mito sia,  per  conseguenza,  che  il  mondo  procede  eternamente da  Dio,  cioè  da  un'intelligenza  creatrice.  Ma  questa  in- terpretazione prima  di  tutto  lascia  intatta  la  difficoltà  prin- cipale. Se  il  mondo  fosse  creato  da  Dio,;questi  creerebbe anche  le  Idee,  perchè  esse  non  sono  che  l'elemento  permanente e  sostanziale  del  motid^.  Ma  noi  non  possiamo ammettere  che  le  Idee   sono  create:    primo  perchè,    secondo il Timeo,  fsse  preesistono,  come  paradijimi,    alla creazione  eronologicam«»nte  se  la  creazione  nel  tempo deve,  prendersi  alla  lettera,  logicamente  se  essa  è  il  sim- bolo di  una  processione  ab  aeterno-;  poi  perchè  le  Idee sono  p  T    Piatone  le    cause  uUime,  e  i  loro    elementi  i principii  ultimi,    delle  cose;  e    infine  perché    ciò    che  è necessario  non  può  essere  creato,  e  l'Idea  è  necessaria, di  questa  necessità    assoluta  che  consiste  in   ciò  che  la sua  non  esistfuza   è  logicamente   impossibile    e  implica Il  luogo  del  Timeo  in  cui  si  stabilisce  che  il  mondo  è  un'im- macrine  (29  b)  è  tradotto  cosi  da  Cicerone:  "ex  quo  efHcitur  ut ait  necesse  huuc,  quem  cernimus,  mundum,  simulacruni  aetcrnu.a esse  alicuius  a,'lernir,.  (Oicer.  De  unh^ers^  Le  parole  aeternum  ed aeterni  non  hanno  le  loro  corrispondenti  nel  testo  greco,  almeno in  quello  che  noi  possediamo.  Noi  non  sappiamo  se  Cicerone  le leggesse  nel  sno  testo;  ma  ad  ogni  modo  il  pensiero  espresso  nella sua  tradazione  di  questo  luogo  non  ò  ohe  quello  implioitameate contenuto  a  37  d-38  e. contraddizione.  In  questa  interpretazione  inoltre  re- stano ancora  tutte  le  difficoltà  relative  al  Demiurgo:  la impossibilità  di  un  essere  che  non  si  risolva  in  Idee;  il silenzio  d'Aristotile;  le  opinioni  di  Platone  sulla  divinità; il  principio  che  l'intelligenza  non  può  trovarsi  che  nel- Panima;  ecc. Ma  oltre  alle  difficoltà  che  la  creazione  ab  aeterno (con  un  creatore  personale)  ha  in  comune  con  quella  nel tempo,  essa  ne  ha  un'altra  che  le  è  particolare.  Platone non  conosce  altra  causazione  —  a  parte  l'anteriorità  e posteriorità  tra  le  Ide^%  che  non  potrebbe  chiamarsi  una causazione  che  in  un  senso  analogico  —  che  quella  che avviene  nel  tempo  ed  è  una  successione  (2).  Per  lui, come  per  Aristotile,  causa  efficiente  vuol  dire  causa  mo- trice; e  la  causa  prima,  il  primo  motore.  L'  anima  è  la causa  prima  di  tutte  le  cose,  perchè  essa  produce  il  mo- vimento primitivo,  da  cui  vengono  tutti  gli  altri,  e  tutti i  cangiamenti  dipendono  dal  movimento.  La  dottrina sulla  causalità  dell'anima,  che  è  la  sola  causa  iperfisica nel  senso  proprio  della  parola  causa—che  noi  possiamo  con prove  attribuire  a  Platone,  ci  mostra  anche  che  egli concepisce  le  cause  al  di  là  dell'  esperienza,  più  che  è possibile,  sul  tipo  di  quelle  dell'  esperienza  ;  la  maniera in  cui  l'anima  produce  il  movimento  essendo  assimilata ai  casi  più  familiari   di  produzione    del  movimento    che  Platone,  ò  vero,  fa  produrre  le  Idee  le  une  dalle  altre,  e tutte,  in  definitiva,  dall'Idea  del  Bene;  ma  ciò  non  toglie  che  ogni Idea  sia  senza  causa  esterna  ed  esista  per  se  stessa,  perchè  l'Idea producente  ò  immanente  nelle  Idee  prodotte,  e  per  conseguenza queste  hanno  in  se  stesse  la  ragione  della  loro  esisteaza.   V.  Filebo  26  e-27  b  e  Sof.  265  b-e.  V.   Leggi  ci  presenta  Tosservazione,  poiché  essa  non  mette  in  movimento i  corpi  che  per  la  comunicazione  del  proprio movimento.  Interpretando  la  cosmogonia  del  Timeo come  una  creazione  ab  aeterno,  noi  attribuiremmo  dun- que a  Platone  dei  concetti  sulla  causalità  che  gli  sono assolutamente  stranieri e  che  del  resto  noi  non  po- tremmo attribuire  ad  alcun  filosofo  della  sua  epoca o  di  un'epoca vicina,  non  comparendo  essi  nella  storia  della  fi- losofia greca  che  coi  neopitagorici  e  i  neoplatonici. Un  grave  inconveniente  di  qu^^sta  interpretazione  è poi  di  attribuire  a  Platone  una  dottrina  ch'egli  non  ha mai  esposta  apertamente,  cioè  svestita  dalla  sua  forma simbolica.  Evidentemente  noi  dobbiamo  cercare  nel  contenuto filosofico  del  mito  dA  Timeo  una  dottrina  che  noi sappiamo  già  essere  appartenuta  certamontf^  a  Platone: un'interpretazione  che  non  soddisfa  a  qu*»sta  condizione, non  solo  ò  poco  sicura,  ma  è  intrinsecamente  inverosi- mile, non  essendo  ammissibile  ch'egli  abbia  esposto  solamente sotto  la  forma  enigmatica  del  simbolo  una  dottrina tanto  importante  quanto  è  quella  contenuta  nel mito  del  Timeo,  che  ha  senza  dubbio  per  oggetto  le  cause ultime  dell'universo. I  risultati  a  cui  siamo  già  pervenuti  ci  indicano  in qual  direzione  bisogna  cercare.  Non  potendo  trovarsi  nel Timeo  né  la  dottrina  di  una  creazione  nel  tempo,  né quella  di  una  creazione  ab  aeterno,  ne  segue  che  non può  in  alcun  modo  trovarvlsi  la  dottrina  di  un  creatore- vaie  a  dire  di  un  creatore  personale e  che,  per  conse- guenza, il  Demiurgo  del  Timeo  non  può  essere  che  la personificazione  di  un  principio  astratto.  Di  più  l'azione del  Demiurgo  per  la  produzione  del  mondo  non  potendo realmente  intender»?!  come  un'efficienza  nel  tempo,  e  non potendo  nemmeno  rappresentare  un'efficienza  senza  idea di  successione— che  è,  come  abbiamo  detto,  un  concetto straniero  a  Platone  e  alla  sua  epoca-;  ne  segue  che  noi non  possiamo  vedervi  in  alcun  modo  un'efficienza  cau- sale nel  senso  proprio  del  termine,  e  che  essa  perciò  non può  essere  che  il  simbolo  di  questa  efficienza  causale  in un  senso  analogico,  che  nel  sistema  delle  Idee  é  deno- tata coi  termini  tecnici  anteriorità  e  posteriorità. Ora  non  vi  hanno  che  due  ipotesi  che  corrispondano a  queste  condizioni:  o  il  Demiurgo  rappresenta  le  Idee nel  loro  complesso,  e  la  massa  in  movimento  disordinato anteriore  alia  creazione  )a  materia  (delle  cose)  priva  della partecipazione  delle  Id^e  ;  ovvero  essi  rappresentano  i due  principii  o  elementi  delle  Idee  e  delle  cose,  cioè  il primo  il  Bene  o  Uno,  e  l'altra  la  materia  (delle  Idee  e delle  cos')  o  Dualità  indefinita.  Ma  di  queste  due  ipotesi la  prima  deve  escludersi,  perchè  il  Demiurgo  non sarebbe  una  rappresentazione  convenien^^e  del  mondo ideale.  Esso  non  lo  potrebbe  essere  che  se  le  Idee  fos- sero pensieri,  ciò,  che  data  la  loro  immanenza,  non  po- trebbe avere  altro  senso  che  l'identità  dell'  essere  e  del pensiero  :  ma  questa  è  una  dottrina,  come  spiegheremo altrove,  che  non  possiamo  attribuire  a  Platone.  Re- sta dunque  la  seconda  ipotesi. Platone  ci  dà  nel  Timeo  una  spiegazione  teleologica del  mondo.  La  teleologia  di  Platone  è  una  teleologia immanente la  causa  della  finalità  delle  cof='e  essendo  un principio  astratto  risiedente  nel'e  cose  stesse  :  ma  questa teleologia  diviene  nel  Timeo  una  teleologia  trascendente, nella  quale,  cioè,  la  fi»^ alita  interiore  delle  cose  appari- Fce  l'efi'ettuazione  del  piano  d'un  agente  personale.  L'al- Supplem.  '•I ti -^F^ legoria  del  Timeo  consiste  dnnqtie  essenzialmente  in  ciò che  la  causa  impersonai  e  astratta  del  bene,  cioè  Tldea stessa  del  Bene,  è  rappresentata  come  una  causa  concreta e  personale.  Questa  personificazione  delT  Idea  del Bene  non  è  un  semplice  giuoco  d.-.irimmaginazion«,  ma  ha per  Platone  un  alto  valore  didattico— e  infatti  Aristotile e  i  suoi  commentatori  ci  rapportano  che,  secondo  i  di- scepoli di  Platone,  questi  ha  rappresentato  il  mondo  come creato  in  grazia  dall'insegnamento,  5LSao>taXfag  xaptv. Per  dilucidare  Tldea  del  Bene,  cioè  il  concetto  teleo- logico, ch'egli  pone  alla  base  della  sp'egazioiie  del  mondo, Platone  ricorre  ad  una  similitudine.  Egli  dice:  l'universo non  ha  la  ragione  dplla  sua  esistenza  che  in  sft  stesso, nella  sua  necessità  interiore;  ma,  considerato  nel  tutto così  bene  che  nelle  parti,  esso  é  costituito  rome  se  fosse l'attuazione  di  un  disegno  intelligente;  per  conseguenza, siccome  la  causa  dell'  esistenza  di  ciascuna  cosa  e  di tutte  le  sue  proprietà  é come  è  detto  nel  Fedone  che  il  meglio  è  che  essa  sia  e  sia  tal**,  noi  dobbiamo, per  comprendere  il  perchè  di  una  cosa  e  della sua  maniera  di  essere,  immaginare  che  questa  cosa  è r  opera  d'un  autore  intelligente,  e  spiegare  il  disegno sapiente  secondo  cui  è  stata  formata.  Il  carattere  del- l'allegoria essendo  di  trasformare  l'astratto  in  concreto, anche  l'altro  principio  diviene  nel  TVmeo,  da  un'  entità astratta,  una  realtà  concreta,  ed  è  rappresentato  perciò come  una  materia  determinata  preesistente  a  cui  si  ap- plica l'attività  del  Demiurgo  La  materia  premondana del  TinifOy  priva  delle  Idee  e  in  un  movimento  confuso (1)  V.  Arist.  De  Co^lo,  Simplic,  Schol,  cod.  Reg,  e  Sehoì,  roà, CoiM.,  i  l.  indicati  nella  nota  a  carta. V.  pure  il  l.  di  Plutarco Paicog, e  disordinato,  è  una  rappresentazione  assai  chiara  del- l'elemento materiale— nella  sua  doppia  funzione  di  mate- ria dell»^  cose,  quella  ch«  Platone  ident'fica  allo  spazio, e  di  materia  delle  Idee  (e,  per  conseguf»iiza,  anche  delle cose  stesse)  —perchè  questo  è,  come  dee  Teofrasto  {Mei.  33) l'informe  e  il  disordinato  :  questa  m«teria  è  rappresen- tata come  agitata  da  un  continuo  movimento,  perchè  uno dei  concetti  che  entrano  nella  significazione  del  princi- pio materiale  è  il  movimento,  per  cui  Xenocrate  chia- mava, come  abbiamo  detto  (l),  questo  principio  àsvaov (sempre  fluente),  e  lo  simboleggiava  per  l'anima.  Nella genesi  premondana  del  Timeo  possiamo  pure  trovare  rap- presentati tutti  gli  altri  concetti  della  oooxotx^a  dell'infinito: essa  è  l'ànsipov,  sia  nel  senso  qualitativo,  cioè  d' indefi- nifo^perhè  non  vi  era  in  essa  alcuna  forma  definita  — sia  nel  senso  proprio  e  quantitativo— perchè  la  variabi- lità in  essa  era  illimitata   (oltre  alla  divisibilità  all'in- finito della  materia  e  del  movimentoj;  è  l' Ineguale, il  Diverso  e  l'Anomalo,  perchè  allora  non  vi  era  la  ri- petizione costante  delle  stesse  forme,  come  nel!'  attuale 0)  V,  questo  Supplem.  n.  II.  carta  178. (2)  Cfr.  nel  mito  del  Politico  —  che  a  269  e-  270  a  e  più  an- cora a  273  b-d  ricorda  evidentemente  il  mito  del  Timeo~^Ì9  parole: Il  dio  che  1'  ha  formato  non  volendo  che  il  mondo (per  la  degenerazione  progressiva  dalla  primitiva  imitazione  piìi esatta  del  governo  del  suo  demiurgo  e  padre) si  dissolva  e  s'im- merga nel  luogo  della  dissomiglianza  die  è  infinilOt  ritornato  al  go- verno di  essow,  ecc.  Il  luogo  infinito  della  dissomiglianza  in.  cui  il mondo  s'immergerebbe  per  la  sua  dissoluzione,  è  quello  stesso  in cui  era  immerso  anteriormente  alla  sua  formazione  (cioè  alla formazione  del  cosmos). mondo  ordinato  (1);   è  il  principio  del  male,  perchè   il male,  nel  mondo  attuale,  è  una    sopravvivenza  del    di- sordine primitivo,  che  il  Demiurgo    non  ha   potuto   che incompletamente  ricondurre  all'ordine;  è  il  Non  essere, perchè  que^o   equivale  alla  steresi,  cioè  alla  pri- vazione della  forma;  infine  è  la  MoUiplicità  senza  unità, perchè  Tunità,  Tindividualità,  è  costituita  dalla   forma. Se  Tuno  dei  due  principii  del  mondo  che  compariscono nel  Thneoj  cioè  il  Demiurgo,  rappresentasse  le  Idee,  l'al- tro dovrebbe  rappresentare,  come  abbiamo  detto,  la  ma- teria delle  cose-ciò  che    si  aggiunge  alle  Idee   per  co- stituire le  cose,  cioè,  come  si  ammette  già  in  questo dialogo,  la  semplice  estensione  :  ma  in  questo  caso  esso non  comprenderebbe  tante  altre  determinazioni  oltre  al- Testensione,  e  non  sarebbe  la  genesi  precosmica  che  ci descrive  Timeo. Questa  interpretazione,  indicataci  dalle  considerazioni generali  precedenti,  è  confermata  da  un  esame  partico- lareggiato del  tfsto.  Il  significato  del  simbolo    traspare abbastanza  chiaramente  dal  cominciamento  del  racconto di  Timeo.  «  Diciamo  per  qual  causa  il  costruttore  della genesi  e  di  quest'universo  li  ha  costruiti.  Esso  era  buono, e  nel  buono  non  vi  ha  mai  invidia  di  alcuna  cosa;  straniero a  questo sentimento, volle   che   tutto  fosse,  per quanto  era  possibile,  simile  a  se  stesso  (3).    Quegli   che da  uomini  sapienti  accetterà  questo  principio    potissimo della  genesi  e  del  mondo,  lo   accetterà  giustamente.  In Cfr.  il  l.  del  Politico  citato  nella  nota  precedente.;  V.   Tim,  29  e,  30  a,  40    b,  46  d,  48  a,  53  b,  56  e,    69  b,   e  cfr. l'olit.  273  b-o. 3)  L'efficienza  dell'Idea  del  Buono  è  di  rendere    le  cose  simili a  se  stessa,  questa  essendo  in  generale  la  causalità  dell'Idea. effetto,  volendo  Dio  che  fosse  tutto  buono  e  niente  vi fosse  di  cattivo,  per  quanto  era  possibile  ;  trovato  tutto ciò  che  era  visibile,  non  quieto,  ma  agitato  da  un  mo- vimento confuso  e  disordinato,  dal  disordine  lo  ridusse all'ordine,  stimando  che  questo  era  meglio.  Ora  non  era né  è  possibile  aìVottimo  fare  altro  che  il  più  belio » (29  e-30  a).  A  idsL  T  autore  dell’universo  (cioè  il  De- miurgo) è  chiamato  «  V  ottima  delle  cause»;  e  a  37  a €lottimo  degli  esseri  eterni  (desi  ovxwv)  e  intelligibili». Quest'ultimo  luogo  è  decisivo,  perchè  da  una  parte  gli €  esseri  eterni»  (dsl  òvTa)(i)egli  t  esseri  intelligibili  »  (2) significano,  nel  linguaggio  abituale  di  Platone,  le  Idee; o  da  un'altra  parte,  il  massimamente  buono  è  per  lui l'Idea  del  buono  (3),  il  supremo  grado  di  un  attributo spettando  all'Idea  stessa  corrispondente  all'attributo  (4j. In  tutto  il  racconto  poi  l'aspetto  del  Demiurgo  che  Ti- meo mette  in  rilievo,  è  che  esso  è  la  causa  del  bene, cioè  della  finalità  delle  cose  (5)  :  esso  è  essenzialmente, com'è  chiamato  a  68  e,  <  il  demiurgo  deir  ottimo  e  del più  bello»,  perchè  questo  è  il  punto  di  coincidenza  con l'Idea  del  Bene,  su  cui  l'allegoria  è  fondata. Le  immagini  con  cui  Tldea  del  Bene  è  rappresentata nel  Timeo  non  sono  senza  esempi  negli  altri  scritti  di Platone.  Nella  Bep.  b97  Dio  ha  generato  l'Idea  del  letto, e  per  questo  Dio  non  possiamo  intendere  che  l'Idea  del Bene,  perchè  è  essa  che  dà  alle  altre  Idee  l'essere  e  la (1)  V.   Tim.  27  d,  50  e,  5t  a,  59  e,  Fedone  79  d,  ecc- (2)  V.   Tim.  30  e,  30  d,  31  a,  51  b,  51  e,  51  d,  52  a,  92  e,  Kcp.  507 b-o,  508  e,  524  o,  532  b,  Fedone  79  a,  80  b,  83  b,  ecc. V.  Arist.  FAÌK  Xic.  1.  I.  VI.  6,  Eth.  End. 1.  I.  Vili.  1-2,  11, IH,  M,  Mor,  1.  I.  I.  22. Cfr.   Supplemen.  B  parte  II  n.  III. V.   Tihieo  29  e-  30  b,  30  c-d,    31  c-33  a,  33  b-  34  b,  37  a,  39  b-c, 40  a-b,  46  o-e,  48  a,  53  b,  53  e,  54  a,  56  e,  68  e,  69  b,  ecc.  - essenza  {Rep.  509),  e  le  Ideo  non  hanno  potuto  essere prodotte  da  un  dio  propriamente  detto,  cioè  da  uaa  causa personale.  A  506  508  il  Bene  è  detto  il  padre  del  sole, e  implicitamente  perciò  di  tutto  l'  universo  visibile.  Nel Teeteto  176-177  «vi  hanno  Avi*\  paradigmi  neir  essere, l'uno  divino  e  felicissimo,  l'altro  senza  Dio  e  miserrimo  ». Questi  due  paradigmi  sono  senza  dubbio  le  due  Idee universalissime,  cioè  i  due  elementi,  perchè  Platone  ri- guarda l'universale  come  un  paradigma  rapporto  ai  par- ticolari che  gli  sono  subordinati  (1).  Anche  Xeno crate  (2)  rappresentava  T  Uno  o  il  Bene  per  l'intel- ligenza,  e  lo  chiamava  Giove,  il  primo  dio  e  padre degli  dei  (padre  degli  dei  è  detto  il  Dt*miargo  nel Timeo  41  a  e  42  e).  Non  bisogna  dimenticare  che  il  no- me di  Dio  dato  all'Idea  del  Bene  none  che  una  semplice metafora— una  metafora  è  il  germe  d'un'allegoria—,  per- chè, quest^Idea  essendo  l'essenza  o  la  forma  comune  di tutti  gli  esseri,  essa  non  potrebbe  identificarsi  con  l'in- telligenza senza  ammettere  questa  proposizione  priva  di senso,  che  la  forma  o  l'ess  nza  comune  di  tutti  gli  es- seri è  l'intelligenza;  e  quand'anche  nelle  Idee  platoniche si  vedessero  i  pensieri  della  divinità,  l'Idea  del  Bene  sa- rebbe uno  dei  pensieri  divini,  ma  non  la  divinità  stessa che  è  il  soggetto  di  questi  pensieri. Ma  ciò  che  non  liscia  alcun  dubbio  sulla  nostra  inter-  Prima  ha  detto:   è  necessario  ohe  vi  sia  sempre  qualche  cosa contraria  al  Bene^;  ciò  ohe  è  un'alt ja  prova  che,  all'epoca  in  cui scriveva  il  Teeteto,  Platone  ammetteva  già  la  dottrina  dei  due  prin- oipii  opposti— La  qualitica  senza  Dio  data  al  principio  materiale  e privativo  ha  un  equivalente  nel  Timeo  53  b,  in  cui  della  genesi anteriore  alla  formazione  del  cosmos  si  dice  che  essa  si  trovava nello  stato  in  cui  deve  trovarsi  ciò  da  cui  Dio  è  assente. (2)  V.  Stobeo  EcL  PUys,  libro  I,  o.  2,  29. à      -L- rrrtaz'ore  è  che  epsa  è  quella  dei  discepoli  immediati  dì Piatene.  Scendo  Simjlicio    (fd  Ariti.  De  Cceìoì.  J.  X) Xenocrete  e  i  pl«trnici    in  generale    dicono  che    per  Ja produzione  delTuniverso,  nel    7m«eo,  non  deve  intendrrsi una  produzione  nel  tempo,  ma  che  essa  \i\  per  oggett> d'indicare  «l'ordine  d^^lle  cose  che  in  esso  (nell'universo) sono  più  prime  e  più  composte».  Le  cose  pia  prime  vuoi dire  i  primi  priacìpii;  in  esso,  che    questi  prin^.ipii    non sono  delle  cause  estt*.riori,  mairieriscmo  uìl  m  ini ->  smesso- infirie  rop,)o*i«ioie  tra  le  cos*,  più  prime  e  le  più  com- poste ò  la  prova  più  chiara  che  essi  s^no  gli  elemvUi  A{ tatto  le  cos*^,  cioè  TUno  e  la  Daalità  inlefii  ta.  Questa interpretazione  ó  attribiiti  a  Xe  locrate  anche  n*llì  Si;o- lio  cod.  Coisl.:  Platone,  facendo  il  mondo  prodotto,  non ha  inteso  parlarti  d'un.i  prò  luzone  reale»,  ma  «  in  gra^/'a dell'insegnamento  ha  detto  che  il  moad  )  è  stato  prodotto dalla  materia  proe^^istente  e  dall'  slao^».  Qui    i  princ  p  i del    mondo  di  cui  si  tratta  nel Timeo,  sono    id^^ntifìcati con  r  eleog  e  la  materia  :  1'  sldoc;  e    la  materia    sono,  lo sappiamo,  1'  Uno  e  la  Dualità    indefinita.    Più  esplicita ancora  è  la  testimnnian'/a  di  Teofrasto  (snll'i  lentità  d^-l Demiurgo  con  l'Idea  del  bene):  Platone  dopo   che  alla filosofia  prima  si  diede  alla  storia  della  natura,  e  ammise due  principi!,  1'  uno  come  materia  (il  7iav5sx£c;),  1'  altro come  cau^a  e  movente,  e  a  questo    dà  la  natura   dì  dio e  del  tiene  {Fr.  48).  Teofrasto  sa  che  il    Demiurgo    deve identificarsi  con  l'Idea  d'^l  bene,  maprenie   sul  s»rio  il simbolisfno  del   Timeo.  Altrove  {Met.  33)  Teofrasto  stesso sembra  identificare  la  genesi  anteriore  al  mondo  con  la Dualità  indefinita,  perchè,  dopo  aver  d'Hto   che  Platone ha  ammasso  due  principii  contrarli,   TUno  e  la  Dualità indefinita,  e  che  questa  è  Tinfinito,  l'inform**,  il  disordinato, soggiunge  :  «  per  cui  Dio  non  potrebbe  tutto  ricondurre - airottì  mo,  ma  solo  per  qnanto  gli  è  possìbile».  Queste parole  alludono  evidentemente  al  concetto,  tante  volte ripetuto  nel  Tìmeo^  che  il  Demiurgo  non  ha  potuto,  per la  resistenza  della  materia  — cioè  della  massa  in  movi mento  disordinato  che  gli  è  servita  di  materiale  nella  co- struzione del  mondo— attuare  il  bene  che  d'una  maniera incompleta  (l).  Quest'identificazione  della  genesi  pre- mondana del  Timeo  con  la  Dualità  indefinita  spiega  pure il  fatto  che  questa  in  un  preteso  scritto  di  Pitagora  è chiamata  anche  Chaos  (2),  p3rchè  le  proposizioni  attri- buite a  Pitagora  sulla  Daalità  indt^.finita  non  sono  che quelle  di  Platone  e  i  platonici. Nella  creazione  del  mondo  nel  Timeo,  col  Demiur 'o concorrono  gli  dei  generati.  Biso^jna  perciò  distinguere nel  mito  due  parti,  quella  che  si  riferisce  al  primo,  e quella  che  si  riferisce  ai  secondi.  Neil'  una  V  allegorìa consiste  tanto  nella  creazione  nel  tempo  quanto  nella  na- tura personale  attribuita  all'uno  dei  principiì  delle  cose. Nell'altra  invece  la  concezione  delle  forze  creatrici  come persone  non  è  una  semplice  allegoria,  e  questa  si  riduce in  sostanza  a  rappresentare  come  avvenuta  in  un  punto del  tempo,  all'origine  delle  cose,  l'azione  contìnua  della divinità  nel  governo  d^el  mondo.  Il  significato  reale  .di questa  parte  del  mito  non  è  dunque  che  la  dottrina  co- nosciuta di  Platone,  che  la  divinità,  cioè  1'  anima  del mondo,  é  la  causa  prima  di  tutti  i  fenomeni.  La  parte che  nella  creazione  spetta  al  Demiurgo  e  quella  che spetta  agli  dei  generati  sono  nettamente  delimitate:  que- sti creano  ciò  che  nasce  e  perisce,  quello  ciò  che  è  im- (1)  V.  i  1.  indicati  a  carta  231,  pag.  2,  n.  2. (2)  V.  Siriano    citato    in   Zeller  Filos,  dei    Greci   voi.  1.    ed.  4. pag.  333. peribìle  e,  per  conseguenza,  eterno*(questa  distinzione  è formulata  a  spai  chiaramente  nell'allocuzione  del  Demiurgo agli  deijgenerati,  a  41  e). L'oggetto    principale  della    cosmogx  n'a  del   Timeo  è, come  abbiamo  detto,  di    dilucidare  la  crncfzione    teleo' logica  del  mondo.  In  Plafone  vi  hanno,  come  nota  giù- stamente  il  Janet,  due  teorie  della  finalità:  l'nna  im- manente, che  suppone  una  causa  impersonale  (la  parte- cipazione dell'Idea  del  bene),   l'altra    trascendente,    che suppone  una  causa  personale.  La  prima  abbraccia  nella sua  spiegazione  tutto  ciò  che  es'ste;  la  seconda    non  si applica  che  a  ciò  che  ha  un'  origine  nel  tempo,    perchè la  causa  personale    ch'essa  suppone  è  1'  anima,  e l'efficienza di  questa  si  svolge  nel  tempo,  Platone  noi  avendo ancora,  come  abb'amo  osservato,  l'idea  di  una  cau«a  ef- fic  ente  o  produttrce,  nel  senso  proprio  dei  termini,  che non  preceda  nel  tempo  la  coFa  prodotta.  Siccome  il  con- cetto di  una  finalità  trascendente  è  più  chiaro  che  quello dì  una  finalità  immanente,  cosi  Platone  si  serve  del  primo per  rischiarare  il  s'  condo.  Di  là  la  finzione  del  Demiurgo. Ma  questa  cau^^a  personale  fittizia  non  viene  adibita  che per  ciò  che  l'anima  non  può  produrre  :  prodotte  le  cose eterne,  e  tra  esse  l'anima,  l'opera  del  Demiurgo    è  ter- minata, perchè  coll'anima   si  ha  già,    all'oggetto di rischiarare  il  concetto  teleologico    per  l' intnduzione    di cause  personali,  una  causa  reale,  e  non  si  ha  fiù  quindi bisogno  di  una  causa  fifizia.  l\r  Io scopo  di Platone una  causa   reale  vai  meglio  di  una    fittizia,  perchè   con essa  la  spiegazione  teleologica  delle  cose  viene,  non  solo resa  più  chiara,  ma  anche  confermata,  il  principio  che le  cose  procedono  da  una  causa  intelligente  avendo,  secondo  Platoce,  ccirìe  roi  vediamo  nel  /^^efor?^  9*7-99,  per conseguenza  Eecessaria  qnePo  delle  cause  finali. I  motivi  fer  cui  Platone  rei  limeo  preferiFce  di esporre  le  sue  dottrine  setto  una  forma  simbolica,  fodo di  due  ordini  :  gli  uni  tcngoro  alla  finzione  che  l'espo- sitore è  un  filosofo  pitagorico,  gli  altri  alla  natura  stt*.Fsa di  queste  dottrine. Timeo,  facendo  il  mondo  generato,  parla  da  pitago- rico. I  pitagorici,  e  in  generale  tutti  i  filosofie  i  teologi prima  di  Platone,  parlano  dtl  mondo  come  originato  nel tempo,  e  ne  descrivono  la  formazione  II  modo  di  espo- sizione del  Timeo  é  dunque  richiesto  anzitutto  dalla  ve- risimiglianza  della  finzione  di  questo  dialogo  :  Platone espone  i  suoi  concetti  sui  principii  delle  cose  sotto  la  forma tradizionale  del  racconto  cosmogonico,  sia  per  confor- marsi alle  dottrine  della  scuola  a  cui  appartiene  il  personaggio da  cui  fa  esporre  quc^^ti  concetti,  sia  perchè questa  forma  ò  come  una  marca  della  veneranda  anti- chità, e  le  dottrine,  ch'egli  attribuisce  a  Timeo,  proven- gono, a  quanto  pretende  Platone  (I),  da  una  tradizione antichissima.  Ma  lo  scopo  di  Platone  non  è  semplice- mente di  dare  alla  sua  finzione  una  più  grande  verisi- migiianza  storica:  facendo  trasparire  chiaramente  il  ca- rattere puramente  exoterioo  ed  allegorico  del  racconto cosmogonico  dì  Timeo,  Platone  iii<^ende  al  tempo  itesso indicare  che  la  cosmogonia  dei  Pitagorici  non  è  che un'  espressione  exoterica  di  una  dottrina  più  filosofica; che  essi  hanno  re  il  mente  ammessa,  c"»me  lui,  Tetemità  V.  Fiìebo  16  c-e  Non  bisogna  dimanticare  che    le  finzioni    drammatiche  dei dialoghi  platonici    non  sono   delle   semplici  finzioni    poetiche,  ma l'autore  intende  attribuire  realmente  ai  personaggi  di  questi  dia- loghi le  dottrine  ch'egli  mette  loro  in  bocca. del  mondo-  noi  sappiamo  ch'egli  pretende  stabili  re  Tì- dentità  delle  dottrine  degli  antichi  pitagorici  con  le  sue proprie;  e  che  l'origine  dell'universo  nel  tempo  è  per essi,  come  p^.r  lui,  un  simbolo  significante  la  processione ah  aeterno  delle  cose  dai  loro  principii  fi). L'ogg-^-tto  principale  d»lla  cosnogonia  del  Timeo  è, come  abbianao  visto,  di  dare  una  spiegazione  teleologica del  monlo.  Il  concetto  teloo'ogico  era  sconosciuto  ai  Pi- tagorici; ma  data  l'importanza  di  qiesto  concetto  nella sua  filosofia,  egli  noi  può  rinunziare  a  ritrovarlo  anche in  quella  degli  antichi  Pitagorici,  di  cui  vaile  stabilire l'id-^^ntità  con  la  propria.  I  Pitagorici  insegnavano  che tutto  è  stato  prodotto  da  Dio.  Platone  prenda  per punto  di  p\rtmzi  qae^t'id^a  a».c.MSKÌa  delU  loro  co- smogonia, ne  fa  rid^>a  prue  pale,  la  sviluppa  facendola servire  di  base  a  una  concezione  finalistica  dell'universo, e  trasfigurata  cosi  li  cosmogo  lia  reale  dei  Pitagorici, Tattribuisce  ai  discepoli  fedeli  dei  prelecjìssori  di  questi Seaondo  Stobao  (LrìD,    Pitagora   dica  il   mondo    genarat  o par  un  artificio  logico  (xax'èJiiVOiav),    ma    non    cronologicamente (xaxà  ipò^o^).  Ciò  vaol  dira,  com3  b3n3  spiaga  il  Zellar,  che  i Pitagorici,  parlaad>  dolla  t'ormizion^  dal  mo^lo,  noa  hanno  vo- lato insvraara  cha  la  dipeaianzi  logici  del  derivato  rigaardo  al primitivo,  e  non  un'origine  nel  tempo.  Stoboo  (1.420)  riporta  anche un  frammanto.  cartamanta  apocrifo,  di  Filolao,  che  affarma  che  il mond3  è  esistito  S3.npra,  e  milti  aitori  antichi  attrlbiisoD  vo  a  Pi- tagora questa  dottrina  (V.  Zollar  Filo^,  rft^i  G/vci).  Che  l'o- piaiona.  sacoalo  cii  l'origin3  dal  m)ado  nal  tanpi,  di  cai  hxna  .. parlato  i  Pitagorici,  non  ò  una  dottrina  ralla  di  qaasti  fil.sofi,  esi- sta gi^  all'epoca  di  Aristotila,  risalta  d:il  laogo  dalla  MjI.  1.  XIV  . III.  U.15:  -Nà  vi  hi  la>.^ì  a  d  l'ntara  sa  i  Pitag>rici  ta33iaao  o no  la  gaaarazion3;  dicono  intatti  chiaraneate,  ecc. Filolao  dica  ohe  Dio  ha  fatto  il  limite  e  l'illimitato.  V.  Si- riano in  Mei.  SchoL  925,  b,  23. filosofi,  interpretandola  come  nn  semplice  simbolo  di  una specalazione  superiore,  il  cui  contenuto  coincide  con  le sue  proprie  dottrine  sui  principii  delle  cose.  Fors'anche Ttmto  non  è,  nell'intendimento   di  Platone,    il  rappre- sentante soltanto  del  pitagorismo,    ma  di  tutti  gli  anti- chi filosofi  e  teologi,  che  avevano  attribuito  alla  divinità 0  alla  mente  o  ad  uà  altro  principio  analogo  la  prima origine  dell'universo;  e  il  Demiurgo  del  Timeo  no  .  cor- rnponde  solamente  al  dio  creatore  dei  Pitagorici,  ma  a tatto  co  che  Platone  trova  nelle  tradizioni  dei  G.eci  e dei  barbari  sa3C3ttibile  di  essere  interpretato -secondo  il metodo  arbitrario   d'interpretazione  che  gli  è  proprio - come  un'allegoria  dell'Idea  del  bene  (1).  È  a  ciò  che  fa  pen- sare Aristotile,  quando  dice  che,  se  si  tien  dietro  al  pen- siero d'Anassagora,  nella  sua  conseguenza  logie»,  piut- tosto che  a  quello  ch'egli  ha  espressammte  detto,  si  rie- sce  a  fargli  ammettere  per   principii  I'  Uno   (corrspon- dente  al  Nous)e  la  materia  indeluita,  come  i  platonici  (2)- qumdo    ansimila    lo   stesso    Anassigora  ed    EmpeJ)cle' (questi  perchè  ha   po^ti    l'Amicizia   tra  gli    elem<mti)  e Ferecide  con  altri  teologi  e  i  Magi  ai  platonici  che  am- mettono il  Bene  come  principio  (3j;  quando    attribuisco non  solo  ad  Anassagora,  ma  ad  Ermotimo,  a  Parmenide ed  Esiodo   (perchè  entrambi  pongono,    egli  dice,    co;ne principio  l'Amore)    e  ad   Empeiocle  di   ammìttirj   pìr princ.pio  la  causa  del  bene  ed  anche,  in  un  certo  senso,  Si  notino  le  parole  del  Tìmto  dopo  avere  spiegato  il  motivo per  CUI  Dio  ha  creato  il  m>ndo  (oioi  la  parte 3ipizija3  della  su» bontà)  :  Qaegli  che  da  uomioi  sapienti  accetterà  questo  principio potissimo  della  genesi  e  del  mondo,  lo  accetterà  giusta  n  ente, (29  e,  1.  e). (2)  Mei.  1.  I.  Vili.  9-11.   M^t.  1.  XIV.  IV.  2-4. N. il  bene  in  se  stesso  (i).  Visto  lo  sformo  di  Platone  di  ri- trovare i  suoi  concetti  nelle  tradizioni  deirantica  sapienza, que-iti  ravvic  namenti  delle  dottrina  dei  suoi  predecessori con  le  sue  proprie  si  troveranno  certamente  più  natu- rali in  lui  che  in  Aristotile.  Il  principio  del  bene  non potendo  e-^sere,  S'3condo  le  sue  idee  sui  rapporti  della propria  filosofia  col  passato,  affatto  ignorato  dall'  anti- chità, eorli  ve  lo  trova  involto  in  oscuri  simboli.  Dire  che Dio  0  rintelligeaza  o  qualche  altra  cosa  di  simile  è  il princpio  de'le  cose  è,  al  suo  punto  di  vista,  affermare implicicamente  la  d>ttrina  della  fiualità;  di  più,  le  co- smogonie degli  antichi  non  fot^^.ndo  essere  intese  lette- ralmente, per  il  loro  carattere  evidentemente  mitico  e per  r  asniriità  di  un'origiu».  del  mondo  nel  t^mpo,  e quest'origine,  per  conseg-nenza,  non  potendo  significare che  il  raj)porto  logico  tra  i  prin(!Ìpii  e  le  cose  derivate, le  cans»,  p'»rs inali  o  semìper5,onali,  a  cui  i  Pitagorici  e gli  aliri  antichi  sapienti  hanno  attribuito  la  formazione dell'universo,  non  p:)ssono  essere,  egli  pensa,  che  delle personificazioni,  più  o  meno  coscienti,  di  un  principio astratto,  e  questo,  non  altro  che  l'Idea  del  bene. Attiri  ungiamo  infine  che,  per  la  forma  simbolica  ed exoterica  del  Timeo,  Platone  vuol  mostrare  eh'  egli  si accorla  con  gli  antichi  Pitagorici,  non  meno  per  il  fondo dell  5  dottrine,  che  per  la  f)rma  esteriore  della  loro  espo- sizione. Il  carattere  estremamente  paradoss astice  ddla filosofia  pitagorica,  unito  alle  altre  ragioni  a  cui  abbiamo a.3cennato  al  princiipìo  di  questo  numero  (2),  hanno  do- vuto far  nascere  bei  presto  T.dei  che  le  dottrine  cono- sciate dei  Pitigorlei  noa  era  io  che  dei    simboli  di  spe- UeU  1.  I.  III.  12-lV.  3 . Carta  ^ culazìoni  più  alte  :  Platone  doveva  farsi  prormtore  dì quest'opinione,  s'egli  voleva  giustificare  la  sua  interpre- tazione del  pitagorismo,  tendente  a  inientifieare  questa filosofia  con  la  propria.  Esponendo  le  proprie  teorie  sotto il  velo  deirallegoria,  egli  usava  dunque  un  processo,  che faceva  parte  del  concetto  che  si  aveva  e  che  egli  voleva che  si  avesse  del  pitagorismo,  e  si  dava  cosi  anch'esso l'aria  di  un  pitagorico. In  quanto  ai  motivi  dipendenti  dalla  natura  stessa delle  dottrine,  noi  vi  abbiamo  in  parte  accennato,  attri- buendo il  modo  di  esposizione  del  Timeo,  sulT  autorità di  Aristotile  e  dei  suoi  commentatori,  a  un  artifizio  me- todi c;o  in  graz'a  dell'insegnamento  (5i5aaxaXCasxap-v)  ^^1'*teoria  della  finalità.  Ma  questo  motivo  cosi  enunciato perde  gran  parte  della  sua  forzi.  Il  vero  sì  è  eh'».  Pla- tone nel  Timeo  esprime  la  teoria  della  fiaalità  antropo- morfisticamente,  pv^rcbè  Tespressione  naturale  del  punto dì  vista  teleologico  è  1'  antropomorfismo.  I  concetti    che (1)  Alla  finzione  del  Timeo ^  di  attribuire  le  dottrine  esposte  nel dialogo  a  un  filosofo  pitagorico,  è  legato  anche  l'aspetto  sotto  cui vi  è  presentato  di  preferenza  il  rapporto  tra  le  Idee  eleco^3.  Qu3- st'aspetto  è  l'esemplarità  delle  Idee:  siccome  la  formula  più  iu  uso presso  i  Pitagorici,  per  indicare  la  relazione  tra  i  numuri  eie  cose, è  ohe  queste  sono  fatte  ad  imitazione  di  quelli  (Arist.  Met.  1,  I. VI.  2),  e  le  Idee  platoniche  corrispondono  ai  numeri  pitagorici, Platone  deve  rappresentare  le  Idee  sovratutto  come  modelli,  per avere  più  facile  la  transizione  dal  sistema  pitagorico  dei  numari a  quello  delle  Idee.  Egli  ha  tanto  più  interessa  a  mettere  in  ri- lievo questo  carattere  comune  tra  i  numeri  pitagorici  e  le  Idee, cioè  l'esemplarità,  che  dalla  formula  pitagorica  che  le  cosa  sono fatte  ad  imitazione  dei  numeri  può  dedursi  il  carattere  precipuo per  cui  i  numeri  di  Platone,  cioè  le  Idee,  si  distinguono  da  quelli del  pitagorismo  storico,  vale  a  dire   la  loro  distiazioae  dalle  coia, l'essere  )C<«>p'.oxo{  dai  sensibiU. '  .i Platone  deve  esporre  sono  tali,  che  è  impossibile  di esprimerli  altrimenti  che  sotto  forma  analogica.  Il  con- cetto teleologico  ò  uà  concetto  essenzialmente  antropo- raorfista,  un'assimilazione,  più  o  meno  cosciente,  delle operazioni  della  natura  a  quelle  dell'uomo:  spiegare  i fenomeni  per  le  loro  cause  finali  è  necessariamente  at- tribuire alla  natura  un  disegno  e  delle  intenzioni  come all'uomo.  Il  metafisico  teologo,  che  ammette  una  fina- lità trascendente,  trasporta  seriamente  nelle  forze  della natura  questo  disegno  e  queste  iateuzioui  :  ma  quando si  ammette  invece  uaa  finalità  immanente,  cioè  quando la  spiegazione  teleologica  non  è  al  tempo  stesso  una spiegazione  teologica,  noi  abbiamo  allora  un  concetto puramente  aaalogico,  che  ci  dice  che  la  natura,  quan- tunque non  abb'a  realmente  nò  dsegno  nò  intenzione, tuttavii  si  comporta  nelle  sue  operazioni  come  se  avesse un  disegno  e  delle  inteazioni.  Sarebbe  dunque  impossibile di  far  comprendere  il  punto  di  vista  teleologico,  senza  que- st'analogia delle  azioni  a  cui  presiede  un  disegno  cosciente: noi  potremmo  anche  dire  che  se  questa  finalità  incosciente o  immanente  dei  metafisici  non  teòlogi  costituisce  una  spie- gazione delle  cose,  ciò  avviene  appunto  —  spiegare  non essenlo  alerò  per  la  metafisica  che  assimilare  ai  fenomeni più  familiari— per  questi  vaga  persooificazioae  delle forze  della  natura  ch'essa  suggerisce  airimmiginazione, qumtunqie  si  rifiuti  di  ammetterla  apertamente  come tesi  filolofica.  Cosi  sì  avrebbj  forse  ragione  di  doman- darsi se  la  trasformiz'one  fantastica  del  Torneo  dell'Idea del  bjiie  in  un  Demiurgo  ch3  produce  il  bene  con  in- telligenzi,  sia  s^mpli^enent^  p3r  Plato ac  un  artifizio metodico  dovuto  alla  neees-jità  di  ricorrere  a  delle  ana- logie di  questa  natura  p3r  far  c^nprende.'e   il  punto   di «Il "4  - vista  teleoìogicD,  o  se  di  più  Platone,  pur  vedendo  nella personfìcazione  dell'Idea  del  bene  una  semplice  allegoria, si  compiaccia  di  qu<5sto  rivestimento  fantastico  dei  suoi concetti  astratti,  perchè  vi  trova  una  soddisfazione  più completa  a  questo  bìs'^gno  dello  spirito,  sa  cui  è  fondata la  spiegazione  teleologica,  di  assimilare  le  opere  della natura  alle  azioni  delKao  no.  Non  vi  ha  dubb  o  infatti che  il  punto  di  vista  tele^bgieo  in  Platone  sia  strerta- mente  legato  al  punto  di  vista  teologico,  eie  verisimile che  la  deduzione  del  Fedone^  in  cui  la  teoria  delle  cause finali  è  presentata  come  una  conseguenza  della  causalità universale  dell'intelligenza,  rappresenti  il  processo  reale del  punsero  platonico,  che  è  and>ito,  come  sembra  più naturale,  dal  punto  di  vista  teologico  al  teleologico,  an- ziché da  questo  a  quello. Ma  quando  i  discepoli  di  Platone  dicevano  ohe  la  ge- nerazione del  mondo  nel  Timeo  era  sta^a  fatta  5'.5ajxaX(ocXapiv,  verisimilmente  essi  non  avevano  8oltan*^o  in  vis'-a la  dilucidazione  del  concetto  della  finalità  per  la  p  u*so- nificazione  delTIdea  del  beie.  Per  la  concezione  dilTal- tro  principio,  det-^rminato  d'una  manieri  parammte scientifica,  n-^n  vi  ha  meno  difficoltà  che  p»r  quella  dil Bene.  Uno  dei  lati  più  n^b  ilo^i  del  concetto  deirelemerito materiale  è,  come  abbiamo  osservato,  ch'esso  è  consì  !e- rato  al  tempo  smesso  cooae  la  materia  e  come  la  8ter»^s'. In  quanto  è  la  steresi,  es^o  è  il  contrario  dell'elemento formale:  non  è  senza  forma,  ma  ha  la  forma  opp^^s  a; è  Tineguale,  il  disordnato,  il  male,  ec;.  C>m*,  cìj  pu) essere  la  materia  di  cui  gli  esseri  sono  fatti,  se  per  mi- terin  s'intende  quello  che  resta  della  cosa  a r ragion  fa- cendo della  forma,  e  non  un  materiale  preesiste  it^  coni quello  di  cui  si  servono  gli  artefici  per  prolurre  le  loro opere?  Evidentemente,  di  queste  due  maniere  di  rappre- sentarsi la  materia,  è  solo  la  prima  che  |corrisponde  al concetto  di  materia,  filosoficamente  determinato;  ma  per far  entrare  in  questo  concetto  anche  la  steresi,  Platone è  obbligato  a  sostituirle  la  seconda,  e  a  rappresentare per  conseguenza,  l'unione  dei  due  elementi  come  un  fatto avvenuto  nel  tempo.  Sembra  che  non  fosse  solamente nel  Timeo  che  Platone  si  servisse  di  questa  rappresen- tazione.  Almeno,  Aristotile  gli  attribuisce  la  proposizione che  il  Due,  il  primo  numero  generato,  viene  dall'  Ine- guale eguagliato,  rimproverandogli  che  Tessere  ineguale e  Tessere  eguagliato  sono  dunque  due  stati  successivi  del- Tlneguale,  e  che  per  conseguenza  non  è  semplicemente  co- m'essi  dicono,  in  grazia  della  contemplazione  (xoò  eswp^aat gvexsv -questa  espressione  corrisponde  evidentemente  al 8t5aaxaX(as  X^P'.v  del  De  Godo  1.  I.  X.)  che  i  platonici fanno  la  generazioae  dei  numeri  {M^t.  1.  XIV.  IV.  1). Può  arguirsi  da  ciò  che,  anche  nella  generazione  dei numeri,  Platone  Irappreseatava  talvolta  T  anteriorità  e posteriorità  fra  i  prineipiì  e  le  co^e  derivate  quasi  come un'anteriorità  e  posteriorità  cronologica.  È  forse  a  tali rappresentazioni  che  allude  la  proposizione,  attribuitagli pare  da  Aristotile  {MeU  1.  XIV.  II.  7),  che  «  bisogna  partire da  un'ipotesi  f^lsa,  come  i  geometri  che  suppongono  d'un piede  una  linea  che  realmente  none  d'un  piede  »:  questa proposizione,  in  efi-etto,  si  riferisce  senza  dubbio  a  una certa  rappresentazione  della  materia,  poiché  Aristotile ladà  come  ui'illazioae  d3l  principio,  ara  nesm  nel  Sofista, che  la  materia  (il  Non  essere)  è  la  natura  del  falso. Il  Timeo  non  è  la  sola  opara  di  Platoaa  la  cai  il  mando  si faooia  generato.  Nel  mito  del  Politico  si  parla  pure  d'aa  demiurgo e  padre  dell'uaiverao  come  nel  Timeo  {Polii. Un'altra  delle  dottrine  legate  al  pitagorismo  plato- nico, indicata  oscuramente  nel  Timeo  ^  ed  espressa  an- ch'essa  sotto  forma   mitica  e  simbolica,  è  quella    della il  mondo  deve  tutti  i  beni  a  qaaUo  che  Tha  formato,  e  tutti  i  mali alla  deformità,  anteriore,  o  piuttosto  al  principio  materiale,  che  era partecipe  di  molto  disordine  prima  di  essere  ricondotto  (dal  de- miurgo e  padre  del  mondo)  a'I'ordine  presente  (i6.    b-c —cfr.  an- che la  n.  2  a  carta  La  coincidenza  di  queste  proposizioni col  mito  del  Timeo  è  troppo  colpente,  par  non  vedervi  un'allusione  a questo:  che  il  Polii  tro  sia  degli  ultimi  scritti  di  Platone  ò  provato d'altronde  dalla  sua  posteriorità  al  Sofista,  che  contiene  già  la  dot- trina del  Non  essere.  Ancha  neW ICpinomide  (se  questo  dialogo  è  di Platone)  il  mondo  è  generato  (v.  978  d,  981  b,  983  b,  984  b-c,  ecc.), ma  il  suo  autore,  come  abbiamo  già  notato,  è  l'anima  del  mondo stesso,  e  non  un  dio  trascendente  (v.  carta  224).  Nelle  Lc(j(Jh infine,  l'anima  è  la  pia  antic  i  di  tutte  le  cosa  generate:  essa  è nata  innanzi  a  tutti  i  corpi,  e  le  co-ie  che  appartengono  all'anima, come  la  preveggenza,  l'intelligenza,  l'arte,  la  volontà,  i  ragiona- menti, le  opinioni  vere,  sono  nate  prima  di  quelle  che  apparten- gono al  corpo,  come  la  lunghezza,  la  larghezza  e  la  profondità,  il molle  e  il  duro,  il  grave  e  il  leggiero,  e  in  una  parolaia  forza  dei corpi,  perchè  l'anima  è  la  causa  prim-*  di  tutte  le  cos3.  Siccome  questi  scritti  appartengono  indubbia- mente, come  il  Tim'o,  al  periodo  pitag^reg^iante,  noi  po^^iam) concluderne  cho  Platone,  a  quest'epoca,  per  conformarci  alle  dot- trine pitagoriche -o  piuttosto  a  ciò  che  egli  riteneva  un'espres- sione exoterica  e  allegorica  delle  dottrine  reali  dell'antico  pitago- rismo—rappresentava l'universo  come  originato  nel  tempo,  non  ve- dendo naturalmente  in  quest'origine  nel  tempo  che  un  semplice simbolo.  ^eìVEpinohìide  e  nelle  L>'{i(ii  l'anima  apparisce  come  an- teriore anche  ai  corpi  che,  secondo  la  dottrina  reale  di  P.atone,  non hanno  avuto  mai  comiaciamanto  (il  mondo  come  un  tutto,  la  terra e  gli  astri),  e  come  la  loro  causa  eftìciente,  perchè  la  conservazioue del  cielo  e  dei  grandi  corpi  che  sono  in  esso,  la  loro  persiste  iza nella  forma  attuale  e  il  legame  che  tiene  unite  le  l«jro  pirti,  S3n3 dovuti,  secondo  Platon^,  all'anima;  rappre-iontandosi  osi  mitica- mento  l'aziuiie  continua  di  questa  com3  un  fatto  a^rvenito  in  ui punto  del  tempo.  Aristotile  infatti  allude  alla  dottrina  che  il  cielo si  conserva  e  permane  eternamente  per  l'azione  dell'anima  (quel- fomiazìone  delfanima.  NeirinterpretazV re  dì  questa  dot trina,  Timportante  e  per  noi  di  determinare  il  s^'gnificato delle    entità,    che    miticamente    vengono    rappre  sertflte come  gringredif'nti  di  cui  il  Demiurgo  compone  l'anima. Ecco  quali    sono  questi    ingredierti:  OflTessenza    in- divisibile e  sempre  la  stessa  e  di  quella  cho  diviene  di- visibile nei  corpi  compose  (il  Demiurgo}  una  terza  specie di  essenza  intermedia,  la  quale,  anche  lispetto  fila  na- tura dello  stesso  e  a  quella  del  divrrsr,  compose   inter- media tra  r  indivibibile  di  essi  e  il  divisibile  per  i  corpi; e  prese  queste  tre  cose    (ciré,  come  rit^ulta  chiaramente da  ciò  che  segue,  lo  Stesso,  il  Diverso  e  l'essenza  int*^r- media,  composta  dall'esFcnza  ind. visibile  e  dalla   divisi- bile), le  mescolò    tutte  in  una  specie  unica,    adattando per  forza  allo  Stesso    la  natura    del  Diverso  refrattaria alla  mescolanza.  E  avendo  mescolato  inscme   con  V  es- senza (cioè,  evidentemente,  l'esseiiza  intermedia),  e  delle tre  cose  fattane  una  sola,  questo  tutto  nuovamente  divise in  tante  parti  quante  bisognava,  tutte    composte  dello Stesso,  del  Diverso  e  deirossenza. Le  difficoltà  dell'  interpietazione  di    questo  luogo    si l'anima  a  cui  è  dovuto  il  suo  movimento —De  Coelo); e  noi  non  possiamo  attribuire  questa  dottrina  che  a  Platone,  per- chè egli  solo,  prima  di  Aristotile,  ha  ammesso  un'anima  cosmica, forza  motrice  del  cielo,  e  la  perpetuità  dell'universo.  Ciò  è  confer- mato dal   Timeo  38  e  e  58  a-b.  Nel    primo  di  questi    luoghi  si  dice ohe  i  corpi  degli  astri  vennero  legati   con  legami    animati;  e  nel- l'altro si  paria  d'uno  sforzo  del  contorno  del  mondo  per  congiungersi con  se  stesso,  che  preme  tutti  i  corpi  che  esso  contiene,  e  non  la- soia  alcun  vuoto  tra  di  loro  :  evidentemente    Piatone   ha  immagi- nato questo  sforzo  per  ispiegare  la  coesione  tra  le  parti  materiali dell'universo,  e,  secondo  i  suoi  principii,  egli  non   ha  potuto  attri- buirlo che  all'azione  dell'anima. Timeo riducono  in  sostanza  a  sapere:  che  cosa  sì  debba inten- dere  per  Vessenza  indivisibile  e  per  Vessenza  divisibile',  e che  per  la  natura  dello  stesso  e  quella  dd  diverso. In    quanto  alla    prima  quist'one,  é  evidente  che  Ves- senza indivisibile  e  sempre  la  stessa  nel  linguaggio  pla- tonico è  ridea:  non  lo  è  meno  che  per  il  sui  "contrap- posto,   r  essenza  divisibile,   deve  intendersi  la  materia- spazio    (Platone    dice  :  V  essenza    che    diviene    divisibile nei   corpi,    perchè  lo    spazio   per    se    stesso  non  è  fisi- camente   divisibile;    non    lo    diviene  che    in  quanto  costituisce la  materia  delle    cose).  xMa l'Idea,    designata dalle  parole  essenza  indivisibile  e  sempre  la  stessa,  è  tutto il  mondo  ideale,  o  é  Femplicemente  r  Idea  specifica,  la forma  eterna  e  generale,    dell'anima?  Se  ni  comprende il  senso  della  partecipazione  platonica,  l'anima  non  pò- trebbe  partecipare  a  tutte  le  Idee  se  non  alia  condizione che  essa  fos^e  tutte  le  cos^  ident  ficandnsi  col  tutto.  Ma la  dottrina  che  l'anima  è  identica  al  tutto  -  dottrina   a cui  non  si potrebbe  dare    altro  sens)    int-lligibile    che quello  di  Hegel  e  dell'  interpretazione  del    Teichmuller, cioè  l'identità  del  soggetto  e  dell'  oggetto,  d-1    pensiero e  dell'essere -non  si  trova  mai  apertamente  in  Platone: ben  più,  noi  mostreremo  eh'  essa  sarebbe   inconciliabile con  la  sua  dialettica.  Per  lessema  indivisibile  noi  dob- biamo  dunque  intendere  l'Idea  o  la  forma  dell'anima;  e  la composizione  dell'anima    dalla  mescolanza  dell'  essenza indivisibile  e   della  divis  bile  non  rappresenta  se  non  il concetto  che  essa  risulta,  come  tutte  le  altre  cose,   dal- lldea  o  forma  e  dalla  materia.  Perchè  intendere  infatti il  luogo  in  quistione    in  un  senso    che  attribuirebbe    a Platone  una  dottrina  che  noi  non    sappiamo  se   gli    sia  V.  Supplem.  D, appartenuta,  quando  si  può  indendeila  in  uno  che  non gli  attribuisce  altre  dottrine  so  non  quelle  che  noi  sappiamo  certamente  essergli  appartenute? In  quanto  «Ilo  Stesso  e  al  Diverso,  noi  abbiamo  visto altrove  i  motivi  che  si  hanno,    indipententemente   dalla interpri't^izione  dJ  questo  luogo  del   Timeo,    per  ammet- tere che  essi  erano  dei  principii  compresi  nelle  due  auoxoi- XCat^di  contrari,  che  Platone  idenlificava  ai  due  elementi, e  delle  denominazioni  di   questi   elementi    stessi,    come l'Uno  e  la  Dualità  indeterminata,  l'Essere  e  il  Non  essere, l'Eguale  e  l'Ineguale, ecc.  Ma  ciò  che  prova d'una  maniera  indubitabile  che  la  cosa  è   cosi,    é   l'au- torità d'Aristotile,  il  quale  afferma  (2)    che  Platone  nel Timeo  compose  l'anima  dagli  elementi    (e   per  elementi Aristotile  intende  costantemente  l'Uno  o  Essere  e  la  ma- teria) a  fine  di  spiegare  la    conoscenza    conformemente al  principio  dei  fisici  che  il  simile  si  conosce  dal  simile  (3). All'autorità  d'Aristotile  possiamo  ajrgiungere  anche  quella di  Xenocrate,  il  quale,  secondo  Pluarco,    interpretando la  composizione  dell'anima  nel  Timeo,  vede    negli    ele- menti di  cui  essa  è   stata    comporta  i  due  elementi   dei numeri,    cioè    V  Uno  e    la    Dualità    indeterminata.  V,  questo  Supplem.  carte  170,  176,  179,  182. (2)  De  Anima  I.  I.  II.  7. (S)  V.  per  questa  spiegazione  Tim. Plutarco  Psicogonia  Secondo  Plutarco,  Xenocrate  ag- giungeva all'Uno  e  alla  Dualità  indeterminata  lo  Stesso  e  il  Diverso come  principii  della  quiete  e  del  movimento:  cosi  egli  avrebbe  ri- guardato lo  Stesso  e  il  Diverso  come  due  altri  principii  dell'anima distinti  dall'Uno  e  dalla  Dualità  indeterminata.  Ma  vihaqui«enza dubbio  un'inesattezza  di  Plutarco  o  dell'autore  secondo  cui  egli  ri- ferisce l'opinione  di  Xenocrate  (Eudoro),  come  basta  a  provarlo  il fatto  cUe  Platone  e  i  platonici  ident  incavano -zrr i Platone,  chiamando  lo  Stesso  indivisibile  e  il  Diverso divisibile,  non  intende  identificarli  con  Vessoiza  iTìdivi" sibile  e  V essenza  divisibile  di  cui  prima  ha  parlato:  egli vuol  dire  che  Tainma  è  per  la  sua  composi/ione  inter- media tra  il  divisibile  e  l'indivisibile,  non  solo  «avuto riguardo  ai  fattori  immediati  da  cui  essa  risulta  (l'Idea (v.  questo  Supplem.  carta  176),  la  quiele  e  il  movimento,  e  per  con- seguenza anche  i  loro  principi!— il  principio  d'una  cosa  essendo  nel sistema  delle  Idee  il  concetto  universale,  obWettivato,  a  cui  la  cosa è  subordinata  ai  due  elementi  delle  Idee-numeri   Xenocrate, sempre  secondo  Plutarco,  avrebbe  inteso  per  l'essenza  indivisibile rUno  e  per  l'essenza  divisibile  la  Dualità  indeterminata:  con  tutto ciò  la  sua  interpretazione  concorderebbe,  nel  punto  es^dnziale,  con la  nostra,  perchè  l'importante  è  di  riconoscere  che  gli  elementi,  di cui  è  composta  l'anima,  non  sono  altra  cosa  che  quelli  di  cui  qual- siasi altro  essere  è  composto.  Semplicemente,  mentre  secondo  la nostra  interpretazione  Platone  avrebbe  considerato  nell'anima,  come in  tutti  gli  altri  esseri,  una  doppia  composizione,  quella  dall'  Uno e  la  Dualità  indeterminata,  e  quella  dall'Idea  e  la  materia,  secondo l'interpretazione  ohe  Plutarco  attribuisce  a  Xenocrate,  esrli  non ne  avrebbe  considerato  che  una  sola,  la  primi. Plutarco  riferisce  anche,  secondo  Eu^Ioro,  un'altra  interpreta- zione, che  rimonterebbe  a  Crantore.  Secondo  questa,  Platone  ha composto  l'anima  dalla  natura  intelligibile,  dalla  materia,  e  dal- l'identità e  la  diversità,  di  cui  tutte  le  cose  partecipano;  e  ciò,  con- formemente a  quello  che  dice  Ari-jtotile  (v.  De  an,  l.  I.  IL  7  e  1. 1. V.  5  sqq.),  perchè  l'anima,  per  poter  conosoare  tutto,  deve  essere composta  di  tutte  cose.  In  questa  interpretazione  la  natura  intel- ligibile non  è,  come  in  quella  di  alcuni  critici  moderni,  tutto  il mondo  ideale,  ma  la  sola  Idea  o  forma  de  l'  anima  :  è  cosi  che  la comprende  certamente  Plutarco,  perchè  egli  dice  ohe  questa  in- terpretazione si  riduce  a  comporre  l'anima,  come  tutte  le  altre  cose, dalla  specie  o  forma  e  la  materia  (v.  Psicoff,  III).  L'interpreta- zione di  Crantore  è  identica  in  sostanza  alla  nostra,  purché  per  la Identità  e  la  Diversità  s'intendano  i  due  elementi  delle  Idee  e  delle cose,  ciò  che  è  necessario  di  tare,  perchè  le  interpretazioni  di  Xe- nocrate e  di  Aristotile  dovevano  pure  avere  qualche  fondamento. e  la  materia),  ma  anche  ai  fattori  più  remoti  (i  due  ele- menti). L'uno  dei'  due  elementi  è  chiamato  iadivisibiie, perchè  è  rUnità;  l'altro,  divisibile  per  i  corpi,  perchè uoa  delle  sue  funzioni  è  dì  essere  la  materia  delle  cose —  quantunque  questa  denominazione  gli  convenga  sotto questo  rispetto  soltanto,  e  non  sotto  Paltro,  cioè  come materia  delle  Idee  -  È  ioutile  di  discutere  l'opinione  di quel  critici  che  per  lo  Stesso  e  il  Diverso  intendono  le Idee  e  la  materia:  contro  di  e^^sa  vale,  oltre  a  ciò  che  è stato  detto  ora,  quello  che  si  disse  sopra  a  proposito  deirin- terpretazione dell'essenza  indivisibi'e e  l'essenza  divisibile. Contro  quest'  interpretazione  dell'essenza  indivisibile e  l'essenza  divisibile  (eoe  quella  che  vede  nell'una  il mondo  ideale  e  nell'altra  la  materia)  ora  possiamo  ag- giungere che,  se  Tanima  venisse  composta  di  tutte  le Idee,  sarcbb'»  superfluo,  per  ispiegaro  la  conoscenza,  dì comporla  anche  dei  due  elementi. Componendo  l'anima  dello  Stesso  e  del  Diverso  e della  terza  essenza  intermedia,  ch'egli  ha  *^ik  composto dell'Idea  e  della  materia,  Platone  sembra  riguardare quest'essenza  come  distinta  dall'essenza  dell'anima,  e come  un  semplice  ingredient'j  nella  composizione  di  essa, e  lo  Stesso  e  il  Diverso  come  degli  elementi  estranei all'essenza  intermedia,  che  bisogna  aggiungere  a  questa per  avere  l'essenza  dell'anima.  Ma  in  realtà  l'essenza  in- termedia, composta  dalla  indivisibile  e  dalla  divisibile, non  è  altra  cosa  che  l'essenza  stessa  deiranima  —  ed  è perciò  che  Platone  la  ch'ama  semplicemente  Vessenza-^  e lo  Stesso  e  il  Diverso  non  sono  fuori  dell'essenza  inter- media, ma  ne  sono  gli  elementi.  Sf^mplicemente  la  forma fimbolica  scelta  da  Platone  (di  una  mescolanza  in  una caldaia^  non  può  rappresentare  d'una  maniera  adequata j)  concetto  della  partecipazione.  Lo  Stesso  e  i!  Diverso, ^241  ^ cioè  le  due  Idee  più  uoiverjali  a  cui  tutte  le  altre  par- tecipano, sono  le   determinazioni  generali    che  1   anima ha  in  comune  con  tutti  gli  altri  esseri:  a  queste    deter- minazioni comuni  bisogna  aggiungere  il  proprio,  il  'dif- ferenziale, deiranima,  che  ne  fa  un'essenza  particolare distinta  dalle  altre.  Ma  questo  proprio,  questo  dififeren- tJale,  non  può  considerarsi  coipe  separato   dall  'essenza deiranima  ed  esistente  per  sé senza   le determinazioni comuni  che  esso  differenzia,  perche  nel  sistema  delle  Idee ciò  che  si  separa^  facendosene  un'entità  per  se,  è  la  spe- cie e  il  genere,  ma  non  la  differenza:  ne  segue  che  Pla- tone non  può  rappresentare  la  partecipazione  dell'anima agli  Universali  supremi  che  per  Timmagine   della    loro mescolanza  con  esf»a.  Anche   pel   Sofista    la    partecipa- zione d'unldea  alle  altre  sotto  cui  essa  è  contenuta  è  chia- mata una  mescolanza  (di  quest'Idea  con  queste  altre. Platone  dà  allVsscnza  dell'anima  un  posto  intermedio fra  1  suoi  ingredienti,  perchè  egli  assegna  alle  cose  una natura  intermedia  tra  le  entità  da  cui  esse  risultaoo  (2): ma  evidentemente  con  ciò  egli  intende  indicare   inoltre che,  in  virtù  della  sua  stessa  composizione,  l'anima  ha un  carattere  medio  tra  l'indivisibile  e  il    divisibile;  non è  assolutamente  indivisibile  com^  l'Idea  e  l'Uno,  perchè estesa  e  quindi  composta  di  parti,  né  assolutamente  divi- sibile come  la  materia,  perchè  indissolubile  e  incorruttibile. Alla    nostra   interpretazione    della  coropcsizione  del- l'anima  nel  Timeo  può  farsi  l'obbiezione  che  Plutarco fa  a  quella  di  Crantore,  cioè  che  l'anima  esseado   com- posta allo  stesso  modo  che  tutte  le  altre    cose,    non    si   V,  Sof.  261  d,  252  b,  e,  253  b,  e,  254  d,  e,  256  b,  259  a,  260  a,  «oc. (2)  V.  il  Timeo  «tesso  50  d. <3)  Psicog,    III. vede  come  questa  composizione  convenga  ad  essa  più che  alle  altre.  La  risposta  è  che,  esponendo]  particolar- mente la  composizione  dell'anima,  Platone  non  ha  per iscopo  d' indicare  ch'essa  ha  un'  origine  e  dei  principia speciali:  il  suo  scopo  è  invece,  primo,  come  osserva  Ari- stotile, di  fare  un'applicazione  del  principio  che  il  simile sf  conosce  dal  simile;  e  poi,  siccome  le  rappresentazioni ordinarie  del  Timeo,  intese  letteralnienle,  implicherebbero la  trascendenza,  di  contrapporre  ad  esse  un'  altra  rap- presentazione, in  cui  il  concetto  dell'immanenza  sia  ener- gicamente espresso,  qual  è  quella  della  mescolanza. B.  Il  pitagorismo  nel  FUebo,  Il  pitagorismo  del  JFi- Idx)  consiste  in  sostanza  nella  dottrina  sul  limite  (népocO e  l'illimitato  (ineipov).  (1).  In  questo  dialogo  Platone  di- vide tutto  ciò  che  esiste  in  tre  generi:  il  limite  o  limi- tato (2),  r  illimitato  e  il  composto  dell'  uno  e  dell'altro. Il  genere   dell'  illimitato  comprende  tutte  le  qualità  che (1)  Platone  non  prende  solamente  dai  Pitagorici  la  formula  ohe le  fìOHe  sono  composte  di  limite  e  d'illimitato,  ma  anche  quella  cha esse  constano  di  uno  e  di  molti  (v.  FU,  16  e  e  sqq.,  e  cfr.'Supplemento B,  V,  4.).  Ma  qui  il  pitagorismo  di  Platone  è  nella  forma  anziché nella  sostanza:  egli  non  vuol  dire,  com3  i  Pitagorici  e  come  egli stesio  in  un  perio  lo  ulteriore  dilla  sua  speculazione,  che  l'unità e  la  pluralità  sono  degli  elementi  di  cui  le  co-ie  sono  composte, ma  che  tutto  è  al  tempo  stesso  uno  e  malti,  cioè  che  ciascuna Idea  generale  contiene  una  moltiplicità  d'Idee  particolari.  Con questa  formula  dunque  egli  non  innova  niente  nelle  sue  dottrine primitive;  semplicemente  le  esprime  in  una  forma  che  dà  ad  esse un  sembiante  di  atHnità  con  quelle  dei  Pitagorici— Un'altra  evidente affettazione  di  pitagorismo  vi  ha  nel  Flleho^  quando  il  metodo dialettico,  cioè  la  divisione  per  gè  nari  e  per  ispecie,  è  presentato come  una  ricerca  di  numeri  (v.  16  d,  H  0,  e,  18  a— b,  e,  19  a):  an- che  qui  il  pitagorismo  è  puramente  verbale,  e  non  importa  alcun avvicinamento  realo  alle  dottrine  dei  Pitagorici, (2)  Cfr.  la  nota  a  carta  97. -24?  - if* onos  suscettibili  di  una  variabilità  airinfinito,  tanto  nel' r  aumento  quanto  nella  diminuzione  :  tali  sono  il  caldo e  il  freddo,  il  forte  e  il  piano,  il  secco  e  Tumido,  il  ve- loce e  il  lardo,  il  molto  e  il  poco,  il  grande  e  il  pic- colo, ecc.  Siccome  queste  qualità  non  vengono  attribuite che  in  un  senso  comparativo  —  chiamando  un  corpo  caldo o  freddo,  noi  vogliamo  dire  che  epso  è  più  caldo o  più  freddo  di  altri  corpi  ;  ch'amando  un  movimento veloce  o  tardo,  che  esso  è  più  veloce  o  più  tardo  di altri  moviment';  ecc.  —  cosi  Platone  si  serve,  per  deno- tare queste  qualità,  di  termini  comparativi  :  più  caldo  e più  freddo,  più  veloce  e  più  tardo,  mairgiore  e  minora, più  o  meno  numeroso,  ecc.,  e  dà  come  carattere  ge- nerale dell'illimitato  Tammettere  il  più  e  il  meno.  Dalla natura  comparativa  dello  qualità  del  genere  deirillimi- tato  segue  che  esse  si  esprimono  per  una  coppia  di termini  oppost»,  uno  positivo,  che  indica  il  comparativo di  maggioranza,  e  uno  negativo,  che  indica  il  coìiipà- rativo  dì  minoranza  :  il  termine  caldo,  attribuito  a  un corpo,  signilica  che  esso  è  più  caMo  di  altri  corpi, che  in  relazione  ad  esso  si  chiamano  freddi;  il  termine veloc**,  «attribuito  a  un  movimento,  significa  che  esso  è più  veloce  di  altri  movimenti,  ch^  in  relaziono  ad  esso si  chiamano  tardi;  ecc.  Verisiniilmente  questo  concetto, che  gli  attributi,  appartenenti  alla  classe  deirillimitato, da  cui  risultano  gli  esseri,  racchiudono  in  so  una  dua- lità di  termini  contrari,  è  anche  un'imitazione  della  dot- trina pitagorica  che  tutto  consta  di  contrarietà.  Al  ge- nere del  limite  appartengono  i  rapporti  numeiici  o,  più generalmente,  metrici:  l'eguale,  il  doppio,  il  triplo,  ecc. Dall'applicazione  dei  rapporti  numerici  o  metrici,  cioè del  limite,  alle  qualità  dell'  illimitato  nasce  il  terzo genere  (il  composto  del    limite   e    4eirillimitato  );  p,  e. t:':- 6erii  rapporti  metric?,  applicati  al  caldo  e  al  freddo,  da- ranno  luogo  alla  temperatura  particolare  delle  varie  di- visioni del  tempo;  altri  rapporti  metrici,  applicati  all'acuto e  al  grave,  daranno  luogo  agli  accordi  musicali;  ecc. Qiiesta  temperatura  e  questi  accordi  appartengono,  per conseguenza,  al  terzo  genere  (I). Il  pensiero  di  Platone  è  evidentemento  che  nelle  cose, o,  più  propriamente,   noi  loro  attributi,  bisogna  distin' guere  due  elementi -due  elementi  concettuali,  ma  che, secondo  le  abitudini   della  speculazione  platonica,  ven- gono elevati  ad  entità  sussistenti  p-r  sò~:  una  qualità astratta,  il  cui  concetto  t^i  ottiene  per  la  soppressione  di qualsiasi  grado  determinato,  e  che  è  suscettibile    di  ri- cevere un'  infinita  varietà  di  gradi,  che  crescono  e  de- crescono sino  all'infinito;  e   il  grado  che  questa  qualità riceve  in  un  caso  determinato,  e  la  cui  espressione  e,  per conseguenza,  il  cui  concetto,  sono  dati  da  un  rapporto metrico  (cioè  riferendosi  a  una  certa  unità  di  misura).  Sic- come non   è  possibile  di   determinare   il  grado   che  per mezzo  del  rapporto  metrico,  così  questo  secondo  elemento, genericamente  considerato,   si  riduce  a  una  relazione  fra quantità:  l'eguale,  il  doppio,  ecc.,  e  in  una  parola,  come dice  Platone,  tutto  ciò  che  ò  numero  rapporto  a  numero e   misura  rapporto    a  mfsura  (vale  a  diro  ogni  rapporto di  un  numero  con  un  altro  numero  o  di  una  mfsura  con un'altra   misura).    Certamente   le   qualità   che   Platone comprende  nel  genere  dell'illimitato,  non  assumono  mai, nella  realtà,  che  un  grado  finito  ;  e,  considerate    in  se stesse,  non  bisogna  concepirle  come  elevate  a  un  grado infinito— ciò  che  non  potrebbe  accordarsi  con  la  loro  fun- zione di  elementi  delle  cose  reali,  e  che  per  altro  sarebbe  V.  Ftt,  2s  e 26  d,  luogo  citato  a  carte   una  contraddteione  nei  termini-nè  come  .1  complesso  d. Li  i  gradi  finiti,  crescenti  e  decrescenti  ali  infinito,  con cui  éssf  si  trovano  negU  oggetti  pariicolan;  ma  devono rnrsi  facendo  astrazione  da  qualsiasi  grado  e  m.sura pensarsi  i  misura  è  un   altro Tnenrl;  sf  ggiu  gè  ad  esse  per  formare  gli  attri- butT^  Ltar  a:  e  d'altronde  un'entità  platonica ion  n  complesso  degli  attributi  omonimi  degli  oggett, Ttico lari,  ma  l'attributo  in  se  stesso,  cioè  ne  suo  concetto Sto  e  generale.  Tuttavia  queste  qualità  vengono  n- ^Ìnditte  all'  illimitato,  perchè  non  vi  ha  alcun  limite nellWen  e  nella  diminuzione  dei  gradi  di  cui  sono suLSi  :  è  un'osservazione  analoga  a  quella  che  «b- ^^  fatta  sul  Grande  e  Piccolo  e  il  Molto  e  Poco  de- ""  pTcTm^eUrTn  concetto  de,  lìmite,  dobbiamo  ag- .lnn*ereThe,  applicandosi  alle  qualità  della  categoria Slimitato  esso  non  dà  a  queste  semplicemente  un aeu  iinmiKii,  orado    c  una  misura    con- grado e  una  misura,  ma  un  S'  venienti  :  in  effetto  la  misura,  nel  FUebo  (1),  è  uno  de  u IZ^  in  cui  si  mostra  l'Idea  del  bene.  I  rapporti  nu- S  che  costituiscono  il  limite,  non  fissano  colamene il  grado,  in  cui  gli  attributi  del  genere  dc'l  '»""'*«»;' considerati  d' una  maniera  assoluta,  devono  attuar^ nelle  cose  particolari;  ma  determinano  anche  le  reia :^ni  qTItLive  .ra  gli  elementi  di  cui  queste  sono composte,  introducendovi  della  proporzione  e  dell  a  mo «r  In  questo   senso,  essi  si  applicano   specialmen  e  a, termini  opposti  dell'illimitato, ^''^uLt tro  :  perciò  si  dice  che  il  limite  fa  cessare  la  dissensione tra  i  due  contrari,  e  li  rende  proporzionati   e  accordati (oujiqjtóva)  per  mezzo  del  numero.  Cosi  tutto  ci6 che  vi  ha  di  bello  nella  natura— e  per  conseguenza  tutti gli  esseri  conformi  al  loro  tipo,  perchè  il  buono  e  il  bello è,  per  Platone,  la  forma  delle  forme  —risultano  da  una contemperazione  armonica  di  contrari  :  p.  e.  le  divisioni dell*  anno  da  quella  del  caldo  e  del  freido  ;  l’armonia musicale  da  quella  delT  acuto  e  del  grave;  ecc.  (26  a). Questo  concett j  non  è  forse  senza  legame  con  la  dottrina pitagorica  che  tutto  è  armonia. Ài  tre  generi  di  cui  abbiamo  parlato  sin  qui  Platone ne  aggiunge  un  quarto:  è  la  causa  efficiente  degli  altri e  della  mescolanza  del  limite  e  dell*  illimitato.  Questo quarto  gen'ire  ^costituiti)  come  dimostreremo  in  seguito, dair  ìntf-lligenza  e  dall'  anima.  Platone  comincia  per  divi- dere tatti  gli  esseri  che  Fono  neir  universo  in  tre  generi, benché  poi  parli  anche  di  un  quatto,  perchè  questo  rientra in  uno  dei  tre  primi:  in  effetto  Tanima  e  Tintelligenza  de- vono essere  composte,  come  tutte  le  altre  cose,  di  limite e  di  illimitato. La  difficoltà  deir  interpretazione  di  questa  dottrina del  Filebo  è  che  il  limite  e  Tillimitato,  di  cui  è  quistione in  questo  dialogo,  non  potrebbero  identificarsi  con  nes- suno dei  concetti  della  filosofia  platonica,  sia  tra  quelli che  troviamo  negli  altri  scritti  di  Platone,  sia  tra  quelli che  conosciamo  per  T  esposizione  d'Aristotile.  Molti  in- terpreti, è  vero,  identificano  l'illimitato  con  la  materia; in  quanto  al  limite,  alcuni  vedono  in  esso  le  Idee,  altri le  entità  matematiche  o  intermediarie.  Ma  tutte  queste opinioni  presentano  delle  impossibilità  evidenti,  che  noi indicheremo,  cominciando  dalTillimitato. L'illimitato  del  J'ìlebo  ha  senza  dubbio  una  grande analogia  con  la  materia  degli  aypacpa  SóYfjia'ca  :  anche questa  è  chiamata  TSiisipov;  inoltre  essa  è  ricondotta  al :^'' (1)  V.  «4  0-65  ». grande  e  piccolo,  e  IMlimitato  del  Fileho  é  definito  «  la natura  che  riceve  il  più  e  il  meno.  Ma  a  lato  a  queste somiglianze  vi  ha  una  differenza  importante*,  ed  essen- ziale: il  Grande  e  Piccolo  degli  à^pacpa  JÓYjiaxa  è  un concetto  semplice,  un'entità  unica;  l'illimitato  del  Filebo è  un'unità  articolata,  cioè  in  esso  sotto  l'unità  generica (il  più  e  il  meno)  è  compresa  una  moltitudine  di  specie  (il più  caldo  e  il  più  IVedio,  il  più  veloce  e  il  più  tardo,  il più  acuto  e  il  più  gravo,  ecc.).  Ciò  che  corrisponde  al Grande  e  Piccolo  è  il  concetto  generico  dell'  illimitato (del  Filebo)  :  ma  quello  non  si  divide,  come  questo,  In più  specie  particolari;  dalla  determinazione  o  concretiz- zazione del  Grande  e  Piccolo  risultano  immediatamente le  Idee,  cioè  le  essenze  (sreneriehe  e  specifiche)  delle  cose, non  delle  specie  particolari  di  grande  e  piccolo.  Al  Grande e  Piccolo,  è  vero,  è  anche  ricondotta  una  pluralità  di concetti  distinti,  ciascuno  dei  quali  si  considera  come un'entità  per  se,  cioè  l'una  deUe  due  o'joxotxfai  di  con- trarli: ma  questi  concetti  sono,  per  quanto  poFs'amo giudicarne,  affatto  diversi  da  quelli  che  costituiscono  le specie  dell'illimitato  nel  Filebo  ;  ben  più,  il  carattere  delle due  dottrine  differisce  nei  punti  più  essenziali.  Primo, i  concetti  delle  due  oi>axotx^at  di  contrari  sono  dei  prin- cipiit  cioè  non  sono  subordinati  ad  alcun  concetto  su- periore; le  specie  dell'illimitato  nel  Filebo,  invee**,  sono necessariamente  delle  rose  derivate  (dall'illimitato  in  se stesso,  cioè  nel  suo  c'incetto  generico),  il  rapporto  tra  il principio  e  la  cosa  derivata  equivajendo,  nella  dialettica platonica,  a  quello  tra  il  generale  e  il  particolare.  Se- condo, quelli  (il  Non  essere,  il  Diverso,  il  Multiplo,  ecc.) sono  lutti  di  una  universalità  assoluta  ;  queste  (il  più caldo  e  il  più  freddo,  il  più  secco  e  il  più  umido,  il  più acuto  e  il  più  grave,  ecc.)  non  valgono  ciascuna  che  per una  categoria  particolare  di  fenomeni.  In  quelli,  infine, un  concetto  della  classe  dell'illimitato  ha  il  suo  contra- r*o  nel  concetto  corrispondente  di  quella  del  limitato;  le spese  dell'illimitato  del  Filebo  racchiudono  invece  la  con- trarietà in  se  stesse,  esprìmendosi  ciascuna  per  una  cop- (>ia  di  termini  opposti. Tassando  ora  al   limite,  ecco   le  diliicoltà   principali che  si  oppongono  alla  sua  identificazone  con  le  Idee: 1«  Il  mondo  ideale  è  Tinsieme  di  tutti  i  concetti  delle cose,  obbiettivati;  il  limite  del  i^7Zf 60  non  comprende  che una  certa  classe  di  determinazioni  matematiche.  Tuttavia, ^iccome  le  Idre,  rell'ulrimo  periodo    della   speculazione platonica.  Fono  state  ricondotte  a  dei  numeri,    si  è  cre- duto che  il  Iniite  del  Filebo  equivalga  a  questi  numeri, e  oè  agl'idea'i.  Ma  Platone  non  ha  ricondotto  le  Idee  a dei  rapporti  numerici,  quali  sono  quelli    che  nel  Filebo vengono  chiamati  limite,  ma  semplicemente  a  dei  numeri: anche  il  limile  del  File\o  consiste,  se  si  vuole,  in  numeri, ma  questi  numeri  sono  proporzionali,  non  cardinali  come i  numeri  ideali.  Come  dice  Aristotile  (Met.), da  ciò  che  la  dualità  è  la  prima  cosa  a  cui  può  attribuirsi jl  dorpio,  non  ne  segue  che  il  doppio  Ma  la  stessa  cosa che  la  dualità.  Lungi  che  le  Idee-numeri  possano    equivalere  a  dei  relativi,    come    quelli    che    costituiscano  il lin.ite  del  Filebo,  Platone  anzi,  nell'ultimo  per'odo  d  Ila sua  speculazion^  escludeva  i  velatili   dal    mondo   dello Idee  [ì),  e  qu'iidi  anche  i  concttti  d  1  limite  del  Filebo. 2"  Le  idee  fono  le  essenze  delle  cose:    ma   l'essenza d'una  cesa  evidentemente  non  è    esaurita   dai    rapporti numerici,  che  corrono  tra  gli  elementi  di    cui    questa  è (1)  V.  Arist.  Mei.  composta.  Non  Io  é  almeno,  se  questi  rapporti  si  con- siderano d'  una  maniera  astratta,  come  vengono  consi- derati nel  Fdebo  :  per  avere  l'essenza  della  cosa,  si  dovrebbero fare  entrare  nel  concetto  del  rapporto  numerico gli  elementi  stessi,  i  sustrati,  tra  cui  esso  sussiste.  Per esempio,  se  l'armonia  è  un  rapporto  numerico  tra  i  suoni, l'essenza  dell'armonia  sarà  i  suoni  con  questo  rapporto numerico,  non  il  solo  rapporto  numerico  astratto.  Pla- tone, è  vero,  nell'ultima  forma  della  sua  filosofìa,  toglie dairidea  o  essenza  la  materia,  e  la  riduce  alla  sola  for- ma :  ma  questa  materia  non  è  che  lo  spazio,  o  Testen- sione.  Ora  V  illimitato  del  Filébo  comprende  assai  più determinazioni  che  la  semplice  estensione  :  esso  ne  com- prende anche  assai  più  che  la  materia  nel  senso  più  lato, cioè  quale  uno  dei  due  elementi  delle  Idee  e  delle  cose. 30  II  limite  e  rillimitato,  nel  Filébo,  sono  dati,  non solo  come  elementi  delle  cose,  ma  anche  come  elementi delle  Idee  (1).  Come  potrebbe  dunque  il  limite  identifi- carsi con  le  Idee,  di  cui  non  è  che  un  elemento? 4<>  Nel  Filébo,  Tillimitato  (àKstpov)  non  fa  parte  del  li- mite, gli  è  anzi  opposto   come  un  altro    elemento  degli esseri.  Dunque  il  limite    non  può    equivalere   alle  Idee, perche  queste,  secondo  T  esposizione  aristotelica,   con- stano  anche  dall' insipov. Siccome  il  limite  del  Filébo  consiste  in  determinazioni matematiche,  la  sua  identificazione  con  le  entità  mate- matiche ha  più  plausibilità;  ma  anch'essa  incontra  dello difficoltà  insuperabili  : 1^  Anche  contro  di  essa  vale  la  prima  obbiezione  che abbiamo  fatto  alla   identificazione  con   le  Idee  ;  vale  a {V)  V.  16  e  e  23  e,  Cfr.  f»applem.  B,  VITI,  nota  Anale  (carta  100). dire  che  i  concetti  del  Filébo  sono  dei  rapporti  numerici, mentre  i  numeri  matematici  (che  sono  le  sole  entità  ma- tematiche a  cui  questi  concetti  possono  assimilarsi)  sono dei  numeri  nel  senso  stretto,  cioè  cardinali. 2<>  I  numeri  matematici  non  sono  che  i    nostri  con- cetti dei  numeri,  sostantificati,  cioè   questi  attributi  co- muni  delle   diversf^   collezioni  di    oggetti,    che  noi  chia- miamo numeri,  considerati,  nella  loro  astrattezza,  come 8i«»s*stf»nti  per  se  stessi.  Il  valore  di  questi  numeri  è,  in un  certo  senso,  assoluto,  vale  a  dire,  lo  stesso   numero può  valere,  qualunque  sia  la  natura  degli    ogrgetti    nu- merabili: non  vi  ha  dunque  per  ciascuno  di  essi  qualche cosa  che  sia  il  suo  correlativo    necessario,   come    per  i rapporti    numerici  e  metrici    che    costituiscono  il  limite del  Fileho.  Ciascuno  dì    questi    ha   un  valore  relativo  a una  specie  determinata  deir  illimitato,    che  è  quindi  il 8U0  contrapposto  e  il  suo  complemento neee?«sario.    Se tale  rapporto  numerico  vale,  per  esempio,  per  l'armonia, ed  ha  perciò  come relativo   il  grave  e  1'  acuto,  per  le stagioni    varrft,  non    lo  stesso   rapporto,    ma  un   altro, che^vrà  per  correlativo  il  caldo  e  il  freddo.  In  una  pa- rola il  limite  e  l'illimitato,  e  le  specie  determinate  del- l'uno e  dell'altro,  sono  dei  concetti  che si    suppongono reciprocamente.  Se  i  numeri    matematici    foc»s-ro,    non semplicemente,  come  noi    ammettiamo,  i  nostri  .«onc.etti dei  numeri    sostantificati,  ma  le  leggi  del  mondo    teno- menico  e  le  Idee  nel  loro  rapporto  con  la   materia,    se- condo unlnterprctazionc  che  noi  abbiamo  già  discussa  (l), anch'essi  supporrebbero,  è  vero,  un  opposto   come   cor- relativo necessario:  quest'opposto  sarebbe    la   materia, perchè  essi  non  potrebbero  rappresentare,  come  le  Idee (1)  V.  questo  Su|.p.  n.  ITI. stesse,  che  la  semplice  foiina.  Ma  allora, perchè  il  limite del  Fllebo  corrispondesse  ai  numeri  matematici,  l'illimi- tato dovrebbe  corrispondere  al  semplice  spazio,  poiché  le entità  intermediarie,  essendo  posteriori  alle  Idee  (supposto, come  vu'ìle  quest'interpretazione,  ch'esse  tramezzassero tra  la  totalità  del  mondo  ideale  e  la  totalità  del  mondo reale)  non  potrebbero  essere  meno  comprensive  di  queste. 3®  Il  limite,  nel  M/ebo,  è,  come  abbiamo  detto,  un elemento  delle  Idee.  Ma  le  entità  matematiche  non  ci sono  mai  date  per  elementi  delle  Idee:  ciò  sarebbe  anzi in  antitesi  colla  loro  qualità  di  eatità  intermediarie  tra le  Idee  e  le  cose.  L'elemento  infatti  è  anteriore  alla  cosa di  cui  è  elemento,  mentre  le  entità  intermediarie  sono invece  posteriori  alle  Idee. 4^  Perchè  Platone  potesse  rio^uardare  le  entità  mate- matiche come  uno  dei  quattro  generi  in  cui  vengono divisi  tutti  gli  esseri,  e?se  dovrebbero  costituire  per  lui una  classe  di  entità  distinta  dagli  altri  concetti  obbiet- tivati,  in  altri  termini,  egli  dovrebbe  ammettere  già  la distinzione  tra  le  Idee  e  le  entità  matematiche.  Ma  quando scriveva  il  Filebo,  Platone  non  conosceva  ancora  questa distinzione:  in  questo  dialogo  in  effetti  (l)  tutci  i  con- cetti obbiettivati  in  generale  sono  chiamati  Idee  e  riguar- dati come  oggetti  della  dialettica  (mentre  dopo  la  distin- zione tra  entità  matematiche  e  Idee,  il  metodo  dialet- tico non  si  applica  che  a  queste,  perchè  dei  numeri  e delle  figure  vengono  realizzati  i  concetti  specifici  soltanto e  non  i  genenci— v.  questo  Supplem.  Ili  carte  197-198)  (2). (1)  V.  14  C-J9  b,  e  cfr.  q[aesto  Supplem.»  Ili,  oarta  210. (2)  Che  nel  Filebo  anche  i  concetti  matematici  siano  oom« presi  nella  sfera  della  dialettica,  si  vede  pure  da  58  a,  in  cai dopo  aver  distinto  le  matematiche  dalle  altre  arti  e   1'  aritmetica pi  più,  U  distinzione  delle  entità  matematiche  dalle  Idee importa  j1  posto,  assegnato  a  quelle,  di  intermediarie  tra queste  e  le  cose,  ciò  che  suppone  la  dottrina  dei  numeri ideali:  ma  Platone,  nel  Filebo,  parla  come  se  egli  non conoscesse  ancora  questa  dottrina  (2)  Delle  entità  inter- mediarie,  inoltre,  ve  ne  sono  molte  della  stessa  specie: vi  ha  una  specie,  cioè  un'Idea,  unica  della  diade,  della triade,  ecc.,  ma  molt«.  diadi,  triadi,  ecc.  matematiche. Ma,  nel  Filebo,  ciascuno  dei  concetti  compresi  nella  cate- goria del  limite,  cioè  V  eguale,  il  doppio,  ecc.,  è  eviden- temente riguardato  come  un'entità  unica,  perche  Platone dà  questi  concetti  come  i  molti  in  cui  si  divide  il  Li. mite  (dopo  aver  detto  che  mostrerà  come  tanto  il  limite quanto  T  illimitato  sono  al  tempo  stesso  uno  e  molti  — cfp.  Supplem.  B.  n.  Vili  sulla  fine.  Aggiungiamo ipfine  che  nei  concetti  del  limite  del  Filebo  la  moltiplicità viene  ricondotta  ad  una  unità  superiore,  ciò  che,  come abbiamo  osservato,  non  avviene  nei  numeri  matematici. e  la  geometria  dei  lilosoti  da  quelle  del  volgare,  dice  che  la  dialet- tica è  la  scienza  che  conosce  tutte  le  scienze  di  cui  ha  parlato. La  dialettica  per  Platone  comprende  in  un  certo  senso  tutte  le  altre scienze,  perchè  ogni  scienza  è  virtualmente  compresa  nella  cono- scenza delle  essenza  delle  cose,  che  è  1'  oggetto  della  dialettica. (i)  V.  questo  Supplem.  n.  III. V.  questo  Supplem.  n.  I  carte Le  specie  si  del  limite  che  dell'  illimitato  sono  insomma delle  Idee,  benché  Platone,  quando  dice  che  le  cose  che  si  dicono essere  eternamenie  (cioè  le  Idee)  constano  di  limite  e  d'illimitato, non  riguardi  propriamente  come  Idee  che  i  concetti  del  terzo  ge- nere, vale  a  dire  di  quello  che  risulta  dalla  mescolanza  del  limite con  r  illimitato.  Ciò  è  perchè  lo  scopo  della  dottrina  del  Filvhi) è  di  comporre  gli  esseri  di  questi  due  elementi,  ad  imitazione  dei Pitagorici,  e  perciò  Platone  non  può  riguardare  propriamente  come ewer)  che  i  composti,  e  non  gli  elomenti  stessi. 5°  Se  Platone  contasse  tra  i  fattori  del  reale    lo  en- tità matematiche,    sarebbe   inespl'cabile    com'egli    pas^i invece  sotto  silenzio  le  Idee.  Per  evitare  questa  difficoltà, gl'interpreti  che  v^ìdono  nel  limite  le  entità  matematiche, ammettono  che  le  Idee  sono  comprese  nel  quarto  genero, quello  che  Platone  chiama  causa  della  mescolanza  (del limite  e  deirillimitato)  o   della    generazione,    ed    anche causa  di  tutte   le  cose  (cioè   d^gli   altri   tre   gen^^ri),  e semplicemente  causa.  E  in  effetto  le  Idee  sono  per  Pla- tone delle  cause,  e  nel  Fedone  {9b  e-iOl  e)  vengono  an- che chiamate  cause  della  generazione  o  della  corruzione; e  nel  Filebo  stesso  lldea  del  bene  è  detta  la causa  per  cui  la  vita  mescolata  (di  piacere  e  di  saggezza) è  gradevolissima,  pregevole  e  buona,  ed  anche  la  causa di  tutto  ciò  che  vi  ha  nella  mescolanza  (del  piacere  con la  saggezza).  Ma  il  termine  cau<»a,  attribuito  alle  Idee,  non ha  lo  stesso  senso  che  quando  Platone  l'applica  al  quarto genere  del    Filebo.  Questo  termine    non    conviene    alle Idee  che  in  un  senso  lato,  come  sinonimo  di   principio: le  Idee  sono  cause  delle  cose,    in    quanto    queste    sono ciò  che  sono  per  la    partecipazione   di    quelle.    Invece, quando  si  tratta  del  quarto  genere  del  Filebo,  la   causa deve  intendersi  nel  senso  stretto;  essa  vuol  dire:  un  fe- nomeno—cioè un'.'sistenza  spttoposta  al  tempo  e  a  tutto le  altre  condizioni  d-ll'individuaUtà-che  è  la  condizione di  un  altro  f^'nomeno  e  lo   spiega.  Così  Platone   deduce l'esistenza  del  quarto  genere del Filebo dal    principio che  ciò  che  diviene  deve  divenire  per  una  causa: ora  l'ipotesi  delle  Idee  non  è  dedotta    da    questo   prin- cipio, ne  se  si  guarda  ai  motivi  reali  della  teoria,  né  se si  guarda  alle  prove  su  cui  Platone  la  stabilisce.  Quando poi  ci  si  dice  (26  e-27  a)  che  la  causa   equivale    a  ciò che   fa  (iioioOv)   e   l' effetto  a   ciò   che  è   fatto    (noiouiis- vov),  è  chiaro  che  per  questa  causa  dobbiamo    intendere una  causa  attiva,  un  agente:  quest'agente  di    più  deve essere  personale,  perchè  ciò  che  è   classato   nel   quarto genere  è  chiamato  Topifice  (5y)|itoripYo5v)  delle  cose  clas- sato  negli  altri  tre   (27  b).  Il   genere  della    causa, nel Fi/ebOy  corrisponde  a  ciò  che  Platone  altrove  chiama  la causa  prima,  e  talvoltaanche  semplicemente  la  causa  (1), di  tutte  le  cose,  vale  a  dire  l'anima  del  mondo.    Che  il quarto  genero  del  Filebo  consista  unicamente  nell'anima e  nell'intelligenza— la  quale  non  esiste  altrove  che  nel- l'anima  -si  rileva  della  maniera  più  evidente  dall'esa- me particolareggiato  che  Piatone  fa  di    questo    genere, perchè,  dopo  aver  detto  che  r»  a4  esaminarlo  più  lun- gamente, non  parla  poi  che  di  esse:  dimo- stra che  la  mente  governa  il  tutto,  perchè    questa  pro- posizione è  àegntL  dell'aspetto  del  mondo,  del  sole,  della luna,  delle   stelle   e  di  tutte   le   rivoluzioni   celesti,  e  perchè,  come  noi  prendiamo   gli    elementi   del nostro  corpo  dal  corpo   dell'universo,  cosi    l'anima  non jmó  venirci  d'altronde  che  da  un'anima  cosmica;  e  conclude  che  del  quarto  genere,  che  è  in  tutte le  cose,  questa  parte  che  ci  dà  Tanma,  che    ripara    la salute  nelle  malattie,  ecc.  non  deve  Estimarsi  la  sapienza tutta  quanta  e  di  tutte  le  forme,  e  che  nell'universo  vi ha  molto  illimitato,  sufficiente  limite,  e  una  causa  che presiede  ad  essi,  la  quale  orna  e  dispone  gli    anni,  el stagioni,  i  mesi,  ed  è  chiamata  a  buon  dritto    mente  e sapienza.  Per  fare  rientrare,  malgrado  ciò.,- V.   Leggi,  Kpinomidc  976  e    977  a,  98J b,  983  d,  988  d-e  . (2)  V-  30  e. In  senguito   Platon©  dice  che l'intelligenza  è  del   genere della  causa  di  tutte  cose,  ed  anche   cUe  essa  è  •*  affine  alla *iì -  248  - -mt-' nel  quarto  gener»^  anche  le  Id^e,  alcuii  d^^l'interpre  ti che  identificano  il  limite  con  le  entità  matematiche,  af- fermano che  per  Platone  le  Idee  e  il  Nona  in  fondo coincidono:  ma  questa  proposizione,  come  abbiamo  os- serviate altrove,  non  sarebbe  intelligibile  che  nella  dot trina  dell'identità  dell'essere  e  del  pensiero,  dottrina  che non  possiamo  attribuire  a  Platone. Aggiungiamo  che  la  classe  delle  entità  matematiche contiene,  oltre  i  numeri  matematici,  anche  le  grandezze (le  quali  non  procedono  da  questi  numeri,  come  ha  cre- duto qualche  interprete,  ma  immediatamente  dagl'  idea- li) (1);  cosi  se  il  limite  del  Fileboaì  fa  identico  ai  pri- mi, non  si  comprende  nemmeno  perchè  Platone  non conti  fra  gli  elementi  costitutivi  del  reale  anche  le  se- conde. 6^*  Quelli  che  identificano  il  limite  con  le  entità  ma- tematiche sono  i  sostenitori  deirinterprctazione  trascen- dentalista del  sistema  delle  Idee.  Ciò  6  naturale,  perchè lo  scopo  di  quest'identificazione  è  di  appoggiare  la  tesi che  le  entità  matematiche  sono  le  leggi  e  le  forme  del mondo  fenomenico,  e  questa  tesi  suppone  che  questo entità  siano  intermediarie  nel  senso  che  esso  tramezzino, causai  e  pressoché  dello  sto-»4o  genere,  donde  potrebbe  in- ferirsi che  l'intelligenza  e  V  anima  non  sono  isoli  oggetti  compre.^r nel  quarto  genere,  e  che  anzi  esse  non  sono  aggregate  a  questo genere  che  d'  una  maniera  un  po'  forzata  ed  impropria.  Ma  in  que- sti luoghi  Platona  parla  dell'  intelligenza  umana,  perchè  risponde alla  quistione  a  qual  genere  appartenga  la  saggezza  che  è  uno  dei due  ingredienti  della  vita  mescolata  (cioè  della  vita  felice);  ed  esita  sd possa  classarla  rigorosamente  nel  genere  della  causa  del  tutto,  per- chè questo  è  propriamente  costituito  dall'  intelligenza  e  l'  anima cosmiche.  V    questo  Sapplem.  n.  III.  carte non  tra  le  Idee  di  certi  attributi  e  questi  attributi  stessi nelle  cose  sensibili,  ma  tra  la  totalità  del  mondo  ideale e  la  totalità  del  mondo  sensibile  (1).  Ora  questa  inter-pretazione delle  entità  intermediarie  suppone  alla  sua volta  la  trascendenza  delle  Idee;  perchè  è,  ci  si  dice,  per l'impotenza  delle  Idee  trascendenti  a  esercitare  una causalità  reale  sulle  cose,  che  Platone  è  stato  condotto ad  immaginare  queste  entità,  affinchè  esse  servissero  da mediatori,  in  modo  che  Tinfiuenza  delle  Idee  potesse comunicarsi  per  il  loro  mezzo  al  mondo  sensibile.  Ma se  le  Idee  sono  trascendenti,  anche  le  entità  matemati- che devono  essere  trascendenti.  Le  entità  matematiche sono  dei  predicati  universali  sostantifìcati  della  stessa maniera  che  le  Idee;  per  conseguenza  le  stesse  in- concepibilità che  risultano  dall'immanenza  delle  Idee  ri- saltano egualmente  dall'  immanenza  delle  entità  mate- matiche; le  stesse  espressioni  indicanti  la  relazione  tra le  cose  e  le  Idee,  in  cui  si  vedono  le  prove  più  forti della  trascendenza  di  queste,  servono  pure  ad  indicare la  relazione  tra  le  cose  e  le  entità  matematiche  (3);  i concetti  realizzati  dei  numeri  e  delle  figure,  della  stessa maniera  che  le  Idee  del  bello,  del  buono,  del  giusto,  ecc., vengono  riguardati  come  degl'  ideali  a  cui  le  cose  non si  conformano  che  d'  una  maniera  approssimativa  (4); se  è  evidente  in  certi  luoghi  d'Aristotile  ch'egli  si  rap- presenta le  Idee  come  poste  fuori  delle  cose,  non  è  meno evidente,  negli  stessi  o  in  altri    luoghi,    ch'egli  si    rap-   V.  questo  Supplem.  n.  III.  carta  199. V.  Hap.  509  d-  613,  521-527,    533  b-534  a,  Fedone  101  o,  104  d, Met,  1.  I.  VI.  3,  l.  III.  II.  15  sqq.,  1.  XIII.  I-III,  VI,  eco. V-  Supplem.  B.  n.  Vili,  carta  99. (4)  V.  Flteho  62  a,  Rep,  525  d-526  a,  Arist.  Met.  1.  III.  Il-  19-20 1.  XL  X.  S,  eoo. f -  J4f   T^ /  J presenta  così  anche  le  entità  matematiche  (0;  e  in  una parola,  tutte  le  ragioni  che  si  avrebbero  per  ammet- tere la  trascendenza  delle  une,  varrebbero  egualmente per  ammettere  la  trascendenza  delle  altre.  Intanto  il  li- mite del  FilebOy  come  convengono  gli  stessi  interpreti trascendentalisti,  è  immanente,  è  un  elemento  delle  cosiì stesse.  È  impossibile  dunque  che  esso  sia    identico    a' le entità  matematiche. 7^  Per  dotare  le  entità  matematiche  d«»irefìi(ienza  cau- sale che,  nella  loro  in  erpretazione,  manca  ali*    LU-»»,  e farle  supplire  co-I  a  que-^to  difetto  del  sistema,  che,  se- condo loro,  è  il  motivo  della  dttrini  d^lle  entità  inter- meiiarie,  grinterprcii  trascendentalisti  sono  ob'»iigari   a misconoscere  la  loro  natura  di  semplici   predicati   t?ene- rall  sostantiticati,  e  le  i-ientificano  con  Taoima  del  mondo Co-l  quelli  che  vedono  u»l  limile  d^l  /;/c6  >  lo  entità  ma- tematiche, è  necessario  che  facciano    del   limite  e  della causa  (che,  come  abbiamo  mostrato,  non  è  che  lanima del  mondo)   una  sola  e  slessa  cosa,  mentre  Platone  ne  fi due  peneri  distinti -e  d'altronde  la  causa  non  potrebbe non  essere  distinta  da'le  cose  di  cui  è  la  causa— .  E  biso- ffoa  notare  che  Platone  stibilisce  espressament**. e  dimo- stra  che  il  8Yj|itovYpoDv,  vale  la  dire    il    quarto  genero,  è altro  necessariamente  dagli  oggetti  compresi  nei  tre  p^imi generi. V.  Met.,  ecc.  NeUa  più  parte  di  questi  laoghii è  vero,  Aristotile  distingue  due  frazioni  nella  scuola  platonica,  di cui  r  una  avrebbe  ammesso  le  eÀtità  intermediarie  o  matematiche fuori  delle  vo**®»  6  t'  altra  nelle  cose  stesse.  Ma  una  divergenza  ana" Ioga  di  opinioni  è  da  lui  attribuita  ai  platonici  anche  intorno  alle Idee,  quando  oppone  al  resto  della  scuola  quelli  che,  come  Eudossio, a  ssimilavano  la  parusia  delle  Idee  nelle  cose  a  quella  di  una  sostanza colorante  nell'oggetto  colorato  (v.  Supplemento  B  carte) Il  limite   del  Filebo  non  può  dunque  identificarsi  né con  le  le  Idee  né  con  le  entità  matematiche:  noi  abbiamo visto  inoltre  che  nemmeno  rillimitato  equivale  alla  materia degli  àypaqjaJÓYfiaxa,  Siccome  questi  concetti  non  trovano il  loro  equivalente  in  alcun  altro  delle  opere  stesse  di  Pla- tone o  dell'esposizione  aristotelica,  ed  è  d'altronde  evidente la  loro  affinità  con  quelli   della    scuola   pitagorica,  noi siamo  fondati  perciò  a   vedere    in    questa    dottrina    del Filebo  un  primo  tentativo  dell'autore    di    avvicinare    la propria  filosofia  a  quella  dei  Pitagorici.  Sappiamo  infat- ti che  il  pitagorismo  di  Platone,  anziché  essere   dovuto a  un'influenza  che   questo   filosofo   abbia    passivamente subita,  é  stato  piuttosto  qualche  cosa  di  voluto,  di  cer- cato: non  é  quindi  sorprendente  che  la  sua  forma   defi- nitiva sia  stata  preceduta  da  un    primo passo,  in    cui l'avvicinamento  tra  le  due  filosofie  non  é  cosi  stretto  co- me diverrà  in  seguito.  Non  é  dabbia,  da  uu'altra  parte, l'anteriorità  del  Filebo  al  periodo  del  sincretismo  con  le dottrine  pita;>oriche,  che  noi  conosciamo  dall'esposizione d'Aristotile:  all'epoca  del    Filebo    Platone    non   conosce ancora  la  dottrina    dei    numeri    ideali,  e   nemmeno della  materia,  sia  perchè  questa  suppone  quella,  sia perchè  il  limite  e  l'illimitato  del  Filebo    differiscono    da quelli  dell'  esposizione  d'  Aristotile  (.3),  e  se  Platone  co- noscesse già  la  dottrina  dei  due  elementi    degli  àypacpa SÓYjiaxa,  Cj^li  non    darebbe  ai    due  elementi    del  Filebo gli  stessi  nomi.  Che  il  pitagorismo  del    Filebo    non    sia stato  che  un  primo    passo,    risulta   poi   abbastanza    dal confronto  dei  concetti  di  questo  dialogo  con  quelli  degli àypa'^a  SÓYfiaxa.  Limitandoci  alla  dottrina  dei    due    eie- "tj (1)  V.  questo  Supplem.,  II,  carte  163-164. (2)  V.  questo  Supplem,  T,  carte  V.  sopra,  carta  menti -perchè  sareb  supe  ifluo  di  notare  che  la  propo- sizione che  la  natara  degli  esseri  è  dominata  e  deter- minata da  rapporti  numerici,  è  meno  pitagorica  della proposizione  che  gli  esseri  sono  numeri—,  osserviamo:  che negli  diypoL^xx,  SÓYfxaxa  il  limite  e  Tillimitato  sono  ciascuno un'entità  unica,  come  nella  filosofia  pitagorica,  mentre nel  Filebo  sono  due  generi  divisi  in  una  moltitudine  di specie;  che  le  coppie  dei  concetti  opposti  della  classe  del- Tillimitato.  corrispondenti  alle  due  oooxoix^ai  di  prin- cipii  contrarli  dei  Pitagorici,  hanno  con  quesii  poca  ana- logia,  mentre  le  due  oDaxoix^at  degli  àypa^a  SÓYjiaxa sono  identiche  in  parte  a  quell*.  di  Pitagorici,  e  per  il resto  possono,  per  quanto  ne  sappiamo,  riguardarseae come  una  generalizzazione  ;  che  i  concetti  delle  due ouoTOix^ai  degli  àypaq^a  SÓYjiaxa  sono  dei  principii^  come quelli  delle  due  ouaxoix^ai  dei  Pitagorici,  mentre  le  coppie di  opposti  del  Filebo  sono  subordinate  airillimitato  in  se stesso;  infine,  che  nel  Filebo  Topposizione  è  nel  seno  stesso dell'illimitato,  mentre  negli  àypacpa  SÓYfxaxa  è  invece,  come nella  dottrina  pitagorica,  tra  un  principio  della  classe  del  li- mite e  un  altro  di  quella  dell'illimitato  (1).  Ma  malgrado  le dififerenze  profonde  tra  le  dottrine  pitagoreggiauti  degli (ÌYpa^a  5ÓY[xaxae  quelle  del  Fdebo,  tuttavia  la  pii!i  parte  delle prime  hanno  evideatemenie  un  antecedente  e  un  addentel- lato nelle  seconde.  Indipendentemente  dall'idea  generale che  le  cose  constano  di  liuìite  e  d'illimitato,  è  da  notare: che  il  grande  e  piccolo,  a  cui  negli  àYpacpa  5ÓY|Jtaxa  e  ri- condotto il  secondo  dei  due  elementi,  procedo  in  linea retta  dal  più  e  meno,  che  nel  Filebo  è  il  carattere  gene- rale e  aistintivo  della  natura  dell'illimitato;  e  che  la distinzione  del  limite  e  dell'illimitato  del  Filebo,   con  la (1)  Gfr.  oarta  244. riduzione  del  primo  a  dei  rapporti  numerici,  è  assai  vicina alla  distinzione  di  forma  e  di  materia  del  Timeo  e  del- l'esposizione aristotelica,  e  la  riduzione  della  prima  a dei  numeri.  Se  ricordiamo l’osservazione  già  fatta, che  il  concetto  che  le  forme  sono  numeri  sembra  sup- porre quello  che  esse  possono  ridursi  a  rapporti  nume- rici tra  i  sustrati  materiali  (2),  vedremo  più  chiaramente il  legame  tra  la  dottrina  dei  numeri  ideali  e  il  limite del  Filebo  f3). Il  pitagorismo  nei  ilisteepoli  di  Platone Quest'argomento  ha  per  noi  tanto  più  interesse,  che le  innovazioni  dei  platonici  dissidenti  riguardano,  non il  sistema  delle  Idee  in  se  stesso,  ma  la  fusione  di  que- sto sistema  coi  concetti  pitagorici.  Di  queste  innovazioni le  più  importanti,  anzi  le  sole  importanti,  per  quanto possiamo  giudicarne  dalle  indicazioni  d'Aristotile,  sono quelle  di  Speusippo  e  di  Xenocrate,  e  concernono  sovra- tutto  la  dottrina  sui  numeri  matematici,  fa  loro  relazione con  le  Idee  e  le  cose.  Aristotile  in  effetto  parla  spesso di  tre  dottrine  dei  platonici  sui  numeri:  alcuni  distin- guono il  numero  ideale  e  il  numero  matematico— èia dottrina  dello  stesso  Platone—;  altri  ammettono  che  il numero  ideale  è  lo  stesso  che  il  matematico;  altri  infine non  ammettono  che  il  numero  matematico  (i).    Delle  due (1)  Cfr.  questo  Supplem.,  II,  carta  1S6. (2)  V.  questo  Supplem.,  II,  carta  V.  sopra,  carta  243. (4)  Queste  dottrine  sono  le  sole  di  cui  paria  Aristotile  :  di  più  in parecchi  luoghi  in  cui  egli  enumera  queste  tre  opinioni  sui  numer- {Met.0-. :1 ultime  dottrine  a  cui  allude  Aristotile,  la  prima  è  quella di  Xenocrate,  e  la  seconda  quella  di  Spensi ppo.  Malgrado la  cronologia,  noi  cominceremo  per  esporre  le  idee  del primo,  che  si  è  meno  allontanato  dal  platonismo  ortodosso. Xenocrate,  La  dottrina  dell'identità  del  numero  ideale col  matematico  (1)  equivale  al  fondo,  come  osserva  Ari- stotile (2),  alla  soppressione  del  numero  matematico  di Platone.  In  questa  dottrina  in  efletto  non  vi  ha  più  posto per  le  molte  diadi,  triadi,  ecc.  matematiche,  che  Platone subordinava  alla  Diade,  Triade,  ecc.  ideali.  La  Diade, Triade,  ecc.  ideali  sono  dette  anche  matematiche,  perchè esse  rappresentano  al  tempo  stesso  le  Idee  degli  esseri (p.  e.  dell'uomo,  delTanimale,  ecc.)  e  gli  attributi  arit- si   vede  eh'  egli   intende  fare  una  enumerazione  completa    delle   opinioni dei  platonici,  e  ch<)  non  conosce  una    quarta    opinione.    Tuttavia   alcuni storici  hanno  veduto  un'allusione  ad  una  quarta  opinione  in    queste  pa- role della  Afei,  1.  XIII.  VI,  7  :  «  A/irt  crede    il  primo   numero,    quello della  Specie,  uno  e.^sere:  alcuni  invece,  che  questo   stesso   sia    il   mate- matico Le  parole  indicherebbero, secondo  questi    storici, un'altra  dottrina  dei  platonici  sui    numeri   la  quale    non   ammetterebbe che  il  solo  numero  ideale.  Ma  esse  non  indicano  in  realtà  che  la  dottrina stessa  di  l'iatone,  nella  quale  il  primo  numero,  cioè  l'ideale,  é  solamente ideale,  e  perciò  uno,  e  non  in  un  certo  modo  doppio,  come  nella  dottrina in  cui  il  primo  numero  ù  al  tempo  stesso  ideale  e  matematico.  Oltre  che questo  è  il  solo  senso  grammaticalmente  possibile,  l'ipotesi   di  una  dot- trina dei  platonici  sui  numeri,  la  quale  non  ammetterebbe  che  il  numero ideale,  e  rigetterebbe  assolutamente    il  matematico,  è  per  se   stessa  in- concep  ibile,  sia  perchè  anche  i   concetti    matematici  devono    essere,    ne sistema  delle  Idee,  realizzati,  sia  perchè  11  numero  ideale    non  potrebbe affatto  riguardarsi  come  numero,    se    esso   non    rappresentasse    pure  ini certo  modo  le  determinazioni  aritmetiche  delle  cose  (come   la   nella  dot- trina di  Platone,  in  cui  i   numeri  i  leali  sono  anche  le  Idee   dei    numeri matematici'.  V.  per  questa  dottrina    Arist.    Mei.  l.  XIX.    I.  3i    1.    XIII.    I.   2, 1.  Xlll.  Vi.  7,  1.  Xlll.  vili.  8,  1.   Xlll.  IX.  13. (2)  Met,  l.  XIII.  Vili.  8,  1.  Xlll.  IX-  13. nietlci.  Ma  anche  quelle  di  Platone  rappresentavano  gli attributi  aritmetici,  perchè  i  numeii  ideali,  per  lui,  erano le  Idee  e  le  essenze  dei  numeri  matematici.  La  differenza dei  numeri  di  Xenocrate  dai  numeri  ideali  di  Platone  è che  questi  sono  incombinabiii,  mentre  Xenocrate,  sop- primead")  la  distinzione  tra  il  numero  ideale  e  il  mate- matico, sopprime  anche  necessariamente  il  carattere  di- stintivo per  eccellenza  fra  i  due  numeri,  e  fa  perciò  il immero  ideale  combinabile,  Aristotile  infatti  (1)  parla d»lla  dottrina  di  alcuni  platonici  sui  numeri  ideali,  in cui  le  unità  di  un  numero  sono  simili  e  combinabili  con quelle  di  un  altro  (2),  il  numero  minore  fa  parto  del  nu- mero maggiore  (3),  e  tutti  i  numeri  s'uo  a  dieci  equi- valgono alla  Decade  in  se  stessa  — le  due  ultime  pro- posizioni evidentemente  non  sono  che  altre  espressioni della  prima,  cioè  della  combinabilità —Ora  qu'^sta  dottrina è  certamente  quella  che  noi  attribuiamo  a  Xenocrate,  sia perchè  la  combinabilità  d^i  numeri  ideali  suppone  il  ri- getto della  distinz^'one  tra  questi  numeri  e  i  matematici, sia  perchè  Aristotile  attribuisce  ai  filosofi  a  cui  egli  al- lude la  dottrina  d»*lle  linee  indivisibili,  eh'»,  secondo la  testimonianza  concorde  delle  antiche  autorità  (6),  ap- parsene a  Xenocrate  (7). \ .'/•' 0)  Met.  1.  XIII.  Vili  18-22, V.  18  e  I9. (i/  V,  19. (4)  V.  21. (5)  V.  22. Mullach.  Fragm.  pkilos.  graec,  v.  Ili  pag.  lÌ8-12o. Anche  Platone  aveva  parlato  della  linea  indivisibile  (v.  Arist.  Mei, \,  1.  IX.  2o):  ma  nella  dottrina  di  cui  è  quistione  in  Met.  1.  XIII.' Vili. 22  la  linea  indivisibile  viene  rappresentata  per  un  numero  particolare (l'unità cfr.  il  commento  del  pseudo— Alessandro  e  di  Siriano  in  Xr'v&ty Met\  Xlll.  IX.  3),  mentre   per  Platone  non  vi  ha  certamente   che  un  sol Soppressi  i  uumerì  miermediari,  la  coerenza  del  sì- stema  esigeva  la  soppressione  delle  entità  intermediarie in  generale,  cioè  anche  delle  grandezze  matematiche.  E la  effetto  ai  partigiani  dell'identità  tra  il  numero  ideale e  il  matematico  Aristotile  attribuisce  pure  la  riduzione delle  grandezze  a  dei  numeri  ideali.  Cosi  in  Mei,  1.  XII. I.  3,  per  indicare  le  tre  scuole  in  cui  si  dividono  i  pla- tonici, platonici  ortodossi,  scuola  di  Xenocrate  e  scuola di  Speusippo,  dice  :  alcuni  dividono  le  sostanze  separa- bili (cioè  le  entità  della  filosofia  platonica)  in  due  generi; altri  pongono  in  una  sola  natura  le  Specie  e  le  entità matematiche  (non  semplicemente  i  numeri  matematici); e  altri  non  ammettono  che  le  sole  entità  matematiche. E  nel  1.  XIII.  Vili.  18-22,  rimproverando  ai  platonici  che ammettono  la  combinabilità  dei  numeri  ideali,  di  restrin- gere il  numero  alla  decade,  rappresentando  tutte  le  loro entità  per  i  soli  primi  dieci  numeri,  dice  che  per  loro anche  le  grandezze  vanno  sino  ad  un  certo  numero, «  prima  la  linea  indivisibile,  poi  la  diade  e  poi  ancora queste  (cioè  ancora  grandezze)  sino  alla  decade  ».  E  evi- dentemente a  questa  dottrina  che  noi  attribuiamo  a  Xe- nocrate,  che  allude  pure  ne\  l.  VII.  XI.  3-4,  in  cui  riferisce l'opinione  di  alcuni  filosofi  che  nei  concotti  delle grandezze  non  fanno  entrare  che  la  sola  forma,  esclu- dendone la  materia,  e  riducono  per  conseguenza  le  gran- dezze a  dei  numeri   questi  filosofi  non  possono  essere che  dei  platonici,  perchè  i  pitagorici  non  conoscono  la distinzione  di  forma  e  materia,  e  divide  i  partigiani delle  Idee  in  due    scuole,    di  cui  1'  una   ammette  che  il numero  per  tutte  le  linee  (la  diade),  perché  il  suo  sistema  non  ammette, e  non  potrebb  >  ammettere,  che  tre  Idee  di  grandezze,  della  Linea,  del Piano  e  del  Solido. Due  è  la  linea  stessa ^  e  l'altra  che  è,  non  la  linea  stessa, ma  l'Idea  della  linea.  Platone    distingue  le  Idee-numeri delle  grandezze  (cioè  della  linea,  del  piano  e  del  solido) dalle  grindezze  stesse,  perchè  le  prime  non  rappresentano che  la  sola  forma,  mentre  le  seconde,  per  lui,  compren- dono anche  la  materia  :  Xenocrate  invece,  sopprimendo le  grandezz  i   matematiche,  non    ammette,  per  le  gran dezze  come  per  tutte  le  altre  cose,  altri  concetti   realiz  . zatì  che  quelli  che    rappresentano    le  semplici  forme,  e possono  per  cosegaenza  ridursi  a  dei  numeri  ;  cosi  non essemdovi  più  nel  sao  sistema  dei  concetti   realizzati  di grindez/-e  che  includano  anche  la  materia,  le  Idee  (inu- mori ideali)  delle  grandezze  non  si  distinguono  più  per lui  dalle  grandezze  stesse  (1). Per  attribuire  a  Xenocrate  la  dottrina  dell'identità  del numero  ideale  col  matematico  (e  quindi  anche  la  ridu- zione delle  grandezze  ai  numeri)  più  che  sulle  testimo- nianze incerte  dei  commentatori  di  Aristotile di  cui  al- cuni, come  Siriano  e  Filopono  ad  Met., attribuiscono  effettivamente  questa  dottrina  a  Xenocrate, ma  l'attribuiscono  anche  a  Speusippo— noi  ci  fondiamo sul  legame  che  essa  ha,  nell'esposizione  d'Aristotile,  con quella  delle  linee  e,  più  generalmente,  delle  grandezze, indivisibili  (2).  È  ciò  che  abbiamo  visto  nel  luogo  indicato  Gfr.  questo  Supplem,  n.  Ili,  e.  1 95-196. (2)  Met.  1,  XIII.  Vili.  8.  Xenocrate  non  ammette  soltanto  delle  linee indivisibili,  ma  delle  grandezze  indivisìbili  in  generale  (V.  Stob.  Ed,  Phys. I.  1  e.  I4,  Simpl.  in  ArhL  Phys.  pag.  30  A,  ecc.)— L'ipotesi  delle  linee indivisibili,  come  abbiamo  notato,  era  stata  già  emessa  da  Platone:  Xe- nocrate sembra  non  aver  fatto  altro  che  riprendere  quest'  ipotesi  d'una maniera  definitiva,  appoggiarla  su  delle  prove  numerose  (v.  Arist.  De  Un, insecaòilib,,  Phys  l.  1.  Ili,  9,  l)e  general,  1.  I.  II.  II-I9,  Simpl.  tu  Arist, Phys,  pag.  3o  A,  Philop.  in  Arist.  Phys,  lib.  I,  fol.  B,  16  e  C,  1,  The- mist.  Paraphras,  Phys,  Arist.  1.  1,    fol.   18.   A,    ecc.),   e   legandola  c.^ V. VI 'À -  351 lì I, »1 Mei,   L  XIII.   Vllt.  18-22',  e  lo  «le^^o  sì  rileva  pure  da 1.  XIII.  VI.  8,  In  cui,  dopo  aver  distinti  le  diverse  dot- trine dei  platonici  sui  numeri  —  quella   che  ammette  un numero  ideale  e  un  numero  matematico,  quella  che  iden- tifica i  due  numeri,  e  quella  che  amm'ìtteìl  solo  numero matematico continua:    -Similmente  sulle  lunghezz*^,  i piani  e  i  solidi.  Alcuni  distinguono  i  mattinatici  e  quelli jisxà  xàs   lÒéa.<;  (1);    di  coloro    che   dicono  altrimenti,  ^U uni  parlano  dea:li  oggetti  matematici    matematicamente, quelli  che  non  fanno  le  LI  »«  num(^TÌ  né  dicono  esservi  le Idee,  (2);  gli  altri  parlano  pure  degli  og^^etii  matematici, ma  non  matematicamente,  poiché  per  loro  né  ogni  gran- dezza può  dividersi  in  grandezze,  ne  qualsWogliano  unità possono  formare  una  dualità)».  I  filosoft  a  cui  Aristotile rimprovera  di  non  parlare  degli  ogs?'tti  matematici   ma- tematicamente, perchè  ammettono  delle  grandezze  indi- visibili, sono  senza  dubbio  quegli  stessi,  che,  sopprimendo le  entità  intermediarie,  riducono  le  g  andezze  a  d-i  nu- meri :  in  effetto  anche   qu^sr/altra   opinione    sulle  gran- dezze deve  essere  menzionata  a  lato  di  quelle  di  Platone l'altra  ipotesi  platonica  dei  coipuscoli    elementari,    comporne  una    teoria completa  delle  grandezze  indivisibili-Platone  aveva  immaginato  la  linea indivisibile  per  sostituirla  al  punto,  ch'egli  non   potava  ammettere  come entità,  perchè,  come  osserva  Aristotile  {Met.\.l.l\.20-v.  il  commento d'Aless.  d'Afrod.— ^,  non  gli  sarebbe  stato  possibile  di  dedurlo  da  (jualclie forma  ìu\  Grande  e  Piccolo  (quale  materia  delle  entità  geometriche).  Per Xenocrate  il  motivo  di  sostituire  la  linea  indivisibile  al  punto  non  può  essere precisamente  lo  stesso,  perchè  le  sue  entità  matematiche,  chenonsouj  che dei  numeri,  non  racchiudono  la  materia:  ma  per  non  fare  del  punto  un'en- tità ha  potuto  bastargli    questa   considerazione,    che    esso  non  potrebbe comp-ìrsi,  ome  le  grandezze  e  ogni  altro  reale  nel  suo    sistema,  d'Idea forma)  e  di  materia. (1)  Platone.  V.  questo  Supplem.  n.  111.  e,  I96. (2)  Speusippo,  secondo  l'interpretaiionì  aristotelica  del  suo  si-itema. (' e  di  Speusippo;  e  d'altronde  le  parole  «  similmente  sulle lunghezze,  i  piani  e  i  solidi  »  ci  indicano  chiaramente che  le  tre  opinioni,  di  cui  é  quistione  in  questo  luogo, dei  platonici  sulle  grandezze  corrispondono  alle  tre,  di cui  sopra,  sui  numeri.  Aggiungiamo  che  Tobbiezione  che qualsivogliano  unità  non  formano  una  dualità,  ha  di  mira certamente  i  numeri-Idee  (1)  :  ma  qui  serve  ad  appog- giare la  proposizione  che  i  filosofi  contro  cui  essa  è  di- retta, parlano  degli  oggetti  matematici  non  matemati- camente; dunque  per  questi  i  numeri  ideali  s'identificano coi  matematici. La  teoria  di  Xenocrate,  eh  ì  i  numeri  a  cui  si  riducono gii  esseri  sono  gli  stessi  che  i  matematici,  è  evidente- mente più  pitagorica  che  l'ipotesi  platonica  di  un  numero ideale  differente  dal  matematico,  perchè  i  numeri  di  cui parlano  i  Pitagorici  sono,  come  ossserva  Aristotile, i  numeri  matematici.  La  riduzione  delle  grandezze  a  sem- plici numeri  è  anch'esca  un  nuovo  passo  verso  i  Pitago- rici, perchè  questi  non  ammettono,  come  Platone,  che  le grandezze  siano  subordinate  ai  numeri,  ma  le  identificano, come  ogni  altra  cos»,  ai  numeri  stessi.  Un'  altra  imita- zione evidente  del  pitagorismo  è  la  restrizione  del  nu- mero alla  decade,  perchè  i  Pitagorici  consideravano  i numeri  seguenti  come  una  semplice  ripetizione  dei  primi dieci  (3)  Già  Platone,  come  c'informa  Aristotile, non  aveva  fatto  il  numero  ideale  che  sino  a  dieci  :  ma noi  non  dobbiamo  intendere  perciò  che  egli  non  ammet- tesse che  i  soli  primi  dieci  numeri,  perchè  lo  stesso  Ari- •MI »    Vi V.  Afet.  1.  Xlll.  Vii.  22-23. (2)  Meé.  I.  Xlll.  VI.  /. V     Hierocl.  In  carm.  aur,  XX.  45-48,  Arist.  MetA,  \.  V.  3,  Philop.  De  art,,  C,  2,  al  basso. Phys.  1.  Ili  VI.  6. r-  I ì I' 1$ stotìle  dà  questa  dottrina  come  particolare,  fra  tutti  i partigiani  dei  numeri  ideali,  a  quelli  per  cui  questi  nu- meri erano  combinabili,  e,  per  conseguenza,  identici  ai matematici  (cioè  alla  scuola  di  Xenocrate.  Il  senso dell'indicazione  d'Aristotile  (nel  luogo  della  Fisica)  sembra dunque  piuttosto  che  nella  formazione  dei  numeri ideali  Platone  si  è  fermato  alla  decade,  ma  senza  deci- dere se  dovessero  ammettersi  o  no  anche  i  numeri  seguenti. L'incertezza  di  Platone  e  dei  suoi  su  questo  punto ci  è  attestato  in  quest'  altro  luogo  della  Met.  \\.  XII. Vili.  1)  Quelli  che  ammettono  le  Idee  dicono  che  le Idee  sono  numeri  :  m^  dei  numeri  parlano,  ora  coi  i^  se fossero  infiniti,  ora  come  se  terminassero  alla  decade  ». Qaest'incerteza  si  spiega  per  due  esigenze  contrarie  del sistema.  Da  una  parte,  lo  sforzo  di  Platone  di  accostarsi ai  Pitagorici  avrebbe  dovuto  avere  per  conseguenza  di limitare  il  numero  alla  decade  :  ma  d'altra  p?irte,  la  fu- sione della  dottrina  dei  numeri  coi  principii  della  dialet- tica, manifestantesi  sovratutto  nella  loro  generazione  pro- gressiva gli  uni  dagli  altri  (che,  come  sappiamo,  rappre- senta la  dieresi  delle  Idee),  richiedeva  che  a  ciascun'  Idea corrispondesse  un  numero  distinto,  e,  quindi,  che  i  nu- meri  ideali  fossero  altrettanti  quante  le  Idee. Xenocrate,  sacrificando  il  bisogno  di  accordare  la  teo- ria dei  numeri  con  la  dialettica  a  quello  dell'imitazione pitagorica,  ci  mostra  la  stessa  tendenza  che  nelle  altre dottrine  che  gli  sono  particolari.  Cosi  l'impressione  d'in- sieme che  risulta  dalle  innovazioni  di  Xenocrate  è  in- somma ch'egli  si  è  avvicinato  ancora  di  più  ai  Pitagorici. Un'altra  prova  del  pitagorismo  più  accentuato  di  questo V.  Mei,  1.  Xlll.  Vili.  18-22,  luogo  già  indicato. filosofo  è  che  egli,  come  c'informa  Teofrasto  fi),  ha  fatto degli  sforzi  più  d'ogni  altro  platonico  nell'  applicazione della  teoria  dei  numeri  alle  cose.  Fra  questi  possiamo contare  la  celebre  definizione dell'anima  «un  numero che  muove  se  stesso,  quantunque  essa  non  sia  al- tra cosa  che  la  definizione  di  Platone  (ciò  che  muove  se stesso)  unita  al  concetto  generale  dello  stesso  Platone, che  gli  esseri  sono  numeri. Speusippo,  Fra  le  dottrine  dei  platonici,  enumerate da  Aristotile,  sui  numeri  e  gli  oggetti  della  matematica, una  ò  quella  secondo  cui  non  vi  sarebbero  altre  entità che  le  matematiche  (3).  Confrontando  fra  di  loro  i  luo- ghi in  cui  si  allude  a  questa  dottrina,  e  segnatamente quelli  che  riportiamo  nella  nota  (4),  si  vede  che  è  qui- stione  del  sistema  di  Speusippo.  I  concetti  principali  che caratterizzano  (questo  sistema,  secondo    Aristotile,  sono: 1®  Non  vi  hanno,  come  abbiamo  detto,  altre  entità che  le  matematiche;  vale  a  dire  Speusippo  non  ammette le  Idee,  e  non  realizza  altri  concetti  che  quelli  dei  nu- meri (matematici)  e  delle  grandezze  geometriche. Mei.  Fr.  12. Mullach  Fragm  phil.  graec.  v.  111.  p.  12o-l25- V.  per  questa  dottrina  Arist.  Metaph. ecc. (4)  Met.: Ancora,  oltre  i  sensibili,  alcuni  credono  che non  vi  sia  alcuna  sostanza;  altri  pi6,  e  massimamente  le  eterne,  come  Pla- tone le  Specie  e  le  entità  matematiche,  due  sostanze,  e  terza  la  sostanza dei  corpi  sensibili.  Speusippo  ammette  pure  più  sostanze,  a  cominciare dall'Uno;  e  principii  di  ciascuna  sostanza  altro  dei  numeri  e  altro  delle grandezze;  poi  dell'anima;  e  cosi  moltiplica  le  sostanze.  (Non  attribuisce a  Speusippo,  come  a  Piatone,  le  Specie.  La  sola  sostanza  iperflca  che  gli attribuisce,  oltre  ai  numeri  e  alle  grandezze,  è  Tanima,  o  piuttosto  il  prin- cipio delfanima  :  questo  è  menzionato  a  lato  dei  numeri  e  delle  grandezze e  dei  loro  principii,  j^on  perchè  sia  un  Universale,  un  concetto  realizzato, come  questi,  ma  perchè  è  anch'esso  una  sostanza  sovrasensibile).  Alcuni -A   — I,» N 1:/ 2^  I  numeri  (matematici)  sono  i  primi  degli  esseri; poi  vengono,  nelPordine  di  anteriorità  e  posteriorità  (nel senso  platonico),  le  grandezze  geometriche;  infine  gli  es- seri fisici,  le  cose  (1). 3<^  L'Uno  è  il  primo  principio,  come  per  Platone,  ma non  è  identico  al  Bene,  che  gli  è  posteriore.  Come,  negli animali  e  nelle  piante,  il  bello  e  il  perfetto  non  si  tro- vano nel  germe,  ma  appariscono   in  ciò  che  ne    deriva; poi  dicono  che  le  Specie  e  i  numeri  hanno  la  stessa  natura,  e  che  le  altre cose  ne  derivano,  cioè  le  linee  e  le  superficie  sino  alla  sostanza  del  cielo e  ai  sensibili,  (Qui  si  tratf^a  evidentemente  della  dottrina  di  Xenociate;  cosi numeri  vuol  dire  i  numeri  matematici;  per  conseguenza  sopra,  parlando di  Speusippo,  questa  parola  ha  pure  lo  stesso  senso)  ». Met,  1.  Xll.  X.  i4:  «Quelli  che  ammettono  per  primo  numero  il  ma- tematico, e  cosi  sempre  un'altra  contigua  sostanza,  e  principii  diversi  di ciascuna,  fanno  la  sostanza  del  tuUo  senza  legame  (è7lSV005ltt)5Y);— una sostanza    intatti    niente   giova   ad  un'  altra,  sia   che  esista   sia  clie  non esista— e  molti  principii  ;  ma  gli  esseri  non  vogliono  essere   mal  gover- nati. «Non  é  un  bene  il  principato  di  molti;  uno  solo  sia  il  principe. (Quelli  che  ammettono  per  primo  numero  il  matematico,  non  possono  es- sere che  quelli  per  cui  non  vi  hanno,  secondo  Aristotile,  altre  entità  che le  matematiche.  In  effetto,  oltre  a  questa,  Aristotile  non  conta  che  altre due  dottrine  sui  numeri  e  gii   oggetti   della    matematica:    quella  di  Pla- tone, per  cui  il  primo  numero  è  T ideale:  e  quella  di  Xenocrate,  che  am- mette un  solo  numero,  al  tempo  stesso  ideale  e  matematico.    V.  Atei.  1. Xlll.  VI,  6—8,  l.  Xlll.  Vili.  5-8,  11,  l.  Xlll.  IX.  13-14). Met.  1.  XIV.  111.  8-9:  «  Si  potrà  inoltre  domandare  da  chi  non  sia troppo  facile  a  credere,  perchè  in  tutto  il  numero  e,  in  generale,  negli esseri  matematici  niente  giovino  l'uno  ali  altro  l'anteriore  e  il  posteriore. Infatti,  anche  non  esistendo  il  numero,  esisterebbero  nondimeno  le  gran- dezze, per  quelli  che  ammettono  le  sole  entità  matematiche,  e  queste non  esistendo,  esisterebbero  l'anima  e  i  corpi  sensibili.  Ma.  da  quel  che si  vede,  la  natura  non  sembra  sconnessa  (è7l8too8ta)8Yjg)  come  una  cat- tiva tragedia.  Ciò  non  accade  a  quelli  che  ammettono  le  Idee  »  ecc. (1)  Met.  cosi,  nel  tutto,  il  buono  e  il  bello  non  sono  nel  principio,  ma  nascono  nel  progresso  dell'essere.  Questo  8i  svi- luppa, come  un  organismo,  procedendo  da  uno  t-tato  più indet  rminato  e  più  imperfetto  a  uno  stato  sempre  più determiuato  e  yìù  perfetto  (1). 4<*  Delle  tre  classi  di  esseri  ammesse  da  Speusippo (numeri,  grandezze  geometriche  e  erse),  Yanteriore  non giova  niente  alla  posteriore.  I  numeri  non  sono  le  cause degli  altri  esseri  :  anche  non  esistendo  i  numeri,  esiste- rebbero le  grande/.ze  geometriche,  e  non  esistendo  i  nu- meri e  le  grandezze  geometriche,  esi^-terebbero  le  cose. L»*  entità  matematiche  non  hanno,  pi  r  Speusippo  come per  Platone,  che  un  significato  puramente  matematico; in  altri  termiui,  i  numeri  non  rappresentano  che  le  de- termiuazioni  aritmetiche  delle  cose,  e  le  grandezze  le grometriche.  In  effetto  :  P  Aristotile  fa  consistere  essen- zialmente la  dottrina  delle  entità  matematiche  di  Speu; sippo,  corre  quella  di  Platone,  nella  sostaniificazione degli  attributi  matematici  (aritmetici  e  geometrici),  nel- r  osere  questi  considerati  coooe  separabili  0  separati dalh».  cose  (x^ptaxa  o  x£xo)pto|jLéva).  2^  Speusippo  dà, com«i  Platone,  le  Ciiiità  matematiche  p^r  gli  oggetti  delle scìen^A»  matematiche  (aritaaetica  e  geometria:  per  con- ci) V.  Met.;  e  cfr.  questo  Sup- plem.  II.  111.  carte  200-202.  «li  altri  luoghi  d'Aristotile  ivi  citati,  meno Mei,  1.  Xlll.  VI.  4,  si  riferiscono  certamente  anche  alla  dottrina  di Speusippo,  perchè,  come  abbiamo  osservato  (v.  e.  20J -202),  Aristotile riguarda  le  entità  inatemaliche  di  questo  filosofo  come  equivalenti a  quelle  degli  altri  platonici (4)  V.  Met.  1.  XIV.  in.  3-4,  e  cfr.  gli  altri  luoghi  d'Aristotilr  ci- tati a  e.  193  p.  1  n.  2,  i  quali  devono  riferirsi  anche  alla  dottrina  di Speusippo,  meno  Met.  l.  I.  IX.  16  e  l.  111.  II.   15,  ohe  non  le  si  pos- /    • seguenza  esse  nou  sono  che  la  realizzazione  dei  concetti di  queste  scienze,  la  sostantificazione  delle  proprietà  delle cose  che  queste  scienze  studiano.  La   prova  che  stabili- sce l'esistenza  di  tali  entità    è  che  le  matematiche   non devono  riferirsi  agli  oggetti  sensibili,  ma  a  delle  realtà astratte,  universali  ed  eterne;  ed  Aristotile  riguarda  an- che questa  prova  come  il  motivo  reale  della  dottrina  (1). È  evidente,  come  abbiamo  osservato  (2),   che  su  questa base  non  potrebbe  fondarsi  una  teoria  che  vede  nei  nu- meri le  essenze  o  le  leggi  delle  cose,  ma  solo  la  realiz- zazione delle  astrazioni  numeri.  3^  Aristotile  oppone  Speu- sippo  a  Xenocrate,  in  quanto  quegli  parla  delle  cosa  ma- tematiche   matematicamente  (e  il  suo numero  é veramente matematico),  mentre    questi  ne  parla    non  mate- maticamente, e  sopprime  in  realtà  il  numero  matematico. La  ragione  precipua    di  quest'  opposizione   è,  come  ab biamo°già  detto,  che  i  numeri  matematici  di  Xenocrate sono    gli  stessi  che  gì'  ideali,  e  non  si  limitano  quindi, come  quelli  di  Speusippo,  a'ia  rappresentazione  dei  sem- plici attributi    aritmetici.    4«  Il luogo   citato  a   car- ta 201 prova   chiaramente   che    i  numeri   di    Speu- sippo non  costituiscono  1'  essenza    delle   cose    (come  po- trebbe credersi  che  sia  in  una  dottrina,  che  non  ammette, secondo  Aristotile-,  altre  entità  che  le  matematiche),    né come  paradigmi,  quali  le  Idee    neirinteipretazione  tra- sono riferire,  perchè  parlano   delle  entità   matematiche  come  in- termediarie.  V.  ^feL  l.  XI V.  11.  16.  l.  XIV.  111.  3,  111.  4,  ecc.  Cfr.  n.  lU.  e.  202. (2)  Carta  Cfr.  e.  2m. {^)  Met.  l.  XIV.  n.  15-111.  3. scendentalista,  né  come  inerenti  nelle  cose  stesse,  quali le  Idee  nella  nostra  interpretazione  o  i  numeri  pitagorici. E  lo  stesso  risulta  dai  luoghi,  nnch'es-i  già  citati. in  cui  ci  si  dice  che,  delle  diverse  classi  di  sostanze  am- messe da  Speusippo,  le  anteriori  non  giovano  per  niente alle  posteriori,  e  che  le  cose  esisterebbero  anche  non  esi- stendo i  numeri  e  le  grandezze,  o*  Infine,  Ari  totile  ri- guarda, come  già  abbiamo  detto,  le  entità  matematiche di  Speusippo  come  equivalenti  a  quelle  dt».gli  altri  plato- nici :  per  conseguenza  anche  le  a' tre  prove  per  cui  ab- biamo stabilito il  siguificato  puramente  matematico delle  entità  matematiche  di  Platoae,  valgono  pure  in- direttamente per  quelle  di  Speusippo. L'anteriorità  dei  numeri  sulle  grandezza,  e  delle  en- tità matematiche  sulle  così  significx,  secondo  le  abitudini della  filosofia  platonica  :  1^  che  i  concetti  delle  gran- dezze contengono,  nella  loro  comprensione,  quelli  dei  nu- meri, e  i  concetti  del'e  cose  quelli  dei  numeri  e  delle grandezze;  e  2^  che  le  grandezze  procedono  dai  numeri, e  le  cose  dai  numeri  e  dalle  grandezze.  Ma  in  Platone il  rapporto  di  anteriorità  e  posteriorità  implica  che  il  po- steriore si  deduce  dall'anteriore,  ciò  che  importa,  come sappiamo,  che  questo  é  in  un  certo  modo  la  cau'^a  di quello,  perchè  l'essenza  della  dialettica  platonica  consi- ste nella  identificazione  del  rapporto  logico  fra  il  prin- cipio e  la  consegueoza  col  rapporto  ontologico  tra  la causa  e  l'effetto.  In  Speusippo  invece  le  tre  classi  di  so- stanze da  lui  ammesse  non  si  deducono  l'una  dall'altra: le  grandezze  non  si  deducono  dai  numeri,  né  le  cose  dai numeri  e   dalle  grandezze.  E    cosi  che    dobbiamo   com* Met.  1.  XU.  X.  U,  l.  XIV.  lU.  8-9 cfr.  n.  4  a  e.  255. (2)  A  0.  200-204.  \zt  - Wy I prendere  la  proposizione  citata  d'Aristotile,  secondo  cui la  classe  posteriore  esisterebbe,  anche  non    esistendo  la classe  anteriore.  Ciò  basta   perchè  Aristotile   possa  dire che  le  sostanze  di  una  classe  non  sono  la  caasa  di  quelle delle  altre,  benché  la  loro    anteriorità  e  posteriorità  ira- plichi  necessariamente,  come  abbiamo   detto,  che  le  po- steriori procedano,  come  di  regola,  dalle  anteriori   (1). Il  principio  di  Speusippo  che  V  essere  si  sviluppa  an- dando da  uno  stato  più   indeterminato  e  più   imperfetto a  uno  stato  più  determinato  e  più  perfetto  è  inutile  di osservare  che  questo  sviluppo  non  è  un   progresso   nel tempo,  ma  una  successione  puramente  logica  non  è  in sostanza  che  quello  della  diale tt'ca  platonica  che  la  legge dell'essere  è  di  arricchirsi  progressivamente   di    nuov». determinazioni,  di  passare  continuamente  da  uno  stato più  astratto  a  uno  stato  più  concreto.  Ma  f^enza  dabbio Speusippo  applica  particolarmente  questo  principio    alle sue  tre  classi  di  sostanz*»,  per  indicare  ch'esse  formano una  serie  logica  al  tempo  stesso  ed  ontologica,  in  modo che  il  pass^,ggio  da  un  termine  all'altro  importa  un  pro- gresso nella  determinazione  dei   concetti  e  de^li  esseri corrispondenti  a  questi  concetti,  e  nel  tempo  stesso  una processione  del  più  determinato  dal    più    in  ietermiaato. L'altra  applicazione  particolare  che  fa  Speusippo  del principio,  cioè  la  non  identità  dell'  Uno  col  Bene  e  \k possteriorità  di  qu'^sto,  non  è  che  un  corollario  del  si- gnificato puramente  matematico  del  numero  e  della  sua anteriorità  sugli  altri  esseri  ;  l' identificazione  platonica del  Bene  con  V  Uno  supponendo  evidentemente  che  gli altri  attributi  delle  cose  siano  ricondotti  ai  numero. Ma  vi  ha,  nella  filosofia  di  Speusippo,  un  punto  d'un'ira- portanza  capitale  — è  il  preteso  abbandono  della   teoria delle  Idee— su  cui  alla  testimonianza  d'Aristotile    pos- sono opporsi   delle   prove  contrarie,  che  mi    sembrano prevalenti. La  prova  più  forte,  e  che  anche  da  sé  sola  sarebbe decisiva,  sta  nell'inverosimiglianza  intrinseca  delle  stesse affermazioni  d'  Aristotile.  Se  noi  ammettiamo  che  questi ci  espone  esattamente  le  dottrine  di  Speusippo,  il  sistema di  questo  filosofo  sarebbe  il  più  insolubile  dei   problemi che  ci  presenti  la  storia  della  filosofia.  Perchè  Speusippo avrebbe  rigettato  le  Idee?  Per  le  difficoltà,  dice  Aristo- tile (1),  che  si    oppongono  al   sistema.  Ma  queste   diffi- coltà consistono  nelle   inconcepibilità   inerenti  alla   rea- lizzazione degli  universali.  Allora,  perchè  avrebbe  am- messo le  entità  matematiche?  queste  non  sono  anch'esse degli  universali  realizzati?  L'  ammissione  delle  entità  mate- matiche non  suppone  il  principio  che  1'  astratto  èVealmente separabile  (xwpwxóv),  che  la  vera  realtà  è,  non  il  particolare, ma  l'universale?  Se  si  ammette  che  ai  concetti  dei  numeri  e delle  figure  corrispoadono  dei  Numeri  e  delle  Figure  astratte e  generali,  che  coerenza  vi  sarebbe  poi  a  non  ammettere  che anche  ai  concetti  degli  altri  attributi  delle  cose  corrispon- dono altre  entità  egualmente  astratte  e  generali?  Se  le  en- tità matematiche  di  Speusippo  rappresentassero  l'essenza stessa  delle  cose,  si  potrebbe  rispondere  che  esse  bastavano alla  realizzazione  del  principio  che  1'  essere  si  risolve  in  en- tità universali  :  ma  poiché,  come  abbiamo  dimostralo,  esse non  rappresentano  che  le  determinazioni    aritmetiche    e geometriche,  per  lo  stesso  motivo  per  cui  di   queste  de- terminazioni si  fanno  degli  esseri  reali  sussistenti  per  se stessi,  anche  lo  altre  determinazioni  delle   cose   devono Gfr.  «io  ohe  diremo  sulla  iine  di  qaesto  nomer». Met. w h essere  elevate  ad  esseri  reali  e  sussistenti  per  se  stessi. Ma  vi  ha  di  più:  la  realizzazione  dei  concetti  non  ha  un motivo  e  uno  scopo,  che  unita  al  metodo  dialettico,  cioè ai  metodo  deduttivo   applicato   alla    scoverta   di   questi concetti  realizzati.  È  per  quest^  unione,  come  sappiamo, che  il  realismo  diviene  una  soluzione  del  problema  delle cause  efficienti,  perchè  il  rapporto  tra  principio  e   con- seguenza,  dopo   che   questo   principio  e    questa   conse- guenza  da  semplici  nozioni  mentali  sono   stati    trasfor- mati in  entità  sussistenti  per  se  stesse,  diviene  un    rap- porto tra  causa  ed  effetto.  Ora  quale  è  stata,  neir ipotesi della  verità  dell*  esposizione  aristotelica,  V  attitudine    di Speusippo  verso  il  metodo  dialettico  ?  Ha  egli  rinunziato a  questo  metodo  ?   Ma,  in  questo   caso,  perchè  avrebbe ammesso  delle  realtà  universali?  Lo  ha  applicato  ai  soli concetti  dei  numeri  e  delle  grandezze  geometriche?  Ma il  metodo  dialettico,  come  ogni  altro  sisteoia  dei   meta- fisici sulle  cause  efficient',  potrebbe  avere   altro  oggetto che  una  spiegazione    radicale  e   universale  del    mondo reale  ?  e  d'altronde,  ammesso   il  metodo  della   dieresi, avrebbe  potuto  esso  ricevere   soltaoto   un*  applicazione parziale,  e  non  abbracciare    la  totalità  dei  concetti  ge- nerici e  specifici  ?  o  avere  in  una  parte  solamente  della sfera  della  sua  applicazione  il  valore  obbieltivo  ch'esso ha  nella  metafisica  platonica,  e  nel  resto  un  valore  pura- mente logico  ?  Da  un  altro  canto,  noi  abbiamo  dei  mo- tivi di  credere  che  Speusippo,  lungi   di    aver    abbandonato la  dialettica  platonica,  come  metodo  scientifico  uni- versale, è  anzi  verso  questa  parte  che  ha  rivolto  a  pre- ferenza le  sue  speculazioni.  In  effetto,  egli  è    stato  il primo,  come  dice   Diodoro,  che  ha  contemplato  nelle scienze  ciò  che  vi  ha  di  comune,  e  insieme  le  ha  con- giunte, per  quanto  è  stato  possibile,  Tuna  con  Taltra  »  (1); e  nei  suoi  Dialoghi  sui  simili  ha  cercato  le  affinità  degli esseri  della  natura  a  lui  conosciuti,  applicando  partico- larmente la  dieresi  platonica  a  quella  parte  del  reale  che più  ne  sembra  suscettibile,  cioè  il  mondo  vivente.  E che  la  dieresi  fosse  anche  per  Speusippo  un  metodo  de- duttivo, noi  dobbiamo  inferirlo  dal  suo  apriorismo,  an- ch'egli  ammettendo,  come  Platone,  che  la  ragione  deve sforzarsi  di  ritrovare  tutte  le  verità,  partendo  da  quelle che  sono  evidenti  per  se  stesse,  e  ricavandone  gradata- mente le  altre  come  conseguenze.  Se  dunque  Speu- :f, (1)  Ap.  Diog.  Laert.  IV.  2. Cfr.  per  la  portata  di  qaest'indìcazione  Platone  Ifep,  531  d e  537  e,  1.  oit.  a  pag.  155  e  156. Cfr.  o.  VII.  1$  19  nota  finale. (8)  V.  Proclo  Comment,  in  prim^  Kuclìd.  elementor,   1.  111.  1  ed.  graeo.  in  Mullaoh  2^.  230. Filopono,  commentando  un  l.  deWAnal.  Post,  (1.  U.c.  XU.  13), in  cui  Aristotile  parla  dell'  opinione  che  Eudemo  attribuisce  a Speusippo che  per  definire  una  cosa  bisogna  anche  o(moscere  tutte le  altre,  dice  che  Speusippo  rigettava  la  definizione  e  la  divisione. Ma  è  questa  senza  dubbio  un'  erronea  inferenza  di  Filopono  dal luogo  stesso  commentato.  L'opinione  di  Speusippo  non  è,  come  ha ben  avvertito  il  Bitter  (v.  2.  pag.  393  trad.  frane),  che  un  princi- pio dello  stesso  Platone.  La  conoscenza  ^&r/V;tfa  d'un' Idea  sapponsecondo  i  principii  della  dialettica  platonica,  la  conoscenza  di  tutto il  mondo  ideale.  Infatti  quest'  Idea  deve  essere  dedotta  dall'  Idea suprema,  passando  gradatamente  per  tutte  le  Idee  intermediarie. Di  piii  questo  processo  discensivo  del  metodo  dialettico  ha  bisogno di  essere  preceduto  da  un  altro  processo  ascensivOf  per  la  sooverta delle  Idee  di  pid  in  piìi  generali,  a  cui  l'Idea  di  cui  si  tratta  è  su- bordinata. (V.  Plat.  Rep.  1.  VI.  510  b-511  e,  e  cfr.  e.  VII.  §  12,  19  e 20).  Cosi,  siccome  questa  scoverta  d'un' Idea  generale  è  tirata  dalla conoscenza  di  tutte  le  Idee  particolari  che  le  sono  subordinate» perchè  non  è  che  la  generalizzazione  di  tutte  queste  Idee,  ne  se- gue che  l'ascensione  all'Idea  pid  generale,  e  per  oonseguenza  an-    — sìppo  ha  ammesso  il  metodo  dialettico,  s'egli  ha  t-ìcono- sciuto  inoltre  Tesisteoza  dì  entità  universali;  come  cre- dere che,  dopo  aver  accettato  tutti  i  presupposti  del- l'idealismo platonico,  dopo  essersi  addossate  tutte  le  gravi difficoltà  del  sistema,  che  sono  le  inconcepibilità  della realtà  dpgli  universali  e  Timpossibilità  di  applicare  ef- fettivamente il  metodo  dialettico  come  metodo  dimostra- tivo, abbia  rinunziato  a  fare  un'applicazione  coerente  dei principii,  che  sola  poteva  dare  al  sistema  un  valore  fi- losofico ? A  ciò  dobbiamo  aggiungere  che,  senza  la  supposizione che  Spensippo  ammetteva  anche  le  Idee,  non  si  com- prenderebbe una  particolarità  del  suo  sistema,  su  cui tanto  insiste  Aristotile,  cioè  Tinutilità  dei  numeri  e,  in generale,  delle  entità  matematiche,  alle  cose.  Questa  inu- tilità non  è  un  semplice  apprezzamento  d'Aristotile,  come p.  e.  quella  delle  Idee  di  Platone vale  a  dire  le  en- tità matematiche  di  Spensippo  non  sono  inutili  nel  senso che  il  valore  loro  assegnato  nella  spiegazione  delle  cose è  chimerico;  ma  essa  risulta  evidentemente  dalle  pro- posizioni stesse  dell'autore  (sì  notino  sovratutto  le  parole della  Mei.  1.  XIV.  II.  16,  1.  e:  Né  quegli  stesso  che  lo ammette  dice  che  esso,  cioè  il  numero  matematico,  sia causa  di  alcuna  cosa).  Se  Spensippo  ammette  le  Idee, noi  comprendiamo  perfettamente  come  il  suo  numero  non ohe  la  diaoensione  da  essa  a  un'altra  Idea  qualunque,  cioè  una definizione  di  quest'Idea,  ottenuta  col  metodo  di  divisione  prati- cato in  tutto  il  suo  rigore,  richiede  necessariamente  ohe  tutte  le altre  Idee  siano  conosciute.  Se  Spensippo  avesse  rigettato  la  defi- nizione, certamente  egli  non  avrebbe  fatta  la  collezione  di  quelle di  Platone;  e  del  resto  essa  è  implicitamente  ammessa  nella  sua proposizione  riferita  da  Simplicio  a  ì  Ariat,  Categ.  oA,  fol.  2  (Mul- laoh  Fr,  Speus.)  :  si  dicono  omonime  le  cose  di  oui  il  nome è  eomune,  ma  la  definizione  è  diversa. sia  causa  di  niente,  come,  in  generale,  le  sue  entità matematiche  non  giovino  in  niente  alle  cose,  e  perchè queste  esisterebbero,  anche  se  esse  non  esistessero: è  che  ammesse  le  Idee,  cioè  le  Idee  degli  esseri  reali, questi  si  trovano  completamente  spiegati,  e  ogni  altra entità  è  superflua  (se  i  platonici  ammettevano  anche  le entità  matematiche,  era  perchè  la  coerenza  del  sistema delle  Idee  esigeva  che  tutti  gli  universali  fossero  sostan- tificati).  Ma  se  1«  sole  entità  ammesse  da  Spensippo  sono le  matematiche  —  sia  qhe  faccia  loro  rappresentare  le sole  determinazioni  matematiche,  sia  che  vi  riconduca anche  le  altre  determinazioni  delle  cose  — che  scopo  e che  motivo  potrebbe  avere  per  lui  tale  ipotesi,  poiché essa  non  è  fatta  servire  alla  spiegazione  del  reale? Queste  prove  intrinseche  sono  fiancheggiate  da  altre prove  estrinseche.  Vi  ha  prima  di  tutto  l'inverosimiglianza che  quello  tra  i  discepoli  di  Platone,  a  cui  doveva  pre- mere più  che  ad  ogni  altro  la  gloria  del  maestro,  desi- gnato senza  dubbio  dallo  stesso  Platone  a  succedergli nell'insegnamento,  ed  egli  stesso  designante  a  suo successore  un  altro  partigiano  delle  Idee  (Xenocrate), abbia  rigettato  la  dottrina  fondamentale  della  filosofìa platonica,  e  che  costituisce  il  carattere  e  il  punto  di connessione  della  scuola.  Poi,  la   testimonianza  di  Dio-  Met.  1.  XIV.  lì.  16. (2)  Met.  1,  Xn.  X.  U  e  1.  XIV.  lU.  8. Met.  1.  XIV.  m.  8. (4)  Bitter.  Storia  della  fllos,  ant.  t.  2.   trad.  frano,  pag.   391-392: •  Noi  siamo  ora  in  un  tempo in  cui  la  carica   del   professorato sembra  essere  stata  trasmessa  dai  primi  maestri  ai  seguenti  (Diog. L.  IV.  8);  e  la  continuazione  della  scuola  accademica  tiene  verisi- milmente  alla  poisesiione  del  giardino  deU'  acca  lemia  che  aveva già  posieduto  Platone  (Plut.  De  e.cil.  10),, -  J60  - jprene  Laerzio  (ì)  e  di  Cicerone  (2),  che  affermano  che Speusippo  è  rimasto  fedele  alle  dottrine  del  maestro  ; Tindicazione  di  Stobeo  (3)  ch'egli  ha  posto  la  natura dell'anima  èv  lòéq.  xoO  ttocvcyj  JiaaxaxoQ  (potrebbe  obbiettarsi che  qui  il  termine  lòéoL  non  va  preso  necessariamente  nel senso  tecnico  della  filosofìa  platonica;  ma  è  questo  il senso  che  esso  ha  nella  definizione  dell'anima  di  Posi- donio  (4),  la  quale,  nella  parte  che  c'interessa,  è  certa- mente imprestata  a  Speusippo);  l'informazione  di  Ascle- pio ch'egli  ha  ammesso  una  sostanza  distinta  per  tutti  i s'mili  (5)  (ciò  vuol  dire  che  di  tutto  ciò  che  é  uno  nei  molti ha  fatto  im'entità  distinta);  quella  stessa  inesatta  d'  al- cuni commentatori  d'Aristotile  (6)  che  gli  attribuiscono come  a  Xenocrate  la  dottrina  d'un  solo  numero,  al  tempo stesso  ideale  e  matematico  (essa  si  spiega  per  Taffìnità di  questa  dottrina  con  quella  reale  di  Speusippo,  perchè, come  diremo  in  seguito,  i  Numeri  matemateci  contene- vano le  Idee  delle  cose,  come  i  generi  le  specie).  Ag- giungiamo infine  che  le  affermazioni  d'Aristotile  si  mo- strano incerte  ei  anche  contraddittorie,  poiché  al  tempo stesso  che  attribuisce  a  Speusippo  di  rigettare  le  Idee, gli  attribuisce  pure  di  ammettere  che  le  Idee  non  sono (1)  IV,  2. (2)  Aca-f.  1.  9. (B)  Ad    l.  I.  o.  52. (4>  V.  Plut.  Psicog.  XXII. Anche  Speusippo  disse  esservi  molte  sostanze  :  altra  disse essere  delle  grandezze,  e  altra  dei  nameri,  e  in  tutti  i  simili,  e  an- cora altra  la  sostanza  della  mente,  e  altra  dell'anima,  e  altra  del punto,  e  altra  della  linea,  e  altra  della  superfìcie  «.  Schei.  Arist. pag.  740.  a.  ed.  Brandis. (6)  V.  Siriano  ad  Met.  1.  XIU.  Vili.  8,  Filopono  allo  stesso  luogo, Scholia  in  Aristotelem  pag.  820  A  ed.  Brandis  (in  MuUach  Fragm^ phil.  graee.). nùmeri,  proposizione  che  implica  evidentemente  ch'egli ammettesse  le  Idee. Un  error»,  d'Aristotile  nell'i Qtepretaziooe  di  questo punto  del  sistema  di  Speusippo  non  sembriirà  tanto  strano, se  si  riflette  alla  d  ftìcoltà  che  vi  ha,  tutte  le  volte  in cui  è  quistione  degli  univ^ersali  o  altre  astrazioni  dei  me- tafisici, a  comprendere  se  un  filosofo  dà  loro  un'esistenza reale  o  semplicemente  logica.  È  un  fatto  di  cui  lo  stesso Aristotile  può  fornirci  un  esempio.  Certamente,  per  lui, la  forma  e  la  materia  non  sono  distinte  che  logicamente; eppure  quant»,  senza  contare  gli  oppositori  del  Rinasci- mento, che  rendevano  Aristotile  responsabile  dpgli  errori degli  scolastici,  non  l'hanno  inteso  come  se  egli  ammet- tesse tra  di  esse  una  distinzione  reale,  e  le  riguardasse come  vere  sostanze,  nel  senso  che  noi  diamo  a  questo termine?  (2).  Viceversa  alcuni  fra  i  p*ù  francamente  rea- listi degli  scolastici  sono  stati  compresi  talvolta  come se  il  loro  realismo  si  riducesse,  in  sostanza^  a  questa  pro- posizione, a  cui  niun  nominalista  contradirebbe,  che  i generi  e  le  specie  non  sono  semplici  concezioni  del  no- stro spirito,  ma  hanno  un  fondamento  nella  natura,  coft nelle  affinità  reali  degli  esseri  (3).  E  passando  ai  filosofi (1)  Met,  1.  Xlll.  VI.  8:  •  Quelli  che  non  fanno  le  Idee  numeri, né  esservi  dicono  le  Idee,.  Met,  1.  Xlll.  Vili.  5:  •  Quelli  che  non credono  esservile  Idee,  né  assolutamente  né  come  essenti  certi  nu- meri ».  Met.  1.  XIV.  II.  16  :  •*  Per  quello  che  cosi  non  crede,  perchè vede  le  difficoltà  circa  le  Idee,  sicché  perciò  non  le  fa  numeri,  ma  fa il  numero  matematico  „. (2)  V.  e.  VII.  pag.  é6.   V.  p.  e.  su  Duns -Scoto  Jourdiin  Filos.  di  S.  Tomm.  1.  11. e.  11.  Dum.  HI.  (cfr.,  per  il  senso  che  quest'autore  dà  alla  parola realismo,  principalmente  1.  1.  sez.  3.  e.  111.  in  principio  e  num.  1,  e 1.  III.  e.  IV,  num.  1),  e  Conti  Storia  della  fllos,  voi.  2.  pag.  127  (cfr. p.  50-63  e  90)  —  Alcuni  anche  (come  il  Weber,  Stor,  della  fdos.  europ. -  261  - .{ 1 il moderni,  uno  dei  migliori  storici  della  filosofia,   il  Rit- ter  (1),  non  dà  espressamente  Spinoza  per  un  nominali- sta? E  quanti  tra  i  lettori  di  Taine  hanno  compreso  che questi  è  un  filosofo   realista  (alla   scolastica)?  Il  malin- teso  d'Aristotile  si  spiegherebbe,  in   ultima  analisi,  per le  stesse  ragioni  che  la  sua  preferenza  per  l'interpreta- zione trascendentalista  delle  Idee  di  Platone.  È  impossi- bile, come  abbiamo  osservato,  di  formarsi  una  rappresen- tazione qualsiasi  di  entità  sussistenti  per  sé  stesse  quali le  Idee  platoniche,    altrimenti  che   come  separate   dagli oggetti  reali.  Per  conseguenza,  se  noi  ammettiamo  che Speusippo,  ammaestrato  dairesperienza  della  falsa  inter- pretazione che  si  dava,  da  Aristotile  e  da  altri,  del  si- stema del  maestro,  abbia  energicamente  insistito  suirim- manenza  delle  specie  nelle  cose;  noi  comprenderemo  fa- cilmente come  Aristotile,  per  la  stessa  ragione  per  cui, dalla  evidente  sussistenza   per  se   stesse  delle   specie  d'i Platone,  concludeva  che  esse  erano  trascendenti,   abbia potuto  concludere,  dall'evidente  immanenza  delle  specie di  Speusippo,  che  esse  non  erano  sussistenti  per  se  stesse. Ciò  che  parrà  più  difficile  a  comprendere  è  l'interpreta- zione, malgrado  ciò,  degli  oggetti  matematici  come  en- tità reali  (separate,    naturalmente,  dalle  cose)  :  ma,  per la  novità  della  dottrina,  Speusippo  doveva  insìstere  sul- VanterioHtà  di  questi  oggetti  sulle  cose  reali,  non  meno che  sull'immanenza  delle  specie.  Ora   V  anteriorità,  nel senso  platonico,  importa  evidentemente  un'esistenza  del- l'anteriore  distinta  e  indipende  ite  da   quella  del  poste- riore. §.  40  e  41)  daano  Dans-Sooto  per  un  oonoettuaUita  o  un  semi-no- minaiiflta. (1)  V.  Stor,  della  fidos.  mod,  t.  1.  trad.  frano,  pag.  207. Vi  ha  un  altf-0  punto,  nella  filosofia   di  Speusippo, su  cui  l'impressione  che  risulta  dall'esposizione  d'Aristo- tile, ha  bisogno  di  essere  rettificata,  o  almeno  comple- tata :  è  la  relazione  tra  i  numeri  e  lo  cose.  Noi  abbiamo dimostrato,    fondandoci  su  Aristotile,  che  i    numeri  di Speusippo  non  sono,  come  i  numeri  matematici    di  Pla- tone, che  i  concetti— i  nostri  concetti—  dei  numeri,  rea- lizzati :  ma  ciò  non  toglie  che  la  teoria  dei  numeri  abbia in  Speusippo,  come  negli  altri  platonici,  un    carattere pitagorico.  In    questi  concetti   realizzati,  come  in    tutgli  altri  della  metafisica  platonica   e  come  nei   semplici concetti  di  cui  parlano    i  logici,  bisogna    distinguere  la comprensione  e  Vesiensione  :  ì  numeri  di  Speusippo  rap- presentano le  semplici  determinazioni  aritmetiche    delle co«e,  consid.  rati  nella  loro  compren.v/one;  ma  considerati nella  loro  estensione,  rappresentano  le  cose  stesse,  perchè sono  gli  Universali  supremi,  in  cui  queste  sono   conte- nute.   Ciò    risulta  già  dair  anteriorità  dei  numeri  sulle grandezze  e  le  cose.  In  effetto  V anteriorità  e  posteriorità, nel  senso  platonico,  non  importa   solamente  che    il  con- cetto deiranteriore  è  una  parte  di  quello  del  posteriore, ma  ancora    che  il  posteriore  è  contenuto   nell'  anteriore come  in  un  genere.  E  che  anche  in  Speusippo  il  rapporto di    anteriorità    e  posteriorità  debba    essere   inteso    nello stesso  senso,  è  confermato  da  un'obbiezione  che  Aristotile fa  alla  sua  dottrina  sulla  materia  delle  grandezze,  eoe  che se  vi  ha  una  materia  distinta  per  ciascuna  classe  di  grandezze -- linee, superficie  e  solidi— e  queste  materie  si  se- guono, vale  a  dire  stanno  fra  di  loro  nel  rapporto  di  an- teriorità e  posteriorità,  allora  la  superficie  sarà  una  linea e  il  solido  una  superficie  (i).  Lo  stesso  risulta  pure  dalle (1)  M9L  1.  xui.  IX.  6. —  262  ^ indicazioni  che  attribuiscono  ai  nùmeri  Una  causalità  sulle cose.  Aristotile dice  di  Speusippo,  come  degli  altri  plato- nici, ch'egli  fa  dei  numeri  le  carne  prime  degli  esseri  i2);  e noi  sappiamo  da  Jamblico  (3)  ch'egli  ha  chiamato  la  de- cade il  più  efficace  e  perfezioninte  (^ooixwxdxriv  xal  xsXe- oxixoDTocxrjv)  degli  esseri,  e  una  forma  per  se  stessa  autrice degli  effetti  del  inori Jo  (x(3v  y,oa\iM(.&^  ànoxsXsoiiocxwv  xsxvtxóv). La  causalità  d^lle  entità  platoniche  sta  nella  derivazione dei  particolari  dal  generale    a  cui  sono    subordinati  :  le Idee  sono  le  caus»^  delle  cose,  e  le  Idee  generiche  delle Idee  specifiche;  è  nello  stesso  senso  che  i  numeri  possono essere  cause.  Infine,  questa  superordinazione  dei  numeri alle  cose  come  generi  in  cui    queste  sono    contenute,  è U'ia  conseguenza   della  loro  esemplarità.    Secondo  Jam- blico,  Speusippo  ha  anche  chiamato  la  decade  il  pa- radigma più  perfetto  (xq)    xoO  navxò?  itotrjx^  06(5    è  evi- dentemente un'addizione  di  Jamblico);  e  secondo  Aristo- tile (5),  il  punto,  per  lui,  non  è  V  unità  stessa,    ma  è quale  Tunità,  e  la  materia  delle  grandezze  (cioè  lo  spazio) non  è  la  pluralità  stessa    (la  materia  dei  numeri),  ma  è quale  la  pluralità.  Ciò  che  nel  platonismo  è  riguardato come  paradigma,  è  il  generale  nel  suo  rapporto  al  par- ticolare :  le  Specie  sono  i  paradigmi  delle  cose,  e  i  Ge- (1)  Mei.  1.  Xm.  VI. Questo  luogo  sembra  in  contraddizione  con  gli  altri  già  ci- tati, in  cui  si  nega  ohe  i  numeri  di  Speusippo  siano  cause  degU Altri  esseri.  Essi  si  conciliano,  ammettendo,  come  abbiamo  fatto, cke  quando  nega  ai  numeri  di  Speusippo  la  causalità  sulle  altre cote,  Aristotile  vuol  dire  che  nel  suo  sistema  le  altre  cose  non  si deducono  dai  numeri,  come  avviene  in  quello  di  Platone.  Ofr.  ciò che  diremo  sulla  fine  di  q mesto  numero. V.  TheoU  arithm.  pag.  61  ed.  Ast. Mei,  1.  XUl.  IX.  S. neri  delle  Specie;  cosi  è  in  questo  rapporto  che  i  numeri di   Speusippo  devono   essere  con  le   graniezzo  e  con  le cose. Ma,  i  numeri  essendo,  per  Speusippo,  i  generi  delle cose,  ne  segue  che  anche  per  lui  le  cose  sono,  in  un certo  modo,  dei  numeri.  Questa  deduzione,  infatti,  è confermata  da  un  luogo  di  Teofrasto  (1),  in  cui  Speu- sippo è  compreso  tra  i  platonici  che  fanno  risultare  le cose  dai  numeri  e  dai  loro  elementi.  E  una  conferma ancora  più  esplicita  si  trova  in  Jamblico  (2).  Questi  c'in- forma che  Speusippo  assegnava  alle  cose  particolari  dei numeri  distinti,  come  i  Pitagorici  e  Platone:  Tuno  era il  punto,  il  due  la  linea,  il  tre  il  triangolo  e  il  numero della  superficie,  il  quattro  la  piramide  e  il  numero del  solido.  Evidentemente  noi  dobbiamo  distinguere  tra questi  numeri  -  cose  e  i  numeri  matematici.  I  numeri matematici  sono  i  numeri  in  se  stessi,  le  cose  sono  nu- meri per  la  partecipazione  dei  numeri  in  se  stessi,  poi- ché, secondo  i  principii  della  filosofìa  platonica,  le  cose ricevono  la  loro  essenza  e  la  loro  denominazione  dalle  Idee, cioè  dalle  entità  universali,  a  cui  partecipano. Questa  distinzione  tra  i  numeri  matematici  e  i  nu- meri-cose corrisponde  in  certo  modo  alla  distinzione abituale  tra  i  numeri  astratti  e  i  numeri  concreti  :  n  o potremmo  per  conseguenza  servirci  di  questi  stessi  ter- mini per  indicare  le  due  sorta  di  numeri  di  Speusippo. I  numeri  astratti  sono  i  numeri  matematici;  le  cose  sono questi  numeri,  concretizzati,  h'esst^jte  ai  sviluppa  secondo Speusippo,  noi  lo  sappiamo,  procedendo  dall'astratto  al concreto  :  esso  è  prima  numero,  poi  diviene  grandezza, i .  '1 (1)  Met.  Fy,  12. (2)  Theol,  arithm,,  ibid. S6S  - i   1 ir lì- infine  cosa.  Sicché  gli   esseri   particolari   possono  consi- derarsi sotto  tre  aspetti,  secondo  il  grado  di  determina- tezza dei  loro  concetti.  Ciascun  essere,  a  nn  primo  grado del  suo  sviluppo  logico,  è  un  numero  matematico,  e  per con'^eguenza,  considerato   a  questo  grado  di  determina- tezza del  suo  concetto, è  un  numero;  al  secondo  grado del  suo  sviluppo  logico    é  una  grandezza  geometrica,  e per  conseguenza,  considerato  al  grado  corrispondente  dì determina  te  ijza  del  suo  concetto,    è  una  grandezza  ;  al- Tuliimo  grado  del  suo  sviluppo  logico  e  considerato  nel suo  concetto  completamente  determinato,è,  infine,  una  cosa. Le  grandezze  geometriche  sono  i  numeri  a  un  primo  grado di  concretizzazione,  cioè  con  nuove  determinazioni  che  man- cano ai  nameri  astraiti;  questi  stessi  numeri,  a  un  grado ulteriore   di   concretizzazione  j  cioè    arricchiti   ancora  di altre  determinazioni,  sono  le  cose.  Il  rapporto  tra  i  numeri—cose e  i  numeri  astratti,  cioè  matematici,    è  dun- que identico,  in  sostanza,  a  quello  tra  i  Generi  e  le  Specie, p.  e.  tra l’Animale  e l’Uomo:  le  cose  non   sono  i numeri  in  se  stessi,  come.Tuomo  non  è  Tanimaìe  in  se stesso,  r  animale  astratto  ;  ma  esse  sono  numeri,  come l'uomo  è  animale. Evidentem'^nte  secondo  Speusippo,  come  le  cose,  an- che le  Idee  delle  cose  devono  essere  numeri  (Ij .  In  ef- fetto, assegnando  le  cose  ai  diversi  numeri,  egli  deve prenderle  per  classi;  vale  a  dire  tutte  le  cose  d'una  stessa classe  devono  essere  per  lui  rappresentato  danno  stesso numero  (cosi  l'uno  non  è  solamente  questo  punto,  ma  il I X punto  in  generale;  il  due,  solamente  qu»  sia  linea,  ma  la iìoea  in  generale.  Ora  siccome  le  proposizioni  che  hanno per  soggetto  tutta  una  classe,  secondo  i  principii  della filosofia  platonica,  si  riferiscono  propriamente  all'  Idea, ne  segue  che  il  numero  assegnato  ad  una  classe  non  è che  il  numero  dell'Idea  corrispondente  a  questa  classe. Ne  segue  ancora  che  i  numeri  matematci  devono  essere anteriori,  non  solo  alle  cose  stess*»,  ma  anche   alle  Idee delle  cose.  Se  infatti  si  dice  d'una  certa  classe,  p.  e.  l'uo- mo, l'animale,  ecc.,  ch'essa  è  no  certo  numero,  p   e.  il quattro,  ciò  vuol  dire  che  il    numero  matematico   corri- spondente è  un  elemento  astratto  comune  a  tutti  gì'  in- dividui   della    classe.   Ma    tutto    ciò    che    è    comune    a tutti  gl'individui  della  classe  è  compreso  nell'Idea  del'a classe  (p.  e.  l'Uomo  o  l'Animale  in  sé   comprende  tutte le  note  comuni  a  tutti  gli  uomini  o  a  tutti  gli  animali);  per conseguenza  questo  numero  matematico  o  deve  essere  la stessa  cosa  che  quest'Idea— ciò  che  è  impossibile,  perchè i  numeri  in  sé  di  Speusippo  diflPeriscono  da  quelli  di  Pla- tone in  quanto  non  s' identificano  con  le  Idee  o  deve essere  un  che  di  più  astratto  che  quest'Idea  e  contenuto  in essa,  cioè  nella  sua  comprensione.  Quest'anteriorità   dei numeri  matematici  sulle  Idee,  o  meglio  sulle  Idee  delle co5e— poiché  i  Numeri  e  le  Grandezze  in  sé  sono  anch'^ essi  in  sostanza  delle  Idee— è  del  resto  compresa  impli- citamente nelle  proposizioni  di  Speusippo   che  i  numeri sono  i  primi  di  tutti  gli  esseri  (1),  ch'essi  sono  le  cause prime  degli  esseri  (2),  e  che  il  primo  numero  è  il  mate- > (1)  Nella  proposizione,  venente  probabilmente  dallo  stesso  Speu- sippo, ohe  le  Idee  non  sono  numeri  (in  Arist.  Met.  1.  XUl.  Vi.  8, 1.  XUl.  Vili.  5,  1.  XIV.  11.  16,  1.  e),  per  numeri  deve  intendersi  i numeri  in  se  stessi,  cioè  i  matematici. (1)  Arist.  Mit,  1.  Xlll.  VI.  C,  1.  Xm.  ViU.  5,  l.  XIV.  V.  3. (2)  Met.  1.  xm.  VI.  1.  k5 matico.  Inoltre  essa  può  desumersi  dairanalogìa  del rapporto  tra  i  numeri,  matematici  e  le  grandezze  in  se stesse,  cioè  le  Idee  delle  grandezza;  essendo  evidente, quando  Ari  totile  parla  deiranteriorità  dei  numeri  sulle grandezze,  che  per  queste  grandezze  intende,  non  le particolari,  i  fenomeni,  ma  le  generali,  le  entità. Il  s^'stema  di   Speusippo  consiste   essenzialmente    in una  nuova  relazione  stabilita  fra  i  numeri  ideali  —  cioè con  cui  le  Idee  e  le  cose  sMdentificano— e  i  numeri  ma- tematici. Per  distinguere  i  numeri-cose  dai  numeri  del- l'aritmetica Platone  aveva  ricorso  al  concotto  arbitrario che  il  numero  in  se  stesso  differisce    dal  numero  di  cui parlano  i   matematici,  e  a    quello  non  meno   arbitrario che  le  entità  matematiche  sono  intermediarie  fra  le  Idee e  i  sensibili.  Xenocrate,  per  evitare  questi  due  inconve- nienti, i^bolisce  la  distinzione  tra  i  due  numeri,  lasciando cosi  intatto    il  paradosso   pitagorico    che   identificava  i concetti  del'e  cose  coi  concetti  stessi  dei  numeri,  quelli di  cui  è  quistione  neiraritmetica.    Speusippo    distingue, come  Platone,  i  numeri  cose,  i  numeri  ideali,  da  quelli deir  aritmetica  ;  ma   facendo  il  contrario    di  quello  che aveva  fatto  Platone,  dichiara  anteriore  il  numero  mate- matico, e  r  ideale  posteriore.    La  dottrina  di   Speusippo ha  due  vantaggi  su  quella  di  Platone  :  il  primo  di  rico- noscere che  il  numero  in  se  stesso,  cioè  nel  suo  concetto, non  può  essere  che  quello  dei    matematici;    e  l'altro  di dare  Tanteriorità  tra  i  due  numeri  a  quello  che  è  real- mente più  astratto,  essendo  deirultima  evidenza  che  gli attributi   aritmetici  delle   cose  sono  meno    comprensivi, hanno  meno  determinazioni,  che  le  loro  essenze  stesse, cioè  le  totalità  dei  loro  attributi.  Del  resto,  per^questa modificazione  apportata  al  pitagorismo  platonico,  Speu- sippo trovava  un  addentellato  nella  dottrina  stessa  del suo  maestro.  Come  infatti,  nel  sistema  di  Platone,  uno stesso  numero  poteva  essere  al  tempo  stesso  più  entità distinte?  (inconveniente  che  Aristotile  rimprovera  pure alla  dottrina  dei  pitagorici).  Se  il  numero  era  comune  a tutte,  non  doveva  essere,  per  conseguenza,  separabile da  loro  e  loro  anteriore?  Ben  più,  Speusippo  non  faceva altro  che  spingersi  più  avanti  nella  stessa  via  per  cui si  era  messo  Platone.  Questi  si  era  allontanato  dalla pura  dottrina  pitagorica,  vedendo  nei  numeri,  non  le  cose slesse,  ma  le  sole  forme  delle  cose;  Speusippo,  non  le forme,  ma  alcun  che  di  più  astratto  ancora,  di  meno comprensivo.      • Vediamo  ora  le  altre  modificazioni  che  Speusippo  ap- portava al  pitagorismo  platonico,  in  conseguenza  della nuova  relazione,  da  lui  stabilita,  dei  numeri  con  le  Idee e  le  cose.  Cominciamo  dai  caratteri  dei  numeri  in  sé. Primo,  i  numeri  in  sé  di  Speusippo  sono  combinabili  (4), perchè  questo  è  il  carattere  dei  numeri  matematici.  Se- condo, Speusippo  abbandona  la  generazione  progressiva dei  numeri  gli  uni  dagli  altri  (2j,  perchè  questa  rappre- Met.  1.  Xll.  X.  14  —Il  numero  matem  fttico  è  chiamato  il  pri- mo numero,  in  rapporto  ai  numeri  o»n  cui  s'  identificano  le  Idee e  le  cose,  ai  numeri  contréti. V.  Arist.  Met.  1.  Xlll.  VUl.  6-7. (2)  V.  VI  Met,  ì.  XIV.  III.  8,  in  cui  Aristotile  rimprovera  a  quelli ohe  ammettono  le  sole  entità  matematiche,  ohe  per  loro,  non  solo fra  le  diverse  classi  di  esseri  da  loro  ammessi,  ma  anche  fra  gli  stessi numeri  matematici  (^6pi  ToO  àpL0|ioO  Tcavióg),  V  anteriore  non giova  per  niente  al  posteriore  (contrariamente  a  quello  che  av- veniva nel  sistema  di  Platone).  Qui  le  parole  anteriore  e  poste- riore hanno  al  tempo  stesso  un  doppio  significato  come  nel- VEtlu  Eud.  l.  l.  Vili.  9-10,  secondo  che  si  applicano  a  Speusippo  o  - r I*'' h seutava  il  movimento  dialettico  delle  Idee,  la  derivazione delle  più  particolari  dalle  più  generali,  e  i  numeri  in  sé per  Speusippo  non  s'identificano  più  coi  Generi  e  le  Spe- cie df  He  cose.  Terzo  iotìne,  nei  numeri  matematici  di Speusippo  non  ve  ne  hanno  molti  della  stessa  specie, come  in  quelli  di  Platone  (1),  perchè  questa  particolarità della  dottrina  platonica  era  legata  al  posto,  assegnato alle  entità  matematiche,  d'intermediarie  tra  le  Specie  e le  cose. I  due  elementi  di  Speusippo  sono  TUnità  e  la  Plura- lità (2).  Egli  non  riduce  più  l'elemento  contrario  all'Uno alla  Duatità  indefinita,  perchè  lo  scopo  di  questa  dottrina di  Platone    era  sovratutto   di  effettuare   la   generazione a  Platone  (alla  cui  {lottrina  sai  numeri  viene  implicitamente  <»p- poata  quella  di  Speusippo).  Applicate  a  Platone'  hanno  il  signifi- cato tecnico  che  loro  si  dà  nella  dialettica  platonica;  applicale  a Speusippo,  non  possono  significare  che  l'ordine  dei  termini  di  una serie  progressiva  qualunque,  qual  è  quella  dei  numeri  matematici. Arist.  (Atet.  1.  XIU.  Vili.  5-7)  rimprovera  a  Speusippo  di  non distinguere,  come  Platone,  una  prima  diade,  una  prima  triade,  ecc. danna  parte,  e  dall'altra  molte  diadi,  molte  triadi,  eco.  Dunque Speusippo  o  ha  ammesso  solamente  una  diade  unica,  una  triade unica,  occ,  o  solamente  molte  diadi,  molte  triadi,  ecc.  (senza  su- bordinarle a  un'altra  diade,  a  un'altra  triade,  ecc.  anteriori)  Ora la  seconda  ipotesi  è  inammissibile,  perchè,  secondo  i  principii  di tutta  la  scuola  platonica,  ogni  inoltiplicità  suppone  un'  unità  su- periore, a  cui  deve  essere  ricondotta* (2)  V.  Metaf.  1.  XIV.  IV,  in  cui  non  si  fa  il  nome  di  Speusippo, ma  si  parla  di  quei  iìl  )soti  che  non  identificano  l'uno  col  bene  e fanno  questo  posteriore  a  quello,  opinione  che,  come  sappiamo  dal 1.  Xll.  VII.  9,  è  quella  di  Speusippo  (e  che  del  resto,  nello  stesso 1.  XIV.  IV— V,  paragr.  5   è  legata  all'  altra,  certamente  pure  di Speusippo,  che  le  prime  sostanze  sono  i  numeri  matematici).  V.  an- che per  la  dottrina  che  stabilisce  come  elementi  l'Unità  e  la  Plu- ralità Met.  l.  Xll.  X.  2-3,  7,  l.  XIU.  VI.  5,  9,  l.  XIU.  IX.  7-10, 1.  XIV. 1.  1-0,  1.  XIV.  IV.  2^,  1,  XIV.  V.  3-5,  ecc. progressiva  del  numeri  (1)  che  Speusippo  ha  abbando- nata. L'Unità  naturalmente  è  l'essenza  (ossia  la  forma), la  Pluralità  la  materia  (2).  Speusippo  identifica  senza dubbio,  ad  imitazione  di  Platone,  la  prima  ai  limite  o /imitato  e  la  seconda  ^Willimiiato,  Aristotile  riguarda PUnità  e  la  Pluralità  ora  con^e  principii  dei  soli  numeri matematici  (3),  ora  come  principii  di  tutti  gli  esseri  (4). Di  queste  due  versioni  noi  dobbiamo  ammf'ttere  la  se- conda, tanto  perchè  la  dottrina  dei  due  elementi,  nella scuola  platonica,  ha  per  ìscopo  di  fondere  11  sistema  delle Idee  con  le  dottrime  pitagoriche,  e  i  due  elementi  dei  pi- tagorici erano  gli  elementi  di  tutte  le  cose;  quanto  per- chè l'unità  di  sistema,  che  è  una  delle  coudizioni  delle dottrine  metafisiche  fondate  sulla  realizzazione  dei  con- cetti e  sulla  dialettica  (cioè  sulla  deduzione  progressiva di  questi  concetti  realizzati  gli  uni  dagli  jltri),  esigeva che  Speusippo  deducesse  tutte  le  sue  entità  da  un  prin- cipio unico  come  sldog  comune  di  tutte  (il  principio  con- trario essendo  considerato  come  la  materia).  Le  propo- sizioni d'Aristotile  che  si  trovano  in  contraddizione  con la  versione  che  noi  accettiamo   tra  cui  la  principale  è quella  che  Speusippo  stabiliva  dei  principii  distinti  per  cia- scuna delle  diverse  classi  di  sostanze  da  lui  ammesse  (5)  — non  sono  difficili  a  spiegarsi.  Evidentemente  1'  Unità e  la  Pluralità,  quantunque  loro  venga  data  la  funzione di  elementi    comuni    di  tutti  gli  esseri,  sono    particolar- (1)  V.  questo  Supplem.  carta  167. (2)  V.  Mei,  1.  Xll.  X.  3,  1.  Xlll.  VI.  5,  1.  XIV.  l.  3. (3)  V.  Mei,  1.  VII.  11.  4,  1.  XU.  X.  le,  1.  XIU.  Vili.    5,  1.  Xlll.  IX. 6-12,  eco. (4)  V.  Met.  l.  Xll.  X.  2-3,  7,  1.  XU.  VH.  9,  l.  XUl.  VI.  5,  9,  l.  XIV. V.  1,  evo. (5;  V.  .V«f.  1.  va.  U.  4,  e  l.  XU.  X.  14,  1.  e.  a  carta  255. mente  adattate  a  quella  di  elementi  dei  numeri;  e  in  ef- fetto, gli  elementi  di  tutti  gli  esseri  essendo  delle  entità d'  una  universalità  assoluta,  e  i  numeri  matematici  es- sendo, tra  gli  esseri,  i  più  astratti  e  che  abbracciano  tutti gli  altri  nella  loro  estensione,  ne  seguiva  che  questi  ele- menti non  potevano  essere  altra  cosa  che  gli  Universali supremi  dei  numeri  matematici.  Ma  Aristotile  considera i  numeri  matematici  di  Speusippo  come  trascendenti, cioè  come  separati  (1);  per  conseguenza  la  parusia  del- rUnità  e  della  Pluralità  in  questi  numeri  non  importa, per  Ini,  come  per  Speu'^ippo,  la  loro  parusia  in  tutti  gli altri  esseri.  Cohi  egli  nr  n  può  riconoscere  la  loro  fun- zione di  elementi  costitutivi,  cioè  d'ingredienti,  degli  es- seri, che  nella  sfera  dei  numeri  matematici.  Da  un  altro canto egli  non tiene  alcun  conto  della  loro  causalità  sugl’altri  esseri,  perchè  questa,  che  non  è  altra  cosa  che il  legame  dialettico  tra  il  principio  e  le  cose  dedotte  dal principio,  è  una  sorta  di  causalità  che  non  può  ricon- dursi ad  aicuna  delle  quattro  specie  di  cause  riconosciute da  Aristotile.  Così  egli  non  può  vedere  nell'  Unità  e  la Pluralità,  rispetto  agli  altri  esseri  oltre  i  numeri  matematici, il  carattere  di  principii,  in  nessuno  dei  sensi  di questo  termine.  Potrebbe  credersi  che  per  ragioni  ana- loghe Aristotile  dovrebbe  vedere  nell'  Uno  e  la  Dualità indefinita  di  Platone  i  principii  dei  soli  numeri  ideali  e non  dogli  altri  esseri.  Ma  vi  ha  fra  i  primi  numeri  di Platone  e  quelli  di  Speusippo  una  differenza  importante. I  primi  numeri  di  Platone  sono  identici  alle  Idee,  e la  dottrina  che  le  Idee  sono  le  cause  di  tutti  gli  esseri tiene  troppo  posto  nella  filosofia  platonica,  perchè  Ari- stotile potesse   non  tenerne    conto,  non   considerando   i Ili H il principii  di  queste  cause  come  principii  ancora  dei  loro effetti.  Al  contrario  i  numeri  di  Speusippo  appariscono cosi  poco  le  cause  delle  entità  posteriori,  che  queste,  co- me dice  Aristotile  (1),  esisterebbero,  anche  se  quelli  non esistessero  (proposizione  che  esprime  esattamente  la  dot- trina di  Speusippo,  come  vedremo  sulla  fine  di  questo numero).  Un'altra  differenza  che,  quantunque  abbia  in se  stessa  poca  importanza,  ne  acquista  molta  agli  occhi d'Aristotile,  è  il  modo  in  cui  nel  sistema  platonico  le grandezze  vengono  dedotte,  facendole  risultare  dai  nu- meri  e  dalla  materia.  Aristotile  (2)  mette  in  antitesi  que- sta dottrina  con  quella  di  Speusippo,  che  fa  la  natura sconnessa  come  una  cattiva  tragedia  (perchè,  come  ha detto  nel  numero  precedente,  le  cose  esisterebbero  non esistendo  le  entità  matematiche,  e  non  esistendo  i  nu- meri esiterebbero  le  grandezze).  La  derivazione  logica del  realismo  dialettico  non  ha  per  Aristotile  alcun  va- lore come  derivazione  reale  :  egli  dà  quindi  più  impor- tanza al  suo  simbolo  materiale,  che  la  esprime  come  la produzione  di  un  tutto  p^T  i  suoi  elementi,  e  vi  vede  il nesso  ontologico  fra  le  divierse  classi  di  entità,  che  non trova  nel  sistema  di  Speusippo. Non  vi  ha  dubbio  d'  altronde  che,  quando  Aristotile parla  di  principii  distinti  per  le  diverso  classi  di  sostanze ammesse  da  Speusippo,  questa  p a rol a prmctpu  non  abbia un  significato  differente  da  quello  tecnico  che  essa  e  il suo  sinonimo  elementi  hanno  nella  filosofia  platonica, vale  a  dire  di  concetti  (realizzati)  della  generalità  più elevata,  da  cui  tutti  prli  altri,  più  particolari  e  compresi sotto  di  essi,  sono  dedotti.  Cosi  per  i  principii  delle  gran- ii) V.  Met.  1.  Xm.  VI.  6  e  1.  XIV.  HI.  3-6. (1)  L.  XIV.  111.  8, (2)  Met.  1.  XIV.  Ul.  9. —  267  - dezze  Aristotile  intende  certamente  il  punto  e  lo  spazio con  cui,  come  vedremo  in  seguito,  Spensi ppò   costruiva Ja  grandezza  estesa—:  è  ciò  che  risulta  dalla  Meia fisica I.  XIII.  IX.  6-12,  dove  il  modo  in  cui  le  grandezze  ven- gono dal  punto  e  dallo  spazio  è  assimilato    a  quello  in cui  i  numeri    vengono  dall'unità    e  dalla  pluralità.' Ora evidentemente  il  punto  non  può  essere  considerato  come r  siSog  generale  delle  grandezze- Aristotile  ne  riguarda lo  spazio  come  la  materia.  In  quanto  poi  al  principio distinto  dell'anima,  di  cui  si  parla    nel  1.  VII.  11.  4,  per esso  non  può  intendersi  che  il  sustrato  iperfisico  dei  fe- nomeni psichici  ammesso    da  tutti  i  filosofi    animisti,  la parola  anima  designando  il  complesso  di  questi  fenomeni   secondo  il  senso,  affatto  naturalista,  che  questa  parola ha  nella  filosofia  dello  stesso  Aristotile— e  non  la  sostanza anima.    Sarebbe   infatti  incomprensibile    che    Speusippo Avess*^.  separato  Tanirna  dal  sistema  universale  degli  es- seri, rinunziando,  per  un'inconcepibile  eccezione,  a  coor- dinarne l'Idea  con  quelle  delle  altre  cose  sotto  un'  Idea più  generale  :  è  ciò  intanto  che  significherebbero   le  pa- role :  un  principio  distinto  dell'anima,  se  il  termine prm- cipio  dovesse  prendersi  nel  senso    tecnico  della   filosofia platonica  che  sopra  abbiamo  spiegato.  Del  resto,  si  vede ehiaramonte  dalle  allusioni  di  Aristotile,  che    fra  tutti  i principli  in    generale,  attribuiti    a  Speusippo   (nel  senso vago  in  cui  il  termine  è  impiegato  dallo  stesso  Aristotile), il  carattere  di  eleraenti  (nel  significato  platonico)  nen  ap- partiene che  all'Unità  e  alla  Pluralità  (1). Potrà  sembrare  strano  cho  Platone  chiami  i  due  Uni- versali supremi  elementi,  e  l'  uno  l'essenza  o  la  forma, l'altro  la  materia,  delle  Idee   e  delle  cose.    Questi  nomi ili' •  li' implicherebbero  che  queste  due  astrazioni,  le  più  povere di  contenuto  di  tutte  le  astrazioni  realizzate  della  meta- fisica platonica,  esauriscano,  nella  sua  totalità,  la  sostanza di  tutte  le  cose,  che  basti  il  loro    concorso  a  costituire, integralmente,  gli  esseri,  e  che  i  concetti  delle  cose  non constino    che  dei  loro    concetti.    Ma  noi    comprendiamo quest'apparente  paradosso,  mettendoci  al  punto  di  vista della  dialettica  platonica:    siccome  tutte  le    Idee  si  de- ducono dalle  due  Idee  più  jrenerali o  meglio,  dall'Idea più  generale,  perchè  l'elemento   materiale  non  è,  nella dialettica  platonica,  che  un  vero  principio,  per  dir  cosi, inerte  come  la  nostra  materia,  e  il  principio  attivo,  veramente produttore,    non  è  che  V  dòoc,  ;  così  tutto    è implicitamente  contenuto  in  queste  due  Idee,  e  l'univer- salità d'agli  esseri,  con  tutti  gli  attributi  che  li  costitui- scono, risulta  realmente,  in  un  certo  modo,    dalla  loro unione.  Naturalmente  quest'osservazione  deve  applicarsi anche  alla    dottrina  di    Speusippo  :    quando    Speusippo chiama  l'Unità  e  la  Pluralità  gli  elementi,  e  la  prima Yessenza,  l'altra  la  materia  (2),  degli  esseri,  ciò  suppone che  l'Unità  e  la  Pluralità  costituiscono,    per  lui,  la  so- stanza desrli  esseri,  che  questi  sono  implicitamente  con- tenuti in  quelle,  e,    per  conseguenza,  che  tut^^^e  le  Idee de^li  esseri    (Numeri, Grandezze e  Idee delle  cose)  si deducono  dall'Unità  e  la  Pluralità o  piuttosto  dalla  sola Unità,  perchè  la  Pluralità  è  la  materia,  e  il  vero  prin- cipio dialettico,  come  abbiamo  osservato,  non  è  che  l'el- 8oG— .Lo  stesso  risulta  dall'appellativo  dì  principii.  Ari- (1)  V.  J/e.M.xm.vn.  9,  X.  2-3,1.  xiv.  i.i-6,iv.2-6,v.i,  v.3-5 (1)  V.  per  il  nome  di  elementi  dato  all'Unità  o  alla  Pluralità,  i 1.  indicati  nella  nota  2  a  carta  265  pag.  2.  (meno  quello  del  1.  Xll.  X, in  cui  questo  nome  non  è  impiegato). Per  queliti  nomi  v.  i  l.  indie,  nella  nota  2  a  carta  266  p.    1. k stotile,  è  vero,  usa  questo  termine  in  un  senso  vagò,  ma che,  trattandosi  di  entità  platoniche»,  non  potrebbe  uscire, in  sostanza,  da  questi  due  significati,  cioè,  Tuno,  di  ele- menti costitutivi,  d'ingredienti,  per  dir  cosi,  delle  cose, e  Taltro  (che  è  propriamente  quello  della  dialettica  pla- tonica) di  cause  prime,  di  esseri  primitivi,  da  cui  gli altri  procedono.  Tuttavia  non  vi  ha  dubbio  che  in  alcuni casi  egli  non  chiami  gli  elementi  di  S pensi ppo  princt/>u in  questo  secondo  senso  :  è  così  che  fa  quando  attribui- sce ad  essi  al  tempo  stesso  la  doppia  qualità  di  elementi e  di  prìncipii  (p.  e.  nel  1.  Xlll.  VI.  5:  «quelli  che  di- cono r  uno  principio,  essenza  ea  elemento  di  tutte  le cose»;  e  sulla  fine  dello  stesso  capitolo:  «tutti  quelli che  dicono  T  uno  elemento  e  principio  degli  esseri»),  e più  chiaramente  ancora,  quando  allude  alla  dottrina  di Speusippo  che  il  bene  e  V  essere  non  sono  identici  al princip'o,  ma  gli  sono  posteriori  (1),  tanto  più  che  egli oppone  questa  dottrina  alla  sua  propria  e  a  quelle  dei teologri  e  di  altri  filosofi  che  fanno  della  divinità  o  di un  essrre  analogo  la  causa  prima  delle  cose  (nel  senso dialettico,  V  appellativo  di  principio  non  conviene  pro- priamente che  airUno;  e  infatti  è  a  quest'elemento  che lo  dà  a  preferenza  Aristotile,  nei  luoghi  indicati  e  al- tro vf) Dall'ari t«-r!orità  dei  numeri  matematici  sugli  altri  es- seri, e  dalli  loro  non  identità  con  le  Idee  e  le  cose,  ne segu*^  che  i  due  elementi  -i  qaal',  come  abbiamo  notato, non  possono  essere  che  gli  attributi  universali  della  classe più  astratti  di  esseri,  per  conseguenza  dei  numeri  ma- tematici —  non  hanno  in    Speusippo  che  un    significato •ìì matematico.  Così  TUno  non  è  il  bene  (1)  né  Tessere  (2) —probabilmente  il  bene  e  il  male  (3)  e  Tessere  e  il  non essere  facevano  parte  delle  due  ouoxotxfat'  di  contrari, di  cui  stiamo  per  parlare,  e  che  Speusippo  non  identi- ficava, come  Plalone,  ai  due  elementi,  ma  loro  subordi- nava—né  può  identificarsi  con  alcun  altro  dei  principi i che  esso  rappresentava  nella  dottrina  di  Platone  (cioè lo  stato,  Teguale,  lo  stesso,  ecc,  tranne,  naturalmente, il  Tiépag).  Il  simile  potremmo  dire  della  Pluralità. Noi  sappiamo  da  un  luogo  deWEth.  Me.  (1.  I.  VI.  7) che  Speusippo  ammetteva,  come  i  Pitagorici  (e  come Platone),  la  dottrina  delle  due  ouoxoix^ai  di  contrarli;  ma questo  luogo  non  ci  apprende  niente  sul  carattere  della dottrina   propria    di   Speusippo,    tranne    che    chiamava (1)  Met. In  effetto,  quantunque  Speusippo  facesse  scendere  l'Idea  del bene  dal  grado  di  primo  principio,  e  mettesse  al  suo  posto,  al  ver- tice della  piramide  ideale,  l'Unità  matematica,  egli  non  poteva  ri- nunziare però  interamente  al  concetto  platonico  della  supremazia del  bene  nella  natura,  cioè,  in  sostanza,  al  concetto  teleologico.  ^ Che  egli  non  l' abbia  fatto  noi  possiamo  desumerlo  infatU  dagli stessi  luoghi  indicati  d'Aristotile  sulla  non  identità  del  bene  col primo  principio  (Met.),  Siccome  le  due GUGTOix^ai  erano  formate  di  concetti  della  generalità  più  ele- vata, aggregandovi  il  bene,  egli  avrebbe  conservato  almeno  all'an- tico principio  platonico,  per  quanto  era  possibile  nella  sua  propria dialettica,  una  specie  d'  universalità.  —  Che  il  bene  non  abbia  più nella  dialettica  di  Speusippo  la  funzione  di  principio,  nemmeno delle  sole  Idee  delle  cose*,  si  desume  anche  da  uno  dei  motivi,  attri- buitogli da  Aristotile  {Met.),  per  allontanarsi  dalla dottrina  di  Platone  :  è  che  se  il  bene  fosse  identico  all'  uno,  le specie  essendo  numeri,  tutte  le  specie,  tutti  gli  animali  e  le  piante, sarebbero  dei  beni.  Inconveniente  che  resterebbe  anche  se  le  spe- cie non  fossero  numeri  e  il  bene,  senza  identificarsi  con  l'ano,  fosie tuttavia  il  priacipio  delle  specie  (delle  Idee  delle  cose). I l'una  delle  due  serie,  pure  come  i  Pitagorici,  la  serie dei  beni,  e  vi  comprendeva  l'Unità  (e,  per  conseguenza, neiraltra  la  Pluralità).  Evidentemente,  dalla  funzione deirUnità  e  la  Pluralità  di  princip'i  di  tutti  gli  esseri, ne  seguiva  che  tutte  le  altre  opposizioni  delle  due  ouoxot- X^ai  dovessero  ricondursi  a  quest'  opposizione  primitiva, subordinando,  in  ciascuna,  V  uno  dei  termini  air  unità, identica  al  limitato,  e  l'altro  alla  pluralità,  identica  al- l'illimitato. Questa  riduzione  delle  altre  coppie  di  oppo- sti alla  primitiva  era  in  Platone,  come  sappiamo,  una vera  identificazione;  ma  in  Speusippo  non  poteva  essere che  una  semplice  subordinazione  identica,  al  fondo,  a quella  delle  specie  al  genere.  Queste  coppie,  in  effetto, che  dovevano  rappresentare  le  opposizioni  fondamentali del  reale,  cioè  le  più  universali  e  a  cui  tutte  le  altre  o la  più  parte  possono  subordinarsi,  non  avrebbero  potuto, evidentemente,  ridursi  ai  due  semplici  concetti  dell'unità e  della  pluralità,  nel  significato  puramente  matematico. Verisimilmente  Speusippo  imprestava  le  opposizioni  delle sue  auaxoixCat  una  parte  da  Platone,  e  il  resto  dai  Pi- tagorici :  è  almeno  ciò  che  potrebbe  inferirsi  da  un  luogo della  Met. in  cui  si  attribuisce  ad  alcuni filosofi  che  vedono  nei  numeri  e,  in  generale,  nelle  en- tità matematiche,  le  cause  della  natura,  di  contare  nella auaxotx^a  dei  beni  l' impari,  il  retto,  1'  eguale,  il  quadrato.  Questa   indicazione    sembra   doversi  riferire  a (J)  •*  Ciò  solo  mettono  in  chiaro,  che  il  bene  esiste,  e  ohe  della ouaxoixCa  del  bello  sono  V  impari,  il  retto,  l' eguale,  le  potenze (à.1  òuva^si^,  cioè  i  quadrati)  di  certi  numeri  „,  Se,  come  conget- turiamo da  questo  luogo,  Speusippo  comprendeva  in  una  delle  due OUOTOlX^at  il  quadrato  (naturalmente  in  quella   del    limitato),  esso e  il  suQ  opposto  l'oblungo  (éxspófirjxs^)  dovrebbero  evidentemente 11 il Speusippo,  perchè  ne  i  Pitagorici,  né  Platone,  né,  per quanto  pappiamo,  altri  platonici,  tranne  Speusippo,  ri- guardavano come  cause  delle  cose  le  entità  matematiche in  generale,  cioè,  non  solamente  i  numeri,  ma  anche  le grandezze  gex)metriche  (i). Alla  dottrina  che  gli  olementi  sono  l'Unità  e  la  Plu- ralità (e  non  la  Dualità  indefinita)  è  legata,  in  Aristo- tile (2),  quella  che  le  grandezze  vengono  dal  punto  e dallo  spaz'o,  la  quale,  per  conseguenza,  noi  dobbiamo attribuire  anch'essa  a  Speusippo.  Non  si  tratta,  eviden- temente, che  di  una  leggiera  variante  della  costruzione platonica  della  grandezza  estesa  :  i  solidi  risultano  dallo spazio  racchiuso  e  dalle  superficie  che  lo  racchiudono; le  superficie  dallo  spazio  e  dalle  linee  che  lo  circoscri- vono ;  le  linee  dallo  spazio,  cioè  dall'intervallo,  e  dai punti  da  cui  sono  limitate.  Solamente,  mentre  Platone non  aveva  applicata  questa  costruzione   che  alle  gran. prendersi,  in  questa  sua  dottrina,  non  nel  significato  puramente geometrico,  ma  in  uno  più  largo,  in  cui  quest'opposizione  potesse applicarsi  anche  ai  numeri  (forse  della  stessa  maniera  che  nel  JW- teto  147  e-  148  a). (1)  Del  resto  io  credo  che  tutta  la  prima  parte  del  cap.  VI.  del l.  XIV,  della  ^fet.^  sino  al  parag.  8,  alluda  alle  dottrine  di  Speusippo Vi  si  parla  infatti  d'una  teoria  dei  numeri,  alla  pitagorica,  e  non potrebbe  essere  quistione  degli  stessi  pitagorici,  perchè,  in  questa teoria,  il  rapporto  tra  i  numeri  e  le  cose  è  la  partecipazione  (xot- vwvCa — V.  parag.  3),  e  la  conclusione  di   tutto  il   capitolo  è  che  gì oggetti  matematici  non  sono  i  principii  e  non  sono  X^P^  dai sensibili.  Di  più,  la  dottrina  di  cui  si  parla  dal  paragrafo  1  alI'S viene  distinta  da  quella  dei  numeri  ideali  (v.  paragr.  9):  non  po- trebbe dunque  essere  che  la  dottrina  dei  numeri  matematici,  come cause  delle  cose,  !a  quale  non  avremmo  alcun  motivo  di  attribuire ad  altra  scuola  platonica  che  a  quella  di  Speusippo (2)  Met,  l.  Xlll.  IX.  6-12. -  270  — dezze  concrete    e   particolari,  cioè   ai  corpi,    Speiisippo invece  Tapplica  immediatamente^  alle  grandezze  astratte e  generali,  cioè  alle  geometriche  (1)    Vi  ha  però  tra  la dottrina  di  Platone  e  quella  di  Spcusippo  una  differenza, dipendente  dalla  modificazione  che  questi  apportava  alla teoria  dei  numeri.  Platone  non  faceva  risultare  propria- mente  le  linee  dallo  spazio  e  dai  punti -poiché  egli  non ammetteva  il  punto  come  entità  reale  (2)-ma  dallo  spazio e  dalle  monadi,  benché  in  questa  costruzione  le  monadi fungessero  in  sostanza  da  veri    punti  ;  Speusippo  invece non  poteva  identificare  più  il  punto  con  V  unità,  perchè gli  esseri,  p  r  lui,  non  erano  più  identici  ai  numeri  in  se stessi.  Ma  questa  differenza  era  ben  srttile,  le  unità   di Platone,  danna  parte,  in  quanto  servivano  alla  formazione delle  grandezze  estese,  non  potendo  riguardarsi  come  vere unità  (aè  ideali  nò  matematiche),  e  dal!  'altra  parte,  il punto  di  Speusippo,  come  abbiamo  visto,  venendo  dal- rUnità,  ed  essendo,  per  consegU'»nza,  non  in  verità  una unità  astratta,  ma  una  unità  concreta.  Quanto  Aristotile (1)  Per  conseguenza  la  parola  spazio,  trattandosi  della  dottrina di  Speusippo,  deve  prendersi  in  un  senso  un  po' differente  da  quello ch'esso  ha  nella  dottrina  di  Platone.  Lo  spazio  del  Timeo,  dovendo servire  alla  produzione  di  oggetti  individuali,  è  anch'  esso  un  oggetto individuale,  cioè  il  tutto  di  cui  gli   spazi   particolari,  finiti sono  delle  parti.  Lo  spazio  di  Speusippo  invece,  in  quanto  almeno' serve  alla  produzione  di  entità  generali,  deve  essere  un'entità  ge- nerale anch'esso,  quella    di  cui    tutto  ciò  a  cui   diamo   il  nome  di spazio,  sia  lo  spazio  totale,  infinito,  sia  uno    spazio  finito,    è  una particolarizzazione  (nel  senso  in  cui  le  cose  lo  sono  delle  Idee).  Quale materia  dell'esteso,  lo  spazio  non  è  chiamato  da  Speusippo  TÓTlo^, come  da  Platone,  ma  8iocaTy]|jia  (v.  3/*?M,  XUI.  lX.]n-12  e  ofr.  1.  XIV. V.  2),  forse  perchè  esso  non  è  lo  spazio  esteso    in  tutte    e  tre  le  di' mensioni  ohe  in  una  sola  delle   tre  classi  di  entità  -  linee,  superfi- cie e  solidi— che  egli  costruisce. (1)  V.  Arist.  Met.  1.  I.  IX.  20, parla  della  dottrina  che  la  superficie,  la  linea,  il  punto e  r  unità,  o  st^mplicemente  la  superficie,  la  linea  e  il punto,  sono  sostanze  e  più  sostanze  del  corpo  stesso; certamente  egli  non  allude  alla  sola  costruzione  dell'e- steso che  noi  attribuiamo  a  Speusippo,  ma  a  quella,  in generale,  d^lla  scucia  platonica.  Tuttavia,  se  l'entità,  da cui  (e  dallo  spazio)  procedevano  le  linee,  è  da  lui  chia- mata un  punto,  ciò  sembra  supporre  che  alcuno  dei  fi- losofi che  ammettevano  questa  costruz'one  avesse  già dato  questa  entità  esplicitamente  come  punto  —  Senza dubbio  Speusippo  vedeva  anche  in  questa  costruzione dell'esteso,  come  aveva  dovuto  fare  pure  Platone  —  il punto  essendo  ricondotto  all'unità  o  limite,  e  lo  spazio alla  pluralità  o  illimitato— ìirì'sippUcsLzìanQ  del  principio pitagorico  che  le  cose  constano  del  limite  e  deW illimitato. Non  ci  resta,  infine,  che  ad  esaminare  quali  modifica- zioni ha  potuto  apportare  nella  dialettica  platonica  la nuova  relazione  che  Speusippo  stabiliva  tra  i  numeri, da  una  parte,  e  le  Idee  e  le  cose,  dall'altra  (oltre  alla detronizzazione  dell'Idea  del  bene,  di  cui  abbiamo  già parlato).  Dalla  dottrina  che  1'  Uno  e  la  Pluralità  sono gli  elementi  di  tutti  gli  esseri,  non  che  dal  bisogno  del- l'unità sistematica,  necessaria  al  tipo  di  metafisica  a  cui appartiene  il  sistema  di  Speusippo,  segue  che,  come  ab- biamo detto,  tutt«  le  entità  di  questo  filosofo  devono secondo  lui,  dedursì  dall'Uno  e  la  Pluralità,  o,  più  propria- mente, dall'  Uno,  perchè  nella  dialettica  platonica  (mo- dificata per  la  fusione  del  sistema  delle  Idee  coi  con- cetti pitagoricij  il  vero  principio,  in  sostanza,  è  quello dei  due  elementi  che  funge  da  elSo^.  In  altri  termini, tutte  le  Idee,    secondo  Speusippo,    quelle   dei    numeri, (1)  Ofr.  questo  Supplem. carta  quelle  delle  grandezze  geometriche  e  quelle    delle  cose, devono  nascere    dalla    dieresi  progressiva    dell’uno.  A quest'oggetto,  Speusippo  non  avrebbe  potuto  servirsi  che dell'  uno  o   dell'  altro  di  questi   due  processi.    Cioè  o  di dedurre s'intenda,  col  metodo  di  divisione  -  prima  dal- l'Uno i  Numeri,  e  poi  da  ciascun  Numero  le  Grandezze e  le  Idee  delle  cose  ad  esso  subordinate.  Ovvero-siccome tutto  ciò   che   esiste  è  al  tempo   stesso  un  numero,  una grandezza  e  una  cosa- di  dividere  gli  esseri,    nella  loro universalità,  tre  volte,  ciascuna  ad  uno  di  questi  tre  di- versi punti  di  vihta,  cioè  come  numeri,  come  grandezze e   come   cose,  partendo  in  ciascuna  di  queste  tre  divisio- dairUno  come  eiòo^  generale    di  tutti    gli  esseri,  sia  ri- guardati   quali  numeri,  sia  quali  grandezze,    sia  quali cose.  A  questo    modo  si  avrebbero    tre  scale    dialettiche distinte,  ma   convergenti    alla  loro  sommità   nell'  Uno, rappresentanti    ciascuna  la   totalità    degli  esseri  :  quella delle  Idee  dei  numeri,  quella  delle  Idee  delle  grandezze e  quella  delle    Idee  delle  cose.    Dì questi    due processi Speusippo  non  ha  potuto  s'^guire  il  primo,  perchè,  se  nel suo  sistema  le   grandezze  si    deducessero  dai    numeri  e le  cose    dai    numeri  e   dalle  grandezze, Aristotile non potrebbe  dire  che  le   cose  esìsterebbero    anche    non  esi- stendo  le    entità    matematiche,    e   le   grandezze    anche non  esistendo i  [numeri.    D'  altronde    è  solo  il    secondo di  questi  due  processi  che  permetteva  di  nou    violentare troppo  apertamente  le  affinità  reali  delle  cose.  Noi  dob- biamo dunque    ammettere    che    secondo    Speusippo    le Idee di    cose  cioè   delie   cose    concrete,    dei numeri air  ultimo    grad  )  di    concrotlz '.azione   si   deducevano progressivamente,  alla  maniera  di  Platone,  dalle  Idee  di cose  più  generali,  a  partire  dall'Uno,  da  cui  cosi  queste Idee  provenivano  direttamente,  e  non  a  traverso  quelle dei  numeri  e  delle  grandezze.  Cosi  Aristotile  ha  ragione di  dire  che  ciascuna  delle  tre  classi  di  entità   esistereb- be anche  se  le  altre  non  esistessero»  Tuttavia,  se  le  tre classi  di  entità  non  si  deducevano  l'una dall'altra,  ciò non  impediva  che  vi  fosse  tra  di  loro  quella  derivazione logica  e,  per  conseguenza,  anche  ontologica,  necessaria per  chiamarle  anteriori  e  posteriori.  Questa  derivazione, nel  sistema  di  Speusippo,  era   un  risultato    non  cercato del  principio  platonico  che  tutto  ciò  che  esiste  è  logica- mente impossibile che  non  esista,  e  tutto    ciò  che  non esiste  logicamente  impossibile  che  esista.  I  numeri  sono, come  abbiamo  detto,  una  sorta  di  generi   relativamente alle  cose  e  alle  grandezze,  che  ne  sarebbero  come  delle specie.  Ora,  in  conseguenza  di  questo  principio,  ciascuno di  questi  generi  si  concretizza  necessariamente  nelle  sue specie  esistenti  e  in  queste  sole  specie.  E  questo  carat- tere che,  unito  all'esistenza  pure  necessaria  del  genere- che,  in  virtù   dello  stesso  principio,    compete    anche  ai numeri  di  Speusippo e  all'  essere  questa  data  anterior- mente a  quella   delle  specie,  fa  della  dieresi    platonica una  derivazione  logica  e,  mediante  la  realizzazione   dei concetti,  anche  ootologica.  Speusippo  può  dunque,   per le  stesse  ragioni,  considerare  come  una  derivazione   lo- gica ed  ontologica  benché  in  questo  caso  non    si  ap- plichi il  metodo  di  divisione— anche  il  passaggio  dai  nu- meri alle  grandezze  e  alle  cose.   Per  le   grandezze  rela- tivamente alle  cose  vale  lo  stesso  che  abbiamo  detto  per i  numeri  relativamente  alle  grandezze  e  alle  cose.  E  cosi che  Speusippo  può  stabilire,  tra  le  sue    tre  classi  di  so- stanze, un'anteriorità  e  posteriorità  conforme  al  signifi- cato che  questi  termini  hanno    nella  tìlosofia    platonica. Quest'anteriorità  e  posteriorità,  esistente  tra  le  tre  sfere in  cui  egli  divide  il  reale,  esiste,  a    più  forte   ragione. -   neirinterno  di  ciascuna  sfera;  e  ciò  che  riassume  il  si- stema di  Speusippo,  come  del  resto  anche  quello  di  Platone, è  Tidea  di  uno  sviluppo  estratemporale,  che  va sempre  da  uno  stato  più  indeterminato  a  uno  stato  più determinato,  e  di  cui  egli  vede  l'immagine  nello  sviluppo delle  piante  e  degli  animali  Arist.  Met. L’aniuia  e  suo  rapporto  con  le  Idee e  coi  ieuoiucni Quantunque  nel  corèo  di  questo  scritto  abbiamo  toccato parecchi  punti  delle  dottrine  di  Platone  sulT  anima,  gio- verà forse  di  prcFcntare  queste  dottrine  nel  loro  insieme, malgrado  che  c*ò  debba  co -torci  delle  ripetizioni  inevi- tabili. Il  nostro  sc/^po  naturalmente  non  sarà  di  fare  un'e- sposizione di  questa  parte  della  filosofia  di  Platone:  ci basterà  d' indicare  i  punti  più  rilevanti  per  mettere  in luce  il  significato  reale  delle  dottrine  platoniche,  contro Jc  interpretazioni  erronee,  e  più  o  meno  arbitrarie,  che se  ne  sono  date. Il  sfstema  di  Platone  suM'anima  è  Tanimismo  antico, sviluppato  con  più  conseguenza  che  in  alcun  altro  filo- sofo, e  trasportato  cosi,  dalPuomo  e  gli  altri  esseri  ani- mati deiresperienza,  alTuniverso,  considerato  anch'esso come  un  essere  animato.  Il  carattere  dell'  animismo  an- tico è  che  l'anima  è  riguardata,  non  solo  come  una  so- stanza, ma  come  una  sostanza  ana'oga  a  quelle  dell'os- servazione, cioè  materiale  o  semi-materiale.  Questo  concetto  deir  anima   si  trova,  quasi  senza  eccezione,  in  tutti i  filosofi  greci  prima  d'Aristotile.  Quelli  fra  di  essi  che  noi possiamo  considerare  come  i  rappresei^tanti  dolio  spiritua- lismo   antico,  come,  oltre  a  Platone,  Anassagora,  non sono  spiritualisti  nel  nostro  senso,  perchè  non  hanno  idea d'una  sostanza  assolutamente  immateriale,  cioè  che  non occupa  uno  spazio.  Da  un'altra  parte  i  rappresentanti  più genuini  del  materialismo,  come  Democrito,  non  sono  ma- terialisti nel  senso  moderno,  perchè  anch'  essi  riguardano l'anima  come  una  sostanza  distinta  dal  corpo,  benché  ma- teriale come  questo.  Un  materialismo  rigoroso,  cioè  che  non ammette  il  dualismo  d'anima  e  di  corpo,    non  si  trova, prima  d'Aristotile,  che  in  alcuni  pensatori  isolati  e  d'una importanza  secondaria  :  Ippoui-  (secondo  cui  l'anima  era acqua  e  il  seme    era  la    prima  anima),  Crizia    (che identificava  l'anima  col  sangue)  (2),  e  gli  autori  scono- sciuti della  dottrina  che  l'anima  è  l'armonia  del  corpo  (3), sono  forse  i  soli,  tra  i  filosofi  ricordati  da  Aristotile,  che noi  possiamo  riguardare  come  materialisti,  nel  senso  mo- derno e  rigoroso  del  termine.  Anche  dopo  Aristotile,  in cui  (a  parte  la  sua  dottrina  sul  Nous)   apparisce  per  la prima  volta  il  concetto  scientifico  dell'anima  (poiché  per lui  la    distinzione    dell'  anima  e  del  corpo    si    riduce  a quella  della  forma  e  della  materia),  il  concetto  dominante continua  ad  essere    quello  della    sostanzialità,  e  noi  lo ritroviamo  anche  in  Lucrezio,  che  si  rappresenta  l'anima come  una  sostanza  sottile,  che  è  diifusa  in  tutto  il  corpo, e  di  cui  la  parte  dominante,  cioè  1'  animo  o  la    mente, abita  nel  cuore  (4). (1)  Arist.  De  An.  1.  l.  e.  2,  18. (2)  Ibid  19. (3)'  Arist.  De  An.  1 1.  o.  4. 1^;  ofr.  Plat.  Fedo  85  e- 86  d  e  91  d-  95  a. (i)  De  rer.  nat,  1.  iU., .  ' Le  dottrine  platoniche  sull'anima  entrano  dunque  per- fv  ttamente  nell'ordine  di  idee  dell'  epoca,  anzi  general- mente del  mondo  antico.  Cosi   Platone  non   sente  il  hi- sogno  di  provare,  ma  afferma   come    un    principio  che nes  uno  potrebbe  contestargli,  questo  presupposto  fonda- mentale di  tutta  la  teoria  :  che  Tessere  animato  è  com- posto di  due  sostanze,  un'anima  e  un  corpo;  che  la  vita risulta  dall'  unione  di  queste  due  sostanze,  e    la  morte dalla  loro  separazione  (l).  Tuttavia  sulla  base  di  questo dualismo  egli  fonda   una   dottrina   che,    tra   quelle  del doppio  materialismo  antico,  è  la  più   conforme   ai  con- cetti del  moderno  spiritualismo,  riguardando  1'  anima  e la  materia  (cioè  il  substratum  di  tutti  i  corpi)  come  due sostanze  diverse  e  radicalmente  opposte.  Ma  con  ciò  Pla- tone non  fa  che  sviluppare  logicamente  il  concetto  fon- damentale  d'ogni  animismo.  Questo   è  che  il  principio della  vita  e  delia  coscienza  deve  essere  qualche  cosa  di distinto  dalle  sostanze  che  costituiscono  il  corpo,  poiché è  impossìbile    di  comprendere   che   una  stessa    sostanza passi  dallo  stato  di    vivente  e  di    cosciente  a    quello  di non  vivente  e  di  non  cosciente,  e  viceversa  (2).  Ora,  se è  cosi,  sarà  pure  incomprensibile  una  conversione  reci- proca tra  la  sostanza  anima    e  una  sostanza    materiale qualsiasi  :  per  conseguenza,  tutte  le  sostanze  materiali essendo,  secondo  Platone,  convertibili  l'  una  nell'  altra, non  vi  sarà  nell'universo  che  una  sola  dualità  irridutti- bile  e  veramenie    fondamentale,    quella    dello    spirito  e della  materia.  Nondimeno  sarebbe  un  errore  fare  di  Pla- tone un  campione  dello  spiritualismo  nel  senso  moderno. Egli  resta  ancora,    in  sostanza,  sul  terreno   del  doppio (1)  V.  Fedo.  64  e,  67  d,  105  d,  Gorfjla  524  b,  Ejnnom.  981  a,  eco App.  e.  2.  §  i-6. 274  - materialismo  primitivo  :  ranima,  secondo  lui,  è  estesa  (!) e  si  muove,  e  non  afferma  senza  restrizione  che  non pnò  essere  oggetto  dei  sensi  esterni.  Il  moviinrnto dell'  anima  é  una  conseguenza  logica  della  sua  semi- materialità  :  r  anima  infatti  è  il  principio  motore  dei corpi  (perchè  il  movimento  spontaneo  è  il  carattere  di- stintivo dell'  essere  animato),  e  non  si  comprende  come una  sostanza  materiale  o  quasi  materiale  possa  muovere se  non  comuDicando  il  proprio  movimento.  Cosi Platone  applica  all'anima  stessa  la  definizione  che  con- verrebbe all'essere  animato,  «  ciò  che  muove  se  slesso  «  (5), vedendo  nell'  attributo  della  spontaneità  del  movimento un'espressione  più  completa  dell'essenza  dell'anima  che in  quello  della  coscienza,  forse  pt»,rchò  gli  sembra  che  il movimento  spontaneo  implica  necessariamente  la  co- scienza, mentre  questa  non  implica  quello.  Il  movimento spontaneo  non  solo  è  1'  attributo  essenziale  dell'  anima, ma  si  trova  in  essa  continuamente  (6),  perchè  da  una parte  la  vita,  negli  esseri  animati  che  noi  osserviamo sulla  terra,  consiste  ìq  un  movimento  incessante,  la  cui sorgente  secondo  Platone  non  può  trovarsi  che  neli'  a- nima,  e  da  un'  altra  parte  gli  astri  (il  cui  movimento spontaneo  prova  che  sono  anch'essi  degli  esseri  animati) non  cessano  mai  nemmeno  essi  di  muoversi.  Il  doppio materialismo  in  Platone  dà  luogo  ad  una  dottrina,  che non  è  senza  analogia,  almeno  se  si  prende  strettameate (1)  V.  Tim.  34  b,  36  e,  35  a,  41  d,  eco» (2)  V.  le  note  seguenti. V,  Append,  e.  2. (4)  V.  e.  2  S  2  pag.  57-60. (5)  V.  Leggi  896  a  e  Fedro  245  e. (6)  V.  Tim,  36  c-37  e,  42  e,  43  a,  43  d  44  d,  47o-d,85  a,  90  d,  91  e 92  a,  Fedro  245  e,  ecc. alla  lettera,  con  quella  dei  moderni  materialisti  estremi dell'identità  dei  fatti  psichici   e  uei  movimenti    organici che  ne  sono  la  causa  :  il  pensiero  e  tutti  i  fatti  psichici in  generale   sono  per    Platone  dei    movimenti  dell'  ani- ma (1),  proposizione    che,  intesa    in  un  senso    rigoroso, risolverebbe  il  subbiettivo  nell'obbiettivo,  e  potrebbe  avere per  iscopo  di  far  consistere  tutiio  il  reale  nell'estensione e  le  sue  modificazioni,  per  poi  ridarlo  più  facilmente  allo spazio  limitato  dalle  uuità,  per  conseguenza  al  numero. Tuttavia  la  proposizione   non    deve  forse   prendersi  nel suo  senso  rigoroso  :  essa    potrebbe  significare   semplice- mente che  i  movimenti  deiranima  sono  la  causa  del  pen- siero e  degli  altri  fatti  psichici.  Ma  anche  in  questo  caso si  avrebbe  evidentemente  una  sorta  di  dottrina  seoiima- terialista,  che  spiegherebbe  anch'  essa  i  fenomeni    della coscienza  per  quelli  del  mondo  obbiettivo,    e  non  diffe- rirebbe dal  materialismo  propriamente  detto,  che  perchè ai  movimenti  dell'organismo  verrebbero   sostituiti  quelli di  questa  specie  di  maieria   imponderabile,    invisibile  e impalpabile,  che  è,  secondo  Platon-'^,  l'anima.  Il  concetto che  l'anima  muove  gli  organi  per  impulsione,  cioè  co- mu.nicando  loro  il  proprio  movimento  (2),  ci  fa  compren- dere quello  della  sua  tripartizione.  Platone  crede  eviden- temente che  i  movimenti    vitali  si  propagano    a  partire da  certi  centri  indipendenti    fra  di     loro.    Questi    sono, almeno  sovratutto,  il  cervello,  il  cuore  e  il  fegato.  Cosi egli  divide  l'anima  in  tre  parti  separate,  dando  loro  per sedi  le  tre  cavità  del  corpo  in  cui  sono  contenuti  ^questi -  i  carta  J84,  in  nota. (2)  V.  Leggi  894  e-896  b,  Fedro  245  C-24C  a,  Arisi. 2-4,  ni.  9-11,  V.  1-2. Dean,  organi— dottrina  ammessi  puce  da  Ippocrate,  e  che  poi fu  adottata  da  Galeno  (1)—.  La  parte  dell'anima  che  è il  substratum  dell'intelligenza  (il  XoYiaxtxóv)  abita  nella cavità  cranica;  quella  in  cui  risiedono  la  collera  e  il  co- raggio (il  O'jjjLÓ^)  è  alloggiata   nella   cavità  toracica  ;  la terza  a  cui  appartengono  gli  appetiti  sensuali,  la  più  parte dei  quali  sono  in  rapporto  eoa  le   funzioni  della    nutri- zione (r  èixie'j[iY]itxóv)  è  alloggiata    nella  cavità   addomi- nale, nella  regione  posta  tra  il  diaframma  e  Tombelico  (2). L'esame  psicologico  viene  a  confermare  questa  triparti- zone  dell'anima,  fondata  senza  dubbio    su  una  base  fi- siologica; poiché  le  attività  psìchiche  corrispondenti  alle tre  partì  manifestano,  per  la  contrarietà  delle   loro  ten- denze, ch'esse  appartengono   a  dei  soggetti    distinti  (3). Al  concetto  della  sostanzialità  dell'anima  è  unita  ge- neralmente la  dottrina  della  sua  sopravvivenza,  e  spesso anche  quella  della   sua  preesistenza.   Tanto   la  soprav- vivenza quanto  la  preesistenza  sono  per  Platone  illimi- tate :  Tanima,  secondo  luì,  non  è  solamente  immortale, ma  eterna.  Questa  dottrina   del  nostro    filosofo  è,  come quella  dell'  opposizione    radicale  tra  lo  spirito  e  la  ma. teria.  uno   sviluppo   perfettamente    logico  del   principio dell'animismo.  L'ipotesi  della  sostanza  anima,  come  sap- piamo, è  destinata  a  spiegare  il  passaggio  della  materia dallo  stato  di  vita  e  di  ciscienza  allo  stato  contrario,  e viceversa  :  siccome  ci  sembra   incomprensibile    che  una stessa  sostanza  si  trovi  alternativamente    in  questi    due stati  contrari  (per  l'induzione  istintiva,    tirata  dalle  no- stre esperienze  più  familiari,  che  l'essenza  delle  cose  non (1)  V.  Galeno  De  plaritis  Ilippocratis  et  Platonis, (2)  Tineo  69  o  e  sqq. (8)  V.  Rep.  1.  IV.  431  e  sqq. può  cangiare),  ne  concludiamo  che   questo  passaggio  è dovuto  a  un'altra  sostanza  distinta,  che  è  il  substratum della  vita  e  della  coscienza,  e  che  ora  si  unisce  alla  ma- teria,   ora  se  ne   separa.  Ma  se  si  ammette   che  questa sostanza  supposta,  cioè  la  sostanza  anima,  è  soggetta essa  stessa  alla  nascita  e  alla  morte,  si  va  incontro  alla stessa  difficoltà  che  si  è  voluto  evitare  con  la  sua  sup- posizione, cioè  rincomprensibilitàche  una  stessa  sostanza da  vivente    e  cosciente    diventi    non  vivente   e  non  co- sciente, e  viceversa  :  infatti,  una  creazione  e  un  annien- tamento assoluti  essendo  inconcepibili,  l'incominciare  ad esistere,  per  l'anima,  non  potrebbe  essere  che  una  tra- sformazione di  qualche  sostanza  preesistente,  che  acqui- sterebbe le  nuove  proprietà  della  vita  e  della  coscienza (che  sono  quelle  che  caratterizzano  l'animaj,  e  il  cessare di  esistere  un'altra  trasformazione  della  stessa  sostanza, che  perderebbe  le  nuove  proprietà  acquistate.  L3  ragioni stesse  per  cui  si  suppone  una   sostanza   anima,  condu- cono dunque  ad  ammettere  che  questa  sostanza  non  può cominciare  ad  esistere  né  cessare  di  esistere.  Queste  ra- gioni,  a  dir  vero,  non  proverebbero   rigorosamente  l'e- ternità dell'anima  individuale,  ma  quella  della  sostanza deiranima,  dì  cui  una  certa   individualità    determinata potrebbe  essere  uno  stato  transitorio.    Ma  la  forma  più naturale,  anzi  la  sola  naturale,  che  possa  rivestire  il  con- cetto della  preesistenza   e  sopravvivenza  della  sostanza dell'anima,  è  evidentemente  ia  preesistenza  e  la  soprav- vivenza deli;  anima  individuale.  L' identità  dell'  anima, infatti,  suppone  l'identità  della  coscienza;  per  conseguenza alla  persistenza  dell'  anima  deve  corrispondere  la  persi- stanza  della  coscienza;  ora  noi  non  possiamo   concepire che  la  coscienza  persista    (cioè  che  la  stessa    coscienza continui  ad  esistere)  se  non  conservando  la  sua  indivi- —  276  - dualità.  La  dottrina  platonica  dell'immortalità,  anzi  del- Teternità,  delTanima  ha  dunque  una  bas3  logica  perfet- tamente naturale  (quantunque  d'  un*  evidenza  illusoria, come  lutti  i  sofismi  a  priori  del  nostro  spirito):  ma  Pla- tone, per  dimostrare  qu'^st'immortalità,  si  serve  di  sofi'iini artificiali,  che  evidentemente  non  possono  essere  dei  mo- tivi reali  della  dottrina.  Ciò  si  spiega  per  la  natura  in- cosciente del  processo  logico  di  cui  questa  dottrina  è  la conclusione.  Il  concetto  della  sostanza  anima    non  sup- pone necessariamente   una  deduzione  dal    principio  ge- nerale che  le  sostanze  non  possono  cangiare   nelle  loro proprietà  essenziali,  e  meno  ancora  un'induzione  coide^i^e dalle  nostre  esperienze  più  familiari  che  ci  suggeriscono questo  principio  generale.    La  spiegazione   della  vita  e della  morte  per  la  unione  e  la  separazione  della  sostanza anima  sembra    evidenti  perchè    permette  di    assimilare questi  fenomeni  alle    esperienze    fiù  familiari,  che  mo- strano che  le  cose  non  cangiano  nella  loro  natura, ma solo  nei  loro  rapporti  reciproci  di  posizione:  ma  si  può non  aver  coscienza    del  processo  di    assimilazione,    ma solo  del  suo  risaltato,  cioè    dell'  evidenza  della   spiega- zione, la  quale    sembra  perciò  un'  evidenza    intrinseca. Cosi  pure  Tipotesi  che  la  sostanza  anima  non  muore  né nasce  sembra  evidente,  perchè  permette  un'assimiliazione più  completa,  che  l' ipotesi  contraria, alle  stesse  esperienze più  familiari    da  cui  si  è  conclusa  1'  esistenza  di questa  sostanza;  ma  si  può  anche  in  questo   caso  aver coscienza  solamente  deirevidenz\  dell'ipotesi,  e  non  del processo  d'assimilazoue  di  cui  quest'evidenza  è  il  risul- tato. Non  è  du  ique  sorpren  leut che  Piatone,    per  di- mo.strare  1  iiimortalltà  delTanima,  invece  che  delle  prove .•••al',  cioè  d»^'  sofismi  naturali^  su  cui  questa  dottrina  è loniati,  si  serva  di  sofismi  puramente  artificiali  y   inca- paci per  se  stessi  di  determinare  una  convinzione  :  egli non  ammette  la  dottrina  che  in  virtù  della  sua  evidenza intrinseca  (cioè  per  un'inferenza  incosciente);  cosi  si comprenie  com%  e  rcaudo  di  dimostrarla  agli  altri,  al passaggio  reale  per  cui  é  pervenuto  alla  sua  conclusione, del  quale  non  ha  coscienza,  egli  sostituisca  dei  passaggi fittizi.  Tuttavia  si  sarebbe  ingiusti  verso  alcuni  degli argomenti  di  Platone,  riguardandoli  come  semplici  sofi- smi artificiali  :  essi  sono  (oltre  quello  della  reminiscenza, di  cui  parleremo  io  seguito)  quello  del  Fedro e  l'ultimo  del  Fedone,  il  solo,  come  no- tammo altrove,  che  Platone  dia  come  decisivo  (3). Il  primo  di  questi  due  argomenti  conclude  l'eternità  del- l'anima da  ciò  che  essa   è  il  principio    motore.  Alla Qaast'argomento  è  riportato,  neUa  saa  parte  essenziale,  nel Supplem.  B,  a  carte  45-47. Appena,  p.  CXCIII. (3)  V.  Fedone  95  d-96  a,  100  b,  107  b. •*  Ogni  anima  è  immortale,  poiché  ciò  che  sempre  si  muove è  immortale,  ma  ciò  che  muove  altro  ed  è  mosso  da  altro,  avendo un  termine  del  movimento,  ha  un  termine  della  vita.  Solo  dunque ciò  che  muova  sa  stesso,  poiché  mai  non  manca  a  sa  stesso,  non ca^sa  mai  di  miovar^i,  anzi  a  quante  altre  cosa  sono  mosse  è  la sorgente  e  il  principio  del  movimento.  Ora  il  principio  è  non  ge- nerato, poiché  è  necas-iario  che  tutto  ciò  che  si  genera  sia  gene- rato dal  principio,  ma  quasto  da  nessuna  cosa  :  se  infatti  il  prin- cipio fos^e  generato  da  qualche  cosa,  tutte  le  cose  non  sarebbero generate  dal  principio.  Ma  poiché  non  é  generato,  é  anche  neces- sario che  esso  sia  incorruttibile,  poiché,  se  il  principio  venisse  a mancare,  né  esso  potrebbe  nascere  da  (lualche  cosa,  né  altra  cosa da  esso....  Cosi  dunque  il  principio  del  movimento  é  ciò  cha  muove sa  stesso:  questo  poi  non  può  né  nascere  né  morire;  altrim.enti  tutto il  cielo  e  ogni  genervizione  si  fermerebbero  necessariamente,  né  si avrebbe  mai  donde,  ricuperato  il  moto,  potessero  rinascere.  Ciò che  é  mosso  da  se  stesso  apparandoci  essare  immortale,  se  alcuno conclusione  si  giunge  per  dei  passaggi  che,  quantunque non  staio  perfettanionte  logici,  non^sono  però  arbitrari: dal  concetto  che  Tanima  è  il  principio  motore  (suggerito dalla  esperienza  più  familiare,  che  ci  dà  come  carattere distintivo  deir  essere  animato  la  spontaneità  dei  movi- mento), se  si  suppone  la  necessità  d*  una  causa  prima (per  rinconcepibilità  di  un  regresso  all'infinito  nella  ri- cerca delle  cause),  è  naturale  d'inferirne  che  questa  causa prima  è  Tanima  cosmica.  Dì  là  nes3gie  rigorosamente che  quert'auima  non  ha  avuto  cominsiamento  :  inoltre il  più  logico  é  di  supporre  che  e^sa  non  avrà  nemmeno fine  (perchè  nella  supposizione  contraria  bisognerebbe ammettere  o  che,  estìnto  il  principio  del  movimento,  Tu- fl  iverso  cada  nell'  immobilità,  o  che  air  anima  cosmica estinta  succedi,  nel  goverao  del  mondo,  ua'altra  animi cosmica,  la  quale  avendo  avuto  comincìamento,  si  avrabb  e Tincoerenza  di  faredell'anìma  cosmica  ora  una  coia  sen^a cominciamento  e  una  causa  prima,  e  ora  una  cosa  di-i venuta  e  avente  una  causa).  Concluso  che  V  anima  co- mica è  senza  cominciamento  e  senza  fine,  è  naturalo   d estendere  questa  conclusione  alle  anime  individuali,  che ^ne  differiscono  di  grado,  ma  non  di  natura.  L'  ultimo argom^ento  del  Fedone  s'impernia  nella  prop dizione  che ciò  che  apporta  la  vita  dovunque  si  trova  non  può  ri- cevere la  morte  :  essa  è  1'  e^pra^ìone  del  motivo  reale della  dottrina  dell'  immortalità,  che  è  il  legame   logico dirà  che  qaesta  è  l'e?^enza  e  la  defiaizione  dall'  aaimi,  noa  se  ne pentirà.  Infatti  ogni  corpo,  a  cai  il  movimanto  viene  dal  di  faori, è  inanimato;  ma  quello  che  lo  ha  da  se  ste«o,  è  animato,  com3 se  qaesta  sia  la  natura  dell'anima.  Ma  se  è  cosi,  non  esservi  altro ohe  muova  se  stesso  S3  non  V  animi,  per  nasajsità  l'anima  è  non generata  e  immortale  „.  Fddro che  vi  ha  tra  la  spiegazione  animista cicè  che  la  vita  e la  morte  sono  dovute  alla  unione  e  alla  separazione  d'una sostanza  distinta  che  è  il  substratum  della  vita  e  della  co- scienza—e il  concetto  che  la  vita  e  la  coscienza  devono essere  inseparabili  da  una  tale  sostanza  (1).  Se  Platone prendesse  la  proposizione  (o  meglio  il  concetto  eh'  essa indica,  senza  esprimerlo  sufficientemente)  come  principio, r  argomento  sarebbe  naturale :  la  parte  artificiale  del sofisma  è  la  pretesa  dimostrazione  di  ciò  cho  egli  do- vrebbe invece  dare,  e  che  èfi'ettivamente  ammette,  come una  verità  intuitiva. Le  sorti  dell'anima  dopo  la  morte  formano  il  soggetto della  più  parte  dei  miti  di  Platone   (che  bisogna  distinguere dai   simboli,  quali  il  Demiurgo  e  la    cosmogonia del  Timeo,  o  la  contemplaz'one  delle  Idee  nel    luogo  i- peruranio  del  F^dro):  in  questi  miti  ò  difficile  di  fare  le parti  tra  ciò  che  è  un  convincimento  serio   dall'  autore e  ciò  che  per  lui    stesso  è  una  congettura    più  o    meno verisimile  o  anche   una  semplice   finzione;  ma  e   certo ch'egli  ha  fede  nel  concetto  generale  che  vi  campeggia, cioè  i  premi  e  le  pene  in  un'edstenza  futura.  Platone accoglie  la  dottrina,    insegnata  nei    misteri,    della  tra- smigrazione delle  anime;  e  generalizzando  qu?sto  dato tradizionale  quantunque,    oltre   al   ritorno    in  questo mondo,  reincarnandosi  in  corpi  d'  uomini    o  d'  animali, parli  anche  del  soggiorno  delle  anime  in  altri  luoghi  di premio  o  di  punizione -giun^-e  al  concento  che  l'anima è  sempre  congiunta  ad  un  corpo,  animando   suecessiva- Fedo.-ìié:  d-e,  63  o,  64  a,  72  d-a,  Jtep.  608  e,  612  b-c,  6J3a, 614  a,  621  e,  Gorg,  622  e-523  a,  524  b,  523  d,  527  a,  527  o,  Lag.,  eco. mente  e  ir  pi  differenti  secondo  lo  stati  di  perfezione  o d'  imperfezione  a  cui  è  per\rcauta  {Leggi  ma  al- trove, in  dialoghi  verisimilmente  anteriori,  parla  d'uno btato  dell'anima  in  cui  e  libera  da  qualsiasi  corpo,  p.  e. nel  Fedone  114  e,  in  cui  una  tale  esistenza  è  promessa durante  Tcteruità  a  qu-illl  che  si  sono  purificati  suffi- cientemente per  la  filosofia;.  E  inn'^gabile  che  la  dottrina della  metempsicosi,  sovr.atutto  in  questa  forma,  per  quanto possa  sembrare  strana  a  u*i  filosofo  moderno,  ha  un  va- lore filojofi:o  superiora  che  quella  d-ell'  esistenza  eterna dell'anima  dopo  la  morte  in  ui  mondo  assoluta  me  a  te immateriale,  poiché  ossa  lega  par  sempre  il  principio spirituale  alla  natura,  contìnuanio  ad  assegnargli,  in tutte  le  epoche  della  saa  esigenza,  la  sua  fuizione  pro- pria, senza  di  cui  è  un'ipotesi  senza  motivo  e  senza  scopo, di  forza  animatrice  e  vivificatrice  della  materia. La  dottrina  dell'immortalità  dell'anima  in  rapporto  a quella  della  sua  tripartizione  solleva  un  problema,  a  cui Platone  dà  delle  soluzioni  difi'erenti  :  sono  immortali  tutte e  tre  le  parti,  ovvero  una  sola,  che  sarebbe  come  il  sub- stratum  della  personalità  ?  Nel  Fedro  (1)  è  ammessa  la primi  delle  due  soluzioni  ;  ma  la  dottrina  definitiva  di Platone,  che  troviamo  nella  Repubblica e  nel  Timeo, è  l'immortalità  del  solo  Xoy'-aiixóv  (nel  Fedone  (4)  sembra V.  1.  X.  611  b-612  a. (3)  V.  41  c-43  a,  69  c-72  d,  73  d,  89  e-90  d,  ecc.  Il  Timeo  è  cer- tamente una  deUe  ultime  opere  di  Platone,  perchè  appartiene  al periodo  dal  sincretismo  con  le  dottrine  pitagoriche.  Anche  nel  Po- liticOj  che  po3>3Ìamo  pure  rigaardara  come  ano  degli  ultimi  dialoghi (cfr.  Sappi.  C,  carta  238,  in  nota)  si  diàtingaono  la  parte  immor- tale dell'anima  (cioè  la  razionale)  e  la  mortale  (y.  309  o/. (4)  V.  78  b-80  e. ohe  Platoce  non  ammetta  la  dottrina  della  tripartizione). La  soluzione  del  Fedro  é  quella  che  esiggono  i  motivi filosofici  della  dottrina  dell'immortalità,  poiché  1'  anima è  immortale  perchè  è  la  sostanza  che  è  il  principio  della vita,  e  sostanze  e  principii  della  vita  sono  anche  le  parti inferiori.  I  motivi  etici  e  Fontimentali  della  dotlrina  del- l'immortalità esiggono  invrcc  l'^iltra  soluzione,  poche  le speranze  dell'altra  vita  lichiedono  uno  j-tito  dall'anima in  cui  sia  esente  dalle  passioni  e  dai  b'sogni  del  coi  pò, e  in  cui  per  conseguenza  le  parti  inferiori  resterebbero senza  funzione.  Forse  Platone,  negando  1'  immortalità delle  parti  iDferioii,  intend».  rifiutare  solamente  ad  esse la  persistenza  dell'esistenza  individuale,  non  quella  della sostanza.  (Questa  è  una  conseguenza  inevitabile  dei  pre- supposti di  tutta  la  dottrina;  e  infatti  i  discepoli  imme- diati di  Plotone  insegnano  l'immortalità,  non  del  solo (XoYtaxixóv),  ma  dì  tut*:a  l'auma  (l). L'  immoitilità  e  preesistmza  dell'  anima  si  lega  col sistema  delle  Id^c  per  la  dottrina  della  intuizione  delle Idee  in  ua'a't*  a  vita  e  della  reminscenza  (2).  Noi  abbiamo notato  come  il  problema  di  spiegare  la  coincidenza  tra il  p3nsi«»rj  e  la  realtà  nelli  conoscenza  a  priori  divenga più  urgenti  nel  realismo  di^lottieo  (3):  e  infatti  in  quasi tutti  i  sistemi  appart  nenti  a  questo  tipo  (oltre  il  sistema a  di  Platone,  in  quelli  dì  H^gel,  di  Schelling,  di  Spinoza  (4 noi  troviamo  delle  ipotesi  destinate  alla  soluzione  di  questo problema.  Fra  le  tre  ipotesi  pò  sibili,  cioè  o  che  l'oggetto determina  il  pensiero,  o  che  il  pensiero  dc^erm'na  l'oggetto, Olimpiodori  Gommoni .   in  Platon.  Phaedo.  ap.  Cousin  in Jouniol  dcs  savants  1835  p.  145. (2)  V.  e.  VII  p.  U4  e  Sappi.  B  varte  142-U4. (3)  V.  e.  143. (4)  V.  o.  VU.  p.  431-442,  in  nota.  0  che  vi  ha  identità  tra  Toggetto  e  il  pensiero  (1),  sola- mente la  prima  e  l'ultima  sono  compatibiU  col  realismo dialettico:  col  sistema  platonico  non  è  compatibile  che  la prima,  cioè  qiieUa.  deWintinzione  i^azicnale,  perchè  le  Idee di  Platone  non  sono  d'^i  pensieri,  come  qiiel'e  di  Hegel,  ma delle  realtà  puramente  obbiettive  (2).  Noi  abbiamo  pure indicato  perchè  alla  dottrina  meno  mistica  di  un'  intui- zione in  questa  vita  Platone  preferisca  quella  dell'intui- zione in  una  vita  anteriore  e  della  reminiscenza  di  que- sta intuizione  (3).  Non  ci  resta  da  aggiungere  che  un'os- servazione, cioè  che,  quantunque  il  pro^^resso  reale  del pensiero  di  Platone  sia  stato  evidentemente  dalla  dot-,  trina  dell'  immortalità  e  preesistenza  a  quella  della  re- miniscenza, e  non  al  contrario,  non  è  strano  ch'egli  ri- guardi la  reminiscenza  come  una  prova  della  preesi- stenza ed  immortalità  (4)  :  quest'argomento,  al  suo  punto di  vista,  è  un  ragionamento  perfettamente  naturale  — è il  solo  di  quelli  del  Fedone,  oltre  l'ultimo,  ch'egli  crede rigoroso,  almeno  come  prova  della  preesistenza, perche  egli  vede  nella  reminiscenza,  e  quindi  nella  pree- sistenza che  essa  suppone,  l'unica  spiegazione  possibile della  conoscenza  a  priori. Passando  all'anima  cosmica,  cominceremo  ricordando che  essa  è  l'  unica  divinità  ammessa  da  PUtone  (6).  Il Demiurgo  del  Timeo  ò  un  s'mbolo  che  rappresenta  l'I- (1)  V.  Saggio  1  o.  3  §  7. (2)  V.  questo  Sappi,  n.  HI. (3)  V.  Sappi.  C  carte   Fedo,  71  e-77  a  e  Meno.  85  0-86  b. (5)  V.  Fedo.  91  e-92  e. (6)  V.  Sappi.  C,  carta  224. dea  del  Bene.  Il  nome  di  dio  dato  al  Bene  e  ad  al- tre Idee— e  da  Xenocrate  cnche  al  principio  materiale—, e  quello  di  divino  dato  a  tutte  le  Idee  in  generale,  è evidente  che  non  devono  prendersi  nel  senso  proprio, perchè  Platone  non  può  avere  Tinte  nzione  di  peisoni'fi- care  le  sue  astrazioni  realizzate,  che  non  sono  che  gli attributi  generali  delle  cose,  considerati  ce  me  sussistenti per  Fé  stess'.  La  parola  divino,  in  questo  come  in  tanti altri  casi non  significa  che  l'eccellenza  dell'oggetto a  cui  si  applica:  quando  insieme  all'idea  della  supe- riorità, viei  e  evocata  vagamente  quella  della  personalità,  dair  aggettivo  dhi'vo  Platoce  p?sea  al   gostan- V.  Supplem.  e,  carte  2^2-237.  V*  il  num.  seg. (3)  Que.ito  pare  essere  genernlmente  il  caso  in  tutti  i  luoghi  in cui  Platone  chiama    dei  delle  Idee  altre  che  quella  del  Bene.  Nel Parmenide  134  c-e  si  chiamano  dei  gli  esseri  ideali  in  cui  risiedono come  attributi  la  scienza  in  sé    e  la  padronanza  in    sé  (la  scienza e  la  padronanza  devono  essere  attributi  e  devono  inerire  in   qual- che sostanza  nel  mondo  delle  Idea  come  in  quello    dei  fenomeni). Sulla  fine  del  Timeo,  dove  il  mondo  è  chiamato dio  sensibile  immagine del  dio  intelligibile,    questo dio  intelligibile è    certamente l'animale  che  contiene  tutti  gli  animali  intelligibili,  di  cui a  30  c-d,  cioè  l'Idea  dell'animale,  parche  è  a  sua  somiglianza  che il  mondo  è  stato  fatto.  Nel  principio  dell'allocuzione  del  Demiurgo alle  divinità  generate, dei  di  del  (cioè   figli  di  dei),  opere  di  cui lo  sono  l'artefice  e  il  padre  (Tim.),  la  parola  dei,  la  seconda volta,  deve  denotare  altre  Idee  oltre,  quella  del  Bene  (rappresentata dal  Demiurgo):  noi  pensiamo  naturalmente  all'  Idea  dell'  animale (il  dio  intelligibile  di    cui  sopra^   e  alle  altre    Idee  meno   estere  a cui  gli  dei  individui  sono  subordinati.  Anche  a  37  e,  in  cui  il  mondo semovente  e  animato,  prodotto  dal  Demiurgo,  è  chiamato  un simulacro degli  dei  eterni  „,  è  naturale  d'intendere    per  questi  "  dei eterni  „  delle  Idee,  più  o  meno  g3nerali,  di  esseri    animati,  di  cui il  mondo  è  la  realizzazione. tivo  dio,  senza  che  iotenda  perciò  assegnare  alle  astra- zioni  che  decora  di  questo  nome,  una  funzione  analoga, anche  lontanamente,  a  quella  degli  esseri  personali  d'uua forma  qualsiasi  della  fìlosotìa  teologica.  In  quanto  all'I- dea del  Bene,  abbiamo  osservato che  Platone  non   può chiamarla  dio  che  perchè  vede  in  essa  il  primo  principio delle  cose  (1)~  la  stessa  ragione  spiega  naturalmente  per- chè Xcnocrate   possa  estendere    qu«>sto    nome    anche  al principio  materiale-.  Al  nostro  punto  di  vista  moderno sembrerà  strano  che  la  divinila,  nel  senso  proprio,  non sìa  per  Platone  che  un  principio  derivato.    Per  un  filo- sofo moderno  Dio  e  Vassoliifo,   e  perciò    egli   trove- rebbe assurdo  di  supporre  un  principio  superiore  a  Dio stesso:  ma  questo  concetto  deirassoluto,  come  carattere essenziale  della  divinità,  manca  ancora,  come  vedremo in  seguito,  in  Platone,  e  in  generale  nella  filosofia  teo- lo^nca  antica  non  si  sviluppa  che  d'una  maniera  incora- pietà. Il  teismo  in  Platone  è  ass'so  sulle  sue  basi  naturali. Vi  hanno  secon  lo  lui  due  prove  della  divinità:  la  prova teleologica  (tirata  sovratutto  dalla  regolari  à  dei  movi- menti dcgU  astr)  e  quella  foti-lata  sul  concetto  cho  l'a- nima è  ì\  principio  del  movimento.  Cfsi  Dio  ò  per Platone  il  principio  motore  {i)  e  ordinatore dell'uni- verso-la  doppia  fuu//iono  che  U  divinità,  come   prinei- (1)  V.  cap.  Vn.  p.  1D4. (2)  V.  e.  II  §  5. V.  voi.  I  e.  2  §  2  pag.  53-54  e  §  3.  p.  83. V.  Fedro  245  c-e,  Leoai  894  e-  898  b,  Epinom.  988  d-e,  eco. (5)  V.  FUeho  26  e-  27  e,  28  d-a,  30  ed,  iioilsla  263  c-e,  266  b-d. Fedone  97  e-  99  e,  Timeo  4>  e  e  seg.  (cfr.  Sappi.  C,  carte  233-234), Leitai  892  a-800  b,  9u3  d-o,  9o7  d,  Kpinjmtde  981  b,  982  a-  983  e,  991 c-d,  ecc. cipio  esplicativo  dei  fenomeni,  ha  nella  filosofia  teologica antica,  e  possiamo  cnche   aggiungere,    nella    teologia naturale. Vi  hanno iniziatone    due   dottrine    della    finalità,    1' una    imma- nenie  e  1'  altra  frascendenfe.  La  prima   consiste  ad  am- mettere   che  il    Rene  è  l'  Idea    delle  Idee,    il  tipo    uni- versale  su  cui  tutti  gli  esseri    sono  costruiti,  e  che  esso esiste  per  una  necessità  primitiva,  tale  che    la  sua  non e-^istenza  sarebbe  inconcepibile  e  contradittoria.    La  se- conda spiega  la  finalità  dfgli  og-etti  materiali  e  che hanno  avuto  un  comiuciamento  —  vedendo  in  essi  deo-li effetti  d'una  causa    perdonalo,    agente  con  un  piano  e per  uno  scopo.  Queste  due dottrine  non  sono  incompa- tibili, perchè   non  vi  ha  contraddizione  ad  ammettere  al tempi  stesso  che  è  una  neces.^ità  logica  che  i  fenomeni si  prò  lucano  in  grazia  d'uno  scopo,  e  che  tra  gli  ante- cedeni'  dei  fenomeni  che  si  producono  cosi  ve  ne  hanno alcuni  iuacc  ssibili  airespcrieuz^;  e  se  sì  ammette  que- sta seconda  ipotesi,  non  solo  non  è  contradditorio,  ma ò  naturale  di  supporre  che  gli  antecedenti  di  cui  si  tratta devono  essere  tali  da  spiegare  la  natura  dei  loro  conse- guenti. E  vero  però  che  una  volta  che  la  finalità  viene spiegata  per  la  sua  necessità  logica,  un'altra  spiegazione non  potrà  più  rigaardarsi  come   iiKli«pensabile.    Ma  ciò non  toglie  che  l'analogia  suggerisca,    anche  in  questo caso,  delle  cause  personali:  seni  pile  traente  non  si  potrà più  pretendere  che  il  ricorso   a  queste  cause    sia  neces- sario, e  l'argomento  teleologico,  per   conseguenza,  non potrà  più  aspirare  al  valore  di  una  prova  completa  (3). (1)  V.  voi.  1  e.  2  s  2-0.  sui. pi.  C.    V  carta  2i34, Il  concetto  che l’anima  è  la  forza  motrice  si  sviluppa  in Platone  nella  dottrina  che  essa  è  la  causa  prima  di  tutti i  fenomeni,  e  in  lui  troviamo  già,  quantunque  in  una forma  meno  precisa  che  in  Aristotile,  l'argomento  della causa  prima  per  provare  la  divinità  (2).  La  dottrina  che l'anima  è  la  causa  prima  implica  quella  dt3lla  sua  du- rata infinita,  almeno  nel  passato.  Tuttavia  nel  Timeo  le si  dà  un'  origine  nel  tempo,  come  all'universo  in  generale; ma  noi  abbiamo  visto  che  la  cosmogonia  del  Tu meo  è  un  semplice  simbolo,  che  rappresmta  la  deriva- zione logica  di  tutte  le  cose  dai  due  primi  principii  (1 Bene  e  la  Materia)  (3).  Nelle  Leggi  si  parla  pure  dell'a- nima come  generata  (anteriormente  a  tutte  le  altre  coso, di  cui  è  la  causa  prima):  è  che,  come  abbiamo  osservato, Platone  nei  suoi  ult'mi  scritti,  dandosi  per  un  pitagorico, vuol  conformarsi  alla  dottrina,  secondo  lui  exoterica,  dei Pitagorici,  che  attribuiva  al  mondf)  un'origine  nel  tempo (benché  la  loro  dottrina  reale  fosFe  che  esso  è  eterno. L'insieme  della  teoria  psicologica  di  Platone  e  il  sistema delle  Idee  (che  suppone  l'etirnità  e  la  necessità  dell'or- dine attuale  del  mondo)  esiggono  indispensabilmente  la dottrina  dell'eternità  dell'anima,  insegnata,  del  resto,  nel Fedro  e  in  altri  dialoghi  (5). Ai  motivi  filosofici  della  credenza  nella  divinità  e  alle sue  funzioni  corrispondenti  si  aggiungono  (come  per la  credenza  jiell'  immortalità  dell'  anima  individuale) i  motivi  etici  è  sentimentali  e  le  funzioni  che  corrispon- (1)  V.  Sappi,  e,  carta  224. (2)  Sappi.  C,  carte  (U  V.  Sappi.  C,  carte  235  e  238. (5)  V.  Sappi.  C,  carta  225, dono  a  questi.  Platone  si  diffonde  a  dimostrare  che gli  dei  hanno  cura  delle  cose  umane,  non  meno  delle piccole  che  delle  grandi.  Che  i  nostri  affari  siano piccoli  0  grandi  agli  occhi  degli  dei,  non  può  con- venire ad  essi  di  negligerli,  perchè  la  negligenza, l'inerzia,  la  mollezza  non  possono  appartenere  a  dio, a  cui  bisogna  attribuire  l'eminenza  in  ogni  virtù.  D'al- tronde le cose  piccole  sono  più  facili  a  curare  che  le grandi   riflessione  notevole,  perchè  ci  mostra  quanto Platone  è  lontano  dal  concetto  deir  onnipotenza  .  La provvidenza  divina  ha  sovratotto  per  oggetto  che  cia- scuno abbia  la  sorte  che  merita,  mettendo  V  anima  che è  divenuta  migliore  in  un  posto  migliore,  e  la  peggiore in  uno  peggiore:  del  divenire  poi  ciascuno  di  noi  mi- gliore o  peggiore  ne  ha  lasciato  le  cause  alla  nostra  vo- lontà; ordinariamente  infatti  ciascuno  diviene  di  animo quale  desidera  di  essere  (4).  Non  bisogna  credere  però, come  dicono  i  più,  che  Dio  è  causa  di  tutte  le  cose:  egli è  buono,  e  per  conseguenza  può  essere  causa  dei  sol! beni,  ma  non  dei  mali  (5).  Vi  hanno  due  sorta  di  anime, l'una  buona  e  l'altra  cattiva  :  i  movimenti  tendenti  al bene  sono  prodotti  dall'anima  buona,  quelli  teadenti  al male  dalla  cattiva  (6).  Quella  che  governa  l'universo  è l'anima  buona:  tuttavia  Platone  afferma  che  la  somma dei  mali  sorpassa  quella  dei  beni  (7),  ciò  che,  tenuto conto  delle  proposizioni  precedenti,  non  permette    di  at- (1)  Leggi  899  d-  905  d. (2)  Leggi  902  o-  903  a. (3)  Leggi  9(»  d-  904  e. (4)  Leggi  904  e.  Questo  coocetto  è  espresso  simbolicamente  nella scelta  delle  anime  nel  mito  salla  fine  della  Jiepubblica,   72#p.  379  a-380  e. Leggi,  Eptnom,  088  e. (7)  Leggi  906  a,  Rsìk  379  o. —  2HÌ  — tribuirc  a  Dio  che  una  potenza  molto  limitata.  Platone combatte  le  idee  della  religione  popolare  che  e^W  erede indegne  della  divinità,  p.  e.  che  gli  dei  si  svìFano  sotto forme  diverse  ingannando  gli  u'-mini,  che  vi  hanno ira  di  essi  delle  ingiurie  e  delle  inimicizie  reciproche  (2), che  i  cattivi  possono  propiziarseli  con  doni  ed  adula- zioni IO),  ecc.  Naturalmente  sarebbe  vano  di  cercare  in Platone  i  concetti  della  spirituali;!  e  della  semplicità  di Dio.  La  divinità,  cioè  ranfnia  cosmica,  è  una  specie  del genere  anima:  essa  ha  dunque  la  stessa  natura  semi- materiale  deiranima  dell'uomo  e  degli  altri  esseri  ani- mati, vale  a  dire  ò  estesa  (4),  si  muove  continuamente  u")), e  muove  i  corpi  comunicando  loro  il  proprio  movimen- to (6).  Da  ciò  che  precede  si  vede  anche  che  mancano nella  teologia  platonica  i  concetti  di  quella  che  abbiamo chiamato  teologia  ircmcendenlale  (7),  cioè  le  dottrine  che Dio  è  immutabile  e  fuori  del  tempo,  e  che  e  V  infinito o  P  assoluto  (cioè  che  tutti  i  suoi  attributi  si  elevano  a un  grado  infinito  o  assolutoi.  Il  Dio  di  Platone,  lungi di  essere  immutabile,  è,  come  abbiamo  detto,  in  un  mo- vimento continuo:  inoltre  egli  ragiona,  prevede,  si  ri- corda, ecc.  8);  d'  altronde  Platone  non  avrebbe  potuto immaginare  una    coscienza    che  non  consìste    in  muta- ti) h'ep.  380  d  .e  siiq. (2)  Jtejì.  377  d-  378  e. (3)  Lemii  905  d-  007  b. (4)  V.   Tim,  34  b,  35  a,  36  e,  Ar.  Ih'  an.  1.  1.  Ul.  12,  ecc. (5)  V.  Thn,  36  e-  37  e,  47  b-c,  1)0  d,  Fedro  245  e,  Ar.  De  ci.  I.  1 HI.  15,  ecc. (6)  V.  Ufffi'i  894  e-  896  b,  Fcffnf  245  e-   246  a,  Arisi.   I>c  >tn,\,  1. II.  4,  Hi.  11. O)  V.  e.  2  ?%  5. (8)  V.  e.  2  s  h  p.  l-u. menti,  perchè  per  lui  i  fatti  della  coscienza  non  sono che  movimenti  dell'anima.  Il  concetto  che  Dio  è  Pas- soluto  o  l'infinito  implica  quelli  della  sua  potenza  e  cau- salità infinite  (2).  Ma  la  causalità  e  la  potenza  del  Dio di  Platone  trovano  un  limite  nella  materia  e  negli  altri esseri  spirituali  (tra  cui  l'anima  cattiva,  che  sono  egual- mente primitivi  che  lui  :  di  piti  la  sua  efficienza  si  ri- duce unicamente  all'  azione  motrice,  e  questa  non  può esercitarla,  come  l'uomo  o  qualsiasi  altro  essere  corpo- reo,  cbe  a  contatto  e  per  impulsione  (3).  Risulta  pure dall'esposizione  precedente  che  la  teologia  di  Platone  è un  dualismo  radicale,  in  cui  Dìo  e  la  materia- o,  me- glio, la  sostanza  del  mondo— sono,  non  solo  due  sostanze distinte,  come  in  quasi  tutti  i  sistemi  della  filosofia  teo- logica antica,  ma  due  sostanze  egualmente  primitive, coeterne  e  inconvertibili  l*  una  nell'  altra.  Non  è  foifc inutile  di  osservare  che,  siccome  Dio  e  le  Idee  sono  due cose  interamente  differenti,  questo  dualismo  non  ha  niente di  contrario  alla  immanenza  delle  Idee  nel  mondo,  né  al monismo  della  prima  forma  del  sistema  platonico,  in  cui l'Idea  del  Bene  è  il  tutto  allo  stato  implicito.  Per  la  stessa ragione  esso  non  ha  nie  te  di  comune  col  dualismo  della forma  posteriore,  in  cui  al  Bene  sì  aggiunge,  come  altro (1)  V.  e.  184  in  noia.  I  luoghi  ivi  citati  sall'id3ntità  del  pensiero al  movimento  si  riferiscono  o   esclusi  vani  3nte  o    anche  all'  anima dei  mondo. (2)  V.  e.  2  §  5  p.  135. V.  Suppl.  C,  IV.  e.  229  e  la  p.  prec.  n.  6.  Oltre  alla  sua  azione motrio3  per  impulsione,  Platone  sembra  ali  ribaii-.^  all'  anima  cosmica uno  sforzo  per  mantenere  la  coesione  dell'universo  e  dei  corpi  celesti e  la  pergistenza  della  loro  forma.  Questo  sforzo  non  è  in  verità  un'azione  motrice,  ma  è  eviden. temente  immaginato,  come  questa,  sul  tipo  della  nostra  azione muscolare. —  2.s:ì  — princìpio  primo,  la  Materia,  né  vi  ha  fra  questi  due  dua- lismi alcuna  relazione  logica.  L'influenza  recìproca  tra la  psicologia  platonica  e  la  sua  teologia  è  evidente.  Al dualismo  antropologico  tra  Tanima  e  il  corpo  corrisponde il  dualismo  cosmologico  tra  Dio  e  il  mondo  materiale  : alla  indipendenza  deli'  anima  cosmica  dalla  materia  e alla  sua  primordialità  e  inconvertibilità  con  essa,  richieste dalla  sua  funzione  di  causa  prima,  corrispondono  Tindì- pendenza  della  psiche  umana  dalle  condizioni  somatiche e  la  sua  esenzione  dalla  nascita  e  dalla  morte. Ciò  che  vi  ha  di  più  oscuro  nelle  idee  di  Platone  sul- ranimaèil  carattere  vago  del  suo  concetto  deTindividua- lità  psichica.  Noi  abbiamo  visto  che  Tanima  individuale è  composta  secondo  lui  di  tre  parti,  ciascuna  delle  quali costituisce  in  realtà  un'anima  distinta.  Qualche  eosa  di simile  si  ha  nella  sua  dottrina  dell'  anima  cosmica.  Ri- guardando  il  mondo  come  un  grande  individuo  animato, egli  concepisce  Tanima  che  lo  vivifica  come  unica,  come quella  di  qualsiasi  altro  individuo  animato  (l).  QuestV nima  è  per  lui,  come  abbiamo  detto,  la  divinità  :  ma  la sua  unità  non  importa,  per  lui  come  per  gli  altri  filo- sofi greci  che  ammettono  un'anima  del  mondo,  il  mono- teismo, almeno  rigoroso.  Egli  riijuarda  pure  come  indi- vidui animati  la  terra  e  tutti  gli  astri,  sì  i  pianeti  che le  stelle  fisse,  e  attribuisce  quindi  un'anima  a  ciascuno di  questi  corpi  (2).  Ognuna  di  queste  anime  è  conside- rata  naturalmente   come    una  divinità   particolare    (3), (1)  V.  Filebo  30  a,  Tim,  30  h-c,  34  b-c,  36  d-37  e,  eoo. (2)  V.  Tim.  38  c-e,  39  e-  40  d,  Leggi  898  d-  899  b,  Epinom.  981  e- 983  e,  984  e,  985  d-  988  d,  ecc.  V.  i  1.  ìnd.  nella  nota  precedente. Platone  chiama  dei  non  solo  l'  anima  del   mondo  e  quelle  del Inolti'vi  egli  ammette  dei  demoni,  esseri  d'  una  divinità imperfetta  (tra  cui  ve  ne  hanno  anche  dei  malefici. Ora  per  !e  anime  della  tv*rra  e  degli  «stii,  è  evidente che,  secondo  Platone,  esse  non  esistono  al  di  fin  ri  dol- Tamica  cosmica,  •  di  cui  soho  come  dolio  parti.  Inlatti nel  Timeo  il  Demiurgo  non  costruisce  che  V  anima  del mondo  e  quelle  degli  animali  mortali:  degli  astri  non costruisce  che  i  corpi  (3),  quantunque  V  autore  li  dia espressamente  come  esseri  animati;  e  che  vi  s'ano  altro anime  oltre  quelle  che  il  Demiurgo  ha  costruite,  è  escluso dal  luogo  in  <!Ui  si  dice  (dopo  che  si  è  narrata  la  for- mazione degli  animali  divini,  cioè  degli  astri)  che  egli ha  composto  V  anima  degli  animali  mortali  coi  resìdui degr  ingredienti  con  cui  aveva  composto  l'  anima  del mondo.  Un'aUra  prova,  anche  più  decisiva,  è  la  di- visione dell'anima  cosmica  nel  cerchio  della  natura  dello stesso  (che  rappresenta  il  movimento  diurno  del  cieloì  e i  cerchi  della  natura  del  diverso  (che  rappresentano  le orbite  dei  pianeti:  se  i  movimenti  planetari  sono  at- corpi  celesti,  ma  anche  il  mondo  stesso  e  gli  stessi  corpi  celesti. Questa  estensione  dell'  attributo  della  divinità  dall'  anima,  a  cui propriamente  appartiene,  all'  essera  animato  (cfr.  e.  2  §  1  p.  47  e §  d  pag.  167)  è  troppo  ovvia,  per  poter  farsene  un  argomento  con- tro il  dualismo  di  Platone,  che  risulta  nettamente  dalia  sostantifi- cazione  del  principio  spirituale  e  dalla  opposizione  radicale  tra  esso e  la  materia. V.  Platone  Fedro  246  e,  Conv,  202  e-  2(»a,  Leggi  UT  h,  906  a, Epinom.  984  b-  985  b,  Plutarco  de  Is.  ut  Osir,  25-26  e  de  oracul.  de- fectu  17,  ecc. (2)  Tim,  34  e-  36  d  e  41  d-  42  e. (3)  V.  38  c-e  e  40  a. (4)  Tim,  41  d . (5)  Tim.  36  c-d.  Cfr.  37  a-c. - tribuiti  airanima  cosmica,  siccome  il    principio  del  mo- vimento iW  ciftsciin    pianeta  deve    essere  la    sua   anima particolare,  Jc  anime  particolari  dei  pianeti  non  possono essere  che  delle  parti  dell'anima  cosmica,  ^)ues^a  ù  dun- que per  Platone  un  individuo  superiore  che  contime  n  1 suo  seno  altri  individui  inferiori.  Noi  non    troviamo  al- cuna difficoltà  ad  ammettere,  n-l  mondo  fisico,  delle  in- dividualità di  ordine  diverso,  in  modo  che  un  individuo di  grado  superiore  contenga  in  se  stesso  degP  individui di  grado  inferiore  (p.  e.  l'organismo  e  le  cellule  che  lo costituiscono).  Platone  suppona  che  qualche  cosa  di  ana- logo si  dia  anche  nel  mondo   psichico:   egli  non  trove- rebbe niente  di  strano  nel  concetto  di  Haeek<^l  e  di  altri filosofi    contemporanei,     che    riguardano     l'  anima    di un  organismo    vivente    come  la  risultante    delle    anime delle sue cellule. A dir vero Platone non può riguardare l’anima    cosmica    come  una    risultante    delle anime  degli  astri:  queste,  rapporto  alla  prima,  piuttosto che  agli  elementi  che  compongono  un  tutto,  potrebbero paragonarsi  a  dei  rami  divergenti  da  un  tronco  comune, o  a  dei  punti  cmer;?enti  in  una  superfìcie,  ciascuno  dei quali  costituisce  un'unità  distinta,  quantunque  sia  al  tempo stesso    una  parte   di  un'  UTiità    più  comprensiva.    Que- sto concetto  d'  u^  individuo  psichico   che  contiene  altri individui  ps'chici,    in  Platone    come  negli    altri  filo^^ofi antichi  in  cui  io  troviamo,  per  quanto  poco  naturale  in se  stesso,  è  una  conseguenza  logica  d'  un'  idea  natura- lissima al  punto  di  vista  della  concezione  animista  della natura,  cioè  che  in  questo  granie  individuo  vivente  che è  Puaivers-»,  vi  hanno  delle  parti,  vale  a  dire  i   grandi corpi  che  si  muovono  in  esso,  che  manifestando  una  vita sino  ai  un  certo  punto  indipondente,  devono  riguardarsi anch'essi  come  individii  viventi.    Se  si  suppone    che  la vita  e  i  movimenti  dì  un  es=?ere  animato  sono  prodotti dall'anima  che  lo  vivifica,  siccome  le  vite  e  i  movimonti degl'individui  inferiori  fanno  parte  della  vita  e  dei  mo- vimenti deiriniividuo  più  vasto  che  li  contiene,  sarà  lo- gico di  concluderne  che  le  anime  dei  primi  fanno  parte dell'anima  del  secondo,  estendendo  al  concetto  dell'  in- dividualità psichica  la  relatività  che  vi  ha  in  quello  del- Pindividualità  fisica.  A  questo  punto  di  vista  le  anime stesse  degli  animali  propriamente  detti  noni>otranuo  ri- guardarsi come  assolutamente  distinte  dalla  grande  anima del  tutto  :  cosi  secondo  il  FUeboìa.  nostra  anima  ci  viene da  quella  dell'universo  (1),  come  se  ne  fosse  una  parte, che  le  condiz'oni  della  vita  terrestre  hanno  isolata, ma  che  prima  era  congiunta  al  tutto  con  legami  più  in- timi, benché  avesse  già  un'esistenza  individuale,  perchè Peternità  d^^lPanima  importa,  come  abbiamo  detto,  la persistenza  dell'individuo,  e  non  semplicemente  della  so- stanza. Vi  hanno  in  Platone,  come  abbiamo  già  osservato  (3)* due  spiegazioni  del  mondo,  corrispondenti  a  due  concetti differenti  della  causa  efficiente.  L'una  è  la  dottrina  del- l'anima cosmica:  essa  é  una  varietà  della  filosofia z\<?^m- Uva  dello  spirito  umano,  e  corrisponde  al  concetto  spon- taneo della  causalità,  che  ci  fa  considerare  come  causa- zioni efficienti  le  sequenze  tra  fenomeni  che  ci  sono  le più  familiari.  L'altra  è  il  realismo  dialettico,  che  intro- duce fra  i  concetti  un  nivsso  logico  continuo,  e,  mediante 0)  Fllebo  28-20. C^ì  Ti'animadeU'uomo.  oa^ofli  nK  ri  animali  ba  abitato  negli  astri, partecipando  al  governo  d^l  mondo,  e,  puriHcata,  ritornerà  ad  a- bitarvi.  V.   Tini.  41  d-  42  d  e  90  a  e  Fedro  la  loro  realizzazione,  dà  a  questo  nesso  logico  il  valore di  un  nesso  ontologico,    cfoè  trasforma  il   rapporto    tra princìpio  e  conseguenza  in  un  rapporto  tra  causa  ed  ef- fetto. L'  uno  di   questi    due  generi   di spiegazione  non esclude  l'altro,  perchè  non  vi  ha  alcuna  incompatibilità tra  i  due  concetti  della  causalità  su  cui  sono  fondati.  Il realista  dialettico  non  può  non  ammettere  anch'egli,  ol- tre alla  nuova  specie  di  cau-^azione   che  egli  introduce, cioè  la  filiazione  tra  i  concetti  realizzati,  quest'altra  spe- cie di  causazione  che  tutti  ammettiamo,  e  che  si  riduce a  una  successione    costante  tra  fenomeni.    Le  tendenze istintive  del  nostro  spirito  lo  spingeranno  a  immaginare, in  queste  sucessioni  costanti  tra  i  fenomeni  che  egli  non può  non  ammettere,  degli  antecedenti  tali  che  possano spiegare  i  loro  conseguenti,  cioè  che  ne  siano  delle  cause produttrici  o  efficienti  :  questo  processo  di  efficienza  cau- sale può    coesistere  con  quello    del   realismo dialettico, perchè  Tuno  produce  dei  fenomeni  concreti  e  individuali, mentre  Taltro  non  produce  che  delle  entità  astratte,  cioè le  forme  e  le  leggi  generali   di  questi  fenomeni.  Il  rea- lista dialettico  considera,    è  vero,  le  sue  entità  astratte come  le  cause  dei  fenomeni  di    cui  sono    le  forme  e  le leggi  generali  :  ma  questa  causazione    non    sarebbe  incompatibile con  quella  dei   loro  antecedenti   fenomenali (cioè  che  sono  dei  fatti  o  degli  esseri  individuali  e  con- creti) che   neir  ipotesi,  sconosciuta  a  qualsiasi   realista dialettico,  che  le  entità    astratte  fossero  fuori    dei  feno- meni (come  neir  interpretazione  trascendentalista    delle Idee  platoniche).  Le  entità  astratte, secondo  il  realista dialettico,  sono cause  dei  fenomeni, non  in    quanto  li producono,  ma  in  quanto  sono  delle  condizioni  senza  di cui  essi  non  potrebbero  esistere,  costituendo  la  loro  essenza la  loro  vera  realtà.  Ma  se  fossero  fuori  dei  fenomeni, non  potrebbero  esserne  le  cause  che  produoendoli  :  in questo  caso  la  loro  causalità  e  quella  degli  antecedenti fenomenali  (ammessi  a  titolo  di  cause  efficienti,"'{com'è evidentemente  Tanima  del  mondo  di  Platone)  si  esclu- derebbero a  vicenda,  e  bisognerebbe  scegliere  tra  Tuna e  Taltra  ipotesi  (l).  Potrà  sembrare  tuttavia  che,  se  la spiegazione  del  realismo  dialettico  e  quella  della  filosofia istintiva  non  sono  incompatibili  in  quanto  Tuna  esclu- de Taltra,  lo  sono  però  in  quanto  l'una  rende  Taltra  su- perflua. Le  due  spiegazioni,  in  effetto,  si  applicano  agli stessi  fatti  (tutti  i  fenomeni  in  generale);  ma  quando  un fatto  si  è  già  spiegato,  è  perfettamente  inutile  di  cer- carne un'altra  spiegazione.  Questo  ragionamento  sarebbe valevole,  se  l'una  o  l'altra  delle  due  spiegazioni  potesse sembrare  soddisfacente,  anche  ad  un  metafisico;  ma  esse non  lo  possono  né  l'una  né  l'altra.  Limitandoci  a  Pla- tone, è  facile  di  mostrare  che  la  sua  dottrina  dell'anima del  mondo— anche  senza  tener  conto  delle  difficoltà  ine- renti a  quest'ipotesi non  può  dare  che  una  soddisfazione incompleta  a  questo  bisogno  di  conoscere  le  cause  per cui  tali  ipotesi  sono  immaginate.  Prima  di  tutto  un'ipo- tesi sulle  cause,  per  essere  una  spiegazione  completa- mente soddisfacente  dei  fenomeni,  dovrebbe  essere  tale da  poterne  dedurre  la  natura  degli  effetti,  cioè  da  poter concludere,  come  conseguenza  dell'ipotesi,  che  i  fenomeni devono  essere  cosi  come  sono  in  realtà,  e  non  altrimenti. Ma  r  anima  del  mondo  può  spiegare  solamente  perchè esiste  il  movimento  e  perchè  vi  ha  un  ordine  nella  na- tura (ciò  che  il  metafisico  chiama  finalità)  :  essa  non spiega  perchè   hanno  luogo   precisameute    questi  movici) V.  o.  3  S  6  saUa  fine. meati  e  pciclH*  esiste  precisamente  quest'ordine,  che  noi osserviamo  nel  mondo  reale  (noi  non  sappiamo,  p.  E., perchè  l'anima  dtl  mondo,  da  cui,  t^econdo  Platone  (1), sono  prodotti  gli  animali,  le  piante  e  tutti  i  corpi  che vediamo  sulia  terr».  produce queste  specie  piuttosto  che altre,  pure  dotate  di  tinalità,  ma  più  o  meno  dift'erenti). Di  più,  nei  limiti  stes-^i  dentro  cui  si  restrino^e  questa spiegazione,  per  il  fatto  stesso  che  è  desunta  dall'ipotesi di  agenti  traseon^lentì,  a  cui  non  si  può  attribuire  che un  modo  d'azione  in  gran  parte  diverso  da  ((ùello  degli agenti  deiresperienza,  ossa  non  può  assimilare  comple- tamente il  modo  dì  produzione  dei  fenomeni  alle  cau- sazioni che  ci  sono  le  più  familiari,  ciò  .^he  sarebbe  ne- cessario perchè  la  spiegazione  fosse  completamente  sod- disfacente (p.  e.  Platone  attribuisce  all'anima  del  mondo la  percezione  degli  oggetti  (2),  ma  senza  i  nostri  organi dei  sensi  :  è  quanto  basta  per  rendere  il  suo  modo  d'a- zione incomprensibile).  Un'altra  oscurità  viene  alla  spie- gazione animista  dalla  sostantificazione  dell'  anima.  La conseguenza  di  questa  è,  come  abbiamo  visto,  che  Ta- nima  muove  il  corpo  per  il  proprio  movimento,  ciò  che, importando  che  il  movimen*;o  che  essa  produce  imme- diatamente non  è  quello  voluto,  ma  un  altro  non  voluto né  saputo,  allontana  l'ipotesi  animista  dal  tipo  su  cui  ò modellata,  cioè  la  nostra  azione  volontaria  secondo  il modo  più  familiare  di  rappresentarcela,  e  ne  diminuisce quindi  il  valore  esplicativo.  Dall'altra  parte,  il  realismo dialettico  piuttosto  che  una  spiegazione  è,  come  abbiamo detto,  un  sembiante  di  spiegazione  :    quand'  anche  il  si- li) V.  Sof,  2(»5  e-  266  b. (2)  V.  Tim.  in  b,   Ugai  901  d,  ecc. Stema  fosse  vero,  esso non  darebbe  una soddisfazione reale  al  nostro  bisogno  di  cono  scere  le  cause   efficienti, ma  a  queste  cause  che  aspiriamo  a  cmoscere,   sostitui- rebbe un  succedaneo.  L'insufficienza  delle  due  spigazioni, ((uella  dA  realismo  dialett'co  e  ([uella  della  filo- sofia istintiva,  ci  dà  ragione  del  fatto  che  non  vi  ha  un sist  ma,  in  cui  la  prima  di  queste  spiegazioni    non  sia accompagnata  dall'altra.  1>a    le  varie    forane  della filosofia  istintiva,    (|uella  ebe  ora  ])iù  in  armonia  col  si- stema delle  Me3  pUtonichr*,  era  la  t'^ologiea.  Il  sustrato della  filosofia    di  Platone  ò  una    concezione    del  mondo che  abbiamo  chiamato    orga n teista   cioè    domiuata  dai concetti  desunti  dall'osservazione  degli  esseri  viventi,  e in  cui  Tessere  vivente  stesso  è  elevato  a  tipo  di  tutti  gli esseri  in  gcceralc.  L'influenza  di  questa  concezione organicista  del  mondo  sul  sistema  delle   Idee  sì  osserva nell'ipotesi  dello  Idee  stesse  e  sovratutto  nei  due  tratti  ea- ratteristfci  della  dialettica  platonica,  cioè  la  dieresi,  e  TI. dea  del  Bene  elevata  a  forma  universale  e  principio  primo di  tutti  gli  esseri.  Questa  stessa  concezione  conduco per  una  doppia  via   alla  dottrina  dell'  anima    cosmù^a  : Cloe  assimilando  il  mondo  e  i  corpi  celesti  agli  esseri  vi' venti,  e  suggerendo  una  spiegazione  teleologica  dell'  u- niverso,  che,  se  consiste  in  concetti  chiari  e  non  in  una vaga  e  incosciente  personificazione  di  ciò   che  si  sa  es- sere impersonale,  non  può  non  essere  al  tempo  stesso Cfr.  voi.  2.  p.  405. (•;?)  V.  voi.  2.  p.  461-465. (3)  V.  nota  3  a  pag.  2G3,  voi.  2. (4)  V.  la  stes-^a  nota  3  a  p.  26.^,  voi.  2. (V  V-  «uppl.   C,  IV,  (.-aria  2:?7. 1 una  spiegazione  teologica.  Naturalmente  questa  spie- gazione teleologica  delle  cose  per  un  agente  perso- nale è  suggerita  più  immediatamente  dal  posto  e  la funzione  dell'  Idea  del  Bene  nella  dialettica  se  non  è essa  piuttosto  che  li  ha  suggeriti  (1)—.  Cosi  le  due  parti della  metafìsica  di  Platone,  cioè  la  teoria  delle  Idee  e quella  deiranima,  lungi  di  essere  in  contraddizione,  si completano  e  si  chiamano  Tuna  con  Taltra.  Noi  abbia- mo visto  pure  la  dipendenza  reciproca  tra  le  dottrine  di Platone  suir  anima  cosmica  e  quelle  suir  anima  indivi- duale (2), Quantunque  l'anima  sia  un  essere  metaempirico  e  la causa  prima  deh'  universo  fenomenale,  è  evidente  che nella  grande  divisione  degli  esseri  di  cui  è  quistione nella  filosofia  platonica,  essa  deve  classarsi  insieme  coi fenomeni.  Al  punto  di  vista  del  sistema  delle  Idee,  la distinzione  più  profonda  è  quella  tra  l'astratto  e  il  con- creto, tra  l'universale  e  l'individuale.  Cosi  vi  hanno  da una  parte  le  entità  astratte  e  universali— che  nella  prima forma  della  filosofia  platonica  sono  considerate  tutte  come Idee,  e  nella  seconda  forma  si  distinguono  in  Idee  ed entità  matematiche   e  da  un'altra  parie  le  cose  con- crete e  individuali.  Le  prime  sono  riguardate  come  la vera  realtà,  le  seconde  come  fenomeni.  Non  vi  ha fra  queste  due  classi  alcun  termine  medio,  e  1'  anima, non  essendo  un'entità  astratta  ma  una  sostanzi  concreta, deve  far  parte  evidentemente  della  seconda.  Ne  segue che  il  rapporto  dell'  anima  con  le  Idee  non    può  essere (1)  Cfr.  Sappi.  C,  IV,  o.  237. (2)  V. sopra,  carta  283,  p.  2*. (3>  V.  Sappi,  C,  111,  e.  210. (4)  Sappi.  B,  parte  I  n.  IX. diverso  da   quello  che  le    altre  coss    fenomenali    hanno con  esse.  Questo  è,  come  sappiamo,  che  in  tutte  le  cose appartenenti  a  una  stessa  classe  è  presente  un'Idea  unica, che  non  è  che  la  sostantificazione  dell'attributo  o  somma d'attributi  comune  a  tutta  la  classe.  Per  conseguenza  in tutte  le  sostanze  che  si  chiamano  anima  è  presente  una Idea  unica,  V  Idea  dell'  anima,  come  in  tutti  gli  esseri che  si  chiamano  uomo,  animale,  albero,  ecc.  è  presente l'Idea  un?ca  dell'  uomo,  dell'  animale,   dell'  albero,  ecc. Naturalmente  l'Idea  dell'anima,  come  tutte  le  altre,  ha i  suo  posto  determinato  nella  gerarchia  del  mondo  ideale! vale  a  dire  ossa  è  contenuta   in    un'Idea  più   generale, questa  in  un'altra  ancora  più  generale,  e  cosi  di  seguito, sicché  si  giunga  al  contenente  universale,  che  è  l'Idea del  Bene  :  l'Idea  dell'  anima  dunque,  e  quindi  1'  anima stessa,  parteciperà  a  tutte  queste  Idee  di  più  in  più  ge- nerali a  cui  è  subordinata.  Se  la  classe  generale  anima cuotiene  altre  classi  inferiori,   che  bisogna   distinguere per  dififerenze  essenziali,  l'Idea  generale  dell'anima  con- terrà altre  Idee  meno  generali,  corrispondenti  ciascun  a a  ciascuna  di  queste  classi  inferiori.    Ma  tutte  le  anime individuali  (compresa  l'anima  cosmica,  che  è  anch'essa un  essere  individuale  e  concreto,  e  non  un'entità  astratta e  generale)  non  potranno  partecipare  che  all'Idea  che  è l'obbiettivazione  del  loro  concetto    comune,  e  alle  Idee più  generali  che  sono  1'  obbiettivazione  dei  concetti  più estesi  in  cui  esso  è  contenuto  :  1'  anima  avendo  un'  es- senza particolare  e  distinta  da  tutte  le  altre  cose,  a  que- st'essenza deve  corrispondere  un'Idea  pariicolare  e  di- stinta da  tutte  le  altre  Idee.  Vi  hanno  tuttavia  degl'in- terpreti che  pretendono  che    l'anima  non  partecipa  a  u- n'Idea  unica,  cioè  l'Idea  speciale  dell'anima,  ma  a  tutto il  mondo  ideale.    Questa   interpretazione   misconosce  il "fXffT coucettu  loudamciitale  della  dottrina  dì  Platone  sulT  a- nima,  cioè  che  qiiesla  è  una  sostanza  distinta,  e  non, p.  e.,  la  forma  del  corpo,  come  per  Aristotile.  Essa  po- trebbe avere  un  senso,  se  Tanima  cosmica  fosse  per  Pla- tone la  forma  deiruoiverso;  ma  con  una  tale  ipotesi  ^11 si  presterebbe  gratuitamente  un  concetto,  che  non  tro- viamo tè  in  lui  né  in  alcun  altro  dei  filosofi  antichi, compresi  i  panteisti,  che  hanno  ammesso  un'  anima  del mondo  (perchè  tutti  presuppongono  Tanlmismo,  cioè  la teoria  della  sostanza  anima,  quantunque  questa  secondo alcuni  sa  convertibile  con  le  sostanze  materiali,  secon- do altri,  ^vMnc  Platon^,  inconvertibile.  L'interpreta- zione in  verità  può  anche  avere  un  altro  senso,  indipen- dente da  ([uest'ipotesi;  sarebbe  la  dottrina  doir  identità dell'essere  e  del  pensiero;  ma  anche  questa,  come  vedremo nel  n.  Ili,  non  può  prestarsi  a  Platone  che  gratuitamente. Il  concetto  che  l'anima  partecipa  a  tutto  il mondo  ideale  si  fonda  su  un'  interpretazione  arbitraria della  composizione  dell'anima  cosmica  nel  Timeo,  che abbiamo  discusso  nel  Supplcm.  C,  n.  IV"  A  (sulla  ììnG). Ivi  abbiamo  visto  che  la  composizione  dell'  anima  non ditferisee  da  quf*lla  delle  a' tre  erse  nel  perioio  pita?o- reggiante  della  filosofia  platonica.  Oltre  che  d^lla  sua Idea  speciale  e  della  materia,  essisi  compone  anche  dei due  elementi  (l'Uno  e  la  Daal  tà  indefinita,  ch*^  nel  Ti- meo sono  chiamati  lo  Stesso  e  il  Diverso).  Ma  anche questa  seconda  composizione  non  è  particolare  all'ani- ma; perchè  tutte  le  Idee  e  tutte  le  cose,  nel  periodo  pì- tagorcggiaute,  sono  compost»  dei  due  elementi:  ciò che  è  particolare  all'anima  non  è  che  la  sua  applicazione gnoseologica,  cioè  la  spiegazione  della  possibilità  della conoscenza  per  l'identità  degli  elementi  del  soggetto  conoscente  e  degli  oggetti  conoscibili. Secondo  alcuni  interpreti  V  anima  sarebbe  per  Pla- tone un'  entità  intermediaria  e,  siccome  le  entità  inter- mediarie sono  le  entità  matematiche,  anche  un'  entità matematica.  Questo  concetto,  che  rimonta  ai  neoplatonici, è  fondato  sull'interpretazione  trascendentalista  delle  Idee platoniche,  quantunque,  come  suole  avvenire  quando  si tratta  delle  opinioni  stabilite,  esso  si  dia  spesso  come  una prova  di  quest'interpretazione  stessa  di  cui  è  una  con- seguenza. Nell'interpretazione  trascendentalista,  come abbiamo  osservato,  la  cauFalità  universale  delle  Idee verso  i  fenomeni  è  incompatibile  con  quella  dell'anima: pir  risolvere  questa  contraddizione  si  suppone  che  le Idee  non  siano  che  le  cause  remote  dei  fenomeni,  ed agiscano  sul  mondo  sensibile  per  l'intermediario  dell'a- nima, che  sarebbe  la  causa  prossima.  Questa  funzione dell'auima  di  intermediaria  fra  le  Idee  e  le  cose  sembra più  necessaria  nella  forma  dell'interpretazione  trascen- dentalista preferita  dai  critici  moderni,  secondo  cui  le Idee  sarebbero,  non  dei  pensieri  dell'intelligenza  crea- trice, ma  delle  sostanze  obbiettive  separate  dalle  cose  : in  questo  caso  infatti  ogni  efficienza  diretta  delle  Idee diviene  incomprensibile,  e  si  crede  perciò  indispensabile l'intervento  di  un  principio  attivo  come  l'  anima,  per mezzo  di  cui  possa  esercitarsi  la  loro  influenza  sui  fe- nomeni. Ora,  se  l'anima  è  una  sostanza  intermediaria fr^  le  Idee  e  le  cose,  essa  deve  essere  anche,  come  ab- (1)  V.  e.  '2  j^  0. i'I)  V.  Siippl.  0,  11.  II. 0)  V.  Sappi.  0,  IV,  e.  no  e   2é2. biamo  osservato,  un'entità  matematica,  perchè  nel  si- stema platonico,  come  sappiamo  da  Aristotile,  il  posto d'intermediari  fra  le  Idee  e  le  cose  non  è  assegnato  che alle  entità  matematiche.  Per  unire  poi  dei  concetti  cosi disparati  quali  sono  quelli  delFanima  e  delle  entità  ma- temati'^.he,  si  ricorre  come  termine  medio  a  quest'  altro concetto  che  le  entità  matematiche  sono  le  Idee  nel  loro rapporto  con  la  materia,  cioè  come  leggi  del  mondo sensibile perchè,  Platone  riguardando  il  mondo  come  un essere  vivente,  si  crede  di  poter  identificare  le  leggi  dei fenomeni  alle  funzioni  di  un  essere  vivente,  e  queste  al- Taniroa  che  lo  vivifica— .Che  le  entità  matematiche,  in- fine, siano  le  Idee  nel  loro  rapporto  con  la  materia  o  le leggi  del  mondo  sensibile,  sarebbe  provato  dal  i^7«6{?,  il népoLz  di  cui  si  tratta  in  questo  dialogo,  equivalendo,  se- condo questi  interpreti,  ai  Numeri  matematici  deirespo- siz^one  aristotelica. Cosi  questa  costruzione  è  fondata  sui  presupposti seguenti  : ì^  Che  le  Idee  siano  fuori  delle  cose.  Noi  l'abbiamo confutato  nel  Suppl.  B. 2^  Che  le  entità  matematiche  rappresentano  tutti  gli attributi  delle  cose,  e  sono  intermediarie  in  quanto  tra- mezzano tra  le  Idee  e  le  cose  considerate  nell*  insieme dei  loro  attributi.  Noi  abbiamo  visto  invece  (nel  Sup- plem.  C,  n.  Ili)  che  esse  non  rappresentano  che  i  soli attributi  aritmetici  e  geometrici  delle  cose,  e  che  non tramezzano  che  tra  i  numeri  ideali,  in  quanto  costitui- scono le  Idee  (cioè  i  concetti  obbiettivati  più  generali) di  questi  attributi,  e  questi  attributi  nelle  cose  stesse, cioè  individualizzati.  Questo  2^  presupposto  è  il  punto di  partenza  per  identificare  Tanirna,  come  principio  me- diatore, alle  entità  matematiche,  ed  è  contenuto  impli- citamente nella  supposizione  che  le  entità  matematiche sono  le  Idee  nel  loro  rapporto  con  la  materia  o  le  leggi del  mondo  sensibile. 3«  Che  il  Tiépa;  del  Filebo  equivalga  ai  Numeri  ma- tematici, ciò  che  proverebbe  (vista  l'evidente  immanenza del  nipoLz)  che  questi  numeri  sono  nelle  cose  stesse altro presupposto  implicato  nella  supposizione  che  le  entità matematiche  sono  le  Idee  nel  loro  rapporto  con  la  materia o  le  leggi  del  mondo  sensibile Noi  abbiamo  visto che  questa  equivalenza  tra  il  iiépa;  del  J^ilebo  e  i  Numeri matematici  è  inammissibile,  e  che  la  supposizione  che  i Numeri  matematici  e  in  genrrale  le  Entità  matematiche sono  nelle  cose,  è  in  contraddizione  col  l*'  presupposto che  è  il  fondamento  ultimo  di  tutta  la  costruzione,  cioè che  le  Idee  sono  fuori  delle  cose. Che  le  leggi  del  mondo  sensibile  possano  identi- ficarsi con  Tanirna  cosmica.  Questa  identificazione  è  una assurdità,  perchè l’anima  per  Platone  è  una  sostanza  di- stinta :  essa  sarebbe  tutto  al  più  possibile  se  V  anima fosse  per  lui,  come  p.  e.  per  Aristotile,  una  semplice  a- strazione,  designante  l'insieme  delle  funzioni  della  vita. Inoltre  essa  implica  Tidentità  del  uépa;  del  Filebo  e  del- Tanima,  mentre  Platone  ne  fa  due  generi  assolutamente distinti. Evidenfemenle  gl'interpreti  trascendentalisti  delle Idee  platoniche  devono  avere  una  ben  misera  idea  di Platone  come  pensatore,  per  potergli  attribuire  il  cumulo di  non  sensi  espresso  in  questa  proposizione  che  l'anima è  identica  agli  oggetti  matematici  e  ai  rapporti  numerici Suppl.  C,  IV.  e.  246-249   21»  - e  metrici  del  nàpx(;  del  FUebo.  L'anima  per   Platone   è, lo  sappiamo,  una  sostanza  particolare,  invisibile,  almeno per  gli  ivomini^  ma  estesa,  in  un   movimento  continuo, muovente  la  materia  per  la  comunicazione    del   proprio movimento,  e  avente  col  corpo  ch'essa   anima    determi- nati rapporti  di  posizione  reciproca  («).  Il  iispa?  e  leen* tità  matematiche  non  sono  che  certi  attribuii  delle  cose, considerati  come  esistenti  per  se  stessi,  come  tutte,  le  al- tre entità  della  metafisica  platonica.  L'anima  del  mondo dunque  e  il  mondo  stesso  sono  due  sostanze  distinte  ed esteriori  Tuna  all'altra;  il  itépag,  al  contrario,  come  sono costretti  ad  ammetterlo 'gli  stessi  interpreti    trascenden- talisti, e  quindi  anche   le    entità   matematiche,    poiché gli  equivalgono,  esistono  negli  oggetti  stessi   che   com- pongono il  mondo,  non  sono  un'altra  cosa  che  viene  ad aggiungersi  a  questi  oggett»,  ma  un  loro  elemento  con- cettuale, distinto  realmente  dagli  altri,  ma  come  in  un tutto  una  parte  si  distingue  dalle  altre. Il   Tiépac   e    le entità  matematiche  sono  degli  astratti,  l'anima  del  mondo è  una  realtà  concreta;  quelli  sono  degli  universali,  que- sta è  un  essere  individuale;  i  primi  sono  esenti  dal  can- giamento, come  tutte  le  astrazioni  realizzate  di  Platone e  di  qualsiasi  altro  realista  dialettico,    la    seconda   è  il tipo  più  completo  del  divenire    eraclitico. L'  identificazione di  concetti  cosi  disparati  Farebbe  cosi  poco   vero. Noi  abbiamo  visto  ohe  le  tre  parti  dell'opima  umana  sono alloggiate  nelle  tre  cavità  del  corpo.  Sull'anima  del  sole  Platone fra  tre  ipotesi  {Leggi)  :  o  sta  dentro  il  sole  come  la  nostra anima  dentro  il  nostro  corpo,  o  lo  spinge  dal  di  fuori  stando  in  un altro  corpo,  ovvero  lo  conduce  essendo  essa  stessa  s«nza  corpo  (ciò che,  secondo  i  prinoipii  di  Platone,  implica  pure  la  supposizione ohe  lo  spinge  dal  di  fuori). simile— non  solo  nel  divino  Platone,  come  lo  chiamano, certamente  per  un  omaggio  puramente  convenzionale, gl'interpreti  trascendentalisti,  ma  in  qualsiasi  filosofo  a cui  possa  farsi  la  modesta  lode  che  sa  quello  che  dice che  quand'anche  essa  fosse  l' interpretazione  più  natu- rale dei  testi,  noi  dovremmo  rigettarla,  e  preferirne  qua- lunque altra  possibile,  purché  avesse  un  senso  qualsiasi, anche  il  meno  ovvio. Ma  questa  identificazione,  lungi  di  essere  l'interpre- tazione più  naturale  dei  testi,  è  interamente  gratuita  ed arbitraria.  L'Identità  dell'anima  con  Tiépag  non  potrebbe essere  provata  che  dal  Filtho,  perchè  il  concetto  del  Tiépa^ è  particolare  al  solo  Filébor^  ma  noi  abbiamo    visto    che in  questo  dialogo  gli  esseri  sino  divisi  in  quattro  generi, e  che  del  népag  e  dell'anima  si   fanno    due   generi   distinti.  Né  Aristotile  né  alcun  altro  autore^  che  possa considerarsi  come  una  fonte  storica  per  la  filosofia  pla- tonica, parla  dell'identità  dell'anima  con  gli  oggetti  ma- tematici o  di  alcun  altro  concetto  simile.  Le  proposizioni in  cui  l'anima  o  la  sua  attività  é  messa  in  rapporto  coi numeri,  non  possono  prosrare  l'identità,  o  anche  un  le- game speciale,  tra  essa  e  i  numeri  matematici,    perché non  sono  evidentemente  che  delle  applicazioni  della  dot- trina generale  del  plcagorismo  e  del  platonismo    pitago- reggiante  che  l'essanza  di  tutte  le  cose  consiste  nei  nu- meri. Xenocrate  definisce  l'anima:  un  numero  che  muove se  stesso;  ma  questa  definizione  non  è  che  la  fusione  di due  concetti  che  noi  conosciamo  sull'  essenza    dell'  ani- ma, l'uno  che  essa  é  un  numero,  come  quella    di    tutte le  altre  cose  nel  periodo  pitagoreggiante,    e   l'altro  che é  ciò  che  muove  se  stesio.  Vi  ha  d'altronde  un'altra  ra- (1)  V.  Suppl.  B  carte  97-100  e  Suppl.  C,  IV,  o.  2t7-2é9. gione  per  cui  il  numero,  con  cui  Xenocrate  identifica  Ta- nima,  non  potrebbe  essere  il  numero  matematico,  quale entità  d'stinta  dal  numero  ideale  e  intermediaria  :  è  che egli  non  distingue  più  il  numero  ideale  e  il  matema- tico,  e  non  ammette  più,  quindi,  le  entità  matema- tiche come  intermediarie.  Platone,  come  ci  rife. risce  Aristotile  fin  De  art,  l.  1"  e.  2^  7),  ha  ammesso che  r  intelligenza  è  il  numero  uno,  la  scienza  il  nu- mero due,  r  opinione  il  numero  della  superficie,  e  il senso  il  numero  del  solido  :  ma  si  vede  da  questo  luogo stesso  che  questi  numeri  non  sono  che  dei  numeri  ideali, perchè  i  numeri  della  superficie  e  del  solido  rappresentano le  Idee  a  cui  sono  subordinati  tutte  le  superficie  e tutti  1  solidi  matematici,  e  Asistotile  afferma  inoltre esplìcitamente  che  i  numeri  di  cui  si  tratta  sono  la  stessa cosa  che  le  Idee.  La  costruzione  deiranima  nel  Timeo, su  cui  si  fonda  sovratutto  1'  interpretazione  che  discu- tiamo, non  è  più  probante,  in  sostanza,  delle  proposi- zioni precedenti.  Le  prove  che  vi  si  vedono  sono  : 1^  L'anima,  si  dice,  è  composta  del  mondo  ideale  e della  materia  :  se  ne  conclude  che  essa  deve  equivalere agli  oggetti  matemat'ci,  poiché  questi  sono  Idee  ranno- date con  la  materia,  cioè  come  leggi  del  mondo  sensibile Noi  abbiamo  visto  che  non  vi  ha  alcuna  ragione per  ammettere  che  Tanima  è  composta  del  mondo  ideale, poiché,  dovendo  essa  avere  un'  Idea  propria,  il  piii  na- turale è  d'intendere  per  Vessenza  indivisibile  non  tutte le  Idee,  ma  l'Idea  dell'anim»,  e  in  quanto  allo  Stesso, questo  non  può  essere  che  l'uno  dei  due  elementi. Ma^uand'  anche  V  anima  fosse  composta  di  tutte  le Idee,  non  se  ne  potrebbe  concludere  la  sua  equivalenza con  le  entità  matematiche.  Questa  conclusione  suppone che  queste  entità  partecipano  a  tutte  le  Idee,  tramez- zando tra  esse  e  le  cose  considerate  nell'insieme  dei  loro attributi.  Noi  sappiamo  invece  (i)  che  le  entità  mate- matiche, non  avendo  per  contenuto  che  gli  attributi  ma- tematici delle  cose,  partecipano  ai  numeri  ideali  solo  in quanto  essi  rappresentano  le  Idee  di  questi  attributi,  e non  tramezzano  che  tra  queste  Idee  e  questi  attributi nelle  cose,  cioè  individualizzati. L'anima  ha  una  natura  media  tra  T  essenza  indivisibile, cioè  le  Idee,  e  l'essenza  divisibile,  cioè  la  materia:  ciò  confermerebbe  che  essa  equivale  alle  en- tità matematiche,  poiché  le  entità  intermediarie  non  sono che  le  matematiche— Questa  prova  è  fondata,  come  la precedente,  sui  due  presupposti  erronei  che  1'  anima  è composta  di  tutte  le  Idee,  e  che  le  entità  matematiche tramezzano  tra  la  totalità  delle  Idee  e  le  cose  conside- rate nella  totalità  dei  loro  attributi.  Inoltre  essa  con- clude affrettatamente  dalla  somiglianza  dei  termini  alla identità  dei  concetti,  supponendo  come  una  cosa  che  va da  sé  che  l'anima  deve  essere  media  nello  stesso  senso in  cui  lo  sono  le  entità  intermediarie  che  conosciamo  da Aristotile,  e  trascurando  come  di  nessun  rilievo  la  dif- ferenza che  queste  sono  medie  tra  le  Idee  e  le  cose  sen- sibili, mentre  l'anima  non  sarebbe  media  che  tra  le  Idee e  la  materia  (cioè  uno  dei  principii  da  cui  risultano  le cose  sensibili).  Questa  differenza  è  invece  d'  un'  impor- V.  Sappi.  C,  n.  V. V.  Suppl.  C,  n.  m.  e.  195-198.  V.  Sappi.  C,  IV,  e.  239-242,  e  ofr.  questo  Sappi,  o.  288. (1)  V.  Sappi.  C,  n.  III. (2)  V.  Sappi,  C,  IV,  o.  239. 11 tanza  capitale,  perchè  le  entità  intermediarie  che  ci  fa conoscere  Aristotile  sono  dette  tali,  in  quanto  sono  po- steriori jMe^Idee  e  anteriori  alle  cose  sensibili,  o  (a  un punto  di  vista  semplicemente  logico)  in  quanto  hanno un  grado  di  generalità  medio  fra  le  Idee  e  le  cose  sen- sibili, essendo  comprese  sotto  le  une  come  più  partico- lari, e  comprendendo  le  altre  come  più  generali.  Ma  è evidente  che  Platone  non  può  voler  dire  che  T anima  è posteriore  alle  Idee  e  anteriore  alla  materia,  o  che  è compresa  sotto  le  Idee,  essendone  più  particolare,  e  com- prende la  materia,  essendone  più  generale.  In  qual  sen- so Tanima  sia  media  tra  il  principio  ideale  e  la  materia ci  è  indicato  dal  Timeo  stesso  50  d,  dove  ciò  che  nasce (il  fenomeno)  è  chiamato  la  natura  media  tra  co  in  cui nasce  (la  materia)  e  ciò  a  somiglianza  di  cui  nasce  (ri- dea).  L'anima,  come  le  altre  cose  individuai»,  ha  una  na- tura media  tra  ridea  e  la  materia,  perchè  tutte  le  cose individuali  sono  composte  dell'  Idea  e  della  materia,  e un  composto  deve  avere  delle  qualità  medie  tra  quelle degli  elementi  che  lo  compongono. L'  anima  cosmica  deve  equivalere  agli  oggetti matematici,  perchè  essa  comprende  in  sé  i  rapporti  ar- monici «matematici  del  sistema  astronomico— infatti  e.^sa è  divisa  in  pani  proporz  onali  ai  numeri  del  diagramma musicale,  e  poi  in  cerchi  rappresentanti  le  rivoluzioni degli  astri,  e  di  cui  quelli  che  rappresentano  le  orbite dei  pianeti  sono  proporzionali  ai  numeri  fondamentali del  diagramma  stesso  {Tirn.  35b-36d)— Ma  che  lanima comprenda  in  sé  dei  rapporti  armonici  e  matematici  non è  una  ragione  per  identificarla   con   le   entità  matema- U)  Cfr.  Sappi.  C,  IV.  carta  241. tiche.  Si  avrebbe  lo  stesso  dritto  di  identificare  con  esse gli  elementi  materiali,  perchè  formano  una  proporzione geometrIca"(l)  e  sono  distinti  ppr  mezzo  di  figure  e  di numeri  (2).  Non  vi  ha,  nell'uno  e  nell'  altro  caso,  che un'  applicazione  dei  principii  generali  del  pitagorismo.  S[ dirà  che  ciò  che  prova  che  V  anima  cosmica  equivale alle  entità  matematiche,  non  ò  solamente  che  essa  com- prende in  sé  dei  rapporti  armonici  e  matematici,  ma  che questi  sono  quelli  del  sistema  astronomico.  Ma  la  corri- spondenza di  questi  rapporti  nell'anima  e  nell'universo, quand'anche  fosse  complt  ta,  non  potrebbe  significare  la loro  identità,  nel  senso  stretto  d^lla  parola;  e  d'altronde questa  corrispondenza  si  spiega  sufficientemente  al  punto di  vista  dell'animismo,  l'anima  di  un  essere,  in  tutte  le forme  di  questa  dottrina,  essendo,  con  più  o  meno  e- sattezza,  un  duplicato  dell'essere  stesso. II  I«'  Interpretazione  teistica del  sistema  delle  Idee Secondo  alcuni  Dio  equivale  per  Platone  al  Bene, o  all'insieme  di  tutte  le  Idee,  o  all'uno  e  all'altro,  perchè il  Bene  comprenderebbe  in  sé  Tinsìeme  di  tutte  le  Idee. Queste  opinioni  si  fondano  suirinterpretazione  delle  Idee platoniche — anche  oggi  la  più  diffusa  tra  le  persone  colte, quantunque  abbandonala  dalla  più  parte  dei  critici— che vede  in  esse  i  pensieri  eterni  della  divinità  creatrice,  di Tim.  31c-32c. (2)  Tim. cui  r universo  sarebbe  la  realizzazione.  Questa  interpre- tazione della  dottrina  delle  Idee  è  stata  da  noi  implìcitamente confutata  nel  Supplemento  B^  dove  abbiamo  sta- bilito invece  che  le  Id>je  non  sono  che  gli  attributi  ge- nerali delle  cose,  considerati  come  delle  realtà  sussistenti per  se  stesse,  e  di  cui  ciascuno,  uno  in  se  stesso,  esiste simultaneamente,  senza  moltiplicarsi  e  senza  dividersi,  in tutti  gli  oggetti  a  cui  viene  attribuito.  Tuttavia,  siccome nella  2*  parte  del  Supplemento  stesso,  in  cui  abbiamo" esaminato  i  motivi  dell'interpretazione  trascendentalista, abbiamo  tenuto  conto  sovratutto  di  quelli  su  cui  è  fon- data la  forma  di  quest'interpretazione  che  considera  le Idee  come  delle  forme  puramente  obbiettive,  gioverà  forse di  esaminare  a  parte  quelli  su  cui  si  basa  Taltra  forma, cioè  la  teistica,  ciò  che  potrà  servire  di  complemento  alla dimostrazione  della  nostra  interpretazione. Dopo  ciò  che  abbiamo  detto  nel  Supplemento  B  si spiega  facilmente  perchè  airinterpretazione  teistica  sia stata  dai  critici  moderni  preferita  V  altra  forma  dellMn- terpretazione  trascendentalista. Questa  comprende  almeno il  tratto  più  caratteristico  e  più  evidente  della  dottrina delle  Idee,  cioè  che  esse  sono  delle  entità  astratte,  gli attributi  generali  delle  cose  considerati  come  sostanze, quantunque  fraintenda  la  dottrina  in  un  altro  punto  im- portante, cioè  ammettendo  che  questi  attributi  generali delle  cose  non  sono  quelli  delle  cose  stesse,  ma  un  loro duplicato.  Mar  Interpretazione  teistica  la  fraintende  anche nel  primo  punto,  e  per  conseguenza  non  vi  ha  un  luogo di  Platone  con  cui  non  sia  nella  contraddizione  più  aperta. Una  delle  determinazioni  più  importanti  delle  Idee,  ol- tre quelle  che  dimostrano  immediatamente  che  sono  gli attributi  delle  cose  Hostantificati,  è  che  vengono  riguar- date come  il  solo  essere  vero,  e  le  cose  individuali  come un  semplice  fenomeno.  Anch'essa  è  più  manifestamente incompatibile  con  Tinterpretazione  teistica  che  con  l'al- tra forma  dell'interpretazione  trascendentalista  :  alla  dif- ficoltà che  ha  in  comune  con  la  seconda,  cioè  dì  am- mettere un'altra  realtà  distinta  e  separata  dall'essere  t;«ro, Ja  prima  ne  aggiunge  un'altra  più  evidente,  cioè  che  le Idee,  che  non  sarebbero  che  dei  possibili  concepiti  dal- l'intelligenza creatrice,  verrebbero  riguardate  come  più reali  delle  cose,  che  ne  sarebbero  la  realizzazione.  Si aggiunga  che  Tinterpretazìone  teistica  ha  contro  di  sé, non  solo  le  prove  dell'immanenza  delle  Idee,  ma  anche le  più  importanti  delle  prove  contro  di  questa,  quali  so- no la  sostanzialità  delle  Idee  (che,  come  abbiamo  osser- vato, è  il  motivo  principale  dell' Inter  pretaztone  trascen- dentalista,  la  testimonianza  d'Aristotile,  e  i  miti  del Timeo  e  del  Fedro,  in  cui  le  Idee  sono  rappresentate come  degli  oggetti  separati  dal  mondo,  ma  distinti  pure dal  pensiero  che  li  contempla.  Lo  stesso  vantaggio  del- rinterpretazìone  teistica,  di  dare  all'  ipotesi  delle  Idee uno  scopo,  che  le  manca  assolutamente  nell'  interpreta- lione  più  ricevuta,  costituisce,  in  ultima  analisi,  un  al- tro argomento  contro  di  essa,  perchè,  se  le  Idee  fossero i  pensieri  dell'intelligenza  creatrice,  sarebbero  le  cause efficienti  delle  cose,  nel  significato  proprio  e  naturale della  causa  efficiente  (il  sistema  delle  Idee,  secondo  la interpretazione  teistica,  non  essendo  che  un  caso  della filosofia  istintiva  del  nostro  spirito).  Ora  ciò  è  escluso dalla  testimonianza  d'Aristotile,  che  nega  alle  Idee  ogni causalità  nel  senso  proprio,  e  afferma  che  Platone  non ha  ricercato  che   la  causa formale   e   la  causa    mate- Sappi,  B  carta  121. rìale  — Aristotile,  nella  sua  esposizione  della   filosofìa platonica,  non  fa  parola  dell'anima  del  mondo,    e  tiene conto  unicamente  del  sistema   delle   Idee .La   testimo- nianza d'Aristotile  è  confermata,  in  sostanza,  da   un  e- same  attento  della  dialettica   platonica, che   ci    mostra che  le  Idee  sono  cause,   ma   in   un   senso   analogico   e molto  lontano  dalla  nozione  spontanea  che  ci  formiamo della  causalità;  e  d'altronde,  in  questo  senso  stesso,  esse sono  cause  le  une  delle  altre,  ma  non  dei  fenomeni. Alle prove  contro  l'interpretazione  teistica  fondate  sulla  dot- trina stessa  delle  Idee,  fc  ne  «ggiungono  altre   fondate ^u  altri  concetti  della  filosofia  platonica,   cioè   che  Pla- tone non  ammette  altra  divinità  che  l'anima  cosmica, che  l'intelligenza  secondo  lui  non  si  trova  altrove   che neiranìma,  che  egli  non  conosce  altra  causazione,  nel senso  proprio,  che  quella  che  consiste  in  una  successio- ne (4),  ecc.  Le  due  forme  dell'  interpretazione   trascen- dentalista delle  Idee  platoniche  ci  danno  gli  esempi  più colpenti  delle  due  maniere  più   abituali   di    trattare   la storia  della  filosofia  :  l'una  che  pretende  fondarsi  su  un esame  scrupoloso  dei  testi,  ma  per  difetto  di  sintesi  e  di un  concetto  esatto  dei  motivi  e  della  genesi   della   spe- culazione metafis'ca,  non  riesce   a   dare    ai   sistemi    un significato  intelligibile;  l'altra  che   pretende   costruire   i sistemi,  ed  è  interamente  arbitraria.   Naturalmente   V  e- sempio  della  seconda   maniera   è l'  interpretazione    tei- stica. L'oggetto  di  questa  seconda  parte    di  questo   Sap- 0)  Met.  1.  I.  IX.  6,  8,  11-12,  13,  21,  VI.  7,  ecc. (Sappi.  C,  IV,  e.  223  pag.  2«. (4)  V.  Sappi.  C,  IV,  e.  229. T plemento  non  è^  un  esame  completo  dell'  interpretazione teistica.  Esso  importerebbe  delle  ripetizioni  inutili,  per- chè bisognerebbe  ritornare  sulle  prove  dell'  immanenza delle  Idee  che  abbiamo  date  nel  Supplemento  B.  Qui  ci limiteremo  dunque  a  discutere  le  prove  su  cui  è  fondata quest'interpretazione.  Siccome  l'immanenza  delle  Idee  ci sembra  sufficientemente  stabilita,  se  queste  prove  fossero coacludenti,  dovremmo  confessare  che  vi  ha  in  Platone una  contraddizione  insolubile.  Noi  mostreremo  che  questa contraddizione  non  esiste,  e.  che  le  proposizioni  di  Pla- tone su  cui  si  basa  V  interpretazione  teistica,  si  spie- gano anche,  e  d'una  miniera  più  sod  lisfac^nte,  nella nostra  interpretazione. I  motivi  precipui,  se  non  unici,  di-ll'interprctazione teistica  possono  ridursi  ai  seguenti  : !•  Il  significato  che  U  parola  idea  ha   nelle    lingue moderne.  Noi  abbiamo  osservata,    dopo  tanti   altri,    che in  greco  idèa    non  ha  questo  significato.  Se  si  riflette che  gli  errori  del  volgare  influiscono  spesso  anche  sulle menti  dei  pensatori,  non  si   troverà   strano    che    questo equivoco  sul  significato  della  parola  ecfea  figuri  anch'esso tra  i  motivi  dell'interpretazione  teistica.  Esso,  a  dir  vero, non  ha  potuto  contribuire  che  alla   sua    diffusione,    ma non  alla  sua  ergine,  essendo  anzi  quest'interpretazione che  ha  determinato  il  passaggio   dal   significato   antico del  termine  al  suo  significato  moderno.  Certamente  l'in- terprete teistico  non  ignora  che  t5éa  non  significa   pen- siei^o\  ma  quando  egli  dice  che  le  Idee  platoniche   sono i  pensieri  dell  i  divinità,  uua  gran  parte  del   pubblico  a cui  si  rivolge  trova  naturalissimo  che  xin'id.a  deve  esci) V.  Sappi.  B,  cada  12  nota  1. ''i^i*MUia__A»^b>^-_^^hàl^i>i sere  il  pensiero  di  qualcuno,  e  si  sa  che,  nelle  quìstloni filosofiche,  il  successo  delle  opinioni  non  dipende  sola- mente dal  suffragio  dei  dotti. 2^  Il  teismo  di  Platone  e  la  sua  dottrina  de  la  di- vinità è  la  causa  prima  di  tutti  i  fenomeni.  Siccome  pelr Platone  le  cause  delle  cose  sono  le  Idee  e  la  causa  di tutto  é  l'Idea  del  Bene,  se  ne  conclude  che  Dio  deve essere  identico  a  tutte  le  Idee  o  all'Idea  del  Bene Noi abbiamo  osservato  che  vi  hanno  nella  filosofìa  platonica due  sensi  della  parola  causa,  corrispondenti  a  due  spie- gazioni del  mondo,  simultanee  ma  assolutamente  di- stinte. In  un  senso,  la  causa  vuol  dire  la  causa  effi- ciente, nel  significato  proprio  del  termine  (quello  che esso  ha  nella  filosofìa  istintiva  dello  spirito  umano).  E in  questo  senso  che  la  causa  prima  è  la  divinità.  Il  se- condo senso  della  parola  causa  è  quello  che  essa  ha  nel realismo  dialettico,  e  non  è  che  l’obbiettivazlone  del rapporto  logico  fra  i  concetti  realizzati.  E  in  questo  sen- so che  la  causa  di  tutto  è  l'Idea  del  Bene.  Le  Idee,  a parlar  propriamente,  non  sono  cause  delle  cose  in  questo secondo  senso,  ma  nemmeno  nel  primo.  La  causa,  nel primo  senso,  è  esteriore  all'efl'etto,  mentre  le  Iden  sono nelle  cose,  ne  sono  l'elemento  costante  e  veramente  reale, da  cui  dipende  il  loro  essere  e  la  loro  essenza.  Il  senso in  cui  le  Idee  sono  cause  delle  cose,  se  non  è  precisa- mente identico  al  secondo  senMo(cioèa  qu*^)lo  che  è  Tob- biettivazione  del  rapporto  tra  il  principio  e  la  conse guenza),  può  però  rieondurbi  con  esso  a  un  concetto comune,  perchè  in  entrambi  i  casi  è  il  generale  che viene  riguardato  come  causa,  e  i  particolari  subordinati come  effetti.  L'interprete  teistico  confonde  questi  sensi evidentemente  distinti  della  causa  in  Platone,  perchè  non comprende  né  Timmanonza  delle  Idee  uè  il  vero  signi- ficato della  dialettica. y  II  nome  di  dio  che  Platone  dà  al  Bene  e  ad  altre Idee,  e  quello  di  divino  che  dà  a  tutte  le  Idee  in  generale. Il  Bene  è  chiamato  dio  nel  X   libro   della   Repubblica, dove  dice  che  Dio  ha  prodotto  l'Idea  del    letto  e ogni  altra  Idea.  Ma  qualunque  sia  la  maniera  d'in- terpretare le  Idee  platoniche,  non  può  vedersi  in  questa deificazione  del  Bene  che  una  semplice  metafora,  poiché il  Bene  è  evidentemente  un'Idea  come  tutte  le    altre,  e non  differisce  dalle  altre  che  perché  occupa  il  primo  po- sto nella  gerarchia  del  mondo  ideale  (cioè   perché  é  la più  universale  di  tutte,  e   per  conseguenza,    secondo  i principii  della  dialettica  platonica,  quella   da   cui    tutte le  altre  si  deducono).  L'Idea  del  Bene,  in    qualsiasi  in- terpretazione delle  Idee,  non  può  essere  che  l'astrazione bene  (cioè  l'attributo  comune  a  tutte  le  cose  che   si   di- cono buone)  esistente  sotto  una  forma  o  sotto  un'altra  : se  si  ammette  che  queste  astrazioni  che  Platone  chiama Idee  non  hanno  che  un'esistenza  mentale,  e  sono  1  pen- sieri dell'intelligenza  divina,  l' Idea   del   Bene  sarà   un pensiero  dell'intelligenza  divina,  ma  non   l' intelligenza divina  stessa  che  è  il  substratum  o  il  complesso  di  questi pensieri.  Si  dirà  che  l'Idea  del  Bene    comprende    in sé  l'insieme  di  tutte  le  Idee,  e  che  é  perciò  che  Platone può  identificarla  con  l'intelligenza  divina.  Ma  l'Idea  del Bene  non  può  contenere  le  altre  Idee  che  come  un  con- cetto generale  contiene  i  concetti  più  particolari  subor- dinati, cioè  in  estensione,  e  non    in comprensione   (ciò che  sarebbe  necessario  perché  potesse  riguardarsi    come equivalente  a  tutto  il  mondo  ideale).  Nel    secondo  caso Cfr.  Sappi. il  conteouto  dell'Idea  del  Bene   sarebbe   tutt' altro   cbe quello  del  concetto  astratto  di  bene\  mentre   è   evidente cbe  le  Idee  platonicbe,  cbe   esse   esistano    nelle cose  o fuori  delle  cose,  cbe  siano  delle  realtà  obbiettive   o  dei semplici  pensieri,  non  potrebbero  avere,   in    ogni   caso, altro  contenuto  cbe  quello  dei  concetti  astratti   cbe  loro corrispondono.  Delle  Idee  altre  cbe  il  Bt^oe  sono    cbia- mate  dio  nel  Timeo  e nel VELIA (vedasi). Nel primo  di  questi  luogbi  II  mondo  è  detto dio  sensibile immagine  del  dio  intelligibile»,  e  l'interprete  teistico  ne conclude  cbe,  questo  dio  intelligibile  essendo    il  modello del  mondo,  Dio  è  per  Platone  la  stessa    cosa    cbe Tinsieme  delle  Idee.  Ma  Taltro  luogo  del  Timeo   stesso, 37c,  in  cui  il  mondo  è  cbiamato    «  simulacro    degli  dei eterni  »,  mostra  cbe  questa  conclusione  è  affrettata,  e  che Platone  cbiama  dio  ancbe  delle  Idee  particolari,    la  cui personìfìcaz'one  nelPinterpretazione  teistica  è  altrettanto impossibile  cbe  nella  nostra,  percbè  non    sarebbero    se- condo essa  cbe   dei  pensieri    particolari    della    divinità. Un'osservazione  analoga  vale  pel  laogo  del  Parmenide. Ivi  è  cbiamato  dio  il  soggetto  in  cui  risiedono  la  scienza in  sé  e  la  padronanza    in   8è   (donde    potrebbe    conclu- dersi che  le  Idee  secondo  Platone  risiedono  in  Dio)  Ma in  seguito  (134  d-e),  invece    di    un    sogj^etto    unico,    si parla  di  più  soggetti,  cioè  di  dei  al  plurale,  c'ò    cbe   e- scinde  cbe  la  scienza  e  la  padronanza    in    sé    risiedano nel  Dio  di  cui  é  quistiooe  n^lT  interpretazione    teistica, che  é  natura'mente  uno  solo.  In  quanto    all'  epiteto divino  dato  alle  Idee  in  genera'e,  esso  non    é   per  Platone (e  quest'uso  del  termino  nou  gli  é  particolare)  che Cfr.  questo  suppl.  o.   e  oap.  VII  pag.  JSU, un  sinonimo  di  eccellente,  É  ciò  che  si  vede  chiaramente nel  Fedone  85e-86  a  (l'armonia  è  divina,  la  lira  e  le corde  sono  terrestri  e  affini  al  mortale),  86c  (1'  anima  è divinissima—nell'ipotesì  che  sia  Tarmonia  del  corpo), dì  d  (è  più  divina  del  corpo   nella  stessa  ipotesi), Fedro  e  (il  divino  é  il  bello,  il  saggio,  il  buono  e tutto  ciò  cbe  è  tale),  Bep,  500  d  (sono  chiamati  divini tanto  le  Idee  quanto  il  filosofo  che  le  contempla),  e  in tanti  altri  luoghi,  in  cui  nessuno  potrebbe  essere  tentato d'intendere  per  divino  un  attributo  o  un'  appartenenza della  divinità. 4®  Il  Demiurgo  del  Timeo.  Il  racconto    del TimeOj se  si  prende  alla  lettera,  é  una  prova dell'  altra  forma deirinterpretazione  trascendentalista,  perché  ci  si  parla di  un  demiurgo  cbe  ha  costruito  il  mondo  contemplando le  Idee  come  modelli.  Ma  l'interprete  teistico  osserva  con ragione  che  questa  non  é  filosofia,  ma   mitologia  :  egli ne  conclude  che  la  distinzione  tra  il  demiurgo  che  con- templa e  il  modello  che  é  contemplato   é  una  semplice immagine  che  non  deve  prendersi  alla  lettera,  e  cbe  in realtà  il  demiurgo  contempla  il  modello  in  se  stesso,  in altri  termini  che  le  Idee  sono  i    pensieri  del   demiurgo, cioè  dell'intelligenza  creatrice.  Ma  se,  non    contenti  dei significato  apparente  del  racconto  del    Timeo, si   crede necessario  di  cercargliene  uno  riposto,  non  bisogna  pre- ferire quello  che  sembra  all'interprete  stesso  più    soddi- sfacente come  dottrina  filosofica,  ma  quello  che   è  indi- cato dalle  proposizioni   del   Tim^o   stesso,   dall'  insieme delle  dottrine  di  Platone  e  dalla  testimonianza   dei  suo^ discepoli  immediati  e  dei  loro   contemporanei.    Ora   noi abbiamo   visto  cbe   queste  indicazioni   concordano   nel mostrarci  che  il  Demiurgo  non  é   un  essere   realmente personale,  ma  la  personificazione  di  un'  entità   astratta, cioè  un  simbolo  dell'Idea  del  Bene,  e  che  la  cosmogonìa del  Timeo  è  un'allegoria  della  derivazione  delle  cose  dai due  primi  principii.  L'opinione  dell'interprete  teistico è  senza  dubbio  più  filosofica  e  più  intelligibile  che  quelle del  sostenitori  dell'altra  forma  dell'  interpretazione  tra- scendentalista, che  prendono  il  Demiurgo  alla  lettera, considerandolo  sia  come  un  elemento  filosofico  dei  si- stema platonico  sia  come  un  semplice  elemento  rappre- sentativo (cioè  privo,  per  l'autore  stesso,  che  lo  ammette, di  qualsiasi  valore  filosofico -situazione  psicologica  che non  è  certametite  facile  a  concepire)  :  ma  questo  van- taggio relativo  non  può  bastare  a  provarla,  quantunque basti  ppr  vedere  nella  cosmogonia  del  Timeo  uno  dei motivi  precipui  dall'interpretazione  teistica. 5^  L'arduità  del  sistema  delle  Idee  e  la  familiarità del  concettualismo  e  della  filosofia  teologica.  Ciò  fa  che, sfuggendo  il  significato  reale  del  primo,  si  cerca  di  dar- gliene uno  riconducendolo  ai  secondi.  Quantunque,  come abbiamo  mostrato  nel  1^  capitolo  del  Saggio  !,  un  pensiero astratto  e  generale  è  altrettanto  inconcepibile  che un  essere  astratto  e  generale,  vi  ha  però  tra  le  due  ipotesi questa  differenza,  che  la  prima  è  ammessa  da  quasi  tutti i  filosofi  e  tutte  le  persone  colte,  ed  è  un  prodotto  spon- taneo dei  sofismi  a  priori  del  nostro  spirito,  mentre  la seconda  non  ha  avuto,  almeno  nella  filosofia  moderna, che  un  numero  molto  esiguo  di  partigiani,  ed  èia  meno naturale  delle  spiegazioni  del  mondo  escogitate  dai  me- tafisici. All'epoca  di  Platone  l'equivoco  dell'interprete teistico  di  prendere  un'  entità  astratta  per  un  pensiero astratto  non  sarebbe  stato  cosi  facile  come  ora,  non  solo perchè  la  teoria  dei  concetti  verisimilmente  non  era  ancora stabilita,  ma  anche  perchè  Aristotile,  a  quanto  sappiamo, è  il  primo  che  abbia  ammesso  la  dottrina  dell'immuta- bilità  di  Dìo,  e  per  conseguenza  quella  dell'eternità  dei pensieri  divini,  che  dà  al  Dio  della  filosofia  teologica  mo- derna (tanto  più  se  si  riguarda  come  una  pura  intelligenza) una  certa  aria  di  somiglianza  col  mondo  ideale  di  Platone, specialmente  interpretato  alla  maniera  trascendentalista. L'altrq  elemento  della  dottrina  delle  Idee,  cioè  la  dialettica, non  è  meno  arduo  che  l'ipotesi  delle  Idee  stesse.  Que- st'arduità della  dialettica  è  dovuta,  oltre  che  alla  diffor- mità del  concetto  di  causalità  su  cui  essa  è  fondata,  dal- l'idea spontanea  della  causalità,  alla  maniera  imperfetta in  cui  applica  questo  concetto.  Aggiungiamo  che  nella supposizione  della  trascendenza  delle  Idee  (ammessa  da quasi  tutti  gl'interpreti)  essa  diviene  necesssariamenle incomprensibile.  Da  queste  difficoltà  di  comprendere la  dialettica,  senza  di  cui  la  dottrina  delle  Idee  è  una ipotesi  senza  motivo  e  senza  scopo,  nasce  naturalmente il  tentativo  di  trasformarla  in  una  varietà  della  filosofia istintiva  (cioè  fondata  sul  concetto  spontaneo  della  causa- lità), come  dalle  inconcepibilità  del  realismo  nasce  quello di  tr;isformarla  in  un  sistema  concettualista.  Questi  due tentativi  riuniti  costituiscono  il  motivo  principale  dell'in- terpretazione teistica. Ma  per  mostrare  su  quali  deboli  basi  si  fondi  questa interpretazione,  sarà  meglio  di  esaminare  le  prove  che ne  dà  uno  dei  suoi  principali  sostenitori,  c:oè  Fouillée, La  Filosofia  di  Platone.  Fouillée, a  dir  vero non ammette che le idee non sono altra cosa :l Sappi.  C,  n.  IV. Gfr.  Sappi.  B  carte ' .-  29>f che  i  peDsieri  deiriutelllgecza  divina;  egli  conviene  che in  quest'ipotesi  non  sarebbero  che  dei  semplici  possibili concepiti  da  Dio,  e  Platone  non  potrebbe  chiamarle  delle realtà:  ovtco;  Svta.  Secondo   lui  le  Idee  sono   primitiva- mente le  perfezioni  divine  (rimedio   peggiore   del   male, perchè  che  cosa  può  significare  che  il  leone,  p.  e,  o  l'albero in  se  stessi,  cioè  come  semplici  complef-si  degli  at- tributi generali  che  costituiscono  queste  specie,  sono  delle perfezioni  di  Dio?);  ma  per  conseguenza   sono  anche  i pensieri  divini,  perchè  Dio ha  coscienza  di  se  stesso  e delle  determinazioni  che    inviluppa   il  suo   essere.  Ma questo  concetto  di  Fcuillèe  non  può   impedirci  di  dare la  sua  arg(  mentazione  come  esemp'o  deirargomentazione degl'interpreti  teistici  in  generale,  perchè  è  evidente  che egli  si  serve  di  tutti  gli  argomenti  che  crede  i  più  propri a  dimostrare  l'interpretazione  teistica,  sia  che  provino  che le  Idee  sono  le  perfezioni  divine,  sia  che  provino  che  sono i  pensieri  divini.  L'argomentazione  del  Fouillèe  può  di- vidersi in due  parti:  gl’argomenti   della  prima   parte sono  dei  luoghi  del  TìmeOj  con  cui  egli  cerca  di  provare che  le  Idee  non  sono  separate  dal  Demiurgo, ma  sono nel  Demiurgo  stesso,  cioè  in  Dio;    quelli  della    seconda parte  sono  dei  luoghi  raccolti  dagli  altri   dialoghi. Noi esamineremo  questi^argomenti  a  uno  per  uno,  cominciando dalla  prima  parte. 1»  Il  modello,  dice  Fouìllée,  è  ciò  che  vi  ha  di  più perfetto,  è  uno  ed  è  vivente,  cioè  è  un  animale  intelligibile. Egli  ne  conclude  che  non  vi  ha  alcuna  differenza  tra  esso e  Dio JZ  modello  è  ciò  che  vi  ha  di  più  perfetto.  Ma  Platone definisce  forse  Dio, come  Cartesio:  l'essere  perfet- tissimo? Noi  abbiamo  osservato  che  l'idea  della  filosofia teologica  moderna  che  Dio  è  l'infinito  o  l'assoluto,  cioè che  possiede  tutti  gli  attributi  che  giudichiamo  delle  per- fezioni a  un  grado  infinito  o  assoluto,  è  un  concetto  che non  si  trova  in  Platone quantunque  le  sue  dottrine  sulla divinità  occupino  un  posto  elevato  nei  gradi  dello  svi- luppo di  cui  questo  concetto  è  il  termine  ultimo   né  in generale  nella  filosofia  teologica  antica.  Nei  luoghi  del IHineo  a  cui  allude Fouillèe per  perfetto  bisogna intendere  completo.  Platone  dice  che  il  mondo  è  stato fatto  a  somiglianza  dell'Idea  uai versale  di  animale,  com- prendente in  sé  tutte  le  Idee  generiche  e  specifiche  degli animali.  Per  conseguenza  egli  chiama  il  modello  del mondo  l'animale  intelligibile  perfetto  o  completo,  perchè comprende  tutti  gli  animali  intelligibili  (cioè  tutte  le  Idee degli  animali)  Egli  sembra  chiamarlo  pure il  più  perfetto degli  esseri  intelligibili  (e  non  semplicemente  degli animali  Intelligibili):  ciò  è  perchè  l'Idea  universale  di  a- nimale  con  tutte  le  Ide3  generiche  e  specifiche  degl’animali  contengono  in  sé,  in  qualche  modo,  tutto  il  mondo ideale— senza  di  che  Platone  non  potrebbe  riguardarle come  il  modello  del  mondo.  Questi  concetti  non hanno  niente  di  comune  con  V  essei^e  perfettissimo  dei moderni  filosofi  spiritualisti   Il  modello  è  uno.  Questo argomento  potrebbe  valere  contro  l'altra  forma  dell'in- terpretazione trascendentalista,  che  ammette,  o  dovrebbe ammettere,  che  le  Idee  sono  separate  le  une  dalle  altre, come  dalle  cose.  Nella  nostra  interpretazione  il  mondo ideale  non  è  una  moltiplicità  senza  unità,  ma  un'unità multipla,  perchè  l'Idea  generale  risiede  nelle  Idee  parti- ci) TiìA,  30o.31b,  39  d-e.  Cfr.  41b-c,  69c,  92c. Tim.  39  d. Cfr.  Sappi.  B  carta  m  ^ y\' r. .,.^ 'Ij. colari,  ed  è,  implicitamente,  queste  Idee  stesse   Infine il  modello  i  vivente.  Ma   Platone   dice  solamente  che  è ridea  universale   dell'animale   con  le    altre  Idee   de^-li animali  che  essa  comprende.  Questo  potrebbe  prendersi in  tre  sensi,  corrispondenti  alle  tre  interpretazioni  delle Idee  in  generale.  Queste  Idee,  nella  nostra  interpretazione, sono  gl'insiemi  degli  attributi  comuni  a  tutti  gli  animalj e  a  ciascun  genere    e   ciascuna  specie  particolare  d’animali,  esistenti  negli  stessi  animali  reali.  Nell'interpre- tazione trascendentalista  seguita  dalla  più  parte  dei  critici moderni,  sarebbero  questi  stessi  insiemi  di  attributi,  ma fuori  degli  animali  r^ali.  Nell'interpretazione  teistica,  in- fine, i  pensieri  divini  degli  animali,  e,  secondo  il  Fouillèe, anche  le  perfezioni  divine  corrispondenti.    Di  questi  tre sensi Fou'llèe  non   potrebbe  ammettere  1'  ultimo  che arbitriariamente;  e  del  resto  non  è  quello  ch'egli  attri- buisce alle  parole  di  Platone. Il  testo  stesso  del  Timeo  identifica  il  Demiurgo  e il  modello.  Infatti  Pitone  dice  :«  Esente  da  invidia,  Dio volle  che  tutte  le  cose  fossero,  per  quanto  era  po-sibile, simili  a  se  stesso.  Ma  Platone  dice  ancora:  Simili  alle Idee,  al  Vivente  intelligibile.  Dunque  Dio  è  egli  stesso questo  Vivente  che  abbraccia  in  sé  le  Idee   Ma,  come si  vede  da  tutto  il  contesto,  il  Demiurgo  volle  che  tuttj le  cose  fossero  simili  a  se  stesso,  in  quanto  egli  era  buono, e  volle  che  tutte  le  cose  fossero  buone.  Que3ta  proposi- zione presenterebbe  un  senso  soddisfacente,  anche  pren- dendo il  Demiurgo  e  i  paradigmi  alla  lettera,  e  consi- derandoli come  due  cose  distinte.  Non  si  è  contenti  del senso  letterale?  ma. allora  questo  luogo  ci  permette-d'i- dentificare  il  Demiurgo,  non  all'insieme  delle  Idee,  ma all'Idea  del  Bene,  perchè  ciò  che  rende  le  cose   buone. renàeadole  simili  «  se  stèsso,  non  è  l'insieme  delle  Idee, ma  l'Idea  del  Bene. Fouillèe,  a  dir  vero,  crede che  questo  luogo  identifichi  il  Demiurgo  tanto  all'insieme delle  Idee  quanto  all'Idea  del  Bene,  perchè  queste  due cose  per  lui  si  equivalgono.  Ma  noi  abbiamo  osservato che  quest'equivalenza  è  impossibile  anche  nei presupposti  dell'interpretazione  teistica,  perchè  il  conte- nuto dell'Idea  del  Bene,  come  di  tutte  le  altre,  non  può essere,  in  qualsiasi  interpretazone,  che  quello  stesso  del concetto  corrispondente. Per  confermare  l'identità  tra  il  Demiurgo  e  l' Idea del  Bene,  il  Fouillèe  aggiunge  che,  se  Platone  chiama Dio  buono,  e  perchè  è  il  Bene  stesso  ;  infatti  «  si  oserà sostenere  che  Dio  è  buono  per  la  sua  partecipazione  a qualche  cosa  di  superiore  (cioè  all' Idea  del  Bene  distinta da  Dio  stesso)  ?  »  Senza  dubbio  :  Platone  osava  sostenere ciò  e  tante  altre  dottrine  egualmente  incompatibili  col concetto  moderno  che  D:o  é  l'assoluto,  p.  e.  che  vi  hanno molti  dei,  che  la  divinità  non  ha  creato  la  materia,  che la  sua  potenza  è  limitata,  ecc.,  e  tutti  i  filosofi  antichi osavano  sostenere  come  lui  tali  dottrine  ed  altre,  secon- do il  teismo  moderno,  non  meno  indegne  della  divinità. 3»   Fouillèe  cita  il  Timeo  (luogo  che  abbia- mo riportato  e  spiegato  nel  Supplemento,  carta),  e lo  commenta  cosi: Non  sembra  che  Platone  abbia  voluto confutare  anticipatamente  quelli  che  moltiplicano gli  esseri  senza  necessità,  obbliando  che  l'unità  è  il  ter- mine della  dialettica  ?  Due  dei  che  non  differissero  che V.  Sappi.  C,  IV,  carte  (2»  V.  sopra,  oarta  qttOito  Sappi.,  I,  carte ,  SOO  r ; I'  » per  la  loro  funzione  di  modello  o   di   artigiano,  suppor- rebbero al  di  sopra  di  loro  un  dio  unico,  cbe  lì  abbrac- cerebbe Tuno  e  l'altro   nella  sua    comprensione. Ma Platone  in  questo  luogo  non  parla  di  due    dei,   ma  so- lamente di  due  Idee  dell'animale  :  egli  dice  che  due  Idee dell'animale  sarebbero  impossibili,  perchè  supporrebbero al  di  sopra  di  loro  un'  Idea  unica  dell'  animale   che  le conterrebbe  tutte  e  due.  Del  resto  né  è  una  conseguenza dei  principii  della  dialettica  platonica  che  due  dei  sup; porrebbero  al  di  sopra  di  loro  un  dio  unic3  che  li    ab- braccerebbe Tuno  e  l'altro,  né j Platone,   nella  supposi zione  che  combatte  il  Fouillée,  potrebbe    riguardare    il modello  come  un  dio  altrimenti  che  per  metafora. 4«  Platone,  enumerando  le  cose  che  egli ammetta, non  parla  che  di  tre,  le  Idee,  lo  spazio    e   la   genesi^  e non  di  una  quarta,  che  dovrebbe  essere  il  Demiurgo.  É cosi  che  fa  a  48e.49a,  ÒOc-d,   52d. Fouillée  cita questi  luoghi,  e  ne  conclude  che,  poiché   il demiurgo manca  nella  enumerazione,  esso  deve  essere    identico  a una  delle  tre  cose  enumerate,  cioè  alle   Idee.    Questo  é senza  dubbio  il  migliore  degli  argomeatì  ch'egli  impiega per  dimostrare  l'identità  tra  il  modello  e   il    Demiurgo. Ma  esso  non  è  probante  che  nella  sua   parte   negativa, cioè  contro  quegl'interpreti  che,  come  il  Martin,^  pren- dono il  Timeo  alla  lettera  e  ammettono  che   Plat  )ne  ha pensato  realmente  che  il  mondo  è  stato  costruito   da  un artefice  che  ha  copiato  un  modello.  Contro  la  sua  parte positiva,  cioè  che  il  senso  riposto  del   Timeo  è  che  le  I- dee  esistono  in  Dio,  valgono  le  osservazioni  che  abbiamo fatto  sopra,  sul  4«  motivo  dell'interpretazione  teistica,  e sarebbe  inutile  di  ripeterle. Cfr.  Sappi,  e,  carta  228. fc  -. Fouillée  osserva  pure  sul  secondo  dei  luoghi  in- dicati che  il  modello  deve  essere  identico  al  Demiurgo, perchè  in  questo  luogo  le  Idee  vengono  riguardate  come le  cause  delle  cose,  e  paragonate  al  padre  (lo  spazio essendo  paragonato  alla  madre,  e  la  genesi  al  figlio. Quest'argomento  non  può  valere  anch'  esso  che  contro l'altra  forma  dell'interpretazione  trascendentalista,  se- condo cui  le  Idee  non  potrebbero  essere  che  dei  sem- plici esemplari,  e  la  loro  causalità  sulle  cose  è  assolu- tamente incomprensibile. 6*»  Nel  Timeo Platone  dice  : Dio  impiegava tuttp  queste  cause  per  ausiliarie,  ma  mise  egli  stesso  il bene  in  tutte  le  cose  generate.  É  per  ciò  che  bisogna distinguere  du^  sorta  di  cause,  Tuna  necessaria  e  l'altra diviaa,  e  noi  dobbiamo  cercare  in  ogni  cosa  la  causa divina».  Il  Fouillée  commenta: Platone  nondistingue due  cause  divine,  l'  una  efficiente  (cioè  il demiurgo), l'altra  esemplare  o  finale  (cioè  il  modello);  egli  non  ne pone  che  una,  l'Idea» Ma  in  questo  luogo  non  è  qui- stione  della  causalità  delle  Idee.  Le  cause  che  si  distin- guono in  due  generi  sono  le  cause  fenomenali,  cioè  fa- cienti  parte  dell'universo  come  complesso  di  tutte  le  esi- stenze individuali.  Confrontando  questo  luogo  con  due altri  del  Timeo  stesso,  cioè  46c-e  e  48a,  in  cui  è  espresso evidentemente  lo  stesso  concetto,  si  vede  che  per  le  cause divine  bisogna  inteudere  quelle  «  che  producono  con  in- telligenza il  buono  e  il  bello  »  ;  le  eausjB  necessarie  sono, naturalmente  gli  agenti  materiali.  In  questa  bipartizione delle  cause  le  Idee  non  vanno  né  nell'una  ne  nell'altra J Cfr.  Sappi.  C,  carta  arte,  benché  la  parusia  ielle  Idee  vi  sia  necessaria- mente tanto  nelle  cause  dell'  una  quanto  in  quelle  del- l'altra, poiché  tanto  gli  agenti  materiali  quanto  gli  a- genti  spiritaali  sono  la  realizzazione  delle  Idee  e  agi- scono secondo  le  necessità  ideali.  Fra  le  cause  di- vine é  compreso  il  Demiurgo,  che,  se  si  prende  alla lettera,  è  anch'  esso  una  causa,  come  abbiamo  detto, fenomenale,  essendo  evidentemente  un  individuo,  e  non un'  entità  astratta.  Secondo  noi  il  Demiurgo  non  deve prendersi  alla  lettera,  e  simboleggia  1'idea  del bene: per  conseguenza  le  cause  divine,  oltre  le  cause  intelligenti (cioè  le  divinità  generate),  significano  anche,  al- legoricamente, la  causalità  del  Bene. Questo  però  non ci  costringe  ad  oltrepassare  1'  ordine  causale  nei  feno- meni, perchè  la  causalità  del  Bene  non  è  in  sostanza che  la  teleologia  immanente  nella  natura.  Siccome  anche le  cause  intelligenti,  nel  senso  proprio,  agiscono  teleolo- gicamente,  le  cause  divine  equivalgono  alle  cause  finali, come  le  cause  necessarie  alle  cause  meccaniche.  Questa divisione  delle  cause  in  due  generi  non  è  dunque che  quella  abituale  a  tutti  i  teleologisti,  e  non  giust' fica per  niente  la  conclusione  di  Fouillèe. L'ultimo  degli  argomenti  di Fouillèe  tratti  dal  7Y- meoè  che  non  vi  ha  per  Platone,  egli  dice,  che  «  un  solo Dio  intelligibile,  padre  e  modello  del  dio  sensibile  »  (cioè del  mondo  mentre,  se  il  Demiurgo  e  il  mondo  ideale fossero  distinti,  ve  ne  sarebbero  due).  Per  provare  ciò egli  cita  il  Timeo:  É  cosi  che  il  Dio  che  esiste da   ogni    tempo  -,    avea   concepito   il   Dio   che  doveva   Cfr.  o»p.  2.  8  3  e  Sappi,  C,  !IV, e.  282  p.  1*  n.  5. hascere  »,  e  la  conclusione  del  dialogo,  in  cui  il  mon- do è  chiamato  €dio  sensibile,  immagine  del  dio  in- telligibile ».  Il  primo  di  questi  luoghi  proverebbe  che  vi ha  un  solo  dio  che  esiste  sempre  (e  non  due,  cioè  il  Demiurgo e  il  modello);  il  secondo  proverebbe  al  tempo stesso  che  vi  ha  un  sol  dio  inteUigibUe  (ciò  che  è  la stessa  cosa  che  un  sol  dio  che  esiste  sempre),  e  che  questo dio  non  è  altra  cosa  che  il  modello.  Dunque  il  Demiurgo e  l'insieme  delle  Idee  sono  una  sola  e  stessa  cosa Su questo  ragionamento  si  può  osservare  prima  di  tutto  che nel  secondo  luogo  il  significato  del  dio  intelligibile  è  cir- coscritto per  designare  unicamente  il  modello,  si  dalla parola  immagine  che  dalla  parola  stessa  intelligibile  (che nel  linguaggio  di  Platone  non  significa  che  l'Idea);  per conseguenza  da  questo  luogo  non  potrebbe  concludersi che,  oltre  questo  dio  intelligibile,  Platone  non  ha  potuto ammettere  un  altro  dio,  anch'esso  distinto  dal  dio  sen- sibile,  cioè  il  Demiurgo.  Ma  ciò  che  rovescia  tutto  il ragionamento  è  l'osservazione  che  qui  Piatone  non  può deificare  il  modello,  considerato  come  uno  (cioè  V  ani-male intelligibile  che  comprende  tutti  gli  animali  intel- ligibili), che  nello  stesso  senso  in  cui  altrove  (i)  deificai modelli,  considerati  come  più,  cioè  per  semplice  meta- fora (2).  i Passiamo  agli  argomenti  tratti  dagli  altri  dialoghi  :Nel  6<»  della  repubblica  il  Bene  ci  è  rappresentato come  principio  sostanziale  delle  Idee  e  come  causa efficiente  degli  oggetti  sensibili.  Naturalmente  Fouillèe ne  conclude  che  il  Bene  per  Platone  non  è  altra  cosa che  Dio— Vi  ha  appena  bisogno  di  osservare  che   que-   e. Cfr.  questo  Sappi,  n.  I  e.  280  e  n.  Il  o.  296. /i   30'i   st'ar^'omcato  non  è  che  un  caso  deirequivoco  già  indi- cato deirin!^erprete  teistico,  di  scambiare  la  causa  nel senso  del  realismo  dialettico  con  la  causa  nel  senso  che gli  è  più  familiare,  cioè  rantropomorfìstico. 2^  Nel  10^  della  stessa  Repubblica  si  dice  che  Dio ha  prodotto  V  Idea  del  letto  e  tutte  le  altre  Idee Ma neirinterpretazione  del  Fouillèe  com'è  che  Dio  potrebbe produrre  le  Idee?  se  Dio  non  è  secondo  lui  che  l'insieme delle  Idee  stesse?  La  proposizione  che  Dio  ha  prodotto le  Idee  potrebbe  avere  un  senso  nella  forma  dell*  Inter* pretazione  teistica  (che  non  è  quella  ammessa  dal  Fouil- lèe), secondo  cui  Dio  sarebbe  il  substratum  e  la  sorgente delle  Idee,  cioè  dei  suoi  pensieri  eterni,  press'  a  poco come,  secondo  lo  psicologo  spiritualista,  la  sostanza  me è  il  substratum  e  la  sorgente  dei  fenomeni  della  nostra coscienza.  Ma  in  questo  senso  o  in  qualsiasi  altro  è  as- solutamente incompatibile  con  le  dottrine  di  Platone, che  considera  evidentemente  le  Idee  come  i  prìncipii  ul- timi (sia  che  dobbiamo  intendere  per  esse  delle  entità astratte  sia  dei  semplici  pensieri.  L'interprete  teistico dirà  che  Platone  riguarda  Tldea  del  Bene  come  la  causa di  tutte  le  altre,  e  che  Dio  è  appunto  per  lui  Tldea  del Bene.  Noi  conveniamo  con  V  interprete  teistico  che  il Dio  del  10*^  della  Repubblica,  che  produce  V  Idea  del letto  e  le  altre  Idee,  non  può  essere  cheTIdea  del  Bene. Ma  aggiungiamo  che  questa  deificazione  dell*  Idea  del Bene  non  può  essere  che  una  metafora  tanto  nella  nostra interpretazione  quanto  nella  sua,  poiché  secondo  questa essa  non  potrebbe  essere  che  uno  dei  pensieri   della  di- Cfr,  Sappi.  C.  IV,  e.  228-229. vinità,  e  la  personificazione  di  un  pensiero  è  altrettanto inconcepibile  che  quella  di  un*entità  astratta. Fouillèe  ammette  anch*egli  che  questo  Dio  che produce  Tldea  del  letto  e  le  altre  Idee  è  la  stessa  cosa che  il  Bene,  e  ne  dà  come  prova  che  esso  è  chiamato in  seguito   il  re,  espressione  che  si  applica  pure  al Bene.  Su  questa  prova  basterà  di  ripetere  Tosservazione precedente  e  T  altra  dell*  incongruenza  di  Fouillèe  di ammettere  che  1*  insieme  delle  Idee  (equivalente  per  lui al  Bene)  sia  la  causa  delle  Idee  stesse. 3^  Nel  Fedro si  dice  che  dio  è  divino  perché è  con  le  Idee— Ma  dio  é  con  le  Idee  in  quanto  le  con- templa (nel  luogo  iperuranio)  (3).  Anche  le  anime  che sono  al  seguito  degli  dei  le  contemplano,  senza  che  siano perciò  i  loro  pensieri.,  i^  Nel  Convito l' Idea  del  Bello  è  chia- mata il  bello  stesso  divino^  e  si  dice  che  chi  la  contem- pli^  diviene  amico  di  Dio.  Fouillèe  intende  che  que- st'Idea è  «  la  beltà  di  Dio  »;  e  che  chi  la  contempla  di- viene amico  di  Dio  perché  il  Bello  è  identico  al  Bene  e per  conseguenza  a  Dio— Ma  é  evidente  che  V  Idea  del bello  non  può  essere  chiamata  divina  che  nello  stesso senso  in  cui  sono  chiamate  divine  le  altre  Idee.  Quando nel  Filebo le  Idee  del  cerchio  e  della  sfera  sono  chia- mate il  cerchio  e  la  sfera  stessa  divina,  dovremo  in- tendere che  queste  Idee  sono  degli  attributi  di  Dio?  Se- condo grinterpreti  teistici  in  generale,  queste  Idee  sa- rebbero dei  pensieri  particolari  della  divinità  :   ma  pare  Cfr.  carta  296. (2)  697  e. Cfr.  Supplom.  B  cario  141-1 U. (4)  62  a. •I I <    '  '     T' I i i \' ad  essi  naturale  ohe  i  pensieri  che  Dio  ha  del  cerchio  e della  sfera  siano  chiamati  il  cerchio  divino  e  la  sfera divina  ?  Inoltre  un  pensiero  di  Dio  è  tutt'altra  cosa  che un  attributo  di  Dio.  Il  Fouillèe  dirà  che  le  Idee  del cerchio  e  della  sfera  sono  anche  delle  perfezioni  divine e  non  semplicemente  dei  pensieri  divini.  Noi  potremo discutere  questa  proposizione,  quando  il  Fouillèe  o  altri ci  farà  comprendere  che  cosa  significa Aggiungiamo, suir  altra  parte  dell'  argomento,  che  Platone  stesso  ci spiega  sufficientemente^  e  senza  che  resti  alcun  bisogno della  spiegaeìone  del  Fouillèe,  perchè  cl^l  contempla  ri- dea  del  Bello  diviene  amico  di  Dio  (o  piuttosto  amato da  DiOj  Bso^iXi^c)  :  è  perchè  partorisce  e  nutrisce  la  vera virtù  j  e  non  delle  immagini  di  virtu^  avendo  visto  il vero  (cioè  il  Bello  in  se  stesso,  tipo  della  virtù  e  di  tutto ciò  che  è  bello),  e  non  un'immagine. h^  Nel  Teeteto  la  virtù,  che  è  Timitaz'one  del  B^ne, è  definita  la  somiglianza  con  Dio^Dunque,  secondo  il Fouillèe,  se  non  ammettesse  che  il  Bene  è  identico  a Dio,  Platone  non  potrebbe  dire,  come  qualsiasi  altro  teista, filosofo  o  non  filosofo,  che  il  virtuoso  è  amato  da  Dio, e  che  gli  somiglia?  Notiamo  che  nel  luogo  del  Teeteto a  cui  allude  il  Fouillèe  (2)  Platone  non  dice  che  la  virtù si  definisce  la  somiglianza  con  Dio,  ma  semplicemente che  divenire  giusto,  santo  e  prudente  è  rendersi  simile a  Dio. 6«  Nelle  Leggi Dio  è  chiamato  il il  principio, il  fine  e  il  mezzo  di  tutte  le  cose.  Dunque  egli è  il  Bene,  poiché  è  il  Bene  il  principio  primo  e    il    fine ultimo— Ma  la  proposizione  citata  dal  Fouillèe  (che  d'al- tronde lo  steiso  autore  afierma  ricevere  da  un'  antica tradizione)  potrebbe  provare  tutto  al  più  che  il  sistema teologico  di  Platone  è  il  panteismo.  Da  ciò  non  potrebbe concludersi  niente  sulla  dottrina  delle  Idee,  perchè  que- ste due  parti  della  filosofia  platonica  sono,  come  abbiamo osservato,  assolutamente  distinte.  Del  resto  Platone  non dice  <  Dio  é  »  ma  «  Dio  tietie  (ixet)  it  principio,  il  fine e  il  mezzo  di  tutte  le  cose  »,  proposizione  naturalissima in  qualsiasi  forma,  alquanto  evoluta,  della  filosofìa  teo- logica. 7^  €  La  tua  intelligenza  non  è  il  bene,  dice  Fikbo a  Socrate  — Si,  la  mia  forse,  o  Filebo,  ma  per  T  intelli- genza vera  e  divina,  io  non  penso  che  sia  cosi — È il  migliore  argomento  che  Tinterprete  teistico  possa  im- piegare per  provare  che  V  Idea  del  Bene  è  identica  a Dio.  Infatti  in  questo  luogo  Socrate  sembra  affermare che  Tintelligenza  divina  è  i!  Bene  stesso.  Ma  la  propozione potrebbe  anche  avere  nn  altro  senso,  cioè  che  la semplice  intelligenza  è  insufficiente  alla  felicità  nostra, ma  è  sufficiente  a  quella  di  Dio.  Infatti  il  bene  nel  Fi- lebe  è  considerato  sovratutto  nel  suo  aspetto  subbietti- vo,  cioè  come  felicità  degli  esseri  viventi,  V  argomento del  dialogo  essendo  appunto  di  ricercare  in  che  consiste la  felicità.  Lo  stesso  luogo  citato  fa  parte  della  conclu- sione di  una  discussione  per  cui  si  mostra  che  né  una vita  di  pura  intelligenza  né  una  vita  di  puro  piacere basta  a  costituire  la  felicità,  ma  per  ciò  è  necessaria una  vita  mescolata  di  piacere  e  d' intelligenza.   La    ri- Conv,  212».   I76b.   715  e. (1)  Filtro  22  0. -  ao4  — :l -rrr -rr -i-TT I !» 111 Il  ' spòsta  di  Socrate  a  Filebo  avrebbe  dunque  questo  si- gnificato naturalissimo,  di  una  riserva  fatta  in  favore dell'intelligenza  divina,  cioè  che  Dio  è  felice,  quantunque non  viva  che  una  vita  di  pura  intelligenza.  Questo  significato è confermato  da  ciò  che  si  dice  in  se- guito (1),  che  non  solo  non  è  verisimile,  ma  è  anche sconveniente,  di  ammettere  che  la  divinità  provi  del piacere  e  del  dolore.  Ora  l'insieme  del  dialogo  non  per- mette di  dubitare  che  il  senso  delle  parole  di  Socrate non  sia  cflTettivamente  questo.  Quello  preferito  dair  in- terprete teistico  è  incompatibile  col  contenuto  dell'  Idea del  bene  —  che  è  evidentemente  un  attributo  delle  cose, di  cui  la  felicità  degli  esseri  viventi  possa  essere  un  caso particolare e  con  la  sua  immanenza,  così  chiara  in  questo dialogo,  che  noi  vi  abbiamo  visto  a  buon  dritto  una delle  prove  più  forti  dell'immanenza  delle  Idee  in  generale.  Aggiungiamo  che  esso  è  anche  incompati- bile coi  presupposti  dell'interpretazione  teistica,  perchè secondo  questi,  come  abbiamo  tante  volte  osservato,  l'Idea del  Bene  non  potrebbe  essere  che  uno  dei  pensieri della  divinità,  ma  non  l'intelligenza  divina,  che  è  il  sog- getto o  r  insieme  di  questi  pensieri. (ij  33  b. Gfr.  Sappi.  B  carie  92-95. Alouni  interpreti  ehe  seguono  l'altra  forma  dell'interpreta- sione  trascendentalista,  credono,  fondandosi  su  questo  luogo  del Filebo,  che  il  Bene  per  Platone  non  sia  Dio,  ma  la  ragione  imma- nente nel  mondo,  a  coi  egli  non  intende  attribuire  propriamente la  personalità.  Questo  senso  è  anche,  se  si  pnò  dir  cosi,  più  im- possibile ohe  quello  dell'interprete  teistico.  Questi  almeno,  identi- ficando il  Bene  con  l'intelligenza  divina,  è  coerente  allo  spirito della  sqa  interpretazione,  ohe  vede  nelle  Idee  platoniche  delle  con- 8<^  Dopo  aver  posto nel  Filebo  l'indeterminato,  la determinazione  o  le  Idee,  e  il  genere  misto,  Platone  dice che  bisogna  porre  la  causa  di  tutte  queste  cose.  Dio sarebbe  dunque  la  causa  delle  Idee  e  della  materia La base  di  quest'argomento  (che  del  resto Fouillòe  non propone  senza  esitazione)  è  il  concetto,  di  cui  abbiamo visto  Tinammissibilità  (1),  che  il  Tispag  del  Filtbo,  che egli  chiama  la  determinazione,  sia  identico  alle  Idee,  e Tdcneipov  alia  materia.  Tuttavia,  siccome  il  TzipoL^  e  l'dc- Tieipov  sono  anche,  come  abbiamo  mostrato,  gli  elementi delle  Idee,  alcuno  potrebbe  giungere  per  questa  via, con  qualche  apparenza  di  ragione,  alla  stessa  conclu- sione del  Fouillèe,  cioè  che  la  causa^  vale  a  dire  Dio,  è causa  anche  delle  Idee.  Ma  questi  non  potrebbe  essere l'interprete  teistico,  perchè  il  Tiépag  e  T  àjcsipov  sono  e- \identemente  gli  elementi delle cose   reali,    e  non cezioni  dello  spirito.  Ma  per  l'interprete  trascendentalista  che  con- sidera le  Idee  come  delle  forme  obbiettive,  quantunque  esistenti  in un  altro  mo)ido,  come  l'Idea  del  Bene  può  essere  la  stessa  cosa che  la  Ragione  ?  Per  lui  come  per  noi  le  Idee  non  sono  che  gli attributi  omonimi  dello  cose  sostantificati,  per  noi  nelle  cose  stesse, per  lui  fuori  delle  cose.  La  ragione  è  dunque  un  attributo  di  tutti gli  oggetti  che  chiamiamo  buoni?  e  siccome  per  Platone  tutto  ciò che  esiste  è  buono  (perchè  egli  vede  nell'Idea  del  Bene  la  forma universale  e  la  identifica  a  quella  dell'Essere),  tutto  ciò  che  esiste per  Platone  (che  non  è  un  ilozoista),  partecipa  dunque  alla  ra- gione ?  È  evidente  che  l'interprete  trascendentalista  non  attribui- rebhe  a  un  filosofo  moderno  un  non  senso  simile;  ma  a  Platone gli  è  lecito  di  attribuire  tutti  i  non  sensi,  perchè  effettivamente, secondo  la  sua  interpretazione,  la  filosofia  platonica  non  potrebbe spiegarsi  che  per  una  tendenza  irresistibile  verso  le  i)roposizioni prive  di  senso. (1)  V.  Suppl.  C,  IV,  carte  244-245. (2)  V.  Suppl.  B,  vili,  carta  100. '3)  V,  Suppl.  B  carta- •i-*- pofsono  riguardarsi  come  flf menti  anche  delle  Idee  che nella  nostra  interpretazione,  che  identifica  in  qualche modo  le  Idee  con  le  cose,  ma  non  in  un'interpretazione che  ne  fa  dei  pensieri  o  delle  perfezioni  della  divinità. Per  altro,  noi  torniamo  a  domandare  al  Fouillèe  com'è possibile  che  Dio  sia  causa  delle  Idee,  mentre  non  è  che le  Idee  stesse.  Aggiungiamo  (tralasciando  per  amore  di brevità  tante  altre  osservazioni  non  meno  ovvie)  che  la causa  non  potrebbe  essere  cau^a  anche  delle  Idee  perchè non  lo  è  che  delle  cose  divenute  (1)  (mentre  le  Idee sono  eterne),  perchè  la  sua  efficienza  è  assimilata  alla nostra  attività  sul  mondo  esterno  (2),  e  perchè  essa  non é  evidentemente  che  l'anima  del  mondo,  che  non  può produrre  che  del  movimento,  e  per  la  comunicazione  del movimento  proprio. L'anima,  nel  suo  viaggio  al  seguito  di  Dio,  con- templa la  scienza  in  sé,  non  questa  scienza  soggetta  al cangiamento,  ma   quella    che   si    trova    nell'  essere vero  (5).  L'Idea  della  scienza  è  dunque  compresa  in  Dio. E  d'altra  parte  il  Parmenide  c'insegna  che  la  scienza in  sé  ha  per  oggetto  le  Ide  ch'essa  racchiude.  Le  Idee divengono  così  dei  pensieri  divini— Ma  che  cosa  prova al  Fouillèe  che  l'essere  vero  in  cui  si  trova  la  scienza in  sé,    è    Dio  ? L'essere   vero   (6  èo-civ  ov  ovxwg)  in  lin- ci) FU.  26e-27a.  Cfr.  Sappi.  C.  IV,  o.  247,  p.  2«. (2)  La  causa  è  ciò  che  fa,  e  gli  eifetti  le  cose  ohe  sono  fatte iFilebo  ).  La  causa  è  anche  chiamata.ropifice(gr^|jLioi)pYoOv) degli  altri  tre  generi  {FU.  27b).  Dio,  per  conseguenza,  seconao  l'in- terprete teistico,  farebb**,  anzi  fabbricherebbe,  i  propri  pensieri.  V.  Supph  C,  IV,  e.  247-248.  Cfr.  e.  224. (4)  V.  questo  Sitppl.  n.  I,  e.  280,  2«3  e  283. (5)  Fedro  247d-e. guaggio  platonico  des^'gna  l'Idea,  e  per  conseguenza qui  non  può  significare  che  l'Idea  di  sostanza  di  cui  la scienza  in  sé  è  l'attributo,  perché  ciò  che  è  sostanza  nel mondo  d»  Ile  cose  deve  essere  sostanza  anche  nel  mondo delle  Ideo,  e  ciò  che  è  attributo  in  quello  deve  e-sero attributo  anche  in  questo.  Quando  poi  il  Fouillèe  afferma che  «  il  Parmenide  c'insegna  che  la  scienza  in  sé  ha per  oggetto  le  Idee»,  la  sua  proposizione  é  incontesta- bile (1),  ma  quando  aggiunge  e  che  essa  racchiude  », non  fa  che  un'asserzione  interamente  gratuita,  perché Platone  non  lo  dice  né  nel  Parmenide  né    altrove. 10^  E  dio  e  non  l'uomo  che  è  la  misura  di  tutte  1'^ cose  {Ijeggi  IV,  'il6c).  Così  per  Platone  il  principio  e  il fondamento  della  verità  è  Dio— Ma  le  parole  precise  di Platone  sono  :  «  Dio  è  la  misura  di  tutte  le  cose  molto più  che  alcun  uomo.  »  Dunque  secondo  il  Fouillèe  anche l'uomo  sarebbe  per  Platone  principio  e  fondamento  della verità,  quantunque  meno  che  Die,  proposizione  che  è un  non  se  nso  tanto  se  si  ammette  che  la  verità  è  og- gettiva quanto  se  si  ammette  che  è  soggettiva  come  pre- tendeva Protagora;  perchè,  se  é  oggettiva,  come  l'uo- mo potrebbe  esserne  principio  e  fondamento?  e  se  è soggettiva,  come  Dio  potrebbe  esserlo  più  che  l'uomo? La  proposizione  che  Dio  è  la  misura  di  tutte  le  cose,  in quanto  essa  ha  una  portata  gnoselogica,  può  significare, in  Platone,  non  che  il  vero  e  il  falso  dipendono  da  Dio, ma  semplicemente  che  in  Dio  vi  ha  un  criterio  infalli- bile del  vero  e  del  falso,  perchè  noi  dobbiamo  interpre- tare questa  proposizione  conformemente  alle  sue  dottrine conosciute,  e  secondo  queste  è  il  pensiero   che  é  deter- (1>  V.  Parmeìu  133o-134d. -  306  — minato  dalle  cfse  (tforia  dell'intuizione  e  della  remini- scenza), non  s<no  le  cose  che  sono  determina  te  dal  pen- siero  • \\^  Aristotile  parla  di  alcuni  che   hanno  detto   che y anima  è  il  luogo  delle  specie  (xóTiog  sl8(Bv)  (1),  Il  Fouil- lèe  ne  conclude  che  Platone  ha  chiamato  T  intelligenza divina  il  luogo  de'le  Idee,  perché  quest'espressione  che troviamo  in  Aristotele  è,  egli  dice,  evidentemente  pla- tonica. Noi  diciamo  invece  che  è  evidentemente  anti- platonica-é  una  conseguenza  delle  prove  dell'  imma- nenza delle  Idee  date  nel  Supplem.  B-,  e  appartiene  pro- babilmente ai  Cinici,  che  contrapponevano  al  realismo di  Platone  il  concettualismo,  affermando  che  gli  univer- saM  non  esistono  che  nel  pensiero  (2). Ili  liC  Idee  e    11  pensiero Secondo  un'interpretazione  di  Platone,  che  rimonta ad  Hegel,  ed  è  stata  ripresa  e  sviluppata  da  un  critico contemporaneo,  il  Teichmiiller,  la  reminiscenza,  Tin- tuizione  delle  Idee  in  una  vita  anteriore,  V  immortalità dell'anima  e  le  altre  dottrine  connesse  non  devono  in- tendersi nel  senso  letterale,  ma  sono  dei  simboli  d'  una teoria  gnoseologica  ed  ontologica,  in  cui  Platone  avrebbe preceduto  Hegel.  Questa  è  che,  nel  pensiero  filosofico, il  soggetto  conoscente  s'identifica  con   V  oggetto    cono- sciuto, cioè  con  le  Idee;  che  questo  pensiero  costituisce l'essenza  intima  dell'anima,  ed  è,  per  conseguenza,  u- niversale,  e  quindi  eterno,  co  ne  il  suo  oggetto;  infine che  esso  ò  il  momento  ultimo  dello  sviluppo  eterno  dei- Tessere,  l'Assoluto,  che  comprende  ogni  cosa,  e  in  cui tutti  i  contrari  si  unificano.  L'immortalità  dell'anima simboleggerebbe  Tetoroarsi  dello  spirito,  quando  rientra nella  sua  vera  essenza,  identica  al  mondo  ideale,  e  ha luogo  cosi  la  conoscenza  filosofica.  1/  intuizione  delle Idee  in  una  vita  anteriore  significherebbe  la  presenza delle  Idee  nel  pensiero:  essa  é  rappresentata  come  la percez-one  di  un  oggetto  esteriore,  perchè  è  il  solo  caso, nell'esperienza,  in  cui  Toggetto  sia  presente  immediata- mente al  soggetto,  e  trasportata  in  una  vita  anteriore,  per- chè Tessenza  universale  dell'anima,  da  cui  deriva  V  a- nima  individuale,  si  rappresenta  come  V  antica  natura (àpxaCa  (;p'Jat;)  di  questa.  La  reminiscenza,  infine,  significa  che  la  conoscenza  è  a  priori,  e  che  lo  spi- rito la  ritrae  dalla  sua  antica  natura,  identica  alleldee conosciute.  Ma  perchè  Platone,  come  dice  uno  di  que- 8t'  interpreti,  *  ha  insegnato  il  vero  mediante  il  fal- so?» (i).  Perchè,  invece  di  esporre  la  sua  dottrina  aper- tamente, ha  preferito  d'invilupparla  in  oscuri  simboli  ? Ciò  é  stato,  ci  si  dice,  per  due  ragioni.  Prim-),  la  verità nella  sua  forma  pura  è  inaccessibile  ai  molti;  a  questi, aftinché  ne  partecipino  in  qualche  modo,  è  neeessario  di presentarla  sotto  un  involucro  fantastico,  in  forma  di miti  e  di  allegorie.  Secondo,  Platone  era  convinto  che la  religione  é  il  vincolo  più  forte  dell'  ordinamento so- ci) De  an,  l.  IH.  TV.  4. Ci)  V.  ZoUor  Fifo&.  ffei  (h'cci  trad.  frauo.  Vera  Philom*  e  Vimmorlalilà  dclVaninvi  pjig.   i8. ti .-.}.V<  li ì i cìale;  perciò  ha  cercato  di  mettere  d'accordo,  almeno  in apparenza,  il  pensiero  filosofico  con  le  credenze  religiose, e  tra  le  altre  naturalmente  con  la  più  efficace  di  tutte, cioè  quella  deirimmortalità. L'obbiezione  più  ovvia  che  si  presenta  prima  facie contro  quest'interpretazione  è  V  inverosimiglianza   della situazione  psicologica  ch'essa  suppone  in  Platone.  Qup- st'arte  di  dire  una  cosa  e  intenderne  un'  altra,  qualun- que siano  le  frasi  di  cui  si  rivesta  per darle  un'  appa- renza speciosa,  è  sempre  una  maschera  che  si  mette  al pensiero,  una  diplomazia  che  il   filosofo    usa  verso   gli altri  0  verso  se  stesso.  Noi  comprendiamo  questo    stato di  spirito  in  un  professore  moderno,  che    nrn  vuole  a- lienarsi  il  favore  di  chi  sta  in  alto    urtando   troppo  ru- demente delle  idee  che  fanno  parte  di  un  ordine   stabi- lito   o  in  un  dottore  protestante,  che  deve  fare il   sermone della  festa  di  pasqua,  ma  non  ammette  la   venta storica  del  racconto  degli    evangeli    sulla   resurrezione. Anche  quel  nobile  carattere  di  filosofo  che  fu    Spinoza parla,  nel  senso  in  cui  questo  linguaggio  pretende attribuirsi a  Platone,    oltre  che dell'immortalità    dell'  anima,  di  Dio,  del   figlio    di    Dio, dell'  amore    di    Dio, ecc.,    parole    che    nel    suo    sistema  non  sono  che   una decorazione:    ma    dobbiamo    noi    maravigliarci    di    ciò quando,  malgrado  questo  velo  prudente  di    cui    ricopre le  sue  dottrine,  che  un  teista  ha  tutta  la  ragione   di  riguardare come   atee,  lo    vediamo   diventare    V  oggetto della  riprovazione  universale  ?  Ma  in  Platone,  e  al  sog- getto dell'immortalità  dell'anima,  questa  diplomazia  sa- rebbe stata  senza   motivo.    Oltre  che   la   mitologia    dei Greci  non  accordava  all'anima,  dopo  la  morte,  che  un'ombra  d'esistenza,  oggetto  piuttosto  di  timore    che   di speranza,   e  a  cui   non   era  legato   alcun  interesse  e- i tico  (1),  la  credenza  all'  immortalità,  o  semplicemente alla  sopravvivenza,  non  sarebbe  stata  riguardata,  almeno all'epoca  di  Platone,  come  una  condizione  di  ortodossia. Come  sappiamo  da  Platone  stesso,  i  suoi  contemporanei  che  consideravano  come  un  dovere  il  culto  deoli  dei dello  stato— erano  generalmente  scettici  riguardo  alle antiche  tradizioni  sui  premi  e  le  pene  dell'altra  vita;  i più  pensavano  che  l'anima,  appena  uscita  dal  corpo,  si dissipa  e  si  annienta ;  e  Socrate  (nella  Repubblica di Platone) eccita  la  sorpresa  del  suo  interlocutore, quando  afferma  che  è  immortale.  Platone  non  si  sarebbe dunque  trovato  in  urto  con  la  coscienza  popolare,  s'egli non  avesse  accolto  tra  le  sue  dottrine,  o  avesse  anche rigettato,  implicitamente  o  esplicitamente,  la  credenza in  un'altra  vita  :  tanto  meno,  per  fare  atto  di  ossequio alla  fede  dei  suoi  connazionali,  avrebbe  potuto  credersi in  obbligo  d'  insegnare  e  di  dimostrare  V  immortalità dell'  anima,  nel  senso  rigoroso,  e  la  sua  eternità.  Ma supponiamo  che  1'  epoca  di  Platone  fosse  tale  da  im- porre a  un  filosofo  un  ossequio  apparente  a  queste  dot- trine :  che  cosa  dovremmo  aspettarci  da  lui,  supposto ciò  ?  ch'egli  mettesse  in  luce  i  soli  punti  in  cui  i  suoi concetti  filosofici  si  accordassero  coi  concetti  popolari, lasciando  nell'ombra  quelli  in  cui  ne  diff*erissero.  Pla- tone dovrebbe  dunque    limitarsi    in   questo  caso,    come ^1)  V,  Zeller  Filos,  dei  Greci,  Introd,  gener,  o.  2  §  5  L'antro" poloifui,  V,  anohe,  sul  timore  dell'altra  vita,  Guyau  La  morale  d'E- picuro, l.  II,  o.  Ili,  I  (pel  paganesimo  Ingenerale),  e  ofr.  Platone stesso  Hep.  386b-387o. (2)  Jiep.  330  d-e. (3)  Fedo.  Cfr.  70a  e  77b.  V.  608d, -.  308  — li I   ) ì J Spinoza  e  come  Hegel  nei  casi  analoghi,  a  cercare  delle formule  ambigue,  che,  quand'  anche  più  adattate  alle credenze  popolari,  potessero  pure  applicarsi,  anche  for- zandolo alquanto,  ai  concotti  liiosoiici.  Egli  non  insiste- rebbe quindi  sul  lato  etico  e  sentimentale  della  credenza all'immortalità  :  non  parlerebbe  dei  premi  e  delle  peno neiresistenza  futura  (1);  non  farebbe  esprimere  conti- nuamente ai  suoi  personaggi  le  t^peranze  della  felicità che  attende  nell'altro  mondo  il  saggio  che  si  è  purifi- cato dalle  passioni,  e  il  timore  della  morte  da  cui la  sicurezza  di  un'altra  vita  deve  liberarli;  sovratutto non  metterebbe  in  bocca  queste  speranze  a  un  caro  mo- rente, col  pensiero  sottinteso  che  sono  delle  illusioni quasi  per  una  irrisione  a  ciò  che  vi  ha  di  più  umano nel  sentimento  religioso,  nelle  persone  e  nella  circo- stanza in  cui  è  il  più  umano  di  rispettarlo   Tutto  ciò che  vi  ha  nelle  idee  sull'altra  vita  di  mitico  e  di  super- stizioso, nel  senso  stretto  di  questi  termini,  non  sarebbe meno  fuori  di  luogo;  p.  e.,  nel  Fedone^  i  fantasmi  che vagano  attorno  ai  sepolcri,  e  la  descrizione  del  sog- giorno futuro  dei  buoni  nell'alta  superficie  della  terra (di  cui  noi  abitiamo  una  cavità)  e  dei  cattivi  negli  a- bissi  che  sono  nel  suo  interno  (5);  perchè  qual    sigoifi- [Fedo.  Tim,  Meno.  Teet.,  Fedro  LEONZIO (vedasi),  Rep. Legiji  ecc. (2)  V.  il  Fedone  63b-c,  63e-64a,  67b-o,  68a,  69c-e,  70b,  82  c-84b, 84e-85b,  95c,  114o-115a,  115  d,  J17  b-c, (3)  V.  pure  il  Fedone  cato  potrebbe  darsi  a  queste  circostanze  come  simboli della  dottrina  filosofica  ?  Infine  Platone  non  darebbe delle  dimostrazioni  dell'immortalità- ed  è  stato  il  primo a  farlo—,  o  almeno  queste  dimostrazioni  dovrebbero  es- sere ambigue  come  l'immortalità  stessa,  cioè,  mentre apparentf»inentc  proverebbero  V  immortalità  personale, dovrebbero  essere  suscettibili  di  essere  interpretate,  nel loro  senso  reale,  come  prove  delle  dottrine  che  essa simboleggia;  mentre  è  evidente  che  le  dimostrazioni  pla- toniche concludono  univocamente,  cioè  alla  sola  immor- talità personale,  e,  per  quanto  si  torturino,  non  si  riu- scirà mai  a  far  loro  dimostrare  l'eternità  dell'essenza  uni- versale dell'anima  o  1'  identità  del  soggetto  e  dell'  og- getto (0.  Ora  possiamo  noi  concepire  un  filosofo  della  sini- stra hegeliana,  che  cerchi  di  dimostrare,  senza  equivoco, la  verità  (la  verità  storica^  come  sopra)  dei  racconti  de- gli evangeli  ?  Un'altra  testimonianza  in  favore  della  sin- cerità di  Platone  nella  dottrina  dell'immorlalità  dell' a- n'ma  è  il  suo  atteggiamento  in  faccia  alla  religione  in generale  (che,  conformemente  all'  interpretazione  hege- liana dell'immortalità,  non  potrebbe  essere  per  lui  che un  sistema  di  miti,  a  cui  bisogna  tributare  un  ossequio esteriore  e  cercare  di  farne  dei  simboli  di  verità  filoso- fiche). Platone  non  si  contenta  di  fare  atto  di  adesione, reale  o  apparente,  alle  idee  religiose  dei  suoi  connazio- nali, ma  cerca  di  migliorarle,  di  correggerle,  e  di  assi- Vedi  queste  prove    nel  Fedone  l^Q-llà,  78b-80c,  9Je-94e,  I02b- 107a,  Menone  85c-88b,  Fedro  245c-246a,  Repubblica  608d-611a.  Un'  a- nalisi  di  questi  luoghi  ingrosserebbe  inutilmente  questo  volume,  e d'altronde  niente  potrebbe  sostituire  l'impressione  di  evidenza  che risulta  dalla  loro  lettura. —  309  — I     .1     ri .Jf.   i  ^ I      ^,  * ierie  su  una  base  filosofica.  É  ciò  che  fa  per  le  idee sulla  diviaità,  che  egli  fonda  sulla  dottrina  dell'  anima cosmica,  ed  eleva  si  al  punto  di  vista  morale  che  me- tafisico, combattendo  le  superstizioni  popolari  incompa- tibili coi  nuovi  concetti  da  lui  insegnati  (i).  Lo  stesso fa  pure  per  le  idee  sulla  vita  futura,  sovratutto  in  due punti:  elevando  la  credenza  popolare  nella  sopravvi- venza e  la  preesistenza  al  concetto  rigoroso  (conseguenza logica  deiranimismo)  (2)  di  una  durata  senza  comin- ciamento  e  senza  fine,  che  cerca,  oltre  che  di  fondare su  prove  razionali,  di  legare  alle  altre  parti  del  suo  si- stema filosofico,  cioè  alla  dottrina  delle  Idee  e  a quella  dell'anima  cosmica;  e  basando  la  metempsi- cosi e  le  altre  credenze  sul  destino  futuro  dell'  anima sul  concetto  di  una  ricompensa  morale  (5),  che  mancava nei  dati  tradizionali  ,  benché  egli  non  facesse  in  ciò che  aiutare  un  movimento  cominciato  prima  di  lui,  e  a cui  doveano  cooperare    tutti  gli    spiriti   religiosamente  V.  questo  Sappi,  n.  I,  o.  282. (2)  V.  n.  1,  o.  275-276. V-  n.  I,  e.  Tra  gli  argomenti  dell'  immortalità  dell*  a- nima,  oltre  quello  per  la  reminiscenza,  sono  fondati  pure  sulla dottrina  delle  Idee  1'  ultimo  del  Fedone  (riportato  in  parte  nel Suppl,  B,  carte  45-47)  e  quello  per  l'affìnità  dell'anima  con  le  Idee (cfr.  carta  330  p.  1*  note  1  e  2). (4;  V.  n.  I,  e.  277  e  283. (5]  V.  n.  I,  e.  278  e  282. (6)  Cfr.  o.307p.  2«-308  p.  KSeoondoi  primi  Pitagorici  le  migra- KÌoni  delle  anime  non  erano  regolate  da  ragioni  di  giustizia,  ma  era l'azzardo  che  determinava  un'anima  ad  entrare  in  un  corpo  piut- tosto che  in  un  altro  (V.  Martin  Studi  sul  Timeo  ). diù  avanzati  della  sua  epoca.  Ma  àa  un  filosofo  incre- dulo, quand'anche  non  prenda  apertamente,  in  faccia alla  religione,  la  posizione  d'avversario,  non  potremmo aspettarci  che  l'indiffereoza  religiosa,  o  al  più  un'  ade- sione passiva  (naturalmente  esteriore)  alle  credenze  sta- bilite: ma  eoli  non  opporrà,  come  faceva  Platone,  a queste  credenze  delle  idee  religiose  più  elevate,  non  sarà un  riformatore,  perchè  questi  non  si  trovano  che  tra  i credenti  più  fervidi. Ci  si  dice,  è  vero,  che  Platone  non  si  limitava  a  ve- lare prudentemente  la  sua  irreligiosità,    ma  si   giovava della  religione  come  strumento  politico,    credendo   utile e  necessario  che  il  Demo  fosse  ingannato.    Con    questa supposizione  il  seguace    dell'  interpretazione   hegeliana può  credere  di  evitare  le   inverosimiglianze   precedenti, ma  andando  incontro  in  compenso  ad  altre  non  minori. La  più  colossale  è  naturalmente  che  un  filosofo,  prima, creda  le  proprie  idee  dannose  e  le  contrarie  utili,  e  poi di  buona  voglia  (e  non  per  prudenza   come  nella    sup- posizione precedenle)  si  metta  il  bavaglio  sulle   proprie dottrino,  non  solo,  ma  predichi  invece  di  esse -noi  non parliamo  di  un  filosofo  salariato ìe  dottrine    contrarie. Ammettiamo  tuttavia  che  questo  prodigio  sia  possibile: è  certo  che    potremmo    attendercelo  da    chiunque    altro piuttosto  che  da  Platone.  Non  vi  ha  sistema  in  cui  do- vrebbe esservi  meno  bisogno  di  un  codice  religioso,  co- me strumento  di  polizia  e  di  moralità,  che  in   quello  di Platone  e,  in  generale,  dei  moralisti  usciti  da    Socrate. In  questo  sistema,  che  stabilisce  come   principio    fonda- mentale dell'etica  che  la  virtù  e  la  felicità  sono  identiche, dovrebbe  bastare,  per  la  polizia  e  la   moralità,    la    filo- sofia sola—se  per  moralizzare  è  necessario  di  far  credere che  si  può  eJ^sere  al  tempo  stesso  santi  e  pr^rfetti  egoisti. Ma  si  dirà  che  la  filosofia  non  può  penetrare  nella  mol- titudine, ed  è  a  questa  che  sono  destinati  T  immortalità deiranima  e  gli  altri  miti.  Ma  è  per  la  moltitudine  che ha  scritto  Platone?  È  ad  essa  che  sono    indirizzati   gli argomenti  dell'immortalità  delPanima,  di  cui    alcuni,  e i  soli  che  l'autore  creda  decisivi,  fondati  sulla    dottrina delle  Idee,  cioè  la  più  astrusa  che  si    trovi    in    tutta   la storia  della  metafisica  V  Ó  si  deve  ammettere   che   Pla- tone mascherava  il  suo  pensiero  anche  innanzi  agl'ini- ziati, per  paura  che  trapelasse  ai  profani?    Ma   ciò  si- gnifica  eh'  egli  ha  voluto  soffocare,  per   una   specie  di infanticidio  intellettuale,  la  verta  appena  nata   nel  suo spirito a  meno  che  si  chiami  verità  quella  che  insegna mediante  il  falso,  ma  con  l'intenzione  che  nes- suno potesse  apprenderla- Noi  non   diremo   che  questo sarebbe  un  fatto  senza  esempio  nella  storia  della  filosofia e  della  letteratura  in  generale,  perchè,  ammessa  la  sua possibilità,  con  qual  dritto  potremmo  aflTermare  che  tutto ciò  che  un  filosofo  teista  qualunque  ha  scritto   o  detto su  Dio  e  sull'anima  non  è  stata  una  finzione,  prudente o  filantropica,  e  un'allegoria  simboleggiante,  per  esem- pio, per  quanto  riguarda  Dio,  la   Realtà   inconoscibile, o  la  finalità  immanente  nella  natura,  o  l'ordine  morale del  mondo  dovuto  a  cause  naturali  (come  nella  dottrina buddista  del  karma, che,  per   quanto   strana,  non   è almeno  un  non  senso  come  l'identità  del  soggetto  e  del- l'oggetto), e  per  quanto  riguarda  l'immortalità   dell'a- nima, oltre  all'identità  del  soggetto  e  dell'oggetto  e  al- l'immortalità della  specie,  l'indistruttibilità   della   forza di  cui  la  psiche  è  una  forma  transitoria,  o  la  persistenza della  sensibilità  negli  atomi  che  compongono    il   nostro corpo  e  tutta  la  materia  ?  Del  resto,  che  sì  ammetta come  motivo  di  Platone  una  diplomazia  prudente  o  una santa  impostura,  questo  motivo  non  potrebbe  spiegare che  l'immortalità  dell'anima,  la  metempsicosi  e  gli  altri miti  ch'egli  ha  in  comune  con  la  religione  :  ma  come spiegare  la  reminiscenza  e  l'intuizione  delle  Idee  in  una vita  anteriore?  Esse  suppongono  l'immortalità  dell'a- nima, ma  questa  non  le  suppone,  né  è  incompatibile  con la  dottrina  che  tutte  e  tre  rappresentano  :  questa  iden- tificazione del  pers^ero  col  suo  oggetto,  possibile  in  uno spirito  d'una  durata  limitata,  perchè  infatti  diverrebbe impossibile,  se  questa  durata  si  prolungasse  indefinita- mente? Una  conseguenza  necessaria  di  quest'  interpreta- zione dell'  immortalità  è  di  sopprimere  completamente la  dottrina  di  Platone  suU'  anima,  cioè  metà  della sua  metafis'ca.  Il  concetto  fondamentale  della  parte  di questa  dottrina  che  si  riferisce  all'  anima  individuale,  è il  dualismo  tra  anima  e  corpo,  in  altri  termini  l'anima considerata  come  sostanza  distinta  :  ora  questo  concetto è  incompatibile  crn  l' interpretazione  dell'  immortalità come  simbolo  dell'  ternarsi  del  pensiero  nella  conoscenza filos(fica.  L'immortalità  dell'anima  non  potrebbe  s'm- boleggiare  l'eternifà  del  pensiero  (cioè  del  pensiero  spe- culativo) che  se  questo  fosse,  come  è  infatti  per  Hegel e  per  Spinoza,  l'essenza  dell'anima:  ma  per  Platone  il pensiero  non  è  che  un  attributo  dell'anima;  la  sua  es- senza, cioè  la  sua  sostanza,  è  un  che  di  esteso,  che  è  il substratum  dei  suoi  movimenti,  compresi  quelli  che  si chiamano  sentire,  pensare,  ecc.,  come  le  sostanze  mate- riali sono  il  substratum  dei  loro  movimenti  e  di  tutti  gli altri  fenomeni  del  mondo  estcrfore.  Il  dualismo  tra  anima  1 'i iSSSi ìtS^t e  corpo,  0  la  sostanzialità  deir  anima,  non   pnò  essere dunque  in  quest'interpretazione  che   uq    semplice   mito (che  cosa  simbolegge?)  come l’immortalità,    la  metempsicosi, la  reminiscenza,  ecc.  Se  è   un   mito    la  so- stanzialità dell'anima,  sarà  anche  un  mito  la  sua  gran- dezza spaziale,  il  suo  movimento  (e  per  conseguenza  la definizione  che  è  ciò  che  muove  se  stesso), la   dottrina che  muove il corpo comunicandogli    il   proprio    movimento, quella  che  occupa  nel  corpo   un   posto   determi- nato, quella  della  sua  tripartizione,  e,  in  breve,  di  tutto ciò  che  Platone  ha  detto   dell'  anima   non    resterà una parola  che  abbia  detto  sul  serio  (e  se  questi    miti  sono dei  simboli,  e  noi  vogliamo  interpretarli,  il   nostro    im- barazzo non  sarà  minore  di quello di Platone stesso, quando,  dopo  avere  spiegato  allegoricamente  il  mito  di Borea  che  rapisce  Oritia,  si  vede  nella  necessità  di  spie- gare   della  stessa  maniera  gl'Ippocentauri,  la  Chimera,  i Pegasi,  le  Gorgoni  e  una  moltitudine  d'altri  mostri,  che per  essere  spiegati  allegoricamente,  esiggono una  certa sapienza  rustica e  una  gran  perdita  di  tempo).  Le dottrine  sull'  anima cosmica (cioè   sulla   divinità) non dovranno  essere  prese  sul  serio  più  che  quelle  sull'ani- ma individuale.  Se  infatti  Platone  parlava   dell'  immortalità per  nn  ossequio  apparente  alle  credenze  popolari, o  perchè  la  credeva  una  favola  necessaria  all'ordine  sociale, come  non  ammettere  che  era  per  lo  stesso  motivo che  parlava  di  dio  e  della  provvidenza?  Di  più  la   dot- trina suir  anima   cosmica    suppone lo stesso   dualismo (incompatibile,  come  abbiamo  detto, con 1’intrerpretazione  hegeliana  dell'immortalità)  su  cui  è  fondata  quella sull'anima  individuale:  la  prima  è   descritta,   come    la seconda,  come  una  sostanza   distinta    dalla   materia, e- stesa,  in  movimento,  causa  del  movimento  della  materia per  la  comunicazione del proprio movimento,  ecc. Si dirà  che  qui  il  mitico  sta  nel  dualismo  e  negli  altri  con- cetti che  ne  dipendono,  mentre  la  vera  dottrina  di  Pla- tone era  un  pantei'^mo  ilozoista,  in  cui  Dio è concepito come  l'anima  del  mondo,  ma  senza  che  questa  fos- se sostantificata  e  separata  dalla  materia.  Ma oltre  che questa  forma  di  panteismo è quasi    totalmente scono- sciuta all'antichità  (perchè quasi tutti  i  panteisti  antichi  pensano,  come  i  dualisti,  che  l'anima del  mondo è  una  sostanza  distinta  dal corpo del mondo) con  qual  dritto    potremmo   ammettere    che    la dottrina  di  Platone  era  il  panteismo,  quando   egli  insegna invece  il  dualismo?  Coerentemente all'  interpre- tazione hegeliana  dell'immortalità,    tutto    ciò    che    Pla- tone ha  detto  della  divinità,  o dell'anima del   mondo, noi  non  dobbiamo  intenderlo    che   come   un  simbolo,  e non  possiamo  attribuirgli  altro  Dio che  la  sfera    totale delle  Idee  (che,  secondo  quest'interpretazione  sarebbero anche  dei  pensieri),  o  il  pensiero  assoluto,  che  sarebbe l'ultimo  momento  dell'evoluzione  del  mondo  ideale.   In- tanto tutti  questi  concetti  di  Platone  sull'anima,  sia  cosmica sia  individuale, hanno  tutti  i  caratteri  di  una  seria dottrina  filosofica,  e noi non potremmo   aspettarci di trovarli  in  una  semplice  finzione.  Noi   noteremo  :  1"*  La naturalezza  di  questi  concetti,  cioè    il    fondamento    che Fedro  essi  hanno,  cerne  tulli  i  concetti    metafis'ci,  nei  sofismi naturali  o  a  priori  del  nostro  spirito.  Platone  ha  anche stabilito  il  teismo  sulle  sue  vere  basi,  che  sono  la  spie- gazione teleologica  del  mondo  (per  ULa    teleologia    ro- scienté)  e  quella  del  movimento  per  Tanima  (l).  Il  con- cetto della  sostanziai  tà  dell'  anima, o  del  dualismo  tra anima  e  corpo,  fa  parte  anch'esso,  come i precedenti, della  metafisica  naturale  del  nostro  spirito,  e  la  dottrina dell'eternità  delTanima  e  della  sua  dìst'nzione    radicale dalla  materia,  che  Platone  ne  ha  dedotto,  è  la  forma  più conseguente  di  questo  concetto  (2).  Le  dimostrazioni  dell’immortalità  sono,  é  vero,  sofistiche;  ma  quelle  dell'esi- stenza delle  Idee  non  lo  sono  altrettanto?  e  d'altrondl'argomento  del  JFetìro  e  quello  fondato  sulla  reminiscenza non  sono  dei  semplici  sofismi  artificiali,  e  V  ultimo  del Fedone  accenna  al  processo  logico  (quantunque    il    più delle  volte  incosciente)  per  cui si passa    dal   dualismo all'idea  dell'immortalità. Il  carattere   rigoroso   di certi  concetti  che  Platone  sembra  essere  stato    il  primo ad  ammettere.  Tale  é,  oltre  quello  dell'  eternità  dell'anima,  quello  di  Dio  come  causa  pi  ima,  che   è  uno   svi- luppo flell'idca  che  V'anin  a  è  il    p-ncipio    motore,    al- trettanto rigoroso  che  Taltro  dt-l  dualismo  tra    anima  e corpo.  3^ La  coerenza  fra  tutte  le  parti  della  dottrina. Questa  non  consiste  so'amente  nell'assenza  d'  incompa- tibilità delle  une  con  le  alt  e,  ma  nella  loro  solidarietà, Cfr.  n.  T.  e.  280  p.  2„  e  cap.  II.  §  2-4. (2)  Cfr.  n.  I,  e.  274-276. (3)  Cfr.  n.  I,  e.  277-278  p.  1"  e  270. Oi'r.  u.  I,  e.  281. a nella  conseguenza  con  cui  tutte  si  sviluppano  a  partire da  un  primo  principio.  Data  la  sostanzialità  de'l' anima, ne  vengono  naturalmente,  se  non  tutte  con  neces-'ità logica,  ques'e  conseguenze  :  che  essa  è  estesa,  che  si muove  e  muove  il  corpo  per  il  proprio  movimento  (am- messo che  essa  è  la  forza  motrice),  che  questo  proprio movimento  è  continuo,  che  occupa  nel  corpo  una  posi- zione determinata,  che  è  divisa  in  più  parti  separate (data  una  certa  ipotesi  fisiologica),  che  è  immortale  ed è  eterna,  che  è  radicalmente  distinta  dalla  materia, ecc.  La  metempsicosi,  quantunque  non  sia  una  con- seguenza dell'eternità  dell'anima,  è  la  maniera  più  na- turale di  concepire  la  sua  sopravvivenza  e  preesistenza, perchè  assegna  all'anima  per  tutta  la  sua  durata  la  fun- zione di  principio  di  vita,  j  er  cui  essa  è  stata  imma- ginata (2).  In  quanto  all'intuizione  delle  Idee  in  un'e- sistenza anteriore  e  alla  reminiscenza,  abbiamo  osser- vato che,  tra  le  ipotesi  per  ispiegare  la  coincidenza  tra il  pensici  o  e  la  realtà,  l'unica  compatibile  con  le  Idee platoniche  era  l'intuizione  razionale,  e  che  vi  erano  dei motivi  per  pi  eferire  all'intuizione  in  questa  vita  stessa quella  in  una  vita  anteriore  (3).  Il  dualismo  tra  anima e  corpo  si  riflette  in  quello  tra  Dio  e  il  mondo.  Di  più con  la  stessa  conseguenza  con  cui  sviluppa  il  dualismo antropologico,  spingendolo  alla  dottrina  dell'immortalità, Platone  sviluppa  anche  il  dualismo  teologico,  che  in  lui è  radicale  (cioè  è  un  dualismo  nel  senso  stretto),  la  con- ci) V.  n.  I,  e.  V.  agosto  Supplem.  n.  I,  e.  279,  o Sappi.  C. i  »i vertibilità  reciproca  tra  la  sostanza  deiranima  cosmica e  le  sostanze  materiali,  che  troviamo  nfi  panteisti  an- tichi, essendo  altrettanto  incompatibile,  che  la  mortalità deiranima  individuale,  col  principio  stesso  del  dualismo, cioè  r  impossibilità  che  il  cosciente  venga  dall'  inco- sciente e,  viceversa,  questo  da  quello.  Una  conseguenza di  questo  dualismo  teologico  radicale  è  pure  il  concetto di  Dio  come  causa  prima,  V  idea  di  causa  prima  non potendo  aver  luogo  nella  forma  antica  del  pantei- smo (i).  4^  L'assiomaticità  che  il  principio  fondamentale di  tutta  la  dottrina,  cioè  il  di  alisnro  tra  T  anima  e  il corpo,  doveva  avere  agli  occhi  di  un  contemporaneo  di Platone.  Non  solo  esso  è  un  risultato  immediato  dei  sofismi a  priori  del  noatio  spirito,  ma  è  ammesso  quasi senza  recezione  (oltre  che  dalla  credenza  popolare)  da tutti  i  fitosofi  anteriori  e  da  tutti  i  pensatori  antichi  in generale  (2Ì Tutti  questi  caratteri  delle  dottrine  pla- toniche suiranima  (a  cui  dobbiamo  aggiungere  la  co- stanza con  cui  sono  insegnate  dall'autore)  costituiscono altrettante  prove  intrinseche  della  loro  veridicità:  vedendovi delle  finzioni,  ci  metteremmo  in  contraddizione coi  più  semplici  canoni  della  logica  dell'ipotesi,  perchè invocheremmo  una  causa  ipotetica  per  ispiegare  un  fatto che  si  spiega  abbastanza  per  le  cause  che  sappiamo  cer- tamente efsere  esistite  (cioè  i  sofismi  naturali  del  nostro spirito  e  il  genio  eminentemente  metafisico  di  Platone), e  di  più  questa  causa  ipotetica  sarebbe  insufficiente  a spiegare  l'effetto,  pcichè  una  semplice  finzione  non  da- rebbe luogo  a  un  sistema  di  concetti,    in   cui   troviamo tutta  quella  solidità  che  può  trovarsi  in  una  costruzione metafisica. Ma  si  pretende  che  l'immortalità  dell'anima  è  incompatibile con  la  dottrina  fondamentale  di  Platone,  cioè quella  delle  Idee.  Platone,  si  dice,  non  avrebbe  potuto ammettere  l'eternità  delle  anime  individuai',  che  facendo di  esse  altrettante  Idee:  per  lui  infatti  l'eterno  non  è che  l'universale;  i  su'^i  principii  non  sono  individuali, come  nell'atomismo  o  nel  sistema  delle  monadi;  nel  suo sistema  l'elemento  essenziale  del  mondo  è  1'  universale, e  rindividuo  è  l'elemento  accidentale,  e  non  può  avere, per  conseguenza,  che  un'esistenza  transitoria.  E  il  solo argomento  contro  l'immortalità  platonica  che  abbia qualche  speciosità,  perchè  Platone  in  effetto  mette  più volte  in  opposizionfì  ciò  che  è  sempre^  cioè  le  Idei»,  e ciò  che  nasce  e  perisce^  cioè  le  cose  individuali,  donde è  facile  di  concludere  che  ogni  cosa  individuale  per  lui deve  essere  soggetta  alla  nascita  e  alla  morte.  Non  bisogna però  accordare  al  Teichmùller,  come  hanno  fatto alcuni  critici,  pur  non  accettando  la  sua  conclusione contro  l'immortalità,  che  questa  è  in  contraddizione  coi principii  stessi  del  sistema  delle  Idee  :  la  contraddizione non  è  che  con  certe  formule  di  cui  Platone  si  serve  per mettere  in  contrasto  le  Idee  e  le  cose  per  uoa  delle  loro diflerenze  più  ovvie ben  inteso,  se  queste  formule  si j  rendono  in  un  senso  assolutamcMte  rigoroso  L'eternità delle  Idee  e  la  peribilità  degl'  individui  non  sono  per Platone  una  conseguenza  del  principio  che  ciò  che  vi ha  di  sostanziale  nel  mondo  deve  essere  eterno  e  ciò  che  F^« vi  ha  di  accidentale  peribile.  Tanto  Tuna  quanto  Taltra non  sono  per  lui  che  un  risultato  deiresperienza  :  questa ci  mostra  che  le  specie  sono  stabili,  mentre  grindividui nascono  e  periscono;  per  questa  tendenza  innata  del  no- stro spirito  alle  generalizzazioni  eccessive,  che  è  secondo Bain  una  conseguenza  deirattività   inerente  air  organismo,  egli  ne  conclude,  come  sembra  il  più  naturale prima  delle  scoverte  della  scienza  moderna,  che   questa stabilità  è  assoluta,  cioè  che  i-sse  sono  eterne  ed  immu- tabili, proposizione  la  cui  traduzione  in  linguaggio  reali- sta è  che  le  Idee  esistono  sempre  e  sono  sempre  le  stesse. Questa  deduzione  dairesperienza  non  può  escludere    che egli  concluda,  per  altre  deduzioni,  che  vi  hanno,  oltre  alle Idee,  altre  cose  eterne  (benché  non  potrebbe  dire  aache di  queste  che  .sono  sempre,  perchè  ogni esistenza individuale non  sì  classa  per  lui  neiressere,  msmeìdiveìiire). Ma  che  le  stesse  formule  che  sembrano  in  contraddizione con  l'eternità  dell'  anima  non    devono   prendersi    in   un senso  a^^solutamente  rigoroso,  si  vede  da  ciò,  che  in  que- sto caso  esse  sarebbero  anche  in  contraddizione   con  se stesse, perchè    negherebbero implicitamente 1'  eternità delle  stesse  Idee  :  se  intatti  ogni   esistenza   individuale, senza  eccezione,  è  soggetta   alla  nascita    e  alla    morte, anche  la  terra,  gli  astri  e  il  cielo,  che  Platone  considera come  un  individuo  vivente,  saranno  soggetti  alla  nascita e  alla  morte,  ciò  che  è  la  negazione    dell'  eternità    del- l'ordine attuale  del  mondo,  di  cui  l'eternità  delle  Idee  è l'espressione  metatisica.  In  molti  casi,  per  altro,    in  cui Platone  sembra  opporre  le  Idee  eterne  e  gl'individui  che Bain  Logico  nascono  e  periscono,  non  abbiamo  a'cuna  ragione  di vedere  altra  cosa  che  l'opposizione  solita  tra  V  essei^e  e il  divenire dfi  cui  non  si  potrebbe  niente  concludere contro  l'immortalità  dell'anima,  poiché  il  divenire  con- tinuo delle  cose  non  è  più  incompatibile  con  epsa  che con  la  persistenza,  anche  per  un  sol  giorno,  di  qualsiasi oggetto  individuale— L'espressione  xò  ov  àsf  (ciò  che  è  sem- pre) Olà  ovxa  dsC  (le  cose  che  sono  sempre),  per  designare le  Idee,  non  implicano  necessariamente  che  le  cose opposte  alle  Idee,  cioè  le  individuali,  hanno  tutte  una durata  limitata,  perchè  di  quelle  aventi  una  durata illimitata  Platone  non  direbbe  che  sono  sempre,  ma che  sempre  divengono.  Nella  più  jrarte  dei  casi  (p.  e. quando  è  opposto  a  6v l'essere,  ily-Tvófievov  equivale evidentemente  alla  Yévsais  (il  divenire — che  indica  in Platone  il  complesso  delle  cofc  fenomeniche,  perchè  sog- gette a  un  divenire  continuo)  (3),  e  nei  dobbiamo  tra- durre, non  ciò  che  nasce,  ma  semplicemente  cib  che  di- viene  (cioè  con  un'  espressione  più  vaga,  non  signifl- cante  che  il  cangiamento  continuo  a  cui,  secondo  Era- clito e  secondo  Platone,  le  cose  sono  sottoposte).  Quando a  '^^•^^ò\iVio^  Platone  aggiunge  xat  àTioXXOjisvov  (e  che  peri- sce),  non  è  necessario  ch'egli  pensi  perciò  ad  altro che  alla  dottrina  stessa  del  divenire,  perchè,  se  è  vero, come  dice  Eraclito,  che  tutto  scorre,  come  un  fiume,  e niente  permane,  sarà  vero,  non  solo  che  tutto  continua- ci) V.  Tim.  27  d,  37a,  50c,  51a,59c,    Fedo.,  Conr,   211a,    FU. 59a,  Rep.  . Come  nel  Tim.  28a  e  neUa  Rcp,  518c  e  521  d. V-  Sof.  e,  Rep.  Tim.  38a,  52d, ecc. Tim.  28a,  52a,  Rep.  FU.  15a,    Conv. V. anche  Rep.  485b,  Coar.  211a,  FU.  15b. % > I mente  diviene,  ma  anche  che  tutto  continnamente  peri- sce, resistenza  degli  oggetti  che  noi  chiamiamo  durevoli, risolvendosi  in  una  successione  di  stati  differenti,  di  cui  cia- scuno sparisce  appena  che  è  apparso,  cerne  le  onde  del fiume,  a  cui  le  cose  si  paragonano  (1).  Ma  in  quei  casi stessi  in  cui  per  ciò  che  é  sempre  dobbiamo  intendere semplicemente  quello  che  ha  una  durata  illimitata  (fa- cendo astrazione  dall'  esenzione  da  qualsiasi  divenire implicata  nella  parola  è),  e  per  c^ò  che  diviene  e  ciò  che perisce  quello  che,  pur  avendo  una  certa  permanenza, incomincia  ad  esistere  e  finisce  di  es'stero  (2),  basta, per  ispiegare  come  questa  opposi/Jone  possa  rappresen- tare per  Piattine  quella  tra  le  Idee  eie  crseiudiviluali, che  la  nascita  e  la  morte  sia  in  queste  la  regola,  e  Te- senzione  dall'una  e  dall'altra  l'eccezione.  Anche  Aristo- tile, quando  parla  delle  dottrine  platoniche,  chiama  le cose  individuali  i  corruttibiU  (cpOapid),  e  1^  oppone,  come tali,  alle  cose  eterne,  cioè  alle  Idee;  ma  ciò  non  gli [ È  a  questa  decomposizione  delle  cose  in  una  saccessione  di fenomeni  fuggitivi,  che  Platone  sembra  alludere,  quando  dice  (nel Sofista  246bc)  che  gli  amici  delle  Idee  dividono  gli  esseri,  am- messi  dai  Fisici,  in  minime  parli  (xaià  Ojiixpà  StaGpa'JOVTS^), chiamandoli  non essenza ma una  certa  genesi  fluente  n*  Come si  Vide  dall'opposizione  tra  l'essere  e  il  divenire^  Plalone  si  serve della  dottrina  di  Eraclito  per  negare  alle  cose  individuali  una vera  realtà.  Per  conseguenza  egli  deve  preferire  di  presentarle sotto  un  aspetto  in  cui  sembrino  prive  di  qualsiasi  sostanzialità, e  quindi  di  qualsiasi  permanenza,  la  sostanza  nelle  cose  essendo appunto  il  permanente. Come,  p.  e.,  nel  Conv,  211a-b  e  nel  FU,  15a-b  e  J6c. ^3)  V.  Mei,  ecc. impedisce  di  domandare  ai  platonici  in  che  le  Idee  gio- vino sia  ai  sensibili  eterni  bia  a  quelli  che  nascono  e periscono,  e  di  affermare,  al  comìnciamento  della  sua esposizione  del  sistema  di  Platone,  che  questi  ha  fatto unldea  di  tutto  ciò  che  vi  ha  di  uno  nei  molti  tanto nelle  cose  di  qui  (cioè  le  terrestri)  quanto  nelle  eterne (cioè  le  celesti)  (2).  Con  lo  stesso  dritto  con  cui  il  se- g'uace  delTinterpretazione  hegeliana  può,  con  una  certa apparenza  di  rigore  logico,  fondandosi  su  certe  locu- zioni di  Platone,  concludere  che  l'anima  per  lui  è  mor- tale, altri  potrebbe  concludere,  fondandosi  su  altre  lo- cuzioni, che  essa  si  vede  o  si  tocca  o  si  percepisce  per qualche  altro  dei  nostrt  sensi.  Infatti  allo  stesso  modo che  do  che  é  sempre  e  ciò  che  nasce  e  perisce^  egli  op- pone anche,  e  non  meno  frequentemente,  Y intelligibile,  e il  sensibile:  ora  in  quest'opposizione  VinteUigibile  non è  evidentemente  che  l'Idea;  dunque,  si  concluderà,  l'a- nima, non  essendo  un'Idea,  non  può  essere  per  Platone che  qualche  cosa  di  sensibile. Il  vero  motivo  per  cui  si  nega  la  sincerità  della  dot- trina di  Platone  dell'immortalità  dell'  anima,  è    che    si 'i Met,  i.  I.  IX.  6. Met.  1.  I.  IX.  1. (3)  V,  Ttm,  28a,  37b-c,  38a,  48e-49a,  51a-b,c,  d,  52a,  Sof,  248a, Fedro  249b-c,  Fedo,  75e-76e,  79a-c,  83a-b,  99e,  Rep,  507b,  ecc. V.  anche  Arist.  Met.,  eco. Per  l'accordo  e  il  legame  della  dottrina  dell'  anima  in  ge- nerale con  quella  delle  Idee  rimandiamo  a  ciò  che  abbiamo  detto nel  n.  I,  carte  285-287,  Ivi  noi  parliamo  della  dottrina  dell'  anima cosmica;  ma  questa  è  legata  strettamente  con  quella  dell'anima individuale. vuol  trovare  nel  ncstro  filosofo  quella  di  Hegel  dellM- dentità  del  pensiero  col  suo  oggetto.  Questa  dottrina  sa- rebbe incompatibile  con  quelle  della  reminiscenza  e  del- rintuizione  delle  Idee  in  una  vita  anteriore,  ed  <ssesu]>- pongono  l'immorialità  dell'anioìa:  inoltre,  non  riuscendosi a  trovarla,  nelle  opere  platoniche,  esposta  in  una  forma puramente  filosofica,  si  cerca  di  vedervela  involta  in  niUi e  in  allegorie,  quali  sarebbero  Timmortalità  delT  anima e  quelle  due  altre  dottrine  che  la  suppongono.  Ma  non solo  la  dottrina  hegeliana  non  si  trova,  in  Platone,  e- sposta  in  una  forma  filosofica,  ma  vi  t^ì  trova  invece  la dottrina  contraria,  cioè  il  punto  di  vÌKta  ordinario,  se- condo cui  il  pensiero  e  le  cose  crstituiscono  una  dua- lità irriduttibile  di  termini  radicalmente  differenti  e  ir- reconciliabilmente opposti. La  dottrina  che  il  pet  siero,  nella  cono3cenza  filoso- fica, s'ident'fica  col  suo  oggetto,  implica  quella  che  le  Idee sono  pensieri.  Se  le  Idee  non  foFsero  pensieri  per  se stesse,  esse  non  potrebbero  divenire  pensieri  nostri,  quan- do entrano  nella  sft^ra  della  nostra  conoscenza.  Ma  le Idee  dì  Platone,  a  diflereLza  di  quelle  di  Hegel,  sono delle  entità  puramtnte  obbiettive.  Esse  non  sono  che  le cose  stesse,  considerate  nel  loro  elemento  sostanz'ale, cioè  spogliate  di  tutto  ciò  che  Platone  riguarda,  nell'es- sere, come  accidentale  L'Idea  d'una  cosa  è  Vessevza  di questa  cosa  (t),  e  le  Idee  in  generale  sono  anche  chia- mate gli  esseri  e  le  cose  (2).  Il  movimento,  lo  stato,  l'es- sere, ecc.  significa  l'Idea  del    movimento,    dello    stato, deirc«sere,  ecc.;  le  entità  d^^l  Tispa?  e  dell'àTtstpov  del FiYefto— elementi  delle  Idee  euniversali  sostantificati  come le  Idee  stesse sono  le  une  il  più  caldo  e  il  più  freddo, il  più  secco  e  il  più  umido,  il  forte  e  il  piano,  il  (/rate e  Vacuto,  ecc.,  le  altre  Veguale,  il  doppio,  ecc.,  e  le cose  risultano  dalla  loro  mescolanza;  la  Beltà  che l'anima  ha  intuito,  quando  era  in  compagnia  degli  Dei, è  questa  stessa  beltà  che  ora  percepiamo  con  la  vista;  ridea  del  bene  è  identificata  con  la  felicità  de- pli  esseri  viventi  (4),  e  chiamata  V ottimo  negli  esseri  e il  più  felice  dell'essere  (5).  Certamente  le  Idee  non  sono )e  cose  che  trasfigurate;  ma  i  processi  per  trasformare le  cose  in  Idee  le  lasciano,  quali  erano,  dei  semplici  og- getti,  non  ne  fanno  dei  pensieri.  Il  primo  di  que- sti processi  è  l'astrazione.  L'Idea  dell'uomo  è  un uomo  astratto  o  indeterminato,  cioè  avente  gli  attri- buti comuni  a  tutta  la  specie,  ma  senza  le  parti- colarità proprie  di  uno  o  di  alcuni  individui.  Per attenere  quest'  Idea  basta  perciò  di  separare  (xw- pCCetv)  (6)  in  un  uomo  ciò  che  è  comune  con  tutti  gli altri  uomini  da  ciò  che  non  lo  è  :  il  risultato  di questa  separazione  si  chiamerà  V  ì/owo,  senz'  altro,  o, per  far  comprendere  che  ron  si  tratta  di  un  uomo determinato,  ma  dell'  uomo  indeterminato  o  astratto, l'uomo  stesso  (aOic^),  l'uomo  st(^so  p(r  se  stesso  (aOxòg xaG'auTÓv),  ciò  che  è  (ò  san)  uomo,  l'uomo  separabile  (xw- ptoTÓ?),  ecc.  Il  nome  uomo  (o ‘shaggy’) designa  propriamente  quest'uomo astratto,  ed  è  esso  il  vero  oggetto  della  defini- [V.  carte  12  o   U8149. (2)  V.  e.  100. (1)  V.  o.  13  e  100. (2)  V.  e.  97-100. (3)  V.  e.  144. (4)  V,  e.  91-96. (5)  V.  o.  87,  p.  2.* (C)  V.  carte  75-78. :i! zione  deiruomo;  il  nome  e  la  definizione  non    s’applicano acrll  nomini  individui,  che  perchè  sono  delle  parti- colarizzazioni  o  delle  determinazioni  dell'uomo indeter- minato. L'Idra  non  è  dunque  che  un  astratto  (cioè,  come dice  il  Taine,  un  estratto,  una  porzione,  di    un   oo-get^o concreto),  considerato  come  esistente  per  se  stesso  :  essa non  è  propriamente,    come   suo!    dirsi,    il  concetto,    ma l'oggetto  del  concetto, realizzato; il  suo   contenuto   è quello  stesso  del  concetto,  ma  questo  contenuto  che  nel concetto  esiste  sotto  la  forma  del  pensiero,  in  essa  esiste sotto  quella  della  realtà,  dell'obbiettività. É perchè    le Idee  platoniche  sono  l'obbiettivazione    dell’astrazioni, cioè  dei  contenuti  dei  concetti,  e  niente  di  più,  che  Pla- tone 4)uò  esprimere  compendiosamente  la   sua   dottrina, affermando  che  l'astratto  è  reale  (p.  e.,  come   dice   nel Fedone,  che  il  giusto,  il  buono,  il  bello  è   qualche  cosa, o,  come  dice  nel  Tmeo,  che  gli  sI5r^  intelligibili  delle  cose esistono  realmente  e  non  sono    dei   semplici  nomi)    (1). L'altro  processo  per  trasformare  le  cose  in  Idee  è  la  ge- neralizzazione. L'Idea  dell'uomo  non  è  solamente  1'  uo- mo astratto,  ma  è  anche  l'uomo  universale,  e  la  sua antitesi  è  qualche VLomo,e^\  molti  uomini  singolari.  Per noi  d’universale,  come  d’astratto,  non   vi   hanno    che dei  nomi,  e  per  il  concettualista,  che  dei    pensieri;    ma gl’universali  di    Platone    sono    degl’universali  in    re, e  semplicemente  in  re. Sono  le  specie  e  i  generi,  ciò a  cui  si  applica  la  dieresi;  e  il   contrario    e   il    letto Idee,  in  opposizione  ai   contrari  e ai letti particolari, V.  Supph  B   parte  I  n.  II,  e  ofr.  n.  III.  e  IV. (2)  V.  o.  148. (3)  V,  e.  29. (4)  V.  Sappi.  B  n.  I  e  VII. (.5)  V.  n,  IV  (parte  I). I i vengono  chiamati  il  contrarioeil  letto  nella  natura  (1).  Cia- scuno di  questi  universali  essendo,  non  la  totalità  degli individui  d'una  classa,  ma  una  sostanza  unica  che  rap- presenta questa  totalità,  il  processo  di  generalizzazione per  cui  dalle  cose  si  giunge  alle  Idee,  è  un  processo  di unificazione. 'Esso  si  chiama  o'jvaYWYi^,  cioè  riunione, riduzione  del  multiplo  all'uno  ('i);  e  consiste  a  sostituire, per  eia -cuoa  classe,  un  individuo  unico  alla  moltitudine degl'individui  offerti  dall'esperienza,  riguardandolo  come la  vera  realtà,  di  cui  questi  sono  il  fenomeno,  É  quanto basta  per  ottenere  l'Idea  platonica ben  inteso  che  que- sto proces-o  di  unificazione  suppone  già  quello  di  astraz'one,  cioè  la  elim'na zione  di  tutte  le  particolarità che  difft*renziano  il  multiplo  :  cosi,  per  esprimere  la dottrinai  delle  Idee,  Platone  dice  :  uno  è  il  bello,  uno  é il  giusto,  ecc.  (3);  o  dopo  aver  detto  che  vi  hanno molti  belli,  molli  buoni,  ecc. che  ciò  che  si  è  posto  come molti  sì  deve  porre  nuovamente  come  uno  (il  bello  stesso, il  buono  stesso,  ecc.  Questo  è  dunque  Tldea  plato- nica, considerata  in  se  stessa  :  un  individuo  astratto,  a cui  si  riduce  la  moltitudine  degl'individui  di  ciascuna class**,  e  per  rappresentarsi  il  quale  si  fa  astrazione  da tutto  ciò  che  non  è  comune  a  tutti  gl'individui.  Per completare  la  dottrina,  non  si  ha  che  ad  aggiungere  la relazione  tra  quest'individuo  astratto  e  grindividui con- creti (cioè  ad  aggiungerla  espressament-?,  perchè  essa è  data. implicitamente  nella  a'jvaYWYvi).  Questa relazione       \  ; (1)  V.  carte   Il *n-  ;3io  ^ è  espressa  coni  pendi  osaraen  te  nella  formula  /*  uno  nei molti  (I),  e  de3ignata  dai  termini  temici  Tiapojjia  e  ni- Osgt^ .  L'Idea  è  il  comune  (3),  ciò  eh»,  si  p-edica  di tutti  i  singohnri  (  ome  uno  e  io  stesso  in  lutti,  ciò  per la  cui  presfTìca  o  parfecipazione  le  erse  sono  ciò  che  si dicono  essrre  (belli  per  la  presenza  o  partecipazione dell'Idea  del  bello,  uomini,  dell'Idea  dell'uomo,  ecc.)  (5), e  che  (per  questa  sua  presenza  o  partecipazione  in  co. mune)  ò  la  causa  agli  oggetti  simili  dell'esser  simili  (G).  La grandezza  che  è  in  tutti  gli  oggetti  grandi,  la  bellezza che  è  in  tutti  gli  oggetti  belli,  ecc.,  è  una  sola  e  stessa grandezza,  una  sola  e  stessa  bellezza,  ecc.,  e  qufste sono  le  Idee  del  grande,  del  bePo,  ecc.;  l'Idea  della  fi- gura è  la  figura  che  é  la  stesf^a  in  tutte  le  figure;  1'  I' dea  del  simulacro  è  il  simulacro  unico  che  è  in  tutti  i simulacri;  ecc. Tutte  queste  proposizioni  e  le  altre simili  non  dicono  in  sostanza  se  non  che  l'  astratto  6 uno  di  numero;  che  gli  astratti,  che  si  possono  isolare nei  diversi  individui  d'una  classe,  per  la  soppressione dei  caratteri  particolari  e  la  conservazione  dei  soli  at- tributi generali,  non  sono  semplicemente  eguali,  ma identici;  che  non  sono  molti  e  d'stinti  fra  di  loro,  ma si  risolvono  in  un  essere  unico,  in  un  solo  individuo astratto,  che  si  ritrova,  uno  e  lo  stesso,  in  tutti  gl'indi- vidui concreti.  Noi  possiamo  dunque  cosi    definire    l'  I- (1)  V.  o.  32. (2)  V.  Sappi.  B  n.  VI. V.  o.  148. (4)  V.  o.  18. V.  Suppl.  B  p.  l»  n.  VI. V.  carta  32.  V.  e.  31^5. dea  platonica  :  un  individuo  astratto  (cioè    non    avente che  i  carattrri  generali  della  classe),  che  è    presente  si- multaneamente in  tutti  gl'individui,  e  (he,    per    questa sua  presenza  simultarea  in  molt»,  pare  molti  esso  stesso, benché  in  realtà  non  sia  che  uno.  Quando  i  due  processi per  trasformare  le  cose  in  Idee  si    applicano    alle    cose considerate  nella  loro  successione, si  ha  la    determina- zione dell'Idea  come  ciò  che  vi  ha  di  costante  e  di  per- petuo nella  natura.  Com  le  Idee  sono  descritte  come  db" gli  oggetti  eterni  e  immutabili,  e  opposte  alle   cose  che nascono  e  periscono,  e  non  sono  mai  ma  continuamente divengono.  Ciò  vuol  dire  che l'Idea è l'elemento permanente  del  divenire,  che  nel  tìu^so  continuo  dei  fe- nomeni le  Specie  sono  stabili,  che  1'  individuo    astratto si  ritrova,  sempre  uno  e  lo  stesso,  nella  suc'*-essione  de- gl*  individui  concreti  (2);  e  a  questo  punto  di    vista    la dottrina  delle  Idee  è  espressa  dalla  propos'zione  che    la forma  di  ciascuno  degli  esseri  (cioè  di  ciascuna  specie  di esseri)  é  sempre  fa  stessa  {eadem  nnmero)  (3).    Se    si  fa astrazione  dalla  loro  inerenza  nelle  cose,  si  ha    il    con- cetto delle  Idee  come  paradigmi  (4),  cioè  come  modelli  a cui  la  natura  si  conforma  costantemente  nelle  sue   pro- duzioni. E  l'aspjtto,  jl  pili  appariscente,  della    dottrina delle  Idee,  a  cui  si  ferma  l'interprete  trascendentalista, ed  é  co^l   che  sovratutto  sono  presentate  da  Aristotile. Ma  che  le  Idee  siano   dei  semplici  oggetti,  è  altrettanto evidente  quando  si  tiene  conto    della    loro    immanenza (l>  V.  e.  108-109  e  117. (2)  V.  Suppl.  B,  n.  X (3)  V.  e.  lOi»  nota  2.  V.  e.  126. .li i I' i i. J, vii ;•'! % nelle  cose  che  quando  se  ne  fa  astrazione  :  nel  primo caso  sono  un  elemento  delle  cose  (1),  o  piuttosto  le  cose stesse  considerate  astrattamente;  nel  secondo,  ne  sono  i duplicati.  Secondo  Aristotile,  le  Idee  non  difl*eriscono dalle  cose  che  per  la  loro  eternità  (2);  sono  dei  sensibili eterni,  come  gli  dei  del  volgare  sono  degli  uomini  e- terni  (3).  La  loro  essenza  non  differis^ie  da  quella  delle cose;  nelle  une  e  ntlle  altre  il  concetto  è  uno  e  lo stesso  (4).  Le  fanno  {\  platonici)  della  stessa  spec'e  che 1  sensibili;  non  fanno  che  agrgiurgere  la  parola  aùxó  (5). Cosi,  per  significare  che  i  platonici  non  ammettono  una Idea  della  casa,  Aristotile  d  cft  che  non  vi  ha,  secondo essi,  una  casa  oltre  (Tiapa)  le  case  part  colavi  (6);  e  ob- bietta che,  secondo  i  loro  principii,  si  dovrà  ammettere un  terzo  uomo  (oltre  1'  uomo  sensibile  e  1'  uomo  idea- le),  e  che,  come  vi  hanno  delle  entità  intermediarie per  le  grandezze  e  pei  numeri,  vi  sarà  un  altro  cielo oltre  il  cielo  sensibile  e  altri  animali  medi  fra   gli   an'- (1)  Le  Idee  dei  generi,  e  specialmente  dei  ilue  generi  supremi (l'Uno  e  la  Dualità  indefinita),  sono  chiamate  elementi  deijH  esseri. V.  e.  88-91. (2)  V.  Met. Un  altro  carattere  ditìerenziale  è  l'immobilità  :  cosi,  secondo  il primo  luogo  citato,  le  entità  matematiche  differiscono  dai  sensibili perchè  eterne  ed  inamobìli  (come  le  Idaeì,  dall3  liee  perchè  ve ne  hanno  molte  della  stessa  spacie.  Ma  probabilmente  Aristotile  ri- guarda l'immobilità  come  data  implicitamente  nell'eternità  (perchè  la eternità  delle  Idee  platoniche  è  l'assenza  della  condizione  del  tempo). (3)  L.  111.  II.  16. Met,  Elh,  yic,  Met.  mali  stessi  e  gli  animali  conuttibili  (1).  Nel  periodo  pì- tagoreggfaijte  si  rggiun^e  una  nuova  astrazione  a  quella per  cui  si  ottiene  il  concetto  geneia'e  (o  piuttosto  il  con tenuto  dì  questo  conci  tto);  si  sopprime,  cioè,  la  materia, - e  si  fa  dell'Idra  ULa  semplice  foima.  Questo  ler^o  pro- cesso por  ottenerli  l'Idea  ci  mostra  d' ima  maniera  an- cora più  evidette  ch'essa  non  è  che  un'  cniità  pura- mente obbiettiva.  La  forma  infatti  non  etiste  altrove .  ci  e  mila  materia;  e  in  effetto  noi  sappiamo  dal  Timeo e  da  Aristotile  che  ciò  che  partecipa  DJle  Idee  è  la  ma- teria,  che  es.'-a  è  il  loro  substratum  o  il  soggetto  di  cui si  pi  edicano,  e  che  l'individuo  è  un  composto  della  ma- teria e  de'l'Idea  (2);  e  siccome  la  materia  per  Platine  è identica  allo  spaz'o.  Ariste  tile  ne  inferisce  anche  che  le Idee  ('ovrrbbiro  essrre  nello  spaz'o  (3). Senza  dubbio,  ^e  Platone  ammettesse  la  dottrina de  l'identità  d«  D'essere  e  del  pensiero,  nonj-olo  le  Idee, ma  anche  le  cose  fnirmeDali  dovrtbbeio  essere  per  lui dei  pensieri.  E  nllora,  astraendo  il  comune  dalle  cose, unificandolo,  contemplando  queste  cose  sub  specie  aeter- nitatis  (secondo  il  concetto  d'  Aristotile  che  le  Idee sono  dei  srnsib  li  eterni),  f-eparando  le  loro  forme  dalla materia,  siccome  le  cose  sarebbero  anche  dei  pensieri, se  ne  tirerebbero,  non  dei  semplici  oi»'^ett%  ma  degli oggetti  che  sarebbero  al  trmpo  stesso  dei  pensieri.  Ma i^xcome  Platone  noi  dice  mai  che  le  cose  sono  anche dei  pensieri,  e  gli  uomini  pensano  generalmente  che non  sono  che  delie  cose,  noi  dobbiamo  ammettere  ch'e- (1)  Met.  l.  III.  II.  17-22  e  l.  Xlll..  II.  7-8. (2)  V.  e.  132,  141,  149-150. (3)  V.  e.  155. - m i -  a2o  - gli  divide,  su  questo  soggetto,  il  punto  di  vista  comune; e  perciò  che  Tldea  platonica,  tirata  dalle  cose  mediante i  processi  che  abbiamo  indicati,  non  è  un  oggetto  che é  al  tempo  stesso  un  jensiero,  ma  un  semplice  oggetto, che  non  si  distingue  dagli  ultii,  quali  gli  uomini  abi- tualmente se  li  rappresentano,  che  perchè  è  astratto, unico  nella  sua  specie,  (terno,  e  una  semplice  forma senza  materia. Altre  prove  della  semplice  obbiettività delle  Idee  si avranno,  esaminando  le  determinazioni  che  loro  ven- gono attribuite  per  se  stesse,  o  anche  nel  loro  rapporto con  le  cose,  ma  indipendentemente  dal  processo  per  cui il  loro  concetto  è  ricavato  da  quello  delle  cose.  Le  Idee sono  per  Platone  l'essere  o  gli  €ss£ri  (I),  e  Aristotile  le chiama  continuamente  sostanze  (2ì.  Questa  sostanzialità si  vede  altrettanto  dagli  attributi  delle  sostanze  sensibili che  vengono  loro  negati  (p.  e.  quando  Platone  le  chia- ma «l'essenza  senza  colore,  senza  figura,  impalpabi- le »  (3),  o  quando  Aristotile  e  gli  amici  delle  Idee  del 6b/is^a  pretendono  che  sono  assolutamenteimmobilì  e  prive della  facoltà  di  agire  e  di  patire  (4)),  che  da  quelli  che vengono  loro  conservati  (p.  e.  quando  Platone  afferma, V.  e.  liMMOl. (2)  V.  Met. ecc.  Nel  1.  XIV.  l.  l  e  IV.  4  e  altrove  le chiama  le  soi^lanze  immobili;  e  nel  l.  111.  VI.  5,  1.  VII,  Xlll.  8—10  e altrove  obbietta  che,  nell'ipotesi  delle  Idee,  in  una  sostanza  vi saranno  più  sostanze  (perchè  una  cosa  o  un'Idea  partecipa  a  più Idee)  Fedro  247  e. (.4)  V.  e.  110-120. contro  rinterpretazione  degli  amici  delle  Idee,  che  res- sero vero  pensa,  vive,  ha  un'anima  e  si  muove)  (1).  Essa si  vede  pure  dal  loro  rapporto  con  le  cose  :  le  Idee  sono la  realtà,  e  le  cose  le  immagini  e  le  apparenze  (2);  eia parusia  è  assimilata  alla  presenza  di  una  sostanza  ma- teriale in  un'altra  (3).  Nel  periodo  pitagoreggiante  le  Idee sono  identificate  ai  numeri— che  certamente  sono  degli oggetti,  per  quanto  V  antitesi  tra  soggetto  ed  oggetto può  applicarsi  a  delle  astrazioni  (4)  —  ;  e  composte  di forma  e  di  materia come  le  cose.  Insieme  a  queste determinazioni  e  ale  altre  che  ci  mostrano  le  Idee  come semplici  oggetti,  non  ne  incontriamo  alcuna  che  ce  le mostri  erme  pensifri.  Cosi,  siccome  al  punto  di  vista comune— che  d'altronde  è  il  solo  intelligibile— l'essere  un oggetto  è  incompatihile  con  l'essere  un  pensiero,  non trovando  mai  in  Platone  una  propos'zione  che,  in  un caso  particolare  o  come  principio  generale,  escluda questa  incompatibilità,  noi  dobbiamo  ammettere  ch'essa esiste  anche  per  lui,  e  vedere  nelle  determ'nazioni  delle Idee  come  degli  oggrtn  la  negazione  implcita  della dottrina  che  soùo  dei  pensieri. Noi  non  possiamo  immaginare  altra  prova  più  completa delle  precedenti  che  una  proposizione  in  cui  Platone  ne- gasse espressamente  la  dottrina  del 'identità  dell'essere e  del  pensiero.  E  ciò  che  egli  avrebb3  certamente  fatto,  V.  o. (3)  V.  e.  65  e  70-71. (4)  E  d'altronde  questi  numeri  a  cui  s'identificano  le  Idee,  sono essi  stessi  identificati  ai  punti  che  sono  i  termini  delle  grandezze, e  considerati  come  gli  elementi  costitutivi  di  queste.  V.  carte, V.  Supplem.  C.  n.  II. il. I Fé  fosFe  venuto  dopo  Hegel.  Ma  siccome  Platone,  e  chic- chessia alla  sua  epoca,  ignorava  che,  fra  le  pseudo-idee che  avrebbero  immaginato  ì  roet  fìs'ci,  vi  sarebbe  stata l'identità  dell'essere  e  del  pensiero,  sarebbe  assurdo  di cercare  in  lui  questa  prova  assolutamente  completa.  E non  per  tanto  noi  trovian^o  nel  l'nrmevide  qunìche  cosa che  vi  si  avvicina.  E  la  confutazione  del'a  proposizione di  Socrate,  quando  questi,  battuto  dalle  obbiezioni  del filosofo  eleate  contro  la  partecipazione,  abbandona  la realtà  degli  universali,  e  fa  la  supposizione  che  le  specie non  sono  che  dei  pensieri,  e  vov  possono  esistere  altrove che  nelle  anime^ qw  ste  parole  dinirstrano  che  la  suppo- sizione di  Socrate  non  è  l'identità  dell'essere  e  del  pen- siero, ma  semplicemente  il  concettualismo. Che  dun- que?, dice  Parmenide,  ciascuno  diqnesti  pensieri  è  uno, ma  è  il  pensiero  di  niente? Ciò  èimpossibile È  il  pensiero di  qualche  cosa?~Si-  Di  qualche  cosa  che  esiste o  che  non  esiste  ?— Che  esiste— Nim  è  di  qualche  cosa di  uno,  che  questo  pensiero  pensa  in  tutti  gli  oggetti, come  una  certa  forma  reale?  Si. E  non  sarà  una  Specie questa  qualche  cesa  che  si  pensa  essere  una,  essendo sempre  la  stessa  in  tutti  gli  oggetti  ?  Anche  questo sembra  necessario Ma  che?  non  ò  necessario,  poiché le  altre  cose  partocipflno  alle  Specie,  o  che  ogni  cosa consti  di  pensieri  e  tutto  pensi,  o  che  le  cose  non  pen- sino essendo  dei  pensieri  ?  »  In  questo  luogo  abbiamo la  proFOs'zione  che  le  cose  sono  dei  pensieri  (o,  ciò  che è  lo  stesso,  constano  di  pensieri)  presentata  come  una assurdità,  perchè  implicante  o  che  tutte  le  cose  pen- sino, o  che  non  pensino  mentre  sono  dei  pensieri;  e considerata  pure  come  assurda,  perchè  conducente  a  que- sta proj^osizioiio,  quella— non  formulata  esplicitamente, ma  sottii'tesa  nel  ragionamento di VELIA (vedasi)  che   le Specie,  essendo  dei  pensieri,  sono  al  tempo  stesso  Vuno nei  molti  negli  oggetti  reali;  e  quindi  anche  la  supposi- zione di  Socrate,  da  cui  essa  è  dedotta,   che   le    Specie sono  dei  pensieri.  Che  fa  infatti  VELIA (vedasi)  ?   Dimostra a  Socrate  che  la  proposizione   che   i   concettualisti oppongono alla  teoria  delle  Idee,  cioè  che  esse   sono   dei pensieri siccome  un  pen^iero  generale  ha  per   oggetto (secondo  la  mai'iera  di  argomentare  abituale  a  Platone) un  essere  generale implica,  quantunque  il  concettuali- sta non  lo  comprenda,  che  questi    pensieri, a cui   egli pretende  ridurre  gli  universali,  devono  essere  al  tempo stesso  degli  uui\en-aU  in  re;  donde  la   conseguenza  assurda che  tutto  il  reale  si  rihclve  in  ponsier',   e   quindi ciò  che  mostra  più  palpabilmente  la  sua    assurdità- che  le  cose  o  pensano,  o  sono  prive  del  pensiero  essendo pensieri.  L'interprete  che  attribuisce  a  Platone  l'identità dell'essere  e  del  pensiero,  alla  prova  schiacciante  contro la  sua  intf  rpretaz  one contenuta in questo luogo del VELIA (vedasi),  non  potrebbe  dare   che   una   risposta  :  cioè che  in  questo  dialogo  Platone  (o  meglio,  l'interlocutore che  rappresenta  il  suo  pensiero,  cioè  VELIA (vedasi))  mostra che  l'ipotesi  delle  Idee  e  tutte  le  supposizioni   che   pos- sono farsi  sul    rapporto  tra  le  Idee  e    le   cose,    fra   cui quella  che  l'Idea  è  Vuno  nei  molti  eh'  egli  ammette   in lutti  i  suoi  scritti,  conducono  (o  sembrano   condurre)  a del'e  conseguenze  assurde,  e  non  pertanto  egli  mantiene tanto  la  dottrina  delle  Idee  quando  quella  che  un'  Idea è  presente  simultanean  ente,  una  e  la  tt'ssa,  in  tutti  gli individui  della  specie;  così  egli  potrebbe  mantenere  anche la  dottrina  deiridentità  dell'essere  e  del  pensiero,  quan- tunque mostri  che  anche  da  questa  derivano  (o  piuttosto sembrano  derivare;  delle  assurdità.  Ma  vi  ha   fra  i  due casi  una  difTcìei  za  imfortai  te.  Kr  i  dobbiamo  guardarci dal  credere  che  le  obbiezioni  di  Parmeuide  contro  le Idee  abbiano  per  Platone  lo  ^tPF.'-o  valore  logico  che  vi troviamo  noi  stessi.  L'  obbiezioi  e  contro  la  partecipazione,  per  noi,  è  perfettamente  concludente, mentre  quella  del  luogo  di  cui  ora  parliamo,  contro  la proposizione  concettualista  di  Socrate,  è  patentemente sofistica,  perchè  le  assurdità  che  si  pretende  far  derivare da  questa  pioposizione,  non  ne  derivano  che  ammassa la  validità  dei  soliti  argomenti  di  Platone  per  dimostrare resistenza  delle  Idee.  Ma  hi\\  va  loie  di  queste  due  ob- biezioni Platone  doveva  penseie  precisamente  il  con- trario di  nei.  La  prima,  come  tutie  le  altre  dirette  con- tro le  Idee  concepite  secondo  il  sistema  realista  (meno forse  quella  di  l82d-13aa,  che  sembra  dirigere  contro l'interpretazione  traila tìdcniolisia  della  sua  dottrina), doveva  parere  a  Platone  necessariamente  sofistica,  poi- ché egli  mant'ene,  malgrado  essa,  il  suo  realismo— senza dubbio  egli  doveva  considerarla  come  fondata  sovra  una concezione  inesatta  delle  Idee  e  del  lorcf  rapporto  con  le cose,  per  cui  si  pretendeva,  avrebbe  forse  detto  come  Car- tesio, «  immaginare  ciò  che  non  si  può  se  non  inten- dere ;  la  seconda  invece  doveva  parergli  Tunica fra  tutte  (meno  forse  Teccezone  di  cui  sopra)  che  fosse concludente,  poiché  .l'impiegava,  come  l’arma  più  forte di  cui  potesse  avvalersi,  e  ntro  la  negazione  dei  suoi oppositori,  cioè  il  concettualismo.  L'assurdo  a  cui  Par- menide riduce  la  suppoaizione  di    Socrate,    era    dunque per  Platone  realmente  un  asmrdò;  e  il  seguace  dell'in, terpretazione  hegelia  la  gli  attribuisce  una  dottrina  ch'e- gli ha  condannata,  nel  modo  più  esplicito  possibile  in cui  un  filosofo  possa  condannare  una  dottrina  che  gli  è sconosciuta. Ven^'amo  ora  al  pun*^o  che  è  direttament*^  in  qui- s'ione,  cioè  alla  dottrina,  non  dell'identità  dell'essere  e del  pensiero,  ma  delT  identità  dell'  essere  e  del  no- afro  pensiero,  delToggefo  conosciuto  (le  Idee)  e  della conoscenza.  Quand'anche  il  seguace  dell'interpretazione hegeliana  potesse  provare  che  Platone  ha  ammesso  la prima  dottrina,  egli  non  proverebbe  ancora  che  ha  am- masso la  seconia  :  al  contrario,  provando  che  non  ha ammesso  quella,  si  è  provato  pure  che  non  ha  ammesso questa,  essendo  evidente,  come  abbiamo  noUtf>j  che  se le- Idee  non  sono  per  se  steste  dei  pensieri,  non  possono divenire  dei  nostri  pensieri.  Ma  alle  prove  precedenti che,  dimostrando  che  le  Idee  non  sono  per  Platone  che dei  semplici  oggetti,  dimostrano  pure  indirettamente  che per  lui  non  può  esservi  identità  fra  la  conoscenza  e l'oggetto  conosciuto,  noi  possiamo  aggiungere  delle  prò. ve  dirette.  Vi  ha  prima  di  tutto  la  prova  negativa,  cioè l'assenza  di  proposizioni  in  cui  Platone  affermi  aperta- mente quest'identità;  e  a  questo  riguardo  sono  notevoli 1  luoghi  in  cui  parla  dei  caratteri  che  distinguono  la scienza  dall'opinione  (1),  poiché  quest' ident  tà,  se  T  a-vesse  ammessa,  sarebbe  stata  certamente  uno  di  questi caratteri,  la  presenza  immediata  dell'oggetto  al  soggetto conoscente  essendo  necessariamente  per  lo  spirito  uma- V.  Sappi.  B  cario  3é-35.  V.  e.  33  in  not». V.  specialmente  Meno.  e  Tim.  . no  il  t^po  supremo  della  certezza.  Tra  le  prove  positive daremo  il  primo  posto  ai  luoghi  numerosi  in  cui  Pla- tone riguarda  evidentemente  (come  farebbe  chiunque altro  tranne  un  h'^geliano)  la  conoscenza  e  Toggetto  co- nosciuto come  due  cose  affatto  distinte  e  separate.  Io citerò  quelli  che  mi  sembrano  più  importanti.  Sulla  fine del  Cratilo dice  .*,he,  se  tutto  diviene,  il bello  siesso,  il  buono  s'esso,  ecc.  non  potranno  essere conosciuti  da  alcuno,  perché,  mentre  la  potenza  cono- scitiva tenterebbe  di  a't'ngerli,  essi  diverrebbero  altri (difficoltà  che  non  potrebbe  aver  luogo  nella  dotirinadel- ridentiià);  e  mostra  che,  neiripotesi  di  Eraclito,  non  vi sarà  né  il  conoscente  (cioè  la  conoscenza)  né  il  conosciuto (duo cose  distinte).  Nel  Filebo  la  distinzione  tra la  conoscenza  e  l'oggetto  conosciuto  è  affermata  quando dice  (2)  che  T  intelligt  nza  e  la  saggezza  non  consi- stono che  nelle  conoscenze  intorno  all'  essere  reale (le  Idee  —  mpi  xò  ov  ovico;),  perchè  «  intorno  a  ciò che  non  ha  alcuna  stabilità  (il  diveuTe)  conne  po- trebbe esservi  in  noi  qualche  cosa  di  stabile?»,  ma  «lo stabile,  il  puro,  il  vero,  il  sincero  non  può  aver  luogo in  noi  che  intorno  a  ciò  che  è  sempre  nello  stesso  stato, della  stessa  maniera  e  seuz'alcuna  mescolanza  ».  Questa distinzione  è  affermati  pure  dove  si  tratta  dei  quattro generi  in  cui  gli  esseri  vengono  divisi,  poiché  V  in- telligenza, cioè  la  causa,  è  un  quarto  genere  oltre  i  tre primi,  e  si  dice  espressamente  (4)  ch'essa  è  altra  chele (1)  Luogo  riportato  nel  Sappi. C0S3 appartenenti  a^li  altri  tre  gcaeri  (cioè  gli  esseri, cose  e  Idee,  e  il  Tiipa;  e  Vd^mipo^  che  ne  sono  gli  ele- menti.  Nella  R^pabUica  a  la  scienza  e il  suo  oggetto  sono  rfg  lar  lati  come  due  cose  diverse  e correlative,  come  la  «ctv3  e  la  bevanda,  la  fame  e  il  cibo, il  maggiore  e  il  minore,  il  doppio  e  la  mrtA,  il  più  ve- loce e  il  pili  tardo,  ecc.;  e  si  nega che  la  scienza  (e in  generale  un  correlativo)  sia  tale  quale  è  l'oggetto  a cui  si  riferisce,  p.  e.  che  la  pcienza  del  salubre  e  del- l'insalubre sia  essa  stessa  salub  e  e  insalubre,  e  quella del' buono  e  del  cattivo  buona  e  cattiva  (mentre  è  evi- dente vho,  nell'ipotesi  dell'identità  della  conoscenza  col suo  oggetto,  la  scienza  del  salubre,  essendo  il  salubre Ptcsso,  non  potrebbe  non  essere  salubre,  e  cosi  pure qu^^lla  del  buono  buona,  ecc.)  Nel  Carmide  Socrate  ob- b  etta  al  suo  interlocutore  che  la  scienzi  è  dì  qualche offsretto,  che  e  altro  che  la  scienza  stessa,  p.  e.  la  lo- gisticà  è  del  pari  e  dell'impari,  che  sono  altri  che  la logistica,  la  statica  del  grave  e  del  leggiero,  che  sono altri  che  la  statica;  e  gli  dimostra  che  non  è  pos- sibile una  scienza  che  abbia  se  stessa  per  oggetto  (in- tanto, se  la  conoscenza  fosse  identica  all'oggetto  cono- sciuto, la  consegU3nza  necessaria  sarebbe  che  la  scienza non  avrebbe  per  oggetto  che  se  stessa).  La  scienza,  dice Socrate  per  dimostrare  quest'impossibilità,    è   relativa  a Sappi.  B  carta  100  n.  I,  e  Sappi.  C  e   247  p.  2»  Luogo  riportato,  in  parte,  a  caria  U  in  nota. 438  e. (4)  166  a-b. (5)  167  0-J68  e. qualche  cosa,  come  il  mag^gìore  è  relativo  al  minore,  Il doppio  alla  metà,  il  più  al  meno,  il  più  grave  al  più leggiero,  ecc.  (proposizione  che  g'à  incontrammo»  nel luogo  della  Repubblica];  cosi  una  scienza  che  avrebbe se  stessa  per  oggetto  sarebbe  come  un  maggiore  che fosse  maggiore  di  se  stesso,  un  doppio  che  fosee  il  doppio di  se  stesso,  un  p'ù  che  fosse  p'ù  che  se  scesso, ecc.,  con  le  conseguenze  contraddittorie  implicate  in  cia- scuna di  queste  ipot  si.  Essa  sarebbe  pure,  aggiunge Socrate,  com^>  una  vieta  che  vedrebbe  se  stessa  e  come un  udito  che  udrebbe  se  stesso,  ciò  che  supporrebbe  che la  vista  avrebbe  calore  e  Tudito  avrebbe  voce  (confuta- zione che  converrebbe  perfettamente  alla  dottrina  dell'i- dentità della  conoscenza  e  deiroggctto  conosciuto,  per- chè secondo  questa  la  conoscenza  racchiuderebbe  in  se stessa  il  suo  oggetto,  come,  nelle  comparazioni  di  Platone, Tudito  la  voce  e  la  vista  il  colore).  Si  dirà  che  il  Car- mide  non  ha  uno  scopo  dogmatico,  ma  è  un  semplice esercizo  dialetii.-o;  ma  Platone  non  direbbe,  an»  he  in un  esercizio  dialettico,  delle  pr^^posizioni  in  contraddizione con  le  proprie  dottrine.  Nel  Sofista  248  lo  straniero  e- leate  (che  in  questo  dialogo  rappresenta  le  dottrino  del- l'autore) stabilisce,  contro  gli  amici  delle  Specie,  che  il conoscere  è  un'azione,  e  Tesser  conosciuto  una  passione, e  per  conseguenza  un  movimento  (questo  conosciuto  che, come  tale,  subisce  una  passione  e  un  movimento,  è  la essenza,  cioè  le  Idee)  :  ciò  importa,  primo,  la  distinzione fa  i  due  termini  aniitecici,  ra^^eotc,  cioè  lo  spirito  che conosce,  e  il  paziente,  cioè  le  Idee  che  sono  conosciute; e  secondo,  che  la  conoseanza  delle  Ileo  è  uà  cangia- mento e  ha  luogo  quindi  nel  t^mpo,   mentre    essa,    secondo la  dottrina  che  si  vorrebbe  attribuire  a  Platone, essendo  identica  al  suo  oggetto,  dovrebbe  essere  eterna (cioè  fuori  del  tempo)  come  quest'  oggetto  stesso.  Nel Teeteto  (19lc-196b)  i  pensieri  sono  rappresentati  come delle  effigie  degli  oggetti  su  tavolette  di  cera  esistenti nelle  anime,  e  fra  queste  effigie  vi  sono  quelle  del  cin- que stesso,  del  sette  stesso,  del  dodici  stesso,  e  in  gene- rale dei  numeri  astratti  (che,  secondo  i  principii  di  Pla- tone, non  possono  essere  che  delle  Idee,  o  almeno  delle entità  matematiche queste,  nel  periodo  pitagoreggiante, si  distinguono  dalle  Idee,  ma  non  sono  in  sostanza  che Idee  come  le  altre,  e  non  differiscono  dalle  altre  che perchè  non  se  ne  fanno  dei  numeri  ideali).  Questa  rap- presentazione implica  evidentemente  il  concetto  che  il pensiero,  anche  quando  ha  per  oggetto  le  Idee,  lungi d'identificarsi  con  la  cosa  pensata,  ne  è  una  semplice immagine.  L'esteriorità  delle  Idee  al  nostro  pensiero  è provata  pure  dalle  espressioni,  cosi  frequenti  sovra  tutto nel  VII  della  Repubblica,  che  nel  senso  proprio  deno- tano la  percezione  visuale,  ma  che  Platone  impiega  per designare  la  conoscenza  delle  Idee;  p.  e.  vedere  il  bello in  so  stesso  {Rep.  ),  rivolgere  1'  ott'mo  nell'  anima allo  spettacolo  dell'ottimo  negli  esseri  (cioè  dell'Idea  del bene— jò.  532c),  dirigere  in  su  l'occhio  dell'anima  e  guar- dare ciò  che  dà  la  luce  a  tutte  le  cose  (cioè  ancora  l'I- dea del  bene i6.  540a),  ecc.    Quand'  anche queste Rep. Conr. 210e,211b,  d,  e,  212a,  Fedo,  82c,  Sof.  ,  Meno,  72o,    Crai,  d, FU,  16d,  Tim.  39e,  ecc. espressioni  volessero  inteadersì  come   indicanti    la   pre- senza immediata  delle  Idee  al  pensiero  (come,    secondo la  credenza  naturale,  l'oggetto  percepito  è  presente  im- mediatamente aUa   percezione   sennibile)  —  dottrina    che non  possiamo  attribuire  a  Platone  che  quando  si  tratta della  conoscenza  primitiva  delle  Idee   in   una  vita   anteriore, resterebbe  sempre  la  distinzione  tra  lo  spirito conoscente  e  le  Idee    conosciute,   perchè    la   percezione sensibile,  sia  secondo  il  concetto  del  volgare  sia  secondo quello  del  filosofo,  implica  la  dualità  di  soggetto  ed  og- getto come  due  termini  opposti  e, al  di  fuori  l'uno  del- Taitro.  Un'altra  prova  della  distinzione   fra   il    pensiero e  la  conoscenza  deiridea  e  l'Idea  stessei  sono   gli  argo- menti per  dimostrare  l'esistenza  delle  Idee,    tirati   dalla scienza  e  dal  concetto  .  Questi  argomenti  suppongono che  l'Idea  è  l'oggetto  a  cui    si    riferisce   la    conoscenza scientifica  e  il  concetto,  come   le  coso   particolari   sono l'oggetto  a  cui  si  riferiscono  le  coaoscenze  e   i  pensieri part'colari:  da  ciò  che  il  concetto   e   la   conoscenza scientifica  si  riferiscono  a  qualche  cosa  di  astratto  e  ge.- nerale,  se  ne  conclude  che  vi  hanno  delle  entità  astratte e  generali.  Se  Platone  ammettesse  che  il  nostro  pensiero s'identifica  con  le  Idee,  la  sua  argomentazione,  eviden- temente, dovrebbe  essere  condotta  altrimenti:    egli    do- vrebbe sovratutto  fermare,  come  base   della   sua   argo- Sappi.  B,  n.  Ili,  carte  18-19. Aristotile  obbietta  ad  uno  di  questi  argomenti   (sembra,    il secondo  riportato  a  carta  18)  ch3  secondo  e^so  vi  dovrebbero  essere Idee  anche  delle  cose  paribili  (cioè  dagl'in  iividui),  perchè  di  que  - ste  esiste  ancora  un  /anfosma  (cioè  un'immagine  nella  nostra  mente) dopo  che  essa  sono  perite,  V.  M^t,  l.  I.  IX.    2. mentazìone,  il  princìpio  che  il  pensiero  è  identico  alPes- sere;  stabilito  questo  principio,  dall'esistenza  di  pensieri astratti  e  generali che  è  stata  sempre  considerata  come un  fatto  di  coscienza— ne  seguirebbe  naturalmente  quella di  esseri  astratti  e  generali.  E  noi  vediamo  infatti  in Hesrel  che  la  dottrina  che  è  messa  in  rilievo  non  è  che l'identità  deiressore  e  del  pensiero  :  la  realtà  degli  uni- versali (quantunque  non  abbia  per  lui  meno  importanza) non  è  stabilita  espressamente,  ma  data  implicitamente in  questa  dottrina;  e  a  molti  parrà  forse  un  paradosso che  Hegel  sia  un  realista,  Aggiunf»iamo  infine  che  l'i- dentità del  nostro  pensiero  con  le  Idee  sarebbe  incom- patibile con  certe  proposizioni  di  Platone,  quantunque non  implichino,  come  le  precedenti,  la  distinzione  tra  il pensiero  e  il  suo  oggetto.  Tali  sono:  La  composizione dell'anima  dai  due  elementi  nel  Timeo — essa  ha  per iscopo  di  spiegare  la  possibilità  della  conoscenza  (cioè in  sostanza  la  coincidenza  tra  }(  pensiero  e  la  realtà),  e sarebbe  quindi  un'ipotesi  completamente  inutile  data  l'i- dentità del  pensiero  col  suo  oggetto.  Il  principio  am- messo nel  Fedone  che  l'anima,  come  ogni  altra  cosa,  non può  accogliere  in  sé  le  Idee  opposte  -mentre,  nella dottrina  dell'identità  dell'essere  e  del  pensiero,  essa  com- prenderebbe necessariamente  tutti  i  contrari— .La  dottrina del  Timeo  e  delle  Leggi  che  il  pensiero  é  un  nnovimento  (e  si  tratta  il  più  spesso  del  nous,  il  cui  og- getto sono  le  Idee) — essa   implica  che  il  pensiero,  a- [Tim.  e  cfr.  SuppL  C,  IV,  ©arte  (2;  Fedo.  l(»d-J06.  V.  Suppl.  B,  carte  46-47. V.  questo  Suppl.,  I,    e.  275. (4;  V.  Leggi  Tim.  Cfr.  Arist.  De  an.   veritc  per  oggetto  le  Idee,  è  un  semplice  fenomeno,  die si  svolge  nel  tempo;  mentre,  nell'ipotesi  dell'identità  del pensiero  con  l'essere,  il  pensiero  (il  vero  pensiero,  cioè quello  che  ha  per  oggetto  le  Idee)  è  un'Idea  che  com- prende in  sé  tutte  le  altre,  e,  per  conseguenza,  eterna come  le  altre.  Ricordiamo  pure  la  proposizione  del Teeteio che  il  pensiero  è  un  discorso  dell'anima  con se  stessa— essa  è  incompatibile  con  l'identità  delTesserc e  dt  1  pensiero  per  la  stessa  ragione  che  la  dottrina  pre- cedente— .  Tra  le  prove  contro  V  identità  dell'  essese  e del  pensiero  (cioè  delnostro  pensiero)  non  contiamo  l'intuizione delle  Idee  in  una  vita  anteriore  e  la  reminiscenza, perchè  il  seguace  dell'intei prefazione  hegeliana  direbbe che  sono  dei  semplici  miti\  che  noi  prendiamo  a  torto per  dottrine  reali. Ora,  che  cosa  può  opporre  quest'interprete  alle  prove precedenti  ?  Nessuna  affermazione  esplicita  di  Platone, ma  solo  delle  proposizioni  che,  interpretate  più  o  meno forzatamente,  possono  riguardarsi  come  delle  allusioni alla  dottrina  ch'egli  pretende  attribuirgli.  Cosi  il  luogo del  X  della  Repubblica^  in  cui  si  dice  che  per  conoscere la  vera  natura  dell'anima  bisogna  guardare  alla  suay?- losofia,  significherà,  secondo  lui,  che  «  se  si  vuol  ricono- scere IVsserza  dell'anima  e  sollevarsi  dalla  sua  tempo- ranea e  mortale  manifestazione,  si  deve  filosofare,  poi- ché la  filosofia  sola  ha  per  oggetto  1'  eterno,  il  mondo ideale,  che  è  identico  alla   natura   dell'anima. Teichmuiler  Quistione  platonica y   Ma   Platone   non dice  che  l'essenza  dell'anima  oonsiste  nella  filosofia,  ma  sempUoe- luogo  del  Timeo,  che  ci  esorta  a  rendere  simile  l'in- telligenza air  intelligibile,  per  conseguire  il  fine  della vita  più  perfetta  propostaci  dagli  dei,  vorrà  due  che  il fine  ultimo  dello  sviluppo  dello  spirito  e   di  tutto V  es mente  ohe  qaesta  ci  dà  un  indizio  di  ciò che  l'anima  è  nella  sua vera  natura, cioè  nella sca parte eterna  (il  XoYtOTixoVi   sciolta dall'unione  con  con  le  due  parti  inferiori  e  ritornata  all'eccellenza del  suo  stato  originario  (quando  contemplava  le  Idee  in  compagnia degli  deiì.  Ecco  il  luogo  in  quistione: Né  crederemo  che  1ale-;ia l'anima  nella  sua  verissima  natura  da  aver  molta  varietà   e  disso- miglianza e  differenza  con  se  stessa (cioè  che  sia   uncoinpo-ito  di parti  eterogenee  e  non  qualche  cosa  di    semplice). Non è faci  e che  sia  eterno  il  composto  di  molti  né  formato  della  più  bella  com- posizione, come  ora  ci  apparve  1*  anima    (che  ha  mostrato  compo- sta di  tre  parti,  che  hanno  fra  di  loro  tendenze  contrarie).  La  detta ragione  (la  prova  precedente  dell'immortalità)    e  le    altre  provano ohe  l'anima  è  immortale.  Ma  per  conoscere  quale   essa    sia   nella verità,  non  si  deve  guardarla  deformata  dalla  comunione  c^l  e  irpo e  con  gli  altri  mali,  quale  ora  la  vediamo;  ma  quale    è,    divenata pura    (cioè     liberata  dal  corpo  e  dalle  due  parti  inferi(»ri,   e  dagli altri  mali  che  derivano  dalla  comunione  con    essi),    tale   bisogn;i guardarla  diligentemente  con  la  ragione;  e  allora  si  troverà  molto più  bella,  e  si  conoscerà  più  chiaramente  la  giustizia  e  tutte  le  altre cose  di  cui  abbiamo  parlato. Ora  abbiamo  detto  la  verità    intorno ad  essa,  ma  quale  appare  nel  presente.  Come  quelli  che  vedessero il  marino  Glauco  diffìcilmente  potrebbero  riconoscere  la sua antica natura,  perchè  le  antiche  parti  del   suo    corpo   sono   state    le une  spezzate,  le  altre  corrose  e  totalmente  sfigurate  dalle  onde,  e se  ne  sono formate  delle  nuove  di  conchiglie,  d'alghe   e di    sassi, sicché  più  somiglia  a  una  fiera  anziché  parer   tale   quale    era    per natura;  cosi  noi  vediamo  l'anima  sfigurata  da  mali  innumerevoli. Ma  ciò  a  cui  bisogna  guardare,  o  Glaucone,  é  la  saa  filosofia  (cioè il  suo  amore  del  sapere); bisogaa considerare  quali  cose   essa  at- tinge, di  quali  cose  ricerca  il  commercio,  come  qnella  che  è  affine al  divino,  immortale  e  sempre  essente    (cioè  alle  Idee— questa    af- linità  dell'anima,  cioè  della  parte  razionale  che  è  la  sua  vera  na- l'i 5i sere  sta  neiride ntificazfone  del  soggetto  e  dell'  oggetto, che  ha  luogo  nella  conoscenza  filosofica.  Nella  morte filosofica  del  Fedone,  per  cui  V  anima    si   distacca^  per tura,  con  le  Idee,  proverebbe,  come  nel  Fedone^  la  sua  semplicità), e  quale  diverrebbe  datasi  tutta  a  perseguire  un  tale  oggetto (tutta,  perchè  si  è  separata  dalle  due  parti  inferiori),  ed  elevata per  questo  slancio  dal  pelago  in  cui  ora  è  immersa,  e  scossi  i  ciot- toli e  le  conchiglie,  che  ora  ha  d'attorno  molte  e  rudi  e  piene  di terra  e  di  sassi,  come  quella  che  si  pasce  di  terra  nei  conviti  chia- mati felici  (la  filosofia  ci  fa  presentire  quale  diverrebbe  1'  anima, ridotta  alla  sola  parte  razionale che  è  la  vera  essenzza  dell'anima, perchè  è  etema,  mentre  le  altre  parti  non  sono  nella  sua  esistenza che  degli  accidenti  transitori— e  datasi  tutta  quanta  alla  contem- plazione delle  Idee,  come  nella  sua  a*»tica  natura^  cioè  nello  stato originarlo  da  cni  è  decaduta).  E  allora  potrebbe  vedersi  la  vera  na- tura di  essa,  e  se  sia  multiforme  (cioè  composta)  o  uniforme  (aem. plice)  ed  in  qual  guisa  essa  stia  e  come  „  Hep,  CHIAPPELLI (vedasi)  IJ interpretazione  panteistica  di  P/oton«?,  Platone  dice  : Bisogna  correggere  le  rivoluzioni  ohe si  operano  nella  nostra  testa  (quelle  del  XoytOTtxóv)  turbate  sin dalla  nostra  nascita,  studiando  le  armonie  e  i  movimenti  dell’universo,  e  rendere  simile  (è5o[ioià)oat)  ciò  che  pensa  a  ciò  che  è pensato,  secondo  l'antica  natura,  e  resolo  simile,  conseguire  il  fine della  vita  ottima  proposta  agli  uomini  dagli  dei  e  per  il  presente  e per  l'avvenire,  „  Rendere  simile  è  ben  altro  che  rendere  identico; ed  è  inoltre  completamente  arbitrario  di  dare  al  fine  di  cui  parla Platone  il  significato  hegeliano  di  momento  ultimo  del  processo eterno  dell'anima  e  dell'universo.  Prima  Timeo  ha  detto,  è  vero, ohe  chi  si  abbandona  alle  passioni  sensuali  non  può  avere  che delle  opinioni  mortali,  e  diviene  perciò  egli  stesso,  pi^  che  è  pos- sibile,  mortale,  ma  chi  è  dedito  alla  scienza,  se  consegue  la verità,  è  necessario  che  abbia  pensieri  divini  e  immortali,  e  per- ciò che  non  perda  nessuna  parte  dell'  immortalità,  per  quanto è  possibile  alla  natura  umana  di  parteciparne.  K  forse  ciò  che può  trovarsi  in  tutti  gli  scritti  di  Platone  di  più  favorevole all'  ini er^iret azione    deli'  immortalità  che  vede  in  essa  l'  eternarsi quanto  è  possibile,  dal  corpo,  e  pensa  essa  stessa per  se  stessa  gli  esseri  stessi  per  se  stessi,  si  vedrà  il vero  significato  deirimmortalità  platonica,  cioè  il  rien- trare deiranima  nella  sua  essenza  intima,  il  suo  ritorno airunità  primitiva  del  soggetto  e  dell'oggetto.  Ai  luoghi del  Convito  in  cui  è  quistione  dell' immortalità  conse- guita per  la  generazione  e  per  la  contemplazione  del- r  Idea    del    bel'o,    si  darà  il  senso  che  non  vi   ha   prr del  pensiero  per  la  sua  identificazione  col  mondo  ideale.  Ma questa  immortalità  metaforica,  che  consiste  nell'avere  pensieri immortali,  non  può  essere  per  Platone,  per  dir  cosi,  che  una giunta  alla  vera  immortalità,  e  non  può  escludere  questa,  in- segnata in  tutto  il  dialogo  e  in  questo  lu<'go  stesso,  come  si  vede dalle  ultime  parole  per  il  presente  e  per  Vavvenire, [Teichmiiller  capovolge  il  vero  rapporto  tra  la  morte  filosofica e  la  dottrina  dell'immortalità.  Egli  vede  nella  seconda  un'  imma- gine della  prima  (interpretata  com3  un  eternarsi  del  pensiero  e  nna identificazione  di  esso  col  suo  oggetto),  mentre  per  Platone  è  la prima  che  è  un'  immagine  della  seconda.  La  filosofia,  dice  Platone, ò  un  esercitarsi  a  morire  o  a  vivere  come  se  si  fosse  morto. Che  cosa  è,  infatti,  la  morte  ?  È  il  distacco  dell'anima  dal  corpo, in  modo  che  l'anima  esista  essa  stessa  per  se  stessa  separatamente dal  corpo,  e  il  corpo  esso  stesso  per  se  stesso  separatamente  dalla anima.  Ora  il  filosofo  distacca,  quanto  più  è  possibile,  l'anima  dal  cor- po, e  aspira  a  vivere  con  l'anima  sola  :  infatti  egli  disdegna  i  piaceri del  corpo,  e  non  prende  cura  di  esso  che  per  quanto  vi  è  costretto dalla  necessità;  di  più  egli  non  fa  gran  caso  della  conoscenza  dello  cose per  gli  organi  dei  sensi,  ma  cerca  di  conoscerle  per  la  sola  ragione,  con- templando con  l'anima  stessa  per  se  stessa  le  cose  stesse  per  se  stesse, cioè  le  Idee)  L'espressione  l'anima  stessa  per  se  stessa  .aOxYj  xaO'aO- TT^V   e  le  altre  simili  che  s'incontrano  ad  ogni  tratto  dov'è  quistione della  morte  fil>sofica,  siccome  aOlòg  xaO'aOxóv  nel  linguaggio  pla- tonico significa  le  Idee,  farebbero  pensare  al  concetto  del  seguace dell'interpretazione  hegeliana,  che  la  morte  filosofica  è  una    sopranfma  altra  immortalità  che  la  dialettica,  e  quella  che le  è  comune  eoa  tutte  le  altre  cose,  cioè  la  permanenza deiridea  nel  nascere  e  il  perire  degrindividu.  Senza pressione  deU'indiyidaalìtà  e  un  rientrare  ^^eU'anima  nella  saa  es- senza intima,  cioè  nella  sua  Idea;  l'anima  stessa  per  se  stessa  che pensa  gli  esseri  stessi  per  se  stessi  vorrebbe  dire,  secondo  questo concetto,  che  la  conoscenza  del  mondo  ideale  non  compete  all'a- nima come  esistenza  individuale,  ma  come  Idea.  Ma  è  evidente  ohe queste  espressioni  nel  nostro  caso  non  significano  che  il  dualismo di  Platone,  cioè  la  sua  dottrina  animista  :  l'  anima  stessa  per  se stessa  vuol  dire  l'anima  sola,  distaccata  dal  corpo,  come  il  corpo stesso  per  se  stesso  vuol  dire  il  corpo  solo,  separato  dall'anima.  La  morte  filosofica  non  è  solo  un'immagine  dell'immortalità, cioè  della  vita  avvenire,  ma  è  ancho  una  preparazione  a  questa  : essa  è  infatti  una  purificazione  (xaOapai^),  e  solo  le  anime  ohe  si sono  purificate,  cioè  quelle  dei  filosofi,  saranno  ricevute,  dopo  la  loro uscita  daleorpo,nel  soggiorno  degli  dei,  dove  conseguiranno  infine  ciò che  hanno  tanto  amato  quaggiù,  vale  a  dire  la  sapienza,  che  non è  possibile,  per  l'ostacolo  del  corpo,  di  conseguire  in  questa  vita. Perciò,  parlando  della  morte  o  catarsi  filosofica,  Socrate  fa  l'apo- logia di  se  stesso,  che  non  è  dolente  di  morire,  ma  intraprende  con buona  speranza  il  viaggio  cha  gii  è  imposto,  come  quegli  che  ha l'anima  preparata,  perchè  purificata  dalla  filosofia.  V.  Fedone  64  a- 69  e  e  e  ir.  80  e-84  b. (1)  V.  C  nvito  206C-212  b.  Dopo  aver  detto  che  -ii  mortale  non ottiene  l'immortalità  che  per  la  generazione  (per  cui  la  specie  si perpetua),  Socrate  aggiunge  che  l'individuo  stesso  non  si  conserva che  per  un  processo  simile  a  quello  per  cui  si  conserva  la  specie. Infatti,  par  tutto  il  tempo  della  sua  vita,  ciascun  animale  non  è mai  lo  stesso,  ma  diviene  sempre  nuovo  e  sempre  perisce  e  nei  peli dubbio,  oltre  che  dei  luoghi  isolati,  il  seguace  dell'  in- terpretazione hegeliana  potrà  anche  invocare  in  suo  ap- e  nelle  carni  e  nelle  ossa  e  nel  sangue  e  in  una  parola  in  tutto  il corpo.  Qualche  cosa  di  simile  avviene  anche  nell'anima  :  le  abitu- dini, i  costumi,  le  opinioni,  gli  appetiti,  i  piaceri,    i   dolori,    i  ti- mori, le  conoscenze  medesime  non  persistono   mai   gli  stessi    ma nascono  e  periscono;  solamente  ciò  che  nasce  è  simile  a   ciò    che è  perito,  sicché  sembra  Io  stesso.  Cosi  si  conserva  il   mortale,  non perchè  sia  sempre  assolutamente  lo  stesso,  come  il  divino,  ma  perchè il  simile  si  sostituisce  sempre  al  simile.  •  Per  questo  mezzo  il  mor- tale partecipa  all'immortalità,  e  il  corpo  e  tutte  le  altre  cose;  l'immortale  altrimenti  Secondo  il  seguace  dell'interpretazione  hege- liana fra  queste  altre  cose  mortali  come  il  corpo  bisogna  compren- dere anche  l'anima,  perchè  questo  processo  di  sostituzione  del   si- mile al  simile,  per  cui  il  mortale  si  conserva,  è  applicato  da    Pla- tone anche  all'anima.  Ma  Platone,  che   è  un    animista,   cioè   am- mette una  sostanza  anima,  un  suhstrati^m,  distinta  dalle   sue   mo- dificazioni, non  può  applicare  questo  precesso  che  alle  modificazioni dell'anima,  ma  non  al  loro  sttbstrattnn  :  egli  non  affermerebbe  evi- dentemente che  questo  si  conserva,  come  il  corpo,  per  un  ricambio di  sostanza,  per  cui  alle  molecole  vecchie  se  ne  sostituiscono  altre simili.  Le  parole  e  tutto  le  altre  cose   alludono   dunque   alle   cono- scenze, le  abitudini,  i  costumi,  ecc.,  di  cui  sopra  ha  parlato,  in  una parola  alle  modificazioni  dell'anima,  ma  non  possono  alludere  all'a- nima stessa.  Ciò  è  confermato  dalle  ultime  parole immortale  al' trimenti,  oì^\:  devono  intendersi  come  una  riserva  in  favore  dell'a- nima (Invece  di  àOavaiov   V&XXxi  —l'immortale  altrimenti—,  Teichmiiller  legge  àSóvaxov   S'dcXXiQ— impossibile  altrimenti—;  ma è  la  prima  lezione  che  si  trova  in  quasi  tutti  i  codici). Poi  Socrate  dice  (parlando  della  contemplazione  dell'  Idea  del bello  come  fine  dell'amore)  che  chi  guarda  il  Bello  con  quell'occhio con  cui  esso  è  visibile,  diviene  "  anch'egli,  se  altro  uomo  mai,  im- mortate.  Ciò  significherà,  pel  seguace  dell'interpretazione hegeliana,  che  l'immortalità  platonica  consiste    nella   contempla'  pòggio  certe  proposizioni  costanti  di  Platone,  ì^nali  Taf- zione  del  mondo  ideale,  cioè  nella  identiticazione  dello  spirito  con esso;  e  per  confermare  questo  significato,  egli  potrà  anche  fondarsi sulla  proposizione  precedente  di  Socrate  che  l'amore  è  il#desiderio dell'immortalità,  concludendone  che,  poiché  Platone  assegna come  fine  all'amore  ora  l'immortalità  e  ora  la  contemplazione  del- l'Idea,  queste   due   cose    per   lui  devono  essere    identiche.    Ma   il desiderio  dell'immortalità  in  cui  Platone  fa  consistere  l'amore,  viene appagato  per  Jui,  non  con  la  contemplazione   dell'  Idea  del  bellot ma,  per  quelli    che    sono    fecondi   nel   corpo,  con  la    generazione,  e  per  quelli  che  sono  fecondi  nello  spirito,  con la  perpetuazione  del  pensiero  mediante  la  tradizione  e  l'  insegnamento,  Del  resto,  dicendo  ohe  chi  comtempla  l'Idea  del  bello diviene  immortale,  Socrate  non  afferma  che  l'immortalità  consiste nella    contemplazione  dell'Idea,  ma  che  ne  è  una  conseguenza;  eia ragione   per    cui   ne   è    una    conseguenza,    basta  a  provare    che l'immortalità  di  cui  si  tratta  non  ó  che  quella  insegnata  dalla  re- ligione :  chi  guarda  l'Idea  del  bello,  dice  Socrate,  siccome  si  mette in  rapporto  col  vero  bello,  e  non  con  immagini  del  bello,  partorirà e  alimenterà  la  vera  virtù,  e    non  delle  immagini  della   virtù,   e perciò  diverrà  amico  di  Dio,  e  immortale,  se  altro  uomo  mai,  anche lui.  K  vero  però  che  l'immortalità  accordata  a  chi  contempla l'Idea  del  bello  non  può  essere  l'immortalità   nel   senso   ordinario, perchè  questa  non  è  un  favore  che  dio   d  s pensa    a   chi  gli    piace» né  un  premio  concesso  ai  soli  virtuosi,  ma  una  necessità  inerente alla  natura  stessa  dell'anima  (che  deve  essere  senza  comi nciamento e  senza  fine,  perchè  né   potrebbe,  come  ogni  altra    cosa,  crearsi  o annichilarsi,  e  nemmeno  venire  da  qualche  forma  della  materia  o tramutarsi     in  essa,   essendo  radicalmente  distinta  dalla  materia) P«r  quest'immortalità,  che  è  il  privilegio  di  pochi  eletti,  non  possiamo intendere  che  l'esenzione  dalla  metempsicosi  e  la  deificazione,  che il  Fedone  promette  ai  soli  filosofi,  e    il    Timeo    a tutti  gli  uomini  che  hanno  domato  le  passioni  e  sono  vissuti  nella giustizia   .  GÌ'  Indiani    chiamano   anch'  essi   immortalità (amrita)  lo  stato  di  felicità  a  cui  giungono  i  santi   perfetti,  in  cui l'anima  è  liberata  completamente  dal  male  ed  esente  da  trasmigra-zioni susseguenti  (V.  (;olebrooke  ^agyisuUu  /»7os.  dtujV ImU  trad.  frauQ, pag.  234). finità  dell'anima  con  le  Idee  (1)  (ch'egli  interpreterà  per un'identità  di  natura)  ,  e  l'immortalità  accordata  alla Fedone  78  b-80  b  e  Reiì,  49o  b  e  611  e,   3/a  per  Platone  essa  non  è  invece  che  una  vaga  analogia.  Nel Fedone  i  punti  di  somiglianza  delPanima  con  le  Idee  che  provano quest'affinità  sono:  l*"  L'anima  è  invisibile  come  le  Idee,  mentre  il  corpo  é visibile.   Quando  l'anima  considera  le  cose  col  corpo,  cioè  per  mezzo dei  sensi,  il  corpo  la  costringe  a  prendere  per  oggetto  le  cose  che  non sono  mai  le  stesse  :  allora  «  vaga  essa  stessa,  si  conturba  e  barcolla  come ubbriaca  »,  perchè  tali  sono  le  cose  con  cui  é.  in  rapporto.  Quando  invece considera  le  cose  per  se   stessa  (aOiT]  xaG'aOxi^v),   prende  per   oggetto cloche  è  sempre  allo  stesso  modo  ((baaóxot)^  ^X^^)?  ^  allota  cessa  dal vagare,  ed  è  relativamente  a  quest'oggetto  (cioè  alle  Idee)  sempre  la stessa  e  allo  stesso  modo  (àei  xaxà  xaOxà  x ai  woaùxwg),  perchè  tali sono  le  cose  con  cui  è  in  rapporto;  e  questo  stato  deiranima  si  chiama intelligenza.  Dunque  l'a^iima  somiglia  più  a  ciò  che  è  sempre  allo  stesso modo  (woauxCDg  cioè  alle  Idee),  e  il  corpo  a  ciò  che  cangia  sempre. (Siccome  in  questo  luogo  vengono  applicate  all'anima  delle  espressioni  che per  il solito  si  applicano  alle  Idee,    aùxYj  xaG'aOxT^v,  xaxà  xaOxa,  ó)- aaÙXCD^,  Il  seguace  dell'interpretazione  hegeliana  potrà  dire  che  qui  l'ani, ma  è  identificata  alle  Idee,  perchè,  nella  conoscenza  fìlosofica,  il  soggetto conoscente  s'identifica,  per  Platone,  con  l'oggetto  conosciuto.  Ma  è  evidente che  non  si  tratta  d'altro  che  dell'opposizione,  abituale  a  Platone   v,  c^ Vii.  p.  15o-tra  la  mutabilità  deiropiiiione che  ha  per  oggetto  le  cose sensibili,  quelle  che  l'anima  considera  col  corpo  e  1'  immutabiUtà  della scienza— che  ha  per  oggetto  le  Idee,  le  cose  che  Tanima  considera  per  se stessa:  l'espressione  desi  xaxà  xaùxòc  xai  woaùxtog  applicata  all'ani- ma significa  questa  specie  d'immutabilità,  che  ha,  secondo  Platone,  dell'af- finità con  l'immutabilità  assoluta  che  è  propria  delle  Idee iu  quanto  ad aÙXTj  xaG'aOxr^V,  ne  abbiamo  già  parlato  in  una  nota  precedente  — ). 30  Nell'associazione  dell'anima  col  corpo,  quella  comanda  e  questo  ubbidisce, Ma  é  proprio  del  divino  (in  cui  Platone comprende,  come  sappiamo,  le Idee)  di  dominare,  e  del  mortale  di  essere  dominato.  Dunque  l'anima  somi- gha  più  al  divino,  e  il  corpo  al  mortale— Oltre  a  questi  tre  punti  di  somi- glianza  tra  l'anima  e  le  Idee,  Platone  accenna  anche  a  un  altro  indizio  della fiola  parte  razionale,  (donde  concludrrà  che,  poiché la  ragione  è  universale  o  impersonale,  Timmortalità appartiene,  non  airanima  individuale,  ma  all'essenza comune  deiranima),  e  sovratutto  certe  dottrine  erronea- mente attribuitegli,  quali  Tidentità  di  Dio  o  della  Ragione con  le  Idee  (per  dimostrare  la  quale  si  servirà  natural- mente degli  stessi  argomenti  dell'interprete  teistico,  per quanto  non  sono  incompatibili  con  T  immanenza  dello Idee)  (3),  la  composizione  dell'  anima  da  tutte  le  Id^e (nel  Zm^o intendendo  per  Vissenza  indivisibile  e  per lo  stesso  le  Idee  nella  loro  totalità),  e  la  proposizione che  Tanima  è  il  luogo  delle  specie,  riferitaci  da  Aristo- tile, e  attribuita,  anche  da  qualche  suo  commentatore,  ai  platonici.  Infine,  egli  potrà  avvalersi  di certe  espressioni  del  nostro  filosofo,  che,  prese  per  se sole  e  interpretate  d'una  maniera  rigidamente  letterale, sembrerebbero  supporre  la  dottrina  eh'  egli  pretende  attero affinità:  è  la  tendenza  innata  dell'anima  alla  conoscenza  dell'universale cioè  delle  Idee  (v.  Fedo,  79  d  e  Jiep,  49o  b  e  61j  e).  Questa  indica  che  è affine  con  esse,  secondo  il  principio  che  il  simile  si   conosce   dal   similSuppl. Perchè  il  seguace  deirinterpretazione  hegeliana  trova  cosi  semplice che,  tra  le  facoltà  dell'anima,  la  sola  ragione  Mia  unirtnmile  ?  Unicamente perchè  é  la  dottrina  di Hegel  e  di  alcuni  altri  metafìsici.  È  evidente  che una  ragione  universale  (cioè  una  e  la  stessa  in  tutti  gli  uomini)  è  un non  senso  cosi  perfetto  che  un'immaginazione  o  una  sensibilità  o  un'emozio- nalità, ecc.  unh'ersali.  Semplicemente,  alcun  metafìsico  non  ha  mai  parlato di  queste. Cfr.  il  n.  IT. Suppl.  Filopono  ad  Arist.  De  An.  lib.  I  fol.  K,  U. C6)  Cfr,  il  n.  II,  e,  doó trìbuirgli,  quali  il  termine  Xòyo'.  (concetti)  applicato  alle Idee  nel Fedone,  la  frase  dello  stesso  dialogo,  in  cui  si  dice  che  noi  troviamo  Tesssenza  (cioè acquistiamo  la  conoscenza  delle  Idee)  perché  è  no- stra,  e  i  termini  che  in  senso  tecnico  indicano  la partecipazione  degli  oggetti  individuali  alle  Idee,  impie- gati qualche  volta  per  denotare  il  rapporto  che  ha  con esse  il  soggetto  conoscente.  Ma  è  evidente  che  non sono  queste  le  vere  ragioni  su  cui  si  fonda  la  sua  in- terpretazione. La  vera  ragione  è  che  egli  ritiene  che  un sistema  come  quello  di  Platone  non    si  comprende   che in  cui  questo  luogo  è  riportato  per in  tero. Se  esistono  il  Bello,  il  Buono  e  ogni  essenza  tale,  e  ad  essa riferiamo  gli  oggetti  percepiti  dai  sensi,  ad  essa  che  prima  ci  era  presente e  che  ritroviamo  essendo  nostra  (Onap/ODoav  Tipóiepov  àvsDpCoxov- XSg  l?j|isxépav  ouoav)....la  nostra  anima  esisteva  prima  della  nostra  na- scita ».  Naturalmente  la  frase  in  quistione  non  significa  che  la  remini- scenza :  l'essenza  è  detta  nostra^  perchè  prima  ci  era  presente^  perchè l'anima,  nel  suo  stato  originario,  ne  godeva  come  di  cosa  propria,  ne  aveva Tintuito  permanente. (3)  Sof.  248  a:  col  corpo  noi  comunicare  (  xoiVtóVStv  )  con  la  ge- nesi, con  Tanima  per  la  ragione  eon  l'essenza  reale.  Rep,  486  e  :  l'anima cìità^ve  partecipare  (nexaXr/lsoOat)  sufficientemente  e  perfettamente dell'essere.  Ihi4 :  le  altre  arti  (le  matematiche)  che  abbiamo  detto  parr^;- cipate  (èiltXa»l3dv«a9at)  in  qualche  modo  all'essere.  Tim.z^  b:  U  sole  fu creatoafTìnchè  gli  animali  a  cui  ciò  convenisse  partecipassero  (jiSldaxoO del  numero Tutto  ciò  che  può  cDncludersi  da  questi  luoghi  è  che  Platone non  impiega  sempre  i  termini  in  quislione  nel  senso  tecnico.  Quando  dice nel  Fedro che  ciascun'anima  imita  il  carattere  del  dio  di  cui  è stata  al  seguito  «per  quanto  l'uomo  può  partecipare  (  pLSXaax^rv  )  di dio  »,  possiamo  noi  intendere  :  per  quanto  dio  può  esistere  nell'  uomo come  un  suo  attributo  o  come  un  suo  pensiero  ? ^9 -  »  >J -1 per  analogìa  a  quello  di  Hegel col  quate  effettivamente ha  una  stretta  affioità,  e  perciò  crede  necessario  di  pre- stare al  primo  i  concetti  propri  del  secondo.  Ma  dopo ciò  che  abbiamo  detto  nel  capitolo  ci  sarà  f^ci'e  di mostrare  che  il  s'stema  platonico,  non  solo  si  comprende senza  i  concetti  hegeliana,  ma  si  comprende  anche  me- glio, ed  é  con  essi  che  sarebbe  invece  diffìcile  a  com- prendere. L'opinione  che  le  Idee  platoniche  sono  pensieri  si deve  certamente,  oltre  che  airintiuenza  delT  interpreta- zione teistica,  a  un'inferenza  dal  sistema  hegeliano,  in cui  la  realtà  degli  universali  è  presentata  come  una conseguenza  deiridentità  dell'essere  e  del  pensiero  (vi hanno  dei  pensieri  generali,  dunque,  il  pensiero  essendo identico  all'essere,  questi  pensieri  generali  sono  pure degli  esseri  generali).  Da  ciò  si  conclude  che  la  prima delle  due  dottrine  è  logicamente  connessa  con  la  seconda, e  che  perciò,  trovandosi  in  Plafone  l'una,  deve  trovarsi in  lui  anche  l'altra.  Ma  questa  ccnclasìone  è  evidente- mente affrettata.  Noi  abbiamo  visto  nel  capitolo  VII  eh'*, a  lato  dei  si-^temi  di  Schelling  e  di  Hegel,  in  cui  gli  a- stratti  sono  riguardati  al  tempo  stesso  come  delle  realtàe  come  dei  pensieri,  vi  hanno  aliri  sistemi  realisti,  quali quelli  di  Spinoza  e  di  Taine  (senza  contare  i  realisti scolastici),  in  cui  essi  sono  riguardati  unicamente  come realià,  cioè  come  entità  puramente  oggettive.  La  storia del  realismo  ci  prova  dunque  che  esso  è  indipendente da'la  dottrina  dell'identità  dell'essere  e  del  pensiero.  Ciò è  confermato  dall'cFame  dei  motivi  di  questa  forma  di metafisica.  La  lealizzazione  degli  universali,  unita  al merodo  d-alettico  (nel  senso  che  noi  diamo  a  questo  ter- mine qaando  parliamo  di  realisvio  dialettico),  ha  per iscopo,  come  sappiamo,  di  trasformare  il  rapporto  logico tra  princìpio  e  conseguenza  nel  rapporto  ontologico  tra causa  ed  effetto,  per  ottenere   una    nuova   applicazione d^l  concetto  di  causalità  efficiente.    Questo  scopo   esige che  le  astrazioni,  tra  cui  il  metodo  dialettico   introduce il  rapporto  di   principii    e    conseguenze,    si   considerino come  realtà,  ma  non  che  si  considerino  al  tempo  stesso come  pensieri.  A  questa  sp-egazione   del   mondo   a   cui mira  il  realismo  dialettico,  upì  sistemi  di  Schelling  e  di Hegel  se  ne  aggiunge  un'altra  indipendente  da  essa,  e che  può  riguardarsi  come  una   varietà   della   metafisica istintiva  del  nostro  spìrito  (cioè  quella  che  è  l'applicazione spontanea  e  immediata  del concetto di   causalità   efficiente) :  è  la  spiegazione  idealista,  cioè  l'attività  immanente del  pensiero  elevata  a  tipo   universale    del   modo essenziale  di  produzione   dei   fenomeni.   La spiegazione idealista  suppone  che  le  cose  siano  riguardate  come  rap- presentazioni; e,  perchè  questa  spiegazione  sia  compati- bile col  realismo,  bisogna  che  si  vedano  nelle  cose  delle rappresentazioni  permanenti    di  uno  spirito  eterno  ed  uni- versale, in  modo  che  la  loro  qualità  di  rappresentazioni si  concilii  in  qualche  modo  con  la  loro  obbiettività.  Al- lora si  ha  l'idealismo  obbiettivo.  L'idealismo  obbiettivo è  dunque  un'  applicazione, non solo del concetto    di causalità  efficiente  (in  quanto  eleva  l'attività  del  pensiero a  tipo  universale  di  causazione),  ma  anche  di  quello  di cosa  in  sé  :  il  presupposto  da  cui  esso  parte,  cioè  che  le cose  sono  delle  rappresentazioni  peraianenti  di  uno  spi- rito eterno  ed  universale,  ha  infatti  per  oggetto  di  conciliare il  risultato  della  riflessione  filosofica  che  le  cose sono  rappresentazioni  (nel  senso  lato  di    questa    parola che  comprende  anche  la  percezione), con    la    credenza naturale  del  genere  umano  che  esse   sono  degli  oggetti perma lenti  e  di  una  realtà  assolata, cioè    indipendente dal  sogrgetto  percepente. Quando il seguace dell'  intee- pretazione  hegeliana  attribuisce  a   Platone la   dottrina che  le  Idee  sono  pensieri,  gli  attribuisce  anche  implici- tamente questa  dottrina  sulla  cosa  in  sé  che  è  il  presup- posto della  spiegazione  idealista  (nel  senso  proprio  della parola  idealismo,  m  cui  noi  naturalmente  non  Tappi iche- remmo  al  sistema  platonico  delle  Idee). Ma,  mentre  nella filosofia  antfca  vediamo  rappresrhtati  tutti  i  tipi  di  rre- tafisica  relativi  al  semplice  concetto   di    causa  efficiente (le  tre  prime  forme  dell'antropomorfismo  di  cui  abbiamo parlato  nel  cap.  2«,  Tapriorismo,  il  realismo  dialettico), noi  non  vi  troviamo  invece  né  questa   né   alcuna   delle altre  dottrine  relative  a  quello  di  cosa  in  sé.  È  cosi  vano di  cercare  nella  filosofia  greca  l' idealismo  obbiettivo  (o la  dottrina  che  abbiamo  detto    esserne   il presupposto) come  lo  sarebbe  di  cercarvi  il   panpsichismo   o   la   dottrina delle  monadi  (nel  senso  non  leibnizinno, cioè   di sostanze  o  forze  semplici  e  inestesp,  ma  diff'erenti    dallo spirito).  Ciò  è  perchè   la    riflessione   scientifica   nnn   ha distrutto  ancora,  nel  mondo  antico,  il  concetto   sponta neo  della  cosa,  che  non  é  che  l'otbiettivazionc  delle  no- stre sensazoni.  In  tutti  i  filosofi  antichi,  in  generale,  e senz'alcuna  eccezir ne,  noi  non  troviamo  che  il  realismo vafura/e,  e  non  mai  ii  realismo  /ra^/brma/o  :  nella  sop- pressione  d^lle  qualità  sensibili  nessuno  é  andato  mai  al di  là  degli  rtrmisti,    e    la    più   parte    non    giungevano nemmeno  sin  là.  L'idealismo  obbiettivo, come   tutte   le altre  dottrine  metafisiche  relative  alla  cosa  in  sé,  non  si concepisce  che  nella  filosofia  moderna,  perchè    suppone questo  punto  di  vis'a  che  si  è  imposto    mano    mano   al pensiero  moderno,  sino  a  diventare  un    luogo    comune che  le  cose,  quali  noi  le  percepiamo,  non    esistono    che per  la  percezione  e   nella   percezione.   Uno   del   fonda- menti dello  scetticismo  antico  è,  è  vero,  il  dubbio  sulla realtà  obbiettiva:  ma  per  cercare  di  conciliare  la  rela- tività del  mondo  esteriore  al  soggetto  conoscente  con  la sua  obbiettività,  come  fa  l'idealismo  obbiettivo,  o  sosti- tuire, come  fa  il  rr^alisuo  trasformata,  alla  realtà  sen- sibile un'altra  realtà  superiore  ai  sensi,  conoscibile 0  inconoscibile,  non  basta  ii  semplice  dubbio  sulla realtà  assolata  degli  oggetti  quali  noi  li  percepiamo, ma  è  necessario  che  si  ammetta  già,  come  una  ve- rità incontestabile,  che  essi,  come  tali,  non  esistono che  per  la  percezione,  e  non  sono  che  relativi  al soggetto  conoscente.  Certamente  la  relatività  dell'oggetto al  soggetto  percepente,  come  proposizione  dogmatica, non  è  completamente  straniera  alla  filosofia  greca  :  noi la  troviamo,  prima  dello  stesso  Platone,  nella  tesi  di Protagora,  di  cui  è  evidentemente  la  base,  che  l'uomo  è la  misura  di  tutte  le  cose,  e  che  la  verità  è  ciò  che  pare a  ciascuno  che  sia.  Ma la tesi di  Protagora,  che  d’altronde non  sembra  aver  laFciato  molti  proseliti,  ci mostra,  per  la  sua  esorbitanza  stessa,  questo  carattere sofistico,  nel  senso  moderno  della  parola,  vale  a  dire questa  assenza  evidente  di  sincerità  r2),  che  vediamo generalmente  nelle  proposizioni  gnoseologiche  dei  Sofisti (quali,  oltre  questa  di  Protagora,  quel'a  di LEONZIO (vedasi)  che non  vi  ha  niente,  o  se  vi  ha  qualche  cosa,  è  incono- 8  -ibile,  o  almeno  inesprimibile,  quella  di  Eutidemo  che ogni  attributo  conviene  egualmente  ad  ogni  soggetto, quella  di  Licofrone che  non  ammette  alcuna  unione Platone  Teeteto  Arist.  MeL  Platone  Cratilo V.  Aritt.  Phys.  1.  I.  II.  15. r*!-^ ^SSSSsSaà Bammmmm demmmm^SÈm ^>«iiBMi»a^— i^flaafca— i^wgBiMM di  un  soggetto  con  tin  predicato,  perchè  Tuno  non  può essere  molti,  ecc.).  Noi  ci  spif^ghiamo,  del  resto,  perfet- tamente perchè  la  filosofia  antica  non  abbia  mai  oltre- passato, in  sostanza,  il  realismo  naturale:  la  dottrina della  subbiettività  di  tutti  i  dati  dei  nostri  sensi  non  ha potuto  stabilirsi  nella  filosofia  moderna,  che  perchè  èia conseguenza  inevitabile  del  concetto scientifico  moderno della  materia  (semplice  ipotesi  di  alcuni  filosofi  nelPan- tichità),  che  la  spoglia  delle  qualità  secondarie,  la  sub- biettività di  queste  trascinando  necessariamente  quella delle  qualità  primarie,  che  divengono,  senza  di  esse, assolutamente  irrappresentabili. Ma,  accordato  anche  che  Platone  abbia  potuto  ammettere la  dottrina  che  le  Idee  sono  pensieri,  e  quindi pure  quella,  che  vi  è  implicata,  che  le  cose  sono  rap- presentazioni, resterebbe  a  mostrare  air  interpretazione hegeliana  come  essa  possa  conciliarsi,  negli  altri  punti, con  la  dialettica  platonica.  Essa  non  attribuisce  sempli- cemente a  Platone  la  dottrina  che  le  Idee  sono  pensieri, e  l'altra  che,  nella  conoscenza  filosofica,  il  nostro  pen- siero s'identifica  con  le  Idee,  ma  quella  dell'identità  del soggetto  e  dell'oggetto,  cioè  che  è  il  nostro  spirito,  nella sua  essenza,  e  non  solamente  il  nostro  pensiero  specu- lativo, che  s'identifica  con  l'universo,  nella  sua  essenza, vale  a  dire  con  la  totalità  del  mondo  ideale.  Per  distin- guere questa  terza  dottrina  dalla  feconda,  noi  suppor- remo che  Platone  ammetta  realmente  che  le  Idee  Fono pensieri  e  che,  nell'atto  della  conoscenza  filosofica,  questi pensieri  sono  presenti  immediatamente  al  nostro spirito. V.  questo  volume  Appendice  alla  parte  i,  il  Saggio di G. ,  e  il  stwdio di G. sMÌÌdi  Dottrina  di  Rosmini  suWes- senza  della  materia  fase.  1°  la  nota  a  pag.  15. cioè  noi  ne  abbiamo  coscienza.  S'egli  non  ammettesse  che ciò,  siccome  questi  pensieri,  quantunque,  nella  conoscenza filosofica,  entrerebbero  a  far  parte  della  nostra  coscienza, esisterebbero  per  se  stessi  indipendentemente    dalla  nostra   coscienza,  come,  nell'  ipotesi  della  percezione immediata, gli  aggetti  e.-terioii,  quantunque,  nell'atto  della percezione,  siano  percezioni  nottre,  esistono  per  se  stessi indipendentemente  dalla  nostra  percezione:  cosi  in  questa dottrina  che  supponiamo  ammessa  da  Platone,  piuttosto che  l'identità  dell'essere  e  del  pensiero,    dovremmo vedere una  forma  deir  intuizione razionale,   nella    quale come  nella  visione  in  Dio  dì    iMah  branche,   gli    oggetti intuiti,  invece  che  delle  realtà  puramente  obbiettive*!  sarebbero  dei  pensieri.  Ma  che  si  accordi  o  no  chela  dot- trina di  Platone,  in  questo  caso,  sarebbe  suscettibile  di essere  chiamata  identità  dellVs  ere  e  del   pensiero   (dei noHtro  pensiero),  ciò  che  è  certo  è  che  non  potrebbe  af- fatto chiamarsi  identità  del  soggetto  e  dell'  oggetto,   né potrebbe  vedersi  simboleggiata  nell'eternità  dell'anima, perchè  ciò  che   s'identificherebbe  con  l'oggetto  e  che  si eternerebbe  non  sarebbe  iUoggetto  stesso,  cicè  lo  spirito nella  sua  essenza,  ma  un  suo  atto  o  fenomeno   particolare,  il  pensiero  filosofico.  Per  poter  attribuire  a  Platone l'identità  del  soggetto  e  dell’oggetto  e interpretare   la ^ua dottrina dell' immortalità  dell'anima  come  1' eter- nanM del    pensiero   nella   conoscenza   filsofica,   sarebbe dunque  necessario ch'egli  avesse  ammesso,  non  solo  che le  Idee  sene  pensieri  e  che    questi  pensieri  divengono, nella  conoscenza  filosofica,  pensieri no.^tri,    ma    ancora che  la  conoscenza  filosofica  costituisce  l'essenza  del  no- stro  spirito,  e   che    questa    essenza    del    nostro    spirito è    identica    all'csseiza    d(  ir  universo,  cioè   a  ciò   che vi  ha  in  questo  di  costante  e  di  generale    (vale   a  dire che  nella  conoscenza  filosofica  egli   avrebbe   dovuto  riguardare  come  essenza  del  nostro  spirito,  non  semplice- mente, come  potrebbe  supporsi,  la  coscienza  o  intuizione che  abbiamo  delle  Idee,  ma  anche  le  Idee  stesse  che  in- tuiamo o  di  cui  abbiamo  coscienza).  E  evidente  che  que- ste due  proposizioni  sarebbero  considerate  da  tutti  come delle  assurdità  impossibili  a  trovarsi  in  un  fìlosofo  qual- siasi, e  che  nessuno  ardirebbe  di  attribuirle  a  Platone, se  non  si  sapesse  che  sono  state  insegnate  da  Hegel  e dal  suo  predecessore  Schelling.  Ma,  per  attribuirle  a Platone,  bisogna  vedere  se  queste  proposizioni,  che nei  due  sistemi  tedeschi  hanno  un  significato  per quanto  può  dirsi  di  una  proposizione  metafìsica  che  ha un  significato,  possono  averne  ancora  uno  nel  sistema platonico. In  Hegel  la  conoscenza  filosofica  può  costi- tuire l'essenza  dello  spirito,  perchè  essa  è  nel  suo  sistema il  termine  ultimo  della  s-rie  di  Idee  che  cesti tuiscono  lo spirito,  e  nel  termine  ultimo  di  una  serie,  secondo  uno dei  principi!  della  sua  dialettica,  anzi  in  generale  d'ogni dialettica  (nel  nostro  senso),  si  ritrovano  tutti  gli  altri termini  della  serie  stessa.  Qassta  essenza  dello  spirito poi  piò  iìeotifica-si  on  l'essenza  di  tutto  V  universo cioè  con  tutto  il  mondo  ideale,  perchè  V  ultimo  termine della  serie  d'Idee  che  costituiscono  la  sfera  dello  spirito, è  pure,  secondo  Hegel,  l'ultimo  termine  della  serie  to- tale delle  Idee,  e  deve  quindi,  per  il  principio  dialettico poc'anzi  invocato,  comprendere  in  fé  tutto  il  resto  del mondo  ideale.  Si  pretende  che  anche  per  Platone  la  co- noscenza filosofica  è  r  ultimo  momento  dello  sviluppo dello  spirito  e  di  quello  di  tutto  l'universo  (questo  svi- luppo dobbiamo  intenderlo  nel  senso  hegeliano,  cioè  co- me una  successione  di  termini,  procedenti  l'uno  dall'al- tro, e  la  cui  processione e successione   non   sono    che logiche).  Ma  bisogna  vedere  se  queste  parole  ultimo  mo- mento dello  sviluppo  dello  spirito  e  ultimo  momento  dello sviluppo  deir universo co\  sottinteso  che   1'  ultimo    mo- mento dello  sviluppo  dello  spirito  deve  comprendere  tutti gli  altri  momenti  dello  spirito,  e  l'ultimo  momento  dello sviluppo  dell'universo  tutti  gli  altri    momenti    dell'uni- verso, cioè  tutte  le  altre    Idee    che   costituiscono, con esso,  l'Idea  assoluta bisogna   vedere,    dico, se   queste parole  hanno  ancora  un  senso,  trasportate    dal   sistema di  Hegel  a  quello  di  Platone.  Nella  dialettica  di  Platone, come  in  quella  di  Hegel,  ueirultimo  termine  d'una  serie devono  ritrovarsi  tutti  i  t(rmini  precedenti  della  serie stessa:  ma  può,  nella  dinlettica  di  Piatene,  esservi,  co- me in  quella  di  Hegel,  per  tutta  una  sezione  del  mondo ideale  (p.  e.  lo  spirito,  l'organismo,   ecc.)    un   termine finale  unico,  in  cui  si  ritrovico  tutte   le   altri    parti   di questa  sezione  ?  e  per  tutto  il  mondo  ideale  nel  suo  in- sieme, un  altro  termine  finale  unico,  in  cui  si  ritrovino tutte  le  altre  parti  del  mondo  ideale,  cicè  tutte  le  altre Idee  che  costituiscono,  con  esso,  il  sistema  totale    delle Idee  ?  Questo  é  possibile  nella  dialettica  hegeliana,  per- chè secondo  essa  vi  ha,  nello  sviluppo  delle  Idee, oltre a  un  movimento  di  espansione,  per  cui  le  Idee  si  scindono e  si  moHiplicano  (passaggio  dalla  tesi  all'antitesi), un    movimento  susseguente  di  concentrazione, per  cui ritornano  all'unità  (passaggio  dalla  tesi  e  l'antitesi  alla sintesi).  Ma  nella  dialettica  platonica   i  on   è    possibile, perchè  in  essa  le  Idee  non  si  sviluppano  che  dividendosi; il  movimento  è  sempre  di  scissione,  e  non  \i  la  mai  i movimento  contrario,  cioè  il  ritorno  all'unità.   Alla  fine dello  sviluppo  di  una  sezion  e  del  mondo  ideale,  o del mondo  ideale  nel  suo  insiem**,  non  vi  ha  cosi,  per    Pla- tone, un  termine  unico,  ma  una  moltiplicità  di    termini ri distinti  e  separati:  Tunità  non  esiste  che  al  puitto  di partenza  dell'evoluzione,  questa  consiste  in  una  molti- plicazione progressiva,  e  al  ponto  d'arrivo  la  moltipli- cità  è  massima.  AlFultìmo  momento  dello  sviluppo  dello spirito  non  possiamo  dunque  trovare,  nella  dialettica platonica,  che  le  Specie  ultime  dello  spirito,  o,  se  essa si  applica,  non  allo  spirito  stesso,  ma  alle  sue  attività^ le  Specie  ultime  dei  fenomeni  dello  spirito.  Che  si  tratti di una sezione del mondo ideale o di tutto il mondo ideale nel suo complesso, il termine unico che comprende tutti gli altri non può essere per Platone che il più astratto di tutti, e non può comprenderli che virtualmente: i termini più concreti, anche nel senso hegeliano, più ricchi di determioazion', sono i più  parti- colari, e  questi  non  possono  comprendere  che  quelli  di più  in  più  generali  a  cui  sono  subordinati.  L'  Assoluto, che  comprende  ogni  cosa  e  in  cui  tutti  i  contrari  si  uni- ficano, non  potrebbe  essere  duuqu»*,  nel  sistema  di  Pla- tone, che  ridea  più  astratta,  la  più  povera  di  determi- nazioni e,  per  dir  ersi,  la  meno  attuale  di  tutte,  cioè quella  del  Bene  o  deirEsscre.  Se,  per  una  me  talora  ar- dita, chiamiamo  quest'Assoluto  Dio  (come  del  resto  ha fatto  lo  stesso  Platone),  noi  possiamo  dire,  applicando una  locuzione  di  Schellii'g  (I),  che  vi  ha  nel  sistema platonico  il  Deus  iwplicitus^  ma  n^n  il  Deus  ixplicitus. Sfar,  della  flos,  alcm,  ecc. che  riempisce Ir  teoria vengono  considerate del  primo  caso del  secondo  caso in  quest'ultimo  caso t.  II il  posto  determinato pag.  9,  nota,  lin.  4 incompatibile  non  quello  inc«mpatibile  con  quello che  riempisse la  lesi vengonn  considerati del  secondo  caso l.  4 del  primo  caso 1.  5 in  questo  primo  caso il  posto  determinati p.  34  I.  20-21 (e  non  semplicemente  che  se  ne    dal  primo (e   non  semplicemente tf  educe)  dal  primo,  che  se  ne    deduce), p.  44  n.  2 R  tre  gravi  spposizioni  a  tre  gravi  opposizioni le  necessitìi  la  necessità, dobbiamo    sforzarvi  dobbiamo  sforzarci p.  79    l.  5 quali  forme  viventi  quali  forze  viventi n.  5 il  luogo    che   riporteremo   nella    luogo    che    riporteremo    in    una nota,....  nota  seguente. (noi  diremo  asiratti)  (noi  diremmo  astratti) gli  assiomi  gli  assiomi delle  prime p.  89,  nota,  1.  25 e  preceduto p.  9J,  testo,  1.  terzult. —si  noti  l'analogia tìCiO    gli  appartiene   in  non  im-    esso   gli    appartiene    in    non    im- porta p.  degli  astratti ma  contemplato p.  J17  1.  6 di  fatti  più  particolari p.  129  1.  8-9 dei  fatti  generati n.  teoria  nominalista p.  149,  n.  1,1.7 luttociò  che  mi  sembra  più  valido    non  leggere  queste  parole senso  più  ristretto  senso  più  stretto p.  i:>9  1.  1 come  un'immaginazione  come  un'immagine ma  le  direzioni  opposte gli  oggetti  sensibili della  prima e  proceduto si  noti  l'analogia o    gli porta dagli  astratti contemplato di  fatti  particolari dei  fatti  generali 1).  358-862 teoria  nominalista ma  di  direzioni  opposte gli  oggetti  visibili (533  b-c) al  $  6^  n.  4° 505  d-e 77  ©-79  a Hep.  519  d I.  II.  VII.  7, in  pini,  prino. del  gradino in  phil  prim. p.  231,  1.  8-9 nel  gradino 1.  10-11  note /  éTtié?  elementi  delle  Idee  I  due  t-lementi^  A n.  2,  I.  1 Sof.  non  è  rappresentata 277  b-e l'esistenca AnaL  Post.  1.  I.  V.  6 le  Idee •rmine  di  dimoitrazione Idea  dal  genere V.  g  5°  n.  6^ paramento  dialettico S  5"  n.  4» Sof,  219  a-236  e p.  233,  n.  1,1.  1 264  e  o  seg. p.  244    1.  23 non  è  presentata p.  249,  note,  1. 1 277  b-o p.  253  1.    27 l'esistenza p.  257,  nota,  1.  13 Anal.  Posi,  1.  II.  V.  6 p.  258  1.  7 le  idee p.  259  1. 1-2 termine  dimostrazione p.  2(51   I.  6 Idea  del  genere p.  278  nota V.  §  l^-^  n.  6u p.  283  l.  4 puramente  deduttivo Met.  1.  V.  II.  1.  8 CatefU  1.  X.  2-5 An.  Pcst,  l.  I.  IX.  9 p.  286  n.   3 517  b-o  ' p.  300  1.  22-23 la  2>  parie p.  315,  note,  1. 1 iVW.  I.  V.  II.  1,  8 p.  317,  n.  1,  l.  1 Cate(f,  X.  2-5 n,  3,  1.  1 An.  Post,  1,  I.  II.  9 p.  318  1.  3 ma  anche  della  cosa  stessa  ma  cause  della  cosa  stessa p.  327,  n.  2,  1.2 Kth  End.  1.  I.  Vili.  1.  3  Elh,  End.   Met,  Mei.  danno  più  essere  hanno  più  essere p.  à34,  nota,  l.  ult. Sappi.  (C.  Ili)  Sappi. Il  principio  e  la  caasa  Il  principio  e  la  causa delle  entità  più  universali  dalle  entità  più  universali quintult. cioè  che  queste che  abbiano Episf. e  i  suoi  modi Eth. è  che  queste S24 «he  abbiamo Epist.  44 e  suoi  modi Eth,  p.  e  2. pag.  o  l'estensione a  uno  più  astratto dipendente naturare Dio  e  della  natura propteraque tutte  cose nota  pure rationis  es Schol.  pr.  29 dell'essenza  di  Dio la  conslantilieazione da  cui  le  forniamo abbiamo  per  causa l'una  il  fenomeno, nei  molti; realeà  distinte o  l'estensione) 1.  16 a  uno  stalo  più  astratt»^ p.  379,  n.  1,1.2 dipende p.  380,  n.  1,    1.    penult. naturae p.  383,  testo,  1.  penult. Dio  o  della  natura proptereaque tufle  le  cose 1.  7 nota  1  pure p.  392,  n.  3,1.2 rationis  est p.  394,  n.  J,  1.  1 Schol.,  Prop.  testo,    I.  quintult. dall'essenza  di  Dio la  sostantilicazione p.  41 i  I.  9 da  cui  le  formiamo l.  14 abbiano  per  causa p.  423  l.  4-r> l'una,  il  fenomeno, sestult. nei  molti^; p.  431,  nota,  1.  quartult. realtà  distinte p.  436,  nota,  1.  quintult. n.  2'  con  pag.  45-46 p.  438,  1.  1 dall'animale,  dall'essere  vivente    deiranimal<%  dell'essere  vivente —  3:}9  <XUHato  dice teinporanietà costituiscono App.  alla  p.  I  p.  II n«zione  astratta dì  molli  commenti nionimo Met.  quando  dice,  lin.  terzult. e  p.  441,  nota,  1.  3 temporaneità cosi  ituiscano App.  alla  p.  I,  p.  TI p.  448  1.  8 nozione  astratta p.  453  l.   24 di  molti  commenti p.  460,  nota,  l.   3 monismo p.  VII,  n.,  1.  1 Met^  che  ciò  che  non  esisteva  prima    che  ciò  che  è  nato    non   esisteva della  nascita  e  non  esisterà  prima  della  nascita  e  non  esi- plìi  è  nato  dopo  la  morte  sterà  più  dopo  la  morte Stob.  ult. dei  loro  sistemi De  Coelo  Phys.  Stob.  Ed. ult. Phys.  l.  II.  I.  i),  ecc. fiuereque 1.  7 ili.  2-4 ectirae Btof.  I.  4J4 del  loro  sistema J)t'  Coelo  1.  III.  3 Phtis,  l.  I.  VI Slnh,  Ed, « Pln/s,  ecc. fluireque lecticae n.  3 Pys.  Gen  et  corr.    l.      J'hys.  1.  1.  Vili,  Gen,    et   corr,   testo,  1.   terzult. nei  rapporti  di  spazio  nei  loro  rapporti  di  spazio i  domini  religiosi  i  dommi  religiosi l.  18 questi  domini  questi  dommi n.  1 Stab.  Ed,  '  Stob.  Ed, n.  2 Eth,  Eud. Plut.      Eth.  Eud.  1.  VII.  I.  11,    Plut.  De De  la,  et  Osir,  ap.  48  Is.  et  Osir Tutte  è  uno  Tutto  è  uno p.  Top.  Top.  percorso testo,  1.  penult. nella  varietà nota,  l.  8 secondo  Cratilo non  leggerlo p.  LIT  1.  20 conducesse  gli  Eleati  a  negare p.  LV  1.  6 o  movimento  senza  causa  o  del  morimenlo  senza  causa n.  2,  1.   3 <gli  Ebati)  (gli  Eleati) per  corso nelle  varietà secondo  Eraclito nel-cepirsi conducesse  a  negare Generanl,  et  cui  reni, sappone General,  el  corrupL 1.  quartalt. supporre p.  LXV,nota,  1.  jO la  sankyaf  la  i-aiscschiUa  la  sònUt/a^  la  coii'esiko note,  1.  terzult. Timeo  Arist.    De    Ooe-     Timeo,  Arist. Ita  Coclo lo  Nella  nuf^-esiìn' il  vedanta,  1.18 il  yògi Nelle   Ipcèiisadi 1.  7  e  8 stflra  testo,  1.  ult. esplicato fenomeni  mecoauici omogenea 1.  18 queste  proprietà In  questo  stato p.  CI  1.  20 della  concezione  meccanico  dettu  concezione  meccanica  1.  quiutult. la  nostra  asserzione  la  nostra  attenzione  l.ló-UJ giungendo  ai  ceatri  giungendo  ai  centri 1.  ult. il  trasporto  del a  il  trasporto  dell'onda si  forte  a  il  bisdgno  srte  è  il  bisogno Nella  voisesdiiha la  vedanta l'yogi Negli   Vpvnichad aotttra esplicito processi  meccanici omogea questa  proprietà n  questo  stato 1.  penult,    • »  un  certo  grado  della  cultura      a  un  grado  inferiore  dello  sviluppo della  cultura Darwin ha dato Darwin  ne  ha  dato rrilica    del    giudizio    paragf.  Crt7ic«  rftf/ r/é^/rf/iw   p.  ex 4-5 non  viventi  allora  non  viventi,  allora nota che  rassomiglia,  ai  che  rassomigli  ai terzult. notare  di  l'attitudine  potare  l'attitudine jiota ser.  1«  anno  ^er.  1  •  anno  L   IH l'analogia  dalle l'analogia  dello p.  CXL  I.  3-4 ed  avventizio;  la  materia  ed  avventizio,  la  materia    1.  J esistenza  presente la  sua  esistenza ult. l'uno  con  l'altro coi  cangiamenti  con  cui  coi  cangiamenti  anteriori  con  <;ui come  il  S.   Ambrogio  come  S.  Ambrogio dopo  esservi  riscaldato  dopo  di  esservi  riscaldato   1 ha  i  due  ordini  tra  i  due  ordini  suppongano  suppongono differenti  dell'animismo  differenti  dall'animismo rsistenza  poesente la  sua  esistenza l'uno  per  l'altro ci  trova ult. si  trova proMemi  fìsiologìci  problemi  biologici Tale,  in  effetto  Tal  è  in  effetto  riflettuta;  p.  e.  dall'acqua  riflettuta  p.  e.   dall'acqna l.  ult. vai(,*esika del  Fedoneconvenire,  come p.  ceni  della  ragione ammettersi,    come domandava:  Chi  hb,  di  essi    chi    che  domandava:  Chi,  sa  dirmi  chi sono  io  ? le  concezioni Cartesio 1.  4 sulla  sostanza l    8 in  ultima  analisi ult. è  immanente perchè  di  qualunque  cosa  perchè,  qualunque  cosa carta  5  pacr.  2.  1.  23 i  flutti,  la  spuma,  ecc.;  i  flutti,  la  spuma,  ecc., e.  6,  p.  2.,  n.    1 nelogismo  neologismo vaisechika di  Fedone convenire  come, detta  ragione «ammettersi  come nandava sono  io  ? le  concezioni, Carlerio nella  sostanza in  ottima  analisi è  immanante quando   eisi   designano  le  quando    essi   designano    le Idee, 1.  15 II.  I  termini n.  2 V.  num.  III e.  15,  p.  1.,  nota,  l.  1 defiotazione o.  17,  p.  1.,  note,  1.  1 Met.  terzult. Ad  aÙTÓ,  oLÒzò  xaO'aOxó, la  più  parte di  Aless.  Afrod. p.  2,  nota,  1.  4 e  questi  sonu  le  Idee e.  20,  p.  1,  testo nel  Filebo 1.8 non  da  capo proporzionata  alla  vista  proporzionato  alla  vista e.  24,  p.  1.,  1.8 ha,  ma  non  è  ha,  ma  non  è e.  25,  p.  1.,  testo,    1.  4 p'oggetto  l'oggetto nota,  1.  4 <lei  primi  indicati  dei  luoghi  indicati del  second,  diremo  del  secondo  diremo con  causa  concausa I.  Vili,  III.  5. :;  quan Idee  : 2",  I  termini V.  nota  III fi  t*toìì  azione Met.  Ad  aOxó,  xaO'aOxó, la  più  alparte di  Aless.  Aprod, e  questi  sono  Idee Rep.  nel  Fibbo È  perciò Cor. Siccome siccome e.    fi belli  e  in  tutti  gli  oggetti  non  leggere  queste  parole p.  2.,  l.  19 g'jvsjijjisvr^v e.  30,  p.  1.,  1.4 ciascuno  nuovamente  in  uno p.  2.,  I.  8-4 nel  bue,  ecc    è 1.  6 risoluzione e. il  grande  alesso,  ecc.) e.  è  precisamente  questa e. vengono  proposte o.  insomma 1.  quintult. coi  molti, e.  40,  p.  2.,  1.  13 generiche  e  le  speciiiche o. prima,  ma  presente 0.  45,  p.  1.,  1.    18 della  misura Jhid necessario p.  2.,  1.  3 di  un'Idea 1.  19 non  è   una    connessione   neces-    non  una    connessione    necessaria saria e.  51,  p.  2.,  nota,  1.  7 significa  al  tempo  stesso  significa  dunque  al  tempo    ste«<s<» nuovamente  in  uno nel  bue  è riduzione il  grande  stesao) e  precisamente  questa vengano  proposte insom- coi  molli, generiche  e  specifiche prima,  presente della  scienza  V Jbid.  1(B  e  segg. necestrario deiridea il  letture e  in  tale  nasce  ? nei  lunghi  citati il  lettore e.  65,  p.  2.,  testo,  1.  terzult. e  in  un  tale  nasce  ? e.  nei  luoghi  citati o.  57,  p.  2.,  1.  1 la  possessione  dell'attributo  ?   possedere  un  attributo  ? nota,  1.  2 (V.  IV.  3»  B)  (V.  V.  3°  B) e.  58,  p.  2.,  nota,  1.4-5 argomento  procedente  argomento  precedente o.  59,  p.  1.,  1. 1 Dunque  nelle  altre  Dunque  neUe  altre  cose p.  2.,  l.  3 né  uno  né  due  né  una  né  due o.se  fossero  simili  e  dissimili  se  fossero  simili  o  dissimili àixaXXexxéov  àTiaXXaxxéov o.  È  vero.  Affinchè  È  vero Affinchè queste  spiegazioni  queste  altre  spiegazioni e.  81,  p.  2.,  1.  12 a  un  soggetto  particolare  a  un  oggetto  particolare e. dalla  prova  dalle  prove ohe  indicano  i  rapporti  ohe  indicano  il  rapporto quintult, non  potrebbe  esistere  non  potrebbe  esistere  veramente pii  prezioso  nella  mescolanza     pi'i  prezioso  nella  mescolanza  (64c); (64o,  d,  65a)  ohe  esso  é  la  causa  della  bontà di  questa  mescolanza  o.  99,  p.  1.,  note,  1.  ult. III.  3,  4,  7, o.  KK),  p.  2.,  testo,  l.   quintult. Tuttavia  Platone  non  può un  mondo  di   Idee,   di  entità    a- stratte  e  generali e.  Tim.  27  d o.  109,  p.  1.,  l.  Il a  generalizzare Timeo  28  a e.  114,  p.  1.,  1.    7 Fedone  YVwaOr^oójisvov Fedone  Xtoptoxóv e.  producono  le  loro  copie  producano  le  loro  copie o.  125,  p.  1.,  nota.  1.  18 e  i  suoi  deterivati  e  i  suoi  derivati e.  127,  p.  2.,  l.   14 nel  concetto  comune  come  nel  concetto  comune:  come e. e  perchè  noi  sogniamo  e  perchè  cosi  sogniamo e.  139,  p.  2.,  nota,    1.   sestult. dei  periodi  degli  astri     .  degli  altri  periodi  degli   astri e.  142,  p.  1.,  1.   quintult. e  si  pascono  e  si  pascono  poi e.  xsxopwiJtiva  x£xwpta|iiva o.   come  le  prime  come  le  prime, Platone  non  può un  mondo  d'Idee 1.  XI.  VI.  612 Tim.  22  d di  generalizzare Tim(0  29  a Fedone  a  78  e  80  b YVt006Yj0Ó|Jl£V0v)  — Fedone  28  c-d Xwpoaxov parlato  implica, e  essenze parlato,  implica e    le  essenze o.  tra  le  cose  i  numeri  tra  le  cose  e  i  numeri e.  159,  p.  l.,  note,  1.  quintult. primi  degli  esseri  i  primi  degli  esseri e.  MeL  MeL  delle  Idee;  è  il  movimento  delle  Idee  è  il  movimento  I  due  elementi 1.  Il col  Dispari e.  16S,  p.  1.,  1.  14 non  leggerlo p.  2.,  l.  2 propria  delle  cose e.  170,  p.  2.,   1.   4 lo  Stesso non  è  né  in  queste  cose l'indefinitezza e.  A  queste  quistioni e.  M i  principii  degli  esseri I  due  elementi coi  Dispari proprie  delle  co^e lo  slesso 532533d. 1.  1.  VII  £ 3 non  è  né  queste  cose l'indeterminatezza A  questa  quistione i  principi  degli  esseri aa oapi-(tale ammettere 1.  IX.  16,25 per  provare; è  niente pag.  24  e'.  Bas^il. i  una  Yè^'soif o  immanente e.  188,  p.  2.,  nota,  1.  13-H capitale l.  15 ammette terzult. per  provare l.  alt. è  niente; p.  2.,  n.  l.,  1.  penult. pag.  24  A  ed.  Basii di  una  y^vsoi? e.  e  imynoncnte e.  non  è  semplicemente   com'essi non è   semplicemente,   com  essi dicono,  e  la  perpetuità  doll'universo  e  la  perpetuità  della  forma  alt  uMo '  dell'universo e.  sono ^"'''*  1. 13 più  o  meno  numeroso  piii  e  meno  numeroso e,  »^ì^*i^n  come  correlativo come  relativo e.  248,  p.  1.,  testo,  l.  terzult. el  ^^ o. ne  sistema  delle  Idee  nel  sistema  delle  Idee o.  253,  p.  l.,  n.  2,  l.  l Met.  l.  XIII.  Vili.  8  non  leggerlo terzult. formai  T^n e. ci  è  attestato  «i  ^  attestata E  RI  t  ATA delle  cosa  matematiche n  o  potcemmo Met. 9 e.  270, da  cui  sono  limitate di  queste  tre  divisio— a  di  Platone di  Spinoza  (4 supplem.  C.  V la  loro  vera  rt^altà 1  suo  posto  e.  delle  cose  matematiche e.  noi  potremmo o.  269,  p.  ].,  n.  1 Met.  .,  testo,  1.  penull. da  cui  sono  limitate Da  questo  processo  non  potreb- bero venirne  che  dei  poliedri,  per- chè esso  non  è  applicabile,  tra  i  so- lidi, che  ai  poliedri,  tra  le  superfi- cie, che  ai  piani,  tra  le  lineo,  cho alle  ratte  :  ma  siccome  per  i  pla- tonici i  corpi  erano  composti  di poliedri  regolari,  esso  rendeva conto  sufficientemente  delle  grandezze reali, di  queste  tre  divisiohi di  Platone di  Spinoza  (4)) o.  28J,  p.  1.,  n.  2 supplem.  C.  IV e.  285,  p.  2.,  l,  ult. e  la  loro  vera  realtà e.  28S,  p.  1.,  i.  11 il  suo  posto 1.  18 ouotien« dlh  avanzati contiene più  avanzati le  Ideej.  L'osprossiono  le  Idea.  (L'espressione quintult. non  vi  ha  mai  i  non  vi  ha  mai  il IL REALISMO DIALETTICO Perchè  si  realizzano  le  astrazioni  ?  Spiegazioni correnti  e  precisazione  della  quistione.    Il  realismo,  in  quanto  è  una  spiegazione  del mondo  (realismo  dialettico),  ha  lo  scopo  di identificare  il  rapporto  logico  tra  il  principio e  la  conseguenza  al  rapporto  ontologico  tra la  causa  efficiente  e  l’effetto Origine  del realismo  degti  scolastici Il  sistema  di  Hegel Il  sistema  dì  Taine Realismo  (realizzazione  dei  concetti)  del Taine » Il  suo  metodo  dialettico  (cioè  di  dedurre  i concetti  realizzati) L’idea  fondamentale  di  questo  sistema  è  Ti- dentificazione  del  rapporto  tra  il  principio e  la  conseguenza  a  quello  tra  la  causa  ef- ficiente e  l'effetto 11  sistema  di  Platone Cenni  generali  sulla  filosofia  di  Platone. Apriorismo  di  Platone .... Suo  metodo  puramente  deduttivo Importanza  capitale  attribuita  al  metodo;  universalità della  filosofia  e  sua  si  stimatici  tà.  Affinità  del  metodo  dialettico   col    metodo matematico Caratteri  prepri  del  metodo  dialettico,   per cui  differisce  dal  matematico Tutte  le  altre  Idee  si  deducono   da   quella del  Bene * L'Idea  del  Bene  non  è  solo  il  principio  logico, ma  anche  il  principio  ontologico  (la causa  produttrice)  delle  altre  Idee,  e  non  ne è  il  principio  ontologico  che  in  quanto  ne  è il  principio  logico La  deduzione  progressiva  delle  Idee  le  une dalle  altre  é  una  derivazione  reale  delle  Idee che  si  deducono  da  quelle  da  cui  si  deducono. L'Idea  del  Bene  è  la  piùgenerale  di  tutte. Contenuto  di  quest'Idea Metodo  di  divisione  e  gerarchia  delle  Idee. Teoria*  della  definizione La  dieresi  è  una  deduzione  in  cui  V  Idea divisa  funge  da  principio,  e  le  Idee  in  cui si  divide  da  conseguenza. Come  la  dieresi  è  una  deduzione,  e  come si  trovino  in  essa  i  caratteri  distintivi  del metodo  dialettico  di  cui  al  §  12. Il  metodo  indiretto  di VELIA (vedasi) E  con questo  metodo  che  deve  dimostrarsi  il  primo principio  (cioè  l'Idea  del  Bene) Un'Idea  generale  non  è  solo  il  principio logico,  ma  anche  on/o/o^/ico  (la  causa),  delle Idee  più  particolari  in  cui  si  divide  .L'obbiettivazione  dei  concetti  e  il  metodo dialettico  hanno  per  iscopo  l'identificazione del  rapporto  tra  il  principio  e  la  conseguenza a  quello  tra  la  causa  efficiente  e  l'effetto Il  sistema  di  Spinoza Idea  generale  della  filosofia  di  Spinoza Il concetto  del  parallelismo  psico-fisico  e  suoi sviluppi Metodo  puramentededuttivo Identità  dello sviluppo  logico  e  dello  sviluppo  ontologico Le  cose  considerale  sua  specie  aeternitatis L'essere,  secondo  Spinoza,  è  una  serie  di astrazioni  realizzate  che  derivano  logicamente e  ontologicamente  le  une  dalle  altre, in  modo  che  il  rapporto  tra  il  principio  e  la conseguenza  é  identico  con  quello  tra  la causa efficiente e  l'effetto. Differenze  e  omologia  fra  tutti  questi  sistemi. Come il  realismo  dialettico  deriva  dalla tendenza  naturale  del  nostro  spirito  da  cui derivano  tutti  gli  altri  concetti  metafisici. NIHIL ORITUR,  NIHIL  INTERIT Tendenza  naturale  a  supporre  che  il  reale nella  sua  essenza  é  immutabile  I  fisici  greci  in  generale Dottrine di GIRGENTI (vedasi) e  d’Anassagora  Il  sistema  degl’atomisti  Dottrine  dei  fisici  che  ammettevano una  sostanza  unica. Dottrina  di  Eraclito  della  identità  dei contrari Dottrina  della scuola di VELIA (vedasi) Spiegazioni  meccaniche  dei  fisici  in generale Dottrine  dei  filosofi  indiani Dottrine  di  Bioino  e  di  Telesio. La  teoria  meccanica  (cioè  la  riduzionedi  tutti i  fenomeni  a  quelli  meccanici) nella  scienza  moderna Applicazione della  teor'a  alla  costituzione della  materia Ancora  della  teoria  meccanica-  Applicaziono  ai  f<  noroeni  psichici. Spiegazione  meccanica  dei  fenomeni della  vita. Il  principio  della  persistenza  delle  co nelle stesse  proprietà  nell'atomismo metafisico,  nei  sistemi  monisti,  nel realismo,  nel  criticismo Dottrine  di  Herbart  e  di Corleo  Dottrina  dell'identità  della  causa  e del  r  effetto » IL  CONCETTO   DELL'ANIMA L'animismo  (sostantitìcazione deiranima)  è  il  prodotto  d'una  tendenza naturale  dello  spirito  umano. Le  prove  della  sostanzialità  dell'  anima. Materialiià  dell' ani  ma  nella  forma primitiva  dell'animismo, L'animismo  è  anch'esso  un'  applicazione del  principio  dell'immutabilità dell'essenza  dellecose Le concezioni  moniste  si  fondano su  questo  principio  egualmente che  le  dualiste. E  per  esso  che  deve  spiegarsi anche  l'animismo  dell'uomo  primitivo Il  concetto  dell'immortalità  dell'anima e  quello  della  sua  immaterialità sono  degli  sviluppi naturali  della  teoria  animista. Il  substratum,  supposto  indisponsabile,  dei  fenomeni  psichici non  è  che  il  fantasma  del corpo La  terza  forma  dell'animismo, cioè  la  dottrina  che  la  sostanza dello  spirito  è  un  fatto  psichico permanente  che  è  il  substratum di  tutti  gli  altri DOTTRINA DI ROSMINI  SULLA  SOSTANZA DELL'ANIMA  carte  IMMANENZA  DELLE  IDEE  PLATONICHE Prove  di  queat' immaneinza I  termini  designanti  le  Idee  in  generale I  termini  designanti  ciascun'Idea. Il  concetto  e  la  conoscenza  generale  si riferiscono  all'Idea. La  definizione  e  la  dieresi,  che  hanno  per oggetto  le  Idee,  si  riferiscono  alle  cose considerate  d'una  maniera  generale  ed astratta L'Idea  è  l'universale,  ciò  che  è  lo  stesso in  tatti  gl'individui  del  genere. La  TzoLpoDoioi,  la  [léOegig  e  le  altre  espressioni dell'inerenza  nelle  Idee  nelle  cose Contenenza  reciproca  tra  le  Idee  generiche e  le  Idee  specifiche Gli  elementi  delle  Idee  sono  anche  gli elementi  delle  cose Tutto  il  reale  si  risolve  nelle  Idee L'essere  non  è  fuori  del  divenire,  ma  nel divenire  stesso. Dij4cusslone  degli  argomenti contro  l' immanenza La  sostanzialità  delle  Idee La  distinzione  fra  le  Idee  e  le  cose  interpretata come  una  separazione Le  Idee  considerate  come  esemplari  a  cui le  cose  non  si  conformano  che  approssimativamente Le  allegorie  del  Fedro  e  del  Timeo La  testimonianza  d'Aristotile IL  PITAGORISMO  PLATONICO Cenni  sulle  dottrine  dei  Pitagorici e  sui  pitagorismo  di  Platone  in  generale  )» carte I  numeri  ideali  carte I  due  elementi La  forma  e  la  materia  delle  Idee La  forma  e  la  materia  delle  cose Le  entità  matematiche (come  intermediarie  fra  le  Idee  e  le  cose) Il  pitagorismo  nel  Timeo  e  nel  Fìlebo Motivi delPevoluzione   di  Platone  verso  il  pitagorismo. Il  pitagorismo  nel  Timeo  (Carattere  simbolico della  cosmogonia  del  T/meoesuo  significato). Il  pitagorismo  nel  Filébo  (il  limite  e  Villimi- tato  di  questo  dialogo) Il  pitagorismo  nei  diseepoli    di  Platone Le  tre  dottrine  dei  platonici  sui  numeri  carta  La  dottrina  di  Xenocrate carte  La  dottrina  di  Speusippo DOTTRINE  DI  PLATONE  SULL'ANIMA  E  LA  DIVINITÀ NEL  LORO  RAPPORTO  COL  SISTEMA  DELLE  IDEE li'animae  suo  rapporto  con  le  Idee  e eoi  fenomeni  (l'anima  individuale   carte Panima  cosmica  e.). carte  L'interpretazione  telsti<*a  del  slistema  delle  Idee  (che  le  Idee  sono  i  pensieri della  divinità  creatrice) Le idee  e  il  pensiero  (Interpretazione  dì Hegel  e  del  Teichmiiller  dell'immortalità delPanima  e  altre  dottrine  connesse  Platone non  ammette  l'identità  dell’essere  e del  pensiero,  e  la  sua  Idea  è  un'  entità puramente obbiettiva. 


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