Saggi sulla teoria della conooccnr.a. Palermo D. Contenta Sui limiti e l'oggetto della conoscenza a priori Filosofia della r--^nfir-ica ])t 1-!^ 1 'i^f^fì^rT","^Eondict^^dolln. Palermo, SAGGI SULLA Teoria della Conoscenza. Sui limiti e l'oggetto della conoseenza a priori PALERMO REMO SANDRON. Uno degl’aspetti più caratteristici del modo di pensare metafisico è lo sforzo di conoscere il reale a priori, di costruirlo. Anzi possiamo dire, d’una maniera generale, che a-priorismo è il sinonimo di metafìsica, come empirismo è il sinonimo di positivismo, almeno del vero positivismo, cioè quello che non ammette, rigorosamente, che i fatti, i fenomeni, e le loro relazioni. Noi vedrenio in effetto nel saggio che, mentre il presupposto su cui si fonda il modo positivo di pensare è che non dobbiamo ammettere alcuna proposizione senza prova, non essendovi altra prova che la sperimentale, cioè l’induzione, la generalizzazione dei casi osservati, e, se la proposizione è particolare, la deduzione (il sillogismo) fondata sovra un’induzione antecedente. Il modo metafisico si fonda invece, consapevolmente o inconsapevolmente, sul presupposto contrario, cioè che vi hanno dei principii che noi dobbiamo ammettere per la loro evidenza intrinseca, senza prova, e per conseguenza indipendentemente dall’esperienza e dall’induzione, in altri termini, a priori. Non vi ha dunque questione più importante per la teoria della conoscenza che quella sulla possibilità e sui limiti della conoscenza a priori. E siccome la metafisica si propone di stabilire resistenza delle cose e il come di quest'esistenza non i loro rapporti nascenti d’una veduta della mente che le compara l’une con l’altre, cosi questa questione può circoscriversi per noi dentro confini più determinati. Possiamo noi acquistare delle conoscenze a/)r/or/ suiresistenza delle cose? O, in altre parole: questa esistenza può formare l’oggetto d’un giudizio a priori? L'oggetto di questo saggio è di dare una risposta a questa domanda. Perciò noi non ricercheremo innnediatamente se la conoscenza o pretesa conoscenza a priori che oltrepassano il mondo dell’esperienza, siano o no legittime. Il nostro esame si restringe, al contrario, nel dominio della conoscenza positiva, fenomenale. Il lettore puo fare da se stesso le sue inferenze su (luelle che stanno al di là di questo dominio. Ora un pò di riflessione mostra che la nostra questione, cioè se noi possiamo formare d’un giudizio a-priori concernenti l’esistenza della cosa, non si può risolvere senza prima esaminare la natura del giudizio e la sua classificazione. Ma gl’elementi del giudizio sono le idee, e si ha necessariamente una o un altra teorica del giudizio, se per elementi d’esso si danno le idee astratte, come fanno le dottrine da lungo tempo dominanti, oppure le idee concrete. Vi ha dunque, prima di tutto, una questione preliminare che ci s’impone: esistono o no delle idee astratte, dei concetti? È questo l’argomento di questo saggio. Tutti i termini, se si eccettuino i nomi propri, sono generali. Vale a dire essi si applicano non ad un solo oggetto particolare, ma a qualsisia di tutti gl’oggetti appartenenti ad una classe. Ora, le parole, essendo SEGNI dell’idee, si domanda quaU siano le idee SIGNIFICATE dai nomi generali. Non vi hanno che due risposte. L’una è: un termine generale non significa che delle idee particolari, cioè delle idee d’oggetti individuali e concreti; solamente, mentre un nome proprio non suggerisce allo spirito che una sola idea particolare, un nome generale può suggerire ugualmente una o un altra delle idee degl’oggetti particolari appartenenti ad una classe. Cosi IL SIGNIFICATO di questi nomi non è generale che potenzialmente, in quanto possono richiamarci questo o quello degli oggetti della classe; ma il loro significato attuale, appartar propriamente, è sempre particolare, in quanto non ci richiamano effettivamente che un solo o alcuni di questi oggetti. Questa teoria si chiama nominalista. Ma secondo l'altra teoria, che chiameremo concettuahsta, a un termine generale corrisponde, non delle rappresentazioni particolari, ma una nozione generale o idea astratta, che è come la rappresentazione di ciò che gl'individui di una classe hanno di comune, negligendo i tratti particolari che sono propri a ciascuno. La grande maggioranza dei filosofi hanno adottato la teoria concettualista: alcuni, tra cui lo stesso Mill, quantunque si siano professati nominalisti, pure in fondo hanno ammesso il concettualismo, o almeno spesso hanno esposto le operazioni del pensiero in termini che implicano quest'ultima dottrina. Cosi non esitiamo [Mill non ammette che noi possiamo formarci delle idee separate delle proprietà astratte delle cose; egli non accorda allo spirito che delle rappresentazioni concrete e particolari : ma «econdo lui noi abbiamo il potere di prendere per oggetto della nostra attenzione una parte o un elemento astratto della rappresentazione concreta, quantunque ci sia impossibile di separarlo completamente Non è evidentemente che un'altra forma del concettualismo. Bain intende per idea astratta un caso tipico o uno specimen, cioè un individuo particolare, il quale rappresenta per noi tutti i casi o individui della classe ; ovvero un simbolo verbale applicato alla classe (Dei sensi e deW intelligenza, .) Qui egli sembra parlare perfettamente da nominalista ; ma altrove (w Logica, Introduzione, 9) egli ammette, come il Mill, che lo spirito ad asserire che i tatti deirintelligenza non sono mai stati studiati ad un punto di vista rigorosamente nominalista ; per cui, accingendoci a dare una classificazione del giudizio fondata esclusivamente su questo punto di vista, siamo obbligati a discutere il concettualismo d una maniera più larga^clie non abbiano latto fin qui gli autori nominalisti. Fra i pensatori moderni è Berkeley che ha dato i colpi più forti alla teoria dei concetti; ecco che cosa dice in sostanza questo filosofo. Noi vediamo un oggetto esteso, colorato e in movimento: tutti ammettono che queste tre qualità non esistono ciascuna per se stessa, ciascuna distinta e separata dalle altre ; ma, secondo i filosofi concettualisti, lo spirito può considerare isolatamente ciascuna di queste qualità, e astratta dalle altre due, il che si chiama formarsi un^dea astratta. Cosi lo spirito può formarsi la idea di colore air esclusione di quella di estensione, e Tidea di movimento air esclusione al tempo stesso di quelle di colore e d'estensione. Inoltre, osservando che tutte le estensioni particolari percepite dai sensi hanno questa proprietà comune o questo punto di somiglianza, di essere estese. nbbia il potere di accordare la preferenza della sua attenzione all'uno o all'altro dej^H attril)uti d'un oggetto concrelo (p. e. uno scellino o una ruota ; noi possiamo, egli dice, dare più attenzione alla rotondità e meno alla grandezza, ma è imi)0ssibiie che noi pensiamo alla rotondità, senza pensare a una certa grandezza o a un certo colore)., Spencer, ammettendo che gli elementi dello spunto non sono^ che le sensazioni e i rapporti fra le sensazioni, non potrebbe ammettere le idee astratte : tuttavia egli atterma che i temimi del pensiero possono essere anche, non delle cose particolari e delle azioni particolari compiute da esse, ma i caratteri generali delle co^e e delle classi di cose, considerati separatamente dalle cose ste'^^^e (V p. e. PrinclpU di psf colorila, § 487). Cosi la sua opmione. sembra i>ure, al fondo, la stessa che (luella di Stu.\rt-Mill. Questo semi-concettualismo è comune a tanti altri filosoll inglesi. ma differiscono perchè questo ha una certa figura, quello un'altra, questo una grandezza, quello un'altra, lo spirito si forma Fidea astratta di estensione, senza una figura o una grandezza determinata. Cosi può formarsi pure l'idea del colore in astratto, che non è né il rosso né V azzuro né il bianco nò alcun altro colore determinato. Ma il fatto, dice Berkeley, non va cosi. Noi possiamo formarci Tidea d'un uomo avente una grandezza, una figura, un colore determinato; ma non quella d'un uomo astratto, che non sia né Ijianco né nero né bruno né di un altro colore qualunque, né piccolo né grande né di statura media. Noi non possiamo, per qualunque sforzo di pensiero, concepire quest'idea astratta. Noi possiamo considerare la mano, l'occhio, il naso, l'uno dopo l'altro, separati dal resto del corpo. Ma (jualunque sia la mano o qualunque sia l'occhio a cui pen- siamo, Ijisogna ch'essi abbiano una forma, un colore par- ticolari. Cosi noi possiamo rappresentarci un colore parti- colare e con una gradazione determinata; ma non ci é pos- sibile di formarci l'idea del colore astratto. Ci é ugualmente impossibile di formarci l'idea astratta di movimento, di- stinto dal corpo che si muove, e che non sia né rapido né lento, né curvihneo, né rettilineo, ecc.; e lo stesso deve dirsi di tutte le idee generali o astratte (Priticlpil della conoscenza umana, Indrodazione), Il ragionamento di Berkeley non é che un appello di- retto alla coscienza : ci é impossibile, esaminando noi stessi, di sorprenderci nell' atto di avere un' idea astratta. Noi possiam o astrarre in un senso, in quanto possiamo pensare separatamente delle cose o dei fenomeni che nella realtà sono inseparabili. Cosi possiamo considerare isolatamente una parte di un oggetto, quantunque l'esperienza non ce la mostri mai isolata, ma sempre accompagnata dalle altre parti. Della stessa maniera, possiamo concepire isolata- mente un avvenimento, quantunque nella realtà esso sia sempre preceduto, seguito e accompagnato da altri avvenimenti determinati. In una parola, tutto ciò che ha un'esi- stenza distinta e una posizione separata nel tempo e nello spazio, noi possiamo concepirlo separatamente. Inoltre, ed è quello che ha più somiglianza con ciò che i filosofi chia- mano un'idea astratta, noi possiamo concepire isolatamente delle proprietà d'uno stesso oggetto, ma che noi percepiamo per dei sensi differenti: il colore d'un oggetto a parte della temperatura, del sapore, dell'odore, ecc., quantunque nella realtà queste qualità non si trovino separate. Ma tutto ciò che noi possiamo concepire— sia una semplice qualità sensibile o un oggetto conosciuto per un complesso di qualità sensibili, sia un oggetto intero ovvero una parte, sia un fenomeno che duri un istante indivisibile e che occupi un posto appena percettibile nello spazio, ovvero un gruppo di fenomeni successivi e simultanei— deve sempre essere un oggetto o un fenomeno assolutamente determinato, deve avere la tinta particolare e, per dir cosi, la fisonomia di qualche cosa d'individuale. Tuttavia, questo appello all'osservazione interiore, in cui consiste l'argomentazione di Berkeley, quantunque trattandosi d'un fatto della coscienza, non possa esservi una prova migliore, può nondimeno lasciare qualche dubbio. Infatti l'osservazione interiore, per consenso dei migliori fra i psicologi moderni, è un metodo fallace o almeno insufficiente; e per quanto riguarda i fatti più semplici del pensiero, la coscienza non è capace di rivelarcene chiaramente alcuni la cui esistenza è pure indubitabile. Nessuno dei psicologi contemporanei seguirà Condillac, il quale riduceva tutti i fatti mentaU a sensazioni attuali e riproduzioni di sensazioni passate: tutti ammettono invece che vi ha inoltre nell'intelligenza un altro ordine di fatti cioè la percezione dei rapporti che lo spirito scopre tra i fenomeni paragonandoli fra loro. Ebbene ! tutti sappiamo in che consista un rapporto di somiglianza tra due cose; ma chi potrebbe rappresentarsi il fatto interiore, in cui consiste la percezione d'un rapporto di somiglianza? Ma se l'argomento dell'osservazione interiore non basta a convincere di falsità la teoria concettualista,esso ci mostra almeno quale sia la natura di questa teoria : il concetto non è che un'ipotesi, non è un fatto di coscienza, non è qualche cosa che bisogni ammettere perché sia mai caduto sotto le prese dell'osservazione. Che ciascuno faccia attenzione a se stesso nell'atto di pensare : egli non scoprirà che delle immagini di cose particolari, e s' egli pensa a qualche argomento astratto, non si accorgerà di più che delle rappresentazioni di alcuni segni o termini generali, che non sono essi stessi se non delle immagini particolari di un certo ordine di sensazioni. Che alcuno dimostri, p. e., un teorema sul triangolo : non è al triangolo astratto che egli penserà, ma a un triangolo concreto e determinato, sia tracciato sulla carta, sia rappresentato nell'im- maginazione. E s'egli non avrà in mente alcuno di questi triangoli concreti, vorrà dire che tutto il suo ragiona- mento si ridurrà ad un' operazione meccanica, in cui i segni delle idee terranno il posto delle idee medesime. Prendiamo dunque la teoria dei concetti per quello che è, per un'ipotesi destinata a dar conto delle operazioni del pensiero, ed esaminiamo il valore di quest'ipotesi, in se stessa e nelle sue conseguenze, e alla stregua dei fatti e delle leggi conosciute dello spirito umano. In primo luogo bisogna far attenzione al rap- porto che noi naturalmente stabiliamo tra il pensiero e la cosa pensata. Quantunque l'oggetto immediato del nostro pensiero non sia che un'idea, cioè una modificazione o uno stato di noi stessi, un fatto puramente interiore che non esiste altrove che nella nostra coscienza né in un altro tempo che nel momento in cui pensiamo; pure ciò che noi intendiamo di pensare, ciò che rammentiamo o prevediamo o immaginiamo, ciò di cui, in una parola, affermiamo 1' esistenza, non ò già il nostro pensiero stessO;. ma è un oggetto o un avvenimento già passato o futuro, una cosa o un tatto per lo più esteric^re, o, se interiore, un latto almeno sempre distinto dal fatto at- tuale di coscienza con cui lo pensiamo. Ora in che consiste questo legame del pensiero con un oggetto fuo- ri del pensiero stesso ? Si dirà che noi abbiamo la co- scienza che il pensiero rappresenta un oggetto esterio- re ? ciò equivale a dire che noi abbiamo, oltre al pen- siero, la coscienza d'un oggetto esteriore che corrisponde al pensiero ; ma la coscienza di quest'oggetto esteriore non i)Otendo essere che un' idea, la quistione non lia fatto un passo con (juesta supposizione, e resta ancora a spiegare come quest'idea si riferisca ad un oggetto este- riore. La difficoltà non può avere, io credo, che una so- luzione. Per un' illusione naturale e primitiva, senza di cui non si pu(') immaginare come il pensiero potrebbe avere i)er noi un valore obbiettivo, avviene che 1' idea s'identifica per noi con la cosa pensata, e che nell' atto del pensare, noi non crediamo già di aver presenti alla mente delle mere rappresentazioni, ma d'involgere e di penetrare le cose stesse. Ciò è tanto vero che Reid, il (luale intendeva di ritornare alle credenze naturah del genere umano, soppresse le idee come rappresentazioni^ e r^etese cJie lo si)irito ha (Urettamente coscienza delle cose esteriori. E che questa sia veramente una credenza, naturale, ciascuno può farne l' esperienza in se stesso : se io j)enso, per esempio, al mio amico il tale, è cer- to che io credo di avere d'innanzi alla mente il mio ami- co stesso, e non un'immagine di lui. Nel pensiero av- viene dunfjue come nella sensazione : le nostre rappre- sentazioni si staccano dall' aggregato fisico — psichico che si chiama io, di cui realmente fanno parte, ci appari- scono obbiettive, e prendono jìer noi il posto delle cose stes- se. A noi non importa per ava di spiegare quest' illusio- ne naturale — lo faremo nel secondo Saggio —.•(lucilo che c'importa è di domandarci se questo fatto gencu^ale della nostra intelligenza sia compatibile o no con l'esistenza delle idee astratte. Ora è evidente che non lo è. Se nell'atto del pensare noi crediamo di essere coscienti^ non dell'idea, ma dell'oggetto che l'idea rappresenta; se l'idea si confonde per noi e si scambia con la realtà ; in altre parole, se noi oljbiettiviamo e realizziamo le nostre idee ; non potremo quindi pensare un'idea astratta senza realizzarla, senza credere di pensare, non ad un' idea astratta, ma ad un oggetto astratto. Platone aveva dun- ({ue ragione di pretendere che, se vi hanno delle nozioni astratte e universali, vi saranno degli esseri astratti e uni- versali — è a ciò che si riduce in sostanza quasi tutta la sua argomentazione per dimostrare l'esistenza delle Idee :ma la conscienza smentisce la sua dottrina, mostrando che se la conseguenza è giusta, il principio è falso ; poi- ché se vi fossero le idee astratte, 1' esistenza degli esseri astratti dovrebbe essere, non una teoria laboriosamente costruita da un metafisico, ma una credenza naturale del genere umano. Noi arriviamo ad un risultato analogo, se ricer- chiamo quale potreblje essere T origine di queste pretese idee astratte. Secondo la massima parte dei filosofi che le ammettono, un'idea astratta non è che un'idea par- ziale : essa nasce (juando noi rivolgiamo l' attenzione a ({ualche nota o elemento comune a molte rappresentazioni particolari. Essendoci noi formate, p.e., le idee di più og- getti particolari che tutti appartengono alla stessa specie^ (l) V. il 2. Saggio, parte 1. il Supplemento sulla imiiuincnza delle Idee platoniche. (V. Loi.KE Saoglo JllosoficosalVintenr^ùnento umano; WOLE Psicologìa empirica s . ecc.; Galluppi Saggio filosofico sulla critica (iella conoscenza; Rosmini Nuoro Saggio sulV origine delle idee; ecc. 12 t ascummo tutte le particolarità clie fanno di ciascuna di queste Idee lidea d'un in,lividuo particolare e diverso dag 1 altri, e non riteniamo cl.e le note o elementi comuni a utti, ed e cosi secondo questi filosofi, clie ci formiamo lidea generale della specie. Quest'nltima idea non é cosi secondo essi, che una parte della rappresentazione del- 1 oggetto concreto ; e l'astrazione non altro che una sepa- razione 0 una decomposizione. Essa trae un'idea univer- sale da un'idea particolare, fissando la nostra attenzione sovra uno dei suoi elementi: quindi ta osservare quest'ele- mento (1 elemento comune a molte idee particolari), non lo genera. Questo elemento preesisteva dunque, secondo 1 concettualisti, ed era già contenuto nelle idee particolari- ed una rappresentazione concreta non é che un fascio' una somma di tali elementi astratti. Ciascuno di questi elementi, ripetiamolo, esisteva già per se stesso e a parte nella rappresentazione totale; l'astrazione non fece che iso arlo dagli altri, farlo riconoscere come un elemento distinto e separato. Ora la rappresentazione totale o con- creta non é die una copia esatta dell' oggetto reale, in quanto almeno noi siamo capaci di conoscere gli oo-c^etti reali : gli elementi astratti non potrebbero dunque stare nella rappresentazione concreta, a meno che nell' orioi- naie, cioè nell'oggetto reale, non si trovassero gli elementi corrispondenti ; in altri termini, un oggetto reale indivi- duale non sarà, come la sua rappresentazione, che un lascio o una somma di elementi astratti (1). E se noi vo- Il Sergi I.a ammesso esplicitamente questa conseguenza Ln immagme sensazionale, un individuo in <iuanto cailc' sotto i sens. o sotto la rappresentazione, è per lui un composto cosSuo almeno da due elementi, l'universale e il proprio, quaUes stono ^ano' enar^r .lùanfun,p"nonlo pr^ciroTiSS;. gliamo attenerci alla credenza naturale, secondo cui l'og- getto immediato del pensiero sono, non delle idee rappre- sentative, ma le cose stesse, la conseguenza sarà ancora la stessa, anzi risulterà d' una maniera più immediata» Eccoci dunque arrivati un'altra volta alla realizzazione delle astrazioni : a una nuova forma di realismo, che non é, come quello d'un Platone o d'un Hegel, un serio sforzo per acquistare una conoscenza superiore alla empirica^ ma un'ipotesi gratuita e senza genialità, come quello de- gli scolastici. Diranno i concenttualisti che non è questa l'origine delle idee astratte ? negheranno che un' idea astratta sia una rappresentazione parziale, cioè una parte della rap- presentazione d'un oggetto concreto ? No, essi non lo po- trebbero, senza andare incontro ad altre difficoltà egual- mente insolubili. Noi non possiamo concepire altrimenti la possibihtà del pensiero, se non vedendo nelle nostre idee delle rappresentazioni, delle copie esatte, delle cose stesse : se il pensiero non rispecchiasse le cose stesse, in che potrebbe consistere la verità, questa conformità tra. il pensiero e le cose ? Le idee astratte non potrebbero es- sere dunque che delle rappresentazioni o delle immagini; e non essendovi che degli oggetti concreti, non potrebbero che essere delle rappresentazioni degli oggetti concreti. Ma non delle rappresentazioni totali o intere, perchè in questo caso sarebbero idee concrete; dunque rappresen- tazioni parziali, cioè parti o elementi di rappresentazioni concrete. Noi osserveremo di passaggio che questa rappresentar zione delle cose nel pensiero non ha niente di misterioso, secondo i più certi risultati della psicologia moderna. Da una parte una cosa, in quanto noi la conosciamo, non è che un fascio di apparenze sensibili, successive e simul- •tanee, in ultima analisi, di sensazioni, reali o possìbili (le possibilità di sensazioni di Stuart-Mill); e d'altra parte j u le nostre rappresentazioni delle cose non sono esse stes- se che sensazioni, riprodotte a uno stato più debole (1). Cosi fra realtà (({uale noi la percepiamo) e rappresenta- zione o pensiero non vi ha altra ditlerenza che tra torte e debole, più intenso e meno intenso. Per conseguenza pensiero, rappresentazione, immagine, sono dei termini equivalenti; e nò un'idea astratta potrebbe essere altro che una rappresentazione parziale ossia una parte o elemento di una ra[)presentazione concreta, né una ra[)presenta- zione concreta potrebbe avere elementi astratti, senza che ^ gli stessi elementi si trovassero nelFoggetto rappresentato. La dottrina dei concetti adunque conduce inevitabil- mente alla realizzazione delle astrazioni. Ma vi ha di più; un concetto astratto non è esso stesso che una sorta di astrazione reaUzzata. Io voglio dire che le stesse assur- dità inerenti all' esistenza di un' astrazione realizzata si trovano ugualmente nell'esistenza d'un'idea astratta. Qual è intatti la grande inconcepibilità di un'astrazione realiz- zata ? È di supporre alcun che di reale che non è una cdeterminata— mentre tutto ciò che esiste noi non possia- mo concepii'lo che come assolutamente determinato— d'/zo- mo in sé che non è né bianco né nero, né grande né pic- colo, né bello né brutto, né in un luogo né in un altro, ecc.; ovvero Yanlmale in sé che non é né bipede né quadrupede né senza piedi, né vertebrato né invertebrato, ec3. Ma cosa può essere un'idea astratta se non (jualche cosa di egualmente indeterminato, come sarel)l)e appunto l'imma- gine deW ctonio in se e deWaniniale in sé ì Se t'osse alcun che di determinato, sarei )be una rappresentazione deter- (1) V. Taine J/ intcUiffcnza y parte 1. l. 2. e. 1; I^ain. / sen^'. e V intvHìfìenza, 2. parte e. 1. H e Appendice D; Spencer Prinripa di psf'rofoffia, luìra.arati 4*), (iO, 73, OO -110, 450-471. eoe:; WuNnT, Elementi di /ts/roloffia ffsiolof)ica, e. VII. 2, e. XVII. 2 e 4, e. XIX. 1, e<*r-:: Hine'I' P<ivologia del irxgionainento, e. 2: «m'c:. minata; e una rappresentazione determinata non potrebbe rappresentare clie un oggetto determinato, cioè una cosa concreta e particolare. Di qui ^i vede anche come vadano fuori della quistione alcuni psicologi contemporarei, i quali ammettono che l'idea astratta sia qualche cosa di simile ai rittratti di famiglia di Galton, eh' egli chiama ancora ritratti generici (1). Un ritratto, un'immagine, potrà ben somigliai'e a una pluralità d' individui reali senza ripro- durre esattamente le sembianze di alcuno, ed essere come la media di tutti (juesti individui ; sarà sem[)re con tutto ciò un'immagine, un ritratto, individuale (benclié l'indivi- duo rapi)resentato non esista nella realtà), poiclié l'insieme dei suoi tratti e ciascuno di essi non potrà non essere un che di determinato, e, per conseguenza, d'individuale. ^ 5. Passiamo ora ad un altro ordine (U difficoltà. Ab- biamo già notato che V osservazione interna non trova altro nel soggetto jjensante se non che delle immagini di cose particolari e dei nomi: é certo cosi che senza rai> presentazioni particolari e senza nomi non vi ha pensiero. Questo fatto é stato ammesso da quasi tutti i concettua- listi, a cominciare da Aristotele. L'anima, dice questo filo- sofo, non intende mai senza immagini: gl'intelligibili non sono immagini, ma non sono senza immagini (2). Ora perché un concetto non si troverebbe mai puro, ma sem])re congiunto a un'immagine particolare o ad un nome ? Questa difficoltà se la é proposta già I. Stuart-Mill. A questo emi- nente pensatore può tarsilo stesso rimprovero ch'egli ha fat- to ad Hamitton, di \o\qv tenere, cioè, un piede nel nominali- (1) V. Galton Le immagini generiche, nella Beoue scienUjìque 6 sett. 1879 (2. serie 1. 17); Huxley D. Marne, sua rifa, sua filosq/ia, traduzione francese pag. 129; Delboeuf// sonno e i sogni ^ \>ag.'m; Binet Psicologia del ragionamento, pag. 107; ecc. {:!) De Anima 1. 3., e. VII, 3: 5; e. VHI, 3. De memoria et remini- scentia e. 1, ediz. Didot t. 3. pag. 494. 16 smo e un altro nel concettualismo : pure egli é al fondo (e ciò parrà incredibile a un lettore disattento) un vero con- cettualista. Secondo il Mill, noi non abbiamo presenti nel- la mente gli attributi che costituiscono un concetto, se non come formanti, per la loro unione con altri attributi, l'idea d'un oggetto particolare. Solamente, noi abbiamo il potere di fissare la nostra attenzione sugli attributi costituenti il concetto, negligendo gli altri attributi coi quali li con- cepiamo congiunti. Ciò va sii. al punto che noi pos- siamo anche, per un po' di tempo, non aver iirescnti allo spinto che questi attributi che costituiscono il concetto, o, in una parola, il solo concetto. (V. Filosofia di Hamilton e. 17., particolarmente pag. 371 traduz. frane.) Ma per- ché noi non pensiamo l'idea astratta separatamente, ma solo come una parte d'un'idea concreta ? E' clie il primo caso, dice il Mill, è effettivamente impedito dalla legge dell' associazione inseparabile (pag. 364). In altri termini, noi non abbiamo mai sperimentato un attributo astratto, se non come congiunto o combinato con altri attributi in un individuo determinato; quindi la rappresentazione degli at- tributi generici si trova indissolubilmente associata con la rappresentazione delle particolarità individuali. Maè questa una soluzione sufficiente della difficoltà ? Alcune partilarità individuali, o (lualche eceeità (perchè è impossibile discutere un po' a fondo la teoria dei concetti senza im- piegare il linguaggio dei realisti) sono costantemente con- giunte con gli altributi generici e specifici, ma non cer- tamente sempre la stessa ecceiià, le stesse circostanze in- dividuali. Nessuna dunque di queste particolarità indivi- viduanti potrebbe essere inseparabilmente associata al con- - cetto generico o specifico. Senza dubbio, 1' associazione per contiguità, in molti casi, lega, non due idee paI^- ticolari determinate, ma due tipi d'idee. E ciò che av- viene quando dalla presenza di un fenomeno inferiamo un altro fenomeno, in virtù d' un rapporto costante che abbiamo osservato nella nostra esperienza passa- ta. Né il fenomeno inferito né quello da cui s' inferisce il più delle volte, per non dire mai, sono perfettamen- te simih ai fenomeni passati tra cui abbiamo sperimen- tato il rapporto; solamente, appartengono allo stesso ti- po. Ma le circostanze individuanti, proprie ai diversi indi- vidui d'un genere, non appartengono allo stesso tipo, per- che tutto ciò che vi ha di comune, di somigliante, in questi individui, é stato separato da queste circostanze indivi- duanti, e fa parte del concetto del genere. Ne segue che il legame indissolubile del concetto con l'idea delle circostanze . individuanti, cioè col resto della rappresentazione parti- colare di cui il concetto è, si pretende, una parte, non potrebbe essere spiegato dall'associazione per contiguità, che è quella che può invocarsi in questo caso. Similmente, riesce inesplicaljile perché un'idea astratta, per lare la sua comparsa nella coscienza, abbia bisogno dell aiuto d'un nome. É l'associazione con un nome gene- rico, CI SI dice, Cile richiama i concetti nella coscienza e h fissa nell'attenzione : non vi ha infatti pensiero astratto senza segni, né un sistema sviluppato di concetti astratti senza un linguaggio sviluppato. Ora quest'associazione del concetto con un nome suppone due cose : prima che Il concetto possa essere conservato nella memoria, e poi che sia capace di contrarre delle associazioni con le altre Idee, e possa cosi venire riprodotto. Ma se é cosi che bi- sogno VI ha che il concetto sia costantemente associato con un nome ? non basterebbero, perché noi ce lo richia- massimo, quei mille legami svariati che ciascuna idea ha con le altre, per cui le leggi dell'associazione possono ri- produrla al momento opportuno ? perchè solo un nome e non qualunque altro antecedente mentale, quegli stessi p. e. che richiamano il nome, sarebbe capace di richia- marci il concetto ? La dottrina del Mill non é, in verità che il nome è necessario per richiamarci il concetto. Secondo lui, come abbiamo detto, il concetto non è ({ualclie cosa che esista nello spirito d'una maniera isolata. Esso non è che un complesso di note o elementi parziali d'una rappresentazione concreta, e non esiste che congiuntamente alle altre note o elementi di questa rappresentazione. Sola- mente, (juesti elementi costituenti il concetto vengono vi- vamente suggeriti allo spirito, mentre degli altri non ab- biamo che una coscienza debole. L'associazione costante con un nome o, in generale^ un segno, è duncjue neces- saria, non propriamente per richiamarci il concetto, ma per dirigere specialmente la nostra attenzione sul com- plesso delle note parziali di una rappi'esentazione che co- * stituiscono il concetto. Ma la (juistionc è sempre la stessa. Perchè qualsiasi altra idea, legata, come (piella del nome o in generale del segno, non esclusivamente con Tidea di tale o tal altro oggetto particolare, ma con quelle, in ge- nerale, degli oggetti possedenti l'attributo corrispondente al concetto, non sarebbe pure capace di dirigere la nostra attenzione sulla parte della rappresentazione i)articolare che costituisce il concetto? (1). La teoria concettualista non può (1) Il Mii.L conviene clie F ininiauinc visuale d'un oiigctto può comjtiere lo stesso ulìicio del nome relativamente al concetto di quest'oggetto; e soggiunge che lo stesso può fare una sensazione forte e molto interessante (p. e. la soddisfazione della fame) re- lativamente al concetto della classe fondata sull'attributo di pro- durre questa sensazione (pag. 378-370). Gontuttociò egli mantiene che i segni sono necessari, non solo alla conservazione, ma jmche alla formazione dei concetti, e ammette sempre, in pratica, che questi segni sono i nomi generali. Secondo il Mill, il nome non è solamente necessario al con- cetto perchè è esso che dirige V attenzione sulla serie degli attri- buti, contenuti nella rappresentazione concreta, che costituiscono il concetto, ma anche perchè è 1' associazione con un nome che dà una unità nella coscienza a questa serie di attributi; è quest'as- sociazione ciò che li lega insieme nello spirito, con un legame più forte di (juello che li associa al resto dclTimmagine concreta. Questa proposizione dipende evidentemente dalla dottrina dell'autore che dunque spiegare perchè i nomi siano necessari alla forma- zione e alla riproduzione dei concetti, più di quanto i)0s.sa «piegare perché il concetto non si pensi mai isolat(j, ma sempre con Timmagine o neirimmagine. § (j.^ Noi potremmo moltiplicare agevolmente le nostre obbiezioni alla teoria concettualista, ma per non annoiare inutilmente il lettore, non ne aggiungeremo qui, per (luanto riguarda i concetti in se stessi, che un'altra sola. La psi- cologia odierna, seguendo lo spirito generale delle scienze Vàologiche, di cui non è che una parte, non [)uò vedere neiruomo qualche cosa di eccezionale e d'isolato, e come un regno nel regno della natura animata. La leciie del- il concetto è costituitn dagli attributi connotati dal nome, e che di nome connota, non tutti gli attributi comuni alla classe, ma solo una porzione determinata di questi attributi. In effetto, se si am- mette che il concetto comprende tutti gli attributi della classe, è evidente che, i)er legare insieme questi attributi nello spirito, ])asta la ripetizione delle esperienze in cui li aÌ)l)iano trovato in congiun- zione, e che ogni altra spiegazione sarebl)e superflua. Si dirà che, frapposta la dottrina di Mill, che fa dipendere il contenuto dei con- -cetti dal significato convenuto dei nomi, si spiega pure facilmente perchè sia il privilegio del nome di dirigere la nostra attenzione frulla parte della rappresentazione concreta che costituisce il con- cetto. E ciò è vero, ma solamente ])er i concetti delle classi com- prendenti una i>lumlità di attril)uti. Ma Tanalisi arriverà infine agli attributi semplici, cioè indecomponijjili in altil attributi jiiù sem- ]>lici, e bisognerà ammettere anche dei concetti corrispondenti a ciascuno di questi attributi. Ora il contenuto di questi concetti non dipende dall'uso dei nomi, come (juello dei concetti complessi ch'essi formano per la loro combinazione; per conseguenza questa dottrina di Mill non i^otrebbe spiegare la necessità dei nomi per la formazione e la conservazione di questi concetti. Intanto è su di essi che deve volgere sovratutto la quistione perchè i nomi generali siano una condizione necessaria per l'acquisto delle idee astratte, poiché sono essi che costituiscono Toggetto proprio della l)rctesa facoltà di astrarre, per la formazione degli altri concetti non occorrendo un atto particolare di astrazione, ma una semjìlice riunione di astrazioni già formate. 1 evoluzione non permette che un fenomeno essenzialmente nuovo risalti tutto ad un tratto dal fondo dei fenomeni an- tecedenti ; e i fatti dello spirito umano non possono essere essenzialmente differenti dai fatti psichici degli altri esseri sensibili, né essere governati da leggi diffferenti. Cosi i fatti mentali d^un ordine superiore e appartenenti a delle facoltà che si dicono propriamente umane, non possono essere che uno sviluppo e una complicazione dei fatti d'un ordine inferiore e appartenenti alle facoltà che si ammette che l'uomo ha in comune con gli altri animali. La stessa distinzione tra questi fatti o facoltà d ordine superiore e d'ordine inferiore non può essere che relativa e sino ad un certo punto arbitraria, per la stretta continuità che deve ammettersi frale une e le altre. Ora le idee astratte, in cui si è sempre vista una prerogativa dell'uomo, costi' tuirebbero una di quelle soluzioni di continuità, uno di quei salti, che non sarebbero compatibili né col principio del- levoluzione né con 1' unità delle leggi dello spirito. Non solo la comparsa delle idee astratte per se stesse dovrebbe concepirsi necessariamente come un fatto essenzialmente nuovo nella storia degli esseri sensibili, ma di più un or- dine complesso di fatti, dipendenti dall'impiego di questa specie d'idee, scaverebbe un abisso più profondo ancora tra lo spirito che possederebbe le idee astratte e quello che non le possederebbe. Nessuno negherà, p. e. che si pos- sono formare dei giudizi senza fare uso delle idee astratte : gli animali più inteUigenti e i bambini sono certamente capaci di rammentarsi, di prevedere certi fenomeni che loro sono più familiari, di percepire gli oggetti reali quan- do alcuna delle proprietà sensibih di essi cade sotto i loro sensi, di conoscere le somiglianze e le differenze delle cose, in una parola, di fare molti atti mentali che tutti impli- cano il giudizio, e ciò senza bisogno d'impiegare idee ge- nerali. Gli stessi concettualisti devono anche convenire che la formazione dei concetti suppone già molti di questi giudizi estra - concettuali. Cosi ecco due ordini^ di giudizi essenzialmente differenti: l'uno che ha per termini dei fatti 0 delle idee particolari e le loro relazioni; l'altro che ha per termini dei concetti, cioè dei soggetti ed attributi, e le loro relazioni, le quali sono esse pure essenzialmente differenti dalle prime. La stessa duplicità nel ragiona- mento. Allo spirito senza idee astratte si concederà sen- za dubbio una sorta di ragionamento: sarà ciò che Leibnitz chiamava una consecuzione d" immagini, un passaggio da alcune idee particolari ad altre idee par- ticolari fondato suU' analogia. Noi vedremo che non vi ha in realtà altro ragionamento che questo ; ma se si ammettono le idee astratte, il vero ragionamento sarà di una natura essenzialmente differente — poiché allora dovrà ammettersi che alla proposizione generale, che è il punto di arrivo della induzione e il punto di par- tenza della deduzione, corrisponde una nozione, parlando rigorosamente, generale -- e questo ragionamento sarà esclusivamente proprio dell'uomo, che solo possiede delle nozioni astratte e generaU. Ecco dunque come la teo- ria dei concetti separa violentemente la ragione del- l'uomo dal resto della natura, rompendo l'unità della vita psichica, e mettendosi in contraddizione con lo spirito della scienza moderna. § 7.^ Esaminiamo ora i concetti, per dir cosi, in azione, e vediamo in quale ginepraio inestricabile la teoria con- •cettuaKsta ha cacciato i filosofi, che hanno fondato su di essa la teoria del giudizio e la sua classificazione. Noi incontreremo altre difficoltà insormontabili della dottrina <ìei concetti, ma il nostro scopo speciale sarà di aprirci la via ad un'esatta classazione del giudizio, che ci é in- dispensabile per sapere con precisione dentro quali limiti possiamo formare dei giudizii a priori. Noi abbiamo imparato sin dalla scuola primaria che un giudizio consiste a stabilire un rapporto fra due idee. un soggetto e un attributo : cosi la dottrina concettualista ha dominato, si può dire, senza rivale nella teoria deli giudizio. Ora in ])riino luogo qui si ripresenta la stessa difficoltà che noi abbiamo incontrata nel principio della nostra discussione. 11 giudizio non aHerma i nostri concetti e le loro relazioni, ma afìerma dei fatti o degli oggetti reali e i loro rapporti. Quando io dico: «tutti i corpi sono estesi », secondo la teoria concettualista io intendo affer- mare che il concetto deirestensione la parte del concetto deji coriM), e cosi quando iodico: « i corpi sono gravi *, ia intendo atTermare che io concepisco i corpi come gravi, che il concetto di gravità la parte del concetto di corpo, o è imito con lui in una rappresentazione, in una nozione unica. Ma la verità è che la proposizione esprime le nostre cre- denze sulle cose reali, non sui nostri concetti e sui loro rapporti, sia di contenenza sia di unione reciproca, lo non affermo nel giudizio che io iio certi concetti, e che questi concetti fanno parte V uno dall'altro o sono uniti (Funa certa maniera ; ma che certi fenomeni esistono nella realtà, che essi coesistono o si seguono con un certo ordine, che essi sono legati da certi rapporti. Stuart-Mill ha l)en latto valere questa oljbiezione contro la dottrina che il giudizio consiste a staijilire una relazione fra i con- cetti; (v. Filosofia di Hamilton, e. 18^^); ma egli non sembra accorgersi che 1' obbiezione rovescia di fondo in colmo qualsiasi forma della teoria dei concetti, compresa quella adottata da lui stesso. Tutti i nostri giudizii, dice Mill ^ non consistono che ad assegnare degli attributi. Quando noi facciamo una jìroposizione generale, noi non abbiamo nel nostro spirito che degli attriijuti e la loro coesistenza o incompatiijilità: quando diciamo * tutti i ì)uoi ruminano », noi vogliamo dire che gli attril)uti significati dalla voce ruminare coesistono invariabilmente con gli attributi si- gnificati dal nome bue. (Filosofìa di Hamilton, e. 22'^). Ora se é cosi, gli elementi del giudizio sono dei concetti. Dire i~< gli attributi significati da una parola » non é che dire « gli attributi costituenti il concetto significato dalla parola»; (lire dunque che noi non abbiamo nel nostro spirito che degli attributi, è dire che non abbiamo nel nostro spirito che dei concetti. Poco importa che questi concetti esistano nella mente isolatamente, o solo come una parte, più vivamente rappresentata, di un complesso di attributi costituenti una rappresentazione concreta. Ciò che importa logicamente, ciò che ha un valore relativamente al giu- <lizio, sono precisamente gli attributi che stanno dentro il concetto, o che formano il concetto. Intanto, se Taffer- inazione non concerne che dei fatti o degli oggetti indi- viduali e concreti; se il giudizio nnporta la credenza che certi fenomeni concreti e particolari esistono, ed esistono cosi e cosi, ed hanno fra loro certi rai)porti ; ci(') vuol dire che, formando un giudizio, noi pensiamo preci- samente a questi fatti o oggetti individuali e concreti su cui volge Taffcrmazione. L'oggetto dellaffermazione non può infatti essere altro che l'oggetto del i)ensiero, e l'og- getto del pensiero non è che l'oggetto di cui abbiamo l'idea. Dunque, se nel giu(Uzio noi non affermiamo che dei fatti o degli oggetti individuali e concreti, noi non abbiamo allora nello spirito che delle idee di fatti o c^ggetti indivi- duali e concreti; e se non abbiamo l'idea (h (piesti oggetti o fatti concreti e particolari, noi non possiamo affermarli. Cosi, affermiamo noi e giudichiamo unicamente su cose concrete e })articolari ? e noi allora non abbiamo che l'idea di cose concrete e particolari. Ablùamo invece in mente dei concetti, e non delle cose particolari e concrete? ma allora non affermiamo e non giudichiamo di queste cose particolari e concrete, di cui non abljiamo l'idea. Il JVIill non ha jjen visto il punto preciso dove colpisce la sua obl)iezione. L'oggetto della credenza o dell'affermazione nO!i è, egli dice, il concetto o una relazione (jualuntiue del concetto, ma il fatto concepito. 11 fatto è una cosa e i i j[^~W^J»ffi'lgBÌi"fegWÌil!MaB>Ì il SUO concetto ne è sempre un'altra, e il giudizio concerne il fatto, non il concetto. (Filosofia cU Hamilton, e. 18^ trad. frane, pag. 398/ Ma che vi sarà nella nostra mente invece del fatto concepito ? vi sarà il concetto del fatto, o no ? vi sarà, io voglio dire, un concetto astratto, o Tidea di un fatto concreto e particolare? Se non vi saranno che delle ideo di fatti o cose concrete e particolari, e falso che noi non aljljiamo nello spirito cfie degli attributi, perché questi sono astratti, né degli oggetti particolari potrebbero stare fra loi^o nella rfìlazione di soggetto ed attributo. Vi saranno dunque dei concetti, e Topinione del Mill rientra nella teoria concettualista comune. Ma dice Mill: il giudizio afferma che gli attributi che formano il predicato sono uniti con ^li attributi clie formano il so^- getto, non però nella nostra concezione, ma in fatto; (ibid. pag. 408); e si può dire che il giudizio afferma che due concetti sono compatibili, ma nel senso che essi pos- sono essere realizzati obbiettivamente Vuno a lato delU altro, E dun(]ue il realismo che Mill vuole so- stituire al concettualismo ? Questa proposizione : « il corpo è grave », esprime secondo lui ciie due sistemi d' attri- buti, la gravità e la corporietà, coesistono e sono obbiet- tivamente r uno a lato deir altro : ma percliè due cose coesistano, bisogna già che siano due cose realmente di- stinte e ciascuna avente un'esistenza propria (1). Dirà il (1) Secondo il R \in, U\ proiuìsizioni che aflerinano hi situazione reciproca delle cose neUo spazio, e quelle che afierinano l'inerenza di più proi)rietà nello stesso soggetto, non sono die due varietà distinte delle ])roi)osizioni di coesistenza. « Invece d'una certa situa- zione locale con intervalli che i^ossono essere apprezzati numeri- camente, abbiamo (nelle seconde) la coesistenza di due o più at- tribu'i [josti in uno stesso luogo. Una massa d'oro contiene in cia- scuno dei suoi atomi gli attributi che caratterizzano questo me- tallo: il peso, il colore, il lustro, la durezza, eco:» {Logìra lib. 1. e. 3. 21). DuiKiue, secondo Hain, il peso dell'oro, il s^o colore giallo. Mill che noi prendiamo in un senso proprio ciò ch'egli ha detto solo in un senso traslato ? Ma se non si vuo- le stare al senso proprio, le sue espressioni non di- cono niente di preciso, e convengono egualmente a qualsiasi sistema, al realismo cosi bene che al con- cettualismo e al nominalismo. Poiché allora non di- rebbero se non questo : che la proposizione unisce due termini generali, di cui ciascuno può fare da predicato, e che se la proposizione è vera, deve esservi nella realtà un non so che, che corrisponde alla proposizione. Noi stiamo dunque in un trilemma che è fatale per la teoria dei concetti. Q Taffermazione del giudizio ha per oggetto delle cose concrete e particolari, e noi non possiamo avere nello spirito, quando giudichiamo, che le idee di cose con- crete e particolari. O l'oggetto deiraffermazione non è che una relazione tra concetti, e allora il giudizio concerne solo dei concetti, e non ha che fare con le cose reali. O infine il giudizio, mediante i concetti, stabilisce una unione o un rapporto qualunque tra cose reali, e in questo caso queste cose reali non possono essere degli oggetti o feno- meni concreti e particolari — perché, per ipotesi, le idee corrispondenti sono assenti dal nostro spirito — ma dalle realtà adequate ai concetti, cioè degU attributi obbiettiva- mente esistenti, delle astrazioni realizzate. Si é visto che noi crediamo naturalmente che, nell'atto del pensiero, non sono le rappresentazioni, ma gli oggetti stessi, che ci stanno dinnanzi allo spirito. Vi hanno dei filosofi i quali affermano che questa credenza naturale non c'inganna, e che il nostro pensiero prende e investe real- mente gli stessi oggetti reaU. Secondo noi questa é una il suo splendore, la durezza, la fusibilità, la duttiUtn, la capacità di essere; disciolto dall'acqua regia, sono delle entità situate in uno stesso luogo e contenute in ciascuna molecola d'oro. Ma se non è questa, che sarà mai la realizzazione delle astrazioni? 26 SAGGIO PRIMO illusione, 0 noi non possiamo avere iFinnanzi allo spirito che (Ielle idee o delle rappresentazioni; solamente queste rappresentazioni si scambiano e si confondono natural- mente con gli stessi oggetti rai)presentati. L^idea e la cosa hanno, per esprimerci cosi, la stessa forma, ma luna ha una esistenza subbiettiva, l'altra una esistenza obbiettiva: ora, (juando pensiamo, V idea ci ai)parifece come qualche cosa (H obljiettivo e di reale, che ha però la forma stessa dell' idea, in altri termini, noi obbiettiamo e realizziamo naturalmente le nostre idee. Cosi avviene che (juando noi giudicliiamo, ({uantunque non abbiamo nello spirito che delle idee, tuttavia IVjggetto del nostro giudizio sono i fenomeni o le cose stesse corrispondenti alle idee. Ma se noi aves- simo nello s[)irito dei concetti astratti, come potrebbero le nostre ailermazioni avere per oggetto le realtà ? soltanto obbiettivando e realizzando questi concetti astratti, metten- do al loro posto qualche cosa che avrebbe un' esistenza obbiettiva, ma che avrebbe pure la stessa forma delFidea astratta, cioè una astrazione obbiettivata e realizzata. A ciò si risponderà forse che, (juantun(|ue Toggetto reale deiratlermazione siano gli attributi astratti delle cose, e non le cose stesse nella loro concretezza, pure non è ne- cessario che ])erciò noi intendiamo di considerare questi attributi astratti come realmente distinti e separati ; noi non li distinguiamo che per una veduta mentale che li sc[»ara ciascuno dal resto della cosa concreta a cui ine- risce, ma senza ammettere perciò che essi esistano per se stessi, distinti e separati. Ma ragioniamo un poco sulla ipotesi della verità delle nostre credenze naturali, cioè sulla supposizione che il nostro pensiero colga l'oggetto stesso reale. Abbiamo <]'innanzi allo spirito un essere vi- vente dotato della forma umana, in una ])arola, un uomo; noi possiamo fare attenzione separatamente alla testa o ai pie(U, al lato destro, o al lato sinistro; il nostro pensiero può atterrare separatamente (jueste parti, ])erchè esistono separatamente. Ma come potrebbe il nostro pensiero affer- rare separatamente Tuna dalle altre Yesistenza o la vita o \^ figura umana, a meno che queste non siano delle parti realmente distinte ? E non importa die la nostra suppo- sizione sia falsa ; poiché, come la verità della credenza che il pensiero prende le cose stesse, implica che, se vi hanno idee astratte, esistono veramente delle cose a- stratte, cosi la semplice credenza naturale che il pensiero prende la realtà, implica, se vi hanno idee astratte, la cre- denza naturale che vi hanno delle cose astratte. § 8.^— Passiamo ad un altro mistero incomprensibile della teoria dei concetti. Un giudizio, secondo la dottrina comune, afferma che un ì)redicat(j conviene o no ad un soggetto : ora il soggetto può essere singolare, ma il pre- dicato deve essere sempre un termine generale, quindi un concetto. Cosi Y esercizio della facoltà del giudizio suppone necessariamente che si abljiano anteriormente dei concetti. Ma la formazione di un concetto alla sua volta suppone che si siano ì^ik fatti dei giudizi. Infat- ti supponiamo che noi ci formiamo la prima volta il concetto di una nuova classe : ìjisogna perciò che la no- stra memoria ci fornisca una folla di oggetti appartenenti alla classe, e che noi li paragoniamo, notando le somi- glianze che hanno fra di loro, e che li rendono capaci di entrare insieme a far parte di una classe, che allora viene rappresentata con un concetto Se poi vogliamo rifor- mare il nostro concetto, e renderlo più compiuto ed esatto non lo possiamo che dopo aver notato che un altro fatto, I>riiiia da noi negletto, accompagna costantemente ciascun complesso di fatti, cioè ciascun oggetto particolare, a cui corrisponde il concetto. Bisogna dunque aver percepiti degli oggetti, rammentarceli, paragonarli, ecc. Ma non si j)uò concepire un oggetto senza attenuare la coesistenza delle proprietà sensibili costituenti quest'oggetto, la sua permanenza nel tempo, in una parola, la coesione di tutto un gruppo di fenomeni, che sono caduti o possono cadere sotto i nostri sensi, successivi e simultanei. Non si può rammentarlo senza affermare che esso è esistito nel pas- sato ed è caduto sotto la nostra esperienza. Il paragone di tutti questi oggetti poi importa Y affermazione dei loro rapporti di somiglianza e di differenza. Dunque in un concetto sono, per dir cosi, condensati e fissati un gran numero di giudizi. Ora ciascuno di questi giu- dizi ha bisogno almeno di un concetto, T attributo. Osi dirà che sono giudizi estra - concettuali, i cui termini non sono un soggetto e un attributo, ma unicamente delle idee di fatti particolari ? Ciò sarebbe arbitrario, perchè ciascuno di questi giudizi è suscettibile di ricevere la for- ma della proposizione, e di avere per predicato un ter- mine generale. D'altronde Toggetto di questi giudizi non può differire sostanzialmente da quello di tutti gli altri; perchè, come abbiamo visto, in tutti i giudizi Taffermazio- ne, la credenza, volge sempre su dei fatti e sui loro rap- porti. Questo è dunque un circolo vizioso, ed è impossi- bile alla teoria dei concetti di uscirne con onore : la for- mazione di ogni giudizio suppone dei concetti antecedenti, e la formazione di ogni concetto suppone dei giudizi an- tecedenti. Forse la dottrina delle idee innate romperà, co- me credeva il Rosmini, questo circolo ? (1) no, perchè un po' di riflessione mostrerà che i concetti, che questi giu- dizi primitivi, anteriori alla formazione dei concetti acqui- siti, implicherebbero, sono le nozioni di fatti e di rap- porti tra i fatti, che non possono venirci evidentemente se non dairesperienza. § 9.^ Andiamo ora finalmente alla classificazione del (l) V. Rosmini Xuoco Saggio sulVovìgine delle idee, paragr. 41-45; e confi*. Ferrari — elio su questo punto è un rosminiano— Sa^^'iO sul principio e i limiti della filosofia della storia, cap. 1. giudizio. Come si sa, i concettualisti ammettono una dop- pia quantità o contenenza reciproca nei concetti. Una classe più generale contiene un certo numero di classi meno generali subordinate: tutti i predicati che possono attribuir- si alla classe pi ù generale, possono altresi attribuirsi alle classi subordinate, ma di più può a ciascuna di queste ultime attribuirsi un certo numero di predicati che le è speciale. I concettualisti dicono che il concetto della classe più generale contiene nella sua estensione i concetti delle classi subordinate, e il concetto di ciascuna di queste ul- timo classi contiene nella sua comprensione il concetto della classe più generale e inoltre una o più note che gli sono proprie. La contenenza o quantità in estensione è esterna ai concetti, appartenendo essa, piuttosto che ai concetti stessi, agli aggregati di oggetti classati insieme, a cui si riferiscono i concetti ; la contenenza o quantità in comprensione, al contrario, è una proprietà interna dei concetti, e si riferisce ai concetti stessi nella loro mutua relazione. Cosi* il concetto di animale contiene in sé o com- prende i concetti più generali di essere, di corpo, di vi^ venie, e, oltre di questi, una o più note, che potranno essere sensibile, semovente, ecc ; tutti questi concetti o note, comuni e proprie, sono contenuti in comprensione nel concetto di animale, e quindi appartengono intrinse- camente a questo concetto stesso. Viceversa i concetti di essere, di Qorpo, di vivente, contengono in estensione il concetto di animale, il quale per conseguenza, piutto- sto che far parte, per se stesso, di questi concetti per se stessi, si riferisce a una cosa che fa parte delle cose a cui questi concetti si riferiscono. É su questa relazione dei concetti che è fondata la divisione prin- cipale dei giudizi, in analitici e sintetici. Quando il concetto significato dal predicato è compreso nel o fa parte del concetto significato dal soggetto, il giudizio è analitico^ quando il concetto del predicato non fa parte del concetto J.t 1 del soggetto, ma tuttavia si afferma del soggetto, il giu- dizio è sintetico. Far parte o essere compreso vuol dire in queste definizioni essere contenuto in comprensione. Ma quando è che il concetto del predicato è compreso nel concetto del soggetto, cioè quali sono le note che un con- cetto, capace di Jungere da soggetto, contiene nella sua com[)rensione, e quali sono le note che non contiene ? La risposta a questa domanda, sulla quale pertanto deve essere t'ondata la legittimità della classazione dei giudizi in analitici e sintetici, ha gettato i filosofi in mille per- plessità, in mille difficoltà insolubili, in un laljirinto, in una parola, da cui è impossibile Tuscita. Il concetto è, come si ammette generalmente, il signi- ficato di un nome generale. Ora i logici distinguono nel senso di un nome la sua connotazione e la sua denota-^ zione. Un termine denota ciasomo degli oggetti partico- lari a cui esso si applica : uomOy p. e, denota ciascuno degli esseri particolari che vengono cosi chiamati. In quanto alla connotazione del nome, non sì potrebbe spie- garla con tuttala chiarezza necessaria senza pregiudicare la quistione antecedente; ma noi diremo, d'una maniera generale, che il nome connota ciò che si afferma d'un oggetto jjer ciò solo ciie gli si applica il nome. Ora che si afferma di un essere particolare, chiamandolo uomo ? che egli deve essere classato fra gli uomini, cioè che ha un certo rapporto di somiglianza con altri esseri già da noi conosciuti, e che siamo soliti chiamare uomini. Cosi jìrendendo per punto di partenza che il concetto è preci- samente ciò che il nome connota, si dirà che il concetto comprende quelle note o attributi, che noi intendiamo af- fermare di un oggetto mettendolo nella classe corrispondente e dandogli il nome di questa classe, note o attributi senza di cui esso non sarebbe classato e nominato cosi, ma altri- menti. A (j\iesto punto di vista, non tutti gli attributi che si possono affermare in generale degli oggetti di una classe, fanno parte del concetto di questa classe, ma solo ima porzione determinata di questi attributi. Tanto più che, siccome il senso, cioè la connotazione del nome deve essere la stessa per tutti (luelli che parlano la stessa hni?ua, senza di che non potrebbero intendersi fra loro, cosi nel concetto della classe— se il concetto è la connotazione del nome— non devono entrare che quegli attributi che tutti debbono conoscere perchè possano fare un retto uso del nome. Ma vi ha un altro punto di vista affatto differente, se si ha riguardo, piuttosto che alla connotazione del nome, cjuale noi Y abbiamo spiegata, alla sua denotazione. Che significa intatti uomo, se non gli oggetti reali che vengono •cosi chiamati ì In una proposizione che ha per soggetto qualche uomo o in generale Fuomo, qual è il soggetto reale del nostro giudizio, cioè qual è Toggetto di cui giudichiamo o affermiamo un certo predicato, se non gli uomini stessi, vale a (hre delle sostanze reali quali esistono effettivamente? fJra cosa può essere una sostanza, se non il tutto costi- tuito dalle sue proprietà o modi di essere? vi ha un at- tributo che non appartenga alFessere a cui si attribuisce, o non ne faccia parte ? Dunque, se ciascun oggetto signi- ficato dal nome è il tutto costituito dalle qualità o attri- buti che gli appartengono, il significato generale del nome, il concetto, non può essere che ciò che tutti gli oggetti nominati hanno di comune, vale a dire il complesso di tutte le note o attributi, che i)Ossono predicarsi di tutti gli og^^Qìiì della classe corrispondente. La divisione ordinaria del giudizio in anahtico e sin- tetico suppone il primo di questi due punti di vista. Essa è stata introdotta da Kant nella filosofia moderna, ce II corpo è esteso » è, secondo lui, un giudizio analitico, perchè Testensione è una nota che fa parte del concetto di corpo ; ma <r il corpo è grave ^> è sintetico, i)erchè la gravità non fa parte di questo concetto. Similmente, <^ Fuo- mo è un animale » sarebbe un giudizio analitico; ma « Tuomo è mentale» un giud zio sintetico. Il giudizio analitico è semplicemente dichiarativo, in quanto non fa che af- fennare esplicitamente una nota la quale trovavasi già contenuta, e quindi affermata implicitamente, nel con- cetto del soggetto; ma il giudizio sintetico è amplifica- tivo, cioè può darci una conoscenza veramente nuova. Di più, dice Kant, il giudizio analitico è di sua natura necessario, cioè tale che noi non potremmo concepire che il contrario abbia luogo di ciò che il giudizio afferma, ed a priori, cioè tale che, sebbene le nozioni del predicato e del soggetto possano esser venute dalFesperienza, pure si può, senza laiuto delFesperienza, conoscere che il predi- cato conviene al soggetto. Al contrario i giudizi sintetici sono, tutti secondo altri, solamente una parte secondo Kant, contingenti e a posteriori. Niente di più giusto che questi due caratteri assegnati da Kant ai giudizi analitici: infatti la falsità di un giudizio analitico, se vi hanno di tali giudizi, sarebbe una vera contraddizione nei termini. Noi facciamo quest' osservazione, per rammentarci che potremo servirci del criterio stesso di Kant per saggiare la sua dottrina. Sareljbe però un errore di credere che la classazione del giudizio in analitico e sintetico sia un'inven- zione nuova di pianta dello stesso Kant; essa è infatti un prò dotto naturale della dottrina dei concetti. Cosi questa distin- zione si trova già in Cocke, le proposizioni analitiche o dichia- rative di Kant non essendo altro che le proposizioni che Co- cke chiamava con poco rispetto frivole o anche verbali, e le sintetiche corrispondendo a quelle che questi chiamava istrut- tive o reali. (V. Saggio filosofico sulV intendimento umano, t. 4., e. 8). Di più il Balmes ha giustamente osservato che la distinzione Kantiana si trova pure, sotto altro nome, presso gli scolastici (v. Balmes Filosofia fondamentale, 1. 1. n. 191 e 192): questi distinguevano le proposizioni no^ae /)er se 0 notae ex terminis, e le proposizioni notae per aliud, una proposizione essendo note per se, quando il predicato I I è compreso nel significato del termine che è il soggetto della proposizione, o in altre parole, quando è un elemento della definizione di riuesto termine. Evidentemente le pro- IK>sizioni notae per se equivalgono ai giudizi analitici, e quelle notae per alind ai sintetici. In effetto, secondo i con- cettualisti, la definizione è appunto la esplicazione del concetto, la sua decomposizione nelle note parziali che Io costituiscono; donde si vede anche che il giudizio da Kant chiamato analitico non è che o una definizione o la parte di una definizione. § 10. Quando noi ci domandiamo— ammesso anche il presupposto che il contenuto del concetto deve desumersi dal senso in connotazione del nome corrispondente, — se un giudizio è analitico o no, cioè se l'attributo fa parte o no della comprensione del concetto del soggetto, noi ci tro- viamo il più spesso nella più grande perplessità. Cosi « Toro è un metallo giallo » è per Kant un giudizio analitico (v. Prolegomeni ad ogni metafisica futura, § 2): questi due concetti dunque, metallo e giallo, fanno parte secondo ldella comprensione del concetto delForo. iMa se il colore giallo è compreso nel concetto dell'oro, noi dobbiamo ugual- mente comprendervi il suo splendore. La durezza^'e la fissità, come anche la fusibilità, faranno parte ugualmente di questo concetto : e come non comprendervi ancora che esso è il più pesante di tutti i corpi ì Ma se noi vi com- prendiamo queste note, non vi jia ragione di escluderne la duttilità; e pertanto « l'oro è duttile » sarebbe, secondo il traduttore di Kant, un giudizio sintetico (v. Critica della ragion pura traduzione italiana, Introduzione, IV, quarta nota del traduttore). La capacità di essere disciolto nel- Tacqua regia farà pure parte del concetto delForo, essendo essa una delle proprietà che ci servono a differenziare questo metallo. E se noi ci decidiamo a far entrare nel concetto tutte queste proprietà, noi siamo costretti a con- tinuare a farvi entrare Tuna dopo Taltra tutte le proprietà 34 SAGGIO PRIMO conosciute deir oro. Non vi ha ragione decisiva per pre- ferire una ad un'altra; fermarci ad un punto qualunque sarebbe arbitrario. Si crederà forse di rispondere con precisione alla nostra domanda, dicendo che un giudizio è analitico, cioè che il concetto delFattributo fa parte della comprensione del con- cetto del soggetto, quando Tattributo fa parte delFessenza del soggetto, o, ciò che è dire lo stesso con altre parole, quando rattriìjuto è un elemento della definizione del sog- getto. Ma se vogliamo sapere ancora quaU attributi siano capaci di entrare, nella definizione del soggetto, o siano a lui essenziali, noi ci troviamo naturalmente nelle stesse perplessità. Cominciamo per determinare che cosa sia lessenza d una cosa, o, ciò che vale lo stesso, in die con- sista una definizione. Fra gli attributi o proprietà appartenenti ad un genere dato, gli antichi filosofi distinguevano come un piccolo nu- cleo (sufficiente a distinguere il genere da tutti gli altri) di proprietà riguardate come primitive e da cui si supponeva che tutte le altre derivassero; era questo nucleo che si chiamava propriamente l'essenza della cosa, e definizione la proposizione che Tesprimeva. Questa nozione, come ve- dremo nel 2^ Saggio (parte 1\ Appendice 1* al cap. 6*> e cap. 7»), venne introdotta da Platone : essa era uno degFin- gredienti della sua dialettica, e derivava dal suo metodo di divisione, Aristotile l'adottò ; e cosi venne naturalmente a fetr parte del bagaglio della metafisica, la quale, non contenta mai di conoscere Yqzi delle cose, ma aspirando a conoscere il Siózi, della stessa maniera che cerca il le- game intimo che unisce l'antecedente e il conseguente nella relazione causale, cosi vorrebbe trovare l'altro legame intimo che unisce le diverse proprietà coesistenti in un oggetto dato. Ma se si eccettui la geometria, non vi ha nella scienza alcuna di queste definizioni, espressive dell'essenza reale, e da cui tutte le altre proprietà della SUI LIMITI E l/OGGETTO DELLA CONOSCENZA A PRIOIU 35 cosa definita possano dedursi: le cose della natura sono for- nite d'un numero indefinito di proprietà, irriduttibili e sen- z'alcuna connessione percettibile a priori, e di cui molte certamente sono ancora sconosciute. Cosi, siccome le nuove proprietà delle cose sono state generalmente scoverte per l'osservazione^ e non derivate da qualche idea dell'essenza, *si venne naturalmente all'opinione pressoché universale che le essenze delle cose ci sono sconosciute : e l'essenza, che per quelli che introdussero questa nozione era ciò che più immediatamente e più chiaramente si conosceva delle cose, è divenuta, per conseguenza, ciò che vi ha in esse di più oscuro ed incomprensibile. Alla essenza reale degli antichi filosofi, per un efietto di questo agnosticismo, viene cosi ordinariamente, per gli usi della logica, sostituita, presso i moderni, l'essenza logica o nominale, che do- vrebl^e con più proprietà chiamarsi l'essenza concettuale. È a questo secondo senso della parola essenza che si ri- ferisce la distinzione tra gli attributi essenziali e i non essenziali, con cui ha da fare una teorica del giudizio. L'essenza d'una cosa, in questo senso, è l'insieme delle proprietà che costituiscono il concetto di questa cosa, o la connotazione del suo nome; e la definizione, per con- seguenza, l'analisi del concetto, o la spiegazione del senso (in connotazione) della parola. Cosi, se domandiamo quali siano gli attributi che vanno compresi nel concetto, ci si risponderà che sono quelli che fanno parte dell'essenza o della definizione ; ma se vogliamo sapere quali siano gli attributi che fanno parte dell'essenza o della defini- zione, ci si dirà che sono quelli compresi nel concetto. Tuttavia, siccome i logici concettualisti hanno dato un'e- sposizione più sviluppata della dottrina della definizione che di quella del concetto, noi possiamo sperare di ri- schiarare la seconda per la prima. Quando si tratta di determinare quali siano gli attributi che costituiscono l'essenza, o che devono entrare nella 36 SAGGIO PRIMO SU[ LIMITI E l'oggetto DELLA CONOSCENZA A PRIORI definizione, riappariscono naturalmente i due punti di vista sulla comprensione del concetto, di cui sopra ab- biamo fatto menzione. La maggior pfirte dei logici inse- gnano che la definizione si fa per il genere prossimo e la differenza specifica : cosi sarebbero due i concetti ele- mentari che devono entrare nella definizione. Questa dot- trina sulla definizione è un antecedente naturale della teoria che per determinare la comprensione del concetto, parte dalla connotazione del nome, quale noi Y abbiamo già spiegata. Questa ultima teoria infatti avendo bisogno dì nn minimum di note per la costituzione del concetto, trovò naturalmente ciò che le occorreva nella dottrina comune della definizione. Ma vi hanno altri filosofi, come il Bain, i quaU pensano che nella definizione devono entrare tutti gli attributi ultimi o irriduttibili della classe che sono co- nosciuti (1). Si può certamente ammettere come più con- ci) V. Bain Logica, 1. l, e. 2. Cosi la mortalità fa parte, secon- do Baìn, della essenza dell'uomo, e dicendo «ruomo è mortale», non si esprimerebbe che una parte della defmizione deiruomo, es- sendo la mortalità un attributo primitivo degli esseri viventi, che non può dedursi da alcun altro. Ma « r uomo fa la cucma » non esprime una parte della defmizione, perchè quest'attributo deriva da un attributo anteriore dell'uomo, ch'egli è industrioso, e que- st'altro deriva dagli attributi realmente primitivi, e quindi essen- ziali che è intelligente e ha delle mani (n. 16). Il Bain distingue, coi logici antichi, dagh attributi essenziali a primitivi, cioè quelli che entrano nella detlnizione, non solo i pro- pri, che derivano da quelli, ma anche gli accidentali. Tuttavia un accidente rigorosamente universale, o inseparabile, non diffe- risce al fondo, come dice egli stesso, da un attributo essenziale- (n. 18), e deve quindi considerarsi come tale, ed entrare nella de- finizione. Secondo il Bain, la defmizione classica per genas et (UtJeren^ tiam, e così pure ogni altra defmizione che non esaurisce la tota- lità deizli attributi essenziali o irriduttibili della classe, e una de- finizione incompleta : essa serve, non ad esprimere tutta la con- forme all'uso ordinario della definizione, ed anche al senso etimologico della stessa parola defmizione, che non sia ne- cessario di racchiudervi tutti gli attributi della classe, e nemmeno gFirriduttibili, ma semplicemente quelli che ba- stano a distinguere gli oggetti appartenenti alla classe da tutti gli altri oggetti che esistono fuori della classe, ed è su ciò che è fondata la regola ordinaria, secondo cui basta una sola differenza specifica per formare la defini- zione. Ma questo processo non deve illuderci fino al punto di credere che questa capacità di definire o differenziare notazione della classe, come fa la definizione completa, ma sola- mente a distinguerla da ogni altra classe. A parte la dottrina della connotazione dei nomi, sulla quale noi ritorneremo, ({uesta distin- zione del Bain della definizione completa (che espone tutti i ca- ratteri primitivi o irriduttibili della ciassc) e della definizione in- completa (che distingue la classe da tutte le altre), si può ammet- tere, quantunque sarebbe forse più proprio e più conforme all'uso della parola definizione, di chiamare piuttosto descrizioni le de- finizioni complete del Bain, quando esse comprendono molti ca- ratteri. Anche per il Mill è una definizione incompleta quella che si fa per il genere e la differenza (Logica, 1. 1, e. 8, § 3) : ma il Mill non si allontana tanto quanto il Bain da questa forma tradizionale della definizione ; una definizione completa, per il primo, non essendo, come per il secondo, la enumerazione di tutti i caratteri (irridut- tibili) della classe. Per il Bain tutti questi caratteri entrano neUa connotazione del nome, e quindi nefia definizione, ma per il Mill solo un numero limitato di essi. « L' uomo è mortale », non è per Mill un predicato essenziale, ma lo è per Bain, sin tanto almeno che non si mostrerà che la mortalità è un proprium, derivante da qualche attributo essenziale dell'uomo e, in generale, degli esseri viventi. Noi andiamo a mostrare che la dottrina sulla connotazione dei nomi, sulla quale è fondata questa esclusione della più parte dei caratteri (d' altronde universali e irriduttibili) di una classe dalia sua essenza, non è che una mera finzione dei logici. Non può farsi alcun uso corretto della parola essenza, se non per designare la somma di tutti i caratteri (almeno i non derivati) comuni a una data classe di oggetti. una classe sia la prerogativa esclusiva di quella tale dif- ferenza specifica che noi mettiamo nella nostra definizio- ne, e che le note che noi scegliamo per una definizione abbiano con la natura della cosa o con la nozione di essa un rap{3orto molto più intimo che qualsiasi altro at- tributo conosciuto della cosa. Questo non sarebbe che un pregiudizio trasmessoci dair antica teoria realista delFes- senza che, come si sa, ha formato il punto di partenza di tutte le ricerche logiche di quest'ordine. « L'uomo è un animale ragionevole », è senza dubbio una definizione pre- feribile a qualsiasi altra dcfinizion i dell'uomo, perchè essa fa comprendere il più facilmente quale sia l'oggetto definito, il genere prossimo essendo di quelli di cui tutti hanno un'i- dea sufficientemente esatta, e la differenza essendo ugual- mente conosciuta da tutti come un carattere differenziale tra il definito e le altre specie del genere. Non è certamente facile, per gli esseri naturali, di trovare molte definizioni simih. Ma che cosa vieterebbe di definire l'uomo altrimen- ti, prendendo per genere, non l'animale, ma il vertebrato o il mammifero o qualsiasi altra delle classi d'ordine inle- riore, a cui può essere subordinato l' uomo, e per diffe- renza il bimane, p. e., o qualsiasi altra particolarità della struttura umana, capace a distinguere la nostra specie da tutte le altre del genere riguardato come prossimo ? Ora non è di questa maniera evidente che qualunque proprietà sia generica sia specifica dell'uomo sarebbe capace di entrare in una definizione di esso ? Ma si crede che la differenza specifica di una vera defini- zione logica sia, non più veramente un attributo più fondamentale nella natura della cosa, ma un attributo im- plicato invariabilmente nella connotazione del nome, e che, per questa ragione, fa parte della comprensione del concetto. È ciò infatti che si vuol dire al fondo, quando si dice, con linguaggio pieno di mistero, che un attributo essenziale è ciò senza di cui la cosa finirebte di essere CIO che è: ciò che è significa un uomo, un cavallo, un albero, ecc.; e un attributo essenziale ò cosi ciò senza di cui la cosa non sarebbe chiamata uomo, cavallo o albero. Ora, ò vero che tutte le note di una definizione, fatta secondo le regole dei logici, sono implicate invariabilmente nella connotazione del nome? Se fosse cosi, noi chiamerem- mo invariabilmente uomo qualsiasi essere, reale o immagi- nario, che avesse insieme con l'animafità l'attributo ragFo- nevole, e rifiuteremmo con la stessa costanza questo nome a qualsiasi essere non avente quest'attributo Ma un po' di riflessione mostrerà che non è cosi clie noi facciamo di fatto. Immaginiamo infatti clic esistessero dei pappagalli, o altri esseri organizzati aventi una struttura assai^ di- versa dall'umana, i quali nelle loro parole e nei loro atti mostrassero altrettanta ragione che l'uomo : è certo che noi non chiameremmo affatto uomini queste creature im- maginarie. Supponiamo invece, come tante volte ne è corsa la voce per il passato, che si scopra una razza di esseri, simili in tutto nella forma e nella struttura all'uomo, ma che non avessero V uso del linguaggio e della ragione : è quasi certo che noi li chiameremmo uomini. E sen- 7^ correre tanto con 1' inunaginazione, non chiamiama forse uomini gì' idioti ? Si dirà forse che la definizione trasmessaci dagli antichi è insufficiente, e che avreb- be bisognato definire 1' uomo anzitutto per la sua figura esteriore. Cerchiamo dunque di definirlo cosi. Certamente noi non diremo, come Democrito (1), che 1' uomo Jia la Jtf/nra che conosciamo, se vogliano fare una definizione;. ma determineremo i caratteri della figura esteriore che sono propri dell'uomo. Ora dobbiamo noi ammettere che un essere deve avere precisamente tutte le particolarità di questa forma esteriore per potere essere chiamato uomo?; (1) V. Aristotile De partiba^ animalUini, iib. 1., e. l, e Sesto Empirico Adrcrms Mathematicos ma per il passato è corsa pure la voce deiresistenza di uomini, simili in tutto a noi, dotati di i)arola e di ragione, ma con una coda pelosa fra le gambe, il che, se esistes- sero in realtà, non c'impedirebbe certamente di chia- marli uomini. Se dunque non è il possesso di tutte le ])artico- larità 0 attributi della forma esteriore, che sarebbe necessa- rio per applicare il nome, allora Tuna delle due: o l'assenza o presenza della coda verrebbe considerata come una parti- colarità insignificante, ma vi sarebbero altre parti più im- portanti della figura umana che sarebbero considerate come necessarie; o nessuna delle particolarità della forma sa- rebbe necessaria, ma ciascuna isolatamente potreljbe va- riare, purché un certo numero di esse o la maggior parte restasse invariabile. Ora noi non possiamo ammettere il primo dei due casi, perclie come si è parlato di uomini con la coda, si è ugualmente parlato di uomini senza testa o aventi la testa sotto le spalle: non vi ha dunc^ue parte alcuna o carattere della forma esteriore, la cui presenza si ritenga necessaria per applicare il nome. È il secondo caso che si deve ammettere ? ma sarebbe confessare che nessuna delle note della definizione accompagna invaria- bilmente l'impiego del nome uomo (1). Cosi qualunque sia il numero delle note che facciamo entrare nella definizione, sia che ci contentiamo di una sola differenza specifica sia che ne impieghiamo molte allo stesso tempo^ non è mai NcUa connotazione dì uomo, dice Mill, vi lui cortamente una certa forma esteriore, ma sarel)be impossibile di dire qual devia- zione dalla forma ordinaria sia sufficiente per rifiutare il nome di uomof/.or/iVa, lib. 1., e. 2.. ^ 5). Ma cosi dicendo il Mill confessa che l'applicazione del nome non è fondata sulla partecipazione di certi caratteri determinati, ma sovra una somiglianza generale. L'ap- plicazione del nome non importa dunque V attribuzione di certi predicati definiti: ma che diventa ollora la dottrina della connota- zione dei nomi ? Questa oljbiezione d'altronde rientra nella difficoltà sollevata da una pro]>oslzione di Wewell, di cui appresso. ammissibile che le note della definizione accompagnino invariabilmente l'applicazione del nome, e facciano parte della sua connotazione. Intanto è ciò che deve necessaria- mente pretendere la dottrina che identifica la comprensione del concetto con la connotazione del nome, dottrina che è tutto quello che i concettualisti hanno detto di chiaro su questa comprensione. L' imposizione di un nome o Y aggregazione ad una classe non implica che una somiglianza generale del nuovo membro con gli altri membri conosciuti della classe stabilita; non importa la riconoscenza di un gruppo pre- ciso di caratteri speciali definiti, che siano rigorosamente comuni a tutta la classe. Io voglio dire che se un buon numero di questi caratteri speciali si trova ordinariamente comune a tutti i membri della classe, tuttavia nessuno di questi caratteri, preso isolatamente, si ritiene come asso- lutamente necessario ]:)erchò un altro membro si faccia rientrare nella classe. Se un naturalista conosce una specie per quanto ben definita, ma poi viene a trovare un grup- po d'individui, che manchino di uno qualunque o più dei caratteri specifici che definiscono la specie stabilita, egnon esisterà a classare questi nuovi campioni come una semplice varietà della stessa specie, purché essi siano suf- ficientemente vicini agh individui già conosciuti. Vi hanno anche, come osserva Darwin (Origine delle specie, cap. 14^), delle classi nella storia naturale, in cui due forme situate agh estremi opposti della serie, possono appena avere un sol carattere comune di quelli su cui la classe è fondata, o anche non avere affatto alcun carattere comune; ma siccome nondimeno tutte le forme della serie sono connesse l'una con l'altra per una catena continua di affinità, ciò basta per farle riconoscere tutte come appartenenti alla classe. Cosi alcuni, come Wewell, hanno proposto di fon- dare la classificazione, non sovra un gruppo di caratteri definiti comuni, ma sul grado di affinità con dei tipi che ^m-^ possano rapi )resen tare la classe. (1) E in generale, nella formazione di una classe, no' non incominciamo per ista- bilire una definizione, alla quale contiamo di uniformarci strettamente per conoscere Y estensione possibile della (l) MiLT. ninntiene contro Wcwell rafTcrmazionc clic una classe è fondata sulla definizione, cioè sul possesso di caratteri determi- nati. Tuttavia eirli ammette che i caratteri, in ragione di cui sono costituiti i grui>i>i naturali, cosi bene che le classi artificiali, sono, non i soli caratteri rigorosamente comuni a tutti gli oggetti com- presi nel grupi)0, ma riuelli che si trovano tutti nella più parte degli oggetti, e la più i»arte in tutti {Lor/ìca, 1. 4. e. 7. j^ar. 3 e 4). 11 Mill dice altrove (1. 1. e. 5. par. 6) che in questo caso, cioè (pian- ilo un nome di classe viene alTermato d'una sostnnza. la (fuale non possiede che alcune delle proprietà caratterizzanti la classe, ciò cìie si afferma non è il possesso di un certo numero di predicati definiti, ma semplicemente la somiglianza con gli altri oggetti de- signati dol nome. Quindi . secondo lui, il senso del nome è ditt'e- rente, quando viene applicato a un individuo normale (rigorosa- mente conforme alla definizione), e quando a un individuo ano- malo. 1/ ambiguità del termine in questo caso sarebbe perfetta, essendo diversa tanto la denotazione quanto la connotazione. Una classe sarebbe dun(iue formata. i)rima da un gruppo d'individui rigorosamente conformi alla definizione, e sarel)be la classe pro- priamente detta ; poi da un' appendice, composta dei casi aber- ranti, riuniti attorno alla classe, ma fuori, a parlar proi>riamente, di questa, quantunque i>iù vicini ad essa che alle altre classi. Il nome di classe non si applicherei)! )e con proprietà che al primo gruppo. Cosi, se noi volessimo esprimerci esattamente, noi noi> dovremmo, secondo 1 principi! tlel Mill, dire, p. e., d'un idiota; (luesto è un uomo ; ma l>ensi : (juesto non è uomo, ma è simile airuomof(cfr. Loche Saf7{//o ecc., 1.4. e. 4. par. 13 e seg.). Ora siccome per ogni gruppo naturale, noi i^ossiamo sempre supporre di questi individui anomali (non conformi rigorosamente alla definizione», della classe), ne segue che ogni nome dì classe è in realtà ambi- guo : ma allora, Tapplicazione di un nome di classe non implica piìt Taffermazione di attributi definiti, e non vi ha più alcun criterio per distinguere la i^roposizione analitica dalla i^roposizione sin^ letica. Il Bain si propone anch' egli la difficoltà sollevata dal Wewell (lib. 4. e. 3, 8), «Noi possiamo immaginare, egli dice, un gruppo tò classe; ma prima stabiliamo la classe per Tapprezzamento complessivo delle affinità reciproche fra i suoi membri, di cui alcune forse indefinibili e insignificanti, e delle dif- ferenze tra essi e i membri delle altre classi, e poi cer- formato da dieci caratteri, ma composto d'individui, nei quali uno o due di questi caratteri non sono marcati, benché si rassomiglino per il più gran numero di caratteri. Noi possiamo anche fare ([uesta supposizione estrema, che la fluttuazione è t^le che alcuno dei dieci caratteri non persiste in tutti gl'individui, donde, rigorosa- mente, noi potremmo concludere che non vi ha più un sol carat- tere comune, benché vi siano un gran numero di rassomiglianze*. « La difllcoltà sollevata da Wewell, soggiunge il Bain, può essere risoluta, se si accorda l'esistenza d'un margine, d'un intervallo vago, d'una transizione incerta, che è essenziale a dei cosi di con- tinuità molto meno complicati che non lo è la distinzione dei grup- pi in storia naturale » (p. e. la transizione fra la notte e il giorno, fra lo stato solido e lo stato li(iuido, fra cui vi hanno delle gra- dazioni insensibili, in modo che è impossibile di tirare una linea preciso di separazione. È su casi simili che si fondava l'antico so- lìsma del sorite o del cumulo, (v. lib 4. e. 1, 3). Si può osservare anzitutto su questa soluzione del Bain, che nei casi della quistione di Wewell non si tratta d'una transizione in- certa o indeterminata : gl'individui anomali il più spesso vengono senza esitazione ricondotti a una classe, non vi ha dubl)ìo ch'es- si appartengano a una specie o a un genere dato. Ma anche il fatto d' una transizione incerta sarebbe una dilTìcoltà grave per la dottrina del Bain della definizione e della connotazione dei nomi: se vi hanno dei casi tali, che è dubbio se gl'individui appartengano a una classe data e se il nome generale debba applicarsi, ciò pro- va che la classazione e l'applicazione del nome non implicano l'af- fermazione di caratteri definiti. La ditlicoltà. contenuta nella pro- posizione del Wewell è anche per il Bain più grave che per il Mill: <piesti infatti, per cui la definizione o la connotazione non com- prende la totalità dei caratteri ultimi del genere, potrebbe, nella maggior parte dei casi, togliersi d'imbarazzo, rispondendo che il carattere, per la cui assenza l'individuo si pretende diifórme dalla definizione del genere, non entra invece in questa definizione. Ma nella dottrina del Bain, ])er cui tutti i caratteri della classe entrano nella definizione, qualsiasi anomalia ne costituisce una ditformità, e si corre il rischio che tutti gì' individui nella specie e tutte le 44 n II? fi ! t I chiamo quali siano i caratteri rigorosamente comuni che possano definire la classe. Perciò dice Linneo: Seias cha^ racterem non costiiuere gcnus, sed geniis characterem. Characterem filiere e genere, non genus e charaetere, Charactereni non esse ut genus fìat, sed ut genus no- scaiur, (Pkilosophia botanica, sez. 169) In una parola, la 'formazione della classe é logicamente anteriore alla sua specie nel genere siano anomali, e nessuno sia rigorosamente con- forme alla delinizione. P. e. la variabilità dei muscoli nei corpo umano è tale, che fra trentasei soggetti studiati da un anatomista, non ve ne era un solo « che non si dipartisse al tutto dalle regole descritte del sistema muscolare che si trovano in tutti i trattati d'anatomia ». (V. Darwin Onfjlne deiruomOy e. 4. Noi raccoman- diamo Darwin all'attenzione dei concettualisti. È evidente per noi che la dottrina dei concetti, come la dottrina platonica o hegeliana delle Idee, deve supporre la fissità delle specie). Noi abbiamo fatto valere la difficoltà contenuta nella dottrina di Wewell, contro l'esistenza dei concetti complessi, cioè analiz- zabili in altri concetti più semplici : ma è evidente che un'obbie- zione analoga può elevarsi contro i concetti che non sono analiz- zabili. Vi hanno nella natura, secondo l'osservazione del Bain, dei casi in cui esiste una transizione continua fra un genere e un altro, in modo che sarebbe impossibile di tirare una linea di separazione, p. e. tra il solido e il liquido, la luce e loscurità, il caldo e il freddo. Ma anche nei casi in cui questa transizione manca nella realtà, ci è sempre possibile d'immaginarla : p. e. per quanto ben delimitate possano essere le forine specifiche delle cose, noi possiamo sem- pre immaginare una catena di forme intermediarie che riunisca due forme differenti (lualuncpie. È impossibile di dire per tutti que- sti casi, reali o immaginari, dove un concetto finisce e dove un ^oltro incomincia. Tuttavia il concetto è qualche cosa di fisso e di determinato : esso è una parte o un elemento delle rapr)resenta- zioni particolari, che si trova identicamente in tutte (juelle che sono ad esso subordinate. Ma se è cosi, in qualsiasi rappresentazione particolare il concetto o esiste o non esiste: ogn' indeterminazione, ogn' incertezza sulla sua presenza o sulla sua assenza è qualche cosa d'inconcepibile. Se il solido e il liquido fossero la partecipa- zione di un solido in sé e di un liquido in sé come diceva Platone, la continuità fra questi due stati della materia sarebbe impossibile.. definizione : (pesta è fondata sulla nozione della classe ^ non la nozione della classe sulla definizione. Una definizione dunque non può pregiudicare sulFesten- sione possibile della classe. L.a riduzione di un nuovo cam- pione sotto la classe, o la imposiziono del nome a questo, non implica la riconoscenza, in esso, di una somma de- terminata di caratteri definiti, ma solo una somiglianza, generale con gli altri membri conosciuti della classe ; la definizione non circoscrive i hmiti dentro di cui ci rite- niamo abilitati ad applicare il nome, ma dice soltanto i caratteri, tutti o alcuni, che sin qui si sono ritrovati co- muni a tutti o quasi tutti gl'individui che portano il nome. La definizione dunque non analizza il senso del nome, la sua connotazione: essa, per conseguenza, non decompone il concetto nelle sue note costitutive, come pretendono i concettualisti, e non ne determina la comprensione. Ma qui si eleverà una obbiezione. Se la definizione non- esprime lessenza o la natura intima dell'oggetto definito, se essa, per dirlo con la parola ricevuta, non è reale, che altro potrà essere se non nominale, e che altra cosa po- trà esprimere se non il senso del nome, la sua connota- zione ? Noi risponderemo che la definizione non definisce il nome — o meglio, il concetto, come vuol dire al fondo questa teoria — ma gli oggetti reali nominati ; essa distin- gue questi oggetti da tutti gì i altri, se è incompleta ; se è completa, ne esprime tutti gli attributi comuni fondamen- tali. Sotto questo punto di vista, ogni definizione è rea- le ; ma molte definizioni possono dirsi a buon dritto no- minali, in quanto esse non hanno altra utilità, airinluori di l'arci riconoscere gli oggetti che portano il nome. Sa- rebbe però un'improprietà di chiamare nominale una de- finizione, il cui oggetto speciale non sia d'insegnarci l'u- so di un nome : cosi vi hanno in geometria delle defini- zioni, che devono dirsi meritamente reali o essenziali nel senso antico, in quanto esse affermano della forma geometrica una proprietà immediatamente conosciuta, alla quale tutte le altre proprietà si riattaccano, per un mgio- namento puramente deduttivo (1). § 11.°— La divisione del giudizio in analitico e sinte- tico, quale è stata ammessa da Kant, riposa in ultima (1) Nella dottrina (Iella definizione del Mir.L. che (luesfautore dà per nominanza, ma che viceversa è concettualista, ogni defini- zione è di nome. Ma una volta mancata la ])ase della dottrina dei concetti e della connotazione dei nomi, questa opinione diventa insostenibile. La definizione di nome non espone, come vuole il Mill, i predicati compresi nella connotazione del nome, ma insegna l'uso del nome, indicando la classe a cui questo va applicato. Una de- finizione (lunciue, il cui scopo speciale non sia d'insegnare l'uso del nome, cioè a quali oggetti questo deve applicarsi, non è una flefinizione di nomCy ma di cosa. La definizione completa del Bain 'di una classe naturale (noi abbiamo già fatto le nostre riserve su quest'uso della parola definizione), la quale esaurisce la totalità dei caratteri fondamentali della classe, non ha per oggetto d'inse- gnarci l'uso flel nome, ma piuttosto di darci una conoscenza .scien- tifica della cosa. La definizione geometrica della retta, del cer- chio ecc. (che sono certamente delle definizioni nel senso più stret- to della parolo). non hanno lo scopo d'insegnarci il significato del nome . ma di segnalare la proprietà essenziale, immediatamente conosciuta, che verrà in seguito invocata per la dimostrazione dei teoremi. Tali definizioni non potrebbero essere considerate come definizioni dei nomi, se non ammessa la finzione logica che la de- finizione analizzi la connotazione del nome, questa connotazione consistendo in un gruppo determinato d'attributi. La distinzione fra definizioni di nome e di cosa non coincide interamente con quella fra definizioni incomplete e complete. La definizione di un gruppo naturale in un sistema di classificazione artificiale, è una definizione incompleta: ma è una definizione di cosa e non di nome, perchè il suo oggetto è di indicare il posto che la classe definita occupa nel sistema. Al contrario la definizione dell'eloquenza, « il potere d' agire sui sentimenti e sulla condotta degli uomini per mezzo del discorso», o quella dell'eredità, «un patrimonio ottenuto per diritto dalla morte di alcuno », sono "de- finizioni complete ; ma sono definizioni di nome, perchè non hanno altra utilità che d'insegnarci il retto uso della parola. Il Mill ammette che le definizioni scientifiche, sia di un termine tecnico, .sia di un termine comune impiegato in un senso tecnico, il analisi, come abbiaftìo detto, sul presupposto che Timposi- zione del nome implica Taffermazione di certi attributi de- ^ terminati, e quindi,';clie questi attributi costituiscono il .'senso del nome, cioè il concetto. Ascoltiamo infatti il Mill, if quale : più chiaramente e più profond£m>ente che alcun altro ha e- spostoiliondamcnto di questa divisioTie. Dopo avere rimpro- verato ad Hamilton che questi fa tutti i giudizi anahtici. per- chè comprende nel concetto tutti gli attributi conosciuti del genere, egli dice: «Il concetto d'un genere;il mioconcetto d'uo- • sogliono avere per oggetto speciale, non di spiegare il senso di un nome, ma di segnare dei limiti in una classificazione scientifica • (lib. 1, c.S, par. 4). I logici antichi, egli aggiunge giustamente, sem- brano aver creduto che la definizione ordinaria (per genus et dii-ferentiam) avea per oggetto di formulare la classificazione usuale e, secondo loro, naturale delle cose. Nondimeno persiste a chia- mare tah definizioni definizioni di nome; perchè eiili dice se l-i definizione è l'esposizione completa della connotazione del nome e già per ciò stesso sufficiente a fissare i limiti della classe ed è quindi tutto ciò che può essere una definizione (ini) ' I nomi di una nomenclatura tecnica (p. e. della botanica) hanno per connotazione, secondo il Mill, i caratteri per cui la classe è defimta secondo lo scopo speciale propostosi : è questa connota- zione particolare, egli dice, che fa il senso del nome, perchè noi ci fondiamo sui caratteri per applicarlo. Se ai primi caratteri si sostituiscono altri caratteri come più i^roprii a distinguere la spe- cie, 1 senso del nome cangia, secondo l'autore, quatunque la classe %Tr. V^V^"^"^'^"^- ^' ^- ^' P^^- ^^ Uomo, egli dice altrove (hb. 1. e. 7, par. 6), nell'uso comune connota la razionalità ma nella classificazione di un naturalista può avere una connota- zione differente ; p. e. nel sistema di Linneo connota: «quattro denti incisivi a ciascuna mascella, dei canini solitari, e la stazione retta ». La parola uomo ha dunque due sensi differenti, quantun- que denoti sempre la stessa cosa; e l'ambiguità, aggiunge il Mill diverrebbe evidente, se supponiamo che si scoprisse qualche nuo- vo ammale avente i tre caratteri di Linneo, ma non quelli conno- tati nell accezione comune del nome uomo. I Linneani allora se ve ne fossero, o dovrebbero chiamare questi nuov i animali « uomi- ni », o dovrebbero abbandonare la classificazione, e con essa la sìgn.flcazione tecnica del termine. In verità l'esito dell'alternativa iiiMilia'aiimiiwa» mo p. e., in quanto é distinto dalla mia rappresentazione mentale d'un uomo individuale, racchiude, non tutti gli attributi che io assegno alluomo, ma quelli soltanto di essi su cui riposa la classazìone, e che sono implicati nel senso del nome. L'uomo è un essere vivente o Tuomo è ragionevole, sarebbero dei giudizi analitici, perchè gli at- tributi vita e ragione sono del numero di quelli che si trovano già nel concetto uomo. Ma: Tuomo è mortale, sarebbe contato come un giudizio sintetico, poiché, per proposta ai Linncani non potrebbe essere dubbio: essi al)bando- nerebbero la definizione, e continuerebbero a fare del nome uomo lo stesso uso cbe ne facciamo noi. Ciò mostra che non è sui caratteri definiti, come vuole il Miil, che noi ci fondiamo per apiilicare il nome, e che è una pura finzione il dire con lui che l'autore di una nuova definizione scientifica cangia il senso del termine, anche quando le cose denotate restano le stesse. Ma se si rigetta (juesta finzione logica della connotazione dei nomi, diviene evidente, per la stessa confessione del Mill, che una definizione scientifica, aven- rio per oggetto speciale piuttosto «li stabilir*^ una classazione che di far conoscere fuso di un termine, è una definizione,di cosa piuttosto che di nome. Nella dottrina del P,ain non vi ha più distinzione possibile tra definizioni di nonij e di co^a ; il senso in connotazione del nome <! il complesso dei caratteri irriduttibili della classe coincidendo per quest'autore. La distinzione tradizionale non ha più senso per lui: egli sembra pensare (generalizzando una veduta di Mill sulle definizioni della matematica) che le definizioni reali si applicano agli oggetti reali, ma le definizioni nominali alle idee, non essendo necessario che ad esse corrispondono degli oggetti reali. (Logica alla fine del e. 1 del lib 4). \\ Bain si accorse che la distinzione fra gli attributi irriduttibili di una classe, supposta dal Mifi, di cui alcuni sono compresi noWessen^a o nella connotazione del nome, ed altri esclusi, è priva affatto di fondamento, ed egli fa certa- mente un uso più legittimo della parola essen:^a. Ma il suo torto è per ciò stesso più grave che quello del Mill, quando egli ammet- te con lui che i predicati essenziali, che entrano tutti nella defini- zione completa, sono, non reali, ma puramente verbali. È che il Bain ammette anch' egli la dottrina concettuafista della connota- zione dei nomi. Questo è un punto su cui in seguito ritorneremo. (juanto ordinario sia il fatto, esso non era già affermato nel nome stesso uomo, ma è stato aggiunto nel predicato ». (Filosofìa (li Hamilton, cap. 18^^) E più lungi ; « I nomi de- vono essere i segni dei concetti, e i concetti il senso dei nomi. Perchè ciò sia vero, bisogna che il concetto non si componga che degli altri biiti connotati dal nome. Corpo- reità, vita, ragione ed altri attributi dell'uomo che fanno parte del senso della parola, in molo cho là dove questi attributi non sono, noi possiamo rifiutare il nome d'uo^ tao — (jucsti attributi fanno parte del concetto. Ma la mor- talità e tutti gli altri attributi umani che fanno il soggetto dei trattati sia sul corpo umano sia sulla natura umana, non sono nel concetto, perchè noi non li affermiamo d'un individuo per il solo fatto di chiamarlo uomo; sono al- trettante conoscenze addizionali. Il concetto uomo non è la somma di tutti gli attributi d'un uomo, ma solamente degli attributi essenziali, di quelli che fanno ch'egli è un uomo ; in altri termini, quelli su cui é basato il genere uomo, e che sono connotati dal nome, ciò che si chiamava Tessenza deiruomo, ciò senza di cui l'uomo non può es- sere, o non sarebbe ciò che si dice che egli è. Senza la mortalità o senza trentadue denti, sarebbe ancora chia- mato uomo: noi non diremmo che egli non è un uomo, ma diremmo: quest'uomo non è mortale, o ha meno di trenta.lue denti ». {ibid). Tutto ciò che dice Mill si riduce a questo: che gli attributi che fanno parte del concetto, sono quelli che noi dobbiamo riconoscere in un individuo per poterlo ri- durre sotto una classe, e che quindi intendiamo affer- mare di lui dandogli il* nome corrispondente. Perchè « at- tributi su cui riposa la classazione » o « è fondato il ge- nere », « attributi che fanno parte del senso del nome » 0 « della sua connotazione, » « attributi che sono es- senziali all'uomo » e « fanno ch'egli è un uomo ed è chia- mato cosi »: tutte queste e le altre non sono che delle espressioni sinonime di un solo fatto, il quale non ò al t'ondo se non l'operazione mentale unica, che noi sotto un aspet- to chiamiamo imposizione di un nome, e sotto un altro riduzione ad una classe. Ora noi abbiamo visto che non vi ha alcuno dei caratteri definiti speciali alla classe sta- bilita, il quale debba invariabilmente accompagnare la ri- duzione sotto la classe e Tapplicazione del nome corrispon- dente. La divisione Kantiana dei giudizi in analitici e sinte- tici pecca dunque nella sua base, ed è puramente arbitraria. Ma a provare il carattere arbitrario di questa divisione bastano gli esempi con cui i migliori autori illustrano la teoria. « L'oro è un metallo giallo » è una proposizione ana- litica secondo Kant, ma « Toro è duttile » è sintetica se- condo il suo traduttore. « l 'uomo è ragionevole » è analitica secondo Mill, « l'uomo è mortale » sintetica. « La neve è bianca » è analitica per Galluppi, « è fredda » sintetica (v. Galluppi Elementi di filosofia, tomo 1,^ c.^ 2,^ § l(j ;. Cosi, applicando il criterio dello stesso Kant, le prime di queste coppie di proposizioni sono a priori e necessarie, le seconde a posteriori e contingenti. Ora ammettiamo che « l'oro è un metallo » sia un giudizio a priori; ma si può dire lo stesso di quest'altro : « l'oro è giallo » ? Am- mettiamo ugualmente che la proposizione «l'uomo è ani- male» sia a priori; ma sarà anche a priori la proposi- zione « l'uomo é ragionevole » ? Cosi pure «la neve è un corpo » sarà a priori ; ma lo sarà del pari « la neve è bianca » ? « Non mi faccio io, domanda Hume^, un'idea chia- ra e distinta d'un corpo cadente dalle nubi, e simile alla neve per ogni aspetto, il quale avrebbe il gusto del sale, e farebbe l'impressione al tatto come la fiamma ?. {Saggi sulV intendimento umano, Saggio 4<^, parte seconda). Per- ciò è parso al Galluppi che « la neve è fredda » sia una proposizione a posteriori e sintetica, mentre «la neve è un corpo, cadente dalle nubi, bianco, » sarebbero a priori ed analitiche. Ma non mi faccio io un'idea chiara e di- stinta d'un corpo cadente dalle nubi, a fiocchi, nato dalla congelazione del vapore e freddo come la neve, e avente tutte le altre proprietà della neve, salvo il colore, che sa- rebbe, p. e. ; non bianco, ma grigio ? Non potremmo noi immaginare un metallo che abbia tutte le proprietà del- l'oro, ma che non sia giallo ? non potremmo noi immagi- nare che questo stesso corpo che noi chiamiamo oro e siamo soUti di vedere di colore giallo, perda in certe cir- costanze questo colore, e ne acquisti un altro ? ma se mai venisse scoperto l'oro in Quest'altro stato, se si venisse anche a scoprire (e non vi ha in ciò inconcepibilità alcu- na) che quest'altro stato dell'oro fosse, non un caso ecce- zionale, ma il caso più frequente, esiterebbero forse i chi- mici a chiamarlo egualmentete oro ? Cosi ancora non vi ha impossibilità alcuna ad immaginare degli esseri che abbiano in tutto la forma umana e tutte le altre proprietà dell'uomo, ma che non siano dotati di ragione; non è nem- meno inconcepibile che i discendenti degli uomini attuali siano sempre di regola idioti, e solo per eccezione nasca nell'avvenire qualche uomo ragionevole, come attualmen- te (jualchc idiota. Tutte queste supposizioni sono cer- tamente, per quanto ne possiamo sapere, impossibih, e l'uomo sarà sempre ragionevole, come l'oro sarà sempre giallo, e la neve bianca. Ma l'uomo sarà sempre anche mortale, e l'oro sarà sempre duttile, e la neve fredda. Nondi- meno si sostiene che a l'oro è giallo » sia una proposizio- ne a priori, «l'oro è duttile» a posteriori; « l'uomo è ra- gionevole j» a priori, «l'uomo è mortale» a posteriori; <fi la neve é bianca » a priori, e é fredda » a posteriori. Ma per- chè mai dunque ? Perchè si pretende che ragionevole fac- cia parte del concetto di uomo, e mortale no ; che giallo faccia parte del concetto di oro, e duttile no; bianca del concetto di neve, e fredda no. L'uomo non ragionevole, si dice, non sarebbe uomo, e l'oro non giallo non sarebbe oro, né neve la neve non bianca. Ma né più né meno, rispondiamo noi, che l'uomo non mortale, e l'oro non duttile, e la neve non fredda. Se un essere, reale o immagi- nario, somigliante in tutto alluomo ma non ragionevole, non avrebbe la natura umana e non dovrebbe chiamarsi uomo, lo stesso deve dirsi di un essere, simile in tutto al- luomo, ma che non fosse mortale, o non avesse due pie- di e due mani, o avesse certi organi, quali si siano, diffe- renti dai nostri. Se invece si dirà di quest ultimo che è un uomo, i)erchè non lo si dirà egualmente del primo? Similmente, se Toro non duttile sarà ancora oro, perchè Toro non giallo non lo sarà del pari ? E se la neve non fredda sarà neve, perchè non lo sarà la neve non bian- ca? Si definiscano come si vogliano le cose, o i concetti delle cose, se vi hanno concetti (e niente dovrebbe essere più facile che lare una definizione, se vero che la defi- nizione sia la decomposizione del concetto); si vedrà che, se si possono trovare dei generi suscettibili di tare da pre- dicati in una proposizione a priori, non è possibile, nella massima parte dei casi, che la difi'erenza specifica possa fungere da predicato in una proposizione ugualmente a priori- noi vedremo a suo luogo il perchè di questa dif- ferenza—Ma è richiesto dalla dottrina dei giudizi analiti-- ci, anzi in generale dalla dottrina dei concetti (se pure il concetto deve avere una comprensione determinata), che ogni concetto sia capace di essere il soggetto almeno di due proposizioni a priori, neir una delle quali V attributo sia il genere, e nell*altra la differenza specifica. Il crite- rio stesso di cui Kant si serve per riconoscere il giudizio analitico, mostra dunque che non vi hanno giudizi anali- tici, nel senso di Kant, e che la dottrina dei logici della comprensione dei concetti, di cui ciucila del giudizio ana- litico è una conseguenza necessaria, è ijuindi inammis- sibile. §. 12.^ Quando Kant chiama dicJiiarativo il giudizio analitico, egli cerca di nobilitarlo: il vero si è che questi giudizi, se ve ne fossero, sarebbero puramente verbali, co- -a Irf. i I me si esprimono i logici positivisti inglesi, anzi sarebbero addirittura delle proposizioni interamente frivole, come di- ceva Locke. Esse non avrebbero che la forma della pro- posizione, ma non esprimerebbero alcun giudizio reale, alcun giudizio, cioè, di cui si potrebbe dire è vero o é falso. Che verità o falsità—se pure la verità consiste nella conformità del nostro pensiero con le cose— potrebbe es- servi in queste, chiamiamole proposizioni, tautologiche : « un animale ragionevole è ragionevole », ovvero < un cor- po' cadente dalfaria a fiocchi e bianco è bianco. »? Ma è ciò in realtà che vogliamo dire, quando diciamo: «luomo e ragionevole », « la neve è bianca » ? Ciò che noi vogliamo affermare è qualche cosa sui fatti obbiettivi, sulfesistenza di questi latti, sui loro rapporti reali. « Ogni uomo è ra- gionevole » vuol dire che esistono certi oggetti o gruppi di fenomeni, tali che loro è ajìplicaljile tanto il nome uomo quanto il nome ragionevole; ma non esistono oggetti o gruppi di fenomeni, tali che il nome uomo fosse loro ap- plicabile, ma non il nome ragionevole. O per dire la stessa cosa con altre parole, che i fenomeni della ragione coesi- stono invariabilmente con gli altri fenomeni degh uomini. Similmente, « la neve è bianca » significa che esistono og- getti tali che il nome neve e il nome bianco sono loro ap- plicabili, ma non esistono oggetti tali che il primo nome fosse loro applicabile, e il secondo no. Si troverà certa- mente più plausibile che queste proposizioni: «luomo è un animale », « la neve è un corpo », siano analitiche : in- fatti noi non chiameremmo uomo alcun essere, reale o immaginario, che non potesse pure essere da noi chiamato animale, né neve alcun oggettto che non potessimo dire corpo. Tuttavia un po' di riflessione mostrerà clie nem- meno questi sono dei giudizi propriamente analitici, cioè tali che per ottenerli bisogni e basti decomporre fidea del soggetto, e cosi trovarvi quella del predicato. Questi giu- dizi invece sarebbero impossibili, se noi non mettessimo il soggetto in relazione con qualche altra cosa diversa dal soggetto, o, per parlare il linguaggio concettualista, Tidea del soggetto con qualche idea al di fuori di essa. Si conver- rà infatti che il concetto di animale non è nato che per la comparazione di certi oggetti naturali. Dunque nella sua prima origine questo concetto, cioè la classe degli ani- mali, doveva estendersi a molte specie di animali e con- tenerle. Mano mano altre specie vennero aggregate al ge- nere, perché riconosciute sufficientemente affini alle prime. Or bene ! o Tuomo formava parte delle specie comparate insieme quando la prima volta sorse il concetto di anima- le, e in questo caso, dicendo « Tuomo è un animale », non: facciamo che ricordarci e ripetere il giudizio di questa comparazione da cui ebbe origine il concetto di animale; o noi abbiamo riconosciuto, dopo Torigine della nozione del genere animale, che Tuomo è un animale^, e questa ri- conoscenza non ha potuto essa pure consistere che nel risultato di un atto più o meno complesso di comparazio- ne. Dunque questo giudizio originalmente non viene dalla decomposizione della nozione di uomo^ ma da una com- parazione della specie umana, o, se si vuole^, dell'idea della specie umana, con altre cose o con le idee di queste cose, e afferma la relazione che è il risultato di questa compara- zione. I/operazione mentale che la proposizione «Tuomo è un animale » implica, non può dunque differire essenzial- mente dall'operazione mentale che arriva a queste altre proposizioni: «Tuomo» o « la balena» «é un mammifero *, proposizioni che i naturalisti non trovarono certamente per la decomposizione di un concetto, ma per lo studio comparativo degli esseri reali. Lo stesso ragionamento puà applicarsi alle proposizioni «la neve è un corpo», «Toro è un metallo», ecc: esse non esprimono che il risultata di un paragone. Similmente, l'esempio tipico di Kant: « \\ corpo è esteso », non esprime clie il risultato del parago- ne del corpo con lo spazio vuoto, o che noi diciamo vuota perclié non vi scorgiamo oggetti sensibili— lo spazio vua to essendo la sola cosa che abbia comune col corpo il nome di esteso— E in una parola, si esaminino tutte le proposizioni che hanno spiccatamente il carattere anali- tico, cioè che più somigliano ai tipi megUo scelti di que- sta pretesa classe di giudizi; si vedrà facilmente che es- se non sono affatto analitiche nel senso che vengano dalla decomposizione del concetto del soggetto, ma che sono tutte il risultato di una comparazione del soggetto con altre cose che trascendono la nozione del soggetto stesso. §. 13.<^ Noi faremo infine un'altra obbiezione alla di- stinzione ordinaria del giudizio in analitico e sintetico. Essa riposa, come abbiamo visto, sulla supposizione che la com- prensione, o, come dicono i Tedeschi, il contenuto del con- cetto, sia costituito, non da tutti gli attributi della classe, ma da un minimum determinato di questi attributi. Ora, cosi essendo^ il soggetto della proposizione non può indi- care che questo minimum di attributi : il soggetto di una proposizione gcnersCle sull'uomo sarà non l'uomo concreto con tutte le proprietà che si trovano in quest'essere, ma r animalità congiunta alla razionalità, se queste note bastano alla definizione dell' uomo, o, se non bastano, il soggetto comprenderà, oltre di questi, qualche altro attri- buto astratto dell'uomo. Il Mill ammette esplicitamente questa conseguenza della sua dottrina (v. Filosofia di Hamilton, e. 18 e 22). Ogni proposizione, egU dice, afferma che un attributo fa parte d'un sistema d'attributi (anali- tica) o coesiste invariabilmente con essi (sintetica). Cosi, « l'uomo è bipede », se questa proposizione è sintetica, vuol dire che l'attributo IMpede coesiste con l'animalità, la ra- zionalità, ecc. Ma se è cosi, obbietta il Alili a se stesso, perchè la proposizione enuncia i nomi concreti delle cose, e non i nomi astratti degli attributi ? Perchè nelle nostre proposizioni noi partiamo dei pesci e non della pisceiM, dei corpi e non della corporeità, degli uomini e non dell’animalità con la razionalità ecc : ? É, egli dice, perchè « il principio che serve di base al lunguaggio consiste a nominare dapprima gli oggetti concreti. » « Siccome per concepire gli oggetti —ed anche le classi di oggetti — biso- gna uno sforzo ben minore d'astrazione che per gli at-, cosi sono essi che neirordine necessario delle cose vengono concepiti e nominati in primo luogo, e che re- stano sempri i più familiari allo spirito ». Mi sembra che il Mill, con questa risposta, debba recedere dalla sua as-serzione generale; poiché se i primi nomi ebbero solo un senso concreto e non un senso astratto, se essi non indicavano che degli oggetti e delle classi di oggetti ; sic- • come le parole non si trovano altrove che nelle propo- sizioni, vi fu dunque un tempo in cui il soggetto indicava delle sostanze concrete e non degli attributi astratti, e in cui perciò la proposizione non affermava, come vuole il Mill, unicamente la coesistenza o TincompatibiUtà degli attributi. Ma, ciò che più importa, la risposta del Mill non tocca il vero punto della difficoità : si tratta di sapere se i soggetti delle proposizioni siano degli oggetti concreti o degli attributi astratti. Ora è evidente che sono degli oggetti concreti, e Kant ha ragione di dire che ciò che è nella categoria di sostanza fa la funzione di soggetto nel giudizio. Ed è tanto più strano che il Mill lo neghi, quando egli stesso ha già tanto insistito contro i concettualisti sul fatto che Tatfermazione volge sulle cose reali e non sui concetti (1). Ala il soggetto è precisamente ci('j di cui ( é si giudica, cioè la cosa reale e concreta. Quindi T'idea del soggetto e Tidea d'una cosa reale e concreta, e se la proposizione é generale, non può essere che l'idea di una classe di cose reali e concrete Ora l'idea di un oggetto con- creto non è l'idea di alcune proprietà dell'oggetto, astratte, cioè separate, dal resto; ma l'idea di tutte le proprietà, poiché l'oggetto equivale al complesso delle sue proprietà.Ciò essendo, esaminiamo un poco le proposizioni, di cui si ammette che sono sinteticlie, come queste : « l'uomo è bipede », o « è vertebrato », o « ha trentadue denti ». Questi attributi non si trovano fuori dell'uomo, né l'uomo esiste senza questi attributi ; in altri termini, questi attributi fan- no parte del soggetto uomo, e non si potrebbero predicare di lui se non ne facessero parte, o, per parlare senza rea- lizzare delle astrazioni, se i due piedi, le vertebre e i trentadue denti non facessero parte dell'uomo. Dunque la proposizione non afferma che un attributo coesiste con altri attributi, ma che un attributo fa parte del soggetto, o vi è contenuto. E siccome invece delle cose noi abbiamo nello spirito le idee, o le rappresentazioni, di esse, cosi a questa relazione obbiettiva fra il soggetto reale e il suo predicato, deve corrispondere una relazione subbiettiva identica fra l'idea del soggetto e quella del predicato. Sot- to questo punto di vista, le proposizioni sarebbero dunque non sintetiche, ma analiticlie; ed eccoci arrivati all'altra forma della teoria concettualista, quella che, come ab- biamo detto, nella determinazione (lei contenuto del con- II MiLf, conviene talvolta clic nella proposizione noi prendiamo il soggetto nella sua estensione; ma questa estensione non è com- presa direttamente, bensi attraverso gli attril)uti, cioè la connota- zione {Logica^ 1. 1, e. 5, § 4). Ora che cosa può essere nella nostra mente questo soggetto preso nella sua estensione? La totalità delle cose concrete e particolari denotate dal nome? ma è impossibile di pensare a tutte. Alcune ? ma allora il soggetto non sarel)be preso in tutta la suaesteasione. O non vi hanno, come dicono i veri nomi- nalisti, che soli giudizi concreti e parlicolari; o se vi hnnnogiudixii generali, il soggetto preso in tutta la sua estensione non può es- sere che una idea generale, un concetto. Ora il concetto non è altra cosa, dice il Mill, che la connotazione. In che duiKiue il soggetto preso nella sua estensione, che noi comprendiamo solo mediatii- menLe,può ditterire dalla sua connotazione, clie noi comi)rendiamo immediatamente? Misteri del concettualismo! cetto, prende per misura la denotazione del nome piut- tosto che la sua connotazione. § 14«. Noi abbiamo visto infatti che la connotazione del nome non può fornire un criterio per separare gli attributi di una classe in due parti, di cui Tuna sarebbe contenuta nel concetto e Taltra resterebbe fuori del con- cetto; che cosi questa separazione è puramente arbitraria, e non vi ha alcuna ragione per preferire questi o quelli tra gli attributi propri della classe, facendoli entrare nel concetto air esclusione di tutti gli altri, mentre non vi ha alcuno di questi attributi che accompagni invariabil- mente r applicazione del nome. Ma se è cosi,,non resta altro partito che di aprire la porta a tutti gli attributi, e comprenderli tutti nel contenuto del concetto. È questo il fondamento della seconda teoria concettualista del giu- dizio, di cui ora diremo. Secondo questa teoria, tutte le proposizioni sono ana- litiche, o almeno tutte le proposizioni universali afferma- tive categoriche, o se non tutte le categoriche, quelle al- meno che sono qualificative, cioè che attribuiscono una qualità inerente al soggetto per se stesso, e non una re- lazione del soggetto con un'altra cosa (1). Il soggetto, di- (l) Questa seconda maniera di determino re la comprensione del concetto non può essa pure evitare l'incertezza e Tarbitrarìetà nel- V applicazione, e non può fornire un criterio sicuro per decidere quali proposizioni siano analiticlie e quali no. Per mostrare ciò di ima maniera succinta, enumereremo alcune forme o classi delle proposizioni, il cui carattere analitico resta dubbio al punto di vista della teoria. P/opo^ùiofic ipotetirhe. Queste dovrebl)ero restare all' infuori della teoria, perchè nelle proposizioni analitiche si tratta di una relazione fra il soggetto e il predicato, mentre nelle ipotetiche la relazione è fra una proi)Osizione e un'altra. Ma una proposizione ipotetica ha spesso un' equivalente sotto forma categorica. «Un corpo lìcrsiste nel suo stato di quiete o di moto, se una causa este- riore non lo muta»: è una proposizione essenzialmente ipotetica cono i propugnatori di questa dottrina, é il concetto d'una cosa, e il predicato è il concetto d'una sua proprietà, qua- lità 0 modificazione: come attribuire ad una cosa una proprietà che non le appartiene, che non si concepisce come appartenente ad essa ? Dati due concetti, T uno di cosa e Taltro di qualità, non possono unirsi come soggetto e predicato in un giudizio, se non in quanto si concepi- sce la cosa o il soggetto come contenente la qualità o il predicato, o, in altre parole, in quanto si ha il concetto del soggetto come contenente il predicato. Cosi il concetto del predicato essendo sempre contenuto nel concetto del soggetto, ne segue che il concetto d una classe deve com- che può pure enunciarsi sotto forma categorica, cosi : « La materia è inerte />. Dire che un corpo è solido, e«iuivale a dire che se la mia mano farà pressione su di esso, io sentirò della resistenza, o i generale, che questo corpo olfrirà della resistenzs, se una causa esteriore tenderà a mutare la i>osizione reciproca delle sue parti. Similmente, dire che un corpo ha un certo colore, e(iuivale a dire che se un fascio di raggi luminosi cade sul corpo, esso rilletterà certi raggi determinati. Cosi fra proposizioni ipotetiche e catego- riche può stabilirsi una differenza grammaticale, ma non logica. Proposizioni particolaii. « Alcuni uomini sono dotti » non jìo- trel)l)e essere una proposizione analitica, percìièda una parte dotto non è un attributo del genere, e d'altra parte la voce alcuni è un termine dimostrativo, e non attributivo, né può (juindi niente ag- giungere alla comprensione del concetto, di cui non modifica die l'estensione. Se il concetto «dotti» fosse contenuto nel concetto « alcuni uomini », noi non itotremmo dire mai: « Alcuni uomini sonoignoranti». Tuttavia A. Franchi {Teorica del giudizio, lett. 2, IX), sostiene che questa è una proposizione analitica, perchè l'attributo della dottrina inerisce o appartiene agli uomini di cui si parla, cosi bene che la ragione, o qualsiasi altro attril)uto del genere, a tutti gli uomini. Proposizioni negatile. Una tale proposizione esclude rattri])uto dal soggetto, non lo include: come dunque potrebl)e l'attributo essere contenuto nel soggetto, e il giudizio essere analitico? Tut- tavia non hanno mancato dei filosofi . tra cui citerò il Lindner (Compendio di logica formale, Dottrina elementare, 2 sezione, § 27;, il Galluppi (Saggio sulla critica della conoscenza, tomo 4 «^ 38. smess CO prendere tutte le note che possono predicarsi della classe. D'altronde il concetto dovendo rappresentare la natura o r essenza della cosa, e questa natura o essenza non potendo consistere che nel complesso delle proprietà della cosa— poiché una essenza costituita solo da un minimum di proprietà non è che una finzione metafisica (essenza reale degli antichi) o una finzione logica (essenza nomi- nale o logica dei moderni)— il concetto d una classe non può essere quindi formato che dairinsieme degli attributi della classe, e cosi ogni giudizio, almeno se è universale ed affermativo, non può essere che analitico (v. special- mente A. Franchi Teorica del giudìzio, lettera 2^ li - VI, lett. 4^ X, lett. 7^ XI, lett. l:> XIX -XXI, ecc). tomo f) 5^ 72, ecc. ) e lo stesso Kant ( Critica della ragion pura, Analitica trascendentale, lib. 2, cap. 2. sez. 1 e sez. 2 sul prin- cipio), che hanno riconosciuto il carattere analitico anche in tali proposizioni, in quanto, come dice il primo, il giudizio anahtico hnporta che non si deve uscir fuori della comprensione dei con- cetti, soggetto ed attributo, per vedere la loro compatibilità o in- compatibilità. Di fatti, quando diciamo «luomo è un animale», e «l'uomo non è una pianta», l'operazione mentale checiueste due proposizioni supi^ongono, non può ditlerire essenzialmente. Aggiun- giamo elio talvolta le cose non potrebbero meglio esser definito che per la negazione di qualche attributo. Se vi ha un concetto della pianta, come non includere in esso l'assenza della sensi])ilitn, quando i)er il maggior numero è questo il carattere distintivo fra la i)ianta e l'animale ? Giadizi di relazione. Alcuni, come il Krause e il Drobisch (v. A. Franchi, Teorica del giudizio, lettera 15, 11-Vl), distinguono i giu- dizi die affermano una proprietà che si trova nel soggetto stesso, e quelli che affermano una relazione del soggetto con un termine diverso da lui. I primi sarebbero analitici, e i secondi sintetici. Ma questa distinzione è necessariamente incerta ed arbitraria GH at- tributi indispensaljili per costituire il concetto d'un oggetto, se si ammette che possiamo formarci di questo oggetto un concetto qualsiasi, non possono non annoverarsi tra i predicati che danno luogo alla prima classe di giudizii. Ma che cosa resterà del con- cetto dei corpi, se si tolgono gli attributi, che loro provengono Contro questa dottrina si ripresentano naturalmente, ma molto più gravi, le obbiezioni già fatte al giudizio anahtico della divisione kantiana. La distinzione, ammessa in tutti i tempi, fra verità necessarie (di cui V opposto è inconcepibile; e verità contingenti (di cui l'opposto può concepirsi) non è compatibile con questa dottrina : tutti i giudizii divengono necessari, perchè direbbe una contrad- dizione colui che negasse un attributo, il quale già fa par- te del concetto del soggetto. Ogni giudizio infatti per questa dottrina non sarebbe che tautologico, e Tatto del daha relazione con altre cose? Noi non conosciamo e non distin- guiamo 1 corpi che per la loro azione su noi stessi (sui nostri sensi) (i sugli altri corpi, in una parola per le loro proi)rietà relative e una proposizione che aiferma ciascuna di queste proprietà, espri- me un giudizio di relazione.Giudizi comparatici. Questa sarebbe la specie più certa dei giu- dizi (h relazione : cosi A. Franchi (V. op. cit. lett. 2. 11, lett 3 VI ecc.) esita a riconoscere in queste proposizioni il carattere anali- tico, anzi lo nega addirittura. Ma tanti altri filosofi, che pure non estendono quanto il Franchi la classe dei giudizi analitici, ma am- mettono la distinzione ordinaria in analitici e sintetici, dichiarano le proposizioni comparative essenzialmeate analitiche, perchè la relazione scaturisce necessariamente dai termini comparati ed è COSI implicitamente contenuta in (juesti termini, che devono con- siderarsi come il soggetto del giudizio. Noi abbiamo visto anche che gh esempli più tipici delle proposizioni analitiche esprimono dei giudizi comparativi. Cosi per la maggior parte dei filosofi che ammettono la distinzione ordinaria dei giudizi analitici e sintetici le proposizioni matematiche, che sono la classe più importante dei giudizn comparativi, sono delle proposizioni analitiche, e tra questi lllosoh bisogna comprendere anche il Krause. In seguito parleremo più diflusamente di quest'argomento : per ora notiamo quanto deve essere oscura ed arbitraria la nozione del giudizio analitico, quando gli stessi giudizi, che per alcuni costituiscono la porzione più im- portante, la sola importante quasi, deha classe dei giudizi anali- tici, por altri invece sono i soli forse fra i giudizi categorici, che devono escludersi da questa classe. Io non spingerò più oltre questa enumerazione, per amore di brevità. I giudicare diventerebbe il più frivolo esercizio dello spi- rito. Tutte le proposizioni, o alm eno tutte le proposizioni generali, sarebbero verbali, come dicono i logici inglesi, e nessuna reale e istruttiva. Ora, era già diffìcile il cre- dere che delle proposizioni come queste : « Tuomo è animale », « è ragionevole *, fossero puramente verbali, e non potessero apprenderci niente più del senso delle parole. Ma cUe diremo, quando si pretende che proposizioni come queste altre: «Fuomo è un mammifero placentato», «la materia è grave *, « è inerte », siano anch'esse verbali e identiche? (1). Infatti, si volga la cosa come si vuole, se (3) Il Bain, ammettendo clie tutti i caratteri ultimi di un genere entrano nella definizione, e che la definizione non è che l'analisi del senso in connotazione del nome, ha fatto un passo considere- vole verso la dottrina che tutti i giudizi (universali) sono analitici. La dottrina presenta anche sotto la forma del Bain un aspetto più paradossastico, per la semplice ragione che, presso i logici inglesi, la nozione del giudizio anahtico non si trova più involta in una specie di misticismo, come presso la più parte degli altri filosofi, ma il giudizio analitico è chiaramente presentato come un giudizio tautologico e verbale. Secondo il Bain, la proposizione : «La materia è inerte », è pu- ramente tautologica e verbale . poiché chi comprende il senso (scientifico) di materia, sa che vi è contenuta la proprietà dell'iner- zia (1' espressione di questa proprietà essendo la prima legge del movimento di Newton ). Così pure . quando il naturalista espone tutti i caratteri ultimi di una specie (e non importa se questi ca- ratteri sono più di dieci o di cento), egli non fa che una proi)Osi- zione verbale e identica : sia che i caratteri vengano espressi tutti congiuntamente (nella definizione), sia ciascuno separatamente, vi ha in amendue i casi, non una predicazione realCy ma rerbale. In verità il Bain non espone questa dottrina senza fare delle riserve. Vi ha dei casi, secondo lui, in cui la predicazione, in tali proposizioni, ù reale, e non verbale e tautologica, e questi casi si riducono a tre : L Alcuno può essere imperfettamente istruito delle proprietà di una classe complessa, quantunque ne sappia abbastanza^ per riconoscerla : le proprietà che egli ignora, necessariamente, non sono per lui implicate nel senso della parola; ogni determi- nazione dunque, aggiunta a ciò che è già implicato nella parola, questa proposizione : ce il corpo è grave )> è analitica, essa non vorrà mai dire altro che questo : e ciò che e esteso, im- penetrabile e grave, è grave ». Ammetttiamo pure che la proposizione dica d'una maniera distinta ciò che il sog- getto diceva d'una maniera indistinta, che in essa si dica esplicitamente ciò che nel soggetto si diceva solo implici- tamente. Ma è vero o no che, secondo questa dottrina, prima di giudicare che il corpo è grave, bisogna aver concepito già il corpo come grave, e quindi aver cono- sciuto che il corpo è grave ? Ma a che serve allora il giudizio? Del resto, quand'anche noi avessimo, prima di costituirà unairermazione sintetica o reale. Ma questa determina- zione nuova, una volta comunicata, compresa e impressa nella memoria, cesserà essa stessa di essere un predicato reale, e di- verrà, a partire da questo momento, una proposizione verbale o analitica, poiché non farà che ripetere ciò che il nome suggerisce o connota da se stesso, per ognuno di cui le conoscenze sono state -aumentate in questo senso. Tutte le proprietà nuovamente scover- te sono dei predicati reali, quando per la T>rima volta si presen- tano a noi ; ma dacché sono state introdotte nella scienza, esse divengono verbali . (Noi vedremo che su (juesta veduta si fonda una terza dottrina intermediaria sui giudizi analitici e sintetici). 2. La proposizione può supporre il risultato d'un' induzione ante- riore, la quale ha costatato il fatto che le proprietà d' una classe complessa o d'una nozione sono realmente unite nella natura. Cosi delle affermazioni come le seguenti : « L' affinità chimica è sotto- messa a delle proporzioni definite ; essa produce calore ; essa è seguita da un cangiamento di proprietà », costituiscono una serie di proposizioni verbali o analitiche, le parole «affinità chimica» esprimendo (piesti tre tatti. Ma vi ha al fondo una predicazione reale, cioè che l'unione in proporzioni definite di due corpi è ac- compagnata da una produzione di calore e da un cangiameto di proprietà. 3. La proposizione verbale può utilmente essere impie- gata come un memento, sia che si voglia esporre un fatto cono- sciuto, sia che si voglia prenderio come principio a fine di tirar- ne una conseguenza {Logica, \\h. 1 e. 2. n. 9). Riassumendo, il Bain ammette che, sotto la forma di una proposizione verbale o ana- htica, può contenersi un' aflermazione reale o sintetica, e ciò av- viene quando la [)roposizione comunica o rammenta la conoscenza fare questo giudizio: «il corpo è grave ^ la nozione del corpo come "grave, sarebbe sempre un errore di credere che il senso di (juesta proposizione sia quello che devono supporre i filosofi che la ritengono analitica. Ciò che noi intendiamo dire effettivamente per (jnesta proposizione, sia la prima volta o no che noi la torniamo, è che è un tatto generale nella natura che par tutto dove vi ha ma- teria neir universo, riuesta materia è sempre grave; che non sincontra mai il caso che vi sia un corpo, ma npn sia grave; insomma che esiste o non esiste (lualche cosa nella realtà, un latto o una legge, e che è questo Toggetto della nostra affermazione. Al contrario, un giudizio ana- (li qualche fatto, di (iiialclie coesistenza di attributi. Ma è eviden- te? che 1 casi clie il Bain dà come eccezioni, costituiscono invece la regola, e che l'eccezione è quando una delle proposizioni, che egli chiama analitiche, ha per oggetto di spiegare una parola. Tuttavia la quistione è. si può dire, senza interesse, quando si tratta unicamente di apprezzare la dottrina dei giudizi analitici. Sia una serie di proposizioni, in cui si contenga la descrizione di una spe- cie naturale, p. e. deU' ossigeno, la enumerazione deUe sue pro- prietà fondamentah. « La forma tecnica e corretta di queste pro- posizioni sarebhe, dice il Bain, questa: esiste nella natura un ag- gregato di (lualità che sono : la materia, la trasparenza, lo stato gazoso, un peso speciftco e un potere di combinazione determi- nati, e cosi di seguito: a questo aggregato di proprietà si è ap- plicato il nome di ossigeno». Vi ha qui dunque al tempo stesso una proposizione reale : esiste nella natura un aggregato di qua- lità, ecc., e una proposizione verbale : a quest'aggregato si è dato il nome di ossigeno. Il Bain considera contuttociò come verbaU le proposizioni contenenti la descrizione deU'ossigeno, come se esse avessero per oggetto principale di darci la conoscenza dell'uso di un nome, e solo accidentalmente ci dessero la conoscenza di un fatto; altri più facilmente considererà come oggetto piicipale la conoscenza della cosa, e come accessorio quella del nome. Ma in seguito viene la quistione : una proposizione verbale è, in quanto verbale, una proiX)sizione analitica o tautologica? Al contrario, essa è una proposizione istruttiva e sintetica ; essa c'istruisce sul- luso di un nome, ci fa conoscere un rapporto particolare di con- comitanza fra una parola e la presenza di una classe determinata litico non può avere alcuna presa sulla realtà, sull'esi- stenza : esso afferma che un oggetto, che può essere reale o solo possibile, il quale insieme ad altri attributi abbia la gravità, è grave; ma se vi siano o no dei corpi gravi, di oggetti o la loro rappresentazione. «Le proposizioni verl)ali, dice il Bain, ci apprendono, da un lato, qual nome bisogna applicare a una cosa data ; e dall'altra parte c'insegnano il senso d'una pa- rola data ». È questo dunque che intendono i logici inglesi chia- mando verbale una proposizione : il Mill definisce le proposizioni verbali della stessa maniera. Così essendo, proposizione analitica per i logici inglesi, vuol dire, non proposizione verbale (che è una specie di proposizione sintetica), ma proposizione identica tau- tologica. Ora una proposizione tautologica non è una proposizio- ne, nel senso logico di questa parola : essa è tanto una proposi- zione quanto una petalo prlncipU è un ragionamento. La petitio pruicipu SI dà l'aria di essere un ragionamento; così la proposi- zione tautologica si dà l'aria di esssere una proposizione. Essa come dice lo stesso Bain, non è che un' attenuazione apparente,' e non non ha che la forma esteriore, vebale, della proposizione dib. L e. 2, 7): è in quesLo senso che può dirsi meritamente pro- l)osizione verbale. Una proposizione identica o tautologica è dun- que una proposizione ingannevole, sofistica, il cui carattere essen- ziale e di dare l'illusione, solauienie l'illusione, di aver affermato <jualche cosa. Cosi noi non facciamo mai esplicitamente una pro- posizione tautologica, ripetendo nell'attributo, in parte o in tutto, il soggetto, con le stesse parole. Tutte le volte che noi facciamo una simile ripetizione, la proposizione, tautologica nella forma, non lo è affatto nella sostanza. Qaod scrip^l scripsl, vuol dire : ^lon vi ha luogo a ritornare sul già scitto. Nei versi. Il papa è papa, e tu sei un furfante. ecc.. in un sonetto del Berni contro l'Aretino, il papa soggetto non e identico nel senso al pai)a attributo: il primo indica la persona, e il secondo mette in rilievo la dignità. Ma prendiamo invece questa proposizione, cfie si può leggere in certi trattati elementari d'aritmetica : Un numero qualunque divide i suoi multipli. Essa è una proposizione sostanzialmente tautologica, poiché dire che un numero è diviso da un altro numero, è lo stesso che dire che il primo è multiplo del secondo. Ma l'autore crede di aver fatto una affermazione reale, e si dà la pena di dimostrare la sua proposi- zione. Una proposizione tautologica impòrta dunque che non si com- prende la portata delle proprie parole: essa non è l'espressione di un giudizio identico, o anahtico; vi ha l'espressione abituale del giudizio, ma non vi ha aff'atto giudizio. se esista o no nella natura una legge secondo cui la gra- vità è invarialjilniente unita alle altre proprietà del corpo, su ciò il giudizio analitico non afferma né nega. Perci(') abbiamo osservato che nel giudizio analitico, a parlar propriamente, non potrebbe essere quistione di verità o di tàlsità. Quelli che estendono di questa maniera le pro- posizioni analitiche, non avrebbero altro espediente che di riporre nel concetto (juest' elemento della realtà ch'essi hanno tolto dal giudizio. Sapere che ogni corpo è grave sarei jbe allora avere un concetto del corpo, in cui si com- prenderebbe, insienìe alle altre note del corpo, la gravità e inoltre resistenza; ma ciò non basterebbe ancora, j)er- chè non si potrebbe cavarne clic cori)i non gravi non ne esistono; bisognerebbe (juindi un altro concetto, in cui il corpo si concepisse senza la gravità, ma pure senza r esistenza. Cosi V affermazione e la negazione, la ve- rità e la falsità, non starebbero nel giudizio, ma nel concetto ; in altre parole, il vero giudizio sarebbe il concetto (1). Secondo (luesta veduta, una scienza non sa- reljbe altro che un catalogo di termini, s'è vero ciie un concetto sia il significato d' un termine ; se non che non vi sarebbero termini per esprimere i concetti con- siderati di questa maniera. I concetti infatti sarebbero espressi, non dai nomi, ma dalle proposizioni, e cosi si trovere])be pienamente giustificata i' opinione del Ritter, (l) Un concetto non potrcìjbc comprendere tra le sue note la realtà della cosa concepita. È celebre 1" esempio di Kant : cento talleri, che esistano o no, sono sempre cento talleri; è certamenti^ diverso che io li abbia in tasca o semplicemente nell' immagina- zione, ma la loro idea è sempre la stessa. L'idea, particolare o generale non fa differenza, non implica alcuna persuasione della esistenza della cosa : essa è la semplice apprensione degli scola- stici. Perciò dicevano gli scolastici che sopra di essa non può ca- dere errore : noi possiamo errare nella composizione e nella diri^ sione degl'intelligibili (giudizio), ma non nella loro apprensione. 3- -t: secondo cui le i)roposizioni analitiche (e fra di esse egli comprende delle proposizioni reah, come quelle della ma- tematica) espongono, non dei giudizi, ma dei concetti (v. A. Franchi, op. cit, lettera 17% IV -Vili) (1). Ma se si rigetta questa soluzione, come fondata sopra un equivoco e d'altronde troppo contraria ai presupposti fondamentali del concettualismo, restiamo forzatamente confinati nel- r idem per idem, a meno che non si voglia anmiettere che i soli giudizi reali, capaci di essere approvati o re- spinti o revocati in dubbio, sono dei giudizii estra-concet- tuati, di cui cioè, non i concetti, ma le idee particolari sono gli elementi; il che per noi è certamente vero, ma per il concettualismo sarebbe la confessione della propria disfatta. Contuttociò, malgrado che la teoria analitica del giu- dizio sia molto meno plausibile che la distinzione Kan- tiana, noi non dobbiamo rinunziare a vedere anche in questa teoria un prodotto naturale della dottrina coricet- tuahsta. Sotto un certo punto di vista anche, questa teo- ria è la forma più logica del concettualismo. Noi abbiamo osservato clic il giudizio analitico non pnò darci alcuna verità suiresistenza delle cose o sull'ordine della natura : cosi se vi hanno giudizi analitici, essi restano necessaria- mente confinati nel campo del possibile, e non hanno al- cun adito nella realtà. L'oggetto dunque deiratlermazione, in un giudizio analitico, non sono, almeno necessariamente, delle cose o dei fenomeni reaU; sono delle cose possibili, > ■che potrebbero non esistere altrove che nella nostra mente. Rammentiamo ora un'obbiezione che si è fatta alla dot- (1) Già Wolf aveva identificato la definizione e il concetto. «Quando una idea distinta è completa, cioè tale che non convenga fuorché ad individui d'una medesima specie, e che si possa in ogni tempo" e in ogni luogo distinguerla da ogni altra, chiamo tale idea de/ir-'- nizione» {\\o\f Logica, cai), i, § 3(i.) .' trina concettualista del giudizio, cioè che gli elementi del giudizio non potreb]3erc essere dei concetti astratti, men- tre gli oggetti di cui si^ giudica sono delle cose concrete e dei tatti particolari. È il giudizio sintetico che questa obbiezione colpisce specialmente: il Mill è costretto a. convenire, come si è visto, che il giudizio si esprimerebbe più convenientemente, piuttosto che in termini concreti, in termini astratti, clie ricordano d^una maniera singo- lare il linguaggio degli scolastici realisti. « 11 corpo è gra- ve » significherebbe secondo lui che la gravità coesiste colla corporeità ; « i pesci sono squamosi », che la squamosità coesiste con la pisceiià. Cosi il giudizio sintetico dal con- cettualismo ricade nel realismo ; ma il giudizio analitico evita Tobbiezione salvandosi nel possibile. Se « il corpo è= grave » afìerma qualche cosa sull'ordine della natura, la proposizione deve interpretarsi come sintetica ; ma se ri- pete soltanto una nota che già si era pensata nel sog-- getto, la proi^osizione sarà ugualmente vera sia che esi- stano o che non esistano dei corpi nella natura, e noi restiamo nei concetti. § 15.'' Abbiamo visto che le due teoriche concettualiste del giudizio di cui abbiamo parlato, si fondano Tuna sulla connotazione e laltra sulla denotazione dei nomi. Abbiamo visto pure che la prima, partendo dalla connotazione, per- de necessariamente di vista la denotazione, e arriva logi- camente col Mill a sostenere che il soggetto del giudizio è, non ridea delle sostanze concrete, ma quella degli at-- tributi astratti. Viceversa, la seconda, che si l'onda sulla denotazione, non può corrispondere alla connotazione, che è il significato comune dei nomi. Per questa teoria, il concetto comprendendo tutti gli attributi conosciuti della classe, e tutti gli uomini non avendo le stesse conoscenze- relative alla classe, ne viene che il concetto è necessaria- mente relativo e individuale, e si arriva a questa note- vole conseguenza, che il significato delle parole non è costante per tutti, ma variabile secondo gllndividui. É cer- tamente per ovviare a questo inconveniente che i seguaci della teoria parlano ordinariamente di un concetto obbiet- tivo, perfetto, al di sopra dei concetti variabili dei diversi soggetti pensanti, e sarebbe secondo loro con questa sorta di concetti che avrebbe da fare la logica, e quindi, sem- bra, la teorica del giudizio. Essi parlano del concetto co- me comprendente la somma delle conoscenze relative a un genere dato, come si parla della scienza come il complesso di tutte le conoscenze umane. Ma è chiaro che questo concetto ideale, assoluto, non è che una fin- zione logica, che non può niente apprenderci sulle ope- razioni reali deirintelligenza. Metteremo dunque da parte questo concetto, e ci contenteremo del concetto subbiettivo, relativo e variabile ? Ma andiamo incontro ad un'altra fin- zione. Chi mai pretenderà che tutte le volte che un ana- tomista o un fisiologo o un antropologista penserà air uo- mo, egli avrà presenti nello spirito tutte le proprietà a lui conosciute dell'uomo, cioè tutte le conoscenze generali ch'egli ha acquistato sull'uomo? Cosi le due dottrine sul concetto non sono che una finzione logica, Tuna e l'altra : quella su cui è fondata la distinzione del giudizio di Kant e di Mill, suppone che vi sia un minimum determinato di attributi inerenti al significato del nome, il che non è che una convenzione dovuta principalmente alle dottrine tradizionali della definizione ; l'altra, su cui è fondata la teorica che fa analitici tutti i giudizi universali, suppone •dei concetti che evidentemente non sono stati mai conce- piti da nessuno. Tuttavia, al punto di vista di quest'ultima teoria, si potrà dire che noi non abbiamo mai nello spi- rito tutto il contenuto del concetto, ma solo qualche parte delle sue note; ma che nondimeno il vero concetto non- é questo concetto più o meno monco e incompleto che attualmente noi pensiamo, ma il complesso di tutte le note che noi potremmo pensare nel concepire lo stesso oggetto. Quest'ultima riserva non potrebbe mancare, se i)ure vo- gliamo restare nei presupposti più necessari del concet- tualismo; perché che cosa ])uò essere il concetto se non il significato del nome generale ? Ma il significato del no- me non è ciò che il nome attualmente e accidentalmente suggerisce allo spirito, ma tutto ciò che esso può sugge- rire, nei limiti della sua destinazione. Se dicendo d'un oggetto : « questo è un uomo », noi intendiamo accordargli degli attributi definiti, come suppone la teoria concettua- lista, e come deve essere se un nome è il segno di un concetto ; se d'altra parte (juesti attributi costanti signifi- cati dal nome non sono una porzione determinata degli attributi della cosa; ne segue che è il complesso di tutti gli attributi che costituisce il significato del nome o il con- cetto. Quindi, come dicemmo, il vero concetto è il con- cetto compiuto, normale, (juello che non è mai attual- mente nel nostro spirito ; e il suo succedaneo, il concetto mutilato clie noi realmente concepiamo, non può essere clie una sorta di concetto simbolico, che non vale se non come il rappresentante del primo. Ma se il concetto real- mente pensato non é che un simbolo, perchè non am- mettere piuttosto, immediatamente, come la il nominalismo, che nella nostra intelligenza non vi hanno che dei sim- Ijoli al posto delle classi a cui si riferiscono le nostre ope- razioni mentali ? § l(i.*' Gl'inconvenienti delle due teoriche del giudizio di cui abbiamo parlato, hanno dato luogo ad una terza teoria intermedia : si vide infatti Ijen presto che la distin- zione Kantiana del giudizio in analitico e sintetico era pu- ramente arbitraria ; ma dall'altra parte si vide i)ure che, facendo tutti i giudizi analitici, non si può rendere conto assolutamente del latto della conoscenza. Questa terza teoria si riduce al fondo ad ammettere che quando per un giudizio acquistiamo una nuova conoscenza, il giu- dizio è sintetico, ma poi la nuova proprietà scoverta entra nella comprensione del concetto del soggetto, e ogni j)roposizione che di nuovo la esprime, è analitica. Fu il Krug che il primo si mise in questa via (v. A. Franclii Teorica del giudizio, lettera 14. I e Vili) (1), ed egU è stato seguito da molti altri filosofi tedesclii. « La differenza tra il giudizio analitico e sintetico, dice ilLindner, ana- loga a quella fra le note essenziali e accidentali, non può andare immune da una certa relatività. Nel giudizio ana- litico si unisce al soggetto una nota, con cui esso come concetto d'una classe è originariamente pensato, e che perciò si è riguardata come essenziale ; nel sintetico si unisce al soggetto una nota che prima non era conosciuta, (I) Anche Kant ammctre talvolta clic il contenuto del concetto è variabile e relativo al soggetto pensante (v. Metodologia, e. 1. sez. 1.1), ciò che avrebbe per conseguenza logica la relatività della dinerenza tra il giudizio sintetico e analitico, cioè che « un solo e stesso giudizio i)uò essere analitico o sintetico, (.onie dice il neo- kantiano Lange (Storia del mate ri aUs ino. tomo 2. parte 1. nota 17) se(iondo rorganizzazionc e linsieiue delle idee del soggetto che giudica. » Ma lidea generale di questa teoria si ti'ova già esplici- tamente in Locke, in cui vi ha il germe di tutta la moderna dot- trina dei giudizi sintetici e analitici. Il Locke considera corte volte una stessa pr<ìi)osizione come ctipace d'interpretarsi come verbale o identica e come reale o istruttiva, seccando Tidea del soggetto relativa al giudicante (v. p. e. lib. 4 e. (>. s 0 e e 8. s. Ti). La com- prensione dell'idea d'una (iosa è per lui un che di variabile (v. spe- <'ialmente lib. 3. e. 0.): ma egli ammette che abitualmente gli uo- mini non fanno entrare nella loro idea (complessa d'una sostanza tutte hi idee semplici ch'essi sanno esistere attualmente in (piesta sostanza (v. lib. 2, e. 31, *%. 8); è perciò che la sua dotti-ina si dif- ferenzia dalla terza forma della teoria concettualista del giudizio di cui l'arliamo nel testo. Se la dottrina dì Locke della relatività della comprensione dei roncetti, e rpiindi della connotazione dei nonn', fosse vera, è evi- dente che tutto il mondo sarebbe una torre di Habele. I nonn' hnnno un significato comune, ])ert!hè essi denotano le stesse cose ; ma se si ammette che ciò che corrisponde al nome generaie è un con- cetto, e questo che sarà il significato dei nome. Ora siccome la e con cui esso si è pensato posteriormente. Ora, tostocliò il giudizio sintetico è fatto, la nota nuovamente aggiunta al soggetto si congiunge col gruppo delle sue note essen- ziali in una unita indissolubile ; essa in certo modo si conosce per una nuova nota essenziale, ed il giudizio sin- tetico diviene in seguito analitico » (Compendio di logica formale, Dottrina elementare, 2* sezione, § 27) Ora questa teoria, oltreché non evita se non parte delle difficoltà delle due altre ch'essa vuole conciliare, cumu- lando invece quelle dell'una e dell'altra, ne presenta di più una a lei propria; ed è che introduce una differenza logica tra giudizi, tra cui non ve ne ha assolutamente alcuna. Noi abbiamo visto che non può farsi a meno di ammettere una differenza essenziale nel loro significato denotazione o l'estensione è qualche cosa al di fuori del concetto, e delle connotazioni ditterenti sono dei concetti ditlercnti, ne se- guirà che non vi ha per i nomi alcuna significazione deterniinata. I filosofi moderni hanno compreso questa necessità di fissare il concetto, o la connotazione dei nomi ; e perciò o si suppone col Mill un concètto normale, clie comprende una parte determinata degli attributi del genere, e si la di questo concetto la connota- zione usuale del nome (una connotazione dirterente non potendo essere che un significato speciale e tecnico del termine) ; ovvero il concetto normale sarà la nozione scientifica del genere, che comprende tutti i caratteri conosciuti di (juesto. In questo caso, non si può annue Itere per i concetti altra variabilità che quella dipendente dal grado <li coltura o dallo sviluppo intellettuale del soggetto pensante. Di là, nella filosofia moderna, tre dottrine pos- sibili sui giudizi analitici e sintetici. i*er altro è un fatto che tutte le dottrine moderne dei lodici in- glesi, anzi tutte le dottrine moderne in generale, relative al con- tenuto dei concetti (connotazione dei nomi, definizione, giudizio analitico e sintetico) si possono riattaccare al Sa^/^^o saWintcmU- mento umano. Locke potrebbe a buon dritto considerarsi come il Y)adre del concettualismo moderno: certamente il concettualismo è anteriore a Locke, ma egli per il primo (per il carattere gene- rale della sua speculazione) ne espose la dottrina sistematicamente e d'una maniera sviluppata. tra la proposizione analitica e la sintetica. Un giudizio •cosi detto sintetico deve, almeno quando esso è d'origine sperimentale, affermare qualche cosa sulla realtà, sull'esi- stenza delle cose o sull'ordine della natura ; ma ciò che il preteso giudizio analitico può affermare, non può vol- gere che sulla mera possibilità delle cose, sul rapporto fra 1 concetti che noi ce ne formiamo. Non può dunque uno stesso giudizio essere una volta analitico e un'altra sin- tetico, perchè non sarebbe lo stesso giudizio, ma due giu- dizi affatto differenti. Non vi avrebbe che un solo modo di considerare la stessa proposizione ora come analitica e ora come sin- tetica: cioè di badare una volta al senso che i logici di- cono in estensione, e un' altra volta a quello che essi dicono in comprensione. Questa proposizione : « il latte è bianco >y, interpretata in comprensione significa che il latte produce su noi questa sensazione determinata; inter- pretata in estensione, significa che il latte deve annove- rarsi fra gli oggetti bianchi. La prima afferma l'esistenza d'un fatto reale; la seconda un'assimilazione del latte ad altre cose, una classazione. Questi due sensi differiscono certo logicamente, ma sono due giudizii diversi. Ora, di questi due giudizi quale è quello che somiglia di più al tipo degli anahtici? É certamente quello in estensione, perchè non afferma che una classazione come quest'al- tro: «l'uomo é un animale» Noi potremmo conoscerlo confrontando semplicente tra loro le nostre idee; perchè avendo l'idea del latte quale lo abbiamo osservato, e l'idea degli altri oggetti che diciamo bianchi, noi vediamo su- bito che il latte deve entrare nella classe di questi . Esso è cosi a priori e necessario, mentre la stessa proposi- zione, interpretata in comprensione, è a posteriori e con- tingente. Noi vediamo dunque qui un' inconseguenza della dottrina dei concetti; percliè il giudizio in compren- sione potrebbe essere analitico, ma non il giudizio in esten- 'SÌont\ nel quale per assegnare Tattributo si esce necessa- riamente dall'idea del soggetto: ciò è tanto vero che al- cuni, come il Fries (Nuova critica della ragione, I volume, II libro, III sezione, § 05), hanno ricondotto i giudizi ana- litici a quelli in comprensione, e i sintetici a quelli in estensione. ^ 17«. Noi possiamo ora riassumere con poche parole i risultati i>iù importanti di questa discussione sulla dottri- na concettualista del giudizio e sulle diverse maniere di determinare la comprensione del concetto, su cui si fon- dano le digerenti i'oi-me di (juesta dottrina. Se nel con- cetto si comprende solo una porzione determinata degli attributi della classe, è questa una finzione, smentita dalla connotazione reale dei nomi ; se invece si com[)rendona tutti gli attributi della classe, è un'altra finzione, ])ereliè bisogna ammettere un concetto campato neir aria che non è il concetto di nessuno, o almeno un concetto che non è mai elfettivamente pensato quale esso è. Se il ina- ino modo di determinare il contenuto del concetto non è compatibile col senso in den(jtazione del nome soggetto, il secondo modo non è compatibile con la costanza nella si- gnificazione delle parole, che non si tonda su altro che sul- la loro connotazione costante. Se infine il giudizio sintetico conduce inevitabilmente alla realizzazione delle astrazioni, il giudizio analitico non è alla sua volta che un frivolo giuoco dello spirito. Un osservazione esatta sulla conno- tazione dei nomi ci mostra poi che il senso attributivo <li un nome non consiste ad atlermare un certo numero di attributi definiti, ma solo una somighanza generale deiroggetto a cui si api^ica il nome, con altri oggetti co- nosciuti, che sono i tipi che per noi rappresentano una classe data. Quindi ogni opinione sul contenuto o com- prensione del concetto è ])uramente chimerica. E una prova di ({uesto fatto è che noi non possiamo formare un numero sufficiente di giudizi, aventi i cai*atteri che Kant assegna al giudizio analitico; mentre se esistessero i con- cetti, col loro contenuto determinato, ogni concetto potreb- be essere il soggetto di almeno due di questi giudizi, di cui neir uno il genere e nell'altro la differenza specifica .sarebbe il predicato. Tutto ciò dimostra che, al punto di vista della dottrina dei concetti, non si può avere una teorica ammissibile del giudizio né della sua classifica- zione, e che r ipotesi dei concetti trascina con sé delle nuove difficoltà insolubili, quando si considerano i con- cetti nella loro relazione, cioè nel giudizio, difficoltà che si devono aggiungere a (juelle inerenti al concetto asso- lutamente considerato, di cui abbiamo fatto parola nei primi paragrafi. In seguito noi mostreremo che, soppri- mendo i concetti, è facile di dare una classazione del giudizio, fondata su caratteri essenziali e perfettamente definiti, e dedotta dai fatti più certi della nostra intelli- geiìza : sarà questa un' altra prova contro resistenza dei concetti. ji? 18^. Ora si troverà forse sorprendente che una dot- trina a cui ineriscono tante impossibilità, (|ual è la teoria dei concetti, abbia potuto prevalere si lungamente nella scienza— e prevarrà certamente per molto tempo ancora—, insinuandosi anche il più spesso, sotto una forma dissi- nmlata, nelle dottrine stesse dei suoi oppositori. Quando si ha da fare con tali opinioni, non Inasta per condjatterle di dimostrarne la falsità, ma, siccome sarebbe altamente inverosimile di vedere un fatto fortuito nella loro diffu- sione ({uasi generale, é necessario di ricercare come esse al)]jiano potuto nascere e perpetuarsi. Noi potremmo in (luesto caso invocare, per ispiegare il fatto, la difficoltà, su cui hanno tanto insistito alcuni filosofi moderni, di osservare sé stesso mentre si pensa, Timpossibilità, anzi, di descrivere esattamente, con Taiuto del solo metodo in- trospettivo, le nostre operazioni mentali; mentre, da un altro canto, le parole si prestano comodamente alPosservazione, permettendoci di prendere le operazioni men- tali per il loro lato obbiettivo. Ora il concettualismo non è che il metodo di assegnare puntualmente j&lle idee il valore e le relazioni delle parole. Ma ciò non basta per ispiegare l'origine del concettualismo: la persuasione del- l'esistenza delle idee astratte s impone cosi fortemente allo spirito, che è ben difficile, anche al nominaUsta più deciso, di tenérsi fermo e coerente al principio che tutte le idee sono concrete e particolari, e che di astratto e di gene- rale non vi hanno che dei nomi; il più delle volte si vede anzi nelle idee astratte, non una semplice ipotesi, ma un fatto di coscienza -si sa che i metafisici confondono spesso coi fatti di coscienza certe credenze naturali o tendenze a credere che poi la riflessione dimostra semplicemente illusorie - Noi vedremo nel 2» Saggio che le concezioni fondamentali della metafisica sono un prodotto inevita- bile dello spirito umano, basate come sono sovra sofismi a priori o illusioni naturali. Ora l'ipotesi delle idee astratte presenta a prima vista i caratteri di una concezione metafi- sica- alla forza con cui essa s'impone naturalmente allo si)i- rito alla mancanza assoluta di qualsiasi prova sperimentale, ao-c^iungiamo il vago, l'indeciso, che vi ha in questa dottrma, eTuest'altra particolarità che si trova per il solito nelle ipo- tesi metafisiche, cioè che esse non sono semplicemente con- trarie ai fatti come le ipotesi erronee della scienza, ma pre- sentano delle impossibilità intrinseche e delle contraddizioni. Ma le illusioni della metafisica, come mostreremo nello stesso Sao'^io, si riconducono tutte finalmente, d'una ma- niera direto o indiretta, a certe abitudini mentali comuni a tutti <-li uomini, che sono cosi imperiose e cosi prohMi- damente radicate nella nostra intelligenza, che formano, si DUO dire, parte della nostra stessa costituzione intellet- tuale. Quale sarà dunque l'abitudine mentale, d'una forza quasi istintiva, che ha dato origine alla supposizione delle idee astratte? Non è difficile di trovarla: o 1 abitudine // indispensabile di renderci conto del pensiero per la sua espressione verbale. Noi ci abituiamo cosi a credere che vi lia una corrispondenza e una equivalenza esatta tra la parola e il pensiero; tanto più che quando abbia- mo interesse di sapere ciò che ha pensato un' altra persona o ciò che noi stessi altre volte abbiamo pensato, poco c'importerebbe di conoscere esattamente tutto il la- voro mentale, in altri termini, le immagini particolari, che sono passate effettivamente nella nostra mente o nella mente di quest'altra persona; ci basta di rappresentarci la tendenza generale di questo lavoro mentale, tendenza che si manifesta per T espressione verbale che ne è il risultato. Cosi, quando vogliamo renderci conto, non del pensiero di questo o quell'individuo particolare in una circostanza particolare, con un interesse obbiettivo, ma del pensiero in se stesso, per conoscere la sua natura e il suo meccanismo, che d'altronde ci sarebbe impossibile di cogliere sul fatto; noi siamo trascinati dall'abitudine di prendere, dirò cosi, per oggetto della nostra vista men- tale, non direttamente il pensiero stesso, ma la sua espres- sione verbale, e di credere che i pensieri e le parole si corrispondono perfettamente. Di questa maniera nasce la persuasione che l'equivalente esatto di una parola sia un'i- dea, e quindi il principio del concettualismo: i termini so-, no generali, dunque le idee sono generali (1). (1) « Se tutti gli uomini, dice Voltaire, parlassero la stessa lingua, noi saremmo pronti a credere che vi sarebbe una connessione ne- cessaria tra le parole e le idee » Elementi della Filosofia di Newton^ cap. 6)- La metafìsica lia fatto tutto ciò che ha potuto per realiz- zare la supposizione di Voltaire. In verità la teoria dei concetti non suppone che vi sia una connessione necessaria tra le idee e la loro espressione verbale, ma che vi sia una connessione necessaria tra le idee e la forma essenziale di questa espressione verbale. Essa riunisce in un tutto unico e indivisibile, il concetto, i caratteri della idea e al tempo stesso quelli della parola, come in certi esseri fa- Wì Forse si troverà che noi ci siamo tropjx» tliffnsi nella discussione della tec»ria dei concetti: ma bisopìa [jénsare che questa teoria non ci hiscia vcilei^e se non attravers«j una nebbia le oj^erazioni deirintelHtronziì, ed è inipjssibile renderci un ccaìto esi\tto di (lueste o[>erazioni. se prima non si è fermato questo punto, che ai nmni ixe- nerah corrisi>ondono, non delle idee genoi*ali e astratte, ma rielle idee di latti [articolari e concreti. Ciò che soli- tamente si (lice un' idea generale, non è dunque che ini nome ili classe, col corteggio delle rappresentazioni asso- ciate, pronunziato o inteso mentalmente, cioè, come dice il Taine, *< un suono signifìcatico, il quale è compre^, e che a questo titolo è dotato di due proprietà. Da una parte tosto che esso è i>ercepito o immaginato, sveglia in me la rappresentazione sensibile, più o meno espressi^, d'un individuo della classe; questo legame è esclusivo; esso non svegha in me la la rappresentazione d'un indivivuo cVun'al- tra classe. D altra parte, tosto che io percepisco o inuna- gino un individuo della classe, immagino questo suono stesso, e sono tentato di pronunziarlo; questo legame è pu- re esclusivo; la presenza reale o mentale d'un individuo d'un ahra classe non lo evoca nel mio spirito e non U> chiama sulle mie labbra» (Taine L IntelUgenza, 2^^ parte, lib. 40, e. r, § I, II). Non vi ha cosi alcuna difficoltà sul significato dei nomi, quando si considerano ciascuno isolatamente: il si- gnificato della parola uomo è di denotare questo o quelli > degli oggetti appartenenti alla classe uomini; il significato volosi, (inali i centauri e simili mostri della aiilologia. si lliiij:(n'an<> delle specie ditl'ereiiti insepara])ilniente leprate e riunite in un es- sere unico. Ci<) non deve semìirare una pura compara/ione retto- rica, ma ci mostra il carattere essenziale della teoria dei C(ìnc(^tti: si tratta etlettivamente in (piesta teoria di staì)ilire in una certa iruisa un legame inseparal)ile tra le idee e le parole,"e cii) per el- fetto della tendenza che ha lo si>irito umano di credere neres-iar/c (luelle connessioni tra i fatti che gli sono estremamente familiari. (V. Saprgio 2. parte 1.) ^ della parola bianco di denotare ({uesto 0 quello degli og- getti appartenenti alla classe delle cose bianche. Ma che avviene quando due termini sono in congiunzione, p: e. un sostantivo e un aggettivo, uomo e bianco ? Allora Tuno dei due termini, p: e: Taggettivo, determina o circoscrive in limiti più stretti il significato dellaltro termine, del sostantivo. Uomo bianco significherà non uno qualun- que tra gli oggetti della classe uomini 0 della classe bian- chi, ma uno qualunque soltanto tra gli oggetti che pos- sono classarsi al tempo stesso tra gli uomini e tra i bian- chi. Tale è la funzione delFattributo nella proposizione (1): bisogna dun(|ue guardarsi dal credere che, poiché l'attri- buto e il soggetto sono due nomi distinti, noi nella pro- posizione necessariamente uniamo due idee distinte. «Al- cuni uomini sono bianchi» non esprime la congiunzione ileiridea della bianchezza con Tidea di alcuni uomini: ma noi, per questa proposizione, ci rappresentiamo certi og- getti, a cui conviene tanto il nome d'uomo quanto (j[uello di bianco, e ne affermiamo l'esistenza. (1) Noi abbiamo distinto nel significato dei nomi la denotazione e la connotazione: il nome denota gli oggetti a cui esso viene ap- plicato, e connota, non un attributo astratto o un gruppo di attri- buti astratti, come vogliono i concettualisti, ma una somiglianza dell'oggetto con gli altri oggetti a cui il nome è stato dato. Tut- tavia 11 vero significato del nome e la sua suggestione, cioè le rap- presentazioni (particolari) che esso suggerisce. Noi possiamo chia- mare questa suggellane del nome la sua denotazione suhbiettiea, poiché il nome non è associato soltanto con degli oggetti reali (de- notazione obhiettica del nome) ma esso può richiamarci le idee tanto di oggetti reali quanto di oggetti possìbili o anche semi»li- cemente immaginari. La connotazione del nome segna i limiti della sua denotazione iOinio obbietti e a quanto subbiettira: \a\e a dive, il nome può suggerirci qualsiasi rappresentazione che abbia il grado definito di somiglianza, connotato dal nome, con le cose a cui il nome è stato dato. Ma il senso del nome, quando esso si unisco, con un altix) per formare una i^roposizione, domanda altre spie- In una proposizione il soggetto può essere un termine- particolare 0 generale, ma lattributo è, di regola, genera- le: nondimeno i tatti che noi affermiamo, e le idee che ne abbiamo, sono sempre particolari. Un predicato generale non determina il fatto affermato d\ma maniera assoluta; lo determina genericamente, ma non individualmente. Ma ciò non vuol dire che noi ci formiamo del fatto delle rap- presentazioni indeterminate e semplicemente generiche; solamente, noi non intendiamo affermare con precisione resistenza di un tal fatto determinato, ma di uno od un altro tra quelli compresi in una classe determinata. Se io affermo che io morrò, io posso immaginarmi morto sul mio letto, neir estrema vecchiezza, e con altre circostanze determinate: ma io non potrei affermare che il fatto av- verrà precisamente cosi; io potrò morire vecchio o gio- vane, sul mio letto e dopo una lunga malattia, o sulla strada per un accidente o perla mano (Fun assassino, ecc.. Tutte le mie rappresentazioni sono di casi determinati, ga/.ioni. !1 nomo soggetto, dicono quasi t'itti i lo-ici, si prende nelln sua estensione (denotazione); ma il nome predicato si prende (il più smesso almeno) nella sua comprensione. Ciò potrebbe far sup- porre cli3 la predicazione non possa avere per noi altro senso che di attribuire ciò che il nome connota, cioè Tassimilazione, Taggre- gazione ad una classe determinata. Ma non è cosi: la predicazione non ha en'etivamento (piesto senso che nelle proposizioni inter- pretate, come si dice, in estensione, ma non in quelle che s'in- terpretano in comprensione. (L' uomo è mortale, interpretata in comprensione, significa che tutte le volte che noi conosciamo l'esistenza di un uomo, possiamo imferirne che esso morrà; inter- I>retata in estensione, significa che gli uomini vanno aggregati alla classe dei mortali). In che consiste dunque il senso in comprensione della predicazione? L'estensione di un nome, quando esso diventa predicato in una proposizione, si restringe nei limiti dell'estensione del soggetto: mortale, nella proposizione: l'uomo è mortale, non denota più tutti i mortali, ma solo una parte, gli uomini. Ma la estensione o la denotazione del nome soggetto non viene modifi- cata per la sua congiunzione col nome predicato. Tuttavia ciò non è vero che per la denotazione obbiettiva del soggetto ; ma per la 8t ed io affermo che uno o un altro di questi casi si veri- ficherà; ma la mia mente vaga dall'uno all'altro, e non sa decidersi con sicurezza per questo o per quello. Io tro- vo possibile che ciascuno di questi casi avvenga, ma du- bito se realmente V uno o Y altro avverrà : ciò che io as- solutamente escludo è qualsiasi affermazione che mi rap- presentasse la serie dei fenomeni che io chiamo la mia vita, come prolungantesi indefinitamente. Per indicare (juesto stato del nostro spirito, cioè questo vagare da una idea airaltra, questa indecisione del nostro giudizio, que- sto trovare possibile uno qualunque tra una classe di fatti, ma impossibile ogni altro che esca fuori della classe, noi diciamo di avere un'idea generica o astratta; e l'assegnare sua denotazione subbcettlca il caso è differente. Uomo ed uomo mortale denotano gii stessi oggetti reali; ma la suggestione di uomo e più estesa che la suggestione di uomo mortale. Il nome uomo sarebbe anc^he applicabile a degli esseri immaginari, simili in tutto all'uomo, ma immortali. La proposizione : l'uomo è mortale, afferma che non esistono di tali esseri, che noi non dobbiamo rappresen- tarci come reali uomini immortali, ma soltanto uomini mortali. Adunque la restrizione nella denotazione del soggetto e del pre- dicato,dovuta alla loro congiunzione, è reciproca: anche il predicato viene a restringere la estensione o la denotazione del soggetto, la sua denotazione subbiettica, quantunque non la sua denotazione obbiettìra. La suggestione dei due nomi accoppiati nella proposi- zione è più ristretta che quella sì dell'uno che dell'altro separata- mente presi. È su questa restrizione che il predicato apporta nella denotazione subbiettiva del soggetto, che si fonda il senso in com- prensione della predicazione. Vi hanno tuttavia dei casi, in cui il predicato non può apportare alcuna restrizione alla denotazione subbiettiva del soggetto a cui si unisce: allora la proposizione non ha alcun senso in comprensione. Ciò avviene tutte le volte in cui il nome soggetto non sarebbe applicabile ad alcun essere (reale o possibile), a cui il predicato non fosse pure applicabile. Noi non daremmo il nome di uomo a qualsiasi chimera della nostra im- maginazione, a cui non pottessimo dare anche il nome di animale: noi non chiameremmo mai corpo ciò che non potessimo chiamare anche esteso. Uomo e uomo animale, corpo e corpo esteso, hanno la stessa denotazione subbiettiva ; quella del soggetto non viene per attributo un termine generale non solo è una neces- sità del linguaggio, ma è anche Tespressione o il simbo- lo di questo stato mentale. Quando la proposizione è generale, in altre parole, quando il soggetto della proposizione è ancli^esso un ter- mine generale, questo termine significa, non, come Tattri- buto, uno o un altro dei casi d\ma classe, ma la totalità. Questi casi, e quindi il significato della proposizione gene- rale, possiamo dividerli in due porzioni : Funa definita— sono i casi clie abbiamo osservati o altrimenti conosciuti—; Taltra indefiniia—sono quelli che non abbiamo osservati ristretta per la sua unione col predicato. È questo fatto che Tu in- travisto dagli autori delia dottrina del giudizio analitico. Ma non bisogna dimenticare che la proposizione in questo caso non ha alcun senso in comprensione, ma solo un senso in estensione, la predica/ione consistendo nella classazione, ossia nella contenenza del soggetto neir attributo, e non nella contenenza dell' attributo nel soggetto, come vuole (luella dottrina. Vi lia pure un altro caso, nel quale deve dirsi che la predicazione è in comprensione, ma nondimeno il predicato non restringe la denotazione subbiettiva del soggetto. Ciò conviene quando il predicato appartieno ?ieces- sarìamente al soggetto, in modo che sarebì)e impossibile di con- cepire il soggetto senza il predicato. Sia ])er esempio la proposi- zione: 1 raggi del cerchio sono eguali. Eguaglianza non restringe la denotazione subl)iettiva di Raggi del cerchio . essendo incon- cepibile un cerchio che non abbia i raggi eguali. Allora, come mostreremo in seguito, la predicazione non è r aiTermazione dei- resistenza di un fatto; la proposizione non atferma che il soggetto esiste d'una maniera determinata, ma atferma un rapporto di so- miglianza o di differenza. Adunque questa seconda eccezione è sostanzialmente identica alla prima (al giudizio analitico, in cui non vi ha alcun senso in comprensione), poiché si tratta, in amen- <iue 1 ca^i. di una comparazione, e non deir affennazione di un fatto o))biettivo.(V.il cap.6). Riassumendo, noi possiamo stabilire in generale che la funzione del nome predicato nella proposizione può essere duplice: o determinativa (restringendo la denotazione sub- biettiva del soggetto), o comparativa (non modificando questa d<v notazione . ma aggiungendo il punto di vista mentale della com- parazione) né conosciuti, ma che intendiamo assimilare ai primi.— La prima porzione del significato della proposizione generale non presenta alcuna difficoltà; sotto questo rapporto, questa proposizione è un segno, che ci richiama alla me- moria dei fatti della nostra esperienza passata, o che ab- biamo appresi per un'altro mezzo qualunque, Ma la se- conda porzione richiede delle spiegazioni, che potranno sembrare una digressione dall'argomento di questo para- grafo, ma da cui non possiamo dispensarci. Una proposizione generale è necessariamente il risul- tato d'una generalizzazione (induzione), e sarebbe inutile se non potesse farsene l'applicazione ai casi particolari (deduzione). Cosi essa è essenzialmente un momento del processo logico, e non si può, per conseguenza, compren- derne la funzione, se non si è compresa la natura reale di questo processo, cioè dell'induzione e della deduzione. Queste operazioni del nostro spirito, presso i logici an- tichi, erano involte in quella semi — oscurità die sola po- teva permettere la dottrina concettualista. È nella Logica di Stuart Mill clie se ne trova per la prima volta la spie- gazione esatta (v. lib. 2,^ e. 3,^ § 3—7): noi la riassume- remo brevemente. La vera ragione, dice Mill, di credere che il duca di Wellington morrà, è che gli altri uomini sono morti, non la proposizione generale che dice: tutti gli uomini sono mortali. In una parola, le premesse reali della conclusione sono dei fatti particolari già da noi osservati. Ogn'infe- renza è dal particolare al particolare : da ciò che tutti gh uomini che abbiamo conosciuto e di cui abbiamo udito parlare, sono morti, noi concludiamo che anche quest'in- dividuo morrà. Quando noi crediamo che i fatti da noi osservati ci danno il diritto di tirare dalle inferenze per casi nuovi, noi formiamo una proposizione generale, la quale non è che una semplice registrazione delle inferenze già effettuale e una corta formula per farne delle altre Questa formula è al tempo stesso il risultato di una in- duzione, e la premessa maggiore di un sillogismo ; e la conclusione del sillogismo é un'inferenza, non tirata dalla formula, ma fatta conformemente alla formula, lantece- dente logico reale essendo costituito dai fatti particolari, da cui la proposizione generale è stata formata per indu- zione. Questi fatti e gli esempi individuali che li forni- rono, possono essere stati obbliati, ma resta un annota- zione, che non è in verità una descrizione dei fatti stessi,, ma che serve a far distinguere i casi in cui i fatti, quan- do furono conosciuti, parvero garentire la verità d'un'in- ferenza data. Nella marcia ordinaria del ragionamento, il soUogismo non è che l'ultima metà del cammino dalle pre- messe alla conclusione; e la premessa maggiore non è che un luogo di fermata intermediario per lo spirito, in- terposto per un artifizio del linguaggio fra le premesse reali (i fatti particolari osservati) e la conclusione, come una misura di sicurezza essenzialmente relativa alla sem- plice correttezza deiroperazione. Ecco, in altri termini, come dobbiamo rappresentarci Toperazione logica. Io ho- osservato dei fatti, tra cui ho trovato una uniformità di connessione; ho osservato, p. e., che i fatti della vita sona stati costantemente seguiti dai fatti della morte: dopo ciò io mi domando se in un caso nuovo qualunque che mi viene allo spirito, si riprodurrai stessa connessione, p. e. se il duca di Wellington, se il re, se il papa morranno. Dalla uniformità dei fatti osservati di questa classe, e di più dall'immenso numero degli altri fatti che mi hanno mostrato una eguale uniformità in tutto il corso della natura, io mi credo autorizzato ad affermare che la con- nessione avrà luogo ancora in questi casi, cioè, che an-^ che queste persone morranno. È questa sinora un'inferen- za dal particolare al particolare, che non è né una indu- zione né una deduzione, non essendovi alcun intervento di una formula o proposizione generale. Ma io volendo raccomandare alla mia memoria una nota, un segno, da so- stituire ai fatti stessi che io posso dimenticare, e al tem- po stesso una formula che possa mettermi in grado di fare correttamente delle nuove inferenze per altri casi parti- colari, formo una proposizione generale. Ora, per Tam- mirabile artifizio del linguaggio, questa proposizione è un segno che si applica a tutta una classe di fatti, che signi- fica cioè non solo i fatti da me osservati, ma tutti gli al- tri fatti senza distinzione, i quali appartenendo alla stessa classe, si trovano governati dalla stessa legge della na- tura, e quindi potranno con verità essere inferiti dai pri- mi D'ora in poi, essendo in possesso di questo segno, di questo memorandum, come lo chiama il Mill, nei casi nuovi che si presenteranno io non avrò nemmeno bisogno, a parlar propriamente, di fare un'inferenza dai casi par- ticolari osservati, clie io potrò avere dimenticati; mi ba- sterà d'interpretare il mio segno, di conoscere se il fatto in quistione è compreso nella significazione della mia for- mula. E quest'ultima operazione che si chiama un sillo- gismo: cosi il sillogismo, se si considera in connessione coi fatti particolari, da cui per induzione è stata tirata la proposizione generale che gli serve da premessa maggio- re, è un'inferenza, e un'inferenza dal particolare al par- ticolare; ma se si considera insolatamente, separato dagli antecedenti mentali che gli danno il fondamento e la giu- stificazione, non é per niente un'inferenza reale, ma l'in- terpretazione di una formula, di un segno. Nel seguito delle operazioni che noi abbiamo descritto, d'inferenze reali non vi hanno dunque che le prime, quelle per cui si af- fermava che il duca, il re, il papa morranno. Ma la pro- posizione generale susseguente, che noi formiamo dopo esserci assicurati per esempi particolari che abbiamo il diritto di tirare delle inferenze dai casi osservati agli altri casi della stessa classe, non è un'inferenza, ma la forma- :zione di un segno; e l'ultimo momento di tutto il proces- -X^ --^-^ /"s. - HOy cioè il sillogismo, non ò nemmeno un'inferenza, ma un'interpreta;ZÌone di questo segno. Cos'è dunque una pro- posizione generale, per quanto concerne la porzione m- de finita del suo significato ? E una formula, inteq^osta per un artifizio del linguaggio ti^ le premesse reali deirin- ferenza (dei fatti particolari osservati) e la conclusione (altri fatti particolari), per cui il processo naturale del ra- gionamento si divide artificialmente in due momenti, che si chiamano induzione e deduzione. Senza l'impiego del linguaggio, non vi sarebbero due operazioni, una indu- zione e una deduzione, ma una sola, Tinferenza dal par- ticolare al particolare; e la proposizione generale non è che un segno, la cui formazione si chiama induzione, e la cui interpretazione si chiama deduzione. Aggiungiamo ora alla porzione indefinita del significato della proposizione generale la porzione definita: noi potremo dire brevemen- te che la proposizione generale è un segno, che ci ricor- da certi fatti particolari della nostra esperienza passata o che noi abbiamo attrimenti conosciuto, e ci avverte ai- tempo stesso che noi possiamo fare certe previsioni su certi altri fatti particolari, mano mano che questi si pre- sentano alla nostra esperienza o alla nastra immagina- zione. Vi hanno dei casi in cui una pro}X)sizione generale non ci ricorda dei fatti osservati o altrimenti conosciuti: noi possiamo aver dimenticato questi fatti, o ammettere la pi\)posizione unicamente sulla fede di qualche autorità che riteniamo competente. Ih questi casi, ciò che abbiamo chiamato la porzione indefinita del significato d'una pro- posizione generale, ne costituisce la totalità: la proposizio- ne non vale allora per noi che come, premessa maggiore delle deduzioni che ne potremo tirare, e l'interpretazione in cui Mill fa consistere l'operazione sillogistica, è quella che ne esaurisce tutto il significato. § 20^ Ora alla nostra conclusione, che tutte le opera,- xio ni doll'intelligenza non hanno per oggetto che dei fatti particolari, e che non vi hanno idee astratte, ma solo con- crete e particolari, non si mancherà senza dubbio di fare un'obbiezione, che a prima vista sembra di gran momento. La geometria, si dirà, si occupa del punto, della linea, della superficie: intanto queste cose non sono per niente con- crete, non sono che elelle astrazioni; così, sopi'inmere le idee astratte è sopprimere il rigore della matematica. Noi ammetteremo di leggieri che il punto e la linea non sono che delle astrazioni, ma per amore di esattezza, dobbiamo fare le nostre riserve per la superficie. Verso il princicio di questo capitolo abbiamo distinto due sensi della parola astrazione : per una parte si chiama astratto ciò che non può esistere separatamente nella realtà nò può cadere separatamente sotto le prese dei nostri sensi; noi non abbiamo idea astratte di quasta classe. Ma per un' altra parte si chiama anche astratto ciò che, ({uantunque non possa esistere separatamente nella realtà, può nondimeno essere sentito, e quindi anche immaginato, separatamente : è certo che in questo senso abbiamo delle idee astratte. Ora, se il punto e la linea appartengono alla prima classe delle astrazioni, le superficie al contrario non apparten- gono che alla seconda classe. Noi possiamo infatti pei»- cepire attualmente una faccia sola d'un oggetto, e per parlare d'una maniera generale, l'oggetto immediato della nostra percezione visuale non è il corpo solido, ma la su- perficie, piana o solida, che perciò i Greci chiamavano s;ri'^àvsia; ciò che vi ha oltre alla superficie, la solidità, non è, in tutti i casi, die una semplice inferenza. Cosi, sic- come ciò che noi percepiamo a parte, possiamo anche pensarlo a parte, noi possiamo dunque formarci un'idea distinta d'una superficie, quantunque vi sia qualche diffi- coltà a separarla dal complesso delle ra[)presentazioni che costituiscono l'idea totale di un corpo. In quanto al punto e alla linea, è certo in primo luogo che, (juando parliamo di essi, noi non pensiamo alla linea astratta e al punto W astratto, ma al sottile tracciato di una penna o di una matita, e alla esigua macchia d'inchiostro che il leggiero contatto della penna lascia sulla carta. Ma a ciò "si ri- sponderà con ragione che questi non sono rigorosamente Il punto e la hnea della geometria, perchè il geometra de- finisce la hnea una lunghezza senza larghezza, e il punto CIO che non ha né lunghezza ne larghezza nò una gran- dezza qualunque. Però noi domanderemo ai partigiani delle Idee astratte, se le proposizioni della geometria in- dicano dei rapporti fra gli oggetti reali. Se si, e allora o questi oggetti reali sono dei punti e delle linee esistenti nel e cose, il che vale realizzare delle astrazioni ; o se nella realtà non vi hanno veramente dei punti e delle linee, come comprenderemo noi che le proposizioni della geometria abbiano un oggetto e un applicazione reale ? In questo caso, non bisognerebbe dire con Buckle che queste supposizioni dei geometri, (luella p. e. di linee senza lar- ghezza, falsano i risultati del ragionamento geometrico- che le conclusioni dei geometri non fanno che approssi- marsi alla verità, ma « la verità completa è inaccessibile, e non vi Jia problema di geometria completamente riso- luto»? (Buckle Storia della civilizzazione in Inghilterra tomo 5^ cap. XX). Il vero si è che le proposizioni geome- triche SI applicano, non ad astrazioni irrealizzabih e in- concepibili, ina ad oggetti reaU o possibili dei nostri sensi, non a punti e linee, ma a superfìcie e corpi, e loro applicano della maniera più rigorosa. Il punto, come ben dice Aristotile, non è che un contatto, un contatto fra due 0 più superfìcie: se al punto, quale lo defìniscono i geometri, non corrisponde separatamente alcun oggetto reale né alcuna rappresentazione mentale, possono però esistere e concepirsi dist intamente delle superfìcie che si toccano rigorosamente in un sol punto. Noi possiamo rap- presentarci assai bene una superfìcie terminata da una retta t an gente a un cerchio: a queste espressioni verbali corrispon- dono delle rappresentazioni reali distinte da tutte le altre. Ora è rigorosamente vero di dire che queste due superficie hanno un sol punto di contatto comune, e che questo punto è senza lunghezza né larghezza né grandezza alcuna, in quanto la superficie che diciamo terminata dalla retta non tocca il cerchio per alcuna parte della sua lunghez- za o della sua larghezza, e le due superfìcie non hanno alcuna grandezza o porzione comune. Cosi le proposizioni in cui è quistione di punti si applicano, non a dei punti astratti, ma a delle grandezze visibiU e tangibili; esse non enunziano in realtà che delle circostanze relative a delle superfìcie o dei solidi, di cui questi punti sono dei punti di contatto, o in altre parole, dei limiti. Se p. e. la proposi- zione afferma che questi punti stanno in certe posizioni reciproche (poniamo, che si trovano in una stessa retta), raffermazione non volge in realtà che sulle posizioni re- ciproche di queste superfìcie o solidi. Come le proposi- zioni relative ai punti si applicano alle superfìcie o ai soUdi Umitati da questi punti, cosi le proposizioni relative alle linee si applicano alle superfìcie o ai solidi limitati da queste linee. Non vi ha alcun oggetto o rappresenta- zione che corrisponda rigo rosamente alle parole linea retta o curva ; ma vi hanno delle cose e delle rapprentazioni distinte che corrispondono alle parole: superfìcie termi- nata da linee rette o da linee curve. Sia dunque uua su- perfìcie che da una parte è terminata da una retta, e dall'altra da una curva; misurandola nellFuno e nelF al- tro dei suoi termini, essa si troverà più breve da una parte che dalF altra. Questo fatto e gli altri della stessa classe vengono espressi concisamente nella proposizione: la linea retta è la più breve fra due punti dati. Noi cre- deremmo troppo fastidioso di dilungarci ancora in que- st'analisi delle proposizioni geometriche: solo aggiungeremo che dicendo che il geometra, nella considerazione delle grandezze, astrae dal colore e le altre proprietà sensibili, senza cui una grandezza non potrebbe esistere né concepirsi, ciò che si vuol dire é che nelle sue proposizioni generali egli classa gli oggetti al punto di vista della loro figura, e non del loro colore o altra proprietà sensibile, e che (jueste proposizioni si applicano agli oggetti aventi una data figura, ([ualuncjue sia d'altronde il loro colore e cia- scuna delle altre proprietà sensibili. Ciò che lorma l'og- getto della geometria non sono duncjue delle figure astratte, ma delle cose reali concrete, aventi queste figure e, in- sieme ad esse, tutte le altre proprietà che nel mondo reale coesistono con la figura. Cosi, le i)roposizioni il cui soggetto é un termine a- stratto, vanno sempre interpretate al concreto: ciò è vero tanto in geometria quanto nel cUscorso ordinario o in un altro ramo qualunque delle nostre conoscenze Le pro- posizioni in cui si parla del movhnento o della vita o deirorganizzazione, e33., si riferiscono in realtà ai corpi in movimento o viventi i» organizzati, eoe; le proposizioni in cui si parla della giustizia o della virtù, si riferiscono alle persane giuste o virtuose. La proposizione: «La vita é un lavoro incessante di decomposizione e ricomposi- zione ciie ha luogo nei corpi organizzati », significa che i corpi organizzati, m^intre sono viventi, sono la sede di certi fenomeni indicati daires[)ressione <r lavoro incessante di decomposizione e ricomposizione », e che è per que- sti fenomeni che li cliiamiamo viventi e li distinguiamo dai non viventi. La proposizione: « La virtù merita pre- mio », significa che noi proviamo un sentimento di sod- disfazione morale, quando osserviamo o immaginiamo che le persone che fanno azioni virtuose, vengono pre- miate, e premiate in conseguenza di queste azioni. Vi hanno delle hngue che mancano di termini astratti, ma non sono improprie perciò ad esprimere tutte le idee, perchè tutte le proposizioni a termtni astratti possono convertirsi in altre proposizioni a termini concreti Esprimendoci in termini astratti, ci esprimiamo con più con- cisione^ ma non più rigorosamente. Tutte le nostre af- fermazioni, in effetto, hanno per oggetto le cose reali— poiché la verità è la corrispondenza tra il pensiero e la realtà— e i reali non sono astratti, ma concreti. I termini astratti sono dunque dei simboU comodi, ma non indi- spensabih (1). (l). « Le parole astratte, dice Bain, (luantimciue siano impiegate in tutte le lingue, non sono assolutamente indispensabili per la con- versazione, né anche in verità per la scienza. U senso che esse espri- mono può infatti essere indicato, quanlumine meno l)revemcnte, dai nomi generici che loro corrispondono Che significa la parola giustizia? Essa rappresenta senza dul)l)io le azioni giuste, ma in- sistendo, d^ma maniera speciale, sovra un certo rapporto di tutte queste azioni; a fme di non rappresentare le azioni giuste che in tanto che sono giuste, o in altri termini a (ine di considerarle esclu- sivamente al punto di vista della giustizia. La i>roposizione : « La giustizia comanda il rispetto » è la stessa che (luest'altra: « Le per- sone giuste sono rispettate. » Ma la parola astratta indica qui, con più forza che ogni altra espressione, questo fatto che l'effetto pro- dotto, cioè il rispetto, ha per causa unica il rapporto che esiste fra tutte le persone giuste (in altri termini, esso dipende da ciò. che queste persone sono giuste, che si è fondati a chiamarle cosi o ad ammetterle in questa classe) I termini astratti sono dei possenti mezzi di abbreviazione; ed è per questa ragione che sono stati introdotti in cosi gran numero nel linguaggio ordinario. Le circonlocuzioni a cui si è obbligati dì ricorrere per evitarli, Inastano a provare la loro utilità sotto questo rapporto Un esercizio logico importante, destinato a scovrire gli errori che mantiene Fuso delle parole astratte, consiste a convertire le proposizioni presentate sotto ferma astratta in proposizioni equi- valenti composte di nomi generali che non siano astratti » (Bain Logica. Classazione dei giudizi. Dopo avere stabilito che l'oggetto del nostro pen- siero e delle nostre affermazioni sono sempre dei fatti con- creti e particolari, noi dobbiamo ora domandarci che cosa è che affermiamo di questi fatti. Noi possiamo dire d'una maniera generale che le pro- posizioni si riducono airaffermazione o negazione delFesi- stenza di certi fatti particolari. Per prevenire dei malin- tesi, aggiungeremo che per fatto o il suo equivalente fé- nomeno intendiamo un oggetto, reale o possibile, sia dei sensi esterni, sia del senso intimo, o della coscienza. Sa- rebbe desiderabile di avere un termine per denotare ciò che può essere Foggetto immediato d'una sensazione uni- ca o d'un atto unico della coscienza (p: e: un suono, un odore, un piacere, un dolore, lo stato in cui un oggetto si presenta alla nostra vista per un istante indivisibile, ecc:), un altro termine per denotare i percepiti più semplici in cui ciò che cade sotto una sensazione unica, ma comples- sa, può decomporsi (p: e: i minimi visibili di cui si com- pone Foggetto della vista), e un altro termine ancora per denotare i percepiti più complessi che noi non potremmo M^S^SKMi» ìMt^n'vw abbracciare che per più sensaziont distinte (p: e: un can- giamento o un gruppo di congiamenti). Ma questi termi- ni non li abbiamo; perciò noi indichiamo uguakuente con la parola fenomeno gli oggetti appartenenti alFuna o al- l'altra di queste tre classi di percepiti. In generale possiamo dire— quantunque abbiamo distinto più classi di fenomeni secondo il grado della loro semplicità o della loro comples- sità—che il fenomeno è Velemento della realtà sensibile, al punto di vista dell'ordine successivo con cui noi ce ne formiamo Tidea. Gli oggetti esteriori da una parte, e dal- l'altra parte l'interiore di noi stessi che noi chiamiamo spirito, sono dei complessi di lenomeni: noi non conoscia- mo altrimenti la realtà che come un tessuto di fenomeni. Ci si obbietterà forse che di questa maniera noi pren- diamo di leggieri per accordato che solo la realtà sensi- bile esiste, e che non vi ha altra realtà; ma in verità noi non facciamo per ora questa supposizione. Tutti i nostri discorsi familiari e tutte le proposizioni scientifiche non volgono clic sulla realtà sensibile: quindi le più sem- plici ragioni di metodo c'impongono di portare immedia- tamente la nostra analisi sulle proposizioni che volgono su questa sorta di realtà; poi le nostre conclusioni po- tranno estendersi al sovrasensiìjile, se si troverà che pos- siamo affermarne qualche cosa. Noi dobbiamo aggiungere ancora che, quando diciamo di qualche astrazione, p. e. della gravità, che ò un fatto, ciò deve intendersi come una ma- niera abbreviata di dire che gli avvenimenti concreti, di cui la proposizione, p. e. «la materia ò gmvc *, è l'espres- sione, sono dei fatti; poiché il fatto non è un' astrazione, ma, come abbiamo detto, un oggetto, reale o possilùle, dei sensi 0 della coscienza. i^ 2. Per le proposizioni singolari, è chiaro che esse non affermano so non l'esistenza di certi fatti: Socrate fu, egli fu incarcerato, egli bevve la cicuta. Socrate ave- va il naso camuso, afferma che egli esistè con questa particolarità nella sua figura, non altrimenti. Quell'albe- ro è verde, vuol dire che vi ha là un'albero verde, non di altro colore, a meno che non si voglia classare que- st' albero tra gU oggetti verdi, sorta di affermazioni di cui in seguito parleremo specialmente. Negli esempi ad- dotti l'affermazione è categorica, cioè incondizionale : ma in altri casi l'affermazione è ijiotetica. Se inafìfieremo la pianta, essa resterà verde; Se Socrate non fuggirà dalla prigione, egli morrà. Qui noi affermiamo pure l'esisten- za, ma non d'una maniera categorica, ìjensi d'una ma- niera ipotetica, o condizionale : noi affermiamo che certi fatti avranno luogo, alla condizione che altri fatti abbia- no o non abl)iano luogo. Le proposizioni particolari si riducono pure con facilità a proposizioni esistenziali. Alcuni uomini sono neri, vuol dire che vi hanno degh uomini neri. Alcuni triangoli sono equilateri, vuol dire che o vi hanno nel mondo reale dei triangoli equilateri, o almeno questi triangoli sono possi- bili, cioè possiamo formarcene la concezione. Alcuni ani- mali sono uomini, significa che esistono degli uomini, e che essi fanno parte della classe degli animali. Noi mo- streremo in seguito come una classazione si risolva nel- l'affermazione dell' esistenza di certi fenomeni; per ora osserviamo che uomini, uomini neri, triangoli equilateri, della stessa maniesa che Socrate e albero verde, non in- dicano che delle presentazioni, reah o possibili, dei nostri sensi, e per conseguenza, dei complessi di fenomeni, nel senso che abbiamo spiegato della parola fenomeno. In quanto alle proposizioni generali, noi le abbiamo, nel capitolo antecedente, risolute in proposizioni esisten- ziali, ammettendo che una proposizione generale afferma che esistono certi fatti, o piuttosto, certi gruppi di fatti, tali che loro conviene tanto il nome soggetto quanto il nome predicato, ma non esistono altri fatti, tali che loro convenga il nome soggetto, ma non il nome pi^dicato. In seguito però ne abbiamo dato un' analisi più profon- da, riguardando una proposizione generale come un sim- bolo, che è al tempo stesso un documento dei fatti osser- vati (da cui è stata tirata per induzione), e una formula per tirare delle inferenze (cioè delle deduzioni) sui casi nuovi i cui antecedenti si presenteranno alla nostra osser- vazione. Il significato d'una proposizione generale, a que- sto punto di vista, si risolve dunque nelle affermazioni particolari, o meglio singolari, di cui essa è un segno e che può suggerirci. Essa è, per dir cosi, come un effetto commerciale: noi la scambiamo, da una parte, coi fatti osservati, e dall'altra, con quelli che siamo in grado di predire; il suo valore non è che di convenzione, e il va- lore reale non appartiene che alle affermazioni dei fatti osservati e di quelli inferiti. Questo s(3Condo modo di con- siderare il significato delle proposizioni generali mette in rihevo— ciò clie non fa il primo— questo tratto caratteri- stico di tali proposizioni, che ò d'indicare una congiunzio- ne di due fenomeni o complessi di fenomeni, tale che, dato l'uno, noi possiamo inferirne l'esistenza dell'altro. Siccome sotto il riguardo pratico, che è il più impor- tante, il significato di una ])roposizione generale è appunto questo, d'indicarci che dalla esistenza di certi fatti noi possiamo concluderne quella di certi altri, cosi potrebbe credersi che il vero senso di queste proposizioni sia di affermare, non i fatti stessi, ma la relazione tra alcuni di questi fatti (quelli che noi possiamo concludere) e le loro condizioni (gli altri da cui possiamo concluderli). «L'acqua arruginisce il ferro,» significa che, se il ferro si mette in prossimità dell'acqua, esso farà della ruggine. «L'uomo è un bipede » significa che, quando noi abbiamo tanto os- servato 0 altrimenti conosciuto d'un oggetto, che ci basti per dire: è un uomo, noi possiamo inferire la presenza in esso di due piedi. Potrebbe sembrare perciò che, in quan- to alle proposizioni generali, Herbart ha avuto ragione di ammettere che le categoriche sono anch'esse, in sostan- za, ipotetiche. Ma se si esamina la cosa più minutamen- te, SI vedrà che non è cosi. Una proposizione generale, abbiamo detto, è un segno, con cui noi notiamo i fatti osservati, e che ci serve di Ibrmula per tirare delle in- ferenze ad altri fatti; per conseguenza il suo significato si risolve nelle affermazioni particolari, di cui essa è il se- gno, 0 che ci suggerisce. Cosi, se la proposizione d'acqua arrugginisce il ferro» ci richiama i fatti osservati, l'affer- mazione è categorica: l'acqua si è trovata in prossimità del ferro, e dopo ciò il ferro si è arrugginito. Se la propo- sizione CI serve in un caso nuovo, ma reale, l'affermazione è ugualmente categorica: noi osserviamo l'acqua in pros- simità del ferro; ne inferiamo: il ferro farà della ruggine. Se infine il caso, in cui noi tiriamo l'inferenza, é^'^non reale, ma semphcemente ideale, allora l'affermazione è ipotetica: se metteremo il ferro in prossimità dell'acqua, il ferro farà la ruggine. Cosi una proposizione generale significa delle atferinazioni particolari, fra cui ve ne lia delle categoriche, e ve ne ha delle ipotetiche. iMa il senso più importante d'una proposizione scientifica rsalvo, co- me vedremo in seguito, le matematiche pure) è il cate- gorico: quello che importa, in effetto, é di conoscere il corso degli avvenimenti reali, di sapere che i fatti che abbiamo osservati e quelli che siamo in grado di predire, si sono svolti e si svolgeranno d'una data maniera o con un or- dine dato. Potrebbe credersi tuttavia che alcune proposi- zioni della scienza sono puramente ipotetiche, in quanto esse non si verificano rigorosamente che supposti certi dati ideali, a cui la realtà non è mai conforme. Tale é la proposizione sul pendolo ideale, che esso oscillerebbe per- petuamente, ovvero quella proposizione fondamentale della meccanica secondo cui, se non intervenissero delle cause esterne, i corpi continuerebbero a muoversi in linea ree con una prestezza uniforme. Non vi ha infatti né è pos- H^Wtffl-Brl^-gafc* m sibilo al3uii pendolo ivalc die si conrormi alle condizioni del pendolo ideale, nò un corpo, p e. una palla che esce dal cannone, continua mai a muoversi in linea retta e con la stessa velocità. Ma dire che le supposizioni espres- se da questi proposizioni della meccanica sono vere, ó dire che esse sono conformi al corso reale degli avveni- menti della natura, ai fatti che abbiamo osservato e a quelli che siamo in grado di predire per il futuro. Co- si noi veniamo implicitamente ad affermare, per queste proposizioni, che gli avvenimenti reali sono accaduti e accadranno d'una certa maniera, (juella che giustifica le su[)i)Osizioni della meccanica, ed è questa la parte più importante delle affermazioni c!ie esse contengono. Noi simboleggiamo il seguito dei fatti reali delFosservazione con certe sequenze tipiche o ideali, che formiamo ])er r astrazione o eliminazione di alcune fra le condizioni multiple dei fenomeni reali; poi, nellapplicazione di queste regole ai casi concreti, abbiamo cura di restituire ai fatti tutte le loro condizioni. Ma tutta la verità e V utilità di queste sequenze ideali, astratte, consiste nella lero corri- spondenza ai fatti già osservati dei casi concreti che co- stituis!3ono la loro base induttiva, e ai fatti degli altri casi concreti su cui possiamo portare delle inferenze: r affermazione volge dunque, in sostanza, sulFesistenza reale, e non su delle possibilità o delle semplici ideaUtà. Non ho creduto inutile di toccare questa quistione, })erchè alcuni filosofi, dopo aver ammesso che si può a priori stabilire qualche cosa neir ordine del possibile, ma non neirordine del reale, il che in un certo senso è vero, lianno poi tracciata arbitrariamente la distinzione tra i due or- dini, dando per affermazioni sul puro possibile delle pro- posizioni che, come queste, concernono invece resistenza reale. § 3.'' Bisogna notare che noi non affermiamo mai l'esistenza d'un fenmenoo isolato, ma sempre quella d'un sur 09 gruppo di fenomeni, successivi o simultanei, mettendo cosi ogni fenomeno di cui affermiamo l'esistenza, in rapporti di precedenza, sequenza o coesistenza con altri fenòmeni. Infatti le nostre i)roposizioni affermano il lAii ordinaria- mente i cangiamenti degli oggetti ; e quand'anche esse affermano la semplice esistenza degli oggetti, non l'affer- mano come semplici fenomeni fuggitivi, ma come aveuna permanenza nel tempo, una durata: ora siccome noi non conosciamo il tempo che per la successione, noi non possiamo conoscere la durata che come la contemporanea di una successione, e (piindi come consistente essa stein una certa successione. Di più, un oggetto concreto, non solo ò un aggregato di parti localmente separate, ma è ancora un complesso di più proprietà sensibili, cioè di più fenomeni che noi percepiamo, non per un solo senso, ma per diversi. E per esprimere il fatto d'una maniera generale, noi non affermiamo mai un fenomeno dei nostri sensi come qualclie cosa d'isolato, ma o lo proiettiamo nel mondo esterno, riconoscendovi cosi una parte di un aggregato fuori di noi, oppure vi riconosciamo una sen- sazione nostra, mettendolo cosi in rapporto con quest'al- tro aggregato che chiamiamo io. Aggiungiamo infine che (piesto fatto, cioè che noi non affermiamo mai un feno- meno isolatamante, ma sempre in congiunzione con altri fenomeni, non è che una conseguenza delle leggi dell'as- sociazione delle nostre idee, (h cui le nostre conoscenze, le nostre affermazioni, non sono al fondo che dei casi. Noi affermiamo un fatto, sia sulla fede della nostra memoria, sia in virtù di una inferenza. Nel primo caso, un po' dì riflessione mostrerà che noi non distinguiamo un ricordo da una semplice immaginazione, se non per- chè sentiamo che l'idea del fatto si presenta in una stretta connessione con le idee di altri fatti, antecedenti, susse- guenti 0 concomitanti. É cosi che il fatto rapprentato ac- (juista un posto nella nostra storia personale; ])iù (juesto I 100 corteggio di associazioni è numeroso e ben serrato, più questa localizzazione è precisa e sicura, e meno si è e- sposti a confondere la memoria con la semplice imma- ginazione ; ma più le circostanze del fatto sono scarse e debolmente associate, più la localizzazione é vaga ed in- certa, e meno evidente è il contrasto fra la memoria e rimmaginazione. Se poi il fatto affermato é un inferenza, come potremmo noi non affermarlo nel suo rapporto con gli altri fatti, antecedenti, susseguenti o concomitanti, da cui r inferenza viene tirata? L'oggetto dell'affermazione non è dunque mai la semplice esistenza dei fenomeni, ma resistenza dei fenomeni con certi rapporti di successione o di coesistenza. § 4^ Per coesistenza deve intendersi la simultaneità nel tempo o la coesistenza nello spazio. Ma la coesistenza nello spazio non è essa stessa che una specie di simul- taneità nel tempo, la quale non si distingue dalle altre che per la natura speciale degli elementi sensoriali che entrano nelle nostre rappresentazioni di spazio. Ciò è vero, qualunque sia Y ipotesi che adottiamo sulF origine delle nozioni spaziali. Se noi ammettiamo infatti la teoria nativista, nella sua forma più logica, per cui la terza dimensione non è essa stessa, come le due altre, che un dato immediato del senso della vista, noi dobbiamo ammettere che ogni punto visibile lia immediatamente il suo posto determi- nato nel campo visuale, in tutte e tre le direzioni. Que- sta posizione determinata è una differenza sensoriale di ciascun punto visibile, cosi bene che il colore ne è un'al- tra: questa differenza sensoriale, che noi potremmo chia- mare il carattere locale (non il segno locale) di ciascun punto visibile, ò il germe di tutte le nostre nozioni dei rapporti nello spazio. Percepire dunque o rappre- sentarsi certi rapporti di spazio fra due o più punti (e con noi) non è, secondo questa teoria, che percepire o rappresentarsi simultaneamente questi punti, ciascuno sur 101 col SUO carettere locale determinato, cioè con la sua po- sizione differente nel campo visuale. Naturalmente deve ammettersi che la sensazione della vista non può dare che le distanze apparenti : cosi le distanze, sia assolute, sia reciproche, in cui noi vediamo questi pvmti, non pos- sono corrispondere alle distanze reali, che quando essi sono molto vicini a noi e fra di loro. Inoltre queste stesse posizioni apparenti non possono esserci date dalla sem- pUce sensazione della vista, che per gli oggetti che pos- sono essere compresi in uno stesso campo visuale, cioè che possono essere veduti simultaneamente dall' occhio immobile. Cosi, quando gli oggetti sono lontani, in modo <3he le loro distanze apparenti siano difformi dalle reali, o che sia anche impossibile di abbracciarli simultanea- mente nel campo visuale, noi dobbiamo correggere e com- pletare le nozioni che ci vengono dalle percezioni visuali, con le rappresentazioni dei movimenti che occorrono per giungere a questi oggetti, e passare da uno a un altro di essi. In tali casi dunque bisogna ammettere che, per formare le nostre nozioni dei rapporti di spazio, a certe idee di coesistenze si aggiungono anche certe idee di se- quenze. Nondimeno noi abbiamo ricondotto la coesistenza nello spazio a un caso della semplice coesistenza, poiché, se si ammette che 1' estensione è un dato immediato del senso della vista, noi non potremmo rappresentarci degli oggetti come coesistenti nello spazio, senza abbracciarli in una rappresentazione visuale unica, nella quale cia- scuno di questi oggetti occupi il suo posto determinato, o almeno in una successione di rappresentazioni visuah, in cui la seguente sia parzialmente identica con la pre- cedente, in modo che i rapporti tra i punti propri delle diverse rappresentazioni vengano determinati dai rap- porti coi punti comuni, e le posizioni reciproche di tutti i punti rappresentati siano cosi interamente determinate. {Noi aljbiamo in quest' ultimo caso l'idea di una coesistenza totale obbiettiva, risultante da una serie subbielti- va di coesistenze parziali, nel modo che indicheremo verso la fine della nota dopo la seguente). Ciò è vero (luand^mche si tratti di distanze geografiche o astrono- miche: ci sarebbe impossibile, per esempio, di rappresen- tarci come coesistenti nello spazio due regioni della terra situate, poniamo, agli antipodi, senza formarci, per Tuno o laltro dei due processi indicati, Timmagine di un glo- bo, che per noi rappresenti la terra, e di due i)unti op- posti in questo globo, che rappresentino le due regioni. Io parlo dello spazio come di una percezione propria del senso della vista, malgrado che le percezioni degli altri sensi possano tornire delle indicazioni sui rapporti di spazio, e il tatto associato al senso muscolare fornisca anche un sistema completo di nozioni spaziali: ciò è per- chè le idee sui rapporti di spazio che ci vengono dagli altri sensi, non sono, per noi veggenti, almeno secondo la teoria nativista, die dei segni delle idee corrispondenti che ci vengono dal senso della vista (ì). (1). T.o spazio ciéualc e lo spazio tattile (cioè r idea olir può formarsi deirestensiono un cieco nato, limitato alle sole esperien- ze del tatto e del senso nuiscolare) sono delle nozioni che non hanno niente di comune fra di loro Le idee di distanza, di ìri'an- dezza. di lìirui'a, ecc., <iuali risultano dalie i)ercezioni della vista, non somiiiliano in niente a ({ueste stesse idee (piali risultano dalle sensazioni del tatto e dalle percezioni sul)l)iettive del movimento; e i termini che denotano la j?randezza, la distanza, la figura, ecc., signihcano assolutamente tutfaltra cosa perun essere che non ha che il tatto e il senso nuiscolare.e ]ier un essere che deve spettini- mente alla vista le sue idee dell'estensione. E cpiesto un fatto che risulta, indipendentemente dal ragionamento, dalle osservazioni sul cieco nato di Platner e da quelle sui ciechi nati operati (No- tiamo che lo spazio che noi chiamiamo reale, (luello che oggetti- viamo, è lo spazio visuale; i>erciò aleuni osservatori, in un senso, (ì rai-i(me di anunettere che un cieco nato non ha al- cuna coiKìscenza dell'estensione). I/ohblio o r ignoranza di nue- La diiferenza fondamantale tra la teoria nativista e la empirica consiste, in ultima analisi, nel contenuto o significato differente assegnato alle nozioni di spazio. La seconda teoria traduce l'estensione in termini di movi- mento muscolare: secondo essa, dire che certi punti no in certe posizioni reciproclie, è dire clie bisognano cer- ti movimenti per i)assare da uno a un altro di questi I)unti, (juesti movimenti essendo percepiti per la sensa- zione che accompagna la nostra attività muscolare, e che varia secondo la (quantità e la direzione del movi- mento ( V. specialmente Bain / semi e /' liiteUl(ien.m, \- parte, e. V\ ìli, 2^ e 2- parte, e. V\ V, Della perce- zione delle distanze e delle grandezze dei corpi esteriori), (vluesf analisi sembra risolvere Fidea dell'estensione in un'idea di sequenza, mentre lestensione implica eviden- sla verifà è la sorgente principale degli eìTori e delle conirovtM'sie suirorigin(i delle nozioni di spazio. Io annnetto la teo-la initi- ri<Ja i>er lo spazio visuale, e la teoria em/tfrira])Qv lo s]!azio tol- tile. Si(M-ome le nozioni dello spazio tatlile non jossono risuitnre che dalie esperienze sui)biettive del moviiuento, se ne è coiicluso che anche <]uelle dello spazio visuale lìossono e devono risultare dalle esperienze medesime (v. ciò che segue nel testo sulla teoria emptrtra). Dall'altra partalo stesso motivo per cui si confonde lo spazio tattile con lo spazio visuale, porta airapplicazione della teoria nativista anche allo spazio tattile. L'osper enza ha associato intimamente le idee d.^1 tatto con <paelle della vista : ne segue che le sensazioni del tatto (con le pen'ezioni muscolari che le accom- pagnano) suggeriscono, d'una maniera istintiva ed automatica, cer- te rappresentazioni visuali di spazio, p: e: quella del luogo della superficie del nostro cori)o in cui avviene il coiitat!:!), <juella della ] posizione tempor^anea del memhro che tocca, ecc (Juesfe infoi* - mazioni del tatto suirestensione visibile, dovute airassociazione con le idee d'un altro senso, si crede, perla maniera automatica con cui ess(ì ce lo dà . che ce le dia immedintamente e per se stesso: se ne conclude <piindi l'indipendenza dall'esperienza delle informnzioni che il tatto ci dà suirestensione, nel temiu) stesso che ridentità dell'estensione tattile con l'esfensione visuale. Le due temente l'esistenza simultanea; cosi, perchè Tidea delFe- stensione nasca dai dati che essa suppone, bisogna am- mettere ancora ciie lo spirito abbia già acquistalo r idea dell'esistenza simultanea (V. Stuart-Mill, Filosofia di Ha- millon, traduz. frane, pag. 26G). La teoria empirica giuni?e dunque allo stesso risultato che la nativista : essa, come osserva il Ribot {Psicologìa alemanna, pag. 119), riconduce r estestensione all'idea più generale della simultaneità. Una serie interposta di sensazioni muscolari, che noi percepiamo prima d' arrivare a un punto dopo averne lasciato un altro, tale è, secondo questa teoria, la sola particolarità che distingue la simultaneità nello s])azio dalla simultaneilà che può esistere tra un sapore e un colore 0 un sapore e un odore (Stuart-Mill Filosofìa di Ha-- milton, trad. frane, pag. 208). opinioni difTt'renti clic io ho suirorigine delle nozioni di spazio tat- tile e su quella delle nozioni di spazio visuale, faranno compren- al lettore percliè io ho credulo necessario per lo spazio vi- suale, ma non per lo spazio tattile, di parlare dell'una e dell'altra delle due teorie rivali (visto che la teoria prevalente nella psico- logia moderna è Yemplrìca). Nel 2. Saggio, parte 2, io dovrò tor- nare sull'argomento dell'origine e del contenuto delle nostre idee di spazio, e dirò le ragioni per cui io non posso ammettere la teo- ria empirica come spiegazione dello spazio visuale : ma per ora non sarà forse inopi^ortuno di mettere in guardia il lettore contro un equivoco che i)uò nascere dall'impiego delle denominazioni teoria empirica e natirista. La teoria empirica, nella controversia sullo spazio visuale, non ha alcun legame speciale con la fUosotia dell'esperienza, perchù la teoria opposta, in <iuanto si applica a questo spazio, non ha niente di comune con la dottrina delle idee innate: essa infattisi riduce a (piesta proposizione, che l'estensio- ne è, così ])ene che il colore, un dato immediato della sensazione della vis^a. Quando però la teoria nativista si applica allo spazio tattile, allora essa implica realmente l'ammissione di certe idee innate, perchè consiste, in (piest'applicazione, ad ammettere che le percezioni di un senso (cioè del tatto) possono darci, sin dal- l'origine, delle anticipazioni sulle esperienze d"un altro senso (della vista). Io mi dispenso di esaminare particolarmente in che consisterebbero le nozioni di spazio secondo la terza teo- ria, la più comune, sull'origine di queste nozioni, cioè quella che accorda alla vista l'intuizione immediata del- l'estensione a due dimensioni, ma spiega la conoscenza della terza dimensione per l'esperienza: ciò non solo per la natura ibrida e inconseguente di questa teoria, ma an- cora e sovratutto perchè, essendo essa per una parte iden- tica alla teoria nativista e per l'altra alla empirica, l'ana- lisi delle nozioni di spazio, in conseguenza di essa, non potrebbe trovarvi altri elementi, che quelli che vi si tro- vano in conseguenza delle due altre teorie (1) (i) Secondo alcuni psicologi, un rapporto di coesistenza non è un'idea primitiva e irriduttibile, ma l'analisi può risolverla in rap- porti di seiiuenza. Una rappresentaziene di coesistenza è, dice Spencer, una doppia rappresentazione di setiuenza, di cui la secon- ila non è che la prima stessa rovesciato. « Se due fenomeni A e B coesistono abitualmente nel miluogo circostante, allora, quando il fenomeno A è offerto ai sensi, lo stato di coscienza a che esso apporta, è immediatamente seguito da uno stato b rappresentante il fenomeno B. Il processo del pensiero non deve tuttavia finire li, perche, se cosi fosse, il rapporto esterno sarebbe conosciuto come sequenza. Ma il fenomeno B, nel miluogo circostante, essendo cosi bene l'antecedente di A che A lo è di B (nò l'uno nò 1' altro non essendo sempre sia antecedente sia conseguente se non nell'ordi- ne in cui ne abbiamo esperienza) ne risulta che lo« stato b esson- do stato apportato, la legge (cioè che la forza della tendenza che ha r antecedente di uno stato psichico a essere seguito dal suo conseguente è proporzionata alla persistenza dell'unione tra gli oggetti esterni che essi rappresentano) implica che sarà seguito dallo stato a. Lo stato a alla sua volta chiama lo stato /;, ed e •esso stesso richiamato ancora una volta: e cosi di seguito, sinché questo rapporto resta l'oggetto del pensiero Visto che i ter- mini del rapporto,. non possono essere conosciuti per un atto di coscienza, che sia assolutamente lo stesso; di più visto che la coscienza persistente dell'uno e dell'altro non può essere uno stato di coscienza, che sarebbe equivalente a una non coscienza, no se- gue che questa rappresentazione dei duo che pare incessante, è Noi j)Ossiamo dunque dire in generale che non vi ha altro nelle nostre nozioni del mondo sensibile che degli elementi sensoriali con rapporti determinati di or- dine nel tempo (sequenze o coesistenze). Ma questa pro- posizione non potreb])e aversi per solidamente stabilita, senza Tanalisi (U certe nozioni, che a prima vista posso- no sembrare, o sembrano certamente, irrisolubili in sem- in reaUn iinn tillernoziiìno ro]ii(la, una allemazione assai rapida ] Ci* produrre Feti otto della continuità, cosi come le alternative di luce e di tenel)rc, alle «juali ciascuna parte della retina è sotto- messa, quando e^sa si fìssa soj^ra una fìaccola die gira rapida- mente in tondo, producono su di ossa l'impressione di un cerchio di fuoco » (Sj encer P.<froìorj/a. tomo I. Legge deirintelligen/a). nui lo Spencer i>ar!a come se la coscienza fosse, non la stessa cosa clic i suoi pro|»rii stati, ma uno si^ettatore che guarda cpiesti stati, e può, per un'illusione, vederli dive samente da quel che sono in realtà. Un punto luminoso che gira rai)idamente in tondo, pro- «luce, non le impressioni successive di un i)unto che si muove, ma l'impressione sinmltonea di un (terchio di fuoco, perchè, l'eccita- zione di ciascun punto della retina i ersisterdo jer qualche tempo doi)0 che esso è stato stimolato, i d i versi punti della retina si tro- vano contemporaneamente in uno stato di eccitazione. Noi non ahlìiamo dun<pie, in (jiKisto caso, una successione di stali di co- scienza che |>roduce l'impressione della sinuiltaneità; la simulta- neità è originariamente fra gli stati di coscienza stessi, e noi non apprendiamo che questa simultaneità subbiettiva corrisponde a una successione obbiettiva, che rettificando questa esperienza parti- colare per altre esperienze. Delle rappresentazioni di seipienza, sia pure rovesciato . non ci daranno che l'idea della se(pienza, non mai (juella <lella coesisten- za : (iuest'analisi della nozione di coesistenza non èduncjue la spie- gazione di ([uesta nozione, ma ne è semplicemente la negazione; rssa equivale a dire che noi non al)l)iamo mai l'idea della coesi- stenza, ma sor.anto <]iielia della se(juenza. È evidente in effetto che una coesistenza obbiettivi) è una cosa allatto ditlerente da una doppia se<pienzo. di cui la seconda non è che la i)rima rovesciata. Ora lo stesso Spencer non può non anunettere che vi hanno delle coesistenze obbiettive. Non parla egli . nel tratto citato e in tutto il capitolo da cui è stato preso, di fenomeni che coesistono? Non ha immacrinato la sua analisi del rapporto di coesistenza (sub- ti l)lici rapporti di se(|ucnza e coesistenza di fenomeni. Tali sono particolarmente quelle di causa e di sostanza. Per Tanalisi delUidea di causa io rinvierò a Stuart-Mill (Logica, lib. 3^, e. 5^.)- <^iui mi limiterò a riassumerne il risultato, che è questo: La causazione è un ra])[)orto uni- forme e invariabile di sequenza di due lenoineni o grupjù di fenomeni; la causa è un fenomeno o gruppo di feno- biettivamente considerato), perispiegarc come, gli stati di coscien- za non essendo che succ^essivi, possa esservi corrispondenza tra una connessione di stati di coscienza e una unione di oggetti ester- ni, (juando questa unione è, non una successione, ma una coesi- stenza ? Non dice (nel capitolo sul rapporto di coesistenza) che noi siamo ob])ligati a pensare per la successione la coesistenza ol)1)iet- tiva ? (Si dirà che ciò non prova che Spencer ammetta realmente delle coesistenze obbiettive, perchè parlando di fenomeni esterni, distinti dai nostri stoti di coscienza, egli si mette al punto di vista del realisijio volgare -sistema rA\Q egli non ammette-unicamente per essere iiiìi intelligibile. Ma l'autore parla pure di coesistenze tra stati di coscienza. Cosi egli distingue spesso, (piando es]»one la sua teoi'ia sulle idee di spazio, una eccitazione simultanea di più punti della retina— che dà luogo a una sensazione con)i'Osta in cui (toeslstono delle parti difTerenti - dnlla loi'o eecitazione suc- cessiva—che. dà luogo a delle simsazioni successive— In (juesti casi si tratta certamente di una coesis!;enza reale . perchè i fenomeni in (juestione sono renli.e non semplicemente immaginati dal rea- lismo volgare). Ma come ]iossiamo noi sa]>ere o immaginare che vi ha tra le cose una coesistenza reale, che è alcun che di distinto dalla doppia successione con cui noi la ]>ensiamo. anzi di opposto ad essa, senza formarci una idea di coesistenza, che non e la dop- pia successione a cui Spencer l'iduce il rapi)orto di (.'oesistenza. suhbiettivamenLe considerato? Se possiamo alTermare che vi ha tra le cose una coesistenza i*eale, ciocche non è una d<)])pia suc- cessione di cui la seconda è la prima rovesciata, possiiuno perciò avere una idea di coesistenza, che non è la rappres<'ntazione di una doppia successione di cui la seconda è la i)rima rovesciata. Se invece non abbiamo una tale idea di coesistenza, non jiossiamo nemmeno affermare una ('oesislenza reale tra le cose. Per conse- guenza, o Spencer deve ripudiare la sua analisi deiri<lea del rap- porto di coesistenza, o deve ammettere die noi non alTermiamo meni che, se si produce, é costantemente e invariabilmen- te seguito da un altro fenomeno o gruppo di fenomeni determinato, che si chiama effetto. Nel linguaggio scien- tifico si chiania causa Y insieme degli antecedenti il cui concorso è necessario perciiè il conseguente, cioè l'ef- fetto, si produca; ma nel linguaggio familiare si sceglie Tuno o Taltro di questi antecedenti, quello che si vuol mettere più in rilievo, e lo si decora del nome di causa, benché esso non basti a produrre Teffetto Una sequenza reahnnnte dei rapporti di coesistenza, ma quando diciamo dì affermare una coesistenza, ciò che realmente affermiamo è una doppia successione di cui la seconda non è che la prima rovesciata. In questo caso egli viene a togliere il rapporto di coesistenza, non solo dal nostro pensiero, ma dalle cose stesse, cioè dai fenomeni obbiettivi (le cose in se stesse non essendo, secondo Spencer, sot- toposte ai rapporti di tempo). Ma quantunque il rapporto di coesislenza sia, per noi, qnalche cosa di primitivo d' irreduttibile, tuttavia, lo spirito umano non potendo avere al tempo stesso che un piccolo numero di rappre- sentazioni, sembra necessario di ammettere che noi non possiamo rappresentarci che successivamente le coesistenze complesse della natura. In questo caso noi dobbiamo pensare la coesistenza totale obbiettiva per una successione subbiettiva di coesistenze parziali, in cui gli stessi oggetti sono rappresentati successivamente in coe- sistenza con oggetti differenti. Se noi p. e. ci rappresentiamo A in coesistenza con B, poi B in coesistenza con C, e poi G con D, ecc:, il risultato di tutte queste ra[)presentazionì sarà la rappresentazione totale di A, B, G, D, ecc: come coesistenti. Gìò che è stato detto suppone che il nostro spirito può avere al tempo stesso più di una rappresentazione : se questo non si am- mette, ridea di coesistenza diviene ines^ìlicabile, anzi assolutamente impossibile. Noi non potremmo rappresentarci le coesistenze obbiettive che per delle coesistenze subbiettive, cioè per delle rap- presentazione simultanee, come ^secondo gli stessi psicologi che ammettono che lo spirito non può avere che una sola rappresenta- zione alla volta) non potremmo rappresentarci le sequenze obbiet- tive che per delle sequenze subbiettive, cioè per delle rappresen- tazioni che si seguono. invariabile non vuol dire semplicemente una sequenza che nelFesperienza passata si è trovata invariabile— a tal conto la notte sarebbe la causa del giorno, e il giorno della notte—; ma perchè noi siamo sicuri che la sequenza sia invaria- bile, è necessario che sappiamo che il conseguente si pro- durrà al seguito deirantecedente in tutte le circostanze possibili, in altri termini, che la sequenza sia incondizio- nale. Il giorno non seguirà alla notte incondizionalmente, ma alla condizione che il sole si levi airorizzonte: se questa condizione cessasse di verificarsi—supposizione che non è contraria a quanto sappiamo sulla costituzione del mon- do materiale—, il giorno cesserebbe di seguire alla notte, e questa potrebbe essere eterna. La notte non è dunque la causa del giorno, perchè il giorno non seguirà alla notte in tutte le circostanze possibih: questa sequenza non è incondizionale, e quindi non possiamo affermare che sia assolutamente invariabile. Contro questa nozione positiva o empirica della causa- lità si eleva la sua nozione metafisica. Secondo i metafisici, perchè una cosa sia detta causa di un'altra, non basta che la prima sia invariabilmente seguita dalla seconda, ma bisogna che resistenza della prima possa spiegare V esi- stenza della seconda : in altri termini, perchè una cosa sia veramente causa e un' altra effetto, nel senso meta- fisico di queste parole, bisogna che dal solo confronto delle idee della causa e dell'effetto, e indipendentemente dall'espe- rienza, noi possiamo comprendere che la causa è capace di produrre l'effetto, e che data la causa, l'effetto deve ne- cessariamente seguirne. Per saltare questa quistione che i metafisici ci presentano, potremmo dire che a noi basta^ di occuparci delle cause nel senso di Stuar-Mill— cioè di quelle che sono i semplici antecedenti invariabilmente se- guiti da certi conseguenti che si chiamano i loro effetti—, perchè le cause nel senso metafisico oltrepassano il mon- do dell'esperienza, mentre il nostro esame deve limitarsi alle conoscenze che noi abbiamo sugli oggetti dell* espe- rienza, sui tenonieni. Ma questa ragione sarebbe insul- fìciente, non mancando nel mondo stesso deir esperienza delle sequenze, qual è quella tra la volizione e Tesecuzione del movimento voluto, in cui i metafisici hanno visto del- le vere causazioni, cioè delle causazioni nel senso me- tafisico. Il vero si è che per difendere la nozione po- sitfva della causalità, o.ccorrerebbero degli sviluppi, che (|ui non sarebl^ero al loro posto. Io mi contenterò dun- (jue per ora di rinviare air ultimo paragrafo del capitolo citato di Stuart-Alill. La mia difesa di questa nozione si troverà nel 2** Saggio, parte 1*, che sarà consacrata al- Tesame del concetto metafisico di causa e della sua esph- cazione nella storia della metafisica. Risulterà da ({ue- st'esame che le sequenze tra fenomeni, in cui si sono vi- ste dell(.' causazioni nel senso metafisico, non sono esse stesse che delle serpenze invariabih, le quali non difie- riscono dalle altre che pei'ché ci sono molto più familiari; che è sul tipo di queste sequenze clie la metafisica si è loggiato il suo concetto della causazione, in virtù della tendenza del nostro spirito a ricondurre tutti gli altri fe- nomeni a quelli che gli sono i i)iù familiari; e, per con- seguenza, che non solo tutte le causazioni che noi osser- viamo nel mondo sensibile, non sono che delle seciuenze uniformi e invarialjili, ma ancora che l'idea che gli uo- mini hanno avuto della causazione, non è stata mai, al tondo, che quella d'una sequenza uniforme e invariabile. .§ G. Passiamo all'idea di sostanza. Noi riuniamo i fenomeni in vari gruppi, che chia- miamo cose, esseri o sostanze. Questi termini io li impie- go qui come equivalenti, prendendo cosi la parola sostan- za, in questa ricerca, in un senso più esteso dell'ordinario, e che somiglia, più che a quello che esso ha nella scienza moderna, a ([uello che aveva nella filosofia peripatetica. L'analisi dell'idea di sostanza é dunque per il nostro scopo dell'importanza più alta. Ma affinchè quest'analisi sia com- pleta, e possiamo mostrare che non vi ha altro nell'idea di una cosa o una sostanza che la rappresentazione di coesistenze e sequenze di fenomeni, non basterebl)e che gli elementi ultimi, in cui dobbiamo risolvere le cose o sostanze, fossero dei fenomeni— ])erchè noi abbiamo distinto tre classi di fenomeni, secondo il grado della loro sempli- cità o complessità— ma bisogna che siano, se non dei fe- nomeni del grado più semplice, ciò che sarebbe ima sotti- gliezza inutile, dei fenomeni del grado medio, cioè quelli che abbiamo indicato con le parole: «ciò che può essere l'oggetto immediato d'una sensazione unica o di un atto unico della coscienza» (v. il paragr. 1"). Il princi})io che deve servirci di base è che noi non conosciamo altro delle cose che le nostre sensazioni e delle possibilità di queste sensazioni. Ordinariamente si ammette, è vero, dai filosofi e dagli uomini di scienza che vi hanno, al di là di queste sensazioni e possibilità di sensizioni, delle cose in sé, esistenti d'una maniera assoluta e indipendenti dai nostri sensi. Secondo i più, queste cose in sé sono dei grup})i di atomi, cioè di cor- puscoli non aventi altre qualità sensibili che l'estensione e la resistenza; alcuni sostituiscono agh Sitomì, fisccameri' te indivisibili ma estesi, delle sostanze semplici e asso- lutamente indivisiijili (centri di forza, monadi, ec3) ; altri ammettono che non vi ha altro di reale che lo spirito, e risolvono per la conseguenza la materia, considerata co- ' me cosa in sé, in un aggregato di esseri spirituali; altri infine dichiarano che le cose in sé sono assolutamente inconoscibili, e non si può loro attribuire alcuno degli attributi di ciò che noi conosciamo. Di fronte a queste dottrine realiste sta poi la dottrina idealista — che nella forma che le hanno dato i più eminenti tra i pensa- tori contemporanei che la professano, dovrel)l)e chia- marsi piuttosto fcnomenista. — Secondo essa, tutte le dottrine sulle cose in sé non sono che delle ipotesi desti- tuite di qualsiasi prova, e che racchiudono inoltre delle impensabilità, o delle assolute impossibilità intrinseche: tutto ciò che vi ha di reale in ciò che chiamiamo il mondo esteriore, si riduce dunque, per essa, alle nostre sensazioni e all'ordine con cui ci sono date, dal quale noi in- feriamo le possibilità di altre sensazioni, cioè altre sensa- zioni che noi non proviamo né abbiamo provato attual- mente, né forse proveremo, ma che proveremmo o avrem- mo provato, se fossimo o fossimo stati nelle condizioni neces- sarie perché i nostri sensi venissero affettati. Naturalmente noi non dobbiamo prendere parte, per la nostra quistione presente, per Tuna o Faltra delle dottrine sulFesistenza e la natura delle cose in sé: noi non ammetteremo che ciò che tutte queste dottrine hanno di comune :, cioè che le cose, che che siano in se stesse, non sono relativamente a noi, vale a dire quali noi sogliamo rappresentarcele, che delle sensazioni e possibilità di sensazioni, in altri ter- mini, delle sensazioni attuali o possibili. É evidente in effetto che qualunque sia la propria opi- nione sulle cose in se stesse, ciascuno non fa entrare nelle sue nozioni abituali sulle cose particolari che delle sensa- zioni attuali — cioè eli* egli ha o ha avuto o avrà effetti- vamente—e delle sensazioni possibili — cioè che egli avrebbe o avrebbe avuto, se si verificassero o si fossero verificate le condizioni perché queste cose impressionassero i suoi sensi. Sia,p.e., una piccola palla d'avorio che ci sta d'innan- zi agli occhi. Che cosa intendono dire tutti — atomisti; dinamisti, panpsichisti (1), agnosticisti, ecc. — dicendo che (1) Io intendo per panpsichismo— termine che io piglio a prestito da un discepolo di Hartmann (v. l'Introduzione del traduttore fran- alla Filosofìa deW Incosciente di Hartmann, pag. XII) — una dottrina che ammette la materia come cosa in sé, ma la risolve in spirito (p. e. la monadologia di Leibnitz). vi ha là una palla, e che questa palla è bianca, e ha una certa grandezza? Prima di tutto che noi proviamo at- tualmente la sensazione visuale di una superficie cur- va, d'una forma, d'un'estensione e d'un colore determi- nati — noi supponiamo, per più sempUcità, conformemen- te alla teoria nativista, che gli attributi spaziali degli oggetti sono dei dati immediati del senso della vista; par- lando conformemente alla teoria empirica, bisognerebbe aggiungere alla sensazione visuale che noi abbiamo at- tualmente, le possibilità di sensazioni di movimento mu- scolare, che questa sensazione suggerisce, e che costitui- scono, secondo questa teoria, le nostre nozioni di una cer- ta grandezza e di una certa figura.— Ma questa superfi- cie che noi vediamo attualmente, non è che una porzio- ne della superficie sferica che costituisce la nostra rap- presentazione visuale della palla : con essa coesiste un'al- porzione opposta, che noi non vediamo presentemen- te, ma che vedremmo se guardassimo la palla dalla par- te opposta. Per conseguenza, dicendo che vi ha là uua ])alla, noi significhiamo pure, oltre alla sensazione attuale (li una superficie che abbiamo presentemente, la sensa- zione possibile di un'altra superficie, cioè una sensazio- ne che presentemente non abbiamo, ma avremmo, se in- vece di guardare la palla dalla parte da cui effettivamen- te la guardiamo, la guardassimo dalla parte opposta. Di più^ la palla essendo un oggetto reale, noi non cre- diamo che esiste solamente nel momento in cui la guar- diamo, come le cose ehe vediamo in sogno, ma che psi- steva anche prima ed esisterà anche dopo: ciò vuol di- re che, in qualsiasi momento del passato e dell'avvenire in cui possiamo asserire che la palla ha esistito ed esi- sterà, se si fossero verificate o si verificassero le condi- zioni necessarie perchè un tal corpo impressioni i nostri sensi, noi avremmo avuto o avremmo le stesse sensazioni che abljlamo o i)otreinino avere presentemente. Inol- tre, la palla non è una semplice superficie sferica, ma è una sfera, cioè un solido : ciò significa che scalfendo la palla, rimovendone la parte superficiale, dividendola co- me che sia in parti, e queste parti in altre parti ancora, e cosi di seguito, noi avremmo delle altre sensazioni di nuo- ^^e superfìcie, perchè, come ha mostrato il Rosmini (v. Nuovo Saf/gio sull'origine delle idee 873, 874, 87G, 957, mS; Psicologia 1881; Teosofìa tomo 5' 458), è questua- spettativa di nuove superfìcie, che noi scopriremmo pe- netrando dentro lo spazio chiuso dalla superficie esteriore di un corpo, clie costituisce la nostra nozione deirinterno <iel corpo, o in altri termini, ciò che la nostra nozione del corpo ha di più della semplice nozione della sua superfì- cie esteriore. (>Jueste sensazioni delle superfìcie che co- stituiscono la nozione deirinterno del corpo, noi non po- tremmo provarle che successivamente; tuttavia la nostra affermazione che ciò che ci sta dinanzi agli occhi è un corpo, implica Taftermazioue deiresistenza simultanea di tutte queste .superfìcie, per tutto il tempo in cui la palla ha esistito ed esisterà: ciò vuol dire che ciascuna di que- ste superfìcie noi non potremmo o avremmo potuto ve- derla solamente in qualche momento determinato, ma in qualsiasi momento, della esistenza passata e futura della palla, lo credo inutile di spingere più oltre que scanalisi, mostrando in dettaglio che le altre proprietà che noi at- tribuiamo alla palla, la durezza, la elasticità, la quiete o il movimento, la temperatura, il suono, ecc.-, non signi- ficano se non che npi proviamo preseutemente o prove- remo o abbiamo provato, o potremmo o avremmo potu- to provare, certe sensazioni determinate. Solo bisogna aggiungere che queste sensazioni, attuali o possibili, e le altre che abbiamo enumerato e potremmo enumerare, noi non le affermiamo solamente di noi stessi, ma di tutti gli esseri senzienti, o almeno di tutti quelli di cui ammettiamo che hanno gli stessi nostri sensi e sentono co* me noi. § 7^. Tali sono le nozioni che i filosofì si formano degli oggetti esteriori: delle collezioni di sensazioni, attuali o possibih; taU sono pure quelle che se ne forma il volgare. Ma vi hanno tra le nozioni dei filosofì e quelle del vol- gare delle differenze che non bisogna negligere. Anzitutto il volgare non ammettala distinzione che fanno i filosofì, tra le cose jn sé e le cose relativamente a noi, cioè ai nostri sensi; egli non sa niente né di atomi nò di centri di forza nò di monadi né d' Inconoscibile né di qualsiasi altra ipotesi sulle cose in sé; Fidea ch'egh ha del mondo esteriore si riduce unicamente, come quella di Stuart-Mill o di Bain, a delle semphci sensazioni. Ma quest'idea dif- ferisce da quella di Stuart-Mill e di Bain, e in una parola, degl'idealisti o fenomenisti, nei tre punti seguenti : P Le sensazioni possibili— cioè quelle che non proviamo né abbiamo provato effettivamente, ma che proveremmo o avremmo provato, se si verificassero o si fossero veri- fìcate le condizioni necessarie perché i nostri sensi venis- sero affettati— non sono, pei filosofì, niente di reale ; non sono che delle mere possibilità. Ma per il volgare, cioè per tutti quelli in cui la riflessione fìlosofìca non ha distrut- to la credenza istintiva del genere umano (alla quale del resto anche i fìlosofì si conformano nella loro maniera più abituale di rappresentarsi le cose), le sensa::^ ioni possibili sono r^ali non meno che le stesse sensazioni reah. Quando egli non guarda la palla, tutto ciò che il fìlosofo crede, è semplicemente che, se in questo momento egU guardasse verso la parte in cui noi diciamo che Ja palla è situata, egli avrebbe la sensazione di una certa superfìcie curva, bianca, ecc., Ma il volgare crede invece che anche quando <igli non guarda la palla, esiste anche allora questa su- perfìcie curva, bianca, ecc., e con essa tutte le altre ap- parenze sensibili che la palla in quel momento offrirebbe lii ' r u-ai suoi sensi, se questi potessero esserne affettati. Queste apparenze sensibili, di cui il volgare afferma l'esistenza anche quando i nostri sensi non vengono affettati, non sono che le sensazioni possibili del filosofo, ma il volgare le riguarda come reali : esse sono assolutamente identiche alle sensazioni che noi avremmo o avremmo avute, salva in un punto solo, cioè che le sensazioni si riferiscono a un me senziente, entrano a far parte di una coscienza, ma esse sono sciolte da ogni rapporto con un me o una coscienza, e riguardate come esistenti d'una maniera as- soluta, per se stesse. La prima differenza tra Y opinione dei filosofi e quella del volgare (cioè la credenza istin- tiva del genere umano) sul mondo esteriore concerne dun- que le sensazioni possibili, e consiste in due punti, cioè che il volgare le riguarda: P come reah, e 2^ come assolute cioè come non relative a un me senziente). Le altre dif- ferenze di cui andiamo a parlare, sono delle conseguenze questa differenza fondamentale. 2^. La stessa assolutezza che il volgare attribuisce alle sensazioni possibili (da lui riguardate come realtà), egli attribuisce pure alle sensazioni attuali. Il volgare non considera, come fanno in generale i filosofi realisti, la sensazione e V oggetto sentito come due cose distinte e separate: la sensazione, per lui, s'identifica con l'oggetto- sentito ( nel momento della sua durata e nella parte in^ cui esso è sentito). L'una e l'altro non sono, secondo l'idea del volgare (cioè la credenza naturale del genere iTmano),. che due modi diversi di considerare una sola e stessa cosar considerata soggettivamente, cioè come faciente parte dell'aggregato che diciamo me, questa cosa si chiama sen- sazione; considerata oggettivamente, cioè còme faciente parte dell'aggregato che diciamo mondo esterno, si chiama oggetto della sensazione, o piuttosto— siccome un oggetto è l'obbiettivazione, non di una sola sensazione, ma di un gruppo complesso di sensazioni, simultanee e successive — MI .una qualità o uno stato di quest'oggetto. L'essere una sen- sazione, cioè l'entrare a far parte dell'aggregato me, non é dunque per questa cosa che una circostanza acciden- tale; in se stessa è indipendente dal me senziente, ed esi- ste, allo stesso modo che le sensazioni possibili realiz- zate^ d'una maniera assoluta e per se stessa. 3*^, L'identità tra la sensazione e l'oggetto sentito im- porta l'identità tra tutte le sensazioni che i diversi esseri senzienti, a un momento dato, hanno dello stesso oggetto. Come dice Reid, quando più uomini guardano il sole, essi credono di vedere tutti lo stesso sole (bench'essi non ve- dano in realtà che le loro sensazioni, e la sensazione di ciascuno sia necessariamente un che di distinto da quella di ciascun altro). L'espressione « lo stesso oggetto », come tante altre di cui mi sono servito per adattarmi al lin- guag'gio comune, non implicano necessarianente, come potrebbe credersi, l' ammissione del realismo volgare o di qualsiasi altra forma del realismo — la nostra anali- si dell' idea di cosa o sostanza deve essere indipendente dall'ipotesi delle cose in sé, perchè quest'ipotesi, di cui il volgare non sa niente, non ha potuto influire nella forma- zione della sua idea di cosa o sostanza— Queste espres- sioni hanno un significato anche nel sistema idealista o fenomenista : esse non postulano niente altro che le sen- sazioni e le possibiUtà di sensazioni, inferite dall'ordine con cui le prime ci sono date. Ecco dunque che cosa bi- sogna intendere per le parole « lo stesso oggetto * Per ciascun essere senziente il mondo esteriore non è che il sistema delle sue sensazioni, attuali e possibili; ma a questo sistema corrispondono, negli altri esseri senzienti, dei si- stemi analoghi, più o meno simili secondo la minore o maggiore differenza dell'ambiento in cui questi esseri vi- vono, della loro organizzazione, delle loro abitudini, ecc. Quando al gruppo di sensazioni, attuali e possibili, che in uno di questi sistemi costituisco un oggetto dato, corrisponrlono in altri sistemi dei gruppi simili— simili consi- derando tanto i gruppi in se stessi quanto nei loro rap- porti con gli altri gruppi dello stesso sistema (specialmente nei rapporti di posizione nel tempo e nello spazio) —, questi gruppi vengono considerati, non come simili, ma come identici, ed è ciò che si chiama lo f^tesso oggetto. Questa identificazione suppone che le sensazioni simili e simultanee dei gruppi corrispondenti dei diversi sistemi siano riguardate, non come simili, ma come identiche, cioè non come più cose distinte, ma come una sola e stessa cosa, in cui non vi ha altro di multiplo che i suoi rapporti coi diversi me o coscienze, di cui allo stesso tempo entra a far parte. Il processo istintivo, per cui arriviamo alFoggettiva- zione delle nostre sensazioni, sarà da noi studiato nel 2" Saggio, parte 2*: ciò che e' importa per la quistione pre- sente, è di determinare in che consista questa oggettiva-. zione. Riassumendo ciò che a]j])iamo detto, possiamo dunque dire che essa consiste in questi tre punti : primo, noi riguardiamole sensaz iomi possi biìl q^oycìq reali; secondo, tutte le sensazioni, attuali e possibih, noi le consideriamo come indipendenti da qualsiasi me senziente; e terzo, noi iden tifichiamo le sensazioni simili che i diversi esseri sen- zienti hanno simultaneamente dello stesso oggetto. Iden- tificando le sensazioni simiU dei diversi esseri senzienti, noi non aggiungiamo alcuna nuova idea alle nostre idee di sensazioni; noi non facciamo che scam biarc per uno ciò che in realtà è multiplo. Riguardandole come indipenden- ti dal me senziente, lungi di aggiungere qualche idea, noi la toghamo, perchè non facciamo che astrarre dal rapporto necessario ch'esse hanno in realtà con gli ess.eri senzienti. Considerando le sensazioni possibili come reali, infine, noi aggiungiamo qualche cosa alle nostre idee delle sensazioni reali, ma non è che altre idee di sensazioni reali. Le nostre idee degli oggetti non contengono dunque che idee di sensazioni : tuttavia— siccome la parola sensazione impli- ca un rapporto necessario con un senziente — nel segui- to della nostra analisi, ciascuna di queste sensazioni, attua- li o possibili, i cui aggregati costituiscono gli oggetti, noi la chiameremo, non sensazione, ma sensibile, intenden- do per questo termine l'impressione che un dato oggetto, a un momento dato, fa o può fare su qualcuno dei no- stri sensi. § 8*^ Ora ciò che dobbiamo mostrare è come (juesti sensibili si aggruppino per formare gU oggetti, vale a di- re quale dove essere il rapporto fra una varietà di senù- bili perchè entrino tutti a far parte di un solo e stesso oggetto. Perciò, siccome i sensibili che costituiscono un oggetto possono essere simultanei o successivi, bisogna proprorci due quistioni : primo, qua! è il modo di coesiste- re fra i sensibili simultanei dalla cui riunione un ogget- to è costituito; e secondo, (juale deve essere il rapporto fra diversi sensibili successivi, perchè possano fondersi, per dir cosi, e consolidarsi nella nozione di un solo e stes- so oggetto. Ma siccome per distinguere e identificare gli oggetti noi teniamo conto, non delle sole proprietà che attribuiamo agli oggetti considerati ciascuno per se stes- so, ma anche di quelle che loro attribuiamo considerati nella loro azione mutua gli uni con gli altri, cosi noi d])iamo allargare la seconda (juistione modificandola in questo senso: a qual segno— chiamando uno stato di un oggetto il complesso dei sensibili ciie costituiscono quest'og- getto a un dato momento della sua durata, più le attitu- dini che esso ha, a questo momento, a modificare gli altri oggetti e ad esserne modificato— a qual segno, dico, noi riconosciamo gli stati susses^ivi di un oggetto per de- gU stati di uno stesso oggetto, in altri termini, quale de- ve essere il rapporto fra questi s^^^^/ successivi, perchè si riuniscano tutti nella nozione unica di un solo e stesso oggetto. i'?l.'«iWl»»»''¥«'!iaT'?i In quanto ai sensibll simultanei, noi dobbiamo distin- guere la coesistenza tra i dati dello stesso senso e quel- tra i dati di sensi digerenti. La prima ha luogo note- volmente tra i sensibili che costituiscono le rappresenta- zioni visuale e tattile di un oggetto. 11 modo di coesiste- re di questi sensibih non è che una coesistenza nello spa- zio, nozione che noi abbiamo già analizzata. Ciò che vi ha di particolare a questa coesistenza nello spazio, sono i caratteri per cui riconosciamo le parti di un tutto co- me tali, e che possiamo ridurre a due: la loro contiguità (in modo da formare un estensione continua), e la persi- stenza di questa contiguità e, in generale, dei loro rap- porti di posizione reciproca (con questo secondo caratt(> re noi anticiiùamo in un certo modo sulla seconda (jui- stione, questa persistenza essendo uno di quei rapporti ira gli stati successivi di un oggetto, che, come vedremo, ci fanno riconoscere questi come stati di uno stesso og- getto). Per ispiegare in che consista la coesistenza in uno stesso oggetto di proprietà sensibili ciie noi percepiamo per sensi ditìerenti, si dice ordinariamente che queste pro- prietà sensibili non sono che degli etietti diversi di una stessa causa, cioè delle impressioni differenti che lo stesso oggetto produce sui nostri sensi. Ma siccome Toggetto non è per noi che il complesso di queste impressioni differenti, attuali o possibih, sui nostri sensi, noi non possiamo con- tentarci di (juesta spiegazione, poiché il tutto non può essere certamente la causa delle sue parti. Questa spiegazione sup- pone evidentemente, al di là delle nostre sensazioni, un ^ A' che è la causa di queste sensazioni: se non che in quesf iix)tesi resterebbe a spiegare come noi, non cono- scendo niente di questo .Y né della sua azione sui nostri sensi, sappiamo nondimeno che le impressioni differenti dei nostri sensi sono degli effetti di un solo e stesso A'. Per rendere conto dunque di questo fatto, cioè dellattri- './fi 'mi m buzione che noi facciamo a uno stesso oggetto, delle im- pressioni che esso produce sui nostri diversi sensi, noi dobbiamo seguire un altro metodo, sostituendo ad AT e alla sua azione sui nostri sensi, che é un altro A", qualche cosa di dato e di conosciuto. Vi ha, nel gruppo dei sensibili che noi chiamiamo un oggetto, un nucleo, per dir cosi, centrale e fondamentale, costituito dalle sue proprietà visibili e tangibili: Testensione, la forma, il colore, la resistenza e il grado di questa re- sistenza. É di queste proprietà che si compone la nostra rappresentazione abituale dell'oggetto; é per esse che abi- tualmente noi lo identifichiamo, e lo distinguiamo dagli altri oggetti. Un' altra circostanza importante è che é a questo nucleo che appartengono le qualità dei corpi che ci servono a spiegare i fenomeni; cosi la fisica, che non lascia alla materia altri attributi che queUi che sono ne- cesari alla spiegazione dei fenomeni, non le attribuisce qualità sensibili che V estensione, la figura e la re- sistenza. 11 nostro nucleo corrisponde dunque in qualche sorta a ciò che si chiamano le proprietà primarie dei cor- pi : sempUcemente, a queste noi aggiungiamo il colore, sia perchè l'estensione e la figura sono anzitutto, per noi veg- genti, l'estensione e la figura visibih, e queste sono inse- parabili dal colore, sia perché il colore è evidentemente uno dei mezzi più importanti di cui ci serviamo per iden- tificare e distinguere gli oggetti. È questo nucleo centrale e fondamentale dell' oggetto, che, per la nostra rappre- sentazione, è in qualche sorta l' oggetto stesso, che noi dobbiamo sostituire all' A" dei filosofi: è ad esso che noi do)3* biamo riattaccare le altre proprietà sensibili dell'oggetto— cioè le altre impressioni che questo fa sui nostri sensi- come degli effetti diversi alla loro causa comune. Noi am- metteremo dunque che, dicendo che un dato oggetto ha un certo odore, un certo sapore, un certo suono, un certo grado di calore, ecc., ciò che noi vogliamo significare è iiiiifigiHiiriif%"a che lina certa cosa visibile e tangibile, cioè che noi cono- sciamo e ci rappresentiamo come un che di esteso, di figu- rato, di colorito e di resistente, è la causa di certe sensa- zioni, che noi abbiamo o potremmo avere, di odore, di sa- pore :, di suono, di temperatura, ecc. Ciò non vuol dire però che l'odore, il sapore, il suono, il calore, non sono per noi che delle semplici sensazioni, che esistono sola- mente nel momento in cui le sentiamo e in quanto le sen- tiamo. Il volgare, al contrario, oggettiva queste sensazioni, cioè, come abbiamo spiegato, egli riguarda le possibili come reali, le considera tutte,*Ie attuali e \e possibili, come indi|jendenti dagli esseri senzienti, e identifica quelle di cia- scun essere senziente con le corrispondenti che gli altri provano simultaneamente. Ma che Fodore, il sapore, ecc., cosi oggetivati, siano riguardati, non solamente come coe- sistenti tm loro e con gli altri sensibiU che costituiscono r oggetto, ma come coesistenti in uno stesso oggetto, ciò significa semplicemente che le nostre sensazioni di odore, di sapore, ecc., vengono riattaccate, come abbiamo detto, slVoggetto visibile e tangibile, come alla loro causa comune. Naturalmente è con lo stesso principio che noi dobbiamo spiegare la coesistenza della proprietà tangibile del nucleo (la resistenza) con le proprietà visibili (restensione, la figu- ra, il colore). È evidente in effetto che, se una certa re- sistenza clie noi abbiamo sentita, Tattribuiamo a un dato oggetto, è perchè sappiamo che noi abitiamo provato que- sta sensazione, portando la mano o un altro membro sulla superficie colorata che quest'oggetto esibisce alla nostra vi- ^ta. Noi riguardiamo dun(|ue in un certo modo la resistenza come un efietto della parte visibile del nucleo. In quanto alle stesse proprietà visibili, noi supporremo eh' esse so- no dei dati originali della sensazione visuale (teoria na- ti vista): noi non avremo bisogno perciò di spiegare la coesistenza del colore con l'estensione da figura, e ve- dremo in (jueste tre proprietà tre punti di vista astratti di considerare uno stesso sensibile. La coesistenza di più i\ SUI r.iMiTi E l' oggetto deij.a conoscenza a priori 123 f - proprietà sensibili— cioè che noi percepiamo per sensi dif- lerenti— in uno stesso oggetto, non implica dunciue, oltre all'idea della semplice simultaneità, che delle idee di cau- sazione: noi aljbiamo visto che questa non è che un caso particolare della sequenza. .^ 0.'' Sul rapporto che deve esistere fra gli stati suc- cessivi di una sostanza, perchè siano riconosciuti come stati di una stessa sostanza, noi non possiamo stabilire delle regole assolute. Vi ha fra questi stati, non un rap- porto definito e costante, ma una tendenza a un tale rap- l)orto. Il rapporto reale fra gli stati successivi delle sostan- ze dell'esperienza non può, per conseguenza, essere for- mulato in se stesso, ma solo relativamente a questo ra[)porto definito e costante, a cui esso non fa che tendere, e che noi dobbiamo considerare come un ideale, a cui le sostanze: dell' esperienza non si conformano che d'una maniera approssimativa, e largamente approssimativa. Per esporre il rapporto reale nelle sostanze dell'esperienza, noi supporremo dunque il rapporto ideale realizzato in una sostanza ipotetica, che sarà per noi come il tipo delle sostanze: la definizione del rapporio ideale in questa so- stanza tipo ci darà in un certo modo quella del i^pporto reale nelle sostanze dell'esperienza, jìerchè (juesto, come aì>biamo detto, non può formularsi che in relazione a (|uello. Il nostro metodo somiglierà in (jualclie maniera a ({uello che alcuni logici hanno proposto per sopperire alla (hfficoltà che vi ha a determinare le classi naturali, rife- rendosi a certi caratteri definiti : cioè di sostituire alla definizione un tipo, vale a dire un caso della classe, con- siderato come possedente eminentemente il carattere della classe. (V. Stuart-Mill Logica, lib. 4'\ e. 7^ S 3). Noi presenteremo come sostanza tipo l'atomo. Il carat- tere della sostanza tipo, al punto di vista del rapporto tra i suoi stati successivi, è l'assoluta immutabilità, tranne nei suoi ra])porti ih posizione con le altre sostanze. La sostanza tipo conserva sempre le stesse proprieià sensi- bili: se potesse essere un oggetto dei nostri sensi, questi riceverebbero sempre da essa delle impressioni identiche, e non percepirebbero mai in essa altro cangiamento che quello della sua posizione nello spazio. Alla nostra so- stanza tipo, cioè airatomo, non si attribuiscono altre pro- prietà sensibili che V estensione coi suoi modi e la resi- stenza; ma queste proprietà sono sempre identiche : l'a- tomo ha costantemente la stessa forma e la stessa gran- dezza, è insuscettibile di deformazione, di dilatazione e di compressione, e se noi potessimo trattarlo con le nostre mani, ollrirebbe sempre ai nostri sforzi lo stesso grado di resistenza. La stessa immutabilità, che compete alla sostan- za tipo nelle proprietà che le appartengono considerata assolutamente, cioè in se stessa, le compete pure nelle proprietà che le appartengono considerata nella sua azione mutua con le altre sostanze : un atomo ha costantemente le stesse attitudini a modificare gli altri atomi e ad esserne modificato— va da sé che, trattandosi di atomi, o general- mente, di sostanze tipo, non può supporsi altra modifica- zione che r alterazione del loro stato di riposo o di mo- vimento, perchè, come aì^biamo detto, la sostanza tipo non è suscettibile di altro cangiamento che della sua posizione nello spazio. — 11 cangiamento di posizione dell'atomo— come di qual- siasi altra sostanza, ipotetica o empirica— ha una condi- zione, la contumìtà: in una parola, il movimento è con- tlnuo. Per questa continuità s'intende, come si sa, che un corpo non può passare da una posizione ad un allra senza passare prima per le posizioni intermediarie. IMa quésta continuità è assoluta ? in altri termini, il corpo, * prima di passare a una nuova posizione, deve passare per tutte le posizioni intermediarie fra di essa e l'antica? Io credo col Rosmini (v. Nuovo saggio sulVorigine delle idee 779 - 790 e 813 - 819 e Psicologia) e con r altri filosofi, che ciò è logicamente impossibile e contrad-, e che il movimento è continuo solo in un senso relativo. Per questa continuità relativa del movimento bisogna intendere, secondo me, che il cangiamento di posizione di un corpo si fa per una gradazione insensi- bile, in modo che ogni cangiamento discernibile sia il risultato e la somma di piccoli cangiamenti indiscerni- bili: in altre parole, fra due posizioni successive di un corpo, che noi possiamo percepire come differenti, s'in- terpone sempre qualche posizione intermediaria (una o più), in se stessa distinta certamente da quelle due, ma che noi non possiamo conoscere, nel momento della per- cezione, come differente da esse (1). Le posizioni imme- (1) he la continuità, nel senso assoluto, sia o no da attribuirsi al movimento noumeno— supposto che vi sia un movimento nou- meno, cioè che esistano delle cose in sé e che il movimento sia un loro attributo,— ciò che ci sembra evidente è che noi non pos- siamo affatto attribuirlo al movimento fenomeno, vale a dire al movimento come nostra percezione e rappresentazione. In effetto, percepire il movimento d'un corpo non è che percepire successi- vamente questo corpo in posizioni differenti; tutto ciò che noi per- cepiamo del movimento non è che questo: la differenza nelle po- sizioni successive di un corpo. Ora queste posizioni successi vp non possono formare un'estensione continua, come sarebbe se la con- tinuità del movimento fosse assoluta. Fissiamo infatti un punto qualsiasi nell'estensione del corpo in movimento: in ciascuna delle percezioni elementari successive, da cui risulta la percezione com- plessa del movimento del corpo, noi vedremo questo punto occu- pare un punto differente dello spazio. Se il movimento fosse asso- lutamente continuo, il punto del corpo, per passare da uno a un [ altro punto dello spazio, dovrebbe passare prima per tutti i punti intermediari. Ma i punti intermediari tra un punto e un altro dello spazio sono infiniti, e il punto del corpo non potrebbe percepirsi come occupante successivamente due qualunque di questi punti, che con due percezioni distinte e successive: dunque la percezione del movimento come continuo, nel senso assoluto, importerebbe, in un tempo finito, un numero infinito di pervezioni successive, ciò che è impossibile e contraddittorio. Di più, ammessa anche g&gy^^^g^^l^^^ iiff.MiiiHa tt^sn^^siswsms^eÈmmfim^ Ì2C,diatainente successive clie un corpo può occupare, sono dunque per noi indifferenziabili, quantunciue distinte in se stesse; e per conseguenza noi possiamo assegnare, come una condizione perchè gli stati successivi di una sostan- za siano riconosciuti come stati di una stessa sostanza, che questa sostanza, nei suoi stati successivi, cioò nei jnomenti successivi della sua durata, sia o possa essere percepita, o come occupante la stessa posizione nello spazi(j, .0 come cangiante questa i)Osizione, ma per una transi- zione insensibile, in modo che la posizione susseguente sia per noi indiscerni))ile dalla posizione immediatamente pre- cedente. r ipotesi di un'intìnità di percezioni successive (in ciascuna delle (luali il corpo fosse percepito in una posizione distinta), la conti- nuità assoluta del movimento sarel)])e sempre impossi})ile. In ell'etto. che le percezioni successive delle posizioni distinte del corpo siano finite o infinite, vi saranno, nell'un caso come nell'altro, delle per- cezioni immediatamente successive. Consideriamo due (lualunquo di queste. Nella seconda percezione ciascun ]>unto del corpo sarà visto occupare una posizione distinta da quella che era visto oc- cupare nella prima; ma due posizioni del juinto non possono essere distinte, che se vi ha fra di loro un certo intervallo, per quanto sia piccolo; dunque noi abbiamo percepito, per queste due percezioni, non un cangiamento assolutamente continuo, ma nn cangiamento in realtà saltuario (quantunque il salto possa sfuggire, e sfugga elTettivamente, alla nostra osservazione, perchè, come abbiamo detto, tra due posizioni dìiterenziabili di un corpo s'interpone sempre <iualche posizione intermediaria, distinta si, ma per noi indirleren- ziabile da esse). 11 movimento non potendo essere contìnuo (nel senso assoluto) come percezione, esso non può esserlo nemmeno come rappresentazione: in effetto, formarci una rappresentazione perfetta duna cosa, non e che rappresentarcela nel modo stesso in cui r abbiamo percepita. Si crederà forse che, il movimento non essendo assolutamente continuo, cioè un corpo non potendo, prima di passare da una posizione ad un'altra, occupare tutte assolutamente le posiziintermediarie, esso occupi solamente le posizioni intermediarie che -^possono essere distinte le une dalle altre (cioè ciascuna da quella ' clie immediatamente la precede), e che ciò l)asti per la nostra no- Noi possiamo dunque aggiungere questa seconda con- dizione alla prima, che ò, ricordiamolo, trattandosi della sostanza tipo, Tidentità degli stati successivi, si al punto dì vista delle sue proprietà sensibili, che a quello delle sue attitudini a modificare le altre sostanze e ad esserne modificata. Una sostanza è un complesso di fenomeni, simulta-nei e successivi, e la quistione che noi ci proponiamo è quale deve essere il rapporto tra questi fenomeni, perché essi siano riuniti tutti nella nozione unica di una cosa o una sostanza. Questi fenomeni sono le apparenze sen- sibili, simultanee e successive, che un oggetto presenta zione della continuità relaUca del movimento. Ma se fosse così, noi non percepiremmo il movimento come continuo, nenuueno in un senso relativo, ma come saltuario, anche perla nostra osserva- zione, perchè, come abbiamo già notato, delle posizioni successive distinte di un corpo, importa delle posizioni successive di un punto qualsiasi di esso separate da un intervallo, e quindi delle posizioni successive del corpo che noi possiamo distinguere, imiiorta delle posizioni successive di un suo punto qualsiasi, tra cui possiamo osservare un intervallo che le separa La vera idea della continuità del movimento (cioè della continuità velattca che noi percepiamo e ci rappresentiamo) dohl)iamo ricavarla da altri cangiamenti, che chiamiamo pure continui, e che, siccome si compiono più lentamen- te, sono più facilmente analizzabili, quale il passaggio dal giorno alla notte. Considerando insieme l'ultimo periodo di tempo con cui il giorno finisce, e il primo con cui comincia la notte, noi abbiamo una successione di momenti, in cui la luce va gradata- mente diminuendo, e T oscipMtà aumentando: tuttavia, se parago- niamo dei momenti molto vicini, noi non possiamo osservare fra di essi, sotto (juesto rapporto, alcuna ditferenza; la dilTerenza non è percettibile, che quando i momenti paragonati hanno fra di loro una certa distanza. È in ciò che consiste dunque la continuità del movimento e di qualsiasi altro cangiamento che chiamiamo con- tinuo: in una successione di stati aventi fra di loro una gradazione insensibile, tale che la differenza fra gli stati contigui, o in gene- rale, molto vicini, sia impercettibile, e non possa percei)irsi che quella tra gli stati separati da qualche altro stato, o un certo nu- mero di stati, Intermediari. Che vi sia stata una differenza anche 4 o potrebbe presentare al soggetto senziente, e le azioni e passioni di quest'oggetto nei suoi rapporti con gli altri.. Uno stato di una sostanza è, coma abbiamo spiegato, il gruppo di sensazioni, attuali e possibili, con cui essa, a un momento dato, impressiona effettivamente o potrebbe impressionare i nostri sensi— sensazioni alle quali, poiché- le consideriamo, non subbiettivamente, cioè come facien- ti parte dell'aggregato me, ma obbiettivamente, cioè come fra gli stati contigui o molto vicini, quantunque noi non l'abbianao- osservata, noi lo inferiamo dal fatto che la differenza è sempre osservabile fra due stati qualunque, purché siano abbastanza di- stanti: di là l'idea della continuità del cangiamento nel senso che questo è stato incessante, che cioè in due momenti di seguito la cosa non si è mai trovata nello stesso stato. Un'altra inferenza che noi facciamo naturalmente, è che la cosa', per passare da uno stato a un altro distinto, ha bisogno di passare prima per ^am" gli stati intermediari: ma quest'altra inferenza è un'illusione. Ecco, limi- tandoci al cangiamento di posizione, come bisogna spiegare, se- condo me, quest'illusione naturale (vale a dire quella per cui cre- diamo che il movimento è assai ut aniente continuo). Noi siamo abi^ tuati all'idea clic il cangiamento di posizione di un corpo non è mai l)rusco, che fra due posizioni successive del corpo cUfTeren- viabili s' interpongono sempre delle posizioni intermediarie, tali che le posizioni contigue (cioè immediatamente successive) siano incUiferenziabill: è ciò che risulta dalle nostre esperienze del mo- vimento. Ora, riflettendo a due posizioni successive qualunque del corpo, noi non possiamo non pensare che esse sono in se stesse distinte (senza di che non sm-ebbero due posizioni), quantunque non possano da noi percepirsi come tali: indiff ere riz labili per la percezione, divengono cosi ditrerenziablll per il pensiero. Ne segue che noi siamo condotti *ad immaginare sempre, fra due posizfoni successive qualunque del corpo, altre posizioni intermediarie, e che ciò deve andare all'infinito, non potendo noi mai arrivare ad immaginare due posizioni contigue Indifferenziablll per il pensiero, poiché queste due posizioni non sarebbero allora distinte, e quindi nemmeno due posizioni. Sulla quistione della continuità del movimento, e sull'origine dell'illusione naturale che ci fa credere che questa continuità sia assoluta, noi dovremo tornare nella parte 3. del Saggio 2. ii facenti parte deiraggregato mondo ederno, abbiamo da- to 1 nome, non di sensazioni, ma,li sensibili-, più le at- tiudm,, che noi troviamo legate con questi gruppi di sen- T!t ^T 'f^'^^'*^"'' '-^""a" o possibili, obbiettivate, di/c?; ?'' " ^""^ <^^"temporanei e ad esserne mo- Wcati. Per conseguenza, invece di domandarci: quale stanza o!:!,,!^ '"^'''''' '"'" "^ ^ -—ivi di una so- stanza perclie siano riconosciuti come stati di una stes- uilionT^nf ^™-/— P''' ^'-ramente la ^, tra domani. ."""f""' ^ P*^'' ^l'^^^^'al- ti a domanda: quale deve essere il rapporto Ira dei -rup- pi .successivi di sensibili e le attitudini" a,l essi Hate a mcKlificare altri gruppi contemporanei o esserne iÌì! co ; o 1' ^^T'"'" "™"'' "*^"" nozione unica di una mo dnr ^ ^l^esta domanda noi non j^ssia- Zt^ yT"^'''''^''' "«" «apponendo, ciò clic non e, c!ie le sostanze dell'esperienza si conformino .g«nente alle condizioni della sostanza perfetta e oè ~to t^ i T; ''""^ p""*^ ^'i -«'- ^ei iti 2Ì . "^"' successivi che costituiscono Pi- dea della sostanza, sono: 1-. I gruppi successivi di sensi- 11 ch3vono essere identici. 2^ Quelli che si succedonoTm- S Zio V H, 7"? '^"" '^ ""'''"^ locahzzazione nulo spazio, o delle localizzazioni dilierenti si, ma <ii una chtterenza cosi piccola che esse siano, per la nostra osser vazione, indiscernibili. > Le attitudini, le'gate a q^sS grup- pi d, sensibili, a modificare altri gruppi contemporanei o piendeia facilmenle che io non intendo qui parlare di un Identità assoluta, ma di una certa identiti relativa, che sarebbe superfluo di spiegare circostanziatamente). Riu- nendo una moltitudine di fenomeni successivi in una no- zione unica, e chiamando il tutto una sostanza, ciò che noi vorremmo dire, supposto, ciò che non è, che U "i nouiu (li sostanza non si accordasse che alle sostanze perfette cioè conformi alla sostanza tipo, non sar(3l)]jc al- tro se non che in (jiiesti fenomeni, riuniti in questa no- zione unica, si verificano queste tre condizioni. Ma due dì queste condizioni, la prima e Tultima, nelle so- stanze deir esperienza non si verificano mai rigorosamen- te. Tutti gli esseri sono in un cangiamento continuo, si rispetto alle loro proprietà assolute che a (fuelle relative ad altri esseri : come diceva Eraclito, niente permane, tutto diviene. Se le sostanze reali si conformassero pie- namente alle condizioni della sostanza tipo, ogni cosa do- vrei )be avere sempre la stessa forma, la stessa grandez- za, lo stesso colore, lo stesso odore, ecc.; gli esseri viven- ti non cangerebbero incessantemente, (^ome fanno, gli ele- menti materiali ciie li costituiscono, né si svilupperebbe- ro—ciò che vale a dire (^.he non vi sarebljero più affatto esseri viventi—; non vi sarebbe più cangiamento nello sta- to fisi(^o dei corpi ; ecc. Nondimeno è evidente che, per identificare gli oggetti, noi teniamo conto anche, e prin- cipalmente, deiridentità delle i)roi)rietà; in altri termini, che il segno più imi)ortante, per riconoscere che ci<') che percepiamo attualmente e la stessa cosa che ciò che ab- biamo percepito in im temi») i)assato, è la somiglianza tra i due percepiti. N'oi non possiamo certamente deter- minare come regola un grado di somiglianza fra im per- cepito attuale e dei percepiti anteriori, necessario perchi'i ridentifìcazione sia i)0ssibile, né un grado di diffenmza che escluda questa identificazione; una tale determinazio- ne spesso è anche impossibile nei casi particolari. Noi non [>otremmo, per esempio, n«3lla lenta distruzione che il tempo ik di un oggetto, fissare il limite sino al quale noi consideriamo ancora quest'oggetto come lo stesso; noi non potremmo nemmeno, nella lenta evoluzione per cui si forma un essere vivente, fissare un momento in cui noi i)Ossiamo cominciare a considerare quest'essere come già esistente, e riguardare Fembrione come lo stesso es- sere che la pianta o l'animale che esso diverrà in se<?ui- to. Ma (juesti stessi esempi ci mostrano che, per riunire dei percepiti o percepibili successivi nella nozione unica <\ì una cosa o sostanza, uno dei criteri che ci servono di guida, e il jììù importante, è la somiglianza fra questi per- cepiti o percepibili. Una cii'costanza che bisogna sovra- tutto mettere in rilievo è che, malgrado che gli esseri siano sottoposti a un cangiamento incessante, le nostre -esperienze del loro non cangiamento sono nondimeno in- <^omparabilmente più numerose che quelle del loro can- giamento. Una stessa cosa, osservata in due momenti vi- cini, ci i)resenta, nella massima parte dei casi, delle proprietà assolutamente identiclie. Nella massima parte dei casi, il cangiamento non è apprezzabile die (piando gli stati dell'oggetto, che noi paragoniamo, sono molto lontani di tempo ; cosi l'oggetto ci apparisce semi)re lo stesso, quantunque esso cangi continuamente. Questo fat- to, che il fenomeno del non cangiamento nelle proprietà degli oggetti ci è estremamente più familiare che quello del cangiamento, iia prodotto una conseguenza nella sto- ria delle idee filosofiche, che noi studieremo nel Saggio seguente (Appendice alla parte 1*): è che lo spirito uma- no, per la tendenza ch'esso ha ad assimilare tutti i feno- meni a quelli che gli sono i più familiari, è stato costan- temente jKJrtato ad ammettere che i veri esseri, gli esse- ri veramente reali, sono sempre gli stessi, ingeneralùli e imperibili e assolutamente immutabili (tranne cJie nei rai)porti di spazio con gii altri esseri), e che gli esseri dell'esperienza, che cangiano e divengono, non sono dei veri esseri. Di là nell'antica fisica greca, con gli atomi di Democrito, i quattro elementi di Empedocle eleomeo- mene di Anassagora; di là le monadi di Herbart e tan- te altin3 concezioni analoghe della metafìsica. Cosi la no- stra sostanza tipo, l'atomo, quali si siano i fatti dell'osservazione da cui la sua esistenza è dedotta nella scienza moderna, non è stata alForigine che un'ipotesi destinata a dare una soddisfazione a questo bisogno del nostro spi- rito di supporre, alla base delle sostanze cangianti delFe- sperienza, altre sostanze, più reali, esenti dal cangiamen- to—e siccome Tincatenamento dell'atomistica moderna con lantica è costatato dalla storia (v. Lange Storia del ma- ierialismo, tomo 2^ traduz. frane, pag. 101 e segg.), sem- bra d'altronde naturale di pensare che questo motivo ha dovuto anch' esso influire sull'ammissione dell' ipotesi dell' atomo nella scienza moderna. — La nostra conce- zione di una sostanza tipo non è dunque un'idea arbitra- ria: per (jucsta concezione d' una sostanza perfetta, ri- guardata come possedente eminentemente il carattere della sostanza, e a cui ci riferiamo come ad un esem- plare per aggregare le sostanze imperfette dell' esperien- za alla classe delle sostanze, perchè in essa sola si ve- rificano rigorosamente le condizioni che in queste non si verificano se non approssimativamente; per questa concezione, dico, noi non abbiamo fatto che imitare il processo naturale dello spirito umano per cui esso arriva^ pressoché fatalmente, a quest'idea: che vi hanno delle so- stanze assolutamente immutabili ; che queste sole sono delle sostanze vere; e che le sostanze cangianti dell'espe- rienza non ricevono che inqìropriamente il nome di so- stanze (V. Saggio 2^ Appendice alla parte 1^). Fra le tre condizioni enumerate della sostanza tipo, ve n' ha una che si verifica rigorosamente anche nelle sostanze dell'esperienza: fra i gruppi successivi di sensi- bili, la cui totalità chiamiamo una cosa o una sostanza, o deve esservi identità di posizione nello spazio, o se vi ha cangiamento di posizione, questo cangiamento deve essere continuo, cioè tale che le posizioni di due gru]^)- pi immediatamente successivi siano, benché differenti se stesse, per la nostra osservazione indiscernibili. Se fra ciò che percepiamo o potremmo percepire a un momen- to dato, e ciò che abbiamo percepito o avremmo potuto percepire al momento immediatamente anteriore, vi fos- se nella posizione nello spazio un intervallo apprezzabile, senza che noi potessimo intercalare, fra questi due, altri percepiti o percepibili, che servissero, per dir cosi, di pon- te, stabilendo la continuità del cangiamento; noi non di- remmo dei due percepiti o percepibiU che sono lo stesso oggetto, ma che un oggetto é stato miracolosamente an- nientato al primo posto, e un altro oggetto in tutto simi- le creato al secondo. La condizione necessaria dell'iden- 'tità degli oggetti é dun(|ue, quando vi ha cangiamento di posizione, la continuità di questo cangiamento. Aggiun- giamo che, quando vi ha cangiamento di irjrina o di gran- dezza, siccome questi cangiamenti implicano, Tuno e l'al- tro, un movimento delle parti costitutive dell'oggetto, l'iden- tità di quest'oggetto suppone che anche questo movimen- to si conformi alla condizione di ogni movimento, la con- tinuità (nel senso relativo che abbiamo spiegato.) §. 10 Nella sostanza tipo, cioè nel conq^lesso degli at- tributi che la costituiscono, si possono distinguere due parti: Tuna permanente— sono le sue proprietà sensibili e le potenze ch'essa ha di agire sulle altre sostanze e di patire da esse—; e l'altra variabile— la sua posizione nello spazio, i cangiamenti di questa posizione, le azioni che essa fa attualmente sulle altre sostanze e le passioni che ne subisce— La prima parte, cioè la permanente, degli tittributi si considera come il svMtratam su cui si ap- poggia la i)arte variabile, e si cliiama sostanza nel senso -stretto (sfibstantia, a substare), in opposizione agli attri- buti variabili, che si chiamano accidenti. Analogamente si ammette che anche nelle sostanze dell'esperienza vi sia una parte permanente, che serva di subsiratuni al resto, la parte variabile, ed è a ciò che si riserba, nel senso ^ti^etto, il nome di sostanza (gli attributi che compcjngono iU sa(tGio primo la parte varialjile, chiamandosi accidenti). <Jra non vi hanno che due elementi nelle cose (considerate come com- plessi di attributi, cioè di astratti) a cui ])0ssa attribuirsi un assoluta permanenza: Tuno è la materia, e laltro Tes- scnza specifica (cioè Tinsieme degli attrilmti che costitui- scono la si)ecie a cui la cosa appartiene). Al punto di vi- sta del secondo di (juesti due elementi, la permanenza si trova in tutti gli esseri— pérch^3 noi chiamiamo una cosa la stessa, sinclié la sua essenza specifica non cangia--, ma questo elemento ha l'inconveniente di non determinare in- dividualmente gli esseri. 11 primo elemento, la materia, determina indivi<lualmente gh esseri, ma, al punto di vi- sta di questo elemento, la permanenzii non si trova che in un certo numero solamente di quelli che noi diciamo esseri (cosi nella scienza moderna, che cerca Telemento permanente delle cose sovratutto nella materia, il nome di sostanza non viene accordato (juasi esclusivamente che ai cor[)i studiati dalla chimica, sia semplici sia composti). Né luno né Taltro di (juesti due elementi corrisponde dun- que perfettamente alla esigenza del nostro spirito di un snhstratum permanente nelle cose, su cui si appoggino i attributi cangianti. Nondimeno non è che tra Tunoo Taltro che noi possiamo scegliere, se vogliamo formarci un'idea chiara e defhiita di un simile suìtstratam. Cosi noi vediamo nella storia che per sostama o essenza delle cose si è intesa ora la materia ed ora l'essenza specifica, secondo che si è stati inclinati verso una intuizione ma- terialista del mondo, o verso un'intuizione 0])i30sta in cui ìa forma sia prevalsa sulla materia. sono, le sole idee di un snbstratum o sostanza (nel senso stretto) delle cose, distinta dalle cose stesse, cioè dagli oggetti dei nostri sensi, che noi dobbiamo all'è- sperienza. Ma i metafisici supix^ngono che, dietro le ap- I)arcnze o lenomeni che le cose ci presentano, sta un che di sconosciuto e d'inconoscibile, che è il subsrtatum di questi fenomeni, e si cliiama propriamente essenza o sostanza, I motivi, precipui se non sono unici, di quest'ipotesi si tro- vano nei due concetti capitali della metafisica, che noi stu- dieremo nelle due prime parti del Saggio seguente. Essi so- no: 1" Quello di causa efficiente (IsL stessa che noi abbiamo chiamato: causa nel senso metafisico). La proposizione clie noi non conosciamo Vessenza delle cose, non è che un altra maniera di dire che noi non conosciamo le cause efficienti dei fenomeni, o, come dice Comte, il loro modo essenziale di produzione. Si suppone che, se noi conosces- simo la costituzione reale, la natura intima, degli esse- ri, la loiY) maniera di agire e di patire non ci parrel)be più inconqjrensibile, coni' essa ci pare attualmente, e il corso reale degh avvenimenti non ci presenterebbe più, come ora, delle sem[)lici secjuenze invariabili, ma delle vere cause e dei veri etìetti, quali l'inunagina la metafi- sica, cioè tali che le cause spiegherebbero i loro effetti, e che gli effetti si vedreblje, non solo che seguono, ma che devono necessariamente seguire alle loro cause ( v. .^ 5'^). 2'^ Quello di cosa in sé: La scienza ha distrutto l'ob- biettività delle cose, (juaU il nostro spirito istintivamente le costruisce [)er l'obbiettivazione delle nostre sensazioni: essa ha mostrato che queste cose non sono che delle col- lezioni di sensazioni, e non esistono che relativamente al soggetto senziente. Ne segue— in virtù della tendenza del nostro s[)irito che spiega l'origine di tutte le concezioni metafisiche, cioè di foggiare tutte le idee che ci formia- mo sugli oggetti, sul tipo di quelle che ci sono le più abi- tuali (v. Saggio seguente)— che noi siamo [)ortati ad im- maginare un'altra cosa, che prenda il posto della cosa che la scienza ha distrutto, e che non sia, come questa, una collezione di sensazioni. Quest' altra cosa, la cosa in sé, non avendo le (jualità sensibili della cosa fenomeno, per- chè (lueste non sono che sensazioni, deve avere, al loro posto, altre (jualità sovrasensibili: si ammette quindi che le COSO, nella loro natura reale, siano sconosciute eJ in- conoscibili. Nella parte 2-'^ del Saggio seguente noi spie- gheremo d una maniera più completa Y origine di questa dottrina, e studieremo le sue varie forme, che vanno da un agnosticismo relativo alFagnosticismo i)iii assoluto. L'essenm o sostanza, quale la suppongono i metafìsici, applicando Tuno o Taltro, o Tuno e laltro, dei due con- cetti capitali della metafìsica, cioè come il mhsiratum sco nosciuto dei fenomeni, non è essa stessa, jìor la natura stessa di quest'ipotesi, un fenomeno o complesso di feno- meni. NYjì mostreremo nel :3'^ Saggio che non vi ha, a parlar propriamente, concezione alcuna di ciò che non è feno- menale, sia che esso si supponga conoscibile, sia inco- noscibile—le nostre idee di ciò che non è fenomeno o com- plesso di fenomeni non sono delle vere idee (cioè che noi abbiamo realmente), ma delle idee illusorie (cioè che noi crediamo solamente di avere), o, come dice Spencer, delle pseudo -idee— Qui diremo brevemeute che pensare vuol dire nmnnfjìnare — è questa una conseguenza necessaria della non esistenza delle idee astratte, che noi abijiamo provata nel capitolo antecedente — e che ci(b che non è sensibile non è nemmeno immaginabile, un immagine non essendo altra cosa che una sensazione risvegliata. Ne seguo che ciò ciie vi ha di vero, cioè di veramente rappresen- tato, nelle idee del sovrasensibile, non può che essere cal- cato sull(3 cere idee, cioè su (pielle che abitiamo del sen- sibile. La aoHtanza o essenza sconosciuta delle cose, sup- posta dai metafìsici, che non è un complesso di fenomeni, non i)uò dunque essere conce[)ita — per quanto possiamo dire d un^ ipotesi metafìsica eh' essa può essere concepita — che ad imitazione e sul tipo delle sostanze sensibili e rappresentabili, cioè che sono dei comi)lessi di fenomeni. Co- si, cosa pu(') essere essa per noi se non, come queste, o me- glio la i)arte di (]ueste clie non è mai caduta sotto la nostra esperienza personale, un (ascio di percezioni possibili, ol) 'biettivate? Che possiamo noi intendere, dicendo che vi ha, dietro i fenomeni che noi conosciamo, (lualche cosa che noi non conosciamo nò possiamo conoscere? Che se alle nostre presenti facoltà conoscitive si aggiungessero altre facoltà, che cogliessero il reale in se stesso e tutto il reale, noi avremmo o potremmo avere altre percezioni che pre- sentemente non abbiamo né possiamo avere, e che ci da- rebbero sugli oggetti delle idee più vere e più complete di quelle che ce ne formiamo presentemente; che queste percezioni possibili sono da noi riguardate come attual- mente esistenti, come reali, della stessa maniera che le sensazioni possibili della nostra esperienza presente; che esse esistono, come queste e come le sensazioni attuali, (secondo il realismo po[)olare), indi]ìendentemente da ogni soggetto percepente; e che se più soggetti percepenti aves- sero simultaneamente queste percezioni, quelle deir uno sarebbero identiche con quelle degli altri, nello stesso senso che abitiamo spiegato, parlando delle sensazioni che costituiscono le nostre nozioni presenti degli oggetti. Ag- che, il tempo essendo la condizione necessaria di tutto ci(') che possiamo rappresentarci — è lui fatto di ' coscienza che non possiamo che segnalare al lettore : non si può concepire alcuna cosa che o come accadente in un istante o come avente una certa durata, o come sus- seguente 0 come antecedente o come simultanea ad altre •cose, ecc.-— queste percezioni possibiU, per conseguenza, non potremm() rappresentarcele che come successive o simultanee. Né importa clie Kant e Spencer pretendano che le cose in sé sono fuori del tempo, perchè io (pii non parlo del modo in cui noi ci stòrziamo di concepire il sovra- sensibile, ma di quello in cui possiamo, in (jualche ma- niera, concepirlo. È in effetto evidente, p. e, che questi stessi fìlosofì non possono non rappresentarsi le cose in «é come delle esistenze permanenti, sia per opposizione al. fenomeno fuggitivo, sia al me percepente di cui esse S(^no rantitesi, la permanenza essendo uno dei caratteri distintivi deir oggetto, di fronte al soggetto, allo spirito, die non resta mai nello stesso stato. Ora la permanenza non è che una successione— senza di che non vi sarei)be in essa un prima e un poi— la quale non si distingue dalle altre che perchè i termini di (jucsta successione non sono differenti, ma, almeno parzialmente, identici. Noi possiamo dunque concludere che la sostanza o essenza dei meta- fìsici non forma che un'eccezione apparente a questa legge universale del pensiero, che noi non possiamo affermare uè in alcun modo rappresentarci altra cosa, se non delle se^iuenze e coesistenze di fenomeni. §. 11.^ Ma, che diesi pensi delle sostanze metafisiche, è evidente che le nostre idee delle sostanze fìsidie, cioè sensibili— le sole che c'iniportino, perchè il nostro esame non deve volgere che sulle afTermazicni che noi facciamo sugli oggetti dell' esperienza — non contengono niente altro che questo : dei fenomeni con certi rapporti di sequenza e di coesistenza. In effetto la nostra analisi dell'idea di cosa 0 sostanza ci ha mostrato in essa: 1° delle idee di sensazioni, attuali e passibili, obbiettivate, die noi abbiamo chiamato sensibili, 2'' certi rapporti di coesistenza nello spazio fra alcuni di questi sensibili, coesistenza nello spa- zio che noi sai)piamo non essere che un caso della sein- pUce simultaneità. 3'^ dei rapporti di coesistenza in uno stesso oggetto dei sensibili dovuti a sensi differenti, rap- j)0rti in cui non abbiamo trovata altra cosa, oltre all'idea della semplice simultaneità, che quella della causalità, cdi una sequenza uniforme e invariabile. 4'» una certa iden- tità fra gli stati successivi della cosa o sostanza, cioè tra i gruppi successivi di sensibili che la costituiscono, e le attitudini, legate a questi gruppi, a modificare altri gruppi o esserne modificati 5« Fidentità di posizione nello spazio fra questi grui)pi successivi di sensibili, o se vi Jia cgiamento di posizione, rindiscernibilità delle posizioni dei SUI LIMITI E l'oggetto NELLA C0N0S<:EXZA A PIUOIU 130 gruppi immediatamente successivi. L'identità di cui al nu- mero 4^ e Vindentità e V indiscernibili tà ài cui al numero 5^ non sono che dei casi del rapporto di somiglianza; Funi- forni ita o invarial3Ìlità, che è un elemento delFidea di cau- sazione, non è anch'essa che una somiglianza. Oltre a dei fenomeni e dei rapporti, tra (questi fenomeni, di sequenza e di simultaneità, non vi ha dunque altro, nelle idee di sostanza e di causa, che dei rapporti di somiglianza. Ora nella somiglianza può considerarsi o la relazione stessa o il fondamento di questa relazione. La relazione stessa non è che una veduta mentale dello spirito, il risultato di un i)aragone, ma non è niente di obbiettivo. Nelle cose stesse che si paragonano deve esservi qualche cosa, che è la causa di questa veduta mentale che noi diciamo una relazione di somiglianza : è ci(') che al)biamo chiamato il fondamento di questa relazione, ed è cortamente un che <li obbiettivo. Ma esso è racchiuso nelle idee stesse delle cose che si paragonano, e non aggiunge niente a ({ueste idee, non essendo che una particolarità di queste cose, che è loro comune. Al punto di vista obbiettivo, che è <]uello in cui noi attualmente ci poniamo, non vi ha dunque al- tro nelle nostre nozioni delle sostanze — come anche delle cause — che delle idee di fenomeni, cioè di sensazioni, at- tuali o i)Ossibili, e di rap[X3rti tra (]uesti fenomeni, di se- quenza e di simultaneità. Questo risultato, a cui siamo pervenuti, sugli elementi che C(jstituiscono le idee delle sostanze, è, per rargomento del jìresente capitolo, della più grande importanza. É evi- dente in effetto che, se noi potessimo avere un'intuizioiìe^ esatta e completa, di tutto il reale accessibile ai nostri sensi, noi non osserveremmo altro che delle sostanze (nel senso lato in cui abbiamo preso questo termine nel pre- sente paragrafo e nei j)recedenti) e dei fenomeni di cui queste sostanze sono la sede, con certi rapporti di ante- rioriti^i, di posteriorità e di simultaneità tra queste sostanze e questi fenomeni. Se le sostanze si risolvono esse stes- se in fenomeni con certi rapporti di sequenza e di coe- sistenza, questa intuizione complessiva del reale non ci presenterebbe dunque altra cosa che dei fenomeni e dei rapporti di sequenza e di coesistenza tra questi fenomeni. Oltre alle sostanze e ai loro fenomeni, con certi rapporti di semplice se(iucnza e coesistenza, vi sarebbero ancora, é vero, le azioni mutue tra queste sostanze. Ma noi ab- biamo visto che la causazione, e per conseguenza queste azioni mutue, non sono che dei casi della sequenza. Cosi, siccome una ra])presentazione adequata delle cose non pu('> contenere niente di più che ciò che ò contenuto nella loro intuizione-, (juando cpiesta intuizione è completa ed e- satta ; noi possiamo tenere come sufficientemente staìji- lito che non vi ha niente di più, al punto di vista obbiet- tivo, nelle nostre idee sull'universo sensibile, che dei fe- nomeni e dei rapporti di successione e di simultaneità tra questi fenomeni. §. 12.^ Qui però dobbiamo mettere in guardia il lettore contro una generalizzazione troppo assoluta. La proposi- zione che tutte le nostre idee sull'universo sensibile non contengono niente di più che delle sequenze e coesistenze di fenomeni, non ò rigorosamente vera che per la parte di quest'universo aperta ai nostri sensi esterni: per l'altra parte, quella che è l'oggetto del senso interno o della co- scienza, cioè lo spirito, non potrebbe essere ammessa sen- za siserva. Certamente lo spirito, in quanto almeno noi Ijossiamo conoscerlo, non è anch'esso, come la materia, che una collezione di sensazioni, successive o simultanee : vale a dire, oltre alle sensazioni propriamente dette, di sentimenti, d' idee, di volizioni, ecc. Ma tra queste sensa- zioni successive e simultanee che compongono uno spi- rito, una coscienza, non vi hanno, come tra quelle che compongono il mondo materiale e le unità in esso esi- stenti, d^i semplici rapporti di successione e di simulta- neità. Mi sembra al contrario indubitabile che vi ha tra gli stati 0 porzioni di una stessa coscienza un rapporto più intimo, che fa che essi compongono una stessa co- scienza e non più coscienze distinte ; un legame sui ge-, che non trova alcun riscontro negli oggetti del mon- do esteriore, e che, come tutti i fatti ultimi, noi non pos- siamo definire, ma solo esprimere con le parole : unità o continuità della coscienza. Questo fatto sarà evidente, se si considererà una rappresentazione complessa, costituita da più rappresentazioni successive o simultanee, p. e. l'immagine di un corpo in movimento, o semplicemente un'immagine visuale (jualunque, anche istantanea, com- posta necessariamente di una moltitudine di parti. Non è chiaro che tra le rappresentazioni parziali che costitui- scono la rappresentazione totale, vi ha un rapporto più intimo che non vi sarebbe fra di esse, se ciascuna rap- presentazione distinta appartenesse a una coscienza di- stinta ? E qual è la differenza tra i due casi, se non che tra le differenti rappresentazioni vi sarebbe, nel secondo caso, un semplice rapporto di successione o di simulta- neità, mentre, nel primo caso vi ha fra di esse, oltre questo rapporto, un altro rapporto sui generis, che noi non possiamo indicare, se non dicendo che tutte queste rap- presentazioni fanno parte di una sola e stessa coscienza ? Questo fatto che il Galluppi (v. Saggio sulla critica della conosccn;^a tomo 4. e. 2. ed Elementi di filosofia t. 3. S.) chmma. unità sintetica della percezione e del pensiero, bisogna distinguerlo dslVunità metafisica del me che, con altri metafisici, egli ne deduce, se per questa seconda u- nità s'intende, come fa questo filosofo, quella d'un sub- stratum sconosciuto dei fenomeni della coscienza, che re- sta sempre lo stesso nel flusso continuo di questi feno- meni (sostanza me). Noi accettiamo il fatto, che ci sem- bra incontestabile, ma l'ipotesi che se ne deduce, quella della sostanza me, la lasciamo ai metafisici, riserbandoci di spiegarne rorigine nel Saggio seguente (Appendice alla parte 1*, cap. 2^). Notiamo per incidtmte che, tacendo di es- sere il sinonimo di sostanza (\, §. (i*^), noi non ab])iamo inteso parlare che degli esseri materiali : lo spirito •— clie d'altronde^ per noi, il solo vero essere di cui possiamo atterinare l'esistenza — non è una sostanza, perché, coniti ben osserva Kant (Analitica trascendentale, 1. 2«, Scolio generale al sistema dei i)rincipii), la sostanza importa la permanenza, e questa non compete che a ciò che esiste nello spazio (mentre lo spirito è un divenire continuo). In quanto all'unione tra lo spirito e il corpo, noi non abbiamo nessuna restrizione a tare alla proposizione ge- nerale die il reale, i>er quanto almeno noi possiamo co- noscerlo, si risolve in sequenze e coesistenze di fenomeni. Si è visto in questa unione il mistero per eccellenza; ma, qualunque sia il mistero, non è che (juello generale della causazione, l'unione tra lo spirito e il corpo non consi- stendo elle nei loro l'apporti di azione reciproca; e noi sappiamo che la causazione, che che sia al senso meta- fìsico, non (' al senso fisico, cioè empirico, che un caso della sequenza. .^ 13'* Tra i fatti di cui possiamo atlermare 1' esisten- za, ve ne ha una classe che è in un contrasto cosi marcato con tutte le altre, ed ha una si grande im[)or- tanza intellettuale, che noi dobbiamo farne una divisione distinta, opponendola a tutto il resto : sono le somiglianze^ e le differenze che esistono tra i fatti. Noidobljiamo vedere senza dubbi(j, anche in questi rapporti, dei latti partico- lari ; perchè cosa può essere un rapporto di somiglianza di ditlerenza, se non ciuel sentimento speciale che noi proviamo, (juando delle cose, che chiamiamo simili o difìe- renti, ci vengono presentate insieme, e le mettiamo in confronto ? Una somiglianza o una differenza non è cer- tamente una proprietà che esista nelle cose in se stesse, perchè essa non esiste né nell' uno né nell'altro dei due termini del rapporto presi a parte, e non esistendo in questi, non i)uò esistere altrove fuori del nostro spirito, poiché nessuno immaginerà clie una somiglianza o una differenza sia come un tratto d'unione interiX)sto fra le due cose che diciamo simili o differenti. Un rapporto di somiglianza u di difterenza non è dun(|ue qualche cosa di obbiettivo, ma una percezione, una veduta dello spirito, clie mette in coii- fwnto le cose. Se non pertanto noi ci esprimiamo come se la somiglianza e la differenza fossero (jualche cosa di obbiettivo, è (juesta una circostanza che non è special», ai soU sentimenti di somiglianza e di ditlerenza. Noi di- ciamo che due oggetti sono in se stessi simili o differenti, nello stesso senso in cui diciamo che un'azione o una cosa è in se stessa ])Uona o bella; noi intendiamo di dire in questo caso che il sentimento del buono o del bello prodotto nel nostro spirito, non è (jualche cosa di arì>itrario e di va- riabile, ma di costante e di necessario, in modo che la capacità (H produrre questo sentimento determinato noi la consideriamo come insei)arabile dalPazione o dalla cosa stessa. Della stessa maniera, affermando che due ogge^tti sono simili o differenti, noi intemhaino (U dire che la ca- pacità di i>rodurre il sentimento di somiglianza o di dif- ferenza è inseparabile dagli oggetti stessi; che vi ha un legame necessario fra gli oggetti e il sentimento, tale che la i)resentazione o la rajipresentazione dei primi svegli in noi irresistibilmente il secondo. Donde si vede pure che, come le somiglianze e le diff*erenz(3 sono anch'iisse dei fatti, cioè dei fenomeni del nostro spirito d' una natura parti- colare, cosi le affermazioni delle somiglianze e delle dif- ferenze rientrano anch'esse in una delle (hie classi di cui abbiamo parlato sin qui, non essendo, al fondo, cliedell(». affermazioni di sequenze d'una natura particolare. Per l'affermazione di una somiglianza o una ditlerenza non si afferma niente sull'esistenza dei fatti tra cui si sta- bilisce questo rapporto: i termini del rap])orto possono essere reali o no, ciò non fa niente alla realtà del rapporto stesso. Che esistano o no dei triangoli e degli angoli retti, nella natura, ciò non l'a niente alla verità della proposi- zione geometrica che gU angoli d'un triangolo sono eguali a due retti. I giudizi della somiglianza e differenza sono- una sorta di proposizioni ipotetiche, in cui noi affermiamo che, dati i termini, vi sarà una certa rela- zione fra di loro. Noi divideremo dunc^ue i giudizi in due classi. Gli uni affermano resistenza delle cose, e questi, come abbiamo visto, non affermano mai la semplice esi- stenza, ma resistenza simultanea o successiva, la coesi- stenza o la sequenza; ancora questa sequenza o coesistenza essi r affermano sia d'una maniera categorica sia ipote- tica; cioè affermano ovvero che più fatti coesistono o si seguono, ovvero che, dati certi fatti, altri coesisteranno con essi o li seguiranno. I giudizi deiraltra classe non af- fermano niente sulFesistenza delle cose, ma semplicemente la loro somiglianza e la loro differenza. Sotto questi nomi noi comprendiamo naturalmente Ti- dentità e la diversità, la eguaglianza e la disuguaglianza,. la maggioranza e la minoranza, ecc. Perchè la somiglian- za ha molti gracU : se le due cose sono simili in modo da essere indiscernibili, si ha un rapporto d'identità; la so- miglianza assoluta sotto un punto di vista particolare, p. e. del numero o della grandezza, si chiama eguaglianza. Quando poi una grandezza è uguale a una parte d'un'altra grandezza, noi chiamiamo minore la prima grandezza, e maggiore la seconda. Osserviamo che la somiglianza e la differenza non sono due fatti distinti e separati, ma un fatto solo, visto da due lati : è lo stesso dire di due cose che si somigliano molto o che differiscono poco. La diffe- renza non è dunque che un grado minore di somiglianza, e non vi hanno cose talmente differenti che non siano pu- re simili; p. e. i nostri stati di coscienza più differenti hanno almeno fra di loro quella somiglianza che permette ^ di classarli insieme, dando loro gli stessi nomi : siato di coscienza, fenomeno, uno, ente, ecc. Noi diremo dunque, con un nome unico, i giudizi della prima classe giudizi suWesistenza, e (luelli della seconda giudizi sulla somi^ glianza. Sono (jueste le denominazioni che esprimono con più proprietà la natura delle due classi; ma se vogliamo marcare la loro opposizione per Tantitesi dei termini che li denotano, noi possiamo anche chiamare i primi posi- tivi, e i secondi comparativi, (1).1 (I) La nostra classazione del giudizio coincide al fondo con quella <li Stuart-Mill: secondo quest'autore il giudizio afferma o la sem- rlice esistenza dei fatti, o la loro sequenza, o la loro coesistenza, die egli distìngue in coesistenza nello spazio e simultaneità nel tempo, o infine la loro somiglianza (Logica, lib. ì. e. 5. paragr. 5-^, cfr. e. 3). Il Bain lia soppresso la categoria dei giudizi che affer- mano la semplice esistenza (v Logica, lib. 1. e. 3. 23), e noi lo «ìhl)ianio imitato, perchè resistenza non viene mai aff'ermata iso- latnmente, ma sempre con la successione o la simultaneità: ma non possiamo s^eguirc il Bain nelle altre modificazioni da lui ap- portate alla divisione del Mill. Questi intendeva per coesistenza, come abbiamo detto, la coesistenza nel luogo o la simultaneità nel tempo: il Bain accetta la classe dei giudizi di coesistenza, ma suddivide questo in coesistenza nel luogo e coesistenza di due o attributi in uno stesso soggetto {Logica, lib. L e. 3. 20 e 21). Ora può essere utile per uno scopo pratico (p. e. per l'esposizione dei metodi induttivi) di fare una classe distinta delle proposizioni che aifermano la coesistenza di due o più attri])uti in uno stesso soggetto; ma questa classe non potrebbe costituire, al punto di vista della teoria nominalista, che è quello del Bain, una divisione scientifica del significato delle proposizioni, essendo fondata piut- tosto sull'espressione verbale, che sul contenuto reale delle aff"er- mazioni in essa comprese. È il concettuahsmo che espone il senso delle proposizioni come aff'ermanti delle relazioni fra soggetti ed actibuti; ma il nominalismo deve esporlo come affermanti dei fe- nomeni—dei fenomeni concreti, non delle astrazioni -e delle rela- zioni tra questi fenomeni. Ed è questo, in effetto, il principio di- rettivo della classazione del Mill, che ha servito di base a quella stessa del Bain, come l'una e 1" altra hanno servito di base alla mia. Per altro, quand'anche il senso delle proposizioni si esponga Queste due classi del giudizio si mescolano iu-« tiinainente Furia coir altra in tutte le operazioni deirin- telliuenza, dalle più basse alle più elevate : sono come la trama e Tordito che compongono il tessuto del nostro pen- siero. Per vedere come la percezione della somiglianza e della differenza sia implicata in tutte le torme deir attività intellettuale, rinvierò alle opere degli psicologi, special- mente di Spencer e di Bain. Io mi limiterò ad indicare le comi)licàzioni più notevoli delle due classi di giudizi, a fine di distinguerle più nettamente Tuna dall'altra. come se ro^-iretto alìennatu tosse una relazione tra eoneetti (eioe tra soiX«^etti ed attril)uti), neinincno in (jucsto easo la coesistenza di (lue o riù attributi in uno stesso soggetto i.otrebbe costituire, come vuole il Bain. una iUri^ionc delle proposizioni reali, cioè sin- tetiche: poiché, anuuettendo la divisione del giudizio in sintetico e analitico il senso di tutte le proposizioni sintetiche si ricon- durebbe come insegna il ^\\\\{FiJo^qlia iUllamiìtoa, Del giudizio), air atrermazione della coesistenza di due o più atrributi in uno stesso so*^"— etto. Un'altra innovazione del Bain è di scjpprimere la classe delle proposizioni sulla somiglianza: (luesta non potrel)be, secondo lui, costituire una divisione scicntitica delle proposizioni, perche la somiglianza e la differenza sono implicate in ogni specie di cono- scenza (ma eirli mantiene, comi.' una categoria si.eciale di propo- sizioni quelle che atlermano l'accordo o la ditìerenza nella tpian- tità c'ioè r eiruaalianza o 1* ineguaglianza). Siccome esse non ci /la'nno che le circostanze fondamentali che dehniscono e costitui- scono tutte le nostre conoscenze . queste adermazioni sono delle proposizioni analitiche o i<lenticlie {Lofìira. lib. 1. e. 3. IfJ e l'^. App. C IV) Conoscere un fatto, dice il Hain, è al tempo stesso distin- guerlo da tutti i fatti ditlerenti, e accordarlo o identificarlo con tutti i fatti simili: la conoscenza, 1" idea o la rappresentazione di rm o-aetto concreto è dunque come r aggregato di tutte (pieste operazioni mentali di diftcrcnza e di concordanza [Loqica, Intro- <luzione 0). Secondo noi, ciò non è generalmente vero che della conoscenza espressa, o capace di essere espressa, per mezzo delle parole Noi conosciamo il caldo, dice il Bain, i^er opposizione col freddo- la luce, con le tenebre; la retta, con la curva e la spezzata; o da un altro lato la conoscenza di una cosa (p. e. di uno scellino) V^ In un rapporto di somiglianza deve distinguersi, co- me abbiamo osservato, il rapporto stesso e il fondamento di questo rapporto. Il rapporto in se stesso è una veduta subiettiva dello spirito che compara gli oggetti, la costa- tazione del sentimento di somiglianza o di differenza che provoca in noi il confronto di questi oggetti : il fonda- mento del rapporto è qualche cosa di obbiettivo che si trova negh oggetti stessi, il loro modo di esistere die è la causa per cui lo spirito ha la percezione di questo rap- porto determinato, cioè prova questo sentimento deter- .supi^one la rassomiglianza con altre cose che in un gran numero di circostanze ci hanno colpito per delle proprietà identiche. Senza dub])io, rapplicazione a un oggetto di un nome generico (una no- zione generale, secondo i concettualisti) suppone che quest oggetto sia stato riconosciuto più somigliante agli oggetti a cui ilTome è stato dato, che a tutti gli altri; l'oggetto essendo così assimilato ai primi, ed opposto ai secondi. Di là quella correlatività uni- versale di cui Ilaria il Bain: a ogni classe corrispondono dei^^li og- getti fuori della classe, a ogni termine positivo un termine nei.^^ti- To, a ogni alTerinazione una negazione. Ma, siccome le idee' dei fenomeni particolari non sono che le rappresentazioni o immai>ini <li ({uesti fenomeni, così noi abbiamo un'alTermazione. un giudizio, tutte le volte che un seguito di tali innnagini o rappresentazioni è accompagnato da «piel modo particolare della coscienza che noi i^hiamiamo credenza. Ciò non implica delle percezioni di diflerenza <) di somiglianza, e intanto è quanto basta per formare una co- noscenza. La necessità dellelemento della differenza per la conoscenza è per il Bain un caso dì ciò che egli chiama la lerjffe della relatì- rità. (V. sulla legge della relatività Logica Introduzione 3-4, lib. 1. . 11-18, e. 2. (1, e. 3. 1, lib. 4. e. l. 2, App. C, ecc.; Le emozioni e la colonia parte 1. e. 4. 1-5, p. 2. e. 13. 7-0 e 27, App. A, ecc.;seiiHi e V intelligenza Introduzione ci. in line, parte 2. in principio, e. 3. Vili, ecc.). Questa legge del Bain è una generalizzazione so- vratutto di due ordini di fatti essenzialmente distinti: 1. Perchè Io spirito provi un sentimento, bisogna che vi sia un cangiamento neliimpressione: la continuità ininterrotta d'una stessa impressione non è accompagnata da coscienza (p. e. la pressione delFaria sul nostro corpo). Questa parte della legge della relatività si riferisce. minato, di somiglianza o di differenza. Una proposizione affermante una somiglianza può dunque avere due signi- ficati, secondo che il suo oggetto è d'indicare il rapporto stesso o il fondamento del rapporto. La proposizione : « A. é simile a B » nel secondo caso significa che tale è il modo di esistere di A, che se noi la confrontiamo con B,. avremo la perceziono d'una somiglianza, ed è quindi un giudizio positivo o suiresistenza : non è che nel primo caso che la proposizione esprime un giudizio propria- mente detto sulla somiglianza o comparativo. Cosi in un teorema di fìsica, enunciante dei rapporti quantitativi tra fenomeni successivi, l'affermazione volge su certe seciuenze di fenomeni, e si ha un giudizio sull'esistenza. La propo- sizione deve essere cosi interpretata, perchè quello che come si vede, non agli stati mentali per se stessi, ma al loro rap- porto con le loro cause. 2. L'atto di conoscere contiene sempre una coppia di cose correlative : ogni cosa non si conosce, secondo il Bain, che per la sui», opposizione con altre cose. Noi abbiamo già osservato che quest'aspetto della legge della relatività non si ap- plica, come principio generale, che alle nozioni generiche. 11 Bain vede nella percezione della somiglianza e in quella della ditrerenza due facoltà primitive distinte dell' intelligenza ; noi al contrario non possiamo vedervi che due aspetti di un fatto unico. ditferenza equivale a un grado minore della somiglianza, come la somiglianza a un grado minore della differenza. Così uno stessa rapporto vien chiamato somiglianza o ditferenza, secondo che si paragona a tale o tal altro rapporto. 11 rapporto fra un bianco e un negro è un rapporto di dift'erenza, se si paragona al rapporto degli uomini bianchi fra loro ; ma è un rapporto di somiglianza, se si paragona al rai^porto degli uomini con gli altri animali. Due gradazioni diverse dello stesso colore sono simili, se si paragonano a due colori diversi; sono differenti, se si paragonano a due tinte eguali. In quest'ultimo caso noi diciamo che non vi ha difterenza, perchè la somiglianza è al suo maximum, al punto di vista del colore. Somigliante e differente sono dunque due termini relativi, come grande e piccolo e tutte le altre applicazioni particolari di questa op^posizione, lungo e corto, lontano e vicino, molto e poco, caldo e freddo, ecc.: somigliante e dirterente non è che un altro caso della stessa opposizione. più im|)orta a chi emette questa proposizione, ò di far conoscere il fondamento del rapporto, cioè il modo di esi- stere dei fenomeni reah, e non la percezione subbiettiva dello spirito : questa seconda conoscenza è una conseguen- za della prima, e oltre che é meno importante in se stes- sa, può ricavarsi naturalmente da quella, senza che vi sia bisogno di essere espressamente comunicata. Ma un teorema di matematica, enunciante dei rappporti fra i nu- meri astratti o delle relazioni metriche tra le figure, non afferma niente sull'esistenza dei fenomeni reali nò sul- l'ordine con cui essi si seguono o si accompagnano : tali proposizioni, per conseguenza, devono interpretarsi come semplici giudizi comparativi o sulle somighanze. È questo un punto che verrà chiarito nei capitoli seguenti. 2^ Alla distinzione tra il rajjporto di somiglianza e il fondamento di questo rapporto corrisponde una distinzione nel significato possibile di tutte le proposizioni che hanno per predicato un nome generale. Un nome generale è un di classe: quindi l'attribuzione di questo nome im- plica l'aggregazione dell'oggetto a cui si attribuisce, a«l una classe determinata, in una parola, una classazione -di quest'oggetto. (Jra classare un oggetto è stabilire che esso ha una somiglianza definita con gli altri oggetti con cui si classa ; e una somiglianza è, come abbiamo visto, un fatto che può guardarsi sotto due aspetti ditlerenti, «cicò come un rapjDorto fra gli oggetti comparati, e come il fondamento in questi oggetti del rapporto che è il ri- sultato del loro paragone. Ne segue che una proposizione €on un predicato generale è suscettibile di essere inter- pretata in due significati differenti, cioè: come un'aggrega- zione del soggetto della proposizione fra gli oggetti a cui può attribuirsi lo stesso predicato^ in virtù di questo limi- to di rassomiglianza che ha con essi ; e come l'assegna- zione a questo soggetto di una determinata qualità o mo- do di essere, o in una parola, del fondamento della relazione di somiglianza, che permette di aggregarlo tra gli oggetti a cui il ])redicato è comune. Il primo di questi due significati si. chiama in estensione, e cosi interpretata la projMDsizione esiìrime un giudizio comparativo o sulla somighanza ; il secondo significato si chiama in compren- sione, e la proposizione, interpretata di questa maniera, esprime un giudizio ì)Ositivo o sull'esistenza (a meno clie il predicato non sia: uguale a...., simile a...., ecc.). La pro- posizione: « L'uomo è mortale », interpretata in estensione, significa che Tuomo deve classarsi tra i mortali — giù- dizio sulla somiglianza— ; interpretata in comprensione, che agli altri fenomeni presentati dairuomo è congiunto il fenomeno della morte — giudizio sulFesistenza — . Si è preteso che tutte le projìosizioni aventi un predicato ge- nerale devono interpretarsi in estensione, cioè che il senso della proposizione è di fare rientrare un individuo in una classe 0 una classe in un'altra. Ma nell'interpretazione delle proposizioni noi dobbiamo, per le ragioni dette nel numero precedente, ju'eferire alla relazione di somiglianza il fondamento di ({uesta relazione, e dare quindi alle pro- posizioni con un predicato generale il senso in compren- sione, a meno che il loro oggetto non sia direttamente di staìjilire una classazione. Nel caso i)ratico può essere dub- bio se l'oggetto diretto della proposizione è di classare il soggetto 0 di attribuirgli la proprietà che è il fonda- mento della classazione. Cosi, quando l'attributo è uno di quei caratteri su cui sono fondate le classi degli esseri della natura (animali, piante o minerali), la proposizione potreljbe avere per oggetto sia di collocare il Soggetto nella classe contrassegnata da (piesto carattere, sia di attribuirgli il carattere stesso, o anche con esso tutti gli altri comuni alla classe. La pro|)Osizione : « L'uomo é un mammifero placentato », potrebbe affermare o la presenza delle mammelle e della placenta, sia sole sia con le altre particolarità <leirorganizzazione che la pre- senza di questi organi trascina con essa, ovvero che l'uo- mo deve includersi nella classe zoologica dei « mammiferi placentati. » Un caso in cui è certo che il senso è in e- stensione, cioè che la proposizione deve interpretarsi come l'affermazione di una classazione, è quello delle proposi- zioni che, se si ammettesse la divisione kantiana del giu- dizio in analitico e siiìtetico, (iovreb])ero senza esitare prendersi per analitiche. Tali sono p. e. le proposizioni : L'uomo è un animale. La vite è una pianta, L'oro è un metallo. » Queste proposizioni non potrebbero affermare l'esistenza nelluomo, nella vite o nell'oro del fondamento della loro classazione fra gli animali, le piante o i me- talli, perchè, se noi non sapessimo che questi oggetti lianno le proprietà per cui il nome di queste classi é loro ap- [ilicabile, noi non daremmo loro nemmeno il nome di uo- mo, di vite 0 di oro. L'esistenza in essi del fondamento della classazione che il predicato indica, è duncpe impli- cata nell'assegnazione del nome soggetto, e per conse- guenza, siccome assegnando il predicato non deve am- mettersi die noi facciamo una pura tautologia, questo predicato deve essere intesò come affermante, non il fon- damento della classazione, ma la classazione medesima, cioè un giudizio comparativo o sulla somiglianza. Vi ha un altro caso, indicato dal Mill (Lof/ica, 1. l"" e. 5^' § G), in cui il predicato generale deve intendersi come affermante la somiglianza del soggetto con le altre cose a cui il predicato è comune. È quando il soggetto è una sensazione o un altro sentimento semplice, e il predicato il nome della sua classe. Questo secondo il Mill: macie secondo noi non è vero che ad una condizioiie, cioè che il sentimento stesso si supponga preconosciuto; nel caso jjratico, che la sensazione sia comune a chi jjarla ed a chi ascolta. Dicendo: « Questo colore è bianco », la mia intenzione non può essere di conmnicare alla persona a cui in(hco il colore, una conoscenza sulla natura del co- r I }.. I t i t f tr lore stesso; io non posso intendere quindi che affermare la somiglianza di (juesto colore con gli altri compresi nella classe bianco. Ma negli esempi addotti dal-Mill: « Il colore che vidi ieri era un color bianco » e « La sensa- zione che provo é d'uno stringimento», il significato più naturale delle proposizioni è che ieri vidi un color bianco, non qualche altro colore, e che ora provo una sensazione stringimento, non qualche altra sensazione, e non già, come vuole il Mill, che il colore che vidi ieri somigliava agli altri colori della classe bianco, e che la sensazione che provo somiglia ad altre che ho provate e a cui si è dato il nome di sensazioni di stringimento: ciò è perché, le mie sensazioni non potendo essere preconosciute che da me stesso, si deve intendere che per queste proposi- io voglio istruire gli altri, non sulle relazioni di so- miglianza di queste sensazioni, ma sul fondamento di queste relazioni, cioè sulle sensazioni stesse. 11 Mill non tiene conto della distinzione tra il rapporto di somiglianza e il fondamento del rapporto, e dà unicamente come after- mazioni sulla somiglianza delle proposizioni che possono anche non aftermare che resistenza negli oggetti del fon- damento di questo rapporto. È ciò che egli fa pure per un'altra sorta di proposizioni, in cui, come nella prece- dente, il predicato significa, com'egli dice, una rassomi- glianza generale non analizzabile— mentre nella più parte casi il i)redicato generale significa, secondo lui, la presenza di un gruppo definito di attributi, dottrina sulla dei nomi che noi abbiamo confutata nel ca- pitolo antecedente.— Quest'altra sorta di proposizioni sono quelle in cui il nome della classe ò attribuito a un oa'a'etto che, (juantunque non abbia che alcuni degli attributi che caratterizzano la classe, deve nondimeno collocarsi in essa, perché vi si avvicina di più che a tutte le altre classi— per classi qui dobbiamo intendere specialmente i gruppi in cui vengono distribuiti gli esseri della natura —Per noi che non ammettiamo la dottrina sulla connotazione dei nomi di Mill, il significato di queste proposizioni non può differire da quello delle altre in cui il predicato è un nome d'una classe, cioè di un gruppo naturale : in esse, come in quelle, l'affermazione può volgere tanto sul fondamento della relazione di somiglianza, quando sulla relazione stessa. La proposizione p. e. « L' amphioxus lanceolatas è un pesce », può avere per oggetto tanto di darci una nozione generica della struttura di quest'animale, quanto d'indi- carci il posto che esso occupa nella classificazione degli animali. Se un zoologo parla a un altro zoologo, che co- nosce già la struttura dell' amphioxus lanceolatm, il si- gnificato più naturale é il secondo; se a un profano, che ignora assolutamente che cosa esso sia, il primo. 3^ Anche quando una proposizione ha direttamente per oggetto di enunziare una classazione, può involgere pure nel suo significato dei giudizi sull'esistenza. Per citare un esempio di Spencer (Principii di piscologia, § 310), se io ho d'innanzi agli occhi un'arancia, e dico: «Questa é un'arancia », io non voglio solamente significare che que- st'oggetto che percepisco deve classarsi fra le arance, ma anche che con gli attributi che io percepisco attualmente sono congiunti gii altri attributi d'un'arancia, che io non percepisco attualmente, ma inferisco da queUi. Cosi la classazione implica spesso delle inferenze sull'oggetto che si classa : delle inferenze che stabiliscono che coi fenomeni che l'oggetto ci ha presentato, sono congiunti altri feno- meni, che esso non ci ha presentato, ma che noi presu- miamo che potrebbe presentarci, perché nell' esperienza passata li abbiamo trovato generalmente in congiunzione coi primi. In tali casi la proposizione enunciante la clas- sazione, oltre ai giudizi sulla somiglianza costituenti l'atto della classazione propriamente detta, esprime pure, per conseguenza, altri giudizi su certe sequenze o coesistenze di fenomeni. li Ciò che abbiamo detto della classazione è vero anche, e a più forte ragione, della ricognizione, cioè delFidenti- tìcazione di un oggetto come il tale oggetto individuale. La ricognizione ò in certo modo anch'essa una classazio- ne, delle impressioni presenti che ci vengono dall'oggetto, con le impressioni passate che ci sono venute da esso (confr. Spencer ibid, paragr. 312 e 313). Ma con questa classazione coesistono, non spesso, come nella classazio- ne i)ropriamente detta, ma sempre, delle inferenze sull'og- getto, e quindi delle affermazioni sull'esistenza. Ciò non è vero semplicemente perchè, attribuendo queste impressio- ni presenti a un oggetto determinato, noi affermiamo di esso, oltre agli attributi che attuahnente percepiamo, altri attributi che non percepiamo, ma potremmo percepire, e inferiamo dai primi; ma ancora perchè quest'attribu- zione suppone che noi ammettiamo che l'esistenza dell'og- getto attualmente percepito si continua con l'esistenza del- l'oggetto percepito anteriormente. Ciò vuol dire, in primo luogo, che noi ammettiamo che l'oggetto è esistito anche nel tempo intermedio fra le nostre percezioni passate del- l'oggetto e la nostra percezione presente; in altri termini, noi affermiamo l'esistenza di altre percezioni possìbili in- terposte, nel tempo, fra questa percezione e quelle, e at- tribuibili allo stesso og^getto. Di più l'idea dell'identità della sostanza implica, come abbiamo visto, oltre alla somi- glianza tra i suoi stati successivi, che la sostanza, in que- sti stati successivi, o ha occupato la stessa posizione nello spazio, o ha cangiato di posizione, ma d' una maniera continua, L' identificazione dell' oggetto implica dunque, oltre all'assimilazione delle percezioni presenti con le per- cezioni passate venuteci dallo stesso oggetto, e all'inter- calazione, nel tempo, tra queste e quelle, di altre percezio- ni possibili, il più spesso somiglianti, l'affermazione che tutte queste percezioni successive hanno avuto una tale localizzazione nello spazio, che tra gli stati immediatamente successivi dell'oggetto che è il complesso di tutte queste percezioni, vi sia stata o un'assoluta identità di posizione, o c^uel cangiamento indiscernibile di posizione, in cui abbiamo risoluta la continuità del movimento (v. paragr. 9^). 4^ Spencer fa consistere il ragionamento nella ricono- scenza della, somiglianza (o non somiglianza) di due rap- porti (Princij)ii di psicologia, G^ parte, cap. II-VIII). Sareb- be più esatto di dire che il ragionamento consiste a sta- bilire, anzicchè la somiglianza di un rapporto con un al- tro rapporto, un rapporto (quello inferito) simile a un al- tro rapporto (quello anteriormente conosciuto tra i fatti da cui si fa l'inferenza). La dottrina di Spencer arriva alla confusione tra il ragionamento e la classificazione {v.ibid.y §. 309, 310, 313, ecc..) Ma queste operazioni men- tali sono due fatti essenzialmente differenti. La classifica- zione si ferma alla riconoscenza di una somiglianza de- finita tra il nuovo caso e i casi anteriormente conosciuti tra cui viene aggregato. Nel ragionamento, al contrario, la riconoscenza della somighanza non è ciie un mezzo; il risultato a cui esso mira è di stabilire un nuovo fatto (che, tranne nelle matematiche pure, non è una somi- ghanza, ma una sequenza o coesistenza di fenomeni). Ci(") che vi ha di vero nella dottrina di Spencer è che le intuizioni razionali più importanti nel ragionamento, (iuelle senza le quali un'inferenza cosciente sarebbe im- j)Ossibile, e date le ({uali questa si fa naturalmente e co- me da se stessa, sono delle intuizioni di somiglianza. In un sillogismo, in effetto, la minore, che è come il ponte per cui passiamo dal noto all'ignoto, è evidentemente un giudizio comparativo. Ciò che ci autorizza a concludere, dal fatto che i pianeti anteriormente conosciuti hanno delle orbite ellittiche, che anche 1' astro nuovamente sc^overto deve avere un'orbita ellittica, è la riconoscenza che (pie- st'astro deve a2:gregarsi in una stessa classe coi pianeti anteriormente conosciuti. Se noi diamo al ragionamento in (juistione la forma ordinaria della logica, cioè quella di un sillogismo, la minore: « U nuovo astro è un piane- ta », va dunque interpretata in estensione, e non afferma che una somiglianza. Di più in questo sillogismo anche la premessa maggiore e la conclusione stessa implicano e suppongono delle percezioni di somiglianza. La prima —noi ammetteremo, affinchè Tinterenza non sia sempli- cemente apparente, clic la premessa reale sia costituita, non da tatti i casi compresi nella proposizione generale, ma da quelli solamente in cui T unitbrmità espressa da questa proposizione è stata constatata— suppone che tutti i pianeti anteriormente conos:^iuti siano stati comparati, e trovati concordanti a un doppio punto di vista, cioè ne- gli attributi indicati dal nome pianeta, e in quello di ave- re un' orbita ellittica. In quanto alla conclusione infine, -è evidente che noi non attribuiamo al nuovo pianeta un or- bita simile, che perchè intendiamo assimilare il suo mo- vimento a quello degli altri pianeti : questa proposizione implica dunque la percezione della somiglianza tra T or- bita assegnata al nuovo pianeta e quelle costatate nei pia- neti già conosciuti. Vi ha un caso in cui la formula di Spencer é un espres- sione esatta dei fatti : è quando la deduzione ha per isco- po, non di fare un'inferenza, cioè di scoprire un nuovo, ma solo di spiegare questo fenomeno già sco- verto, purché però tutte le circostanze del fenomeno, cioè le condizioni da cui esso dipende, siano anch'esse cono- sciute. Cosi, quando si conosce già l'orbita d'un pianeta, deducendo quest'orbita dalle condizioni pure conosciute da cui essa dipende (cioè la massa del sole, la distanza del pianeta dal sole e la sua forza tangenziale), non si fa che riconoscere la somiglianza del modo di produzione del fenomeno col modo di produzione degli altri fenomeni, governati dalle stesse leggi. :V. ci ''^ 5'^ Una generalizzazione implica due volte il riconosci- mento di una concordanza tra fenomeni, una proposizione generale esprimendo una congiunzione costante fra due tipi di fenomeni o gruppi di fenomeni. « Il contrasto fra l'astrazione (cioè la formazione d'un'idea di classe) (1) e l'induzione può esprimersi, dice il Bain (/ sensi e V intel- ligenza, 2*" parte e. 2^ V) della maniera seguente: nel- l'una è una proprietà unica isolata, o una collezione di proprietà trattata come un'unità, che s'identifica e gene- ralizza; nell'altra è una congiunzione, una unione;, l'in- contro di due proprietà distinte. Noi facciamo un'astra- zione quando mettiamo tutte le riviere in una classe, e definiamo la proprietà comune a tutte le riviere : facciamo un'induzione, quando diciamo che le riviere distruggono il loro letto, e depongono delle alluvioni in forma di delta alla loro foce L'operazione dell'induzione è dunque della stessa natura, ma più ardua e più laboriosa, che quella dell'astrazione». Questa proposizione però, se doves- se prendersi in tutto il suo rigore, sarebbe esposta alla obbiezione che la dottrina sul ragionamento di Spencer, cioè d' identificare due operazioni mentali tan- to differenti quali sono l'inferenza e la classificazione. Essa non é rigorosamente vera, che se si applica, non all'induzione, ma alla generalizzazione che non é al tempo (1) Noi abbiamo visto nel capitolo precedente che non vi hanno idee astratte : quindi un'idea dì classe non può essere per noi che il complesso delle idee particolari dei casi della classe, coi loro rapporti reciproci di somiglianza. Si obbietterà che di questa ma- niera un'idea di classe è impossibile, perchè non si possono avere le idee di tutti i casi di una classe, che sono infiniti? Noi rispon- deremo che avere l' idea d' una classe non importa avere attual- mente ridea di tutti i casi della classe, ma solo conoscerne alcuni, che ci servono come esemplari, ed essere capaci di aggregare gli altri insieme ad essi, quando si presenteranno alla nostra esperienza o alla nostra immaginazione. stosso una induzione. Se p. e. dopo aver osservato clie ciascun pianeta ha un'orbita ellittica, si conclude che tutti i pianeti hanno delle orbite ellittiche, intendendo i)er tidtl i pianeti solamente quelli conosciuti, e senza niente })re- giudicare sugli altri che i)Otranno in seguito essere sco- verti, questa generalizzazione non iin})orta altra cosa che lidentiticaztoiìe di cui parla il Bain, cioè la semplice per- cezione di una unitormità. Una generalizzazione che non implica \uia inferenza, e non supi)one (piindicheil sempli- ce riconoscimento di una somiglianza, si trova pure nell'ul- Tultima delle ire torme di spiegazione enumerate dalMill, quella che consiste a ridurre più leggi, prima credute di- stinte e indipendenti, ad una legge luiica, come quan<lo il peso terrestre e Tattrazione terrestre furono riunite da Newton nel principio unico deirattrazione universale, (v. Mill Lofiica, 1. .3^ e. 12'', § 5 e (i). Benché una generalizzazione, sia o no induttiva, im- plichi o sia del tutto il riconoscimento di mia somiglian- za, una proposizione generale, se essa non enunzia che seijuenze o coesistenze, non atìerma altra cosa che queste stesse sequenze o coesistenze. Il significato di una proposizione generale non consiste che nelle proposizioni particolari che se ne possono ricavare, e alcuna di que- ste non afferma una somiglianza, quando quella non ha per oggetto di enunziare una uniformità di somiglianze. Vi hanno dei casi in cui una proposizione particolare implica nella sua significazione una generalità. Ciò si ve- rifica quando airatfermazione di una sequenza o coesi- stenza di fenomeni si unisce Taltra affermazione che ({ue- sta sequenza o coesistenza particolare è un caso di qual- che legge generale di sequenza o coesistenza. Cosi dicen- do che il fenomeno a avrà per effetto il fenomeno />, non si afferma solamente che h seguirà ad a, ma ancora che la sequenza tra a q h avviene secondo una sequenza uni- forme e in variai àie tra due tipi di fenomeni, di cui a e sono degU esempi particolari. Per conseguenza una tale proposizione involge tre affermazioni distinte : il rapporto (di sequenza o coesistenza) tra due fenomeni particolari, il rapporto generale di cui esso é un caso, e la classa- zione del primo rapporto come un caso del secondo. Se poi diciamo, non che a avrà per effetto b, o die b ha dovuto avere per causa a, ma, supponendo preconosciuta la sequen- za tra a e h, clie a è la causa e b il suo effetto, allora delle affermazioni distinte nella proposizione precedente, la prima viene a mancare, e non restano che le due altre. L'affermazione può anciie ridursi ad una sola, se si su[)- [)one ])ure preconosciuto il rapporto generale di causa- zione, di cui la causazione in (luistione è un caso parti- colare: in (jucsta ii)Otesi, la proposizione che a è la causa di b, o che b è l'effetto di a, non è che una sem}>lice clas- sazione, quella della sequenza tra a q b con le sequenze simili che sono gli altri casi del rap[)orto generale (U cau-, e non esprime quindi che un giudizio sulla so- miglianza. Terminando, io farò quest'avvertenza generale, che ciò nei sapitoli susseguenti sarà detto sui giu(Uzi di so- miglianza, non è applicabile che (luando questi giudizi sono stati distinti da quelli suiresistenza, con cui essi sono implicati, o con cui potrebbero confondersi. É ciò che bisognerà sempre tener presente, i)er valutare le o))- biezioni, che potranno presentarsi, contro le proposizioni che stabiliremo sui caratteri speciali a questa classe di giudizi, e la loro opposizione, al punto di vista particola- re dell'argomento di questo scritto, con ([ucUi di sequen- za e di coesistenz Giudìzi a priori e giudizi a posteriori. §. 1." La divisione dei giudizi in a priori e a poste- riori, ngGi'osaiaeiitc tracciata, corrisponde a quella, sta- bilita nel capitolo i>recedente, in comparativi o sulla sonii- g lanza .3 positivi o sulla esistenza. I rapporti di somi- glianza e di differenza tra le cose noi possiamo scoprirli per il solo esame delle idee di queste cose, e senza biso- gno dell'osservazione delle cose stesse. Quand'anche noi non avessimo mai fa,tto il confronto attuale di tre oggetti, noi iiotreinino, consultando i nostri ricordi, conoscere, pel- li semj)lice conlronto delle rap!>resentazioni di questi' og- getti, che due di essi sono più somiglianti Ira di loro che col terzo, per il colore, 0 per la forma, o per la grandezza, ecc. Noi ijotremmo pure conoscere per lo stesso mezzo (luale di essi è più grande e quale più piccolo, e se due riuniti superano, per la somma delle loro grandezze, 1 a grandezza dell' altro, o le restano inferiori. Similmente per vedere che il verde non è il rosso, 0 che il rotondo non é il quadrato, cioè che questi due colori 0 queste due figure sono differenti, noi non abbiamo bisogno d'una com- parazione attuale di questi colori 0 di queste figure, ma ci basta la comparazione delle l<jro idee ; della stessa ina- niei'a che ci basta la comparazione delle rappresentazioni di due rette con quelle di spazi circoscritti da linee, per vedere, senza bisogno di comparare attualmente delle rette e degli s[)azi chiusi reali, che due rette digeriscono da uno spazio chiuso, ciò che si esprime con Y assiomi che due rette non chiudono uno spazio. E lo stesso po- tremmo dire di tante altre fra le più semplici verità della matematica, tutte (luelle che si conoscono, come suol dir- si, d^vma maniera intuitiva, p. e. che due grandezze che coincidono sono eguali, che la linea retta è la più Ijreve fra due punti dati (cioè che è più breve lV una curva o d\uia spezzata fra gli stessi punti), che due e due sono eguali a (juattro, ecc. In questi casi come nei i)recedenti, siccome si tratta di giudizi comi)arativi, per percepire queste verità noi non al)biamo bisogno di confrontare le €0se stesse, tra cui si atferma una somiglianza o una dif- ferenza determinata, ma ci basta di confrontare le idee di (peste cose. Le verità che si risolvono in giudizii sulla somiglianza o sulla dilferenza, possiamo dunque, sino ad un certo imnto, conoscerle indipendentemente dalF espe- rienza, in altri termini, esse possono formare Toggetto di giudizii a priori ; e (juesti giu(Uzii sono a priori in que- sto senso, che per istabilirli non è necessaria Tesperienza delle cose reali, jKjichè Fosservazione degli oggetti stessi può essere sostituita dalFosservazione dello idee di questi oggetti. Non vi ha al contrario alcun caso, in cui Tosservazio- ne delle idee iX)ssa sostituirsi a quella delle cose stesse, per conoscere resistenza di (jueste cose e i loro rapporti di sequenza o di simultaneità. La contemplazione di una rappresentazione può apprenderci cosi poco se esista o no nella realtà la cosa corrispondente a questa rappresenta- zione, che la contemplazione di un ritratto può appren- xlerci se esso rappresenta ima persona reale o è una sem- 7ri plice fantasia dell'artista. Similmente ci sarebbe impossi- bile di conoscere, per il semplice confronto delle idee di due fenomeni, se essi siano simultanei o successivi, co- me noi conosciamo, per questo mezzo, se sono simili o ; ovvero, posto che noi sappiamo già che sono successivi, di sapere quale dei due è Tantecedente e quale il susseguente. I giudizii positivi o sulFesistenza sono dun- (pie sempre a posteriori, in altri termini, noi non possia- mo mai, per istabilirli, dispensarci dairesperienza, perchè resistenza degli oggetti, la loro sequenza e la loro simul- taneità noi non possiamo scoprirla, come la loro somi- glianza e la loro differenza, pei* Tesame delle rappresen- tazioni di qussti oggetti, ma abljiamo bisogno di quello oggetti stessi reali. K (juesta la tesi che noi svilupperemo nel seguito di questo scritto. Essa differisce dalla ilottrina dei lllosoli a- prlorlstl o razionalisti sovra tutto in un punto, cioè che questi ammettono dei giudizii a priori, non solo sulla so- miglianza, ma anche suir esistenza (noi intendiamo na- turalmente le parole « giudizii sull'esistenza » nel senso si)iegato nel capitolo precedente). Questa ditferenza è di una grande importanza per la teoria della conoscenza, perchè, come abbiamo detto nel princii)io del primo capi- tolo, r impiego, più o meno esteso, del metodo a priori, applicato alla conoscenza del reale, è uno dei tratti più caratteristici dei sistemi metafisici, e la metafisica stessa è fondata, consapevolmente o inconsapevolmente, sul pre- supposto che vi hanno delle proposizioni sull'esistenza, che noi dobbiamo ammettere per la loro evidenza intrinseca, cioè a priori. Dimostrando che non vi lianno giudizii a priori sull'esistenza, noi avremo [)erciò dimostrato impli- citamente l'inanità radicale di ogni metafìsica. Al punto di vista logico ed ontologico, la nostra tesi è dunque es- senzialmente empirista: ma anche al punto di vista psi- cologico, la sua contraddizione con l'empirismo è piuttoSto apparente che reale. Sceverando la particella di ve- rità, contenuta nella dottrina contraria, i principii fonda- mentali della filosofia deir esperienza saranno piuttosto- rinvigoriti che scossi, perchè verrà rischiarato un ango- lo oscuro di questa filosofia, verso il quale mirano prinr cipalmente le obbiezioni dei suoi avversari, alle quali, se- condo noi, i filosofi empiristi non hanno sin qui risposta d'una maniera soddisfacente. In effetto, da una parte, que- ste obbiezioni saranno cosi ridotte alla loro vera portata;. e da un altra parte, si vedrà che Teccezione, su cui esse si fondano, alla teoria che domanda air esperienza Tori-^ gine di tutte le nostre conoscenze, non è incompatibile coi principii essenziali di questa teoria. Per istabilire la nostra tesi, noi cominceremo dalFesa- minare le dottrine dei filosofi razionalisti sui giudizii a priori. E ciò che faremo nel resto di questo capitolo e nei due capitoli seguenti. §. 2.° Per dimostrare che vi hanno dei giudizi a prio- ri, i filosofi razionalisti si servono di due argomenti, che noi dobbiamo discutere, perché essi tendono a stabilire dei giudizii a priori anche sulFesistenza. L'uno di questi argomenti è che lespcrienza non può dare origine a delle proposizioni assolutamente universali. L'esperienza, si di* ce, può insegnarci che dei fatti si sono trovati costante- mente insieme ; ma questa non è una ragione che essi ritorneranno sempre a presentarsi insieme. Una previsio- ne fondata sulPanalogia dei casi passati, non può essere che una congettura incerta: Tesperienza non può impri- mere ai suoi giudizii una universalità assoluta e rigoro- sa. Questa universalità, almeno, non può essere illimitata: se si applica fuori del piccolo cerchio di spazio e del cor- to frammento di durata in cui sono confinate le nostre osservazioni, la proposizione non è che probabile; non ci è permesso di affermare che i dati che essa unisce, sono legati in ogni tempo e in ogni luogo. i6r Se gh avversari della teoria empirista intendono cosi -affermare un fatto psicologico, se essi intendono dire che lo spinto umano non è portato a generalizzare le sue e- sperienze con tutta la forza di cui la credenza è capace, 1 fatti più familiari provano che questo é un errore. « il primo movimento, dice il Bain, che porta lo spirito a cre- dere, piega piuttosto dal lato d.-:ir eccesso, e se niente è venuto a contrariarlo in tale o tal caso particolare, esso si porterà con forza sopra ogni cosa » (Logica, 1. 2,^ e. 5,0 8). Ciò che vediamo e conosciamo, è per noi la mi- del non visto e dello sconosr^iuto : il re di Siam ri- fiutava di credere alla congelazione dell'acfiua; per lungo lumanità fu incapace di ammettere l'esistenza de- gli antipodi. Non è al i)unto di vista psicologico, ma al punto di vista logico, che si fa Tobbiezione ? ^e ci(') che si nega è, non die lo spirito umano tiri con sicurezza dai casi osservati delle proposizioni assolutamente generali, che egli abbia dei motivi logicamente sufficienti per farlo? Ma se tutte le volte che noi anticipiamo sulle no- stre percezioni attuali, oltrepassando, con le nostre affer-, ciò che ci è dato immediatamente nelF osserva- zione dei casi particolari, non è su quest'osservazione che noi ci fondiamo, su che potremmo fondarci, se non sopra una necessità cieca e inesplicabile del nostro pensiero ? perdio cosa può essere, se non questo, un giudizio a prio- ri? Ora è evidente che questa necessità subbiettiva non darebbe alle nostre anticipazioni un fondamento più si- curo deiresperienza, perchè non vi sarebbe alcuna ragio- ne per ammettere che delle necessità obbiettive devono corrispondere alle necessità dd nostro pensiero. I filosofi razionalisti immaginano, è vero, delle ipotesi per giusti- ficare queste pretese necessità del pensiero, dando loro un fondamento obbiettivo; ipotesi che noi accenneremo nel paragrafo ultimo di questo capitolo, e di cui discuteremo Je più importanti nd due capitoli seguenti. Ma se, come confidiamo tli dimostrare, (jucste iiwtesi sono inammissi- bili ò vana assolutamente rdibiezionc contro l'empirismo, che 1' universalità assoluta d' una proposizione non può venire dall'esperienza, perchè l'emi.irista avrà ragione di rismndere che, .lualunque sia in se stesso il grado di certezza a cui può aspirare un'inferenza generale tirata dall'esperienza, poiché non ve n'iìa, e non è nemmen.) iwssilnle d'immauinarne, uno più alto per le proposizioni che oltrepassano la .costatazione dei latti particolari, esso è i>er noi, quando si tratta di tali proposizioni, il tii)0 della certezza logica, e il solo senso intelligibile che [.uo avere in riuesto caso la parola certezza. § 3 " Tuttavia, quantunque la pretesa che l'esperienza non i)uò dar luogo a proposizioni rigorosamente umver- sali sia evidentemente illusoria, (luesta illusione e si ge- neralmente ditìusa tra i metafisici, e si è imposta con tanta forza anciie a dei pensatori che, per lo spinto g;e- neralc delle loro dottrine, possono riguardarsi come dei campioni dell'empirismo - lo scetticismo di Hume e le opinioni di Locke sull'incertezza delle conoscenze positive essendo appunto fondati su questo presupposto-, che noi non i)Ossiamo qui dispensarci di accennare ai motivi psi-, da cui essa si origina. ( )ìtre alle verità intuitive (cioè a (luelle date immedia- tamente nell'osservazione dei latti particolari), vi hanno, anche nei limiti delle propcjsizioni sull'esistenza, delle ve- rità o pretese verità generali con un grado tale di cer- tezza che la maggior parte delle conoscenze induttive non i.otrebbero oguagliario. Esse sono delle inferenze, e l.cr conseguenza anch'esse induttive ; ma queste induzio- ni si fondano sulle espei-ienze che ci sono le più fami- liari di tutte. Non è che una generalizzazione tirata da (mesti fatti i più familiari, sia logicamente meglio fondata di un'altra tirata da fatti meno familiari : ma i^er una conseguenza delle leggi dell'associazione delle idee, vi lia » t tra lo due si)eciedi proposizioni una dìirerenzsi psicologica, determinata dalla somma disuguale delle esperienze. Ora tali generalizzazioni tirate dai latti più lamiliari, sono caratterizzate da ({uesta circostanza, che tra le idee che esse uniscono, si è stabilita una coesione cosi intima, che non solo la loro certezza ci pare superiore a quella delle altre proposizioni induttive, ma esse ci sembrano certe (Fun'evidenza intrinseca, vale a dire, noi siamo disposti ad ammetterle indipendentemente dalla loro base logica, dalle esperienze passate che esse generalizzano, e la coesione stessa che noi sentiamo tra le idee, ci sembra nn criterio sufficiente della loro vei^ità. (Questo é al fondo il sofisma a priori di Stuart-Mill, che egli esprime sotto <iuesta l'orma : Le cose ciie non si possono pensare Tuna senza Taltra devono coesistere. Le cose che non possono essere pensate insieme non [X)ssono coesistere. (V. Logica, lib. 5,<^ e. :V' S. 1-3;. Ma per un altro sofisma a priori, che è (piello stesso da cui derivano, non solo la psicolo- gia razionalista, ma, come vedremo nel Saggio seguente la più parte delle altre concezioni metafìsiche die lo spi- rito umano ha prodotte, noi siamo anche portati a cre- dere che le i)roposizioni, che ci sembrano dotate (Fun^evi- denza intrinseca, siano, per la loro origine, indipendenti rlaire.sperienza, in altri termini, a priori (v. il 2** Saggio, parte 1,"- Appendice 2^^ al cap G";. Ne segue che le gene- ralizzazioni tirate dalle esperienze jùù familiari vengono prese per projDOsizioni a priori, e per conseguenza — sic- come (pieste generalizzazioni ci sembrano, come abbiamo detto, possedere un grado di certezza superiore a (luello delle altre — che il filosofo razionalista trova nel suo spi- rito un tipo di certezza a cui le generalità di cui egli ri- conosce Torigine empirica, non possono giungere, e che A ciò che abbiamo detto bisogna aggiungere un altra . 1 legami più familiari tra i fenomeni sono per noi un modello, a cui tendiamo istintivamente ad as- similare tutti i legami in generale tra i fenomeni — è Til- lusione naturale, a cui poco ùi abbiamo accennato, che dà origine alla psicologia razionalista e alla più parte delle altre idee metafisiche — Per un effetto di questa tendenza, siccome questi legami i più famihari tra i le- nomeni ci sembrano, come si è detto, intrinsecamente evi- denti e conoscibili a priori, noi siamo inclinati naturalmente ad attenderci fra tutti i l'enomeni,'anteriormente al loro stu- dio scientifico, dei legami intrinsecamente evidenti e cono sciljili a priori. Cosi, quando losservazione dei fenomeni ci lia mostrato che i loro legami generali mancano di questa evidenza intrinseca e sono puramente empirici, il nostro spirito si trova deluso nella sua aspettativa naturale; ciò che (là luog-o a due fatti, per lo più associati Tuno allaltro, della nostra intelligenza: Tagnoticismo, che nega alle conoscenze positive, cioè alle leggi empiriche scoverte nei fenomeni, il carattere di vere conoscenze, che attingano il fondo stesso •o, come si dice, Vessenza delle cose; e uno scetticismo, più o meno risoluto, a riguardo di queste conoscenze, die nega ad esse, sinché almeno non siano dedotte, cioè trasfor- mate in conoscenze a priori, una certezza assoluta e ri- gorosa (V. Saggio 2," parte 1% cap. G.^) Ecco dun(iuc la natura e il valore della massima dei filosofi razionalisti, che T esi)erienza non può dare origine a proposizioni d'un assoluta universalità: essa non è "che un'illazione erronea, dedotta, in virtù dei sofismi a priori <lel nostro spirito, da questo fatto psicologico — certo in- contestabile, ma che non ha niente di contrario alla teoria dell' esperienza — • che le induzioni tirate dalle esperienze più famihari, ci sembrano d'una certezza superiore a quella delle altre induzioni, tirate da esperienze che non sono egualmente familiari. ^ 4^' L'altro argomento contro la teoria dell'esperienza, sul quale i filosofi razionalisti insistono anche di più che •V sul primo, è che la necessità 6 un carattere esclusivamente proprio dei giudizi a priori, e che l' esperienza, per con- seguenza, non i^uò dar luogo a delle proposizioni necessarie, ma solo continf/enti. Questa obbiezione contiene, come di- remo in seguito, una particella di verità: ma in se stesso questo principio generale, che delle proposizioni necessa- rie non possono venire dall'esperienza, è un'aficrmazione si evidentemente erronea, che essa può confutarsi age- volmente per le dottrine stesse degli avversari dell' em- pirismo. Questi filosofi infatti sono ben lungi di essere d'ac- cordo fra di loro, quando si tratta di precisare quali siano -le verità necessarie e perciò indipendenti dall'esperienza. Kant considera l'indistruttibilità della materia come una verità necessaria ed a priori (v. Analitica trascendentale, lib. 2^ e. 2", sez. :3«, III, A); ma la più parte degli stessi filosofi razionalisti sostengono contro di lui che questa proposizione è puramente contingente e sperimentate. Vi sono stati dei metafisici che hanno riguardato come verità necessaria ed a priori il principio che la materia è in se stessa priva di attività ^ e che una forza attiva non pu() appartenere che ad un essere spirituale (1): l'altro prin- cipio della filosofia teologica, quello su cui è fondato l'ar- gomento delle cause finali, cioè che quando dei mezzi sem- brano combinati per raggiungere un certo risultato, bi- sogna ammettere una causa intelligente, sarebbe anch'es- so, secondo aluni filosofi (2J, una verità necessaria e in- (1) l\ e. Galliippì. V. Saggio filo ^ofiro sulla crìtica della ronoscen- z-a, t. (). 4?. 90. I.a più parte dei iiietalìsi che aininettono (fuesto principio — clie è una delle basi, non solo della lìlosoda teologica, ma deìV animismo in generale (non conie semplice ii)otesi lìsiolo- gica, ma come spiegazione universale delle aos^e) e del panpsichi- smo—devono anunetterc anche, esi)licitaiuente o implicitamente, la sua apriorità, perciiè uno dei caratteri distintivi che si assegna ordinariamente alla causa ejjlcicntc, è che il nesso tra la causa e l'ett'etto deve essere conoscibile a priori. (2; Come Reid. V. Saggio fi. e. 0. dipendente dair esperienza. Ma altri filosofi invece, pure partigiani delle verità razionali e della massima che la necessità è il carattere distintivo di tali verità, lungi di riconoscere nelle due proposizioni indicate delle verità ne- cessarie, non ammettono nemmeno che esse siano delle verità, e le considei'ano come delle generalizzazioni af- frettate delle nostre esperienze più familiari. La massima che non vi ha azione a distanza tra i corpi, ma solo a contatto, è stata assai si)esso riguardata, sin dai promo- tori del razionalismo moderno, come una verità necessaria, evidente per se stessa e superiore air esperienza (v. il Saggio seguente, parte 1% cap. :3'0; ma altri filosofi razio- nalisti hanno i)ensato invece che Fazione a contatto e Fa- zione a distanza sono due fatti delF osservazione, di cui Tuno non è intrinsecamente nò più nò meno credibile del- laltro, e che noi dobbiamo amnìettere egualmente in virtù dellosservazione stessa. (Questi esempi, che non sarebbe (Ufficile di moltiplicai'e — e sarebbe anche più facile, se i filosofi razionalisti non fossero costretti a cancellare dalla lista delle proi)Osizioni necessarie (luelle la cui erroneità è stata riconosciuta— mostrano almeno che una proposi- zione d origine sperimentale pu() avere tutta lapparenza d'una proposizione necessaria. Ma in (jucsto caso tra realtà ed apparenza non vi lia una distinzione precisa, e una proposizione apparentemente necessaria non può molto differire da una proposizione realmente necessaria. La necessità d'una proposizione è il sentimento o la coscienza. Glie noi abbiamo, d'una coesione la più stretta fra le idee che essa unisce. Se questa coesione fra le idee, e il sen- timento che se ne ha, sono al grado più elevato, tutti si accoi'deranno a trovare necessaria la proposizione che unisce queste idee, e noi possiamo dire che la proposizione è realmente necessaria! Se questa coesione è minore, la proposizione può sembrare ad alcuno necessaria e ad altri i ^V.-s^ W --».- no, secondo il tijx) più o meno elevato, che ciascuno ha potuto formarsi, del grado di coesione sufficiente perchè una pro- posizione si chiami necessaria, e noi ixDssiamo dire allora che la proposizione è apparentemente necessaria. Tra una necessità apparente e una necessità reale non vi ha dunque che una differenza di grado, e se l'esperienza ha potuto dar luogo a una coesione si stretta fra le idee, che la proposizione clie le unisce sia apparentemente necessaria, non vi ha ragione perchè essa non possa dar luogo a una coesione più stretta ancora, in modo che la proposizione sia real- mente necessaria. Negli esemi)i citati e negli altri simili che si potreljbero aggiungere, di proposizioni ricavate dal- l'esperienza e considerate come necessarie, si tratta e- videntementc di generalizzazioni di esi)erienze le più fa- miliari: la ripetizione delle esperienze è stata tanto fre- (luente, da formare tra le idee un legame cosi stretto, che le proiX)sizioni, che uniscono queste idee, hanno potuto sembrare ad alcuni filosofi delle proposizioni necessarie. Ora se la frequenza delle esperienze ha potuto determi- nare delle proposizioni apparentemente necessarie, una frequenza delle esperienze ancora più grande potrà giun- gere sino a determinare delle proposizioni realmente ne- cessarie. Tuttavia bisogna osservare che il principio che l'espe- rienza non può dar luogo a delle proposizioni necessarie, è lungi dal dover essere riguardato come un'opinione pu- ramente arbitraria di certi filosofi : al contrario, ciò che abbiamo detto nel paragrafo precedente, spiega come questo principio sia un vero concetto metafisico, cioè un [)rodotto delle illusioni naturali dello spirito umano. Noi abbiamo detto infatti in quel paragrafo che, in virtù dei sofismi a priori del nostro spirito, l'intimità del legame fra le idee fa sembrare intrinsecamente evidente la proposizione ciie unisce (jueste idee, e noi siamo inclinati a riguardare una proiX)sizione,cìie ci sembra intrinsecamente evidente, come indipendente dairesperienza. Ora dire che tra 1(3 idee, che unisce una proposizione, vi ha il legame più intimo,' è la stessa cosa che dire che (juesta proposizione è necessaria. Il principio che l'esperienza non pu() dar luogo a delle pro- posizioni necessarie, deriva (hmque dagli stessi sofismi a priori, da cui l'altro principio della psicologia razionalista, che r esperienza non pu() dar luogo a delle pi^oposizioni assolutamente universah. § 5.0 Noi abbiamo accennato che il principio che dal- l'esperienza non possono venire delle proposizioni neces- sarie, (juantunque lalso come principio assoluto, contiene nondimeno una particella di verità. La spiegazione di questo punto esige una distinzione, che sin qui abbiamo negletta. Benché una proposizione necessaria soglia definirsi quella il cui contrario è inconcepibile, generalmente il termine impiegato in un senso più largo della sua definizione, tanto i razionahsti quanto gli empiristi dando come ne- cessarie delle proj)osizioni, il cui contrario non è assolu- tamente inconcepibile, ma solamente difficile a concei)ire. Ciò mostra quanto sia naturale di confondere un'assoluta inconcepibilità del contrario con la semplice difficoltà di concepirlo; sicché non dobbiamo sorprenderci se é a[)punto su una tale confusione, come vedremo nel Saggio seguente, che é fondata la metafisica apriorista, cioè quella carat- terizzata dairapplicazione del metodo a priori alla cono- scenza del reale. Per conseguenza, noi abbiamo chiamato egualmente necessarie tanto le pr«)posizioni il cui contra- rio é assolutamente impossibile, quanto quelle il cui con- trario é solamente difficile, ad essere concepito; e ciò non solo per conformarci all'uso pratico del termine, nella controversia tra i razionalisti e gli empiristi sull'origine -delle proposizioni necessarie, ma anche perché questo concetto lato della necessità, che comprende, oltre all'as- soluta impossibilità, la semplice difficoltà, di concepii'e il contrario, ci sarà utile nel Saggio seguente, quando parleremo della metafisica apriorista. È in questo senso lato delle parole necessità e necessario che noi abbiamo ri- fiutato di ammettere il principio dei filosofi razionalisti, Cile l'esperienza non può dare origine a delle proposizioni necessarie : ma se distinguiamo queste due forme o gradi della necessità, cioè una necessità assoluta, consistente neir impossi biUtà, e una necessità relativa, consistente nella difficoltà, di concepire ii contrario, e intendiamo per la semplice necessità il primo di questi due gradi, cioè una necessità assoluta; allora il principio dei razionalisti sarà vero anche per noi, e la divisione delle proposizioni in necessarie e contigenti corrisponderà anche per noi a (luella in a priori e a posteriori. La classe delle proposizioni a posteriori corrisponde, come abbiamo detto nel primo paragrafo, a» quelle sull'e-, cioè che afiermano, oltre alla semplice esistenza, certi rapporti di successione o di simultaneità, dei feno- meni. Per queste proposizioni la possibilità del contrario è sempre concepibile, qualunque sia d'altronde lo sforzo che ciò possa costare all' immaginazione. Noi possiamo immaginare che i fenomeni avrebbero potuto essere di- sposti altrimenti di come li vediamo nel mondo reale; che il loro ordine potrebbe essere un altro; che un fatto, anche il i)iù certo, potrebbe non accadere o non essere accaduto. Ciò è chiaro nelle proposizioni d'origine evidentemente sperimentale, per esempio che la forza d'attrazione é in ragione inversa del quadrato della distanza: il contrario di tali proposizioni può concepirsi o immaginarsi facil- mente, quantunque possa essere assolutamente incredibile. Ma vi hanno altre proposizioni, egualmente derivate dal- l'esperienza, di cui non possiamo concepire la possibilità del contrario senza uno sforzo più o meno grande del- l' immaginazione : sono le proposizioni sull' esistenza che rischiano di essere prese per verità a priori, e che i fi- razionalisti danno efìettivamente come tali. Di alcune (li queste proposizioni la possibilità del contrario non solo non ò assolutamente inconcepibile, ma è anche credibile, e questo contrario può anzi essere ammesso come vero : noi possiamo addurre come esempio la proposizione che Fazione tra i corpi avviene sempre a contatto, e non mai a distanza. Ora non vi ha molta ditì'erenza per la necessità (relatlca, cioè per la difficoltà (rimmaginare il contrario) tra una proposizione di questo -enere e altre che i razionalisti si accordano a dichiarare verità a priori, p. e. quella che ogni cangiamento deve avere una causa. Anche in tali casi il contrario della proposizione può es- sere concepito, quantunque con una <lifficoltà ancora più o-rande, in ragione della estrema freciuenza delle esperienze che le hanno dato origine, e deir assenza di qualsiasi esperienza centrarla. Un mondo in cui i fenomeni si se- guissero air azzardo, senza un ordine uniforme o alcun Tegame tra cause ed effetti, è semplicemente incredibile, ma non ò assolutamente inconcepibile o inimmaginabile. E il simile potremmo dire di tutte le [)roposizioni sulFe- sistenza, che i razionalisti danno come esempi di verità necessarie e a priori, e in cui gli empiristi vedono delle prove del i)rincipio che Tesperienza può dar luogo a delle proposizioni necessarie: la necessità di tali proposizioni non è mai ansoUda, ma solamente relativa. diverso è il caso per le proposizioni sulla somiglian- za. Se due oggetti hanno un rapporto di somiglianza o di differenza, di eguaglianza o dMneguaglianza, ecc :, la proposizione «die esprime questo rapporto non è rela- tivamente, ma assolutamente necessaria; in altri termini la possibilità del contrario non è solamente difficile a concepire, ma è allatto inconcepibile. Noi possiamo concepire che i due oggetti non esistano, o non siano tali quali sono in realtà: ma se supponiamo che essi esistono e sono tali, non possiamo al tempo stesso concepire la possibilità che il loro rapporto sia diftcrento. Noi iX)ssiamo, per esempio, immaginare che due gruppi reali di due oggetti e uno di quattro, o non esistano af- latto, 0 siano composti invece di un numero differente di unità; ma se supponiamo che essi esistono e sono com- posti di questo numero determinato di unità, non possiamo al tempo stesso immaginare la possibilità che i due gruppi di due, presi insieme, aljbiano con quello di quattro, non un rapporto di eguaglianza, ma di maggioranza o di mi- noranza. Quando i razionahsti vogliono illustrare la loro definizione delle verità necessarie (per Tassoluta inconce- pibilità del contrario), gli esempi di cui si servono, ai)par- tengono per il solito a (juesta classe di proposizioni. « Le verità necessarie, dico Wewell (Storia delle idee scienti-' jìcJie, p. 58), sono quelle che non ci apprendono solamente che la pro|)Osizioiie è vera, ma per le quali noi riconosciamo che essa deve essere vera; (juelle di cui la negazione è non solo falsa, ma impossibile; e nelle (juali non possiamo, nemmeno per uno sforzo d'immaginazione o per ipotesconcepire il contrario di ciò che ò affermato ». E continua: «Che vi siano di tali verità, non se ne [>U(') dubitare. Si possono prendere per esempio tutte le relazioni (U numeri; ti^e e due fanno cinque; noi non possiamo concepire clie sia altrimenti. Noi non i)ossiamo per alcuno sforzo del pensiero immaginare che tre e due facciano sette». Ciò che dobbiamo notare è che questo non è vero solamente delle verità matematiche (della matematica pura) che si conoscono intuitivamente, ma anche di quelle cJie, \)(òv es- sere ammesse, hanno bisogno di una dimostrazione. Non solo è una verità necessaria che due e due fanno quattro, ma anclie (^iie gli angoli del triangolo sono eguali a due retti; noi non possiamo concepire che tra la somma degli angoli del triangolo e due angoli retti sarebl)e possibile un rapporto differente da quello che noi conosciamo esistere realmente fra di loro, cioè di eguaglianza. Nel seguito di questo Saggio è in questo stretto significato, di un'assoluta inconcepibilità del contrario, che noi impiegheremo i termini necessità e proposizione necessaria, ^ ij'' Gli arfioinenti di cui i filosofi razionalisti si ser- vono per istabilire la loro dottrina, talliscono dunriue il loro scopo : Tuno non prova afiatto clie vi siano dei ì;'ìu> dizi a priori, Y altro non prova che vi siano dei giudizi a priori sull'esistenza. Ma non solo la dottrina dei razio- nalisti manca di prove, essa presenta inoltre le più gravi difficoltà intrinseche. Cn giudizio a priori anzituttto, nel senso dei razionalisti, non può essere che una necessita primitiva e inesplicabile del pensiero. Di queste neces- sità bisogna ammetterne altrettante, tutte indipendenti Ira di loro, quante sono le verità o pretese verità as- siomatiche : non vi ha, i)er le proposizioni che espri- mono queste verità, una condizione generale per T unio- ne del soggetto e del predicato. Né bisogna lasciarsi il- ludere dal linguaggio metaforico dei razionalisti. Quando una verità o pretesa verità a priori non è dedotta da altre verità più primitive, essi dicono che si conosce intaiticaniente SemJDra che questa espressione e le al- tre corrispondenti non siano che delle figure rettoriche,. destinate a supplire in (jualche modo al difetto radicale della dottrina. Sia p. e. l'assioma che due quantità eguali ad una terza sono eguali fra di loro. Conosciuto che A è uguale a B e che B è uguale a C, noi conosciamo che A e C sono eguali: questa conoscenza i razionalisti la chia- mano un'intuizione. Ma ciò vuol dire forse che noi abbia- mo la percezione attuale dell'uguaglianza tra A e C ? Cer- tamente no, perchè i razionalisti non ammetti »no che noi conosciamo questa eguaglianza immediatamente, ma che inferiamo da altre eguaglianze conosciute. Che cosa vuol dire dunque, in questo caso, un" intuizione ì Lo ab- biamo detto, non altro che una necessità primitiva e ine- splicabile del pensiero. Sia che la conoscenza delPassio- ma si consideri come un possesso innato del nostro spirito (conformemente alla vieta dottrina delle idee innate); sia che si consideri come accjuisita, ma si sup[)Onga che sin dalla prima volta che abbiamo avuto la coscienza di due quantità eguali ad una terza, (juesta coscienza è stata indissolubilmente legata a quella dell'eguaglianza di que- ste due quantità fra di loro; e in {juest'ultima ipotesi, sia che si ammetta, con la più parte dei filosofi razionalisti, che airorigine noi apprendiamo la verità dell'assioma per il confrondo dei concetti astratti, cioè come principio ge- nerale, e che (juando la riconosciamo nei casi particola- ri, non lo facciamo che per un'applicazione di questo prin- cipio generale; sia che si ammetta mvece con altri, come Locke e Stewart, che nei casi particolari noi conosciamo la verità dell'assioma d'una maniera immediata: sarebbe sempre im[)0ssibile, nella dottrina dei razionalisti, di as- segnare una ragione perchè noi uniamo il soggetto della pro}>osizione col suo predicato; non è che per un impulso cieco e istintivo del nostro spirito, per una legge primiti- va della nostra vita mentale, di cui si deve rinunziare a dare una spiegazione. Di queste leggi primitive bisogna aiiunetterne una i)er l'assioma di cui abbiamo parlato, un'al- tra per (juello che le somme di quantità eguali sono egua- li, altre i)er il principio di causalità, per quello della so- stanza, ecc.: ogni verità immediata supj)one una legge par- ticolare distinta; non vi ha, nella dottiina razionalista con- siderata per se stessa, cioè a parte le ipotesi sussidiarie di cui diremo nel paragrafo seguente, alcuna legge supe- riore, che comprenda queste leggi particolari, e da cui esse possano dedursi. Niente di più naturale né di più semplice della spie- gazione, che la teoria dell'esperienza dà di questi fatti, ultimi e inesplicabili per la dottrina razionalista. Possono i razionalisti mettere in dubbio che nella nostra esperienza passata si trovano i fatti particolari che, secondo la spie- gazione empirista, servono di base induttiva alle verità assiomatiche? ovvero negare che noi siamo portati co- stantemente a fare delle induzioni, a generahzzare la no- stra esperienza, ad estendere al futuro ciò che sappiamo del passato, a rappresentarci Fignoto e il non sperimen- tato a somig:lianza del noto e dello sperimentato ? Hanno essi mai dato una ])rova che queste verità si trovano nel nostro spirito anteriormente airesperienza ? Essi dicono solamente — ma noi abbiamo visto l'erroneità di queste atlermazioni — die Tesperienza non può dar luogo a delle pro[)Osizioni necessarie e rigorosamente universali. In ve- rità anche la teoria deiresperienza arriva a un tatto, che è esso stesso ultimo e inesplicabile. Perdio ci rappresen- tiamo il futuro a somiglianza del passato, Fignoto a so- miglianza del noto ? Si dirà che questo è un eiìetto delle leggi delFassociazione delle idee ? ma queste non possono ricondursi ad altre leggi superiori, e sono, almeno per il momento, inesplicabili. (Questa è del resto la condizione comune di tutte le siàegazioni della scienza : tutte devono fermarsi a un certo punto, al di là del quale non si può andare. Ma la dottrina razionalista non fa nemmeno il primo i)asso: lungi di ricondurre i fatti a delle leggi ge- nerali, essa chiude gli occhi sulle analogie più evidenti, e li considera come isolati ed eccezionali. La teoria delFesperienza non solo rende conto delFori- gine dei fatti mentali che, secondo la teoria contraria, sa- rebbero inesplicabili, ma dà pure Tunica spiegazione che noi possiamo comprendere, di questa conformità tra il pensiero e le cose, in cui consiste la conoscenza. Ma se noi ammettiamo che il nostro spirito possiede delle co- noscenze sul reale anteriormente alFesperienza, se non è rimpressione delle cose stesse che determina le nostre credenze, com'è che queste credenze possono essere vere ? Perchè questa coincidenza tra il pensiero la realtà ? Che ragione si avrebbe per supporre che i fatti obbiettivi de- vono corrispondere alle necessità subbiettive del nostro spirito? Nell'ipotesi dei razionalisti la conoscenza non è che un azzardo fortunato; un errore a priori sarebbe cento volte [ùù probabile che una verità a priori. Nes- oserebbe di ammettere, alla vista di un ritratto ras- *somigliante, che l'autore non ha mai visto né altrimenti conosciuto l'originale, né niente altro che potesse rappre- sentarglielo : ma non vi avrebbe niente di strano in paradosso, che non si ritrovi esattamente nell'ipo- tesi razionalista. Ciò che si deve notare è che queste ditticoltà della dot- trina razionalista non esistono nella nostra tesi sui giu- dizi a priori. Ad essa non può rimproverarsi, come a quella, l'assenza d'una condizione generale, che spieghi l'unione del soggetto e del predicato. Questa condizione, nella nostra tesi, che noi possiamo trasportare le so- miglianze, osservate tra le rappresentazioni, alle cose stesse rappresentate. Né è sorprendente in questo caso la coincidenza tra il pensiero e la realtà. Sostituiamo ai termini realtà e pensiero gli equivalenti sensazione e rap- presenta:^ ione, o meglio sensazione forte e sensazione de- bole. Un rapporto di somiglianza o di difìerenza è un'im- pressione prodotta nel nostro spirito al seguito di certe sensazioni : per conseguenza, la coscienza della somiglian- za o della differenza è legata a queste sensazioni, tanto se sono originarie, quanto se sono riprodotte, tanto se so- no allo stato forte, quanto se sono allo stato debole, e i rapporti j3ercepiti fra le nostre idee non possono non corri- spondere a quelli percepibili fra gli oggetti stessi. ^ %.!.'' Ciò che abbiamo detto nel paragrafo precedente si applica alla dottrina razionalista considerata nel suo concetto generale, cioè come consistente nella proposi- zione che afferma che i legami necessari (d'una necessità sia assoluta sia relativa) tra le idee esistono indipenden- temente dall'esperienza e anteriormente ad essa, e sono ima proprietà originaria del nostro spirito. Ma i filosofi razionalisti si limitano raramente a questa proposizione: la più parte di essi alla tesi principale ed essenziale del razionalismo agginngono delle ipotesi sussidiarie, desti- nate appunto ad ovviare alle ditticoltà di cui abbiamo parlato. Queste ditticoltà sono due : lassenza d\ina con- dizione generale, che spieghi lunione del soggetto e del predicato nei diudizi a priori, e l'incomprensibilità, in questi giudizi, della coincidenza tra il pensiero e la real- tà. (Quantunque (jucste ipotesi sussidiarie dei filosofi ra- zionalisti abbiano tutte per oggetto, in lin dei conti, di sopperire tanto alFuna (pianto all'altra difficoltà, tuttavia noi possiamo dividerle in due classi, secondo che esse principalmente all'una ovvero allaltra. La prima, (luella che si propone principalmente di as- segnare una condizione generale per l'unione dei concet- ti—quasi tutti i iilosofì razionahsti ammettono il concet- tualismo—l'onda le conoscenze a priori su un legame lo- gico tra questi concetti. Il caso più ordinario, se non runi- co, di questa classe d^ipotesi è quella che ammette che nei giudizi a priori il predicato è implicitamente contenuto nel soggetto, e che perciò questi giudizi sono fondati sui principii d'identità e di contradizione. Questa forma della dottrina analitica dobìjiamo distinguerla dalle due altre che abbiamo discusse nel primo capitolo. L'una di esse ammette che tutti i giudizi, o almeno tutti i giudizi uni- versali categorici affermativi, sono analitici, e suppone che tutti gli attributi conosciuti, che possono predicarsi generalmente d'una classe, sono compresi nel concetto corrispondente a questa classe. L'altra— quella che si fa rimontare a Kant— ammette che i giudizi analitici sono delle definizioni o parti di definizioni, e suppone che un concetto comprende, non la totalità degli attributi cono- sciuti della classe ccrrispondente, ma una porzione deter- minata di questi attributi, quelli che, secondo i partigiani <li questa dottrina, costituiscono la connotazione del nome della classe, o in altri terijiini, intendono affermarsi di un oggetto, applicandogli questo nome. La terza forma della dottrina analitica, di cui ora parliamo, ditìerisce dalla j^ri- ma, perchè non riconosce per analitici che i soli giudizi a priori; e dalla seconda, perchè ammette che tutti i giu- dizi a. priori sono analitici, e non, come fa (piesta, una parte solamente di questi giudizi. L'altra classe d'ipotesi dei filosofi razionalisti— (juella che ha i)rincipalinente per oggetto di spiegare la coinci- denza tra il pensiero e la realtà —, nella sua definizione ge- nerale, consiste in ci(j, che essendo stato distrutto, per il rigetto della dottrina deiresperienza, il contatto tra il pen- siero e le cose, si cerca di far rinascere (luesto contatto sotto un'altra forma. Di là diverse ipotesi, secondo la re- lazione diversa che pu() immaginarsi tra il pensiero e le cose. Noi possiamo concepire o che l'oggetto determina il pensiero, o che il i)ensiero determina l'oggetto, o ii itine che vi ha identità tra l'oggetto e il pensiero. Nel ì^rimo abbiamo la dottrina {[aWiiitaizioac razionale, i)v\\ la l)arola intuizione deve intendersi al senso proprio; non è una semplice metafora, come quando tutti in generale i razionalisti dicono di una verità primitiva a priori che n(ji la conosciamo intaitioaniente. Questa dottrina consi- ste ad ammettere che noi caviamo le conoscenze razio- nali da una visione dell'intelligibile: essa suppone che in questa percezione della ragione l'oggetto intelligibile è im- mediatamente i)rescnte al soggetto intelligente, come nella percezione dei sensi, secondo il realismo popolare, l'oggetto sensibile è immediatamente ijresente al soggetto senzien- te. É la dottrina di Gioberti, Malebranche, S. Bonaven- tura, S. Agostino, Platone ed altri filosofi [)iù o meno in- clinati al misticismo (1). Nel secondo caso abbiamo Yidea- (l) Ti'n (luesti lìloso!ì non annovei'ianii) il Rosmini, iH)i'(*lir la sua dottrina ileli'intui/.ionc (lel^t^>^^v/'(' i<h'(i1e non lia \m'V o.u-iotlo di llsmo Hogf/eitico, Esso ammette che il mondo deiresperien- za è un prodotto dell'attività del nostro pensiero, e la sua forma [)iù importante e la dottrina di Kant, in cui la realtà obbiettiva (fenomenale) risulta da due elementi, di cui Funo viene dal soggetto conoscente {la forma della cono- scenza, di cui questo riveste l'oggetto conosciuto). Se le leggi dei fenomeni noi j^ossiamo conoscerle anteriormente airesperienza, è, secondo quest'ipotesi, perchè le necessità obbiettive delle cose conosciute sono un'esteriorizzazione delle necessità subbiettive dello spirito conoscente. L'ii)0- tesi deiridentità deiressere e del pensiero (sistema di He- gel o, generalmente, idealismo oggetlico) spiega la corri- spondenza tra le conoscenze a priori (in (jnest'ipotesi, tutte le conoscenze scientifiche) e la realtà, considerando la realtà stessa come im sistema di nozioni generali, lo- gicamente legate fra di loro, e di cui il nostro pensiero (cioè il nostro pensiero generale) è una partecipazione. (,ìue- sta terza ipotesi non è, al fondo, che una combinazione delle due prime: come quella delllntuizione razionale, sup- j3one la presenza immediata dell'essere al pensiero; come r idealismo soggettivo, suppone clie le cose siano una pro- duzione delFattività del pensiero (1). Di tutti i sistemi che mettono capo in (iueste tre ipo- tesi, il solo che c'importi, per il soggetto di questo Sag- gio, è ({uello di Kant. Noi crediamo clie lo stato attuale- spiegiire i j^iiidizi a pi Un L ma soUìnicnte le i«lec innato (cioè l'i- Innata deiressere). V. Saiijiio 2, i»arte 1. Suvi «le mento s"^^^ dottrina di Rosmini sulla sostanza deiranima. (l) U carattere essenziale {\Q\YUleaUstno è apininto. secondo noi, di vedere nella realtà obbiettiva un x>rodotto deirattività intellet- . Secondo (luesta detinizione delTidealismo, la dottrina di l^erkeley, e tanto meno quella di Stuart-Mill e di Hain, che nega- no la realtà del mondo esteriore come indipendente dal sol?i;•etto^ senziente, non sono tuttavia dei sistemi idealisti. delle opinioni tllosotìclie ci dispensi dal tener conto della dottrina mistica delFintuizione razionale : la tendenza della filosofia contemporanea non è certo al misticismo, ed è ben lontano il tempo in cui la grande quistione dei filo- sofi italiani era se noi vediamo in Dio Tessere reale, come pretendeva Gioberti, o solamente Tessere possibile, come voleva Rosmini. Tra le diverse forme delT idealismo te- desco quella di Kant è la sola che eserciti un' influenza reale nella filosofia contemporanea. D'altronde la dottrina dell'identità dell'essere e del pensiero non potrebbe riguar- darsi propriamente come un'ipotesi, di cui uno degli scopi sia di sopperire alle difficoltà della dottrina razionalista. Questa, come sistema psicologico, si limita ad ammettere che le coesioni tra le nostre idee, che attualmente ci sono date come indissolubili o quasi indissolubili, sono indipen- denti dall'esperienza e anteriori ad essa. j\Ja la dottrina dell'identità dell'essere e del pensiero eleva tutte le cono- scenze generali al rango di verità a 7)r/or?; essa suppone che lo spirito può tirare la scienza dal suo proprio fondo, riproducendo in se stesso tutta la realtà per la sola forza della ragione. Per conseguenza il nostro esame della dot- trina razionalista sarà sufiicientemente completo, se a ciò che abbiamo detto in questo capitolo aggiungeremo una discussione della dottrina analitica sui giudizi a priori e di quella dei giudizi sintetici a priori di Kant. Nel capi- tolo seguente parleremo della prima. Dottrina aiiaìitica dei giii(lÌ2;i a priori. §. 1.^' I/aiìtesignanC) di (jiiesta dottrina in Italia può considerarsi il Galliip[)i. Questi essendo trai nostri mag- giori filosofi (juello che, quantunque più lontano di tempo, più vicino a noi per lo s[)iritrj della sua filosofìa, non crediamo inutile di discuterne le opinioni. Vi hanno secondo il Gallupjvi due ordini di verità ge- nerali : le prime sono necessarie, le altre sono contine genti. Per ac(|uistare la cognizione delle verità della se- conda specie, noi non aljbiamo altro mezzo die Tesame dei casi particolari, per conseguenza, la sola esperisnza. Ma per le verità generali della prima specie, lo spirito non viene in cognizione di esse per mezzo della cogni- zione delle verità i)articolari, ma del semplice paragi^ne delle idee universali ch'egli si è formate. Come si vede, la teoria del Galluppi su])pone h\ dot- trina delle idee astratte. Noi ammettiamo che vi hanno delle verità, a cui lo spirito i)uò [)ervenire per il sem- plice paragone delle idee : ma le idee che lo spirito })ara- gona, non sono clie concrete e i)articolari. Il risultato di un paragone essendo Tintuizione (h una somiglianza o di : ima differenza, di una eguaglianza o di una disuguaglian- za, ecc, in ({uest ordine di verità, come in tutte le altre, le prime acquisizioni dello spirito sono delle verità intui- tive. Ma (juando lo spirito estende, per inferenza, la ve- rità, dai casi particolari in cui egli l'ha conosciuta d\ma maniera intuitiva, agli altri casi particolari in cui Tin- tuizione fa ditetto, (jual (3 il fondamento di questa esten- sione ? Noi abbiamo potuto trovare in molti casi partico-, per il paragone delle nostre idee di certe grandezze, che due grandezze uguali ad una terza sono uguah fra di loro: noi Tabbiamo conosciuto (Uuna maniera intuiti- va. Si tratti ora di dimostrare nn teorema; noi applichia- mo rassi(jma che due grandezze eguali ad una terza sono eguali fra (U loro, ad un'alt l'O caso particolare. In ciuesto caso la verità delFassioma non ò conosciuta più d\ma maniera intuitiva ; perché la dimostrazione di un teorema non consistendo che nelFapplicazione degli assiomi, se la nuova verità che si stabilisce per quest applicazione, fosse una verità intuitiva, noi conosceremmo allora il teorema per intuizione, e non per dimostrazione. Se noi conosces- simo d\ma maniera intuitiva che due grandezze sono e- guali, noi non avremmo bisogno, per istabilire questa ve- rità, di conoscere prima che le due grandezze sono eguali una terza. L applicazione d'un assioma è dunque un'in- ferenza o una deduzione ; e la deduzione reale, in questo caso come in tutti gli altri, non può essere che dal par- ticolare al particolare : dai casi particolari caduti sotto la nostra intuizione, a quelli die non vi sono caduti. Ma secondo il Galluppi la cosa non avviene cosi : non é pei' il paragone delle idee i)articolari, è per il paragone delie idee unicersali, che noi veniamo a conoscere una verità necessaria; se noi ammettiamo che la proposizio- ne è vera in im caso particolare, ciò avviene perché noi abbiamo già preconosciuto la verità generale, che non lega che dei dati astratti e puramente generici. Una verità generale risulta dunque, secondo il Galluppi, dal paragone delle idee generali: ma qual é il rapj)orto che lo spirito percepisce fra le idee che egli paragona? (Questo rapporto, secondojil Galluppi, é un rapporto d'identità: una proposizione a priori è una proposizione analitica, in cui l'attributo é contenuto impHcitamente nel soggetto; e se queste proposizioni sono necessarie, é perché il contrario implicherebbe contraddizione. Una proposizione necessaria è dunque fondata, secondo il Galluppi, sulla identità delle idee : ma questa identità può percepirsi o immediatamente, ciò che avviene nelle veritìi assiomatiche, o mechatamente, ciò che avviene quando la verità necessaria é, non assiomatica, cioè evi- dente per se stessa, ma dedotta. (Queste verità dedotte che sono, per Galluppi, necessarie e fondate sul princijùo del- l'identità, noi possiamo distinguerle in due classi: alla |)ri- ma appartengono le proposizioni delle matematiche pure, le quali esprimono, come noi sappiamo, dei giudizi com- l)arativi; quelle delle seconda classe sono invece, secondo la nomenclatura che nyi abbiamo adottato, dei giu(hzi jx)- sitivi o esistenziali. Il Galluppi ammette dunque delle verità esistenziali, che non sono fondate sull'esiierienza; tali sono, oltre il principio di causalità, alcune affermazioni della metafisica sull'assoluto, che in sostanza possono, secondo lui, ridursi a questa formula: se qualche cosa esiste, l'essere necessario esiste; e oltre a ciò ancora i i)rincipi più ge- nerali della meccanica. Galluppi non vuole fondare tutte (jneste proposizioni sull'esperienza e sull'induzione, ma vuole dimostrarle, cioè dedurle; sia ])erché non gli jìaresse pos- sibile di stabihrle col primo metodo, sia perché credesse più scientifico di stabilirle col secondo. Noi crediamo inu- tile di occuparci d'una maniera particolare dell(3 dottrine del Galluppi relative a questa seconda classe di proposi- zioni necessarie: ma la sua dottrina su quelle della prima, classe, cioè sulle verità della matematica pura, é per noi, là più interessante, ed è su di essa che volgerà specialmente la nostra discussione. S. 2^. 11 Galluppi trova assurda la nozione di un giudizio sintetico a priori : tutta la sua argomentazione generale contro questa specie di giudizi si assomma in due luoghi che noi riporteremo, perchè T autore stesso cita altrove (piesti luoghi, come se fossero i più probanti di tutti. «La distinzione che la scuola trascendentale pone Tra i giudizi analitici ed i giudizi sintetici è assurda. Se le due ideiì A e B non hanno alcuna identità Tra di esse, lo Sjàrito non può riguardarle che come distinte e senz'alcun legame fra di loro; è impossibile dunque ch'egli vi perce[)isca un rapporto necessario di convenienza, e l'asserirlo ù un porre una contraddizione nei termini; dire che le due idee A e H non sono affatto identiche è lo stesso che dire ch'esse som diverse; dire che son diverse è lo stesse» che dire ciie l'una non può affermarsi dell'altra, è lo stesso che dire che non vi ha alcun rapporto di convenienza Tra di esse; dire in conseguenza che lo spirito dee percepire necessariamente un rapporto di convenienza Tra d^ie idee diverse, è affer- mare che lo spirito \m() [)ronunziare una contraddizioni) evidente. Noi concediamo alla scuola trascendental(3 che vi sono nel nostro spirito dei giudizi sintetici a posteriori somministratigli dall'esperienza, e sono api)unto quei giu- dizi che Locke chiama di coesistenza, ina (piesti gimhzi sono a j)Osterioriy poiché nel nostro spirito sono contin- genti. Tutti i giudizi necessari debbono in idtima analisi risolversi nel principio di contraddizione, essi son dunque tutti analitici, ed i giudizi a priori non possono essere che necessari. Ammettere dei giudizi necessari non poggiati sul principio di contraddizione, è un assurdo manifesto. Se lo spirito non vede alcuna contraddizione neiro})i)Osto di un suo giudizio, egli non può certamente riguardarlo come necessario. I giudizi sintetici a jtriori non possono dunque esistere » (Saggio J/losq/ico sulla critica della co- noscenza, t. 1,^ 55?. 115). XI: Ivi Se fra due idee non vi ha un rapi)orto d'identità, non vi ha, dice il Galluppi, alcun legame fra di loro, e lo spi- rito non può percepirvi un rapporto necessario di conve- nienza. E perchè ? Perchè dire che le due idee non sono identiche, è lo stesso che dire clie esse sono diverse ; e dire clie sono diverse, è lo stesso che dire che l'una non può affermarsi dell'altra. Ma se questa ragione fosse va- lida, essa proverebbe, non solo che non esistono giudizi sintetici a priori, ma che non esistono affatto giudizi sin- tetici : tutti i giudizi, a priori o a posteriori, necessari o contingenti, sarebbero analitici. Intenderemo duncpie che di due idee non identiche 1' una non può afCermarsi del- l'altra con un giudizio necessario e a priori i" Ma allora tutto il ragionamento del Galluppi non è che una conti- nua petizione di principio : il dunque non vi sta per indi- care la conclusione di un raziocinio, ma sempUcemente la conversione di una proposizione in una forma equiva- lente. È che secondo il Galluppi è una verità evidente l)er se stessa che un giudizio necessario è un giudizio il cui contrario implica contraddizione. Ma questa pretesa verità evidente è una proposizione puramente gratuita. Perchè sarebbe una contraddizione di dire, p. e., che la somma degli angoli d'un triangolo non è uguale a due retti ? È perchè questa proprietà, di avere gli angoli uguali a due retti, si trova in tutti i triangoli che noi possiamo concepire, e perciò essa è inseparabile dal concetto del triangolo, e fa parte della sua essenza? Non vi potrebbe essere altra ragione per affermare che la proposizione è contraddittoria; una proposizione non potendo contenere una contraddizione, se non quando il predicato viene a negare ciò che si era già affermato per l'attribuzione del soggetto. Noi siamo cosi andati all'incontro dell'altro luogo del Galluppi, che ci eravamo proposti di riportare. « Se togliendo la nozione del predicato si toglie la nozione del soggetto, la prima deve essere o una parte della seconda '100 SAGGIO "PTintO o identica i)errettainente con essa; in questo caso il giu- dizio è necessario. Ma esso è ancora identico o analitico. Se togliendo la nozione del predicato non si toglie insieme quella del soggetto, il giudizio non è identico, ma sinte- tico; ma esso è insieme contingente, poiché io posso am- mettere il soggetto senza essere necessitato di ammettere il predicato. Un giudizio sintetico necessario è dunque un assurdo» (tomo:ì*' §.111). Ora una proposizione matematica è, secondo la dot- trina del Galluppi stesso, una verità di rapporto, un giu- dizio comparativo (v. t. V S. 81, 05, IGl, t. 3^ :n, t. 4" 37, 38, 40, ecc) . In un rapporto si distingue la relazione stessa e il fondamento della relazione. In ({uesta proposi- zione: « la somma degli angoli di un triangolo è uguale a due retti », ciò clie si atlerina è una relazione d'eguaglian- za: fra gli angoli del triangolo e due angoli retti. La rela- zione non esiste che per la comparazione: essa, secondo il Gallupi>i stesso, non è che una veduta ideale dello si)i- rito, (juando mette in confronto gli oggetti (v. t. 1" § 32, t. 3« 31, t. 4" 32, 34, 37 e segg, ecc). Cosi l'eguaglianza con due angoli retti non è una proprietà degli angoli del triangolo considerati assolutamente ; è una veduta dello spirito, che mette in confronto la somma di questi angoli con due angoli retti. La relazione stessa dunque non fa parte dell'essenza del triangolo, e non è contenuta nella sua nozione. Si dirà che vi è contenuto, se non la rela- zione stessa, il fondamento della relazione? Ma il tbnda- mento della relazione, a parte la relazione stessa, non è qualche cosa che lo spirito possa distinguere negli angoli del triangolo o nell' idea di questi angoli. Il fondamento della relazione, a parte la relazione stessa, non è altro che l'oggetto stesso o la sua nozione, non è una parte di quest'oggetto o di questa nozione. Una proprietà relativa non acquista per lo spirito un'esistenza mentalmente di- stinta, che nell'atto stesso della relazione o della comparazione: fuori di questa relazione, lo spirito non può di- stinguere nella nozione dell'oggetto la nozione della sua proprietà. Per conseguenza, pensare gli angoli del trian- golo come aventi in se stessi il fondauiento della relazione che la proposizione afferma, non è altro che pensare che essi hanno (juesta relazione. L' attributo affermato dalla proposizione, non può essere dunque il fondamento della relazione, a parte la relazione stessa, perchè questo, fuori della relazione, non ha un'esistenza mentale distinta. Ne che quest'attributo non può essere che la relazione stessa. Ma se è cosi, la proposizione non (' analitica, i)erchi3, secondo il ( Tallup[)i stesso, l' idea della relazioii(3 non è contenuta nelF idea del soggetto. Se, malgrado ciò, egli pretende che è analitica, è perchè è necessaria, e quando la nozione del ])redicato non fa })arte della nozione del soggetto, noi possiamo, egli dice, ammettere il soggetto, senza essere necessitati di ammettere il predicato. Ma è questo principio che bisognerebbe provare, e che né il Galluppi né gli altri sostenitori della stessa dottrina non provano mai. i5i. 3". Queste due dottrine del Gallui)pi, per ciuanti sforzi egli abbia fatto per metterle d'accordo, non possono coe- sistere luna con l'altra. Non si [)uò, come fa il Galluppi, sostenere senza contraddizione chele proposizioni matema- tiche sono verità di rapporto, e che il rapporto è una ve- duta dello spirito, distinta dalle idee che sono i termini del rai>porto (v. i l. i indicati nel ^ precedente), e al tempo stesso che queste proposizioni sono anahtiche. La circo- stanza che il rapporto deriva necessariamente dalla na- tura delle cose o delle loro idee (v. t. V § 81), che è im- possibile di avere le idee e non vederne il rapporto quando sono convenientemente paragonate (ibid.), non prova che il giudizio è analitico. 11 soggetto della proposizione, dice il Galluppi, non è il soggetto considerato assolutamente per se stesso, ma il soggetto comi)arato con un'altra cosa (v. t. 3^ § 114, 4^» 38, 5'' 74, G^ 74, ecc.); e il giudizio è' analitico, perclir dice, non in verità ciò che V idea è in se stessa, ma ci(') che l'idea è nel suo })aragone con un'al- tra (v. t. P § 81, 95, 161, ecc.) Ora in un giudizio com- parativo si trovano tre idee: i due termini comparati, e la relazione, cioè la veduta ideale dello spirito, che risulla dal i)aragone. Di queste idee (juale sarà il soggetto della proposizione ? Un termine nella sua comparazione con l'altro termine, dice il Gallu]>pi. Ma (juest'idea del primo termine deve [^rendersi separatamente dall'idea del rap- porto ? in questo caso l'idea del rapporto non è contenuta neiridea del soggetto. G il soggetto comprende al tempo stesso l'idea del primo termine e l'idea della sua rela- zione con Taltro ? Ma allora il giudizio consiste tutto nel soggetto ; e non bisogna dire che Y attributo é contenuto nel soggetto, perchè è inutile di aggiungere al soggetto un attriljuto. Ciò che vi ha di singolare è che Toperazione dello spi- rito, per cui esso paragona gli oggetti, e percepisce i loro rapporti, è, secondo lo stesso Galluppi, una sìntesi. I rap- porti, dice egli ripetutamente, sono un prodotto dell'attività sintetica dello spirito ; avere due idee non è la stessa cosa che conoscere la loro relazione. Perciò si richiede un atto di comi)arazione : le nozioni dei rapporti sono il prodotto della comparazione ; esse non vengono dalle sensazioni, ma dall'attività sintetica dello spirito, la quale le aggiunge agli oggetti sensibili. L'avere insieme nello spirito due per- cezioni, non è lo stesso che paragonarle. 11 rapporto è un'idea dello spirito, la quale nasce in seguito del para- gone, e non è altra cosa fuori di quest'idea. I termini delle relazioni sono reali, ma le relazioni sono solamente idee dello spirito. L'azione dello spirito, da cui nascono le rela- zioni, e per cui queste si uniscono al soggetto paragonato, il Galluppi la chiama sintesi ideale (v. t. 3^ §. 31, t. 4^ §. 32, 34, 37, 38, 40, 42, 44, ecc.). Ma se l'operazione, per cui lo spirito paragona gli og- getti, e conosce i loro rapporti, è una sintesi, cioè un atto con cui esso aggiunge un nuovo elemento, una nuova idea, idee che gli sono state date ; come il giudizio, che non è se non un altro nome per indicare la stessa operazione paragonare e di conoscere i rapporti, sarebbe un'ana- lisij cioè un atto con lui lo spirito non aggiunge niente di nuovo, ma solo distingue un elemento già contenuto negli stessi dati ? « La sintesi, dice il Galluppi, ò una delle elementari dello spirito unmno: per essa noi pa- ragoniamo le nostre idee e scovriamo i loro rapporti. La sintesi estende le nostre conoscenze: ma sarebbe un er- rore il confondere l'operazione sintetica, che ci dà alcuni rapporti, vale a dire che ci dà alcune idee, coi giudizi sin- tetici a priori. Nel giudizio lo spirito decompone una per- cezione complessa, e indi la ricompone con gii stessi ele- menti » (t. 3*' §. 114). «Kant ha confuso l'operazione sin- tetica coi suoi prodotti, che sono le percezioni dei rapporti fra le idee paragonate. Allora che lo spirito rapporta un termine della relazione all'altro, egli esegue una sintesi, la quale è il principio efficiente, che pone un termine rap- portato. Lo spirito nel termine rapportato vede un rap- porto, ed esegue con ciò un'analisi ; indi unisce questo rapporto che aveva separato dal termine rapportato, astesso termine, e compie il giudizio. Lo spirito, prima della comparazione, non aveva che il termine della relazione; dopo la comparazione ha un termine rapportato : l'attività sintetica ha dunque posto dal suo fondo, nel termine della relazione, il rapporto, e questo rapporto è un elemento soggettivo aggiunto all' oggettivo. Ma nel giudizio lo spi- rito non percepisce se non ciò che si trova nel termine della relazione in quanto rapportato, nel che lo spirito non sorte dall'identità, poiché nel termine rapportato è com- preso evidentemente il rapporto. Quest'osservazione dile- gua qualunque dubbio su la soluzione data circa l'utilità del raziocinio, e su V impossibilità dei giudizi sintetici a priori. Il raziocinio, si domanda, essendo poggiato su Ti- dentila, come esso è istruttivo ? Abbiamo risposto, perchè ci scovre i rapporti diversi delle nostre idee, che non pos- siamo immediatamente conoscere, ma questi rapporti, es- sendo nei termini rapportati, non si va fuori della legge deiridentità. 1 termini non sono rapportati se non dopo razione sintetica della comparazione. Il raziocinio nel suo risultamento scovre dunque un elemento nelle nostre idee, clie la comparazione vi ha i)Osto » (t. 4" .^. 38). <.)ra come noi dobbiamo intendere questa distinzione ira Tatto della com})arazione, che è una sintesi, e Tatto del giudizio, che è un'analisi? ('ome va che Kant bacon- fuso To^icrazione sintetica coi suoi prodotti ì Forse nel- Toì)erazione di staljilire una relazione vi hanno due mo- menti successivi. Tatto di paragonare, che è una sintesi, e Tatto di percepire il rapporto, che è un'analisi ^ nel pri- mo lo spirito mette in confronto o in comparazione le idee, rendendole cosi dei termini, non })iù assoluti, ma compa- rati o rap[)ortati, e nel secondo scovre quale sia il loro rapporto ? Non è ciò che vuol dire il Galluppi, perchè egli dice: i termini non sono rapi)ortati se non dopo Tazione sintetica della com[)arazione ; la comparazione ha posto nelle idee un altro elemento; Tattività sintetica ha posto dal suo fondo il rapporto nel termine della relazione. Vi ha duncjue forse una do]>pia operazione sullo stesso og- getto ? un'operazione primitiva, per cui lo spirito confronta le cose e percepisce il loro rapporto, ed è la comparazione; e uiroperazione secondaria, })er cui lo spirito ritorna o riflette sulla prima, ed è il giudizio ? Ma la stessa distin- zione potrebbe applicarsi con lo stesso fondamento a tutte le conoscenze che noi possiamo acquistare : la parte del giudizio potrebbe ridursi in tutte alla riflessione sulle co- noscenze primitive. Ora non è evidente che il giudizi(^ cosi inteso avreb))e una parte molto accessoria nelle operazioni delTintelligenza ? il vero giudizio, il giudizio fe- condo, sarebbe, non questo giudizio, ma la sintesi i)rimi- tiva e originale, essendo questa, anche secondo il Gal- luppi, che (f estende le nostre conoscenze ». D'altronde noi saremmo ritornati di (luesta maniera alla teoria, di cui sopra aljbiamo i)arlato, secondo la quale il giudizio sin- tetico e il giudizio analitico si distinguono, perchè il pri- mo è originale e primitivo, il secondo è ripetuto e riflesso. E allora la distinzione fra il giudizio analitico e il sinte- tico non corrispondereljbe più, come vuole il Galluppi, a (luella fra il giudizio necessario o a priori e il contin- gente o sperimentale. Il Gallui)pi ha ben compreso (juesta verità : che tutte le pro])Osizioni della matematica i)ura sono comparative, (), come egli dice, delle verità di rapporto ; che questi ra[)- porti non hanno al fondo che un'esistenza mentale; e che è dalla natura speciale di questi rapporti che deriva il carattere particolare di questa scienza, di essere un si-stema di conoscenze necessarie ed a priori. Ma egli ha avuto il torto di ostinarsi, malgrado ciò, a pretendere che queste proposizioni sono analitiche : é che egli confonde le due nozioni di giudizio analitico e giudizio necessario. Dire che un rapporto comparativo nasce dalla natura stessa dei termini o delle idee comparate; che esso è un attri- buto essenziale al soggetto, e che il soggetto non può concepirsi senza Tattributo; sono unicamente delle ma- niere diverse di dire che questo rapporto è una cono- scenza necessaria e a priori, (Questa è una ragione per distinguere le proposizioni che ci danno una conoscenza di ({uesti rapporti, dalle proposizioni per cui conosciamcì dei rapporti d'un altro ordine : ma non segue da ci(') che le prime proposizioni siano identiche e analitiche, cioè che Tattributo sia compreso nel soggetto, e che esse sia- no fondate sui principii d'identità e di contraddizione. An- che nel caso in cui il contrario di questi 'giudizi è assolutamente inconcepibile, non si deve confondere, come si fa ordinariamente, Tinconcepibilità con la contrad- dizione; poiché, se è vero che tutte le proposizioni con- traddittorie sono inconcepibili, non è vero chC;, recipro- camente, tutte le proposizioni inconcepibili sono contrad- . (1^. § 4^'. Il Galluppi ha un'altra ragione per provare il suo assunto: tutti i rapporti che noi stabiliamo fra gli oggetti comparati tra di loro, si riducono air identità e alla di- versità, (v. t. 4° § 34 e segg.). Ciò proverebbe che i giù- . dizi che hanno per contenuto questi rapporti, sono anali- tici e fondati sulFidentità. L'eguaglianza delle grandezze (l) La natura sintetica dei giiulizi matematici e stata ben capita dal Gio])erti. Tali griudizi . eg:\i dice, sono tutti sintetici, essendo fondati, non sulla identità, ma sulla relazione (« sulla corrispon- denza e proporzione reciproca ») delle varie conformazioni quan- titative del tempo e dello spazio. È dairintclligibile che lo spirito cava questa relazione, e « Tanalisi più sottile non potrà mai farla scaturire dap:li elementi quantitativi del tempo e dello spazio, come tali». Nel giudizio: A eguale A, il concetto d'eguaglianza che è nel predicato, <* non si trova nell'idea del soggetto per se stessa, ma è una nozione che lo spirito cava da se medesimo, secondo il razionalismo comune, ovvero dalTintelligibile, come noi credia- mo ». ( Teorica del soe rannat arale, nota 24).Il Mamiani ammette che i giudizi necessarie a pno/t sono ana- litici, e i giudizi contingenti e sperimentali, sintetici (v. Rinnoca- mento della fllosojla antica italiana parte 2. e. 3. Confessioni d'un metafisico lib. 2. e. 3. n. 68 e segg. Compendio e sintesi della pro- pria filosofia % 16); ma sulle proi)Osizioni della matematica sta nello stesso equivoco del Galluppi, cioè, mentre confessa al fondo la loro natura sintetica, egli pretende tuttavia che sono analitiche. Nel Rinnocamento (in cui presenta le sue idee su questo soggetto in una forma più semplice, è non involte ancora nelle nebbie neo- platoniche, tra cui le troviamo nelle Confessioni) distingue due classi di giudizi analitici. L'una confronta insieme le parti costi- tutive d'un'idea o tutta essa idea con altre, e nota le relazioni che indi vengono fuori. In questa classe di giudizi analitici il subbietto non contiene che i termini della relazione, o l'uno dei due, essendo è, dice il Galluppi, l'identità nella quantità; e in generale, la somiglianza di due oggetti è Fidentità di una parte di un oggetto con la parte di un altro. «Con l'astrazione di- rigo lo sguardo del mio spirito su di una parte delFog- getto A, e su d\ma parte dell'oggetto B; e paragonando queste due parti, dico: A è in una parte lo stesso con B.» (t. 4^ §. 31). È ciò che secondo il Galluppi facciamo, tutte le volte che diciamo che due oggetti sono simili. Come si vede, per esprimere questa dottrina, Ijisogna impiegare un lin^^ua^a'io che realizza le astrazioni. Se tutti gli ani- mali, in quanto animali, sono simili, è che vi è in ciascu- no una parte, l'animalità, la quale si trova identica in tutti. Un rapporto di eguaglianza o di somiglianza non si l'altro olferto dalla materia dell' attnlmto. «L'atto poi d<^l para- gonare, e il sentimento che so ne origina, è nuovo per intero, ed è un'addizione che Tuoni fa al subbietto del giudizio ». Ma quest' atto o sentimento in cui consiste la relazione, se si distingue dal soggetto, ed è lo spirito che lo aggiunge all'idea del soggetto, come va che il giudizio non è sintetico, ma analitico? La relazione, dice il Mamiani, può essere chiamata parte neces- saria del subl)i<^tto per due ragioni. La prima è che dati i termini, è dato sempre il dover sentire la relazione, quante volto quei ter- mini vengano conosciuti in se e paragonati. La seconda, che i sul)- J)ietti, considerati in astratto, si contemplano neiressere loro com- piuto e perfetto, e quindi come forniti di tutte le loro attinenze reali e possibili. (Uinnoramento della lìloso fia antica italiana \yarto 2. e. 3. § VII. Confr. Confessioni d'un metafisico lib. 2. e. 3. j? Ili, n. 73). Di queste duo ragioni la prima importa semplicomento che il giudizio è necessario e a priori^ ma non che è analitico. Sulla se- conda osserveremo che, se un subl)ietto si considera come fornito di tutte le sue attinenze reali e possibili, è che introduciamo nella sua nozione il risultato di tutti i giudizi, che noi abbiamo potuto fare, comparandolo con le altre cose sotto tutti i punti di vista in cui una comparazione è possilnle. Ora dopo ciò viene la qui- stione se questi giudizi siano analitici o sintetici: la proi)osizione del Mamiani che abl)iamo segnata con le virgolette, prova appunto ^he sono siiitolici. può cosi ridurre airi.lentità parziale, nel senso proprio del termino, senza accordare ad attributi astratti un'esi- stenza realmente distinta. §. 50. Le proposizioni deiraritmetica e dell'algebra han- no dato la ragione apparentemente più forte, per sostene- re che le verità necessarie sono delle verità identiche o analitiche. Kant avendo dato come esempio di giudizio sintetico a priori la proposizione: «7 più 5 ò uguale a 12»; gli si è opposto generalmente che questa è una proposi- zione analitica, perchè 7+5 è identico a 12. Ma se noi am- mettiamo che un numero designa unicamente degli oggetti concreti, la natura sintetica di una proposizione che enun- cia un'eguaghanza numerica, non jmò essere revocata in dubbio. La stessa eguaglianza 5=5, in cui potrebl^e ve- dersi il caso più chiaro deiridentità, è una proposizione sintetica, se ammettiamo che i due gruppi d'oggetti, desi- gnati con la stessa parola la i)rima e la seconda volta, sono realmente distinti. Tanto più quanto si tratta della eguaglianza fra i dati e la loro somma: allora i due mem- bri delFeguaglianza designano degli oggetti, che differisco- no anche nel modo della loro aggregazione, cioè della lo- ro distriijuzionc per gruppi. Quand'anche 7+5 e 12 de- notino gli stessi oggetti, essi li denotano in due momenti diversi, in cui il loro modo di aggregazione è differente. 7_l_5 li designano quando formano ancora, realmente o mentalmente, due gruppi separati; 12 li designa dopo la loro riunione. È di questa maniera che devono sempre interpretarsi le proposizioni che contengono la valutazio- ne della somma di più numeri. Supponiamo tuttavia che non sia cosi, e ammettiamo invece che, il nome di unnumero designando indifferentemente tutte le quantità u- guali di oggetti, qualunque sia la loro distribuzione per gruppi, il 12, che è nell'uno dei membri dell'eguaglianza, possa indifferentemente indicare sia una collezione unica, sia due collezioni una di 5 e una di 7, sia un'altra più—ralità (juakuKiue di gruppi, la cui somma é uguale a 12. Anche in quest'ipotesi, ciò ciie la proposizione atìerme- rebbe, sarebbero sempre dei rapporti d'eguaglianza fra cose diverse— e lo stesso naturalmente deve dirsi di qual- siasi altra proposizione esprimente la valutazione di una somma.— Che cosa si farebbe inlàtti, dando il nome <li un numero ad una moltitudine di oggetti, qualunque essa fos- se? In questo caso, come in tutti gli altri, l'applicazione del nome non potrebbe essere che una classazione sotto un punto di vista particolare, cioè un'affermazione di rap- j^KDrti deliniti di somighanza. Ciò che vi ha di speciale a (piesto caso, è che i rapporti di somiglianza, che unisco- no fra di loro i memljri della classe, sono dei rapix)rti di eguaglianza numerica. A <|uesto secondo modo d'interpre- tare la i)roposizione, che è il senso in estensione, noi pre- feriamo il primo, cioè il senso in comprensione, perchè (juesto, nelle jjroposizioni, precede logicamente quello. Ma ciò è indifferente per la nostra (juistione : interpretata di una maniera 0 dell'altra, la proposizione è sempre sinte- tica, perchè essa afferma, non un'identità pui'a e sempli- ce, ma una somighanza definita fra termini distinti. Per ],)rovare che la proposizione di Kant è analitica, alcuni hanno fatto questo ragionamento: Il numero 12 è quanto agli elementi una sintesi pienamente identica coi numeri 7 e 5, e dobbiamo riconoscere in quel giudizio una pro})Osizione anahtica ad onta di questa sintesi. Che in una data proposizione il soggetto sia la sintesi o l'anali- si dell'attributo, e l'attributo l'analisi o la sintesi del sog- getto, ix)co importa, purché l'attributo non contenga nulla più del soggetto, diesi dica 7+5—12, o 12= r+r,, la pro- posizione in sostanza è la stessa. Ora la proposizione nel- l'ultima forma mostra cliiaramente che si tratta d'un'ana- lisi, essendovi la decomposizione o la risoluzione di un nei suoi elementi (V. Vaclierot La metafìsica e la scienza, tomo ^^ Conversazione 0^ e Degerando Storia comparata dei sistemi di Jìlosofia, t. :V\ e. l:^•.). Su ciò osserveremo naturalmente che, se vi ha qui un'anah- si, è uiVanalisi diversa da <|uella che ha luogo nel giudi- zio anahtico, secondo i sostenitori di questa classe di giu- dizi. 7 e 5 non sono le parti costitutive del concetto 12, le parti costitutive d'un concetto, secondo tutti i concettuali- sti, essendo il genere e la differenza. Cosi 7 e 5 jìossono essere gli elementi materiali del numero 12, ma non gli elementi concettuali. Il numero 12 si decom[)one in 12 unità, le (juali unità alla loro volta possono ricomporsi diversamente, nei due numeri 5 e 7. Qui può applicarsi dunque la distinzione aristotelica della forma e della ma- teria. Le travi, le pietre, ecc. sono gli elementi materiali della casa, ma non sono gli elementi del concetto o della definizione della casa, perchè questo concetto è costituito sovratutto dalla torma, non dalla materia. Se le stesse tra- vi, le stesse pietre, ecc. fossero impiegate in altre costru- zioni, sarebbe tanto giusto di dire che (jueste ultime sono identiche alla prima casa, quanto pu(') essere giusto di <lire che 12 ò identico a 7 e 5. È identico per la materia, ma non i)er la forma, e la proi)Osizione esprimente que- sta o qualsiasi altra eguaglianza numerica, afferma, se si vuole, un'identità nella materia, ma con una diiferenza nella forma, cioè, come abl)iamo spiegato, neironline e nella situazione delle unità, componenti i grup[)i concre- ti, il cui i)aragone costituisce il senso reale della prop(j- sizione. g. {y\ La grande difficoltà della dottrina che sostiene che le operazioni deirintelligenza sono fondate sui prin- cijui (Fidentità e di contrai l(hzione, è Timpossibilità di com- prendere come di questa maniera un giudizio o un ragio- namento possa essere istruttivo. Si pretende che una ve- rità assiomatica non è che una verità identica, e che la dimostrazione è anch'essa un'analisi, in cui lo sjùrito non fa che svolgere ci(') che era già contenuto nelle [)remesse. Una proposizione necessaria, ci si dice, é sempre una proposizione identica; soltanto, l'identità si conosce (^ra immediatamente (senza dimostrazione), ora mediatamen- te Cper la dimostrazione). In quest'ultimo caso vi ha una doppia identità nella proposizione (v. Galluppi Saggio fi lo^ sofìco sulla critica (Iella conoscenza, t. 1^' §. IGl, 5**37, 38, ecc.) : essa è identica in se stessa, e indentica pure (par- zialmente) con le suo premesse (1). In quando alle verità (l) Un'altra dinicoltà non meno li'Pave della dotti'ina analitica è come vi sia l)isogno d'un ragionamento per riconoscere T iden- tità delle idee. Il iriudizio necessario, si dice, e un iiiudizio anali- tico, in cui il predicato è parzialmente identico al soggetto, iterchè vi è contenuto: ma allora come si può non percepire immediata- mente clic il soggetto contiene il predicato? come si può aver bi- sogno, per riconoscere T identità (i>arziale) fra le due idee, della mediazione di altre idee? Siccome una proposizione necessaria non può concludersi die da premesse tutte e due necessarie, (luelli che pretendono che le ]^roposizioni necessarie sono analitiche, e che di tali proposizioni ve ne hanno delle mediate o concluse, ilevono ammettere, almeno per questo caso, la dottrina del ragionamento die Stuart-Mill ha confutata in Ikimilton, e che noi possiamo chia- mare la (ìottrìna an aliti a a del ragionamento. Secondo questa dot- trina, la nozione indicata dal termine medio è compresa in (luella indicata dal termine minore (rapporto atìcrmato nella premessa minore), e comprende alla sua volta la nozione indicata dal teì^- mine rnarfrjioie (rapporto alTermato nella pì^emessa mar/ffioie); e dal confronto di questi due rai^porti ne risulta la conoscenza del terzo rapporto, quello affermato nella conclusione, cioè che la no- zione del termine minoie comprende quella del termine maggiore. 11 fondamento del ragionamento sarebbe cosi il principio evidente che una j^arte della ])arte è una parte del tutto. Ma come i>ossia- mo aver ì^isogno del ragionamento per riconoscere, nel caso par- ticolare, che la parte della parte è una parte del tutto? Stuart-Mill ha ben messo in luce le inconcepibilità inerenti a questa dottrina: è impossibile di ammettere al tempo stesso che il ragionann^nto è una maniera di costatare che una nozione fa parte di un'altra, e che Fuso del ragionamento ha per iseopo di scoprire delle verità che non sono evidenti per se stesse. « Come può darsi, domanda il Mill, che una verità che consiste in una nozione che è una luirte contingenti, n^^^n si è d accordo su questo punto dai |u^irti- giani della dottrina analitica: ina alcuni ammettono ciie anche queste sono identiche; solo noi non cosciamo la loro identità, sia intrinseca, sia c'on altre verità ap])arentemente digerenti; non conosciamo la loro derivazione dal gran principio da cui nascono tutte le verità, il principio d'iden- tità 0 di contraddizione. Ma se è cosi, che cosa può apprenderci una proposi- sizione ? e in che il ragionamento può estendere le nosti»e conoscenze ? Allora una verità assiomatica m^n ta che al- iermare un'idea di se stessa, e una scienza deduttiva non è che una serie di esi)resioni digerenti delle stesse idee. Noi siamo forzatamente circoscritti ncWkìcm per idem: le parole cangiano, ma le idee restano le stesse. Quando ti- riamo un'interenza, noi pronunziamo un giudizio, che ab- biamo già pronunziato in altri termini nelle premesse; ben più, tutte le proposizioni, ahneno le necessarie, non l'anno che ripetere sotto forme diiTerenti <iuestji rerità, che lo stesso é lo stesso. (v>ucste conseguenze sono talmente inevitalàli, che il più celebre forse dei sostenitx)ri della dottrina, il Condillac, le ha espressamente inculcate. • L' identità, dice que- st'autore, è il segno al (^uale si riconosce che una proi)0- sizione è per se stessa evidente; e si scorge Tidentità quando non si può tradurre che in termini che tornino a (piesti: lo stesso è io stesso. In consegucnzix una proposizione per (lì un' altra, non sia cvidt^nle por se stossa ? Le nozioni sono imm- euprosj/iono tutto e due nel nostro s]>irit<). per i»ercei)iro(li (luali rarti esse si compongono, n(ìn bisogna niente altro elio Ussaro la nostra attenzione su di esso. Noi non possiamo concentrare la nostra coscienza su due idee del nostro spirito, senza conoscere con cor- Uv/.'/A\ se runa di osso, in quanto è un tutto, comprende l'altra come una parte» (V. Filosofia di llamUton, Del ragionament(ì). ritroveremo nel Taine la stessa dottrina di Hamilton. sé evidente è quella, di cui si scorge immediateinonte 11- dentità nei termini che T enunciano— Di due proposizioni una è conseguenza evidente deiraltra, quando dalla com- parazione dei termini si vede che affermano la stessa co- sa, vale a dire quando sono identiche. La dimostrazione dunque è una serie di proposizioni, in cui le stesse idee, passando dall'una all'altra, non differiscono, se non perché sono diversamente enunciate, e l'evidenza di un raziocinio consiste unicamente neiridentità » (Arte di ragionare, lib. V e. 1^). Di là ne segue che lo studio di una scienza si riduce imparare una Ungua : una scienza ben trattata non è che una lingua ben latta. L'algebra, dice Condillac è una vera lingua, e non è altra cosa che una lingua. « 11 linguaggio algebrico ia toccar con mano quale connessione conser- vino in un ragionamento i giudizi l'uno con l'altro. Si vede che l'ultimo non è contenuto nel penultimo, il penultimo in ciucilo che lo precede, e cosi di seguito in ordine retrogrado ed inverso, se non clie perchè l'ultimo è identico col penulti- mo, cioè perchè l'ultimo è compreso nel penultimo, è della stessa natura con e.sso, il penultimo con quello che lo precede, ecc., e si riconosce che questa identità e connessione for- ma tutta la prova e certezza del raziocinio — Quando con parole si sviluppa un rag ionamento, l'evidenza e la dimo- strazione consiste egualmente nella sensibile identità e connessione di un giudizio con l'altro. Infatti la serie dei giudizi è la stessa, e non vi ha che la sola espressione che cangi. Soltanto bisogna osservare che più facilmente si scopre questa identità, quando si espone con segni al- gebrici» {Logica, parte 2^, e. 7«). «Non ci eleviamo di co- noscenza in conoscenza, se non perchè passiamo da pro- fKDsizioni identiche a proposizioni identiche. Ora se potes- simo scoprire tutte le verità possibili, ed assicurarcene d'una maniera evidente, faremmo una serie di proposizioni identiche, uguale alla serie delle verità, e per conseguenza vedremmo tutte le verità ridursi ad una sola >. {Arte di ragionare, lib. 3*' e. XI). Il suo Trattato delle sensazioni non è, secondo Condillac, che una serie di proposizioni identiche in se stesse, e il principio che comprende tutto il sistema può brevemente enunciarsi di questa maniera: le sensazioni sono sensazioni. « Se potessimo in tutte le scienze seguire ugualmente la generazione delle idee, e cogliere e vedere da per tutto il vero sistema delle cose, vedremmo nascere da una verità tutte altre, e ritroverem- mo Tespressione abbreviata di tutto quello che sapremmo in questa proposizione identica: lo stesso è lo stesso » (Ar- te di pensare, e. 10). Ma se tutte le proposizioni d'una scienza dimostrativa sono identiche, obbietta a se stesso Condillac, non saranno perciò stesso frivole? Le proposizio- ni, egli risponde, sono identiche, se esse sono vere; per- chè avendo dimostrato che e/ò c/ie non sappiamo è la stessa cosa di ciò che sappiamo, è evidente che non pos- siamo lare che delle proposizioni identiche, allorché pas- siamo da ciò che sapiuamo a ciò ciie non sappiamo. Ma « non è r identità nello idee che la il frivolo, è V identità nei termini ». Sei è sei è una ])roposizione identica e al tempo stesso frivola, perchè T identità è nelle idee e nei termini. Ma tre e tre fanno sei non è una proposizione frivola, « perche Tidentità è unicamente nelle idee » (Linr/iia dei calcoli, lib. l^ e. .>) §. 7. Noi non possiamo passare, dice Condillac, da cii) che sai)piamo a ciò che non sappiamo, se non perchè ciò che non sappiamo è la stessa cosa di ciò che sappiamo. Noi andiamo dal noto airignoto, perchè l'ignoto si trcjva nel noto, e non vi si trova che perchè è la stessa cosa. (Lingua dei calcoli, hb. 1" e. 5^). Ma se Tignoto, risponde il Galluppi, è lo stesso del noto, il cammino che si preten- de che faccia lo s])irito, andando dal noto all'ignoto, non esiste allatto, perchè quest' ignoto è una clamerà : se il punto da cui io parto è 1<3 stesso di quello a cui giung(3, non ho fatto alcun cannnino, io resto immobile, ed il parlare d'un passaggio da un punto ad un altro è un lin- guaggio visibilmente contraddittorio. (Galluppi^ Opera ci-, t. P § 70). È evidente che questa obbiezione colpisce la dottrina del Galluppi stesso : cos'ha fatto quest' ultimo autore per risolvere la difììcoltà ? Egli ha ricorso a due espedienti : il raziocinio, dice in primo luogo, è istruttivo, ed estende effettivamente la sfera delle nostre conoscenze, in quanto ci scopre i diversi rapporti delle nostre diverse idee, pa- ragonate le une con le altre. I triangoli costruiti su basi eguali e tra le stesse parallele sono uguali. Se un trian- golo e un parallelogrammo sono costruiti su basi eguali e fra le stesse parallele, il triangolo è la metà del paral- lelogrammo ; queste proposizioni, dice il Galluppi, non so- no identiche l'una all' altra ; la prima scopre il rapporto fra un dato triangolo e un altro dato triangolo ; la secon- da scopre il rapporto fra un dato triangolo e un dato pa- rallelogrammo ; or questi due rapporti son distinti nel no- stro pensiero, e perciò formano due conoscenze distinte. Non si può dire che in queste proposizioni non si faccia altro che dire : 11 triangolo è triangolo, il parallelogram- mo è parallelogrammo, poiché queste proposizioni identi- che non indicano alcun rapporto fra due figure distinte, (t. 1° § 81 — V. anche t. 4<^ § 38, t. 1° IGl, ecc.) Ma con questa risposta il Galluppi abbandona la dottrina dell'iden- tità e del giudizio analitico ; o piuttosto, dovrebbe abban- donarla, se fosse conseguente. Noi abbiamo esservato, in effetto, che se, come insegna il Galluppi;, i giudizi ma- tematici sono verità comparative o di rapporto, e il rap- porto è una nozione nuova che lo spirito aggiunge alle nozioni dei termini comparati, i giudizi matematici non pos- sono essere analitici o identici, perché questa seconda dot- trina è in contraddizione con la prima. L'altra risorsa del Galluppi consiste nell'invocare la vec- chia dottrina dei logici sul sillogismo: il ragionamento, egli dice, va dal generale al particolare, dal genere alla specie e dalla specie all' individuo. Ma T idea del genere non è perfettamente identica con quella della specie, poi- ché v'ha più nella specie che nel genere, più nell'indivi- duo che nella specie; cosilo spunto passa da nozioni più semplici e generali a nozioni \)i\\ complesse e particolari. Dunque nella dimostrazione non vi ha una sola idea, e il Condillac ha torto di riguardare il raziocinio come una serie di (Utlerenti espressioni di una stessa idea (t. 1^ Js?. 73 e sgg). (xJuesta seconda risposta non vale j)iù della prima: essa è t'ondata su un falso presu[)posto, cioè che il sillo- gismo rappresenti il processo reale del ragionamento, ed é inoltre illusoria, perché, ammesso anche questo presup- posto, il ])rogresso deirintelligenza, nel ragionamento, re- sterebbe sempre incomprensibile. §. 8.'^ Uno dei fondamenti della dottrina analitica sui giudizi a priori é certamente Topinione, per lungo tempo dominante nella logica, clie il sillogismo é un ragiona- mento reale, anzi il tipo universale del ragionamento. E in eiletto rimpiego del metodo sillogistico, da una parte, ha dato la ragione apparentemente più forte per credere che la costatazione di una semplice necessità logica, cioè di una conseguenza fondata sui rapporti logici necessari tra le idee e non sulle analogie tra i fatti, può dare un'e- stensione reale alle nostre conoscenze; e d'altra parte, l'oggetto della dottrina analitica dei giudizi a priori es- sendo di tbndare questi giudizi sulla semplice necessità logica, questa dottrina trovava perciò uno strumento pro- prio e già preparato nel sillogismo, qual é ordinariamente considerato dai logici. Cosi mentre, dopo la disfatta della scolastica, si trova generalmente nei filosofi novatori l'ab- bandono e il dispregio della logica formale, noi vediamo al contrario Leibniz, die si avrebbe ragione di riguar- dare come il fondatore della dottrina analitica dei giu- dizi a priori (v. il Saggio seguente, parte 1*, cap. 6^) quantunque egh non ammetta ancora, almeno esplicita- mente, che in questi giudizi il predicato é contenuto nel soggetto —, fare il più gran conto del ragionamento sil- logistico: secondo lui, tutte le verità razionali, anche ([uelle che si chiamano assiomatiche, devono essere di- mostrate secondo le regole della logica, cioè col metodo sillogistico, sinché si arrivi, come primi [)rincipii, a delle proposizioni di cui si veda chiaramente che sono delle verità identiche (v. Leibniz Nuovi Saggi Hitirintcndimenio umano, lib. 4'^ e. 2^ 7^ i)^ 12^ 17^»; Meditationes de co-- gniiione, veritate et ideis (Opera omnia, Datens, i.as 2us /% pag. 17); Teodicea, Osserv'ò.zioni sul Uhro(ìi King, TI 0 K ecc), Dei filosofi, i quali credono che, in una ])roposizioistruttiva, l'idea del ]:)redicato può fare parte dell'idea del soggetto, non possono vedere la (hfticoltà che vi ha ad am- mettere che un ragionamento, in cui la conclusione é con- tenuta nelle premesse, costituisca ciò non ostante una vera inferenza, cioè un progresso reale della conoscenza. jMa la diiticoltà in se stessa é talmente evidente, che l'obbie- zione contro il sillogismo che esso, considerato come una prova, é una pura petizione di principio, é tanto vecchia quanto il sillogismo stesso. Questa obbiezione é in effetto, come dice il Mill (Logica, ììh. 2^ e. :V^ ^. 1), un corollario legittimo del teorema del sillogismo, cioè del principio, una- Tiimamente ammesso dai logici, che nella conclusione di questo ragionamento non deve esservi niente di più di ciò che è già dato nelle premesse. «Quando si dice: Tutti ixM uomini sono mortali, Socrate è uomo, Dunciuo Socrate è mortale, gli avversari della teoria del sillogismo obbiettano irre- futabilmente che la proposizione « Socrate è mortale • é presupposta nell'asserzione più generale « Tutti gli uoiiiini sono mortali»; che noi non possiamo essere sicuri del- la mortalità di tutti gli uomini, a meno d'essere già certi della mortalità di ciascun uomo individuale; che se è an- cora dubbioso che Socrate sia mortale, Tasserzione che gli uomini sono mortali è colpita della stessa incer- tezza; che il principio generale, lungi di essere una pro- va del caso particolare, non può esso stesso essere am- messo come vero sinché resta Tombra d'un dubbio su uno dei casi che esso abbraccia, e sinché questo dubbio non é stato dissipato per una prova alìunde; e allora che resta a provare al sillogismo?* (MìW Logica hb. 2^ e. 3^ §. 2^). Il ragionamento sillogistico non é dunque un'infe- renza reale, ma verbale e apparente. È ciò del resto che è implicitamente ammesso dai suoi stessi difensori, quando insegnano, come fanno generalmente, che la transizione dalle premesse alla conseguenza é giustificata dal sempli- ce principio di contraddizione, cioè che il solo motivo di accordare la conseguenza dopo aver accordato le premesse^ è che vi sarebbe contraddizione se quella si supponesse falsa, queste essendo supposte vere. Cosi essendo, sicco- me la contraddizione consiste ad affermare e negare al tempo stesso le stesse cose, si deve confessare che, negan- do la conseguenza, si negherebbero dei fatti che le pre- messe affermano, o se ne affermerebbero che le premes- se negano, e quindi, che ciò che si afferma enunciando la conseguenza, era già stato affermato enunciando le premesse. Ma ciò vuol dire che, passando dalle pre- messe alla conseguenza, il pensiero non ha fatto che ri- petersi^ che non si é fatto alcun passo in avanti, e che l'inferenza non é stata che apparente. È sorprendente come questo, che chiameremmo un pa- radosso se non fosse invece un luogo comune, cioè che verità date possono contenere in se stesse altre verità, che sono nondimeno nuove e differenti dalle prime, ha potuto imporsi ai logici sino al Mill. Si credeva di vedere pie- 1 namente realizzato questo caso nelle scienze di puro ra- gionamento, in cui, come nella geometria, tutto un siste- ma di conoscenze importanti viene cavato, a quel che pa- re, da pochi principii semplicissimi supposti al comincia- mento. Ma (juesta é un' illusione, dovuta all' impiego necessario del linguaggio, e per conseguenza, dei termini genemli : le verità dimostrate, nelle scienze cosi dette de- duttive, non sono provate dalle verità più generali, cioè dagli assiomi, ma dai fatti particolari di cui queste ultime verità sono la generalizzazione. Ogni ragionamento, di qualunque specie esso sia, se è reale, cioè se costituisce un progresso delle nostre conoscenze, è sempre un pro- cesso essenzialmente induttivo, cioè un'assimilazione dei casi nuovi ai casi particolari dell'esperienza passata. La vera prova della mortalità di Socrate non è che tatti gli uomini sono mortali — perché, come è stato detto sopra, se non si è ancora sicuri della mortalità di Socrate, non si può essere sicuri della mortalità di tatti gli uomini—, ma che A, B, C e tutti gli altri uomini che sono vissuti, sono morti. Se si dubita infatti che Socrate morrà, non si può esserne resi certi per la proposizione che « tutti gli uomini sono mortali », percliè sinché è dubbio il fatto particolare, è necessariamente anche dubbia la proposi- zione generale. Il dubbio non potrà essere dissipato che per la enumerazione dei casi particolari, di cui questa è la generalizzazione induttiva. Sono dunque questi casi par- ticolari che provano, tanto la proposizione generale che tutti gli uomini sono mortali, quanto la verità partico- lari che Socrate morrà (v. Stuart Mill Logica, lib. 2^ e. 3^ o almeno questo scritto cap. P §. 19^). L'inferenza non è mai dunque, come crede il Galluppi^ dal generale al particolare, ma è sempre dal particolare al particolare. É questa del resto una conseguenza evidente del rigetto della dottrina dei concetti. Se noi non abbiamo che delle idee particolari, se non vi ha altro di generale che dei meri simlx)li, noi non possiamo ragionare che su dei fat- ti particolari, e Tinlerenza non può andare che da alcuni altri di questi latti particolari. Ora questo genere d'in- ferenza non può servire di base alla dottrina anaUtica dei giudizi a priori, perchè questa pretende di fondare le co- noscenze razionali sul principio di contraddizione, ma non vi ha contraddizione alcuna a negare la verità dei fatti inferiti (p. e. che Socrate morrai, mentre si ammette quel- la dei fatti da cui s'inferiscono (che A, B, C e tutti gli altri uomini che sono vissuti, sono morti). Il sillogismo bensi è fondato sul principio di contraddizione — quan- tunque un fatto si chiaro sia contrastato da alcuni dei più illustri logici moderni (v. in seguito, §. 2G— 20)— ; ma appunto perciò è un'inferenza apparente, e non può dare un'estensione reale alle nostre conoscenze, come lo esige la dottrina analitica. §. 0.^' La dottrina dei concetti non permette di vedere chiaramente ci(*) che vi ha di paradossastico e d'impos- sibile in quest' asserzione, che noi possiamo acquistare delle conoscenze nuove per il solo sviluppo di nozioni an- tecedenti. Quando si ammettono le idee astratte, si può, appoggiandosi su questa vaga nozione: analisi, credere che si possa, sviluppando o esplicando un'idea, come si svolge, p. e., un gomitolo o si spiega una stoila che era ripiegata, mettere in luce altre idee che vi erano occul- tamente, o come si dice più d'ordinario, imphcitamente, contenute. Un'idea non può essere racchiusa in un'altra, in un ragionamento o in un giudizio reale, che come la scintilla è racchiusa nella selce, cioè per una semplice metafora. Se i metafìsici possono reaUzzare questa me- tafora, è per ciò che vi ha di vago e di mistico in que- st'altra nozione: il concetto, degna compagna di quella del- Yanalisi, Ma se si ammette che noi non pensiamo che per idee concrete e particolari, non vi avrà più alcun luogo, evidentemente, per l'analisi, né nel ragionamento nò nel giudizio. Come nel ragionamento — in cui il processo reale deirinferenza non ha potuto essere misconosciuto, che per- chè una proposizione generale si è riguardata come l'e- nunciato di una nozione, rigorosamente parlando, gene- rale, e non sem[)liccmente come un segno per ricordarci dei fatti particolari dell'esperienza passata, e indicarci ciò che doljbiamo attenderci, per l'avvenire, nei casi analo- ghi — cosi anche nel giudizio, il principio che un'idea ne contiene un'altra che le viene aggiunta, non può sem- brare plausibile che per questo semi - realismo, che dà ai significati dei termini generali un'esistenza mentale distinta. Noi possiamo addurre ad esempio le proposi- zioni enunzianti le proprietà dei numeri e delle figure geometriciie. Queste proprietà non sono che delle rela- zioni (d'eguaglianza, d'ineguagUanza, ecc.) fra oggetti di- stinti;, ma il concettualista potrà riguardarle come delle determinazioni intrinseche astratte delle figure e dei nu- meri in se stessi. Sia la proposizione : Due più due fanno quattro. Se si comprende bene che essa non può volgere che su dei fatti concreti, si vede subito che non afferma che ima relazione tra gruppi distinti di oggetti, i quali sono numericamente eguali, ma distribuiti differentemente nello spazio o nel tempo. Ma se si ammette che qaatti'o designa un concetto astratto, siccome questo concetto è necessariamente applicabile a due più due, si vedrà nella proposizione l'attribuzione a due più due d'una pro- prietà astratta che loro inerisce necessariamente, e per conseguenza, nel concetto quattro una nota inclusa ne- cessariamente nel concetto due più due. Cosi pure perla proposizione: Il triangolo rettilineo ha la somma degli angoU uguale a due retti. Essa non stabihsce che una re- lazione d'eguaglianza fra i tre angoli del triangolo e due angoli retti; ma la teoria concettualista la riguarderà in- vece come attribuente al triangolo, considerato per se stesso e indipendentemente da qualsiasi relazione, una de- «tómasmm^sim terminazione astratta acl esso inerente, e cosi la proposi- zione sembrerà analitica. Non vi ha in ogni caso che a tradurre una proposizio- ne nelle rappresentazioni reali che essa significa, e la dot- trina analitica non potrà più fare illusione. Si sa che una delle proposizioni a cui di preferenza questa dottrina viene espressamente applicata, è quella enunciante il principio di causalità. Ora è ciò che non può sembrare possibile,. che smchè questo principio si formula e si stabilisce ser- vendosi di termini astratti. Allora il partigiano della dot- trina analitica dirà che nella proposizione : « ogni effetto é prodotto da una causa », é evidente che il concetto che la da attributo, cioè di «prodotto da una causa», è dato implicitamente nel concetto che fa da soggetto, cioè in quello di « effetto »; ovvero, dopo che gli si ò fatto com- prendere che la difficoltà sta appunto nello spiegare per- chè noi riguardiamo tutto ciò che comincia ad esistere come un effetto, forzerà il senso delle parole, e si gioverà degli equivoci, a cui si prestano tutti i termini e special- mente gli astratti, per dimostrare che il concetto di «effet- to » o « prodotto da una causa » è contenìito in qualche altro concetto o in alcuni altri concetti, che sono alla loro volta contenuti in quello di « ciò che comincia ad esiste- re» (1). Ma svolgiamo il contenuto reale della proposizione; (1) Uno specimen di queste pretese dimostrazioni del principio di causalità può vedersi in Rosmini, Nuoco Saggio suW origine delle idee, sez. 4. e. 3. art. XXUI. Ivi la dimostrazione è presentata sotto la forma appropriata alla dottrina analitica, cioè mostrando che il concetto di « cominciare ad esistere » racchiude un altro con- cetto, e questo un altro ancora, il quale infine racchiude quello di « avere una causa ». Naturalmente ogni altra dimostrazione di questa o qualsiasi altra proposizione a priori o pretesa tale, fatta da un partigiano della dottrina analitica, che non riveste questa forma (come quella, pure del principio di causalità, che si trova in Galluppi Saggio Jtlos. sulla rrit. della conosc. t. 1. e. 4. §. 99) è o dovrebbe essere suscettibile di rivestirla. 'fa ' A*' i traduciamola in termini che indichino chiaramente le rap- presentazioni concrete di cui essa è Te.spressione somma- maria; si vedrà immediatamente che è un puro non senso il dire che essa unisce delle idee, di cui Tuna è contenu- ta neiraltra. La proposizione significa che un fenomeno è costantemente preceduto da un altro fenomeno; che la natura dei due fenomeni che costituiscono questa sequen- za, non è arbitraria, ma che un fenomeno della classe a è sempre preceduto da un fenomeno della classe a^ o di una di un certo numero determinato di classi: a\ a^^ ecc.; il fenomeno della classe b da un fenomeno della classe b^ o di una di un certo altro numero determinato di classi, ecc.; che cosi è stato sempre in tutti i casi deiresperienza pas- sata, 0 almeno in tutti quelli che abbiamo potuto cono- scere; che per conseguenza noi ci attendiamo che anche cosi sarà per Tavvenire e siamo certi che è stato nei ca- si del passato che non abbiamo potuto conoscere; che anche quando non si sa quale sia il fenomeno da cui un fenomeno dato è stato o sarà preceduto, noi siamo sicu- ri almeno clic esso è stato o sarà tale, che la sequenza tra i due fenomeni sia conforme alla sequenza tipica, o ad una delle sequenze tipiche, di cui Faltro fenomeno suo- le essere il termine conseguente. Non vi lia altro in tutto ciò che delle rappresentazioni di sequenze di fenomeni e di somiglianze tra queste sequenze. Come dunque Tidea deireffetto può contenere Tidea che esso è preceduto da una causa? la rappresentazione del fenomeno a contiene forse la rappresentazione del fenomeno a^ o di un altro fenomeno qualsiasi come suo antecedente? e quelle inol- tre delle altre sequenze simili a cui questa sequenza par- ticolare si conforma, e delle somiglianze fra tutte queste sequenze ? quale analisi potrebbe trovare nelFidea del pri- mo fenomeno le idee di tutti questi altri fenomeni con quelle delle loro relazioni? Tutte le nostre proposizioni non esprimono che dei raj>porti tra fenomeni, e la rappresentazione d'un fenomeno non contiene mai, né espli- citamente né implicitamente, la rappresentazione delPaltro fenomeno o degli altri fenomeni con cui esso è messo in rapporto, né quella del rapporto stesso o dei rapporti che vengono stabiliti tra questi fenomeni. Nel caso stesso in cui le cose espresse dai termini che si trovano in una proposizione, sono contenute Tuna nell'altra, nemmeno al- lora la relazione fra le rappresentazioni concrete che co> stituiscono il senso reale della proposizione, è veramente quella di contenente e contenuto. Quando diciamo: «Que- sta casa ha il tetto», il giudizio non mette in rapporto la rappresentazione di un tutto e quella di una parte, non afferma che la seconda si contiene nella prima. Questa proposizione, evidentemente, non è analitica, ma sintetica: essa esprime un giudizio di coesistenza, il quale afferma che una parte, cioè il tetto, coesiste con le altre parti, in quei rapporti di posizione reciproca che noi sogliamo os- servare nelle case (1). (1) In verità la proposiziono potrel)])(; onclic avere un altro senso, e per <{uest' altra interpretazione si avreb])e apparentemente più raijrione <ii dirla analitica. Come ogni altra pro[iosizione di perce- zione, essa iHiò signitìi.'are latTermazione del fatto reale che cade sorto la nostra percezione, ed è il senso che al)biamo dato; ma può anche esprimere la ricognizione o la classa/ione di ciò che noi percepiamo. In (luesto caso V uso autorizza la parola analisi. Avere analizzato l'oggetto di una percezione complessa, è averne ditTerenziato le parti le une dalle altre, e avere riconosciuto clie cosa fosse ciascuna di esso, cioè averla identilicata con la tal cosa determinata, o averla aggregata alla tal classe ]»articolare. Quanoi possiamo eseguire d'una manici-a sufìicionte (piesto lavoro d'in- terpretazione sui dati dei nostri sensi, noi diciamo di i)ercepire, p. e. di vedere o d'intendere, distintamente o chinramente. I con- cettualisti, dicendo che l'etTetto dell' analisi è di rendere le nostre idee più chiare e più distinte, non fanno dunque che dello meta- fore. tolte dai fenomeni della percezione: in realtà questa distin- zione e <iuesta chiarifù^aziono non ò che un processo di assimila- zione e di dirterenziazione. «I processi, dice il Bain. dell'assimila- Per })resentare ora sotto il suo aspetto più generale la nostra osservazione suirincompatibilità della dottrina col principio che noi non pensiamo che per rap- presentazioni concrete e particolari, basterà di far notare che la supposizione che, delle idee die unisce una propo- sizione, runa è contenuta nell'altra, suppone alla sua volta che (jueste idee, che la proposizione unisce, siano quella del soggetto e ({uella del predicato, e per conseguenza, la teoria delle idee astratte, perchè una di queste idee alme- no, cioè quella del predicato, non potrebbe essere che astrat- ta. Noi abbiamo visto nel capitolo 2^* che questa maniera di considerare il senso delle proposizioni non va al l'on- do della cosa, ma si ferma alla corteccia, (3 confonde le parole con le idee. I giudizi, come abbiamo ivi stabilito, affermano delle sequenze o delle coesistenze o delle so- miglianze o delle differenze tra cose o fenomeni. Noi pos- siamo cosi abbracciare tutti i giudizi possibili con questo scliema generale "A: B", in cui "A" e "B'' indicano delle cose o dei fatti particolari, e il segno «:» la relazione, cioè la se- quenza o la coesistenza o la somiglianza o ladifferenza.il giudizio non mette dunque in rapporto un soggetto e un ziono, della classificazione, della generalizzazione, dell'astrazione, della definizione, sono i diversi aspetti, i tliversi gradi di una sola operazione fondamentale. L'analisi non è essa stessa che un altro aspetto, un'altra faccia di questa oi^erazione, cosi variata nelle suo foi'me che Proteo stesso.» (Logira, tomo 2 Append. V). Di là si vedo che le verità matematiche essendo, comò dico il Gal- luppi, delle verità di rai)porto, cioè non alVermandosi altro per esse che dei r;q>ì>orti particolari di somiglianza o di diltoronzo, vi ha come un ]>roscn ti monto del vero nella dottrina che tutti.' lo verità neces- sario sono analitiche. Noi abbiamo visto in elTotli cIkì gli esempi tipici del liiudizio analitico, nel senso Kantiano, sono anch'essi dei giudizi comparativi, cioè sulla somiglianza o la dilferenza. torto del (ialluppi e degli altri sostenitori della dottrina analitica è— oltiv^ di non aver tracciato esattamente la linea <li divisione fra le verità necessarie e le contingenti— d'aver fatto del giudizio ana- litico il sinonimo di giudizio identico. K in questo senso, non biso- gna dinionticai'lo, che noi rigettiamo i giutlizi analitici. predicato, ma due termini die, essendo l'uno e 1 altro par- ticolari e concreti, dovrebbero piuttosto essere riguardati tutti e due come soggetti. Non essendovi dunque'^nel giu- dizio un soggetto e un predicato, tanto meno può esservi fra le idee che asso unisce, la relazione che suppone la dottrina analitica. Tuttavia, volendo conciliare in qualclie modo con la dottrina tradizionale i risultati, che un^esa- me sufficientemente profondo dà sul senso reale delle pro- 130sizioni, si potrebìje, nella nostra formula «A: B», con- siderare «Ax> come soggetto e *:B'> come predicato, ovve- ro «A» e «B» come soggetti entrambi, e come predicato semplicemente «:)^. Ma la rappresentazione di «A» e «B* non contiene quella di «:», e tanto meno la rappresenta- zione di (tA» quella di «:B'>; anche in ques^ipotesi, quin- di, la dottrina analitica è inapplicabile. Limix)ssibihtà di questa dottrina risulta duufpie chiaramente da una vedu- ta corretta sulla natura delle idee e sul significato reale delle proposizioni (1). § It). Come abbiamo mostrato nel paragi*al'o prece- dente, la dottrina analitica, che essa si applichi al giu- dizio o al ragionamentc» (2), è necessariamente legata alla dottrina dei concetti : è su di questa che si appoggia, e con essa deve cadere. Noi avremmo perciò ragione di sorprenderci come uno dei più geniali pensatori contem- (1) Ciò che al)l)iaino dettu e ci rcsUi a dire nel presente cai»itolo sulla dottrina analitica dei iriudizi a priori, deve essere comple- tato per ciò che dicemmo nel capitolo i su quella dei iriudizi ana- litici in ^^enerale. Sono specialmente applicabili anche alla prima dottrina le osservazioni fatte nei §. 12 e li. (2) Per rapplicazione della dotti'ina analitica al ragionamento, noi intendiamo, non ciò che nella nota al J5\ 6. abbiamo chiamato la (fottrina euialitica del rafjionaiucfito, ma la dottrina più irene- rale che, in un ragionamento, la conseguenza è contenuta nelle pre- messe, e cìie questo, quindi, è un'analisi: ciò che necessariamente devono ammettere tuiti (luelli die credono che il sillogismo sia uninferenza re(de. r. **^\ I 'iS poranei, il Taine, rigetti della maniera più categorica le idee astratte, e ammetta al tempo stesso in tutto il suo rigore la dottrina di Condillac (1) che il principio d'iden- tità e di contraddizione è il gran principio da cui deri- vano e devono farsi derivare tutte le conoscenze umane; che le verità formano una catena continua in cui non si passa dalFuna all'altra che in forza dell'identità; che una legge scientifica è una proposizione analitica, la quale ac- coppia due dati di cui il secondo è contenuto nel primo. Ma la sorpresa cessa, quando si riflette cJie, quantunque il Taine rigetti le idee astratte, egli ammette invece gli esseri astratti : essa non sparisce cosi sovra un punto che per ricomparire più forte sopra di un altro. Per una sin- golarità senza esempio nella storia della quistione degli universali, il Taine ammette delle entità generali, ma non riconosce che delle idee particolari. « Ciò che noi chia- miamo un'idea generale, una vista d'insieme, non è, dice il Taine, che un nome; non il semplice suono che vibra nell'aria e scuote il nostro orecchio, o l'insieme delle let- tere che anneriscono la carta e colpiscono i nostri occhi, nemmeno queste lettere percepite mentalmente, o questo suono mentalmente pronunziato, ma questo suono o queste lettere dotate, quando noi le percepiamo o le immaginia- mo;, d'una proprietà doppia, la proprietà di svegliare in noi le immagini degT individui che appartengono a una certa classe, e di questi individui solamente, e la pro- prietà di rinascere tutte le volte che un individuo di questa classe e solamente quando un individuo di questa classe si presenta alla nostra memoria o alla nostra esperienza ». (i) Condillac era lungi di avere una dottrina perfettamente coe- rente sul soggetto delle idee astratte. Egli dice p. e. nella Lingua dei aalcoli 1. 1. e. 4. che le idee astratte non sono che dei nomi gene- rali: ma che si legga, p. e., il cap. 8. (XdWArte di pensare; si vedrà che egli suppone che lo spirito abbia il potere di fare delle astra- zioni. l>IWl»'*»tl'IWJÌ!gì {Llntellhjenza.L V\ pag. :i5), (t Un nome che si compren- de é dun(iue un nome legato a tutti gii individui che noi passiamo percepire o innnaginare d' una certa classe e solamente agli individui di (juesta classe. A (juesto titolo esso corrisponde alla qualità comune e distintiva che co- stituisce la classe e clie la separa dalle altre, e corrispode solamente a questa (juaUtà; tutte le volte che questa è presente, (juello è presente; tutte le volte che questa è assente, quello è assente; quello è svegliato da (juesta e non ò svegliato che da essa. Di (juesta maniera esso è il suo rappresentante mentale, e si trova il sostituto d'una che ci è interdetta. Esso ci tiene luogo di que- sta esperienza, fa il suo ufficio, le equivale — Artificio am- iniraliile e spontaneo della nostra natura ! noi non r)Os- siamo percei)ire né mantenere isolate nel nostro spirito le (jualità generali, sorta di filoni preziosi che costituiscono Tessenza e fanno la classificazione delle cose, e tuttavia per uscire dalla grossa esperienza bruta, j)er comprendere r ordine e la struttura interiore del mondo, bisogna che noi le tiiàamo dalla loro ganga, e che le concepiamo a parte» (tomo P, pag. 30-37). Non bisogna credere che quando il Taine parla delle qualità generali come di altrettante realtà distinte, egli non faccia che delle semplici metafore : no, vi hanno et- fettivamente per lui delle cose generali, ed esse sono log- getto della conoscenza generale. « Vi hanno delle cose generali », cioè « delle cose comuni a molti casi o indi- vidui » (t. 2'\ pag. 232); in altri termini «vi Jianno dei caratteri comuni, di cui la presenza moltiplicata e ri])etuta lega fra loro i diversi individui della classe »; e « questi caratteri sono la i^orzione uniforme e fìssa dellesistenza (Uspersa e successiva » (t. 2« p. 230). « Non siamo noi che li creiamo per la comodità del nostro pensiero ; non sono dei semplici mezzi di classare, degli strumenti di nmemo- tecnia. Non solo essi esistono in fatto, fuori di noi, e spesso ben al di là della corta portata dei nostri sensi e delle nostre congetture ; ma ancora essi sono efficaci. Ciascuno di loro y per se stesso e per sé solo, ne trascina con sé un altro che è il suo compagno, il suo antecedente o il suo conseguente, e fa con esso una coppia che si chiama una legge » (pag. 237). Ciò che noi chiamiamo una legge generale, non è dunque per Taine che un accoppiamento di questi caratteri generali (t. 2« p. 293) : luno di questi caratteri ha per se stesso la proprietà di essere legato alFaltro ; « basta che esso esista, perchè Taltro sia il suo compagno >. « Dacché esso é dato, alcun'altra condizione non é richiesta ; le circostanze possono essere qualunque, ciò non importa. Che esso sia dato in tale o tale individuo, con tale o tal gruppo di altri caratteri, in tale o tal luogo o momento, ciò é indifferente ; la proprietà che esso ha non dipende né dalle circostanze né dalPindividuo né dal gruppo circostante degli altri caratteri, né dal luogo, né dal momento; preso a parte e in se stesso, isolato perlastrazione, estratto dai diversi ambienti in cui si trova, esso possiede questa proprietà. L] perciò che in qualunque ambiente venga trasportato, esso la conserva con sé. Se la ha sempre e da per tutto, é perché la ha da sé stesso e per sé solo; se la ha senza eccezione, é perché la ha senza condizio- ne. Se tutti i triangoli racchiudono una somma d'angoli uguale a due retti, é perché il trlam/olo astratto ha la proprietà di racchiudere una somma danwli uguale a due retti. Se tutti i pezzi di ferro sottoposti airumidità si ar- rugginiscono, é perchè il ferro, preso a parte, in se stesso,. e sottomesso airumidità, presa a parte, in se stessa, pos- siede la proprietà di arrugginirsi. Se la legge é univer- sale, é perché essa è astratta. Niente di sorprendente in questa costituzione delle cose. Non é più strano di trovare dei compagni, dei precursori e dei successori a un carat- tere generale, che di trovarne a un individuo particolare o a un avvenimento momentaneo. Senza dubbio nello sparpagliamento infinito e il flusso irrimediabile dell'essere, questa sorta di caratteri sono i soli elementi che siano da per tutto gli stessi e rinascano sempre gli stessi ; ma essi non esistono in fuori degF individui e degli avvenimenti, come voleva Platone (1), né in un mondo altro che il no- stro ; perchè essi sono i caratteri degli avvenimenti e de- gFindividui che compongono il nostro mondo. Come gFin- dividui e gli avvenimenti, essi sono delle forme deir esi- stenza, e non difteriscono dagF individui e dagli avveni- menti che perchè sono delle forme più stabilire più dif- fuse. A questo titolo noi dobbiamo attenderci a trovar loro pure dei contemporanei, dei precedenti, dei conse- guenti, delle particolarità, delle proprietà personali, e per riuscirvi, non si ha che ad osservarli per se stessi e a parte » (t. 2^ p. 300) (2). Tuttavia noi non abbiamo il potere di percepire o rappresentarci (Y una maniera qualunque queste cose o caratteri generaU (t. P parte 1'^ 1. 1« e. 2^ li). « Un^idea generale e astratta è un nome, niente altro che un no- me, il nome sirjnìjìeativo e compreso d'una serie di l'atti simili 0 d una classe d'individui simili » (t. 2^ pag. 241). « Ciò che noi abbiamo in noi stessi, quando pensiamo le qualità e carattari generali delle cose, sono dei segni, e niente altro che dei segni, io voglio dire certe immagini o risurrezioni di sensazioni visuali o acustiche, affatto si- mili alle altre immagini, salvo in ciò che esse sono cor- rispondenti ai caratteri e (jualità generali delle cose, e (1) Qui il Taine coiiii'ivnde IMatone alla maniera tradizionale, come se le Idee platoniclie fossero in im alfro mondo. Ma in realtà le cose o caratteri i^enerali del Taine non dilVeriscono dalle Idee di Platone: sì le une che le altre non sono che gli elementi astratti e generali del mondo sensibile (V. il Saggio seguente, parte 1., il cap. 7. e il Supplemento sulla immanenza delle Idee platoniche). (2) Per (jiiesto realismo del Taine vedi i luoghi di altre opero dello stesso autore, che noi citeremo nel 2. Saggio parte 1. cap. 7. rimpiazzano la percezione assente o impossibile di questi caratteri e quaUtà» (t. r pag. 71). « Il nome equivale alla vi- sta, esperienza o rappresentazione sensibile che non ab- biamo e che non possiamo avere del carattere astratto presente in tutti gF individui simih. Esso la rimpiazza e fa lo stesso ufficio. Cosi noi pensiamo i caratteri astratti delle cose mediante i nomi astratti che sono le nostre idee astratte, e la formazione delle nostre idee non è che la formazione dei nomi, che sono dei sostituti » (t. 2« p. 245). § IP. Non vi ha dunque, secondo il Taine, nel nostro pensiero altro che dei nomi, quando noi pensiamo le cose generali o i caratteri generali ; ed è un^ illusione di cre- dere che vi siano delle idee generali e astratte corri- spondenti ai nomi generali e astratti (v. t. P p. G(J-71). Noi abbiamo bisogno, per uscire dalla grossa esperienza bruta, di concepire a parte i caratteri generali o astratti delle cose : ma non vi riusciamo che sostituendo loro dei nomi, perchè la loro rappresentazione è impossibile, tutte le nostre rappresentazioni non essendo che immagini di cose particolari. Ma come il nome può essere un mezzo di concepire a parte una cosa, che noi non possiamo af- fatto rappresentarci a parte ? Come il nome può essere per noi il sostituto di una cosa, di cui non abbiamo e non possiamo avere Fidea ? Se i nomi rappresentano le cose, è perchè vi ha un legame fra i nomi e le idee delle cose per cui si suggeriscono reciprocamente, legame che, per dire le parole dello stesso Taine (t. 2^ p. 245), non è che « un' associazione d' un certo genere ». Come dunque il nome potrebbe rappresentare una cosa, con la cui idea esso non è associato, poiché, per ipotesi, quesf idea ci manca ? Noi possiamo, nei nostri ragionamenti, non avere per qualche tempo presenti nello spirito che dei nomi o dei segni, le idee delle cose stesse essendo per tutto que- sto tempo assenti dal nostro pensiero ; nondimeno noi ap- plichiamo alle cose stesse il risultato del nostro ragionamento, operando cosi sui segni come se operassimo sulle idee stesse delle cose. In questo caso può dirsi che il no- me è per noi il sostituto dell'idea o della cosa : ma se noi non avessimo il potere di sostituire a vicenda i nomi alle idee e le idee ai nomi, i nomi non sarebbero il sostituto niente, essi non sarebbero che dei puri suoni. Ma il nome, dirà il Taine, è un sostituto, precisamente perchè ci manca 1* idea ; perchè adempie nella nostra mente lo stesso utticio che ademi)irebbe T idea, se essa vi jxDtesse essere ; i)ercliè infine ci() che la cosa generale è nella realtà, il nome generale è nel nostro pensiero. È per que- sta corrispondenza fra la cosa generale o astratta e il no- me generaltì o astratto, che il nome è il sostituto della cosa ; ed è cosi che noi abbiamo delle conoscenze generali. Non vi ila altro nel nostro spirito che delle proposizioni generali ; ma per questa sostituzione o corrispondenza dei nomi alle cose, una proposizione generale è una conoscen- za generale, cioè una conoscenza delle cose generali. Di questa maniei*a noi veniamo a conoscere le cose generali, quantunque non ne abbiamo Tidea. Ma come jjossiamo noi aftèrmare che delle cose gene- rali corrispondono ai nomi generali, se non abbiamo af- fatto ridea di (jueste cose ? Si può affermare una cosa senza pensarla, o si può pensarla senz'averne Tidea? La contraddi- zione è talmente evidente, che noi non vi insisteremo di più, perchè la discussione non potrebbe renderla più chiara. S 12. La stessa contraddizione naturalmente si ripro- duce nella teorica del giudizio e del ragionamento. Lo sco- po del ragionamento, è, secondo il Taine, di dare la ra- [lione esplicativa, di trovare ciò che egli chiama Vinter- mediario esplicativo. Una proposizione esprimendo l'unio- ne di due dati, un soggetto e un attributo, vi ha un per- chè, una ragione esplicativa, dell'unione di questi due dati; ^ questa ragione o questo intermediario esplicativo è un terzo dato, i)er l'intromissione del quale i due dati della proposizione si trovano legati. Se Pietro è mortale, è per- chè egli è uomo, e ogni uomo è mortale ; se queste due rette tracciate su questa tabella e perpendicolari a una terza sono parallele, è perchè esse sono perpendicolari a una terza, e tutte le rette perpendicolari a una terza sono parallele. Uomo, nel primo caso, e rette peiyendicolari a una terza, nel secondo, sono gl'intermediari esi)licativi . « Nel caso degli oggetti individuali sottomessi a delle leggi conosciute, l' intermediario che lega ciascun oggetto alla proprietà enunciata, è un carattere incluso in esso, più astratto e più generale di esso, comune ad esso e ad altri analoghi, e il quale, trascinando per la sua presenza la proprietà cnunziata, la porta con sé in ciascuno degl' in- dividui a cui ^q\ì appartiene » (t. 2", p. 401). Se invece di spiegare un fatto particolare, si tratta di spiegare una legge generale, o, come dice il Taine, se si tratta, non più (U legare una proprietà a un oggetto individuale, ma di le- gare una proprietà a una cosa generale ( t. 2'*, pag. 401), la natura e il posto dell' intermediario esi^icativo non è differente. « Il primo dato della legge contiene l'interme- diario, che contiene il secondo. A un altro punto di vista il primo dato è più complesso dell' intermediario, che è più complesso del secondo. A un altro punto di vista ancora, il secondo dato è più astratto e più generale dell'intermediario, che è esso stesso più astrat- to e più generale del primo. Ciò posto, associamo i tre dati a due a due : noi avremo tre copf)ie di dati o leggi. Ogni pianeta è una massa; ora ogni massa tende ad av- vicinarsi alla massa centrale con cui è in rapporto; dun- que ogni pianeta tende ad avvicinarsi alla massa centrale con cui è in rapporto, cioè al sole. Di queste tre coppie, la prima associa il primo dato e V intermediario ; la se- sonda associa l'intermediario e il secondo dato; la terza associa il primo dato e il secondo, ed è la legge che bi- sognava dimostrare. Se pensiamo le tre coppie in quest'ordine, noi abbiamo tre proposizioni che loro corrispondono, e che si compongono di tre idee, associate a due a due, come le tre leggi si compongono di tre dati associati a due a due. Di queste tre idee, la prima, più comprensiva della se- conda, contiene la seconda, che, più comprensiva della ter- za, contiene la terza, e lo spirito passa dalla più compren- siva alla meno comprensiva per Tintromissione di quella di cui la comprensione è inedia * (t. 2^ p. 419). Cosi il ra- gionamento è un'analisi; e la dimostrazione di un teore- ma non è che un analisi, che decompone il primo dato (il triangolo, la sfera, l'ellissi, ecc.), per tirarne Tinterme- diario (t. 2'-' p. 421). L'intermediario esplicativo e dimo- strativo si trova cosi, analizzando i termini della definizio- ne; e Yanalisi in cui consiste la dimostrazione di un teo- rema, è l'analisi dei termini della definizione. «La de- finizione contiene il primo intermediario, che contiene il se- condo, che contiene il terzo, che contiene il quarto, ecc., che contiene la proprietà enunziata. È come una serie di cassettini rinchiusi l'uno dentro l'altro; il più largo é la definizione prima, e il più piccolo è Y ultimo attributo annoilo elio si rinvo dimostrare); ciascun cassettino più ^ruiuiu nu rcicjuiLiiiti uno più piccolo, e noi non possia- mo toccarne uno che dopo aver aperto 1' uno dopo F al- tro tutti quelU che lo racchiudono » ( tomo 2^ p. 425 ). Gli assiomi sono anch' essi dei teoremi, ma che noi ci dispensiamo di provare, sia percliè la dimostrazione ne é molto facile, sia perchè ne è molto difficile. Ma essi sono delle proposizioni analitiche, in cui il soggetto contiene l'at- tributo (t. 2^ p. 340); la loro dimostrazione, come quella degU altri teoremi, è un'anahsi, o una decomposizione dei loro dati; come gli altri teoremi, essi si dimostrano per la definizione prehminare dei termini (t. 2,^ lib. 4,^ e. 2,^^ §. 2, IV e sgg). Dimostrare una proposizione assiomatica è mettere in luce l'identità latente dei suoi dati (t. 2« p. 386); tutti gli assiomi non sono che dei casi o delle applicazioni del principio d'identità. È da questa sorgente unica, che si espande in una dozzina di rivi, che deri- vano le innumerevoli correnti e tutti i fiumi della scien- za (t. 2^' p. 429). Se il contrario degh assiomi e delle loro conseguenze non può essere creduto e nemmeno conce- pito, è perché esso è contraddittorio; è in questo senso che gli assiomi e le loro conseguenze sono delle verità necessarie (t. 2^* p. 38(i). Se le verità dette necessarie a- vessero la stessa origine che le verità d'esperienza, non vi sarebbe, almeno per noi, tra i fatti, alcun legame ne- cessario ed universale. Noi saremmo ca- paci solamente di conoscenze relative e limitate; ma sa- remmo incapaci di conoscenze assolute e senza limiti. «Per gli assiomi e le loro conseguenze, noi teniamo dei dati, che non solo s'accompagnano l'un l'altro, ma di cui l'uno racchiude l'altro. Se, come dice Mill, essi non faces- sero cli^ accompagnarsi, noi saremo obbligati di conclu- dere che forse non si accompagnano sempre; noi non ve- dremmo la necessità interiore della loro congiunzione; noi non la porremmo che in fatto; noi diremmo che, i due dati essendo per loro natura isolati, possono incontrarsi delle circostanze che li separino; noi non afìerineremmo la verità degli assiomi e delle loro conseguenze che ri- guardo al nostro mondo e al nostro spirito. Aia poiché al contrario i due dati sono tali che il primo racchiude il secondo, noi stabiliamo per ciò stesso la necessità della loro congiunzione: da per tutto ove sarà il primo esso porterà il secondo, poiché il secondo é una parte di esso, e non può separarsi da se stesso. j» (t. 2^ p. 392-393). § 13*^. Il cardine di tutta questa dottrina del Taine é la teoria della dimostrazione: il Taine adotta la forma particolare della dottrina concettualista del ragionamento, secondo la quale questa operazione del nostro spirito con- siste a vedere che un'idea é contenuta in un'altra, per l'intromissione d'una terza idea media, la quale contiene la prima ed è contenuta nella seconda. Tralasciamo Tin- sormontabile difficoltà inerente a questa dottrina per se stessa, come possa farsi che una verità la quale consiste in una nozione che fa parte di un'altra, non sia evidente per se stessa, 6 vi sia bisogno di comparare queste no- zioni con una terza, di cui si veda immediatamente che è una parte delluna e che laltra è una parte di essa (V. § iy\ nota). A questa inconcepibilità il Taine ne aggiunge un'altra che gli è propria : egli ammette la dottrina cori' ceitaalista, ma non ammette i concetti. « Di queste tre idee, egli dice, la prima, più comprensiva della seconda, con- tiene la seconda, che più coni presi va della terza, contiene la terza, e lo spirito passa dalla i)iù comprensiva alla me- no comprensiva per Fintromissione (U (juella la cui com- prensione é media». Ora che sono (jueste tre idee^ esse so- no dei soggetti e dei predicati. Un soggetto può essere un'idea concreta, ma un predicato è necessariamente una idea astratta. Di queste tre idee dunque, o due o tutte e tre sono delle idee astratte. Ma non vi lianno idee astratte, dice il Taine, non vi hanno che dei nomi. Come intende- remo (hmque questa identità parziale tra le idee, (questa contenenza delFuna nell'altra ? E evidente che questa teorica del ragionamento suppo- ne che il giudizio metta in rapporto due concetti, un sog- getto e un predicato : se il giudizio non mette in rapporto dei concetti, ma delle rappresentazioni particolari e con- crete, non potre]3be affatto dirsi che queste rappresenta- zioni sono luna parte dell'altra. Se il giudizio afferma le sequenze, le coesistenze, le somigianze tra i fenomeni, questi fenomeni che il giudizio mette in rapporto, non so no certamente l'uno parte dell'altro. Se dunque noi pen- siamo per rappresentazioni concrete e particolari, il sog- getto e il predicato sono gli elementi della proposizione, ma non sono gli elementi del giudizio. E delle idee con- tenute nel giudizio l'una non può essere una parte dell'altra; quindi nemmeno le idee contenute in un ragionamento si comprendono l'una nell'altra, e lo spirito non passa, nel ragionamento, dalla più comprensiva alla meno compren- per l'intromissione della media. Come dunque intenderemo il Taine, quando dice che delle tre idee, di cui consta il ragionamento, la prima con- tiene la seconda, e la seconda la terza ? che noi vediamo che la terza è contenuta nella prima, perché vediamo che (j[uesta terza è contenuta nella seconda, e questa seconda nella prima? Queste tre idee non sono che idee astratte, e le idee astratte non sono che nomi. Dunque il primo nome contiene il secondo, e questo il terzo i La voce Pie- tro contiene la voce uomo, e questa la voce mortale ?, Confesserà forse il Taine che è un'improprietà di dire che un'idea ne contiene un'altra, e questa una terza ; ma deve intendersi che questi rapporti di contenenza esistono, non fra le idee astratte, che noi non abbiamo, ma fra i dati astratti, a cui corrisponderebbero queste idee, se noi le avessimo. Nel ragionamento dunque noi non percepiamo successivamente l' identità parziale fra i termini o fra le idee ; non percepiamo che un termine astratto è contenuto in un altro termine astratto, o che un'idea astratta è con- tenuta in un'altra idea astratta : noi percepiamo l'identità parziale fra i dati astratti, cioè fra le entità astratte ; per- cepiamo immediatamente che la prima entità contiene la seconda entità, e questa la terza, e di là abbiamo la per- cezione mediata che la terza è contenuta nella prima. Ma se queste entità sono assenti dal nostro pensiero, perchè noi non possiamo niente rappresentarci di astratto, come intuire questa identità parziale fra di loro ? come conoscere che r una è contenuta nell' altra ? Se il ragionamento ò fondato suU' identità, la forza del ragionamento sarà la percezione dell' identità : ma noi non possiamo percepire identità alcuna né altro rapporto qualsiasi fra coso di cui non abbiamo percezione né rappresentazione alcuna. Per iji— a dir tutto in una parola, se questi dati astratti, cose gene- rali 0 caratteri o entità, non sono gli oggetti del nostro pensiero, tanto meno possono essere gli oggetti del nostro rarfonamento (1). (l) Le dimostrazioni che dà ii Taine dei primi principii sono fon- date su questa realizzazione delie astrazioni, ed esse non potreb- bero conservare alcuna pretesa ad essere delle dimostrazioni, se si ammette che noi non abbiamo idea di queste astrazioni. Tutte queste dimostrazioni sono foggiate sullo stesso tipo : noi ne daremo qualche esempio. Il Taine vuol dimostrare l'assioma: Se a quan- tità eguali si aggiungono (luantità eguali, le somme sono eguali.. Egli ]>remette una detìnizione dell' eguaglianza, secondo la quale eguaglianza numerica significa la presenza (la Tuapooaia plato- nica) dello stesso numero, mentre ineguaglianza significa la pre- senza di due numeri differenti. Siano dunque due quantità eguali a cui si aggiungono delle quantità eguali. « Secondo l'analisi pre- cedente, ciò significa che la prima collezione contiene un certa numero d'individui o d'unità, che le se ne aggiunge un certo nu- mero, che la seconda contiene lo stesso numero d'individui o d'u- nità che la prima, che le se ne aggiunge lo stesso numero che alla prima, che nei due casi lo stesso numero è aggiunto allo stesso numero, e che, pertanto, le due collezioni finali contengono lo stesso numero aggiunto allo stesso numero, cioè a dire lo stesso numero totale d'individui o d'unità, donde segue, secondo la definizione, che le due somme o grandezze finali sono delle grandezze eguali» (t. 2. 1. 4. e. 2. §. 2, IV). Se in questo ragionamento lo stesso numero vuol dire due numeri eguali, la dimostrazione pretesa non sarebbe che una semplice petizione di principio: la forza probante della dimostrazione suppone dunque che lo stesso numero sia un nu- mero astratto o ideale, uno in se stesso, ma presente in tutti i gruppi sensibili diversi che si dicono avere lo stesso numero. Ma se si ammette che noi non possiamo concepire quest'astrazione realiz- zata, la dimostrazione è impossibile; la sua nullità è provata dalle condizioni stesse del nostro pensiero. Veniamo ora alla dimostrazione dell'assioma, del quale il Taine fa tanto conto, che ogni verità o proposizione ha la sua ragione esplìcatlca. «Per ragione esplicativa s'intende uno o più caratteri del soggetto, inclusi in esso come un frammento in un tutto, più astratti e più generali di esso, e che essendo legati essi stessi al- l' attributo, legano 1' attributo al soggetto. Ciò viene a dire che l'attributo non è legato al soggetto stesso tutto intero, ma ad uno 1 1 «I § 14^. Il Taine è arrivato a questo risultato, che un si- stema di conoscenze reali può essere fondato sul semplice principio d' identità e di contraddizione, non tanto per la via psicologica, come Condillac e Galluppi, quanto per la "^- o più caratteri astratti e generali del soggetto ». Il princìpio del- l'induzione è secondo il Taine un corollario del principio della ra- gione esplicativa: il principio dell'induzione sarebbe che un ca- rattere generale indica sempre la presenza di un altro carattere generale a cui esso è legato. Questo principio si dimostra mediante il principio della ragione esplicativa, cosi: «Un carattere generale è un attributo, lo stesso in molti soggetti distinti. Ora secondo l'as- sioma (della ragione esplicativa) esso appartiene non direttamente a tale o tal altro soggetto distinto, ma indirettamente a tutti per l'intermediario di una porzione che loro è comune, e che a questo titolo è un carattere generale : dimodoché esso suppone la i)resenza di un altro carattere generale a cui appartiene; così la sua pre- senza basta per garantirci la presenza di quest'altro. Di i)iù ({u*^- st'altro a cui appartiene è generale, in altri termini esso gli appar- tiene in non importa qual soggetto, o ambiente, b luogo, o mo- mento; in altri termini ancora, la presenza di quest'altro bosta per trascinare e pertanto per garantirci la sua presenza ». Se dunque noi p»ossiamo generalizzare la nostra esperienza, se supponiamo sempre con ragione che vi ha un ordine uniforme nella natura, è perchè sappiamo che un carattere generale è sempre legato ad un altro carattere generale, e noi sappiamo questo in virtù del prin- cipio della ragione esplicativa. Ora che conosciamo l'importanza di questo principio, vediamo la sua dimostrazione. Un attributo è comune a piìi soggetti distinti, significa, dice il Taine, che esso è lo stesso in tutti questi soggetti distinti. Ma un soggetto distinto è una somma o riunione di caratteri che non si ritrovano tutti e rigorosamente gli stessi in alcun altro, per quanto simile si imma- gini. Questo parallelogrammo possiede almeno un carattere che gU è proprio, e lo distingue dagli altri parallelogrammi, il suo posto nello spazio. Se il soggetto è, non particolare, ma generale, il pa^ rallelogrammo in sé, esso avrà pure qualche caretterc proprio, che lo distinguerà dalle altre ligure simili. Se ora un attributo è comune ad un soggetto e ad altri soggetti distinti, cioè se è lo stesso in soggetti die non sono gli stessi, vi hanno tre ipotesi possibili, e tre ipotesi solamente. «O l'attributo appartiene direttamente alla somma dei carattei'i riuniti (di uno dei soggetti); o gli appartiene (al soggetto) indirettamente, sia appartenendo a questa porzione ontologica. Condillac e Galluppi, e con loro la maggior parte dei sostenitori della dottrina analitica, si tanno an- (juesta domanda : in che consiste Yevidenza di ra- (jlone Zea ciò rispondono : essa è fondata sul rapix)rto d'identità fra le idee. Ma il problema per Taine invece è anzitutto ontologico o metafisico : in che consiste, egli do- manda, il modo essenziale di produzione delle cose ? que- sto legame necessario, (luesf incatenamento reale delle cause e degli effetti, che Tesperienza non può mostrarci, non mostrandoci invece che delle semplici uniformità di della somma clie si compone «lei oaratteri assenti nell'altro sojx- f^^etto, sia appartenendo all'altra porzione. Ora le due i)rime ipo- tesi sono contraddittorie Infatti, danna parte, l'attributo non può appartenere alla porzione della somma clie si compone dei caratteri assenti nel secondo soggetto; i»oicliè allora non apparterrebbe af secondo soggetto, perdio questi caratteri vi mancano; ora, per detinizione, gli appartiene. D'altra parte l'attributo non può ap- ])artenere alla somma dei caratteri riuniti; perchè allora non ap- partcrrebl^e al secondo soggetto, poicliè questa riunione vi manca; ora. perdelìnizione, gli appattiene. Queste due sui>posizioni essendo escluse, non resta ciie la terza. Donde segue che l'attributo a])- partiene a (luesta porzione del nostro soggetto che si compone di caratteri presenti in esso e nel secondo soggetto, cioè a dire co- muni all'uno e all'altro, cioè a dire infine generali» (t. 2. 1. 4. e. 3. §. 3. HI). Questa è la dimostrazione. Ora perchè l'attributo non po- trey)be appartenere una volta alla somma dei caratteri riuniti del primo soggetto, e la seconda volta alla somma dei caratteri riu- niti <lel secondo soggetto? ovvero in un caso ai caratteri dirVeren- ziali del primo soggetto, e nell'altro caso ai caratteri differenziali del secondo soggetto ? Perchè si suppone che quest'attributo, come anclie ciascuno di questi caratteri, sia un attributo o un carattere astratto o ideale, uno in se stesso e per se stesso, quantunque dif- fuso in molti oggetti distinti. La forza della dimostrazione, qua- lunque essa sia, sta nella realizzazione di queste astrazioni: se si ammette che queste astrazioni realizzate sono inconcepibili, non vi ha più dimostrazione. Così le due dottrine del Taine, che non vi hanno idee astratte, e che la prova di una verità è \\t\ analisi, sono incompatibili; e la delle idee astratte porta logicamente con sé la sop- pressione di ogni forma della dottrina analitica. sequenze tra i fenomeni ì Quest'incatenamento, questo le- game necessario, risponde il Taine, non è che Tincatena- mento e il legame fra i principii e le conseguenze : lega- me e incatenamento che non esiste semplicemente nel pen- siero, ma nelle cose stesse, perchè le cose^, considerate nel- la loro vera realtà, sono delle entità astratte e generali, di cui ciascuna corrisponde a una pro|X)sizione generale, e che stanno fra di loro nel rapporto di principii e con- seguenze. La necessità delle cose non è dunque che una necessità logica ; il loro modo essenziale di produzione non è che lo sviluppo graduale delle conseguenze clie sono vir- tualmente contenute nel primo principio; e il loro inca- tenamento reale non ci è dato nella successione dei feno- meni, clie la scienza sperimentale chiama cause ed efletti, mentre non sono in realtà che degli antecedenti e dei con- seguenti invariabili, ma nella processione delle entità con- seguenze dalle entità principii, di cui il movimento del pen- siero che deduce le une dalle altre, è la riproduzione e la rap[)resentazione esatta. Cosi il sistema del Taine è un realismo, in cui le no- zioni astratte e i rapporti logici tra (jueste nozioni ven- gono obbietti vati, in modo che la connessione e lo svi- luppo delle nostre idee riproduca la connessione e lo svi- luf)po delle cose stesse, in altri termini, in modo che il legame logico tra i principi e le conseguenze sia iden- tico al legame ontologico tra le cause e gli effetti. Il Tai- ne non si è proposto il problema del perchè nella forma in cui se lo propone la metafìsica naturale dello spirito umano, e in cui se lo propongono, quindi, la più parte dei metafìsici: per questi, le vere cause e i r^eri effetti non difìèriscono dalle cause e dagli effetti nel senso fìsico o empirico, che perchè vi ha fra le une e gli altri un le- game intrinsecamente evidente e necessario. Ma per Tai- ne, come per Hegel, come per Spinoza, come per Platone (v. Saggio 2,^* parte 1,* cap. 7"), il rapporto fra la causa leffetto si confonde e s'identifica con quello Ira il prin- cipio e la conseguenza nel ragionamento deduttivo. È quest'identità fra i due rapporti che viene espressa nella proposizione di Spinoza: ordo et connexio idearumìdem est ac ordo et connexio rerum. (1). Il Taine la enuncia più chiaramente dicendo : che Tefìetto è contenuto nella causa e se ne deduce come una conseguenza dal suo principio (Storia della letteratura inglese, P V, c.^ V. § II, vn); che la causa di un fatto è la legge da cui si de- duce; e che la forza attiva è la necessità logica che lega il fatto derivato alla legge primitiva (I Jllosqfì classici, Prefazione). A questa intuizione ontologica corrisponde necessariamente la deduzione pura come metodo scien- tifico, perchè il principio non potrebbe assimilarsi alla causa e la conseguenza airefietto, se il primo non avesse sulla seconda un'anteriorità di natura, ciò che non sa- rebbe se esso non fosse che la generalizzazione induttiva di tutte le conseguenze che se ne possono dedurre ; e sic- come uno dei caratteri necessari delle filosofie costituite su questo tipo è, come mostreremo a suo luogo (Saggio 2,0 parte 1,* cap. 7^), l'unita sistematica, il Taine suppone, al vertice del sistema, un primo principio, immediato, as- siomatico, che è al tempo stesso, secondo il presupposto fondamentale della dottrina, il principio primo dell'essere e quello del conoscere. Ma posto ciò, si presenta la qui- stione : su qual rapporto tra le idee è fondata questa ne- cessità logica, questo passaggio dal principio alla conse- (1) Per lordine e la connessione delle idee deve intendersi Tin- catenamento dei pensieri (cioè delle proposizioni) in una scienza dimostrativa, e per Tordine e la connessione delle cose r incate- naniento delle cause e degli effeW (nel senso trascendente che queste parole lianno nella metafìsica spinozista). Naturalmente le co^e di cui parla Spinoza, non sono le cose fenomenali, cioè particolari, ma le astrazioni realizzate in cui queste, nel suo sistema, si ri- solvono. guenza? A ciò non vi ha che una risposta, quando non si vogliano abbandonare aftàtto i principii della logica comune, e crearsi, come fece Hegel, una logica a parte : questa necessità e questo passaggio si fondano sul prin- cipio d'identità e di contraddizione. Infatti la logica for- male (ed è semplicemente sul terreno della logica formale che può parlarsi di una necessità logica fondata sui rapp(orti intrinseci delle idee) non conosce altra deduzione, altro le- game necessario tra il principio e la conseguenza, altnecessità di ammettere una proposizione dopo averne am- messo qualche altra, che la necessità di essere conse- guente, di evitare la contraddizione, di non aftermare e- splicitamente nella conclusione se non ciò che si era im- plicitamente affermato nelle premesse. Cosi l'applicazione universale della dottrina analitica, in Taine, è un corol- lario, logicamente tirato, della dottrina metafisica che l'in- catenamento necessario del reale è un incatenamcnto lo- gico, o in altri termini, che il rapporto tra la causa e Tefìetto s'identifica con quello tra il principio e la conse- guenza: da questa segue che la deduzione è il solo pro- cesso per asquistare una conoscenza adequata delle cose, e di là che tutto il sistema delle conoscenze è fondato u- nicamente sui principii d'identità e di contraddizione § 15^ Facciamo attenzione a questa solidarietà fra le con- cezioni della metafisica. Il sistema del Taine é un'appli- cazione del principio metafisico di causa efficiente) ma quest'applicazione particolare suppone evidentemente la dottrina dei concetti, cioè un'altra idea d'origine egualmente metafìsica. Il Taine, é vero, per un'inconseguenza che noi abbiamo segnalata, nega l'esistenza dei concetti : ma essa è supposta, non solo, come abitiamo visto, dal suo realismo, ma dalle sue idee sul metodo scientifico, e dalla dottrina, che ne è il complemento necessario, che tutte le verità derivano dal principio l'identità e di contraddizione L'o- pinione che é possibile uno sviluppo della conoscenza fondato sul semplice legame logico delle idee e indifjeridente dallesperienza^ non é, come abbiamo mostrato e come il seguito di (juesto scritto mostrerà ancora più completa- mente, che un'illusione creata sovratutto dalla dottrina dei concetti. È questa dottrina che permette di supix)rre che vi hanno fra le nostre idee dei rapporti necessari deri- vanti dalla natura stessa di queste idee; che vi ha una necessitai logica fondata su (jucsti rapporti, e delle cono- scenze reali fondate su questa necessità logica; che il processo reale del ragionamento non é un'inferenza, Ijsaui sullanalogia, da fatti particolari dell' esperienza ad altri fatti particolari, in modo che la possibilità d'una de- (hizione senza un'induzione antecedente non sia che un semplice non senso; ma che questo processo consiste nella percezione di questa necessità logica, di questi rapporti necessari fra le nostre idee. K la dottrina dei concetti che non permette di vedere d'una maniera chiara quale sia l'operazione reale dello spirito, oltre che nella dedu- zione, nei giudizi analitici di Kant, nelle conoscenze im- mediate della matematica, ecc. Ma quando le nubi di cui questa teoria circonda le operazioni più semphci del pen- siero, sono state dissipate; quando noi abbiamo compreso che lo spirito non pensa se non per rappresentazioni con- crete e particolari, e che perciò il ragionamento non può essere che dal particolare al particolare, e ogni altra in- ferenza (imi)ropriamente chiamata con questo nome) non è che verbale e puramente apparente; quando noi abbiamo compreso clic non vi hanno dei rapporti logici necessari fra le idee, ma solo dei rapporti necessari tra le }30ssibi- lità di applicare certe forme verbali e (juelle di applicarne certe altre, se si vuol essere coerenti nell'impiego di questi simboli; allora diviene evidente che non vi ha alcuna ne- cessità logica che possa legare delle idee distinte (se per necessitai logica s'intende altra cosa, che un'inferenza fon- data suir esperienza e suU' analogia), e che la necessità logica non può imporci altra cosa che di essere coerenti nell'uso delle parole, di non negare per una forma ver- l)ale quello stesso che per altre forme verbali abbiamo già attermato. § 16.<* Ma, malgrado i misteri del concettualismo, questa verità che la necessità logica non consiste che nella iden- tità delle idee, è di una tale evidenza, che essa ha co- stretto a confessarla gli stessi sostenitori della dottrina che vi ha una conoscenza reale fondata sulla semplice necessità logica, e a cadere per conseguenza, d'una ma- niera o di un'altra, in una flagrante contraddizione. Lo stesso Hegel ha dovuto ammettere che non vi ha passag- gio logico dove non vi ha identità fra le idee; ma siccome si passa (se l'inferenza è reale) non dalla stessa idea alla stessa idea (perchè in questo caso si starebbe fermi, e non vi sarebbe passaggio di sorta), ma da un'idea ad un'altra idea differente (alla idea contraria secondo Hegel); cosi Hegel ammette esplicitamente che ciò che è identico é al tempo stesso non identico, e che ciò che non è iden- tico é al tempo stesso identico; che vi ha identità fra l'es- sere e il non essere e fra tutti i contrari; che la contrad- (Hzione è la legge fondamentale del pensiero e delle cose. Non si vuol ammettere l'aperta contraddizione di Hegel ? ma la contraddizione stessa riapparisce sotto un'altra for- ma, perchè, se si ammette che il passaggio logico è fondato, non sovra un rapporto che è al tempo stesso identità e non identità, ma sulla identità pura e semplice, si affer- ma con ciò che questo passaggio è dallo stesso allo stesso, che l'idea a cui si è arrivato è identica all'idea da cui si è partito. Ora siccome oltre a ciò si ammette pure che una nuova conoscenza è stata prodotta da questo pas- saggio, e che il pensiero non si è limitato a ripetersi, si afferma pure per ciò stesso che questo passaggio non è dallo stesso allo stesso, e che l' idea a cui si è arrivato non è identica all' idea da cui si è partito. E cosi Siamo di nuovo in faccia alla tesi di Hegel, che le idee sono al tempo stesso identiche e non identiclie, e che la contraddizione è la legge del pensiero. E se i »rap- porti delle idee non sono, come vuole il Taine, che i rap- porti stessi delle cose; se al passaggio logico da un^idea ad un altra corrisponde il passaggio dell'essere da uno ad un altro grado del suo sviluppo; allora bisognerà dire an- che questi gradi sono al tempo stesso identici e non identici, che Tessere, sviluppandosi, resta lo stesso e non resta lo stesso, e che la contraddizione è la legge, non del pensiero, ma anche delle cose. Hegel compren- dendo che in un sistema di questo genere la contraddi- zione è inevitabile, pensò di trarne profìtto per il suo me- todo di dedurre le idee, e la elev(j a legge fondamentale essere. La dottrina hegeliana della identità dei contra- ri non è che la supposizione che vi ha un passaggio lo- gico necessario da un uiea all'idea contraria. Questa sup- posizione, quantunque sia in se stessa assurda, nel senso in cui la intende Hegel (cioè che ponendo la realtà d'una idea, noi siamo perciò logicamente necessitati a porre la realtà dell'idea contraria), ha nondimeno un'aria di veri- tà, in quanto in realtà le nozioni contrarie si suppongo- no e si richiamano vicendevolmente, ed una è, come di- cevano gli antichi fìlosofi, la conoscenza dei contrari— fat- to che è stato formulato dal Bain sotto il nome di legqe della relaiirità^.Uegel travisando questo fatto psicologi- co, ammise che l'esistenza d'un contrario suppone logica- mente quella dell'altro, e quindi, ogni rapporto logico ne- cessario non potendo essere fondato che sull'identità, che i contrari sono identici. Certo il paradosso di Hegel, in questa forma generale, non è una conseguenza necessa- ria del principio da cui egli è partito, cioè che la neces- sità che incatena le cose è una necessità logica: ma quan- do si parte da questo principio, si deve arrivare d'una maniera o d'un'altra alla identificazione dei contrari— Piatone confessava che, nel sistema delle Idee, Yiino è molti e i molti sono uno (v. specialmente Filebo 14 C e segg.;, e delle contraddizioni analoghe i critici di Spinoza (1) hanno mostratto nel sistema di questo filosofo— .Identificazione dei contrari, che è una forma dell'incongruenza virtual- mente contenuta nel principio più generale, che è il pre- supposto della dottrina analitica, cioè che ogni necessità del pensiero è una necessità logica; questo principio, sic- come la necessità logica non consiste, come abbiamo det- to, che nella identità delle idee, avendo per conseguenza inevitabile d'identificare ciò che non è identico. §. 17^ Il confronto di Hegel e di Taine ci suggerisce naturalmente una riflessione sull'inanità radicale di qual- siasi processo per acquistare la conoscenza a priori: per- chè se si suppongono, come Hegel, dei metodi nuovi, che la logica non conosce, si arriva al rovesciamento più evi- dente delle leggi dell'inteUigenza; ma se si vuole non al- lontanarsi dai processi conosciuti che la logica ammette, si attende da questi processi un risultato che è impossi- bile che essi diano. Esaminiamo infatti il sistema abboz- zato dal Taine alla semplice stregua di questo principio, che ogni deduzione dal generale (considerato come stret- tamente generale) al particolare non è che apparente, e che la deduzione reale è sempre dal particolare al parti- colare. Il Taine immagina una verità suprema, una verità assiomatica, dalla quale tutte le verità più o meno gene- rali, che si chiamano leggi della natura— considerandole come delle semphci nozioni astratte, ma che il Taine con- sidera invece come gli elementi ultimi delle cose, come i fili di cui la realtà sensibile è tessuta— discendono gradual- mente per una deduzione progressiva, che va sempre da (1) P. e. Bayle. V. Dizionario storico e critico, art. Spinoza, no- ta N, §. ni. una verità più generale a una verità più particolare. Ora cosa diventano queste verità generali, cosa diventa que- st'assioma supremo, una volta che si riconosce che Tinfe- renza reale é sempre dal particolare al particolare ? Essi non diventano che Tespressione sommaria di un certo nu- mero di verità particolari preconosciute, che ci servono di fondamento per inferirne altre verità particolari, basan- doci sull'analogia di queste ultime con le prime. Che re- sta dunque di questo legame necessario die riattacca i fatti alle leggi, e le leggi più particolari alle più generali, ed è lo stesso legame invincibile delle cose e la loro pro- duzione spontanea? (v. Storia della letteratura inglese, 1^ V, G^^ V, § li, vu) di questa necessità logica, che incatenan- do i i)rincipii alle conseguenze, «conficca nel cuore delle cose stesse le tanaglie d' acciaio della necessità » ? (iljìd.) di questa gerarchia di fornmle che discendono le une dalle altre come gli effetti dalle loro cause, e tutte infine dalla «indifferente, l'immobile, leterna, Tonnipossente, la crea- trice», cioè la legge suprema, generatrice delle altre leg- gi, da cui «derivano, per dei canah distinti e ramificati, il torrente eterno degli avvenimenti e il mare infinito del- le cose»? (V. I filosofi classici, cap. XIV). E lo stesso or- dine di riflessioni si applica pure, non solo a Platone, a Spinoza e a tutti gli altri filosofi che obbiettivano il rap- porto logico fra il principio e la conseguenza, e ne fanno la legge stessa che governa lo sviluppo dell'essere, ma anche a quelli che, senza realizzare i rapporti logici, e perciò pure i termini di questi rapporti, cioè le nozioni e generali, pretendono anch'essi di dedurre, cioè di dimostrare a priori, certe verità di fatto, p. e. la legge di causalità o i principii della meccanica, o qualche altra pretesa verità che oltrepassa l'esperienza e i fenomeni. Come questa deduzione potrebbe essere altra cosa che un sofisma o una petizione di principio, se la sola dedu- zione^ che la logica conosce non é che im'inferenza apparente, se una deduzione senza un'induzione antecedente è un sempUce non senso, e l'inferenza reale è sempre dal particolare al particolare, e non ha altra base che l'ana- logia ? §. 18. *' Lo stesso principio, che l'inferenza è sempre dal particolare al particolare, e consiste nell'assimilazione casi nuovi ai casi dell'esperienza passata, se esso vie- ne applicato agli assiomi, distrugge il fondamento prin- cipale della dottrina analitica. Questa dottrina non è an- zitutto che uno sviluppo del principio della psicologia ra- zionalista, secondo il quale le verità che attualmente ci sembrano evidenti per se stesse, e nelle quali lo spirito passa, d'una maniera pressoché assolutamente irresisti- bile, da certe idee ad altre, sono delle necessità primor- diali del pensiero, delle intuizioni dirette e immediate della ragione. Sia l'assioma matematico: Due quantità eguali ad una terza sono eguali fra loro ; o piuttosto — per la- sciare indeciso se la pretesa intuizione diretta della ra- gione sia la verità astratta espressa nell'assioma, o l'in- ferenza che si fa nel caso particolare conformemente alla regola dell'assioma — sia questa inferenza : A = B e H = C, dunque A = C, . queste lettere potendo rappresentare sia le grandezze in astratto, sia le grandezze determinate di cui è quistione in un caso particolare. La psicologia ra- zionalista, dicendo che la verità che noi riconosciamo per questa inferenza è un'intuizione diretta e immediata della ragione, non vuol dire già che noi abbiamo attualmente la percezione dell'eguagUanza fra A e C, come l'abbiamo quando riconosciamo l'eguaglianza fra due grandezze per il loro confronto immediato, p. e. perchè le vediamo coin- cidere; poiché se avessimo la percezione attuale dell'egua- glianza fra A e C, la mediazione di B sarebbe inutile, e noi avremmo, non un'inferenza, ma una conoscenza immediaEssa non vuol dire dunque se non che la riconoscenza del rap]X)rto d'eguaglianza inferito è naturalmente e necessariamente legata alla conoscenza dei due rapporti di eguaglianza dati; che questo legame è, non un'acquisizio- ne deirintelligenza dovuta alFesperienza anteriore, ma una necessità primitiva e irriduttibile del pensiero. Ora è evi- *dente che la dottrina dell' esperienza può rendere conto della formazione di questo legame, e che perciò l'ipotesi una necessità irriduttibile e inesplicabile del pensiero è una ipotesi superflua e antiscientifica. Ma si pretende che r esperienza non ha potuto formare questo legame, perchè esso è necessario, e deve esistere anteriormente al- Fesperienza. Ora quest'affermazione può essa appoggiarsi su prove di fatto ? si è data mai la prova di fatto che questo passaggio immediato dello spirito dai due rapporti d'eguaglianza dati a (juello inferito ha esistito prima che il nostro spirito avesse acquistato l' abitudine di passare dai primi al secondo, per averli sperimentato più volte in congiunzione ? Questa prova non ò stata mai data, né sembra di tale natura da poter essere mai data: l'affer- mazione dunque in quistione, cioè che si tratti di una ne- cessità naturale e primitiva del pensiero, é una di quelle anticipazioni dell'esperienza, che si ammettono senza prova, come se fossero delle verità evidenti per se stesse. Noi vedremo nel secondo Saggio che è su queste anticipazi<)- ni dell' esperienza, a cui, adottando un termine di Stuart- Mill, noi daremo il nome di sofismi a priori, che è fondata la metafìsica, e chiameremo quella di cui parliamo il so- fisma a priori della psicologia razionalista, o più gene-, intuizionista (1). Questo sofisma^ che è quello a (1) Per psicologia razionalista noi intendiamo quella che ammette i legami necessari e pressoché necessari tra le nostre idee sono anteriori alFesperienza. Ma quando tali legami sono, non tra certe idee e certe altre, ma tra certe sensazioni e certe idee— ciò che avviene p. e. nella localizzazione delle sensazioni o nella loro obbiettivazione— la dottrina che ammette che essi sono anteriori all'esperienza, non potrebbe con proprietà chiamarsi razionalista, CUI abbiamo accennato nel § 3<> del capitolo precedente nella sua forma generale non è che la tendenza, innata al nostro spirito, ad uni versaUzzare della maniera più as- soluta 1 dati della nostra esperienza più famihare; e nella sua applicazione psicologica - cioè quale sofisma a priori della psicologia intuizionista-- ima formularsi cosi- I le- gami attuali fra le nostre idee, o fra le nostre sensazioni e le nostre idee, di cui l'origine empirica non è eviden- te, perchè sono dovuti a un'inferenza automatica o inco- sciente — cioè le cui premesse sono assenti dalla co- scienza - e ci sembrano portare in se stessi la prova della loro validità obbietttiva, noi siamo portati a ere- dere che lianno sempre esistito, e non possono non esi- stere, nel nostro spirito e in quello di tutti gli uomini La dottrina analitica è dunque anzitutto uno sviluppo ulteriore di questo sofisma a priori. La psicologia razio- nalista comincia per supporre che vi Iianno delle neces- sita primordiali del pensiero, senza cercare di darsi ra^ gione di queste necessità. Ma il diletto assoluto di va- lore scientifico di (luesta ipotesi non le permette di man- tenersi lungamente senza subire una trasformazione • la trasformazione è che si rende ragione di queste necessità del pensiero, riducendole a una necessità logica ; e sic- come non si conosce altra necessità logica (derivante dai rapporti stessi delle idee e indipendente dall'esperienza) che quella fondata sui principii d'identità e di contraddi- zione, é per questi principii che si cercano di spiegare le pretese necessità del pensiero delia psicologia razionali- perche nessuno riguarderebbe i fatti di cui si tratta come delle operaziom della ragione. Per indicare dunque nella sua generalità la teoria psicologica che, rigettando la spiegazione empirista dà come originarie allo spirito delle conoscenze o pretese conoscenze in realta avventizie ed acquisite, il termine razionalista non ci sem- bra adatto: noi impiegheremo perciò, prendendolo dai filosofi in- glesi, quello di intuizionista. sta (lì. La dottrina analitica, in quanto concerne gli as- siomi, si basa dunque sul rigetto di questo principio lon- damcntale della teoria deir esperienza, che ogn^inlerenza è dal particolare al particolare, in virtù deir analogia tra il noto e rignoto. Ma se si comprende che (luesto i)rin- cipio è applicabile anche agli assiomi ; se si comi)rende che di antecedenti logici della conclusione A = C non som/già A=:B e H=:C per se stessi, ma sono le osserva- zioni dcir esperienza passata, che ci hanno mostrato Te- o-uaulianza Ira due grandezze legata con Teguaglianza fra ciasemia di ([ueste grandezze e una terza grandezza; non sarà più ix)ssibile di ammettere che la conoscenza del- l'assioma riposa sulla semplice percezione di \\n legame logico Ira le idee che costituiscono Y assioma, (i si dovrà (l) KoiNe si vedrn una coiitraddizioiiL- in ciò che noi no.irhianio a'^li assiomi -enorali sulle egun-lianze il carattei'e dì necessità del pensiero mentre riconosciamo in essi (luello di verità strettamente ncrc<<arle. Ma si deve riliettere die il carattere di necessita elio noi riconosciomo ad una verità matematica, (inondo questa e d m- ferenza e non intuitiva, cioè immediatamente conosciuta, non con- siste in ciò che nel nostro spirito le idee che costituiscono <piesta verità siano nere s^^aria mente legate, perchè è evidente clie non e cosi e che prima di aver acquistato la conoscenza di un teorema geometrico noi potevamo immagintux' che il contrario della pro- posizione fosse vero, e non la proposizione stessa. La necessita (h una verità matematica, che è oggetto <r inferenza, consiste seuì- plicemente in (piesto, che noi non i^ossiamo fare la supposizione, come lo possiamo semi»re per le verità della fisica, che le cose potrebbero essere in un altro modo di (luello in cui noi sappiamo che esse sono in realtà: è (piesta seconda specie di necessita, e non la prima, che appartiene agli assiomi matematici, m (luanto essi enunziano delle verità inferite . e non intuitivamente cono- sciute cioè percepite dall'osservazione diretta. Ricordiamo pure che per noi l'apriorità delle verità assiomatiche della matematica non e in contraddizione con la loro origine sperimentale, la prima consistendo unicamente in (luesta circostanza, die noi possiamo conoscere «lueste verità tanto per l'osservazione delle cose sti^sse, qujmlo per Tosservazione delle nostre idee delle cose. convenire che non basta il principio di contraddizione per condurci alla scoverta di questa verità fondamentale della matematica (I) §. 11)^^ Noi abbiamo incontrato pareccliie forme della dottrina analìtica: in alcune di queste si Taceva gran conto del sillogismo, e noi abbiamo visto il Gallupi)i ricor- rere ad esso per mostrare come il progresso reale del pensiero fosse possibile mercè il semplice principio del- ridentità. Ma Condillac rappresenta invece un'altra forma della dottrina analitica, quella che ripudia il sillogismo; anzi metodo analitico significò un tempo sovratutto Tesclu- sione del sillogismo dal metodo scientifico. Noi abbiamo detto che la dottrina analitica è uno sviluppo della psico- logia razionalista: la dottrina analitica di Condillac è uno sviluppo del razionalismo di Locke. Locke era un avver- sario del sillogismo (v. Saggio Jìlos, siili intenti, uni yììh, 4^, c*^ 17^): egli aveva compreso questa verità, che il sil- logismo non è un'inlerenza reale, e che gli antecedenti logici sono sempre delle verità particolari— dottrina che Stuart-Mill mise per la prima volta in tutta la sua luce —, senza però comprendere le ragioni, indicate dal Mill, che mostrano il vero valore e Futilità del sillogismo. Gli Ele- menti di Euclide sono stati sempre a ragione riguardati (U I^a dottrina analitica dei giudizi a ptioii non è solamente metaii^ica nel suo presui^posto, cioè che le verità così dette assio- matiche sono indipendenti dairesperienza, ma come tutte le altre ipotesi dei razionalisti per ispiegare lorigine dei giudizi a jnioii (intuizione razionale, identità delTessere e del pensiero, idealismo soggettivo di Kant, ecc), lo è anche negli elementi stessi che co- stituiscono la sua spiegazione. Questi sono: la teoria dei concetti, e il principio che le verità l'azionali si fondano sul legame logico del- le idee, principio che è esso stesso anzitutto un derivato della teoria dei concetti. Ora noi sappiamo la natura assolutamente metalisica di ([uesta teorii\ (v. e. 1. j^. 18). Al punto di vista psicologico, come all'ontologico, alTinfuorì della tilosolia deiresperienza, non vi ha che la metafìsica. come un modello di dimostrazione rigorosa; la menzione esplicita che fa Euclide degli assiomi, per giustificare cia- scun passo del ragionamento, è una precauzione utile, se non indispensabile, i)erchè, per quanto sia forte la nostra tendenza a legare certe idee, noi siamo in ciò tanto sog- getti a delle illusioni, che per essere sicuri che questi le- gami hanno un fondamento logico, noi dobbiamo cono- scere a quali regole generali ci conformiamo nei passag- gi del nostro pensiero. L'assioma rappresenta il vero an- tecedente logico, se non Y antecedente psicologico, della nuova verità che noi stabiliamo a ciascun passo della di- mostrazione, e rincatenamento logico della dimostrazione è adequatamente espresso per un seguito di sillogismi, precisamente perchè le premesse maggiori di ciascun sil- logismo, cioè gli assiomi, occupano il posto degli antece- denti logici reali di ciascun'inferenza, che sono le espe- rienze passate di cui Tassioma è la generalizzazione in- duttiva. Ma se non si ammette che, in ciascun passo che fa la dimostrazione, Tinferenza sia fondata sull'esperienza passata, che l'assioma compendia in una formula gene- rale; allora il processo sillogistico deve necessariamente considerarsi come qualche cosa d'artificiale, a cui niente non corrisponde nel vero incatenamento logico delle co- noscenze. Ora Locke non ammetteva che l'applicazione d'un assioma fosse un'inferenza fondata sull'esperienza passata, da cui l'assioma è stato tirato per un'induzione : da questo punto di vista il processo sillogistico nella di- mostrazione doveva naturalmente sembrargli arbitrario, il sillogismo non potendo costituire un ragionamento reale, cioè un progresso nella conoscenza, se non congiunta- mente all' induzione antecedente da cui è stata data la premessa generale. Egli invece ammetteva che, p. e., nell'inferenza : « A = B, B =: C, dunque A := C », l'uni- co antecedente logico, che basta per se stesso a ren- der conto del progresso del pensiero che stabilisce il ter- sui LiMiTr E i/oggetto della conoscenza a priori 245 zo rapporto d'eguaglianza, siano i due ])rimi rapporti d'e- guaglianza senz' altro (v. Sar/gio filos. snirintencL um, lib. 4,^ e. VII, XII, ecc.'; che il lesrame fra le idee è un fatto naturale e necessario ; in altri termini, che si tratta, in questo come in tutti gli altri casi simili, di una ne- cessità primordiale e ìrriduttibile del pensiero. Vi era in ciò evidentemente l'azione del sofisma a priori della psi- cologia iataizionista, Condillac conservò la dottrina di Locke; se non che egli volle spiegare ciò che, secondo i principii di Locke, veniva ad essere una necessità ine- splicabile del pensiero ; ed ammise che le necessità del pensiero di LocivC si risolvono in una necessità logica, la quale non può essere che (juella di evitare la contrad- dizione. Ora notiamo la strana incoerenza di Condillac (strana, se la storia della metafisica non fosse piena di simili incoerenze): egli respingeva come Looke, e più e- nergicamente di Locke, l'inferenza mediata, cioè il sil- logismo, perchè non era un progresso reale del pensiero; ii)a al tempo stesso ammetteva che un'inferenza immedia- ta potesse essere un progresso reale del pensiero ! Perchè cosa è questo passaggio logico immediato da una propo- sizione ad un altra, giustificato dal principio dell'identità, se non ciò che la logica formale chiama wninfercìua im- mediata ? Ora se ò evidente che l'inferenza mediata, cioè il sillogismo, non è che un'inferenza apparente, ciò è più evidente ancora dell'inferenza immediata. Vi ha inferenza immediata, tutte le volte die si passa da una proposizione ad un'altra proposizione equipollente, cioè avente lo stesso .senso della prima, genere di transizione in cui i logici se- gnalano particolarmente certe specie, quali la conversione e la oboersione; ovvero tutte le volte che il passaggio consiste nella restrizione della estensione del soggetto, scambiando il segno della generalità in quello della par- ticolarità, p. e., quando dopo aver detto : Ogni uomo è mortale, si conclude: Qualche uomo è mortale. Condillac non avrebbe avuto senza dubbio diflìcoltà a convenire ciie simili inferenze non possono estendere la nostra co- noscenza: ma ciò non Fimpedisce di sostenere che lo svi- lupj30 della conoscenza consiste in un seguito di espres- sioni ditterenti delle stesse idee, e che il frivolo nel di- scorso consiste nella identità dei termini, ma non nella identità delle idee. Queste affermazioni di Condillac ci mostrano ciregli non poteva avere alcun'idea netta sulla distinzione tra un'inferenza reale e un'inferenza ai)parente: la stessa os- servazione noi dobbiamo estendere a tutti i sostenitori. della dottrina analitica. Gallui)pi ce ne dà un esempio colpente. Questo filosofo insegna che le proiX)sizioni c<juìr poUenti non lasciano di essere istrutiice. Fra queste due proposizioni: 11 sole illumina la terra, La terra è illumi- nata dal sole, egli vede la stessa relazione che fra due j)rof>osizioni enuncianti due modi diversi di formazione dello stesso numero. Il pensiero è lo stesso, egli dice, nelle due proposizioni, ma il modo della generazione del pen- siero é differente nella prima e nella seconda. Ora ciò è un'estensione della nostra conoscenza. La sostituzione di un'espressione ad un'altra equivalente o identica nel sen- so conduce perciò secondo iui alla scoverta della verità; e il principio logico per cui ci è permesso di passare da ima proposizione alla sua equipollente, come dalla prima alla seconda delle due proposizioni citate, egli lo chiama «un principio generale per trovare la verità ignota», «un principio luminoso che guida lo spirito indagatore alla scoverta del vero». (Sar/r/io Jìlos, t. 3'* par. i:], Ki). Il fon- damento e l'essenza della dottrina anaìitìca consiste nella confusione tra l'inferenza reale e l'inferenza puramente apparente o verbale. E infatti che cosa può essere una verità assiomatica, per questa dottrina, se non un'inferen- za immediata come quella da una proposizione ad un'al- tra equipollente? Questa confusione si vede anche, d'una maniera palpabile, nell<3 sforzo di dare le inferenze imme- per veri ragionamenti, cioè per sillogismi— il carat- tere distintivo dell'inferenza reale essendo, per la più i)ar- te dei logici, la necessità d'una proposizione media— .Wolf considerava la conseguenza immediata come un entime- ma: p. e. Ogni animale sente, dunque alcuni animali sen- tono. (Questo, egli dice, è un sillogismo, in cui si tralascia la minore: Alcuni animali sono animali (Logica^ e. 4", par. 20) (1) Il Galluppi applica un processo analogo, ma l)iù complicato, alle due proposizioni equipollenti di cui sopra: Il sole illumina la terra, dunque la terra è illumi- nata dal sole. Questa conseguenza è, dice il Galluppi, un entimema di un sillogismo ipotetico, in cui la premessa maggiore, che si sottintende, è: Se il sole illumina la ter- ra, la terra è illuminata dal sole. E questa proposizione ò alla sua volta la conclusione di un altro sillogismo, che è questo: Ammessa una proposizione, si deve ammettere la sua equipollente; ma le due proposizioni: il sole illumi- na la terra, la terra è illuminata dal sole, sono eciuipol- lenti; dunque se il sole illumina la terra, la terra è illu- minata dal sole. È impossibile di mostrare d'una manie- ra più sensibile la confusione sistematica, che i sosteni- tori della dottrina analitica fanno tra le inferenze appa- renti e le inferenze reali. ^. 20^. Mentre la dottrina analitica riduce le inferenze reali, che essa crede delle verità necessarie, alle inferen- ze apparenti ( fondate sul prhicipio d'identità ), noi ritro- (1) Ter nitro Woli* non lo, su «jiiosto imnto corno sii.uli altri, che continuare Leihnitz. Anche Leilmitz che, come sai>piamo, era pure un partiiiiano estremo del sillogismo, dà la forma sillo.i^istica alle inferenze immediate: cosi egli dimostra le roncersionc delle pro- posizioni per mezzo di silloijismi di (Uii uno premessa è una i>ro- posizione identica nei termini (O.s^ni A è A) -ciò die fa vedere, egli dice, rutiiità delle proposizioni identiche i>iù pure (cioè anche nei tennnii)-(V. N. S. MiirintcnrL urn. lil). ^. e. viaino una tendenza tutta opposta in alcuni filosofi con- temporanei, cioè a ridurre o assimilare certe inferenze ap- parenti a quelle inferenze reali che vengono ritenute del- le necessità primordiali del pensiero. Quantunque queste due dottrine sono in una certa guisa contrarie, tuttavia esse hanno un fondamento comune : è fassimilazione del-" le interenze reali e delle inferenze apparenti; solo, in un ca- so le prime sono ricondotte alle seconde, nell'altro caso le seconde alle prime. Ora questa seconda dottrina non è me- no della prima in contraddizione coi principii della teoria dell esperienza; perchè essa pure tende a stabilire che vi siano delle inferente reali, che non sono fondate suUespe- rienza e sulfinduzione. Benché gli autori in cui trovia- mo questa dottrina non ammettano sempre questo risul- tato di essa, e alcuni lo rigettino anche esplicitamente esso non ne sarebbe meno, secondo noi, una conseguen- za logica. Cosi, sia per (luesta ragione, sia per if rap- porto di (luesta dottrina con la dottrina analitica, non sembrerà inop[)ortuno di parlarne; noi crediamo anzi che sia un complemento naturale della discussione della dottrina analitica. Lo Spencer ò uno degli autori, in cui noi troviamo la tendenza di cui è quistione : e^li non riconosce nel sillo- gismo ( (piale lo considera la logica formale, cioè pren- dendo la premessa maggiore per una proposizione stret- tamentc generale, e non, come vuole Spencer, per una pro[K)sizione indicante una uniformità dell'esperienza pas- sata) il carattere d^inferenza reale ( v. Prineipii di psi-^ cokxjux, specialmente §. 300); ma non ammette che il sil- logismo sia la sola forma logica della deduzione, e que- sto carattere cFinferenza reale eh egli nega al sillogismo, lo riconosce nondimeno a deduzioni clf egli considera^estra- sillogistiche. Ora con ciò questo filosofo si mette neces- sariamente in contraddizione coi principii della dottrina delfesperienza, clfegli generalmente segue nella sua Psicologia. Non può esservi, secondo questi principii, una de- duzione che non sia fondata sopra un^induzione : ora se è cosi, se ogni deduzione suppone un'induzione, ogni de- duzione non può essere che un'inferenza apparente, e non reale, e di più non vi ha alcun vero ragionamento che sia estra-sillogistico, in quanto ogni ragionamento valido deve essere capace di passare per due fasi, di cui la se- conda è sempre un sillogismo, come la prima è sempre un'induzione. Ma invece secondo Spencer vi hanno del- le inferenze reali e necessarie che egli sembra conside- rare come indipendenti dalFinduzione (e perciò pure dal sillogismo); e vi hanno inoltre delle inferenze puramente apparenti clfegli considera come reali. § 2P. Nel primo caso si tratta degli assiomi matematici: Spencer sembra considerarli come delle intuizioni della ragione, indipendenti dairesporienza. Egli definisce il ra- gionamento rintuizione di un'eguaglianza o ineguaglianza, somiglianza o differenza, di rapporti. L'inferenza che noi facciamo in questo ragionamento : « La fermentazione della birra sviluppa dell'acido carbonico; dunque la fer- mentazione in questo tino di ])irra sviluppa dell'acido car- bonico », é un' assimilazione del rapporto tra i due fatti afìermato nella conclusione ai rapporti simili tra i fatti antecedentemente conosciuti, rapporti che sono riassunti nella premessa generale. Cosi, quando nella dimostrazione di un teorema geometrico s'invoca una proposizione an- tecedentemente dimostrata, vi lia l' intuizione dell' e^ua- glianza fra il rapporto attuale nel caso particolare su cui volge la dimostrazione, e il rapporto anteriormente dimo- strato nella proposizione invocata. Sin qui la teorica di Spencer non differisce essenzialmente dalla dottrina dei logici moderni, quale si trova in Mill o in Bain. Ma quando tratta invece di applicare, nella dimostrazione, non una proposizione anteriormente dimostrata, ma un assioma f>ulle eguaglianze o sulle ineguaglianze, l'intuizione non è più, secondo Spencci*, (juclla dell' eguaglianza o somi- glianza Ira il rapiX)rto stabilito nel caso particolare su volge la diiiiostrazione, e i rapporti analoghi antece- <lenteuiente consciuti, e che si trovano riassunti nella proj^KDsizione generale enunziante lassioma. «A=B, B— C, dunque \-C »: non vi lia qui, secondo Spencer, Tassi- niilazione del caso presente della dipendenza di eguaglian- ze che noi stabiliamo, ai casi analoghi anteriormente co- nosciuti della stessa diix;ndenza fra eguaglianze, sui (luali r assi(Mna è stato (ondato. 11 processo reale del ra- gionamento insomma non è: Tesperienza passata mi pre- senta (luesra uniformità, che io ho trovato che due gran- dezze eguali ad una terza sono sempre eguali ira di loro; dunque anche nel caso presente due grandezze eguali ad una terza S(^no eguali fra di loro. Invece (jui Y intui- zione è, secondo Spencer, ({uella deireguagianza ira i due rapporti d^eguaglianza A=H e B=^C; questi due rapporti (Ucguaglianza vengono riconosciuti, per un^intuizione di- retta dello si)irito, come eguali. « E siccome, dice Spencer, questi due rai)porti (reguaglianza hanno un termine co- mune, r intuizione che essi sono eguali imj^lica quella deireguaglianza fra i due termini restanti A e C » (S 280 e 28G) Sembra dunque che secondo Spencer Tapplicazione di un assioma matematico non sia un'inferenza sperimen- tale (1); e infatti egli la chiama un intuizione immediata (1) Io dico sembra y non lotendo l'isolvoniii od nttrilHiire catc- jzoricaineiite a Spencer unidoa che è in contraddizione coi prin- cipii della ì>sicologia associazionista e con la pi-oposizione tronera- le tanle voUe emessa dall' autore, che le verità necessarie sono anciiesse dei risaltati da!resi>erienza (v. Prìncipi di jìsicolooia ^, 1811, 430, 433, ecc). La teorica di Spencer sulle verità necessaire è, come si sa, un'ipotesi che pretende di conciliare le due teorie ri- vali suir origine di queste verità, Vaprioiista o intuizionista oAa empii ista, annnettendo che le conoscenze che la prima suppone dovute a necessit-i'i primordiali del pensiero, sono delle inferenze latenti dovute all'accumulazione oriranica delle esperienze avitiche (§ 282, 284), e nega che essa riposi sul ragionamento (v. p. e. § 287 fine). § 22.^* Lo Spencer neir assioma matematico indicato vede un caso speciale di una verità più generale, la più (v. J'iincipii (li psicoloiiia J* 208, 332, 430. 433, e Saufii di morale, di scienz-a e d'estetica, v. 3. Obbiezioni ai Primi principii e Hisi)oste, 8. e 9). È una forma della teoria empirista: ma siccome Spencer non si mantiene sempre fedele alla teoria, e ammette esplicitamente che vi hanno delle verità che non sono il risultato deiresperienza, sia individuale che ereditaria—tale è il pi*incii>io della pei-sistenza della forza coi suoi corollari (indisti'uttibilità della materia. leg}2:e della causalità, ecc.— v. questo Sagji:io cap. 9. nota ultima al ??. <>> -così non pare impossibile che (|uesto filosofo si allontani anche in altri casi dai i)rincipii che. in venerale, etili anuncttc in comu- ne con la lìlosofia deiresperienza, secondo i «juali oirni assioma matematico dovreb])e essere i^cr lui un'inferenza latente dovuta alle esperienze ereditarie. Nella {(iov\ex\ i\(i\ ragionatnento (/aanti- tatiro, in cui l'autore avrebbe avuto tante occasioni di alludere a (juesfipotesi suIForìgine degli assiomi, egli non lo fa mai. mentre al contrario vi allude in un altro caso, d'unimportanza insignifi- cante, d" inferenza matematica, che non è però assiomatica (Il caso è questo: Se A è dMilOO più piccolo che H, si ]ìuò concludere im- mediatamente che la metà di A è più grande cìie il terzo di B. K questa, secondo Spencer, una conclusione immediata, uif inferenza latente, la cui genesi si si>iega peiM'ipotesi dell'accumulazione ere- ditaria delle esperienze. Mi sembra strano, sia detto di passaggio, che lo Spencer alVermi di questa ì)roposizione matematica che « non si può citare ne un princi]ìio generale ne un'espei-ienza par- ticolare che servano di i)rincipio a questa conclusione», (juando l;i ])roposizione è facilmente dimostrabile, e si possono (juindi ci- tare ì principii generali da cui deriva, che non sono se non gli as- siomi generali sulle eguaglianze, su cui riposa tutta la matemati- ca). Ma non solo lo Spencer non fa la minima idlusione a questa ipotesi, di più egli emette delle asserzioni che sono inconciliahìH con (lualsiasi forma <lella teoria dell'esperienza. A ciò che è stnto citato nel testo, aggiungiamo questo tratto del .^j. 304: «Nessuna di (jueste verità (i due assiomi generali sulle egunalianzo) non è attinta jier un'intuizione esterna diretta; e nemmeno per delle espe- rienze successive di casi passati, in cui questa connessione di fatti avreì)be esistito, ciò che dovrebbe essere v>erlanto se quej4,i casi fossero di natura da ]>oter essere formulati in sillogismo ». E più generale che si possa conoscere per il ragionamento a rapporti congiunti (cioè in cui i rappoi^ti comparati, che vengono dati^ hanno un termine comune): egli formula quesfassioma generale di questa maniera : « Le cose che o-iù dice- 11 rairionamento doirhigegncro clic fi\ il suo ponto a tubo Tche ecrli adduce in esempio nel §. 277) non può esseiv messo m sillogismo « Né nella sua esperienza nù in (piella degli alln uomini, il nostro in-egnere non ha trovalo un sol caso che possa servire di base alla sua conclusione. Tuttavia egli arriva a questa conclu- sione per un atto mentale che si può analizzare quantun«iue sia complicato: egli riconosce in un caso particolare (piesta venta ge- nerale che dei rapporti che sono eguali ciascuno a dei rapponi che sono ineguali tra loro, sono essi stessi ineguali». Che questo principio sia una verità assiomatica, come crede Spencer, o sia unaproposizlone dimostrabile e <limoslrn(a, non può fare differenza; T)erchù se gli assiomi sono fondtiti sull'esperienza, vi hanno, tanto nelluna supposizione (pianto neìlaltra, neiresperienza «i casi clie servire di baso alla conclusione ». D'altronde se lappHcazione d'un assioma fosse, secondo Spen- cer un'inferenza latente dovuta allesperienza, perchè egli avrebbe ri-'orso per ispieirare «luest'inferenza, alla dottrina che essa con- siste nella percezione delleguaglianza fra i rapporti (reguaglianzji dati (A-1^ B-G), e che la percezione dell'eguaglianza di questi rapporti d'eguaglianza dati implica la riconoscenza del rapporto d'e-ua-lianza inferito? Questo non ù evidentemente che un arti- fizio per ricondurre le deduzioni della matcMuatica al tipo genende del ragionamento, che consiste, seccando Spencer, nel riconoscere la eguairlianza o somiglianza fra i rapporti. Ma se l'assioma fosse dovuto airesperienza, la conclusione che, se A=B e H-C, A sarà =C sarebbe ridentitìcazione, non dei rapporti A -B e B-G, ma della R'iazione fra i rapporti A-B. B-G e A-G in (piesto caso par- ticolare, con la relazione fra gli stessi rapporti nei casi (hd espe- rienza passata, i quali sono la vera premessa da cui si fa T infe- renza In altri termini, se l'applicazione di mi assioma nel ragio- namento motematico è fondata sull'esperienza passata, il ragio- namento in matematica è essenzialmente identico a (lualsiasi altro ra-ionamento, quello, p. e. per cui noi concludiamo che la fermen- tazione della birra di questo tino svilupperà dell'acido ciuiH.mro, perchè nell'esperienza passata la fermenfaziono della birra ha co- stantemente sviluppato dell'acido carlmnico. 1/ assiimlazione e sempre in qualsiasi forma particolare di ragionamento, un nssi- hanno un rapporto definito con la stessa, cosa hanno fra loro un rapporto definito » (§ 307, in nota). Altri casi di quest' assioma generale sono, secondo T autore, de- gli assiomi speciali che hanno per oggetto dei rapporti milazione del caso presente (o dei rapporti nel caso presente, come vuole Spencer) ai casi passati (o ai rapporti dei casi passati); e non vi ha ])isogno di alcun artifizio per dimostrare questa verità evidente, clie il tipo del ragionamento è sempre lo stesso. Si dirà : nel caso deirapplicazione degli assiomi l'inferenza non sarebbe che latente, e quindi non vi sarebbe quest'assimilazione cosciente dei casi presenti ai casi passati. Ma ciò non può fare differenza ; poiché se gli antecedenti logici reali d' un' inferenza che noi diciamo Tappllcazione d'un assioma, si trovano nell'espe- rienza, noi possiamo, richiamando questi casi, rifare apertamente e coscientemente l'inferenza che per il solito non è stata fatta che d'una maniera latente o incocciente. E lo stesso Spencer conviene ehe la cosa va cosi nella più parte dei nostri ragionamenti della vita ordinaria: l'inferenza non viene tirata che d'una maniera m- cosciente e, per dir cosi, orrjanica, ma noi possiamo ripetere sotto una forma cosciente la stessa inferenza, ed è allora, soltanto al- lora, che il ragionamento è una identificazione o assimilazione di rapporti. Quando estendendo un membro noi sentiamo una pres- sione, e ne concludiamo che vi ha davanti a noi qualche cosa di esteso, noi facciamo, dice Spencer, un' inferenza latente, fondata sull'esperienza dei casi passati. La circostanza che l' inferenza è latente, non impedisce lo Spencer di vedervi, come in un altro ca- so qualunque di deduzione, un' assimilazione fra il rapporto con- cluso e i rapporti anteriormente conosciuti. « Senza la ripetizione continua che ha portato queste conoscenze a uno stato che si può chiamare di conclusione orgcmica, si vedrebbe ch'esse hanno la stessa base che il ragionamento per cui noi concludiamo che un triangolo equiangolo deve essere equilatero, quando una volta noi abbiamo conosciuto questa coesistenza». «L'atto mentale impli- cato è un'intuizione dell'eguaglianza di due rapporti di tempo di- sgiunti ; l'uno è un rapporto generahzzato di coesistenza invaria- bile, appoggiato sopra un'infinità d'esperienze senza eccezione, e per conseguenza concepito come necessario, l'altro è un rapporto di coesistenza nel quale un termine non è percepito, ma è impli- cato dalla presenza del termine concomitante ». ( § 293 ). Ben più, secondo lo Spencer, in ogni caso di deduzione, il ragionamento primitivo e diretto è incosciente, e non vi ha di cosciente che il ■^WBBfeiz-'riSgrr:^^ di tempo, invece di rapjxjrti fra grandezze: tali sono: Delle cose che coesistono con la stessa cosa coesistono fra di loro; Se un avvenimento è prima o dopo di un altro, e questo prima o dopo di un terzo avvenimento, il i)ri- mo è prima o dopo del terzo. Le inferenze espresse in queste proposizioni sono cosi, secondo Spencer, delle in- ferenze reali, e le intuizioni che esse implicano, egli le considera come essenzialmente della stessa specie che quelle per cui noi conosciamo l'assioma matematico (i^ 293). Secondo noi, questi due pretesi assiomi non sono che delle proposizioni identiche. Un altro caso di questa ten- denza di Spencer a vedere una estensione reale della co- noscenza \k dove non vi ha che un passaggio permesso dal semplice principio d'identità, lo troviamo in certe sue idee sull'oggetto della logica. Vi hanno, secondo lui, delle cor- relazioni obbiettive necessarie, che formano la materia della scienza obbiettiva la più astratta di tutte: questa scien- za è la Iodica. La logica è una scienza obbiettiva: essa ragionamento secoiiddiMo e mediato, che serve a verificare il primo. È solo in <]uesto secondo stadio che noi compariamo il rapporto, i,Mà spontaneamente concluso nel primo, jxlla classe di rapporti a cui viene assimilato. Ma il primo stadio « è un atto semplice e spontaneo; perchè non risulta dal ricordo dei rapporti simili pre- cedentemente conosciuti, ma semplicemente dall'intluenza che, a desperienze passate, essi esercitano sull'associazione delh^ idee » (i«? 31)0). Concludiamo che se irli assiomi si si^iegassero, secondo Spenc(U% jjer la teoria deiresperienza, anche intesa, non nel senso ordinario, ma con la modificazione ch'eirli intende apportarvi, egli avrel)l)ti dovuto tenersi alla dottrina, semplice e chiara, dellempirismo or- dinario sul ragionamento, cioè che l'inferenza è sempre lassimi- lazioiK; o l'identificazione di un caso nuovo ai casi dell'esperienza jmssata (che (juesf assimilazione sia conscicnte o incosciente e puramente organica): qualsiasi altra dottrina, ditl'erentc da questa, se non si mette (»s]tlicitamcnte in contraddizione con la teoria del- l'esperienza, non si comprende almeno come possa accordarsi con es>n. non è, dice Spencer, una scienza delle leggi del pensiero; queste leggi di correlazioni necessarie che formula la lo- gica, sono delle necessità obbiettive, non delle necessità subbiettive. « Vi ha una distinzione difficile a compren- dere in ragione del suo carattere molto astratto, tra la scienza della logica e la spiegazione del processo del rar/ionamento ... Ecco questa distinzione in poche parole: La logica formula le leggi più generali d'una correlazione tra esistenze considerate come obbiettive; la spiegazione del processo del ragionamento formula le leggi pii^i gene- rali di correlazione tra le idee corrispondenti a queste esistenze. L'una studia nelle sue proposizioni certi legami affermati, i quali sono contenuti necessariamente in altri legami dati — questi legami essendo considerati come esi- stenti nel non me, sotto una forma qualunque, e indipen- dentemente dalla forma sotto la quale noi li conosciamo. L'altra studia il processo nel me, che conosce questi le- gami necessari » (§ 302). mostrare questo carattere obbiettivo dei rap})orti della logica, Spencer si appoggia Sjjecialmente sui siilo-- gismi numericamente definiti di Morgan : egli sviluppa lungamente dei sillogismi che sono delle applicazioni di questa formula : Se la più parte dei B sono C, e la più l)arte dei B sono A, dunque alcuni A sono C. Ma oltre questi sillogismi, che sono i soli, sembra, secondo Spen- cer, che formulano delle correlazioni obbiettive necessa- rie (1), vi hanno altre correlazioni di questa natura che (1) Noi diciamo che questi sillogismi sono i soli a cui Spencer fa esprimere dei rapporti obbiettivi necessari : ma l'esposizione d\ (luesto punto della sua dottrina non ci sembra avere tutta la net- tezza che si potrebbe desiderare, ed è difficile di essere sicuri <ii comi>rendere il vero i^ensiero dell' autore sul sillogismo Per pro- vare il carattere ol)biettivo delle necessità logiche, egli cita pure la lììju'china di lenons per fare sillogismi. «i'\ qui evidente, egli dice, che il rapporto dato nella conclusione è obbiettivo, e che essi non possono abbbracciare. Un esempio che dà T au- tore è « quello che è contenuto in questa veccliia arguzia: supponiamo che vi siano più persone in una città che capelli nella testa d\ma persona qualunque; devono esser- vi almeno due persone in questa città che abbiano nella testa lo stesso numero di capelU. » « Questo caso, conti- nua Spencer, oltre che ci mostra chiaramente resistenza di correlazioni obbiettive necessarie che, come abbiamo detto, formano la materia della scienza obbiettiva più astratta, ci la vedere pure che la logica, considerata co- me essente questa scienza, comprende molte cose che non possono essere racchiuse nelle forme logiche ordinarie » ( §. 305. ) questo rapporto obbiettivo era ncccssariaiiiente contenuto in que- sti aUri rapporti obbiettivi ohe costituiscono le premesse ». Ma se è cosi, se la conclusione è contenuta ne<*essarìamente nelle pre- messe, allora il « tutti » della premessa maggiore non significa più semplicemente «tutto ciò che è già conosciuto», come avviene, secondo Spencer, nella U^^duzione reale (v. § 299) -in altri termini, la i>remessa maggiore non è il semplice equivalente dei fatti par- ticolari dell' esperienza passata —, perchè in questa supposizione la conclusione non sarel)be coììtenuta necessariamente nelle pre- messe ; ma il « tutti » signilìca tutti i casi senza eccezione che sono compresi nella classe, senza escluderne il caso stesso della con- clusione. È allora soltanto che il rapporto obbiettivo atìermato nella conclusione é contenuto necessariamente nei rapporti obbiet-; tivi die costituiscono le premesse, e del resto è di questa maniera che i logici ordinariamente considerano il sillogismo. ^U\ nel sillgismo cosi considerato l'inferenza è, come Spencer sostiene con ragione contro Hamilton (§. 300), non reale, ma apparente. Se dun- que le conclusioni ottenute per la macchina di levons non sono che delle semplici inferenze apparenti, come potrebbero esse cor- rispondere a delle correlazioni ohbiettice ? Noi perciò abbiamo considerato ciò che Spencer dice a questo soggetto come detto semplicemente in grazia dell'argomento, e non valevole quindi a modificare l'interpretazione che noi abbiamo dato della sua dot- trina, attribuendogU l'opinione che fra i sillogismi i soli « numeri- camente definiti » esprimono delle correlazioni obbiettive neces- sarie. §. 23'^. Studiando questa parte della teorica del ragiona- mento di Spencer, e considerandola isolatamente, potreb- be sembrare di aver da fare forse con qualche discepolo di Hegel. Se le correlazioni della logica sono obbiettive, siccome la logica ( formale ) non concerne che le corre- lazioni fra le proposizioni, e le proposizioni sono genera- li, bisognerà dire che vi hanno delle entità generali, cor- rispondenti alle proposizioni generali, e le correlazioni ob- biettive della logica saranno le correlazioni di queste en- tità. Ma Spencer non la intende a questo modo, ed egli non è un dispepolo di Hegel; egli è sempUcemente un di- scepolo, nella sua teorica del ragionamento, di questa scuo- la di logici inglesi che noi possiamo chiamare formalisti, perchè il loro oggetto è precipuamente di sviluppare la logica formale, mentre la logica di Alili e di Bain è una logica tutta reale, che approfondisce la natura delle ope- razioni reali della ragione, e studia le condizioni gene- rali della validità di queste operazioni. Senza dubbio, nel- la sua teorica del ragionamento, lo Spencer non ha per oggetto di sostituire e di aggiungere, come fanno questi logici fornialisti, delle nuove formule a quelle della logi- ca tradizionale ; ma è evidente T influenza delle idee dei promotori di questa scuola su quelle di Spencer. Questa influenza io la riassumo in due punti : la confusione tra un' inferenza reale e un'inferenza apparente ; e le forme logiche ordinarie (induzione e sillogismo) considerate, non come il totale, ma come una semplice frazione, delle ope- razioni del ragionamento. Secondo Morgan, a cui (e ad Hamilton) si riattacca sovratutto questa scuola di logici formalisti, vi è una lo- gica generale, di cui la logica ordinaria non è che un caso particolare. Gli assiomi della matematica, come: A = B, B = C, dunque A = C, non sono riduttibili alle forme logiche ordinarie : la logica delle matematiche e la logica ordinaria sono due casi speciali e paralleli della logica geiiemle. I Ibiicìainenti del ragionamento (dedut- tivo) non sono i pi4ncii»ii d'identità, di contraddizione e del mezzo escluso : essi non giustificano i progi^ssi del pensiero. Il ragionamento è possibile per il carattere di iramitlciià appartenente alla copula (simtolo generale della relazione, che egli wkAq sostituito alle copula or- dinaria « è >), qualunciue sia il senso [^articolare ili essa. Il senso ddla copula può essere uno di questi: ò eguale a, è identico a, è legate» a, è il fratello di, si accorda con, ecc. E il carattere di transitività può esprimersi per (pie- sta proposizione : Se una cosa è in una relazione data con una seconda e una tei^a cosa,* queste due ultime so- no tra loro nella stessa relazione. (Soi ai )]jinmo già tro- vato in Spencer una variante di questa lònnula). Nella logica iòrmale la copula indica Videntìttk: ma la logica deìYidentità e quella àe\Veijua(jlian:^a non sono che due casi della logica generate della relazione. L'assioma del sillofiismo e l'assioma matematico sopraindicato (se A =: B e H — C, A =C), come anche l'assioma deirargomento a foj'tiijri.'souo delle lorme particolari di (piest assioma ge- nerale: La relazione di una illazione è una relazione comiX)sta delle due. Tutti (jucsti assiomi sono delle ne- cessità iJi^mitive e irriduttibili del nostro pensiero. Così il sillogismo non è fondato sui principii d'identità e di con- traddizione; ma esso non è che un caso della riduzione di due relazioni atl una sola, o della conìposizione delle re- lazioni (V. Liard Lo(jici ine/ lesi contemporanei, cap. 4^; (1). (l) Inlevans si riirovaiio, in uiraltra foriua, iieì prìiK-4iMÌ t^ssc^n- /ialmcntt' identici. L'unico processo del ragionamento è la sosti- tuzione dei simili. La logica generale procede per sostituzioni, Xkcrcliè, in ogni relazione, una cosa è oon un* altra cosa nello j=ftesso rapiM3ito in cui essa è con una cosa identica, simile o eqiiivalente a questa, e in un insieme noi possiamo rimi)iaz- zarc una parte per il suo equivalente senza alterare il tutto. 11 rnj2:ionamento matematico i» un caso di questa so.stituzione. A^-H: S 11 fondo di tutte queste affermazioni, in ciò che esse hanno, secondo noi, di erroneo, consiste in questi due punti : che delle conoscenze dovute all'esperienza vengono considerate come delle intuizioni primordiali della ragio- noi i>ossiamo sostituire, in ogni relazione, H ad A ed A a U. Se H— <:, sostituiamo A t\U ed abitiamo A=^(:. Così nelle argom.onta- zioni ordinarie noi possiamo sostituire un tennine ad un altro, (luado sappiamo che entrambi si riferiscono alle stesse identiche cose: p. e. La luna è il satellite della terrò: ora la luna è senza atmosfera e senza mari : duiKiue il satellite della terra è senza atmosfera e senza mari. Il sillogismo: è fondato sullo stesso i»ro- cesso di sostituzione. Sia p. e. il sillogismo: I metalli sono condut- tori deirelettricità ; il sodio è metallo; dunque il sodio è condut- tore deirelettricità. Chiamiamo Sodio A, Metallo li, e Conduttore delTeleltricità f\ Abbiamo A = A B, H --^ B C: nella prima identità a B sostituiamo il suo eipiivalente B C, abì:)iamo A ^^ A B C, o, rinij^iaz/ando i simboli per le parole : Sodio - metallo sodio : me- talli metalli conduttori deirelettricità: dunque sodioV= metallo sodio conduttore dell'elettricità (V. Liard Logìr/ infilasi e. (>, e levons Mannaie rll JjJdìca (Manuali ÌIocpUì e. 14). 11 sistema di levons è certamente molto ingegnoso, tanto \mi che io stesso ì>rincii>io della sostituzione può applicarsi alla sfu'e- gazioiKi del ragionamento per analogia. Tuttavia (juesto princ-ipio non potreì)l3e passare per una rigorosa generoliz/azione scientilica, perchè i fatti che si liuniscono in una unica formula generale non sono essenzialmente identici, ma dispaniti. Dei casi che si pn^sen- tano come paralleh, rieiitrtmo al contrario gli uìii negli altri : le sostituzioni in matematica non sono infatti flei casi distinti did sillogismo e dall' induzione e paralleli ad essi, poi-chù queste so- slitnzioni si fanno per l'applicazione degli assiomi, ({uindì mediante sillogismi le cui i)remesse maggiori sono delle induzioni. Inoltre i>ef le sostituzioni dei termini nella logica formale il pen- siero non fa alcun j^rogn^sst», e (jueste sostituzioni sf)no governate dal principio dell' identità : ma le sostituzioni in mjdematica co- stituiscono un vero pwgresso del ]*eni<iero, e sono fondate su delle leuii:i reali <ìei fenomeni, sulle induzioni ultime ìnt/)rno jdle corre- lazioni generali Irti le eguaglianze Boote ha pure fondato il sillogismo sul prìncii»io matematico della sostituzione. Egli sostiene che le leggi ultime della logira sono matematiche, che esse sono identiche con le leggi del nu- mero, e fa un'esposizione della logica sotto forma di calcolo. Nel- V applicazione al sillogismo, il suo metodo consiste a coìidìuiarc ne, e che delle inferenze puramente apparenti o verbali si mettono allo stesso rango che le inferenze reali. In quanto al primo noi ne abbiamo già parlato, e non oc- corre, di ritornarvi; ma non sembrerà forse inopportu- qualche riflessione suUaltro. due equazioni al posto delle due premesse, per arrivare a una terza equazione ehe rappresenta la conclusione. Siano le premes- se del sillogismo : Tutti iili Xs sono Ys, Tutti gli Ys sono Zs, clie noi possiamo leggere, per attaccarvi un senso : Tutti gli uomini sono animali, Tutti gli animali sono morlali. Boole esprime le due premesse sotto forma d'equazioni, così: Tutti gli Xs sono Ys x = cy Tutti gli Ys sono Z< // = i:^z. La lettera r è il segno della iiarticolarità : essa uìostra die gli uomini non sono tutti gli animali, ma solo una parte di questi, e che gli animali non sono tutti i mortali, ma solo una parte; che animale è più esteso di uomo, e mortale di animale. Boole nella prima e(iuazione sostituisce ad y il suo valore nella seconda equa- zione, ed ottiene cosi la terza equazione, che esprime la conclu- sione del sillogismo : a? — cc^z, cioè : Tutti gli Xs sono Zs, cioè ancora: Tutti gli uomini sono mortali (i due r indicano che non sono tutta la classe dei mortali, ma solo una parte d' una parte/ (V. Liard Logici inglesi cap. 5. e Bain Logica lib. 2. cap. 2). 11 Bain osserva su ({uesto processo di Boole : Se si accorda che le condizioni del silloggismo sono state convenientemente espresse ilai simboli di Boole, e che la riduzione algebrica s'applica giu- stamente alle proposizioni, è naturale di ammettere che l'assioma del sillogismo è l'assioma algebrico, che permette di sostituire ad /y, in un'equazione, il suo equivalente nell'altra, cioè Due quan- tità eguali ad una terza sono eguali fra loro (più, ci permetteremo di aggiungere per essere più esatti, l'assioma, che Aggiungendo a (juantità eguali quantità eguali, le somme sono eguali. Quest'as- sioma, con quelli che ne derivano : Sottraendo, moltiplicando, di- videndo quantità eguali, ecc., fa che il membro dell'equazione in cui si opera la sostituzione ha, dopo la sostituzione, lo stesso va- lore ; il primo assioma fa che 1' equazione sussista ancora, dopo la sostituzione). Ora è in virtù di questi assiomi forse che Boole opera la sostituzione nelle sue equazioni del sillogismo ? Cominciamo per istabilire un principio assai sempUce, ma che è sfuggito a quei fllosofì che hanno confuso le inferenze apparenti con le reali. Per distinguere queste due sorta d'inferenze, bisogna tradurre le forme verbali a? ry operando la sostituzione. ce /^ . Non bisogna lasciarsi illudere dai snnboli: (pii — non è il segno dell'eguaglianza, ma è per un'estensione arbitraria del linguaggio algebrico che esso viene impiegato. Quali saranno infatti le cose eguali? Non certamente i termini, cioè le parole, simboleggiati da questi segni. Saranno duncjue le cose reali, che questi termini de- notano] Nemmeno, perchè le cose che corrispondono ad // non sono eguali a (luelle che corrispondono a c-z, ma sono le stesse e identiche cose, e per conseguenza non può esservi sostituzione al- <'una, i^erchè una cosa non potrebbe sostituirsi a se stessa. O sa- ranno forse i concetti, che essi significano? Nemmeno questi, perchè e non è che il segno indeterminato della particolarizzazione; quindi re non è uguale a ry né // a e':-, ry polendo essere egualmente, non ;r, ma un'altra parte qualuncpie del genere //, e r^:\ non //, ma un'j^ltra parte ([ualunciue del genere z. Si dirà che il segno r indica, non semi^licemente che uomini è una parte di animali e animali una pai-te di mortali, ma l'attributo che, aggiunto ad animale, dà nomo, e quello che, aggiunto a mortale, dà animaleì Ma nemmeno in (luesto caso potrebbe parlarsi di sostituzione, perchè il concetto // sarebbe lo stesso e identico concetto che r^z-, e e z non essendo che gli elementi di cui quello è composto. Le cose eguali non possono essere duncjue né i termini ne le cose reali né i concetti significati da questi termini, e il segno r- non è quin- di realmente il segno dell'eguaglianza. La verità è che (junndo Boole scrive: // r^^ egli vuol dire semplicemente che r^z può sem- pre sostituirsi ad //. Ora se è cosi, (piando egli nella equazione: ^js =--ry, sostituisce ad y r'.-, (jucsta sostituzione non è altro che l'ap- l>licazìone particolare del principio generale, già espresso iiKjUesta forma: y r'z. Questa sostituzione non è, in altri termini, che la conclusione di questo sillogismo: Si può sempre sostituire r'z ad // in qualunque proposizione // si trovi; ma questa espressione : v ^ry, che Boole chiama un'eciuozione, è una proposizione in cui si trova //; dunque in questa espressione si può sostituire r\:- ad //. Cosi, lungi che il sillogismo sia fondato sulla sostituzione, è al con- trario la sostituzione che è fondata sul sillogismo. Se noi ora do- mandiamo a Boole donde sa egli che //=r^-?, cioè che r'z può sempre sostituirsi ad //, egli non potrà dare al fondo una ragione che sia dirVerente dnlla vecchia massimo: nota notae est nota rei ipsius. 262 SAGGIO PIUMO ^-^j' . nei fatti reali e concpeti clic esse significano : dire che una proposizione è vera è dire semplicemente che i l'atti reali e concreti, che sono da essa significati, esistono realmente; cosi tutte le volte die la verità di date pro|XK sizioni implica resistenza di certe cose o di certi leno- ineui, e resistenza di queste cose o di (luesti lenonieni stessi basta, senzaltro, perchè una nuova proposizione sia vera, allora il passaggio dalle prime proposizioni alla è, non un'inferenza reale, ma api)arente. I/infe- renza è reale, quando invec3 l'esistenza dei fatti implicati dalla verità di proposizioni date non basta per se stessa perchè la nuova proi)Osizione, a cui si passa, sia vera, bisognano perciò altri fatti nuovi, sia d'alti^nde che questi, nel nostro pensiero, siano separabili dai primi, sia che siano legati ad essi d'una maniera inseparabile. Fac- ciiuno ora lapplicazionc del nostro principio a queste pre* tese inferenze : Se A è prima di B e B prima di (:, A è prima di C; ovvero: se A è simultaneo con B e B è si- multaneo con C, A è simultaneo con C. L' atiermazione delle conseguenze importa forse dei fatti nuovi che si aggiungono ai fatti implicati neUaHermazione delle pre- messe? É evidente che no: tuttavia si replicherà che, Infatti Ui lettera r' indica unicamente die -: è i>iii esteso di^, e ciò vuol dii'c die // è il so<i-ixetto, e .- ratttil)ato; cosi scrivendo- // --= ^-, %\ vuol du-e semplicemente che tutte le volte in cui vi ho in una proposizione il predicato //, si può sempre del sog;>etto di questa proposizione i)redicare il predicato di //. K duiKiue «luesta massima die è il vero princifuo su (^ui si fondano i processi di Hoole relativi al sillogismo, massima die non è se non una generalizzazione ti- rata dalle illazioni valide die noi ab})iamo giò fatte senza Taiuto né di (juesta né di altre massime, e in virtù del semplice principdella coerenza, e die non ha niente di comune con gli assiomi su cui è fondato il processo della sostituzione in matematica. QJieste stesse osservazioni possono applicarsi al processo di so- stituzione ammesso da levons. è implicata la coesistenza di A e di C, e che per V aller- mazione di quest'ultima coesistenza non vieiìe posto al- cun fatto nuovo, che non fosse contenuto nella posizio- ne delle <lue prime coesistenze, nondimeno una nuova re- lazione viene affermata, (luella tra A e C,. la quale non lo era ancora, (juando si afìerma va la relazione di A con B e di B con C. Cosi neirassioma matematico suireguaglian- za mediata: «Se A è uguale a B- e B uguale a C, A e C sono eguali», per le due prime atìermazioni le tre gran- dezze vengono determinate in modo, che la terza affer- mazione non importa in esse alcuna nuova determinazio- ne, e ciò che si afferma di nuovo nella conseguenza è un'altra relazione, (juella deireguaglianza tra A e C, re- lazione che è diversa dalle relazioni, cioè dalle uguaglian- ze, tra A e B e tra B e C. Ora se invece di uguaglianze si tratta di coesistenze, il caso, si dirà, ò lo stesso: la con- clusione non atlerma niente di nuovo sulle cose stesse, ma all'erma una nuova relazione tra le cose, che le pre- messe non avevano ancora aMermato. Io credo che tra i due casi, lassioma matematico sulle etrua'^lianze e il preteso assioma sulle coesistenze, vi sia una difterenza reale: affermando Teguaglianza fra A e C, dopo aver alTerinato Teguaglianza tra A e B e (juella tra B e C, si afferma realmente un fatto nuovo, un fatto sul> ])iettivo, se non un fatto obljiettivo, perchè le eguaglianze sono dei fenomeni subbiettivi, delle percezioni, reali o pos- sibili, che si distinguono realmente dalle percezioni dei fe- nomeni oljbiettivi tra cui le eguaglianze si staljilis^ono. Dicendo che A è uguale a C, io intendo (Hre che io o al- tri i)Otremmo avere la percezione attuale deireguaglian- za tra (pieste grandezze, facendole coincidere perfettamen- te runa con l'altra, o misurandole e trovando che esse hanno la stessa misura, cioè facendo coincidere Tuna e Taltra uno stesso numero di volte con uria stessa gran- dezza. Ora questi fatti, significati dalla proposizione: A è Uguale a C, sono dei l'atti nuovi, che non sono compresi tra i fatti significati direttamente dalle proposizioni: A è uguale a B, B è uguale a C. Ma niente di simile potreb- be dirsi per le coesistenze, perchè una coesistenza o una sequenza non è un nuovo fenomeno, distinto dai fenome- ni che si dicono coesistere o seguirsi; non è che un or- dine nel tempo, cioè un modo di esistere, di questi feno- meni: ora dato l'ordine nel tempo tra A e B e tra B e C, è dato già con ciò stesso quello fra tutti e tre questi fe- nomeni, e quindi pure tra A e C. É perciò che l'assioma sulle eguaglianze esprime im'inferenza reale, mentre il preteso assioma sulle coesistenze, o quello sulle sequenze, non esprime che un inferenza apparente. Lo stesso deve dirsi delle proposizioni : « Se A è fra- tello o camerata di B, e B è fratello o camerata di C, A e C sono fratelli o camerati », e di tutte le altre pretese inferenze, che si sono immaginate o possono im- maginarsi sullo stesso tipo. Se esistono i fatti, i (piali sono le condizioni percliè le due j^rime affermazioni siano dette vere, questi fatti stessi^ senz'altro, bastano perchè la terza aMermazione sia detta anch'essa vera. Nò il caso è differente per la vecchia arguzia menzionata da Spencer: vi hanno più i)ersone in una città che capelli sulla testa di una persona qualunque, dunque vi hanno almeno in questa città due persone con un numero eguale di capelli. È evidente che se esistono i fatti, i quali permettono di dire che la premessa è vera, gli stessi fatti, senz'altro, permetteranno i)ure di dire che è vera la conseguenza. Tuttavia qui vi sarebbe una difficoltà al punto di vista della teoria concettualista: la premessa non determina con precisione quali siano i fatti particolari e concreti, con tutte le loro circostanze individuanti, a cui essa cor- risponde. Perchè essa sia vera, è certo che certi fatti particolari e concreti devono esistere, e questi fatti non possono esistere d'una maniera astratta e indeterminata, come le entità degli scolastici, ma con tutte le circostanze particolari che appartengono alle cose concrete e deter- . Ma la proposizione non pone alcuna di queste circostanze particolari: cosi essa non afferma niente sul numero delle persene che esistono nella città, sulla loro quahtà, e su tutti i caratteri particolari che fanno di cia- scuna di queste persone un tal individuo determinato; essa non afferma dunque che una condizione astratta dei tatti concreti, la quale si verifica in tutti i differenti casi pos- sibili, in cui la proposizione non cessa di essere vera La stessa indeterminazione vi ha pure nella conclusione : questa afferma un'altra condizione astratta, alla quale i fatti sono necessariamente sottomessi tutte le volte che essi sono sottomessi alla prima, e l'inferenza é reale, in quanto afferma la correlazione necessaria fra queste due condizioni astratte, la necessità die la seconda segua la prima. Questo potrebbe dirsi al punto di vista della teoria concettualista : ma noi sappiamo che una proprietà o una condizione astratta non è altro che la possibilità di appli- care ad una cosa determinata o a dei fatti determinati una certa forma verbale; perciò la correlazione necessaria fra due proprietà o condizioni astratte non è altro che la correlazione necessaria tra due forme verbali, di cui se l'una è apphcabile, l'altra è pure necessariamente ap- plicabile. «La proposizione non enuncia che una condi- zione astratta»: ciò vuol dire semplicemente che le parole non sono perfettamente determinative ; non determinano d'una maniera assoluta i fenomeni particolari di cui esse sono i segni. Le parole essendo generali, non possono e- sprimere perfettamente l' individuale, ciò che è assoluta- mente determinato: applicando la parola uorao, non affer- miamo niente del colore, della statura e di tutte le parti- colarità infinite, che sono proprie dell'individuo, qualunque €sso sia, a cui il nome viene applicato. Se si dice: vi ha 2fi(i là un uomo, un' infinità di rappresontazioni particolari j>ossono ugualmente essere suggerite al nostro spirito; è |)0ssil)ile che vi sia un uomo bianco o nero, di statura alta o di statura bassa, ecc. Qualunque sia di ([uesti ca- si possibili quello die si verifica, la propos izione è sempre vera, ma perchè la proi^osizione sia vera, uno o un altro di questi casi passibili deve verificai'si La parola non determina dunque i tatti reali da essa indicati; ma ci pre- senta un numero infinito di jìos sibilità, tra cui si è in certa guisa lilxnù di scegliere. Essa traccia, i>er dir cosi> c^mi ui c3i*:ihio di pr>>i!jilità: uni o un'altra delle [xds- sil)ilità comprese dentro il cerchio deve effettuarsi, ma nessuna di (luellc che re^stano fuori del cerchio può effet- tuarsi, se la enunciazii»ue è vera. Ora se, (jualunque sia quella fra le possibilità, incluse da una pro[X)sizione, che si verificili, i fatti saranno sempre tali che essi basteraimo, senz'altro, i)erchè una seconda proposizione sia vera, vi ha allora un passaggio possil)ile dalla prima proposizione alla seconda, che noi possiamo, se vogliamo, chiamare un'inferenza, purché sia convenuto che 1* inferenza è in ({uesto caso semplicemente verijale o apparente, e non reale. §. 25.*' Le stesse osservazioni i)Ossono applicarsi al sillogismo numericamente definito: La più parte dei B sono C, la più parte dei H sono A, dunque alcuni A sono C. Supponiamo, come fa Spencer, che la classe H raj)- presenti gli animali d'una masseria, C i montoni, e A gli animali malati; ed esponiamo cosi il sillogismo in termini più concreti : La più parte degli animali della masseria sono montoni; la più parte degli animali della masseria sono malati; dunque vi hamio tra gli animali della mas- seria alcuni montoni malati. Si i)aragoni (questa infe- renza con quest'altra: Tutti i montoni che io ho cono- sciuti ruminavano ; dunque i montoni della masseria ru- minano. Qui i latti significati dalla ì)remessa e i fatti significati dalla conseguenza sono dei fatti distinti: essi esistono separatamente nella realtà, e noi i)Ossiamo rap- separatamente. I fatti del primo gruppo sono certamente in un tal rapporto con ({uelli del secondo gru[)- po, che la verità dei primi ci permette di ammettere an- che la verità dei secondi. Ma ciò non toglie che resistenza fatti significati dalla prima proposizione : « i montoni che ho conosciuto ruminavano >, non importa i>er se stes- sa la verità della seconda proposizione : « i montoni della masseria ruminano »; la verità di (|uesta seconda propo- sizione implica l'esistenza di un altro gruppo di fatti, i quali, quantunque siano logicamente legati con quelli del primo gruppo, ne sono però assolutamente distinti. In (pie- sto (!aso perciò l'inferenza è reale. Ma nel sillogismo nu- mericamente definito di cui è quistionc, il caso non è lo stesso. Gli stessi latti implicati dalla verità delle due pre- messe, importano pure per s(3 stessi la verità della con- seguenza. Se gli animali della masseria sono in tali con- dizioni che le due premesse siano vere, ciò basta, sen- z'altro, perchè la conseguenza sia pure vera. I fatti che permettono di enunciare le due prime pi^oposizioni, sono gli stessi fatti che permettono di enunciare la terza pro- IX)sizione. Le duo prime proposizioni, in verità, non de- terminano questi fatti d'una maniera assoluta: ma ciò non toglie che i fatti reali, di cui esse sono i segni, siano dei fatti assolutamente determinati; poiché le pro- posizioni non significano delle astrazioni, le quali non e- sistono né nella realtà né nel .nostro pensiero, ma dei fatti concreti e particolari. I fatti reali, di cui le due piime proposizioni sono i segni, sono dunque gli animali della masseria con tutte le circostanze |)articolari con cui que- sti esistono. Ma le proposizioni non determinano che cer- te condizioni astratte dei fatti reali significati: ciò vuol dire che esse lasciano aperto il campo ad un gran nu- mero di possil>ilità,delle quali qualunque siano quelle che si verifichino, le proposizioni non cesseranno di essere vere. « La più parte degli animali della masseria sono mon- toni *: questa proposiziono ci permette di fare un'infinità di supposizioni sul numero degli animali, sulla propor- zione precisa dei montoni con gli altri, sulla specie di questi altri, sullo stato di salute o di malattia e su tutte le altre condizioni particolari di ciascun individuo. La proposizione segna i limiti dentro cui possiamo fa- re delle supposizioni : una o un'altra di queste deve ei- fettuarsi, perchè la proix)sizione sia vera; una o un'altra può effettuarsi, la proposizione restando sempre vera. 11 somi<]cliante deve dirsi deiraltra proposizione: « La più parte degli animali sono malati ». Ora, tra le possibilità a cui queste due proposizioni lasciano aperto il campo, qualunque siano quelle clie si verilìchino, in ogni caso saranno già date le condizioni perchè sia vera anche la terza proposizione: « Alcuni montoni sono malati ». In al- tri termini, qualunque sia la forma particolare in cui e- sistono i fatti obbietivi di cui le due prime proposizioni sono i segni ; basta che questi fatti siano tali che questi segni siano applicabili, perchè altri segni, cioè la terza proposizione, siano anch'essi applicabili, e non vi ha bi- sogno perciò dell'esistenza di altri fatti distinti. In un tal caso quindi l'inferenza non è reale, ma semplicemente apparente. Ciò che vi ha di particolare a questa sorta di sillogi- smi è che la verità affermata dalla conseguenza non è, come nel sillogismo propriauiente detto, contenuta nella verità affermata dall'una delle premesse: essa è però c(m- tenuta in quella di entrambe le premesse, se si prendono, non isolatamente, ma congiuntamente. Come due propo- sizioni, prese congiuntamente, possono significare ciò che non [)Ossono nò l'una né l'altra prese isolatamente? Ciò avviene per la proprietà che hanno i simboli verbali di determinarsi reciprocamente nel loro significato, quando vengono applicati agli stessi oggetti. I significati delle pa- role 0 si addizionano l'uno all'altro, o si determinano l'uno con l'altro. «Un amico e un vicino di casa» è un esempio del primo caso; «un amico vicino di casa» un esempio del secondo. La parola, abbiamo detto, traccia come un cer- chio di possibilità, includendo quelle comprese dentro il cerchio (di cui una o un'altra deve etlettuarsi perchè l'e^ nunciazione sia vera), ed escludendo quelle che restano fuo- ri del cerchio. Ora quando due nomi si predicano dello stesso soggetto, noi abbiamo necessariamente due cerchi di possibilità che, per dir cosi, s'intersecano: le possibihtà incluse nel solo spazio proprio a ciascuno dei due cerchi, vengono escluse dall'altro cerchio, e non restano che quel- le comprese nello spazio comune ai due cerchi. È cosi che i significati delle parole (ciò che ordinariamente si di- ce: i concetti) si determinano reciprocamente. Ora lo stesso che per i nomi avviene per le proposizioni, quando esse si applicano simultaneamente alle stesse cose. Ciascuna di due proposizioni, presa isolatamente, ci presenta un campo hmitato in cui è racchiuso un numero infinito di possibilità, fra cui la nostra immaginazione può scegliere; ma riunendo le due proposizioni, il campo delle possibili- tà diviene più limitato di quello che era proprio all'una o all'altra per sé sola. In questo modo avviene che un'in- ferenza (apparente), la quale non è giustificata né dall'una né dall'altra delle premesse prese isolatamente, lo è tutta- via dalle due premesse prese congiuntamente (1). (1) Questo non operò che uno dei modi. Anche nei veri sillogi- smi per giustificare la conclusione occorrono due premesse ; ma in essi, come insegnano i logici, i fatti affermati nella conclusione sono compresi nel significato della sola premessa maggiore, la mi- nore non servendo che a far vedere che vi sono compresi. Può sembrare strano che delle inferenze le quali, per essere fatte, esiggono un certo esercizio dell'ingegno, siano ciò non per- tanto apparenti o verbali, mentre al contrario delle inferenze che L'illusione creata dal concettualismo, o piuttosto sorgente dalla stessa fonte da cui il concettualismo, di credere, confondendo le parole con le idee, che quando vi ha un passaggio da date proposizioni a qualche altra noi non facciaiiu) per il solito che duna maniera i»iiranientc mec- canica, sono reali. La (ìiffìeoltà in (jiiesti casi (rinferenza consìste nella adequata interpretazione dei siml)oli: la interpretazione dello forme verbali può esiirere in certi casi il concorso dello facoltà l»iù elevate deirintelliizenza, come noi vediamo nelle quistioni con- troverse della -iiirisprudenz^iì, in cui non si tratta che dinteri>re- tare le parole del leiiislatore. Del resto non si potrel)be attermare senza riserva che il silloiii- smo numericamente definito sia un' inferenza, non reale, ma aj)- ]»arente Ciò ci seiid>ra vero del sillojjrismo clic Spencer adduce l>er esempio, ma non di (luclli a cui Morgan applica proprianu^nte la designazione di sii lori ì^iìit a ^/uantità nume rict unente (/cfinita. (juesti sillo.LTismi lianno luogo, ([uando sono dati dei numeri esatti. W e., in KM^i casi di non importa che cosa (siano 10(i animali <lella masseria ) 7o sono A's ( montoni ), e (») sono Ys { malati ) ; dunque almeno Ti» -!- <J() -- ii>0 =- 30 A's (montoni) devono essere Vs (malati). In questo caso non i>uò dirsi che vi sia uaa semplice inferenza ai»- X>arente, i>erchè ] er trovare il numero 'M) Insognano delle inferenze reali. (Questo numero esatto non può trovarsi senza fare delle o[»e- razioni sui numeri dati; ocn (lueste operiizioni imi-licano l' ai>pli- cazione degli assiomi mateuìatici sulle eguaglianze, e perciò delle inferenze reali. In verità il sillogismo a quantità numericamente detinita, sotto la t'orma api>arente del sillogismo, non è che un vero problema di matematica, di cui le premesse presentano i dati, e la conseguenza dà la soluzione. Es,so non dillei'isce da un altJ'o problema <iualun- que di aritmetica, se non percliè i dati del problema possono ve- nire esposti in due proposizioni, presentando cosi una somiglianza con le «lue premesse del sillogismo. K evidente clic né i sillogismi a «juantità numericamente delì- nita né quelli (die Morgan chiama a (jaantltà tìCKjtosta non sono dei veri sillogismi : le regole del sillogismo non possono applicai'si ad essi. Bisognerebbe rìserbare il nome <li sillogismi a quelle in- ferenze in eui vi ha l'applicazione di un principio generale a <jual- clie caso i>articr>lar.^ : è a questa specie d'inferenza che si api>li- cano di tutto punto le massime e le regole odinarie sul sillogismo. D'altronde (piesta specie d'inferenza merita di occupjuv un posto proposizione distinta, vi sia necessariamente un i)roaresso i^ale del f>ensiero e una vera inferenza; questa illusione, dico, è tanto naturale al nostro spirito, che gli stessi i)ro- rnotori della vera teoria del ragionamento, la nominalista, non ne sono stati del tutto esenti. 11 Mill e il Bain si sono an- eli essi lasciati sedurre da questa falsa analogia tra le infe- renze puramente apparenti della logica formale e le inferen- ze i-eali della matematica. Per evitare la difficoltà che il ra- gionamento sia una semplice petizione di principio, e siàe- gare al tempo stesso T intromissione d^ma seconda pro- posizione (la premessa minore), per cui un'inferenza me- diata sì lUstingue da un' inferenza immediata, il concet- distinto fra tutte le inferenze di cui è tjuistione o può essere (jui- stione nella logica formale, perche, se essa si considera non lùù isolatamente, ma in connessione con l'induzione anteriore di cui la ^u^Milessa maggioi^e è il risultato, noi abbiamo il tipo a cui oimi inferenza reale legittima può ricomlursi. Mn niente di tale può dirsi di t^tte le altre inferenze apparenti della logica formale, e non imi)or- ta se abbiano una sola o due premesse. Queste ijderenze'con due pre- messe, le (juali non sono dei veri sillogisnn', nel senso che è stato delìnito. potrebl>ero cMh\xunv^\ pseuclo -sillogismi 'Hdi sono oltre i silligismi numericamente definiti di Morgxuj. i sillogismi con pre- messe singolari, e i sillogismi ilK>tetici, di <Mn il sillogismo <lis-iun- tivo e il dilenuna non sono che dei casi particolari (confr. fìain lib. 1. e. 3. ."^(i-sa, lib. -1. e. 1. Ì'I). Alcuno di (piesti tipi non si con- forma al principio fondamentale del sillogisnic», ch'ù espresso nel (Uctam ile omni et de nullo; alcuni mm si coidbrmano neimneiio alle regoki del sillogismo: così nel sillofjisnio numericamente de- funto SI conclude da premesse entrambe pai-ticolari, nel ^illoiii^mo ipot^idico non vi hanno che due termini, e nel sillof/ismo disgiun- tivo con una [n^niessa negativa si ha una conchisione aUermati\ a Si potrebl>cro i)ure Hcondurre alla stessei categoria dei i»seudo- sillogismi le inferenzxr di cui ^ stata <iuistio-ne : Se A è i^rima <ii H e H lìrima di C, A é prima di G, .Se A è fratello di H e H ù fratello di C. A e C sono fratelli, ecc., e in generale tutte le inferenze ap- parenti a doppia prem^sa, clie non sono dei veii sillogisnn*. 11 Itain riconditce alcuni di (luesti tipi all'inferenza immediata, i*erclié, co- me vodi^emo appresso, un'inferenza mediata é jM-r lui un'inferenza, non ai)])arente, ma reale. 5 I ' -i il tualismo mette da parte il senso in estensione delle pro- posizioni, e non vi considera se non il senso in compren- sione. Se non die, mentre secondo una delle dottrine con- cettualiste che noi abbiamo incontrate, cioè la dottrina analitica (quella di Hamilton), i concetti si considerano come inclusi V uno nell* altro, nella dottrina di Mill, che noi possiamo chiamare sintetica, si considerano invece còme associati l'uno all'altro. Secondo questa dottrina, la maggiore atlerma la coesistenza di due attributi o gruppi di attributi, di quello indicato dal termine medio e di quello indicato dal termine maggiore; la minore alla sua volta afferma che Y attributo o gruppo d' attributi indicato dal termine minore coesiste con quello indicato dal termine medio; e di là Tinferenza che Tattributo o gruppo d'attri- buti indicato dal termine minore coesiste con quello indi- cato dal termine maggiore. 11 fondamento del ragiona- mento è perciò secondo il Mill questo principio : Due cose che coesistono con una terza coesistono tra di loro, ed egli trova che questo principio rassomiglia d'una ma- niera sorprendente all'assioma matematico : Due grandezze eguali ad una terza sono eguali fra di loro. È singolare che il Mill obbietti al dictam de ornai et de rndlo ((jnidquid de omnibus valet,valet etiam de quibusdam et de singidis; quid(/uid de nullo valet, nec de quibusdam et singulis valet) di essere fondato sulla dottrina reali- sta, cioè sul sistema metafisico che considera gli univer- sali come delle entità per sé esistenti (Logica, libro 2^ cap. 2^ ), senza accorgersi che questa obbiezione colpi- sce con una forza ben maggiore la sua propria teoria. Sia il vecchio esempio di sillogismo : L' uomo è mor- tale, Pietro è uomo, dunque Pietro è mortale. 11 fonda- mento di questo sillogismo è, dice il Mill, che delle cose che coesistono con un altra cosa coesistono fra di loro. Ora quali sono queste cose che coesistono ? Sono i con- cetti: mortale, uomo, Pietro ? No, perchè', dice il Mill, le cose di cui è quistione nelle proposizioni, non sono i no- stri concetti, ma i fatti su cui i nostri concetti devono es- sere fondati (Filosofia di Hamilton, cap, ld'',trsiduz Arane, pag. 419 ). Questo è conforme alla dottrina dell'autore, secondo cui il giudizio afferma, non i rapporti tra le idee, ma i rapporti tra gli oggetti. Ma se queste cose che coe- sistono non sono dei concetti, che cosa possono essere ? Niente altro che delle astrazioni realizzate. Gli attributi connotati dal termine Pietro coesistono, secondo il Mill, con gli attributi connotati dal termine uomo, e questi coe- sistono con quelli connotati dal termine mortate. Se essi coesistono, ciascuno di essi esiste per se stesso separata- mente dagli altri, ed è realmente distinto dagli aitri. Ma queste cose che coesistono, dirà il Mill, non sono già de- gli attributi astratti, ma dei fatti concreti e reali, che pos- sono ciascuno essere V oggetto d' una percezione distinta dei nostri sensi, e che a questo titolo possono considerar- si come sensazioni attuali o possibili. E infatti egli, rispon- dendo ad un'obbiezione dello Spencer, dà quest'interpetra- zione al suo principio. « L'assioma, egli dice, potrebbe essere espresso cosi : Due tipi di sensazioni, di cui cia- scuno coesiste con un terzo tipo, coesistono l'uno con l'al- tro. » Ma questa interpetrazione non può salvare il prin- cipio. L'essenza del ragionamento deduttivo è, come ben dice il Bain a proposito dell'assioma di Mill (Logica, lib. 2^. Assioma del sillogismo), l'applicazione a un caso par- ticolare d'un principio generale. Ora essa non corrispon- de all'assioma del Mill cosi interpetrato. Pietro è un'in- dividuo del genere uomo : i due termini non designano due ordini distinti di fatti o di sensazioni, in modo che si possa dire che le une sono unite alle altre. Le proprietà particolari di Pietro non sono dei fenomeni distinti dalle proprietà ch'egli ha comuni con gli altri uomini, ma ne sono una determinazione particolare, queste, senza le dif- ferenze individuali, essendo indeterminate ed astratte: sic- che Tare di queste dilTerenze individuali qualche cosa di (hstinto in se stesso dai caratteri generaU della specie e di coesistente con essi, è precisamente realizzare delle astrazioni. L^ assioma del Mill suppone dunque necessa- riamente ciò che egli non vuole ammettere, ciò che «un attributo sia una cosa reale, obbiettivamente esistente». (Lof/ica lib. 2^ e. 2^ in nota). SeiX)ila dottrina del Mill si considera, non isolatamen- te, ma in relazione alle altre parti della sua dottrina del sillogismo, vi liann(ì anche contro di essa obbiezioni di un'altra natura. Noi abbiamo già notato la continua oscil- lazione del Mill tra il nominalismo e il concettualismo : quesfincorrenza che si trova in tutta la filosofìa del IMill si ritrova naturalmente nella teoria del sillogismo. 11 Mill ha Ibrmulato per il primo, d'una maniera al tempo steso chiara e profonda, secondo il costume di questo emi- nente pensatore, la teoria nonu'nabsta del ragionamento, secondo la ciuale Y inferenza è sempre dal particolare al particolare; ma a lato di questa teoria e malgrado di es- sa, si trova pure in lui un ritorno alla teoria concettua- lista del ragionamento, che ha dato luogo alla dottrina di cui abitiamo parlato. Ora le due dottrine del ragiona- mento di Mill, la nominalista e la concettualista, sono in- compatibiU Tuna con l'altra. E infatti che cosa sono questi attributi fra cui l'assioma del sillogismo indica la coesi- stenza? Gli attributi la cui coesistenza è affermata nella maggiore, sono rigorosamente gli stessi che quelli la cui coesistenza è alfermata nella conclusione, o no ? Gli at- tributi umanità e mortalità, di cui la maggiore afferma la concomitanza, sono rigor( osamente (jli stessi attributi (eadeni numero) che la minore e la conclusione afferma- no poi di Pietro? Se Tinferenza è dal particotare al par- ticolare, questi attributi, o i fatti espressi da questi attri- buti, non possono essere rigorosamente f/li stessi. Secon- do il Mill, noi non inferiamo che Pietro morrà da ciò che ii 5 y- in generale ogni uomo deve morire, ma da ciò che tutti gli uomini conosciuti sono morti. Se è dunque quest'ultima verità die nella nostra mente occupa il posto che nella espressione verbale del ragionamento, nel sillogismo, oc- cupa la premessa maggiore, le cose la cui coesistenza è affermata nella premessa maggiore ideale sono numeri- camente distinte da quelle la cui coesistenza è affermata nella minore e nella conclusione— l'umanità e la mortali- tà che si trovano in Pietro sono numericamente distinte dalla umanità e dalla mortalità che si sono trovate ne- ali altri uomini, non sono una sola e stessa cosa — Ma se è cosi, l'assioma che Due cose che coesistono con una terza coesistono fra di loro, assioma che secondo il Mill é cosi evidente come l'assioma analogo della matematica (e perci(') deve interjjretarsi nel suo senso strettamente lette- rale), ò ina[)plicabile, e lo Spencer gli obbietta giustamente c.lfeali confonde l'esatta rassomiglianza con l'identità as- soluta (V. Princij)ii di psicologia, t. 2^*. 35. 201). Per ri- guardare gli attributi come rigorosamente gh stessi, es- si devono prendersi, non come indicanti dei fatti parti- colari, ma come degli attributi astratti e generali, per con- cei)ire i (juali si fa astrazione dagl'individui particolari in cui essi si trovano. In (juesto caso l' assioma è applica- bile; ma vi lia allora nel sillogismo un'inferenza che non è dal particolare al i)articolare, e questa inferenza è rea- le, almeno se l'assioma del sillogismo si considera una proposizione sintetica, come l'assioma matematico a cui il Mill lo paragona. Allora non sarà più vero, come vuo- le il Mill, che ogn'inferenza è dal particolare al partico- lare. Se poi l'assioma: Due cose che coesistono con una tei*za coesistono fra di loro, è una proposizione analitica, cioè, secondo il Mill, identica e puramente verbale, allora l'assioma è completamente inutile, perchè il Mill vi ha ri- corso per non ammettere che il ragionamento è fondato sul sem[)lice principio d'identità e di contraddizione, e sai- S!S= vare per questo mezzo il sillogismo dall'accusa di essere una petizione di principio (1). §. 27^ A queste obbiezioni contro lassioma di Mill pos- siamo aggiungere altre obbiezioni, che non sono partico- (1) Il MiLL accorda in verità agli avversari del sillogismo clie> « in ogni sillogismo, considerato come un argomento provante una conclusione, vi ha una petitio principu » {Logica lìb. 2. e. 3. §. 2). Ma contuttociò egli respinge il cUctam come principio del sillogi- smo, perchè, il cUctum essendo una proiX)sizione identica, in questo caso « il sillogismo sarebbe certamente, come spesso si è detto . una sollenne futilità» (lib. 2. e. 2. §. 2) Sembra dunque che l'intro- duzione dell'assioma dell'autore abbia per oggetto di salvare il sil- logismo, non dall'accusa di essere una petizione di i)rincipio, ma da quella di essere una futilità. Ma ci pare difficile di vedere una distinzione reale tra futilità e petizione di principio. Locke chia- mava frivola una proposizione in cui lo stesso si predica dello stesso, cioè in cui l'attributo è contenuto nel soggetto: un ragionamento frivolo o futile sarà così un ragionamento in cui lo stesso si prova per lo stesso, cioè in cui la conclusione è contenuta nelle premesse, vale a dire una petizione di principio. Ammettere, come si fa generalmente, che il sillogismo è fon- dato sul principio di contraddizione, è riconoscere che esso, con- siderato come costituente una prova per se stesso, è realmente una petizione di principio. Se in effetto si ammette che è una con- traddizione di negare la conclusione dopo aver affermato le pre- messe, è perche il principio generale, che fa da premessa maggiore, si considera come l'equivalente di tutte le verità particolari che esso abbraccia, e quindi la verità affermata dalla conclusione come una parte di quelle affermate dalla premessa maggiore. Ora, sic- come è appunto perchè la verità affermata dalla conclusione è una delle verità affermate dalla premessa maggiore, che questa proposizione è una prova di quella, ne segue che una cosa è la prova di se stessa, e che il ragionamento è un circolo vizioso. Questa obbiezione contro il sillogismo, clie esso non è che una petizione di principio, è, come abbiamo detto, tanto vecchia quanto la teoria stessa del sillogismo. Nel sillogismo, dice Aristotile, può trovarsi la difficoltà di cui è quistione nel Me none . dove si dice che o non s'impara niente, o non può impararsi che quello che già si sapeva. Alcuni, egli aggiunge, risolvono questa difficoltà, dicendo che ciò che si preconosce (ciò che Mill chiama gli ante- cedenti logici reali) non sono già tutte le cose contenute sotto la !i lari ad esso, ma sono comuni a tutte le dottrine che vo- gliono fondare il sillogismo sovra un assioma, cioè sovra un principio smteiieo e reale, e non sul semplice princi- della coerenza, cioè d'identità o di contraddizione. E prima di tutto, se fare un sillogismo è applicare un as- sioma, lapplicazione di quest'assioma al sillogismo parti- <iolare che facciamo, suppone essa stessa un altro sillo- gismo, e questo un altro ancora, e cosi alFinfinito. Di più, l'assioma essendo una proposizione sintetica, ammettere la contraddittoria della conclusione non sarebbe essere incoerente, ma negare una verità di fatto : cosi, se io di- co: « Ogni uomo è mortale, Pietro è uomo, ma egli non è mortale », non vi ha in ciò contraddizione alcuna; non è una contraddizione di dire che quest'uomo non è morta- le, dopo aver detto che ogni uomo senza eccezione è mor- tale! Se il Mill poteva credere di sfuggire a questa con- seguenza della sua dottrina, ò perchè effettivamente il suo preteso assioma: Due cose che coesistono con una terza coesistono fra di loro, non è che una specie di proposi- zione identica, il cui contrario implica perciò contraddi- zione: ora cosi essendo, l'assioma, come abbiamo detto, ^ completamente inutile, e la difficoltà che se il sillogismo è fondato sopra una proposizione identica come il dictura, non può essere che una sollenne futilità, non viene, per questo mezzo, risoluta., come abbiamo osservato, per risolvere questa dif- generalità, ma soltanto quelle tali cose particolari che erano già a nostra conoscenza (È la teoria di Mill, la nominalista). Aristotile, in quanto a lui, respinge questa soluzione, e ammette invece che, prima di fare il sillogismo, in un certo modo si può dire che la €osa si sa, in un certo altro modo che s'ignora: si sa inquanto si conosce nel generale, ma assolutamente s'ignora (li la teoria con- cettualista, con tutte le sue perplessità ). Noi troviamo in questo luogo notevole [Analit. poster, lib. I. e. I. 0 e seg). riunite fattele <3ontroversie moderne intorno alla teoria del racrionamento. fìcoltà, che il Mill ha iimnaginato la sua seconda teoria del ragionamento, ciucila che aljbiamo chiamato concet- tifalifita: ma questa era superflua, perdio la sua prima teoria, cioè la nominalista, dava la vera soluzione della difficoltà. Come inferenza reale, il ragionamento va dal particolare al particolare: il ti\)0 generale, a cui ogni ra- gionamento si riduce, è Y inferenza fondata sulFanalogia di casi particolari distinti, e il vero antecedente logico, la premessa reale, sono i fatti particolari delFesperienza su cui rinferenza è fondata. Ma è necessario, per controlla- re le inferenze spontanee che noi facciamo da certi i)ar- ticolari ad altri, di considerare la nostra premessa come strettamente generale, in quanto un'inferenza fondata sopra una i)remessa che non si può generalizzare, non può es- sere un'inferenza logicamente valida. In altri termini, il sillogismo non rappresenta per se stesso il processo reale del ragionamento ; ma ogni ragionamento valido deve esser capace di poter passare, nella sua enunciazione verbale, per due momenti, di cui il sillogismo ò il secondo, Finduzione essendo il primo: Tinduzione e il sillogismo non sono dunque due ragionamenti, ma due momenti della enunciazione verbale di un ragionamento reale, tutte le volte in cui noi ragioniamo mediante idee reali, e non semplicemente mediante simboli, cioè nude forme verbali. Ma se il sillogismo si considera per sé solo; se esso non si riii.'uarda in connessione con Y induzione antecedente di cui esso è il complemento; allora ro[)erazione del no- stro s[)irito non è un ragionamento reale, ma Tinterpre- tazione d'una formula, d'un segno. Una proposizione ge- nerale, lo sappiamo, non è che un segno, che noi dobbia- mo tradurre, all'occasione, nelle verità particolari signifi- cate ; e applicare una proposizione generale a un ca- so particolare, cioè fare un sillogismo, non è che fare una di queste traduzioni. 11 solo senso di cui sia suscet- tii)ile il principio unanimamente ammesso dai teorici del sillogismo, che la conclusione è contenuta implicitamente nelle premesse, è che la verità espressa nella conclu- sione la parte delle verità significate dalla premessa mag- giore, ma che ciò non diviene manifesto che <lopo un processo d'interpretazione di questa })roposizione— la mi- nore che, come insegnano i logici, fa vedere che la con- seguenza è compresa nella maggiore, non è che un mo- mento, il solo che debba essere posto es[)ressamente, di questo processo— Ora quest'operazione non suppone alcun assioma, né sperimentale né intuitivo; non suppone che la riconoscenza d'una verità (che è a priori, perchè non è ciie r intuizione di rapporti di somiglianza), cioè che l'interpretazione è esatta, in altri termini, che l'applicazione dei segni, fatta nella circostanza [)resente, è conforme all'uso regolare di essi. Fare un sillogirmo non è dunque a})plicare un assioma generale del sillogismo: né ì\ di et ara de oì ani et de nallo, né il principio nota notae est nota rei ipsiits, di cui (juello del Mill non è che una trasformazione, non sono gli assiomi del sillogismo, non è su di essi che la sua vali- dità è fondata. Essi non sono che l'espressione astratta dell'operazione sillogistica, la descrizione del processo in cui il sillogismo consiste. Né dicendo che il sillogismo è fondato sul prinncipio d'identità e di contraddizione, si vuol dire che queste massime sono degli assiomi di cui il sillogismo è l'applicazione ; perchè le sole i)roposizioni che meritino il nome d' assiomi, sono (pielle clie rias- sumono ii risultato d' una esperienza uniforme, e vi ha applicazione di un assioma tutte le volt(i che è (jue- sta esperienza uniforme, (h cui 1' assioma è 1' espres- sione, che garantisce la verità dell'aiTermazione in un altro caso particolare. Che il sillogismo é fondato sul principio d'identità, vuol dire semplicemente che la verità delle pre- messe im[)licando l'esistenza di certi latti, gli stessi fatti Ijastano immediatam<3nte perche la conclusione sia vera; e che esso ò fondato sul principio di contraddizione, non significa se non che la negativa della conclusione sarebbe in contraddizine con le premesse, cioè che la verità di questa negativa implicherebbe o escluderebbe l'esistenza di fatti, la cui esistenza è invece esclusa o implicata dalla verità delle premesse (1). §. 28.^ Noi abbiamo combattuto la dottrina di Mill sul- l'assioma del sillogismo, perchè essa tende a stabilire che il sillogismo sia un'inferenza reale e non apparente, e quindi a mettere in dubbio e ad oscurare Taltra dottrina dello stesso Mill che l'inferenza è sempre dal particolare al particolare. La stessa ragione vale per quella del Bain. Questi non è soddisfatto dell'assioma di Mill, ma sostiene, d'una maniera più categorica che il Mill stesso, che il princi[)io di contraddiziono non basta a giustificare la transizione dalle premesse alla conseguenza, e che questa transizione è fondata sovra un assioma reale e sintetico, Ei?li adotta come assioma il dictum de omni et de nullo, che esprime però sotto una forma modificata, e trova aii- ch'egli che l'assioma del sillogismo è analogo all'assioma matematico. « Il dictum, egli dice, semìjra avvicinarsi prossimamente ad una semplice regola di consistenza; la necessità di qualche cosa di mediato fa sola tutta la differenza. Due termini identici ad un terzo sono iden- fl) U Mir.L non ammetle che il sillogismo sia fondato sul prin- cipio (li contraddizione, porcile a negare la conclusione non vi ha, egli dice, una contraddizione nei termini, e bisognerebbe un altro sillogismo per mostrare che <iuesta negativa della conclusione è in contraddizione con una delle premesse. Ciò è vero, ma vuol dire semplicemente che una contraddry.ione non è necessariamente una contraddizione nei termini, e che due proposizioni congUuitamente possono escludere qualche altra proposizione che né l'una nò Taltra separatamente escludono. Se poi ciò che non è una contraddizione nei termini debba o no chiamarsi una contraddizione, sarebbe una semplice quistione di parole, che per noi non avrebbe nessu- na importanza. tici fra di loro ; ciò suppone un passo avanti, ed esige u- na giustificazione. Alcuno non vorrebbe ammettere un'in- ferenza anche cosi evidente come questa : Gli uomini so- no mortali, i re sono uomini, i re sono mortali; senz'aver verificato anteriormente per degli esempi la specie par- ticolare di transizione che quest'argomento racchiude. » E più lungi : <^ Il dictum suppone un' operazione discor- siva, un progresso del pensiero, e la legittimità di questo progresso non può essere provata che per un appello al- l'esperienza. Il dictum ha gli stessi caratteri che la se- conda formula sopra indicata (quella di Mill) : Le cose che coesistono con una terza coesistono fra di loro; e che l'assioma matematico : Delle cose che sono eguali ad una terza sono eguali fra loro» {Logica, lib. 2,^^ Ass. del sillogi- smo). Cosi secondo il Bain il fondamento del sillogismo, non solo ò della stessa natura dell'assioma matematico, ma è come questo un principio induttivo. Noi incontria- mo qui uno di quegli sviluppi esagerati della dottrina del- l'esperienza, che talvolta si trovano negli empiristi inglesi: essi si sforzano di spiegare per questa dottrina delle cose che non hanno alcun bisogno di essere spiegate. « Noi siamo tanto esposti, dice il Bain, ad incontrare degli er- rori dissimulati sotto le forme di linguaggio più plausibi- li e più usuali, che non dobbiamo aver confidenza in nes- suna di esse, senza ricorrere al cont rollo di molte espe- rienze reali (cioè, come ha detto nel luogo già citato, sen- za verificare per degli esempi la specie particolare di transizione che l'argomeuto racchiude). » Senza dubbio, se l'operazione é puramente meccanica, come é il caso per la macchina di levons, se essa si riduce ad una semplice manipolazione di nomi, noi ci regoliamo sopra altri sil- logismi che già abbiamo fatti, e in cui badavamo al sen- so delle parole, e non ci limitavamo a combinarle mec- canicamente. Noi ci fondiamo allora certamente sugli e- sempi e sull'esperienza anteriore: ma quali sono qui le esperienze e gli esempi, su cui vcrillcliianio o abbiamo verificato anteriormente la specie particolare di transizio- ne che Fargomento racchiude? Sono dei sillogismi: ora (luesti sillogismi anteriori non possono essere l'ondati sul- lesperienza e sull'induzione, nel senso in cui qui il Bain lo pretende. La dottrina del Bain va naturalmente incontro alle ul- time obbiezioni che abitiamo latte contro quella del Alili. Noi ripresenteremo Tuna sotto la forma di un dilemma. Se r operazione particolare di un sillogismo è V applica- zione dell'assioma del sillogismo, considerando quest' as- sioma come una proposizione strettamente universale, al- lora quest'applicazione stessa è già un sillogismo, e (juindi la transizione che V argomento sillogistico raccliiude non può venire spiegata di «piesta maniera. Se invece l'assio- ma del sillogismo non è considerato come una proposi- zione strettamente universale, ma come l'equivalente della totalità delle esperienze passate; se cosi l'applicazione del- l' assioma del sillogismo al sillogismo che noi Tacciamo presentemente è una semplice inferenza dal particolare al particolare ( come sarchile dai sillogismi tatti nel pas- sato al sillogismo presente ) ; siccome è evidente clie qui l'inierenza sarebbe della stessa natura che quella conte- nuta in un' altra deduzione (jualunciue, non si vede per- chè tutte le operazioni di deduzione in generale non devono essere spiegate della stessa maniera che que- sta operazione particolare <li deduzione, che consi- ste a giustificare la validità di un sillogismo fondan- dosi suir assioma generale del sillogismo. La tesi che r inferenza, nel sillogismo, non è fondata sui princi- pii d' identità e di contraddizione, ha poi nel Bain una strana conseguenza che essa non aveva nel Alili. Secondo il liain le sole verità necessarie sono le })roposizioni fon- date su (juesti principii : ma l'assioma del sillogismo è un principio sintetico ed induttivo ; esso è anche, non una J» legge del pensiero, ma una legge delle cose, perchè al fondo di quest'assioma, come di (luelli della matematica e come del principio di causalità, vi ha l' assioma più fon- damentale dell' unilbrmità della natura ( Logica, lib. 2^, e. V, 9-11). L'assioma del sillogismo, su cui la transizione di quest'argomento è fondata, non è perciò secondo Bain una verità necessaria. Ne segue che la transizione che l'argomento racchiude, non ha niente di necessario, e che la negativa è concepibile: se Pietro è un uomo e ogni uomo è mortale, non e necessario che Pietro sia mortale; noi possiamo concepire che le premesse siano vere, ma la conseguenza sia falsa. .^. 20^'. La conclusione di (piesta nostra escursione nel dominio della logica è una conferma di una delle verità più salienti che emerge da tutto il capitolo, cioè che non vi ha altra inferenza reale che quella dal particolare al particolare, fondata sull'analogia, e ogni altra inferenza non è reale, ma apparente o puramente verbale. Daijue- sto principio risulta l' inanità di ogni tentativo per cono- scere la realtà fondandosi sul semplice legame logico del- le idee, la pretesa implicazione reciproca delle idee risol- vendosi imicamente nella possil^ilità di applicare simul- taneamente diverse forme verìjali, perchè gli stessi IVitti che ne giustificano alcune, ne giustificano pure qualche altra. Un'inferenza reale legittima è qutìUa che può rive- stire la forma (U una induzione valida seguita da un sil- logismo regolare. Ogni altra inferenza è necessariamen- te illegittima. Se pretende fondarsi sull'esperienza e sul- l'analogia, ma non può ricondursi alla forma tipica di una induzione seguita da un sillogismo, in altri termini se non è possibile di formulare una legge generale, garantita dal- l'esperienza, vera per tutta una classe di fatti, di cui tan- to i casi da cui s'inferisce, quanto quelli su cui s'inferi- sce, sono degli esempi particolari, allora l'inferenza non è rigorosa, non è una vera prova. Se invece vuol fondarsi, non sulFesperienza, ma sul preteso legame logico delle idee, siccome questo non può dare che delle inferenze apparenti o verbali, allora la pretesa inferenza reale non può essere che o una petizione di principio o un sofisma. È questa Falternativa in cui sono strette le dottrine che pretendono far uscire la conoscenza del reale dalla sem- plice deduzione: sia che esse, uniformandosi ai principii della logica ordinaria, riconoscano che ogni legame lo- gico, indipendente dalF esperienza, non può che basarsi sui principii d'identità e di contraddizione; sia che abban- donino completamente i principii della logica comune, per seguire quelli di una logica nuova, d'invenzione dei loro autori; in ogni caso, le loro pretese deduzioni, se non :sono delle petizioni di principio, saranno dei sofismi, e se non sono dei sofismi, saranno delle petizioni di princi- pio. Questo risultato collima con quello che è stato l'ogget- to principale del capitolo, cioè che le conoscenze imme- diate non possono, più che le mediate, derivarsi da una semplice necessità logica, in altri termini, che le propo- sizioni evidenti per se stesse, vale a dire a priori, o pre- tese tali, non sono fondate, come vuole la dottrina ana- litica, sui semphci principii d'identità e di contraddizione, nei quaU si risolve ogni necessità logica. Il primo di que- sti risultati distrugge la base (ÌQÌYapriorisrao come metodo scientifico, l'altro, come teoria psicologica — tra le ipotesi su cui si appoggia questa teoria, la dottrina analitica, co- me la meno apertamente contraria ai dati del senso co- mune, essendo la più accettata e la più accettabile — . Ciò che poi si deve notare è che entrambi questi risultati so- no delle verità che seguono necessariamente dal rigetto della dottrina dei concetti : se non vi hanno che idee par- ticolari, ogn'inferenza non può andare che dal particolare al particolare, e delle idee che unisce una proposizione runa non può essere contenuta nell'altra. Noi avremmo potuto dunque presentarli come dei semplici corollari di quello ottenuto pel primo capitolo, e il lettore è ora più in grado di vedere che non è arbitrariamente che abbia- mo cominciato questo scritto per l'esame del concettua- lismo. 11 seguito di questo primo Saggio e il Saggio terzo mostreranno, del resto, d'una maniera più completa, il legame intimo che vi ha tra l'apriorismo e il concettua- lismo, e per conseguenza, tra l'empirismo e il nominali- smo. «I» Dottrina di Kant sui giudizi sintetici a priori .^ 1.*^ Abl)iaiiio (letto che Kant lia introdottola distin- zione dei giudizi in analitici e sintetici. INlentre tutti i giu- dizi analitici sono a priori, tutti i giudizi l'ondati suirespe- rienza sono sintetici, ma vi hanno anche dei giudizi sin- tetici a priori, cioè affatto indipendenti dair esperienza. Secondo Kant, come secondo gli altri filosofi razionalisti in generale, vi Jianno due criteri i)er distinguere i giu- dizi a /)r/on dagh empirici: la necessità e la rigorosa universalità sono proprie dei primi, e non appartengono mai ai secondi. « La esperienza ne insegna che qualche cosa esiste in un modo o nelFaltro, ma non che essa n(jn possa essere altrimenti. Se dunque c'incontriamo in una proposizione, nel pensare alla quale riconta insieme al pensiero la di lei necessità, essa sarà un giudizio a priori», « In secondo luogo luniversalità che imprime ai suoi giu- dizi Tesperienza, non è mai assoluta e rigorosa, ma solo sui)posta e relativa, e propriamente indica od esprime : questa o quella regola, per quanto ajjbiamo appreso si- nora, si trova senza eccezione. Ma se il giudizio è pen- sato come assolutamente universale, siccJiè non si ammetta come possibile la minima eccezione, allora esso non proviene dalla esperienza », « ma da una sorgente aifatto particolare, cioè la facoltà di conoscere per anti- cipazione». «Dunque la necessità e Tassoluta universali- tà sono gTindizi sicuri della cognizione a priori, e sono cosi fra loro strettamente accoppiate, che non può Tuna disgiungersi dall'altra ^. « Che poi si diano simili giudizi necessarie strettamente universali, quindi a priori, e veramente inerenti alVintendimento umano, nulla di più agevole che il provarlo. Chi ne volesse infatti esempi dalle scienze, non ha che a trascorrere gli assiomi (le proposizioni) della matematica, e ne rileverà in tutti. Chi poi fosse vago di averne dall'uso più volgare dell' inten- dimento, la proposizione che enuncia che ogni mutamen- to dipende da una causa, potrà servirgli di esempio. E in verità in questa proposizione il concetto d'una causa im- porta si evidentemente quello d'una necessità del legame con un efletto, e della stretta generalità della regola, eh' esso disparirebbe completamente se, come fa Hume, si volesse derivato dal frequente legame di ciò che segue con ciò che precede, e dall' abitudine (per conseguenza dalla necessità subbiettiva) d'associare le rappresentazioni che noi acquistiamo cosi. Ma non è già d'uopo ricorrere a simili esempi, onde provare vera la esistenza dei prin- cipii puri a priori nella nostra cognizione; giacché si po- trebbero persino dimostrare indispensabili alla possibilità della stessa esperienza. Donde mai questa ricaverebbe infatti la propria certezza, ove già empiriche fossero per se stesse, quindi avventizie, le regole, giusta le quah pro- cede ; e come ammettere che in tal caso queste regole avessero valore di principii e dileggi primitive?» (Criti- ca della ragion pura, Introduzione, II). Kant ammette dunque che i primi principii, che ser- vono di fondamento aUa conoscenza sperimentale, sono dei giudizi sintetici a priori. Inoltre vi hanno, secondo lui, delle scienze costituite interamente da questa sorta di giudizi: tali sono le matematiche. Se alcuno non vo- lesse accordargli questa proposizione nella sua generalità, Kant vuole almeno che la limiti alle matematiche pure; ma oltre queste scienze, egli parla anche di una fìsica pura o razionale. Questa comprende le proposizioni, che stabihscono la permanenza della stessa quantità nella materia, l' inerzia dei corpi, r eguaglianza dell' azione e reazione nella comunicazione del movimento, ecc.: tali proposizioni sono d' origine evidentemente sperimentale, ma Kant le dà per dei giudizi sintetici a priori come quelli della matematica pura. Noi abbiamo tralasciato le ragioni per cui Kant dimostra la natura sintetica di tutti questi giudizi, perchè noi non dobbiamo mettere in rilievo i punti in cui ci accordiamo con lui, ma quelli in cui ne differiamo. Stabilita l'esistenza dei giudizi sintetici a priori, Kant si propone la quistione : come sono possibili questi giu- dizi ? È questo il problema, di cui la Critica della ragion pura deve darci la soluzione. § 2.0 Come la maggior parte dei filosofi moderni, Kant ammette che noi non conosciamo le cose stesse, ma i fenomeni, cioè le apparenze delle cose : ma ciò che vi ha in lui di particolare è che egli vuole spiegare l'origine e le leggi di questo mondo subiettivo dei fenomeni, e vuole spiegarli, non per le proprietà delle cose, delle quali non abbiamo alcuna conoscenza, ma per la natura del sog- getto conoscente, cioè del nostro spirito. Kant distingue negli oggetti dell'esperienza, cioè nei fenomeni, la materia e la forma : la materia ci viene offerta a posteriori, se- condo le impressioni che fanno le cose sulla nostra sen- sibilità; ma la forma si trova già preparata nell'animo a priori, niente potendo essere oggetto della nostra cono- scenza senza ricevere questa forma. La forma è cosi un elemento soggettivo; è il modo, determinato dalla nostra facoltà conoscitiva, in cui le cose devono apparirci. Que- st'elemento l'ormale delle nostre conoscenze è doppio: vi hanno le forme della sensibilità e le forme dell'intendi- mento. Le forme della sensibiltà, che Kant chiama an- che intuizioni pure, sono lo spazio e il tempo. Se gli og- getti sensibili sono estesi, se ogni cosa o fenomeno este- riore ha una certa localizzazione, ciò è perché lo spazio è una forma della nostra sensibilità. Cosi ancora, se tutti gli avvenimenti, comparati fra di loro, sono simulta- nei o successivi, se vi ha un prima e un dopo, se ogni fenomeno occupa una posizione nel tempo, é che questo é pure una forma della nostra sensibilità, e noi non pos- siamo conoscere niente, nò noi stessi nò le altre cose, senza rivestirlo di questa l'orma. L'estensione, la succes- sione non sono dunque nelle cose stesse: se noi potessi- mo conoscere qualche cosa, per esempio noi stessi, indi- pendentemente dalle condizioni della nostra sensibihtà, quelle stesse modificazioni, clie ora ci appariscono come cangiamenti, ci darebbero invece una conoscenza, in cui non avrebbe alcuna parte la rappresentazione del temilo né quella, per conseguenza, del cangiamento. Le forme deirintendimento, che Kant chiama categorie, sono dei concetti, i più universali di tutti, con cui noi pensiamo necessariamente le cose. La sostanza, la causa, ecc. sono delle forme del pensiero o delle categorie : se nel mondo dell' esperienza vi hanno delle sostanze, cioè delle cose (tenomeniche) die perdurano in mezzo al cangiamento delle loro modificazioni; se vi ha nei fenomeni un inca- tenamento di cause e d'eftetti; ciò é perché noi non pos- siamo altrimenti conoscere le cose che secondo queste forme del nostro pensiero. Ora si comprende facilmente che lo spazio e il tempo essendo le forme della nostra sensibilità, gli oggetti sensibili o i fenomeni debbano ne- cessariamente apparirci nello spazio e nel tempo: ma come noi ritroviamo nei fenomeni stessi, cioè nedi o«r- getti dell'esperienza, le forme del nostro pensiero? Ciò avviene perché quest'ordine o questa congiunzione dei fenomeni é il prodotto e l'opera del nostro pensiero : é il pensiero stesso che costruisce il mondo dell'esperienza coi materiali che gli vengono offerti dalla sensazione. Ciò che noi ci rappresentiamo in congiunzione, siamo noi stessi che lo abbiamo congiunto: questa congiunzione delle rappresentazioni o dei fenomeni è una sintesi, cioè un effetto dell'attività del nostro intendimento. L'attività del- l'intendimento di cui questa sintesi è l'opera, é una facol- tà cieca ed incosciente dello spirito, che Kant chiama immaginazione produttiva : questa sintesi dell'immagina- zione produttiva ha delle regole a priori, che sono in ultima analisi le categorie, o i concetti puri dell'intendi- mento. Le categorie dunque dettano leggi a priori ai fe- nomeni, e quindi a tutta la natura che non è che il loro complesso; poiché i fenomeni, che non sono che semplici rappresentazioni, non soggiacciono ad alcuna legge di accoppiamento, tranne a quella che detta la facoltà con- nettente. Questa facoltà é, come abbiamo detto, la im- maginazione produttiva; e siccome la sua sintesi dipende dalle categorie, cosi debbono a queste soggiacere, rispetto al loro congiungimento, tutte le percezioni possibiU, cioè tutti i fenomeni della natura. Cosi viene risoluto il pro- blema proposto da Kant: Come sono possibili i giudizi sintetici a priori ì Non vi hanno, dice Kant, che due casi, dove si possa immaginare un accordo tra la rappresentazione sintetica e i suoi oggetti : quando cioè l' oggetto rende la rappre- sentazione unicamente possibile, o questa unicamenl'oggetto. Nel primo caso abbiamo una conoscenza em- pirica: ma questa non può darci niente di necessario né di assolutamente universale. Le nozioni che hanno questi caratteri sono anticipate, o indipendenti dall' esperienza, e per esse vale dunque il secondo caso, quello cioè in i H cui la rappresentazione determina a/)r?or tToggetto stesso (Analitica, par. 14 e 27). I giudizi sintetici a priori non contengono che le condizioni formali di ogni esperienza possibile : essi hanno luogo quando riferiamo agli oggetti delFesperienza le condizioni formali si deirintuizione pu- ra 0 anticipata che della sintesi delFimmaginazione pro- duttiva. Niente non potendo essere oggetto d'esperienza che non sia conforme a queste condizioni formali o sub- biettive della conoscenza, cioè alle forme della sensibilità e deirintendimento, di là il valore obbiettivo dei giudizi sintetici a priori. {Analitica 1. 2^ e. 2° sez. 2^). § S.*' Una discussione del sistema di Kant sarebbe qui fuori di luogo: noi toccheremo un solo lato della quistio- Be, e vedremo che un tentativo come quello di Kant, in cui si cerca alle nostre conoscenze un fondamento altro- ve che nell'esperienza, non può avere successo, perchè è intrinsecamente impossibile e contraddittorio. Kant presuppone, come punto di partenza delle sue ricerche, la conoscenza di fatti mentali eh' egli non può avere attinto se non dairesperienza. Egli ammette che lo spirito umano ha certe facoltà, e stabiUsce dei principii generali su queste facoltà : egli dice, p. e., che i giudizi necessari ed assolutamente universali sono a priori, e che alcun giudizio ricavato dairesperienza non può avere questi caratteri. Questa proposizione è certamente per lui d'una universalità assoluta: senza di ciò la sua Cri- tica non avrebbe un fondamento scientifico. Notiamo che il senso della proposizione di Kant, al punto di partenza delle sue ricerche, non può già essere che l'esperienza non può logicamente giustificare la necessità e l'universa- lità rigorosa d'un giudizio: non si tratta, a questo mo- mento, che di costatare certi fatti psicologici. Egli trova che vi hanno dei giudizi necessari ed universali, e quin- di a priori, senza sapere ancora quale sia il fondamen- to della legittimità di questi giudizi: egli non ammette ^1! dunque la necessità e l'universalità di questi giudizi che come un fatto dato dello spirito umano. Cosi pure la mancanza di questi caratteri nei giudizi empirici non è -ammessa da lui che come un altro fatto psicologico. Ora come sa Kant, se non lo sa per l'esperienza, che tutti i giudizi empirici mancano della necessità e dell'universa- lità rigorosa? Ma se questa proposizione, ricavata dal- l' esperienza, è essa stessa d' una universalità assoluta, allora la proposizione è necessariamente falsa, e non c'è bisogno di confutarla, perchè si confuta da se stessa. § 4.^* Secondo Kant e tutti i Kantiani vecchi e nuovi, la stretta universalità non compete che a ciò che provie- ne dall' elemento formale o subbiettivo della conoscenza. Ora ciò suppone la ix^rsistenza e l'inalterabihtà di quest'e- lemento formale. Se io so, dice il Lange, che la struttu- ra del mio occhio è la causa di questo fatto, che i colori acquistano per il contrasto una vivacità particolare, io concluderò tosto che il fatto deve essere sempre cosi in tutti i casi. Prima di sapere che il fatto ha questa causa, il mio giudizio relativamente a questo fatto non poteva essere apodittico, ma semplicemente assertorio: io ix)teva congetturare che fosse sempre cosi, ma non ix)teva sa- perlo. Cosi se io so che un telescopio ha delle macchie nei suoi vetri, io so pure, avanti d' averlo provato, che queste macchie appariranno in tutti gli oggetti sui (juali io lo dirigerò (Lange Storia del materialismo voi. 2^ part. 1* cap. P). Con questi esempi il Lange vuol provare che la più grande generalità, nella nostra conoscenza, appar- tiene a ciò che è determinato dalla natura del nostro in- tendimento: ma vediamo le supposizioni che essi impli- cano. Perchè, nei casi indicati, io possa fare delle previ- sioni sicure e generali sul modo come mi apppariranno gli oggetti, non devo io prima supporre che la struttura del mio occhio e il telescopio non cangino, e non cangi nemmeno l'efficienza di queste cause nella determinazione dei fenomeni della visione ? Evidentemente, se io ammet- tessi che la struttura del mio occhio, con le funzioni ad essa legate, potrebbe cangiare da un momento air altro,, io non potrei, dopo aver compreso che i fenomeni del contrasto dei colori dipendono dai miei occhi e non dai, colori stessi, concluderne che anche per Tavvenire, in tutti i casi, i colori mi appariranno, per il loro contrasto, d'una vivacità più grande. Ma donde io so che questa struttura. e queste funzioni non cangeranno? lo non lo so che per le lezioni dell'esperienza, la quale mi ha appreso ciie vi ha della costanza nella struttura di un essere organizzato e di tutte le parti della sua organizzazione, e nelle fun- zioni determinate da queste strutture. Similmente, se dopo aver osservato che il t^.lescopio ha delle macchie, io pre- vedo che queste macchie appariranno negli oggetti sui quali io lo dirigerò, ciò suppone che io sappia che le mac- chie persisteranno nel telescopio dopo il momento della mia osservazione. Questa ò un' inferenza fondata sovra un'esperienza costante, la quale m'insegna che gli oggetti materiali tendono a persistere nello stesso stato, e che non vi ha in essi cangiamento senza una causa esteriore ade- quata. Ciò suppone inoltre che io sappia che questi due fatti, macchie nel telescopio, macchie negli oggetti osser- vati, sono uniti da un legame costante: è questa un'altra. nozione che io non posso aver attinto, egualmente, se non dall'esperienza. Facciamo ora l'applicazione di ciò che precede alle for- me della conoscenza. Noi non possiamo, dice Kant, ren- dere ragione della proprietà che ha il nostro intendimen- to di effettuare a priori la sintesi dei fenomeni median- te le categorie soltanto, e non con altro modo e numero delle medesime che 1' attuale, come né anche del perchè possediamo appunto queste funzioni dei giudizi, e non al- tre, o perchè lo spazio ed il tempo siano le forme uniche, d'ogni nostra intuizione possibile {Analitica §. 21. fine). '"'s.''w'N^"-« ^^~--'^, ^ Egli ammette la possibilità clie delle forme dell' intuizio- ne o delle forme dell' intendiuiento, diverse dalle nostre attuali, abbiano luogo (Analitica, L 2"", e. :?^, sez, ^^ IV, Postulato della necessità). Supponiamo dunque che vi sia un cangiamento nella struttura del nostro spirito: che al- tre forme dell'intendimento, p. e., si sostituiscano alle at- tuali, che la sintesi dell'immaginazione produttiva abbia luogo secondo altre regole,, e non più secondo le catego- rie attuali. Allora l'universalità assoluta dei nostri giudi- zii, che noi fondiamo sulle forme attuali della nostra intelli- genza, si troverebbe in fallo: noi affermiamo, in un giudizio universale, che le cose avverranno sempre cosi in tutti i casi, perchè supponiamo che le forme del nostro pen- siero ce le mostreranno sempre della stessa maniera. Se queste forme potessero cangiare, noi non potremmo dire che le cose ci appariranno sempre ed in tutti i casi co- si. A ciò risponderà forse un kantiano die la nozione del cangiamento non essendo applicabile clic ai fenomeni o alle apparenze, ma non alle cose stesse, l'ipotesi d'un can- giamento nella struttura del nostro spirito non ha senso. Ma questa obbiezione non tocclierebbe il fondo della qui- stione, perchè noi possiamo modificare la nostra ipotesi: noi supporremo dunque che possa esservi nelle forme del- la nostra conoscenza, non un cangiamento propriamente detto, ma quella modificazione o difterenziazione, qualun- que essa sia, corrispondente a ciò che degli esseri sen- sibili, condizionati a questa forma dell'intuizione che è il tempo, conoscono come cangiamento. Le conseguenze dell' ipotesi sarebbero sempre le stesse : non vi sarebbe alcun giudizio assolutamente valevole per tutti i casi, le apparizioni dovendo necessariamente differire secondo la differenza del punto di vista, cioè delle forme della nostra inteUigenza. Ora chi può insegnarci la persistenza di que- ste forme, se non l'esperienza? donde sappiamo noi, nel caso presente, che vi ha della costanza nella struttura del nostro spirito, come, nel easo precedente, nella strut- tura del nostro occhio, se non dalPesperienza ? Inoltre, quando Kant stabilisce le condizioni universa- li di ogni esperienza possibile, quando egli suppone che un giudizio sintetico abbia uu valore universale nel mon- do dei fenomeni, egli non parla, senza dubbio, esclusiva- mente della sua propria esperienza personale, del proprio mondo di fenomeni subbiettivo o individuale. « L' univer- so, dice il nco— kantiano Lange, è un prodotto dell'orga- nizzazione del genere nei tratti generali e necessari di ogni esperienza. .. La realtà è il fenomeno per il genere, mentre Y apparenza illusoria è un fenomeno per Tindivi- duo, fenomeno che non diviene un errore se non perchè gli si attribuisce la realtà, cioè a dire V esistenza per il genere» (Op, clL t. 2\ parte 4^ e. 4^.) Il mondo dei fe- nomeni di cui Kant vuole spiegare Torigine, la conoscen- za di cui egli ricerca gli elementi, è dunque il mondo dei fenomeni e la conoscenza, non di un individuo particola- re, ma del genere umano. Kant sa che le regole neces- sarie deir esperienza degli altri uomini sono identiche al- le regole necessarie della sua propria esperienza, perchè sa che lo spirito degh altri uomini è costituito come il suo, che le stesse forme della conoscenza sono comuni a lui ed agli altri. Ma chi può avere insegnato questo a Kant, se non ancora l'esperienza ? La validttà obbiettiva (V un giudizio universale suppone dunque questa condizione: che le forme della conoscenza siano qualche cosa d'invaria- bile, sia in ciascun individuo, sia in tutti gl'individui del genere; e la cognizione che (juesta condizione si verifica non potendo essere attinta altrove che neiresperienza, è perciò vano il tentativo di Kant di fondare altrove che neUesperienza stessa la legittimità delle conoscenze uni- versali. §. 5.^' Secondo Kant, il fondamento della leggi ttimità dei principii universali è che essi non fanno che riferire agli oggetti conosciuti le condizioni formali della cono- scenza : cosi il principio della causalità è obbiettivamente valevole, perchè l'idea della causalità è una regola del- l'attività sintetica del pensiero, di cui la natura fenome- nale è un risultato. Ne segue che un principio tale non è applicabile che nei hmiti della conoscenza fenomenale, e non abbiamo alcun diritto di estenderlo al di là: ne segue ancora che, ogni progresso, logicamente valido, nella conoscenza non essendo che l'applicazione di alcuno di questi principii rigorosamente universali, non vi ha cosa alcuna, che non sia l'oggetto d'una percezione attuale, di cui noi possiamo logicamente ammettere l'esistenza, se non sia legata coi fatti conosciuti dell'esperienza, in virtù delle leggi di ogni esperienza possibile. In una parola non è possibile alla nostra conoscenza di oltrepassare l'espe- rienza e il mondo dei fenomeni. Kant ha esplicitamente ammesse queste conseguenze delle sue presupposizioni: « I giudizi sintetici a priori, egli dice, non possono estendersi oltre la sfera degli oggetti subordinati ai sensi; ed hanno valore unicamente nelle cose che possono essere comun- que presentate dall'esperienza ». (Conclus. delVestet, tra- seendent, 2* ediz.) « Le categorie non sono d'altro uso alla cognizione delle cose, che altrettanto solamente che queste sono considerate come oggetti della esperienza possibile » {Analitica §. 22 fine, 2^ ediz.) « Dove giunge la percezio- ne, con quanto ne dipende in conformità delle leggi em- piriche, ivi giunge pure il nostro sapere intorno all'esi- stenza delle cose. Se non si parte dalla esperienza, e non si progredisce giusta le leggi della connessione empirica delle apparizioni, é vana ogni speranza di poter indovi- nare 0 conoscere l'esistenza di qualche cosa » (Analitica, Uh. 2^, e. 2^, sez. >, IV, Postulato della effettività), Msl se è cosi, è vana la pretesa di Kant di ricercare gli elemen- ti della conoscenza fenomenale e l'origine di questi ele- menti, le cause, subbiettive ed estra - subbiettive, di cui la natura fenomenale è un effetto, il modo di Ibrmazione, in una parola, di (|uesto mondo delle nostre apparizioni. Kant ammette che delle cose esteriori obbiettivamente esistenti, quantunque per noi sconosciute, e che egli chiama noumeni, ci forniscano, agendo sui nostri sen- si, ÌSi materia della nostra conoscenza; ed egli crede di avere scoverto le leggi necessarie e il processo dei- Tatti vita del nostro spirito, per cui, con questa materia, è formato il mondo deiresperienza. Kant ammette dunque necessariamente l'esistenza di qualclie cosa che non fa parte delKesperienza i)Ossibile ; egli ammette ancora un'at- tività o un'etticienza causale, una legge, al di fuori della cerchia dei fenomeni; egli fa un uso illegittimo delle ca- tegorie, applicandole, non ])iii alle apparizioni soltanto, ma anche alle cose in se stesse. Spoglieremo noi i noumeni di tutto ciò die proviene dalle forme della nostra cono- scenza? ma allora del noumeno non resterà che un puro niente, una [jarola interamente vuota di senso. « Secondo Kant, dice uno storico a lui favorevole, il Buhle, spazio,. tempo, grandezza, realtà, sostanza ed accidente, causali- tà, unione di parti per formare il tutto, possibilità ed im- jiossibilità, necessità, contingenza, esistenza, apparenza,, forza, azione, passione, riposo, sono principii soggettivi della nostra sensibilità o del nostro intendimento, che non appartengono oggettivamente alle cose. Che cosa è dun- (lue la cosa in se stessa, che ammette Kant, e sulla quale riposano tanti punti del suo sistema, come la realtà og- gettiva della conoscenza, la spiegazione del libero arbitrio e la soluzione delle antinomie cosmologiche, se questa cosa non esiste oggettivamente in alcun tempo né in al- cun luogo, se non ha né grandezza né realtà, se non- é né sostanza né accidente, né causa né effetto, né tutto né parte, né possibile né impossiìjile, né positiva né nega- tiva, né necessaria né contingente, se non é nò esistenza né apparenza, se non ha alcuna azione né alcuna pas- cri-' sione e non é nemmeno in riposo ì » (Stor. della filos. mod, t G, del criticismo). L'ammissione dei noumeni è certa- mente in contraddizione col principio di Kant che non possiamo ammettere l'esistenza di alcuna cosa, se non partendo dalFesperienza, e progredendo giusta le leggi empiriche della connessione dei fenomeni, principio che, come abbiamo visto, é una conseguenza di (luesialtro, che la giustificazione della conoscenza universale é che il pensiero stesso dà le leggi alle cose conosciute. La stes- sa contraddizione si presenta, quando é quistione del pro- cesso con cui lo spirito costruisce la natura fenomenica, dell'azione deirintendimento che determina l'ordine con i fenomeni ci appariscono, della sintesi dell'iinmagi- nazione produttiva, dei concetti puri, degli schemi, che sono le regole di questa sintesi. Quest'attività del pensie- ro, di cui il mondo dei fenomeni é il prodotto, é essa stes- sa qualche cosa di fenomenale o di ultra — fenomenale ì Nel primo caso essa non può spiegare TojMgine del feno- meno, perché essa stessa fa parte di quest'ordine di ap- parizioni che si tratta di spiegare. Nel secondo caso noi non abbiamo alcun mezzo di conoscerla né di dimostrar- ne l'esistenza, perché essa non fa parte dell" esperienza pos- sibile, né ha alcun legame coi fatti conosciuti dell'esperienza, in conformità delle leggi della connessione empirica dei fe- nomeni, che sole ci permettono d' inferire l'esistenza di qual- che cosa. Inoltre tanto quando si ammette che le leggi dell'in- tendimento detei^minano le congiunzioni dei fenomeni o la loro forma, quanto quando si ammette che le cose in sé de- terminano la materia di questi fenomeni, noi abbiamo un'ap- plicazione illegittima del principio di causalità, un'estensione di questo concetto al di fuori dei limiti del mondo dei feno- meni. Quest'azione delle cose in sé, da una parte, e que- st'attività dell'intendimento, dall'altra, essendo supposte le cause dell'ordine fenomenale, vi ha necessariamente in questi casi l'ammissione di una connessione causale, che '-ifr--r 3non è una connessione tra fenomeni, e che quindi non può essere il prodotto della sintesi del pensiero. §. 6.^ I discepoli di Kant hanno fatto vari tentativi per eliminare dal criticismo queste contraddizioni : ma esse sono troppo inerenti ed essenziali al sistema, i)erché ciò sia possibile. È impossibile di sopprimere la cosa in sé, senza trasformare completamente il sistema di Kant. Pri- ma di tutto, ciò che vi ha di essenziale nel criticismo, è il principio della subbiettività della nostra conoscenza. Se dunque vi ha qualche cosa al di fuori del soggetto cono- scente, cioè di me stesso (e vi hanno almeno, oltre di me stesso, altri esseri che sentono e che pensano), io non posso conoscere questo qualche cosa, secondo Kant, che rivesten- dolo delle forme della mia sensibilità e del mio pensiero. Questo qualche cosa che esiste fuori di me, questi altri esseri che sentono e che pensano, esistono quali io me li rappresento, nelle forme determinate dalle mie facoltà co- noscitive ? Se si, e allora le forme della mia sensibilità e del mio pensiero hanno un valore obbiettivo, e non pura- mente subbiettivo: i rapporti, in cui io mi rappresento i differenti stati di ciascuno di questi esseri, e questi esseri differenti, fra di loro, sono reali, e non sono Topera del mio pensiero; V ordine e la regolarità dei fenomeni sono nelle cose stesse, e non vi sono stati posti da me stesso, o dalla natura del mio proprio spirito. E clic resterà al- lora di tutto Tedifizio della Critica Kantiana? Ammette- remo perciò invece che questi essesi fuori di me, e quest'es- sere stesso che io chianio me, non esistono nel modo in cui io me li rappresento ? Ma ciò è ammettere che vi hanno dei noumeni differenti dai fenomeni: questa distinzione tra il fenomeno e il noumeno, e perci(') resistenza del nou- meno, è dunque un'ipotesi inevitabile neirideaUsmo Kan- tiano. V Vi ha oltre di ciò una dottrina in Kant che sembra logicamente legata con lammissione dei noumeni : è la distinzione tra fa forma e la materia della conoscenza. Questa spiega perchè noi non possiamo conoscere a /)r/o- ri le leggi particolari della natura, ma solo le modalità generali della congiunzione tra i fenomeni, quale il prin- cipio della connessione tra la causa e T effetto; la cono- scenza delle uniformità particolari tra i fenomeni essendo d altronde per Kant fondata sulFesperienza. Ma se la ma- teria della conoscenza non sopravvenisse allo spirito dal di fuori, non si comprenderebbero questi Hmiti imposti air attività del pensiero nella formazione del mondo dei fenemeni, e sarebbero perciò stesso inesplicabili i limiti corrispondenti che lo spirito incontra nella conoscenza a priori di questo mondo. Se non si ammette dunque la cosa in sé, bisogna abbandonare la distinzione tra la forma e la materia, tra Y a priori e Va posteriori: da Kant si passa a Fichte, il quale sopprime il noumeno Kantiano, ma am- mette al tempo stesso che la natura, senza distinzione di forma e di contenuto, è unicamente il prodotto dell'attività del pensiero, e che questo sviluppa dal suo propri<) fondo il sistema intero della conoscenza. Un kantiano moderno, conformemente alla tendenza essenzialmente materiahsta e punto idealista della filosofia contemporanea, é piuttosto nell'ipotesi trascendente delFef- ficienza dei concetti puri dell'intendimento che deve tro- vare un intoppo. Cosi il Lange vuol sostituire l'organizza- zione ai concetti puri dell'intendimento di Kant : la sintesi a priori non è più per lui dovuta all'azione coordinatrice dell'intendimento puro sui dati dei nostri sensi, ma piut- tosto, sembra, al concorso spontaneo di questi dati stessi secondo leggi determinate dalla nostra organizzazione. Le categorie di Kant gii sembrano « una personificazione alla maniera di Platone » ; questi concetti non sono l'origine dell'a priori, essi ne sono tutt'al più l'espressione più sem- phce. Ma se non si ammette questo platonismo, tutta la critica delta ragion pura si risolve, dice il Lange, in una pura tautologia : la sintesi a priori ha la sua causa nella sintesi a priori, e T esperienza deve essere spiegata per le condizioni generali deir esperienza possibile. Se la de- duzione trascendentale deve, in luogo di questa tautologia, dare un risultato sintetico, bisogna necessariamente che le categorie siano ancora qualche cosa oltre che esse costi- tuiscano le condizioni generali deiresperienza. È ciò che bisogna cercare in Kant, che le chiama concetti ^ stipiti della ragion pura: ma T autore, in (juanto a lui, li rim- piazza per Torganizzazione. La dottrina d'un pensiero />z«ro, d'un intendimento Ubero interamente dairinfluenza dei sen- si, sembra giustamente al Lange una delle delx)lezze più deplorevoli del sistema kantiano. La sintesi delle impres- sioni non presuppone, egli dice, la categoria della sostanza; al contrario la sintesi sensoriale delle impressioni è la base sulla quale solamente una categoria della sostanza potrà svilupi)arsi. Non sono i concetti stessi che esistono avanti Tesperienza, ma solo delle disposizioni tali che le impressioni del mondo esteriore sono tosto riunite e coor- dinate conformemente alla regola fornita da questi con- cetti. Forse si troverà, un giorno, il fondo dell' idea di causalità nel meccanismo del movimento riflesso e dell'ec- citazione simpatica: allora avremo la Ragion pura di Kant tradotta in fisiologia, e resa cosi più evidente (V. Storia del rnaterialisnio t. 2*^ parto 1* e. V e note 25,20,37). A questa trasiormazione del kantismo si presenta na- turalmente lo stesso dilenmia che noi dianzi abbiamo op[X)sto al sistema originale di Kant. Come bisogna inten- dere quest' organizzazione, in cui Lange vuol trovare la base della sintesi a priori, delle condizioni generaU di ogni esperienza possibile ? E l'organizzazione fìsica, fenomenale ? Ma questa suppone già le leggi generali del fenomeno, le condizioni di ogni esperienza possibile : essa non può spie- gare rordine dei fenomeni, perchè essa stessa è parte di quest'ordine che si tratta di spiegare. Sarà invece il lato trascendente dell'organizzazione fisica, fenomenale, la «co- sa in sé del cervello » ? (v. t. 2« nota 00 alla .3* parte). Ma non si può, secondo i principii del criticismo, conce- pire la cosa in sé, non si può provarne \ esistenza. Noi non possiamo concepirla, perchè le nostre concezioni sono limitate dalle forme subbiettive dell'intuizione sensibile e del pensiero ; noi non possiamo provarne resistenza, per- chè ogni prova riposa su dei principii che non sono che l'espressione delle condizioni generali dell'esperienza pos- * sibile, e questi principii non possono applicarsi che nei limiti di questa esperienza stessa. Per altro questo compromesso tra i principii della Cri- tica della ragion pura e queUi della psicologia fisiologica sembrerà, dopo l'iflessione, non altro che una combina- zione puramente arbitraria, che non soddisfa alle esigen- ze, i>er cui le i]:>otesi metafisiche, rimaneggiate in uno spi- rito di eclettismo, erano state unicamente create. Tanto la cosa in sé, quanto la efficienza d'un principio subìjiet- tivo sulle forme o sull'ordine con cui i fenomeni ci vegono presentati, sono delle veri i|30tesi metafisiche: vale a dire, esse sono destituite affatto di prove, e non si è inclinati ad ammetterle che in virtù delle tendenze me- tafìsiche dello spirito umano. Queste tendenze, come mo- streremo nel Saggio 2,'' si riducono, nella loro origine, all'influenza di forti abitudini mentah, inse[)arabili dall'e- sercizio della nostra intelligenza. Noi non ammettiamo la cosa in sé che per l'abitudine di obbiettivare le nostre sensazioni: tutta la forza e il valore dell'ipotesi si ridu- ce a ciò, che per essa è soddisfatto questo bisogno dell'ob- biettività che ha il nostro spirito. Similmente l'ipotesi kan- tiana, che le forme o l'ordine con cui ci vengono dati i fenomeni, hanno le loro catise nel soggetto conoscente, non deve la sua forza e il suo valore che alla tendenza generale, di cui essa è un caso, che ci porta ad elevare la nostra attività, sia interna sia diretta sul mondo esteriore, a tipo di spiegazione universale. Questa tendenza proviene anch'essa dairinfluenza di una forte abitudine mentale, poiché i fatti che servono di base alla spiega- zione, come quelli che servono di base a qualsiasi altra spiegazione metafìsica, non sono che dei fenomeni del- la nostra esperienza più familare, la spiegazione me- tafisica consistendo appunto a ricondurre tutti i feno- meni a quelli che ci sono i più familiari (v. Saggio 2» parte 1^). Cosi se all'attività del pensiero, come prin- cipio determinante Tordine e la regolarità dei fenomeni, si* sostituisce il meccanismo delFazione riflessa, con cui solo il fisiologo ha qualche familiarità, o Fazione delle cosa in sé del cervello, di cui alcuno non ha mai conosciuto né immaginato niente di simile, l'ipotesi cosi modificata non corrisponde più alle condizioni e allo scopo d'un'ipotesi metafisica : essa non riduce più i fatti al tipo di qualche fatto dei più familiari della nostra esperienza quotidiana, e non è più quindi una spiegazione. Da un alto canto, è più soddisfacente per il nostro bisogno dell'obbiettività, di riguardare con Spencer il nexus dei fenomeni come il cor- relativo di un nexus obbiettivo delle cose in se stesse, an- ziché di riguardarlo, con Kant e coi suoi, come il pro- dotto di un principio subbiettivo. Ma ciò che Kant perde- va da questa parte, lo guadagnava dall'altra, perchè egli dava una spiegazione di questo nexus dei fenomeni: al contrario, la perdita di Lange è senza compenso, perchè la sua ipotesi sull'origine di questo nexus non è, come abbiamo detto, una spiegazione. Del resto, sia che col vecchio kantiano Sigismondo Beck (in cui Fichte riconosceva il suo precursore) si sop- prima l'azione della cosa in sé nella produzione del mon- do dei fenomeni; sia che col neo— kantiano Lange si sop- prima l'azione dei concetti; non si é fatto niente ancora per ehminare la contraddizione, inerente al sistema, di estendere al di là del mondo dei fenomeni la nozione di r: l'oggetto della conoscenza a priori 305 causa, che, sec^ondo i principii del criticismo, non serve che a completare il cervino delle conoscenze fenomenali. Se si sopprime la cosa in sé, non si ta che riportare sui concetti la parte di causalità che a quella veniva attri- buita; se si sopprime l'attività dell'intendimento o dei con- cetti, la parte di causalità attribuita a questi viene ripor- tata sulla cosa in sé: ma, in ogni caso, ricercare con Kant l'origine e la produzione del mondo dei fenomeni, significa mettere in rapporto questo mondo dei fenomeni con qual- che esistenza trascendente, mediante un legame che non può essere che quello di causalità, qualunque sia d'altronde il nome con cui si voglia designarlo (1). (l) Non bisogna tacere che il Lange non lui. in fin dei conti, più rispetto per la cosa in sé che pei concetti dell'intendimento puro. « Noi non sappiamo realmente, egli dice, se una cosa in sé esiste. Noi sappiamo solamente che Tapplicazione logica delle leggi <Iel nostro pensiero ci conduce alFidea di una qualche cosa d' in- teramenle lìroblematico, che noi ammettiamo come causa dei fe- nomeni, dacché abbiamo riconosciuto che il nostro mondo non può essere che un mondo della rappresentazione. Si domanda : ^h^ ove restano ora dunque le cose ? la risposta sarà : Nei fenomeni. Più la cosa in sé si volatizza, e si riduce a una semplice rappre- sentazione, più il mondo dei fenomeni acquista della realta. Esso comprende in generale tutto ciò che noi chiamiamo T-ealc. I feno- meni sono ciò che il senso comune chiama cose. 11 filosofo chia- ma le cose fenomeni, per indicare che esse non sono semplicemente (lualche cosa di situato esteriormente in faccia di me, ma un pro- dotto delle leggi del mio spirito e dei miei sensi» (t. 2, p. 58 tra- duzione francese). Ecco dunciue Lange arrivato, come già altri criticisti prima di lui, al puro fenomenismo: il concetto problematico e, come egli dice seguendo lo stesso Kant, puramente UnutaUco della cosa in se non pone niente di contrario a (juesta dottrina; nessun fenome- nista vorrà contestare la possibilità di qualche altra forma della esistenza al di fuori del mondo dei fenomeni che noi conosciamo. Certamente ilfenomenìsmo è il risultato, a cui uno spirito logico, ì>rendendo le mosse dai principii della Critica della ragion pura, è facilmente condotto. Kant si avvolgeva in una contraddizione Riassumiamo. Secondo Kant, ogni principio ri- gorosamente universale, che dà un'estensione alia nostra conoscenza, è un giudizio sintetico a priori) e un giudizio sintetico a priori ha un valore obbiettivo, in quanto ò il pensiero stesso che determina il suo oggetto. Un principio necessario ed universale dunque, o un giudizio sintetico a priori, non ha valore che nei limiti del mondo delle apparizioni, in (guanto queste sono, riguardo alla l'orma, insolubile (iiumdu, avendo posto come i)iincii>io che la nosti'a co- noscenza è puramente fenomenale, si domandava poi donde ci l>rovenisse «jiiesf oggetto fenomenale che noi conosciamo, il che supponeva che si potesse conoscere ((ualche cosa al di là del fe- nomeno. Il Lange poteva dunque felicitarsi di avere sl)arazzato il kantismo da una patente contraddizione, quando egli rigettava l'atfermazione categorica d'una cosa in sé e la dottrina dell'inten- dimento puro che produce la sintesi delle impressioni sensibili, o l'ordine dei fenomeni. Ma cìie resta allora di Kant? Non resta che ciò che questo tilosofo ha di comune col vecchio Protagara : l'uo- mo è la misura di tutte le Qose. Il fenomenismo criticista non è il fenomenismo dei gi'andì lilo- sofi em|>iristi inglesi: noi potremmo chiamare (piello di un Mill o di un Hain un fencmienismo ohbiettLro^ e (piello dei neo - ktjntiani un fenomenismo .<uhf*fettir(j. La categoria nonèi»iùper Lange un concetto deirintendiinento puro anteriore alla conoscenza empi- rica : ma essa è semi»re una forma subbiettiva di cui lo spirito ri- veste i dati dei sensi. L'ordine dei fenomeni dunque non è niente di reale e di assoluto, ]>erchc quest'ordine non è che una forma della mia conoscenza: la connessione dei fenomeni non esiste che per lo spirito connettente. Vi furono realmente prima di' me degli esseri che sentirono e che pensarono? ve ne sono simultaneamente a me? ve ne saranno dopo di me? Il prima, il dopo, il simulta- neamente iianno un' esistenza reale, ol)biettiva? No, secondo i Kan- tiani: il tempo non è niente fuori di me; 1' ordine non è nei fatti conosciuti, ma nel soggetto conoscente ; gli altri esseri, quali io li conosco, non sono che un prodotto della mia facoltà conoscitiva; l'oggetto conosciuto non esiste per se stesso, ma pel soggetto co- noscente. È questa impossibilità di uscire dal proprio me, quest'aj)- l^erenza universale senza poter alTerrare aUuina realtà, che è la conseguenza inevitaì)ile del Ivantismo. L ciò che Fichte dichiara determinate dal pensiero. Ne segue ciie alcuna connes- sione fra le cose non è conoscibile, se non è una connes- sione tra apparizioni, in quanto questa viene determinata dall'attività connettente del pensiero. Ne segue ancora che r esistenza di cosa alcuna non è conoscibile, se questa cosa non appartiene al mondo dei fenomeni, o delle ap- parenze; poiché, da una parte, noi non abbiamo altro di dato die i fenomeni o le apparenze, e dallaltra parte, niente nei termini più espliciti (v. Destina:: Ione deWuoìno, in line della 2. parte): egli vuol ricondurre per la credenza l'elemento della realtà che sfugge allo conoscenza, ma cpiesto è semplicemente confessare rinsufìicienza del sistema. (V. la stessa opera, parte 3. Noi dob- biamo ammettere, secondo Fichte, che le apparizioni che, nello spazio, si mostrano simili a noi stessi, sono realmente degli esseri simili a noi,.i>erchè la coscienza morale ci ordina di riguardarle come creature libere, indipendenti da noi ed esistenti perse stesse, <» di rispettare la loro libertà. Percorrendo sino infondo la via su' cui Kant aveva fatto i primi passi con la Critica della ragioff. jfratira, ciò che il kantisiuo ha distrutto o i*eso pro])lematico, Fichte lo ristabilisce a titolo di credenza, fondata sulla coscienza della legue morale: l'esistenza di altri me al di fuori del suo proprio e la realtà del mondo esteriore, come l'esistenza di Dio e l'immor- t(dilà dell'anima. Un tale processo, applicato in tutto il suo rigore, conduce ad abbracciai'e nel dominio della credenza tutto ciò che oltrepassa il fenomeno immediato della coscienza — poi che, dacché si tratta di passare dalla rappresentazione alla cosa rappresentala, <piaiHr anche questa non fosse che uno stato, passato o futuro! della nostra propria coscienza, nasce la ditììcoltà che tutto ciò che noi ci rappresentiamo, non ce lo rappresentiamo che nel modo determinato dalla forma della nostra facoltà l'appresentativa — K €iò che fa esplicitamente Renouvier { Saggi di critica generale, Saggio 2. parte 2, segnatamente § 14 e IG), ritornando, dopo aver ^attraversato il criticismo, olla lìlosofia del senso comune o delle credenze naturali. Senza duJDbio, è vero in un senso di dire che è per un otto di credenza che noi oltrepassiamo il fenomeno imme- diato della coscienza, in quanto il pensiero non può uscire da se stesso e portarsi sulla cosa pensata, per conseguenza la coinciden- za tra il pensiero e la realità non è che un postulato, e ogni nostra o.onoscenza riposa, in ultima rmalisi, sopra un atto di fede nel va- può essere inferito se non in virtù d'una connessione con ([ualche cosa di dato, e noi non possiamo conoscere altra connessione che tra fenomeni o apparenze, in quanto ({uesta è prodotta dall'attività sintetica del pensiero. Ma dire che gli oggetti che noi conosciamo non sono che apparenze, è dire che vi hanno oltre di essi delle realtà di cui essi sono le apparenze : quindi è dire ancora che vi ha una connessione tra queste realtà e ({ueste ap- lorc renle delle nostre facoltà conoscitive (v. il caiutolo ultimo di questo Saggio). Ma quest'atto di fede nel criticismo diventa irra- c;ionevole, poicliè, se si ammette clie tutto ciò clic noi conosciamo, lo conosciamo nel modo determinato dalla nostra facoltà cono- scitiva, resta sempre possibile, è vero, clic vi siano al di fuori del- le nostre rappresentazioni delle cose conformi a queste rappresen- tazioni, ma questa conformità diviene un fatto fortui-to e assoluta- mente incomprensibile, perchè la conformità tra il pensiero e le cose noi non possiamo comprenderla altrimenti che come un ef- fetto delle impressioni delle cose stesse - cioè dei fenomeni reali— sul soggetto pensante). Secondo Stuarfc-Mill il mondo materiale non è niente allinfuori delle sensazioni, e si può dire clie il reale per lui non consiste che nelle sensazioni, o per usare una parola a cui è stato dato un senso più generico, nei sentimenti degli esseri senzienti. Ma l'ordine con cui queste sensazioni si presentano (ciò che noi chiamiamo le leggi della natura) è qualche cosa di reale, di obbiettivo: le loro con- nessioni, le serie distinte che esse formano (di cui ciascuna costi- ' tuisce un me distinto), non che i rapporti fra queste serie, esisto- no indipendentemente dalla mia conoscenza. Si è obbiettato a ({ueslo sistema rimpossil)ilità di affermare resistenza di altri spiriti al di fuori òcì proprio: quest'obbiezione nasce da una comprensione ine- satta del sistema. Io osservo che certe sensazioni appartenenti al gruppo che io chiamo il mio corpo, sono in rapporti costanti sequenza o di antecedenza con altri sentimenti appartenenti alla serie che io chiamo il mio spirito: emozioni, volizioni, pensieri, ecc. (notiamo che questi rajìporti non sono, rigorosamente parlando, costanti, che se alle sensazioni reali si aggiungono le passibilità (U sensazioni). Fondandomi sull'esperienza di questi rapporti, tutte le volte che mi si presentano altre sensazioni simili, o che io sono autorizzato ad ammettere delle possibilità di altre sensazioni si- parenze. Ora se è cosi, noi conosciamo delle cos9 che non sono apparenze, e delle connessioni che non sono connes- sioni tra semplici apparenze, determinate dalla virtù con- nettente del pensiero. Inoltre dire che Fattività del pen- siero determina le apparizioni in quanto alla loro connes- sione, è dire che vi ha qualche cosa (il pensiero connettente) prima e al di là del mondo delle apparizioni: di più è dire che fi*a questa qualclie co.sa e il mondo delle apparizioni mili, appartenenti ai grupi>i che io chiamo corpi simili al mio, io ne inferisco che esse sono legate per gli stessi rai>porti di sequenza e dì antecedenza con altri sentimenti simili a riuelli che io chiamo stati del mio spirito. Questi altri sentimenti che io inferisco, non fanno parte della mia coscienza; essi sono gli stati di altre coscienze, di altri spiriti simili al mio. Ma ciò non toglie niente alla validità delle mie inferenze: io non ho potut.0 osservare i rapporti su cui queste inferenze si fondano, ne verificarle direttamente, che nei limiti della nu'a esperienza personale, cioè della mia propria co- scienza ; ma è nella esperienza personale di ciascuno che si tro- vano, in ultima analisi, gli antecedenti logici di tutte le conoscenze che egli può acquistare. Se io ho appreso per la mia esperienza personale che certe possibilità di sensazioni, che noi chiamiamo (lei fatti del mondo materiale, sono in un rapi>orto costante con certi stati di coscienza o fatti del mondo spirituale, io sono auto- rizzato ad inferirne che lo stesso avviene al di là dei limiti della mia esperienza personale, cioè al di fuori della mia propria coscienza. L'operazione induttiva, cosi bene che i dati da cui essa parte, sono ]>recisamente gli stessi che se io credessi alla realtà della materiji, cioè se io realizzassi, come fa il realista naturale, le possibilità di sensazioni (confr. Mill Filosofìa di Hamilton, cap. 12. e Appen- dice ai cap. M. e 12. nota penultima). Questa inferenza, la (juale mi conduce all' affermazione di altri esseri fuori di me, è legittima, perchè i rapporti sovra cui essa si fonda, sono dei rapporti reali, obbiettivi: ma un kantiano non iniò fare legitLiinamentc <piesta in- ferenza, perchè l'antecedenza e la sequenza, il tempo, la causalità, in una parola, l'ordine dei fenomeni, non è che un prodotto del suo j.ensiero, una forma della sua conoscenza, un'apparenza insomma «e non una realtà. 1/ oggetto conosciuto è per Mill indipendente dal soggetto conoscente; ma i^er un kantiano, e tanto più per un kantiano fenonìenista, l'oggetto conosciuto non è niente di asso- vi Jia una connessione, che non pu('> essere Teffetto dellat- tività del pensiero, perclié questa connessione non è altro che la stessa attività del pensiero. Noi aljbiamo cosi delle conoscenze sulle cose e sulle connessioni tra le cose, che non sono limitate al inondo delle apparenze : se (jueste conoscenze fossero scientifiche o rigorose, dovrebìjero es- sere il i)ortato di principii necessari e strettamente uni- versali, e (juindi di giudizi sintetici a priori. Ma questi luto, esso non e che relativo al soggetto conoscente. Sinché il sog- getto conoscente e l'oggetto conosciuto sono una sola e stessa cosa (la coscienza che ciascuno ha degli stati del suo proprio me), non vi ha una difhcoltà seria : ciò che io (come oggetto conosciuto) sono relativamente a me stesso (come soggetto conoscente), sarà una realtà in confronto di tutto ciò che io posso essere relativamente ad altri soggetti conoscenti. Ma (juando si stabilisce un rai)i>orto (p. e. di anteriorità e posteriorità) fra esseri distinti, dove sarà la realtà ? Il tempo non è, secondo Kant,, che una forma del mio senso interno; la causazione, la reciprocità d'azione, ecc. non sono che categorie del mio intendimento; in una parola, non vi ha alcun rapi^orto reale tra i fatti stessi, e lordine che noi attribuiamo alle cose non è niente al- di fuori della nostra rappresentazione. Un es- sere organizzato difterentemente da noi potrebbe loro attribuirne un altro: (juale sarà la verità 1 Per ciascuno ù rero ciò che (jU pare: ecco la formula che riassume il criticismo fenomenista. Per Kant, che ammetteva i noumeni^ la verità era inaccessibile; per un kantiano che li rigetta, la verità non esiste. Senza dub])io, Protagora era più logico di Kant e dei suoi discepoli, (juando di- chiarava ugualmente vere tutte le apivarenze, tutte le opinioni: noi riconosciamo che vi ha in questa audace tesi dell'antico sofista un carattere veramente .^q/ìstlco (nel senso tradizionale della pa- rola), ma è una conseguenza logica del lìrincipio, ammes.so ugual- mente dai kantiani, che l'oggetto conosciuto non è che relativa- mente al soggetto conoscente La verità è la corrispondenza fra il pensiero e le cose, fra la rappresentazione e gli oggetti rappre- sentati, aequatlo rei et intcì/ectas: se questa corrispondenza non esiste, la verità non esiste, non vi ha i)iù distinzione tra il vero e il falso, e tutte le opinioni sono egualmente vere (ed egualmente false). Xoi non potremmo tropiuì insistere su questa din'erenza tra il E l'oggetto dell.v conosg :nza a priori 3giuilizi non hanno valore che unicamente nei limiti de! mondo delle apparizioni, perchè non vi lia die un caso, se- condo Kant, in cui un giudizio sintetico a priori è pos- sibile: (juando è il pensiero che determina l'oggetto co- nosciuto. Per conseguenza o non è vero che sia questa che dice Kant la condizione della validità dei giudizi sin- tetici a priori, o non è vero che le conoscenze di cui so- pra abbiamo parlato, le quali non potrel)bero essere che fenomenisuio di un empirista e (|uello di un criticista. Per Mill le cose risolvendosi in sensazioni, la verità è l'accordo fra le rapi>re- sentazioni e le sensazioni : quando i rapporti di sequenza o di coe- sistenza, che noi ci ra])i>resentiamo fra le sensazioni (nostre e de-gli altri), corrispondono al loro ordine reale, vi ha verità; la verità è assoluta, i^erchè quest'ordine è assoluto, non è relativo al sog- getto conoscente. Ma, per un kantiano, cosa può essere la verità? « F/universo (sono parole di Lange che in parte abbiamo già citate) è non solo una rappresentazione, ma la nostra l'appresentazione, un prodotto dell'organizzazione del genere nei tratti generali e ne- cessari di ogni esperienza, un prodotto dell'individuo nella sintesi che .lisi»(ìne liberamente del suo oggetto. Si i)uò dunque dire che la realta è il fenomeno ])er il genei'e, mentre l'apparenza illusoria è un fenomeno per l'individuo, fenomeno che non diviene un er- rore, se non perchè gli si attribuisce la realtà, cioè a dire l'esisteza i»er il genere ». Ma queste proposizioni di Lange possono sem- braj'c un'inconseguenza in un darwiniano: esse su|>]^ongono che la' specie sia rigorosamente delimitata; che vi siano delle essenze o delle Idee, degli stampi insonmia su cui la natura modella co- stantemente gl'individui ; che unatlìnità e una distinzione di si)ecie sia <jualche cosa di reale, mentre le altre relaziinii fra gli esseri sono qualche cosa di semplicemente ideale. Per un criticisla che non ammette la fissità delle specie, la verità, se essa è il prodotto dell'organizzazione, non può essere (die variabile e individuale co- me l'organizzazione stessa. Ma sia qualsivoglia la definizione della verità per un kantiano: tutte le volte che per (juesta parola s' in- tcìnde altra cosa che la conformità della rappresentazione con gli oggetti rai)presentati, non si conserva che il nome solo della ve- rità. E allcM'a non si può parlare che ]ier equivoco di vero e di fal- so, di rappresentazione, di conoscenza, ecc.: gli stessi stati sub- biettivi, che noi chiamiajno certezza, opinione, dubbio, afferma- :,-iirai;r'i;.flai;;i„TSt«t,a 3i2 :) londdte su giudizi sintetici a priori, abbiano un valore obbiettivo La spiegazione di Kant dei giu.lizi sintetici a priori implica perciò contraddizione: ma questi giudizi non sono possibili che alla condizione voluta dalla s'^piei.^a- zione; dunque non vi hanno giudizi sintetici a priori. Ora, siccome secondo Kant non possono immaginarsi che due casi, in cui possa esservi coincidenza fra la conoscenza sintetica e il suo oggetto— o il pensiero determina rono^et- zione, ncKOzione, ecc., un fenoiiienisla KiuUiiuio non ruò provarli ohe mettendosi in controdtlizione con le sue idee speculative. Ma a die si riducono aUora queste i«lee speculative, ch'e.Lrli è obbli- gato di smentire ad ogni momento nei casi particolari? Esse non hanno per lui stesso un vjdore reale, ma semplicemente nominale: non sono delle idee. ma,. (!ome dice Spencer, delle pseudo— idee. Ora non sarà privo d'interesse il domandarci cosa può divenire per Lange la spiegazione del giudizio sintetico a prioii (la (|ui- stione fondamentale della Critica della rar/lon pura), dopo che egli ha rigettato l'azione coordinatrice dell'intendimento ])ur() sulle impressioni dei sensi. La spiegazione, noi lo sappiamo, era questa per Kant: il giudizio sintetico a /^/yo/y* è possibile, perv-hé è il pen- siero stesso clie determina l'esperienza, vale a dire la forma o l'ordine con cui i fenomeni ci ai>iìariscono. Ter T.ange non è il pen- siero che determina 1' *'S!)erienza, e non è nemmeno lespericnza che determina il pensiero, il giudizio essendo a priori : come spie- gare dunque la loro coincidenza? Kant emette incidentalmente la congettura che le due sorgenti della conoscenza umana, i sensi e rintendimento, provengono forse da una l'adice comune : <]uest'i- dea, secondo il Lange, può ben contenere la vera soluzione del problema trascendentale (v. Star, del inater. t. 2. parte 1. e. 1. p. 38 trad. frane: e cfr. e. 2. pai.' SVI) -sarebbe, al fondo, la spiegazione spinozista della coincidenza tra l'essere e il pensiero —. Ma se non vi ha die il fenomeno, se il noumeno non esiste, (fuesta \\\- dice comune defila percezione sensitiva e del pensiero non può es- sere die una chimera. La spiegazione di un kantiano fenomenista come Lange del giudizio sintetico a priori non si riduce che a (piesto : le categorie essendo le forme della nostra conoscenza, queste forme ilevono ritrovarsi egualmente in tutte le fasi di (jue- sta conoscenza, tanto nella percezione sensitiva (conoscenza pre- sentativa ) (pianto nel pens'ero (conoscenza nippi'esentativa ). Ma to, e vi ha una conoscenza a priori; o l'oggetto determina il pensiero, e vi ha una conoscenza emi)irica — eliminato il primo caso, non resta che il secondo, e bisognerà dire che, in tutti i casi, Toggetto determina il pensiero, e non vi ha cognizione che non sia fondata suiresperienza. §. 8/^ Ora dobbiamo esaminare particolarmente la dot- trina di Kant rapporto alle proposizioni deUa inatemati- oa pura. Premettiamo una riflessione che sin qui non ci è stata necessaria : è die il sistema kantiano ha bisogno, come di una presupposizione indispensabile, della teoria concettualista. Le categorie, gli sc/iemi (che nascono dal- l'unione delle categorie con le forme della sensibilità), le intuizioni pure, ecc. non sono che delle astrazioni, e nien- te di ciò è possibile, se si nega l'esistenza delle idee astrat- te. Inoltre la dottrina dei giudizi sintetici a priori è fon- data sulla distinzione dei giudizi a priori in analitici e sintetici: orj, come si è spiegato nel capitolo precedente, i giudizi analitici suppongono necessariamente l'ipotesi dei concetti. Posto ciò, noi cominceremo per un'osservazione sul rapporto tra i giudizi analitici e i giudizi sintetici a priori della matematica. Noi abbiamo visto che le propo- sizioni, in cui si riconosce più chiaramente il tipo dei giu- dizi analitici kantiani, non sono che delle classazioni, e non affermano che delle somiglianze. Cosi l'esempio di Kant: Il corpo è esteso, assimila il corpo allo spazio, cioè all'intervallo tra i corpi in cui non percepiamo alcun o questa non è una spiegazione reale; è una di (pielle spiegazioni apparenti o illusorie, che consistono a ripetere in termini diilerenti il fatto stesso che si tratta di spiegare. Il fatto die si tratta di spie- gare è che le due fasi della conoscenza, la presentativa e la rap- presentativa, sono (secondo la dottrina dei giuilizi sintetici a pilo- ri) subordinate alle stesse leggi o alle stesse forme: dire che ciò avviene perdiè (pieste sono le leggi o le forme della conoscenza in generale, non è una spiegazione, ma semplicemente una tau- tologia. getto sensibile. A (juesta specie di giudizi analitici, che sono affermativi, Kant ne aggiunge un'altra, i negativi. Is'el giudizio analitico affermativo si attribuisce al concet- to, dice Kant, ciò che già in esso si pensava ; nel nega- tivo si esclude da esso ciò che è opposto al medesimo (A- nalitica, lib. 2,*^ e. 2,'' sez. 2,^ in principio). Eliminando la terminologia concettualista, noi diremo che la prima spe- cie di proposizioni esprime Tinclusione in una classe, o un assimilazione, la seconda Tesclusione da una classe, o una differenziazione. L'uomo è un animale, é un esempio della prima specie ; L'uomo non è una pianta, della se- conda. Ora tutti i giudizi della matematica pura, come appresso mosti*eremo in dettaglio, non affermano anch'es- si che delle somiglianze o delle differenze, come le pro- posizioni che Kant chiama analitiche : p. e. 5 4-7= 12, afferma un rapporto d'eguaglianza, cioè una somiglian- za determinata; La retta è la linea più breve fra due })un- ti dati, afferma un rapporto d'ineguaglianza definita, cioè una differenza determinata. Le proposizioni della mate- matica pura e le proposizioni analiticiie di Kant sono dun- que costituite essenzialmente sullo stesso tipo: le prime sono indipendenti dall'esperienza e necessarie nello stesso senso e per la stessa ragione che le seconde. Secondo Kant, l'apriorità dei giudizi matematici viene dalla circo- stanza, che le nozioni su cui volgono questi guidizi, sono delle nozioni anticipate, o date a priori. Le proposizio- ni della geometria descrivono le proprietà dello spazio e delle sue determinazioni ; e la ragione per cui è possiijile l'apriorità di queste proposizioni, è che lo spazio è un'in- tuizione a priori o anticipata. 11 numero è ugualmente una nozione pura o a priori, non essendo che una deter- minazione del concetto intellettuale puro o categoria della quantità, mediante le condizioni formali dell'intuizione ; e {X5rciò le proposizioni sintetiche sui rapporti numerici sono anch'esse a priori, Kant suppone dunque che l'apriorità. del giudizio dipende dall'apriorità delle nozioni su cui esso volge: ma ciò non è vero, perché i suoi pretesi giudizi analitici —- che in realtà sono anch'essi dei giudizi sinte- tici, i (juali, come abbiamo visto, affermano delle relazioni della stessa natura che quelli della matematica — sono se- condo lui dei giudizi a priori, e non per tanto le nozioni che entrano in essi, cioè i termini delle relazioni afferma- te^ possono essere, secondo lui stesso, semplicemente em- piriche, come nella proposizione che ci è servita di esem- pio: L'uomo è un animale. Come dunque l'apriorità e la necessità dei giudizi pretesi analitici non suppongono che gli elementi di questi giudizi siano delle idee o delle in- tuizioni pure, cosi 1' apriorità e la necessità dei giudizi matematici non suppongono che gli elementi di questi giu- dizi sono delle idee o delle intuizioni pure. Il carattere di- stintivo ammesso da Kant Ira i giudizi sintetici a priori della matematica e i giudizi analitici, cade con la teoria <lei concetti. I giudizi matematici si fondano, per lui, sul- l'intuizione sensitiva, quantunque pura, mentre al con- trario i giudizi analitici si fondano sul solo esame dei con- cetti. Ma s' è vero che noi non pensiamo che per rap- presentazioni concrete; se perciò le proposizioni che Kant chiama analitiche non esprimono che il risultato d'una comparazione fra oggetti dell'intuizione sentitiva; è evi- dente che anch'esse si fondano su questa intuizione, della stessa maniera che le proposizioni della matematica. Questa identità di natura dei giudizi matematici coi giudizi pretesi analitici e, in generale, con tutti quelli che si limitano ad affermare le somiglianze e le differenze, apparirà con più evidenza, se l'esame porterà sui primi principii, cioè sulle premesse, della matematica, anziché, come suol fare Kant, sulle proposizioni derivate. \\ chiaro che la quistione sull'origine della conoscenza matematica- volge su questi principii primitivi: lo stesso Kant ne con- viene, quando, per mostrare il carattere sintetico dei giùdizi matematici, dice che, quantunque la dimostrazione matematica procede in virtù del principio di contraddizio- ne, come richiede la natura di ogni apodittica certezza, le premesse però non possono essere provate e riconosciute mediante questo principio, e una proposizione sintetica non può altrimenti sta])ilirsi, in virtù del principio di con- traddizione, che presupponendo qualche altra proposizione sintetica (Introd, V), Tuttavia Kant crede che il carattere sintetico delle proposizioni aritmetiche si manifesti con più evidenza, quando si opera su numeri elevati; mentre Leibnitz aveva già mostrato che ogni proposizione sui rapporti nu- merici può venire dimostrata, prendendo come premesse gli assiomi generali sulle eguaglianze e delle proposizioni parti- colari su eguaglianze numeriche, di cui ciascuna enuncia che un dato numero più Tunità è uguale al numero die im- mediatamente segue il i)rimo nella serie ascendente dei numeri. Cosi, oltre gli assiomi generali sulle eguaglianze, le proposizioni deiraritmetica, su cui deve portarsi Tesame per risolvere la quistione sull'origine e la natura di queste conoscenze, sono delle proposizioni come queste: 24-1 ==3, «3+1 =?4, ecc.*. È dunque all'esame di tali proposizioni e delle altre veramente assiomatiche si deiraritmetica che della geometria, che Kant avrebbe dovuto limitarsi: ciò gli avrebbe forse mostrato che la sua ipotesi non è pro- pria a dare una spiegazione del carattere particolare dei giudizi matematici, e che non vi ha una grande distanza tra questi giudizi e quelli che egli chiama analitici. Il fatto che Leibnitz e tanti altri filosofi non vedono nelle propo- sizioni indicate sui rapporti numerici che delle semplici definizioni, è già un indizio che queste proposizioni non difleriscono essenzialmente dalle analitiche di Kant: e in efìetto non vi ha, nelle une come nelle altre, clie la sem- plice percezione d'una somiglianza definita (da una parte, p. e., dell'uomo con gli altri animali, o del corpo con lo spazio; e dallaltra, di un gruppo di oggetti e un altro oggetto isolato con un altro gruppo eccedente il primo d'una unità). Le premesse assiomatiche della geometria, oltre gli assiomi sulle eguaglianze, sono alcune poche proposizioni, delle più semplici, che si chiamino assiomi o definizioni, di cui ciascuna enuncia una proprietà primitiva di qualche forma geometrica, p. e. della retta, del piano, delle paral- lele. Queste ultime proposizioni lianno ordinariamente la più grande analogia con le analitiche di Kant. P. e. l'as- sioma della retta: « Due rette non chiudono uno spazio», non afferma se non che due rette sono affatto difierenti da uno spazio chiuso da linee, ed è quindi della stessa specie che le proposizioni, che Kant chiamerebbe analiti- che negative: «Luomo non è una pianta», «Il quadrato non è rotondo ». Se invece enunciamo quest'assioma nella forma che gli danno i geometri moderni: «Due rette che coincidono in più di un punto coincidono interamente», si può mostrare facilmente la sua analogia coi giudizi ana- litici affermativi. È all'intuizione, secondo Kant, che noi dobbiamo la conoscenza dell'assioma : ma è evidente che l'intuizione è uno stato puramente passivo del nostro spi- rito, e non potrebbe darci per se sola alcun giudizio. La verità è che l'operazione dell'inteUigenza è qui delle più semplici : essa si limita a riconoscere, esaminando gli og- getti dell'intuizione, che due linee, se esse sono rette e se si toccano in più di un punto, cioè se possono classarsi tanto fra le rette quanto fra le cose che coincidono in più di un punto, devono classarsi pure fra le cose che coin- cidono interamente ; se invece non coincidono interamen- te, allora o non sono rette, o non coincidono in più di un punto. Tutta l'azione del nostro spirito si riduce dunque ad esaminare se le linee di cui abbiamo l'intuizione, sia- no 0 no delle «rette», siano o no «delle cose che coincido- no in più di un punto», siano o no delle «cose che coin- cidono interamente » : ad esaminare cioè, in linguaggio concettualista, se gli oggetti della nostra intuizione possono o no ridursi sotto questi concetti ; in linguaggio nomi- nalista, se essi possono o no chiamarsi con queste deno- minazioni e includersi in queste classi. L'operazione in- tellettuale non è cosi che una complicazione di quella più semplice, che dà luogo ad una proposizione analitica. Ciò che non deve tralasciarsi di notare è che i carat- teri di necessità e di apriorità, che si trovano nelle propo- sizioni della matematica i)ura, sono comuni a tutte le pro- posizioni che non atiermano se non delle somiglianze o delle ditlerenze. Queste proposizioni, come abbiamo detto nel capitolo 3*\ sono necessarie, nel senso che noi non pos- siamo ammettere che il contrario di ciò che affermiamo potrebbe o avrebbe potuto aver luogo. Questa possibilità del contrario è sempre ammissibile per le proposizioni che affermano V esistenza delle cose, le sequenze o le coesi- stenze dei fenomeni ; noi sappiamo che vi ha nella natura una legge, secondo cui, nella comunicazione del movimento, un corpo ne guadagna altrettanto (juanto Y altro ne per- de; ma possiamo immaginare che la natura avrebbe i)0- tuto essere costituita altrimenti. Cosi per ogni altra pro- posizione atlermante una sequenza o una coesistenza : ma se noi conosciamo che due cose hanno tra loro un rapporto determinato di somiglianza o di differenza, noi possiamo ammettere bensi che queste cose avrebbero potuto non esistere con le proprit3tà che esse effettiva- mente hanno, ma non che, essendo come esse sono, il loro rapporto potrebbe essere diverso. Nel 3^ capitolo abbiamo pure parlato dell' altra [)articolarità dei giudi- zi sulle somiglianze e le differenze: è che essi sono, in un certo senso, a priori, vale a dire che noi possiamo an- ticipare suiresperienza delle cose stesse, limitandoci alle- same delle idee di queste cose. L'esame delle idee di due fenomeni non ci apprenderà mai niente sull'esistenza di questi fenomeni o sull'ordine con cui essi si sono succe- duti o si succederanno; ma noi possiamo, paragonando, L'orrGrrro della conoscenza a piuoui». 319 non le cose stesse mentre ci sono presenti, ma semplice- mente le loro rappresentazioni, apprendere i loro rapporti di somiglianza o di differenza. Cosi, sia che noi diciamo che la retta è più breve della spezzata e della curva fra gli stessi punti, sia che diciamo che tal gradazione di un colore è più carica che tal altra gradazione dello stesso colore; sia che affermiamo 1' eguaglianza di due più uno con tre, sia che paragoniamo il colore del cielo a quello del zaffiro; i nostri giudizi sono necessari ed a priori egual- mente e nello stesso senso. Questi caratteri di necessità e di apriorità delle proposizioni matematiche non dipendono dunque dalla circostanza che esse volgono, come vuole Kant, su nozioni jnire o indipendenti dallesperienza, ma da quella che esse non enunciano che delle somiglianze o differenze determinate. Un esempio evidente di questa ve- rità ci è offerto dall'assioma sull'eguaglianza: Due cose eguali ad una terza sono eguali fra loro. Quest'assioma non si appUca soltanto alle pretese intuizioni jntre, cioè alle grandezze geometriche e ai numeri. Se noi sappiamo che due copie sono esattamente rassomiglianti allo stesso originale, possiamo inferirne che le due copie sono esat- tamente rassomiglianti fra di loro. Quantuncpie ogn'idea di comparare le cose sotto il punto di vista della quantità sia assolutamente assente dal nostro spirito, noi non fac- ciamo in questo caso che un'applicazione dell'assioma sr)- praindicato; e tuttavia gli oggetti rapportati non sono og- getti d'un'intuizione pura, ma empirica. La necessità e a- priorità degli assiomi matematici non deriva, per conse- guenza, da ciò che essi sono fondati sulla intuizione pura o anticipata, ma dalla natura particolare dei rapporti die essi affermano. §. 1)«. La spiegazione di Kant dei giudizii sintetici a priori della matematica è dunque completamente illuso- ria; essa non tende a spiegare altro che questo: come dei giudizi ricavati da un'intuizione anticipata o puramente ideale siano poi applicabili agli oggetti reali deiresperien- za. Ciò dipende, come abbiamo detto, dalla natura dei rap- porti studiati dalla matematica, che non sono che delle so- miglianze e delle differenze: Kant ere le invece che dipen- da dalla circostanza che questi giudizi sono ricavati da un'intuizione pura, alla quale, trovandosi in essa le con- dizioni formali dell' esperienza, devono necessariamente corrispondere le proprietà degli oggetti d'ogni esperienza possibile. Crediamo necessario di esporre la dottrina di Kant con le stesse parole dell'autore : « La geometria è una scienza che determina le proprietà dello spazio sin- teticamente, e ciò non ostante, a priori. Ora perchè sia possibile una tale cognizione dello spazio, in che dovrà consistere la di lui rappresentazione? Dev'essere in origi- ne un'intuizione, giacché da un semplice concetto non pos- sono ricavarsi proposizioni che oltrepassano questo con- cetto; ciò che non per tanto accade in geometria. Ma que- sta intuizione deve trovarsi in noi stessi a /)r/or/, cioè in- nanzi qualsivoglia percezione di oggetti, e deve per con- seguenza essere intuizione pura, e non empirica Le pro- posizioni geometriche infatti sono apodittiche, cioè con- giunte con la coscienza della loro necessità, e principii di questa fatta non possono essere dei giudizi dell'esperien- za né derivarne. Ma come può trovarsi nello spirito stes- so un'esterna intuizione, la (juale preceila gli oggetti me- desimi, e nella quale deliba essere a priori determinata l'idea di questi oggetti? Certo in verun'altra maniera, tran- ne solo che tale intuizione sia inerente al soggetto come disposizione formale dello stesso ad essere affetto dagli oggetti, ed a riceverne cosi l'immediata rappresentazione cioè l'intuizione, per conseguenza come forma del senso esterno. È questa dunque la sola spiegazione, perla qua- le comprendere la possibihtà della geometria come cogni- zione sintetica a pirori » (Estetica traseendent, §. 3,) — <^ Poiché le proposizioni della geometria sono conosciute SUI i.imit: i: l oì ietto n::ij..v (^o\osr:;.:N/c v a priori 3sinteticamente a priori e con apodittica certezza, io do- mando: donde (|uesta scienza pren<le (picste proposizioni, e su di che si appoggia il nostro intendimento, per giun- gere a verità i\i valore si assolutamente necessario ed universale? Non vi hanno che due mezzi, i concetti o le intuizioni; ma questi due mezzi, come tali, ci sono datio a priori o a jtosteriori. Né dai concetti empirici, né da ciò su cui essi si fondano, cioè dalla intuizione empirica, 1)U<> essere fornita una proposizione sintetica, che non sia sperimentale; ma una proposizione sperimeniale non può mai raccliiudere la necessità ed assoluta universalità, le (luaU costituiscono tuttavia il carattere essenziale di tutte le proposizioni geometriche. Quanto al primo e unico mezzo di acquistare queste cognizioni, vale a dire per semplici concetti o per intuizioni a priori, è cliiaro che da soli concetti non può ricavarsi alcuna cognizione sin- teti;:^, ma soltanto una analitica. Sia pure la proposizione che due linee rette non [xossono chiudere uno spazio, e che non si può quindi con esse costruire una figura; e proviamoci di derivarla dai concetti della linea retta e del numero due. Oppure sia quest'altra, che per mezzo di tre linee rette si può costruii'e una figura, e cercate ugualmente di ricavarla da questi concetti. Tutti i vostri slorzi saranno inutili; e sarete costretti di ricorrere alla intuizione, come ha fatto semjU'ela geometria. Voi dunque vi date un oggetto in intuizione: ma di ([uale specie è questa intuizione? è una intuizione pura o « />r/or/, o una intuizione empirica ? Se fosse empirica, non potrebbe cer- tamente venirne mai una proposizione universale, molto meno una projxDsizione apodittica, percliè l'esperienza non può somministrarne. Dunque dovete darvi il vostix) oggetto a priori in una intuizione, e fondarvi la vostra proposi- zione sintetica. Ora se non fosse in voi una facoltà di avere delle intuizioni a priori, se (juesta condizione, sub- iettiva quanto alla forma, non fosse al tempo stesso la condizione a priori, sotto la quale unicamente \)\\ò darsi Foggetto di questa esterna intuizione; se infine quest'og- getto, p. e. il triangolo, tosse qualclie cosa in sé e senza rapporto al vostro soggetto: come potreste dire, in tutti questi casi, che quanto è necessario, nella vostra condi- zione subbiettiva, per la costruzione di un triangolo, deb- ba con uguale necessità convenire al triangolo in se stesso i Giacché ai vostri concetti (di tre linee) nulla potete ag- giungere di nuovo (la figura), che dovesse perciò trovarsi necessariamente neir oggetto, se questo oggetto è dato prima, e non niediante, la vostra cognizione. Se dunque lo si)azio (e cosi pure il tempo) non fosse una pura tor- ma della vostra intuizione, clic contiene le condizioni a priori, sotto le quali soltanto delle cose possono essere per voi degli oggetti esteriori (chj non sono niente in se stessi, o senza queste condizioni subbiettive). voi non po- treste niente pronunziare a jtriori e sinteticamente su questi oggetti y> ( Estet. trascemL § 8 ) — Il principio che tutti i fenomeni sono grandezze estensive é quello « clie rende applicabile, in tutta la sua precisione, agli oggetti deiresperienza la matematica pura: il che non sarebbe per sé evidente senza questo principio, e ha dato anche occasione a molte contraddizioni. La visione empirica non può aver luogo tramie mediante la pura (dello spa- zio e del tem[)0) : il perché vale per quella, senza ecce- zione, ciò che di questa dice la geometria ; né regge il pretesto che non corrispondano gli oggetti dei sensi alle leggi, per le quali si costruisce nello spazio (come alla divisibilità degli angoli o delle linee all'infinito). Giacché per tal guisa s impugnerebbe pure ogni valore obbiettivo allo spazio e a tutte le matematiche : né più si saprebbe perchè né sin dove esse sono applicabili ai fenomeni. Ciò che rende possibile V apprensione di questi, quindi ogni esperienza esterna e qualsiasi conoscenza degli oggetti della medesima, é la sintesi degli spazi e dei tempi : e ciò che provano le matematiche nel loro impiego puro a tal sintesi ha eziandio valore necessario nella esperienza. Le obbiezioni che sono state mosse incontrario si risolvono in meri cavilli di una ragione falsamente erudita : la quale avvisa, in modo erroneo, far liberi e separare dalla con- dizione formale della nostra sensibilità gli oggetti dei sen- si: e, (juantunque non siano che mere apparizioni, li rap- presenta otterti air intelletto quali oggetti per se stessi. Nel qual caso certamente nulla si potrebbe dire dei me- desimi sinteticamente a />r/or/, per conseguenza mediante i concetti puri dello spazio ; e non sarebbe possibile la scienza che determina tali concetti, cioè la geometria > (Analit. L 2,"" e. 2,^^ se^s. ^*, Ass, delliatuizione), ^. W\ I luoghi citati contengono, in sostanza, tutto ci('> che si trova in Kant sulla spiegazione delia possibihtà dei giudizi sintetici a priori della matematica; e per quanto concerne la geometria, cui specialmente Fautore ha di mi- ra, la dottrina di Kant si riduce a dire che la geometria può essere una scienza a priori, perché, lo spazio essen- do un elemento formale - della conoscenza, noi possiamo avere un'intuizione a priori delle determinazioni dello spa- zio, e i giudizii ricavati da questa intuizione a priori pos- sono applicarsi agli oggetti che ci vengono otferti dall'e- sperienza, in quanto niente può essere oggetto dell'espe- rienza, che non sia conforme a questa condizione forma- le della conoscenza. Secondo questa dottrina di Kant, la grande obbiezione che i Ivantiani fanno alla teoria empi- rista é la seguente: «Donde sappiamo noi e possiamo sa- pere che le linee reali rassomigliano perfettamente alle li- nee immaginarie ? » ( Cohen ap. Lange Stor, del mater, voi. 2^. parte 1*. e. V\) Due linee rette prolungate all'in- finito non possono circoscrivere uno spazio. Noi non pos- siamo fare alcuna esperienza a questo riguardo nel sen- so volgare della parola. Secondo Mill l' immaginazione rimpiazza qui l'intuizione esteriore ; ma donde sappiamo noi che i quadri della nostra inmiaginaziono si compor- tano esattamente come le cose esteriori? « Donde sappia- mo noi che due linee rette ideali si comportano assolu- tamente come le linee reali? Kant risi>onde: È che stabi- liamo quest'accordo noi stessi.... L'intuizione dello spazio, con le proprietà che gli appartegono necessariamente, è un prodotto del nostro spirito nell'atto dcUesperienza; ed ecco perché essa appartiene egualmente e necessariamen- te ad ogni esperienza possibile come ad ogni intuizione dell" innnaginazione » ( Lange voi. 2'\ parte 1*. e. 1'*.) Una quistione analoga si era proposta il Locke nel capitolo sulla realtà della nostra conoscenza. La cono- scenza consistendo per lui nella percezione della conve- nienza o disconvenienza delle nostre proprie idee, era na- turale di domandatasi come una tale conoscenza possa istruirci sulla realtà delle cose stesse. Per quel che riguar- da le conoscenze matematiche, ecco come i*ispon<le alla (juistione: «11 matematico esamina la verità e le proprie- tà ciie api:rartengono a un rettangolo o a un cerchio, con- siderandoli solamente quali sono in idea nel suo spirito; {)erchè torse egli non ira mai trovato in vita sua alcuna di queste figure, che tosse matematicamente, cioè a dire precisamente ed esattamente, vera. Il che non nnpedisce j>ei^nto che la conoscenza ch'egli ha di qualsiasi verità o proprietà che appartenga al cerchio o ad ogni alti*a fi- gura matematica, non sia vera e certa, anche a riguar- do delle cose realmente esistenti, perchè le cose reali non entrano in questa sorta di proposizioni, e non vi sono con- sidei'ate, se non altrettanto che esse convengono realmen- te con gli archetipi che sono nello spirito del nmtemati- co. È vero dell'idea del triangolo che i suoi tre triangoli sono eguali a due retti ? La stessa cosa sarà pure vera d'un triangolo, in qualunque luogo esso esista realmente. Ma clie ogni altra figura attualmente esistente non sia esattamente conforme all'idea del triangolo" ch'egli ha nel- lo spirito, essa non ha assolutamente niente da lare con questa [)roposizione. E per conseguenza il matematico vede certamente che tutta la sua conoscenza toccante que- sta sorta d'idee è reale; perchè non considerando le cose se non altrettanto che esse convengono con queste idee ch'egli ha nello spirito, egli è sicuro che tutto ciò ch'egli sa su queste figure, mentre non hanno che un'esistenza ideale nel suo spirito, si troverà pure vero riguardo a queste stesse figure, se esse vengono ad esistere realmen- te nella materia : le sue riflessioni non volgono che su queste figure, che sono le stesse, ovunque e di qualunque maniera esse esistano». Che la risposta di Locke contenga o no una soluzione sod- disfacente della difficoltà proposta dallo stesso autore, essa calza ad ogni modo alla domanda dei Kantiani: Donde sap- piamo noi che le linee reali rassomigliano esattamente alle linee ideali? Ma se le linee reali non rassomigliassero esat- tamenta alle linee ideali che il matematico ha nello spirito, esse non sare])bero delle linee di quella specie determinata di cui parla il matematico: se sono di quella specie deter- minata, le linee reali non possono non rassomigliare esat- tamente alle linee ideali. Che esistano o no nella realtà delle Unee conformi alle linee ideali, agh archetipi, come dice Locke, che sono nello spirito del matematico, è questa una quistione assolutamente estranea alla matematica, perchè le proposizioni di questa scienza non affermano niente sul- l'esistenza. Se per l'osservazione delle immagini mentali di certe linee, veniamo a conoscere una proprietà di questa s[)e- cie di linee, noi non concludiamo già che esistano nel mondo esterno delle linee aventi tale proprietà: se vi saranno nella realtà delle linee conformi a quelle che noi ci rap[)resen- tiamo, la nostra osservazione ideale varrà anche per (pieste linee reali; ma se le linee della realtà saranno differenti dalle nostre linee ideali, una proposizione fondata sull'os- servazione delle seconde non riguarda le prime né punto né iK)co. Siano queste proposizioni : Due rette non iX)ssono chiudere uno spazio; Un triangolo rettilineo ha la somma degli angoli eguale a due retti; ovvero Y assioma, su cui la "seconda proi)Osizione è fondata: Per un punto non può passare che una sola parallela ad una retta data. Secondo Kant il valore e Tuniversalità di (juesti giudizi dipende da ciò, che gli oggetti dall' intuizione empirica sono con<li- zioriati dalle condizioni stesse delFintuizione pura o antici- pata, perchè in quesf ultima si trovano le condizioni for- mali di ogni esperienza possibile, e che perciò dei giudizi fondati suir intuizione a priori o anticipata si api)licano agli oggetti reali deiresperienza. In altre parole, dipende da ciò? che i triangoli e le rette deiresperienza sono ne- cessariamente conformi ai triangoli e alle rette delFintui- zione anticipata 0 a /)r/or/, triangoli e rette che il matematico costruisce egli stesso, sia neir immaginazione, sia sulla carta, e che, secondo Kant, egli costruisce, in tutti i casi, a priori, cioè conformemente alla visione pura, e senza averne imprestato il modello da alcuna esperienza (v. Disciplina della raijion pura). Ma sia che le rette e i trian- goli ideali del matematico siano i modelli di quelli deire- sperienza, come vuole Kant, sia che quelli deiresperienza siano i modslli delle rette e dei triangoli ideali del mate- matico, come vuole la dottrina delF esperienza ; sarebbe sempre un non senso di dire che gli uni potreb bero dif- ferire dagli altri. Se le rette e i triangoli reali fossero costituiti secondo un altro tipo che le rette e i triango- li costruiti dal matematico, non sarei jbero più né rette né triangoli, nel senso in cui il matematico intende queste parole: è dunque un non senso di domandare con Kant: perché quanto è necessario nella nostra condizione sul)- biettiva i)er la costruzione di un triangolo, deve conve- nire necessariamente al triangolo stesso ? ovvero coi kan- tiani : perché le linee reali rassomigliano esattamente alle linee ideali, che il matematico ha nello spirito? Ciò che lèa» domandano i kantiani é perché tutte le rette deir espe- rienza sono, come le rette che il matematico ha nello spirito, incapaci di chiudere uno spazio; ma se noi potes- simo avere la nozione corrispondente a ({ueste parole: « due rette che chiudono uno spazio », è cliiaro clie queste pretese rette sarebbero abusivamente chiamate con (juesto nome; che (juesto nome: rette y applicato ad esse, verrebbe preso in un senso differente dall' attuale ; e che, ad ogni modo, queste supposte linee, sia che vengano chiamate rette o no, formerebl^ero una classe di linee distinta da (juclla delle rette attuali, e costituita secondo un tipo at- fatto differente. Ora se queste supposte linee diventasse- ro per noi un oggetto d' esperienza, ne seguirebbe forse che la proposizione: Due rette non possono chiudere uno spazio, perderebbe il suo valore universale- ? No, perchè la proposizione sarebbe sempre vera per tutta la classe delle rette della nostra intuizione attuale: le nuove linee supposte non sarebbero comprese in ( questa classe deter- minata, poiché esse sarebbero costituite sopra un altro tipo, e la proposizione quindi non si riferirebbe che alle prime, e non avrebbe niente a fare con le seconde. Vi hanno dei geometri moderni, i tiuali ammettono la possibilità di spazi costituiti (Jitferentemente dal nostro, o in altri termini, di sistemi di forine geometriche dill'erenti dal sistema che noi attualmente conosciamo. Riemann ammette, p. e., Uà possibilità di uno spazio, in cui due ret- te finiscono per incontrarsi dalle due estremità. Nei si- stemi di questi geometri, la parola retta non designa propriamente una retta della nostra intuizione, ma la li- nea della più breve distanza fra due punti. Cosi in uno S[>azio difiérente dal nostro, quale potrer)lje supporsi se- condo Riemann, le pretese rette chiudenti uno spazio sa- rebbero, non ciò che noi attualmente chiamiamo rette, ma, secondo una definizione arbitraria della parola, le linee della più breve distanza fra tutte quelle che potrebbero condursi in questo sup[)Osto spazio (lin'erento dal nostro. L*esistenza di questo si)azio non toglierebbe perciò Tuni ver- salità deirassionia: Due rette non chiutlono uno spazio; pelu- che quest'assioma non si riferisce che alle rere rette, nra le pretese rette del nuovo spazio supposto, (pialunque sia la loro analogia con le vere rette, cioè con le nostre, sa- rebbero sempre una classe diiìerente <li linee, die non a- vrebbero con le nostre rette se non un'identità di noma. L'ipotesi di questi geometri è la |)iù pro[)ria a i*ar ve- dere l'inanità della spiegazione di Kant dei giudizi sinte- tici a priori della geometria. 11 ibndamento della possibi- lità e del valore di <|uesti giudizi, della loro necessità ed universalità, è, secondo Kant, che lo spazio o))biettivo deve necessariamente conformarsi allo spazio subbiettivo studiato dal matematico; che le rette, le parallele, i trian- goli, ecc. dell'esperienza si conformano necessariaiuente alle nozioni che noi ci formiamo a priori della retta, del triangoli^, delle parallele. Nell'ipotesi dunque di uno spazio obbiettivo differente dal subbiettivo, o di un sistema di forme reali differente dal sistema di forme ideali, di cui il matematico lia la nozione, il valore e l'universalità <li questi giudizi dovrebbe, secondo Kant, venir meno. Ma ciò, con)e abbiamo visto, non ò vero: dunfpie Kant non spiega, come si era pro[)Osto, la possibilità di questa classe di giudizi sintetici a priori. ^. 11,*' Sembrerebbe da ci(") che precede che le proposi- zioni della geometi'ia fossero delle proposizioni analitiche: delle rette che chiudessero uno spazio non sarebbero, aì>* biamo detto, delle vere rette, perchè a queste pretese rette sarebbe applicaljile non la nostra nozione della retta, ma un'altra nozione. Dunque l'attributo di non chiudere uno spazio è una condizione della nozione della retta : due rette che non chiudesseso uno sj)azio non sarebbero delle rette, cioè sarebbbero una nozione contraddittoria, e la pi*0[>()- sizi<')ne: Due rette non possono chiudere uno spazio, è una proposizione analitica, fondata sul principio di contrad- dizione. In verità, se l'attributo atìermato in una propo- sizione geometrica fosse una qualità intrinseca e, per dii' cosi, un elemento astratto della forma geometrica a cui la proposizione si riferisce, allora il giudizio che questa esprime, dovrebbe essere certamente analitico. Spieghia- moci più chiaramente: rattril)uto affermato in una pro- posizione geometrica è propriamente un rapporto di so- miglianza o di differenza definita, di eguaglianza o di ine- guaglianza, ecc, e questo rapporto, il quale non esiste che nella comparazione degli oggetti, non è, al fondo, che un sentimento, uno stato particolare del nostro spirito, vale a dire un che di distinto e separato dai termini stessi del rapporto, cioè dalle forme geometriche come oggetti della nostra intuizione. Ma se invece quest'attributo si consi- dera, non come una relazione, ma com3 una certa pro- prietà astratta, inerente nel soggetto per se stesso, e che sarebbe il fondamento della relazione, allora quest'attributo verreblje riguardato, conformemente alla dottrina dei con- cetti, come un elemento, una qualità, che fusa, per dir cosi, e combinata con le altre proprietà della forma geo- metrica, costituirebbe questa Torma stessa come essa ci viene presentata nell'intuizione o rappresentata nell'im- maginazione. In questo caso la proposizione enunciante l'attributo, cosi considerato, sarebbe necessariamente ana- litica, ixjiché una forma geometrica che non fosse dotata deirattrii)uto, sarebbe, come abbiamo visto, non ({uella che è il soggetto dellla proposizione, ma un'altra, e ({uindi il concetto della forma geometi'ica, di cui si tratta nella pro- ]_x»sizione, contiene l'attribato. Vi ha dunque contro la spiegazione di Kant un dilem- ma inevitabile : se l'attributo si considera come una qua- lità assoluta della forma geometrica di cui si tratta, e pm* dir cosi, come un elemento costitutivo di quest'oggetto del- la nostra intuizione, allora la proposizione non è sintetica a priori, ma analitica, e la spiegazione di Kant è super- flua. Se invece Tattributo non è contenuto neirintuizione o rappresentazione spaziale designata dal soggetto, ma è qualche cosa di sovraggiunto ad essa, p. e, come noi am- mettiamo, una relazione che non esiste se non per la comparazione del soggetto con altre cose ; allora la pro- jxjsizione è sintetica, ma non vi ha altra sintesi ciie quella della rappresentazione della forma geometrica con la re- lazione che il pensiero le aggiunge. Ora la spiegazione di Kant non dà ragione di questa sintesi. Kant ci spiega come uno degli elementi che (questa sintesi riunisce, cioè Toggetto deirintuizione, ci è dato per anticipazione; che esso è qualche cosa di necessario e di a priori ; die di- pende dalle condizioni Ibrinali della conoscenza : ma egli non avrebbe dovuto spiegare questo ; egli avrebbe dovuto spiegcire la sintesi di quest'elemento con l'altro elemento del giudizio, cioè con la relazione; come questa sintesi possa essere anticipata o a priori; com'essa derivi dalle condizioni l'ormali della conoscenza. Prendiamo questa proposizione : la linea retta è la più breve ira due puntii dati, cioè essa è più breve della spezzata e della curva : vi ha qui una relazione. d'ineguagUanza definita, e i ter- mini di questa relazione, cioè la retta, la spezzata e la curva ; e il giudizio é sintetico, perchè aggiunge alla rap- presentazione dei termini la rappresentazione della rela- zione. Sia che noi facciamo un giudizio anticipato, con- frontando queste linee per la sola inmidginazione, sia che Tesperienza ci presenti queste linee reali in congiunzione con questo stato del nostro s[)irito in cui consiste la per- cezione della loro relazione; le rappresentazioni o i feno- meni, tra cui vi ha una sintesi o una congiunzione, sono., da una parte, certe determinazioni dello spazio, dall'altra, certe i)ercezioni di relazioni. Ora non é V apriorità del primo elemento di questa sintesi che Kant avrebbe do- vuto mostrare, ma l'apriorità della stessa sintesi dei due. elementi. Facciamo infine un'altra osservazione su questa dottrina dei giudizi sintetici a priori della matematica. Quest'espressione : giudizi a priori, può prestare all'equi- voco: prima, può significare che per questi giudizi noi anticipiamo sull'esperienza^ estendendo, anteriormente a questa, agli oggetti del mondo esteriore ciò che abbiamo trovato vero di oggetti ideali, chenoi abbiamo concepito secondo le condizioni formali dell'intuizione, senza pren- derne il modello dagli oggetti reali dell'esperienza. Non è che in questo senso della parola a priori, che la teoria di Kant tende a spiegare la possibihtà dei giudizi sintetici a priori della matematica. Ma proposizione a priori ha un altro senso ancora : essa significa una proposizione gene- rale che non é fondata sulla generalizzazione di alcuni, casi particolari, cioè sull'estensione, per analogia, a tutti i casi nuovi di ciò clie si è trovato vero i)er i casi ca- duti sotto l'osservazione. Ora, in questo senso, i })rincipii della matematica sono o no a priori secondo Kant? sono o no delle generalizzazioni ottenute per la induzione? È (juesto un punto oscuro nella teorica Kantiana, e, se si approfondisce un poco, è impossibile di salvare questa teorica da una evidente contraddizione. Secondo i principi generali della Critica, l'induzione non potreblje fornire della I)roposizioni apodittiche, quali sono secondo Kant le pro- posizioni della matematica: queste per conseguenza devo- no essere assolutamente indipendenti dall'induzione. Ma, secondo Kant, la conoscenza dei principii della matema- tica non deriva che dall' intuizione ; e l' intuizione non può avere che un oggetto concreto e singolare. L'intui- zione per se stessa non può dunque niente darci di uni- versale; immediatamente essa non ci dà che delle cono- scenze [)articolari. Ora come generahzziaino noi queste conoscenze particolari? come ne ricaviamo delle propo- sizioni universali, quali sono gli assiomi della matemati- ca, se non è i)er un'induzione ? Sia per es. l'assioma che per un punto dato non può passare che una sola paral- lela ad una retta data (le parallele essendo definite: due rette situate nello stesso piano, che, prolunirate indefini- tamente, non s' incontrano mai). È air intuizione che noi dobbiamo, secondo Kant, la conoscenza di questa proposizione. Ma è evidente che V intuizione non può darci la proposizione in tutta la sua generalità, ma solo dei dati particolari, da cui noi possiamo inferirla, ragionando, per analogia, da questi dati deirintuizione a tutti gli altri casi della stessa specie, di cui non ci è possi- bile, almeno per il momento, Tintuizione. Io tiro o immagino una parallela alla retta data clic passa per il punto dato, e quindi laccio i>assare per lo stesso punto un numero iii- de.inito di altre rette, di cui alcune, ma soltanto alcune, asservo che vanno ad incontrare la retta data. L'intuizione per la sem[)lice immaginazione può, è vero, sostituire Tin- tuizione effettiva, ed estendere cosi ad altre delle rette che passano per il punto dato, la mia osservazione che esse incontrano la retta data. Ma, senza contare che né la mia intuizione efiettiva né la mia intuizione immaginaria può comprendere ttitte le rette che possono passare per il punto dato, il loro numero essendo mfinito; è evidente che Tim- maginazione non può estendere Tintuizione reale che sino ad un certo punto. La vista deirimmaginazione, come quella dell'occhio, non può seguire due rette che sino ad una certa distanza : noi non possiamo prolungarle indefinitamente, né nella realtà nò nella semplice immaginazione; noi non possiamo né vedere né immaginare delle linee che abbiano al dì là di una certa lunghezza. Lungi dunque che F in- tuizione possa mostrarci la verità della proposizione nella totalità dei casi compitesi nella sua estensione, essa non può nemmeno mostrarcela, rigorosamente, in un sol caso particolare. Qui, come da per tutto, non è che Finduzione quella che può stai )ilire una verità generale. Kant salta a piò pari questa difficoltà ; sembra anche di' egli r abbia appena intraveduta. Ma ascoltiamo lo stesso autore: « La conoscenza filosofica è la conoscen- za razionale per concetti, ma la conoscenza matc- njaticjx è la conoscenza razionale per la costriuione dei concetti. Ora, costruire un concetto è esporre a priori r intuizione che gli corrisjionde. Per la costru- zione di un concetto bisogna dunque una intuizione non empirica, che abbia per conseguenza, come intuizione, un oggetto unico, ma die, nondimeno, come costruzione d'un concetto (duna rappresentazione generale), deve esprime- re nella rappresentazione qualche cosa di universalmen- te valevole per tutte le intuizioni possibili che apparten- gono a questo concetto. Cosi io costruisco un triangolo, allorché espongo un oggetto che corrisponde a questo con- cetto, 0, ijer mezzo della semplice immaginazione, in intui- zione pura, o, se^ondj rimmaginazionc ancora, sulla car- ta, in intuizione empirica, ma nell'uno e l'altro caso per- iettamentc a priori, senza averne preso 1' esemplare da alcuna esperienza. La figura particolare descritta ò em- pirica, a serve nondimeno a esprimere il concetto senza l)regiudizio per la sua generaUtà, perchè in questa intui- zione empirica non si considem mai che l'azione di co- struire un concetto, al quale molte determinazioni ([). e. quella della grandezza, dei iati e degli angoli) sono affat- to indifferenti, e si la per conseguenza astrazione da que- ste differenze che non cangiano il concetto del triangolo- La conoscenza filosofica non considera dunque il par- ticolare che nel generale, e la conoscenza matematica il generale che nel i>articoIare, e anche nel singolare, quantunque tuttavia a priori e per mezzo della ragione; di tal sorta che, come il singolare é determinato da cer- te condizioni generali della costruzione, cosi l'oggetto del concetto a cui questo singolare corrisponde solamente co- me schema, deve essere concepito determinato universal- mente. » {Metodologia trascendentale, e. 1". sez. l-\ ) E. |! un po' pili lungi : « La filosofia si attiene seuipliceinente ai concetti generali ; le matematiche non possono nilare con questi semplici concetti, ma esse si affrettano di ricorrere airintuizione, nella quale considerano il concet- to in concreto, quantunque tuttavia non empiricamente, ma semplicemente in una intuizione che esse propongono o costruiscono a priori, e nella quale ciò che risulta dalle condizioni generali della costruzione deve valere i)ure ge- neralmente per l'oggetto del concetto costruito »'. Ma si domanda: come tacciamo noi a sapere, in vma figura particolare che abbiamo sotto gli occhi o nelFim- maginazione, se una i)roprietà determinata risulta dalle condizioni generali della costruzione del suo concetto, o appartiene soltanto a questo caso particolare ? Riconosce- re che una proprietà appartiene in generale air oggetto del concetto costruito, e iìipende dalle condizioni genera- li della costruzione di questo concetto, e non invece da una di quelle determinazioni particolari inditt'erenti al con- cetto, da cui si la astrazione perchè questo non ne è mu- tato; è precisamente generalizzare, fare un'induzione, in- ferire da qualche caso particolare, esibito neirintuizione, a tutti i casi compresi nel giro dello stesso concetto. Sia . da dimostrare la proposizione (è l'esempio stesso di Kant) che gli angoli del triangolo sono eguali a due retti. Noi facciamo astrazione, egli dice, da tutte le determinazio- ni particolari della figura che non mutano il concetto (p. e. quelle della grandezza, dei lati e degli angoli): ma chi ci permette di fare quest' astrazione ì di stabihre che la proprietà dimostrata per questa figura particolare non è legata a queste determinazioni particolari che non can- giano il concetto X E che noi sappiamo che la stessa di- mostrazione può aver luogo per un altro triangolo, (pia- lunque ne sia la grandezza, i lati e gli angoli. È la stes- sa considerazione che ci autorizza, nel corso della dimo- strazione, a l'are rapplicazione dei teoremi antecedenti, i Mi *l quali essi stessi non sono stati dimostrati che sopra una figura particolare. Ma infine la dimostrazione arriva agli assiomi ; fra di cui a quello di Euclide che non è che un'altra espressione dell' assioma di cui sopra abbiamo parlato, cioè: che due rette inclinate 1' una verso l'altra, o in altri termini, che formano, con una trasversale, la somma degli angoli interni minore di due retti, prolunga- te . finiscono per incontrarsi. Come sappiamo noi che la proprietà d'incontrarsi appartiene in generale all'oggetto del concetto: due rette inchnate l'una verso l'altra? cIkj risulta dalle condizioni generali della costruzione di que- sto concetto, e non dalle determinazioni particolari dell'e- sempio esibitoci nell'intuizione ? Ciii ci autorizza, dopo aver verificato questa proprietà nei casi particolari dell'intui- zione, a stabilire ch'essa non è legata alle determinazio- ni particolari indifferenti al concetto, p. e. la (Ustanza o il grado d'inclinazione delle rette osservate sia nella vi- sione reale sia nell'immaginaria ì Sono certamente i ca- si particolari osservati che ci autorizzano, secondo il prin- cipio dell'analogia, ad estendere a tutti gli altri casi della stessa specie il risultato della nostra osservazione : noi possiamo dirlo, ma Kant non lo può, percliè egli nega che l'induzione possa stabilire delle proposizioni necesj^i- rie e rigorosamenie universali (1). (I) Non è forse imitilo di riportare altri luoghi di ICaiif, coiiii>r(>- vanti che tale è elfettivamente la sua dottrina, cioè che le i>rop()- sizioni della matematica si fondano sull'intuizione, per conseguenza sullOsservazione dei casi particolari. >^(^\V IntroOuz . della Crii, (iella rafj. intra, V, (2. ediz.), egli dice: «Il concetto di 12 nori è alTatto I»ensato per ciò solo che io concei^isco (juesta unione di 7 e di 5; ed io pos.^0 decomporre il mio concetto in altrettanti numeii possibili quanti io vorrò, senza clie perciò io vi trovi il numero 12. Risogna dunque lasciare (juesti concetti, e ricorrere a un'intuizione clie corrisponda alTuno dei due numeri, come alle cinque dita della Tìiano, o (come Segner lia Tatto nella sua aritmetica) a cinciue punti, L'obbiettività dei giu.lizi sintetici a priori, la possibi- lità di applicarli agli oggetti (bllesp^rienza, è fon lata, S3- condo Kant, su di ciò clic Tesperienza stessa, cioè la sin- tesi dei fenomeni, si fa secondo le regolo di cui questi giudizi e agprìLinuere succossivnnionte al concetto di sette le ciiKiue unità date in intuizione. Perchè io prendo aUorn il numero sette, e ri- correndo alle mie dita comc^ ad aUretlante intuizioni per sip:nifì- (!are il numero cinque, io ag*2iunK0 successivamente a sette, stac- candole dall'immagine totale che le rappresentava, le unità che io aveva prima riunite in intuizione, col mezzo delle mie dia\, per formare il numero cinque, e io vedo risultare da questa operazione cotnplessa il numero 12. Per l'addizione di 7 a 5 io ho in verità l'i- dea d'una sounna-^74-5, ma non l'idea che questa somma è uguale al numero 12. La proposizione aritmetica è dunque sintet'ca: ciò che si vede più chiaramente ancora (piando si prendono numeri [«iù grandi; gli è allora evidente che. di (jualunciue maniera noi rivolgiamo i nostri concetti, non ]tossiafno mai formare lasimma per il solo mezzo della decomposizione dei nostri concetti, senza ricorrere all'intuizione ». }se\VKstetica tixisccndentaìc, dello spazio, a. 4: «Tutti i i>rin- cipii della geometria, p. e. clic «lue lati di un triangolo presi in- sieme sono più grandi del terzo, n<ìn saranno mai dc^vati con cer- tezza ai>odittica dai concetti generali ili linea e di triangolo, ma dalla intuizione, ila una intuizione a priori ». - "ScWAnalit. tra<ren- (lentcde. r. :\ Si 4. di tutti i jninripi delV intendimento juiro: «l princq>iì della matematica non fanno i arte del sistema dei prin- cipi dell'intendimento puro, perché essi non sono presi che dalla intuizione, e non dai concetti dell'intendimento».- E più oltre, nello stesso cap.,sez. 3: «Vi hanno dei principi puri a priori che io non posso i)ropriamonte attrihuire all'intendimento puro, perchè essi non derivano da concetti puri, ma da intuizioni pure (<|uan- tunque per l'intermediario dell'intendimento), mentre l'intendimento è la facoltà dei concetti. Le matematiche hanno dei principii di (juesto genere; ma la loro applicazione all'esperienza, per conse- guenza il loro valore obbiettivo, e anche la possibilità di una tale conoscenza sintetica a piiof^t (la sua deduzione) riposa tuttavia sem- pre sull'intendimento puro. È per <iuesta ragione che io non farò entrare nei miei principii quelli delle matematiche, ma bensi (luelli su cui si fonda la loro possibilità e il loro valore obbiettivo a priori, e che possono in conseguenza essere riguardati come il principio <\'\ quelli delle matematiche, andando dai concetti all'intuizione, sono resprcssione: la coincidenza del pensiero con l'oggetto è possibile, o (piando l'oggetto determina il p3nsiero, o quan- do il pensiero determina Foggetto; ma solo in cpiesto se- condo caso noi possiamo avere dei giudizi necessari e e non dall'intuizione ai conciati i ». (Confi-onta con (juesto luogo la nota susseguente)--Xella Metodofor/ia trascendentale, e. 1. sez. 1. Kant divide le proposizioni sintetiche a priori in due classi: le tror- scendentali, che sono per semplici concetti (sulle quali volge la co- noscenza,///o.so//.ca), e le matematiche, che sono fondate sull'in- tuizione. Le citazioni che potremmo aggiungere sono al)bondardi, ma le riteniamo supcrtlue. Kant parla come se la semplice vista l)astasse a farci conoscere la verità di una proposizione matematica; certamente egli non nega che il ragionamento vi abl^ia la sua parte, ma, come tutti gli av- versari dell'empirismo, non comprende questa semplice verità, che ogni deduzione suppone un'induzione anteriore. Cosi la sua si>ie- gazione ci abbandona precisamente al punto in (Uii una spiegazio- ne diventa necessaria, vale a dii'e quando arriviamo alle genera- lità più alte della scienza (Noi abbiamo già osservato che Kant ebbe il torto di non vedere chiaramente ch'era necessario di distinguere con i'iuw i i^rinn })rincipii delia matematica, sui (juali doveva por- tare il suo esame, e le proposizioni derivate). La sua spiegazione è si poco propria a dar conto di questi princi]>ii generali, che, quando egli incontra gli assiomi la cui natura sintetica è la meno conte- stabile, vale a dire gli assiomi sulle eguaglianze, egli non sa de- cidersi a riconoscere il loro carattere sintetico «Un piccolo numero di principii supposti dai geometri. iUcc ueW Introduzione, V. n. /., sono in verità analitici, e rii^osano sul principio di contraddizione; ma i)ure non servono, come ]>roposizioni identiche, che all'inca- tenamento del metodo, e non hanno alcun valore come princiiùi. Tali sono p. e. gli assiomi: a=:-a, un tutto è uguale a se stesso, o (a4-b)> a, cioè il tutto è più grande della parte. E tuttavia questi assiomi in se stessi, quantunque valevoli secondo semplici concet- ti, non sono ricevuti nelle matematiche che perchè essi possono essere rappresentati in intuizione. Ciò che ci fa generalmente cre- dere che il predicato, in questa sorta di giudizi apodittici, si trova già far parte del nostro concetto, e che il giudizio è per conseguenza analitico, è semplicemente l'ambiguità dell'espressione. Noi siamo obbligati ce aggiungere un certo predicato a un concetto dato, e questa necessità tiene già ai concetti. Ma la quistione non è questa : Che dobbiamo noi aggiungere per il pensiero a un concetto dato? 3:^8 strettamente generali. Kant ha stabilito, analogamente a questo principio, che noi possiamo applicare agli oggetti reali deiresperienza i giudizi l'ondati suirintuizione pura o anticipata, perché gli oggetti reali delFesperienza pro- ma (iiicst'aitra: Che vi i)eiisiarno noi realmente. (iuantun(iiie oscu- ramente? Si vede allora clie il predicato aderisce necessariamente a questo concetto, non già come concei)ito nel concetto stesso, ma col mezzo di un'intuizione che deve aggiungervisi». hi questo luogo sono contenute due asserzioni contradittorie, che non si vede come possano conciliarsi: secondo la prima, questi assiomi sono l)roposizioni analitiche, secondo lultima, sono ]>roposizioni sinte- tiche- Se il pensiero di Kant dovesse desumersi da «piesto solo luogo, si sarehbe fondati ad attribuirgli almeno la st«.'ssa esitazione risjHnto ai grandi assiomi delle matematiche : due grandezze uguali ad una terza sono uguali fra loro; aggiungendo grandezze eguali a gran- dezze eguali, le sonane sono eguali. Infatti la natura sintetica di queste i>roposizioni è più evidente che quella delle proposizioni in- dicate da Kant. Ma altrove Fautore sembra più esplicito: «Per quel che riguarda la quantità, cioè la i-isposta alla quistione: Qual è la grandezza di una cosa?, bisogna osservare che sotto (juesto rap- porto non vi ha propriamente alcun assioma . (juantunciue molte di (juesta sorta di proposizioni siano sinteticamente e ìnnnediata- mente certe (indemonstrabilia): perchè che l'eguale aggiunto all'e- guale o tolto dair eguale dia 1' eguale, sono queste delle proposi- zioni analitiche, poiché io sono immediatamente certo dell' iden- titìi della produzione duna quantità con l'altra, invece che gli as- siomi devono essere dei principii sintetici a p/ 70/ «. Al contrario le proposizioni evidenti esprimenti i rai>porti numerici, come le pro- l^osizioni geometriche, sono in verità assolulamente sintetiche, ma non generali, e non possono, precisamente per questa ragione, chia- marsi assiomi, ma solamente formule numeriche. Che 7-^5=12 ncm vi ha là nienie d'analitico QuantmKjue (fuesta proposizione sia sintetica, essa non è tuttavia che una proposizione singolare» {Analit, 1. 2. e. 2. sez. 3). Il Lange riconosce la natura sintetica delle in'oposizioni che qui Kant dichiara analitiche. « Le proposizioni matematiche, dice (lue- st'autore, dacché esse sono dimostrate per l'intuizione, svegliano tosto la coscienza della loro generalità e della loro necessità. Così p.e. per mostrare che 7 e 5 fanno 12, io mi servirò dell'intuizione, facen- do un'addizione di punti, di lineette, di piccoli oggetti, ecc. In que- sto caso, l'esperienza m'indica solamente che i punti, lineette, ecc. ^ U t cedono dairintuizione pura. Ma con ciò la necessità e la stretta universalità di questi giudizi non è spiegata ancora: non è dimostrato come, le condizioni generali deir intui- zione pura, di cui gli assiomi sono Tespressione, non prò determinati m'hanno (luesta volta condotto a (luesta somma pre- cisa» « Lix generalizzazione rapida e assoluta di ciò che si e visto una volta» non può, spiegarsi che per «la convinzione che tutti i rapporti numerici sono indipendenti dalla struttura e dalla dispo- sizione dei corpi contati». «La proposizione che i rapporti nume- rici sono indipendenti dalla natura degli oggetti contati e essa stessa una verità a priori. È facile di provare che essa e inoltre sintetica» (Stor.rfel materiale ^. 2, p. 1, e. l,pag. 17-18 trad. Iranc.) ora la lìroposizione di cui parla il Lange non è che l'assioma fonda- mentale • a grandezze eguali aggiungendo grandezze eguali le som- me sono euuali, con gli assiomi secondari che ne derivano, come: da grandezze eguali togliendo grandezze eguali i resti sono eguali, occ V il primo assioma che ci autorizza, dopo aver verificato in un caso particolare che 7 -5--= 12, ovvero che 7-1^8, a stabilire m generale che in un altro caso qualunque 7 - n saranno pure eguali a p> e 7 il offuali ad 8. Di qui si vede ancora che le sole proposi- 'zìòni generali indimostrabili della scienza dei numeri sono gli as- siomi fondamentali sulle eguaglianze _ Kant dichiara, corno si è visto, analitiche (lueste propos.ziom : ma la cosa si ammetterà difncilmente, dopo che si è gin ammesso che queste altre proposizioni : 2il^.3, 3-M^4. ecc. (che sono le sole formule numencìie, per usare il linguaggio di Kant, che non pos- sano dimostrarsi) non sono analitiche . ma sintetiche. K mteres- s-ìnte per l'apprezzamento della dottrina Kantiana, non che della » one onerale dei giudizi in analitici e sintetici, di confron- tare emione <li Kant con quella di allri niosofi . i quah, come Bain affermano che le proposizioni sintetiche della mate.iiatica sono'precisamente (pielle che il primo ritiene analitiche (gh assio- mi delle eixuaijlianze), e viceversa. Noi abbiamo accemiato che il rilìuto di Kant ad ammettere risolutamente il carattere sintetico di queste proposizioni, proviene dalla sua dottrina che i giudizii sintetici della matematica si spie- ga o ver la semplice intuizione. Kant poteva credere ohe alcuna hiduzione alcuna inferenza da certi casi agli altri, non e neces- saria per istabilìre gli assiomi particolari della geometria come questi • due rette non chiudono uno spazio: una retta che ha più di un punto in un pinno. giaco intoramonto nel piano. Infatti, purcedendo dal pensiero, sia tuttavia possibile la coincidenza li-a li pensiero che le conosce e la cosa conosciuta. Se- condo Il principio kantiano della spiegazione dei giudizi sintetici a priori, vi dovrebbero essere dei principii intel- lettuali o dei concetti, determinanti « /.rwrHe condizioni generali dell' intuizione pura dello spazio o, in generale degli oggetti delle niatematiclie pure; dei princijii che se- condo unespressione di Kant, andrebbero non dalla 'in- tuizione ai concetti (come le generalizzazioni dell' espe- rienza), ma dai concetti alla intuizione (1). che noi possiamo rappresentarci le due rette, o la retta e il,.iano no. conoseinnio intuitivamente, in ojrni caso particolare, la verità' d. quest, nssmnii. Ma vi ha almeno un assioma nella ^-eometria (Oltre nue.l. sulle eguaglianze, comuni con la scienza de? numer rei .,uale,1 bisogno dellin.lu/.ione si ronde evidente : è quello delle parallele. Alcuni geometri mo.lerni ritengono quesfass^oma speH- mentale e contingente, e non a priori e necessario come gli altri- ma Kant non potrehl>e essere del loro avviso, perchè quest ass o- mo, appartenendo .juanto gli altri alla nostra intuizione pura o forma^, non può essere meno degli altri necessario ed a priori rll A' ?•?'",' "'^ ^'^'''' •"^' Vnm-Àx^W sintetici delPintendimento puro iAnaht I., r.,,e^.S) dei principii mcacmmri, che Kantdi- sfmgue da. dinamici. Essi corrispondono alle categorie dello quan- tità e della qualità, e sono: il principio .leoli assk.nu deWinUU- ^o/if.Ogn. fenomeno ò una grandezza estensiva (é un a^rgregato <^. part.,; e . prmcipio Mie cmUelpa.ioni della percezioi{e:\^mi . fenomcn. .1 reale, oggetto della sensazione, ha ..na quantità in- tens.va cioè un grado. E su questi principii, .seirnata.iiente su quello degli assiomi dell'intuizione, che si fonda. -secondo Kant apphcabil.t;, doUe matematiche agli oggetti delPesperienza o iì loro valore obbiettivo. Ma il principio degli a.ssiomi dellintuizione non d.ce altro se non che ogni i.e.-cezione risulta «da una sintesi ?r.!.' H ",•" ?"' ^'''' omogeneo ., in altri termini, che ogni og- df nonr '? ""°"' ' '^«'•-^'^Pito come un aggregato o una sommi, d. pa.t, date, s, rapporto allo spazio che rapporto al tempo. Kant non ha la pretensione di dedu.-re da questo principio gli assiomi delle matematiche: pure ci sembra evidente che i presupposti della n.., ."""m"""''?' ""°^™« ''' '^'"'^••P" « di concetti, i qual. dovrebbero al tempo stesso essere la so.-gente degli assioini Dopotutto ciò potrà sembrare sorprendente che, mentre Kant riesce cosi poco a rendere conto delle pro- posizioni della matematica, siano nondimeno (lueste pro- posizioni il cavallo di battaglia dei kantiani, nella loro polemica contro l'emipirismo. Per noi é evidente che, delle due classi in cui Kant divide le proposizioni sintetiche a priori, cioè le matematiche e le trascendentali, il suo si- stema é affatto improprio a spiegare quelle della prima: non é perciò che esso era stato inventato. É dalle obbie- zioni di Hume contro il princieio di causalità ciie Kant prese le mosse, come lo confessa egli stesso: per altro sono le leggi della natura, non sono le proposizioni della matematica, che un'ipotesi metafisica si propone di spie- gare. E tuttavia è a questa classe di proposizioni che pos- sono più giustamente applicarsi i caratteri che, secondo Kant, distinguono i giudizi sintetici a priori. Le proposi- izioni della matematica pura sono etì'ettivainente necessa- rie, cioè tali che la possibilità del loro contrario non i)o- trebbe concepirsi, ed anche, in un senso, a priori; ma nelle ttltre proposizioni che Kant classifica fra le sinteti- che « /;7'<or/, non vi ha alcun carattere particolare che possa giustificare 1^ loro separazione dalle proposizioni a posteriori o empiriche, e questa separazione è sempli- cemente arbitraria. Per i principii della fìsica che Kant chiama i)ura, quali la ]jersistenza della quantità della ma- teria e l'eguaglianza dell'azione e della reazione nella co- .munieazione del movimento, si è opposto genei''almente a Kant che esse sono delle proposizioni, non a priori, ma si)erimentati: e di fatti, se es.se venissero, come cre- de Kant, dal fondo stesso dello spirito umano, non avreb- bero dovuto essere, come sono state in realtà, il jiortatdelle n.atematiclie, e contenere la regole a/;/(o/7 della « sintL'.si del moltiplice», da cui risulta la percezione di oggetti tali, ciie questi assiomi possono loro applicai'si. U2V -N^-N^ >^ w > di una lenta evoluzione scientifica, ma il patrimonio co- mune di ogni uomo c/ie viene in (jiiesto mondo. Per il principio di causalità, è una dottrina concorde degli av- versari deirenpirismo che esso è una conoscenza innata o una necessità del i>ensiero, e non un })rodotto deirespe- rienza. Ma bastei^bbe la credenza quasi generale nel li- bero arbitrio per escludere la supposizione di una neces- sità del pensiero, che ci porti ad attribuire ad ogni avve- nimento una causa determinante. Di più vi sono stati dei filosofi, come tutta la scuola di Epicuro, che hanno am- messo una simile indeterminazione anche nei tatti del mondo materiale: Kant ha bel chiamare impudente Epi- cuiX) ixìr questa sua dottrina, il tatto stesso che essa è stata anmiessa, costituisce una pix)va contro la teoria Kan- tiana che vede nella causalità una l'orma o una legge ne- cessaria del soggetto conoscente. D'altronde questa distin- zione tra i tatti del mondo moi'alc e quelli del mondo ma- teriale non sarebbe ammissibile che al i)unto di vista del- Tuomo moderno che partecipa più o meno alla coltura scientifica : non sarebbe un'ironia di dire che il selvaggio, o semjJicemente Fuomo superstizioso, il quale, in tutti i fenomeni della natura che sorpassano la sua stretta ca- pacità di comprendere, vede Teffetto della volontà capric- ciosa di agenti spirituali, creda alFincatenamento delle cause e degli eftetti, cioè all'ordine uniforme o al deter- minismo universale, nei tatti del mondo materiale? Quanto ai due criteri di cui Kant si serve per distin- guere questa sorta di proposizioni dalle sperimentati, noi abbiamo notato che, per ciò che concerne Tassoluta univer- salità, si possono lare due quistioni distinte, quella, per dir cosi, del fatto, e quella del dritto. Alla prima cpiistio- ne, cioè se gli uomini sogliono effettivamente riguardare come assolutamente universali delle proposizioni indiscu- tibilmente ricavate dalFesperienza, noi aljbiamo già rispo- sto nftermativamentc: alla seconda, cioè se alle gencralizzazioni delFesperienza si ha il diritto di accordare una universalità rigorosa, la precedente discussione ci autrj- rizza a rispondere pure affermativamente, perchè ci ha dimostmto l'insuccesso di ogni tentativo, come (luello di Kant, di fondare fuori delFesperienza la legittimità delle nostre conoscenze. In quanto all'altro criterio, è chiaro che le jn^oposizioni che Kant chiama traHcendeaiali, non possono affatto aspirare alla necessità dei principii della matematica. Sarebbe per noi certamente incredibile che un'eccezione al principio di causalità avesse luogo: ma quantunque sappiamo con certezza che tutti gli avve- nimenti sono subordinati a questo principio, noi pos- siamo tuttavia immaginare che il contrario potrebl)e ac- cadere di quello che sappiamo che eftettivamente acca- de. Lo stesso Kant ne conviene: «Una proposizione sin- tetica della ragion pura e trascendentale è ben lungi, egli dice, dall'essere cosi evidente che la proposizione che due (i due fanno quattro ». « La filosofia non ha assiomi, e non le è permesso d'imporre puramente e semplice- mente i suoi principii <i priori, ma deve applicarsi a giu- stificare a loro riguardo i suoi diritti con fondata ed oi)- portuna deduzione» (Discipl. della ragion pura ncll'aso do(jrn., Assiomi), Kant, servendosi d'un termine giuridico, cliiama dedazione la giustificazione dell'aiìplicazione agli oggetti d' un principio a priori, o in altri termini, una spiegazione che valga ad assegnare il fondamento della legittimità di un tale principio (Analit, Princ, d'una de^ duz. trascendent. in (jener,), L^na proposizione a priori trascendentale, come il principio di causalità, non potrebbe dunque, secondo Kant, ammettersi senza una dedazione o giustificazione. « Non ])Otrebbe darsi in fatti, egli dice, che i fenomeni, tra cui noi stabiliamo il legame di causa- lità, fossero di natura tale che l'intendimento non li tro- vasse d'accordo con le condizioni della sua unità, e che tutto tosse in un tale di stato di confusione che, nella successione delle apparizit^ni, niente non fornisse materia alla regola della sintesi; che non vi l'osse niente per con- seguenza che si accordasse con la nozione di causa e di effetto, sicché infine questo concetto fosse chimerico e senza il minimo fondamento?» (iv/j. La necessità ineren- te al principio di causalità non è dunque, per confessio- ne dello stesso Kant, una necessità assoluta, che impe- disca sinanco (Fimmaginare la possibilità del contrario: vi ha senza dubbio una differenza, sotto questo rapporto, fra la legge della causazione e una legge empirica che non è un prodotto spontaneo dell'esperienza più familiare, ma il risultato di un'investigazione scientifica. Nel secondo caso le idee non sono cosi strettamente legate fra di loro come nel primo: ma Tesperienza non è incapace di for- mare dei legami cosi stretti fra le nostre idee. Delle pro- posizioni incontestabilmente fondate salPesperienza, come il preteso principio che ogni azione mutua fra i corpi suppone il loro contatto, e che non vi ha azione a distanza, sono stati, noi V abl)iamo già osservato, spesso ricevuti come dei principi necessari: la frequente ripetizione delle esperienze arriva in questo ed altri casi analoghi, cosi Ijene come in quello della causalità, ad associare cosi for- temente le idee, che non t)Otrebbero (tueste venir separate senza una grande difficoltà. § 14'\ Kant ha avuto ben ragione di pretendere che un principio a priori non potreljbe anunettersi, come oì> biettivamente valido, senza una giustificazione o una de- duzione conveniente. Una tendenza subbiettiva a credere non potrebbe i)er se stessa provare la legittimità della cre- denza. Neir ipotesi delF esistenza delle idee o dei giudizi a priori, non vi Jia niente che si possa opporre alla sup- posizione di giudizi a jtriori falsi ed illusori. Questa su^)- posizione ò stata di fatto ammessa: << Vi ha, dice il Lan- ge, <lelle nozyjni a priori erronee, come delle nozioni a priori in generale. 11 più spesso T errore a priori non è un'idea incoscientemente acquisita per T esperienza, ma un idea che ci è necessariamente imposta dall'organizza- zione fìsica e psicologica delFuomo, avanti ogni esperien- za particolare; un'idea che per conseguenza si manifesta sin dalla prima esperienza, senza T intervento delFindu- zione, ma che è rovesciata con la stessa necessità per la forza d'idee a priori più profondamente radicate, dacché una certa serie d'esperienze ha dato la preponderanza a queste ultime ». Sembra che le dottrine che Kant ha esposto nella Dia- lettica trascendentale, non siano state senza influenza su questa opinione del Lange. Come Kant ha ricercato nel- Y Analitica i principii a priori delle nostre nozioni sul mon- do reale (dell'esperienza), cosi nella Dialettica egli ricer- ca i principii a priori delle nostre nozioni metafìsiche, che sono per lui delle illusioni naturali dello spirito uma- no. Kant ha avuto torto di vedere nei principii della me- tafisica delle idee a priori, date con la struttura stessa del nostro spirito: questi principii non sono dovuti, come tutti gli altri, che all'impressione delle cose sopra di noi, e se essi sono naturali allo spirito umano, ciò è percliè, il punto di vista in cui l'uomo è collocato nella na- tura, si presenteranno a lui necessariamente quelle espe- rienze familiari, di cui le tendenze metafisiche sono il . Tuttavia, se si ammette 1' esistenza di nozioni ingenite nella nostra intelligenza, sembra che le creden- ze o tendenze a credere su cui volile la metafisica naturale dell'uomo (cioè i prodotti spontanei della sofistica a priori nostro spirito, di cui i sistemi della storia sono degli sviluppi e delle applicazioni diff*erenti— v. il Saggioseguen- te — ) meritino, più che qualunque altra, di essere com- prese fra queste nozioni. In questo caso, noi avremmo ef- fettivamente ciò che Lange chiama degli errori a priori: V esperienza rovescerebbe queste idee a priori che sono erronee, mentre essa confermerebbe le id^ee a priori che sono vere. Cosi, in tutti i casi, è sempre l'esperienza che (leve decidere, in ultimo appello, sulla verità o sulla tal- sita di un' idea: non vi ha di tatti, come abbiamo visto, air infuori delF esperienza stessa, alcun' altra dedazione y che possa dare un fondamento alla realtà delle nostre co- noscenze. r' per quesf osservazione che termineremo il nostro esame della dottrina di Kant e, in generale, delle dottri- ne dei razionalisti. Nei capitoli seguenti stabiliremo di- rettamente la nostra tesi, die è quella che abbianio enun- ciata nel [)rimo paragrafo del capitolo terzo. "^^S^^M óoccooooooo i a>c<x:c<^^ Esame delle proposizioni matematiclie e di altre classi meno importanti di proposizioni a priori. S. l\ Le proposizioni delle matematiche pure sono state sempre considerate conie il tipo delle verità di ra- fy/oAie, cioè necessarie ed a pintori: noi dobbiamo occupar- ci con un'attenzione porticolare dell'origine e della natu- ra di queste proposizioni, non essendovi torse una quistio- ne più importante per la teoria della conoscenza. Si trat- ta di stabilire, per dei principii generali, quali siano le forze della ragione a priori, su (juali soggetti noi possia- mo acquistare delle conoscenze indipendenti dall'esperien- za. La quistione ha anche un'importanza speciale per l'ar- gomento del Saggio seguente, cioè l'origine e lo sviluppo delle nozioni metafisiche: l'intiuenza dello studio delle ma- tematiche sulle concezioni, e particolarmente sui metodi, dei metafisici è un fatto provato dalla storia (v. Saggio 2*\ parte 1^> cap. 0^); è il successo del metodo deduttivo in queste scienze che ha dato sovratutto occasione a pensa- re che si potrtìbbe costruire a priori la scienza dell'uni- verso reale cosi bene che quella dei numeri e delle figu- re. L^na ricerca minuziosa sull'origine e sulla natura dellevidenza particolare alla matematica non sarà dunque uno sterile esercizio del pensiero e una vana micrologia, ma una preparazione indispensabile alla soluzione delle quistioni fìlosoficiie a cui il nostro spirito non cesserà mai d'interessarsi, sul valore e sui limiti delle nostre conoscen- ze, sulla legittimità dei metodi proposti per perfezionarle, e sui principii che governano lo sviluppo della intelligen- za umana. Gli empiristi hanno avuto torto di negare Y apriorità delle matematiche pure, che é la particorità più saliente per cui esse si distinguono dalle scienze naturali e da tutte le altre scienze in generale: ma (juesta apriorità delle pro- posizioni delle matematiche non deve intendersi in un senso che escluda Torigine empirica o induttiva delle premesse di queste scienze. Essa consiste unicamente in ciò, che le osservazioni, di (]ui queste premesse sono le generalizza- zioni, non hanno bisogno di essere fatte sulle cose stesse, ma basta di contemplare le idee di queste cose. Per sa- pere che due e due fanno quattro, clie due rette non pos- sono chiudere uno spazio, che la retta è la linea più breve fra due punti dati, ecc., non c*è bisogno di osservare delle collezioni di oggetti reali, nò delle rette materiali: Inasta airuopo di rappresentarci due coppie di oggetti e delle li- nee rette. Cosi pure basta di rappresentarci distintamente tre grandezze eguali in una situazione conveniente, per verificare lassioma che due grandezze eguali ad una terza sono eguali fra loro. La scuola empirista non ha negato (piesta i)roprietà delle verità evidenti per se stesse della matematica: il Mill specialmente ha mostrato che essa basta per rispondere alle obljiezioni della scuola intuitiva contro Torigine empirica o induttiva di ([ueste verità. Le nostre impressioni di forma, dice il Mill, hanno questa proprietà parttcolare « clie le idee o immagini mentali ras- somigliano esattamente ai loro prototipi e li rappresentano adequatamente per Tosservazione scientilica. Di là e dal carattere intuitivo delF osservazione, che in questo caso si riduce alla semplice ispezione, segue che, cercando di concepire due linee rette che chiudono uno spazio, non possiamo evocare a questo fine nelFimmaginazione le due hnee senza, per quest'atto stesso, ripetere Tesperienza scien- tifica che stabilisce il contrario » (Logica lib. 2« e. 5^ § 6). Oltre alFobbiezione che si fa airorigine empirica degli as- siomi perchè hanno per essi Tinconcepibilità della nega- tiva, « si dice che se il nostro assenso alla proposizione che due linee rette non possono chiudere uno spazio pro- venisse dai sensi, non potremmo essere convinti della sua verità che per un'osservazione attuale, cioè vedendo o toc- cando le linee rette; mentre, in fatto, essa è riconosciuta vera solo pensandovi ». Di più per quesf assioma parti- colare si può aggiungere che «la sua evidenza, in virtù della testimonianza attuale degli occhi, lungi di essere ne- cessaria, non può nemmeno essere ottenuta cosi j» : che due rette, « prolungate airinfìnito, dopo la loro intensezione, non s'incontreranno mai, e continueranno a divergere Tuna dall'altra j> c( non può provarsi in un caso particolare per un' osservazione diretta », perchè non si possono seguire le linee all'infinito. A queste due obbiezioni «si sarà ri- sposto d'una maniera soddisfacente, se si tien conto d'una delle proprietà caratteristiche delle forme geometriche, che le rende atte ad essere figurate nell' immaginazione con una chiarezza ed una precisione eguali alla realtà ; in altri termini, della perfetta rassomiglianza delle, nostre idee di forma con le sensazioni che le suggeriscono. Noi siamo perciò in istato, prima, di farci (almeno con un po' di pratica) delle immagini mentali di tutte le com- binazioni possibili di linee e d'angoli, che rassomigliano alle realtà cosi esattamente che quelle che si potrebbero tracciare sulla carta; e in seguito, d' esperimentare geo- metricamente su queste immagini cosi sicuramente che sulle realtà stesse; atteso che queste pitture, se esse sono sufficientemente esatte, manitestano tutte le proprietà che sarebbero esibite dalle realtà a un momento dato e per una semplice vista. Ora in geometria è di queste proprietà che noi abbiamo ad occuparci, e non di ciò che non potrebbe essere mostrato per delle immagini, Fazione mutua dei corpi gli uni sugli altri Queste considerazioni distrug- gono pure l'obbiezione l'ondata suirimpossilnlità di seguire ocularmente le linee prolungate air infinito. Perchè, ben- ché per vedere attualmente che due linee date non s' in- contrano mai, sarebbe necessario di seguirle air infinito, noi possiamo tuttavia sapere, senza di ciò, che, sedesse s'in- contrassero, 0 se, dopo essersi allontanate, cominciassero a ravvicinarsi, ciò dovrel)be accadere, non ad una di- stanza infinita . ma ad una distanza Unita, Supponendo dunque che è cosi, noi possiamo trasportarci in immagi- nazione a questo punto, e rappresentarci mentalmente ra[)- parenza che presenterebbero là le due linee, apparenza a cui dob'biamo fidarci come assolutamente simile alla real- tà. Ora, sia che noi consideriamo (juesta pittura imma- ginaria, sia clie ci rammentiamo le generalizzazioni d'os- servazioni oculari anteriori, è sempre la testimonianza deiresperienza che c'insegna che una linea retta che, do^Kj essere stata divergente da un'altra retta, comincia a rav- vicinarsene, produce sui nostri sensi l'impressione che si designa per l'espressione di linea curva, e non per quella di linea retta « (Logica). « Quando si tratta <li numeri, di lince, di figure, e generalmente in tutti i casi in cui l'idea d'un oggetto ne è la rappresentazione com- pleta, noi possiamo naturalmente apprendere dall'ini ma- gine tutto ciò che avremmo appreso dall'oggetto stesso, contemplandolo tale quale esso esiste al momento preciso in cui la pittura mentale l'ha riprodotto. Noi non appren- derenmio mai, limitandoci a guardare della polvere da can- none, ch'ossa fareljbe esplosione al contatto d'una scintilla, e per conseguenza la contemplazione dell'idea della poi- !-..* I vere da cannone non ce l'insegnerebbe nemmeno. Ma basta di vedere due linee rette per vedere che esse non possono chiudere uno si)azio, e per conseguenza, la contemplazione delle loro idee ci mostrerà la stessa cosa » (HI). :V^ e. 24<^ § 2). Il Bain ripete l' osservazione del Mill : « Si è soliti di osservare, egli dice, e con ragione, a proposito degli as- siomi matematici in generale, che gli oggetti a cui si ap- plicano, cioè le grandezze e le l'orme, sono di tal natura da essere rappresentate il più facilmente i)Ossibile nella nostra immaginazione : dimodoché noi possiamo lare un gran numero d'esperienze ideali, senza contare le compa- razioni che noi compiamo pure d'una maniera concreta sulle cose reali». (Logica lib. 2*^ e. V. n^' (S). §. 2**. Sembra che né il liain né il Mill abbiano com- preso la vera ragione perché le immagini mentali delle grandezze e delle l'ormo possono sostituire le grandezze e le torme reali; perché noi possiamo si)erimentare su queste immagini cosi sicuramente che sulle cose stesse ; perchè infine quelle rappresentano queste adequatamente per r osservazione scientifica. Ciò avviene, dicono essi, perchè le grandezze e le l'orme i)Ossono essere facilmente immaginate; perdio le idee rassomigliano esattamente alle cose stesse. «Noi non saremmo autorizzati, dice il Mill, a sostituire l'osservazione deirimma£]^ine mentale all'osser- vazione dell'oggetto reale, se non avessimo imparato per una lunga esperienza che le proprietà della realtà sono fedelmente rappresentate neirinnnagine; i)recisamente co- me noi saremmo autorizzati a descrivere secondo la sua immagine fotocrrafica un animale che non abbiamo mai visto, ma non tuttavia prima d'aver appreso i )er l'esperienza che l'osservazione d'un'immagine simile equivale comple- tamente all'osservazione dell'originale » (lib. 2^^ e. 5^ § 5). Cosi sembra che noi abbiamo bisogno dell'esperienza per sapere che l'idea d'una linea retta rappresenta una,«^,-.^p»n>IÌ«. linea retta, e non una linea spezzata o curva. Noi abbia- mo bisogno di sapere che la Ibtografia rappresenta ade- quatamente Toriginale, per essere in grado di descrivere coscienziosamente quest'originale sulFosservazione della sola immagine, perchè qui le nostre proposizioni sareb- bero esistenziali. Esse stabilirebbero che esiste un anima- le rea,le, avente una tale forma esteriore o una tale strut- tura. Ma una proposizione geometrica relativa alla retta non stabilisce sulla retta niente di simile. La quistione qui sollevata dal Mill corrisponde alla difficoltà dei Kan- tiani: donde sappiamo che le linee ideali si comportano come le linee reali? I Kantiani rispondono: È che stabi- liamo quest'accordo noi stessi. Mill risponde invece: lo sappiamo per Tesperienza. Nella quistione presentata sot- to questa forma vi ha un equivoco: la vera quistione non è: perché sappiamo che le linee reali rassomigliano esat- tamente alle linee ideali? ma è invece: perciiè noi attri- buiamo alle linee o alle formi reali i mutui rapporti che noi apprendiamo dall'osservazione delle linee o forme idea- li? Il Mill nella sua risposta ad una critica si approssima alla vera soluzione. Il W'ewell aveva obbiettato che non si vede perchè la rassomiglianza C(jn gli oggetti reali sa- reljbe considerata come particolare alle idee di spazio. A cui il Mill risponde : La particolarità non è che di grado. Nessuno potrebbe rappresentarsi un colore o un odore d'una maniera cosi distinta e completa che una retta o un triangolo. «Nondimeno proporzionalmente al loro grado possibile di esattezza, i nostri ricordi degli odori e dei co- lori possono essere dei soggetti d'esperienza, cosi bene che quelli delle linee e degli spazi, e possono autorizzare delle conclusioni che saranno vere dei loro prototipi este- riori. Una persona in cui, sia naturalmente, sia per l'e- sercizio del senso, le sensazioni di colore sono molto vi- ve e distinte, potrà, se gli si domanda (juale di due fiori turchini ha un colore più carico, dare una risposta soddisfacente sulla sola fede dei suoi ricordi, quand'anche non li avesse mai comparati, e nemmeno visti insieme; vale a dire che essa potrà esaminare le sue immagini ^ < mentali, e trovarvi una proprietà degli oggetti esteriori. Ma in quasi nessun caso, tranne per le forme geometri- che semplici, ciò può farsi col grado di sicurezza che dà la vista degli oggetti stessi», (lib. 2^ e. 5^ § 5, in nota). Il Mill non avrebbe dovuto che generalizzare l'osservazio- ne contenuta in questa sua risposta: noi possiamo, per osservare i loro attributi, sostituire alle cose le immagi- ni mentali di esse, quando noi vogliamo conoscere i loro rapporti comparativi, le loro somiglianze e differenze, non la loro esistenza o l'ordine con cui i loro fenomeni hanno luogo nel tempo o nello spazio. Come una verità cosi sem- plice non è stata compresa? È che la sua applicazione generale suppone, come vedremo, che si sia già rinunzia- to alla dottrina delle idee astratte, e clie si cerchi sem- l)re il senso delle proposizioni nelle idee concrete che esse significano. Se una verità sui numeri e sulle forme geo- metriche può essere stabilita per la sola contemplazione del- le idee, ciò è perchè la scienza dei numeri e la geometria non concernono l'esistenza dei fenomeni reali, le loro se- quenze e le loro coesistenze, ma si limitano a considera- re i rapporti comparativi dei loro oggetti, le eguaglianze e le ineguaglianze, le somiglianze e le differenze. É per- ci(') che la sola contemplazione delle nostre idee delle li- nee può insegnarci che una retta ò la più breve fra due punti dati (ineguaglianza definita), che due rette non chiu- dono uno spazio (differenza fra due rette e uno spazio chiuso da linee ), ecc. Non è perchè quando si tratta di numeri, di linee o di figure, l'idea d'un oggetto ne è la rappresentazione completa, ma non quando si tratta di fe- nomeni fisici. Le rappresentazioni del numero, della gran- dezza, della forma e della posizione delle cose, che forma- no l'oggetto della matematica pura, bastano a rappresentarci tutti i lenomeni fisici, almeno al punto di vista delle proprietà delle cose che noi diciamo obbiettive, che è quel- lo sotto cui le considera specialmente la scienza. Noi pos- siamo, dice il Mill, contemplando le idee delle rette, sape- re che queste non possono chiudere uno spazio, ma non possiamo, contemplando Tidea della polvere da cannone, sapere che (juesta farebbe esplosione al contatto di una scintilla. Ciò è, secondo lui, prima perchè la rappre- sentazione della retta è più somigliante che quella della polvere da cannone ; e ancora perchè le rappresentazioni <lelle torme geometriche, se esse sono esatte, rappresenta- no tutte le proprietà che sarebbero esibite dalla realtà a un momento dato e per una semplice vista, e la geome- tria si occupa appunto di queste [)roprietà, mentre Fazio- ne mutua dei corpi gli uni sugli altri, di cui si occupano le scienze fìsiche, non potrebbe essere mostrata per delle immagini. Per le proprietà geometriche Tosservazione ha un carattere intuitivo, si riduce alla semplice iihspezione, ma non per le proprietà fisiche. Ma percliè ciò? Sarebbe per avventura perchè le proprietà fisiche, le azioni mu- tue dei corpi gli uni sugli altri, provengono da qualità occulte, inaccessibih airosservazione dei nostri sensi? o forse vi ha un'osservazione, che non si riduce alla sem- plice intuizione, alla inspezione attenta delle cose? Noi non potremmo conoscere, per la semplice inspezione di due rette, ciie esse non chiudono uno spazio, senza vedere o pensare le due rette in rajjporto con uno spazio chiuso da linee; noi non protremmo conoscere che la retta è la li- nea più breve fra due punti, se non osservassimo, nel^ i realtà o neirimmaginazione, il suo rapporto con la spez- zata e con la curva. Della stessa maniera, la semplice in- spezione della polvere a contatto con la scintilla non c'in- segnereljbe che la polvere farà esplosione; ma bisogna osservare perciò il rapporto di sequenza tra i due feno- meni. Semplicemente, per conoscere clie due fenomeni so- I i i no in un rapporto di sequenza o di coesistenza, noi dob- biamo osservare le cose stesse; ma per conoscere i loro rapporti di somiglianza o di differenza, basta di osserva- re le idee delle cose. A questo punto, è vero, la quistio- ne: come sappiamo che le linee e le grandezze ideali si comportino come le reali? rinasce sotto un'altra forma: chi ci autorizza ad attribuire agli oggetti reali i rapporti di somiglianza e di differenza che noi scopriamo nelle idee di questi oggetti ? É questa certamente un'anticipazio- ne sull'osservazione delle cose stesse : ora è sull'esperienza che noi ci fondiamo facendo quest'anticipazione, o vi ha qui una necessità del nostro pensiero indipendente dall' espe- rienza? Noi riserviamo la risposta a questa quistione [)er un momento più opportuno, § 3,° Oltre all'apriorità, intesa nel senso che abbiamo spiegato, le proposizioni della matematica pura hanno anche un altro carattere: esse sono delle verità necessa- rie. Verità necessarie non vuol dire che esse sono d'una certezza e d'una generalità assoluta, perchè in questo senso ogni verità scientifica e provata sarebbe necessaria. Le verità della fisica ci apprendono che le cose sono cosi, ma non che esse devono essere cosi, e perciò si dicono verità contingenti ; al contrario una verità necessaria ci apprende non solo che le cose sono d'una certa maniera, ma che esse devono essere di questa maniera. La ditte- renza fra questi due ordini di verità, al punto preciso in cui deve farsi la loro separazione, è forse alquanto sotti- le, ed è stata trascurata da alcuni filosofi moderni ; ma Hamilton la giudicava tanto importante, eli' egli negava una competenza nelle quistioni filosofiche a clii non fosse capace di percepirla nettamente. E in realtà, al punto di vista della storia delle idee filosofiche, questa ditìcrenza è certamente d'un'importanza capitale. I filosofi della scuola intuitiva hanno particolarmente insistito su di essa, senza però tracciare con giustezza la linea di divisione tra i due ordini di verità, e ne hanno fatto 1' obbiezione principale contro la teoria deiresperienza. « L'esperienza, (3ice We- ^vell, non può fornire il minimo fondamento alla neces- sità d'una proposizione. Essa può osservare e notare ciò che è accaduto, ma non può nò in un caso qualunque né in un'accumulazione di casi trovare una ragione perciò che deve accadere. Essa può vedere degli oggetti gli uni a lato degli altri, ma non vedere perché essi devono es- sere sempre così iuxta-posti. Essa trova che certi avve- nimenti si succedono, ma la successione attuale non dà la ragione del suo ritorno; essa vede gli oggetti esteriori^ ma non può scoprire il legame interiore che incatena in- dissolubilmente il futuro al passato, il possibile al reale. Apprendere una proposizione per esperienza e vedere ch'es- sa é necessariamente vera, sono due operazioni intellet- tuali completamente ditl'erenti » (Storia delle idee scien- tifiche, t. 1,^ p. G5). Ma quest' obbiezione contro l'origine empirica o induttiva della matematica, tirata dalla neces- sità delle verità matematiche, ha lo stesso fondamanto che quella tirata dalla loro apriorità: è che si misconosce la differenza tra i giudizi esistenziali e i giudizi comparativi. Le proposizioni della matematica sono necessarie per la stessa ragione per cui sono a priori: è perchè sono delle proposizioni sulla somiglianza. Per esprimere questo carattere di necessità d'una prò- ])Osizione, si dice o rdinariamente che la sua negazione é impossibile, o che il suo contrario è inconcepibile. In ve- rità quest' inconcetnbilità, a parlar propriamente, non ha luogo che per le proposizioni evidenti per se stesse: é impossibile di concepire che due e due non siano eguali a quattro, clie la retta non sia la linea più breve fra due punti dati, che due rette chiudano uno spazio. Ma quando una verità si conosce, non d'una maniera intuitiva, ma per inferenza, non vi ha, in senso stretto, l'incocepibilità del contrario, o l' impossibiUtà dellla negazione— noi diremo 'é appresso la ragione di questa differenza— É evidente che prima della dimostrazione di un teorema, i due lati del- l'alternativa, che esso sia vero e clie esso sia falso, sono egualmente ammissibili: cosi, sinché abbiamo dei dubbi sul rigore della dimostrazione, la supposizione che il teo- rema sia falso é ancora possibile. Ma quando noi siamo certi della verità espressa nel teorema, noi non possiamo ammettere la possibilità del contrario di questa verità: per le verità della fisica, al contrario, anche le più certe, que- sta possibilità è sempre ammissibile. Noi siamo sicuri che un acido arrossa la tintura di tornasole, o che un cor- po in movimento, s' egli non comunicasse parte del suo movimento ad altri corpi, continuerebbe a muoversi con una prestezza uniforme: ma nello stesso momento che vi crediamo con una certezza assoluta, noi possiamo imma- ginare che il contrario potrebbe aver luogo. Non trove- remmo alcuna ripugnanza ad immaginare un mondo in cui questo contrario avreijbe luogo : noi possiamo anche ammettere clie l'ordine attuale dei fenomeni riposi sulla semplice volontà arbitraria dell'autore della natura, e che questi avrebbe potuto stabilirlo d'una maniera affatto dif- ferente, e potrebbe sospenderlo e mutarlo a suo benepla- cito. Noi potremmo ancora concepire come possibile un mondo, in cui tutti i fenomeni si succedessero all'azzardo, cioè senz'alcuna legge costante nella loro successione. In questi casi si tratta di sequenze tra i fenomeni; e non ci costerebbe niente d'immaginare che un fenomeno potrebbe <3ssere seguito da fenomeni differenti, e non da quelli da cui in realtà esso è costantemente seguito. Lo'stesso deve dirsi per le coesistenze. Forse, in ultima analisi, noi non possiamo immaginare niente di assolutamente nuovo, di cui non avessimo già avuto la sensazione; ma noi pos- siamo riunire e combinare d'ogni maniera questi dati della sensazione; la nostra immaginazione può idealmente in- vertire e mutare in tutti i modi l'ordine reale con cui ci sono stati preseiìtati. I rapporti tU ordine non derivano dalla natura stessa dei fenomeni, quale ci è data nella intuizione o nella rappresentazione di ciascuno di questi; noi possiamo supporre che il rapporto sia diiferente, men- tre i fenomeni sono ancora gli stessi: ma se si tratta in- vece, non d'un rapporto d'ordine, ma duna eguaglianza o d'una ineguaglianza, d'una somiglianza o d'una dillerenza, noi non potremmo concepire che uno di questi rapporti cangi, senza che siano cangiati i fenomeni stessi tra cui esiste il rapporto. Cosi noi possiamo ignorare, e forse an- clie dubitare, dopo una dimostrazione che non ci semljra rigorosa, che gli angoli d'un triangolo rettilineo siano eguali a due retti : ma se ammettiamo che lo sono, non possia- mo supporre che avrebbero potuto non esserlo, non po- tendo noi concepire die il rapporto tra gli angoli d' un triangolo e due angoli retti cangi, sinché il triangolo è un triangolo e i due angoli retti due angoli retti. È in questo senso che tutte le verità della matematica pura sono verità necessarie. (Confr. caj). 3'^ § 4« e W'), Ora dobbiamo mostrare con qualche dettaglio che le proposizioni matematiche consistono tutte in giudizi com- parativi, cioè in affermazioni di rapporti di somiglianza, e che è per questa ragione che esse sono necessarie ed a priori. Cominceremo per la scienza del numero. §. 4.*> Ogni proposizione dell'aritmetica e dell'algebra staljilisce, al fondo, delle eguaglianze o delle ineguaglianze. (xJuando nel calcolo aritmetico si mette il segno = fra i dati dell'operazione proposta e il risultato di quest'opera- zione, ovvero quando nel calcolo algebrico questo segno si pone fra due espressioni distinte, ciò che si afferma non è semplicemente, come si ix)trebbe credere, che vi hanno due espressioni diverse iVuna stessa quantità, nel senso che la differenza consisterebbe unicamente nelle espressioni ma la cosa espressa sarebbe identica; al con- trario, ciò che si afferma sono delle relazioni fra cose realmente distinte. Fra 7+5 e 12 non vi ha identità assoluta, ma solo egualianza : 7+5 designa due gruppi di oggetti . ma 12 designa un gruppo unico; e la proposizione 7+5=12 afferma che i due primi gruppi presi insieme sono nume- ricamente eguali al terzo gruppo. 7+5 e 12 possono anche denotare gli stessi oggetti, 7+5 prima della loro riunione in un gruppo unico, e 12 dopo questa riunione : ma la di- sposizione di questi oggetti, il loro modo di aggregarsi sa- rebbe diverso prima e dopo la riuninione. 11 risultato della somma potrebbe anche considerarsi come rappresentante, non un gru[)po unico, ma due grup])i formati, l'uno d'una decina, l'altro di due unità, perchè in un sistema razionale di numerazione la valutazione di una somma di numeri per il numero totale può essere riguardata come l'afferma- zione dell'equivalenza tra la soimna data e un'altra somma diversamente formata secondo un metodo generale, e che si esprime per il nome del numero o, in generale, il suo segno: nel sistema decimale, p. e., quest'ultima somma consiste nell'addizione di un numero di unità semplici e di numeri d'aggregati costituiti ciascuno da una delle })0- tenze successivi di dieci. Della stessa maniera IX^ — ~^^ afferma l'eguaglianza numerica fra quattro grup[)i di cin- ({ue oggetti ciascuno e un gruppo unico di venti o (kie di dieci. Cosi ancora in questa eguaglianza: (:}+2)''=*r^ +2 (3.2)+2~, la quantità indicata nei due mem])ri del- l'eguaglianza è in un senso la stessa, ma la struttura in- terna, per dir cosi, di questa (juantità (come si potrebbe rappresentare sensibilmente per mezzo di i)untini segnati sulla carta) differisce nelle due espressioni: il modo di ag gregarsi delle unità, i gruppi che esse formano per la loro riunione, e i gruppi di second' ordine formati da questi gruppi, non che quelli di un ordine più complesso ancora costituiti da questi gruppi di gruj^pi, sono diversi. Sicco- me noi abitualmente valutiamo i gruppi di (luantità, affer- mandone l'equivalenza con un dato numero, cioè con un mm^imi&.^Mìs^j..-.. aggregato formato secondo il sistema decimale, V eaua- glianza suindicata può interpretarsi, non come un rap- porto immediato di eguaglianza fra i due membri, ma come un'equivalenza delluno e dell' altro allo stesso nu- mero o aggregato del sistema decimale. La tbrmula (a -^ b ) ^ = a ^ +2 a b -i- b ^ è poi una proposizione generale, che indica un'infinità di equivalenze della stes- sa classe. Cosi pure la formula (a -}- b) (a — b) = a- — b 2 non indica un' identità reale fra due espessioni diverse^, ma delle equivalenze fra gruppi di quantità realmente distinti : essa dice che la somma di due nu- meri, a (ì b, ripetuta tante volte quante sono le unità contenute nella differenza fra questi due numeri, è u- guale ad un numero il quale, aggiunto a b^-, sarà ugua- le ad a 2. Similmente la formula tv i^ - ^^^, significa che il numero, il quale, ripetuto tante volte quanto sono le uni- tà di b, è uguale ad a, se invece si ripete tante volte quante sono le unità di ò e, sarà uguale ad a e ; il che ancora indica, non un'identità assoluta, ma delle ugua- glianze fra quantità e gruppi di quantità realmente distinte. Dagli esempi citati si vede facilmente di quale specie particolare sia l'eguaglianza con cui ha da fare la scien- za dei numeri: si tratta sempre al fondo dell'eguaglianza numerica fra un aggregato o un certo gruppo di aggre- gati e un altro gruppo distinto di aggregati. Tale eviden- temente è il ra[)porto che si afferma quando si fa un'ad- dizione: in quanto alla molti[)licazione, essa non è che un caso dell'addizione, e l'elevazione a potenza un caso del- la moltiplicazione. Per le operazioni poi che sono le in- verse di queste, la loro definizione mostra che esse si ri- conducono alle operazioni dirette corrispondenti. La sot- trazione non differisce dall'addizione, se non perchè ci<") che è un dato per la prima è un quesito perla seconda, e ciò che è un quesito per quella è un dato per questa. Ma sia che si tratti di addizionare 7 e 5, sia di sottrarre I 7 da 12, il risultato dell'operazione non dice altro se non che 5 aggiunto a 7 ò uguale a 12. Ciò che la sottrazio- ne è relativamente all'addizione, la divisione é rapporto alla moltiplicazione, e l'estrazione di radice alla elevazio- ne a potenza. Cosi affermare che un numero è formato per mezzo di altri numeri, qualunque sia l'operazione di cui questo numero è il risultato, è sempre affermare che una quantità (o gruppo di quantità) ò uguale ad un altro gruppo distinto di quantità. Ora tutte le volte che il segno dell' eguaglianza viene impiegato, si stabilisce o semplicemente che un numero è formato per mezzo di altri numeri, ovvero che un nu- mero, avendo un certo modo di formazione, ha pure un altro modo distinto di form azione ; tutte le volte almeno che questo segno indica realmente un'eguaglianza, e non una yera identità (nel qual caso la proposizione non po- trebbe essere istruttiva, ma puramente verbale e tauto- logica). Perciò, fatta questa riserva, ogni eguaglianza, va- le a dire ogni scrittura impiegata nell'aritmetica o nell'al- gebra in cui entra il segno dell'eguaglianza, esprime o l'e- guaglianza numerica fra una quantità e un gruppo di quantità, o la coesistenza di due di queste eguaglianze. Se in un membro à<ò\X eguaglianza entra una sola quantità, ciò che si stabilisce è che un numero è formato per mez- zo di altri numeri, facendo un'operazione qualunque so- pra di questi; e allora ciò che si afferma è un'eguaglian- za della natura che abbiamo indicata. Se invece in amen- due i membri dell'e^t^a^ton^a entrano più quantità, si sta- bilisce che uno stesso numero può avere due modi distin- ti di formazione, cioè che esso può formarsi tanto per un'operazione su certe quantità quanto per un'altra ope- razione su certe quantità: allora traducendo le operazio- ni inverse, notate nella espressione, nelle operazioni di- rette corrispondenti, si vede che ciò che si afferma è una coesistenza di eguaglianze della natura che aljbiamo in- 3sa (licata— noi abbiamo già fatta questa traduzione delle ope- razioni inverse nelle dirette nella interpetrazione deg li esempi di Ibrmule algebriche che sopra abbiamo ripor- tato—In una e(/ua(jUan^a ciascuna delle quantità per cui il numero viene immediatamente formato, pu(') essere in- dicata, non direttamente, ma indirettamente, cioè per il suo modo di formazione per altre quantità, e queste alla loro volta per il loro modo di formazione per altre quan- tità, e cosi di seguito. Non solo le proposizioni particolari, ma ancora le prò- i:)Osizioni generali deiraritnìetica e dell'algebra non affer- mano altro che dei rapporti di eguaglianza dello stesso genere di quelli di cui abbiamo parlato, ovvero una coe- sistenza, o più propriamente dipendenza, fra questi rap-^ porti di eguaglianza. Un teorema infatti c'insegna gene- ralmente che certe quantità o gruppi di (juantità sono (a non sono) la somma o la diHerenza o il prodotto o il quo- ziente o la potenza o la radice di altre quantità o grup- pi di (juantità, ovvero clie uno stesso numero, avendo un certo modo di formazione, ha pure un altro modo distin- to di formazione. Quest'ultima classe di teoremi si espri- mono spesso simbolicamente, ci(3è in linguaggio algebri- co, e allora ha luogo ciò che si chiama una formula al- gebrica. Una formula algebrica è una coppia di espres- sioni unite dal segno deireguaglianza, in una parola una specie del genere eguaglianza, e noi abbiamo già detto in generale quali siano i rapporti che vengono afferma- ti in una eguaglianza. L'oggetto principale dell'algebra è la risoluzione delle e(iuazioni. Un'e(|uazione è anch'essa wn eguaglianza, ed esprime quindi anch'essa un'eguaglianza o coesistenza di eguaglianze nel senso che abbiamo detto: ma in essa en- trano, a lato di quantità cognite, delle quantità incognite. Le equazioni perciò enunciano che certi rapporti di egua- glianza sussistono, ma alla condizione che le incognite I abbiano certi valori, che si tratta di determinare. L'equa- zione X - + b :=! a X propone il quesito: quale deve es- sere il valore di x, perchè l'eguaglianza indicata sussist'^- La risoluzione dà il valore (o, piuttosto, i valori) di x: essa risponde che, sostituendo ad x tale quantità deter- minata, l'eguaglianza indicata sussiste, ma sostituendovi altre quantità, ^^ssa non sussiste. 11 processo per risolve- re le equazioni è di sostituire ad esse successivamente altre equazioni, finche l'incognita si ottenga isolata; cioè sostituire altre eguaglianze alle eguaglianze date, il che importa ad ogni passo 1' affermazione della dipendenza reciproca fra queste eguaglianze. Ma se le ecjuazioni si risolvono immediatamente per l'applicazione di formule generali, aUora le regole generali di queste soluzioni so- no anch'esse dei teoremi che, come una parte degli altri, affermano una dipendenza fra eguaglianze: fra le egua- glianze indicate nelle equazioni e (luelle indicate nelle formule, che danno i modi di formazione dei valori nu- merici delle incognite per le quantità conosciute. (Queste eguaglianze affermate sono sempre al l'ondo^ come abbia- mo detto, delle eguaglianze fra quantità o gruppi di quan- tità e altri gruppi di quantità. Per concludere diremo che, come il calcolo non è clic uno sviluppo dell'addizion e, cosi tutte le })roposizioni par- ticolari emesse dal calcolatore, non che tutti i teoremi generali della scienza del calcolo, si risolvono nell'affer- inazione elementare dell'addizione, che certe ({uantità o gruppi di (juantità sono eguali ad altri gruppi di (]uan- tità. Queste quantità, che l'aritmetica esprime con le ci- fre e l'algebra indica con le lettere, non designano primi- tivamente che delle collezioni di cose reali e concrete, aven- ti certi rapporti di prossimità nello spazio e nel tempo; e ciò che si afferma è l'eguaglianza numerica fra più col- lezioni distinte e una collezione unica o altre collezioni distinte. Ma più ordinariamente il numero designa, non 364 SAGGIO PRIMO delle collezioni reali, cioè delle quantità discrete, ma la misura di quantità continue: allora la grandezza continua si considera antifìcialmente come separata in tante unità distinte, equivalenti ciascuna alla unità di misura (1). § 5,° Se vi ha più pericolo di misconoscere il caratte- re sintetico della scienza dei numeri, delle proposizioni della geometria invece, il cui oggetto è la misura delle grandezze, è più facile di misconoscere Y apriorità (nel senso in cui noi la intendiamo) che il carattere sintetico. « La matematica concreta, dice A. Comte, ha un carat- tere tilosofico essenzialmente sperimentale, fisico, tenoinr- nale; mentre quello della matematica astratta è puramente logico, razionale... . La parte concreta di ogni quistione matematica è necessariamente t'ondata sulla considerazione del mondo esteriore, e non potrebbe mai, qualunque pos- sa esservi la parte del ragionamento, risolversi per un semplice seguito di operazioni intellQttuali. La parte astratta al contrario, quando essa è stata dapprima ben esattamente *, n S (1) 1 matematici preferiscono per il solito la seconda nozione del numero, cioè quella secondo cui il numero designa la misura di grandezze continue: è ciò infatti che il numero rappresenta il ])iìi ordinariamente, come abbiamo osservato, quando esso viene im- piegato nel calcolo. «Noi osserveremo, dice d'Alembert, die un numero, secondo la defmizione di Newton, none propriamente che un rapporto. Per intendere ciò bisogna notare che ogni grandez- za che si compara ad un'altra, è o più piccola o più grande o egua- le ; che cosi ogni grandezza ha un certo rapporto con un' altra a cui si compara, cioè ch'essa vi è contenuta o la contiene d' una certa maniera. Questo rapporto o questa maniera di contenere o di essere contenuto è ciò che si cliiama numero » (Enciclopedia, ArithmeUqae). Ma è evidente che questa delìnizione non potrel)- be applicarsi se non d'una maniera forzata là dove è (piistione di quantità discrete, p. e. il numero degli animali di un gregge o de- gli uomini di una compagnia. Ora la prima e più semplice nozio- ne del numero, quella che ci dà immediatamente la nostra espe- rienza sensibile, ci viene dai casi di quest'ordine, cioè dai casi in cui si tratta di quantità discrete: e noi dobbiamo ridurre le nozio- ni più complesse alle più semplici, e non viceversa. •V separata, non può consistere che in una serie di deduzioni razionali più o meno prolungata. Perchè trovate una volta le equazioni d' un fenomeno, le determinazioni delle une per le altre delle quantità che vi si considerano, per quante difficoltà d'altronde po.ssano spesso presentare, è unica- mente di competenza del ragionamento. È airintelligenza che appartiene di dedurre, da queste equazioni, dei risul- tati che vi sono evidentemente compresi, quantunque d'una maniera forse molto implicita La parte concreta delle matematiche si compone della geometria e della mecca- nica razionale » {Lez,3^ t, P). «La geometria dev'essere con- siderata come una vera scienza naturale, solamente ben più semplice e per conseguenza molto più perfetta di qua- lunque altra La superiorità scientifica della geometria ^iene, in generale, a ciò che i fenomeni che essa consi- dera sono, necessariamente, i più universali e i più sem- plici di tutti. Non solo tutti i corpi della natura possono evidentemente dar luogo a delle ricerche geometriche, cosi bene che a delle ricerche meccaniclie, ma di più i fenomeni geometrici sussisterebbero ancora, quand'anche tutte le parti dell'universo fossero supposte immobili » (Le:;. 10,^ t. P) (1). In realtà il carattere della geometria è cosi differente da quello della meccanica razionale e di ogni altra scienza fìsica, quanto può esserlo il carattere dell'aritmetica o del- l'algebra: la geometria non è né più razionale nò più spe- li) Quantunque A. Comte insista lungamente su questo punto, che lo scopo della geometria è di conoscere le relazione metriche delle grandezze (relazioni che non possono essere che delle com- parazioni che noi facciamo tra queste grandezze), egli p-arla tut- tavia di fenomeni geometrici, legati gli uni agli altri, come se si trattasse di fenomeni fisici, obbiettivamente esistenti e distinti real- mente gli uni dagli altri, che si seguono o si accompagnano; lin- guaggio che, se dovesse essere preso alla lettera, sarebbe sempli- cemente una realizzazione di astrazioni. ^(i() rimentale di ({ueste ultime. Come le proposizioni della scienza del calcolo, le i)roposizioni geometriclie si dedu- cono, in virtù del solo ragionamento, da un piccolo nu- mero di principii evidenti per se stessi; e questi principii, siano essi comuni alla scienza del numero e alla geome- tria, siano soltanto speciali a questa, sono tutti egualmente sperimentali, in quanto sono dei principii induttivi, ma non lo sono nel senso delle scienze iisiche, perchè, per ottenerli, basta di chiuderci in noi stessi, e non è neces- sario di osservare come avvengano i fenomeni del mondo esteriore. Questa circostanza deriva dalla natura essen- zialmente identica dei rapporti che sono T oggetto della geometria, e di queUi che sono Toggetto della scienza dei numeri. La ditlerenza apparente tra le due scienze dipende solamente dal carattere più astratto, o più simbolico, delle proposizioni sui numeri, e i)iù concreto delle proposizioni geometriche : mentre il calcolo volge su dei puri simboli, la geometria sintetica, al contrario, volge su delle intui- zioni concrete; ma le nostre nozioni sui numeri sono del resto fondate sovra i dati della percezione, altrettanto che quelle sulle forme e sulle grandezze. « È, dice il Baùi, il tratto caratteristico della geometria elementare di ricor- rere senza cessa a delle figure, il cui impiego dà alla scienza Fapparenza, ma soltanto Fapparenza, d\ma scienza spe- rimentale ed induttiva» {Lofjica 1. v. e. 1. n.^ 14). L' oggetto principale della geometria è di conoscere i rapporti metrici fra le grandezze, rapporti che si risol- vono in relazioni di eguaglianza o ineguaglianza definita (^ > <), fra una grandezza o somma di grandezze e un altra grandezza o somma di grandezze. I termini di queste relazioni di eguaglianza o ineguaglianza essendo delle linee, angoli, superlicie o solidi, distinti gli uni dagli altri, e die noi abbiamo sott occhio nella figura che serve ad illustrare il teorema, non si può pretendere, come nel- l'aritmetica o l'algebra, che qui si tratti di una mera identità, e che quindi la proposizione sia analitica. Il teorema di Pitagora, che dice clie il quadrato deiripotenusa dì un triangolo rettangolo è uguale alla somma dei quadrati dei cateti; o l'altro corrispondente relativo al triangolo ottu- sangolo, secondo cui il quadrato opposto all'angolo ottuso è uguale alla somma dei quadrati degli altri due lati, più due volte il rettangolo di uno di questi lati per la proie- zione deir altro su di esso ; o (juello secondo cìii, in un triangolo, il quadrato di un lato opposto ad un angolo acuto, X)iù due volte il rettangolo di uno degli altri lati per la proiezione delF altro su di esso, sono eguali alla somma dei quadrati di questi altri due lati; questi teoremi, dico, non si scambierebbero per proposizioni identiche, (cioè af- fermanti una mera identità) cosi facilmente come la pro IwDsizione che 7 e 5 fanno 12. Similmente, una proposizione che stabilisce una proporzione tra grandezze estese, p. e. fra i lati omologhi di due triangoli equiangoli, non corre lo stesso rischio di passare per puramente identica che un' altra proposizione che stabilisce una proporzione fra numeri, p. e. Vo = ^/o» "^ cui si pretende di non trovare altro che due espressioni diverse (U una sola e stessa cosa. Tuttavia, trascinati dalle abitudini derivate dal lingung gio, potremmo riguardare la relazione metrica, clie è l'at- tributo della proposizione, come una proprietà assoluta della grandezza, una determinazione che appartenga a questa considerata per se stessa. I'. allora, se il soggetto si considera come rappresentante la grandezza concreta con tutti i suoi attributi, la proposizione potrebbe i)render- si per analitica, l'attributo sembrando contenuto nel sog- getto. Se o\ contrario il soggetto si considera come rap- presentante un semplice attributo (quello che ne costitui- i:^e l'essenza nominale), distinto dall'altro in cui consiste 3 a determinazione metrica, si potrel>l)e vedervi invece una proposizione di coesistenza, affermante l'unione dei due attributi. Quando una proposizione en\mcia clic da certe relazioni fra certi elementi delle figure dipendono altre re- lazioni fra altri clementi, si troverà forse più facilmente ancora che si tratti d\ina coesistenza. Cosi lo Spencer {Princ, di psicoL § 290) nel teorema : In un triangolo al maggior lato è opposto il maggior angolo, vede un rap- porto di coesistenza fra il maggior lato e il maggior an- golo. «Questo rapporto, egli soggiunge, non è semplice- mente quello di coesistenza : è un rapporto di coesistenza in certe posizioni ris[)ettive ». Ma è certo die il teorema non stabilisce che certe rette esistono insieme con certi angoli, o si trovano simultaneamente nelUo spazio, con una certa posizione rispettiva: questo intanto é, alla let- tera, il senso delle parole di Spencer. L^esistenza e la coe- sistenza delle rette e degli angoli é un dato, cioè una sup- posizione, del teorema, jjerchè 1' esistenza del triangolo stesso è un dato; ma queste affermazioni esistenziali sono affatto indipendenti dall'affermazione espressa nel teorema stesso. Esso afìerma evidentemente, non una coesistenza tra grandezze, ma una coesistenza o dipendenza tra rela- zioni d'ineguaglianza definita, di cui queste grandezze sono dei termini. Si può pretendere, continua lo Spencer, 'che in (jucsto caso come negli altri casi simili, i termini della relazione dovrebbero essere riguardati piuttosto come rap- porti tra grandezze che com3 grandezze stesse. «Per di- lucidare questa quistione, esaminiamo il teorema: L'an- golo che misura una semicirconferenza è un angolo retto. Qui la parola « semicirconferenza » indica dei rapporti quantitativi definiti— una curva di cui tutte le parti sono equidistanti da un punto dato, e di cui le due estremità sono riunite da una linea retta che passa per questo pun- to. Le parole «angolo che misura una semicirconferenza ^ indicano altri rapporti quantitativi; negativamente quan- titativi, se non positivamente quantitativi (1). E la cosa (1) Secondo Spencer una proposizione geometrica die concerne soltanto la posizione, senz'alcun rapporto metrico, è negativamen- te fjuantitativa. V. Classcuìone delle scienze, tamia I. •fi: i3 I affermata è che con questo gruppo di rapporti quantitati- vi coesiste (luest'altro grupjìo di rapporà quantitativi, di cui la parola «angolo retto» indica l'esistenza fra le due linee che lo racchiudono. » In conclusione, secondo lo Spen- cer, questa proposizione: L'angolo che è nella semicircon- ferenza è retto, afferma la coesistenza dei «rappjjrti che costituiscono l'angolo nella semicirconferenza » coi « rap- porti che costituiscono un angolo retto ». Ora non è evi- dente che le espressioni di Spencer, se andassero prese alla lettera, impliclierebbero una realizzazione di astrazio- ni ? i « rapporti che costituiscono l'angolo nella semicir- conferenza» hanno forse un'esistenza propria e separata dai (( rapporti che costituiscono l'angolo retto » ì Ma se non devono essere prese alla lettera, non vi ha altro in esse che un'espressione tortuosa del .fatto che l'angolo che è nella semicirconferenza ha quelle relazioni metriche determinato che noi inchcliiamo con le parole a/Kjolo retto. Il teorema non afferma dunque che un rapporto d'egua- glianza, il fatto che la parola retto indica non essendoaltro che un tale rapporto, come risulta dalla definizione dell'angolo retto: che si legga infatti in Euclide la dimo- strazione di questo teorema (lib. 3^ prop. 31); si vedrà che ciò che si dimostra è che l'angolo in quistione è uguale al suo angolo conseguente. Se una proprietà astratta non deve mai considerarsi come avente, né realmente nò men- talmente, un'esistenza distinta, ma risolversi sempre in una relazione fra termini concreti (ammenoché noi non vo- gliamo rinunziare a tradurre le parole nelle idee che esse significano); tanto meno sarà permesso di trattare una determinazione quantitativa come qualche cosa che può esistere o pensarsi all'infuori di una relazione. Che una de- terminazione metrica sia l'espressione di un rapporto fra due grandezze date, o che essa esprima la misura di una grandezza in modo che l'altra con cui essa viene para- gonata non sia particolarmente indicata; il fatto è sempre che una determinazione tale non [)iiò acquistare un'e- sistenza mentalmente distinta che per la comparazione di certe grandezze con altre grandezze. Se si considera una proposizione enunciante una proprietà metrica o come analitica o come Faffermazione di una coesistenza (nel senso di cui abbiamo i)arlato), si dimentica questo fatto evidente, o si rinunzia volontariamente a rendere conto del pensiero per il i)ensiero stesso e non i)er la sua espres- sione verbale. Secondo alcuni autori, l'eguaglianza applicata alle gran- dezze estese non è altro che la coincidenza sensibile: quan- do noi diciamo che due grandezze sono eguali, noi voglia- mo dire che esse coincidono o pjssono coincidere. Eucli- de stesso definisce Teguaglianza: la coincidenza visil)ile delle grandezze est(?se. ^Nla dice ì)ene il Mill: « LY^gua- glianza di due grandezze geometriche non può differire essenzialmente da ([uella di due pesi, di due gradi di ca- lore o di due intervalli di tempo, cose a cui questa pre- tesa definizione deireguaglianza non converrebbe affatto. Nessuna (U queste cose può essere ai)plicata Funa sull'al- tra in modo da coincidere, e pertanto noi comprendiamo perfettamente ciò che vogliamo dire quando le chiamia- mo eguali. Delle cose sono eguali in estensione, in peso, quando costatiamo fra di loro ima somiglianza completa neirattrilmto che vi consideriamo. Applicando degli oggetti run(j suir altro nel primo caso, cosi ìjene che pesandoli per mezzo d'una bilancia nel secondo, noi non facciamo che porli in una posizione, in cui i nostri sensi possono riconoscere il diletto d'esatta rassomiglianza, che senza di ciò ci sarebbe sfuggito» {Logica, lib. :^'*. e. 24 par. 7). La coincidenza non è dunque che un mezzo, il più sicu- ro, per costatare o percepire l'eguaglianza fra le grandez- ze estese; ma non può essere nemmeno l'unico mezzo. Quando noi facciamo coinci<lere due grandezze, noi non ne con(^dudiamo soltanto che esse sono eguali nel momento in cui coincidono, ne concludiamo anche che erano e sa- ranno eguali prima e dopo la coincidenza. Noi facciamo cosi, perchè sappiamo che ordinariamente gli oggetti con- servano, almeno d'una maniera approssimativa, la stessa grandezza, cioè restano eguali a se stessi. Conosciamo noi ciò unicamente perchè abbiamo misurato più volte gli stessi oggetti in tempi differenti? ma questo suppone la conoscenza che l'unità di misura stessa abbia conservato una grandezza determinata, cioè sia restata uguale a se stessa É chiaro dunque che la nostra conoscenza delle eguaglianze suppone necessariamente almeno un mezzo di accertarci che una grandezza è^ uguale a se stessa in due momenti diversi, indipendente dall'applicazione delle grandezze l'una sull'altra; e che cosi l'eguaglianza delle grandezze estese e la loro coincidenza non possono essere una sola e stessa cosa. §. ()^\ Si ammetterà facilmente che i teoremi della geo- metria, che hanno per oggetto le relazioni metriche delle grandezze, sono delle proposizioni comparative ; ma si tro- verà forse più difficoltà ad ammettere lo stesso per i teo remi che non hanno quest'oggetto. I geometri moderni dividono la scienza in due campi: la geometria della m/- sura e la geometria di posizione. Alla prima appartengo- no i teoremi che considerano le relazioni di grandezza, cioè le relazioni quantitative fra grandezze estese; alla seconda i teoremi che considerano i rapporti di posizione scambievole delle figure e dei loro elementi. Le pro})rietà dunque, che sono l'oggetto dei teoremi di quest'ultima spe- cie, sono, non delle proprietà metriche o quantitative, ma grafiche o descrittive (V. tra altri Reye Lezioni di geo^ metria di posizione, Introduzione, e Ballzer Elementi di matematica, parte J% § /, 0.) Alcuni dei teoremi di posizione (1) stabiliscono che fra (1) Noi ìntondiauìo la rarola in un senso più loto di quello in E l'oggetto della conoscenza a priori 373 certi punti, lince e superfìcie certi rapporti di posizione sono 0 non sono possibili ; come : Un poligono regolare può essere inscritto o circoscritto ad un cerchio; Due cerchi non possono segarsi in più di due punti; ecc. Ma la più parte si propongono un altro quesito, clie noi pos- siamo formulare di questa maniera: in un sistema di pun- ti, linee e superfìcie, da dati rapporti di posizione recipro- ca, inferire altri di questi rapporti. Come esempi di que- sta seconda classe, la più importante, dei teoremi di po- sizione, rammentiamo il teorema di Pascal : In .ogni esa- gono inscritto in una curva del secondo ordine, i punti d'incontro dei lati opposti sono in linea retta; e quello di Brianchon : In ogni esagono circoscritto ad una curva del secondo ordine, le diagonali che congiungono i vertici op- posti si tagliano in uno stesso punto. A prima vista potreb- be sembrare che queste proposizioni, stabilendo che certi punti e linee sono in certe posizioni rispettive, ciò che si afferma sia una coesistenza, quella specie di coesistenza che Alili chiama ordine nel luogo, {Logica, lib. P e. 5'» .^ G : confr. lib. 3^ e. 24^ § 4). Tale sarebbe laffermazione, se la proposizione stabilisse, d una maniera assoluta, che certe cose si trovano in una certa posizione scambievole^ ma le nostre proposizioni non lo stabiliscono che condizio- nalmente. Ora date le condizioni, cioè date le grandezze coi rapporti dati di posizione, il sistema si trova interamente de- terminato, e ciò die dipende dalle condizioni o dai dati,. cioè i rapporti dimostrati, è quindi implicitamente conte- nut(j nei dati stessi. Che si costruisca la fìgura: s inscri- va un esagono, p. e., in un cerchio, e si prolungliino i cui ordinariamantc rimpiegano i f>:eo metri: (luamlo tra forme me- tricamente determinate il teorema stabilisce dei rapporti di posi- zione, esso potrebbe classarsi fra i metrici: ma noi i>referiamo di vedervi un teorema di posizione, poicliè il suo ogi^etto non è di stabilire dei rapporti quantitativi, ma dei semplici rapporti di l'osiyione. r lati opposti sino ai punti d'incontro ; queste, nel primo teorema, sono le condizioni date; ma per queste condizio- ni la fìgura si trova assv)lutamente determinata, con tut- ti i rapporti di posizione scambievole fra i suoi elemen- ti, tra di cui quelli stessi fra i punti d' incontro dei lati opposti. Cosi per il secondo teorema: circoscritto un esa- gono ad un cerchio, e congiunti i vertici opposti con le diagonali, questa circostanza, che le diagonali si taglia- no in uno stesso punto, non è un fatto nuovo che si ag- giunge ai precedenti; il teorema dimostra appunto che es- sa vi è necessariamente compresa. E evidente dunque che le proprietà della fìgura che il teorema suppone co- me date, e le proprietà -che il teorema dimostra, non po- trebbero avere, nello spazio, un'esistenza distinta e sepa- rata. Ma esse non possono averla nemmeno nel nostro pensiero; poiché, una proprietà astratta non essendo per se stessa un oggetto distinto del pensiero, le nostre nozioni sulle forme sono anch'esse delle idee concrete, e queste non possono essere che delle copie o rappresen- tazioni delle forme reali che esistono nello spazio. Qui noi ci troviamo dunque in presenza di questa difficoltà: una proposizione generale afferma sempre una uniformità, un rapporto costante fra più fatti distinti ; riducendo a due questi fatti, essa afferma che il secondo dipende dal pri- mo, e gli è invariabilmente congiunto. Un teorema geo- metrico non può dunque esso stesso affermare che una di queste uniformftà, o congiunzioni costanti di fatti di- stinti: ma non per tanto in questo caso il fatto è uno so- lo; la condizione e ciò che è condizionato non sono due fatti, ma uno stesso fatto, se per fatto noi intendiamo ciò che può essere separatamente l'oggetto d'una percezione distinta dei nostri sensi. Intanto si deve ammettere che alle proprietà distinte fra cui il teorema stabilisce una connessione, corrispondono dei fatti realmente distinti: bi- sogna dunque cercare altrove questi fatti distinti che ven- gono posti in connessione. Kainineiitiaino brevemente il risultato di una prece- dente ricerca: un attributo astratto non è che il legame d'una cosa con una denominazione generale, la sua ca- pacità di riceverla; denominazione a cui non corrispon- de altro, come Tatto distinto, che una relazione definita di somiglianza dell'oggetto a cui si applica, con una cer- ta classe di oggetti. Che cosa sono dunque le pro[)rietà o attributi, ira cui il teorema di Brianchon stabilisce una connessione ì Sono anzitutto delle denominazioni che noi possiamo applicare alle grandezze, da cui la figura è co- stituita, sia considerate assolutamente, sia considerate nei rapf)orti scambievoli di posizione; le parole esaf/ono, cir- costn'ito, cnrva del secondo ordine, diagonali, ecc. indican- do la (jualità di queste grandezze o la loro posizione ri- spettiva. Il teorema stabilisce die, tutte le volte che noi possiamo applicare queste denominazioni: un esagono, cir- cosar ilio ad una curca del secondo ordine, i vertici op- posti del (piale sono congiunti dalle diagonali, noi possia- mo anche dire che queste diagonali si tagliano in un sol pun- to. Ala se si domanda quali siano i l'atti clie corrispon- dono a (jueste denominazioni distinte, e su cui esse sono l'ondate, si deve rispondere che, in questo caso come in tutti gli altri, bisogna distinguere nelle parole un doppio significato: esse indicano i latti obbiettivi, cioè gli ogget- ti delle nostre percezioni e delle nostre rappresentazioni, e li classano al tempo stesso. Ora, come abbiamo detto, i fatti obbiettivi indicati non sono, in questo caso, distin- ti: le parole che enunziano i dati o- le supposizioni del teo- rema, e quelle che enunciano ciò che dipende da queste supiX)SÌzioni e che il teorema deve dimostrare, non indi- cano due fenomeni, che siano ciascuno T oggetto di una percezione o una rappresentazione distinta. Ala queste parole significano pure delle classazioni : alle denomina- zioni distinte corrispondono degli atti mentali distinti, per •cui noi classiamo le grandezze a, cui esse si applicano, sia considerate assolutamente, sia considerate nei loro rapporti scambievoli di posizione; e questi atti mentali si risolvono, come si sa, in affermazioni di somiglianze de- finite. Cosi una proposizione della geometria di posizione afferma, come qualsiasi altra proposizione generale, una uniformità, una dipendenza o connessione tra più fatti distinti : ma questa connessione non è tra fenomeni ob- biettivi distinti, come nelle proposizioni suiresistenza, ma solamente fra denominazioni distinte, da una parte, e dal- Taltra, se noi vogliamo andare al di là delle [)arole, fra i rapporti distinti di somiglianza, che costituiscono le clas- sazioni su cui queste denominazioni sono fondate. I rai)porti di somiglianza in cui si risolvono queste classazioni, non sono i soli che siano implicati in un teo- rema di posizione. Siccome il teorema non è vero in un sol caso particolare, ma in tutti i casi, noi dobbiamo ag- giungere, come per tutte le proposizioni generali, un alti-a somiglianza, cioè Tuniformità che ci permette di genera- lizzare. Infine, i)er ima gran parte di proposizioni, ve ne ha un' altra ancora che non si deve negligere : i nume- rosi teoremi in cui, come in (pielli che abbiamo citati, si dice che più rette si tagliano in uno stesso punto o più i)unti si trovano in una stessa retta, contengono i)ure evidentemente Taftcrmazione di una concordanza nella I)Osizione dei punti o delle rette che vi si considerano. Questa osservazione potrebbe estendersi a tanti altri casi; ma noi non ne parliamo che in linea secondaria, sembran- doci che questo non sia un carattere generale delle pro- posizioni geometriche di posizione. In conclusione, l'analisi delle proposizioni della geo- metria di posizione non ci dà altre affermazioni reali che di soMìiglianza ; risultato a cui si deve pervenire, d'una maniera o d'un'altra, tutte le volte che una propo- sizione non è esistenziale. Ogni affermazione essendo laf- termazione di qualche fatto, una proposizione non può che affermare, in senso lato, resistenza di certi fatti : se questi fatti non sono dei fenomeni sensibili, esterni ed obbiettivi, non possono essere che dei fenomeni interni e subbiettivi. Ora il solo fenomeno interno o suljbiettivo, con cui abbiamo da fare nella conoscenza obbiettiva, è la percezione o il sentimento di somiglianza che ci proviene dalla comparazione degli oggetti. Una proposizione geo- metrica dunque, non affermando niente suUesistenzadel- le forme o delle grandezze stesse, non può affermare che resistenza di somiglianze (o differenze; tra queste forme o grandezze. § 7.<^ Se le conoscenze che ci danno le matematiche pure non consistono che in giudizi comparativi o rap- porti di somiglianza, lo stesso deve dirsi delle generaliz- zazioni più elevate in cui rientrano tutte le verità par- ticolari, che si chiamano assiomi, e in generale di tutte le premesse ultime di queste scienze. Per la geo- metria, si trova in Euclide la lista di questi princrpii : si è osservato che alcuni assiomi della lista possono dimo- strarsi, sicché fra i principii sulla dipendenza tra egua- ghanze, il nome di assiomi non conviene in verità che a queste due proposizioni: Due grandezze eguali ad una terza sono eguali fra di loro; Se a grandezze eguali si aggiun- gono grandezze eguali, le somme sono eguali (1). Non ci (l) Tutfci <4:li aUri assiomi generali della matematica, comuni al- la scienza dei numeri e alla geometna, oltre i due grandi assio- mi sulle eguaglianze, possono dedursi da iiuesti : ma bisogna os- servare che la dimostrazione degli assiomi secondari suppone, ol- ire di (juesti due assiomi primari, altre due premesse egualmen- te primitive e indimostrabili, cioè : t. la parte è minore del tutto; e 2. ogni grandezza è o uguale o maggiore o minore d' unnUra grandezza qualsiasi. Quest' ultima proposizione è certamente an- (•iressa rvale, e non rerhale, esprimendo delle nozioni di rappor-ti fra le grandezze, che sono evidentemente altra cosa che le no- zioni delle grandezze stesse rapportate. (Il Mill, Logica L S. e. 24. 1 a-. occuperemo per il momento della quistione se altri assio- mi invocati da Euclide siano delle proposizioni reali o pu- ramente verbali; tralasceremo pure quella se nel seguito delle sue dimostrazioni non vengano sottintesi altri prin- cipii evidenti per se stessi, che mancano nella lista degli assiomi; ma aggiungeremo che, oltre agli assiomi gene- rali, ve ne hanno dei particolari, ciascuno dei quali enuncia una proprietà di qualche forma geometrica, che deve ser- vire di punto di partenza nella dimostrazione. La geome- tria elementare non può fare a meno di due di questi as- siomi particolari, Y uno relativo alla retta, che Euclide esprime in questa forma: « Due linee rette non possono chiudere uno spazio >^, ma a cui i geometri moderni danno quest'altra forma più generale: «Due rette che coincidono in due punti coincidono interamente » ; e V altro relativo al piano, cioè, secondo Euchde, che « Una retta che Jia due punti in un piano giace interamente nel piano ». Oltre a ciò le ricerche dei geometri moderni sulla teoria delle parallele hanno messo in chiaro che vi ha bisogno, per fondare questa teoria, d' un assioma speciale : quesf as- sioma è stato poco felicemente scelto da Euclide, e i geo- metri moderni gliene hanno generalmente sostituito un altro, che, espresso sotto una forma o sotto un'altra, sta- §5, in nota, dimostra alcuni degli assiomi secondari, deducen<loli dai due assiomi primari sulle uguaglianze: ora si guardi attenta- mente la dimostrazione, e si vedrà che essa sottintende le duo al- tre premesse assiomatiche e primitive che abbiamo detto.) Seni- la seconda delle due proposizioni assiomatiche che abbiamo ag- giunto ai due assiomi primari sulle eguaglianze, si dà ({ueslo si- gnificato, che non solo ogni grandezza deve essere con un' altra qualunque in uno di questi rapporti: eguale, minore, maggiore, ma ancora che non può essere se non in uno solo di (piesti rapporti ; allora l' altro assioma : la parte è minore del tutto, può pure de- dursi d' una maniera indiretta dagli assiomi primari della mate- matica, se fra questi si comprende pure il terzo assioma indica- to, nel senzo che è stato indicato. hilisce elio « Per un punto non può passare che una sola retta, la ijuale non incontri un^ altra retta data, situata nello stesso piano ». Come si vede, mentre gli assiomi irenerali enunciano dei rapf)orti metrici, cioè delle egua- glianze, questi assiomi particolari al contrario sono le più semplici delle proposizioni geometriche di posizione o gra- fiche. Inoltre nella geometria vi hanno delle definizioni, come quella del cerchio, che non danno semplicemente il senso di un nome, ma che contengono laffermazione d'una proprietà fondamentale (F una forma geometrica, cioè di un rapporto di misura Ira i suoi elementi, artermazione che essendo reale e no!i semplicemente verbale, potrel)])e pure considerarsi come ima specie di assioma (1). (Quantunque per le premesse ultime della scieny.a dei numeri non si sia latto un catalogo completo, come per (juelle della geometria, è evidente clie queste i)remesse sona sia identiche sia analoghe a quelle della geometria. Il procedimento <lel calcolo consiste essenzialmente in (I) Noi diciamo cIjc le (letini/ioni realf della ii-eoinetrin potreb- bero considerarsi come una s])ecie di assiomi, in <|uanto sono, <:ome «juesti, delle i>roposizioni ) cali e j^'imitive . cioè indimo- strabili. Del resto la distinzione fra gli assiomi e le definizioni rii)Osa sopra un fondamento logico, ed è aì>l)astanza yìrccisa.[/ assioma stabilisce una uniformità, un acco])piamento invaria- ))ile tra due fatti, in modo clie, il primo essendo dato, il secondo se ne ]»ossa infei'ire. Ma la delìnizione non serve come i)rincipio per fare delle inferenze, cioè j-er passare da un fatto dato air al- tro che gli è costantemente legato: la definizione del cerchio, ]). e, non lia Io scopo di al)ililarci a fare lillazione: <iuesta ligura data' è un cendno, dun<iue i suoi raggi sono eguali. 11 geometra, sup- ponendo che la lìgui'a data è un cerchio, ha sui>posto già che ha i raggi eguali. Le definizioni duncjue, quantun(]ue siiuio proj^osi- ziorn /vah\ non sono, a pai'lar ]>ropriamente, delle [«remesse del- la geoìuetria come gli assiomi: esse enunciano una proprietà i>ri- miMva di una forma geomctri(!a . la ((uale fa riconoscere (juesfjX forma, e alla (juale sdiranno legate tutte le altre iiroprietà che ver- ranno» dimostrate una successione di sostituzioni, fatte in virtù dei due as- siomi fondamentali sulle eguaglianze : Quantità eguali ag- giunte a quantità eguali danno quantità eguali; Due (]uan- tità eguali ad una terza sono eguali fra loro. Cosi, nella risoluzione delle equazioni, le sostituzioni che si fanno ag- giungendo o togliendo una stessa quantità ai due memljri dell'equazione, moltiplicandoli o dividendoli amen due per la stessa quantità, hanno luogo in virtù del primo assio- ma: ma quando nell'uno dei membri deirequazione si so- stituisce ad una quantità il suo equivalente, si applicano tutti e due gli assiomi; in virtù del primo si ammette che, per la sostituzione, il valore del membro deir ecjuazione in cui essa si fa non viene alterato, e in virtù del secondo si ammette che Tequazione, cioè T eguaglianza di questo membro con Taltro, sussiste ancora dopo la sostituzione, (ili stessi principii governano le operazioni deirarit- metica. Le operazioni sui numeri elevati si eseguiscono col metodo della divisione in operazioni parziali, metodo che suppone delle sostituzioni successive, ciascuna delle quali ha luogo in viriù dei principii: Quantità eguali ag- giunte a (luantità eguali sono eguali; Due (pianittà eguali ad una terza sono eguali fra loro. Siano da addizionare certi numeri: per mettere sotto gli occhi del letbjre un esempio, siano (>072 Secondo la regola, ciascun numero 7847 = 11819 si considera come composto di tanti numeri parziali, le unità di ciascuno dei quali sono di diverso oi'dine, il che è esattamentó conforme alla nozione del numero nel si- stema decimale; e si fanno le somme parziali delle unità dello stesso ordine, sostituendo cosi ({ueste sonuue, i)rese insieme, ai numeri dati, o jùnttosto a tutte le [larti, prese insieme, in cui i numeri dati si sono considerati comdecom|)Osti. Questa sostituzione è giustificata dairassioma che (Quantità eguali aggiunte a ciuantità eguali danno quantità eguali. Ma allo stesso tempo le unità dello stesso ordine che si trovano in queste somme parziali vengono esse stesse sommate, quando il risultato della somma delle unità di un certo ordine contenendo unità d'ordine su- periore, queste ultime si riportano per unirle alla somma delle unità del loro ordine. Che il risultato cosi ottenuto sia eguale alle somme parziali primitive prese insieme, ò ancora una conseguenza dall' assioma che Quantità eguali aggiunte a quantità eguali sono eguali; ma che esso possa sostituirsi a queste somme parziali nel rapporto d'equivalen- za che lega queste ultime ai numeri dati, e venga perciò ri- conosciuto eguale a questi numeri, ciò avviene in virtù dell'assioma che Due quantità eguali ad una terza sono eguali fra loro. Mercé la divisione in operazioni parziah, le operazio- ni sui numeri di più cifre si riconducono a quelle sui numeri d'una sola cifra; e l'aritmetica suppone come co- nosciuti i risultati dell'addizione e moltiplicazione di due qualunque di questi ultimi numeri. Ciò però non vuol dire che essi non siano suscettibili di essere dimostrati; poiché per tutta la serie dei numeri, ammesso che cia- scun numero della serie si forma per l'addizione del mi- merò immediatamente inferiore e dell'unità, si possono dimostrare tutti i differenti modi di formazione di cia- scuno per l'addizione di numeri minori. Si può, p. e. di- mostrare che 7+5= 12, ragionando di questa maniera : 5= l-f-4; aggiundendo ({uantità eguah, 7+5= 7+1+4; ma 7-f 1= ^; aggiungendo quantità eguali, 7+1+4= 8+4; e siccome due quantità eguali ad una terza sc»no eguali fra loro, 7+5= 8+4. Della stessa maniera si dimostra che 8+4= 0+:^, e quindi, perché due quantità eguali ad una terza sono eguali fra loro, 7+5= 0+3; e dimostrato si- milmente che 9+:]= 10+2, si dimostra infine che 7+5= 10+2 o 12, queste due ultime espressioni essendo assolu- tamente identiche di senso nel nostro sistema di nume- i razione. Aggiungiamo che (jucste proposizioni stesse, le quali stabiliscono l'eguaglianza fra un numero e il numero immediatamente inferiore più l'unità, non sono tutte u- gualmente primitive : se quelle che concernono i pnmi dieci numeri devono ritenersi come primitive, le altre al contrario possono ritenersi come derivate. Cosi che 1^+1=15 può a buon diritto considerarsi come una ve- rità dedotta; infatti 14 non significando altro per noi che una decina e quattro unità, e 15 non significando altro che una decina e cinque unità, conosciuto che 4+1=5, noi ne possiamo inferire che, aggiungendo ai due membri di questa eguaglianza una stessa quantità, cioè una de- cina, l'eguaglianza non viene alterata. Però non dobbia- mo concluderne che queste sole verità immediate sulle e- guagUanze numeriche, che sono il minimum indispensa- bile alla dimostrazione, siano evidenti per sé stesse, e non vi siano altre conoscenze immediate ed evidenti del- la stessa maniera sulle eguaglianze numeriche : al contra- rio, é chiaro che noi conosciamo die due e due fanno (luattro e che tre e due fanno cinque d'una maniera cosi intuitiva come conosciamo che quattro e uno fanno cinque. Come dunque le premesse della geometria si riducono agli assiomi sull'eguaglianza più altre poche verità par- ticolari ugualmente evidenti per se stesse, assiomi o de- finizioni, ciascuna delle (juali enunzia una proprietà di (jualche forma geometrica; cosi le premesse della scienza dei numeri si riducono agli assiomi dell'eguagUanza, che essa ha comuni con la geometria, più alcune poche ve- rità particolari, che potrebbero pure in un certo senso chiamarsi assiomatiche, per le quali conosciamo le som- me dei numeri più piccoli (1). La quistione dunque sulla (1) Noi faremo qui un'osservazione analoga a (juella fatta sulle dctlnizioni geometriche. Le proposizioni sui rapporti numerici, o per impiegare il linguaggio l\ì Kant, le formule numeriche, che so- natura flelle conoscenze niateniaticlie vol^e in sostanza sulla natura di queste i)Oclie proposizioni primitive: sono esse, per conseguenza, che noi dobbiamo particolarmente esaminare. Cominceremo per istabilire il loro carattei*e sintetico. §. S^. In quanto agli assiomi sulle eguaglianze, per non misconoscere il carattere reale o sintetico di queste pro- posizioni, basta non dimenticare queste due verità: Pri- mo, che un rapporto d'eguaglianza è esso stesso un tatto allo stesso titolo che un tatto sensibile qualunque, in quanto TaiTermazione d'un rapporto di tale natura non é che l'affermazione clie in circostanza date noi avremo o }jotremmo avere certe percezioni definite, che noi cliia-miamo d'eguaglianza. E, secondo, che i termini d'un rappor- to d'eguaglianza sono delle cose concrete, realmente distinte le une dalle altre. Se in due (juantità eguali non si vedono che due designazioni diverse d'uno stesso numero astratto, allora sarà tacile di trovare nell'assioma. «Due quantità eguali ad una terza sono eguali 1 ra di loro », una proposizio- ne analitica, imphcata in questa nozione del numero e deireguaglianza numerica (1). Cosi la geometria, per il no delle veritì» primitive, non meritano rro]>ritniiente il nome di assionn' : ma ciò è per un'altra ragione che le definizioni iieome- triche. È die la generalizzazione contenuta in queste proposizioni, non e una verità ultima, che non possa dedursi dagli assiomi sulle eguaglianze, lo voglio dire «die, se noi i^ossiamo annuettere in un caso i>articolare la verità di alcuna di queste ]>roposizioni. noi ])0s- siamo generalizzarla in virtù degli assiomi generali sulle egua- glianze. Se io prendo per accordato, p. e., clietiuattro oggetti par- ticolari più un altro oggetto che stanno a me d'innanzi, sono egua- li a cin(iue, io ])osso perciò staì)ilire in generale che, in tutti i ca- si, «juattro più uno sono sempre eguali a cinque, in virtù dell'as- sioma che Le somme di quantità eguali sono eguali. (1) K co>i. p. e., che fu Ilelmholtz. V. Berne scientifìf/ue sei'. 3. t. i4 !>. 46. Notiamo il fatto che Ilelmholtz crede cìie gli assiomi «lell'aritmetica si ricavino dalla nozione stessa dei numeri, perchè Ili .seguito ci sarà utile di tenerlo presente. <..-~^-N.--%^^'w^ SUO carattere più concreto o meno simbolico, si i)resta più facilmente all' esame di questi assiomi. Dire che la prima grandezza è uguale alla terza, è attermare 1' esi- stenza 0 la possibilità di certe percezioni all'occasione del- la comparazione di queste due grandezze; altre percezio- ni, distinte da (|ueste prime, anch'esse reali o possibiU, e occasionate dalla comparazione fra la seconda grandez- za e la terza, si affermano dicendo che la seconda é ugua- le alla terza; infine, quando si conclude che la prinTa è uguale alla seconda, si affermano altre percezioni del- la stessa natura, distinte tanto dalle prime (juanto dal- le seconde. La cosa é evidente (juando le eguaglianze af- fermate tra le grandezze che si mettono in rapporto, so- no percettibili d'una maniera immediata, o intuitiva. Ma anche quando le uguaglianze non sono percettibili d'una maniera intuitiva, cioè quando il rapporto d'eguaglianza che si stabilisce fra due grandezze non corrisponde a una percezione d'eguaglianza ottenuta dalla comparazione di- retta delle due grandezze, anche allora non è meno ve- ro che a questo rapporto non corrisponde altra cosa che delle percezioni attuali o possibili d'eguaglianza, e che le inferite sono realmente di.stinte dalle "date. Dire che la grandezza A è uguale alla grandezza B, se quest'eguaglian- za non s'intuisce immediatamente, è dire che A e B han- no lo stesso rapporto con un'altra grandezza con cui so- no state misurate; così l'eguaglianza affermata in questo caso si risolve nelle percezioni d'eguaglianza ottenute nel- le operazioni della misura. Ma quando ammettiamo che [perciò A e B avranno pure lo stesso rapporto ari un'altra imita qualunque di misura diversa dalla prima, noi tac- ciamo un' inferenza, e i Mii inferiti sono realmente di- stinti dai fatti costatati nell' operazione della misura an- tecedente, vale a dire le percezioni d'eguaglianza inferi- te sono altre dalle percezioni d'eguaglianza da cui s'infe- riscono. Questa semplice inferenza ò naturalmente dovuta airassioma che Due grandezze eguali ad una terza so- no eguali fra loro. Simile è il caso quando, dopo aver co- statato che A e B hanno lo stesso rapporto con una cer- ta unità di misura, e, B e C lo stesso rapporto con la stessa unità di misura o con un altra, noi ne inferiamo che A e C avranno sempre lo stesso rapporto con una grandezza qualunque presa ])er unità di misura. I rap- porti inferiti implicano sempre dei fatti, cioè delle perce- zioni comparative, distinti dai fatti, cioè dalla percezioni comparative, dati. Similmente altro è percepire T egua- glianza fra grandezze separate, rapportate l'una con l'al- tra a due a due, altro è percepire Teguaglianza fra le som- me di queste grandezze dopo la loro riunione. E Fassio- ma « Le somme di grandezze eguali sono eguali i>, è una pro|)Osizione sintetica per le stesse ragioni che lassioma « Due grandezze eguali ad una terza sono eguali tra loro». In (guanto agU altri assiomi geometrici suUeguaglianza, quelli che, come il Bain {Logica lib. 5^ e. 1^ (j), negano che r eguaglianza fra le grandezze sia un fatto distinto dalla loro coincidenza, negano anche naturalmente il ca- rattere reale o sintetico della loro pro}X)sizione « Due gran- dezze che coincidono sono eguah ». Noi abbiamo detto le ragioni per cui (juesta opinione non ci sembra ammissibile. Più [)lausibile })are T opinione del Bain, quando egli contesta il carattere di proposizione reale all'assioma d'Eu- clide, che \^olf ha laboriosamente dimostrato: La parte è minore del tutto. Però, ben considerando la cosa, si tro- verà che anclie questa proposizione è reale o sintetica, altro essendo l'intuizione passiva di un tutto e di una parte, ed altro la percezione d'un rapporto d'ineguaglianza, quale viene affermato nell'assioma. Nondimeno quest'assioma d' Euclide presenta una difficoltà reale : cioè come possa intendersi, senza fare una proposizione identica, che la parte è minore del tutto, mentre, come noi stessi abbia- mo ammesso, una gran.lezza si dice minore d' un'altra, i: r;o::i:;zTTO dem.a conosci-nza a Piuofu 3S5 ;> (luando la prima è uguale a una parte della seconda. Noi crediamo che questa difficolta si risolva cosi: l'assioma d'Euclide è certamente una proposizione affermativa, ma essa implica delle proposizioni negative corrispondenti, cioè che la parte non è uguale né maggiore del tutto, e sono queste che danno all'assioma un significato reale. Intatti nei numerosi casi in cui Euclide si serve dell'as- sioma nella prova per l'assurdo, mostrando che da una certa ipotesi seguirebbe che la parte sarebbe uguale al tutto o mnggiore, l'assioma realmente invocato è che la parte non potrebbe essere uguale né maggiore del tutto. Quando invece egli si serve dell'assioma nella prova diretta, cioè ({uando, dopo aver detto che una grandezza è uguale a una parte d'un'altra grandezza, soggiunge che quindi essa è minore di tutta la grandezza, egli non fa in realtà alcun uso dell'assioma, non facendo alcuna inferenza reale, perchè dire che una grandezza è minore d'un'altra, è precisa- mente dire che la ])rima è uguale a una parte della se- conda. Il Bain nega egualmente il carattere di proposizioni reali o sintetiche agli assiomi particolari della geometria, che enunciano una proprietà d'una determinata forma geometrica: « Due rette non chiudono uno spazio », è per lui una proposizione identica o puramente verbale: che due rette chiudessero uno s[)azio sarebbe, egli dice, una contraddizione. Il Bain considera la proposizione, non come un assioma, ma come un corollario della definizione della retta, la quale, secondo lui, è: « quando due linee sonO' tali clie esse non possono coincidere in due punti senza confondersi l' una con F altra, esse sono chiamate linee rette», (hb. 2^ e. 5'^ 4; lib. 5^ e. 1, G). E nel fatto Tassioma d'Euclide non è che un caso particolare di quest'assioma più generale che i geometri moderni ordinariamente gli sostituiscono: « se due rette coincidono in più di un punto, esse coincidono interamente ». La proposizione negativa « Due rette non chiudono uno spazio » non è che Tequi- valcnte della i)i*oposizione aflermativa « Due rette che lianno in comune i due ])unti che le limitano, coincido- no»; ed è questo latto che si dimostra effetti vamente per rap[)licazione dell'assioma, (piando questo viene invocato (v. Euclide lib. 1,'^ i)rop. 4^^). Ora che questa proposizione o r altra più generale di cui essa è un caso particolare, debba })iù correttamente esprimersi sotto la forma di un assioma o sotto (juella di una definizione, è inditTerente per la (piistione se la proposizione sia sintetica o anali- tica, perchè è evidente che dare ad una proposizione reale la forma della definizione, non basta perchè essa diventi verbale o analitica. Vi ha certaniente un aspetto sotto cui la proposizione può semìjrare semplicemente verbale: que- ste due espressioni, « Due rette clie coincidono in più di un punto », e « Due rette che coincidono interamente », non designano dei fatti reali distinti, ma un solo e stesso fatto, a cui conviene tanto la ])rima (|uanto la seconda designazione. Se la prima designazione è applicabile, i fatti obbiettivi sono tali, che ciò basta, senz'altro, perchè la seconda sia pure applicabile, e non vi ha bisogno perciò deir esistenza di nuovi fatti reali distinti. Due rette che coincidessero in più di un punto, ma che non coincides- sero interamente, sarebbero un non senso; non sarebbe possiljile alcuna rappresentazione reale corrispondente a queste parole. Ma le stesse osservazioni sono applicabili, come abbiamo visto, a tutte le proposizioni geometriche di posizione. Non ci sareljbe possibile alcuna intuizione o rappresentazione di oggetti nello spazio, in cui si tro- vassero i rap[)orti che la proposizione suppone come dati, ma non si trovassero quelli che essa dimostra. La coe- sistenza necessaria affermata in tali proposizioni, non è quella di due fatti reali distinti e separati, ma quel- la di due proprietà astratte dello stesso fatto, cioè, al fon- do, delle possibilità di venirgli applicate due denomina- 1 \ i-r srr [.iMiT[ i: i/oggktto dktj.v conoscenza a imiioiìi 387 zioni distinte. Ma da ciò non segue che le pro])Osizioni della geometria di posizione siano semplicemente verba- li; perchè quantunque ciò che è dato e ciò che è inferito non siano dei fatti obbiettivi distinti e sej^arati, sono non- dimeno delle relazioni differenti sotto cui gli stessi fatti obbiettivi possono considerarsi, e queste relazioni sono anch'esse dei fatti di un certo ordine. In generale, noi lo sapi)iamo, le proposizioni della matematica pura non af- fermano r esistenza o la simultaneità o la sequenza di fenomeni obbiettivi, ma delle relazioni di somiglianza o di thfferenza tra questi fenomeni, e delle dipendenze tra queste relazioni; e noi abbiamo visto, in particolare, che in una [)roposizione geometrica di posizione vi ha alme- no un minimum di affermazioni reali di questa natura, le quali consistono a stabilire clie, se certi oggetti pos- sono entrare in certe classi date, essi 230ssono per ciò stesso entrare pure in certe altre classi. Ora, facendo l'ap- plicazione di (juesto principio alla proposizione in quistio- ne, si vedrà che essa è sintetica, perchè afferma una unione di fatti distinti di una natura particolare, cioè di relazioni distinte di somiglianza definita : essa stabilisce che Due linee che possono classarsi tanto fra le rette quanto fra le cose che coincidono in più di un punto, po- tranno per ciò stesso classarsi pure tra le cose che coin- cidono interamente. Ma ciò non basterebbe al Bain per chiamare sinteti- ca e reale la proposizione, poiché per luilasempUce per- cezione della somiglianza o della differenza fa parte del - la nozione stessa della cosa, e (juindi un giudizio affer- mante delle semplici somiglianze o differenze, egli non lo considera che come anahtico o identico. Cosi mentre il Mill avea classato i significati delle proposizioni in af- fermazioni della coesistenza, della sequenza e della somi- glianza (oltre quelle della semplice esistenza), il Bain non amm(3tte, come abbiamo già detto, la terza classe, cioè delle proposizioni sulla somi«ilianza, parche questa costi- tuisce, secondo lui, un predicato identico o verbale, e al- la somiglianza di Mill sostituisce la quantità oTeguaglian- za. AUi le osservazioni precedenti sulle proposizioni del- geometria di posizione mostrano che vi ha una lacu- na nella classazione del Bain : queste proposizioni non dei rapporti metrici o quantitativi, delle egua- glianze ; in quale classe devono esse rientrare ? Il Bain non parla mai di tali proposizioni: esse non possono clas- sarsi fra le proposizioni di coesistenza, perchè, da una parte, sarebbe inesatto, come noi abbiamo osservato, di anniiettere che esse aftermano quella specie di coesisten- za che VÀW chiama ordine nel luogo, e d'altra parte con- tentarsi di ammettere, come la talvolta il Bain per certe proposizioni, che la coesistenza atlermata è una coesisten- za di attributi nello stesso soggetto, è rinunziare ad un'a- nalisi rigorosa del vero contenuto delle proposizioni. La coesistenza nel tempo o nel luogo presenta un'idea chia- ra: ma cosa vuol dire coesistenza d'attributi, se non si vogliono realizzare delle astrazioni? Vuol dire semplice- mente che certe forme verbali si possono applicare simul- taneamente, riferendosi allo stesso soggetto: ma si tratta sapere quali siano le rappresentazioni reali corrispon- alla predicazione di queste forme verbali. Se, come abitiamo detto, nelle proposizioni della geometria (U posi- zione le affermazioni reali si risolvono in relazioni deli- nite di somiglianza, che non è eguaglianza, l'eguaglianza o la quantità A una categoria troppo stretta per contenere tutte le proposizioni della matematica, e bisogna ritornare per questa parte alla classazione di Mill, cioè mettere la somiglianza al posto della eguaglianza o della quantità. Perché il Bain vede in una specie della somiglianza (cioè l'eguaglianza) un predicato reale, e non nelle altre specie ? 11 criterio ch'egli sembra seguire è clie una verità d'in- ferenza è reale o sintetica, mentre una verità intuitiva è verbale o analitica: infritti tra i principii della matema- tica egli non riconosce come sintetici cJie i due assiomi generali sulle eguaglianze, i quali costituiscono secondo lui il solo fondamento induttivo della scienza (1). Ma que- sto criterio non può servire di base a una classazione <lelle proi)Osizioni quale il Bain se Ve proposta. Si tratta di classare le proposizioni per la natura dell'attribuzione che esse contengono. (Quando è quistione delle atlerma- zioni sulla coesistenza e la sequenza, il Bain vede forse una differenza tra quelle che sono immediatamente cono- sciute e (juelle che non si conoscono che per un'illazione ? La distinzione che egli fa tra le affermazioni sulla somidian- za, classando le une fra le sintetiche e le altre fra le a- nalitiche, è dunque arbitraria. Se d'altronde si ammette che la percezione di un rapporto di somiglianza è un fattodistinto dalla percezione o rapr)resentazione dei termini (1) 11 Baili vuole che rass;ìoma (ielle parallele sia. non un assioma, ma un teorema dì una (lilllcile dimostrazione (1. V, e. I, fi): intanto <iuesta dinKìstrazione non è Sfata mai data, e i geometri più mo- derni si accordano a pensare che la proj^osizione è indimostral.)ile. Sareìjbe stata eei'tamente un' incoerenza nel I^ain di conservare (fuesta proposizione nella lista degli assiomi o premesse reali della matematica, dopo averne cancellato tutle le altre all' infuori dei due assiomi generidi sulle eguaglianze. Cosi, conformemente ai suoi l^rincipii, Tassioma delle parallele non potreljbe essere pei* lui clie o una proposizione ver])ale o un teorema. Notiamo pure che, se il ciM'terio del Bain per dividere le ])ropo- sizioni sulle somiglianze in due classi, le analitiche e le sinteticlie, ò realmente, come sembra, (juello che noi indichiamo nel testo, (luesto critcì'io è necessariamente ar])itrario, perchè alcuni mate- matici dimostrano ciò che altri ammettono come assiomatico, p. e. la proposizione che la linea retta è la pii^i breve fra due punti dati. Cosi euii è condotto a certe asserzioni singolari, come (|uesta: che « tre ed uno fanno quattro » è una proposizione verbale e analitica, mentre « due e <Jue fanno quattro» è reale e sintetica (essendo fon- data, com'egli dice, sui grandi principii induttivi della matemati- ca- v. lib. V, e. I, 7). di questo rapporto (quantunque il primo latto possa essere indissolubilmente legato al secondo), non vi ha alcuna ragione per negare la natura sintetica di questo predicato, §. 9J* In ([uanto alle definizioni, il loro carattere ana- litico potrebbe sembrare sufficientemente provato dal fatto stesso che sono delle definizioni ; pei'ché noi, si dirà, non appliclieremmo p. e. il nome di cerchio, là dove non tro- vassimo Teguaglianza dei raggi, e (piindi quest\ittiùbuto è implicato nel significato del soggette^. Noi andremo diretta- mente al l'ondo della quistione, e domanderemo se Tintiuzio- ne o la rappresentazione di un cerchio contenga la percezio- ne del rai)i)orto d'eguaglianza tra i suoi raggi. Ora è evi- dente clie non la contiene : per conseguenza, affermando del cerchio ch'esso ha i raggi eguali, noi facciamo una proposizione sintetica, i)erchò il soggetto della proposizione non sono che i cerciii, reali o possibili, deirintuizione (e non una pretesa nozione astratta del cerciiio\ e Fegua- glianza di cui si tratta nellattributo, non ò che la perce- zione clic noi abbiamo o potremmo avere (H questo rap- porto, paragonando fra loro i raggi di uno di questi cer- chi. Gli antichi vedevano a buon dritt(-) nelle definizioni geometriche delle definizioni reali o essenziali, in quanto esse non c'istruiscono semplicemente sul senso d'un no- me, ma ci danno un fatto, cioè una relazione, fondamen- tale, a cui gli altri latti o relazioni, di cui la forma geo- metrica d -finita è il soggetto, si riattaccano per la dimo- strazione, venendo attribuito in vii-tù di cpiesta relazione . Sono anche questa specie di definizioni che alla metafìsica Tidea di defìnizione essenziale, non trovandosi, al di fuori della geometria, degli oggetti (li cui le altre proprietà siano legate a qualche proprietà logica- mente primitiva, i)er una connessione necessaria e visi- bile a priori (se questa connessione è possibile nella geo- metria, ma non nelle scienze di fatto, ciò si deve al me- todo speciale delle matematiche, che è interamente dedut \m tivo, e alla natui'a speciale di;l loro contenuto, ciò"' dei rapporti stu<liati da (lueste scienze). Sdirebbe duncpie vero di dire, in (piesto senso, che p. e. l'eguaglianza dei raggi é contenuta nelFessenza del cerchio, ma bisogna guardarsi dal concluderne die perciò (juest'attriljuto non è che ana- litico: la conseguenza sarebbe i;"iusta se \ essenza di cui si tratta fosse Vessenza. nominale, .secondo la dottrina che la defìnizione è l'esposizione del senso del nom'3, e che (iuesto è costituito da una porzione determinata degli at- tributi della classe. Ora il senso del nome cercliio nono ])er noi che di designare certe intuizioni, reali o possil)ili, dei nostri sensi, cioè certe superfìcie di mia forma par- ticolare: la relazione d'eguaglianza che noi percepiamo o possiamo percepire fra certi elementi di (jueste superfì- cie, è un fatto che ha un legame necessario, sia nella re;dtà sia nel nostro pensiero, Q,on ({ueste intuizioni dei nostri sensi, ma che ne è completamente distinto, e che, per conseguenza, non fa [)arte dei senso del nome cerchio. Per le premesse della SMenza dtn numeri, il Bain fa come per quelle della geometria : non attribuen lo il ca- rattere di proposizioni reaU che ai sijli assiomi generali eguaglianze, egli lo nega alle verità assiomatiche [)ariicolari, che per l'aritmetica volgono, come a])biamo detto, su certe eguaglianze numeriche conosciute d' una maniera immediata. Noi abbiamo visto die tutte le egua- glianze numeriche sono ca})aci di essere dimostrate, una volta che di ciascuni^ della serie dei numeri si ammetta come conosciuta la sua eguaglianza col numero immedia- tamente inferiore più l'unità; e che la dimostrazione con- siste in un seguito di sostituzioni fatte in virtù dei due assiomi fondamentali sulle eguaglianze. Il Bain ammette che le sostituzioni siano giustificate dagli assiomi; ma egli crede che le altre [)remesse, cioè l'eguaglianza di ciascun nuiiKUY» al numero immediatamente inferiore più l'unità, siano delle proposizioni [juramente verljali o analitiche.che non espongono altro dio la definizione del nome del numero. Già il Leibnitz ed altri al seguito di lui avevano ammesso che queste proposizioni l'ossero delle verità [ju- ramente identiche ; ma dimostrando tutte le eguaglianze numericlie mediante (pieste proposizioni, essi ne conclu- devano che tutte le verità sui numeri fossero unicamente fondate sul princi[)io d'identità. Infatti, se si ammette che nella dimostrazione si sostituisce a un numero il numero immediatamente inferiore più uno, o viceversa a numero più uno il numero imme.iiatamente superiore, non si fa altro che sostituii'e al definito la definizione e alla definizione il definito; diventa inutile di ricorrere in.)l- tre alle proposizioni generali sintetiche sulle eguaglianze, e tutta la dimostrazione non diviene che una sostiUizione di proposizioni identiche le une alle altre, in cui non si fa altro che mettere al [)Osto di alcuni nomi altri nomi aventi lo stesso senso. Hitorniaino alla somma di 7+5: 5 ha lo stesso senso che 1+4; dunque 7+5 ha lo stesso senso che 7+1+1, e questo lo stesso senso che 8 + 4 ; e questo lo stesso senso che 8+1+3, che ha lo stesso senso chel)+:], ecc. (1). M) 11 Leiluiilz nello siin diinostmzioiic invoca l'assionia clic su- stitucntlo cose eguali rcguatrlianza resta. (.V. Saont 1. ;. e. 7). Ma il (;alliip[)i, ilimnstrando secondo i principii di F.eibnitz la no-^tra proi)osizione 7h-5-^-|2. spiega nettamente come la dimosti-azione non suppone clic il diritto di sostituire vicendevolmente la delìnizione il (.UiWmio {Scu li ILO sulla ci ìt. della runosc. t. H. § Ut; v. a. t. 1.^ 7S). Con ciò però egli sì mette in contraddizione con se stesso: infatti avendo opposto a Condillac che, se nella dimostrazione non vi ha che una sola idea che si trasf,>rma sotto diverse espressioni, non si comprende come il raziocinio porti all'estensione delle nostre conoscenze {Op. cit. t. 1. § 70), egli cerca di evitare questa diflicoltà, cheèpm'e inerente alla sua propria dottrina, mostrando che il ra- ziocinio ordinariamente procede dal generale al particolare (t. 1. § 73, 75, 78, eoe). Ma se nella dimostrazione della proposizione in qui- stione non vi ha che una sostituzione tra il defuiito e la definizione, non vi ha allora alcun' a pplicazione di un i)i'incipio generale, e l'in- ferenza <"' necessariamente api^arente, e non reale: Bain unisce dunque due idee incompatibili, quando sostiene che la sostituzione tra il numero immediatamente inferiore più l'unità e il numero immediatamente superiore sia unicamente una sostituzione tra la definizione nomi- nale e il definito, e che tuttavia una dimostrazione otte- nuta mediante ([ueste sostituzioni sia Tapplicazione di as- siomi, cioè di princii)ii sintetici. La conseguenza della pri- ma di queste due dottrine è di bandire dal calcolo ogn'in- ferenza reale, e di non far consistere il progresso della di- mostrazione che in inferenze apparenti, che si limita- no a dare un'espresione ditferente allo stesso jjensiero. E ■allora bisognerà rinunziare necessariamente al valore sintetico o reale di tutte le proposizioni sui numeri, e la scienza dei numeri non potrà darci altro che delle j pro- posizioni verbali. Se si accorda che i ragionamenti del- la matematica conducono, come di altri, a stabilire del- le nuove verità, Ijisogna anche accordare non meno l'u- no cJie Taltro (U questi due punti: che le sostituzioni del calcolo sono, non sostituzioni di espressioni diverse ma equivalenti d'una stessa cos:i, ma delle inferenze reali, o, ciò che vale lo stesso, che i principii generali o assiomi, su cui queste sostituzioni sono fondate, sono delle pro])0- -sizioni sintetiche; e che lo stesso carattere sintetico appar- tiene eii'ualmente a tatie le formule ivunerichc (come le chiama Kant), cioè a tutte le pro[)Osizioni particolari sui rapporti tra numeri S. 10^^ Noi dobl)iamo ora mostrare che i principii della matematica sono tutti dei giudiz^i comparativi, affermanti delle eguaglianze, o piuttosto, d'una maniera piìi generale, delle somiglianze definite, e che le matematiche pure non presuppongono alcuna verità suiresistenza. Secondo il Mill, le verità particolari che, insieme alle verità generali sulle eguaglianze, costituiscono le premes- se della matematica, implicano delle affermazioni esisten- ziali. Di queste verità, quelle che sono o [)OSSono considerarsi come definizioni, digeriscono dalle altre definizio- ni, in quanto non spiegano semplicemente il senso di un nome, uia Tanno pure la su[)[)Osizione che esistono nella realtà degli oggetti corrisjxjndenti alle definizioni. Intatti, dice il Min, « sarei )be evidentemente impossibile di de- durre alcuna verità di geometria da una {proposizione che indicasse solamente la maniera di cui s'intende im- piegare un segno particolare». «Vi ha dunque una di- stinzione Ideale tra le definizioni di nomi e (luelle che si chiamano a torto definizioni (U cose ; ma (juesta dif- ferenza consiste in ciò, che (jueste enunciano tacitamente, nello stesso tempo che la significazione di un nome, un punto di fatto, (^uest' asserzione tacita non è una delini- zione, è un postulato. La definizione è una semplice pro- posizione identica, che non insegna niente altro ch(^. Fuso della lingua, e dalla quale non si })uò tirare alcuna conclu- sione l'elativa a dei fatti. Il [)Ostulat«> che T accompagna, al conti'ario, afferma un fatto che pu(') condurre a delle conseguenze più o meno importanti ; esso afferma Y esi- stenza attuale o })0ssil)il(ì di cose clie {possiedono la com- binazione d'attributi dichiaraata dalla delìnizione; e que- sto fatt(j, se è i*eale, può essere il fondamento di tutto un edifìzio di verità scientifiche» (1. 1'^^ e. 8' § 5). Il Mill fa un'obbiezione alla propria dottrina: Non ò vero che esista un cerchio a raa'gi esattamente eguali: i postulati implicati nelle definizioni non sono dun(iue com- l)letamente veri. « Vi ha dunque qualche difficoltà a con- ce[)ire che le conclusione lùù certe rii)Osano su i>remesse, che, lungi di essere certamente vere, non sono certamente vere in tutta l'estensione che comi)orta la loro enuncia- zione», (l. 1.'» e. 8." .^ G). Ma, risponde l'autore a quest'ob- biezione, vi ha altrettanta verità nel postulato, quanta ne bisogna {ìer portare ciò che vi ha di vero nella conclu- sione. Le definizioni devono essere considerate corno le nostre prime e più evidenti generalizzazioni relative alle figure quali esse esistono negli oggetti naturali. «(Queste generahzzazioni, in ({uanto generalizzazioni, sono i)erfet- tamente esatte. I^' eguaglianza (U tutti i raggi è vera di tutti i cerchi, altrettanto che essa è vera di un cerchio, ma essa non è completamente vera d' alcuno; essa non lo è elle d'una maniera molto approssimativa, e cosi a|)- prossimativa ciie la suj)|)psizione che essa è assolutamente non trascinerebbe nella pratica alcun errore di qual- che importanza. (v>uando ci accade d'estendeiv) queste in- duizioni 0 le loro conseguenze a casi, in cui l'errore sa- rebbe apprezzai )ile, noi correggiamo le nostre conclu- sioni combinandovi nuove proposizioni relative all'af)erra- zione ». 11 carattere di rigore o di certezza i>articolare attribuito alle matematiche è, dice percii") il Mili, un'illu- sione, la (juale non si mantiene, se non supponendo che ciueste verità si rapportano ad oggetti puramente ideali, mentre esse si rapportano invece agli oggetti realuKMite esistenti nella natura. Le asserzioni sulle (juali i ragiona- menti si fondano non corrispondono, in geometria, ì)iù esattamente che nelle altre scienze ai latti; ma noi .S77>- jfoniamo che essi vi corrispondano, per poter tirare le conseguenze che derivano dalla su})posizione. « Io trovo dunque esatta in sostanza l'opinione dì Dugald - Stewart, clic la geometria è fondata su delle ipotesi ; che è a ci<"> che essa deve la certezza particolare che la (hstinguerebbe, e che in ogni scienza si [uiò, ragionando su dell(i ipotesi, ottenere un insieme di conclusioni cosi certe clu; quelle della geometria, cioè a dire cosi rigorosauKMite crjncor- danti con le ipotesi, e forzanti cosi irresistibilmente l'as- sentimento, a condizione die le ipotesi sian(j vere >•. (1. 2'^ e. 5<> § 1). Ora, ammettiamo, coinè vuole il Mill, che le [)rop(jsi- zioni della geometria siano i|)0teticlie: l'affermazione di una proposizione ipotetica implica forse l'atìermazione cate- gorica dell'ipotesi? Dire: «se vi lia un pendolo nelle con- (ìerai'si come definizioni, dineriscono dalle altre definizio- ni, in quanto non spieirano seniplicemente il senso di un nome, ma lanno pure la sui)[)Osizione che esistono nella realtà de^uli oii'getti corrispondenti alle definizioni. Intatti, dice il Min, « sarei )be evidentemente impossibile di de- durne alcuna verità di i^eometria da una i)roposizione che indicasse solamente la maniera di cui s'intende im- piegare un segno particolare». «Vi ha dunque una di- stinzione real(i tra le defhiizioni di nomi e ({uelle che si chiamano a torto definizioni di cose ; ma <juesta dif- ferenza consiste in ci('>, che (lueste enunciano tacitamente, nello stesso tempo che la signific^azione di un nome, un punto di latto. Quest'asserzione tacita non è una defini- zione, è un postulato. La definizione è una sem})lice pro- posizione identica, che non insegna niente altro che Fuso della lingua, e dalla quale non si può tirare alcuna conclu- sione relativa a dei tatti. Il postulat«> che T accompagna, al contrario, all'erma un fatto che può condurre a delle conseguenze i)iii o meno importanti ; esso atlerma Y esi- stenza attuale o possiljile di cose che {possiedono la com- binazione (T attriljuti dichiaraata dalla definizione; e que- sto tatto, se è ideale, può essere il tbndainento di tutto un edifìzio di verità scientifiche» (1. ì^ e. 8' § 5). Il Min ta un'obbiezione alla })ropi-ia dottrina: Non è vero che esista un cerchio a raa'd esattamente euuali; i postulati implicati nelle definizioni non sono dunque com- pletamente V(3ri. « Vi ha dunque qualche difficoltà a con- cepire che le conclusioni più certe rii)Osano su premesse, che, lungi Od essere certamente vere, non sono certamente vere in tutta Testensione che comporta la loro enuncia- zione». (1. 1." e. S.^' ^ G). Ma, risponde Fautore a quest'ob- biezione, vi ha altrettanta verità nel postulato, quanta ne l)isogna per portare ciò che vi lia di vero nella conclu- sione. Le definizioni devono essere (considerate come le nostre prime e più evidenti generalizzazioni relative alle figure quali esse esistono negli oggetti naturali. « (^)ueste generalizzazioni, in (juanto generalizzazioni, sono j^erlet- tamente esatte. L' eguaglianza (H tutti i raggi è vera di tutti i cerchi, altrettanto che essa è vera di un cercliio, ma essa non è completamente vera d'alcuno; essa non lo è che d'una maniera molto approssimativa, e cosi ap- prossimativa che la su])ppsizione che essa è assolutamente vera non trascinerebbe nella pratica alcun errore di qual- che importanza. Quando ci accade d'estendere c[ueste in- duizioni o le loro conseguenze a casi, in cui l'errore sa- rebbe apprezzai )ile, noi correggiamo le nostre conclu- sioni combinandovi nuove proposizioni relative all'aberra- zione ». 11 carattere di rigore o di certezza jiarticolare attribuito alle matematiche è, dice perciò il Mill, un'illu- sione, la (juale non si mantiene, se non su[)pon(3ndo clie (jueste verità si rapportano ad oggetti puramente ideali, mentile esse si rapportano invece agli oggetti i*ealm(3nte esistenti nella natura. Le asserzioni sulle (juali i ragiona- menti si l'ondano non corrispondono, in geometria, più esattamente che nelle altre scienze ai tatti; ma noi .S7^y>- poniamo ciie essi vi corrispondano, per poter tirare le conseguenze die derivano dalla sui)|)Osizione. « Io trovo dunque esatta in sostanza l'oinnione di Dugald - Stewart, che la geometria è fondata su delle ipotesi ; che è a ci('> clieessa deve la certezza i)articolare che la (Ustinguerebbe, e che in ogni scienza si i)uò, ragionando su delie ipotesi, ottenere un insieme di conclusioni cosi certe ch(3 quelle della geometria, cioè a dire cosi rigorosamente concor- danti con le ipotesi, e l'orzanti cosi irresistibilmente l'as- sentimento, a condizione che le ipotesi siano vere ». (1. 2'^ e. 5<^ § 1\ Ora, ammettiamo, conio vuole il Mill, che le pro[Kjsi- zioni della geometria siano ipotetiche: l'affermazione di una proposizione ipotetica implica forse l'affermazione cate- gorica dell'ipotesi? Dire: «se vi ha un pendolo nelle condizioni ideali o astratte supposte dalla teoria, esso oscil- lerà uniformemente per un tempo infinito ^ non implica Taffermazione che un pendolo tale esista. Cosi dire: «se vi ha un cerchio conforme alla definizione geometrica, la sua circonferenza avrà il rapporto ^ col suo diametro *, non implica nemmeno latiermazione che un sinnle cer- chio esista. Dunque 1 affermazione di questa proposizi(jne geometrica non suppone come premessa un'affermazione relativa all'esistenza reale di cerchi conformi, sia rigoro samente, sia approssimativamente, alla defuiizione. Sia pure qual si voglia Tinterpretazione d' una proposizione geometrica. S'interpreterà ngoi-osamente ? essa non sarà vera che d'un cerchio ideale; dunriue evidentemente non supporrà alcuna affermazione deiresistenza di cerchi reali. S'intei'preterà d'una maniera approssimativa, non avendo per soggetto che i cei'chi ideali della natura? IVIa nò an- che in questo caso vi è implicata un'affermazione relativa all'esistenza dei cerchi reali. Una i)ro[>osizione geometrica non stabilisco che rapporti comparativi, vuoi fra le cose, vuoi fra le loro idee : questi rapporti dipendono certamente dalle idee o dalle cose; se si vuole, l'attributo, cioè il rap- porto, non è affermato del soggetto che per ipotesi, cioè alla condizione che il soggetto esista. Ma l'esistenza del soggetto non è posta perciò : questa esistenza è forse af- fermata per un altro atto del pensiero, ma non per quello che afferma il rapporto, e il giudizio esistenziale e il giu- dizio comparativo sono due giudizi logicamente indipen- denti, r anmiissione dell' uno dei due non implicando af- fatto Tammissione dell'altro. Il Mill per provare che una conseguenza non può ti- rarsi da una definizione per se stessa, ma solo da un'as- serzione tacita suir esistenza, legata alla definizione, mo- stra che nel primo caso una conclusione Axlsa seguirebbe da premesse vere. « Un dragone è una cosa die soffia delle fiamme; Un dragone é un serpente; Dunque qualche serpente soffia delle fiamme». La premessa reale in questo caso, dice il Alili, non è la definizione, ma la sup- posizione tacita dell' esistenza dell' oggetto definito. Ed è vero : ma la conclusione qui essendo una proposizione esistenziale, essa non poti'ebbe seguire che da un* altra afiermazione esistenziale. Al contrario, le proi)Osizioni dimostrate della geometria essendo, non proposizioni esi- stenziali, ma solo comparative, j)erc]iè le premesse do- vrebbero essere esistenziali ? Se nelle scienze di fatto è impossibile, come nella geometria, di dedurre nuove ve- rità da una definizione, ciò non è perchè nelle definizioni geometriche è implicata un'asserzione tacita sull'esistenza, ma non nelle definizioni degli esseri reah; ma perché co- me dice lo stssso Mill (1. l.o e. 8.^ § 4), le proprietà di- stintive delle cose non nascono l'una dall' altra, in altri termini, non può stabilirsi fra di loro una connessione a priori, come fra le proprietà delle figure geometriche; il che non é, come abbiamo osservato, che un caso di que- sta circostanza più generale, clie la geometria è una scienza a priori e deduttiva, mentre le scienze degli es- seri reaU sono sperimentali ed induttive. Quand'anche, aggiunge il Mill, si ammetta che la de- finizione geometrica, p. e. del cerchio, non postuli l'esi- stenza di cerchi reali, e sia semphcemente la descrizione della nostra nozione di un cerchio ideale, essa postulereb- )je sempre la esistenza reale di quest' idea, prenderebbe per accordato che lo spirito può formare e forma la no- zione di un oggetto corrispondente alla definizione. Den- tro questi limiti, cioè che la definizione implica, non l'e- sistenza o la possibilità dell'oggetto definito nell'universo reale, ma la semplice rappresentabilità di quest' oggetto, la dottrina di Mill potrebbe, in un certo senso, ammet- tersi. I matematici dicono qualche volta che una defini- zione geometrica deve mostrare la possibihtà della cosa definita, e i leibniziani, d'una maniera generale, distin- imMiguevano la definizione reale dalla definizione nominale, ammettendo che la i)rima mostra questa possibilità, ciò elle non la la seconda. Questo vuol dire semplicemente che una definizione geometrica ( noi sa{>piamo che sono queste definizioni clie hanno dato ai metafìsici Y idea di definizione l'eale o essenziale) non è una pura torma ver- bale senza significazione reale, un semplice non senso, come sarel)l»e p. e. la definizione del hil/neo rettilineo : « una fi£i'ura terminata da due linee rette » ; ma che ad essa corrispondono delle vere idee, delle ra[)presentazio- Tii etìettive, (3 che ciò deve essere evidente dairenunciato stesso della proposizione. Ma il Mill pretende che Tailer- mazione lY^ale contenuta in una definizione geometrica e un alìermazione esistenziale; che il l'atto che essa aiìcrma (nel tempo stesso die spiega il senso di un nome), e che è il i)unto di partenza dei ragionamenti del geometra, è resistenza, se non di certe forme geometriche, delle rap- presentazioni almeno di queste torme. Ora esaminiamo r atto mentale inq)licato nella riconoscenza del latto che r oggetto definito è possibile, o che vi hanno delle forme rappresentaijili conformi alla definizione. « Il cerchio è una curva, i cui punti sono equidistanti da un punto in- terno che si chiama centro»; « L'ellissi è una curva, in cui la somma delle distanze di ciascuno dei suoi punti da due punti fissi che si chiamano fuochi, è costante ». Cia- scuna di queste proposizioni contiene due idee distinte : r intuizione (U una certa figura geometrica, e quella di una certa relazione fra certi elementi di (juesta figura ( della eguaglianza della distanza da un centro di tutti i punti del cerchio, o piuttosto, della circonferenza, e della eiruadianza delle sonime delle distanze dai due fuochi di ciascun punto della curva che termina relUssi). Dire che vi hanno degli oggetti, reali o possibili, conformi alla de- finizione, è dire che vi hanno, sia nell'universo reale, sia nel mondo <lelle nostre rappresentazioni, delle figure, aventi fra certi loro elementi le relazioni che di essi afferma la definizione. Ma questo non vuol dire alla sua volta se non che in certe figure, che noi osserviamo nel mondo reale o semplicemente che noi ci rappresentiamo, para- gonando reciprocamente certi loro elementi, noi i)ercepia- mo fra di essi queste relazioni. Ora queste relazioni so- no delle relazioni di somiglianza: dunque il fatto afferma- to nella definizione non è l'esistenza, sia di ou'aetti reali, sia di rappresentazioni nostre di oggetti possibili, ma è che tra certe cose, realmente esistenti o sem[)licemente rappresentabili, vi lianno dei rapporti determinati (U so- miglianza. (v!ui noi [)Ossiam(j osservare come la coscienza della necessità sia unicamente legata alle nostre affermazioni sulla somiglianza, e non mai a (juelle suiresietenza. Che esistano dei c<3rchi nel mondo reale non è una proposi- zione necessaria; ma le ] >roposizioni geometriclie sul cer- chio sono necessarie, percliè esse sarebbero egualmente vere, quand' anche non fossero mai esistiti né potessero mai esistere nella realtà dei cerchi conformi, sia rigoro- samente, sia approssimativamente^ alla definizione. Cosi ancora che esista la rappresentazione di un cerchio geo- metrico, che lo spirito umano aljbia la facoltà di formar- sela, è una proposizione anch'essa contingente : noi ])0s- siamo supi)orre facilmente la possibilità del contrario, tan- to più che noi sappiamo che gli uomini non j^ossiedono tutti allo stesso grado la facoltà di rappresentarsi le for- me dello spazio. Ma la definizione del cerchio é una pro- posizione necessaria, perchè essa afferma semi)licemente una somiglianza definita tra i raggi del cercliio, senza niente decidere nò suiresistenza di cerchi reali nò su quel- la delle nostre rappresentazioni di cerchi possibili. §. 11**. Quando dice che le vere premesse della geo- metria sono, non le definizioni, ma i postulati in esse sot- tintesi, il Mill suppone che i postulati siano delle proposizioni esistenziali. Ma nemmeno questo ci sembra vero. I postulati (nel senso rigoroso in cui Euclide impiega que- sta parola) sono le pia semplici delle proposizioni geome- triche di posizione, appartenenti alla classe di queste proposizioni che stabilisce che certe torme possono o non possono avere certi rapporti di posizione. Il postu- lato relativo alla retta dice che per due punti può passa- re una retta (e una sola); il postulato relativo al cerchia dice che, dato un punto, ad un intervallo dato ria questo punto, in un piano, può passare una circonferenza (e una sola), avente questo punto per centro. Queste proposizio- ni sono analoghe ai teoremi: Per due rette che si taglia- no può passare un piano, e uno solo ; Da un punto dato si può condurre un piano, e uno solo, parallelo a un pia- no dato ; l?er quattro punti, non situati in uno stesso pia- no, può passare una slei*a, e una sola; e^c. Tutte queste proposizioni non concernono per niente resistenza reale di oggetti nelle condizioni proposte. Supponiamo infatti che in un caso o in tutti i casi vi fosse un'impossibilità fisica a descrivere un cerchio, avente per centro un punto da- to, e a im intei'vallo dato; forse allora il postulatosi tro- vere!jl>e falso ì L'impossibilità dell'operazione materiale non toglierebbe niente alla possibilità ideale ammessa nel pò stulat(^. Ciascuna (U (jueste proposizioni afferma sempli- cemente che non vi ha alcuna incompatibihtà nelle con- dizioni proposte ; che il loro concorso è idealmente pos- sibile ; che qualclie cosa, ma una sola, può essere confor- me alla definizione della retta, del cercliio, del piano, o della sfera, i suoi rapporti di posizione essendo al tempo stesso conformi ai rapporti enunciati nella proposizione; che cei'ti attributi, quelli p. e. di essere un cerchio, di es- sere situato in un piano dato, di essere a un intervallo dato da un punto dato, possono coesistere in un soggetto, ma in un solo. Ora la coesistenza in un soggetto di certi attributi, di certe proprietà astratte, non è altro, noi lo m sapi)iamo, ch(3 la possiljilità per una cosa di ricevere delle denominazioni distinte, di cui ciascuna è ai>plicabile a tutta una classe di oggetti, e quindi ancora la suscettibihtà che ha questa cosa di entrare al tempo stesso in più classi distinte. Ma tutto ciò che ciascuna di queste classazioni distinte implica, non sono che delle relazioni deiìnite di somiglianza: (piello dun(iue che queste proposizioni, iiì ultima analisi, affermano è la possibilità o Timpossibilità della coesistenza in uno stesso soggetto di certi rapporti definiti di somiglianza. Le proposizioni di posizione indi- cate enunciano che una figura di una specie determinata [vuò trovarsi in certi rapporti determinati di [)Osizione, e negano al tempo stesso che altre figure della stessa spe- cie possano trovarsi negh stessi rapporti di posizione: ma un'altra varietà dello stesso genere negano semplicemen- te che delle figure di una specie determinata possano tro- varsi in certi rapporti determinati di posizione. V. e.: Due cerchi non possono segarsi in più di due punti; questa proiH-)sizione afferma che (juando due figure possono clas- sarsi tra i cerchi, non possono classarsi tra le figure che si segano in più di due punti, e viceversa (pianolo posso- no entrare in questa seconda classe, non possono entrare nella prima. Tutto questo genere di proposizioni geome- triche di posizione afferma dunijuc cfie la coesistenza di certi rapporti definiti di somiglianza è possibile o è impos- sibile, mentre un altro, il più importante, della stessa clas- se di proposizioni (di cui abbiamo parlato al §. 0^) affer- ma invece che una tale coesistenza è necessaria. Il Mill ammette pure, come il Bain, che la proposizio- ne che enuncia la formazione di un numero per il nume- ro immediatamente inferiore più l'unità, può considerarsi come la definizione del primo numero; ma questa defini- zione implica, secondo lui, come (luelle della geometria, Tafiermazione d'un punto di fatto. Il punto di fatto p. e. la cui affermazione è contenuta nella definizione di tre SSK wiiÌKnlaiiM^@Ms^^^ÌgB9^^^^MHnn mmm {3=2+1), è che un gruppo unico di tre oggetti può essere ottenuto, riunendo a un gruppo di due oggetti un altro oggetto unico, già separato. In generale, dice il Mill, «ciò che il nome di numero connota è la maniera in cui degli oggetti del genere dato devono esssere agglomerati per formare quest'insieme particolare. Se si tratta d'un am- masso di sassi, e se noi lo chiamiamo due, questo nome implica che per formarlo bisogna aggiungere un sasso ad un altro sasso. Se noi lo chiamiamo tre, è che per pro- durlo bisogna riunire uno ed uno ed un sasso, ovvero aggiungere un sasso ad un aggregato del genere due, già esistente. (,}uello che chiamiamo quattro ha un più gran numero ancora di modi caratteristici di formazione Ogni proposizione aritmetica, ogni enunciato del risultato d'un'operazione aritmetica, è Tenunciato dell'uno dei modi di formazione di un numero dato. Vi si afferma che tale aggregato avrebbe potuto essere formato per la riunione di più altri, o per la separazione di certe parti da un al- tro, e che per conseguenza si potrebbe per il processo in- verso riprodurre questi altri aggregati». (Lor/ica lib. 3^. e. 24«. §. 5). Noi abbiamo seguito l'idea del Mill che il totale d'una somma e i suoi dati designano degli oggetti, che fanno sui nostri sensi delle impressioni distinte, per una diffe- renza d'ordine e di posto. Ma non possiamo seguirlo più oltre in una via che conduce a misconoscere la differen- za fra una proposizione esistenziale ed una comparativa. Per far comprendere in che noi rigettiamo le asserzioni del Mill, mettiamo in rapporto il luogo citato con la sup- posizione d'un autore citato dallo stesso Mill {Filosofia di Hamilton e. G^). Immaginiamo, dice quest'autore, un mon- do costituito di tal maniera, che tutte le volte che due e due oggetti si volessero riunire in un gruppo unico, un altro oggetto apparisse improvvisamente, introducendosi nel gruppo totale. In un tal mondo sarebbe falso che due e due fanno quattro, ma due e due farebbero invece cin- que. Ciò proverebbe, secondo il Mill, che noi possiamo concepire il contrario di una proposizione pretesa neces- saria. Ma se « due e due fanno quattro » vuol dire che due- e due sono eguali a quattro, e non che riunendo due og- getti e due oggetti si ottiene un totale di quattro, sarebbe sempre vero, anche nel mondo immaginario di cui si fa la supposizione, che due e due fanno quattro e non fanno cinque. La proposizione è dunque necessaria nel primo senso, contingente nel secondo: è necessaria, quando e- sprime un giudizio comparativo, sopra un'eguaglianza nu- merica; contingente quando esprime un giudizio esisten- ziale, sull'ordine con cui i fenomeni appariscono nella na- tura. Una proposizione sulla formazione di un numero ó capace dell'uno e dell'altro senso: i due sensi sono stret- tamente legati nella nostra mente, ma per prendere nella sua jjurezza la vera portata della proposizione matema- tica, bisogna separare le due affermazioni. Che nel nu- mero degli oggetti reali vi sia una costanza, almeno re- lativa, in modo che riunendo due gruppi di due oggetti ciascuno, noi siamo sicuri di ottenere un gruppo di quat- tro, è una verità dell'esperienza più familiare, ma che non ha niente da fare con l'aritmetica. Se di questa maniera si pu(') dimostrare sensibilmente a un bambino, dopo che egli ha imparata la numerazione, che 7 più 5 fanno 12, facendogli contare p. e. il gruppo di i3allQ ottenuto per la riunione di due gruppi di palle già contati, uno di 7 e l'altro di 5; ciò è buono per il bambino, che non sarebbe capace di comprendere una dimostrazione rigorosa. Ma una tale dimostrazione ò tanto aritmetica, quanto sarebbe geometrica la dimostrazione della proposizione che gli an- goli del triangolo sono eguali a due retti, misurando gli angoli per mezzo del quadrante. §. 12.*" Sembra che il calcolo non avrebbe scopo al- cuno, se non vi fosse una costanza nei rapporti numerici, 0 in generale quantitativi, dei fenomeni reali : cosi la geometria, se nella natura non vi fosse una costanza nelle forme e nelle grandezze. Come questa persistenza è intimamente legata alle più semplici nozioni delle rela- zioni matematiche dei numeri, cosi essa è legata alle più semplici nozioni della geometria. Affermare un' egua- glianza fra grandezze, tutte le volte che essa non è percettibile d'una maniera immediata, è affermare che esse avranno lo stesso rapporto air unità di misura. Ciò suppone la possibilità di misurare le grandezze: ma que- sta operazione alla sua volta suppone che le grandezze e l'unità di misura non cangino durante il tempo dell'ope- razione. L' Helmholtz ha fortemente insistito su questo punto nei suoi scritti sugli assiomi geometrici (v. Revue scientifìque). « Non si può par- lare delle grandezze, egli dice, che se si conosce qualche metodo pratico secondo cui si possano comparare, divi-dere, misurare. Ogni misura dello spazio, ogn'idea di gran- dezza adattata allo spazio, suppone dunque la possibilità del movimento di elementi, di cui la forma e le dimensio- ni devono essere tenute per invariabiU. » ( Ree. seleni., artic. del IG giugno 77, VII.) Perciò^, secondo lui, la geo- metria è fondata sulla supposizione che vi siano dei cor- pi solidi, e che essi possano spostarsi liberamente senz'al- terazione della loro forma e delle loro dimensioni. L'Hel- mholtz considera come un assioma geometrico il prin- cipio enunciante il fatto d'esperienza ammesso in questa snpposizione: ma se egli intende per ciò clie esso sia una premessa della geometria, sareblje questo certamente un errore. Si deve accordare ad Helmholtz che una propo- sizione affermante una relazione metrica fra grandezze non avrebbe senso, se non vi fosse un metodo pratico qualunque di compararle: affermare p. e. una eguaglian- za fra due grandezze, é aflermare l' identità di risultato della loro misura. La proposizione dunque che atferma questa relazione metrica, contiene la suppo sizione che del- le operazioni di misura siano eseguite, nelle condizioni in cui una tale operazione è possibile. Potrebbe quindi dii*si, a questo riguai'do, che una verità geometrica è una pro- posizione semplicemente ipotetica. Ma come noi abbiamo sopra osservato, la verità di una proposizione ipotetica non im[)lica la verità della supposizione: un principio dun- (jue, che esprima d'una maniera generale la supposizio- ne contenuta in tutte le particolari proposizioni geome- triche, non è ima premessa della geometria. Se il prete- so assioma di Helmholtz avesse una funzione logica ana- Ioga ai veri assiomi della geometria, la verità del suo contrario sareblje incompatibile con la verità delle pro- posizioni geometriche ; mentre è evidente che, se tutte le volte che le grandezze cangiassero di posto, la loro for- ma e le loro dimensioni venissero sensibilmente alterate, non ne seguii*ebbe perci(') che i teoremi della geometria finirebbero necessariamente d'essere veri, e diverebl^ero Ma vi hanno casi in cui la possibilità dello spostamen- to delle figure senza cangiamento della loro forma o di- mensioni sembra una vera i^remessa di una proposizio- ne geometrica. 1^] quando un'eguaglianza viene dimostra- ta per una sovrapposizione immaginaria delle figure, co- m'è il caso nella 1* proposizione d' Euclide. Questa [)ro- posizione è d'un'importanza speciale, perchè mentre essa non suppone dei teoremi antecedenti, i teoremi susseguen- ti, al contrario, si appoggiano sopra di essa. « La (piar- ta proposizione, dice il Bain, implica questa supposizione, che una figura può essere sollevata e rivolta senza che cangi di forma » E THelmlioltz d'una maniera più gene- rale: « La base d'ogni dimostrazione nel metodo euclidia- no consiste a stabilire la congruenza di linee, d' angoli, di figure ])iane, di solidi, ecc. Per rendere questa con- gruenza evidente, si suppone che si ap[)lichino le figure geometriche le une sulle altre, senza cangiare beninteso le loro forme e le loro dimensioni. » « Quando noi voglia- mo dare il carattere d' una necessità logica, rondandoci sulla possibilità di trasportare cosi le figure, senza can- giare la loro forma, in tutte le parti dello spazio», que- sta possibilità, secondo Helmholtz, implica « una propo- sizione non ancora dimostrata». Perciò «ogni dimostra- zione fondata sulla congruenza resta appoggiata sopra un fatto puramente sperimentale ». Ora non è vero che la 4» proposizione (rEuclide e le altre la cui dimostrazione è analoga, suppongano la ve- rità di questo fatto sperimentale, di questa affermazione esistenziale, che gli oggetti estesi possono cangiare di po- sto senza cangiare la loro forma e le loro dimensioni. La dimostrazione non ha bisogno di alcun processo materia- le di questa sorta, die consista a prendere una grandezza, e trasportarla sopra di un'altra. Basta ad essa di supporre che è [KDSsibile, per una figura data, una figura esattamente eguale nella forma e nelle dimensioni, ma in un'altra po- sizione qualunque: è questo il postulato implicitamente ammesso, ed esso non ha che fare coi fatti del mondo reale, o con Tesperienza, nel senso stretto in cui Helmholtz intende questa parola. Dati i due triangoli A B C, D E F, aventi due lati AB ed A C uguali a due lati DE e D F, e Fangolo, compreso fra i lati eguali, eguale, Euclide sup- poiie, a prenderlo alla lettera, che il triangolo A B C si adatti sul triangolo D E F, in modo che il punto A si ponga sul punto D e la retta A B sulla D E; e dimostra che, per conseguenza, i due triangoli devono coincidere perfettamente, e sono quindi eguali. Ma siccome ABCprima della sovrapj^xDsizione e A B C dopo la sovrappo- sizione sono degli oggetti di due percezioni distinte; e sic- come la supposizione che questi oggetti siano due stati successivi d'uno stesso triangolo materiale è, com'è facile mostrare, inutile alla dimostrazione del teorema; cosi ciò AM) C B' E FC' che Euclide supiX)ne è, in realtà, che un altro triangolo (per la parola altro noi intendiamo ciò che è l'oggetto d'un'altra percezione^, esattamente eguale ad A B C, e che noi chiameremo A^ B^ C^ indicando con le stesse lettere i vertici corrispondenti dei due triangoli, si trovi in certi rapporti di posizione con D E F, cioè gli sia sovrap- posto, in modo che il lato A^ B' stia sul lato DEeilpuntoA^ coincida col punto D. Siccome la A^ B^ è uguale alla 1) E, perchè l'una e l'altra sono, per ipotesi, uguali alla A B, ne seguirà che il punto B^ coincide col punto E, e tutta la retta A^ B^ con tutta la retta D E; e siccome l'angolo B^ A^ C^ è uguale all'angolo E D F, per- chè uguali tutti e due a B A C, anche la A' C^ sarà so- vrapposta alla D F, e il pxmin O coinciderà col punto F, perchè queste due l'ette sono amendue uguali alla A C, e quindi uguali fra di loro Vev conseguenza, siccome due rette i cui punti estremi coincidono coincidono interamente, anche il lato B' C coinciderà col lato E F, e anche gli al- tri angoli coincideranno con gli altri angoli, e i due trian- goli coincideranno perfettamente, e saranno eguali. Ma il triangolo A^ B^ O è, per ipotesi, eguale ad ABC; dun- (jue anche A B C e D E F sono eguali. Siccome il po- stulato non è vero soltanto del triangol(ì A B C, ma di ogni altro triangolo qualunque nelle condizioni date; sic- come, similmente, a D E F possiamo sostituire un altro triangolo (lualuncjue nelle condizioni date ; cosi la con- clusione può estendersi, per parità di ragionamento, dal caso particolare ihmostrato, a tutti gli altri compresi nella proposizione, come avviene nella dimostrazione di tutti gli altri teoremi. Cosi la diiiiostpazione della 4^ proposi- zione non è né più sperimentale né meno rigorosa che quella delle altre: la j)remessa particolare che essa im- plica non concerne che delle possibilità ideali, e come tutti i postulati e tutte le premesse delle matematiche pure in generale, afferma dei rapporti comparativi fra oggetti rap- presentabili, uìa niente suUesistenza o sull'ordine dei te- nomeni reali. §. l.> Noi dobbiamo infine proporci la quistione se i risultati delle ricerche di alcuni moderni matematici, che sono conosciute sotto il nome generale di metamatematica o metageometria, possano infirmare quelli a cui noi siamo pervenuti sulla natura e Torigine delPevidenza matema- tica. La quistione si hmita per noi ai sistemi di geome- metria (htterenti dal nostro, che si pretende di costruire in uno spazio a tre dimensioni come il nostro. Le nozioni di questi sistemi essendo incompatiljili con le nozioni geo- metriclie ordinarie, può sembrare che il fatto stesso del- l'esistenza di tali speculazioni contraddica al carattere di verità necessarie, che noi abbiamo riconosciuto alle pro- posizioni geometrice. I geometri malerni fondano generalmente la teoria delle parallele sull'assioma che « per un punto dato pu(') passare una sola parallela ad una retta data >, le parallele essendo definite « delle rette situate nello stesso piano, che prolun- gate non s'incontrano mai ». Ora se noi paragoniamo (jue- st'assioma agli aitri assiomi speciali della geometria ele- mentare, come: <<due rette che coincidono in più di un punto coincidono interamente», «due grandezze che coincidono sono eguali », ecc., si vede che esso riposa sovra un ge- nere ditler.mtedi evidenza. Questi altri assiomi sono d'una verità iritaitiva: tutte le volte che vediamo o immadniamo due grandezze che coincidono, noi abbiamo al tempo stesso Tintuizione della loro eguaglianza; tutte le volte che voglia- mo immaginare due rette che coincidono in più di un jumto. noi non possiamo immaginarle che coincidenti in tutta la loro estensione. Ma se noi guardiamo, con gli ocelli del corpo o con quelli deirimmaginazione, due rette alquanto inclinate Tuna verso Taltra, non è necessario che noi ve- diamo al tempo stesso che, prolungate, esse s'incontrano, poiché la loro posizione rispettiva potrebbe essere tale, che quest'incontro avrebbe luogo in un punto, dove la nostra vista o la nostra immaginazione non })Otrebbe seguirle. Per quest' assioma dunque 1' evidenza non é, come per gii altri, intuitiva, ma è semplicemente d' inferenza. Di là i tentativi ripetuti, ma senza successo, per dimostrare la proposizione : di là pure il fatto che il suo contrario non è, nel senso stretto, inconcepibile, come il contrario degli altri assiomi speciali della geometria, e quindi anclie la possibilità di metterla in discussione. Parve a Lobatclie- \vsky che tosse arbitrario (Pangeometria, nel princii)io) di ammettere quest'assioma; ed egli mostrò che si poteva, senza arrivare ad alcuna contraddizione, costruire un sistema di geometria non euclidiana, partendo dalla su[)- posizione che per un punto può passare tutto un fascio di rette, che, prolungate, non incontrino mai una retta data, situata nello stesso piano. Si sa che F importante teorema: la sonuna degli angoli d'un triangolo rettilineo é uguale a due retti, si dimostra per mezzo dei teoremi delle parallele. Lobatchewsky dimostra, non che la som- ma degli angoli d'un triangolo è uguale a due retti, ma che non supera due retti; e poi, che se in un triangolo rettilineo qualunque questa somma é uguale a due retti, essa lo sarà in tutti i triangoli rettilinei. La pangeometria (v. pag. 73 trad, ital.) pretende dunque di dimostrare che la proposizione oixlinaria sulla somma degli angoli d'un triangolo « non è una conseguenza necessaria delle nostre nozioni sullo spazio: non vi è che l'esperienza, la quale possa confermare la verità di (juesta supposizione [>. e. €on la misura effettiva dei tre angoli d'un triangolo rettilineo ». Fortunatamente risulta da queste misure effet- tive dei triangoli, come anche dalle osservazioni astrono- miche, clie Tassioma delle parallele e i teoremi della geo- metria eucHdlana sono, almeno approssimativamente, veri. Se i matematici trascendentalisti avessero avuto un'i- dea più giusta sui processi logici dello spirito umano, essi non avrebbero probabilmente contestato la legittimità del- Tassioma ordinario delle parallele. Quest'assioma non è, lo abbiamo riconosciuto, una verità intuitiva, ma un'in- ferenza; il nostro punto di partenza per arrivare alla ge- neralizzazione della i)roposizione è, (|ui come altrove^ Tesperienza: solo, |)er la natura speciale dei rapporti che sono l'oggetto della geometria, non è necessariamente un'esperienza obbiettiva; ci ì)asta l'esperienza o l'osserva- zione tutta subbiettiva di oggetti ideali, o semplicemente p<3ssibili. Ma se l'assioma delle parallele è un'inferenza e, nel senso che abbiamo detto, una verità d'esperienza, gli assiomi (jenerali delle matematiche sulle eguaglianze sono anch'essi delle inferenze e delle verità d'esperienza nello stesso senso. Non vi ha duncjue motivo per rigettare quello, (juando si ammettono questi, essendo anch' esso d'altronde elTettivamente indubitabile, mentre i dubbi stessi dei metageometri non sono che puramente specu- lativi (1). Ma i matematici— anche quelli che come i ma- (I) Alcuni, come il Mill {Logica lih 3.0 e. 24 $^ 7), hanno iwoi>osto di mettere da parte Tassioma, e di definire le parallele ]>er la equi- distanza, fcnidando unicamente su questa delìni/ione la teoria delle parallele K possiìjile infatti dimostrare i teoremi delle parallele, senza invocare altro principio die «juello ammesso nella dellnizione indicata: il lettore che conosce gli elementi della ij:eometria, può trovare facilmente la dimostra/ione, lo gli abbrevierò il lavoro,. indicandogli la via che io stesso ho seguita. Prima ho dimostrato che nelle parallele le perpendicolari condotte all'una delle due dal- l'altra sono anche perpendicolari a quest'altra; poi le relazioni me- tematici trascendentalisti, hanno dei punti di contatto evidenti con certe dottrine odierne della scuola empirista (v. Stallo La materia e la fisica moderna e. lo"") — non sono familiari con questa nozione che gli assiomi gene- triche degli angoli formati con una trasversale; e doi>o di queste,, dimostrato prima che la somma degli angoli d'un triangolo è uguale a due retti, sono passato alle proposizioni reciproche, cioè che se le relazioni metriche degli angoli formati con una trasversale sono queste, le due rette sono parallele. Infine ho dimostrato (juesto teo- rema, che due rette che non s'incontrano mai sono parallele (cioè equidistanti — per dimostrarlo mi sono servito della stessa dimo- strazione con cui negli Elementi di Baltzer, i^arte 4, ?? 2, 7, III, si dimostra che « se in im triangolo la somma degli angoli è 18<>, anche nelle parallele la somma degli angoli interni sarà 180'' ».— ); e, come corollari di quest'ultimo teorema, l'assioma ordinario delle paral- lele ( vale a dire che per un punto può passare una sola retta che non incontri mai un'altra retta data) e quello d'Euclide, cioè l'XI (Erra dunque il Taine quando, dopo aver dato una dimostra- zione, ch'egli crede rigorosa, della ecpiidistanza delle i)arallele, soggiunge tuttavia che l'assioma ordinario, di cui nega il carat- tere assiomatico, non può dimostrarsi. V. L' Inleìllgenza pai'te 2.. 14. e. 2. § II, V). Ma la dellnizione, su cui la dimostrazione sarel)be fondata, è .«soddisfacente? si può ammettere senza prova la possil^ilità delle parallele così deiìnite ? in altri termini, si può anmiettere senza |»rova che due lince situate nello stesso piano ì)Ossono al tem]to stesso avere queste due proprietà, di essere rette e di essere equidistanti ? Perchè questa linea equidistante da una retta data sarebbe una, retta, e non jn'uttosto una curva, come p. e. nel sistema non eu- clidiano di \\o\\QìV. {\ . Recue phìlo^ophìque sec. semestre 1870, Tan- nery La (jeometria fniniaf/inana y pag. 443). Io credo die si può ovviare a quest'inconveniente, deducendo la equidistanza, ammessa nella delìnizione, da un principio più generale e più assiomatico, ])reso dalle esperienze più familiari che noi abbiamo della conver- genza e divergenza delle rette. Tale principio potrebhc essere c]ue- sto: Se una retta è in due punti disugual- mente distante da un'altra retta, le due rette sì allontanano continuamente in una direzione, e si avvicinano continuamente nell'altra, sicché eSvSe restano situate luna dalla stessa parte dell'altra. Posto (juesto rali sulle eguaglianze sono ancir essi delle verità ac(iui- site e (F esperienza: quando essi applicano uno di questi assiomi, credono che si tratti d'una necessità puramente assioma, oun altro onalofro. (lefìniremino scmplicciiientoleptirnllelf^ secondo il desidei-atiun di d^Memhert (FJcincntl dijìlo^qfia, ScJuari- mento suffli elementi (U geoiaetj /a): anta una retta, s'innalzino sn due punti (luaUimpie di essa e suHo stesso lato due perpendicolni-i uguali; la retta che con^iunire le estremità di (luestc, si cliianni/^a- rallela alia retta data. Da (piesta deHinzione si potrii dedurre, me- diante l'assioma, che le parallele (cosi definite) sono eciuidistanti. Io ci-edo che non si possa contestare il cai^attere assiomatico del principio indicato: esso ha anche, sembra, un vonta^i'^io sul- Tassioma onlinario Per tutte le rette che noi vediamo o possiamo immaginare, noi osserviamo che quando una ronvor^a^ alciunnto verso un'altrji, la convergenza va sempre crescendo da un lato, mentre la divergenza va sempre crescendo dall'altro: al contrario, non di tutte le i*ette, reali o inmioginarie, che cominciano a con- vergere, noi possiamo osservare che esse finiscono per incontrarsi. Al nostro assioma si opporrà forse che le esperienze familiari su cui esso è fondato, non hanno un rigore .sulììciente ; la compara- zione delle distanze dei punti di una retta da un'altia implicimdo, prima, lapprezzamento della linea piàbwveche va da ciascun punto d'una i-ettii allaltra, e i^oi, la comparazione di (jueste linee le i)iù brevi fi*a di loro. II rigore dun<pie del principio supporrebbe che tutte queste comparazioni si fossero fatte d'una maniera rigorosa. Ma simili obbiezioni potrebbero farsi alle esperienze su cui è fon- dato l'assioma che due grandezze eguali ad una terza sono eguali fra loro La costatazione dell'eguaglianza fra due grandezze sup- porreblxi un appi-ezzamento esatto delle dimensioni delle linee e degli angoli, fatto coi mezzi ]>iìi sieui'i che noi conosciamo <li ese- guire una misura. Ma non è misurando le grandezze che noi siamo l)ervenuti alla conoscenza (k'IFassioma, i^Tchè l'operazione della misura suppone precisamente la conoscenza dell'assioma. Onesto è ottenuto duii<{ue mediante un ]>rocesso più prinu'tivo, e necessa- riamente ]>iù grossolano, per apprezzare le relazioni fra le gran- dezze: iier esso, come ]»el nostro assioma, noi siamo ridotti alla testimonianza dei sensi (ai <|uali, beninteso, possiamo sostituire l'immaiiinazione) Si ['enserà loi'sc che e facendo coincidere le gran- dezze che noi arriviamo alla conoscenza dell'assioma sulle egua- glianze: ma ((uesto mezzo sui>pone che durante 1' o]>ertizione . in cui noi facciamo successiviunente coincidere tre grandezze a due a due, (lueste non cangino; ora sapere ciò è avere una conoscenza logica, che leghi le eguaglianze date alle eguaglianze in- ferite; essi non pensano che in questa inferenza, come in •tutte le altre, noi ci fondiamo unicamente sulFosservazio- ne anteriore. L'Helmholtz è certamente di (juest'opinione (V. Rev. scient, ser. 2^ t. 12^' p. 1197— 119v8, ser. 3^ t. 14^ p. 4G-48 ) ; e lo stesso A. Comte, come abbiamo visto, ammetteva die la matematica astratta ha un carattere puramente logico, ed è as.solutamente indipendente dal- Tesperienza (1). Quando i metageometri dicono che gli assiomi e i teo- remi d'Euclide « ben potrebbero non essere che approssi- mativamente veri », non vi ha nella loro asserzione un as- soluta inconcepibilità, in quanto questa non si trova, a parlar propriamente, che nel contrario delle verità che noi conosciamo d'una maniera intuitiva, mentre per quel- le che conosciamo per inferenza, cioè per induzione o per deduzione, si può, prima della prova, dubitare, e quindi supporre la possibilità del contrario. Tuttavia anclie per tali verità il contrario è, in un certo senso, inconcepibile. di eguaglianze, che non può essere ottenuta per mezzo della coin- cidenza. L'assioma ordinario delle parallele, non conc^ernendo dei rapporti quantitativi fra grandezze, non mostra cosi ])ene come la i^rojìo- sizione che gli abbiamo sostituita, che esso ha un fondamento analo- go a quello degli assiomi generali della matematica e un valore logico eguale. Al contrario la nostra proposizione, stabilendo an- ch'essa delle n^lazioni metriche, ha più punti di contatto con questi, e fattala comparazione, ne risulta che non si può logicamente dubi- tare del rigore dei teoremi sulle parallele, a meno che questi dubbi non si vogliano estendere a tutta la matematica. (I) Aggiungiamo al luogo citato nel § 5. (t. 1. lez. S). quest'altro luogo della Le^. 4: «Quando ci proponiamo di valutare un numero sconosciuto di cui il modo di formazione è dato, esso è, per il solo enunciato stesso della quistlone aritmetica, già defunto ed espresso sotto una certa forma; ed evalutandolo, non si fa che mettere la sua espressione sotto un'altra forma determinata, a cui si è abi- tuati a rapportare la nozione esatta di ciascun numero particola- re . l'acendolo rientrare nel sistema regolare della numerazione ». Un discepolo di Condillac non parlerebbe altrimenti. li i in quanto, })er le proposizioni che concernono, non resi- stenza, ma la somiglianza, una volta che noi sappiamo che la cosa è cosi, noi non possiamo, come abbiamo più volte osservato^ immaginare che essa potrebbe essere al- trimenti. Come comprenderemo dunque le altre asserzio- ni dei metageometri, che, senza elevare dei dubbi suiresat- tezza delle proposizioni geometriche, abbassano queste ftf*oposizioni dal grado di verità necessarie a quello di contingenti ì « Dentro il cerchio della nostra esperienza, dice Baltzer, ha realmente luogo la geometria ordinaria, com'è stata formata dai Greci (in cui gli angoli del trian- golo e gli angoli interni delle parallele sono eguali a due retti), ma in sé potrebbe anche valere un altro caso della geometria astratta, che è stata ideata da Gauss, Lobat chewsky e Bolyai per tutti i casi. » {parie 4*, Prefazione) € Tutti i tentativi per dimostrare questa proiX)sizione (che gli angoli del triangolo sono eguali a 180^) dovevano ne- cessariamente riuscire vani, perchè in sé è pure ammis- sibile ripotesi contraria, cioè che in un triangolo, e quin- di anche nelle parallele, la somma degh angoli interni sia minore di 180" » {parte ^*, § 2, 7, IV), Sarebbe dunque possibile, sembra, che la somma degli angoli di un trian- golo l'osse minore di 18i>: questo è Tal tro* caso della geo- metria astratta, di cui la nostra, la euclidiana, non è che uno dei casi. Ma quando il Baltzer dice che nel cerchio della nostra esperienza vale quest'ultimo caso, parla solo dei triangoli reali, ed esclude i triangoli possibili ? No certamente, perchè egli dimostra che, se in un triangolo la somma degli angoli è uguale a due retti, lo sarà pure in tutti gli altri triangoli, cioè in tutti i triangoli possibili. Ma se in tutti i triangoli possibili la somma degli angoli è uguale a due retti, come sarebbe possibile che in un triangolo questa somma fosse minore di due retti ? quali sono dunque i casi in cui varrebbe, non la prima propo- sizione, ma la seconda? Forse questi casi si troveranno nei sistemi geometrici diflerenti dal nostro, che alcuni matematici moderni hanno costruito con un metodo puramente analitico, senza fon- darsi sopra alcun dato intuitivo (1). Beltrami ha, come si :sa, studiato con questo metodo una certa superfìcie, eh egli chiama pseudosfera : questa superfìcie non è possibile di rappresentarsela; essa non ha di pensabile che la sua de- finizione analitica, ma air infuori della stessa relazione analitica, non vi ha niente che vi corrisponda, sia nella realtà, sia neir immaginazione. La geometria di questa superfìcie è conforme all' altro caso della pangeometria di Lobatchewsky : se essa fosse chiamata piano, e le sue linee geodesiche (linee della più corta distanza fra due pun- ti) rette, essa sarebbe identica alla planimetria non euchdia- na. (Per avere un'idea di questa superfìcie, v. Helmholtz Assiomi della geometria, Tannery Ree. pJu'los. novembre 187(j e giugno 1877, Milhaud Rei\ p/dlos. giugno 88, Ca- linon la stessa rivista giugno 89, ecc.) Dalla possibilità di costruire analiticamentente dei si- stemi geometrici difl'erenti dal nostro, se ne è concluso espresamente che le nostre nozioni geometriche sono con- tingenti ed empiriche (nello stesso senso in cui è empi- rica una verità di fatto). «Gli assiomi, dice Helmholtz, su cui il nostro sistema geometrico è basato, non sono delle ve- rità necessarie, dipendenti solamente dalle leggi irrcfra- (l) Quaiuranclie si ammetta la possibilità di sistemi ireometrici differenti dal nostro, di spazi ciwin, come dicono i metagreometri, è chiaro che anche in questo caso grli assiomi e i teoremi della i?eome- tria eucUdiana sarel^bero sempre d' una verità universale. Se si ammette che il nostro spazio è piano, la retta, cioè la linea più breve fra due punti, di uno spazio cuvoo non sarebbe una retta nel nostro senso; e quindi i triangoli rettilinei dello spazio psea- dosferico non sareblìero ciò che noi intendiamo per triangolo ret^- tilineo. Sarebbe dunque sempre universalmente vero che gli angoli d'un triangolo rettilineo sono eguali a due retti. il 11 irìiliiWnlli SUI Cimiti i: i/oììgetto deij.a conoscicnìlv a priori 417 gabili del nostro intendimento. Al contrario diversi sistemi di geometria possono svilupparsi analiticamente con una consistenza logica perfetta. I nostri assiomi sono in realtà l'espressione scientifica d'un tatto d esperienza generalis- simo, cioè che nel nostro spazio i corpi possono muoversi liberamente senza alterazione della loro forma ». Ne segue che il nostro spazio é uno spazio di curvatura costante. Ma il valore di (juesta curvatura non può essere provato che per misure dirette (1). Lo stesso Tannery della Revuc p/illosop/ii(jue, quantunque non decisamente favorevole alle speculazioni dei metageometri, sembra opinare che queste speculazioni hanno provato la natura empirica e contingente delle nozioni geometriche. 11 concetto dello spazio, egli dice, è formato dair associazione di nozioni distinte, e ciuest'associazione non è necessaria. Ogni pro- posizione sullo S])azio è dunque contingente. La nozione della retta è, come quella del nostro spazio, un complesso di nozioni logiche distinte, la cui origine o almeno la cui associazione è empirica (perchè alla proprietà comune con la geodcsica dello spazi(ì pseudosferico si deve unire la pro})rietà ditìerenziale della retta reale, ed è solo res[>erien- za che può provare che (iueste due proprietà at)par(engo- no alla stessa linea — Ree. jt/u'l. giugno 1H77). (\) l\ fatto (Iella possibilità dello spostamento delle grandezze seriz" alterazione è espresso dai inatnnatici trascendentalisti con la foniiula che il nostro spazio lia uk coeffULente dì curcataia co- !<tante. Perclit' sopra una superlìcie data le ligure possano spostarsisenza alterazione delle dimensioni, la condizione è che il coeffi- ciente di curvatura, cioè l'inverso del prodotto del più grande per il più lìiccolo raggio di curvatura, sia costante su tutta l'esten- sione della superlìcie. La formula suindicata assimila dunque lo spazio a (jueste superlìcie. (Qui noi troviamo già la realizzazione di rpiest'astrazione: lo spazio, che si è a buon dritto rimproverata ai concetti della metageometria. V. Stallo La inateria e la fisica jnodcina cap. 13). Secondo i metageometri. come la possibilità dello §. 14^ Quello che simili opinioni perdono di vista é la natura comparativa, e non esistenziale, delle nostre proposizioni sullo spazio; di più esse trattano le astrazio- ni come fossei^o delle cose reali, o almeno degli oggetti distinti del nostro pensiero. Si suppone die lo spaziose le sue forme siano dati al geometra come dei fenomeni d\m altro ordine sono dati al fisico o al naturalista; che la geometria abbia per oggetto di trovare le leggi dei Jeno^ meni geometrici nel senso stesso in cui le scienze fisiche hanno per oggetto di trovare le leggi dei fenomeni fisici. Si parla come se lo scopo della geometria fosse di farci conoscere la natura dello spazio in cui vaiamo, le pro- prietà e la costituzione di questo spazio e delle sue forme spostamento delle ligure, ossia la costanza nel coenicienle di cur- vatura, determina una nozione generica dello spazio, cosi il valore di <piesto coeflìciente di curvatura determina questo o quello fra gli s].azi ])ossi])ili. Il vidore di questo coetììciente nel nostro spazio è 0, ossia il nostro spazio Spiano; ma possono anche esistere altri s[.azi (Hirl, con viilori diiVerenti del eoellìciente di curvatura, sia lujjsitivi (spazio sferico), sia negativi (spazio pseudosferico). Cia- scuno di questi spazi può formare l'oggetto di un sistema dhlei^ente di geometria. Il nostro s]ìazio è. secondo Helmoltz, una varietà a tre dimensioni, conirruente rajjjtorto a se stessa, e piana. (La con- gruenza è la possibilità dello spostamento delle figure). Ciascuna di (jueste tre ])roprietà dello spazio viene dehnita da certi assiomi o postulati, suirinsieme dei quali è fondata la geometria ordina- ria o eaclidiana. La planarità del nostro spazio é determinata da due di questi assiomi o postulati: 1. Fra due i)unti non vi ha che una sola retta (una linea della più breve distanza) possibile. 2. Per un i>unto può passare una sola parallela a una vetta data. Il primo assioma distingue lo spazio piano e lo spazio pseudosferico dallo sferico; il secondo distingue lo spazio piano dallo spazio pseudo- sferico. Quando i metageometri dicono clie il nostro spazio è i)iano, non intendono escludere assolutamente che esso possa essere pseu- dosferico o anche sferico. La proposizione che il nostro si)azio po- trebbe forse essere pseudosferico non è che un' altra espressione della proposizione di Lobatchewsky, che per un punto possono pas- sare più parallele ad una retta data. In quanto alla proposizione detcriniriate, il loro modo di esistere. Come ayyr/or/ (|ual- siasi ordine tra i lenomeni della natura sarebbe su[)i)oni- bile, ma Tosservazione soki ])uò decidere a quale di (que- ste supposizioni sia conforme il corso reale degli avveni- menti, cosi si ])retende che noi possiamo l'ormarci a />r/o- ri la nozione di ditl'ei'enti spazi o sistemi geometrici [)0s- sibili, ma la sola osservazione decide a (juale di <iueste possibilità sia conforme il nostro sistema geometrico, o lo spazio reale. Un ordine di osservazioni ci fa conoscere che il nostro è uno spazio a curvatura costante; un altro ordine d'osservazioni che esso non è uno sj^azio sferico ; un altro inline che esso non è nenmieno pseudosferico, ma piano. Ciascuno di questi risultati è espresso da un assioma geometrico; gli assiomi geometrici Iianno dun- que per oggetto di staljilire una determinazione dello spa- zio, un suo modo di com[)ortarsi, una legge fondamentale dei Huoi fenomeni. Ciò che si deve rigettare in queste asserzioni non è senqjlicemente la grossolana realizzazione dell'astrazione che esso è l'orse sierico, è qiicsfji una suii|>usizioiic i»iù forzata aii- €ora che quella di Lobatcliewsky. essendo la ue-zazionedeirassiouia che due reUe non ]H)ssono chiud<.'i'e uno spazio. t,)ui si può costa- tare [>iii chiaramente il le.uanie della i:eouieti*ia trascendentale con lopinione che. mentre {ili assiomi generali della matematica sono ivuramente loniei o razionali, e quindi necessari, al conti'ario quelli <lella ireomelria sono sperimentali, e «piindi «-onlinirenti, ciò die in altri termini è la stessa ]»roposizione di A. Gomte . che la ma- tematica astratta e una scienza i>uramente razionale, mentre la geometria fa parte della matematica conci'eta, ed è. come la mec- canica, una scienza fisica e s[>erimentjde. i,)uesta dottrina si ap- pogijria, come ab])iamo detto, sul fatto che il calcolo non voliie ch<^ su dei siml)Oli, ma la creometria su delle intuizioni concrete, ed è. quindi i>iii facile, per la iireometria, <li riconoscere lori.uine em]>i- rica delle sue generalità. Ma per gli assiomi generali delle mate- matiche si continua iu\ ammettere roi»ìnione comune che (piesti fiono d'una necessità }>uramente logicji e indipendenti djdl" es])e- rienza. « lo spazio », che esse presentano immediatamente : sen- za ricercare se questa realizzazione si trovi solamente nel linguaggio, o sia piuttosto inerente alle concezioni stesse, dei metageometri, supporremo che questa parola « lo spazio » sia un'espressione compendiosa per designare le forme date o rappresentate nello spazio, e ciò che si dice delle proprietà o della natura di un certo si)azio determinato, debba intendersi delle forme geometriche determinate che sono possibili in questo spazio, cioè in questo sistema di forme geometriche. IVIa anche cosi in- tese, siffatte proposizioni misconoscono il vero significata degli assiomi e dei teoremi della geometria, perchè ten- dono a riguardarli come giudizi esistenziali, che c'istrui- scono sulle qualità e la natura delle forme determinate che si trovano nel mondo della nostra esperienza. Abbiamo già osservato in più di un caso che (juando le proi)Osizioni matematiche si riguardano come esisten- ziali, una conseguenza inevitabile è di riguardarle pure come verità contimi eniì, essendo questo il carattere di ogni giudizio sull'esistenza. Questi tre punti di vista dun- cjue della matematica trascendentale, di considerare le verità geometriche come sperimentali, come contingenti, € comcì esistenziali, non ne fanno in realtà che uno; ed €SSOè legato, come già notammo, all'abuso delle astrazioni che fanno i matematici trascendentalisti. Qui noi ci tro viamo in presenza (F un apparente paradosso, cioè che delle opinioni risolutamente empiriste sulle nostre facoltà conoscitive vengono appoggiate sovra speculazioni emi- nentemente trascendenti. Si suppone, come abbiamo det- to, che degli spazi differenti o dei sistemi differenti di geometria siano egualmente possibili a priori, e di là si conclude che solo lesperienza può decidere quali di que- ste possibilità sia divenuta un'attualità. Qual é lo spazio in cui viviamo ? è T osservazione del mondo reale che deve rispondere a questa domanda, e la risposta viene formulata negli assiomi geometrici. Ecco come questi assiomi diventano al tempo stesso esistenziali, contingenti e sperimentali. II cardine della ciuistione è dunque se sia vero che* degli spazi o dei sistemi di torme geometriche ditì'erenti dal nostro siano possibili, cioè pensabili, per- ché qui non può trattarsi di un altra specie di possibilità. Su questo terreno i metageometri si sono trovati neces- sariamente di fronte alle dottrine kantiane. Kant, spie- gando Tapriorità delle proposizioni geometriche per Ta- priorità dello spazio, aveva anch' egli perduto di vista il significato puramente comparativo di queste proposizioni,, accostandosi al punto di vista che vede in esse una sorta di verità esistenziali. Trovando egli il fondamento della sin- tesi, contenuta nelle proposizioni a yjr/or/, in una funzione dello spirito, il quale esso stesso deve congiungere ciò che- poi si rappresenta come unito, la sintesi delle proposizioni geometriche è fondata per lui sulla sintesi anteriore che co- stituisce le rappresentazioni dello spazio. Quindi una propo- sizione geometrica non può essere per Kant che la traduzio- ne in una sintesi di concetti della sintesi contenuta nelle rappresentazioni spaziali ; e Y oggetto proprio di (jucste^ proposizioni non è una comparazione reciproca delle for- me geometriche o dei loro elementi, ma la descrizione-di queste forme, la conoscenza della loro costituzione e delle leggi secondo cui le proprietà, inerenti a queste forme considerate assolutamente, vanno accoppiate. Se la cono- scenza geometrica è a /)r«ori ed è necessaria, se noi pos- siamo in geometria formare delle proposizioni d'una uni- versalità assoluta, ciò avviene, secondo Kant, perchè le nostre rappresentazioni geometriche, cioè spaziali, sono costituite secondo una forma determinata dalle condizio- ni interne della nostra facoltà intuitiva, e non possono mai allontanarsi dal tipo prestabilito. Ecco dove Kant si trova in contraddizione con la geom.etria trascendentale: mentre egli fa dipendere il carattere necessario e a usi priori delle nozioni geometriche ordinarie dairimpossilji- lità in cui siamo di rappresentarci delle forme geometri- che ditlerenti, al contrario i metageometri dalla possibi- lità di rappresentarci queste forme differenti ne conclu- dono il carattere empirico e contingente delle nozioni geometriche ordinarie. Quantunque la tesi di Kant non sia per se stessa più vera deirantitesi dei metageometri, tuttavia nella quistione particolare se sia o no possibile la rappresentazione di forme differenti dal sistema geo- metrico ordinario, è certo die i principii fondamentali e lo spirito generale della filosofìa empirista danno ra- gione air idealista trascendentale contro i metageometri empiristi. Su questa quistione, la tesi kantiana appartiene al lato vero ed empirista del criticismo: è Timpossibihtà per il pensiero di oltrepassare i dati fenomenali od intui- tivi, la necessità di restare circoscritto e condizionato dai "limiti e dalle condizioni stesse dell'intuizione sensibile. Noi che al)biamo si lun£>amente dimostrato che non esistono idee astratte, e che non si pensa che unicamente per rappresentazioni concrete, non jìossiamo esitare a chia- mare parole vuote di senso delle pretese nozioni a cui non corrisponde alcuna intuizione (1). {[) Beltrami liti rapi>resentato i punti, linee e superllcie dello spa- zio pseiuloslcrico. ]>roiettan(loli sulPintemo d'una 8U[)erflcie sferi- ca del ?iostj'o spazio, i punti della (piale corrispondono ai inintl jnlìnitainente lontani dello spazio pseudosferico, in modo che le linee iieodetiche di cjuest" ultimo sono rappresentate, nelTinterno della sfera, da rette. Secondo llelmlioltz, noi perveniamo di questa ma- niera a rapprcsentarcc lo spazio ]>seudosferico. Eiili suppone che un osservatore del nostro mondo sia trasportato nel mondo i>seu- dosferico. « Dopo la sua entrata nella pseudosfera, quest'osserva- tore continuerebbe a riguardare i rairiri luminosi o le sue linee di visione come linee rette, così l)enc che nello spazio ]>iano, e come ^sse lo sono in realtà nella rapi>resentazione sferica dello spazio pseiidosferico. I/inunagine visuale degli oggetti nella pseudosfera r^li farebbe dunque la stessa impressione che se egli si trovasse al Un carattere speciale della matematica, e più propriamente del calcolo, è ciie alle cose stesse vengono sostituiti dei contro Mella sfera mp^rcj^erihUiva di HoUraini. Gli sonil)rerel)be oìic ^'li oì-^iretti più lontani lo attorniassero a una distanza finita, p. e. (li cento piedi. Ma se si i^ortasse sino ad essi, li \edreì)l)e esten- dersi dinnanzi a sé, e i^iìi in profon<lifà cìie in supei-ficie : dietro di lui al contrario si restrin^^ei'ei)l>ero. Se e-iii avesse visto due li- nee rette, clie ixli i>aressero pai'allele sino a «juesta distanza di cento piedi, «love il mondo finisce per lui, avvicinandosi, riconoscerebbe clie, per «juesta estensione dejili o^^'retli che si avvicinano, esse si allontanano tanto più quanto più euli si avanza: dietro di lui al con- trario la loro distanza seml)rerebl)e diminuire, in modo che esse parrel)l>ero di i>iù in i»iù divergenti e lontane luna dallaltra. Due linee rette clie . <lalla i>rima posizione, iili fossero juirse tai-diaisi in un solo e slesso punto dietro di lui a una distanza di cento p.iedi, fare])l>ero ancora lo stesso, ed e^rli avrebbe un l>eir avvicinarsi, non attinprerebbe mai il punto d'intersezione ». Con (juesta supi»osizione, secondo Helmholtz. noi ci rupin esini- ti(itiìi) lo spazio pseudosfeiico. Non ne^^a ei^di clic la rappresenta- zione sui»poniia un elemento sensoriale: « i-er l'espressione di rap- ]>reseidarsi. eiili dice, o di essere in irrado di lì,i:urarsi ciòclie av- viene, io intendo la facoltà d'immaiiinare la serie intera delle im- pressioni sensoriali die si ]>roverebbero in questo caso ». La defi- nizione di llelmlioltz è ^riusta, ma alla condizione die noi suppon- gliiamo die le nostre impressioni sensoriali siano la riproduzione esatta di ciò die noi diciamo Poiiiietto esteriore. Se (|uesta corri- spondrMiza fra la natura deiro.Hixetto e le percezioni dei nostri sensi non esiste, noi possiamo «svolirere» (comejiii di<*e) (juanto voj:rliamo «la serie delle impressioni sensoriali die esso ci fornirebbe ». non avremo mai la rappresentazione di questop^pretto. I/inconoscibile, che la più i>arte dei filosotì attuali e lo stesso llelmlioltz ammet- tono come la causa e l'oir^^ctto esterno delle nostre sensazioni, è l»er noi irrappresental)ile ed inescogitabile, quantunque noi svoliriamo continuamente la serie delle impressioni sensoriali die esso ci for- nisce. Al fondo, per concei>ire un oguetto esteriore, noi non facciamo nitro die obbiettivare le nostre percezioni : se cpieste percezioni sono varie e tali clic non potrebbero al temito stesso attribuirsi alio stesso oggetto, noi ne scegliamo (lualcunaela realizziamo, alfesclusione delle altre. Cosi un oggetto visiliile presentandoci diverse apparenze secon.lo la distanza da cui lo guardiamo, è l'apparenza che essa simboli e il nostro pensiero ordinariamente non va al di là di questii simboli medesimi. (1) Le parti più elevate della ci presenta quando siamo in prossimità, che noi obbiettiviamo. L'os- servatore dumpie del mondo pseudosferico non potrebbe compor- tarsi altrimenti, in presenza bielle apparenze cangianti e contrad- dittorie che gli presenterebbero gii oggetti della pseudosfera, s'egli volesse farsi un'idea della natura reale di questi oggetti. Egli pen- serà che (pieste apparenze cangianti e contraddittorie non potreb- bero essere tutte degli stati delf oggetto reale in un solo e stesso momento della sua esistenza, e si domanderà a «juale di (lueste percezioni, o se non a nessuna di esse, a quale delle immagini che egli i)0trà mentalmente costruire, attribuirà la realtà obl)iettiva. S'egli non ]>erverrà a rispondere a «luesta domanda d'una maniera soddisfacente, che gli desse un'interpretazione coerente delle ap- parenze del mondo strano in cui egli si è smarrito, concluderà o che le forme reali degli oggetti sono per lui inconoscibili, o che non vi hanno forme reali, ma che le forme, in (piel mondo, sono puramente relative al punto di vista dellosservatore Se ])oi (piest'osservatore volesse considerare le forme a lui esi- bite, non più come fisico o come filosofo, ma semplicemente come geometra, la «piistione della realtà di (jueste forme non avrebbe più importanza per luì: la geometria considerando una forma per se stessa e nella maniera determinata in cui esiste o può esistere in un momento indivisibile della durata, l'oggetto del suo studio come geometra sarebbe l'apparenza presentata da un oggetto a un momento determinato, considerata singolarmente. Siccome queste forme apparenti non si allontano mai, considerata ciascuna per se stesso, dal tipo eacUd/ano, così la sua geometria non potrelibe essere che eacUdiana. Se dunque i fenomeni osservati nel mondo Xìseudosferico sarel)bero fìlmicamente dilTerenti dai nostri (in (juanto si seguirebbero in un ordine dilferente), non esisterebbe, al con- trario, per l'osservatore, differenza alcuna al jamto di vista ])ura- mente fjeonieti'fjo. Svolgendo perciò la serie delle impressioni sen- soriali che il mondo pseudosferico fornirebbe al nostro osservatore, noi non ci rappresentiamo lo spazio pseudosferico, per la semplice ragione che nemmeno egli, lo stesso osservatore, se lo rappresen- terel>be. (l) «La perfezione del linguaggio dell'aritmetica e dell'algebra consiste nella sua ajtpropriazione completa ad un uso puramente meccanico. . . Ogni operazione sui simboli corrisponde a un sillo- gismo, l'appresenta un passo d'un ragionamento, relativo, non ai nostra conoscenza non potrebbero fare a meno di un si- stema api)ropriato di simboli: quando si è un po' appro- fondita la natura del pensiero, si vede che il linguaggio e in generale i segni non sono solamente i mezzi per co- municare le idee, ma sono anche indispensabili alle ope- razioni più elevate deirintelligenza. La matematica ne è il migliore esempio. 11 carattere eminentemente simljolico del ragionamento matematico non dipende semplicemente dal sistema di segni estremamente semplici e precisi che questa scienza ha a sua disposizione, ma è t'ondato sulla natura stessa delle nozioni che tanno l'oggetto di questa scienza. Già anzitutto le nozioni quantitative non sono fissate che per mezzo di simijoli, non i)Otendo noi immagi- nare le cose, al i)unto di vista della quantità o della gran- dezza, d'una maniei'a cosi adequata e precisa, per Fuso del ragionamento, come al punto di vista della (pialità. Inoltre, un rapporto di eguaglianza non essendo altra cosa €he la percezione di questa eguaglianza, tutte le volte che noi non possiamo ettettuare, sia nella realtà, sia per Tiui- maginazione, una comparazione attuale fra le grandezze, o immediatamente ira di loro o con l'unità di misura co- mune, il rapporto affermato non ò rappresentato d' una maniera ade(iuata, ma d'una maniera più o meno simbo- lica (confr. cap. 8^' S 2% Lo stesso deve dirsi per le egua- glianze dei numeri. Non c'è bisogno di aggiungere clie le quantità incognite che entrano nel calcolo sono necessa- riamente delle nozióni simboliche. Ma questo processo non deve fare <limenticare che ai simboli corrispondono delle cose, reali o possibili, e che ai rapporti tra questi simboli siinholi, ma alle coso che essi clesiuiiaiio. Ma sìccuino si e avuto il mezzo di creare una forma tecnica, mediante la (fuale si è si- curi di trovare la conclusione del raiiionamento, si può i)erfetta- mente arrivare allo s(.*oi)o senza pensare ad altro che ai simboli». Mill Logica lil). IV e. VI j^ (>. corrispondono dei rapi)orti fra queste cose — queste cose essendo gli oggetti di i)ercezioni che noi abbiamo avuto o avremo o potreuniio avere in date condizioni—. Esso sa- rebbe completamente vano, se ai simboli non si potessero finalmente sostituii^e delle percezioni, attuali o possibili : è per la possibilità di questo scambio che i simboli hannc» un valore. Noi abbiamo, in un capitolo precedente, para- gonato le nozioni astratte e generali a degli effetti com- merciali, il cui valore è puramente convenzionale, il va- lore reale non appartenendo che alla moneta e alle merci con cui essi possono scambiarsi. A ciie bisognerà dunque paragonare una nozione astratta, cioè una combinazione di simboli, a cui non corrisponde intuizione alcuna? ad un effetto cambiario, che nessuno vorrà accettare per pa- gamento. Un l)anchiere potrebbe averne piene le casse, non sarebbe perciò più ricco d'un centesimo. Tutte le spe- culazioni metaempiriche, che esse siano chiamate meta- matematiche o metafìsiche o con qualsiasi altra parola che si potreljbe foggiare con lo stesso prefìsso, si trovano nello stesso caso. Le s'^ienze di fatto non sono, come la mate- matica, soggette a (juesta illusione di dare un valore reale a ciò che non ne ha che uno convenzionale : è che que- sta sostituzione completa dei simboli alle cose non avviene che nella matematica. Si è detto che la mitologia è una malattia del linguaggio : quantunfjue non sia forse conve- niente ad un non matematico di esi»rimersi su (lueste ma- terie in una forma cosi decisa, noi diremo che la meta- matematica, (juesta mitologia dei matematici, è una ma- lattia del linguaggio matematico (1). (1) Noi non do))l)iamo per altro rinunziare a vedere anclie nelle speculazioni metageometriclie . come in tutte le speculazioni me- taempiricbe in generale, un prodotto, assai indiretto in verità, delle illusioni naturali del nostro spirito. Abbiamo accennato die il fon- damento su cui riposano le speculazioni sulla pangeometria, sullo spazio pseudosf'erico. ecc., è la dottrina comunemente ricevuta die 42f; .^ 15.^ Il carattere di necessità e di apriorità che ap- partiene alle matematiche pure, è legato col latto che que- ste scienze escludono, sia dalle loro premesse, sia dai loro risultati, qualsiasi proposizione esistenziale, che non può essere che contigente e sperimentale, e non v' includono alti'e verità che dei rapporti comparativi. Le verità diquest'ordine sono logicamente indipendenti dalle esisten- ziali, ma esse i)Ossono ibrmare, anzi (ormano necessaria- mente, dei punti di partenza per la inferenza di queste: di là il i^osto delle conoscenze comparative nella economia del sapere umano. Cosi le matematiche sono logicamente indipendenti dalle scienze che hanno per oggetto Tordine dei tcnomeni reali; mentre, al contrario, le seconde sup- pongono la conoscenza delle prime. Gli autori di classa- zioni delle scienze assegnano il loro posto alle matema- tiche, Ibndandosi sulla generalità o sulla semplicità più ^'li assiomi della inateniatica sono fondati, non sulla generalizza- zione dell' esperienza, ma soprn una necessità pui'amente logica; donde i tentativi di dimostrare il principio della teoria delle paral- lele, e il riliuto, dopo l'insuccesso di questi tentativi, di riconoscere in esso il carattere assiomatico. Ora la dottrina clic gli assiomi ma- tematici si fondano sopra una necessità logica, non è che un caso «li (iuella più generale che tale è il fondamento di tutte le verità dichiarate necessarie, e questa alla sua volta non è, come sapiùamo, che una trasformazione di quello che abbiamo chiamato il sofisma a priof'i della psicologia intuizionista. Il legame della metageome- tria con questa dottrina Hlosofica sembra, nel fatto, incontestabile, llelmholtz crede, come abbiamo visto, che i princii)ii comuni delle matematiche derivano dalle « leggi irrefrag(d)ili del nostro inten- dimento ». e che essi si ricavano dalla nozione stessa del numero e <leireguaglianza numerica. Le idee filosofiche di Riemann sono analoghe al principio su cui sono fondati i sistemi di Platone, di Spinoza, di Hegel, di Taine, ecc. (i>rincipio che collima con la dot- trina analitica dei giudizi a y>/YO/x spinta alle sue conseguenze ul- time): egli ammette che «la connessione delle cose, o la maniera di cui la natura tira dehe conseguenze, corrisponde all'incateha- inenlo logico dei concetti nel i>ensiero ». grande del loro oggetto, ed anche Aristotile attribuiva a questa circostanza la superiorità logica che le distingue (v. Metafisica, lib. XIII, e. 3,^ G). Ma vi ha un' altra ra- gione più decisiva perciiè esse deljbano occupare il primo posto in una distribuzione delle scienze, che voglia segui- re l'ordine di dipendenza fra le conoscenze: è (juesta re- lazione generale, che noi abbiamo indicata, fra le cono- scenze comparative e le esistenziali. Noi abbiamo visto che la matematica ha })er oggetto dei* rapporti di somiglianza, ma dei rapporti (iejìnitl di somiglianza : questi sono o delle classazioni o delle egua- lianze. D' una maniera generale possiamo dire che ogni verità importante, consistente in rapporti comparativi, si riduce a stabihre delle classazioni o delle eguaglianze : è che soltanto queste due specie di relazioni Jianiio un'im- poi'tanza per la previsione dei fenomeni reali; poiché, da una parte, la conoscenza dcirordine, cioè delle uniformità, della natura suppone Tesatta nozione delle classi, e dal- l'altra parte, in quest'ordine, tutti i rapporti, dai più evi- denti ai più riposti, implicano delle relazioni quantitative. i:^ 10.^' Non vi ha altra scienza, oltre le matematiche pure, che abbia per oggetto dei rapporti necessari e co- noscibili a priori Potrebbe sembrare forse che tale sia la logica formale: ma questa concerne i rapporti, non tra le cose, ma tra le proposizioni, in quanto vi ha una dipendenza fra la verità di ciu'te asserzioni e r[uella di certe altre, giusta le regole della coerenza o, come dicono i logici inglesi, della consistenza, che sono i principii d'i- dentità e di contraddizione. La logica formale dunque, non essendo governata che da questi [)rincipii, si aggira neìYidera per idem, e rinferenza, in cjuanto è l'oggetto di (luesta parte della logica, non è che un'inferenza appa- l'cnte, pei* cui la conoscenza non fa alcun vero progresso. Le necessità con cui ha da fare la logica formale, si ri- ducono quindi a (jnella di evitare la contraddizione; non sono delle connessioni necessarie tra fatti distinti, o tra verità distinte: cosi esse restano fuori dell' argomento di questo capitolo, in cui non si tratta che delle necessità subiettive che rappresentano delle necessità obbiettive (benché i fatti, che queste legano, siano in |)arte anch'essi subbiettivi), e che, come tali, costituiscono dei giudizi e delle conoscenze reali. Le verità necessarie e a priori, che si trovano fuori della matematica, sono generalmente, non d'inferenza, ma intuitive; e si riducono quasi tutte (quelle che non si limi- tano ad enunciare che A somiglia a B o ne differisce) al- l' alTermazione di cassazioni o esclusioni da classi. Noi potremmo chiamare questa sorta di verità delle proposi- zioni analitiche, intendendo con ciò di conformarci aira])- plicazione più abituale di questo termine, purché non si dimentichi che una proposizione analitica non vorrà già dire per noi l'espressione di un giudizio in cui l'attributo è contenuto nel soggetto, come pretcn.jono i concettualisti, ma una proposizione d'una conoscenza intuitiva, che non implica altro se non delle classazioni o esclusioni da classi. Questa sorta (U proposizioni non sono, a gradi diversi, che una complicazione della semplice affermazione in cui non si pone altro che la somiglianza o la difl'erenza fra due cose. Il caso più semplice è il giudizio di percez^ione; p.e.: «Questa cosa che io vedo é un pomo » Bisogna av- vertire die questa proposizione, come tutte quelle dello stesso genere, può avere due sensi dilìérenti. Dall' im- pressione che fa sulla mia vista la superficie del pomo, io posso inferirne che, con questa proprietà particolare che é r oggetto della mia sensazione attuale, coesistono tutte le altre proprietà del pomo, che io ho trovate costan- temente associate con la prima. Questo é un giudizio esi- stenziale, che é perci('> contingente a a posteriori. La })ro- posizione indicata non é dunque necessaria ed a priori, se non in quanto essa esprime che la cosa percepita, date I tanto le sue proprietà che io percepisco attualmente, quanto quelle che sono oggetto d'inferenza, deve classarsi tra ipomi. Noi abbiamo un caso alquanto più complesso, se il soggettoè, non particolare, ma generale; p.e.: «L'uomo é un animale.» Tali proposizioni potrebbero considerarsi come le enuncia- zioni di dipendenze fra due classazioni. Noi dobbiamo qui ri- petere l'osservazione antecedente: «L'uomo é mammifero » può esprimere sia che l'uomo ha quelle particolarità dell'or- ganizzazione che si trovano in un mammifero, sia che esso, avendo già conosciuto che egli ha queste particolarità, deve classarsi tra i mammiferi. ( Confr. e. 1^ § 12, e e. 2*^, § 14, 2^). Vi ha un caso speciale, di cui dobbiamo fare men- zione, perchè potrebbe tirarsene un' obbiezione contro la teoria nominalista. È quando l'attributo non può denotare altri oggetti all' infuori di quelli stessi che sono denotati dal soggetto. Sia p. e. questa proposizione : « Gli oggetti colorati hanno un'estensione visibile *. Non vi hanno al- tri oggetti che abbiano un' estensione visibile tranne gli oggetti colorati, il colore e 1' estensione visibile essendo d' altronde, non gli oggetti di due percezioni distinte, ma di una sola e indivisibile percezione, in modo che noi non potremmo separare queste due qualità se non per un'as^ra- zione. Tuttavia la proposizione non enuncia altro che del- le classazioni di oggetti concreti con altri oggetti concre- ti: essa significa che ogni oggetto, il quale può classarsi sia fra i bianchi sia fra gli azzurri sia fra i rossi ecc., può anche classarsi sia fra i lunghi sia fra i corti, sia fra i larghi sia fra gli stretti, sia fra gli alti sia fra i bassi, ecc. Un altro caso di affermazioni disgiuntive di classazione si ha nelle proposizioni di divisione, cioè nelle quali si divide un genere nelle sue specie. Alcuni concettualisti vi hanno visto una sorta di giudizi analitici, in cui il sog- getto viene decomposto, non secondo la comprensione, ma secondo V estensione. Ma in realtà esse non enunciano se non che tutti i particolari, i quali si classano sotto il ge- nere, si classano altresì sotto Tuna o Taltra delle specie. (Queste proposizioni sono necessarie ed a priori, quando non implicano alcun'atlermazione sull'esistenza . «r Una se- zione conica è un' ellissi, un'iperbole o una parabola » : qui si tratta di oggetti semplicemente possiljili, quindi la proposizione è necessaria. Ma: « I vertebrati sono mam- miteri, uccelli, rettili o pesci » ; la proposizione è contin- gente e s[)erimentale, perchè implica Tatlbrmazione che queste classi, e soltanto queste, dei verteìjrati esistono. Una divisione di oggetti reali, la (pale esaurisca tutti i pos- sibili, come ({uesta : « Gli animali sono verteìjrat i o in- vertebrati », è necessaria, soltanto se non implica Tafter- niazione che tutti i membri della divisione esistano eflet- tivamente. La dieresi di Platone trattava i reali come i I^ossibili : questo filosofo, come spiegheremo nel 2^ Sag- gio ( parte l-', cap. 7" ), i)retendeva di possedere un me- todo, per cui si i)Oteva, i)er la semplice divisiono progres- siva dei concetti, partendo da un concetto primitivo, il più universale di tutti, la cui realtà era data a priori, pervenire alla scoverta di tutte le specie reali ( Idee ) com- j)rese sotto (juesto concetto, e quindi alla conoscenza a priori di tutto il reale. Noi possiamo considerare come un altra varietà delle proposizioni analitiche (di classazione) quelle che atl'erma- no la dipendenza fra due termini correlativi: « Il superiore sui)|:>one Tinleriore », <^ Il monte sup[>one la valle » Desi- gnare un oggetto per un nome implicante una correlazio- ne, è assimilare quest'oggetto ai termini omologhi di una data classe di coppie di correlativi, il che suppone che roggetto è considerato in correlazione con un altro, il qua- le alla sua volta può essere assimilato agli altri termini a sé omologhi delle coppie di correlativi della classe data, ed essere designato, quindi, per il nome opposto. Cosi Tat- fermazione contenuta in una proposizione come quelle che abbiamo citate, é che se un oggetto riceve il nome d'un correlativo, un altro oggetto, con cui viene paragonato e che noi ci ra|)presentiamo simultaneamente con esso, deve ricevere il nome deiralti'o correlativo. La proposi- zione dunque non esprime che una dipendenza necessa- ria Tra due classazioni. Il principio hegeliano che gli O])- ])Osti si implicano reciprocamente, e che data l'esistenza dell'uno è data per ciò stesso quella dell'altro, può riguar- darsi come una generalizzazione del latto contenuto nelle cori'elazioni di cui abbiamo Ciarlato, con la pretesa di esten- dere, per questo mezzo, alle conoscenze sull'esistenza la stessa connessione necessaria ed a jtriori che si trova in questa classe di giudizi sulla somiglianza. I gruppi indicati di proposizioni analiiic/tc sono uno sviluppo dell'atlei'mazione di somiglianza; un altro grupjMj, che si potrebbero chiamare proposizioni analitic/te ncf/ative, es[)rimono invece delle affermazioni di differenza. Noi con- siderereuio soltanto (juelle il cui soggetto è un termine ge- nerale. Tali sono }>. e.: «L'uomo non ò un bruto», «Il cerchio non è quadrato ». (Queste proposizioni non enun- ciano, come abbiamo già detto, che delle esclusioni da classi, cioè che gU oggetti che ai)partengono all'una delle classi (uomo, cerchio, ecc.) devonr) essere esclusi dall'al- tra classe 0>i'uto, (juadrato, ecc.). Il senso della i)roposi- zione è al l'ondo lo stesso, se invece di dire: «Il cerchio non è quadrato, noi diciamo: « l'na cosa non i)uò essere cerchio e (piadrato », cioè la llgura circolare e la figura quadrata sono due attributi non compatibili nello stesso soggetto. Non bisogna vedere in una simile proposizione im giudizio esistenziale negativo, cioè la negazione del-l'esistenza di un cerchio quadrato: ciò di cui si neghereb- be l'esistenza in questo caso, sarebl)e un impossibile lo- gico, vale a dire una cosa di cui non possiamo formarci nozione alcuna (Impossihiìe, dice W oli*, est ciijm nullani notionera formare posswnus). Ma noi non possiamo port lì ì -tare alcun giudizio su ciò di cui non possiamo avere al- cuna idea: quindi non possiamo, a parlar rigorosamente; negarne l'esistenza, ix)ichè perciò bisognerebbe pensarlo e averne l'idea. Ciò in realtà che una simile proposizio- ne enuncia non è duncjue che delle esclusioni da classi: cioè che tutti gli oggetti possibili, vale a dire che noi pos- siamo rappresentarci, a cui convenga il nome di quadrato,, o in altri termini, appartenenti alla classe dei quadrati,, non possono far parte della classe dei cerchi; e vicever- sa tutti gli oggetti possibili, cioè rappresentabili, apparte- nenti alla classe dei cerchi, non possono far parte della classe dei quadrati. Quando noi non possiamo rappresen- tarci alcun oggetto, il quale appartenga al tempo stessa a due classi date, i nomi delle due classi si chiamano at- tributi incompatibili; tali sono: uoìao e bruto, cerddo e quadrato, tutto bianco e tutto nero, ecc. Se invece noi possiamo rappresentarci che uno stesso oggetto apparten- ga alluna e all'altra di due classi distinte, comeKjuadra- io e grigio, o ^fìlosofo e j^oeta, i termini che indicano que- ste classi sono degli attributi ditlerenti, ma non incompatibili. Due attributi digerenti possono non mai trovarsi uniti nella realtà, p. e. moneta e combustibile; ma da ciò non se^ue che i due atti'ibuti siano incompatibili, nel senso logico di questa parola, una moneta combustibile non essendo un impossibile logico, cioè una cosa irrappresentabile. Cosi la proposizioìi. : <c Lna moneta non è combustibile », è una proposizione esistenziale, die nega l'esistenza di certi latti; ma la proposizione : « Un cerchio non è quadrato » è com- parativa e non esistenziale, perchè, come abbiamo detto, un impossibile logico, cioè un impensabile, qual è un cer- chio quadrato, non può essere oggetto, rigorosan^ente par- lando, né di atì'ermazione né di negazione. Alle proposizioni che abbiamo indicate aggiungeremo infine quelle che enunciano una defìninizione : esse com- binano l'atiermazione di una somiglianza, cioè l'inclusio- * ne in una classe, con quella di una ditlerenza, cioè l'e- sclusione da una classe. Uno dei termini della definizione, il genere prossimo, dà la classazione della cosa definita; l'altro termine, la differenza specifica, indica clie essa dif- ferisce, in un eerto punto, da tutte le altre cose apparte- nenti alla classe, e che tutte queste altre cose differisco- no, in questo punto, da essa, e non possono comprendersi nell'altra classe indicata da questo secondo termine. No- tiamo che una proposizione che avesse per attributo la sola differenza specifica, come « L'uomo è ragionevole », sarebbe piuttosto l'espressione di un giudizio esistenziale che di un giudizio analitico o di classazione: ma quando lo stesso attributo viene a far parte di una definizione, noi abbiamo una proposizione analitica (nel nostro senso), perchè la forma stessa della proposizione ci indica che il suo scopo non é di far conoscere che l'uomo possiede la ragione (affermazione esistenziale), ma di distinguere l'uomo, assegnando come nota differenziale questa pro- prietà, elle si suppone già conosciuta anteriormente alla definizione. § 17/^ Non crediamo inutile di presentare ora sotto una forma più generale un'osservazione che ci è occorso di fare più d'una volta; ed è che per distinguere le verità necessarie dalle contigenti, e vedere che le prime sono un sinonimo di .giudizi comparativi o sulla somiglianza, bi- sogna accuratamente separare, nel senso di una propo- sizione, ogni affermazione esistenziale che può esservi implicata. Se io dico: «questo colore è simile a quest'al- tro », è evidente che la mia affermazione è necessaria ; ma se iodico invece: «il colore di questo fiore esimile al colore di questa carta », la mia proposizione, quantunque enunciante una somighanza, potrebbe non sembrare ne-^ cessar ia : ciò è perchè questa carta e questo fiore potreb- bero avere, non questo colore determinato che effettiva- mente hanno, ma un altro, e la coesistenza di questo co- mmmtiàf loro con lo loro altre [)roì)rietà essendo una verità esi- stenziale, non è roggetto di un' airermazione necessaria. Vi hanno anclie dei casi in cui la proposizione enuncia un ra[)porto comparativo, p. e. un'eguaglianza, e tuttavia non ò che contigente: ciò è perchè essa non ha per og- getto di esprimere il risultato di ima comparazione, ma una se(]uenza unitbrme tra fatti, di cui il conseguente si trova costantemente con Y antecedente in un rapporto comparativo determinato. Cosi sarebbe un errore di ve- dere dei giudizi comparativi nelle proposizioni che stabi- liscono che, in ogni comunicazione del movimento, Tazio- nò è uguale alla reazione; che, nella ritìessi(3ne della lu- ce, Tangolo di riflessione è uguale all'angolo d'incidenza; ecc.: (jucsti teoremi non si limitano, come (pielli della ma- tematica pura, a staljilii'o s(implicomente dello eguaglian- ze, senza niente atlermare sull'esistenza dei l'enomeni rea- li, ma invece stabiliscono una leggo della natura, un raj)- porto di seciuenza unilbrme tra fenomeni reali, e sono quin- di dei giudizi, non comparativi, ma esistenziali. i:?. 18." I risultati a cui siamo pervenuti sulla natura e l'origine delle conoscenze, della matematica pura e, in gè- nerale, delle verità necessarie, ci hanno posto a un punto di vista centrale, da cui possiamo vedere che vi ha un lato di verità in tutte le dottrine stabiUte sullo stesso sog- getto. La dottrina che vede in esse delle proposizioni ana- litiche ha un lato vero, in quanto vi ha realmente un'iden- tità di natura ira tutte queste proposizioni e quello che Kant chiama analitiche, essendo tutte, come queste ultime, dei giudizi comparativi, a cui [)Ossiamo pervenire per il semplice esame delle nostre idee: l'errore di questa dot- trina è di credere che queste proposizioni siano fondate sui principii d'identità e di contraddizione, e che basti de- ' comporre il soggetto per trovarvi il predicato. La dottrina Kantiana dei giudizi sintetici a priori ha ragione di ve- dere nell(^ proposizioni matematiche dei giudizi, non ana- L litici, ma sintetici, e dei giudizi a priori: l'errore di Kant è di credere che essi siano fondati sulle forme a priori della conoscenza, e propriamente dell'intuizione. La dot- trina empirista, nella sua forma ordinaria, ha ragione di animettere che ogni verità d'inferenza non può essere che un'induzione, cioè un'estensione dell'esperienza passata: ma essa ha più o meno misconosciuto la differenza fra i giu- dizi sulle sequenze e le coesistenze e quelli sulle somi- glianze e le differenze; non ha compreso abbastanza che per quest'ultima classe di giudizi l'esame delle nostre rap- presentazioni può sostituire quello delle cose rappresentate. E in generale l'errore di tutte le dottrine dominanti è di non aver compreso clie è a questa circostanza speciale ai giudizi comparativi, e per cui essi si destinguono dagli esistenziali, a questo fatto si ovvio dell'osservazione in- teriore, che si deve la distinzione dei giudizi in a priori e a posteriori, in necessari e contingenti. Si sarebbe quasi tentati di dire come Condillac: (1) Bisogna che questa sia una verità assai semplice, perchè alcun filosofo non lab* bia conosciuta. (1) Logica, parte II, e, IX. ?;^^zira2r^ il GAP. VII. Dottrina dei filosofi empiristi sulle verità necessarie. § l*^. Dopo di avere stabilito che la distinzione tradizio- nale di due ordini di verità, le necessarie e le contingenti, è in un senso fondata, e che le prime equivalgono ai giu- dizi comparativi e le seconde ai giudizi esistenziali, ci resta a difendere la nostra proposizione contro alcune dottrine contemporanee, che essendo sostenute dai rappresentanti più illustri della scuola empirista, non ci sarebbe possibile di passare sotto silenzio. I partigiani più risoluti della teoria empirista, nei limiti in cui essi hanno ammesso delle verità necessarie, hanno ordinariamente cercato di spiegarle per le leggi dell'asso- ciazione delle idee. « Vi Jia delle idee, dice lames Mill, che per la frequenza o la forza dell'associazione, sono si stret- tamente combinate ch'esse non possono più essere sepa- rate. Se runa esiste, le altre esistono a lato di essa, a di- spetto degli sforzi che si possono fare per separarle ». John Stuart Mill adotta la dottrina del padre, e, come gli asso- ciazionisti inglesi in generale, spiega per la legge di associazione inseparabile tutte le necessità del pensiero. La nostra incapacità di Ibrmare una concezione nasce sempre, egli dice, da ciò che noi siamo l'orzati di formarne una contraddittoria alla prima, ed è da un associazione inse- parabile fra le idee che noi vi siamo forzati. Noi fnon ix)s- siamo concepire un quadrato rotondo, perché, nella nostra esperienza, accade costantemente che a un momento in cui una cosa comincia ad essere rotonda, essa cessa di essere quadrata, di sorta che il cominciamento d'una im- pressione é inseparabilmente associato alla cessazione del- laltra. Noi non p<jssiamo concepire che due e due facciano cinque, perché un'associazione inseparabile ci forza a con- cepirli come facienti quattro, e non si può concepirli come facienti al tempo stesso quattro e cinque, perché quattro e cinque, come il rotondo e il quadrato, hanno fra di loro nella nostra esperienza dei rapporti tali che Tuno é asso- ciato alla non esistenza attuale dell' altro. Noi non pos- siamo concepire che due linee rette chiudano uno spazio, perchè le parole chiudere uno spazio significano che esse si ravvicinano e s'incontrano una seconda volta, mentre r immagine mentale di due linee rette che si sono una volta incontrate é inseparabilmente associata alla rappre- sentazione della loro divergenza definitiva. In tutti questi ed altri casi analoghi, noi non avremmo alcuna difficoltà. a riunire le due idee che si suppongono incompatibili, se- la nostra esperienza non avesse dapprima associato, d'una maniera inseparabile, Tuna di esse a quella che contrad- dice r altra. (Filos. di Hamilton, cap. VI, traduz. frane pag, 82-83). I partigiani della scuola intuitiva hanno obbiettato con- tro questa spiegazione delle verità necessarie, che essa non spiega come altre associazioni, pure cosi frequenti ed uniformi, non producono lo stesso sentimento di neces- sità. Noi abbiamo sempre visto, dicono questi avversari dell'associazionismo, che una pietra s'immerge nell'acqua^ I 1* e non abljiamo mai visto ciie essa vi galleggi ; tuttavia niente e' impedisce di concepire che una pietra, lanciata neir acqua, resti a galla. La percezione del fatto che il fuoco brucia non è certamente meno frequente dell'altro che due parallele non chiudono uno spazio : tuttavia noi non stentiamo a concepire degli esseri umani, che resta- no in una fornace ardente senza essere bruciati. Il Mill risponde a questi fatti obbiettati alla sua dottrina, che es- si trovano la loro spiegazione nelle associazioni contra- rie. Quantunque noi non abbiamo mai visto un uomo re- stare nel fuoco senza essere bruciato, il soggiorno nel fuoco non é inseparaljilmente associato con la distruzio- ne, perché noi abbiamo visto molti altri oggetti immer- si nel fuoco resistere alla sua azione. La concezione d'un uomo nel fuoco e non bruciato non oltrepassa i limiti del- la facoltà essenziale dell' iminaginnzione, che consiste a cangiare (leggiermente in questo caso) le combinazioni mentali degli elementi che l' esperienza ci fornisce. Le associazioni realmente irresistibili sono quelle che non sono state mai controbilanciate da associazioni contrarie. Cosi noi non abbiamo visto una pietra galleggiare, ma abbiamo l'abitudine costante di vedere delle pietre o al- tri corpi, che hanno la stessa tendenza a sommergersi, restare in una posizione clie essi abbandonerebbero, se non vi fossero mantenuti da una forza invisibile. La som- mersione della pietra non é che un caso della legge di gravità, e noi siamo abituati a vedere la forza della gra- vità controbilanciata. Tutti i fatti di questa natura che noi abbiamo visto e inteso rapportare, sono prò tanto de- gli ostacoli alla formazione dell'associazione inseparabile che c'impedirebbe di concepire una violazione della legge del peso. La rassomiglianza è un principio d'associazio- ne cosi bene che la contiguità; e per quanto contraditto- ria una supposizione possa essere alla nostra esperienza in Iute materia, se la nostra esperienza in alia materiaci offre dei tipi che presentano una rassomiglianza, lon- tana anche, col preteso fenomeno, quale esso sarebìje se fosse realizzato, le associazioni formate sott(j l'influenza di questi tipi, impediranno in generale le associazioni spe- cifiche di prendere un' intensità e una forza cosi irresi- stibile, che la nostra immaginazione non ix)ssa più figu- rarsi la supposizione sotto ima forma calcata sull'uno o Taltro di questi tipi ( Filos. di Hamilton, cap. XIV, trad. frane, p. :U7-318). Gli stessi critici hanno fatto un'altra obbieziiìne, diret- ta contro l'origine sperimentale delle verità necessarie : la proposizione che la tangente tocca il cerchio in un sol punto, lungi di essere il risultato deiresperienza imiforme, ne riceve, dicono essi, una smentita, perchè le tangenti e i cerclii dell'esperienza si toccano per più di un punto, si fondono in una parte apprezzabile della loro estensione. Cosi le linee retto che res|)erienza ci presenta sono, non delle linee i)erfettamente rette, ma delle linee che, ([uan- tun(iue sufficientemente rette per uno scopo pratico, sono, in realtà, leggermente spezzate: ora due di (jueste lineepossono chiudere, e chiudono talvolta, uno spazio. A noi non importa, per la quistione presente, di apprezzare il valore di <iuesta obbiezione contro la teoria empirista; ma vogliamo riferire la risposta del Mill, per vedere se, se- condo lo stesso autore, possano trovarsi nei principii geo- metrici indicati le condizioni che e^li inedesimo ha asse- guato alla formazione di un' associazione inse[)arabile. tr Ben^diè l'esperienza, dice dunque il Mill, non presenti linee cosi ii'reprensibilmente rette eh* esse non possano chiudere il i)iù piccolo spazio, essa ci offre delle serie di linee di meno in meno larglie, di meno in meno fles- suose, sene di cui la linea retta della definizione è il li- mite ideale. L'osservazione fa vedere che più le linee so- no vicine a non aver più né larghezza nò flessuosità, più la loro attitudine a chiudere uno spazio si avvicina a zero. La conclusione che, se non avessero assolutamente nò larghezza nò flessuosità, esse non cliiuderebbero affat- to spazio, è una corretta inferenza induttiva da ({uesti fatti, conforme al 7nefodo delle variazioni concomitanti j>. Similmente, «quand'anche non vi fossero nell'esperienza altri cerchi che quelli che ditTeriscono d'una maniera ai)- prezzabile dall'ideale geometrico, i nostri sensi ci appren- derebbero sempre che, nella misura in cui un cercliio e una retta si avvicinano alla definizione, 1' estensione del loro contatto si avvicina ad un sol punto ». ( Logica lib. 2^ e. 5<^ § 4 in nota, e Filos, di Hamilton cai». 1 1^ trad. frane p. :U8, in nota)!' Ma perchè in questi casi, doman- deremo noi al Mill, le associazioni contrarie, relative ai cerchi e alle rette approssimative, non impediscono alme- no la formazione dell'associazione inseparabile, sulla qua- le è secondo lui fondata la necessità delle pi*0[)Osizi<:)ni geometriche di cui si tratta ? § 2' « Io sono convinto, dice il Mill, che in tutti gli esempi di fenomeni invariabilmente uniti che, malgrado ciò, non creano delle necessità del ])ensiero, si trovereb- be che manca qualcuna delle condizioni le quali, secon- do la teoria psicologica dell' associazione, sono neces- sarie per l'ormare un' associazione realmente insepara- bile » (Filos. di Hamilton, trad. frane, pag. .'J2Ò, cap. XIV). Ora la (juistiono è appunto se vi sia mai nella real- tà alcun caso, in cui tutte <jueste condizioni si verifichino, in modo da dar luogo ad una proposizione strettamen- te necessaria. Non vi ha, noi lo ammettiamo, a priori alcuna ragione assegnabile perchè questo caso non p( is- sa aver luogo; la (luistione è puramente di fatto : vi han- no in realtà dei casi, in cui il legame che l'assiociazione istabilisce tra le nostre idee, diviene cosi forte che l'asso- ciazione è assolutamente inseparabile, e la proposizione, per conseguenza, è necessaria? « É strano, dice lo stesso filosofo, che tutti gli avversari della teoria psicologica fondata sull'associazione ab- biano basato il loro principale o il loro unico argomento per confutarla sul sentimento della necessità ; in effetto se vi ha nella nostra natura un sentimento che le leggi d'associazione siano evidentemente capaci di produrre, è questo. Secondo la definizione di Kant, e non ve ne ha migliore, il nectissario è ciò la cui negazione é impossi- bile. Se noi troviamo che è ad ogni modo impossibile di separare due idee, noi abbiamo tutto il sentimento di ne- cessità che lo spirito umano può avere. Quelli dunque che negano die Y associazione j^ossa produrre una necessità del pensiero, dovrebbero sostenere che due idee non sono mai talmente legate insieme che esse siano realmente in- separabili. Ma quest'affermazione contraddice l'esperienza più volgai'c. Quante persone che, per essere state spaven- tate nella loro infanzia, non i}Ossono mai trovarsi sole nell'oscurità senza provare invincibili terrori ! Quante per- sone che non possono rivedere un certo {X)sto o pensare a un certo avvoìimento senza che si risveglino in loro vivi sentimenti di dolore o dei ricordi di sofferenza! Se i fatti che hanno creato queste forti associazioni negli spi- riti di alcuni individui fossero stati comuni a tutti gU uo- mini dalla prima infanzia, e se fossero stati completamen- te obbliati dopo la formazione delle associazioni, noi a- vremmo una necessità del pensiero, una di quelle neces- sità che si riguardano come prove d'una legge obbiettiva, e d'una connessione mentale a priori fra le idee ». (Filos. di Hamilton cap. XIV, trad. frane, p. -'514). Gli esempi citati dal Mill ci mostrano in verità dei ca- si di associazione che sembra inseparabile fra una per- cezione e un sentimento o anche fra un'idea e un senti- mento: per non parlare degli altri casi in cui un'associa- zione inseparabile si forma fra percezioni e movimenti, noi aggiungeremo il più eclatante forse tra quelli in cui certe sensazioni suggeriscono irresistibilmente certe idee. Estendendo un membro, noi non possiamo provare la sen- sazione della resistenza, senza pensare alla presenza di un oggetto esteso e visibile : quest' esempio ci mostra al tempo stesso il legame indissolubile o quasi fra la sensa- zione di resistenza e l'idea dell'estensione visibile, e quel- lo fra la sensazione stessa e l'idea d'un oggetto reale e- steriore. Ma vi hanno parimenti dei casi, in cui l'associa- zione formi un legame assolutamente indissolubile, non fra una sensazione e un'idea, ma fra un' idea e un' altra idea, in modo che fossimo incapaci di pensare Tuna sen- za l'altra, e incapaci pure, per conseguenza, di fare la supi^osizione che i due fatti pensati ix^trebl^ero esistere l'uno senza dell'altro? perchè è soltanto a questo con(H- zioni che noi possiamo avere una proposizione stretta- mente necessaria. Io credo che non vi sia alcun esempio di una neces- sità o di un legame indissolubile di questa natura, do- vuto alla forza dell'associazione; e che, nel fatto, nessuna proposizione, esprimente una coesistenza o una succes- sione tra fenomeni, costituisca una verità strettamente necessaria. Quantunque la sensazione della resistenza ci suggerisca iri-esistibilmente l'idea dell'estensione visibile, Videa della resistenza non è perciò legata a quella dell'e- stensione visibile, in modo che le due idee siano insepa- rabili, e che noi non possiamo pensare la prima senza la seconda. In effetto nessuno pretenderà che il legame tra questi due fatti, il sentimento della resistenza in noi, e la presenza fuori di noi di un oggetto esteso che ci occasio- ni questo sentimento, sia una verità necessaria, e che noi non possiamo immaginare che avremmo potuto essere or- ganizzati in maniera che questo stesso sentimento fosse prodotto m noi da cause atìàtto ditìerenti. Ma per mo- strare che alcuna proposizione esistenziale non può arri- vare al grado di verità necessaria, basta l'esempio delle due proposizioni più universali, che esprimono i legami più generali fra le nostre idee, di cui tutti gli altri posso- no considerarsi come delle determinazioni particolari. L'u-na è il principio clie ogni fenomeno è costantemente con- dizionato da antecedenti invariabili; Taltra la credenza elle le nostre sensazioni si riferiscono a un mondo esterio- re, o in altri termini, che esse fanno parte di aggre- gati che noi chiamiamcj oggetti reali ed esteriori. La esistenza d' un mondo esteriore è si lungi dall' essere una verità necessaria, ch'essa non è nemmeno una verità, a quel che ne pensa lo stesso Alili; e la grande maggio- ranza dei filosofi moderni, quand'anche essi non giungano come Mill alla negazione assoluta del mondo esteriore, non respingono meno di lui la credenza spontanea, in con- formità della ([uale noi ol>biettiviamo le nostre sensazioni, e consideriamo l'estensione, la figura, ecc. come attributi di oggetti reali esistenti fuori di noi. Ascoltiamo ora lo stesso Mill sul principio di causalità : « Ogni persona, egli dice, abituata all'astrazione e all'analisi arriverebbe, io ne sono convinto, se essa dirigesse a questo fine lo sforzo delle sue facoltà, dacché questa idea fosse divenuta fa- miliare alla sua immaginazione, ad anunettere senza dit- iicoltà come possibile nell'uno, per esempio^ dei numerosi firmamenti, di cui Y astronomia siderale compone l'uni- verso, una successione degli avvenimenti tutta fortuita e non obbediente ad alcuna legge determinata»; «e di fatto, continua il Mill, non vi ha nò nell'esperienza nò nella na- tura del nostro spirito una ragione qualunque di credere che non sia C(5^i in qualche parte » (Logica, lib. o^\ e. 21'^). Noi facciamo le nostre riserve sullo scetticismo di quest'ul- tima proposizione, contraria evidentemente alla pratica uniforme di tutti gVi uomini di scienza: ciò che noi vo- gliamo mostrare non è che il principio di causalità non sia una verità assolutamente universale, ma che esso non è una verità, in senso stretto, necessaria ; e la citazione di Mill, a cui si potrebbe aggiungere tutto ciò che gli scettici hanno detto contro (juesto principio, vàie come prova che la negazione di esso può essere perfettamente concepita. § 3^. È innegabile che una proposizione basata sulle esperienze più familiari si distingua dalle altre per una sorta di necessità: ciascuno sentirà la differenza che vi ha, sotto questo rapporto, fra queste due proposizioni: I corpi in movimento comunicano per l'urto il movimento agli altri corpi ; e : I corpi si attraggono in ragione in- versa del quadrato della loro distanza. Vi ha nella specie di proposizioni di cui la prima è un esempio, un legame cosi stretto fra le idee, che esse hanno in ciò la più gran- de somiglianza con quelle che sono rigorosamente neces- sarie—noi vedremo anche nel Saggio seguente che que- sta somiglianza fra le due specie di proposizioni ha una importanza particolare per la spiegazione dei concetti del- la metafisica.— Nondimeno la necessità, tutta relativa, delle proposizioni che non sono che delle generalizzazioni dell'esperienza più familiare, non raggiunge mai il grado delle proposizioni strettamente necessarie: il legame fi*a le idee non diviene mai cosi forte da renderle assoluta- mente inseparabili, e noi possiamo sempre concepire la fMDssibilità del contrario. Noi ripeteremo un esempio già citato, il quale é assai proprio a mostrarci la differenza tra una verità assolutamente necessaria, come quelle della matematica, e una verità familiare, che non ha se non questa necessità relativa che può essere spiegata per la associazione delle idee. Cercando di mostrare che il con- trario di una proposizione matematica può essere conce- pibile, si è supposto il caso di « un mondo in cui, tutte le volte che due coppie di oggetti sono poste in prossimità l'una dell'altra, o esaminate insieme, un quinto oggetto è immediatamente creato, e portato sotto l'esame dello spi- rito al momento in cui egli unisce due e due ». Noi ab- biamo osservato che anche in un mondo siftàtto due e due sarebbero sempre eguali a quattro, benché, in un certo senso, laggregato totale l'ormato dalla riunione di due og- getti a due oggetti sarebbe, non quattro, ina cinque; e che la supposizione mostra che, se il contrario della proposi- zione aritmetica che atlerma un'eguaglianza, è inconcepi- bile, il contrario della proposizione fisica, strettamente le- gata con la prima, e che afferma una seipienza, può con- cepirsi— quantunque in (luesto caso non possa invocarsi alcuna ditl'erenza nella frequenza delle esperienze, Tespe- rienza dell'una di queste due verità essendo stata per noi sempre congiunta con quella dell'altra — . Ora se vi ha una verità fondata suirunitbrme esperienza d'ogni momento, é certamente (luesta persistenza numerica degli oggetti, questo fatto die l'aggregato totale, risultante dalla riunione di più aggregati minori, è uguale alla loro somma. Ma se una verità familiare come questa diilerisce ciò non per tanto da una verità necessaria, allora bisogna convenire che tra le verità necessarie e le contingenti vi ha una dif- ferenza di specie, e non una semplice differenza di grado, dovuta alla frequenza più o meno grande delle esperienze (1). '{) Un esenii'ìo «r inconccpilìilità della negativa dovuta all'asso- ciazioTie, il (iiialr -^i trova in quasi tutti gli associazionisti, è Tini- possibilità di concepire separatamente il colore e l'estensione. Ha- milton obbiettava giustamente che questa incapacità del nostro pensiero è una i^^ova che queste due proprietìi degli oggetti ci sono date primitivamente e indissolubilmente unite (per quanto è lecito dire di due astrazioni clie esse son(ì indissolubilmente unite) in una percezione unica del senso della vista. Se il colore è assolutamente inconcepil)ile separatamente dall'estensione, ciòl)asta a dimostrare la nullità radicale della teoria così detta empirista sull'origine delle nozioni di spazio: perchè la teoria supi>onendo un momento in cui ij colore esiste nello spirito senza l'estensione, suppone una cosa che è per noi assolutamente inconcepibile, cioè un non senso, poiché una cosa inconcepibile e un non senso sono dei termini perfetta- mente sinonimi. Quest' argomento acquista una forza particolare contro lo Spencer, per cui il criterio della verità consiste nella in- concepibilità della negativa. In altro esempio d'inconcepibilità della negativa dovuta aU'as- sui iJMiri l: l'oggetto della conoscenza a piuori 4i7 § 4" 11 tentativo di spiegare per 1' associazione delle idee una verità necessaria ( nei . casi in cui si tratta di una necessità assoluta, come nelle verità intaitice della matematica^ è al fondo contradcUttorio in se stesso. Uno dei motivi della dottrina degli psicologi intuizionisti, se- condo la quale delle proposizioni, non aventi elfettivamen- te che ima necessità semplicemente relativa o approssi- sociazione è, secondo Mill (/«'//os. di Hamilton, e. VI), limpossibi- h'tà di rappresentarci il tempo e lo s]»azio come liniti. Ova questa proposizione: « il tempo e lo spazio sono inHiiiti », può avere <lue sensi. Essa può enunciare o l'assenza di limiti dell'insieme degli oggetti contenuti nello sjtazio e della serie dei fenomeni contenuti nel tempo, ovvero semi>ìicemente l'assenza di limiti dello sj^azio e del tempo considerati in se stessi. Nel ])imiìio senso In iu'oi»osizione, come vedremo nel li Saggio ]>arte III. lungi <li essere necessai'ia, è al contrario inconcei)ibile. peivhè essa ammette l'esistenza d'ini infinito attuo le, cioè una cosa di cui non abbiamo alcunidea. e che implica delle conti*j\ddizioni insolubili. In (pumto jtoi al tempo e allo spazio considerati in se stessi, cioè fncendo astrazione dalle cose estese e successive i*ealmente esistenti, noi dobbiamo certa- mente concepirli come illimitati. Ma il tempo e lo s]>azio in ({uesto senso non sono niente di reale: essi non haimo che un'esistenza puramente ideale, non sono <*lie delle semitli<*i possibilità di posi- zioni ]>er le cose e per gli avvenimenti. L'atfermazione deirinflnità del tempo e dello spazio, in <|uesto senso, non implica <lunque Paf- fermazione d'alcuna realtà o alcun giudizio esistenziale, iH'rche queste nozioni non voigono sul reale, ma sul p(^)ssil)ile. « Il tem[>o è intinito»: ciò vuol dire semplicemente che. data una siuM'e di fe- nomeni successivi, di (lualuncjue lunghezza essa sììl vi ha sempre posto, prima e dopo ([uesta seiMe, per nitri jtvvenimenti possibili: in altri termini, che noi possiamo, in iden, ]>rolungare la serie in- definitamente, (iioè quanto vogliamo.- « Il temiM» è infinito», «lo spazio è inhnito », sono dun(iue una specie di i)ostulati, come (piello della geometria che « una retta può essere prolungata indefinita- mente», e gli altri che si trovano innanzi al I libro d'Eu('lide. Onesti ]iostulati sono, in un senso, delle i»roi>osizioni necessarie, in quanto la possibilità ideale che essi enunciano è, in un senso, necessaria. Attermare la necessità di una di queste possibilità ideali, è sem- plicemente alVermare l'assenza di qualsiasi incongruenza o impos- sibilità intrinseca nella nozione, altermazione che è necessn riamente m ) #1 mativa — ma che questi psicologi confondono con le pro- fKDsizioni assolutamente necessarie— sono indipendenti dal- Tesperienza, è certamente la difficoltà che noi proviamo a pensare separatamente le idee che sono gli elementi di queste proposizioni^ ( v. Saggio 2^', parte P, Appendice 2^ al cap. 6*^). È evidente in effetto che per affermare che esse provengono dall' esperienza, noi dobbiamo pensare vero, come sarebbe necessarioinente vera ralferinazione contraria^ se si trattasse invece di una no/ione composta di elementi incom- ]>atibili. La necessiti! dell" infinità del tempo e dello spazio, nel se- condo siirnifìcato di questa espressione, si spiega dunque altrimenti che i>er le leprgi dellassociazione. Se invece essa s'intende nel primo significato, cioè che il reale non ha limiti né nel tempo nò nella spazio, in (luesto caso si è «-ertamente fondati a dire che questa tendenza pressoché irresistibile ad oltrepassore ciuolun(]ue limite immaginabile (tendenza, per altro, che non esiste ì>ropriamente che per i limiti nel tempo, non i>er(]uelli nello spazio) e una conseguenza dell'associazione delle idee; ma «juesta tendenza jirodotta dall'as- sociazione può cosi poco dar luogo a delle proposizioni necessarie. che essa dà luogo, al contrario, a delle j^roposizioni necessaria' mente false. LoS])eneer. i»ei suoi Piinripii di Psicoloffia, dà pure degli esempì di proì>osizioni necessarie dovute alTesperienza. Nella teorica del ragionamenti) ( voi. Il ]>. VI), dopo aver diviso questo in quantitatico e (juaìitatiro ^ suddivide il secondo in perfetto ed imperfetto. Un ri\S'ìoni\ mento perfetto é quello la cui conclusione è una verità ne- cessaria, cioè di cui la negazione sarebbe impossibile. Quantunque quest'ultima distinzione sia ivi fondata sul carattere dei rapporti comi>arati, che nei ragionamento perfetto sono, secondo l'autore, eguali, mentre nell'imperfetto non sono clie simili (§ 297), tutta- via la dottrina generale di Spencer sulT inconcepibilità della ne- gativa é che questa — quando non deriva da una necessità pri- mordiale del pensiero — è fondata sulla frequente ed uniforme ripetizione dell'esperienze, sia nell'individuo sia nella specie. Cosi, siccome egli considera come dovute all'esperienza le verità enun- ciate nei suoi ragionamenti «jualitativi perfetti, sembra che per lui la necessità di queste verità sia, in ultima anahsi, fondata sulle leggi dell'associazione. Noi al)biamo visto che i ragionamenti qualitativi perfetti, che (jueste idee Tuna separatamente dairaltra: dobbiamo in- latti concepire il tempo in cui il legame ira (lueste idee non si era ancora ibrmato, e immaginare che, in con« dizioni empiriche ditlerenti, questo legame non si sareb-. be formato, ma si sarebljero formati invece altri legami incompatibili con esso; ciò che è pensare le due idee sen- za il loro legame, e disgiungerle Tuna dalFaltra. Ora se Si>encer chiama a r((pporfi concinni/, y. e. «so A coesiste con B e H con C. A e C coesistono», «se A prei.'ede H e H precede C, A precede C», ecc. non costituiscono delle inferenze reali, e che perciò tutta la necessita della conseguenza si riduce. i>er essi, alla neces- sità di evitare una contraddizione. In quanto a (luclli a rapporti (Hxgìanti, alcuni esempi addotti dall'autore (v. VI parte e. VI) co- stituiscono delle inferenze reali, ma queste inferenze non sono delle verità strettamente necessarie, cioè il cui contrario è assolutamente inconccitiblle uno di questi esempi consiste nel legame fra la causa e l'effetto, e mi jiltro in (piclio fra la sensazione di resistenza e la l)resenza di (pialche cosa di esteso (cioè, secondo noi, di visibile). Al contrario i due alti'i esempi che egli adduce (v. ;'/v6</), se sono delle verità necessarie, non sono delle inferenze reali, e sì ridu- cono al fiiK) generale delle proposizioni così dette analitiche. «Onesta massa di corda coesiste con due estremità die si scopriranno svol- gendola»: (juesta proposizione è, secondo Sjìoncer, una deduzione fonriata sovra « un rapporto generalizzato di coesistenza invaria- bile, appoggiato su d'un'inlìnità di esperienze senza eccezione, e per conseguenza conceiwto come un rap])orto necessario ». cioè che «ogni sostanza tangibile coesiste necessariamente con due estre- mità ». Ma la proposizione né è un risultato dell'esperienza, nò è l'atl^rmazione di una coesistenza. Noi non i)ossiamo concepire una corda che come una lunghezza finita (l'inllnito attuale essendo in- concepibile). e non possiamo concepire una lunghezza fniita che come avente due estremità. Una lunghezza illimitata essendo in- concepibile e ripugnante, una corda che non avesse due estremità sarebbe un non senso. La proposizione è dunque analitica, ed essa non i)uò implicare altre aftermazioni reali ehe di somiglianza, cioè di classazione: della corda svolta, qualunque sia la lunghezza di cui ce la rappresentiamo, con gli altri oggetti aventi due estremità. In altri termini, l'affermazione contenuta nella proposizione (in <juanto essa non è puramente identica) è che, qualunque sia la lunghezza della corda che noi immaginiamo, noi possiamo dare a due idee sono in realtà indissolubilmente legate fra di lo- ro, se questo legame è tale da produrre una assoluta ne- cessità del pensiero, e non soltanto una necessità relati- va o approssimativa, quale è il caso per quelle proposi- zioni; allora, la nostra im[>otenza a separare queste idee non essendo più relativa o a[)prossimativa, ma assoluta, noi siamo del tutto incapaci di conce]>ire che il legame (lue punti oaduepai'ti <ìella luiii:lK;//.a iimuni^MiiaLa il iioiiic tJiestre- mitn. classandoli con ltIì altri punti o con le altre pai-ti dellr altre i;Tandezze osservate, a cui abbiamo dato lo stesso nome. Andiamo alFaUro esempin. «Se entrando in una camera, io vedo die unu sedia, che io aveva situati! in un ]>osto, si trova ora in un altro, e una conclusione necessario che essa ha attraversato uno spazio intermediario: è inconcer>ibile che essa sia giunta nella l»osizione ]>resente senza essere pass;\ta per le ]>osizioni interme- diarie fra la sua situazione ori.irinale e la sua situazione attuale». Vi ha qui secondo Spencer raft'ermazione di una successione, che si fonda suUesi^erienza : invece secondo noi si tratta anche in (jucsto caso di una proposizione (aiaìitica, nel senso ^ilmeno della propo- sizione in cui essa è strettamente necessaria. Si è già osservato che noi riconosciamo per (mo smesso oggetto delle ]»resentazioni distinte e successive dei nostri sensi, alla condizione che o non vi sia stato cangiamento negli attril)uti imi>Iicanti delle relazioni si>aziali, o che vi sia stato, sotto questo rapporto, un cangiamento, ma risultante dall' accumulazione di una serie di cangiamenti ciascuno per se stesso indiscernibile. Ne segue che ^Tsedia. da noi veduta in due posizioni dilferenti. non sarebbe da noi chiamata la stessa sedia, se noi non supponessimo che essa ha attravei-sato le posizioni in- termediarie. Se fossimo costretti ad escludere la supposizione t\i queste ]»osizioni intermediarie, noi non diremmo più che loggetto visto nel secondo ]tosto e lo Messo che (jucllo visto nel iwimo; ma che l'oggetto del primo posto è stato distrutto, e un altro in tutto simile è stato creato nel secondo. Ora il fatto di un cominciamento assoluto e di un annichilamento assoluto di un corpo è certamente una delle cose più incredibili; ma nondimeno (M sembra che ogni persona abituata', come dice Mill, all'astrazione e all'analisi, non lo troverà inconcepibile; questa persona vedrà chiaramente la dif- ferenza fra una proposizione cnunciante un simile fatto e delle i^ropo- sizioni assolutamente inroncei)ibili,comerhedue e due fanno cinque o che due rette chiudono uno spazio. Cosi se, nella proposizione non si è formato se non nel corso deir esperienza, che anteriormente a (juesta esso non esisteva, e che in con- dizioni empiriche differenti esso non esisterebbe, ma esi- sterebbero invece dei legami differenti incompatibili con esso; perchè, ripetiamolo, concepire ciò, rappresentarselo/ sarebbe rompere il legame attuale Ira le idee, e pensar- le separatamente Tuna dall'altra, ciò che è in contraddi- zione con ripotesi. Ne segue che il tentativo di spiegare le verità neces- sarie per la forza dellassociazione timpirica arriva logi- camente al risultato di negare resistenza di verità neces- sarie. Ed è di questa maniera clie la intendono, al tondo, gli associazionisti. « Non vi ha, dice Mill, proposizione di cui si possa dire che ogn'intelhgenza umana deve eter- namente e irrevocabilmente crederla. Piti proposizioni a cui questo privilegio era accordato con la piti grande con- fidenza, hanno già trovato degl'increduli. *Le cose che si è supposto non poter mai essere negate sono innumere- voli; ma due generazioni successive non si accordereb- bero a formarne la lista». (Logica, 1. 3«, e. 21). Cosi il Bain, d'accordo col Mill, non accorda l'esistenza di altre verità necessarie che quelle fondate sui principii d'identi- tà e di contraddizione: per lui verità necessaria e propo- che la sedia ha atti'aversato le ])Osizioni iiUvrmediai'ie, non si vedrà l)iù il semplice enunciato di una condizione necessaria dell'identità della sedia, ma invece Taffermazione deiresistanza di questi feno- meni intermediari che hanno formato il legame fra le due presen- tazioni successive dei nostri sensi, allora certamente la proposi- zione, in questo signillcato, non sarà più cauditica, ma non sarà nemmeno strettamente necessaria. Ci si perdonerà d'avere insistito cosi lungamente sucpiesto sog- getto, che ha per noi la sua importanza; la quistione se Tassocia- zione empirica possa formare fra le idee dei legami assolutamente indissolubili, e determinare per conseguenza delle proposizioni, nel senso stretto, necessarie, essendo per noi connessa con le qui- stioni più importanti della teoria della conoscenza. sizione idtìntica (o puramente verbale) sono termini per- fettamente equivalenti. (Logica, t. 1", Primi princ. della logica.) Noi dobbiamo aggiungere all'osservazione antecedente rimpotenza in cui sono gli associazionisti, di spiegare per il loro principio la necessità delle proposizioni matemati- che. Intatti, se la frequenza delPesperienze può sembrare di fornire una spiegazione plausibile delle conoscenze immediate delta matematica, lo stesso non potrebbe (J irsi per le conoscenze defivate. Si può certamente invocare Tesperienza d'ogni momento per la proposizione clie due e due fanno quattro o ciie due rette non chiudono uno spazio; ma le proposizioni che la tangente non tocca il cerchio che in un punto, che la somma degli angoli d'un triangolo è uguale a due retti, e in una ])arola, un teore- ma qualuncjue della geometria o dellalgebra non enun- ciano delle verità d'un'esperienza cosi familiare come mol- te proposizioni sulle cose di fatto, le quali nondimeno sono> contingenti, mentre le prime sono necessarie. Cosi noi ri- troviamo negli empiristi inglesi, sotto una forma più ge- nerale, le opinioni dei metageometri sulla contingenza e sul valore limitato delle verità matematiche. «L assioma: « due cose eguali ad una terza sono eguali tra loro », non è, dice il Bain, una verità identica: cosi essa non è una verità necessaria» (Logica, lib. 2^ e. 5^, 4; v. anche G). Il Mill cita, approvandolo, un autore anonimo, per mo- strare che dei principii contrarii alle verità più familiari della matematica avrebbero potuto divenire perfettamen- te concepibili, anche con le facoltà che abbiamo, se que- ste fossero coesistite con una costituzione differente della natura esteriore. La citazione comincia per la supposizio- ne, da noi più volte menzionata, di un mondo in cui una quinta cosa è immediatamente creata tutte le volte che si uniscono due e due: Fautore ne conclude che non è in- concepibile che due e due facciano cinque ; ma noi abbiamo visto die egli confonde con la verità matematica e com- parativa una verità fìsica ed esistenziale che è con essa strettamente legata. « Si potreijbc pure sui)porre, continua l'autore, un mondo in cui due linee rette chiuderebbero uno spazio. Immaginate un uomo che non ha mai avuto Tesperienza di due linee rette i)er T intermediario di un senso qualunque, i)Onetelo tutto ad un tratto sopra una -ferrovia che s'estende in lontananza su di una linea per- fettamente retta a una distanza indelinita nei due sensi. Egli vedrebbe le rotaie, le ]3rime linee rette ch'egli aves- se mai viste, toccarsi in apparenza, o almeno tendere a toccarsi, a ciascun limite deirorizzonte, e ne concludereb- be, a difetto d'ogni altra esperienza, ch'esse chiudono uno spazio, (piando sono pi*olungate abbastanza lontano. L'e- sperienza sola potrebbe disingannarlo. In un mondo in cui ogni oggetto fosse rotondo, alla sola eccezione di una fer- rovia retta inaccessibile, tutti crederebbero che due linee rette chiudono uno spazio. In (piesto mond(j, per conse- guenza, rimpossibilità di conceiàre che due linee rette possono chiudere uno spazio, non esisterebbe» (\\ Filos. (li Hamilton cap. (>*\ Conl'r. cap. 14*', verso la fine). In realtà in questo mondo, in cui non esistessero al- tre linee rette che le rotaie di una ferrovia inaccessibile, non sarebbe vero i)er nessuno che due linee rette posso- no chiudere uno sj^azio, quantuncpie potrebbe essere ve- ro clie nessuno avesse l' idea di linee rette. Il Alili come chiunque altro chiama un'illusione della prosprettiva quel- la di una ])ersona die, gettando gli occhi sopra una via lunga, vede convergenti i due lati che in realtà sono pa- ralleli : ora Y illusione non consiste in ciò che le forme geometriche percepite sembrano avere proprietà diiferenti di quelle della stessa specie, ma in ciò die gli ogget- ti sembrano avere delle forme geometriche d'un'altra spe- cie di quelle die essi hanno in realtà. (Queste linee che l'occhio, i)er un'illusione, vede convergenti, egli non le percejàsce come parallele nò come pertettamente rette: quin- di, se noi non potessimo rettificare quesf illusione, noi non ne inferiremmo già che due parallele convergono o che due rette jxDssono chiudere uno spazio, ma che le li- nee, che noi guardiamo, non sono parallele ne rette. La stessa osservazione vale per Taltra citazione che la il Mill della Geometria dei visibili di Reid, in cui questo filoso- fo sostiene che, se noi avessimo il senso della vista ma non il senso del tatto, ci semljrerebbe che ogni linea ret- ta prolungata deve ritornare infine su se stessa, e die due linee rette prolungate devono incontrarsi in due i)un- ti. L'i[Kìtesi di Reid riposa sulla teoria che noi non i)er- cepiamo immediatamente per la vista la terza dimensio- ne dello spazio. Supponiamo che ([uesta teoria sia vera^ e che Reid fosse i)erciò fondato ad asserire che ad un uo- mo, limitato al solo senso della vista, le rette sembrereb- ì)ero ritornare su se stesse. Non ne seguirebbe che que- st'uomo attribuirebbe alle rette geometriche proprietà dil- ferenti da ({uelle che noi ad esse attribuiamo, ma che quel- le linee che noi vediamo rette, egli non le vedrebbe tali, ma di tutt'altra forma. § 5" Conformemente alla dottrina che non vi ha al- tra necessità nelle j)roiX)sizioni che quella fondata sul I)rincipio di contraddizione, o in generale, sui principii del- la conseguenza, il Mill sostiene che i teoremi della ma- tematica sono delle verità necessarie, solo in (juanto de- rivano necessariamente dalle loro premesse. 1 risultati delle matematiche, egli dice, e in generale delle scienze deduttive, ^ sono, senza dubbio, necessarie in questo senso ch'essi derivano necessariamente da certi [)rincipii, chia- mati assiomi e definizioni ; cioè a dire eh' essi sono cer- tamente veri, se questi assiomi e definizioni lo sono; per- chè la })arola necessità, anche presa in questo senso, non significa niente di più che certezza». Noi sappiamo cli-i secondo il ]Mill (questo carattere di necessità e di certezza |)articolare attribuito alle proposizioni della geometria. è un'illusione, perchè alcune delle premesse su cui (|ue- ste proposizioni si fondano, cioè le ipotesi implicate nelle definizioni, si allontanano sempre, più o meno, dalla ve- rità ( V. e. G'^ § 10 ). Non occorre di ritornare su (] uesta opinione del Mill, di cui abbiamo sufiicientemente discus- so il fondamento su cui essa è appoggiata, cioè la dot- trina che una definizione geometrica implica la supposi- zione deir esistenza di oggetti reali corrispondenti alla de- finizione. Noi abbiamo visto che non è vero che questa pro[)Osizione esistenziale sia una premessa della geome- tria. Ma quand'anche l'argomento del Mill fosse proban- te contro l'esattezza e il rigore delle pi'oposizioni geome- triche, sarebbe sempre un/r/noratio clcticld come obbie- zione contro il carattere (fi necessità che si attribuisce a queste proposizioni ; poiché la necessità matematica non consiste in ciò che le proposizioni di questa scienza sia- no più rigorosamente vere che quelle delle altre scienze e più esattiimente conformi ai fatti, ma nella incapacità del nostro spirito di sup[)orre come j)Ossibile il contrario di ciò die enuncia una pro[)0si/jone matematica già ri- conosciuta come vera, mentre, [)er le proposizioni meglio stabilite delle scienze fisiche, questa possibihtà del con- trario può essere sempre supposta. \\ questo il[)untoclie il Mill perde di vista nelle sue considerazioni su (juesto soggetto (hb. 2" e. .l'^ e G"):(iuaiìdo si tratta degli assiomi, egli può spiegare la coscienza della necessità per la leg- ge dell'associazione inseparabile ; ma questa spiegazione essendo inapplicabile alle proposizioni dimostrate, egli non lascia perciò altra necessità a queste ultime che quella della dinixstrazione stessa, cioè il sentim3nto della con- nessione necessaria fra le [)reiiiesse e la conseguenza, che accompagna ciascun passo del ragionamento. « (Quan- do si di!e che le conclusioni della geometria s^no delle verità necessarie, la necessità consisti), egli «lice, unica- 450 SAGdlO PRIMO niente in ciò che esse derivano regolannerite dalle sup- posizioni da cui sono dedotte Il solo senso nel quale le conclusioni di una ricerca scientifica qualun(]ue pos- sano essere dette necessarie è che esse seii'uono Icitti- mamente da qualche supposizione, la (juale, nelle condi- zioni della ricerca, non è da mettere in quistione. È per conseguenza in (jucsto rapporto che le verità derivate di ogni scienza deduttiva si trovano con le induzioni o sup- posizioni su cui la scienza è stabilita, e che, vere o fal- se, certe o dubbiose in se stesse, sono sein[)re ritenute certe, relativamente allo scopo particolare della ricerca >'. Cosi non vi lia, secondo il iNIill, alcuna ditlerenza, (juan- to alla necessità, fra le matematiche pure e quelle bran- che delle scienze naturali che, per le matematiciie, sono divenute deduttive. Siano }). e. queste due proposizioni : il teorema della geometria che stabilisce che, nel cerchio, il diametro ha con la circostanza il rapporto ;r, e il teo- rema della fìsica che stalàlisce che il pendolo ideale ese- guisce intoi'no alla verticale una serie indefinita di oscil- lazioni della stessa am[>iezza e della stessa durata. Le due i)roix3sizioni sono [)er AJill egualmente necessarie, perchè seguono con la stessa necessità dalle loro premes- se: la i)roi)Osizione fisica dai principii della meccanica su cui la teoi-ia del pendolo è fondata, e dalla supposizione d'un pendolo nelle condizioni ideali supposte dalla teoria; e la i>roposizione geometi'ica dagli assiomi della geome- tria e dalla supposizione di un cerchio coiTispondente al- la definizione. Se la seconda jn'oposizione sembra più ne- cessaria della prima, è <juesta, secondo lui, un'illusir>iie, derivata da ciò, die mentre, per la proposizione fisica, si tiene conto della circostanza che non vi hanno nella real- tà dei pendoli esattamente conformi al pendolo ideale, al contrario, per la |)roposizione geometrica, si mette da par- te la circostanza che non vi Jianno nemmeno, nella real- tà, dei cerchi esattamente conformi al cerchio della defìnizione. Noi sappiamo invece che la diiìerenza fraledue proposizioni è reale, e che si ha ragione di chiamare ne- cessar/a la geometrica e eontiiKjcnte la fisica, in quanto noi possiamo immaginare facilmente che la costituzione della natura avrebbe potuto essere ditìerente dall' attua- le, e elle un potere soprannaturale potrebbe cangiare o sospendere le leggi a cui il pendolo obljedisce e tutte le altre leggi del mondo fisico, mentre, al contrario, noi pos- siamo ignorare quale sia il i'a})porto fra il diametro e la circonferenza, ma non possiamo allatto supporre che il diametro potrebbe avere con la circonferenza un rappor- to diverso da quello che noi conosciamo che esso ha. .^. G^^ Quando il Alili obbietta, contro l'esistenza di ve- rità strettamente necessarie, che molte proposizioni, a cui è stato accordato il privilegio di non poter essere affatto negate, hanno poi trovato deglincreduli, egli pensa a certe induzioni spontanee dell'esperienza [)iù familiare, ricevu- te come verità evidenti per se stesse, come queste: che niente non pu(') essere fatto da niente, che gli antipodi non possono esistere, che una cosa non può agire dove essa non ò, ecc. IMa la necessità di queste e simili proposizio- ni non è che quella sorta di necessità relativa che i)uò sola derivare dalla forza dell'associazione: queste sono delle proposizioni esistenziali, e noi al)biamo visto che la necessità, nel senso stretto, non può appartenere che alle proposizioni comparative, (juali le cosi dette analitiche e quelle della matematica pura. Lo stesso Mill, (v. Filos, dì Hamilton e. (')") distingue tra ciò che è nel senso stretto inconcepibile e ci(') che è semplicemente incredibile, e conviene che la negazione delle i)roposizioni citate non era propriamente inconcepibile, ma era o sembrava in- credibile. Cosi i partigiani della scuola intuitiva gli hanno opposto che egli non avrebbe potuto citare un sol caso, in cui si sia provata la verità o anche la possibilità di un inconcepibile nel senso proprio. INla io non so, dice il Mill, ({uale risposta potrebbe darsi alla quistioiie : si è inai pro- vato che una cosa che era o sembrava inconcepil^ile l'os- se vera o t)Ossibile ? « la (piale i^otesse impedire di repli- care che ciò che si chiamava inconcepibile non era niente di più che incredibile; in ettetti, poiché T inconcepibilità presenta gradi numerosi, che vanno da una <1ebole diffi- coltà a un'impossibilità almeno temporanea, non vi ha una linea precisa tra ciò che è assolutamente inconcepi- l)ile (se vi ha niente di tale) e ciò che è totalmente incre- dil)ile, nò anche tra ci(') che è in(X)ncepibile })er ima per- sona data e ciò che è semplicemente incredibile per essa ». L'autore, ris[>ondendo cosi, è senza dubbio coerente alla sua dottrina, che s[)iega le verità necessarie per un'as- sociazione inseparabile: secondo questa dottrina intatti non vi potrebbe essere una linea i)recisa di se[)arazione ira i due ordini (U [)roi)Osizioni. Ma siccome gli avversari hanno ben ragione di sostenere che tra i due ordini di proposizioni vi ha, non una ditlerenza di grado, ma una ditlerenza s[)ecifica ("(juantunque alcun hlosolb della scuola intuitiva non abijia mai tracciato esattamente la linea di separazione), cosi i casi citati, e che si potrebbero citare, di proposizioni in un tempo ricevute come innegabih e<l evidenti [)er se stesse, e in un altro tempo trovate false o dubbiose, non possono provare ([uest'assorzione di Mill, che <f non vi ha punt(ì pro[)Osizione di cui si possa dire che ogn'intelligenza umana deve eternamente e irrevoca- bilmente crederla». .^. 7'\ Gli associazionisti inglesi i30trebbero difficilmen- te liberarsi dalla taccia di esagerazione neirapplicazione ch'essi hanno l'atto della teoria: non solo i princii)ii intui- tivi delle matematiche e le altre [)roposizioni reali imme- diatamente conosciute per il semplice esame delle idee, ma anche quelle che vengono chiamate le(jffl del pensiero, cioè i principii d' identità, di contraddizione e del mez- zo c^scluso, devono, secondo loro, spiegarsi per l'associazione (1). La teoria associazionista è certamente il i)iù gran progresso che abbia mai l'atto la psicologia, perchè è il primo tentativo di ricondurre tutti i l'atti dello spiri- to a leggi precise e generali : ma gli associazionisti ingle- (I) stila l'I Mill, (lUMiitiinque esili se debba considerare «iuesti principii come delle necessità innate del pensiero, o come dei ri- sultati deir esperienza, suscettibili di essere modidcati dair espe- rienza stessa {Ff'ìos. di Haniiltofi e. 0. e 21.), tuttavia è verso que- st'ultima opinione cl)e seml)ra inclinare. Ecco cosa dice nella Lo- gi\'a lib. 2. e. 7. «Questa proposizione (il principio di contraddizio- ne) è fondato su (juesto fatto che la credenza e la non credenza sono due stati dello spirito dilterenti che si escludono nuituamente. K ciò che e' insegna la più semplice osservazione su noi stessi. E se noi estendiamo al di fuori Tosservazione, troviamo ]>ure che luce ed oscurità, rumore e silenzio, movimento e riposo, eiznaprlian- za ed inei^uai^^lianza, prima e poi, successiont^ e sinuiUaneità. ogni feno'meno positivo e il suo negativo sono dei fenomeni .listinti, rontrastati di tutto punto, e di cui l'uno è sempre assente^ (juando l'altro è presente. Io considero il principio in «luistione come una generalizzazione di tutti <{uesti fatti». E in verità, se i principii d'identità e di contradchzione fossero delle necessità ol)biettive, cioè delle leggi delle cose, non si po- trebbe evitare di considerarli come delle generalizzazioni dell'espe- rienza. Ma essi non sono /cv/ry^ delle cose, perche una Icf/f/c sui>- pone l'accoppiamento <li due fatti, o, quand'anche si ammetta la teoria concettualista, almeno di due attributi o di due nozioni distinte, mentre è evidente che, dicendo che «se A è lì, A è H» (principio d'identità) o che « se A è H. A non è non H » (principio di conti addizione ) noi non facciamo che ritornare puramente e semplicemente soi^ra una stessa e unica nozione. E in generale, una ])roposizione che abbia una portata obl)iettiva . alìerma che certi fenomeni esistono, e che essi esistono in un certo ordine: se la pi'oposizione è negativa, vuol dire che noi rifiutiamo di am- mettere l'esistenza di certi fenomeni o di certe combinazioni di fenomeni. Ma (piali sono i fenomeni o combinazioni di lenomeni che noi alìermiamo, (|uando diciaincì ciie se una i^roposizione è vera . è vera anche la sua equivalente ? e (juali sono quelli che noi rifiutiamo di ammettere, quando neghiamo ciie le contratldit- torie possano essere tutte e due vere? Glie modiilcazione avver- rebbe secondo noi nella natura, se supponessimo che (]ueste i>re- si .sono andati sino a pretomlere che non vi l.anno •ilti-c leggi -nentali, e che tutti i fatti sono spiegabi p l' 1 ti sole legg.. (VI. Mill Dissertai J e .//LI.sST III, lOo e seg.; (Questa dottrina esclusiva, incontrandosi fese lopi delle cose .,on esistessero ? Si prelcndc che è resierieii^-, -ore ..esenti al tenn^o 'stesso i„\;LZoT;r «^^l^roln e e .dente che quando la ne,a.ionc di c.ualche cosa veTe forni U^ d ^tr di '"u;: r:,u!"r '^""'-' "--«^ gene •' Wone s,,' f^" ?""''^^"t' »«" l"'Ssouo nascere per islisiiiiil Lh w :" f '' " ""Possil.ile (tranne forse per alcuMo «juelli •^•licIIaeclv-elcl.iamaore-anismiseni'n,„...^n;> i "-"'"" ''' ;liaPl.'ondereda,lesperien.a-criTe:n o' 'ii ":rr.3-r ^Mia. avrebbe l,iso,M.ato che noi fossimo stati in ."lo di .rei H nozione d. una coso che fosse «1 tempo stesso luce et, eh e movnnento e in riposo, e in una parola, .li un J^,'tto lev " ! :; ^""'." «t<-^- 'le?li attributi -ontraddittóri. xi"; per ' i ; rn SSe'chc',''.;"'''"' '•"" '^"^ "'-'^'•-^' -.rrispo.u en e ; esistei x"tt r' ' "" """ «^^«^"t'-a'l.lixione rea/e non può n:fvem."oT:;:.:vr'resi';;!::;;'V:r°''^^ •.l>hiM,Yì^ ^ leMsten/n della contrnddìziono /va/c Voi i os^-me ';n:ni':',r''v^'''-'^'''' •" <--'-^ c-e mS la no,.a. o e d ir "i e.^di ",3"'''''^ >o.--.,,csprin,a pere.ò ^i^ii LMSLLii/a (Il (|ualelie rosa, perdio ri ^n-<.i»i». .•,.. possibile tanto di nirern.are,uanto .li negare '.'[.^t,.n io si,; a.lat o,.ensaro. Co.i ne.^ando una,.roposixione eont uld o ' egualmente che ne^^amlo un .-en-hio,p,a,irato o un I.i òó r eUi i r"rol'"'n'"'; """ r'"-^ --.-nilicaté a e' si n Va,' ^"^""f'^ <^'"^ a"oste parole abbiano un Scon la tendenza della scienza moderna, che non può ac- cordare air uomo una posizione privilegiata nel regno della natura, e nei tenomeni deiranima umana non può vede- re che razione delle stesse leggi che governano tutta la natura animata, ne è sorta quindi la necessità, per la teo- ria associazionista, di spiegare per le sole leggi dellas- sociazione tutti i fenomeni della vita psichica in generale. Cosi in virtù di una felice applicazione del principio del-l'eredità, SI è cercato di spiegare, al punto di vista della teoria deirevoluzione, tutto ciò che vi ha d'innato o di istintivo nella vita psichica degli animali, per l'accumu-lazione organica delle esperienze avitiche. Quantunque 1/ esi>res8ioiie corretta del principio di contraddizione non è dun«iiie clic una cosa non ])uò essere e non essere al tempo stesso, o che un nttributo positivo e il suo negativo non possono coesistere al tempo stesso nello stesso sogiz-etto, ma sem])]icemente che due Itroposizioni, di cui T una nega ciò clic l'altra alìerma, non pos- sono essere tutte e due vere. È dalla obbiettivazione illusoria di questo principio e degli altri dello stesto ordine, implicata nelle f(H'mule comunemente impiegate per enunciarli (formule clie per idtro il Min non impiega), che è venuto naturalmente il tentativo di derivarli dairesi)erienza; ed anche qui questo tentativo non ha mancato di conduri-e al solito risultato di negarne la necessità e r universalità assoluta. Il Mill trova a ridire sull' otTerma/Jone di Hamilton che il princii)io di contraddizione e le altre legge del pensiero siano d'unapplicazione universale, e che noi siamo obbli- gati di crederli veri anche al di là deiresperienza, cioè cidi fenomeni. Egli ammette che queste leggi sono universalmente vere per i fe- '^oineni, ma non è sicuro della loro verità per i noumeni (se essi esistono): la inapplicabilità di questi principii ai noumeni viene, secondo lui. da ciò che noi non abbiamo il dritto di estendere al <li là 'Ir^ir esperienza e del mondo fenomenale una legge che noi non abbiamo riconosciuta vera se non dentro questi limiti. (f7/05. di Hamilton e. 21, e Logica 1. 2. e. 7. § 4). Si può accordare certa- mente al Mill che queste /cY/r/ó ^cZ/)c'/^sfero non possono applicarsi ai noumeni: ma ciò è perchè noi non possiamo applicarli clie agli oggetti del nostro pensiero, mentre i noumeni, a dispetto deir e- timologia, non sono degli oggetti del nostro pensiero. M2 non si possa per (jucsto mezzo rendere conto di tutti i fenomeni, contbrmemente alle esigenze della teoria asso- ciazionista esclusiva (i;, la trasmissione ereditaria delle acquisizioni mentati è almeno un'ipotesi plausibile e che facilita lo studio dello psicologo (coni'v. Bain Emozioni e volontà, 1^ parte, e. 2-, UH): ma qualunque sia l'utilità di quest'ipotesi per la spiegazione degli altri fatti dello spirito, non pare che sin (jui se ne sia tirata ([ualche luce per le (piistioni controvei'se relative alla nostra conoscenza. Lo Spencer dà quest'ipotesi come un compromesso tra le due teorie rivali, (juella che ammette dei principii innati o delle necessità congenite al pensiero, e l'altra che spie- ga gli stessi tatti per Tesperienza. Ma mi sembra un'il- lusione di credere che la teoria dell'esperienza possa tirare (]ualche forza dalla sua alleanza con questa ipotesi: le dif- ficoltà, reali o apparenti, della teoria non sono di natura tale che l'ipotesi possa darne una soluzione. (Quando p. e. i filosofi razionahsti affermano clie l'esperienza non può darci delle verità necessarie, e che perciò noi abbiamo il lX)ssesso di (pieste verità sin dall'origine della nostra vita mentale, non è certamente sull'osservazione dei piccoli bambini che essi intendono di fondare la loro afterma- zione: ora è unicamente in (juesto caso che l'ipotesi po- trebbe risolvere la difficoltà. Ma le difficoltà della teoria dell'esperienza sono di tutt'altra natura: alcune di esse non sono che apparenti, e si fondano, come a) ubiamo vi- (1) Il Danviu vede a buon dritto no«^r istinti dogi" insetti neutri (come le formiche e le api operaie), ohe sono i i^iù portentosi fra tutti quelli Clio si siano osservati, un caso dimostrativo contro la dottrina che tutti gl'istinti non sono che delle al)itudini ereditarie. Siccome gl'individui i quali soli lasciano una discendenza, lirin- dividui fecondi, mancano di questi istinti, quindi, nella loro for- mazione, la trasmissione ereditaria degli efletti dell'esercizio o del- l'abitudiue non può avere avuto alcuna pai'te{V. Orinino delle .aporie, negl'intinti). : sto, SU certi preconcetti metafisici, o anche direttamente su certe anticipazioni dell'esperienza, spontanee e natura- li al nostro spirito. Alcune altre invece sono reali, ed esse colpiscono, piuttosto che la teoria stessa, certe a[)plicazio- ni che si è preteso di farne. Ora le difficoltà inerenti a queste applicazioni della teoria dell'esperienza non vengo- no per niente diminuite dairi[)Otesi della trasmissione ere- ditaria. Si e preteso p, e. che la teoria dell'esperienza, con questa modificazione, potesse rendere conto dell'origine delle nozioni di s[)azio inegUo die la teoria stessa inter- pretata al senso ordinario: ma le difficoltà della teoria genetica, come mostreremo nella 2* parte del Saggio se- guente, sono delle difficoltà intrinseche, delle vere impos- sibilità logiche, che alcuna ipotesi sussidiaria, per conse- guenza, non potrebbe risolvere. Non è meno inutile di ri- correre a ([uest'ipotesi per rendere conto di (luelle verità, necessarie [)er cui la spiegazione empirica si trova real- mente in difetto, cioè che sono necessaire nel senso stretto della parola: questa spiegazione n<'jn ne sareljlje raffor- zata, che se la ditferenza tra una proposizione necessaria (in senso stretto) e una i)roposizione contingente potesse essere l'eHetto d'una massa più o meno grande d'esperien- ze, e non dipendesse invece, come abbiamo stabilito nei calatoli precedenti e in questo stesso ca^iitolo, dalla natu- ra differente del contenuto di queste pro[)Osizioni. Per le verità comparative, le quali sono necessarie [)er il fatto stesso che sono comparative, noi non al)))iamo alcun bi- sogno dell'ipotesi: essa potrebbe valere i)er le verità esi- stenziali ; ma noi abbiamo visto die, nel l'atto, non vi han- no verità esistenziali strettamente necessarie (w special- mente i § 2'' e 3^ di questo capitolo). §. 8^ Il padre della filosofia empirista odierna, David liume, ha visto e stabiUto esattamente la distinzione fra le due classi dei giudizi, che i rappresentanti più recenti di (juesta filosofìa hanno misconosciuto. Vi hanno, socondo Home, due classi di giudizi: Tuna concerne le relazio- ni delle idee, l'altra le cose di latto. Le proposizioni ma- tematiche appartengono alla prima; esse esprimono una relazione tra le figure o tra i nimieri. Tali proposizioni si scoprono per mezzo di semplici operazioni della mente, ed in nulla dipendono dalle cose che esistono nell'univer- so. Quand'anche non vi l'osse cerchio né triangolo nella natura, i teoremi dimostrati. da Euclide conserverebbero sempre parimenti la loro evidenza e la loro eterna veritcu Ma le cose di latto sono d'un'evidenza ditlerente. L'opposta di ciascun tatto rimane sempre possibile : esso non implica contraddizione, e (luindi si concepisce cosi facilmente e di- stintamente come se fosse vero. Le proposizioni di questa seconda classe non sono mai ottenute a priori (Saggio i^. Hume sembra credere clie le [>roposizioni della mate- matica, e in generale, (jnelle concernenti relazioni fra le idee, siano fondate sul i)rincipio di contraddizione; il die è certamente un errore. ( )ltre a ciò il fondamento della classazione è in lui espresso d'una maniera poco precisa: cosi egli si è esposto a non essere compreso. Ma non vi ha dubbio che i suoi giudizi sulle relazioni fra idee, i ([uali sarebbei-o sempre veri, (juaiKranche non esistesse alcun oggetto corrispondente alle idee, non siano i i>iu- 1 • (lizi non esistenziali, essendo opposti ai giudizi concernen- ti cose di fatto, cioè esistenziali. Quantunque perciò egli abbia mancato d'indicare cliiarainente che questi rapporti ira le idee sono dei rapporti comparativi (non in verità fra le idee, ma fra le cose stesse, le quali non sono ne- cessariamente reali, ma possono essere semplicemente possibili), tuttavia egli ha tracciato esattamente la linea di separazione fra le due classi dei giudizi, e ha ben vi- sto che alcun giudizio esistenziale ( concernente cose di fatto) non può essere necessario né a priore (1). Notiamo che lo scopo, a cui Hume fa servire la sua divisione dei giudizio, è lo stesso che il nostro, quello di determinare i hmiti della conoscenza a priori, mostrando che alcuna (1) Huxley, nel suo libro su D. Ilunie, (parte II, cap. VI, traduz. iranc. pag. 163-160), critica questa dottrina, ma mi sembra ch'egli H non l'abbia compresa esottauicnte. Naturalmente i suoi attacclii sono diretti sovratutto contro l'apriorità delle proposizioni mate- matiche. Che bisogna intendere, egli dice, per quest' asserzione che le proposizioni di questa specie si scoprono per la sola ope- razione del pensiero, e non dipendono in niente dalle cose che esistono nell'universo ? Le nostre idee dei numeri e delle figure e delle loro relazioni sono, come tutte le altre, copiate sulle nosti'e- sensazioni, e ciò che noi chiamiamo universo non è che la somma delle nostre sensazioni. Supponete che non si produca niente nel- r universo che rassomigli alle impressioni della vista e del tatto: qual idea potremmo avere d'una linea retta, e a più forte ragione d'un triangolo e delle relazioni dei lati d"un triangolo? Cosi pure senza l'esistenza nell'universo d'impressioni corrispondenti all'af- fermazione della somiglianza, è evidente che quest* afiermazione sarebbe impossibile, e (juindi anche l'assioma: « Due quantità egua- li a una terza sono eguali fra loro», che non ne è che un caso- particolare. Senza dubbio nessuno contesterà a Huxley, e tanto meno un seguace di Hume, che le idee su cui volge la matematica derivano dall' esperienza ( proposizione tuttavia che non é vera, in sensa stretto, se non dentro certi limiti ; poiché è evidente che, purché si fossero già ottenute dall' esperienza le nozioni più elementari sulla forma e sulf estensione, basterebbe la dethiizione p. e. del cercliio o dell'ellissi per darci, anche in difetto d'esperienze spe- cifiche, la nozione di queste figure geometriche. Confr. Bain Lo- gica 1. V. e. I. n. 5). Quando Hume dice che le proposizioni della matematica non dipendono dalle cose che esistono nelf universo, egli non vuol dire già, come suppone Huxley, clie noi potremmo formare queste proposizioni anche se non esistessero nell'esperien- za le sensazioni, che sono gli originali delle idee su cui esse vol- gono, o, ciò che vale lo stesso, anche se non esistessero nella na- tura gli oggetti corrispondenti a queste sensazioni; ciò che egli vuol dire è semplicemente che la verità dell'affermazione conte- nuta in una proposizione matematica, è logicamente indipendente dalla verità o falsità dell' offermazione deh' esistenza di oggetti reali, a cui questa proposizione si riferisca. (È ciò che viene spie- «iu SAGGIO PrUMO conoscenza simile non è possilMle sulle cose di fatto cioè suU' esistenza. Ciò basta per giustificare I' empirismo al punto di vista logico, cioè come metodo. In effetto il me- gato Halle pnrole die se^niono iinincliotaniento : «\o„ vi fosse nò cerchio ne triangolo nella natura, lo verità .liniostrate .la Euclide non con,servere.,l,oro mono „er sempre la loro certezza e la loJo evi.lenza». ) Cu. e perché tali proposizioni non concernono resi- stenza n,a solamente, come noi abbiamo si'io-alo, delle relazioni . . ^onnuhanxa a,,| dilTonza. La r.uistionc o dun,|ue. non se le i lee che unisce una proposizione matematica «lerivino .lallesperienza ma se r esr.orionza sia necessaria per -iustificare T afrermazionJ del rapporto che è Io-etto di una fale,.roposizione. Noi abbia- mo .nostrato che non lo è, perchè, i^er conoscere i rai>porti .li so- m.^'lianza e di dilToronzo.allaos.servnzione delle cose stesse si può sostituire <|uella .Ielle i.leo di queste cose A .|uesf asserzione di Iluine che Fen-lenza delle cose di fatto e mleriore a .juella delle relazioni,r i.iee, si puù risi,onderc a-- euinge Huxley, che un gran numero,li cose di fatto non sono che mie relazioni d idee. Se io dico che il rosso non rassomS^ al bleu, 10 |,ronunz.o un giu.lizio su una relazione .lideo ma s.^tratta anche qu, .li una cosa,li fatto. Anche un ricor.lo an^r ma,S tempo stes.so che una cosa .li fatto, una relazione d'idee TercTè esso espnme una .dazione tra l'avvenimento die ci ricordiamo e .1 tempo presento. In questi casi il .-ontrario è inconcepibit come nelle venta matematiche. 11 .contrario .lei,.rimo di .juesti esempi .^ certamente inconcepi- bile; ma 1 esempio o precisamente un .^-'indizio che Ilume avrebbe escluso dalla classe di quelli concernenti cose di fatto pere lònJn antenna niente sull'esistenza, e non vi avrebbe visto che una rela zioi.e tra i.lee. In quanto al giudizio iin,.licato in un ricordo iltro contrario sarebbe, non inconcepibile, ma semplice,, rntr,nc e, bile: se no. ncoi-diamo vivamente e chin.-araentc un Atto,n n^' ^leaen/a die il fatto e accaduto realmente è certnmonfo,v ^rSi r d.Tii i?r ^'^r ^"^ ^-'-• t^" no sIl;: iiiiinoginaie che il fatto avrebbe potuto non accadere n^^oin^a mente o non^fìn^a .T,iv.>^it . «' '-aucic assoiuta- iiit^nte ©accadere d un altra maniera. Il ^nudizio imnlicntn in .,n rorr„umf tfr "''5^ - adotSoTclas : queHi Ì,l e còseTrTT"" -Momento a classario tra etnlr^qu^rii ^.'.iL'tdS VlZ""'toclo a priori e il metodo a posteriori non si disputano le conoscenze sui rapporti comparativi tra gli esseri— in essi, cioè in quelli fra essi che sono suscettibili di uno studio scientifico, il regno del primo di questi due metodi è in- contestato—, ma le conoscenze sugli esseri stessi, le loro proprietà, la loro azione mutua, e in una parola il loro esistere e il loro modo di esistere. r 'firMiioiiiiM yii limi IMipiM^m0>Ì ^J^JAU^JJ^A Fondamento psicologico della necessita e apriorità dei giudizi sulla somiglianza. § 1.^ La necessità di un giudizio non consiste in altro <ihe in una unione inseparabile fra le idee: che i giudizi ^comparativi sono necessari significa dunque che vi ha una unione inseparabile fra le idee dei termini del rapporto e quella del rapporto stesso. L'intuizione ò, piuttosto, il sen-timento della somiglianza (e àdVintensità o grado di questa somiglianza), che è la base e l'elemento di tutti i rapporti comparativi (somiglianza e differenza, identità e non iden- tità di specie o di genere, eguaglianza e ineguagUanza, maggioranza e minoranza, ecc), è indissolubilmente legato alla presenza nella coscienza dei termini comparati: di là la necessità di questa classe di giudizi. E in effetto quando noi diciamo die due oggetti hanno fra di loro un rapporto di somiglianza o di differenza, ciò che vogliamo dire è che i due oggetti, essendoci presentati insieme, producono in noi il sentimento particolare della somiglianza o della differenza; in altri termini, il rapporto fra i due oggetti non ò altro che questo sentimento particolare, in quanta è prodotto da (juesti oggetti. La rappresentazione del rap- porto fra i due oggetti non può essere dunque altro che la rappresentazione del sentimento come prodotto da essi, vale a dire rappresentarseli come essenti in quel deter- minato rapporto, è rappresentarseli come producenti nella coscienza quel sentimento determinato. Ma noi non pos- siamo rappresentarceli come producenti in noi ([uesto sen- timento, a meno che in quest'atto stesso le loro rappre- sentazioni non ce lo producano. Come dunque la perce- zione, o il sentimento forte, di una somiglianza o di una differenza nasce dalla j)resentazione dei termini del rap- porto, cosi l'idea, o il sentimento debole, di questa somi- glianza 0 di questa differenza nas^e dalla rappresentazione di questi termini medesimi. È impossibile che la percezione di termini, i (juali hanno tra loro un rapporto determinato, ci dia la x)ercezione, cioè il sentimento, non di questo rap- lX)rto, ma di un altro differente : della stessa maniera é impossibile che l'idea di questi termini ci dia l'idea, cioè ancora il sentimento, non di questo rapporto, ma di un altro differente. Cosi vi ha un legame invariabile fra la coscienza dei termini e la coscienza del rapporto, tanto se questi termini sono attualmente percepiti, quanto se essi sono semplicemente rappresentati. Ne segue che non jKDtendo noi rappresentarci i termini del rapporto come aventi un rapporto differente da quello che effettivamente hanno, il contrario del giudizio che afferma (questo raj)- porto non i)uò essere concepito, e questo giudizio, quindi, è necessario. Sia p.e. la proposizione; L'uomo è un animale: essa afferma una certa somiglianza fra l'uomo e gli altri es- seri animati. È impossibile di confrontare nella realtà l'uomo con questi esseri senz' avere il sentimento della loro somi- glianza: della stessa maniera è impossibile di comparare le loro idee senz'avere lo stesso sentimento. Noi non possiamo dunque concepire che luomo non sia un animale, per la sem- plice ragione che la rappresentazione dell'uomo, confrontata A con le rappresentazioni degli altri esseri animati, desta ne- cessariamente in noi il sentimento di questa somiglianza che permette di aggregarlo nella loro classe, e non può destare il sentimento di una differenza tale da doverlo escludere da questa classe. Similmente noi non possiamo concepire il contrario della proposizione che due rette non chiudono uno S[)azio, cioè che esse differiscono da uno spazio chiuso, perchè per pensare che non ne dilferiscono, le rappresen- tazioni di due rette e di spazi chiusi dovrebbero produrre in noi un altro sentimento, e non quello della differenza che è invariabilmente legato con (iueste rappresentazioni. Cosi pure ò impossibile di concei)ire che due più due non siano eguali a (juattro, perchè le rappresoli tazioiii di due più due e di ({uatiro dovrebbero perciò unii'si cui senti- mento della disuguaglianza, mentre esse sono costante- mente unite con quello dell'uguaglianza. Le rappresenta- zioni dei termini del rapporto non possono produrci un altro sentimento di rap[)ort() die quello [)r()dotto dai ter- mini stessi : cosi noi non possiamo pensarli che nel ra}> porto che essi hanno in realtà. ì:;n. 2". Ma quando il rapporto che noi |)ensiamo iion può essere conosciuto d'una maniera intuitiva come negli esempi ri[)ortati; quando p. e. noi pensiamo un'eguaglian- za, che non si conosce immediatament(3 o per una sem- plice intuizione come quella di due [)iù due e di quattro, ma che si conosce soltanto per dimostrazione, come è il caso in tutte le eguaglianze enunciate nei teoremi geome- trici; sarà vero anche allora che pensare un rapporto, p. e. d'eguaglianza, è avere il sentimento o l'intuizione di un'eguaglianza fra termini pre^senti nel nostro pensiero? Potrebbe sembrare che no; perchè, se non fosse possibile di pensare un'eguaglianza fra angoli o linee o superficie che alla condizione di avere il sentimento o l'intuizione dell'eguaglianza fra (jueste grandezze nel momento che ce le rappresentiamo, allora ({uest'eguaglianza non sarebbe una verità di dimostrazione, ma una verità d'intuizio- ne. Vi ha (lui dunque una difficoltà reale, che pere) non è insolubile. Per fissare la nostra attenzione sopra un caso concre- to, prendiamo p. e. la proposizione che in un trian^rolo che ha due angoli uguali, i lati opposti a questi angoli sono uguah. Siccome quest eguaglianza, almeno quando si tratta d'un grande triangolo, p. e. d'un campo triango- lare, non può essere intuita per l'immediato confronto dei due lati, dire che questi sono eguali non è altro che dire che essi hanno lo stesso rapporto con una misura comu- ne. Un rapporto d'eguaglianza non può, in ultima anali- si, indicare altra cosa che delle percezioni d'eguadianza che abbiamo effettivamente avuto o che potremmo li vere: ma nel nostro esempio come in tutti gli altri in cui il rapporto non è immediatamente percepito, esso invece d'indicare la percezione unica deireguaglianza immedia- ta, indica tutte le percezioni d'eguaglianza che sono im- plicate nellbperazione della misura. Siccome l'eguaglianza enunciata non ha senso, in questi casi, che relativamen- te all'operazione della misura, cosi concepire quest'egua- glianza non può essere che formarsi una concezione delle eguaglianze percettibili implicate nell'operazione della mi- sura. Ora è evidente che, per pensare queste ultime egua- glianze, noi non possiamo rappresentarci, con una preci- sione rigorosa, i termini fra cui corrono tali rapporti; perchè ciò sarebbe rappresentarci, con una precisione rigo- rosa, tutta roi)erazione della misura, cioè le grandezze "(la misurare, la grandezza che serve a misurarle, e l'applicazio- ne successiva di quest'ultima sulle due prime Se fosse pos- sibile di rappresentarci tutto ciò con una precisione rigo- rosa, (luestamensurazione ideale equivarrebbe ad una men- surazione reale, e, per cpiesta sola operazione mentale, noi potremmo conoscere allora il rapporto enunciato nella proposizione d'una maniera cosi intuitiva come lo cono- I sciamo per roperazi(jne reale dalla misura. Tuttavia noi non possiamo pensare questo rapporto che come consi- stente in certe eguaghanze percettibili ossia intuitive, e non possiamo pensare alcuna di queste eguaglianze se non per un sentimento di rapporto d'eguaglianza datocida due termini presenti nel nostro pensiero. Ciò è neces- sario, perchè la rappresentazione d'un rapporto d'egua- glianza non può essere che la percezione o il sentimento di questo rapporto allo stato debole, e nò possiamo con- cepire che questo sentimento si produca indipendentemen- te dalla presenza nella coscienza dei termini del rapporto, né come esso possa essere la percezione di un rapiX)rto fra termini dati, se non è prodotto dalla presenza nella coscienza di questi termini stessi. Noi dobbiamo dunque ammettere ciie anche in questi casi noi ci rappresentia- mo i rapporti obbiettivi per dei rapporti corrispondenti intuiti fra le nostre rappresentazioni: le coppie dei termi- ni ideali dei rapporti presenti nel nostro pensiero rappre- sentano le coppie dei termini reali dei rapporti che pos- sono essere obbiettivamente percepiti, ma non li rappre- sentano adequatamente ; i primi termini e le loro egua- glianze, piuttosto che le rappresentazioni, nel senso psi- cologico della parola, dei secondi e delle loro eguaglianze, ne sono semplicemente i simboli. Lo Spencer mostra come una gran parte delle nostre concezioni scientifiche non sono che simboliclie (Pruni pHndpìi, e 2^) ; e noi stessi' abbiamo già osservato che le nostre nozioni quantitative sono generalmente più o meno inadequate e simboliche, essendoci impossibile di rappresentarci le cose, al punto di vista della quantità, d'una maniera cosi precisa come ce le rappresentiamo al punto di vista della qualità. Il carattere simbolico, e perciò in un certo modo ar- bitrario, delle nostre concezioni delle eguaglianze, e in generale, dei rapporti comparativi, che non si conoscono d'una maniera immediata o intuitiva, fa che le proposizioni enuncianti questi rapporti, non hanno per sé, rigo- rosamente parlando, rinconcepibilità della negativa. Non- dimeno anche queste proi30sizioni sono necessarie, nel sen- so die. una volta conosciuta la loro verità, noi non pos- siamo supporre che le cose potrebbero andare diversa- mente, come lo iX)ssiarao sempre per le verità esisten- ziali, anche le più evidenti. E la ragione è che noi non IX)ssiamo rappresentarci un rapporto di somiglianza che come dipendente necessariamente dalla natura dei ter- mini del rapporto stesso, tutti i rapporti tali esistenti nel nostro pensiero, o che rappresentino adequatamenteirap- porti obbiettivi, o che ne siano semplicemente i simboli, essendo semi)re concepiti in una connessione necessaria coi loro termini. .^ 3. Latto dunque dello spirito, quando esso percepi- sce 0 pensa un rapì)orto comparativo, è una vera azio- ne riflessa del cervello, nel senso più proprio della pa- rola: i termini del rapporto, quando essi sono presentati d'una maniera conveniente ai nostri sensi o rappresen- tati nel nostro pensiero, ci destano irresistibilmente e fa- talmente il senso del rapporto; la coscienza del rapporto non può avere per condizione che la coscienza dei ter- mini, ed essa è tale, se questi termini sono tali; il rap- porto sentito non i)Otrebbe cangiare, a meno che i ter- mini non cangino. È una necessità primitiva e irredut- della nostra costituzione mentale, un atto prlma-r riamente automatico della nostra intelligenza, e noi non dobbiamo sorprenderci se le necessità acquisite del pen- siero, dovute allassociazione o alFabitudine, quelle che si sono chiamate delle azioni secondariamente automaticJte, non possono competere per la loro forza con (juesta ne- cessità, che è ingenita al pensiero stesso. Ciò che abbiamo detto siùega pure perché le verità comparative possono essere conosciute a priori. Allonta- nate le ipotesi sussidiarie dei razionalisti per ispieirare la possibilità dei giudizi a priori ( dottrina analitica, teoria deirintuiziono razionale, ecc.), la quistione sull'esistenza di questi giudizi si riduce a sapere se esistono o no fra le nostre idee delle connessioni primitive e non derivate dair esperienza. Per le verità esistenziali non vi ha nel nostro spirito alcuna connessione simile: cosi i giudizi che hanno per oggetto queste verità sono tutti a posteriori. Noi non potremmo mai indovinare per la semplice con- templazione deir idea d'una cosa se questa cosa esiste o no nella realtà : similmente é invano che noi ricorrerem- mo alla contemplazione delle idee di due fenomeni per apprendere se il primo suole o no precedere, seguire o accompagnare il secondo. Ciò è perché non vi ha nella nostra organizzazione psichica alcun atto primariamente automatico che associi il sentimento della realtà alla ra})- presentazione di un fenomeno, o (juesta rajjpresentazione a quella di un altro fenomeno antecedente, susseguente o concomitante. La contemplazione delle sole idee ci ba- sta al contrario per vedere se due oggetti sono simili o difterenti, per conoscere che il bleu non é il rosso, che tal gradazione d'un colore é più carica che tal altra, che la retta é più breve della spezzata e della curva, ciie due e due sono eguali a quattro e sono minori di cinque, ecc- Cosi i giudizi sulla somiglianza possono essere a priori, perché T osservazione delle cose può essere sostituita da (juella delle loro idee. E la ragione è che la coscienza di un rapporto di somiglianza essendo invariabilmente le- gata alla coscienza dei termini del rajjporto, essa deve accompagnarla, tanto se questi termini appariscano nel- la coscienza a titolo di realtà, cioè di sensazioni forti, (pian- to se vi appariscano a titolo d'idee, cioè di sensazioni de- boli. 11 legame é lo stesso nell'un caso e neiraltro, e cicV che è vero delle nostre idee si trova necessariamente ve- ro delle cose stesse. i:> 4° Ma qui sorge naturalmente una (piistione : (juando noi confrontando le nostre rappresentazioni, scopria- mo fra di loro un certo rapporto di somiglianza, cioè ot- teniamo da questo confronto un certo sentimento di so- miglianza, noi atlermiamo subito che le cose corrispon- denti alle rappresentazioni hanno lo stesso rapporto, cioè che lo stesso sentimento sarà ottenuto dal confronto di ^jueste cose stesse. Noi dunque, passando cosi dal rappor- to sperimentato fra le idee al rapporto non ancora spe- rimentato fra le cose, facciamo una vera anticipazione suiresperienza futura. Ora si domanda : per lare questa anticipazione, cioè per sapere che i rapporti fra le idee corrispondono ai rapporti fra le cose, ci fondiamo noi sul- lesperienza del passato, la quale ci mostra costantemen- te questa corrispondenza, ovvero agiamo in virtù di una necessità del pensiero, anteriore e indipendente dair espe- rienza stessa ? Noi crediamo che è la seconda supposi- zione che è la vera, e che questo fatto costituisce un'ec- cezione alla teoria deir esperienza, l'unica eccezione per altro che vi sia, pc»ichè è su questo fatto che riposa in defi- nitiva il carattere a /)r/or/ di tutte le conoscenze razionali. Sia p. e. la proposizione: due più due sono eguali a quattro, e supponiamo un'intelligenza che venga a conoscere per la prima volta questa verità, per il confronto delle solo idee. Se si conviene che questa è una verità necessaria nel senso più stretto, e che il suo contrario è inconcepibile, deve ammettersi pure che quest'intelligenza, non potendo concepire che due coppie di cose reali fossero ineguali a quattro, non aveva la possibilità di dubitare clie il rap- porto fra le cose reali dellesperienza potesse diflerire dal rapporto che essa veniva a scoprire fra le sue idee; e che essa era forzata quindi, anteriormente alle lezioni dell'espe- rienza, ad estendere alle cose stesse ciò che le era stato ap- preso dalla contemplazione delle sole idee. Tuttavia si sup- r)orrà forse che, quantunque questa credenza spontanea che i rapporti percepiti fra le nostre idee corrispondono ai rapporti percepibili fra le cose, non sia un risultato del- l'esperienza, l'esperienza possa almeno giustificare in se- guito quest'anticipazione che noi facciamo spontaneamente sull'esperienza stessa. Anche questa supposizione sarebbe, secondo nt»i, un errore; perchè il sentimento del rapixDrtO' essendo indissolubilmente legato alle idee dei termini del rapporto, ogni verificazione sperimentale deiraftermazione si3ontanea di cui si tratta, sarebbe, se ben si riflette, im- possibile. Infatti questa verificazione implica che noi. ci rappresentiamo fedelmente per la memoria i rapporti per- cepiti, tanto in realtà quanto in idea, cioè i termini di questi rapporti, si i reali che i rappresentati, in connesione con le percezioni dei rapporti stessi. Ora, rappresentarci una somiglianza o una differenza, o, ciò che vale lo stesso, la percezione di una somiglianza o di una differenza, non essendo altro, come abbiamo visto, che percepire attual- mente questa somiglianza o questa differenza fra le no- stre rappresentazioni; siccome la rappresentazione dei ter- mini di uno di tali rapporti produce necessariamente nel nostro pensiero la percezione di questo rapporto; ne segue che noi non potremmo altrimenti rappresentarci nella me- moria questi termini che col rapporto determinato che percepiamo fra le loro rappresentazioni, e la credenza nella veracità della memoria non è qui che un caso par- ticolare di questa credenza spontanea nella corrispondenza dei rapporti rappresentati, cioè percepiti nel pensiero, coi rapporti reali, cioè percepiti o percepibili fra le cose stesse. Questa corrispondenza fra il pensiero e la realtà deve ammettersi dunque senza prova : essa è un'affermazione primitiva e indimostrabile, un postulato indispensabile della nostra intelligenza. §. 5.° A ciò che è stato detto nel paragrafo precedente,, dobbiamo aggiungere un'altra osservazione: quando noi diciamo che due oggetti sono simili o differenti, noi non intendiamo di dire semplicemente che la presentazione a «•!»la l'iippresentazione di questi oggetti ci produce attual- mente il senso della somiglianza o della differenza ; ma che la somiglianza e la differenza appartiene realmente agli oggetti stessi. Siccome un rapporto di somiglianza e di differenza non è niente di obbiettivo, die possa esistere iuori della nostra coscienza, questa proposizione, che la somiglianza e la differenza appartengono realmente alle cose, non significa altro se non che le slesse cose pro- ducono in noi costantemente e necessariamete la perce- zione degli stessi rapporti. ( )raquest'ari'ermazione implicata in tutte le nostre affermazioni di rapporti di somiglianza e di ditl'erenza, è ugualmente spontanea ed ugualmente incapace di una verificazione sperimentale; o piuttosto essa non può essere sottoposta a questa verificazione, se non si ammette la veracità della memoria dei rapporti che abbiamo perce- pito, e quindi il postulato della corrispondenza dei rapporti rappresentati, cioè intuiti fra le nostre idee^ coi rapporti intuiti 0 intuibili nella realtà, cioè fra le cose stesse. Noi vediamo dunque che (|uesto postulato è implicato in tut- te le affermazioni sulle somiglianze e sulle differenze, e che tutte le conoscenze che hanno per oggetto (juesti rap- porti possono riguardarsi come dedotte dalF esperienza, ma purché si ammetta come un' altra premessa questo postulato. Come infatti Fesperienza può dimostrare Tuni- Ibrmità delle nostre percezioni di somiglianza, ma alla condizione che si prenda per accordato questo principio indimostrabile; cosi è sull'osservazione che si fondano le verità sulla somiglianza che noi apprendiamo per il solo pensiero— sulFosservazione delle idee se non su quella del- le cose—, e ciò che in esse oltrepassa la semplice osser- vazione, non è che l'applicazione alle cose di ciò che ab- biamo osservato nelle idee, fatta in conformità di questo principio incUmostrabile. Tutto ciò che postulano i nostri giudizi sulla somiglianza, è dunque contenuto in questo j)Ostulato; ed esso non è una conoscenza a priori, ma la conoscenza a, priori, a cui si riduce tutto ciò che vi ha •di a priori nelle nostre conoscenze. .^ ()'' La nostra proposizione che le conoscenze sulle somiglianze possono ottenersi a priori, non deve inten- dersi nel senso che tutte queste conoscenze sono eflètti- vamente ottenute cosi. L' apriorità dei giudizi sulla so- miglianza non consiste che nella possibilità di conoscere i rai)porti tra le cose per la comparazione delle idee di (jueste cose. Óra quando la comparazione di due cose non ìjasta ad istruirci sul grado preciso della loro somiglian- za ( come avviene nella più parte dei casi in cui si trat- ta di rapi)Orti fra grandezze), la com])arazione delle lo- ro idee potrà istruircene ancora meno. Di più, per quan- to vivamente noi ci rappresentiamo gli oggetti, le nostre rappresentazioni non raggiungono mai il grado di nettez- za e di distinzione che sarebbe necessario })erchè una comparazione ideale equivalesse, in tutti i casi, ad una comparazione reale. Cosi in molti casi le nostre conoscen- ze sulle somiglianze sono altrettanto emi)iriche quanto quelle sulle sequenze o sulle coesistenze. (Quelle stesse di queste conoscenze che sono a j)riori, cioè che noi possia- mo ricavare dal semplice esame delle idee, non sono tut- te egualmente indii)endenti dairesperienza. Bisogna distin- guere tra verità intuitive e verità (T inferenza. L'indi])en- denza assoluta daires])ericnza non ai)partiene che alle pri- me: tali sono le proposizioni cosi dette analitiche, e tra i principii della matematica ; le proposizioni più semplici sulle eguaglianze numeriche che la scienza dei numeri non può a meno di supporre come immediatamente co-, e alcuni assiomi della geometria, (juali (juelli della retta e del piano, e quelli che il tutto è maggiore della parte, e che due grandezze che concidono sono egua- li (sono quei principii che il Bain dichiara analitici). La conoscenza di una di queste verità in un caso particola- re è sempre immediata, non è mai un'inferenza che noi tiriamo dai casi anteriormente sperimentati a un nuovo caso. Per essere certi che due grandezze date che coincidono sono eguah, noi non abbiamo bisogno di fondarci, né con- sapevolmente né inconsapevolmente, su questa premessa che in tutti i casi che abbiamo anteriormente conosciuti^ due grandezze coincidenti ci sono parse sempre eguali; ci basta perciò di vedere o d'immaginare la coincidenza di queste due grandezze particolari, perche noi non i30s- siamo percepire né in alcun modo rappresentarci due gran- dezze come coincidenti, senz'avere la coscienza immediata,, cioè r intuizione, della loro eguaglianza. Similmente, se noi sappiamo che due fiorini e due fiorini fanno quattro fiorini, non è una conclusione dall'esperienza passata, che ci ha appreso che due coppie d' oggetti danno costante- mente un totale di quattro; noi abbiamo l'esperienza pre- sente di questa verità, paragonando, tanto nella semplice immaginazione quanto nella realtà, due coppie separate di fiorini con quattro riuniti. Al contrario, quando nella dimostrazione di un teorema noi invochiamo uno degli assiomi generali sulle eguaglianze, noi conosciamo l'egua- glianza particolare che ne concludiamo, non intuitivamente, ma per una deduzione fondata, come qualsiasi altra, sopra un'induzione antecedente, cioè sopra una generalizzazione dell'esperienza passata. Questi assiomi dunque, sui quali sono fondate le inferenze nella scienza dei numeri e nella geometria metrica, sono, in quanto costituiscono la base di queste inferenze, dei principii induttivi e sperimentali, come sono induttive e sperimentali le verità particolari che se ne inferiscono. Cosi le verità a priori sulle somi- glianze, quando non sono intuitive ma d'inferenza, sono a priori in un certo senso, in un altro sono a posteriori : sono a posteriori in quanto riposano sull'induzione, come le verità sperimentali propriamente dette; e non sono a priori che in quanto le osservazioni, su cui le induzioni sono fondate, non hanno bisogno di essere fatte sulle cose I '' I ti Sn Stesse esteriori, ma basta che siano fatte sulle idee di queste cose. Noi abbiamo visto che le verità di questa classe, cioè le inferite, sono delle concezioni simboliche: un giudizio comparativo intatti, in cui le rappresentazioni sono per-- rettamente adequate alle cose rappresentate, non può non essere una conoscenza intuitiva (Ij. §. 7^ Prima di finire questo capitolo, dobbiamo ritor- nare su alcune osservazioni già fatte nel capitolo >, ma di cui ora il lettore è più in grado di giudicare la verità. La dottrina razionalista contiene due gravi difficoltà in- trinseche, che i filosofi di questa scuola cercano vanamen- te di risolvere per le ipotesi sussidiarie ch'essi aggiungono alla loro tesi principale. L'una è che bisogna ammettere altrettante necessità del pensiero indipendenti quante sono le conoscenze supposte a priori, cioè propriamente quante sono quelle fra di esse che non possono dedursi da altre conoscenze più generali. L'altra è l'armonia prestabilita che essa suppone tra lo spirito e le cose, il carattere for- tuito e l'inesplicabilità, nei giudizi a priori, della coinci- tra il pensiero e la realtà. La nostra propria tesi, che non ammette altri giudizi tali che quelli sulle somi- glianze, è esente da queste difficoltà, e non ha bisogno di ricorrere ad ipotesi, come quelle dei razionalisti, senza base e inconcepibili. Essa non suppone altro d'innato nello spirito che la facoltà di parcepire un rapporto di somiglian- za, altra necessità del pensiero ciie il legame tra la pre- senza nella coscienza dei termini di questo rapporto e il sentimento del rapporto stesso. In questo caso la corri- ci) Il termine conoscenza intuìtica ha due sensi : in uno vuol dire conoscenza Immediata, e si oppone a conoscenza dedotta o d'in- ferenza; è in questo senso che lo abbiamo usato nel testo. Nell'altro significa che nel pensiero vi ha la rappresentazione adequata della cosa pensata, e in questo senso intiUUro si oppone a Minbolico. Le conoscenze matematiche che sono intiUtice in questo secondo» senso, lo sono necessariamente anche nel primo. S9BB 1 spondenza fra il pensiero e le cose non ha niente di mi- sterioso: il sentimento del rapporto essendo invariabilmente legato alla presenza dei termini del rapporto nella coscien- za, il rapporto è ugualmente sentito tanto se questi ter- mini sono presenti alla coscienza come presentazioni dei sensi, (pianto se lo sono come rappresentazioni delFimma- ginazione, e i rapporti osservati tra queste rappresenta- zioni non possono non corrispondere a quelli osservabili tra le cose rappresentate (Cont'r. cap. 3^ § 6*'). In ultima analisi, le proposizioni necessarie ed a priori sono tali, perchè le verità che esse enunciano, non volgono sulle cose stesse, sulla realtà obbiettiva, ma non sono che delle vedute del nostro spirito. Non vi ha tra i fenomeni che noi chiamiamo del mondo esterno, alcuna connessione tale, che Tapparizionc deir uno nella coscienza sia invariabil- mente legata all'apparizione dell'altro : se cosi fosse, la connessione tra questi due fenomeni sarebbe subbiettiva, e non obbiettiva. È dunque perchè il rapporto di somi- glianza è subbiettivo e non obbiettivo, che esso può co- stituire una necessità del pensiero; ed è per la stessa ra- gione che noi possiamo apprendere in noi stessi le veri- tà 0 le leggi che corcernono quest'ordine di rapporti. L' inconcepìliflit/i della negativa e il postulato universale. Noi abbiamo visto nel capitolo antecedente che vi hanno dei principii intuitivi o immediatamente cono- sciuti, che noi dobbiamo ammettere senza prova: il cri- terio della validità obbiettiva di questi principii è che la loro negazione sarebbe per noi inconcepibile. Ora qui si presenta naturalmente una quistione: non potremmo noi estendere ad altre proposizioni lo stesso criterio ? non po- tremmo, in virtù di questo stesso criterio, ammettere, senz' altra prova, la validità oìjbiettiva d' una credenza, fondandoci sulla jjersistenza con cui questa credenza è presente nella nostra coscienza? non j30trebbe di più questo criterio essere il criterio unico della verità, il postulato universale, in modo che la prova di una verità partico- lare non consista in altro, in definitiva, se non a mostrare che la negazione di questa verità sarebbe incompatibile con Taffermazione di qualche altra verità più fondamen- tale, la cui persistenza nella coscienza è assoluta, e la cui negazione ò per conseguenza impossibile ? Lo Spencer am- mette tale dottrina: Tinconcepibilità del contrario è secon- do lui il criterio unico della verità, e il postulato universale è che noi dobbiamo ammettere come vere le propo- sizioni il cui contrario è inconcepibile. Questo criterio ga- rantisce secondo lui la verità delle credenze naturali die i discepoli di Berkeley si sforzano di negare: di più è sullo stesso criterio che si basano le generalità più alte della scienza; e siccome queste generalità sono le premesse ul- time della conoscenza umana, oltre i fatti particolari e im- mediati delFesperienza, la cui verità é del pari garantita dallo stesso criterio, cosi è su di esso, in definitiva, che è fondata tutta la certezza delle nostre conoscenze. Lo Spencer comincia per istabilire, sul fondamento del suo postulato universale, il principio della persistenza della materia: noi non possiamo concepire, secondo lui, che la materia possa crearsi o distruggersi, ed è perciò che am- mettiamo che la quantità della materia è inalterabile^ che essa non può accrescersi né diminuire. A ciò potrebbe obbiettarsi prima di tutto che^, quan-^ tunque la creazione e Tannientamento della materia siano- dei fatti, non solo difficili ad essere creduti, ma anche ad essere immaginati, tuttavia una proposizione enunciante questi fatti non è assolutamente inconcepibile, come è p. e. la proposizione che due e due fanno cinque o che due rette chiudono uno spazio. Secondo i principii degli stessi sostenitori della dottrina dcir associazione inseparabile, mancano in questo caso le condizioni per la formazione ili im legame indissolubile fra le idee, cioè l'assenza di associazioni contraddittorie (1). « Nella nostra esperienza giornaliera vi ha, dice Mill, tutto ciò che bisogna per im- maginare Tannientamento della materia. Noi vediamo un annientamento apparente, quando Tacqua si evapora o il combustibile si consuma senza lasciare residuo visibile. IL fatto non potrebbe presentarsi a noi sotto una forma più palpabile se Tannientamento fosse reale. Il volgare di tutti (1) V. Stuart Min Filosofia lU Hamilton e. XIV. ^^^*-^>-v_''S.'- /i paesi ha un tipo esatto sul quale può formare la sua concezione deirannichilamento della materia, e per con- seguenza non ha difficoltà a farsene un' idea perfetta ». (Filos. di Hamilton e. XVI, pag. :M2 trad. frane). Se non che, secondo Spencer, la necessità delle pro- posizioni che la materia non si crea né si annienta, non é fondata suir associazione empirica delle idee : esse ap- partengono invece a un' altra classe di proposizioni ne- cessarie 0 aventi per sé V inconcepibilità della negativa. Queste s^jno per lui fondate, non suUesperienza, ma so- pra una necessità primordiale del pensiero; in altre pa- role, esse sono delle conoscenze a priori, nel senso più stretto di questo termine. La ragione, secondo Spencer, per cui noi dobbiamo necessariamente ammettere la per- sistenza della quantità della materta è, lo sappiamo, per- ché noi non possiamo concepire la creazione e lannien- tamento della materia : ma ])erchè non possiamo conce- pire questa creazione e (jucsf annientamento ì ci(') é se- condo Spencer perché noi non possiamo concepire il nien- te. « Il pensiero, egli dice, é una posizione di relazioni. Non si possono porre relazioni, e per conseguenza pensa- re, quando Tuno dei termini relativi é assente dalla co- scienza. \\ dunque impossibile di })ensare che qualche co- sa divenga niente per la stessa ragione per cui é impos- sibile di pensare che niente divenga qualche cosa; e (|ue- sta ragione é che niente non può divenire un oggetto di coscienza. L'annientamento della materia é inconcepibile per la stessa ragione per cui la creazione della materia é inconcepibile; e la sua indistruttibilità diviene cosi una conoscenza a priori dell'ordine più elevato, non come ri- sultato d'una lunga serie d'esperienze gradualmente or- ganizzate in un modo di pensiero irrevocabile, ma come data nella forma di tutte le esperienze qualsiansi ». {Primi principii ^ 5."J). Lo Spencer non si dissimula l'obbiezione a cui questa dottrina naturalmente va incontro. « Sembra assurdo di dire che una proposizione non può essere concepita, quando Tumanità tutta intera la professione di concepirla, e la grande maggioranza degli uomini crede ancora di concepirla » ( ibìcL) Ma « la dottrina comune- mente ammessa che la materia è stata creata dal niente, non è mai stata, egli risponde, concepita realmente,' ma solo simbolicamente; cosi pure Tannientamento della ma- teria non é stato concepito che simbolicamente, e si è presa a torto una concezione simbolica per una conce- zione reale» (ìbkl). § 2*\ È evidente che non è necessario di concepire il niente per concepire una perdita assoluta o un nuovo acquisto di materia: un cangiamento nella quantità della materia non Im bisogno di altre condizioni per essere pensato che un altro cangiamento qualunque. Rappresen- tarsi un cangiamento è semplicemente rappresentarsi de- gli stati successivi digerenti : cosi pensare un cangiamento nella quantità della materia non è che pensare due stati: successivi delle cose in cui la quantità della materia sia digerente. Tuttavia quando Spencer dà la legge delFindi- struttibilità della materia per una conoscenza a priori e per una verità necessaria, la sua tesi non ha la stessa aria paradossale, che quando egli atlerma che i medesimi caratteri di necessità e di apriorità convengono al prin- cipio deirindistruttibilità del movimento f§ 56). La mas- sima che Tessere non può venire dal niente né ridursi in niente ha avuto sempre del credito, fondata com'essa è sulla generalizzazione di fatti dei più familiari, e in conformità di questa massima gli antichi llL^sofì greci ammettevano generalmente Teternità e Timmutabilità della sostanza, che per loro non era al fondo che il principio materiale. Ma la legge della persistenza del movimento, lungi di poter invocare lappoggio delle nostre esperienze più familiari, queste le sono anzi apparentemente contra- rie. Sinché la scienza non c'insegna il contrario, noi dob-1/ biamo credere necessariamente che il movimento si crea, perchè ogni essere animato sembra di avere il potere di crearne ad ogni momento, e che il movimento si anni- chila, perchè noi vediamo che ogni corpo in moto si ral- lenta continuamente e finisce per ritornare in riposo. Lo Spencer non può naturalmente dissimularsi questa obbie- zione ; ma egli dà la soUta risposta : « La distruttibihtà del movimento non è stata mai concepita (quantunque i Greci non abbiano potuto mai disfarsi di questa nozione, ed essa si sia im[)0sta sino a Galileo); essa è sempre stata una pura forma verbale,una pseudo— idea» (§ .jG; confr.§ 55). La ragione per cui non possiamo concepire la crea- zione e Tannichilazione del movimento è la stessa per cui non possiamo concejjire la creazione e F annichilazione della materia; cioè che noi non possiamo concepire il nien- te (§ 5G). Ma nel caso del movimento Targomonto non è cosi specioso come in quello della materia : è cliiaro che della stessa maniera si potrebbe provare che tutto ciò che è suscettibile della nozione di quantità non può essere an- nientato ; che la S(jmma p. e. di vita o di benessere o di intelligenza o di moralità, ecc. è indistruttibile nel mondo; che alcuna porzione di ciascuna di ({ueste cose non può sparire in un punto senza che riapparisca in un altro il suo equivalente quantitativo. Anzi por una china inevita- bile si arrivereblDC alla tesi di Parmenide, clic non vi lia alcun cangiamento nella natura, e non esiste che Tessere unico ed immutabile, perchè se si considera come una creazione e un'annichilazione un cangiamento nella (juan- tità del movimento, non vi ha ragione per non considerare ogni cangiamento qualsiasi come una creazione ed una annichilazione. § 3^. Evidentemente T indistruttibilità del movimento non potrebbe riguardarsi come una conseguenza del prin- cipio che T essere non può venire dal niente e non può annichilarsi, se non considerando il movimento, non come mmm-.i iriMMa IIBiMùlilMIIIIBI un'astrazione, ma come una realtà, cioè supponendo, come quei cartesiani di cui parla Leibnitz (X. S. salV Interni, ipn. 1. 2" e. 21 § 4 e e. 23 § 28), che quando il movimento passa da un corpo ad un altro, è rigorosamente lo stesso movimento (idem numero) che si trasferisce, come se esso fosse qualche cosa di sostanziale, e « rassomigliasse a del sale disciolto nell'acqua ». Ora, non solo sareÌ3be assurdo di pensare che il movimento guadagnato da un corpo sia individualmente la stessa cosa che il movimento perduto da un altro corpo, ma ancora essi differiscono in tutti i punti in cui un movimento può differire da un altro, la velocità e la direzione cangiando continuamente nelloscambio dei movimenti. «Che si cominci^ dice il Lange, per risolverci il i)roblema del i)arallelogrammo delle forze, se si vuol farci credere alla persistenza della cosa. O una forza che agisce con T intensità x, nella direzione ab, è pure incontestaJjilmente la stessa cosa, (juando la sua a- zione s'è fusa con un'altra forza in una risultante dell'in- lensità // e della direzione a d ì Si certo, la forza primi- tiva è ancora contenuta nella risultante, ed essa continua a perseverarvi, quand anche nelFeterno turbine dell'azione e della reazione meccanica, l' intensità primitiva x e la direzione a h non riapparissero mai. Dalla risultante io posso, j)ei' cosi dire, estrarre la forza i)rimitiva, se io sop- primo la seconda forza componente per mezzo d'una forza uguale d'una (Urezionc opposta, (jui dunque io so ciò che devo intendere o no per conservazione della forza. Io so, e bisogna che io sappia, che l'idea di conservazione non è che una concezione comoda. Tutto si conserva, e niente si conserva, secondo il punto di vista al quale io mi pon- go nella contemplazione dei fenomeni. La verità sta uni- camente negli e(iuivalenti della forza che io ottengo per il calcolo e l'osservazione » (Storia del materialismo v. 2^^ parte 2* e. 2*^). L'affermazione stessa che la quantità del movimento (ciò che comunemente si dice il momento) è costante, non è una espressione rigorosamente adequata dei fatti: essa non è vera, se non in quanto si considera come po- sitivo il movimento verso un lato, e come negativo quello verso il lato opposto, e questo si sottrae cosi dal primo, nel calcolare la quantità del movimento dopo l'incontro di due corpi. Ma questa è una finzione, due movimenti in senso contrario essendo evidentemente amendue reali e positivi allo stesso titolo. Ben più, la scienza moderna distingue le energie attuali e le energie potenziali: quando un mobile viene proiettato m alto, lottando cosi contro la forza del peso, viene un momento in cui la forza meccanica si esaurisce; la perdita di movimento da una parte non è compensata dalla produzione, da un' altra parte, di movimento o di calore o di un' altra manife- stazione qualunque dell'energia. Ma il corpo acquista una nuova posizione vantaggiosa rispetto alla gravita- zione: esso può, cadendo, .restituire col suo movimento in basso l'energia perduta nella sua ascensione. In que- sto caso si dice che l'energia attuale del movimento viene compensata dall'energia potenziale della situazione; che la prima viene accumulata e tenuta in riserva mentre che il corpo persiste nella nuova situazione acquistata, per essere poi restituita nel ritorno verso la situazione primitiva. Ma il fatto è che nello scambio incessante fra le energie attuali e le energie potenziali vi ha cessazione o generazione di movimento; che al movimento si sosti- tuisce il riposo, e al riposo il movimento; che non è che una semphce metafora di dire che l'energia del movimen- to perduto si trova accumulata, immagazzinata e tenuta in riserva nel corpo in riposo. La scienza moderna sup- pone che è dal movimento di attrazione, dovuto alla si- tuazione primitiva degli elementi i quali attualmente com- jjongono la massa del nostro sistema solare, che è nato, mediante l'urto, il calore, e di là tutte o la maggior parte delle Ibrze che esistono attualmente nella terra o in generale in questo sistema: queste forze dunque sono^ state letteralmente tirate dal niente, perchè il loro ante- cedente non fu del movimento meccanico o un'altra ma- nifestazione qualunque delFenergia, ma semplicemente la posizione iniziale dei corpi o delle molecole. Ma anche limitandoci al caso più semplice della co- municazione del movimento, cioè quando un corpo ne urta un altro e il movimento perduto dal primo ha per equi- valente totale il movimento, verso la stessa parte, acqui- stato dal secondo, la proposizione che il momento o la quantità del movimento resta la stessa, non deve darci riilusione di credere che vi sia un'identità o anclie sem- plicemente un eguaglianza nei fenomeni. 11 momento o la quantità del movimento non è die il prodotto della massa per la velocità : ma la massa non si misura che per la spesa di una forza esteriore necessaria per indurre nel corpo un' accelerazione data. La valutazione della quan- tità del movimento suppone cosi la valutazione della massa, e la valutazione della massa suppone alla sua volta la valutazione della quantità del movimento. L'affermazione che la quantità del nìovimento è costante implica l'after- mazione che la massa è costante; ma l'aftermazione che la massa è costante implica alla sua volta l'atfermazione che la quantità del movimento è costante. Sarebbe que- sto adunque un circolo vizioso, se si volesse vedere in queste due proposizioni altra cosa che una maniera di esprimere certi rapporti costanti tra le velocità nello scam- bio dei movimenti. La velocità perduta dal corpo A sta alla velocità acquistata dal corpo B nel rapporto di 2 ad 1 : ciò si verifica una volta; noi siamo fondati ad inferire che tutte le volte che il corpo A comunica del movimento al corpo B, questo rapporto sussiste. Di più quando è il corpo B che comunica il movimento al corpo A, lo stesso rapporto sussisterà tra la velocità accjuistata da A e la velocità perduta da B. Ancora, se il rapporto delle velo- cità scambiate tra i corpi C ed A è quello di 3 a 2, il rap- porto delle velocità scambiate tra A e B essendo di 2 ad 1, noi siamo fondati ad inferire che il rapporto delle ve- locità scambiate tra C e B sarà di 3 ad L Nello scambio dei movimenti avviene come nello scambio delle merci : ima data quantità di velocità acquistata o perduta da un corpo ha per equivalente un'altra quantità data di velo- cità perduta o acquistata da un altro corpo, della stessa maniera che una quantità data di una merce ha per e- quivalente un'altra quantità data di un'altra merce. La massa, nella fìsica, non è che relativa, come il valore nella economia politica : il rapporto delle masse di due corpi non è che il rapporto inverso delle velocità che i due corpi possono scambiarsi. Ciò che nel movimento corrisponde a un dato immediato dell'esperienza, è dunque la velocità soltanto, ma non la massa; e le leggi (luantitative del movi- mento non sono che i rapporti quantitativi delle velocità. Ora come nello scambio delle merci una quantità dell'una non si sostituisce alla stessa quantità dell'altra, ma ad una quantità equivalente, cosi nello scambio delle velocità tra i corpi, una quantità di velocità di un coppo non si sostituisce alla stessa quantità di velocità dell'altro, ma ad una quantità equivalente. Ne segue che il principio della indistruttibilità del movimento, nei limiti in cui esso si verifica strettamente, non esprime un'eguaglianza (juantitativa, ma solo un equi- valenza, tra i movimenti, cioè tra le velocita, che si suc- cedono : esso non afferma se non che vi hanno dei rapporti costanti, secondo cui le velocità dei corpi" possono reciprocamente sostituirsi. D'una maniera analoga, la legge della conversione e della trasformazione dell'energia non afferma che delle equivalenze, cioè dei rapporti costanti, nello scarnino o nella sostituzione reciproca dei differenti stati dei corpi che noi chiamiamo energie: tanto di mo- vimento meccanico si scambia costantemente con tanto di calore e con tanto di elettricità, altrettanto di calore scambiandosi pure costantemente con altrettanto di elet- tricità, ecc. Se dunque la legge della conservazione della forza non afferma che dei rapporti qnantitativi costanti nello scambio incessante dei fenomeni, come s'intenderà che questa legge non ò che una conseguenza del princi- pio assiomatico che Y essere non può crearsi e non può annientarsi? Ci sembra in verità che si avrebbe la stessa ragione di provare, in virtù di questo preteso principio, che il valore delle merci deve conservarsi, che esse con- tinueranno perpetuamente a scambiarsi con gli stessi raj)- porti, perchè, si potrebbe dire, se il valore di una merce aumentasse, allora (lualche cosa verrebbe dal niente, e se qu-^sto valore diminuisse, allora qualche cosa divente- rebbe niente. § 4.^ Deve notarsi [)erò in favore deirargomentazione <ii Spencer ciregli considera il movimento come la ma- nifestazione di queir entità misteriosa che si chiama la Forza, e che cosi il principio della conservazione delFe- nergia non esprime per lui dei s(;mplici rapporti costanti tra i fenomeni, ma un attributo di questa entità. La dot- trina della conservazione della forza sembra aver sugge- rito anche a parecchi pensatori moderni Tidea che la la forza sia un quid in l'uso nella materia, come del sale discìolto neir acqua. Una volta che si è sostantificata quest'astrazione : « la forza », cioè la capacità di produrre del movimento, una mera possibilità, siccome noi non abbiamo altro tipo per rappresentarci una sostanza che la materia, sembra allora una cosa naturale, non semljra più un mistero, che questa forza sia immutabile e per- manente, che essa non possa venire dal niente nò ridursi in niente, precisamente come Tesperienza più familiare ci ha appreso della materia. Cartesio, che considerava Dio come la forza, deduceva dalla immutabilità di Dìo rimmutabihtà della quantità del movimento: ora si sostan- sé tifica ugualmente la forza, ma invece di divinizzarla si ma- terializza, e dopo ciò sembra logico di dedurre Findistrut^ tibilità del movimento dalla indistruttibilità di quest'altra specie di materia (I). (1) Lo Spencer non è il solo che pretenda di fondare la legge della conservazione dell'energia sul principio che niente può crear- si né distruggersi; quest'idea si legge, al contrario, in una molti- tudine di scritti sia filosofici sia scientifici. Anche degli autori che non pensano d' altronde a realizzare la forza, cioè che non am- mettono delle forze trascendenti distinte dalle loro manifestazioni: fenomeniche, si esprimono nondimeno dalla stessa maniera come se anch'essi fossero incosciamente guidati della vaga concezione della forza o del movimento come qualche cosa di separabile, o di sostanziale. P. e. S. Robert {Co^' è la forz-aì, nel libro di Bal- four— Stewart Comerc-azione delV energia, bibl. scient. internaz., in frane, pag. 199;, dice: «La somma di tutte le potenze di un si- stema lasciato a se stesso è costante In cfletto la ragione non può ammettere che qualche cosa possa annientarsi o essere tirata dal niente». Lo stesso Stallo (quantunque sia un avversario deciso di questa metafìsica che i fisici fanno senza saperlo, come, per dirla con Hegel, il borghese gentiluomo faceva della prosa senza saperlo), dice {La materia e la finca moderna, trad. frane, p. 47): « In un senso generale questa dottrina ( della conservazione della energia) rimonta all'aurora dell'intelligenza umana. Essa non è che r applicazione di questo semplice principio : niente non put> venire da niente.» Il principio degli antichi filosofi greci, che l'essere non può ve- nire dal niente ne ridursi nel niente, e che non vi ha veramente né generazione né distruzione (è ad esso che pensa lo Stallo, di- cendo che la dottrina della conservazione dell'energia rimonta all'aurora deirintelligenza umana), non implicava alcuna nozione meccanica determinata - noi esamineremo il senso e lo porta- ta di questo principio nel Saggio II, Appendice alla parte I. — 1 Greci erano necessariamente nell' illusione, creata dalle ap- parenze giornaliere, che ci mostrano ad. ogn' istante una distru- zione completa del movimento, senza lasciare alcun equivalente osservabile : cosi, nella piena maturità della loro filosofìa, tutti sentivano la necessità di ammettere una sorgente permanente del movimento, che per gli spiritualisti (come Platone ed Aristotile)- era il principio spirituale o animico, e pei materialisti (gh epicu- rei) era il peso degli atomi. La legge d'inerzia, nel senso della fi- Spencer non considera la ibrza come un (luid in- fuso nella materia; ma non è meno evidente perciò ch'e- gli la considera come una sostanza. « La l'orza come essa esiste fuori della nostra coscienza non è la forza come noi sica moderna . non fu mai sospettata dagli anfichi. Aristotile di- mostra elio una forza Unita non vniò muovere che i>er un tempo finito, basandosi sul princii>io, che in realtà è conforme alle pri- me lezioni doUesperienza, che una forza maj?iiiore muove per un tempo maggiore, e una forza minore per un tempo minore. (P/ì//ò*. vni. X ech'z. Didot). lìen più. questo filosofo ammette che un cor- po spinto non si muovo, in virtù della spinta, che sinché è tocca- to dal corpo che lo spingo, o che cosi la continuazione del movi- mento suppone ad ogn"istante una .nuova impulsione. ( Phijs. IV, vili, 5, Vni, X. 5). Platone è della stessa opinione: la continuazione del movimouto d'un corj'O lanciato avviene, secondo lui, perchè questo fende laria, la quale, ripiegandosi attorno di esso, lo spin- ge di dietro ( Timeo HO a). Aristotile adotta la stessa teoria: egli suppone i>uro che è la reazione continua dell' ambiente che sola mantiene il movimento. 1 commentatori d'Aristotile, pur dunitan- do della sua teoria, non gli contestano però la necessità d' un' im- pulsione senza cessa rinnovellata per la continuazione del movi- mento (V Martin Timeo voi. H pag. 543, nota 173 § li). AgU anti- chi . nei loro tentativi per ispiegare 1' accelerazione nella caduta dei gravi, non venne mai in mente che essa potesse essere dovu- ta air azione continua della forza del peso e alla conservazione della velocità ac(iuistata. La nozione di rapporti quantitativi pre- cisi nei fenomeni del movimento non poteva esistere ancora in ciuci- lo stato primitivo della scienza: gli oyùcurei pare che immnginas- sero che un cori)0 sottile può trasmettere il suo movimento a un altro corpo più grosso o più denso, indipendentemente dalla mas- sa, e questo a un altro più grosso o più denso ancora, la somma del lavoro meccanico moltiplicandosi gradualmente invece di re- stare la stessa ( v. Lange Stor. del material, voi. 1 nota 71 parte I; confr. nota 72). U Hain ( Lofjicay 1. HI, e. IV, 17; fa l'onore ad Hamilton di ave- re duto per il primo l'espressione del principio della conservazio- ne della forza : ma, in realtà . la concezione di quest'autore era analoga a quella degli antichi filosofi ionici, e non implicava più di questa alcuna nozione meccanica {v. Saggio 2., Append. alla la conosciamo. Per conseguenza la forza di cui affermia- miamo la persistenza è la forza assoluta di cui abbiamo vagamente coscienza come correlativo necessario della forza che noi conosciamo.... Le manifestazioni che soprav- vengono in noi e fuori di noi non persistono; ma ciò che per- siste è la causa sconosciuta di queste manifestazioni. In altri termini affermare la persistenza della l'orza non è che un'al- tra maniera di affermare una realtà incondizionata senza cominciamento né fine Esaminando i dati che implica una teoria razionale dei fenomeni, noi troviamo ch'essi pos- sono tutti ricondursi al dato senza di cui la coscienza è impossibile : l'esistenza permanente d' un'Inconoscibile co- me correlativo necessario del Conoscibile... Le verità as- siomatiche della scienza fisica suppongono inevitabilmen- te l'Essere assoluto come loro base comune... Noi non possiamo edificare una teoria dei fenomeni interni senza supporre l'essere assoluto; e a meno di suppore l'essere assoluto, l'essere che persiste, noi non possiamo costruire una teoria dei fenomeni esterni » (§ 00). La forza è dunque per lo Spencer l'essere assoluto, e la sua persistenza è la permanenza dell' essere, di cui tutti i cangiamenti di forma nell'universo sono delle ma- nifestazioni, e che resta costante sotto tutte le forme (§ 101). La persistenza della materia e quella del movimento non sono che delle maniere diverse di affermare la persisten- za della forza, cioè deU'essere assoluto, perdio non sono parte 1.) L'idea di Hamilton di ricondurre il principio di causali- tà aU'impossibilità di concepi/^e un cominciamento assoluto dell'os- sere ha dovuto avere dell' influenza suU' idea corrispondente di Spencer: la metafisica del secondo può riattaccarsi, su questo punto come su tanti altri, a quella del primo. Ma con lintroduzione del principio odierno della conservazione dell' energia, mediante cui la legge di causalità è messa in rapporto col principio che niente non può venire da niente, lo Spencer ha certamente apportato una moditicazione felice alla dottrina di Hamilton. V I J. JJi^b'B'-J^^-^gj^ m che dei corollari di (juesto principio (§ 54, 57, 185, ecc.). Esso è il principio primo, di cui le generalità più elevate della scienza sono le conseguenze, e l'ideale di questa sa- rà compiuto, quando essa diventerà un aggregato orga- nizzato di deduzioni dirette e indirette tirate dalla persi- stenza della forza (§ 193). In quanto alla stessa persisten- za della forza (che non è che un'altra espressione per di- re: la permanenza della realtà assoluta ed inconoscibile), questa «è una verità ultima, che non può avere prova' induttiva Deve esservi un principio che, essendo la ba- se della scienza, non può essere stabilito dalla scienza Se noi riconduciamo i principii derivati a quelli di più in più larghi donde si deducono, non possiamo mancare d ar- rivare infine a un principio più largo di tutti gli altri, che non può ricondursi ad alcun altro nò dedursi da alcun altro.... Questo principio, che alcuna dimostrazione non può dare, è la persistenza della forza » (§ 59). La persi-^ stenza della forza ci é dunque conosciuta d'una maniera immediata: noi raffermiamo necessariamente, per rim{>os- sibilità in cui siamo di pensare che qualche cosa divenga niente e che niente divenga qualche cosa, e la sua nega- zione è inconcepibile. f§ 61). (1) (l) Il metodo seientilìco propugnato da Spencer è dunque essen-^ zialmente deduttivo; l'induzione non può avere per lui, tra i pro- cessi della scienza, che un posto secondario. È ciò che'risulta in- dipendentemente dal suo ideale della scienza come una catena di deduzioni tirate dal principio della persistenza della forza dal suo^ criterio dell'inconcepibilità della negativa e dalle dottrine psicolo- giche che ne sono la conseguenza. Questo essendo il criterio uni- versale della verità, ne segue che le premesse ultime delle nostre conoscenze devono essere dei principii intuitivi, cioè a priori I logici moderni, come Mill e Bain, hanno mostrato che ciò che noi chiamiamo un'induzione rigorosa, non è che una vera deduzione di cui una delle .premesse è la grande induzione del principio di causalità. Ma questo principio è secondo Spencer una verità « pnori, sia die debba riguai^arsì come l'ctTetto di una necessità i s § 5*\ Questa realtà assoluta ed inconoscibile, di cui ?7 senso indefinito forma la base della nostra intelligenza (§ 31) (1), rappresenta due parti nella metafìsica di Spen- cer. Vi hanno, come si sa, due problemi capitali in me- ta/ìsica : quello del mondo reale o esteriore, e quello delle cause. Primo: vi hanno delle cose esteriori, al di fuori delle nostre sensazioni, e rjuali attributi noi dobbiamo loro assegnare ? Secondo : quali sono le cause efficienti dei fe- nomeni ? Le scienze positive ci danno la conoscenza delle loro successioni uniformi, e chiamano cause gli antece- <lenti, ed effetti i conseguenti di queste successioni uniformi: ma le cause ricercate dalla metafisica non sono di que- st'ordine; essa cerca la spiegazione o il perchè di queste sequenze stesse che le scienze positive ci fanno conoscere. La dottrina delF inconoscibile di Spencer risponde a que- ste due ([uistioni della metafisica. La risposta alla prima ({uistione è che esistono delle co- se esteriori, ma sono jx^r noi inconoscibili : il sistema di Spencer è il realismo, ma il realismo, egli dice, frasjiguraio. La realtà non sono, come crede il realismo volgai*e, gli oggetti estesi, colorati, ecc. che ci mostmno i sensi : tutto ciò non è che relativo alla nostra sensibilità ; ma laffer- primordiale del pensiero, sia come un risultato dell'eredità orga- nica delle esperienze ancestrali (Nei P/incipU di psicologia la co- noscenza dell'assioma di causalità è considerata come una co?i- clu^ione orr/antca dovuta alla riiM3tizione continua delle esperienze— V. 8 295 e confr. § 293, verso il principio—; nei Primi principii in- vece esso è dato come corollario di una verità a priori nel senso stretto . cioè assolutamente indipendente dall'esperienza, qual è il principio della persistenza della forza — v. Jl Conoscibile, Persi- stenza delle reiasioni tra te /o/'.?e—) L'induzione non ha dunque luogo secondo Spencer che nelle verità che non sono suscettibili duna prova rigorosa. Non è una singolarità questa in un rappre- sentante della tilosofìa sperimentale] o, come oggi si dice, positiva ? (1) V. il nostro paragrafo seguente e la quinta nota allo stesso ' paragrafo. inazione di questa relatività importa raffermazione d'una realtà assoluta esistente fuori della coscienza. Come sono relative le sensazioni, cosi sono relativi (al soggetto cono- scente) i rapix)rti Ira le sensazioni; ma questa proposizione suppone che esistano, fuori della coscienza, delle condi- zioni di manifestazione obbiettiva, che sono simbolizzate da questi rapporti. « Vi ha (jualche ordine ontologico don- de nasce Y ordine fenomenale clie noi conosciamo come spazio, vi ha qualche ordine ontologico donde nasce lor- dine fenomenali^ che noi conosciamo come tempo, e vi ha qualche jiexus ontologico donde nasce il rapporto fe- nomenale che noi conosciamo come differenza ». (rrin- Cf'pii (]( psicologia ^ U5). In quanto al problema delle cause, Spencer non aspira in verità a conoscere le cause ultime delle cose : le cause ultime si celano nelle profondità dell' Inconoscibile. Ma noi conosciamo tanto, secondo lui, di quest' Inconoscibile quanto ci basta a darci ragione delle uniformità più ge- nerali del conoscibile. I principii fondamentaU della scienza, per cui questa spiega tutti i fenomeni, hanno secondo Spencer im perché : questo perchè é, come abbiamo visto, la persistenza dell' essere assoluto e inconoscibile, di cui tutto ciò che è nella coscienza e tutto ciò che è fuori della coscienza non è che una forma e una manifestazione, r impossibilità clie V essere venga dal niente e si riduca nel niente. Questo princifùo, che è il fondamento della nostra conoscenza, è necessario ed evidente per sé stesso; esso non è un risultato dell' esperienza, ma una nozione a priori, e comunica la stessa apriorità alle altre leggi che se ne deducono. Cosi i legami generali tra i fenomeni, da empirici e contingenti, quaU sono per la scienza, sono trasformati in razionali e necessari; ciò che è un'applica- zione dell' idea metafìsica di causalità efficiente, (v. Sag- gio 2^ parte 1-^ capo G^ §. (j'\ Ora qual é la garanzia di tutte queste afCermazioni sull'Inconoscibile, su cui i primi principii della scien- za, cioè le nostre nozioni più generali sul conoscibile, so- no fondati? È secondo Spencer la persistenza assoluta della nozione dell'Inconoscibile nella coscienza, « Noi ve- gliamo che l'esistenza positiva dell'assoluto è un dato ne- cessario della coscienza; che sinché la coscienza dura, noi non possiamo un solo istante sbarazzarci di questo dato ; e che allora la credenza che vi ha il suo fondamen- to ha una certezza superiore a tutte le altre » (Pr. prine. §. 27), «Poiché la sola misura della validità relativa delle nostre credenze é la resistenza ch'esse oppongono agli sforzi che si fanno per cangiarle, ne risulta che quella che persiste in tutti i tempi, fra tutte le circostanze, e che non può cessare a meno che la coscienza stessa non ces- si, possiede il più alto valore». (§ 2(i). Cosi è la credenza -stessa che é, secondo Spencer, la prova della sua propria verità (\): la conoscenza dell'oggetto egli la cerca nel sog- getto, e non nell'oggetto stesso, e il suo metodo presenta al più alto grado la più grave difficoltà dell'apriorismo, di cui abbiamo parlato nel capitolo 3^ (§ 0). Sinché non possa stabilirsi un rapporto comprensibile fra la nozione jC il suo oggetto, la validità obbiettiva della nozione resta necessariamente per noi qualche co^a di problematico. Questa osservazione è particolarmente applicabile alla deduzione dei primi principii della scienza. Noi dobbiamo, secondo Spencer, ammettere la persistenza della forza e gli altri principii che ne sono secondo lui i corollari, per- ché noi siamo incapaci di concepire il niente. Ma che rapporto può esservi tra questa nostra incapacità e le leggi della natura di cui i principii indicati sono l'enun- ciazione? Per qual caso una nozione, che non è se non il risultato di una limitazione del nostro spirito, può cor- ei) V. MiLL, Logica, HI). \\, cap. VH, § 3 verso la fine e lìb. HI, e. XXI, § 1. 500 sag:5io primo rispondere alle cose reali e l'approsentai'le ? Non vi ha [>er noi altra comunicazione possibile Ira il pensiero e le cose che Tesperienza: se questa comunicazione si rompe, la coincidenza tra il pensiero e la realtà diventa un mistero, 0 piuttosto un felice azzardo; e Ijasta ciò perchè sia vano ogni tentativo di fondare la certezza delle nostre conoscen- ze altrove che suiresperienza stessa. Tuttavia a questa obbiezione e ad altre della stessa natura che potrebbe^ farsi alle dottrine di Spencer, egli ha una ris[X)sta perentoria : tutte queste proposizioni suir assoluto, egli dice, devono ammettersi in virtù del criterio deirinconcepibilità della negativa. Noi dobbiamo atlermarle per la semplice ragione che la loro negazione è impossibile. Le proposizioni contrarie, p. e. che non vi ha un mondo esteriore indipendente dalla nostra sensi^ Ijilità, che la materia o la forza non sono persistenti^ sono assolutamente inconcepibili. Se alcuno crede di con- cepirle, questa è un'illusione : esse non sono delle idee^ ma delle pseudo — idee, cioè delle pure forme verbali a cui non corsisponde in realtà alcuna nozione (1). (l) UiiJ^^ndo Spencer dà resistenza del mondo esteriore o anche r indistruttil)ilità della mnteria per delle proposizioni il cui con- trario è inconcepibile, quantunque questa opinione sia seconda noi erronea, è tuttavia un' erroneità che potrebbe i>assare inos- servata, essendo un'abitudine dei filosofi razionalisti di scambiare per assolutamente necessarie delle proposizioni necessarie solo re- lativamente, vale a dire il cui contrario è non inconcepibile, ma solo ditticile ai essere concepito, ciò die basta peixiiiè esso sia alTatto incre<libile o si abbia almeno una ripugnanza naturale a crederlo. Ma ciò che è im evidente paradosso è di pretendere che anche la persistenza della forza sia una proposizione che ha per sé quest'inconcepibilità del contrario, mentre è un fatto incontestabi- le che ih un* epoca non lontana gii stessi uomini di scienza cx)n- cepivano e credevano questo contrario, ed esso é tuttora conce- I)ito e creduto dalla immensa maggioranza degli uomini, cioè da tutte le persone estranee alla scienza. Ma, dice Spencer, il contra- rio della persistenza della forza non è stato mai realmente con- I Ma se vi ha proposizione a cui convenga il nome di pseudo— idea, è appunto una proposizione che si riferisce all'assoluto, o in generale, al sovrasensibile. Tutte le pre- tese nozioni che Spencer ci acoorda deiresistenza ultra- cepito, ma si è creduto soltanto di concepirlo; in altri termini, gli uomini non si sono mai formata, di questo contrario, un'idea iva- le, ma solo illasona, o, com'egli, dice, una pseudo idea. Così, una proposizione che contraddice a quella della persistenza della for- za, è, secondo Spencer . cosi vuota di senso, come lo sarebbe la ])roposizione che affermasse clie due linee rette chiudono uno spazio, o, per citare degli esempi dello stesso autore, che una sfe- ra è ad angoli uguali o che uno dei lati d' un triangolo è uguale alla somma degli altri due lati ( v. Piinc. di psicoL ^ i'J7 e 474), Basterebbe (luesta comparazione per mosti^arc quanto vi ha di esor- bitante nella dottrina di Spencer. Non vi ha alcuna immagine pos- sibile nella nostra mente che corrisponda alle parole «due rette che chiudono uno spazio », « una sfera ad angoli eguali », « un trian- golo di cui un lato è uguale alla somma degli altri due »: esse so- no dunque delle vuoto forme verbali, e le cose che signillcano, o piuttosto, non avendo esse alcun signilìcato reale, che tendono a signillcare, sono assolutamente inconcepii)ili; i>er conseguenza, se alcuno pretendesse di concepirle, q facesse professione (Wcn^^^y- le (confr. la 1. nota al s^ 0 di questo capitolo), egli non avrebbe nel suo spirito delle idee reali, ma illusorie, o. come dice Spencer, delle psendo — idee. Ma quantumiue quelli che non conoscono o non ammettono il principio della persistenza della forza, si rai-pre- sentino i fenomeni d'una maniera che non è conforme alla scien- za e alla verità, le loro rappresentazioni erronee sono certamen- te altrettanto reali quanto le rai'presentazioni vere di chi è stato istruito dalla scienza moderna, guando 1' incontro di due coriù che si muovono in senso contrario e Y'on velocità inversamen- te proporzionali alle loro masso, determina la cessazione del lo- ro movimento . vi ha una contraddizione ap]Uìrente al principio della persistenza della forza, che si risolve ammettendo, come han- no scoverto i fisici moderni, che la forza meccanica perduta è sta- ta sostituita da una quantità equivalente di calore. Cosi, (juando, anteriormente a (lucsta scoverta, si credeva che la forza mecca- nica, in cpiosto caso, fosse assolutamente perduta, cioè senza che la sua perdita fosse compensata da un nuovo. actpiisto di calore o d'un' altra forma) qualunque dell'energia, si anunetteva una proposizione che era realmente in contraddizione col i^rincipio i fenoiiienale sono delle imi30ssibilità psicologiche. Gli ele- menti della coscienza sono, secondo lo stesso Spencer,. delle sensazioni e dei rapporti fra sensazioni, queste sen- sazioni i)otendo essere o allo stato forte (sensazioni pro- priamente dette) o allo stato debole (rappresentazioni o immagini). Dunque il nostro pensiero è necessariamente circoscritto tra i dati dei nostri sensi, e noi non possiamo concepire niente di soprasensibile. In verità, non segue da questa teoria che noi non possiamo pensare se non ciò che possiamo sentire: i dati della sensazione noi pos- siamo combinarli in un ordine diverso da quello in cui li abbiamo sperimentato, e avere cosi dei pensieri che non sono una copia delle presentazioni dei nostri sensi ; ciò della persistenza della forza-(]uaiitiin(iiie i dotti pensassero che il fatto fosse conciliabile con (jiiello della conservazione della forza meccanica -( confr. Hain Lonlca 1. Ili e. IV n. 10 e 17). Era questa una proposizione vuota ili senso, una pura forma verbale, a cui non corrispondeva alcuna rappresentazione reale ? È assolutamen- te inimmaLrinal)ile die, dopo l'urto dei due corpi, non vi sia al- cun aumento di temperatura né nei corpi stessi nò nel loro am- biente, nò r apparizione di altri nuovi fenomeni o di elettricità o di magnetismo o di un'altra manifestazione «lualuncpie dell'ener- gia? Non i)ossìamo noi immaginare che, ilopo 1' urto e la cessa- zione del movimento, i due corpi e il loro ambienle si trovino an- cora nelle identiche condizioni termiche, elettriclie, ecc., in cuf si trovavano primn ? È ciò che sostiene, in sostonza. lo Spencer quando atferma che il (-ontrario della persistenza della forza è inconcepibile. O dirà egli che «fueste cose, (juantunque possano immariinat\ù, non possono pertanto conrepìrsl f Vi sono dei filo- sofi che ammettono che noi possiamo concepire ciò clie non pos- siamo immaginare; ma nessuno ha mai preteso . per quel eh' i(» sappia, che ciò che possiamo immaginare non lo possiamo con- cepire, e sarebbe strano che il primo a pretenderlo fosse un filo- sofo, come Spencer, per cui gli elementi dell'intelligenza non so- no che sensazioni e rapj^orti tra sensazioni. Le ritlessioni precedenti riguardano il principio della pei^isten- za della forza nel suo significato empirico, cioè come formulante delle relazioni tra fenomeni; in (pianto al suo sii>nìncato metaem- pinco o trascendente, varrà cìù cUq segue nel testo che ci è impossibile è avere dei pensieri che non si ri- solvano finalmente in elementi sensoriali (1). Ciò di cui non possiamo formarci un ìmmar/ ine (cioè una sensazione risvegliata o un complesso di sensazioni risvegliate), o copia- ta fedelmente sui dati dei nostri sensi, o ottenuta per una riunione più o meno libera di questi dati, non può essere un oggetto del nostro pensiero. Ora Tlnconoscibile nò è un dato dei nostri sensi, nò noi yjossiaino l'ormarcene alcuna immagine, combinando, per quanto liberamente,. 1 dati dei nostri sensi: i suoi attributi, p. e. la sua per- manenza — per cui non dobbiamo intendere una durata nel tempo, perchè il tempo non è che un lenoincno sub- biettivo —, Tordine ontologico che corrisponde a ciò che noi conosciamo come tempo, quello che corrisi>onde a ciò che noi conosciamo come spazio, e il nexus ontolo- gico che corrisponde a ciò che noi conosciamo come dif- ferenza, escono ugualmente dalla sfera dei nostri sensi e della nostra immaginazione. Ne segue che ci è assolu- tamente impossibile di pensare, o di concepire, alcuna di queste cose, e cosi tutte le pretese nozioni suirinconosci- l)ile, che V autore accorda al nostro spirito, sono, non (Ij L' imi)ero che 1' uomo ha sul piccolo mondo del proprio in- tendimento è lo stesso, dice Locke (Saggio su/V intendimento am. li)). II, e. II, i^ 2), di quello che esercita nel gran mondo degli es- seri visibili. Come tutta la potenza che abbiamo sul mondo este- riore si riduce a comporre e a dividere i materiali clic sono a nostra disposizione, senza poter produrre la minima particella di nuova materia, cosi noi non possiamo formai'c nel nostro inten- dimento alcuna idea semplice, ma solo delle idee complesse, ri- petendo. comparando e unendo insieme, con unn varietà pres- so(diè inlìniln, le idee semplici che ci vengono dai sensi e dalla riflessione {per riflessone Locke intende, come si sa, la coscienza che il nostro spirito ha dei suoi propri atti, ciò in cui nessun sensista potreblie rilìutare di vedere una sorgente reale delle nostre idee; il torto di Locke e semplicemente di non aver couipreso che tutti gli atti di ('ui lo spiiMto può avere coscienza, si riducono, in sostanza, a sensazioni o sentimenti;. ri04 delle idee, ma delle pseudo — idee, cioè delle pure forme verìjali, a cui non corrisponde alcuna nozione reale. Lo Spencer è quindi costretto ad abbandonare i prin- €ipii della dottrina deir esperienza anche nella quistione sullurigine delle idee: le sue dottrine ontologiche lo condu- cono fatalmente ad ammettere una classe d'idee che non ci provengono dai sensi, (jupste idee non possono essere che dei dati originali deirintelligenza; essi devono trovarsi in noi sin dall'alba della coscienza. Cosi noi troviamo in Spencer, sidl idea deir Inconoscibile, delle proposizioni che hanno V analogia [)iii colpente con quelle sulle idee innate di una parte dei metafisici che sostengono questa dottrina (quelli che la deducono dal concetto che la so- stanza dell'anima^ consiste nel pensiero), p. e. di Rosmini sull'idea dell'essere. (V. N. S. suirorigine delle idee, § 481, 521, 53'S, G2:WJ2j, ecc. Confr. il mio Saggio seguente, l'A/)- pendlce alla parte 1^ e. 2^ verso la fine, e il Supplemen- to sulla dottrina di Rosmini sulla sostanza delVanimo). L'idea, o piuttosto il sentimento, dell'essere assoluto, cioè dell'Inconoscibile, non solo è un dato ultimo della coscien- za (Primi principii § G5) e un elemento mentale ultimo (§ 2G), ma è un elemento permanente del pensiero, e non può mai essere assente dalla coscienza (§ 2G, 27, 10, GÌ, ecc); è come il l'ondo della coscienza stessa (§ 45) e il suhstra- tum comune di tutto ciò che è in essa, e l'autore lo chiama «la materia bruta > o « la sostanza i)ura del pensiero, a cui diamo pensando differanti forme ^>, « la sostanza indif- ferenziata della coscienza, che riceve delle condizioni nuo- ve in ciascun pensiero». <• la coscienza incondizionata » ecc. (§ 2G e GÌ). Né è solamente la nostra coscienza che è costituita cosi, ma è impossibile d'immaginare una co- scienza che fosse costituita altrimenti C§ G2). Videa innata dell'Inconoscibile porta naturalmente con so quelle degli attributi la cui atìermazione è inseparabile dall'afferma- zione deirinconoscibile stesso, cioè che è oa'a'etivo, che è 5o; persistente, che è il subsiraium delle cose fenomenali, ecc. Ma perchè lo Spencer, nei suoi Principii di psicologia, non fa alcun cenno di questa classe d'idee, a cui egli ò obbligato di ricorrere nei Primi principii ì CI). Non vi ha niente che possa dimostrare più chiaramente la contrad- dizione radicale fra le sue dottrine ontologiche e i prin- cipii della filosofia dell'esperienza, di cui egli è meritamente ritenuto come uno dei più grandi antesignani (2). § 7.^ Quando gli psicologi intuizionisti presentano co- me dati originali della coscienza delle nozioni dovute al- l'esperienza e all'associazione, non vi ha, nella più parte -dei casi, nelle loro dottrine un errore evidente ; perchè (|ueste nozioni sono eftettivamente dei dati costanti d'ogni coscienza umana, ed essi non hanno che il torto di pren- dere per necessità primordiali del pensiero delle neces- sità semplicemente derivate (ci('> che, come sappiamo, è l'effetto d'un'illusione naturale del nostro spirito). Ma ciò che vi ha di particolare alla dottrina di Spencer, è che ciò che essa presenta come dati originali della coscienza, sono delle nozioni che questa, il più delle volte, ignora completamene. L'affermazione di una realtà assoluta in- conoscibile, lungi di essere una credenza naturale del genere umano (come dovrebbe essere pertanto, se fosse vera- mente un dato originale della coscionza), è l'ultima risposta che la metafisica dà ai più ardui problemi dell'inteUigenza umana, dopo averne cercato vanamente una soluzione positiva. L'uomo non esordisce già per affermare 1' esi- (1) Una contraddizione analoga vi lia fra i Primi principii e i Principii di sociologia: secondo i Primi principii, è il senso della realtà assoluta e inconoscibile clic Ibraia la base delle credenze reliiiiose (v. § 14, 27, 34, 45, 00, 101, ecc.); ma di ciò neppure una parola nei Principii di sociologia, dove l'autore studia le origini della religione (parte I, tomo I). (2) Dopo aver parlato di questa dottrina di Spencer sull'idea del- rinconoscibile, noi ci troviamo più in grado di rispondere a un rim- stenza d'una realtà indeiinita al di là delle apparenze che gli mostrano i sensi; le realtà per lui, sinché non ha rice- vuto le lezioni dei metafìsici, o d'una filosofia critica che i loro sistemi hanno preparato, non sono che le presentazioni dei sensi stessi. Similmente egli non comincia per Tatlerma- zione di cause superiori alla sua concezione e senz alcuna analogia con quelle deiresperienza; ma in possesso di gene- ralizzazioni incoscienti tirate dai fatti più familiari, cerca istintivamente di ricondurvi gli altri fatti, rappresentane provero che potrebbe venirci mosso sulla nostra interpretazione della sua dottrina sulle proposizioni a priori, (quella dei Primi prtn- ctpu sulla persistenza della forza, V esistenza d' una realtà asso- luta, ecc.). Quest'apriorità noi la comprendiamo nel senso stretto e tradizionale, cioè come se queste proposizioni fossero assolutamen- te indii>endenti dalfesperienza, sia personale sia avitica. Ma ci si potreblìe obbiettare, e, come vedremo, non senza qualche ragione, che lo Spencer non dà le sue proposizioni a priori come tali che per rindividuo, mentre per la specie sarebbero a posteriori, esultando dalla eredità organica delle esperienze ancestrali. Questa seconda interpretazione, in effetto, ha il vanta^^gio di mettere di accordo la dottrma dei Primi prinripii con quella dei Prinripii di psicologia e. generalmente delle altre opere dell'autore : ma la quistione è appunto se (piest'accordo sia possibile, o non vi sia inveire tra le due dottrine di Spencer un'aperta contraddizione, che l'autore non ha fatto niente y>q^v risolvere. Già prima di tutto, per la proposizione che cMmi)orta di più,, cioè la persistenza della forza-che è quella sulla cui apriorità insi- ste speci(dmente lo Spencer-,che (piest'apriorità debba intendersi nel senso antico e rigoroso, e non come il prodotto delle esperien- ze ereditarie, è ciò che seml)ra risultare dalle dichiarazioni esiìli- cite dellautore. Nel capitolo sull' «indistruttibilità della materia », proposizione che, come sappiamo, è un corollario del principio della persistenza della forza, e impresta, per conseguenza, la sua apriorità a quella di questo principio, dice : « L'indistruttibiiità del- la materia è, rigorosamente parlando, una verità a priori » (s 53). E un po' prima (nello stesso paragrafo): « L'annientamento della materia e inconcepil)iIe per la stessa ragione per cui la creazione della materia è inconcepibile ; e la sua indistruttibilità diviene c<osi una conoscenza a priori dell'ordine piìi elevato, non rome risul- dosi p. e. tutti i fenomeni come degli effetti di cause ana- loghe alla sua propria volontà, o spiegando per Timpulsione tutti i movimenti ch'egli osserva nella natura. Egli crede cosi di conoscere le cause efficienti, perchè ciò in cui la cau- sa efficiente si distingue da un semplice antecedente di una sequenza invariabile, è che essa spiega la produzione del- Tettetto, ciò che quello non può fare, e noi crediamo di avere spiegato un fatto, quando lo abbiamo assimilato a un altro fatto che ci è molto familiare. La sola idea di causa efficiente, come la sola idea di cosa in sé, che sia tato d'una lunga serie d'esperienze gradualmente organizzate in un modo di pensare irrecocahile, ma come data nella forma di tutte le esperienze gualsiansi. » Ma delle prove più forti si hanno nello ragioni clie lo Spen- cer assegna alla inconcepibilità della negativa della persia stenza della forza e dei suoi corollari. Uuella su cui V autore insiste di più è, lo sappiamo, P impossibilità di concepire che niente divenga qualche cosa e (pialche cosa divenga niente . che deriva, alla sua volta, dalla impossibilita che niente sia un oggetto del' pensiero. « V incapacità che c'impedisce di concepire c?ie la materia dicenga non esistente è la conseguenza diretta della natura stessa del pen<iero. 11 pensiero è una posizione di relazioni. Non si può porre relazione, e per conseguenza i)ensare, quando l'uno dei termini relativi è assente dalla coscienza K dun- <pie impossibile di pensare che qualche cosa divenga niente per la stessa ragione per cui è impossibile di i»ensare che niente divenga qualche cosa; e questa ragione è che niente non può divenire uu oggetto di conscienza » (s 53). E un po' dopo (nello stesso para- grafo): « La forma del pensiero rende impossibile che noi abbiamo r esperienza della materia /tassante cdla non esistenza, poiché <iuest' esperienza implichereblìe la conoscenza d'una relazione di cui l'uno dei termini non sarebbe rappresentalnle nella coscienza >>. E parlando della « continuità del movimento » (§ 56) : « r3ire che il movimento è creato o annientato, dire che niente diviene cpialche cosa o qualche cosa diviene niente, è stabilire nella coscienza una relazione fra due termini di cui l'uno è assente dalla coscienza,, ciò che è impossibile. La natura ste^<a dell' intelligenza smenti- sce la supposizione che si possa concepire (ancora meno cono- scere) il coìninciamento o la cessazione del morimento ». La stessa idea è ripetuta, quantumpie in una foi'ma alquanto differente, per la persistenza della forza (in un luogo che citeremo in seguilo, § rii). -^>naturale al nostro spirito, è dunque calcata suiresperienza e sui fenomeni ; tutte le altre sono un prodotto della col- tura, e il più tardo è quella d'una causa o d'una cosa as- solutamente inconoscibile e irrappresentabile. Qui noi toc- chiamo il punto più debole del criterio dell'inconcepibilità della negativa. Quale di queste due proposizioni ha per se rinconcepibihtà della negativa? quella che dice: ciò che mi presentano i sensi sono degli oggetti reali, permanenti, indi[)endenti dai sensi stessi ; o quella che dice : al di là delle apparenze che i sensi mi presentano . vi ha una Se il vero principio primo di Spencer, da cui sì deduce la i^ei*- sisten/a della forza coi suoi corollari, cioè che niente non i»U() di- ventare qualche cosa ne qualcìje cosa niente, fosse un risultoto deiraccumulazionc or.iianica delle esjterienze, le necessitn del pen- siero su cui esso è fondato, sarel)hero, non delle necessità primor- diali, ma ac(]uisite e derivate dalFesperienza (avitica). Queste sono: clie pensare è sta])ilirc delle relazioni ; e che niente ( vale a dire r uno dei termini della relazione che noi dovremmo stabilire per pensare che qualche cosa diventi niente e niente qualclie coso) non è rappresentabile. Ora è evidente che né l'uno né l'altro di questi due fatti potrebbe sj^ìetrarsi come un prodotto deiraccumu- lazionc delle esperienze che i nosti'i antenati hanno avuto della persistenza della forza, della materia, e in una parola, delFessere reale. Supponiamo che la natura fosse costituita in modo che essi non avessero avuto le esperierienze di (piesta persistenza, ma aves- sero avuto invece delle esperienze allatto contrnrie. Forse il pen- sare avrel)be cessato di essere un i^orre delle relazioni? vi ha l;"i evidentemente un fatto che è dell' essenza stessa del pensiero, cioè della facoltà rappresentativa, e noi non possiamo immaginare alcun cangiamento della natura esteriore e delle sue leggi, che potesse avere per eHetto di cangiarlo. 0 forse il niente, in que- st'ipotesi, sarebbe divenuto rappresentabile? Lo Spencer non dice nei luoghi citati perchè il niente è irrappresentabile: egli l'afferma come una verità evidente i>er se stessa: noi dobbiamo duncpie supporre, per la sua atVermazione, le ragioni più ovvie. Queste sono, evidentemente, cl.e una rappresentazione è qualche cosa di reale, di positivo, e non può quindi rappresentare che un oggetto anch'esso reale e positivo. La rap])resentazione essendo un' im- magine della cosa rappresentata, il niente non potrebbe essere rapi>resentato che dal niente ; ma allora non vi sarebbe rappre- ^ realtà indefinita e inconoscibile ? Non la prima, perché Spencer la rigetta ; non la seconda, perchè il senso co- mune la ignoi^a. Sarà dunque un'affermazione, che queste due affermazioni differenti hanno in conmne ? Ma non vi ha alcuna affermazione comune alle due : io voglio dire, non vi ha alcun oggetto, la cui esistenza sia affermata si dal realismo naturale che dal realismo trasformato, e la cui realtà perciò possa essere giustificata dal criterio del- rinconcepibilità della negativa, o della persistenza della credenza L'oggetto che il realismo naturale alferma, è sentazione, né, per conseguenza, cosa rappresentata. L" irrappre- sentabilità del niente è dunque un fatto che è una conseguenza necessaria della natura stessa della facoltà rappresentativa, non meno che quello che pensare è stabilire delle relazioni. Del resto lo Spencer stesso dà esplicitamente questi due fatti per una con- seguenza della «natura stessa del pensiero, della «sforala del pensiero)» {Uddì, della «natura stessa dell'intelligenza » (§ 5f)— w i luoghi citati, i tratti in corsivo) : cosi essendo, siccome delle esperienze avitiche differenti avrebbero potuto determinare delle coesioni differenti fra dei pensieri particolari, ma non mutare il liensiero stesso nella sua essenza, l'impossibilità di concepire che niente diventi qualche cosa e qualche cosa niente, non potrebbe originarsi dalle esperienze avitiche della persistenza della forza, della materia, ecc., e noi dobbiamo intendere per questa imix)S8Ì- lìilità una necessità psichica primitiva e assolutamente indipendente dall'esperienza Un' altra ragione che lo Spencer assegna alla inconcepibilitii della negativa della sua proposizione fondamentale, cioè la per- sistenza della forza, è il legame necessario dell'idea della persi- stenza con quella che non può mai essere assente dalla coscienza, vale a dire l'idea dell'Assoluto o dell'Inconoscibile -noi sappiamo in effetto che la Forza non è altm cosa che la realtà assoluti! e inconoscibile — L' autore considera evidentemente la persistenza della forza come implicata neirintuizione continua, ch'egli accor- da allo spirito, dell'essere assoluto; in altri termini, in questa in- tuizione, quest'essere ci è dato, secondo lui, con l'attributo della persistenza. Cosi nel § 26 l'idea che è la sostanza della coscienza e non può mai esserne assente, cioè quella dell' Assoluto, è chia- mata «un sentimento di ciò clie esiste d'una maniera persistea- te e indipendente dalle condizioni». Nel s CO il «dato senza di cui «-^ ^ ^ ^Nj'^ un oggetto colorato, esteso, esistente nel tempo e nello spazio, ecc.: ma l'oggetto che afferma il realismo trasfor- mato, è un oggetto senza colore, senza estensione, l'iiori del tempo e dello spazio, ecc. Lo Spencer non può avere che una risposta a questa difficoltà : Taffermazione di una realtà indetinita è un elemento deiraffermazione di una realta definita, estesa, colorata, ecc ; il realismo trasfor- mato non sostituisce un altro oggetto air oggetto affer- mato dal reahsmo naturale, ma conserva un elemento della credenza e del suo oggetto, il senso (runa realtà, la coscienza r iiiii)ossibile »— dato per cui dol)l)iaino intendere l'idea, sempre j>resente alla coscienza, deirAssoluto, della quale lia parlato nel ?? 20— è «resistenza pcnnanente ù.\\\\\nQOwos<Q;\h\\Q, co- me corrolativo necessario del Conoscibile». Nel § 40 afTerma che «non possiamo formarci una nozione anche indennità dell' asso- lutamente reale, eccetto come assolutamente persistente ». E nel S 05 dice: «Allermare un'esistenza al di là della coscienza è alt'er- mare che vi ha in fuori della coscienza qualche cosa che persi- ste; perchè la ]tersistenza non è niente di più che l'esistenza con- tinuata, e non si può concepire 1' esistenza altrimenti che come continuata » (come si vede dal contesto, questa qualcìie cosa m fuori della < o^cienz-a non è che la Forza, e la i>ersistenza di questa qualche cosa la persistenza della Forza). Siccome la no- zione dell'Assoluto o deirhiconoscibile non pui'» i>rovenire dalla senzazione nò essere un'induzione dairesi>erienza,ciòche è il mo- tivo per cui l'autore ne fa un' idea innata e sempre presente alla coscienza; l'attrilnito della persistenza essendo compreso in que- sta nozione stessa, lunione di quesf attributo col suo so;?getto non può essere un risultato dell'esperienza, sia individuale, sia avitica, e la proposizione che alferma la persistenza dell'Assoluto, cioè della Forza, è necessariamente un giudizio a priora nel sen- so stretto e tradizionale. Talvolta questa proposizione è dedotta, invece che dalla irrappresentabilità del niente, dalla persistenza assoluta dell'idea dell'Inconoscibile nella coscienza. «Noi abbiamo visto (nel § 20) che il potere sconosciuto, di cui non si può con- cepire il cominciamento né il fine, è presente nella coscienza come una materia bruta che riceve uua forma nuova in ciascun pen- siero. La nostra incapacità di rapprensentarci i suoi limiti è semplicemente il riscontro della nostra incapacità di mettere fme al .soggetto che pensa sinché continua a pensare». (J^ 61). Ma nel oli sopprimendo gli altri elementi, vale a dire Fattribuzione a questa realtà delle forme definite sensibili, di cui la cre- denza, per un'illusione, la riveste. « Noi abbiamo coscienza del relativo come d'un'esistenza sottomessa a delle con- dizioni e a dei limiti: è impossibile di concepire queste condizioni e questi limiti separati da qualche cosa a cui essi danno la forma; la soppressione di queste condizioni e di questi limiti è la soppressione delle condizioni e dei li- miti solamente. Per conseguenza deve esservi un residuo, una concezione di qualche cosa che rieinine il loro con- tratto che segue (nello stesso ??), questo concetto si fonde con l'altro, che la ragione della incapacità di concepire i limiti, cioè il cominciamento e il fine, della forza è l' impossibilita di rap- presentarsi il niente. «Nei due capitoli precedenti noi abbiamo considerato (luesta verità fondamentale (la persistenza della forza) sotto un altro aspetto. Noi al)biamo visto che l'indistruttibilità della materia e la continuità del movimento sono in realtà due corollari dell' impossibilità di stabilire nel pensiero una relazione tra qualche cosa e niente. Ci(') che noi chiamiamo lo stabilimento d'una relazione nel pensiero, è il passaggio della sostanza della coscienza da una forma ad un'altra. Pensare (jualche cosa dive- llente niente imi)licherebbe che questa sostanza della coscienza, avendo esistito sotto una forma data, non prenda più forma o cessi di essere concepita. Così r incapacità di concepire la di- struzione della materia e del movimento, è l'incapacità di soppri- mere la coscienza stessa. Ciò che noi abbiamo trovato vero d^lla materia e del moviménto nei due capitoli precedenti, è ajortiori vero della forza, vale a dire dell' elemento di cui si formano le concezioni della materia e del movimento ». (Qui la persistenza della forza si deduce, al solito, dalla irrappresentabilità del niente: ma di questa irrappresentabilità del niente si dà una spiegazione diversa da quella che ne abbiamo dato noi. Sopra, noi l'abbiamo Si)iegato per la necessità che ogni rai)presentazione sia qualche cosa di positivo: qui l'autore la spiega per l'impossibilità di ri- gettare dalla coscienza la sostanza della coscienza stessa. Ma le due spiegazioni non si contraddicono: la seconda non esclude che la ragione per cui non possiamo rapprentarci il niente sia che ogni rappresentazione è necessariamente qualche cesa di positivo; solamente aggiunge che questa qualche cosa di positivo deve essere una determinazione dell" idea di esistenza assoluta che è torno, ed é questa qualche cosa crindefinito clie costituisce la nostra concezione dellassoluto L'impulsione del pensiero ci porta inevitabilmente, di là dallesistenza con- dizionata, all'esistenza incondizionata. Da ciò la nosti^ ferma credenza a questa realtà, credenza che la critica metafìsica non può scuotere un sol momento. Si può ve- nire a dirci che questo ixìzzo di materia che noi riguar- diamo come esistente fuori di noi, non può essere real- mente conosciuto, che noi possiamo solamente conoscere le impressioni che esso produce su di noi ; ma noi siamo la sostanza della coscienza). Secondo il {^ (il (lunqiie, la ragione ultima della necessità in «-ui siamo di afTermare la i)ersistenza della forza, è la permanenza deir essere assoluto nella coscienza. Sulla quale deduzione dobbiamo osservare che, siccome non vi ha alcun rapporto concepibile fra questa permanenza e le esi>e- rienze del fatto che si pretende dedurne, essa non può essere spie- jcrata per l'accumulazione organica dell'esperienze, i)iù che l'idea stessa dell'assoluto o rimpossibilità di rai)presentarsi il niente; e quindi la proposizine che se ne dà come una conseguenza, cioè la persistenza della forza, non può essere che una proposizione a jn'ìori nel senso antico e rigoroso del termine. Ma l'argomento più decisivo dell'apriorità, in questo senso, del princii»io fondamentale di Spencer, e questo tratto del § susse- guente: «Il postulato al quale siamo arrivati da persistenza della forza) è anteriore alla dimostrazione, anteriore alla conoscenza definita; esso è cosi antico che la natura stessa del nostro spirito. La sua autorità si eleva al di sopra di ogni altra autorità; perchè non solo esso è dato nella costituzione della nostra propria coscienza/ ma è impossibile d'immaginare una coscienza costituita in maniera da non darlo. Poiché il pensiero non implica che lo stabilimento delle relazioni,- si può facilmente concepire ch'esso si eserciti quando le relazioni non sono state ancora sistematizzate nelle nozioni astratte che chiamiamo spazio e tem[)0; si può concepire una specie di coscienza che non contenga i principii detti aprtorC che implica l'organizzazione di queste forme di relazioni. Ma non si può concepire che il pensiero prosiegua la sua opera senza certi elementi tra i quali le sue relazioni possano essere stabilite;non si può dunciue concepire una coscienza che non implichi l'esistenza con- tinua come dato fondamentale. La coscienza è i)0ssibile senza tale o tal altra/o/7na particolare, ma è impossibile senza contenuto.forzati, per la relatività del pensiero, di pensare che que- ste impressioni sono in relazione con una causa positiva^, e allora apparisce una nozione rudimentaria d'un'esistenza reale che le produce. Se si prova che ogni nozione d'un'e- sistenza reale implica una contraddizione radicale, che la materia, di qualunque maniera la concepiauKj, non può Il solo principio che oltrepassa T esperienza, perchè le serve di base, è dun(iue la persistenza della forza». 11 luogo citato esclude della maniera più assoluta che il ]trincipio della persistenza della forza sia un risultato delFaccumulazione organica delle esi>erienze. Allora, in eiTetto, i)rima che quest'accumulazione fosse già un fatto compiuto, avrebbero esistito delle coscienze di cui il prin- cipio in quistione non sarebbe stato un dato, e cpiindi sarebbe possil)ile d' hnniagìnurc una cosricnz-a co'^tituìta in maniera da non darlo. Notiamo che in questo luogo, specialmente se si mette in rapporto col § antecedente, del «luale è una conclusione (basta di confrontarlo coi tratti citati), si trova anche la conferma della giustezza dei nostri argomenti precedenti. I fatti dello spirito «la cui lo Spencer deduce il suo principio fondamentale, cioè che il pensiero è una posizione di relazioni, che il niente non è rap- presentabile, e che r idea dell' essere assoluto è continuamente ])resenle alla coscienza (ciò che qui è chiamato il contenuto del- la coscienza è evidentemente ciò che altrove ne è detto la so- stan^a. vale a dire l'idea dell'assoluto), non possono, come ab- biamo osservato, essere un eltetto delle esperienze avitiche, per- chè qui sono dati come dei fatti necessari implicati nella costi- tuzione di qualunque coscienza, e non solamente della coscien- za modificata dall' esperienza ancestrale. Ialine possiamo osser- vare che la proposizione con cui termina la nostra citazione, si può a buon dritto intendere come un'affermazione esplicita che il principio della persistenza della forza è assolutamente indipen- dente dall'esperienza, anche avitica, tanto più se si bada all'anti- tesi tra « il solo principio che oltrepassa 1' esperienza » e « i prin- cipii detti a priori » di cui prima ha parlato («detti a priori » si- gnificherebbe : impropriamente chiamati così, perchè se sono tali per l'individuo, non lo sono per la specie). Come si vede dalla citazione precedente, l'idea dell'assoluto non potrebbe riguardarsi, più che il principio della persistenza della forza che se ne deduce, come un risultato delle esperienze eredi- tarie. Quest'os3ervazione serve a completare ciò che abbiamo detto nel testo su quest'idea; ma essa ha anche un' importanza diretta essere la materia quale è effettivamente, la nostra con- cezione si trasforma e non è distrutta; resta il senso della realtà, separata per quanto è possibile dalle l'orme speciali sotto di cui era prima rappresentata nel pensiero. Quantunque la filosofia condanni l'uno dopo Taltro ogni tentativo di concezione dell'assoluto ; quantunque, per ob- perla dottrina deirautore sulle vro[>osizioni a jn ìort (iiidix)eiulen- teniente da (juanto si riferisce al inMiicipio della persistenza deUa forza). L'idea, sempre presente alla coscienza, dell" assoluto non è ciò clie irli scolastici chiamavano nnei se in /tUrc a /}prensioiic,\Q.\e a dire una rappresentazione senz' alcun' affermazione : ques' idea al contrario, secondo S])encer, é insepai'aì)ile dalla credenza al- l'esistenza reale del suo o^i^etto. Ciò r provato già dai luoirlii ci- tati in cui la persistenza della forza è data come una verità im- plicata neir elemento permanente della coscienza, o che se ne deduce, poiché «piesta iM^:)iiosizione enunciando una legiiG della natura reale, essa non alTerma semplicemente il legame del pre- dicato col soggetto, l'esistenza del soggetto restando ii)Otetica. ma anche la realtà del soggetto stesso. In alcuni di questi luoghi, che nell'idea sempre presente che la coscienza ha dell' assoluto sia compresa la sua esistenza, è anche alTermato duna maniera espli- cita : noi abbiamo visto, in elTetto, che, secondo il «^ (50. il «dato senza di cui la coscienza è impossibile» è «l 'esistenza permanente d'un Inconoscibile >», e che, secondo il i^ 02. «non si può concepire una coscienza cìie non implichi 1' esistenza continua come dato fondamentale». Ma, indiii>endentemente dai luoghi che si riferiscono alla persistenza della forza, che all' idea ]>ermanente dell' Incono- scibile sia congiunta la credenza nella sua realtà, risulta da ipielli in cui quest'idea è chiamata un «.senso» o un «sentimento» o una «coscienza» dell'essere assoluto (§ 2(), pag. 9i trad. frane. : « una coscienza positiva (luantunque vaga di ciò che oltre])assa la co- •scienza »: pag. 00: «il senso della realtà»: pag. 102: « un senti- mento sempre presente d'esistenza reale »; « un sentimento di ciò che esiste d'una maniera persistente e indij-endente dalle condi- zioni»; § 31, pag. 120: « (jucsto senso indefinito d' un esistenza ul- tima che fa la base della nostra intelligenza »; § 60, pag. 202 : « una coscienza vaga dell'essere assoluto»; ecc.); ed è detto esplicita- mente nei seguenti: «L'impulsione del pensiero ci porta inevita- bilmente, di là dall'esistenza condizionata, all'esistenza incondizio- nata; e questa rimane sempre in noi come il corpo d'un pensiero 41 cui non possiamo dare forma. Da ciò la nostra ferma credenza bedirle, noi neghiamo Tuna dopo Taltra tutte le idee a misura che si producono ; siccome non possiamo bandire tutto il contenuto della coscienza, resta sempre al fondo un elemento che passa sotto nuove forme. La negazione continua d'o^^ni forma e d'ogni limite particolare non ha altro risultato che di sopprimere più o meno completa- .^Ua realtà obbiettiva, credenza che la critica metafisica non può scuotere un sol momento » (§ 2(>) « La nostra concezione dell'incon- dizionato essendo letteralmente la coscienza incondizionata, o la sostanza pura del pensiero, a cui diamo pensando ditferenti forme, .ne segue die un sentimento sempre presente d'esistenza reale fa la ])ase della nostra intelligenza. Poiché noi possiamo in atti intel- lettuali successivi disfarci di tutte le condizioni particolari e rim- piazzarle con altre, ma non possiamo disfarci di questa sostanza indifferenziata delia coscienza, che riceve delle condizioni nuove in ciascun pensiero, resta sempre in noi un sentimento di ciò che esiste d' una maniera persistente e indipendente dalle condizioni. Nello stesso tempo che le leggi del pensiero c'interdicono di for- .mare una concezione (definita) d'esistenza assoluta, esse c'impe- discono egualmente di disfarci della concezione (indefinita) d'esi- stenza assoluta, poiché questa concezione non è, noi veniamo di vederlo, che il rovescio della coscienza di sé. infine, poiché la sola .misura (iella calidità delle nostre credenze, è la resistenza che esse oppongono a fili sforzi che si fanno per cangiarle, ne risulta che quella che persiste in tutti i tempi, fra tutte le circostanze, e die non può cessare a meno che la coscienza stessa non cessi, possiede il più alto calore » (ibid.). « Esaminando le operazioni del pensiero, noi abbiamo visto come ci è impossibile di disfarci della coscienza d'una realtà nascosta dietro le apparenze, e come da (piesta impossibilità risulta la nostra indistruttibile credenza a que- sta realtà» (ibid.). Benché non si possa conoscere l'assoluto in alcuna maniera e ad alcun grado, se si i)rende la parola conoscere al senso stretto, noi vediamo pertanto che 1' esistenza positiva dell'assoluto é un dato neces.sario della coscienza; che sinché la coscienza dura, noi non possiamo un solo istante sbarazzarci di questo dato; e che allora la credenza che vi ha il suo fondamento ha una certezza superiore a tutte le altre » (^.^ 27). Citiamo ancora il § 45, in cui l'autore identifica il « fondo primordiale che la co- scienza implica» col «postulato» d' « una Forza inconoscil)ile »; o il § 40, in cui, dopo avere stabilito clie il reale per noi é ciò che persiste nella coscienza, dice che «noi abbiamo coscienza d'una mente tutte le forme e tutti i limiti, e di arrivare ad una concezione indefinita deirinforme e 'leirillimitato In o- concetto vi ha un elemento che persiste. É impossi- bile che quest elemento sia assente dalla coscienza, ed è impossibile che vi sia presente affatto solo. L^una o Tal- tra alternativa implica la non coscienza, l'una per man- realtà assoluta superiore alle relazioni, prodotta dalla persistenza assoluta in noi di qualche cosa che sopravvive a tutti i can<^ia- menti di relazione ». Poiché Pidea dall'assoluto non può mai essere assente dalla coscienza, ed è, per conseguenza, innata, e la sua innatezza non può essere un effetto dell' accumulazione ori?anica delle esperienze (perchè, come abbiamo visto, non si può concepire- una coscienza che non implichi questo dato fondamentale); a que- sfidea essendo unita la credenza nella sua obbiettività, ne segue che la proposizione che alìerma l'esistenza dell'assoluto, è, ugual- mente che quella che afferma la persistenza della forza,'' una proposizione a priori nel senso stretto, vale a dire indipendente affatto dall'esperienza, si individuale che avitica. Ora, prima di finire, noi dobbiamo aggiungere, per amore del vero, che, quantunque dall'insieme deU'esposizione della dottrina, contenuta nei PrinU prijicipii, sulle proposizioni a priori che ser- vono di fondamento alla nostra conoscenza, risulti chiaramente P impressione della verità della nostra interpretazione, cioè che queste proposizioni sono a priori nel senso stretto e tradizionale, non mancano, in questa esposizione stessa, delle frasi isolate, che tendereh])ero a mettere in dubbio questo risultato e a provare l'interpretazione contraria. Nel capitolo sun'« indistruttibilità della materia» l'autore dice: «Quest'ultimo fatto fcioè che il contrario della proposizione è inconcepibile) solleva naturalmente la qui- stione se noi abbiamo per garanzia di questa credenza fondamen- tale un'autorità superiore a quella d'un' induzione cosciente. L'e- sperienza prova che l'indistruttibilità della materia è una legge assoluta nel cerchio dell' esperienza. Ma le leggi angolate della esperienza generano delle leggi assolute del pensiero. Non ne risulta che questa verità ultim.a deve essere una cognizione implicata nella nostra organizzazione mentale ? Noi andiamo a vedere che una risposta affermativa è inevitabile. E alla fine dello stesso paragrafo: «Un'osservazione attenta, mo- strando che i pretesi annientamenti (della materia) non hanno mai avuto luogo, lia confermato a posteriori la conoscenza a priori, che, secondo la psicologia, / isulta da una legge d'esperienza contro canza di sostanza, laltra per mancanza di forma La nostra concezione delFincondizionato essendo letteralmente la coscienza incondizionata o la sostanza pura del pen- siero, alla quale noi diamo pensando differenti forme, ne segue che un sentimento sempre presente d'esistenza reale forma la base stessa della nostra intelligenza. » (§. 2G). Noi potremmo osservare prima di tutto che, se que- sta concezione d'una realtà assoluta e indefinita non può mai trovarsi sola nella coscienza, ma sempre con qual- che forma definita che noi non possiamo a meno di as- sociarle, noi siamo allora fatalmente condannati airillusio- ne di pensare Y assoluto come relativo, di assegnare al primo degli attributi che non appartengono se non al se- condo, in una parola, di confondere Tessere fenomenale la gitale non può mai elevarsi un'esperienza contraria ». Questi sembrano degli accenni alla dottrina dei Principii di psicologia, che le proposizioni a priori sono tali pei* l'individuo, ma non per la specie, derivando dalla trasmissione ereditaria dell'esperienza ancestrale. Ma sinché non ci si mostri come essi ])ossan() conci- liarsi col complesso della dottrina esposta nei Pi imi principii, woi saremo in dritto di mantenere che questa seconda dottrina è in contraddizione con la prima: semplicemente dovremmo completare la nostra affermazione, soggiungendo che la contraddizione non e solo tra 1 Primi principii e i Principii di psicologia, ma negli stessi Primi principii. Il fatto è che l'autore, do[>o un omaggio, a ]>arole, al suo principio psicologico con cui egli pretende conciliare la dot- trina apriorista e la empirista, ha costruito in realtà, trascinato dalle sue premesse ontologiche e metodologiche, una teoria sulle verità ultime interamente aprioristica, e che non l'uò assolutamente mettersi d'accordo con quel principio. 1 motivi di (luest'incoerenza sono ovvii. L'idea dell'Inconoscibile non ])otendo derivarsi dai sensi, egli è obbligato a vedervi un possesso ingenito dello spirito, che, per la stessa ragione per cui non può essei*e acquisito ]>er l'indi- viduo, non può esserlo nemmeno per la specie. Da un altro canto, siccome non si può immaginare una reale irrappresentai )ilità de- rivante dall'esperienza, per appoggiare la sua pi'oposlzione fonda- mentale sul criterio dell' inconcepibilità della negativa culi deve «cercare quest'irrappresentabilità nella natura stessa del jicnsiero; ma allora gli diventa impossibile di trovare a <iuesta proposi/ ione iina origine empirica (pialuiKpie. con r essere reale (1). Il tentativo dunque di Spencer di dissolvere queste forme illusorie, sotto cui la realtà asso- ta apparisce necessariamente alla coscienza dell' uomo^, sia nella credenza del realismo naturale, sia nella reli- gione, e di prendere questa realtà indefinita allo stato di'; purezza, è cosi dichiarato impossente ed illegittimo dal criterio stesso dell' inconcepibilità della negativa, o della persistenza della credenza: non si deve affermare che l'as- soluto esiste senza condizioni e forme definite rappresen- tabili, per la ragione che noi non possiamo concepirlo sen- za di queste. Ma questo è un punto accessorio, e noi dobbiau:io piut- tosto fermarci sopra un altro più importante. Non vi ha,, sembra, altra maniera intelligibile di comprendere la dot- trina riferita di Spencer, che questa : clic le nostre no- zioni delle cose constano di due elementi, uno dato nel— Fintelligenza stessa, cioè la nozione della realtà assoluta e indefinita, e un altro avventizio dato dai sensi, cioè le proprietà sensibili delle cose. Naturalmente noi non [X)s- siamo dare qui un analisi della percezione, e deirorigine delle nozioni degli attributi che noi assegniamo agli og- getti materiali : ma per discutere la dottrina di Spencer,. (l) È ciò (Mie eonres>ja \n stesso ontoi^e « Hicoiioscioino tutto ciò che vi lia «li ben durevole nei tentativi continui clic si fanno per formare una concezione di ciò cìie è inconcepibile È possibile, ed ancìie i»robabile, die, sotto le loro forme più astratte, delle idee di (jnest' ordine continue) anno sempi*e ad occultare il fon<lo della coscienza. È probabilissimo clie si sentirà sempi'e il ])isoiino di dare una forma a (juesto senso indelìnitod'un'esistenza ultima, che fa la base delia nostra intelligenza. Noi saremo sempre sot- tomessi alla necessità di considerarla come ^((ci^e/ie mnniera d'es- sere, cioè di rappresentarcela sotto qtialclic forma di pensiei'o, si vaga «die essa sia» Xotinmo il cUmax contenuto in (lueste T>ro])osizioni. L'autore comincia per dare la cosa come possibile, poi la dà comt prohaì ale, ]>oi come probahilissinia, ma infine^ vince la logica, e Unisce iter atlermarla categoricamente). noi non ne abbiamo alcun bisogno, perchè quest' analisi si trova nella Psicologia dello stesso autore. In generale, per combattere le sue dottrine ontologiche, non si ha ad opporre a Spencer che lo stesso Spencer : come all' eroe sedotto dagl'incanti della maga, di cui narra il poeta, si deve a questo filosofo, sedotto dagl'incanti di questa ma- ga che è la metafisica, mostrare se stesso in uno spec- chio, quello delle sue opere. Dove mai lo Spencer, nei suoi Principii di psicologia, costruisce le nozioni degli ogget- ti percepiti con altri elementi che i dati della sensazione ? quando mai la sua analisi arriva a qualche altro elemen- to diverso da questi dati stessi ? « Levate, diceva Herder (sulla cosa in sé di Kant), ad una ad una tutte le pellico- le che formano la sostanza bulbosa della cipolla, e ciò che resterà sarà questa pretesa cosa in sé >^. Lo stesso deve dirsi di questa nozione di una realtà assoluta e indefini- ta che si pretende restare delle nostre idee delle cose, dopo che si sono spogliate delle qualità sensibili. Che co- sa potrà restare della nostra concezione di un oggetto esteso, colorato, duro, odoroso, ecc., dopo che si sono sop- presse tutte le rappresentazioni venuteci dai sensi ? Tut- ti gli attributi dell'oggetto non hanno altro per contenu- to che delle sensazioni: ciò non è stato mai posto in dub- bio per il colore, la durezza, l'odore, ecc.; in quanto al- l'estensione, essa risulta, secondo Spencer, dall'associazio- ne delle sensazioni del movimento muscolare con le sen- sazioni specifiche degli organi della vista e del tatto; per altri invece l'estensione visibile è, come il colore, un da- to originale della sensazione visuale, congiunto e, per dir cosi, fuso indissolubilmente col colore stesso. Di questi attributi, alcuni indicano dei fenomeni sensibiU che per noi non esistono, anche al punto di vista delle credenze naturali, se non nel momento stesso della sensazione, e attribuendo agli oggetti tali attributi, noi vogliamo dire semplicemente che essi ci occasionano certe sensazioni. Altri attributi invece designano dei fenomeni sensibili che, per la credenza naturale, non esistono semplicemente nel momento della sensazione, ma sono permanenti, e ap- partengono all'oggetto stesso, o i)iuttosto lo costituiscono. Tali sono Y estensione, il colore, ecc. Ma attribuendo la permanenza e Tobbiettività a questi fenomeni sensibili, che non sono, come gh altri, che delle sensazioni nostre, noi facciamo ciò forse appicciccandole alla pretesa nozione di un oggetto reale, permanente, indefinito, nuda per se stessa di ogni forma sensibile ì V operazione del nostro spirito nella concezione degli oggetti esteriori, come abbiamo spie- gato nel capitolo 2^ può indicarsi brevemente cosi: 1- noi consideriamo questi fenomeni sensibili, i quali in verità non esistono che per la nostra sensibilità, come indipen- denti da qualsiasi relazione a noi stessi, cioè dalle loro condizioni subiettive 2« ai fenomeni sensi bih, che sono stati realmente per noi delle sensazioni attuali, noi ag- giungiamo, come concomitanti, come antecedenti, come conseguenti, le sensazioni possibili, cioè che noi potremmo o avremmo potuto avere, se fossimo posti o fossimo stati posti nelle condizioni convenienti ; ma queste sensazio^ ni possibili noi le consideriamo, non come fenomeni pu- ramente possibiU, ma come fenomeni reali, e s' intende che questi ultimi fenomeni sensibili, che in se stessi non sono che delle possibilità, ma a cui noi attribuiamo la realtà, vengono riguardati, del pari che i primi a cui li aggiun- giamo, come indipendenti da qualsiasi condizione subbiet- tiva. Gli oggetti, quali noi ce li rappresentiamo, non sono cosi che degli aggregati di fenomeni sensibili, cioè di sen- sazioni attuali e di sensazioni possibili realizzate. CJie cosa resterà dunque della nozione di un oggetto, dopo aver sop- presso tutte le rappresentazioni di senzazioni ? ciò che re- sterà del bulbo della cipolla dopo aver levate tutte le pel- licole. () i)retenderà forse lo Spencer che, oltre le sensa- .sazioni che costituiscono la nostra idea deirestensione, oltre r ordine fra le sensazioni che noi chiamiamo succes- sione, oltre le particolarità distintive di queste sensazioni che ci danno Fimpressione della diUerenza, ci formiamo noi la rappresentazione radimentavia d'un ordine ontolo- gico corrispondente a ciò che noi conosciamo come spazio, d'un ordine ontologico corrispondente a ciò che conosciamo come tempo, d'un nexas ontologico corrispondente a ciò che conosciamo come differenza, e d' un quid indefinito come substratum di tutte queste relazioni ontologiche, e che queste rappresentazioni rudimentarie formano parte integrante della nostra rappresentazione di ciò che noi chia- miamo un oggetto esteriore ? O ammetterà invece che le nostre rappresentazioni degli oggetti sono costituite uni- camente di rappresentazioni di sensazioni, ma che il senso della realtà indefinita è un elemento delle sensazioni stesse ? che ogni sensazione di colore, di resistenza, ecc. contiene la concezione della realtà indefinita, assoluta, permanente, che la scienza chiama materia e forza, e che la religione chiama Dio? (1) Tra lo psicologo Spencer che c'insegna Questa sarebbe i)ertanto la sola maniera (Vin tendere la dot- trina sulla concezione deirinconoscibile, che la inetterel)be d'ac- cordo col sensismo dei Prùicìpii di psicologia, e la salverebl)e dal rimprovei'o dì essere una forma della teoria delle idee innate- se però questa dottrina si prestasse ad una tale interjiretazione.— Es- sendo un elemento di ciascuna sensazione, (juesta concezione sa- rebbe anche necessariamente un elemento di ciascuna idea (per- chè un'idea è una sensazione risvei^liata), e così non si troverebbe mai assente dalla coscienza. Ma la dottrina non si presta ad essere interpretata così, per più ragioni di cui due mi sembrano le più importanti: 1. L'atto mentale per cui apprendiamo l'assoluto, non è una sen- sazione o una parte di una stmsazioae propriamente detta (cioè allo stato forte), perchè l'autore parla sempre di (piest'atto men- tale come di un pensiero o una rappresentazione (v. § 26). Egli lo chiama i>upe, è vero, un .>on<o o un sentimento dell' assoluto ; ma per questo senso o sentimento evidentemente eirli non in- tende altra cosa che la rappresentazione stessa Voglio dire : che non vi ha aUro nell'inteUigenza che rappresentazioni di sensazioni e di rapporti tra sensazioni, e il metafisico eiJTli non ammette due sfati di coscienza, una sensazione (sta- to forte) e una rappresentazione (stato debole); ma uno solo, la rap- presentazione ; se la chiama anche senso o sentimento, è perchè (luesta non è, come le altre rappresentazioni, una coi)ia, ma uno stato di coscienza originale, e perchè implica la convinzione del- l'esistenza reale dell'oggetto rappresentato. 2. L'atto mentale ])er cui apprendiamo l'assoluto è la coscienza d'un oggetto esteriore, una coscienza, come dice l'autore, di qualche cosa che oltrepassa la coscienza. Ne segue che ({uest'atto non può es- sere che una rappresentazione,perc]iè non è chenella rappresentazio- ne clie il fatto della coscienza è qualche cosa di distinto e separato dall'oggetto di cui abbiamo coscienza. Esso non può essere una sen- sazione o un elemento della .sensazione, perchè la sensazione non oltrepassa la coscienza, in altri termini, noi non abbiamo coscien- za, nella sensazione, clie della sensazione stessa. II volgare, è vero,, crede, per un'illusione naturale, che la senzazione sia la coscien- za d'un oggetto esteriore; ma per lo Spencer, come per tutti i filosofi i quali non ammettono che la sensazione inviluppi real- mente l'oggetto esteriore, questa obbìetttc azione della sensazione non può essere data immediatamente nella sensazione stessa, ma non può essere che il risultato d'un processo psicologico, il quale implica che a «piesta si aggiungano altri elementi mentali distinti da essa. Ora l'atto mentale per cui si apprende l'assoluto non po- trebbe essere un elemento solamente della sensazione già obbiet- tivata, e divenuta cosi la coscienza d'un oggetto esteriore, in se- guito ad un processo psicologico e per l'aggiunzione di altri ele- menti mentali distinti dalla sensazione stessa. In questo caso, in effetto —, a parte la difìicoltà di comprendere perchè a (piest'ele- mento della sensazione si conserva ancora una portata obbiettiva, quando alla sensazione stessa si è già restituita la sua portata reale,, cioè puramente subbiettiva— quest' elemento della senzazione non sarebbe, sin dallorigine e per se stesso, la rappresentazione d'un oggetto esteriore. Esso sarebl)e (piindi. all'origine e per se stesso, tutt'altra cosa che una concezione dell'assoluto; perchè l'assoluto- non è al fondo, per Spencer, che la realtà oggettiva, di cui noi non sappiamo altro se non che è un quid al di fuori del soggetto, e per conseguenza, tolta la coscienza dell'obbiettività, non resta più niente d'una concezione dell'assoluto. Cosi non sarebbe più vero< allora che la concezione dell'assoluto è un elemento mentale che non può mai essere assente dalla coscienza, e costituisce la sostan- za della coscienza stessa. Spencer che va sino ad ammettere la dottrina delle idee innate o qualche cosa di simile a questa dottrhia, esite- remo noi a seguire il primo, e a riconoscere che il se- condo, come tutti i metafìsici, falsa, a profitto delle sue ipotesi, i dati della coscienza, dandone come elementi per- manenti delle nozioni che, al contrario, non vi si trovano mai, e che è impossibile che vi si trovino? §. 8.^ Il criterio deirinconcepibilità della negativa non non è che una nuova forma del criterio del senso coiimne o delle credenze naturali del genere umano, adc»ttato dalla scuola scozzese. Cosi le obbiezioni che possono farsi al- Tapplicabilità di questo criterio, possono l'arsi alFapplica- bilità del criterio di Spencer. Il fatto prova che è imi)0s- sibile che un filosofo si attenga fedelmente a queste cre- denze, per quanto naturali e dichiarate necessarie. Ha- milton accusava (juasi tutti i filosofi di fare un doppio giuoco Còl fatti di coscienza: d'invocare la testimonianza di questa come un'autorità senz appello (juando ne hanno bisogno per istabilire le loro opinioni, e di rigettarla quan- do loro non piace Questa maniera di procedere rovina egli dice, Tautorità della coscienza — cioè delle ailerma- zioni spontanee e naturali del nostro spirito, che sono ciò-^ che i filosofi intuizionisti chiamano, /'a^^/ di coscienza—, perdio se si ammette che la sua testimonianza è falsa in un caso, non vi ha ragione per ammettere che essa de- ve essere vera in un altro. L'osservazione di Hamilton è particolarmente vera dei filosofi che hanno fatto dellau- torità delle credenze naturali il criterio della verità: né Reid nò lo stesso Hamilton nò alcun altro difensore delle credenze naturali, e Spencer meno di ogni altro, hanno seguito in tutti i punti queste credenze. Ciò sarebbe im- possibile a un filosofo, queste nozioni formate spontanea- mente dairintelligenza lasciata in baha di se stessa (m- tellectus sibi permissus), e dichiarate per esagerazione delle credenze irrcsistiì)ili, essendo nel disaccordo più assoluto COI risultati più incontestabili della scienza L af- fermazione spontanea del nostro spirito, quella che pu(') invocare per sé Fautorità delle credenze naturali e fon- darsi sul criterio della persistenza della credenza è che esistono degli oggetti estesi, colorati, ecc., e che questi og- getti stessi sono presenti alla coscienza nell'atto della sen- sazione. Ma non vi é stato alcun filosofo, sia nella scuola scozzese, sia fuori di questa scuola, che abbia ammasso integralmente la verità di quest'affermazione. Questi due clementi della credenza naturale, cioè P che le nostre sensazioni s'identificano con gli oggetti stessi, e 2^ che il colore e le altre proprietà sensibili cosi dette secondarie sono degh attributi reali di questi oggetti, vengono riget- tati da tutti i difensori delle credenze naturali. Cosi^'in quanto al primo punto, secondo Reid, la sensazione non e se non un fatto subbiettivo, che ci suggerisce, per una legge inesplicabile del nostro spirito, la concezione d un oggetto esteriore, che non ha con essa alcuna somiglianza- secondo Hamilton, la sensazione coglie immediatamente' non l'estensione o altra proprietà dell'oggetto esteriore stesso, ma l'estensione dell'organo senziente, in quanto questo viene affetto dall'oggetto esteriore (opinione ana- loga a quella di Rosmini); secondo Galluppi, la sensa- zione coghe lo stesso oggetto esteriore, ma senza perce- pire alcuna delle sue proprietà reali, le proprietà sensi- bili non essendo che un'apparenza puramente subiettiva e 1 oggetto restando sconosciuto in se stesso. In quanto al secondo punto, alcuni distinguono tra proprietà primarie e proprietà secondarie: le prime appartengono realmente ai corpi, ma le seconde non sono che semplici sensazioni Ma le proprietà primarie non si risolvono, in ultima analisi, che nelle nozioni dei rapporti di spazio (esten- sione figura, posizione) (1;; e queste non sono che sem- (1) Anche VimpenetrabilLtà. Che significa infatti clic la materia è impenetrabile, se non che due porzioni di materia non possono oc- plici nomi astratti, a cui non corrisponde più niente di rappresentabile, se si separano dagli altri elementi senso- riali, con cui sono indissolubilmente congiunte nelle espe- rienze dei nostri sensi da cui esse hanno avuto origine. Ne segue che le proprietà primarie sono inconcepibili senza alcune delle secondarie, e non possono esistere se- paratamente da queste; quindi se tutte le proprietà secon- darie non esistono che nei nostri sensi, è impossibile che le primarie esistano negh oggetti stessi (1). Per conseguenza eupare lo stesso spazio ? E questo che vuol dire se non che è una legge della natura che due porzioni distinte di materia occupano sempre due posizioni distinte ? Non vi ha dunque altro neir idea (XeW impenetrabilità se non che le idee di posizione e di differenza nella posizione. 0 In termini più concreti: Testensione, la figura e la posizione noi non i^ossiamo rappresentarcele che congiuntamente agli altri dati della sensazione visuale o tattile da cui queste nozioni deri- vano, cioè il colore o la resistenza ; senza il colore o la resistenza l'estensione coi suoi modi non è che un'astrazione, che non si può concepire come reale, anzi, se si ammette che non vi hanno idee astratte, che non si può assolutamente concepire. Quindi V esten- sione, la figura e la posizione non possono esistere che col colore o con la resistenza, e separatamente dal colore e dalla resistenza non sono che un non senso : ma si ammette che il colore e la re- sistenza non esistono che relativamente al soggetto senziente • dunque uon può ammettersi che r estensione, |la figura e la po- sizione esistano indipendentemente dal soggetto senziente. Non posso esprimermi ; più chiaramente su quest' argomento, per- chè la quistione del mondo esteriore qui non posso che sfiorarla- si troveranno più sviluppi nella \l parte del Saggio II, dove questa quistione sarà trattata ex professo. Tuttavia aggiungerò che se- condo me, la vera base dell'antireahsmo è la dottrina, insegnata •dalla fisica, che il colore non appartiene agli oggetti stessi ma non e loro attribuito cne per un'illusione. Ciò che impedisce di ri- conoscere questo fatto è che i psicologi moderni ammettono ge- neralmente sulle nozioni di spazio la teoria che dà ad esse spe cialmente per contenuto le esperienze del tatto e del movimento muscolare. Ma se si comprende che il uero spazio, quello che noi obbiettiviamo, non è che lo spazio visuale, cioè che Fidea dell'e- stensione, della figura, ecc., in qnanto noi 1' attribuiamo ai corpi altri filosofi rifiutano Tobbiettività tanto alle proprietà /;r/- marie quanto alle secondarie, e cosi il realismo entra nella sua fase che possiamo chiamare metafìsica, in cui invece dei corpi che osserviamo nell'universo visibile, si parla di monadi, dlnconoscibile e di altre entità metaem- piriche, che non sono esse stesse — sia detto per ora per incidente— meno inintelligibili che le proprietà primarie separate dalle secondarie. Cosi tutti i filosofi realisti, e ira di essi anche quelli che si danno espressamente per di- fensori della credenza naturale, fanno coi iatti di co- scienza il doppio giuoco di cui parla Hamilton : in questa credenza fanno due parti, ammettono Tuna e rigettano l'altra; ma se Tautorità della credenza non è un motivo suf- ficiente per non rigettare la seconda, come potrà essere un motivo sufficiente per ammettere la prima ? Ma la quistione in questi termini, almeno per le forme metafisiche della dottrina realista, non è nemmeno posta esattamente. Non si può dire, rigorosamente, che le affer- mazioni dei realisti metafisici siano, o contengano, una parte dellaffermazione del realismo naturale. Il significato <i'un"affermazione deve desumersi dai fatti o dagli oggetti concreti e particolari di cui affermiamo l'esistenza, perchè le nostre affermazioni non sono delle astrazioni, ma esse non si riferiscono, come abbiamo spiegato, che al concreto e al particolare. Per conseguenza un'affermazione ò total- mente o parzialmente identica a una parte di un'altra af- fermazione, (juando gli oggetti o i fatti affermati dalla stessi, non è che un aspetto sotto cui si considera, per un'astra- zione, la sensazione della vista, di cui il colore non è che un al- tro aspetto: se si riflette inoltre che Berkeley e gli altri avversari del realismo (p. e. il Hain) hanno sovratutto fondato la loro nega- y.ione sulla teoria tattile— muscolare dello spazio ; non si troverà forse un paradosso il dire che la nostra fede nella ìx^altà della ma- teria è stata distrutta da Newton, quando provò che il colore non è una propi'iern dei corpi stessi. prima, o una i)arte di questi oggetti o di questi fatti, sono una parte di quelli affermati dalla seconda. Ma le monadi, r Inconoscibile, ecc., die noi non abbiamo mai visto né conosciuto, ed esistenti forse nello spazio intellir/ibile, o in un non so che che corrisponde allo spazio che noi co- nosciamo, 0 anche non aventi alcuna relazione che ab- bia il minimo rapporto con lo spazio, sono degli oggetti interamente distinti e che non hanno niente di comune con gli oggetti che noi chiamiamo corpi, che si presentano ai nostri sensi, che noi possiamo osservare nello spazio visibile, clie hanno una figura, un colore, ecc. Dunque un' affermazione che dice : esistono le monadi, l' Incono- scibile, ecc., non è, nò contiene, una parte dell'afferma- zione che dice : esistono degli oggetti estesi, colorati, ecc., e questi oggetti sono quelli che sono immediatamente pre- senti alla nostra coscienza nella sensazione. Ne segue che il realista metafisico non ha alcun dritto di rivendicare per la sua propria dottrina la forza o la persistenza, qua- lunque essa sia, della credenza naturale : cosi, quando egli invoca, in favore di questa dottrina, il criterio della forza o della persistenza della credenza, il suo argomento non è che un equivoco; la forza e la persistenza non appar- tengono che alla credenza naturale— e rigettando questa credenza, egli riconosce che esse non giungono sino alla irresistiijilità— ; ma la sua dottrina è interamente distinta dalla credenza naturale, non la ripete nò in tutto nò in parte, non ha con essa che una semplice analogia. (Que- st'analogia Ijasta, è vero, perché— per un effetto della ten- denza del nostro spirito, che è la base di tutte le conce- zioni metafisiche, ad assimilare tutte le nozioni che ci for- miamo delle cose, alle nozioni che ci sono le più abitua- li—qualche cosa della forza della credenza naturale si ri- fletta sulla dottrina del metafisico; ma questa forza impresta- ta alla credenza naturale è, in conseguenza della sua origine medesima, inferiore a quella della credenza naturale stessa. ; ! ^ il e non può giungere quindi alla irresistibilità, perchè, co me riconosce il metafisico, nemmeno questa è irresistibile. Dirà il realista metafisico clie, benché la sua dottrina non s^ imponga allo spirito con una forza assolutamente irre- sistibile, questa forza nondimeno è sempre tale che essa non cessa perciò di essere un criterio della verità di questa dottrina? Eghnon può dirlo senza mettersi in contraddizione con se stesso, perchè egli ha respinto il realismo naturale, quantunque questo s'imponga allo spirito con altrettanta for- za, ed anche con una forza maggiore. Concludiamo sul cri- terio deirinconcepibihlà della negativa. Se l'inconcepibili- tà della negativa deve intendersi nel senso rigoroso, non può appartenere al realismo trasformato, perchè esso non ha che una evidenza d'imprestito, dovuta al suo rappor- to col realismo naturale, e Spencer, respingendo il rea-- lismo naturale, ha riconosciuto che questo non ha nem- meno esso stesso r inconcepibilità della negativa. Se in- vece r inconcepibilità della negativa non deve prendersi che per una maniera iperbolica di esprimere la forza con cui una credenza s'impone al nostro spirito, siccome que- sta forza non è stata un criterio sufficiente per* ammet- tere il realismo naturale, tanto meno può esserlo per am- mettere il reahsmo tras! ormato. 11 criterio deir inconce- pibilità della negativa non può dunque in niun caso sta- bilire il realismo trasformato di Spencer né qualsiasi al- tra forma della metafisica reahsta. Ma non solo il criterio deirinconcepibilità della nega- tiva non può fondare il realismo trasformato di Spencer o qualsiasi altra forma del realismo metafisico, esso for- nisce anche un argomento decisivo contro la legittimità di tutti questi sistemi. Il realismo naturale, quantunque in contraddizione coi fatti ben interpretati, presenta al- meno al nostro spirito una concezione intrinsecamente intelligibile e coerente ; ma le dottrine dei realisti meta- fisici ( come mostreremo nella 2^ patje del Saggio 2^ e nel Saggio 3^ ) sono tutte inintelligibili e contraddittorie. Ciò proviene dal fatto stesso che sono delle dottrine me- tafisiche — metafisiche nel senso stretto, cioè aventi per oggetto delle entità sovrasensibili—Neir ultima epoca del- la scolastica si chiamava il rasoio di Occam il princi-^ pio su cui era tbndato il nominalismo di questo filosofo, cioè die entia non sani multipììcanda praeter necessita- tem. Ma il vero rasoio, che recide sin dalla base qual- siasi nozione metafisica, o in generale, metaempirica, è il nominalismo stesso, questa proposizione che non esi- stono idee astratte, e che noi non pensiamo che per rap- presentazioni concrete e particolari. Infatti, se è cosi, pesa- re e irnraatjinare sono due termini perfcittamente equivalen- ti, e ciò che è inininiag inabile, nel ([ual caso si trovano, per confessione dei loro stessi sostenitori, tutte le supposte entità metafisiche o in generale metaempiriche, è assolutamen- te impensabile e inintelligibile. ( Confr. e. 2« § 10« pag. 13(> e il §Gn]i questo capit. pag. 501-503). Di più esso è an- che contradittorio, perchè come potremmo noi formarci, o piuttosto credere di formarci, un concetto di ciò che è allatto inconcepibile, se non per il vano sforzo di riuni- re in un'idea unica delle idee, in effetto, incompatibili ? è per questa incompatibilità che dalFunione di elementi cia- scuno necessariamente immaginabile e sensibile— termi- ni anch'essi equivalenti, perchè noi non possiamo imma- ginare se non ciò che potremmo sentire — può risultare il concetto deirinimmaginabile e sovrasensibile. (Confr. il paragr. seguente e la 2^ nota allo stesso paragr.). Ogni pretesa idea di un'entità metafisica, o in generale meta- empirica, non è dunque che, come dice Spencer, una pseudo - idea, cioè una pura sequela di forme verbali, a ciascuna delle quali separatamente corrisponde qualche nozione, ma senza che all' insieme corrisponda nozione alcuna. Ne segue che questa realtà assoluta, indefinita ^ inconoscibile, di cui ci parla Spencer, con tutti gli attributi di cui egli ci accorda la conoscenza, lungi di avere per sé rinconcepibilità della negativa, è al contrario, es- sa stessa che è inconcepibile. Ma se noi dobbiamo am- mettere una proposizione perché la sua negativa é incon- cepibile, é evidente che, per la stessa ragione, noi dob- biamo respingere una proposizione perché é essa stessa che è inconcepibile. Dunque non solo noi non siamo obbliga- ti ad ammettere, iria siamo anche obbligati a respingere, le proposizioni di Spencer, in virtù del criterio dello stes- so Spencer. Cosi il criterio della inconcepibilità della negativa è inapplicabile alla quistione del mondo esteriore, nel senso almeno in cui lo applica Spencer; perché, da una parte, tutti gli uomini di scienza sono d accordo a respingere la credenza popolare, e i difensori delle credenze naturali non meno degli altri;, ciò che prova che questa credenza non ha per sé rinconcepibilità della negativa; dall'altra parte, lo stesso criterio, non solo non é favorevole, ma é anche contrario, tanto al realismo trasformato di Spencer, quanto alle altre forme del realismo che i filosofi hanno sostituito alla credenza popolare. Ma noi abbiamo visto inoltre che il criterio deirinconcepibilità della negativa non può nem- meno servire, come pretende Spencer, a fondare le gene- ralità più alte della scienza: noi possiamo dunque conclu- dere, come hanno obbiettato a Spencer i rappresentanti della filosofia empirista, che il suo postulato universale è inapphcapile nelle controversie filosofiche importanti, nelle quali (i^M pretende di applicarlo, e che cosi esso viene a mancarci nei soli casi in cui potrebbe venire invocato (v. Mill Logica lib. 2*^ e. 7.") §. 9.*^ Doix) aver mostrato che il criterio deirinconce- pibilità della negativa é inapplicabile alla quistione del mondo esteriore, e non può servire di fondamento, come crede Spencer, ai principii della nostra conoscenza, resta a do- nifindarci quale sia il valore di questo criterio in se stesso: i rinconcepibilità della negativa deve ammettersi o no come una prova della verità ? Perchè questa nuova quistione non si aggiri nel vago, noi dobbiamo cominciare per fissare il senso dei termini d' una maniera precisa. Quando si vuol fare, come Spencer, deirinconcepibilità del contrario il criterio unico, il postulato universale su cui sono fon- date tutte le nostre conoscenze, si é obbligati a impiegare questa espressione in un senso alquando vago : cosi lo Spencer, quantunque una proposizione inconcepibile sia secondo lui una forma verbale alla quale in realtà non cor- risponde rappresentazione alcuna, e faccia cosi d'inconcepi- bile il sinonimo esatto di assolutamente irrappresentabile o inimmaginabile, tuttavia nelFapplicazione del criterio non è poi sempre fedele a questo significato della parola. Quando egli dice, osserva il Mill, che allorché io ho freddo io non posso concepire che io non senta il freddo, ciò non può vo- ler dire che io non posso concepirmi (cioè immaginarmi) non senziente il freddo, perché è evidente che io lo posso. E in verità lo Spencer è obligato ad accordare rinconce- pibilità del contrario non solo ai latti della coscienza at- tuale, ma a quelli ancora che noi ammettiamo sulla fede della memoria; poiché, a meno di abbandonare intera- mente il terreno dellesperienza, e di pretendere che lo spi- rito può tirare tutto il sistema delle conoscenze dal suo proprio fondo (opinione che non è certamente quella di Spencer), si devono ammettere come premesse della scien- za, oltre i principii generali, come il principio di causa- lità, la conservazione della forza, ecc., anche i fatti parti- colari deiresperienza, e questi noi non li ammettiamo che sulla fede della memoria. Ora é evidente che noi possiamo sempre immaginare che un fatto, qualunque sia la cer- tezza che noi ne abbiamo, non sia in realtà accaduto. Noi intenderemo dunque la parola inconcepibile sempre nel senso rigoroso; inconcepibile sarà per noi non ciò <5he é semplicemente incredibile, ma ciò di cui non ci ò i '*., ì possibile di formarci alcuna immagine o rappresentazione, ciò che noi non possiamo pensare, quantunque possiamo enunciarlo verbalmente. Non è certamente in questo senso che le nostre credenze naturali possono vantare; per se Tinconcepibilità della negativa : infatti, come ab- biamo visto, tutti i filosofi, anzi in generale tutti gli uo- mini di scienza, le rigettano in tutto o in parte, e gli stessi campioni di queste credenze se ne allontanano in punti importanti, anzi, a parlar propriamente, non sono esse stesse che difendono, ma altre opinioni che hanno- con esse un grado maggiore o minore di somiglianza. L'inconcepibilità reale o assoluta si verifica, secondo noi, in tre casi: 1^- L'impossibilità assoluta di legare un'idea ad altre- idee può essere dovuta alla circostanza che queste ultime si trovano invece indissolubilmente legate con un'idea contraria alla prima. È impossibile, p. e., di pensare che due più due siano ineguali a quattro, perchè l'idea contra- ria alla ineguaglianza, cioè l'eguaglianza, si trova inse- parabilmente legata con le idee di due più due e di quattro. 2^ Delle proposizioni contraddittorie offrono un caso-* distinto d'inconcepibilità. È impossibile di affermare e di negare al tempo stesso una stessa cosa: tuttavia alcuna^ può ammettere al tempo stesso delle proposizioni contrada dittoriCj, p. e., affermare nel generale ciò che egli nega nel particolare, o viceversa. Questo avviene perchè, le o- perazioni del ragionamento volgendo tanto su dei simboli verbali quanto su delle rappresentazioni reali, si può, per non aver verificato esattamente il senso dei simboli, non, aver coscienza della contraddizione. 3^ Ordinariamente si confonde con una contraddizione una forma verbale nella quale degli attributi opposti o« semplicemente incompatibili fra di loro vengono dati come congiunti in uno stesso soggetto; p. e, un quadrato ro- tondo o un corpo tutto bianco -e tutto nero. È questa. specie d'inconcepibiUtà che i leibniziani chiamavano idee illusorie, e che Spencer chiama pseudo-idee: noi pos- siamo infatti credere di avere nello spirito una nozione reale, quando non abbiamo invece che una pura forma verbale, alla quale non corrisponde alcuna rappresenta- zione. Tutte le nozioni metafisiche o metaempiriche, nel senso stretto di queste parole, appartengono a questa classe d'inconcei^ibilità. Due rette che chiudono uno spazio (lo spazio sferico dei metageometri) e un quadrato rotondo sono dei non sensi dello stesso genere. L'Idea platonica, che è al tempo stesso, come osserva Aristotile, singolare e generale, o uno e molti, come si obbietta lo stesso Pla- tone, è una riunione di attributi opposti e incompatibili fra di loro, e quindi un inconcepibile come un quadrato rotondo o un corpo tutto bianco e tutto nero. La nozione dell'infinito attuale (il solo infinito pensabile non essendo che in potenza) può essere un altro esempio della stessa ^classe d'inconcepibilità (1). Ora, in uno di questi casi, in cui l'inconcepibilità è as- soluta, possiamo noi, fondandoci sul solo criterio dell'in- concepibilità, concludere la verità del contrario ? Mill e Bain rispondono negativamente. Questi autori non hanno xlistinto che due casi d'inconcepibilità, che sono ixjue primi che noi abbiamo enumerato : ciò che per noi è il terzo caso (1) « È quando si tratta delle verità necessarie per identità, dice il Bain, elle V inconcepibilità del contrario si presenta al suo ma- jcimum. Tuttavia anche allora non è impossibile di concepire il contrario, ciò si è veduto spesso Nella religione spesso si sono mes- se innanzi flagranti contraddizioni che il volgare accetta con en- tusiasmo». (L0.9. hi), n, e. V, 6). Nei casi a cui allude il Bain. .se noi ammettiamo la distinzione fatta nel testoj, non si tratta propria- mente di contraddizione, ma di attributi incompatibili che si affer- mano insieme dello stesso soggetto. È appena l)isogno di osser- vare die <]ueste tlairranti contraddizioni non sono slate conce pile, ina solo verl)almente anmiesse. d'inconcepibilità, rientra nel primo per Mill, e per Bain nel secondo (1). Ora, siccome essi non negano che Tin- concepiijilità sia un criterio nel secondo caso, cioè quando si tratta d'una contraddizione, cosi la quistione non può (l; II Bain lia, secondo me. ragione di non aver distinto l'uno dall'altro i due ultimi casi d'inconcepibilità che noi abbiamo enu- merati; e nel llnguaprprio ordinario, infatti, non si fa. come abbiamo notato, alcuna distinzione fra di essi. Un quadrato rotondo nel lin- i^'uaggio ordinario si chiamerebbe semplicemente una contraddi- zione: ma '5i potrebbe dire, come fa Mill, che l'espressione non è logicamente corretta, perchè «non vi ha contraddizione che tra una rappresentazione positiva e la sua negativa». La nozione negativa di quadiccto non è rotondo, ma non rjiiadrxdo: cosi vi sareblìe con- traddizione unicamente quando si predicano dello stesso soggetto l'attributo positivo e il suo negativo, p. e. quadrato e non quadrato. Questa distinzione è certamente conforme alle a])itudini ordinarie dei logici, a cui anche noi ci siamo conformati nel testo. I logici distinguono, come si sa, diversi casi deiropi)osizione, e l'opposi- zione dei contraddittori non è che uno di questi casi. Ma si può domandare: la distinzione fra gli attributi che noi abbiamo chia- mati opposti o incompatibili, e gli attributi contraddittori, corri- sr>onde a una distinzione reale nelle cose, o è soltanto relativa al- l'uso delle parole? Io credo che la seconda proposizione sia la vera, poiché un termine negativo non è al fondo che una designazione generica, conveniente a ciascuno degli attributi positivi che sono incompatibili con l'attributo designato dal termine positivo corri- spondente; o in altre parole, il significato di un termine negativo è di denotare le cose che hanno alcuno di questi attributi incompa- tibili: non bianco è il nome di tutti gli oggetti neri, grigi, cerulei,, o aventi un altro colore ({ualunque differente dal bianco; non qua- drato è il nome di tutti gli oggetti triangolari, pentagonali, o aventi un'altra ligura qualunque ditTerente dal quadrato. Cosi una propo- sizione che nega un attributo di un soggetto, è al fondo una pro- posizione che qtrerma che il soggetto ha alcuno degli attributi in- compatil)ili con questo, ma senza determinare (jaalc; e la ])ropo- sizione, sia che essa abbia la forma affermativa, sia che a])bia la forma negativa, è sempre un' ajrernicu ione, solo nel primo caso l'oggetto deiraffermazione è più determinato, nel secondo più in- determinato. (Aristotile, nel trattato De interpretatione, chiama i termini negativi, p. e. non homo, infiniti; e i platonici riconduce- vano l'opposizione deiresT^cre e del/io/i esset-e e di tutti i contrari. volgere che sul primo caso : quando delle idee sono indis- solubilmente legate Ira di loro, la inconcepibilità della ne- gativa, cioè la nostra incapacità di separare queste idee, è un criterio della verità ? Alla quistione se un legame in- dissolubile fra le nostre idee sia una prova della verità, si potrebbe aggiungere la quistione corrispondente, se Tim- possibilità di congiungere certe idee sia una prova di falsità o dlmpossi])ilità reale. Ma questa seconda quistione rientra a quella dai finito (determinato) e dell'm/^/itYo (indeterminato), co- me anche a quella dell'ano e del molti — notiamo che i contrari delle due aoOTOiy 17.1 erano contaddittori, essendovi tra loro un'op- posizione senza medio—). A questo punto di vista, la distinzione ammessa nel testo fra una contraddizione e un'asserzione che congiunge in uno stessa soggetto degli attributi opposti o incompatil)ili, svanisce in uua semplice distinzione verbale. Non vi hanno dunque propriamente che due casi d'inconcepibilità: in un caso la proposizione è incon- cepibile perchè le rappresentazioni, che i'suoi termini esprimono, sono per se stesse opposte o incompatibili, e non vi ha perciò al- cuna rappresentazione che corrisponda a questi termini, applicati congiuntamente; esso comprende i due casi, distinti nel tosto, del- la contraddizione e della semplice opposizione o incompati])ilità, e si può in ([uesto caso dire indifferentemente che l'inconcepibilità è dovuta ad una contraddizione, o che è dovuta alla opposizione o incompatibilità delle nozioni. Nel primo caso d' inconcepibilitì», invece, questa contraddizione o incompatibilità non è direttamente fra le nozioni, che si tenta di congiungere, prese per se stesse, ma fra una dì queste nozioni e un'altra nozione, che è necessariamen- te congiunta con quelle a cui si tenta di congiungere la [ìrima. Che un corpo sia quadrato e rotondo, è un'inconcepibilità dovuta alla contraddizione o alla incompatibilità degli attributi stessi : qua- drato e rotondo si escludono direttamente e considerati per se stes- si. Ma nella proposizione che abbiamo riportato come esempio del- l'altro caso d'inconcepibilità : « Due più due e quattro sono inegua- li », la contraddizione o opposizione non è direttamente fra ineguale e due più due e quattro, ma fra ineguale ed eguale, e l'idea del- l' eguaglianza non può congiungersi a ({uelle di due più due e di quattro, perchè invece con queste sì trova necessariamente con- giunta l'idea dell'eguaglianza .nella prima, perchè rimpossibilità di formare un le-ame fra certe idee non potrebbe derivare se non dalla circo- stanza che questo sarebbe incompatibile con qualche altro legame necessario o indissolubile esistente fra le nostre idee. § 10.0 Le obbiezioni di Mill e di Bain contro il criterio <leirmconcepibilità della negativa hanno di mira la dottrina di Spencer (e quella analoga di Wewell), per cui è questo il criterio unico della verità o il postulato universale : fra queste obbiezioni sceglierò quelle che mi sembreranno fare al nostro caso. Cominciamo da Mill. « Noi non abbiamo, egli dice, il dritto di atlermare che una cosa ò impossi- bile, percliè la sua possibilità è inconcepibile; vi ha perciò due ragioni : primo, ciò che [)are inconcepibile per noi, e, in quanto noi siamo personalmente in quistione, ciò che può esserlo realmente, non deve questa inconcepibilità che ad un associazione forte. Quando, in una lunga esperienza, noi abbiamo avuto spesso una sensazione particolare, o un'impressione mentale, senza che mai una certa altra sen- sazione o impressione abbia cessato di accompagnarla im- mediatamente, si stabilisce fra le due idee un'aderenza si intima, che noi non possiamo più pensare la prima senza pensare la seconda; esse sono intimamente combinate. E a meno che qualche altra parte della nostra esperienza non ci presenti dei casi che ci aiutino a disgregare le due idee, la nostra incapacità d'immaginare l'uno di questi fatti senza l'altro diviene, o può divenire, una credenza che l'uno non i)uò esistere senza l'altro. Tale è la legge dell'As- sociazione inseparabile, questa legge del nostro intendi- mento di cui pochi pensatori hanno compreso tutta la po- ^^"^-a Come questo fatto non si produce che perché le nostre facoltà di percezione sono determinate dai limiti della nostra esperienza, gl'Inconcepibili tendono sempre a divenire dei Concepibili, a misura che la nostra esperienza si allarga. Non vi ha bisogno di andare a cercare altro esempio che quello degli antipodi. I primi pensatori non potevano concepirne la realtà materiale : senza dubbio si concepiva che una persona potesse trovarsi agli antipodi, e lo spirito poteva rappresentarsela con la testa in basso e i piedi in alto, ma non si concepiva che fosse possibile che essa vi si tenesse senza cadere, a meno che non fosse inchiodata o incollata per i piedi. Vi era in questo caso un'associazione inseparabile, quantunque non indissolubile; e sinché essa ha durato, vi é stato un fatto reale che si chiamava inconcepibile, e clie per questa ragione non si esitava a credere impossibile. A diverse epoche, inconce- pibilità analoghe hanno impedito di ammettere delle nuove verità scientitiche. Il sistema di Newton ha dovuto lottare contro di esse, e noi non abbiamo il dritto di assegnare un'origine o un carattere differente a quelle che esistono ancora, perchè l'esperienza die sarebbe capace di farle ces- sare non ha ancora avuto luogo. Se qualche cosa che noi non possiamo attualmente concepire venisse ad esserci mo- strata, noi saremmo tosto capaci di concepirla; noi sarem- mo anche esposti a cadere nell'errore opposto, e a credere che la sua negazione è inconcepibile. Vi ha molti casi nella scienza di cose che erano altra volta inconcej)ibili, che si è appreso penosamente a concepire, che sono entrate a poco a poco nei legami d' un'associazione inseparabile, al punto che i dotti hanno finito per pensare che queste cose sole erano concepibili, e che le ipotesi contrarie, che gli uomini avevano credute, e che una grande maggio- ranza forse crede ancora, erano inconcepibili L'incon- cepibiUtà non é dunque che un puro stato subbicttivo na- scente dagli antecedenti intellettuali d'un individuo o del- l'umanità in generale, a un' epoca particolare : essa non può dunque apprenderci le possibilità della natura •—• Ma in secondo luogo, anche supponendo non solo che l'incon- cepibilità non è una conseguenza dell'esperienza limitata, ma che vi ha nello spirito delle incapacità di concepire, •che fanno parte dello spirito stesso, e che non ne possono essere separate, questo non ci autorizzerebbe a concludere elio ciò che noi siamo incapaci di concepire non può esi- stere. Una tale conclusione non sarebbe legittima se non altrettanto che noi potessimo sapere a priore che siamo stati creati capaci di concepire tutto ciò che può esistere; che l'universo del pensiero e quello della realtà, il Micro- cosmo e il Macrocosmo (come si diceva una volta) sono stati fabbricati in maniera da corrispondersi mutuamen- te... . » (tilos. di Hamilton, e. VI). Lo Spencer dice, per corrobare la validità del criterio dell'inconcepibilità del contrario, che questa rappresenta « il prodotto netto delle esperienze fatte sino a questo giorno»; ma a ciò obbietta il Mill: « L'uniformità deiré- sperienza è probante a gradi molto differenti; in alcuni casi essa è fortissima, in altri debole, in altri essa meri- ta appena il titolo di prova. Una esperienza invariabile, dalla culla della razza umana sino alla scoverta del pò- tasio fatta da Humphry Davy, in questo secolo, avea di- mostrato die tutti i metalli cadono al fondo dell'acqua. Una esperienza uniforme sino alla scoverta dell'Australia attestava che tutti i cigni erano bianchi Io sostengo dunque, prima, che l'uniformità dell' esperienza è lungi di essere un criterio della verità; e in seguito che l'in- concepibilità è ancora meno un criterio di questo criterio. L'uniformità dell'esperienza contraria non òche una delle numerose cause d'inconcepibilità. Una delle più comuni è la tradizione venuta da un'epoca in cui la conoscenza era meno avanzata. La semplice abitudine di vedere un fenomeno prodursi d' una certa maniera basta per far parere inconcepibile un altro modo di produzione » (Lo- fjica, hb. 2,^ e. 7^. Il Bain fa delle riflessioni analoghe a quelle del Mill. « Si può accordare senza dubbio, egli dice, che l'impres- sione costante delle cose reali è una delle sorgenti della credenza; ma non è la sola nò la più considerevole... Gli elementi reaU della credenza sono: V^ l'istinto che ci porta a credere che ciò che è sarà; 2'> l' influenza delle nostre emozioni vive e delle nostre affezioni.... Queste due influenze saranno più tardi messe in tutta la loro luce come le cause principali dell' errore e dei sofismi. Bisogna pure tener conto di questa circostanza che, in ragione dei limiti della nostra esperienza, la forza del legame non rappresenta la ripetizione reale dei fatti, a meno che noi non siamo posti in modo da incontrare questi fatti tutte le volte che si producono. Ciò che è il più familiare per la natura può non essere ciò che è il più familiare per noi. Noi non consideriamo sempre l'uni- verso dall'alto d*un punto di vista centrale e dominante. Il miglior esempio che possiamo darne è l'importanza eccessi- va che noi siamo disposti ad attribuire a un tipo particolare di causalità, la volontà umana, perchè ci è più familiare degU altri. Ne risulta che noi crappresentiamo la volontà come il tipo naturale ed essenziale dell'attività, quantunque, in fatto, non sia che una forma rara ed anche eccezio- nale dell'azione e della causalità In riassunto, allor- ché si considerano le differenti influenze che concorrono a tonnare le nostre convinzioni, la circostanza unica che Spencer mette avanti è talmente dominata dalle altre, che la vivacità della credenza e, per conseguenza, 1'. in-^ concepibilità del contrario, non possono più essere consi- derate come un criterio di certezza ». (Lofj. t, r* Append. D) (l). j:^ 11. 11 lettore si è accorto facilmente che il nerbo i\ {[) Huxley, i cui principii filosofici soikì, i)cr il fondo, identici a quelli dì Mille di Hain, si conlbi'nia inire a questi autori, rigettando il criterio deli'inconcepibilitn. «U fatto, egli dice, che il contrario di una credenza è inconcepil)ile, è forse una presunzione in favore) della verità di (luesta credenza, ma non ne è certamente una prova» (V. D. nume, sua cita. ecc. parte II cop. VI,trad.fronc. pag. iGiJ-170. hi 540 deHargomentazione di Mill e di Bain consiste in questo : vi hanno e vi sono state delle credenze o incapacità di credere pressoché irresistibili di cui la scienza ha rico- nosciuta la falsità; queste credenze o incapacità di cre- dere non sono dovute che a delle forti associazioni fra le nostre idee; dunque noi non siamo fondati ad ammettere che un'associazione, anche inseparabile, fra le nostre idee, determinante una credenza irresistibile, possa essere per se stessa un criterio della verità e della falsità; o per riassumere l'argomento con una frase dello stesso Mill: a meno che non esistano degVidola tribus (che sono fon- dati su ciò che il Mill chiama dei sofismi a priori, e sono tutti dovuti alle strette associazioni fra le nostre idee ), la credenza non può essere una prova concludente della sua propria verità {Log, lib. 2^\ e. 7*). È facile di preve- dere la risposta che un discepolo della scuola intuitiva può fare a quest'argomento : queste incapacità di credere di cui la scienza ha riconosciuto la falsità, non sono state delle inconcepibilità assolute; la cosa che si negava sem- brava incredibile, ma non era assolutamente inconcepi- bile. Ma a ciò Mill e Bain replicherebbero: Non vi ha una differenza specifica, ma una semplice differenza di grado, fra ciò che è soltanto incredibile, e ciò che è as- solutamente inconcepibile o inimmaginabile. L'inimmagina- bilità presenta dei gradi numerosi, che vanno da una de- bole difficoltà a una impossibilità almeno temporanea, e non vi ha hnea precisa di separazione tra ciò che è as- solutamente inimmaginabile e ciò che è totalmente incre - dibile, nemmeno tra ciò che è inimmaginabile per una per- sona data e ciò che è semplicemente incredibile per essa. Se un' associazione empirica fra due idee non avente la forza che la renderebbe affatto irresistibile, non permette d'immaginare facilmente la separazione dei due fatti cor- rispondenti, si è fondati a credere che un' associazione empirica più forte, prodotta da una ripetizione ancora più incessante, convertirebbe questa difficoltà in una impos- sibihtà condizionale, impossibilità che non potrebbe ce- dere che innanzi ad una esperienza contraria, che le con- dizioni della nostra esistenza terrestre possono non per- mettere. E se un'associazione mentale di due fatti, trop- pò poco forte perchè la rappresentazione della loro sepa- razione sia impossibile, può ancora creare, e, se non vi ha associazioni contrarie, crea sempre più o meno diffi- coltà a credere che i due fatti esistano separati ; se, se- condo i tempi e i luoghi, questa difficoltà acquista spesso la forza d'un'impossibihtà ; un'associazione che è abba- stanza forte per rendere la separazione inimmaginabile può sicuramente creare un'impossibilità di credenza, non per un tempo e un luogo, ma che durerà sinché durerà l'e- sperienza che ha dato nascita all'associazione (V. Mill Fi- los, di Hamilton, e. IX, trad. frane, pag. 172-173, in nota). Ora data questa gradazione continua e questa variabilità nella forza dei legami formati dall'associazione; dato per conseguenza che ogni linea di separazione tra i casi di una forte tendenza a credere e quelli di una necessità assoluta di credere, tra i casi di una difficoltà di conce- pire e quelli di un'impossibilità di concepire, non potrebbe essere se non arbitraria ; sarebbe un'incoerenza di non volere che si accordasse ai primi, fondandosi sulla forza con cui la credenza ci s'impone, un valore obbiettivo (vi- sto che esistono degYidola tribus), e di volere che, sullo stesso fondamento, si accordasse ai secondi. È evidente cosi che tutta la forza dell'argomentazione di Mill e di Bain s'incardina nella dottrina dell'associa- zione inseparabile, nella dottrina, cioè, che la forza di un'associazione empirica può arrivare al punto che que- sta divenga assolutamente indissolubile, e che tale è l'ori- gine delle necessità del pensiero. È su ciò che è fondata il primo argomento contenuto nella prima citazione di Mill: ora, se ben si riflette, questo è il solo argomenta - « j forte, il secondo non è clie una vaga generalità, che uno scettico potrebbe impiegare, con la stessa ragi(V ne, contro il valore di ogni conoscenza umana. Se vi fossero, dice Mill, nello spirito delle impossibilità di concepire inseparabili dallo spirito stesso, noi non potrem- mo concludere che ciò che siano incapaci di concepire non può esistere, perché ciò supporrebbe che noi sai)es- simo a j)riori che siamo stati creati capaci di concepire tutto ciò die può esistere; che il mondo del pensiero e quello della realtà sono stati fabbricati in maniera da cor- rispondersi mutuamente. Ma è precisamente su questa supposizione a priori, che il mondo del pensiero e quello della realtà si corrispondono mutuamente, che si fonda la conoscenza umana: il pensiero non può uscire da se stesso, e confrontarsi immediatamente con le cose; credere alla realtà della nostra conoscenza implica un atto di fede nelle nostre facoltà conoscitive. Cosi la nostra credenza nella veracità della memoria, il Mill ne conviene, è un fatto ultimo: noi l'ammettiamo senza prova, perchè tutte le prove che se ne potrebbero dare suppongono già la cre- denza stessa. Ora questa fede nella memoria, e nelle no- stre facoltà conoscitive in generale, non implica, altrettanto che la fede nella validità di qualsiasi necessità primitiva del pensiero, la supposizione a priori che il mondo del pen- siero e il mondo della realtà sono stati fabbricati in modo da corrispondersi mutuamente ? (1) Del resto, ammettendo (l) Ciò che può esservi di umuiìssil^ile nei (Uil)bi di Mill sulla va- lidità di una necessità innata del pensiero, è che la sua corrispon- denza con una necessità obbiettiva sarebbe inesplicabile, e siccome noi dubitiamo naturalmente della possibilità d'un fotto quando ve- <iiamo die questo fatto non può spiegarsi, la inesplicabilità di questa corrispondenza metterebbe in sospetto la sua stessa realtà, e per conseguenza il valore obbiettivo della necessità del pensiero. Questo stesso però non avrebbe luogo che nelF ipotesi dei razio- nalisti: per noi non vi ha altra necessità innata del pensiero che che ciò che noi siamo incapaci di concepire non esiste, non affermiamo perciò che noi siamo capaci di concepire tutto ciò che esiste, ma che noi abbiamo il dritto di re- spingere una proposizione che non presenta alcun senso. Un' inconcepibilità (se è assoluta) e un non senso sono dei termini perfettamente equivalenti: Tinconcepibile non è un oggetto del pensiero, ma l'assenza di qualsiasi oggetto del pensiero, non è la rappresentazione di qualche cosa, ma di nulla, e noi abbiamo il dritto di dire che ciò che è inconcepibile non esiste, se pure abbiamo il dritto di dire <ilie il nulla non esiste. § 12^ Il Mill conviene al fondo che V inconcepibilità assoluta porta con se Timpossibilità assoluta di credere, e rinconcepibilità della negazione, quindi, la necessità as- soluta dellatrermazione. E nel fatto, se ci è impossibile di pensare due fenomeni Y uno in congiunzione con Taltro, ci è per ciò stesso impossibile di affermare che i due fenomeni sono congiunti; e se ci è impossibile di pensarU Tuno separato dall'altro, ci è del pari impossibile di affer- mare che essi sono separati. La cosa è evidente, sia che si aderisca o no alla dottrina di Spencer che la creden- za non è che la persistenza di un legame fra le nostre idee: qualunque sia l'opinione che si ammetta sulla na- tura e sull'origine del fatto psicologico che noi chiamia- mo credenza o affermazione, sarà sempre impossibile di credere o affermare una cosa che non si può pensare (1). le conoscenze intuitive sulle somiglianze ottenute i^er la semplice comparazione delle idee: ma iu queste conoscenze la coincidenza tra il pensiero e la realtà si spiega cosi naturalmente che in (juelle fondate sulla memoria e sull'induzione, o in una parola, suU'espe- rienza (v. e. 8 g 3 e 7). (1) Il Mill si esprime talvolta come se mettesse in dubl)io che rinimmaginabilità porta con se Timpossibilità di credere. Nella Lo- gicai. Ile. 7 dice: «Spencer può credere di concludere legittima- mente dairinimmaginal)ile airincredibile, perchè egli sostiene che la credenza non è che la persistenza d' un'idea» E nella 7'7/os. _1 Ora se è cosi, se ciò che è inconcepibile di una maniera assoluta è anche incredibile di una maniera assoluta, è una contraddizione di dire che Tinconcepibilità della ne- gativa non è un criterio della verità. L' inconcepilità della negativa sopra un oggetto dato è necessariamen- te un criterio della verità per ciascuno che trova que- sta inconcepibilità nel proprio spirito ; può non essere un criterio per chi non ve la trova. Se Mill non può concepire la negazione d' una proposizione data, egli non può fare a meno di credere assolutamente e illi- mitatamente alla verità di questa proposizione, e perciò- gli basta questo motivo unico che la negativa è per lui inconcepibile: egli non può fare questa riserva che non- dimeno la proposizione può non essere vera, perchè allo- ra la sua credenza non sarebbe, come è nel fatto, asso- luta e illimitata. Ma se è cosi, Mill ammette col fatto che rinconcepibilità è un criterio della verità, e la massima contraria, ch'egli afferma speculativamente, viene a ne- garla praticamente nei casi particolari. L' autore può dissimularsi questa contraddizione, perchè egli si suppone personalmente fuori di quistione : ma egli non ha il di llamUton e. (ì (doro aver distinto c\ò che è assolutamente in- concepibile e ciò che è semplicemente incredibile): « Un inconce- pibile nel senso proprio della parola— ciò che lo spirito è incapace di far entrare in una rapxìresentazione— può nondimeno essere un oggetto di credenza, se noi vi attacchiamo un senso, ma non può dirsi che questa credenza sia r.elfetto dell' inteUigenza », « perchè noi non ci formiamo immagine mentale di ciò che crediamo». Questa credenza che non è 1' effetto dell' intelligenza non può essere che una credenza semplicemente verbale: quistionare se siffatta cre- denza meriti o no questo nome sarebbe una pura logomachia. Ma altrove . come nel capitolo suU' Associazione inseparabile, il Mill ammette senza riserva clie l' inconcepibile è per ciò stesso incre- dibile: egli sostiene in quel capitolo che un'associazione msepara- bile crea una necessità del pensiero, accettando la definizione di Kant che « il necessario è ciò di cui la negazione è impossibile (V. anche il luogo citato del cap. IX pag. 172-175). dritto di fare questa supposizione, perchè il filo-sofo è un uomo, e non può guardare le cose dcirumanità da un: punto di vista sovraumano. Se vi hanno delle necessità del pensiero permanenti e inerenti allo spirito umano, Mill non può non trovarle nel proprio spirito; se tutte le necessità del pensiero non sono che modificabili e transitorie, vi troverà almeno quelle che appartengono- al suo tempo e al suo luogo. Ma in tutti i casi egli deve ammettere praticamente che queste necessità del suopensiero sono un criterio della verità, mettendosi cosi in contraddizione col suo principio speculativo. Questa contraddizione fra la pratica e la speculazione,. 4ra i casi particolari e la massima generale, è inerente a questo punto di vista, dal quale si considerano le necessità del pensiero come qualche cosa di variabile e di relativo. Se queste necessità si considerano invece come perma- nenti e insite all'intelligenza umana, non avrebbe più senso il dire che esse non sono un criterio della verità,, perchè il filosofo non potrebbe più immaginare che si tratta semplicemente delle necessità del pensiero degli altri uo- mini, e non delle necessità del suo proprio pensiero. Tale è dunque il fondamento delFopinione di Mill e di Bain, il carattere transitorio e relativo delle necessità del pensiero. « Una semplice disposizione a credere, dice Mill, anche supposta istintiva, non garantisce la verità dell'oggetto di questa credenza. È vero che se la credenza fosse per noi una necessità irresistibile, sarebbe inutile di appellarne,, poiché sarebbe impossibile di modificarla; ma non ne se- guirebbe che essa fosse vera Ma in fatto questa neces- sità permanente non esiste. Non vi ha punto proposizione di cui si possa dire che ogn inteUigenza umana deve eter- namente e irrevocabilmente crederla. Molte proposizioni a cui questo privilegio era accordato con la più grande confidenza hanno già trovato assai increduli. Le cose che si è supposto non poter mai essere negate sono innumerevoli; ma due generazioni successive non si accordereb- tero a formarne la lista ». (Lorjica L 3,^ e. 21). Ma noi abbianolo visto invece che vi hanno delle proposizioni di cui si ha ogni dritto di dire che « ogn'intelligenza umana deve eternamente e irrevocabihnontc crederlo. Tali sono i principii immediati delle matematiche pure; noi non pos- siamo fare nemmeno per immaginazione la supposizione che un'intelligenza umana possa non crederli : noi abbiamo visto che gli sforzi diretti in (juesto senso ^ cioè tendenti a farci immaginare delle condizioni tali, che il contrario di una proposizione intuitiva della matematica diventasse ammissibile, sono fondati so[)ra un ecjuivoco, il più ordi- nariamente sulla confusione della pura proposizione ma- tematica con qualche proi)Osizione fisica o esistenziale le- gata strettamente con essa. Qualsiasi necessità reale del pensiero partecipa al privilegio che Alili non accorda se non al principio di contraddizione : il contrario di una ve- rità che ci è data per una necessità reale del pensiero, non solo noi non possiamo concepirlo, ma non possiamo nem- meno immaginare che possa mai essere concepito (confr. Ftlos. (Il Hamilton e. VI, trad. frane, pag. 81-82). § 13." E non solo le necessità del pensiero nel senso proprio del termine sono assolutamente costanti; ma anche quelle che sono state chiamate impropriamente cosi, quelle che portano con sé, non T impossibilità, ma la difficoltà, di concepire il contrario, non la irresistibilità della cre- denza, ma una forte tendenza a credere, sono dotate di una permanenza quasi eguale. Questo punto ha un'im- portanza particolare per l'argomento del Saggio seguente, cioè 1' origine e lo sviluppo delle nozioni metafìsiche : in effetto è a questa classe di necessità del pensiero che ap- partengono i sofismi a priori di Mill, sui quali è fondata ogni concezione metafisica, o piuttosto il vero sofisma a priori consiste essenzialmente neir accordare senza prova, e anche malgrado la prova contraria, un valore obbiet- tivo a queste forti tendenze a credere o difficoltà a con- cepire. É la permanenza di queste tendenze che dà del- l'unità alla storia della metafisica : senza di essa, questa storia sarebbe per noi un enigma indecifrabile ; noi non potremmo nemmeno comprendere i concetti metafisici di un'altra epoca, perchè questa possibilità di comprenderli suppone che la tendenza che ha dato loro origine si trova pure nel nostro proprio spirito. È per questa permanenza che la metafisica non è legata, come si è creduto, a un periodo transitorio dello sviluppo dello spirito umano, ma è inerente a questo, e costituisce un fenomeno generale dell'intelligenza umana : è, aggiungiamolo pure, per questa permanenza, che una concezione metafisica di genio ha un valore, in un certo senso, assoluto, perché l'illusione su cui essa è fondata, il bisogno dello spirito che essa è - destinata a soddisfare, non esiste per certe persone, per certi tempi e per certi luoghi, ma è un'illusione naturale, un bisogno permanente della nostra intelligenza. Il Mill ammette talvolta in un caso particolare la per- sistenza di queste inconcepibilità relative. « Gli uomini istruiti sanno, egli dice, per i loro propri studi, o credono sull'autorità della scienza, che è la terra che si muove e non il sole, ma ve ne ha probabilmente pochissimi che concepiscano abitualmente il fenomeno altrimenti che come un' ascensione e una discesa del sole. Certamente non vi si potrebbe riuscire ehe per un lungo esercizio; e non è probabilmente più facile per noi oggi che non lo era per la prima generazione dopo Copernico^, (Log, l. 2^ e. 7«). Tuttavia generalmente egli suppone che queste che noi diciamo inconcepibilità relative si modifichino sempre nello sviluppo della coltura, che la scienza pervenga sempre a trionfarne, e arriva anche talvolta a sostituire ad esse delle inconcepibilità contrarie. Questa opinione ci sembra in generale erronea : la scienza può distruggere la cre- den'za, ma non la inconcepibilità, o più propriamente, la difficoltà a concepire. Il Mill credeva che la vittoria della teoria di Newton sui suoi primi oppositori avesse trionfato definitivamente della massima che un' azione a distanza fra i corpi è impossibile, e che non vi lia altra azione che a contatto: ma i fatti lo hanno smentito, e questa massima gode presso i fisici contemporanei lo stesso fa- vore quasi che godeva air epoca di Newton. Egli vede anche nei principii della meccanica un esempio di una, per dir cosi, reversione d'inconcepibilità operata dalla scien- za. « Che un corpo una volta in movimento continuerà a muoversi nella stessa direzione e con la stessa prestezza, a meno che non sia influenzato da una nuova forza, era, egli dice, una proposizione che si ha per lungo tempo a- vuto la più grande difficoltà ad accettare. Essa sembrava smentita da un' esperienza delle più familiari, che ci ap- prende che è della natura del movimento di rallentarsi gradualmente e di fermarsi infine da se stesso. Tuttavia quando la dottrina opposta fu fermamente stabilita, i ma- tematici, come osserva il dottor Wewell, si misero tosto a credere che delle leggi si contrarie alle prime apparenze, e che, anche dopo essere state pienamente dimostrate, non avevano potuto divenire famihari al mondo scientifico che dopo più generazioni, erano « d'una necessità dimo- strativa che le faceva essere come sono e non altrimenti >, ed egli stesso, senza osare di « affermare assolutamente » che tutte queste leggi « possono essere rigorosamente rap- ]X)rtat 3 a un' assoluta necessità della natura delle cose », riconosce questo carattere alla legge che io ho citato. «Quantunque, dice egli, la prima legge del movimento sia stata, storicamente parlando, scoverta dall'esperienza, noi siamo ora posti ad un punto di vista che ci mostra che essa avrebbe potuto essere costatata indipendentemen- te dall'esperienza >>. (Storia delle scienze induttive), Qual esempio più colpente di questo dell'influenza dell'associa- zione ? I filosofi, pel* generazioni, trovano una difficoltà straordinaria a congiungere insieme certe idee; alla fine vi riescono; e, dopo una sufficiente ripetizione dell'opera- zione, immaginano dapprima che vi ha un legame natu- .rale tra queste idee; poi provano una difficoltà che au- mentando di più in più, finisce per divenire una impos- sibihtà di disgiungerle». {Lor/. 1, 2^ e. 5^ § G). Il Mill qui non comprende la vera ragione di questa « trasformazione della credenza »: non è per l'abitudine di congiungere le idee unite dalla prima legge del movimento, per essersi, dopo una sufficiente ripetizione dell'operazione, familiarizzati con essa sino al punto da diventare impos- isibile una disgiunzione di queste idee, che i matematici riguardano questa proposizione come upa verità necessa- ria. Il fatto èr spiegato meglio altrove dallo stesso Mill. In ogni tempo, egli dice (parlando del sofisma a /^r/o/-/ dellaragion sufficiente), i .geometri si sono esposti al rimpro- vero di voler provare i fatti del mondo esteriore per mezzo ili ragionamenti sofistici, per evitare di appellarne alla testimonianza dei sensi.... Essi credono più scientifico di stabilire questi principii cosi che per la prova dell' espe- ;rienza. (Log. 1. 5*^ e. 3^ § 5). Il sofisma della ragion suf- Jìciente, come tutti gli altri tentativi di dimostrare ie ve- rità di fatto (le quali riposano, non sulla dinìostrazione, ma sull'induzione), non è che un caso del metodo a priori, applicato, non, come fanno i filosofi radicalmente aprio- .risti, a tutto il sistema delle conoscenze umane, ma a qual- che branca particolare, e specialmente ai principii della meccanica— noi vedremo nel Saggio seguente che la ri- costruzione a priori della realtà é una delle manifestazio- ni generali del modo di pensare metafisico, e come questa manifestazione si riattacca alla tendenza fondamentale imetafìsica o sofistica a priori del nostro spirito— Del ri- manente noi dobbiamo aggiungere che se la difficoltà di concepire, dovuta alle prime apparenze, non è sufficiente per fare respingere le leggi scientifiche del movimento,. essa è sufficiente almeno per far trovare incomprensibili i Tatti enunziati in queste leggi: quando si dice che la co- municazione del movimento per l'impulsione (questo fatto per noi il più familiare della natura esteriore) è un mi- stero, che r azione a contatto è cosi inesplicabile come Fazione a distanza, questo non è che un effetto della con- traddizione delle leggi del movimento, scoverte dalla scien- za, con le suggestioni spontanee prodotte dalle prime ap- pai^enze. Il Bain pensa come il Mill che le inconcepibilità sono qualche cosa di variabile e di relativo ai tempi, ai luoghi, alle l>ersone. « È in gmn parte, egli dice, la nostra educazione clie decide ciò clia noi possiamo concepire e ciò che non pos- siamo concepire. La prova ne é che delle verità, che pas- savano per inconcepibili a certe epoche e in certi paesi, divengono concepibilissime con un'educazione differente, ed anche si sono a tal punto fissate negli spiriti, che è il contrario di queste verità ciie è ora inconcepibile. I Greci ammettevano che la materia è eterna, ch'essa esi- ste per se stessa: molti moderni pretendono che l'esisten- za per sé della materia è assolutamente inconcepibile. Vi ha dei filosofi che pensano che l'azione dello spirito è la sola origine concepibile del potere motore, della forza motrice : altri riguardando al contrario l'azione dello spi- rito sulla materia come assolutamente inconcepibile, hanno inimaginato delle ipotesi speciali per risolvere la difficoltà — p. e. Malebranclic con la sua teoria dell'intervento di Dio, e Leibnitz con la sua armonia prestabilita (1). Newton (1) 11 disaccordo dei lìlosolì suirazione della volontà, consideraci ora come il l'arto più cliiaro, ed ora come il più inesplicabile, ha suggerito al Mill oneste riliessioni: « 1/ inconcepibile e il concepi- hilc e una circostanza tutta accidentale, e clie dipende interamente dalla esperienza e dalle abitudini di pensiero degli uomini; degrin- dividui possono, per conseguenza di certe associazioni d'idee, es- non poteva concepire la gravitazione senza l'esistenza d'una sostanza intermediaria : teoria oggi abbandonata ^ (Log,, 1. 2,« e. 5,« 0). Noi osserveremo, in primo luogo, su questo ragiona- mento del Bain, che tanti secoli d'insegnamento della dot- trina cristiana non hanno potuto fare che la creazione della materia dal niente finisse di sembrare un mistero incomprensibile, il che prova che l'insegnamento e l'edu- cazione possono cangiare le nostre credenze, ma non le inconcepibilità o le semplici difficoltà di concepire del no- stro spirito. Se alcuni filosofi hanno appoggiato il dogma incapaci di concepire una data cosa qunlancjue, e divenire in seguito capaci di concepire molte cose, per (luanto inconcepibili avessero potuto sembrare dapprima; e gli stessi fatti clie per una persona determinano nel suo spirito ciò die è concepi])ile o no, de- terminano pure quali sono nella natura le sequenze che gli parranno si naturali e plausibili che non hanno bisogno d'altra prova che l'evidenza della loro luce propria, indipendentemente da ogni espe- rienza e da ogni spiegazione. Per qual regola decidere fra una teo- ria di questo genere e un'altra? 1 teorici non ci rinviano ad alcuna evidenza esteriore; ciascuno di loro fa appello ai suoi sentimenti subbiettivi Essi elevano all'altezza d'una legge primitiva deFin- telligenza umana e della natura una successione particolare di fe- nomeni che sembra loro più concepibile e più naturale delle altre solo perchè è loro più familiare » {Log. 1. Ili e. V ?? 9). Secondo noi una concezione metafisica non è ({ualche cosa di cosi arbitrario ed accidentale come (jui il Mill sembra credere : basta a provarlo la persistenza di certe alce madri, di certi tipi generali, nella storia della metafisica (animismo -nel senso che il Tylor dà a questa parola—, ilozoismo,' spiegazione di tutti i fenomeni fisici per l'impulsione, concezione del reale come sostanzialmente im- mutabile, realizzazione dei concetti unita al metodo deduttivo, ecc). 11 metodo che noi impiegheremo nel Saggio seguente, per renderci conto delle concezioni dei metafìsici, sarà di ridurle a dei tipi dì più in più generali, mostrando, per ciascuno di questi tipi, il con- cetto fondamentale che gli serve di base, e deducendo questi con- cetti fondamentali da certe credenze o tendenze a credere istinti- ve, comuni a tutti gli uomini, e che costituiscono la metafisica iia- tarale del nostro spirito religioso su degli argomenti razionali, questi argomenti sono tirati quasi unicamente dalla necessità di evitare un altra inconcepibilità (la quale d'altronde è una incon- cepibilità assoluta e non una semplice ditìicoltà di con- cepire), quella deirinflnito attuale. In secondo luogo, perquel che riguarda Fazione della volontà, la concepibilità o inconcepibilità di questo fatto non è (lualche cosa di puramente accidentale ed individuale, come pensa il Bain : esso presenta etl'ettivamente alFintelligenza umana, per dir cosi, due l'acce opposte; dall'una, sembra il latto più evidente e più naturale, dalFaltra, il più oscuro ed inespli- cabile. Noi spiegiieremo altrove (Saggio 2^ parte 1% e. 4^) questo fenomeno psicologico, per cui i (atti più familiari del nostro spirito ci sembrano da una parte i più evidenti di tutti e tali, non solo da non aver bisogno d altra pro- va, come diceMill(Lo^. 1. 3« e. 5^ § 0, 1. e), che l'eviden- za della loro luce propria, ma ancora da poter comunicare questa luce a tutti gli altri, « servendo di spiegazione ulti- ma delle cose in generale » (Mill ibid.); ma dall'altra parte ci paiono invece i più misteriosi di tutti e i più ribelli ad ogni spiegazione. Per ora accenneremo solamente che que- sto doppio aspetto in cui gli stessi fatti ci appariscono, non è che una conseguenza del modo differente in cui ce li rappresentiamo : Tidea che la scienza ci dà di questi fatti è tutt altra da quella che abbiamo attinto immediatamente dalle osservazioni più familiari. Quando ci sembrano i più misteriosi di tutti, è perchè ce li rappresentiauìo se- condo l'idea che ne dà la scienza; quando ci sembrano i più evidenti, è perché li concepiamo nel modo suggeri- toci spontaneamente dalla nostra esperienza giornaliera ; ma siccome (per servirci di un'altra frase di Mìlì'—ìbìdem—) «le suggestioni della vita di tutti i giorni sono più forti che quelle della riflessione scientifica », il secondo modo di concepirli non ò mai soppiantato interamente dal pri- mo, e la loro evidenza prescientifìca persiste sempre, per conseguenza, a lato dell'aspetto misterioso in cui la scienza ce li presenta. A ciò aggiungeremo, per quanto concerne l'azione volontaria, che ciò che prova che l'evidenza e il mistero, attribuiti a questo fatto, non sono qualche cosa di accidentale e di relativo all'individuo, è che, mentre nessuna scuola filosofica ha insistito quanto la spiritua- lista sull'incomprensibilità dell'azione mutua fra lo spirito -e il corpo, l'evidenza, superiore a quella di qualsiasi altro fatto dell'esperienza, dell'azione dello spirito sul corpo è ^l tempo stesso il concetto fondamentale su cui questa scuola è basata, senza di che essa non eleverebbe questo modo particolare di causazione a tipo universale della causazione e a spiegazione radicale di tutti i fenomeni. Lo stesso autore dell'armonia prestabilita dichiara espres- samente che l'idea più ciùara della potenza attiva ci è data dalle operazioni del nostro spirito, e che se questa -si trova anche nei corpi, essa non appartiene già alla materia, ma alle entelechie (cioè alla monadi), che spno analoghe allo spirito (N, S. sulVint, urm 1. 2^ e. 21^). In quanto a Malebran che, egli deduce, è vero, la dottrina che Dio è la causa universale, dalla sua onnipotenza, e non dall'evidenza superiore dell'azione volontaria : ma le .prove, con cui un metafisico dimostra il suo sistema, non sono necessariamente i motivi reali di questo sistema; ed è difficile a credere che la filosofia di Malebranclie sia fondata su un semplice concetto della teologia positiva, e .non su quello che è la base della filosofia teologica in generale, cioè l'assimilazione delle forze della natura alla nostra attività umana, o semplicemente animale. Il disac- " cordo dei filosofi sull'evidenza e il mistero dell'azione vo- lontaria non è dunque che apparente ; e questo fatto, ben interpretato, lungi di provare la variabilità delle neces- sità (relative) del nostro pensiero, ne prova, al contrario, la persistenza. Ora che conclusione si pu(') tirare da questa persistenza (Ielle necessità, tanto assolute quanto relative, del i3en- siero, per la quistione presente sulla validità del criterio deirinconcepibilità della negativa ? Da una parte essa mo- stra più apertamente la contraddizione die vi ha a re- spingere la validità del criterio ; poiché le necessità del pensiero essendo generali e permanenti, Mill e Bain ne partecipano come tutti gli altri uomini, e, trattandosi di necessità assolute che impongono una credenza irresisti- bile, essi non possono quindi, senza incoerenza, respin- gerne teoricamente il valore obbiettivo, quando pratica- mente sono costretti ad animetterlo. Ma dallaltra parte, se vi hanno delle necessità assolute del pensiero deriva- te dall'associazione delle idee; se vi ha pericolo che que- ste necessità assolute siano delle illusioni come quelle neces- sità relative di cui la scienza ha scoverto l'erroneità; il male sarà più grave ancora di quello che possa temere Mill o Bain, perché, una necessità del pensiero non po- tendo modificarsi, Tillusione sarà senza rimedio. Cosi, lun- gi dairesserci liberati dalla contraddizione e dalla perples- sità, noi vi ci troviamo più che mai inviluppati: le con- traddizioni e le perplessità sono nel fatto inevitabili, sin-- che si mantiene la dottrina deìVassociazione inseparabile. § 14« Queste perplessità (ì), queste contraddizioni ine- (1) Noi abbiamo vista in una note antecedente l'incertezza di Mill sulla quistione se un'associazione inseparabile o un'inconcepibilità del contrario (che per Mill è la stessa cosa) produca o no una cre- denza irresistibile: un'altra incertezza simile noi la troviamo, quando egli determina la nozione stessa dell'associazione inseparabile, (♦ra il Mill chiama inseparabile un' associazione che sarà tale sinché delle esperienze contrarie non la diseiolgano (v. p. e. il 1. e. della Filos. di Hamilton pag. 172-173); è questa, secondo noi, la vera no- zione dell'associazione inseparabile. Ma ora invece ammette che, non solo delle esperienze contrarie, ma anche le operazioni del pen- siero possono disciogliere un'associazione inseparabile; cosi nel e. XI della Filos. eli Hamilton, sul principio, distingue l'associazione inseparabile dall'associazione indissolubile. «Non si vuol dire per stricabili, in cui la dottrina deirassociazione inseparabile getta fatalmente i filosofi empiristi che la sostengono, non sono che un altro aspetto della contraddizione radicale di questa dottrina coi principi! fondamentali della filoso- fia dellesperienza. Il canone fondamentale di questa filo- sofìa é che non bisogna niente ammettere senza j)rova (la prova non essendo altra cosa che una detluzione fon- data sopra un induzione antecedente ) : ma se vi ha in noi una necessità del pensiero che e' impone irresistibil- mente la ci^edenza, o che questa necessità sia congenita allo spirito, o che sia il prodotto d'un'associazione empi- rica, ogni prova sarebbe vana; sarebbe inutile, come di- ce Mill, di appellarne, perchè sarebbe impossibile di mo- dificarla. Ma non ne seguirebbe, come aggiunge lo stes- so autore conformemente ai principi! deirempirismo, che la credenza fosse vera. E nel fatto i risultati della dot- queste parole (associazione inseparal)ile) che l'associazione deve inevitabilmente durare sino alla line della vita, che alcuna espe- rienza susseguente, alcuna operazione del pensiero non possa di- Si-ioglierla; ma solamente che. sinché questa esperienza o <iuesta o])erazione del i>ensiero non avrà luogo, lassociazionc resterà ir- resistibile ; che ci sarà impossibile di pensare 1' uno dei suoi ele- menti separato dall'altro». Ma come chiamare irresistibile un'as- sociazione che un'operazione del pensiero può disciogliere? Non sembra (juesta una sconfessione della dottrina dell' associazione insei)arabile1 Se è «luesta la nozione dell'associiazione insei^arabile, noi siamo presti ad al)bandonare tutte le obi)iezioni che al>ì)iamo fatte contro (piesta dottrina; ma Mill deve abbandonare pure la pretesa di spiegare per un'associazione inseparabile la necessità dei principii intuitivi della matematica, perchè è evidente che noi non ]»ossiamo immaginare alcuna operazione del pensiero che i>os8a valere a disciogliere il legame fra le idee di cui consta il giudizio espresso in (juesta proposizione: due e due fanno cpiattro. Sono questi i legami iva le nostre idee che soli meritano il nome d' insepara- bili: se si ammette che un'associazione empirica può diventare in- separaììile sino a (juesto punto, allora rinasce la nozione dell'as- sociazione inseparabile contro la quale ab])iamo fatte lejìostre ol^ Iniezioni, e con essa l'applicabilità di queste obbiezioni "stesse. trina empirista sono la negazione di molte di queste cre- denze irriflesse che tendono ad imporsi con la forza più grande al nostro spirito, credenze che non sono che l'o- pera dell'associazione spontanea d^Ue idee : cosa che ne- cessariamente deve rendere sospetta ogni associazione relativamente o assolutamente irresistibile, in cui non può vedersi, invece che una convinzione fondata su Te- sarne e delle prove, che un prodotto fatale dell' attività istintiva dell' intelledas sili permissiis. Ne segue che il canone fondamentale della filosofia dell'esperienza non può «ssere applicabile d'una maniera universale, se non alla condizione che non vi siano fra le nostre idee delle as- sociazioni assolutamente inseparabili (1). Ora noi ab- biamo visto in un capitolo antecedente che questa con- dizione fortunatamente si verifica; che nel fatto l'asso- ciazione non può stabilire fra le nostre idee alcuno di questi legami assolutamente indissolubili, tali da deter- minare la irresistibilità della credenza. Cosi si dissipa qu6*,- st'ombra di dubbio che le illusioni naturaU del nostro spi- rito (illusioni per altro che noi possiamo correggere) (l) Un critico di Mill, appartenente alla scuola intuizionista, pro- testa contro la dottrina dell'associazione inseparabile, che deter- mina necessariamente la credenza, ed esorta la gioventù a scuo- tere l'influenza di questa dottrina, e ad apprendere che è il nostro -dovere di fondare le nostre credenze sovra un giudizio antecedente, e «di basarle sull'esame delle realtà e delle attualità». 11 Mill si lagna di non essere compreso, e risponde che egli è un missiona- rio delle stesse idee (Filos. dì Hamilton e. 14, trad. frane, pag. 314, in nota). Ma Terrore del critico è perdonabile: è un'incoerenza] quando si è un missionario di queste idee, di ammettere al tempo stesso la loro inapplicabilità, un' associazione irresistibile produ- cendo necessariamente una credenza che non è fondata «esclusi- vamente su delle prove», come vuole il Mill. Ciò è, mutati^ mu- tandis, come se un moralista, convinto die l'uomo non è capace se non di azioni egoistiche, predicasse nondimeno la morale del- l'evangelcf: Amate il pi'ossìmo c-ome voi stessi. ^ proiettano sul criterio della inconcepibilità della negativa, e noi evitiamo le contraddizioni, in cui lo spirito non può non cadere, quando pensa di scuotere questa fede neces- saria che noi dobbiamo avere nelle nostre facoltà cono- scitive. Non vi ha altra necessità del pensiero, altra inconce- pibilità della negativa, che nei giudizi immediati sulle so- miglianze e sulle ditTerenze : il reale, l'esistente, non può essere attinto che dalla prova, e questa non può essere che una deduzione rigorosa fondata sovra un'induzione anteriore. Ma con tutto ciò una necessità del pensiero (anche dentro questi limiti) non è sempre una contrad- dizione ai principii della dottrina dell'esperienza ? Questa contraddizione in realtà è più con la lettera che con lo spirito di questa dottrina. Ciò è perchè il postulato, a cui si riduce ogni anticipazione suU' esperienza contenuta in tutte le nostre conoscenze veramente a priori e necessa- rie, è uno di quei postulati che noi dobbiamo ammettere senza prova, per la ragione che ogni prova implica già l'ammissione di questi postulati. § 15.<^ Vi hanno tre facoltà fondamentaU nell' intelli- genza : sono la memoria, la comparazione, e la facoltà di concludere o di tirare delle inferenze. Ogni ragiona- mento, ogni prova o esame dei fatti, suppone 1' esercizio in comune di queste tre facoltà associate, facoltà che noi non distinguiamo che per una specie di astrazione, per- chè ogni operazione dell'intelligenza suppone il concorso di tutte e tre. Prendiamo un sillogismo, un sillogismo con- siderato, non come lo considera la logica formale, cioè come un'inferenza puramente verbale, ma come un'infe- renza reale, nella quale perciò i veri antecedenti logici sono i fatti delF esperienza passata, di cui la maggiore è l'espressione generale. La maggiore enuncia dunque que- sti fatti deiresperienza passata (e, per essere esatti, insie- me a questi fatti, esprime pure la riconoscenza che essi / •* -^sono tali, che noi ci crediamo autorizzati a tirare delle su altri latti non ancora sperimentati): ora que- sti tatti deiresperienza passata noi non li ammettiamo che sulla lede della memoria. JMa oltre la memoria, la mag- giore suppone anche la facoltcà della comparazione: infat- ti è per avere scoverta Tunitormità, cioè la somiglianza, tra questi tatti dellesperienza passata, che noi possiamo riassumerli in una formula generale. La minore del sil- logismo non esprime pure che una comparazione : essa afìerma die il caso presente ha una somiglianza defini- ta, per gli attributi che noi ne conosciamo, coi casi del- Fesperienza passata che sono stati registrati nella mag- giore. La conclusione, infine, afferma che il caso presen- te deve somigliare ai casi passati anche per T attributo che noi ancora non abbiamo direttamente conosciuto, e che quest attributo gli appartiene. (Confr. e. 2^ § 14^' n.*^ 4<>). È evidente che quest'ultima affermazione è altra cosa che una comparazione o un atto di memoria: è per quest af- fermazione che si manifesta la terza facoltà, quella di con- cludere, o di tirare delle inferenze. Ora ciascuna di queste tre facoltà ha il suo postulato, o piuttosto, l'ammissione della veracità di ciascuna di que- ste tre facoltà non è che un postulato; noi non possiamo provarla, ma dobbiamo ammetterla senza prova. Noi am- mettiamo che i fatti che la memoria attualmente ci sug- gerisce lianno in realtà esistito nel passato; noi ammettia- mo che le somiglianze che il nostro pensiero percepisce sono le somiglianze reali delle cose; infine noi ammettia- mo che abbiamo il dritto di tirare delle inferenze dal no- to air ignoto, dal passato air avvenire. Tutto ciò noi lo ammettiamo senza prova; essi sono dei postulati, e tutti insieme costituiscono il ix)stulato universale, che noi dob- biamo aver fede nelle nostre facoltà conoscitive, che il pensiero e la realtà si corrispondono, che la verità esiste, che rintelligenza può conoscere e le cose possono essere <M3nosciute. Che la fede nella veracità della memoria sia un postulato è un'affermazione che non può essere sog- getta a discussione né ad equivoco: ma per gli altri po- stulati una semplice affermazione non basta, e qualche sviluppo sembra necessario. Per il postulato della facoltà deirinferenza noi accette- respressione che ne dà il Bain, seguendo i filosofi della scuola scozzese: « Ciò che è accaduto uniformemente nel passato accadrà nell'av venire ». (Lofj. App. D). L'e- non è rigorosamente esatta, perchè tutte le no- stre inferenze non riguardano Favvenire ; noi inferiamo i fatti passati, che non abbiamo conosciuti diretta- mente ; è sempre sulla nostra esperienza passata che in definitiva noi ci fondiamo per inferire, ma le nostre infe- renze possono avere per oggetto tanto dei fatti passati quanto dei fatti futuri. Nondimeno noi accettiamo la for- mula di Bain, perchè ci sembra difficile di trovarne una migliore. Ora ciò che è necessario di osservare illativa- mente a questa formula è che essa è, non una proposi- zione categorica, ma una proposizione ipotetica: essa non dice: « vi ha uniformità nella natura », perchè in questo caso noi comprenderemmo nel postulato delle affermazio- ni, che noi non dobbiamo ad un jjostulato, ma alla nostra- esperienza. Che la nostra esperienza passata ci ha otìer- to delle uniformità, questo non è un jMDstulato, cioè una conoscenza a priori, ma una conoscenza dovuta aU'osser- vazione: il postulato si limita a dire che, se r esperienza passata presenta delle uniformità, noi possiamo estendere queste unilòrmità anche air avvenire. (1) Alcuni, come il (1) ì: per non aver fatto con cura questa distinzione cìie il Hain si è esposto ad essere mal compreso. Taluno, come il Fiorentino nelle sue Lezioni di Filosofia (parte I, e. XIV ;, ha capito il Rain come se per lui il principio dell'uniformità della natura, ed anclie quello della causalità . fosse una conoscenza indipendente dalla esperienza. Invece eizli dice esplicitamente che questa conoscenza. mo Galluppi, hanno preteso che questa proposizione che il fu- turo rassomigha al passato non esprime che un latto d'e- sperienza, perché, dicono essi al tondo, Tesperienza pas- sata ha verificato le previsioni che noi abbiamo fatto in- ferendo dal passato allavvenire. Ma il fatto che le nostre inferenze si sono verificate per il passato non dimostra che per l'avvenire le inferenze che noi tireremo ancora secondo le stesse regole si verificheranno del pari, a me- no che non si ammetta il postulato che il futuro rassomi- glierà al passato, o in termini più generali, che noi pos- siamo tirare delle inferenze e passare dal noto alFignoto. Questa credenza non ha dunque altro principio che se- stessa. « Se noi, dice il Bain, crediamo di aver trovato una prova che la dimostra, non facciamo in realtà che porla in principio sotto un'altra forma », 1/ l'I come tutte le altre, deriva daircsperienza (v. p. e. 1. II e. V 10, e- Introduz. 17, 18). É vero però che alcune sue frasi ten<ìerebbero a far supporre che egli consideri ipiesto principio come una credenza ciecamente istintiva e un'ipotesi anteriore all'esperienza, e che la esperienza non abbia per luì che un' influenza negativa, ten- dente a contenere dentro certi limiti questa foga istintiva dello spirito a supporre da per tutto delle uniformità. Ma è chiaro che- questa stessa foga istintiva dello spirito non potrebl)e risultare dalle sole leggi dello si)irito stesso, senza il concorso delle impres- . sioni della realtà, che gli hanno presentato delle ripetizioni e delie- uniformità. È pure, sembra, per non aver distinto esattamente ciò che nel princìpio deiruniformità della natura è un dato puramente speri- mentale e ciò che non è se non un postulato, che Huxley dice: « il princìpio di causalità è il simbolo verbale d'un atto automatico» il quale è estralogico, e sarebbe illogico, se V esperienza non ve- nisse costantemente a dargli ragione ». (v. D. Jlume ecc. parte li e. VI). Ma né ciò che Huxley chiama un atto automatico esiste- rebbe (com'egli stesso ammette) senza l'esperienza dell' uniformità, né la verificazione dell'esperienza può togliere al principio ciò che vi ha in esso di semplicemente postulato : come distinguere dun- que nella credenza al principio questi due momenti, l'estralogico e il logico ì II tt '1 11 !( Ili II. lì li, II I' i; II II II"', jiii'; Ir; III ir ll'ili' I' ir ' IF' MI il Come il postulato della facoltà di concludere ammetto che le inferenze tirate regolarmente dal pensiero corrispon- dono agli avvenimenti reali, cosi il postulato della facoltà di comparare ammette che le somiglianze e le differenze percepite dal pensiero corrispondono alle somiglianze e alle differenze reali delle cose. Noi dobbiamo rammentarci i risultati a cui siamo pervenuti sul fondamento del carat- tere particolare delle proposizioni della matematica pura, ]3 in generale, delle proposizioni necessarie ed a priori, le quali tutte non affermano che delle somiglianze e delle differenze. Tali verità sono necessarie, in quanto l'idea o impressione della somiglianza è inseparabilmente legata alle idee dei teroaini comparati; esse sono aprioriy in quanto lo spirito può acquistarne la conoscenza per la semplice contemplazione delle sue proprie idee^ estendendo alle cose i rapporti eh' egli ha scoverti fra le idee di queste cose. Questa corrispondenza dei rapporti percepiti nel pensiero, cioè fra le idee, coi rapporti percepibili fra le cose stesse, come anche questo legame necessario fra l'idea o impres- sione del rapporto e le idee dei termini rapportati, si spiega semplicemente per la circostanza che la percezione delle somiglianze e delle differenze non è che una vera azione riflessa del cervello : cosi essa è costantemente provocata nella coscienza dalla presenza in essa dei termini del rap- I)orto, e di più la percezione o il sentimento del rapporto avviene tanto se i termini comparati sono delle cose pre- sentate ai nostri sensi, cioè delle sensazioni forti, quanto se sono delle semplici idee di queste cose, cioè delle sen- sazioni delx)li. Ne segue che tutto ciò che vi ha di a priori nelle proposizioni matematiche, e in generale in tutte le proposizioni necessarie ed a priori, non è che l'ammissione di questo postulato : che le somiglianze e le differenze per- cepite dal pensiero, cioè fra le nostre idee, corrispondono alle somiglianze e alle differenze reali, cioè percepibili fra cose stesse, L'ammissione di questa corrispondenza fra 6r>2il pensiero e la realtà, non solo e un'anticipazione delFe- sperienza, ma non potrebbe essere nemmeno verificata ; perchè questa verificazione implicherebbe la fede nella veracità della memoria dei rapporti già per- cepiti, e siccome in generale p >nsare un tal rapporto non è che percepire il rapporto stesso fra le nostre rappresen- tazioni (l'idea 0 impressione del rapporto non potendo es- sere prodotta che da termini presenti attualmente nella coscienza), quindi la fede nella memoria implica, in questo, caso, il postulato che i rapporti sentiti fra le nostre ra})- presentazioni corrispondono ai rapporti sentiti fra le cose stesse. Infine, quando noi diciamo che i rapporti attual- mente percepiti (sia fra le idee sia fra le ca.se) corrispon- dono ai rapporti reali esistenti fra le cose stesse, (siccome un rapporto di somiglianza o di differenza non è niente al di fuori della nostra percezione) noi vogliamo dire che la i)ercezione del rapporto non è arbitraria e accidentale, ma è costantemente legata alla presenza dei termini del rapporto nella coscienza, che gli stessi termini ci [)rotlu- cono costantemente gli stessi sentimenti di rapporto. Que- sta costanza delle percezioni dei rapporti, implicata in ogni affermazione di somiglianza e di differenza, e anch'essa una supposizione anteriore alfesperienza e elio Tesperienza non può, rigorosamente, verificare; perche questa verifi- cazione implicherebbe la fede nella veracità della memr»ria dei rapporti percepiti, la qual fede non ò che un caso del postulato che i rapporti perce[)iti fra le rappresentazioni corrispondono ai rapporti percepiti o [)ercepibili fra le cose stesse. Ora questi risultati noi dobbiamo a[)plicarli a tutte le affermazioni di somiglianza e di ditlerenza, le quali, oltre che sono l'oggetto esclusivo delle matematiche pure e di ogni altra verità cosi detta razionale, costituiscono anche un momento necessario di qualsiasi operazione della nostra intelligenza. Ogni ragionamento implicando la costataz ione di cert^ uniformità, fra oggetti di cui una parte almeno sono as- senti dalla coscienza, le comparazioni dalle quali risulta la costatazione di queste uniformità, implicano il postulato che i rapporti (di somiglianza e di differenza) percepiti nel pensiero, o fra le nostre rappresentazioni, corrispon- dono ai rapporti percepiti o percepibili fra le cose stesse. Di più il ragionamento suppone la costanza di questi rapporti, cioè che gli stessi termini ci producono costan- temente le stesse impressioni di rapporto. Supponiamo in- fatti (per quanto una tale supposizione può essere intelli- gibile) che le nostre percezioni di questi rapporti non si pi^- ducessero più d'una maniera regolare, che il simile ci sem- brasse differente e viceversa; allora ci(j che attualmente chiamiamo ordine della natura ci sembrere bbe invece un disordine, perchè la percezione dell'ordine o dell'uniformità non consiste che in percezioni di somiglianze. Allora tutte le nostre classazioni, tutte le nostre previsioni dei feno- meni futuri, sarebbero false o impossiljili; l'ordine della natura non sareì)l)o cangiato, semplicemente noi non jx)- trcmmo più com[)renderlo. Tutti i nostri ragionamenti suppongono dunque la regolarità delle nostre percezioni dei rapporti di somiglianza; ma questa supposizione non potrebbe, come abbiamo detto, essere sperimentalmente verificata, a meno che non si ammetta il postulato: che i rapporti percepiti fra le nostre idee corrispondono ai rap- porti percepiti o i)crcepibili fra le cose stesse. Questo postulato è dunque implicato in ogni ragiona- mento, in ogni prova: al fondo esso è, unitamente, per le nostre percezioni di somiglianza, ciò che i due altri postu- lati, quello della memoria e quello dell' inferenza, separa- tamente, sono per tutte le altre nostre percezioni. Dentro i limiti delle percezioni di somiglianza, esso sostituisce il postulato della memoria, percliè noi non ci rammentiamo una somiglianza già percepita per la retcntività e la revivi- scii)ilità della percezione già provata, come avviene per I 5éà le altre percezioni, ma semplicemente perchè la rappi^- sentazione delle cose simili già percepite produce attual- nella nostra coscienza il sentimento della soQiiglian- za. Dentro gli stessi limiti, esso sostituisce il postulato del- l'inferenza, perché per conoscere cjual percezione di rap- porto ci produrrà la presentazione di dati oggetti, noi non abbiamo bisogno di fare un'inferenza, ma ci fidiamo alla inspezione attuale delle rappresentazioni di questi oggetti. Cosi la natura, con mezzi apparentemente più semplici (una pura azione riflessa) ha ottenuto, per questa classe di percezioni, ciò che per le altre non ha potuto ottenere che con mezzi apparentemente più complicati, quelli che costituiscono il meccanismo, ignoto nei suoi ultimi elementi, della memoria e della inferenza (1). §. 16 Se ora ci domandiamo che ragione abbiamo noi di ammettere la validità obbiettiva di questi tre postulati, o, in una parola, del postulato universale della corrispon- denza fra il pensiero e le cose, la risposta sarà semplice ; ragione è che noi non possiamo fare a meno di am- metterli, se pure non vogliamo rinunziare all'uso del pen-, e ridurci allo stato di vegetali (come dice Aristotile contro quei sofisti che negavano il princiiùo di contraddi- zione). Noi possiamo certamente, d'una maniera specu- lativa, e in ultima analisi, solo verbalmente, elevare dei dubbi sul valore delle nostre facoltà conoscitive ; (1) E appena bisogno di oggiungerc che ciò che noi diciamo nel testo sui rapporti di somiglianza si riferisce a quelli che sono co- nosciuti d'una maniera intuitiva o immediata: quando il rapporto viene invece conosciuto per inferenza, allora, come abbiamo detto nel capitolo precedente, noi non ci facciamo una rappresentazione adequata dei termini rapportati, ma le nostre rappresentazioni sono simboliche. In (]uesto caso la congiunzione delle nostre idee è go- vernata dalle leggi generali dell'associazione, e il meccanismo del- l'inferenza è lo stesso che in ogni altro caso qualsiasi d'inferenza, in cui si tratti, non di somiglianze, ma di altri fenomeni qualunque. ma, ogni esercizio del pensiero implicando la ricono- scenza di questo valore^, noi non lo possiamo senza av- vilupparci in inestricabili contraddizioni. Queste facoltà sono^ è vero, per noi la sorgente di persistenti illusioni: ma noi possiamo correggerle, ben più, noi possiamo studiare il meccanismo della loro produzione (V. il Saggio seguente). Dicendo che noi dobbiamo ammettere necessariamente la corrispondenza fra il pensiero e le cose, per queste cose non intendiamo altro che i fenomeni: cioè da una parte i nostri fenomeni interni o subbiettivi, da un'altra parte quelli della natura esteriore, che si risolvono in sensazioni reali e possibilità di sensazioni. Per quelli che pensano come Mill e Bain, come per il realismo volgare, le cose non sono che le presentazioni dei nostri sensi: noi non possiamo af- fermare altra realtà, al di là della sensazione o del feno- meno, perchè da una parte la credenza spontanea, che fa delle nostre sensazioni delle cose poste fuori di noi e in- dipendenti dal soggetto senziente, è stata irrevocabilmente distrutta dalla riflessione scientifica; e d'altra parte le con- cezioni filosofiche che si tenta di sostituire a questa credenza spontanea, né c'impongono immediatamente, com'essa, l'as- sentimento, nò possono essere giustificate per mezzo di "pro- ve (v. Saggio seguente parte 2^), ben più, esse sono, come abbiamo detto, intrinsecamente inintelligibili e contrad- dittorie. Il postulato della corrispondenza Tra il pensiero e la realtà, cioè l'aftermazione supposta in ogni atto del pen- siero, che l'intelligenza può conoscere e le cose possono essere conosciute, implica che i fenomeni sono assoluta- mente intelligibili, e che vi ha, o piuttosto può avervi, una coincidenza assoluta fra la conoscenza e l'oggetto conosciuto (aequatlo rei et intellectas). Cosi, non solo lo scetticismo propriamente detto, ma anche il criticismo, la dottrina dell'Inconoscibile e, in generale, tutte le forme dell'agnosticismo contemporaneo, sono in contraddizione r con questo postulato. Il criticismo perché — a parte i li- miti che il noumeno oppone alla nostra conoscenza — il postulato suppone al temjxD stesso l'opposizione e la coin- cidenza tra la conoscenza e la cosa conosciuta. Per Kant la cosa conosciuta non è che il i)rodotto del nostro pen- siero; Fordine con cui le cose ci appariscono non è in esse, ma in noi. I neo-kantiani che abbandonano la cosa in sé, arrivano necessariamente alla conseguenza die l'oggetto non esiste assolutamente e per sé, ma relativa- mente al soggetto conoscente. Cosi il criticismo é la nega- zione della dualità della conoscenza e dell'oggetto cono- sciuto, dell'indipendenza del secondo dalla prima (1). In (1) Potrebbe sembrare che la dottrina di Mill e dì Rain sul mondo esteriore implica anch'essa la negazione della diudità della cono- s^^enza e della cosa conosciuta e della indipendenza di questa da (pit'lla: ma mettendosi al punto di vista del sistema, si vedrà clie non è cosi. Le cose, cioè le presentazioni dei nostri sensi, non sono (•ertamente, in «luesto sistema, indipendenti dol soggetto senziente, ma esse sono indipendenti dal soggetto conoscente; una presenta- zione dei nostri sensi, una sensazione, non è una conoscenza, ma ò l'oggetto conosciuto; la conoscenza incomincia là dove incomin- cin la rappresentazione, il giudizio, ciò che è suscettibile di ve- rità o di falsità. La proposizione che non può esservi verità o falsità (e quindi nemmeno conoscenza; nella sensozione, si trova del resto generalmente ammessa, a cominciare da Aristotile. Tut- tavia secondo la dottrina comune che considera la sensazione come la rappresentazione di un oggetto esteriore distinto da essa, po- trebbe avere ancora un senso il dire che la sensazione è una co- noscenza: ma nella dottrina di Mill e di Hoin non potrel)be avere alcun senso, perchè in essa non solo, come nel realismo popolare, la sensazione s'identifica con la cosa, ma non vi ha altra rosa che la sensazione stessa. Ora ])er questa dottrina le cose, cioè le pre- sentazioni dei nostri sensi, i fenomeni, sono indipendenti dal sog- getto conoscente, ed hanno un'esistenza assoluta, in quanto l'or- dine con cui essi avvengono è qualche cosa di reale e di (\ssoluto; non è una foi-ma del nostro ]>ensiero come per Kant, ma esiste in- dil>endent('mcnte da ogni rapporto con un soggetto conoscente. (Gonfr. e. V, la nota al § 0). m7 quanto alla dottrina dell'inconoscibile in se stessa, indi- I)endentemente dalla sua alleanza con le dottrine kan- tiane, parrà forse esorbitante l'asserzione che essa con- traddice pure al postulato necessario dell'intelligenza; perché, si dirà, affermare che la nostra conoscenza é li- mitata, non è invalidare il valore reale di questa conoscenza. Ed è vero : cosi quelli che pensano come Mill e Bain, non negano che, al di là dei fenomeni, possa esservi qualche cosa che sfugge assolutamente alla nostra conoscenza. Ma quelli che ammettono che la realtà che noi conosciamo, il fenomeno, non é che la semplice apparenza d'una realtà sconosciuta, invalidano necessariamente il valore reale diquesta conoscenza. Perché intatti essi trovano necessaria la supposizione di questa realtà sconosciuta che serva di fondamento ai fenomeni ? Perché, secondo loro, la realtà fenomenale é inintelligibile, e ci mostra per questa sua inintelligibilità che essa non é una vera realtà, ma una semplice apparenza; perché le idee ultime della scienza sono contraddittorie, e noi ci troviamo di fronte a delle alter- native d'inconcepibilità in ciascuna delle concezioni fon- damentali che cerchiamo di formarci; perché, in una pa- rola,, la nostra non é una conoscenza, ma un simulacro (U conoscenza (V. Spencer Primi princ. e. 2*^ e :>, e Du- Hoys Reymond / limiti della filosofìa naturale nella Rev. scienti/: 2^ ser.vol. 7^ 10 ott. 1874). Si replicherà tuttavia che queste asserzioni dei fautori della dottrina dell'Inconosci- bile non sono essenziali alla dottrina stessa ; che si può ammettere che lo spirito umano può formarsi una conce- zione perfettamente chiara e coerente della realtà feno- menale, tanto nelle sue parti quanto nella sua totalità, e che anche in questo caso nondimeno il bisogno di oltre- passare questa realtà sareljbe legittimo, perché una co- noscenza assoluta delle cose implica la conoscenza dell'es- senza, e il fenomeno non é l'essenza ('non é l'essenza, per- chè la percezione sensibile non ci dà la realtà assoluta, ^ cioè ogg(3ttiva, e perché i legami tra i fenomeni non sono (Ielle vere causazioni, cioè efficienti, ma delle semplici uni- formità di sequenza). Certamente, in quest'ipotesi, limitare la conoscenza non sarebbe invalidarla; se non che, non si avrebbe, allora, alcuna ragione di limito re la conoscenza, perchè non si avrebbe alcuna ragione di affermare un'es- senza al di là del fenomeno. L'intelli<?enza umana, senza dubbio, non si è mai appagata del fenomeno, e ha sem[ìre cercato qualche cosa al di là— è reftetto delle illusioni na- turali del nostro spirito, che noi vedremo all'opera nel Saggio seguente, e di cui la dottrina dell' Inconoscibile è una conseguenza pressoché inevitabile, dojX) che la fallacia di ogni pretesa conoscenza ultrafenomenale è stata rico- nosciuta — Ma gli stessi risultati a cui siamo pervenuti in ({uesto Saggio, dimostrano l'inanità di qualsiasi aflerma- zione d'un'esistenza superiore ai fenomeni. Da una parte, infatti, una tale esistenza non potrebbe essere provata dal- l'esperienza, perché, partendo dai fenomeni, l'inferenza non può arrivare che ad altri fenomeni (1); ma dall'altra parte, (1) Noi non possiamo concludere da un fatto o un oggetto un altro fatto o un altro oggetto, se non perchè abbiamo trovato nell'espe- rienza passata una congiunzione costante (di coesistenza o di se- quenza) tra la classe di fatti o di oggetti a cui appartiene il primo, e quella a cui appartiene il secondo. Ora neir esperienza ]»assata un fenomeno non può aver avuto una congiunzione costante che con un altro fenomeno. Dunque i fatti o gli oggetti che noi possiamo concludere dai fenomeni non possono essere che altri fenomeni. L'argomento può am-he essere esi>resso sotto un'altra forma Una cosa che è oggetto di prova e non di conoscenza immediata, non può essere stabilita che per una deduzione (sillogismo) fondata sovra un'induzione antecedente. Questa induzione antecedente è una pro- posizione generale, che abbraccia in una stessa formula tanto le cose dell'esperienza passata clie costituiscono il punto dì partenza dell'induzione, (luaiito le cose che ne costituiscono il punto d'ar- rivo, tra le altre quella che è l'oggetto della deduzione susseguente. Cosi la cosa dedotta deve essere dello stesso genere che le cose che servono di punto di [mrtenza aU' induzione antecedente : ma queste non sono che fenomeni ; dunque anche (|uella non può es- sere che un fenomeno. essa non potrebbe nemmeno essere conosciuta d'una ma- niera intuitiva 0 dedotta a priori, perchè, come abbiamo mostrato, la realtà, l'esistenza, non può essere l'oggetto di una conoscenza a priori (1). Noi vediamo dunque che mo- strare l'impossibilità di ogni conoscenza a priori sul reale non è, come avrebbe potuto credersi, mortificare le aspi- razioni più alte dell'intelligenza, è, al contrario, giustifi- carle. Perchè, da un canto, quest'impossibilità implica che non vi ha alcuna ragione che ci forzi di oltrepassare il conoscibile ; e dall' altro canto, che esista o no un' altra realtà, nei limiti della nostra, cioè della fenomenale, noi dobbiamo ammettere che la nostra conoscenza, quella che le facoltà umane possono attingere, è completa ed assoluta» Nei fenomeni, che sono le sole cose di cui possiamo affer- mare l'esistenza, non vi è altro a conoscere che l'ordine regolare con cui essi si presentano, le loro sequenze co- stanti—e questa è la sola causalità che abbiamo il dritto di ammettere; ora noi possiamo conoscere queste se- quenze e quest'ordine; dunque la conoscenza umana è, vir- tualmente, illimitata. Un empirismo incompleto, inconse- guente, rinchiude in limiti stretti l'intelhgenza; ma il vero empirismo, l'empirismo rigoroso, assoluto, rovescia questi limiti, perchè non riconosce niente al di là dell'esperienza. (1) Dicendo che un' esistenza trascendente non può essere de- dotta a priori, noi contempliamo anche, e principalmente, Tipo- tesi che questa esistenza s'inferisca dalla empirica, ma per un'in- ferenza dì natura non induttiva, cioè in virtù d' una connessione evidente per se stessa o dimostrabile, che vi sia tra la prima e la seconda. Una tale connessione sarebbe una conoscenza a priori;: e, siccome questa conoscenza avrebbe per oggetto r esistenza, e non dei rapporti comparativi, cosi la sua impossibilità è una con- seguenza necessaria dei risultati a cui siamo pervenuti sui limiti € l'oggetto della conoscenza a priori. pag. pag. pag. pag. pag. pàg. pag. pag. pag. pag.pag.pag. pag. pag. pag. 15 1. 25 1. 2t) 1. 27 1. 2y 1. a2 ]. ]. 43 i. 80 1. 81 1. 82 1. CAP. I- Z>f anima 1. 8.» c. VII, 3: 5; dalle realtà noi obbiettiamo non si può concepire una 0 più note è mentale pan. 9-' 33 21 1 25e26Cocke m 20 21 pen. 21 98 1. ult. lOi 1. 1^ 123 1. IH 125 1. U J. pen. 140 1. 27 t. 4., e. 8{V. 1. 4. e. 1, 3) più stesso y.nche esteso, Ciò conviene CAR. II. fenmenoo di primitivo d'irreduttibile sostanze : dell'esperienza (l) ile la continuità pervezioni successive senza siserva pag. 163 1. 1(5 agnoticismo GAP. III. GAP. IV, . 192 1. 6 pag. 196 1. 33 pag. 201 1. 8 pag. 210 1. 13 pag. 'iiód 1. 21 pag. '^ò\) 1. Jl pag. ii74 1. 13 che risulla è non involti; ancora tutte altre (v. in seguito i^ 20-20) l'unita si.^tematica 11 sillogismo : è fondato iucorrenza GAP. V. pag. 293 1. 26-27 le leggi dell'intendimento pag. 32'> 1. pag. 339 i. l. pag. 341 1. . 382 1. pag. 395 1. pag. 411 1. pag. 456 1. J. p 1. pag. 515 1. pag. 524 1. pag. 5:i9 1. 7 7 12 12 21 pen. il 11 9 dall'intuizione empirica non può, spiegarsi iStor. del materiale ipotesi metafisica si propone CAP. VI. in circostanza date che essi vi corrispondano sicché esse GAP. vii- circostanza è t'ondato ditfeuza GAP. IX. 31 Benché 32-33 estensione figura, 32 in favore) CORRIG De anima 1. 3., C. VII, Z, 5; delle realtà noi obbiettiviamo si può percepire una 0 più altre note mortale Locke 1. 4., e. 8 — V. 1. 4., e. 1., 3 —) più spesso anche esteso. Ciò avviene di primitivo e d'irriduttibile sostanze dell'esperienza U) Che la continuità percezioni successive senza riserva agnosticismo che risulta e non involte ancora tutte le altre (V. in seguito § 26-23) l'uuità sistematica 11 sillogismo è fondato incoerenza i concetti puri e le funzioni dell'intuizione empirica può spiegarsi »Stor. del material. in circostanze date che esse vi corrispondano sinché esse circonferenza fondata differenza " Benché estensione, figura, in favore Sono stati omessi molti altri errori, che il lettore aorà notato e corretto facilmente da se stesso. /i INDICE Gap. I. Gap. II. Gap. III. Gap. IV. Gap. V. . VI. . VII. Gap. Vili. Gap. IX. Errata - L'ipotesi dei concetti pag. 3 Glassazione dei giudizi pag. 93 Giudizi a priori e giudìzi a posteriori, Dottrina analitica dei giudizi a priori Dottrina di Kant sui giudizii sintetici a priori pag. 287 Esame delle proposizioni matematiche e di al- tre classi meno importanti di proposizioni a priori pag. 347 Dottrina d<-l filosofi empiristi sulle verità ne- cessarie pag. 437 Fondamento psicologico della necessità e aprio- rità dei giudizi sulla somiglianza. L' inconcepibilità della negativa e il postulato universale pag. 483 GORRIGE pag. 570 Scuola Tipografica del Boccone det Povero --PALERMO. i II /J s-:. Y. 0032146515 à '-"X w s X/ f->>' *. I '%' -:<'>.— . ""i«im *" F n,w,357 •,1 • J*»rti?- iW VOLUME 2 pt 1 ^' -^-J :<--->>- ;.>^ ffe TiSivl-4-. ^'.r f ^ ."^>^ m m* \\ - ;\'-.'-l ut the riti» xit %\ixv ^0vh 4 1 n Vi ^'ì^ ©tttctt itttcnttituoit'sltr -♦- il f :l i Pi \ SOLLA KOeiA OELLA CONOSCENZA FILOSOFIA IIELLI MmmA T-^^'^^l^ ir-»l^l III jf^ ^~^n«^^ll'^|IIIMI«' PALERMO Remo Sandron — Il,nI I LA CAUSA EFFICIENTE Tomo Peimo O CD O 3SC65 CAPO I (\vrsE K3i]Min(^iii: i: c^vrsi: :Mi:TAi::MPP.n('iii v^ 1. < Fi,u,nii;nii(>('i mi lunno clic {jn'iidc un !<al('i(l<»- sc(>})i() pei- un tcloscopio: c^Ii credi' di scmh'ui'It ;ii di fuori e coiisjuTa a coii- di lui d(\i!,ii <>,i;,\L'(*tli inlcrcssantissiuii teii)[)laili tutta la sua attcn/ioiu'. Su})i)(>niaiu<) clic ci;li sia rincliiuso in un locale stretto. Da un Iato ci»Ii lia una piccola tiucstra clic uli api'c sul di tìioii una prosjx't- tiva contusa e limitata : da un altro lato si trova il tubo col (piale (\i;ii s'imina.u'ina vedere in lontananza, e (piesto tubo è solidamente incastiato ne! muro. K.^li j)i'o\a uii piacere i>ai'ticolare a <;'uardai'e cosi fuori della sua camera. Questo 2)unto di vista l'attira più clic la ])iccola linestra; (\i;li si sforza senza eessa di com])letare, ])er rpiesta via, la sua conosc(Miza d'una lontananza meravigliosa. Tale è il metalisico, clic sd(\i;iia la stretta finestra deires])erien- za, e si lascia illudere dal kaleidosco])io dove si svolge il mondo delle idee (nel senso kantiano). Ma (piamlo ei:,li coinpi'cude il suo errore, (piando indovina 1' essenza del suo kaleidosco])io, (pu'sto stì'Uìiiento non icsta meno \wv lui, mal,i;ra(lo l'eccesso della sua delusione . un o<;- i I, ^•{•tto (li \i\';i cniiositn. K^uli non si <!oinaiì<lji più : cìie sono . clic sii;]iilican() le mciaviuliosc iininauini clic io Aedo bene là lontano? ma: qua! e 1' oii;ani/zazione ùel tulx) cìic le produce ? l*oti-el>be <Iarsi ailuìnjue clic vi si trovasse nna siHucntc di con<»sccnza torse cosi ore/iosa clic lo sarel)i)e rosserva/ione per la piccola linestia > (1). (^^iieste parole deirrnitore della S7or/f/ </<"/ ììnticrìftiì^hio in<licano snll'u-ienteniente 1* aru'ojneiJto di onesto Sau'i^io. Io mi pn>ponu<» dii jicercare. «jnantnìHpu' in nn'altra \ ia clic qnel'a se^nita da Kant (alla cni «lialtHtica ti'ascen- dentale allnd» "i LaiiLiC nel Inouo citato), il processo di t'oriìia/ione, il meccanismo . di ciò clic <pirsto iilosoto •li 1 1 a 1^/ nm rcìtza ìi'^ì'sccik l'I della nostra ragione Ciò che io cei'co è, in altri termini . i' origine e lo svi- hi})[)o dei coijcetti melalisici . vale a dire come nasce pìesta tendenza clic ci s()ini;e, d'nna mani(n*a qnasi ir- resistibile . a<l oltre[)assare il momlo delT es])i*rienza . a nn al di là dei fenomeni e dei ra})p<nti costanti con cui (jnesti ci \'enu<nio picsentati, e come ne nascono, alla loro xolta, le varie l'orme deteinnnate sotto cni ci a[>paiisce qnest'al di là dei ienonieni. che è ro«i,\L»"etto <li questa tendenza iiì.uan natrice dello s[)irito nmano. Fra il modo in cni io tratlerò la ipn'stione e il modo in cni la tratta Kanl nella sna dialettica trascendentale, vi lìa sovratutto nna ditterenza di metodo : è (piella tra 1 i'utpinsufo e il raziinHiìisìifo. Kant vede nei concetti fondamentali della metalisica delle idee piirc o a priori, e li drdiu( più o meiH) artiticiosaimnite dalla semplice costitn/ione d<!ia nostra ra,u,ione : secondo me . con le leii.ui dello spirito, cioè con ({nelle deirassociaziom- delle idee, cooperano alla ]n(Mlnzioiìe di (pu'sti c<mcetti le im- p](<<i(>ni del mondo nh1»ietti\'o, si<*cliè essi sono, come tntti .uìi altii. nna elal»orazione cIm' il nostro spirito fa dei (1) L;ni.uc Storia (fel itiatcrutlismo. yìA. II. cjq». T <«> dati dell' espeiienza. Tuttavia . siccome \v im])i-essioni obbiettive da cui deiivano (pU'sti concetti sono comuni u ecessaiiamente ad oiini uonn). e non si ])nò noìi a\'erl( se si i^narda il nn)inlo dal ]ninto di vista iri cni 1* nomo è collocato . noi jjossiamo attribnire la loi'o origine nni- canHMite al fattore siilihicffiro. e considerarli come dei ])i'o- dotti inevitabili, fatali. «Iella nostra organizzazione intel- lettnale. Non solo i concetti fondamentali della metalisica sono j)ro<lotti necessaii det» c'ostitnzionc del nosti'o s])i- . lìia vi Ila anche nna <*ei'ta costanza nelle foinie di- Ncrse che essi prendono nel loi'o s\ilnppo. La st<H-ia della metalisica non semina presentai'ci al primo colpo «Tocchio che nn.a scn'ie di so^ni e di pai'adossi arbitrala, jportcnfa ci ììiìracHÌd philosopÌHn'Uììf soìunia ufiiiiH : o. come dice lìa- cinie. nna snccessi<nie (ì'idipJa thcdiri. i sistemi di lilosotia t\ssendo «come altrettante ])rodnzioni teatrali, che i di- versi tilosoli hanno messo jdla Ince, e s<nio venuti a rap- ])res<Mìtare ciascuno alla sna xoita . ])rodnzioni che pre- sentano ai nostri sii.nardi altrettanti mondi immai;inari, e Neramente fatti [)er la scena />. TiittaNia noi non tar- diamo ad accorgerci che \i ha in tutte le e])oche. nella stona «Iella metalisica . nn ceito numero di concezioni determinate, o almeno di tembnize o di tipi, di cni i di- versi sistemi non sono che delle nnxliticazioni particolari V ( lell e combinazioni : sembra i he lo spirito nmano nella ricerca tilosoiica non abbia che il potere di sceuiiere. di <'o,mbiiiare. di esei».uire delle variazioni sovra (hiti temi, ma che nna leii.<;(% sn])eriore a (pialnmpie arbitrio imh'\ idnale, lo ricondnca <'ontinnainente a nn ninnerò limitato di so- luzioni, che. p( r il foinh), sono sempre le stesse. « L*in- vestiuazione . dice uno scrittore inulese (1) rassomiuiia alla corsa d'un cane da caccia: (\uli si muove per suo (1) Tuckcr. citMto «hi .Maialst'y ncHu Flsiolofi'in dvllo s/tiììfo. 1 })i'<>|>i-io shiiicio : ma la pt'sta cli'ci»]! sciiiio, e ])vv con- sc.mu'iixa, il caniniiiio eli" c.uli ])('rc()n'(', iioii sono stati ti-acciati (la lui. » 1/ iiivciizioiic nu'tatisica r così circo scritta tataliiu'iitc dentro liniiti certi dalla natura stessa e dalle disposi/ioni intiiìie della nostra intelli.i;('n/a : è nella struttura dello spirito umano (du' sono se;;nate le tracce ])rescritte anticipatamente allo slancio del meta fisico, e (Toetlie ha detto una ]n-otonda verità, (piando Ila para.uonato il metalisico a un animale, cui uno svilito maliiino costringe ad ^a^uirarsi in un cerchio fatale. Il meto(h) che noi cercheremo di seiiuire nella no- stra ìicerca consistei'à essenzialmente in una i^'enera- li//azione ])ro.uì"essiva. Noi i'idurr«'nio tutti i concetti nu'talisici che ci ])resenta la stoiia a un certo numero di toinie o tipi costanti e .^emM-ali, e ([ueste ad altre pili ^eneiali ancora : ])oi mostrerinno couìc (pieste t'ornu' o ti])i generali di metahsica sono dei^li sviluppi o delle api)lieazioni ditterenti di (vrti coni'etti fondamentali co- muni ad o,uni metatisica o almeno alla ])iii parte dei si- stenn metatìsici ; intine dedurremo (piesti concetti fon- damentali da una t(Mi(h'nza naturale e pressoch(' irresi- stibile della nostra intelliii'eiiza, dimostrata dai fatti ])iii ovvii e spiei^ahile facilmente per le IviXìXi conosciute dello spirito. (,>iiesti concetti fondamentali comuni ai diversi sistemi nu'tatìsici e la tendenza sp(uitanea della nostra iiitelliucnza (hi cui essi derivano, i)oss()no considerarsi come la ìHciafixicfi indurale dello s[)ii"ito umano, di cui la metatisica dei tilosoti (' uno svilup])o in uno o in un altro senso determinato. L '1 i ricerca che noi ci pro[>oniamo na ])er noi un h doi)i>io intei'esse. L'uno al juinto di vista della psicolo- <^ia e della storia del pensiero umano. E iiicontestahile infatti che la metatisica sartddte sempre un fatto (runa im])ortanza di ])riìno ordine, (piando anche non si coii- r) — si(h*rasse (come nella teoria dei tre stati di A. Conmte) come una fase transitoria dello svilu}>])o dello spi- rito umano. Oi'a cpiest' importanza aumenta, se si am- mette, come noi crediamo, ch'essa (' un fenonu'uo per- manente del nostro sj)irito, il ])i'0(lotto inevitabile di una tendenza naturale, cheta ])arte della costituzione stessa della nostra intelli,^enza. Ma la nostra ricerca ha anche e sovratutto un'interesse teoiico, al juinto di vista «Iella teoria della conoscenza. Se si mostrerà che i concetti metatìsici sono il ])rodott^ di una tendenza ])uramente suhhiettiva, (' evidente che (pn^sti concetti non ])otraniio ])iii pretendere ad alcun valore obbiettivo. Come se si mostrerà che una percezione dei sensi (' ]>rod()tta da cause subbiettive, da un'alterazione deL^ii or.i;ani do\ uta a stiuìoli imramente interni, si proverà al tem^x» stesso il carattere subbiettivo di (piesta ])ercezi(me, e saia \i\- no di supporre d(\uli o,u<^etti reali che le corrispondano. La (piistione : che cosa (' la metatisica ? «piale (' la sua essenza ?- (•i(') che non (^ che un'altra manieia di formu- lare l'o^^etto della nostra ricerca : (piai e la li-enesi dei concetti metafisici ?il mec(*anismo della loro [)roduzi(uu'? — (' una di (pielle (piistioni che un positi visnu», che \ noie avere coscienza di se stesso, non ])uò nei;li,i;'ere lU' con- tentarsi di stiorare. K impossibile di saj)ere che cosji è 1>< >siti\ismo, se non si sa che cosa (' metalisica, e vice versa : sono due contiari senza medio, di cui l'atfeinia- zione o la negazione dell'uno ('^ la nei^azione o 1* aifer- mazione dell' altio. Ora (' una rei^ola della lo.^ica che (piando si detinisce un conc(4to, si detinisca simultanea- mente il concetto contrario (1), ci(') che i tilo>soti antichi formulavano col ])rincij>io che ìiìI(( c Ìk sricìfCd dei ((tn- frari — princi[>io perfettamente esatto se si tratta di con- trari senza medio. — Conu- sarebbe j)ossibile di a\cr(^ (1) V. hn'uì Lof/ica. 1. IV. e. I. [ — H r i<lr;i lU'lhi liUT Sdì// jivcrc T i«U*«i dell' oscurità, (Iella retta senza ({Uella della curva, della salute senza (|uella della nijihittiji. e viceversa ì Cosi è impossibile di sapere in che consiste il modo di j)ensare j)ositivo, senza sa- liere in che consiste il modo di pensare nietatisico, e viceveisa. Auiiinnuiamo che il ])ositivistn, il (luale non ha esaminato suilicientemente «jucsta (piistione: che co- sa è la nietalìsica ì in che essa consiste ? quale è la sua <;(*nesi ? non solo uojì pu<> avere una coscienza cìiijìra del sisteuìa e d.el metodo che e.L»li [)rofessa, ma è ditti- cile che vi si atten.i;a strettamente e coerentemente. lè la conseguenza uv\ pensiero, conu' nella condotta. )er 1 non \)\U) seuuiì'e ciie dall' ;i])plicazione costante di ])rin- cipii n'enerali, e non da un concorso iortuito <!' idee o tlal loii> svilujipo spontaneo, senza previsione e, per < così, senza inteiliu'enza. lir ! I la un preconcetto, (juasi universalmente aiìnnoso. il quale non ci permetterehhc di conj])rendei-e con esat- tezza la portata e la siuniticazione del problema che noi ci pro[>oniamo : [K'rchè oltrepassiamo V esjK'rienza ? quale è r orii;iìie della metailsica e delle sue diverse torme ? La dottrina della limitazione necessai'ia tlella ostra facoltà di conoscere è divenuta da .^ran temp<> n un lU( »ii<) comuni e ammesso ^'enc 4 ^ rali Mente che noi non possiamo conoscei-e Tessenza o la natura intima di alcuna cosa: che le vere cause o il perchè di oi^ni tatto st'u.u.uono e st*ui»i;i ranno sempii' alla nòstra c<mi- •1 Cile CIO che nelle cose ( II o scon(»sciuto e nicono- prensione : in una |)arola «•onoscihile riposa M)vra un tond scibile. A questo punto di vista noii vi sarebl>e niente di più semplice che la soluzione del ])roblcma che noi ci pr(q»oniamo: non sembra intatti naturale che lo spi- rito umano, prima che l'esperienza dei proprii insuccessi «ili facesse actprisrare la coscienza dei limiti iiu'vitabili di'lla sua conoscenza, si sia accanito alla ricerca di qiie- / — ste essenze e di ({ueste ca.use .misteriose delle cose . da cui dipendono i lenomeni e ixVi riletti che V esperienza ^li rivela ? Se non che la supposizione <Ii <jueste essenze e di (jueste cause sconosciute dei lenomeni, inaccessibili dia nostra esperienza, non è essa ste sa che un prodotro lott< della tendenza metalisica del nostro si>irit(K e così, lunu'ì che (piesta su[)[>osiziom' p(»ss i dare una soluzione al nostro problema, è al contrario c<nnpresrt in (|Uesto problema stesso, vale a dire la (juistione cenciaie i-ìw noi ci pi'o- poniamo : perciìè oltrepassiamo V esjjerienza ! contiene (piest' altra come una parte: 'perche suppo-iiamo delh esstnize intime e aelle cause ultnne niconoscunli . cioè inaccessi^Mli alla nostra esperienza ? (^Jueste essenz<' e queste cause inconoscibili, non essendo oi^ucili di espe- rienza, non ci sembrano un risultato «ìeiresperienza <'he perchè le deduci.nno <ia essa in \iiTn delia tendenza metatisica del nosi ro spirito, che è. come abhiam(> detto, naturale e pressoché irresistibile. La nu^tatisica., \\ì quanto ha per ou",i;"etto la com»- scenza della natura . voi!i,'e jn'incipaiimnite su due qui- lu. stioni. latino :i l )i'in !il l )i';> ibrmnlai'si col vesv) < lei loeta F Oeiix {jlli {>:'!:i!( )-<'l*ni!! CO^ÌIOSCC!"!' '.'.tll-^US L' uomo domanda >ei {']\v o la spieLi,azione dei le- nomeni che lo ciiTonilano: la scienza .uli apprende i rap- porti costanti iVji «paesti (èmuneni. ma ciò non i^li dà ancorji questo j)erchè o questa s[>ii\iiazione circoli do- mandava. L (pu'sto perchè queste cause che la scienza non ]>uò da]-e. ì'Ììì' as]>lra iinzitutto a conoscere !a meta- fisica : è ciò che il j>osi( ivismo, m-lla sua l'orma pili or- dinaria, dichiara anzitutto inconoscibile. Ma. special- mente nella tì!<)so!i:: moderna, vi ha un'altra (piistione elle ha [)reso un im[K)rtanza e^unale a (pu'iia de!!«' caus(,n, — N ò !m (piisti<n)(' del mondo cstcrioi-c. Vi ìia . al di fuori d(\u!i esscii senzienti, un mondo materiale indi|>en- <lente dalle loio sensazioni ? K se vi lia, ma le pro- prietà sensibili dei>li oi;\uetti materiali non sono elie re- Ijitive ai m>stri sensi . che e(»sa sono questi o,u„u(*tti ma- teriali in se stessi, cioè indipendentemente dalle nostre sensazioni I a [)iu i)ai te d ei concetti metatisici . il cui ou^ctto non è la conoscenza deH<' rcrc cause <lei teno- nfeni . lianno quello della conoscenza della natura reale deuli oii^ctti materiali. Quando il i)ositivismo oi'dinario dici naia ( he 1 essi'iiza ( [eli e cose V mconosci hil( esso non atlerma solamente V inconoscihilità delle rcrc cause dei fenomeni, ma anche <juella della natina reale de.uli Oii'Li'etti materiali. (^)ueste sono duiujue le <lue sorbenti princi])ali delle itlee del sovrasensihile — che si ])i-etenda. conoscerlo o se ne altermi 1" ass<iluta inconoscihilità — : la ricerca del rcnt perchè, delle rcrc cause <lei leno- nieni, concepite come distinte dalle sem[)lici condizioni o antecedenti costanti: e quella di'lla natura reale deuli o^U",U(*tii materiali, concepita come distinta (hilie pro[)rietà che manifestano ai nostri sensi, t^fuesto Sa,u.ui<>. pt'i' r<»n- se.uuenza. a\rà due pjirti, neìruna delle (piali studieremo l'oriiiine e lo svilunno dei «'oncetti metatisici relativi alla (piistione delle rcn' cause, e nell* altra di (|uelli relativi alla quisiioiie del mondo esteriore, delle cftsr in s'/'. A (pU'ste due 'parli sarà necessario di a,u".u,iu]i!H"erne una terza, che siudieià la metalisica nelle scienze dello spi- rito : nella psicologia, nelTetica. nella iilosotìa del <ìritto. (»>uesta «livisione non <Mnrisponde solamente alla divt-r- sità <ieir Olivetto a cui si riferiscono i <*oncetti me- tatisici, ma anche a «piella del i>rocesso della loro [)ro- «luzione. In.i'atti la tendenza metalisica <lello spirito li- mano, nei tre campi principali in cui essa si manifesta, quantunque sia al fondo unica e la stessa, assume, come vedremo, delle forme differenti. I^a jnima jiarte avrà. i) per o<^\uetto la metalisica come ricerca delle rcrc causc^. a cui, contormamloci al linuua.u.uio di molli filosoti. noi (biremo il nome di c((ìisc cfficicnii, ^^ 2. La nozione di causa, nel sÌL>niticat(> in cui (piesta parola si pi-ende nelle scienze positixc, è stata lucida- mente (\sposta nella Loi;ira di St. Mill. (I. ili. e. \ ): in ([uesto senso, la causazione si (h^Hnisce: ìiiì i'((i/jK>rf() in- rdriahìlc dì scquciìzn. 1 fenomeni si succedom» secomlo le.u.ui inviolahili: certi fatti sui-cedono e succtMhnanno senijire a certi altri fatti, l/antecedente imariabile è chiamato la c(()(sn: il consci» uente invariahile è chiamato V elìcilo: e la niversalità <lella leuuc di causazione consiste in ciò che u ciascun consemiente è Usuato di (piesta maniera con <pial- clie antecedente o (pialche ii,iUi)ì)o (T antecedenti [)arti- colari. (jjuaiumpie sia il fatto, s'esso ha comincialo ad esistere, è stato j, receduto da (pialche fatto, al (piale è invariabilmente Iellato. Ksiste per ciascun fenomeno una nbinazione di cose o di fatti, una riunione di circo- c(n stanze date, Dositive e ih ative . di cui 1* a\ \ cihinento è semi>re s(\u'uito dall' avvenimento del fenomeno. La causa è la somma delie condizioni. i)ositive v nei;ative, 1 )rese insieme, i 1 totale delle contingenze di o.uiii natura., essendo realizzate conseuiu*nte {V eifelto) st\uue invarialìiìmente. (,)uantun(pie, nel lin-ua^i;\uio più ccnnune, si scelpi \)vv il solito (pialcuna di (pieste condizioni . di (piesti antecedenti dvW api>arizione del fenomeno . e hi ;i decori co 1 nome di causa, è innidimeno alla totalità di (juest(^ condizioni, il cui concorso (' il vero antece- dente invariabilmente se^uuito dal fenomeno, che con- viene con })ro[ni(^tà il nome di causa del fenomeno. (^)uando (hdiniamo la causa (runa cosa: «d* antece- dente al siunito del quale ({Uesta cosa accade invaria- ì>ilinente» (pieste espressioni non iMpiivali^ono a: « l'ante- eedente al st^uuito del (piale (pu-sta cosa (' accaduta in- variabilmente neiresperienza ])assata ». Perclu- a (piesta — 10 n m ultima tonila della dctiuizioiu' l)ir/i<>iu' ]>ÌH volte mossa roi (che al toml() (,areM)e applicabile V ol>- itro la dottrina di Iliitìie la vera tlottniia ( Iella eausa) elie a «pie- sto conto la notte sar< la eausa della no 1)1)(' la eausa del giorno, e il iiionio rte. Penile vi sia un ia]>poito di eau- azione tia d\w tenomeni Uisouiia elle la loio scijuenza sia a ziona nelle, nello stesso tem})o eUe nivana l>il. nieoiK li- Ic. La eansa d/un fenomeno pu- } ( lunciue essere < le- tinita : T ant<M-edente o la liunione ( r antecedenti di cui il irnomeno è w ivariahil mente e nic(nnh:ion((nnviiJ( I. fi il con sriiue lite 1 OS( urità della m)rte è invan id)ilmente SI ..aita dalla luec del -iiuno . ma ijuesta se(iuenza non (' inco'iidizionaìc il i^ioi-no se.uuirà alla nott<'. ma cioaccai ha / tnrciir \ sole si levi all'orizzonte. Se i 1 sol e cessasse e li, ciò ( Ile. ner (juanto sa])piamo, può essere per- t'ettameìite eompa notte sa.ieldK' o pò tihile con le le.u.ui <lella materia condizioni. (trebheessere eterna. La liunione ( bill la li li cui il uiorno è il conseguente invanaoin sono resistenza <li'l sole (o d*un cor])o luminosi ) s imile) la Sì t nazione < lei Ìuo*.'<) della terra in cui noi siamo, !>* r cui onesto si trova a.iia portata «Iella luce del sole ()nni alila condizione ( superllua. e senza cpieste co n di- zioni il 'jiorno non avrebbe luo.^o. Non ì' dunnue la notte causa dei uiorno. ma « la riunioiH' di «pieste com li- zioni : percue e la riunione di <p*^'^^<' c(mdizioni, e non >ììiìlz'nnH(ì(' del la nott •, r antecedente invanalule e ///co bill giorno. St. Min a'4-uiun.!L!:e ( Ile Pantecedeiite che non è inva- na cu le che c/>//f//'://>////////c///c, e ioè che non sarà se,i;uito dal consemiente se non a <'ircosranza esista, non e che un tatto si,i stato st ral< Ila condizione che una terza rantece<lente invariabile. i>en- niore seunito da un altro tatto. ;e r esjx'rienza generale ci a])preiu ile ci 1 esso j)o trebl )e non esserne sem])r<> seguito, o se Tesi jcrieiiza ite ssa e tale ch'essa lascia un posto alla jM>ssibilità che i casi 1 conosciuti non ra]>presentano torse esatramente tutti i casi ])ossibiM, r antecedente n/// (jnì ìururhtbili' mm è ]>ri\so ])er la causa; e perchè ? ])erc]iè noi n<ni siamo si- curi che esso sia rantec(Mlente hìv<ti'ì((hUi\ Il h\!L>.am(^ tra la causa e 1" eifetto non è dnn(|ue . nelle scienze ]»ositive. clic un rajijHuto nnitbiìue o iina- l'iabih' di successione : A è la causa di 1), \uol dire che H \ iene unitbrmemente o invarial)ilmente dorso di A. A è ]>rima . I> è (h>])o, ecco tutto. Dopo di A (\sisre co- stantement'.' \\ . (iuantiinque mm sia vero uiiualmente che prima di i> esista costantemente A . ]ierchè uno stesso fenomeno non è dovuto sempre alle stesse cause. Ma ])oichè runa o .'altra di un ci'rto numero definito di cause de\'e esistere percliè un certo feninueno \\ esista, noi possiamo esprimej-e la lei'.ue di causalità di <|uesta maniera: Oiini a\venimento è unifornuMnente semuto (hi (jualche alti'o avvenimento: o.uni a^^enimtMlto è unifor- memente jnceedulo dall' uno i) l'allro di un certo nu- mero dehnito di avveidmenti (t). Ma nel rappoil*; di causazione non vi ha a.ltro che una se«juenza i!i:i:orme tra (Ine ti}n di tenomeni o ^rupju* di fenomeni: il r*'ìio- imnio o urupjJO di l'enomeni antecedente è la ea.usa . il fenonnuio conseu'uente è retfetto. vN ;>. 11 roiiiju'to più elevato della scienza consiste a scoprire (pieste nnifoi'inità invaì'ial)ili o lei;i;i natnradi nella successione dei fenomeni. Fra le h\u".ui naturali della scipienza (hi fenomeni sono le ])in generali, (pielle a cui s})esso viene limitata l'applicazione i\v\ nome di ìv<i<f( dclUt ìt<(fnr<(, che si dicono propriamente dei ledami causali. Costatare le cause <' \h'\' la scienza costatare le le.uiii \n\\ ti'enerali delia successiime dei tenomeni: essa non cerca niente al di là di (pieste uniformità di seipienza. Spiegare un fatto (' per essa mostrare come esso si conlbrma nella (1 ) V. iJnni. 1 li \' _IIHIHHI III r F," I H i sua 1)14 >( lazi (»n<* a< 12 — 1 alcuna o a<l alcune di queste unitoi- uiità (li siMpKMiza o lc;;;iii .^cncraìi della natuia : u tatto della caduta dei .mavì è spiegato, uiostnnnlo che esso è un caso di questa le.^^e t)iù uciH'iale <lella natuia. secon itano ^li ani verso uli altri, cioè si atti- il (lo CUI 1 corpi ir • > r:i V rauo recinroraiiiente con una tor/a che e m raiiioue i 11- versa del ipiadìato d( Ila loro distanza. Il nìoviuuMito dei piani ti <• spiegato niosti'ando che alla sua ])roduzioiie con- ine le.u.ui distinte della natnia : la ic.u.ue della ttrazione uìiiversaU . e la It'uiic d'inerzia, conono ( unn nazione o a l! ilonat o a se secondo cui un corpo m movimento. ao.>ain stesso. continnerel>l)i> a muoversi in linea retta con una prestezza uniforme. Alla ])roduzione di ((Uesto tenomeno concoireiìd;» delle cause distinte, esso si s'pie^a derermi- namio le :<\Li..ui delle <-ause distinte che lo producono: se una di queste cause, il sole come esci-citante un'attra- zione su] })ia leta. a.uisse sola, il ])ianeta cailrel»l)i' sul sole: Si' l'altra (ausn. rim})u]sio:ie imi)ressa al [)ia leta.con- sidera.to ct>;ne un proiettile, a.^isse sola, il ]>ianeta sca])- >( rel>i>e ner la tani;"ente: ( lalla composizioiu' u: queste ( \nv forze diifcrenti (j)'r non piii'ìare di altri eleaienti clic nel fatto i-endono la s[)ieu:iZÌone pili complicata) risulta il movimento del pianeta, conformemente alla le.!4-.i;(* j^cneraU^ della composizione delle forze. Ma oerclii' ^ i ìia un'attrazione reciproca tra i cor^ji, t'orza elle è in ragione inversa del <juadiato della con una distanza ? K percìiè un corpo in mo\ imento. abbandonato a se stesso. <-io(' non sottomessoairaziom' di altri cor})i, coii- tinuereljlK- a luuoversi in linea retta con una [)restezza uni- forme? La scienza non rispondea (pu-ste domande: tutta\ ia (' una tendenza miturale dello spirito umano di rivoliicre oneste domande. Fra la mutua situazione dei Il se ac sso cor])i ad una distanza deteninnata. e il mo\ imento di at- trazione che lU' (' l'effetto, il nostro spirito non vede al- cuna connessione ni'('v>is(iri((: a priori. t)iuttosto che un 13 movimento di (piesta st)ecÌ4\ (pialsiasi altro avvenimento avrehhe sembrato u;i.ualmente ]>otenu' seguire: il non can-,i;iamento nello stnto dei cori)i, a priori, sembrerebbe anzi più ]>lausibile else il loro movinumto di attiazione. La j)arola xple^j^tzìoìiv ha dumpu', nelle scienze ])(>sitive. un siputicato tutto ])articoiare : nel senso più ordinano (iella ilelli ])aroia. xjnci/arc una cosa vuol dire tar compren(ier( 1 di fa ih la ragione dell'esistenza di (piesta cosa, rendere conto del perch(' la cosa sia necessariamente così e non altrimenti, e cosi .'^picf/firc un fenomeno [>er le sue caus<* sarchi seii'nare a (piesto fenonunio delk' cause < )(' lis- ti tal natura, chi il fatt() che un tale eifetto deve seuuire da cause tali sem- bri una cosn miturale ed e\idente. Ma al contrario la scienza spie,na i fenomeni, sostituendo, come su(»l dirsi, al mistero ciie essa sj)ieoa, un altro mistero che esso stesso resta ine- st)licato. Non (• semt)licemente la le.U'.^e dell' attrazione o (pU'Ua della continuazione uniforme del movimentoim[)res- so ad un mobile, che ha i>er noi un carattere misterioso: (' sotto (piesto as[)etto che si [)resentauo tutti i fatti ultimi che sono la spiei;azione de.i;li altri fatti. Una sensazione si lU'oduce nel nostro s])irito al s(\i;uito (leira{)plicazione di uno stimolo esteriore a^li ori^jini esterni dei nostri sensi: spiegare il fatto sarebbe per la scienza sco[)rire tutti «;rin- termediari fra i due fenomeni estremi, Papplicazione dello stimolo esteiiore e la sensazione; e mostrare come in (pie- sta serie di fenomeni ciascun cons(\ji,'uente v le.lAato al suo autece(h'nte da (pialche uniformità,i»euerale di se(pienza o le«;;L!.e di causaziime. Fra (pu'ste uniformità più .ucnerali di se(iuenza, in cui deve risolversi il fatto, ve ne ha una (die è c(Uisiderata couu' il mistero i)er eccellenza : (' (piella che le.ua Tultimo antecedente tisico col fatto |)sichico, cioè con la sensazione. Come un caui>iamento materiale (verisimilimnite un movimento molecolare) incerte cellule della sostanza nervosa produce una sensazione o un pen- siero ? La i)roduzi(nu' d(n f(numieni ])sichici da certi feuo- Il - m Ué % lìU'in hsici, i' \ — ]4 ict'vcrsa qiu'ìla di (-(MtitV' iioiiu-iii tisici ( lai IVuomciii psicliici, sniibra un fatto cosi incoini>rciis]i>iic, ]w tra i (lue ordini di triioiiicni vi ìia tante, ma non un rappoito di cau- clic si (* aninusso ( na concomitanza cos u sazio scicn ne. Non si è rìHettuto cln- una cjuisazione ] )e la za non è che una sc<juenza costr.nte, e ( he se aiU' ;(M|Ucnze <*os tanti tra i fenomeni tìsici e i tenomeni psicliici si neua ii nome di causazioni perc.ie (lueste s< <|uenze ci s<'m 1- men brano incoinin-ensihili. si ih-ve ne.i;ailo (\uua Mn'ch( te a tutte le s(M|Ucnzi* costanti tra i tenouK'Ui, | tutte ((ueste sequenze ri sembrano. [)\n o meno, mcom- ])rensibili. Da per tutto la spiepizio nohieni ci condm-e i stenosi, eil è a]>punro in (juesti fatti ultind a tinalmente (piesta spiepizioiK ne scientilica dei fe- jìline a certi fatti inesplicabili e mi- cui arriva •he consistono le unitor- mità pili universali della setpienza tra i tenomeni 1 leuami u'cnei'a li tra le cause e uii etfetti. Così la spie.ua- scientilica non s( )( Idisfa il bisouno clic lia il nostro s])iriro di una spieuazione: i le.^ami osservabili tra le causi e uli effetti non soddisfano il desiderio espresso (bd poeta: Fiu'lix «mi potiiit ì'cruin coiiiiosccrc cjnissjis li Lun.ui di sembrarci y/cccs'Nv/r/, questi !ei»ami ci semDra- iio arbitrari : lun.ui di sembrarci evidenti, ci sembrano misteriosi; lunii,i di send>rarci naturali, ci sembrano, per nsai-e le es])ressioni di Bacone, strani ed inverisinnli e c(nne altrettanti articoli di ì'vdv. Ne se.i>ue che, al di là ostatati' dalla scieiizr. speriim'Utale, lo spi- e cause ( dell rito si foìina la nozione di un altro «genere di cause: sono (jiieste delle cause tali, tra cui e i Uno ettetti. se esse fos- sero com )sciute. lo spirito vedrebbe nn U\uame necessarie una ra-i<HM pei cui si potrebbe comprendere perche un tale efletto ne seiiue necessariamente piuttosto clu' un altro, delle cause insomma che spie.uberebberc» n>(iììué>ute 15 iL^li eft'etti e non ne sar(d)bero sem})licemente dei^li ante- cedenti invariabili, in modo che il lepime tia la causa e il suo etfetto fosse una cosa naturale ed evidente ]>er se stessa, e inni un fatto misterioso ed incomprcMisibile, che noi amuH'ttiamo (piasi mal.^rado la nostra ra.uione e come un articolo di i'viU^ rivelato dalla es})ei-ienza. vN 4. È dopo Ilume che la distinzione fra i due ordini di caus{' cominciò ad ammetteisi esplicitamente da «piasi tutti i liìosoti. [/analisi dell'idea di causazi<me. clie la risolve in una se(pienza invariabile tra (bie fenoineni, si deve, come tutti sanno, a Hume : e^li delinlsce la causa: un oiiut'tto (cioè un fatto) tabnente seuuito <la un altro oi>;^etto (<la un altro fatto), che tutti .uli o-.iictti simili al primo siano sc^i^uiti da o,u\u(*tti simili al se<'ondo. (^)uesta detbiizione è «juella delle cause em])iriclie. delle <-ause nel senso scientitico: ma Ilume sui)j)one inoltre delle cause sconosciute inaccessibili airesperienza. i le.uami tia <'ui e i loro ettètti sarebbe qualche cosa di più clu- un semplice rapporto di sequenza invariabile. (^)uesto le.uamee. secom o Hun le, (pia lei \v cosa ( rindetinibile : uondiTnem» e*;li i>li at- tribnisce dei caratteri che bastami a distiniiuei-e il concett<> l; •Ili (h'ile supposte causazioni m cui esso si trova (la ((Ueiio delle causazioni che noi conosciamo. Mentre infatti in ([ueste ultime caiisazi<uii il rapi»orto tra la causa e Tef- fetto non pu<) (^ssei'e conosciuto che pei' la s(>la esjxnienza, nelle ])rinìe invece noi conosceremmo a priori, < hdla sem[)lice contem])lazione delle cause, se essa fosse ])ossi- bile, .j;li effetti che esse sarebber() proinie a ])roduire. inoltre, nu'ntre le causazioni conosciute s(mo incompren- sibili e nnsteiiose, le sconosci! lite invece sai'cbbero intel li.uibili (se noi potessimo conoscerle), e servirebbero a farci coin]U"eiidere le altre. Sono soltanto (pieste cause inacces- sibili all'esperienza che Ilume considera come cause vera- mente produttrici dei fenomeni, tra le (piali e i;ii efletti vi 1 la una vera connessione causa le: 1 e causi' e iili etTetti del- E ti 1 'M IH rrspcrii'iizìi uli scDilnaiio invece (IVììIì avveniinciiti «scuci- ti e staccati li'li imi (la.uii a]ti*i:cssi si sc^unono, ma senza cìic noi ossi'i'viaino il niìninio Ic<;ainc tra di loro: noi li w- diaiiio. ])cr <lii' c<>sì, in coniiinnzionc, ma non niai in con- ììcssionc >. La definizione di Ilnme della, causa non c<)n- viene duìjque a (jiU'ste cause sconosciute, di cui eiiii tut- tavia sui)|>one costantemente l'esistenza, ed esse formano, ]»er conseguenza, una specie distinta dalle <*ause (*ono- scinte, dalle cause nel senso scientifico, ])ei' cui è fatta la sua detiinzioue. Così la [)iù parte dei pensatori elle sono venuti <lopo di ìlume iianu!» ammessa la distinzione tra le due s])e- cie di cause : i iilosojì di'lla scuola scozzese cliiamavano le une cause //.s/cAc e cause imtd fi^'n-hv o cause cfficictiti le alti-e. Tra le cause lisiclw e i loro effetti non vi ha che un iap[)orto di s^MpuMiza invaria))ile: ma tra le causi' metatisiclie o enii'ienti e i loio effetti lo sj)irito scopre (o scoj)rirehl>e se le com)sc(^ssi') un !(\i;ame naturale e iw- cessario. 1/ o^^ctto delle scienze della natuia, dicono (piesti fìlosoiì, n )n è di scoprir/ i Icfffmn nccessdrì o le cause ('lìicicnfi dei fenomeni, ma le Imo cause /isiclic : così le scienze tisiclie non possono mai mettere in luce la causa ì'caic (efficiente) di un sol fenomeno della natuia, ma solo le le.u'.u'i che redolano (piesti fenomeni, per ([ue- ste [)arole di cause e di effetti nelle operazioni della na- tura noi non intendia.mo veramente che dei s(\i;ni e le cose annunziate da (piesti sei;ni. A. Comte, formulando nettamente il j)ensiero di (piasi tutti,i;ii uomini di scienza, (' su ((uesta distinzio- ne che si fon(hi, })er separale le ricerche che sono scii'ii- tificlie ed accessibili alla nostra intelligenza, e (jiielle ('he mm 1<» sono. L'uomo comincia, secondo Tointe, per voler com[)rendere le cause intime, il modo essenziale di pro- duzione dei feiìomeni : (piesta curiosità caiatterizza lo stato teol(\i»ico e h» stato metatisico del .pensiero umano. 17 Ma nello stato positivo, lo s])irito innano rinunzia infine a « (pieste ricerclie inaccessihili, i)er restrin.^ersi oramai alle semplici le<»<ri dei fenomeni, astrazion fatta dalle lo- ro cause propriamente dette. » (1) «Ciascuno sa in eftetf(ì che, nelle nostre spie.nazioni positive (cio('' nelle sci(Uize d'osservazione) anche le più perfette, noi non abbiamo affatto la pretensione di esporre le cause u-eneratrici dei fenomeni, ixu'clu' noi non faremmo niai allora che rin- culare la diftìcoltà ; ma solo d'analizzare con esattezza le circostanze della loro ])roduzi(Uie, e riattaccaile le une alle altre per relazioni noriìudi di successione e di so- nii.^iianza. » (2) A. Comte s'interdice la i)arola ('(tìisa, e non parla che di le<>i;i di successione : la ]>arola c<///.s7^ senz'altro si.i»nifica per lui ciò che i^ii scozzesi chiama- vano ('((use meta Ji si e he o vfficicntL Ma la distinzione fra le due specie di cause si ti'ova assai chiaramente anche in molti filosofi anteiiori a 1 lu- me. Locke credeva che la conoscenza della natura mm potesse mai divenire una c(Uioscenza seienfijirtf, perche' il nostro spirito non ]>U(^ scoi)rire tra i fatti alcuna con- nessione necessaria. «Quantumpie le cose abbiano un le- game costante e re<>'olai"e nel corso oìdinario della iia- tura, tuttavia siccome (piesto leiL»ame non ])U() essere ri- conosciuto nelle idee stesse, clie non sembrano avere alcuna dipendenza necessaria, noi non ])ossiaino attri- buire la hn-o coniu'ssi(Hie ad altro che alla deternnna- zioiie arbitraria d'un ai^cnte tutto sa.i>.uio che le ha fatte essere ed a.uire così per delle vie che (* assolutamente impossibile al nostro (h'bole intendimento di couipicn- dere. \'ì ha in alcune delle nostre i(U'e delle relazioni e d(u le.uaini che sono così visibilmente racchiusi nella natura (Udle iiU'e stesse, che noi non potremmo conce- (1) T. IV. Icz. 51. (2) T. I, lez. 1. *> — 18 — 19 1^* I! }J pire ciri'ssi' ne i)(»ssaii<) ('sscrc scpìU'ati' da (lualsiasi po- tere. 1^ non è die :» riguardo di queste idee elle noi possiamo essere sicuri d^iua luauieia eerta e universale. Cosi ritlen di un trian-olo rettilineo porta neeessaria- niente con se ì\'-;ua.i;iianza dei siu)i an,u<)ìi a due retti, (• non potreiinno eonee])ire elie lu relazione e la connes- sione di <iueste due idee possa essere can«;iata o dipen- da <la un ]>otere arbitrario clie Vhi\ fatta così a sua vo- lontà o ravrel)l>e potuto tare altrimenti. Ma la coesione e la continuila delie purti della materia, la maniera di cui le sensazioni <lei colori, dei suoni, ecc., si ])roduco- no in noi pei- impulsione e per movinu'iito. le re-^ole e la lomunicazione d<'l movimento stesso . essendo delle cose in cui non potremim) sco])rire alcuna connessione naturale con (lualche idea clie abbiamo, noi non ]>ossia- m«» attribuirle che alla vobmtà arbitraria e al buon pia- eiare <1cl sa.u.uio arcliitetto deiruniverso (piando noi troviamo che delle cose a-iscono re-olarmente, cosi lun- o-i clic si estendono le nostre osservazicnii, noi possiamo Concludere cli"essea.i>iscono in virtù (runa WiX'^v che bu'o è prescritta, ma che pertanto ci è sconosciuta: nel (piai caso ancorché le cause a-iscano i'e,u(»laiiuente e .ì;1ì ettetti ne seguano costautenu'iite, tuttavia come noi non potremmo sco])rire per le nostre idee le loro connessioni e le loro di- pemU'Uze, noi mui possiamo averne che una conoscenza sperimentale (la (luale mm è, secomh) Locke, una ccniosceii- 7AXsvieìifiJìrii). Da tutto ciò r tacile di vedere in (inali tenebre siamo immersi, e (luanto la conoscenza che possiamo avere di ci<) che esiste (' imperfetta e superticiale... l nostri pei'cepisc(nìo o.iiiii .uioriio dinerenti effetti, di cui noi abbiamo sin là (cioc' sino ai casi particolari speri- uuntati) una conoscenza scitxitini (ma inni perfeiin. v'mw razionale) : ma i)er le cause, la maniera e h\ certezza della huo produzione, noi (h>bbiamo risolverci ad ionorarle.» (l) (1) !SifUUÌ'^ Sftirinl. >nn.. l. IV. e. IH. ^N -'-^ o 21>. Quaii(h> Locke parla di eause e d' ettetti tra cui non si pim scoprire alcuna connessione, e<»li intende i)arlai'e di cause //n'/c//c, di antecedenti di se([uenze invariabili: in- vece, (luando dice che i nostri sensi perce])iscoiio diffe- renti ettetti, ma non mai le cause di (piesti effetti . il senso della parola causa (' diverso; essa indica delle cause efficienti . cin(' tra cui e i loro effetti, se esse fossero co- nosciut(% ])otrehbe scoprirsi una conn(\ssione. In Locke noi vediamo, conu^ in llum.e, lo scetticismo sul rai)}>orto uniforme fra le cause fmìvlìc e i loro effetti coniiinuto con ro])inione che le cause ('(ficicnti sono inacc(\ssibili alla nostra conosctMiza. Hei'kelev distin,i;ue i;ià, coiìic ]m)Ì fece Heìd, le eause fisiche e le cause )iU'f(( fisiche. Noi non vediamo nei fenomeni sensibili alcun poteì'(^ o attività: essi non sono la causa .u'ii uni de^^ii altri ; essi non hanno tra loro che dei rappoi'ti dì se^L'iii a cose sii^niticate, non di cause ad effetti. (l*riuei}>ii). Hisoona distiiii^uere la fìsica e la me- tafisica : (piesta rimonta sino alla causa i-eah^,_/'<>;/. v et lìì'incipiHìu : \)vr <|uella la parola causa ha un senso dif- ferente. I fisici, i iiKM-canici, hanno abbastanza spie^i^ato le cose, (pian(h> le hanno ric(m(h)tte ai principii più sem])liei, alle le.U'.^i. Le cause sono in (pu\sto caso le soru'enti della conoscenza, non (h'IT esistenza : la causa d'un fenomeno (^ la rehizione costante di (piesfo feno- meno ad un altro. La fisica non attin,ue che ^ii effetti apparenti, le cause seconde ; ma le cause reali, le cause veramente attive, fanno V og<i:etto della nu'tafisica. Il fi- sico osserva le serie o le successioni delle cose sensibili: considera le le,i;'i;"i secondo cui (\sse sono legate, il loro ordine : dà il nome di causa a ciò clu' precede, (Tettetto a ciò che se<;ue. (I>e Motu), La tìsica o la nuM-canica scopre il come delle cose : il perchè deve essere doman- dato alla nu'talisica. fSiris). In Malebranche la distinzioiu' tra la vera causa 20 21 e la causa oeca.^ionale corrispoiide tn ideiiteniente della lìianiera più esatta alla nostra distinzione tra la eausa ettieiente e Tanteeedente invariabile. «Causa vera, diee Malebranehe, è una eausa tra la (piale e il suo effetto lo spirito percepisce un le,i;anie //^rcs'svnv'o » (1). Perciò Dio solo è una vera causa, perchè vi lia un le.uanie necessario tra la sua volontà e 1* esecuzione di ([uesta volontà: ma i fenomeni non sono cause,i>'li uni de,i;li altri, perchè lo s])irito non percepisce lìiai fra loro un h'ifume necessario. L'avvenimento che noi chiauiiamo causa, non è che Toccasioìie per cui Dio si determina a ])roduri'e lo avvenimento che noi chiamiamo <'i'fètto : fra questi due avveìiimenti iiou \i lia, a parlar pro[niamenfe, un rap- porto causale, ma uììa semi)lice setpuMiza invarhibile. TI sisteimi (li Leihnitz deirarmonia ])resfabilita sop- piìiiic, noli meno l'adicnlmenfe che (pu'llo dei carfesiani delle cause occasionali, o.uni causazione effirienfe tra i fe- nomeni. Uno dei princi])ii fondamentali della filosofia di Leibnitz è il principio della ra.^ion sufficiente o determi- nante, cioè « che alcun tatto non pof rebbe trovarsi vero o esistente, alcuna enum-iazione vera, senza che vi sia una ragione suflicienfe perchè ci(^ sia così e non altrimenti », (2) o, in altri termini, senza che vi sia «(pialche cosa che possa servire a rendere ra«;i<uu' a priori i)erchè ci(^ esiste così piuttosto che di oi^ni altra maniera » (J^). Ora Leil)nitz non t!o\:i nelle modificazioni (h'ifanima alcuna ragion sufficiente che [u)ssa si)it\t;are i movimenti del corpo clie ne sono le conseguenze, né nei movimenti del corpo al- cuna iji.uion suliiciente che possa spiegare le modificazioni dell'aniiìia : donde ne s(\i>ue, seccnnlo lui, che i due or- dini di fenomeni non possono essere cause gii uni degli (1) Nie. della cer., 1. VJ. parte IT, e. III. (2) MoìKidol :^2. (8) S(t(/f/i sffll(( hoìifà di Dio ecc., parte I. i4. Il; altri, perchè una vera causa deve contenere una ragion suf- ficiente dell'effetto. Di più come T^nbnitz nega un'azione reale deiranima sul corpo e del corpo sull'anima, perchè non vede alcuna connessione intelligibile tra le cause men- tali e gli effetti tisici o tra le cause tìsiche e gli effetti mentali, così ancora egli nega un'azione reah^ dei corpi gli uni sugli altri, perchè neppure tra le cause e gli ef- fetti egualiiH-nte tisici vede una connessi(Mie intelligibile, cioè tale che lo spirito possa scoprire nella causa (pialche cosa che ])ossa s])iegare l'efilètto. che possa servire a ren- dere ragione a ])riori perchè (pu^sto eflètto ne segua piut- tosto che (pialche altro. Ma per ispiegare (luest'apparenza dell'azione reciproca fra gli esseri, T.eibnitz non trova soddi- sfac(mte il sistema delle cause occasionali, il princi])io della rauion suftìciente esigemh), secondo lui. che le affezioni delle cose possano derivarsi dalla natura delle cose stesse (1), e per conseguenza che i fenomeni siano spiegabili i)er la natura e le tVnze che Dio ha dato alle creature (2). Leibnitz (1) .{ìu)n((dr. ciìca ((sscrt. thcot'. Stdhl. II. (2) Il sistema delle cause occasicuiali, se esso fosse vero, sarebbe, dice Leibnitz, un miracolo perpetuo. Alcuni cre- dono che il nnracolo non sia che un'ecccv.ione alle regole o leggi generali che Dio ha stablite aibitrarianiente. Ma non tutto ci(^ che avvi(Mu^ ])ei' leggi generali si fa senza miracolo : « se la legge non è fondata in ragi()ni . e non serve a spiegare l'avvenimento per la natuia delle cose, essa non j)U(> essere eseguita che ])er miracolo ». « Se Dio avesse risoluto di far esistere continuamente (puilche av- venimento che fosse poco conforme con (piesta natura, non ne avrebbe fatto una legge (h'ila natura, ma avrebbe risoluto di fare un miracolo per])etuo, e di mettervi sem- pre la mano egli stesso, per produrre ci(^ che sarchi» e al di so]H'a delle forze (Telia natura. Ya\ è ci() clic accadve)>\>e nel sistema delle cause occasionali, se l'anima e il corpo s'accordassero sempre, senza che la loro natura, e ci(> che vi si piu) concepire, li portasse a(T accordarsi: cioè se l'au- toma del corno non lo ])ortasse a fare ci(') che l'anima. »>»> ri;L;*'tta dmHjUt' ripott^si di ^Malclnaiic'lic. peiclir questa (li- st ru,u;mMi uà 1 sia si attività iu\uii esseri ereati : ma ei;'li è (Vac- vuole, e se il seguito iiatui'al»' delle ])ereezi<)iii continue delTaniina n(ui la portasse a ]'ap])n\sentarsi eio che si passa nel e<)r]M). Ma eeeo un esen!j)i() più facile clic ri- scliiarei'à ancora nieiiiio la diifei'enza clie vi iia tra una leiiiic di natura e una re<»()la ucnerale la cui esecuzione l'ichiedereldu' dei miracoli continui. Se Dio tacessi' una letiue che portasse che otiiii coino IìIkto, o che non è im- pedito, deve tendere ad andai'e da se stesso circolarmente intorno a un dato centro, e <-iò jjer coi»se<iuenza senza elle tosse jjossihile di concepire ]ier qual mezzo e come la cosa si fai-ebhe; io dico cIk' questa !e.u>i"e non ])oti-el)l)e essere eseguita che ])er miracoli continui, non essendo contorme alla natura del movimento dei cori)i, che porta che un corpo, mosso in linea curva, continua il suo mo- vimento nella retta tan^icnte, se niente non l'impedisce. Una tale le.u.ue di movimento circolare non sarebbe dun- que naturale, su]q>osto che la natura del c(n-po tosj;e tale <|u;d è al ])resente. Così noìi basta, per evitare i miracoli, elle Dio taccia una certa le.u'^e, s'egli non dà alle crea- ture una natuia cat)jice d'eseiinire i su(»i ordini» (^V/r/f// sìdìa lundà <ìi Pio ecc.. ])arte I li, 855, e ///s'/>. f///c (>///>/V.c. ili'ìV itili, iìeì Uh. (ìvUa ((nKt^cilhc kìi'ì<><o ed Dutenst. II. ]). 1. pa.u. 11)1 )(^>U('st(M'h('L('ibnitz(li(-('sulh\(lifterenzatia una le,!»- «•e della natura e un miracolo perpetuo, ho voluto ri])ortarlo perchè mi sembra assai pi()[)i'io a far comiu-endere la dif- ferenza tra una causazione efficiente e una semì)licese- <pienza uniforme, o a dir me,ulio, tra il princii>io dei me- tatisici della causalità efHciente e la (h>ttrina deiLili emi)i- risti ])er cui una causa.zione non è altni cosa che una se- quenza unifornu'. 1/ opinione, cond)a1tiìta da Leibnitz, secondo <aii un fatto. ])erchè sia naturale e non miracoloso, basta che sia confoime alle regole o leggi generali che Dio ha stabilito arbitiai'iamente. è la prima es]>r(»ssione della dottrina empirista sulla causalità : basta di estrarla dal suo in\iluppo teologico, per (ttenere la dottrina stessa di Min. Invec(% (jUjindo I.eibnitz esige che, perchè un fatto non sia miracoloso, debba essei-vi tia le condizioni del fatto e il fatto stesso, non semì>iicemente un rap])orto costante, ma anche una conn(\ssione intelligibile, razionale, egli non fa altra cosa che enuiu;iare il principio della causalità etHciente. — 23 cordo con lui nel neii.are ogni reale azione recii)roca tra gli esseri; così non gii resta altra ipoti^sichedi lasciare alle cose un'attività s(Mn])licemente interna, immaiuMite. Ogni so- stanza semplice ha dumpu' in se stessa la causa e la ragione dei ])ropri cangianuMiti : essa è un che d'animato, o, ])ifi pro- ])riamente, un'anima; ma Dio ha costituito le sostanze in maniera tah* che, ciascuna s\ ilnj)pandosi indipendente- mente dalle altre, e tirando unicanuMite dal pi'(>pi*io fondo tutto ciò che le accade, vi ha nondimeno tra le modifi- cazioni delle diverse sostanze una corrispondenza o un'ar- monia, che ])roduce Fappai'enza. ma soltnil') l'apparenza, di inrazione reci])roca tra le cose. \'i hanno dinujiie an- che ])ei' Leibnitz due spcM-ie di causazi<>ni : le causazioni Jisic/tc (ciò che noi chiamiamo azione di una cosa su di uìì'altra). in cui non vi ha tra la causa <* l'etfetto una connessione pei' s(* stessn intelligibile, e rìiv non s<uio che sem])iici uniformiti di seipienzi: e le causazioni mc- f(rfì>^Ì(It(' o effìch'ììiì. poste al di là dei tènonu'ni, in Di*» e nelle monadi, (ili stat^i successivi della monade «lerivano intelligibilnuMite dagli stati antecedeiti. hanno in (pu'sti la ragion sutHciente che li s{»iega, che basta a determi- nare j)erchè essi devono <'sistere così e non altrimenti : in- quanto a Dio, quantunque la su i azioni' creitrice sia per m>i incomprensibile, vi ha nondisueno tra (piestn Causa sujU'eììia e i siuu effetti una connessione tabnente intel- ligibile, che è da Essa che (piello clic avesse un'intelli- genza sufHciente, df'duirebbe a prioi'i tutti i t'ciMMueni. Ma non lusoiiU'i credere che In distinzione tra i sem- plici antecedenti a cui i fenom;^ni seguono costantemente e le cause efticienti dei fenomeni a])p'iitenga solt:int(> ai tilosoli che abbiamo ricordato e ad alcuni altri. <,)uesta distinzione è stata sempre presente allo spiiito di ogni metatìsico, ch'egli l'abbia o no formulata d'una maniera es])licita e netta : se il metafisico cerca le cause delle cose al di là deir<'sperienza e dei femumnii, ciò è [)er- — 24 — 25 — r:w i']w W seiiiKMize lìiiitonni, vhv si osservano tra i teiio- lìHMìi, non bastane» a soddisfnrc il biso-no di causalità du' lia il nostro spirito. Al di là (lei fenomeni il nietatisu-o rerea delle eanse, el«e non siano seuìplieeniente degli mìteeedenti invariabili, ma elie spie-liino la natura del- l' HV-tK». o ronteno-ano la laonni suilieiente perche mi tale effetto ne se-ua piuttosto ebe un altro: disile eause tra eui e -li ettetti vi sia un le-ame naturale e neees- s,;nio una* nnnH'ssinnc. tìmiu dire Illune, e ncm una sem- ^,]\,,. rn,Hiinn:ioH<'. Tra i tìlosoti -ivei, la distinzione tra le due specie <li cause (' indicata diiaramente in un luo-o di Plntniìc. \r1 y\\ d^'lla Repubblica Platone imma-ina de-li lumiini imp.i.i;i<Hnin in una caverna, nella i\m\\i' si dise- o-uano le ombre de-ii o.u-etti clic ì>assano al di tuori ; lur<ir otnbre sono i fenomeni, e <p^<'^ti pri-iomen siamo,\,,; in .pianto mm abbiniììo delle cose clie una cono- .seen/a empiiira o lenomeiiale. Tutta la nostra scienza iK'lia i averna, cioè tutta la conoscenza speriim'iitale, con- siste a iliseerm re ì(- ombre clic passano, a ricordarsi m,,„.,],. online ^Hcste so-liono precedersi o seouiisi o ap- pnrire >:iiiultaneamente. e a divenire abili così a ì)resa- ojiv il futuro secondo il passato (1). 1 fenomeni sono delU' ombre, delle apparenze senza realtà, appunto per- vhi noi li vediamo se-uirsi e accompa-narsi eostante- mente, ma nmi ììc vedianu) il percbc- ; ma nel imnnlo,MU' cose reali (cioè delle bU'c). di mi i tViKUneiìi -(Mio K- ombK, niente non esiste senza un perche; la ra-ione vrde coìììc .incute (•(»«• pi ()(r(h>no le une (hdle altre se-,.ond(> dei h'-ami necessari, e la <Unh'ffirn v la vera MÌen/a . perche scopre questi le-ami necessari . mentre 1n eonoseen/a ^|Miin.e,,t ale non e «-he nunimiiom'. perche \u,,uest(> nuMlo,li (MUioseere non vi ìia aleuna ra-u)ne i> Iei;anu' necessario (2). (1) iv'. !.. r>p> i-i\. {•2} V. il cnp. VII di <nu'st(» Sa-.uio <) 7 e seji- I § 5. Così i metatisici e i positivisti sono d'accordo a supporre un altro genere di cause, ditterenti da (luelle che ci rivela T esperienza : le cause dell' esperienza, le cause >'/c//c, non sono clie gli antecedenti di secpienze invariabili; fra (lueste cause e i loro effetti non vi ha un ìtexus, un legame necessario e per se stesso evhU'nte, non vi ha niente nella natura della causa che possa spiegare la natura deireftetto. >bi (pu'ste cause supposte, ehe "restano al dì là deiresperieiiza, le cause nwiajisivhe o rifìcienti, sono (pialche cosa di più che (U-gli antece- denti di secpienze invariabili : tra (lueste cause supposte e i loro effetti non vi ha una semplice congiunzione, ma mia connessione, un legame necessario e per se stesso evidente, e una volta conosciute (pieste cause, noi mm conosceremmo sempliceim'iite che un tale effetto ne se- gue, ma ciunprenderemmo y>crc//c un tale effetto, ])iut- tosto che un altro, derc seguirne. La differenza tra i metafisici e i positivisti i che i tarimi pretendono di co- noscere delh' cause di (luesto genere, cio(' lueidjisirhc o efiricnti: ma i secondi le dichiarano inconoscibili, e am- mettono che solo le cause dell'altro genere, le .//x/c//c, cioè -li antecedenti invarialuli. sono accessiìnli alla no- stra Conoscenza. Tuttavia anche i positivisti suppongono, al di là del genere di cause (die ci rivela 1' esi)erienza, un genere differente di cause: noi non le cimoseiamo, ma '^r le ronosce^xiwo. uoi percepiremmo il Ici/awv nars- sarìo tra cpieste cause e i hu'o (>tf(>tti : le secpienze co- stanti tra i fenomeni, attualmente misteriose, verrebbero spiegate: mentre noi mm conoseiaim> attualim-nte se non come \ femmieiii si seguono, noi conosceremmo alhna perchè essi si segmmo così: mentre noi non vediamo at- tualmente gli avvenimenti che in nnifiiìHKÌone . noi b vedremmo allora in cnniìexsione. Quamh) A. Comte dice rhe noi non eonosciamo PcxNcy/c^/ (h'ile cose, (-li intende- dire lo stesso che <iuaii(h) egli dice che noi nmi eom^- % — 2() — 27 scialilo il nnxlo cssarzinìe di proihcioiiv, o \v ('(Uisc ijcìh'- nilrici, (Un irnoììU'iii : Ve>iseìr:(t (IHle cose, i<e ìtoi hf co- uosccssiìiH), ci (larcl)l>c ai>]miito qiK^sta pjn'ticobnità. che è iicììn nntnia delle cause tisiclie, la (|iiale sj>in/l(('irhhe il loro modo d'azioiK' e i loi'o eftetti: ci farebbe couipreii- d(M'e ])ercliè le cose acuiscono e patiscoìio ììiutuaineiite Ih 1 modo che noi costatiamo per res]>erieiiza. Ma <|ni si ])reseiita iiatiiralmeiite una (inistlone : resperieiiza. dice A. (^)mle, non ci fa conoscere clic <lelle cause lisl('/((\ de.uli antecedenti di sequenze iiivariabili ; non v] 1ia caso in cui una causa lìividfì^U'n, una causa (fotcntfriri', sia stara <>.u-m*tto di osservazione. (1ie cosa jMoverà dun(iue resistenza di ({ueste cause (fencniirici o ('lììcìcììiì :^ die cos;i pioverà che vi ha altro, nella na- tuia de.iili esseii ol>'oiettivi, i'he delle sem])]ici se(pienze invariabili? che vi ha mi ì)kuÌ(> csscnzidlc dì produzUnic che è <|ualche cosa di pili di una siMiuenza invariabile ? in altri termini, che esiste nella !iatura delh' cause ti- siche U5ia pa.rticolari{à, la «piale, conosciuta, ci spie-he- l'cbbe i loro effetti e il loro mod(i (razione, e perciò che esiste nelle cose una cssacd che V esi^eiienza non può fai<-i conoscere ? È evidente che <pu'sta su})posizione non ]mò invocai'c la minima prova. La lo«i.ica non conosce altra piova che una deduzioiìe tirata da un' imluzione antecedente, cioè da una generalizzazione deirespeiienza. i iiitr le volte che uu fatto non ci e conosciuto imme- diatamente per i sensi o per la .coscienza, noi lo amniet- liniiK. hci- un'infeienza. e <piest'intèrenza è fondata sul h'Uame co<iaiiU' rìiv resperieiiza ha costatato tra «piesto fatto e (juaìche alti'o. Conoscint:! immeiliatamcntc resi- stenza «li A. i! <|uale è ìiìi tatto della nostra es[)erienza attuale, noi ne inferiamo l'esistenza di H: <piesto H i)ar- tic<>lare non è ancora c:ì<]uto sotto 1;i nosti-a osservazicaie, iii;i r es])erienza [)assata ci ha mostrato un lepime co- stante Ila i due tii)i di latti A e 15. Noi ammettiamo nel caso attuale che, se A esiste, H (\sisterà pure . in viìtù di questa pi'0])osizioiie «generale, che è uirinduzioiie della nostra esperienza i)assata : Tutte h' volte che si presenta A, esso è seguito o accoìupa.u'iiato (hi B. La proi)osizione i»enerale, in virtù della quale noi facciamo un'iìiferenza. deve essere una generalizzazione ri«i.(n()sa, di cui tanto i casi passati, dai «piali abbiamo tirato l'in- duzione, «pianto il caso attuale, al «piale noi estendiamo rimluzione. s<uio dei casi particolari; i casi passati e il caso attuale devono essere «h'ila stessa natura . peidiè essi possano essere compresi in una stessa formula gene- rale. Questo A deve essere speciticamente identico a tutti .uii A deires])erienza passata: «piesto 1> «hve ess«'re sp«'citi<-amente identico a tutti i H «lelT esperienza ])as- sata; intine il ra]>porto tia «piesto A e «piesto 1> deve essere lo stesso «*he tutti i rai>])orti .i-ià costatati \)rv la es])erienza tia il tipo di fenomeni A e il ti|)o di f.'uo- meni H. lai femuneno del tipo A è la causa (fisica) di un fenomeno del ti])o 1>: noi abbiamo sperimentati «pu'sti due ti])i di fenomeni in «pu^sto iai)poi'to di «-ausa e ìVì'^- feto: ne concludiamo che, un certo A essendo dato, un certo U <h^ve se.uuirne come effetto di A. Ma se noi mui aves- simo osservato che H se<»ue A e ne è un effetto . su che potremmo fondarci ]>er ammettere resistenza di I> ? Noi ])«)ssiaino ])ure, inve«-e «F inferire resistenza di un fenomem) (h'terminato nella sua sijecie o nel su«) .ue- nere, inferire resistenza di «pialche fèn«)nieno che lesta indeterminato nella sua natura. ('«)sì, (hit«> il fenomeno A. n«)i possiamo inferirne eia- esso deve avere una «-ausa, senza «letcu-minare «piale sia «piasta causa. Ma anche in ouest«> «'aso il tenomeno iiiferit«), la causa «li A. viene identitìcat«) ai f(Mi(Uiieni deires])«M'ienza ]»assata. in \ iiTÙ di cui noi fa<'ciam«) rinferenza : esso v una causa, «-ioe un antec«Ml<'nt«^ invariabile di A, i*«l « per (piest«) «-arat- tere i<lentico alle cause, cioè a.Liii antece«le:itì invai iabili, — 28 — 29 — die l'espeiieuza lia da per tutto costatato nei feiioiìieiii. Se l** (esperienza passata non avesse costatato eìte ogni fenonieno ha un antecedente, di cui esso è il conse.i^uente invariabile, in virtù di che cosa i)otreninu> noi aiuniet- tere V esistenza di (pialclie tenomeno cìie sia la causa di A ? M.M (omc noi abbiamo costatato ])er resj)erienza che ogni h'iioiii!'!)!» lin una causa Jisicd^ cioè \\ì\ antecedente 4IÌ (Ili esso e iì conseguente invariabile, abbiamo egual- mente costatato che ogni tenomein» ha una cansa ììuìh- fisi('((, cioè un:i <*;nisa la cui n;itura può spiegare la na- tura <lcir ettètto, una causa tra cui e Tettètto vi ha una r(nnir>iÌ(Hi(> e un legame ttecesi^drio 1^ No. perchè noi non abbiiiìMo mai ( onosciuto una causa nictu/isica, uiui causa efìcicHtc o (i(Hi')'((tri('C : ìun\ vi ha tèn<mieno di cui noi abbiamo potuto costatare il legame con una causa tale; iiou vi ha tenomeno di cui noi conosciamo il ìhoìIo cs?- sen:i((le dì produzione, le cause ejfìcioifì o (/ciiendrici. Che cosa proverà dun([ue l'esistenza di tali cause f A ciò si risjM>!i(lerà clu* se l'esperienza non può co- statare r esistenza di ([Uesto .r che è ])osto al di là del- r esjHuienza, essa ci fa conosceic però i linufl della no- stra conoscenza : dalla liìniiozionc del conoscibile n(»i coìuli'.dinnio necessariamente che vi ha (jualche c(>sa che /" ìiìnif((, <']ie esiste un Inconoscibile. Ugni problema ri- soluto ci conduce intine a un problema ins<»lubile ; una spiegazione ci inette sempre in presen/n deirinesplicato; ì;i spiegazioni non può andare airinhnito, essa <leve fer- marsi in (|ualclie punti», essa deve arrivare a ((ualche t'urto nliinio. e <juesto è necessariamente inesplicabile. (^uest'arg(»mento. che in una tbiina piii sviluppata juiò leggersi in Sj)encer (1), si trova brevenuuite riassunto (1) Pì'ituì pì''nH'ipiì v\ 2S. ili Little <li (lucstii iiìaiiiom : Tn oj^ni scienza positiva si ( arrivato a un tatto, a un fciionuMio, al di là del (iiialc non si è potuto andare. Certaiucntc la spicjiazioi»' "<•" I"""' andare airintinito: spie-are è (le<lurre, e la deduzione suppone dei priueipii venerali da cui si parte. (,)uesti priueipii sono !e propo- sizioni più ii-enerali elle riassumono T esperienza :« a .piesTi priueipii i l>iù -enerali elle si rieerl.a -insfainente il titolo <li Icmil ''''"" ""'"'"• ^^' i" spie-azione andasse iiil"inlÌHÌto. non vi sarel)l)ero dei priueipii. non vi sanli- bero leit.ai della natura : una spie.uazione elle non si IVr- iiiasse in (|ualelie punto sarebbe dun.pu- una eontiaddi- zion.'. 1 piiini priueipii sono senza dulibio inesi.lieabili, nel senso elie è iini>ossibile di dedurli da luineipii iiiii j-vuerali : ma eiò prova la liuiitazion.. della eonoseeliza sperimentale '? Pereli(> (piesta limitazione tosse peieiò pn.- vata. bisomierebbe,)rovare prima elle (piesti .-he per noi sono dei priueipii ultimi, son.. inveee, nella natura delle cose, (pialelie cosi di ilerivato ; che vi ha .pialclie cosa,li anterior.' <lie potrelibe siiie-arli : deessi liaiino una ra-itm sutlìcieute, quautumpie noi non possiamo cono- scerla. Non è duii()ue dalla UmiUizione ìM conoscibile <lie si eouelude l'esistenza di <pi<ilrhe co.w eh' lo liwila : al contrario (> perchè noi .'i siamo già formato un <-eito tipo ideale della conoscenza, che, dopo aver <-oiitVontato «niesto tipo con la .•onoseeiiza sperimentale e aver nevato onesta iuade.piata a «piello, noi concludiamo <die la .-ono- scenza sperimentale è insutticieiite, perchè es.sa non può attiniiere a (luella eono.scenza a cui noi uatnialmeiite aspirhinio. « N«m si conosce, non si sente una mancanza, un limite, che (luamU. si va al di là di (piest<. limite Così la conoscenza non è limitata e impertetta. che p.'i- chè si para-oua con l'idea di una scienza nnn.usale e perfetta. E n<m si è suftieientemente esaminato questo so-etto, se s'innora che desi-nare un «--etto .ome tiiiito — 80 — 81 O limitiito tornisce la prova della presenza reale deiriu- tinito e deirillimitato. perchè non si pnò assegnare nn limite se non in quanto si porta nella propria coscienza rilliniitato » (1). (^nest'' idea <lella scienza i)ertetra, al cni cont'r<nito la conoscenza s])erinientale ci sembra limi- tata. i{\wM'illi)nit((f<p che ixnfhouo nclUt coHcienzit, non è che l'idea metatìsica della causa. Noi aspiriamo na- turalmente a conoscere <l(^lle cause ciie non siano dei semplici antecedenti in\'ariabili, delle cause clie spie- ghino gli effetti, e con cui gli effetti abbiano un legann^ necessari(» : ma l'esperienza non (*i oltre ([ueste cause o (jnesti legann ne(*essari, essa non <i offre che delle se- ([uenze uniformi; è da ciò clie noi concludiamo che la nostia conoscenza è imperfetta e limitata. Così noi siamo ritornati alla ([uistione antecedente : che cosa ci prova che vi hanno in realtà (h'ile cause meta /me he j debile cause epieienti o ifeuerutriei, la (*ni natura spie<fherehhe la na- tura dell'effetto, e tra cui e gli effetti vi ha un le(/(()He nece>isarioj e non una semplice sequenza invariabile ? Noi ammettiamo che il nostro s})irito si forma naturalmente (pu'sta nozione della causa : ma possijimo noi amnu'ttere che questa nozione ha un vah»re obbiettivo ? Se noi am- mettiamo ciò, noi lo ammetttM'cim) senza prova, percliò non vi ha altia [)rova che una de(hizione fonihita sovra un'imluzione antecedente; ora (|uesta })rova in ({uesto caso è im[)ossibile. Noi aiunietteremo (hunpie la verità di <[ue- 8ta [)roposizione ri ìinuno delle emise mefdjisiehe o effi- cieniì, unicanuMite j)ercliè abbiamo una tentU'Uza, più o meno forte, a crederla vera. Ma (piante cose, clie noi abbiamo una tendenza natura- le a credere, sono state nondinuMio riconosciute false I Chi ueglierà che la nostra credenza naturale sia di ammettere elle i colori, gli odori, ecc. ineriscono nei coipi ed esistono I (1) He^cl Loij. ftitrofÌKz., ^ (50. realmente fu<ui di noi f questa cre(U^nza non è meno natu- rale di (piella per cui si ammettono delle cause efficienti o i»eiieratrici oltre» i»li antecedenti invariabili che noi costa- tiamo per l'esperienza. Tutti nondimeno riconoscono che i colori, gli od(U'i, ecc., non sono che (h'ile nostre sen- sazioni, e n(m esistono clic nel nostro spiiito. Sai'cbbe facile di aggiungere altri esempi simili, i quali mostrano clic una tendenza subbiettiva a credere, j)er (pianto essa sia forte, n(m può per se stessa essere una prova della verità (hdla cre(U^nza : noi ci linnteremo a ricordaine uno solo, il (piale lia la i)iù sfretta c(ninessione c(m la (pn- sti(nu' i)resente. I positivisti ric(un>scono che Tnouio ha una temhuiza naturale ad assimilare il m<nhf e.^xeu:ì(fle di pì'oduzione di tutti i fenenneni, in altri termini tutte le tbrze intime (U'ila natura, alla sua propria attività, e ciedere di comprendere (lueste forze intime, (pu'st() mo(l() essenziale di ])roduzi(UU\ (pian(h> egli ha dotato tutti gli a<»enti naturali di una forza e di una vita analoga alla sna. «Tale è, dice Comte, rorigine spontanea della tilo- sotia teologica, di cui il vero spirito elementare c(nisiste a spiegare la natura intima (hù fenomeni e il loro mo(h> essenziale di pro(bizi(me, assimilan(h)li, per (pianto (' pos- sibile, agli atti prodotti dalla volontà umana, secondo la nostra ten(h'nza prinunuliale a riguardare tutti gli esseri quali si siano come viventi (runa vita analoga alla no- stra, e d'altnmde il più spesso snix'riore, a causa (h'ila hu'o più grande energia abituale».... Questa disposizione fcmdamentale è talmente esclusiva, «che ruomo non ha potuto veramente rinunziarvi, che cessan(h> di tener (be- tro a (pu^ste ricerche inaccessibili, per restringersi alla determinazione delle leijiii d(M fenomeni, astrazion fatta dalle loro eunae»,,. Tuttavia (pu'sta «teiuh'iiza inevi- tabili della nostra intelligenza verso una filosofia ra- dicahnente teoh)gica » persiste anc(ua, (» si manifesta « tutte le volte che noi vogliamo [lenetrare, a un titolo (inaliiiKiue, sino alla natura iutiiiia dei tt'uouu^iii, secondo la disposizione oeuerale eìie earatterizza neees- sariaìnente tutte le nostre speculazioni luiinitive». Al- lorcliè anclie o.ìì:ì>ì lo spirito uìuano tenta di oltrepas- sare i limiti inevitalnli della conoscenza, «e.i»li ricade involontariamente di nuovo, tosse a ri.i»uardo dei feno- meni meno complicati, nel cerchio primitivo delle sue al)errazi(mi spmitanee, perchè e.ii'li riprende uno scopo ed un punto di ])artenza necessariaììU'ute analo;;hi »... (1). (Questa tendenza natuiale del nostio ])ensiero, che costituisce <^ il vero spirito .generale <li o^ni tilosotia teo- logica o lìietatisica » (2) (mI è il punto di i)artenza ne- cessario deirintelli.u-enza umana, i}^) i)unto di ì)artenza a cui, mal<»rado Tintluenza di un'educazi<me conveniente, e mal.urado le più sa.uii'c ])i"ecauzi<un continue, mm si ri- torna che tro[>po spesso (4) — <iuesta tendenza a credere, con tutta la sua forza e la sua persistenza, non,uaran- tisce, secondo Comt(% la veiità della credenza : essa n<m ha seciuido lui alcun valore ohhiettivo, e non è che un semplice fatti» subbiettivo del nostro s]>irito. Perchè dun(iue la nostra temlenza ad amiìiettere delle cause et- h«-ienti, al di là de.uii antecedenti costanti delP osserva- zione, non sarebbe anch'essa un semplice fatto subbiet- tivo f ]K rchè in «jucsto caso il fatto stesso della creden- za sarebbe una ])rova sufticiente della validità obbietti- va di qm'sta credenza ? vN (). Se Tosservazione n<m ci ott're alcun esempio di causa ettìciente, sembra clie si dovr(0)l)e concluderne che la nozione di causa etticiente (se (juesta nozione si trova [1} T. IV, loz. r>i. (2) T. III. le/>. 10. (8) T. 1. loz. 1. (4) T. IV. l( z. 51. 33 nel nostro spirito) (1) non è ch'rivata dalTesperienza. ma è una credenza istintiva, una necessità priiuordiale ed innata del nostro pensiero. Per ora noi non i)ossiamo dare la soluzione di (jnesta ditlicoltà : direìuo soltanto che una ricerca psicoloi;ica sul T idea di causa elììciente deve necessarianuMìte supporre che «pu'sta idea è couu' tutte le altre di. ori,t;in(^ empirica. Aitèriìiare cITessa è una necessità x>i'ii^i<>i'diale del pensiero è semi)licemente affermare ch'essa è un fatto ines[>licabile, ciò che ren- derebbe la nostra ricercji i)i'iva di oi'i'-etto. Noi su])po- niamo duncpie che essa può spiegarsi, ed è (|uesta la quistiime che noi ci projxniiamo : (piai è 1' orÌ!L;ine della nozioìu' di causa eftìciente f <'ome (pu*sta nozione — che (1) Dji ciò che r osserva zi<nic inni ri mostra elie ch'Ile sc- iiieiii ili eonffitntzionc, e non mai in cotnirssioiU' . Ilnme ne roii- cludeva clie noi non abbiamo alenila idea di mia <iumessione cansale che sia «[luilche c«»s{i di jjin di mia sequenza invariabile. Ma la conclusione di Hiime era in contraddizione con la sua premessa: come Hume avrebbe ]M)tuto trovare che i fenomeni sono semplicemente in conjiiunzioiK;, e non mai in connessione, s'ejrli non avesse avuto l'idea di una connessione <'he è ([ualche cosa di pili che una semplice c«ni^iunzione i Del resto lo stesso Hume confessa, dopo aver riassunto la sua analisi «lelTidea di causalità in detìnizioni che corrispcuidono a (piella di Mill di sequenza invariabile, che vi è qualche cosa che è sfuojrita alla sua analisi (questa «tualche cosa, appunto che una causazione ethciente ha di più di una semidice seqiienzji invariabile). «Que- ste detìnizioni, e«»li dice, sono ]>rese da circostanze straniere alla natura delle cause ; è un inconveniente senza rimedio : non vi ha mezzo di giungere a una detinizione più esatta, e noi non potrennno determinare «[uesta circostanza che legale cause a^di ettetti. Non solo noi non aldìiamo idea di questa connes- sione ; noi non sappiamo nemmeno ciò che desideriamo di cono- scere, quando ci sforziamo di concei)irla ». 8 — :54 - :-jr) l\'siH'ru'iì/n (' incapaci' (li -iiistitìcaiv - si sviluppa iion- dinu'iio aairi'spcricìiza, scroiulo W ìi--i couosciutt' del nostro spinto? Questa quistioue uou i' che un easo della iislioue venerale che torma To-uetto di (pu'sto Sa-'- oio: perciic' oltrepassiamo T esperienza ? perchè vi ba una metaiisica ? Noi abbiamo visto intatti che se lo spi-^ rito umano cerca le vere cause (h'i fenomeni al di la U'i fenomeni stessi, è perchè non si eontenta delle se- 4iuenze invariabili, ma dtunanda (pialche eosa di più, ^i-ioè d<'lle cansjizioui ellicienti. A M'ivsta ricerca del]-ori-ine dell'idea di causa etti- dente è applicabile ci<> che abbiamo (h'tto nel P' para- orafo sulla ricerca dell'ori-ine dei concetti lìietatisiei in nvuerale. Kssa non ha solamente per noi un interesse storico e psicoh>.uico (per ispiepire i concetti metafisici die ci presenta la stu'ia, e !a mrta finirà nuiundv da cui essi derivano), ma aiìche e sovratutto un interesse dimi- matico. 11 carattere illusorio (h'IKidea di eausa eftidente diverrà più evidente, se uoi se;>prireììio il meceanismo di (pu'st"illusi(me. In altri termini, sarà allora più ciun- ph'tamente dimostrato du (pu'sta tendenza . naturale aUo spirito umano, (rimma-inare ddle cause tali e dei teo-ami tra «lueste cause e -li effetti che siano (piah-he (mL di più che le stMiuenze invariabili eostatate dalla esperienza, non ha alcun valore obbiettivo; che (piesta apparenza di mistero v\w il nostro siùriti» trova natu- ralnmnte nelle -eneralizzazioni della seienza . mm è ì'\vì^ un semplice fatto psieolooiro. di una sionitlrazioue pura- mente subbiettiva ; e che è ille-iiittimo di eonchuUune die la emioseenza speriun'utale è uecessariaimude lind- tata, e che T ordine fencmienale, eonoseiuto dall'espe- rienza, riposa su (pialdie («sistenza ultrafenomenale, die Pesperienza mm può conoscere. I/idea di causa enicien- te non è. è vero. Tunica ra-ione per cui si amnu'tte la linutazioiu' della conoscenza sperinu'ntale e un'esistenza iiltrafeuiunenale che la limita ; ma i lisultati a cui sa- remo pervenuti in (piesta i)rima [)arte, saranno comi)le- tiiti (hi (pielli a cui ])ei*verrem(» ndhi secomhi. Nel sistema di A. Comte V origine della meta tisica resta in realtà senza s])i esazione. Per metatisica noi non intendiamo ci(') che intende lo stesso (Vnite, che, come si sa, la distinii'ue (hilla tilosotia teologica, e la fa con- sistere essenzialmente nella realizzazione (h^lle astrazio- ni. Noi chiamiamo metafisico o^ni modo di pensare dif- ferente radicalmente dal positivo, cioè' dalla tilosotia (leires])erienza : la metatisica ('' duncpie ])ei" noi il i»..Mie- re, di cui la tilosotia teologica e la tih»sotia metatisica di Comte sono delle specie. Così, dicendo die Comte non s])ie<>a Torioine della metatisica, noi non vogliamo dire solamente che ei;li non s])i(*i;a ])erdiè il metatisico realizza le asti'azioni, e che neoli^'e altre forme di tilo- sotia differenti dalla teologica e non meno caratteristica- mente metatisiche che la realizzazione delle astrazi(>ni — sono dei })unti che noi esaminei*emo più o]>portunamente altrove (1) — ; ma sovratutto che non spiega (juesto fatto dello spirito umano, che (' la manifestazione \n\\ col- pente (h'ila sua tendenza ad oltrei)assare i femuneni, e che e^li consideia, al tondo, come la base sì (U'ila tilo- sotia teohn»ica die della metatisica. La tilosotia nietafi- sica non (' t)er Comte che una moditìcazione (h'ila tilo- sotia teologica : per conseguenza anclT essa (' s])ie<>ata, in ultima analisi, ]>cr (piesto slancio ])riniordiale dello vS])irito umam», che costituisce la tilosotia teologica, per cui esso personifica le forze della natura, assiiiiilan(h)le alla volontà umana, e cretle così di comprendere le cau- se (/encrftfrici o cfivicnti dei fenomeni, il hu'e ìtanlo ex- scìiziffJe (li pr(P(h(:i(>n('. Così Tautoi'e riduce talvolta i tn* stati a due, riunemh) in un concetto unici) la tilosotia. 1) V. Cìl]». VII, VN I — teologica e la metafisica, e distiii<»iieii(l<>le ciitiaiìibe per mi carattere comune, clie contrappone a (piello della tì- losotìa positiva. «Il vero spirito -enerale di o<;ni filoso- fia teologica o metafisica consiste, e-li dice, a prendere ])rincipio, nella s]>iepizi<me dei fenomeni del mondo esteriore, il nostro sentimento immediato dei fenonn^m nmani; mentre al contrario la filosofia positiva è sem- pre caiatterizzata, non meno profondamente, dalla sn- lM)rdina/ione necessaria e razionale della concezione del- rmmx) a (piella del nunido » (1). Ora ciò che (N>mte non spiega è percliè Tnomo, animato dair aìiibizione di co- noscere il m(f<h> esscn:i((ìc di produziotte dei fenoìiieni, le cause (jenendricl o ejfirivnfi, crede di pervenire a (piesta conoscenza, prendendo i)er irrincipio della spu- o-azione dei fenomeni del mondo esteri<ne il suo senti- mento immediato dei fenomeni umani, o in altri tenui- ni, assimilando le forze della natura alla sua attività volontaria. «Al principio delle sue ricerche in tutte le scienze, lo spirito uuuuio è sovratutto animato ibiir am- l)izi(me di penetrare Ves^ieica delle cose, e d^irrivare alla nozione ultiuia <-he le spicfiJn universalmente. K.u'li non si sentirebbe sutficienteuiente stimolato, se non siproi)ouesse ì« i ìììoblriiìi infiniti» (2). La filosofia teologica « si trovava ]>erfettameute adattata alla natura o(Mierale della m)stra dcbolt^ intelli.uenza, che le più sublimi soluzioni ottenute senz/ alenila attenzione i)rot\m(hi e sostenuta potevano esclusivamente interessare. V\ è possibile (».t;'*>i, sottorinduenza di un'educazione conveniente, iV attaccarci vivamente alla ricerca delle semplici le.u.i'i dei fenome- ni, astrazion fatta dalle loro m/rsr» (3): ma «le (pnstio- ni più radicalmente inaccessibili ai nostri mezzi, la na- (1) T. Ili. lez. 40. (2) Littrè Della filos. posit. in Fnanm. di,iìlos. yjo.v/7., p. 3.5. (3) Coluto V. IV. loz. 51. tuia intima deoli esseri, Porioine e il fine di tutti i fe- nomeni, sono precisamente <iuelle ehe la nostra mtelli- o-enza si propone sopratutto in (piesto stato primitivo, tutti i problemi veramente solubili essendo (piasi consi- derati come indeoni di meditazioni serie. Se ne conce- pisce facilmente la ra<>ione, perche è V esperienza sola che ha potuto fornirci hi misura delle nostre forze ; e se l'uomo non avesse dapprima cominciato per averne una opinione esa sviata, esse non avrebbero mai potuto ac- (juistare tutto lo sviluppo- di cui sono capaci »(1). Così se- condo Comte Tori-ine della fll(»sofla teolo.uiea (N indivetta- mente, anche (U'ihi filosofia metafisica è in (piesta ambi- zione che ha rm)mo, nmi sottinnesso alla disciplina delle positive, di voler conoscere le cause intime e generatrici, le cause efjhientj, dei fenomeni: eoli cre(h' di ])ervenire a (luesta conoscenza, assimila luh) le forze della natura alla vohmtà umana : e nmi pu(> rinunziaTH' a (piesf assimilazione, se non rinunziando alla riceri^a delle cause (eftU'knH), <' restri ii.uen(h>si a (piella delle le--i dei feiionieni, cioc^ delle uniformità di successione. Ma^la causazione che si mostra neoli atti volontari (U'I- Puomo non (' essa stessa che una semplice unitcuinita -di se(iuenza; nmi si vede in (piesti atti P azione della causa intima o emciente : come dumpie pim nascere r illusione che . trasportando (jucsta seipieiiza di fen(>- meiii, che noi chiamiamo azione vohmtaria, in tutto d (hmiinio della natura, noi comprendiamo così, non più le semplici leiii^i o rapporti costanti di successione dei feiionu^ni, ma ia loro natura intima e le loro van^e . il loro modo essenziale di produzione ? Perchè (piesto rap- porto costante di se(nienza che noi vediamo nelP azione volontaria, ci sembra, non un semplice rapporto costante (1) V. I, Ir/. 1. Vedi pure i liio-ìii citjiti nel ])ara«;i'af(» p^'f*" .cedente, verso In line. i 3S 39 <li s(M|n('iiza, ma un modo cssciizijih* <li produzione dei feiiouieni ? percliè vi vedijuno l^ìzioue, non <r una causa ^ ma d'una eausa nictdjisicd, o, come diee Conite, .i;"eneratiiee ? perchè, in una parola, ìjì volontà umana ci sembra una causa etticieiite ? E (juesto fatto che non >spic^a A. Coni te. K evich'ute che se, trasteien(h> la no- stra attività volontaiia nelle forze <lella natura, noi sen- tiamo soddisfatto il bisogno che ])i(>viamo di conoscere le cause eftìcienti o il modo essenziale di proibizione «lei fenomein, se noi ])ren«bamo natuialmente la volontà pei' una causa etticicMite, quest'eri'ore deve essei'e fon- dato sulla natura stessa delle (bu* nozioni . che noi ('OììfoinUaiììo runa con l'altia. L'azione volontaria «leve somigliare, più che tutte le altre unifoiinità di sequenze che ossci'viamo nei fenomcnj. al ti])o <-he ci siamo for- mato del rapporto tia la <*ausa intima o etticiente e il suo effetto, alia nozione del nostro sniiito che corrisixju- de a queste parole : il ììhhIo vx^cììz'Ktìc ili proiììizUnìv (Un fchoNK ni. Pei'chè è certo che, (juantun(|ue noi non co- nosciamo il nunìo essenziale (li prodìcione di alcun feno- meno, noi dobbiamo avei*e una certa nozioiu' di ciò che noi iiiciamo ìh(hÌi) essenziale di produzione : noi dobbiamo in che esso difteiisce (hi un sem])lice ra])])oito inva- riabile di se(|uenza; se non fosse così, come sa])remmo noi elle i rapporti invariabili (b se(pi(Miza tra i fenomeni non s(ìno il loro nutdo essenziale di prodìtzione ? Ora (juesto ca- rattei'(\ o (jualche cosa di s(uni,!u.iiante a <|uesto carattere, j>er cui il mo(h) essenziale di ])roduzione o Tazione (Udla causa etticiente si distininue dal sem])lice ia])])oito in- variabile (b successione, deve trovarsi, almeno aj)pa- i-entemente, nelTazione volontaria, t>erch(' l'uomo ])ossa ca(h'i"e naturalmente nell'errore di cnMlere che la volon- tà e una causa etticiente, e che nell'azione volontaria vi ha, non un semj)lice rapt)orto unifoi'ne' di successio- ne, ma un mo(h> essenziale (b pro(bizione dei fenomeni. i| His()"iia (IniKinc clic l;i volouh'i iilihin i\ii':iilÌMÌtM iiatiUii- le col tipo che noi ci formiamo della causa efiiciente: e lo stesso (h've dirsi, non solo della volontà, ma di tutto ci^) che i metaiisici hanno immaginato per dare una sod- (bsfazione al loro biso«;no di conoscere le cause efjieienii. Fra tutte «pieste forme sotto cui la metafisica si (' rappre- sentata la causa efiiciente, com])resa la nozione che A. Comte e i ])ositivisti si formano di (piesta causa — senza la (piale nozione non potrebbero distin.u'uere le eanse dai semplici juitecedenti di siMpumze invariabili -. deve esseivi una nota comune : (' di (piesta che noi cerchia- uio di renderci conto. L'ouuetto di (juesta i)rima pai'te (' dumiue di spie- .i;arci (pu'sta t(Mid(Miza naturale del nostro spirito, che ci spin-v ad imma«>inare, ai di là delle cause empiiiche (condizioni dei fenonunii), delle (-ause e/'/ieirnfi v \u\ mo- do essenzi(fle di produzione delle cose, che è (pialche co- sa di diverso (hilU^ semplici uniformità di seciuenza che si j)ossono oss(M-vare tra ì fenomeni. Noi ci spie-here- ììio (juesta tendenza, ricontbic(Midola a (|ualche fatto or- dinario della nostra esperienza psicolo.^ica. e pei- (piesto fatto inter])reteremo le differenti forme sotto cui la no- zione di causa efiiciente ('- apparsa nella storia del pen- siero umano, in altri termini, le dilferenti concezioni metatìsiclie a cui lo spìrito umano (- i)ervenuto nella ri- cerca (h'ile cause efiicienti. Noi prenderemo ]>er punto (H partenza le nozioni più abituali e ])iù sjxmtanee che lo spirito umano si ('^ formato su (jiieste cause, e .guar- dando al hn-o punto di contatto, al carattere comune in cui esse si somi.;;liano, ridurremo il fatto che si 1 ratta i\\ s])ie<i.are a ci(') che vi ha in esso di essenziale, e ])o- trtmio così facilmente ricondurlo a (pialche fatto più .i»e- Tierale (h'I nostro spirito: di là, inalidendo un cammino ccmtrario, potivmo rendei'ci ra.i»ione delle nozioni meno e meno sp(mtanee sulle cause efficienti che ci — 40 — presenta la stoiia della iiietafìsiea, interpretando, per Aia deduttiva, (piesti tatti mediante i risultati <;'ià otte- nuti per la \ ia induttiva. È solo a (piesta condizione elle il nostro metodo può essere sperimeiitale: la nostra base devono essere i dati della storia, ina noi dobbiamo spieiiarli per le i^eneralità otteìiute per 1' osservazione psicologica. La,i;('neialità ultima, a cui ci condurranno i fatti studiati in (piesta j)rima parte, e per cui cerche- remo di s})i(\i;arli. s[)ie;;liei'à forse eii^ualmente (pielli clic studieremo nelle due [jarti seuiUMiti. L' ANTK()rO:M()iniS3[() La filoso fia Uolo(jica, § 1. (,)uesta tendenza spontanea dell'uomo, che ca- ratterizza secondo Comte lo stato primitivo del pensie- ro, ad « erigere se stesso a ti]>o universale », e ^^ tra- sportare involontariamente il sentimento intimo della propria namra air universale spiegazione radicale di tutti i fenomeni », è certamente quella che ha creato le prime nozioni metafìsiche dello spirito umano, applicato alla ricerca delle cause. Questa tendenza è quella che colpisce più immediatamente il pensatore, quando la sua attenzione si rivolge verso quest'ordine di fatti : così prima di Comte essa era stata già segnalata da Hume (1), da Reid (2) e da tanti altri pensatori sì ostili che favorevoli alle concezioni teologiche. Molti osser- vatori hanno richiamato l'attenzione su questo fatto, che i selvaggi suppongono un' anima o uno spirito da (1) Storia iHftHraU' dvUa iclif/ionr 111. (2) V. S((!/{/i Sìdlc facollù alfìvc . Sa.u.uio 1 e. II e Sa-.ni(> IV e. 111. — 42 — per tutto ove vedono un iiiovinu^.nto o (junlelie altro tc- noineno che non possono spiegare. Cosi g"li autori che • più recentemente lianno fatto un oggetto del loro stu- dio delle origini della civiltà, hanno considerato V ani- misnio (1) delle religioni primitive conie una filosofia naturale, grossolana ed infantile, fondata su questa di- sposizione dello spirito dell'uomo primitivo. L'animi- smo, dic^' Tylor, sviluppandosi in una dottrina d'esseri spirituali, animanti e controllanti l'universo in tutte le sue parti, non è insomma che una teoria delle cause personali, che si trasforma in una filosofia generale del- l'uomo e della natura (2). «L'uomo primitivo ha model- l.ito gli esseri spirituali sull'idea che s'è fatta della sua anima propria, e in secondo luogo egli si è proposto di spiegane i fenomeni naturali, partendo da questo princii)io SI ingenuo ed infantile che la natura è real- mente animata in tutte le sue parti. Se, come dice ilpoeta, colui è veramente felice, (^ui ijotiiit rcrmii coiìik^scc-I'c caiissas. (Il Ì»(M" ntiìwhuno. tcniiiih'. in <[iu*st«) scmisj». introdotto ]>iM)rtii- uauMMitc (lui Tylor. s'intende \x\ crcMlen/ii che nmniette elie l'aninui è lina sostanza distinta <lal corpo e separabili' da ess<». e che attri- Iniisee la causa dei fenomeni natnrali a deUe anime (sjjiriti. demo- ni o divinità) <litfuse neUa natura e eonceinte ]nii o men»» p^'r a!»aio.nia a quella deiru«nno. Dando alla ]mv<da questo nuovo si- ;initicat<K il Tylor ha soddisfatte» a un hiso.iinc» reale (hdla ter-minologia lilosotica. ])erchè la ]»ar(»la .ynrihialismo l- tvop]H> stret- ta per poter comi>ren(U're le <-redenze primitive, anzi, più .liC'ue- raìmente. antiche, analo-he air«Mlierno sistema spiritualista. l*er l'uonn» ]>rimitivo. e anche per la ]nìi parte dei tìlosoti antichi . l'anima dell'iunno e tutti -li altri esseri che si concei>iscono sul ti]M. di essa, non (• una sostanza s^nrituale (nel senso mod<'rno). ma materiale aneli' essa . come il corp«i. (luantumpie ditfereiitc j)iii o meno dai cor]M ordinari. (2) L<i rh'iUzzHzione priìniticK. t. II e. WII sulla line. 4;^ le tribù grossolane dell' antichità possedevano almeno questa felicità, eh' esse potevano spiegarsi d'una ma- niera soddisfacente la causa di tutti i fenomeni. Per esse in effetto, gli esseri spirituati, folletti e gnomi, fantasmi e mani, demoni e divinità, erano le cause vi- venti, ])ersonali, della vita universale «I primi uomini trovavano per tutto una spiegazione facile, i misteri della natura non erano loro cosi nascosti come lo sono a noi», dice Giacomo Bòhnie, il mistico. Ciò è |)erfet- tamente vero, si potrebbe ris})ondere, se si ammette che questi uomini j)rimitivi credevano alla filosofia animista della natura, che sopravvive ancora oggi nello spirito del selvaggio. Essi potevano attribuire a degli si)iriti. aiiìici o ostili, tutti i fenomeni della natura; tutto ciò che loro accadeva di bene o di male durante la vita; essi vivevano in relazione*, costante e amichevole^ con le anime viventi e i)ossenti dei loro antenati, cogli spiriti del ruscello e dei boschetti, con (pici li del piano e d(Mla montagna. Essi conoscevano bene il possiMite soie pie- no di vita che versava su loro la sua luce e il suo ca- lore. Essi conoscevano pure il gran mare vivente, che veniva a s[)ezzare le sue onde terribili sulla costa ; essi conoscevano, infine, ([ueste grandi individualità, il cielo e la terra, che producevano e che i)roteggevano tutte cose. Perchè, conu* il corpo umano, nel loro pensiero, viveva e agiva in virtù dello spirito o dell' anii-ìia che lo abita, cosi tuttociò che si passa lud mondo loro sem- brava sottomesso alla influenza di altri s[)iriti. L' ani- mismo costituì dapprima sem[)licemente la spiegazione filosofica della vita umana; esso hnì per prendere una tale estensione, che fornì bentosto la spiegazione Hlo- sotica di tutti i fenomeni naturali » (1). L' antro j)onior- fismo dell'uomo ])rimitivo è dunepie complicato con la (1) Tylor 1j<i cirilizzaz. priniit. t. li e. XV. 44: - 45 \ Jr idea che egli si forma dell' anima umana : cosi molti vedono in quest'idea il punto di partenza della conce- zione animista della natura. Si è quindi contestata la verità della dottrina di A. Comte, secondo cui il puro feti- cismo, cioè, come og'g'i si direbbe e come egli al fondo voleva dire, il naturismo, è lo stato primitivo e sponta- neo del pensiero umano. La prima concezione d' essere soprannaturale, che si possa scoprire, dice Spencer, è quella dello spirito d'un uomo morto : il feticismo non è una credenza primitiva, manna fase secondaria della concezione del sovrannaturale. Gli esseri sovrannatu- rali sono al principio gli spiriti degli uomini : poi di- venii'ono <i'li a<>*enti a cui si asse<i*nano le forze degli oggetti esteriori, cioè spiriti feticci; essi arrivano a po- polare il cielo, a stal)ilirsi nel sole, la luna, le stelle, che essi muovono. Non si ha la tendenza a supporre gratuitamente l'animazione dell' oggetto materiale ; è solo quando si vede un'apparenza, un movimento, un rumore insolito in un oggetto, che si forma IMdea che esso è abitato da uno spirito. Ciò a cui s'indirizza ve- ramente l'adorazione del feticista sono gli s[)iriti invi- sibili che abitano o-H oa-getti : altre volte il culto degli oggetti materiali proviene da un equivoco occasionato dall'omonimia o da altre forme del linguaggio, da pro- posizioni accettate in nome dell' autorità, e che non si potrebbe evitare di mal interpretare. Quale rassomi- glianza possiamo noi trovare fra 1' uomo e una mon- tagna? o fra l'uomo e l'alba del giorno? se queste co- se vengono personificate, non i)uò essere por una ten- denza si)ontanea dell'uomo a personificare le forze della natura. L'animale sa differenziare le cose animate dalle cose inanimate: è il movimento spontaneo che gli serve di segno. L'uomo primitivo deve distinguerle più net- tamente che gli animali : un oggetto inanimato non sveglierà l'idea di vita, se non quando esso, in chec- chessia differisca d'altronde dalle cose viventi, manife- sti la spontaneità caratteristica degli esseri viventi. Cosi p. e. i selvaggi prendono per viventi gli oggetti d'arte, che sono forniti di un movimento api)arente- mente spont.ineo, un orologio, una bussola, ecc. J^a condotta insolita d'un oggetto inanimato suggerisce al- l'uomo primitivo l'idea d'un essere animato; l'idea dei- Fazione volontaria prende nascita; e la nozione vaga d'animazione così svegliata diverrà evidentemente una nozione più definita, secondo che lo svilupf)0 della teo- ria spiritista fornisce una causa specifica alla (piale si può attribuire la condotta anormale dell'oggetto. I dop- pi dei morti pullulando da per tutto, essendo capaci d'ai)parire e disparire a loro grado, agendo di maniere impossibili a prevedere, sono riguardati come le cause di tutto ciò che sembra strano, inatteso, inesplicabile. Tutti i uìo vi menti apparentemente spontfinei, tutti i fe- nomeni che non sono abituali', si attribuiscono all'azio- ne degli spiriti : (jnesta (juantità innumerevohMl'uomini senza corpo sono degli agenti sempre disponibili, degli antecedenti che l'intelligenza rapporta a tutte le azioni ambienti che reclamano una spiegazione. A misura che la dottrina degli spiriti si sviluppa, noi troviamo una soluzione facile di tutti i cangiamenti che i cieli e la terra non cessano di presentare. Le nubi che s'ammas- sano e che svaniscono, le stelle filanti che si mostrano e dispariscono, la superficie dell'acqua che perde subito il suo splendore sotto l'alito d'un vento leggiero, le me- tamorfosi degli animali, le trasmutazioni di sostanze, le tempeste, i terremoti, le eruzioni di vulcani, tutto aiviene spiegabile. V. S]»eiu'er Prine. di sovAoloifia, voi. I, in isi)ecio (]k'V lo im»]H»sizioiii citate) paj.-. lOS, 148, 188, 187-181), 30:^-S(m. S81), 1:V1- 47(), )()(), )()!), r)9."ì-.")!H). (>1(). vvv. rraduz. rr:ni<'. if$mMiBt^^m-t^^^^si0saKiiàiiim 4() — J-* Le obbiezioni di Speiu-er contro la dottrina che il fetieisnio è una credenza 8i)ontanea e primitiva, che uomo primitivo personitica naturalmente tutti g'ii a- g-enti naturali, tntte le forze della natura, sono certamente di molta aravità. In molti casi, sembra i)iù raa'ionevole di ammettere che le nozioni feticiste so- no (jualche cosa di secondario, clie esse non si svi- lu}>pano se non sulla ])ase di (jualche concezione più spontanea e naturale. Tna foresta, una momag'na, una fonte, un sasso, ecc. non verranno immedia- tamente personihcati : essi saranno prima considerati come un'al)itazione di (jualche spirito, ovvero avran- no qualche altra relazione col culto deg'li s})iriti, e il culto che primitivamente non viene indirizzato se non allo spirito, finisce ])er riportarsi sullo stesso og'getto TTiateriale. La ])i(4ra che serve di altare per il sacrifi- zio, finisce per attirare l'adorazione, che in principio non è rivolta che allo s|)irito o alla divinità a cui si sacritica; le offerte date al mare per propiziarsi il dio del mare finiscono per considerarsi come dovute a que- sto stesso elemento : il fuoco che viene impiegato nel sacrifizio o le preghiere (hdla litiirii'ia diventano degli 02'2'^*tt' di culto e degli esseri divini, così bene che la immagine del dio finisce ])er confond(»rsi, nelT adora- zione del credente, col dio stesso di cui è 1' immagine. T ì malintesi occasionati dal linguaggio avranno pure, come vuole Spencer . apportato il loro contributo alla massa generale delle concezioni feticiste. K dunque ve- risimile che in molti casi la divinizazzione degli og- getti naturali presupponga il culto di esseri spirituali distinti dalla materia di cui si può ammettere con Spencer che la prima id(^a è stata quella delT anima delTuomo — . Ciò però non impedisce che in altri casi sia potuto av'venire il processo contrario, cioè che il culto di divinità spirituali, separate da ogni oggetto della natura, si sia svolto da un culto precedente di oggetti naturali, animati e divinizzati. Il negro della Costa d'oro dà agli spiriti feticci il nome generico di wong : egli dice: un wong abita questa riviera, que- st'albero, quest' amuleto ; ma il più spesso si contenta di dire : ([uesta riviera, quest' albero, quest' amuleto è un wong (1). Gli spiriti che risiedono in questi oggetti sono distinti dagli oggetti stessi e allo stesso tempo si confondono con essi (2). Qualche cosa di analogo si os- serva nel politeismo classico. Ordinariamente si dice che esso era una religione naturalista, un culto delle forze della natura, ma questa nozione non è rigorosa- mente esatta. Poseidon è cosi bene distinto dal mare <*he esso viene ad assidersi nell'assenìblea deir01imj)o; tutti i fiumi della terra (cioè le loro ])ersonalità, i loro spiriti), secondo Omero, si riuniscono nell'Olimpo alla grande assend)lea convocata da Giove, tutti pren- dono posto nei seggi politi. Ma da un'altra parte le di- vinità sono identificate con gli oggetti naturali. Giove, il dio del cielo, è identificato col cielo stesso, e noi tro- viamo anche nel linguaggio le tracce di questa iden- tità (p. e. sub love vivere^ per dire: vivere all'aria aper- ta). La stessa confusione fra il cielo e il dio che go- verna il cielo si trova da per tutto presso i {)oi)oli pri mitivi. In questo caso, come in tutti (juelli in cui si tratta delle grandi divinità della natura, sembra più verosimile di anunettere, non che un essere spirituale, originariamente senza relazione con l'oggetto naturale, (1) Tyìor Olì. cif.. t. il. e. XV. (2> Anche dei tilosoti clic, come Pljit(Hic. clistiiiiiiKUio nctt:i- iiientc Dio. ci(M' raiiiiiia <lcl nioiulo, dal inoiiih» stesso clic ne è solauicutc il corpo, considerano tahcdta qnest' idtimo come la divinità stcssji. V. p. e. h'pinowifh' i>7() ( U77 a. — 48 — si è in seguito fissato in ciuest'oo:getto, ma che l'essere spirituale è stato, air origine, lo stesso og-ge tto naturale personificato, o, a dir meglio, T anima, la personalità di quest'oggetto, che, distintasi dal corpo (per un'esten- sione del dualismo che la dottrina avìmista comincia per ammettere nell'uomo), è divenuta di più in più in dipendente dal suo inviluppo materiale, e si è conce- pita d'una maniera sempre più antropomorfistica (1). Ciò che può sembrare una prova della tesi di Spencer, che il punto di partenza delle idee sul sovrannaturale fu la nozione dello spirito d'un uomo morto, è il ca- rattere completamente antropomorfo degli esseri so- vrannaturali. «L'uomo dice Tylor, attribuisce si ordi- nariamente ai suoi dei la forma umana, le passioni umane, la natura umana, che noi possiamo a bella prima dichiarare che l'uomo è un antro pomorfita, un antropopatita, e, per completare la serie, un antropofì- sita. K uno dei più forti argomenti della teoria secondo cui la concezione deiranima umana è la sorgente e la origine delle opinioni relative agli spiriti e alle divi- nità in generale. Anche le possenti divinità, su cui ri- posano le funzioni più vaste dell'universo, sono model- late sull'anima umana; noi vediamo che i loro senti- menti e le loro simpatie, il loro carattere e le loro abi- tudini, la loro volontà e i loro atti, la sostanza di cui sono composti e la forma che rivestono in mezzo a tutte le loro adattazioni, a tutte le loro esagerazioni, a tutte le loro modificazioni, si modellano, in una grande misura, su dei caratteri imprestati allo spirito umano, (2). Tuttavia il Tylor non ne conclude, come Spencer, che (1) V. (loblct «rAviclln /yi(f('(f <// Pio aeeondo V antropoloffia e ìa storia, p. K^l-187. ^ (2) Tylor op.,'ìt.. t. 11. e. XVI. 49 tutti gli spiriti e divinità non sono originalmente che delle anime, o, come dice Spercer, dei doppi di uomi- ai, ma solamente che 1' uomo primitivo concepisce gli spiriti di cui anima la natura, per analogia con la nozione che si è formata del proprio spirito. L' an- tropomorfismo delle religioni sarebbe certamente meno grossolano, se V uomo non vedesse nei suoi dei che le cause dei fenomeni; ma T oggetto della religione non è di speculare sull'essenza degli dei, ma di stringere con essi delle relazioni pratiche. Il credente vuole in- fluire sulla loro volontà con la preghiera, spera di ecci- tare la loro compassione e cerca di propiziarseli con doni e con adulazioni, ripone in essi la sua confidenza, ne fa gli oggetti della sua riconoscenza, del suo amore e della sua collera ; più attribuisce ad essi una natura che gli sia facile di evocare nella sua immaginazione, più si sente circondato della loro presenza e per conse- guenza della loro protezione; tutto ciò lo spinge a do- tarli dei suoi motivi di agire, delle sue passioni, della sua indole, della sua forma stessa, per poter vivere con essi in una unione più intima. In realtà le idee che si riattaccano evidentemente al culto degli antenati, o, più generalmente, degli uomini morti, sono, nelle antiche religioni, inestricabilmente legate con quelle che si riat- taccano non meno evidentemente al culto delle forze della natura. Questi due ordini d'idee derivano da due sorgenti originalmente indipendenti, ma finiscono per confondersi per l'azione incessante di un sincretismo e di un'assimilazione posteriore, come delle correnti ori- ginariamente distinte che confondono le loro acque in uno stesso letto V ovvero si deve ritornare alle idee di Evemero, e ammettere, come dice il poeta . che una sola è la stirpe degli uomini e degli dei ? (1) L'idea di as- (1) Pindaro Nem. VI, 1. 50 - segnare ai feuoiueiii della natura delle cause analo^-he aira nostra propria attività, tutte le volte che si trovi o creda di trovarci in questi fenomeni qualche circostanza che possa suo-erir.- la nozione della vita o (juclla della volontà, sovratutto il inoviinento spontaneo, nasce così naturahnente nello spirito umano come quella di vedere nel pr(>])rio essere una dualità, una sostanza anima di- stinta e separata dalla sostanza corpo : questi due principii della filosofia spiritualista o, più o-eneralinente, animista seinhrano e-ualmente primitivi; perchè subor- dinare il primo al secondo? (1) D'altronde, che si am- metta o no l'ipotesi esclusiva di Spencer, ciò non fa niente alla quistione fondamentale : V idea di Comte, nei suoi tratti più oei, orali, resta sempre vera: lo stato primitivo della coitur» è. nelTun caso e nell'altro, carat- terizzato da (jucsta tciidtmza naturale che ha l'uomo, e clic allora può manifestarsi con tutta la sua energia, a spie^-arc i fenomeni della natura assimilando le loro cause "alia sua prc.prJM attività. Ne lo Spencer lo neo-a.«Oft'ni atto volontario, e-li dice, è per l'uomo primitivo la ])rovn che esiste in lui una sor.uente di forza... Quan- di I/osscrvM/ioMr sriiil.ra vouivvuMiVV ^pu'sf opinioiu^ coiKÌ- liaiite. clK' vtMh.,„.ll;i tisic.latna .'iM'lla iK'crolatria due sor^rtMiti lU-llr n-li-i.Mii i uiialiiH'ììti' primitiv»' v iiiaiiM-iHlriiti 1' una dal- l'altra. «Srinhra dir in Clona il cult n dr^rli antenati sia venuto a innestarsi sovra un naturisn.o anteriine. Fra i INdinesi, si è potuto stat.iliic elle il <nlt«. «h'i nnn-ti . ori-inario de-li areipe- la^rhi orientali, lia rieoperto .|ua e là Tantiea venerazione niito- lo-iea della natura . mentre im.u è i\n»s\ penetrato n.dle isi>le più oeeidentali della Mieronesia». « In Siberia, seeondo Castreii. esistevano delle jiopolazioni ehe veneravano ;l:1ì o<i.i:<'tti naturali. ma n(Mi avevano mai sentito parlar? de.^^li spiriti ». ((ioblet d'Al- viella 1/ i'frn '/< />''> i^eeondo ranfropoloffiu e la storia, pa.u;. p HO). — 51 — do produce del movimento, e«:li percepisce il senti- mento concomitante dello sforzo. Questo sentimento dello sforzo, antecedente percepito dei cang-i amenti pro- dotti daini, diviene Tantecedente concepito dei movimenti non prodotti da lui... Al principio Tidea delle forze musco- lari, considerate come antecedenti d'avvenimenti insoliti CMC- M pris>èiuu .ittwii.w ^tv-.. ..V,....,, insie- me delle idee associate. Gli sforzi che suppone per in- duzione, li rio'uarda come ])rodotti da esseri simili a lui. Col tempo, la concezione dei doppi dei morti, cre- duti autori di tutti i canoriamenti, ad eccezione dei più familiari, si modifica. Essi divengono meno grossolani, ma alcuni ingrandiscono per divenire personaggi più importanti, che tengono in loro potere degli ordini di fenomeni che, relativamente regolari nel loro corso, sua'geriscono la credenza ad esseri che sono al tempo stesso troppo più possenti deiruomo e più costanti nei loro modi dì azione. In sorta che l'idea di una forza messa in azione da questi esseri si stacca a poco a poco dall'idea dello spirito di un uomo morto . § 2. La teoria animista, nella sua dop])ia funzione di spiegare i fenomeni della vita e di fornire al tempo stesso una spiegazione antropomorfistica della natura in generale; questa teoria, che costituisce, come dice Tylor, la filosofìa grossolana e infantile dei ])opoli pri- mitivi', è pure il fondo della maggior parte delle con- cezioni metafisiche dello spirito umano in uno stato avanzato di culturn. Vi hanno, dice Aristoti'ie (2), tre scienze speculative : la fisica, la matematica e la teo- log-ia. La scienza del sovrasensibile, la metaempinca, in"" questa divisione delle scienze, si limita dunque alla (1) Princìfni Hi socinìinfin, v. l\. V^^•»^' (2) Mei, l. XL VII. H. 52 teologia : il concetto di metafisica (i^el nostro senso) e quello di teologia sono così per Aristotile equivalenti. Una tale definizione della metafisica non può convenire certamente che alla metafisica quale la comprende Ari- stotile, ma è approssimativamente della stessa maniera che i più l'hanno compresa p la comprendono tuttora. L'oggetto della metafisica sono, secondo Kant, le due idee di Dio e dell'anima: così, deducendo queste due idee, egli intende dedurre i principi! fondamentali della metafisica o, com'egli dice, della dialettica naturale della ragione umana (1). Questa nozione della metafi- sica è senza dubbio troppo stretta, e non potrebbe convenire, e nemmeno rigorosamente, che alla metafi- sica scolastica dei suoi tempi. Non è meno vero però che la metafisica di tutti i tempi si riduce sommaria- mente alle due idee assegnate da Kant, le altre idee trascendenti, oltre le prime che l'uomo ha concepite (cioè Dio e l'anima) non essendo, nella storia del pen- (1) Oltre le idee dì Dio e deiraiiirna. vi hanno pure per Kant le /(/<'<• coHniologiclic, sulle ([iiali volgono le a ti t uioniie deWa raiiion ]>ura. Ma esse, «lice Kant, non oltrepassano il fenomeno, o il mondo sensibile. I^e idee non diventam» tritHceialenti, se non in «pianto noi ]M>niam«» l'incondizionato eompletaniente al di fuori del mondo sensibile, e i nostri eoner'tti hanno un o*i;<;etto puramente intelligibile. Fra tutte le idee eosm(do«iiehe è cpiella che dà nascita alla «juaita antinomia (di cui la tesi afterma, e l'antitesi nega, un essere assohUamente necessario! che ei spinge ad arrischiare ([uesti» passo. Così essa è legata all'idea deXV Eììs realissumiiu o Ideale della ragion pura (i<lea di Dio). Osservaz, Jfìti((/e su liitta VaìituiOìnia dilla raf/ion pura (Crltiea della rag. pura, Dialetliea trascendentale 1. 11. eap. II. sez. IX, IV). Nella sez. o. del 1. 1. delhi Dialettica trascendentale (Sistema delle idee trascendentali, in nota, 2. ediz.) Kant dice più esplicitamente che la metafìsica ha per oggetto le idee di Dio e dell' anima. siero umano, che degl'incidenti transitori, mentre queste costituiscono la sua metafisica perenne, e sono còme un fondo immutabile, sotto le onde cangianti della su- perficie. L'attività dell'uomo, o più generalmente dell'essere animato, si distingue per due caratteri : la spontaneità del movimento e la manifestazione di uno scopo o di un disegno. Cosi questa è la doppia funzione dell'ele- mento spirituale, o, piuttosto, animico, nella economia della natura : esso è considerato come principio del movimento, e al tenìpo stesso come causa di ciò che nei fenomeni può riguardarsi come la manifestazione di un piano o di un disegno, in altri termini (quando i concetti della metafisica acijuistano più precisione) come principio della finalità della natura, di ciò che si chia- mano le cause finali. È sovratutto nella filosofia antica, (quando i prin- cipii della meccanica sono ancora ignorati, che l'ele- mento animico viene considerato come principio di mo- vimento. Due cose, dice Platone, ci fanno credere all'e- sistenza degli Dei : la prima è che l'anima, ciò che muove se stesso, è la causa prima di tutti i movimenti che avvengono nel mondo matf^riale; l'altra, l'ordine che si osserva nel movimento degli astri, e in quante altre cose sono soggette alla potestà dell'intelletto, il quale dispose il tutto (l). « Il movimento che muove se stesso (quello dell'anima) è il primo nell'ordine della genera- zione e della potenza ; ogni altro gli è secondo. Infatti quando una cosa produce del cangiamento in un'altra, e questa in un'altra ancora, e cosi di seguito, vi ha mai tra queste cose un primo motore? e come, essendo mosso da un altro, sarebbe il primo che si muove? (1) Leggi j Ma ({uaudo ciò che muove se stesso produce del can- giamento in uu altro, e questo in un altro ancora, e così nasce un'infinità di movimenti, il principio di tutti questi movimenti sarà altro che il movimento di ciò che muove se stesso ? Se esistessero tutte cose insieme in riposo, come osano dirlo la più parte di (luelli che studiarono la natura, qual movimento si produrre per il Tìrimo? certamente quello che muove se stesso. Il principio adun(|ue di tutti i movimenti, il primo movi- imMito che si produce nelle cose che sono in riposo, il priìììo inovimento che si è prodotto nelle cose che si muovono, è quello che muove se stesso: esso è neces- sariamente il più antico e il più possente di tutti i cano-iamenti, ma (piello che ò mosso da altra cosa e ìiìuove altre cose, non è che il secondo. Ora s^ noi ve- d<'ssimo (juesto movimento in (gualche cosa di materiale, fiiialt' proprietà attribuiremmo a questa V Diremmo che essa vive, se essa muove se stessa. Ma quaìulo ammet- tiamo l'anima in qualche cosa, non diciamo pure, che questa cosa vive? Cos'i muovere se stesso é la defini- zione dell'essenza di ciò che ha nome anima, ed è stato dimostrato che l'anima è il primo princi[)io della vene- razione e del movimento, della corruzione e del riposo, in tutti ;>'li esseri presenti, passati e avvenire» (1). Noi vediamo che (pii Platone propone, quantunque esprimendolo in una forma meno precisa che il suo suc- cessore Aristotile, l'argomento che conclude alla neces- sità di una prima causa motrice per l'impossibilità di una serie infinita di cause. Anassagora avea pure cer- tamente in vista di evitare questa difficoltà, quando ammetteva che all'orlo ine esistevano tutte le sostanze mescolate insieme ed in riposo, e rintelligenza mise il (1) Lrijiii A'. SlU (l — SiM> a. - 55 — tutto in moviuìento, e iniziò il processo della separazione di queste sostanze. Cosi tra i suoi predecessori Aristo- tile (1) non attribuisce propriamente di avere ricercato la causa motrice che ad Anassagora, ed anche ad Em- pedocle, evidentemente perchè le forze motrici di que- sto, cioè l'odio e l'amore, essendo dei principii spiri- tuali, o più propriamente animici (secondo l'animismo |)rimitivo, cioè semimateriali), e dei principii inconver- tibili negli elementi materiali ed egualmente primor- diali che essi, erano propri a servire da cause prime, benché Empedocle stesso non ne avesse fatto quest'uso, non essendosi proposto il problema di (untare il re- o-resso all'infinito nelle cause. In verità Aristotile pensa che il princi[)io motore potrebbe anche attribuirsi ad altri filosoti, oltre ad Anassagora e ad Empedocle (2) : ma è notcivole che tutti i suoi predecessori che, secondo Aristotile, hanno ricercato, o a cui può attribuirsi di avere ricercato, il principio del movimento . non han- no trovato (juesto j)rincipio cIkì nello spirito o in altri (1) V. Met. 1. 1. ni. 12-14. IV. 2-<;. V. i2-i:>. \ il. :i. (2) A qiK'lli <li<", comò Piiniiciiidc nella seconda i>art<' <lcl suo poema, anmiettoiio come elementi primordiali il fuoco e «lualche altra sostanza, i'i quanto si servono «Id lU'imo ctune se uli attii- luiissero una natiira motrice {Mct. 1. 1. ili. 11): e allo stesso l*armenide ed anche a<l Ksiixlo. in ([uantt» semì»ran<» porre TA- m«»r(^ com<' principio (l. I. iV. 1). Di queste due opinioni la pri- ma (ciot' (pudla di cui e (piisticme md e. Ili. Ili non o mon- zicMiata Uid e. VII. H. in cui vendono indicate le dottrine dei lìlosoli (Ile hanno ammesso una causa motrice; e in quanto alla seconda, cioè cpudla di cui nel e. IV. 1, Aristotile in (piesto luo.uo n<Mi aticrma catci»ori<*amente che .i-li autori di cui si tratta hanno licercato il principio del nu)VÌmento. Nel e. V. 12-13. dove riassunu-, eli» che ha detto d(dle ricendie dei suoi predecessori sulla causa nudrice. e^li mm indica, evidentemente, che le dot- trine di Anassagora e di Empedocle. 5« - — 57 agenti analoghi (p. e. Tamicizia e la discordia di Em- pedocle, o l'amore di Parmenide), immaginati commesso sul tipo della nostra attività umana o animale (1). Fra quelli che hanno assegnato un principio del movimento Aristotile non conta Platone, perchè prende alla lettera le allegorie del Timeo (delle quali in seguito avremo occasione di esporre il significato), in cui Platone im- magina una creazione dell' anima nel tempo e un mo- vimento caotico degli elementi materiali, anteriore al- l'esistenza del cosmos e dell'anima stessa. Dai luoghi citati d'Aristotile non bisogna conclu- dere che Anassagora, Enipedode e gli altri a cui egli aceeiìDa in questi' luoghi, siano i soli che, prima di lui, abbiano sfMegato il movimento per un agente spirituale: le indicazioni che noi troviamo su ciò nella Metafisica devono essere compiotate con quelle che Aristotile stesso ci dà nel Dr Anima. Nella Mpfa fisica Aristotile rifiuta a (pielli che non hanno ammesso una pluralità di so- stanze eo-uaimeutt' [)riiiionliali l'onore di avere ricercato la causa del movimento, perchè i fisici che, ammettendo \i\\ prin-ipio unico, consideravauo Telemento aniuìico da essi supposto nella natura come Tagente essenzial- mente motore, non proponevano un'ipotesi che fosse propria a dare una soluzione radicale alla quistione della origine ]>rinia del uiovimento, lelemenlo animico con- vertendosi, sfu'oudo loro, lìegli altri elemetìti. e questi (1) \'. i liioirlii citati iiolh' «Ino in»to ])roro<i<Miti. e special- mnite Met. 1. I. VH. :>• H f'ioro di Paniiriiido. «li cui ii; ^V^''. ì, ! H! 11. liio;:o citato. «^ aniiiiato. couw l'altro dei suoi (lue elementi, (mI e rt>iisidrrato come l'elemento. i»er dir vnM, i»iù spirituale (V. Zellcr Filoni, dei Grn'i t. 2. 529). Noi non sappiamo »e vi errtuo altre <lottrin«\ a cui l'indicazione di questo luo^o d'Aristotile deve essere riferita, oltre che Ji quella di Parme- nide: in o«rni <aso (pieste dottrine ci sono seonoseiute. reciprocamente in quello, sicché nessuno di essi poteva considerarsi come un principio assolutamente primo. Del resto il principio essenzialmente motore era, per tutti i fisici, e in generale per tutti i filosofi, 1' anima, « L'animale, dice Aristotile (1), sembra differire dall'ina- nimato per due caratteri, il moto e il senso : così dai nostri maggiori riceviamo questi due caratteri sull'ani- ma. Alcuni dicono sovratutto l'anima essere il movente, ma perciò credono necessario che l'anima stessa sia in movimento ». Ciò che dobbiamo prima di tutto notare su questo luogo d'Aristotile è che egli non parla ({Xii semplicemente dell'anima come principio dell'essere vi- vente, ma ancora come principio diffuso nella natura inanimata. E in effetti egli adduce come esem[)i di que- st'opinione, che l'anima è sovratutto il movente, ma perciò è necessario che essa stessa sia in movimento, la dottrina di Leucippo e di Democrito che identifica- vano Tanima cogli atomi di fuoco (facendo perciò del fuoco, anche come elemento della natura inanimata, uu principio animico ed essenzialmente motore) (2), quella dei Pitagorici, che dicevano l'anima essere quei corpu- scoli che fluttuano nell'aria o ciò che li muove (parlando così perchè questi corpuscoli sono sempre in movimen- to), e quella dei Platonici che definivano l'anima ciò che muove se stesso (definizione che coini)rendeva anche l'anima del mondo) (4), concludendo su (juesti filosofi che « essi tutti sembrano aver creduto esser sovratutto pro[)rio dell' anima il movimento, e tutte le altre cose il) De an. 1. I. II. 2. (2) Ibid. S. Cfr. su «(uesta dottrina di Democriti) ciò che diremo nel t^S 13. (3) Ihid. 4. (4) Ibid. — 58 f - 59 - esser mosse dall'anima, questa da se stessa » (1), e ag- giungendo come altro esempio Anassag^ora che « dice che ciò che muove è l'anima, e se qualche altro ha pen- sato l'universo esser mosso dall'intelligenza » (2). Un'al- tra osservazione importante è che, quantunque Aristo- tile nel luogo citato di<*a solamente di alcuni che hanno ammesso che Tanima è sovratutto il movente (e che per- ciò essa stessa deve essere in movimento), tuttavia, in sostanza, egli attrii)uisce quest'opinione pressoché alla totalità dei suoi predecessori che hanno parlato delTa- nima. E intatti, quando è (juistione degli altri che hanno definito V anima i)er V altro dei due caratteri ricevuti suH'aimiia dai predecessori, cioè il senso o la conoscenza (ai (tiiali tutti attribuisce di aver identificato l'anima coi principii dell'universo), dicedi essi in generale: «E come hanno o[)inato dei jìrincipii, cosi hanno afif'ermato deiranima : non è infatti contro la ragione ch'essi hanno collocato l(f causa del moto nella natura dei princi/pìi ^> (S). E poi, confutando Topinione di quelli che fanno del- l'anima un'armonia: «Inoltre non è ]ìroprio dell'armo- nia lì lìiuovere : ma all'anima tutti, per così dire, at- tribuiscono massimamente questo » (4). Così noi possiamo afT(M-niare, secondo Aristotile, che quasi tutti i filosofi il) (-Questa |n<>|M)sizit)iHi iKHi (levo riferirsi solanieiitc ai lìlo- soti di mi ]»arla iiimi('<liataiii<'nt«' i)riiiia. « (ijuauti dicono l'anima t^K^scrciò fhr muove sr stesso ». cioè i platonici, ma a tutti ([uclli «li cui ha parlato, cioè anche a«;li atomisti e ai ]nta,norici. Nel primo caso non direì»he svnibvaiìo. pei'chè è una dottrina clu' 1 platonici prof<'ssano es])licitamente : questa parola mostra che la ])rop<»sizioiie è una semi>lice deduzione «l'Aristotile, ciò die Ri comprende perf«^ttam<'nte. se n(d la riferiamo anidie a.^li ato- misti <* ai pita.i>;ori<'i. (2) Ih'ul. :^ (S) Ihìd. 10. (4) V. IV. S. greci anteriori aveano riguardato l'anima come la forza motrice per eccellenza, e che quelli fra di essi, m ge- nerale, che aveano ammesso lo spirito come un princi- pio dell'universo (cioè una o un'altra forma della filo^ soHa teologica), è sovratutto come causa motrice che l'aveano fatto servire alla spiegazione dei fenomeni. Le indicazioni particolari sui filosofi teologici, contenute nell'esposizione storica del I libro del De annua, con- fermano questo concetto che risulta dalle proposizioni generali. Oltre che ad Anassagora e ai Platonici, la dottrina che assegna al principio spirituale del mondo la funzione di causa motrice (e che perciò riguarda (luesto principio come esso stesso necessariamente in movi- mento), è attribuita : a Talete, che anch'egli sembra aver ammesso che l'anima «è infusa nel tatto, per cui forse ha opinato che tutto è pieno di dei e di demoni » (1) - questi, dice Aristotile, pare che abbia creduto che Ta- nima è un ì)rincipio motore, attribuendo Tai.ima alla pietra (cioè alla calamita) perchè muove il ferro (2)-; a Dioovne d'Apollonia, che identificava l'anima cosmica con iTiria, la più sottile di tutte le sostanze e il prin- cipio di tutte le cose -«e perciò disse l'anima cono- scere e muovere: conoscere, perchè è il prineipio. e di (,U(^sto constano le altre cose (secondo la massima di molti fidci che il simile si conosce dal simile) ; ed es- sere motrice, perchè è ciò che ri ha di pia solide -^ (/>)-; ad Eraclito, .-he vedeva nel fuoco, come Diogene d\\i>ol- Ionia neiraria. al tempo stesso l'elemeiUo primitivo e il principio animatore deiruniverso-il fuoco infatti, dice Aristotile su (questa dottrina, « è costituito di parti le più sottili ed è assai più incorporeo che gli altri ele- (1) C. V. 17. (2) C. II. If. (8) C. II. l'i. ~ 60 — menti ; si muove inoltre, e muove in primo luogo le altre cose^ (1)—; ^d Alcraeone, di cui Aristotile assimila l'o- pinióne a quelle dei filosofi precedenti, perchè e^ii ve- deva una prova dell'immortalità dell'anima nell' essere essa sempre in movimento, come gl'immortali (cioè le divinità, i corpi celesti) (2). Naturalmente Alcmeone deduceva il movimento continuo dellanima da ciò che essa è la forza motrice del corpo animato, conforme- mente al concetto che Aristotile attribuisce a tutti quelli che aveano fatto dell'anima un principio motore, cioè che è impossibile che una cosa ne muova un'altra, se non è essa stessa in movimento (3); concetto che era una conseguenza assai ovvia del dopjf/'o materialismo^ che è la forma [)riiiiitiva deiraniinismo. 11 principio, a cui tendono le dottrine di tutti (juesti filosofi, che l'anima è la causa del movimento nella ma- teria, sviluppato d'una maniera [)iii rigorosa (più rigo- rosa ancora che nella dottrina di Platone), costituisce il fondamento principale del sistema metafisico d'Ari- stotih». I! Dio fV Aristotile è essenzialmente il primo {!) (\ Il 11 I.,i (lottrina «li cui pjirhi Aristotile h eviden- ti'iin'Ute 4iu*lla di Eraclito, quaiituihpic questi non sia noiuinato, e dica seruplicernonte: « ad alcuni (l'auiiua.) sembra essei*e fuoco». Infatli i[UÌ »^ quistionc dti tilosnti che identiticano V anima col ])riiìei]ii(» o i |)rinci])ii di tutte le cose, caì Eraclito ì' il s(d<». per quaiif'» 'IO sappiamo. <d»e lia identificato l'anima c<d fuoco, e li;» visto ni t(m*sto il primo priru'ipi»». ((Questa dottrina poi è ojiposta sì quella «h l)rmo<rito — clir ancireiili idcntitìcjiva l'anima col fuoco.' vedeva in esso »/«o dei principii) — Cfr. sulla dottrina «li l-ra( lito il ^ l'> '• Eraclito dice die 1' iinima è in un riuss4» continuo : cuì che si nmove infatti deve conoscersi da ciò che .si muove (seciMido la massima su indicata dei tisici e l'o[»iniono di Eraclito che tutto è m movimento). ri) C. II. 17. (:H) V. e. II. s. 61 motore : questa concezione fondamentale della sua me- tafisica non è che l'idea dei primi filosofi greci, e, pos- siamo dire generalmente, degli stadi primitivi della cultura, che l'anima ha, essa sola, la capacità di pro- durre del movimento spontaneo, fatta servire alla so- luzione della difficoltà acni dà luogo T applicazione del principio di causalità alla totalità dei fenomeni, per l'impossibilità di concepire la serie ascendente delle cause d^un effetto dato come illimitata. Il movimento per i fi- losofi greci essendo press'a poco l'equivalente di can- giamento, l'impossibilità di un incatenamento causale in cui ciascuna causa sia l'efiPetto d'una causa antece- dente, si traduce per Aristotile nell'impossibilità che, nella serie dei movimenti cosmici, ciascun movimento sia prodotto da un movimento anteriore. Una serie in- finita di cause essendo impossibile, Aristotile ne con- clude che è necessario, ri:nontan(i.> continuamente da un movimento a un altro nioviinento anteriore, di fer- marsi a qualche movimento primitivo, che non è esso stesso causato da un movimento anteriore (1). Egli trova questo movimento primitivo in quello dei corpi celesti: nella serre fenomenale, è questo movimento, secondo lui, che costituisce il primo anello dell'incatenamento causale, a cui è legato, come ultimo anello, qualsiasi effetto osser- vabile nella natura (2). Rimontando, secondo lui, la serie ascendente delie condizioni di qualsiasi cangiamento che si produce negli esseri mutabili e terrestri, si arriva in fine, come condizione prima, ai cangiamenti periodici delTambiente, i quali sono determinati dai movimenti (1) V. Phìjs. 1. Vili. e. V, Mei. 1. II. e. II, DeeoeloX. 111. e. 11. 3, ecc. (2) V. Phys, 1. Vili. VII-IX : il juimo dei movimenti e il movimento di traslazione, e dei movimenti di traslazioue il pri- mo è il circolare (cioè quello dei corpi celesti). — «2 - circolari dei corpi celesti. Sono (questi cang-iainenti pe- riodici le condizioni ultime della generazione e della corruzione deg-ji esseri (1) e di oo-ni altro movimento che si produce sulla terra (2). (tIì stessi esseri animati, dice Aristotile. ìio!i producono del movimento spontaneo che in apparenza: (juesto movimento che sembra spon- taneo, è preceduto da qualche altro, il <iuale, a dir vero, Tìon è uu nimiiiicuto di traslazione, ma è sempre un movimento (cioè un cangiamento), quantnnfiue di iiiì 'al- tra natura. K cosi, rimontando la serie de<i-li antece- denti, si arriva pure, per i mo\ iuumti debili esseri ani- mati, ai can<>iameìiti delTambiente, e quindi ai movi- menti dei corpi celesti, come antecedenti ultimi (3). Quest'o>«('rvnzioTie d'Aristotile è certamente notevole in quello stato primitivo della fisiolotj;-ia : ma tanto è vero che le su^'iiestioni della vita di tutti i .adorni sono più foni che quelle della ritles.^ione scientitìca, che è precisa- mente questo movimetìto spontaneo dell'essere animato, di cui ha riconosciuto il carattere illusorio, il fatto ch(^ eodi sceti'lie come principio di una spiedi-azione radicale di tutti i canudamenti feìiomenali, e a questo principio sospende, ])er usare la sua stessa es|)ressione, il cielo e tutta la natura (4). i movimenti circolari dei corpi celesti si producono perchè questi sono dej>di esseri a- nimati (ó; : cosi le Intellig-enze che animano ((uesti corpi, sono le cause prime di tutti i movimenti didla natura (H). Queste Intelliii'enze, che sono le cause jnduìe di tutti i (1) Ih- gf'„. et rorr. 1. Il e. X e XI. />>' focìtt 1. II. e. }tef. 1. Xll. t. t'cc. {2\ \ . iH'ta pt'iiultinm. (H) V. /Vm/.s-. i. Vili 11. .'>. VI. 7. <4) Met. 1. XII VII. 5. ^5) V. Ih' ^ui^ìo ]. II. . li. Ihitf. . XII. (M-C. .»i) J/W. i. Xll. r. VI IX. IH. 63 cangdainenti, non subiscono esse stesse alcun can^^da- mento dall'azione delle altre cose: come cause assolu- tamente prime, esse non subiscono V azione di alcun principio a loro straniero ; ben più, esse sono esenti del tutto da (jualsiasi cangiamento (1). Se esse cangdassero, bisog-nerebbe cercare le cause dei loro cang iamenti, e poi le cause di queste cause, all'iniinito ; e noi non avremmo trovato ancora le eause assolutamente prime di tutti i cangdamenti. Per altro, l'immutabilità delle Intelliii'enze celesti, oltreché deidva dalla loro funzione di cause priìfte, è pure necessaria per ispieg'are l'immu- tabilità dell' ordine dell'universo, e la costante unifor- mità dei movimenti del cielo, di cui (jueste Intellig'enze sono il principio (2). Cosi rintuizione spontanea (hdranimismo primitivo, che l'anima è la forza motrice, diviene in Aristotile l'arg-omento della causa prima, che ha per conseguenza l'idea deirimmutabilità assoluta di Dio. 11 concetto della divinità entra così in una nuova fase i)iù trasc(uidente (3), di cui non vi ha niente di simile né neiranimismo pri- mitivo né in g-enerale nella filosofia teologdca anteriore, ma che per noi è divenuta una forma inseparabile da questo concetto, |»assando da Aristotile nella filosofia cristiana, e da questa nella moderna. L'idea che Dio è il principio del movimento della materia è contenuta implicitamente nella concezione, sì g'enerale nella filosofia antica, della divinità come anima del mondo. Com'è la nostra anima che muove il nostro corpo, così il corpo dtdl'universo è mosso dalla sua g'rande anima. Spiritus intus alit, totamque infusa i)er artus Mens agitai moleuì. (1) Mft. I. XII. VI-IX. /'////x. 1. Vili. V— X. ecc. (2) Met. 1. XI. II. S. /V///.V. 1. \ ili. VI. SA), X. i\, n-v. (3) V. ^ Ti. i4 65 - i_ Se tra le grandi scuole tìlosotìche greche gli Stoici sono i soli di cui si riconosce generalmente che la di- vinità (' per loro Taninìa del mondo, è unicamente per- chè la moderna filosotìa teologica non ha avuto, per questi filosofi, le stesse ragioni che per altri di prestare ad essi i propri concetti. TI Dio d'Aristotile non è an- chesso che l'anima cosmica: il cielo e gli astri sono degli esseri animati (Ij ; le sostanze divine, cause prime del movimento e di tutti i fenomeni, sono le intelligenze che il animano, e il loro modo d'azione sulla materia è assimilato a quello dell'anima negli esseri viventi (2). L'identità del Dio di Platone con la sua anima del momlo non può contestarsi che f)er un'interpretazione arbitraria del sistema delle Idee, che vede in queste i pensieri della divinità (cioè del Dio supremo), e riguarda per conseguenza come la divinità (nel senso moderno della parola) l'Idea che contiene e produce tutte le altre, cioè la più generale (ò)\ concetto dell'assurdità più evidente, quando si è compreso il vero significato delle Idee pla- toniche. I Neoplatonici sono 1 soli che hanno ammesso, oltre all'anima del mondo, dei principii superiori, ri- guardati come delle ipostasi anteriori dell'essere divino; ma cosi essi hanno presentato alla storia della filosofìa un enigma insolubile — se si considerasse la loro filo- sofìa come una spiegazione del mondo, e non, quale è stata realmente, come un sincretismo delle tradizioni filosofiche, mediante un'interpretazione più o meno ar- bitraria dei sistemi anteriori, e specialmente del plato- nismo— : cioè in che questi principii superiori, ch'essi aggiungono all' anima, possano avere qualche utilità (1) V. De eoelo 1. II. II. f>, XII. 2, 8, 1. e. (2) V. Met. 1. /. III. 13, De eoelo 1. II. XII. 4, De anlm motu VI. ecc. (3) V. e. VII. per una maggiore intelligenza dei tenonieni. I Neopla- tonici e gli Stoici danno espressamente, come Platone ed Aristotile, l'anima cosmica per la forza motrice della materia (1) ; i primi adottando le dottrine platoniche •ulTanima, i secondi ritornando alle idee dei più an- tichi filosofi (2), e identificando, commessi, lo spirito con Velemento materiale più attivo, ma con un concetto più rigoroso della causa motrice, che essi ancora non hanno, d che, fra i predecessori di Aristoule e di PI atonia noi non troviamo che in Anassagora. Il concetto della di- vinità come anima del mondo si trova anche in germe (come quello dell'anima come causa motrice) in questi più antichi filosofi che ammettevano delle dottrine teo- logiche, ed è già maturo in quelli tra di essi in cui la filosofia teologica prende una forma più sistematica, come Diogene d'Apollonia, Eraclito ed Anassagora (3); infine, noi possiamo aggiungere Socrate, il quale con- cepisce evidentemente il rapporto fra Dio e il mondo (1) Por iili Stoici V; Stul). Ecl. l. 178 e cfr. ()«;ereau Sag- gio sul sìst. filoH. degli Stoici specialiiionte e. 3. pan. 53-60. Pei Ncoplatonici v. Simon Storia della scuola dWlesaandria special- mente t. 1. 1. 2. e. 3. (2) V. sopra pajj^. 57-60. (3) V. § 6 — Aristotile (De An. 1. 1. 11. 5 e 13) ilice eh© Anassagora ora identilìca il nous con l'anima e ora li distingue, in quanto ora seniì)ra aceordjire al nous le funzioni dell'anima in generale, ed ora solamente «piella dell'intelligenza. Del resto il nous (V Anassagora ì^ sì cliiarameiite immanente nel mondo, che esso si fraziona nei diversi esseri animati, dei «piali costi- tuisce l'anima (V. Fr. 5 e 6 Muli, e Arist. Z>c a/i. 1. I. II. 5): questa dottrina prova anche, come osserva bene Aristotile (l. e), che Anassagora riguarda il no?/A* come eipiivalente all'anima — In Met, l. I. III. 13 Aristotile paragona Anassagora, rapporto agli altri Jìsici, ad un uomo sobrio tra gente ubbriaca, per aver detto che vi ha nella natura, come itegli animali^ un intelletto causa del cosmos e di tutto l'ordine. m per analogia a quello tra l'anirna umana e il corpo umano (1). L'idea clic Dio ìv l'anima del mondo è cosi . generale presso «ci' I^' l'ani come presso i Greci : è la dottrina della scuci. i e e (Iantina {2), della nijàya (8), della vanesika (4), della sànkhya teista (5), e in una parola di tutte quelle che ammettono la spieorazione teolog'ica,. sia nella forma panteistica, sia nella dualistica. Natu- ralmente r anima unirorsale o suprema {Paramàtmà) è la t'orza motrice deli' universo. <^ Mentre il dio veglia, dicono le Leggi di Mann, il mondo vive e si muove ; quando il suo spirito è iti riposo, l'universo pure passa e si svanisce così lun-amente ch'eg'li sonnecchia nella sua beatitudine; la folla deg-li esseri terrestri agenti va- cilla: In spirito stesso, destituito di og-ni azione deter- minata, si stanca. K .illora gli esseri sono immersi af- fatto nel fondo di (|Uest'al)isso (fi), perchè queg'li che è In vita di ogni esistenza sonnecchia dolcemente, privato della sua forza...., É cosi che scambiando alternativa- men:e il sonno e la veglia, costantemente egli fa na- scere alla vita tutto ciò che ha il movimento e tutto ciò che non ì"ha, poi Tanuienta e resta immobile» (7). La proposizione^ che condensa il Vedanta è che Dio è la causa efficiente del tutto così bene che> la causa mate- (1) V. Seiiof. MfMiiornl». l. 1. e 4. il) V. Colcbnuikr S(nj(ji nidìa lìlos. iir(fV IìhL. W'aA. tVnìic, \y,i^^. I«ri-is7. 11M»-2(MI. ecc. (li) V. Colei». (>//. i'it. p. .V2-58 (nota di Pauthicr) e 5H. (4) Coli'bi-. (>t>. rit pali, "t'»^ (nota di Pauthier). (5) V. Colchr. Op. cif, p. 28,84. (>! f: !n stati» del monde» prini}» della ereazione, ehe h stillo oi-, descritto così : « .Altra v(»lta tutte» questo inondo era tene- broso . scojioscinto . n(»n si«initicat(» . non svelato, vuoto e indi- scornilnle. come ><• tulio l'osse stato Hnc<»rH ininierso nel sonno». (7) Dal 1. libro didle Lcf/gi di Mmui. V. Schlegel La /<»- ////// r hi filifsofitt fltijV fìifiiani, 1. t. 11. — 67 — fiale (1): un' upanisade (2) dichiara che « tutto quest'u* ni verso, procedente dal soffio (prana, cioè da Brahma), si muove nel senso del movimento che gli e stato im- presso; quelli che conoscono questo soffio d'impulsione primitiva, divengono immortali ». (3) «I NyàyìkaSy dice un indianista, credono che lo Spirito e la Materia sono eterni ; il primo godente della vita e del pensiero ; la seconda inanimata e passiva, e non muoventesi che per r impulsione che riceve dallo Spirito La materia è incapace d' azione, d'onde è evidenie che i movimenti deiili oo-p'etti materiali sono causati da uii essere diffe- rente da (|uesti ogg-etti » (4). La dottrina dell'anima del mondo, come dice A. Comte, non è che del feticismo generalizzato e sistematizzato — non è strano che la filosofia teologica, (|uando prende sovratutto per oggetto la spieg'azione dei fenomeni, ritorni al suo punto di [par- tenza, in cui lo spirito umano si metteva spontanea- mente per il suo slancio istintivo verso le cause, e dal (luate forse essa non si sarebbe mai allontanata, se non fosse stata mai altro che una filosofia, cioè una spiega- zione dei fenomeni— .È naturale dunque che le ra- g-ioni su cui si fonda la dottrina deiranima del mondo siano quelle stesse su cui è fondato il naturismo pri- mitivo. « I Zi o jìotenze sovrannaturali, osserva il Sayce sulle credenze degli antichi Baì)iIonesi, erano semplice^ ménte tutto ciò che manifesta della vita, e il criterio iìvììa rifa è il movimento*. E precisamente il c»iterio di 11) V. (N.lebrooke ]»a<r. llìH-l89, 11^-200, 2S7-2SÌ», ecc. (2) liC nptnììsddi, trattati teolojrici a]»parteiu*uti ai qiiattro Veda, sono una delle sor«ienti e la ]>rincipale aut<»rità della tì- losofia vedantiiui. (Si V. Colebiooke. Stt'fiuì aitila ./f/o.v. deijì'/nd., trad. fraiu*., ]». 171 (efr. )». 1H4). (4) V. (\»l»'br(»ok<'. Sai/f/i Mulìa iìlo$, deqVTìid,, trad. frane., ])»ji". r>2-58. nota «li Pauthier. 68 — 69 — r IH !.,-V cui si serve Platone (nel luo^o citato sul principio del paragrafo) per dimostrare l'esistenza d' una divinità, d'un'aniiiia cosmica. Nella tilosotìa teologica moderna la funzione di Dio come principio motore passa in seconda linea, ed ha un'importanza di gran lunga inferiore a quella di prin- cipio delle cause tinali. Oltre che ai progressi della meccanica, ciò si deve evidentemente a questo fatto, che Dio è concepito come troppo separato dal mondo, per- chè possa muovere la materia come l'anima muove il proprio corpo. La concezione di Keplero — pertanto sì naturale quando si cerca sovratutto nel sistema teolo- gico uua soddisfazione al bisogno istintivo di conoscere le ca?^.se---che «l'universo è un tutto armonioso di cui Dio è r anima*, è ben lontana dallo spirito generale della tilosofia teologica moderna: questa concezione seiiìbrerebbe ai |)iù una degradazione dell' Assoluto, ed è infatti incompatibile coi concetti moderni, risultanti da questo processo di dimnlropomorfizzazioììP progres- siva della divinità, (li cui parleremo nel § 5'». Di più il dogma della creazione ha per effetto chB<. per il filosofo moderno la quistione dell'origine prima del movimento rientra in (luelìa dell'origine prima dell'universo mate- riale in generahs l* atto «li creare il inovimiMito della materia non potendo distinguersi che per astrazione dall'atto di creare la materia stessa. Contuttociò, anche nella filosofia teologica moderna, il priìno motore è sem- pre Dio. Secondo S. Tonnnaso, la dimostrazione dal moto, che egli prende dalla Fisica d'Aristotile, è la via prima e più manifesta per dimostrare 1' esistenza divi- na (1). Dopo la costituzione della meccanica non pote- va più essere quistione della dottrina del primo motore nella forma aristotelica : ma la dottrina ammessa dalla più parte dei filosofi moderni, che ogni movimento della materia, almeno della inanimata, è dovuto alla trasmis- sione del movimento di altra materia, lungi di scuotere il principio su cui era fondata la dottrina aristotelica, non faceva anzi che rinvigorirlo, perchè nella teoria impulsionista si vedeva la prova più evidente di questo principio, cioè che la materia non può muoversi da se stessa, e che il movimento deve venirle, per conseguen- za, da qualche cosa di distinto da essa, che natural- mente non può essere che lo spirito. Cosi i filosofi teisti moderni si sono accordati ad ammettere che la materia è passiva ed assolutamente inerte, e che la impulsione, almeno primitiva, del suo moto non può esserle data che da Dio, il quale crea dapprima la materia, poi le imprime il movimento, per un atto, come dice il Lau- ge (1), che, almeno in ispirito, può separarsi. E la dot- trina di Cartesio, di Gassendi, di Hobbes, di Newton, di Locke, degli occasionalisti, di Berkeley, ecc. : Leib- nitz si unice anch'egli al coro generale (3), benché non si veda perchè nel suo sistema, che fa della materia qualche cosa di vivente e di attivo (dottrina delle mo- nadi), vi sia bisogno ancora della cìiiqaenaude (come Pascal chiamava l'azione di Dio nel sistema cartesia- (1) ò'umma pars I, qiKiest. II, art. III. (1) Sfar, del mutcrinl., t. !.. i)artc 2., e. li. (2) Seooiidu (Jassondi, <»li utoirii liaimo una facoltà naturale iuterna di muoversi, ma riinimlsioiie prima di questo movimento 4^. stata (lata ad essi (bi Dio. V. Lange, Stor. del matcr., t. 1., }>arte o., e. 1. (8) V. Considerazioni sai prineipii di vita e sulle nature pla- stiche (l)utens. tomo 2.. parte 1., pag. 41) : la massima che un ('{}v\m non può nnioversi che p(ir l'urto allontana i motori parti- colari, nui ci porta al primo motore, perchè la materia essendo indifferente in se stessa a ogni movinn^nto, o al riposo, e pos- sedendo ]»ertanto sempre il movimento con tutta la sua forza e direzione . esso uou ])uò esservi stato messo che dall' Autore ste^^so della materia. — 70 - no) - a parte la pretesa necessità, di cui qui non è qui- stione, di spiegare l' armonia presUbilita e la finalità delle leo'où del movimento-. Più recentemente -anzi e an concetto che si trova g-ià in germe in alcuni dei fi- losofi citati (notevolmente in Berkeley) -questa dottrina si è fondata sulla teoria rolizionale della causazione, se- condo la quale la volontà è la sola causa vera, cioè efficiente, di cui abbiamo esperienza, le altre cause co- nosciute non essendo che semplici antecedenti di sequen- ze invariabili, e quindi noi dobbiamo concepire tutte le cause efficienti sul tipo della nostra volontà. E in effetto il solo tondatnento che la dottrina possa avere nella scienza moderna. Infatti se il movimento volontario è una causazioiìo nello stesso senso delle causazioni tìsi- che, cioè una semplice sequenza invariabile, non vi ha motivo di accordare alla volontà il ])rivilegio di essere una causa produttrice di movimento, mentre gli altri agenti non sarebbero capaci che di trasmetterlo, essendo da una parte un' applicazione inevitabile del principio della conservazione dell'energia che la volontà non può creare della forza, ma solo dare una nuova forma alla forza già preesistente, e da un'altra parte degli agenti puramente tisici avendo in comune con la volontà il l)otere di trasformare la forza latente in forza visibile, cioè m movimento meccanico. Ma se è così, non vi ha ragione - se causa vuol dire antecedente di una se- qu'enza invariabile - di vedere in un essere spirituale il solo principio che possa spiegare l'origine del movi- mento; poiché, ammessa anche la necessità di una causa prima del movimento, resterebbe a provare che questa causa è necessariamente un principio spirituale, e l'e- sperienza non potrebbe fornirci alcun argomento per assegnare questa funzione a un principio spirituale piut^ tosto che ad uno non spirituale ^1). Per fare ciò non (1) Cfr. Stuart-Mill Saggio sul teismo, \ parte . Arjioii.cut delhi causa prima ^ 71 - potrebbe darsi che una ragione, cioè che lo spirito è la sola causa efficiente, e per conseguenza, tra le causeempiriche del movimento, esso solo è una vera causa, e le altre non sono che semplici antecedenti, che, per essere seguiti dall'effetto, hanno bisogno dell'intervento d'una vera causa, cioè d'uno spirito. Qui noi vediamoun aspetto di un fatto del più grande valore per com- prendere la natura intima e portare un giudizio sulla validità obbiettiva della filosofia teologica, e che mo- streremo sotto altri aspetti nel ^ 7'^, cioè che la base logica indispensabile di questa filosofia, e in gene- rale di ogni metafisica, in quanto essa è una spie- gazione della natura, è il concetto di causa effi- ciente, distinta dal semplice antecedente di una se- quenza invariabile. L'importanza dell'idea che il principio motoreè lo spi- rito, come fondamento della filosofia teologica, anche nella storia moderna, naturalmente aumenterebbe, sei concetti di cui parliamo al principio del sS Pi, cioè quelli dell'a- nima del mondo e degli astri ed altri analoghi, si classas- sero in questa filosofia, come sembra più conforme alle loro affinità reali. K evidente infatti che gli agenti di cui si tratta in questi concetti sono più pro]>ri a servire da cause del movimento che il Dio (h^X teismo moderno, del c|uale sono destinati a supplire all'insufficienza, come principio esplicativo dei fenomeni. ^ 3. Oltre a fornire la causa d(4 movimento, la fun- zione della divinità, come principio esplicativo, si ridu- ce in sostanza a una spiegazione teleologica dei feno- meni. Questa seconda funzione nella filosofia moderna ha, come abbiamo notato, un'importanza di gran lunga superiore alla prima, e alcuni tra i più eminenti dei pensatori moderni, e che il più profondamente hanno esaminato le basi della filosofia teologica, hanno visto nelle cause finali il fondamento unico della teologia ~ 72 - naturale (1). Come abbiamo visto nel paragrafo prece- dente, questo concetto non è, storicamente, esatto : ciò che è vero è che il punto di vista teologico e quello te- leologico sono cosi naturalmente legati fra di loro, che noi non possiamo concepirli scompagnati l'uno dall'altro, anche nello stadio primitivo e prescientifico della cultura. Da una parte, infatti, la sola forma chiara e intelligi- bile della dottrina delle cause finali è quella che vede in esse dei fini di un essere intelligente, che concepisce coscientemente un disegno, e lo realizza volontariamente nella materia — l'oscuro concetto di una teleologia mco- sciente o immanente di Aristotile, di Hegel, di Scho[)e- nauer, ecc. non è che un succedaneo, e tira tutta la sua vis esplicativa dalla sua analogia con quello più natu- rale e più spontaneo di una finalità co.^ciente e trascen- dente— .-ora tra le diverse specie della filosofia antro- pomorfistica la più naturale di tutte (2) e la più propria a realizzare questo concetto di una finalità intelligente e cosciente, è evidentemente la teologica. Da un' altra parte, se si ammette da per tutto nella natura razione continua di uno spirito, o di spiriti, analoghi al nostro, e dotati di un intelligenza superiori* alla nostra, si può non ammettere al tempo stesso che questi spiriti intel- (1) V. «jiiesto parnur.. in scibili to. e il pai-aj^r. csemn'iite. (2) Xon ì* ditticik' di coinprciKh'rc, aiiclie non ronsi^lcrando la tilosotia tiMilojiica clic come una scni|>licc spicjja/.ionc dei fe- nomeni. iMTchè lìcli' uonn» primitivo la tendenza s))ontanoa del nostro spirito ad assimilale 1' azione delle cause dei feiHuneiii naturali alle nostre ])ropii<' a/ioni dia luo«io a «questa tilosotìa piuft<>sto che all'ilozoisnu» (nel senso stretto del termine. ]>ercli(> alcuni sistemi a cui esso si est«5ndc. non sont» in realtà che dolio forme della tilosotìa teolo^iica). Basta la ritl(;ssione che Tilcjzoi- smo contraddico della maniera piii assoluta alla distinzione si ovvia dolI'animat<> o doirinanimato, ciò che ;;li dà un caì-attoro )ùù artificioso . <die suppone un Liradt» di cultura nndto [)ifi avanzato. — 73 - • iigenti agiscono con disegno e per uno scopo, e non dare, quindi, dei fenomeni, in un senso lato, una spie- gazione teleologica? Noi non dobbiamo dunque esitare a riconoscere una forma della dottrina delle cause finali, più 0 meno plausibile o chimerica, più o meno sapiente o grossolana, tutte le volte che si parla di una prov- videnza, di una saggezza che governa l'universo, di una ragione che presiede all'ordine del mondo, o che si esalta la sapienza delle potenze trascendenti che dominano la natura, anche quando noi non troviamo invocato V ar- gomento delle cause finali per dimostrare l'esistenza della divinità (1). E vero però che bisogna distinguere (1^ Si ò affermato elio il «^onootto dello cause finali ò nato con Socrate. È certo che Socrate por provare resisten- za della divinità si è servito dell' argoni*3nto delle <-auso fi- nali nella stessa forma in cui è usato nella filosofìa moder- na ; {) noi non sappianu) che altri 1' abbia fatto prima di lui. Ma da ciò si devo concludere, p. e. conio il prof, ('hijip j)elli. (die « il concetto teleoloji;ico della natura balena la prima volta nel pensiero Socratico, come un rispecchiamojito esteriore» •della coscienza etica svelata al mondo iir*^<'<> dal fi^jlio di Fona- rota » ^ (('hìjtppolli Interpretaz. pantcist. dì P/(itone, pa;^. H'^). 11 l>rof. Chiapponi non ii^iiora che vVnassagora ha dotto che « il Nous ordinò tutte le cose che dovevan(> ossero, e ({uolle cll(^ fu- rono 0 che sono e che sar;iiino » (Fr. (>. e 12 Muli.), e che Ari- stotile affoi'iua ch'egli ha crorcato la causa del bene e del bello, e che perciò ha ammesso noli' universo un' intoliiirenza «causa del cosuios (idi tutto Fonlino » {Met. 1. 1. III. 12-14). Jl ])rof. Chiapponi 8a j)iir(5 (die Eraclito parla della prudenza (die «io- verna il mondo (Diog. Laert. IX, 1. e Pluf. De Is. et Osir, e. 77); d(d Xq'vqc oomune a tutti «^li esseri (Sesto ade. MiUli. VII 138 — il XÓYOC *^ oomune a tutti <;li esseri, evidentemente, i>or(di(> tutte ìv cose non sono che un' obl>icttivaziono della ragiom^) : della bellissima armonia che Dio j>ro(luco j»ov la niesc(danza dei 4M)ntrari (Pluf. De an. jrrocreat. e. 27 e Arist. Eth. JVie. Vili. I): ^,ho dice che, (xuantunepie gli uomini considerino alcuno cose c(>- 74 due maniere di spiegare le cose per le cause finali. In un caso è partendo dalla considerazione delle cose che si va air applicazione del concetto delle cause finali, perchè sono le cose stesse che suggeriscono, più o meno vaì^amente, con più o meno forza, Tidea di un essere, ag-ente con un piano e per uno scopo — anche ad uno spirito non superstizioso ne prevenuto ciecamente in fa- vore rli eerte dottriiip filosofiche —. Nell'altro caso l'esi- stenza delle cose e il loro modo di essere non si legano all'idea d'un'azione intelligente, con un piano e per uno scopo, che d' nn?i maniera puramente arbitraria ; se si applica la spiegazione teleologica, non è che una con- seguenza del preconcetto che la natura è fatta o domi- nata da una causa n da cause intelligenti. Ma questa difPe- iiie dei mali, ojiiii cosa per Dio ^ Ì)o11ji o liiiista iSehol. l^enet. a,! fììnd. TV. 4— efr. Ipocrato j^^p^, ^f^j^xYjC <'• l^^ *^li<' ^'i>^''^''**^^'^ c-oiii.' un ?jrMlO^:irj'^lÓC Jl *''^*"*" ]»(MÌ8ant(' che t^' il i»riii('iino attivo i\v\h\ natura\ Proclo iti Ttm. ]). 101): ecc.: e che Diogene (V A- ]M)ìlonia dice, in uno dei t'iannnenti clic ce ne restano, che m la sostanza primitiva non fosse intellijiente, essa ncm potrebbe distribuirsi in modo clic tutto fosse fatto con misura, come la estate e riuverm». il giorno e la notte, le piogge, i venti rd il buon tempo, e tutte le altre cose che. chi vorrà riflettervi, troverà esser costituite della maniera più bella (Fr. 4 Muli.). Senza in- sistere su Anassagora — per lui sarebbe invece \n\\ opportuna un'altra nota su quelli che gli attribuiscono la stessa scoverta che il ('hiai>peMi attribuisce a Socrate — md ci limiteremo a do- mandare: senei frammento di Diogene non vi ha una forma del- l' ar<»-omento delle cause finali : e se le jn-oposizioni di Eraclito ìinìi iin]dicano al temi)o stesso «piesti due concetti . che questo princiino intelligi'utt^, che nel suo sistema corrisponde a ciò che uni «'hiamiamo Dio, si serve <lella sua intelligenza, ciot^ agisce !«ccondo mi piano, e che i segni di <iuesto jùano sono visibili ncirordine della natura (bench^ egli non aflermi es]dicitamcnte, c<mie Socrate e Diogene il'ApoUonia. che quest'ordine prova la intelligenza del suo nnt^re). ¥ il - 75 — renza, quand'anche potesse serviread una divisione abba- stanza netta, non potrebbe fornirci un criterio per distin- guere tra i pensatori—barbari o inciviliti— che vedono nei fenomeni, o in una parte di essi, l'effetto di cause intelli- genti e agenti con uno scopo, quelli la cui spiegazione deve dirsi per le cause finali, e quegli altri per la cui spie- gazione dovrebbe essere inventato un altro nome — chi studia i concetti trascendenti come fenomeni naturali dello spirito umano non può vedere che delle differenze accessorie nel grado più o meno avanzato di cultura di (juesti pensatori, o nel!' elaborazione più o meno sapiente, o nell' aspetto più o meno imponente debile loro dottrine (perchè non ci si permetterebbe di chiamare dottrine anche le credenze del selvaggio e dell' uomo primitivo, (|U'indo (]uesto nome si dà alle credenze deir uomo incivilito, quantunque non siano più razio- nali?)— Quando il selvaggio attribuisce tutti gli avveni- menti che hanno per lui qualche grado d' interesse o che gli sembrano in qualche modo straordinari, alle in- tenzioni ostili o benevole degli s[)iriti feticci o altre di- vinità, non si dirà che egli spiega i fenomeni per le cause finali ; ma chi non riconoscerà una spiegazione per le cause finali quando Bossuet vede nella succes- sione dei fatti storici la realizzazione d'un certo pinno della Provvidenza, quantunque questa spiegazione non sia meno chimerica né meno arbitraria di quella ? Tut- tavia tra queste due applicazioni del concetto teleologico, (|uella che sembra avere una certa base nei fenomeni stessi che si tratta di spiegare, e (juella che è intera- mente arbitraria, è giusto di non riconoscere che nella prima un valore filosofico, quantunque anche la seconda derivi in parte dal bisogno di una spiegazioRe dei fe- nomeni, e sia quindi anch'essa una manifestazione della metafisica naturale del nostro spirito. Per indicare le applicazioni filoì^pfiche più importanti — 76 — della spiegazione teleologica, cominceremo distinguendo col Janet due specie di finalità, quella d'uso o di appro- priazione, e quella di piano. Noi esporremo questa di- stinzione con le parole stesse di quest'autore: e Nell'una e nell'altra ri ha sistema, e ogni sistema implica coor- dinazione : ma nell' una la coordinazione giunge a un effetto finale, che prende il carattere d'uno scopo; nel- r altra la coordinazione non ha quest' effetto Nella finalità di piano, quando l'ordine è realizzato, sembra che tutto sia finito: mentre nella finalità d'uso quest'or- dine stesso è coordinato a qualche altra cosa, che è l'interesse dell'essere vivente >^ (1). Il tipo della finalità d'iiso o d'appropriazione è la finalità interim degli esseri organizzati — interna, perchè lo scopo è riposto nell'es- sere stesso, e non nella sua utilità per mi altro: — essa consiste in questo fatto generale della natura organica — interpretato per un'assimilazione delle opere della natu- ra a quelle dell'industria umana — che ogni organo è utile air organismo, e una moltitudine di organi e di funzioni concorrono a una st(^-ssa azione definitiva, e tutti insieme a un risultato unico, cioè la conservazione delTorganismo stesso individuale e della sua specie. Gli esempi di questa sorta di finalità (la struttura dell' oc- chio, deir orecchio, degli organi del movimento, ecc.) sono i più probanti, o che hanno più aria di esserlo, frn tutti (juelli enumerati nei trattati di teolot/ia fisica o in altre opere analoghe che cercano di stabilire sui fatti una o un'altra forma della filosofia teologica ; e possono ridursi, almeno i più importanti, a due cate- gorie : rapj)ropriazione di ciascun organo alla sua fun- zioni' V la cooperazione funzionale degli organi; e gl'i- stinti degli animali (benché in questo secondo caso, r analogia con le opere dell' industria umana essendo [1) J.iiurt Le eause finali, pai;. 247 MH 77 - più lontana, altre forme della spiegazione antropomor- fìstica (1) sembrino più naturali che la spiegazione teo- logica ordinaria). È su quest'ordine di fatti che si fonda il prototipo degli argomenti delle cause finali, cioè quello di Socrate (2). Ed è pure di questa sorta di finalità che (1) V. art. II. (2) Seiiof. Memorab. 1. I. e. IV. Socrate, per dimostrare l'esi' •tenza (leo;li Dei, doinaiida al suo inte>riocutore {Aristodemo) : « Ti sembrano più ainmiraì)ili quelli che hanno fatto fvgnvG sen- Ru Kcnso e senza movimento, o queUi che cose animate, dotate d'intellitrenza e di movimento j — Quelli che cose animate, ri- «pose; sempre che siano fatte, non da una specie d'accidente, ma per conoscenza! — Ma delle cose, ri pijiliò Socrate, di cui non può <^iudiearsi per «piai fine esistano, e di (luelle altre ehe hanno visibilmente utilità, quali o;iudiehi essere opera di accidente . e quali di conoscenza i ^> .i^iusto eh<' <iuanto è fatto per uti- lità sia opera di conoscenza, rispose Aristodemo.— Non ti sem- bra dunque che il primo che formò jili uomini, per utilità loro fibbia apprestato degli organi per cui sentissero tutto: gli occhi, vale a dire, per vedere gli oggetti" visibili, gli orecchi per udire ciò che ])uò essere udito \..,. Oltre a ciò non ti sembra questa opera <ii i)rovvidenza, che essendo la vista una cosa assai deli- catji, sia stata guernita di palpebre, che, come porte, (pialora deliba adoperarsi, si aprono, e nel sonno i)oi si chiudono? E che, affinchè non possano nuocerle i venti, le abbia fatto nascere co- me un riparo di peli, e l'abbia assicurato con le ciglia, come con una grondai, i, da tutto ciò che è sopra gli occhi, ])erchè neppure il sudore che cola dalla fronte possa nuocerle!.... E che tutti gli animali abbiano i denti dinnanzi adatti a tagliare, ed i molari a stritolare ciò che ricevono tagliato ?.... Cose fatte con tanta avvertenza puoi chiamare in dubbio se siano piuttosto opera di accidente che di provvidenza l — Io no, per Dio, ri- si)ose Aristodemo; anzi in tal maniera considerandole, mi sem- brano lavori di un artelìce sapientissimo e amante delle crea- ture viventi. — E quell'avere ispirato amore di propagarsi, ed alle madri amore di allevare il parto, ed ai tigli un sommo desiderio di vivere e sommo timor di morire ? Senza dubbio an- - 78 - purhiuo, principalmente o nnche esclusivamente, quei filosofi moderni, che, come abbiamo accennato al prin- cipio del paraurafo, vedono nelle cause finali il fonda- mento unico della teologia naturale. Kant dice (1): «Le cose della natura che noi non troviamo possibili se non come filli (cioè ^li esseri organizzati) (2) formano la principale [.rova della contingenza dell" universo, e il solo argomento clie conduca il senso comune e i filoso- fi a riattaccare il mondo ad un essere esistente fuori di esso ed intelligente». E Stuart-Mill : «È nella struttura e le operazioni della vita animale e ve^^'etale che i segni di piano sono i jììù evidenti. Senza questi segni è pro- babile che la parte pensante deirumanità non avrebbe mai trnvatn n<'' fenomeni della natura alcuna |)rova 4eiresistenza d'un Dio. Ma dacché dalTorganizzazione dea-li esseri viventi fu inferita l'esistenza d'un Dio, al- tre f>arti della natura, come la struttura del sistema solare, parvero pure fornire delle testimonianze più o meno i)rol)anti iu a[)poggio di «piesta credenza « (H). L'altra forma della finalità di appropriazione, cioè là finalità esterna (vale a dire quella in cui una cosa si considera come iiie/zo per un' altra, come fatta per 1a sua utilità), non ì^n nei fatti stessi un appoggio così forte come Viììfenia. L"ai>proj>riazione del mondo ester- clit' qiu"itc seinhnino opiTc di tnh* {irtoticc. che :il»l»isMU'li\)erMto di t'jirc csi.«iterc «leuli <*sscri aiiinuiti ». Ii';irtj<nn<M»t(». in questa t'orma nidiineiitaria \\\ «ni e pnv tentato da Socrate, è, im r l'etiolo^i» della tilosòtia teolojiiea, iii- ti Tritamente i»iri interes.saiite che j^li sviluppi sapienti dei mo- derni : ai>punto jiereliò non stippóne delle «-onosc'enze scientifiche, €H8o «"^ r espressione piti fedele di uno dei motivi del teismo, qualt; ert'etti vilmente ha potufo eoTitrihnire alla sua f(»riiiazione. (1) Critica del ffiìfdizio, $ 74. P) V. la HteM'.x n])er^, pamifii e notev<dmente % Hi. 4'^) ^'iy^po 'snil teAHìHO, seconda parto. — 79 — no ai bisogni dell' organismo, invece che come uu ag- giustamento dell'ambiente all'organismo, può interpre- tarsi copie un aggiustamento dell'organismo stesso al- l'ambiente, ed è così infatti che è interpretato dal dar- winismo. Ma se si ammette la spiegazione per le cause finali, il concetto di una finalità esterna è così ovvio che quello di una finalità interna : se infatti è un'In- telligenza che ha prodotto tanto gli organismi quanto il loro ambiente, uon vi ha ragione perchè essa si sia Astretta ad adattare sempre 1' organismo all' ambiente preesistente, senza mai modificare l'ambiente stesso per adattarlo all' organismo che doveva esservi collocato. Di più noi non possiamo concepire le operazioni di un essere intelligente che come indirizzate a uno scopo ultimo che ci sembri avere un valore per se stesso, cioè come fatte nell'interesse di qualcuno: ora (juesto (jual- cuno nell'interesse di cui gli organismi sono stati fatti, noi non possiamo supporre che siano gli organismi stessi, eccetto l'uomo; i vegetali non hanno interesse di sorta, perchè non sentono, e V esistenza dei bruti è ai nostri occhi troppo miserabile, perchè noi possiamo attribuirle un gran valore per se stessa, e vedervi uno scopo ultimo dell'azione creatrice. Così la filosofia teologica ha sem- pre ammesso Dio e l'uomo come fini ultimi della crea- zione. Come una città e tutte le cose che sono in essa sono fattt^ per i cittadini, così l'universo e tutto ciò che è in esso sono stati fatti, dicevano gli Stoici, per gli dei e per gli uomini (1): e i teologi cristiani ora dicono che Dio ha creato il nmndo per la sua gloria, ed ora che rha creato per la sua bontà, cioè per amore degli uo- mini. Di questi due concetti sul fine ultimo della crea- zione, che tutte l^ cose sono fatte per l'uomo, e che (1) V. Cic. De nat. JJeor. II. t»2. Cfr. f7>/W. 11. 5H, Dio- Laert. VII. 1H8, ecc. ;s-"W*'r'à^'.-- "Sviife^ — 80 — 81 sono fatte per Dio stesso, il primo è suggerito dall'os- servazione degli stessi fatti (non essendo che 1' esage- razione d'un fatto reale, dopo avergli impresso la forma comune della spiegazione teleologica, cioè aver trasfor- mato il risultato in uno scopo) ; mentre il secondo im- plica delle idee troppo trascendenti per potersene for- mare una rappresentazione chiara ed ovvia — oltre che sembra in contraddizione con la dottrina della bontà infinita di Dio e con quella della sua infinita perfezione (è in questo caso che è particolarmente applicabile l'ob- biezione di Spinoza che, se Dio agisce per un fine, egli desidera necessariamente qualche cosa di cui è privo, e per conseguenza non è perfetto) — .Così l'antropomor- fisino, come spiegazione teleologica dei fenomeni, ha per conseguenza naturale 1' nntropocemt risma. Quest' antro- pocentrismo è espresso nella forma più ingenua e più naturale nel discorso che Cicerone mette in bocca allo stoico (1). A vantaggio di chi è stato fatto l'universo? Degli alberi e delle erbe, che sono privi di senso? Ciò è evidentemente assurdo. 0 forse delle bestie? Ma non è più verisimile che gli Dei abbiano lavorato tanto per degli esseri muti e inintelligenti E chi vorrà credere che la terra produca i suoi frut^ti per le bestie, le quali del resto non sanno né seminare, né arare, né racco- gliere questi frutti, né conservarli?.... Le bestie stesse anzi, furono create ad uso dell' uomo. E invero a che altro servono le pecore se non a vestire l'uomo con la loro lana? E la fedele guardia dei cani, l'arte che hanno di accarezzare il padrone, l'odio degli stranieri, il sot- tile odorato, la destrezza nella caccia, che altro signi- fica se non che furono fatti ad uso degli uomini? E a che altro é buono il porco se non ad essere mangiato? l'anima, dice Crisippo, gli é stata data invece di sale? Si per non putrefarsi. E i pesci, e gli uccelli, da cui ne veng^ono dei piaceri sì variati, che sembra che la Prov- videnza sia stata epicurea? (1) Se il teleologista spiega così resistenza degli esseri organizzati, cioè di quelli che Kant chiama i tini della natura, a più forte ragione applicherà questa spiegazione alla natura inorganica, la cui finalità non potrebbe essere che esteriore. N<m é naturale infatti che l'adattamento dell'uomo al mondo in cui vive, sia interpretato invece dal teleologista come un adattamento del mondo stesso all' uomo ? E anche là dove non esiste l'ombra d'un adattamento qualsiasi, potrebbe egli confessare che non vi ha uno scopo, senza mettersi in contraddizione col principio del governo provvidenziale dell'universo, o con quello della saggezza e potenza infinite dell'essere da cui é governato ? Cosi il teologo fisico non esiterà ad affermare che anche le grandi forze della natura, troppo lontane o trop[)0 in- docili perché V uomo possa mai sperare di dominarle, sono state fatte per suo uso e servizio. Lo scopo per cui la luna é stata creata, é, dice Fénelon, di rischia- rarci durante l'assenza del sole ; secondo gli Stoici, il giorno è stato fatto per poter accudire alle nostre fac- cende, la notte per riposare (2); le rivoluzioni degli astri in generale, oltre che alla coerenza dell'universo, servono a dare agli uomini lo spettacolo più bello, e a metterli in grado di conoscere, misurando il loro corso, la maturità, la varietà e le vicissitudini delle stagioni (3). Secondo lo stesso Fénelon, l'acqua é stata fatta per dis- setare gli uomini e le campagne aride; l'oceano per so- stenere i vascelli; ecc. Questo modo di spiegazione spesso ha dato luogo a riflessioni, non solo chimeriche, ma (1) De nat. Deor. 1. Il (1) V. Op. clt. 1. II. 53 e 62-64. (2) Cic. Op, cit. II. 53. (3) IMd. II. 62. — >52 - frivole e puerili. Secondo Benianliiio Saint-Pierre, « i cani sono cFordinario di due tinte opposte, Tuna chiara e l'altra scura, affinchè in qualunciue luog-o siano nella casa, essi possano essere visti sui mobili, col colore dei quali si confonderebbero Le pulci si i>-ettano, da per tutto dove sono, sui colori bianchi. Quest'istinto è stato joro dato affinchè possiamo pigliarle più facilmente». Questa forma della dottrina delle cause finali nella lilo- sotia moderna è caduta in disuetudine (quantunque Tvnnt labbia risuscitata, imprimendole il carattere pie- tista delia sua Hlosotia pratica, cioè dichiarando che lo scopo ultimo del Creatore non è la felicità dell'uomo, ma la uuaalità). Tuttavia non si può non riconoscervi, anche nelle sue applica/ioni [)iù esa^'erate, uno svilup- po naturale v log-ico dei [>riucipii di (questa dottrina. h^nitropocenfrismo non è evidentemente che una forma particolare iMVarftt'opomorfisnio. Attribuendo alle forze costituitive della natura di agire con intellig-enza e per un., scopo, uoi as>imiliamo il modo d' azione di (lueste forze al nostro modo d" azione umano; e ciò facciamo perchè è questo che noi .'omprendiamo il più facilmente, essendoci necessariainente il i^iù faìniliare. Perla stessa raa-ione nn\ dnbbiaìiio attribuire ad esse, come scopo ultimo, uno scopo nostro, umano, perchè è questo che noi siamo abituati a considerare come interessante ed avente un valore per se stesso, e che noi comprendiamo il più facilmente, i)erchè è un'idea con cui siamo fa- miliarizzati; cosi all'essere più elevato noi attribuiamo il fine più elevato che l'uomo possa proporsi, cioè la felicità o, più ueueralmente. il bene, delle creature umane. L'esempio più colpente della finalità di piano sono i movimenti dei corpi celesti. Per -li antichi era una prova deir esistenza della divinità superiore anche a quella dedotta dagli esseri organizzati — fatto che sem- bra iìì coìitraddizione con le proposizioni citate di Mill — 83 - e di Kant— .Ciò è evidentemente perchè i fenomeni più grandiosi della natura sono i più propri ad ecci- tare i sentimenti associati al concetto del divino. Inol- tre era un' idea suggerita naturalmente dalla credenza popolare della divinità degli astri. Noi abbiamo visto che, secondo Platone, due cose ci fanno credere all' e- .sistenza degli dei : l'uria è che l'anima è la causa pri- ma del movimento, e l'altra, Vordint che si osserva nel movimento degli astri e — proposizione accessoria — in quante altre cose sono soggette alla potestà dell'intel- letto, che dispose il tutto. Poco dojjo l\), ritornando sullo stesso concetto, dice : che non si potrà mai avere •vera pietà verso gli dei, se non si è convinti delle due cose di cui ha jjarlato, l'anima essere il principio delle cose generate e ciò che regge tutti i corpi, e « la dimo- strata negli astri intelligenza degli esseri». Nel File- bo (2) fa domandare da Socrate se si deve dire che quest'universo è retto da una forza irrazionale e che asisce a caso, o che è governato da una mente e una sapienza ordinatrice; e rispondere da Protarco che con- fessare che tutto è governato da una mente è degno deirasi>efcto del mondo, del sole, della luna, degli astri, e delle loro rivoluzioni. Poi Socrate dice [ò) che vi ha nell'universo molto Illimitato, sufficiente Limite, e una causa non io'nobile ad essi ])resente, che ordina e di- spone gii anni, i tempi deiranno e del giorno, e i mesi, e che si chiama a buon dritto mente e sapienza. Il simile che in Platone vediamo negli Stoici. Secondo Cleanto, la nozione della divinità nello spirito umano j>roviene da quattro cause: il presentimento delle cose future; il terrore che c'incutono i fulmini, le tempeste, i terremoti, (1) Leygi im7 d. (2) 2X d-e. (I^) FU. 30 e. - 84 - e altri avvenimenti straordinari e terribili; le comodità della vita che si raccolgono in gran copia (argomento delle cause finali nel senso antropocentrico); e l'ordine e la reo'olarità dei movimenti degli astri, che per se stessi dimostrano non essere opera del caso, ma e^sservi una mente che li governa (n. E nel discorso che gli U pronunziare Cicerone, lo stoico dice: «Il senso e l'intelligenza degli astri sono dimostrati dal loro ordine e la loro costanza. Niente intatti può muoversi con or- dine e con numero senza intendimento..... Ragioni le quali chi ben ponderi, sarà ignorante ed empio, se ne- gherà esservi gli Dei » 2). Questo concetto campeggia Tn tutto il discorso dello stoico ; riapparisce, diversa- mente lumego-iato, nei e. 21, 35, 3S, 56, 61, ecc.; e già, comiiR-iaiido a parlare dell'esistenza degli Dei, egli aveva detto che ciò non ha bisogno di lungo ragiona- mento, perchè che vi ha di rosi evidente, alzando gli occhi e contemplando le cose celesti, che esservi qual- che divinità di una mente eccellente che regge queste cose-^ Co) Delle idee che ricordano (juesta prova della divinità si trovano anche nelle antiche religioni più evolute -ciò che dimostra la continuità tra i concetti della tìlosotia teologica popolare e prescientifica e di quella dei metafisici-, e in una forma anche più vi- cina al concetto moderno, cioè in cui l'ordine dei mo- vimenti dei corpi celesti è attribuito, non a delle divinità che sono loro proprie e li animano, ma alla divinità su- prema Presso i Caldei, Belo fissa le stelle, stabilisce ìa dn.iora del sole e dei pianeti, «afiinchè essi conoscano i loro limiti e non possano allontanarsene». Presso gli Egiziani è Osiride che « mantiene l'ordine nell'universo» (1) V. Cicer. De Nat, Bear. II. 5 e III. 7. (2) De Nat, Deor. II. e. 16. (3) II. 2. — 85 — e che ha tracciato al cielo e alla terra « la via donde essi non si allontanano > (1). « Dimmi, o Ahura ! do- manda il Zend-Avesta, chi, se non tu, fa crescere e de- crescere la luna? chi ha aperto le loro vie al sole calle stelle? chi ha fatto la luce benefica e le tenebre? i mattini, i mesi e le notti ? » (2) E un inno del Rig Veda dice : <^ Il sole e la luna si muovono in successione re- golare, afiinchè noi possiamo credere, o Indra >^ (3) E- videiitemente è questo stesso il concetto, o uno dei con- cetti, espresso nelle parole del salmista, che i cieli nar- rano la gloria di Dio. La finalità di plano è suscettibile, per se stessa, d'un'estensione assai più grande che la finalità d'uso — il cui valore esplicativo sembra circoscritto nel dominio della vita e dell'organizzazione — . Ogni ordine potendo inter|)retarsi come la realizzazione d'un piano, e que- st'interpretazione essendo la più conforme alle tendenze spontanee del nostro spirito, ogni altra regolarità della natura suggerisce, così naturalmente che (jiiella dei grandi fenomeni del cielo, l'idea di piano e d'intelli- genza : se la suggestione è meno viva, è perchè pochi fenomeni destano in noi, come quelli, (juesto sentimento del sublime, eosi vicino al sentimento religioso, forse ])erchè è uno stesso elemento, il terrore^ che è alla base. dell' uno e dell'altro. Fra gli altri esempi di finalità di piano possiamo indicare in primo luogo le forme rego- lari che la natura sembra ricercare in alcune delle sue produzioni, p. e. i cristalli e gli esseri viventi. Uno dei fatti da cui Ippocrate conclud(^.va che « erudita è la na- tura, quantunque non abbia imparato », era la simme- (1) V. (loblet d'AlvieHa L'idea di Dio ecc. p. 185 e 1^7. (2) V. Max-Miiller La seienza della religione ^ IV. (8) Goì)let (PAlviella Op. eit. p. ISS. - 86 - tria dei corpi or^aniz/.ati (1). Schelliii-' (2), dopo aver parlato della « o-eometria sublime > che osservano i corpi celesti nelle loro rivoluzioni, soogiun^e : « La natura ÌA dove agisce liberamente, in ciascuna transizione dallo stato indeterminato allo stato fìsso, crea anche allora spontaneamente delle forme regolari. Questa reg-olarità apparisce nelle cristallizzazioni d'un ordine elevato Come spieg-are tutto ciò, se non si ammette che esiste una produttività incosciente, ma originariamente della stessa natura che l'attività cosciente, e di cui non pos- siamo vedere che il semplice rifiesso nella natura? >. Più recentemente si ^ anche parlato dell' architettura degli atomi, (juesti sono stati paragonati a degli oggetti ma- nitatti, e si è vista nella supposta regolarità delle loro forme una prova della creazione della materia. Un altro se^nio di finalità di piano che si è visto negli esseri or- ganizzati è, oltre alla sinìuietria delle loro forme, 1" u- nità di diseg-no in esseri differenti, cioè la loro distri- buzione in gruppi, in ciascuno dei quali si n^alizza variamente uno stesso tipo definito. Questa sembra ad Agassiz una prova dell'esistenza di Dio superiore anche a (luella della finalità d:icHO dei loro organi. Che degli esseri aventi degli attributi si diversi, e viventi in cir- costanze sì differenti si conformino costantemente a dei tipi generali identici; p. e. che tutti gli animali, in tutte le posizioni geografiche, nella successione di tutte le epoche geologiche, siano costruiti sui quattro grandi piani di struttura stabiliti da Cuvier ; è un risultato, egli dice, che è impossibile di attribuire alle sole forze fisiche, a meno 'ù\e esse non abbiano immaginato questi (1) V. (irtleno Di' plaritis HippomuttÌM et Platonis 1. 9. r. 8. in tìne. (2) Inirodtiz. al Saggio d'un sistema della natura. (Scritti fi- losulìti tradotti da Héiiard, paj^. :^H2-368). - 87 - piani, e non lì abbiano poi impressi nel inondo mate- riale come una forma dentro cui la natura fonderel)be ormai costantemente tutti gli esseri (1). Ogni regolarità nei fenomeni, in cui non si vede una conseguenza ne- cessaria delle leggi meccaniche, dimostra, |>er il teleo- logista, un disegno e uno scopo. Come infatti i movi- menti disordinati degli elementi della materia, in cui non vi ha altra regolarità, inerente alla loro natura stessa, che quella delle leggi del movimento, possono dar luogo a delle successioni regolari che non potreb- bero dedursi da (pieste leggi ? p. e. a delle serie cir- colari e costanti di avvenimenti, quali le rivoluzioni planetarie, o i fenomeni evolutivi della materia orga- nizzata, in cui si vede l'essere nella sua maturità ri- produrre il germe da cui e* incominciato il suo svilup- po, e la stessa serie regolare di stati ripetersi di gene- razione in generazione? (Jueste regolarità nella succes- sione dei fenomeni non (essendo una conseguenza, ne- cessaria delle leggi dell urto e del movimento, le sole che siano essenziali alla materia, o deve ammettersi che siano semplici effetti dell'azzardo, o che una mente or- dinatrice dirige i movimenti della materia, preordinan- doli a questo scopo. Così il teleolo^iista divide tutte le azioni della natura in due campi: l'uno è il dominio del meccanismo, e l'altro delle cause finali. Questo mondo, dice Platone, è nato dal concorso della mente e della necessità. Vi hanno due specie di cause, 1* una neces- saria e l'altra divina: le cause prime sono quelle che producono con intelligenza il buono e il bello (cioè quelle della specie divina); quelle che sono mosse ne- cessariamente da altre cose e muovono necessariamente altre cose, sono delle cause seconde, dei mezzi di cui (1) Ajrassiz Della speeie e della idassifieaz, in zoologia, eap. 1. IV. V. VI. VII, ecc. — 88 ~ - 89 Dio si serve per realizzare, per (luanto è possibile. TI- dea deirottirno (1). Kant oppone continuamente il mec- canismo eia finalità come le due sole forme possibili in cui noi possiamo rappresentarci il modo di produzione delle cose. Vi hanno delle cose la cui produzione è pos- sibile secondo lei>'^i puramente meccaniche; ma altre produzioni della natura non sono j)ossibili, almeno per noi, secondo leii'fi'i puramente meccaniche. Per queste yal(% almeno subhiettivamente, oltre al meccanismo della nriturM. determinato dalle sole leg'gi del movimento, un'altra spcn-ie di causalità, cioè (|Uella delle cause ti- nnii, relativamente alle quali le leg'gi delle forze mo- trici non sarebbero che delle cause intermediarie (2). La tinalità d'una cosa (cioè la sua produzione per delle cause finali) e la contingenza di questa cosa sono due concetti che si implicano reciprocamente: da una parte il concetto di una cosa di cui ci rappresentiamo V esi- stenza o la forma come possibile sotto la condizione di un fine, è inscparal)ile dal concetto della contingenza delia <*osa (:>) ; e da un' altra parte il concetto della fi- nalità della natura nelle sue produzioni è un concetto necessario al giudizio umaììo . che si applica a tutto ciò che vi ha di coiitingcuite nelle leggi particolari della natura, cioè che non può dednrsi dalle sue leggi gene rali (che sono quelle della materia e del movimento) (4). Secondo Lachelier, la nostra credenza nel corso uniforme della natiirn implica due princiini : «luello delle cause (»fHcienti e <jUello delle cause tìnali. A non considerare che le leggi del movimento, non vi ha alcuna ragione perchè gli ('Irnienti della materia continuino ad aggrup- (1) IMato. Tiw. Hi (• — «•, i>< M. r.s o — Gì» lì. IJ) V. Critica del ijiiuliziu vV HJ), 71, 72, 7S, 74, 7rì. 77, SI, ecc. |S) V. Crii, fh'l (tiìuì. ^. 74, HO. 72, 7S, ecc. 4) Crii. (h'I ffittd. ^. 7.'>, 'f parsi nello stesso ordine, perchè l' insieme delle dire- zioni e delle velocità dei loro movimenti sia tale da riprodurre a punto designalo le stesse combinazioni. se noi abbiamo confidenza nella stabilità dell' or- dine del mondo, è perchè sappianìo già che esso è l'in- teresse supremo della natura, e che le cause di cui sembra il risultato necessario non sono che i mezzi sag- giamente concertati per istabilirlo (1). E Janet dice: L'esistenza stessa delle leggi nella natura yi^gU parla qui evidentemente delle leggi altre che quelle del mo- vimento) è un fatto di finalità. Noi possiamo infatti con- cepire che i fenomeni potrebbero prodursi in modo da non permettere alcuna previsione certa per l'avvenire, e non vi ha alcuna ragione perchè essi non si produ- cano così, se si suppongono all'origine degli elementi puramente materiali, in cui non preesisterebbe alcun principio iV ordine e d' armonia. Il solo fatto dell' esi- stenza d'un ordine qualun(jue attesca l'esistenza dun'al- tra causa che la causa meccanica, poiché questa è in- differente a produrre alcuna combinazione regolare. Se nondimeno tali combinazioni esistono, e sono esistite da tempi infiniti, è dunque che la materia è stata di- retta o si è diretta da se stessa, nei suoi movimenti, in vista di produrre (luesti sistemi, queste combinazioni e. questi piani da cui risulta l' ordine del mondo : ciò che equivale a dire che la materia ha obbedito a un'al- tra causa che la causa meccanica (2). Quest'opposizione tra il meccanismo e le cause finali è suggerita natural- mente dall'azione umana, che è il tipo della finalità e il fatto d'esperienza da cui ne è venuta l'idea: danna parte il mondo esteriore con le sue leggi indii)endenti dalla volontà uma\ia, da un'altra i)arte l'uomo, che non [1) Del fondamento dslV induzione. (2) .Taiiot Le cause finali. 1. 1. v '). 1 — può a^'ire su di esso che iniziando nuove serie di mo- vimenti, che una volta incominciati, si continuano e si trasuieitono secondo le loro le^'g'i fatali. Quest'oppo- sizione corrisponde pure a qu(»]la del necessario e del contingente : il necessario è in contraddizione col vo- lontario, e le tendenze istintive del nostro spirito, da cui si orifrinano i concetti metafisici, ci conducono a iden- teficare il necessario col meccanico, e il non necessario, 0 il contingente, col volontario. Infatti, come vedremo più chiaramente^ nel se<i'uito di questo scritto, lo spirito uniruio ha due tipi della causalità etticiente, ai quali tende spontaneamente ad assimilare tutte le azioni della natura : l'uno è 11 movimento meccanico, trasmesso per l'urto, e r altro l'azione volontaria. Di (questi due tipi di a/.ionc '» nel primo che noi vediamo realizzata l'idea di necessità — che è il carattere distintivo d(»lla causa- zione ('fti-iente— ; ni^ll'azione volontaria . essendo an- ch'tvssa, secondo le nostre credenze istintive, una cau- sazìoììf» officiente, vi ha un momento che noi conside- riamo in (jualclie modo come necessario, è la succes- sione del movimento all' atto della volontà che lo co- manda; ma Ta/ione stessa, nella sua totalità, è per noi 1 antiti^si del necessario, la credtmza naturale dell'uomo ♦^nì teiif)m(Mìi iiitiMiii della volontà non essendo il de- t«Tiìn!ii>!no. uìa il lil)ero arbitrio. Xoìì v\ ha dubbio che «jiiando il teleolo^ista oppone il meccanismo alla tìnalità. l'idea che la parola m(H*canismo su^'^erisce im- mediatameurc al suo spirito non sia il meccanismo di Democrito e di Cartesio, quello del movimento trasmesso per l'urto: dei <iu<' doiiiinii in cui e^'li divide tutte le azioni della natura, quello del meccanismo e quello defilo cause finali, l'azione fìsica a distanza deve pren- dere posto, per lui, nel secondo piuttosto che nel primo. Il fenomeno dell' azione a distanza non è, in fatti, ne- cessario — necessario, nel senso metafisico, si^'nitiea : ^-ì f'tì II il cui opposto è inconce})ibile, o almeno difficile ad essere concepito— .Che necessità, in questo senso, vi ha in effetto che una molecola di materia, per la semplice presenza di un'altra molecola, acquisti una tendenza a muoversi verso di essa? Le leggi del movimento -cioè del movimento che si trasmette per impulsione — sono, dice d'Alembert, di verità necessaria: ma (luella della gravità, supposto che essa non abbia l'impulsione per causa, non potrebbe essere in alcun senso di verità necessaria; la caduta dei corpi pesanti, in (juesta sup- posizione, sarebbe la conseguenza di una volontà im- mediata e particolare del Creatore, e senza (juesta vo- lontà espressa un corpo posto nell'aria vi resterebbe in riposo (1). Così Clarke afferma che i principii matema- tici della filosofia (cioè le teorie di Xewton) sono con- trari a quelli dei materialisti, perchè «mentre i mate- rialisti suppongono che la struttura dell'universo può essere stata prodotta dai soli ])rincipii meccanici della materia e del movinìento, della necessità e della fata- lità, i principii matematici della filosofia fanno vedere al contrario che lo stato delle cose non ha potuto essere prodotto che da una causa intelligente^ e libera» (t>). E il matematico Cotes nella prefazione alla II edizione dei Principii di Newton, ponendo la gravità come una pro- prietà primitiva della materia, aggiunge una fili|q)ica contro i materialisti, che fanno tutto nascere per neces- sità, mentre il sistema di Newton fa tutto provenire dalla volontà del Creatore, e osserva che le leggi della natura offrono numerosi indizi del disegno più saggio, ma nessuna traccia di necessità (8). A. Comte ha notato giustamente che la filosofia teologica, anche neirinfanzia (1) Prine. delle eouose. XVI. (2) Lettere tra Clarke e Leibnitz. Seconda Replica di Clarke, I. (8) V. ìjHìì^ei Stor. del material, t. 1. parte 8. e. 8. - 92 - dello spirito umano, pur costituendo una spiegazione uni- versale dei fenomeni, non si applicava ai fenomeni più fa- familiari, i quali sono stati sempre riguardati come sog- o-etti a leirs'i naturali, invece di essere attribuiti aliavo- lontà arbitraria degli agenti soprannaturali (1). Quando il filosofo teologico moderno divide i fenomeni in necessari Q> contingenti, e spiega tutto per le cause finali, tranne i feno meni necessari, egli fa precisamente come il suo antenato selvaggio o barbaro, perchè le successioni di fenomeni che ci sembrano necessarie, sono appunto (pielle che ci sono ^' pin familiari {2). Quando il Pelle-Uossa non com- prende, osserva un autore che ha studiato i costumi di queste popolazioni, dice che è uno spirito (3). Il uon è cosi che fa pure il metafisico incivilito V - notiamo che il comprensibile, come il necessario, non è per noi che ciò che ci è // pia familiare (4)—. La differenza tra il selvaggio e il metafisico incivilito è che il primo spiega immediatamente per l'azione degli spiriti i fe- nomeni particolari: il secondo ammette ordinariamente che i fenomenti ubbidiscono a delle leggi costanti, ma quando non comprende (pieste leggi, o, ciò che è lo stesso, quando esse non gli sembrano necessarie (perchè non si tratta delle successioni di fenomeni che ci sono le pili familiari), egli fa conie il selvaggio, le spiega per l'azione di uno spirito, che produce nella natura dei fenomeni eh' egli giudica al di sopra delle forze della natura stessa. 1/ intenzione dello spirito è per lo più ostile, secondo il selvaggio; secondo il metafisico incivilito, benevola : di più la spiegazione teleologica del secondo non è ordinariamente cosi chimerica come (1) Corso di fìhts. /tosit. ed. i. voi 4. ]>. 491. (2) V. e. 4. (3) N (ioblct d'Alviella L'idea di Dio ecc. p. OS, (4) \'. cap. 4. — 93 — quella del primo. Tale è la costituzione della natura e più ancora quella dello spirito umano, che, purché cer- chi in questa direzione, egli non potrà mancare di tro- vare nelle leggi stesse dei fenomeni i segni d'un piano intelligente: egli li vedrà sia in quf^sto fatto sorpren- dente, che le leggi della natura contengono spesso dei rapporti metrici i più semplici e i più regolari (p. e. l'eguaglianza, la proporzionalità, la ragione inversa al quadrato, ecc.), e sembrano tali da rendere i fenomeniil più fadlmente intelligibili ; sia in altre circostanze proprie ad alcune di queste leggi che gli suggeriranno pure, vivamente o debolmente, l'idea di uno scopo odi una coordinazione interessante per se stessa e voluta ; sia infine nel fatto stesso che sono delle leggi, perchè la leo'ire implica un ordine e una reoolarità, e questi sono contingenti, cioè non sono una conseguenza neces- saria dell'essenza stessa dei fenomeni — non si può in- fatti concepire che i fenomeni avrebbero potuto foruìare un chaos, più chaotico di quello che alcun mitologo abbia nìai immaginato, cioè senz'alcun ordine, senz'al- cuna legge senz'alcuna uniformità nelle loro sequenze e nelle loro coesistenze ?— dunque . ne concluderà il teler^logista, quest'ordine e questa regolarità non possono spiegarsi che per una Mente ordinatrice e regolatrice. Malgrado l'opposizione sì naturale tra il meccani- smo e la finalità, la tendenza a spiegare teleologica- mente tutto ciò che non è necessario, sviluppata con conseguenza, non può non oltrepassare il limite fra questi due dominii in cui i teleologisti dividono ordi- nariamente le azioni della natura. E ovvia infatti la riflessione che le stesse leggi del movimento, anche di quello derivante dall' impulsione, non sono nemmeno esse necessarie, benché l'impulsione stessa sia necessaria-- per essere tali esse dovrebbero essere una suggestione dell'esperienza più familiare, e non, come sono state in 94 - — 95 realtà, liolle scoperte scientifiche (1) — : ne segue che la spiegazione teleologica deve applicarsi anche a (que- ste leggi. D'altronde è solo il necessario nel senso stretto, vale a dire ciò il cui contrario è aftatto inconcepibile, che è assolutamente in contraddizione col volontario : ora ({Uesta necessità nel senso stretto non può trovarsi inai nelle verità esistenziali, e tutte le leggi della na- tura sono delle verità esistenziali (2). Per conseguenza, non VI Iì;ì legge della natura a cui la spiegazione te- leologica non sia a[)plical)ile. Cosi molti filosofi moderni hanno spiegato |)er le cause finali inche le leggi della nieccniìica. Secondo Malebranche Dio scelse «jueste l(?ggi perchè sono le più semplici — cioè, conni abbiamo ac- cennato, contcmgono i rapporti metrici più semplici, e soììo le [)iù proprie a produrre, con mezzi i |)iù uiìi- tormi, nn iinimnisa varietà di fenomeni Avendo ri- sol ut<> di produrre per le vie ])iù semplici (juesta varietà intinita di crf^ature ciu» noi ammiriamo. Dio ha voluto che i ror[)i si muovessero in linea retta, perchè questa liìjoa è la più sem}>Iice ^>. E prevedendo il loro urto, ha stabilito la leg'ge generale della comunicazione dei mo\ imenti: e (jueste due leggi naturali, che sono le più sem[)Iici di tutte, bastano, i primi movimenti essendo saggiamente distribuiti, per produrre il mondo (juale n*»i lo vediamo (o). Dio segue sempre, nelT esecuzione dei suoi disegni, le vie più semplici, perchè sono le più sagge e quelle che l'onorano di più (4). La contingenza f^ 11) V. cap. IV. |2l V. il Saji^rio 1. (8) Malebruiitlu' Jiieerva dclhi ver* Se/narim. XV. (Risp. alla 4. prova) . 1. U. paitt» 2. v. 4. . Concersaz, svila meta/. XXV, XXVII, ecc. (4) iHalehranelic Jhdit. erht. VII. ii. 15. V, XI. n. V^, Kle, della cer. Schinrhn, XV. (RÌ8p. alla 4. i>rc)va). Sehiarim, VI, :^, parte 2. e. >. Concers. untila meta/. IX. X e XI, ecc,^ delle leggi del movimento e la loro dipendenza dal prin- cipio delle cause finali era una delle tesi favorite di Leibnitz e della sua scuola. Il pensiero di Leibnitz su ciò può riassumersi con queste parole dell'autore stesso: « La saggezza su])rema di Dio gli ha fatto scegliere sovratutto le leggi del movimento le meglio aggiustate e le più convenienti alle ragioni astratte o metafisiche... Ed è sorprendente che per la sola considerazione delle cause efficienti o della materia non si potrebbe rendere ragione di (jueste leggi del movimento, scoverte al no- stro tempo, e di cui una parte è stata scoverta da me stesso. Perchè io ho trovato che vi bisogna ricorrere alle cause finali, e che queste leggi non dipendono dal i)rin- cipio della necessità, come le verità logiche, aritmeti- che e geometriche, ma dal pruìciph (iella convenienza, cioè della scelta della saggezza. Ed è una delle i)iù ef- ficaci e delle più sensibili prove dell' esistenza dì Dio per (luelli che possono aj)i)ro fondi re queste cose ^ (1). Leibnitz pretendeva anche che dal solo concetto della materia si dedurrebbero delle leggi del movimento dif- ferenti dalle reali (2), e che esse produrrebbero gli effetti più assurdi e più irregolari, e sarebbero assolutamente contrarie alla formazione di un sistema (3). « Fra le rettole generali che non sono assolutamente necessarie, Dio scelse quelle che sono più naturali, di cui è i)iù facile di rendere ragione, e che servono pure il più fa- ll) Prìne. della nai. e della ijraz. n. 11. V. anche TeiMlieeu Prefazione, Sayyi sulla bontà di Dio ere. parte S. n. S4rì-:^r>(), Esame del W Malebraiielie, eee. (2) V. Lettera sulla quistioiie se l'essenza del eorin» eoiisistc iieiresteiiHionc (Duteiis t. 2. p. 1. 1». 280). (3) Leibnitz a Fontenelle {Lettere e opaseoli di Leibnitz ed. da Foucher de Careil, 1«54. p. 227) e Pise, di mrtafis. {iVuove leì^ tere e opnsc. ed. da V. de C. 1S57. p. S5H). - cilmeiite a rendere ragione di altre cose. E ciò che è senza dubbio il più bello e che vale il meglio ». I.e vie di Dio, egli aggiunge, ripetendo il concetto di Male- branche, che è uno degli argomenti preferiti dai teleo- logisti, sono le più semplici; perchè il saggio fa in modo, il più che si può, che i mezzi siano pure jini in qual- che maniera, cioè desiderabili, non solo per ciò che essi, ma ancora per ciò che essi mno (l). Ma Tappli- cazione più notevole del principio delle cause finali in fisica è il concetto di una economia di forze e di tempo che la natura prenderebbe per regola nella produzione dei fenomeni. Tolomeo avea dato come spiegazione del fatto che i raggi della luce ci giungono in linea retta, che essi passano da un punto ad un altro per la via più breve, e per conseguenza nel minor tempo possi- bile; con (luesto principio erano state spiegate pure dagli antichi le leggi della riflessione della luce ; Fermat lo generalizzò, estendendolo a quelle della refrazione. Leib- nitz spiegava queste leggi, e tutte le legai dell'ottica in generale, per un principio analogo, cioè che la luce segue sempre la via più facile {la via pia facile era de- finita quella in cui il prodotto della via percorsa per la resistenza dell'ambiente è un minimum) (2) : questa spiegazione fa vedere, secondo lui, Futilità delle cause finali, perchè mostra che dalla considerazione di esse possono ricavarsi certe verità arcane e di gran momento, che sarebbe difficile di ricavare dalle cause efficienti, la natura dei raggi della luce non essendoci cosi co- nosciuta da poter rendere ragione per le cause efficienti delle leggi che essi osservano nella riflessione e refra- (1) Saggi nulla bontà di Dio ecc. $. 208. (2) De unico opl., catoptr,, dioptr. prine. Duteus 111. Il zione (1). Questa legge di economia fu elevata da Mauper- tuis a legge fondamentale della meccanica, formulandola nel suo principio della minore azione, in cui egli vedeva Tunica prova delTesistenza di Dio, fondata sull'ordine della natura. <' Ecco questo principio si saggio, sì degno dell' Essere supremo. Quando avviene qualche cangia- mento nella natura, la quantità d'azione ini[)iegata per questo cangiamento è sempre la più piccola cht^ sia possi- bile (r«a;/o?ie si definisce come una (juantità proporzionale al prodotto della massa per la v( lecita e perle spazio). È da questo principio che noi deduriamo le leg^'i del movimento tanto nell'urto dei cori)i duri quanto in (jnello dei corpi elastici. É determinando bene la quantità di azione che è allora necessaria per il cangiamento che deve accadere nella loro ])restezza, (\ supponfMido (juesta quantità la |)iù picc(>la che sia possibile, che noi sco- priamo (jueste leggi generali, secondo cui il movimento si distribuisce, si produce o si estingue. Non solo questo principio corrisponde all'idea ch(i noi abbiamo dell'Es- sere supremo, in <|uanto egli deve agire sempre della maiìiera più saggia, ma in (juanto ancora egli deve sempre tenere tutto sotto la sua di[)endenza » (2). Eulero difende il principio di Maupertuis ; ne fa delle nuove applicazioni, mostrando ch(^ « nel movimento dei corpi celesti, e in generale nel movimento di tutti i corpi at- tirati verso i centri di forza, se a ciascun istante si moltiplica la massa del corpo per lo spazio percorso e per la prestezza, la somma di tutti questi prodotti è sempre la minore»; vede in esso, come Maupertuis, il (1) V. Aiiiniadvers. circa a.ssert. aliq. Thcor. nie«l. Stahl. n. III. (Duteiis t. 2. parte 2. pa<^. 134), Risp. alle ritiessioui su alcuni puuti della filos. di Descartes, imi (Dut. t. 2. parte 1. pa<;. 252), ecc. (2) Maupertuis Saggio di cosmologia. 7 — ìks — principio, e non una eoiisoi>-ueiiza, delle legnai dei mo- vimento, anzi « la ìe^-^'e ])ÌLi universale della natura che eonoseiamo distintamente » ; e^ lo considera an- ch'eoli come una vc^rità fondata sulle cause finali (I)- La sj)ie^azione teleologica delle le<i'<ii del movi- mento, tacendo cadere le barriere tra il dominio delle cause finali e quello del n)eccanismo, ha per conse^ucMiza restensionc di (juesta spieii'azione a tutte le le.u'^i'i della natura in <:'enerale. K ciò che troviamo naturalmente in Leibnitz e in Alalebranche. Le verità della ra<>-ione sono, dice Leibnitz. di due sorta : le une sono as8olutanu^,nte necessarie; tali sono (juelle la cui necessità è lo<»"ica, ireometrica o metafisica. Le altre possono chiamarsi pò- sitive, perchè sono le li'.i4\u"i che ha piaciuto a Dio di dare alla natura, o ne di])endono. Noi le ai)prendianio o per res[)erienza, o a |)ri(n-i perla considerazione della convenienza che le ha fatto sce^uliere. Così si può dire che la necessità fisica è fondata sulla necessità morale, cioè sulla scelta del sa^^uio dciina della sua sai»-o-ezza; e tanto Tuna quanto l'altra (bevono essere distinte dalla necessità geometrica (cioè assoluta). Questa necessità tìsica è ciò che fa l'ordine della lìatura, e consiste nelle lea*a'i a'enerali che ha piaciuto a Dio di dare alle cose dando loro l'cjssere. Dio non le ha dato senza ragione, ma vi è stato })ortato da ra*»ioni ^^'enerali del bene e dell'ordine, che in alcuni casi possono essere vinte da rag-ioni superiori (2). Secondo Malebranche, le legg'i della natura dipendono dalla volontà di Dio, ma egli non le ha stabilito che perchè l'ordine richiede che sia (1) .laiict Lv cansc fnKtli, Appcndicf, VI, pjtii. ÌH5 e seg. (2) Diacorso (Iella eonformitù della fede eon la ruijìone^ ^, 2. V. aiiclu' De natura ipsa (Dutcìis t. 2. parte 2. p. 51), S(ff/f/i sulla bontà di Pio ecc. ò. 2(IS, Ji*is/f, alle ohhiez. delVaat, del libro della conose. di se stesso (Diitcìis t. 2. parte 1. pag. 1(»0-101), cce. — — cosi (l). Dio non comunica la sua potenza alle crea- ture che stabilendole cause occasionali per produrre certi effetti, in consegìcenza delle leggi ch'egli si fa per eseguire i suoi disegni (Vana maniera uni forme e costante, per le rie più semplici, più deg'ue della sua sagg'ezza e dei suoi altri attributi (non si dimentichi che per Malebranche le leggi della natura non sono che delle regole che Dio segue (quando agisce, [n-oducendo un fenonieno alToccasione di un altro ). E in generale, un filosofo teista che ammette la contingenza delle leggi della natura, se egli vuole spiegare d'una maniera qua- lunque (jueste leggi . che altro può vedere in esse se non la manifestazione d'un piano razionale? I fenome- ni sensibili, dice Berkeley (per cui i fenomeni non sono delle cause, ma dei segni gli uni degli altri), non for- mano solamente un magnifico spettacolo, ma ancora il discorso meglio seguito, più interessante ed istruttivo. Le idee dei sensi (cioè le sensazioni) non sono in no- stro potere come (juelle deirinnnaginazione (benché ad esse non corrisponda una realtà esteriore). Nella nostra esi)erienza sensibile noi ci troviamo in presenza dei segni d'una ragione più larga, d'una volontà t)iù fer- ma, che quelle che si rivelano nelle costruzioni arbi- trarie della nostra immaginazione : noi v' incontriamo il potere supremo che si rivela per le leggi naturali imposte ai fenomeni sensibili. Noi ci troviamo così in comunicazione permanente con l'Intelligenza suprema. E lo stesso che il mistico Berkeley pensa, in sostanza, l'empirista Locke, che attribuisce le leggi della natura, secondo lui arbitrarie, non alla volontà solamente, ma anche alla saggezza dell' « architetto dell'universo > (o). (1) Meditdz. erist., 7. u. IS. (2) Meditaz. erist,, 5. (3) V. Siuiiiio sairintead. ani. speeiabiiente 1 §. 28 0 21>. e. IV. ^. t. <'t<'- IV r. Ili aa^fmmmmmmm - 100 - Il carattere di mistero, di cui le. le.i>'<>i dei fenomeni naturali gli sembrano rivestite -ed è perciò che esse sono riguardate come contingenti e come arbitrarie — sollecita lo spirito umano a cercare una spiegazione qualsiasi, che possa attenuare in (|ualche modo (juesto nìistero : e dove può trovare un tipo per una tale s[)ie- gazione, se non in se stesso, dacché fuori di se, cioè nella natura, tutto gli seml)ra incomprensibile e miste- rioso'-^ Il fatto stesso che vi hanno delle leiiiii nella natura, cioè che i fenomeni si svolgono con un corso uniforme . sembra aiirdresso c«inti!ii:('nte ed arbitrario, perchè rincom|)rensibilirà delle singole uniformità par- ticolari rende pure incompi-ensibile la legge generale d' uniformità che esse costituiscono : così la lea'a'e im- plicando, come abbiannì notato, un ordine e una rego- larità, t|U(\sto fatto stesso entra naturalmente nel domi- nio della spiegazione teleologica. Berkeley dice : I fe- nomeni, nella loro regolarità, sono un lingtiaggio per cui l'autore della natura si i-ivela a noi. Questa stessa regolarità dei Menomimi impedisce alla j)iii parte degli uomini di riconoscere la causa libera di (jut^sti feno- meni. Essi sono pronti a pi-oclamare rintervento (T un essere superiore, dacché Tordine della natuta pai-e so- speso, e non pensano che <juest' ordine è la prova i)iù certa della saggezza e della bontà del ('reatore. H Ma- lebranche : Dio non agisce per leggi generali che per rendere la sua condotta uniforme, e farle portare il ca- rattere della sua immutabilità (1). Un essere saggio a- girà per delle volontà particolari, allorché alcune vo- lontà generali bastano? e se una condotta uniforme, costante, regolata j)uò formare un'opera degna di lui, seguirà una condotta bizzarra, caiigiant(3, sregolata, e che indica dell' incostanza e dell' ignoranza in quello (1) Conversaz, sulbi metaf. X. XVI. ^1 - 101 - che la segue? (1) Per Leibnitz il corso uniforme della natura è un'armonia prestabilita, conc(itto che implica per se stesso l'idea di i)iano e d'intelligenza. L'ultima applicazione del concetto teleologico di cui fareuìo menzione, è la dottrina che il mondo reale è il mi- gliore dei mondi possibili. Questa dottrina che si trovanel- la lllosofia cristiana del nu^dio evo, nei neoplatonici, negli stoici, è una conseguenza logica del concetto che Dio è l'assoluto, cioè che tutti gii attributi ch'egli possiede, implicanti una perfezione (la potenza, la saggezza, ecc.) li possiede a un grado assoluto o infinito. In Malel)ran- che e sovratutto in Leibnitz essa diviene una spiega- zione della natura la più generale e la piìt radicale che sia possibile. In questi filosofi infatti questa dottrina non pretende solamente, come la spiegazione teleologica ordìiìaria, di rendere ragione di certi caratteri generali delle cose (l'appropriazion-e, l'ordine, ecc.), ma di asse- p-nare utia causa che determini rigorosamente V essere e il modo di essere delle cose stesse, ciò che deve fare una vera spiegazione. Se il mondo esiste cosi e non altrimenti, se gli esseri e i fenomeni che lo costituisco- no souv) precisamente (juesti che osserviamo e non altri potremmo immaginare in loro luogo, è perchè ciò è il me^'lio, e Dio non poteva mancare di scegliere il meglio (2;. Questo concetto, che è Tulrimo limite a cui possa spingersi la spiegazione teleologica, cioè che cia- scuna cosa esiste ed esiste cosi perchè ciò è il meglio, si trova già in Platone, ma sarebbe dilticile di diresino a (|ual punto la spiegazione teleologica sia anche, in Platone, una spiegazione teologica (3). Questa rapida rassegna delle applicazioni più im- (1) Meditaz. rrìsi. XI. n. i:^. (2) V. cai»- VI, § i e >. (H) V. <Mi>. VII. § i:^. :^. e v> Ki. " 'UHI - - portanti della dottrina delle cause finali basterà per mostrarti che essa ha eostiluito una spieg-azione, nel senso stretto, amvei'Hcde della natura. Questa spie^'azio- ne, unita a rjuella di cui abbiamo parlato nel parao-ratb precedente, forma l'insieme di ciò che possiamo chia- mare la sph'iiazione teologica doi fenomeni. E in questa che dobbiamo riconoscere la vera base di o^-ni forma •della iilosofìa teoloo-ica, poiché è certo che lo spirito umano non ha mai concepito delle cause, poste fuori del campo delTosservazionJ», che i)er servire da spieo-a- zione de<i'li eft'etti, cioè dei dati dell'osservazione st(^ssa sS 4. Gli aro-omenti per provare V esistenza di Dio si distiiiiiuono in a in-iorì e a i)!)sterlori. Noi chiamiamo a /posteriori le prove di natura induttiva, cioè che con- cludono dai dati dell'esperienza a Dio fondan(h>si su (jual- che uniformità che l'esperienza stessa ha costatat;^ tra i fatti. Chiamiamo invece a^trìori (pielle che non si fondano su qualche principio stabilito induttivamente, ma su [)retesi le,i>-ami lodici fra le ide(% che non sareb- bero il risnltato di una o-cMieralizzazione di leo-ami co- statati tra i fatti, ma sarel)bero intrinseci alle idee stesse; sia che (pieste prove prendano j)er punto di par- tenza qualche dato dell'osservazione, sia che deducano r esistenza di Dio da semplici concetti, iìidipendente- mente da qualsiasi dato empirico. É una conseg-uenza dei principii della teoria della conoscenza esposti nel Sa^'o'io 1» che tutte le prove di questo o-^nere sono ne- cessariamente sofistiche: noi abbiamo visto infatti, da una parte, che non vi ha alcuna deduzione possibile, che sia altra cosa che un'applicazione a casi particolari di una proposizione gcMierale stabilita da un' induzione precedente; e da un'altra parte, che un iiiudizio a prio- ri, cioè una verità che deve ammettersi come evidente^ per se stessa, non può avere per oggetto l'esistenza delle cose né i loro le<>'ami reali di sequenza o di coe- 't sistenza, ma solo dei rapporti che lo spirito stabilisce comparandole fra di loro, cioè le loro somig'lian/e e le loro differenze. Cosi non vi ha alcun leaanìe infrinseco fra le idee (cioè non risultante da una o'cneralizzazione dell'osservazione) su cui |)ossiamo fondarci \n^r passare dall'esistenza d.'una cosa a quella di un'altra, o per i- stabiliiv d'una maniera qualsiasi l'esistenza di qualche cosa : questa, come oo'iii altra verità sul reale, se non è un dato immediato dell'osservazione, non [uiò stabilirsi che induttivanumte, e oi>-ni pretesa prova non induttiva non può (^.ssere che un poralo,i»MS'no. L'iuduzrone non è solamente l'unico ])rocesso legittimo per concludere una proposizione vera, ma è aiudie l'unico proc(^sso naturale per cui il nostro spirito conclude una proposizione ijual- siasi, ch'essa sia certa o ipotetica o anche assolutamente erronea. Generalmenle- le pretese dimostrazioni a priori dell'esistenza di ((ualche cosa o di (jualche leu'o-e del n^ale noli sono clie dei sofismi artifiriali, incapaci picr se stessi di detcMMiiinare una convintone, (piantunciue possano sembrare convincenti a chi è convinto u'ià, per altri motivi, di ciò che essi pretendono dimostrare. E vero però che nel determinare le nostre credenze ao-i- sce. accanto alla induzione loo-ica, un processo inco- sciente di assimilazione di tutti i tatti e di tutte le idee che possiamo formarci sn di essi ai fatti e alle hh'e che ci sono più familiari -roo-o-etto di questo Sa-oio è ap- punto di mostrare come tutti i concetti metafisici risul- tano da quest' attività incosciente ed extra-logica della nostra intelli.i>'enza -. Ora i risultati di questo pr..c(^sso incoscio di assimilazione, che soli si rivelano alla co- scienza, e. s'impon-ono naturalmente come delle verità evidenti per se stesse, cioè a priori: vi hanno, per con- sei4-uenza, dei sofismi, che non sono artiftntfi, ma na- turali, e che potrebbero costituire o-U cl(nn(mti di una dimostrazione a priori sull'esistente, che sarebbe un mo- - 104 — tivo reale di crcdoiiza, .spec-ialineiite sul terrouo che è il campo propri') di (|U('.sti solisiiii, cioè (vuoilo della me- tafisica. Ma la metafisica istintiva dello spirito umano Cloe la hlosoHa teolou'ica, (; in i^'enerale, o<i-ni forma dell' antropomorlismo, ha (piesto vanta,i^-^-io sulle altro forme di metafisica, che il processo di assimilazione \n- cosci(»nte, di cui essa è il risultato, riprodotto alla luce delia coscienza, è un'induzione loo-jc-x, cioè un'inferenza induttiva (con che non intendiamo aftermarc; che questa sia concludentei: cosi, (|nantun«jue W. proj)osizioni a cui dà luo<i'o questo processo incoscient(5, possano [)rendersi, e siano state effetti vament(; prese, per verità eviflenti per se stesse, cioè a priori, pure la loro origine; indut- tiva è facilmcmte riconoscihih;, e (jueste proposizioni, che formulano i niotivi re<di didla lilosoHa teoloo-ica, sono stabilite ordinariamente come conclusioni di ra^^iona- menti induttivi. Xe seuui^ che la distinzione tra 'Hi ar- goiiKMiti (I ifìHferiori ed <( jn-ìuri (^juivale, nnche m'Ha quistionc deireslstcnza di Dio. a (juella fra i ra^-iona- menti ndhimii, cln^ sono o possoiio essere i v.'ri ni)! ivi della credenza. <' i solisini |)uramcnt,e arfitiriaU, che si danno T Mria <li dimostrarla d'una maniera apodittica, ma che in r<'a!tà non conti-ibuiscono f)er niente a sta- bilirla. Le basi reali <lella lil')soli:i teologica noi le ri- conosceremo dunijue n(;i primi, cioè ne^-rindutt i vi. Fra essi bisogna dare il primo posto a (juello delle cause "^nali. Quantuntpu^ alcuni abbiano considerato co- me evidente^ |)er se stessa o a pi'iori la proposizione u"e- nerale su cui si londa quest'ariiomcnto, cioè che (pianrlo in un o<i\u'etto si vede (|ualche cosa come un adatta- mento di mezzi ad uno scop.), qu^'sto deve. i\:^^(\\\\ l'o- pera di un autore iiuellii^'ente ; <>-(5iuM-almente la i)ropo- sizione è ri^-uardata come un risultato (h^lTesperienza, e r ar<>omento esposto come un'induzione, basata sul- l'anaIo<4-ia fra certc^ produzioni della natura e i prodotti — lOo — dell'arte umana. Mill lo formula come esso è stato for- dalla [)iù parte dei pensatori che se ne sono serviti, così: «Le cose che uno s|.irito intelli<i'ente ha fatto in vista d'un fine hanno j)er carattere, ci si dice, certe qualità. L'ordine della natura, o «pialche <>M*ande parte di quest' ordine, presenta (]ueste <pialità a un g'rado rimarchevole. Da (piesta .«'rande somi^'lianza ne- o-li effetti abbiaìuo il dritto di coiu-ludere che esiste una somiglianza nella causa, e di credere die delle cose che la potenza dell" uomo non i)Otrebbe fare, ma che somigliano alle opere dell" uomo in tutto eccetto che nella potenza, devono j)uie essere l'opera d" un' intelli- genza, armata d" uoa prìtenza più grande ciìe ([Uella dell'uomo» (1). Il valore deirargonnmto, come abbiamo accennato nrl para'4a-af > precedente, è stato anche am- messo da al'/aiìi d(M più eminejui e dei più critici fra i mod(M-ni, che hanno sottoj)Osto a un esame se- vero le basi del teismo, e hanno respinto come di niun valore tutti i^li altri aru'onu^aiti per provare 1' esistenza della divinità. L'argonumto delle cause finali, secondo questi filosofi, non conclu<le con una. certezza assolula, ma è sufficiente per una conclusione probal>ile, e costi- tuisce la base unica della teologia naturale, llume nei suoi Dudoijhi snìl(( re/if/ioite ìtnfundc fa dire a Filoiu' (che rappresenta le idee dell" autore, e rifiuta conu». as- solutamente vane le altre prove dèil' esistenza di Dio) : «La beltà e i rapì)orti Ielle cause finali ci colpiscono con una forza si irresistibile, che tutte le obbiezioni paiono (e io credo che lo sono effettivamente) delle pure cavillazioni e dei veri sofisiiii (2) L'Essere divino si scopre e si manifesta nell' inesplicabile nu'ccanismo (1) S(({j!/irt sul frisino, l fturlr. Arf/outrnlo dei su/ ni di piujio indurii. [2) VnvXv \. e raiinnirabilc struttura della natura. Un oo-^c^tto, un disi-no. unMntonziono colpisce da per tutto il pensatore più'u'rossolano e più disattento; ed alcun uomo non pò trehbe darsi ad assurdi sistemi sino al punto da riget- tare (luest'idea in oomìì tempo: La natura non fa niente iarano K evidente che le opere della natura hanno una torte analo-ia con le produzioni dell'arte; e secondo tutte le reiiole della saiia loo-ica, dacché noi ar-'omen- tiamo su (jueste materie, dobbiamo inferire che le loro cause ha^mo pure un'analo.u'ia proporzionale » (1) Kant, che riduce a tre le prove della rao-ione teorica p;'r di- mostrare resistenza di Dio, cioè TontolouMca, la cosmo- loo-ira e la Hsico-teolo-ica, dopo aver dimostrato l' as- sohita ìiìipossibilità delle altre due, dice della flsico-teo- loo-ica (cioè (|U.dla delle cause Hnali): k la più antica, la'più chiara e la più coiit'onne alla rao'ione umì.uii. Vivifica lo studio della natura, della stessa maniera che tira la sua e-^istmiza di ([Uesto studio, e up riceve delle forze nuove. Le conoscenze naturali, che essa estende, elevano la fed«' in un autore supremo siuo a una per- suasione irresistibile. Sarebbe dunque'- non solo privarci di una cousolazioue, ma anche tentare l'impossibile, il pretendere di toii'liere (|ualch(^ cosa all'autorità di (pie sta prova ci). Kant distinii'ue la teolo.o-ia trascendentale e la teologia naturale: la prima stal)ilisce un essere pri- mitivo, ma scMiza determinarlo come essere intellig-ente, ed è fondata suii'li aro-omenti oiitoloo-ico e cosmoloo'ieo; solo la seconda stabilisce un'intelli-'enza suprema, e fra le prove della ragione teorica, non ha altra base che (1) l»art«' TuttJivii» sectnìilo Filoii.' P ar.-oiiiouto non t-oiirliulc elle con pro\m\>ilitM. V. la stessa o]M'i-a sulla line. (2) Crii, (it'llo n((/. /mni . I>i<delt, frast'cndcnf., l. 2. e. 3. sez. ♦?. Dcirimpossihilifò della prova fisii'o-tcolofjiea. I' * la fisico-teolooiea (1). Stuart - Mill (che naturalmente non accorda alcun valore agdi aro-omenti a ])riori) dice: Il mondo, per ciò solo che esiste, non è una. testimo- nianza in favore delTesistenza d'un Dio: se ci fornisce deo'l'indizi che ci i»ortano a credervi, è per (gualche cosa che vi vediamo che rassoniiolia a un'adattazioin' ad un fine. L'aro'oiiiento del piano, secondo me, farà sempre tutta la forza del teismo naturale (2;. Mfi la (luislione non è per noi, come per oli autori citati, di cercare (|uali i)rove dell' esistenza della divi- uità abbiano del valore al ì)unto di vista scientitico, e sino a (jual punto, ma (juali siano ìiataruli, e costitui- scano dei motivi reali della filosofia teolooica. Per con- seo-uenza noi non possiamo vedere la base unica del teisuìo nella prova delle cause finali, neo-liu^endo o ri- o-ettando. come e.-si, (juella cdie dimostra la diviniti co- me causa motrice. Si ha certamente rag-ione di negare a (piesta prova (pialsiasi valore scienti1ic(ì, l'esperienza non dandoei alcun dritto di vedere nella volontà una causa originaria de! movimento, piuttosto che in altri agenti puramente fisici (.^5). Ma essa è cosi chiara, cosi antica e di un uso quasi cosi generale presso i tilosoti teisti, che (juella delle cause hnali; e noi possianu» an- che aggiungere, come Kant, cosi confo r ine alla ragione umamP, se^x^.r ragione intendiamo la facoltà di perce- pire l'evidenza intri!iseca delle proposizioni, in opposi- zione all' esperienza, che non conosce che le verità di (1) Ihid. sez. 7. (2) Snijuio sul teismo. I parto, An/ow. della eaasa in-ima in line e Anjom. del eonsetUim. (jener. in principio. V. anche .1/- qom. dei sef/ni di piano nella natura, in cui stabilisce la pi-oì»a- lùlità iloiraro-omento — CtV. lo citazit»ni <lello stesso Mill e di Kant verso il lu-incipio del paragr. i)r<M-o(lente. (8) V. Mill O}). eit. I pjirte Arf/om, della eaasa prima. CUr. il vS 2. di (piesto ca])itol<> verso la tino. ^mmeas^m 109 — lOS fatto. È in effetti un risultato inevitabile di questo pro- cesso incosciente di assimilazione di cui sopra abbiamo parlato, che noi dobbianìo ricondurre oo-iiì causa che fa incominciare un movimento alla volontà, che è l'an- tecedente più familiare dei movimenti che incomincia- no, e non semplicemente si trasmettono. In questo caso, come in (piello delle cause finali, la proposizione che risulta da (juest'assimilazione incosciente, ci sembra e- vidente intrinsecamente, e può quindi ri^'uardarsi come una vcu-ità a priori : ma essa può esporsi pure sotto forma di argomento induttivo o anaiouico, T assimila- zione di cui si tratta essendo, nnclie in <|Uesto caso, un'induzione. P<'rò. (piantuiuiue Tariiiuiìento sia per se stesso induttivo o analogico . esso è prcH-cduto il più delle volte da un ragionamento a jìriori. <liniostrante la necc>sità di un'oriijine del inoximento, dando cos'i luo^'O all'arii-omento della causa j)rima. <juale lo troviamo nei filosofi i»reci, e seu'natamente in Aristotile. L' arii'omento (bdla causa prima si fon<la in primo luog'o sull'impossibilità di una catena infinita di cause. Se noli esistessero che delle cause naturali, ouiii avve- nimento su[)porrebbe come causa un avvenimento ante- riore, questo un altro, e così di sei^iiito all'infinito; \\ì:\ una serie infinita di cause è, si dice, loiiìcamente im- possibile ; dunque liiso^na ammettere che la serie è fi nita, per conseaut'iiza che vi ha una causa che inco- mincia tutta la serie, ma che è essa stessa senza causa. I^'arii'omento picsenta due forme distinte. L'una è quella che conoscevano uii antichi, e conclude semplicemente a una causa i)rima del movimento (ci;': che ha l)iso;L»no di una causa non essendo che il cani;"iamento, e ouni caniiiamento |)otentlo ricondursi al movimento); sia che stabilisca, con Aristotile, una sorbente permanente di movimento, sia che ammetta, con Anassagora, una causa motrice che, all' origine del cosmos, ha fatto incomin- ciare il movimento. La s(H*onda forma è nata nella fi- losofia cristiana, e conclude a un creatore, cioè a una causa che non ha fatto solamente incominciare il mo- vim(mto, ma anche la materia. Per questa conclusione^, in verità non bast;i l'inqjossibilità di una serie infinita di cause, ma è necessario un jìrincipio [)iù g'enerale di cui essa è un caso particolare^ cioè l'imjjossibilità del- l'infinito attuale: da questa si deduce rimpossil)ilità di una durata infinita del mondo nel passato, e da essa la necessità di una causa che g*li abbia dato origine. Nel- Tnna e nelTaltra delle due forme, il ragionamento che concluch*. a una causa prima non è un semplice sofisiìia artificidle: esso dà una soluzione, v(U'a o erronea, a una dilticoltà reale, quantunque (jucsta soluzioni» non sia meno imbarazzante in se stessa che la difficoltà che si propoK» di evitare. Noi ci troviamo in ])i-( senza del caso più colpente di (|uesto fenomeno singolare del nostro spirito, che Kant chiama le antinomie della rag'ion pura — cioè d<dl(^ alternative di |)roposizioni, di cui sem- bra che sia necessario <li ammettere o V una o 1' altra, mentre non è possibile di ammettere né f una né l'al- tra— .Secondo Kant, le antinomie sono insolubili al punto di vista comune, che ammette la reallà obbiettiva dei fenomeni esteriori, cioè la loro indipendenza dal sog- getto percepente : esse si risolvono, riconoscendo che i fenomeni non sono cose, ma percezioni. E una quistione che appartiene alla 2^ parte di questo Sa<^g'io: ci basti per ora la soluzione di Kant. Per ora ciò che c'inq)orta è di osserv^are che l'argomento della causa prima, (|uan- tuncjue il suo punto di partenza sia un ragionamento a priori, non é, nel punto essenziale, che nn argomento induttivo. Ammettiamo infatti che sia necessaria una causa prima: ma perchè questa causa prima deve essere la divinità? perchè deve essere un agente cosciente e personale, e non un oggetto senza personalità e senza, ' 110 111 coscienza? Evidentemente, se la funzione di causa prima non sembra [)oter attribuirsi che a un aocnte cosciente e personab', non è che per l'una o per l'altra di queste due rao'ioni : sia ])erchè Io spirito è la soia causa che possa dare un con^inciamento assoluto al movimento (nella forma dell'argomento della causa prima impieii'ata dai filosofi o-reci): sia perchè la volontà è la sola causa che possa causare senza essere causata, lo spirito es- sendo dotato di libero arbitrio . mentre tutto il resto è soi:-2"etto a un determinismo inflessibile (1). Nell'uno e nell'altro caso vi ha Un ra.iiiona mento, cosciente o incosciente, per analo<;'ia, e i)ropria!iiente quest'assimi- lazione delle operazioni della natura a «luelhidelluomo. che è il tratto essenziale per cui A. Comte definisce la filosofia teologica, Notiamo che, delle due forme dell'argo- mento della causa prima, una sola, quella imi)iei>-ata dai filosofi o-reci e che conclude a un primo motore, può riguardarsi come un ra<>ionamento naturale, e come l'espressione di un motivo reale della filosofia teologica. L'altra, supponendo la dottrina della creazione, non può essere un motivo della teologia naturale, perchè questa è la filosofia istintiva dello spirito umano, e una filosofia ha per iscopo la spiegazione dei fenomeni; ora una spiegazione suppone che il fatto per cui si spiega sia più intelligibile che quello che si tratta di spiegare; per conseguenza un mistero . (|ual è la creazione, non potrebbe servire di base a una s])iegazione, e quindi nemmeno a una filosofia : d' altronde è un fatto incon- testabile che la dottrina della creazione non fu all'ori- gine che un dogma religioso, e solo in seguito si cercò di appoggiarla su argomenti razionali. Cosi, se rifiet- (1) Vedi, per «xiitista seconda ragione. Kant Dialett. traxcfn- denl. 1. 2. e. 2. sez. 2. Terza opposiz, delle id. tntseendcitt. Cfr. Ken(nivier Nnoca Momidologia, o. parte. H8 e <>1). i tiamo inoltre che fra le prove dcill'esistenza di Dio quelle delle cause finali e della causa prima sono le s^le che s' incontrino a tutte le epoche e pr(\sso (juasi tutti i fi- losofi che hanno seguito il sistema teologico, le altre non essendo che particolari a certe epoche e a certuni di (|uesti filosofi; noi giungiamo a questo risultato non inatteso : che i ragionamenti naturali [)er provare l'esi- stenza della divinità non sono altra cosa, sotto un altro aspetto, che le due funzioni della divinità, come prin- cipio esplicativo dei fenomeni, di cui al)biamo i)arlato nei due paragrafi precedenti. Le prove di un'ipotesi, in effetto, non ])otrebbero essere altra cosa chi* i fatti di cui (|uest'ipotesi serve a dare una spiegazione, provare un'ipotesi per i fatti — e potrebbe esservi altra provaV - e s[)iegare i fatti i)er l'ipotesi non essendo che due lati d'una stessa operazione mentale, che si possono distin- guere per astrazioiu^ nu^itre in realtà sono indivisibili. Sembrerà strano che mentre le prove realmente con- vincenti deir esistenza della divinità sono induttive o analc>giche, consistendo essenzialmente in un' assimila- zione delle cause dei fenonu'ni della natura alla volontà umana e alla sua catisazione ; a queste prove naturali i metafìsici abbiano sì s|)esso preferito dei sofismi arti- ficiali [)retesi dimostrativi, ma privi in rc^altà della mi- nima forza probante, come sono in generale i ragiona- menti a priori, (juando si tratta della dimostrazione del reale. Questo fatto si spiega anzitutto |)er due cause ge- nerali: 1" (j)uesta forma di metafisica che noi chiamere- mo filosofia apriorista, e di cui parleremo nel capitolo VI. Essa eleva a tipo unico di certezza la certezza matema- tica o, come si dice anche, metafisica, cioè intuitiva o dimostrativa, non lasciando alle verità induttive che una semplice probabilità. L' esistenza di Dio, che non può essere una semplice verità probabile, deve essere dunque dimostrata —-2^ La filosofìa teologica, per questo 112 - processo di,lisantro,.oii.orti'///>azione progressiva, di cm parleremo nel para-rato seguente, g'iiinge a. conciati di Dio essere p.-rfettissiino (cioè intinito in ciascuno dei suoi attributi) e creatore della materia. Ora gli arg-o- n.enti naturati deir esistenza di Dio (cioè .,uelli delle cause Hi.ali e .lei primo motore) non potrebbero provare ne l'uno né raltro di «luesti due concetti (1). Cosi agli aro-o- menti naturali saranno preferiti dei sofismi artiiical. che avranno l'aria di provare anche qu-,sti : fra essi i più accetti saranno dei ra-ionainenti a priori, i-erche dei sofismi induttivi non potrebbero simulare una conclu- sione rigorosa come fanno necessaria nenti^ i deduttivi- Con «lu^ste cause generali concorrono delle cause i)ar- ticolari: sono delle suggestioni dei concetti .Iella filoso- fia teologica, che determinano la scelta di certi generi d" ar..-onmi,ti, che ottengono la preferenza sugli altri, non perch.-'. abbiano una maggiore forza probante, ma perchè s' incontrano della maniera più ovvia al punto di vista .lei sistema, di cui sono cosi le conseguenze, invece di essere le ragioni su cui esso è fondato. Ciò potrà essere chiarito da un esame dei due argomenti a priori più importanti, cioè rontologico ed il cosmologico. L'ont.>logicoèun argomento che pretende (Z»mos<mre r esistenza di Dio i)er un ragionamento che mostri al teinijo stesso che Dio è, un ess.u-e assolutamente necessa- rio. Un essere necessario signilica un essere la cui esi- stenza è una verità necessaria, cioè tale che la negativa implicherebbe un' imi.ossibiiità logica e una contraddi- zione; e per assolutamente necessario deve intendersi che la sua esistenza é necessaria (nel senso spiegato), non condizionatamente, cioè dato che un'altra cosa esista, ma senz'alcuna coudizione. Ciò importa prima di tutto che r argomento ontologico deve essere interamente a (1) V. il ^ seguente, « lo priori, cioè non (Uvvr supporre alcun dato (Mui)irico. come tanno o^li altri ar*;'oìnenti a priori (p. e. il cosnioh\uico. <li cui parleremo in seg'uito): infatti ('mi)irico r il sino- nimo di conting-ente, come il suo contrario, cioè neces- sario, è il sinonimo di a priori ; cosi se la necessità dell'esistenza di Dio sui)ponesse un dato empirico, essa non sarebbe una necessità assoluta, ma condizionale. Inoltre V argomento ontologico non deve dedurre l'esi- stenza di Dio da quella di qualche altra cosa, perchè una cosa assolutamente necessaria non i)Otrebl)e essere dedotta che da una cosa pure assolutamente necessaria: ma secondo il teismo non può esservi niente di assolu- tanumte necessario che Dio stesso, perchè ogni altra cosa dii)ende dalla stia volontà e dalla sua onnipotenza. Cosi, secondo le esigenze dell'argomento ontologico. Dio deve essere assolutamente necessario cioè la sua esi- stenza deve essere una verità assolutaimmte necessaria), considerato per se solo, vale a dire senza metterlo in rapporto con qualsiasi altro essere : è eie che si diee quando si afferma eh' egli ha in se stesso la ragione della sua esistenza. L' argonuMito ontologico è csf)osto dai diversi autori che lo impiegano in forme div(M-se. e talvolta differentissime: piuttosto che il nome di un ar- gomento particolare, esso è quello dì tutta una cUsse di argomenti, costruiti su uno stesso tipo, di cui eio ehe precede può passare per la definizione generale. La foruìa impiegata da Cartesio i)UÒ servire da esemplare: eg'li lo formula press' a poco così: Per Dio s'intende l'essere perfettissimo: ora l'essere perfettissimo non ]»ut» non esistere, i)erchè l'esistenza è tma perfezione; così d,re che Dio non esiste, è dire che all'essere perfettis- simo manca una perfezione ; ma ciò è una contraddi- zione nei termini; dunque Dio esiste, ed esìste necessa- riamente. Se tanti pensatori eminenti hanno potuto es- sere soddisfatti da ragionamenti cosi evidentemente so- - 114 — listici, (' pere he l*aru'Oni(Mìt() outolo.uiro, udir, sue varie forme, dìx ima risposta a una <|UÌstione uatiiralissinìa e lati i i)resu[)posti della ti- (JU fisi inevitabile nel teismo. ( [osotia ai)rioi-ista, c\n\ eonu v<'flremo. è stata seguita )iu <> meno, < lalla più parte dei metatisici. alnuMìo mo 1 derni. Lo sc'Oj)0 di Cartesio e hanno annnesso una o deu'li altri lilosofi elie un'altra {'^n'u\:\ dellaruoinento ontdouieo. non è tanto di provare e//<' Dio esiste <|naut di m(»strare /wrcliì- l)i(^ esiste: in altri termini essi in tendfUìo asseu'Jiarc e he fa e he Dio esi la raii'iom' e. per dir eosi, la eausa sta. in modo ehe la sua esistenza ìi on rtjsti un fatto inesplicabile, ma abbia aiud)'essa la sua La tìlosolia aj.riorista spie.-'a i tntti mo- strando ch'essi sono di^ìucibili a priorie nec 'ssari : <|ue: ;piei;-;r/ion: IVO ( la sta stessa spieu-azione è npi)licata al fatto prinnt cui derivano tutti uli altri. Se (juesso fatto restasse ine; he tutti «ili .altri resterel)bero inesplicati, filosofi aprioristi e al tempo stesso teisti hanno l )licato. a ne rene 1 dedotto tutto fla Dio, facendone la base della spie.ii'ayao- ne uni\"ersale, dei fenomeni (1). loo-ico dimr.stra chi», jKOchè esi- L'arii'omento cosmo ;te il mondo, devecsistere un ess< re (ISSI fi aia numide, ìf^'ccs sarin (nel sensi» spie;i'ato poeo la) che ne sia la causa, e questo è Dio. E^^so è dall' arii'onien stato suuiierìto evidentemente to ontolouico: infatti il concetto di essere assohffcuHCHfr necessario sup|)one che si sia ])roposta la (juistione: jx'rchè esiste Dio? e che ( 'ssa SI sia riso luta eonfornu'meute alla oliizione <»•«» nerale della filosofia apriorista. cioè rispomleiido che l'esistenza di Dio è un?i aria e, ijuind;. a priori — ({uesti due ca vtu'ita neces.s seiido iiìdivisibili - ; risposta che uon è altra r atteri es cosa che rarii'omento (Uitologico, L'arii'omento cosniolo- ilì V. ] H'V pili ;im pi svilii]»i»i siiir;irnuiiM'Ut<» on1nloiii< <► A/f- IKHilìri ni ('((jt. \'I. % 0 <sas^9sm. jiiiBiBjiiuiiiui 115 — U'ico è stato esposto pure sotto formo differenti, che non hanno che <juesto di couìune, di conclude l'e dall'esisten- za di quahdie cosa (|Uella di un essere assolìitauiente da ciò che i' essere jìssoUitamentc neces- necessarh), e urlo ììon può essere il mondo, perchè (piesto è conti n- U'eiUe. che esso deve essere i ma causa del mondo, al di fuori del mondo stesso. Noi possiamo joh nd(!r e come torma tipica (juella im})i(»^ata da Leibnitz, che può for- mularsi co>i : Non vi ha aJcuna cosa di cui mni vi sia una ra;_:'ion sufficiente. ci(»è una ra^ioìio che determini perchè la co: dev perei a\ t're u H' e."^>o s >u u a sia cosi o non altrimenti. Cosi ruuiverso na ra.iion sufficiente, cioè die deternìini i;i cosi e. non altrimenti. Ma (juesta ra;Li'ion fticiente d<d mondo non j)uò trovarsi nel mondo stesso,, da una parte, esso non è assolutan!ente> neces- sario, ma contin;:'ente (infatti >i può concepire che esso ])olrebbe es.serc» dilfereiìte da quello che è); e. da un'al- tra parte <piantun<jue lo .>tato presente del mond(» ab- bia la sua raiiione nelb» stato pi-eced«mte, e onesto in n altro ancora, e così di seguito, rimontando sempre 11 dall'effetto fenomenale alla causa feiiomenah'. si potrà andare allMnlìnito. m)n si troverà mai una rai:ione i he non abbia l)isou'no di lUì'altra ra<.i'ione anteriore e per ^conse<'uenza, benché ciascun termine della scM'ie abbia una ì•a^ion sufficiente nel termine^ anteriore, la serie Iciina ragion sufficiente, cioè che de- 'ssa sia COSI e non altrimenti). Dinnjue intera non avrà a termini perchè ( tutta la serie (sia finita sia inlinita) deve t\\ ovr la sua. re fuori (bilia serie, che abbia la sua io che vale la stessa cosa, ehe rau'ione in un (»ssi raiiioiK^ m se s tesso, o, ( àa ((ssffÌHfdìfteufr ìtercssario: (piest'essere è Dio (1) •• (irV. I^cilmitz Prììic. 'ìrlln ind . r ilrlln fivdzììi 1 -X. A n'unadr . rircd assrrf. uli(f. 'Jlicor. tìinl. Sfah/ . \\>utvMS, t. II. i». II. p.e:. i:»2). Sn^ij/i snììd hónHi dì />!(» <m-c. {tjo-tr 1. 7. MoìHtilol. H<> :>S . (>s (Foik'Imt de ('jo'oii Uilmilz, Dcsiut l'ics f Spi sii-raz. sit Sjti iior.ii i(o:.ti. ]>. 21;")). ('(•(• 116 - 117 — Come si vede, rar*;'oinento eosiìiologico è diverso e in- dipendente (in (|iiello della causa prima. (Questo si foitda suirimj)ossibilità logica d'nna serie intiiìita di eause; ma i'ar^onìeiito eo.smolo^ieo non snppone, benehè Kant io af- fermi — V. Dialett. traHccnfL I. *J. e. o. sez. ó.) che una serie infinita di cause è im[)Ossil)i]e, coiìcludendo da ciò la necesisità di una causa prima. Leibnitz, esponendo Tar^omento, suppone quasi senìpre che la serie delle cause fenomenali j)un essere infinita (1). Clai'ke, che fa uso pure di una forma del T argomento cosmolog-ico. re- spinge una serie infinita di cause coìne assurda, ma ciò non perchè sia intiiìita (poiché uiìa successione infinita non è, egli dico, coiìtrad<littoria conu* si pretende), ma perchè tutta la serie non avrebbe una causa lìè inte- riore né esteriore (mentn* « tutto ciò i*h(* esiste deve avere una causa delia sua esistenza, una ragione per cui esiste piuttosto cho non esiste ) (2). L' argomento cosnìologico ci presenta questo fatto singolare (singolare jxm* modo di dire, j)erchè in seguito incontreremo un altro esempio, anche più (i\ idente, dello stesso fatto), ch(^ una consegiu'iiza del teismo è data coniti il |)rincipio stesso su cui il teismo è fondato. Il principio rhe Leibnitz ha chiamato di ragion sufficiente (e che è il fondamento di quest* arg*omcnto) noti è né un'induzione dell'esperienza ne una verità (realmente o apparentemente) (evidente per se stessa : ciò che» è un'in- duzione dellespej'ienza, e che sembra un principio evi- dente per se stesso, è che ogni avvenimento deve avere una causa (sia che per causa s' intenda uììa causa ef- ficiente, sia un semplice antecedente a cui esso seg*ue (1) V. M<nuuUÀ., Anuéiudr, circa (isacrf, aliq. Thaor» jucU^ SUthL. Osscfroz. su Sjtimtza. vvv, \'2) \ . 'J'raffnlo th'N'csis/cnzit r itcìjli aUtihu/i ili />io. vu\t. :\, (<-fr. e;)]». 2.). \\\ inva.riabilm<,>nte) : ma da (juesto principio non può con- chnlersi che il mondo stesso, cioè l'insieme di tutti gli avvenimenti, devo avere una causa. Che ogni cosa, e non solamente ogni ((rrnìimento. abbia una ragione che la determiiìi e possa spiegarla, non è vero che se si am- mette il teismo e la i)ossibilità di dimostrare l'esistvnza di Dio assolutamente a priori (cioè per rargomento on- tologico). É solanu'nte allora che ogni cosa in geupralf avrà una ragion sufHciente, cioè che determina perchè essa è così piuttosto che altrimenti, o, come dice Clarice, per cui essa esiste piuttosto che non esiste; perchè so- lamente allora . noii solo ogni avvenimento avrà una causa (in un avvenimento anteriore) . ma avrà anche una causa la serie intera degli avvenimenti (compreso il loro subtratum permanente), e (juesta stessa causa avrà, come dice Clarke, una caum intcriore (cioè la /?c- vpssifà ((ssolnta, che nessun materialista ha mai pensato di attribuire al mondo stesso). Tuttavia la r/.s* probante dell" argomento cosmologico non sta sohimente in una est(Misione illegittima del principio di causalità e in un soti>ma di confusione tra il i>rinciiMO stesso e (|uesta .Mia estensione illegittima —che Leibnitz ha formulata col svuì princii)io di ragion sufficiente^ . l>enchè non si abbia alcun diritto di pretendere che le inclinazioni del nostro si)irito diano k'ggv alle cose stesse . non vi ha dubldo che, se le cose si conformassero al sistema dei metafisici che ammettono il principio di ragion suf- ficiente e rargomento cosmologico che ne è 1" applica- zione, rak' a dire resistenza di una eausa prima e una ragione capace di spiegare (piest* esistenza stessa; ciò non sarebbe più soddisfacente ]»er la nostra intelligenza che una successione infinita di avvenimenti senza una causa esteriore \n causa interiore la lasceremo ai meta- fisici). Nel primo caso tutto sarebbe spiegato, mentre nel secondo caso vi ha necessariamente (jualche cosa ns che rosta s(Mi/a s|)ii\ii'a/^i>"»ne.. e io e lì e Mi lì chi a ma ìc cnl- locaziovi prhhitivi'. 81 potrebbe, ])(*r conscuiKMiza. essere tentati di vendere, con Kant, neirarii'oniento eìsnioloui- eo, non un .>einj>liee sofìsnìa, ma un raijìoììamenfu natu- rale (1): ma là (lr»ve il ravattere artilieiale dell'ai-.i^oniento il) V. Ctn'iftf fh'lin )(<(/. i>»(r>( l>'nih'il. Ir'n<ct'ii ({fili. 1. -J. <•. :>. ><'/,, ;. e se/. .'ì. S( con*]»» Kniit. l'^sx-ic ;i>soint .-oiK-iirr i!r<('s>;irio 0 niridcn ìihIì>ì»oi!>jìI>ì!ì' (1('1!:i niuiniu". «li cui iioìi si piiT» i.n»\ ;n<- l;i rcMlln ol>Ui.-tt/\:i. <iit:Mit ur,«[iH* hi i;ii;ioiir ci oimIIuì iiji|'('ri<»s;i- mei to (li :!iiìii»ottovìo <V. i 1. <' '-tV. Crìi. <ìrì f/i"< Ms so r :r.i«li<' il >(»i;L;<tH> <li iiir;mt iiH>mi;i «lfli;i r;iiii<ni(', chu' «li r/. \À. LXXVh <_' < CUI line [Hi>]H)sizinni <'im' sciiiIumih» ("LiiKilinciit** ii(.'C<'ss;iri<' riiiKi 1«> MtVcniin r i";ilii-;» 1(» uv'j^-.i. {hìalrll. IrasrrmhHf. I. '_'. e. li. scz. 2. (Jinnhf uftpoy/iziom). i}n\ iM»i \«'<1Ììmiio In ni:niif'<'st;i/ioin' Uiic i;i ii!l I il l;i -n:i (li;j!('ttic:i l. (Il ini.'i tt'iìd <Miy::i < li 1 \jnit. n^scr\:i Tl'Jisr» inl('iir;il(\ :!«! clrV.nc In iiict ;HÌ>Ìr;i del s'.lni rciiiin ;i J1M'ì:i- fisirn ii:ìf;i!-Ml<' «Irllo spirito tniin !!o. T'u* iil(^;i iiM\ itnlnlc «i<'l rsjuioiH-. clic noi <!siiiM» toi'/;;1i ;h1 animcTtcr»'. Im'Ii Ili' I I «-n:i oi»- hiottività LiUCllZ!» loL:.ii pr<»l^l<'nìntic5?. nfni i>4>tT;:*i»bo osscir che uua c'»T!<e- <li un j»rinri|tin eli?' ci s'ìmiimmh* couic »'\ iilfiitc jicr S<' tcs>o (le |u-n}>(»si/.ioi>i (Iclir ;i!lr«' i i'«' ;Mit in(»Jiiic I'oìmI nio i«»|ua U!i |Ui!Hij>;o <h tiu<'>t<» ^cih re. rioi' 1.1 rc.iltù ;(ssnlnt:i <lc! lllOiK lo olci-i»»!*'!. .M;i. roiiK' jih'ù.-iiMo visto, il i:iui<Hi;mi('nto IMI- ui >i cojicIihIc Trsscrc ;is:*o hitMUKMitc lìcccssjo'io e loud.-ito >ul ju-incnuo <li i"iL: mente, conn' « iiunner.i «ioii siitVieiente . cl:e esso sin inxoenlo esji!i<ir:i- l:i l.eiUnit/ e «In ('!ni-k«-. «• no, «• «{unlun([n<' >ì;ì in 1/ l'oi-niulnrlt» : «u-i «jU«'<!o pi-iìieipi»» ihmi poi r<'l.lM' nveiM- «l<Minn ]»reic>n n<l «•ss«'i«' v.^unr» — Del resto Kant . ilat o eonu' «'vnh >o, 111 «• p«'r se ste n'erinnn<l«» clu- 1* a r^ouieiito cosuioloiiiiro e un « i-n.uionnjnentonntJnnl«- '>. cn«le in coni i-nbli/ione con >e st<'s>o. Ile culi nllennn i»ur«- {Uìulctl. /rffsmnlfjif. 1. J. <• .). s« z. Ti.) che «'sso non e fi e «lie «(Ueslo zinne «lr>llo s|nrito scolasti«o le rm-'^onicnto ont«>!i:i;i<'o sotto niTnlt in roinin nj-l»iti-ario . «' non i' «-Ih- « unn sempli«-<' inn««\n ( Ij'ai'Lionu'nto eosniolo^ico «' l'nr ». lioiiwnto on tolo'^ leo so tto inTnltra toruin. jjcivliè iier i<ìentiticnre eon I> IO 1 esselH' ÌIS-.0 liitni nenie n«'<-essniio. e{> !icliis«> «Ini primo. ìHSW 119 - si tnos tra della maniera, più palpabile, è «piamb) si tratta li provare che Tesscu-e assoluta ìin^nt e iu»c essano e Dio. etoe un ess ere dotato d'intelli.u-e]./?! (^ di volontà (1). Se biso"ue)-obbe pro\ nre clic Dio è un « ;scrc ns>oliitnment«' neee-- sano: mn «-io e he pi-o\ a «jucsto i' nppnnto rnr-«nu«':it «» ont<.l.>.ui««». C^uest' osservnzi om' « li Knnt i' senza dubbio liiustn . p«'rch<' un lulnmenle n«-cossnrio non pn«» essere ns>o che un essere In «Mli e ]ui«uà: ««K^ì. ì dovreblu- l'nr vedere e Voler dire nllr.i «-o.-n isleìizn « ì mn Ncritn n«'ce>snrin «•un- >er« hv 1 ( nr'j.'tHiUMrn» eosnio 1 o 'J. ICO he r esistenza « li l.)i o e poti* bile faro che 1' ara:onicnr<ì untol<>A'i<'<>' l'osse eon\ !n'-«'llte. l:il«'. ciò ehe n«ui K (>\iib'nte che se rar«i<»niento e«>;^ m(d«;"i«-o mm «' che T ni-.^o nneiito onl«do.uico svi- ato, e «(U«'si«) «'. una « seinpnc«' iinu) vazione tbdh» spirin» >eola stici) ». «-io*' un puro s<disnia a ra''ionani«'iit«> tmhnudc, ma «H titleinle. «pudìo n«)n i>no «-ssere un \v v^^Wi' an(dr"^so. e ra'j.M>H(' « 1) Tra una sem]di«-e inn«»\ le 1 ;l pili lortc >ro\<' < una s()!;i. elle «' nzioiM' <l«dl«» spirilo se<d;isvieo ». li cui si *' fntl«> ns«» larenio iiHMizi«»ne «li luni.ata «la ("lnrk«' iTrnlL .h-ll' r^isl. r .tnln svilupi drilli iillrì(>. (li l>i<>' <' .i e nceeiinn In i\;\ Lvilmilz [Tritti firlì H 111 f. c ddla iiraz.. '.).). Questa pruv.i e lentt-menle dairai-.Li«>!>iciito <«»sni« Locke {Siii/i/io tiKlI'iitl. inn lift di)>"ii< I. IV stai a ì>ui-.' i.iipi«\u'*'it;i ni- l(.'^i«M) : e->a si \ r«>\ a '^i; 1(1). ed «' unn d,i <pudl« die Slunrt-Mill onminn ne (> Sii rh':tiio »ni le 1. J/-- joni 1 ni! ;ln JU' o\n SI «•«> mdinle «he In l«-v e a\'ere u, li ;ill libili i «lidio spirilo, prem tsi un aì-iiomcnto (die e pu«> s«'m altri, non e puut<» r itba « tniilo p.r«dii' l"«'>p«'rienza con1«'riii; nii'c «die «lallo spiriOi hrare jdù jdaiisildh' «li Innli ino a<l un ««'rio «1 e\'e esserx 1 una ^omiiiliaiiza fra la causa . «{Manto ]i«*r« i«' Si tomi a si <l(d «• iiìui \ a.^a ana <dli «die haiim» Inoiii «Mm «-«'rii pr«Mbdli sjMUitamu «li «iimsO. ]»r(>- di assimilazi«)n«' inco!^«dcn na turale «bd n«>stro s)nri (o. S«' noi «lomamlianu» p«»r(dH- lo siurit»* ]>rovenir«- <di<' «lallo spirito. ( in« turale <bd!e ct)>i' la ca:ir>:! <!«-v«- e>> re s«'m pre [MU ec<( llente «bdr«'tilctt«>». in-r «-«mseoiu-nza r«'s>eiv primi- ivo «lev<' p«)ssedere m I i»iù Ito ji.rajlo b' p:'rtezioni «li tulli -li r iS — 1-il lìial-rado V impossibilità cvidiMìtc di costituire questa seeoi»(Ia parte (leUaro-ouieuto altriineuti che con sofismi ]>uram(Mite artitìeiali. Kaut può affermare eìu' esso è un rao'ionamento naturale, è percliè e<i'li disti n^-ue . come abbiamo ^•isto, una r^'olo^ia ^/mvr/^f/^^/^fr//^ U'he ammette un essere priiiiitivo. ma senza aceonbiriili -li attributi deirintelliii'enza e della volontà, e lo eonelude con oli aru'omentì ontolouieo e eosmolooìeo) . e una teolou'ia esecri : t' chi* se rrtb'tlo avi3.ssr <piJilcLic pcitV'zitmc che non si novMssr )>mv iit'll;» cmiism . « l)i>«>^»iert'l»b«' <lir«' <Ih' «|iM'st;i per- tV'zioiM' non saiM'Ulu' st;ita pnulottji <bi niente » (V. Chiike 0/>. /'/. e. U.i. La srLMUMla ra^iojie è una f'oi-nia s(>ttile e, jm-i- ilir eosì. impalpabile drl piiiu-ipi'» «•Im- 1" csscic non i»n«. venire «lai niente {«'Ih' era ra>>it>nia «Ir-ii antielii Fi-^ici -n'ci. e sÌLtni1ìeava vhv. ìu realta, nirnt»' na^cr ne prrisre — nel lM/>//''/^f/*Vvw///r/ />///•- tr / ve<lr<Mnn eonie qneslo prin<-ipi<» -b altri «-oncctti anah»- olii «Icrivano dalla s(»JÌNtica natnrair «lei nosl io -pirite da cni si «»ii'j.inano i <-onr«'i(i ni('tali>i«i in iicnrral»'). I/appli<'azione di questo prineìì»io nlln creazione, so esso si prende nel senso pro- ]>rin, non >ai'eld»c nn >ciMplicc imhi senso, ma mi'apcrta cont rad- ilizionc : ma si rvviìt- di ailennair in «inahdie modo il mistero della ci'eazi<»iir dal niente pm- la metafora elie l'essei-c «' le per- fezioni delle cose <-reate >on(» nna /ttt/trri/taziour deli" essere e delie p«'i-tezioni del «reatore; i-osi l'essere, in <inal( lie modo, non verreldx' dal niente. In «[nanto al principie «lie «nell'ordine naturale delle cose la, cansa deve essere sempie più ec<-ellente eliP l'i'rtetto», i- nn altro «s<'mpio di «pusto va.i;o antiopomor- tismo (-he si ve<U' talvolta in «ci-ti concetti dei metafisici, e (do- n<in più» avere una sor.L^cnte divei-sa clie^ i sistrmi s<diiettamenle jtntropomortìstici di cni palliamo in <pn's[o capit«do. Percdie in- fatti 1:» cansa «leve ess^-n* >empre pii» eceelleiite iUdV ett<'tto i Kvident«-mente pendiè la cansa. in «lualcdie modo . coman<la . <• l'etletto. in «pialche modt». nldddisce. ed (• nna sn-.m-stione d^ Ila nostra <-sperienza «pndidiana d<d. rai»poi-ti de.nli nomini fra di loro e con iili altri esseri clic «|n( Ilo (die comanda deve essi're s<-mpre /fin tvovllrnh di «piello <die iil»l»idisce. naUtrale (che annnette un autore intelligente delT uni-, ed ha per i)rova, tra qutdle della ragione teorica, la tisico-teoloiiicaj. Ma (juesta distinzione non ha alcun fondamento uè storico ne psicologico, e non jjuò basarsi che sul jrocesso arbitrario con cui egli pretende dedurre ridea di Dio {V idoale della raijfOìì pura) dalle semplici le'"»i della ragione base di cui questa distinzione stessa mostra riìisussistenza, poiché è la confessiojie imj)licita di Ivant che h\ sua penosa deduzione non ha raggiunto il suo Oiiu'etto . che doveva essere, non il semplice cns origiimnam che egli deduce, ma il Dio del teismo, cioè un autore intelligente dell' universo, (|uesto, conie dice e-^di stesso . essendo il solo concetto che e' interessa- . Kant, dopo aver mostrato nella Critica della ra(jf(jii jtf/ra che gli argomenti a prii^ri (cioè Tontologieo e il co- smologico) sono assolutamente inconcludenti, e che Tar- gonu'.tito tìsico-teologico. quantuiKjue concliula con vero- somi"'lianza. non prova Dio secondo il concetto del tei- Siilo modtM-no (cioè come intinitatnente perfetto e come creatore), nella Critica della ragion pratira fonda Vosi- stenza di Dio sopra una j)rova dedotta (bilia legge mo- rale, che, se non la dimostra rigorosamente al punto divista d(dla ragione speculativa, basta a stabilirla come oo'o'etto di una fede ra'ùonalv pratica. Il |ninto di par- tenza di (juesta prova è la dottriu'i del sor rafKf bene. La ragion nratica ci asseu'iia come scopo ultimo il sor ratio bene, cioè l'accordo della moralità con la felicità; dun- 4ue. noi dol)biamo ammettere che la sua realizzazione è j>ossibile. Ma quest' accordo, (jtiest' armonia perfetta, della, moralità con la felicità noi non lassiamo conce- pirla come un risultato delle semplici leggi del mondo sensibib-. ma essa supi)one, (dìuoìo per noi, una causa iìitelligente e morale della natura, che preordini Funi- verso a ([uesto scopo. Così 1' esistenza di Dio è uu po- stulato della ragion pura pratica. Poiché è un dovere ^'2'2 — i2a - por noi «li lavorare alla realizza/ione del .sovrano bene, è una necessità, che (lei"i\a da (questo dovere, di sup- porre la possibilità di «inest(ì sovrano hcMie, il (piale, non essendo possibile ehe alla coinli/icìne delTesistenza di Dio, le^a insepai'abihnente al dovere la suj)posizione di <juest"esistenza. vale a dire che è nìorabnente tkmh's- sario <r aniiMctterc^ T esistenza di Dio (1. In sostanza, Kant noi! la che elevare a [irova (h'IT esistenza di Dio il seiìtinuMìto (die <juest' esistenza è desiderabile; sen- timento, come dice Miil {'2). (die, j»osto s(4to foiina «Var- goniento^ eiò che accade spesso, esprime ingi^nuanuMUe la tendenza dello sj)irico nmai:o a ci'cdere ciò cin^ li'li è a u.ì;" radiavo le . \\ evidente che l'accordo, la j)r(>porzione, tra la virtù e la t'elieità è una proposizione che n<m ha meno bisoi^no <li (»ssere pi'ovata che T esistenza di Dio che essa serve a prf>var(\ Kant dà, al fondo . «|ue<ta |>roposizioiu' come una cr<Mlenza naturale e primitiva del nostro spirito, come una smMa ^\\ (jiaili?:*'» sini'tivu a priori (.'») — come se volesse dai'e una j)ro\a j»alpal)ile delTobbiezione dei suoi critici che un ^u'imbzio sintetico a priori non poti'ebhe essere che uìiafferinazione pu- ramente lii'atuita — . Tu verità Kant non dà esfilicita- mente <pn*sta crerlenza come un (Lato innncMliato d(dla coscienza, ma la (UmIucc (bi un preteso dovere : jxdclu'ì noi abbiamo il (hnci'e di realizzare il sovram» bene, cio('' Tai'monia della virtù con la felicità, n(d (hd)l)i;imo ai nmettere che essa (' ])ossibile. Ma ipiest' artifizio n OH toiilie (die in realtà «'lili din la credenza come imme- diata, m'' liiova moho a l'afforzare il suo aru'omento : la deduzione della ci'edenza dal doverti, come (jua.lsirtsi '_'. S( «' II, (1) C/if. ilrihi ttn/. j^ra!.. 1. jnirrt;. I. 2. <• (2) Sf(f/f/Ìo .<:tff Trìs'ino, 1. piurc, Arf/Oin. drììti (S) \'. CrìL ihihi rat/, iirnlii'n, 1. )»jirt<'. L 1. e r. /. V cn.u'ìrnzii lUT.K- *'jS %ì altra deduzione che non sia sofistica, non (' che nun petizione di privici pi( l)ene . il dovere di. realizzare il sovrano ;e noi sentissimo realmente di avere (|Ue>(o ( 1 1 vere, porterebbe imnauliatamente con s('' la credenza della possibilità <li (juesta realizzazione: e da un altro canto, dalla non esistenza hdla creilenza nrd possiamo conchnU're che il dovei-e (' impossibile, come Kant, dalla pretesa esistenza del sec(mdo, conclude k-ìm- ha il ria. 1/ arii'omeiito di Kant dà luo^o a prima e iiecess una (b>manda assai naturale: (juale possa essere lo scopo di (piesta strana inversione loo-ica, che dà come un» rauioiK^ dell'esistenza di Dio ciò che non ('• stMto mai rii:uardat(^», e inni polrebl )(• essere l'iii'iiardato altrimenti, h he come una conse^iu^e.za di <(Uest;i esist(Miza: ]»erciH Kant non (li;\ inime( turale e necessaria ([Uella, non meno incei liatainente come una ci'edenza na- r esistenza stessa di Dio anziché ta, deirarmonia tra la virtù e la felicità. Senza dnhbio. se e-li lia accordato alla secon- da (piesto caratt(M"i^ i ma, ò jx^ichè e he inni av rebh.e ;u c(n-dato alla t)ri- w è un'idea ch(^ si presenta natural- mente allo spirito umano . (pi!indo non si contenta di accettare il «lo vere come un dato immediato «Iella co- scienza imo-ale, ma pretende di asseii'narne un fonda- mento V. un perchè. I.a dottrina kantiana, « lei liene non (' ( he un cifth'ìninusìiht dissi m tilat o ;ov"raiio (llU'>l.'< dottrina . cernie i sistemi di (Uica francamente ei ideit n»- 111: fé itici, ha p(n- iscopo — (piantumjue Kant non h. co; ssi m ti deve essere il fondo del su(^> pensieri ~ d l valore d(d dovere da ([Ualcin^ cosa il cui va- rie ri vare i lore sembri più evidente intrinsecamente e | nn im*oii- tes tabile, cio(' la felicità (1). Kant ])(msa, al fondo, dir ])oich(> il doverv' ci (' incontestabile, esso « dato come un che di un valore b^A ess ere accompau'nato dalia (1) \. \\\ [>iirlr m (li «[licslo S;i.u,Li H». 124 - L*r»Mleuza del suo accordo con la fclifità, perchè, se uou fosfse così, il suo valore non ci sembrerei be incontesta- bile. Così rai-ii'oinent^ di Kant ìion è rhc nun variante del vecchio ar^onn'nto dei teoloiri. che la leuiife inorale suppone un le<»ìslatore — ar«>'oniento die im[)lica (sia che si dica o si sottintenda) che 1' obl)liii'azione morale dipernle dal premio e dalla [)Uiìi/ione dis|)osti da (pitvsto legislatore — I). Tuttavia lo sco|)o di Kant non è tanto di dare un fondamento airobbli^azione morale, quanto di realizzare ["ideale il'un ordine morale nel mondo. A questo punto di vista, il suo argomento, quantunque privo di qualsiasi valore lou'ico, ne ha senza dubbici uno psicologico evidente, essendo 1' espressiom* di uno dei motivi i-eali che contribuis**ono a mant(mere la cre- denza air esistenza della divinità, nella parte mialiorc^ del *ienere uìiiano, quantun(pn' lu'ssuno abbia mai j)en- sato. prima di Kant, a vedervi una [)rova di <[U(^st'esi- st<'nza. Ma benché le cause inorali «bdle opinioni siano, come osserva Mill (2), le più potenti di tutte nella più parte de^li uomini, non è ammissibile che la credenza stessa nasca unicamente da motixi di (luesto i'*en(n'e, s(nìza r influenza simultanea di alti'i motivi che a^'i- scano direttann'nte sull int(^lli;^-enza. K (dò che bastano a dimosti'arc» I" (v^istenza di ])ensatori . che . come p. e. Aristotile . hanno ammesso la filosofia teoloirica come pura speculazione, senza annettervi alcun sentimento reli^'ioso . e T analo;i'ia e\ ideante di «piesta filosofia con (1) ^^iiiiinh» K;Mit scrivrv!) l;i ('t'iUca tìr/ìff ruf/ioii jnira, Sein- ttra rlir c^Ii iioii coiHM'pis.s»' ancor;) 1" jn\iioiiieiito hmh'.mIc clic in questa t'orma : Trsistcn/a «li Dio, c^li <li<r. deve <'ssci'<* postulata fOiiM' i;i ron<li/,ioin' «Iella jMJssihilità «h'ila l'orza oòftlu/ufot-in «Icilc jciigi morali, (('ri/, «hlln ntf/. futru. Pìalrtl. /roscrm/. I. II. {-.';). *.z. Vili. (21 /joijira, I, ."). e. 1. ^ S. - 125 le altre forme dell'antropomorfismo di cui parleremo ne«'li articoli seguenti : del resto il motivo a cui cor- risponde rar^omento di Kant, cioè il sentimento ch'egli ha messo sotto forma d'ar^'omento », non ha potuto in- fluire sulle prime oriiiini dei concetti teoloi>ici, le n- li<>ioni inferiori, come osserva Tylor (1), essendo sepa- rate dalla morale, e solo i popoli progrediti concependo la divinità come autrice d' un ordine morale nell' uni- verso. Kant, i)er accordare al suo ar.i;oment(» morale una forza probante che ne<>a all' ar^iomento fisico-teolo- gico, non ha che una ra^^ione decisiva : che solo il pri- mo, e non il secondo, può })rovare la perfezione asso- luta della divinità (l'onnipotenza, ronniscienza, la bontà infinita, ecc.) (2;. M.'i eiò è un'altra j)rova che esso non può essere la vera base della teologia rwiturale: ])oiché questi concetti non ai)pariscono che ad un certo «^'rado dello sviluppo delle idee sulla divinità, di cui non si può rompere la continuità coi irradi inferiori. Infine noi dobbiamo osservare sull'aro omento di Kant che, quan- d'anche esso fosse nafaraU' . non contraddirebbe .'dia l)ro|)Osizione che noi abbiamo cercato di stabilire in questo para^Tafo, cioè che le sole basi razionali della filosoHa teologica sono la [)rova delle cause finali e quella del primo motore: che cosa è esso infatti se nmi un caso della prima di queste due prove, applicata a un ipotetico ordine morale, invece che alTordine, sino ad un certo punto reale, del mondo tisico ? Perchè noi dobbiamo preferire l* idea di un Dio autore della pro- porzione fra la moralità e la felicità alla dottrina bud- dista del Karma, secondo cui questa proporzione è il risultato spontaneo deiriucatenamento fatale delle cause e deoli effetti, se non in virtù di quest'argomento (abbia (1) 'fvlor, Cìrilìzzdz. /irimif.. <a]). XVII. <2) V. Crif. '/<'//'' l'^fy- /triffirn. ]»arlc 1. l. 2. <•. 2. \ U. - 120 127 - «'s.<() un valore obbiettivo o seiiipliccincìitc^ siibbicttivo) cììr ToriliiK^ suppone uu ordinatore? Forse tvix ì^onfiìff tiHH-ali' e Vintlìne fisii'o vi ha (jUesta (lift'ereir/a, che nel I lu-lu ;tibil e en( pruno easo la eoneiusione seniora jiiu irresis uv^l secondo : ma <iuestM è uìia dift'eren/a illusoria, che dtu'iva dal vanta^uio reale della piova fisica sulla prova iH'H'dh'. Noi troviamo inHiiitamenie più i>aradossastica la dottrina bud<lista che la dottrina t(;i>tica, perchè eom- {)rendia]no dir la j)rop<»i"/a"one tra la moralità e la t'eli- <!itM non e ch<' un ipotesi, che mni può essere acc<*ttat;i L'ome \"erisimile se non come una consei^non/a del tei- smo : iììa se essa t'osse un «lato dell' osservazione; come ]" ordine fisico, o una credenza naturale e necessaria vome \uoU^ Kant . l;i «lottrina teistica ci semlu'tii-ebbe cassai j)iii ardita che (piellri buddista, in cui non •>'edi'em •mo (*h(; la constatazione pni*a e sein|)lice (hn tatti. Ciò a cui si dovono in i:ran |)arte le pi'o\i; sofisticlhì ilell 'esistenza di Dio, cioè 1* incaj)acità (hdle prove na- turali .'1 dimostrarlo come Ti^sscre dssnhif n o /// fin il <K e pure il moii\-o principale dtd parados-;*» psicologico che o^uest* esistenza non è un o^'aetto di pro\?i. ma unn crtMhmza imtiirale e una \ crità inluiti\a. V. ciò che può vedersi dni termini stessi con cui (piesla dottrina è l'or- ;'ttuulata dai suoi sostcuiitori. Secondo ÌMax-Miiller,si trova, alla radice di tutte h' reli,i:ioni. una facoltà distivita dello spirito umam), indipendente dai sensi <> dalla rai^ione. anzi spes-^o in antaii'onismo e in contraddizione con <*ssi. e clie si cliianm la facoltà di p(n-cepire 1" //?/////7o (1). tutti i l'atti della coscienza si rias- •>econdo (.'ousi mono in un tatto permanente, sempro presente uidla coscienza, e che consiste a percepire al tem[)0 stesso : W tìiìito (eh'e;;li chiama anche relativo, contingente, ecc.), Yinfinittf (che chiama anche assoluto, necessario . ecc.) (1) \. ^I;i\-.M filli r. Lk srienzd ilrlln /r/ifjionr. 1 y e il rajìporto tra i due (cioè che il finito ha per causa e pe4- substratum V iiifìnifo). I nostri ontolooisti (secondo i (piali . non solo noi conosciamo Dio immediatamente, ma lo vediamo), invece die deir/////y///o j)reterivano par- bii'e ìAìAV ('iìf<\ (WW ((><snhit'i. ecc., termini ancl 1 ossi, come li V iufiiì'di), più appropriati (per usare la distinzione ( Kant) ai concetti della teolo^àa intHcciìdonUtlo che a (|U(dli della teoloiiàa iìattiralc Per onesta dottrina, come pei tre aru'onuniti precedcMiti. la (jiiistione nmi i)uò es- sere per noi che di cercare lo scoj)o i\ cui essa mira. esse \\{\(\ evidente che non ])uò ess'^re il risultato di un'os- servazione j)NÌcolou'ica sincera <' senza ])reoccupazione. Si'mbr(U'à strano di dire che essa non si comprende die percdiè può guardarsi sotto due aspetti in (Oialche inod(« traddittori : la proj)osizione che resistenza <li Dio COÌl non ha bisoi^no di ossero provata, non (^ m realta che l'enunciato di una certa maniera <li j)rovare (juest'esi- st(Miza. Noi possiamo distin.uut'ro due forno? in (picsta )n è che un travestimento del xecchio hittrin 1/u na m arii'omc^nto (Ud consenst» uni\-ersale. Per dare' a (pu^sto \\\\ aspetto ]>iiì ro'JoìH dista, dalla uni versali! i della ere denza non si conclude immediatamente cln^ essa è xcra. ma (die è naturale ed istintiva: ciò prova, continua l'ar- .2^omento, che ess;b è necessariamente vera, perchè un'af- termazione immediata d(dla coscienza non può mettersi in dubbio, ma deve ammettersi come lUia verità assi(»- matica. I. 'altra forma della (butrina è una conseuuen'/a de.uii ai\i:'onH'nti a priori. Alcuni di <piesti argomenti, <piali i più u>ati (li tutti, cioè rontoloa'ico e il cosmi)- lo<zico, aàungono lo.i»-i cani ente a (piesto risultato, che ja proposizione che essi pretendono dimostrare, è in realtà (nidente per se s tessa. Se il concetto di Dio im- plica qucdlo della sua esistenza, come vuole l'arpunento ontolooieo, ciò importa che noi non possiamo pensare Dio che come esistente: ma se è così, l'argomento on- — 128 - 129 — lologico uoii V una (liiiiostra/Joiio, ma la semplice enun- ciazione d'una lìecessità inìmediata del pensiero (1). In quanto all' ar<4omento eosmolo^ico, noi ahbianjo visto ch<^ la sua vis [n-obante non sta ehe in (|Tiesto fatto: ehe ia nostra intellii^'enza, in virtù delh» sue tendenze spon- tanee, trova più *oddist'aeente il concetto che il mondo ha una ra<^ion sufficiente in una causa che ha la 6Uu ra^^ion sufficiente in s(* stessa, anziché (juello che esso esiste puramente e semplicemente, e non vi ha alcuna ragion sufficiente che spieghi la sua esistenza. Cosi anche l'arg-omento cosmoloo-ico non è un' int'erenz« — e come potreldx» essere un'inferenza un aruomento non induttivo ?— ma la enunciazione» di una tendenza (se- condo i suoi fautori, di una necessità) inunediata e primitiva <lél })ensiero, cioè iìon risultante da alcuFi pro- cesso loo-ic-o. Dalla pi-o[)osizione che 1' esistenza di Dio è una verità evidente per sii stessa si puù ()a.ssare a quella che questa verità è seinfire presente al nostro spirito, sia per I internn^diario della dottrina delle idee innate, sia di quella deirintuizione razionale. La dot- trina delle idee innate, che è fondata sovratutto >ul concetto che l'essenza dell' anima consiste nel pensie- ro i2), cercando dcdle idee che [)ossano essere un patri- monio ori^-inario dello spirito, Je trova naturalmente nelle verità evidenti per se stesse o pretese tali. La dottrina (h^ll'intuizione razionale ha [)er o<4-g"etto di spie- gare la coiiu-idenza del [»ensi(;ro e della realtà nella co- noscenza a priori di J)io e in o^ni conoscenza a j>riori ili generale, ammettendo una percezione immediata del Vero stes.so obbiettivo o delle verità in Dio (P^) — la dot- trina di Cousin della partecipazione a una Jiagione un4- (1) V. Apft. ai (Uff). G. v> fi. noti! ultiuiji. (2) V. Appenri. alla partr t. e. 2. \S !». i^\ (^fr. Samiìo L e. 'ò. ^ 7. versale non differisce che verbalmente da quella della visione in Dio— .Nell'ipotesi di questa percezione d'un oggetto che è col soggetto percepente in un rapporto invariabile, il più semplice è di ammettere che essa è permanente, tanto più che la trasformazione delLargo- mento cosmologico in verità intuitiva arriva natural- mente alla formula che la percezione del contingente, o del suo sinonimo il finito, implica quella del necessario, 0 del suo sinonimo V infinito. § 5. Il risultato dei paragrafi precedenti, cioè che la base della filosofia teologica è in un processo indut- tivo, che consiste essenzialmente ad assimilare le cause dei fenomeni e il loro modo d'azione all'uomo e all'at- tività umana, può essere dissimulato da un processo in certa guisa contrario, a cui si confermano, nella loro evoluzione, i concetti teologici, che consiste in ciò, che pio e il suo modo d'azione si vanno disassimilando pro- gressivamente dall'uomo e l'azione umana, e può essere chiamato ([Uindi, come è stato chiamato infatti, ìadisan- tropomorfizzazione della divinità. Questo processo dì di- santropomorfizzazione progressiva può considerarsi so- vratutto sotto due aspetti. L' uno ci mostra una diffe- renziazione crescente tra il sovrannaturale e il naturale. Al principio gli esseri soprannaturali sono degli agenti fisici : quantunque si sottraggono ordinariamente ai nostri sensi, essi possono apparirci, quando loro piace, e mostrarsi per ciò che essi sono, cioè come persone visibili e tangibili. La persona, il sustrato fisico dello spirito, si va mano mano smaterializzando, e finisce per diventare una sostanza spirituale, cioè un quid inacces- sibile ai sensi e all'immaginazione. Una trasformazione analoga avviene nello spirito stesso, cioè nelle qualità mentali degli agenti soprannaturali : queste diventano sempre di più in più sovraumane, e finiscono anche per perdere questa condizione di ogni coscienza empirica, 9 — ÌHi) — — 131 — anzi più <4(Mi(!rul mente di o^iii coscienza (!onee|)ibile, che è la composizione di stati multipli e successivi. E, in una parola, se misi [)erniette quest'altro neolooi^nio, una ( / i.s f'e nome lu'zzdZfOHf crescente, i)er cui riperfisico si mette in un'antitesi sempre i)iù radicale col fisico, sino all'opposizione completa d(;l pensiero moderno, in cui un o^'uetto nu'.tfiHsico, nel senso stretto, cioè sovrasen- sihile, non è semplici;mente ciò cho non è sotto[)osto alle lea'ii'i del mondo empirici), ma ciò di cui Jion è nemmeno possibile di t'ormarsi alcuna ra|)})resentazione propriamente detta, cioè alcuna imma<i'ine. L' altro as})etto sotto cui può considerarsi \inUsnntropijinorfizza- 2/o?^e della divinità può riassumersi così: dal concetto della divinità si vanno sop})rimendo tutti iili attributi delTuomo cbe si riguardano come imperfezioni, ecfuelli che si rii>'uar- dano come j)erfezioni \i\ ven^-ono conferiti in un i»'rado vsempre più eccellente, sino al più alto cbe sia |)0ssibile di concepire. Così da<i'li esseri soprannaturali delle re- lia'ioni inferiori, so^aetti all' errore, all' in<j:anno e alle passioni più grossolane dell'umanità, e cbe possono es- sere intimiditi, feriti, vinti e sottomessi da<rli uomini, si «'iun^e infiiu' al Dio onnisciente, onnipotente, infini- tamente buono e infinitamente santo del cristianesimo o del vedantismo o del deismo dei moderni filosofi. In questa evoluzione del concetto del diviiu) ciò che c'im- porta è la fase ultima, e propriamente due caratteri che essa ci presenta: l'uno è che Dio viene concepito come esente dal cangiamento e dalla successione; l'altro che esso diviene l'assoluto o V infinito^ cioè che il suo con- cetto si compone di lutti *i'li attributi dello spirito che sono t)iudicati delle perfezioni, elevati ad un grado as- soluto o infinito. Questi due caratteri del concetto mo- derno e più evoluto della divinità costituiscono, sulla base della teolog'ia naturale^ che è essenzialmente, come abbiamo visto, una spiegazione antropomorfistica del- h V origine del movimento e della finalità, una sorta di sovrastruttura, che nasconde, agli occhi di molti filosofi, la base stessa, e che noi possiamo chiamare con Kant la teologia ir ascendentale. Dei due elementi della teologia trascendentale, il primo, cioè 1' esenzione della divinità dal cangiamento e la successione, è quello in cui si manifesta sovratutto quest' aspetto della disautropomorfizzazione del divino che noi abbiamo chiamato una disfenomenizza?:lone. Il proprio dei concetti metafisici nel senso stretto è, come abbiamo detto, che essi trascendono, non solo 1' espe- rienza, ma anche l'immaginazione. Per (pianto i filosofi antichi avessero esaltato, e, come suol dirsi, jmrificato il concetto popolare della divinità, il loro dio, in un senso, è ancora un fenomeno, come il dio della religione popolare : esso resta un oggetto di rap[)resentazione, se non d'esperienza, possibile, perchè non racchiude ancora l'inconcepibilità di una coscienza che non si svolge nel tempo e non è composta di stati successivi. Il Dio di Platone, cioè 1' anima del mondo, è esente dal ])iacere e dal dolore (1), ma partecipa alla niemoria, al ragio- namento, alla preveggenza, ecc. (2). Egli è sì lungi dall'essere immutabile, che il suo attributo essenziale è un movimento spontaneo e continuo (3): la sua menta- lità stessa consiste in movimenti : l'anima dell'universo conduce tutte le cose che sono nel cielo, nella terra e nel mare coi suoi movimenti, che si chiamano volere, considerare, prevedere, deliberare, ecc. (4); i movimenti del cielo sono affini ai movimenti dell'intelligenza che lo governa (ó). Questa fenomenalità dell'intellio-enza di- (1) Fileho, 38. (2) Lvugi' K90-S1)7, IJphiOht. l)Sl-{)82, ecc. ^;^) V. Lt'(/f/i 895-8ÌHJ, Timeo 30-S7. ecc. (4) Leyfjì, HJ)G-81»7. (5) Lec/ffi, K07-S!»S. - 133 - — 132 vina si ritrova nella filosofia greca anche dopo Aristo- tile : secondo g'ii Stoici Dio non conosce il futuro per una visione immediata, come secondo i teologi moderni, ma lo arguisce dal presente, secondo le leggi dell' in- catenamento causale (1). La dottrina della non succes- sìvitcà della coscienza divina fu introdotta da Aristotile, che dal concetto di Dio come causa prima deduceva la sua assoluta immutabilità (2). Con ciò egli faceva en- trare la filosofia teologica in una nuova fase, che noi possiamo chiamare la fase metafisica, in un senso di questa parola certamente troppo stretto, ma abbastanza giustificato dal carattere ordinario dei concetti metafi- sici, che è la loro irrappresentabilità, lo sforzo di riunire in un' idea unica degli elementi incompatibili, che è impossibile di pensare insieme, quantunque ciascuno a parte sia pensabile. È evidente che una coscienza non successiva è uno di questi concetti. Noi possiamo con- cepire un essere immutabile (come il Dio d'Aristotile o del cristianesimo e del deismo moderno), ma ci è impos- sibile di concepirlo come dotato d' intelligenza, di ra- gione e di volontà. UnMntelligenza, cioè una rappresen- tazione adequata del reale, che non è composta di stati successivi, è una contraddizione nei termini; perchè, da una parte, il reale è una successione di fatti, e i rapporti tra le cose che più cointeressa di conoscere (p. e. ' quello di causa e di effetto o di mezzo e di fine) impli- cano la successione; e, da un'altra parte, non compren- diamo come la successione reale, cioè tra le cose stesse, possa essere rappresentata altrimenti che per una suc- cessione ideale, cioè tra le rappresentazioni. La contrad- dizione è ancora più palpabile, quando si parla di una ragione che vede al tempo stesso le premesse e le con- (1) V. Oiiereau. Sistema filos. flegli Stoiei, pag. 256-257. (2) V. § 2. p. 63. seguenze. Il rapporto tra premesse e conseguenze im- plica un'anteriorità e posteriorità, non solo logica, ma anche cronologica, o piuttosto l'anteriorità e posterio- rità logica non è che una specie dell' anteriorità e po- steriorità cronologica : percepire il rapporto tra le pre- messe e le conseguenze — e dov'è questo rapporto se non nello spirito che lo percepisce V — non è in effetto che inferire, e inferire vuol dire passare dal noto al- l'ignoto, da ciò che si sapeva a ciò che non sì sapeva. Il teologo ammette che Dio non ragiona, ma, senza passare da una verità ad un' altra, vede nondimeno, egli dice, queste verità nella loro dipendenza logica, conosce runa come principio e l'altra come conseguenza: ma conoscere la dipendenza logica tra le verità, se non è eseguire realmente l'operazione logica che va dall'una all'altra, è almeno rappresentarsi quest' operazione lo- gica, ciò che, r operazione logica essendo composta di atti successivi, significa rappresentarsi una successione, e per conseguenza, avere una successione di rappresen- tazioni. Altre contraddizioni ci si mostreranno se guar- diamo la ragione nel suo lato pratico, cioè come con- cepente un disegno e preordinante dei mezzi ad uno scopo (ciò che è una delle due funzioni assegnate alla divinità come principio esplicativo dei fenomeni). Que- st'operazione implica almeno tre momenti distinti : l*' la concezione e la volizione dello scopo 2« la scelta dei mezzi appropriati, ciò che implica alla sua volta dei tentativi, delle esitazioni, delle eliminazioni, ecc., circostanze incompatibili con una ragione esente da cangiamento 3^ la volizione dei mezzi scelti. Senza in- colfarci in analisi prolisse e non necessarie, osserveremo solamente (oltre alla impossibilità accennata di rappre- sentarsi il rapporto tra il mezzo e lo scopo altrimenti che per una successione di rappresentazioni), che l'esi- stenza del 2*^ dei tre momenti indicati è indispensabile — 184 Li.') ntìiiicliè rappropriazione dei mezzi allo scopo possa at- tribuirsi a ima potenza razionale — in un cliset>no che non sarebbe il risultato della scelta e della delibera- zione, e cIh' non sarebbe lUMiiineiio tonnato da Dio, perchè eterno come Dio stesso, piuttosto che 1' opera della ragione, noi vedremmo quella d' un istinto o di un accidente fortunato — ; e che il volere è un processo, ed è quindi evidentemente impossibile di concepire un atto di volere eterno, perchè una serie di cangiamenti non può concepirsi come eterna. Alle inconcepibilità di una coscienza che non consiste in atti successivi la teo- logia cristiana aggiunge l'altra più patente di una du- rata che non si compone d' istanti successivi. In Dio, dicono i teologi, non vi ha ne passato né futuro, ina un eterno presente. Nella sua durata o, più propria- mente, nella sua eternità^ non si deve concepire alcuna successione : essa è indivisibile, infinita e sempre pre- sente tutta intera {tota sinuU). E un presente immobile, indivisibile ed infinito, un istante che racchiude tutta l'eternità. Noi abbiamo qui evidentemente la contrad-dizione nella sua forma più aperta, V attribuzione allo stesso soggetto di due attributi opposti, il massimo ed il minimo, la durata infinita e l'esistenza che si esau- risce in un istante indivisibile.. L'altro elemento della teologia t rascende/ntale, cioè l'esaltc^zione di tutti gli attributi divini sino all'infinito, è talmente caratteristico nella forma più evoluta della filosofia teologica, ch'esso viene considerato ordinaria- mente dai metafisici moderni come ciò che vi ha di ])ro])rio e di essenziale nel concetto della divinità. Se- condo i filosofi teologici Dio si definisce V essere perfet- tissimo^ o anche V infinito o V assoluto. « Dopo aver for- mato, dice Locke (1), per la considerazione di ciò che (1) Snyyio HuWhatnd. nm., 1. 2. «'. 2S. § :«. proviamo in noi stessi, le idee d'esistenza, e di durata, di conoscenza, di potenza, di |)iacere, di felicità e di molte altre (|ualità (» potenze che è i)iù vantaggioso di avere che di non avere, (piando vogliamo formare l'idea più conveniente dell' essere supremo che ci è possibile d' immaginare, noi estendiamo ciascuna di (pieste idee per mezzo di quella clui abbiamo dell' infinito, e con- o'iuuii'endo tutte (Uiest(^ idee insic^nui, ci formiamo la nostra idea complt^ssa di Dio». Tale è elfettivamente il processo per cui la teologia trasc-endentah'- giunge a! suo concetto della divinità : la stoffa per cpiest' idea è j)resa in noi st(vssi (antroj)onìorfismo) : il lavoro della teolou'ia trascendentale consiste a soj)prinHM-e certe (pia- lità della natura umana, che è servita da tipo primitivo, conservando quelle che è pia rantaggioso di arerc chr di non arere, ed esttnnlendo ciascuna di (piestc» per nu'zzo dell'idea dell'infinito, cioè facendo della potenza la i)0- tenza infinita (onnii)otenza), della conoscenza la coim- scenza infinita (onniscienza), della saggezza la sagg(v.za iiìfinita, o, come si dice più ordinariamente . assolu- ta, ecc. Tra i ìnisteri della teologia (piclli che passano ])er dottriìU' filosofiche (essendo troppo intinìamente le- o'ati al concetto moderno della divinità per non essere accettati aiu-he dal deismo), sono dovuti in gran j)arte a (|uesto processo. Noi indicheremo: l" TI dogma della creazione^ dal niente. K un' applicazione dell' idea del- l'infinito alla causalità. Se Dio non avesse creato anche la materia, le cose non sarebbero prodotte interamente da lui, e ((uindi la sua causalità non sarel)l)e assoluta, illimitata. 2" (Quello della ubiquità o onnipresenza di Dio. Dio è presente in ogni cosa, perchè opera tutto in tutto, e vi è presente tutto intero, perchè è sempli- ce. Egli essendo infinito, mentre il mondo è limita- to, è presente anche nello spazio fuori del mondo. La presenza simultanea in nìolte cose (conseguenza del .-^'«atìsf _-watij*.i!i«b^ affis».--% j*i .-S*. JK principio preteso assiomatico che iiicnite può agire dove non è) è già un mistero per se stessa: 1' on- nipresenza moltiplica questo mistero, e vi ag'giuiig'e quello dell' infinito attuale. 3'^ La semplicità di Dio (il più straordinario dei misteri della teologia razionale). Dio è semplice, perchè è spirito — la semplicità che. si attribuisce allo spirito serve a spiegare la sua incorrut- tibilità e immortalità — . Ma Dio non è solamente sem- plice come l'anima: la sua semplicità è assoluta o infi- nita. Dalla sua essenza, dicono i teologi, d(we esclu- dersi ogni composizione; la sua semplicità non ammette composizione : di materia e forma, di sostanza e acci- denti, di genere e differenza, di essenza ed essere. Dio fa tutto con un fiat unico, vuole tutto con un atto di volontà unico, conosce tutto con un atto intellettuale unico, ecc. In lui non vi ha moltii)licità d'idee distinte: egli pensa tutte le cose con un'idea unica, che è l'idea di se stesso ; con questa <*onosce anche tutte le cose, perchè conoscendo con essa perfettamente la sua pro- j)ria e>senza, conoscer anche tutti i modi iiì eui (juesta essenza è partecipabile, e (|uindi tutte le cose, che ne sono, in vario modo, delle partecipazioni. Quest'idea con cui Dio intende sé e le altre cose, non si distingue dalla sua stessa essenza : in Dio gli attributi non si distin- guono dalla sostanza né fra di loro; in lui il conoscere, il volere, l'operare, ecc. sono la stessa cosa, e ciascuno di questi atti è la stessa cosa che il suo essere. Come si vede sovratutto da Ibi semplicità, questo processo di esaltazione di tutti gli attributi di Dio sino all' infinito ha pure per risultato (|uesto tratto caratte- ristico dei concetti metafisici, che è 1' assoluta irrap- presentabilità. Tuttavia esso non raggiunge questo ri- sultato che in alcune delle sue aj)plicazioni : 1' onni- scienza, l'onnipotenza, la creazione stessa non oltrepas- sano la nostra facoltà di concepire, <iuantunqne oltre- 1:i7 -- passino certamente, almeno le due ultime, quella di comprendere. L' altro processo della teologia trascen- dentale di cui abbiamo parlato, cioè la soppressione del cangiamento e della successione, è immediatamente un salto nella regione dell'irrappresentabile: questo di cui parliamo non è che un'idealizzazione, sino all' e- stremo limite possibile, dei concedi dell'antropomorfismo primitivo, che, per quanto sia grande il contrasto tra il finito e r infinito, non introduce sistematicamente neir idea del sovrannaturale una nuova difterenza es- senziale (al punto di vista gnoseologico) che lo separi dal fenomeno, (jual è quella tra l'immaginabile e l'inim- maginabile. I processi da cui risultano i concetti della ufologia trascendentale essendo in opposizione con quello della teologia naturale, poiché il secondo è un'assimilazione delle cause dei fenomeni naturali all' uomo, nìentre i primi ne sono una disassimilazione, è evidente che sa- rebbe impossibile di spiegarli, se al motivo fondamentale della filosofia teologica e delle altre forme dell'antro- pomorfismo non si aggiungessero dei motivi secondari. Per r uno di (luesti processi, cioè la soppressione dal concetto della divinità del cangiamento e della succes- sione, il motivo è ovvio, e noi lo abbiamo già indicato parlando del sistema teologico d'Aristotile. È la funzione della divinità come causa prima, l'applicazione del con- cetto teologico alla soluzione della difficoltà a cui dà luoiio rincatenamento causale dei fenomeni in una con- siderazione del mondo esclusivamente naturalistica, per l'inconcepibilità di un regresso all'infinito nelle cause. Se Dio fosse soggetto al cangiamento, se la sua esi- stenza si svolgesse, come qucdla degli agenti personali dell' esperienza, in una successione di stati differenti, ciascuno di questi stati sarebbe un avvenimento di cui si dovrebbe cercare la causa (sunponianu), negli stati 18S 139 preciHÌeuti), e i)oi la eausa di (|iicsta causa, e così di seguito : così non si farebbe che trasportare in Dìo (juesta stessa difficoltà di una serie infinita di cause che si voleva evitare nel mondo, e non si avrebbe ancora la causa prima di tutti <^\\ avvenimenti. Il concetto di causa prima, logiceamente seg-uito, conduce all' idea di un Dio, non solo esente dal can^'iamento . ma esente assolutamente da una successione (|ualsiasi, cioè al di fuori del tempo e della durata (come consistente in una serie di njoiiienti successivi). I.' inconcepibilità di una serie infinita di cause non è infatti che un caso del- l'inconcepibilità dell'infinito attuale. È evidente dunque che quando la filosofia cristiana deduce dall'aro-omento della causa prima che Dio non è semi)licemente un primo motore, ma un creatore, essa non fa che spin^-ere sino alla sua conse«>uenza ultiinri il i)rincipio posto da Aristotile ; una serie infinita di cause ed d' effetti non iuìplicando in sostanza altra difficoltà loo-ica che quella implicata in una serie reale infinita, e (piindi anche in una durata infinita del mondo nel passato. Ma non è meno evidente che questa conseguenza ci mette in pre- senzn di una difficoltà analoga a (juella che Aristotile risolve col suo concetto dell'inniiutabilità divina: se la durntn infinita del mondo è impossibile perchè implica una successione reale infinita, non sarà anche impos- sibile, per la stessa ragione, la durata infinita di Dio? Così, come il concetto di Dio come causa prima, cioè come primo motore, non imo evitare la difficoltà di una serie infinita di cause e d'efPetti, che nella supposizione die in Dio stesso non vi sono cause ed effetti, per con- seguenza, avvenimenti, e che egli è esente dal cangia- mento ; della stessa maniera il concetto di Dio come creatore non può evitare la difficoltà di una durata in- finita del mondo nel passato, che nella supposizione che iu Dio stesso non vi ha durata, che la sua esistenza non y è una serie di momenti, e ch'egli è esente assoluta mente dal tempo e dalla successione. Le quistioni a cui rispondono questi concetti della teologia trascendentale, non sono, secondo noi, fittizie; sono delle difficoltà reali, a cui lo spirito umano non può evitare di cercare una soluzione, e che ai)partengono all' argomento della 2^^ parte di (piesto Saggio. Così, (piaiìtuncjue le soluzioni delia teologia trascendentale abl)iano il difetto evidente di evitare delle inconcepibilità con altre inconce})il)ilità, talvolta più ])al])abili, essa è, per questa parte, una vera filosofia, in (pianto risponde a dei j)roblemi reali, dati nella natura stessa della nostra intelligenza, e le sue contraddizioni, per (pianto egualmente manifeste, non sono gratuite come i misteri della teologia dom- matica. Aggiungiamo ehe essa è anche, senq)re per ([uesta parte, una vera metafisica, perchè la pseudo-idea dell'infinito attuale (quindi aiu'ora i problemi a cui dà luogo quest'idea e le soluzioni di (|uesti problemi) è il risultato inevitabile d'un'ìllusione naturale, (piella che ci si)inge ad obl)iettivare le nostre sensazioni, e il ca- rattere essenziale dei concetti metafisici, nel senso pro- prio della parola, è di essere uno sviluppo dell-: illu- sioni naturali del nostro spirito. Il concetto che Dio è V infinito o l" assoluto, non essendo evidentenìente che quello che alla divinità si deve attribuire ogni ])err'ezioiu5 ed escluderne ognim- perfezione, spinto alle sue ultime conseguenze logi- che (ed anche illogiche), l' idea filosofica, cioè mo- derna e più evoluta, della divinità è costituita in sostanza da questi tre elementi: I'^ l'idea data dalla teologia naturale, (piale ipotesi destinata alla spiega- zione dei fenomeni, e precisamente del movimento e della finalità (1) ; 2" quella che Dio è la causa prima; (1) Fra trli nttrilmti dclhi diviiiitri clic si riattaccMiio alTele- iiieiito della teolooia naturale (quautiiii<iue il politeismo sia eer- «**-^*«>(Wf*ia!WiBa«s»EBEaasEì«:raaB»feaara«5^Eff — uo e o^ il concetto che abbiamo detto, che a Dio si deve attribuire ogni perfezione ed escluderne oo-n'imperfe- zione. Non è difficile di dimostrare che questo concetto, spinto sino all'idea trascendentale dell' assoluto o V in- finito, può fondarsi meno ancora che quello di Dio causa prima e gli altributi divini che vi si riattaccano, sui principii essenziali della filosofia teologica, se questa si considera come una spiegazione del mondo, basata su un processo induttivo, e consistente ad assiniilare le cause dei fenomeni naturali alla nostra attività. Questa dimostrazione è stata fatta da Hume e da Kant, e dopo di loro da Stuart-Mill, che ha sviluppato logMcamente un sistema di teismo fondato unicamente sulle prove induttive. A dir vero questi filosofi consi- derano come base unica della teologia naturale l'argo- mento delle cause finali ; ma la considerazione di Dio come causa del movimento non modificherebbe certa- mente il risultato della loro critica. (,)uesto è che dalle taiiioiitr i»iù naturai' airuoino che il !ii«»iM)t(*i>ino), possiamo fare rii-iitrarc aiicìie l'unità. «Se il iiioiiotoisiuo. dico Mill, può essere preso pel rapprestMitaute del teismo «l'una maniera astratta, mm ^ tanto ]>ereliè esso t* il cenere di teisnjt» elie prolessa^.jo le raz- ze ]»iii incivilite della sj.ecie umana, <iu:into perelie e il s(do teismo ehe può prevalersi d'un fondamento seu^itiliec». Tutte le altre teorie elie attril>niseono il «;over!io dell' universe» a degli esseri sovrannaturali, sono incompatibili così bene con la per- manenza di ([uesto governo a traverso una serie e(»ntinua d'aii- teeedenti naturali secondo leggi fisse, che con la relazione di dipendenza mutua clic unisce ciascuna di queste serie a tutte le altre, vale a dire inconq)atibili coi due risultati piìi generali della scienza». {Samiio sui teismo, 1. parte, // teismo, Cì'r.Kniìt Crii, della ntf/. /nwa. Dialett. trascead. Uh. 2. cap. S. sez. VI). Tuttavia allo stabilimento del mon<>teÌ8mo ha dovuto anche con- tribuire il processo jier cui spieghiamo in seguito il concetto dell'assoluto: ma e un punto su cui crediamo iuutih; d'insistere. - 141 — prove su cui è fondata la teologia naturale non risulta né il concetto della creazione (causalità infinita di Dio) né quello, in generale, deirinfinità degli attributi divini. La prova fisico-teologica potrebbe dimostrare tutto al più un architetto del mondo, di cui la potenza sarebbe limitata dalla natura della materia che egli lavora, ma non un creatore del mondo, all' idea del quale tutto è sottomesso (1). É evidente che 1' argomento del primo motore non aggiungerebbe niente su di ciò alla forza dell' argomento fisico-teologico. In quanto all' infinità degli attributi divini in generale, è impossibile di con- cluderla partendo dal mondo, perchè per ispiegare un effetto si deve assegnare una causa proporzionata, in altri termini non si deve attribuire a questa causa niente di più di quanto richiede V effetto : ora il mondo non ci mostra che degli effetti limitati, imperfetti ; non si ha dunque alcuna ragione di concluderne una causa infinita, assolutamente perfetta. Dall'ordine, dalla fina- lità e dalla grandezza che troviamo nel mondo possiamo concluderne una causa saggia, buona, possente, ecc., ma non infinitamente saggia, infinitamente buona, in-finitamente possente, ecc. Per affermare che il mondo suppone un Dio dotato di questi ultimi attributi, cioè un essere infinito, perfettissimo, come suo autore, bisognerebbe che noi conoscessimo che questo mondo è il più grande*, di tutti gli effetti possibili, in altri ter- mini che esso è il più perfetto di tutti i mondi possi- bili. Ciò importerebbe che noi avessimo comparato que- sto mondo con tutti i mondi possibili, e per conseguenza che conoscessimo tutti questi mondi possibili, cioè che (1) Kant Dialett. traseendent. l. 2. e. 3. sez. 6. Cfr. Mill Samrio sul teismo, 2. parte Gli attributi, e 1. parte Argom. della causa prima. 142 — - u: o avessimo J' oniiiscieiiza (1). La verità di queste ol)])ie- zioiii di Hiiiiie e di Kant contro la creazione e 1' inli nità degli attributi divini é stata riconosciuta anche dai filosofi spiritualisti (2) : essi ne hanno concluso che le prove induttive sono insutihcienti per dimostrare la divinità, e che la dimostrazioiu' deve essere completata per altri argomenti (iiuesti sarel)l)ero gli argomenti a priori ; noi abbiamo visto (;i) che la teologia naturale non può fondarsi su (piesto genere di prove). La dot- trina delP infinità degli attril)uti di Dio non solo non risulta dnll'osservazione del mondo, ma è anche incom- patibile coi suoi dati più evidenti. P^ssn lia dato luoo«o al problema insoliil)ile di conciliare l'esistenza del male con la bontà e la })Otenza infinite del Creatore. Ha Dio la volontà d'impcnlire il male, senza averne il })otere? egli dunque non è onnipotente. Ha il [)otere senza averne la volontà? dun(jue manca di bontà. Gli sforzi che si sono fatti per risolvere questo problema, non implicano solamente, diceMill, un'assoluta contraddizione al imnto di vista intellettuale, essi ci offrono con eccesso lo spet- tacolo rivoltante d'una difesa gesuitica di mostruosità morali » (4). Tutti gli argomenti degli a])ologisti delle perfezioni infinite di Dio si riducono in sostanza o a sacrificare 1' onnipotenza per salvare la bontà infinita, 0 a sacrificare la bontà infinita per salvare l'onnipo- tenza. Ora si suppongono delle possibilità e delle im- (1) Huinc Sayyio 11. o, Dittloy/ii $nUa relig. ndturale \ \n\vU^,e Kant Crit. della ray. pura Dialctt. trascend. 1. 2. e. S. sex. (>. e 7. e Orit. della ray. pratira ijarte, L, 1. 2. e. 2. VII. (2) \. .laiict Le cause ptutìi, p;i«^. 144-14;"), (3) Paragr. 4. (4) Saggio sul teismo, 2. parte. Gli attributi. Vedi aiiclu' Arili il sa<;oi(» La statura e Hunic i Dialoghi sulla relig. naturale parte X <• XI. possibilità indipendenti dal [)otere divino, delle neces- sità a cui il creatore non |)oteva sottrarsi. E una rinun- zia implicita all'onnipotenza, perchè V im})ossibile per un onnipotente non può significare che V inimmagina- bile, e il necessario ciò il cui contrario è inimmagina- bile, ma non vi ha alcuna legge del reale (compresa questa stessa che il reale è sottomesso a delle leggi) che sia necessaria o impossibile in (juesto senso, per la semplice ragione che le leggi del reale non sono che delle sequenze e delle coesistenze, e la negativa di una sequenza o di una coesistenza è sempre inuiiaginabile. Altre volte si riconosce che Dio avrebbe i)0tuto creare un mondo es(Mite dal male fisico, cioè dal dolore, (» dal male morale, ma si j)arla di altri beni, di altri tini del creatore, che sarebbero stati incompatibili con la esen- zione da questi mali, p. e. dell' ordine e dell' armonia del mondo, necessari alla sua ])erfezion(;. Allora è la bontà infinita che viene sacrificata all'onnipotenza (sui)- posto che un'incompatibilità di tini non sia in contrad- dizione con l'onnipotenza stessa). La natura umaìia non sarà mai capace di concepire un bene che non si risolva in soddisfazioni per qualcuno. Questo ])reteso bene me- tafisìco, cioè la perfezione del mondo, a cui il bene fi- sico e il bene morale vengono sacrificati, se non con- siste in soddisfazioni per le creature, consisterà dunque in una soddisfazione per il creatore; ciò che implica che questo, infliggendo a quelle il male fisico e il male mo- rale, le ha sacrificato alla sua soddisfazione personale, e per conseguenza (per non dire altro) che la sua bontà none infinita. L'attributo dell'onnipotenza presenta anche altre difficoltà indi})endenti dal problema dell'ori- o-ine del male. Sembra che l'idea di un essere onnipo- tente sia incompatibile con (juella di un essere che preor- dina dei mezzi ad un fine, sicché (|uest'attributo, lungi di concludersi dalle ]>rove della filosofia teologica, è 144 — — 145 escluso anzi dalla principale di queste prove, cioè quella delle cause finali. Lo stesso Paley, in ammirazione d'in- nanzi alla struttura sapiente dell' occhio, non può im- pedirsi di farsi questa domanda naturale: Perchè l'in- ventore di questa meravioliosa macchina (che è onni- potente) non ha dato agli animali la facoltà di vedere senza impieg'are. questa complicazione di mezzi V (1) E un punto su cui ha insistito particolarmente il xMill. «Non (\ egli dice, andare tro[)po lungi dire che ogni indicazione di piano nel cosmos è una prova contro Tonnipotenza dell'essere che ha concepito il piano. In effetto, che s'intende per piano? L'invenzione: Tadat- tazione di mezzi ad un fine. Ma la necessità d' essere abile, d'impiegare dei mezzi, è una conseguenza della limitazione della potenza. Perchè ricorrere a dei mezzi quando per ottenere lo scopo non si ha che a parlare?.... Quale saggezza si troverà nella scelta dei mezzi, quando i mezzi non hanno altra efficacia che quella che tengono dalla volontà di quello che li impiega, e quando la sua volontà avrebbe potuto dotare altri mezzi della stessa efficacia?.... Dunque le prove della teologia naturale implicano nettamente che l'autore del cosmos, quando ha fatto la sua opera, subiva una limitazione, ch'egli era obbligato di piegarsi a delle condizioni indipendenti dalla sua volontà, e di giungere ai suoi fini per delle disposizioni che queste condizioni comportavano > (2). In verità potrebbe dirsi contro il ragionamento di Mill che lo scopo del Creatore non era l'utilità, il risultato, del- l' opera, ma 1' opera stessa ; che il bene dell' universo, l'oggetto ricercato nella creazione, non sono i fini a cui le cose sono adattate, ma 1' adattamento stesso, cioè delle cose in cui vi ha della finalità, che manifestano (1) Paloy Teolor/ia naturale, cap. II. 2) Saggio snl teismo, 2. i>arte. un piano, una coordinazione ingegnosa di mezzi ad un fine. Dio, secondo questo punto di vistM. avrebbe fatto l'arte per l'arte; san bbe la spiegazione estetica della creazione; Dio, come dice Eraclito, giocherebbe crean- do il mondo. Ma è (evidente che 1' umanità, presa in massa, non accetterebbe una tale spiegazione : essa non i)otrebbe vedervi che un' ironia verso la creazione e verso il creatore. Se 1' accettasse, alla difficoltà evitata ne subentrerebbe un'altra, perchè un Dio, per cui la creazione ' non fosse che un giuoco, l'uomo non lo troverebbe ne saggio né adorabile, e non lo chiamerebbe che per un'altra contraddizione V essere perfettissimo. Fra tutti gli attributi infiniti della divi- nità, oltre all'eternità (che, almeno in (juanto eternità ab ante, è una conseguenza logica del concetto di causa prima), non ve ne ha forse che un altro che possa riat- taccarsi alle ragioni della filosofia teologica, cioè la saggezza assoluta (in cui possiamo comprendere anche ronniscienza). Essa non è richiesta da una s[)iegazione teleologica del mondo, ma è una condizione perchè questa spiegazione sia conjpleta ed esauriente, poiché è chiaro che non ])otrebbe essere tale che nella suj)iìosi- zione che i nuv/zi impiegati siano assolatamente i più idonei ad ottenere gli scopi. L'attributo di cui possiamo renderci conto il meno di tutti, al punto di vista della teologia naturale, è l'onnipotenza: per vedere che que- st'attributo non può avere alcun rapporto con una spie- gazione qualsiasi dei fenomeni (e quindi alcuna base filosofica), basta di riflettere che ad una causa supposta, perchè la supposizione abbia un valore esplicativo qua- lunque, bisogna attribuire dei modi d' azione definiti, quelli che noi comprendiamo, e che per conseguenza possono farci comprendere il perchè dei fenomeni che si tratta di spiegare. Ora evidentemente noi non pos- sianìo comprendere un modo d' azione di cui non ab- 10 — 146 — 147 bituno esperienza o che non imniaginiamo sui tipo di ciò di cui abbiamo esperienza : cosi ad nna causa per- sonale noi non possiamo attribuire (per ispiegare i fe- nomeni) che razione motrice, mentre la teologia tra- scendentale le aitribuisce indistintamente tutti i modi d'azione concepibili ed anche inconcepibili. Se nelle prove su cui è fondata la teologia naturale non tro- viamo alcuna base per l'infinità degli attributi divini, è invano che ricorreromiiio, per supplire a questo di- fetto, alle altre prove della divinitcà che, senza essere dei motivi reali della filosofìa teologica, sono tuttavia qnalche cosa di più che semplici sofismi artificiali. L'ar- o-omento della causa prima, quand'anche se ne conclu- desse la creazione dal niente, non potrebbe servire di base alTonnipotenza— perchè una potenza che produce degli effetti che nessuna causa naturale potrebbe produrre, non è necessariamente una potenza illimitata — ; meno ancora ìUT onniscienza, alla bontà infinita, ecc., che non hanno il minimo rapporto con la capacità di pro- darre anchv3 la materia. L'argomento cosmologico può riguardarsi come un argomento iialiirale, sinché con- clude all'esistenza di un essere necessario, quantunque per dimostrare che quest'essere necessario è un essere personale, uon possa servirsi che di sofismi artificiali. Si potrebbe per conseguenza credere di trovare un fon- damento naturale all'idea di essere infinito o assoluto, se quest'idea avesse qualche legame con quella di essere necessario. Ma non possiamo ammettere la possibilità di alcun legame simile, poiché in tal caso l' essere in- finito sarebbe dimostrabile a priori (poiché un essere necessario è quello la cui esistenza potrebbe dimostrarsi a priori) (1), mentre noi sappiamo che non vi ha alcuna (1) V. ^ L la nota a pag. 118. Cfr. pag. 113. dimostrazione a priori dell'esistente (1). Kant afferma, è vero, che il passaggio dall' idea di essere necessario a quella di essere infinito è naturale al nostro spirito, (juantunque non vi sia fra le due idee alcun legame reale: ma in questo caso la proposizione Vessere neces- sario h un essere infinito dovrebbe sembrarci evidente per se stessa (perché ipiesto è il carattere dei sofismi naturali), mentre gli autori stessi che hanno impiegato r argomento cosmologico non hanno preteso che e^^sa sia tale, ma hanno cercato di dimostrarla. Tutte le altre prove della divinità, oltre le indicate, non essendo che dei sofismi interamente artificiali, noi giungiamo dun- <jue forzatamente a (juesta conclusione: che la filosofìa teolóuica, come fìlosofia, cioè come dottrina che ha ])er iscopo l'intelligenza dei fenomeni, non ha alcuna base pel concetto dell'essere infinito o assoluto; che (luestoconcetto, in qualche modo, no!i fa parte di questa filo sofia ; e che esso é, al punto di vista filosofico, cioè puramente teorico, assolutamente inesplicabile. Questa conclusione parrà a ìnolti un paradosso, o an.*he una confessione dell' impotenza del nostro metodo : ma noi non dobbiamo dissimulare le conseguenze delle nostre prenìesse. Vi sono degli autori i quali suppongono che l'idea dell'essere infinito o assoluto sia così naturale allo spi- rito umano come le più semplici verità sulle grandezze e sui numeri. Essa sarebbe, secondo gli uni, un dato immediato della coscienza, un patrimonio originario del nostro spirito; secondo altri noi conosceremmo l'esistenza dell'essere infinito per un ragionamento che ha la sem- plicità e l'evidenza intuitiva d'un assioma, sia deducen- dola immediatamente dall' esistenza del finito, sia ve- dendo (ciò a cui basta pure un semplice sguardo dello a) V. il Saggio 1. spirito) che essa è racchiusa neiridea stessa dell'essere iuhMito. A (luesti autori dobbiamo ao<>iungere anche Kant, secondo cui l'idea deire??.s realissimuìtì (cioè del- l' essere che racchiude oo*ni realtà, ooui perfezione). (juantiuKiue ci sia impossibile di dimostrarne il valore obbiettivo, è data nella costitu/.ione stessa del nostro spirito, come un prodotto spontaneo delle legM^i della ra^'ione, derivante necessariamente dalla sua t'orma e indipendente da oo*ni esperienza. Ma il tatto prova che l'idea dell'essere infinito — cioè, in termini meno astratti, di Dio come dotato di perfezioni intinite — luno-ì di es- sere un'idea innata, o una di (luelle a cui lo spirito umano è portato naturalmente e, per dir così, di primo acchito . non è che il termine di arrivo di un lun^o pro^Tesso, i cui ^radi sono seg-nati nella storia reli- o'iosa dell'umanità, e che è consistito in un'esaltazione continua del concetto del divino, che andando da una sublimità a un'altra più sublime, e accumulando su- j)erlativi su superlativi, non ha trovato inhne un punto di fermata, che perchè sarebbe assolutamente impossi- bile all'immaoinazione umana di oltrepassarlo. Anche (juando il su[)erlativo influito apparisce nell'evoluzione delle idee reli<i-iose, non |ìerciò tutti .i^li attribuii della divinità ven^i4'ono elevati in un colpo all' intìnito. Non biso.i4'na credere che l'uomo è partito dall'idea oenorah» che Dio è l'intìnito o l'assoluto, e quindi ne ha dedotto ch'eg-li dev'essere onnisciente, onnipotente, onnipresen- te, ecc. : al contrario, dopo aver spinto, l'una dopo l'al- tra, le perfezioni di cui aveva dotato la divinità, al g-rado più superlativo possibile, cioè all' infinito o al- l'assoluto, egli trovò, generalizzando, che tutti gli at- tributi di Dio sono infiniti o assoluti, e compendiò in- fine questa proposizione nella foriìiula astratta della filosofia teologica moderna che Dio è 1' infinito o 1' as- soluto. I Greci, anche nel pieno sviluppo della loro me- tafisica, sono cos'i lontani dall'identitìcare Dio con l'in- finito, che secondo i loro ^Josoti l'infinito è il principio che essi oppongono alla divinità, cioè la materia. D'al- tronde il concetto di Dio come infinito o assoluto, preso rigorosamente, è incompatibile col politeismo — a meno che non si attribuisca a una divinità suprema un po- tere illimitato su tutte le altre, nel qual caso non si avrebbe in realtà che una dottrina monoteista-perche la potenza della divinità suprema troverebbe necessa- riamente un limite nell'indipendenza, qualunque essa fosse, anche nel loro semplice esistere, che si accorde- rebbe alle altre. Tuttavia noi troviamo nei Greci Zeus l'ottimo, il grandissimo, l'altissimo, oniìiveggente, on- nipresente ed anche onnipotente — quantun(iue T onni- potenza, ili un senso rigoroso, sia incouìpatibile, come aì^binm^ osservato, con un sistemai poVaelsta -. Zeus certamente non si è e'evat > die gradatnm-n-e d:d li- vello del qro^Holmio (per usare la parola ricevuta) an- tropomoriismo dei popoli primitivi, come basta a pro- varlo la contraddizione tra ((uesti attributi e qtu^lh che eo-li ci mostra in azione nei miti che lo riguardano. Nel dualismo persiano abbiamo Ormuzd, // HÌ(jnore on- rmcimìU, quantun(iue egli non sia il primo principio, e la limitazione della sua potenza per una potenza an- ta-onista sia il tratto caratteristico di questo sistema teolo-ieo; e un antico inno vedico attribuisce 1' onni- vegii-enza e V onnipresenza a Varuna, che non è che unTdelle divinità che hanno acquistato un posto i)iu elevato tra o-H esseri sovrumani degli antichi Arii del- l'India (li. Presso i Greci l'eternità o almeno l'immor- talità-che è verisimilmente il primo degli attributi (1) V Ahix-Miiller Ln scìntzn dello reliulone, IV. Cfr. Go- l>let d'Alviella IM'ien dì Pio wr. <•. 3. ^ 2. Le società diclne dciiV fiido-Euì'Oiìvi. '• N — 150 - infiniti di cui 1' uomo abbia rivestito gii esseri sovran- naturali — è o.ià il carattere distintivo della divinità, prima che essi avessero oltrepassato le idee infantili deirantropomortìsmo primitivo. Alcuni di questi attri- buti che per noi costituiscono il concetto di Dio o r],]- Tassoiuto, sono stati anche dati a persoungoi^ ^.\^^,1011 sono stati rio-uardati, non solo come Tassoluto, ma nem- meno come divinità, (juantunque dotati di i)oteri so- prannaturali. Così r onniscienza è attribuita a Budda dai suoi seg'uaci anche durante la sua vita; e del resto essa è una prerogativa che i sistemi teologici e filoso- fici indiani accordano in g-enerale all'uomo //6^yv/Vo (fra altri poteri trascendenti, di cui alcuni simili ad altri attributi infìnifi della divinità, p. e. la volontà irresi- stibile) 1). Anche (piando, nel mondo antico, nasce il concetto deir assoluto, per un'elaborazione metafisica delle idee della relig-ione i)opolare, ((uesf assoluto non è ancora quello della filosofia teologica modc^-na. Hrah- ma, che è certamente (a parte il Dio del monoteismo g-iudaico-cristiano), la j)iii assoluta fra le divinità del mondo antico, manca, se non di altro, della causalità infinita: egli è il creatore di tutti gli esseri, nia non li ha creato dal niente ((iuantun(iue, del resto, abbia ronnìpotenza, T onniscienza, V immensità. V ubitjuità, ecc., e in una parola (piasi tutti g'ii attributi del Dio del cristianesimo e del deismo moderno). (Hi Stoici, evidentemente sotto Tintiuenza dello stesso motivo, cioè di elevare l'idea del divino sino al punto a cui l'imma- ginazione umana piu) giung-ere, svilupparono il concetto dell'assoluto in un altro senso che la filosofìa teoh^gica moderna : Dio essendo per loro il mondo, è di questo che fecero l'essere perfettissimo, dichiarando che, fra U) V. Coleln-ooke Smjyio sulla Filos. de{/V Indiani, tv.ìdnz. dì Pauthici- i)a,u. M2-S8. 19H-19S. 244, 2n7, 27H. 151 tutti gli attributi possibili, esso possiede tutti quelli che vale meglio avere che non avere, e che è la migliore, la più eccellente e la più bella di tutte le cose che esi- stono e che possono concepirsi (1). Questa elevazione continua del concetto del divino, che è uno dei lati più facili ad osservare della evolu- zione delle idee religiose, risulta, come abbiamo notato, da due principii direttivi : l'uno che non bisogna dare alla divinità che quelli fra gli attributi umani che si giudicano delle perfezioni, o, come dice Locke, (Quelle qualità che è più vantaggioso di avere che di non avere; e r altro che di questi attributi 0 qualità bisogna for- marsi la più alta idea possibile, ciò che conduce, i)resto 0 tardi, al concetto della loro infinità. Avendo visto che il secondo dei due principii, nella sua forma più con- seguente, cioè il concetto che Dio è l'infinito, non pu(') fondarsi sulle basi teoriche della filosofia teologica, resta a domandarci se il i)rimo almeno lo può. Essendo evi- dente che la divinità, come principio esplicativo dai fenomeni, deve dotarsi d'un'intelligenza e d'una potenza incomparabilmente superiori alle umane, se non infi- nite, la quistione è se, in virtù dei principii della filo- sofìa teologica, come pura speculazione, l'uomo può attribuirle pure le altre qualità ch'egli loda nei suoi simili, quali sono le qualità morali. Anche (ini la nostra risposta non può essere che negativa. La natura, am- mettendo che essa provi l'esistenza di uno o i)iù esseri divini, non presenta alcun indizio per attribuire loro la bontà piuttosto che la malvagità o 1' indifferenza morale. « Al fondo, dice Mill . pressoché tutto ciò che fa condannare gli uomini a morte 0 alla prigione, lo ritroviamo negli atti della natura Tutto ciò che si detesta abitualmente quando si parla del disordine e (1) V. Oo-ercau Sisfema filos. defili Stoici, [la.iz;. ^^i-^}:^. 152 delle sue conseguenze, è precisamente una sorta di ri- scontro delle vie della natura. Non vi ha anarchia, non reg'inie di terrore, che non siano sorpassati, al triplice punto di vista delTingiustizia, delle rovine e della morte, da un uragano o un'epidemia» (1). La bontà della di- vinità, se ve ne ha «jualche traccia nella natura, non potrebbe cercarsi che ihm segni di i)iano che questa seml)ra mostrarci, e propriamente, la bontà non poten- do riferirsi che agli esseri senzienti, di questa parte del piano che è relativo a (juesti esseri. Ciò vuol dire, in altri termini, che deve cercarsi negli adattamenti che si osservano nell' organizzazione degli esseri viveiui, e in quelli del momlo esteriore^ a questi esseri stessi (supponendo, come fanno i teleologisti, che non sono o'ii ora*anismi che si sono adattati all' ambiente,. ma è ([Uesto che è stato adattato ad essi). Ma tutti (]uesti adattamenti oon tendono che alla conservazione degl'in- dividui o delle specie : gli stessi teleologisti, che pre- tendono fondare la loro dottrina sui risultati degli studi biologici, sarebbero sor[)resi di trovare un adattamento, o il [ìerfezionam'ento di un adattamento già noto, che non mirasse a rendere j)Ossibile o a facilitare l' uno o l'altro di quc^sti du ' s.' )p'. Dìì^]:\ t?l oologia che egli osserva nei>*li esseri organizzati . e nel resto della na- tura nei suoi rapporti con essi, T uomo può dunque concluderne un creatore, che abì)ia per iscopo l'esisten- za e la durata i)er un certo tempo di (juesti esseri, ma non che questo creatore sia buono; perciò dovrebbe at- tril)uirgli j)er iscopo, non la loro semplice esistenza, ma la loro felicità o la loro virtù o qualsiasi altro og- getto, se ve ne ha, in cui gli uomini hanno fatto con- sistere il bene. E vero certamente che è una conse- • o-uenza naturale dell'amore istintivo della vita che l'uomo consideri la propria esistenza e quella dei suoi (1) Suf/i/i snìlti re/if/ionc. La iiatìn-a. 153 — simili come un bene per se stessa. Ma non è ugual- mente certo ch'egli consideri come tale anche l'esistenza d(M bruti ^ciò che sarebbe necessario perchè l' idea di un creatiu-e buono potesse essere suggerita dalla fina- lità degli esseri organizzati). (,)uest'esistenza, piuttosto, deve sembrare alla più parte degli uomini, non solo senza valore, ma odiosa e miserabile», niente essendo più naturale che 1' illusione di giudicare un modo di esistenza felice o infelice secondo che esso sarebbe per noi stessi un oggetto di desiderio o di avversione. Un'os- servazioiui che non poteva sfuggire ai ì)rimi filosofi teo- loo'ic-i la cui attenzione si fissò sui segni di i)iano negli esseri organizzati, è che una parte di questo piano è destinata alla lotta e alla distruzione reciproca. La sa- pienza della natura nel!" organizzazione d'un animale che lo rende pro])rio al regin\e carnivoro, non è meno ammirabile che in ipiella dell' occhio o dell' orecchio o di (lualsiasi altro degli esempi favoriti dei teleologisti. .Se o-rintestini d'un animale, dice Cuvier, sono organiz- zati hi maniera da non digerire che della carne e della carne recente, bisogna pure che le sue urnscelle siano costruite per divorare una preda ; le su(> zampe per prtmderla e Incerarla: i suoi denti per tagliarla e divi- derla; il sistema intero dei suoi organi del movimento per cacciarla e raggiungerla : i suoi organi dei sensi per vederla da lontano ; bisogna anche che la natura abbia posto nel suo cervello l'istinto necessario per sa- per nascondersi e tcMulere delle pieghe alle sue vit- tinie Sotto iiueste condizioni generali ne esistono di particolari relative alla grandezza, alla specie, al sog- giorno della preda, per cui l'animale è disposto ; e da ciascuna di (pieste condizioni particolari risultano delle modificazioni di dettaglio nelle forme che derivano dalle condizioni generali» (l). Cuvier continua mostrando gli ^l)h^xalU' ricolnz. tirila super/. (h'I f/Ioho. ( Pi-iiicipio ilcllji ileteniiiuazioiM- delle ossa fossili dvì quadriiiuMli). - 154 — ' adattaniemi infiniti in tutte le parti dell'organismo, che sono richiesti da queste condizioni del regime carni- voro. Non sarebbe una delle applicazioni meno forti dell' arg-omento fisico-teolog'ico : ma (lual è lo scopo di tutto ciò se non di fare dell'animale un predone^ feroce e sang-uinario? L'idea del «padre che è nei cieli » non è, evidentemente, sugg-erita dallo spettacolo della natura organizzata: non sarebbe chiamato uu padr.), senza aggiungere dei termini della più profonda riprovazione,un uomo che armasse i suoi figli gli uni contro gli altri, ordinando loro di farsi una guerra senza pietà, e mettendolo come condizione alla loro esistenza. Se dal- l'organizzazione degli esseri animati si volesse conclu- dere, non solo un piano intelligente, ma anche un'in- tenzione benevola . sembra che dovrebbe giungersi al concetto — che tuttavia non si trova in alcun sistema teologico, ne popolare né filosofico — di un creatore e una provvidenza differenti per ciascuna specie differen-te : il dio del gatto non potrebbe esserci quello del topo, il dio del lupo quello dell'agnello, ecc. L' antropocen- trismo, cioè il considerare che fa Tu .ino sé stesso come il fine della creazione, lungi di potere spiegare 1' idea della bontà del creatore, ha bisogno invece di esserne spiegato, perchè è un punto di vista che. evidentemente, non potrebbe nascere dalla semplice osservazione dei fenomeni. Il Miil (i), quantunque non ammetta che l'u- nico o principale scopo del creatore abbia potuto essere la felicità dell'uomo e degli altri esseri viventi, pensa non per tanto che un indizio delle sue intenzioni bene- vole pare essere fornito dal fatto che il i)iacere « sem- bra il risultato del giuoco normale del meccanismo, mentre la pena nasce naturalmente dall'intervento di qualche oggetto esteriore nel giuoco del meccanismo, e (1) Sdf/uio ani teismo, (ili jittrilmti. 155 - sembra essere, in ciascun caso particolare, l'effetto d'un accidente». Ciò mostrerebbe che l'autore del meccani- smo ha voluto il piacere delle sue creature, mentre la pena non entrerebbe nel suo piano, ma sarebbe un ri- sultato fortuito prodotto senza mezzi im|)iegati apposi- tamente e senza intenzione (1). Ma contro questa con- clusione vi ha un'obbiezione assai ovvia (che del resto non è sfuggita allo stesso Mill), cioè che il piacere e la sofferenza stessi sono dei mezzi in vista dello scopo unico che ci sia possibile di attribuire alla natura, la conservazione dell'individuo e della specie. E evidente infatti che se il piacere non fosse legato alle azioni che tendono a conservare l'organismo, ma a quelle che ten- dono a distruggerlo, siccome è una legge naturale degli esseri senzienti di cercare il jjiacere e di fuggire la sof- ferenza, essi cercherebl)ero sistematicamente, n.on gli stati che tendono a conservarli, nia quelli che teiulono a distruggerli, e, per conseguenza, la loro specie non potrebbe sussistere, (^uest' obbiezione, è vero, suppone che questa legge per cui gli esseri sen- zienti cercano il i)iacere e fuggono la sofferenza, sia un fatto necessario e indipendente dalla volontà del creatore, mentre invece potrebbe ammettersi che è an- ch' essa un caso di finalità, un adattamento per cui i (!) Il Mill inaici! pure altri fatti c-lio sun«;<'rii*cl)ber(> V'uWtì. che il creatore ha voluto il piacere dvUv creature, cioi' : che «press(»chc tutte le cose danne» del ]uacer',' «l'una specie o d'un'al- tra»; che «il semplice eser<'i/io delle l'acidtà tisiche e nicinali è una sor<;ente «li piacere che n<Hi si esaurisce mai »; e <he «le cose stesse ju-ocurano del jùacere in «luauto soddisfano la curio- sità e danno il sentim(^nto sì gradevole dell'ac^iuisto <lella coiio- sceuza ». Ma ' evidente che ([uesti tatti nmi sono <'1h' d<*i casi del fatt(» licnerale (he ci siamo limitati a nuìuzionare nel testo, cioè il let-ame tra il piacere e l'esercizio luuniale delle funzioni <lell'on;anismo. — 156 - desideri e le avversioni de/li esseri senzienti veng-ono diretti al risultato di ottenere la più gran somma di st/iti tendenti alla eonservr..done dell' or;ianisnio e pia- cevoli. Ma, qualiui'iue sia il valore dell' obbiezione in se stessa, essa vale al punto di vista del filosofo teolo- g'ieo : questi diffieilnuMite eerchereblx^ di sj)ie.a-are, teleo- log'ieanìente o di un'altra maniera qualsiasi, questo fatto cos) familiare che il piacere è un og-o^etto di desiderio e la soft'ereiiza un o^•^etto di avversione, perchè la spie- o-azionc teolog'ica, come abbiamo osservato, e in gene- rale ogni spiegazione metafisica, non si a|)i)lica ai fatti molto familiari, che ci sendìrano naturaluìente evidenti per se stessi, per conseguenza necessari, e non aventi bisogno di alcuna sj)iegazione (1). Se il congegno dei mezzi e dei fini che si osserva nella natura, non indica la bor.tà del suo autore, mero ancora può indicarne gli altri utlribcUi moran. Lr., giustizia divina iioii si mo- stra certamente ne nel regno animale in generale, in cui è una legge che il ])iù debole sia la preda del più forte, uè nella società umana in particolare, in cui, se ciò non avviene sem])re, si deve ai freni artificiali dello (1) Lo stfsso Mill (lice: « Dosidcrnrc mi;i cosn tr(»v;nnh)l;i ^^JHh'Volt'. <' odijinie un* j«!tr;i trovandobi disaji.iiradovoh', sono due fenomeni in.s(*[>;ìr;il»ili <» piuttosto (hie ]KU-ti «l'uno stesso fe- nomeno, due mnniere ditferenti di nominare uno stesso fatto i)si- eoloj;ie(» : pensare a un o.u;.u;«'tto eome desiderabile . a meno <di<; non si desid;'ri i»er le sue eanseiinenze. ;> pensare ad esso eome ]»iaeevole. è una sola e stessa eosa. E desi<lerare una cosa senz« elle il desiderio sia proporzionato all' id;'a di )>iaeere ehe vi si le.ua. «' un'impossibilità tìsi<'a e metatìsiea». {Utilitarisuto eap. 4.). l^iso'oia eontessare ehe hi tendenza a considerare eome neeessu- rio il fatto elle ^li esseri senzienti cereant» il piacere e fuggono la sotferenza. deve essere molto naturale al nostro s])irito, <|uando lo stesso Stuart-Mill \i> considera come tale, malgrado il suo em- pirismo e la su!i avversione alle verità necessarie. — 157 stato sociale e a una vittoria della coltura sugl'impulsi primitivi della natura umana. Il regno della giustizia liei mondo esigerebbe che la sorte che tocca a ciascuno fosse la conseguenza morale delle sue azioni : è ciò che si verifica completamente nel sistema di Platone, in cui il carattere buono o cattivo di ciascun essere, il posto che gli è assegnato nel mondo, e tutti gli eventi che gli apporta la fortuna^ sono, in ciascuna delle vite che attraversa . la conseguenza delle sue vite anteriori ; e in parte nella religione cristiana, in cui le ingiustizie di (juesio mondo saranno compensate nell'altro, ma senza che il creatore possa es ;ere giustificato da una responsabilità che rende vana ogni altra giustificazione, cioè la distribuzione ineguale della virtù e del vizio in (piesta vita. Il fatto stesso che i filosofi teologici, per realizzare il regno della giustizia, trovano necessario di fare intervenire un'altra o altre vite, prova che essi non lo ve(h)no realizzato in (juesta, e che la loro idea della giustizia divina non è venuta dall'esperienza. Le ])asi induttive della filosofia teologica non danno diin(|ue alcun fondamento né alla bontà né agli altri attributi morali della divinità. Vi ha appena bisogno di aggiun- gere che (juc^sto fondamento non potrebbe trovarsi nem- meno sia nel concetto della causa prima sia in (juello dell'essere necessario concluso dall' argomento cosmo- logico. Noi possiamo quindi concludere che, conside- rando la fìlosotia teologica come semplice sistema teo- rico, cioè destinato a una maggiore intelligibilità dei fenomeni, non solo noi non possiamo spiegarci il con- cetto che Dio è l'infinito, cioè che possiede tutte le per- fezioni, o, come dice Locke, tutte le qualità che è più rantaggioso di avere che di non av^rc, ad un grado in- finito, ma nemmeno quello che egli possiede queste qua- lità ad un grado qualunque, salvo la potenza e l'intel- ligenza. È necessario dunque di considerare (jualche - 158 - altro lato della tìiosofia teologica, senza di che questi concetti resterebbero incouìprensibili. Nessuno potrebbe pretendere che la tìlosoiia teolo- gica, almeno nelle sue forme popolari — che, del resto, hanno influito, più o meno largamente, anche su quelle dei pensatori più indipendenti — -non sia che un puro prodotto delle facoltà razionali dell'uomo, cioè una dot- trina rivolta unicamente a soddisfare V intelligenza, e che si comprende pienamente come una manifestazione delle tendenze metafìsiche del nostro spirito. È evidente ch(* un'interpretazione dei fenomeni, fondata su queste tendenze, deve essere il sustrato delle religioni anche più infantili perchè i sentimenti e le pratiche relativi agli esseri soprannaturali suppongono già la credenza ad esseri soprannaturali, ed è impossibile di non rico- noscere in questa credenza, (jiiahimiue ipotesi si faccia sulle sue origini, uno dei casi defila tendenza generale dell'uomo, manifesta in tutta la storia del pensiero, ad assimilare a sé stesso le forze» della natura, e a trovare in (juest'assimilazione una spiegazione radicale dei fé nomeni. Ma non è meno evidente che questi sentimenti e queste pratiche, una volta nati, dovevano necessaria- mente reagire sulle idee da cui si originavano, dando alle misteriose forze della natura, già personificate, dei caratteri meno appropriati alla loro funzione di cause esplicative dei fenomeni, che a quelle di arbitri del de- stino umano e di esseri con cui l'uomo era posto in re- lazioni analoghe a quelle coi suoi simili, e che cercava di propiziarsi con mezzi egualmente analoghi. Non è difficile di comprendere come, in conseguenza di questo lato emozionale e pratico dei suoi rapporti con le po- tenze sovrannaturali, l' uomo finisca per attribuire ad esse, fra le qualità umane, quelle, e quelle sole, che è più vantaggioso di avere che di non avere, cioè eh' egli è org^oglioso di possedere e che loda nei suoi simili. È — ir39 - ovvio d'innnaginare le due cause che hanno contribuito sovratutto, se non unicamente, a questo risultato. L'una è l'idea, di cui nessuna è più naturale al punto di vista antropomorfistico, che la lode, così efficace per rendersi amici gli uomini, non lo sarà meno per propiziarsi gli Dei. L' altra, V inclinazione*, innata a credere vero ciò che si desidera. Sicconu^ le qualità che noi lodiaino sono, in generale, quelle che ci sono utili, sono esse che l'uo- mo desidera nei suoi dei, e che finisce quindi per loro attribuire. Queste stesse cause spiegherebbero pure il concetto dell'essere infinito o |)erfettissimo, cioè 1' in- grandimento sino all'infinito di queste (jualità lodevoli che sono state attribuite alla divinità? E ciò che pa- recchi hanno inclinato a pensare, o che potrebbe dednrsi da ciò che altri hanno pensato. S. Girolamo chiama fatili adulatores quelli che attribuiscono a Dio l'onni- scienza (1) ; e, per non citare che i più autorevoli, è così, cioè per l'adulazione della divinità, che Mill spie- ga l'attributo dell'onnipotenza (2), e Hume non sarebbe alieno dall 'ammettere questa stessa spiegazione per tutti gii attributi infiniti in generale (3). Da un' altra parte Kant sostiene, e, sembra, non senza ragione, che un autore lei mondo, (lotato d' a/na sovrana perfezione, non potrebbe essere dimostrato da nessuno degli argo- nu^nti teorici, ma solo dal suo argomento morale — che prova Dio ])er la necessità di una causa che metta in armonia la felicità con la virtù — .Questa causa, egli dice, deve essere onnisciente, a fine di pe- netrare nelle mie più secrete intenzioni in tutti i casi possibili e in tutti i tempi; onnipotente a fine di far toc- care alla mìa condotta le conseguenze che merita ; e (1) Comment. hi Habac. cay». I. (2) Suf/glo sul teismo, Conclusione. (8) Dialoyhi shUk relig, naturale, \nivtv XI.così pure onnipresente, etema, ecc. (1). Siceoiiu; la i)rova morale di Kant non è, come abbiamo notato, ehe la tendenza a credere vero ciò che desideriamo messa sotto forma d'argomento, cosi, seg'uendo il suo j.ensiero, si <>-iuni;eRd)bo naturalmente alia conclusione clie V ori- o'ine'del concetto deirintinità degli attributi di Dio deve cercarsi precisamente in questa tendenza. Ma e evi- dente che, anche unendo queste due spieg'azioni 1' una air altra, non si avrel)be ancora una spieoazione sod disfacente, perchè si escluderebbero senza ragione altri fattori che possono reclamare giustamente la loro parte nel risultato. Non vi ha, si può dire, alcun elemento, in questo rapporto ideale cl)e lega l'uomo coi suoi dei, che non lo s[)inga ad esaltare semi)re di più le< perfe- zioni di cui li ha rivestiti. Il sentimento della propria dipendenza e della superiorità incomi>arabile della po- tenza a cui si sente sottomesso; il terrore inspirate- da questa potenza, misteriosa in se stessa altrettanto che nei suoi linìiti; lamore, la venerazione, Tanunirazione; tutti i sentinuMiti che entrano in (luesto complesso che chiamiamo il sentimento religioso; coopereranno con la speranza di propiziarseli rendendo loro gli onori più sul limi e il timore di offenderli formandosene un con- cetto non abbastanza elevato, e col desiderio che i suoi sovrani e protettori siano tali da poter dargli tutto ciò a cui egli aspira, da una caccia abbondante alla giu- stizia assoluta nell'universo. Il risultato tinaie sarà ne- cessariamente, come abbiamo osservato, che tutti gli attributi della divinità saranno elevati sino al grado massimo che sia possibile di concepire, cioè sino airin- finito o all'assoluto. Gli stessi attributi che per se stessi uon sarebbero una perfezione e un'eccellenza, lo diven- gono per ciò solo che sono attributi della divinità: (1) Crii, della rmj. /uut. 1. i»arto. 1. L>. e. 2. VII. quindi devono essere innalzati come gli altri al grado supremo, cioè devono essere concepiti anch' essi come infiniti ed assoluti. Così la semplicità, essendo un at- tributo di Dio (oltre che è il distintivo dello spirito, che è più nobile della materia), deve essere necessariamente una perfezione : i)er conseguenza anche la semplicità di Dio è infinita o assoluta (con tutti i non sensi che, come abbiamo visto, implica (juesto concetto). A questo punto il filosofo prenderà rutti questi attributi infiniti "'li ven<>:ono trasmessi dal teologo, e ne estrarrà la sua formula pretenziosa che Dio è l'infinito o l'assoluto. É la sola parte che spetta al filosofo in questa (dabo- razione dell'idea dell'assoluto. Se per metafisiccf intendiamo le dottrine che deri- vano dalle illusioni naturali o sofismi a priori ddìii wo- stra intelligenza (ciò che solo ci permette di riunire in un' idea unica dei fatti aventi in comune dei carat- teri definiti e risultanti da uno stesso processo dello spi- rito umano), il concetto dell'assoluto, nel senso in cui io prendiamo qui, non è, bisogna confessarlo, un con- cetto metafisico. Ma se non lo è in se stesso, lo è cer- tamente in una sua applicazione, con cui si cerca di attenuare il mistero, che, in conseguenza di questo con- cetto stesso, ha inviluppato il rapporto tra Dio e il mondo. Dio, dicono i filosofi teologici moderni, è l'om- nitudo realitatis: egli possiede al più alto grado tutta la realtà e tutte le perfezioni di tutte le co^e, e 1' essere e le perfezioni delle creature non sono che delle i^ar^eci- pazioni limitate dell'essere e delle perfezioni infinite del creatore. Cosi tutte le cose preesistono in un certo modo in Dio, perchè ogni perfezione di qualsiasi creatura pree- siste ed è contenuta in Dio, quantunque non nella sua realtà difettiva, ma eminentemente. Eia dottrina espressa nei celebri versi di Dante : Nel suo profondo vidi (die s'iuterua. Legato con amore in un volume, Ciò che per l'universo 8Ì squaderna. 11 1(^2 — — 163 — Storieameiite, ({uesta dottrina è il risultato di uno dei tentativi dello spirito eclettico, ripetuti nella storia della filosofia, d' innestare la dottrina j)latonica delle hktv. nel sistema teolo<>'ieo. 1/ ovtoj^ ov, il iravTcXcòr ov •di Platone, cioè le Idee, in rui si riassumeva la realtà •di tutti li'li esseri fenomenali, e che erano ri<iuardate al tem[)o stesso ronu^ V essenza di cui le cose indivi- duali partecii)avano, e come il paradiunia di cui esse erano delle copie, interi)retato alla manii;ra teistica, diventava 1" Essere supremamente reale, infinito, che, contenendo in se stesso tutte le perfezioni e tutte le realtà, le comunicava, d'una maniera limitata, a^li es- seri finiti cIk; e.uli creava dal niente, ed era Tessere in sé e il prototipo universale, di cui tutte le cose, cia- scuna nella misura dei suoi attributi limitati, erano dei simulacri e delh^ parteci[)azioni imj)erfette. Ma (juest'as- sociazione arbitraria dMdee che non avevano fra di loro alcun le^iame naturale, aveva, al fondo, per iscopo di applicare là dove meno sembrerebbe possibile, cioè alla creazione dal niente, il princi})io che niente nasce e niente i)erisce, e che ciò che vienc^ nuovamente all'esi- stenza preesiste perciò in certo modo ed è contenuto, ili un*altr;i maniera di esistere, in ciò che lo precede (1). Questo princij)io, come vedremo neirAp|)endice a que- sta [)arte 1*, deriva dalla stessa sor<>"ente da cui il con- cetto di causa efficiente e le sue diverse applicazioni, e noi ])ossiamo per conseguenza riguardarlo a buon dritto come un vero concetto metafisico. La sua appli- cazione alla creazione dal niente è certamente una delle meno naturali e delle meno intellio-ibili che sia possi- bile di fariKi : ma ciò importa che noi possiamo consi- derare questa dottrina come metafisica a un doppio punto di vista, vale a dire in quanto deriva dalle il- / (1) Cfr. v^ t.. l;i nota a \nv^. IV.K lusioni naturali del nostro spirito, e in (guanto è una di quelle idee o pretese idee trascendenti che caratte- rizzano la metafisica, cioè che noi dichiariamo netta- mente inconcepibili, ma che il metafisico pretende che si possono pensare, (quantunque non si possano iin.- mcuf filare. ^ (). La distinzione [)iii ovvia tra i diversi sistemi teolo^'ici (almeno tra quelli che ammettono, d'una ma- niera più o meno ri^'orosa, il j)rincit)ro dell* unità di Dio) è (juella del (lualisìno e del panteisìito. Questi due ti[)i generali della filosofia teolog'ica (i)ervenuta al li'rado di dottriiia scientifica), alla loro volta, presentano cia- scuno una distinzione. ìion meno importante, cioè <(uella dei sistemi antichi e dei sistemi moderni. La dottrina della creazione, che, tra i sistemi moderni, ha eserci- tato la i)iù profonda influenza anche sulla più parte di quelli che la rit.''ettano, ha dato sì al dualismo che al panteismo moderno un carattere così differente da quello del dualismo e del panteismo antico, che l'introduzione di (|uesta dottrina, con la modificazione generale che ne è risultata nella concezione del ra])porto fra Dio e il mondo, costituisce senza dubbio il cangiamento })iii radicale che si possa osservare nelTevoluziom' delle idee teoloii'iche. Nella filosofìa teologica antica, sì dualistica che panteistica, il principio materiale è riguardato cf)me altn^ttanto primitivo che il principio s])irituale, cioè divino. Nei sistemi dualisti si annnettono due esseri primitivi distinti, Dio come causa motrice e ordinatrice, e la materia. \ei sistemi panteistici Dio è al tempo stesso la causa personale e intellig'ente dei fenomeni della ìiatura, e la sostanza, cioè la materia, di cui le cose sono fatte. Nella massima parte di (juesti ultimi sistemi Dio è identificato con la materia pi'imordiale, di cui tutte le altre sostanze sono delle trasformazioni. Il panteismo stesso nei sistemi antichi non è, ordina- riamente, senza un eerto dualismo. Nella filosofia antica in generale Dio non è, come notammo, che l'anima del mondo. Cosi, come nell'uomo l'anima è rig-uardata come un essere distinto dal corpo, per un'estensione naturale di questo dualismo antropologico, Dio, nell'universo, è riguardato come un essere distinto dal corpo dell' uni- verso stesso, di cui è il principio animatore e vivifica- tore. Questo rapporto di Dio col uìoiido è d'altronde il più proprio a conciliare 1' una con V altra le sue due funzioni capitali come principio esplicativo dei feno- meni, cioè quelle di causa ìtfotrice e di causa ordina- trice. Se r anima del mondo non fosse un essere esi- stente per sé e distinto dal m(>ndo stesso, V ordine, le cause finali, non avrebbero, in (juest' ij)otesi, una spie- g'azione altrettanto soddisfacente che l origine del mo- vimento. In effetto la spiegazione teleologica non ha per tipo l'attività che noi esercitiamo sul nostro proprio corpo, ma quella che esercitiamo sul mondo esteriore : l'artefice non può essere la sua opera, il demiurgo del mondo deve essere distinto e separato dal mondo stesso. E ciò che si verifica nella dottrina dei filosofi antichi dell' anima nel mondo : essa spiega i movimenti spon- tanei dell'universo, facendo di (juesto un tutto vivente e animato; e spiega pure il suo ordine o la sua finalità, facendo della sua anima un essere distinto ed esistente per se stesso, che ag'isce sul suo corpo come noi agia- mo sui corpi esteriori. Questa dualità di un'anima e di un corpo dell'universo esiste anche nei sistemi pantei- sti : la differenza è che, mentre nei sistemi dualisti l'a- nima e il corpo sono coeterni, nei sistemi panteisti il corpo è proceduto dalT anima, questa essendo identifi- cata con l'elemento materiale primitivo, da cui tutti gli altri (costituenti il corpo del mondo) si fanno nascere per una trasformazione successiva. Questo panteismo è fondato così su due concetti, che la scienza e la filo- sofia moderna hanno abbandonati, ma i più familiari all'antichità : la materialità dell'anima, che è la forma primitiva dell' animismo ; e la convertibilità reciproca degli elementi materiali, riguardati come delle forme diverse rivestite successivamente da una stessa sostanza. Per questa estensione all'universo dei concetti sull'uo- mo, che costituisce 1' essenza della filosofìa teologica, l'anima divina del mondo è riguardata anch'essa come materiale; tra i diversi elementi materiali, essa è iden- tificata con quello che sembra il più attivo di tutti, e di questo si fa lo stato originale di tutta la materia, in modo che sia al tempo stesso il materiale con cui il mondo è stato costruito e il principio demiurgico che lo ha costruito. Le osservazioni precedenti si applicano della ma- niera più esatta alla filosofia teologica dei Greci. Noi abbiamo il tipo del dualismo antico nei sistemi di Anas- sagora, di Platone e di Aristotile : nel vn 2^ abbiamo già osservato che in questi sistemi, come in tutti gli altri, Dio è l'anima del mondo, cioè un principio il cui ra])- porto con l' universo è assimilato a quello dell' anima umana col corpo umano. Lo stoicismo e i sistemi af- fini ci danno il tipo del panteismo antico. Il mondo, dicono gli Stoici, è un essere vivente di cui Dio è l'a- nima (1). Dio è la Mente dell' universo (2), la Provvi- denza che governa il mondo (3), il VO'JC o il Xó^og che penetra ogni cosa (4), ed è il principio motore e ordi- natore del tutto (o). Il mondo somiglia all' uomo, e la (1) Philod. De /fietaf. e. 11. (2) Seuccji Nat. qu, prol., IH. (3) Philod. De pletat,, v. 11, Dioj,'. VII. 138. (4) Diogene VII. 138, Cleanth. Hymn. in Jov. v. 12-13 M., wa-. (5) V. § 2. pao. 0.5 e § 3. pa-'. 84. — Provvidenza airaniina umana (1). Neil' uomo, T anima è un soffio ealdo, diffuso in tutto l' or<4'anismo, le cui parti ne sono tutte penetrate, quale con più, quale con meno abbondanza (2). Come la nostra anima nel nostro corpo, così r aninui dell'universo è diffusa nel corpo dell'universo (3) : Dio scorre per tutta la materia, vome il miele per i fnvi (4) ; egli stesso è una materia (5), più sottile e più attiva delle altre (6), che penetra tutte le parti del vasto organismo cosmico, e agisce su di esse per impulsioni continue (7). Dio o l' anima del mondo è uif essenza ignea, un fuoco artista, che pro- cede con ordine alla geiu'razione delle cose (S). L'uni- verso, il mondo ordinato, è stato preceduto da uno stato in cui tutto era fuoco, e ritornerà ad uno stato in cui tutto sarà fuoco. Ciò è lo stesso che dire che il mondo è stato preceduto da uno stato in cui tutto era Dio, e sarà seguito da uno stato in cui tutto sarà Dio. Dio, il fuoco artista, ha costruito il mondo, trasformando gradatamente una parte della sua sostanza nelle altre forme della materia; e quando il f/rcuKic anno sarà com- piuto, egli lo distruggerà, riassorbendolo nella sua i)ro- pria sostanza, cioè riconvertendo le altre forme della materia nel fuoco primitivo, nell'ordine inverso a (piello in cui ne sono procedute. Poi seguirà un'altra costru- zione del moiìdo, seguita alla sua volta, dopo un altro (1) Fhitnno ConuH. Xot, M. (2) l)i«»«r. \ii. 13S e 15(>, (IsdciM) ////>/>. et PIat, Piar. III. 1, Phit. Piar. I. IV. Ili S. vw. i'A) Diog-, Vìi IHS. AthoiiJijLJ. e. <>.. ('<•(•. (4) Tertull. Pe anim. 44. (5) IMiitarco Ooìum, JVol. 4S. ((>) V. St«)b. »/. I. ;5JH, Neiiies. Xaf. hom. p. 1()4 (Ed. Math.). ecc. Cfr. ^S 2. pa«i. 65 e 5i). (7) V. Otjereau Sist. filos. (let/li Stoici ]». 68 v 72. (K) Diujii. Vii. 156, Plut. Piar. ph. 1. I. VII. 17. I 'i grande anno, da un altro riassorbinn^ito nel fuoco, e cosi di seguito all' infinito, in modo che V eternità si compone di un'alternanza, sempre riproducentesi, di due stati successivi, V uno iìi cui non esiste che Dio solo, e l'altro in cui, oltre a Dio, esiste un mondo, cioè un corpo di cui Dio è l'anima (l). La parte razionale del- l'anima umana non è, come 1(5 altre cose, una trasfor- mazione della sostanza di Dio, ma una ])arte della sua pura essenza, una scintilla del fuoco divino (2). (^uan- tunciue per gli Stoici Dio non sia propriamente che l'anima del mondo, essi chiamano Dio anche il mondo stesso, cioè il tutto costituito dall' anima e dal corjìo. Questa deificazione degli oggetti stessi per una esten- sione del carattere divino attribuito originariamente allo spirito che li anima, non ha niente di sor})rendente, e si osserva anche nelle religioni popolari. È cosi p. e. che gl'Indiani dell'America del Nord adorano il cielo, quantunque il vero oggetto della loro adorazione non sia, almeno originariamente, il cielo stesso, ma V Oki, cioè la divinità o il demone, che risiede nel cielo (8). Lo stesso dualismo che negli Stoici, e fondato su- o'ii stessi concetti, troviamo negli antichi fisici che han- no costruito una nn^tafisica teologica in forma |)antei- stica. Il [)rincipio da cui essi i)artono è che 1' anima cosmica è disila stessa natura che l'anima umana, ed è costituita, come questa, dall'elemento materiale più sot-, da cui tutti gli altri provengono per una conden- sazione progressiva. Sembrano credere, dice Aristotile, che il fuoco o l'aria siano animati, perchè il tutto deve essere della stessa natura che le i)arti 4). Ciò vuol dire (1) V. OiifH-ejiu j). TiS (* 6r)-7(). (2) Eiisch. Pvep. ec. XV. 15. 5. (Mcaiith. /rymn. in Joc. v. 4. M., Sencra A>.. 66, 12. Epict. Diss.. I. 14, 6. ei^-. (8) V. Tyh)r di', prim.. cap. XVI. Cfr. t^S 1. p. 47. (4) De un. 1. 1. V. 21 '-SK9K — 168 — che, secoiulo essi, l'anima non potrebbe trovarsi nelle parti, cioè neiili esseri viventi, se non si trovasse pure nel tutto, da cui la ricevono, come ne ricevono jili altri elementi che li costituiscono (1). Così Aristotile continua alludendo alla loro oj)inione che g*li esseri divengono animati ])vv comprendersi in loro (jualche cosa del r TTcfy'.syov, cioè delPambiente, o dell'atmosfera. Secondo Dioo(Mu» d'Apollonia, una |)rova che 1' intelligenza ap- ])artiene al primo j)rinci))i() di tutt(i le cose, cioè all'a- ria, è che gli animali vivono per il respiro, da cui pro- viene ad essi 1" anima e Tintelligenza (2). L' aria, per lui, è ciò fhe il fuoco per gli Stoici, la sostanza pri- mordiale di cui le cose sono state fatte, jier la sua tra- sformazione parziale negli altri elementi della materia, e la })otenza demiurgica che le Im fatte. Nel nunido attuale, (juest'aria intelligente regge e governa tutte le cose, penetrando dapertutto, in modo che non vi ha alcuna cosa che non ne ])artecipi (8) : la sua intelli- genza spiega perchè tutto nel mondo avvenga con mi- sura, |). e. le, stagioni, e ogni cosa vi sia ordinata della maniera più bella che sia possibile (1). L'anima di tutti gli animali è aria : è per essa che vivono e sentono, e da essa ricevono la loro intelligcMiza (5). T/ aria per Diogene d' A})ollonia -- come i)er tutti i fisici che am- mettono un solo ])rincipio il nome che essi danno a questo i)rinci[)io -ha due significati distinti: quando egli dice che tutto è aria, (|uesta parola designa la so- stanza comune di tuttci le cose, che egli identifica, come gli altri fisici unizzanti, con T elemento primitivo, ri- (1) (MV. Platone Fiirho 2!» n-'M) h. (21 Fr. r>. Mullach. (H) /V. (i. Mullacli. (4) Fr. 4. . (.">) Fr. <;. ^1 169 guardandolo come persistente e sempre identico mal- grado le nuove forme che esso riveste; ma in altri casi aria non può voler dire che questa sostanza particolare che noi chiamiamo cosi, cioè 1' elemento primordiale nella sua forma primordiale. E evidente dalle proposi- zioni citate che questa sostanza a cui egli attribuisce riutelligenza, e che nel suo sistema equivale a ciò che noi chiamiamo Dio., è 1' aria nel secondo sig'nificato, ch'egli oppone per conseguenza al resto dell' universo, che sarebbe come il corpo di cui l'aria è l'anima. Un'osservazione analoga vale per Eraclito, la cui fisica è servita di modello a quella degli Stoici. Era- clito considera il fuoco, come ciascuno de«ii altri fisici unizzanti la sostanza che eleva ai)rimo principio, come r omogeneo primitivo che è il j)unto di partenza del- l'evoluzione del mondo, e come la sostanza comune di tutte le cose, perchè quest'omogeneo [)rimitivo, secondo le idee oscure di questi fisici, trasformandosi nelle altre sostanze, resta nondimeno essenzialmente identico (1). Al tempo stesso il fuoco è per Eraclito la sa])ienza (YV(Ó[17j) (2) o il sa [) lente (^povoòv (3), ypóvqiov (4) ) che governa l'universo, il logos (5), Zeus (6) o la divinità (7), e in una parola il principio demiurgico di tutte le cose (8) e — ch'egli si sia servito o no di (juesto termine l'a- (1) (vfr. AppeìifL e. 1. vN 4. i2ì Diog. ijaert. IX. 1., in Mnllach Framni. 55. (8) Plut. De Is. 7H. (4) ITippol. Eefuf. IX. 10. (5) Sesto Math. VII. 12<) o s(i«i.. Stob. Fel. I. 5S, I. 178. ecc. (6) Cloni. Paeduij. 1. IK) e, Strab. 1. 6 pa«;-. ^ (in Mullach Fr, 85). (7) CUem. Co/iort, 42 e. Seste» lìfath. l. e. ecc. (8) Proclo in Tini. 101, Sinici. P/nf.s, i\ a e S a.. Stob. />/. I. 58. ì ',< I TT 170 — — 171 — iiima del mondo (1). Certamente questo sistema è un panteismo, perchè Dio è la sostanza primordiale di cui l'universo è una trasformazione: ma tra Dio e il mondo, oltre a questo rapporto d'identità, vi ha al tempo stesso un rapporto d'opposizione, perchè questo fuoco che è riguardato coinè ZtHis, come demiuro-o, come lo^-os, ecc., non è il fuoco come sostanza comune di tutte le cose, ma il fuoco come sostanza particolare, come uno degli stati o delle forme della materia universale. Le propo- sizioni di Eraclito, sia riferiteci dai^li autori antichi sia contenute nei suoi stessi frammenti, non lasciano alcun dubbio su (luesto significato della sua dottrina. L'ani- ma, ci si dice, è per Eraclito il soffio o il vapore con cui e<>"li costruisce tutto il resto '2) — nella sua fisica l'aria e il fuoco non sono due elementi distinti, come nella tisica posteriore, ma un solo e stesso elemento — . Per quest'anima biso^-na intendere il principio animico, cioè la sostanza che è la sorerente della vita e il su- strato della coscienza, tanto nell' uomo e negli esseri animati in generale, (|uanto nel mondo, considerato an- ch'esso come un'essere animato (8). La nostra anima è (1) IMul. Pine. IV. li. N«Miirs. Xat. hom. v. 2. p. '2S. Tcixlo- rrto t. IV. pnu. ^<2l^ ecc. (2) Arist. De Au. I. I. II. l«i. Ctr. IMut. Pìm'. IV. S e Xc- iiH's. ynt. hoiit. e. 2. 1». 2S. (S) l*s. Pliitjìrco e Xciiicsio dicono in'ttaniciito clic spcoikIo Eniclito rjiiniiiM dei iikumIo c vapore. Tuttavia non si potveì>he attenuare che Eraclito lia parlato «li niraninia <h'l mondo, «[uan- tunque sia indnbitahile ch'ejrli ha ammesso in sostanza questa dottrina. P. (pudla che «ili attri^)aisce al fondo lo stesso Aristo- tile nel bioi^o cita-tt) e i>oco in-ima (/>r (ui. 1. I. e. H. 10-11, in eni dice <die ]>er Eraclito l'anima «^ fuoco): secondo ([uesti luo- ghi infatti Eraclit») lia identiticato i' anima col i>rimo i)rincii>io («•iot^ con tutto il fuoco esistente nell'universo), imn ha detto Bemidicemente ch'essa «^ forniata della sostanza cli'egli rij»uarda della stessa essenza che quella dell'universo (1), ne è una particella staccata dal tutto (2) : la ragione ci viene dall' atmosfera, da cui la prendiamo per la respirazio- ne (8). L'anima deg'li esseri viventi essendo fuoco, e il fuoco esteriore essendo l'anima cosmica, fuoco ed ani- ma sono per P>ficlito dei termini equivalenti, e per de- scrivere la conversione reciproca degii elementi, dice : le anime si trasformano in acqua, e 1' acqua in terra; dalla terra viene l'acqua, e dairaccjua l'anima (4). L'e- quivalenza tra fuoco ed anima si vede pure nelTespres- sione «la regione del brillante Giove » (5) (per denotare il mezzodì, la regione della luce), e nella proposizione che '< il fulmine g'overna tutte le cose » (()) (in cui è applicata all' anima cosmica la stessa immagine di cui <-om<' primo priiK*ii)io. Più espli<'ito ancorji è il 1uol»;o del De Ah. 1. I. e. V. 17 s«iq., in cui Aristotile ])arla di «pielli <'lie hanno infuso l'anima neiruniv<'rso. la dottriiut ivi menzionata che nel fu<K'o vi ha l'jinima non jjotendo api>artenere evidentemente che ad Eraclito, (.'he ({uesti ha ammesso un' anima cosmica e V ha identiticato col fuoco <[uale stato particcdare «Iella nmteria . ri- sulta ]mvo dairindicazione di Sesto Emi)iri<M) {Muth. l. e.) <-he il Zc[>LéyOV (cioè l'atmosfera) e dotato di j"a.«;ione. (1) Plut. Plae. IV. 3. Xemes. Xai . hom. e. 2. j). 2S. Teodor. t. 4. p. S22. (2) Plut. De /s. 7»). Sesto 3fath. VII. l. e. Vili. 2SJ). Teo- «lor. 1. e. <'cc. (3) Sesto Malh. VII. l. e. Ofr. il luo-o citato d' Arist. De mi. l. I. e. V. 21, in cui si parla dell* ojùnione che ^^li (esseri animati divenj;ono tali per eoniprendersi in lon» qualche cosa del TTSptSyOV. Allo stesso ordine «l'idee si riferiscon<> le proi>o- sizioni di Eraclito sull'identità fra .^di Dei e .uli uomini (v. Mul- lach Fr. iVl e auiiotaz.) e sul cammino delle anime nella via verso l'alto e <piella verso il liasso (v. St<d). bJcl. I. lH)j;i. (4) Franila. 59 Mullach. (.5) Fr. 85 M. (f>) Fr. 50 M. 172 17H i si serve altrove per l'anima umana, dicendo che questa va volando per il corpo come il fulmine per le nubi) (1). Per questa diffusione'dell'anima nell'universo e la sua distinzione dall' universo stesso . Eraclito può dire che tutto è pieno di anime e di dei (2) . una pluralità d' i- postasi divine non essendo incompatil>ile, come vediamo in tutte le dottrine antiche, con l' unità dell'anima co- smica (H). (1) Fr. 71 M. Bisojiiia (M>iit'n>i»tiii-c le in-(»p(>si/i<Mii «li Kra(lit(» siill:i ragione clic- <M»V('rna il mondo, col liio-c del Cralilo in cui e <iuistiono dcirctimoloiiia di OÌ7.aiOV, e (die, per la parte (die c'interessa, \mh riassumersi così : Secondi» (iiudli clie ammett(Mìo che tutto i' in movimento (cioi' .^-li eraclitici) vi ha alcun che (il iuoeo) che uoverna tutte le cose, scorrendo e ]>enetrando da per tutti», jx-r- ehè è l'cdemento i»in sottile e piìi vedo 'e : così esso è eiò per e ni si jicncrano tutte le cose oenerate . e in una ]»arola la causa (Platone Cratilo \V1 d-ti:> a). Secondo le comezimii semimate- rialiste sull'anima di «[uasi tutti i tilos(»tl antichi, l'anima co- smica non potrebbe a-ire sulla materia (he i»er contiguità e per impulsione, come un corpi» su altri corpi. Il Zelìer (Fiìos. dei Greci 1. voi.. 4. ed.. pa,n. 591) dà inopportunamente questo luogo del Cratilo come una prova della dottrina di Eraclito che il fiUKo ì' l'essenza universale e la sostnnza di tutte le eose : in- vece esso è evidentemente un'altra testimonianza in favore del dualismo di iiuesto tilosofo. il fuoco di eui (ini si trjitta essendo una sostanza particolare. rÌLiuarilata come il princi]>ii» attivo e foiniatore ilell' uni verso. (2) Diog. 1\. 7 e Arist. De part. aniìiud. l. l. e. V. (Didot pag. 227). (S) Alcuni esi)ositori dei tilosotì di cui abbiamo parlato, cer- <'ano di attribuir loro un panteismo, secondo essi, più rigoroso, oscurando, invece di metterlo in luce come noi abbiamo cereato di fare, questo coneetto fondamentale dei loro sistemi, elie Dio, la <-aiisa intelligente dei fenomeni, è identieo, non a tutto l'uni- verso materiale, ma a una sostanza particolare, considerata come M Il solo esempio di un panteismo senza dualismo che ci presenti la filosofia o-reca è il sistema di Xenofane. hi forma i.rimordiale didla materia e come il sHÌ^stratum della eoseienza cosmica. Così, secondo W 7aAWv i Fri ma periodo, vnp. 2. § 1. sulla line), in Eraclito la forz;^. organizzatrice del mondo, come soggetto attivo (cioè la ragione o la divinità) . noìi è di- stinta dal mondo stesso e dall'ordine del mondo. E, mi semlua, prestare gratuitamente ai lilosoti antichi una confusione d'idee, cdie noi mm dovremmo attribuire ad essi che quando cib fosse assolutamente inevitabib'. Nmi vi ha dubbio che Eraclito, come tutti i tib.sofi anticlii, teisti o panteisti, per cui la divinità è Panima del mondo, chiami Dio tanto questa quanto il mondo stesso (ci(M^ il composto dell'anima e del corpo), e riguardando il nnuido come una persona, gli attribuisca talvolta, per conse- .rucnza, quest'attività organizzatrice che. secondo lui, m)n ap- partiene propriamente che all' anima del mondo. (E ciò che fa nella celebre proposizione in cui paragona l'Aeon a un fanciullo che giuoea. V. Fr. 44 Muli. L'Aeon. cioè il tempo o l'eternità, non imo essere che 1' universo, e il giuoco dell' Aeon l' azione demiurgica e ordinatrice. Così alenili autori, alludendo a questa proposizione di Eraclito, invece del giuoco dell' Aeon, parlano del giuoco di Zeus o del Demiurgo). Ma questa deificazione e persmiilieazione del mondo è naturalissima, dal momento che Eraclito lo riguarda come un essere animato, ed essa non im- porta aifjitto una confusione del mondo stesso con la sua forza organizzatrice, cioè con 1' anima del mondo. Questa intei-preta- zimie di Eraclito) non è in sostanza che una riproduzio.. • del rimprovero d'Ippolito (inspirato evidentemente dall' avversione dei padri della chiesa contro la filosofia greca) che Eraclito ha riunito nel mondo i due attributi opposti di creatore e di cosa creata. Questo rimprovero si fonda sovratutto sull'equivoco oc- casionato dal doppio impiego della parola Dio e sinonimi (ap- plicati, come abbiamo detto, ora all'anima del mondo, e ora al mondo stesso). È ciò che si vede della maniera più chiara dove Ippolito, per appoggiare la sua interpretazione, riporta i tram- menti di Eraclito che nella collezione di MuUach portano i nu- meri 86 e 87 ( « Dio è giorno e notte, està e inverno, guerra e — Il Dio di Xeiiofaue è ìniinocìiataineiite il inondo, consi- derato come un essere aiiiii>ato e [)ersonale. Et>li « vede ]»}ic(*. faine v sazietà » ecc. \. jmt ([lU'sta )»r(>iM>sizi(»iie Ai»pen«l. e. 1. vN r>. 1». XX XIX. (^ui per Dio iioii si può iiiteiideie clic il mondo st«'sso. o piuttosto la sostanza <iel in<>n(lo. clic rivestendo ontinuanK'nte t'oruie contrarie, resta semine identica a se stes- mh). In altro e((uivoco che può dar Iuoìì'o a umi tale interpre- tazione e quello occasionato dall'ainluLiiiità dei termine fuoco e siuJMiimi (diMiotanti ora la materia comune «li tutte le cose e ora questa forma particolare della mat«'ria clic Israelite» ideiiti- tìea con la divinità). 11 Z(dler cade «[iialclie V(dta in quest'e- quivoco, p. e. interpn-tandi» il Fr. 4S Mullacli (Clii imo nascon- dersi . dice Kra(dito . dal fuoco <'lu' \ìì:ì'ì non perisce i Secoiulo il Zeller «[Uesto fuoco (die mai non perisce — e a cui Kra(dit<> attrilmisce T onni\ eo^cnza — non può ess4'i-<' <dH' il fuo<'o c<mie essenza universale formante la sostanza di tutte le cose. Ma perfdiè non deve <*ssere invece il solo fiUM'o «lu' l"h-a(dito d(»ti <li coscienza e di milione, cioè il fuoco come l'orma particolare della materia e anima d(d momlo ì Percliè questo fuoco perisce. trasfi»rniamlosi continuamente in altre forme della materia t Ma mal.urad(> ;ì1ì scambi incessanti tra le parti di (pu'sto fuoco e jjli altri elementi didla materia . pere liè Kijudito non potreldx' parlare dedla sua permanenza . come noi parliamo . malgrado dejsli .scamòi materiali analoulii. dcdla permanenza <li un essere vivente t ) Secondo il Zeller. Kracdito lia identificato la forza ornaniz- zatricM' d<d mondo . non s(do col mondo stesso . ma aiudie con rortline d(d mondo. K certo (die ak'uue proposizioni di Eraclito, prese strettamente alla lettera . iniidieliereì>l)ero una tale iden- titieazi(»ue : ma si tratta evidentemente di semplici traslati. ( lie nessuno oserebl)e di prendere strettamente alla lettera, l*. e. Kra(dito (diiama Zeus il TTOAeji.O^ (l;j ouerra) . cioè qu(^sta (q>- poriizione mutua d(dle cose, (questo passai;iiio continuo da un contrario all'altro, che è secondo lui la legiic universale^ e fon- damentale della natura (V. Append. e. 1. ^ .>.). 3Ia è chiaro che il ^OASjJwOC qui desijiiia, non la lo<:^<*;e (hdla natura in astrat- to, ma la natura stessa in cui questa 1(;.u;k*' '^i realizza . e (die — — tutto intero, ode tutto intero, pensa tutto intero» (1) : il substrattim della coscenza cosmica è V universo ma- teriale nella sua totalità, non un elemento particolare, ri<^uardato come la sostanza anima e, per conse^-uenza, come la divinità nel senso proprio della parola. Il pan- teismo di Xenofane si conforma dun(iue al tipo del pan- teismo antico, in (pianto la materia è riguardata come un principio cosi primitivo che lo spirito, e Dio è con- cepito come un essere materiale. Ma ne differisce in quanto V anima del mondo non è distinta dal mondo stesso, e opposta ad esso come una sostanza separata ed esistente per se stessa. Questa non è una deviazione soltanto dal ti])o del panteismo antico, ma da quello della tilosotia teoloo-iea. antica in <4'enerale, per cui, come abbiamo osservato, la divinità non è che l'anima del mondo. Un panteismo come (juello di Xenofane. in cui runiverso è considerato come un essere animato, ma senza che la sua anima veni^-a sostantificata, può pa- f'\ così in ([iiesta deifiejizione d(d TTOÀcjXOC non alduamo e he (pie- sta estensione (hdT attributo d(dla divinità dall' anima del mondo al mondo stesso . naturalissima, c(nne alduamo detto, in tutti i filosofi (die hanno fatto d(dla divinità 1' anima d(d imuido. Jn altri casi la divinità c(m cui s' identifica (per semplice figura rettorica) l'ordine del momb». è la divinità md senso pnqu'io . cioi' il loiios o 1' anima d(d nnuido : p. e. mdla pr(q»osizi(Uie, (die St(dK'o (AV7. I. 17S) attribuisce ad Kra(dito. che il lon'os è il i'iiUì e bi necessità. Ma se un filosofo teista iiKKlerno dicesse che Dio è la le«»«»(' (bd imuido, ne concluderemmo forse che e«;li (bulica l'ordine (bd mondo, e fa una s(da e st(^ssa cosa d'un essere personale e d'una semplice astrazi(Mie ì Si dirà clu; Eraclito, mni era un teista, ma un panteista : ma ei(> (he noi attermiamo è appunto ( lu^ il panteisim» di Eraclito (^ di ([nasi tutti i pant(dsti anti(dii mni differisce dal t(dsmo, (die per(diè Dio è identificato con la forma primordiale della materia . di cui tutte le altre sono (bdle trasf(»rniazi(uii. (1) Framm. 2. Mullach. — ì76 - rere una concezione non lueno naturale, anzi più forse, che la concozio.u. dualista, che oppone l'anima del mon- do al mondo stesso come una sostanza .list.nta e sepa- rata. Non è strano tuttavia che la concezione dominante «ia stata la secon.la, la dualità che essa introduce nel- luniverso, presentandosi, della maniera pili ovvia, come una conseo-uenza della dualità analoga che la teoria animista ammette nell'uomo e neoli altri esseri viventi, e onesta teoria essendo i'accon.pa-namento quasi inva- riabile della filosofia teologica. E verisimile che lo s.esso Xenofane non si sarebbe allontanato dal punto di vista ordinario, se le basi del suo sistema fossero state uni- camente quelle della filosofia teologica. Il dualismo in questo filosofo sarebbe incompatibile con la dottrina fondamentale della scuola eleatica, di cui fu l'iniziatore, cioè I-unità e l'immutabilità della sostanza. Da per tutto dove rivoloe i suoi sguardi, Xenofane vede risolversi tutte cose in una sola e stessa essenza, sempre identica a se stessa (l). Una delle applicazioni più ovvie di questo principio, che, sviluppato in tutto il suo rigore conduceva alla negazione della realtà della molUphctà e del cau-i amento, era la soppressione della differenza fra il cosciente e il non cosciente, la sostanza unica che circola in tutti gli esseri non potendo passare dal- l'uno all'altro di questi due stati senza il cangiamento più radicale nella sua essenza. Il monismo di Xenotane non nasce dunque al punto di vista della spiegazione teoloo-ica: ciò è tanto vero che nei suoi successori ri- troviamo lo stesso monismo, ma senz'alcuna mescolanza d'idee teologiche (2). Gli stessi tipi di panteismo e di dualismo che tro- viamo nella filosofia greca, ritroviamo pure in sostanza (1) Sesti! Eiripirieo Pyirh. 1. 224. (2) Cfr. Appena, e. 1- ^ 6. - 177 — nella filosofia indiana. Dio è in generale, pei filosofi indiani come pei filosofi greci. V anima del inondo (1); e il priiicii)io materiale, anche secondo i primi, è eter- no e primitivo come il principio spirituale, sia che que- sto s'identifichi con la forma primordiale della materia (sistemi panteisti), sia che si facciano dello spirito e della materia due esistenze distinte ed egualmente pri- mordiali (sistemi dualisti). Nel mnkhya t(!ista (sistema di Patandjnli) si amiimttti uiranima sui)rema, Dio, coe- terno al principio materiale (Prakriti), ed ordinatore del mondo {•!). Il iii/ai/a e il cuii^eaika ammettono l'eternità deir anima e degli atomi: quella è il principio motore e ordinatore degli elementi materiali (3). Questi sistemi rappresentano il dualismo, e corrispondono, tra i siste- mi greci, a quelli di Anassagora, di Platone (^ di Ari- stotile : il panteismo, corrisfiondente ai sistemi degli Stoici e dei finici loro j)redecessori, è rappresentato dal sistema vedantino, che è la tìlo.sotìa ortodossa de"rin- diani. ScH-ondo i Vedaiitini, Dio è al tempo stesso la causa efficiente e la causa materiale dell' universo (4) : nella loro cosmo^ii'onia, come in quella dei filosofi teo- log'ici greci per cui il principio divino, cioè s{)irituale, non è originariamente distinto dal principio materiale, le cose vengono per una trasformazione di sostanza, non per una ereazione assoluta, dalla sostanza divi- na (5). Dio è, rispetto all' universo, come un vasellaio (1) V. § 2. p. r)fi.()7. (2) V. C()leì>r. Filoa, deffV fnd. tviid. trMiic di Pauthirn- lìii<^. 22-28 e M. (3) V. Colebr. trad. di Pautìiier pai^. 52-58. 5(i . 71-75, 177. (4; Colebrooke Saggi siilla fiìos. dcf/P Itìd, tijid. fraur. di Pautliier pa^. 173, 199, 288. (5) Cfr. Appendici' alla parte 1.. jki.h". LXXV . spec-ialineiite nota 2. 12 - 178 - è ai suoi vasi di terra, e al t(^iii})0 stesso come la terra «li eui qiie>ti vasi sono fatti (1). P>rahnia ha prodotto il mondo })er una trast'onnazione di una parte del suo essere, simile a (|ueila elie subisce il latte per cano-iar- si in latte ea^-liato, e l'acqua per cangiarsi in ghiaccio (2). Alla dissoluzione del mondo ali elementi rientrano Tuno nell'altro neirordiiu' inverso a (juello in cui al princi- pio sono usciti l'uno dalTaltro (per la volontà di 15rah- nia), tiiudiè tutto sia riassorbito nella causa suprema e infinitamente sottile, che è l'rahma . l'anima univer- sale {iì). ^>uesto movimento alternativo, per cui lìrahma emette da se il mondo e poi lo fa rientrare nella sua propi-ia sostanza . «lon ha cominciamento ne fine : la <luiata dell' universo è un alternarsi continno di due periodi. T uno in cui. oltre a lirahma . esiste il mondo (il i/i(pnf(t (U linilniKt), e 1' altro in cui esiste Brahma solo senza il nH>ndo (la //o//r <li Itmlnna i. ('Ome il ra- o'iio proietta il suo filo e lo ritira (<jiU'sto filo esseiìdo formato dalla sua sostanza), come le fnant(5 escono dalla, terra e vi ritornam», così il mondo si (n^olvt» dall'anima universale e di dissolve in essa (4). In quanto alle ani- me individuali, esse non sono delle modificazioni di Hrahma, come le altre cose, ma delle porzioni di Brah- ma stesso, che entrando nel seno delle modificazioni materiali, hannc» trovato la loro individtialità (^ limita- zione, come l'etcn'e è limitato dal vaso che ne conticnie un?t certa parte, senza aver subito modifìcazioiui (; dif- fejrire dall'etere esteriore (;'»). (tIì Stoici avrebbero vi>to il I (Nih'l)!-. I». 2SS. (2) Koniuiiul Sftftii 'li fi/os. ituf. in I^rr. philos. l. .'). p. hi7 e. CoJt'ÌH'ookr p. 17s. (o) KrjiiiHiul in ffcr. fthif. t. 5. p. 170 «• ('oI«'l>rook(' p. ISO. (4) V. Colrlnnuk»- 1». Hì7. 17s. VMK 2SS. (51 I\«'iiiiaini in Nrr. phil. t. fi. p. 171. 179 — l'espressione esatta della loro propria dottrina nella pro- posizione dei Vedantini, secondo cui le anime indivi- duali, rapporto all' anima universale, sono conu^ delle scintille che escono da un braciere e vi rientrano (1). Senza dubbio il sistema vedantino è, in un senso, un monismo ri<i'oroso, in fjuanto ammette che Dio solo è reale e il mondo è una semplice apparenza. Ma, a parte questa dottrina, che noi studieremo nell'Appendice (2), è evidente che vi ha in (juesto sistema lo stesso duali- smo ch(5 nei sistemi panteisti greci : Hrahma, come ani- ma del mondo, è distinto dal mondo stesso, come nel- r uomo r anima si distingue dal corpo, e se Dio e il mondo vengono infine identificati, (juesta identificazione è fondata, conu* lu'l i)anteismo dei filosofi greci, sul concetto che le div(M-se sostanze materiali sono una ti-a- sformazione della sostanza divina (conce])ita anch'essa conu' mat(;riale), dalla (juale vengono e nella (|Uale ri- tornano in una sei-ie infinita di evoluzioni e di disso- luzioni. Qtiesta raj)ida escui'siom* storica ci mostra che la filosofia teologica, (|uale la troviamo in un'epoca ante- riore al cristianesimo o in una civiltà esente dall' in- fluenza del cristia!H'simo, è fomlata su (|Uattro principii, di cui due sono comuni alla forma dualistica e alla panteistica, e gli altri due particolari alla secomia. I prinn* sono : la distinzione e o|)posizione fra Dio e il mondo, e il concetto che la materia è eterna e primor- diale egualmente che lo spirito, (ili altri : la materia- lità della sostanza anima (negli esseri viventi cosi bene che nell'universo), e la conversione reciju-oca degli (^Uv menti materiali. Questi due ultimi sono tro[)po incom- patibili coi concetti della scienza moderna, ])er j)otervi (1) V. ('oh')»nM>ko p. 1S()-1S2. \\\\\-2m. (.2) V. r. 1. v\ S. 180 vedere altra cosa che dei prodotti naturali di uno stadio inferiore della coltura. I due primi invece devono con- siderarsi come le condizioni t^'enerali di ogni filosofìa teologica che abbia di mira sovratutto la spiegazione dei fenomeni. La distinzione e opposizione tra Dio e il mondo, come abbiamo notato, oltre ad essere una con- seguenza logica della teoria animista, è l'idea più na- turale al })unto di vista teleologico, che assimila il rap- porto fra Dio e il mondo a «piello fra un artefice e la sua opera. L' eternità e primitività, della materia è il presupposto ili qualsiasi spiegazione che la filosotia teo- logica possa dare dei fenomeni, poiché essa non potri^b- be consistere in altro che in un'assimilazione delTatti- vità produttrice dei fenomeni all'attività umana, e (jiie- sta suppone una materia preesistente, su cui possa eser- citarsi movcMidola o altrimenti modifìcamlola. Nel para- grafo precedente abbiamo i^ià osservato che la creazione della materia non può concludersi dalie prove reali del teismo, corrispondenti alle du(^ funzioni della divinità come principio esplicativo (Un fenonuMii, cioè come causa motrice e ordinatrice. Da tutto ciò seguirebbe — poiché i principii su cui si fonda il panteismo antico sono le- o-ati, come abbiamo detto, a uno stadio inferiore della cultura — che la forma naturale «Iella filosofìa tipologica, appro[)riata a tutti i gradi dello sviluppo dello spirito umano, sarebbe un dualismo conie quello che Sluart-Mill deduce dalle prove del teismo, cioè un sistema che am- metterebbe due princi[)ii coeterni ed egualmente primi- tivi, Dio e la materia. Tuttavia la filosofia teoloirica moderna non si con- forma (juasi mai a (|uesto tipo. Dualisti e panteisti, meno (jualche eccezione isolata, sono d'accordo sul prin- cipio che non vi ha altro essere primitivo che Dio (conce- pito come immateriale), e che la materia ne deriva. I dua- listi, (juando rigettano il dogma della creazione, non negano perciò la creazione e,r nihilo, ma solanu^ite la creazione nel tempo. I panteisti negano la creazione ex niìtilo, ma, ad eccezione del solo Spinoza — che, come i panteisti antichi, fa dello spirito e della materia du(^ attributi, egualmente primitivi, delTessere divino - non nea-ano che la materia deriva da Dio, cercano sola- mente un altro lìiodo di derivazione. Senza dubbio il concetto della derivazione della materia da Dio è |)iù proprio a unrt si)iegazione teologica assolutamente uni- versale che «luello della materia còeterna a Dio ed egual- mente primitiva. Quest' ultimo non é compatibile con una tale spiegazione che a due condizioni : 1' una, che si ammetta che il cosmos. il mondo ordinato, ha avuto un cominciamento : e 1" altra che si tolga alla materia qualsiasi attività, e si faccia di Dio l'agente universale, come nel sistema delle cause occasionali, in cui, <|uan- do un corpo ne urta un altro, è Dio che, all'occasione deir urto, produce il movimento del corpo urtato. Al contrario il concetto che la materia deriva da Dio rende» possibile un' applicazione universale della spiegazione teologica, anche ammettendo, come facevano molti filo- sofi antichi <' come hanno fatto in generale i filosofi cri- stiani, che la forma attuale del cosmos e la fornìa co- stante dell'universo materiale, e lasciando la loro atti- vità agli esseri creati, che Dio indirizzerebbe ai fini ch'egli si é proposti, dando loro, nel crearli, una natura appropriata. Non è però verisimile che tale sia il mo- tivo di (juesto concetto. L'estensione della spiegazione teologica che esso rende possibile ([). e. V api)licazione della dottrina delle cause finali alla forma del cosmos nell'ipotesi che (juesto non abbia avuto cominciamento o il suo cominciamento sia simultaneo a quello della materia) é . in un senso, ancora una spiegazione, in quanto consiste in altre assimilazioni delle cause dei fenomeni naturali alla nostra attività. Ma una tale spie- il' g-azionc. non ])otivl>b(', iiciiiineiio per un nionieiito, dare riliusione di avere una spie<>azione reale, cioè che renda veramente più comprensibile il fatto si)iei>-ato. Per eiò l)isoi:iuM*(^bl)e ciie la produzione della mat(5ria non tosse, come è nel tatto, assolutamente iin*oìn])reiisibile. Noi non dobbiamo dun(|U(' esitare ad affermare clie il con- cetto della derivazione della materia da Dio non hapotuto esser nato al punto di vista della spieuazìoin». dei fenomeni, e che i motivi della filosofia teolot>-ica, come filosofia, cioè come interpretazione razionale d(n fatti, non potrebbero rendere conto della sua oriii'ine. Ciò è evidente |)er la dottrina della creazione e.r ìii/iilo. Essa all'origine non è stata stabilita a titolo di dottrina filosofica, ma di doirma. di <-redenza reli<i'iosa. In seguito si è cercato di appoi>-Liiar(^ la credenza su arii'omenti razionali, ma questi non sono tali da |)oter essere riguardati conn* dei motivi reali della credenza stessa. Il solo che dobbiamo pr(md(M'e in consid(M*azione è (lUello che conclude alla necessità di un'origine del- Tuniverso per Timpossibilità logica di una durata in- fiiìita nel passato (1). Ma, come abbiamo visto, questa im]>ossibilità log'ica non è evitata che sostituendovene un altra più evidente, cioè l'idea inintelligMbile che la durata infinita di Dio non è una durata, ma un eterno presente, un istante indivisibile (2). Il motivo reale della dottrina della creazione e.j' niliUo lo abbiamo indicato nel ])arag'rafo precedente: è Tapplicazione alla efficien- za causale della divinità del conc(»tto dell'infinito o del- l'assoluto (:^), concetto che, conn^. abbiamo spiegato, non (1) V ^^ t. paj-. Ulil. M r Isa deriva dalFelemento filosofico della teologia naturale, ma dal suo elemento |)uramente religioso, cioè emozio- nale e pratico. Il j)anteismo moderno nasce ordinariamente per oj)- posizi(nie alla dottrina della creazione e,r' vihUo, Si è detto che la base del panteismo è il in'inci|)io che dal niente niente si fa. In verità questo j)rincii>io non i)uò essere la base del panteismo in generale, poiché |>er concluderne il panteismo piuttosto che il duulismo, oc- corre evidentemente tma seconda j)remessa : è il prin- ciino, che i panteisti antichi igiìcn-axano e che Spinoza non ammette, ma che è annnesso dalla \\\\\ parte dei panteisti moderni, che la materia non è un essere pri- mitivo, nìa deriva da Dio. Negando la dottrina della creazione e.r ìiHiiln (ciò che in sostanza è il significato del principio che dal niente niente si fa), ma ammet- tendo con essa che la materia deriva da Dio. alla in- comprensibilità della creazione c.r iiìhilo il panteismo moderno non i)uò che soslitnire altre incomprensibilità. La foriìiula geneiale in cui |miò riassumersi (juesto pan- teismo, fondato sulla negazione della creazione r.r nìhilo e al tempo stesso suU'aflermazione che la materia deri- va da Dio, è- che Dio (concepito come immateriale) è la sostanza unica, e le cose non ne sono che dei modi di essere. Il rappoi-to tra Dio e le cose, pi-.- conseguenza, sarebbe (juello fra la sostanza e i suoi modi di essere: così Dio, ci-eando le cose, non creerebbe delle sostanze (conn» nella dottrina della creazione» (^.r ìfihilo), ma fa- rebbe euKu-gere dalla sua sostanza dei modi di essere di (piesta sostanza stessa. \\\ <ìuesta dottrina la causa- lità di Dio è ÌHfìnif(( o (issolafd come in (|Uella della creazione» ex uihilo (1), poiché Dio, creando, non dà tma (1) V. lKirav,r. jniM-rd. pan. I:i5, -.* - 184 — nuova forma a una materia pree.sistcnte, i-ouu; nei .si- stemi dualisti antichi, ma le cose ereate, cioè i modi di essere della sostanza divina . sono ])rodotte int(?^'ral- mente da Dio, eioè e<ili ne è la causa totale, la condi- zione unica della loro esistenza, senza il concorso di altre condizioni a lui esteriori e da lui indi[ìendei!ti. Da un'altra parte il concetto che Dio è la sostanza delle cose, che non ne sono che dei modi di essere, salva l'attributo deir immutabilità divina (incomijatilnle col panteisnìo antico, in cui il niondo è una trasformazione di Dio), perchè la sostanza suol esserci rii^'uai-data come un dir (li permanente e di (\sente dal cambiamento . a cui non sarebbero sotto)>osti che uli accidenti . cioè i modi di essere. Il ^i'ilive im-onveniente di (juesta dot- trina è di realizzare ciò che mm è secondo essa che un'astrazione. Dio in questa forma di panteismo non l)uò essere che <|ualche cosa d'indeterininato e di astratto, ])erchè tale è la sostanza concej)ita sej)aratamente dai modi di essere: cosi, distinguendo Dio dal iinnido e attribuendoceli un'esistenza |)er sé. nel tempo stesso che lo riu'iiarda conìe la >osianza delle cose . essa ne fa necessariamente un indeterminato reale, un' astrazione realizzata. 1/ esenijMo |»iii illustre di (juesto tipo di pnnteismo è il sistema di (Giordano lirum». Dio. seciuido il J)runo, è la sostanza unica o, com'egli lo chiamn. 1 [Jno. che è ciò che- resta di costante in tutti i cangiamenti dell'u- niverso, e ciò che \'i ha d'identico in tutti i:!i esscjri differenti. Tutto ciò che noi \'ediamo di differente lU'U'Ii o*^\U'etti non è . ei:li dice . ch.e un diverso volto di una nuMlesima sostanza, \'olto labile, mobile e corruttibile di un immobile, |)erseverante eil eterno essere. L' [''no è il punto di coincidenza di tutte le opp(Ksizioni : india sua essenza semplicissima s'identificano tutte le contra- rietà e tutte le difterenze delle cose. Esso è in un modo — 185 — implicito tutto ciò che le cose sono in un modo esjdi- cito : tutto ciò che nell'universo esiste^ disperso e di- stinto, è unitamente e indifferentemente nellTno ; Dio è tutto, ma tutto in lui è il medesimo, senza differenza e senza distinzione (1). Dio è indifferentcMnente materia, torma, anima, ecc., ma senza essere per se stesso uè materia uè forma uè anima, ecc. : (\ìì'1ì è la radice co- mune della sostanza sjurituale e della cor|)orale, dcdla formai e dcdla materia, (h-c. . e le contiene iiulistinta- mente. come lo spazio le fiiiiire che lo circoscrivom» ('2), E evidente che (jUcsto Dio non è che l'astrazione su- prema considerata come la su[)reina realtà. LTno è il fondo immobile (^ da jx^r tutto identico, alla cui su])er- licie si disei>-nano tutti i canuiamenti e tutte le difte- renze de^'li esseri : Bruno b» conc(?pisce dumjue come un indeterminato, di cui tutti (juesti cnnuiamenti e tutte (jueste differenze sono delle determinazioni varia- bili e divergenti. Quest' indeterminato . separatamente dalle sue determinazioni . non potrebì)e esserci per noi che un' astrazione mentale : ea"li ne fa un essere; reale ed una j)ersona . identilicaiidolo con 1' int(dliu-enza su- prema {V intcUetto che e fftttn) (o) . e dandoi>'!i tutti adi attributi che la filosofia teolo^dca nu)derna attri))uisce alla divinità. Mn non vi ha forse sistema panteista in cui (piesta realizzazione di una semplice astrazione sia cosi evi- dente come in (juello del tìlosofo siciliano Vincenzo Mi- celi. Il Miceli riiJ'uarda come sostanza del mondo la prima persona della Trinità, eh" e<ili chiama l'Onnijio- tenza. Il mondo non è che ronnijxJtenza stess?i. estrin- (1) Ci'v.^A/tfìnHl. r. 1. § i>. (2) V. /fr la musa, ftruiri/tio rf innt <m1ìz. Wagner, pJiin. *J<>4 e 2S(). (H) V. Del jiiiiic, ('(Ufsa ri mio. '1. dialoiio. |»a,u. -')>»). — 18(j — seeaiiientc considerata. Il reale è una t'orza sempre at- tiva, un essere vivente (ens rtvìun), la cui essenza con- sisre in una continua mutazione di stato (1). In essobiso,i»-na distint>uere due elennniti, o piuttosto due iati, l'uno estrins(H*o, che è (jueilo ciie percepiscono i sensi, e l'altro intrinseco, die non è accessibile che all'intel- ligenza. 1/ intrinseco è Dio stesso, cioè la sostanza, l'estrinseco il mondo, cioè i modi di essere. La distin- zione tra l'intrinseco e l'estrinseco, tra Dio e il mondo, eipiivale a (|uella tra il costante e il variabile. Di <|ue- sta Forza s 'm|)re attiva che costituisce il reale, il senso non perceiHsce che <ili stati cani;'ianti e difterenti, ])er- chè esso non vede che il lato estrinseco delle cose. Ma al di sotto del cangiamento e della differenza, l'intelli- ji-enza vede Tidentità: (vssa compreiìde che intrinseca- mente l'Esserci vivo è sempre identico a se sti^sso, esente dal canii'iamento (^ da (jualsiasi differenza; che u'ii stati distinti . successivi o simultanei, delln Forza infinita, che costituiscono i diversi esseri o fenomeni, sono nel- l'intrinseco la st<'ss;i cosa: che la Sostanza, nelle con- tinue novità, è semj)re la stessa, come la sostanza del- l'act^ua è sempre la stessa, (piantunque continue e sem- pre nuove siano V onde ('2). Non bisoi>-na imma,i>"inare che neir F'.ssere vivo vi siano <lue cose, cioè una so- stanza come sustrato della t'orza, e una t'orza inerente a «questa sostaìiza. In realtà la sostanza non si distin- ^'ue dalla t'orza, cioè da un' azione incessante, da Uìia continua mutazione di stato. SolamenKi in (juesta forza, (1) V. Di (Jinvniiiii F/tmiiK. tli fìlos. inn'ilmmi iirlhi rivista La filosofia, l^ih-nno 1S!M). fjisc. 1. pjjji. HO. ('Jl V. Mi<'i!li Siu/iiio storico ili an si strina iurta fisico iit'I vo- liiiiir «li Di (Jiovaimi // Miceli Xaovi DiahHjhi, jm;;. 115-n<>. e Di (Jioviimii Fraonn. di filos. tnievliana ih'IIm rivistsi i-itata, spc- f'ialrncnt»' f:«<c. 1. ]kì'^. ♦U-T.^ <• fa<c. l.^ pa-. 129-11^(1. 5«? — 187 — in <juesta azione o mutazione continua, biso<>'na distin- ^'uere l'intrinseco e l'estrinseco: nell'estrinseco t\ssa è sem])re diversa, nel!' intrinseco è sempre la stessa (1 ). Si potrebbero le.ii'<>'ere delle pagine intere di Miceli o d(M suol discepoli senza pensare ch(*. l'intrinseco e V e- strinseco, la sostanza e i modi di essere, siano «jualche cosa di più che d^^^ili elementi puramente concettuali ch(5 per astrazione si disting'uono nell'Essere vivo. Ma ad un tratto s'inconti'ano d(ille proj)osizioni come i\\w,- sta : che la Forza infinita (cioè la sostaiìza) è il Padre della pc^rpetua novità (cioè del mondo) e della Sapienza infinita o del Figlio (che è generato, ci si dice, dalla semplice Forza intinita, separatamente dalla perpetua novità) (2). ()\i\ non i>nò essm'vi dul)bio che i due ele- menti non siano distinti realnuuite, ma soltanto concet- tualmente. Che si tratti di una distinzione reale e non di una semplice astrazione mentale», è evidente d' al- tronde «juando all'elemento intrinseco o sostanziale ven- gono attril)uite limmutabilità, la siMiiplicità, l'infinità, la perfezione assoluta, la necessità, ed in una parola tutti gli attributi che, secondo la filosofia teologica mo- derna, costituiscono il concetto di Dio. Ciò non può avere per iscopo che di identificare quest'elenuMito con la divinità, e di distiniiuere da essa V (demento acci- deìitale ed estrinseco. Se si ammette ch(^ Dio è la sostanza <lelle cose, e si vuol fare al tempo stesso di lui un essere assolnta- mente determinato, e non un indeterminato reale, di cui le proprietà differenti delle cose sono le det(MMnina- zioni, non si può che ritornare all' idea del |)aiìteismo antico, che il mondo è una modificazione di Dio, una (D Di (iiovaniii Framin. c«-c. . rivista citata, fase 1. pai;. ()S HI. (2) Di (lifjvanui. ìhid. fase. 2. pai;. trasformazione della sua sostanza. Allora bisog-na am- mettere o che la sostanza divina si è trasformata inte- ramente nel mondo, eiò ebe sionificberebbeche Dio, crean- do il mondo, si è annicbilato: o c-be si è trasformata nel mondo solamente una parte di questa sostanza, ciò che sarebbe distruggere la semplicità e riiimnitabilità che, secondo la Hlosotìa teologica moderna, sono essenziali al concetto di Dio. Ma queste conseguenze non sareb- bero inevitabili che se i concetti metafìsici avessero quella consistenza logica, la eiii assenza, al contrario, e il loro carattere (,uasi generale. Cosi il metafìsico dirà che Dio, modifìcand.>si per produrre il mondo . nò si è annicbilato ne ha ceduto al mondo una parte della sua sostanza; ch'egli non ha perduto, malgrado ((uesta mo- difìcazione, la sua iuìmutabilità e la sua semplicità; e che ciò (' i)erchè la sostanza divina, (juantunque unica e semplicissima, esiste simultaneamente in <hu' stati, neir uno senza modifìcazione, in cui è Dio stesso, il Creatore, e nellaltro modifìcata, in cui è l'universo, le cose create. È su ipiesto concetto cdu» è fondato il si- stema di Lamennais. Creare, per Dio, è, dice Lamen- nais. limitare la sua pr(>i>ria sostanza. Le diverse crea- ture non sono (he Dio stesso, variamente limitato. Cosi le proprietà degli esseri finiti non sono che le proi)rietà stesse della sostanza infinita, cioè la Potenza, rintelli- genza e 1" Amore (costituenti le tre persone della Tri- nità), illimitate in Dio, limitate nelle creature. Ogni forza, (pialunque sia, è una parteci]>azione della potenza di Dio, un'espansione del Padre, un dono ch'egli fa di se stesso. Ogn" intelligenza, ogni forma, a qualunque stato e a (jualunque grado di limitazione si conce])isca, è una partecipazione dell' intelligenza, della forma di- vina, un' espansione del Figlio, un dono eh' egli fa di se stesso. Ogni vita, sotto ((ualunque modo esista e si manifesti, è una partecii)azione della vita divina, un'e- - 189 — spansione dello Spirito, un dono eh' egli fa di se stes- so » (1). Gli esseri partecipano pure alT unità divina, allo stesso grado in cui partecipano alla sostanza divina e alle sue proprietà. « Non è una mediocre gioia per r intelligenza di scoj)rire così, non solo il suggello del Creatore, ma lui stesso nella sua opera, di contemplare Dio, secondo tutto ciò ch'egli è, al seno dell'universo in cui si esj)an(le incessantemente, di ritrovarlo, in un certo senso, tutto int(M*o in ciascuim degli esstn-i realiz- zati dalla sua onnipotenza» (2). Ma, i)artecipandosi alle creature, la sostanza divina non prova alcun cangia- mento, non si divide e non perde la sua unità assoluta. La stessa sostanza, lo stesso essere^, sussiste simulta- neamente a due stati diversi., l'uno illimitato e l'altro limitato: indi' uno di ([uesti stati è Dio, nell' altro le creature (S). Così, (juantunque la creazione non importi alcuna produzione d'essere o di sostanza, la quale in sé è impossibile, gli esseri creati sono essenzialmente separati da Dio, e la natura di Dio è essenzialmente differente da ([uella della creatura, benché la sostanza della creatura non sia radicalmente che la sostanza di Dio (4). Sarebbe incomprensibile come delle idee sì oscure e sì poco naturali abbiano potuto essere preferite a quella si ovvia dell'anima del mondo dei filosofi antichi, se noi sup[)onessimo che gli autori che le hanno messo innanzi non cercavano, senz'altra preoccupazione, che la spiegazione più soddisfacente dei fenomeni . e non tenessimo conto dell'infiuenza della tradizione e dell'au- torità anche sugli spiriti che se ne sono in parte eman- (1) Abbozzo (Vuna iilosofi(t, t. 1. pai^. .S8S. (2) Ibid. pag. 3-U). (3) Ibid. pag. KM), 112, 33S. occ. (4) Ibid. pag. 106 e 112. ' ! cipati. (McstMiitiuenza ha fatto si clie il principio con- tenuto nella dottrina della creazione e.r ììUìHo, die Dio è il solo essere i)riinitivo e la materia deriva da Dio, continuasse ad ammettersi come un presupposto che non era da mettere in quistione, anche dopo che la forma tradizionale in cui era dato (piesto principio, cioè la dottrina stessa della creazione e.v iiihilo, veniva rio-ettata. Supposti al tempo stesso questi due principii, che Dio è la causa e la soro-ente unica di tutte le cose, e- che una produzione di sostanze è impossil)ile, se si ammettono di più i co.icetti della tilosolia teologica mo- derna, incomi)atil)ili con la forma antica del panteismo, della immaterialità di Dio e della sua immutabilità e semplicità, si ha come conse<>-iienza che Dio (conside- rato come immateriale), è la sostanza unica, e che le cose non hanno alcuna sostanzialità : (|Ueste allora non possono riguardarsi che come dei modi di essere della sostanza divina. Hn' osservazione che non è forse da ne«:-ligere è che molti dei panteisti moderni (quali .u'ii autor? die ci hanno servito di esempio) sono stati dei preti o dei frati, nutriti di dommatismo teolo-'ico, che ha dato la prima pieoa al loro si)irito. Avremmo cosi poca rai:'ione di soriu-enderci che il panteismo di (4i(»r- dano Bruno o di Miceli o di LanuMinais non sia che una trasformazione della dottrina della creazione c.r ??/- fìHn, clic di trovare strano che il dopna della rom^u- stanziazìonf di Lutero non sia che una leg'--i<u-a variante del dolina cattolico della (raHsf(sf<nizìazioìie. I rappre- sentanti del panteismo moderno — o, più propriamente, della forma del panteismo moderno di cui ])arliamo - sono stati certamente deg'li arditi pensatori : ma perchè non fosse altro che un'interpretazione razionale dei fe- nomeni, la loro filosotia non dovrebbe muoversi nelTor- hita della tilosofta teoloo-ica ordinaria, mentre essa ne accetta invece, ad eccezione della creaziom^ r.r tìihilo, tutti i concetti ibudammiiali, di cui alcuni non si spie- gano che per l'influenza dei dogmi religiosi, non po- trine })uramente filosofiche. ha però nella filosofia moderna un tipo di pan- teismo, in cui si ammette la derivazione della materia da Dio, e che tuttavia si Sj)iega per semplici motivi filosofici, e indipendentemente dall'intluenza del dogma e del tr<idizionalismo. Sono i sistemi ])anteistici che soro'ono sulla bas^» d' una tilosoMa . che risolve tutto il ridale nello s|)irito, respingendo il dualismo ordinario tra lo spirito e la materia. (Questa filosofia comprende du(i tipi distinti, che studi(;remo nei j)aragrafi st\i:ii(mti, cioè il iKinpsiclìì^^ìno e V idodlisììnf. Sono, come vedremo, due varietà della filosofìa aiitropomortìstica . ma iinj)li- caiio runa e l'altra una certa soluzione della ((uistionc del mondo esteriore, che sovverte o trasforma radical- mente le concezioni del realismo naturale, su cui sono gli altri sistemi panteisti di cui abbiamo par- lato precedentemente. La dottrina che noi chiamiamo jjcnfpsichisino accetta la credenza del i*ealismo naturale che ii'li oaa'i^tti esteriori sono ijidipeiìdenti <lal soii^ctto conoscente (mentre secondo V idealisìno essi non esistono chi' nella perccr/iom» o nel pensiero, sia iiìdividuale sia universale o assoluto)-, ma secondo (juesta dottrina tutti jiiesti oggetti non sono che spirito. ])erchè essa ammette che la materia è un semi)lice fenomeno^ e ch(; la realtà corrispondente non è che spirito {{). (,>uesta dottrina è er se stessa indipendente da (pialsiasi forma «Iella filo- sofia teologica: ma, se si unisce alla filosofia teologica, essa conduce logicamente al panteismo . perchè in un sistema pluralista, ammessa (jiiesta, dottrima, 1' azione (1) \. «[lU'Sto sli'ssu cMpil. yV 15. — 192 — reciproca tra le cose diventa incomprensibile (1). Questa incomprensibilità dell' azione reciproca tra sostanze di- stinte in un sistema panpsichista ha dato litogo a due soluzioni della dilHcoltà : Tuna, fondata sul dog-ma della creazione, è V armonia prestabilita di Leibnitz — solu- zione evidentemente^, illusoria, perchè non fa che sosti- tuire a un mistero un altro mistero non nnmo inintel- lio-ibile — ; l'altra, puramente razionalista, è il monismo, che assorbe tutti uli spiriti individuali in uno spirito unico, in modo che le a/ioni apparentemente trascen- di^nti di (|U(;^ti spiriti individuali gli uni sugli altri non siano in realtà che delle azioni immanenti dello spirito universale. In alcuni sistemi panpsichisti il monismo è indipendente dalla tilosolia tecdogica, conie in quello di Schopenauer : in altri è legato con questa lilosofìa, e diviene, per conseguenza, panteismo. Un sistema panpsichista e al tempo sXqì^^o panteista, in cui il monismf), per confessione dello stesso autore, ha per iscopo di s|)ieg'are l'azione reciproca degli esseri, è quello di Hartmann. Come, domanda Hartmann, la volontà dell'individuo può ag'i re sulle volontà degli ato- mi cerebrali ? come può essere in istato di comunicare e d'entrare in conflitto direttamente con le volontà d'al- tri individui psichici? La possibilità di questi rapporti, di questi conflitti non si comprende, egli dice, che ve- dendo nei diversi esseri individuali altrettante funzioni differenti di un solo e stesso essere, e sovratutto di un essere incosciente. La sostanza Comune, che loro serve di radice metafisica, permette il commercio delle vo- lontà individuali; sul fondo comune d'una sostanza in- cosciente le funzioni distinte trovano il legame neces- sario alla loro azione reciproca, e nel tempo stesso un terreno conveniente per isviluppare le loro coscienze (1) V. questo stesso capit. § 10, pag. 170, 193 — distinte (1). « Un dualismo serio sopprime la causalità reciproca degl'individui, la quale è un fatto d'esperienza nel tempo stesso che una legge a priori, e le sostituisce la concezione inferiore deiroccasionalismo o dell'armo- nia prestabilita La causalità, intesa nel senso del- l'influsso fisico, conduce necessariamente aU'assorzione degl'individui come fenomeni nel seno della sostanza unica e assoluta» (2). «Supponiamo che la separazione fenomenale degl'individui sia altra cosa che una sem- plice pluralità di funzioni nel seno dell' essere che ne è il principio. Ammettiamo che quest'essere non sia iden- tico, e che la diversità delle funzioni riposi sulla diversità delle sostanze; non vi sarebbero più allora tra gl'indivi- dui delle relazioni reali, e intanto l'esperienza dimostra il contrario. Uno dei più grandi meriti del gran Leibnitz è stato di riconoscere francamente, espressamente, la veri- tà di questa proposizione, malgrado le conseguenze mor- tali pel suo sistema individualista che ne derivano che ammette la pluralità delle sostanze, deve confessare che tali monadi non solo non potrebbero avere finestre per cui possa penetrare in esse almeno qiiest'in- tìusso ideale di cui parla Leibnitz, ma ancora che niente fa comprendere come queste sostanze indipendenti le ufl-e dalle altre, che non hanno niente di comune fra di loro, possano essere riunite da un legame metafisico qualunque. Ciascuna di esse dovrebbe piuttosto rap- presentare per se stessa un mondo isolato. Per suppor- re un legame metafisico, capace d' assicurare il com- mercio di queste sostanze, bisognerebbe spiegare prima, ciò non è facile, qual rapporto reale unisce la sostanza nuova, che formerebbe questo legame, alle altre so- . Vedere in questa comunicazione una funzione (1) Filos. delVineose. t. 2. e. HI. traci, frane, pa.ij. 47-48. (2) md. t. 2. e. Vili. pag. 238. 13 — reciproca tra le cose diventa incomprensibile (1). Questa incoili prensibilità dell' azione reciproca tra sostanze di- stinte in un sistema panpsichista ha dato htogo a due soluzioni della difHcolt^ì : Tuna, fondata sul dog-ma della creazione, è V armonìa prestabilita di Leibnitz — solu- zione evidentemente illusoria, perchè non fa che sosti- tuire a un mistero un altro mistero non nnmo inintel- lio'ibile — ; l'altra, puramente razionalista, è il monismo, che assorbe tutti gli spiriti individuali in uno spirito unico, in modo che le azioni api)arentemente trascen- denti di (iU(;>ti spiriti individuali gli uni sugli altri non siano in realtà che delle azioni immanenti dello spirito universale. In alcuni sistemi j)anpsichisti il mon'mno è indipendente dalla tilosotia teologica, come in quello di Schopenauer : in altri è leg'ato con questa lilosofìa, e diviene, per conseguenza, panteismo. Un sistema panpskhista e al tempo sìQì^ho panteista, in cui il monismi), per confessione dello stesso autore, ha per iscopo di spieg-are l'azione reciproca degli esseri, è quello di Hartmann. Come, domanda Hartmann, la volontà dell'individuo può ag'ire sulle volontà degli ato- mi cerebrali V come può essere in istato di comunicare e d'entrare in conflitto direttamente con le volontà d'al- tri individui psichici ? La possibilità di questi rapporti, di questi confiitri non si comprende, egli dice, che ve- dendo nei diversi esseri individuali altrettante funzioni differenti di un solo e stesso essere, e sovratutto di un essere incosciente. La sostanza eomune, che loro serve di radice metafisica, permette il commercio delle vo- lontà individuali; sul fondo comune d'una sostanza in- cosciente le funzioni distinte trovano il legame neces- sario alla loro azione reciproca, e nel tempo stesso un terreno conveniente per isviluppare le loro coscienze (1) V. questo stesso eapit. § W', pag. 170. - 193 — distinte (1). « Un dualismo serio sopprime la causalità reciproca degl'individui, la quale è un fatto d'esperienza nel tempo stesso che una legge a priori, e le sostituisce la concezione inferiore deiroccasionalismo o dell'armo- nia prestabilita La causalità, intesa nel senso del- fisico, conduce necessariamente aU'assorzione degl'individui come fenomeni nel seno della sostanza un'Ica e assoluta» (2). «Supponiamo che la separazione fenomenale degl'individui sia altra cosa che una sem- pluralità di funzioni nel seno dell' essere che ne è il principio. Ammettiamo che quest'essere non sia iden- tico, e che la diversità delle funzioni riposi sulla diversità delle sostanze; non vi sarebbero più allora tra gl'indivi- dui delle relazioni reali, e intanto l'esperienza dimostra il contrario. Uno dei più grandi meriti del gran Leibnitz è stato di riconoscere francamente, espressamente, la veri- tà di questa proposizione, malgrado le conseguenze mor- tali pel suo sistema individualista che ne derivano che ammette la pluralità delle sostanze, deve confessare che tali monadi non solo non potrebbero avere finestre per cui possa penetrare in esse almeno quest'in- flusso ideale di cui parla Leibnitz, ma ancora che niente fa comprendere come queste sostanze indipendenti le ufl<3 dalle altre, che non hanno niente di comune fra di loro, possano essere riunite da un legame metafìsico qualunque. Ciascuna di esse dovrebbe piuttosto rap- presentare per se stessa un mondo isolato. Per suppor- re un legame metafìsico, capace d' assicurare il com- mercio di queste sostanze, bisognerebbe spiegare prima, e ciò non è facile, qual rapporto reale unisce la sostanza nuova, che formerebbe questo legame, alle altre so- stanze. Vedere in questa comunicazione una funzione (1) Filos. deWhicose. t. 2. e. IH. trad. frane, pa-. 47-4H. (2) Thid. t. 2. e. VITI. pag. 238. 13 — !94 - dell'assoluto o T assoluto stesso è provocare quest'os- servazione, che se il rapporto reale di questo preteso assoluto con le altre sostanze non pare più inintelli- gibile che quello di ([ueste sostanze fra di loro, è per- chè airinimaginazione piace dotare quest' assoluto del potere di realizzare de<ili effetti incomprensibili. L' a- zionedeirassoluto sulla moltitudine deg-li altri esseri non si concepisce che se il i)reteso assoluto cessa di essere una sostanza realmente limitata dalla moltitudine delle altre, e si trasforma in una sostanza infinita che com- prende realmente e per conseii'uenza abbracia nel suo seno le altre sostanze come de^li elementi del suo es- sere totale. Ma allora le sostanze multi[)le sono spo- gliate della loro in(li[)end(Mizn . della loro sostanzialità, e non sono più che i momenti di un solo e unico as- soluto 1/ influsso tisico o la causalità delle monadi non ])otrebbe altrimenti sostenersi, ma si spiega facil- mente nella dottrina che identitìca la })luralità e l'u- nità al seno dell'essere unico» (1). (^lesto motivo del panteismo panpsichista, cioè di spiegare l'azione reciproca degli esseri, incomprensibile questi esseri sono delle sostanze spirituali distinte, non r meii<) evidente in T.otze, che alla dottrina delle monadi (nel senso leibnitziano) unisce una concezione monistica, secondo cui gli esseri semplici che costitui- scono il mondo, n^-n sono separati dall'Infinito o dal- l'Assoluto, ma esistono in lui stesso, e ne sono degli stati. « Il corso della natura tisica non può essere con- siderato come qualche cosa di distinto da questa so- stanza generale delTassoluto, dall'essenza di Dio I fenomeni del mondo non si producono nel vuoto, di tal sorta che tra due esseri che agiscono l'uno sull'altro, non vi sia bisogno d'alcun intermediario, e che mentre (1) fh'uL t. 2. e. VII. im-. 200-201. — 195 — razione si trasporta dall'uno all'altro, essa si trovi un solo istante come sospesa tra questi due esseri; quest'a- zione si perderebbe nel niente, se lo spazio interme- diario tra questi due esseri finiti non fosse riempito dall'ubiquità di (juello che li ha creati per la sua po- tenza. Alcun' azione nel mondo non può dunque pas- sare da un essere a un altro senza ritornare nel pas- saggio alla ragione generale del mondo che li riunisce tutti e due » (1 ). « Perchè le cose possano essere in rap- porto reciproco ed operare le une sulle altre, non gua- dagniamo niente sopprimendo la loro immanenza (cioè la loro esistenza nell'Infinito) . (2). «Non havvi forma di meccanica superiore capace di mostrare che un tal modo d'operare (reciproco tra le varie cose) debba es- sere l'attributo di diversi esseri presi a due a due; se esiste, deve essere una disposizione reale, che non si può considerare metafìsicamente che come un' azione deW Idea del tutto (cioè delT Assoluto, in cui tutte le cose esistono) : tale idea, attiva in tutti gli elementi, loro prescrive manifestazioni reciproche, le quali, senza di essa, non potrebbero nascere, come necessarie, dalla semplice nozione e natura di tali elementi» (3). «Il corso del mondo è incomprensil)ile per un j)luralismo, il quale da una moltitudine originaria di elementi in- differenti gli uni agli altri spera far nascere, per il semplice comando di leggi . e come supplemento, la necessita di tener conto gli uni degli altri. Senza 1' u- nità del Reale, che è ed abbraccia tutte le cose, e de- termina la loro esistenza e la loro natura, la nascita delle cose in un luogo e temi)o determinato non è com- prensibile » (4). (1) Psicolof/ia fisiolof/lea trad. ti'jiiic. pni;. Uìri-KiO. (2) yfetitfisU'n trad. frane. i)a.n. li^o. {'M Mct. pao. IK). (1) Mtt. i)a,u. 517. — 196 — Delle forme dell' idealismo la più propria ad assu- mere il carattere o almeno la sembianza d'una dottrina panteistica, è V idealismo og'g'ettivo, che considera le cose come dei pensieri d'uno spirito universale. L'idea- lismo oggettivo di Schelling e di Hegel non è, a parlar propriamente, una dottrina panteista, per la semplice ragione ch'esso non è, a parlar propriamente, una filo- sotia teologica. La filosolìa teologica è una specie della filosofia volizionale, cioè essa consiste, come la più parte delle altre forme della spiegazione antropomorfìstica, ad assimilare il modo reale della produzione dei feno- meni all'azione volontaria. Ma l'idealismo, al contrario delle altre forme delT antropomorfismo, prende per tipo della sua spiegazione, non la nostra azione volontaria, cioè l'attività che il nostro spirito esercita sulle cose, ma lattività puramente interna del pensiero, e propria- mente, nei sistemi di Schelling e di Hegel, la sua at- tività logica. Vi ha tuttavia un elemento in questi si- stemi, che costituisce un punto di contatto con la fìlo- sofìn volizionale: è la loro teleologia, perchè la teleo- loo-ia immanente o trascendente, è sempre un' assimi- lazione, per quanto, nel primo caso, possa essere vaga, del modo reale di produzione delle cose alla nostra attività volontaria ed esteriore. Se per questa ragione noi consideriamo i sistemi di Schelling e di Hegel come panteisti, abbiamo evidentemente anche in questo caso un panteismo, che, come quello dei sistemi panpsiehisti, deriva la materia da Dio, ed è nondimeno, non un risultato indiretto del dogma della creazione ex nifdlo, ma il prodotto d' una speculazione puramente raziona- lista e rivolta unicamente airintelligenza dei fenomeni. Affermando che la filosofia teologica antica riguar- da il principio materiale come altrettanto primitivo che il principio divino, facendone un'essere distinto da Dio e coeterno con esso, o considerando Dio come materiale _ 197 - e facendone derivare le altre cose per una trasforma- zione della sua sostanza, noi non abbiamo tenuto conto di un'eccezione importante: è la dottrina dei neopla- tonici alessandrini, in cui. come nella filosofia teologica moderna, la materia è un principio derivato, e Dio è il solo essere primitivo e la sorgente unica di tutte le cose. Questa e<-cezione richiede da noi una spiegazione, sembrando infirmare il concetto, che abbiamo dedotto dai motivi della filosofia teologica, che questa, sinché accetta la dualità di spirito e di materia data nel rea- lismo naturale, non può ammettere il principio della derivazione della materia da Dio che i.er V intìuenza del dogma e del tradizionalismo, e non come dottrina jmramento razionale . non avente altro scopo che la spiegazione dei fenomeni. Questo principio infatti, nei neop'^latonici alessandrini, non può essere dovuto all'in- tìueir/a del dogma della creazione, per cui lo abbiamo spieoato nei panteisti moderni. Ma da ciò non segue ch'esso non sia, anche in questi filosofi, una dottrina ammessa unicamente in forza della tradizione e dell au- torità. Non è questa sola dottrina, è il sistema intero dei neoplatonici, che sarebbe incomprensibile come il risultato di una ricerca indi;.<-.Hlent.', non avente a.tro oo-.etto die un'interpretazione razionale dei fenomeni. Questo sistema non è, in sostanza, che un' interpreta- zione teistica del sistema di Platone. Se essi sovrap- pronevano all' Anima del mondo - che evidentemente sarebbe bastata a una spiegazione teologica de. feno- meni - il Nous, e al Nous l'Uno, e facevano procedere queste tre entità l'una dall'altra, è perchè Platone fa derivare l'Anima del mondo e tutte le altre cose dalle Idee e le Idee dall'Uno, ed es.si comprendevano le Idee platoniche come i pensieri della divinità, il cui insieme costituiva la ragione divina, mentre per Platone sono, come vedremo, gli attributi generali delle cose, r.guardati come sostanze, ma esistenti, malgrado la loro so- stanzialità, nelle cose stesse (1). Questa interpretazione delle Idee platoniche, quantiin(iue la ])iii lontana dal si^aniticato reale della dottrina primitiva, è tuttora la più accettata, ed è stata sempre quella che hanno pre- ferito <^'r in ter preti, che hanno cercato nel platonismo, non un fenomeno storico, ma la verità, r|uale essi sono stati disposti ad annnetterla : i neoplatonici piovevano (1) V. cai». ^'11- v^ ''--• <' Siipplciii. H. Platon»' non fa «lerivarc solamente tutto 1(3 hlcc dallTno. ma ancljc tutte 1<^ Idoc ])in particolari dalle Idee jun ^(^nerali (V. ca)». \li. y> 111-22): la derivazioni' stessa di tutte le Idee dallTno n(»n e clic un'a])plicazione del principio clie le Idee jdù paiticohui derivam» sempre dalle pili i^euerali, l'Uno o il IJcue essendo esso stesso un'Idea, che non ditterisce dalle alti' che pereliè «^ la ]>iù generale . e tutte le altre ne sono dei casi o «Ielle forme particolari. Ma mentre la dottrina clic tutte le Ideo derivano <lal IJene o «lallTno. si trova, in Platone e nell'espo- sizion<' che Aristotile fa del suo sistema, della maniera ]>iiì espli- cita (y. cap. VII. vN 1-A), non ijossiann» invece attribuiriili la dot- trina «he le I«l«'<' \nh partic<dari «lerivan«) semi>r«^ <lall«; più gene- rali, che i)er un lavor«) «littìeile «1* interpretazi«)ne, «die sareìd)e im}n)ssi]>ile «li atteiulersi «lai n«'«>plat«niici, in«'apaci «li entrare nel ver«> spirit«j «l<'l sist«'ma «lelh' I«lee. ]»er la semplice ra«»;i«>ue che ne fraint<'ndevano . i>er partit«> pr<'s«> . i «Mini-etti più es- senziali. P«'r ess«;re «'oen'nti alla l«)r«) inter])r(dazioiK', «l«dle l«lee . i n«'oi>lat<)uici avrebbero «l«>vuto riu,uardarc anclu? l'iin» o il Hene come un peusier«>. Invece «li ci«"> essi l«) <'onsideran«) come «pial- < h«' cosa «li puram«'nte «»bbiettiv«), c«)me Plat«)n«'! «'ousi«Ierava tutte le I«lee in,i;en<u'ale. (Questa «d)biettività «l«>veva essere pr«>vata per loro «lai fatt«> stess<» ch«' l' Tuo «> il 15ene pro«luce le Ide«'. Infatti >in pensiero non «' mai riguardat«i come la causa produttrice, nel senso stretto, «li altri pensieri (evidenteiuente perchè ii«)i non osserviann» unii fra i iK'usieri una se«iuenza iu- variabile. tale che un«) sia c«>stantement«' se^uit«> «la un altro). 199 trovarla tanto più naturale, che era la sola che si pre- stasse alla loro opera di sincretismo, permettendo di fare rientrare la dottrina platonica nelle tradizioni pe- renni relia-iose e filosofiche, dell' umanità. Data V in- terpretazione teistica della dottrina delle Idee, la deri- vazione platonica di tutte W cose dalle Idee diventava naturalmente, nel sistema neoplatonico, una derivazione di tutte le cose dalla divinità. A dir vero Platone, nel- l'nltima forma della sua filosofia, fa della materia un principio distinto e cosi primitivo che le Idee stesse, e non riconduce a queste che le sole /-o/'m^Mlelle cose (l). Ma i neoplatonici non potevano non riconoscere che la dottrina intera di Platone suppone che si riconducano alle Idee non le sole forme delle cose, ma le cose stesse nella loro totalità l'orina o materia) (2). Se nell'ultima forma della sua filosofia Platone a-uiunov alle Idee la Tnateria come un principio distinto e indi])endente da (isse questo concetto noiì nasce al punto di vista del suo 'proprio sistema, ma ha per iscopo, conie vedremo, di fondere questo sistema con ciucilo dei Pita-orici (.)). D'altronde, anche dopo V introduzione di (piesto con- cetto le Idee sono ancora rio-uardate come la sor-ente unica d'o-ni realtà, la materia facendosi consistere^ nello spazio, e identificandosi col non cv^sere (4). Un' altra considerazione che non biso-na tralasciare è che la ri- duzione della materia a un principio distinto e indi- pendente dalle Idee era tropppo connessa col si-mh- cato reale della dottrina primitiva delle Idee, per poter (1) V. Supid. C, II. B. (2) V. Supi^lem. V. II. B. <'arto 1S5-1)^<;. (:^) V. Su]>plem. C. II. B, cMrt.' W^-im. (4) V. Sui»pl«^nì. C. II. H. 2(X) - — 201 — essere iiìantenuta nell' interpretazione teistica. Essa sup- poneva infatti una distinzione reale, e non soltanto lo- gica, tra la forma e la materia: distinzione che era un caso del realii^mo platonico, in cui le astrazioni erano considerate come deo-li esseri esistenti per se stessi. Se i neoplatonici, per essere fedeli alla dottrina delle Idee, come essi la interpretavano, volevano derivare da Dio le foruK' delle cose in -enerale — comprese (luelle che non hnììììo nvnto cominciamento, <inali il mondo e i corpi celesti -, essi non potevano non derivare da Dio anche la materin, a n.eno che non ne avessero fatto un'entità distinta realmente dalla forma ed esistente per se stessa. Ora (juesto nel loro sistema sarebhe in- comprensibile, perchè, interpretando le Idee nel senso teistico, esso non è fondato più, come (juello di Platone, su una realizzazione sistematica delle astrazioni. Un altro punto che, nella dottrina di Plotino, richiede qualche spieo-azione, è che l'universo materiale è fatto procedere immediatamente dalla terza ipostasi della di- vinità, cioè dalPAnima del mondo, e dalla seconda ipo- stasi, cioè dal Xous. solo mediatanumte, vale a dire in quanto la terza ipostasi, alla sua volta, è fatta proce- dere dalla seconda. Evidentemente è più conforme alla dottrina platonica l'opinione di Proclo che fa procedere l'universo materiale immediatamente dalla seconda ipo- stasi, perchè le Idee di Platoiìe nel sistema neoplato- nico sono rappresentate dal Nous, e la dottrina dei neoplatonici che l'universo materiale procede da Dio, non è che 1' interpretazione teistica della dottrina di Platone che tutte le cose derivano dalle idee. Tuttavia Plotino uon è infedele a Platone che per essere più conseguente ai principii del sistema platonico, (luali -li li comprende. Vi hanno in Platone due dottrine sulle cause delle cose, che, nell'interpretazione teistica delle Idee, diventano incompatibili : V una ch^ tutte le cose derivano dalle Idee, e l'altra che l'Anima è la causa universale di tutti i fenomeni (l). Fra la causa- lità universale delle Idee e quella dell' Aniiua non vi ha alcuna contraddizione, sinché le Idee sono imma- nenti, cioè non sono, come ammetteva Platone, che gli attributi generali delle cose, sostantificati, ma esi- stenti nelle cose stesse. L' Anima è la causa nel sen.'>o ordinario della parola, cioè etìiciente; le Idee sono cause in un altro senso, cioè, non in quanto producono le cose, ma in quanto ne costituiscono 1' elemento vera- mente reale, a cui si deve il loro essere e la loro es- senza. Ma quando le Idee diventano trascendenti, come nell'interpretazione neoplatonica, esse non possono es- sere che delle cause produttrici delle cose : allora, se tutte le cose sono prodotte dalle Idee, non si comprende più come l'Anima possa essere anch'essa una causa produttrice. Plotino cerca di risolvere questa difrtcoltà, intercalando fra le Idee e le cose l' Anima, come ])ro- dotta dalle prime (cioè dal Nous) e producente le se- conde : così le Irlee sono ancora le cause delle cose, ma delle cause remote, la cui efficienza non ginnoe alle cose che per l'intermediario dell'Anima. Anche o-o-i o'I'interpreti trascendentalisti delle Idee ]>latoniche fanno dell'Anima del mondo nn entità intermediaria, ammet- tendo che è per mezzo di essa, e non direttamente, che le Idee agiscono sul mondo, e formano le cose a loro immagina. È il concetto di Plotino, al di fuori del (piale non ne resterebbe che un altro nell'interpretazione tra- scendentalista : togliere all'Anima ogni efficienza reale (nel senso metafìsico), e ridurre la sua causazione a una semplice sequenza invariabile. vS 7. La base della filosofia teologica, come d' ogni altra ipotesi metafisica sulle cause, è V idea di causa (1) V. cap. VII. ^ 7. pa-. U8-145 o Supplciu. I). — 202 — 208 efficieiftc. Una causa efficiente si distin^^'ue, come ab- biamo visto, dal semplice antecedente di una sequenza invariabile, per (juesti caratteri : 1" In una causa- che non è che una semplice sequenza inv^nria- bile il legame tra la causi e 1' effetto ci sembra più o meno misterioso, in modo che noi crediamo che il no- stro bisoo-no di conoscere il jìerchè resti ancora insod- disfatto : in una causazione efficiente, al contrario, la causa deve darci una spieo-azione radicale, soddisfacente, dell'effetto, in modo che non resti uìii hio^o alla do- maiìda : perchè V 2« In una semplice sequenza invaria- bile la ca[)acità della causa a produrre l'effetto noi non che come un dato dell'esperienza, mentre in una causazione che creiliamo (efficiente essa ci sem- bra evidente per se stessa, in uìodo che noi siamo di- sposti a credere che potremmo conoscerla indipenden- temente dalT es[)erienza, e per il semplice confronto dell' idea della causa e di (piella dell'effetto. :3'> Nelle causazioni efficienti tra la causa e l'effetto deve esservi un leg-ame necessario, nuMitre nelle semplici seciuenze invariabili (juesto leoame ci sembra conting-enre e quasi arbitrario (1). (,)uesti caratteri distintivi della causa ef- ficiente credendo di riconoscerli nella nostra volontà, come causa dei nostri propri movimenti e delle modi- che, per mezzo di essi, produciamo nel mondo esteriore (2), ne segue che, vedendo nei fenomeni della natura degli effetti di volontà più o meno analoghe alla nostra, noi crediamo di scoprire le cause efficienti di (|uesti fenomeni. Ciò spiega la possibilità della filosofia teologica, malgrado 1' insufficienza delle prove su cui essa è fondata, e le prove negative che V insieme del- l'esperienza oppone alle ipotesi di questo genere. Che il motivo reale della filosofìa teologica sia il bisogno di conoscere il perchè, le cause efficienti dei fenomeni (e non le sole condizioni empiriche che determinano la loro apparizione), è evidente sovratutto nella filo- sofia moderna. E facile infatti di mostrare che, al punto di vista del ])ensiero moderno, le prove su cui essa si basa non ])otrebbero essere conckulenti che nella supposizione che 1' idea di causa efficiente ha un valore obbiettivo e che la spiei>'azione volizionale dei fV'nomeni è una spiegazione j)er le cause efficienti. E ciò che farcino in questo j)aragrafo specialmente; ])er la ])rova delle cause finali (in cui i j)iù acuti tra i ])ensa- moderni hanno visto la vera base della filosofia teologica (r), rinviando a ciò che abbiamo de,tto su (juella del primo lìiotore sulla fine del 2" paragrafo. Senza i)retendere di esaurire 1' argoineiìto, ci liuiitere- mo alle considerazioni più im|)ortanti, che mi sembrano le seguenti : l'^^ Vi hanno certamente pochi pensatori nello stato presente della coltura, che, non ammettano, quahuniue siano del resto le loro idee filosofiche, questo postulato necessario di ogni ricerca scientifica - e che non è d'al- tronde che il riassunto di tutta l'esperienza umana—: che il corso della natura è uniforme, che tutti i feno- meni devono essere riattaccati a degli antecedenti na- turali, a cui sono legati secondo leggi di sequenza in- variabile, costatate dall'osservazione. Cosi una spiega- zione metafisica dei fenomeni, cioè per delle cause tra- scendenti, non potrebbe oggi tener luogo della loro spiegazione fisica, cioè per delle cause fenomenali, ma solo aggiungersi a questa, do})o che essa è com|)leta : io voglio dire che un filosofo può credere necessario di fare appello infine, per una spiegazione radicale delle (1) V. cap. 1. ^ 3-5. (2) V. «piestu ciiiàt. § 22. (1) V. ^ :?. 1). 7S 0 § t. \). 105-1117. tr-J cose, a deg'li agenti iperfisici, ma eg-li sa che il loro intervento non deve interrompere la continuità delTin- catenamento delle cause naturali, e che ogni fenomeno non (leve essere spiegato immediatamente che per altri fenomeni. P. e. Vanimiiita, che spiega i fenomeni della vita per un'azione incosciente dell'anima, o 1' ilozoista, che spiegn tutti i movimenti della materia per gli stati psichici delle molecole, sa che una tale spiegazione non esime dalTobbligo di assegnare a ciascun fatto biolo- gico o a ciascun movimento delle condizioni fìsiche de- terminate, e troverebbe assurdo di contentarsene per rendere conto del singolo fenomeno, quantunque 1' in- sieme dei fenomeni, secondo lui, non possa compren- dersi che per essa. Similmente Videalista, che spiega il mond;) delT esperienza ])er Fattività del pensiero, non pretenderà che la sua sjìiegazione possa sostituire . in tutto o in parte, il determinismo scientifico dei feno- meni : come Kant, egli non farà appello all'attività del pensiero che per rendere conto dei legami più generali dei fenomeni; o se, come Hegel, ne dedurrà tutti i fatti generali della natura ed anche i fenomeni storici più importanti, egli saprà almeno che la sua costruzione logica non deve escludere il metodo ordinario, che de- duce i fatti dai loro antecedenti. Cosi pure il realista dialettico (1), che spiega il mondo dei fenomeni realiz- zando le astrazioni e introducendo fra esse un incate- namento logico continuo, non penserà che la sua spie- gazione metafisica renda inutile o invalidi la spiega- zione scientifica, che rende conto dei fenomeni per le loro condizioni fenomenali : come Spinoza, egli ammet- terà due ordini di cause : V incatenamento delle cause fìsiche, per cui ogni fenomeno è legato a un altro feno- meno precedente secondo una legge di sequenza inva- li) V. cap. VII riabile; e quello delle cause metafìsiche, al di fuori del tempo e della successione, e che non è altra cosa che l'incatenamento logico delle astrazioni realizzate. E il simile che farà il filosofo teologico, che non vorrà met- tersi in contraddizione con le esigenze del pensiero moderno: eali non vedrà mai in un fenonuMio che un effetto delle leggi inviolabili che governano il corso dei fenomeni, e non applicherà la spiegazione teologica che a ({uesto corso considerato nel suo insienui e alle sue leggi generali per cui la scienza spiega i singoli fenomeni. Ma così essendo, è evidente che qualsiasi ipotesi meta- fìsica, avente per oggetto una s[)iegazione causale delle cose, non può avere altra base che 1' idea di causa ef- fìciente. Perchè infatti il nu'tafisico immaginerà delle cause metaempiriche, s'egli conviene che ogni fenomeno particolare deve spiegarsi per delle causo naturali, cioè empiriche? Semplicemente perchè trova che queste non sono delle cause efficienti. L'esperienza non gli presenta che dei semplici antecedenti, che egli vede costante- mente seguiti dall'effetto, ma senza comprendere perchè ne siano seguiti ; la cui capacità a produrre quest' ef- fetto egli non può ammettere che come un dato dell'os- servazione; e che non gli sembrano avere con esso che un legame contingente ed arbitrario. Egli invece aspira a conoscere delle cause che diano una soddisfazione coijipleta al suo bisogno di spiegazione, la cui capacità a produrre l'effetto gli senìbri evidente intrinsecamente, e che abbiano con esso un legame necessario ; in una parola delle cause efficienti, e non dei semplici antece- denti di sequenze invariabili. Supponiamo dunque che egli non ammetta il principio che i fenomeni devono avere delle cause efficienti ; in altri termini che egli comprenda che V idea di causa efficiente non ha alcun valore obbiettivo, e che causa vuol dire semplicemente : Pantecedente in una sequenza invariabile. Allora non — 206 — vi sarà più alcuna ra<>ioue che lo autorizzi ad oltre- passare r esperienza. Una causa infatti, quando è^ og- getto d'inferenza e non d'osservazione diretta, non Tani- rnettiamo, evidentemente, che per ispiegare i suoi ef- fetti. Ora la parola spiegazione ha due significati, cor- rispondenti ai due significati della parola causa; in un senso spiegare un fatto è assegnare le sue cause effi- cienti ; in un altro senso assegnare gli antecedenti a cui esso segue cont'onnernente alle leggi di sequenza invariabile tra i fatti. Se non vi hanno cause efficienti, r unica spiegazione dei fenomeni sarà dunque la spie- gazione nel secondo senso. Noi spiegheremo, per con- seguenza, un fenomeno, assegnandogli degli antece- con cui esso è legato da rapporti di sequenza in- variabile; (luesti antecedenti li spiegheremo egualmente, assegnando loro degli antecedenti ulteriori, con cui essi sono legati da rapporti della stessa natura: e così di seguito air intìnito, perchè un antecedente deve essere seinpre spiegato da antecedenti ulteriori. Ora nella no- stra spiegazione, nel nostro regresso dai fenomeni ai loro antecedenti e da (juesti ad altri antecedenti ulte- riori, noi non incontreremo mai un agente iperfisico : spiegare infatti per noi non è che rendere conto di un fenomeno pei suoi antecedenti conformemente alle leggi di sequ(;nza invariabile tra i fenomeni, e (luesti ante- cedenti sono sempre delle cause naturali — perchè, come abbiamo detto, lo stesso metafisico conviene che un intervento di agenti iperfisici non deve mai interrom- pere la continuità dell'incatenamento delle cause natu- i-ali — . Noi non potremmo adunque ammettere un agente iperfisico che se (juesta- spiegazione non fosse per noi soddisfacente. Ma per non esserlo, spiegare dovrebbe significare per noi, non semplicemente: assegnare gii antecedenti dei fenomeni conformemente alle leggi di sequenza invariabile costatate dall'osservazione; ma ^ 207 — anche : assegnare un perchè a queste leggi stesse, sco- prire degl'intermediari esplicativi che facciano compren- dere perchè tali antecedenti siano seguiti invariabil- mente da tali conseguenti. Ciò è dire in altri termini che causa dovrebbe significare per noi una causa ef- ficiente, e non semplicemente un antecedente in una sequenza invariabile. Tuttavia gli agenti iperfisici della spiegazione vo- lizionale hanno un vantaggio su (pielli delle altre spie- fondata sull'analogia, l'analogia stessa, indipendente- mente dal principio di causalità efficiente, è una ra- per concludere l'esistenza di tali agenti. Ma cpie- sta ragione, fondata sulla se^niplice analogia e indipen- dente dal principio di causalità efficiente, non ])Otrebbe costituire una prova sufficiente: essa non j)otrebl)e ele- varsi all'altezza di una vera [)rova che supponendo che i fenomeni devono avere delle cause efficienti, e che» la volontà è l'unica causa efficiente possibile dei fenomeni che si tratta di spiegare. E ciò che mostreremo per l'ar- gomento delle cause finali, che è la prova fondata sul- l'analogia, su cui si basa principalmente la filosofia teologica. Noi supporremo prima che il teleologista ammetta che, qualunque sia la spiegazione ultima delle cose, ogni fenomeno non deve spiegarsi innnediatamente che per delle cause naturali, che Dio non agisce mai mira- Golosamente, e che non vi ha alcuna eccezione alle leggi generali che governano il corso dei fenomeni, quantunciue questo dipenda, in tutto o in parte, da una volontà superiore. Per vedere che, in questa supf)osi- zione, l'argomento delle cause finali non potrebbe co- stituire una vera prova senza il principio di causalità efficiente, basta di confrontare le opere della natura con quelle dell'uomo, dalla cui analogia con le prime il teleologista conclude che anche queste devono avere per causa un autore intelligente e agente per uno scopo. Alla vista di un orologio, di un edifìzio, ecc., noi con- cludiamo che sono 1' opera di un autore intelligente, noi sappiamo, in virtù del principio di causalità nel senso positivo, che ogni fenomeno deve avere delle condizioni che ne sono gli antecedenti secondo leggi di sequenza invariabile. La sola condizione, il solo an- tecedente, che res[>erienza ci mostra legato con tali ef- fetti, è l'azione di uiì essere intelligente, cioè dell'uo- mo. Così, se noi non ammettessimo che la causa del- l'orologio, della casa, ecc. è mi uomo, siccome noi non possiamo, in virtù c\(AV esperienza, assegnarne altre cause, la produzione dell'orologio, della casa, ecc. re- sterebbero inesplicate, noi non le avremmo sottoposte alln \eo'<rG «enerale della causalità. Ma le opere della natura, p. e. la formazione degli organi degli esseri viventi, hanno, [>lm- ipotesi, delle condizioni o antece- denti fisici, con cui sono legate da leggi invariabili di seiiuenza; a questi antecedenti noi dobbiamo assegnare altri antecedenti egualmente fisici, e cosi di seguito nìThìHìiito, senza che noi potessimo, in questo regresso da antecedenti ad antecedenti ulteriori, incontrare mai una causa intelligente, che non potrebbe essere che un agente iperfisico. Se causa vuol dire semplicemente l'antecedente dato il quale un fenomeno invariabilmente si produce, noi abbiamo dunque soddisfatto il nostro bisogno di causalità senza assegnare altre cause se non fisiche: l'ipotesi di un autore intelligente non sarebbe necessaria come nel caso delle opere dell'uomo, perchè nn'ipotesi non è tale che quando senza di essa vi sa- rebbe un hiatus nell'incatenamento delle cause e degli effetti, in altri termini quando senza di essa non po- tremmo ricondurre i fenomeni alia legge universale della causalità. Ammesso, ciò che supponiamo per ora che il teleologista ci accordi, che i fenomeni hanno sempre delle condizioni naturali a cui sono legati da leggi di sequenza invariabile, noi immagineremo che queste con- dizioni naturali dei fenomeni in cui egli vede la mani- festazione di un disegno intelligente (p. e. di quelli deirorganizzazione) siano state già assegnate comple- tamente. Allora sono possibili due ipotesi. T/una che, dopo aver asse^^nato queste condizioni naturali, noi non vedremmo più, nel meccanismo per cui si produ- cono questi fenomeni, niente che potesse suggerirci l'idea di un disegno e di un'azione per uno s.^opo : è ciò che accadrebbe, p. e., pei fenomeni dell" organiz- zazione, se noi ammettiamo la teoria di Darwin. L'al- tra che, dopo aver assegnato queste condizioni naturali, noi traveremmo che il modo di produzione di qut^sti fe- nomeni è ancora tale da poter essere considerato come una disposizione di mezzi per raggiunger? uno scopo Questo accadrebbe pei fenomeni dell'organizzazione, se noi trovassimo che l'appropriazione degli organismi alle condizioni della loro esistenza è un fatto primitivo del mondo vivente, cioè che non può essere riguardato come la conseguenza di altri fatti. Lo stesso potrebbe accadere ancora, se trovassimo che essa è un risultato di fatti più primitivi, cioè naturalmente : che 1' universo tìsico è governato da certe date leggi; che esso è costituito da certi dati elementi; che questi elementi all'inizio - cioè a un certo momento della durata passata del mondo da cui prenderemmo le mosse per ispiegare il suo stato presente — avevano una certa distribuzione nello spazio, ed erano animati da certe date forze. Infatti il complesso propriazione degli organismi, cioè di queste date leggi del mondo fisico, di questi dati elementi che lo costi- tuiscono, di questa loro distribuzione nello spazio e di queste forze da cui erano animati al momento iniziale, 14 - 210 potrebbe essere tale da suggerire l'idea di una combi- nazione di mezzi per raggiungere il risultato. Fra le ipotesi possibili sulle condizioni naturali dei feno- meni biologici e deg-li altri su cui si fonda l'argomento -delle cause finali, sceglieremo la più favorevole a que- st'argomento, cioè la seconda, e ragioneremo su di essa. In quest' ipotesi i dati ultimi da cui ..i dedurrebbero questi fenomeni sarebbero, o semplicemente le leggi della natura (come nel caso che l'appropriazione degli org-anismi fosse un fatto primitivo del mondo vivente), 0 le leggi della natura e inoltre l'esistenza delle so- stanze "elementari date che costituiscono l'universo, con le loro proprietà statiche (le loro proprietà dinamiche essendo comprese tra le leggi della natura), e la loro distribuzione nello spazio e le forze da cui erano ani- mate al momento iniziale. Ammettiamo che causa vuol dire semplicemente: l'antecedente in una sequenza in- variabile. Dei dati che abbiamo indicato alcuni sono necessariamente senza causa: le sostanze elementari con le loro proprietà statiche (perchè noi supponiamo che il teleologista ci accordi che l'uniformità del corso della natura non soffre assolutamente alcuna eccezione). La distribuzione di (pKiste sostanze nello spazio nel momento che noi consideriamo come iniziale può essere spiegata, ma supponendo una certa distribuzione di esse nello spazio a un altro momento iniziale più lon- tano; questa non può essere spiegata che ugualmente, e COSI di seguito air infinito; sicché anche la distribu- zione iniziare delle sostanze elementari nello spazio è necessariamente, in ultima analisi, un fatto ultimo di uoii M può assegnare una causa. Le leggi della natura sono delle sequenze costanti tra fenomeni : esse potrebbero avere una causa, perchè possiamo supporre che queste sequenze non siano immediate, ma tra gli antecedenti e i conseguenti s'interpongano delle azioni sconosciute, che siano cosi le cause delle sequenze stesse. Le forze da cui g-li elementi erano animati al momento iniziale potrebbero pure attribuirsi a un agente o a degli agenti sconosciuti, purché il modo d' azione di quest'agente o di questi agenti si accordi col determi- nismo che lega questo stato dell'universo agli stati i)re- cedenti. Noi possiamo supporre dunque che certe leggidella natura (p. e. quelle della natura organizzata, nel caso che ra[)propriazione degli organismi sia un fatto primitivo del inondo vivente), o tutte le leggi della na- tura indistintamente e anche le forze da cui all' inizio gli elementi costitutivi dell' universo erano animati, siano degli effetti di una causa iperfisica intelligente, che se ne serve come di mezzi per realizzare i feno- meni dell'organizzazione e tutti gli altri in cui il teleo- logista vede la traccia di un disegno e di uno scopo. Ma questa supposizione, ammesso che la causa non è che l'antecedente di una sequenza invariabile, non [)0- trebbe pretendere tutto al più che a una semplice ve- rosimiglianza. La base dei nostri ragionamenti per cui concludiamo l'esistenza di qualche causa, è il principio che ogni fenomeno deve avere una causa. Quando dal- l'esistenza di un fatto inferiamo l'esistenza d' un altro fatto come sua causa, noi non ci fondiamo solamente sulle esperienze particolari che ci hanno mostrato che il primo fatto costantemente ha avuto per causa il secondo, ma anche sull'insieme dell'esperienza, che ci prova, da una parte, che ad ogni fenomeno dobbiamo assegnare una causa, e, da un' altra parte, che non vi ha altra causa o combinazione di cause, tranne il secondo fatto, che sia capace di avere il primo per effetto. Essendo certi di queste due premesse, cioè che bisogna supporre una causa per rendere conto del primo fatto, e che il secondo fatto è l'unica causa che possa renderne conto, noi ne tiriamo la conclusione necessaria che il secondo fatto esiste a titolo di causa del primo. Ma se la prima mmm émmk "'rr '.-8 di queste due premesse ci viene a mancare, vale a dire se noi non siamo obbligati a supporre una causa per rendere conto del primo fatto, l'inferenza por cui sta- biliamo l'esistenza del secondo fatto none più una con- clusione necessaria : quest' inferenza non può duiìque avere che un grado minore di evidenza, ciò che vuol dire che non abbiamo la prova completa, rigorosa, del- l' esistenza del secondo fatto. Ora è ciò che avviene precisamente nel nostro caso. Come abbiamo detto, am- messo che i fenomeni non devono spiegarsi immedia- tamente che per delle cause naturali, noi non possiamo supporre un autore intelligente e agente; per uno scopo che come causa delle leggi della natura e delle forze da cui all'inizio gli elementi erano animati. Evidente- mente qui la prima delle due premesse ci viene a man- care, perchè niente ci forza a supporre una causa né per le une nò per le altre. Il principio di causalitrà esige che i fenomeni abbiano delle ^ause, ma non che le ab- biano anche le leggi dei fenomeni. In quanto alle forze che animavano gli elementi allo stato dell'universo con- siderato come iniziale, esse sono già state sottomesse alla legge universale della causalità, assegnando loro, come agli altri fenomeni, una causa naturale (vale a lo stato precedente dell'universo, che alla sua volta ha la sua causa naturale nello stato ad esso precedente, e cosi di seguito all'infinito, perchè è ciò che esige il corso uniforme dei fenomeni). Qualunque sia dunque l'analogia tra i fenomeni della natura e i prodotti o le azioni di un essere intelligente, e qualunque sia la forza dell' argomento fondato su quest' analogia ; sup- posto che i fenomeni devono sempre spiegarsi imme- diatamente per delle cause naturali, quest' argomento non potrà mai raggiungere il valore d'una vera prova, perchè la prova vera, completa, dell' esistenza d'una causa è che, se essa non si ammette, è impossibile di sottoporre i fenomeni alla legge universale della cau- - 213 — salita, ciò che noi abbiamo già fatto, contentandoci delle sole cause naturali. Ciò però non è vero che se causa vuol dire unicamente : l' antecedente di una se- quenza invariabile. Ma supponiamo invece che per sod- disfare all'esigenza del principio di causalità noi dob- biamo assegnare ai fenomeni, non solo degli ant(»ce- denti a cui essi seguono invariabilmente, ma ancora delle cause efficienti : allora 1' argomento delle cause finali acquista un altro valore, e noi comprendiamo come il teleologista possa trovarlo decisivo. Egli infattti potrà dire : Assegnando ai fenomeni le loro cause na- turali, noi non abbiamo fatto che sostituire dei misteri ad altri misteri ; i fenomeni dell' organizzazione e gli altri che ci mostrano le a])parenze d'un disegno, cosi bene che le leggi e gli antecedenti da cui li abbiamo dedotti, restano in sostanza inesplicati, e domandano ancora un perchè, una causa reale. Questa causa deve essere di tal natura che possa spiegare realmente, ra- dicalmente, l'eftetto; la sua capacità a produrre l'effetto deve essere evidente intrinsecamente; e deve avere con esso un legame necessario. Ora la natura, anche dopo che noi sappiamo che i suoi fenomeni si producono se- condo delle regole uniformi, non cessa di esibirci (ielle apparenze di disegno — il teleologista ignora o pretende di avere confutato le teorie che, come quella di Darwin, fanno svanire completamente queste apparenze. Ma l'unica causa che possa far comprendere realmente degli effetti in cui si vedono delle apparenze di disegno, la cui cai)acità a produrre questi effetti sia evidente in- trinsecamente, e che abbia con essi un legame neces- sario, è una causa intelligente. Dunque la causa reale, immediata o mediata, di tutti i fenomeni della natura o di quelli di essi in cui si vedono più spiccatamente le tracce d'un piano, è necessariamente una causa in- telligente. Per negare questa conclusione, bisogna non ammettere o che i fenomeni hanno delle cause efficienti lì'lllWlililil Mi" (e non semplicemente de^li antecedenti a cui seguone invariabilmente), o che una causa intellig-eiite è la sola causa etìficiente possibile di effetti in cui si vedono delle tracce di piano. La priuìa di queste due cose non si pu;') mettere in dubbio, perchè sarebbe dubitare del principio stesso di causalità (le vere cause essendo le cause efficienti) La seconda nemmeno, perchè', la causa efficiente è una causa il cui legame con l'effetto si vede per il semplice^ ])aragone delle idee, e noi vediamo, pa- ragonando col pensiero delle cause non intelligenti, (lualunque esse siano, e degli effetti in cui si manife- stano i segni di un piano, che non vi ha tra questi e quelle alcun legame possibile. L'argomento delle cause finali è dun(|ue così una dimostrazione rigorosa, e che Reid abbia avuto ragione», o no di considerarlo come una verità a priori, esso ha almeno questi due carat- teri delle verità a priori, la necessità e l'evidenza in-, che è il più alto grado di evidenza che si possa desiderare. Forse si penserà che alPargomento delle cause fi- nali non deve domandarsi niente di più che questa semplice probabilità che esso ha senza il principio di causalità efficiente; che è così che in sostanza è stato sempre considerato; e che la pretesa che esso concluda con certezza assoluta non è che un'esagerazione di al- cuni metafisici. Ma il concetto di un agente iperfisico qual è quello a cui si conclude con l'argomento delle cause finali, è di tal natura che esso non potrebbe sta- bilirsi che su prove d'una certezza assoluta, e che non ha più alcuna credibilità se queste prove sono sempli- cemente probabili. Ciò è perchè una semplice proba- bilità sarebbe sopraffatta dalle probabilità contrarie che l'insieme dell'esperienza oppone all'ipotesi di un ag-ente simile. Se noi ammettiamo che l'argomento delle cause non ha altro valore che quello che gli resta sup- posto che la causa non è che 1' antecedente di una se- quenza invariabile e che tutti i fenomeni devono si)ie- garsi immediatamente ])er delle cause naturali, la con- clusione di quest' argomento non si fonda più né sul- l'esigemza di sottomettere i fenomeni alla legge di cau- salità nel senso positivo né su quella di spiegarli per le cause efficienti; non le rimane dunque che la forza (juest'argomento analogico, cioè che l'esperienza aven- doci mostrato che una causa intelligente ha per effetti delle cose in cui troviamo un ai>'ii'iustamento di mezzi ad un fine, altre cose in cui noi vediamo qualche> cosa di simile a un tale ag'g'iustamento devono attribuirsi a una causa simile. Ma (|uest'argomento analogico ha di fronte a sé una moltitudine di argonì(Miti simili che costituisce un fascio formidabile di prove contrarie. Per un'induzione tirata dalTanaloaia tra certi fenomeni della natura e quelli che hanno per causa gli spiriti intelligenti dell'esperienza, il teleologista suppone uno spirito : che non è congiunto ad un corpo, e i cui stati non dipendono da cause somatiche; i cui ])ensieri non sono preceduti da percezioni dei sensi e modellati su (jueste; le cui conoscenze non derivano (lall'esjìericnza; i legami tra le cui idee non sono fornìati dalle leggi di associazione per cui spi(»ghiamoi legami sinìili negli spiriti conosciuti; che agisce inìmediatameute sul mondo esteriore, e non, come gli s{)iriti conosciuti, per mezzo dei movinìenti di un corj)o organico, eseguiti, alla loro volta, mediante un meccanismo a])propriato, seiìza del (piale sarebbero imj)ossibili; che produce gli atti esterni appropriati alle sue volizioni, senza che questa appro- priazione sia, come negli ageriti intelligenti conosciuti, risultato dell'esercizio e dell'abitudine; ecc. Ciascu- na di queste supposizioni è contraddetta da un* indu- zione fondata su un'esperienza più costante che quella su cui si fonda l'induzione del teleologista. Se la con- clusione del teleologista si fondasse sul ])rincipio di causalità efficiente, nel modo in cui abbiamo detto, le 216 — prove eoiitiarie costituite dalla improl abilitcò, di ciascuna di queste supposizioni e delle altre simili che avremmo potuto aii^i'i ungere, dovrebbero cedere alla forza di una dimostrazione a[>odittica. In generale, questa improba- bilità consiste in ciò, che si suppone che dei fatti, ana- loghi a certi fatti dell'esperienza che noi sappiamo es- sere prodotti costantemente da certe cause, o non hanno causa o hanno delle cause diffcM'enti. Ora non vi ha alcun principio assiomatico che ci forzi ad ammettere che gli stessi fatti devono avere sempre le stesse cause, come l'assioma di causalità ci forza ad ammettere che gli stessi fatti de\ono avere sempre gli stessi effetti (l'esperienza mostrandoci che degli effetti identici pos- sono essere dovuti a cause differenti). Al contrario la conclusione del teleologista si fondere))be sopra uu prin- cipio assiomatico (<juello di causalità efficiente), e non potrebbe rigettarsi che mettendosi in contraddizione con questo principio (jjerchè la causa efficiente assegnata sarebbe la sola causa efficiente possibile capace di spiegare gli effetti ^lati). Dunque la conclusione del teleologista non potrebbe essere scossa dalle prove con- trarie, perchè non vi ha altro genc^re d' evidenza che non debba cedere a un'evidenza assiomatica. Ma se non si dà invece a questa conclusione che il valore di semplice j)robabilità che le resta nella supposizione che non vi hanno, oltre agli anteced(mti di sequenze in- variabili, delle cause efficienti, e che i fenomeni devono essere sempre spiegati immediatamente per debile cause naturali, sembra difficile di credere che in questo caso possa resistere alla forza delle prov(^ contrarie ten- denti ad escludere la possibilità dell' altra causa che essa vuole stabilire. Per una giusta stima della forza di queste prove comparativamente a quella dell' argo- mento teleologico, bisogna guardarsi dall'influenza in- conscia del principio di causalità efficiente, che anche dopo che si è escluso come base di quest' argomento, può avere per effetto di falsare il risultato della com- parazione, facendo stimare troi)po alto il valore di esso e troppo basso invece quello di alcune delle prove con- trarie. Se volete farmi ammettere un'anima del mondo, mostratemi in qualche parte dell'universo, dice il fisio- logo, il cervello corrispondente a quest' anima. Ma è un^ fatto tuttavia che noi troviamo più evidente che delle cose in cui vediamo un' appropriazione di mezzi ad un fine devono essere gli effetti d' un' intelligenza, anziché che i pensieri di quest'intelligenza dovrebbero avere delle cause somatiche come quelli di tutte le in- telligenze conosciute. È che la prima di queste due causazioni ci sembra evidente intrinsecamente, mentre la seconda non l'ammettiamo che costretti, per dir così, dall'esperienza, e malgrado le tendenae spontanee del nostro spirito (che rifugge dall' ammettere un legame causale che non è di un' evidenza intrinseca). Ora ciò è lo stesso che dire che la i)rima ci pare una causa- zione efficiente, e la seconda una semplice sequenza invariabile, l'evidenza intrinseca essendo, come sap- piamo, uno dei caratteri j.er cui la prima si distingue dalla seconda. La stessa osservazione dovrà ripetersi naturalmente se invece del cervello corrispondente al- l'anima del mondo, si tratterà dei nervi e dei muscoli corrispondenti ai movimenti ch'essa imprime nella ma- teria. Un'altra circostanza può impedirci di stimare al suo giusto valore 1' improbabilità che i legami fra gli stati psichici o fra essi e le azioni tìsiche di cui sono le cause, che negli esseri intelligenti conosciuti lo psi- cologo spiega per 1' esperienza e le leggi dell' associa- zione, nell'intelligenza supposta dal teleologista siano senza causa ed esistano spontaneamente e da se stessi : è che molti legami simili, cioè i più familiari fra tutti, sembrano al non psicologo, anche negli esseri intelli- genti conosciuti, comprendersi perfettamente da se stessi, e non aver bisogno della spiegazione dello psicologo naturalmente il nietafisieo preferisce l'opinione del non psicolog-o (è ad essa che si riduce in sostanza la dot- trina delle verità a priori), perchè la metafìsica non è che la sistematizzazione delle illusioni naturali del nostro spirito — . Per conseg'uenza noi non sentiamo il l)iso«*no di domandarci : Perchè nelT intellio-enza ipercosmica r idea del fine è legata con le idee dei mezzi appro- priati V Perchè essa produce deo-H atti esterni perfet- tamente ag'giustati alle sue volizioni? Queste ed altre connessioni dello stesso genere che noi supponiamo tra o-li atti di (|uest'intelligenza, non ci sembra necessario che abbiano un perchè, assimilandole noi prontamente alle connessioni simili, che osserviamo tra i nostri pro- pri atti, e che ci sembrano perfettannmte naturali e tali da com|)rendersi per se stesse senza bisogno di un perchè. Ora (|uesto fatto, che le connessioni più familiari della nostra esperienza psicologica ci sem brano spiegarsi da se stesse e non aver bisogno di una spieg'azione ulteriore, non è che un'altra manifestazione del fenomeno naturale della nostra intelligenza, di cui l'espressione compendiosa è 1' idea di causa efficiente. In una tale connessione infatti, trovandosi in essa i caratteri che distinguono la causazione efficiente da una semplice sequenza invariabile, l'uno dei due termini connessi, o almeno il sog-getto, in quanto esiste in que- sto stato, si considera naturalmente come la causa ef- ficiente dell'altro termine. In (juesto caso dunque, come nel precedente, l'apparente evidenza intrinseca di certe sequenze, in confronto all'evidenza puramente speri- mentale di altre — differenza di evidenze che non è che la differenza stessa tra la causazione efficiente e la srrnplice sequenza invariabile — ha per efletto di ele- vare il valore dell' induzioìie del teleologista in confronto a quello delle induzioni che la contraddicono. Ma se coTìiprendiamo che questa evidenza intrinseca che eleva il valore della induzione del teleologista e dimi- 219 unisce quello di alcune delle induzioni contrarie, è pu- ramente apparente, e non è che un aspetto dell'illusione radicale della nostra intelligenza a cui è dovuta l'idea di causa efficiente ; allora noi dobbiamo assegnare a ciascuna di queste induzioni un valore proporzionato alla sua base empirica, e in questo caso la vittoria spetterà difficilmente a (piella del teleologista. Si potrà pretendere anche che essa non potrebbe resistere a una sola delle induzioni contrarie. Consideriamo, p. e., quella che conclud»*. che ogni fatto psichico deve avere delle cause somatiche. La prova che se ne tira contro la con- del teleologista è fondata sullo stesso principio che (jucsta, cioè che dei fatti dello stesso g'enere che altri che noi sappiamo per esperienza essere prodotti costantemente da una causa determinata, devouo essere pure degli effetti d'una tal causi. Dal leganu^. supposto costante tra un certo effetto e una certa causa il teleo- logista conclude che, poiché esiste l'effetto, deve esi- stere anche la causa : da una premessa sinìile l'avver- sario del teleologista conclude che, poiché non può esi- stere la causa, non può esistere nemmeno l'effetto. Le due conclusioni hanno un valore equivalente, se si sup- pone che le due premesse hanno un valore e(|ui va- lente. Ma la premessa dell' avversario del teleolog'ista ha un valore superiore che quella del teleologista, per- chè i fatti conosciuti di cui esse sono la generalizza- zione, autorizzano questa generalizzazione più nel caso della prima che in quello della seconda. Noi sappiamo infatti —è il dato su cui si fonda la premessa dell'av- versario del teleologista — che i fatti psichici di tutti gli spiriti conosciuti hanno delle cause somatiche. Ma noi non sappiamo egualmente che tutte le cose cono- sciute in cui vediamo un' appropriazione di mezzi ad un fine hanno una causa intelligente : il dato su cui si fonda la premessa del teleologista è solamente una certa parte di queste cose, le opere dell'uomo e quelle, — 220 — se si vuole, degli altri esseri intelligenti dell'esperienza; in quanto all'altra parte, la più considerevole, essa è in quistione; non è un dato per il teleologista, ma la conclusione a cui egli vuole arrivare. Noi possiamo dunque stabilire che l'argomento delle cause finali, se non conclude con certezza, non può concludere nem- meno con probabilità. Esso deve prendere necessaria- mente per massima : o tutte o niente. Se si fonda sul principio di causalità efficiente, esso può aspirare ad essere considerato come una dimostrazione rigorosa, e per conseguenza di una certezza irresistibile : se sup- pone invece che non vi hanno altre cause che gli an- tecedenti di sequenze invariabili, come aigomento è probabile, ma come conclusione non lo è, perchè questa conclusione è rovesciata dagli altri argomenti proba- bili che la contraddicono. Il valore dell' argomento di- pende dunque interanKMite da quello del principio di causalità efficiente: esso può essere reale, se questo è obbiettivo; non lo è, necessarianuMìte, se questo è pura- mente subbiettivo. Questa conclusione e stata però dedotta dalla sup- posizione che non vi ha alcuna eccezione al corso uni- forme della natura, e che i fenomeni devono sempre spiegarsi immediatamente per delle cause naturali. Ma vi hanno forse pochi teleologisti che facciano realmente questa supposizione. Come abbiamo osservato, l'animi- sta, 1' ilozoista, r idealista, il realista dialettico, ecc. troverebbero assurdo di far intervenire bruscamente degli agenti iperfisici, che interrompessero l' incatena- mento regolare dei fenomeni secondo le leggi uniformi costatate dalla scienza: ma quest' assurdità non esiste per In pin parte dei filosofi teologici. Quegli stessi che riducono al minimum le intervenzioni sovrannaturali, ammettono quasi sempre la creazione nel tempo, e il più spesso anche i' origine sovrannaturale della vita e delle specie viventi. Nell'ipotesi di questi filosofi, la dipendenza del valore dell' argomento teleologico da quello del principio di causalità efficiente non si può dimostrare col ragionamento precedente, ma non esiste meno perciò, nò è meno facile di dimostrarla. E evi- dente infatti che questa causa iperfisica che si fa inter- venire nella creazione del mondo, della vita, delle spe- cie viventi, ecc. non v una causa nel senso positivo della parola. La causa in (juesto senso e: un cangia- mento, date» il quale, per una legge di sequenza inva- riabile, segue immediatamente un altro cangiamento - la causa deve essere un cangiamento, e 1' effetto deve seguirla immediatamente, perchè non si può ammmet- tere che un fenomeno non cominci ad esistere, dacché la totalità delle sue condizioni, cioè la sua causa, si è a'ià realizzata—. Ma la causa sovrannaturale a cui si attribuisce la produzione del mondo, della vita, delle specie viventi, ecc. non è un cangiamento né precede nel tempo l'eftetto, in modo che ijuesto le segua imme- diatamente : infatti secondo la filosofia teologica moder- na Dio è assolutamente immutabile, e gli atti della vo- lontà ed intelligenza divina (che sarebbero, a parlar propriamente, le cause della produzione del mondo, della vita, delle specie viventi, ecc.) sono eterni ed im- mutabili come Dio stesso. Ma non essendo una causa nel senso positivo della parola, cioè come antecedente di una sequenza invariabile, questa causa che si sosti- tuisce alle cause naturali in qual senso può essere una causa V Semplicemente come causa efficiente, perchè l'intelligenza umana non si forma che queste due idee della causa. Il filosofo teologico può considerare come causa la sua causa iperfisica, quantunque vi manchino i caratteri della causa nel senso positivo, perchè vi trova invece quelli della causa efficiente : se non \ i trovasse né gli uni né gli altri, egli non potrebbe con- siderarla come una causa. Il valore dell'argomento delle cause finali dipende dunque anche in questo caso da — 222 — mJ dU ^ quello dell'idea di eausa efficiente. Se il teleologista può sostituire alle eause naturali la sua causa iperfi- siea; se egli può credere di soddisfare all'esig-euza del principio di causalità assegnando ai fenomeni una causa ehe non è un antecedente di una secjuenza invariabile; e perchè nel significato della parola causa egli fa en- trare promiscuamente gli antecedenti di sequenze in- variabili e le cause efficienti. Se gli si mostrasse che l'idea di causa efficiente non ha valore obbiettivo, causa significherebbe allora per lui unicamente l'antecedente di una sequenza invariabile, e non potrebbe credere di avere assegnato una causa quando non ha asse- gnato un antecedente di sequenza invariabile. Così, ammesso che causa vuol dire 1' antecedente di una se- quenza invariabile, la conclusione del ideologista, quan- do essa pretende che' il suo agente iperfisico prenda il posto delle cause naturali, è in contraddi/ione con l'as- sioma su cui si fondano le nostre conoscenze d' infe- renza più certe sul reale, cioè col principio di causalità: essa non potrebbe conciliarsi con (jnesto principio, che ammettendo che vi hanno delle cause che non sono degli antecedenti ili sequenze invariabili, e che non possono essere, per conseguenza, che delle cause effi- cienti. Il nostro presupposto che una cosa che è consi- derata come causa, se non corrispondi^ all' idea di an- tecedente di una sequenza invariabile, devo corrispon- dere a quella di causa efficiente (le cui note sono, come sappiamo, che la causa spieghi radicalmente l'ef- fetto, e che abbia con esso un legame evidente intrin- secamente e necessario), è provato, come vedremo nel corso di questa parte prima, dalla storia della metafi- sica. Questa ci mostra infatti che lo spirito umano, tutte le volte che ha immaginato delle cause nel senso non positivo, cioè che non sono state degli antecedenti di sequenze invariabili, ha sempre cercato di realizzare l'idea di causa efficiente (con le note distintive che abbiamo indicato), quantunque non abbia potuto farlo mai che d'una maniera più o meno approssimativa. Questo fatto si spiega d' altronde per lo sviluppo psicologi- co dell'idea di causa. Noi vedremo in un capitolo se- guente che la causa della scienza positiva — che è un antecedente di una sequenza invariabile, nella quale mancano i caratteri delia causazione efficiente — e la causa della più parte dei sistemi metafisici — che ha i caratteri distintivi della causa efficiente, ma non è l'an- tecedente d'una sequenza invariabile — sono due difi'eren- ziazioni dell'idea primitiva di causa, che riunisce i ca- ratteri dell'una e dell'altra (cioè che è al tempo stesso una causa efficiente, con le sue note distintive, e un antecedente di una sequenza invariabile). Questo è il concetto che lo spirito umano (sì individuale che col- lettivo) si forma spontaneamente della causa. E [K>rciò che noi possiamo considerare come causa tanto (juella della scienza positiva (juanto (juiflla del metafisico; ma ciò che né fosse un antecedente di una sequenza in- variabile né avesse i caratteri della causa efficien- te, san^bbe troppo dittbrme dal nostro concetto natu- rale della causalità, per poter essere considerato come una causa. 2*^ Un carattere generale per cui gli agenti sup- posti dalla metafisica difieriscono dagli agcniti supposti dalla scienza, è che il modo d'azione che si attribuisce ad essi, non è stato, come, in tutti i casi, quello che si attribuisce a questi, costatato già negli agenti del- l' osservazione. La loro capacità di agire nel modo in cui si suppone che agiscano, non ha dunque alcuna prova basata sull'esperienza : essa non si ammette che per la sua evidenza intrinseca, ciò che è lo stesso che dire che tali agenti sono considerati come cause effi- cienti. La verità di quest' osservazione si vede della (1) Gap. IV. V. sptM'ialinonte ^ 11. maniera più chiara negli agenti della filosofia volizio- nale, e sovratutto in quelli della filosofia teologica. Spiegando i fenomeni della natura per una volontà, il metafisico deve preconoscere che la causa da lui asse- gnata ha la capacità di produrre gli effetti ch'egli vuole spiegare per essa : ma che questo genere di cfiusa, cioè la volontà, abbia realmente la capacità di produrre questo genere di effetti che le si attribuisce, è impos- sibile di costatarlo negli agenti volontari delFesperien- za, quantunque debba ammettersi necessariamente come qualche cosa di preconosciuto. Il metafisico suppone: r» Che la volontà possa produrre radicalmente il mo- vimento, cioè esserne la causa totale, e farlo nascere dal niente ~ è su questa supposizione che è fondato r ariiomento deir esistenza di Dio come principio mo- tore— . Questo potere, lungi di potersi costatare negli agenti volontari conosciuti, si sa che è impossibile che loro appartenga, perchè sarebbe contràrio alla legge della conservazione dell' energia. 2^ Che la volontà, come semplice fatto psichico, possa produrre degli ef- fetti nel mondo fisico. Anche questo potere non è stato costatato negli agenti volontari conosciuti : in essi la volizione, come tutti gii altri fatti psichici, deve essere accompagnata da concomitanti fisici, e questi, se noa sono la causa totale, come vogliono alcuni psicologi, dei fenomeni fisici che seguono alla volizione, ne sono o possono esserne una concausa, senza il cui concorso questi fenomeni non si produi-rebbero. 3'^ Che la volontà per se stessa sia una causa sufficiente della sua realiz- zazione, cioè che per il solo fatto della volizione, e senza bisogno dell'azione d'un meccanismo appropriato e di altre condizioni, possano prodursi degli atti esterni conformi alla volizione stessa. Ma negli agenti volon- tari conosciuti, la volontà, per quanto ne sappiamo, non produce mai immediatamente gii atti voluti. Ciò che la volontà produce immediatamente è un atto auto- — 225 raatico (reccilazione di certi centri nervosi) che non ha alcuna conformità con l'azione voluta : se (piesta si produce, è perchè quest'atto automatico trascina al suo seauito una serie di altri atti automatici, in un mec- canismo che esiste e funziona indipendentemente dalla volontà, e a cui essa non ha fatto che dare il primo impulso, senza volerlo e senza saperlo. Che 1' effetto volizione sia un'azione conforme ad essa, non di- pende dunque dalla volizione stessa, ma dal meccani- smo : se questo non esistesse o fosse distrutto o alte- rato, la conformità tra la volizione e l'azione non esi o cesserebbe di esistere. Intanto il filosofo vo- lizionale amìnette, come una cosa che va da sé, che la volizione, negli agenti volontari che egli suppone, deve avere per effetto un'azione conforme alla volizione stes- sa : ciò, negli agenti volontari conosciuti, lungi di sem- brare necessario, può considerarsi invece come una coincidenza felice, perchè, se in essi non si trovasse il meccanismo appropriato che la natura ha aggiunto provvidenzialmente alla volontà, questa potrebbe pro- durre degli effetti nel mondo fisico, ma questi effetti non sarebbero le azioni volute. Se il filosofo volizionale prendesse per principio di non attribuire ai suoi agenti volontari ipotetici che quelle capacità di. produrre de- terminati effetti che sono state costatate negli agenti volontari conosciuti, egli non potrebbe ammettere che le loro volizioni devono avere nel mondo fisico degli effetti conformi alle volizioni stesse, che se in questi aa-enti si verificassero le condizioni, che negli agenti conosciuti sono necessarie perchè esista la conformità le volizioni e gli atti esterni che esse producono. Alle condizioni fisiche di cui abbiamo parlato (cioè l'esistenza di apparecchi organici appropriati), dobbia- mo aggiungere naturalmente anche le psichiche. Negli agenti volontari conosciuti, la possibilità di eseguire le azioni ordinate dalla volontà è il risultato di un adattamento progressivo dell'individuo, che esig-e dei tentativi ripetuti e la fissazione dei successi ottenuti per mezzo dell' abitudine. È certo infatti che abbiamo imparato ad eseguire anche le azioni che ora ci sem brano le più naturali (e che perciò saremmo tentati di- credere che non abbiano bisog'no di essere state apprese), come abbiamo imparato a scrivere, a nuotare, a suo- nare uno strumento, ecc. — è un'osservazione che non abbiamo creduto inutile di fare, poiché, come notammo, è perchè lo assimila prontamente a queste nostre azioni che ci sembrano le più naturali, che il filosofo volizio- naie trova non meno naturale il modo d'azione dei suoi agenti ipotetici. Cosi, tutte le condizioni indicate mancando negli agenti supposti dalla filosofia volizio- nale, questa, supponendo che la loro volontrà ha per se stessa il potere di realizzarsi, cioè di produrre de"ii effetti conformi alle sue volizioni, attribuisce a questi agenti un modo d'azione che non è stato costatato negli agenti conosciuti, non meno che quando suppone che la loro volontà può produrre radicalmente del movi- mento, o che, come semplice fatto })sichico, può essere causa di effetti fisici. Ora il filosofo volizionale deve preconoscere, come abbiamo detto, che la volontà è capace di produrre que- sti effetti ch'egli attribuisce alle sue volontà ipotetiche, perchè nessuno immaginerebbe una causa per ispiegare degli effetti dati, s'egli non sapesse già che questo ge- nere di causa è capace di produrre questo genere di effetti. Su che si fonda dunque questa preconoscenza del filosofo volizionale che la volontà è capace di pro- durre radicalmente del movimento, eh' essa può, come semplice fatto psichico, produrre degli effetti fisici, e che basta per sé sola a determinare degli atti esterni conformi alle sue volizioni ; se queste capacità della volontà di produrre tali effetti non sono state costatate I 1 1 negli agenti volontari conosciuti V Certamente questa preconoscenza si fonda sulle esperienze del modo di aziono di questi stessi agenti volontari conosciuti, per- chè queste esperienze, prima di essere esaminate al lume della scienza e della riflessione psicologica, sug- geriscono la conclusione che la volontà, anche negli agenti conosciuti, ha queste capacità di produrre gli effetti indicati, che il filosofo volizionale le attribuisce nei suoi agenti ipotetici. Ma dacché si riconosce che i fatti d(»bitamente interpretati non autorizzano ((uesta conclusione, la supposizione che la volontà è realmente una causa propria a produrre tali effetti, quantuncjue continui ad ammettersi come qualche cosa di prcn-ono- sciuto, viene a mancare di ogni ])as(^ induttiva; e al- lora su qnal ragione si fonda il filosofo volizionale per ammetterla? Egli l'ammette; come una verità che non ha bisogno di prova, })er la sua evidente intrinseca. E infatti le nostre esperienze familiari del modo di azione de<>'li aulenti volontari non solo ci suggeriscono queste conclusioni : che la volontà può dare un cominciamento assoluto al movitnento, clie può . couie semplice fatto psichico, determinare dei cangiamenti fisici, e che è proj)ria, per se stessa, a produrre delle azioni esterne conformi alle volute; ma ce le suggeriscono d'una ma- niera automatica, in modo che ciascuna di esse ci sembra una verità evidente per se stessa. Così, che la volontà abbia realmente la capacità di produrre gli ef- fetti indicati, è una proposizione cIìc^ non si ha alcun dritto di ammettere, sr si respinge, come criterio della verità, questa ap[)arente evidenza intrinseca delle pro- posizioni che non sono che delle suggestioni della no- stra esperienza più familiare, grossolanamentte inter- pretata. Se invece si ammette, come fa la filosofia vo- produrre questi effetti, non lo si può che fondandosi sull'evidenza intrinseca della proposizione. Ma una causa la cui capacità a produrre l'effetto è evidente intrinse- camente, è una causa efficiente, perchè noi sappiamo che è questo uno dei caratteri che distinguono la causa efficiente dal semplice antecedente di una sequenza in- variabile. Per conseguenza dire che la capacità della volontà di produrre questi effetti sembra evidente intrin- secamente e che si ammette perchè sembra evidente in- trinsecamente, è lo stesso che dire che la volontà si considera come la causa efficiente di questi effetti, e che si annnette che essa è capace di produrli perchè se ne considera come causa efficiente Ora è certo che se non si ammettesse che la volontà è capace di produrre questi effetti, non si supporrebbero delle volontà ipo- tetiche che li proilucono realmente nell'universo. Ne che la filosofia teologica e le altre forme della filosofia volizionale mancherebbero di base, se la volontà non si considerasse come causa efficiente (1). 3<> Vi hanno, dice Hume, in questa piccola parte dell'universo che noi conosciamo, «quattro principii d'or- dine cioè di finalità, di appropriazione di mezzi ad un fine): riutelligcnza, 1' istinto, la generazione e la ve- getazione. L'esperienza ri mostra che tutti (juesti prin- cipii sono cause di effetti simili (cioè di oggetti o di feno- meni in cui vediamo dell'ordine o della finalità) —seco noscessimo l'universo in tutta la sua estensione e in tutta la sua varietà, scopriremmo forse altre cause di tali effetti -. Sarebbe duniiue un'induzione altrettanto fon- data di riguardare uno o un altro di essi come causa generale dell' ordine o della finalità nelT universo, e il teleologista non potrebbe giustificare la sua parzialità quando ne preferisce uno agli altri, spiegando il co- smos per l'intelligenza piuttosto che per l'istinto o per la generazione o per la v^egetazioi.e (2). (1) C'fr. cap. IV. \S. !• (2) Huiiie Dialoghi sulht religione naturale, parte VII. 229 — Di questi quattro principii d' ordine di cui parla Hume, ne metteremo due da parte, cioè la generazione e la vegetazione: essendo le cause osservabili dei più importanti tra i fenomeni che vuole spiegare il teleolo- gista, esse non potrebbero fornirgli una spiegazione, perchè egli cerca per questi tViiomeni altre cause, da a«'»'iuno*ere alle osservabili. Noi ci limiteremo dunque a domandare al teleologista perchè ciò che egli chiama la finalità deve spiegarsi per l'intelligenza piuttosto che per r istinto. L' argomento teleologico è un ragiona- mento fondato sull'analogia: le opere della natura, si dice, somigliano a quelle dell' intelligenza ; dunque la causa dei fenomeni naturali è un'intelligenza. Ma con un ragionamento simile potrebbe dirsi : le opere della natura somigliano a quelle dell'istinto-, dunque la causa dei fenomeni naturali è un istinto (risiedente nella na- tura stessa o in qualche forza animale esteriore alla natura). Sembra anche ch( il secondo ragionamento sarebbe più concludente del primo: esso si fondendìbe infatti sovra un'analogia più grande, le azioni della natura essendo uniformi, fatali e non imparate come quelle dell'istinto. Ma dice il tebiologista : noi non pos- siamo spiegare la finalità per 1' istinto, perchè sarebbe spiegare 1' oscuro per il j)iù oscuro. I fenomeni della natura in cui vediamo della finalità, esiggono una spie- gazione perchè per se stessi sono incomprensibili : così essi non potrebbero spiegarsi che per qualche cosa che possa comprendersi da se stessa. Ora tale è. solamente l'azione dell'intelligenza. L'azione istintiva, lungi di potere spiegare la finalità, è essa stessa uno dei casi di finalità che si tratta di spiegare. Questo caso non ha bisogno di essere spiegato meno degli altri, perchè non è meno degli altri incomprensibile : esso è anzi il i)iù imcon)prensibile di tutti, perchè è il più sorprendente (gli atti dell'istinto essendo i fenomeni che somigliano di più agli atti dell'intelligenza, e ciò che ci sorprende nella finalità della natura essendo che delle cause non intelli<>"enti producano de^li effetti che noi non possia- mo comprendere che come prodotti da cause intelli- o-enti) (1). Ma in che consiste quest'incomprensibilità dell'istinto, per cui il teleologista rifiuta di vedere in esso una spiegazione della finalità? Forse in ciò che noi non conosciamo bene il processo per cui si compie r azione istintiva? Evidentemente no, perchè noi non al>l)iamo alcuna ragione^ per ammettere che i fenomeni tlevono essere prodotti dalle cause il cui modo d'azione ci è più conosciuto anziché da (|uelle il cui modo d*a- zione ci è meno conosciuto, (quando d' altronde cono- sci;! mo eg'ualmente l'esistenza di (|ueste cause e il loro iegaiiK» costante con gli e+Tctti che si tratta di spiegare. Il telc()loi>-ista trova dunciue P azione istintiva incom- prensihile perchè non vi ha in essa né previsione dello scopo né scelta cosciente dei mezzi che lo realizzano, ed egli non comj)rende un'azione^ indirizzata ad un fine che (juaiido vi ha coscienza di (juesto fine e dei nnv.zi impiegati per raggiungerlo, in una parola (|uando (jue- st'azione è prodotta dall'i ntellig-^niza (2). Cosi il ragio- namento del teleolog'ista si riduce in sostanza a (juesto: (1) .Jaiict Lr rausc fiindi pajr. 12."): « Pr(M:isaiiu>nt(* perchè «liK'sti atti istintivi della natura umana soiu) analoghi ai teno- nu'ui della natura in «ienoralc «li <ui cerchiamo la spicu, azione, non ì» «la essi clu' noi <lol)l)ianìo |>artire i>er ispiegare «ili al- tri: perchè sare.»be allora spiejuare ohscìa'ifrn per ohsenrìnn », Viiìl. r>l() : « Vi Ila in effetto nella natura tre modi di azione, il meccanismo, 1' istinto e il pensiero. Di questi tre modi due solamente ci sono conosciuti d'una maniera distinta: il niecca- nismo e rintellij::enza. L' istinto è ciò che vi ha di più oscuro, di \n\i inesplicato l'istinto è essenzialmente una qualità oc- culta : scej^lierlo per far <*omprendere la tìnalità, «[uando e esso Htesso il caso di tìnalits^ più incomprensibile, non è s])ieii;are ohscunun per oòscnrins / V. Jaiiet Ihid. pa^. ali, .541, ecc. A la finalità non si comprende che come un effetto del- rintelligenza; ma l'istinto non è l'intelligenza; dunque la finalità non può spiegarsi per l'istinto, ma deve spie- garsi solamente per l'intelligenza. Questo ragionamento non è una petizione di prin- cii)io né qualche altro dei sofismi artificiali, con cui i metafisici cercano di dare una base fittizia alk^ loro teorie, fondate unicamente sui sofismi a priori o illu- sioni naturali del nostro spirito. P]sso è la costatazione di fatti psicologici evidenti, ed esprime il motivo reale della dottrina del teleologista. Una spiegazione radicale infatti, qual è quella che cerca di dare una dottrinametafisica, deve avere per oggetto di dissipare o atte- nuare il mistero in cui la spiegazione scientifica sembra che lasci avvolta la produzione dei fenomeni. Questo deve essere dunque l' oggetto della spiegazione che il teleologista cerca di dare di ciò che egli chiama la fi- nalità. Ma perchè esso si raggiunga, bisogna che il fatto che serve di spiegazione non sembri anch' esso un mi- stero, ma si creda di comprenderlo per se stesso, senza bisogno di spiegazione ulteriore. Ora é un dato incon- testabile della nostra esperienza intima che un' azione in cui noi vediamo un' appropriazione di mezzi ad un fine, se si compie con intelligenza (cioè con previsione del fine e con scelta cosciente dei mezzi), noi crediamo di comprenderla; se si compie altrimenti, p. e. per istinto, ci sembra incomprensibile. Questo secondo noi è un fenomeno psicologico da cui non può tirarsi alcuna con- clusione sulla natura reale dei due modi di azione : se razione intelligente ci sembra comprensibile e Fazione istintiva misteriosa, è semplicemente perchè la prima è un fatto che ci è molto familiare, mentre la seconda non lo è, e i fatti più familiari sono i soli che noi cre- diamo di comprendere e che ci sembra che possano spie- gare gli altri fatti, se noi riusciamo ad assimilarli ad essi. Ma il nostro scopo attuale non è di dare la ragione di questo fenomeno psicologico né di decidere se esso abbia o no mi significato obbiettivo: per ora non c'importa che di costatarlo, e di notare il suo rapporto con r idea di causa efficiente. Noi sappiamo che una delle differenze, inseparabili del resto Tuna dall' altra, tra la causazione efficiente e la semplice sequenza in- variabile, è che nella prima noi crediamo che il legame tra la causa e 1' effetto sia intelligibile per se stesso, mentre nella seconda ci sembra un mistero. Che signi- fica dunque che noi crediamo di comprendere V azione intelligente, ma l'azione istintiva ci sembra misteriosa? non altro che nella prima troviamo una causazione ef- ficiente, e nella seconda una semplice se<iuenza inva- riabile. Noi vediamo così sotto un terzo aspetto che la base deir argomento teleologico è 1' idea di causa effi- ciente. Infatti quest'argomento non potrebbe essere con- cludente, se si ammettesse che i fatti che la dottrina delle cause finali spiega per l'intelligenza, potrebbero spiegarsi anche per l'istinto; e il teleologista non esclu- de quest'ipotesi che perchè la spiegazione che egli cerca è una spiegazione per le cause efficienti. La causa ef- ficiente della finalità, in virtù delle tendenze spontanee del nostro spirito, egli non può trovarla che nell'intel- ligenza : se la causa della finalità significasse per lui degli antecedenti a cui certi fatti seguono invariabil- mente, egli troverebbe questa causa egualmente nel- l'istinto, e la spiegazione per l'istinto (supposto che egli non avesse altro scopo che di spiegare i fenomeni) gli sembrerebbe così soddisfacente che quella per 1' intel- ligenza. Ciò che abbiamo detto in questo paragrafo deve essere completato per ciò che diremo nei due paragrafi ultimi del capitolo : ivi troveremo un' altra prova, da aggiungere alle considerazioni precedenti, nella teoria psicologica sull'idea di causa che chiameremo : il con- cetto di causalità dell' antropomorfismo. '-?$' lyanimismo come spiegazione dei fenomeni biologici. ^ 8. 8i dice animismo, come si sa, la dottrina che l' Jinima è il princij)io della vita organica. Questo signi- ficato della ])arola animismo si <leve distinguere da quel- lo in cui Fusa il Tylor e in cui noi stessi l'abbiamo usata nei paragrafi precedenti, cioè come denotante la credenza che il soggetto dei fenomeni psichici è una sofifancd (cioè una cosa permanente come gli oggetti che occupano lo spazio), e che tali sostanze possono esi- stere, ed esistono effettivamente, separate da cor^^i orga- nici. T (lue significati non difieriscono solaiìiente nella connotazione, ma nnche nella denotazione non coincidono che imperfeitamente, poiché se rnmanità, in generale, ha visto in (juesta sostanza che è il soggetto dei feno- meni ])schici, anche il principio della vita organica, molti fih)sofi spiritualisti moderni, a cominciare da Carte- sio, hanno avuto un'altra (h)tti*ina; di più si può ammet- tere che Panima è il ])rinci])io (h'ila vita organica, an- che ammettendo che essa non e una sostanza, ma il semplice complesso dei fenomeni psichici. La dottrina che l'anima è il principio ch'Ila vita organica non è per se stessa una spiegazione antropomorfistica dei fenomeni biologici — (luesta su])pone che si faccia deiranima la causa produttrice dei movimenti vitali e V operaia del- riugazizzazione del proprio corpo — ; ma essa lo diviene facilmente, perche, da una ])arte, il corpo vivente è emi- nentemente la sede di (jnei fenonìeni che seiìibrano re- chimare più energicamente una spiegazione antroxmmor- ^1 '-A' — 86 — iìstica, cioè la spontaneità, aliiiciio apparente, del movi- mento, e una struttura e delle azioni indirizzate ad un line; e da uiraltra parte, Fani ma individuale e Tao-ente che si olire della nianiera più ovvia e(nne principio di lina tale spiegazione, esscMulo un adente conosciuto, men- tre ooni altro non sarebbe clic ipotetico. Ma (luiuituniiue ranimismo, nel senso stretto, si«»ni- ticlii la dottrina che ammette c<nue causa dei lenomeni Inoloo'ici Tanima stessa, cioè il soow.etto cosciente clie è il ìììc deir ori>anismo, noi esten<UM'eiuo ({uesto nonu', n(ui essendovene uno ])iii conveniente, anche alle dot- trine per cui le cause dei tenoun^ii biologici sono de^ii ji<jjenti pure coscienti e risiedenti neiroroanismo stesso, ma distinti dairanima, dal me, di (iuest'(u<»anismo. Que- st'altra forma deiranimismo è necessariamentcMina spie- gazione antropi)uu>r1istica, perchè se (juesto principio vitale o ([uesti princi[)ii vitali, che, oltre airanima, si ammettono risiedere nelForoanismo e viviticarlo, vendono dotati di coscienza, nou é evidentemente che i)er assi- milare le operazicuii di (jucsti priìici])ii alle nostre pro- l)rie azioni coscienti, volontarie. Fra (juesf altra tVn-nni dell'aninùsmo e la prima, cioè Tauiuiisiuo nel senso stret- to, vi ha (pu'sta dilterenza lilevante, che in (juclla V a- gente che serve da priucij>io di spiegazione è ipote- tico, mentre in (juesta ip(>tetica è solauu'ute l'azione che irli si attribuisce. Non<limeno noi riuninMiio in un cmi- cetto comune (jucste due spiegazioni dei fenomeni bio- lotrici, costitueuih) Tuna e Taltra una forma deterunnata deirantropomorlismo, clie si <listin<»ue dalle altre per questi due caratteri : che la spicci-azione non si applica che a una cat(\u-oria [jarticolare di fenouu'ui (i biologici); e che r agente che serve da princiino di ({uesta spiega- zione ncm è trascendemle (<*ome uella sjnegazione teolo- gica), ma immanente, cioè risiedente nelFessere stesso che ò la sede dei fenomeni. I 87 § 9. I fatti per cui i fenomeni luoìogici sembrano particolarmente pro})rii a ricevere una spiegazione an- tropcmiorlìstica, s(mo, come abluamo osservato, (|uesti due : la spontaneitii (almeno apparente) dei movimenti vitali, e il loro aggi usta nu^nto ad uno sco])o. Un esemino di animismo diretto particolarmente alla spiegazione della spontaneità dei movinuMiti vitali, lo troviamo nei hlosoh greci. Seconch) Aristotile, uno dei caratteri per cui i suoi predecessori aveano determinato la natura dell'anima, è che essa è il i)rincipio dei movinu^nti dv] corpo, che essa produce essendo essii stessa in nu>vim(Mit(), e comuni- cando al corpo il moviuiento proprio (1). Platone, dando una forma rigorosa a (piesto concetto, attriì)uisce all'a- nima un movimento spcnitaneo — ciò che costituisce la essenza stessa di <j[uesta, che egli dehnisce : ciò che muove se stesso — e spiega i movimenti del corpo vi- vente per la trasmissione dei mt)vimenti dell'aniuia, come (jnelli dell'univei'so materiale jier la tiasiìiissione di ipielli dell'anima cosuiica. Questa spiegazione dei movimenti degli esseri animati .^e:nbra ad Aristotile ti'opj)o mecca- nica— egli la paragona alla fantasìa di un autore ccmiico che Dedalo a ve a a dato il movimiMito a una Venere di legno, infondendole dell'aigento vivo — ; ma é evidente che essa é costruita sul ti])o delle spiegazioni antropo- morlistiche, assimilacelo l'anima a un uomo o un aniniale, e il modo in cui essa mette in nu)vinuMito gli organi del corpo, a (lucilo in "ui l'mmio o 1' aniiuale mette in mo- vinu^nto gli oggetti esteriori. A dir vero, l'oggetto pre- cipuo di (queste dottiiiu' non eia di spiegare i rnoA'imenti vitali indij)endenti dalla volontà assimilandoli ai mo- vimenti volontari — ciò che costituisce l'essenza dell'ani- nnsmo come spiegazione antropomortìstica dei fenomeni (1) V. Aristot. De mi. 1. I, e. II e III. — ss — 89 Inoloo-ici —, ma iniittosto di spiovalo i lìiovÌTiienti vo- lontari stessi al punto di vista del dualismo primitivo, che fa deiranima e del corpo due sostanze distinte, tutte e due materiali. Ma (pu'sta s[)ie«'azione dei movimenti vo- Icmtari era anelie api)li(ata certamente ai movimenti Aitali indipendenti dalla volontà. E ciò che si vede evi- dentemente nella dottrina di Platone, <iuando ammet- te che l'anima é in un movimento continuo — ciò che non può avere altro scopo che di spie.iiare il movimento continuo che caratterizza la vita —, e la divide in tre parti, a Ilo»; «piandole nelle tre parti del corpo che ri<;uarda come centri delle funzioni vitali — per ispie<;are come i movimenti in cui consistono (jueste funzioni, possano essere prodotti dai movimtMiti deiranima — . Questa spie- gazicme animista dei movinicnti vitali assume una forma sistematica nella dottrina de.i»li Stoici : ranima si dittòn- de e ])enetra in tutte \v ])arti deiror<»anismo, tenendole unite fra di loro e promuovendo tutte U' funzioni della vita; essa ha la i>otenza di muovei'c se stessa, e ])roduce tutti i movimenti vitali dando loro Piiiipulso col proprio movimento (1). Ma ranimismo assunu* più proj)rianu'nte il carat- tere <li una spieuazione antrojxmiortistica, (piando am- mette che ranima produce i fen<Mueni vitali con cono- scenza e con intenzione. Allora esso ha i)rincipalmente per isco[)o di spiegare la finalità di (jucsti fenoiiu^ni . 1 rappresentanti di <juesta forma deiranimismo sono so- vratutto Stalli e i suoi seguaci (tra i quali possiamo anclie c<nnprendere alcuni dei (ìsiolo<;i della scuola riffdisfd di Montpellier) (2). Secondo Stalli ranima è il principio di (1) V. ()«r('i-oau Sa.u.i;i(> sul sist. tilosof. (lenii Stoici, e. IV. (2) V. liCiiioinc, // rittflisiHO v Panimismo di Stdhly pai»;. 195 e seguenti. I #1 tutti i fenor.ìimi della vita, (^ lì pioduce con intelligenza e vohmtà, (piantumiue non ne abbia coscienza. I movi- menti del corpo devono avi^-e una causa spirituale, pei'- che la causa del movimento non può essere che imma- teriale — e infatti la materia e incapace di movimento spontaneo—; di più, i movimenti vitali manifestamh) una meravigliosa appropriazi(me di mezzi a tini determinati, (luesta causa deve essere, n(ui solo spirituale, ma anche intelligente. ^)ra Tanima e il solo agente conosciuto in cui si ritrovino (jucsti caratteri : dun(pu' la causa di tutti i movimenti vitali e Tanima, (luella stessa che è il sog- getto (h'ila nostra ragione e la causa dei nostri movimenti volontari. (\>si è Taniina che, come fa muovere i muscoli volontari, ta pun^ respirare i polmoni, battere il cuore, circolare il sangue, seceriuM'e il fegato, digerire lo stomaco; separa (hìl sangue gli umori corrotti e li rigetta al di fuori; fa succedere il sonno alla veglia, il riposo al movimento. E essa clic si costruisce il proprio corpo, e dopo uscito dal seno materno, lo c(mserva, lo sviluppa, lo n^staura continuamente con tutti gii atti che compcmgono la nu- trizione, lo cura e lo guarisce nelle malattie. È essa, in una parola, clu' governa e compie tutte le funzioni del- Porgauismo, producendo con la vohmtà tutti i movimenti delle sue parti, ([uelli che si c(msiderano come automatici n(m meno cìie ciuelli che si chiamano volontari. Quando abbiamo detto che Tanima produce i fem>meni della vita c(ui intelligenza e vohmtà, si deve dare a (pu^stt^ parole tutta Testensione di cui sono suscettibili : roggetto (Wlla vcdontà deiranima sono gli scopi ultimi a cui le funzioni della vita sembrano indirizzate, ch>ò di realizzare la forma elle costituisce il piano speciale delPorganismo, e dopo la Ibrmazione di (|uest' organismo, di conservarlo e pres(4-- varlo dalla corruzione e dalla nunte; i nu^zzi che la na- tura sembra adoperare in vista di (luesti scopi, s(mo To- nerà deirintelli-enza e (WlPartilìzio sapiente deiranima. 90 — 91 Per conseo Renza Stalli attribuisce airaiiiina una cono- scenza naturale <lella struttura del corpo, più completa cht^ qui^lla di (pialsiasi anatomista, la scienza della tisio- lo<;ia, della patologia e della terapeutica, l'arte maravi- jjliosa di diri,i;ei'e con la più sapiente economia tutte le funzioni deiroroanismo, e (pu'lla deirarcliitettura e della fabbricazione dell' organismo stesso. Questa intelligenza incesciente che governa le funzioni oiganiclie l'autore la chiama, XÓYOC, ^' la (listinone dal XoY'.au.óc: il XoYtajxó? è una cono.^cenza ritlessa, i azionata; il XÓYOC ^' ^^i^*i ^'^^- noscenza istantanea, intuitiva, che non si tonda sul ra- gionamento, ed è indipendente (bill'esperienza e dai sensi. L'aTìima, nell'amministrazione della vita organica, é sog- gettii purea degli errori — allora al Xó^og ^'ssa sostituisce il Xo^il^ióc — • questi sono le cause delle malattie, e quindi della morte. (1) Fra i precursori di Stahl non vi hanno solamente dei mìstici, come Van Helmont e Paracelso (2) (il cui archeo non (1) V. Jjciiioine. // ciliilismo e Vun'unisnio di Stalli. (2) 11 modo di oponu-i^ dell' jirclieo di Paracelso sonno lia jicr- lettaiiieiite a (quello di un fabbro. Secondo Paracelso il pane e la carne contenzioni) y^ìh l'occhio, il naso, il fegato, ecc.; nei succhi della terra si trovano nascosti il iiore, le foglie, ecc.: l'archeo tira dagli alimenti, j)er via di separazione e di reiezione, ciascun membro e ciascuna i»arte del corpo vivente, come uno scultore, dice Bacone, togliendo da una massa grossolana di legno o di pietra tutto il superfluo, ne tira così la forma d'una foglia, d'un tìore, d'un occhio, d'un naso, ecc. Notiamo la curiosa analogia ron la dottrina di Anassagora delle omeomerie (particelle simi- lari deirac([ua. della pietra, dell'osso, della carne, ecc.) che al ])rincii)i() erano tutte mesc(date insieme, e del X(ms che intro- duce l'ordine nel mondo, ojierandone la segregazione. — La dot- trina degli archei non è un animismo che in un senso lato; ma differisce dall'anima di Stahl che percliè le operazioni di cui non abbiamo coscienza, che (pu\sti attribuisce al nostro me, si attribuisc(nio invece a un me distinto dal n*)stn)), ma anche degli scienziati seri, <iuali Harvey — (piantun;pie le sue scoverte abbiano deteiininato la prevalenza della ccmcezioue meccanica della vita — e Borelli — malgrado die sia statoli capo della scuola iatro-matemativa,—\\ prin- cipio fecondatore, dice Harvey, e in tutti gli esseri lo stesso o di una natura c(nisimile; è ipialche cosa di divino, ana- logo al cielo, all'arte, all'intelletto, alla jU'ovvidenza. Egli scrive un capitolo che ha per titolo ovum non cvst opus, nferi sed anima', e s^nega lo svilui)po deirem]>rione at- tribuendo un' anima all' uovo stesso, e conformandosi all'avviso del poeta : Spiritu,^ intus alit, totanìpie infnsa per art Ufi Me uh af/itat mole ni. Borelli in un luogo della sua celebre opera De moiu animalinm assunu^ a provare che è ])ossibile che il moto del cuore sia prodotto da una facoltà animale conosci- tiva. Egli induce che 1' anima conoscitiva è il principio dei movimenti del cuore dall' accelerazione e rallenta- mento della circolaziiuie per gii aifetti dell'animo : l'una e l' altra variazione della pulsazione è prodotta, egli dice, dall'apprensione e dalla persuasione che sono fa- coltà dell'anima conoscitiva; dunciue il movimento àA cuore è prodotto da una facoltà senziente ed appetente, e non da un' ignota necessità. 1'ra i tisiologi eminenti che indipendentemente da Stahl hanno aìnm-sso delle idee analoghe alle sue, dobbiamo anche ricordare Hoff- Leibnitz i>arla di alcuni settatori di Van lle:m>nt e di alcuni peri- patetici, fra cui (liulio Scaligero, che ammettt'vani» che l'animu si fahbrica il i>roprio cor])o (V. Leibnitz Coìiddenizioni sul prhi- eipil di vita v shIIc nuture plastiche, ed. Dutens t. 11 parte 1 pag. 43). Sono dei ])n'cursoni più diretti dell'animismo di Stahl. il 92 — 93 iiiaun, che aiìniietteva mi fluido vitalt^ diffuso in tutto l'or^auisiuo, e attribuiva a tutte le i)articole di ([uesto fluido un'idea determinata deirori;anisnìO intero, seeondo la <iuale esso forma il corpo e lo conserva per il suo mo- vimento. Tra il noiosi deiranticliità Stahl vede un suo precurso- re nello stesso I])pocrate, pretendendo clu^ la natura di cui parla ({uesf autore, clie erudita senz'aver imparato, la tutto ciò che e conveniente, sia la ra<;ione cht» opera senza coscienza. Ma, come dice Galeno (1), Ip])ocrate non determina che cosa sia (|uesta natura, di cui celebra e ammira sem])re la potenza in ciascuno dei suoi trattati : ciò che *x\\ si poti'cbbe attribuire e, non la personiticazione di (juesta forza formatrice e medicatrice eh' e,i»li cliiama la natura, ma, couu' nei sistemi di tìnalità immanente o incosciente, p. e. in Aristotile, (luesta vai»a assimilazione (elle è aneli' essa una forma dell'antropomortismo) delle operazioni della natura a (incile dell' uomo, consistente a suppone clic anche la natura opera per nn tìne, (pian- tunque senza conoscenza e senza intenzione (2). Come (1) De placitis lli])i)ocrjitis ot Platonis, 1. IX, e. Vili. (2) Questa stcssji vjijìji assiinilazioiie delle operazioni della na- tura a ((uelle dell' uomo vi ha pure in eerte dottrine vitaliste, che ammettono delle forze ])lastielie o formatrici dell'ornanismo, ji^enti secon«lo un piano definito ma prive di eonoseenza. attri- buendo, come «lice un autore^, a ciò che non e considerato che come della materia estremamente l'arefatta (o anclie come im- mati^riale, ma senza sensibilità e senza coscienza) delle ]>ro])rietà e un'azione che api)arteii<;()n<> alla ]>otenza e all'inteHijicnza j)iii elev.ata (v. Hevue scientitì([ue, année 7. ikijl». ()4). K un antroi)o- nu)rtìsmo sottile, come; si vede della maniera i>iìi evidente nella dottrina di C'udworth, che assimila il modo di azione della sua ììntura phtstiea aj^li atti conformi a uno scopo che noi ese- iiiiiamo automaticamente in forza dell' a])itudine, e alle azioni istintive. Tali dottrine devono distinjiuersi senza dubbio dallo animisnu) (anche nel senso lato), ma non può dirsi che siano con esso s<^nza analoiji.'i. esempio di tendenze animiste (aventi un carattere netta- mente antropomortistico e tele(do,i;ico) nell'anticliità, si i)uò citare invece Galeno stesso. Nel suo opuscolo Jh'fonuafione foeinum egli ri,i>;etta l'opinione che questa avvenni senza provvidenza, e dichiara clie nelle parti materiali non ha ti'ovato alcuna i'a,<;'ione efticHce a s])ie«;are la formazione de<;li animali. E.iA'li pi*o})ende ])iutt()sto a ciedere o che i singoli oi'gani siano stati costruiti da alti'ettante anime che, formatili, li goveinano, o clie tutto il coi'po sia stato formato da un'anima coiìiune che goveina tutto l'orga- . Ciò che ])erò lo l'cnde dubbioso é il non cono- sclere noi (juest' anima o ([ueste anime, che esistei*ebbero a lato della [)arte ])rincipale della nostra ragione, cioè <juella di cui abbiamo coscienza. Un animismo più o meno vicino a (|uello di Stahl non ha mancato di sostenitori fra i moderni tìlosotì s])i- ritualisti — benché la più parte <li essi si tengano al punto di vista cartesiano, che spic^ga i fenomeni bicdo- gici meccanicaiin^nte, e n(ni vede nell'anima che il sog- getto dei fatti di coscienza — Noi non ricordei'cmo che Kosmini e Gioberti. Rosmini attiibuiscr all'anima, come dotata di senso e di appetito, la formazione v lo sviluppo deirembrione, i ])rocessi della nutrizione e della rì])roduzione degli or- gani, e tutti i movimenti dell'organismo che si com])io- no d'una maniera secondo noi automatica (1). Egli di- stingue la ]>ropria dottrina da (piella di Stahl, ])erché essa non si)iega le funzioni della vita per l'anima l'azio- nale e i suoi attributi, cioè la conoscenza e la volontà, ma per l'anima sensitiva e gli attributi di <iuesta, cioè il senso e 1' istinto animale (2). Ma ((uesta distinzione (1) Pnìcol. 172-173, 1090. 17SJ). 171)1, 1703. 1S17, 1818-1850, 1857-1858. 1880-18S1, 1800-1013, lOfJO. 1080, 2130, 2147, ecc. (2) PhìcoI. 308-113. Vi'v. parte 2. 1. II. e. IX. I'». -^ 94 è fondata sopra una i)si.%')lo;j,ia (•hitnerica, e svanisce necessarianionte (*onì(' un' ombra, come tutte le distin- zioni arbitrarie di (piesta [)sicolo<;ia. Anclie l'anima sen- sitiva di Rosmini conosce e vuole, anch'essa a«»isce per uno scopo (1) : la vera diiterenza fra le due dottrine è nella natura de«;ii sc()i)i a cui tende l'azicnie dell'anima. L'anima razionale di Stalli vuole il bene deirori»anisnio, e cerca i mezzi più opportuni i)ei' ra i»\ui ungerlo : l'istinto animale di Kosuiini è incaiì:;cc di scopi lontani, e non tende che alla soddisfazione iuinuMliata del senso ; ])ro- duce 1 lììcnimcnti che a])portano del luacere, ed evita oo-ni stato che apporta della sottcrcnza (2) ; se la più parte dei movimenti vitali hanno per line ultimo il bene dell'or<»anismo, e l'ctt'ctto d'un'armonia prestabilita dal Creatore, che ha le,i;ato oidinarinmente il ])iacere alle azioni utili, e la sotfcrenza alle azioni dannose (8). L'in- (1) PnieoL 1S():MS05, ISIO. ISIS-ISÓO. 1.S5S-1S(;0, 18I>S-1870. 1890-1898, 1987-1944, 1984-1981). 2()57-20(>l. 2087. 218() e nota, 2138, 2147, 2150-2158, ^178-2175, 2184, 2208-2210, ecc. (2) Ph'u'oI. 1098-1100, 1801-1810. 1818-1850. 18(>;)-1870. 1888. 1893. 1899. 1985-1944. 1957. 1984-19Si;. 2054. 2057-20ai. 2»)88, 2098-2094, 218() nota. 2188. 2158. 2188-2184, 2208. occ. La Io,iìjì;o del sentimento fondamentale (cioè dell'anima sensitiva) è di at- tegjiiarsi nel modo piiì jj^radevcde o meno penoso che j;li è possi- bile (V. Pshol. 472, 474. 1090. 1985-1980. 2081. ecc.) Atteggiarsi nel modo ]»iii »!;radev<de o meno ]>enoso e ])ei' il sentimento fon- damenta le prodnrre nel cor]>o «ili stati che «ili riescono i ])iiì gradevoli o i meno penosi, perche il vin-\m fa parte d(d sentimento fondamentale, vi è contennto. il sentito, cioè il corpo, non esi- stendo che nel sentimento, e il senziente e il sentito, l'anima e il corpo, essendo i dne ])oli opiM)sti, ma indivisil^ili. di nn'esi- stenza nnica. che è appnnto il sentimento (V. il mio stndio snlla Dottrina di Rosmini sìfircsscHZd dvlln materia). (3) Paii-oì. 407. 417. 1888, 1893. 1985-1944, 2130 nota, 2158. ecc. -li il 95 coscienza (U^lle azioni vitali dell'anima t^i spie<;a, seccni- do llosmini, per (bie ra<;ioni : perche la coscienza appar- tiene all'intelli<;enza e non al senso : e perchè le fun- zioni organiche, nelle diverse parti del corpo, posscuio essere piodotte da piincipii sensitivi imlipendenti, sino a un certo punto, dal })rincii)io sensitivo dominante, cioè dall' «mima ])i'opriaìuente detta (H). Gioberti attribuisce anch'e!L>li i fenonuMii vitali a una azione istintiva dell'anima, di cui non abì)iamo coscienza (2): in virtù dell'istinto l'anima fabbrica il suo corpo «co- me l'ape fa l'arnia e l'uccello il suo nido» (3). Ma l'istinto di Gioberti somi<i:lia ])iii che (j nello di Hosmini al XÓYOC di Stahl, perchè esso è, secondo il nostro lilosofo, una sorta di ragione intuitiva, un'iutelligenza implicata, fa- tale ed incosciente (4). Ma più che le o])ini<uii dei tilosoti di questa scuola hanno i)ei' noi interesse h^ idee essenzialnuMite aftini — nialurado la concezione meccanica e le tendenze mate- rialiste della scienza contemporanea — di pnrecchi scien- ziati e tilosoti del nostro tempo, che partecipano al- l'odierno movimento s(*ientitìco, e di cui alcuni devono contarsi tra i suoi rappresentanti più eminenti. Fia (()) r. A»s'/V. 190.S-1909. «Sembra, <lice l'antore, che anche i diversi sistemi e<l orfani ])rincipali del corjjo umano godano di nna vita speciale loro ])ropria... (^nanto meno ]h)Ì tali sensioni ((inelle dei loro ])rinci]ni sensitivi) sono subordinate a (pud jjrin- cipio senziente che costituisce l'individuo animale, tanto i>in si sottra j;«i()no alla coscienza intellettiva». (2) V. Pr(»t(do.i.àa v. II. pai--. 82. (3) Ivi pa.n-. 20. 4) V. i luo«j!.lii citati e cfr. il i)ai-a,i'r. 17 di <[uesto capitole». Per «ili sjnritualisti fnincesi ch(^ ammettono I' animismo (come spiegazione antrojxnnortistica dei fenoìiienti vitali) V. Lemoine up. citata cap. IX. — 96 — — 97 essi dobbiamo daiv il piiiuo hiOi>o a AVuiidt, clie si ])ro- fessj! aj)e:taiii(Mite animista, (luaiitumjuc non consideri Panima come una sostanza, come tacevano ^i!,]i animisti antichi. T^'oi«;a]iizzazione fìsica, dice V/nndt, è una crea- zione dello sj)irito, aliìieno in (jua.nto essa si conforma a (iei lini. Solo la supposizione che Io s\'ilnppo psicliico lui ereato il cor])o rende comprensibile il fatto della finalità di tutti i fenomoni della vita. Ecco (]u:d è il fondamento (b' (jucsta lìnalità : nna parte dei fenomeni (h-lla vita, le azioni volontarie coscienti, emanano immediatainente da motivi diretti verso uno scopo; l'altra part{', più consi- <b^revo]e, si compone dei residui, pei- dir così, pietri- ticati d'azioni antei'iori, emanate anch'esse da motivi di- retti verso uno scopo. L'abitudine di ripetere dei movi- menti, clic ciano jniiuitivamente fondati su un'intenzione eosfiente, ha per effetto di l'endei'Ii iniine puramente in- coscienti e meccanici: e (piesti movimenti in ori^i^ine vo- lontari, che l'abitudine ha lìieceanizzati, ])er la trasmis- sione (M-eibtaria d(ù cai'atteri ac<]nisiti, si trovano nei di- scendenti sin (hil prim-ipio lìu'ccanici. ì] così che si sj>ie<;a rori^L-im' (b'ile azioiii ritiesse : che esse siano dei residni di movimenti volnti resi abituali, dv]W azioni volontarie divenute stabili e meccanichts lo mostia il loio carattere di finalità, che ci <là una prova della i)iesenza in orioiue di lappresentazioni de^nli scoj)i, le (piali ai;ivano come mo- tivi. In tutti i casi in cui un movimento meccanico ])re- senta netlamente il caiattere di finalità, noi dobbiamo ammettere ch'esso tira la sua origine dalle azioni volon- tarie, })ercliè, nello st;ito attuale della scienza, è uiiica- ine:ite lo svilui)po della volontà clic provoca, ne«^li ani- mali, dei movinu'iiti conformi a uno sco])o (]). Come (piella di Wundt e come le moderne in <,^ene- rale, la più parte delle altre dottrine animiste contempora- nee si propongono specialmente di spiegare la lìnalità del- \i\ natura organica. L'intelligenza incosciente clic presiede alla formazione dei tessuti corporali, e, dice Murpliy. la stessa intelligenza che diviene cosciente nello si)irito. La intelligenza che forma le lenti dell' occhio, è la stessa intelligenza c]ie, nello spirito dell'uomo, comprende la teoria (Ielle lenti; l'intelligenza che scava le ossa e le pen- ne dell'ala degli uccelli ])er combinare la leggerezza con la forza, (^ la stessa intelligenza che, nello spirito dell'in- '»-e<niere, ha immaginato la costruzione di pilastri di ferro scavati come (pieste ossa e ([ueste penne. Wallace, espo- nendo (piesta dottrina, crede dalla sua parte che varreb- be meglio di sostituire a (luesta intelligenza incosciente e iiup(''rs(niale delle intelligenze coscienti e personali (1). Delboeuf non solo ammette che le azioni riflesse e tutti i movimenti automatici che si compiono utdl'organismo, so- no delle azioni originariamente volontarie, che l'abitudine ha macchinalizzate, e che si sono trasmesse così ai discen- denti (2), ma nella produzione dei fenornc^ni biologici ta anche intervenire una sensibilità e un'intelligenza attuali. La nutrizione (cioì' la funzù)ne (kdla reintegrazione dei tessuti dopo il parziale consumo della loro sostanza) e la evoluzione dell'ovulo sono detiMininate (hi un bisogno sen- tito, da un desi(h'rio (3); la divisioiu^ del lavoro t1siol()gica è una divisi(me del lavoro nel senso umano, l'(nganismo essendo un'associazione voìontaviu, in cui ciascun membro della comunità — che e dotato di sensibilità, d'intelligen- (l) V. Wuudt hlcmcnfi (1 />SH'oh(/i(( fìsiolof/icd c'.\]ì. XXL 2, cai». XXIV. 2. Contpcndio di psico/o(jia vS li. 10, ^S 1J>. 5 a, ecc.) (1) V. llcvuo scioiit. ser. L t. VIL pag. H07. (2) V. Jjft materia hrnta e la materia cicente, \nig. 10(5, 119- 120, 127, lU). 17L 17(). (8) Ivi p. 79. 132. — 98 n za e (li libero arbitrio — si è adattato a una funzione par- ticolare, lavorando anelie per ^H altri, e chiedendo che, in cambio, anche gli altri lavorino per lui (1). 11 naturalista americano Cope spiega l'evoluzione or- ganica pei' una forza di crescenza determinata a propa- irarsi in tale o tal altro senso dal desiderio o Timmagi- nazione deiranimale. L'intelligenza, egli dice, è l'origine del meglio, mentre la selezione naturale (di Darwin) è il tribunale a cui sono sottoiìiessi tutti i risultati ottenuti per la forza di crescenza (2). Sectondo il ])rof. Vignoli tutte le funzioni della vita sono accompagnate e determinate da un'attivitn psichica: la stessa facoltà psichica che opera n(\gli atti coscienti dell'uomo e degli animali, opera pure, in una forma in- <*osciente, ma essenzialmente identica, nelle loro funzioni ckf ordinariamente si considerano come puranunite tisio- logiche, e in (]uelle corrispondenti dei vegetali, e si ri- trova anche in esse coi suoi tre attributi fondamentali di senso, volontà ed intelligenza (la quale si nmnifesta da l)er tutto come coordinazione spontanea di mezzi ad un fine). Nei vegetali Fattività psichica ha sempre operato d"una maniera incosciente; ma negli aninndi le funzioni che or(f sono dovute a un'attività psichica incosciente, furono (iWoyiifinv degli atti anch'essi coscienti. Le azioni riflesse e tutti gli atti uppdrvniemeììie automatici che si compiono nell'organismo animale, hanno un'origine ana- loga a (lucila che l'autore, con molti altri, attribuisce a tutti gl'istinti — noi ritroviamo lo stesso c(mcetto che ab- binììin già trovato in Wundt e in Delboeuf — : s(nio delle abitudini contratte dagli antenati per la ripetizione fre- (luente di atti coscienti, che per ([uesta ripetizioiu' stessa divennero x)oi incoscienti, e si trasmisero così per eredità (u-ganica; nei discendenti persiste ancora l'attività psi- (1) Ivi p. 171. (2) Ecvite (ics cours scicntifiqiies. 99 — chica origini. ria, ma manca la coscienza. Gli orgjini che era si formano (nello svilup])o embriologico) per una forza incosciente, (iuaiìtun<iue st^npre psichica, si formarono alPori(/ine ])er un'attività psichica esercitantesi con co- scienza. Questa (' il fattore ])recipuo dell'evoluzione del mondo vivente- l'aìnmale uKulilìca continuamente il pro- ])iio organisuH) per un esercizio s]>ontiineo e conscio dei suoi oigani ;p)pr(>})iiaio ;dle condizioni successive della sua esisteìziì; e queste modiiicazioni riappariscono per (eredità nei (iiscentU'iiti, e si listano nella specie. Di là questo meraviglioso adattamente degli oiganismi ai loro bisogni e riìhisione a cui esso dà luogo di cause timili pi'ecoucepite (^ pi'cstahilite ciie ])re^iedettero alla crea- zione degli organismi stessi. !1 carattere teleologico (' in- lU'gabile in tutti i fenomeni degli esseri organizzati; ma esso si s])iega \n^v la volontà e l'intelligenza di questi es- seri stessi, V non per una volontà e un'intelligenza so- pramon(hnie (1). (1) V. Lriiffi' fomlameutulv (ic/l'infellif/cnza nel ir(/no animah', specialmente i cnpit. Ili - VI - llartin;niii T' ti(»pp«> lontaiu» da una spieo-azione naturalistica dei Ibnonicni per poterlo (M,n.in-endc- re tra i lìlosotl di cui i' 4UÌstionc nel Kisto. Noi abbiamo parlato (y,^ «)) del SUO sistema come di una torma della tìlosofìa te(do<«;ica, perche esso è nmi si.ic-azionc -(Mieralc del mondo, il cui prin- cipio non ditlcrisce essenzialmente dal Dio <lel teisnio (l'Incoscien- te ha la a«in<'zza assoluta, l'onniscienza, l'onnipotenza, l'oninpre- senza. ecc.-v. Filos. deirincosc. parte HI. e. Vili e XII), e ne par- leremo aneora (^ 15) come di una torma del panp.^ic/nsiHO, perche l'incosciente, cdtre ad essere la causa ottìciente tli tutti i feno- meni, è anclie Vin .sr della materia, che per conse.iiuenza si ri- sidve anch'essa in sinrito. Ma è (evidente cIm' la base di .pi<'«to sistema, su cui poi l'autore costruisce il suo panteisnn. e il suo panpsichismo, è un'interpretazione animista dei ienomeni bi(do- ^ici. come pub vedersi dando uno s-uardo alle due prime i)arti dcdla sua opera bmdamentale, che eomiHUi-ono la fcnowenolofjìa 100 — 101 Altre (lottriue non si preoccupano del eamttere te- leolodeo della natura vivente, ma ciò non deve impedirei deiriiicoscieute. La fouo.iiouolo.una (l(>ll'Ineoseiente coiiipremlo <iuei fatti stessi a cui si h applicata la spie-azione aiiinusta : la lori.iazi(»ne dell'oriianisiìH., la virtù lucdicatrice della natura, l'at- tività dei centri del midolle» spinale e dei gangli, l'istinto, i le- nonieni, secondo l'autore, istintivi dello spirito umano, ecc.; e <iuesti fatti sono spiegati della stessa maniera con cui li spiega l'animismo (p. e. l'anima si costruisce il suo corpo, come nella dottrina di Stalli). Il concetto di un'attività psichica incosciente, in Hartniann come in tanti altri autori di cui aìd>iamo parlato «, di cui parlerenìo. nasce naturalmente sul terreno della spie- gazione animista. L'incosciente di Hartmann non è che l'istinto, interpretato come il risultato di un atto razionale, di cui l'a- «ronte non ha coscienza: h l'azione dell'istinto o di alcun diedi analogo che egli vede in tutti i fatti di cui è ciuistionc nella feuomenohf/in delVineosekiHc. Quest'atto razionale da cui, secondo lui. risulta l'istinto, pare necessariamente all'autore un atto in- cosciente, perchè tale lo dimostra l'esperienza (supposto che esso si dia realmente) nei pretesi fatti istintivi dello spirito umano, e perchè sarebbe troì)po strano d'interiu'etare le azioni istintive degli animali o delle piante attribuendo loro una ragione espli- cita e cosciente, superiore, come supporrebbero i suoi eftetti, alla ragione stessa dell'uomo. Quest'atto gli sembra inoltre, non solo incosciente per l'individuo, ma assolutamente incosciente, perchè, se non f(»sse cosi, dovrebbe appartenere ad un'altra coscienza, e quindi non sareì»be un atte» dell'individuo stesso, ciò che impor- tereblu- un'azione divetta di uno spirito su di un altro (vale a dire iin'intluenza unmedidta, non per l'intermediario di manife- stazioni esteriori e sensibili), che l'autore trova inconcepibile e che sareììbe effettivamente un vero mistero-è il motivo per cui Leibnitz ha negato l'azicme reale di una monade su di un'altra— . (V. Filos. dell'lncosc. voi. IL e Vili traduz. frane, pag. 223-224). Questa ragione incosciente deve essere di i^iìi intuitiva e non di- scorsiva, perchè essa agisce d'una maniera istantanea, non esita, ed è indipendente dall'esperienza. Essa deve avere inoltre la sag- gezza assiduta, perchè l'istinto (a quanto dicono i toleologisti) è di vedere anche in esse delle forme dell' animismo e della spiegazione antropomortistica. Tale è ciuella di Hewald Hering, die per ispiegare il tatto die sembra il più caratteristico e forse il più fondamentale della ma- teria vivente, cioè l'eredità, aunnette nella materia organica una memoria incosciente, sulla (piale è ba- sata la forza riproduttiva di cui è dotato l'essere vi- vente. Haeckel aderisce all'ipotesi di Hering : tutte le molecole organiche, o più propriamente tutte le pla- siidìde, possiedono secondo lui della memoria ; (pie- st'attività manca alle altre molecole, ed è (luesta pro- prietà che distingue l'organismo vivente dai corpi inor- ganici privi di vita. « Noi siamo convinti, egli dice, che, infallibile, e sceglie sempre i mezzi i più appropriati allo scopo. C%,n ciò abbiamo già fatto un bm.ii tratto di via i)er avvicinarci agli attriluiti della divinità: il resto è una conseguenza neces- saria dell'elevazione dell'Licosciente a principio di una spiega- zione universale del mondo. L' incosciente deve avere l'onni- scien7.a, perchè la sua intelligenza deve abbracciare tutte le con- nessioni dei fenomeni che costituiscono l'ordine e lo svilui>po dell'universo; la sua unità (monoteismo e panteismo) risulta dalla connessi(me di tutti i fenomeni e dalla suindicata impossibilità che uno spirito agisca su di un altro. (V. Fil. dell'incosc. voi. II e. VII trad. frane, pag. 200-201 e e. VIIL i)ag. 238). Ma quest'in- grandimento iperbolico dell'intelligenza incosciente non può dis- simularci la sua umile origine : essa non è che l'istinto animale, interpretato come ragione. È una ragione istintiva come il Xó^O^ di Stalli -che l'autore ha dimenticato di contare fra i precur- sori del suo concetto dell'incosciente -. Quest'incoscieiite-la cui applicazione immediata è, non doblùamo dimenticarlo, una spie- gazione animista dei fenomeni biologici - non è al fondo che \o stesso XÓYOC di Stahl, elevato a i)rincipio di spiegazione gene- rale di tutti i feimmeni, e deitìcato per l'esaltazione all'intinito dei suoi attributi, onde servire alla spiegazione teleologica ra- dicale e universale della vita e del mondo. — 102 — senza l'ipotesi di ima mcnioiia iiicoscicMitc della materia vivente, le più iiii^xn-taiiti fmizioui della vita sono insom- ma inesplieaì>ili. La capacita <li avere debile idee e di for- mare dei concetti, il ])otere del pensiero e della coscienza, dell'esercizio e deiralntndiiie, <lella nutrizione e della ri- produzione, ri}>osa sulla funzione della mcMuoria incoscien- te, la cui attività Ila un valore intinitautente ])iii,i»rande che (piella della me ììioria cosciente » (1) Preyer vuol estesa questa memoria incosciente a tutta la inateiia, perchè nei cor])i viventi la materia non ])uò possediMe altre forze che n<M corpi non \ ixcntì. « Per mettere d' accordo coi fatti della fisica e della chimica i fenomeni dell'eredità, V Tìecessario d'attiilmire a oi»iii materia umi sorta di meiiu)ria, come alcuni hanno .i;ià fatto. Una ])ersistenza delle j)iù piccole particole neirordiiu' e la disposizione iìi cui sono state ])oste il pili spesso dalle forze esteriori, e una tenih'nza, che cresce con la ri[)etizione, a ripren- dere sempre la stessa situazione, anche allorché le forze esteriori non ai^iscono j)iù con l'intensità origliale, tale è il primo i^rado di ([uesta meiìioi'ia». (2) (ini T animismo si confondi* con Tilozoismo, e noi antici])iamo sul sogget- to dell'articolo seguente. vS 10. L'assimilazione dei movimenti vitali indipen- denti dalla volontà e dalla cos<'ienza ai movimeiiti (coscienti e volontari — che costituisce, come abbiamo detto, r(»s- senza delTanimismo, conu* s])iegazione antropomortìstica dei fenomeni biologici — conduce tàcilmente all'ipotesi che rindividuo vivente e senziente contiene come sue parti altri indivi<lui inferiori i)ure viventi e seiiziiMiti, le cui coscienze sono distinte dalla coscienza centrale del- rindivi<luo totale, cioè dairanima deiranimale propria- (1) Psiitoìo(/i(( cellulari', tvud. fnnic. ]). 44. (2) Le forze dei corpi vireìiti in Ucììi. scioitif. t. VIL ser. 3. — lOS — ^ niente detto. Noi abbiamo visto che seroudo Rosmini i di- versi sistemi ed ors-aiii del corpo umano jiodono d'una vita speciale loro propria, ed liauno dei principii sensitivi indipendenti, sino a un certo punto, dal principio su- premo che costituisce l'individuo animale. Sec<)ndo Led)- nitz o,nni orj-anismo contiene altri or.i'anismi interiori, cia- scuno''sottoposto a una numade dominante, e (luesti simil- mente de.!ili altri, e così di seguito all'inlinito : il concetto animista, cioè lo sforzo di assimilare i movimenti automa- tici dell'ori-anismo a ((uelli volontari, non è stato forse sen- za intìuenza su (piesta dottrina (1). Questa plu.alità d'indi- vidui animati inferiori ccmtenuti nell'individuo animale non è in certi casi die una forma di (piella specie dell'ani- mismo che spiega la vita organica per uji principio psiclii- «•o distinto dall'anima; invece di un principio unico, se ne ammettono più. È così nella dottrina di Vaii Hebnont, clie, oltie M'on-hco principale risiedente luMla milza, nicari- cato di foruiare il corpo e di pi'esiedere a tutte le sue funzioni, ammetteva pure un gran numero di «rc/zet su- bordinati, preposti ciascuno a uu organo, a una tunzione, a una parte, anche minima, <lei c<u-,)o umano. Dei con- cetti simili non furono sconosciuti all'antichità classica. Secondo Piatirne, (1) l'organo genitale nell'u<.uu. e l'utero nella donna sono degli animali avidi di generare ; e A- reteo atferina c(m lui che l'utero nella donna è come un am- male vivente dentro un altro (3). Galeno (4) parla dell'opi- (1) Come osserva Loiiioiiie {opera cUalu pag. KiO-lGl. Leil.- uitz annncttova l'a.diuisn.o di Stahl. «alvo una differenza neces- sitata dal suo moi.iio sisten.a. cioè clie l'ani.aa,u... aK.scc real- nunte sul eorpc. ...a tra le, idee e «li appetiti dell annua e gh stati del eor,.o elu, ne sono «li effetti, non vi lia tcro legame causale, ma seniilicemente armoniii,.iestal)ilita. (1) Timeo 91 a-d. (3) Delle eause e del seijni dei mali aeiitl, 1. II. e. XI. (i) De formatione foetunm. — 104 — nione di alcuni medici, che consideravano oi»ni muscolo come un essere animato, clie percepisce la volontà del- Panima centrale deiranimale, e<l eseuuisce i movimenti da essa voluti. E<;li stesso non tiova (piesta ipotesi in- verisimile, perchè noi muoviamo, e^^li dice, conveniente- mente le nostre membra senza conoscere i muscoli ne i nervi di (piesti muscoli. S(mo, al tondo, delle dottrine analo«i'he a quelle dei tìsiolo<»i o iìk)sotì moderni, che I)er ispie«;are la tinalità (U\i>li atti automatici dei centri nervosi interiori, ammettono una coscienza o delle co- scienze distinte dalla ìupsfra^ cioè dalla cerebrale, di cui sarebbero sede i centri del midollo spinale ed anche i gangli del sistema del gran simpatico. Un'altra estensione del dominio della coscienza, che deve evidentemente comprendersi nella stessa classe che i concetti precedenti, è la dottrina deiranimazione delle piante. Essa è d'al- tnmde, quantunciue Stahl si sia riiìutato di ammetterla, una conseguenza iiievitabile del sistema animista. Così per l'anima delle ^jiante non si spiegano solanuMite i te- TioTueni della vita vegetale che somigliano ai movimenti degli animali ordinaria inclite considerati come coscienti, (p. e. i fenomeni di locomozione spontanea delle spore delle alghe e di altre piante interiori o (piello della sensitiva elle ripiega le sue foglie, « spaventata, come dice Hart- mann, dal passo del viaggiatore»), ma anche quelli i cui analoghi negli animali stessi sì riguardano d'ordinario come puiaiiKMite tisiologici. Secondo un autore il grano di frumento sogna del suo tiore futuro (cioè si rappre- senta precedentemente la forma ch^ col suo sviluppo tende a realizzare) (1) ; secomh) un altro è 2)er piacere agi' insetti o per sottrarre il prezioso germe alla raj^acità degli uccelli che il tìore o i frutti si ornano dei colori (1) Lotze Psicologia fisiologica trad. frane, pag. 124. — 105 - X^iù seducenti (1); un terzo afferma che la foglia che muo- vendosi sul proprio i)icciuolo si orienta in modo da fruire il meglio possibile della diretta azione dei raggi luminosi, compFe un atto intelligente (2); un altro che le piante rampicanti cercano degli appoggi, sene accorgono (piando li hanno trovati, e scelgono ipielli che loro convengono di pili, con la sicurezza infallibile deiristinto, che è umi ragione intuitiva ed incosciente (3). E in una parola, in tutti i fenomeni della vita vegetale che si vede un ca- rattere teleologico, e per conseguenza un'attività psichica che ne è il principio. Gli autori moderni che ammettono (pieste dottrine, possono contare fra i loro precursori Plinio, Platone, Democrito, Empedocle, Anassagora, e insino all'autore del Manava-Dharma-Sastra (4). Il risul- tato ultimo a cui giunge (piesta estensione, al di là dei limiti consueti, del dominio della coscienza, è di attri- buire un'attività psichica agli elementi stessi degli or- o-anisnu, sì animali che vegetali. Huet attribuisce ad ogni (1) V. Delboeuf La materia bruta e la materia riccntc, pao-. 178. (2) V. Fa«»«ii Priucipii di psicologia, v. E e. IV. (8) HartiiKiiin Filosofia (Iciriìtcoscirntc, tviul. frane, voi. lE pjiLi.. 1)9-100 e 115. (4) Natnrahncntc tra lo, credenze dei pupoli ininiitivi o imu-o proorediti troviamo anelie (inolia deiraniniaziono e, por dir eosì, di^ìVnmarnzzazionc dello i>iante. « Nnnioroso sono le lejjj-endo clic attribniseono a eorti nomini la laeoltà di eonii)rondoro il Im- cruaooic, dello piante, e reeiproeamente. Il trattato d'agneoltnra d'Ibn-al-Awam eonsiolia d'intinn^riro oli al]»eri elio non vogliono prodnrro dei IVntti. Si devo batterli le-germonte, dicendo loro che si ta-lieranno so continnano a non frnttaro. Così pnre, presso gli Slavi "li Boemia, si gridava la sera agli albori del giardino : Germogliato, albori, germogliato, se no vi Hcorticlierò ». (Goblet d'Alviella L'idea di Dio secondo Vantropologia e la storia, pag. 56). — 106 — molecola or<;aiiira, oltre alT istinto e alla facoltà di essere impressionata, un senso della sua unità clie costituisce una specie di amore di se o della propria conservazione, delle simpatie e delle repulsioni, e il s(Mìtimento dei suoi legami naturali con gii altri eh^nenti organici (J). Mau- pertuis accorda anche alle molecole organiche (e in ge- nerale a tutti gii elcMìienti della itiateria) In memoria e l'intelligenza, e spiega per (pieste la formazione degli organismi (2). Questi concetti si pretende ora fondarli sull'osservazione, ceicando di provare, per un'argomenta- zione elle rammenta il cìinndo di certi antichi solisti, che la psiche deve estendersi (pianto la vita, e che bi- sogna attribuirla anche alle cellule e alle molecole stesse del protoplasma. Noi non posshuno uè dobbiamo discu- tere (piesta dottrina, come nemmeno le altre <li cui abbiiuììo parlato — noi non vogliamo clic ricordarle, per mostrare (pianto sia forte la tendenza del nostro sj)irito ad assimilale tutti i fenomeni alle nostre azioni volon- tarie e coscienti — ; segnaleremo solamente una circostan- za, che non è certo un indizio di sobiietà scientitìca, cioè il legame di (piest'ipotesi, nei suoi rap])resentanti più celebri, con speculazioni ilozoiste o pau])sichiste (8). § 11. L'animismo consistendo essenzialmente per noi nella spiegazione antroi)omortistica d(M fenomeni biolo- gici per un principio inerente nell'essere vivente stesso, noi dobbiamo anche vedere un'applicazione del concetto animista in certe dottrine sull'istinto aninuile, che lo spiegano riconducendolo all' intelligenza. Noi abbiamo già incontrato una forma di ([uesta spiegazione (piella (1) V. Leve(|ue Scienza delVhn'iiiihile, ])a«i,. 52. (2) Cfr. ^ 18. (3) V. Haeckel Psicolof/ìa eelìnhnr e Wuiidt Elem. di pai- eoi, fisiolof/., V. I, CJlp. I. 1. ~ 107 — che potrebl>e chiamarsi la ronif(f mefafi^ica md senso stretto — nelle dottrine^ di Hartmann e di Gioberti, clie ve(h)no nell'istinto un'intelligenza intuitiva edincosdente. Una dottrina meno apertamente nu-tafisica, ma piii con- forme ancora alh^ tendenze spontanee del nostro spirito su cui i concetti metatisici sono fondati, (^ (piella che vede nell'istinto (piesta intelligenza stessa di cui ai>biamo co- scienza e che osserviamo in noi stessi e negli altri uomini. Questa dottrina e stata sostenuta dal Rorario, da Mon- taigne, (hi Giorgio Leroy, ecc.: noi la riassumeremo nella fonila che le ha dato Erasmo Darwin. L'istinto, (piesta pretesa facoltà cieca, innata e necessaria, non i che una (pialità occulta come (pie Ile degli scolastici : le azhmi degli animali, adattate evidentemente a dei lini deter- minati, sono troppo somiglianti alle azioni vohmtarie e intelligcmti dell' uomo, per poter essere P elf etto di un principio ditferente. Se per istinto s'intende il principio di certe azioni (h\gli uomini e degli animali, che non sono state diivtte (hii loro appetiti, nmi ajiprese per esperienza, non de(h)rte da osservazione o (hi tradizi(me, l'istinto non esisti' : le azioni degli animali, che si attri- buiscono a (piesta pretesa forza (h'IÌ' istinto, scmo tatte invece c(m uno scopo che essi si prop(mg(mo coscien- temente, (piello di provvedere ai loro bisogni, o a (iiielli delle pi'ole, o agrinteressi della cmiiunità, e i mezzi che essi mettono in opera per (piesti scopi, e che uguagliano spesso (pialmnpie sforzo (all'ingegno e del sapere nmano, sono, come negli atti dell'mmio, il frutto dell'osservazione e del raziocinio. Ciò che vi ha (rinnato nell'animaie è la sua co- stituzione per cui certe cose gii riescono piacevoli e certe altre dolorose, e rimpulso (die lo spinge verso le une, cioè il desiderio, e clic lo allontana (hille altre, ciot^ l'avver- sione : r esperienza gii scopre (piali azioni sono proprie a procurargli delle sensazioni gradevoli o ad evitargli delle sensazioni moleste, r mediante ripetuti sforzi e 108 tentativi, iinpiim ad eseguire (lueste azioui. Alcune di queste azioni sono state apprese dal feto prinui della nascita : di (luelle che non sono il risultato della sua propria esperienza e del suo proprio raziocinio, alcune sono iuse<i:nate airaniinale dalla sollecita industria della madre, altre le apprende da se stesso imitando <>li altri animali della sua specie. Molte nozioni e arti, comuni ora a tutta una specie, furono un tempo delle acipiisi- zioni nuove e delle seoverte individuali, apprese dai contemporanei e poi tiasmesse per tradizicme dair una all' altra generazione, anche mediante una sorta di lin- ^••ua<><ào. Così le emii^razioni degli uccidi i, che si attri- buiscono a un preteso istinto necessario, dovettero es- sere la priììin volta intraprese, con la sola direzione del- l' accidente, da (pialcheduno dei più avventurosi della specie : e (juindi gli uni le appresero dagli altri, come è accadalo agli uomini per le scoverte relative alla na- vigazione. Se conoscessimo bene la storia degl' insetti costituiti in società, c<mie le api, le vespe, le formiche, troveremmo che le loro arti non sono sempre state uni- formi e<l invariabili come ora api)ariscono, lìia che ])resso <luegU animali, egualnuMite che presso di noi, le arti e li loro perfezionamento furono il prodotto successivo dell'esperienza e della tradizione; benché non ])Ossa ne- garsi che il loro raziocinio, in confronto a (luello dello uomo, sia circoscritto a minor nunu-ro d'idee, iaipiegato ili minor numero di oggetti, ed esercitato con energia minore (1). Condillac amiììctte al fondo la stessa spiega- zione, quantunque cerchi al tempo stesso di rendere conto del carattere meccanico deiristinto, riconducendolo alla abitudine. « L' istinto non e egli dice, clie 1' abitudine, priva di ritiessione. fn verità è rijlettemlo che le bestie racquietano^ ma siccome esse lianno pochi bisogni, giunge (1) E. Darwin DclVistbito. — 109 — presto il teiiiix) in cni liauuo già fatto tutto (inolio <-lie la rillessionc lia ])oti!to loro apprendere. Non resta pin loro elle a ripetere tutti i sionii le stesse cose; esse de- vono d-.in([ue n.ni avere intìne elle delle abitudini, esse devono essere liniitr.te all'istinto » (1). Delle opnnom si- miii si ritrovano tutto-.a in autori eontemp<»">"*''' P- *"• in Clen.en:'.a Kover, ehe vede nell' istinto una « loj^iea de-li animali, meno attiva elie <iuelhì dell'uomo, ma pm iiiiallil)ile », « una raj-ione elie le i)ar(.le non smarriseono» (eome avviene iuguli uomini, sovratutto in «inelli intel- lettualmente più eoitivati), doii.le « la sieurezza d. vì<> rl,r xi vìwimu l'istinto e la sua. superiorità a certi n-uan.i sull'inti'llisfnza » (2). Xou sembrerà forse arriseliiata la supposizione elle tale ha dovuto essere, nel suo eoiieetto fondamentale, la interpi-tazione dej.li atti istintivi debili animali nei tempi prescieiititiei : infatti il se!va.u-io e l'uomo primitivo iji-nora, <'ome di<-e Tyl.u- (3), una distii.zi<.iie ra.li.ale tra io stat.. psehie.) .lell' uomo e .|uello delle bestie, igno- ranza a cui sono dovuti in j;ran parte la .Tedeiiza nella n.etempsieosi e il eulto de-li animali (-t). Ma .•li.'eel.." sia (Il CDiiilillac TrnUiilo det/li iinìm-ili. Il l)iirt('. e. ^. IL') L<i mslU„z!o„r dd monilo, l.ajj. tU. V. aml.c il^l sulla line. IK'I- la sìiic.!i»:i. dciristiato di lloiscl. (3) T. I. V. XI. (41 «11 a.m civili/./.at.. tTc.lo,-Ue -li aainiali ..n,pn^n.l..iH, il s„„ U>iKua-i... S. il c-aue lu.a ri«i...a.lo. ! j..n- H.-n^/./.a. s.hm.u.I.. il (!a,ncia.Ìalc; se la sci:,ìi.ua resta ni.ita. i-'V pi-rizia. see..n.l.. i ue-a-i. imre'aè sa .'he se,.arlas... si fai-.a.l.e lavorare. Il l'elle- l{„.ssa <M..,versa .-..1 s„o eavall.. e..i..e .-on um. .lei suo. i.areuti. e l'Arabo pensa ohe (-(^rti cavalli i...ss..uo l.-f.}jev.. il tloraiio. <il. iu.li.'cui .Ielle Isol.v Filii.i.in.^. .luau.lo iucoutian.. ui. alliìrat..rc, lo sui.i.lican.. .U uou fare loro «lei male . i Mal-asci . .luau.lo l.rcii.lo.i.. un l-aleuotto, predano la madre d' allontanarsi. - bi — 110 - di ciò, s('Tiil)ra die questo eoncetto si trovi i»isi ue^ìi anticìii filosoti .';Teci: Aristotile almeno fa menzione <li alcuni <-he dubitano (vista la tinalità de<»li atti istintivi delle be- stie) se sia i)er intelli.JAenza o per qualelie altra t'aeoltji che operano i ra<;ni, le tbrinielie e altrettali animali (1). Gli Stoici ammettono certamente questa spiegazione dell'istinto. L'animale, secondo essi, ha una coscienza, un sentimento confuso e imnuMliato, della propria costi- tuzione : sapendo, (bieche è nato, a (piai uso le sue mem- bra sono appropriate, e<>li non esita nella scelta degli organi, ed eseguisce destramente tutti i movimenti ne- cessari alla soddisfazione dei suoi bisogni; e discernendo con una sorta d'intuizimie iai)ida se un oggetto è pro- prio o no a conservare la sua costituzione, se si armo- nizza con essa o la contraria, ricerca senza ingannarsi ciò che rè tavorevole, e, fugge ci(^ che Vi nocevole. È così che si sx3Ìegano tutte le azioni degli animali e dei bambini (2). È agli Stoici che allude Virgilio quando, in ammirazione (hivanti ai lavori delle api, ricorda i fìlosoti che hanno (h'tto esse (i]>ihì(s parfem dìriìtae men- /;,v (3) — opinione ch'egli considera cvidentenumte come la sola che sia capace di spiegare le loro azimii. — Questa interpretazione (h'gli atti istintivi degli animali ha pure crede pure che gli animali lianuo fra loro le stesse relazioni che «'li uomini. Gli abitanti di 15orn(M) sostengono clie le tigri hanno un sultano e una corte. Secondo il viaggiatore Crevaux, i Pelli- Kosse s' immaginano che le bestie lianno i loro stregoni » ((io- blet d'Alviella, L'idea dì Dio ecc., pag. 55). (1) Physica 11. Vili, 6. V. a. i)er ([uesta spiegazione dello istinto nei più antichi pensatori greci, i versi di Epicarmo in Diogene Laerzio, 111, 16. (2) V. Ogerean, Il sistema filosofico de(jli Storici, pag. 84 e 174-17H. (3) G(^orgichc. l. IV. — Ili — inspirato Plutarco nel dialogo che ha x)er titolo : ìrratio' naVui raiione idi. Fa anche la sua parte all'intelligenza, nella spiegazione dell'istinto, il c(mci4t() -moderno se- condo cui gli atti istintivi degli animaii sono delle azioni al princii)io intelligenti, che tiniscono, in forza dell'abi- tudine, per trasformarsi in automatiche, e si trasmet- tono così i)er eredità organica. Potrebbe domandarsi se il fatto elio la dottrina che spiega sosì tiiiii gl'istinti, trova, malgrado delle ditticoltà che s(nnbrano insormon- tabili (1), un'accoglienza sì larga i)i'esso i tìlos(ìti con- tempoianei, non sia dovuto anch'esso, in parte, a (juesta tendcniza del nostro spirito ad assimilare, i)iii che (' pos- sibile, tutte le azicmi della natura alle nostre proprie azi(mi volontarie e intelligenti. -.^xt- 3- L' ilozoismo. § 12. Se l'ilozoismo s'intc^ide nel senso lato in cui è preso ordinariamente, cio(' come una dottrina che unisce alla materia un principio psichico, non vi ha una divisio- ne netta fra esso e la filosofia teologica. Quando trovia- mo la dottrina dell'anima del mondo nei filosofi greci, p. e. in Erastito, in Platone, negli Stoici o nei Neoplato- nici, o anche in alcuni padri della Chiesa, come Teofìlo e Taziano, (2) che pensavano che il Santo Spirito è dif- (1) V. Darwin. Origine delle s/jeeie, Def/Pi.^dinfi, e ci'r. il mio Saggio L pag. 1<J2. nota. (2) S(MM)ndo S. Teotìlo, lo S])irito di Dio contiene e tiene conserta tutta la natura, come i chicclii dclhi melagrana sono invilu]»]»ati dalla s-c(»rza esteriore e dalle pelliccde (Ad Avtohj- — 112 — fuso in tutto r universo, governando e vivificando il tutto, noi vi riconosciamo senza alcuna esitazione una forma della filosofia teologica : ma quando la ritrovia- mo nel Cusano, nei teosofi (Paracelso, Cornelio Agrip- pa, Roberto Fludd, ecc.), nei filosofi italiani della rina- scenza (Giordano Bruno, Cardano, Telesio, ecc.), in Berkeley (che nella Sirìs ne fa la causa di tutti i movimenti che avvengono nell'universo^, in Rosmini, in Gioberti, (nella Protologia}, in Fechner ecc., noi non vi vediamo invece che dell'ilozoismo, quantunque si trat- ti, al fondo, di una stessa dottrina. Lo stesso deve dirsi della dottrina dall'anima degli astri : noi non la chiameremmo una forma della filosofia teologica, ma piut- tosto dell' ilozoismo, quando la troviamo, insieme al teismo cristiano, o almeno in un' epoca di teismo cri- stiano, in Origene, negli scolastici, in Giordano Bruno, in Keplero (che spiega per le anime dei pianeti l'ordine e la regolarità dei loro movimenti), e anche dopo New- ton, in Giuseppe De Maistre, in Goethe, in Fechner, ecc. ; e tuttavia le opinioni di questi autori non diff*e- riscono, in sostanza, dalla credenza popolare degli an- tichi Greci e dalla dottrina conforme di molti dei loro filosofi, che, riguardando gli astri come esseri animati, vedeva nelle loro anime delle divinità. In questi casi noi non abbiamo altra ragione per negare ai concetti moderni il nome di teologici, che le abitudini del lin- "•uao-2'io della filosofia moderna, secondo cui Dio non può designare che il prim-ipio primo dell'universo. IMa evidentemente la loro natura e i motivi su cui sono basati non differiscono da quelli dei concetti teologici eum 1. 1. Tiiziaii» «liio : «Lo Spirito ò nello, «tellc, iieRli angeli nelle piante, nelle ae«iue. negli nomini, negli aniniali: qnantnn que sia uno e lo stesso, con'.ione pure in se delle dift'cren»»" (Tatiani Assirii Ornilo ad Gt-mcos).(considerati carne spiegazione filosofica della natura): es.i sono destinati egualmente a spiegare ror.g.ne dei mo- vimenti della materia e la finalità che sembra osservar., nei fenomeni. Nel teismo moderno Dio è troppo sepa- rato dal mondo per dare una soddisfazione adequata al bisogno del nostro spirito su cui e fondata la fiU^- sofia teologica. Noi non comprendiamo come Dm agw sce sulla .natcria, come la mette in '--™-*«';^^; la plasma, come realizza in essa . pian, che ha con- cepito nJì non abbiamo che due tipi per rappresen- tarci V azioiu. d'un essere personale sulla ^ "- -a <. assimilare cosi le azioni della natura a quelle dell uo- ' e ( t che costituisce l'essenza della spiegazione teo- ròo-i a) ; o quest'essere agisce dal difuori, con.e un ai^ Ifice (Demiurgo), ma in queste caso bisognojM,e^ " tribuir -li degli oro-ani materiali ; esclusa quest ipotesi, ."• nmi possiamo comprendere la sua azione che ain- ttendo\-h'eg.i agisca ^^^1 di dentro, come 'anii^^ sul corno È a quest' incapacità de. concetti teologici :;ii::.rdi reaniare d'una maniera adeqiuUa a te. denza del nostro spirito a una spiegazione antiopo ' rfiltica, su cui tuttavia i concetti teologie, s.noon dati che si deve certamente se il m.st.c.s...o si accom t^a cosi spesso col panteismo, che riavv.c.na Dio ':r''::ndo, J co„ concezioni a.iimiste estrateo iog.ch (animismo biologico, ilozoismo, ecc. : ^^^J^^^ cui un'intuizione profondamente ^-l^^''^, f ^' .^^^I è il prodotto delle disposizioni innate della lo.o na.ura ^ ...totn niPc.-iiiico de a trad.z.o.ie e mentale, e non un r.sultato mecca...co ac dell'abitudine, non possono contentarsi d. un Do lo tano dal mondo, il cui modo di agire- e troppo difforme da quello dell'homo, perchè possa essere compre o e ?mma.^inato. Talvolta questo bisogno di colmare 1 in- tervalCfra Dio e il mondo dà luogo a una vera rina- celta del politeismo. È ciò che vediamo in Franklin. — 114 — che ammetteva, oltre all'essere supremo, delle divinità create particolari, ciascuna delle quali « è sapiente e buona oltremodo e ha potenza grandissima, e fece per sé un sole glorioso, corteggiato da un bello e ammira- bile sistema di pianeti » : è a questo « Dio particolare, che ha creato e signoreggia il nostro sistema », che noi dobbiamo indirizzare le lodi, 1' adorazione e tutti gli onori divini (1). In questo caso sarebbe difficile di decidere se a una tale concezione si deve rifiutare il nome di teologica, perchè Dio per un filosofo moderno significa r Assoluto, o si deve accordarglielo, perché l'autore vede in queste anime dei sistemi solari gli og- getti unici del sentimento religioso (senza contare che la loro potenza e la loro sfera d'azione sono superiori di gran lunga a quelle delle divinità omeriche). Per distinguere d'una maniera più netta l'ilozoismo e la filosofia teologica, noi intenderemo dunque per ilo- zoismo una dottrina che attribuisce la sensibililà e la percezione a tutti i corpi, anche inorganici. In verità que- sta definizione se ci dà un segno praticamente sicuro per distinguere queste due forme della spiegazione antro- pomortìstica, non ci offre alcun criterio per una distin- zione più profonda sull' essenza, suU' origine e sullo scopo dei due sistemi. Questo criterio e questa distin- zione secondo noi non esistono. Il legame di una delle due concezioni con certi sentimenti con cui 1' altra é incapace di associarsi, non può costituire fra di esse una differenza essenziale. Ciò non é perchè non ci da- rebbe un criterio d'un'applicazione universale, come si vede negli esempi precedenti. Non vi ha dubbio che è questo carattere che noi abbiamo specialmente di mira quando si tratta di classare una dottrina fra le teolo- (1) V. Franklin ArticoU di fede ed atti di religione (tra gli Scritti minori mccolti i» tradotti da P. Rotondi). — 115 — giche : anche quelle in cui esso é assente, noi non le includiamo in questa classe che per la loro analogia con quelle in cui è presente. Ma una differenza fon- data su questo carattere, anche se fosse di un valore generale, sarebbe estranea alla natura dei due sistemi come dottrine filosofiche, cioè come spiegazioni dei fe- nomeni. Potrebbe credersi che V ilozoismo (nel senso definito) non sia proprio a spiegare che i movimenti spontanei della materia, cioè quelli che non si possono spiegare per l'impulsione, mentre la filosofia teologica avrebbe anche e sovratutto per oggetto una spiegazio- ne teleologica dell' universo. Ciò importerebbe inoltre una differenza radicale nella natura mentale degli agenti supposti dalle due filosofie: l'intelligenza non appar- ^ terrebbe che a quelli della filosofia teologica, quelli dell' ilozoismo sarebbero limitati alla sensibilità. Ma queste distinzioni non corrispondono alla realtà storica: l'ilozoismo può pure servire di base a una spiegazione teleogica, e attribuisce talvolta all' anima della mate- ria le facoltà più elevate dell'intelligenza umana, ed anche come vedremo, della sovrumana. Fra i due si- stemi non vi hanno che differenze di grado, e non di natura. Essi non sono l'uno e l'altro che una spiega- zione dei fenomeni per delle cause più o meno perso- nali. Gli agenti personali dell'ilozoismo non di «ferisco- no, al fondo, da quelli della filosofia teologica (se noi cerchiamo delle distinzioni d'un' applicazione generale) che per il grado minore della loro potenra e la loro sfera d'azione più limitata. L'ilozoismo non è solo una spiegazione antropo- morfistica dei fenomeni fisici, ma dà anche una risposta alla quistione, considerata come il più imbarazzante dei problemi filosofici: donde viene il pensiero e la sen sibilità. Du-Bois Reymond, nel suo discorso al congresso di Lipsia, segna due barriere insormontabili alla nostra 116 conoscenza della natura : Tuna è l'essenza della mate- ria e della forza, l'altra l'origine della coscienza. Con la prima impressione di piacere e di dolore, che provò, r essere più semplice all'inizio della vita animale sulla terra, il mondo, egli dice, divenne doppiamente incom- prensibile (1). Questa soconda barriera della conoscenza della natura sembra allontanata, se non affatto supe- rata, quando si suppone che la sensibilità e la coscien- za non vengono, per dir cosi, dal niente, ma si trovano negli animali perchè preesistono negli elementi di cui essi sono formati, e vi sono esistite sempre sin dalla origine della materia. Quest'altro aspetto dell'ilozoismo sarà da noi studiato nell'Appendice a questa l^'^ parte, dove mostreremo come esso derivi (considerate sotto questo aspetto), insieme alle ipotesi rivali sull'origine della vita e della coscienza, dalla stessa tendenza spontanea del nostro spirito a cui è dovuto il concetto di causa effi- ciente, coi sistemi filosofici che ne sono le applicazioni. Forse si crederà che l'ilozoismo, come spiegazione causale dei fenomeni fisici, non deve essere riguardato come una forma dell'antropomorfismo, perchè esso non assimila le azioni della natura alle azioni dell' uomo, ma a quelle degli animali in generale, e a quelle dei bruti più che a quelle degli uomini. Ciò che vi ha di vero in quest'obbiezione è che le facoltà psichiche, che l'ilozoismo assegna alla materia bruta, non sono, ordi- nariamente, quelle proprie dell' uomo, ma quelle che egli ha in comune con gli altri animali. Ma noi man- terremo con tuttociò che l'ilozoismo consiste essenzial- mente in un' assimilazione delle azioni della natura a quelle dell'uomo, perchè è per quest' assimilazione che (1) Du-Bois Reymond / limiti della filosofia naturale iieUa Mevue scientifique II. serie voi. 7. '" l'ilozoista trova nella sua ipotesi una spiegazione (nel senso metafisico) dei fenomeni, una realizzazione del- l'idea di causalità efficiente. Ciò sarà chiarito nel se- guito di questo capitolo e nei seguenti. Anche quando l'ilozoista spiega i fenomeni per l' istinto della materia, questa spiegazione non gli sembra soddisfacente che per l'analogia cl^e gli atti istintivi degli animali hanno con le azioni intelligenti e volontarie dell' uomo e con altri fatti della vita psichica umana. L'istinto animale, del resto, ha bisogno di essere interpretato, e l' ilozoi- sta r interpreta, come l'animista (1), della maniera più possibilmente antropomorfistica. L'ilozoismo, dice Kant, è la tomba della scienza della natura. Per la più parte degl'ilozoisti, almeno moderni, questo rimprovero non è meritato, perchè essi non fanno agire il principio psichico capricciosamente, ma spiegano solamente per esso le uniformità dei fenomeni fisici, consi- derando i movimenti della materia bruta come delle rea- zioni, più o meno volontarie, con cui essa risponde alle ec- citazioni esteriori, cioè agli antecedenti fisici dei movimenti stessi. L'ilozoismo non è dunque incompatibile col punto di vista scientifico più di quanto lo sia la filosofia teo- logica o qualsiasi altra spiegazione metafisica. Il Lan- ge considera come materialismo puro un sistema ilo- zoista che non ammette niente al di là della materia, e in cui tutti i fenomeni esteriori si conformano rigo- rosamente alle leggi meccaniche, e non chiama ilozoi- smo che quello che stabilisce che il meccanismo della natura è modificato dal suo contenuto psichico secondo leggi non meccaniche. (2) Questa differenza al nostro punto di vista non può avere la stessa importanza che (1) V. l'art, x^i'Gcedeiite. (2) Storia del iiiaterialisiuo. v. I nota S7 della parte IV. — 118 — per Lange. Vi ha senza dubbio un abisso fra una dot- trina fantastica, secondo cui degli agenti personali in- terrompono arbitrariamente 1' incatenamento regolare dei fenomeni, e un'altra dottrina che, malgrado le sue ipotesi sulle cause ultime delle cose, rispetta Tintegrità di quest'incatenamento. Ma ciò non deve impedirci di riguardare una dottrina della seconda specie come ilo- zoismo ed anche come una forma dell' antropomorfismo, se, come fanno generalmente i filosofi che animano la materia, tra la causa e l'effetto puramente materiali s' intercala invariabilmente (o anche in certi casi) un intermediario di natura psichica, e il rapporto tra l'im- pressione materiale ricevuta e la reazione a questa im- pressione si spiega per il fatto spirituale intercalato. Noi crediamo del resto che se un ilozoista non ammette la spiegazione meccanica dell' universo, purché egli riconosca che i fenomeni fisici sono incatenati fra loro da leggi invariabili — che il principio psichico non può modificare, ma di cui è solamente un intermediario espli- cativo—, non ne segue, come pare che voglia il Lange, che quest'ilozoismo non sia compatibile col punto di vista scientifico, per quanto almeno può esserlo un concetto metaempirico : secondo il Lange la natura meccanica di tutti fenomeni è una verità scientifica, e una condi- zione sine qua non della intelligibilità delle cose; secondo noi non è che una dottrina filosofica, che, invece che sui fatti obbiettivi, potrebbe avere la sua base dove 1' ha l'ilozoismo stesso, cioè in certe tendenze subbiettive del nostro spirito. Nei due paragrafi seguenti ricorderemo gli auto- ri più celebri che ammettono V ilozoismo, e alcune del. le loro proposizioni più notevoli, come nell' articolo precedente abbiamo fatto per V animismo biologico. Il nostro scopo, qui come nell'articolo precedente, non sarà di fare un' esposizione storica della dottrina, 119 ma di mostrare, con esempi numerosi, quanto sia forte la tendenza del nostro spirito ad assimilare le azioni della natura a quelle dell'uomo, e a trovare in quest'as- similazione una spiegazione radicale dei fenomeni (o, ciò che è lo stesso, le loro cause efficienti). Tuttavia, quantunque dei due aspetti sotto cui può considerarsi l'ilozoismo (cioè come spiegazione antropomorfistica dei fenomeni e come risposta alla quistione dell'origine della coscienza), il primo solamente entri sull' argomento di questo capitolo, nella nostra esposizione noi non potremo separarlo interamente dall' altro, sia per evitare delle ripetizioni inutili (qnando ritorneremo suU' ilozoismo nell'Appendice), sia perchè non si potrebbe escludere l'influenza dell'uno dei due motivi del sistema, anche quando le proposizioni d'un autore non ci indichino e- splicitamente che l'altro. § 13. S'è vero che Talete è il padre della filosofia, l'ilozoismo, nel senso in cui l'abbiamo definito, e cosi an- tico che la filosofia stessa, perchè Talete non ha sola- mente animato la natura, ma ha dato un'anima agli stessi oggetti particolari. Quando egli dice che tutto è pieno di dei e di demoni (1), noi non abbiamo che una forma della filosofia teologica; questo animismo diviene ilozoismo quando, per ispiegare la forza attrattiva del- l'ambra e della calamita, attribuisce un'anima a questi corpi, e vi vede una prova che tutto è animato (2). Ma il vero rappresentante dell'ilozoismo, nella filosofia greca, è Empedocle : egli attribuisce la sensibilità e il pensiero a tutti gli elementi (3), e immagina due elementi parti- (1) V. Arist. De an. 1. I e. V 17 e Diog. Laert. 1. 27. (2) V. Arist. De an. 1. II, 14 e Diog. Laert. 1. 24. (3) V. in MiiUach Fragni, pliilos. graoeor. versi 298 e .378 e 8ég. e cfr. Arist. De anima colari di natura essenzialmente psichica (quantunque concepiti anch'essi come materiali, conformemente alle idee dell'animismo primitivo), di cui fa le forze motrici della materia : sono l'amore e l'odio, Tuno causa del- l'avvicinamento e della riunione delle sostanze (noi di- remmo del movimento di attrazione), l'altro dell'allon- tanamento e della separazione (noi diremmo del movi- mento di repulsione) (1). Forse la prima di queste due concezioni (la sensilità e il pensiero attribuiti a tutti g-li elementi) ha per iscopo di spiegare T origine di questi fenomeni negli esseri viventi; la seconda (l'odio e l'a- more) è destinata evidentemente a spiegare i movimenti della materia. Fra gl'ilozoisti greci dobbiamo anche con- tare Parmeride e Democrito, quantunque non abbiano fatto servire l'ilozoismo, come P^mpedocle, a una spie- gazione amtropomorfistica dell'universo. L'uno attribui- sce il senso e la conoscenza ai due elementi (con cui e^li spiega il mondo apparente dell'esperienza) (2); l'altro agli atomi di fuoco, che identifica col principio psìchico, e che essendo diffusi da per tutto, rendono tutto ani- mato e cosciente (8). In Democrito una spiegazione schiet- tamente antropomorfìstica sarebbe in contraddizione col suo materialismo e col suo meccanismo; tuttavia egli vede nel principio psichico, cioè negli atomi di fuoco, la forza motrice dei corpi ch'esso anima (4), a cui questi atomi danno il movimento, essendo essi stessi in movimento continuo (5). Democrito concilia quest'animismo col suo (1) V. in MuUacli i versi (ì? e sgìtìt., 79 e Kegjr., 125-126, 145 e seix^.. 189 e setr^., 8 ecc. (2) Teofrarlc» De sensu 3 segg. (3) V. Plutarco Placita IV, 4, Arist. De aii. 1. II, 1 12. Arist. De respirat. e. 4. eoe. (4) Ar. De aii. I. II, 2 - 3 e 11 - 12 e III, 9. (5) V. i luojrhi citati nella nota preced. Il I meccanismo, spiegando la mobilità degli atomi psichici (cioè di fuoco) per la loro sottigliezza e la loro figura sferica (1). Passando alla filosofìa moderna, noi sorvoleremo sui mistici, quali Paracelso, Roberto Fludd, Van Helmont, Enrico Morus, ecc., e non parleremo che dei veri filo- sofi. Fra questi ricorderemo in primo luogo quello in cui il meno avremmo potuto attenderci di trovare dei concetti simili. E il padre stesso della filosofia sperimen- tale, l'autore del Xuoro On/aìiOj malgrado che egli abbia segnalato con tutta la forza e la chiarezza desiderabili queste illusioni naturali dello spirito umano (idola tribus) che tendono senza cessa delle imboscate alla nostra ra- gione, e non abbia mancato d'indicare fra di esse «il pregiudizio per cui s'immagina che le operazioni della natura rassomigliano a quelle dell'uomo ». Secondo Ba- cone, l'antecedente di ogni movimento dei corpi è la percezione. < Esiste in tutti i corpi naturali una certa fa- coltcà di percepire e anche una sorta di scelta in virtù della quale si uniscono con le sostanze amiche e fug- gono le sostanze nemiche Mai un corpo avvicinato ad un altro corpo non lo cangia e non è cangiato da esso se questa operazione non è preceduta da una per- cezione reciproca. Un corpo percepisce i pori nei quali s'insinua; percepisce l'urto di un altro corpo al quale cede. Quando un corpo essendo ritenuto da un altro corpo, .questo viene ad allontautarsi, il primo, ristabilendosi, percepisce quest'allontanamento. Esso percepisce la sua soluzione di continuità, alla quale resiste durante qual- che tempo. Infine la percezione si trova da per tutto. La percezione che l'aria ha del freddo e del caldo è si delicata, che il suo tatto a questo riguardo è più fino del tatto umano, che si riguarda ordinariamente come (1) V. De Anima T, II. 12. — 122 la misura del caldo e del freddo» (1). «È evidente, egli, dice, altrove, che ogni uomo che conoscesse le 2)assio7ii^ gli appetiti e i processi primitivi della materia, avrebbe per ciò solo una conoscenza generale e sommaria dei fatti passati, presenti e futuri» (2). Egli distingue diverse specie di movimenti (dovute naturalmente ai diversi ap- petiti o passioni della materia). «Il movimento di fuga è quello per il quale i corpi, in virtù di una certa an- tipatia, fuggono o mettono in fuga le sostanze nemiche, se ne separano e rifiutano di mescolarsi con esse Si dice che la cannella e altre sostanze odorifere, essendo poste presso le latrine e i luoghi fetidi, ritengono più ostinatamente il loro odore, perchè allora esse si rifiu- tano alla loro emissione e alla loro mescolanza con le materie fetide» (3). Quando i corpi seguono lalinea retta, è per un movimento di fretta. Vi ha pure il movimento tendente all'inerzia o l'orrore per il movimento. Quando si muovono i corpi condensali, «essi non cessano di la- vorare per ricuperare il loro riposo, che è il loro stato naturale, cioè tendono con tutta la loro forza a non più muoversi; e quanto a quest'ultimo punto, per ottenerlo, non mancano d'attività; essi tendono a questo scopo con molta leggierezza e rapidità, come annoiati e impazienti d'ogn'indugio a questo riguardo» (4). Il modo d'agire dei corpi può anche essere modificato dalle abitudini che hanno contratte (facoltà che si può comparare col primo grado di meìnoria di cui parla il Preyer (5): i cristalli sono dell'acqua congelata, la quale è restata si lunga- mente in questo stato, che ne ha preso l'abitudiìie. (1) De clignlt. et augum. scientier. l. IV. verso la fine. (2) Della saggezza degli antiehi XT. (3) V. Organo 1. II, ^ 48. (4) V. Organo, 1. 11, $ 48. (5) V. il $ 9 sulla line. — 123 — L'ilozoismo è molto diffuso tra i filosofi italiani del rinascimento. Secondo Telesio, il caldo e il freddo sono delle nature agenti, sussistenti per se stesse, che si con- tendono il dominio della materia. Questi due principii sono forniti di senso : e infatti donde verrebbe questo negli animali, se esso non fosse già negli elementi da cui sono costituiti ? Il caldo e il freddo sono in continua battaglia fra di loro per concquistare ciascuna parte della materia, si respingono, si guardano Tuno dall'altro, ecc. : il senso è loro necessario, affinchè possano combattersi, e avvertire ciascuno la vicinanza dell'avversario. Il moto è inseparabile dal senso : tutti i corpi, in quanto si uìuo- vono, sentono. Essi sentono anche il mutuo contatto e se ne dilettano, ed hanno avversione per la loro sepa- razione (1). Campanella segue su questo punto Telesio, e attribuisce agli elementi della materia la vita e la sensibilità. Ciò che lo prova è che essi sono le cause ma- teriali degli esseri viventi e sensitivi; perciò devono es- sere essi stessi viventi e sensitivi. Inoltre l'ordine dei fenomeni, le simpatie e antipatie delle cose, le loro at- trazioni e repulsioni, suppongono la percezione e l'ap- petito negli oggetti materiali (2). Secondo Giordano Bruno, « l'intelligenza è una certa forza divina, inerente in tutte le cose, con l'atto di conoscenza, per cui tutte le cose intendono, sentono e in un modo qualunque co- noscono». Vi ha «un moto naturale da principio in- terno» che conviene a tutti i corpi «che senza contatto sensibile di altro corpo impellente o attraente si muo- vono». Questo principio interno è l'anima, perchè la materia è sempre unita alla formi, ed ogni forma è un'anima. « Nel ferro è come un senso, il quale è sve- (1) V. Fiorentino bernardino Telesio sovratutto, v. 1, p. ^27, 268, 269, 283, v. 11, pag. 14, 127; ecc. (2) De sensu reìmm e Defensio libri de sensv re rum. — 124 — gliato da una virtù spirituale che si diffonde dalla ca- lamita, col quale si muove a quella, e la paglia all'ambra e generalmente tutto quel che desidera e ha indigenza si muove alla cosa desiderata e si converte in quella al suo possibile, cominciaìido per v^oler essere in quel mef^esimo loco». Cardano (se merita di essere nomi- nato a lato di costoro) ammette anch'egli, come Bruno, che ogni forma è un'anima, e per conseguenza tutti i corpi, anche i più insensibili in apparenza, sono animati e sentono. Una prova è che tutti sono capaci di movi- mento, e il movimento non può spiegarsi che per una forza immateriale. Cardano ripete pure, come Bruno, la proposizione di Talete : la calamita vive; essa attira il ferro, perchè questo è il suo pascolo. Fra i pensatori posteriori a Cartesio deve essere ri- cordato anzitutto Spinozna, che vede nell'estensione e nel pensiero, cioè nella materia e nello spirito, due ma- nifestazioni della sostanza unica, inseparabili l'una dal- l'altra. Cosi egli ammette che tutti gli esseri sono in di- versi gradi animati, cioè partecipi del pensiero o della mentalità (1). Nel sistema di Spinoza l'assimilazione delle azioni della natura a quelle dell'uomo è più lontana che negli altri sistemi antropomorfìsti : il pensiero, in esso, non è l'antecedente del movimento, ma è identico con questo e gli è simultaneo. Ma ciò non deve impedirci di vedervi una forma della spiegazione antropomorfistica, l'attività di una materia vivente (anche nell'ipotesi di Spinozna] essendo più analoga alla nostra che quella di una materia senza vita, ciò che basta perchè ci sembri più comprensibile. Il celebre anatomista Glisson (contemporaneo di Spi- noza) sostiene che ogni sostanza è di una certa natura (1) Kthica parte II. Scolio alla propos. 18. 125 — vitale, ed è dotata di tre facoltà primitive, la percezione, l'appetito e l'energia motrice (1). La materia non è dun- que inerte, ma attiva e vivente: ogni sostanza tira le sue modificazioni dal suo proprio fondo, avendo la virtù di agire su se stessa e di svilupparsi per la sua propria energia. La percezione naturale^ ch'egli attribuisce alle sostanze materiali, « rappresenta se stessa, le sue cause e i suoi effetti, e tutte le influenze delle altre cose, le loro confederazioni, cooperazioni, consensi e dissen- si, ecc. ». I fenomeni fisici si spiegano per le facoltà psi- chiche della materia : p. e. la coesione tra le particole materiali si spiega perchè queste, percependo l'utilità che godono dalla loro unione, amano o appetiscono questa unione, e si sforzano per ^conseguenza di conservarla. Baerhjiane, per ispiegare i fenomeni chimici, torna alla teoria di Empedocle dell'odio e dell'amore : l'affinità è la (ptXia (li Empedocle, le combinazioni chimiche sono do- vute a un desiderio di riunione. In Robimet e in Maupertuis (quest'ultimo sotto il pseudonismo di dottor Baumann) noi vediamo l'ilozoismo alleato (come nella più parte dei suoi sostenitori contem- poranei) coi primi saggi della dottrina evoluzionista. Se- condo Robinet, tutto è vivente nella creazione; tutti gli esseri nascono per generazione e si riproducono, tutti sono oro-anizzati: la materia bruta non esiste; non vi ha anima e? ' ... senza corpo né corpo senza anima. Le parti costituenti della natura inorganica sono dei germi viventi che portano in loro il principio della sensazione, benché non abbiano coscienza di se stessi; i più piccoli corpuscoli sono dotati, non solo di sensibilità, ma anche d'intelligenza. Robinet, nel tempo stesso che fa agire il principio spirituale della (1) Nel libro che ha irer titolo De natura suhstantiae ener- getica seu vita natnrae ejnsque trihifs primiH facnltatihus, jìeree- ptiva, appetitiva, motica. materia sul suo sustrato fisico, vede nei fenomeni esteriori il risultato delle pure legg'i fisiche, e fa derivare tutti i fe- nomeni psichici dai movimenti che avvengono negli or- gani (1). Perciò il Lange considera questo sistema come un materialismo puro, e non come un ilozoismo (2). La ve- rità è che Robinet, ammette al tempo stesso, come molti ilozoisti contemporanei, una spiegazione materialista dei fenomeni psichici e una spiegazione spiritualista dei fe- nomeni fisici, senza vedere la contraddizione fra le due concezioni. li D.r Baumann attribuisce agli elementi o atomi il de- siderio, l'avversione, la memoria e anche qualche grado d'intelligenza. Egli enumera tre ipotesi sulla formazione (leu li esseri organizzati: o gli elementi bruti e senza intel- ligenza,, per il loro concorso fortuito, hanno formato rnnlverso ; o Dio o altri esseri distinti dalla materia hanno impiegato gli elementi della materia come l'ar- chitetto impiega le pietre nella costruzione d'un edifizio; o infine gli elementi della materia, dotati d'intelligenza, si uniscono e si ordinano da se stessi per realizzare i dise- gni del Creatore. E l'ultima ipotesi che ammette l'auto- re (3). La memoria delle molecole spiega l'eredità biolo- gica ; la loro intelligenza rende conto della possibilità di una divergenza dal tipo primitivo, e quindi di questa varietà di forme che osserviamo nel mondo vivente (4). Le proprietà psichiche deg4i elementi della materia spie- gano l'origine della coscienza negli animali. Diderot, che nei Pensieri sull'interpretazione della na- (1) Cfr. Laiige Stor. del iiuiterialisuiu t. I, parte IV, e. I trad. frane, pag. 819-321. (2) V. Storia del materialismo, il luogo citato e la nota 37 della parte IV citata nel paragr. precedente. (8) Soui-y, St. del Mater. in Rev. phil. t. II. (1) Diodorot Pensieri sKirinferj)retaz. (lelln ìtatura. 127 tura espone le idee del D.r Baumann, facendo intravedere quanto queste gli sembravano seducenti, nel Sogno di D'A- lembert riprende l'ipotesi per proprio conto. Ma una modi- ficazione gli sembra necessaria. Le molecole sensibili e viventi, la cui apposizione successiva costituisce l'uomo o l'animale, hanno ciascuna un me prima di questa riu- nione; da tutti questi me come può risultare un me, una coscienza unica? Per ispiegare questo fenomeno, bisogna ammettere, negli esseri organizzati, la continuità della materia, invece che delle molecole distinte e separate (1). Goethe, un'altro precursore della dottrina dell'evolu- zione, è anch'egli un ilozoista. In verità l'ilozoismo non è nel gn-an poeta un sistema filosofico preciso e definitivo, ma è certamente una tendenza predominante del suo spirito, quantunque espressa sotto forme variabili e imperfetta- mente definite. Talvolta egli credeva di scoprire nella na- tura una potenza misteriosa che egli chiamava un genio o un demone: non era un essere divino, perchè sembrava mancare d'intelligenza, ne un essere diabolico, perchè si benefica, e nemmeno un essere quale vengono rappresentati gli angeli, perchè spesso sembrava provar piacere a fare del male (2). Ma altre volte egli si rappre- sentava la natura come animata nei suoi elementi primi- tivi, dando a questi, come Leibnitz, il nome di monadi o anime. Egli ammetteva allora dift'erenti classi di queste monadi, da quelle degli elementi della materia sino alle dei mondi. Di queste monadi, egli dice, le une sono deboli e non sono proprie che a un'esistenza infe- riore, mentre altre sono forti e possenti. Queste hanno la potenza di attirare e di sottomettere tutti gli elementi inferiori che sono alla loro portata, e di formare una (1) V. Lange Stor. del mater., t. I. parte IV. e. I, traduz. frane, i)ag. 321. (2) Willni Fìlos. (fJetn. da furnt <(d [{enei pianta, un animale, un astro, in una parola un or- ganismo, di cui esse divengono 1' anima, e di cui por- tano in se stesse il piano, o, come dice l'autore, Videa e Vintenzìone, Le monadi inferiori servono alle superiori, non ])er scelta e per loro propria soddisfazione, ma per- chè lo devono e sono forzate d'obbedire il). Noi non parliamo degli autori di secondo ordine, e non ricordiamo che i più celebri. § 14. La storia della scienza non presenta forse un periodo in cui la dottrina dell' animazione univer- sale della materia sia stata cosi diffusa come nel nostro tempo. E notevole che questa dottrina si faccia strada sovratutto fra i rappresentanti delle tendenze scienti- fiche moderne e i campioni del materialismo : ma il fatto si comprende facilmente, se si riflette sovratutto che, nel declinio delle dottrine teologiche, questa ten- denza innata del nostro spirito ad assimilare quanto più le forze della natura alla nostra propria attività deve cercare la sua soddisfazione sotto un'altra forma. Noi faremo perciò una menzione particolare di queste idee contemporanee, perchè vi ha in esse la prova più evidente della proposizione di A. Comte, che tutte le volte che lo spirito umano tenta di oltrepassare la semplice determinazione dei rapporti di sequenza e di coesistenza tra i fenomeni, esso ricade involontaria- mente di nuovo nel cerchio primitivo delle sue aber- razioni spontanee. La più parte delle dottrine attuali che prendono il nome di monismo, non sono in realtà che ilozoi- smo [.a psiche è secondo i loro autori cosi neces- saria a spiegare la natura che essi non vedono una via di uscita tra il dualismo ordinario (che la mette (1) Estorniaim, Oovversazlorìi di Goethe, voi. II, trad. frane. \ì. 338 e segg. fuori delle cose) e il loro sistema (che la mette nelle cose stesse). Fra queste dottrine moniste noi daremo il primo posto a quella di Haeckel. Noi troviamo in la più ampia conferma di un'osservazione pre- cedente : nel pensiero degli attuali sostenitori della dot- trina ilozoistica, una spiegazione fisico-chimica o mec- canica di tutta la natura non esclude una spiegazione del modo essenziale di produzione dei fenomeni. Secondo Haeckel la scienza non ammette nel suo dominio che delle forze fisico - chimiche, o più strettamente, meccaniche, ed egli cerca una spiegazione per le due principali funzioni morfologiche della vita, 1' eredità e l' adattamento. Ma questa s^/e- gazione meccanica—^ la perigenesi delle plastidule, o il movimento ondulatorio ramificato, che è l'essenza della vita, considerata nella sua evoluzione sulla terra - è in ultima analisi essa stessa spiegata dalle facoltà psichi- che che Haeckel attribuisce alle plastidule (molecole protoplasmiche). Il movimento ondulatorio ramificato risulta, egli dice, dalla forza riproduttiva delle plasti- dule, e questa forza è sinonimo della memoria delle plastidule. Noi abbiamo visto che, secondo lui, senza la ipotesi di una memoria incosciente della materia vi- vente, la nutrizione, la riproduzione e, in una parola, le più importanti funzioni della vita sono insomma ine- splicabUi. Questa facoltà della memoria incosciente di- stingue r organismo vivente dai corpi inorganici privi di vita, ma il senso è una facoltà più universale che appartiene a tutta la materia. Ciò risulta secondo Haeckel dalla teoria dell'evoluzione. «Se una certa quantità d'atomi di carbonio s'è combinata al principio una certa (luantità d'atomi d'idrogeno, d'ossigeno, d'azoto e di zolfo, per creare una unità, una plastidula, noi possiamo considerare l'anima della plastidula, cioè la somma generale delle sue proprietà vitali, come .il 9 -- 130 — prodotto necessario delle forze di tutti questi atomi riu- . Allora, al punto di vista monistico, noi possiamo chiamare questa somma di forze atomiche l'anima del- l'atomo. Dall'incontro fortuito e dalle combinazioni mul- tiple di queste anime atomiche sempre costanti e sem- pre incommutabili, nascono le anime multiple e molto variabili delle plastidule, che sono i fattori molecolari della vita organica». « ()oni vita psichica si riduce fi- nalmente a queste due funzioni elementari ; sensazione e movimento, eccitazione da una parte, movimenti ri- flessi dall'altra. La sensazione semplice del piacere e del dispiacere, il movimento semplice dell'attrazione e della repulsione, sono gli elementi unici di cui si com. pone, per una serie infinita di combinazioni complesse, ogni attività psichica. L' odio o 1' amore degli atomi,' l'attrazione o la repulsione delle molecole, il movimento e la sensazione delle cellule e degli organismi cellulari, il pensiero e la coscienza dell'uomo, sono dei gradi di- versi d'uno stesso processo psicologico evolutivo» (1). «Senza l'ipotesi di un'anima dell'atomo i fenomeni più volgari e più generali della chimica non si spiegano. Il piacere e il dispiacere, il desiderio e l'avversione, la attrazione e la repulsione, devono essere comuni a tutti gli atomi; perché i movimenti degli atomi che de- vono aver luogo sulla formazione e la dissoluzione di una combinazione chimica qualunque, non sono spie- gabili che se noi loro attribuiamo una sensibilità e una volontà. Altrimenti su che riposa al fondo la dottrina chimica, generalmente ammessa, della affinità elettiva dei corpi, se non sulla supposizione incosciente che in realtà gli atomi, che si attirano e si respingono, sono di certe tendenze, e che, seguendo queste sensa- Il Ber., zioai e impulsioni, essi possiedono pure la volontà e la capacità di ravvicinarsi o di allontanarsi gli uni dagli altri V» (1). Il lettore deve notare il senso parti- colare che hanno qui le parole « spiegare », « spiega- bile », «inesplicabile», che noi abbiamo sottolineate: la spiegazione cercata non è qui una spiegazione nel senso scientifico della parola, non consiste a mostrare che una legge particolare dei fenomeni è un caso di una legge più generale o della combinazione di più leggi più generali, senza che queste leggi più generali siano in se stesse meno misteriose del mistero stesso che si tratta di spiegare. Spiegare un fatto qui vuol dire assegnargli una causa efiìciente o metafisica, o, come diceva Leibnitz, una ragion sufiiciente : noi dob- biamo comprendere j^erchè gli atomi si uniscono e si separano, si avvicinano e si allontanano gli uni dagli altri; è perchè ne hanno il desiderio e la votontà. Con queste ipotesi Haeckel intende rovesciare le barriere della conoscenza della natura : al motto di Du-Bois Rey- mond : Ignoriamo e ignoreremo, egli oppone il motto contrario : Conosciamo e conosceremo. La conoscenza cercata è quella di ciò che A. Comte chiama il modo essenziale di i^roduzione dei fenomeni; e il mezzo per ottenerla è una spiegazione modellata al fondo sullo stesso tipo che la spiegazione teologica. « Sicuramente, dice lo stesso Haeckel, noi non abbiamo più le ninfe e le naia^di, le driadi e le oreadi, che per gli antichi Greci animavano le sorgenti e i fiumi, popolavano i boschi e le montagne: esse sono svanite, da lungo tempo, con gli Dei dell'Olimpo. Ma gl'innumerevoli spiriti elementari delle cellule (e naturalmente anche de- gli atomi) rimpiazzano (jucsti semidei concepiti ad im- magine dell' uomo » (2) (e avrebbe potuto aggiungere : e sono essi stessi concepiti ad immagine dell'uoinoì. (1) Fsic. celiai., trad. rraiir.. ]>;<,«;. M». (2) Pslc. celi., paj;. Naeg'eli ammette presso a poco le stesse idee di Haeckel, e per g-li stessi motivi. « Come tutti gli org'anismi non consistono e non sono formati che delle materie che s'incontrano nella natura inorganica, va da se che le forze inerenti a queste materie entrano pure nella loro formazione». «E necessario che, poiché da per tutto nella natura le forze e i movimenti non derivano che dalle particole materiali, le forze e i movimenti dello spirito dipeadauo pure dalla materia, in altri termini eh' essi siano egualmente composti delle forze e dei movimenti generali della natura, e che essi siano con questi ultimi in rapporti di causa e d'effetto ». «Questo fatto che i fenomeni inorganici più semplici sono così inaccessibili nella loro essenza che i fatti più compli- cati del cervello umano, ci apre la via che può condursi a una concezione unica della natura. Partiamo dal co- nosciuto, che in questo caso si trova essere il fenomeno intellettuale complicato, per farci un' idea di ciò che non sappiamo ancora », « Negli animali superiori la sen- sazione è manifestamente legata ai movimenti per ir- ritazione. E così negli animali inferiori, e noi non ve- diamo perchè sarebbe altrimenti nelle piante e nei corpi inorganici». «Consideriamo i rapporti di due molecole d'elementi chimici differenti (p. e. una molecola d' os- sigeno e una molecola d'idrogeno) che si trovano a una debole distanza 1' una dall' altra. Ciascuna d' esse con- siste, secondo la chimica attuale, in due atomi non di- visibili, ma sicuramente composti. Grazie alla sua coni posizione, l'atomo possiede diverse proprietà e forze; esso esercita per conseguenza diverse eccitazioni (attra- zioni e repulsioni) sugli altri atomi. Le due molecole in quistione conoscono e risentono di differenti maniere la loro presenza reciproca, esse agiscono l'uua sull'altra di diverse maniere nel senso attrattivo e repulsivo». « Se ora le molecole possiedono qualche cosa che rassomiglia, quantunque da lungi, alla sensazione, (e noi possiamo dubitarne, poiché ciascuna d'esse risente la presenza, la qualità determinata, le forze speciali dell'altra, tende a muoversi per rispondere a questa sen- sazione, entra realmente in movimento secondo le cir- costanze, e diviene per così dire vivente; poiché infine tali molecole sono gli elementi che causano il piacere e il dolore negli animali) se, dico io, le molecole risen- tono qualche cosa che rasomiglia alla sensazione, sarà della soddisfazione se esse possono seguire la loro at- trazione o la loro repulsione, la lore simpatia o la loro antipatia, del dispiacere se esse sono forzate a un mo- vimento contrario, né della soddisfazione né del dispia- cere se esse restano in riposo. E poiché le molecole agiscono le une sulle altre per più forze attrattive e repulsive ineguali, alcune di (lueste tendenze sono sod- disfatte dal movimento che ne risulta, le altre contra- riate. Queste diverse sensazioni devono necessariamente differire di qualità e d'intensità, secondo che esse hanno causa la gravitazione universale, la repulsione ge- nerale deir elasticità e del calore, 1' attrazione e la re- pulsione elettrica e magnetica, o 1' affinità chimica. Gli organismi più semplici, se io posso esprimermi così, che noi conosciamo, le nìolecole degli elementi chimici e delle loro combinazioni, sono dunque messi in movi- mento al tempo stesso da diverse sensazioni qualitative e quantitative, che costituiscono la sensazione generale di piacere e di dolore». «Se noi riguardiamo lo spi- rito, nella sua accezione più generale, come 1' espres- sione immateriale d'un fatto materiale, come l'inter- mediario tra la causa e 1' effetto, noi ne troviamo da per tutto la traccia nella natura. La forza intellettuale é il potere che hanno le particole materiali d' agire le une sulle altre, il fatto intellettuale é la realizzazione di quest' azione che consiste in piovimento, cioè in 134 — spostamento delle particole materiali e delle forze che loro sono inerenti, conducente immediatamente a un altro processo intellettuale. Uno stesso legame immate- teriale riunisce cosi tutt-i fenomeni materiali. Lo spirito umano non è altro che lo sviluppo più elevato su questa terra dei fatti intellettuali che vivificano e che animano da per tutto la natura» (lì. Zoellner ammette pure che « il lavoro degli elementi della materia è accompagnato da una certa sensibi- lità... Si può giudicare cosi debole, cosi insignifi- cante che si vorrà il grado di questa sensibilità, ma secondo me è indispensabile di ammetterne l'esistenza, se si vuol comprendere l'esistenza dei fenomeni di sen- sibilità che l'esperienza permette di costatare nella na- tura... Se degli organi e dei sensi più sviluppati e più ci permettessero di osservare la maniera di ag- gregarsi e la regolarità dei' movimenti che eseguiscono le molecole di un cristallo, quando quest'ultimo è pro- fondamente ferito in qualche parte, noi troveremmo senza dubbio che decidiamo alla leggiera e facciamo una pura ipotesi, quando affermiamo che i movimenti prò dotti in questo cristallo non sono assolutamente accom- ])agnati da alcuna sensibilità». Tutti i cangiamenti lo- cali della materia, che essi si producano nei corpi or- ganici o nei corpi inorganizzati, si riconducono alla legge seguente: «tutta l'attività degli esseri della na- tura è determinata dalle sensazioni della pena e del pia- cere, in modo che i movimenti prodotti in una sfera de- terminata di fenomeni sembrano destinati a realizzare un fine incosciente, a ridurre al minimum la somma delle sensazioni penose» (2). Passando dagli scienziati ai filosofi, cominceremo per ricordare Uerberweg, quantunque appartenga alla (1) / limiti della scieììza. V. Nevue seieut., II ser., t. 14. (2) Natura delle eomete. 135 generazione precedente. Ueberweg non ammetteva gli atomi, ma il pieno assoluto e la continuità della ma- teria, e attribuiva a questa materia, in tutte le sue parti, la proprietà d'essere dapprima messa in movi- mento dalle forze meccaniche, poi d' acquistare degli stati interni, che sono provocati dai movimenti mec- canici, ma reagiscono su di essi. Gli stati interni della nostra materia cerebrale sono le nostre rappresen- tazioni; la rappresentazione degli organismi inferiori e della materia inorganica è una semplice sensazione ele- mentare o un debole analogo della sensazione. 1/ ipo- tesi della sensibilità di tutta la materia spiega l'origine dei fenomeni psichici nel cervello dell'uomo e degli animali (Ij. Czolbe, filosofo risolutamente materialista (pure della generazione precedente], ammette una specie di anima del mondo, composta di sensazioni invariabil- mente unite alle vibrazioni degli atomi : queste, nello organismo umano, si condensano, aggruppandosi in modo da produrre l' effetto d'insieme della vita della anima. Egli ritiene la sua ipotesi indispensabile a un materialismo coerente; senza di essa l'origine della co- scienza sarebbe inesplicabile (2). Noiré designa anch'egli la dottrina col nome di mo- nismo. Il dualismo, per ispiegare l'origine della coscienza, e l'attività e l'ordine che si manifestano nel mondo fisico, suppone un principio separato dalla materia; questo prin- cipio, cioè lo spirito, il monismo lo unisceallamateyìa stes- sa. « La prima scintilla della sensazione animale non è ca- duta dal cielo come per un miracolo; essa non ha potuto accendersi ed alimentarsi che ad un focolaio preesistente di sensazioni simili. Dall'assoluta incoscienza, mai la (1) V. Lanj^e Storia del materialismo, voi. II, i>arto IV, e. III. (3) V. Lauge Storia del materialismo^ voi. II, parte I, e. II. — 136 — coscienza a un grado qualunque non avrebbe potuto iiscire.--In ogni essere s'incontra una facoltà analoga a quella che costituisce lo spirito dell' uomo, e di cui lo spirito umano è la più alta manifestazione. Schopenauer chiamava questa facoltà col nome di volontà-, noi la de- signiamo con quello di sentimento. La coscienza ne è l'attributo essenziale.— Come non vi ha che iina specie di movimento, così non vi ha che una specie di senti- mento; le differenze sono semplicemente delle differenze di grado». «Ogni cosa nel mondo, sino all'atomo, è per^sè un soggetto, per gli altri un oggetto». «Scio penetro al fondo del più rudimentario degli esseri, se io riesco a sentire come esso sente, esso non mi appa- risce che come me, come volere, coscienza, libertà. Se io lo considero al contrario dal di fuori, se io contem- plo me stesso dal punto di vista d'un osservatore stra- niero, tvitto neir essere è movimento, necessità, puro effetto' di rapporti con lo spazio e con un passato in- commensurabile di forza » . « Ciascun essere è una mo- nade di cui l'essenza intima è di natura esclusivamente spirituale (appercezione e volontà), di cui il corpo è una materia in movimento, un composto meccanico, che deve la sua forma, la sua grandezza, all'azione del principio spirituale, al quale è associato (1) ». Noire ammette una finalità nella natura : egli vede in ogni essere una causa finale, una forma che ciascun essere ricerca laboriosamente a traverso delle trasformazioni senza fine, la realizzazione d'una idea di cui esso solo racchiude il secreto, benché questo secreto sfugga d'or- alla sua conoscenza distinta. Il mondo gh ap- parisce pure come un essere, come un vasto me. Cosi in Noiré r ilozoismo, quale lo abbiamo visto nella più parte degli esempii precedenti, si avvicina di più ai con- cetti animisti e teologici (2). 1) Pensiero monistico. ) V. Nolen II monismo in AUmwjna, nello Meme phi- losophique, In madama Eoyer l' ilozoismo è legato alla conce- zione particolare ch'essa si forma della natura degli atomi. L'atomo non è, come si ammette ordinariamente, una sostanza solida, dura, inerte e puramente passiva; esso è perfettamente fluido, elastico e dotato di una forza espansiva, che, se non incontrasse ostacolo, fa- rebbe occupare a un sol atomo tutto lo spazio. L'uni- verso è assolutamente pieno, non vi ha vuoto fra un atomo e un altro : in virtù della loro forza di espan- sione, che li fa lottare per appropriarsi ciascuno la più gran parte di spazio che gli è possibile, gli atomi si limitano mutuamente per dei contatti assoluti, eserci- tano una pressione gli uni sugli altri, e si muovono reciprocamente, respingendosi gli uni con gli altri. Tale è la sorgente di tutta l'energia motrice spiegata nel- l'universo (1). Gli elementi ultimi della materia sono dunque attivi, automotori: (2) oltre alla tendenza in- a diffondersi, a diluirsi nello spazio, alla forza indefinitamente espansiva, di cui li dota, l'autrice at- tribuisce ad essi la proprietà di muoversi da se stessi, automaticamente, nel senso della minore resistenza (3), e spiega anche le decomposizioni e ricomposizioni chi- miche per l'azione automatica degli elementi tendente a realizzare le combinazioni in cui essi trovano più (1). Ora l'attività, il movimento spontaneo degli elementi della materia suppone in essi una vita, un'anima, una coscienza. Degli elementi solidi, inerti e puramente passivi, come quelli dell'atomismo ordina- rio, esigono l'intervento d'una forza esteriore, d'un (1) La costituzione del mondo, v. sovratutto Introduzione cap. 14 e 15, e parte I cap. 4, 7, 8. (2) V. Introdnz. cap. 14, 15, IH, parte I e. 5, 6, 7, 8, ecc. (3) V. pa<r. 9(>, 128, 130, 132, 305, 608, «10, «17, ecc. (1) V. Parte III, e. 40. — 138 — voòc, che loro distribuisca il movimento e la vita (1). L'atomo automotore e vivente basta a se stesso, e può da se solo spiegare il mondo per le sue attività dina- miche (2); ma bisogna anche attribuirgli delle attività psichiche. Se gli atomi non fossero delle individualità coscienti, essi non avrebbero alcun motivo di muoversi e di agire : si può sostenere che ogni forza ha uno scopo più o meno vagamente cosciente. Lo scopo delle forze atomiche è di occupare il più grande spazio pos- sibile, di estendervisi all'esclusione di tutte le altre forze (3). Ciascun atomo è un me vivente, cosciente della sua esistenza, e cosciente delle azioni e reazioni spontanee ch'egli esercita, avente la sensazione passiva, più o meno intensa, dei limiti vfiriabili che risultano per lui dalle pressioni di tutti i suoi vicini, e dei mo- ch'egli compie difendendo contro di loro la sua parte di spazio (4). L'atomo, non solo sente, ma anche vuole, secondo dei motivi percepiti, che determinano i suoi movimenti (quando dunque l'autrice parla delle azioni automatiche degli atomi, ciò non vuol dire che esse sono incoscienti o involontarie, ma che non sono precedute da deliberazione e da scelta, e si producono fatalmente) : la volontà e la forza sono i due attributi dell'entità sostanziale (5). L'autrice attribuisce anche agli atomi : le sensazioni dei loro contatti e delle va- riazioni di pressione dei loro piani (gli atomi hanno la forma di poliedri) e quelle degli ostacoli che limitano la loro espansione (6), la percezione del mondo esteriore (1) Introdìtzhnc, ]>a<j. 7-8. Cfr. cap. IV. (2) Pag. 13. (3) Pag. 74. (4) Pag. 75. (5) Pag. 75. (6) Pag. 92. — 139 — delle variazioni delle loro relazioni spaziali con gli og- getti esterni (1), la facoltà di comparare le sensazioni ricevono simultaneamente (2), l'intelligenza (3), libertà (4), la coscienza della loro unità, della loro identità e della loro perpetuità (5j : essa li chiama (in- sieme agli altri esseri propriamente detti, cioè che non sono solamente degli oggetti, ma anche dei soggetti) dei fuochi ottici di conoscenza (6) e, ad imitazione di Leibnitz, degli specchi più o meno fedeli in cui si ri- flette un'immagine più o meno completa del cosmos visto da un punto dello spazio e del tempo (7). Tutti gli atomi hanno la stessa essenza, e possiedono ciascuno tutte le virtualità dell'essere; ma essi differiscono per dei gradi diversi di attività mentale e fisica. Vi hanno tre sorta di atomi, i materiali o pesanti, gli eterei e i vitaliferi. Lo stato iniziale della sostanza cosmica è l'atomo etereo; le altre due sorta di atomi derivano da questo. Alcuni atomi eterei hanno ceduto ad altri parte della propria sostanza : i primi sono divenuti cosi atomi materiali, e i secondi atomi vitaliferi. Gli uni e gli altri hanno essenzialmente le stesse proprietà, fisiche e psichiche, degli atomi eterei, che negli uni sono state solamente indebolite, negli altri invece esaltate. Le tre sorta di atomi si distinguono, fisicamente, per la mag- giore o minore quantità della loro forza espansiva; psichicamente, per la vivacità, il numero e la varietà più 0 meno grandi delle loro sensazioni, la coscienza (1) Pag. 10. (2) Pag. 92. (4) Pag. 10 e 13. (5) Pag. 80. (6) V. pag. 80 e 92. (7) Pag. 80. #*^ -più 0 meno netta dei loro stati successivi e dei loro d'azione, la inag^^iore o minore libertà, almeno apparente, delle loro reazioni motrici. Gli atomi vitali- feri sono le anime delle cellule : sono essi che comuni- cano ai corpi viventi le loro proprietri speciali. Negli organismi superiori la coordinazione gerarchica delle molecole viventi e coscienti, cioè delle loro cellule, le fa sentire, pensare, volere all' unisono, dando a questi esseri l'illuslohe della loro unità ontologica. Ogni stato di coscienza realizzato negli esseri viventi non è che un'evoluzione più complessa dello stato di coscienza degli atomi eterei, che si attenua negli ato- mi materiali, ma si esalta negli atomi vitaliferi. L'uni- verso, cosi concepito, apparisce nella sua meravigliosa unità: non vi hanno tra gli esseri differenze qualitative, ma solo quantitative; non vi ha che una sola forza, animante una sostanza unica, increata, indistruttibile e sempre identica a se stessa (1). Noi dobbiamo aggiun- o-ere che l'autrice è, come Haeckel, un'avversaria della teoria deirinconoscibile : la forza motrice dell'universo non è un'incognita, come vuole A. Comte ; l'essenza delle cose non è impenetrabile (2). È una prova che l'ilozoismo ha per oggetto di conoscere le cause effi- cienti, perchè 1' inconoscibile, al punto di vista obbiet- tivo, non è che le cause efficienti, il modo essenziale di produzione dei fenomeni (3). Delboeuf attribuisce agli elementi della materia la sensibilità, l'intelligenza e il libero arbitrio: e infatti la vita e la coscienza e — aggiunge l'autore ripetendo Epicuro — il libero arbitrio non possono venire dal niente; quindi devono trovarsi negli elementi primor- (1) V. Introd. cap. 15 e 1(>, parte I, cap. 5. 6, 7. (2) V. Prefazione. (3) V. il cap. V (li questo Saggio. s r- MateWdttMiuìbiatgB -TP-?- — 141 diali (1) Clie un elemento abbia affinità per un altro, eie vuol dire che lo desidera ; se si separa da quello con cui è unito per entrare in un'altra combinazione, e per- chè questa è per lui più attraente (2). Il demiurgo del- l'universo è l' inteli ig-euza; non un'intelligenza sopra- mondana, ma quella degli elementi della materia e le altre più complesse che risultano dalle fusioni d. que- ste intelligenze elementari (3). L'universo non e sotto- messo a leggi fatali, perchè noi non possiamo negare che vi ha in noi il lil)ero arbitrio, e questo dobbiamo estenderlo agli elementi di noi stessi e di tutto l' uni verso (4). Questi elementi al principio erano Ithcr,, cioè vivevano indipendenti, ed erravano a capriccio o piut- tosto all'azzardo. Ma nei loro incontri la loro sensibilità fu impressionata, e applicarono la loro intelligenza e la loro libertà a fuggire gli urti disaggradevoli e a ricercare gl'incontri aggradevoli: ebbero dei desideri e dei timori^ delle simpatie e delle antipatie, degli amori e deo-li odi: acqaistarono delle ahitmlmi, e queste Hono ciò de chiaMiamo le loro leggi (5). Inoltre all'individua- lismo primitivo succedeva lo stato di società-, gh ele- menti si associarono in gruppi rti più in più stabili, facendo ciascuno il sacrifizio d'una parte della propria libertà, ma compensato da una più grande resistenza e una più grande indipendenza dell' insienie; queste riu- nioni eram, il prodotto della libertà e dell'iute hgenza e si formavano in vista del bene della comunità. Cosi uacquero le molecole organiche, e poi per la loro as- ^l) V. La mutrria hnita e la materia ricente, v- -11. l«li- 1«»' 170-171. (2) Irì, i>ii};- 21 <' ^''2. (S) V. ici, Voiinidcrazioid flitalì. (i) Iti. (5) Ivi, l>ag. Iti*)- 172. ^51 — 142 — sociazione i corpi organizzati (1). Queste ultime asso- ciazioni ebbero per base il principio della divisione del lavoro: ciascun membro della comunità concentrò le sue attitudini su una funzione determinata, che esercitò a vantaggio di tutti, domandando che in cambio gli altri compissero per lui le funzioni ch'egli abbandonava (2). Come si vede, l' ilozoismo di Delboeuf è un antro- pomorfismo nel senso stretto, che attribuisce agli ele- menti della materia le stesse qualità psichiche che os- serviamo 0 crediamo di osservare in noi stessi e negli altri uomini. Noi faremo infine menzione di Roisel, in cui si può osservare una curiosa fusione del materialismo atomi- stico moderno coi concetti tradizionali della filosofia teologica. Egli chiamagli atomi (in opposizione alle cose composte e derivate) essere assoluto, l'infinito, la causa prima, l'essere necessario : l'onnipotenza e l'onniscienza sono egualmente dei predicati dell'atomo. L'onnipotenza è iii potenza virtuale infinita degli atomi : è che tutte le attività le quali si manifesfano nei composti partico- lari costituiti dagli atomi, esistono in potenza nell'atomo stesso. L'onniscienza, è la conoscenza infinita che ha l'atomo : è che gli atomi sono al tempo stesso i mate- riali, gli operai e gli architetti dell' universo. L' atomo non rifiette, non ragiona, la sua conoscenza è imme- diata o istintiva : s'egli ragionasse, sarebbe soggetto all'errore. La conoscenza nell'atomo non è prodotta dalla presenza d'un oggetto esteriore : essa esiste in lui senza cause anteriori o esteriori a se stessa, come l'e- stensione e la potenza, con cui essa è in una correla- zione perfetta, di tal sorta che la potenza non agisce senza la conoscenza, né la conoscenza senza la poten- za, e l'una e l'altra non agiscono che in conformità delle leggi eterne, che fanno egaalmente parte degli attributi della causa. La conoscenza illimitata dell'ato- mo dà la ragione generale di tutti gl'istinti particolari L'istinto esiste nell'animale, nel vegetale, nel minerale stesso. La gravitazione, l'affinità chimica, la coesio- ne, ecc. sono delle attività istintive degli elementi ma- teriali. L'apparizione, la conservazione, lo sviluppo e la riproduzione dei vegetali non si compiono che per degli atti istintivi : sono gli elementi costitutivi della pianta che possiedono questi istinti, e fanno tutto ciò che bisogna. Negli animali e nelle piante si trova cosi una scienza innata delle condizioni della loro esistenza. L'istinto presiedendo all'origine di tutti i movimenti, quelli anche che, per conseguenza della mobilità dei corpi, paiono non avere per causa che una forza cieca, hanno tuttavia nell'azione che li produce una causa essenzialmente razionale. Niente non si muove all'az- zardo neiruniverso, e l'istinto che rappresenta la cono- scenza e l'attività delle cause prime negli esseri contin- genti, è il principio di tutte le loro evoluzioni (lì. (1) Uì, 1». 178-17A. (2) Cfr. imragr. H. (1) Roisel La sostanza, v. specialiiiiuentc 11 parte e, li, e e. VII. - — 1*^ 144 — 145 u^xt. ITT. Il panpsichismo. § 15. DìilFilozoisiiio che artVrnia V unione indissolu- l)ile (Iella materia e dello spìrito, noi ])assianio ad nn aliio tipo di metafisica, aitine ma essenzialmente distin- to, che nel suo concetto ^-enerale non ha un nome sta- lùlito, e che noi chiameremo punimchhmo. Questo si- steìua atterma che la materia non esiste, ma che tutto è spirito : che ciò che ci a])])arisce come mondo materiale non e in se stesso che un mondo di esseri psichici; che non vi hanno in realtà particole di materia e movimenti, ma in luo^o di essi spiriti e fenomeni psichici. Biso«»:na distinguere duiupu^ il jxinpxichismo, da una parte, dal- Vihtzoismo, e dall'altra, di\\V itì^^dUtiìiio e dal fcnoìnenir^mo. 11 pan])sichista non ammette seììiplicemente, come l'ilo- zoista, che lo s]urito è dn i)er tutto; uia che non vi ha clic lo spirito, e tutto il reale si risolve in esso. Da un'altra i)arte e«>li non ammette che tutto il reale si risolve nello sjurito, perchè cred(^ come il femmienista e r idealista subbiettivo, che i;li oggetti materiali non esistono che in (pianto li percepiamo, o, c(une P ideali- sta obbiettivo, che sono delle rappresentazioni di uno spirito universale; ma percht', lascian(h) a (luesti oggetti un'esistenza indiiM-iidente dal soggetto conoscente, egli atteruia che non s(Mio materiali che in api)arenza, men- tre iìi realtà non sono che spirito. 11 panpsichismo ha un posto assai largo nella metatìsica moderna, sovra rutto nel peiiodo più recente, per la cresciuta coscienza delle ditticoltà del realismo ordinai'io : esso v ammesso Leibnitz, Schopenaner, Maine de 13iran, Rosmini, Gioberti (nella seconda foruia (Mia sua filosofia), Lotze, Wundt, Hartmann (che pino cimserva alla m iteria una certa obbiettività), Clifford, Wallace, Taim-, Uenouvier, ecc. Molti (hù sistemi a cui si suole applicale il nome un po' vago di din^nni^fl non s(uio iu verità clic ixiap^i- c///s'//: noi vedremo (piai (^ il punto di contatto vile il dinamismo propriauuMite detto ha voi i)anpsichisiuo. Il panpsiclnsmo e anzitutto una soluzi(nie del ])ro- blema del nunub) esteri(ne. Alla (piistione : che cosa (^ la materia ? dopo che (^ stata riconosciuta la subbietti- di tutte le sue (pialità. non si pm) ris])oudere alti'o, si vuol dire (pialche cosa di pensabile, se non che essa è spirito. Ciò ì' perchè noi non possiamo concepir.' alti'a cosa che la materia e lo spirito: la mat(MÌa. cioè la cosa estesa, colorata, resistente, ecc.; e lo spiiito, cioè un complesso di sensazioni, di sentimenti, di volizioni e inuna parola di fenomeni psichici. Ne segue che, do]M) che si è riccmosciuto che l'estensione, il colore, la resi- stenza e tutti gli altri attributi che costituiscono il nostro c(mcetto della materia, non esistono che relativamente al soggetto senziente, lum resta altra cosa che lo spinto, che si possa cimsiderare cernie cosa in sé, cioè a cni si possa attribuire uiresistenza assoluta, indipiMidente dal soggetto senziente. In altre parole, se niente del nostro d(^-lla materia — cioè di queste apparizi(nii che noi chiamiamo c(upi — appartiem» alla materia in se, la materia in se stessa, se noi l'ammettiamo e vo- formarc(nu^ un (Muicetto, non più» essere che cm che noi possiamo unicamente c<Micepir(M)ltre alla materia, cioè complesso di fencuìieni psichici, spirito. (Questo è il motivo precipuo d(3l panpsichismo: perci(^ (piesto sistema appartiene sovratutto all'argomento della sec(m(la ]>arte (luesto Saggio, in cui parleremo (h'ile dottrine sul nnui- do esteriore. Tuttavia noi (h)bbiamo dirne (pialche cosa anche in (piesta parte, perchè esso dà pure una risposta alla (luistione delle cause (^tficienti, essendo evidentemente 10 14H — UT — aiK-lresso mia t'orma (k-iraiitroponioitisiiio, cioò un'assi- lìiilazione (li tutte le forzi* della natura air attività <lel- Tuonio, quautuu<iu(% vouw Tilo/oisuio, a (luclla parte dei- Fattività dell'uomo elie e,uli ha in eoiuuue eon i-ii altri animali. (Questo secondo m<»tiv<) <lel panpsichismo, eioè una spie.uazione antropouiortistiea della natura, è i^cne- ralmente h\uato al priiìU), che lo suppone, hrfatti per am- nu'ttere che i corpi in se stessi sono spirito, hisoi;na pie- suppone che i tenoiueni tisici, che s<mo «;li o.i;.i»etti dei no- stri sensi, sono accompa<;nati costantemente da fenomiui, di cui sono -ili ettetti e le iuanitestazi<mi. il punto di [jai-tenza del panpsichisiuo è lo stesso che (pu'Uo delTilo- zoismo: la torza tìsica è identica alla t'orza di cui sola abbiamo coscienza : i cani;iaiuenti del mondo tìsico ri- velano un* attività [isichica che ne è la causa: e ix-i'ciò non vi ha corpo senza spirito. Ma ì'ilozoista si t'eriua. qui: il pani)sichista a-»iiiun;;(' che il corpo è un' ai)i)a- renza, e il reale non è che lo spirito. v\ IH. (^)ueste osservazioni sono am[)iamente conter- mate dalla storia del paupsichisnu), a coiuinciare dal suo fondatore, cioè da Leibnitz. Le monadi per I.eibnitz non s(nio sohuuenti" la cosa in se «Iella materia, la realtà che ci ap[>arisce come estensione impenetiabile, colora- ta, ecc., ma anche la tbrza, cioè l'attività ìuotrice. la cau- sa etticiente (h'I movinu'Uto. Jn un senso lato, si ha ra- gione di chiamare la (h)ttrina delle monadi un dinami- smo, percln^' ancìTessa sostantitica la foiza, (juantumiue non vi v(Mbi, come i <linannsti nel senso sti-etto. un'entità misteriosa, ma la riconduca allo s[)irito. Pcm- i'en(h'r conto delle le,ui;i della natura mm basta, dice Leibnitz, hi nozi(uie <lella materia: biso.i;iia a.u\i;iun<;('i"ne una nu^- tatisica . quella della forza (1). La sostanza corporea (1) JSist. nuovo dello coihhhìckz. dcllv sosf. imI. Duti-ns r. II p. 1. 50. Letf. al p. Botint. ed. Diit. II. L 21)2, Pe ipsa na- tura site de ri iììsita 7. An'uiindv. eirea Theor. Med. Staiti. IH verso il i>riiK-. ed. 1). t. II. ]». II. 1:U .nifi — i:"2 su, vvv. n non c(msiste ueirestensi<me, come vogliono i Cartesiani, perchè il movimento e le sue leogi, clie implicano un'attivi- tà in (piesta sostanza, non possono ricavarsi dall'estensione che è incapace di azione (1). Essa non consiste nemme- no nell'estensiime e nella resistenza : (pieste non costi- tuisc(mo che la massa o materia prima, cosa essenzial- mente passiva, mentre il moto e l'azione in -enerale mm possimo derivarsi che da una sostanza attiva (2). Alla materia nuda, cioè all'estensi(me e alla resistenza, biso-na a-- inno-ere damine la forza, la causa del nM>to: al principio passivo il principio attivo (3). Cosi la so- stanza ccuiHuea è costituita (hi due elementi: la materia pruna o nuda, che l'autore riconduce alla poivnzu pa^- fiinf, e la tbrza o pofenzd uttivn primitiva, ch'e<»li i<len- titica c(Mi la forma aristotelica (4). La forza o potenza attiva primitiva è una cosa sostanziale e persistente, come la potenza passiva primitiva o materia prima: h' forze derivate o impeti sono delle modincazi(mi acci- (1) fA'tl. se ress, del eorpo consiste aeiresteas. Dut. II. 1. 2:^rì-2;^(>, /v i/>-'«f ^^<ff- ^••''*^' f^'' ''' '*''• ii* ^^^'''- " ^ **' I 287, Lett. al p. Des-lìosses SI hi-, 1707 iiitìiie. ecc. ri) /V '/>v^< >''• ed. Dut. t. II, p. I. 20, Elespons. ad Stahl. ohserr. wd XXI. 7. Comment. de an. hrator. I — V. ecc. (S) De prìwa phil. emead. Dut. II. I. 20, Cohuh. de an. hrn- for 1- V, Lett, se lU'Ss. del eorpo eonsiste neWesteus. Dut. II. L 285- 2S(;. rA'tt. a Fomher. Dut. IL L 2S7, Lett. sai earfesian. Dut. IL L 2HS, De i/)!i(( ^f^fl- •*>*'''^' ^''' ^^ ^**^' ^^' ^'^*^'' (4) Teodie. Prefaz. ed. Jnc(iues 10-20. Es. dei prine. di .}fa- lehr Dut. II. 1. 20S. /i.V>/.s^ r/r/ rf/////f'/-. t oiu-uo 1710. II. ('omm. de aa. hrator. l - V. Mt. al y>. lioncet 1007. Dut. IL L 202, Lett sai eartes. Dut. IL 1. 20S. Lett. al,>. Prs - liosses U tei.- br. 1700. Dut. II. l. 200. 20 sett. 1712. Dut. IL l. S02 -iù. 10 ao. 171.0. Dut. II. L :n4. M- ipsa aat. sire dt^ ri ius. 11. 12, Am- madr. eirea Theor. Med. Stahl. IH. ecc. -7" r^ U8 149 (leiitali e variabili (Iciruiia, eoiiie le tì<;iiiv lo sono del- l'altra (1). Nel concetto del corpo la forza è anche più essenziale della materia, ed esso può <lefinirsi una forza estesa cioè diffusa per il luo<;o o i)artil)ile (2). La forza che noi ar<;uianio dal movimento, non ci è conosciuta solamente pta* i suoi effetti, restan(h) sconosciuta in se stessa : sarebbe <()sì se non avessimo un' anima, e non hi conoscessimo (3). Quantun^ine nella materia tutto si faccia meccanicamente, i princij)ii de] meccanismo, cioè le le^<;i generale del movinu'iito, ven,i;<)no da uìia sor- gente pili alta che la materia stessa : essi dimo>trano Hesistenza di sostanze incor])oiee, spirituali (-J-). Ciò è perchè — oltre (die le leggi del movimento manifestano una finalità e non possono attiibuirsi che alla scelta della Saggezza suprema — il fatto stesso del movimento non si spiega immediatamente, cioè non rimontando alla causa generale della natura, che per le aninu', per le mcuiadi (5). T^a forza, il [)rinci])io attivo della so- stanza cor])orea, è ranima o la monade (H) : è essa la (1) lù'spoìis. nd Stilili, ohsi'rc. \u\ XXI, 8 - t. (2) tJiìist. ad Hofmann 27 sctt. h\S)\). (3) Kjiist. nd lU'rliìHjhnii cil. Eni ni. \). iul . (4) ^V. S. HidViìit. tnn. 1. 1. e. 1. cil. .Ijh-ciucs t. lì. p. 25, Hepl. a Bdjjle sul sist. delVunn. ftì^stah. Dut. II. 1. S4, A's. del prine. di Malchr. Dut. 11. I. 208-201). hJinst. ud JIoffnHuui 27 sett. imm. Aììittutdc. t'ircjt Theor. Mcd. Stuhl. 111. Dut. II. II. 182. J^cspoHS. ad Sfa hi ohsercc ini XXI. S, <'c*c. (5) /ù'f)l. a liat/lt' sul sist. iklV arièi. prrst. Dut. ILI. SS-.S4, Leti, al p. /}es- I^osses 1 s(;tt. 170(). ud 25, Uespoiis. ad Stahl. ohserr. ad XXI, 28, «»cc. (t>) Teod. Prefaz. <m1. Jjumi. li) - 20. Sist. nanco della nat. e della eomuììieaz. delle sost. Dut. ILI. ."SO, A'.v. dei prine. di Ma- lebr. Dut. IL I. 20S - 20i), Leti, n Motitntort 4 u<»v. 1715.111, A'- pist. ad Va<iììer. IL I)\U. IL I. 22H. (Vuntnent. de an. bnttor. \, Upist. al p. Des- liosses 14 febhr. 1700. Dut. IL I. 20(>. De ipsa nat. sire de ri ins. 1 i - 12, Uespons ad Sfhal. ohserr. ad XXI. '^. ori-. '«I sorgente del movimento e delF azione in generale (1). Per provare l'esistenza dell'anima, come sostanza di- stinta dalla materia, air argomento che i fatti psichici non potrebbero essere modificazioni della sostanza ma- teriale, Leibnitz preferisce quest'altro : che la materia è puramente passiva, e per conseguenza il movimento e il pensiero, che sono delle azioni, de^'ono venire da (lualche altra cosa (2). Il movimento prova che (jueste anime o monadi sono contenute in ogni parte della ma- teria, perchè esso non può essere dovuto che a un prin- cipio attivo, e (luesto deve essere un soggetto perce- pente. 1 principii del moto essemh» diffusi (hi per tutto nella materia, per conseguenza anche le anime sono dif- fuse (hi per tutto nella materia (3). Spesso Leibnitz presenta il suo sistema come se esso fosse un ilozoismo piuttosto che un panpsichismo. Noi ab- biamo visto infatti che la sostanza corporea è composta deUa materia e della forza, e che la forza è l'anima o la monade, Leilmitz ci rappresenta duuipie le mcmadi come se esse costituissero n<m tutta la realtà esteriore, ma sola- mente la parte inteina, psichica, di (piesta realtà. Così egli diceche, per costituire la sostanza corporea, alla mate- ria prima si aggiunge Tanima o la monade (4-); che (juesta fa passare alKatto e compie (juclla, la (piale per se stessii non è che una potenza passiva (5); clie il corpo è composto (1) Stt/. sulla boutadi Dio ecc. v^ 32S. Sist. uuoro de la uat. e della eomuuieaz. delle sost. Dut. IL L 5S. Counu. de au. brutor, I - V. Rrspous. ad Stahl. obserr. ad XXI. '^, ot-r. (2) fJs. dei priue. di Malebr. Dut. IL L 207-201). (S) Resp. ad Stahl. observ. ad XXL 7. Courm. de au. bru- tor. Ili - VllL (4) Comuì. de au. brutor. I - V. De ipsa uat. sire de ri ius. 11-12. (5) Respous. ad Stahl. obserr. ad XXL '^. Ltit. al p. Des- Bosses 14 tel)ì)r. 1700. Dut. IL I. 200. 150 ^- irn 4lella massa v dcU'auima (1) o di materia e di spirito (2) (intendendo ìiatuialmente per anima o per spirito la monade) ; elle le anime o monadi sono unite (8) o so- vra«»giunte (-I-) alla materia nuda o pura; ehe sono dis- seminate (5), sparse (H), iiinneise (7), nella materia; ecc. In tutti i luo<;hi in cui i corpi sono ri«;uardati come composti della materia pura e delle anime o nìonadi, troviamo il concetto che la materia è il princii)io ])u- ramente passivo, e il ])rin(*ip'io attivo sono It^ anime o monadi (8). Le monadi, in (pianto sono ri<;uardate come l'elemento clie, a^'^iunto alla materia ])ura, costituisce la sostanza corporea, ven;i;ono chiamate euielevltie (9) o fornu' 10), termini di cui Leibnitz fa i sinonimi di for- (1) hs. (ki /jrhimp. di Malrhr. Dut. II. 1. 2()8-2(M>. (2) l)f i/jsa )H(t. sii' e de ri ins. 12. (3) Li'tt. a Jfoiifìitort A nnv. 1715, III. (4) Epist . (id Vuijner. 4 i^iu*;. 1710. 11, Connn. de an. òrutor. V. (5) K/)ist. ad Vfifjner. 4 gin.i;. 1710, II. (H| Connn. de nn. hrutor. VI, Vili. (7) Siat. ììuoco ilelln tud. e della eo)nnnienz. delle sosf. Dut. II, I, 51. (81 AV. dei prine. di Mulehr. Dut. II. I. 208 - 20J). Letf. a Moìitmort 4 nov. 1715. III. hJpist. ad Vaf/iter. 4 ;ììuj;. 1710. I - II, (^omin. de an. hrufor. I - IX, Jjett. al p. Des - Bosaes. 14 t'cbbr. 170(>. Dut. II. I. 200. 1 sctt. 1700. ad 25 v ad 20. De ipsa iiat, sire de ri itts. 11-12. Jù'spons. ad Stahl. obserc. ad XXI. ^ - \, Teod. Prefaz. ed. Jacq. II. 10-20. eie. (0) Risp. a Bai/le sai sist. deWann. prentab. Dut. II. I. 88 <5 80. hJpist. ad Vaf/ìwr. 4 ^iu<^. 1710. I-II. Conint. de aa. biu- tor. V - XII. Leff, al p. Des- Bosses. 14 IVbbi-. 1700 e 1 sett. 1700 ad 25 «• ad 20. De ipsa nat. sice de ci ièis. 11-12, Besf). ad, Stahl. obserc. ad XXI. ^- 5 e 7. Teod. Prefaz. vd. iJac(|. li, 10-20, ecc. (10) Sist. nuovo della nat. e della eomnnieaz. delle sost. Dut. II. I. 50, 51, h\\. De ipsa nat. sire de vi ins. 12. Satpji salla bontà di Pio ecc. s^ 32:^, ci il fi ^1 E^' I ze il), le entelechie o formi' sostanziali dei Peri]>atetici^ interpret^ite in un senso che le riabiliti, essemh), secon- do lui, le forze i)rimitive delle sostanze cori)oree ;2). Quaiitunciue non tutte le volte in cui le mona<li sono chiamate entelechie o forme, ap])arisca es]dicitaiììente il che la sostanza cori)orea risulta dal concorso delle forme o entelechie, cioè (U^lle monadi, e della ma- teria pura, esso ci è naturalmente su.i'.t'-erito dalTappli- stessa di (piesti termini, la forma, di cui V en- telechia è una specie, essench) il correlativo della ma- teria, con cui lu'lla tìlosolìa aristotetica c:)stituisce la realtà individuale, il xlnoìo. Talvolta i8), chiaiìiando la, monade entelechia del c(U'pi), Leibnitz intende per <|ue- sto corjx) il corpo orL»anico di cui essa è Tanima . cioè hi monade dominante (per esempio Tanima o uuniade do- minante delFuomo sarebbe rentehM-hia del <-orpo umano): a (luesto punto di vista la sostanza cuniposia .opposta alla sostanza semplice, cioè alla monade ) é un essere vivente costituito di un^inima e del suo cor])o or-ani- (,o (4) — queste sostanze nnn/xfsfc essendo ^li elementi di (1) Sisl. nuovo della mtt. e della eom. delie sosf. Dut. II. I. 50. Bepl. a Baule sul sist. deWarin. prest. Dut. II. I. >^:^. A^*- '/''' prine. di Maletrr. Dut. II. I. 20S. h)jist. ad Tf/r/ //<•/•. 4 o in-. 1710. II. Vonun. de an. bnitor. V-IX. Kpisl. al p. Des - Bosses 14 iVb- br. 170(>. Dut. II. I. 20(». De ipsa nat. sire de ri ins. 11-12, Anintadc. eirea Theor. Med. Stahl. Dut. II. IL i:H2. Besp. ad Stahl. obserr. ad XXI. ^. Dut. II. II. 154. X. S. salV int. iun . 1. II. e. XXI, ^ I, Teod. Brefaz. ed. Jacq. ]». 10-20, ecc. (2) Sist. nuoro della nat. e della eoin. delle sost. Dut. II. I. 50, Ks. dei prinv. di Maletn'. Dut. II. I. 20S. Leti, a Montmort \ u^>- vciub. 1715. III. Leti, al p. Bonret 1007. Dut. ILI. 2(>2. Leti, snl eartesian. 1H05. Dut. ILI. 20S. ecc. ('^) P. e. nella Monadol. I. 04-05. (4) Epist. al p. Des- Bosses 10 a-. 1715. Dut. IL I. :^1L Lt'ti- a Montìnort 4 iiov. 1715. III. 152 — 153 — tutto il nioiido (lei corpi, percliè la materia, secondo Leibnitz, è or<>anizzata in tutte le sue parti, e anche quella che crediamo inor<;anica è in realtà composta di corpi oro-anici (1). Qui l'opposizione dell' entelechia e del principio materiale si riduce a quella della monade dominante e delle njonaili doniiuate, perchè il corpo or<::anico unito a una monade non è che un aii'iiiviiiito di altie monadi infeiioii. Così, se fosse possibile d' in- teipretare in (jucsto senso tutti i luo«j;hi in cui le mo- nadi sono chiamate toize o entelechie, e in cui i c(upi si riguardano come composti <lelle anime o monadi (piali forme o entelechie e della mateiia prima, si potrebbe credere, con (piesta inter])i'etazi(nu% di salvare l'autore da una contraddizione, almeno ap])arente, (jnella di am- mettere (jualclie cosa, cioè la materia pura o nudji, ol- tre alle monadi, nieìitic la rvixìtk materiale, e tutta la realtà in,i;enerale, non (' costituita p(M" lui che di mo- nadi. Ma ci(') (' evidentemente impossibile, sovratutto per tre ragioni. 1" La materia prima (^ detinita come Te- stensiom" e la resisteir/;i pi-ese j)er se stesse, senza le vite o anime. cio(' le monadi, che vi sono unite (2). 2.^ Sono tutte le monadi in ;;('nerale che ven«»()no ri«;uar- date come forme o entelechie (8), ci() che, se il principio (1) MoiHKfol. <)l-72. Diit. II. I. 2S. (2) hJii. dei itrittc. di MuUhr. DiU. II. I. 2US - 2()U. Lctt. a Montwoì't 4 in>v. 171."). III. A/>/.s/. ad Vmjner. 1 .iiiu.u. 1710, II, Connn. de tnt. brutor. I - \ . Dr ipsit ttal. sice de vi ins. 11, Jùsp. ad Stohl. oharrv. ad XXI. 7. {'M MoHndol. U. 1?S. IH. Diit. 11. I. 22, ibid, 50. Diit. 2«, A7k^ nuoto di'lln Hfif. e dvllit conim. dvlle sost. Dut. II. I. 50 e 5:S, Ji'rpL n lidìfli' sui sisf. dvlPiiriH. prcst. Dut. 11. I. SS. h))ist. ad VaUìur. \ -.ilio. 1710. II. De ipsa nat. sire de vi ins. 11-12, Hesp. ad Stiild. ohsere. ad XXI. 7. Teod. Prefnz. Jacci. 1!) - 20 (cfr. De ijìsa èH(l, si ve de ci ins. ì^), ecc. materiale di cui ciascuna monade è la forma o Pentelechia fosse un corpo organico aggiunto a (piesta monade, impor- terebbe il concetto assurdo, che è impossibile di attribuire a Leibnitz ((luantmnpie ([uesto sembrerebbe il senso di certi luoghi) (1), che ad ogni monade, cioè ad ogni ele- mento ultimo della materia, é sottoposto un corpo orga- nico, \'al(^ a dire altra mat(MÌa, risolubile in altre monadi o altri elementi ultimi, a ciascuno dei (piali è sottoposto un altro corpo organico, risolubile come sopra^ e così di seguito. 8*^ L'anima o mornuU» dominante del corpo or- ganico non ])otr(d)be essere considerata (hi Leibnitz co- me la forza inerente alla materia. Fra l'anima e il cor- po nel sistema di Lei])nitz non vi ha azione recipi-oca, ma armonia prestabilita : l'anima agisce dalla sua parte, e il corpo (hdla sua. È (piest'attività inerente al cori)o e indipendente thill'anima che l'entelechia deve si)iegare: le entelechie, (piali principii attivi dei corpi, non posso- no essere dunque le anime, coim^ opposte ai corpi oi- ganici (per esempio il principio attivo del corpo umam» non ])u<') essere l'anima umana), ma le monadi costitu- tive dei corpi stessi, di cui S(nio il lato interno, psichi- co. Contrapponendo l'entelechia o forza aUa materia pri-, Leibnitz non intende contrappone una monade ad altre nu)nadi, ma i due lati, il visibile e l'invisibile, (hdl'essenza corporea, la materia in movimento, che ci apparisce, da una parte, e (hi un'altra l'attività ])sichica, che noi ne concludiamo, e che ci spiega il movimento. Ci(> vi ha al fomh) del suo pensiero ((piantumpie egli professi la dottrina che non vi hanno elementi ultimi della massa, percht^ il continuo non pm) constare di pun- ii) h)jist. ad Vaf/ner. 1 oiu;^. 1710. IV. Dut. II. 1. 227. fJ- pist. al p. Des-Bosses H marzo 170!). Dut. II. I. 2H'^, Leti, a Dangieourt 11 sett. 171H. I. iìAi ìrA ti (1) V v]w iu\ <)<ini eU'iiìrnto dell'essenza invisibile, cioè ad <>;;ni monade, eoi risjxnide un elemento nelF essenza visiì»ile, e vhv il movimento di (piesto é prodotto dalTat- tività di ({nello. Così e«>*li attiibnisec^ ad o^ni j)unto della mat<MÌa un movimento pj()])i'io, la eui sor<i.ente è nella enteleeliia, cioè nella monade, eoi rispondente a (piesto punto (o, come dice Fautore, «di eui questo punto è il punto di vista, » (espressione elie si)ie,i;lieremo in se^ui- to) (2) : il movimento di un corpo oi\i>anieo risulta dal eoneorso di tutte le entilt»ehie eorrispondenti ai diversi punti di (juesto eorpo (3). Senza dul)l)io la proposiziinie che i corpi sono eomi)psti della mat(nia ])rima e delle monadi come torz(e o enttdeeliie, presa sti'ettamente alla lettera, è in contraddizione con la d(»ttrina stessa delle luonadi, percli(' sembra considerare la materia prima come uiTaltra realtà, mentre secondo (pu^sta dottrina tutto il ridale si risolve nelle monadi. K (nidente che dei due elementi che Leibnitz distinguile nella sostanza coiporea, e<^li non pu(') ammettere ciune reale che V entelechia, cio(' V anima o la monade, e la materia prima non pu(') essere per lui ie un teiKuueno, vale a dire uif aj)j)arenza. Ma in (pie- sta interpretazione, che ci (' imposta necessariamente (hiirinsieme della tilosotia leibniziana, noi andiamo in- contro ad un'altra ditticoltà : v che T attività delle mo- nadi non j)U('> essere, nel senso ri^(n*oso, una tbrza, cioè una causa epcìeuie (nel nostro senso) del movimento della materia. I movimenti dei corpi, cìie si pretendono sj)ie<;are per Fattività delle monadi corrispondenti, sono dei fenomeni, cio('' delle })ercezioni, di altre monadi ; ma fra una monade e un'altra non vi ha azione reale, ma (1) V. (Ht. Dut. II. II. 55. (2) V. I^cpl. H lìttyle sul yifsf. (irir((nn. prestah. I). II. 1, 83. (8) Cfr. ((/ />. Dt's-lJosst's 17 iiiaizo 170H D. 11, 1. 2(il>. — 155 — semplicemente armonia prest^ibilita. E anche (piesto è evidente: ma Cii') non togliti che assimilanih) al movi- mento umano o animale il movimento .^ponUineo della materia inanimata — ikìì vedremo in seguito come e per- che' Leibnitz ammetta (piesta spanta neità—i)vv la sup- I)osizione di uno stbrzo cosciente, di uiFattività psichica, come antecedente anche di (piesto movimento, e«»li trovi in (luest/assimilazione (pialche cosa come una spiei-azio- • • • ne del fenomeno (nel senso ordinario e non scientihco della parola spiegazione) (1), e ve(bi, per conseguenza, in (piest'antecedente supi)osto (pialche cosa c(mie una causa eniciente, perche^ la causa eniciente (' un antece- dente che spief/a un fenomeno, e non semi)licemente a cui (piesto se<>ue invariabilmente. Altre volte la dualità fra la entelechia o forza (^ la materia prima prende in Leibnitz un' altia forma. K il reale in se ste8«*o, la stessa monade, che viene ri«;uar- (hita come composta di una materia prima e di una en- telechia, (piesta essendo ancora il sinonimo di forza o potenza attiva, e (piella di potenza puramente i)assiva. Per comprendere (luesta (h)ttrina di Leibnitz, è necessario tener conto di eerte sfumature, di certe (\sitazioni nel concetto della monade, che sono la forma in cui si mani- festa, in (piesto sistema, una contrad(bzione secondo noi inerente alla essenza stessa del i)anpsichisnu). Il panpsichismo (^ una risposta alla (piisti(me : in che consistono <x}\ o-«»etti esteriori ? Questa (piistione si presenta (runa maniera pressoché inevitabile dopo che la ritlessione scientifica ha distrutto il concetto primiti- vo e sp(nitaneo dalla cosa, che noi ^-ostruiamo istintiva- numte per robbiettivazione delle nostre sensazioni (pro- c(^sso a metà incosciente, che studieremo nella 2^' i)arte). Ci(> (' perch(^ il nostro spirito ha una rii)u.i'iianza (piasi (1) V. capit. I. vS 8. 156 — invincibile ad ammettere che i corpi non sono, secondo la profonda analisi di Stnart-Mill, che delle sensazioni attuali (> povssibili; ma in virtù della tendenza naturale (che spiega secondo noi tutti i concetti meta tìsici) ad assimilare tutte le nostre idee a cpielle che ci sono le più abituali, noi cerchiamo di sostituire al concetto di- strutto (h'iia coi^a qualche altro concetto sonìi^i;'liante, che conservi agli oggetti un' esistenza per se, indipen- dente dalle nostre sensazioni. Le monadi di Leil)nitz, la Volontà di Schotenauer e tutti gli altri concetti analoghi dei inetatisici — anzi in generale tutti i ccmcetti trascen- denti della cosa in sé — non sono «lumpie che dei succe- (la nei del concetto primitivo della cosa, del corpo ; tale è il loro scopo e la loro funzicme : così la cre<tibilità e il valore di <piesti concetti è in ragione diretta (a parità delle altre circostanze) della loro somiglianza, dei loro punti di contatto, col concetto primitivo, con Tidea del corpo <lell:i ciedenza naturale. Ora sembra che il con- cetto (h^l panj)sichismo, preso in tutto il suo rigore, uon abbia i)iù alcuna somiglianza, alcun punto di contatto, col concetto naturale del "orpo, di cui deve essere il succe<laneo — per (|ueste parole preso in iìdio il suo riifore io voglio dire : se si fa della mtmade o altre entità ana- loghe un'essenza puramente s[)irituale, una semplice se- rie <li stati j)sichi(i, di sentimenti, percezioni, appetiti, ecc. — Se il filosofo che ammette le monadi ( uel senso leibnitziano; o altre entità analoghe si contenta di que- sti sKccedaìiei del corpo della credenza naturale, è per- chè egli, coscientenu^nte o incoscientenu^nte, al ccuicetto delTessenza spiri tuak'raggiunge delle determinazicmi che non le apjjartengono e che non sono che dei residui della i(h'a del corpo. Ciò è perchè, l'idea dello spirito essendo associata d'una maniera (piasi indissolubile a quella di uii sustrato corporeo, noi ncm possianu) pensare a una .esistenza puramente psichica senza che questo pensiero — 157 — ci suggerisca (pu^llo di un corpo o di qualche cosa di si- mile, a cui essa inerisca — di là, C(mie vedremo iu4rAp- pendice, il concetto della sostanza spirito. — Anche (pian- do il i)anpsichista afferma recisamente che le essenze spirituali ch'egli mette al posto della materia (uKUiadi, volontà, tendenze, ecc.) non hannoalcuna relazi(uie spaziale, non s(mo delle sostanze, e n(Ui c(msiston(» che in puri feuouHMii psichici — ci(> che deve fare se è conseguente, perchè il presupposto del suo sistema è clu^ non vi ha altro (rintelligibile e di certo che il fatto psichico — ; insieme alle essenze sinrituali si disegua anche allora in- nau/i alla sua immaginazioiu' (]ualche cosa conuMin cor- po che fa da snhstratnm ; al suo pensiei'() cosciente e (MUifessato se ne unisce un altro a metà incosciente e juui (MUifessato, che lo mette in contraddizione secreta con se vSt(\sso, ma senza di cui la sua ii>otesi gli sembre- rel)be meno soddisfacente. Ma non tutti i panpsichisti amnu^tono il concetto rigoroso defilo si)irito, che non vede in esso che la serie (U-i fatti dell' esjxMienza in- terna, e non gli dà che gli attributi che conveng(mo a (piesti tatti: un esempio è M. de Hiraii, che attribuisce risolutamente alle monadi la posizioiu' nello s])azio. L evi(Uuitenu'nte un vestigio del (pialche cosa coinè un cor- po che tà da substratum. Fra i due casi estremi, del paupsichista conseguente in cui il (lualche cosa come un corpo resta un pensiero sul)cosciente e non contessato che non imprime ìiiente di sé nelle (h)ttrine eh' egli apertanuuite professa, e di (pu'llo in cui esso giunge a una (h>ttrina costante e precisa c>?e afferma dello spirito (h\gli attributi che non convengono che alla materia, vi hanno dei gradi intermediari che sarc^bbe dittìcile di de- finire : è in uno di (pu'sti che si trova Leibnitz, come si vedrà confrontan(h) talune delle sue proposizioni con talune altie. In alcuni luoghi noi troviamo in Leibnitz una de- ^"f^a'JilWJlL'iiiWiailMI'iiWlUi'^li — 15S — tenninazioiu' n^^'orosji dell;» iiioiuult* comi' pura essenza spirituale. « Niente altro eonoseo, e^li diee, nelle monadi 8e non percezioni ed appetiti ». Non solo la moditieazione della monade consiste unicamente nella percezione ed appetito, ma le monadi stesse non sono altio che i)er- cezioni ed appetiti (1). Le monadi non smio in un luo«j;-o: non lianno sito tra di loro; non vi ha tra di esse alcuna o distanza spaziale, e dire che sono con.ulobate in un punto o <lisseminate nello spazio, è usare di certe finzioni del nostro spirito, (juanih) pretendiamo d'inima- <»inare le cose che possono soltanto inten(h*rsi (2). I^e monadi non sono parti <lei corpi, non li compou.t'ono, non sono iniiredienti, ma solo reijuisiti, <lella matei'ia (3). ]^' estensione e la materia non sono che tenonuMii, cioè percezioni de^li esseri senzienti (4): lo spazio è Tiudine dei fenomeni coesistenti (5). Il t'ondo (h*l pensiero di Leihnitz noi lo vediamo, senza dubbio, in ({uesti ed altri luo,uhi simili. Ma non è meno iuduhitahile clie non è (piesta la maniera abituale in cui e^li si rappresenta le ìuonadi. 1/ i(h*a (-he (h)- vremmo t'ormarci di (pieste secondo la più i)arte <UMle sue (1) Moitidhtl. 15-17. Dut. 11. I. TZ, Lt'ff. al /). JJcs - h'ossrs 24 -culi. 171:^. Dut. 11. l. 805. 25 a-. 171S. Dut. SOJJ. IH a-. 1715. Dut. H14. Lcft. (( D((Hf/k'OHrt 11 sett. 171(ì. Dut. Ili, 5(M). (2) V. h'pisf. al />. fh's - /iossrs 21) uia.;;. e Ki,i;iu«;. 1712. VA'r. Bisfj. alla :-*. He fili ca <// Clark 12. A>/.s7. al p. Des - liosses :M) api'. 17(ll>. Dut. li. I. 2S5. Ucspons. ad Stahl. obncrc. ad XXI. !♦ (raiiiuu) \\<n\ «• \\\ \\n lu<)<i<)). (3) A>/.s'/. al p. DcH- JtofiscH 15 tVl»l».. 1712. Dut. II. I. 2t»5. Hi jriumu» 1712. Dut. 21)9. 24 \j^vnn. 171S. Dut. Sl>4. (4) h'pisf. al ft. Drs - liosses 15 t"('ì»l>r., 21> uia.u.. U> uiuji.. 20 sett. «• 10 ott. 1712 (DtU. II. I. 2H4-2i>5. 2M7, 2i>S - 201). SOS) e altrove. (5) Kpisf. al />. /Mv- fiosscs 1<5 oiu-. 1712. Dut. II. I. 20.S. 159 proposizioni, è clie esse sono <pialche cosa come dei punti animati, cioè senzienti e semoventi, elle hanno dei rapporti di spazio o alcun che di analo«»(), e che non dif- feriscono dalle monadi o centri di forza dei semplici di- namisti che perchè son() anche (h)tate di sentinu'uto e di vohmtà. Quest'idea ci è irresistibilmente su<i\i»'erita di\\ rapporto fra le mmiadi e la mateiia. Leibnitz cen- sidera abitualnuMite i corpi come comj)osti delle mona- di, elle ne siuio i»li elementi ultimi, indivisibili. E.i»li chiama i corpi i coìHjxtsfì o le sosffanc composte, e le monadi le xu^iunzi' semplici, (1) Le monadi sono le s(}sUni- ze i<eìììpliei che enlraiup nei eoìnpo.^fi, cioè nei corpi (2j; ne sono ^^Viiu/redienfi (8); sono <»ii elemeìtti delle cf>sr (4), i veri nioìììi della unluni (5), (U^';ii (domi di s<hsf(nr:a, cioè delle unità vere e ])rive assolutamente i i)arti (<)), i primi priiieipii ((ssolnfi della eompffsizione delle eose e come (/li elementi ultimi delT antdis'i delle s(isi((n:e (1. I corpi rixnltan(f da un nunuMo infinito di monadi, cioè di sostanze semplici . indivisibili (S) : ne sono de.uli a(jqre(iati (9), o delle riunifuii (10), e perciò son(» chia- (1) Monadnl. 1-5 e 0. (Dut. II. 1.20 o 21). Priììc della uaf. e della t/raz. 1 - S. Ifesp. ad Sta hi. ohsere. ad XXL 7. I^eff. a Da(/uu'onrf 11 sett. 171(). 1. ecc. (2) Moaadftl. I. (S) Monadol. 0. A>/.s7. al /;. I>es- linsses^'l.^ lua-. 17U). Dut. II. I. SIO. ecc. (4) Mona dal. '^. (ìy) MoìHtdol. S. ((>) JSisl. della tuff, e della eoumtt. delle sosl. Dut. IL L 5S. (7) flnd. (5) Kf)ist. al />. Des- /iosses 11 marzo 170(> (Dut. IL I. 2«)S). IH ott. 1700, 11) niaizo 1700. SO apr. 1700 (Dut. 2S5;. Leti, a Dan- y'H'oarf 11 sott. 171(5. 1. ecc. (0) Moaadol. 2. Leti, a Arnfddd 2;i lujirzo lUMO (Dut. ILI. 4(ì). JiYisl. al p. Des- liosses SI lu.ul. 1700 f.DiU. IL L 2S7). 2J> uiao. 1712, 20 uia-. 171() (Dut. Sii*). e<'c. (10) Prine. della Hai. e della f/nc:. 1. — lf)0 — — 1()1 -I mati efiseri per aff(/re(fa:ìone (1), I corpi sono (M\v mol- t'iindini, h* monadi Je unità che compou^-oiio queste moltitudini (2). Ciò elie ])rova V esistenza delle nionadi è che non vi sarebbero iW\ («omposti se non vi fossero delle sostanze semplici, non vi sarebbero delle moltitu- dini se non vi t'ossero delle uiìità : ora i composti o le moltitudini, cioè i corpi, esistoui» ; dunciue esistono le sostanze semplici o le unitiY, cioè le monadi (8). Il si- o:nificato di (piest: aro-omento é che o^ni c'orpo essen(h> divisibile, esso è un composto— è, come dice Fautore, nna collezione o un ammasso di pjirti airinfinito — e il com- posto suppone deoli elementi ultiiin' che lo comjmnoano e <'he siano ass(>lutamente semplici, cioè senza parti: <piesti sono le monadi (4). Queste» rapporto di com])osto e componenti che Leibnitz stabilisce fra la materia e le monadi, spieoji un' iui possibilità lo-ica del suo sistema, <die è una delle fornu' più visibilmente inconcepibili della pseudo-idea d' intìnito attuale. La minima por- zione di materia contiene, seccunh) Leibnitz, un nu- mero intinito di monadi (.>): ciò è evidentemente per- chè, il corpo essendo divisibile alPinfinito, se esso è com- posto di (^leiì.enti ultimi indivisibili, supposto che la (1) fJfHst. al n. Ih's liosfu's 11 marzo 17(H) (I)iit. 2i\l (^ 31 lii-l. 170J> (I),it. 2S7) e 20 sett. 1712 (Dut. 308). (2) Prlm^, della nat. e della (jraz. 1 . Sì^t, nuoto della e della eoman. delle sosf. Dut. IL L 50, 58 e 55, JCpisf. al p. Bosses W marzo 170J) v 81 liiol. i7o<, (i),it;. 287) ecc. (8; Prine. della nat. e della ipaz. 1, Leti, a Arnauld 28 zo IHJM) (Dut. II. I. 4<i), Hesp. ad Stakl. ohserv. 7, ecc. (4) V. *S7.s/. nuoto della nat. e della eomunieaz. delle I>ut. IL I. 50 e 58. (5) MonadoL <;s - <>{) (Dut. IL L 28), Prhie. della nat. e gruz. 8. L)jist. al p. Des - Bosses U febbr. 170H (Dut. IL I. IH utt. 17(M; (Dut. 27(»), 81 lu-l. 1709 (Dut. 287), 20 sett (DiU. 808), ecc. 2H8), nat. Des- inili'- sost. della 2(>(>). 1712 materia sia assolutaiiu'iite continua, (luesti devono essere in numero intinito. Ma ((uesto m.^ionamcnti) supponi- che il continuo non sia un semplice fencnucno subbiet- tivo . ma risulti dalla Ju\ta-posizione delle monadi. A dir vero Leibnitz non accetta fra le sue dottrine coufea- x((ie il concetto che il continuo risulta dalla juxta-])osi- zione delie monadi — (piesto concetto a cui tende da o.^ni parte la dottrina che il corpo è un a.i:.-.ui'ei;ato <li lìiouadi, non è Che una suu\u(*stione oscura dell'idea subcosciente di un substratum corporeo o (piasi corporeo, che accom- ])ai;-na la sua coiK-cvjone della monade. Riconoscendo che il continuo non jhiò constare di i)unti, e.!Lì.li ne de- duce talvolta 'che la iuat(MÌa non è un continuo: la lìiassa ( la materia risulta dalle nionadi, ma non è un i-ontinuo couie lo spazio o la uiandezza «••eometiica : è invece un discreto, una moltitudine com]M>sta in (dio <li unità, cioè di eleiìU'nti indivisibili, in numero intinito, mentre il continuo non lia paiti che iìt poivuzn (1 . Da altra ])arte, per la stessa ra,i;ione, e.uii ne,i».a che la moiiade sia un ])unto. ciò che non to«>lie che la ijnma.i;ini come alcun cIm' di simile, chiamandola, un punto ntcfffjisictt o di s<>- sf(in:(( (2). Nelle lettere al j)adre Des- l>osses, iu cui ve- diamo successivamente tutti,uli aspetti sotto cui Leibnitz concepisce le iìiona«li, (pn^ste, in relazi<Mie alla massa che esse costituiscono, sono ]>ara fonate ripetutamente a dei punti (8), anzi, nella strana i[K)tesi <lel rìnvido s<>st<(ìt- :;i(iìv (cir(\uli imma.i;ina ])er conciliare la teoria delle mo- nadi con la credenza comune della realtà <lei cori>i. e (1) Ejiìst. (d lì. Des- Bosses 81 Iii.-l. 170«l Diit. II. L 2S7, Leti, a Danijieourt 11 sctt. 171<>. 1. (2) /SV.s7. nuoto della nat. e della eotnnnie. delle sosl. Dut. IL L 58. (8) V. h))ist. al p. Des- Dosses 21 lii-. 1707 (Dut. IL I. 2S0). 1() marzo 1701), 80 apr. 1700 (Dut. 2S5), 15 fobbr. 1712 (Dut. 2i)t <' 2!)5). ti 1()2 — — I(ì3 — t^ì ;pi(\L!;;n*(' co iitoi-iiK'inciitc alle sue (lottriiit* i! do.uiìia cat- t()li<-<) della transiistauziazioue I sono considerate eoiiie veri }ninti, a cui a. u.^iii udendosi il rinculo sost((H:Ì((h\ li uiiisee tra di loro e eostituisee con essi il eoiitiiiuo (T ). 1/ idea elle le monadi hanno una posizione lU'lì o spazio o qualche cosa di analo.u'o n(Ui è una dottrina co- >;tante e risolutaiuenti' coiìfessata coiìie (juella che il corpo è un auureuato di monadi. Ma è evidente che quantun- i\\\v j)rotessi esplicitamente la dottrina contraria, è così <-lie per il solito si rappresenta le nnuiadi. « Ciascuna monade, dice culi in un<> dei riassunti del suo sistema, che fa il centro d' una sostanza composta, è ciycaììihftn da una massa c(»m])osta di un' infinità <li altre monadi, che costituiscono il corpo jnopiio di (piesta monade cen- trale ». (-f) Il can.uiamento di luo.u'o <h'lle monadi o alcun che di siuìile è implicitaììienti- ammesso in uno de,i»ii ar- liomeìiti di cui tiene mauuioi' conto e in realtà i)iù torti, con cui stahilisce la teoria delle ìuonadi (-(Mitro la (h>t- trina pi"evalent(^ di Cai-tesio secon(h) cui la matei'ia con- diste neirestensioiu'. Quest'ar.iionuuito mette in luce una ditticoltà i-eale della (h)ttiina (T una materia continua e periettainente uniforme, e noi (h>hl>iamo vedervi uno (h'i veli motivi (h'ila monadoh^uia, perclu* una conce- zione trascendente della cosa ni se delia materia, ({ual e la (h)ttrina di Leihnitz . i)resu])iM)ne la ne,i»azi(nie (U'I rcalisiifif n((fnn(l(\ e (piesta una critica delle due ipotesi opposte che jx^ssono farsi sulla materia dopo che si (' sop]>ressa V obbiettività (h'Ue (pialità sec(ui(hirie, cioè (|uella di una materia continua e jieifettamente uniforme, e r altra di corpuscoli sepai'ati da uno sjiazio vuoto. La dittìcoltà di cui si tratta (' T impossibilità di concepii'e il (li V. /'>>/.s7. al,). Di's- lios:<rs 15 tVl»l»r. 1712 e 2H m\\%. ITKJ fDiit. ;VJO), (2) l> IIIM-. « Idi; \ iiat. e I Icll; rjiz movimento in una massa c(uitinua e i)erfettamente omo- <»eiu^a : Leibiiitz mostra cìie, ludTiiiotesi della continuità della materia, per conceinre il movimento (' necessario rappresentarsi <»li stessi luoghi occupati successivamente da p(nzi(uii di materia (pialitativamente dittereiiti: (piindi. neirass(uiza di diiterenze (pialitative, in una materia con- tinua il movimento (' inconcepibile (1). I/aut(U'e ne con- clude che tra le diverse ])arti della materia bisogna am- mettere delle dirterenze (pialitative — donde il celebre deir/r/f')^///f/ ilcifViììiìhceì'HihUi —e che (jueste Ile moditicazioni delle monadi (2). Lo stessso principio consistono ih concetto è ripetuto nella M(Hiadolo<iia . dove dice : « Se le sostanze semplici non differissero per le loro (pialità, noi poi< i potrebbe osservarsi alcun cani>iamento in •1 'Ile cose che ciò e he (' nel composto non ])uò venire che da- rinoredienti sem])lici, e se le monadi fossero senza (pia- lità, non ])otrebbero distin.uuersi runa dalTaltra, perche non differisc(mo nemmeiK» per la (juaiitità, e ])er colise- li U( iiza, il pieno essendo supposto . ciascun luo.i;- o non riceverebbe semi)re lu 1 movimento che T e(piivaleiite di CIO ( he aveva ])]'ima, e uno stato di cose san bl] )e indiscer- nibile dair altro »i:3). Leibnitz imma-ina evideiit(Mneiite che nelle diverse ])arti deirestensi(me esistono delle mo- nadi differenti (differenti per i loro stati intrrni), che (pie- nte monadi scambiano la loro ])osiziom', e che nel im>- vinieiito della materia le stesse posizioni sono occui)ate (1) Sulla iuconccpibilità del moviiiiciito in nnn lìiatcria con- \\\v suUr impossibilità logiche tinua ed iiinforiiH', e in .liciicr delle (lue ipotesi oi.postc (U'I realismo naturale. «Iella eoutiuuità Iella <liseoutiuuità (lolla mat(n'ia, eoutVoiUa il mio opuseoU» e < su Ila Dot fri un dì Jioainhiì s nll 'essenza (iella ìttateria. lo vi vitoniei'o ])iù ampiaiiu'.nte nella li parte di <[Uesro Sa.n-iio. (2) /><• i/>K't aifitra sire ia^'ifn V.^. (S) Moiunioì. \K B— ](U — succt'ssivanu'iitt' da monadi (littVivnti. La i)osizioui^ delle iii<>iia<li nello spazio è pnre snpposta in nn' altro ari^o- mento, e^nalniente derisivo, contro la dottrina eartesiana della materia — nel (juale glossiamo vedere, come nel pre- cedente, nno dei pnnti di parttMiza della teoria delle mo- nadi. — Esso è t'ondato snl tatto incontestabile che V e- stensione non è un concreto ma un astratto, e che, per c(niseu,nenza, farne nn'esistenza pei* se è idealizzare niTa- strazione. « (^)nelli, ei;li dice, che v<^ji.iiono che V esten- sione st<'ssa sia una s(»stanza . rovesciano V ordine delle parole così bene che <lei ])ensieri. Oltre T estensione bi- sogna a vele nn soi^o-etto clic sia esteso, cioè a dire una sostanza a cui apparten<;a «Tessere ri[)etuta o continuata. Perchè V estensione non siiinilica che una ri])etìzione o moltiplicità continuata di ciò cln^ è ditt'uso, una pluralità, continuità, e* coesistenza delle parti : e per conse<;uenza essa non basta ]K'r is])ienare la natura stessa della so- stanza ditt'usa o ripetuta, di cui la nozione è anteriore a quella della sua ri[)etizioiu* ». (1) (^uale potrebbe e sere, secondo Leibnitz, <piesta sostanza, se non quella che e<»ii unicamente ammette, vale a dire la Sostanza semplice, la monade ? Certo, sarebbe ditlicile di dire se e sino a qual punto e<;li avrebbe att(»rmato esplicitamente la sup- l>osizione implicitamente ammessa nei ra.i;ionamenti pre- cech'Uti, cioè che le monadi hanno relazioni locali ed e- sistono m^llo spazio. Forse non vi lia anclie <pii che mia su<;\i::estione oscura dell' idea più o meno incosciente <li un substratnm corpore<^ o quasi corporeo de*^li stati in- terni delle monadi. Ma essa <li viene una dottrina espli- cita in (pielle stesse lettere al padre Des-Bosses clie con- ten«iono le projiosizioni più rigorosamente panpsichiste che noi tro\iamo in Leibnitz. L'estensione, dice in una (1) Lctt. IS oiuoiu» imi Dut. II. 1. 2:^7. Cfr. Es. dei priiic. (li Mnlchr. Dut. II. 1. '>05. — 165 - di «pieste lettere «è alle cose continuate o ripetute come il numero alle cose nunuM'ate : vale a dire, 1<( s(>sf((n:(( seìììpìicc, ijìKinfìiìUinv non ahhid tir sv csfrusionCj lui ìion- dimeno poi^izi(>ni\ che è iì f(>n<hiìm'nf(t (h'iresf('n>ii(>n(% l'e- stensione essendo la simultanea continua ripetizione della posizione, come diciamo che la lineji è pro(h)tta dallo scoirere del punto ». (1) Ap])resso l'autore ne.iL^'herà enei\i;i cani ente che le ìiionadi abbiano ])osizione (2) : l'idea, venuta i)er un istante a inaila, sarà res])inta nuo- vamente n(*;i,ii strati subcos(*ienti del suo pensiero. La dottrina che la monach' è costituita di entelechia e di materia prima — che si trova anch'essa nell'episto- hirio al ])adre Des-Hosses — si le|>a evidentemente alla ]H'oposizione ultimamente citata. La materia ])rima, dice rautore, «è la i)otenza passiva ])rimitiva^> il principio della r<\sistenza, che consiste, non nell'estensione, ma nella condizi<me delF estcmsione (8) e compie V ent(*- lechia o ])otenza attiva primitiva in modo che ne ven- <Xi\ la sostanza perfetta, cioè la monade. Tale mate- ria persiste e aderisce alla sua entelechia, e così da molte momnli risulta la materia seconda (cioè la materia pro[)riamente detta) con le forze derivate, le azi(mi, le passioni, che non sono se non (Miti per a<;;L;re«;azi<me » (4). EvidentcMuente la materia prima ch'Ila monade non è che la sua proprit^tà di avere una posizione : (piesta ma- teria i)rima è la condizione dell' estensione perchè (se- condo la proi)osizione sopracitata) l'estensione è « la si- multanen continua ripetizione della ])osizione » ; essa è anche la comliziime dell' impenetrabilità, perchè <piesta (1) Lcff. al 1». />/'s - Jìoases -1 lui;li(> 1707 D. II. I. 2Sn. (2) V. n. 2 ]K ir)S. (S) ('tv. Leti, al p. Dcs-Iiosscs 15 fcbUr. 1712: latteria piiiuina ^ la ('(nidizionc doircsti^isioue 0 della resistenza. (1) Ep. al 1». Des-Hosses 11 marzo 1701) I). II. 1. 2r)S. — 166 pr<)l)ri(^tji (Iella materia, cioè rimpossibilità che più por- zioni (listiiitc^ (li materia oceupiiio simultaueameute lo stesso spazio, risulta da questo tatto elementare, ehe eiaseuua monade ha una posizione distinta, ineomuniea- l>ile allo stesso tempo ad altre monadi. 1/ enteleeliia della uionade è il suo contenuto interno o puranuuite l)sieliieo, eiuisiderato eoiue t'orza, come causa del luovi- mento. Secondo (piesta conceziiuie della monade, che avvicina il suo sistema alT ilozoismo, Leibnitz può tro- v^ire ueir attività psicliica delle monadi una ('((i(s(( cffi- vìvììii\ nel senso stretto, del lìiovinu'nto, percliè (juesto non è pili un sciu})lice fenomeno subbiettivo, ma si risolve nei caniiiamenti <li [M)sizione delle monadi, e fra un caiiiiia- mento di ])osizione <li una monade e il suo stato iuterno che lo deteri^ina, non vi ha semplice aiinonia presta- l)ilita. ma azione reale, trattamlosi di due modiiìcazi<nii di una stessa monade. iì\\\ la spiegazione antropomorti- stica si ai)plica dun(|ue in tutto il suo ri,i;-ore. L'autore continua a i)arlare della nuiterUi prima delle luonadi, anche dopo le proposizioni in cui atterìua che esse n<m lianno jjosizione e non ccnisistono che in percezioni ed appetiti : (1) allora (|uesto teiiuine riceve necessarianuMite nn senso foizato, clie non può avere altro scojx) che di adattare al nuovo ])unto di vista una formula nata a un punto di vista radicalnu'ute digerente 2). (1) Ep. al. p. Dcs-Hosses 20 sott. 1712 D. II. 1. :U)2. (2) Nel concetto rijiorosiMiiciitc spiritualista della monade, la materia i)rima, cioè il prinei]>io dell' estensione e della resi- st<'nza. non ])nò essere che «[nestjj ]>roprietà della monade, con- siderata come sempliee serie di junrezioni e di api»etiti . ehe è il fondamento del fenomeno materia. Sn ciò l'iintore non ei dà elio r indicazione <'h<' la materia i)rinm e la ]>otenza ])assiva delle monadi. (Oft. omn. Dnt. II. I. ]>. o()2. Cfr. p. 22S. Epist. ad Vaiiiiernm 4 «-inuno 171(1 IV in tìne). Siee<nne altrove accenna — 167 Sembrerebbe che fra tutti i sislemi panpsicìn'sti il .sistema di Leibnitz sia cpiello in cui vi avrebbe meno rai»ione di cei-care una s])iei:.azione ;introp(Mìioiiistica del movimento . Leibnitz è un iìnpnh^i<H(i><l<i, cì<k- amiuette all'idea (die la materia deriva dalla confusione «Ielle i>ereezi<uii delle m<»nadi Unite. (p<'r eni esse si a]>parist'on«> come un mondo di OiiH'ctti estesi e dotati delle altre pr<»prietà sensil»i!i —v. Teod . V^ 124 e Uei>lica a lìavle sul sist. «leli'arm. i>restab.. D. II. i». 1. 88, oefr. Billin^cr Dilueidation. pliilosoi>li. v\ 245 eilato in I). IL ]>. 1. 227): e sieeonn\ d'altra parte, rieomlnce l'uno all' altro i tr<' concetti «Iella confusioiH' delle pei'c<'zioni delle monadi. <l<'lla loro passività e della loi'o limitatezza o impci*fc/i(Mic f.Monad 51-52 1). IL 1. 2<). Kepi, a Bayle sul sist. d. ai-m. prcst. D. IL 1. 8S. Ep. al 1». I)i's-B.)SM's II) oiu-. 1712 D il. IL 1. 22.1): noi ])ossiamo «lare alla sua in<licazi«»n«' rinterpr«'tazi«)ne clic la ma- teria i)rima «' la limitazi«)ne «Ielle nì«»nadi . i>er cni non hanno «lei r«'ale. clu; una percezione confusa. Noi ]M»ssiamo inoltre sii]»- porre ehe, ve«lend«) n«'lla limitazione «Ielle monadi (p<'i' cui «'ss<' m)n hanno che una rappresentazi«)ne confusn «h'il'univ crso il fon- «lament«» «Iella materialità, «doì' «lei loro ajjpaiin' <<nne un mon«lo «li «•«)ri>i, «'i-li rì.iiuar<la all<> st«'ss«» tenijK» il rohir «h-lla limitazion«' di cìjiscuna m«>na«le (p<'r cui la sua imnia.ninc confusa «l«d- runivers«) ha una «> un'altra forma) come il fomlann-nto di'lla l«)ealità, ci«>«' «leira])parire «li «'ssa. «» i»intt«»sto «lei suo fenomem», in uno 0 in un altr«> i>unto «lello si>azi«>. 11 ])unto dello spazi«» eorrisi)«m«h'nte a una mona<le «', «lie»' L<'ihnitz. il imnt<> «li vista seeon«l«) cui essa si rai>i>r«'senta 1* uni vers«>. (Sist . nm>vo «U'ila nat. e «Iella e«>m. «Ielle s«>st. I). ILI. 5:'>. \U^\A. a Bayle sul sist. «hdl'arm. ])r«5st. D. IL 1. x:\). O-iii m«nm«l«' infatti ha la rap- pres«uitazi«)ne «l<drint«'r«) universo, ma scc«nido nn ccito punto «li vista. (M«>na«l«>l. 58-51). Princ. «U'ila nat. «' «h'ila -raz. :^ «' 12. L<'tt. a«l Arnauld 21^ niarz*) llilM). K««i»l. a Bayle sul sist. d. arni. l»rest. I). IL L8(), \i\s\). alla IV. U«'i»l. «li ('lark«*iM. Lett. a l)an.u,ie«»urt 11 sett. 171(1 L, Te«Mli«'. vN 21H «' v> H57, «'<•«•.): <iuest«) fa (he la suji rai>pr«'sentazion«' sia «leformata in nn sens«) o in un altr«>, eh«' p. «'. essa ha una ]M'r«'«'zi«ni«' piìi confusa «h'ile 1()S vlìv il m<)viiìi('iit(» di mi (oi-jm) r s('in[)i'(' dovuto all'urto di altii COI])!. Ora — stando alle tcudcuze spoiitaucc <leì iiosti-o spirito — il ìMoviuH'iito pei' Furto ci sembra an- eli* esso, come l'azione volontaria, un tatto elìe si com- prende [)er se stesso, e ])i'opi'io non meno di (piesta (<*ome vetlremo nel capitolo sei;uente) a servire da sjìie-,i;azione inii\ crsale dei tenomeni tìsici: è solamente (piando non possiaiìio spie^ailo per V urto elle il movimento ci semina s|)ontaneo, e clie noi ceicliiamo di spiccicarlo as- similandolo alTazione volontaria. Ma Leibnitz aiìimetteva al tempo stesso e che il mo\ imento e s(Mnpre dovuto all'ulto e elle esso è sem])re spontaneo. Per com})reiidere come le monadi siano delle forze, in altri termini come il pani)sicliisiuo per Leibnitz non sia solamente una so- ]>:n*ti <-ÌM' <'liÌ!mi;i più loiitMiic . r iiicih» coiifiisa di quelle clic ' clii.Miii;! i>iii \iciiH'. il imiito di vista «li una uiouinlc a un uu»- iiu'Uto <lato e il puutt» tl<*ll<) spazio clic, ]»cr is])ic]narc la sua ra]»prcsciilazi«mc dciruuivci'so in «questo luumcuto, luu dobbiamo • suppone cjuuc punto di ]u-os]u'ttiva. Il luojz,o clic in un dato nioiiicnto attribuiamo a una nuuuidc . o. ciò clic vale !( stesso, il punto di \ista che le assi'^nianu». e dun<[ue determinato (se le monadi u<mi <onsist«uio clic in percezioni ed a])petiti) «bilia natura «Ielle su«' p«'rc«'zioni in <|U«*st«> nuuuento. «-he le rai>presen- tano una o un'altra pr«>spcttiva «b'IT univers«>. Secon«b> «juesto c«»nc«'tto . «|uan<b» immaginiamo cli«' la momub* cangia «li ]>osi- zi«mc . la realtà clic «-orrisiMUHb' a «incsta immilline è che essa «aniiia le siu' ]n'r«'«'zi(uii in mo«b> cln' runivci'so e rai>]>reseutato a un imnto «li vista «litier«'ntc. Allora «lire ch«' essa T' una forza. cìi«' «' la «-ausa «b'I pro]»rio movim«'nt«> «> «bd punto «bdla materia cÌH' le «-orrisjMMKle, si^nitì«'h«'i*à «-lu' «[u«'sto can:Liiameut«) (bdle su«' p«'rc«'ZÌ«Mii «' sp«>ntan«M>. «•h«' «• «lovut«> JiUa sua pr«>i>ria atti- vità. Così la spi«'fj.azi«>n«* antr«)poni«ntistica «bd m«>viment«> prende un' altra t'orma, la s«da «-lu' >ia l«>;iica in un ]Knii>sichismo ri- j»«u*oso . «' «lu' . ««uiK' \ «'«li«'m«», e iK'rtV'ttanK'utt' c«)ut'«)rme alle ' dottrine «li Lciluiitz. — 1H9 luzione del problema del mondo esteriore, ma anclie una teotia sulle cause, una spie<»azione antropomortìstica dei fenomeni tisici, noi (b)bbiamo dunipie ris])ondere alla quistione : perchè il movimento, (luantumpie dovuti) al- Turto, sembri nondimeno a Leibnitz si)ontaneo. La risposta che si ])resenta a prima vista è che «pu'- sta è una ccmseouenza della dottrina (hdl' armonia pre- stabilita. Sec(md<) (piesta dottrina i»ii stati susse<iuenti di ciascuna sostanza sono (b'terminati unicamente' dai suoi stati precedenti e (bilia leo<»e interna che rei^-ola il suo sviluppo. Ci() si applica i)ure alle posizioni succes- sive, ciot^ ai movimenti, di ciascun i)unto della materia. ci(> che avviene in un punto della materia essendo la manit'estaziime fenomenale di ciò clic avviene nella mo- nade di cui (jiiesto punto (* il punto di vista. Leibnitz ammette duiKpie che le posizi(mi susseonenti ijercorse da ciascun punto della materia sono determinate dalle posizi(mi che (luesto i)unto ha i)rece(b'ntemente ])ercorse e (bilia le.ii-.i-'e interna che re,i;ola la serie (U'ile sue i^osi- zioni successive, cioì' il suo movimento (Il C'osi il mo- (1) Niente u«>n ac«a«le in un corpusc«)l«K «lic«' Leibnitz. « n«'m- nu'n«» por l'urto dei corpi circ«>stanti, ch«' mm sc-na «la «•{«> «he ^ o-ià interno, e che ne p«>ssa turbare Tonline N«ni vi ha <b'lbi viob'uza ludle s«»stanze «die al «li fu«>ri, «■ n«'ll«' a).- parenze. E ci«) «' si v«'ro che // wonnivHto dì //na/siasi /jnulo rhr si possa prendere nel mondo . si fa in ana linea d' una natura determinata, e/te questo punto ha preso una volta per tutte, e ehe niente non (jli farà mai laseiare. VA v «pudb) che io cr«Mb» p«»t«r dire di pili precis«) e di più «'hiar«» per «leoli spiriti oeometri«i. «piaiituiKiue «lueste sorte «U linee «»ltrepassin«» intinitamente «luelb' che uno spirit«> fìnit«) pu«> c«)m]»ren«lere ». È neirentelechia, a-- giunoi' l'autore, di «-ni «piesto punt«) è il punt«» «li vista, eh.' si tr«)va pr«»priamente la s]Mnitaneità : « rentil«Mdiia «'sprinu' la cuiva prestabilita stessa, «li s«)rta «-lu' in «iuest«» sens«» nient«' vi ha di vi«dento a su«» ri<;uar«b) ». (Kepi. aRa.vle sul sist. «bill' arni, prest. I). IL 1. S3). - 170 — 171 - ìiioviint'uto (li un corpo r s(miij)1(' spoiitiuico, v non è dovuto che a cause interiori: Furto di corpi esteriori è l'antecedente costante, ma non la causa, del movimento; tra 4|uest' antecedente e il movimento che lo se^^ue non vi ha connessione causale, ma semplicemente armonia j)restal)ilita. Ma se la spontaneità del movinuMito non tosse che una conseguenza della (h)ttrina (h'ITarmonia prestabilita, essa non ])otrel)l)e essere una [)r(Mnessa della (h)ttrina delle monadi. Infatti la <lottrina deiraiinonia prestabilita è essa stessa una conseguenza della dottrina delle mo- nadi. Ammettendo che non vi hanno che esseri spiri- tuali, oiiiii azione mutua tra,i;li esseri diviene necessa- liamente incomprensibile. Noi non coìni)rendiaiìio <he uno spiiito ai^isca su di un altro che per rintermediario di fenomeni esteriori e sensibili, la parola, il movimento, ecc.: ma Fazione immediata del pensieio sui pensiero, della volontà sulla volontà, in una parola del puro spi- rito sul |)iiro s])irit(>, se dovessimo ammetterla come un fatto, non [)oti-ebbc essere \ìvv noi che un lìiistei'o ine- splicabile. Ora una seijuenza che ci send)ra incompren- sibile, noi non possiamo considerarla come, causazione vera, cioè etticiente (se si tratta <li una re((uenza imme- me<liata, fra i cui' termini, i)ei' conse^uejiza, non i)os- siamo sup])ori'e deur inteiinediaii (»s])licativi ) : perchè causa etiiciente si;i.nitica un fatto, a cui non solo un altio fatto se^ue invariabilmente, ma che s])ie«:,a quest' altro fatto, lo fa c(Hìi])rendere. Così il pani>sichismo, a meno che m)n vo<;lia rinunziare alT idea <li causa efhciente, deve optare fra due ipotesi : o il monismo, ne<;ando ogni distinzicme reale fra gli esseii, e ammetten(h) un essere spirituale unico, che è la sostanza di tutto ciò clie esiste — è r ipotesi che ha scelto Schopenauer, e a cui inclinano alcuni discepoli moderni di Leibnitz — ; o un sistema che, ammettendo una pluralità di esseri distinti, nega ogni azioiu' reale fra gli esseri creati (il Creatore fa eccezione perchè onnipotente e imperscrutabile) — è T ipotesi che ha scelto Leibnitz, c(mformandosi aUa iilosotìa teologica (udinaria.— Ne segue che se la spontaneità del movi- mento è un semplice coiollario deirarmonia prestabilita, ipiesta essendo alla sua volta un corollario della teoria delle monadi, Leibnitz si aggirerebbe in un circolo vi- zioso, (piando prova resistenza disile monadi per la spon- taneità del mtìvimeiito — perchè è a ci(» che si riduce la potenza attiva della materia—; e noi mni ]>otremmo ve- dere in (juesta prova un motivo reale della teoria delle monadi, uè considerare (pu'.sta t(M)ria c(nne una si>iega- zione antroponKU-tistk'a d(d movimento. Ma siccome e evi(h'nte che rautore hi considera come tale (1), noi (h)b- biamo ammettere ch'(^gii ha avuto uiraltra raghme. in- dipemhMite dalla teoria (hdle monadi e dalle sue conse- guenze, per riguardare il movimento come spontaneo, e non vedere nell'urto una causa sutticieute, perfettamente esplicativa, (h'I fenomeno. Xià fenomeni che lo spirito umano trova i più propri a servire da si)iegazione universale delle cose, si ven- tica spesso (pu-sto ap])arente para(h>sso (che noi spieghe- r(^mo nel cap. IV), <'ioè che essi ci sembrano al tempo stesso i più intelligibili e i più misteriosi di tutti i tc^no- ineiii. In (luanto alla c(nnunicazione del movimento ì>er rurto-che, comò abbiamo notato, è uno di tali feinnueìn— rio che vi vediamo sovratutto di misteri(»so è la con- servazione inih'tìnita del movimento impresso, questo lato della legge (Finerzia (die ta che il movimento una volta ÌHc(nninciato, lu^r assenza di cause esteriori ritardanti, deve continuare per un tempo inlinito e con la stessa velocità. L' incinnpnmsibilità di (piesto fatto (la (piale, secondo noi, non è che un fenonuMio psicologic(», che (1) V. i»a-. 14J)-151. h % 1*^- — 172 — non ])n)va alcuìi mistero relè nel fatiti stesso) si 8i)ieoa facilmente per la sua conti addizione con le sni»'<^estioni spontanee delle nostre esperienze più familiari. Xoi ve- diamo ciascun corpo clie si muove rallentarsi uiadual- nuMite e infine ritornare in (piiete : ne concludiamo istin- tivamente che il movimento va perdendosi mano luano e linisce per isparire interamente (1). Da (juesta' incom- l^rensibilità della continuazione indefinita del movinuMito che il corpo urtante ha iuipiesso nel corpc» urtato, alcuni ne hanno concluso che V urto può essere la causa del cominciauu'uto del movimento, ma la sua continuazicuie deve avere un'altra causa, cioè una causa misteriosa, una fhr:((, lichiedente nel corpo che si nino ve, e h\ <-ui azioiu^ continua spie<^a la continuazione del movimento. Ma siccome sar*d)he assurdo di dividere il movimento in due tempi, nel primo dei (piali esso sarebbe dovuto air nrto del corpo esteriore, e nel secondi» alla torza ri- sie<lente nel corjx) stesso che si muove, altri ne hanno inferito, con più logica, che T uito non è la causa, ma P occasioue del moviiuento : che tanto la continuazione (juanto il <-oiuinciameìito di (piesto sono do\'uti alila rìs ui^ìfd, cioè risiedente nel corjx) che si muove: che Furto non fa che svegliarne T attività, e il moviiuento che lo seguile è Tettètto di (piest'attività che si si)ìe">a continua- mente (2). (^lesta è 1* ojMnionc^ di Leilenitz, salvo che per lui la ris insiffi n<ui è una (pialità occulta o nn essere misterioso inerente nel corpo che si muove, ma la tVnza <li <*ui abbiaiuo coscienza, e la sola, oltre l'urto, che ci sembii intelli<;ibile, cioè lo spiriti», che anima il ccupo. e Uì mette in moximento. (^lesta i)roposizione e le deduzioni ])recedenti sono (1) Ct'r. i-aj». IV. (2) Vìi'. Stewart Eleni. «lolla tìlos. dello spir. um. vo\. 1. e. I. sezione "J. 173 pienamente confermate (hii testi dell" autore. C'osi <\ì;1ì dice : « Bisogna sapere che ai corpi non si dà nuova forza, ma soltanto si determina e si moditica da.uli altri ([uella in essi esistente». (1) « L'ultima ra.i»ione del moto nella materia è la forza impressa nella creazione, che inerisce in ciascun corjx), ma che variamente nella na- tura viene limitata e ristretta per il coutlitto stesso dei corpi.... Una sostanza creata non liceve da un'altra so- stanza creata la forza stessa di a.«i.ire, ma solo i limiti e la deti^rminazione (U'I suo sforzo preesistente, «> della sua virtù di a.t;ire». (2) Ciò che prova resistenza di quella r/.s' insifd nei corpi, è sovratutto la pioprietà che essi hanno di conservare il movimento ricevuto. lu <*iò che è meramente passivo (cioè, come sappiamo, nella materia nuda, senza la forza o entelechia) «non vi ha, e.uli dice, alcuna capacità di ricevere e rifcncrc il lìiovi- mento». (3) E altrove più chiaramente : « Ciuanto è certo che la materia non comincia da se stessji il movimento, altrettanto lo è che il corpo conserva chi sé rimp«'to che ha una volta ac(pustato, ed è costante nella sua le.u.ui*'- rezza, ossia fa sforzo l)er ])eiseverare in (piesta stessa via <li can,t;iamento successivo, in cui è una volta entrata. Le (piali attività e ent(Oechie non |)otendo esseic modi- ficazioni della materia piima o della massa, cosa essen- zialmente [)assiva, si deve .giudicare perci(^ che deve tro- varsi nella sostaiiza corj)orea un'entelechia prima, un pii- mo insomma capace di attività, cù)è una forza motrice pri- mitiva, che a<;-^iun,i;en(h)si all' estensì(nie o a ci('» che è puramente <;eometrico, e alla massa o a cii^ che vi ha di puramente materiale, agisce incessantemente, ma è diversamente modificata nel suo sfoi'zo e il suo iin])eto (1) hp. al />. /V.s- />V).v.sr.s' li) a.ii. 1715 Dut. IL L 'Mi. (2) Ih' fH-inia, pliìl. ntwiuL D. IL I. 20. (H) A/>. (Hi lìofmmni 27 sett, lHi)H D IL L 2t;(l. da^li Ulti (Iri (M»ri)i ». 1) Questa forza, ai^i::iiiuo;e Fautore, è analoga airaninia de<;li esseri viventi, ed è una sostanza, elle e,i;ii chiama la monade (2). Come ahlnamo */ih osservato, la monatle non può es- sere, nel senso ri«;(>roso, una forza, eioè una eausa cjfi- cicHfc del movimento, perchè un movimento che si pi"e- tende un effetto delTattività <li eerte monadi, nt)n è che un semplice fenonu'uo, un:i percezione, di alti-e monadi. Confoiniemente alla dottrina delF armonia prestahilita, una monade non ]>uò essere causa che delle sue proprie moditicazi(mi . per conse^ueuza, nel concetto riu'orosa- mente spiritnalista della monad(% che dei suoi pro])ri stati interni, percezioni o appetiti. Così noi abbiamo accennato in una notti precedente che la proposizione che la miMiadt' è caus;i del nnyvimento. del trasporto da un punto a un altro dello spazio del punto disila materia che le corrispcmde, non può avere che un sii;- nifi cato, ])erfettamente coerente in un panì)sichismo i'i;;-oroso, cioè che essa can.u'ia, per virtù propria, le sue percezioni in modo da rappresentarsi V universo a un altro ])unto di vista. Il concetto antropomortìsti«'o della causa, nel si- stema di Leibnitz, ci si m<»stra <li là sotto un altro aspetto, cioè in quanto esso è applicato, non alla s[)ie- ^azi<>ne u-eneiale dei fenonu'ui tisici, ma a quella de^ii stati interni dv\U' monadi, dei fenoìneni psichici che le costituiscono. PotrebÌK' seuìbiai-e clu^ in un sistema che neua la realtà della materia, e non ammette altro di reale che il fatto psichico, non vi sia più luo^o a parlare di spie<;"a- ziom* anti'opomortistica, di un' assimilazi(me di tutti i fatti reali ai fatti umani, allo scopo di comprenderne l' incatiMiamento causale. Se si ammette che tutti i fatti (1) f>r i/fstt Hfff. sirr de ri hìs. II. (2) fhiiL 11-1*2. 175 reali senio dei fatti ])sichici — dottrina che non ])uò es- sere che una risposta alla (piistione del nunido esterioi-e — essi si sono *^\ì\ assimilati ])er ciò stesso ai fatti umani : allora, (lualundue sia il fatto che si ])renda come tipo (h'ila causazicme, facendolo servire da spie.uazione uni- vei'sale di tutti i fatti, esso sarà necessariamente' un fatto umano: sicché parrebbe che non vi sia motivo d \ edere nella scelta di un fatto i>iuttosto che di un altio mia conseiiuenza <lella tendenza del nostro spiiito ad assimi- lare tutte le azioni reali all'azione umana, ad elevare questa a tii)o universale della causalità. 'l'nttavia anche questa scelta, in (piesti sistemi, può essere, ed è ettètti vameiite, una manifestazione di (jucsta tendenza. Tra i fatti che (juesti sistemi considerano <-ome psichici, \'e ne ha una i)arte . le sensazioni esteriori . che noi siamo abituati a consideiare cernie fatti oì)biettivi, tìsici. op])o- nendoli. per consci^uenza, ai fatti nostri, ai fatti umani: cosi, in (pu'sti sistemi, la tendenza a una spiegazione anti'opennortistica delle cose si manifesta in ciò. che i fatti che essi elevano a tipo universale <li causazione, facendoli servire alla spit\i;azione di tutti,nli altri, sono ])resi fra <juelli che noi sogliamo consideiare come u- mani, come nostii, e n<m fra (|uelli che so.uliamo consi- derare come tisici. K ciò che si vede cenciai UM'Ute nei sistemi nfcfdfisiri che ne'ì'ano la realtà del mondo mate- riale o la sua esistenza indi])endente dallo s])irito. In tali sistemi i fatti che si fanno seivire da sjne.uazione universale delle cose, si riducono a <lue : Fattività inte- riore del pensiero (sistemi idcdlisH) (1) e l'azione della volontà. 11 fatto HìHdìKf, che Leibnitz eleva a tipo di sjjie^ua- zione universale dei fatti jjsichiei che, secondo lui, costi- tuiscono il reale, cioè le nnmadi, è Fazione della vohnità. (1) V. ;utic. V — 176 Le iii(»iia(lì coiisistoiio, coiiH' sa|)])iaìiio, in percezioni ed appetiti, e l'appetito è nelle nionadi infeiioii, eioè nella iiiiiiiensa ina,u"^ioran/a delle monadi, ciò ehe nella nio- natle dominante delT nom<» è la volontà (1). La monade (e s])eeialmente, come vedremo, le monadi interiori) è nno s[jeeelno (lelTuiiiverso, eiaseuua secondo il sno |>unto di vista : una rappresentazione del moiulo, che can;i;ia secondo i canii'iamenti del mondo stesso e (pu'lli del punto <li vista della monade (2). Kidncemlo V essenza della monade alla rappresentazione delT universo, Leil)- nitz crede di ti'ovarvi una s])ie^azione delTarmonia pre- stabilita : tutte le ìnonadi essendo delle ra[)j>resentazioni dello stesso universo, è questa la ia<;ione j)er cui esse si accordano tra di loro: basta che una mona(h^ sia sta- ta una volta e al cominciamento una i'ap[)i'esentazi<uie delTuni verso secondo il suo punto di vista, perchè essa lo sia pei])etua mente, lo stato se,uuente <li nnji monade essendo una cousei;uenza del suo stato [jrecedente. (8) Le monadi dunque cangiano spontaneamente i loro stati, cioè le loro rajipresentazioni «leiruin'verso, secondo una le;4.i;e inteiiia uniforme, (piantumjue intinitamente complessa, la cui formula si otterrebbe — è ciò almeno che send>ra supporre la s])iei»azione ])r(M*edente deirarmonia i)restabilita — combinando le lei^iii tlei cani>'iamenti delFu- niverso con (pu*lle dei can^uiamenti del punto di vista delle monadi (4). Ma i cangiamenti delle rap))resentazioni (1) V. Comm. de an. hrutor. XII. (2) \'. Mintali. ri()-;")7. ()S . 77. l*rhH'. de/la tnil. e della (jraz. *>, 12, li. /ù's/toiis. ini Sfa/ti. ohscrruf. ìu\ Wi. 2, Lettera a Duii- f/ìeourt 11 sett. 17115. lupi, a liat/fr sul sisf. delV arm. presta- fììl. I). II. 1. S{\. J/is'jjo>:/a alla I\ rrplìea di Clarke 1)1, ecc.). (S) Jì*isf>. alla I V replica di Clarhe ili. Lett. a Dafjineoart. 11 sett. 17PJ. 1. ecc. (1) V. lìepl. a Tiajjle sul sisf. dell'arm . prestah. e^ Safjf/i sulla bontà di />io ecc. ^ iOA . <• ( tV. il [H'iiiio scritti» ed. Diit. — 177 - delle monadi non sono sem]>licemente s])ontanei, ma aiu-lie, in nn senso, volontari : la momnle è uno spec- cliio delPuniverso, ma uno specchio viveide, cioè dotato di attività (1). Il prim-ipio interno dei cangiamenti della mona<h% cioè al quale è (h)vuto il passa .ii'<;io da una i>er- cezione ad un' altra, è V aj)petito : dalle j)ercezioni del momento precedente la mona<le ])assa alle ])eicezioni del moììiento suss(^<;u(Mite, peichè tende a (pieste jHMcezioni, percliè le desi<lera, [)er<'liè, in celta .uuisa, le vuole (2) Essa non va alle nuove percezioni pei* una conoscenza e uir a])plicazione della formula sapiente clic re,i»<)la i can<;iamenti della sua ra])])i-esentazione dell* univeiso ; vi va «ristinto, per il semplice im])ulso di un'apiK'tizione incosciente ; j)erchè ten(h^ al bene e rifuii^e dal male, e h* percezi<mi re,i»<Oate sono sentite da essa come un bene e le percezioni sregolate <*ome un male (S). La s})ie^'azion(* <li Leibnitz delle ])ercezioni delle numadi lia dei ])unti di contatto con l'iclealismo (che spiega le ])ei-- cezioni esteriori })er Fattività del j>ejisiero), jKM-chè una volta cIh' le j)ei*<'ezioni si fanno nascei'c sj)ontaneamente [)vv Fattività dello spirito, esse vendono necessaiiamente assimilate al jxmsiero. Ma (piesta sj>iei;azione si ciistin^u** da (pu'lle ])roj)rie dei sistemi idealisti, percliè la paite ])i"incipale è ass(\i>-nata alla volontà. L'ultima ])arola «Iella ])jij;'. 88 (lii<><;<> citato u p. UJII in iiotji. Ciò pvvò non )M»trcbl»c jq»- ]>licarsi strcttjinientc clic alh' monadi inferiori. \'. ciò clic diremo in se«iuito). (1) Prièie. ile Ila ani. e il ella ijraz. S. (2) Moìiitd. 11-15 <' 7!>. Prièie. tiella naf. e dilla f/raz. 2-'A, Risjè. alla I y repl. ili (Harhe \V>, Ciìunnenf. ifean. hrulia'. XII. Kpist. al p. Des-Iiosses 2'A n^x- 17l;>. Animadr. einta 'Ilieor. MììI. Stitlìl. JII. Jì*espoìts. ad Slahl. ahsercat. ad XXI. 1-2. Liti, a Datìifieourt 11 sett. 171(>, ecc. (8) V. Prine. della aat. r ili'lla f/raz. :?. .1 2 17S filosofia (li Lcilmitz, come di o<»ni altra forma della fi- losofia aiitro|)omorfìsta (ad ecceziom* dvW idealismo) è che r azione volontaria è il tipo unico di o;^ni azione reale, clic la causa univeisale, il principio <li futfo ciò che esiste, è la volontà. Così il sistema di Leihnitz e più vicino di «pianto sembrerebbe a prima vista a (pie.uli alfii sisteiui panpsichisti (Schopenaueì', M. de Birran, A\'uinlt . Wallace, ecc.) che ved(mo nella volontà o in (jualche cosa di analogo questa essenza spirituale che è, secoiìdo il panpsichismo, 1'/// sv della materia. Un^)sservazione più im])ortante che dobbiamo taie su (pU'sta spie^azi(nu' v<>lizionale de^li stati interni delle monadi fé per cui la line <lella nostra es])osizione della dottrina di L<Mbnitz si legherà vìA comiiu'iamento) è cJie essa non è che una versione, in lin<4ua,i;\t;io ri^^orosamente panpsicliista, della formula che la ìuonade è una tVnza, una causa elììciente del movimento. L' essenza del pan- psichismo consiste in ([uesta proposizione che, come dice Clilford. ciò clic si chiama Tuniverso materiale è la i)it- tura in uuo s[)irito umain» delTuniveiso i-eale debili ele- menti psichici. Xe se»»ue, nel sistema di Leibnitz, che il monde» reale delle mona<li, costituito di puri fatti psi- chici, e il luomlo tisico fenomenale si ciurispondono perfettanu'iite : che per o,i>ni avverimento del prime» vi ha un avveninuMit<» viiniralvute, <piantun((ue di natura diversa, uel seconih), e viceversa : in modo che le serie debili avvenimenti che succe(h>no in uno dei due moiuli, siano coiue la tiaduzione, in un linunaiiiiio <litferente, (Ielle serie debili avvenintenti che succedono nell'altro (1). Ciò si veritica (U'ila maniera i»iù esatta per le monadi in- feriori, che non hanno altia funzione che di costituire (1) CtV. Taiiio. I/intclli-. p. I. 1. IV. v. 2. V e p. II. 1. 11. e. 1. VII \\i\X\\ tiiiivlc. 179 Vin se della materia. È a <iueste monadi che si ai)i)lica strettamente l'espressione che la monade (' uuo specchio delTuniverso : esse non hanno ni ra!L5;ione, che non ap- partiene che alle monadi piii elevate, m'' la ('<nìse('ì{:i(mr ])uramente emjnrica che, nelle monadi dominanti de^li animali, imita la l'anione, ni la memoria, su cui (pu*sta consecuzione (' fondata: (1) le loro oscure ])ercezioni non lasciano in esse alcun eco (2); esse hanno sensaziiuu', ma non lud sens(» stretto, rappresentazioni. Ciò (^ provato dairinva riabilità della loro azione esteriore (perchè esse sono le fòrze animatrici della mateiia) che mostra che non, vi ha in esse alcun [)ensiero ni alcuna traccia del- l'esperienza passata. Così il se<i:uit(» delle percezi<uii di una di (jueste monadi — cio(% non tenendo cont<» dejL»li appetiti che deteriiiinano il passa,u:i»io da una ])ei-cezione a un'altra, dei suoi stati interni — (», j)ossiamo suppoilo, un se<;uito di prospettive^ (h'ITuniverso, clic cangiano se- condo i cani;'iamenti dell'universo stesso e (pu*lli del i)unto di vista della monade. La nuuiade è sempre una iaj)pre- sentazione dell'universo, ma a un punto di vista stMiipie ean<;iante — la ragione di ciò, come Aedremo in seguito, (m1 movimento incessante di o^iii [)articola (h^lla mateiia — : per conse,i>,uenza, (piando la monade passa da uno stato ad un altro, ci('> che definisce i due stati e la loi'o diffe- renza, V che la monade nel ])rimo stato si rai>pr(^^enta l'universo a un punto di vista, nel secondo stato se lo rappresenta a un altro punto di vista. Ma il ])unto d\ vista di una monade, a un momento (hito, coirispeuide al punto dello spazio occupato, in(piestomom(*nto, dal punt(» materiale che (^ il fenomeno di (piesta nu)nad(i (3). hun- (pie la posizione del punto materiale, a un tal momento, (1) V. Moiijid. 11». l'(», 2J>, L*riuc. «Iella iiat. «- «Iella ;;raz. \ e 5. (2) V. IM'inc. «Iella nat. e «libila <;raz. t. (3) V. la ii«»ta (2) a [«aj;. \m. ISO e lo stato intc'iiio della inoiia<U', cioè la sua prospettiva (leirnniverso, allo stesso ihoinento, si coi rispondono per- tettaiiìente, e Tnno dei due l'atti dà e indiea T altro, ed è alla sua volta dato e indicato dall'altro. Kd è «-osi clie o-li avvenimenti <lel mondo tisico fenimuìiah' rapin-esen- tano .uli avvenimenti del mondo r<'ale delle monaili, poi- ché i i)rimi ìH)n sono che ilei cangiamenti di posi/ioni nello spazio, cioè dei movimenti, e i secondi tlei cani»ia- menti de.uli stati interni delle lììonadi, cioè delle ìoi'o ]>er- cezioni. La cosa in sé del fenomeno movimento è <lun- que il can«:,iamento delle ])erc<'zioni delle monadi. t)i'a se la mona<h' è realmente la causa del movimento, essa deve esserla» del movimento n^xa in .sr, <li <'ui il movimento vi- sihiie è l'apparenza. Ma la nnmade è causa <h'l ìuovimento jK'r 1(1 sìu( nfhnifà, poiché è evidente che (juainh) l.eih- nitz spie.ua i movimenti della materia p<'r le anime rise- «h'uti in questa mateiia, ei!.li assimila (jucsti movimenti ai movimenti volontari. Ne se.uue che la rosn in sr ihd movimento, cioè il can.uiamento (h*lle percezioni delle mo- nadi, deve essere Teliètto (h'ila loro volontà, o <li qnal- che cosa di analo.u'o. che. secomlo Leihnitz. è 1' api)etito. Cosi la spie.uazi<nu' antrojMMìioitistica del nn^vimento si trastorma in una spie«»azione volizionale dei cangiamenti interni «Ielle mona<li. in riassunto, il com-etto che la monade è la (*ausa del movimento si sviluppa, nel sistema di Leihnitz, in tre sensi diiterenti. 11 contenuto iìnmv(ìi<tio di (piesto concetto è una su,u<»('stione della pn'tesa spontaneità del movi- mento, cioè che lU'l corpo che si muove vi ha «pialche cosa come uno sforzo cosciente, e (piindi un'anima che ne è la t'orza motrice. >hi si<-c(une la monade m)n ])uò es- sere la causa che «Ielle sue ])i«)prie moditicazioni, «juest'i- dea si traduce ne<-essariamente in due altre. L'una che coriisp<m(h' a «piesta sj)ecie d'ilozoismo incos<'iente che è una delle due facce della teoria delle monadi, eioé che la UìOìiade è causa del movimento in «pianto can.uia s])on- ISI taneamente la sua |>osizione nello s[)azio (({nella della sua luaierin prima). L'altra elie coriisponde al paiipsicìiismo rigoroso che è l'altia faccia della teoria, cioè che la mo- nade è causa del movimento in «pianto è la causa roìon- t((ri(( «lei caiijiiiaim'nto «lei su«)i stati interni, che è Vin se del movimt'uto. K «pi«'st«> il solo si<:.'niti«-at«> «-hiaro e lo<;ic«) (per «piant«) «piesti ttMinini possono a])])li«'arsi a una con- eezi«)ne m«'tatisica) die, secomh) i ])rincipii coHfessaii «li Ijeihnitz. ])uò av«'i'«' la sua formula «-he la inona«l«' è una f«)rza. Ma sicuram«'nte «'uii non troverehhe in «]U«^st'i<lea un ;L;ran \al«n-e esplicati v«>, s«' essa f«)sse scompagnata «lai su«) inviluj)po rapj)r«'sentativ«) «' sensihile, ci«)è eh«' la causa dei nujvimenti «lei «•()rj)i che noi redianto^ «lei fenontcni, è l«) sforzo, Toscura v«)lontà, «Ielle imniadi, che sono i i>rin- ci[)ii animatoli «li «piesti e«)rpi. ^ 17. I sist<'mi «h'i panpsi«*histi moderni «i mostrano, come la monodolo<;ia «li Leihnitz, che il pan[)sichismo ii«)n è solamente una risposta alla «piistiom^ «lei m«>iì«lo esteriore, ma aiudie una teoria sulle cause, una spie^^a- zione antropom«)rtìsti«*a «hù fenomeni fisici. La ])r«)va più evi«lente «li «piest«) fatto è la «lottrina «li Maine «h' I^iran, che, <*ome S«'liop«'nauer e prima «li lui, lia amm«'sso, come si sa, «die la vohnità è la sostanza «li tutte h» cos«'. Se«*«>n«lo «piesto fil«)sofo noi ahhiaiiio neiratt«) v«)lontari«>, ei«)è nel fatto di esperi«^nza cln* l'atto «li vol«)ntà, «'onu* eausa, è sei»iiit«» «lai m«>vim«*nt«) «l«d «•orp«), «m)!!^' eff«'tt«», la per«'«'ZÌoiie immediata «l«d legame «ausale: nuMitre ^ii altri fatti non «-i mostraiu) «die le «-onuiunzioni «> le se- «luenze uniformi «1«m f«'n«)m«'ni, «' in «pu'sto fatt«> sol«) <h«' noi vetliimo l'azi«)n«' «li una (-((nsa ('Jfìcienfc. C«>sì la vo- lontà è per n«>i il sol«) tip«) «die ahhiamo jier «'om'epire la eausa ettici«'nte, e n«)i «l«)hl)iamo ])erci<) ne«*«*ssariannmt«' assimilart' alla nostra v«)l«)ntà tutte le ('((nsc efficienti^ tutte le forze «Iella natura (1). (1) Cfr. ^21. — 1S2 — Scliopt'iiaiuT (•oinl)att(' (jiiesta dottrina della causa-zione del suo prederessoiv. Noi non riconosciamo aft'atto, ciili dice, il vero atto della volontà immediata come (piai- elle cosa di distinto dairazi<)ne <lel corpo, e i due come ledati dal rapporto causale; al contiario i due non fanno che uno, e sono indivisibili. DalTum» airidtro non vi ha successitme; essi sono simultanei. Essi formano una sola e stessa cosa, pei'cepita doj)piamente (1). E altrove : Il soiiuetto conoscente conosce il suo c<u])o di due maniere «lifiei-enti, una prima volta indirettamente, come rai)pre- sentazione; e poi come qualche cosa che è direttamente conosciuto da ciascuno, e desi«»nato col nonu' di V(>lontà. <\uni atto reale della sua vohnità e lU'llo stesso tempo e infallihilmente un movimento del suo colpo; e^li non può volere etfettivamente un atto senza vederlo prodursi tosto come movimento del coi])o. I/atto <li volizione e l'azione del corpo non sono <lue stati differenti, cono- sciuti ohbiettivamente e Iellati chd piincipio di causalità; essi non sono tra di loio nel rapi)oi'to <li causa e di ef- fetto: sono una sola e stessa cosa che ci è data di due maniere differenti, una volta immediatamente, e un'altra volta nell'intuizione e \)vv rintemlimento. T^'azione del colpo mni è che Tatto ohhiettivato (cioè divenuto per- cettibile airintuizione) della volontà (2). Ciò è vero tanto delle azioni del nostro corjio «pianto delle azioni di tutti i corpi in iiviierale. Ma è evidente con tutto ciò che all- eile Schopenauer vede nella volontà, non solo la cosa in se dei corpi, ma anche la ra picnic esplicativa dei loro movinu'Uti, assimilando tutte le forze della natura alla nostra })ropria tbrza umana e cosciente, che è la sola cireiili crede di comprender(\ « Se si è riconosciuto che (Il // mondo ('otn(t coìontà r rtf/^fpn'fientazioitc. tnul. frane. ^ voi. II. pau,. ."ìS. (2) Ibid. V. J. 1. II. par. IS. — 1<S3 — è la propria volontà, To.iA.t'vtto più immediato della ])i-o- ]nia coscienza, che costituisce Tessenza intima del ])ro- prio fenomeno (cioè d(0 pi'oi)rio corpo e delle sue azio- ni): ciò diverrà la <-hiave per la conoscenza deiressenza intima della natura intera, se si riporta così a tutti i fenomeni che rmuno conosce, non immediatamente e mediatamente al tempo stesso, come fa per il ])roprio feiunueiio, ma solo indirettamente, i»er un sol lat<», (piello della rapi)resentazioìie. Non è soltanto nei fenoiìieni in tutto simili al suo ])roprio, nei'li uomini e m\nli animali, clTe'ili ritroverà, c(une essenza intima, (piesta vohuità, questa stessa volontà: ma un \)o' più di ritìessione lo ciuidurrà a riconosctMv che Puniversalità dei fenoiiu'iii, sì variati nella ra])pres(Mitazione, hanno una sola e stessa essenza, la sola che .j^ii è intimamente, immediatamente e mi\ii.lio <roi!.ni altia conosciuta, «piella inlìne <'he nella sua manifestazione più a]>]Kn"ente ])orta il nome di vo- lontà. A>/// I(( rcdrà itclla fovzn c//c fu crescere e raje- tare Ut pìi(ììi(t, e crisiaììizzare iì miner(tìe: che (ìiriije Vnijo c(il((ììuf(fi(> rerso il nord: neìUi c(tmmo:ioìie che prova iftKOtdo (lite ìueinìi etero<ieneì fiinni/<Ht(f a coutatlo: cifli la ritroverà nelle affinila elettive dei cory>/, nuinifesfiintesi Hotfo fornuf di attrazione o di rexpnlsione, di coìnhinaziitne o di decowposi:i<pne: e sino nell(( ^iravità che (u/isce con tanta potenza in tutta la materia, e <ittira la pietra verso l(( terni, come la terra verso il sole. \\ rillettendo a tutti (piesti fatti che, oltrei)assamh> i femuneiii, mù arriviamo alla cosa in sè»(l). «Spinoza dice che, se fosse dotata di coscienza, la pietra, (piando uirimpulsione la fa vo- lare attraverso lo spazio, «'l'ederebbe volare <li sua pro- juia vohmtà. Ed io a.u-iun.i'O che la pietra avrebbe ra- gione. T/impulsione è riouardo ad essa ciò che il motivo < (1) // mondo come roìonlà e nfjjjjvrscttfitzioiit', inni, i'rìuw. voi. 1. ]m«;. 17(>. misimt»ikai„^*^^-'^if:.vt ^ ^. i»-;;«."-^'.i;'KSJa ]S4 — è ri,i»u;n(l<) ;i me; e ciò vìw nella pietra ap2)arisee eoiiie coesione, eoiiie peso, come peiseveranza nel movimento a(M|UÌsito, è i(l(Mitieo nella sua essenza eon ciò elle io riconosco in me come volontà, e ciò che essa pnie ri- conoscerebbe [)er volontà, se essa ac(jnistasse la facoltà (li conoscenza ». (1) « L'essenza di o^^iii energia, latente o atti \ a, nella natura, è identica con la volontà ». (2 « Sinora si riconduceva il concetto di volontà a (juello di forza: io fò il contrario, è il concetto di forza che sussumo a (juello di volontà » (8). JSchopenauer vede lu'lla volontà la causa, non s<»lo del movimento, n^.i anche della timilità nella natura (quantunque e.i»li alfermi che ([uesta tinalità è [)uramente fenomenale). (Tristinti, e^^li dice, dimostrano della ma- niera })iù chiaia che dei^li esseri possono lavorare con la determinazi<uìe ])iù decisa i)er un risultato ch'essi non coniKscono, di cui non haìino alcuna rai)i)resentazio]n^ E cosi elle pj'oceih' pure la natuia pei- piodurie ^ii or- f»anismi, e peiciò Fautore <letinisce la causa tinaie nella natuia un motivo che a.uisce sciiza essere conosciuto (4). L'i<lea di tlne essendo inseparabile <lal concetto di atto volontaiio, Schoj)en;iuei' estende (|uest'i(h'a anche a.lle azioni tisiche in cui non si ve<h' niente di teleolouico. '' Questa chiave che abbiamo per comprendere la inituni della cosa in se, e <'he la conoscenza immediata (h'ila nostra propiia essenza ha sola i)otuto «hirci, noi d(»b- ))iamo apjìlicarla ei;iialiiu'nte a questi fenomeni del mondo inoruanico. che fra tutti differiscono il piii da noi. Get- tiamo uno sguardo investi«»atore su tutti (juesti fenomeni : noi vtnlremo rimj)ulso irresistibile con cui le ac(pu' cor- (1) ibid. p. '2{y^. {2} IWuì. 1». 17S. (1^) Il.id. i». 17l>. (4) Ilud. voi. II. p. r>b) e 501. 185 — rono verso «;li abissi- la caparbietà c(ni cui la calamita persiste a ritornare verso il polo nord ; lo slancio del ferro quando vola verso (piesta calamita; l'intensità con cui i poli tendcmo a riunirsi neUa corrente elettrica, e che una resistenza non fa che accrescere, come per hi vivacità (h'i desideri umani; noi vedremo ancora il cri- stallo formarsi <piasi istantaneamente e con una icgola- rità di tìgura, che evidentemente non è che una ten- denza verso più direzioni, tendenza ener<4Ìca e precisa, che una soliditicazi<nie subita è venuta a prench're e tìssare; noi vedremo pure la scelta, con la (piale i coipi sottratti ai le<;ami (h'ila solidità e messi in libertà allo stato fluido, si cercano o si fu,i;;i;(>no, si uniscono o si se])arano; intine noi sentiremo direttamente ])er noi stessi (juanto un fai'dello, di cui il nostro corpo impedisce la tendenza verso la lìiassa terrestre, fa pressione e si a]>- pogi^ia con insistenza sulh* nostre spalle, s(*guendo così la sua unica aspirazione : (pian(h) noi avremo attenta- mente meditato tutto ciò, non ci costerà [)iii un i;i'ande sforzo (rimma<;'inazione ])er riconoscere, anche a una covsì «>:ran(U' distanza (hdla nostra propria natura, (luesta cosa che, in noi, ricerca il suo scopo rischiarandosi della conoscenza, ma che (]ui, nelle più [)allide delle sue ma- nifestazioni, non ha che delle tendenze cieche, sorde, unilaterati e invariabili; per conseguenza, come il chia- rore delTaurora mattinale porta il nome di luce solare ugualmente che gli splendidi raggi del mezzodì — così (juesta cosa, essendo (hi \wv tutto identica, (k^ve j)ortare (jui, come là, il nome di volontà, perch(' (pu\sto mmie designa l'essenza intima di ogni cosa in (piesto mondo, la sostanza unica d'ogni fenomeno» (1). — La tendenza piincipale della volontà, negli esseri dotati di conoscenza. (1) Ihìd., voi. I, p. VM). ISH ò, in ();;in iii(li\ i^liio, la propria coiiscrvazioiu', v \v tor- ìiie sotto cui questa ttMideiiza apparisce, si riassumono a rercare ed a inseguire, o a<l evitale e t'u,u\i;'ire, secondo le occasioni. (Queste st(^sse t'oiint^ le ritroviamo ai ^radi più hassi deirol)l)iettivazione della volontà, nelle azioni meccaniche dei corpi. « Qui la tendenza a cercarsi simostra sotto toiina di ^gravitazione ; la volontà di tii<;- ^ire è la recezione del movimento; la mobilità dei corpi, al seguito di pressione o di urto, o^uetto principale della meccanica, non è al tondo clic la maniera in cui essi esprimono la loi'o tendenza alla conservazione. In ett'etto, i corpi essendo impenetrahili, la mobilità è il solo uiezzo per essi <li <*onseivai'e la loro <*oesione, e ])ei'ciò la loro esist<Miza del momento. Il colico uitato o compresso sa- rebbe tritato dal corpo uitante o conii)rimente, se non si sottiaesse alla sua tbrza <'on la tu^a a tine d\ salvale la propria coesione; <piaiulo non può fu^^^^ire, esso è sclnac<*iato effettivamente. J corpi elastici, [)resi in (piesto senso, sarebbero i corpi più co/v/</<//o.v/, che cercano di respingere il nemico, o almeno di far cessare il suo in- seifuinuMito (1) ». Ma non solo Schopenauer ri<;uarda la volontà come la causa etiiciente di lutti i fenomeni tisici, (\ì;1ì sostiene anche, in sostanza, come M. de Hiran, che nelTatto vo- lontario, e in esso solo, noi abbiamo res])eri(Miza della causazione etticiente, che è di là che noi tiriamo questa nozione, e ch<* è perciò che dobbiamo elevare la volontà a tipo di tutte le forze della natura. I movimenti del nostro corpo, ])ercepiti per i sensi esterni, <» la succes- sione costante di (piesti movimenti al se<»'uito di certe im|)ressioni esteriori determinate sarebbero j)er noi, e<»'li dice, un mistero incomprensibile, esattamente come le (1) fòi(L, voi. II, j). 448. 1S7 successioni uniformi di tutti,uli altri can<»iamenti <lel mondo esterno, se la coscienza (U^lla nostra voUmtà non ci (h^sse la cliiave di questo mistero, svelan(h)ci il mec- canismo intimo delle nostre azioni, e perciò «li tutte (luelle della natura esteriore. « Per il so<;<;ett<) puramente conoscente il suo proprio corpo è una rappresentazione come tutte le altre, un o«;\i>-etto fra .ì;1ì og^'etti; a questo punto di vista le azimii, i movimenti di (pu'sto corpo non ^ii sono altrimenti conosciuti che i can<;iamenti di tutti .il;1ì altri o<;'<;etti d<*irintuizione, e ^ii resteiebbero così stranieri e così incomprensibili, se la loro si<;ni1ica- zione non «;li fosse svelata d'una tutt'altia maniera. E,i»li vedrebbe i suoi atti seguire i motivi clie si presen- tano (cioè certe impressioni esteriori) con la c(»stanza. d'una le^^A'e naturale, esattamente cinne i can«i,iamenti de<;ii altri o«>;L»-etti si i)resentano al seguito di cause, di eccitazioni o di motivi. Ma non potrebbe comprendere rintluenza dvì motivi (esteriori) più <li <iuanto compremla rincatenamento de;:,ii altri eftetti con le h)ro cause. L*es- senza intima e incompresa di cpieste manifestazioni e di (pieste azioni del suo cor[)o e«;li la chiamerebbe Ui;ual- nu^nte una forza, una (pialità o un carattere, secondo elle oli piacerebbe, ma senza meglio c<mipren(h'rla })erciò. Ora, non è co*ì : al c(mtrario, V individuo, il soo^t^to conoscente, possiecU^ la parola deireiiii;ina, e (juesta pa- rola è la Volontà. Questa parola, <iuesta ])arola sola, gli dà la chiave per conoscere se stesso come fenomeno ; è essa che gli rivela la sua significazione, e gli svela il meccanismo intimo del suo essere, delle sue azioni, dei suoi movimenti (1) ». « Se noi facciamo rientrare il cmi- cetto di f<uza in ciuello di volontà, noi riccmduciamo in fatto un'incognita a cpialche cosa di eminentenuMite co- nosciuto, alla sola cosa che ci sia realmente, immcMliata- (1) Ihid. voi. I, HI). II, par. IH. — 188 — meute e iuteiiormeiite coiio.sciiita » (1). « Noi partiaiiìo <la ciò rlie ci è il più inmicdiataiiiciitc e il ])iii coiiiple- tamcnte conosciuto, da ciò clic ci e affatto laiiiiliaic e vicino, per comprendere ciò <lie non conosciamo che da lmi<;i, per un sol lato e Ì7idirettaìiìent(^ : è il fenomeno più ener<iico, più si<iniHcativo e più chiaro che deve ser- virci a spiegare il fenomeno meno perfetto e meno ener- gico. Salvo il lìiio coipo, io non conosco tutti <;li altri oggetti che [)ei- un sol lato, ({nello della i'ap[)resentazione; la loro essenza resta per me un profondo mistero, anche (piando io conosco tutte le cause dei loro cangiamenti. Non è che per la comparazioiu' di ciò che avviene in me, (piando il mio corpo effettua un'azione sotto Tiin- pero d'un motivo, ciò che è Tessenza intima dei cangia- menti che determinano in me le cause esteriori, cln* io posso rendermi conto della maniera in cui i corpi inani- mati cangiano in virtù di cause, e non (' che così che io posso comprendere la loro essenza intinm ; conoscere solamente la causa (Tun feiionu'uo (cioè il sno antece- dente costante) non mi a[)])rende niente altio che la re- gola della sua manifestazione nel tempo e nt^llo spazio (cio(' una semplice uniformità di se(pu'nza). K (questa com})arazione mi è possibile, perché il mio corpo é l'u- nico oggetto di cui i() non conosco solamente un lato, quello della rap])resentazioiie, ma anche Taltro lato, chia- mato volontà (2) ». « I)(d)l)iamo imiiarare a c(uicepire la natura j)artendo da noi stessi, e non, al contralio, (cer- care di comi)renderci ])arten(lo dalla natura. È ci<'> che conosciamo immediatamente che deve spiegarci ciò che non conosciamo che mediatanu'nte, e non al contrario. Comprendiamo noi meglio forse il movimento della palla provocata da un urto, che il nostro proprio movinu^nto 18i) provocato chi un motivo ? Altri possono crederlo : io af- fermo che è il c(Hitrario » (1). Kvi(lentement(», (piando raut(ne dice che noi troviamo neiresperienza delle nostre j)rojn'ie azioni volontarie lesole causazioni che comj)ren- diamo e di cui ccuiosciamo l'essenza e il meccanismo intimo, mentre le (causazioni delTesperienza esterna sono per se stesse incomprensibili, e lo l'estei'ebbeio s(^ non fossero s])iegate i)er mezzo delle i)rime, egli nffeiina, sotto un'altra forma. In (h)ttrina stessa di M. de Hiran, una causazione che si comj)rend(^ e che ])U(') s})iegare le altre clic non si comprend(nu), o di cui conosciamo l'essenza e il njcccanisiìio intimo, significan(h> uv \)\h w meno che una causazione efticiente, come ciò che noi diciamo una semplice se(]uenza invariabile significa ])recisamente una causazione che ])er se stessa non si comj)rende, e che lia Insogno (noi ci'cdiamo) d'un intxMinedijirio es])licativo. La stessa riduzione delle forze del mondo fisico al- l'attività esteriore dello s})irito, che abbiamo trovata in Leibnitz. in M. de Biian e in Scho])enauei', la ritiovia- mo })ure nei pan})sichisti posteriori. Uno di (|uesti ('* Rosiìiini. Egli fa consistere la cosa in s(' del coipo in un essere spirituale, che chiama il prinripio ((prjHtrco ; ma :i diflerenza degli altri ])an])sicliisti, vuol conciliare <|uesta dottrina col lealisnu) natuiale. Pei(*i(') egli attri- buisce al corpo le pi'0])iietà che gli atti'ibuisce il l'cjdi- smo ordinario ; ma (|uesto coi'])o non esiste alti'ove che in un j)rÌHripi(> .vc>/sv7//'o, cio(' in un altro essei'c spiri- tuale, come l'oggetto o, come dice l'autore, il teiinine, di una sua ])ercezi(nH* ])ei*manente (HeìithìHnilo fomla- ìueninle). Ogni coij)o non (' (hnnpie che il jx'icepito del su(ì ])rinci])io sensitivo ; esso non esiste che mdla ])ei'cezione e per la ])ercezioiH' di (juesto piincijno sen- sitivo, e non (' che il contenuto di (pn*sta peicezione } (1) Voi. 1. p. 180. (2) Voi. 1. p. 202. (1) Voi. II. 1». 2111. . N 190 ma essn (- inTiiuiucntc, e pririò aiicìic il corpo r per- Tiiaiieiite. Il principio sensitivo di un corpo non e sol- tanto il so;;<>vtto pci'cipicntc in cni il coipc» incsistc co- me suo percepito, ma è anclie il principio animatore di <piesto corpo, rnnione delTanima e del corpo consisten- do appunto in questa percezione permanente die la pri- ma Ila del secondo (1). Senza dubbio il motivo princi- pale per cui HiKsmini ammette l'esistenza di (pu'sti i)rin- cipii sensitivi <lei corpi, è di conciliare la tenomenalitri della materia col realismo naturale: ma un altro motivo é <'lie e<»ii mm trova, alTin fu(»ri di un i)rincii)io sensiti- vi», altra causa ammissibile del movimento. Una t'orza bruta e insensitiva, risie(b'nte neirinterm» della materia, non è, e<;li dice, clic uirentità astratta, una (pialità oc- culta come «pielle dei^li scolastici : (piamranclie (piest'i- potesi non tosse intrinsecanuMite assui'da, essa dovrebbe sempre respin,i;ersi, perchè mancante della prima condi- zione di un'ipotesi le«»ittima. «inella di assegnare, come dice Newton, una rcnt ranxti . cioè una causa la cui esistenza è ^\k stata costatata p^'r r<)sservazione. 1/ipo- tesi di un prin<*ii)io sensitivo e spirituale è runica clic sod<list'accia a (jucsta condizione, perchè noi mm cono- sciamo altro acidite, se non ranima, che possa determi- nare spontaneamente un movimento (2). L'autore attri- buisce ai principii animatori dei i-oipi le forze attratti- ve, a cui ric(mduce tutte le fmze tisico - cliimiclie che non possono ricondursi alla semplice inerzia deUa mate- ria e alla tiasmissi<me (Ud movimento per rimpnlsione; al princii)io corporeo non attiibuisce immediatamente (1) V. su (lueste dottrine di Uosiniiii il mio opuscolo Pot- tr'nin (li l^onìnini milV essenza della ohi feriti. (2) V. Psieoloffia 822, 902, 12r,0. ls5(), ISSI. 18S2 nota 2. 188S, Teosofia V 1S8, 2:^7. ecc. timmim 191 che la conservazione (hd movimento (h)vuta alT inerzia della materia, ma mm la forza motrice clie principia un movimento (1). Anclie Gioberti, nelle sue opere postume, è un pan- psicliista. La dottiina di Gioberti, in (lueste opeic, si avvicina ai sistemi idedlisfi, di cui parleremo in seguito, perclìè e«»ii ammette che il pensiero è Tessenza di tutte le cose ; ma essa é un i)anpsichismo (nel nostio senso), poiclié secondo <pu'sta (h>ttrina tutti <;li esseri, tutte le forze deUa natura, sono (Udle forze spiiituali, (h'ile ani- me (2). Anche Gioberti (bimpie ricon(hu-e le foize (hd mondo tìsico all'attivitiV esterioi'c (hdlo spirito: ma nella sua dottrina <piest' ipotesi serve a spie.uai'c, jiiii che la spontaneità del movimento, la tìnalità dei fenomeni, che non potrebbe essere che una manifestazione deirintelli- genza. il pensiero costituisce V essenza di tutte le cose, ma ne.uli esseri digerenti esso si trova a .ura<li dittèrenti di sviluppo. I ^radi inferiori (Udlo svilup])o del pensiero sono pure pensiero o intelli«;enzji, ma uiT intellii»enza iniziale, implicata v che ncm ha coscienza di sé. Il .ura- (h) più basso (hdlo svilupiM) (hd pensiero é V istinto (1^). L' istinto ha una conoscenza confusa (h'ilo sco]>o, e lo C(mse«>ue fatalmente, perchè non è lil>ero. ().i»ni fcuza è istintiva; l'entelechia psicdiica opera i)er istinto, (piando è solo sensibile, e (h)r]ne la coscienza (4). La vita e Pi- stinto essen(k> azioni ordinate e teleol(j<;i( he, non i)os- sono venire altron(h' che (hi un' intelligenza inconscia, fatale e inv(duta. Questa intelli,i»enza è T anima, P inte- riorità di o-ni immade.'Essa si sviluppa e passa per va- (1) V. P(»i)Uscolo citati» su Rosiuini, fascicoli» Il i>a.ii. «>-7. (2) Protoloijla ed. Napoli t. Il lH-2(), 17:^. U»7. 2l<). SIS, ecc. (S) Ihid. t. n p. 24. (1) Ihid. t. 11 p. 20. — 192 — rii <'Ta(11, elle rispondono ai varii ordini dt*llt* forze niec- lanidie, lìsi<*lu', cliiniiclie, vegetative, animali, sensitive, razionali (1). Come dalle azioni dei nostri simili, essen- do ordinate e tele<»loi;iclie, noi argonn^ntiamo in essi il pensiero, così, lo stesso ordine teleolo«^ieo splendendo in tntte le parti della natura, si deve eonelndere elle lo spirito, il pensieio, è V interiorità di tutte le cose, di tutte le forze della natuia. II solo divaiio <'lie corre tra Tuomo e ^li altii esseri è che in questi la mentalità è istintiva e fatale, mentre nelF uomo è cosciente v libe- ra (2). Dei i;radi inferiori della mentalità non possiamo follila lei un'idea c<uicreta, ma solo ap])rossimativa e ana- logica. Il soglio, in cui ranima, concentrata tutta nella sua int(MÌosità, si crea fatalmente un mondo, e un mon- do ordinato. ]K'r la virtù plastica delPimma^inazione, e il sonnamludismo, dove il soi^uo produce una serie di operazioni esteriori spesso dittìcili e ordinatissime, con una jH'ecisione clie vince <{uanto si })uò faie nella ve<;lia, ci danno una notizia ai)[)rossimativa si)eiimentale e con- cretai della interiorità delle forze cosmiclie e delFessenza deiristinto (;^). Lotzt* <là come prova del suo pan])sicliismo, non so-lamente che Tessere s})irituale è il solo che possa essere concepito come reale, ma anche clie è il solo di cui si possa com})rendere il modo di azi<me. Questi motivi della dottrina di Lotze si ve(h)no suHicientemente nei due tratti seguenti : « L'idea di un essere inerte, passi- vo, di cui i caratteri sono T impenetrabilità e l'estensio- ne, dotato, nella sua inerzia, di forze sottomesse a delle leggi costanti, è, per la nostra intelligenza, nn'idea af- il) Pao-. 44. (2) I»a-. (54. (3) V'A^jr. 3:^-84. 198 fatto inc(niii)rensil)ile : noi non possiamo ccmcepirc in che c(msiste Tessere (Tun elemento così deiinito, ne co- me Tesistenza [)uò appartenergli sotto (piesta torma. La nostra intelligenza non si fa assolutamente alcuna idea <li (|uest' essere mort<», immobile, che a ]n'ima vista ci sembrava sì facile a conce])ire, i)erchè esso si presenta a noi, al di fuori, come un juinto di legame molto co- modo per i din'erenti rap])orti che sono T oggetto della scienza : noi non abbiamo uiT intuizione positiva e im- mediata che di ciò che è vivente <* attivo : è ciò solo che (Muiiprendiamo, con ciò solo possiamo simpatizzare perchè ne ])enetriaìiio T essenza : la materia ò scMupre per noi una tìgura straniera, (iuantumiue sia assai bene e assai rigorosamente «letinita per le (h'ttMininazioni della forma, della situazicnie, del movimento e degli altri mo- <li (Tazione che vi si legano, la materia lesta semi)re per noi, in tutte le nosti'c intuizioni, una sostanza osck ni, vhi' si muove in una brillante rete di relazioni, sottoposte a delle leggi che noi conosciamo in gran parte e che ci permettono spesso di predire i fcMumieni, le forme clTes- sa prenderà, senza potere tuttavia <lissii)ai'e le tenebre che la nascondono in se stessa ai nostri sguaidi. La ti- sica è il pili grandioso sviluiqx» di (jiiesta scienza cirra rem, che ci [MMiiiette solamente <li conoscere i <'aratteri cst(MÌori, non T essenza (h^Toggetto ». 1) « Noi abbiaiiu) cercato già più volte di mostrare eh" ò im])ossibile di (•(uiiprendere un principio morto, di compremh'it» il suo modo d'aziime. Quest'idea d'una sostanza inerte può servirci nei nostri calcoli, nei nostri studii sui fenomeni, ma come credere che essa corrisiM)nda a quah-he c(»sa di ob- biettivo ? Allora di due cose Tnna : o ciò in cui non vediamo alcnmi tra<-cia di vita spirituale non è per noi che un feiio- (1) Psieol. Jisloiof/h'a Xv.id. Iniiie. l)J>j^^. r>2. l:^ li)4 — meno senza si^staiizM, o noi dohhijniio jniiniettcìc che vi si nasroiidc tuttavia una vita spirituale. L'idealismo non lia mai j)otuto tare trionfare la ])ii)nai[>otesi: il mondo esteriore ha per se stesso trop[>a l'ealtà pei* essere mai riu»uardato eonie una puia creazione della nostra im ma. il» inazione : noi siamo dumpu' ohhliuati di eeicare la l'a^^ione della sua esistenza peinianente in un principio s])irituale clie lo vivilica e che solo può essei'c riguardato conu' un es- seie indipemlente» (1). K evidente che (piando Tautore dice che un essei-e inerre (h>tato di forze, e che non ha per caratteri che rimpiMietrabilità e T estensione, è in- comprensihile, che la iH)stra intelli.uenza n<m si fa alcu- na i<U*a di un tale essere, che noi non ne penetiiamo Tessenza. che la matei'ia è sem[)re per noi una figura stranieia. che è una sostanza oscura, ecc., (pU'ste pro- ])osizi<uii si^nilicano al tem[)o stesso due concetti : che la materia, (piale la (h'iinisce la tisica, non ])U('> conce- ])irsi c(une la reale (ci(> che, come vedremo inaila 2-' parte di ([uesto Sanzio, è jx'ifetta mente vero) ; e che, come dice Fautore nel secoinh) tratto citato, non si pu('> com- prendere il suo modo (Tazione. ma solamente ([ue]|(> (h'ilo spirito. I/<>[>j>osizione tra la materia, [)rincipio inerte, morto, e lo spirito . principio attivo e vivificatore, ci dice abbastanza che (pu'sto modo (Taziime dello spirito, che solo comprendiamo (e che per con sequenza cU've spie«iare tutti ^li altii modi d'azione ch'Ila natura), è sovratutto il nìod(» (h'ila sua azione esteiiore, come prin- cipio (h'ila nostra propiia foiza e di tutte le forze co- smiche. Questo fatto, chv il i)anpsicliismo non (' solo una dottrina sulla cosa in sé della materia, ma anche una s])ie^Uazione antioponM)rtistica dei fenomeni tisici, si ])U(^ osservare facilmente in tutti «;ii altii autori che ammet- (1) IhiiL e. Ili vS l. '.«laMWiÉi — 195 tono ([uesto sistcMua, altn^tanto che nei filosofi precech'uti : in Wundt che, come M. de Hiran, vech* nell'azione volon- taria il tii)o d'ogni causalità e rori<niue stessa di (\nv- st'idea (1). e ammette che oi»ni movimento (h'ila materia è la manifestazione di un istinto (2) (ri«;uardando l'azio- ne istintiva come un'azione (h^lla volontà in cui non vi Ila una scelta fra diversi motivi) (8): in Wallace che. come M. <h^ Kiran e Schopenauei*, lisolve la materia nella forza, e la forza nella volontà: in Henouvier che attri- buisce alle moinub* dei sentimenti attivi di ^(///vrc/oy/f' e di rcjnihitpnc corrispondenti alle attrazioni e rej)ulsioni (h*lle molecole (4): in Taine t>er cui il lato interno, l'in sé, (h'I movimento (h'i coij)i è (pialche cosa (b' analog(> alla sen- sazione muscolare che accompa,i»na i nostii ])ropri niovi- nuMiti (5): (H'c. In tutte le foiine del sistema noi vediamo tutti i moviuH'nti della natura assimilati più o meno al movimento volontario. Evich'iitemente (piesto scopo <h'l I)anpsichismo d\ foriiir(% oltre alla cosa in se, una spie- gazione causale (h'i fenomeni tìsici, assimilan(h)li al movi- (1) « l/i<lca «li (((firifà in jioncralc ci (• uuicjniiciito loriiitji «lidi»' nostre |>r()]>ri(' azioni volontaiic. ed e trasmessa da esse a de.nli onLietti esteriori in movimento» (Wnndt hJlrin. dì /tsirolof/ia fisio- ÌOf/i(u« e. 20 v^ 1 sul ]>rinei]MoL (2) V. la stessa o]>era e. 24 v> •^. (S) V. la stessa oix'ra cap. XX J. 2. (4) V. Xnoia J[oiHHÌolo(/ia XIII. 'tuttavia Henonnier non vede nel ra])|M)rto tra la volizione <' il lìiovimento elie un caso «leirarmonijì ju-estabilita, e biasima M. de Biran di aver dato al v(dere « la funzione «li un ancnt»' inlern(» o]>erjinte un'azione esterna» (Ibid. nota 2(5). Anelie Ivcnouvier trova roTÌ<»ine delh» idea di eausa nell'atto della volontà, nm lìel suo esercizio interno: (ibid. nota 27. not;i 24, artie. 4, eee.) «' la seeonda delle due fornu* (l(dla te(U'ia voliziomde della causalità di cui palleremo nell'art. VI. (5) V. V fnteìlìiicuzn ]»arte II. liì). IL e. I. VII. im iiKMito volontario, r il motivi jh'I' cui M. de Hiraii, Sdiopeua- \wr V altri panpsicìiisti tanno consistere la cosa in se nella volontà piuttosto che in altri fenomeni psichici. Ma anche (luando non fa della volontà Tessenza di tutte le cose, il panpsichismo è sempre una spie«;a/ione volizi<male del unnido, couie l'ilozoismo, con cui ha Tattinità più intima, e la tilosotia teolo^uica. Non vi ha dubbio che (jucsta spiegazione volizionale del pani)sichismo non è che Tondna di una spie^nazione. Tia i fatti j)sichici e i fatti tìsici non vi ha in <piesto si- stema alcun legame causale possibile, ma semi)licemente un parallelisiìio. Per o^iii fatto tisico vi ha un fatto psi- chico che <;li corris])onde, e viceversa; ma i due fatti inni sono che un fatto s<»lo. conosciut<> jn'r due vie ditferenti, una volta pei* i sensi esterni, e uiTaltra pei* la coscienza; la coscienza ci dà la i-ealtà. i sensi cstei'ui il fciunttenOj cioè l'apparenza, di <pu'sta realtà. Allora sul rapporto tra il movinu'uto e la volizione, o altio fenomeno psichico <pialsiasi che il ])an])sichismo dà come ra^^ione esplicativa <lel movimento, non vi hanno che due ij)otesi possibili : o il primo dei due fatti è il p<n'(iUcUt <lel secondo, il fe- nomeno di cui quest<> è la lealtà - è ri[M)tesi di Scho- [)enauer — ; o il pnìdlìcUt <lel movimento, la sua realtà, mm é la volizione o l'altro fatto analoi;() che si assegiie- icbbc come siderazione del movimento, ma un fatto suc- cessivo, naturalmente scmj)i(' psichico, determinato dalla volizione o dal suo analo<;<) — è ri})otesi di Leibnitz. — Nel l)iimo caso il fatto ]>sichico che si dà come ra.uione espli- cativa <lel movimento, non ne ])uò essere la causa, per- chè ciò (Mpuvarrebbc ad essere la causa di se stesso, esso e il movimento essemlo un fatto solo, consideiato sotto due aspetti ditferenti. Nel secomlo caso (piesto fatto psi- <-hico è una <ausa, ma non del movimento stesso, ma di un altro fatto che non ha col movimento la più lontana analogia, il concetto biella fenomenalità del movimento, — 197 — qualumiue sia il rapporto che il panpsichista (se il suo panpsichismo è rigoroso) stabilisce tra il movimento stesso e la tendenza psichica al movimento, è lU'cessariamente incompatibile col concetto che ([uesta è la <-ausa di (pudlo, poiché dei due tatti implicati in un rappcnto di causa- zicme, Tuno, cioè l'etfetto, non esiste più in cpiesta (h)t- trina. Nondimeno cpiesto punto di contatto che il.pani)si- chismo ha con l'ilozoismo, (pu^sta rappresentazione^ della materia non come inerte e, per dire le parole di Lotze, morta, ma vivihcata <la uno spirito, è (pianto basta pei' dare un sembiante di soddistazione al bisoono innato che ha rintelli<;enza umana di conoscere le muse (cioè le cause eiììcienti e non i semplici antecedenti dei fenomeni). Ciò è perchè conosctMC la causa efficiente di un fenomeno e avere la spiegazione di (pu'sto fenomeno (nel senso po- polare e metafisico della parola spie-azione) non s(mo che due lati, o piuttosto, due espressimn diftèrenti, di uno stesso tatto nuMitale, e spiegare un fenomeno (in (lU(^sto senso della parola) è assimilarlo a un altro fem>nuMio che ci sembra intelligibile pei- se stesso. Ora rappresentarsi i corpi in movimeìito come viventi, animati, è assimilare più o meno il loro movinu'uto al moviun'Uto volontario; e tra i movinu-nti che non possiauìo spiei»are per l'urto, è (puvsto il solo che <-i sembra intelli<»ibile. -<^xt- S. L' idealismo. § 18. Vi ha certamente iin' immensa distanza tra la filosofia o-rossolana dell'uomo primitivo, che spiega tutti gli avvenimenti, che egli non comprende altrimenti, attribuendoli a spiriti, folletti, demoni o divinità, e la dottrina delle monadi di Leibnitz, quella della Volontà — 198 di Schopenauer, e le altre affini appartenenti allo stesso o-enere, a cui abbiamo dato il nome di panpsichismo ; ma tanto la prima, quanto le ultime, non meno che tutte le altre che noi abbiamo incontrato passando da (juella a (lueste, possono, in ultima analisi, ricondursi sotto lo stesso concetto comune : è che esse, fra le di- verse forme della nostra attività, è Tattività volontaria, come determinante un can;j;iamento nel nostro proprio corpo o nel mondo esteriore, che prendono come tipo delle cause efficienti dei fenomeni naturali. Ma noi dob- biamo far menzione ancora di un' altra forma di spie- orazione antropomorfistica dei fenomeni, la quale prende per tipo r uomo, non come dotato di attività esterna, come at^^ente volontario, ma come dotato di attività- puramente interiore, come semplice essere pensante. Questa specie del <>-enere antropomorfismo non si ricon- duce alla formula di A. Comte : la tendenza dello spi- rito umano, che quest'autore pone all'origine della fi- losofia teologica, o anche, in generale, della filosofia nìetatìsica, non potrebbe, rigorosamente, rendere ragione di questa forma di filosofia a cui noi alludiamo; tut- tavia essa ha il rapporto più intimo con la tendenza di cui parla A. Comte, perchè, in (juesta filosofia, è ancora suir attività umana che viene modellata la spie- o-azione universale dei fenomeni. Questa filosofia è Vi- (lealismo: beninteso che noi dobbiamo dare a questa parola idealismo un certo senso definito, perchè non è in tutte le dottrine a cui suol darsi questo nome, che si può riconoscere una manifestazione di (|uesta ten- denza a spiegare i fenomeni, assimilando alla nostra attività umana il loro modo essenziale di produzione. Noi intenderemo dunque per idealismo una dottrina in cui la natura viene spiegata per V attività immanente del pensiero, cioè per 1' attività dello spirito, non sul proprio corpo o sul mondo esteriore, ma sulle proprie 199 rappresentazioni. Cosi ([uantun(|ue ordinariamente siano chiamati idealisti, ]). e., tanto Fichte, quanto J. Stuart. Mill o A. Bain, invece, iu»l senso ])iù ristretto che noi diamo qui alla parola idealismo, questa denominazione conviene al primo, m\\ non può coìivenire ai due altri. Poiché quantunque tanto il primo (pianto i due altri neo'hino la realtà del mondo esteriore, e risolvano la natura nel sistema delle no>tre percezioni, pure vi ha fra di essi una gran differenza, ed è che il ])rimo si)ieg-a questo sistema di percezioni, ((uesta natura, consideran- dola come la creazione e l'opera di noi stessi, come il prodotto dell'attività s))ontanea del me, del nostro ])en siero, e perciò noi lo ehiamiamo un idealistit : mentre i due altri considerano (piesto sistema di j)ercezioni come dato, non come prodotto da noi, dalla nostra at- tività pensante, e perciò noi non li chiamiamo idcaltsti. Il tipo della metafisica idealista, in (piesto senso, bi- soo-na cercarlo nel movimento filosofico tedesco, che va da Kant sino ad Hegel : i rappresentanti di questo movimento filosofico, sia che Tacciano del mondo este- riore un fenomeno subbiettivo (idealismo subbiettivo : Kant e Fichte), sia che ammettano la realtà iXvX nnmdo esteriore, ma risolvendo le cose in pensieri (idealismo obbiettivo: Schelling- ed Heg-el), tutti ammettono egual- mente che il mondo, fenomenale secondo gli uni, reale secondo gli altri, è una j)roduzione delT attività del pensiero (1). (1) Se si (love stare jdl'etiiuolonia, aiiclie l'idealisiiio saicMte un ]>anpsiclnsni() (nieno tutta.viji quella forma «leiridcalisino die ainiiiette l'esistenza di qiialehe eosji iinli]»eiMl<*iit«' dalla ra|»i>re- seiitazione, eoiiie p. e. il eritieisiiio in «pianto aninu'tr»' l'esi- stenza reale della eosa in se). E eiò natnralnuMit»' «* vero non s<do nel senso ristretto elie noi aldnanio dato jilla pai*<>la idea- 200 § 15. Kant è, come abbiamo detto, un idealista sub- biettivo : le cose che noi chiamiamo esteriori non esistono lisnio . iiin jnulii' nel scuso ]>iiì lurido che viene (bit(» ordiiiariji- iiiente a questa parola: |>. e., Berkeley. Stuart-Mill. Haiii sareb- l»er() aneli' essi j>aii]»si<']iisti. Ma il scuso ehe noi a)»l)ianu) dato alta parola paui)siehisuH» n<»n è tanto laro;o ([uanto importerebbe .retiiuolo^ia : noi ab))ianio eliiauiat<> iKini>sieliisnio (piella forma di UH'tatìsiea . il eui carattere essenziale ^ di vedere nella ma- teria un tiMuuucno, la cui cosa in se (^ spirito. 11 ]»anpsicliismo nasce dalla quistione : <iual «' fuori di noi la realtà che corri- 8i>on«lc a «luesto fenomeno (h'ila nostra percezione che noi cliisi- niiamo materia i Tuttavia, oltre che alla ricerca della cosa in se, questi) sistema è pure le.uato a <iuella delle cause etHcienti, in «luauto a nessuno verrebbe in mente di supjjorre un essere sjnrituale là dove i suoi sensi non percepisccnio clic nn corpo, se nei fi'nonn-ni di questo corpo sensiì)ile ei;li ncMi credesse di ri- com»scere ulcun clic che lo nutorizzasse ad attribuire questi fe- m)mt«ni ali* aziom* di «pmhhe esere spirituale, secondo V analo- <lia dell'azione del proprio spirito sul i>roprio corpo. Perciò noi abìdamo considerato il panpsichismo . in «pianto esso è lejiato alla quistione delle cause ettìcienti, come una manifestazione della mastra teiHh'Uza ad elevane l'attività volontaria che si es<'rcitM sul no.-i rn proi>rio corpo t» sul mondo esteriore, a tipo della produzione <li tutti i t'enomeni. \j' idealismo invece, come abbiamo detto, eh'va a ti]M) «Iella produzione delle cose V atti- vità interi«»re del pensien» . non la sua attività esteriore . (cioè l'azione «h'ila volontà s»ii corin). In «puinto alla «piistione del monito esteri(»re, mentre il /nnipsichismo è anzitutto nna soln- zitme dctermiimta <li questa (juistioue. Videaliamo invece semì»ra concilialule c«m qualsiasi siduziom'. Esso i>u«» nejiare con Fichte il mon«lo esteriore . ]ui«> ammettere con Kant «lette cose in sé s«-onosciut«- . \mh «-«m He<i«d ricon«)sc(u-e la ob])iettività ch«' il sens«) c«niiuu«' acc«»rda alh" api»ar<'nz<^ sensit)ili. può essere dina- mista c«m S«h«dlino, ecc. Ciò «-he ò indispensabile a un sistema i«lealista non <• che «iuest«» risultato della critica del realismo — che ri«lealista subbiettivo ammette nella sua iutej»rità. ma l'i- dealista obl)iettiv«» preten«l«* c«)nci Ilare col realisnm stesso— che le cose non esiston«) in<lipen<lentemente dalla rappresentazione, e m)n son«» esse stesse che rajjpresentazioni. 201 per lui indipendemente dai nostri sensi, al di fuori del nostro spirito ; esse non sono, com' egdi dice, che feno- meni (apparizioni) o rappresentazioni. Al di là dei feno- meni egli suppone un fondamento reale dei fenomeni, una cosa in se ch'egli chiama noumeno: ma egli non intende affermare positivamente l'esistenza dei noumeni, il concetto del noumeno, per la filosofia teoretica al- meno, non è che problematico (1). Sin (jui la dottrina di Kant non differisce gran fatto da quella di Mill o di Bain : se la sua filosofia si fosse limitata a (luesta dottrina, essa non sarebbe un idealismo, nel senso che noi abbiamo dato a questa parola; ben più, essa non sarebbe una metafisica, ma un puro empirismo. Kant e un metafisico, perch' egli non si contenta di accettare questo mondo dei fenomeni come un dato ultimo, di cui dobbiamo limitarci a costatare, le leggi, cioè le unifor- mità di seciuenza e di coesistenza, e al di là del quale non dobbiamo cercare niente di più; al contrario egli vuole spiegare questo mondo dei fenomeni, egli cerca la ragione perchè questi fenomeni sono governati da queste leggi o da queste conformità che noi osser- viamo in essi. La metafisica di Kant è un idealismo, perchè questa ragione, questo fondamento dell' ordine dei fenomeni, si trova, secondo lui, nell' attività del pensiero. La nostra conoscenza secondo Kant è circoscritta nell'esperienza ; ma egli distingue nell' esi)erienza due elementi, la forma e la materia. La materia dell'espe- rienza sono i dati dei nostri sensi, e noi possiamo sui>- porre che essi siano delle impressioni in noi o delle (1) V Aliai l. IL e. Ili, iMMidam. della distinz. di tutti gli ogj^etti in tVMiom. e noum. Cfr. Sc«>lio alPantìb. dei c«H,cetti ritiessi, verso la line. 202 apparenze delle cose in 8Ò .sconosciute : la forma com- prende l'ordine o i rapporti reciproci in cui ci vengono presentati questi dati dei sensi, questi materiali della conoscenza. Questa formd delTog-getto della nostra co- noscenza non è dovnita all' azione in noi delle cose esteriori sconosciute, dei noumeni, ma si trova prepa- rata nel nostro spirito stesso, e g'ii è ing-enita, niente potendo essere oggetto della nostra conoscenza, senza ric(;vere qu(;sta forma. La forma è cosi un elemcMito puramente soggettivo; è il modo det(M*minato dalla na- tura delle nostre facoltà conoscitive, in cui le cose de- vono essere da noi rappresentate. La forma è l'elemento comune o permanente della nostra conoscenza ; la ma- teria è r elemento variabile : ciò che vi ha di a priori nella nostra conoscenza ap})artiene alla forma, ciò che vi ha di a posteriori alla mat(iria. Nella nostra cono- scenza, e (juindi anche negli oggetti di questa cono- scenza, vi ha un duplice elemento formale: vi hanno le forimi dell' intuizione sensibile e le forme del pen- siero. Le forme dell'intuizione sensibile, che Kant chiama anche intuizioni pure, sono lo spazio e il tempo. Se gli oggetti sensibili sono (»stesi, se ogni oggetto o fe- nomeno esteriore è in un certo luogo, ciò è perchè lo spazio è una forma della nostra sensibilità, e noi non possiamo perciò percepire altrimenti i fenomeni che nello spazio. Se tutti gli avvenimenti, comparati fra di loro, sono o simultanei o successivi, se ogni fenomeno occu{)a una posizione nel tempo, in una parola se vi ha nelle cose che noi conosciamo un prima e un poi, una successione e una durata, ciò e pure perchè il tempo è una forma della nostra intuizione sensibile, e noi non possiamo conoscere niente, né noi stessi né le altre cose, senza rivestirlo di questa forma. La succes- sione, il prima e il poi, V ordini* dei fenomeni, non è dunque nelle cose stesse, non è che subbiettivo : indi- — 2m — {)endentemente dallo spirito che conosce, non vi ha al- cuna successione, alcuna simultaneità, alcun ordine nei fenomeni stessi. Questa dottrina sul tempo è della più grande importanza nel sistema kantiano, perchè senza questa subbiettività del tempo le forme del pensiero, di cui ora passeremo a parlare, non potrebbero ajìpli- carsi ai fenomeni, ai dati della sensibilità. L' applica- zione delle forme del pensiero ai fenomeni consiste es- senzialmente nel determinare a priori i loro rapporti nel tempo (e col tempo) (lì. Che il tempo è una forma dell' intuizione sensibile è duiKiue la ragione perchè i fenomeni appariscono nel tempo : ma la ragione per cui essi ci appariscono nel tempo in certi rapporti reciproci determinati, deve cer- carsi, non nelle forme della sensibilità, ma nelle forme del pensiero o dell' intendimento. Per esempio, perchè vi ha questa uniformità generale nella successione dei fenomeni, che noi chiamiamo legge della causalità? Questa quìstione ha una suprema importanza pcir Kant, perchè le ricerche scettiche di Hume sulla causalità furono lo stimolo più energico delle ricerche dell'autore del criticismo, furono esse, com'egli dice, che lo risve- u'iiarono dal suo sonno dogmatico. A questa ((uistìone Kant risponde : se vi ha una higge di causalità, cioè una uniformità di sequenza nei fenonumi, ciò non è già perchè vi ha nelle cose stesse un nexus o una forza secreta da cui derivano le congiunzioni costanti che noi osserviamo nei fenomeni : ciò che potrebbero essere le cose in se stesse ci è assolutamente sconosciuto, e la loro esistenza stessa non è che problematica. Questa ragione della uniformità di sequenza dei fenomeni (1) V. SclieiiiJit. (lei concetti iiitoll. imri e Dcduz. dt'i colie. intcU. i»uri v> 24 e 2.") II ediz. n t I ^ K — 204 — Kant non la trova nelle cose stesse, ma in noi, nel nostro pensiero : la causalità si trova, e non si può non trovarsi, negli oggetti conosciuti, perché è una forma dell' intendimento del soggetto conoscente. Ugual- mente se negli og'getti conosciuti vi hanno delle so- stanze e degli accidenti, cioè delle cose che perdurano nel cangiamento incessante delle loro modificazioni, ciò è perchè la sostanza e l'accidente sono delle forme del nostro intendimento, secondo le quali soltanto noi possiamo avere delle conoscenze. Della stessa maniera, se vi ha negli oggelti dell'esperienza una reiprocità di azione, se le cose conosciute agiscono e reagiscono mutuamente fra di loro, ciò è perchè la reciprocità di azione è una forma del nostro intendimento. La neces- sità e la contingenza, l'unità e la pluralità, ecc., sono pure delle forme del nostro intendimento : esse si tro- vano negli oggetti conosciuti, perchè noi siamo forzati dalla natura della nostra facoltà conoscitiva di rappre- sentarci gli oggetti sotto queste forme. Le forme dell' intendimento risiedono originaria- mente nel pensiero stesso: nel loro })rincipio esse sono dunque dei concetti intellettuali puri, cioè indipendenti dall' esperienza e anteriori all' esperienza. Questi con- cetti intellettuali puri, cioè la causa e 1' effetto, la so- stanza e l'accidente, la reciprocità d'azione, l'unità, la pluralità, ecc., Kant li chiama categorie. Se questi con- cetti puri dell' intendimento si trovano realizzati nel mondo della nostra esperienza, ciò è perchè noi non possiamo altrimenti conoscere le cose, avere un' espe- rienza, che secondo queste forme del nostro pensiero. Ora si comprende facilmente che, lo spazio e il tempo essendo le forme della nostra sensibilità, gli og-getti sensibili o i fenomeni debbano necessariamente apparirci nello spazio e nel tempo: ma come noi ritro- viamo nei fenomeni stessi, cioè negli oggetti dell'espe- rienza, le forme del nostro pensiero ? I fenomeni sono per se stessi dei dati dei nostri sensi : come senzienti, noi siamo semplicemente passi- vi. Ma come dati dei sensi, i fenomeni sono isolati gli uni dagli altri, senza rapporti reciproci : i rapporti re- ciproci o la congiunzione dei fenomeni, non è un dato dei sensi, cioè della nostra receptività, ma un [)rodotto della nostra attività, e la nostra attività, quali soggetti conoscenti, consiste nel pensiero o nell'intendimento. L'ordine dei fenomeni, il modo della loro congiunzione, è così il risultato delle forme del nostro ])ensiero. (,)ue- sta congiunzione dei fenonuMii, per cui essi hanno dei rapporti reciproci, Kant la chiama col nome di sintesi, per indicare che questi rapporti recii)roci, quest'ordine dei fenomeni, sono un prodotto della nostra attività. E il pensiero stesso che costruisce il mondo dcH'esixn'ien- za coi materiali che gli vengono offerti dalla sensazio- ne : i sensi non danno che i materiali isolati e, per dir cos'i, dispersi, ma la forma, l'ordine d(ii fenomeni, è il prodotto e l'opera del nostro pensiero. L'attività intel- lettuale, come facoltà che effettua la sintesi, cioè che produce le congiunzioni o l'ordine dei fenomeni, è una attività che sfugge alla nostra coscienza, e Kant la chiama immaginazione produttiva: egli la chiama i)ro- duttiva per distinguerla dalla facoltà i)er cui avviene la riproduzione dei fenomeni; l'immaginazione [jrodut- tiva ci presenta originariamente i fenomeni, in un or- dine determinato; l'imnìaginazione riproduttiva ci rap- presenta questi fenomeni, dopo che essi ci sono stati già presentati. Così 1' immaginazione riproduttiva non ha importanza per ispiegare la sintesi o i legami dei fenomeni nell'esperienza ; ma essi sono spiegati dalla immaginazione produttiva. L'immaginazione produttiva effettua a priori la sintesi dei fenomeni, e in questa funzione essa si conforma a delle regole a priori, che sono i concetti ]mri dell'intendimento o le categorie. ^TV- nwgsftff aiii ■iaìì'iijy-T II 20(; — 207 L'iimnag'iiiazione produttiva costruisce il inondo dell'e- sperieiiza, eoi materiali dati dai sensi e nelle forme dell'intuizione sensibile: ma i rapporti e i legami che essa introduce tra i fenomeni, dipendono dai concetti puri dell'intendimento. «La sensibilità, dice Kant, dà delle forme, e l'intendimento, delle regole». Cosi è lo intendimento, sono i suoi concetti puri, che danno delle leo-o'i ai fenomeni : i concetti intellettuali puri, le cate- g'orie, si ritrovano nell'esperienza, perchè sono esse che determinano il modo in cui si presentano i fenomeni nell'esperienza. « Le regole, se sono obbiettive, si chia- mano leg'gi. Quantun(|ue noi aj^prendiamo molte leggi per l'esperienza, queste leggi non sono tuttavia che delle determinazioni particolari di leg*g*i ancora supe- riori, fra cui le più elevate a cui tutte le altre sono sottomosse') procedono a priori dall'intendimento stesso, e non sono imprestate dall'esperienza, ma al contrario danno ai fenomeni la loro legittimità, e devono, pc^r questa ragione stessa, rendere l'esjX'rienza possibile. Lo intendimento non è dunque semi)licemente una facoltà di farsi delle regole. comj)arando dei fenomeni ; esso è la legislazione per la natura». «L'ordine, la regolarità dei fenomeni, ciò che noi chiamiamo natura, è dunque la nostra opera propria : noi non ve la troveremmo, se non vi fosse prima stata messa da noi, dalla natura del nostro spirito» (1). Le leggi più universali dei fenomeni (p. e., la legge della causalità) sono per conseguenza, secondo Kant, conosciute a priori. Vi hanno così delle conoscen- ze reali a priori (g'iudizi sintetici a ])riori), cioè indi- pendenti dall'esperienza, e anteriori all'esperienza. L'o- rigine dei giudizi sintetici a priori si trova nelle fornie (1) AiiMlit. 1. l. e. II, si'z. :>. 1 ('<liz.) della sensibilità e nelle forme dell' intendimento. Il ca- rattere dei giudizii sintetici a priori è la necessità con cui essi s'impongono al nostro spirito ; questa necessità non si trova mai nelle conoscenze dovute all' esperien- za. Il fondamento dei giudizi sintetici a priori, per par- te dell'intendimento, si trova nei concetti intellettuali jmri o categorie. I giudizi fondati su (juesti concetti so- no necessari, perchè questi concetti sono inerenti al nostro intendimento stesso, e le funzioni del nostro pensiero si esercitano naturalmente secondo (|uesti con- cetti. Kant divide così l' illusione comune a tutti gli avversari della filosofia em|)irista, di credere ingenite allo spirito delle al)itudini mentali, delle associazioni d'idee, la cui origine è certamente dovuta all'fisperien- za, ma che i)er la rip(itizione sono divi^nute così neces- sarie, che ci sembrano aftVitto naturali ed (essenziali alla nostra intelligenza. Questi concetti essenziali della nostra intidligenza, cioè le categorie, Kant ])retende d(»- durli dalle funzioni o forme generali del giudizio (p. e. la categoria di causa e di effetto si deduce dalla forma del giudizio ipotetico, la categoria di sostanza e di accidente dalla forma, del giudizio categorico, ecc.). Così se v^i hanno nel nostro intendimento questi dati concetti puri o categorie, è perchè vi hanno (jueste da- te forme del giudizio (il categorico, ri[)otetico e il di- sgiuntivo, l'affermativo, il negativo e 1" intìnito, eco: l'esistenza di tali categorie è spiegata dall'esistenza di tali forme del giudizio. Nella Critica della ragion pura, come punto di par- tenza delle sue ricerche, l'autore presenta la quistione : Come sono possibili i g'iiulizi sintetici a priori ? cioè : com'è possibile che delle conoscenze, indipendenti dal- l'esperienza e ad essa anteriori, si riferiscano nondime- no ag'li oggetti dell'esperienza, ed al)l)iano un xalore obbiettivo V La soluzione del problema è che le idee w lì 208 fondamentali di queste conoscenze a priori, cioè lo ca- tegorie, quantunque non derivino dall'esperienza, sono esse però che determinano gli oggetti dell'esperienza e rendono questa possibile. Non bisogna credere tuttavia che il problema fon- damentale di Kant sia stato in realtà quello di spiegare la possibilità dei giudizi sintetici a priori. Un filosofo non segue necessariamente nell'esposizione del suo si- stema r ordine stesso con cui questo si è formato. Il sistema criticista è una teoria della conoscenza, per la semplice ragione che gli oggetti conosciuti non insisto- no per Kant che nella conoscenza. Mn. ciò che Kant vuole anzitutto spiegare, come tutti i metafisici, sono gli oggetti stessi della conoscenza, la natura, le leggi e l'ordine dei fenomeni. Pa'co il punto di j)artenza del sistema di Kant. Gli oggetti, ciò che noi chiamano il mondo esteriore, non sono che il sistema delle nostre percezioni sensibili. Questo sistema delle nostre i)ercezioni ha un fondanum- to obbiettivo in una realtà esteriore? Noi supj)oniamo, oltre dei fenomeni, cioè delle nostre percezioni, una cosa in sé sconosciuta: nia l'esistenza di (|Uesta cosa in sé è problematica, noi non lassiamo attenuarla. Ma se non vi ha di certo e di conosciuto che dei fenonu^iii, se non vi ha che il sistema delle nostre percezioni, come com- prendere ch(^ queste percezioni costituiscono appunto un sistema? [)erchè queste uniformità, (piesf ordine sor- prendente, (juesti legami secondo cui i fenomeni, cioè le nostre percezioni, si seguono e si accompagnano? Dov' è il iu\\us che determina questi accoppiamenti, queste congiunzioni dei fenomeni ? Cjual è la virtù secreta cheta dell'insieme delle nostre percezioni un tutto pieno di ordine e di regolarità, un sistema, un mondo? Ciò che vi ha di pnrticolare nel modo in cui si presenta a Kant il i)roblema di spiegare la natura, è che per gli — 209 — altri metafisici la natura è un tutto costituito di cose reali o oggettive, per Kant è un sistema di fenomeni, cioè di percezioni sensibili. Il perchè dell'ordine e delle leo'o-i di questi fenomeni, cioè di (lueste percezioni, Oc? • Kant non lo cerca nel mondo delle cose reali, delle cose in sé, poiché le cose in sé sono assolutamente sco- nosciute, e la loro esistenza stessa è problematica. Que- sto perché lo cerca in noi stessi, nella nostra attività pensante: l'opera di Kant è reahnente un'oi)era di ge- nio, perché egli ha scoperto una nuova via, ha trovato una soluzione nuova al problema delia nu^tatisica, equesta soluzione non è arbitraria, ma è una di (pielle che si ])resentano naturalmente e inevitabilmente al pensiero umano, dopo che la natura ha cominciato a considerarsi, non come un aggregato di cose in sé, ma conu^ un aggregato di fenomeni o di semplici percezioni sensibili. Tuttavia la soluzione di Kant non è che una forma nuova dell' antropomorfismo. I metafisici realisti, Leib- nitz, Malebranche, ecc., aveano spiegato la regolarità e l'ordine della natura, vedendovi l'opera di una sag- gezza suprema. Per Berkeley le cose non erano, come per Kant, che dei fenomeni, cioè delle semplici ])erce- zioni; ma anch' egli, in quest'ordine e regolarità con cui i fenomeni ci vengono presentati, vedeva V opera della più sublime intelligenza. I fenomeni, n(^lla loro regolarità, sono, dice Berkeley, un linguaggio per cui l'autore della natura si rivela a noi: nella nostra espe- rienza sensibile noi ci troviamo in presenza dei segni d'una ragione più larga, d'una volontà più ferma che quelle che si si rivelano nelle costruzioni arbitrarie della nostra immaginazione (Priaclpu). Il rapporto del kantismo con la filosofia teologica può compararsi al rapi)orto dello animismo di Stahl con le spiegazioni anteriori, teologi- che o ilozoiste, deirorganizzazione : non è più, secondo 14 210 — Stahl, un dio o un archeo, a noi esteriore, l'artefice della nostra oroanizzazione : questo artefice siamo noi stessi, l'anima che è il sog-o-etto del nostro pensiero e della nostra coscienza. Così per Kant non è un dio, non è un principio ilarchico il demiurg-o che ha prodotto que- st'ordine della natura che noi osserviamo : quest'ordine è l'opera di noi stessi; il nostro spirito è l'architetto interiore che costruisce il mondo della nostra esperien- za. Il mondo è un poema <>»randioso creato dalla nostra intelli^-enza : i concetti intellettuali puri, le categorie, sono come le regole estetiche che il poeta si propone di osservare, o piuttosto come il disegno dell'opera che, nella mente del poeta, precede l'opera reale, e lo guida costantemente nella composizione del suo poema. Ecco la quistione di Kant ; Come le sensazioni, che sono le lettere o le sillabe di cui il cosmos, questo poema del nostro spirito, è composto, potrebbero formarlo, per il loro concorso spontaneo, senza l'azione dell'intelligen- za? Questa quistione è sotto un'altra forma la nota quistione della filosofia teologica: Come dei caratteri tipografici, gettati a caso, avrebbero potuto formare l'Eneide? (li L'idea di considerare l'idealismo kantiano come una specie di antropomorfismo solleverà forse un'obbie- zione : se la natura viene concepita come un complesso di tenomeni, cioè di semplici percezioni attuali o possi- ' bili, queste non esistendo fuori del nostro spirito, la na- tura stessa sarà allora un fatto subbiettivo, e per con- seguenza un fatto umano. Spiegare la natura per il pensiero sarà cosi spiegare un fatto umano per un altro fatto umano; mentre l'essenza dell'antropomorfismo con- siste nell'assimilare ai fatti umani quelli che non hanno (1) V. Kousseau Eìnilio, 1. IV. 211 — con essi una somiglianza reale. Quest'obbiezione non potrà essere completamente risoluta che in seguito: noi mostreremo che la metafisica ha la tendenza a ricon- durre ai fatti più familiari della nostra esperienza quelli che sono meno familiari. Ogni concezione antropomor- fistica delle cose si conforma a questa tendenza, perchè, tra tutti i fatti della nostra esperienza, la nostra pro- pria attività è necessariamente quello che ci è più fa- miliare. La nostra attività interna, il pensiero, è per noi altrettanto familiare che la nostra attività sulle cose esteriori: ciò fa comprendere perchè l'idealista spiega le leggi o l'ordine con cui si presentano le nostre per- cezioni sensibili per la nostra attività pensante. Che i fenomeni si presentino secondo delle leggi e un ordine determinato può essere anch'esso un fatto familiare della nostra esperienza ; ma noi abbiamo l'abitudine di con- siderare queste leggi e quest'ordine al punto di vista del realismo, come leggi ed ordine di un mondo di realtà obbiettive. Se dal%punto di vista del realismo si passa al punto di vista opposto, che considera le cose come dipendenti dai nostri sensi e non esistenti al di fuori dello spirito, allora queste leggi e quest'ordine dei fenomeni, per quanto possano essere abituali nella nostra esperienza, vengono rappresentati tuttavia sotto un aspetto che non ci è per niente familiare. Cosi se noi spieghiamo queste leggi e quest'ordine dei fenomeni (considerati come un semplice sistema di percezioni) per la nostra attività pensante, noi ci conformiamo alla tendenza della metafisica, che è di spiegare per i fatti che sono a noi familiari quelli che non lo sono. E questa spiegazione è essenzialmente calcata sul tipo dell'an- tropomorfismo, perchè il fatto familiare che ci serve a spiegare gli altri fatti, è una forma della nostra attività umana. Kant ci mostra questa tendenza a ricondurre tutti — 212 — 218 i fatti a quelli che ci sono i più familiari, non solo in quanto egli spie-a le le-gi dei fenomeni per l'attività del pensiero, ma ancora in quanto e-li cerca di s])iegarle per le forme di quesfattività del pensiero che ci sono più familiari. Se le categorie non sono, com'egli pre- tende, le forme ingenite e necessarie del nostro pensie- ro es^e sono certamente i concetti e le funzioni più familiari della nostra intelligenza : le forme genenili del giudizio, a cui egli riconduce le categorie, se non sono"^ in realtà le forme essenziali dell'attività interna giudicatrice, sono almeno le forme generali della espres- sione verbale del giudizio, e per conseguenza dei fatti mentali estremamente familiari, più familian forse che le forme stesse del giudizio, perchè l'osservazione delle parole ci è più abituale che quella dei pensieri (lì. Noi dobbiamo intìnedomandjirci sel'ipotesi metafisica di ivdut non si lega alla ricerca delle cause efficienti. Noi qui tocchiamo ad una contraddizione del criticismo, da cui è impossibile di liberare questo sistema. L'azione, la causalità, non e per Kant che una categoria, una forma del nostro pensiero, a cui noi possiamo attribuire un valore obbiettivo, ma nei limiti dell'esperienza o del mondo fenomenale, per la ragione che ([uesta forma e una delle condizioni anticipate della possibilità di una esperienza (lualsiasi. Al di fuori del fenomeno e dell'e- sperienza, le categorie non possono più avere alcun valore obbiettivo. Ma è un fatto incontestabile che Kant attribuisce un'azione o un'efficienza all'intendi- mento e alle categorie nella formazione del mondo dei fenomeni o dell'esperienza (2). Ora quest'attività o effi- cienza dell'intendimento e delle categorie è un fenoine- (1) (^fr. il Sajij;. 1. «np. L pj»n«;;r. tS. (2) V. Amil. 1. 1. r. 11. P^tra-r. 14. 15. 2i, 2i\ (11 oA.). ec<-. no, cioè un'apparenza, o è una realtà? Nel primo caso essa non può spiegare il mondo dei fenomeni, perchè essa stessa fa parte di questo mondo dei fenomeni che si tratta di spiegare. Nel secondo caso, parlando di una azione, di una efficienza, dell' intendi mento e dei suoi concetti, non si attribuisce indebitamente alle categorie un valore obbiettivo, al di fuori dei limiti in cui que- sto valore può esser loro attribuito? Questa contraddi- zione è troppo essenziale al sistema, perchè essa possa esser tolta senza snaturarlo : noi dobbiamo ammettere che l'efficienza dell'intendimento e dei concetti intellet- tuali puri è per Kant reale e non fenomenale, quan- tunque perciò Kant si metta in contraddizione con altri principii del suo sistema. Se quest'efficienza non fosse recale, la spiegazione della formazione dell'esperienza e della possibilità dei giudizi sintetici a priori sarebbe semplicemente illusoria. Il pensiero o V intendimento è dunque per Kant una vera causa efficiente nella forma- zione del mondo dei fenomeni; e cosi noi ritroviamo in Kant, sotto un'altra forma, la distinzione tra la causa- lità fisica o semplice uniformità di sequenza e la cau- salità metafisica o efficiente. Nel mondo dei fenomeni, la causalità è una semplice uf.iformità di sequenza : la causa e l'efltetto fenomeni sono congiunti, non per la virtù propria della r-ausa, ma per l'attività sintetica del pensiero che li ha congiunti. Quest'azione sintetica del- l'intendimento poi non è una semplice uniformità di sequenza, una congiunzione senza connessione; ma noi vediamo qui il nexus, la natura della causa è tale che essa spiega l'eftetto : Kant non si limita a costatare il modo con cui i fatti si seguono e si accompagnano, ma egli crede di comprendere il modo essenziale della loro produzione (1). • 1) Cfr. SaiAu. 1, ^ap- V, par. 1-7. 214 § 20. Il sistema di Kant è un idealismo dimezzato, perchè esso non spiega completamente i fenomeni per l'attività del pensiero, ma solo le le^gi generali delle loro connessioni, la forma, mentre la materia è data, non prodotta dal pensiero. I grandi sistemi idealisti usciti dal Kantismo, sia « che facciano delle cose delle sem- plici percezioni nostre (idealismo subbiettivo : Fichte), sia che conservando loro robbiettività, ne facciano delle rappresentazioni di un pensiero eterno e universale (idea- lismo obbiettivo: Schelling- ed Heg-el), sono invece un idealismo assoluto, perchè, secondo questi sistemi, le cose sono prodotte interamente (senza distinzione di forma e di materia) dall'attività del pensiero, sia individuale, sia universale. Il carattere speciale di quest'idealismo assoluto dei successori di Kant è il metodo filosofico: la ricostruzione a priori della realtà, lo sforzo di questa filosofia di traspor- tare alla conoscenza del mondo reale il metodo di deduzio- ne pura della geometria (1), con la pretesa di dedurre da un principio unico tutto il sistema delle conoscenze sull'uomo e sulla natura, sviluppando gradualmente, a partire da questo principio unico, tutto il contenuto della (1) Hegel biasima Spinoza di aver applicati) alla tilosotìa il metodo .sxeometrico : «piesto metodo eoiivieiie, egli dice, alle scienze deirintendimento, ma non alla tìlosotìa (scienza della ragione). Certamente vi ha una gran differenza tra il metodo deduttivo della geometria, il quale non t^ che l'applicazione ])iiì notevole del sillogismo, fondato sul principio deìVidentità, e il metodo deduttivo di Hegel, che eleva la contraddizione a legge fonda- mentale del pensiero e delle cose. È nondimeno verisimile che ne ad Hegel, né ai tìlosotì anteriori che gli apersero la via, sa- rebbe venuta l'idea di costituire una scienza universale con un metodo puramente deduttivo, se essi non avessero trovato nella geometria l'esempio di una scienza già costituita unicamente con un tale metodo. 215 scienza, per una progressione logica continua, in cui cia- scuna conseguenza ottenuta diviene immediatamente il principio di un'altra conseguenza. Questo metodo non ha il valore di un semplice mezzo per arrivare alla spie- gazione del mondo, ma è esso stesso, per se stesso e non pei suoi risultati, che costituisce una spiegazione del mondo. Nei sistemi idealisti di cui parliamo, questo la- voro di ricostruzione della natura che avviene nel pen- siero riflesso del filosofo, non è che l'imitazione esatta, la riproduzione cosciente, dell'attività spontanea dello spirito che ha costruito questa natura. La formula più espressiva di questa filosofia è il detto di Schelling: «F^i- losofare sulla natura è creare la natura»; detto che un hegeliano commenta cosi : « Se queste parole paressero troppo ambiziose, si possono tradurre per queste : filoso- fare sulla natura è ripensare il gran pensiero della crea- zione, è riprodurre dal fondo dello spirito per il j)ensiero le idee creatrici della natura». In altri termini, le cose non esistono che nel pensiero, nella conoscenza, e l'es- sere non è che un sistema di pensieri, di conoscenze : la filosofia è la riproduzione, nella coscienza riflessa del filosofo idealista, di questo sistema di pensieri, e la suc- cessione logica, l'incatenamento di (jueste pensieri nel sistema filosofico, rappresenta la successione logica, l'in- catenamento degli stessi pensieri nel sistema primitivo da cui l'essere è costituito. La forza che produce il mondo non é dunque altra cosa che l'attività logica dello spi- rito che produce la scienza; e il meccanismo intimo della produzione delle cose non è altro che il metodo per cui il filosofo passa di conoscenza in conoscenza. Questa spiegazione idealista del mondo, che assimila il modo essenziale di prodazione dd fenomeni all'attività logica dell'intelligenza umana, suppone necessariamente che il mondo reale si risolva in idee, in rappresentazioni. ^iòW idealismo obbiettivo^ che hitende di conciliare la spie- 21() 217 gazione idealista con la realtà del mondo esteriore, ciò non è possibili^ che per la identificazione delle cose con le idee, per la dottrina deir identità dell'essere e del pensiero. La dottrina dell'identità dell'essere e del pen- siero costituisce così una spieg-azione del inondo, in quan- to lo sviluppo dell'essere si considera come identico allo sviluppo del pensiero, applicando nel senso più stretto la massima di Spinoza: orda et eonnerio idearuni idem est ac ardo et connexlo reviim, in modo che quest'ordine o questo sviluppo, delle cose al tempo stesso che- delle idee, viene concepito sul tip:> di questa forma familiare di azione umana, che abbiamo chiamato l'attività logica. Alla spiegazione idealista del mondo, nei sistemi dell'/- dealismo obbiettivo (Schelling ed Hegel), è legata la realizzazione delle astra/.ioni, cioè dei concetti o dei ter- mini generali. Il metorlo o la forma con cui si sviluppa la conoscenza filosofica della natura, che è la stessa cosa che il metodo o la forma con cui si sviluppa quest'at- tività originaria del pensiero di cui la natura è il pro- dotto, essendo un metodo puramente deduttivo, e la de- duzioiu» volgendo per sua natura su nozioni astratte, su principii generali, ne segue che queste idee creatrici, queste nozioni, che sono le fila di cui, per dir cosi, la natura è tessuta, non sono che delle idee astratte, delle nozioni generali. Ora essendovi identità tra Tessere e il pensiero, tra la conoscenza e l'oggetto conosciuto, le no- zioni astratte e generali si identificano perciò con degli esseri astratti e generali, con delle entità alla scolastica, e così ridealismo obbiettivo è al tempo stesso un realismo, nel senso ehe (|uest'uUim?i parola ha nella filosofia del medio evo. La natura sensibile, adunquvi, per l'idealismo obbiettivo, è la manifestazione fenomenale di un sistema di nozioni astratte e generali, di cui ciascuna s'identi- fica col suo oggetto del pari astratto e generale, cioè con una forma, un tipo, una qualità, un fatto generale, e le quali sono tutte legate l'una all'altra da un filo logico continuo, in modo che queste nozioni si concepiscano in un ordine tale, che le antecedenti siano sempre le pre- messe logiche di quelle che immediatamente le seguono, e le conseguenti siano sempre le conseguenze logiche di quelle che immediatamente le precedono. Nel pen- siero del filosofo, che ripensa queste idee creatrici, vi ha tra queste idee un rapporto di anteriorità e di posterio- rità che è al tempo stesso logico e cronologico : ma nel pensiero del pensatore eterno, nell'atto eterno del pen- siero di cui la natura è la creazione, o come dice Schel- ling, la espressione obbiettiva, il rapporto di anteriorità e posteriorità fra le idee non può essere cronologico, ma logico soltanto. Questa forma dell' idealismo possiamo noi conside- rarla come un:i risposta alla grande quistione della me- tafisica, quella delle cause efticienti V Pare a prima vista che si debba rispondere di no. La filosofia, dice Schelling, oltrepassa, come le matematiche, il punto di vista del- l'incatenamento causale : un fenomeno non vieut spie- gato trovandone la causa in un altr.i fenomeno, ma tro- vando il principio donde derivano tutti i fenomeni. E in verità una causa essendo un avvenimento che pre- cede un altro avvenimento, sarebbe un errore il dire, nel senso stretto, che la filosofia di cui parla Schelling, si propone In ricerca delle cause. Le idee non sono le cause efficienti dei fenomeni, ma piuttosto la loro essenza; le idee sono la realtà assoluta, di cui il mondo sensibile è in un certo molo l'apparenza. Le idre non sono nem- meno cause, nel senso stretto, di altre idee, essen-lovi fra loro una successione logica, ma non cronologica. Questa filosofia contempla le cose sub specie aetendtatis : agl'individui, ai fenomeni transitorii, sostituisce le specie, le^ forme generali, le leggi eterne dell'esistenza, astra- zioni che essa realizza al tempo stesso che trasforma le - 218 cose in pensieri. P^ssa proietta il mondo sensibile in una regione libera da tutte le forme della sensibilità, in una regione extra - spaziale ed extra - temporale, in modo che le cose perdono, per questa proiezione, questa sorta di dimensione che si chiama il tempo. Come il mondo delle Idee è un'immagine, al di fuori del tempo, del mondo dei fenomeni, così l'incatenamento delle Idee è un'im- magine, al di fuori del tempo, dell'incatenamento dei fe- nomeni. Il nexus delle idee è un nexus causale; ma la successione cronologica è soppressa e non resta che la successione logica. Le considerazioni che precedono, è bene di no- tarlo, non rendono conto che d' una maniera incom- pleta, e per così dire, a metà, dei grandi sistemi idea- listi tedeschi succeduti al kantismo. Vi ha in questa filosofìa un principio fondamentale ch'è per se stesso in- dipendente dalla spiegazione idealista del mondo : è la identificazione della ratio essendi con la ratio cognoscendij cioè della derivazione ontologica delle cose con la de- rivazione logica delle conoscenze nella dimostrazione. Questo principio può legarsi facilmente con l'idealistno, come effettivamente è avvenuto nella filosofia tedesca ; ma esso costituisce anche, insieme alla realizzazione dei termini generali che e con esso strettamente connessa, la base su cui si fondano i sistemi di Platone, di Spi- noza e di altri filosofi che non sono affatto idealisti, nel senso che noi diamo alla parola idealismo Tcioè una spiegazione del mondo per l'attività immanente del pensiero). In un altro capitolo studieremo nella sua generalità questa forma di metafisica caratterizzata dalla realizzazione dei termini generali e dalla identi- ficazione del principium essendi col principium cognO' scendi^ cioè la studieremo per se stessa, indipendentemente dalla sua alleanza con Videalismo. Noi vedremo che il punto di vista di questa forma di metafìsica non ha per se stesso niente di comune con 1' antropomorfismo, quan- tunque anch'esso sia legato, ma d'un'altra maniera, alla ricerca delle cause efficienti. Allora la metafisica di Schel- ling e di Hegel ci apparirà sotto un altro aspetto. Il principio di questi sistemi è l'identità del pensiero e del- l'essere : noi qui li abbiamo veduti dal lato del pen- siero, allora li vedremo dal lato dell'essere. Noi abbiamo passato in rivista le forme generali, sotto cui l'antropomorfismo si è manifestato nella spie- gazione della natura. Questa tendenza ad assimilare il modo di produzione di tutti i fenomeni alla nostra pro- pria attività, sembra così caratteristica dello stato me- tafisico del pensiero umano, che noi potremmo conclu- dere, applicando alla metafìsica stessa ciò che un meta- fisico, Schopenauer, dice di se: «Dai tempi più antichi si è considerato l'uomo come un microcosmo. Io ho ro- vesciato la proposizione, e mostrato che è il mondo che è un macrantropo ». Quest'attività dell'uomo, a cui viene assimilato il modo di produzione di tutti i fenomeni, è la sua attività psichica : nella piìi parte dei sistemi an- tropomorfisti la forma esterna di quest'attività, cioè l'a- zione volontaria; nell'idealismo la sua forma interna, cioè il pensiero. Noi vedremo in seguito perchè crediamo di spiegare i fenomeni assimilando il modo della loro pro- duzione a un modo dell'attività dell'uomo, e perchè que- sto è una forma della sua attività psichica. 220 - .'i xt. e, // concetto di causalità dell'antropomorfismo ^ 21. Vììi che prova dì iiianiera a non lasciar luo<;o a<l alcun dubbio che V uomo, assimilando i fenomeni della natura ai suoi propri atti, crede di scoprire così le caH>i(' efficienti e di comprendere, come dice Comte, il modi) essen:i(ile di produzione di (piesti fenomeni, è una teoria psicolo<»ica suirori^ine della nozione di e<(ì(sa efficiente, che è prevalsa in tutte le gradazioni (U'ila scuo- la spiritualista, dacché la curiosità dei tilosotì si è ri- volta verso le ricerche di cpiesto genere, lo i)arlo della teoria, secondo la quale, mentre la natura esteriore non ci presenta che delle semi)li<'i successioni regolari <li te nomeni senza mai scoj)rirci l'ettìcienza causale o il nexus che leua di antecedenti ai conseguenti, noi troviamo in- vece uiui vera effi(ieii:<i caiixale, non delk- st'iiiplici nniforiiiità di scqueiizii . m'Ha nostra attività niiuuia o pniaiiicntf animale, sia nel movimento volontario sia nelle azioni interiori dello spirito; e elle eosì è la coseieiiza dfUa nostra projìria attività che ci dà immediatamente l'idea di eausa etticiente, ehe per analojiia estendiamo in sefiuito ai fenomeni del mondo esteriore. Si può ben di- re e];e (jiu-sta dottrina nasee contemporaneamente alle ricerclie della tilosotìa moderna sulla natura e 1' ori<;ine delle nostre conoscenze, percliè <;ià se ne trova il j^ernie, com'è stato più volte osservato, nel Sagfiio di Locke suU'inteiidimento umano: «Se noi vi tacciamo attenzio- — 221 — ne, e-li di<-c nel capitolo Della Potenza (1), i corpi non ci forniscono, p*'r niezzo ilei sensi, un'idea così chiara e così <listinta .Iella potenza attiva c<.me .luella che ne abbiamo i>er la riflessione .he tacciamo sulle operazumi del n.>stro spirito. Sic.-ome of-ni potenza ha rapp..rto al- l'azi.)!!.-, e n.)n vi hanm., io credo, '1^' <1"<' *">''^=i '^'^- 7AMÙ .li .-ui abbiamo l'idea, <io.' ì>n,mre e miion-re, ve- .lia.uo .h....l.' <-i viene l' idea pii. .listiuta .l.-lh- potenze eh.' pr.>du.-i.n.) «lueste azi.mi. In quanto al pensuMO, i,..,rt)i n..n ce ne danno alcuu'idea, .' non <• .'he per mez- zo .Iella ritlessi.>ne (cioè .l.'11'..sservazion.' i^it,eri.)r.") .'he noi l'al>biamo. Noi non abbiamo nemmeno per mezzo del .'orpo, al.un'i.lea.lel .'inninciament.» .h'I m.>viment.> Noi n.m abbiamo l'i .Ica .lei .•ominciament.> del n>o- vimento .'h.- per mezzo della riH.'ssi.me .-h.' fa.-.'iamo su,lueU.> che avviene in noi stessi .pian.lo v.'.liamo per,'sperienza .h.' volen.lo sempli.ementc mu.)V.'re .h-lle parti del nostr.> .orpo .he eran.> prima iu rijMyso . noi possiamo mu..verle. Sicché mi sembra .1..' 1.' op.-razi.nn dei .'orpi che noi osserviamo per mezzo .l.'i sensi non,i .lann.» .-he un'idea molto in.pertetta, em.>lto ..scura .h'ila p.,tenza attiva; poichì' i ..orpi non p..t.ebber.. tbrnir.i •dcun'i.lea in se stessi della potenza di .-omin.'iar.' una azi..ne, sia pensier.., sia moviniento. » In questo lm>-o l'autore sembra las.iare ai corpi .pialche sorta <li atti- vita : ma altrove è più esclusivo : la potenza attiva, eoli di.e, è l'attributo propri., .legli spiriti, e la potenza passiva (luello dei corpi (2). Leibnitz nei N. Saf/fii (8) conviene con l.oche che ridea più chiara della potenza attiva ci viene dallo spi- (1) L. II, e. XXI, parjijLii'. K (2) C. XXI II, par. 28. (S; L. II, e. XXI. — 22:^ — uto. « Così essa iiou è, e^li dice, che nelle eose ehe han- no deirftnah>ixia con lo spirito, eioè nelle entelechie (die sono le potenze attive delle monadi) : percliè la materia non denota propriamente che la potenza passiva. » Al- trove dice : « Nell'ordine della conoscenza come nell'or- dine della realtà le (*08P spiritnali sono anteriori alle materiali, perchè noi percepiamo più interiormente Pa- nima, che ci è intima, che il corpo, come lianno osserva- to Platone e Descartes. La forza, voi dite, noi n<m la cono- scianM) elle J)er i suoi efit'etti, e non in se stessa. Io ri- spondf> (he sarebhe così, se noi non avessimo un'anima, e non la conoscessimo» (1). E altrove: «È in noi stessi che troviamo le semenze dì ciò che apprendiamo, cioè le idee e le verità eterne che ne nascono ; e non è sor- prendente se, avendo la coscienza di noi stessi, e tro- vando in noi l'essere, l'unità, la sostanza, Wizione, noi »ld>iamo l'idea di tutte queste cose » (2). In Berkeley la dottrina ha ^ìh la sua torma mo- derna : e<»li aiferma che la vohmtà è la sola causa di cui abhiaiììo fjualche esperienza, e perciò eoli non aiu- mette * li, vi sia alcun' altra causalità, alcun' altra j)o- tenza, che nell'attività volontaria. L'idea di causa, e*i;li dice nel De Moiu^ ci è foruiùt dalla coscienza della nostra attività personale, della vohmtà ; l' attività appartiene esclusivamente aUo spirito, e i fenomeni sono dei segni, non delle cause, di altri fenomeni. È per metafora che si è potuto parlai-e, a proposito dei corpi, di sforzi o di tendenze. Noi non conosciamo chia- ramente ed evidentemente nei corpi che la tìgura, il mo vimento e le proprietà sensibili : se oltre a queste qua- lità si vuol ammettere in essi un principio del movi- I 223 mento, noi ccmfessiamo che esso è una qualità occulta, e che perciò iu)n conosciamo il principio del movimento Queste parole forza, peso, gravitazione, non desi- gnano delle (pialità tìsiche: levate dai coipi l'estensione, la solidità, la tìgura, non resta più niente ; parlare di qualche altra (pialità è rocem prof erre et nihil eoneipere. Del resto tutti i matematici si accorcbmo a ricono- scere che i corpi sono inerti, egualmente indittèrenti al rii)oso e al movimento : è l'anima, la cosa pensante, che ha il potere di mettere il corpo in movimento. Bisogna duncjue attiibuire allo spirito il j)rincipio del iìU)VÌmento, e considerale le cose non pensanti ionie semplicemente mobili ed ineiti. La teoria volizionale della causazione era dunciue stabilita prima delle speculazioni di Huuie sul princi})io di causalità: enei fatto, <iuando Huuie vuol dimostrare che la nostra idea di un rapporto di causazione si ridu- ce per noi a ({nella di una uniformità <li se(iuenza, e che noi non abbiamo alcun'idea di un legame ne(*essario o di una causa eftìciente . egli si vede «obbligato di com- battere (jnesta dottrina, secondo cui la coscienza ci at- testa che la volontà è una causa efficiente, e l' idea stessa di causa etticiente « deriva (hdla riflessione (nel senso lockiano <li (|uesta parolai, poiché essa nasce in noi meditando sulle operazioni dell'anima, e sull'im])ero che la volontà esercita tanto sugli organi del corpo <he sulle facoltà dello spirito» (1). La tecuia volizionale acquista una ben più grande importanza dopo di Hume : è (piesta teoria che i <lifen- sori «delle credenze naturali del genere umano » oppon- gono alla dottrina empirista fondata dallo scettico in- glese, secondo la <iuale noi non abbiauìo nozione dd cause (1) Kpist. àAÌ Berliiigium, p. (577, ed. Erdiiiaini. (2) Lettf-nt ad Hau.scbius 8ul idatoiiisnio. p. 455 ed. Erdmaiiii. (1) Hunie Sanj^H» VII. 224— 225 <- eifìcieriti, e la causazione non è altro che una successione invariabile di fenomeni. Reid, come ablnamo visto, con- viene con Huine che i fenomeni esteriori non ci mostra- no elle le ser|uenze regolari dei fenomeni, e che le scien- ze fisiche, anclie supponendole ])ervenute alPultima per- fezione, non potrebbero mettei'e in luce la causa efficiente di un solo fenomeno della natun». M;i ben altro è il ca- so per i fenomeni deirattività umiuia : « Quando io os- servo, egli <Iice, lo sviluppo di una [)ianta, dal germe in cui essa era nascosta sino alla maturità, io so che deve esservi una causa capace di produire (|uest' effetto, ma non vedo uè la causa né il modo della sua azione. Al contiario, in certi moti del mio coi|)o e in certe dire- zioni del mio j>ensiero, io so ikmi solamente che ([uesto effetto ha bisogni) di uua causa, ma eziandio che io sono <juesta causa ; io ho la coscienza di ciò che io fo per produrlo. Ciò donde seiid)ra derivare non solo il C(m- cetto di una causa (erticiente), mi il concetto più chiaro che noi possiamo formarci deirattività, o dello sviluppo della [)i)tenza attiva, è la coscienza delhi nostra propria attività. — Il solo concetto distinto che io posso fVu'mar- mi della potenza attiva si è che essa è in un essere l'at- tributo in virtù del (piale egli ])uò fare certi atti, se lo vuole. — Se dunque alcuno afferma che un essere può essere la causa efticiente d'un'azione, ed aver la potenza di ])iodurla, sebbene esso non possa ne concepirhi né volerla, egli parla una lingua che io non comprc^ido af- fatto. — Mi sembra duncpie molto propabile che gii esseri dotati di (pialche grado d'intendimento e di volontà pos- sono soli posseder la potenza attiva e che gli casseri ina- nimati sono puramente passivi e non hanno alcuna at- tività reale » (1). 1^ lacobi, che in Germania difende le credenze natu- rali contro di Kant e di Fichte, come Reid in Inghil- terra contro di Hume, dice : Se l'uomo non fosse che un essere pensante, s'egli non fosse di più attivo, agente al di fuori, egli non avrebbe l'idea di causa e di effetto. È l'esperienza intima che facciamo della nostra forza, della nostra libera causalità, che ci dà l'idea di causa, e ci fa supporre delle forze da per tutto dove noi ve- diamo un'azione (1). Ascoltiamo infine un altro fra i difensori delle cre- denze naturali, M. de Biran, filosofo al cui nome è le- gata, più che a quello di qualsiasi altro, la dottrina vo- lizionale. « La nozione di potere o di legame necessario deriva unicamente, dice quest'autore, dalla coscienza interna del nostro potere di agire o dal sentimento della nostra propria causalità appercepita nei movimenti vo- lontari, e per conseguenza in tutti i nostri atti liberi. Il potere e l'energia, cause donde procedono questi mo- vimenti, è un fatto che noi conosciamo immediatamente, certissima scientia et damante coscientia; fatto interiore sui generis, distintissimo da tutti gli avvenimenti natu- rali che l'esperienza comune può rappresentare ai sensi o all'immaginazione come legati gli uni agii altri in un certo ordine abituale di successione; e come (questo rap- porto di successione differisce (toto genere) da quello di causalità, ripugna di dire o di pensare che l'abitudine 0 l'esperienza ripetuta possa creare il principio (di cau- salità), o trasformare gli effetti in cause, il contingente in necessario » (2). « Un essere che non avesse mai fatto sforzo non avrebbe in effetto alcuna idea di forza né per conseguenza di causa efficiente; egli vedrebbe i mo- (1) Facoltà attice. Siigj^io I, e. V. (1) L'idealismo e il realismo. (2) Op. filos pubbl. da Cousin, t. IV, p. 28H-290 (Opin. di Hume sulla natura e V origine d^lla nozione di causalità)- 15 226 viineiiti succodersi, una palla, p. e., colpire e cacciare innanzi a sé un'altra palla, senza concepire nò poter applicare a questo seguito di movimenti questa nozio- ne di causa efficiente o forza agente che noi crediamo necessaria perchè la serie possa cominciare e continuar- si » (l). La forza di cui noi abbiamo T appercezione interna immediata o la coscienza « serve di tipo esemplare a tutte le nozioni generali e universali di cause, di forze, di cui ammettiamo l'esistenza reale nella natura» (2). Una credenza necessaria e invincibile ci forza, dopo che abbiamo preso la causa o la forza in noi stessi, dove ci è data immediatamente, a trasportarne una simile al di fuori a degli esseri che non possiamo conoscere imme- diatamente (3). «Una forza motrice, distinta da noi, dalla nostra volontà, non può concepirsi in se stessa, ma solo sul modello della nostra volontà attiva » (4l Noi non citeremo altri rappresentanti della stessa tendenza filosofica; ci contenteremo di dire con Mill che la teoria volizionale è divenuta da qualche tempo uno dei baluardi della scuola intuizionista (5,. Eppure que- sta teoria sembra difficilmente compatibile con una opi- nione generalmente ricevuta sulla comunicazione tra l'anima e il corpo. Se questa comunicazione è, come si pretende, il più impenetrabile tra i misteri che noi siamo obbligati ad ammettere sulla fede dell'esperienza, se l'a- zione della volontà sugli organi del movimento è quindi assolutamente incomprensibile, sembra se ne debba con- cludere che tra la volizione e il movimento eseguito non 11) T. 4, p. ;^53 (Dottr. fitos. di Leibnltz), (2) T. ?>, \u 5 (DelVnppercezloìie immediata). (S) T. 3, pzg. 156 (Distinz, tra i fatti psieol. e fìsiol). (4) T. S, p. 334 (Aota sa certi passi di Malebranche e di Boss net). (5) MiU Filos. di Hamilton traci, frane. pa<r. 350. 227 — vi ha un legame necessario, che i due fatti sono in con- giunzione ma non in connessione, e che noi non cono- sciamo la volontà come causa efficiente. Infatti noi ab- biamo distinto la causazione metafisica o efficiente dalla causazione fisica o semplice sequenza uniforme per que- sto carattere, che nel primo caso noi comprenderemmo perchè un tale effetto seguirebbe da una tale causa, (nel- l'ipotesi che noi prendessimo conoscenza di qualche causa efficiente), mentre nel secondo, cioè nella causazione fi- sica, noi sappiamo solamente che tale effetto segue da tal causa, ma non ne comprendiamo il perc/iè. In verità quest'obbiezione potrebbe anche dirigersi contro noi stessi : noi infatti abbiamo ammesso che se l'uomo eleva naturalmente la propria attività a tipo di tutti i feno- meni della natura, ciò avviene perchè egli crede così di comprendere questi fenomeni e di scoprirne le cause ef- ficienti; ma se la sua stessa propria attività è per l'uomo ciò che vi ha di più incomprensibile, allora assimilando gli avvenimenti del mondo esteriore ai suoi propri atti, lungi di comprendere meglio questi avvenimenti, egli non farebbe che spiegare ohscarum per obscurius, né potrebbe quindi per questo mezzo credere di fare alcun passo nella ricerca delle cause efficienti, se come abbia- mo stabilito, è tutt'uno comprendere le sequenze dei fe- nomeni e conoscerne le cause efficienti. Noi risolveremo più tardi questa difficoltà, per quanto essa ci riguarda: per ora c'importa solamente di notare che alcuni filosofi, anche della scuola delle credenze naturali, vi hanno visto un'obbiezione insolubile contro la teoria volizionale, nel senso almeno in cui essa è stata ammessa dai filosofi precedenti, e per conseguenza essi non hanno trovato una causa efficiente nel movimento volontario, ma soltanto nell'attività puramente interiore dello spirito. Di là una modificazione della teoria volizionale, che noi esporremo con le parole di uno di questi filosofi. «aUTtwrrnaa In niuna parte deirordine tìsico, e al di fuori di noi, dice Deg'erando, noi vediamo delle cause efficienti. Noi vi scopriamo una successione di fenomeni più o mena generale e costante, e diamo a questi fenomeni il nome di effetti e di cause, perchè la generalità e la costanza di questa successione ci fanno supporre qualche legame nascosto ma reale fra di essi; questo legame, da un'al- tra parte, ci è impossibile di percepirlo. Nell'azione stessa, che esercitiamo sui nostri organi, nulla perce- piamo di più; noi vediamo che il nostro braccio si muove quando abbiamo voluto muoverlo; noi non vediamo in alcun modo che esso si muove perchè l'abbiamo voluto, aè come accade che esso ubbidisca ; che sopravvenga una paralisi, l'ubbidienza cessa, senza che potessimo ve- der di più come e perchè essa ha cessato. Questo legame non è altra cosa che il profondo e impenetrabile mistero dell'unione dell'anima e del corpo, e dei rapporti del morale col fisico. Ma se si penetra più avanti, se l'uomo rimasto solo con se stesso si racchiude nel santuario della sua coscienza; la scena cambia, i veli cadono, l'azione si spiega, il rapporto si scopre; l'anima presente insieme nella potenza che comanda, nell'azione che ubbidisce, perce- pisce la leva, distingue la molla; perchè essa vede che la volontà si determina pel suo proprio moto, che è l'a- nima che comanda a se stessa. Finalmente essa contem- pla una causa (efficiente), causa senza dubbio ancora molto imperfetta e limitata; ma essa ne tira questa no- zione feconda di causalità, che trasportata in seguito per le deduzioni della ragione alla cima della scala degli esseri, vi si svilupperà in tutta la sua estensione e in tutta la sua maestà. Che se nei gradi inferiori della scala e nei fenomeni della natura sensibile, noi supponghiamo eziandio delle cause, quantunque non ne conosciamo al- cuna che meriti questo nome, che altro è ciò se non una consequenza di questa disposizione ordinaria che abbiamo a trasportare sulla scena del di fuori i fenomeni del nostro interno, ed a rivestire delle nostre proprie mo- dificazioni gli oggetti posti fuori di noi ? Cosi noi ci rappresentiamo nella natura degli agenti simili a noi. Vedete nell'infanzia della coltura questo giuoco dell'im- maginazione prodursi con tanta semplicità ed energia ! Vedete come allora l'uomo, pieno della coscienza delle sue forze, anima i venti, i fiori, le meteore, presta a queste cose delle cause spontanee, e popola l'universo di geni ! Galluppi cerca pure nel sentimento della nostra attività interiore la nozione della causa efficiente ; ma egli la trova non solo nella volontà, ma anche e sovra- tutto nell'attività intellettuale e nelle connessioni neces- (1) La teoria volizionale moditieata, quale è formulata nel luogo citato (li Degerando, si trova già in Bossuet. Quest'autore, nel suo Trattato del libero arbitrio, dice che è l'atto interno del volere che è una vera azione, ma non il movimento volontario, non avendo noi alcuna idea dell'azione motrice dell'anima. Se tuttavia noi chiamiamo la volontà causa del movimento, è per- cll^ ordinariamente si dà il nome di causa a «ciò che una volta posto, si vede tosto seguire un certo effetto » (in altri termini, la volontà «^ un antecedente costante, non una causa eftìciente, dei nostri movimenti). Quelli che attribuiscono ai corpi delle virtfi attive o delle v(a-e azioni, non ne hanno alcima idea di- stinta: ma « essendo abituati a trovare in noi una vera azione, cioè la volontà, congiunta ai movimenti che noi facciamo, tra- sportiamo ciò che è in noi ai corpi che ci circondano ». 1 Cartesiani, i quali non vedevano negli agenti materiali, e nello spirito stesso come agente sulla materia, che delle cause occasionali, non potevano riconoscere, nel mondo dell'esperienza, altra torma di attività reale che (quella interna dello spirito. Non pare che essi estendessero sino a «questa la loro teoria delle cause occasionali : per altro è evidente che non avrebbero i)otuto ne- gare allo spirito un'attività reale, senza negare al tenijio stesso la dottrina del libero arbitrio. K ^ 230 231 sarie del pensiero. Cosi eg-li scrive: «Sì domanda: 1.^^ Ab- biamo noi una nozione della causa efficiente? 2.o Questa nozione può essere derivata dai sentimenti ? 3.° Vi sono dei fatti nella natura i quali si mostrano a noi in con- ne^ssione, non già solamente in congiunzione ? Io ho la coscienza di aver composta quest'opera : essa riguardata come un insieme di conoscenze è una cosa che non esi- steva nel mio spirito prima che io l'avessi composta; essa è dunque un effetto. Io l'ho composta con l'esercizio della facoltà meditativa del mio spirito; il mio spirito è dunque l'agente che l'ha composto; esso ne è dunque la causa efficiente. Le conoscenze di cui quest'opera è com- posta sono in connessione tra di esse : le ultime illazioni suppongono quelle che le precedono e da cui derivano, queste ne suppongono delle altre da cui derivano, fin- ché giungiamo alle prime illazioni, che derivano da al- cune premesse. La composizione dunque di una scienza quale che siasi, di un trattato scientifico, di un discorso, è sufficiente a somministrarci la nozione della causa ef- ficiente e dell'effetto, ed a presentarci dei fatti in con- nessione. Ma che dico io ? è a ciò sufficiente un sem- plice raziocinio : il sentimento del raziocinio è il senti- mento del me che ragiona, del me che deduce, del me che pone in lui una conoscenza. Nel raziocinio lo spirito percepisce una connessione fra l'illazione e le premesse : senza questa percezione egli non direbbe dunque. Non solamente il raziocinio, ma qualunque giu- dizio necessario ci può somministrare la nozione di un agente che produce, e quella della connessione neces- saria ha due fatti. Quando lo spirito, meditando su l'i- dea del circolo, vede immediatamente l'uguaglianza dei suoi raggi, egli ha il sentimento del me che agisce nel giudizio, decomponendo e ricomponendo, e che perce- pisce la connessione tra il predicato e il soggetto. Hume ammette che lo spirito percepisce necessariamente le ve- rità matematiche che consistono nelle relazioni delle sue idee; ma ciò non è forse ammettere nello spirito dei fatti in connessione? Un rapporto è una percezione in noi, e questa percezione è un effetto necessario dello spirito, il quale paragona le sue idee. Ma non abbiamo noi bi- sogno di allontanarci dai primi istanti della nostra esi stenza intellettuale, per ritrovare i dati necessari per la nozione della causalità. Il sentimento dei primi atti del- l'attività intellettuale è a ciò sufficiente. Lo spirito af- fetto da una moltitudine di sentimenti, incomincia subito dal decomporre questo fascetto d'impressioni, ed il priuìo effetto di quest'azione sono alcune idee sensibili. Ora vi è una connessione necessaria fra l'azione dell'analisi e l'esistenza di una certa porzione di òentimenti, distinta e separata dall'insieme che in noi si trova; quella co- scienza più viva di alcuni oggetti è un prodotto neces- sario dell'azione dell'analisi, che concentra su di essilo sguardo dello spirito. La divisione, o un pensiero diviso dagli altri, è un effetto necessario dell'atto intellettuale che divide. Similmente la formazione di un'idea com- plessa, quale che siasi, è un effetto necessario dell'a- zione combinata dell'analisi e della sintesi. Lo spirito ri- trova dunque la nozione della causa efficiente e della connessione necessaria nel sentimento della propria at- tività intellettuale, e tutta l'armata delle obbiezioni di Hume é distrutta » (1). È notevole che tutte le volte che Galluppi vuol difendere contro di Hume la conoscenza diretta dell'efficienza causale e d^-lle connessioni neces- sarie tra i fatti, egli ricorre sopratutto ai rapporti ne- cessari tra le idee e alla connessione logica tra le pre- messe e laconclusione. Osserviamo che l'applicazione delle idee di Galluppi sulla conoscenza diretta della causa- lità alla spiegazione universale dei fenomeni sarebbe (1) Cialliippi Sayyio filosofico t. 4, e. 8, piiragr. 20. f I Videalismo, di cui una delle forme più importanti con- siste ad identificare Io sviluppo reale dell'essere allo svi- luppo logico del pensiero (1). Quantunque la più gran parte dei pensatori, che ammettono la teoria volizionale della causazione o qual- che altra forma della dottrina che trova nella coscienza della nostra propria attività l'origine e il tipo della no- zione della causa efficiente, siano degViìituìzhìiisti, cioè dei filosofi che vogliono fondare sull'intuizione immediata della realtà la legittiuiità di certe nozioni di cui la filo- sofia empirista contesta il valore reale o in cui almeno essa non vede dei dati originali ed immediati della co- scienza; da ciò non si deve concludere che tali dottrine sul principio di causalità siano proprie esclusivamente alla scuola intuizionista. Anche molti pensatori che rap- presentano una tendenza filosofica affatto contraria, am- mettono delle dottrine simili. Noi abbiamo visto come nel padre delbi filosofia sensista si trova già il germe di (jueste teorie. A Locke possiamo aggiungere Con- dillac, egli dice : « Vi ha in noi un principio delle nostre azioni, che sentiamo, ma non possiamo definire : esso si chiama forza. Noi siamo egualmente attivi rapporto a tutto ciò che questa forza produce in noi, o al di fuori di noi. Noi lo siamo, p. e., allorché riflettiamo, o allor- ché facciamo muovere un corpo. Per analogia noi sup- (1) Mji (ralliipjM. oltn^ olio nella coscienza doli' attività in- teriore dello spirito, trova la conoscenza diretta della causa ef- fìcient»; nel sentimento di un fuori di noi che ci nioditìca nella percezione. (V. (4alluppi Suff. fìlos. t. 2. par. 74, t. 4 . par. 21, t. 5, i)ar. 105, ecc.). (^uest'iilea di (ralbippi è lej^ata alla sua dot- trina della percezione, secondo la (piale vi ha in cpu^sta un'in- tuiziiMie iniJiiediata deiro;ii;etto esteriore, e di i)iù la coscienza di una connessione necessiria fra la sensjizione e ra.:»ente esterno causa della sensazione. poniamo in tutti gli oggetti che producono qualche can- giamento, una forza che conosciamo ancora meno(l)». In Condillac, come in Locke, la teoria non s'incontra che allo stato embrionale; ma in alcuni dei sensisti po- steriori noi la troviamo completamente sviluppata. Cosi in Lamoriguiere. che ammette quella forma di essa che trova la nozione della causa efficiente nella sola attività interiore dello spirito. «E in noi stessi, egli dice, che troviamo l'idea di causa. Essa deriva dal sentimento del rapporto fra un'azione dell'anima e un cangiamento del- l'anima. L'idea di causa ci viene dunque primieramente dal sentimento della nostra propria forza unito al senti- mento delle modificazioni che sono prodotte da questa forza. Essa ci viene dal sentimento di un rapporto fra cose che sono in noi (2)». Il nostro Gioia ammette invece l'altra forma della teoria, quella che vede il tipo della causazione nel mo- vimento volontario : « Io non posso dubitare, egli scrive, della realtà delle nostre proprie azioni : io sento dentro di me che io posso muovere e che io muovo il mio corpo o diff^erenti parti del mio corpo, che io posso traspor- tarmi e che mi trasporto da un luogo ad un altro; che io posso vincere e che vinco la resistenza di differenti corpi duri. Da queste azioni che io sento o di cui io ho in me la coscienza^ deduco la nozione generale di causa e d'efffetto. Io chiamo causa ciò che racchiude in sé il principio dell'azione: io chiamo effetto ciò che risulta immediatamente dall'azione. Quest'effetto é un cangia- mento che io produco nel mio corpo, o in differenti parti del mio corpo, e per il mio corpo nei corpi ai quali esso si applica, e per questi sopra altri ancora, ecc. ecc. Questo cangiamento é dovuto all'attività o alla forza motrice di (1) Trattato delle sensazioni parte 1, ca|). 2. (2) Lez. di filos. t. 2, lez. 12. - 234 — cui ranima è dotata; io pongo dunque nella forza mo- trice dell'anima il principio di tutti i cangiamenti ch'essa produce in me o fuori di me, e do a questo principio il nome generale di causa La coscienza della mia forza motrice e degli effetti ch'essa produce mi fa ri- guardare gli esseri che mi attorniano come altrettanti agenti che esercitano gli uni sugli altri delle azioni ri- nascenti, donde risultano in questi esseri mille cangia- menti d'eftetti diversi. Io non riguardo questi cangia- menti sotto il rapporto puramente ideale di concomitanza o di successione^ ma sotto la relazione intima ed essen- ziale della causa e d^ìVeffetto, dell'agente e del paziente, dell'essere modificato e dell'essere modiftcatore, della for- za e del suo prodotto ». La teoria volizionale della causalità, come era op posta dagli avversari di Huiiie alla sua analisi dell'idea di causa, cosi è stata opposta dagli avversari di Mill al- l'analisi più netta che ne ha fatto questo filosofo. J. Her- schell dice: « Malgrado tutti i tentativi fatti da certi me- tafisici per rovesciare la teoria del rapporto fra la causa e Teftetto, e per sostituirle quella di successione rego- lare e incondizionale, resta evidente che la concezione di un rapporto più reale e più intimo esiste cosi profon- damente nello spirito umano come quella dell'esistenza d"un mondo esteriore; ed è una cosa strana a dire che il trionfo di questa verità abbia potuto essere riguardato come un progresso di gran valore nel dominio Idea tìlo- losofìa. Al momento in cui mettiamo la forza in opera per imprimere il movimento alla materia, o per nece- tralizzare un'altra forza, la coscienza immediata d'uno sforzo apparisce, e ci dà la convinzione intima di potere e di causazione (efficiente) in ciò che riguarda il mondo esteriore. » « Nel senso mentale di sforzo che può ap- prezzare ogni uomo che compie un atto di volontà, e che proviamo allorché passiamo dalla determinazione di fare una cosa alla sua esecuzione, noi troviamo la concezione di una causazione (efficiente) immediata e personale che non si può negare. » Fra gli autori contemporanei che ammettono la teoria volizionale della causalità, bastei*à di ricordare Wundt e Renouvier, alle cui dottrine abbiamo accennato in un paragrafo precedente (1). § 22. Un esame introspettivo applicato alle cono- scenze che noi abbiamo dei vari rapporti di causazione tra i fenomeni, ci mostra che la teoria volizionale e le altre forme della dottrina che vede nella nostra propria attività il tipo e la sorgente dell'idea di efficienza cau- sale, non sono prive affatto di una base psicologica. Con- frontiamo infatti questa proposizione : « la nostra volontà ha il potere di muovere le nostre braccia » con quest'al- tra : ^< i corpi hanno la forza di attirarsi in ragione in- versa del quadrato della loro distanza», o con un'altra qualsiasi che esprima una di queste conoscenze sulle leggi della natura che noi dobbiamo unicamente agl'in- segnamenti della scienza. E evidente che, quantunque le dee proposizioni confrontate non indichino Tuna e l'altra che dei rapporti costanti, delle sequenze uniformi tra certi fenomeni, e quantunque perciò, al punto di vista obbiettivo, possa non esservi, e secondo noi non vi è certamente, alcuna differenza tra la successione regolare della volizione e del movimento e un'altra qualunque delle successioni regolari o rapporti di causazione che noi conosciamo nella natura; la cosa però cangia d'a- spetto, se noi portiamo la quistione sul terreno psicolo- gico, cioè se noi esaminiamo, non più in ch<^. possano distinguersi le due sequenze di fenomeni considerate in se stesse, ma invece se vi sia una differenza nell'impres- (1) V. $ 17, pag. sione che le due conoscenze fanno nel nostro spirito. Ora in ciò vi hanno certamente fra i due rapporti di cau- sazione delle differenze importanti. 1.^ Il legame fra la volizione e l'esecuzione del movimento voluto ci sembra affatto naturale, mentre il rapporto tra la esi- stenza simultanea di due corpi a una certa distanza reciproca e il movimento di attrazione dei due corpi Tuno verso V altro ci pare semplicemente arbitrario. Noi avremmo difficoltà a concepire un mondo, in cui tutte le volte che gli uomini avessero la volontà di muo- vere un membro, ne muovessero invece un altro: al con- trario noi immaginiamo facilmente che la natura avrebbe potuto essere costituita in modo che da queste stesse condizioni da cui attualmente segue un movimento di at- trazione, ne seguisse invece un'altra specie di movimen- to, p. e. di repulsione, ovvero l'assenza di qualsiasi nuovo movimento; quest'ultima ipotesi sembrerebbe anche più naturale di quella che si verifica nel mondo reale. I primi newtoniani dichiaravano che la scoverta della legge della gravità dimostrava che le leggi della natura non soiK» d' un'esistenza necessaria, ma dipendono uni- camente dalla volontà e dalla libertà del Creatore. Per questa legge, della stessa maniera che per le altre leggi della natura che ha scoverto la scienza, noi costatiamo semplicemente che i fatti si succedono cosi, ma non ve- diamo che devono succedersi cosi e non altrimenti. Nean- che il legame ti a la volizione e la f)roduzione del mo- vimento voluto ci sembra, a dir vero, strettamente ne- cessario, cioè tale che il contrario sia assolutamente inconcepibile. Ciò è perchè la proposizione, come tutte quelle che concernono l'esistenza (e non semplicemente dei rapporti di somiglianza o di differenza) è di origine empirica, e una proposizione empirica non è mai stret- tamente necessaria. Inoltre l'esperienza ci obbliga ad ammettere che vi hanno dei casi in cui le membra non 'dói ubbidiscono al comando della volontà. Tuttavia in (|uesti casi noi pensiamo, non che la volontà non abbia natu- ralmente il potere di produrre il movimento voluto, ma che vi hanno delle circostanze che contrariano l'esercizio di questo potere, degli ostacoli che impediscono la sua manifestazione, senza che esso sia perciò meno naturale. Cosi io credo che chiunque vorrà paragonare queste due proposizioni, l'una che afferma che «la materia ha jjer sua natura il potere di attirare la materia» (o se non es- sa, qualsiasi altra delle proposizioni che noi non abbiamo apprese che per gl'insegnamenti della scienza), e l'altra che afferma che « la volontà ha per sua natura il potere di produrre il movimento voluto », non esìsterà a rico- noscere, purché sia sufficientemente abituato all'osser- vazione psicologica, che la seconda, quantunque non sia rigorosamente una proposizione necessaria, si accosta, assai più che la prima, a una proposizione necessaria. 2". Esaminando l'idea della volizione e quella della ese- cuzione del movimento voluto, ci sembra che, per la semplice inspezione delle idee dei due fatti, noi vediamo che l'uno, come effetto, conviene all'altro, come causa, che è conforme alla ragione che da tal causa segua tal effetto, e ripugnante che ne seguisse un effetto differente. Fra le idee dei due fatti vi ha, direbbe Locke, convenienza; noi siamo portati a credere che, indipendentemente dal- l'esperienza, potremmo scoprire, per il semplice para- gone delle loro idee, il rapporto da cui i due fatti sono legati nell'ordine reale delle cose. Niente di simile per la legge dall'attrazione : noi non l'ammettiamo che come un fatto positivo che l'esperienza ci obbliga ad ammet- tere; noi non troviamo alcun legame razionale tra la causa e l'effetto; e lungi di credere che nell'idea della causa vi sia qualche cosa che possa suggerirci a priori l'idea dell'effetto, siamo anzi inclinati a pensare che l'at- trazione, considerata come proprietà primitiva della materia, è qualche cosa di assurdo e d'inconcepibile. 3'* La produzione del movimento per la volontà ci sembra un fatto che si spiega da se stesso; la causa ci fa compren- dere il suo effetto, e per ispiegare questo non chiediamo niente di più. Al contrario, il rapporto tra l'esistenza si- multanea delle molecole materiali a delle distanze de- terminate e la loro attrazione reciproca ci sembra che abbia bisogno di una spiegazione; che occorra un inter- mediario tra i due fatti, tra cui l'esperienza ha costatato una relazione uni torme, perchè questa relazione divenga intelligibile; e che quest'intermediario debba essere tale, che il suo rapporto col fenomeno che si tratta di spiegare sia uno di quei rapporti di causazione che si spiegano da se stessi, e che producono sul nostro spirito quella stessa impressione particolare per cui, come abbiamo visto, la legge di causazione che lega la volontà al mo- vimento si distingue da quella della gravitazione uni- versale e da qualsiasi altra legge della natura di cui dobbiamo unicamente; la conoscenza alle scoverte e agl'in- segnamenti della scienza. In conclusione quali sono i ca- ratteri psicologici per cui il rapporto costante tra la vo- lizione e la produzione del movimento voluto si distin- gue dalle altre leggi di causazione? Sono appunto i ca- ratteri psicologici per cui avevamo già distinto la cau- sazione metafisica dalla causazione fisica^ la causalità ef- ficiente dalla semplice uniformità di sequenza. Se vi hanno dunque cause efficienti, la volontà è una causa efficiente; se vi ha una differenza reale tra una causa efficiente e un semplice antecedente invariabile, l'attività volontaria differisce essenzialmente dalle uniformità di sequenza or- dinarie, e non può mettersi allo stesso rango con esse. Ciò che abbiamo detto dell'attività dello spirito come forza motrice può ugualmente dirsi della sua attività pu- ramente interiore: se vi hanno dei fatti che sono in con- nessione e non semplicemente in congiunzione, noi non . 239 possiamo al certo supporre una connessione tra fatti che sia più intima e più intelligibile del nexus che lega le idee successive le une alle altre nello spirito che ra- giona. Quello che la teoria volizionale della causazione e le altre teorie affini hanno ben compreso è che sarebbe im- possibile di rendere conto della nozione di causa effi- ciente, se la esperienza non ci offrisse qualche tipo sul quale noi modelliamo la nozione generale. Se noi infatti sappiauìo che gli antecedenti invariabili che noi osser- viamo nelle sequenze della natura non sono delle cause efficienti, e supponiamo perciò che le cause efficienti si trovano al di là e restano occulte alla esperienza sen- sibile, noi dobbiamo formarci una certa nozione gene- rica, ma definita, di questa qualche cosa che resta al di là; noi dobbiamo sapere in che una causa efficiente dif- ferisca da un semplice antecedente di una sequenza in- variabile. Ora donde ci sarebbe venuta questa nozione? Se noi sappiamo che le cause osservabili, cioè le condi- zioni costanti degli effetti della natura, non sono quelle che producono questi effetti, perchè non li spieyano, ed essi esiggono perciò qualche cosa di più, delle cause inos- servabili capaci di sjnegarli (ed è cosi che nasce l'idea di cause efficienti poste al di là dell'esperienza), noi dob- biamo sapere almeno che cosa intendiamo dire con le parole : una causa che può spiegare l'effetto. Se noi non avessimo mai conosciuta una causa che avesse spiegato il suo eff*etto, se la nostra intelligenza non avesse mai avuto l'esperienza di questo fatto mentale che si chiama spie- gazione di un effetto per la sua causa, su qual fonda- mento immagineremmo noi che esistono delle cause ca- paci di spiegare i loro effetti ? ben più che senso potrem- mo noi legare alle parole : una causa capace di spiegare il suo effetto ? Inoltre, se non vi fosse alcun rapporto tra certi fatti della nostra propria attività e la nozione della causalità efficiente, come comprenderemmo noi questa tendenza dello spirito umano, di cui parla A. Comte, a spiegare, assimilandoli a questi fatti, tutti i fenomeni della natura ? È certo che l'uomo non potrebbe credere di scoprire le cause efficienti dei fenomeni esteriori, o, com*' dice Comte, il loro mnrln essenziale di produzione, quando immagina che sono prodotti da volontà analoghe alla sua, s'egli non credesse che la sua volontà è essa stessjì niia causa efficiente, e che egli comprende il modo essenziale di produzione delle proprie azioni di cui la sua volontà è la causa. Non vi ha dubbio adunque che in certi fatti dell'at- tività umana noi troviamo l'idea di cause efficienti e di connessione tra fenomeni. Ma questa distinzione fra una causa efficiente e un semplice antecedente invariabile, fra una connessione e una semplice congiunzione tra fe- nomeni, ha un valore obbiettivo? Precisiamo prima di tutto la quistione. Noi abbiamo visto che la nozione di un rapporto tra una causa efficiente e il suo eifetto si distingue da quella di una semplice uniformità di se- seijuenza per tre caratteri. Primo, tra la causa efficiente e il suo effetto vi ha un legame necessario^ ciò che manca fra l'antecedente e il conseguente di una semplice sequen- za invariabile. Questa necessità del legame in una causa- zione efficiente significa al fondo che una proposizione che enunciasse una causazione tale, sarebbe una proposizione necessaria. Verità o proposizione necessaria è, nel senso stretto, quella il cui contrario è inconcepibile: tuttavia la più pacte dei filosofi considerano anche come necessarie delle verità o pretese verità, il cui contrario non è assolu- tamente inconcepibile, ma solamente difficile a concepire. Nessuna verità sul reale, sull'esistente, potendo essere strettamente necessaria, e una causazione efficiente es- sendo una verità sul reale, sull'esistente, il primo ca- rattere distintivo della causazione efficiente si riduce Ji-^ So. dunque a questa necessità relativa, che consiste in ciò, che il contrario di una verità non si concepisce che con un certo sforzo, con una certa difficoltà. Noi supponiamo che il contrario di una causazione efficiente, se questa fosse conosciuta e rappresentata, non potrebbe coiu*epirsi che con difficoltà, mentre il contrario di una semplice sequenza invariabile è cosi facile ad immaginare, anzi talvolta più facile, che la realtà stessa, essendovi delle sequenze invariabili (p. e. l'attrazione universale), la cui negativa ci sembrerebbe più naturale, meno strana, del fenomeno reale, che noi troveremmo certamente in veri- simile, se non fossimo costretti ad ammetterlo come vero. Ora questa prima differenza fra una causazione efficiente e una semplice sequenza invariabile non è evidentemente che subbiettiva. Essa non consiste che in un legame più o meno stretto, più o meno forte, fra le nostre idee. Quando vi ha una tale associazione fra due idee, che la prima chiama la seconda d'una maniera irresistibile, noi diciamo che vi ha là una verità assolutamente neces- saria : più forte è la tendenza della prima idea ad evo- care la seconda, più la verità di cui le due idee sono gli elementi, si avvicina ad una verità assolutamente ne- cessaria. Secondo, noi siamo inclinati naturalmente a credere che, trattandosi di una causalità efficiente, i)Otremmo scoprire il rapporto tra la causa e l'effetto per il solo paragone delle idee, mentre una semplice uniformità d sequenza è una verità di cui nessuno penserebbe a ne gare l'origine empirica. Ma anche questa è una diffe- renza puramente subbiettiva. Vi ha certamente una ten-. denza naturale a credere che certi rapporti di causa- zione (qual è quello tra la volontà e il movimento) ab- biano un'evidenza intrinseca, o, ciò che vale lo stesso, siano conosciuti a priori o d'una maniera intuitiva: ma tutti coloro che hanno riflettuto su queste materie am- 242 243 — metteranno indubbiamente che sarebbe un'ipotesi oziosa quella di ricorrere a delle necessità primordiali del pen- siero per ispie^are delle conoscenze di cui l'esperienza rende conto perfettamente. Ma quand'anche una unifor- mità di sequenza fosse conosciuta a priori, ciò importe- rebbe forse una differenza obbiettiva fra essa e le uni- formità di sequenza conosciute per l'esperienza? La dif- ferenza non concernerebbe che l'origine di queste cono- scenze, e non sarebbe evidentemente che psicologica. Fra le tre differenze per cui abbiamo distinto la cau- sazione ethciente da una semplice sequenza invariabile, non sarebbe dunque che la terza che avrebbe un'impor- tanza al punto di vista obbiettivo. Se si ammette che la causa eftìcìente è (jualche cosa di più che Tantscedente di una semplice sequenza invariabile, ciò equivale ad ammettere che, mentre la prima spiega il suo effetto, e non vi ha perciò bisogno, per rendere intelligibile il le- game fra essa e l'effetto, di una terza cosa, cioè di un intermediario esplicativo, al contrario il secondo non spiega il suo effetto, vale a dire il suo conseguente, e vi ha perciò bisogno, affinchè il legame tra l'antece- <lente e il conseguente sia intelligibile, di supporre l'in- tervento di una terza cosa, cioè di una causa efficiente che possa servire d'intermediario esplicativo. Se in- vece la differenza tra una causa efficiente e un sem- plice antecedente di una sequenza invariabile non è che subbiettiva, non vi ha piìi luogo allora a supporre l'intervento di un intermediario esplicativo, cioè di una ipotetica causa efficiente, sia d'altronde conoscibile sia inconoscibile, allo scopo di spiegare quelle uniformità di sequenza v\u^ non sembrano portare in se stesse la pro- pria spiegazione. Infatti, se si crede di aver bisogno di ao-iriunsere alle cause costatate, vale a dire agli ante- cedenti di sequenze invariabili, altre cause supposte, cioè le efficienti, quali intermediari esplicativi, ciò av- r viene perchè si ammette che una vera causa produttiva deve non solo essere seguita invariabilmente dal suo ef- fetto, ma avere altresì la capacità di farlo comprendere, di spiegarlo, mentre un semplice antecedente di una se- quenza invariabile, che non spiega il suo effetto, non è una vera causa produttiva di quest'effetto; in altri ter- mini perchè si ammette che una vera causa produttiva è realmente qualche cosa di più di un semplice antece- dente di una sequenza invariabile, e che vi ha una dif- ferenza ontologica, e non psicologica soltanto, tra ciò che noi consideriamo come una connessione causale e ciò che consideriamo come una semplice uniformità di sequenza. Così ecco la quistione sola importante al punto di vista obbiettivo: questa credenza naturale al nostro spirito, secondo cui ammettiamo che quelle uniformità di sequenza che non ci sembrano evidenti per se stesse, e che perciò noi non consideriamo come niente altro di più che delle semplici uniformità di sequenza, devono essere spiegate mediante altre uniformità di sequenza che ci sembrano evidenti per se stesse (o che, quantun- que sconosciute, supponiamo che ci sembrerebbero tali se le conoscessimo), e che perciò consideriamo come qualche cosa di più che delle semplici uniformità di se- quenza, chiamando gli antecedenti cause efficienti; (jue- sta credenza, si domanda, ha o no un valore reale? e la tendenza che ne segue a spiegare certi fatti per certi altri fatti, corrisponde a una necessità obbiettiva nella natura delle cose, o è una semplice necessità subbiettiva del nostro spirito senza rapporto con la verità? Noi non saremo che più tardi in grado di dare una soluzione completa di questa quistione : per ora ci ba- sterà di osservare che la teoria che vede nel movimento volontario la sorgente e il tipo unico dell'efficienza cau- sale, e le dottrine affini sul principio di causalità, non possono giustificare il valore obbiettivo, nel senso che noi abbiamo indicato, della nozione di causa efficiente. 244 L'insufficienza della teoria volizioiiale si mostra al j)riino colpo d'occhio in ciò che essa pretende di fondare sopra l'esperienza di un sol caso un principio universale. Questa obbiezione, che essa non può spiegare l'univer- salità del principio di causazione, è stata fatta a questa dottrina da filosofi della stessn scuola intuizionista (1). In verità quelli che sollevavano questa obbiezione pen- savano che essa poteva dirig-ersi contro tutte le dottrine che fondano questo principio sull'esperienza: essi l'appli- cavano contro la teoria volizionale, in quanto vedevano in essa una forma della dottrina sperimentale sull'ori- gine del principio di causalità. Ma contro la teoria vo- lizionale l'obbiezione regge, anche respingendo la tesi di questi suoi avversari che l'esperienza non può ser- vire di base ad alcun principio universale. K evidente che se noi ammettiamo, sulla fede dell'esperienza, come le2-2'e universale della natura, il principio della causa- zione fisica (uniformità di sequenza), è perchè gli uomini hanno osservato che tutte le classi dei fenomeni della natura si conformano a questa legge. Una esperienza non meno uniforme sarebbe necessaria per istabilire il prin- cipio della causazione metafisica (cause efficienti) come lei>'ae universale : ma la teoria volizionale dall'osserva- zione di un sol caso, che potrebbe essere semplicemente eccezionale, pretende inferire l'universalità della legge. (1) F. e. Hamilton— citato du Mill Filos. ili HaìHÌlton, trail. fraiu*. p. 352 in u(>ta. — ('oiisiu. pur faccmlo adesioni' alla dot- trina di Biran suirorij^inc dcdla nozione di forzji o causa cttì- cicntc, trova nondimeno che essa non può spiegare runiversalità e necessità del principi»». « Senza dubbio. e.Lili di<-e. il principio di causalità non si svihqjperebhe, se prima una nozi<nie positiva di causa individuale non ci fosse data nella vcdontà: ma una no- zione iiìdividuale <' contin.ncnte che precede un ju-incipio neces- sario, non lo spiega e non può tenerne 1u<vìì;<>. » (I*rcfaz. al r. 4 ilelle o]>er«' di Biran. p. XXXIV). - 245 Ora la teoria voliziouale, non potendo giustificare l'u- niversalità del principio delle cause efficienti, non può nemmeno giustificare l'obbiettività di questa nozione. Ciò è una conseguenza dell'osservazione precedente. Noi abbiamo osservato che se vi ha una differenza obbiettiva tra la causa efficiente e il semplice antecedente di una sequenza invariabile, e che, ammettendo il valore reale della nozione di causa efficiente, bisogna, dapertutto dove noi non vediamo che sequenze uniformi di fenomeni, supporre, oltre questi fenomeni stessi, delle cause efficienti come intermediari esplicativi. Ora ciò suppone l'applica- zione universale del principio delle cause efficienti. Se noi ci limitiamo a non ammettere altre cause efficienti che quelle di cui costatiamo l'esistenza })er l'osservazio- ne, senza supporne anche là dove non possiamo costa- tarle per l'osservazione stessa, allora la causa efficiente non differisce che psicologicamente dal semplice antece- dente di una sequenza invariabile. Accordiamo alla teoria volizionale che la volontà è la causa efficiente dei nostri movimenti, perchè tra essa e il suo effetto vi ha un legame naturale e necessario, mentre nelle ordinarie uniformità di se(|uenza non vi ha tra l'antecedente e il conseguente alcun l'agame simile. Se il rapporto di causazione effi- ciente che esperimentiamo nel movimento volontario, dif- ferivsce dai rapporti di causazione che osserviamo nelle ordinarie uniformità di se(|uenza, al punto di vista ob- biettivo e non al semplice punto di vista psicologico (cioè solo per la differente iujpressione che l'uno e gli altri producono sulla nostra intelligenza), ciò è in quanto noi consideriamo la volontà come una spiegazione sufficiente dei nostri movimenti, senza supporre niente di altro, mentre, per {spiegare le uniformità ordinarie di sequen- za, noi ammettiamo il bisogno dell'intervento di un'al- tra cosa, vale a dire di un intermediario esplicativo. Ma se noi non ci crediamo autorizzati a supporre questi in- 246 termediari esplicativi là dove no\ non costatiamo che delle semplici uniformità di sequenze, se noi non am- mettiamo altre cause efficienti che le nostre volizioni che producono i nostri uìovimenti, allora, chiamando la no- stra volontà una causa efficiente e le altre cause sem- plici antecedenti di sequenze invariabili, noi non deno- tiamo, per questa differenza di denominazione, una dif- ferenza obbiettiva tra le cose, ma solo una differenza psicologica tra le nostre idee. Per conseguenza, la teoria volizionale, non potendo giustificare la estensione della nozione di causa efficiente, dall'atto volontario, in cui noi ne abbiamo l'esperienza, agli altri fatti della na- tura, non riesce a dare un valore obbiettivo a questa nozione, non può stabilire, in altri termini, sopra una base solida che la differenza tra una causa efficiente, quale è la volontà, e un semplice antecedente di sequenza invariabile, quali sono le altre cause delTesperienza, è obbiettiva o ontologica, e non semplicemente subbiettiva 0 psicologica. Cosi ciò che vi ha di certo nella teoria volizionale e teorie affini sul principio di causalità non è che un fatto psicologico : cioè che vi ha una classe di sequenze uniformi che producono sulla nostra intelligenza un'im- pressione particolare; che in ([ueste sequenze noi pos- siamo chiamare gli antecedenti cause efficienti (perchè vi troviamo i caratteri che, al punto di vista subbiettivOj distinguono una causazione efficiente dalle ordinarie uniformità di sequenza): e che nella nostra propria at- tività noi troviamo gli esempi di tali sequenze e di tali cause. Possiamo noi contentarci di costatare questo fatto psicologico, considerandolo come un fatto isolato, come un fatto ultimo e inesplicabile della nostra intelligenza? Evidentemente no : noi dobbiamo procedere più oltre; costatato il fatto, noi dobbiamo cercarne la ragione. A. Comte, che, come la teoria volizionale della cau- 247 sazione, trova nella volontà umana il tipo su cui noi ci formiamo naturalmente la concezione di tutte le forze 0 cause efficienti della natura, non risolve la nostra qui- stione : perchè noi consideriamo la volontà come una causa efficiente e non come un semplice antecedente in- variabile? Ecco che cosa troviamo su ciò nel Corso di filosofia positiva: « Quantunque si sia giustamente segna- lato, dopo lo slancio speciale del genio filosofico, la dif- ficoltà fondamentale di conoscere se stesso, non bisogna tuttavia attaccare un senso troppo assoluto a quest'os- servazione generale, che non può essere che relativa ad uno stato già molto avanzato della ragione umana. Lo spirito umano ha dovuto in effetto pervenire a un grado notevole di raffinamento nelle sue meditazioni abituali prima di potere sorprendersi dei suoi propri! atti, riflet- tendo su se stesso un'attività speculativa che il mondo esteriore doveva dapprima sì esclusivamente provocare. Se da una parte l'uomo si riguarda necessariamente al- l'origine come il centro di tutto, egli è allora da un'altra parte non meno inevitabilmente disposto ad erigersi pure a tipo universale. Egli non potrebbe concepire altra spie- gazione primitiva a qualsiasi fenomeno che di assimilarlo, per quanto sia possibile, ai suoi propri atti, i soli di cui egli possa mai credere di comprendere il modo essen- ziale di produzione, per la sensazione naturale che li ac- compagna direttamente». Niente di più giusto di questa osservazione di Comte, che è necessario che l'uomo sia pervenuto ad un grado avanzato di coltura, perchè esso possa sorprendersi dei suoi propri atti, e farne quindi l'og- getto della sua attività speculativa. Questa incapacità primitiva dell'uomo di sorprendersi dei suoi propri atti e questa disposizione primitiva ad erigersi a tipo uni- versale non sono che due aspetti d'uno stesso fenomeno: se l'uomo primitivo credesse di vedere un mistero nella sua propria attività, egli non la eleverebbe a spiega 248 — zioiie iiniversak* delle cose. Ma qui sta appunto la qui- stione. Perchè l'uomo vede naturalmente nei propri atti dei fenomeni perfettamente naturali, che non hanno bisogno di essere spiegati, e che possono servire di spieg-azioiic inii versale degii altri fenomeni? Ciò avviene, dice Comte, per la sensazione naturale che li accompagna cUrHtainevtc : in altri termini, (se ben comprendiamo) perchè dei propri atti, che si conoscono per la coscienza, si ha o si crede di avere una conoscenza più diretta e imniediata che delle cose esteriori, che si conoscono per vrìi nru.uii dei sensi. (1) Sforzandomi di comprendere il pensiero dell'autore, io non trovo che questo senso alle sue parole: T uomo sapendo di conoscere i suoi pro]n-i atti il più direttamente possibile, crede perciò di conoscerli intinìamente nella loro natura (nei loro modo essenziale di produzione), più intimamente almeno che i ftMìomeni esteriori, di cui sa di aver una conoscenza più indiretta. Vi sarebbe molto da dire (ammesso che sia questo il pensiero dell'autore) intorno al legame che Com- ic stabilisce tra questi due fatti : il sapere di conoscere una cosa direttamente, e l'illudersi di conoscere Vessenza di questa cosa. Ma accordando anche all' autore che il primo fatto sia una ragione sutlrtciente del secondo, re- sta semf»re che il suo ragionamento manca di base, perchè non è aunnissibile che l'uomo primitivo, l'uomo naturale, creda di conoscere i suoi propri atti d'una ili K nello stesso senso elie seminano pure doversi eoni- l.ren.lere queste i>:irole di colore oseuro di MiU: « Primitivaniente la tiiidenza o T istinto d(\uli uomini è di assimilare tutte le azi<ini elle essi osservano nella natura alla sola di eui essi ab- biano mvrttaineatv ronasrenza, alla propria attività volontaria.» (A. Comfe i' il f^ositirisiuo, trad. frane., p. W). Mill non ignora, e<»me vedremo a suo luo,n(>. la vera ragione del fatto, ma «[Ui parla da discejiolo di A. C'omte. 249 - maniera più diretta e immediata che le cose esteriori. Il filosofo può credere cosi, non l'uomo della natura. Il filosofo, per cui l'oggetto diretto della percezione sensibile non è la cosa in se, ma una rappresentazione più o meno fedele, più o meno ingannevole, di questa cosa, può ammettere che la coscienza sia una conoscenza più diretta che la percezione sensibile: ma l'uomo della natura identifica le sue sensazioni con gli oggetti; egli crede che i suoi sensi colgano direttamente e immedia- tamente le cose stesse; gli oggetti familiari che lo cir- condano, che s' imprimono fortemente sui suoi sensi, e che egli può guardare e toccare a suo agio, non pos- sono essere da lui considerati come oggetti di una co- noscenza nuMio diretta e meno intima che i suoi propri atti, visti alla luce debole e incerta della coscienza. Noi non faremo altre considerazioni a questo pro- posito : solo osserveremo che la soluzione, che A. Comte dà alla nostra quistione, suppone che vi sia nelle cose un'essenza occulta, un modo essenziale di produzione inaccessibile airesperienza, in altri termini, suppone la realtà delle cause efficienti. Noi abbiamo già visto che questo filosofo non può se non gratuitamente ammet- tere la realtà di questa nozione, perchè non avendo noi avuto mai, secondo la sua stessa dottrina, esperienza di una causa efficiente, ma solo di antecedente costanti dei fenomeni, è impossibile dare una prova dell'esistenza delle cause efficienti. Sicché la nozione di cause effi- cienti sconosciute essendo altrettanto subbiettiva <|uanto quella della volontà come causa efficiente, ne segue che la soluzione di A. Comte della nostra quistione : perchè noi consideriamo la volontà come una causa efficiente? non va certamente al fondo delle cose: una soluzione radicale della quistione dovrebbe infatti farci compren- dere, non solamente l'origine di una nozione particolare che gli uomini si sono formata intorno alle cause effi- 250 cienti, quale è rassimilazioiie del modo essenziale di produzione dei fenomeni esterni agli atti della volontà umana, ma quella di tutte le nozioni dello spirito u- mano relative alle cause efficienti, comprese queste cause efficienti sconosciute, questo occulto modo essen- ziale di produziniie delle cose, che Comte ammette senza prova, in virtù forse della stessa tendenza istintiva a cui si deve la prima nozione sulle cause metaempiriche nello stato primitivo del pensiero umano. E adunque questa tendenza primordiale del nostro spirito, di cui tutte le nostre concezioni relative alle cause efficienti sono delle manifestazioni, che noi dob- biamo cercare di mettere in luce : compresa una volta questa tendenza nel suo carattere o:enerale, noi potremo comprendere allora ciascuna delle sue manifestazioni. Ma intanto il nostro punto di partenza noi non possiamo trovarlo che in queste manifestazioni particolari ; non è che l'esame dei casi particolari che può condurci alla nozione generale, alla legge. In questo capitolo noi ab- biamo studiata una classe di questi casi particolari; nel capitolo seguente ne studieremo un' altra : dopo di ciò, paragonando queste due classi di fatti, cercheremo il loro punto di contatto, il loro carattere comune ; e dopo aver messa cosi in evidenza questa nozione ge- nerale che noi cerchiamo, potremo in seguito sostituire al metodo induttivo il metodo deduttivo, e spiegare, ri- conducendoli a questa nozione, gli altri fatti dello stesso ordine che la storia del pensiero filosofico presenta alla attenzione dello studioso dello spirito umano.LA FILOSOFIA MECCANICA O IMPULSIONISTA ^S 1 Tra i feuoiiioni puramente fisici non ve ne ha che un solo che al)bia servito alla spiegazione univer- sale della natura : è il fenomeno dell'impulsione, la co- municazione del movimento da un corpo ad un altro che avviene dopo la collisione di due corpi. Cosi e del più grande interesse, per la nostra quistione del valore e dell'origine della nozione della causa efficiente, d. mettere in confronto con la spiegazione antropomorfl- stica dei fenomeni la spiegazione meccmiicci (designando con questo nome la dottrina che spiega tutte le azioni fisiche per il movimento propagato per mezzo dell im- pulsione), essendo queste le due grandi so uzion. che io spirito umano ha dato spontaneamente al problema delle cause efficienti. La spiegazione meccanica occupa nella stona della filosofia un posto che è solo inferiore per importanza alla spiegazione antropomorfistica. Nella filosofia greca, essa fu in verità preceduta da alcuni rudimentari ab- bozzi di fisica, e non divenne una spiegazione sistema- tica e universale della natura che ad un certo grado dello sviluppo del pensiero speculativo, con Leucippo e Democrito, rappresentando, con que.st'ultuno, la fer- ina più matura della fisica degli antichi Greci. Ma mentre gli altri sistemi di fisica anteriori o contempo- 252ranei caddero, il sistema ineccanico di Leucippo e De- mocrito sopravvisse, e, con la scuola di Epicuro, co- stituì, per un lungo periodo storico, l'unica concezione naturalista del mondo, di fronte alla concezione teolo- gica, rappresentata dalla scuola rivale degli Stoici. Dopo un lungo ecclissi che coincideva con Fecclissi di ogni filosofia indipendente, la concezione meccanica del mondo ricomparve, alla rinascenza del pensiero filosofico, e mediante Cartesio e gli altri grandi pensatori suoi con- temporanei, ottenne (ma alleata il più spesso alla con- cezione teologica, e non sua rivale come nei meccanisti antichi) un dominio incontrastato sugli spiriti emanci- pati dal giogo del peripatetismo scolastico, ii dominio della concezione meccanica fu per qualche tempo scosso dal trionfo definitivo delle dottrine di Newton; ma la rorcnte scoverta della conversione mutua delle forze fisiche dopo che V etere aveva acquistato dritto di cit- tadinanza nella fisica moderna per la vittoria dell' ipo- tesi delle ondulazioni suH' ipotesi neuwtoniana delle emanazioni nella spiegazione dei fenomeni della luce) ha occasionato un ritorno alla spiegazione meccanica, cioè impulsionista, di tutti i fenomeni fisici, che la più parte dei fisici contemporanei inculcano sotto il nome di teoria dell'Unità delle forze fisiche; dottrina secondo la quale tutti i fenomeni, in cui si vedeva già la ma- nifestazione di varie forze distinte e indipendenti, si spiegano unicamente per l'azione di cause agenti d'una maniera meccanica, considerandoli come effetti dei mo- vimenti della materia ponderabile e di quelli di questa sostanza inipalpabile e imponderabile chiamata etere, da cui i corpi si suppongono circondati. È il fenomeno della gravità che, nella storia del pensiero moderno, costituisce il campo principale di battaulia nelle lotte combattute prò e contro la teoria meccanica. Gli antichi meccanisti, Democrito ed Epicuro, non vedevano nel peso una diftìcoltà : essi non cercavano di spiegarlo, ritenendolo evidentemente come un fatto perfettamente intelligibile, che non avesse bisogno di essere spiegato ; anzi Epicuro lo faceva servire alla spiegazione radicale di tutti i fenomeni, come un comple- mento necessario della teoria meccanica, credendo di trovare in esso la prima sorgente o la causa prima del movimento, che già la filosofia antropomorfistica avea cercato, con Platone ed Aristotile, nell'attività di un principio spirituale. Ma nei moderni (e noi mostrerenm in seguito il perchè di questa differenza), la gravità è considerata come il più oscuro di tutti i fenomeni della fisica, ed è a spiegare questa proprietà della materia e i fenomeni che vi si riattaccano, che sono stati diretti i più grandi sforzi dei moderni filosofi e fisici mecca- nisti. All'epoca in cui apparve la grande scoverta di Newton, i fenomeni di cui questa dava la chiave erano attribuiti immediatamente a cause meccaniche. La filo- sofia cartesiana spiegava la gravità così bene che i movimenti planetari con la ipotesi dei vortici, vedendo nel movimento dei corpi pesanti verso il centro della terra l'efietto della spinta dei corpuscoli eterei (1): alcun fi- losofo 0 fisico eminente non ammetteva, in queir epo- ca, la possibilità di cause di un'altra natura. Così prima che la teoria dell'attrazione universale potesse definitivamente stabilirsi, essa dovette lottare lunga- mente per vincere la ripugnanza che si aveva ad am- mettere un'azione che non fosse a contatto: i carte- siani e gli altri avversari di questa teoria vedevano in essa un ritorno alle qualità occulte del peripatetismo scolastico; quegli stessi che accettavano la teoria come un fatto provato dall'osservazione, pensavano non meno (1) Materia sottile. V. Priìw. della jìlos, i pai-te, dei suoi avversari che una vera azione a distanza fosse per se stessa incomprensibile ed anche assurda. Le pre- venzioni contro l'azione a distanza non cessarono dopo la vittoria definitiva della teoria di Newton : non si contestò più, come aveano tatto i suoi primi oppositori, il valore della legete come semplice generalizzazione dei fenomeni dell' esperienza, ma si sono continuamente proposte delle ipotesi per ispiegare questa legge mec- canicamente, considerandola come un effetto sia del- l'urto di corpuscoli solidi sia della pressione d'un flui- do (1), ovvero la si è ammessa come un fatto ultimo, ma (1) Diamo jiu cenno delle ipotesi di Le8}i«i;e (astronomo e fisico j^inovrino del principio del secolo passato) e del p. Secchi sulla jiravità. Ijesaj;e suppone che lo spazio h costantemente attraversato da corpuscoli piccolissimi moventisi con una rapi- dità eccessiva e in tutte le direzioni. Se vi fosse un atomo unico (di materia comune), esso sareìjbe urtato egualmente da questi corpuscoli in tutti i sensi, e perciò resterebl)e in ri])OSo. perchè gli effetti degli urti ricevuti da lati opposti si neutralizzereh- hiiViK Invece due atomi sarehl>ero s])inti 1' uno verso 1' altro, perclic si servirebbero reciprocamente di riparo, in modo che le loro superfìcie situate di rimpetto non sarebbero \nh colpite nella dirczi«>ne della linea che le congiungerebbe, e perciò gli ettetti degli urti ricevuti in «enso contrario non essendo neutra- lizzati, questi s]»ingerebbero i due atonii l'uno verso l'altro. II Secchi sui»pone che ogni molecola jionderabile è un centro 4li moto permanente, che mette in agitazione la massa illimitata di etere da cui è circ(»ndata. e la conforma in maniera che la densità minima al centro va<la crescendo verso la circonferenza. Supponiamo due nudecolc . cioè due c^'utri di agitazione, in due punti qualun([ue di quc^sto miluogo etereo così costituito : runa di queste nudecole incontrerà dal lato dell'altra degli strati di etere meno densi che dal lato opposto, e quindi una resi- stenza minore al movimento. Ne seguirà che le due molecoU^ tenderanno ad avvicinarsi l'una all'altra, perchè ciascuna, ur- taiàdo due strati di etere di densità ineguale, si sposterà più come un fatto la cui possibilità resta incomprensibile, quantunque 1' esperienza ci obblighi ad ammetterne la esistenza. Lo stesso che per l'attrazione universale, è naturalmente accaduto per tutte le altre azioni a di- stanza, sia attrattive sia ripulsive; esse hanno in co- mune con quella lo svantaggio di non essere delle azioni meccaniche, cioè a contatto, e perciò o si sono affatto respinte, cercando di spiegare i fenomeni rispettivi per delle azioni meccaniche, ovvero si sono ammesse come dei fatti di cui la possibilità e il modo di produzione sono inesplicabili. I sostenitori della dottrina dell'unità delle forze fisiche non pretendono che le diverse azioni apparente- mente non meccaniche siano state spiegate d' una ma- niera definitiva : gli autori stessi di <iueste spiegazioni non le danno come verità dimostrate, ma come sem])lici ipotesi ; e fra le diverse ipotesi destinate alla spiega- zione di un dato fenomeno, p. e. della gravità, non ve n'è ancora alcuna a cui i fisici di questa scuola si siano accordati a dare la preferenza. I meccanisti non sono d'accordo che sul principio della loro teoria, cioè che l'attrazione universale e le altre attrazioni apparenti, quali la coesione e 1' affinità chimica, e in generale tutte le azioni fisiche, non possono esser prodotte che dal lato dello strato in cui la densità è minore che dal lati» di quello in cui la densità è maggiore, ciune, quando un corp.» urta tlue altri di masse ineguali, più si sposta dal lato del minore che del maggiore. L'ipotesi di Secchi è analoga a una congettura di Newtcm. il quale neirultima edizione dell'Ottica proporne, questo proì>len»a: se non vi ha attorm. dei corpi u.l nìiluogo etereo sempre di più in più denso secondo la distanza, e perciò causa dell'attra- zione, «ciascun corpo sforzand<Ksi di andare dalle parti,nu dense del miluogo alle più rarefatte. » - — 256 257 — da cause meccaniche, che si possa d'altronde o no spie- g-are distintamente il meccanismo da cui risulta ciascuno di questi fenomeni. Questo principio ha necessariamente per loro un grado di certezza superiore alle diverse ipo- tesi con cui si cerca di realizzarlo, perchè non è che l'applicazione di una i)retesa verità evidente per s« stessa, vale a dire che 1* impulsione è la sola azione tìsica tra i corpi che ci sia intelligibile, donde segue che tutte le azioni apparentemente diverse da essa de- vono ad essa ricondursi, a meno di restare per sempre inintciiigibili. Questa pretesa verità evidente per se stessa è an- che riconosciuta in un senso dalla più parte di coloro che iKMi aiiiniettono la teoria meccanica. Si afferma infatti da essi che V attrazione e ogni altra azione a distanza è appunto e sarà sempre un fatto inintelli.uibile. Ura se si cerca la ragione di tale affermazione, non se ne troverà altra che questa, che l'attrazione e ogni altra azione a distanza sembra inintelligibile perchè non si può ridurre all'impulsione, che è il solo feno- meno tisico che sembri intelligibile. Ciò in cui i non meccanisti si accordano ancora coi meccanisti è la sup- posizione che i fenomeni dell'attrazione e gli altri feno- meni tisici diversi dall'impulsione sono degli effetti, le cui vere cause sfuggono all' oss(irvazione : alle cause tisiche dei secondi i primi sostituiscono delle cause iper- iisiche, le forze, ed è evidente che essi non hanno altra ragione per ammettere l'intervento di queste cause oc- culte, se non la pretesa inintelligibilità dei fenomeni, che s' inìmagina che queste cause renderebbero intelli- gibili, se esse potessero essere da noi conosciute. Ciò che è importante per il nostro argomento non è di discutere la validità delle ipotesi meccaniche sul- Tattrazione o in generale sulle azioni a distanza (qui- stione per la quale d'altronde non avremmo alcuna com- petenza), ma di segnalare le affermazioni dogmatiche, che i meccanisti prendono per base, e che vengono accettate, dentro certi limiti, da quelli stessi che non ammettono la spiegazione meccanica. La forma assiomatica di que- ste affermazioni e l'unanimità con cui vengono accettate mostra che il fondamento della teoria meccanica si trova in una tendenza istintiva del nostro spirito, tendenza che noi dobbiamo sforzarci di mettere in evidenza, per il rapporto che essa ha con la nostra quistione dell'ori- gine dell'idea di causa efficiente. L'affermazione che serve di base alla teoria mec- canica, e che è sino ad un certo punto ammessa dai suoi stessi avversari, è come abbiamo detto, (|uesta : che r impulsione è, un fatto intelligibile in se stesso, mentre ogni altra azione tra i coipi non lo è, e non i)0- trebbe divenir tale che mediante un intermediario espli- cativo. Secondo i meccanisti questo intermediario espli- cativo è accessibile ai nostri mezzi di conoscere, e non è altra cosa che il fatto stesso dell'impulsione; secondo gli altri, esso è al di là delle nostre facoltà conoscitive, ma non esiste meno per ciò; è una forza occulta nella sua natura e nel suo modo di azione, di cui noi non abbiamo esperienza, nìa che dobbiamo anmiettere per intendere la possibilità delle azioni o dei movimenti di cui abbiamo esperienza. Noi possiamo sostituire ai termini « intelligibile in se stesso » ed « intermediario esplicativo» il termine « causa efficiente », e tradurre cosi : L'urto di un corpo è la causa efficiente del mo- vimento del corpo urtato; esso produce (juesto movi- mento, e non ne è il sem])lice antecedente; ma in ogni altra azione fra i corpi, p. e. nelle azioni cosi dette a distanza, le condizioni date le quali avviene il movi- mento, non sono le cause che producono (juesto movi- mento, ma semplici antecedenti di esso, a cui e$so se- gue regolarmente. Che queste condizioni siano la causa 17258 efficiente che produce il movimento, è, secondo gli uni e gli altri, intrinsecamente impossibile : perciò, dicono i meccanisti, una vera azione a distanza, o in generale ogni azione fisica che non possa ridursi all'impulsione, è impossibile e assurda, e bisogna necessariamente am- mettere che rimpulsione è la causa unica che produce tutti i movimenti. Secondo i non meccanisti, un'azione a distanza, o, in geiuM-ale, irriduttibile all'iinpulsione, non è impossibile perchè è un fatto costatato dall'os- servazione, ma è impossibile e assurdo che nei feno- meni di <iuesta natura le condizioni osservabili del mo- vimento siano le cause immediatamente produttrici di questo movimento ; per conseguenza, dovendo ammet- tersi qualche causa ])roduttrice o efficiente del nmvi- mento, e questa causa non essendo l'impulsione, è ue- eessario, secondo essi, di supporre che il movimento è prodotto da forze occulte, la cui natura e il cui modo d'azione ci sono affatto sconosciuti. Dall'impossibilità di spiegare i movimenti per 1' impulsione, i non mec- canisti inferiscono ch'esso è dovuto a cause occulte, le forze: dalla inintelligibilità di queste /by^e, i meccanisti inferiscono la lu^cessità di attribuire il movimento al- l'impulsione. La supposizione comune che serve di base cosi ai meccanisti che ai non meccanisti, è che una causa produttrice di un movimento è qualche cosa di più che la condizione o l'insieme delle condizioni, date le quali il movimento accade invariabilmente; o, in generale, che la causa etticiente di un fenomeno è qual- che cosa di più che le condizioni o gli antecedenti da cui il fenomeno è invariabilmente seguito. Ma se noi ammettiamo che la causa di un fenomeno non è altra cosa che l'insieme delle condizioni o antecedenti a cui il fenomeno segue invariabilmente, in altri termini che la distinzione tra causa efficiente e antecedente d' una sequenza invariabile non ha alcun valore reale, e che 259 perciò assegnare la causa d'un fenomeno non è niente di più che costatare le condizioni precise date le quali noi vediamo il fenomeno accadere invariabilmente; al- lora non vi ha più alcuna ragione per ammettere che l'azione a distanza, o in generale ogni azione tra i corpi distinta dall'impulsione, è incomprensibile e as- surda per se stessa; non vi ha più quindi necessità di supporre, per intenderne la possibilità, l'intervento di un intermediario esplicativo, conoscibile o inconoscibile; e noi non siamo più costretti nell'atternativa, pretesa inevitabile, o di spiegare tutte le azioni tra i corpi per l'impulsione, o di ricorrere a delle forze misteriose e trascendenti, che, come dicono i meccanisti, sono efi'et- tivamente delle supposizioni inintelligibili e delle parole vuote di senso. Siccome la dottrina filosofica attualmente predomi- nante è che tutti i fenomeni indistintamente sono egual- mente incomprensibili, e che l'esperienza non ci presenta alcun esempio di efficienza causale; noi dobbiamo giu- stificare la nostra asserzione che l'impulsione viene na- turalmente considerata come una causa efficiente. In ve- rità quest'asserzione potremmo crederla sufficientemente giustificata dall'esame comparativo che ciascuno può fare delle sue proprie nozioni dei diversi modi di azione fisica tra i corpi : ma noi preferiamo delle prove più obbiet- tive. Noi mostreremo dunque con esempi che i più e- minenti pensatori si sono accordati a ritenere che l' im- pulsione è la sola azione fisica che possa essere consi- derata come una causa produttrice del movimento, o, ciò che vale lo stesso, che la propagazione del movi- mento per l'impulsione è in se stessa intelligibile, men- tre ogni altra azione fisica tra i corpi non lo è, e ha bisogno, per divenirlo, di qualche intermediario espli- cativo. Perciò sarà anche mostrato al tempo stesso che questo è, in ultima analisi, il fondamento della teoria meccanica, come spiegazione universale della natura. liBnrTiiiivT TTiiirr'^''^'"-' 2^0 § 2. Cominciando da colui che è stato dotto il pa- dre della filosofia niodenia, cioè da Cartesio, osservia- mo il rapporto fra la teoria meccanica, di cui fu il principah» promotore», e il suo metodo filosofico. Il prin- cipio fondamentale della filosofia cartesiana è in questa regola del suo metodo: « credidt me prò regnici generali sumere posse orane quod valde dilucide et distincte con- cipiebam^ rerum esse». Per questa regola il criterio della verità era riposto nelT evidenza intrinseca d' una proposizione piuttosto che nei fatti di esperienza che si potevano addurre in suo ap{)oggio. Il meccanismo car- tesiano, la proposizione che l'impulsione è l'unica azione fisica tra i corpi, non è clit» un' applicazione di (jnesto criterio : questa i)roposizione non è il risultato di una generalizzazione scientifica, ma un principio ammesso a priori ; Cartesio trova la comunicazione del movi- mento [)er l'impulso intelligibile, e perciò rammette, trova ogni altra azione* fra i corpi inintelligibile, e perciò la respinge ( 1). Oli altri filosofi eminenti dell'epoca, tutti partigiani del meccanismo, iìotì procedono altrinuMiti. Hobbes am- mette l'impulsione come causa unica del movimento, [)erchè ogni aitia causa gli sembra impossibile: «causa motus, egli dice, nulla esse potest in corpore nisi conti- guo et moto » (2). Spinoza, in una sua lettera ad Olden- bourg, disapprova Boyle che avea cercato di |)rovare speriiìientalinente che tutto nella natura si fn meccani- camente (cioè per iiìipulsione) : egli pensava, come os- serva Leibnitz, che (|uesta conclusione avrebbe dovuto prenderla invece per princi])io, che si può rendere certo per la sola ragione, e non mai per le esperienze, qua- li) V. Prine. (idÌH filos., i parto, ii. 1!»S, n. 2()S. «•(•«•. (2) De corpore. v. 9. art. 7. — 261 — lunque numero se ne faccia (1). Per riconoscere l'im- portanza al punto di vista della nostra tesi di questo concetto degli autori citati e di altri che noi citeremo in seguito, che il legame tra questi due fatti, il movi- mento come effetto e l' impulsione come causa, è una verità razionale, cioè necessaria e a priori, bisogna te ner presente che uno dei caratteri della causa efficiente è il legame necessario tra essa e il suo effetto, e che si sup[)one anche, il più spesso, che questo legame deve essere, oltre che necessario, conoscibile a priori (2). (1) \'. S]>iii(>/.a, Opcrn. «mÌ. Car. H<'nii. UriuL. voi. 2. Kpist. VI. e JiCibnitz .V. *S'. sulVììit. un. 1. \ e. 12 verso la tino. (2) Anche MalcUraiiflu', «piautviiiqiu' «licliiari ripotutanicntc/ che l'urto iu»ii e. come tutte le altre cause naturali, chu uum semplice causa on'asiottìdc del movimento, ammette ìU)n(linuMio anchN'iili che la <Mununicazione del movimentc» i»er l'urto è una veritu a ]»riori. e che noi non <lohbiamo ammettere altra azione fisica che quella deirimpulsiom*. perchè t> la sola di cui ahìuanH» delle ith'e chiare e (Ustìnte. o in altri termini, la sola che ci sia intellioihile. (-osi nelle l^eijiii f/enent/i della comunìcdzione dei ntoriìuetili, (2 parte, n. IH) dicc^ : « Se non si vuol ra«iionare dei corpi <' «Ielle h>ro proprietà che sulle idee chiare che noi ne possiamo avere, non si attribuirà mai alla mati'ria altra forza o altra azione che «[uella che essa trae dal suo movimento». E \w\ e. S. ]>arte 2 d<'l .Metodo {Uicerca della verità): «L'im- penetrabilità d«^i corpi fa < hiaram(^nte com'e])ire che il movi- mento si può comunicare per impulsicuie, (noi incontreremo an- (oiiì più volte «lucst'idea che la comunicazione d«'l movimento per Turto deriva dall'impenetrabilità della materia) e resjK'rienza prova senz'aldina oscurità <*he effettivamente si comunica jier «(uesta via. Mn non vi ha alcun raffionametito uè alcuna es]>e- rienza che dimostri chiaramente il movimento d'attrazione. Così m»u bisogna fermarsi ad altra comunicazione del movimento che a quella che si fa ]»er impulsione, poiché «questa nuniiera è certa e iucontestabile. e vi ha dvAV oscurità nelle altre che si potrebbero immaj;inaie. Ma quando si potesse anclie dimostrare — 262 — Come i meccanisti del nostro tempo vogliono ban- dite dalla fisica le forze, a cui i non meccanisti attri- buiscono le cause dei movimenti (di (luelli almeno che non sono prodotti da un'impulsione osservabile), cosi i cartesiani e gli altri avversari della scolastica facevano la o'uerra alle qualità occulte. Le qualità occulte d' al- lora, come le forze d'oggi, erano le cause sconosciute dei fenomeni, e gli scolastici le ammettevano in virtù dello stesso principio per cui i fisici moderni ammettono le forze e i filosofi l'Inconoscibile, cioè in virtù del principio che i fenomeni devono avere delle cause ef- ficienti : siccome l'esperienza non ci dà delle cause di questa natura, se ne conclude, non che esse non esistono,,na che noi non possiamo conoscerle. Se i cartesiani e o-li alili avversari della scolastica credevano che la ^pieoazione meccanica dei fenomeni eliminava le qua- lità occulte, è che essi pensavano che l'impulsione e una causa efficiente, e che era inutile di supporre delle cause efficienti sconosciute, quando si aveva già una causa efficiente conosciuta. Non si aveva da scieghere che tra l'impulsione e le qualità occulte, fra la causa efficiente conoscibile e le cause efficienti inconoscibili : l'alternativa sembrava inevitabile, e 1 cartesiani respm- o-evano, come abbiamo detto, l'attrazione newtoniana perchè essi vi vedevano un ritorno alle qualità occulte o-ià bandite della filosofia peripatetica. che vi Im nelle cose puia.uente covi.orali altri v.in.-.i.n «lei,„„vi.neuto ehe l'incontro dei eorv.i. «ou M potrebbe rajr.onevol-,„ente ricettare q«e«to ; si .leve anche fer.narvisi preferibilmente ad ogni altro, poiehè esso,> il più chiaro e il pin evidente...... Se l'impnlsiono non ^ per Mal-'hranche che una cansa oecasw- nale (eio^ un semplice anteeede.ite invariabile). ^ tuttavia tra tutte le cause occasionali a cui «li etfetti della natura potreb- bero attribuirsi, quella ehe più somiglia ad uua causa et^cwnte. — 263 Quest'alternativa s'impose allo stesso Newton : era evidente secondo lui che la legge della gravità non dava la cfiusa del fenomeno, ma solo gli effetti di (juesta causa; semplicemente egli non decìdeva se questa causa fosse l'impulsione di una materia sottile o qualche forza immateriale di una natura sconosciuta. « Io ho spiegato sin qui, egli dice nei Principu, i fenomeni celesti e quelli del mare per la forza della gravitazione, ma non ho assegnato in alcuna parte la causa di questa gra- vitazione. Questa forza viene da qualche causa che penetra sino ai centri dei sole e dei pianeti, senza di- minuzione della sua attività, essa agisce non secondo la quantità delle superficie delle particole su cui agisce, come fanno le cause meccaniche, ma secondo la quan- tità della materia solida, e la sua azione si estende da tutte le parti sino alle distanze più grandi, descrescendo sempre in ragione duplicata delle distanze... Io non ho ancora potuto inferire dai fenomeni la ragione di queste proprietà della gravità, e non immagino ipotesi » (1). E w^W Ottica: «Io non ricerco qui a quale causa efficiente siano dovute queste attrazioni. Quella che io chiamo attrazione può essere prodotta per impulso o per qualche altro mezzo a noi sconosciuto. Per questa parola attrazione qui non intendo indicare se non una qualche forza per cui i corpi tendono l'uno verso l'altro, qualunque sia d'altronde la causa a cui questa forza debba attribuirsi» (2). E nella III lettera a Bentley: « Non si può comprendere come una materia bruta e inanimata possa, senza l'intervento di qualche altra cosa non materiale, agire so|)ra un' altra materia e modificarla, senza essere in contatto con essa. Questo intanto è quello che bisognerebbe supporre, se si am- (1) Prln. matem. della fi los. natur. Seolio ^rener. vorso hi liue. (2) Ottiea Qiiest. 28. — 264 — mettesse che la gravità è inerente ed essenziale alla materia come voleva Epicuro. Era questo uno dei mo- tivi che io aveva per pregarvi di non attribuirmi l'opi- nione della g-ravita innata. Pretendere che la gravità sia innata, inerente ed essenziale alla materia, di guisa che un corpo agisca sopra un altro a distanza, a tra- verso il vuoto, senza 1' interposizione di qualche cosa, per il cui mezzo l'azione e la forza possano essere tra- smesse dall'uno all'altro, nìi pare un'assurdità sì gran- de, che essa non può, io credo, cadere nello spirito di alcun uomo che abbia qualche competenza in filosofìa. La gravità deve venire da un agente che operi costan- temente secondo certe leggi ; ma se questo agente sia materiale o immateriale, io lasciai nella mia opera ai lettori il considerarlo». v> f). Quando nella scuola di Newton si cominciò ad ammettere che la gravità è una proprietà primitiva ed essenziale delia materia, si poneva non pertanto una differenza tra (juesta proprietà e quella di dare e di ricevere rinquilsione : quest'ultima proprietà sembrava appartenere necessariamente alla materia, mentre la prima era evidentemente dovuta all'arbitrio del Crea- tore. Il matematico Cotes, nella prefazione della II edi- zione dei Principii di Newton, ammetteva la gravità come una forza fondamentale di ogni materia : ma egli opiKììieva il sistema newtoniano, che fa derivare le leggi della natura dalla volontà e libertà di Dio, al sistema dei materialisti che fanno tutto nascere per necessità e niente per la volontà del Creatore. Non è la necessità che egli vede nelle leggi delia natura, ma bensì le prove del disegno più saggio. 1/ idea di una causa ef- ficiente distinta dai fenomeni osservati non è dunque abbandonata dai newtoniani che ammettono il peso come pro])rietà essenziale della materia; semplicemente a una spiegazione meccanica si sostituisce una spiega- — 265 zione antropomorfìstica. Anche Newton non compren- derebbe l'azione a distanza, se invece di « una materia bruta e inanimata» si trattasse di una materia vi- vente ed animata? Quando Locke scrisse il Saggio sull'intendimento umano, egli ammetteva la teoria meccanica in tutta }a sua estenzione : così nel 1. 2, e. 8, par. 11 alla quistione : qual è la ma-nìera onde i corpi producono in noi le idee? rispondeva: «È evidente che è per impulsione, perchè (juesta è la sola maniera in cui noi possiamo concepire che i corpi possano agirei. In seguito egli abbracciò la dottrina di Newton, ma non abbandonò il principio che l'impulsione è la sola maniera d'agire dei corpi che sia concepibile. Nella risposta alla II letteradel vescovo di Worcester (col (juale agitava la quistio- ne : se la materia può pensare), egli dice : * Io confesso che io ho detto {nel Saggio nalV intendi m. umano) che il corpo opera per impulsione, e non altrimenti. Così era il mio sentimento quando lo scrissi, e ancora pre- sentemente io non potrei concepire un'altra maniera di agire. Ma poi io sono stato convinto dal libro incom- jmrabile del giudizioso sig. Newton che vi ha troppa presunzione a voler limitare la potenza di Dio per le nostre concezioni limitate. La gravitazione della materia verso la materia per delle vie che mi sono inconcepibili è non solo una dimostrazione che Dio può, quando gli piace, mettere nei corpi delle [)otenze e maniere d^'agire che sono al disopra di ciò che può essere derivato dalla nostra idea del corpo, o spiegato per ciò che noi cono- sciamo della materia; ma è ancora una ])rova inconte- stabile ch'egli lo ha fatto eiHettivamente »•. Quantunque l'opinione di Locke sia che noi non possiamo in gene- rale scoprire alcuna connessione tra i fenomeni, né comprendere come le cause producano i loro effetti, tuttavia egli pensa che vi ha molta differenza a (juesto 266 riguardo tra la produzione del movimento per T impul- sione e altre azioni dei corpi, quali la loro mutua at- trazione o la maniera in cui essi producono in noi delle sensazioni. Noi non possiamo affatto comprendere come i corpi siano capaci di esercitare queste ultime azioni; ma « iioi possiamo comprendere molto bene che la grossezza, la figura e il movimento d'un corpo producano del can- giamento nella grossezza, nella figura e nel movi- mento d'un altro corpo. Che le parti di un corpo siano divise in conseguenza dell'intrusione di un altro corpo, e che un corpo sia trasferito dal riposo al movimento per l'impulsione d'un altro corpo, queste cose ed altre si- mili ci paiono avere qualche legame Tuna con l'altra » (1). A Leibnitz la pretesa virtù attrattiva dei newtoniani sembra « un rinnovellamento delle chimere già bandite » « Noi disapproviamo, egli dice, il metodo di quelli che suppongono, come facevano già gli scolastici, delle qua- lità irragionevoli, cioè a dire delle qualità primitive che non hanno alcuna ragione naturale, spiegabile per la natura del soggetto a cui questa qualità deve conve- nire. Noi accordiamo e sosteniamo con essi (coi newto- niani), che i grandi globi del nostro sistema sono at- trattivi fra di loro; ma siccome sosteniamo che ciò non può accadere che d'una maniera spiegabile, cioè a dire per un'impulsione dei corpi più sottili, non possiamo am- mettere che l'attrazione è una proprietà primitiva essen- ziale alla materia, come questi signori lo pretendono » (2). Non vi ha secondo Leibnitz altra causa intelligibile di un fenomeno fisico che l'impulsione : ^ Io non voglio, dice nelle sue Osservazioni contro Stahl, sovvertire le eccellenti dottrine dei moderni filosofi, per cui si è o'iu- (1) L. 4, e. XI. par. 13. (2) Opera Dut., t. 2, p. I, p. 330. Leti, a Boin-ijuit J ag. stamente stabilito che niente si fa nei corpi che non consti di ragioni meccaniche, cioè intelligibili )^. E nella risposta alle osservazioni di Stahl : « Tutto nella natura deve farsi meccanicamente, e la ragione di ciò è che tutto deve farsi nei corpi in modo che sia possibile di spiegarlo distintamente per la loro natura, cioè per la grandezza, la figura e le leggi del movimento». Al co- minciamento delle osservazioni contro Stahl egli stabi- lisce che la teoria meccanica è una conseguenza del principio di ragion sufficiente. « Uno dei principii del ragionamento (è cosi che questo scritto comincia) è che non vi ha niente senza ragione, cioè che non vi ha alcuna verità della quale chi intende perfettamente la cosa non possa dare la ragione È una conseguenza di questo principio che ogni affezione delle cose, e tutto ciò che avviene in esse, può derivarsi dalla natura e dallo stato delle cose stesse ; e, in ispecie, che tutto ciò che avviene nella materia nasce dallo stato prece- dente della materia per le leggi dei cangiamenti. Ed è ciò che vogliono o devono volere quelli che dicono che tutto nei corpi può spiegarsi meccanicamente. Suppo- niamo che alcuno ponga nella materia una certa virtù di attrazione primitiva o misteriosa (àppr^TOv), egli pec- cherà contro questo gran principio del ragionamento. Confesserà infatti non potersi spiegare, neppure da un onnisciente, come avvenga che la materia attragga altra materia, e questa a preferenza di quella. E in realtà egli ricorrerà tacitamente al miracolo; 1' attrazione in- fitti in questo caso non si potrebbe spiegare altrimenti se non supponendo che Dio stesso, al disopra della na- tura della cosa, per una provvidenza particolare fa che la materia che deve essere attratta tenda verso un'altra materia. Ma se la spiegazione deve ricavarsi d'una maniera intelligibile dalla natura stessa della cosa, essa si deriverà da ciò che si concepisce in questa distinta- T I — 268 —mente, così uella materia dalla figura e dal moto in essa esistente; e allora si vedrà che l'attrazione apparente non è altro in realtà che una occulta impulsione » (1). Un'attrazione non derivante dall'impulsione non può essere secondo Leibnitz che o un miracolo o una qua- lità occulta. Alcuni credono che il miracolo non è che una eccezione delle le^'ori g-enerali che Dio ha stabilite arbitrariamente ; ma non tutto ciò che avviene per leggi generali si fa senza miracolo. « Il carattere dei mira- coli è elle non si potrebbero spiegare per la natura delle cose create. E perchè se Dio facesse una legge che por- tasse che i corpi si attirassero gli uni gli altri, non ne potrebbe ottenere l'esecuzione che per dei miracoli per- petui». «Cosi non basta per evitare i miracoli che Dio faccia una certa legge, s'egli non dà alle creature una natura capace d'eseguire i suoi ordini : è come se al- cuno dicesse che Dio hn ordinato alla luna di descri- vere liberamente nell'aria o nell'etere un cerchio intorno ai globo della terra, senza che vi sia né angelo nò in- telligenza che la governi, ne orbe solido che la porti, né turbine o orbe liquido che la trascini, ne peso, ma- gnetismo o altra causa spiegabile meccanicaì nenie che l'impedisca d'allontanarsi dalla terra e d'andarsene per la tangente del cerchio. Negare che quello fosse un miracolo sarebbe ricorrere alle qualità occulte, assolu- tamente inesplicabili e screditate oggi con molta ragio- ne». « Lo stesso sarebbe se qualcuno dicesse che Dio ha dato ai corpi delle gravità naturali e primitive, per cui ciascuno tende al centro del suo globo, senza essere 11) V<m1ì anche In rispostu jjIIsi IV nplica di Chiike, nel j»a- raur. ti», in eni parauona l'attrazione alla declinazione deuli atomi «li Kpicuro. peirht'^ eonii^ quella è una violazione del principio «li lauion sutticieute ; e confronta la lettera ad Hart- sockiM- (fp. onnt. e<l. Uutens, t. II. p. 11. paj^. H2. - 269 — spinto da altri corpi : questo sistema a mio avviso a- vrebbe bisogno di un miracolo perpetuo, o almeno del- l'assistenza degli angeli ». « Bisogna mettere una distanza infinita tra l'operazione di Dio che va al di là delle forze delle nature, e le operazioni delle cose che seguono le leggi che Dio loro ha dato, e che egli ha reso ca- paci di seguire per le loro nature, quantunque con la sua assistenza. K perciò che cadono le attrazioni pro- priamente dette e altre operazioni inesplicabili per le nature delle creature, che bisogna fare effettuare per miracolo, o ricorrere alle assurdità, cioè allo (lualità occulte scolastiche, che ora si cominciano a s])acciare sotto lo specioso nome di forze, ma che ci riconducono nel regno delle tenebre. È hweiiia fruge glamlibuH vesci » (1). Noi abbiamo già notato la differenza fra queste due dottrine sulla natura del miracolo : quella combat- tuta da Leibnitz si fonda sopra un principio che è as- sai vicino alla teoria dell'empirismo moderno sulla legge di causalità, perchè essa ammette che una legge della natura non è altra cosa che una congiunzione costante tra due fenomeni. Leibnitz respinge questa dottrina, perchè una causa non deve essere secondo lui un sem- plice antecedente di una sequenza invariabile, ma deve ancora spiegare l'effetto, o contenerne la ragion suf^ ficiente. Ma una causa che spiega l'effetto o ne contiene la ragion sufficiente è una causa efpdente, nel senso in cui noi intendiamo questa parola : risulta dunque dalla polemica di Leibnitz contro la dottrina che considera l'attrazione come un tatto primitivo, che secondo lui (1) Sagyl sulla bontà di Dio ecc. 11 parte 207. Oy>. omnia c«l. Dutens, t. 2, p. 1, pa-. 101 (Hisp, alle ohbiez. di'lVaut. del Uh. della eoriose. di se stesso), pa-. 77 (Leti. alVaut. drlla storia delle opere del sapienti ecc.;, i»aj^. 167 (Risposta alla 4 Heplu-Ai di Clarice, nel vS 48). '>: ciò che costituisce la superiorità della teoria meccanica su questa dottrina è che quella ci dà le cause efficienti dei fenomeni, mentre questa non ci darebbe che i sem- plici antecedenti di cui i fenomeni sarebbero un seguito costante. Tuttavia, quantunque Leibnitz dica espressamente che una causa meccanica è una causa efficiente, e la sola causa efficiente che vi sia nel modo fisico (1), si potrebbe ragionevolmente dubitare s'egli dà veramente a questa parola il senso in cui noi la prendiamo. E infatti secondo la sua dottrina dell'armonia prestabilita, tra una causa esterna finita e un cangiamento che ne segue in un'altra cosa distinta, non vi ha che una sem- plice coincidenza, e non un vero rapporto di causalità, ciascun essere sviluppando spontaneamente dal proprio fondo tutte le sue modificazioni. Sembra dunque che vi sia qui una contraddizione in Leibnitz : ma essa si spiega, se noi ricordiamo che l'armonia prestabilita, nel sistema di questo filosofo, è, come abbiamo detto, una conseoueiiza del suo panpsichismo, e che il pani)si- chismo è un'ipotesi destinata a risolvere, non il pro- blema della causa efficiente, ma quello della cosa in sé. Quando Leibnitz cerca nella natura esteriore le cause efficienti, egli trova nella causa meccanica una causa efficiente : ma quando egli cerca la cosa in sé corrispon- dente al fenomeno materia e trova che questa non é che spirito, allora gli sembra impossibile che un es- sere agisca sopra un altro essere, e arriva alla dottrina dell'armonia prestabilita. Il seguito di questo scritto rischiarerà d'una nianiera più completa questa difficoltà del sistema leibnitziano. - 271 — Nella polemica che ebbe luogo tra Leibnitz e Clarke, uno dei soggetti di controversia fu naturalmente l'at- trazione. La prima cosa che noi incontriamo di notevole per questo riguardo nelle Repliche di Clarke, é lo stesso pensiero di Cotes, che il materialismo è direttamente combattuto dai prlncÌ2)ii matematici della filosofia (é il titolo dell'opera fondamentale di Newton). «Allorché io ho detto, (é cosi che Clarke spiega una sua affermazione antecedente) che i principii matematici della filosofia sono contrari a quelli dei materialisti, io ho voluto dire che mentre i materialisti suppongono che la struttura dell'universo può essere stata prodotta dai soli principii meccanici della materia e del movimento, della neces- sità e della fatalità, i principii matematici della filosofia fanno vedere al contrario che lo stato delle cose (la costituzione del sole e dei pianeti) non ha potuto essere prodotto che da una causa intelligente e libera» (1). All'obbiezione di Leibnitz, che l'attrazione sarebbe un miracolo perpetuo, ecco cosa risponde Clarke : « Se un corpo ne attirasse un altro, senza l'intervento d'alcun mezzo, sarebbe, non un miracolo, ma una contraddizione, perché sarebbe supporre che una cosa agisce dove non é» (2). « Gli é affatto irragionevole di chiamare l'attrazione un miracolo, e di dire che é un termine che non deve en- trare nella filosofia, quantunque noi (i newtoniani) abbia- li) KÌ5ipi»stji alla IV replica di Clarke, ii, 92. 124. AuimjKi- vorsiotu's circa assertioiies aliquas Stahlii Dutcìis t. II p. IJ p. l:S2e p. l:U, Uespoiisiouei^ jkI Staliliaiias observatioiics ad XXI (n. 1), Mimadol. ii. 79, ecc. (1) Repliciì t^ (U Clarke, 1. Quando si attribuisce la neces- sità alle cause meccaniche, e le altre leg^i della natura, riuali la gravità, si fanno invece riposare sulla semplice libertà del (Crea- tore, ciò eipiivale ad att'ermarc che le cause meemniche s(»no delle cause efticienti, e che le altre non sonc^ che de.a;li antece- denti di seiiuenze invariabili. Infatti il carattere della causa ef- ficiente t"^ questo lejiame necessario che si ammette tra essa e l'ettetto. (2) liepl. 4 di Clarke. — ino si spesso dichiarato, d'una maniera distinta e forma- le, elle, servendoci di questo termine, non pretendiamo esprimere la causa che fa che l corpi tendono V ano verso Valtro^ ma solamente l'ettetto di questa causa, o il feno- ìnono stesso e le le^g'i o le pro])orzioni secondo cui i corpi tendono l'uno verso l'altro, (piali si scoprono per l'espe- rienza, qualunque ne possa essere la causa » (1). « Se noi diciamo che il sole attira la terra, a traverso d'uno spazio vuoto, cioè che la terra e il sole tendono l'uno verso l'altro (qualunque ne possa essere la causa) con una forza che è in rao-ioiì clìrottn delle loro masse o delle loro o-rau- dezze e densità |)rese insieme, e in rag'ione inversa del quadrato della loro distanza; e che lo spazio che è tra questi due corpi è vuoto, cioè che non vi ha niente che resista sensibilmente al movimento dei corpi che lo traversano; tutto ciò non è che un fenomeno o un fatto attuale scoverto per l'esjx'rienza. E vero senzn dubbio che (piesto fenomeno ìion è prodotto senza mezzo, cioè senza una causa capace; di produrre tal effetto. I filosofi possono duncjue ricercare (piesta causa, e cercare di sco- prirla, se ciò loro è [)ossibile, sia che sia laeccanica o non meccanica. (Qui l'autore sembra ammettere la possibilità dì nna causa naturale e conoscibile non meccanica). Ma se essi non possono scoprire questa causa, ne segue che V effetto stesso o il ftuiomeno scoverto per l'esperienza — che è tutto ciò che si vuol dire per le parole attrazione e gravitazione — ne segue, io dico, che questo fenomeno sia meno certo e meno incontestabile? Una qualità evidente deve essere chiamata occulta, perchè la causa immediata ne è forse occulta^ o noìi è st^ta ancora scoiarla f Quando un corpo si muove in un cerchio, senza allontanarsi per la tangente, vi ha c(*rtamente qualche cosà che ne lo (1) Ht'ijl. .> (// Cìarke, llO-lU). ~ t impedisce : ma se in qualche caso non è possìbile di spiegare meccanicamente la causa di quest'eftetto, o se essa non e ancora stata scoverta, ne segue che il feno- meno sia falso ? Questa sarebbe una maniera di ragio- nare assai singolare» (1). (Qui invece l'autore pare che suppong-a che la causa dell'attrazione o è meccanica, e in (questo caso potrà in seg^uito essere scoverta, o non è meccanica, e in quest'altro, caso resterà sempre una causa occulta). § 4. Se in Inghilterra, andandosi al di là del pen- siero di Newton, la gv^yiiii innata, inerente ed essenziale alla materia divenne ben presto una dottrina, inconte- stata, questa dottrina invece sollevò delle proteste con- tinue tra i matematici e fisici del continente. Hu\ ghens trova assurdo il principio dell'attrazione newtoniana, e dice: «Le cause di tutti gli effetti naturali devono con- cepirsi meccanicamente (per rationes mechanicas), se non vogliamo abbandonare ogni speranza di comi)ren- dere qualche cosa nei fenomeni fisici » (2). Bernouilli chiama la supposizione di una facoltà attrattiva « ri- voltante per gli spiriti abituati a non ricevere in fisica che dei priucipii incontestabili ed evidenti», e adotta la teoria cartesiana dei vortici, modificando- la. Eulero nella Lettera 68 ad una principessa d' Ale- magna scrive : « Poiché è certo che considerando due corpi qualunque l'uno è attirato verso l'altro, si do- manda la causa di questa tendenza mutua : è su ciò che i sentimenti sono molto divisi. I filosofi inglesi so- stengono che è una proprietà essenziale di tutti i corpi d'attirarsi mutuamente, che è come una tendenza na- turale che tutti i corpi hanno gli uni j)er gli altri, in virtù di cui i corpi si sforzano di avvicinarsi mutua- (1) Ucpl. o di Clarkr, 11S-12S. (2) Travtatus de In mine. 18 274 - 275 mente, oome se fossero dotati di qualche seiitimf^fféf^ o desiderio. Altri filosoft ri^j^-uardano questo sentimeuto come assurdo e contrario ai principii di una filosofi^ ragionevole». «Gli uni dicono che è la terra che atti- ra i corpi per una forza che le appartiene in virtù della sxia natura; gli altri dicono che è l'etere o altra ma- teria sottile e invisibile che spinsTe i corpi in ìiasso, di sorta che l'eifetto è nondimeno lo stesso nell'uiio e Tal- iru caso. L'ultimo sentimento piace di più a quelli che amaiì'^ 'lei principii chiari nella filosofia, poiché non vedono come due corpi lontani limo dall'altro possono agire l'uno sull'altro, a meno che non vi sia qualche cosa tra loro >. «Supponiamo che avanti la creazione del mondo Dio non avesse creato che due corpi lontani ruuo dall'altro, che non esistesse fuori di loro assolu- tamente niente, e che questi corpi fossero in riposo ; sarebbe possibile che l'uno si avvicinasse all'altro, o che avessero una tendenza ad avvicinarsi ? come Vuno sentirebbe V altro da lontano f come potrebbe avere un de- siderio d' avvicinarsene? Sono delle idee che rivoltano: ma dacché si suppone che lo spazio fra i corpi è riem- pito d'una materia sottile, si comprende subito che se questa materia può agire sui corpi spingtmdoli, l'effetto sarebbe lo stesso come se essi si attirassero mutuame*nte * . Così Eulero non concepisce che due possibilità sulle cause dell'attrazione: o il meccanismo o l'antropomor- fisnìo: se non si vuole l'uno, si deve accettare l'altro. E che queste sono quasi esclusivamente le due forme im- mediate sotto cui lo spiritto umano concepisce le cause efficienti. Io pre^-o il lettore di confrontare questo luogo d'Eulero con gii ultimi che ho citati di Leibnitz e con rjuelli di Secchi e Saigey che citerò appresso, oltre quelli degl' ilozoisti, già citati nel 2^ capitolo, articolo 3^' (1). Oltre queste due supposizioni sulle cause dell'attra- zione, quella della impulsione d'un miluogo, ch'egli adotta (1), e quella della materia dotata di sentimento e di desiderio (alla quale si potrebbe fors'anche aggiun- gere quella di Dio che spinge immediatamente i corpi gli uni verso gli altri) (2), Eulero non concepisce che una terza supposizione : cioè che la causa dell'attrazione sia una forza inconoscibile ed inintelligibile, una qua- lità occidta. « Sembra più ragionevole, segue egli a (l^ K puro sotto r uiiH o l'altra di queste duo tonno cho i <Troci coìuepivauo la causa di quei feiionieni attrattivi <di«- loro prosontava iumiodiatauuaitc l'ossorvazioue. Noirattraziouo oser- citata dalla calamita e dall' ambra Taloto vedova un segno ohe tutto era aniuìato (v. e. 2, § 13). Empedocle, Platone. Democrito, p]picuro spioj^aui» invece gli stessi fenomeni per l'azione di una corrente di materia sottile che trascina verso «[uesti corpi quelli che sembrano attratti da essi (V. Martin lì Timeo, v(d. Il no- ta 173, ^ 2. Lauge Stor. del mater. voi. 1. parto 1, e. 5 vers«» la tino, Timeo di Locri 102, a. b. Lucrozii» De rer. nat. VI v. 1000 e seg.. ecc.). (1) In verità tra le cause materiali anclu^ la trazione sombra ad Eutero una causa concepibile dell'attraziono (una causa na- tuialmente dello steszo valore che il sentimeut<» e il desiderio della materia, ci<»t' una causa che sarebbe eupnee di spiegare Vef- fetto,^ii,i"AAO impossibile, essa esistesse). I filosofi inglesi, egli dice nella Lettera .51, «convengono che non vi ha m^ cordo no alcuna dello macchino di cui ci serviamo ordinariamente per tirare, di cui la terra ]K>ssa servirsi per attirare a st"^ i cor])i o c;iusarvi il peso ; ancora meno sco[»rono qualche cosa tra il sole o la terra, di cui si possa credere che il sole si serva per attirare la terra. 8e si vedesse un carro seguire i cavalli senza che vi fossero attaccati, e non vi si vedesse nò corda no altra cosa propria a mantenere qualche comuuicazicuie tra il carro e i cavalli, non si direbbe che il carro fosse tirato dai cavalli : si sarebbe piut- tosto portato a credere che il carro fosso spinto da qualche, forza, quantunciue non se ne vedesse niente, a monochè non fosse il giuoco di qualche strega. Tuttavia i signori Inglesi non abbandonano il loro sentimento ». (2) V. nella stossa lettera il tratto che precode l'ultimo «itato — 276 scrivere, d'attribuire rattrazione dei corpi a un'azione che l'etere vi esercita, (juantunijue la maniera ci sia sconosciuta, che di ricorrere a una (jualità inintelligi- bile. Gli antichi filosofi si sono contentati di spiegare i fenomeni del mondo per questa sorta di qualità ch'essi hanno chiamate occulte, dicendo [). e. che l'oppio fa dormire per una qualità occulta che lo rende proprio a conciliare il sonno: era dire niente del tutto, o piuttosto era voler nascondere la propria ignoranza; si dovrebbe dunque pure riguardare come una (jualità occulta l'at- trazione, in (|uanto la si dà per una proprietà essen- ziale dei corpi ». D'Alembert trova esorbitante l'affermazioiìe di Co- tes che la gravità è così essenziale alla materia come l'impenetrabilità e l'estensione: se l'attrazione è una legge primitiva, essa non può, egli dice, avere per causa che la volontà di un essere sovrano J). Le leggi del movimento sono di verità necessaria ; ma le leggi del peso sono contingenti, e dipendono dalla volontà del Creatore; supposto però che la gravità non possa spiegarsi per V impulsione (2). Quest'azione a distanza tra due corpi e la ragione secondo cui avviene sono egualmente incom})rensibili (8). Vi haìino due sorte di <!ause capaci di produrre o cangiare il movimento. Di queste cause noi conosciamo le une diretteamente : esse si' riducono all'impulsione, la (juale risulta dalla impe- netrabilità dei corpi . Ma le altre cause non ci si (1) PritH'. ilrlìe rotiosrrnzr umunc XVII. (2) Ivi XVI. (:5) Ivi XVII. (4) Anche Eulero atteniui clu^ «miii forza, cioè, o^iii causa capace di caii;iiare Io stato <lei corpi (e saitpiaiiio cbe non vi ha altra causa tale che l'urto) deriva dalla iiniM'iietrabilità delia materia. (V. Lettera 77 ad fuìd jtri uri/tessa iV Aleììuigna). Sie- eonie riiiipencitrahilità si riguarda roni<' contenuta nella nozione 9 ^Zi l fanno conoscere che per i loro effetti : così è la gra- vità (1). I filosofi più eminenti, anche nella patria di Newton, hanno continuato a pensare che non vi ha altra azione possibile se non a contatto, o almeno che una vera azione a distanza è inconcepibile. Reid crede che uno dei motivi che hanno fatto respingere la credenza della percezione immediata dei corpi, e adottare in sua vece la dottrina filosofica delle idee rappresentative, è Topi- nione che nella percezione vi ha un'a/.ione degli og- getti sullo spirito 0 di questo su (juelli, e che per con- seguenza bisogna che vi sia una specie di contatto tra lo spirito e ciò che egli percepisce immediatamente. Ueid noli nega la legittimità della conseguenza, perchè gli sembra evidente che una cosa non può agire dove non è, ma contesta invece la verità della premessa, cioè che vi sia azione tra lo spirito e gii oggetti. «Io convengo, egli dice, che una cosa non può agire im- ìnediatamente ove essa non è. perchè io penso, con Newton, che noi non concepiamo un potere che non apparterrebbe ad una sostanza. Segue di là che ogni impressione suppone la presenza d'un agente, ed è an- cora un punto che io accordo. Ma resta a provare che nella percezione gli ogaetti agiscano su noi o che noi ao-ianio su loro. Ora è ciò che non mi sembra punto evidente per se stesso, ciò di cui non ho mai incontrato prova e che ini pare inammissibile >. La niassinìa che ogni azione deve essere a contatto, non che il principio i)er cui si pretende dimostrarla che .stessa d<dla materia. arìVnnare che i fenomeni dell'impulsione derivano (cioè si «Icducono) dall' impenetrahilità, equivale a4 affermare che «incsti fenomeni sono delle verità necessarie ed a priori. (1) Prine. delle eorioseenze umane, una cosa non può agire dove non è, non sono eviden- temente che una generalizzazione dell'azione meccanica tra i corpi. Queste massime sono state talmente accre- ditate presso i filosofi, che noi le troviamo dove meno dovremmo aspettarcele. Hume (anche Hume !) ha detto: « Tutti gli oggetti che sono considerati come cause ed effetti sono contigui. Nulla può agire in un tempo o in un luogo in cui non esiste, per ([uanto piccola sia la distanza che lo separa. Noi possiamo dunque conside- rare la relazione di contiguità come essenziale a (juella di causa ». Dugald-Stevvart osserva su queste proposi- zioni di Hume: « Sebbene questa massima (che una cosa non può agire che nel luogo e nel tempo in cui esiste) deve essere ammessa per le cause efficienti^ che, come tali, hanno un legame necessario coi loro effetti, non vi ha ragione di applicarla alle cause fisiche, di cui non sappiamo niente altro se non che sono i precursori o segni di certi effetti naturali ». Egli conviene che i fi- losofi in generale hanno pensato diversamente « Essi hanno manifestato della ripugnanza anche in fisica a chiamare un avvenimento la causa d'un altro, quando i due avvenimenti erano separati dal minimo intervallo di spazio o di tempo. Quando si tratta d' impulsione^ essi non si fanno scrupolo di dire che l'urto è la causa del movimento di un altro corf>o, ma hanno qualche ripugnanza a dire che un corpo è la causa del movi- mento di un altro corpo collocato a qualche distanza da esso, a meno che non vi sia fra questi due corpi un legame stabilito con l'aiuto di qualche mezzo... Questa distinzione fra il movìuìento prodotto dall'urto e gli altri fenomeni della natura si fonda in gran parte sul- la confusione delle cause efficienti e fisiche». Dugald- Stewart non ammette che l'urto sia una causa efficiente, perchè secondo la dottrina della scuola scozzese la na- tura non ci presenta mai una vera connessione causale; 279 ma perchè eg^li suppone che il rapporto di contiguità deve trovarsi nell' azione delle cause efficienti o metafi- siche ? Siccome la nozione che egli si fa di cause me- tafisiche e oltrepassanti l'esperienza non può avere in definitiva la sua base che nell'esperienza, noi abbiamo il dritto di ammettere,che ciò è perchè egli si forma la concezione delle cause metafisiche dei fenomeni fisici sul tipo dell'azione meccanica piuttosto che su quello di qualsiasi altra azione fisica. Hamilton, 1' altro eminente rappresentante della scuola del senso comune, dice : Una azione a distanza può bene esserci imposta come fatto, ma la sua possi- bilità non resta perciò meno inconcepibile. Galluppi pensa che la comunicazione del movimento per l'impul- sione è una verità necessaria e a priori, di cui egli pretende di dare la dimostrazione (1). «Ma che cosa dobbiamo pensare, si domanda, dell'attrazione? In questa i corpi non operano gli uni sugli altri per im- pulso. Intendendo per attrazione il moto naturale di un corpo verso di un altro, l'attrazione è un fatto primi- tivo di cui ignoriamo la causa» E continua citando, e na- turalmente approvandolo, un tratto di d'Alembert, in cui questi vuol mostrare che non potrebbe scoprirsi a priori alcuna ragione per cui un corpo tosto che non è soste- nuto sia obbligato a discendere (2). Rosmini dice: « Niente mi prova la necessità di ammettere attrazione fra corpi distanti, e m'induce a negarla la ripugnanza che mi par giacere nel suo concetto» (3). Nei filosofi ultimamente citati il principio che è la base della teoria meccanica, cioè che Timpulsione è una causa efficiente del movimento e la sola tra le (1) Saggio filos., t. VI, par. IM). (2) VI, 93. (3) Psicologia 593. — 280 — azioni fisiche che sia intelligibile, non si trova, per dir cosi, che d'una maniera incosciente; ma esso è espresso della maniera più esplicita in queste parole che Cuvier scrive nella sua Storia del progresso delle scienze na- turali : «Una volta usciti dai fenomeni dell'urto, noi non abbiamo più idea netta dei rapporti di causa e di effetto. Tutto si riduce a raccogliere dei tatti particolari e a ricercare delle pro[)Osizioni generali che ne abbrac- cino il più gran numero possibile. E in ciò che consi- stono tutte le teorie tisiche, e a (jualunque generalità sia stata portata ciascuna di esse, si è trop[)o lungi ancora dal ricondurle alle leggi dell'urto, che sole po- trebbero cangiarle in vere spiegazioni ». ^ 5. I meccanisti del nostro tempo non dichiarano meno nettamente dei meccanisti antichi che il vero mo- tivo della loro dottrina e di assegnare le cause produt- trici dei movimenti che le leggi generali a cui la scien- za riconduce i fenomeni fisici lasciano nel mistero, e di spiegare cosi queste leggi generali che senza di ciò resterebbero incomprensibili. Ascoltiamo il p. Secchi : I fisici ora cercano di conoscere la causa della gravità, quantuu(iue la nessuna necessità di conoscerla e la grande difficoltà dì assegnarne un origine ragionevole l. distolsero sino a poco tem[)o fa da queste speculazioni (1). « lY'r noi è assurdo (salvo sempre come si è detto il caso d'intervento degli enti spirituali) che il moto nella materia bruta abbia altra origine che dal moto. Noi rigettiamo quei principii detti forze ^ che non sono né spirito né materia, dei quali non è stata mai })rovata l'esistenza : essi ci sembrano mere astrazioni realizzate. Noi cerehertmio di ridurre tutti i fenomeni a mero scam- bio e comunicazione di moto e assumeremo questo scam- bio come un fatto primitivo la cui spiegazione sta nella (1) Unità (fr/ìr forze fìs,, 8 odiz., 1. IV, e. 4. 281 natura della materia» (1). Ai critici che gli obbiettano che la comunicazione del moto anche a contatto è un fatto pure misterioso, egli risponde: «Noi lo riceviamo come un fatto, e a questo come pi ìi facile a comprendersi cerchiamo ridur l'altro che dicesi da essi fatto a distan- za » (2). La spiegazione meccanica dei fenomeni fisici può solo permettere secondo il p. Secchi di fare a meno di (juesti agenti oscuri e metafìsici che si chiamano forze. Parlando della coesione, dice : « Quel legame per- tanto o è formato da forze astratte operanti a vera di- stanza ovvero dall'azione dì un mezzo. Le prime sono per noi inconcepibili perchè la piccolezza delle distanze non toglie l'essere loro assurde e perciò resta la seconda » (o).» (L'alternativa è inevitabile : o il meccanismo o le /brze). « Uno studio più profondo delle proprietà della materia ha mostrato che le forze che costituiscono i corpi e danno loro una forma determinata e dìconsì comune- mente attrazioni molecolari non dipendono da legami materiali posti fra le parti costituenti ne da principii astratti la cui azione a distanza è assurda, ma che de- vono considerarsi semplicemente come effetto dei movi- menti di cui sono dotate le masse elementari e dell'in- fluenza del mezzo in cui sono distribuite » (4). « La sua esistenza (dell'etere) ci ha suggerito congetture sulla struttura interna dei corpi per fare a meìio delle forze astratte aunnesse finora per ispiegare i fenomeni della coesione dei corpi : queste, lo prevediamo, incontreranno grande opposizione da ])arte di quelli che seguaci delle vecchie scuole pretendono che nei corjn vi sia alcuna cosa di più che materia e moto, e credono grcive errore (1) raifà (MC. 1 odiz.. e. 1. par. 2. (2) l^tiifà <'('(*., odiz. />. I. i. e. l. (8) rtiilà Vii'., 15 (mIìz.. 1. L e. o. (4) K«liz. '^. V. 2. ]). S71, Conclusione. '"^^ - 282 — - 283 negare le forze, che essi poi non sanno dirci in che consistano. Come per ispiegare certi fatti, invece della causa occulta detta lorrore del vuoto che era una /'or.a ai suoi tempi, noi ammettiamo la pressione atmosferica, cosi presentemente mediante l'etere crediamo potersi spie- gare lììoìti di (luei fenomeni che vengono attribuiti a cause egualmente occulte » (1). La teoria atomica «e indipendente dalla teoria delle forze che determinano runione di questi atomi, perchè restar può ad arbitrio di ciascuno l'immaginare o che essi siano determinati al moto da cause occulte e potenze intrinseche, ovvero che tutte le loro unioni si compiano per l'azione estrin- ^eca di un mezzo in movimento. Il fornirli dt forze astratte è certamente la cosa più comoda, ma in più luoghi abbiamo veduto la complicazione che porta un tale sistema, e l'infinito numero di forze che bisogna ammettere. Per dir poco, è quasi mestieri applicare aquesti atomi una certa intelligenza per arrivare a sa- pere se debbano agire o no; e qualche cosa che li av- visi che sta presente il soggetto su cui esercitare 1 a- zione! Questa forza poi che cosa è?- Come non si esau- risce mai ? Come è che stando essa sempre in attività e disposta ad agire su tutti i corpi, quando gliesene presentano due insieme, sull'uno agisce e sull'altro no .^ Ha essa intelligenza da scegliere? Potremmo di leggieri moltii>licare queste domande sicuri dì non averne ri- sposta, e perciò inutilmente, quindi sarà miglior partito cercare di svolgere il concetto delle forze supponendole derivate dal moto di cui è animata la materia» (2). \i luoghi citati dell'opera di Secchi se ne potrebbero ao-giungere molti altri ; ma ci contenteremo di un solo, in cui l'autore ritorna sulla supposizione dell'animazione della materia, considerandola come la sola causa imma- ginabile (se pur non vogliasi ricorrere all'azione diretta di Dio (1) o a quella di altri enti spirituali separati) capace di spiegare le azioni fisiche che non possono o non vo- gliono ricondursi alla comunicazione del movimento per l'impulsione. «Abbiamo già detto altre volte che una forza attrattiva in istretto senso, cioè come princi- pio attivo risedente nelle molecole e operante a traverso un vuoto assoluto, a noi riesce inconcepibile, percìiè tale azione dovrebbe esercitarsi dai corpi a distanza, il che è assurdo e l'esser le distanze grandi o piccole non muta la difficoltà. Se poi guardiamo la cosa in concreto, dovremmo ammettere nelle medesime molecole e - nel medesimo tempo forze attrattive e ripulsive, e operanti con certa scelta, le quali da positive verso un corpo diventino negative verso un altro, e spesso verso lo stesso corpo a diverse distanze, o a mutate temperature, o per la presenza di un altro corpo; dei quali effetti è piena la tisica e la chimica. Cosi dovrebbero moltipli- carsi questi principii nei singoli atomi in modo prodi- gioso, e dotarsi di una certa facoltà di sapere quando occorra attrarre o respingere e a tale o tal altra di- stanza e in certa direzione ! Queste sono cose inconce- pibili e assurde : e d'altra parte l'esperienza mostra che a mano a mano che si conosce la vera causa dei feno- meni tali supposte tendenze svaniscono ogni dì più » (2). Noi insistiamo su quesra opposizione tra la teoria meccanica e la dottrina delle forze^ opposizione che, nella fisica moderna, corrisponde, come abbiamo notato, alla lotta dei filosofi ineccanisti, all'epoca del rinascimento della filosofia, contro le qualità occulte degli ultimi scolastici, e a quella degli avversari di Newton contro (li 1 <^iiiz., cap. 2, par. 10. (2) 1 ediz., e. 4, par. 2. (1) V. 5 cdiz., V. 2, p. 262. (2) 1 ediz. e. 4. par. 8. 284 l'attrazione nniversale che essi condannavano come una qualità occulta. I meccanisti del nostro tempo si accor- dano a pensare, non meno che i loro predecessori del- l'epoca di Cartesio e di Newton, che la spiegazione meccanica dei fenomeni è la sola che possa bandire dalia tisica queste cause occulte che si chiamano forze. « Non si potrebbe dubitare, scriveva Lamé, che l'inter- venzione dell'etere (la quale permette di spiegare mec- eanicaniente i fenomeni fisici) troverà il secreto o la vera causa degli effetti che si attribuiscono al calorico, airelettricità, al magnetismo, all'attrazione universale, alla coesione, alle affinità chimiche; perchè tutti questi esseri misteriosi e incomprensibili non sono al fondo che delle ipotesi di coordinazione utili senza dubbio alla nostra ignoranza, ma che i progressi della scienza fÌTv'rnìiììn dì detronizzare» (1). 8aigey nel suo libro La fisica vioderna, che è una esposizione popolare delle odierne dottrine meccaniche: « Ciascuna volta che un movimento ci apparisce come la continuazione o la trasformazione di un altro movi- mento, noi possiamo passarci dell'idea di forza, e noi flovremmo riservare questa nozione per i movimenti di cui l'origine ci resta assolutamente nascosta » (2). « La nostra ipotesi bandisce le etità fallaci, (forze) di cui la fisica può essere imbarazzata » « Quando un movi- mento d'una certa specie è rimpiazzato da un altro di specie dift'erente, la ragione di questo cangiamento ci sfugge d'ordinario, ed è a causa di quest'ignoranza che abbiamo ricorso alla nozione di forza; noi diciamo che una forza si manifesta e produce tal effetto, perchè non possiamo capire i movimenti anteriori da cui quest'ef (l) Tror. ntaletnat. (teWvldstii'ìtà. (o) 1». 285 fetto risulta. — La nozione di forza fisica, dovrebbe duncjue disparire, se gli elementi della meccanica mo- lecolare fossero conosciuti» (1). — S. Robert «Secon- do (luesta maniera di vedere (la spiegazione meccanica) ciò ehe noi chiamiamo forza non esisterebbe nella na- tura; la forza sarebbe semplicemente la trasmissione di movimento. Noi saremmo cos'i liberati da queste forze a cui certi fisici attribuiscono non so qual esistenza speciale, riguardandole come degli elementi costitutivi dell'universo» (2). — Chevrier : «Dopo avervi mostrato come (juesta bella teoria dell'unità delle forze^ fisiche (che attribuisce all' urto la causa di tutti i movimenti) bandisce le entità ìuisteriose^ le cause occidte che oscurano la scienza^ io non ho bisogno di dirvi che la fisica at- tuale non ha affatto la pretensione» d'aver risoluto né (1) P. 219. — Diamo in (j^uestii Jiota un tratto del libro ili Sai<;ey vìw, ('orrispoiuU' ai due ultimi che abitiamo citati del p. Svrvhì. « Se lo mcdecidc si juJi-tauo le une verso lo altro in virtù di una causa (lic è in esso, come venite a dire^ elie esse som» iiu'rti i Esse soììo attive al contrario, e tutti» V editizio cln' voi av<!>te elevato sulTitlea d'inerzia cndla sin dalla sua base. — Che saiir dunque se dalla <»ravità noi passiamo airaftìnità chimica i Se le m(dec(de si scelgono in virtù d'un |>rincii»io che ^ in C/Sse. esse hanm» duiuiu(» un'iniziativa propria, esse hanno delle v<dontà, dei ca]n'icci ! La chimica diviene h» studio delle passioni mole- colari. X(»i andiamo a trovarvi delle simpatie e deoli odii. de- i^l'istinti vili e dei nobili sentinn^nti, delle tenerezze le«;ittime <* dejjli ardori coli>evoli, dei matrimoni telici e «Ielle unioni di- scordi, delle sojde inimicizie^ e delle lotte <'h(^ scoppian<> ! Ecco «ijl'idilli e i dranimi ehe ci presenta la cliinjica, se noi allog^jiamo nelle molecole^ un ]>rinci])io re}>ulsivo e un principio attrattivo, come si allo«i<;ia talvolta io spirito del bene e lo spirito del nelle anime umane » (i>. 141). (2) Cosa (' la forzii ì nel volume Balfour-Stenrart (^onnerrn- zionr delVeìì enfia, di risolvere mai d'una maniera completa il problema l'uni verso» (1). E come da una parte si abbraccia la teoria mecca- nica per eliminare le cause occulte dei fenomeni fisici cioè le forze, così dall'altra parte si abbracciano le forze, perchè una spiegazione meccanica dei fenomeni si ritiene impossibile. Hirn, avversario della teoria mec- canica e difensore delle forze considerate come entità reali distinte dai fenomeni, divide gli scienziati moderni ili due campi opposti. «Noi possiamo, egli dice, ricon- durre ;i due proposizioni antagoniste l'enunziato della quistione (sulla natura delle forze fìsiche in tutta la sua nettezza. 1.'^ Il movimento della materia non può nascere ehe da un movimento anteriore d'un'altra parte di materia, e che per contatto immediato di materia a materia. 2." Il movimento della materia non nasce mai direttamente e per contatto immediato. Esso si deve sempre all'azione d'un elemento specificamente distinto dalla materia, che quest' elemento ne sia d'al- tronde separabile o no. Queste due affermazioni sì op- poste dividono e divideranno ancora gli scienziati in due campi ; la prima ha oggi per sé 1' immensa mag- gioranza. Si è creduto fare una semplificazione e un progresso considerevoli sostituendo alla forza, essere mistico e incomprensibile, si dice, il movimento della materia...» {2> Questa pretesa della teoria meccanica di sostituirsi al- le forze, di eliminarle perchè rese inutili da essa, è per noi la prova più concludente del fatto che l'impulsione è ritenuta, secondo questa teoria (ed anche, in un certo sen- so, secondo gli avversari di questa teoria), una causa efitì- (1) I/uitltà delle forze fìsiche in Hec. seleni., scr. 1. t. 6. (*J) I.n no:, ili forza mila scietì^a moiL, Kev. scii'iit., str. :s. t. 10, p. i:^i. 287 ciente del movimento, una causa che è capace di spie- gare i suoi effetti, di farne comprendere la ragion suf- ficiente, e non che è semplicemente un antecedente a cui questi effetti seguono d' una maniera invariabile. Infatti, se noi supponiamo che i fenomeni fisici sono dovuti alle forze, cioè a cause sconosciute inaccessibili all'esperienza, ciò avviene perchè noi crediamo che, oltre le cause fisiche di questi fenomeni, cioè oltre gli antecedenti delle sequenze invariabili che ci presenta l'esperienza, vi hanno delle cause efficienti di questi fe- nomeni, alle quali l'esperienza non può attingere; e se noi crediamo che queste cause efficienti dei fenomeni sono altra .cosa che le loro condizioni empiriche a cui essi seguono invariabilmente, è perchè noi non troviamo alcuna connessione, alcun legame necessario e intelli- gibile fra queste condizioni e i fenomeni che loro se- guono, in una parola perchè le leggi generali a cui la scienza riconduce i fenomeni fisici, ci sembrano incom- prensibili. Per conseguenza una spiegazione di questi fenomeni che pretende di rendere inutile la supposizione delle forze e di sostituirle, è una spiegazione che pre- tende di far conoscere le cause efficienti, di scoprire la connessione o il legame necessario tra i fenomeni, di dare la ragion sufficiente delle leggi dell' esperienza, che senza di essa (cioè di questa spiegazione) restereb- bero incomprensibili. Per altro i meccanisti contemporanei dichiarano, non meno esplicitamente dei loro predecessori, che questo è il presupposto della loro dottrina, cioè che l'impulsione è un fatto dhe si comprende da se stesso, mentre ogni altra azione fisica è inconiprensibile ed anche assurda a meno che non si riconduca all'impul- sione. Per mostrare ciò, ai tratti riportati del p. Secchi ne aggiungeremo qualche altro di altri autori. Challis dice : « Quando un corpo è messo in movimento senza lì — 288 — contatto apparente ne pressione d'un altro corpo, si può tosto concludere che il corpo che pressa, (luantun- (jue invisibile, esiste, a meno d'essere disposti ad am- mettere che vi hanno delle operazioni fisiche che sono e saranno incomprensibili per noi» (1). Moigno : «Ciò che è certo è che i corpi non si attirano... Se l'attrazione esistesse, sarebbe un miracolo perpetuo (cioè un fatto superiore alla nostra ragione, incomprensibile)» (2). Baltour-Stewart : « T/ ipotesi di azione a distanza può essere fatta i)er rendere conto di qualche cosa ; ma è impossibile (come Newton l'indicava, or è lung'O tempo, nella sua celebre lettera a Bentley) per qualcuno «che lia in materia filosofica una facoltà di pensare compe- tente » di ammettere un istante la possibilità di una tal azione » (3.. Naville: «la comunicazione del movimen- to per via d'iuìpulsione o di contatto è la sola che ci sia intelligibile perchè essa si deduce dall'idea stessa della materia di cui l'essenza è d'occupare l'estensio- ne » (4) Taine (trattando la quistione se ogni fatto o leo-co ha la sua ragione esplicativa): Probabilmente tuul i cang-iamenti fisici si riducono a dei movimenti che hanno per condizioni altri movimenti. Se questa riduzione fosse vera, tutti i problemi concernenti un corpo effettivo (|ualunque sarebbero problemi di mec- canica, e tutto negli oggetti reali avrebbe la sua ra- gion d'essere (vale a dire potrebbe spiegarsi) (5). Né razione a distanza ha cessato di sembrare assurda an- che a quelli che non pretendono del resto ricondurre tutti i fenomeni fisici all'impulsione: basterà di citare (1) Phil. unu/., 4 sei-., voi. XXXI. ]». 4<>7. (2) Disserti»/, suiressenzii della materia. {'^) Ij'unicerso inrisibile, ^ ediz.. p. 100. (4) Orig. lìellafis. inod. in Her. srienUf.^ 2 ser., t. 8, p. 1081. (.5) Taine, 1/ Ì7ttflliyenza, Il parte, iib. 4, e. :^, par. :^, H. Spencer, che dice « positivamente inconcepibile» la con- cezione che la materia agisce sulla materia a traverso lo spazio assolutamente vuoto (1), e Du Bois-Reymond, che nel suo celebre discorso al congresso scientifico di Lipsia ha affermato che «la concezione di forze agenti a distanza a traverso il vuoto è in so inintelligibile e an- che contraddittoria » (2). § 6. Fra le affermazioni contenute nei tratti degli autori che abbiano citati, ve ne ha una che è impor- tante di esaminare, perchè potrebbe spargere qualche dubbio sul fatto che abbiamo voluto costatare, cioè che il motivo per cui si ritiene indispensabile di ricondurre all'impulsione tutti i fenomeni fisici, a meno di credere che questi sono e saranno per sempre inintelligibili, è che l'impulsione è la sola fra le condizioni generali del movimento, che sia considerata come una causa efficiente. L'affermazione di cui parliamo è che nell'azione a di- stanza vi ha un'impossibilità intrinseca, che essa è in- concepibile, assurda e contraddittoria. Come abbiamo detto, quest'impossibilità intrinseca dell'azione a distanza si è preteso dimostrarla, ponendo come premessa il prin- cipio che una cosa non può agire dove non è. Ma questa dimostrazione, come tutte le pretese dimostra- zioni di una cosa di fatto, di cui la sola esperienza può stabilire la verità o la falsità, non può essere che o un sofisma fondato sull'equivoco o una petizione di principio. In fatto quando si dice che una cosa non può agire dove non è, di che sorta d'azioni s'intende parlare? La parola azione ha due sensi differenti: vi han- no delle azioni immanenti, p. e. io mi muovo, e delle azioni transeunti, p. e. io muovo un corpo differente da me. Se si tratta di azioni immanenti, è certo che (1) Primi principii, paragr. 18. (2) V. H<n\ scient.. II ser., t. 7. pag. :VM*. 19 290 una cosa non può ao-ire dove noa è, p. e. io non posso muovermi dove non sono, e la rag-ione è che il modo di essere non può esistere separatamente dall'essere, l'accidente dalla sostanza. Ma non vi ha alcuna impos- sibilità di questa natura, che proibisca di pensare che una cosa può esercitare un'azione transeunte dove essa non è, cioè determinare, mediante un suo proprio can- giamento o anche per la seìiiplice presenza, un can- giamento qualsiasi in una cosa situata in un altro posto che quello in cui essa è. Che un og-getto determina per mezzo di un suo cangiamento o per la sua presenza un cangiamento in un altro oggetto, vuol dire sempli- cemente che il cangiamento di questo secondo oggetto segue costantemente alla presenza o al cangiamento del primo oggetto: una tale sequenza può essere incom- prensibile o inesplicabile, ma non contraddittoria e in trinsecamente im[)Ossibile, perchè noi possiamo in ogni caso formarcene una concezione chiara e distinta, ciò che non potremmo se vi fosse impossibilità intrinseca o contraddizione. La proposizione dunque che una cosa non può agire dove; non è, è necessaria e tale che la sua contraria implica contraddizione o impossibilità in- trinseca, ma (juando si tratta di azioni immanenti : se da questa proposizione si vuol concludere che è ugual- mente contraddittorio o intrinsecamente impossibile che una cosa eserciti un'azione transeunte sopra un'altra cosa che non è nel luogo in cui essa è, cioè che non è in contatto con essa, allora si equivoca sul senso della parola azione, passando nella conseguenza all'a- zione transeunte, mentre nel principio si parlava di un'azione immanente. Se invece per il principio che una cosa non può agire dove non è s'intende, non solo che una cosa non può fare delle azioni immanenti al di fuori di sé, ma ancora che essa non può fare delle azioni transeunti, cioè determinare dei cangiamenti, in — 291 — un'altra cosa che non è a contatto con essa, allora la dimostrazione si risolve in una petizione di principio, pretendendosi di dare come il risultato di una prova ciò che immediatamente si assume come un postulato. Una cosa di fatto non può stabilirsi né confutarsi a priori, per delle ragioni puramente logiche : quando si afferma che l'azione a distanza è intrìsecamente im- possibile, che è un' inconcepibilità, un'assurdità o una contraddizione, è a temere che si confonda con un'im- possibità logica ciò che è semplicemente una ripugnanza, senza dubbio naturale, ad ammettere un fatto. Per mo-,strare la cosa d'una maniera più chiara, bisognerà de- terminare il senso di questi termini : contradditorio, as- surdo, inconcepibile. Niente di più facile, a prima vista, ehe il determi- nare il senso della parola contraddittorio. Contraddittoria è una proposizione in cui si nega e si afferma al tempo stesso una stessa cosa: è questo, nel senso più stretto, il significato della parola contraddizione, ed è evidente che r azione a distanza non può essere contraddittoria in questo senso. Ma v'è un altro caso per cui si è di- scusso se si deve o no considerarlo come una contrad- dizione: è quando a uno stesso oggetto vengono al tempo stesso dati, non due attributi di cui l'uno è la nega- zione deiraltro, come quadrato e non quadrato (nel qual caso ci tratterebbe di una contraddizione nel primo sen- so), ma due attributi di cui l'uno è incompatibile con r altro, senza esserne però la negazione diretta : p. e. quadrato e rotondo, o tutto bianco e tutto nero. Quan- tunque sia controverso, come abbiamo detto, se in tali casi si tratti di una vera contraddizione, è certo tuttavia che nel linguaggio ordinario delle cose come un qua- drato rotondo e un oggetto al tempo stesso tutto bianco e tutto nero passano per contraddizioni belle e buone; noi possiamo perciò conformarci all'uso comune, e chia- 293 mare contraddittorio un concetto, quando esso è costi- tuito di elementi incompatibili fra di loro. Ma quando è che questi elementi sono incompatibili fra di loro? è^ come abbiamo detto nel Saggio V (1), quando ci è im- possibile di farci la rappresentazione concreta, l'imma- gine, di un oggetto di cui potessero predicarsi gli at- tributi che noi diciamo incompatibili. A parlar propria- mente, una cosa avente degli attributi incompatibili, come gli esempi che abbiamo recati di un oggetto al tempo stesso quadrato e rotondo o tutto bianco e tutto nero, non può essere pensata, ma solo espressa con parole ; noi possiamo comporre insieme i nomi di questi attri- buti incompatibili, ma a questi nomi cosi riuniti non corrisponde alcun pensiero, non corrisponde almeno al- cun pensiero concreto, voglio dire alcuna rappresenta- zione o immagine di un oggetto concreto. Lo spirito u- mano ha avuto, o piuttosto ha creduto di avere, molte nozioni che sono contraddittorie in questo senso ; ma, evidente che l'azione a distanza non appartiene a questa genere di nozioni. Che due cose distanti agiscono l'una sull'altra vuol dire semplicemente, come abbiamo detto, che r una mediante un suo proprio cangiamento 0 per la sua semplice presenza determina un cangiamento nel- l'altra; cioè che al cangiamento o alla presenza dell'una segue il cangiamento dell'altra, e che questa sequenza non è un caso fortuito, ma avviene secondo una legge o una regola invariabile di sequenza tra i fenomeni. E chiaro che noi possiamo avere la rappresentazione o r immagine dei fatti concreti corrispondenti alla no- zione di azione a distanza, (juale noi l'abbiamo espressa in termini generali : l'azione a distanza non è dunque per niente una nozione contradditoria, cioè composta di elementi incompatibili. Noi dobbiamo nondimeno osserva- (1) V. p. 431-432. Cfr. p. rì2i> e 532-533. re che se per azione a distanza non s'intende una semplice sequenza invariabile, ma s' intende invece che il corpo agente a distanza sia la causa efficiente del cangiamento determinato nelT altro corpo distante, allora 1' azione a distanza potrebbe benissimo essere considerata come una nozione contraddittoria, cioè composta di elementi in-, compatibili : infatti ci sarebbe impossibile di rappresen- tarci un caso concreto di un rapporto di causazione tra fenomeni fisici, in cui della causa potesse dirsi al tempo stesso che essa è distante dall'effetto e che è una causa efficiente 0 produttrice di quest' effetto. Ma in questo senso dire che l'azione a distanza è una nozione con- traddittoria sarebbe semplicemente enunziare il fatto che noi abbiamo voluto costatare, cioè che lo spirito umano non può considerare come causa efficiente un corpo agente a distanza, ma solo un corpo agente a contatto € d'una maniera meccanica. Passiamo ora al vocabolo «assurdo». Assurdo è in pri- mo luogo ciò che è contraddittorio: nui in secondo luogo assurdo è anche ciò che, senza essere contraddittorio in se stesso, è in contradddizione con qualche verità assio- matica. Cosi i geometri dicono di aver dimostrato una proposizione per 1' assurdo, quando essi hanno mostrato che, facendo una supposizione contraria alla proposi- zione, si cade in contraddizione con qualche assioma : in verità nelle dimostrazioni per l'assurdo basta per mo- strare r assurdità di una supposizione di far vedere che essa è in contraddizione con un teorema già dimo- strato, ma siccome non si potrebbe negare una propo- sizione dimostrata senza contraddire agli assiomi che sono le premesse ultime di ogni dimostrazione, cosi 1' as- surdità consiste in ogni caso ad essere in contraddizione con qualche assioma. Per sostenere dunque che l'azione a distanza è assurda, bisognerà ammettere (per non tornare sul caso, di cui abbiamo già parlato, in cui l'as- >^»Ke~™»*fe--?»Ì»'*" 294 surdità consista in una contraddizione intrinseca) che l'azione a distanza è in contraddizione con una verità as- siomatica. E in fatto quelli che dichiarano assurda l'a- zione a distanza ammettono come verità assiomatica, cioè evidente per se stessa, che ogni azione deve essere a contatto. Ma questa pretesa verità assiomatica non è che r espressione della tendenza naturale del nostro spirito a ricondurre ed assimilare tutti i fenomeni fisici all'azione meccanica; e così quest'assurdità che si tro- va neir azione a distanza non è al fondo che un' altra manifestazione del fatto che noi cerchiamo di mettere in evidenza, cioè che T impulsione è la sola tra le azioni fìsiche che sia naturalmente considerata come causa ef- ficiente, e quindi pure come il solo intermediario espli- cativo possibile che possa rendere ragione di tutte le altre. Se la nozione di causa efficiente ha un valore ob- biettivo, cioè, come abbiamo altra volta spiegato, se questa tendenza psicologica a spiegare le sequenze re- golari tra fenomeni di cui non consideriamo 1' antece- dente come una causa efficiente, per quelle di cui con- sideriamo r antecedeute come causa efficiente, ha un valore logico e noi dobbiamo seguirla, allora bisog^na ammettere che il principio del meccanismo è una verità assiomatica, che una vera azione a distanza è realmente assurda. Se al contrario la nozione di causa efficiente non ha un valore obbiettivo, se tra una causa efficiente e un semplice antecedente di una sequenza invariabile non vi ha una differenza reale ma solo psicologica, allora la pretesa evidenza a priori del principio del meccanismo è un sofisma a priori^ e la pretesa assurdità dell'azione a distanza una conseguenza di questo sofisma. Il nostro oggetto non è per ora di risolvere questa quistione, ma solo di trovare un dato necessario per questa soluzione, vale a dire qual è il carattere generale, che distingue le sequenze uniformi in cui consideriamo l'an- — 295 — tecedente come causa efficiente, da quelle in cui non lo consideriamo come causa efficiente. È solamente dopo aver compreso questo carattere generale che potrà ve- dersi se la tendenza del nostro spirito ad assimilare e ricondurre le sequenze del secondo genere a quelle del primo ha un valore logico, o s(i è soltanto un fenomeno psicologico, da cui è necessario di tenersi in guardia per evitare di scambiare le leggi subbiettive del nostro pen- siero con le leggi obbiettive della natura reale. Passando infine alla parola < inconcepibile», noi di- stingueremo con Stuart-Mill due sensi di questo termine. Vi ha un'inconcebilità assoluta, e vi ha un'inconcepibilità relativa, che non è unMnconcepibilità propria, ma una difficoltà a concepire, o piuttosto a credere. Una pro- posizione è assolutamente inconcepibile quando ci è af- fatto impossibile di formarci effettivamente il pensiero corrispondente alle parole di cui la proposizione è com- posta. L'assolutamente inconcepibile è dunque un non senso: noi non possiamo averne, a parlar propriamente, un'idea, ma solo (come dice Spencer) una pseudo-idea, o (come dice Wolf) un'idea illusoria, cioè possiamo, per illusione, credere di avere un'idea determinata corri- spondente alle parole pronunziate o scritte, mentre, in realtà, a queste parole non corrisponde alcun' idea. Vi hanno parecchi casi di questa specie d'inconcepibilità. Il primo caso è quello di una contraddizione in senso stretto: noi possiamo concepire separatamente, come inerenti al soggetto, i due attributi di cui 1' uno è la negazione dell'altro, ma non possiamo concepirli come inerenti simultaneamente. A ([uesto caso si deve ag- giugero l'altro, a cui, come abbiamo detto, si dà jmre comunemente il nome di contraddizione: è quando a uno stesso oggetto si attribuiscono due predicati incom- patibili. Noi abbiamo visto che in questo caso è impos- sibile di formarci la rappresentazione di un oggetta — 29G — concreto a cui convengano simultaneamente i due pre- dicati. Da questo secondo caso bisog-na infine distin- guerne un terzo : è quando ci è impossibile di legare runa all'altra due rappresentazioni, non perchè vi sia tra di esse una incompatibilità, diretta e meno ancora una contraddizione in senso stretto, ma perchè l'una di queste rappresentazioni è inseparabilmente legata con una terza che è contraddittoria o inconpatibile con l'al- tra. Come esempio di questo terzo caso d'inconcepibilità assoluta può servire la proposizione: 2 +-2 = 5. Eguale a 5 non è direttamente incompatibile con 2 + 2, degli attributi incompatibili dovendo appartenere allo stesso genere, come rotondo e quadrato, che appartengono al genere figura, tutto bianco e tutto nero al genere colore, nomo e cavallo al genere animale o corpo : ma 2 + 2 ^z=;5 non appartengono allo stesso genere, perchè il primo indica degli oggetti assoluti, mentre il secondo indica un'eguaglianza cioè una relazione. Se noi non possiamo legare l'idea di eguaglianza con le idee di 5 + 2 e di 5, è perchè le idee di 2 + 2 e di 5 sono in- separabilmente legate con un' idea che è incompatibile €on quella di eguaglianza, cioè con l'idea della rela- zione di mao'giore e minore. È in questo terzo caso di inconcepibilità assoluta che dovrebbero rientrare, se ve ne fossero, le inconcepibilità derivate da ciò che i fi- losofi inglesi chiamano un' associazione inseparabile, cioè una necessità assoluta di pensare determinata da un'esperienza invariabile : ma si può dubitare se Tespe- rienza e le leggi dell'associazione delle idee possano determinare un'assoluta necessità di pensare e quindi un'assoluta inconcepibilità. Come il terzo caso d'inconcepibilità assoluta deriva da una necessità assoluta di pensare, cosi quella che noi abbiamo chiamato inconcepibilità relativa derivada una necessità relativa dì pensare. Tina proposizione con- 297 trarla a un' altra assolutamente necessaria è una pro- posizione assolutamente inconcepibile; una proposizio- ne contraria a un'altra relativamente necessaria è una proposizione relativamente inconcepibile. Vi ha una necessità relativa di pensare e una corrispondente in- concepibilità relativa, quando vi ha tra alcune idee un legame che non è cosi forte da impedire che esse siano separate, ma che è nondimeno tale che noi non possia- mo separarle senza uno sforzo mentale. Di là segue una difficoltà analoga a congiungere con una di queste idee un'altra che è incompatibile con alcuna di quelle che le sono legate. Questa difficoltà a disgiungere le idee porta con sé una difficoltà a credere che i fatti rappresentati da queste idee non siano congiunti real- mente nella natura; e la corrispondente difficoltà a con- giungere le idee porta con sé una difficoltà analoga a credere che i fatti rappresentati da queste idee siano congiunti realmente nella natura. Un esempio classico di questa specie d'inconcepibilità, portante con sé una difficoltà a credere che non era giustificata da prove, è quella che aveva per oggetto gli antipodi. E evidente che gli antipodi non erano inconcepibili nel primo senso, cioè di una inconcepibilità propria ed assoluta. « Si poteva, dice Stuart-Mill, figurarseli nell'immaginazione; si poteva rappresentarli per la pittura e modellarli in argilla. Lo spirito poteva riunire le parti delle conce- zione; ma non poteva figurarsi che questa combinazione esistesse nella natura. L'incapacità proveniva da ciò che l'esperienza avea prodotto negli spiriti una tendenza possente ad attendersi la caduta d'un corpo che, senza proprietà adesiva, si trovasse in contatto con la faccia inferiore d'un altro corpo. Senza dubbio si concepiva che una persona potesse trovarsi agli antipodi, e lo spirito poteva rappresentarsela con la testa in basso e i piedi in alto, ma non si concepiva che fosse possibile di tener- 2^ visi senza cadere, a meno d'essere inchiodato o incollato perì piedi». La inconcepibilità dell' azione a distanza é unMnconcepibilità della stessa natura. Noi possiamo perfettamente rappresentarci dei corpi che, coesistendo nello spazio I' uno con 1' altro, si muovono per andare Tuno verso l'altro, e con una forza tanto maggiore quanto più i corpi sono vicini : ma come, nel caso degli antipodi, vi ha una difficoltà naturale a concepire e a credere il fatto (difficoltà che tuttora persiste in uno s})irito senza coltura), perchè l'associazione delle idee determina una forte tendenza ad attendersi che un corpo, quando non vi fosse niente che lo trattenesse, dovrebbediscendere nella direzione che va dalla nostra testa ai nostri piedi; così, nel caso dell' attrazione, vi ha una difficoltà analoga a concepire e a credere il fatto, per- chè l'associazione delle idee determina una tendenza press'a poco egualmente forte ad attendersi che niun cangiamento debba avvenire nello stato di un corpo per l'influenza di un altro corpo distante, e a figurarsi, quando un corpo passa dalla quiete al movimento, la presenza di un altro corpo in contatto immediato con esso o ad esso congiunto per qualche legame materiale,che lo spinge a tergo o lo tira. Una necessità assoluta di pensare e la corrispon- dente inconcepibilità assoluta sono necessariamente per noi, che che iw dica il Mili, un criterio del vero e del falso; essendoci impossibile di non credere o di mettere in dubbio ciò che noi non possiamo tare a meno di pen- sare, e di credere ciò che siamo affatto impossibilitati a pensare. Ma una semplice tendenza a credere, per quanto naturale, derivante da una necessità relativa di pensare e dalla corrispondente inconcepibilità relativa, non può essere una prova della verità. Oltre all' esistenza degli antipodi vi hanno tante altre verità che sono state pro- vate e che vengono generalmente ammesse, quantunque — 299 a priori sembrassero incredibili perchè aventi contro di sé questa specie d'inconcepibilità di cni parliamo. La ten- denza irresistibile del nostro spirito ad obbiettivare le nostre sensazioni porta certamente con sé un'inconcepi- bilità relativa della proposizione, ammessa nondimeno da tutti i filosofi, che il colore e le altre proprietà sensibili dei corpi esistono solamente nel nostro spirito, e non negli oggetti esteriori. Né vi ha dubbio che la tendenza, ri- sultante da questa inconcepibilità relativa, ad ammet- tere la credenza volgare su questo soggetto, e non la dottrina filosofica, non sia né meno forte né meno na- turale che quella ad ammettere che ogni azione tra i corpi é per contatto, e nessuna a distanza l). (1) Min l)iasiiiia Ilaiiiiltoii di aA^er introdotto un toi'zo si'uso «lolla ])aTola iiu*oiieei)il)ilità, differente al tempo stesso da quella elie noi abbiamo chiamato inconcepibilità assoluta e da quella che ab)>ianio chiamato inconcepibilità relativa. Haìnilton dice che noi non j)ossiamo «concepire la possibilità» di una cosa, «[uando non possiamo «concepire la cosa come il conseguenti», di una causa». Tutte le verità ultime della scienza, tutti i l'atti ultimi, sono per Hamilton inconce})ibili in questo senso, che per- ciò sembra a IMill una perversione completa del significato della parcda : noi non lassiamo concepire la loro possibilità, ({uantun- «pie siamo obbligati ad ammetterli come fatti, ]>erchè non pos- siamo concepirli come una conseguenza di ([ualche causa. Ma questo che a Mill sembra un terzo senso deirinconcei)ibilità ci pare identico al «econdo senso, a ciò che ablviamo chiamato in- concepibilità relativa. Così quando Hamilton dice ehe « la pos- sibilità dell'azione a distanza è ijiconcepibile, quantunque essa ]K)ssa esserci imyiosta come un fatto », egli vuol dire certamente che noi non possiamo concepire l'azione a distanza come la conseguenza di qualche causa, cioè che non vi ha alcuna causa ejfìcicnte immaginabile a cui V azione a distanza possa venire attriì»uita come un effetto. Ma dicendo così Hamilton non si allontana dal secondo senso della parola inconcepibile. L'incon- cepibilità relativa dell'azione a distanza e l'assenza di una ^'^J — 300 — — 301 — Si potrebbe non pertanto cercare di giustificare la pretensione deli' inconcepibilità anche relativa ad eri- gersi a criterio del vero e del falso per la ragione che una necessità del pensiero corrispondente a un' incon- cepibilità rappresenta, in ultima analisi, il risultato del- l'esperienza: è con questa ragione che Spencer ha pre- teso giustificare il criterio dell' inconcepibilità della negativa, che per lui è l'unico criterio della verità. Ma «bisogna, dice ottimamente Bain, tener conto pure dì questa circostanza, che, in ragione dei limiti della nostra esperienza, la forza del legame non rappresenta la ri- petizione reale dei fatti, a meno che noi non fossimo posti in modo da incontrare questi fatti tutte le volte che si producono. Ciò che è il più familiare per la na- tura può non essere ciò che è il più fajiiliare per noi. Noi non consideriamo sempre l'universo dall'alto di un punto di vista centrale e dominante » (2). Per vedere che ciò che è il più familiare per la natura può non essere ciò che è il più familiare per noi, basta confrontare il gran numero di fenomeni d' attrazione che conosce la scienza, col piccolo numerò che ne può conoscere il fan- ciullo e l'uomo senza cultura. Questi si riducono quasi unicamente all' attrazione esercitata dall'ambra e dalla calamitata, fenomeni che si osservano con la più vìvsl curiosità, perchè riguardati d' una natura singolare e causa otìicieute che possa farcela coiiipreiulere, uon sono che due aspetti d'uno stesso fatto. Tutti i fatti inesplicabili, cioè di cui non possiamo ininia «binare la causa efficiente, sono rela- tivamente inconcepiì)ili ; (ifiindi tutti i fatti uitimi sono relati- vamente inconcepibili. Questo fentuneno psicologico, che ha l'a- ria di un paradosso, è stato ben conosciuto da Bacone, il quale dice clie le interpretazioni della natura, all'opposto delle anti- cipazioni delV esperienza, « sembrano strane, incredibili, malso- nanti e come altrettanti articoli di fede». * (2) Lof/ica t. 1. Appendice, D. assolutamente eccezionale. I fenomeni dell' attrazione universale, della coesione, dell'affinità chimica, per non parlare degli altri fenomoni di attrazione dovuti all' e- lettricità e al magnetismo, non contano per nulla nel- r esperienza dell'uomo che si limita a raccogliere pas- sivamente le impressioni degli oggetti circostanti. La frequenza di questi fenomeni nella natura, supposto che essi non possano ricondursi, come vogliono i msccanisti, all'azione a contatto, non sarebbe inferiore a quella dei fenomeni d'impulsione e di trazione: tuttavia l'inlluenza di questi ultimi nel determinare le associazioni delle nostre idee resterebbe sempre estremamente più grande che quella dei primi, perchè essi sono i soli che ci col- piscono ad ogni momento nella nostra esperienza gior- naliera. Quanto le nostre necessità di pensare e le no- stre inconcepibilità (le relative) potrebbero essere diffe- renti, se noi fossimo gli spettatori continui delle trasla- zioni dei grandi corpi dell'universo e delle piccole molecole, come lo siamo di quelle degli oggetti familiari che ci stanno d'attorno ! Allora l'inconcepibilità dell'a- zione a distanza potrebbe, non solo disparire, ma anche essere sostituita da un' inconcepibilità contraria, cioè avente per oggetto 1' azione a contatto. Se infati noi ammettiamo le idee della fisica moderna sulla costitu- zione molecolare della materia, non vi ha alcuna con- tiguità reale fra le parti di un corpo che ci sembra continuo: la contiguità percepita dai nostri sensi non è dunque che apparente ; ma allora ogni contatto tra i corpi potrebbe essere illusorio, e ogni apparente azione a contatto potrebbe essere in realtà, come del resto molti fisici credono, una azione a distanza. La teoria meccanica è stata sottoposta a una critica fatta coi cri- teri della filosofia dell' esperienza nell'opera di Stallo La materia e la fisica moderna : non sarà inopportuno di citare quest' autore, dopo averne citati tanti che in-— 802 — culcano i principii di questa teoria come verità evidenti e necessarie. « La stessa percezione, egli dice, primi- tiva, sommaria ed incompleta dei dati dei sensi (che secondo lui ha dato luogo air ipotesi della solidità as- soluta della materia nei suoi elementi costitutivi) ha fatto nascere quest'altra ipotesi che ogni azione fisica è dovuta a un urto. La sola azione mutua tra icorpi che sia direttamente apprezzabile dalla vista e il tatto, è il cangiamento per collisione nel loro stato di riposo o di movimimento. L'urto è dunque la più antica e la più fa- miliare di tutte le azioni osservabili di un corpo su di un altro. Quando 1' urto si produce tra due solidi mo- ventisi con prestezze differenti, o (ciò che è lo stessoì tra un solido in movimento e un altro solido in riposo, l'os- servatore ordinario non vede niente di più che lo spo- stamento d'un corpo per l'altro e il trasporto diretto di movimento. Questo spostamento e questo trasporto sono supposti immediati, e i corpi sono supposti assoluta- mente rigidi. Ma quost' osservazione del fatto è tanto grossolana quanto l'interpretazione ne è inesatta. Uno studio più attento dei fenomeni mostra che non vi ha alcuno spostamento immediato; che non vi ha trasporto diretto di movimento; che i corpi non sono assolutamente rigidi; che l'urto dei solidi, semplice in apparenza, forma tutta una serie molto complessa di circostanze, com- prendente non solo 1' azione e la reazione diretta, ma pure la compressione e l'espansione alternativa, la ten- sione e il rilassamento dei legami di coesione e di cri- stallizzazione, la trasformazione dei movimenti retti- linei in movimenti vibratori, dei movimenti di trasla- zione in movimenti molecolari, lo spiegamento e 1' as- sorbimento dell'energia: in breve, dei cangiamenti, mo- mentanei, se non durevoli, di tutte o quasi tutte le pro- prietà dei corpi fra i quali l'urto si produce. In presenza di tutto ciò, che domanda la teoria atomo-meccanica, — 308 — parlando di non ammettere tra i corpi altra azione mu- tua che l'urto? Essa domanda che le prime impressioni rudimentarie e non ragionate del selvaggio senza cultura siano per sempre la base di ogni scienza possibile» (1). Ma la quistione del valore dell' inconcepibilità (re- lativa) come criterio del vero e del falso non è, nel caso dell'azione a distanza come in una gran parte degli altri casi, che un aspetto della quistione fondamentale se la nozione di causa efficiente abbia o no un valore ob- biettivo. Ciò è perchè 1' inconcepibilità (relativa) e la corrispondente necessità (pure relativa) di pensare non sono, nel caso dell'azione a distanza come in una gran parte degli altri, che uno degli aspetti di questo feno- meno del nostro spirito, di cui il concetto di causa ef- ficiente è l'espressione astratta. Perchè intatti l'azione a distanza è inconcepibile? Noi abbiamo visto che ciò è perchè non vi ha alcun legame tra l'idea della presenza di un corpo o di un suo cangiamento e (|uella di un can- giamento nello stato di un altro corpo distante separato dal primo per un intervallo vuoto; mentre vi ha invece un legame molto forte fra 1' idea del movimento di un corpo e quella di un altro corpo che, mettendosi in con- tatto con esso, lo spinga o lo tiri — il (juale legame se non è tale da determinare un'inseparabilità assoluta tra le due idee e quindi una necessità assoluta di pensare, basta però a determinare una difficoltà a separare le due idee e quindi una necessità relativa di pensare—. Ora dire che non vi ha alcun legame tra l'idea delPan- tecedente e quella del suo convegnente equivale a dire che il primo non è considerato 4;ausa efficiente del se- condo; come dire che fra l'idea dell'antecedente e quella del conseguente vi ha un forte legame che determina una necessità di pensare equivale a dire che quest' an- (1) Stililo. 7j(i tnaterid e la ^fìsictt moderna, cai». 11. — 304 — tecedente è considerato causa efficiente. Infatti il carat- tere distintivo della causa efficiente (che la differenzia dal semplice antecedente di una sequenza invariabile) è appunto il leccarne necessario fra la causa e l'effetto, e questo non può essere che un legame mentale, perchè nel reale stesso, indipendentemente dal nostro pensiero,, non vi ha necessità ne possibilità, ma solamente realtà. CAPO IV. origine e sviluppo dell'idea di causa efficiente §1.1 principi su cui è fondata la filosofia meccanica costituiscono la prova più concludente contro la teoria volizionale della causalità. Poiché l' impulsione è na- turalmente anch' essa considerata come una causa effi- ciente, cade og'ni pretesa di considerare la volontà come il fatto unico che ci dà la percezione della causa effi- ciente e perciò come il tipo unico di questo modo di causazione. Se non vi fosse che un fenomeno unicoy come pretende la teoria volizionale, a cui gli uomini attribuissero il carattere di causa efficiente, all'opposto di tutte le altre cause, che verrebbero semplicemente riguardate come gli antecedenti di sequenze invariabili, non sembrerebbe forse tanto incalzante la quistione : quale sia questo carattere essenziale che si trova in questa sequenza unica, il cui antecedente è una causa efficiente, e non si trova nelle altre sequenze, i cui antecedenti non sono cause efficienti. Ma giacché noi conosciamo più sequenze di diversa specie in cui si manifesta que- sto rapporto di efficienza causale, noi vediamo subito che deve trovarsi egualmente in tutte queste sequenze una circostanza comune, per cui esse si distinguono dalle altre sequenze in cui non si manifesta alcun rap- 20 #::porto di efficienza causale. Si sarà forse contenti di dire che <iuesta circostanza comune che si trova nelle prime sequenze e non si trova nelle sei-onde, è appunto ((uesto carattere o questo complesso di caratteri, i)er cui la no- zione di causa efficiente si distingue da quella di sem- plice antecedente di una sequenza invariabile? Ma questi caratteri sono puramente lìsicologici: essi non apparten- o-ono alle sequenze considerate obbiettivamente, ma con- siderate rapporto al sog-getto conoscente; in altri termini essi sono delle circostanze che accompaonano non le sequenze stesse, nia le nostre concezioni di queste se- quenze. Queste circostanze, come abbiamo detto, si ri- ducono alle tre seguenti: !"• La causa efficiente, si dice, all'opposto di un semplice antecedente di una sequenza invariabile, ha con Teffetto un rapporto necessario. Ciò si2-nifìca ch(5 quando noi concepiamo una sequenza in- variabile di cui consideriamo l'antecedente come causa efficiente, la nostra concezione è accompagnata da un certo sentimento di necessità, sentimento che manca net'-li altri casi. Ora la necessità non consiste in altra cosa che in un forte legame tra le nostre idee, legame di cui la forza è tale nei casi estremi, cioè (|uando la necessità è assolata, da rendere le idee assolutamente insepara])ili : la necessità dunciue, ch'essa sia assoluta 0 relativa, non è che un fenomeno mentale; la sua pre- senza o la sua assenza non è un carattere distintivo delle cose, ma delle idee di queste cose. 2*> Una legge della natura, una se(iuenza invariabile tra fenomeni, di cui Tantecedente è considerato causa efficiente, ci sembra intelligibile ed evidente per se stessa: le altre leggi, cioè le altre se(pienze iuvaria))ili, ci sembrano incomprensibili ed ines[)licabili, sinché almeno non siano state ricondotte alle prime. Ora la comprensibilità e l'incomprensibilità non sono anch'esse se non fenomeni mentali: togliete il soggetto intelligente, e non vi sarà più differenza tra il comprensibile e l'incomprensibile. III. Noi abbiamo una tendenza a credere che le sequenze, il cui antecedente è considerato come causa efficiente, sono delle conoscenze puramente razionali, cioè a priori : che questa apriorità sia reale o illusoria, si tratta sempre d'un carattere sub- biettivo, appartenente alle nostre concezioni, e non alle cose concepite. Così tutti i caratteri, che l'analisi della nozione di causa efficiente può fornirci per distinguere le sequenze invariabili di cui 1' antecedente è consideratocausa efficiente, dalle altre sequenze invariabili, non consistono che in un'impressione determinata che le prime fanno sul nostro spirito a differenza delle seconde: ora non dobbiamo noi ammettere che questa differenza di effetti mentali abbia un perchè nelle sequenze stesse, cioè che vi sia una circostanza determinata, che trovan- dosi nelle prime, e non trovandosi nelle altre, fa che solo le une a differenza delle altre, siano proprie a pro- durre nel nostro spirito tali effetti determinati ? Cer- chiamo questa circostanzza comune nei due gn-andi tipi di efficienza causale che ci presenta la storia del pensiero, vale a dire l'azione volontaria e la comunicazione del movimento per l'impulsione. Se astrazion facendo dai caratteri puramente men- tali, cioè la intelligibilità, la necessità e l'apriorità, vera 0 supposta, del rapporto tra la causa e l'effetto, noi cer- chiamo in che la volontà e l'impulsione, come cause del movimento, differiscono dalle altre cause, che sono con- siderate, non come cause efficienti, ma come semplici condizioni o antecedenti a cui il movimento segue inva- riabilmente, noi non troviamo che una circostanza co- mune per cui le prime si distinguono dalle altre: la pro- duzione del movimento per la volontà o per l'impulsione sono delle sequenze regolari di fenomeni, in cui non può scoprirsi niente di più che nelle altre sequenze re- golari di fenomeni; semplicemente esse ci sono assai più — 308 — familiari che tutte le altre, questa è tutta la differenza. Questi modi di produzione del movimento possono nella natura non avere più importanza degli altri, essi pos- sono essere anche dei fenomeni rari ed eccezionali; ma per la nostra esperienza di tutti i giórni essi costitui- scono la regola, noi siamo infinitamente più abituati ad essi che a tutti gli altri. È per questa grande familia- rità che l'azione volontaria e l'azione meccanica ci sem- brano intelligibili in se stesse, e tali da non aver bi- sogno di spiegazione e da poter servire anzi di spiega- zione a tutti gli altri fenomeni della natura. Una sequenza di fenomeni, che ci è molto familiare, ci sembra spiegarsi da se stessa; noi non ne domandiamo il perchè, poiché essa sembra portare in se stessa la sua ragion sufficiente (1): in quanto alle altre sequenze, noi sentiamo il bisogno di spiegarle, e come ? assimi- landole e riconducendole a quelle che ci sono molto familiari; se quest' assimilazione ci è impossibile, esse ci sembrano inesplicabili e misteriose. Non vi ha forse un fenomeno psicologico più importante per la teoria della conoscenza e per la intelligenza della storia del pensiero. Non bisogna credere che T atto volontario e l' im- pulsione siano i soli fenomeni intelligibili e che portano in se stessi la propria spiegazione: tutti i fenomeni fa- miliari sono tali, solamente non ve n'è alcun altro che sia proprio come i due primi a servire da intermediario esplicativo universale per gli altri fenomeni. Noi abbiamo visto che delle forme dell'attività interiore dello spirito, (1) « Assiduitate «iiiotidiaua et oonsuetiiaine ociiloruni as- suesciiiit animi: iieque adniirantur, ncque requirunt rationes earuni rerum quas semper vident. perinde (luasi novitas non magm quam magnitudo rerum debat ad exquirenda8 cau.sas excitare ». Cicero De Natura deorum. II, 95. - 309 — come l'attività costruttrice dell'immaginazione e l'atti- vità razionale che lega le conclusioni alle premesse, sembrano anch'esse dei fenomeni intelligibili, in cui i con- seguenti hanno con gli antecedenti una connessione evi- dente e naturale, e che l'intelligibilità che troviamo in questi fenomeni è la base di una spiegazione del mondo (l'idealismo). Or è chiaro che tali azioni interne dello spi- rito non sono meno familiari che la sua azione esterna sul mondo dei corpi, e che noi possiamo perciò attribuire an- che in questi casi l'intelligibilità del fenomeno alla sua familiarità. In quanto alle azioni puramente fisiche, ri- cordiamo che Locke trova la divisione di un corpo per la intrusione di un altro un fatto cosi intelligibile come l'impulsione (1): anche qui la familiarità del fenomeno spiega perfettamente la sua intelligibilità. La trazione, che tra le azioni fisiche è pure una di quelle che ci sono più familiari, non ci sembra anch'essa meno intelligibile dell'impulsione, nò meno capace di servire da interme- diario esplicativo. Se potessimo supporre, come dice Eule- ro (2), che il sole, per attirare la terra, si serve di una corda o di alcun altro dei mezzi di cui noi ci serviamo per tirare, ovvero, come dice Galileo, (3) che ciò che ob- bliga la luna a seguire la terra è che questi due globi sono legati insieme con una catena o infilzati ad un'asta (ammettendo, come i primi astronomi, che i movimenti dei corpi celesti siano circolari); è certo che queste sup- posizioni, se esse fossero possibili, spiegherebbero i fe- nomeni dell'attrazione d'una maniera non meno Intelli- (1) V. e. Ili ^ :^. (2) V. e. Ili ^ 4. (8) Didloghi sui mussiìni sisteìuì, giornata terza, nota 1 — n;;ta importante in cui Galileo, precorrendo Xewton, ideutitica al peso dei corpi terrestri l'attrazione che la terra esercita vei;so la lumi — . 310 gihile che l'ipotesi deirimpulsione di corpuscoli invisibili. La coesione non sarebbe spieg-ata meno intelligìbilmente, se potessimo supporre, come dice il p. Secchi (1), dei le- gami materiali fra le molecole, o se l'atomistica moderna potesse ammettere, come l'antica, che i corpi solidi sono costituiti di atomi terminanti ad uncini, che s'intralciano gli uni negli altri; noi comprenderemmo allora perfetta- mente perchè, spostando alcuna delle parti costitutive di un solido, tutte le altre devono seguirla. Lo stesso sarebbe se potessimo annnettere che questo solido è realmente con- tinuo, e non costituito di molecole separate, come vuole la fìsica moderna; anche allora cesserebbe di essere un mistero perchè tutte le altre parti costitutive del corpo siano obbligate a seguire quelle, che qualche forza esteriore, ad esse applicata, ha per effetto immediato di muovere. La coesione non è un mistero che nell'ipotesi delle molecole separate; essa è perfettamente intelligibile in quella della continuità assoluta : perchè ? perchè una simile azione esercitata tra masse separate non è per noi un fatto familiare, mentre è un fatto familia- rissimo, esercitata tra le parti di una massa continua. É perciò che il meccanista sente il bisogno di spie- gare la coesione tra le particole che costituiscono un corpo sensibile, ma non sente alcun bisogno di spiegare la coesione tra le parti che costituiscono un atomo : egli considera quest'ultima come un fatto perfettamente intelligibile e che si spiega da se stesso, perchè tali ci sembrano i fenomeni che ci sono molto familiari, e la coesione tra le parti di un continuo è uno di questi fenomeni. Notiamo che il mistero che la teoria della costituzione molecolare dei corpi introduce nella coe- sione, si estende necessariamente anche alle due altre azioni tisiche che per l'intelligibilità abbiamo parago- (1) V. e. Ili v^ 5. - 811 — nate all'impulsione, cioè la trazione e la divisione di un corpo per l'intrusione di un altro, per il rapporto che questi fenomeni hanno con la coesione - Oltre la coesione tra le parti dell'atomo, vi ha un altro fenomeno indipendente dairimi)ulsione che l'antica hlosotìa mec- canista ammette come primitivo, cioè come intelligibile per sé stesso, e non aveste bisogno di spiegazione : è, lo abbiamo già detto, il peso (1), fenomeno che forniva ad Epicuro la spiegazione dell'origine prima del mo- vimento. Che un corpo debba cadere all'ingiù, (piando non vi ha niente che lo trattenga, è un fenomeno dei più familiari, e perciò sem])rava ai meccanistì greci una cosa perfettamente naturale e che si com[)rende da (1) (Pulite (lice: « ., i farti più s<Miipli«i e inù (mhiiuiiì som» 8tati sempre riuuanhiti (-(Miie soo^etti a le>^i;i natnnili iiiveee d'essere attrilmiti alhi volontà arbitraria «le-li a-vuti sopraìi- naturali. L'illustre A. Smith lia p. e. molto telireineiite (»sscr- vato, liei suoi sao-.-i lìlosoliei. elu^ non si trovava, il. aleuu tempo lu' iu aleuu paese, iiu dio per il i^^so. K eosì in -«^uere, anche a ri-'uardo dei so.i^'-etti pili complicati, verso tutti i l'encuueui assa^ eleiueutari e assai familiari i»erche la i>ertetta invariabilità delle loro relazioni ettettive abbia dovuto sempre c<»lpire sikmi- tjmeameute l'osservatore meno iu-ei»arato », (%>mte conclude da questo fatto « che il -erme «dcnuMitare della tìlosoiia positiva è certamente così primitivo al ton(h) che ([uello della tib)s<»1ia teido-ica stessa, quautumiue uou abì)ia i)otuto svilupparsi che ìmdt(M)iii tardi», [Cor^o dì p. posit. v. IV, le/. Tìl). Sarebbe forse invece più "iusto di vedervi non il -«M-me «Iella filosofia iM^sitiva. ma piuttoslo «tiiello di una lilosolia d'un'indole opposta, ed es- senzialmente identica alla tilosolìa tc^do-ica nel suo ininci]no fon- damentale, che è di mm <-ontentarsi dei rai^porti -cnerali tra i fenomeni, ma di cercarne // mo(h rssn^-ialr tii in-nduzioiie. se- guemhMinesta tendenza del nostro spirito, per cui <-rediamo na- turalmente che i fatti i)iii familiari si comprendono da se stessi, e che tutto il resto deve essere s]ne.oa.to i»er mezzo di (luesti fatti. mmmtmmBmemmmmmtm •se stessa : a noi sembra invece un fenomeno per se stesso incomprensibile, e che ha bisogno d' un intermediario esplicativo, perchè la scienza moderna l'ha ricondotto all'attrazione universale, che è un fenomeno che non è per niente familiare (1). § 2. I rappresentanti più insigni della filosofìa em- pirista hanno perfettamonte compreso quest' importante fenomeno psicologico. Bain dice : « I fenomeni che ci sono familiari ci sembrano non aver bisogno di spiegazione *e anche poter servire alla spiegazione di tutti i fatti che possono loro essere comparati». «L'azione volontaria, in ragione della sua familiarità, è stata lungo tempo riguardata come si semplice, che serviva per ispiegare tutte le altre azioni » ^2). E altrove : « E perchè il peso non può essere assimilato all'impulsione prodotta da un urto, da un colpo, che si è disposti a considerarlo come misterioso. In fatto nondimeno non vi ha più mistero •da un lato che dall'altro. L'attrazine a srrandi distanze 111 verità . prima ancora the il peso venisse ricondotto all'attritzionc universale, esso avea ^ià cessato di essere il feno- meno familiare della nostra es])crienza «giornaliera. Quando si con«)bbe clic i gravi non cadono (iWingih, ma verso il centro della terra, il peso cominciò a divenire incomprensibile, perchè noi non siamo familiari che col fatto che i corpi cadono all'in- giù, cioè nella direzione dalla Jiostra testa ai nostri piedi : la inconcepibilità dc<;li {nitijMMli si riduceva al fondo alla inconi- prensil)ilità di <piesto fatto che. in quel lato del globo, i gravi invece di diseeiulere dovevano salire (cioè andare nella dire- zione dai nostri piedi alla nostra testa), c<»iitrariamente alle nostre esperienze più familiari. Così la tendenza a spiegare nieccanicamente il jk'so e anteriore alla scoverta deirattrazione universale, perchè anche prima di questa scoverta il jieso era già divenuto incomprensiliile per se stesto, benché non così mi- sterioso come dopo. (2) Hain Lof/ica, t. 2. I. 'A. e. 12, n. h). è una forma della produzione della forza; la repulsione a distanze vicine ne è un'altra forma. L'ultima ci è più familiare: ecco tutto» (1). Stuart Mill nel capitolo della Logica che ha per titolo Spiegazione delle leggi della ria, tura, dopo aver mostrato che spiegare un fatto partico- lare è stabilire la legge o le leggi di causazione di cui la sua produzione è uno dei casi, e che spiegare una legge della natura è indicare un'altra o delle altre leggi, di cui essa non è che un caso particolare, e da cui essa potrebbe dedursi, dice : « La parola spiegazione è qui presa nel suo senso filosofico. Spiegare una legge della natura per un'altra è solamente, come suol dirsi, sosti- tuire un mistero ad un altro ; il corso generale della natura non ne resta meno misterioso, perchè noi non possiamo di più assegnare un perchè alle leggi più generali che alle leggi parziali. La spiegazione può ìnet- tere un mistero divenuto familiare e che per conseguenza sembra non essere più un mistero, al posto di un altro che è ancora strano per noi-, e nel linguaggio usuale questo é tutto ciò che s' intende per ima spiegazione. Mail processo di cui si tratta qui fa spesso tutto il contrario; esso risolve un fenomeno che ci è familiare in un altro che noi conosciamo poco o punto; come p. e. allorché il fatto volgare della caduta dei corpi pesanti è ridotto alla tendenza di tutte le molecole materiali le une verso le altre. Bisogna dunque non mai perdere di vista che quando, nella scienza, si parla di spiegare un fenomeno, ciò vuol dire (o dovrebbe voler dire) assegnare a questo fine, non un fenomeno più familiare, ma solamente un fenomeno più generale, di cui il fatto a spiegare è un esempio parziale, ovvero alcune leggi di causazione che lo producono per la loro azione combinata o successiva, e per le quali, per conseguenza, le sue condizioni pos- (1) L. 3, e. XII. 7. — 314 - sono essere deduttivaiiiente determinate ».— Osserviamo che la spiegazione metafisica (cioè quella, non solo dei metafisici, ma anche. di quei fisici che sono sordi al- l'ammonimento di Newton : Fisica, guardati dalla me- tafisica !) è una spiegazione, non nel senso filosofica (cioè scientifico), ma nel senso popolare, come la causa- lità metafisica non è il concetto scientifico, ma il con- cetto popolare, della causalità — . Stuart Mill non ha mancato di assegnare quest'ori- o-iiie alla teoria volizionale della causalità e alla spie- gazione del mondo che corrisponde a questa teoria, tl.a successione del volere e del movimento, egli dice, è una delle sequenze più dirette e più istantanee che ci oft'ra l'osservazione, e di cui Tesperienza ad ogni istante ci è familiare sin dall'infanzia, più familiare che alcuna successione d'avvenimenti esteriori al nostro corpo e sovratutto che alcun altro caso d'apparente ge- nerazione (e non di semplice comunicazione) di movi- mento. Ora è una tendenza naturale dello spirito di cercare a facilitarsi la concezione dei fatti che non gli sono familiari assimilandoli ad altri che lo sono. Per conseguenza, i nostri atti volontari essendo per noi i casi di causazione più familiari di tutti, sono sin dal- l'infanzia e nella gioventù presi spontaneamente per tipi della causazione in generale, e tutti i fenomeni sono supi)Osti prodotti direttamente dalla volontà di qualche essere senziente >. Questa tendenza spontanea dell'intel- ligenza, continua il Mill, a spiegarsi tutti i casi di causazione assimilandoli agli atti d'agenti volontari simili all'uomo, costituisce la filosofia istintiva dello spirito umano nella sua prima fase, prima che si sia familiarizzato con le successioni invariahili tra i feno- meni esteriori ; e anche dopo, « le suggestioni della vita di tutti i giorni essendo più forti che quelle della riflessione scientifica, la filosofia instintiva originale tìiàsmssài^^a^mem 315 — conserva il suo terreno sotto i rampolli ottenuti dalla coltura, e li impedisce costantemente di radicarsi profon- damente nel suolo. È di questo substratum che si ali- menta la teoria che io combatto (cioè la teoria secondo la quale « la produzione d'un avvenimento per causa di una volizione porta con sé la sua spiegazione, nuMitre l'azione della materia sulla materia esige qualche cosa di più per essere spiegata, e non è concepibile che sup- ponendo l'intervento di una volontà tra la causa ap- parente e il suo effetto apparente»). La sua forza non risiede negli argomenti, ma nella sua alleanza con una tendenza tenace dell'infanzia dello spirito umano» (l). (1) Lo<z:. 1. :^, (-'iip. 5, pjinigr. J).— In queste parole di Mill, ili cui si sente l'intluenzji della teoria dei tre stati di A. C'onite, teoria a cui il iìlosofo inglese aderisce, vi hanno delle asserziimi che non mi sembrano vere se non ristrette dentro certi limiti. Il Mill parhi di ([uesta tendenza ad assimilare i fenomeni della natura ai nostri atti volontari, e a credere che quest'assimila- zione costituisce la spiegazione <li <iuesti fenomeni, come se essa fosse propria particolarmente dairinfanzia dello sjnrito umano (sia nella vita della specie che in (piella dell'individuo). h> non so se <iuesta tendenza sia più forte nella nostra infanzia e nella nostra gioventù che nella nostra età matura ; ma ^ certo cho essa si manifesta con più energia nei primi stadi della civiltà, energia che i progressi della coltura hanno per eftetto d'inde- l)olii-e. Ciò non pertanto non hisogna concluderne che questa tendenza sia particolarmente propria di un grado piuttosto che di un altro dello sviluppo dello si)irito umano; essa non e, come ammette il Mill, che un caso della tendenza generale che ci ^i)in<'-e ad assimilare i fatti che non ci sono- familiari a quelli 1 che lo sono, e a credere che quest'assimilazione costituisce la spiegazione di questi fatti, spiegazione che è la sola che possa farceli conqu-endere; ora non vi ha motivo per ammettere che (piesta tendenza generale apjiartenga i>articolarmente all' infan- zia dello spirito umano, e manchi, o vada indeholendosi, nella sua maturità. I progressi della coltura possono avere i)er risul- .X' .VI'" Bacone aveva anch'egli insistito su questa apparente intelligibilità dai fatti familiari e la tendenza a spie- tato di neutralizzare questa tendenza nei suoi effetti, ma la tendenza stessa, malgrado tutto, persiste e persisterà sempre in tutta la sua forza, essendo un fatto naturale e inevitabile dello spirito umano. Un filosofo può ben segnalare questo fatto come un'illusione naturale; egli non può sottrarre il suo spirito a quest'impulso istintivo, quantunque possa riconoscere che sa- rebbe un errore il seguirlo, come, per usare il paragone di Kant, l'astronomo stesso non ])uò imi)edire che la luna gli sembri più grande al suo levarsi, benché egli non sia punto ingannato da quest'apparenza — Vi ha un'altra affermazione di Mill che noi non possiamo aujmettere iu tutta la sua generalità : è che l'atto volontario viene preso spontaneamente come tipo unico della causazi(Mie in generale. Se Comte pensava così (quantunque an- ch'egli, come abbiamo visto, fosse costretto ad ammettere delle eccezioni alla sua regola) è perchè egli ignorava l'origine della spiegazione rolieionale dei fenomeni, vale a dire questa tendenza naturale del nostro spirito a spiegare i fenomeni che non ci sono familiari, assimilandoli a quelli che lo sono. Ma Mill che conosceva assai bene questo fatto psicologico, non avrebì)e do- vuto ripetere Comte; tanto più che egli afferma, contro la teo- ria volizionale della causalità, che delle successioni j)uramente fisiche e materiali, se esse sono divenute familiari al nostro spirito, vengono anch'esse considerate come perfettamente na- turali, e lungi d'aver bisogno di spiegazione, servono alla spie- gazione delle altre, e anche alla spiegazione ultima delle cose in generale. I Greci potevano, egli dice, nell'assimilazione di fatti tìsici ad altri fatti tìsici trovare la specie di soddisfazione mentale che produce ciò che noi chiamiamo una spiegazione, soddisfazione che, secondo i fautori della teoria v(dizionale, noi non potremmo procurarci ora che rapportando i fenomeni a una volontà. L'umido, l'aria o i numeri (Talete, Anassimene, i Pitagorici) avevano sulla loro intelligenza assolutamente la stessa virtù di loro rendere intelligibile quello che, senza di ciò, era per loro inconcepibile, e davano la stessa soddisfazione ai bi- sogni della loro facoltà pensante. Quantunque questi esempi hln«««tMÉ6twii»j.>->.>..«,. ..^„„.^,^, ^,^„ i - 317 gare tutti gli altri fatti assimilandoli ad essi ; e non è questo il minore dei suoi titoli per esser nominato il non ci sembrino bene scelti (perchè l'umido o l'aria erano con- siderati come il sustrato permanente delle cose e non come la ragion sufficiente, o la causa efficiente, degli avvenimenti, e in quanto ai numeri pitagorici, non si vede in che essi potessero essere utili alla intelligenza dei fenomeni) ciò non toglie nondime- no che la proposizione, che essi servono ad appoggiare, non sia perfettamente vera. Il Mill va anche sino a considerare come un fatto accidentale e individuale, e non come un fatto neces- sario e generale dello s[)irito umano, (questa capacità che si trova neir azione volontaria a spiegare i fenomeni che possono esserle assimilati e a fjirceli parere più intelligibili. Dopo aver parlato di Leibnitz, il quale « lungi di ammettere che la volontà sia la sola specie di causa avente l'evidenza interna della sua efficacia, e ch'essa sia il legame reale tra gli antecedenti e i conseguenti tìsici, voleva qualche antecedente tìsico, natural- mente e per se efficiente, per servire di legame tra la volizione stessa e i suoi eftetti », e dei cartesiani, a cui sembrava incon- cepibile l'azione dello spirito sulla materia, e che lu-etendevano che fosse inqjossibile che un fatto materiale e un fatto mentale potessero essere causa l'uno dell'altro, conclude: «L'inconcepi- bile o il concepibile ò una circostanza tutta accidentale, e che dipende interamente dalle esperienze e dalle abitudini di pen- sare degli uomini : degl'individui possono, per conseguenza di certe associazioni d'idee, essere incapaci di concepire una data cosa qualunque, e divenire in seguito capaci di concepire molte cose, per quanto inconcepibili avessero potuto sembrare dai>prima; e gli stessi fatti che per una persona determinano nel suo s]>i- rito ciò che è concepibile o no, determinano jmre quali sono nella natura le sequenze che gli parranno sì naturali e idausi- bili che non hanno bisogno d'altra prova che l'evidenza <lella loro luce propria indipendentemente da ogni esperienza e da, ogni spiegazione » (e tali i>erciò da poter fornire gl'intermediari esplicativi alle altre sequenze). Non vi ha regola di decidere fra una teoria di questo genere e un'altra ; ciascun teorico fa- cendo appello ai suoi sentimenti subbiettivi ; ciascuno elevando 318 padre della filosofìa empirista. «Quando (gli uomini) incontrano dei fatti rari, essi vogliono, egli dice, asse- ti leg^o (leiriutelli«^oiiza umana e della natura la successione particolare di fenomeni che «ili sembra più concepibile e più naturale delle altre, solo percll^ <^li è la più familiare. {Lo- (jtca, l. 8. ca}). 5, jiara^r. \)). Similmente altrove, parlando della nmssima che una cosa non ]>uò a«;ire dove non è. e della pre- tesa assurdità dell'azione a distanza, che impedì allo stesso Newton di ammettere la pravità come una ju'oprietà essenziale della materia, dice : 11 fatto dell'azione a contatto « pareva naturale e affatto semplice a Newton, perchè era familiare alla sua immatrinazione, mentre l'altro per la ragione contraria "li semlu-ava tropjM» assurdo per essere ammesso. Noi siamo fami- liarizzati con l'uno e l'altro fatto : noi li trovijimo eguabnente inesplicabili, ma egualmente facili ;i credore ». {Lofjica, l. V. e. 'ò. paragr. 8. Cfr. il mio S(if/f/io i." pag. 548-."i41M. Sonc» altre affermazitmi che non possiamo jimmettere senza fare delle ri- serve. La concepibilità o la inconceinbilità di determinate pro- posizioni, r apparente intelligibilità o inintelligibilità di deter- minate successioni di fenomeni, non sono relative a certe epoche o a certi individui, ma accom]>agnano costantemente lo spirito umano in tutti i tempi e in tutte le condizioni. Dato il inmto di vista da cui, in <[uanto uomini, siamo obbligati a liuanlare la natura, ([ucste successioni di fjitti che sono talmente familijiri da parere intrinsecamente evidenti. (^ da determinare <juei lega- mi così stretti tra le nostre idee che danno luogo alle proposi- zioni le cui contrarie si dicono inconcepibili, sono invariabil- nuMite le stesse per tutti gl'individui, a tutte le epoche e in tutte le condizioni. L'immo dovrebbe cessare <li essere ciò che è o la natura esteriore dovrebbe cangiare, prima (he al posto di queste sequenze di femnneni potessero sostituirsi delle se- quenze diverse tali da poter determinare delle conceinbilità e delle inconcepibilità, e. mi sia lecito di dir così, delle intellioi- bilità e delle inintelligibilità, diverse dalle attuali. Ben può l'uomo di scienza abituare sino ad un certo punto il suo pen- siero a nuove sequenze di fenomeni diverse da quelle con cui res]»erienza (luotidiana lo mette continuamente in c(>ntatto, ma 319 — lutamente spiegarli ; ed essi credono riuscirvi rappor- tandoli e assimilandoli ai fatti più comuni ; quanto a questi fatti sì comuni, essi non sono affatto curiosi di conoscerne le cause, ma le ammettono puramente e semplicemente, riguardandoli come altrettanti punti ac- cordati e convenuti Noi crediamo anche che niente non ha più nociuto alla filosofia che questa disposizione naturale che fa che le cose frequenti e familiari non hanno il potere di sve- gliare e di fissare l'attenzione degli uomini, e eh' essi le riguardano con)e di passaggio, poco curiosi di co- noscerne le cause, di sorta che vi ha molto meno spesso bisogno di eccitarli ad istruirsi di ciò che essi ignorano che a fissare la loro attenzione sulle cose co- nosciute » (Ij. E altrove, dopo avere stabilito che il queste nuove sequenze non cesseranno mai di sembrargli strane e incomprensibili in se stesse e tali da esser nec(Nssario, per c<nnprenderle, l'intervento di (|ualche interìne<liario esplicativo, perchè (sono i)arole dello stesso Mill) le suggestioni della vita di tutti i giorni saranno sempre piìi forti cIkì quelle della ri- flessione scientilica. «Quand'anche, come dice un ;nitore che noi citeremo un po' più giù. si dessero ai fancinlli dell'avvenire i Princlpii di Newton per primo libro di lettura, l'attrazimie tra le molecole, i>er cui la scienza spiega la caduta dei corpi pe- santi, sarà sempre meno familiare che la caduta del corpo ju-i- mitiva : essa parrà sempre; <|uindi oscura e misteriosa, e la Cìi- duta primitiva non ha cessato di senil»rare intelligibile se non in ([uanto la legge generjile per cui viene spiegata le ha comu- nicato e seguiterà sempre a comunicarle la lu-opiia inintelligi- bilità. In ([uanto alla incomprensildlità dell' azione volontaria noi mostreremo più giù perchè questa successione di fenomeni, quantu<iue non abbisi cessato di essere una delle inii familiari, sembri nondimeno, sotto un certo aspetto, aver perduto la sua intelligibilità primitiva : e vedremo che si tratta di una di «[uelie eccezioni, che, come si dice, confermano la regola. (1) N. Organo 1. 1, Afor. 110). mito di Cupido simboleggia la legge più universale della natura, dice : nella « ricerca delle cause naturali vi ha un termine in cui bisogna saper fermarsi, e doman- dare o cercare qual è la causa d'una forza primordiale o d'una legge positiva della natura non è meno man- care di tìlosofia che non domandare o cercare quelle delle cose che, essendo subordinate ad altre, sono su- scettibili di spiegazione. Così è con fondamento che i saggi dell' antichità suppongono che Cupido è senza padre, cioè senza causa. Ora quest'osservazione su cui insistiamo qui è tutt'altro che indifferente; io oserò an- che dire che ve n'è poche così importanti, perchè niente non ha più contribuito a snaturare la filosofia che la ricerca che ha per oggetto il padre e la madre di Cu- pido : io voglio dire che la più parte dei filosofi, invece di ammettere puramente e semplicemente i risultati deir osservazione relativamente ai principii delle cose, di prenderli per così dire quali la natura li presenta, di adottarli come una sorta di dottrina positiva che non si è obbligati di provare e di cui non si deve doman- dare la prova, e come delle specie d' articoli di fede fondati sull'esperienza stessa, hanno voluto dedurli da certe osservazioni puramente grammaticati, dalle regole della dialettica, da piccoli corollari matematici (1), dalle nozioni comuni e da altre sorgenti simili che non sono a parlar propriamente che i prodotti variati degli scarti dello spirito umano, piccole risorse a cui esso si ag- grappa, allorché si getta fuori della natura. Cosi ogni uomo che studia la natura deve avere costantemente (1) È la tìlosotìa diìnostvativa o apriorista. Noi vedremo in sejjuito il rapi)orto di <j[uesta di tìlosotìa con la tendenza di eni ora parliamo (ehe c'03tituÌ8ce la metafìsica spontanea del nostro spirito) a spiegare tutti i fenomeni per quelli che ci sono i più familiari.321 — presente allo spirito questa verità, che Cupido non ha né padre né madre, verità che l'impedirà di perdersi m congetture tanto vaghe quanto inutili, e di prendere le parole per le cose. Quando lo spirito umano vuol ge- neralizzare, egli va sempre troppo lungi; egli abusa delle proprie forze, e dopo aver passato il termine che la natura gli ha segnato, egli ricade nelle sue idee più familiari^ e ritorna così al punto donde è partito: per- chè, vista la debolezza e i limiti naturali dell' intendi- mento, le idee che gli sono più familiari, quelle, io di- co, che può rappresentarsi facilmente, concepire tutte insieme e legare per dei rapporti essendo ordinariamente quelle che lo colpiscono e lo affettano di più, ne segue che quando è pervenuto a queste proposizioni univer- sali a cui r esperienza stessa l'ha condotto, egli non vuole contentarsene e fermarvisi ; ma allora cercando qualche verità più conosciuta che quelle che egli vuole assolutamente spiegare, prende le proposizioni che lo hanno di più affettato o sedotto, e s'immaii^ina trovarvi delle spiegazioni più soddisfacenti e delle dimostrazioni più rigorose che nelle proposizioni universali che egli avrebbe dovuto ammettere puramente e semplicemente. >•> {Dei principii e delle origini) (1). (1) Tra i tilosoti contemporanei il fatto psicologico di cui parliamo ò stato esposto ottimatiiente anche da Clifford ( V. Lo scopo e ffli strìimcnti -del lavoro scientifico in Rev. seicnt. 2. ser. t. 8. ]). 518-51})). Oomandandosi che cosa sia spiegare un fatto, l'autore comincia per presentare come esempio di spiega/Jone quella della legge dell'accrescimento della pressione dei gaz proporzionalmente alla diminuzione del volume mediante l'ipo- tesi che un gaz si compone d'un numeri enorme di [)iccole mo- lecole sempre in movimento e ui-tantisi fra di loro, (si mostra in questa spiegazi(me che il numero degli urti d'una folla di molecole di (lucsto genere contro le pareti del vaso in cui sono con- tenute, varierchbc esattamente coiu»'. si vede variare la pressio- 21.^-.' .^,_k.' JJ"B'X:..iJX«^5^ ~ 322 — Dopo il gìh dettò la nozione di causa efficiente ci sembra perfettamente spiegata, e non è quindi senza ne). I fatti per cui quella le^ii^" viene spiegata sono dei feno- meni ben familiari e della nostra esperienza giornaliera. È un fatto ì)en noto e familiare quello d^in corpo che urta in una supertìcie e poi riml)alza: noi sappiamo per la nostra esperienza giornaliera che quando la distanza ò metà minore, non bisogna al eorjK) che un tempo metà minore per ritornare. Al contrario la proj>orzione rigorosa tra la ])ressione e la densità ò per noi un fatto relativamente strjino e poco familia-e. «La spiegazione lu-esenta il fatto sconosciuto e poco familiare come composto di ciò che è conosciuto e familiare : e tale h, mi sembra, il vero Benso (Iella parola spiegazione ». Non è sempre necessario che un f(^nonieno sia spiegabile. « Perchè un fenomeno sia suscettibile di s]>iegazione, esso deve decomporsi in elementi più semplici che ci siano già familiari. Ora in primo luogo il fenomeno può esso stesso essere semplice, e per conseguenza indecomponiì)ile; e in secondo luogo esso può decomporsi in elementi che siano per noi così poco familiari e così poco maneggiabili che il fenomeno pri- mitivo.—È una spiegazione del movimento della luna il dire che è un corpo che cade, ma che va sì i)resto ed e sì lontano che cade dall'altro lato della terra, facendone il giro invece di arrivarvi, e clic ([uesto movimento continua senza cessa. Ma non ò una spie- gazione il dire che un corpo cade in virtìi della gravitazione. Ciò vuol dire che il movimento del corpo può decomi)orsi nei mo- vimenti di ciascuna delle sue molecole verso ciascuna delle mo- lecole della terra, con un' accelerazione in ragione inversa del quadrato delle distanze tra loro. Ma quest'attrazione tra due molecole sarà sempre, mi sembra, meno familiare della caduta del corpo primitivo, <xuand'anche si desse ai fanciulli dell' av- venire Newton per primo libro di lettura. L' attrjizione essa stessa può si)iegarsi i Le Sage <lice che vi ha una grandine ])erpetua <li inccole moleccde d'etere innumerevoli, in tutte le direzioni, e cbe le due molecole materiali si ri])arano mutua- mente da (questa grandine, e sono così spinte l'una verso 1' al- tra. È <]uesta una spiegazione : essa \mò essere vera o falsa* L'attrazione può essere un fatto semplice primitivo ; o può com- — 323 — sorpresa che leggiamo in Mill delle parole come le se- guenti : Per certe scuole « la nozione di causalità im- porsi di fatti semplici assolutamente differenti da tutto ciò che noi conosciamo sin qui ; e nell'una o l'altra di queste ipotesi, non vi ha spiegazione. Noi non siamo dunque in dritto di con- cludere che l'ordine dei fatti può sempre spiegarsi » È evidente che Clifford dà alla parola spiegazione uno solo dei due sensi distinti da Mill, il senso popolare, che, come abbiamo notato, è identico a <iuello metatisico. Lo Stallo nell'opera già citata La materia e la fisica mo- derna, in cui egli presenta la teoria atomo-meccanica come un prodotto delle illusioni naturali dello spirito umano, riconosce pure il fatto psicologico su cui qui insistiamo, e se ne serve per ispiegare l'origine di (piella teoria. Nel brano già citato è così che egli spiega l'origine dell'ipotesi che ogni azione tisica è dovuta a un urto. E poco prima avea detto : « 11 progresso della nostra conoscenza riposa sull'anologia — su una riduzione dello strano e dello seonosciiito ai termini del familiare e del coìioseitito—ln un certo senso è vero, come lo si ò detto spesso, che ogni conoscen?5a è riconoscenza, L' uomo stabilisce costan- temeule delle comparazioni, dice Pott (Ulc. etimol.) tra il nuo- vo che si presentH a lui e l'antico ch'egli già conosce. Lo svi- luppo del linguaggio mc^stra che è così. Il grande agente del- l'evoluzione del linguaggio è la metafora, il passaggio d' una parola dal suo senso ordinario e ricevuto a un altro analogo. Questo trasporto del nome designante una cosa conosciuta e fa- miliare a una cosa sconosciuta e inaccosturaata è il tipo dell'o- perazione che la lo spirito tutte le volte che aborda dei feno- meni nuovi e strani. Egli assimila (piesti fenomeni ai fenomeni conosciuti ; riduce ciò che è straordinario e raro ai termini di ciò che è ordinario e comune. Ciò che si presenta dapprima ai sensi è nello stesso tempo il fatto più antico e il più persistente nella coscienza, e resta così fissato come essente il più fami- liare.» È perciò, secondo l'autore, che si suppone che la parti- cola solida, l'atiuno. è l'elemento primo d'ogni esistenza mate- riale ; perchè la forma solida ò la prima conosciuta e la più fa- miliare. 11 che non ci sembra esatto, poiché potrebbe ammet- plica una sorta di lo «airi e misterioso che non esiste né può esistere tra un fatto fisico e un altro fatto fisico tersi che la forma gazo -sa iioii ò cosi familiare eonie la forsolida ( [cerchi', come osserva l'autore, (jiiella forma non è riguar- data sul i)rinei[)io come nuiteriale, e le parole designanti vento o soffio, animus, spiri tus, Geist, gliat, ecc. sono, anche nelle lingue dei popoli civilizzati, i termini che designano 1' opposto fondamentale della materia); ma come negare che la forma li- quida è ed è stata ugualnu^nte familiare sin dall'infanzia dello spirito umano ? ^la ciò in cui, secondo me, 1' autore merita anche meno di essere approvato, è che egli vuol ricondurre questa tendenza dello spirito a spiegare i fatti che non ci sono familiari aasimiland(di a <iuelli che lo sono, ad un' altra ten- denza secondo lui \n\\ fondamentale, cioè a identificare con l'ordine di genesi delle nostre idee sulle cose l'ordine di <»'e- ncsi delle cose stesse. La supjjosizione della identità di questi due ordini (supposizioiu; di cui egli mostra un esempio nel principio di Spinoza che l'ordine e la connessione delle idee sono gli stessi che l'ordine e la connessione delle cose) h una di (pielle che. implicitamente o esplicitamente, si trovano alla base di ogni speculazione metafisica o ontologica, e che l'autore chiama errori strutturali dell'intelligenza. Noi pensiamo invece che il fatto primordiale è la tendenza a spiegare i feno- meni che non sono familiari assimilandoli a quelli che lo scmo (fatto istintivo comune a tutti gli uomini), e che la supposizio- ne (propria di alcuni tìhhsofi) che l'ordine e la genesi delle cose corris]>onde all'ordine e alla genesi delle idee, non ne ò, come mostreremo nel cap. 7, che una conseguenza indiretta. Quando Stallo considera come due conseguenze d'una stessa supposizio- ne il principici di Spinoza die 1' ordine e la connessione delie idee corrisiM)ndono all'ordine e alla connessione delle cose (prin- cipio che è realmente il fondamento di tutta una tendenza filo- sofica e non del solo sistema spinozista), e la tendenza a spie- gare i fatti poco familiari e nuovamente acquisiti alla n(»stra conoscenza, assimilandoli ai più familiari e \m\ anticamente co- nosciuti, egli scam])ia una vaga anah)gin con una identità reale. Nel princijjio di Spinoza si tratta d'un ordine logico, d'un'an- — 325 — al seguito del quale accade invariabilmente e che si volirarmente la sua causa : e di là si conclude teriorità e d'una posteriorità logica tra le idee (l'ordine clie vi ha tra le premesse e le conclusioni), e si sui)pone che questo stesso ordine, questa stessa anteriorità e p<»steriorità, esista tra le cose stesse, ])erclie s'identifica il rap])orto reale tra hi causa e l'ett'etto col rai)i)orto lo(jieo tra il principio e la conse,gue:iza. Ma nell'altro caso non può trattarsi che d'un' sinteriorità e pi»- steriorità cronolofjiea, non loffiea.'Yi poi, perchè una supposizione meritasse il nome di errore strutturale dell' intelligenza (e tale dovrebbe essere realmente una supiK)sizione che fosse il fonda- mento e l'origine di ogni speculazione metafisica o ontologica), non basterebbe che tutte le nozioni metafìsiche o ontcdogiche potessero ricondursi a<l essa, se non fosse inoltre mw di ([uei preconcetti che tutti gli uomini, filosofi o no, ammettono come dei principii evidenti i)er se stessi. Ma tale non è sicuramente la supi)osizione che l'ordine della genesi delle cose deve corri- spondere all'ordine della genesi dei concetti, uè ([nella j»iìi ge- nerale della (luale Stallo semlira considerarla come un caso jiar- ticolare, e la quale egli riguarda come il fondamento ultimo di ogni speculazione metafisica, cioè «che vi ha una corrispondenza fissa tra i concetti e la loro filiazione da una parte e le cose e la loro dipendenza mutua dall'altra.» Quale il fatto psicolo- gico naturale, costante, necessario da cui dipende (Questa fatale illusione dello spirito umano, questo errore strutturale della no- stra intelligenza? «Quest'errore fondamentale, risponde Stallo, è in gran parte dovuto a un'opinione fallace sulla funzione del lini» uaji l'io nella f(»rmazione e la fissazione dei concetti. All' in- }£rosso, i concetti sono la significazione delle pari>le; (piesta circo- stanza che le parole designano originariamente delle cose o almeno de<'*li ooii'etti di sensazione e la loro azione mutua sensibile ha dato nascita a certe sui>posizioni ingannevoli » (quelle che l'au- tore chiama errori strutturali dell' intellig(mza). Anche noi am- mettiamo che tutte le nozioni metafisiche non sono che uno svi- luppo di certi errori strutturali dell'intelligenza : ma questi se- condo noi sono dei fenomeni connaturati allo spirito umano, dei fatti permanenti, necessari, istintivi, degli errori che tutti aiu- — 326 - alla necessità di rimontare più alto, sino alle essenze e alla costituzione intima delle cose, per trovare la mettianio o siamo inclinati ad anunettere come delle verità evi- denti per se stesse. È un fatto istintivo t^uest'obbiettivazione spontanea delle nostre sensazioni, cpiesta eostruzione di un mondo materiale indipendente da^j^li esseri senzienti, formato di oggetti aventi grandezza, forma, colore e tutti gli tiltri attributi che non appartengono se non alle sensazioni stesso, mondo di cui nondi- meno tutti gli uomini ammettono o hanno la più forte tendenza ad ammettere la realtà come una verità evidente per se stessa. È un fatto istintivo ([uesta tendenza ad assimilare le sequenze tra i fenomeni che non ci sono familiari a q^i^^^^ ^'^^ 1^ sono; ed è ammesso o si ha una forte tendenza ad ammettere come una verità evidente per se stessa che una delle prime sequenze si spiega e si comprende quando è assimilata a qualcuna delle seconde e che invece è inesplicìibile e incomprensibile tutte le volte che quest' assimilazione non è possibile. È da questi ed altri simili errori ammessi come verità evidenti per se stesse, da questi ed altri simili fatti istintivi (che noi d'altronde cer- cheremo (li dedurre dalle leggi generali dello spirito) che de- riva tutta la metafisica ; è solo così che noi possiamo vedere in essa una fase necessaria della evoluzione naturale del pen- siero umano. Noi sentiamo quanto sarebbe artificiale una teoria che vedesse in questo prodotto naturale dello sviluppo del pen- siero, al cui punto di partenza si trovano le illusioni naturali di cui abbiamo parlato, una semplice conseguenza di certe opinioni fallaci sulla funzione dei termini generali. — Daltronde sarebbe impossibile di ricondurre, se non d'una maniera troppo forzata, tutti i sistemi e tutte le nozioni della metafisica alla supposi- zione « che vi ha una corrispondenza fissa tra i concetti e la loro filiazione da una parte, e le cose e la loro dipendenza mu- tua dall'altra. » Su questa supposizione propriamente non è fon- dato che il sistema di Hegel e gli altri sistemi congeneri, cioè quelli che realizzano le nozioni astratte e generali, e introdu- cono fra di esse un incatenamento logico continuo, in modo che la genesi o lo sviluppo della conoscenza s' identifica con la ge- nesi o lo sviluppo delle cose stesse. Ma siccome Stallo è stato - 327 - causa vera, la causa che non è solamente seguita dal- l'effetto, ma che lo produce. » E altrove ^<Era impossi- bile che si pervenisse in una fase molto primitiva del progresso del pensiero umano, a questa convinzione che la conoscenza delle successioni e delle coesistenze dei fenomeni è la sola che ci sia accessibile. Gli nomi ni non hanno mai cessato di sospirare presso qualche altra conoscenza né di credere che vi siano perveimti, e che, una volta acquisita, essa si trova essere, di qual- che maniera indefinibile, infinitamente più preziosa che una semplice conoscenza di successioni e di coesisten- ze. » Ciò che ci sorprende in queste parole di iMill è che egli trova il legame, che si ammette tra la causa effi- ciente e il suo effetto, misterioso e tale che non può esistere fra un fatto dell'esperienza e un altro, e crede indefinibile la maniera in cui la conoscenza delle con- nessioni costituite da questo legame, differirebbe da quella di una semplice congiunzione tra fenomeni (senza connessione). E tuttavia il Mill non ignora i caratteri un hegeliano, così l'hcgoUiuiismo è restato per lui il ti]>o unico di <pialsinsi mctatìsica. verificandosi in (luesto caso ciò che egli chiama il terzo errore strutturale dell' iutelligeuza. per cui i femniu^ni più l'aniiliari e più anticamente conosciuti divengono il tipo a cui si riconducono tutti gli altri— Prima di finire que- sta nota, aggiuìigerò che questa tendenza del nostro spirito a riguardare i tatti familiari come int(dligibili per se stessi e. a ricondurvi tutti gli altri per is])iegarli, è stata più o meno bene intravista da tanti altri filosofi ((piantuniiue non ne abbiano ri- conosciuta tutta la portata), fra cui basterà d'indicare Male- branche,^K/^. della ver. 1. 2. p. 2. e. 2.), Condillac (Say. orig. conose. umane. Del met. e. 1.), Degenerando [Star, campar, dei sist. di jìloH. — opera che contiene molte giuste e utili conside- razioni sulla natura della speculazione metafisica - 1. ed. t. 2. p. 501), Schopenauer (Il mondo eome voi. e rappresent. trad. frane. ^^^SS^SMSSSK - 328^^ ^ per cui il leg-ame ch'egli dichiara misterioso e indefini- bile può definirsi ; e^li sa ciò che distino^ue la connes- sione tra la causa efficiente e il suo effetto da una sem- plice sequenza invariabile, cioè la capacità delJa causa a spiegare l'effetto e la pretesa conoscibilità a priori e il leg-ame necessario ; e sa pure che questi caratteri noi li attribuiamo naturalmente, o sianìo inclinati ad attribuirli, a certe sequenze tra fenomeni che non si distinguono dalle altre che per la loro grande familia- rità, quale quella tra la Volizione e il movimento vo- luto, che serve di base alla più parte delle spiegazioni metafisiche (1). (1) V. Log. 1. 3. e. V. par. \), Filos. di Hamilt, cap. XVI, cap. XXVI, cap. XXVIU verso la tino, ecc. In (questi luoghi riconosce che i partigiani delle cause efficienti (e della vo- lontà come causa efficiente) attribuiscono ad esse i caratteri in- dicati. A dir vero, egli non definisce mai il concetto di causa efficiente, non dice mai in che si distingue da quello di un sem- plice antecedente di una seiiuenza invariabile. Di più egli è lungi dal riconoscere che questo concetto non è un' invenzione dei metafisici, ma h il concetto spontaneo che lo spirito umano si torma della causalità. Nella sua profonda analisi della causa- zione, che la riduce a una semplice sequenza invariabile, ciò di cui egli non sembra accorgersi è che la sua analisi si applica alla nozione scientifica della cautsazione, non alla nozione six>n- tanea e popolare. È come (luando analizzando il concetto di ittateria, ch'egli riduce, come si sa, a sensazioni e imssibiiità di sensazioni, egli pretende che nell'idea volgare e naturale dei corpi non vi sia altro che questo. Mill è certamente il più gran- de rappresentante dell'empirismo dopo Hunie : questi mette in confiitto i risultati della rifiessione filosofica con le credenze naturali, e giunge ciosì allo scetticismo ; il primo nega la diffe- renza fra gli uni e le altre. Per salvarsi dallo scetticismo, non ì)Ì8ogna negare questa difterenza, ma spiegare l'origine delle ultime, ciò che mostrerà al tempo stesso che esse non lianno alcun valore obbiettivo. IftaMflMiMtegaeKiifa-M! — 329 — § 3. Qualunque la filosofia oggi predominante re- leghi esclusivamente le cause efficienti nella regione del- l'inconoscibile, e faccia cosi dell'efficienza causale ossia del rapporto tra la causa efficiente e il suo effetto qualche cosa che differisce ^o^o .(^e/zere da qualsiasi rapporto cau- sale conosciuto cioè da qualsiasi sequenza tra fenomeni (ed è perciò che l'efficienza causale può sembrare un le- game misterioso e indefinibile)'^ ciò non pertanto un po' di riflessione renderà evidente che, benché lo spirito umano, a un certo grado dello sviluppo della nozione di efficienza causale, pervenga naturalmente a non am- mettere se non delle cause efficienti assolutamente me- taempiriche, vale a dire tali che l'esperienza non potrebbe esibirne alcun esempio ne alcun tipo, pure la nozione stessa di queste cause metaempiriche non può avere la sua base e la sua radice che nelle idee delle causazioni empiriche e fenomenali che noi conosciamo. Noi abbiamo già osservato che la dottrina positivista sulle cause ef- ficienti, secondo la quale queste sarebbero reali, ma inaccessibili alla nostra conoscenza, è logicamente priva di base e contraria ai principi fondamentali della filosofia dell'esperienza: se l'esperienza non ci presenta ehe delle semplici sequenze invariabili, se non vi ha alcun caso in cui noi possiamo osservare la efficienza causale o, come dice Comte, il modo essenziale di produzione dei fenomeni, che cosa proverà che, oltre agli antecedenti delle sequenze invariabili che noi osserviamo, vi hanno ancora delle cause efficienti V che vi ha un' efficienza causale, un modo essenziale di produzione, distinto da una semplice sequenza invariabile di fenomeni, che è il solo rapporto causale di cui noi abbiamo potuto costatare l'esistenza V E donde avrebbe potuto venirci la nozione di efficienza causale o di modo essenziale di produzione distinto dal semplree rapporto di sequenza invariabile, e quella di causa efficiente distinta dal semplice ante- — 330 — cedente di una tale sequenza, se non vi ha nella nostra esperienza alcun rapporto di sequenza che ci abbia dato l'impressiono di un'efficienza causale, alcun antecedente che ci abbia dato l'impressione di una causa efficiente? Questa dottrina adunque lascia la nozione di causa effi- ciente ing'iustificata e ingiustificabile al punto di vista on- tologico, inesplicata e inesplicabile al punto di vista psi- cologico, ed essa non sembra ammissibile, che sinché si rig-uarda questa nozione come una cosa si naturale che non occorre discuterne il valore o ricercarne l'ori- gine ; il difficile è di comprendere la necessità di una tale discussione e di una tale ricerca, ma, compresala una volta, diviene evidente che l'idea di causa efficiente (qualunque sia il suo valore obbiettivo) non può avere la sua sorgente che nell'esperienza, a meno di supporre che in questo caso particolare lo spirito proceda ecce- zionalmente per un cammino diverso da quello che egli seg-ue neir acquisizione di tutte le sue altre idee. Ne segue che qualsiasi causa efficiente nìetaempirica lo spirito umano concepisca, conoscibile o inconoscibile, per quanto si suppong-a differente dalle cause efficienti empiriche, deve in ultima analisi modellarsi sul tipo di queste, perchè la nozione di causa efficiente non ne è orig-inariamente che una g-eneralizzazione, e j)erciò i caratteri che definiscono la nozione g-enerale di causa efficiente (caratteri che devono ritrovarsi in tutte le forme e applicazioni particolari di essa, anche le più lontane dalla sua origine) non possono essere altra cosa che i caratteri comuni alle nozioni di queste cause efficienti empiriche particolari da cui essa è stata dedotta. Ora una causa efficiente empirica non essendo che l'antecedente di una sequenza molto familiare, per con- seguenza sono le particolarità proprie alle idee delle sequenze molto familiari che costituiscono i caratteri essenziali per cui l'idea di causa efficiente si definisce, 331 o per cui una eausa efficiente si distingue da un sem- plice antecedente di una sequenza invariabile. La prima particolarità è, come abbiamo detto, che le sequenze familiari sembrano perfettamente naturali e comprensi- bili per se stesse, in altri termini che i loro antecedenti sembrano spiegare (nel senso popolare della parola spie- gazione) i loro conseguenti, o esserne la ragion suffi- ciente, mentre al contrario le sequenze non familiari sembrano strane e incomprensibili, e pare che vi sia bisogno per comprenderle dell'intervento di un interme- diario esplicativo, per cui esse possano venire ricondotte e assimilate ad alcuna delle sequenze più familiari. Così il primo carattere del nexus tra la causa efficiente e il suo effetto, che distingue una causa efficiente da un semplice antecedente di una sequenza invariabile, è che la causa efficiente non si limita a esser seguita costan- temente dall'effetto, ma spiega quest'effetto o ne è la ra- gion sufficiente, ed è anche capace di servire da inter- mediario esplicativo di quelle sequenze invariabili il cui antecedente non è una causa efficiente, cioè non spiega il suo conseguente o non ne è la ragion suffi- ciente, ma ha con questo un semplice rapporto di con- giunzione senza connessione—Un altro carattere del nexus tra la causa efficiente e il suo effetto è la necessità: non solo noi sappiamo che la causa è seguita dall' effetto, ma sentiamo che essa deve esserne seguita. La neces- sità, come abbiamo notato, non è propriamente che una modalità dei nostri giudizii, e non è che per una sorta di metafora che si trasporta alle cose stesse : noi diciamo un fatto necessario, come diciamo una cosa bella o un'a- zione buona ; questi attributi sono relativi al soggetto percepente e giudicante, e non avrebbero significato senza questa relazione. Attribuendoli alle cose stesse, noi vogliamo dire semplicemente che l'impressione del soggetto percepente e giudicante non è arbitraria e ac- - 332 - cidentale, ina che essa è costante, e che noi ci atten- diamo naturalmente da tali cose che esse devono pro- durre tali impressioni. Cosi il legame necessario tra la causa e l'effetto si riduce al sentimento di necessità che accompagna il nostro pensiero, quando noi giudichiamo che tal causa sarà seguita da tale effetto. Questa neces- sità, che noi sentiamo nel nostro pensiero e che traspor- tiamo nelle cose stesse che ne sono l'oggetto, consiste, come abbiamo detto, in uno stretto legame fra le nostre idee, che può giungere sino al punto da rendere queste idee affatto inseparabili, quando diciamo che la neces- sità è assoluta : nel nostro caso in verità la necessità non è assoluta, cioè tale che il contrario sia assoluta- mente impensabile, ma è il più alto grado di necessità che possa trovarsi in un legame tra idee formato dal- l' esperienza per le leggi dell' associazione. È evidente che questo grado di necessità deve accompagnare quelli che sono stati formati dalle sequenze più familiari. Noi abbiamo visto che le sequenze familiari producono delle associazioni si forti tra le nostre idee, ehe il nostro pen- siero non può se non con difficoltà dare al fenomeno conseg'uente un antecedente diverso dall'abituale: è cosi che noi pensiamo, o siamo naturalmente inclinati a pen- sare, che è necessario (e i filosofi hanno spesso dichia- rato che è una verità necessaria) che il movimento della materia inanimata deve essere causato da un movimento anteriore di un' altra materia a contatto, che la causa che fa cominciare un movimento nella materia non può essere che lo spirito, che 1' appropriazione di mezzi ad un fine non può essere che l'opera di un' intelligenza, ecc. Se la ripetizione frequente delle esperienze può a- vere la conseguenza di rendere inconcepibile il conse- guente senza l' antecedente familiare e di far sembrare necessario che esso si produca al seguito di questo solo antecedente, a più forte ragione potrà avere quella di - 333 rendere inconcepibile l'antecedente senza il conseguente familiare, e far sembrare necessario che questo si pro- duca al seguito di quello, poiché gli stessi effetti possono essere determinati da cause differenti, ma le stesse cause determinano sempre gli stessi effetti. Alla necessità del rapporto tra la causa efficiente e il suo effetto è legato un altro carattere, cioè che questo rapporto sembra una conoscenza razionale, indinpendente dall'esperienza, in una parola una conoscenza a priori. Si sa in eft'etto che la più parte dei filosofi vedono nella ne- cessità di una proposizione la prova che questa proposi- zione non è un risultato dell'esperienza, ma una cono- scenza a priori — ciò che, come mostreremo altrove, non è un semplice pregiudizio filosofico, ma una credenza natu- rale—.Questo carattere dell'apriorità, dell'evidenza razio- nale, sembra talmente proprio al nexus tra lac.iusa efficien- te e il suo effetto, che Hume e i filosofi scoz^josi hanno ne- gato la possibilità di conoscere le causefficieenti, perche in- dipendentcmiente dall' esperienza, cioè a priori, non si potrebbe prevedere che una data causa sarà seguita da un dato effetto. Ora il proprio delle sequenze familiari è che esse sembrano conoscibili a priori, per la loro evidenza intrinseca e indipendentemente dall'esperienza. Lo stesso Hume dice: «Quando si tratta di avvenimenti coi quali ci siamo familiarizzati sin dalla nostra nasci- ta.... noi siamo inclinati a crederci capaci di scoprire questi effetti per il semplice uso della ragione, senza invocare il soccorso dell' esperienza. Noi ci facciamo anche illusione sino a credere che, (quando non facessimo che comparire a questo mondo all'ora che è, noi potrem- mo pertanto giudicare, al primo colpo, che una palla essendo spinta contro un' altra, la metterebbe in movi- mento, e pronunciare su ciò con certezza, senz' aver bisogno d'attendere l'avvenimento». '1) E in effetto, nel (1) Saggio 4. nBRWMMPMPIM") — 834 - cap. 3. abbiamo citati parecchi autori, i quali pensano la comunicazione del movimento da un corpo ad un altro per mezzo dell'impulsione è una verità a prioche si può conoscere, come dice Hume, « per il semplice uso della ragione, senza invocare il soccorso dell'espe- rienza». I sostenitori della teoria volizionale della cau- sazione ammettono pure che noi abbiamo immediata- mente la coscienza del potere della nostra volontà a mettere in movimento le nostre membra (1), e i loro av- versari, come Hume e Mill (2), mostrano contro di essi che questo potere si conosce come tutti gli altri fatti per l'esperienza, e non anteriormente ad essa, come suppone la dottrina che la volontà è una causa efficiente.il Mill con- viene tuttavia che è «una credenza naturale all'uomo » che esso si conosce indipendentemente dall'osservazione e che noi ne abbiamo direttamente coscienza come vuole la teoria volizionale (3). E ciascuno, io credo, potrà os- servare in se stesso che è veramente cosi, cioè che ci sembra che la prima volta che abbiamo voluto, avremmo potuto prevedere, anteriormente all' esperienza, che le nostre membra avrebbero eseguito l'azione voluta, come ci sembra che la prima volta che abbiamo visto un corpo urtarne un altro, avremmo potuto prevedere, anterior- mente all'esperienza, che il corpo urtato si sarebbe messo in movimento. Lo stesso che dell'impulsione e del mo- vimento volontario può dirsi di tutte le sequenze molto familiari : tutte quelle che hanno un'importanza qualsiasi al punto di vista filosofico, hanno trovato dei filosofi che, conformandosi alla tendenza spontanea del nostro spirito, hanno negato 1' origine empirica delle proposi- (1) V. cap. 2. $ 21. (2) Hume Saggio 7, Mill Log, 1. 8. e. 5. J 9 e Filos di Ha- inilton e. 16. (3) Mill Filos. di Hamilton e. 16. trad. frauc. pag. 351. 335 — zioni corrispondenti. Cosi secondo la scuola scozzese e altri filosofi è una verità a priori, e non una genera- lizzazione dell'esperienza, il principio su cui è fondato l'argomento teleologico (cioè che, come abbiamo detto sopra, l'appropriazione di mezzi ad un fine non può essere che l'opera d'un'intelligenza, o, come dice Reid, che «i segni evidenti dell'intelligenza e del disegno nell'effetto provano un disegno e un'intelligenza nella causa») (1). Ciò che implica che è una verità a priori, e non una generalizzazione dell'esperienza, che l'essere intelligente ha il potere di coordinare, nel suo pensiero, dei mezzi ad un fine, e di effettuare nella rc^altà questa coordinazione (2). (1) Keid Saggi sulle facoltà intellett. Sjijrjrio H. v. 6, Gnlluppi Saggio filos. t. 5. par. 61, ecc. (2) In UH scuso, è vero che una se<iueuza il cui antecedente ^ considerato come causa efficiente, ^ una conosc:niza a priori, anteriore all'esperienza. Quelle che Bacone chiama anticipazioni dtW esperienza, non sono, quando è <iuistione delle cause dei Ic- nomeni, che queste se(iuonze spinte al più alto <;rado di oeucraliz- zazione, cio^ applicate alla spicKaziom^ universale della natura. È possibile ehe le le.iigi primitive delhi natura, le vere l(^}i.i;i di causazione, siano tutte delle accpiisizioni laboriose della scienza: ma una sequenza il cui antecedente <> considerato come una causa efficiente non può essere una scovcrta scientifica : le co- noscenze di iiuest' ordine sono anteriori alla scienza, e fanno parte del patrinuinio comune di o.i^ni intellij;enza umana; la loro evidenza ^ una luce che illnwina ogni uomo che cieue in questo modo. 11 poeta dice: felice chi può conoscere le cause delle cose ! ma non : chi può conoscere le leggi secondo cui le cause sono legate agli effetti. La capacit;\ di una data causa a produrre un dato effetto si presuppone conu' <[ualche cosa di anticii)atanH^nte n(»to, come la matematica presuppone la conoscenza degli assi(»- mi ; il problema della scienza non ò, secondo il poeta, e secondo il primo impulso che porta l'uomo alle ricerche scientifiche, (juello di costatare le leggi di causazione che governano la successonei MMM — 336 — § 4. Ora noi siamo in o^rado di rispondere ad una obbiezione, la quale è, crediamo, il più forte ostacolo che impedisca di riconoscere Tori^ine empirica della nozione di causa efficiente, quale noi l'abbiamo esposta. Se la causa efficiente, secondo la prima idea che lo spirito se ne forma spontaneamente, non è altra cosa che r antecedende di una sequenza molto familiare, qual è il fondamento della dottrina dominante che tutte le sequenze tra fenomeni, anche le più familiari, sono inesplicabili e incomprensibili, dottrina alla quale noi stessi ci siamo conformati nel 1 cap. di questo scritto? Questa dottrina non è soltanto ammessa da quelli che relegano le cause efficienti nella regione dell'Inconosci- bile : così tutti i filosofi ci dicono che la comunicazione tra lo spirito e il corpo è il mistero più incomprensibile che ci presenti la natura, non esclusi quelli che spie- dei feuonieiii — (lueste non sono un problema, si hanno per pre- conoHciute —ma quello di rimontare da un effetto dato aUa causa o al concorso di cause che lianno dovuto produrlo, secondo i legami tra le cause e gli effetti anticipatamente conosciuti. Non mancano anche oggi dei tìlosotì che parlano come se essi am- mettessero ancora, senza alcuna restrizione, quest'idea così na- turale ai primi al])ori «Iella ricerca scientifica. Essi dicono che il metodo della scienza consiste ad andare sia dalle cause agli effetti (il metodo che Gioberti chiama ontologico), sia dagli effetti alle cause, come se le leggi delle connessioni tra le cause e gli effetti fossero delle cose fuori (juistione, e che s'inten<lono da se stesse. L' idea che (questi lìlosoti si formano del metodo speri- mentale ^ sì confusa che lo identificano con l'ultimo, quello che va dagli effetti alle cause, mentre il metodo sperimentale, nel senso più stretto, va piuttosto dalle cause agli effetti, realizzando certi fenomeni per vedere quali altri feiu>meni ne seguiranno. 11 vero carattere distintivo del metodo sperimentale è che per esso le leggi di causazione non sono un assioma, come per il metodo aprioristico e metafisico, ma il problema che la scienza si pro- pone di risolvere, per la sola osservazione e senza alcuna anti- cipazione sull'esperienza. — 337 - g-ano tutti i fenomeni assimilandoli agli atti della nostra volontà, né quegli altri che vedono in questi atti sttvssi runico tipo che abbiamo per formarci l'idea di causa efficiente. Né l'attività interiore dello spirito sembra meno misteriosa dell'azione dello spirito sul corpo a quelli stessi che vedono in questa attività l'esempio più perspicuo di una efficienza causale, o di una connessione tra fenomeni che è (lualche cosa di più che una semplice congiunzione: così il Galluppi non cessa di ripetere che il come della nostra attività inter- na è un mistero, che noi ignoriamo come si ])roducano (luesti atti dello spirito, ai ì\\va\\ non pertanto egli ri- corre costantemente per mostrare contro di Ilume che noi abbiamo la conoscenza diretta di cause efficienti e di una connessione tra fenomeni che non è una simu- plice conu-innzione (1). Tutine (|uegli stessi tìlosoti, che eonsiderano V impulsione come una causa efficiente, e come la sola causa efficiente concepibile del movi- mento (almeno tra le azioni puramente fisiche) . di- chiarano che il conu- della comunicazione del movi- mento nella collisione tra due corpi è anch'esso un mistero, e che l'impulsione è così incomprensibile che (lualsiasi altro fenomeno. Locke, p. e., dice: Ui- g'uardo alla co.niinicazione del movimento, per cui un corpo perde altrettanto movimento che un altro ne ri- ^.yve noi non concepiamo altra cosa per ciò che un movimento che passa da un corpo ad un altro corpo, il che è, io credo, così oscuro e così inconcepibile che la maniera in cui il nostro spirito mette in movimento o ferma il nostro corpo per il pensiero >>.... (2). E d A- lembert domanda: Abbiamo forse un'idea i)iù netta (1) V. t. 1, par. 105. t. 2, par. 77. t. 5. par. 1 t. t»7. .•<•<• (2) L. 2. capo 2:?. i>ar. 2S. 00 — 3:]H -^ della virtù per la <iuale i corpi si urtano che di (luella per cui si attirano? (b. Quando un filosofo afferma che un fenomeno è la eausa efficiente di un altro fenomeno, (p. e. la volizio- ne del movimento delle ìiostre membra', ma che il modo come la causa produce T effetto è incomprensibile, e^li enunzia, in sostanza, una vera contraddizione. Noi non concepiamo infatti ahra differenza tra la causa fisiaj, (come dicono oli Scozzesi) e la causa metxtfisica o ef- ficiente, se non che mentre tra la [)rima e il suo effetto la connessione è soltanto mediata, cioè vi ha bisoo'iio di un anello intermedio, di un ìììtprniexliarìo espìicati- vo, per passare dalla causa all'effetto, invece tra la causa efficiente e il suo eff(»tto la connessione è imme- diata, (bdla causa si i)assa tosto all'effetto senza biso- g-no dell'intervento di questa terza cosa, che noi chia- miamo un int(M-niiMÌiario esplicativo. Ma dire che è in- comprensibile come il movimento delle nostre membra si produca al seii'uito della volizione, è dire che vi ha tra i due fenonuMii una terza cosa da noi i<:cnorata che li mette in una connessione mtMliata, una terza cosa che, se noi pot(vssimo conoscerla, sarebbe 1' intermedia- rio esplicativo della sequenza tra (juesti due fenomeni, che, per difetto di (juesta conoscenza, ci resta attual- mente incomprensibile. NelTassenza di (juesta terza cosa il movimento non se.i>-uirebbe alla volizione; e noi ])os- siamo concepire o che la volontà sia soltanto la causa remota del movimento del corpo, agendo su questa terza cosa la (juale, do])o aver subita quest'azione, agisca essa stessa sul cori)o e sia la causa prossima del movimento — nel qual caso sarebbe l'azione di que- sta terza cosa, e non la volizione, la causa efficiente del movimento — ; ovvero che la volontà concorra essa (l) k'Irìn, (li fì/os. XVII. — 339 stessa direttamente alla produzione del movimento, ma ' vi sia pure simultaneamente bisogno, perche esso sia prodotto, del concorso di questa terza cosa — nel (|ual caso la volontà non sarebbe nemmeno la causa efficiente del movimento, perchè la causa deve contenere tutto cièche è sufficiente per produrre l' effetto. — L'affer- mare che un fenonunio è la causa efficiente di un altro fenomeno e al tempo stesso che noi non comprendiamo come il secondo fenomeno si |)roduca al seguito del primo, è cosi contraddittorio come l'affermare che la sequenza tra due fenomeni si comprende da se stessa senza bisogno d'un intermediario esplicativo, e al tempo stesso che l'uno di questi due fenomeni non è la causa efficiente dell' altro. Conu^ esempio di (juesta seconda specie di contraddizione ricordiamo la dottrina di Leib- nitz sulla comunicazione del movimento per rim[)ulsio- ne : mentre egli trova la sequenza tra l'impulsione e il movimento perfettamente naturale e intelligibile in se stessa, egli nega allo stesso tem])o qualsiasi azione reale di un corpo su di un altro, e annnette che il corpo che ha ricevuto l'impulso si muove per l'energia j)ro- pria a lui innata (^ non perchè la forza gli sia stata comunicata dal corpo impellente, .|uest'apparente comu- nicazione del movimento non essendo che l'effetto di un'armonia i)restabilita. Leibnitz non é meno incoerente, quando, dopo aver negato allo spirito l'efficacia di pro- durre i movimenti d(d corpo, eleva non pertanto nel suo sistema l'azione volontaria a si)iegazione universa- le delle cose, la dottrina delle monadi fondandosi sul- l'idea che non vi ha altro principio attivo, altra forza motrice, che l'anima, ed essendo (piindi una forma della spiegazione volizionale, altrettanto che la dottrina del- l'armonia prestabilita, che fa dell'azione della divinità l'intermediario esplicativo di tutti i fenomeni. E evi- dente che sotto questo riguardo nel sistema delle cause Bmsji — 340 — occasionali vi ha la stessa contradrlizioiie che in ({uello deirarnionia prestabilita. E questa contraddizione esiste al fondo nelle dottrine di tutti i filosofi che, mentre di- chiarano che l'azione della volontà è, come o^^iii altra forma delTazione reci[)roca tra lo spirito e il corpo, il {)iù incomprensibile dei fenomeni, se n(» servono al temj)o stesso come di spieo-azione di tutte le altro azioni della natura. Tutte queste contraddizioni dei sistemi tilosofici non sono che le manifestazioni di una sorta di antinomia della intellig'enza umana, per cui le s(Mjuenz(^ che ci sono le più familiari, ci si mostrano al tempo stesso sotto due aspetti contrari, come le i)iii intelli\ii'ibili di tutte e come le più misteriose. E uno dei più strani e nondiiiKnio d(»ì |)iù costanti fenomeni dello spirito umano, che la scienza, mentre fa comprendere (juei fatti che nei periodo prescienti fico sembrano i più sorpremb^iti e incompr(Misibili, rende al contrario sorprcMidenti e incomprensibili (quelli che nel periodo prescientifico — sia nella storia della specie» che deirindividuo — sembrano i j)iù naturali ed intelli- gibili. Noi conosciamo si bene, dice d" Aleml)ert, le cause dell'arcobaleno, e i^'noriamo ])erchè una pietra cade! Gli ecclissi, i terretnoti, la fol<iore, tutti- i fen<^- meni della terra, del cielo o dell'atmosfera, che Tuomo della natura ria'uarda come misteriosi, e attril)uisce perciò a delle azioni soprannaturali, finirono o finiranno senza dubbio di essere dei misteri per la scienza: il peso, la coesioni; dei corpi solifli. la comunicazione del movimento per l'urto, l'attività intervia dello spirito e la sua azione sul ci^rpo, tutti i fenomeni in una parola che l'uomo riguarda naturalmente come jxM-fettamente intelligibili e non aventi l)isoii'no di spi equazione, di- ventano per la riflessione scientifica dei misteri impe- netrabili. La scoverta dell'attrazione universale, men- tre svelava il meccanismo dei movimenti celesti, ren- — 341 — deva incomprensibile la caduta d'una ])ietra : perciò si disse di Newton ch'eg'li aveva scoverto o-lj abissi del- l'io-noranza umana. Perchè la caduta dei gravi, que- sto fenomeno dei più familiari e i)erciò intelligibilis- simo nel periodo prescientitico, diviene incomprensi- l)ile sottoj)osto alla riflessione scientifica'? Noi l'ab- biamo detto: perchè esso viene ricondotto all'attra- zione universale tra le molecole, fenomeno che non ci è [)unto familiare. È sopratutto ])er (|uesto risul- tato costante della scienza di ricondurre i fenomeni che ci sono molto familiari ad altri che non lo sono niente del tutto, che i fatti naturalmente intelligibilis- simi. i>erchè familiari, diventano incomprensibili per o-ji 8i)irivi che hanno ricevuto grinsegnamentì della scienza. In verità (juesti fatti non ])erdono interamente, nel i)eriodo scientifico, la loro intelligil)ilità i)rimitiva, le su<>'<''estioni della vita di tutti i giorni esseiìdo, come dice Mill, più forti che (luelle della riflessione scienti- fica. (Questi fenomeni ci presentano cosi due facce op- poste : noi cHMliamo di comprenderli assai bene, sinché li o-uardiamo alla Iuvp che illamina of/ni uomo che viene in (/ffcsfo mondo, la quale ce li mostra sotto il loro a- spetto consueto: ma ci sembra di non compremlerli più quando li guardiamo al lume della riflessione scienti- fica, che ce li mostra sotto un aspetto nuovo ed in- solito. Ci sembra che (juesto fatto abbia bisogno di essere dimostrato in particolare, e comincereino perciò dall'e- sann'nare V iìn'oìHprcffsihilifà della jìroduzione del movi- mento per la volizione. § 5. La volontà cessa di essere riguardata come causa erticiente del movimento delle nostre membra, o, ciò che è lo stesso, la produzione del secondo di questi fenomeni al seguito del primo diventa incomprensibile, dacché si è riconosciuto che i fenomeni in realtà si \ì — 342 - - 843 prodiu-ono in un modo ditferente dall'idea primitiva che r uomo naturalnienre se ne forma. Noi dobbiamo in primo luooo osservare che la generalizzazione spontanea della eostante sequenza tra la volizione e il movimento non è, come tutte le altre induzioni volgari tirate dalle esperienze più familiari, che una semplice generalizza- zione empirica, mancante della precisione e del rigore di una vera legge scientifica. I limiti a cui noi vediamo sottoposta Terticacia della volontà hastereb])ero a con- cluderne, dopo che la riflessione si è porrata su questo soggetto, che le condizioni delTazione volontaria sono più complesse di ciuelle che la generalizzazione empi- rica comprende, e che ((uesta ci lascia in un'ignoranza completa sulle vere leggi e il processo reale secondo cui i fenomeni si producono. Perchè le membra del pa- ralitico non obbediscono al comando della volontà come quelle dell'uomo sano? Ciò indica che vi hanno al di fuori della volontà altre condizioni, dalla cui presenza o assenza dipende che il movimento si produca o no al seguito della volizione. Anche nello stato di sanità, i limiti tra cui Timpero della volontà è circoscritto, per cui, mentre la volizione può muovere certi organi, non può muoverne invece certi altri, ìion indicano forse an- ch'essi che vi hanno certe condizioni dalla cui presen- za o assenza dipende l'efficacia o Tinetìficacia della vo- lontà sopra un organo determinato, condizioni cIkj re- stano al di là della legge empirica volgare sulla rela- zione tra la volontà e il movime,ntoV (1) D^lle rifles- sioni di (luest'ordine, tendenti a mostrare che le leggi e il meccanismo dell' azione volontaria restano ignote alla generalizzazione empirica volgare, bastano per con- cluderne che la volontà non può essere la causa effi- ciente del movimento delle nostre membra, perchè essa (1) Cfr. Hume Saggio 7. parte 1. o non ne è la causa immediata o non ne è almeno la cau« sa completa ; e che la produzione dell'uno di questi fe- nonìeni al seguito dell'altro non è uìì fatto che si com- prende perfettamente^ da se stesso, come sembra natu- ralmente allo s[)irito che non ha ancora sottoposto que- sto fatto alla rifiessione scientifica. Ma v*ha di ])iù : ciò che la scienza ci apprende di (juesto tneccanismo del- r azione volontaria, di cui le riflessioni precedenti ci fanno sos})ettare l'esistenza, senza poter determinarne la natura, ci mostra, non solo che la produzione del movimento al seguito della volizione noìi è un fatto che si comi)rende da se stesso, ma ancora -he, i fatti par- ziali in cui il fatto totale si deconqjone essendo essi stessi incomfM-ensibili, la si)iegazione seientifica di (pie- sto fatto, lungi d'introdurre degl'intermediari esplica- tivi che lo facciano comprendere, lo rende assolutamente incomprensibile. Si sa in efF(^tto che la volontà non agisce diretta- mente sulle nostre membra, e che l'azione di un mec- canismo a[)i)ropriato è necessaria, affinchè il moviiiìento ordinato dalla volontà sia eseguito. Se le parti che co- stituiscono questo meccanismo non fossero nello stato normale, se esse non avessero accumulato della forza per lìiezzo della nutrizione (poiché la volontà potrebbe far prendere un'altra forma alla forza già preesistente, ma non crearla), il movimento, (piantunque ordinato dalla volontà, non j^otrebbe prodursi. Il volere non può che dare la prima impulsione a questo meccanismo : fra la volizione e la })roduzione del movimento voluto si pone una serie numerosa di azioni intermediarie, la (piale si svolge d' una maniera puramente automatica e all'insaputa della coscienza. Si amnu^.tte dai fisiologi che le prime parti che entrano in attività, al s.'guito della volizione, sono dei gruppi di cellule di sostanza nervosa, situate nella porzione anteriore delln corteccia — nu — 345 (ie<i"lì cMiiìsferì cerebrali; di là l'azione* si |)ropag'a, per mezzo di eerti nervi, ad altri centri motori subordinati, ed indi ad altri nervi, dai (juali eccitati un gran nu- mero di muscoli si mettono in contrazione, ed è cosi che è finalmente determinato il risultato ultimo, cioè l'esecuzione del movimento voluto. S'ia'nora di che na- tura sia il cani>'iamento materiale che ha luou'o nei centri nervosi e nei ni'rvi motori mentre essi sono in funzione : ma si suj)j);me che esso consista in un mo- vinuMito n»olecolare. Se dunijue la volontà produce di- retramentc (|ualche movimento, esso non è certamente il movinn'nto voluto «Ielle membra, ma un altro mo- vimento che uou ha con (picsto alcuna somiiilianza, ci oc un movimento molecolare in (jualche parte del- la corteccia cerebrale : ora è evidente, che la vo- lontà non potrebbe sp/(\(/ar(' l'eft'etto |)iii mediato e più lon tano. cioè il movimento delle membra che essa concepi- sce e vuole, se non in ijuanto essa potesse spiegare lo effetto prossimo e immediato, cioè il movimento mole- colare cht' essa non concepisce né vuole. In questa ca- tena di tcMiomeni successivi, che va dalla \olizione al movimento voluto, non vi ha un legame tra i due anelli estremi, se non in (pianto gli anelli intermediari sono legati fra di loro e> con l'uno e l'altro di questi estremi. Non si può passare da un estremo all' altro senza fare tutti i passi intermediari: se vi ha un sol passo che noi non possiamo fare, non vi iia |)assaggio i)ossibile dal punto di ])artenza al j)unto di arrivo ; se il filo della spiegazione è interrotto in un s;.l punto, non vi ha più legame tra il primo antecedente e il conseguente ultimo, l'uno di (juesti due fatti non può sj)iegare l'al- tro. ( )ra vi ha certamente un passo die noi non pos- si* no fare, vi ha almeno un punto in cui il filo della sj)iegazione è interrotto. Ammettiamo i)ure che, dato il primo effetto tisico della volizione, cioè questo cangia- mento che essa immediatanu^nte produce n(^i centri mo- tori del cervello, tutti gli altri fi*nomeni seguenti, sino al movimento finale delle membra, si comj)rendano per- fettamente. Ammettere ciò è supi)orre primo che tutti i fenomeni puranu^ite fisici dell' azione nervosa e> mu- scolare si producano meccanicaìnciìtc (ogni nziom^ tìsica irriduttibile all'azione movcnìììca essendo, come abbiamo visto, iììcoììtjtrPììs/bile); e secondo che le leggi secondo cui avviene l'azione meccanica, cioè le leggi d(d movimen to, non abl)iano niente d' incom[»rensibile. Di «jUeste due supj)Osizioni la prima non potre])l)e provarsi, e la seconda mosti-eremo j)iù giù ciie non è vera. Ma noi ammettei-emo un istante queste supposizioni, p(M- mo- strare la difficoltà sj)eciale che c'impedisee di compren- dere l'azione volontaria. (yJiiesta difficoltà consiste- so- vratutto ned passaggio dalla volizione al suo effetto fi- sico innnediato : ciò die sembra il più ine )mprensibih'. neir azione volontaiia è come si produca, al seu'uito dcdla volizione, (piesto cangiamento fisico che è 1' ori- gine di tutti gli altri ; come, avendo noi concepito e voluto un certo moviunmto, l'effigi to sia, non (piesto mo- vimento, ma un altro differente, che noi non abbiamo voluto né concepito 1). (1) IhiiiH' <li(M' : «(Ili (>;i,Li<'tti su cui il potere! «Icllu volontà si si>Ì('lì;i nuiuediatinucutc non sono i in«'nil)ri stessi che devono essci'c mossi, ma «lei muscoli, «lei ncix'i. dcjili spiriti animali, foi'sc <[ual<dic cosa di j)iù sottile <' <li ]nii sco:i,)sciuto ancora, ]H'V mezzo <li cui il movimento e diffuso successivamente sino a (lucsta ]>artc^ del coi'[)o clic ci eravamo immediatam<mte i>ro- posti <li muovere. l*oirehl)e essi^rvi una prova più certa che la ]M>tenza che presiedei alla totalità di <{U(\sta (perazionc, lun;i,i «li css(a-e pienamente e direttanuiute conosciuta i>er una (•(scien- za intima. «' misteriosa e inintellij»ibilc all'ultimo ])unto? I/ani- ma vu(dc un certo jivvenimento : tosto se ne produce un altro atHatto diiVercMite, e sconosciuto a noi stessi clie vojuliann». » {Siuj- iji(t \ 1 1 parte 1). — :m — Ecco dunque come il niovinieuto volontario, che ci sembra il più evidente e naturale dei fenomeni, sinché noi lo oniardiamo, per dir cosi, in blocco, ci diviene strano e incomprtrJisibile se noi cerchiamo di analizzarlo. È su (intesta <lit!ic(»ltà che la scuola csirtesiiiua (la quale iiitroaussc nella lìl(»s«)tìa moderna il concetto elie il rapiM>r- to tra lo spinto e il c^n-pt» è in se stosso incomprensibile) si fondava principalmente ]r;'r dimostrare che la volontà non T- uiìa ra.«iion sufficiente del luovimento. Ascoltiamo Malebranche: « Mi pare certi» che la v«>b»utà de.iili sjdriti non ì' capace di muo- vere il luù i)icc«do c(»rp(» eh" vi sia al mondo : poiché è evidente che non vi ha le.ixame necessari.» tra la volontà che noi aìd»ia- n»o. per esemi»i(». di muover.' il nostro ])raccio e il iìu»vimento del nostro braccio P^^i'^'^"' ^'*>"»^' l^'»' tremmo noi muovere il nostro l>raecio ^ IVr muoverlo biso-iia avere dejili spiriti animali, inviaiìi p^^r eerti nervi verso eerti mu- setdi per .i-imlìarli e racciKviarìi: i> 'r.-liè è eosi che il brai-eio cha vi è attaccato si muove, o. secondo il sentinuuiti» di alcuni altri . non si sa ancora come vih si fa. E noi vediamo che de.i^li uo- mini che non sanno solamente s' essi hanm» de.iili spiriti . dei nervi e dei musccdi. muovono le loro braccia, e le mu(»vono an- che con più destre/.z;i e facilità di quelli che sanno il me-iio r;niat«>mia. K <lun(iue che -li u<»mini vo-lione muovere il loro braccio. «• che non vi ha clu' Dio che lo ]»ossa o lo sappia mo- vere. S(^ un iKuno mm ]»uò rovesciare una torre, almeno sa ciò che biso.irna fare per rovesciarla : ma non vi ha uomo che sap- l>ia sidamente ciò che bisogiia fare p.'.r muovere uuo deUe sue dita per mezzo degli spiriti animali.» {Nir. della cerila, 1. (>. ]), il, e. :^)— .Similmente Bayle diee : «Noi siaur» tutti c;>uviuti che U!ii chiave mm p >fcr;'bb:^ sn'vifci p':' ni-ut • al aprire un forziere, s* noi ignorassimo ct>m- ì>isojrna impiegarla, e nondime- no noi ci tìguriamo che la nostra auim i é la eausa emeiente del movimento delle iu>stre braccia, quatumpie essa non sai>pia ne dove sono i nervi che dev«»no servire a questo movimento . n«> dove bisogna i)reudere gli spiriti animali che devono scorrere in (luesti nervi» {Risposta alle quistioni rVan provbieiale, eap. 140). — Arnauld, che solitamente ammette con Malebranche V impossi- 347 La sequenza tra la volizione e il movimento ci sembra naturale ed evidente, sinché ci limitiamo a rapportare im- mediatamente i due fatti l'utio all'altro, senza tener conto dei fatti intermediarii : ma ci sembra strano e incom- prensibile, quando U nostro |)ensiero sostituisce alla sem- plice sequenza primitiva una serie complessa di azioni, intercalando dei nuovi termini, sconosciuti nel ])eriodo prescientitìco, o in una parola (piando il fenomeno, che prima appariva semplice, viene decomposto nei fenomeni elementari da cui esso risulta. Il semplice fenomeno }>ri- mitivamente conosciuto, cioè la sequenza immediata tra la volontà e il movimento, sembra naturale e perfe.tta- metite comprensibile, perchè ci è familiare: il fenomeno decomposto dalla scienza sembra strano e incomprc^nsi- l)ile, perchè i fenomeni parziali in cui esso si risolvo non ci sono familiari. La spie,i>'azione scientiHca del fenomeno non è niente del tutto una s/)fecj(uioì)e, nel senso po- polare o metafisico della parola; mentre qu(»sta riduce ciò che non è familiare a ciò che lo è, la scienza al con- trario riduce ciò che è familiare a ciò che n(ìn lo è (l). ì>ilità d'un'azione reale dello spirito sul corpo e del corpo sullo sidrito. mette talora in dubbio la dottrina ihe />/o ìhhi ha dato alVaniiìia nostra la virta reale di detvrìniaare il corso drf/li spi- riti verso i maseoli delle parti del nostro eorpo che noi lof/liamo tnuocere. « (Qualora ciò si jjoti^sse dimostrare, non pi>trebb(^ farsi se non per la ragione che l'anima m)stra non sa punto ciò che bisogna fare per muovere il nostro Ina -ciò ]>er mezzo d<'gli spi- riti animali.» (Dissertazione sul modo in cui Dio lia fatto i mi- racoli «lell'antica. legge j)er il ministeri» degli angeli). (!) Se l'anima sai)esse ciò <'he l)is;>;ina fare pei- mett»r«' in movimento le sue membra, <[uan«b> i^ssa vu(»l muoverle, cioi' se noi volessinn» e conce])issimo le azi(Mii intermediarie che s*interi»on- gono tra la volizione e il nn)vimento tinah\ Tazioiu' Vi»lontaria non si trovereJd»e così sorprendente e iiu'omprensibilc tv. nota antecedente) : perchè i perchè allora ([ueste azioni intermcfliarie sarebbero assimilate alla s(unplice se<[uenz}j familiare tra la vo- lizione e il movimento voluto. 348 — È C-osi che i fatti più familiari, che noi crediamo di com- prendere ]ìerfertamente, sottomessi alla riflessione scien- titica, diventano anch'essi incomprensibili (1). s li Per delle ra^'ioni analoghe, Fazione del corpo (1, Nel ti'st.» noi mÌ>1.ì;miio supi><>st.. clic la volontà T' rcal- nHM.tc nnu <;.us„ del niovinicnt<» «Ielle nn'n.Um : nnn causn assai loMtnn:. e inronìplct. -come, dice Huxley, il j,uanla)>arnera c\w a-i l'online d'avan/are è la causa «lei ni.>vinnMito che ta pas- sare un Ti-eno da una sta/ione ad un'altra -ma scnqu-e una causa. Ma il fen«H.»eno potrel.ì.e inv<'ce considerarsi da un altro punto di vista . dal <iuale la volontà apparireUÌM' come n..n avente a vinovv alcuna induenza sul movimento che la se-ue. Infatti, hi voli/ione ha. come «lualsiasi fenomeno psh/nro . il suo c.rrela- tiv<. fisH'o . da CUI essa «li]»ende. Tutto il,mMesso dell' azione voh>ntaria. inten'ssante si lo spirito < he il corp.», consiste dun-,pic in una mmìc di fenomeni .fisici . intercalati da alcuni teno- nuM.i psir/nci. Su «questi fenomeni psichici d. tutt.» il processo tìsico -P'-^i^-l»'^'*» ''''' P«>^^i='i''«''^' *^'^*' ip«»resi: può darsi che il fenomeno psichic.» volizione sia ess.> la causa dei fenomeni Usici c\w rostantemente lo sc.ouimìì. o faccia almeno parte di «[uestn causu; n.a può «larsi invece clu' la causa sufliciente dell'ai)pa- rizione di <iuesti fenonuuii sia il correlativo tisic.» d(d fenomeno psichici, volizione. confonìUMuente alle le.-i di successione dei fenonicni puramente fisici. In «piest'ultimi. caso il fenomeno psiidiico sjirehhe semidicemente un epifenomeno che accompa-iia il processo tìsico, il .piale si svid-eivbhe affatto indip.'mh'ntement.' daess<.. AUora nella spie-azione «lei processo tisico - psichi«M. del- razi«.n«' v«dontaria s'inc«mtrereldK-n» «lue onlini «riiuM.mprensi- bilità: vi sare]d>ero le inc«.mprensiì>ilità c«miiini a tutte le azio- ni tìsiclH'. la siiccesHÌ«uie «hd f«Mi«Mueni fisici ««sseiuh. cosi iii«- splicahih' in «iuest«> caso come in tutti -li altri; e vi sarebbe inoltre la incomprensibilità particolare al caso, deirapimrizu.m- di certi iVimmeiii psichici al se-uito «li c«'rti fem.meni Hsici. Così la inc«.mprensiì)ilità particolare «lell'azii.ne v(d«>ntaria si ris«dverebbe nella incomprensibilità di cui ì»assiamo a parlare nel testo, cioè in ciuella dell'azione del corpo siilb. spiriti» (in- veoo che «ìelh) s]»irito sul corp<»ì. :U9 sullo sj)irito diviene non meno misteriosa che razione dello spirito sul corpo. Tyndall dic(» : (1). Il prol)lem«i della connessione tra lo spirito e il cori)o è così hìHoluhile nella forma ììwderna die lo era aranti l'epoca delle ri- cerche scientifiche . La correlazione tra lo stato molecolare del cervello e il pensiero è sempliccMuente empirica : non è possibile tra i due fatti una deduzione loo'ica, non ])Ossiamo |>assare per il i-a^'imiamento da un fenomeno all'altro (2). I due fenomeni si producono insiem(^ ma non sap])iamo perchè: noi io-noriamo assolutamente «juale sia il leo'anie tra il fatto fisico e il fatto di coscienza di cui il primo è il concomitantt^ costante, non possiamo scoprire tra di essi alcuna connessione necessaria. < Voi potrete ris|)ondere, egli ao-o-iuno-e, che molte deduzioni della scienza hatmo cjuesto carattere (Tempirismo; hi de- duzione p. e. che una corrente elettrica circolante in una direzione data farà, deviare l'a^o calamitato in una di- rezione definita; ma i due casi differiscono in ciò, che se non si può dinìostrare rintiuenza della corrente sulPao-o si può almeno figurarsela, e noi non abl)iamo alcun dub- bio che si finirà ])er risolvere meccanicamente* il ])ro- blenìa; mentre non si può tio-urarsi il passaooio dallo stato fisico del cervello ai fatti corrisjiondcMiti del sen- tinuMito ». Noi non possiamo convenire con Tvndall che il i)ro- (1) ]jv forze fi siche e il peìtsiero nella J/ei\ scienti f. scr. 1. ami. (>. (2) 'I\vn«lall ci pr«'senta «[ui un ulivo esemiu«> «bdla nostra teinleiiza a credere che la (MUinessione tra la causa ch«' c<Miti«'in' la ragion sultìciente del su«) ettetto. «' «iiu'sf etf«^tt«>. «l«'V«' poter con«>scersi a i»ri«)ri, in«lipen<lenteinent«' dall' esi>erienza. Di \nn e-li «là a «[uesta c«»ii«>sceiiza a pri«>ri il «'aratt«*r«' ])iù determi- iiat«» «li una «l«Mluzione l«»!Lj,ica : n«)i ve<lrenu» in seguito «-Ik? «pi«'- sta «letej*minazi«ui<'! «hdla conn«'!ssi«»ne causale «^* la basi* di tutta una (dass<' «li sist«'mi metatisici. 850 — bleiua della connessione tra lo spirito e il corpo si pre- senti attualmente così insolubile come nel periodo pre- scientifico. In quel periodo la connessione tra lo spirito e il corpo, lungi di essere un problema insolubile, non era niente del tutto un problema. L'azione del corpo sullo spirito (love sembrava allora un fatto evidente e naturale non meno che l'azione dello spirito sul corpo, perchè si trattava di fatti molto familiari. E la scienza che rendei (juesti fatti incomprensibili, riducendo dei fe- nomeni che sono familiari a fenouìeni che non lo sono. Niente di più naturale ed evidente, innanzi all't-poca scientifica, del fenomeno della percezione: esso diviene oscuro e misterioso per la scienza, la quale ci mostra che il fenomeno avviene in condizioni ditt'erenti da quelle ^ in cui lo concepisce l'uomo della natura [i\\ auvlie abi- tualmente l'uomo coltivato). Sia p. e. la percezione vi- suale: secondo la concezione familiare di (|Uesto feno- meno, le condizioni della sua produzione sono assai sem- plici: basta che noi abbiamo oli occhi aj)erri. che non manchi la luce, e che l'ogg-etto ci stia d'innanzi. Ma la scienza ci a|)prende che non è l'oo-oetto stesso che col- pisce la nostra vista, ma dei rag-g-i luminosi; che ([Uesti raii'ii'i devono eccitare la retina, producendovi un can- giamento fisico; che (luest'eccitazione dene propagarsi per certi nervi sino a un certo posto del cervello; e che solo a quelle condizioni il fenomeno può ])rodursi; sicché la causa della visione non è la presenza di un oggetto visi- bile innanzi ad occhi che possono vedere, ma un can- giamento fisico in certe parti del nostro sistema nervoso. Di [)iù non è l'oggetto stesso che noi immediatamente vediamo, conformemente alla concezione primitiva, ma è un'immagine subbiettiva che sorge nel nostro spirito per l'etìetto di questo cangiamento fisico. La sequenza tra i due fatti non essendo familiare, essa è perciò in- comprensibile — La storia della metafisica ci indica che il 851 fenomeno si comprende perfettamente, sinché non è sot- tomesso all'analisi scientifica. Infatti la percezione ha servito d'intermediario esplicativo per far comprendere altri fenomeni : la teoria della visione ideale di Platone, Malebranche, ecc. ha per oggetto di far comprendere certi fenomeni, veri o supposti, dello spirito, assimilan- doli al fenomeno familiare, e quindi evidente per se stes- so, della percezione. Altre teorie psicologiche, come quel- la deii'l'idoli di Democrito o (j[uella, prevalente nel pri- mo periodo della filosofia moderna, delle immagini nel cervello, hanno avuto per oggetto di raccostare più che fosse ])ossibile la nozione scientifica della percezione alla nozione familiare, la sola che sia conq)rensibile. Le teorie della [tercezione immediata hanno pure lo stesso scojjo. Noi tratteremo (luesrargonumto con gli svilupj)i neccessari nella 2. ])arte di <|uesto Saggio. La stessa incomprensibilità che si trova nella per- cezione s' incontra naturalmente in tatti gli altri feno- meiìi psichici : sia che si tratti della percezione ovvero di una sensazione qualunque o del pensiero, la sequen/.a tra la condizione fisica (^ il fenomeno psichico ci sem- bra misteriosa, perchè essa è un dato della scienza, e non della nostra esperienza familiare. Noi troviamo perfettamente comprensibile e naturale che un j)ensiero venga al seguito di altri pensieri, secondo il tilo delle idee, perchè è un fenomeno a noi familiare; ma troviamo incompr<Misibile e sorprendente ch'esso venga al seguito di un certo cangiamento nel cervello, perchè il fenomeno non ci è familiare. La connessione tra lo s[)irìto e il corpo sembra tra tutti i fenomeni il più incomprensibile: ciò è ])erchè, se per i fenomeni puramente fisici noi possianni immagi- nare ch'essi potrebbero ess(;r«) spiegati meccanica niente, e ch(^ il mistero della loro produzione verrebbe così diminuito, se non affatto eliminato ; non vi ha invece iiWnu intc.niKuliario esplicativo iiiiiiia^'iuabile che possa rendere più iiitellioihili i rapporti tra il tìsico e il men- tale. Noi i)otremino Insin.uarci che una conoscenza in- tima (lei fenomeni che costituiscono tutto il lato fisico della vita mentale, dalla stimolazione ricevuta dag'li or^>ani esteriori dei nostri sensi sino ai movimenti ap- propriati con cui l'or^-anismo risponde a «iiiesta stimo- lazione, (che sono i due termini tra cui si svol<;e, pres.^'a poco, tutto il tenomeno psichico), ci dare))l)e la spie<>"a- zione tìsica di (luesti fenomeni, la più comi)leta di cui un fenomeno tìsico sia suscettibile, mostrando che la loro ])roduzione è conforme a quella dei movimenti delle masse osservabili con cui noi siamo familiarizzati. 'Sin non vi ha nìcccanismn che possa renderci più concepibile la com- parsa di (piesto epifenomeno che accompag'na il movi- mento moliH-olare del cervello e dei nervi, cioè il sen- timento (^ il pensiero (l . Tutte le spiegazioni dei meta- tìsici delTazione mutua tra lo spirito e il corpo si ridu- cono alle ipotesi delle cause occasionali e deirarmonia prestabilita: (pusste spiegazioni volgono in una sorta di circolo vizioso, poiché come intermediario esplicativo per far com[)rendere il fenomeno si servono di un caso del fenomeno stesso, che dichiarano in se incompren- sibile (2). (1) « Fiii.i;isim<>. <li<'<' li<'ilniitz. cIh' vi siji min iii;icclìin:i hi cui stnittiira Wu-i-iu immismi'c, seiitin'. mv^tc pcrccziinu': si potrà cmi- (•('pirhi iii-nnMlit;i consrrvjnuh) le stesse ].n»i)orzioui, di s..rta vhv vi si iMJssji (Mitnn-c muìv in mi imilino. C'iò u*)st(). non vi si tn>vi'r:i. visitmKlolsi -A dì deiitn), clic dei im'ZZÌ clic, si spiu- uono oli mii c(Hi -li nitri, e non nini .li clic siùc-niv min i>crcc- zinne». (Monndolo«iin. ii. 17). (2) I h-noineiii .h'il'nzionc imitiin trn lo spirito "e il corpo non si prescntnvnuo ni filosofi -reci con j-li stessi cnratteri di niisfero e (rinconcepihilitn. con <Mii si pres«'ntnno nelln tilosotìn 353 § 7. Passando all'attività interiore dello spirito, co- minceremo per una ritìessione analoga a quella con cui abbiamo incominciato le nostre osservazioni sulla sua attività esteriore. Il carattere vago delle general izza- nioderna, nella qiinle si i;iìin.i;e sino n un diinlisnio nssoluto. i)ci cui dello siiiiito e del corpo si fnnno due mondi n pnrtc. indi- ])endeiiti l'uno dnll'altro, pei- In difHcoltn di conquendcre In loro eounessioiic. È perchè ni filos(>fì «;reci facciano difetti» 1<' cono- scenze ])ositive concernenti .!;li orfani fisici delln i>siclic. e«l è la ]»nrte che «[uesti orjiani ju'endono nei fenomeni, interponendosi tra r azione del mondo esteriore e lo spirito, e trn (luesto e la reazione sul mondo esteriore, che rende sovrntutto incompi-en- sibili i rapi»orti frn lo spirito e la materia. J^'incoini>rensilnlitn comincia n sentirsi, e delle spie<>azioni c-omincinno nd immnu;i- nnrsi. (piando si è liià incominciato a formnrsi <lelle idee esntte suirnnatomia e la 1isiohi.i»ia di ([uesti orinili, come noi possinino vedere in Oaleno. Come abbinino detto nel cnpitolo II. (rnleno trova sorprendente come noi possiamo servirci convenientemente dei nostri muscoli, ]>er esempio di <|uelli che fanno esei»uire alla liniiun i movimenti ndjtttati nlln pronunzin «Ielle pnrole che voulinim» ])ronuiizinre. <[uniido noi non nbliinmo nlcuiin conosctMiza uè di questi muscoli, uè, ([uel che è più. «h'i loro nervi, (cfr. In nota anteced. su Mnlebranche, Arnauld. Bayle): e fa men- zione della s|)ieoazione di nlciini medici, i <[unli su]>]Mmevn.no che i muscoli sono come de«z;li nnimali che i>ercepisc<nio la vo- lontà deiranimale maji«>iore a cui stanno nttnccnti, <' fnnno tutto ciò che è necessario jier eseguirhi, ( Delld fonnuzlonc del feto). In ([uesta curiosa spiegazione (che ])er altro è costruitn sullo stesso tipo generale che le ipotesi moderne delhi cniise occnsio- nali e deirarmonia prestnbilita) noi vedinmo fungere dn inter- mediario esplicativo <lel fenomeno, considerato nel suo («incetto scientifico, il concetto familiare del tV^uomeiio stesso: poiché l'a- nimale muscolo è ritenuto lu'odurre immediatamente i i»ropri movimenti per il volere, come nella raiipresentazione iirescien- titìca della nostra azione volontaria, e s<'nza bisogno d'ini]>ie- oare come mezzi <lei muscoli e dei nervi, come la sci«'nza mostra die dev(5 fnre ranimnle maggiore. 23 354 — ziotii emj)iriche, c'h(^ noi ci formiamo spontaneamente sui fenomeni psichici, prima di averli sottoposti a uno studio scientifico, ci fa -'ià presentire l'esistenza di leg'- gi e di un meccanismo io^uoti nella produzione di que- sti fenomeni, innanzi che la scienza cominci a svelarci <jueste leggi e questo meccanismo: ciò basta a conclu- derne che noi ignoriamo il come di questa ])roduzione e le cause produttrici o efficienti, e a metterci cosi in contraddizione con (luesto sentimento naturale, per cui le forme familiari della nostra attività interiore sem- brano COSI perfettamente comprensibili ed evidenti per se stesse che divengono il tipo di tutta una classe d'i- potesi metafisiche per la spiegazione universale dei feno- meni. Che >i rifletta, per esempio, suirinfluenza della volontà sul cor.^o delle nostre idee. Quest' influenza ci sembra dapprima, in ragione della sua familiarità, un fatto perfettamente naturale e che non ha bisogno di spiegazione, egualmente che V efficacia della volontà per determinare i nostri movimenti : ma avviene per la prima come i>er la seconda ; cioè basta di riflettere alla sua limitazione, perchè il meccanismo e le leggi secondo cui (pu^st'influenza si esercita diventino un pro- blema, e noi cessiamo di trovarla cosi naturale e com- prensibile- come essa ci sembrava. Perchè abbiamo noi meno autorità sui nostri sentimenti e sulle nostre pas. sioni, che non ne abbiamo sulle nostre idee, sebbene questa stessa sia reacchiusa in limiti strettissimi ? Qual è la ragione primitiva di ((uestc differenti limitazioni? Perchè quest'impero che abbiamo su noi non è lo stesso in ogni tempo? perchè è più grande in un uomo sano che in un uomo malato, a digiune che dopo un gran pasto? T/effetto non di])ende qui, domanda Hume, da un meccanismo secreto, da una struttura nascosta, sia nello s|)irito, sia nel corpo? (1). (1) Saji.iiio 7. \mi'\v Possiamo noi forse sperare che la scoperta del mec- cahismo e delle leggi fondamentali che governano la successione dei fenomeni interni, eliminerà V incom- prensibilità della loro produzione? Al contrario, anche qui avviene lo stesso che per i fenomeni della nostra attività esteriore: ogni progresso delle conoscenze in questo senso, lungi di diminuire T incomprensibilità, non tende che ad accrescerla. Il più gran passo che si sia fatto verso la sottomissione dei fenomeni psichici a delle leggi così precise come quelle che governano la successione dei fenomeni esteriori, è certamente l'ap- plicazione universale ai fatti dello spirito delle leggi dell'associazione. Ora queste leggi sono lungi di sem- bì-arci cosi naturali e perfettamente comprensibili come i fenomeni familiari di cui esse danno la spiegazione, come ricordarsi, ragionare, volere. Questi ci sembrano dei fatti che si comprendono da ^è e che non hanno bisogno di essere spiegati; lo psicologo che li analizza, riducendoli alle leggi dell'associazione, ci sembra che spieghi il chiaro per l' oscuro. Stabilire una connes- sione evidente fra certe proposizioni e certe altre noi troviamo che è un fatto più naturale che la forza che unisce un'idea ad un'altra in ragione della loro somi- glianza o della loro opposizione o della contiguità in cui si sono trovate nella nostra esperienza passata. Noi troviamo anche perfettamente naturale che, avendo sete, vogliamo fare i movimenti che occorrono per prendere una bevanda e portarla alle nostre labbra : quando il filosofo associazionista ci spiega che ciò avviene perchè le leggi dell'associazione hanno stabilito delle coesioni definite tra certi sentimenti e certe azioni o le idee di queste azioni, noi troviamo che i i)rincipii su cui si fonda questa spiegazione sono meno comprensibili del fatto che si tratta di spiegare. Per provare che le leggi dell'associazione ci sembrano in certo modo arbitrarie, e certamente non così naturali che i fenoniéni familiari alla cui spieo-azione veno-ono applicate, basterebbe l'ul- timo capitolo del 2. libro del Saggio suW mtendlmeuto di Locke: è in certe «bizzarrie» e «stravaganze» dello spi- rito, che paragona alla follìa, in certe unioni fortuite di « idee che per se stesse non hanno assolutamciute alcuna connessione naturale», o, come ancora le chiama, in certe « combinazioni d'idee mal fondate e contrarie alla natura», che eoli vede il prodotto delle leg-oi dell'as- sociazione. Ciascuno del resto avrà potuto osservare che qujindo nel discorso ordinario si parla dell'associa- zione delle idee, è quasi sempre a proposito di (|ueste unioni bizzarre e irreg-olari. Lo psicologo, riconducendo alle leggi dell'associazione le connessioni i)iù naturali tra i nostri pensieri, riconduce ciò che è più familiare a ciò che è meno familiare, e per conseguenza ciò che ci sembra perfettamente naturale e comprensibile a ciò che ci sembra strano o almeno nu'no com]n-ensibile. Forse si dubiterà del* valore della teoria associa- zionista come spiegazione universale dei fatti dello spi- rito, e io inclino a credere che questo dubbio non sa- rebbe senza fondamento : ma ciò non ha importanza per la nostra tesi generale. Ammettiamo che la psicologia finirà per riconoscere l'esistenza di altri principii della 3onnessione tra i fenomeni interni, così primitivi che (pielli ammessi dalla teoria associazionista : (|ualunque siano i principii elementari a cui l'analisi ridurrà le operazioni del nostro spirito, noi saremo sempre meno familiarizzati con gli elementi che coi loro risultati più ordinari, e le leggi precise dei fatti psichici, qualunque esse siano, appunto perchè saranno delle scoverte della scienza e non dei dati della nostra esperienza familiare, parranno necessariamente meno comprensibili in se stes- se che le generalizzazioni empiriche che noi facciamo spontaneamente sui più familiari di questi fatti. Che dire quando i fenomeni psichici si considerano, non più in se stessi, ma nelle loro condizioni materiali V Allora le associazioni tra le idee devono spiegarsi per le associazioni tra le azioni nervose che sono i corre- lativi costanti delle idee, e per le leggi della correla- zione tra (jueste e quelle: ohscunun per obscuriìts f In realtà le operazioni della psiche consistono in una serie di fatti fisici, intercalati da fatti di coscienza : sia che si aiinnetta <*he il fatto di coscienza abbia un'influenza sullo sviluppo della serie successiva, sin che si ammetta che la successione dei fenomeni fisici si svolga d'una maniera indipendente, e che il fatto di coscienza sia un sem])lice epifenomeno senz' alcuna efficacia causale; nell'un caso e nell'altro noi ci troviamo di fronte alla incomprensibilità della connessione tra il fisico e il mentale. Così ciascun passo che la scienza fa verso la spiegazione dei fatti dell'attività interna (di (juesti fatti che, prima della riflessione scientifica, sembravano com- prendersi j)erfettamente da se stessi, e non aver bisogno di alcuna spiegazione), li rende sempre più incompren- si 1)111. riconducendo sempre ciò che è più a ciò che è meno familiare. i> «S. Passiamo ai fenomeììi puramente fisici. Noi ab])iamo visto perchè alcuni tra i più familiari di que- sti fenomeni diventino incomprensibili. Abbiamo osser- vato che la caduta dei gravi cessa di essere compren- sibile dopo la concezione degli antipodi, e più ancora dopo la teoria dell'attrazione universale : abbiamo os- servato pure che la coesione tra le parti costitutive di un solido diviene un mistero dopo la dottrina dei fisici della costituzione molecolare dei corpi, e che questo mistero si estende necessariamente ad altre azioni fisi- che che presuppongono la coesione, quali la trazione e la divisione di un corpo per l'intrusione di un altro. In questi casi è evidente che il fatto, che immediata- 358 — mente sembra comprensibilissimo, perchè familiare, acquista un aspetto misterioso, dopo che si è sot- tomesso a uno studio scientifico, perchè viene ricon- dotto ad altri fatti che non sono familiari. Ci resta a parlare di quello tra i fenomeni tisici che è ri- tenuto il i)iù intelligibile, e al quale perciò si è cercato di ricondurre tutti gli altri, vale a dire del movimento prodotto dairimpulsione, per mostrare che questo non fa eccezione alla regola, e che anch'esso perde, esaminato alla luce della scienza, la sua intelli- gibilità primitiva. I fenomeni familiari del movimento meccanico sem- brano perfettamente comprensibili in se stessi, sinché non si pensa alle precise leggi quantitative a cui essi sono sottoposti : è la conoscenza li queste leggi che li rende misteriosi, e fa sentire il bisogno dì una spie- gazione. La legge suprema che domina questi fenome- ni, cioè Tinvariabilità (piantitativa della forza, il prin- cipio che la forza non si distrugge né si crea, non è una suggestione delle nostre esperienze familiari, ma il portato di una lunga riflessione scientifica. Ne segue che essa ci sembra misteriosa, e che tutti i fenonu^ni in cui essa trova la sua applicazione, ci appariscono come effetti di cause sconosciute. Perchè nella collisione di due corpi l'uno acquista la stessa quantità di forza che l'altro perde? e perchè esso ritiene la forza ricevuta, in modo che, se non fosse sottoposto all'azione di altri corpi, continuer(ibbe indefinitamente a muoversi con la stessa energia? Evidentemente l'uno e l'altro di questi fatti non possono essere di quelli che sembrano portare in se stessi la propria spiegazione : perciò bisognerebbe che dei rapporti quantitativi cosi precisi come quelli che essi contengono, potessero essere delle generalizza- zioni spontanee immediatamente suggerite dalle nostre osservazioni più familiari. Il secondo di questi ffitti 359 anzi, lungi di essere una suggestione delle nostre os- servazioni più familiari, è loro apparentemente contra- rio, perchè noi vediamo ogni corpo in movimento per- dere gradualmente la sua velocità, e fermarsi infine da se stesso. Così se i fenomeni del movimento meccanico sono familiari, le loro leggi non lo sono. Ciò basta perchè questi fenomeni, che senibrano i più intelligibili di tutti, abbiano nondimeno anch'essi la loro parte di incomprensibilità. Le considerazioni precedenti ci fanno comprendere perchè la nozione della /b;'.2^^ nel senso trascendente della parola, di quest'agente misterioso, il cui dominio sembrerebbe non dover oltrepassare le azioni fisiche che non ci sono familiari (quali sono quelle a distanza), si sia nondimeno introdotta anche nei fenomeni familiari dell'azione meccanica. Esse ci fanno comprendere pure perchè dei filosofi, die hanno il più energicamente so- stenuto la necessità di ricondurre tutti i fenomeni fisici all'azione meccanica, come la sola intelligibile, quali Cartesio, Malebranche, Leibnitz, hanno sentito tuttavia il bisogno di sovrapporre, per dir cosi, alla loro spiegazione meccanica un cappelletto metafisico, ciò che essi non a- vrebbero fatto, sei principii della teoria meccanica fossero loro sembrati perfettamente comprensibili i)er se stessi. Queste parole di Leibnitz : «Tutto si fa meccanicamente nella natura, ma i ])rincipii del meccanismo derivano da una sorgente superiore» — par.>le che potrebbero ser- vire di emblema a tutto un pi^riodo della storia della metafisica moderna— sono l'espressione di questo doppio aspetto, Tuno intelligibile e l'altro misterioso, che i fe- nomeni del movimento meccanico presentano alternati- vamente al nostro pensiero. La contraddizione che noi abbiamo segnalata in Leibnitz, il quale, mentre riconosce nell'impulsione tutti i caratteri deWa causa efficiente, nega al tempo stesso 1' azione reale tra il corpo urtante e il m) — corj)0 urtato, non dipende semplicemente da una dispa- rità tra i risultati ottenuti nelle speculazioni sulla cosa in se della materia i teoria delle monadi) e quelli otte- nuti a un altro punto di vista, cioè nella considerazione pura e semplice dell'incatenamento causale dei fenomeni. La contraddizione sori*'eva già sul terreno stesso della ricerca delle cause. Mentre da un lato la produzione del movimento per V im})ulsione sembrava a Leibnitz per- fettamente intelligibile in se stessa (ciò che è un' altra ^espressione per dire che l'impulsione è la atffsa efficmite del movimento), da un altro lato la considerazione delle leiiii'i del movimento i>li faceva sentire il bisog'no di spiegarle, e di ricorrere perciò a delle cause metaempi- riche del fenomeno. Così la teoria delle monadi e quella connessa dell' armonia prestabilita, quantunque nate al punto di vista della ricerca della com in .sr, venivano a proposito per risolvere un problema nato al punto di vista della ricerca delle cause efficìeìifi. fornendo delle cause più iiitellig-ibili, e quindi, per dir così, più effi- rieììfi . che l'impulsione stessa, la cui intellig'ibilità e, quindi, la cui cfficieiìza^ si era trovata equivoca. Concludiamo. Noi al)biamo stabilito il principio che i fenomeni familiari ci sembrano comprendersi |)erfet- tamente da se stessi, mentre tutti gli altri ci sembrano incomprensibili, a meno che non possiamo spiegarli, ri- conducendoli ai primi. Ora questo priiu-ipio poteva sembrare in contraddizione col fatto che i fenomeni stessi più familiari, al fondo, ci sembrano anch' essi incomprensibili. Noi abbiamo spieg'ata quest' apparente contraddizione, mostrando che (fuesti fenomeni, intelli- g'ibili sinché noi li consideriamo al punto di vista vol- gare, secondo le prime nozioni attinte nella nostra vita ili tutti i giorni, diventano misteriosi alla riflessione scientifica che ce li fa vedere sotto un aspetto nuovo -ed insolito. La riflessione scientifica produce l'effetto di - m\ — togliere a questi fenomeni la loro intellig'ibilità, per di così, natia, sia mostrando che il loro modo reale di pro- duzione e le veri leg'g'i da cui dipendono e-i sono ancora sconosciuti, sia, circostanza j)iù importnnte, facendoci conoscere (juesto modo di {produzione e (jueste leg'g*i, che, sicconu'. non ci sono familiari, ci a[)pariscono perciò incomprensibili d). La scienza riconduce così il familiare (1) A <[U(*sti line motivi generali del hi iiicoiiijUMMisilulitji (h'i fc.iioiiicui t'iMiiiliari iic (lohlnaiiio annimijucrc un terzo. (^>iu'sti (bic motivi si rapjMH'tsnio «lircttaiiH'iitc alla cousiilcrazioiic «h'ITiiica- tciiaiiKMito causale dei f('iu)UH'UÌ : ma il terzo dipende dall' in- troduzione di certe ipotesi metafisiche, le <[uali. r>enza relazione, ])er la loro origine, con la <'onsiderazioue dell<' cause etlicienti, eontriluiiscono anciresse a l'ciulerci i lenonuMii ininlellinihili nella loro causazi<uie. (.Quando alla <|uistione: <|ual e la ro.sv/ ììi sì' del fenomeno nuiteria t si risponde (die «(uesta rosa itt si- è scoim- seiuta. o è un (die di affatto differente dall' idea primitiva ( lic co uè danno le sue ;ip]>arenze fenonu'nali (come pei- (\sempio n(d sistema leibnitziam» d(dle monadi), allora si di(liiaia implicita- mente (du* tutto ci(» (die mn con(>sciamo d(drincatenaniento caii- sal(^ dei fenomeni n(ui è che ap])arenza . i lemnucni slessi jum essendo (die apparenze . e (die il modo reale d(dla ju'oduziom: 4l(dle c(KS(^ si cela, airesperieuza . e si juii» an( he ^iun.u,('re . cou Jjcihnitz. a nejiai'c ([iialsiasi azione l'eale ti'a le cose. La conce- zione metafisica d(dl(> s])irito come una sostanzff (coucezume ni- di])endeute sì dalla ricerca dejle ntHsc effìcivuH (he da ([lulla d(dla rosa iti si-, e di cui a suo luo;;() spieu;h(M-emi) rori«;in(,'j ha lud dominio dei f"a,tti psi(diici lo stesso effetto c]r^ in ([indio d(ii fatti fisi(d l'idea della rostf in si', distinta dai fenonn',ui, vale a diro essa accresci^ rinintelli^ihilità della loro ju-oduzioue. K (;vi- 'leute v\n'. il pr(d)Iema della conn(^ssione tra il tisico (^ il mentale 61 C(nnplica di nuove (liffic(dtà . (lop(> (die la dottrina (hdla so_ stanza anima ha scisso l'uomo in due (esseri, v, per dir così, in- dile uomini, distinti. Allora, pei' escmi)io . il i>otere dell' essere <die viKile, su se stesso, divieue il jjotere di ((uest'ess(^r(i, non su se stesso, ma su di un altro essere separato, il (die (* neccs>ai'ia- 362 al non familiare, o spiegando il fenomeno familiare e ridiu-endolo ad altri fenomeni non familiari, o mostran- doci che le leggi che reggono il fenomeno non sono familiari, quantunque il fenomeno lo sia. Di questa ma- niera r apparente contraddizione al i)rincipio si risolve in una vera conferma del principio stesso ; e possiamo ammettere come stabilito che la ('ompremibìlità o Incom- prenHÌbilità di un fatto sono dei fenomeni psicologici che dipendono dalla familkintà o non fcunillnrltà di questo fatto ( l ). § 9. Le considerazioni ]>recedenti ci offrono un dato inqjortante perla soluzione della quistione : quale sia il valore obbiettivo di questa tendenza naturale del nostro spirito a ricondurre i fenomeni che non ci sono iiienU' più iiiconipiviisibilt'. luni fosso por altro, por im'jq)plio}i- ziono dol i»riiioipio v\\v stabiliamo noi tosto. ]>oroln', (lualiiiuiuc siano i nostri (lo*;nii lilosotici o roli<j;josi . t^ oorto olio abitual- niento non ò sotto quosto punto di vista olio noi considorianio Faziont* vobuitaria. Lo stosso aunionto di inistoro noi fononioni puranionto nii-ntali: <inando i nostri atti divontano )r\\ atti di un ossoro trasoondonto, il modo della loro ]H'f>du/iono ò nooessaria- monto soonosoiuto od inconq>ronsibilo. talo ossondo l'agonto ohe li produce . o al di là dolh- condizicmi ompiriolio doi fononu'ui, e fors'anoho in luouo di osso, stanno, come cause di questi le- nomoni, la natura o lo pnqu'icità Tti una cosa inosco.uitabile. (1) È chiaro che ciò devo intondortii della conqu-onsibilità e inoompreusibilità in un corto senso. La ]»anda coniprcHdcrc ha due sensi . coiiispondenti a quelli cln- . al soj^uito di Mill, ab- biamo distinto u<dla parola spicf/arr. Il senso della comprensi- bilità e incomprensibilità di cui parliamo nel tosto e «lucilo cor- rispondente al sensi, popidaro o motatisico della parola spUu/air. Nell'altio caso tloUa parola comprendere, corrispondente al senso sciontihco della panda spiegare, un tatto è conqironsibilo o in- oomiuensibih' sec(nnb) che si può o non si può mostrare la sua conformità con le h'g^i generali conosciute della natura. Ciò che diciamo nel testo non si rapporta a questo secondo senso. 363 — familiari a (quelli che lo sono. Noi abbiamo visto che la scienza, lungi di conformarsi a questa marcia spon- tanea dello spirito umano, ne segue invece un'altra che ha una direzione opposta: essa riconduce ciò che è fa- miliare a ciò che non lo è. La tendenza di cui parlia- mo è dunque una legge subbiettiva del pensiero, a cui non corrisponde una legge obbiettiva delle eose : ne segue che la disposizione naturale che noi abbiamo ad ammettere certe proposizioni, quando essa è fondata su questa tendenza generale dello spirito, non è una pro- va della verità di queste proposizioni. Perchè fosse una prova, bisognerebbe che la tendenza subbiettiva po- tesse elevarsi a legge obbiettiva; ma perciò sarebbe, neces- sario che questa legge fosse vera in tutta la sua ge- neralità, cioè che noi potessimo affermare che ht tutti i casi i fenomeni che non ci sono familiari devono spie- garsi per quelli che lo sono. Ma quest'affermazione ge- nerale è impossibile che sia vera ; perchè, vsupponendo anche che tutti i fenomeni possano ricondursi a (juclli che ci sono più familiari, quali il movimento dovuto airimpulsione, l'azione volontaria degli uomini e degli altri esseri animati, ecc., siccome le leggi a cui la scien- za ha sottomessi questi fenomeni, o i fenomeni più ele- mentari in cui li ha risoluti, sono tutt' altro che fami- liari, ne seguirebbe che anche allora i fatti ultimi sa- rebbero non familiari, e perciò la tendenza spontanea dello spirito non potrà mai essere soddisfatta. Questa impossibilità sarebbe evidente, s<:^ noi ci facessimo una legge di non far intervenire nelle nostre si)iegazìoni che delle cause empiriche^ cioè d(»Jla stessa natura di quelle che noi conosciamo, come si fa, per esempio, nella spiegazione mecca?^^ca dei fenomeni fisici: ma noi crediamo poter pervenire alla spiegazione universale dei fenomeni, cioè all'assimilazione di tutti i fatti a quelli che ci sono più familiari, ricorrendo a cause — :]64 — 865 metaempividie. a cause che non sono della stessa natu- ra di (j nelle che noi conosciamo. Se non che l'assimi- lazione del non familiare al familiare è in questo caso illusoria : non è al fatto familiare qual esso è in realtà j secondo gTinse^'n amenti della scienza, che noi assi mi liamo i>-li altri fenomeni, ma a questo fatto quale esso ci apparisve . secoiulo la nozione illusoria del periodo prescientifico. Noi non assimiliamo i fenomeni ad un fatto reale, ma ad una nozione puramente subbiettiva ed illusoria di (|Uesto fatto : non vi ha in realtà assi- milazione di certi fatti delTesperienza ad altri fatti del- l'esperienza, ma il risultato a cui perveniamo manca di qualsiasi base induttiva. Ciò si comprenderà meg'lio con un esempio: quando Aristotile spie^ra per il Nous Tori- <>'ine del movimento, o «juando <i'rilozoisti spieg'ano per il loro sistema la spontaneità del movimento di cui la materia sembra dotata, è evidente che essi considerano il )>ensiero (» la volontà come causa di movimento spon- taneo; ora la scienza ci mostra che (piesta nozione è falsa nel mondo dell'esperienza, la volontà non potendo creare della forza, ma solo manifestare al di fuori quella che preesisteva i>'ià latente neiroraanismo; l'azione vo- lontaria fleiruomo e de^*li animati, a cui la spiegazione volizionale assimibi la produzione del movimento nel- runiverso. non è (lunijue l'azione volontaria (jual essa è realmente, ma l'azione volontaria (jnal essa a[)parisce all'uomo })rima d'aver ricevuto le lezioni della scienza. In generale, noi possiamo estendere quest'osservazione^ a tutte le forme dcdla spiegazione volizionale: quando il metafisico sj)iega, cioè cerca di rendere più intelligi- bili, tutti i fenomeni della natura, assimilandoli all'a- zione vob^ntaria. nel tempo stesso che eg'li dichiara che questa, quab» noi la conosciamo nel mondo dell'espe- rienza, è il più incomprensibile dei fenonunii, è evidente che egli deve modellare (juest'azione volontaria metaem- % pirica sulla nozione prescientifìca, e non su (|uella scientifica, dell'azione volontaria empirica, poiché è nella sua nozione scientifica che quest' azione diviene incomprensibile, e perciò, nel secondo caso, eg'li spie- gherebbe il mistero per un mistero più graiule. Quando Hartmann, per ispieg'are il mistero del movimento vo- lontario— questo fatto, secondo lui, sorprendente che, per muovere, per esempio, il dito, è indispensabile, come mezzo d'esecuzione, 1' azione della volontà sulbì radici dei nervi motori corrispondenti, mentre noi non cono- sciamo uè queste radici uè i punti del cervello in cui si trovano — ammette che la volontà cosciente, per e- sempio di muovere il dito, dà nascita alla volontà in- cosciente di muovere le radici dei nervi motori che de- realizzare il movimento, accompagnata dall'idea incosciente del posto che queste radici occupano nel cervello (1); egli suppone che 1' atto di volontà dell'In- cosciente realizza immediata mente il movimento che esso vuole, che tra (juest'atto di volontà e (juesto movimento non s'interpone una serie di azioni intermediarie auto- matiche, non pensate ne volute, come tra il nostro pro- prio atto di volontà e il movimento che noi vogliamo. Senza questa su]) posizione, egli avrebbe bisog'no d' uu altro incosciente per ispiegare la conformità tra la vo- lizione incosciente immaginata e il movinuuito delle ra- dici dei nervi nu)tori che è l'oggetto di questa volizione. Ma facendo questa supposizione, qual è il tipo su cui Hartmann modella l'azione volontaria dell'Incosciente? è la nostra propria azione volontaria cosciente secondo la sua nozione prescientifìca e volgare. Egli trova in se stessa incomprensibile la nostra azione volontaria cosciente nella sua nozione scientifica, la quale mostra che il rapporto tra la volizione e il movimento voluta (1) Hartmaii. FU. (k'IvlncoHeirnte non è ininiecliato, che la volizione non è per se stessa e inmiediataniente la causa sufìUciente del movimento voluto. L'azione volontaria dell'Incosciente gli sembra al contrario |)erfettamente comprensibile per se stessa, perchè egli l'immagina sul tipo della nostra azione vo- lontaria secondo la nozione primitiva che noi natural- mente ce ne formiamo, la volontà non essendo per se stessa causa immediata e sufficiente del movimento vo- luto che secondo questa nozione di cui la scienza ha mostrato il carattere illusorio. Perchè la spiegazione volizionale dei fenomeni sia una sjjìegazioiìe nel senso popolare o metafisico di questa parola — che questa vo- lontà metaempirica che deve spiegare i fatti dell'espe- rienza si chiami Incosciente o le si dia un altro nome qualunque, che essa si ponga nell'anima del mondo o nell'anima dell'atomo — è necessario che all'azione di questa volontà si attribuiscano dei caratteri che la no- zione volgare afferma, ma che la nozione scientifica nega, dell' azione della volontà che noi conosciamo. Il metafisico che ammette la teoria volizionale come una spiegazione della natura, deve supporre : 1.'* che la vo- lontà metaempirica sia causa di movimento spontaneo, cioè che essa basti a produrre dal niente il movimento, mentre la scienza c'insegna che la volontà empirica non può creare della forza, ma solo dare un'altra forma alla forza già preesistente; 2." che la v^olontà metaempirica sia per se stessa causa immediata e sufficiente delle azioni volute, mentre la scienza c'insegna che, perchè la volizione empirica sia seguita dal movimento voluto, è indispensabile l' interposizione tra i due fatti di una serie numerosa di azioni intermediarie, e perciò il con- corso di un meccanismo appropriato; o.'* che la volontà metaempirica, nella sua qualità di semplice fatto spi- rituale, determini dei cangiamenti nel mondo fisico, mentre la scienza e' insegna che la volizione empirica. «-- 1 come fatto spirituale, non essendo che un lato del fe- nomeno reale, il quale è al tempo stesso psichico e fi- sico, noi non abbiamo il dritto di attribuire una causa- zione (|ualunque nel mondo dei corpi al semplice feno- meno psichico della volontà scompagnato dai suoi con- comitanti fisici. Noi vediamo (jui come un'ipotesi meta- fisica o metaempirica differisca da un'ipotesi fisica o empirica: l'ipotesi fisica più arrischiata non attribuisce all'agente supposto altro modo di agire che quello che l'esperienza ha già costatato negli agenti conosciuti sul cui ti p^ esso viene concepito. L'ipotesi dell'etere sembra generalmente arrischiata ai logici. Le proprietà di questa sostanza ipotetica differiscono dalle proprietà delle sostanze conosciute, ma l'azione a lei attribuita per la spiegazione dei fenomeni, gli effetti ch'essa è supposta produrre, non sono che dei casi di leggi di causazione già costatate. L'azione motrice attribuita a questa materia imponderabile si conforma rigorosamente alle leg'gi del movimento già verificate nella materia ponderabile di cui abbiamo l'esperienza. A una causa ipotetica non si attribuisce mai la capacità di produrre un effetto determinato, se (|uesta capacità di una tale causa di produrre un tale effetto non è sperimental- mente dimostrata. La causazione che si suppone deve essere un caso di una legge di causazione già costatata; il rapporto fra la causa supposta e 1' effetto che le si attribuisce deve essere identico ai rapporti verificati tra la classe corrispondente di cause e la classe corrispon- dente di effetti. Ma quali casi conosce il metafisico nel mondo dell' esperienza, nei (juali egli sia sicuro che si verifichino quei rapporti di causazione ch'egli suppone tra le sue cause ipotetiche e gli effetti che loro attri- buisce? Dov'è tra i fenomeni della esperienza una vo- lizione di cui egli possa affermare ch'essa sia original- mente produttrice di movimento ; ch'essa sia causa nn- a(i8 mediata (U)\] a propria realizzazione, senza riiitervcuro di un apparecchio oruanieo appropriato, felieenìente ap- prestato dalla natura (1): intine ch'essa basti, in quanto senì{)lice fatto spirituale, a produrre dei cangiamenti nel mondo corporeo V Donde sa egli dunque che la causa ipotetica è capace di produrre l'effetto che le attribuisce? Questa capacità della causa a i)rodurre l'effetto non po- trebbe invocare alcuna [)rova sperimentale in suo appog- gio; il metatisico l'ammette come una cosa affatto natu- rale ed evidente per se stessa. Ciò è perchè la nozione volgare e abituale sotto cui ci rappresentiamo le nostre azioni volontarie sup|)one nella volontà empirica il po- tere che il metafisico immagina nella volontà metaem- |)irica: la no/ione scientifica ha corretto su questo punto la nozione volgare; ciò non pertanto il modo di causa- zione che (luesta attribuisce alla volontà non cessa di sembrare una cosa affatto naturale ed evidente per se stessa, anche do[)o che si è riconosciuto che (|uesto modo di causazione non è il reale; le suggestioni della vita di (1) Qiiostn corrisiioiMh'iizn tra In volizione e l'iitto reale, die ci sembra y\\\ fatto si naturale. <lovrehbe invece si>rin'en(hn*ci <H)ine una eoin(i<lenza fortunata. La realizzazione^ del movimento voluto e l'opera autonmticji di un meecjinijimo, a cui la volontà non fa che dare il ]>rimo im]»ulso, (^ di})ende quindi dalla strut- tura appropriata, di t[uesto nuu-canismo : ora non potremmo jioi al posto di questa struttura, che arriva a un risultato eonf<u'me alla v<dizione. supiiorre come egualmente probabile l'una o l'altra di mille altre strutture, che arriverebbero ad un risultato «littor- ine i La corris])ondenza tra la volizione e il movimento voluto (> (^vi<h?ntement(^ uno <li (|uesti casi «li adattamento o di Hnalit;\ che caratterizzano il mondo <leiror<;aiiizzazione e della vita : il metatisico che spiega le tinalità della natura per l'azione volontaria dimentica che la finalità che questa racchiude in se stessa, non e meno nun'avigliosa di «{uelle alla cui spiegazione essa si fa ser- vire, e non ha bisogno meno «Ielle altre di essere spicciata. 369 tutti i giorni, come dice Mill, essendo pia forti che quelle della riflessione scientifica. Ciò che abbiamo detto della spiegazione volizionale si applica egualmente alle altre spiegazioni metafìsiche che consistono pure nellassimi- lazione di tutti i fenomeni a qualche fatto che ci è molto familiare : in tutti i casi i fenomeni non vengono assi- milati al fatto fn miliare quale la scienza ce lo mostra e qual esso è realmente, ma alla nozione subbi etti va, volgare e prescientifica, di questo fatto. Così il filosofo idealista, che assimila lo sviluppo reale degli esseri al- l'incatenamento dei nostri pensieri, suppone che delle idee abbiano per se stesse la capacità di determinare al loro seguito altre idee: egli oblia che il concomitante fisico del pensiero antecedente, se non è la causa totale dell'apparizione del pensiero susseguente (determinando da sé solo il concomitante fisico a cui questo è neces- sariamente legato), e almeno una parte della causa. In (luesto caso, come in tutti gli altri, il metafìsico può am- mettere la capacità della causa a produrre l'effetto come una cosa che gli sembra naturale ed evidente per se stessa, ma non mai come un'induzione legittima dell'e- sperienza. Così la spiegazione universale dei fenomeni per la loro assimilazione ai fatti che ci sono molto fa- miliari, evidentemente impossibile se si resta sul terreno dell'esperienza, non lo è meno quando i limiti dell'e- sperienza vengono oltrepassati, perchè allora l'operazio- ne, quantunque spontanea e quasi fatale, del nostro pen- siero è contraria alle regole più fondamentali delFinfe- renza logica, e l'assimilazione è semplicemente illusoria, l'universalità dei fenomeni non essendo assimilata ai fatti ' reali dell'esperienza familiare, ma alle false impronte che questi fatti hanno lasciato nel nostro spirito. La legge subbiettiva che impone al nostro pensiero di spiegare i fatti non familiari riconducendoli ai fami- liari non potendo elevarsi a principio di un'applicabi- - lit/i iiiìiversMle, non ha, per conseguenza, alcun valore obbiettivo. Ora questa legge non è che il principio di causalità efficiente — cioè che ogni fenomeno non ha solo un antecedente a cui esso segue invariabilmente, ma an- cora una causa efficiente — nella forma primitiva e im- mediata di questa nozione. Noi possiamo dunque con- cludere che (juesto principio, nella sua forma primitiva e immediata, non ha alcun valore obbiettivo, e non è che una necessitrà subbiettiva del nostro pensiero, a cui non si può affermare che corrisponda una necessità nelle cose stesse, una legge del mondo obbiettivo di cui essa sia la riproduzione e la rappresentazione. vS 10. (^Juando lo spirito umano ha acquistato la con- vinzione che esso non [mò pervenire alla spiegazione dei fenomeni secondo la sua tendenza spontanea, che è di assimilare i fenomeni che non gli sono familiari a quelli che lo sono, o che non può per questa via dare una soddisfazione completa al suo bisogno di spiega- zione nato da ({uesta tendenza, esso non rinunzia perciò al principio universale di causa efficiente; ma alla forma primitiva e immediata di questa nozione ne sostituisce un'altra ulteriore e modificata. Mentre la causa efficiente, nella prima forma della nozione, è immaginata a somi- glianza dell'antecedente di qualche determinata sequenza familiare tra i fenomeni, invece, nella seconda forma, di cui ora imi)rendiamo lo studio, è il legame tra la eausa efficiente e il suo effetto, e non la causa stessa, che è modellato sul tipo delle sequenze familiari. Noi abbiamo visto che il rapporto di causazione nel senso metafìsico, o di efficienza causale, si distingue dal rap- porto di causaziono nel senso fisico, o di semplice se- quenza invariabile, per certi carattteri psicologici, che si riducono: alla capacità della causa (efficiente) a,s;>?'e- gare il suo effetto, al legame necessario tra questa causa e questo effetto, alla evidenza intrinseca o conoscibilità a priori di questo legame. Noi abbiamo visto pure che questi caratteri che distinguono un rapporto di causa- zione nel senso metafisico da un semplice rapporto di causazione nel senso fisico^ si desumono dalle differenze psicologiche per cui la nozione di una secjuenza che ci è faniiliare si distingue dalla nozione di una sequenza che non lo è. Nella prima forma dell' idea di causa ef- ficiente la somiglianza tra una causazione efficietrte o me- tafìsica e una sequenza molto familiare è doppia: non è solo il legame tra la causa metafisica e il suo effetto che somiglia, per i caratteri indicati, al legame tra i fe- nomeni costituenti una sequenza molto familiare, ma la stessa causa metafisica è concepita a somiglianza del- l'antecedente di alcuna di queste sequenze. Invece nella seconda forma dell'idea di causa efficiente, cessa la so- miglianza specifica tra questa causa e l'antecedente di una determinata sequenza familiare, ma resta la somi- glianza,' nei caratteri indicati, del legname tra la causa e r effetto ; sicché ciò che distingue allora una causa- zione metafisica dalle semplici sequenze invariabili della scienza, è solamente che, mentre (jueste ultime non si ammettono che forzati, per dir cosi, dall'esperienza, e sembrano in se stesse incomprensibili ed arbitrarle, in- vece, nelle causazioni metafìsiche, il legame tra la causa e l'effetto deve essere perfettamente comprensibile, neces- sario ed evidente intrinsecamente o conoscibile a prio- ri. Per esporre d' una maniera conveniente ciò che si rapporta al soggetto di questa seconda forma dell'idea di causazione efficiente, è necessario anzitutto di formarci un'idea più precisa del processo mentale per cui l'uomo perviene naturalmente e quasi irresistibilmente ad am- mettere questo principio generale che ogni fatto deve avelie una causa efficiente. Noi non possiamo ammettere, come abl)iamo detto, che questo priucipio, esprima esso una verità o una semplice illusione, sia lur idea innata, una necessità pri- mitiva e inesplicabile del nostro pensiero, e perciò dob- biamo cercarne l'origine nell'esperienza, quantunque in questo caso, come in tutti gli altri in cui si tratta di connessioni psichiche tanto intime e fibituali che sem- brano affatto naturali e non degne di attirare la cu- riosità del pensatore, noi non ci dissimuliamo che far sentire il bisogno di una tale ricerca ci sembra anche più difficile che il dimostrare la verità del risultato ot- tenuto. Una volta riconosciuta la necessità che lo spirito abbia attinto questo principio dall'esperienza, la sua origine non può dar luogo ad alcun dubbio : le sole cause efficienti dell'esperienza essendo gli antecedenti delle se- quenze più familiari, è evidente che la base empirica, induttiva, del principio generale che ogni fatto deve avere una causa efficiente non può trovarsi che in queste se- quenze le più familiari. La immensa maggioranza dei fenomeni della nostra esperienza giornaliera si riducono a dei casi di queste sequenze familiari, a cui sono propri i caratteri psicologici indicati che distinguono un rap- porto di efficienza causale da una semplice sequenza uniforme: in altri termini, nei casi più numerosi della nostra esperienza quotidiana, in cui noi possiamo asse- gnare la causa di un fenomeno, questa causa non è soltanto un antecedente costantemente seguito da un certo conseguente, ma un antecedente che ha col suo conseguente quel legame mentale che dipende dalla fa- miliarità della sequenza; vale a dire la causa, oltre di esser costantemente seguita dall'effetto, lo spiega, e il rap- porto tra la causa e l'effetto ci sembra necessario ed in- trinsecamente evidente. Di là, per quest'impulsione che ci spinge costantemente ad assimilare, a generalizzare, im- pulsione che costituisce la base stessa dell'intelligenza, e di cui la forza cresce in ragione della ripetizione delle esperienze conformi, accade che noi ci attendiamo con sicurezza in tutti i casi ciò che abbiamo visto nei casi più frequenti della nostra esperienza, cioè che crediamo che ogni fenomeno deve avere, non semplicemente un an- tecedente legato col conseguente da un rapporto di se- quenza uniforme, ma un antecedente che sia una causa efficiente, vale a dire una causa che spieghi l'effetto, e che abbia con esso un rapporto necessario ed intrinseca- mente evidente. Il principio della causa efficiente è dun- que il risultato di una sorta di ragionamento industivo, e il processo per cui lo spirito uniano vi perviene è so- stanzialmente identico a (luello per cui esso perviene a qualsiasi altra nozione generale. :Ma non bisogna credere che questo regionanumto, in virtù del quale noi crediamo che ogni fenomeno deve avere una causa efficiente, si faccia con rifiessione e con coscienza : in questo caso la ìiostra ricerca attuale non avrebbe alcuna ragione di essere, perchè ciascuno sa- prebbe allora, senza bisogno d'intraprendere perciò una ricerca psicologica, per quali motivi egli ammette che oani fenomeno ha una causa efficiente. Il ragionamento di cui parliamo è un inferenza incosciente; e in ciò l'o- rìgine del i)rincipio di causa efficiente non ha niente di eccezionale, i)erchè tutte le verità o pretese verità as- siomatiche, cioè che si ammettono come evidenti per se stesse, non sono in realtà che delle conclusioni di infe- renze incoscienti. -Noi prendiamo ({ui per accordato (e crediamo di averlo dimostrato nel 1" Saggio) che gli assiomi, le verità pretese intuitive, sono dei risultati dell'esperienza, delle conclusioni induttive: ora è evi- dente che, se l'inferenza di cui un assioma è la conclusione fosse cosciente, metà degli psicologi non crederebbero che non vi ha in questo caso alcuna inferenza, e che l'assioma si conosce indipendentemente dall' esperienza e d' una maniera intuitiva. Il significato della parola incosciente, nel senso in cui noi l' adoperiamo, non ha 374 niente di mistico : un'inferenza incosciente vuol dire che le premessse della inferenza non si trovano attualmente nella nostra coscienza, nìa solo la conclusione: le pre- messe sono le esperienze passate, ma queste agiscono a nostra insaputa nel determinare il risultato, cioè la nostra credenza all'assioma. Quando nella dimostrazione di un teorema facciamo 1' applicazione di un assioma (ciò che avviene in tutti i passi che fa il ragionamento i, sia che noi facciamo esplicitamente menzione dell'as- sioma, sia che senza pensare al principio generale, noi ci comportiamo praticamente come se lo prendessimo per regola, l'operazione mentale consiste nell' assimila- zione del caso i)resente ai casi conosciuti nella nostra esperienza anteriore. Il caso presente è, per esempio, l'eguaglianza di A con B e di B con C: noi assimiliamo questo caso a tutti i casi della nostra esperienza ante- riore in cui abbiamo costatato che l'eguaglianza di due grandezze con una terza era associata con l'eo-uaolianza delle due grandezze fra di loro, e così ammettiamo an- che in questo caso la esistenza della stesta associazione, cioè crediamo che A è uguale a C. Facendo (juesta in- terenza, noi non pensiamo attualmente a questi casi della nostra esperienza passata a cui il caso presente viene assimilato; nondimeno sono essi i motivi o ^11 antecedenti della nostra credenza che ^ essendo ecuiale a />, e li a C, A deve essere pure eguale a C. Queste esperienze passate agiscono, per dir così, da lontano, nel determinare la nostra credenza (facendo astrazione d(4le modificazioni permanenti che esse hanno potuto appor- tare nell'organo dell' intelligeza) ; esse la determinano senz'aver bisogno di venire rappresentate attualmente nel nostro pensiero, e noi non sappiamo niente della loro azione, se non in quanto abbiamo ricevuto gì' in- segnamenti della psicologia. Non è soltanto negli assiomi che si può trovare l'esempio d'inferenze, le cui premesse sono attualmente assenti dal nostro pensiero: nella mag- gior parte delle inferenze che noi facciamo abitualmente il caso presente è rapidamente assimilato ai casi della nostra esperienza passata, senza che questi casi siano attualmente rappresentati. Le esperienze passate deter- minano anche allora, per una specie di azione a distanza, il corso attuale dei nostri pensieri; ma noi non diremmo in tutti questi casi che vi ha un'inferenza incosciente, perchè se abbiano il bisogno di addurre i motivi che giu- stificano la nostra credenza, noi possiamo il più spesso fa- cilmente trovarli, cioè riprodurre attualmente nel nostro pensiero queste esperienze passate, che sulle prime avea- no determinato il nostro giudizio, agendo da lontano e d'una maniera latente (1). Vi sono però dei casi in cui non potremmo spiegare i motivi della nostra afTermazion^', quantunque questa ci s'imponga con la più grande forza e con Tevidenza più completa : in questi casi, in cui or- dinariamente diciamo che sappiamo la cosa j>er intuizione (servendoci dello stesso termine con cui lo psicologo a- priorista denota le pretese verità evidenti per se stesse di cui egli non vuole ammettere l'origine sperimentale), vi ha un'inferenza incosciente nello stretto senso della parola. Quando si tratta di verità o pretese verità assiomatiche, oltre la difficolà di rintracciare gli antecedenti dell'in- ferenza, vi ha un altro ostacolo che e' impedisce di far penetrare questi antecedenti nella coscienza, ossia di rendere l'inferenza cosciente: è che noi non sentiamo alcun bisogno di cercare i motivi che giustificano la nostra aft'ermazione. In questi casi la, fre(|U(Miza delle esperienze ha costituito fra le nostre idee quel h'i^'ame strettissimo che dà al giudizio la forma della neccs.sitd (quantunque non una necessità assoluta). Ora (juando la coesione tra le nostre idee giunge a (luesto grado, la (1) Cfr. Spencer Fsieol. t. 2, § 2J)8, 800, 805. 80(i, ccc, — oih — -consciiueuza è, come Stuart- Mill Tha ben sog'iialato, che noi aTiiniettiaino la verità dell' affennazioiie anche nel- Tasseìiza di prove (e talvolta in presenza di prove con- trarie), la coesione stessa fra le idee essendo per noi una prova sufficiente. Perciò, siccome noi non sentiamo il bisogno di giustificare la nostra credenza, 1' evidenza e la necessità con cui ci s'impone sembrandoci una prova sufficiente della sua verità, noi non ne cerchiamo le prove sperimentali, riteniamo anzi ogni prova di (juesta natura inutile, e ci manca quindi il motivo ordinario di portare alla luce della coscienza gli antecedenti della nostra convinzione, c»ssia di rendere l'inferenza cosciente. Cosi il sentimento di necessità che accompagna una propo- sizione, e che non dipende che da un'associazione molto intima tra le nostre idee, facendoci sembrare questa pro- posizione intrinsecamente evidente, ha per effetto di farla riguardare come indipendente dall'esperienza, e quindi come anteriore a questa, a priora, quantunque essa non sia che vuV infeì'euza incosciente dalle esperienze passate. È perciò che le sequenze molto familiari, V idea delle quali, per la frequenza delle esperienze, è accompagnata dal sentimento della necessità, ci sembrano evidenti per se stesse ed a priori ; ed è perciò pure che ci sembra tale il principio che ogni fenomeno deve avere una eausa efficiente (1). Forse si crederà di poter evitare la necessità di ri- correre alla nozione d'inferenza incosciente per rendere conto dell' origine dei princi])ii così detti evidenti per se stessi, ammettendo che la proposizione genenerale sia stata stabilita coscientemente in un'e})oca della nostra vita intellettuale tro|)|)0 primitiva perchè noi possiamo ricordarla, e che da allora si sia impressa fortemente nella nostra memoria, sicrhè quando noi ora facciamo, ili ('tv. SiH/f/io 1, {-. [. \> Is. per esempio, l'applicazione d'un assioma in una dimo- strazione geometrica, non occorra supporre altro che una deduzione dalla proposizione generale, l'operazione logica di (juesta maniera essendo cosciente sì nell' uno che neir altro dei due momenti che essa percorre. Ma contro questa supposizione vi ha j)rima di tutto da ob- biettare che, quand' anche fosse vero che nel ragiona- mento, qual esso si conq)ie ordinarianu*nle, noi impie- ghiamo coscientemente, es[)licitamente, rassioma come proposizione generale, bisognerebì)e, per ispiegare la con- vinzione attuale della verità dell'assioma, nell' assenza della rapi)resentazione delle prove su cui esso è fondato, o anche lìell'obblio di (jiieste ])rove, ammettere senqìre che le esperienze passate agiscono a nostra insaputa per deteriììinare questo risultato. V ha di più ; è falso che nel ragionamento, (|ual esso si produce nella sua forma ordinaria e naturale, ^i faccia coscientemente o esplicitamente uso della |)roposizione generale : come sosteneva giustamente Locke, e conie ciascuno può fa- cilmente verificare, osservando il corso naturah» dei suoi pensieri nella dimostrazione di un teorema di geometria, noi andiamo inunediatamente dal dato all'inferito, per esempio, dall'eguaglianza di .1 con /> e di B con C a quella di A con C\ senza passare ])er la j)remessa ge- nerale, ])er esemj>io, che due grandezze eguali ad una terza sono eguali tra di loro; [)remessa che, se il geo- metra menziona, non è perchè essa costituisca un anello nel concatenamento jiaturale dei suoi pensieri, ma per controllare questo concatenamento, per verificare se esso si è prodotto regolarmente, sottomettendo ai canoni della logica cosciente ciascun ])asso del ragionamento che in realtà non si compie che per una logica incosciente. Ogni inferenza, al fondo, come insegna Stuart-Mill. e come abbiamo mostrato nel Saggio 1, fondandoci sulla natura stessa del pensiero, è un'inferenza dal particolare // — 878 - al particolare: la proposizione generale, (luantunque utile per assicurarsi se 1' inferenza sia rigorosa, non è indi- spensabile, né fa parte del processo naturale del ragio- namento; diciamo di più, il suo intervento non moditìca essenzialmente questo processo, l'inferenza, come atto mentale, non cessando di essere dal particolare al par- ticolare, benché, nella sua esposizione verbale, rivesta la forma di un'induzione seguita da un sillogismo. Cosi essendo, è evidende che l'inferenza non può essere che incosciente, quando i particolari che costituiscono le premesse del ragionamento sono attualmente assenti dalla coscienza— La nozione ({^inferenza incosciente, quale noi r intendiamo, coincide in parte con quella di asso- ciazione inseparabile degli psicologi inglesi. Nei casi più spiccati, cioè tutte le volte in cui l'inferenza si fa tal- mente a nostra insaputa che il filosofo stesso a prima oiunta crede che si tratti di una conoscenza intuitiva e non d'un risultato dell'esperienza, l'inferenza inco- sciente costituisce niì' associazione inseparahile (facendo però suir inseparabilità (juelle riserve di cui abbiamo detto nel Saggio 1): in questi casi, come abbiamo osser- vato, è il sentimento della necessità che accompagna il giudizio, dipendente dalla coesione fortissima tra le idee, che è la causa principale dell' illusione che ci fa ri- guardare questo giudizio conie a priori. Dall'altro canto, la più parte delle associazioni inseparabili sono delle vere inferenze incoscienti. In questi casi non bisogna attri- buire il legame tra le idee al solo principio della conti- guità, ma nella produzione dell'associazione vi ha un'a- zione combinata di questo principio e di quello della so- miglianza. Quando noi, per esempio, ci attendiamo dopo l'urto il movimento del corpo urtato, l'associazione tra le due idee è talmente forte, che potrebbe fornire un esem- pio di quella che gli associazionisti chiamano insepara- bile^ (visto che il concetto cV inseparabilità, come abbiamo — 379 _ mostrato nel Saggio 1, non può essere che relativo, non essendovi associazioni letteralmente inseparabili \ In que- sto caso è anche applicabile la nozione d'inferenza inco- sciente. Non sarebbe renderci esattamente conto dell'as- sociazione tra le due idee il dire che l'una richiama l'al- tra, con la quale è stata in contiguità nella nostra espe- rienza; non essendovi identità tra la presente rappresen- tazione del movimento del corpo urtato e le idee dei mo- vimenti dei corpi urtati nella nostra esperienza passata. Noi proporzioniamo a un di presso il momimento che ci attendiamo alla massa del corpo urtato e alla massa e alla velocità del corpo urtante: questa circostanza non potrebbe essere spiegata dal solo principio della contigui- tà. La vera descrizione dell'associazione in questo caso è che l'idea (la sensazione o la rappresentazione) attuale dell'urto suscita in noi un'idea simile alle idee che si sono trovcTte in contiguità con le idee simili ad essa, in modo che il rapporto attualmente rappresentato tra l'urto e il movimento del corpo urtato si assimili ai rapporti analo- ghi dell'esperienza passata. Ora questo è essenzialmente lo stesso processo che, portato alla luce della coscienza, si chiama un'inferenza. Il proprio delle inferenze incoscienti è, come nota il Wundt, che esse si producono con la più grande si- curezza e in tutti gli uomini con una unifornn'tà com- pleta. Esse sembrano tenere più alla fisiologia che alla psicologia, l'uniformità e la fatalità con cui questi atti si compiono, facendone rassomigliare la produzione a quella dei fenomeni fisici. Questa uniformità e irresi- stibilità con cui sogliono prodursi le inferenze incoscienti, spiegano perchè la metafisica, la quale appunto è il risultato di inferenze di (juesto genere, sia un fenomeno naturale, permanente e (juasi inevitabile dello spirito umano. Vi ha una somiglianza già notata da Kant fra le illusioni naturali dei sensi — che sono anch'esse il risultato di un processo d'inferenza incosciente — e questa illusione naturale delTintelligenza, cioè la meta- fisica, se si considera nella base comune su cui si ele- vano tutti i sistemi : è che Tillusione non cessa di su- birsi, anche dopo che Terroneità ne è stata riconosciuta. LMncoscienza dei processi mentali che costituiscono il punto di partenza della metafisica, spiega pure questo fatto (di cui vedremo in se^-uito dei notevoli esempi), che sj)esso un metafisico, non avendo chiaramente co- scienza dei motivi reali della sua convinzione, dà come prove uniche delle sue ipotesi dei sofismi artificiali, che evidentemente non possono sembrare probanti che a chi è disposto o'ià, per altre ragioni, ad ammettere la verità della tesi che si tratta dì provare. Noi ci atten- deremmo, per esem[»io, che un'ipotesi, destinata a sod- disfare il bisogno che ha il nostro spirito di cauHe ef- ficieììti, dovrebbe essere stabilita cercando di dimostrare che essa è la sola che possa introdurre nelle cose que- ste connessioni vecessarie, inteUlgibHi, hit rhì cecamente eriileììfi. che noi supponiamo tra le cause efficienti e i loro eftVtti. Tali sono, come mostreremo, le ipotesi di Platone e di Hegel : ma ne l'uno ne l'altro mostrano di aver coscienza di (|uesto fatto, che la base e la ra- dice dei loro sistemi è il concetto di causazione efficiente, coi caratteri determinati che distinguono (piesta da una causazione ordinaria. Oggi che la dottrina di Platone non ha per noi che un interesse storico, potendo senza alcuna preoccupazione giudicare il valore degli argo- menti su cui egli la fondava, abbiamo motivo di sor- ])reiiderci come una si alta intelligenza abbia potuto ammetrere dei paradossi tanto strani su delle prove altrettanto deboli. Ma la sorpresa cessa se pensiamo che (jiiesta dottrina, piuttosto che una conclusione di queste prove, è il risultato d'un processo d'inferenza, in ])arte almeno se non in tutto, incosciente. Riflettendo — 381 — a questa incoscienza dei processi mentali da cui risul- tano i concetti metafisici, e nel tempo stesso a questa verità logica che l'inferenza è dal particolare al parti- colare, ci rendiamo anche perfettamente conto della dif- ficoltà di trovare nella storia della filosofia una defini- zione precisa di certi principii, che sono tuttavia i più essenziali e fondamentali per ogni metafisica, (jualè appunto quello delle cause efiicienti. llume stesso trova la nozione di efficienza causale cosi indefinibile che dice : « noi non sappiamo nemmeno ciò che desideria- mo di conoscere quando ci sforziamo di concepirla» (l). Il fatto è che il metafisico, per fare un'applicazione normale di questo principio, cioè conforme alle esigenze naturali del nostro spirito, non ha bisogno di averlo mai formulato nettamente; egli non ha nemmeno biso- gno di averlo mai formulato come proposizione generale, come il geometra, per fare una buona dimostrazione, non ha bisogno di aver mai formulati gli assiomi che si trovano in testa degli Elementi di Euclide. Nel- l'applicazione del principio di causalità efficiente, co- me in quella di un assioma matematico, non vi ha (considerando ciò che è indispensabile air operazione) che un'assimilazione incosciente di tutti i casi che attual- mente si presentano, ai casi dell'esperienza passata che costituirebbero la base induttiva del principio generale, se si desse all'operazione la forma cosciente e riflessa della logica. Per quanto spetta al principio di causalità efficiente, si tratta dell'assimilazione, talvolta alquantovaga, ma sempre la più ii'rande possibile che sia per- messa dalle particolari condizioni intellettuali dell'epoca e dell'individuo, di tutti i casi che si offrono airintelli- genza, ai casi sperimentati di sequenze molto familiari, perchè sono queste che costituirebbero la base induttiva (1) Huiiu' DelVidea di potere o legame neeessario, li ]»art*^ - del principio, se esso fosse stabilito per un'operazione loo-ica cosciente e riflessa. S'intende che questi casi del- l'esperienza passf^ta non sono presenti al pensiero, ne è necessario aver coscienza deirassirajlazione : semplice- mente l'intellig-enza prova una soddisfazione più grande, come se fosse inondata da una luce magg-iore, conce- pendo le cose in ({uel modo, che più le assimila a queste esperienze che costituiscono la base dell inferenza inco- sciente. Non è sorprendente, anzi è necessario, che l'o- perazione nu^ntale del metafisico sia più o meno inco- sciente : ciò è perchè quest'operazione, quantunque con- forme alle tendenze naturali dell'intellig-enza, non adem- pie le condizioni di un'inferenza legittima; difetto che diverebbe chiaro se l'inferenza si rendesse perfettamente cosciente, nel qual caso non vi sarebbe più metafisica. Questo è appunto l'oggetto del presente Saggio: rischia- rare della luce della coscienza questa logica, o piuttosto questa sofistica, naturale incosciente, di cui le conce- zioni della metafisica sono il risultato. Ciò che per noi ha un doppio interesse: prima di comprendere il come, le leggi della produzione di quest'ordine di fenomeni, sì importanti tanto per lo psicologo che per lo storico-, e poi di poter giudicare il valore delle inferenze incoscienti della metafisica, dopo averle trasformate in inferenze co- scienti, alla stregua della logica ordinaria, e vedere così se le concezioni a cui esse conducono, hanno un fonda- mento reale o pure ne mancano. § 11. Il principio che ogni fatto deve avere una causa efficiente è dunque il simbolo verbale di una regola a cui lo spirito si conforma in quest'operazione irriflessa di assimilare, più che può, tutti i casi che si oftVono nuo- vamente alla sua attenzione, ai casi più frequenti della sua esperienza passata, in cui ha visto i fenomeni di cui ha conosciuto il modo di produzione, non solo se- guire un antecedente determinato, ma un antecedente tra il quale e il fenomeno che lo segue vi è stata questa connessione mentale costituita dalla familiarità della se- quenza, che noi indichiamo coi termini : capacità della causa a spiegare l'effetto (o intelligibilità del nesso tra la causa e l'efl'etto), necessità di questo nesso, sua evi- denza intrinseca ~ della stessa maniera che il principio che ogni fenomeno deve avere una causa fìsica, cioèun an- tecedente determinato, è il simbolo verbale di una re- gola a cui lo spirito si conforma nella sua operazione abitualmente pure irriflessa, quantunque la coscienza non abbia difficoltà a rendersene conto, di. assimilare tutti i casi che si offrono nuovamente alla sua attenzione, ai casi della sua esperienza passata, più numerosi che quelli di cui sopra, e non mai contradetti da osservazioni con- trarie, in cui ha conosciuto i fenomeni seguire costan- temente degli antecedenti determinati. Da una parte e dall'altra, la base dell'operazione è ugualmente nell'e- sperienza, l'inferenza è ugualmente dal particolare al particolare, ed essa si tira con un'eguale spontaneità, senza averne attualmente la coscienza. Non })isogna però supporre che il principio della causalità efficiente e quello della causalità fisica o semplice sequenza invariabile siano dall'origine dueprincipii distinti: all'origine lo spi- rito non concepisce altre cause che efficienti; la nozione della uniformità nelle sequenze dei fenomeni, distinta da quella di un nexus di efficienza causale fra di essi, non è che un prodotto della cultura scientifica. È la scienza che mostra, contro le nostre prime aspettative, l'esistenza tra i fenomeni di legami di causazione che non è efficiente, Epicuro si mostra sì poco capace di concepire una causa che non sia efficiente, che, non potendo trovare una causa efficiente della deviazione degli atomi dalla verticale nella loro caduta nel vuoto, deviazione che u'iudica in- dispensabile per rendere conto dei fenomeni, egli l'at- tribuisce puramente e semplicemente all'azzardo: egli - :w4 — non erede eh. .ia sotto.nessa a qualche legge a qual- he ^Vuifonnità, una uniforn,ità nella sequenza degh av- veni enti, che non fosse stata al ten.po stesso xvna cau- . io tk-iento, non avendo per lui alcun valore per telliKenza dei fenon.eni. Anche '^"uahuc^U no- zione che lo spirito si torn.a spontaneamente della cau sifone è. così esclusivan^ente quella della causaz.one ef- tìd^ e che Con.te, per indicare che noi non conoscuvn.o 'e :^; efficienti/ma solo quelle che la scuola scoz- IL chiama cause tisiche, bandisce la Pa-l- « « non vuol parlare che di leggi dei fenon.en, E no, ^h ; ..o "ià visto, trattando dei nuotivi della teoria .^c- làX che i tìsici non sogliono riserbare il non.e d. cau.a c«/(«,rt.in(. 1 11 » officiente, rifiutandosi che aUimpulsione, cioè alla causa cfficeme, H- uiicarlo aoli altri antecedenti dei movimenti della ma ' ; ' .o^sono«,«.s.er/ìc/e«.-. Platone la raccontare tso;rate i el Fedone che, ardendo nellasua giovinezza del de^i le o i conoscere le cause per cui i fenomeni si produ- no erava di soddisfarlo con lo studio della stona deU. T n ma che <-H fu COSI deluso nella sua speranza, natura, ma .lu. <^n „i'inseonò «lueste cause che ciuesto studio non solo non gì inbe^ii i . '^egli bramava di conoscere, ma gli mostro che iK^i on.;.endeva nemmeno quelle cose «-"he pnma g i s.n bravino le più facili a comprendere (V'- I latonc no e rrèonta a sua storia, ma quella dello spirito uinano^ V tto che viene iniziato allo studio ^^J^^^ aeUa natura, non spera anche oggi d> so4dis.x il e siderio innato di conoscere Ze cause ? ma quale ueiu ore : la scienza gli mostra gli antececleuti a cu, i fe- nonieni se-uono costantemente, ma non le cau^e erji Si questi fenomeni-, di più quei fenomem stessi, dt euf éo. credeva di conoscere già le cause etficienti o " h è o stesso, di comprenderli perfettamente, gheh (1) Phaeiio V^l» (' s^j^. — 885 presenta sotto un nuovo aspetto che ^^lieli fa sombraro incomprensibili. Invece delle cause efficienti che si at- tendeva a trovare da per tutto, non trova da per tutto che semplici antecedenti di sequenze invariabili. Un'altra prova dalla nostra affermazione che la nozio- ne di una uniformità nelle sequenze dei fenomeni non è che un'acquisizione della coltura, e non, come il prin- cipio di causalità efficiente, un prodotto delle tendenze spontanee e cieche dello spirito, la abbiamo in (luesto fatto, che vi hanno dei filosofi aprioristi, come per esem- pio Galluppi (1), che, mentre dichiarano il principio di causalità efficiente uìia verità necessaria e a priori, am- mettono invece che il principio della costanza delle lei:\a'i della natura, cioè, al fondo, della causalità che la scuola scozzese chiama tìsica, è una verità contingente e spe- rimentale. Noi sappiamo infatti che il nostro spirito non ha alcuna disposizione a negare l'origine sperimen- tale di quelle nozioni che Bacone chiama Interpretazioni della natura, ma solo di (pielle che egli chiama antici- pazioni della natura, cioè di queste induzioni spontanea- mente formate, di cui lo si)irito è già equipaggiato ({uando comincia a rivolgere la sua attenzione riflessa sui fenomeni, e che è portato ad estendere ciecamente a tutto ciò che egli incontra. È facile di coinprendere perchè le sole cause che noi ci attendiamo all' origine siano le efficienti; è che, oltre che le seijuenze familiari, le quali, come abbiamo visto, formano la base induttiva del principio di causalità efficiente, sono di gran lunga i più frequenti tra i casi di causazione della nostra espe- rienza, queste causazioni sono .ancora le prime cono- sciute, le sole che noi conosciamo sino ad una certa epoca del nostro sviluppo intellettuale; la frequenza con cui i fenomeni relativi ci colpiscono e la facilità di j)erce- (1) V. JSa(/(/io filosof. 1. 1. e. 4, 1. t. e. s. ]Kirji:^r. ss. 25 - 38H — pirne Ih eounessionc dando loro infallibilmente il primo liio^'o nell'ordine sueces.sivo in cui le varie le^'g'i di caiusa- zione vengono conosciute (T. Prendiamo quest'occasione per osservare quanto sia inevitabile che le nostre esperien- ze determinino in noi la credenza dell'applicabilità uni- versale del principio di causabilità effìdente. Essa si deve, come- abbiamo detto, alla frequenza dei casi di causa- zione efficiente (cioè di uniformità di sequenza, aventi, in rapporto alla nostra conoscenza, questi caratteri psi- coloo'iei |)articolari risultanti dalla familiarità dei feno- meni) che abbiamo conosciuti nella nostra esperienza, frequenza che è assai più grande che quella dei casi di causazione non efficleìdo. Ora notiamo che, per farci una giusta idea di questa frequenza comparativa, noi dob- biamo tener conto, oltre che dell'epoca presente della nostra vita, di <ì|ueirepoca lontana ora obbliata, ma le cui esperienze non cessano perciò d'influire sul corso at- tuale dei nostri |)ensieri, nella (piale i casi di causazione efficiente, cioè delle causazioni che ci sono le più fa- miliari, erano i soli casi di causazione conosciuti. Quale sarà poi il rapporto numerico fra le due classi di espe- rienze, se, conformemente alla dottrina moderna dell'ere- dità psicologica, noi mettiamo pure a calcolo le espe- rienze dei nostri antenati privi di ogni coltura scientifica — antenati la cui serie si prolunga ben lontano, se am- mettiamo la teoria dell'evoluzione — i (juali non potevano conoscere altre causazioni che le causazioni efficienti di cui parliamo V Ciascuna esperienza di ognuno di ({uesti casi di causazione conosciuti lasciava un' impronta nel loro organo del pensiero, impronta il cui vestigio è stato trasmesso sino a noi, contribuendo a costituire, nella no- stra intcdligenza, <]uesta cieca tendenza assimilatrice, di cui (1) ('tv. Sponcci" (Hniisìfìi'n::ìnììc dvUe saiciiz", IV. Dello lo.u;.i;i in u<Mi('i"al«'. 387 il principio della causalità efficiente è il simbolo ver baie; sicché non dobbiamo stupirci se i nostri istinti tendono con tutta la loro forza a ricondurre e assimi- lare tutto ciò che conosciamo a (lueste causazioni fa- miliari, la immensa mole delle cui esperienze esercita sulle nostre idee un'attrazione di una tale energia, che quella delle esperienze di uiraltra natura non è, al pa- ragone, che infinitesima, in ragione delle somme ri- spettive 1 1. (1) Non sart'.bbe soiiza iutcrosse il considerare i fenoiueiii della nietalisiea al punto di vista della teoria dell'evoluzione. A qualcuno avrà potuti» sembrare strano che noi, nell'esposizione dei concetti della nietalisica che si rapportano alla ricerca delle eause etficienti, abbiamo creduto «li ilover riniontare sino alle superstizioni <lel selva,i;jj;io e delTuonio pr<'istoi-ic«). Ma. in verità, la prosapia della nietalisica è molto più antica : noi crediamo che non sia dittìcile cUe le tendenze illusorie fondamentali di unì \v concezioni dei metatìsici som» il risultato, si tn»viu«> . in ^•erme. ne.^li animali superiori. Così per esempio «quella ad assi- milare tutte le causjrzioni a «[uelle che ci sono j>iù familiari, che comprenile i processi di formazioni' di tutti i sistemi rela- tivi alle cause ethcienti. dai piìi naturali e facili ad intendere, quali l'antropcMnortismo orossolano o la spiegazione meccanica universale dei fenomeni tisici, ai più astrusi e artiliciosi, (inali la dottrina delle Idee di Platone o «piella di lle.ocl. \(»i non discuteremo sulla probabilità deiropinione emessa da Comte che lili animali superi<»ri abbiano delle coiicezioni tetieiste : ci contenteremo di ricordare la nota osservazione di Darwin su di un cane. «La tendenza, e-li dice, che hann(> i selva,;».iii ad imnìa<;inare che jili «ghetti e «ili aj;enti naturali siam> animati da essenze spirituali o vitali, ha tors«^ un esenq)ic» in un fatte- rello che iMdei osservare una volta : il mio cane, animale bene svilui>[»ato e molto sensitive», stava sdraiato sul terreno durante una calda e trauipiilla -iornata: ma poco lun-i da esso una lieve brezzolina faceva muovere un ombrello aperto, al ipiale il cune non avrebbe certo badato, se <pialcuno fosse stato viciu«» - Quantunque, come abbiamo detto, il principio della causalità efficiente o metafìsica e quello della causalità tì- a (pieiromlu-ollo. Intanto ogni volta clic «piesto lentamente si muoveva, il cane ln-ont<»lava ed abbinava tìeramente. E«;li do- veva . eredo, aver fatto il raiiionamento tra se in un nnnb» ra- pido e inconsapevole, elie il movimento senza nessuna causa ap- parente imlicava la i>rescnza di «lualclie (estraneo algente vivo, e che nessun estraneo aveva «liritto <li stare sul suo territcu-io. » (Darwin. Orif/. deirnowo, e. 2. verso la fine). Sjieneer fa un'os- servazione analoga su «li un can«; clie ;;iuoeava; con una canna. {Prhìe. di Soeiolof/ia, voi. 1. Ajjp. A). È evidente il rai)porto tra l'inferenza incosciente dvì can<' di Darwin e ([uclla del tì- losofo animista «»;reco clic sjiiejLja l'oriiiinc del movimento nelle* natura per il Nous o rnnima del mondo. L' inferenza, espressa con jKirole, supporrebbe nell'un cast» <> ludl'altro lo stesso ]>rin- ci])i«». cioè che rjinima è la s(da causa pro<luttrice di movimento sjjontaneo. Di ]>iù neirinferenza è sottinteso, neirun caso e nel- Tiiltro, quest'altro princi[>io. c1j<' il s<do movimento di un cor])o inanimato. cIk- )K>ssa spiegarsi mat<'rialmente, è qucdlo che non è spontaneo, cioè che è dovut(» all'urto di un altro corjM». In altri termini, nell'infen'uza noi abbiamo il «ierme d(dla tilosotia antropomoitistica e tinello «Iella tiiosotÌM meccanica, che sono h^ dui' torme più generali della metafisica ajjjdit^ata alla ricrerca delle eause etiicienti, secondo la /triiiu/ forma, che è la più mi- turale, della nozione di causazione ctticiente, «die noi abbiamo studiata sin<> a «[uesto punto «l«d nostro lavoro. Il cane inetufi- sico di Darwin non «*ra capace «li fan* «\spli<'itam«?nte tutto il ragi«mament«> sup})ost«» «lalla sua «•«>n(dusi«>nc. e Darwin ha ra- uione «li dichiaran» (die il ragi«>nam«'nt«> «na fatt«> Jn un mo«lo ineonsa]>evole; ma noi abbiamo già visto «du' le c«>n(dusi«uii «bdla metafìsica risultano «la inf«'r«'nze in<M»scienti. Si può «luìupu3 «lire (die Schopenauer ha tort«> «li «bdìnire l'utniio utt nnhtHtlr nu'fttfìsiro, s' egli intende i»erci«"» attril>uir»^ all' intelligenza «bdl' uoim» una fa«-(dtà speciale: la fac«>ltà in e tu fi sica pu«"> an(die rintrac«darsi neirintelligenza d(d )»rut«K iM>tendo essa definirsi: la tac«dtà «li fan^ inc«>scientemente «Ielle infer«Mize «MHiforim^mente a «MU'te re- g«de. «he s«mio naturali e nnifoi'mi per tutti, ma « h«' in»n«lime- n«> son«> contrarie alla I«);!:ica 389 — sica o semplice uniformità di sequejiza non siano al- l'orig'ine due principii distinti, nìa non vi sia primi- tivamente che un'idea unica della causazione, vi ha neirevoluzione dei concetti filosofici una differenziazione o-raduale di quest'idea primitiva, che arriva infine a un completo distacco fra la nozione di causazione efficiente e quella di uniformità di sequenza, per cui ogni uni- formità di sequenza cessa di essere una causazione effi- ciente, e ogni causazione efficiente cessa di essere unauni- formitàdiseciuenza. Ciò avviene per le modificazioni pro- o-ressive che da un canto la scienza, e dall'altro la metafi- sica, apportano all'idea originale di causazione. Dal suo canto, la scienza scopre sempre di più, contrariamente alle prime aspettative dello spirito, dei rapporti di causazione che non è efficiente, e mostra infine i fenomeni che ci avevano dato l'idea di causazione efficiente, sotto un aspetto nuovo che non ci fa sembrare più i loro rap- porti di sequenza come delle causazioni efficienti; sicché il risultato ultimo è che tra i fenomeni non si trovano mai dei rapporti di causazione efficiente. Dal suo canto, la metafisica disfenontcìuzza, se mi è lecito di dir cosi, ])rogressivamente le cause efficieìifi. Per questo processo essa arriva infine a concepire delle cause che non sono sottoposte alla condizione del tempo, e tra cui e gli effetti non può esservi (juindi un vero rapporto di sequenza uniforme: il processo va anche sì lungi che, come vedremo in seguito, alla sequenza cronologica tra la causa e l'effetto si sostituisce una senplice anterio- rità e posteriorità logica, o, come si dice, di natura. E mentre in quella, che abbiamo chiamato la prima forma dell'idea di causazione efficiente, la causa meta- fisica, se non è un fenomeno, è almeno modellata sulle cause fenomenali; nella seconda forma invece, è il nexus causale semplicemente che viene modellato sulle cau- sazioni fenomenali (s'intende, sulle più familiari), male Bsasss - 390 — cause ultrafenomenali che e si suppongono, non hanno più, come vedremo, la minima anoloo-ia coi fenomeni. Noi possiamo dunque enunciare l'ultima fase a cui arriva naturalmente la differenzazione progressiva tra causazione efficiente e uniformità di sequenza, della ma- niera che segue: tra gli antecedenti delle sequenze in- variabili dei fenomeni e i loro conseguenti non si trova mai una connessione tale che la causa spieghi V effetto^ e che si veda la necessità e la evidenza intrinseca del rapporto tra la causa e T effetto ; e dall'altra parte le cause efficienti^ cioè le supposte cause che possono spie- gare gli efl'etti, e tra le quali e gli effetti si immagina un legame necessario ed intrinsecamente evidente, non sono mai deg-li antecedenti fenomenali né somigliano ad alcun ogg-etto fenomenale. Ma questo completo di- stacco delle due nozioìii della causazione, risultante da una lunga evoluzione del pensiero, non deve far dimen- ticare che esse derivano da uno stesso tronco, e che la loro base originale comune è nelle sequenze i)iù fami- liari della nostra esperienza. All'origine non vi era che un'idea unica di causazione, che riuniva in sé i caratteri ora divisi tra le due idee di causazione fisica o unifor- mitfà di sequenza e di causazione efficiente o metafisica: la causa primitiva era un'antecedente fenomenale, come la causa nel senso di Mill e delle scienze positive, ma al tempo stesso poteva spiegare l'effetto e aveva con esso un rapporto necessario ed evidente intrinsecamente, come le cause ultrafenomenali dei metafisici. GAP. V. LA DOTTRINA DELL'INCONOSCIBILE E l/lDEA DI CAUSA EFFICIENTE. § 1. Entrando a parlare i)articolarmente dei con- cetti che si rapportano alla seconda forma della no- zione di causaliià efficiente, dobbiamo cominciare per la dottrina che ammette, al di là delle seciuenze uniformi tra i fenonuMii, delle cause efficienti sconosciute e inco- noscibili. E in'effetto, dopo che si è riconosciuta lim- possibilità di soddisfare il bisogno che ha l'intelligenza di cause efficienti, conformemente alla tendenza spon- tanea dello spirito di assimilare tutti i fenomeai a quelli che ci sono i più familiari, la forma più naturale che prende la nostra credenza nell'esistenza di queste cause, è di relegarle nella regione dell'inconoscibile. Quantun- que l'ipotesi di cause efficienti conoscibili possa coesi- stere con quella di cause efficienti inconoscibili, in altri termini, quantunque sia possibile di supporre che, mentre alcuni fenomeni sono spiegabili i)er cause efficienti fe- nomenali o concepite sul tipo di queste, altri fenomeni invece sono inesplicabili e dovuti a cause efficienti me- taempiriche e inconoscibili ; la forma più coerenti^ che prende la supposizione di cause efficienti inconoscibili è la dottrina, prevalente nella filosofia contemporanea, SSb! — 31)2 — che non ci è uè ci sarà inai possibile in alcun caso di asseonare la causa efficiente di un sol fenomeno, e che tutti^ i fenomeni sono dovuti a cause efttcienti che non cadono né potranno mai cadere sotto le prese della no- stra conoscenza. La dottrina non si limita ad ammettere che, nelle condizioni attuali delle conoscenze umane, le caiiU efficienti dei fenomeni sono sconosciute, ma essa aWriiia che, per la natura stessa della nostra conoscenza, (jueste cause sarann(» sempre sconosciute, e che, quan- d'anche la scienza pervenisse, in un lontano avvenire, a dan^ di tutti i fenomeni la sola spie^-azione a cui essa può* aspirare, cioè a conoscere le leo^-i primitive della loro successione, e a mostrare in dettaolio come ciascun fenomeno accade in conformitcY di (|ueste leggi, anche allora noi jo-uorerennno le cause produttrici dei feno- meni, (iueste leo-i primitive a cui tutti i fenomeni po- tranno ricondursi non potendo far conosce che gli an- tecedenti di sequenze invarial)ili e incondizionali, ma non mai le vere cause, cioè le cause efficienti. E questo il credo della più parte dei filosofi e de<>-li scienziati contemporanei, che in un congresso scientifico è stato formulato col celebre motto : [giwmmus et ìgiiorabimm. Il ì>rincipio su cui si basa la dottrina delle cause efficienti inconoscibili è che una causa fisica, l'ante- cedente di una sequenza invariabile tra fenomeni, non è mai una vera causa cioè efficiente, e ciò perchè la causa, se è seguita costantemente daireffetto, non può però si>ìPqaìio[^\\e\ senso popolare e metafìsico della parola spiegazione) e non vi ha tra la causa e l'effetto un legame 7ieces.s-or/o né evidente intrinsecamente. Di là se ne inferi- sce che i fenomeni hanno delle cause efficienti ultrafeno- menali inconoscibili. K evidente che il presupposto di que- sto ragionamento è che ogni fenomeno deve avere una causa efficiente — cioè una causa che possa spiegare l'ef- fetto e tra la quale e l'effetto vi sia un legame necessario 398 ed intrinsecaìnente evidente - e non semplicemente una causa fisica, cioè un semplic(^. antecedente a cui il feno- meno segue invariabilmente. La dottrina ammette perciò che la chiusa efficiente di ciascun fenomeno, quantumiuc^ sia sconosciuta, è tale però che, se essa fosse conosciuta, spiegherebbe l'effetto, e si vedrebbe che essa ha con l'ef- fetto un legame necessario (mì intrinsecamente evidente. E così che''(iaesta dottrina si rapporta a ciucila che ai)- biamo chiamato la seconda forma della nozicme di cau- sazione etlficiente : non sono infatti le cause supposte che vengono foggiate sul tipo delle cause più familiari, nìa è il nexus che si suppone tra (iueste cause e i loro effetti che viene foggiato sul tipo del nexus dc^Ui^ cau- sazioni più familiari. ^ 2. L'attermazione che noi non conosciamo le cause efficienti dei fenomeni o, come dice Comte, il loro modo essenziale di produzione, è legata con un' altra, cioè che noi non conosciamo l'essenza o la natura intiiìia delle cose. L' essenza o la natura intima delle cose e riouardata come un che di sconosciuto in esse che, se noi lo conoscessimo, ci spiegherebbe tutti i fenomeni che esse ci presentano (1). Si snpi)one che se la succes- sione deali avvenimenti non ci mostra tra loro questa connessio'iie necessaria, intelligibile, intrinsicamente evidente, che noi immaginiamo dover esistere tra le cause e oli effetti, è perchè noi non conosciamo delle cose che alcune proprietà e avvenimenti staccati; mentre se conoscessimo la realtà d'una maniera ade(|Uata, noi po- tremmo indovinare, dalla seiìiplice vista della costitu- zione o natura delle cose, la loro maniera di agire e di patire in tutte le differenti circostanze, e allora noi sa- premmo, non solamente che. ma perchè a certe cause sea-uirebbero certi eftetti, e le successioni costanti degli 1) CiV. Mill. Fiìos. (li Hamilton tiad. fniiic. p. 1:5. — -as 394 avvenimenti non sarebbero più incomjirensibili, come sono attualmente per la limitazione delle nostre cono- scenze. Cosi questa proposizione che noi non conosciamo l'essenza delle cose, non è che un'espressione diversa, ma al fondo equivalente, dell'altra proposizione che noi non conosciamo le cause efficienti dei fenomeni. Si am- mette, è vero, che sono tutte le proprietà delle cose che derivano dalla loro essenza, e che potrebbero esserne spieo-ate: ma le proprietà dei corpi sono, sovratutto nella scienza moderna, le potenze che essi hanno di esercitare qualche azione sovra altri corpi, o di subire qualche pas- sione da parte di altri corpi. Per consequenza, la prin- cipale supposizione, implicata nella proposizione che noi non conosciamo l'essenza delle cose, è che le maniere di agire e di patire dei corpi, cioè al fondo tutte le legg-i di causazione, attualmente per noi inesplicabili, noi po- tremmo spiegarle, se potessimo conoscere queste sup- poste proprietà sconosciute che costituiscono l'essenza dei corpi '1). La nostra pretesa ignoranza dell'essenza delle cose non essendo dunc^ue altro, al fondo, che la nostra [)retesa ignoranza delle cause efficienti, ne segue che, se 1' idea di causa efficiente non ha valore obbiet- tivo, e se, quindi, spiegare un fatto vuol dire seniplice- mente mostrare come esso si conforma alle leggi generali delle sequenze dei fenomeni, e non assegnargli delle cause che abbiano con l'effetto una connessione neces- Harla e che ci sembri comprensibile e intrinsecamente evidente; noi dobbiamo affermare che conoscieamo, o al- meno che siamo capaci di conoscere, l'essenza delle cose, perchè l'essenza d'una cosa non può essere altro che l'in- sieme dei suoi attributi, e tranne il mistero che ci sembra trovare nelle leggi dei fenomeni, niente ci indica che al di là degli attributi conoscibili di ciascuna cosa, ve (1) Cfr. Apj). al e. t). — 395 ne hanno altri più fondamentali da cui essi derivano, e che sarainio per sempre inconoscibili. § 3. É vero però che quando si dice che noi non conosciamo l'essenza delle cose, questa proposizione im- plica, oltre la pretesa ignoranza in cui siamo delle, cause efficienti o del modo reale di produzione dei fenomeni, la mancanza di una vera realtà in quegli attributi delle cose che noi conosciamo. La dottrina della inconosci- bilità della essenza delle cose, o, come si dice in altri termini, della relatività della nostra conoscenza, viene presa in due sensi : alcuni di quelli che sostengono questa dottrina la prendono semplicemente nel senso che si rapporta alla pretesa inconoscibilità delle cause efficienti ; altri la intendono in un senso più compren- sivo, ammettendo, non solo che noi non conosciamo le cause efficienti, ma ancora che tutto ciò che noi cono- sciamo delle cose non è che relativo al nostro modo di percepirle, e che qualsiasi attributo delle cose in se stesse ci è assolutamente sconosciuto. Noi possiamo aggiungere infine che oltre alla im- possibilità di conoscere le cause efficienti e alla relati- vità delle nostre percezioni, vi ha anche un terzo fon- damento della dottrina delTinconoscibile : è che lo spi- rito umano, quando vuol formarsi una concezione coe- rente delle cose, sembra incontrare certe alternative di proposizioni contraddittorie, di cui 1' una o l'altra do- vrebbe essere vera, ma di cui non si può ammettere né runa né l'altra, essendo egualmente, come si dice, in- concepibili. Le sorgenti della dottrina dell'inconoscibile sono quelle stesse della metafìsica in generale; daper- tutto là dove la metafisica dogmatica trova un essere me- taempirico con attributi determinati, l'agnosticismo con- temporaneo trova invece l'Inconoscibile. I tre fondamenti della dottrina dell'inconoscibile, corrispondenti alle tre sorgenti principali della metafisica (almeno nel senso - 89() — più stretto di questa parola), non possono essere trat- tati che in parte distinte di questo Saggio: dei due ultimi partiremo nella 2^' parte — perchè, come Kant ha compreso perfettaiìieate, la quistione delle antinomie di- pende da quella della cosa in sh — ; in questa non possiamo occuparci che del primo, cioè quello che si riferisce all'idea di causa efficiente. E <|Uesto il solo fondamento su cui si basa la teoria nel positivismo comtiano. Littrè dice: «Peri filosofi in- glesi il principio (della relatività delle nostre conoscenze; è psicologico, e risulta dalla natura della nostra facoltà di conoscere ; per Comte esso è empirico, e risulta da questo fatto che in ogni scienza positiva si è arrivato a un fatto, a un fenomeno, al di là del quale non si é potuto andare ^^ il . Com'è che questo fatto che in ogni scienza positiva si è a r riatto a un fenomeno al di là del quale lìon si r potido aììdare, j)rova la limitazione della cono- scenza, e r esistenza di qualche cosa posta al di là di questi limiti? Littrè intende dire che le leggi, i prin- cipii ])iù generali a cui la scienza riconduce i fenomeni, non possono spiegarsi, e di là ne conclude che vi hanno, al di là del conoscil)ile, dei principii ulteriori da cui essi derivano. In verità il fatto che ogni scienza arriva in- fine a dei fenomeni, cioè a delle leggi, al di là di cui non i)uò andare, lungi di provare la relatività della no- stra conoscenza, sembra anzi una condizione indispen- sabile della possibilità di una conoscenza reale. Se infatti ^i annnettesse che ciascuna legge potesse sempre dedursi da leggi superiori o più generali, in modo che questo lavo«-o di deduzione andasse all'infinito, ciò sarebbe am- mettere, che non vi hanno leggi primitiv^e o aventi il più alto grado di generalità, il che tornerebbe a dire che non (l) Littn* Amj. Cnìntv v Shtarf-jniì. I V. (Fnnimi. di Hh^sotia posit. jitiu. 274). 397 vi hanno aflatto leggi, le vere leggi essendo le primi- tive, cioè le uniformità di sequenza invariabile e iucon- dizionale dei fenomeni. Perchè dunque Littrè suppone che deve esservi ancora qualche cosa al di là di queste leggi primitive, di queste uniformità di sequenza invaria- bile e e incondizionale? Perchè esse gii sembrano aver bisogno di una spiegazione; perchè in queste uniformità di sequenza l'antecedente non può spiegare il conseguente, e non vi ha tra l'antecedente e il consequente un legame neeessario e di un'evidenza intrinseca; in altri termini perchè egli nel suo ragionamento sottintende, come evidente per sé stesso . il princi])io che ogni fenomeno deve avere, non solo un antecedente a cui questo fe- nomeno segue invariabilmente, ma ancora una causa diffidente, cioè una causa che possa spiegare l'efPetto, e che abbia con 1' (^fletto un legame necessario e di una evidenza intrinseca. In Spencer la teoria dell'inconoscibile è basata su tutti e tre i fondamenti che noi abbiamo assegnato a questa teoria : quello di essi di cui attualmente ci oc- cu])iamoè esposto di una maniera generale nel paragrafo 2o dei Primi Principii. In questo paragrafo Fautore vuol dimostrare la natura impenetrabile delle cose in se stesse e la relatività della conoscenza per una deduzione tirata dalla natura stessa della nostra intelligenza e fondata sull'analisi dei prodotti del pensiero. Perciò egli mostra con esempi che comprendere, spiegare, un fatto parti colare è vedervi un caso di (pialche legge o di certe leggi, e che spiegare, comprendere, ciascuna di (lueste leggi è vedervi un caso di qualche legge o di certe h^ggi più generali, ciascuna delle quali alla sua volta potrà essere compresa o spiegata riconducendola a una legge o a leggi più generali ancora ; e dopo ciò conclude : «Questa operazione è limitata o illimitata? Possiamo noi andare sempre avanti spiegando le classi di fatti 'ódb rapportandoli a delle classi più larghe, o dobbiamo noi arrivare a una classe più larga che tutte le altre? Da un lato, la supposizione che l'operazione è illimitata, se vi fosse (jualcuno tanto assurdo da sostenerla, impliche- rebbe ancora che una spiegazione prima non può essere ottenuta, poiché per ottenerla bisognerebbe un tempo infinito. Da un altro lato la conclusione inevitabile che r operazione è limitata (conclusione provata non solo dai limiti del campo d'osservazione che s'apre dinnanzi a noi. ma anche dal decrescimento del numero delle ge- neralizzazioni che accompagna necessariamente l'ac- crescimento della loro larghezza) implica egualmente che il tatto ultimo non può essere compreso. In effetto, se le generalizzazioni sempre più avanzate che costitui- scono il progresso delle scienze non sono altro che delle riduzioni successive di verità speciali a verità generali, e di queste a più generali ancora, ne risulta evidente- mente che la verità che é la })iù generale non potendo essere ricondotta ad una più generale, non \niì) essere spiegata. E evidente che, poiché la conoscenza più ge- nerale a cui noi arriviamo non può essere ridotta ad una più generale, non può essere compresa. Dunijue necessarianunite la spiegazione deve metterci in presenza deirinesjdicabile. La verità più avanzata che noi possiamo attingere deve necessariamente essere inesplicabile. La parola comprendere deve cangiare di senso prima che il fatto ultimo possa essere compreso». Ciò che è notevole in questo luogo di Spencer è che, mentre V autore si diffonde a provare ciò che in verità non avrebbe bisogno di essere provato, cioè la necessità che vi siano delle leggi più generali di tutte che non possono derivarsi da leggi più generali ancora, egli non spende invece una parola per giustificare la connessione tra questo fatto e la conclusione a cui egli vuol farlo servire, cioè l'esistenza di qualche cosa inac- - 399 - cessibile alla nostra conoscenza. E questa connessione intanto che avrebbe bisogno di essere provata; ma essa sembra a Spencer evidente per se stessa: come Littrè nel luogo più breve, ma della stessa portata, che abbiamo prima citato, egli non trova nemmeno necessario enun- ciare il princijìio che è la premessa della sua conclu- sione, lo sottintende. Ma se noi vogliamo sviluppare l'in- ferenza che Spencer fa d'una maniera rapida e, noi non osiamo dire per rispetto a un si grande, pensatore, in- consapevole, noi troviamo anzitutto (luesto ragionamento: Le leggi più generali della scienza avrebbero bisogno di essere spiegate; ma esse sono i)er noi ines[)licabili; dunque ciò che potrebbe spiegarle è inaccessibile alla nostra conoscenza. Spencer si estende a provare che queste leggi sono inesplicabili, ciò che è vero, poiché, nel senso scientifico, spiegare dei fatti è ricondurli a determinate leggi, e si)iegare delle leggi è ricondurle a leggi più generali : ma ne segue che la nostra cono- scenza è limitata? Ciò non se ne può concludere, se non si ammette prima che queste leggi dovrebbero essere spiegate. Spiegate nel senso scientifico? no, jierchè non potrebbe annnettersi senza supporre come vero un princi- pio assurdo econtradditorio, ciocche siano possibili in atto dei gradi infiniti di generalità progressiva, ciò che, come abbiamO'detto, annullerebbe il concetto stesso di lea'^-e, oltre ad implicare l'assurdità di un infinito in atto. Spie- gate dunque nel senso popolare o metafìsico. Ma perchè dovrebbero essere spiegate ? (in questo senso che ab- biamo detto). Perchè per se stesse sono incom])rensibili (nel senso di questa parola che corrisponde al senso indicato della parola spiegare)—dfiì\ìi incomprensibilità, in questo senso, delle leggi che sin qui la scienza ha scoverte, Spencer ne induce che saranno similmente in- comprensibili anche quelle più generali che potrà sco- prire per l'avvenire — . Che significa dunque, in sostanza, \ *"^1iTi'^'TF""'71''g IWii »smmmmmmmmm — 400 — il rao-ìoiijunoiitodi Spencer? Che leuiiitoniiità di sequenza più o-enerali a eui la scienza rieonduee i fenomeni, cioè le lea'ii'i di causazione, essendo in se stesse incomprensibili, poicliè la causa non spiega l'effetto, e non vi lia tra la causa e l'effetto un leo-ame evidente i)er se stesso, ne segue la necessità delT esistenza d" un intermediario esplicativo che [)otrel)l)(». farle cowprevdere, e ciò in conseguenza del principio che ogni fenomeno deve avere una causa, che non sia soltanto un antecedente a cui il fenomeno seii'ua costantemente, ma che sia efficiente, cioè che jìossa s/>if\(/are l'effetto, e tra la (juale e l'effetto vi sia. \\u ì(^ii'ame evidente per se stesso. Siccome questi intermediari csj)licativi. c[ueste cause efficienti, non ci sono mai mostrate dalla scienza, egli ne conclude la limitazione ch^Ila nostra Incolta conoscitiva e 1' esi- steìiza di qualche cosa al di là dei limiti del conoscibile. E chinro così che ruiìo dei fondaiuciiii della teoria del- l'inconoscibile è, anche in Spencer, il princi|)io di cau- salità efficiente. ^ 4. Ora (jual è la solidità di ([uesto fondamento? Sarebbe iiiutih' di dimostrare contro i teorici dell'inco- noscibile che il principio di causalità efficiente non può essere provato dall' esperienza, perchè è ciò che essi ammettono implicitamente, quando affermano che nessuna causazione dell'c^sperienza, nessuna sequenza tra fenome- ni, è una causazione efficiente. Forse si dirà che se questo principio non può esso stesso stabilirsi indutti- vamente, può forse dedursi da qualche principio più generale, capace di essere stabilito induttivamente. Ma il princi[)io di causazione essendo la legge più univer- sale debile sequenze tra i fatti, (piesto principio più ge- nerale dovrebbe essere una uniformità che abbracciasse, insieme alle sequenze, tutti gli altri rapporti trai fatti. Sarà dunque il ])rincipio che ogni rapporto costante tra i fatti fcononosciuto nella sua natura reale) deve essere — 401 intelligibile, necessario ed evidente intrinsecamente, (come quello tra la causa e l'effetto j. E nel fatto, come vedremo nell'Appendice al capitolo seguente, è ([uesto il presupposto generale implicitamente ammesso dalla metafìsica. Ora anche questo principio j)iù generale, di cui quello di causalità efficiente non sarebbe che un caso, è impossibile, secondo il teorico dell'inconoscibile, di provarlo per V esperienza, perchè quando egli affer- ma che non conosciamo Vessenza delle cose, egli suppone che la conoscenza di questa essenza sarebbe la sola che potrebbe spiegare^ non solo le sequenze costanti, ma tutti i rapporti costanti tra i fatti dell' esperienza (per esempio la coesistenza uniforme delle proprietà nelle diff'erenti classi delle cose). Egli ammette quindi che tutti i rapporti costanti dell' esperienza (tranne forse quelli che formano l'oggetto delle matematiche pure), e non le sole causazioni, sono egualmente miste- riosi, e non ci mostrano questi veri legami, analoghi a quello di causazione efficiente, e supi)OSti dal priiKMpio generale di cui quello di causazione efficiente non sa- rebbe che un caso. Il principio di causazione efficiente, 0 quello più generale da cui si dedurrebbe, il teorico dell'inconoscibile non può dunque annnetterlo che per la sua evidenza intrinseca; ciò vuol dire che egli deve riguardarlo come una verità a jrnori. ]Ma, come abbiamo mostrato sul Saggio 1. (1), tutte le nostre cono- scenze si dividono in due campi : le une sono esistenziali^ cioè affermano che le cose esistono, che esistono cosi o così, che esistono in tale o tal altro ordine di secjuenza o coesistenza, ecc.; le altre non stal)iliscono niente sul- l'esistenza, sulla realtà, ma affermano solamente che degli oggetti, reali o possibili, paragonati fra di loro, hanno certi rapporti di somiglianza o di differenza (di (1) V. s[K'cialiiicntc ca[). '^. 28 - 402 - cui il caso più notevole è reg'iiaglianza o ineguag-lianza detiuita tra le grandezze/; di queste due classi di cono- scenze, le seconde possono essere a priori^ ma le prime sono sempre a j)osferiori. Ora è evidente che il princi- pio di causalità (efficiente o non efficiente) deve essere aggregato alla prima classe di conoscenze, alle esi- stenziali : ammettere dun(|ue che non derivi dall'espe- rienza sarebbe ammettere che esso è un fatto eccezio- nale e inesplicabile (inesplicabile nel solo senso legitti- mo che può avere questa j>arola, che deve applicarsi nei casi in cui un fatto non può ricondursi a leggi ge- nerali, tanto più se, come nel nostro caso, è in contrad- dizione con esse), oltre che sarebbe andare incontro al l'altra difticokà evidente della dottrina delle conoscenze a priori, tutte le volte che essa si estende a delle pro- posizioni oistenziali, di ammettere una coincidenza in- conuM-ensibile tra il pensiero e la realtà, che non è stata formata dalla impressione della realtà stessa (1). (1) V. Sa.iinio 1. e. :\. v^ <». Notiamo. ]h'ì' im-idcMite. mia diticrcuza del principio dì cau- salità ofticioiito — conic di «pialsiasi altro priiii'ii)io chdlo stesso or<line, su i-ui il iiietalisico si fonda, eoseientenieute o ineoscieii- teiiieiite. ]K'1- ista])ilire le s\m realtà iiictaeiiipiriehe — eoii le al- tre eoiioseeiize a ]>rioi"i o jnetese tali : queste, per esenijiio un as- sioma matematico, si veritieanM uel mondo deiresperienza. e pos- sono essere ([uindi confermate da (piesta : quello non ])uò do- inandare alcuna conferma alla ^realtà, j)erehè non si realizza che nel mondo metampirico del metatisico — Noi a))l>iamo dette» nel test<» che. s(> si esclude Torini iiu' induttiva del principio di eau- vsalità ettìciente. deve ammettersi come evidente intrinsecanieuto, cioè per se stesso. Ciò perchè esso viene riguardato generalmente come un assioma, ed ammesso implicitamente come tale (cioè eouic evidente j)er se st<'sso) anche da <iuelli che non i^rofessano la dottrina «Ielle conoscenze a i)riori. Tuttavia potrebbe anche HUppt)rsi che esso mui sia evidente per se stesso, ma possa de- 403 - Vi ha, a dir vero, oltre alle conoscenze intuitive delle somiglianze e delle differenze, un altro elemento nella nostra conoscenza, che non risulta dall'esperienza, e che noi dobbiamo ammettere senza prova induttiva, e generalmente senza alcuna prova : sono dei postulati implicati in ogni atto deirintelligenza, e che noi ammet- tiamo praticamente per la semplice ragione che faccia- mo uso deirintelligenza stessa (cioè : che la memoria non c'inoanna, che le somiglianze e le differenze ])ercepite col pensiero corrispondono a quelle delle cose stesse, e che noi abbiamo il dritto di fare delle inferenze dal pas- sato all'avvenire, dall' osservato al non osservato) (1). Di questi postulati sarebbe assurdo di domandare le prove, perchè non vi ha prova possibile che non sup- ponga la loro ammissione: per la stessa ragione sarebbe assurdo cercare d'infirmarli, poiché per ciò si dovrebbe far uso del ragionamento, per conseguenza ammettere questi postulati, e mettersi quindi in contraddizione con se stesso. Questi postulati si ammettono dunque, in un senso, a priori. Ma si deve notare che essi non affer- mano niente sulle cose, e non sono essi stessi delle co- noscenze (quantunque senza di essi non vi sia conoscenza possibile): le proposizioni in cui possono formularsi non <lursi da «gualche principio più primitivo evidente p(u- se stesso. Ma se la deduzione fosse logica (vale a dire se fosse ecmforme al tipo e alle regole di ciò die i h)giei chianiauo deduzione, e non una di quelle pretese deduzioni di eerti nietatisici. tli cui Hegel non ci dà che l'esempio piìi segnalato), il principi.) i»iù primitivo da eui (piello di causalità ettìciente^ si de<lurrebbe, ùo- vrebbe essere una legge più generale, elie comprendesse, eonie uno dei suoi easi. anche quella <lella causalità etìiciente. Per ^.^.ousegueuza (piesto princii)io più ])riinitivo sarebbe ancora una proposizione esistenziale, soggetta egualm-^iite alle obbiezioni indic-itc nel te>to contr» rajrioL-ltì «li tili p.-.);) »>iziu!ii. (1) V. Sa (f II lo l. e. 1). v> 15. — 404 espriiiioiio che la sicurezza che accompagna le opera- zioni della nostra intelligenza, la fede che noi abbiamo nelle nostre facoltà conoscitive, il dritto, che ci affer- miamo, di attenderci che le nostre funzioni mentali, nor- malmente compiute, non ci condurrano all'errore, ma alla verità. Ma quando facciamo un' affermazione sulle cose stesse, quando abbiamo o crediamo di avere una conoscenza, ciò non può essere che un risultato delT im- pressione delle cose stesse, cioè dell" esperienza, salvo la sola eccezione che abbiamo indicata, cioè le semplici intuizioni delle somiglianze e delle differenze. Ne segue che, il principio di causazione efficiente non potendo nm mettersi come una verità evidente per se stessa nò come dedotto da qualche altra verità evidente per se stessa — perchè tali verità sarebbero delle conoscenze a priori, e queste non concernono mai l'esistenza—; e dal- l'altra parte non potendo essere provato dall'esperienza— perchè non vi ha altra prova che un' induzione, o una deduzione tirata da un princijìio generale stal)ilito da un'induzione precedente — ; il |)rincipio di causazione ef- ticiente non ha una i)ase possibile su cui fondarsi, e non possiamo attribuirgli alcun valon^ obbiettivo. Il teo- rico deirinconoscibile dirà che il criterio della verità non può essere al postutto che V evidenza, e che noi dob- biamo ammettere il principio di causazione efficiente perchè esso ci forza a riconoscerlo per la sua evidenza stessa (qualunque sia d' altronde la sua base e la sua origini'), senza cercare delle prove, come ammettiamo, senza cercare delle prove, i postulati di cui sopra, im- plicati in ogni atto della nostra intelligenza. E nel fatto l'argomento, preteso perentorio, della scuola intuitiva, per giustificare le credeiìze ìiatumli del f/enere uma- no. Il principio dell'inconcepibilità della negativa di Spencer non ne è che un' altra forma, e non contiene di nuovo che» un'esagerazione. Le cr(;denz(^ naturali del, 405 — genere umano, o piuttosto le proposizioni che i meta- fìsici vi sostituiscono, non hanno mai per sé l'inconce- pibilità della negativa ; questa non si trova mai nelle proposizioni sull'esistenza, e non è propria che degli assiomi matematici e di altre proposizioni simili, di cui nessuno ha contestato o contesterà mai la verità. Questo criterio è dunque inapplicabile nei casi in cui vi avrebbe bisogno dell'applicazione dì un criterio. Fatta dunque deduzione dell' esagerazione contenuta nel principio di Spencer (cioè l'elevazione ad assoluta necessità del pen- siero di ciò che non è che una tendenza naturale del pensiero), non resta, per giustificare l'idea di causazione efficiente e tutte le altre induzioni incoscienti che si tro- vano alla base di ogni concetto metafìsico, che l' argo- mento dell'evidenza, quale noi sopra 1' abbiamo formu- lato. Óra quest'argomento non è concludente, sovratutto per due ragioni: 1. L'esistenza di ciò che Bacone chiama o'VidoIa trihns, cioè le illusioni naturali dello spirito umano. Queste s'impongono talvolta così universalmente e con una forza tale da meritare più che qualsiasi altra affermazione il nome di credenze lìatamU del (jenere urna- vo e o-iuiioono a un tal grado di evidenza, che se non va sino all' inconcepibilità della negativa richiesta da Spencer (che, come abbiamo detto, non si trova mai nelle proposizioni sull'esistenza), non è certo minore che quello del principio di causazione efficiente o di qualsiasi altro su cui sono fondati i concetti metafìsici. L'esempio migliore è la credenza che il colore, il sapore e le altre qualità sensibili sono delle proprietà obbiettive dei corpi stessi, e non delle semplici sensazioni nostre, come am- mette il teorico dell'inconoscibile, e in generale ogni spi- rito coltivato. Gì' klola tribus sono generalmente delle affermazioni che hanno l'aria di darci delle conoscenze, e delle conoscenze sìdr esistenza; per conseguenza essi non possono risultare che dall'esperienza. Così essi devono - 406 — 407 — spargere un legittimo sospetto sulla validità, come criterio, dell' evidenza intrinseca d'una proposizione, quando questa volge, com' essi, sull'esistenza, ed è anche perciò, com' essi, un risultato dell'associazione delle idee e dell' esperienza. Ma questo sospetto non può estend(5rsi alle due altre categorie di affermazioni di cui ammettiamo la verità indipendentemente dal- l'esperienza, cioè i postulati di cai sopra, implicati in ogni esercizio dell' intelligenza (e che, come abbiamo detto, non costituiscono per se stessi delle conoscenze), e le conoscenze intuitive delle somiglianze e delle diffe- renze. E ciò tanto perchè gl'idola tribus non si trovano che in un'altra categoria di proposizioni, aventi un'ori- gine e un contenuto differenti, quanto perchè ogni dubbio su queste due categorie ci è assolutamente impossibile. 2. L'evidenza intrinseca d'una proposizione, se questa non è una semplice intuizione di somiglianza o di differenza — nel (jual caso ammettiamo che l'evi- denza intrinseca è un criterio della verità, e non pos- siamo non ammetterlo, la negativa, in tal caso, essendo realmente inconcepibile — non può essere che un risul- lato dell'esperienza, per consegnenza di un'inferenza, le cui ]ìremesse si trovano nell'esperienza j)assata, quan- tunque attualmente non ne abbiamo coscienza. In una parola, una proposizione sull'esistenza, che ci sembra evidente per se stessa, non è in realtà che un'inferenza incosciente. Ma se è così, non vi ha alcuna ragione per- chè non dobbiamo sottomettere una tale inferenza ai cri- teri di tutte le altre inferenze, cioè esaminare, secondo i canoni della logica, se essa è stata ben tirata, se le sue premesse la giustiiicano, in una parola se si conforma ai tipo di un'inferenza legittima. Ma allora l'evidenza intrinseca finisce di essere un criterio, e la prova della verità sta nell'esperienza. Ciò mostra come il criterio dell'evidenza intrinseca non è solamente insufficiente, ma #, m è necessariamente fallace. Infatti, quando è che s'invoca questo criterio ? Quando la proposizione non si può pro- vare per l'esperienza. Ma una proposizione che deriva dell'esperienza — quali sono tutte le proposizioni sull'e- sistenza, alla cui categoria appartengono tutte quelle di cui è quistione nelle controversie filosofìche — e intanto non si può provare per Tesperienza stessa, è necessa- riamente un'inferenza illegittima, un'induzione che le sue premesse possono spiegare come fatto psicologico, ma senza poterla giustificare come conclusione logica. Questa considerazione generale trova la conferma ])iii evidente nell'esame dei fatti particolari. L'inferenza per cui concludiamo il principio di causalità efficiente (co- me qualsiasi altro tra quelli presupposti, esplicitamente o implicitamente, dal metafisico) non può farci illusione che sinché la facciamo incoscientemente, accettandone il risultato come nna verità evidente per se stessa. Per distruggere l'incanto, basta elevarla alla luce della co- scienza : allora non ci resta che la sorpresa come l'at- tività cieca del nostro spirito, con un'imitazione così im- perfetta dei nostri processi logici coscienti, possa pro- durre un'evidenza, a cui giungono raramente i più ri- gorosi di questi processi. §. 6. Il punto di partenza dell'inferenza sono, come abbiamo detto, le causazioni efficienti sperimentate, cioè le sequenze molto familiari tra fenomeni che noi ab- biamo conosciute nell' esperienza passata. Siccon)e in queste causazioni, le cui esperienze si sono organica- mente fissate nel soggetto pensante, la causa ha sj>ie(/ato l'effetto e si è trovato tra la causa v l'effetto un legame necessario e di un'evidenza intrinseca, il teorico dell'in- conoscibile ne inferisce incoscientemente che ogni feno- meno è dovuto a una causa che. ])otrebbe spiegare l'effetto, (cioè dare all'intelligenza questa soddisfazione particolare che si trova in ciò che diciamo una spiegazione^ nel senso — 408 po{)olare o metali^ico) e tra cui e Peffetto potrebbe tro- varsi un legame ìiecessario e di un'evidenza intrinseca. Tali cause non essendo da noi conosciute, eg'li ne con- clude che esse non sono dei fenomeni, che sono ultra- feììoinonali, sovrasensibili, inconoscibili, tali i)erò, che, se noi jiotessimo conoscerle, esse ci apiegherehheì'O \ loro ettetti, e troveremmo tra esse e g'ii effetti un legame ììecessario e «li un'evidenza intrinseca. Oi'a, è evidente che la teoria dell'inconoscibile, per quanto si riferisce alle cause ethcienti, o, come dice Conite. al modo essenziale di produzione dei fenomeni, non ha alcuna base reale. In effetti, primo, la base in- duttiva dell'inferenza incosciente che conclude all'esisten- za di cause efficienti, è stata distrutta dalla scienza ; poiché ((uesta, ciniie abbiamo visto, ci presenta sotto un nuovo aspetto (piesto sequenze che, nel periodo j^re- scientifico, ci sembrano perfettamente comprensibili per se stesse, necessarie, intrinsecamente evidenti (in una parola causazioni elilicienti) solo perchè sono familiari, e cosi risulta che, se le altre sequenze sono misteriose, queste non sono meno, anzi più, misteriose delle altre e i lorc> antecedcmti non possono, più che (juelli delie- altre, essere riguardati come cause efficienti. E i teorici dell" inconoscibile non sostengono meno, anzi più forte- nuMite degli altri tìlosofi, che le stesse sequenze più fami- liari sono incomprensibili, e che i loro antecedenti non pos- sono essere riguardati come cause efficienti. Ma, secondo, quand'anche la scienza non avesse distrutto la base indut- tiva del principio di causalità efficiente, cioè quand'anche gli antecedenti delle sequenze juolto familiari potessero ancora riguardarsi (dopo la riflessione scientifica) come cause efficienti, cioè come cause capaci di spiegare i loro offV'tti. e aventi con questi eft'etti un ra])porto iiec.f'ssario ed intrinsecannMite evidente, siccome (piesf attitudine d<'lla causa a spiegare l'effetto e (piesta necessità ed evi- — 40Ì) denza intrinseca del rai)porto non derivano che dalla fa- miliarità della causazione, non se ne potrebbe concludere che tali caratteri devono trovarsi in tutti i rapporti di causazione reale, se non ammettendo al temjìo stesso che tutti i rapporti di causazione reale devono ridursi a delle causazioni molto familiari. In altri termini la conclusione del filosofo antropomorfìsta o del filosofo meccanista, la quale anunette inqjlicitamente il princij)io che tutte le causazioni reali devono ridursi alle causazioni |)iù fa- miliari dell'esperienza, si conforma sino ad un certo pun- to al tipo di un'inferenza legittima: il i)rincit)io gene- rale che serve di premessa è una vera e i)r()[)ria genera- lizzazione dell'esperienza (quantunque non una vera e pro])ria induzione), nella quale vi ha un' id(mtità reale fra tutti i casi che essa conq)rende, tra la ])arte data di questi casi e la })arte ammessa per conclusione essen- dovi di comune questa circostanza identica, che si tratta in ciascun caso di un raf porto di causazione alla cui nozione sono proj)ri quei caratteri psicologici per cui la nozione di una causazione familiare si distingue da «quella di una causazione che non è familiare. Ma il principio generale implicitamente ammesso nella conclusione del teorico dell'inconoscibile, o, [)iù generalmente, di tutti i metafisici che concepiscono le cause effici(Miti secondo quella che noi abbiamo chiamata la seconda forma, cioè la ulteriore e modificata, dell'idea di causazione efficien- te, non è una vera generalizzazione dell'esperienza, per- chè tra i casi compresi nella g(Mieralizzazìo;ie non vi ha un'identità reale, ma tra la [)arte data di (juesti casi e la parte annnessa per conclusione non vi ha invece che una vaga analog'ia : i caratteri psicologici che si ammettono dover esistere nella nozione delle causazioni concluse (supposto che noi potessimo avere questa nozione), vale a dire l'attitudine della causa a spiegare l'eff'etto e la ne- cessità e l'evidenza intrinseca del rapporto tra la causa - 410 — e r effetto, non possono essere rigorosaiuente gli stessi che quelli che si sono trovati nelle nozioni delle causa- zioni date, ma solo analoohi, (,uelli non potendo tro- varsi altrove che nelle connessioni tra idee costituite da sequenze tra fatti molto familiari. Ben più, questa stessa analogia è, se si esamina a tondo, inammissibile, ed è assurdo il supporla. Ammettiamo pure che vi sia un'e- sistenza inconoscibile, e che tra i uìodi di quest'esistenza e tra essi e i modi dell'esistenza fenouìenale vi sin un leo-ame di causazione qualunque, cioè qualche cosa come un rapporto di sequenza uniforme : quale sarebbe la sor- presa del metatisico, se qualche facoltà nuovamente ac- quistata gli svelasse questo mondo inaccessibile, mo- strando-ir questi leoami di causazione che egli aveva preconc^epiti! Egli immaginava che vi avrebbe trovato delle cause che spiegassero i loro effetti, delle cause a cui oli effetti seguissero, non solo costantemente, ma neces- larimnente, delle cause infine la cui attitudine a pro- durre i loro effetti gli sembrasse di un'evidenza intrin- seca. Ma egli troverebbe invece delle cause il cui legame coi loro effetti sarebbe necessariamente più incompren- sibile di riualsiasi legame di causazione ch'egli avesse mai veduto o congetturato nel mondo in cui erano ri- strette le sue antiche tacoltà conoscitive, la comprensi- bilità o l'incomprensibilità di un fatto risultando, come nbbiamo visto, dalla familiarità o non familiarità di que- sto fatto, e i tatti che gli verrebbero nuovamente pre- .sentati essendo per lui meno familiari che qualsiasi fatto, il più straordinario, della sua conoscenza passata. Cosi pui^. questi nuovi rapporti di causazione ch'eg'li verrebbe a conoscere gli sembrerebbero, invece che necessari, i più arbitrarli di tutti, invece che intrinsecamente evi- denti, i più strani e inverisimili, la necessità e l'evidenza intrinseca non essendo dovute che a una stretta connes- sione tra le idee, la quale non può essere determinata - 411 che dalla ripetizione frequente delle esperienze. L' in- tuizione dell'essenza delle cose, la cui conoscenza il me- tafìsico credeva che gli avrebbe rischiarati tutti i mi- steri, lascerebbe nella prima oscurità quelli che esiste- vano, e li accrescerebbe di altri misteri ancora più im- penetrabili. Non dobbiamo dimenticare che il ragiona- mento su cui è fondata l'ipotesi delle cause efficienti inconoscibili è un'inferenza incosciente, e perciò che se il metafìsico ammette la conclusione, malgrado la ille- £"ittimità della inferenza e tutte le assurdità che essa im- plica, è perchè egli non conosce quale sia (luest'inferenza, egli non sa nemmeno di fare un'inferenz.n, ma ammette la conclusione come una verità evidente per se scessa. L'evidenza intrinseca del principio di causalità efficiente non può imporci che sinché non ne abbiamo cercata To- ria^ine : riconosciuta la necessità di trovargli una base empirica, è necessariamente all'esperienza, airinduzione, che deve domandarsi la sua g-iustificazione; ma allora si vede chiaramente che la base empirica di questo prin- cipio non può servire di fondamento a un'induzione le- g'ittima. E così questo principio, che era semplicemente extralog-ico, sinché si ammetteva come evidente per se stesso, senza domandarne le prove, e in virtù solamente della tendenza naturale dello spirito, si riconosce illogico, dopo che si è messo a nudo il processo latente da cui risulta questa tendenza naturale che ci spinge ad am- metterlo. E di questa maniera che spiegare l'origine delle concezioni della metafìsica è dimostrare nel modo più completo l'inanità radicale di queste concezioni. § 6. Parrà forse un paradosso l'ammettere che le pre- messe dell'induzione per cui si conclude il principio di causalità efìfìciente, anche dal teorico dell'inconoscibile, siano le sequenze più familiari tra i fenomeni riguar- date come causazioni efficienti, quando il teorico dell'in- conoscibile non riguarda più queste sequenze come tali. 412 — 413 - l^j Quest'apparente paradosso sì spiega ricordando la pro- posizione più volte invocata di Mill (la quale dobbiamo tener sempre presente se vogliamo comprendere qualche cosa nei fenomeni della metafìsica), che le suggestioni della vita di tutti i giorni sono più forti che quelle della riflessione scientifica. L'uomo educato dalla scienza non trova più, è vero, così perfettamente comprensibile, ne- cessario ed evidente, come sembra all'uomo della natura, che il suo braccio si muova quando egli vuol muoverlo, che un corpo cada (piando è privato del suo sostegno, ecc. : ma neiruomo educato dalla scienza persiste ancora l'uomo della natura come un sustrato più profondo sotto gli strati superticiali formati dalla cultura. Questo su- strato è stato costituito, prima, dalle esperienze del pe- riodo prescientitico, tra le quali possono comprendersi le ancestrali, se si crede applicabile il principio dell'e- redità psicologica; e inoltre, anche dopo che, sottoposti all'analisi scientifica, il movimento volontario, la caduta del u-rave ecc. cominciarono a sembrargli sorprendenti e iuonnprensibili. non è questa però l'impressione abi- tuale che cpu-sti fatti fanno, d\ina maniera si)ontanea, sulla sua intelli-enza. Perchè egli pensi che la caduta del grave è strana e incomprensibile, egli deve riflettere prinm che questo fatto è un caso dell'attrazione delle molecole in tutto lo spazio; perchè si sorprenda del mo- vimento volontario e lo trovi misterioso, è necessario ch'egli rifletta che la volontà non ha mosso immediata- mente il membro del cui movimento si tratta, ma forse delle melecole in certi punti della corteccia cerebrale. Ora è evidente che egli non fa queste riflessioni tutte le volte che la libertà data a un corpo pesante stiggerisce al suo spirito la caduta di questo corpo, o che i movi- menti d'un uomo o di un altro essere animato lo fanno pensare alle volizioni che hanno comandato questi mo- vimenti. Nella più parte dei casi di (piesto genere, sic- come non fa le riflessioni che noi diciamo, egli trova spontaneamente, ir riflessamente^ che la causa spiega per- fettamente l'effetto, e che il rapporto tra la catisa è l'ef- fetto è intrinsecamente evidente e necessario. ( )ra tutte queste esperienze contribuiscono, con (juelle del periodo prescientitico, a formare, come elementi costituitivi, la base della sua intelligenza, e producono queste tendenze istin- tive del pensiero, che i risultati della riflessione scien- tifica non possono annullare, non potendo essi cancellare i vestigi che ogni osservazione, ogni idea della nostra vita passata, lascia fatalmente nella nostra organizza- zione mentale. L'incoscienza dell' inferenza spiega anche un altro apparente paradosso, cioè che, mentre nell'inferenza lo- gica i casi a cui s'inferisce non sono che una parte della totalità compresa nella proposizione generale che è il risultato dell'induzione, l'altra parte> di ([uesta to- talità essendo costituita dai casi dai (|uali si inferisce, al contrario nell'inferenza da cui risulta la teoria delle cause efficienti inconoscibili, e in generale tutte le teorie le quali suppongono per tutti i fenomeni delle cause ul- trafenomenali, i casi a cui s'inferisce sono, non una parte, ma la totalità dei casi compresi nella proposizione generale deirinduzione, poiché rinferenza si estende a tutto ciò che esiste in generale, e quindi anche ai fatti stessi che costituiscono il punto di partenza dell* infe- renza. P. e. i movimenti volontari degli uomini (^ degli animali si trovano tra i casi che sono, per dir così, i dat^ dell'inferenza, con la quale si conclude all'esistenza di altre cause efficienti, distinte dalla volontà degli uo- mini e degli animali. Ora quei movimenti stessi che, in quanto dati dell'inferenza, avevano per cause efficienti la volontà umana o animale, compariscono pure tra i casi conclusi, come aventi delle cause efficienti incono- scibili, o in generale ultrafenomenali. Tale incoerenza — 414 — x,on ha niente di sorprendente, se si riflette ebe Hn- ferenza consiste in una cieca assimilazione di tutto ciò' che si offre nuovamente alla nostra intelh.-enza, a certe impressioni della nostra esperienza passata, le quali sono assenti dalla nostra coscienza. Quando i t^nomeni stessi che produssero queste iìììpressioni si nprescntano alla nostra intelligenza, siccome l impres- sione non è più la stessa, apparendoci essi sotto il nuovo aspetto in cui li mostra la riflessione scientifica, devono sottoporsi anch' essi a questo processo d' assi.nilazione incosciente, adattandosi al tipo generale che una teoria imprime ai fenomeni per l' effetto di questo processo. Così i nostri propri movimenti volontari della nostra esistenza passata, che contribuirono più che (yualsiasi altro fenomeno a darci 1' idea di causazione ethciente, xion saranno ora attribuiti alla efficienza della nostra volontà, ne essa ne (pialsiasi altro fenomeno dell espe- rienza producendo più sulla nostra intelligenza un- pressione di causa efficiente, ma a quella di una volontà uietaempirica, di una forza inconoscibile, ecc., ques i essendo i tipi di causazione che ora ci permettono di assimilare i fenomeni alle nostre esperienze passate, con la impressione mentale che esse ci produssero, da cui ci è venuta l'idea di causazione ethciente. ^ 7 Che concluderemo noi sulla dottrina della re- latività della nostra conoscenza? Una conclusione deh- nitiva sarebbe prematura prima di avere scandagliato tutte le b.xsi su cui essa si fonda: ma mettendoci a un punto di vista semplicemente obbiettivo (vale a dire facendo astrazione della difficoltà che i dati dei nostri sensi non sono delle cose in se ma delle semplici sen- sazioni relative al soggetto percipiente), noi abbiamo già dei motivi sufficienti per affermare il valore assoluto della conoscenza e rintelligibilità assoluta dei fenomeni. Se la nozione di causa efficiente non ha un valore ob- 415 — biettivo, se perciò la causa non è che T antecedente di una sequenza invariabile, è evidente che non abbiamo alcun motivo di affermare che non conosciamo il modo reale o, come dice, Comte, essenziale di produzione dei fenomeni. Conoscere il modo reale di produzione di un fenomeno è conoscere le cause di (|uesto fenomeno, cioè ancora conoscere, poiché non vi sono altre cause, che esso è seguito a un certo fenomeno antecedente o a certi fenomeni antecedenti secondo una legge o certi leggi di sequenza invariabile tra i fenomeni; ma i teorici del- l'inconoscibile ammettono che noi conosciamo o jjossiamo conoscere questi antecedenti fenomenali e queste leggi di sequenza invariabile tra i fenomeni; dun(i|ue noi co- nosciamo o possiamo conoscere il modo reale o essen- ziale di produzione dei fenomeni. A ciò si risponderà senza dubbio che, malgrado tutto, il corso della natura non ce-ssa n^, cesserà di essere incomprensibile : che non vi ha tra i fenomeni tisici una causazione che non sia un mistero, e che la produzione della sensazione e del pensiero al seguito di antecedenti fisici, (qualunque essi siano, è un mistero anche più oscuro. Ma noi sappiamo che ciò vuol dire semplicemente che non vi ha tra i fe- nomeni fisici una causazione che sia per noi un fatto perfettamente familiare, e che la produzione della sen- sazione e del pensiero al seguito di certe condizioni fi- siche è un fatto che è per noi il meno familiare di tutti, il più lontano da quelli che ci sono familiari. Il mi- nistero, r incomprensibilità delle leggi della natura, non è che un fenomeno psicologico privo di qualsiasi importanza obbiettiva, il comprensibile e 1' incompren- sibile, non essendo, come abbiamo visto, che sinomini del familiare e del non familiare. Vi ha un'incompren- sibilità che ha un'imi)ortanza obbiettiva: è (juando un fenomeno resta isolato, quando non può ricondursi a delle leggi generali. Allora il l'enomeno non essendo — 41G — stato sottomesso a qualche leg-ge di causazione fisica cioè (li sequenza invariabile, non è stato sottomesso al principio di causalità fisica, cioè al principio che^ ogni fenomeno deve avere qualche antecedente a cui esso seo-ue invariabilniente : siccome questo principio ha un valore obbiettivo, allora l'incomprensibilità ha un valore obbiettivo. Ma quando l' incomprensibilità si npplica, non a dei fatti isolati, non sottomessi ancora ali ordine o-enerale della natura, ma alle leg'g'i stesse, che costi- Tuiscono quest'ordine, in quanto queste le-o-i non sono delle causazioni effìcienU e non possono ricondursi a delle causazioni effìdenfi, per conseguenza m quanto non si conformano al principio che ogni fenomeno deve avere una causa efficiente; siccome questo principio non ha che un sionificato subbiettivo (non esprimendo altra cosa che nn'esigenza extralogica e impossibile a soddi- sfare del nostro spirito - allora l' incomprensibilità non ha che un si-niticato subbiettivo. Du-Bois-Reymond (r autore del famoso Ignoramm et igiiorahimas), dice: « Il line d'ogni scienza potrebbe ben essere, non di com- p,endere V essenza delle cose, ma di far comprendere che (.uest'essenza è incomprensibile. Così la conclusione finale della matematica è stata, non di trovare la qua- dratura del circolo, ma di dimostrare che è impossibile di trovarla: della meccanica, non di realizzare d moto perpetuo, ma di provare che è impossibile di realizzarlo». A questa comparazione di Du- Bois - Reymond se ne potrebbe, contrapporre un" altra più giusta e al tempo stesso più veritiera: Cmne la matematica ha dimostrato che la quadratura del circolo è, non impossibile ai ma- tematici, ma impossibile e assurda in se stessa; come la meccanica ha provato che il moto perpetuo e, non irrealizzabile dai meccanici, ma affatto impossibile a rea- lizzarsi; cosi la teoria della conoscenza mostra, non eie V essenza delle cose è inconoscibile, ma che non esiste, — o almeno che non abbiamo alcuno motivo di affermare che esista, luV essenza delle cose, se per essenza d'una cosa s'intende altro che il complesso delle sue proprietà sensibili, che i sensi ci presentano o che l' intelligenza può rappresentarsi sul tipo di ciò che essi ci hanno presentato. Se si ammette infatti che al di là delle ])ro- prietà sensibili e conoscibili vi ha un'essenza sopranseii- sibile e inconoscibile, è perchè si suppone che le prime de- rivano necessariamente da alcun che di jiiù fondamentale, che potrebbe spiegarle, se noi lo conoscessimo— .s^;%((?'/c nel senso popolare e metafisico della parola sjfiegnzione,-^ Ma la spiegazione, in questo senso, implica lidea di cau- sa efficiente : il fantasma delVessenza svanisce ilunque con quello della causa efficiente, e non è, come questo, che un'illusione naturale del nostro spirito (1). (1) « La ])iù jj|.nni(io illusione «' ipiella <ln' («nisistr a siip)H>rio (•ho lo si)irito reclama (lualclie cosa al di là «lei h'uaiiii più .u.»'- iier.ili «lei leiuuiieiii — >r«)lti siii)}mhi.i;«mio elle la e«>iioseeii/.a «b'ile jiciu'ralità [liù alte i-elative al le.iiaiue «lei feiioiiH'iii ì- iiisntfiei<Mit«'. Lo spirito, si «liee . «loniaiula «[ualelie «-osa ni «li là, «' «[iH'sta <',si«j.«'uza «lell«) s])irito (elie non puh «P altr«)n«le ««ssen- iiuii sod- «lisfatta) t' .giusta e le;jcj;ittiinri. Ln u('neralizzazi«»u«' «l«'l jn-so. p«'r «•senipi«), lascia nial.nra«lo tutto qualche c«>sa «li iiiist«'ri<»so e «li «)scuro. come se vi fosse al «li là «lualclie c«)sji <h«' noi !»«>- trcniin«> attiniicre. se alcun ostac«»l«> n«»n interveniss» Ne\vt«Mi sendira n«»n aver iK)tuto nis segnarsi a considerare il \ivso coni*', un l'atto idtiino. K.iili non coin]U'en(l«'VJi ch«' l:i niat«'ria ]M.tess<^ ajiin' \i «listanza sulla nuiteria, «m1 era «lispost«> jM'r eonse.i;u«Miza ad annnettere P «'sisteuza «l'un mezzo, di tal s«»rta «-Ih' il ]M's«> poti'sse essere assimilata) all' im]>ulsion<' i»er contalt«K Mu sino al presente «piesf }issimUazi«>ne non lui potuto essi're t«'ntata. «t all«)ra il pes«» nvsta un tatto «dtim«> : «'ss«> ì« u s«' st«'sso la sua 8pi«'.!iazi«>ne. L'unione dello spirito «' «l«'l c«upo «> stata lun-ann'ute consi<le- rata come il mistero jM'r i'c<M'llenz!i. L' opini«uie thuninante cja 27 — § 8. La foniìa [)iii abituale che prende 1' idea di causa efficiente inconoscibile, applicata ai feaoineni tìsici, è il concettto della forza. Beninteso che noi parliamo della forza nel senso metafisico di questa parola, senso nel quale si prende, quando si dice per esempio che noi non conosciamo l'essenza o la natura intima delle forze, o anche semplicemente che noi non conosciamo le forze, ma solo i loro effetti. La parola forza infatti, come le s olle qiifsfiiiiioiic rt'sist4'iM'l.l»c sempre mi oj;ui saojiio di spiena- zitnif. Tiittinin ò tacile di (MMiiprcndert; vouw la scienza deve t'oiniM>i-taisi in simile easo. Hisoona coneepire le (lualità mentali e materiali eiasenna secondo la sua natura pvoiu'ia: le une per i sensi, le altre \h^v la coseien/a. N(m dohbiami» in seguito as- imilare e generalizzare il i)iù possibile eiaseuua categoria. Xoi ^eneralizz<'rem(» le i»roprietà materiali, rapportandole all'inerzia, al peso, alle forze moleci»lari, ecc.: noi generalizzeremo le «lua- lità mentali, riattaccandoli ai piaceri e alle pene, alle volizimiì, ai fenomeni intellettuali. Bisognerà in seguito sforzarsi d'at- tingere alle leggi più generali clic regolaìio l' uniime delle due classi di qualità n<'gli animali e nell'uomo. Quando noi saremo riuvsciti a spingere (pu-st'operazione generalizzatrice il più lungi possibile, noi avremo «lato la sì>iegazione scientitìca dell'unione dello spirito e del corpo. Ogni spiegazione più generale, oltre che non è necessaria, è impossibilc-Ecco un linguaggio che non ba niente di scientitico: «La sensazione cosciente e un fatto, nella costituzione della nostra natura tisica e morale, cbe ^ ass<du- tamente inesplicabib^ ». Il s(do senso cbe si ])ossa attribuire a queste parole è clic i fatti tisici e i fatti morali sono essenzial- mente distinti, ma profondamente uniti. Così m>n bisogna «lire : « Sino a riuesto giorno non al»biani(» saputo come lo spirito e il corpo agiscono l'uno sull'altro». A parlar propri auuMite, non vi ba niente «piì a conoscere in fuori del tutto cbe si tratta solamente di generalizzare. «Vi ba. dice Uume. in tuttala natura (puvlcbe cosa «li pin nìisterioso che l'unimie dell'anima e del corpo: unione per CUI una s<.stanza spirituale acquista una tate influenza sopra una sostanza materiale . cbe il pensiero più sottile è capace di — 419 — parole causa, essenza ed altre (sul cui vero senso vol- gono al fondo tutte le controversie filosofiche) ha due sensi, r uno empirico e fisico, V altro metaempirico o metafisico. La forza, nel senso fisico o empirico, è la condi- zione o r antecedente, da cui dipende il cangiamento dello stato di riposo o di movimento dei corpi. La ma- teria è inerte, vale a dire che essa, lasciata a se stessa, persisterà nel suo stato di riposo, se essa è in riposo, o continuerà a muoversi uniformemente ed in linea retta, se essa è in movimento. Perchè avvenga (luindi un cangiamento nello stato di riposo o di movimento della materia, (cioè un passaggio dal riposo al movimento o reciprocamente, o una modificazione nella velocità o direzione del movimento) è necessario l'intervento d'una C8usa esteriore: questa causa si chiama forza. Ma ciò che può far cangiare lo stato di riposo o di movimento della materia non è che 1' azione di una materia este- riore ; dunque la forza, come essere reale e concreto, non è che la materia stessa, in quanto cangia o può cangiare lo stato di riposo o di movimento di altra ma- teria. Tuttavia noi adoperiamo più abitualmente la pa- rola forza per indicare, non le forze concrete, cioè i corpi stessi, ma 1' attitudine che hanno i corpi a can- mettere in movimento la materia ynh grossolana?» Ed altrove: «Noi mm conosciamo niente degli oggetti .v/^.v.s/; la nostra osser- vazione della natura esteriore non (dtrepassa le azioni recipro- cbe cbe gli oggetti esercitano gli uni sugli altri». A cbe parlare di una conoscenza cbe non si pub attingere, e cbe si è ridotti a supporre»? (Bain Logica voi. 2. 1. S. e. 12. n. 11). A che parlarmi, aggiungerenu> noi. quamlo si può dimostrare, n(»n solo cbe tale supposizione (• ass(»lutamente destituita di prove .nia cbe essa è un'illusione, e mostrare il nu'ccanismo di quest'illu- su>nt . / — 420 — g-iare lo stato di riposo o di inovìinonto di altri corpi. La forza allora è un teriniue astratto che indica, non una qualità occulta che sia nel corpo, ma sempli- cemente il fatto che il corpo è o può essere la causa, cioè ia condizione, di cang'iamenti in altri cori)i. L'a- strazione g-iun^e al suo maximum, quando si usano certe espressioni, che sembrano fare della forza un soi>'- getto separato, avente un'esistenza |)ro|)ria, come quan- do <i dice che la forza si conserva, che essa non si distrugge ne si crea. Ma le espressioni astratte devono, in (juesti casi come in tutti gli altri, interpretarsi al concreto : cosi ciò che si vuol dire nelTesempio addotta h the i corpi non perdono e non ac(|UÌstaiìo mai (jue- st'attitudine che si chiama forza (definita, india teoria dcìbi conservazione della forza, la capacità di produrre del lavoro), senza che altri corpi acquistino o [x^-dano lui attitudine equivalente. Ma siccome la forza, nel s(mso empirico, ò una causa sem[)licemente fisica, cioè un semplice anteceden- te, deg'li effetti che essa produce, e non una causa pf- firìfìitr., cioè una causa che sjùeg/ìi Tett'etto, e che abbia con l'effetto un legame necessario e di un'evidenza in- trinseca, IR'- segue che questi ett'etti si attribuiscono ad una causa efficiente sconosciuta : (|uesta è la forZ(f nel senso metaempirico o metafisico della parola. In (juesto senso, la forza non è necessariamente una causa este- riore del cangiamento nello stato di riposo o di movi- mento di un corpo : ma si immagina anche una forza lì t aita, risedente nei corpi in movimento, che è a cia- scun istante la causa attuale di (juesto movimento. Noi ni.i.imiio osservato infatti che la legge d'inerzia, ijue- st'attitudine che hanno i corpi a conservare, indefinita- mente il liioviìiient.» mia volta acquistato, è apparente- mente contrario alle nostre esperienze piti familiari, e sembra (quindi incomprensibile e inesplical>ile, per eui - 421 non ])oteva mancarsi di attribuire questa proprietà della materia ad una causa efficiente sconosciuta. Di questa maniera il dominio della forza divieiìe universale nella fisica, r intervento di questa causa occulta ritenendosi necessario, non solo per far comprendere la possibilità dei fenomeni, non familiari, deirazione a distanza, ma anche di quelli del movimeuto prodotto dalT urto, che, familiari in se stessi, non lo sono nelle loro leggi. La forza si considera ora come una qualità occulta della materia, ora come un che di distinto e separato da essa, che esiste i)er se stesso, essendo nella materia, secondo la comparazione di Torricelli, come in un vaso, o an- ch^^, come immagina Hirn, riempiendo lo spazio inter- mediario fra i corpi. Nel primo caso, cioè quando se ne fa una c|ualità della materia, la forza significa senì- plìcemenfe la causa efficiente, metaempirica e sconosciuta, ilei fenomeni fisici, e non è che uira})plicazione del con- cetto del r inconosci bile. Nel secondo caso, cioè quando si riguarda come una realtà esistente per se stessa, di- viene un concetto metafisico sui generis, all'idea di causa efficiente inconoscibile aggiungendosi la trasformazione di una (qualità in una sostanza. Nella nozione della forza noi possiamo vedere, più chiaramente che in quella di una causa efficiente inco- iioscil)ile, come i concetti metaempirici che sembrano i più discosti dairesi)erienza, non sono che delle suggestioni delle nostre esperienze più familiari. Infatti in questa nozione Tinfiuenza di tali esperienze non ha solo il ri- sultato, come ìud semplice concetto di causa occulta, di suggerire l'idea di un rapporto di causazione simile, per i caratteri subbiettivi, ai più familiari tra i rapporti di causazione conosciuti (cioè nel quale, come in questi, la eausa è capace di spiegare l'effetto, e vi ha tra la causa e l'effetto un legame necessario ed evidente intrinseca- mente); ma, accanto a questo risultato generico, ne ha 422 - anche un altro specifico. È che la forza e il suo modo d'azione si cerca di assimilarli in qualche modo a certe classi determinate di fenomeni familiari, ag-o-iung-endo al concetto generico di causa occulta del movimento certe determinazioni particolari, o circondandolo di un corteo di certe vaghe e oscure associazioni (troppo va- ghe e oscure per elevarsi al grado di affermazioni co- scienti e riflesse), che ci indicano abbastanza le espe- rienze che liaiino servito di tipo e a cui è dovuta la suggestione. Queste esperienze non sono che quelle stesse che hanno servito di base alle npiegazionì \\\V\w(iv- sali ]>iù ordinarie d^Ua natura. llume ha osservato che un eleiuento della nozione volgare di forza è la concezione di un ??i.si^s animale, e tanti altri dopo di lui (coìiie Stuart -Mill, Spencer,> Huxley) hanno derivato quest'idea dalle nostre esperienze •subbiettive dello sforzo muscolare (1). Redtenbacher dice: «L'esistenza delle forze noi la riconosciamo per gli effetti ch'esse producono, e, in particolare, per il sentimento e la coscienza che noi abbiamo delle nostre proprie forze» (2). Per mostrare quanto la nozione co- unuiu di t'orza sia impregnata del nostro proprio senti- mento umano, si potrebbe forse addurre il fatto che, come nota M. de Birau, per designare questo non so che di sconosciuto, a cui si attribuisce la produzione dei fenomeni fisici, bisogna impiegare i segni di certe affezioni dell' anima, come sforzo, tendenza, nisus — (1) V. Mill. FiloH di Uaniltou e. IH. sulhi tiiu'. Spencer Prine. di soeiolofjia 4. paraor. H5!K Huxley ^. ^^*'>^^'' V' -• ^-^^ autori ei semì)raiio anche aver ultrepassato il seonc». Non è certo ammissibile per esempio rattermazione di Spencer che « Tuomo è forzato (li simluileggiare la forza obbiettiva in funzione di forza subbiettiva». (2) V. Lange Storia del material, voi. 2. p. 2. e. 2. - 423 — ciò in cui questo filosofo vede la prova che (juesta no- zione (di cui naturalmente egli ammette il valore ob- biettivo) «ha la sua sorgente nelT intimità stessa del nostro essere agente e pensante» (1). Nella nozione di forza si manifesta pure la tenden- za a ricondurre o assimilare qualsiasi azion^^ tisica al- l'azione a contatto, cioè all'urto o alla trazione. Hirn, accerrimo avversario della teoria meccanica, alla quale oppone la dottrina delle Forze, fa non per tanto per la sua dottrina stessa omaggio al princi[)io dei m(HH*anisti, che è che non è ammissibile altra azione se non a con- tatto. È perciò che egli immagina le sue Forze, ch'egli chiama principe hifer media ri, diffuse nello spazio e se- ])arate dalla materia: è che ogni azioìie apparentemente a distanza deve, secondo lui, attribuirsi ad un ijuidche sia a contatto con la materia che subisce quc^st'azione, e questo quid è la Forza. Così egli dice: <- Due particole elettriche della stessa specie, allo stato di riposo, si re- si)ingono ; ma alcuna azione a distanza non può eser- citarsi mediante il vuoto; tra le due particole esiste dunque gualche cosa di speci/irj che le mette in ((uesto stato di rapporto che noi chiamiamo la repulsione. (,)uesto qualche cosa è Velemento Forza, senza del quale a'icun fenomeno dell' universo non può logicamente spiegarsi» «E ancora: «Che noi la comprendiamo o nonla comprendiamo, la causa della gravitazione uni- versale deriva da un elemento si)ecifican)ente distinto dalla materia, il quale riem[)ie lo spazio, e non da un movimento della materia stessa, come si sforzano di sostenerlo in tutta una scuola. Quest'elemento, checche (1) Biran Nuoce considerazioni sni rafj/jitrli del fiaieo e del morale delV nomo, Opere tilosoliclie iiiild.licate da Consin l. 1. jiag. 24. 424 — si taccia, o iiiflipeiidenteiaeiite da oo-ui ipotesi, costitui- sce per se stesso una Forza [)ropriaiiiente detta, cioè a dire una potenza distinta dalla materia, capace di met- tere due parti materiali separate in questo stato di rap- porto che ci apparisce come attrazione, e capace di ti- rare (|uestc parti dal riposo, o di farvele rientrare, senza l'esistenza di alcun movimento anteriore». L'autore, è vero, ila cura di ago-iung-ere: « Ma non è mica per una impulsione diretta die (lueste forze tirano la materia dal riposo o ve la fauno rientrare. Per questo fatto stesso ch'esse sono distinte dalla materia nella natura, cani idea di urto, di comunicazioue di movimento per con tatto che noi vorrenuno attaccarvi diviene assurda » (1). Ma malgrado queste riserve dell'autore, se noi riflettia- mo che ogifidea del sovrasensibile è necessariamente analogica e simbolica, e che noi dobbiamo tirare dal- l'esperienza tutti i materiali delle nostre concezioni, noi non possiamo impedirci di pensare che, quando Hìrn vuol concepire queste Forze e la loro azione, i simboli che le rappresentano nel suo pensiero devono essere queste comunicazioni di movimento per contatto che ci mostra l'esperienza, vale a dire l'urto o la trazione, benchc egli dichiari assurda ogn'idea tale che noi vor- remmo attaccare all'operazione della forza. Senza vo- lerlo e senza rendersene conto, l'idea di qualche cosa che nìette i cor|)i in movimento sping-eiidoli o tirandoli, deve insinuarsi nel suo pensiero, quando egli si rap- presenta la Forza tirante dal riposo la materia con cui essa è a contatto : se così non fosse, egli non avrebbe, per rischiarare il mistero dell' azione a distanza e ren- dersi questa più concepibile, attribuito Fazione reale ad una Forza, separata dal corpo che esercita apparen- (1) Hill). Lit no-. fU forza nelia scienza mod. in Her. scien- ti/. 3. st'^ir loiJH» lo. 42Ó temente quest'azione, e a contatto con (luello che la su- bisce, poiché un'azione a contatto non riduttibile a quelle familiari della esperienza non sarebbe più con- cepibile ne meno misteriosa che l'azione reale a distanza. Ecco dunque come il meccani h ino e il dlnarnisnio deri- vano da una stessa sorgente ; e noi possiamo vedere qui (ciò ciò di cui incontreremo in seguito altri esem- pi non meno rilevanti) (juantf> sia vero il detto di Ba- cone che « tra gli errori o|)|)osti le cause d" illusione sono pressoché comuni » (l). Questo rapi)orto della nozione dt^lla forza con (luta- ste tendenze spontanee dello spirito, che lo s|)ingono ad assimilare la produzione di tutti i fenomeni, l'una ai nostri propri atti, e l'altra ai fenomeni familiari della comunicazione del movimento, è stato molto bene, os- servato ed espresso da I)u Hois-Keymond, di cui rife- rirò le parole. ^< La forza, egli dice, non è che un pro- dotto più dissimulato dell'irresistibile tendenza alla p(U'- soniiicazione che ci è innata : è per cosi dire un'abilità oratoria del nostro cervello, che ha ricorso al linguag- gio figurato, perchè la rappresentazione gli fa difetto per l'espressione pura della chiarezza. Con le idee di forza e di materia noi vediamo ritornare lo stesso dua- lismo che si produce nelle idee di Dio (^ del mondo, dell' anima e del corpo. Non è, con dei raffinamenti, che il bisogno che spinse già gli uomini a po|)olare di creature della loro immaginazione le foreste, le sorgenti, le rupi, l'aria e il mare. Che si guadagna a dire che due molecole s'avvicinano l'una all'altra, in forza della loro attrazione reciproca? Nemmeno l'ombra d un'intui- zione dell'essenza del fenomeno. (Noi facciamo naturai- mente le nostre riserve su questa essenza del fenomeno che l'autore suppone al di là del fenomeno stesso). Ma, (1) lì'rsta tirai. INcfjiz. 42f> cosa strana, vi ha per il ìiostro desiderio innato di ri- cercare le cause una specie di soddisfazione neirirnma- o-ine d'una mano che si disegna involontariamente da- vanti il nostro occhio interiore, d'una mano che spinge dolcemente innanzi a se la materia inerte, o nell'im- mao-ine di braccia invisibili di polipi, per mezzo di cui le molecole della materia si stringono, cercano ad atti- rarsi le une le altre, e finalmente s'intrecciano in un gomitolo » (1 1. Ora, a quali motivi dobbiamo noi attribuire la se- parazione della forza dalla materia, la sua elevazione al grado di soggetto reale, esistente per se stesso? Il motivo lo abbiamo già visto, quando la Forza si fa in- tervenire nelle azioni a distanza: è il bisogno di assi- milare queste jizioni a <|uelle a contatto. Quando le Forze si fanno intervenire come cause interiori e attuali def movimento, anche dovuto all' impulsione, un altro motivo può condurre allo stesso risultato di erigere la forza in ipostasi reale : la trasmissione del movimento da un corpo ad un altro, considerando il rapporto quan- titativo secondo cui essa avviene, questa legge della forza di non poter essere perduta da un corpo senza che qualche altro acquisti la equivalente, può suggerire l'idea di una trasmissione della forza (della stessa forza, individualmente identica; da un corpo all'altro. Leibnitz ci riferisce l'opinione di alcuni cartesiani, i quali cre- devano che lo stesso movimento, idem numero, si trasfe- risca dal corpo urtante al corpo urtato (2): l'eguaglianza del movimento perduto dall'uno con quello acquistato dall'altro li faceva pensare ad un'identità vera e pro- pria, ciò che jjupponeva la realizzazione dell'astrazione (1) Ricerehe suireleltrieità animali'. Prefazione. (2) Leibnitiz Nuovi sag-ii suirintendiiiiento uiiiaiio 1. 2. e. 21 parngr. 4. e. 28 ])ara*;r. 28. — 427 — movimento, che uno di essi infatti paragonava a del sale disciolto nell' acqua. É della stessa maniera che l'odierna dottrina della conservazione o persistenza della forza (la quale, come l'indistruttibilità del movimento dei cartesiani, non esprime altra cosa che dei rapporti quantitativi definiti nelll, successione dei fenomeni) ha suggerito l'idea di fare dell'astrazione forza una realtà, una sostanza ; poiché, come dice Spencer, le manifesta- zioni della forza che sopravvengono in noi e fuori di noi, non persistono, ciò oh^ persiste deve essere la causa sconosciuta di queste manifestazioni, una realtà incondi- zionata senza cominciameìito ne fine [ì). Noi abbiamo evidentemente in questo caso un altro esempio della tendenza che ci porta a spiegare i fenomeni, assimihindo quelli che non sono familiari a quelli che lo sono. La sostanti ficazione della forza è in certo modo una mate- rializzazione della forza, poiché la materia é il solo tipo che abbiamo per il concetto della sostanza. E chiaro cosi che il fatto non familiare della persistenza dell'e- nergia viene assimilato al fatto molto familiare della persistenza della materia, essendo quest'ultima una di quelle anticipazioni delV esperienza, che la scienza con- ferma, mentre ne rigetta tante altre (2). La forza, che dopo essere stata aggiunta alla materia come un prin- cipio distinto e separato, finisce per soppiantarla, in altri termini la forza considerata come la cosa in sé del fenomeno materia, non appartiene all'argomento di que- sta priniM parte, ma a quello della seconda. (1) rriìnì prineipii, § (iO. (2) Cfr. Saggio 1. e. 9. § 4. CAP. VI. LA FI LOSOV^I A A I * KM O K I STA . 5^ 1. Una delle tendenze [)iù generali della speeiila- zione metaiisiea è lo sforzo di ricostruire la realtà a prioriy di dedurla: questa tendenza caratterizza talniente lo spirito di questa speculazione, considerata nel suo complesso, che noi potremmo pressocchè dire che la me- tafisica (astrazion facendo dalle dottrine relative alla qui- stione del mondo esteriore) si riassume in due punti : antropomorfismo e metodo n priori. La gran maggioranza dei metafisici o hanno cercato di tirare la conoscenza delle cose dalla contemplazione delle loro idee, ovvero, se questo è sembrato loro impossibile, hanno visto in questa impossibilità una prova dei limiti della nostra co- noscenza, considerando la conoscenza a priori come l'i- deale, (|uantun(iue inaccessibile, di una conoscenza as- soluta, adequata al suo oggetto. Una definizione della metafisica che non tenga conto di questo carattere, qual è ((uella di A. Comte, una teoria che non lo spieghi^ devono perciò essere riconosciute insufficienti. Nel Saggio 1. abbiamo visto come i limiti dentro cui è circoscritta la possibilità della conoscenza a priori, sono nettamente fissati, dalla natura stessa dell'intelligenza. Noi abbiamo diviso tutte le conoscenze in due classi^ di cui runa ha per oggetto l'esistenza delle cose e i loro 430 rapporti di simultaneità e di successione, l'altra i loro rapporti di somig'lianza e di differenza; e abbiamo mo- strato che le conoscenze della prima classe non possono mai essere ottenute a priori, ma solo quelle della se- conda. La ragione di questa differenza sta nella natura stessa deiroggetto a cui si riferisce la conoscenza: noi possiamo, senza bisogno di osservare le cose stesse, ma limitandoci a contemplare le loro idee, costatare le somi- glianze e le differenze di queste cose; mentre, al contrario, noi non possiamo, per la comparazione delle idee, sa- pere se le cose corrispondenti a queste idee esistono o no. né quale relazione o di precedenza o di simultaneità o di sequenza una cosa abbia con un'altra. È senza dub- bio qualche cosa di simile alla nostra distinzione che Hume aveva in vista, ([uando eiili divideva, servendosi, in verità, di espressioni alquanto vaghe, gli oggetti di tutte le conoscenze in rapporti tra idee e cose di fatto. Vi ha un sistema di conoscenze, che ha potuto essere costruito a priori, perchè esso non c'insegna niente sul reale, sull'esistenza delle cose (sia sulla semplice esistenza, sia sull'esistenza simultanea o successiva), ma solo su certe relazioni definite di somiglianza e differenza che vi hanno tra le cose : è la matematica pura. Così è nella mate- matica pura che i metafisici hanno trovato il tipo della forma e del metodo di una conoscenza assoluta del rea- le. Platone considera lo studio della matematica come la preparazione naturale alla dialettica : esso deve ri- svegliare l'organo assopito della scienza, far nascere il bisogno della vera conoscenza, far eseguire allo spirito l'evoluzione necessaria per dirigerne lo sguardo, dal mondo (lei fenomeni, conosciuto dall'esperienza, al mondo delle Idee, conosciuto a priori dalla ragione per mezzo della dialettica (1). Per conseguenza i platonici, con una (1) Eep. VI! — 431 - frase un po' volgare, ma molto espressiva, chiamano le matematiche i manichi della filosofia (1). Cartesio iden- tifica il suo metodo filosofico al metodo matematico, e ri- getta ogni specie di evidenza che non sia della stessanatura dell'evidenza matematica (2). Spinoza dimostra il suo sistema col metodo geometrico, e assimila lo svi- luppo dell'essere, o la connessione delle cose, allo svi- luppo e alla connessione delle verità matematiche (3). Leibnitz immagina, sul tipo dell'algebra, una caratte- ristica universale^ un'arte, la quale, « se fosse adottata da tutti come unico metodo filosofico, verrebbe presto il tempo in cui saremmo capaci di formare delle conclu- sioni sull'uomo e su Dio con non minore certezza che noi ne formiamo oggi sulle figure e sui numeri» (4). Schel- ling vede nelle matematiche la forma stessa del sapere primitivo e assoluto, di cui la filosofia è la riproduzione: (1) Diog. Laert. IV. 10. (2) Vico, conibatteii(U) il inotcnlo cartosiniK», cioc V a[>plica- zioiie del metodo niateiiiatio(> alla eouoseeiiza del reale, conviene non di meno che non vi ìia altra scienza . rigorosamente i>ar- lamh». che la matematica. Le sole matematiche, egli dice, di tutte le scienze umane, |)rocedono a somiglianza della scienza divina (Uisposfa a tre gravi opposhioui eoìifro il libro De nut. Ital. Slip. II.) L'uomo sa le cose matematiche, ma Dio solo le cose lìsiche {De Antiq, Did. sapietit. Conclusione). (8) Le cose procedcuio dall'essenza divina come dall'essenza del triangolo segue che i suoi angoli sono eguali a due retti. {Eth. [). 1. Schol. Prop. 17 e p. 2. Schol Pro]». 41).) (4) Wallisii Opera .voi. 111. [>. 1()2 - Dal punto di vista di Leibnitz, come osservi M. <le IMran (Opere fUoH. t. 4. p. 30i)), la matematica non \mh ditl'erire dalla metafìsica o scienza della reità che per l'espressione delle proposizioni : se la prima pn»- cede {tor dimostraziom evidenti, e la seconda no, è j>ercht' la i»rima è in possesso di segni convenienti per le sue idee, mentre la se- conda non ha trovato ancora questi segni. «Si tratterrebbe diinqiu». — 482 — nelle inateiìint'u-he è espresso il tipo della ragione uni viT-nlo; esse nell'astratto, come binatura nel concreto, ne sono la |)iii perfetta espressione obbiettiva (1). La inateiiiatica, dice Novalis, è la vera scienza, Tintendi- inento realizzato; i suoi rapporti sono quelli del mondo. La scienza niatematica pura è la vita più alta; è la vita degli dei. T niateniatici soli sono telici, perchè il sapere perfetto è felicità perfetta (2Ì. Il Taine ci mostra nelle « scienze <li costruzione» (le matematiche) ^ iiu esem[)lare anticii)ato, un modello ridotto, uìì indizio rivelatore di ciò che devono essere le scienze (attual- mente! sperimentali, indizio simile al ])iccolo edilìzio di cera, che ali architetti fabbricano prima con una sostanza pili liiaiieg-giaUile per rappresentarsi in iscorcio le pro- ])orzioni e l'aspetto totale del gran monumento ch'essi si accingono ad elevare» (3). lutine (per non moltiplicare inutilmeutt i. citazioni) Mamiaui si augura che < un giorno sarà touceduto alle dottrine speculative i' a- dcmpiere ii voto sui)erl)e di Leibnizio di scrivere con ri- o-ore di verità la. (fcometria dell'Ente» 4). «li trovjiit' (•«.'Iti tn-miiii o foniit' «lei .'luniciati iU'\W pioposi/i.mi vhv scrvisson» coiiu' dì tìl«. uri labirinto dclln mrtatìsicji . per i-isolvt'iv W qiiistioiii più (oinplicjìtc con un nn'Iodo simile u «pieUo i\ì VMr\\ih^>>. {l.iiì^^int/. />r ^riunii' phil. ^ninuhft. i>i\. Duteits t. 2. l»jute l. i>a,i;. 19). (1) Se-bellini» I^f^- v".'//' .v'"</' on'ttih'nucì, le/. 4. (2) Willm. Sfnr. (fellii plos. ulem. f1'( Kaitt ad /Icf/i!. t. 8. \K 21. (8) L'hih'lliff. 2. eil. voi. 2, \). \7'^. (4) ('oiHp. f si ut. drlhf ffro/n'm fìlos. ^ 2S. Koniajiuo.^i. nelhi Sufurma vnwomia deWinnano sapeir (Pat- te J. 11) distinone* quattri» età nelh» sviluppo intellettuale del- ruiiianità : nella prima si ragionò per pcrs<»nitieazi.»ni; nella se- ronda per iinitaziOne -eometriea: nella terza per analo-ie prema- turamente .remraliz/.ati': nella quarta con induzioni ben fatte iS - 433 — Non vi ha dubbio cbe la matematica non abbia eser- citato una sorta di fascino sullo spirito dei metafìsici. Lo studio delle mamatiche pure, lo si è spesso osservato, ha questa tendenza, di disporre lo spirito a troppo attendere da se stesso, vale a dire dalla forza intima del pensiero, indipendentemente dall'osservazione reale. E nel fatto, i più temerari tra i metafisici, e i più grandi antesignani del metodo a priori, sono stati dei matematici : basterà rammentare Platone, Cartesio, Leibnitz. «Niente, dice Lange, in questi ultimi secoli, ha contribuito a smarrire in nuove avventure metafìsiche la filosofia, recentemente emancipata dal giog^o della scolastica, quanto l'ebbrezza prodotta dal progresso meraviglioso delle matematiche al XVII secolo. » Ma una convinzione si generale, si radicata (tanto da mantenersi a dispetto dei risultati evidente- mente fallaci e dell'assoluto rovesciamento della logica a cui essa conduce) qual è quella che la scienza asso- luta, una scienza che comprenda 1' essenza delle cose, suppone che le loro leggi siano dedotte a priori, e non date soltanto dall'osservazione; convinzione che si è im- posta anche ai pensatori più modesti e circospetti (i quali ordinariamente, come abbiamo notato, non hanno già ne- gato che tale debba essere il carattere della scienza as- soluta, ma solo che questa scienza sia accessibile all'uo- cou ineatonameuto deduttivo. È evideutc clie le due prnne età eorrispondom) ai due periodi teologico e metafisico di A. Comte. Ora ci Benibra che, quantunque il carattere assegnato da Ko- ma-uosi al secondo periodo non possa servire per una detenizione ri-orosa della metafisica, pure l'autore italiano ne comprenda h» spirito assai meglio che il francese, il (luale non la fa consistere cbe nella realizzazione delle astrazioni, e per conseguenza vede in (Cartesio, in questa incarnazione la più perfetta dello s],irit(» nu'tafisico, un iniziatore della tllosolìa positiva. (Comte Corso di filos. positiva, voi. 1, ed. A. pag. 20 e altrove). -i ^ — 434 — mo); non può spiegarsi per un errore accidentale del ra- crioilamento o per le speciali abitudini mentali di un certo Tiumero di pensatori. Essa indica a prima vista che la sua sorgente deve cercarsi in un sofisma naturaU del nostro Spirito, in una di (lueste (come le chiama Bacone) anticipazioni deWesjierienza, cioè di queste credenze, o tendenze a credere, prescientifiche, che l'intelligenza na- tiva dell'uomo porta con se stessa, e che impriìuono alla ricerca scientifica la forma subbiettiva, torcendone forza- tamente i risultati nel senso predeterminato dalla costi- tuzione stessa del nostro spirito. § 2, I sofismi naturali o a priori del nostro spirito sono, lo sappiamo, delle inferenze incoscienti (prese per conoscenze intuitive, perchè non abbiamo coscienza del- l'inferenza), le cui premesse, come quelle di tutte le al- tre inferenze, stanno nell'esperienza passata. Compren- dere l'origine della filosofìa apriorista è scoprire il mec- ca#Mno di questa induzione, su cui questa filosofìa è fondata, induzione di cui non entra nella coscienza che la conclusione, mentre le premesse le sfuggono : noi dobbiamo quindi anzitutto cercare quali siano queste premesse. Ma perciò bisogna prima formarci un' idea più precisa della conclusione stessa, cioè del principio su cui è fondata la filosofìa apriorista. Il principio su cui questa filosofìa è fondata essendo un certo concetto della scienza, noi do])biamo dunque prendere per punto di partenza della nostra ricerca i caratteri che distin- guono la scienza, quale la concepisce il filosofo aprio- rista, dalla conoscenza sperimentale. Da questi caratteri noi potremo arguire facilmente quali siano le premesse empiriche della conclusione, che è il postulato della fi- losofìa apriorista: questo postulato stabilisce quali de- vono essere i caratteri della conoscenza, in generale; quindi le premesse empiriche, di cui esso è la conclu- sione, sono delle conoscenze particolari in cui questi caratteri si trovano. — 435 — Noi possiamo enumerare tre caratteri distintivi della conoscenza, che è l'ideale del filosofo apriorista: 1. Questa conoscenza deve darci delle verità necessarie, mentre la conoscenza sperimentale non ci dà che delle verità con- tingenti. Una verità contingente è quella di cui, per quan- to essa sia fermamente stabilita, noi possiamo senza sforzo concepire il contrario : tali sono in generale le leggi del mondo reale (meno le eccezioni che noi faremo in seguito); per quanto sia ferma la nostra credenza nell'universalità di queste leggi, noi possiamo facilmente immaginare ch'esse vengano sospese o cangiate, e che la natura avrebbe potuto essere costituita con leggi affatto differenti. Una verità necessaria invece è quella, di cui il contrario non potrebbe concepirsi che con sforzo, o è anche assolutamente inconcepibile. Tali sono le verità della matematica, e tra le leggi del reale al- cune di cui parleremo in seguito. La filosofia apriorista aspira dunque a convertire le leggi del reale, che la conoscenza sperimentale ci dà come verità contingenti, il) verità necessarie. 2. La conoscenza a cui aspira il filosofo apriorista deve rivestire il carattere dell' evi- denza intrinseca o razionale; cioè tale, che l'inspezione delle idee, indipendentemente da quella dei fatti, basti a stabilire la verità (l'evidenza con cui ci s'impone, per esempio, un assioma di matematica, è indipendente dalle prove empiriche, su cui esso può essere induttivamente stabilito). Questi due caratteri, la necessità e l'evidenza intrinseca o razionale, sono senq)re uniti l'uno all'altro; e siccome le verità, in cui questi caratteri si trovano, sono delle conoscenze a priori, cioè non risultanti dal- l'esperienza, 0 che noi siamo naturalmente inclinati a credere tali (1), cosi vi ha ordinariamente nella conoscenza a cui aspira la filosofìa apriorista, un S.*^ carat- tere distintivo, derivante dai due primi : è il carattere stesso che le dà il nome, cioè V assenza di un' origine empirica (1). Ora, per trovare le premesse empiriche dell'infe- renza che è il fondamento della filosofìa apriorista, noi dobbiamo cercarle tra le conoscenze particolari, di cui il filosofo apriorista ha avuto l'esperienza, nelle quali si trovano i due caratteri primitivi della neces- sità e dell'evidenza intrinseca o razionale (noi possia- mo neg-ligere il 3.^ cioè l'assenza dell' origine empi- rica, perchè esso non è che inferito dai due altri, per una riflessione psicologica). Questi caratteri si trovano in due classi di conoscenze. Quelle dell'una sono effet- tivamente indipendenti dell'esperienza, e consistono nelle percezioni delle somiglianze e delle differenze. Sono per esempio delle conoscenze d'una verità necessaria e d'una evidenza intrinseca che due e due sono uguali a quattro, e che due gradazioni del colore verde hanno più somi- glianza tra di loro che col colore bianco. Di questa classe fanno parte le proposizioni così dette analitiche, e quelle connessioni logiche tra le proposizioni, che en- trano nei limiti della logica formale, cioè che sono fon- date sui principii d' identità e di contraddizione — nel Saggio 1. abbiamo mostrato che gli atti intellettuali implicati nelle prime non sono che delle percezioni di VI. della parte 1. del Sao;»;io II, citata uel Saggio 1. e. 8, ^ 3, si troverìl invece nella parte 111. di questo stesso Saggio II.) (1) È importante, come vedremo nel seguito del capitolo, «li distinguere l'apriorità, in questo senso, dall'evidenza razio naie : per comprendere questa distinzione, basta di riflettere che un assioma di matematica non cessa di avere un' evidenza razionale, intrinseca, anche per lo psicologo che sa che la co- noscenza di quest'assioma e un risultato dell' esperienza. somiglianze e di differenze; lo stesso avremmo potuto fare per le seconde, se non avessimo voluto evitare di dare alla nostra tesi degli sviluppi che non ci sembravano necessari —.L'altra classe di proposizioni necessarie e in- trinsecamente evidenti sono di origine empirica. Tra le acquisizioni dell' esperienza, i caratteri della necessità e dell'evidenza intrinseca sono propri delle conoscenze delle connessioni tra i fenomeni, che ci sono estrema- mente familiari. Tali sono, oltre gli assiomi della ma- tematica (in quanto sono delle conoscenze induttiva»,, e perciò fondate sull'esperienza) i più familiari tra i rap- porti di simultaneità e di sequenza tra i fenomeni. L'e- strema frequenza delle esperienze determina delle asso- ciazioni inseparabili o presochè tali (non è qui il luogo di discutere se le più forti tra le associazioni formate dell'esperienza siano inseparabili nel senso stretto della parola, come insegnano gli associazionisti inglesi); ed è in questo legame intimo tra le idee che consiste il sen- timento di necessità accompagnante la proposizione. Inoltre, le associazioni di questo genere sono, nel loro aspetto logico, delle inferenze inconscienti : esse danno luogo a delle proposizioni che noi ammettiamo, o siamo inclinati ad ammettere, come evidenti per se stesse e indipendentemente dalla prova empirica, cioè dalle espe- rienze passate, che sono le premesse reali dell'inferenza, ma che sfuggono alla coscienza; il legame intimo tra le idee ci sembra, senz'altro, una prova sufficiente del lega- me reale tra i fatti. È questo sentimento di evidenza in- trinseca, da cui sono accompagnati i giudizi affermanti i rapporti più familiari tra i fenomeni^come per esempio, oltre gli assiomi della matematica, questo : che l'urto deve produrre del movimento nel corpo urtato, o que- st'altro : che la volontà di muovere il braccio ha la virtù di determinare il movimento del braccio stesso— che ha anche dei pensatori, abituati a riflettere sulle operazioni dello spirito, a considerarli come delle cono- scenze indipendenti dall'esperienza. Le due classi enumerate di conoscenze, fornite dei due caratteri inseparabili della necessità e dell'evidenza ra- zionale, non comprendono che le conoscenze primitive; in quanto alle dedotte, quali i teoremi della matematica pura, sembrano esclusivamente proprie di questa scienza, e noi possiamo neg'ligerle per la considerazione che se- gue. L'ogg-etto della scienza, a cui aspira il filosofo aprio- rista, non soìio dei rapporti di somiglianza e di differenza, ma le leggi del mondo reale, i rapporti di simultaneità e di sequenza ; quindi le premesse empiriche della infe- renza incosciente del filosofo apriorista — la quale stabi- lisce che le leggi del mondo reale, in generale^ devono essere delle verità necessarie e di un'evidenza razionale — dobbiamo cercarle, tra le conoscenze fornite di questi ca- ratteri delle quali abbiamo avuto l'esperienza, piuttosto in quelle aventi per oggetto alenile delle leggi del mondo reale (cioè le più familiari) che in quelle, sia intuitive, sia dedotte, aventi per oggetto dei rapporti di somi- glianza e di differenza. Infine, siccome le leggi primitive del mondo reale — che la filosofia apriorista aspira a convertire in verità necessarie e d' un' evidenza razio- nale — sono generalmente dei rapporti di successione, così, tra le conoscenze delle leggi più familiari del mondo reale — che per la loro familiarità ci sembrano delle ve- rità necessarie e d'un'evidenza razionale — è in quelle aventi per oggetto le sequenze dei fenomeni, piuttosto che nelle altre, che devono trovarsi le premesse della inferenza incosciente del filosofo apriorista. Ma le se- quenze più familiari tra i fenomeni sono quelle che ci hanno dat© la nozione di causalità efficiente; e cosi giungiamo a questa conclusione, che il principio fonda- mentale della metafisica apriorista è un' applicazione particolare, una variante, del principio fondamentale di — 439 — ogni metafisica, che ogni fenomeno deve avere una causa efficiente (e non semplicemente un antecedente a cui esso segue d'una maniera invariabile). Il principio che oo:ni fenomeno deve avere una causa efficiente, e' impone di assimilare tutte le causazioni alle più fa- miliari : la filosofia apriorista opera quest'assimilazione, cercando di rivestire tutte le causazioni di questa forma di necessità e di evidenza razionale che è propria delle causazioni più familiari. Il principio fondamentale della filosofia apriorista è dunque, come qualsiasi altro prin- cipio generale, un'induzione; e le premesse di quest'in- duzione sono le :!ausazioni più familiari dì cui abbiamo avuto l'esperienza. Siccome queste causazioni più fami- liari ci sono sembrate necessarie e di un' evidenza in- trinseca, cioè razionale, il filosofo apriorista ne inferisce che tutte le causazioni in generale devono essere neces- sarie e di un' evidenza razionale. Ma questa inferenza è incosciente, vale a dire le sue premesse emi)iriche sfus-a-ono alla coscienza, nella (male non entra che il Oc? ' risultato dell'inferenza. Cosi i filosofi aprioristi ammet- tono il i)OStulato dei loro sistemi— che una conoscenza ade(iuata delle leggi del reale deve rivestire i caratteri della necessità e dell'evidenza razionale— come una ve- rità intuitiva, che non ha bisogno di essere provata: è questo il carattere distintivo delle inferenze inco- scienti. Da questo concetto della causalità risulta il metodo che caratterizza questa filosofia. « I ragionamenti, che noi formiamo sulle cose di fatto, pare, dice Hume (1), che abbiano tutti per fondamento la relazione che vi ha tra le cause e gli effetti. Essa è in effetto la sola che possa trasportarci al di là dell'evidenza che accom- o-na i sensi e la memoria». Se la proposizione di Ilume (1) Sa<:;^io 4, verso il principio. - 440 significa che ogni inferenza (sulle cose di fatto) è sem- pre dalla causa all'effetto o dall'effetto alla causa, essa è certamente troppo assoluta: essa non è vera che in questo senso limitato, cioè che ogni conclusione da uq fenomeno dato a un altro fenomeno è fondata sovra un legame costante tra i due fenomeni, e che questi legami costanti, assolutamente invariabili, tra i fenomeni, che possono costituire delle conoscenze generali di una cer- tezza assolutamente rigorosa, la filosofia moderna non li vede, quasi esclusivamente, altrove che nelle relazioni tra le cause e gli eft'etti. Supponiamo dunque che la relazione tra la causa e refPetto sia conoscibile a priori, che gli effetti possano dedursi dalle loro cause : ne seguirà che, per una scienza vera, passare dal noto all'ignoto, inferire, non è che dedurre; che l'evidenza ra/.ionale, cioè intuitiva o dimostrativa, è il tipo unico di un'evidenza rigorosa; che la vera scienza del reale non può essere, come la matematica, che una scienza a priori, che la ragione deve produrre da se stessa per il solo movimento del pensiero. In un senso, ogni metafisica, in quanto specialmente si riferisce alla ricerca delle cause, è una filosofia a priori. In effetto il presupposto comune di ogni meta- fisica è che il rapporto tra la causa (efficiente) e l'effetto è un rapporto necessario ed evidente intrinsecamente: così anche quella metafisica, che non fa che seguire il movimento spontaneo dello spirito, che è di ricondurre tutte le causazioni a quelle che ci sono le più familiari — le sole che ci sembrino decessane ed evidenti intrin- secamente — riconosce implicitamente il principio stesso, su cui è fondata quest'altra metafisica, che pretende costruire la realtà a priori, e produrre la scienza col metodo dimostrativo. Inoltre l'insieme di questo Sag- gio IL mostrerà che non vi ha alcuna dottrina metafisica — 441 — che possa stabilirsi sulla base dell'esperienza, ma che tutte si fondano sovra postulati ammessi senza prova, come intuitivamente evidenti, e in una parola, a priori. Ma per filosofia apriorista, nel senso stretto del termine (ed è quello in cui l'useremo in questo capitolo), inten- deremo quella che si dà esplicitamente come tale; l'es- senza di questa filosofia consistendo in ciò che, mentre la metafisica, per dir cosi, spontanea del nostro spirito eleva a tipo universale le connessioni tra i fenomeni che ci sono i più familiari, essa invece eleva a tipo universale, non queste connessioni stesse, ma la forma che è loro propria quali oggetti della conoscenza, cioè questa necessità ed evidenza intrinseca che distingue queste connessioni dagli altri rapporti dati tra i feno- meni. Lo spirito della filosofia apriorista, in questo senso, può riassumersi nei tre punti seguenti: 1. Il presupposto fondamentale (ciò sia detto facendo riserva di ciò che aggiungeremo nelF Appendice a questo capitolo) è che un rapporto di causazione efficiente deve essere fornito dei due caratteri inseparabili della necessità e della co- noscibilità a priori. 2. Come conseguenza di questo presupposto, questa filosofia ammette che V evidenza' razionale è il tipo unico d'ogni evidenza rigorosa, anche per le verità del domi- nio dell'esistenza; che una vera scienza del reale, delle leggi degli esseri, non può che essere una scienza a priori; che il vero metodo scientifico non può che essere il metodo dimostrativo. 3. Il carattere speciale di questa filosofia è che questo legame necessario ed evidente a priori, con cui la me- tafisica, in quanto essa è la ricerca del perchè, cerca di legare i fenomeni, mentre un'altra filosofia, più con- forme alla metafisica istintiva dell' uomo, lo domanda alle causazioni estremamente familiari, questa filosofia -"^-r- — 442 — lo domanda invece alla deduzione, alla dimostrazione (1). In conseguenza il suo processo consiste a sforzarsi d'in- trodurre tra i fenomeni dei leg*ami necessari e razìoìiali^ mediante dei ragionamenti capziosi eh' essa dà per di- mostrazioni; o anche, applicando nel senso stretto il prin- cipio che l'effetto deve declursi dalla causa, ad identifi- care il rapporto ontologico tra la causa e l' effetto col rapporto logico tra il principio e la conseguenza nella deduzione. • * Per dilucidare questi punti, noi faremo una corsa nella storia della metafisica; e siccome le quistioni intorno al metodo scientifico hanno, nella filosofia moderna, un'im- portanza assai più grande che nell'antica, e sono state poste d'una maniera assai più chiara e sistematica, cobasterà al nostro scopo di limitarci al periodo moderno. Noi cominceremo duncjue dal jjadre della filosofia mo- derna. § 3. Cartesio — La quistione fondamentale della scienza è per Cartesio quella del metodo : è questo il segno distintivo d'una metafisica essenzialmente aprio- rista, che s'incontra egualmente in Platone, in Spinoza, negl'idealisti tedeschi succeduti a Kant, ecc. Il metodo cartesiano è una estensione di quello delle matematiche pure a tutti gli oggetti della scienza in gene (1) Distinjiuendo o opponendo così queste due tendenze filosofiche, noi non le consideriamo che d'una maniera astratta e, per dir così, ideale. Del resto le due tendenze, nel fatto, non sono quasi mai seperate. Almeno la storia non ci dà alcun esempio di sistema apriorlsta, in cui non si mostri pure la tendenza ad assimilare il modo di ])roduzione di tutti i feno- meni a qualcuna di queste causazioni che ci sono le piìi fami- liari e che servono come tipo di sj)iei;azione nei sistemi più conformi alla metafisica istintiva (filosofia volizionale, mec- canica, ecc.). 443 rale (1). Cartesio si propone di costituire la scienza col metodo puramente deduttivo dei geometri (2), e non vuole riconoscere alcuna cosa per vera, la cui evidenza non eguagli quella delle dimostrazioni matematiche (3j. In questo metodo, l'esperienza non ha che una funzione af- fatto subordinata, e la conoscenza deve essere tirata da certi germi di verità che sono naturalmente nelle nostre ani- me (4). E ciò che spiega, sia detto di passaggio, questa con- fidenza assoluta di Cartesio nelle forze del pensiero in- dividuale, l'audace proposito di creare di pianta tutto l'edifizio scientifico, e il dubbio universale, il rigetto di ogni conoscenza anteriore, come propedeutica della scienza (5). L'oggetto della filosofia è, dice Cartesio, una perfetta conoscenza di tutte le cose che l'uomo può sapere — si noti quest' altro tratto distintivo della metafisica aprio- rlsta, per cui la filosofia non è una scienza, ma la scienza del reale, la quale si distingue dalle scienze speciali, non tanto per un contenuto proprio e distinto, quanto per la forma necessaria ed a priori^ di cui essa riveste il contenuto stesso di (lueste scienze — e affinchè, con- tinua Cartesio, questa conoscenza sia tale, è necessario (1) Metodo^ II parte t. 1. ed. Cousin pag. 142-143, 145; Kcg. per la direz. dello spir. Reg. 4. p. 217-218 et. 11. ed Cous), Heg. 14. p. 208, e lUsp. alle Lee. obhiez. p. 44() sejr. (t. 1. Cous); ecc. (2) 3Iet. 142-143; Ueg. perla dlrez. dello spir. Reg.2. p.ig. 207-200: Rie. della ver. per il lume naturale t. XI. p. 884, 875; ecc. (8) Rcg. perla direz. dello spir. Reg.2. p. 200-200; Metodo ]>. 108 (parte 5); Prine. della fìlos. 2. j)arte n. 04 p. 170, 4. par- te n. 200. p. 524-525; ecc. (4) Met. }). 105 ((). ])arte), 108 (parte 5.); Reg. per la direz. dello spir. Reg. 4, t. XI. p. 217: Prine. della filos. I. parte n. 24 p. 70, II. parte u. 8, p. 128, ecc. (5) V. Disc, del metodo che essa sìa dedotta dai primi principii, in modo che, per istudiarsi di acquistarla, ciò che si chiama propria- mente filosofare, bisog-na cominciare dalla ricerca di questi principii, ed essi devono avere due condizioni, runa che siano si chiari e sì evidenti, che lo spinto umano non possa dubitare della loro verità allorché si applica con attenzione a considerarli; l'altra che sia da essi che dipenda la conoscenza delle altre cose, in modo che essi possano essere conosciuti senza di queste, ma non reciprocamente (jueste senza di essi-, e dopo ciò bi- sogna cercare di dedurre talmente da questi principi! la'^conoscenza delle cose che ne dipendono, che non vi sia niente in tutto il seguito delle deduzioni che si fanno che non sia chiarissimo (1). Cosi i mezzi per cui l'intendimento può elevarsi alla conoscenza, senza timore d'ingannarsi, sono due: l'in- tuizione e la deduzione, e non bisogna ammetterne di più. L' intuizione è delle cose che sono evidenti per se stesse : di quelle òhe non lo sono possiamo tuttavia averne la certezza, « purché esse siano dedotte da principii certi e incontestati per un movimento continuo e non inter- rotto del pensiero, con una intuizione distinta di ciascuna cosa» (di ciascun passo del ragionamento). Le prime proposizioni derivate immediatamente dai principii pos- sono dirsi conosciute sia per deduzione sia per intui- zione; i principii stessi per intuizione; le conseguenze lontane per deduzione (2). Tuttavia nella 7^^ delle sue Ueijole per la direzione dello spirito Cartesio parla anche dell'induzione, ch'egli chiama pure enumerazione sufficiente, come uno dei mezzi (1) Princ. della filos. Prefaz. (Lotterà al tvadiitt.) p. 10 Cousiii. (2) He(j. per la direz. dello ^pir. Ueg. 8. Cfr. Keg. o, 6. ecc. - 445 — che conducono sicuramente alla verità, anzi come il solo oltre alla intuizione. Ma Cartesio non intende V induzione nel senso nostro, moderno, della parola, cioè come la estensione a tutta una generalità di casi di ciò che si è osservato in alcuni. L'induzione non è \)q:c Cartesio che una specie di deduzione. Per induzione o enumerazione egli intende iT mezzo di stabilire la certezza di quelle verità che non derivano immediatamente da principii evidenti per se stessi, ina a cui si giunge per un lungo seguito di conseguenze, come (piando si conclude il rap- porto tra le grandezze A ed E, dopo aver trovato il rapporto tra A e B, quello tra B e C, tra C e D e tra D ed E (1). Tutte le volte che abbiamo dedotto delle proposizioni immediatamente l'una dall'altra, se la dedu-zione è stata evidente, l'operazione si riduce a una vera intuizione. « Ma se deduciamo una proposizione da altre proposizioni numerose, disgiunte e nmitiple, spesso la capacità della nostra intelligenza non è tale che possa abbracciarne l'insieme d'una sola vista: in (jiiesto caso la certezza dell'induzione deve bastare. E cosi che senza potere ad una sola vista distinguere tutti gli anelli di una lunga catena, se nondimeno abbiamo visto V inca- tenamento di tutti questi anelli fra di loro, ciò ci i)ei'- metterà di dire come il primo è congiunto all'ultimo:^ (1). Pressoché lo stesso dice nella spiegazione della Keg. 11 : quando la deduzione è semplice e chiara, egli suppone che la si veda per intuizione; ma (luando è inulti[>la e inviluppata, in modo che lo si)irito non possa com})reii derla tutta intera ad un sol colpo, ma bisogna, affine di concluderne un i>'iiidizio unico, che la menioi'ia con- servi i giudizi portati su ciascuna delle parti (dell' in- (1) J^e(j. 7. pa.ir. 2:^8-285. (2) Keg. 7. \ni<r. 281). — 446 — tera deduzione), allora la chiama induzione o enume- razione (1). Nondimeno Cartesio estende anche il nome d' indu- zione all'operazione logica appunto che noi indichiamo con questa parola. Cosi, continuando a spiegare la sua regola 7--^, egli dà anche quest'esempio di enumerazione sufficiente o induzione: « Se io voglio mostrare per enu- merazione che la superficie di un cerchio è più grande che la superficie di tutte le figure di cui il perimetro è ug'uale, io non passerò in rivista tutte le figure, ma mi contenterò di fare la prova di ciò che avanzo su alcune fig'ure, e di concludere per induzione di tutte le altre » . Sicché potrebbe dirsi che col nome di deduzione (di cui r induzione è per lui una specie) Cartesio intende deo-nare l'inferenza in generale, tanto quella che noi chia- miamo deduttiva, quanto quella che chiamiamo induttiva. Ma, non vi ha dubbio, dal complesso dei suoi precetti sul nìetodo (per non parlare dell'applicazione di questo metodo, cioè della sua opera filosofica), che quando Car- tesio parla di deduzione, ciò che è presente al suo pen- siero, non sia quello stesso che noi chiamiamo cosi, vale a dire, se non precisamente il sillogismo (perchè Car- tesio non è un amico del sillogismo), un'operazione lo- gica per cui si sviluppano le conseguenze implicitamente contenute in un principio stabilito. Per provarlo, a ciò che abbiamo riferito nel testo o citato nelle note, ba- sterà di aggiungere due altri luoghi delle Regole per la direzione dello spinto. Non vi hanno, dice Cartesio nel- l'uno di questi due luoghi, che due vie per arrivare alla conoscenza delle cose: 1' esperienza e la deduzione. Ma l'esperienza è spesso ingannatrice; la deduzione, al con- trario, può non farsi, se essa non si percepisce, ma non è mai malfatta (si comprende questa infallibilità attri- ci) Pag. 2Ó7 - 258. - 447 — buita alla facoltà di fare delle deduzioni ; ma come si potrebbe attribuirla anche alla facoltà di fare delle in- duzioni ?). Se tra le scienze fatte non vi ha che l'arit- metica e la geometria che siano certe, ciò è perchè queste scienze sono puramente deduttive e ])unto speri- mentali (1). Nell'altro luogo, dopo avere s})iegato che i legami fra le nozioni sono necessari o contingenti» chiamando necessario il leggane quando è impossibile di concepire le idee separatamente l'una d'altra, e dando delle inferenze deduttive come esempi di questo legame, prescrive di non fare altri legami che quelli che abbiamo riconosciuti necessari, e non ammette, oltre all'intuizione evidente, che una sola via per arrivare alla conoscenza certa della verità, la deduzione necessaria (2). Noi ve- diamo dunque che 1' induzione (nel nostro senso), nel metodo cartesiano, non entra che per un'inconseguenza, e, per dir cosi, di soppiatto. Dal metodo passiamo alla vsua ap[)licazione, cioè al contenuto del sistema. L'essenziale della filosofia cartesiana consiste per noi naturalmente nella sua spiegazione del mondo, poiché l'oggetto della filosofia non è insomma che di dare una spiegazione dei fenomeni. La spiegazione di Cartesio è, come si sa, una spiegazione tutta meccanica (impulsio- nista), in cui Dio interviene, ma semplicemente per rendere ragione dei principii della meccanica. Cartesio— e con lui pressoché tjf^tti i filosofi che si riattaccano, direttamente o indirettamente, al movimento filosofico da lui iniziato - può prendere i)er divisa il motto di Leibnitz : Tutto si fa meccanicamente nella natura; ma i principii del meccanismo stesso derivano da una sor- gente più alta, da una sorgente metafisica. (1) Pag. 207-208, Reg. 2. (2) Pag, 278 - 278, Kcg. 12. «:SU*:'^iiMt.sijM — 448 - Nella spiegazione eartesiana noi possiamo distin- guere due elementi, rapporto alla loro origine psieolo- o-ica e alla forma di metafisica eh' essi rappresentano. L'uno è questo principio sfosso che tutto si fa mecca- nicamente nella natura, cioè che tutti i fenomeni si ri- ducono al movimento, e che non vi ha altra causa (fisica) del movimento che l'impulsione. Quest'elemento appar- tiene alla metafisica Mintiva dell'uomo, rappresenta la tendenza spontanea del nostro spirito a ricondurre tutte le sequenze a quelle che ci sono le più familiari, ten- denza che, come sappiamo, è la base della nozione di causalità efficiente e di ogni speculazione metafisica che vi si riferisce. Ma Cartesio, adottandolo, non fa che un'ap- plicazione delle regole del suo metodo; poiché l'azione meccanica, l'impulsione, è, come sappiamo, tra tutte le azioni tìsiche, la sola che sembri necessaria e di un'e- videnza intrinseca, razionale,1). I prodotti della meta- fisica istintiva del nostro spirito entrano di pieno diritto come ingredienti in una metafisica apriorista : questa in- fatti consiste essenzialinente nell'imitazione della forma con cui le sequenze, che costituiscono la base empirica della nozione di causalità etticiente, si sono presentate alla nostra intelligenza; nello sforzo di rivestire di (juesta forma tutto il conoscibile; e a questo scopo non vi ha naturalmente mezzo più adatto che quello di ricondurre tutti i fenomeni ad alcuna di queste sequenze stesse che servono di modello al metafisico apriorista. Ma oltre que- sto principio, necessario ed intrinsicaniente evidente — perchè prescientifico - che, l'impulsione è la causa del movimento, la concezione meccanica della natura com- ]u-ende altri principi! che non sono necessarii né intrin- secamente evidenti, cioè le leggi scientifiche del movi- mento stesso. Queste leggi — che del resto ha la gloria (1) V. rriuc. della filos. 1. parte, ii. 1!)8, ibid. u. 203, ecc. — 449 — di avere proposte per il primo, quantunque in una for- ma non esatta - Cartesio pretende dimostrarle, couver- tirìe da verità empiriche e contingenti in verità a priori e necessarie; ed è questa dimostrazione che costituisce sovratutto l'elemento che, nella sua spiegazione del mon- do rappresenta propriamente la metafisica apriorista (un elemento proprio di questa forma di metafisica e non comune colla metafisica che abbiamo detto istintiva). Per dimostrare i principii della meccanica - in altri termini le leggi della n«tem -- Cartesio dimostra prima l'esistenza di Dio, per l'argomento a pm«; propriamente detto, cioè per l'argomento ontologico. Quest'argomento, come tutti sanno, pretende dedurre 1' esistenza d. Dio dal concetto o essenza di Dio (il concetto di Dio e .1 concetto di un essere che racchiude tutte le perfezioni; ma l'esistenza è una perfezione; dunque l'esistenza e necessariamente inclusa nel concetto di Dio, e non può esserne separata). Mcntn; le prove tirate dagli effetti di- mostrano semplicemente che Dio è, la prova ontologica dimostra che Dio deve necessariamente e.<isere, d'una ne- cessità non condizionale (come sarebbe questa : se il mondo esiste, esiste Dio), ma assoluta, cioè indipendente dalla supposizione dell' esistenza di qualche cosa fuori di Dio, e consistente in ciò, che la sua non esistenza, considerato per se solo, sarebbe assurda e contraddit- toria. Dimostrata cos'i l'esistenza di Dio, Cartesio di- mostra le leggi della natura, deducendole dagli attri- buti ch'egli vede necessariamente contenuti nel concetto di Dio. Ecco in breve questa dimostrazione : Dal con- cetto dell'Essere assoluto ne segue che l'esistenza delle cose finite dipende da lui, che egli ne è il creator.-; di più ne segue che quest'Essere è immutabile, immutabile non solo in se stesso, ma anche nella sua azione este- riore, nella sua azione creatrice del mondo (Cartesio ammette la dottrina della creazione continua). Di la egli 29 — 450 — deduce il suo principio che la quantità del movimento nel mondo è immutabile, e cosi ancora la legge d'inerzia, e gli altri principii della meccanica (1). Osserviamo come l'argomento ontologico sia un momento indispensabile in un tale processo deduttivo, una condizione sine qua non per ottenere il risultato a cui mira Cartesio. Lo scopo di Cartesio è di stabilire le leggi della natura come delle verità necessarie ed a priori; e perciò egli vuol mostrare che queste leggi sono le conseguenze d'un principio che è esso stesso una verità necessaria ed a priori. Se l'e- sistenza di Dio non fosse provata che dagli effetti, la sua verità dipenderebbe da una supposizione empirica e con- tinyeììte: questo dato empirico e contingente, introdotto nella dimostrazione, impedirebbe che l'esistenza di Dio, e quindi le conseguenze che se ne deducono (le leggi della natura) fossero delle verità necessarie ed a priori. Osserviamo inoltre la parte che Dio rappresenta nella spiegazione cartesiana delle leggi della natura. Questa non è per niente una spiegazione antropomorfìstica; l'a- zione di Dio nel mondo non è assimilata all'azione umana. Non è per gli attributi che Dio ha in comune con l'uomo (p. es. r intelligenza) che il mondo viene spiegato, ma per un attributo che egli può avere in comune con degli esseri incoscienti e inanimati, 1' immutabilità (2). Cosi (1) Princ. della filos. 2. parte, n. 36 - 42. (2) Il Dio di Cartesio ^ il vero antecessore del Dio inani- nuito — come lo chiama Kant — di Spinoza. In Spinoza, di Dio non 4^^ conservato che il nome : in Cartesio gli ^ dato il posto inìi eminente nel sistema, ma con tntto ciò al fondo h piuttosto un doiiina ammesso in Ìovaìì della tradizione che un prodotto della sj)eculazione tìlosotica. Dio, parlando lìlosofìcamente, non è che un' ipotesi destinata a dare una spiegazione dei fenomeni nel senso antroimmortistico ; ma la spiegazione cartesiana del mondo non è niente fatta in questo senso. Non potrebbe dirsi neimucno che Dio in Cartesio è la causa del movimento con- il posto che Dio occupa in questa metafisica non è quello che gli assegna la metafisica istintiva del nostro spirito : in questa spiegazione, i fenomeni non vengono spiegati in quanto si assimilano ad altri fenomeni pia familiari. Per vedere ciò più chiaramente, dobbiamo pure notare in qual senso questa immutabilità divina renda ragione, per Cartesio, delle leggi della natura, p. e. della immu- tabilità della quantità del movimento. La ragione i)er cui questa viene ammessa non è che Dio è un essere immutabile, ma che Dio agisce di una maniera immida- bile. Nel primo caso la spiegazione potrebbe essere ri- condotta al tipo della metafisica istintiva, in altri ter- mini potrebbe considerarsi come un'assimilazione dei fe- nomeni ad altri fenomeni più familiari; noi essendo fa- miliarizzati col fatto, che una causa, restando lo stesso, persiste a produrre lo stesso effetto, concepiremmo l'ef- ficienza di Dio come causa della persistenza del movi- mento, sul tipo di questo fatto familiare della nostra esperienza, e in quest'assimilazione troveremmo una spie- gazione conforme all'idea primitiva che ci foruiiamo della spiegazione. Ma non é a questo modo che la intende Cartesio: l'immutabilità della (juantità del movimento è per lui im-A conseguenza logica deìhi immutabilità dell'a zione divina (la quale alla sua volta è una conseguenza logica del concetto di Dio). Se il primo dei due fatti è formcmente al concetto antroimrmotistico e ilozoistico, che un cominciamento assoluto di movimento non può attribuirsi cIk; allo spirito ; perchè, come Dio muove i corpi i creandoli suc- cessivamente in posti diversi dello spazio ; ciò che non ha la minima analogia con l'azione umana. Tutte le prove di Cartesio dell'esistenza di Dio non sono che dei sofismi artificiuli ; le prove naturali mancano, e sarebbero anche incomi>atibili con la sua spiegazione del nmndo. Il concetto teologico non i- cosi legato al resto del sistema cartesiano ]>er dei legami orgniiici. ma per quelli puramente artiliciali di una deduzione capziosa. ^'.' - 452 — (iato come la ragione del secondo, ciò non è perchè si tratti di due fatti, la cui relazione essendoci molto fa- miliare, ci sembra perciò necessaria e intelligibile (come avviene nelle spiegazioni della metafìsica istintiva), ma perchè si tratta di due fatti, o piuttosto di due propo- sizioni, che sono tra di loro nel rapporto logico di prin- cipio e di conseguenza, in modo che sarebbe contrad- dittorio di non ammettere il secondo, dopo aver ammesso il primo. L'essenza di questa forma di metafisica, non dobbiamo dimenticarlo, consiste in questa logica artifi- ciosa, per cui si pretende di convertire i legami empi- rici e con^m^ew^?' tra i fatti in legami razionali e necessari. Perchè Cartesio non è contento di avere ricevuto dall'esperienza le leggi della natura, ma vuole stabilirle a priori? perchè non è contento di sapere che i fatti sono così, ma cerca anche una ragione che mostri che essi devono essere così? Cioè evidentemente per questa tendenza innata del nostro spirito, che ci spinge a ri- cercare il perchè, le cause delle cose, tendenza che non può essere soddisfatta dalla semplice osservazione dei fenomeni, la quale ci dà non le cause, ma solo gli an- tecedenti di sequenze invariabili. È un fatto d'esperienza intima che, se noi riusciamo ad immaginarci che tra questi fenomeni che P osservazione ci mostra come in- variabilmente congiunti, ma non come connessi, vi sia, d' una maniera qualunque, un legame necessario, cioè tale che la ragione possa, indipendentemente dall' os- servazione che li mostra congiunti, comprendere che essi devono essere congiunti; allora la nostra aspirazione a conoscere il perchè, le cause, è, sino ad un certo punto, soddisfatta. Ora noi non crediamo sufficiente d' aver costatato questo fatto della nostra esperienza intima : noi vogliamo renderci ragione di questo fatto, comprendere il determinismo secondo cui esso si pro- duce, sapere quali sono i fatti più generali, ic leggi 453 — dello spirito, a cui esso può ricondursi. La prima dif- ficoltà, nelle ricerche psicologiche di quest'ordine, è, come abbiamo già osservato, di comprendere che vi ha qualche cosa che si deve ricercare : questi fenomeni della nostra intelligenza, che si producono con una intera spontaneità e d'una maniera pressoché istintiva, ci sembrano delle cose afPatte naturali e tali da non aver bisogno di alcuna spiegazione. Ma questa spon- taneità e istintività del fenomeno è per noi una i)rova che si tratta d'un'inferenza incosciente. In effetto questo fatto— che una ragione a priori, la quale facesse com- prendere che i fenomeni devono essere congiunti così come l'osservazione ci mostra che soìio congiunti, ci da- rebbe una risposta alla quistione del perchè, delle cause— suppone r ammissione implicita di due principii gene- rali. 1. Che non basta di sapere che i fenomeni sono invariabilmente congiunti (cioè qual sono le leggi gè- nerali della natura), ma bisogna anche cercare di sapere perchè questi fenomeni sono invariabilmente congiunti, ciò che implica la credenza che la natura delle cose è tale che vi ha un perchè delle sequenze invariabili, delle leggi primitive della natura, date dall'osservazione. 2. Che una ragione a priori, che mostrasse che i feno- meni invariabilmente congiunti devono necessariamente esserlo, ci darebbe il perchè della loro congiunzione : ciò che implica, non solo che la natura delle cose è tale che vi ha un ^perché delle congiunzioni invaria- bili tra i fenomeni, ma è anche tale che vi ha tra i fenomeni un legame necessario, che la ragione può scoprire a priori, e che è il perchè della loro congiun- zione. Queste supposizioni che noi facciamo implici- tamente sulla natura del mondo obbiettivo, devono essere fondate sovra una base empirica, la quale, se non è sufficiente a stabilire logicamente la validità di queste supposizioni, deve essere almeno sufficiente a ^ 454 — spieo-are la loro origine, la loro presenza nel nostro spirito. In quanto alla prima delle due supposizioni, noi abbiamo mostrato che questa base empirica deve cer- carsi nelle sequenze più familiari tra i fenomeni, cioè che sono queste sequenze che ci hanno dato l'idea di causa efficiente, ed è da esse che abbiamo inferito il principio che ogni fenomeno deve avere una causa tale (e non semplicemente un antecedente a cui esso segue d' una maniera invariabile). Ma anche per la seconda supposizione la base empirica non può cercarsi altro- ve che in queste sequenze stesse. Infatti, poiché un legame necessario e razionale, puramente logico, in- trodotto tra i fenomeni, dà una soddisfazione al no- stro desiderio di conoscere il perchè dì questi fenomeni, come la dà, (quantunque ad un grado superiore, 1' as- similazione della produzione di questi fenomeni alle sequenze familiari che ci hanno dato 1' idea di causa efficiente, se ne deve concludere che tra queste due forme sotto cui lo spirito concepisce il perchè delle cose, vi ha un'anologia, un fondo comune; che le due forme di metatìsica rappresentate da queste due risposte date alla identica quistione del perchè, si riattaccano, al fondo, a uno stesso processo del nostro spirito. Il fatto che le soluzioni della metafisica istintiva (che spiega i fenomeni riconducendoli alle causazioni che ci sono più familiari) danno una soddisfazione più completa, più evidente, al nostro desiderio di conpscere il perchè, che le soluzioni della metafisica apriorista (che cerca d' in- trodurre fra le cause e gli effetti un legame puramente logico), è una conseguenza necessaria dell'altro fatto, che nel secondo caso l' assimilazione dei fenomeni al tipo a cui lo spirito si sforza di assimilarli (cioè a quelli che costituiscono la base empirica dell'inferenza inco- sciente), è assai più imperfetta che nel primo caso. E in effetto, come abbiamo detto nel §. 2, questo presup — 455 — posto della metafìsica apriorista, che vi hanno tra i fatti delle connessioni necessarie e razionali, non può essere fondato che sull'esperienza di qualche cosa come delle connessioni necessarie e razionali trai fatti; così, non essendovi niente altro di simile nella nostra espe- rienza che le congiunzioni molto familiari fra i feno- meni, è nelle causazioni più familiari che deve trovarsi la base induttiva di questo presupposto, e il tipo a cui questa metafisica cerca di assimilare le suo concezioni sui rapporti tra le cause e gli effetti. Tornando ora a Cartesio, noi dobbiamo prima di tutto rispondere ad una difficoltà. Le considerazioni pre- cedenti tendono a mostrare che, quando si è persuasi di avere scoperto tra i fenomeni, per mezzo di una ra- gione a priori, una connessione necessaria, ciò è come avere stabilito tra questi fenomeni una connessione^ di efficienza causale. Ma i fenomeni successivi che costitui- scono una legge della natura possono, nel sistema carte- siano, considerarsi come cause ed effetti gli uni degli altri? 0 è piuttosto Dio che in questo sistema è la causa unica di tutti i fenomeni ? La dottrina delle cause oc- casionali di Malebranche e di altri cartesiani, che nega ogni rapporto di efficienza causale trai fenomeni, non è certamente quella di Cartesio ; ma non vi ha dubbio che nel suo sistema non vi sia qualche cosa di simile, perchè egli spiega tutto, al fondo, per l'azione di Dio. Ora come conciliare ciò col concetto che Cartesio, sfor- zandosi di stabilire tra i fenomeni dei legami necessari e razionali, non intendeva perciò che stabilire fra di essi dei legami di efficienza causale? Questa obbiezione non è che verbale, e nasce da ciò che noi diamo al termine causa efficiente un signifi- cato che non è assolutamente conforme all'uso comune di questo termine. Per un rapporto di causalità efficiente \ — 456 — - 457 — noi intendiamo un rapporto di sequenza tale che tra lo antecedente e il conseguente lo spirito possa, per espri- merci con le parole di Hume, vedere una connessione, e non semjìlicemente constatare una congiunzione, com- prendere perchè^ e non semplicemente sapere che, il con- seauente si verìfica verificatosi l'antecedente. Questo ca- rattere appartiene ai rapporti di causazione molto fa- miliari, e a quelli che la metafìsica immagina secondo questo tipo. La metafisica si distingue dalla scienza po- sitiva, perchè questa si contenta della congiunzione, del chey mentre quella cerca la connessione^ il perchè. Tutte le specie di connessione che la metafisica crede di aver trovate, tutte le risposte che essa dà a questo perchè^ cadono per noi sotto, il concetto di causazione efficiente. Perciò noi dobbiamo talvolta applicare questo termine difformemente dalla sua accezione più comune: ma noi abbiamo avuto bisogno di un termine generale per in- dicare l'oggetto comune della nostra ricerca, e al tempo stesso il legame comune di parentela che unisce tutta una classe di concezioni metafisiche, l' identità fonda- mentale del processo del nostro spirito di cui esse sono il risultato ; non ne abbiamo trovato uno migliore che quello di causa efficiente, ma siamo stati costretti a non tenerci strettamente al suo significato ordinario. Secondo questo, l'antecedente di un fenomeno per essere chia- mato causa efficiente di questo fenomeno, deve esserne V'diìte(iedentii Incondizionate, cioè tale che esso basti a pro- durre l'effetto senza bisogno di un'altra condizione: ciò che nel sistema cartesiano non può dirsi di alcuna causa fisica, poiché, in esso, perchè l'effetto segua la sua causa (fisica), è necessaria una condizione. Dio; e sotto questo aspetto, Dio solo meriterebbe il nome di causa dei feno- meni. L'uso comune, limitando, così la nozione di causa efficiente, ha in mira la concezione più ordinaria che la metafisica se ne forma, che è quella di un agente sup- posto, conoscibile o inconoscibile, o di una qualità se- creta supposta negli agenti dell'esperienza, che è, o sa- rebbe se si conoscesse, l'intermediario esplicativo delle sequenze tra i fenomeni. In questo senso, t' incondizio- nalità per produrre l'effetto è il carattere essenziale di una causa efficiente, quello che la distingue dai semplici antecedenti di sequenza invariabili dati dall' osserva- zione; poiché si suppone che questi non siano gli ante- cedenti incondizionali degli effetti, ma che, perchè gli effetti ne seguano, sia necessario anche l'intervento di una condizione, la causa efficiente. Ma noi avendo assi- milato a queste concezioni più ordinarie della metafisi- ca, di agenti ipoteci o qualità ipotetiche negli agenti co- nosciuti, da cui gli effetti sono o potrebbero essere spiegati e non semplicemente a cui essi seguono invarifibilmen- te; avendo assimilato, dico, a queste concezioni quelle che la metafisica apriorista si forma sulla produzione delle cose, sui rapporti tra le cause e gli effetti; non possiamo riconoscere perciò che un carattere, come es- senziale al rapporto di causazione efficiente, e distin- guente questo da quello di una semplice sequenza in- variabile, cioè che questo rapporto sia immaginato sul tipo, più o meno fedelmente imitato, delle causazioni familiari da cui ci viene 1' idea di causazione efficiente. Così, se non si volesse dare al termine causa efficiente che il significato ordinario, il principio che ogni effetto ha una causa efficiente (e non semplicemente un ante- cedente a cui esso segue invariabilmente), non sarebbe il vero presupposto fondamentale di ogni speculazione metafisica relativa alla quistione del perchè, ma, per potere riferirvi tutte le speculazioni di quest' ordine, noi dovremmo esprimere questo presupposto d'una ma- niera più generale, per es. cosi : Bisogna assimilare, più che sia possibile, le nostre concezioni sulla produ- zione delle cose, sui rapporti tra le cause e gli eff'etti, ai — 458 - 459 — rapporti di sequenza più familiari. Tale è al fondo la vera espressione di questa premessa incosciente, naturale al nostro spirito, da cui egli parte per tirarne tutti i con- cetti metafìsici relativi alla quistione del perchè : il prin- cipio ogni fenomeno ha una causa efficiente (nel senso ordinario) ne è l'applicazione più ordinaria, ma non ne è che un'applicazione particolare. Ora si deve notare che questa assimilazione alla sequenze familiari, che rie- sce a fare la metafisica, non è quasi sempre che appros- simativa ed imperfetta: ciò non è soltanto perchè la con- nessione che essa riesce a stabilire tra le cause e gli effetti non sembra mai cosi evidente, cosi naturale, co- me sembra quella delle causazioni familiari (o se.mbrava almeno nel periodo prescentifico della nostra vita intel- lettuale), ma anche perchè la condizione rigorosa che una causazione efficiente dovrebbe realizzare per essere una causazione, cioè quella di costituire ma sequenza costante e incondizionale, non è il più spesso adempiuta. Per es. nella metafisica teologica il rapporto tra la causa efficiente e 1 cfi'etto non è propriamente una sequenza-^ perciò questa metafisica non dovrebbe, come fa, concepire Dio come esente dal cangiamento e dai rapporti di tempo. Nel cartesianismo e in altri sistemi aproristi la causazione efficiente che cerca di stabilirsi tra i fenomeni, è una seguenza costante, ma non è incondizionale. Nella forma di metafisica di cui parleremo nel capitolo seguente, la distanza dal tipo è anche più grande : tra la causa ef- ficiente e l'efietto non vi ha più un rapporto di sequenza; causa ed effetto non sono nel tempo, non sono dei fe- nomeni ; alla sequenza cronologica si sostituisce una sequenza puramente logica, ideale, una anteriorità e posteriorità di natura (1). (1) lo devo ricouoscere un'altra improprietà iiell'uso che ho fatto della parola causa. Io ho considerato tutte le leggi della natui'u di Cartesio indistintamente come leggi di causazione, e; <i ■ Vi hanno dunque nel sistema cartesiano due specie di causazione, l'una fra le cause e gli effetti della na- tura, e l'altra, più vicina al concetto ordinario di causa efficiente, secondo cui Dio è la causa universale dei fe- nomeni. Ora il cartesianismo non poteva mancare di sot- tomettere anche questa seconda causazione al processo essenziale della sua forma di speculazione, cioè di sta- bilire tra la causa e 1' effetto una connessione logica. Perchè Dio crea, produce i fenomeni ? Naturalmente perchè tale è la sua volontà, poiché nel cartesianismo, sinché esso si muove nell'orbita dell'ortodossia, il mondo quantunque ve ne sia alcuna che non si ^ abituati a considerare così. Tale t^ la legge d' inerzia (che un c()rj>o persiste nel suo stato di quiete o di movimento, sinclic una forza esteriore non lo l'accia cangiare da. questo stato). Ma, non parlando della prima parte della legge (cioè che un corpo in quiete persisterà nella quiete) — la quale d'altronde non lia alcun importanza al nostro punto di vista, perchè esprimendo un fatto col quale siamo molto familiarizzati, non sollecita il metalìsico apriorista a cercarne la ragione — non vi ha alcun motivo di negare alla seconda parte il nome di legge di causazione, tranne forse quello — che è anch' esso un prodotto della metafisica aprio- rista — di volerla stabilire come implicitamente contenuta nel principio stesso di causalità. Il movimento è un cangiamento, un cangiamento da un luogo ad un altro : esso ha quindi una causa, e l'azione d'una forza esteriore non merita più il nome di causa che il movimento anteriore del corpo stesso. È certo che noi possiamo distinguere nel movimento di un corpo, liì)ero da ogni intìuenza esteriore, un prima e un jjoi : tra questo prima e questo poi vi ha un rapporto delìnito, e questo è una sequenza invaria- bile e ineondizionale. Per conseguenza il princi[>io metalìsico della causalità effieieiite, del pari che il principio positivo della causalità tìsica o uniformità di sequenza, si applica tanto nel caso del corpo che si muove jier rimi>uLsione d'un altro (o per (qualsiasi altra azione esteriore), ([uanto in <j[uello del corpo che si muove per la forza d'inerzia. - 460 - non è una conseguenza necessaria di Dio (come lo di- viene in Spinoza), ma un effetto del suo libero arbitrio. Ma perchè dalla volontà di Dio segue la produzione dei fenomeni ch'egli vuole? Perchè vi ha tra l'una e gli altri un rapporto logico; una potenza infinita essendo racchiusa nel concetto deìV Essere perfettissimo, sarebbe una contraddizione che Dio volesse la produzione dei fenomeni, o (juesti non si producessero (V. più giù su Malebranche). Di più, perchè Dio produce questi tali fenomeni ? Senza dubbio ancora perchè tale è la sua volontà. Ma (^ui Cartesio non si contenta di questa ri- sposta ; va più oltre, trova una risposta più radicale, più filosofica. Deducendo le leggi della natura dagli at- tributi di Dio, inseparabili dal suo concetto, Cartesio, nel tempo stesso che introduce tra le cause e gli effetti fisici un ra|)porto logico e necessario^ introduce pure un rapporto logico e necessario tra la causa iperfisica di tutti i fenomeni e questi fenomeni stessi. Che la natura sia tale quale essa è, in ciò che vi ha in essa di essenziale, nelle sue leggi, è una conseguenza necessaria dell' es- senza della causa che l'ha prodotto ^1). Inoltre la forma stessa del mondo, il cosmos, è pure logicamente connessa con l'essenza della Causa universale, poiché Cartesio pensa che questa forma, nelle sue linee generali, sia una conseguenza necessaria delle leggi ultime della natura (2). (1) «... io feci vedere quali erano le leggi della natura; e senz'appoggiare le mie ragioni sopra alcun altro principio che .sulle perfezioni intinite di Dio, cercai di dimostrare tutte quelle di vnì M potesse avere qualche dubbio e di far vedere eh' esse souo taii che ancorché Dio avesse creati piti mondi, non ve ne potrebbe essere alcuno in cui esse mancassero di essere osservate ». Met. 5 parte, i)ag. 170. (2) Coniormemente allo spirito della lilosotìa apriorista (vedi r appendice a questo capitolo), Cartesio deve dedurre, non solo Ir leggi dei cangiamenti, cioè le leggi di causazione, ma tutte — 461 - Che lo stabilire questo rapporto logico necessario tra il mondo e la causa prima sia per se stesso un obbietti- vo della speculazione cartesiana (1), possiamo inferirlo le uniformità della natura. Egli non potrebbe, per esempio, ammettere come un dato primitivo, iiideducibile, dei generi di- stinti di corpi elementari, ovvero questa uniformità nella di- stribuzione della materia e del movimento che costituisce il cosmos : tutto ciò deve essere dedotto, e, secondo i principii della sua spiegazione della natura, dedotto dalle leggi mecca- niche. Datemi, dice Cartesio, materia e movimento ed io farò il mondo. Di là l'idea di dedurre un mondo simile, nei suoi tratti generali, a questo mondo della nostra esperienza, dalla sejuplice supposizione che « Dio creasse in qualche parte, negli spazi immaginarli, abbastanza materia per comporlo e agitasse diversamente e senz'ordine le xliverse parti di (questa materia, in modo da comi)orne un chaos tanto confuso quanto i poeti lo potrebbero tìngere ; e poi non facesse altro clic prestare il suo concorso ordinario alla natura, e lasciarla agire secoucb» le leggi ch'egli ha stabilite», (v. Disc, del metodo (t. 1), p. I(i9 e sgg., e cfr. Il mondo, e. 6, (t. 4), p. 249 e Princ. della Jìlos., 3. parte, n. 47. Cfr. pure Met. pag. 194-195). Espresso in termini generali, il concetto di Cartesio è che, comunque s'immagini lo stato iniziale del mondo — qualunque siano queste, come le chia- ma Min, collocazioni primitive, questi antecedenti ultimi, da cui, siano essi vicini o lontani, ogni s])iegazione del presente deve partire — si imo dimostrare che. per un effetto immanca- bile delle leggi della natura, esso deve, in tutti i casi ridursi a poco a poco all'ordine che noi vi vediamo attualmente. Que- st'ordine si può duncpie dedurre dalle semplici leggi della mec- canica, ed è perciò, come queste, necessario e dimostrabile a priori. (1) Ma noi troviamo anche in Cartesio una dottrina che sembra in contraddizione con quest'idea, ch'egli cerchi di sta- bilire un rapporto necessario tra la natura del mondo e quella di Dio. È la dottrina che le verità necessarie ((piali le verità matematiche e sinanche il principio di contraddizione) dipendono dall'arbitrio di Dio (dottrina che condusse Cartesio al circolo - 462 — dal fatto che l'autore suole descrivere il suo metodo fi- losofico come una deduzione deijli effetti dalla loro vizioso, taute volte rimproveratogli, di voler provare la validità del criterio dell'evidenza per la veracità di Dio. dopo aver pro- vato resistenza di Dio fondandosi sulla validità di questo cri- terio : e infatti se le verità necessarie di}»endono dal volere di Dio, esse non portano più in se stesse, nella loro evidenza, la prova della loro obbiettività, ma bisogna (gualche altra prova per sapere che Dio ha stabilito effettivamente nella natura delle cose quelle verità piuttosto che le loro contrarie). Come conciliare questa dottrina con lo spirito della specuhizione cartesiana, che è uno sforzo d'introdurre dappertutto tra le cose il legame della necessità, di convertire le verità eontingentl in verità necessa- rie ì E nondimeno, se si riflette un poco, si vedrà che questa stessa dottrina non è che una conseguenza indiretta di ([uestosforzo, ed ha la sua ragione precisamente in questa conversione delle verità contingenti in verità necessarie, che è il risultato del metodo cartesiano come d'ogni filosofia apriorista in gene- rale. Così, in effetto, si introduceva una fatalità nell'azione di- vina, che non poteva mancare di sollevare, dal j)unto di vista della teidogia, gli scrujKdi di una coscienza così timida come quella <li Cartesio. Per conciliare la sua filosofia con la sua teologia, Cartesio dichiara che il necessario stesso ò rai>porto a Dio arbitrario, e così la libertà di Dio, nella sua azione sul mondo, è salva, quantun<iue tutto, nella natura, sia necessario. Cartesio teologo sem]>ra così distruggere l'opera di Cartesio fi- losofo : ma la contraddizione tra il teologo e il filosofo non è, se ben si guarda, che apparente. Sia i>urc che le verità cosi ilette necessarie — ([uali lo verità matematiche e, secondo Car- tesio, anche le verità fisiche — dipendono dall'arìjitrio divino, e non sono per L'on8C^\i(iìì7Ai(issoluta niente necessarie: ciò non toglie che questa stessa necessità relativa che loro non si i)uò negare — l'impossibilità <li concepire il loro contrario, il senti- mento che accom])agna la loro concezione, per cui sentiamo, non solo che esse soìio certamente, ma anche che devono essere — non sia la necessità più alta che noi possiamo immaginare. Questa necessità, voglio dire, sarà sempre superiore a quella 463 causa (1), e considera questa sua deduzione del mondo da Dio come l'applicazione dell'ideale di una perfetta conoscenza, che consisterebbe appunto a conoscere gli ef- fetti per le loro cause (2). Il procedimento di Cartesio, che comincia per stabilire a priori la causa prima (ar- gomento ontologico), poi deduce da questa le cause se- co7^c?e— com'egli chiama le leggi della natura—e da que- ste deduce infine gli effetti ultimi— l'insieme dei fenome- ni, il mondo — è il vero tipo di quel metodo che Gioberti chiamava ontologico (ed è singolare che questo filosofo bistratti Cartesio quale antesignano di un metodo tutto contrario); ed è per questo procedimento che Cartesio è il vero precursore di Spinoza, la base del cui sistema è il principio che l'ordine e la connessione delle cose è lo stesso che l'ordine e la connessione delle idee, que- st'ordine e connessione essendo un ordine e connessione logici^ in cui il rapporto tra la causa e l'effetto s'inden- tifica col rapporto tra il principio e la conseguenza. che api)artiene ad una verità purann^nte emj>irica. specialnjente ad una di «quelle che soiu>, non dei risultati delle nostre esperienze f Hit, familiari, ma semplicemente delle acquisizioni della scienza. Ora una tale necessità basta allo scopo della metafisica apriorista. la quale non può aspirare che ad introdurre nelle verità em]>i- riche — e propriamente in quelle tra queste verità che non sono i risultati dell'esperienza più familiare — un grado di necessità uguale a quello che appartiene alle verità che chiamiamo necessarie (1) V. Princ. della filos., Prefaz., t. 8. pag. 10, 12, 14; Met. t. 1, pag. 178, 194-195; Reg. per la direz dello spir., Keg. fi, ]). 227-228, ecc. (Nell'ultimo luogo indicato gli oggetti della no- stra conoscenza sono distinti in assoluti e relativi: l'assoluto è ciò che deve essere anteriormente conosciuto per i)oter conoscere il relativo, la conosc^enza del secondo si deduce da «quella del primo, ma non reciprocamente; in ([uesta classazione delle cose la causa ò ]>osta nella classe delVassolnto. l'efietto in quella del relativo). (2) V. Principi della filosofia, pag. 79, ibid. pag. 118, ecc. J « — 464 — . Non vi ha dubbio che, considerando il sistema car- tesiano come una spiegazione della natura, il vero prin- cipio di questo sistema non sia il concetto di Dio, 1 ar- o^omento ontologico. In effetto mentre la prova a priori di Dio non suppone alcuna verità preconosciuta, tutte le verità che noi conosciamo sulla natura suppongono la preconoscenza di Dio, e, come notammo, affinchè que- ste verità siano necessari, e a priori (cloche sovratutto premeva a Cartesio di stabilire), la preconoscenza di Dio quale essere necessario e dimostrabile a priori Ciò ri- sulta anche dal principio, sì spesso inculcato da Car e- sio che la conoscenza dell' effetto presuppone que a della causa, e non reciprocamente la conoscenza della causa quella dell'effetto. Perchè dunque Cartesio dà come il primo principio della sua filosofia, don il concetto di Dio e r argomento ontologico, ma il cogito ergo sum . Ciò indica che la spiegazione della natura, la ricerca del perchè, non è il solo motivo deUa speculazione car- tesiana. E in effetto, è chiaro, dalla maniera in cui Gar tesio espone i precetti del suo metodo, che vi ha in questo filosofo un'altra preoccupazione, oltre quella eli rendere intelligibile l' incatenamerito causale per delle rao-ioni a priori : è quella di portare in tutto il sistema detle conoscenze umane il più alto grado di evidenza che lo spirito possa concepire. Tra le verità concernenti il reale l'esistente, la più evidente, la più immediata, e la realtà del fatto della coscienza: l'argomento ontolo- o-ico- l'implicazione dell'esistenza nel concetto di Dio - era secondo Cartesio una verità egualmente evidente e immediata, ma la sua predilezione per questo sottile so- fisma non poteva impedirgli di sentire che la sua evi- denza non era cosi luminosa (1) da poterla presentare (1) V. Medita/., t. l; 1). 318; Ki^p. alle prime obbiez. t. 1. lu'ò'Jb, Kisp. alle secomlc obbiez. t. 1. pag. 461. 465 alla prima entrata in una filosofia che si dava per la realizzazione d'un metodo aspirante a conseguire la j)iù alta evidenza che lo spirito possa proporsi per modello. Per conseguenza Cartesio segue quest'ordine; prende per punto di partenza il fatto della coscienza — che in verità è il solo punto da cui lo s])irito i)ossa partire — e fermata la realtà del fatto della coscienza e del me il), si affretta ad andare, per dir così, all'incontro dell'argo- mento ontologico, costruendo altre prove dell'esistenza di Dio che non presuppongono altra cosa che l' esistenza del pensiero e del me, per fiancheggiarne la prova a priori, della (|uale gli sembrano avere un'evidenza più appariscente : e allora tutte le verità eh' egli andrà a dedurre da Dio non solo saranno necessarie e a j)riori (ciò a che sarebbe bastato il solo argomento ortologico), ma riposeranno sopra una base di un'evidenza non in verità superiore (perchè l' argomento ontologico ha la (1) Il cof/ito erf/0 suni inm r seinpliceiiuìiite. ('oiiic talvolta si è (letto . la, costcìtazioiie delln iii(lii1)itabilit;i delh» realtà <!<'! fatto (Iella eovsciciiza. La ]H*o])Of5Ì/ioiie io sono iioii ('si)riiiie sol- tanto ])er Cartesio la realtri (l(u diiti (leires])erieiiza iiitei'iia, ma coiitieiK*. inoltre ([uest'atterinazi(nie — che non «' lui dato della esperienza interna, ma nn' inferenza . ([nantnii(j[ne s]M»ntanea. dello s])irito — : Io souo nna sostanza (ciò*' vi lia, in me una vosa [jcnnaticnte, di cni ([iiesti dati l'n;Li\i>itivi deircspcrHiiiza in- terna, sentimenti, ])ensi(M'i, eee., sono i modi di ('ss(M-e — et'r. Append. alla I. )>arte eap. 2). V. Ris)». alla 2. e alla :i. ohhiez. di llobhes, t. 1. p. 470-175. Princ. della lìlos.. n. S, li. (JO ()>ai'te 1). Met. 1. 15S, (h-c. Qnesta secomla atiermazione non <> così indubitaldle come la realtà del tatto della cos(»enza: ma <> nna di (pieste altermazioni spontanee del nostro s|>iiito. clic ([nantnn«ine siano, dal pnnto di vista, in cni noi ci ]»oniamo. d'una validità (d)biettiva pin che contestabile, haum» nondimeno nn'evidenza sahhirtticd, che è incom])ai'aÌMlmeiite sni)eri(H-c a (juclla (-he può parere di avere nn semj>lice sotisma a.rli1ìri<tU. — 46(ì 467 più alta evidenza possibile), ma più incontestabile. L'i- deale di evidenza che Cartesio si propone è, lo sappiamo, un' evidenza tale che lo spirito non solo sia certo della verità, nia che anche non possa concepire la possibilità del contrario : questa evidenza si chiama matematica, perchè non si trova eh.', in cpiesta scienza e non mai nella scienza del reaUr, ma essa si chiama pure nietati- sica, perchè i metafìsici hanno supposto che una cono- scenza perfetta, assoluta, del reale deve ( o dovrebbe) essere fornita di questo o-enere di evidenza. Questa supposizione dei metafisici, e il conseguente sforzo di apportare nella conoscenza del reale questo g-enere di evidenza, che è come un epifenomeno della metafisica apriorista (il fenomeno essenziale di questa metafisica essendo, come abbiamo detto, lo sforzo d'in- trodurre tra i fatti dei legami razionali e necessari), è, sino ad un certo ])unto, indipendente dalla ricerca del jjerchè, ma è una conseguenza del principio stesso che è il presui)posto di una tale ricerca. Questo presuppo- sto ^ che dobbiamo guardarci d'immaginare come una regola coscientemente annnessa dal metafìsico, quantun- que tutte le sue inferenze si facciano secondo questa re- gola, di cui egli non ha coscienza, come avviene in tutte Te inferenze incoscienti che fa il nostro spirito— potrebbe, come abbiamo detto, formularsi così: Bisogna assimilare, più che è possibile, le nostre concezioni sulle connessioni tra i fenomeni in generale a quelle connessioni tra i fenomeni che ci sono le più familiari. Il processo im- piegato dalla metafìsica apriorista per fare quest' assi- milazione è, lo sappiamo, d' imitare la forma di queste connessioni familiari, quali oggetti della nostra cono- scenza. Orn questa forma non consiste semplicemente in ciò che (jueste connessioni ci appariscono come fornite di un'evidenza intrinseca, razionale, e come necessarie, ma anche in ciò che esse ci sembrano avere un grado i di evidenza superiore a quella delle acquisizioni scien- tifiche, e, in una parola, di tutti gli altri rapporti tra i fenomeni con cui non siamo cosi familiarizzati come con esse. Che si paragoni infatti questa proposizione : Vimpulsione è una causa del ììiovimento, con questa : / corpi esercitano un attrazione fra di loro, o con quest'al- tra : il calore dilata i metalli, o con qualsiasi altra che non esprima dei fatti con cui noi siamo, sin dall'infanzia, mol- to familiarizzati. Questa evidenza superiore che sembra appartenere alle proposizioni esprimenti dei fatti che ci sono estremamenti familiari, è una conseguenza neces- saria delle leggi della credenza; perchè la forza dei le- o-ami che associano le nostre idee, se pure non è, come vuole Spencer, il fondamento unico della credenza, è certamente almeno uno di questi fondamenti. Cosi questi rapporti più familiari avendo, per la più grande ripeti- zione delle esperienze, determinato nel nostVo spirito delle associazioni più forti — tanto forti da essere pres- soché inseparabili - essi ci sembrano necessariamente avere un'evidenza più grande. Al fondo questi tre ca- ratteri, la necessità, V evidenza intrinseca, il grado su- periore di evidenza, non sono che tre aspetti di uno stesso fatto, che è a})punto l'associazione più stretta tra le idee. Questi tre caratteri esendo inseparabili fra di loro, sia che il legame tra le idee debba spiegarsi per una ne- cessità primordiale, innata, della nostra intelligenza, sia che debba spiegarsi per la estrema frequenza delle esperienze, il metafìsico apriorista, per lo stesso mezzo per cui imita la necessità e la razionalità dei rapporti più familiari, ne imita al tempo stesso il grado supe- riore di evidenza. Non vi sarebbe bisogno di distinguere questi tre aspetti sotto cui può considerarsi l'imitazione del metafìsico apriorista, se l'ultimo di essi non avesse la conseguenza inevitabile di estendere Vapriorismo al di fuori del terreno della ricerca del perchè^ del nexus rÌÉIIIiiiMiÌi£K — 468 - — 469 tra i fenomeni. In effetti, ammesso una volta che (luesto orarlo superiore di evidenza— che non si trova che nelle verità a priori, e non mai nelle verità empiriche, tranne in quelle clie si riferiscono a dei fatti estremamente fa- miliari - deve trovarsi nei rapporti più g-enerali tra i fenomeni, nelle leg-jii della natura; allora si è introdotto nelle scienze del reale un tipo di evidenza che non e proi)rio se non alle scienze che non hanno per og-getto l'esistenza, «luali sono le matematiche. Per conseguenza questo tipo di evidenza diviene un criterio, non in que- st' ultima classe di scienze soltanto, ma anche nelle scienze del reale, criterio a cui tutte le conoscenze sul reale naturalmente si misurano, anche che non abbiano per oggetto le connessioni generali dei fenomeni. Cosi 1' evidenza matematica, cioè o intuitim o dimodntUm, diviene il sinonimo di certezza rigorosa, elevando per conseguenza la deduzione a mezzo unico per ottcmere una conoscenza ri-or„sa (di ciò che non è d" una evi- denza intuitiva), e rigettando rinduzione o lasciandoUi un posto subordinato . perché V evidenza che può dare non è r evidenza dimmtmUra, matematica. Ne segue che allo scopo primario della metatisica apriorista-d^in- trodurre tra i fenomeni dei legami razionali e necessarii- se ne aggiunge un altro secondario, (juello di apportare, per quanto sia possibile, in tutto il sistema delle cono- scenze una evidenza superiore airiiiduttiva, cioè l'evi- denza dhnostmtwa: e che il metodo di questa metahsica non si limita, nella sua applicazione, alla sola deduzione delle connessioni generali tra i fenoiiieiii. Cos'i, per provare eie che gli sta a cuore di stal)i- Lire d" una maniera rigorosa, Cartesio non cerca altri argomenti che dimostrati ri. È cosi che fa i)er l'esistenza di'^Dio, dando 1' esemiiio ai metafisici posteriori. I me- tafìsici, in effetto, ])er provare l'esistenza di Dio, figli argomenti induttivi— quantun(|ue gli argomenti naturali, i soli che possano condurre l'uomo ad ammetterla, non siano che induttivi — hanno .sempre preferito degli argo- menti dimostrativi— ì quali non sono che semplici sofismi artificiali —.Fj un'applicazione del principio, ammesso esplicitamente o implicitamente da quasi tutti i meta- fìsici, che la vera evidenza, l'evidenza rigorosa, non è che l'evidenza matematica, diniostratica. Io ho creduto dovermi estendere alquanto su Car- tesio, perchè era necessario di fermare 1' attenzione sovra un esempio particolare, per mostrare i)iù chiara- mente il carattere g'enerale della forma di metafisica di cui ci occupiamo nel presente capitolo : dei fìlosofi po- steriori basterà di dirne quanto occorrerà per far vedere, mostrando la (]uasi unanimità con cui i filosofi hanno ammesso il principio di questa metafìsica, che si tratta realmente di un sofisma a priori del nostro spirito, e per indicare i diversi svilu])i)i, di cui questo j)rincipio è suscettibile. ^. 4. Malcìrraììcìte. Il metodo è quello di Descares : il mezzo per conoscere le cose è sovratutto di contem- plare le nostre idee, di compararle fra di loro per ve- defne i rapporti (1). Noi troviamo anche in Malebran- che — ma non è una novità introdotta da lui --• la regola fondamentale, alquanto vagn, del metodo cartesiano, che i)one come criterio della verità la concezione chiara e distinta, enuìiziata sotto una forma più precisa : Si può assicurare (V tuia cosa ciò che si concepisce chiara- ìnente essere racchiuso nella sua idea (2), enunziato che esprime più esattamente lo spirito di questo metodo, che è di cercare le leggi delle cose nell' esame delle nostre idee piuttosto che nelT osservazione delle cose (1) r. Hic. (U'ìh( ver., 1. (> Del metodo. 2 i)artc e. 1. 1 par- te e. 1. 1. ^. parto 1. e. 4. 11. ecc. (2) V. Hi e. fìcUa rrr., l. 4. e. 1. - 470 — stesse. Questo metodo, per dir così, introspettivo dì cercare la verità ha in Malebranche una giustificazione nella sua dottrina della visione in Dio, della intuizione intellettuale del Vero obbiettivo — dottrina che si vede spesso legata, com'è naturale, alV apriorismo, e di cui diremo altrove come si conforma, nella sua origine, al processo psichico o^enerale, da cui risultano i concetti metafisici — : la corrispondenza tra il pensiero e laVealtà viene spieg-ata, ammettendo che questo pensiero, in cui si cercano le leg'g-i delle cose, è il pensiero stesso di cui le cose sono il prodotto (1). Il primo principio della metafisica apriorista — che tra la causa e l'effetto deve esservi un legame necessario e conoscibile a priori-^ si trova nettamente espesso in Malebranche, e posto in rapporto con la dottrina capitale della sua filosofia. Ascoltiamolo « É evidente che tutti i corpi grandi e piccoli non hanno la forza di muoversi. Una montagna, una casa, una pietra, un grano di sabbia, infine il più piccolo oil più g-rande dei corpi che si possa concepire, non ha la forza di muoversi. Noi non abbiamo che due sorta di idee, idee di spiriti, idee di corpi: e non do- vendo dire che ciò che noi concepiamo, non dobbiamo ragionare che secondo queste due idee. Così poiché r idea che noi abbiamo di tutti i corpi ci fa conoscere ch'essi non possono muoversi, bisogna concludere che sono gli spiriti che li muovono. Ma quando si esamina l'idea che si ha di tutti gli spiriti finiti, non si vede punto legame necessario tvà la loro volontà e il movi- mento di un corpo qualsiasi; si vede al contrario che non ve ne è e non ve ne può essere. Si deve cosi con- cludere, se si vuol ragionare secondo i propri lumi, 471 che non vi ha alcuno spirito creato che possa muovere un corpo (pialsiasi come causa vera e principale, come si è detto che alcun corpo non può muovere se stesso — Ma (luando si pensa all' idea di Dio, cioè di un essere infinitamente perfetto, e per conseguenza onnipotente, si conosce che vi ha un tal legame tra la sua volontà e il movimento di tutti i corpi, ch'è impossibile di con- cepire eh' egli voglia che un corpo sia mosso, e che questa corpo non lo sia. Noi dobbiamo dunque dire che non vi ha chela sua volontà che possa muovere i cori)i, se noi vogliamo dire le cose come le concepiamo, e non come le sentiamo». « xMi pare certissimo che la volontà degli spiriti non e capace di muovere il i-iù piccolo corpo che vi sia al mondo : perchè è evidente che non vi ha legame necessario tra la volontà che noi abbiamo p. e.'^di muovere il nostro braccio, e il movimento del nostro braccio Ma non solo gli uomini non sono le vere cause dei movimenti ch'essi producono nel loro corpo, sembra anche che vi sia contraddizione che essi possano esserlo. Causa vera è una causa tra la quale e il suo effetto lo spirito percepisce un legame necessario, è cosi che io r intendo. Ora non vi ha che Tessere in- finitamente perfetto, tra la volontà del (luale e gli effetti lo spirito percepisca un legame necessario. Non vi ha dunque che Dio che sia vera causa, e che abbia vera- mente la potenza di muovere i corpi ». « Questo legame necessario che lo spirito percepisce tra la Causa uni- versale e gli effetti è un legame lo<jico, come si vede dalle parole che seguono : « Dio non ha bisogno di strumenti per agire; basta ch^^-li voglia afiinchè una cosa sia, perchè ri ha contraddizione clw ecjli OH/lia e che ciò che egli vuole non sia (1). » Potrebbe sembrare che la dottrina delle cause oc- (1) file, della ter. Conclus. dei tre primi ììhvì. 1. l. t'. D- (ed. 7. }»;!«;. 2!)9), Scìiiariiiieiito 10, KisjM)stJi a Ke^is. e 2. V.K 22, ece. (1) Ww. (Iella t'fr. 1. <i. pnrte 2. e. S. 472 casionali ahbin per risultato di fare della natura e delle sue \eg^ì (juak-he cosa di puramente arbitrario : ina non è così che 1' intende Malebranche. Le le2'<>i della natura dipendono dalla volontà di Dio, ma « Dio non Je ha stabilite che perchè l'ordine, la legg-e eterna e necessaria domanda che sia così. Di sorta che è 1' or- dine eterno, innnutabil(\ necessario, che è la leg'ge ch'eg'li segue inviolabilmente, (i per cui egli ha fatto e con- serva tutte le cose > 1). Dio potrebbe restare inattivo, non ciear(» un mondo; ma se eo:li lo crea, se eu'li ao-isce, egli lo fa «secondo certe leggi, che si concepisce chia- rissimamente che eg'li deve seg'uire, supposto che egli voglia agire* (2). Le volontà, i disegni di Dio, noi possiamo, sino ad un certo punto, conoscerli a y>m>r/ (3): così ALalebranche non rinunzia, quantunque la sua spe- culazione si ri\'olga [)referibilmente verso altri soggetti, all'obbiettivo princi[)ale della metafisica apriorista, che è di dedurre, di costruire a priori, le leggi della natura. La deduzione di Malebranche è costruita sullo stesso tipo che ((uella di Descartes : si tratta d'introdurre tra i fenomeni dei legami razionali e necessari^ deducendoli da Dio che è l'Essere necessario^ che non potrebbe sen- za contraddizione supporsi non esistente) (4). Segue dalla no'/.ione di Dio che egli deve agire della maniera più degna di lui, più conforme ai suoi attributi, cioè della maniera più semplice e più uniforme: di là le leggi della natura ; cioè, in definitiva, le leggi del movimento), che sono le più semplici, le più uniformi ciie sia pos- sibile— i corpi si muovono in linea retta, perchè ([uesta linea è la più sem})lice ; si conserva sempre un'eguale (1) Mvilìliiz. rrisf.. 7, n, IS. r2) h'ic. iklh( rrr., VI Scliiwriin. {'.'A Ific. iU'lhi rn\. Sclnnrini. li. {\k 207). Jffd. crist. XI, ecc. (0 /.'/>. ih'ìhi rrr., 1. i. e. 11. — 473 — quantità di movimento (dalla stessa i)arte), perchè (juesta legge è la })iù uniforme; ecc. (1; — La dottrina di Ma- lebranche ha molta analogia con (luella di Leibnitz del migliore dei mondi possibili: Dio non può mancare di scegliere, fra tutti i possibili, l'opera cbe è la i)iù con- forme ai suoi attributi, e che può esscuxi eseguita coi mezzi più conformi ai suoi attributi. K in seguito a questa comparazione di tutti i possibili, e dei seguiti necessari che ne dipendono, che Dio ha stabilito le leggi del movimento, e impresso alla materia i primi movimenti, per farno l'opera più perfetta possibile, e che piu) essere eseguita per le vie più semplici e più uniformi possibili (2). I^e legg-i della natura e la natura stessa sono duntjue necessarie — non necessarie nella loro esistenza, i)OÌchè Dio poteva non creare un mondo, ma, nella supposizione che egli creasse un mondo, egli non poteva crearlo diverso dall' attuale, senza venir meno agli attributi necessari che costituiscono la na- tura divina — . Questa necessità è una necessità logica : le leaai della natura sono delle verità necessarie, nel senso che il loro contrario implicherebbe contraddizione; perchè esse sono delle conseguenze necessarie di una verità necessaria, il cui contrario imj)lica contraddizione (l'esistenza di Dio con gli attributi inclusi nella sua nozione). Senza dubbio, nella spiegazione della natura di Malebranche, col processo proprio della metafisica apriorista—'Che tende a stabilire tra i fatti un legame Jofjico — concorre quello della metafisica istintiva —-L'he assimila la produzione di tutti i fenomeni alle causa- li) V. Hie. d"ìla rrr., 1. (5. 2 \invU) e. 4. e. Il, Schiurinicìi- to XV, Courvrsdz. sulla uwfaps. X, 15. Leffgi gencr. della eotnun. del ìnoriiiH'H., parte 1. o.s.servaz. dopo Tiirt. 14, ecc. (2) V. (JoHversaz. stilla ìnelftf. IX, X, XI, Rie. della ver. Selii<<ri)n. XV, Xrdltaz. erist. 7. ii. 15, 11. u. 18, ecc. - 474 — zioni che ci sono le più familiari— : il Dio di Malebranche, nella sua azione, è, per dir cosi, più umano che il Dio di Descartes; le cose vengono dedotte dagli attributi che egli ha in comune con V uomo, qual è quello del- l'intelligenza : l'impronta speciale della metafìsica a- prionsta, nella spiegazione di Malebranche, non è perciò così evidente (perchè non è così esclusiva) come in quella di Descartes, ma si trova anche in essa. Pel sistema di Malebranche si presenta naturalmente la stessa quistione che per quello di Descartes : questo legame necessario e razionale che Malebranche pretende stabilire tra le cause e gli effetti tìsici, è un legame di di causalità efficiente'^ Nel senso proprio della parola certamente no; perche causa efficiente è 1' antecedente immediato, incondizionale dell'effetto; e in (luesto senso, Dio solo è, per Malebranche, causa efficiente. Il nome di causazione efficiente non può convenire alle causa- zioni fenomeniche, nel sistema di Malebranche, che nel significato ^ecm'co in cui noi impieghiamo la parola, cioè di legami causali che vengono modellati sul tipo di quelli che hanno dato al nostro spirito la nozione di causalità efficiente. Ma bisogna tener presente che nella metafìsica di Malel)ranche viene usato un doppio processo per assi- milare le causazioni a questo tipo. L'uno è il processo della metafisica istintiva', secondo questo, la spiegazione del mondo di Malebranche è una spiegazione volizionale, e non vi ha altro rapporto di causalità efficiente, anche nel nostro senso tecnico, che quello fra Dio e i feno- meni, perchè questo solo è concepito conforme al tipo. L'altro processo è quello della nu^afisica apriorista, che tende ad imitare la forma, e non il contenuto, delle causazioni che ci hanno dato V idea di causalità effi- ciente; e secondo questo, tanto il rapporto tra la causa iperfenomenale e i fenomeni, quanto quelli tra le cause eo-li effetti fenomenali, potrebbero chiamarsi delle cau- — 475 — sazioni efficienti, poiché Mealebranche intende introdurre dei legami necessari e razionali tanto fra Dio e i fenomeni quanto tra i fenomeni in rapporto gli uni con gli altri. § 5. Spinoza. Vi hanno, secondo Spinoza, tre formedi conoscenza: 1. l'opinione, la quale si suddivide in due specie, di cui l'una comprende le credenze fondate sull'autorità delle parole altrui, e l'altra le induzioni ti- rate dall'esperienza, 2. la ragione (o fede vera), la quale è fondata sulla dimostrazione, 3. la conoscenza intuitiva,che è la sola adequata, per cui lo spirito percepisce le verità evidenti per se stesse, ovvero passa da una cosa evidente per se stessa alla conoscenza di un'altra cosa, e dalla conoscenza di questa a quella di un'altra, im- mediatamente, c:oè senza che in ((uesto i)assaggio da ciascnna cosa a riascun'altra vi sia mai bisogno deirin- termediario di una dimostrazione. Per far comprendere questa classificazione delle conoscenze, l'esempio prefe- rito da Spinoza sono i modi diversi in cui possiamo co- noscere la proporzionalità dei numeri. « Sono dati tre nu- meri, e se ne cerca un quarto che stia atterzo come il secondo sta al primo. I mercanti dicono di sapere ciò che si deve fare per trovare questo quarto numero, per- chè non hanno dimenticato l'operazione che appresero nuda, senz'alcuna dimostrazione, dai loro maestri; altri invece fondano la regola generale suiresi)erienza di al- cuni casi molto semplici, dove il (juarto nunu^ro si rende chiaro da se stesso, come nei numeri 2, 4, 3, (>, in cui hanno provato che, moltiplicando il secondo per il terzo, e dividendo il prodotto per il primo, si ottiene per cpao- ziente 6; e vedendo ottenersi lo stes-^o numero che senza l'operazione avevano conosciute essere il proporzionale, ne concludono la bontà dell' operazione i)er trovare in tutti i casi il quarto numero proporzionale. Ma i mate- matici sanno in forza della dimostrazione della prop. 19 l. 7. de€>-li Elementi di Euclide quali numeri sono fra ! - 47G eli loro proporzionali, lo sanno cioè dalla natura della proi)orzione e dalla sua proprietà secondo cui il numero che si fa dal primo e dal quarto è eguale al numero che si fa dal secondo e dal terzo; ma con tutto ciò essi non vedono adequatamente la proporzionalità dei numeri dati; se la vedono, essi non la vedono in forza di (juella proposizione, ma intuiti vament(% j>enza fare alcuna ope- razione » n ). Altri esempi di conoscenza intuitiva sono che due e tre sono uguali a cinque, e che, se si danno due linee parallele ad una terza, queste linee sono anche parallele fra di loro. La prima forma di cono- scenza è sou'ii'etta all' errore ; la seconda e la terza non possono ingannarci. Le induzioni dell' esperien- za sono ricondotte alla forma fallibile, < perche come si può essere ce/ti che un'esperienza ])articolare fornisca una regola assoluta per tutti i casi?» (2) Ma (juantunque la seconda e la terza forma siano egualmente infallibili, è la terza sola che è adecjuata; il supremo conato e la sui)rema virtù della mente è di conoscere le cose se- condo questa forma (rh. La vera scienza è una scienza intuìtira, che conosce le cose o per la loro sola essenza o per la loro causa prossima, (4), e jìrocede dalla cono- scenza dell'essenza di Dio alla conoscenza dell'essenza delle cose, [h] Ciò che è causa di se, cioè Dio (con- siderato neii'li attributi che costituiscono la sua es- senza), si deve conoscere per la sua sola essenza ; ciò che non è da se stesso, ma richiede una causa per esi- stere, si deve conoscere ])er la sua causa prossima. (6); (1) Ih' infrll. riHCiHL,2:^-2\. (2) V. f)^' th'o, hoinniv etf. Paitc. II e. 1 e 2. Et/iicrs Ptirs II. prop. Xli. Scliol II. />(' infel/ccfnx e air n fiat ione IV v V. {:\) Hlh. Pars V. \no]K XXV. (4l De ÌHfelìccfHs cmendnt. l. e. (.'i) Eth. Pars II. Vv. XL, Scli. II. {(i) De hifelief. nitcndnt . XII. 477 e così, deducendo sempre V eftetto dalla causa prossi- ma (1), è dall'essenza di Dio, dalla causa prima, che in definitiva tutta la scienza deve procedere. La vera scienza consiste dunque a dedarre l'effetto dalla causa, partendo dalla causa prima (che si conosce per la sua sola essenza, perchè l'esistenza di Dio è inclusa nella sua essenza, nel suo concetto); e questa scienza è in- taitiva, perchè, come abbiamo detto, essa passa dalla conoscenza di una cosa (la causa) alla conoscenza di un'altra cosa (l'effetto) d'una maniera immediata, cioè senza l'intermediario dì una dimostrazione (2). Queste cm-e, queste cause e questi effetti, sono delle cose astratte, delle astrazioni realizzate; cosi nel capi- tolo seguente noi dovremo tornare su Spinoza, e allora si vedrà con più precisione quale sia l'idea di questo filosofo i^wW efficienza causale^ ciò che è il punto capitale per la comprensione del suo arduo sistema. Per ora pos- siamo notare, insieme alla identità generica, una note- vole differenza tra l'idea di Spinoza e quella degli al- tri filosofi aprioristi di cui abbiamo })arlato. La ten- denza della metafisica apriorista, in generale, è di as- similare, nella forma, tutte le causazioni a (juelle da cui ci viene l'idea di causazione efficiente. La forma che caratterizza (jueste causazioni, come cono- scenze nostre, è la necessità e r evidenza intrinseca (]>ro- pria delle inferenze incoscienti), i (juali caratteri deri- vano della estrema fre(]|uenza delle esperienze a cui queste conoscenze sono dovute. Così la filosofìa apriorista iu generale intende apportare in tutte le relazioni causali questa forma di necessità e di evidenza intrinseca, ra- zionale (cioè fondata sui rapporti stessi delle idee e in- (1) £ltli. Ass. IV, P(trs II prup. VII, De intelleetus etnen- (taf ione VII, oc(\ (2) De intelleet. emendat. XII, XIV. - 478 — dipendente dall' esperienza). Ma mentre alcuni filosofi aprioristi, come Descartes, si contentano di una evidenza di mostrai iva— in cui la connessione fra le due idee (della causa e dell' effetto) che vogliono mettersi in rapporto non si vede immediatamente, ma vi ha bisogno perciò deirintervento di altre idee intermediarie—, altri invece come Spinoza e, al fondo, ;tutti gli altri filosofi i cui sistemi sono costruiti sullo stesso tipo del suo (cioè fon- dati sulla realizzazione dei concetti astratti e sulla iden- tificazione del rapporto ontologico tra la causa e l'effetto col rapporto logico tra il principio e la conseguenza), domandano un^ evidenza intaitiva - ^\ol^ in cui la con- nessione tra r idea della causa e quella dell' effetto si veda immediatamente, senza 1" intervento di altre idee intermediarie chele mettano in rapporto—. E chiaro che questa evidenza intuitiva assimilerebbe di più che l' e- videnza semplicemente dimostrativa i rapporti causali in cui essa si trovasse, al tipo che si tratta d'imitare; perchè nelle causazioni familiari è immediatamente, in- tuitivamente, che lo spirito percepisce la convenienza tra l'idea della causa e quella dell'effetto, la necessità con cui r effetto procede dalla causa. Quest' apparente evidenza intuitiva, nelle causazioni familiari, consiste in un legame molto intimo tra le idee, costituito da uu associazione empirica : Spinoza invece, e i filosofi affini, vogliono ottenere quest'evidenza intuitiva per un legame puramente logico; così, per essi, l'effetto è una conseguenza logica della causa, e una conseguenza, la cui connessione col principio (con la causa), possa essere dallo spirito percepita immediatamente. E perciò che Spinoza dichiara adequata la sola conoscenza in- tuitiva, e la mette al di sopra delle altre forme di co- noscenza. Ma ciò si comprenderà d' una maniera più chiara nel capitolo seguente. § 6. Leihnitz. .< Bisogna sapere che vi hanno due 479 - sorta di consecuzioni (di legami tra le idee) affatto di- verse, le empiriche e le razionali. Le consecuzioni em- piriche ci sono comuni coi bruti, e consistono in ciò, che il senziente, quei fatti che più volte ha sperimentato in congiunzione, si attende che saranno un'altra volta in congiunzione (sono le sole consecuzioni che ammette la filosofia empirista). . Ma siccome spesso avviene che tali fatti siano in congiunzione sol- tanto per accidente, cosi gli empirici spesso s'ingannano, del pari che i bruti, in modo, cioè, che quello che si attendono non avvenga Ma V uomo in (juanto agisce, non empiricamente, ma razionalmente, non si fida alle sole esperienze o alle induzioni a po- steriori dai casi particolari, ma procede a priori ])er ra- gioni. E qual è la differenza tra il geometra o l'analista e qualche aritmetico volgare che insegna ai fanciulli, il quale ha imparato a memoria le regole aritmetiche, ma senza conoscerne le ragioni ;...... tale è la dift'erenza tra l'Empirico e il Razionale, tra la con- secuzione dei bruti e la ragione dell' uomo. Ancorché infatti sperimentiamo molti esempi che succedono, non siamo mai con tutto ciò sicuri del perpetuo successo, se non troviamo delle ragioni necessarie, da cui possiamo inferire che la cosa non può essere altrimenti. E perciò che i bruti, per quanto possiamo osservare, non cono- scono r universalità delle proposizioni, perchè non co- noscono la ragione dell'universalità. E quantunque tal- volta gii empirici cjall'induzione siano condotti a pro- posizioni veramente universali, ciò avviene per accidente soltanto, ma non in forza della consecuzione» (1). Leibnitz ammette dunque che il reale, le leggi della (1) Commciìt. de un. brntor. XIV; v. a. N. S. huW int. um. Proainholo, 1. 4. o. 11, par. 13. e. 17. ^ 8, Prine. (iella nat. e della yraz. 5, ecc. «NbMHtoMNlÌMiAMaW "inriì-ffriìBiUii'nimiii - 480 — natura, si possano, sino ad nu eerto piuito almeno, co- noscere a priori (l). Ma egli distingue due classi di co- noscenze a priori. « Le verità di rag-ione sono di due sorta : le une sono quelle che si chiamano cerltà pterae, le quali sono assolutamente necessarie, in modo che l'op- posto implica contraddizione; e tali sono le. veri tii di cui la necessità è logica, metafisica o geometrica, che non si ])otrebb(u*o negare senza essere condotti a delle as- surdità. Ve Mi} ha altre che si possono chiamare positive, perchè sono le leggi che ha piaciuto a Dio di dare alla natura, o perchè ne dii)endono. Noi le apprendiamo o l)er r es|>erienza, cioè a posteriori, o per la ragione e a priori, cioè per le considerazioni della convenienza che le ha fatto scegliere» (2). Così le leggi della natu-,..x_(|uelle che non sono assolutamente necessarie, come sarebbe (questa, che ogni fatto deve avere una ragion determinante, o anche ([uest'altra, che i corpi non agi- scono gli uni sugli altri che |)er impulsione— dipendono dalla scelta della più perfetta saggezza, e se ne deve rend(n-e ragione per le cause finali : è di ((uesta maniera che devono spi(\u'arsi le leggi del movimento, a cui le leggi dtil mondo materiale in sonnna si riducono. La s])iegazione leibnitziana delle leggi della nntura è dunque in primo luogo una spiegazione teologica e teleologica: ma essa è inoltre una spiegazione r^^^r/om^r/, perchè Leib- nitz annnette la possibilità di dedurre a priori (|Ueste leggi dalle « considerazioni della convenienza che le ha fatto scegliere». Le cause finali per Leibnitz non servono sol- tanto a sjìiegare le cose già conosciut(iper Tosservazione, ma sono anche un mezzo di scoverta, un jn-incipio da — 481 — cui si può concludere a priori come le cose devono essere : egli non si limita a dire (argomentando a posteriori) ciò è fatto della maniera più conveniente, dunque è li prodotto d'una saggezza perfetta; ma dice ancora^ (ar- gomentando a priori): ciò è il prodotto di una saggt»zza perfetta, dunque ciò deve essere fatto così perchè cosi è il più conveniente (1). Nella spiegazione teleologica di Leibnitz, col processo della metafisica istintiva concorre il processo della metafisica apriorista. Il principio fondamentale della filosofìa apriorista deve a Leibnitz, possiamo dirlo, la sua espressione più classica: è il principio della ragion sufficiente o determinante, se- condo il quale «niente accade, senza che vi sia una causa o almeno una ragione determinante, vale a dire qualche cosa che possa servire a rendere ragione a priori })erchè ciò esiste così piuttosto che di ogni altra maniera » (2). Questo principio si applica tanto ai fatti particolari quanto alle verità generali, tanto alle verità contingenti, quanto alle necessarie; così esso è anche espresso sotto (piesta forma più generale : « non vi ha enunciazione vera di cui quegli che avesse tutta la conoscenza necessaria per intenderla perfettamente non potrebbe vedere la ra- ragione » (3). Posto il principio della ragion sufficiente, «la prima quistione che si ha dritto di fare sarà : Per- chè vi ha qualche cosa piuttosto che niente V . . . . Di più, supposto che delle cose devono (l^ V. olti-o i 1. iiul. iiolla iiotM imuMMl. e. nelle diu' soiriKMiti, .V. .V. 1. 1. e. S. ^ IS. X. S. 1. 4, it, 12. ^ l:^, ir^sit. nlhi I Ue- plica (li Clarke 1. Dnteiis. t. 2. ]k 1. 114, ecc. (2) ffisc. ih'lht con /orni, dclht fede eoa la niy. v> 2. (1) Dlse. di meta/. (Lctt. e opusc. pubblic da F. de Careil), p. 856. Us. dei prine. di Malehv. (od. Diitcns, t. 2. \). 1, pag. 201)), De Ipsd nat. slce de vi ins. t. (Dut. t. 2, ]). 2, pag. 51), De unleo opt., eatoptr. et dioplr. pruie. (l)iit. t. 8, p. 146), Teodie. Prefaz. (ed Jaccpies, t, 2, ]). 18-10), Dise, della conform. della fede con la rag. 2, ecc. (2) Saggi sulla bontà di Dio, ecc. 41. (8) Ossercaz. sul Uh. di King, 14. 31 - 482 — esistere, bisooua che si possa rendere ragione perchè esse devono esistere così e non altrimenti » (1). Alla prima qiiistione: Perchè vi ha qualche cosa? si risponde che la ragione delTesistenza delie cose finite è in Dio, e la rag-ione dell' esitenza di Dio (dell' essere perfettis- simo) è in lui stesso, nella sua essenza o nel suo con- cetto, in cui l'esistenza è necessariamente inclusa (l'ar- gomento ontologico) (2). Alla seconda quistione : Perchè le cose devono esistere così e non altrimenti? risponde la teoria del migliore dei mondi possibili. * Segue dalla perfezione suprema di Dio che, producendo l'universo, egli ha scelto il miglior piano possibile, dove vi sia la più grande varietà col più grande ordine : il terreno, il luogo, il tempo i meglio utilizzati : il più di effetto prodotto per le vie più semplici ; il più di potenza, il più di conoscenza, il più di felicità e di bontà nelle creature, che 1' universo ne poteva ammettere. Perchè tutti i possibili pretendendo all'esistenza nell'intendimento di Dio, a proporzione delle loro perfezioni, il risultato di tutte queste pretensioni deve assere il mondo attuale ii più perfetto che sia possibile. E senza ciò non sarebbe possibile di rendere ragione perchè le cose sono andate così piuttosto che altrimenti» (3). ^ Si può dire che, tosto che Dio ha deliberato di creare qualche cosa, vi ha una lotta fra tutti i possibili, tutti pretendendo all'esistenza (perchè tutti i possibili non sono compatibili fra loro in uno (1) Priììc. delld nat. e della graz,, 7. (2) Come si vede, hi ([iiistione : Perchè vi ha «lualche cosa? si riduce alla «piistione : Perchè Dio esiste ? Questa quistione oltrepassa la ricerca delle cause efficienti (il perchè dell' esi- stenza della causa prima non potendo essere la causa efficiente): ma nell'Append. a questo capit. noi vedremo come tale <iuistio- ne si presenta naturalmente al punto di vista della metafisica apriorista. (3) Princ. della nat. e della graz. 10. fì-ar-iiiiwrTiiTWflirM 483 stesso seguito d'universo, e perciò tutti non potrebbero essere prodotti); e che quelli che congiunti insieme pro- ducono il più di realtà, il più di perfezione, il più d'in- telligibilità, la vincono. È vero che tutta questa lotta non può essere che ideale, cioè non può essere che un coflitto di ragioni nell' intendimento più perfetto, che non può mancare d' agire della maniera jnà perfetta, e per conseguenza di scegliere il meglio » (1). La teoria del migliore dei mondi possibili ha dun(|ue il doppio aspetto della teleologia leibnitziana, di cui essa è il fondamento: da una parte essa è un risultato assai naturale della filosofìa teologica, ma questo pro- dotto indiretto della metafisica istintiva diviene anche un elemento di una speculazione apriorista che tende a incatenare coi legami della necessità i fenomeni frdi loro (2) e con la Causa suprema, a fare l'equazione del reale col possibile, a realizzare il motto della filo- sofia hegeliana, che è quello di ogni metafisica aprio- rista: Ciò che è razionale è reale, e ciò che è reale è razionale. Infatti la conseguenza di questa teoria è che le leggi della natura e la natura stessa sono necessarie^ (1) Saggi sulla bontà di Dio, eoe., par. 201. (2) Biso«ina tener presente che nel sistema di Leil^nitz, come in tutti i sistemi procedenti piiì o meno direttamente da Cartesio, l'azione di Dio è l' intermediario esplicativo delle se- quenze e di tutte le congiunzioni tra i fenomeni. Leibnitz, è vero, mette in opposizione il suo sistema a ({nello di Malebran- che, e vi ha in etìetto fra di essi questa diti'erenza reale che, mentre in questo i fenomeni dipendono scmidicemeute dalla vo- lontà di Dio e non hanno alcun le<jjame naturale con la natura delle sostanze create, al contrario secondo Leibnitiz essi devono essere spiegabili per la natura di queste sostanze. Ma al fondo, tanto per Malebranche, quanto per Leibnitz e tutti gli altri ft- losolì che annnettono la dottrina della creazione continua, è Dio che è la causa universale dei fenomeni. — 484 — necessarie nel senso che, se non per noi, per quello almeno che potesse intendere la cosa perfettamente, la supposizione di leggi diverse e di una natura di- versa da quelle che eifettivamente esistono, condurreb- be ad un' impossibilità logica, ad una contraddizione tinaie. Una tale supposizione in effetto riuscirebbe ad ammettere che o le cose, nella loro esistenza, non di- pendono da Dio, o Dio, producendole, non ha scelto « il mig-lior piano possibile, » e quindi non ha agito « della maniera più perfetta : » ma Tuna e V altra cosa sono logicamente impossibili e contradditorie, perchè da una parte, non si può, senza contraddizione, non ammettere l' esistenza di Dio (argomento ontologico), e dall'altra parte ammesso Dio, cioè l' Essere infinita- mente perfetto, non si può, senza contradizione, non ammettere pure che ogni cosa dipende da lui (fra le sue perfezioni essendovi una potenza infinita), e che egli deve agire della maniera più perfetta (e per conseguenza sce- gliere il meglio-), perchè tutto ciò segue necessariamente dal suo concetto. Noi vediamo cosi che la distinzione delle verità in ne- cessarie e contingenti— le une fondate sul principio di con- traddizione, e le altre su quello della ragion sufticiente— non può avere, nel sistema di Leibnitz, che un valore rela- tivo. È evidente infatti che tutte le verità razionali o a priori sono, per questo stesso titolo, delle verità necessarie: per tutti i filosofi, verità a priori equivale a verità necessaria, ed anche per lo stesso Leibnitz (1), quando egli non ha r intenzione di marcare la differenza tra la necessità deca delle verità matematiche o logiche e la necessità fisica fondata sulla necessità morale della scelta della saoH>'ezza. Di più, secondo i principii di Leibnitz, la distinzione tra verità a priori e verità a posteriori non II — 485 esiste che per la limitazione della nostra intelligenza : per se stesse, tutte le verità sono conoscibili a priori; per la stessa intelligenza limitata dell'uonio, non vi ha un limite fisso che segni sin dove s' estenda la pos- sibilità di conoscere il reale razionalmentp; perciò l'es- ser poste al di là o al di qua dei limiti della nostra vista intellettuale non può apportare nelle cose stesse una differenza obbiettiva, qual è, almeno secondo i me- tafisici, quella tra il contingente e il necessario. La stessa distinzione tra verità fondate sul principio di contraddizione e verità fondate sul principio di ragion sufficiente, svanisce, in ultima analisi, secondo i pre- supposti di Leibnitz : il principio di contraddizione è il fondamento ultimo, tanto del principio di ragion suf- ficiente (1), quanto delle verità fondate su questo prin- cipio. Ciò non segue soltanto dalle considerazioni pre- cedenti sulla dottrina del migliore dei mondi possibili, ma ancora dalla dottrina ])sicologica di Leibnitz, che ammette che tutte le verità razionali sono dimostrabili (col metodo sillogistico) (2), che non vi hanno altri prin- cipii immediati che le verità identiche (3), e che così i principii d' indentità e di contraddizione sone la base unica di tutte le conoscenze a priori. V'ha chi crede, è vero, che Leibnitz deriva dal principio di contraddi- zione, non tutte le verità a priori, ma quelle sole ch'egli chiama necessarie nel senso stretto, quali le proposi- zioni della matematica pura : ma questa interpretazione sembrerà una limitazione arbitraria del vero pensiero (1) V. i 1. indicati nella ])rinia nota. (1) /iJpist. ad R. P. Des Bosscs <S i'ehhv. 1711 (Dutens. t. 2, 1». 1. pa.i». 2J)2), Risp. alla 4 Replica di Clarke 18U, Osseri\ sul lib. di Kiufj. 14. ecc. (2) Osserc. sul Uh. di King., n. 5. De cof/nitionc. veri fate et ideis. Dut., t. 2. p. 1, 17, ecc. (8) N. S. sulVint. uni., 1, 4, e. 2, $ 1. e. 8, «J D. ecc. 486 — 487 di Leibnitz, speeialrneute se si rifletterà che, come ab- biamo visto nel Saggio 1. (1), questa frazione della scuola psicologica apriorista, la quale ammette che le verità a priori sono analitiche o fondate sul principio di contraddi/^ione, e che si riattacca a Leibnitz, ha per motivo della sua dottrina di spiegare questa moltii)licità di necessità del pensiero che V altra frazione della scuola, quella che Mill chiama intuizionista, ammette come primordiali, senza renderne alcuna ragione. Questa spiegazione non può essere limitata ai soli assiomi ma- tematici, ma deve estendersi a tutte le [)retese verità assiomatiche o necessità del pensiero ; ciò che ha per conseguenza di annnettere che tutte le conoscenze che ne derivano, cioè tutte le verità a priori, sono fondate sui principii d'identità e di contraddizione, o, come s' incominciò a dire dopo Kant, sono analìtiche. Cosi, secondo il sistema di Leibnitz, questa necessità per cui le cose devono essere cosi come sono e non altrimenti, è, al fondo, una necessità logica-^ l'incaten amento reale delle cose è costituito da un incatena mento logico di ragioni : la filosofia leibnitziana preparava il terreno, dal quale poi germinarono i sistemi di Fichte, di Schelling, di Hegel, in cui il movimento logico delle idee viene identificato alla genesi delle cose stesse. Naturalmente vi ha per Leibnitz la stessa difficoltà che per Malebranche ; il legame razionale e necessario ch'egli stabilisce tra le cause e gli effetti fisici non può essere chiamato una causazione pfficienter\Q\ .^enso stretto della parola: nel sistema dell'armonia i)restabilita non vi hanno altre cause efficienti, in questo senso, che Dio, come causa universale, e le monadi, come cause sem- plicemente ciascuna dei propri cangiamenti. Sotto questo aspetto, la spiegazione leibnitziana della natura è una spiegazione volizionale^ secondo cui ogni essere è esso stesso la causa spontanea dei propri movimenti, e Dio è la causa della coordinazione regolare dei movimen- ti di tutti gli esseri. Ma la spiegazione leibnitziana essendo inoltre una spiegazione apriorista, anche le cause fisiche possono sotto questo aspetto essere chia- mate (nel nostro senso più lato) cause efficienti, in quanto vi ha una ragione a priori per cui sono legate coi loro effetti (1) : in questo senso tutte le causazioni sono efficienti, tanto le fisiche quanto le i|>erfisiche, tanto l'azione di un corpo su di un altro o tra Tanima e il corpo quanto le azioni immanenti delle monadi e r azione creatrice della Monade^- suprema, |)erchè per tutte vi ha una ragione a priori che può spiegare perchè «ciò deve esistere così e noìi altrimenti.» § 7. —Con Locke la metafisica apriorista volge al- l'agnosticismo e allo scetticismo. Le speculazioni di Lo- cke sulla natura della conoscenza, i suoi linìiti e i gradi della certezza, quantunque le sue ricerche sulForigine delle idee, il suo sensismo, le abbiaìio fatto [)assare in seconda linea, costituiscono non |)er tanto, nel pensiero dell'autore, l'oggetto principale del faggio sul V intendi- mento Hìnano (2). Questa teoria della conoscenza è fon- data sul presupposto della filosofia apriorista, cioè che una conoscenza assoluta, adc^iuata, delle leggi delle cose sarebbe una conoscenza a priori, che lo s[)irito tirerebbe, non dall' osservazione dei fatti esteriori, ma dalla contemplazione e la compara/Jone delle sue [)roprie (1) Gap. 8 e 4. (1) Una cosa si dico che a«:;iscc su <li inraltni. in quanto « 8i trova in essa ciò che serve ;i rendere ragione a \n'\ov\ di ciò che accade nell'altra» (Mon:id. 5(1). Del re>to e alle cause fisiche cìie Leibnitz dà specialmente il nome di cause efficienti. (2) V. Preambolo. Tsmsv!Ssmm — 488 — idee. Locke è senza dubbio uno dei promotori della filosofia dell'esperienza: ma se egii inculca il metodo sperimentale, è perchè crede che i limiti stretti, dentro cui è circoscritta Tintelligenza umana, non le permet- tono di conseguire la conoscenza perfetta, cioè la co- noscenza a priori, che sola potrebbe dare al bisogno che ha di conoscere, una soddisfazione reale. Locke definisce la conoscenza la « percezione della con- venienza o leo'ame o della disconvenienza o opposizione tra du(*, idee». Questa convenienza 0 discouvenieiiza può essere percepita, sia comparando immediatamente le due idee l'una con l'altra, e allora la conoscenza è intuitiva — è cosi che lo spirito vede che il bianco non è il nero, che un cerchio non è un triangolo, che tre è uguale a due più uno — sia mediante l'intervenzione di una o più altre idee, che lo spirito paragona tra di loro e con quelle di cui vuole scoprire la convenienza o la discori- venienza, e allora la conoscenza è dimostrativa — così lo spirito, non potondo conoscere l'eguaglianza dei tre angoli di un triangolo a due retti, intuitivamente^ com- parando insieme i tre angoli del triangolo e due retti, è obbligato di servirsi di altri angoli a cui i tre angoli del triangolo siano eguali, e trovando che questi sono eguali a due retti, egli conosce perciò dimostrativamente che i tre angoli di un triangolo sono pure eguali a due retti (1). Ma il fondamento ultimo della conoscenza è sempre Vintuizione^ anche nella conoscenza dimostrativa, perchè, a ciascun grado della deduzione, la connessione del- le idee, la loro convenienza o di sconvenienza, è percepita d' una maniera intuitiva (2). Ecco dunque i due gradi della nostra conoscenza: Virftiiizione e la dimostrazione. Ciò che non può rapportarsi all' uno dei due, è fede 1 — 489 — o opinione, e non conoscenza, almeno riguardo a tutte le verità generali ^1). «Quando le idee di cui noi perce- piamo la convenienza o la disconvenienza, sono astratte, la nostra conoscenza è universale. Perchè ciò che è co- nosciuto di questa sorta di idee generali, sarfi sempre vero di ciascuna cosa particolare, in cui questa essenza, cioè quest'idea astratta, si trova racchiusa; e ciò che è una volta conosciuto di quest'idee, sarà continuamente ed eternamente vero. Cosi per ciò che è di tutte le co- noscenze generali, è nel nostro spirito che noi dobbiamo cercarle e trovarle unicamente, e non è che la consi- derazione delle nostre proprie idee che ce le forni- sce. » (2) Che la conoscenza a priori sia per Locke la sola conoscenza adequata, quella in cui si ha, per dir così, la concidenza tra l'intelligenza e l'intelligibile, lo indica già questa circostanza, eh' egli non accorda il nome di conoscenza che alla intuitiva e alla dimostrativa: la co- noscenza sperimentale, induttiva, non è per lui una conoscenza. Locke suppone che vi hanno sempre nelle cose stesse delle connessioni necessarie e razionali, cioè percettibili a priori, sia che il nostro spirito possa o no averne la percezione attuale. Così egli definisce la verità : la denotazione in parole della convenienza o disconve- nienza delle idee, quale essa è realmente (3). Nel giu- dizio o l'opinione — facoltà che ci è stata data per sup- plire al difetto della vera conoscenza, cioè della cono- scenza a priori —lo spirito suppone che le idee con- vengano o disconvengano: egli non vede la convenienza 0 disconvenienza delle idee, ma presume che vi sia (4). (1) L. 4 V. 1 ^> 2. e. 2 5 1. 2. e. 8 $ 1-4, e. 17 $ 14-18, ecc. (2) L. 4 e. 2 § 1, e. 3 § 4. v. 15 ^\ 1, :^, e. 17 $ 15, ecc. (1) L. 4 e. 2 v^ 14. (2^ L. 4 e. 3, 31. (3) L. 4 e. 5 § 9. (4) L. 4 e. 14 § 3, 4. - 490 — Pare da ciò che Locke consideri la convenienza e discon- venienze delle idee — cioè le loro connessioni e incom- patibilità necessarie e razionali ossia intelligibili a priori— come una proprietà obbiettiva delle idee stesse, che esiste sia che noi possiamo scoprirla o no, della stessa maniera che i rapi)orti fra le g'randezze esistono, sia che noi le abbiamo misurate o no ; e che ea'li am- metta che questa proprietà deve trovarsi sempre nelle idee, tutte le volte che vi ha una congiunzione costante o un'incompatibilità tra i fatti che queste idee rappre- sentano. Questa proprietà noi la percepiamo nella co- coscenza a priori, cioè intuitiva o dimostrativa, di una verità generale; nella conoscenza a posteriori o induttiva non la percet)iamo, ma siamo ridotti a presumerla. La limitazione della nostra conoscenza a priori prova la limitazione delle nostre facoltà conoscitive «nello stato di mediocrità in cui esse si trovano in questa vita » (1). Tutte le conoscenze generali sul reale si riducono insomma per Locke a sapere che tali pro- prietà coesistono costantemente con tali altre proprietà in un sog-getto comune, poiché l'idea che noi abbiamo di ciascuna specie di esseri, di ciascuna sostanza, è l'idea di un grappo di proprietà o di attributi che coe- sistono costantemente in uno stesso sog-getto (proprietà che per la massima parte sono le potenze attive e pas- sive delle sostanze, cioè la loro capacità di modificare d' una certa maniera altre sostanze o di esserne modi- ficate) (2). Una conoscenza a f)riori delle leggi delle cose sarebbe dunque la conoscenza di una dipendenza naturale, di una connessione necessaria e razionale^ fra le proprietà coesistenti il cui complesso costitusce la (1) L. 4 e. 12 ^S 10. e. 11 ^^ ^. <•• 17 § 14, ecc. (2) L. 2. e. 2:^, 1. 4, e. 1 ^ 3-7, e. 3 $ \) e sgo-., e. 0. ^^ 7 e sgg., ecc. — 491 - nozione che noi abbiamo di ciascuna sostanza, di ciascun genere di esseri. Questa dipendenza o connessione noi non possiamo vederla secondo Locke che in rarissimi casi, ma egli non dubita che essa non esista (se la coesistenza è realmente costante) anche quanto noi non possiamo scoprirla (1). Siccome un legame comprensibile (nel senso metafisico) tra i fatti suppone, secondo la metafìsica apriorista, una connessione a priori tra le idee di questi fatti, cosi la mancanza di una visibile connessione a priori tra le idee (immediata o mediata) vuol dire, per Locke, che la congiunzione tra i fatti cor- rispondenti, (juantunque costante, è incomprensibile (2); e questa incomj>r(msibilità importa naturalmente per lui, come per tutti i metafisici, che vi ha là qualche cosa che noi non conosciamo, e che, se la conoscessimo, ci farebbe comprendere come e perchè i fatti sono congiunti. Per conseguenza Locke ammette la dottrina che noi non conosciamo Vessenza rea^e delle cose. Egli distingue Vessenza reale e VessenyM nominale. L'essenza nominale è il complesso delle note che costituiscono il concetto di ciascun genere (3). L'essenza reale è il fondamento delle i)roprietà che appartengono al genere, il princi- pio da cui esse derivano, in altri termini, ciò che, se fosse conosciuto, spiegherebbe come e perchè queste propri(ità coesistono le une con le altre, come e perchè sono unite in uno stesso soggetto (4). Ciò che prova che l'essenza reale delle sostanze none la loro essenza (1) L. 4 e. :? ^ 11, 12. !<;. e. (J. v^ 7. 10 eee. (2) Compreiideie o no una eausazione equivale per Loeke a potere scoprire o no uiui connessione a priori tra l'idea della causa e quella dell' ettetto. V. 1. 4 e. 8 $ 18. § 28-21). nota di Coste al $ 6. ecc. (8) L. 8 e. 8 § 15, e. (> § 2, ecc. (4) L. 2 e. 28 v^ 8. e. 81 v^ 18, 1. 8 e. 8 v> l-"). ^'. <> ^^ -'- •^' <>- 9. e. 9 vS 12, e. 10 § 21, 1. 4 e. 4 ^ 12, e. (> ^ 15. ecc. 492 — nominale, ma qualche cosa di sconosciuto, è che noi non vediamo alcuna connessione tra le loro proprietà, non comprendiamo cornee perchè queste proprietà coe- sistono o sono unite in uno stesso sog-g-etto, non pos- siamo dedurle a priori dall'essenza nominale, (dal con- cetto) della sostanza (1). Là dove 1' essenza nominale e ressenza reale s'identificano (ciò che non avviene mai nelle sostanze, ma soltanto nei modi), come p. e. nelle figure g-eometriche, noi possiamo dedurre a priori da un piccolo numero di proprietà che facciamo entrare nella definizione o nel concetto della cosa, tutte le altre proprietà che ad essa ai)parteng-ono (21 « Ma nella ri- cerca che noi facciamo per perfezionare la conoscenza che possiamo avere d<?lle sostanze, la mancanza d'idee necessarie per seguire questo metodo ci obbliga di prendere un tutt' altro cammino. Qui noi non aumen- tiamo la nostra conoscenza, come nei modi di cui le idee astratte sono le essenze reali cosi bene che le nominali, contemplando le nostre proprie idee, e con- siderando i loro rapporti e le loro corrispondenze . . Donde segue evidentemente, a mio avviso, che le sostanze non ci forniscono molte conoscenze s'è- nerali, e che la semplice contemplazione delle loro idee astratte non ci condurrà molto avanti nella ricerca della verità e della certezza. Che bisogna dunque che noi facciamo per aumentare la nostra conoscenza ri- guardo agli esseri sostanziali V Noi dobbiamo prendere qui una via direttamente contraria; perchè non avendo alcuna idea delle loro essenze reali, noi siamo obblia^ati di considerare le cose stesse quali esse esistono, invece di consultare i nostri propri pensieri. L'esperienza deve istruirmi in quest'occasione di ciò che la ragione non (1) L. 2 o. :n ^ H, e. 32 $ 24. 1. 3 e. f> $ 9. ecc. (2) L. 3 e. 3 $ 18, e. 5 § 14, e. 11 v^ V\, 1. 4 e. 12 $ 8-9, ecc. potrebbe appendermi; e non è che per delle esperienze che io posso conoscere certamente quali altre qualità coesistono con quelle della mia idea complessa. » (1). i: essenza reale (ch'egli chiama ^wvq costituzione reale) di una sostanza, di un genere di esseri reali, è dunque per Locke un principio sconosciuto, e inconoscibile, dal quale, se lo conoscessimo, noi potremmo dedurre, per il solo ragionamento, senz'alcun soccorso dell'esperienza, tutte le proprietà che noi conosciamo o possiamo cono- scere del genere (2). Per le diverse specie dei corpi, l'essenza reale è la costituzione interione delle loro parti insensibili (3) : così è da questa diversa costituzione che derivano e potrebbero essere dedotte tutte le pro- prietà osservabili che appartengono ai diversi corpi, le quali consistono quasi unicamente, come abbiamo detto^ nelle loro potenze attive e j^assive, tra le quali bisogna pure contare le proprietà sensibili (secondarie) che non sono nei corpi stessi che delle potenze d' impressionare d'una certa maniera i nostri sensi. Locke oppone questa dottrina a quella degli sco\s.st\ci(\eMe forme sostanziali: vi ha tra le due dottrine sulle essenze delle sostanze materiali questa differenza capitale, che mentre, secondo i peripatetici, ciascuna specie di sostanze ha una natura propria, ed è governata da leggi proprie, irriduttibili alle lei>"£ii o-enerali della materia e del movimento, invece Locke ammette, con la maggior parte dei filosofi moderni, la teoria meccanica, che spiega le proprietà speciali delle cose per le leggi generali del mondo materiale. Ma se (1) h. 4 e. 12 § 9. (2) V. oltre il luojro riportato e quelli citati nelle due note precedeuti, 1. 2 e. 31 ^S 10-11, 1. 3 e. 11 ^S 22-23, 1. 4. e. H. $ 11, 15, e. 12 ^ 12, ecc. (3) L. 2 e. 31 ^ H, 1. 3. e. 3. § 17-18, e. ♦> $ 2, e. 6 <& 0, 1. e. 3 v^ 11. 2.'ì, e. H § 7, 9, ecc. 494 la dottrina di Locke sulle essenze delle diverse specie dei corpi è un risultato della teoria meccanica, non bi- sogna credere perciò che tutta la sua dottrina sulle es- senzp reali si riduca a una semplice applicazione di que- sta teoria. Quest' incoo-iiita che, secondo Locke, ri- siede nell'interno di una massa d'oro, e che, se divenisse cognita, sarebbe il principio, da cui potrebbero dedursi tutte le qualità e le ìnaniere di agire e di patire di questa porzione di materia, non consiste unicamente per lui nella grandezza, figura, posizione reciproca e le altre (se pure bisogna aggiungere delle altre) proprietà pn- ìuarie delle particole (1). Se è la costituzione delle sue parti insensibili che Locke chiama l'essenza reale del- l' oro, ciò è perchè è per essa che, secondo lui, questa porzione di materia è oro, ed è da essa che dijìendono tutte le qualità e le potenze che sono proprie dell'oro :(1) L'ij)otesi che le proprietà dei corpi derivano e ijotreh- bero dedursi dalla costituzione delle loro parti insensibili. t> evidentemente, per Locke, un'applicazione i)articolaie del prin- cipio, generale che le proprietà delle cose derivano e potre1»bero dedursi dalla loro essenza reale. Ciò e tanto vero che egli non accorda a quest'ipotesi che una certezza inlV^riore a (piella della dottrina di una essenza reale sconosciuta : le })roi)rietà dei di- versi corpi dovendo certamente derivare da qualche principio sconosciuto, il più lu'obabile è che questo principio sia la costi- tuzione delle loro parti insensibili (V. 1. 4 e. :^ 11, ib. IH. ecc.) Il presupposto della dottrina dell' essenza reale, che vi ha per ciascuna sostanza un principio, dal quale, se fosse possibile di conoscerlo. potre])bero dedursi tutte le proprietà di questa so- stanza, reooe anche, secondo Locke, nell'ipotesi che l'essenza delle diverse specie di corpi si concepisca in un modo diverso da quello in cui egli stesso la concepisce (costituzione delle parti insensibili), per esempio nel modo in cui la concepiscono gli scolastici : anche in questo caso, bisognerebbe ammettere che tutte le proprietà della specie potrebbero dedursi a priori dall'essenza (1. 2 e. 31 6, 1. 8 e. « 19, 1. 4 e. 6. 5, ecc.) - 495 — ma oltre queste vi hanno le qualità e le potenze che l'oro ha in comune con gli altri corpi, in altri termini tutte le qualità e potenze la cui collezione costituisce il genere (la sostanza) corpo o materia. Questa collezione di proprietà suppone, secondo i presupposti di Locke, una causa della loro unione, qualche cosa che potrebbe spiegare perchè le une coesistono con le altre, un prin- cipio, infine, da cui tutte potrebbero dedursi. Ciò che si è detto della collezione di i)roprieià che costituisce, per la nostra conoscenza, la sostanza corpo, deve dirsi si- milmente della collezione di proprietà che costituisce la sostanza spirito. Per una conoscenza razionale delle stesse proprietà distintive dell'oro, non basterebbe di co- noscere Vessenza reale dell'oro, la costituzione delle sue parti insensibili, se noi non conoscessimo inoltre il prin- cipio, da cui derivano le qualità e le maniere d' agire e di patire, tanto della materia quanto dello spirito. Questa conoscenza razionale in civetto supporrebbe che noi conoscessimo (razionalmente, cioè a priori) la con- nessione tra le proprietà sensibili dell' oro e questa co- stituzione delle sue parti sensibili: ma perciò dovremmo conoscere (sempre a priori) tutte le maniere di agire e di patire della materia, e la connessione che vi ha tra i movimenti della materia e le sensazioni che essi oc- casionano nello spirito (1). Ciò che sarebbe impossibile^ nella ignoranza del principio, dal quale potrebbero de- dursi le potenze e le operazioni, sia della materia, sia dello spirito. Cosi al di là dell' essenza reale che pos- siamo chiamare fisica (la costituzione delle partì insen- sibili dei corpi), Locke ammette un' essenza reale, che possiamo chiamare metafisica ; è T essenza o costitu- zione interiore sconosciuta della materia e dello spirito, che naturalmente egli conclude dalla incomprensibilità (1) L. 4 e, 3 $ 11-12, 28-29, e. (5 ^ 7. 10, 13-14, ecc. - 496 — delle potenze e operazioni di queste due sostanze (1), e che, conformemente alla sua dottrina generale sulla essenza reale, egli deve concepire come il principio di tutte le loro proprietà, la cui conosceuza, se fosse pos- sibile, trasformerebbe la conoscenza di queste proprietà da empirica in a priori. Qui ci troviamo in presenza di un' altra dottrina trascendente di Locke, quella della sostanza^ dottrina i cui veri motivi noi siamo ridotti a congetturare, poiché le spiegazioni dell'autore a questo riguardo sono, a mio credere, assai insufficienti. Locke ammette che, nelle nostre idee delle sostanze, vi ha, oltre il complesso delle loro proprietà o attributi, l'idea oscura di un quid scono- sciuto, in cui queste proprietà ineriscono, ed è questo quid che egli chiama, nel senso stretto, la sostanza. Se noi gli domandiamo perchè bisogni ammettere questa entità trascendente, egli risponde che questi attributi noi non potremmo concepirli senza qualche cosa a cui essi ineriscano; il che significa semplicemente che vi ha una necessità mentale che ci forza ad ammettere questa qualche cosa. Ma per far sentire questa necessità men- tale a quelli che non l'avvertono, e ritengono semplice- mente che una sostanza è il complesso dei suoi attributi (questa estensione, questa forma, questo colore, ecc.) avrebbe bisognato ([ualche spiegazione. Tuttavia Locke aggiunge un'altra indicazione: la sostanza non è so- lamente il substratum a cui le qualità ineriscono, ma è anche ciò da cui queste qualità risultano, ciò che co- stituisce il loro legame, che è la causa della loro unione o della loro coesistenza in uno stesso soggetto (2). Que- sto ci mostra che la dottrina della sostanza è legata a quella dell' essenza reale, e che, secondo Locke, è la na- (1) L. 2 e. 23 ^ 22-28. 1. 8 e. H $ 8. 1. 4 e. 3 ^ 28, ecc. (2) L. 2 i\ 28 5> 1. G. 1. 3 e. (> § 21, ecc. — 497 — tura della sostanza, del substratum sconosciuto delle qualità, che è il principio ultimo da cui queste derivano e potrebbero dedursi. Vi hanno nondimeno delle ragioni per credere che la funzione del concetto trascendente della sostanza, in Locke, non sia unicamente questa, di darci una rappresentazione delle cose tale che si con- cepisca come esse possano conformarsi alla condizione che loro impone il principio della metafisica aprhrìsta, alla condizione cioè che le loro leggi siano conoscibili a priori (per un'intelligenza che fosse adequata all' in- telligibile). Per la sostanza dello spirito almeno, non potrebbe dubitarsi che Locke non obbedisca alla tendenzanaturale che ci spinge ad immaginare un substratum, un quid permanente, a cui gli stati della coscienza ineri- scano, dopo che abbiamo ammesso la separabililà dello spirito dal corpo (l). In quanto alla sostanza della ma- teria, r asserzione sì spesso ripetuta che noi non pos- siamo concepire le qualità tutte sole, senza qualche cosa a cui esse ineriscano, fa pensare che Locke ha proba- bilmente intraveduti^ la grande difficoltà del concetto ordinario della materia, difficoltà che consiste in questo, che, dopo aver soppresso le proprietà sensibili (secon- darie), ciò che resta del corpo — l'estensioae secondo irli uni, l'estensione e l'impenetrabilità secondo gli altri — non è che un'astrazione, che è impossibile di rappre- sentarci come qualche cosa di concreto e di per sé esistente, e che forza perciò il metafisico a trascendere l'esperienza, per avere un che di concreto in cui que- st'astrazione possa inesistere. Ma questa è una qui- stione che appartiene alla parte II. Sin qui dell' agnosticismo di Locke : passiamo ora al suo scetticismo, che è il lato della sua teoria della conoscenza, su cui egli insiste di più, e per cui egli può considerarsi come il precursore di Hume. (1) V. Appcnd. (Illa 1 parte, e. 2. 32 — 498 — Dal principio che la conoscenza assolata, adequata, delle leg"g-i delle cose, la sola che meriti il nome di co- noscenza, è la conoscenza a priori, cioè intuitiva o di- mostrativa, Locke ne conclude che 1' esperienza, l'in- duzione, non può dare delle conoscenze generali che siano certe. In effetto, V evidenza delle conoscenze in- duttive è inferiore a quella delle conoscenze a priori : ne segue, se le conosce nze a priori sono le sole ade- quate, che la loro certezza è la sola adequata, e che la certezza delle conoscenze induttive non è adequata, non è certezza, come queste conoscenze non sono co- noscenze. Il risultato di questo corollario del principio della metafisica apriorista, associato con la convinzione che le leggi del reale non possiamo conoscerle che per l'esperienza, è l'incertezza iella nostra conoscenza ge- nerale sugli esseri reali. Per mostrare quest'incertezza il ragionamento di Lo- cke è sempre lo stesso : perchè si possa assicurare che vi ha tra due fatti un legame costante, è necessario di perce- pire una connessione a priori, per intuizione o per dimo- strazione, tra le idee di questi fatti; questa connessione non la vediamo quasi mai; dunque non possiamo quasi mai assicurare che vi ha tra due fatti un legame costante. Siccome ciò che noi conosciamo degli esseri reali si riduce per Locke, come abbiamo detto, alla coesistenza d'un com- plesso di proprietà o attributi in uno stesso soggetto, cosi le nostre conoscenze generali sul reale si riducono a sapere quali altri attributi (qualità o potenze) coesi- stono o no costantemente con quelli che costituiscono già i nostri concetti, o come dice Locke, le nostre idee complesse, delle cose, vale a dire con quelli ehe entrano nei significati dei nomi dei generi, e che noi suppo- niamo trovarsi nelle cose, quando le chiamiamo con questi nomi. Ora questa parte della scienza umana è, dice Locke, « molto limitata, e si riduce pressoché a — 499 — niente. La ragione di ciò è che le idee semplici che compongono le nostre idee complesse delle sostanze, sono di tal natura che esse non portano con sé alcun legame visibile e necessario o alcuna incompatibilità co^ii alcun' altra idea semplice, di cui vorremmo cono- scere la coesistenza con 1' idea complessa che già ab- biamo » (1). «In verità alcune poche delle qualità pri- marie (dei corpi) hanno una dipendenza necessaria e un visibile legame fra di loro ; cosi la figura suppone necessariamente 1' estensione, e la recezione o la co- municazione del movimento per via d'impulsione sup- pone la solidità. Ma quantunque vi sia una tale dipen- denza tra queste idee, e forse tra alcune altre, ve ne ha per tanto si poche che abbiano una connessione visibile, che noi non potremmo scoprire per intuizione ^o per dimostrazione che la coesistenza di pochissime qualità che si trovano unite nelle sostanze ; di sorta che per conoscere quali qualità sono racchiuse nelle sostanze, non ci resta che il semplice soccorso dei sensi Cosi quantunque noi vediamo il color giallo, e troviamo, per esperienza, il peso, la malleabilità, la fusibilità e la fissità unite in un pezzo d' oro ; con tutto ciò, poiché ninna di queste idee non ha alcuna dipendenza visibile 0 alcun legame necessario con un'altra, noi non potremmo conoscere certamente che là, dove si trovano quattro di queste idee, la quinta deve esservi pure, per quanto probabile sia eh' essa vi è efl'ettiva- mente ; perchè la più grande probabilità non importa mai certezza, senza la quale non può esservi alcuna vera conoscenza » (2) « Ogni oro è fisso, è una propo- sizione di cui non possiamo conoscere certamente la verità Se si prende la parola oro per (1) L. 4 e. 3 par. 10. (2) L. 4 e. 3 $ 14. — 500 — una specie determinata dalla sua essenza nominale; che r essenza nominale sia p. e. V idea complessa d' un corpo d' un certo colore giallo, malleabile, fusibile e più pesante che alcun altro corpo conosciuto^ . . . . ' . alcun' altra qualità non può essere universalmente af- fermata 0 negata con certezza dell'oro, se non ciò che ha con questa essenza nominale una connessione o un'incompatibilità che si può scoprire. La fissità, p. e., non avendo alcuna connessione necessaria col colore, il peso o alcun' altra idea semplice che entra nell' idea Complessa che noi abbiamo dell'oro, o con questa com- binazione l'idee prese insieme, è impossibile che noi possiamo conoscere certamente la verità di questa pro- posizione : Che ogni oro è fisso — Come non si può sco- prire alcun legame tra la fissità e il colore, il peso e le altre idee semplici dell'essenza nominale dell'oro che noi veniamo di proporre ; così se noi facciamo che la nostra idea complessa dell' oro sia un corpo giallo, fu- sibile, duttile, pesante e fìsso, noi saremo nella stes- sa incertezza riguardo alla sua capacità di essere di- sciolto neir acqua regia, e ciò per la stessa ragione, perchè, per la considerazione delle idee stesse, noi non possiamo mai affermare o negare con certezza di un corpo di cui l'idea complessa racchiude il color giallo, un gran peso, la duttilità, la fusibilità e la fissità, ch'esso può essere disciolto nell'acqua regia; e cosi del resto delle sue altre qualità. Io vorrei ben vedere un'af- fermazione generale su qualche qualità dell'oro, di cui si possa essere certamente sicuri che è vera. Senza dubbio mi si replicherà subito: ecco una proposizione universale affatto certa, ogni oro è malleabile. A che io rispondo : Questa è, ne convengo, una proposizione certissima, se la malleabilità fa parte dell'idea complessa che la parola oro significa. Ma tutto ciò che si afferma dell' oro in questo caso, è che questo suono significa — 501 — un'idea nella quale è racchiusa la malleabilità; specie di verità e di certezza in tutto simile a quest' affer- mazione Un centauro è un' animale a quattro piedi. Ma se la malleabilità non fa parte dell'essenza specifica significata dalla parola oro, è visibile che quest' after- mazione ogni oro è malleabile non è una proposizione certa; perchè che l'idea complessa dell'oro sia composta di tali altre qualità che vi piacerà supporre nell' oro, la malleabilità non parrà dipendere da quest'idea com- plessa, né derivare da alcuna idea semplice che vi sia racchiusa» (1) Locke distingue le proposizioni in reali o istruttive e verbali o frivole. Queste ultime sono le proposizioni che Kant chiamò analitiche, cioè quelle in cui l'idea deir atributo era già compresa nell'idea del soggetto : cosi se per la parola oro s' intende un corpo giallo, pesante, fusibile, e malleabile, dicendo: ogni oro è malleabile., la proposizione sarà certa ma frivola, essa volgerà semplicemente sul significato del nome, senza estendere per niente la nostra conoscenza sulle cose. Ma se la malleabilità iion è compresa nel- r idea sig-nifìcata dal nome che fa da soggetto, se la proposizione ogni oro è malleabeli è sintetica, allora la proposizione è reale o istruttiva, ma non è certa. Ora « siccome noi non abbiamo che poco o putito conoscenza delle combinazioni d'idee semplici che esistono insieme nelle sostanze che perii mezzo dei nostri sensi (i quali non danno certezza che del particolare), noi non po- tremmo fare sul loro soggetto alcuna proposizione uni- versale che sia certa, al dì là del termine a cui le loro essenze nominali ci conducono; e siccome queste essenze nominali non si estendono che a un piccolo numero di verità, pochissimo importanti, avuto riguardo a quelle che dipendono dalle loro costituzioni reali, ne segue (1) L. 4 e. (j ^ 8 e 9. 502 che le proposizioni generali che si fanno sulle sostanze^, sono per la più parte frivole, se sono certe ; e che se sono istruttive, sono incerte e di tal natura che noi non possiamo avere alcuna conoscenza della loro verità reale, qualunque sia il soccorso che delle osservazioni costanti e 1' analogia possano fornirci per fare delle congetture» (1). « Le idee complesse che i nomi che^ noi diamo alle specie delle sostanze significano, sono delle collezioni di certe qualità che noi abbiamo osser- vate coesistere in un substratum sconosciuto che chia- miamo sostanza. Ma noi non potremmo conoscere cer- tamente quali altre qualità coesistono necessariamente con tali conbinazioni ; a meno che non potessimo sco- prire la loro dipendenza naturale, di cui non potremmo portare la conoscenza molto avanti rispetto alle loro prime qualità. E per tutte le loro seconde qualità, noi non vi possiamo assolutamente scoprire alcuna connes- sione, primo perchè non conosciamo le costituzioni reali delle sostanze da cui dipende in particolare cia- scuna seconda qualità ; e secondo perchè, supposto che ciò ci fosse conosciuto, non potrebbe servirci per una conoscenza universale, ma solo per una conoscenza sperimentale, non potendo estendersi con certezza al di là d'un tale o d'im tal altro esempio, perchè il nostro intendimento non potrebbe scoprire alcuna connessione immaginabile tra una seconda qualità e una modifica- zione qualsiasi d' una delle prime qualità. Ecco perchè non si possono fare sulle sostanze che pochissime pro- posizioni generali che portino con sé una certezza indubi- tabile* (2). « Io credo per me che fra tutte le seconde qua- lità delle sostanze, e fra le potenze che vi si rapportano, non se ne potrebbero nominare due di cui la coesistenza (1) L. 4 e. Vili, ^ 9. (2) L. 4 e. VI, $ 7. WtiiiflIWIlimii— TTIlll'nriliii Iluiniiiìililinx.nrinr jti. - 503 necessaria o 1' incompatibilità possa essere conosciuta certamente, fuorché nelle qualità che apjmrtengono allo stesso senso, le quali s'escludono necessariamente l'una con l'altra. Nessuno, io dico, può conoscere certamente per il i-olore che è in un certo corpo, qual odore, qual gusto, qual suono o quali qualità tattili esso ha, né quali alterazioni è capace di fare su altri corpi o di ricevere per loro mezzo. Si può dire la stessa cosa del suono, del gusto, ecc. Siccome i nomi generali di cui ci ser- viamo per designare le sostanze, significano delle col- lezioni di idee di questa sorta, non bisogna sorpren- dersi che noi non possiamo fare con questi nomi che pochissime proposizioni generali d'una certezza reale e indubitabile. Ma pertanto, allorché l'idea complessa di qualche sorta di sostanza contiene qualche idea semplice di cui si può scoprire la coesistenza necessaria che è tra essa e qualche altra idea ; sin là si possono fare delle proposizioni universali che si ha dritto di riguar- dare come certe : se p. e. alcuno potesse scoprire una connessione necessaria tra la malleabilità e il colore o il peso dell'oro, o qualche altra parte dell'idea complessa che è designata da questo nome, egli potrebbe fare con certezza una proposizione universale sull'oro con- siderato sotto questo rapporto; e allora la verità reale di questa proposizione Ogni oro è malleabile sarebbe così certa come la verità di questa / tre angoli di ogni triangolo rettilineo sono eguali a due retti » (1). «Tutta la nostra conoscenza generale è unicamente racchiusa nei nostri propri pensieri, e non consiste che nella contemplazione delle nostre proprie idee astratte. Da per tutto ove noi percepiamo qualche convenienza 0 qualche disconvenienza fra di esse, noi vi abbiamo una conoscenza generale ; di sorta che facendo delle (1) L. 4 0. VI $ 10. — 504 - proposizioni, o unendo come bisogna i nomi di queste idee, noi possiamo pronunziare delle verità g*enerali con certezza. Ma perchè nelle idee astratte che i nomi generali delle sostanze significano, quando hanno una significazione distinta e determinata, non si può scoprire legame o incompatibilità che con pochissime altre idee; la certezza delle proposizioni universali che si possono fare sulle sostanze è estremamente limitata e difettosa nel ]ì ri nei pai punto delle ricerche che facciamo sul loro soggetto ; e fra i nomi delle sostanze appena ve ne ha un solo (che l'idea che gli si attacca sia ciò che si vorrà', di cui possiamo dire generalmente e con cer- terza che esso racchiude tale o tal altra qualità che abbia una coesistenza o un'incompatibilità costante con quest'idea per tutto ove essa si trova» il). Ciò che può fornirci delle proposizioni universali di un'intera certezza «sono solamente le idee che sono unite con la nostra essenza nominale o con alcuna delle sue parti, per dei leo'ami che si possono scoprire. Ma queste idee sono in sì piccolo numero e di si poca importanza, che noi possiamo riguardare con ragione la nostra conoscenza generale sulle sostanze (io intendo una conoscenza certa) come pressoché niente del tutto — Infine, per con- cludere ;è cosi che finisce il capitolo sulla verità e la certezza delle proposizioni universali), le proposizioni generali, di qualunque specie esse siano, non sono capaci di certezza, che quando i termini, di cui sono composte, sigmificano delle idee di cui noi possiamo scoprire la convenienza e la disconvenienza secondo che vie espressa. E quando noi vediamo che le idee che questi termini significano, convengono o non convengono, secondo ■ch'essi sono affermati o negati l'uno dell'altro, è allora €he noi siamo certi della verità o della falsità di queste (1) L. 4 e. VI ^> 13. 505 proposizioni. Donde noi possiamo inferire che una cer- tezza generale non può mai trovarsi che nelle nostre idee. Se noi r andiamo a cercare altrove, nelle esperienze o le osservazioni fuori di noi, allora la nostra conoscenza non si estende al di là degli esempi particolari. È la contemplazione delle nostre proprie idee astratte che sola può fornirci una conoscenza generale (1)». Ho voluto esporre con le parole stesse dell' autore le opinioni di Locke suU' incertezza delle conoscenze generali che l'uomo può avere sul mondo reale, perchè questo lato della sua teoria della conoscenza -che non è posto, a mio credere, abbastanza in rilievo nel con- cetto che il più ordinariamente si ha della filosofia di Locke — ha per noi quest'importanza, che vi possiamo, per dir cosi, prendere sul fatto (ciò che non sempre si può, quando si cerca la filiazione delle idee nei sistemi filosofici, in consequenza del carattere più o meno in- cosciente delle inferenze dei metafisici) il rapporto fra lo scetticismo e il sofisma a priori del nostro spirito che è la base della metafìsica apriorista. Certamente Locke non è uno scettico radicale, come i pirronisti o Hume : lo scettico radicale pretende mostrare che è impossibile allo spirito umano di formarsi una concenzione coerente delle cose, ch'esso è condannato ad invilupparsi da per tutto nella contraddizione e nel dubbio, e attacca le credenze naturali dell'uomo, come fa evidentemente Hume, non allo scopo di mostrarne la falsità, e di sostituire ad esse i risultati della riflessione filosofica— ciò che non sarebbe più lo scetticismo—, ma allo scopo di introdurre nello spirito r incertezza e l'esitazione al soggetto di queste credenze, e quindi di tutto ciò che sembra all'uomo di sapere con più certezza. Locke non fa così: ma nondi- meno le sue proposizioni sull'incertezza delle conoscenze (1) L. 4. e. VI § lo, IH. — 506 — generali sugli esseri reali sono un vero scetticismo, per- chè esse si estendono a tutto il reale, involgendo in una comune incertezza tutta la conoscenza generale, e perciò tutte le conoscenze d' inferenza, che V uomo ha e può avere del reale, dell'esistente. La fisica, dice Locke, non è una scienza e non è suscettibile di divenirlo : niente di certo, con le facoltà che abbiamo, siamo capaci di sapere dei corpi, e peggio ancora ci troviamo rapporto allo spirito e alle sue operazioni (1). Quando Locke at- tacca la certezza delle proposizioni generali sulle pro- prietà delle specie particolari dei corpi, le sue conclu- sioni potrebbero essere ammesse, sino ad un certo punto, anche dai non scettici : potrebbe ammettersi, per esem- pio, che non è assolutamente certo che in un corpo, in cui si trova il color giallo e il peso dell'oro, la mallea- bilità, la fusibilità e la capacità di essere disciolto nel- l'acqua regia, si devono pure trovare le altre qualità e potenze dell'oro, non essendo contrario a delle uniformità assolutamente stabilite della natura che qualche nuovo corpo venga scoperto, simile in tutto all'oro in un gran numero di proprietà, ma differente nelle altre (2). Ma bisogna o'uardare, non soltanto alla conclusione di Lo- cke, ma anche al ragionamento per cui la stabilisce. Se Locke nega che si possa affermare generalmente che col colore, il peso e le altre propietà costituenti l'essenza nominale dell' oro coesistano altre proprietà non com- prese in questa essenza nominale, è perchè egli non vede alcuna connessione a priori tra le idee di queste ultime e quelle delle prime. Ma lo stesso ragionamento invalida tutte le conoscenze generali che l' uomo ha o può acquistare sulla natura, le quali sono tutte induttive e a posteriori. Cosi tutte le conoscenze che si hanno o (1) L. 4 e. 3 ^ 2tì, ^ 29, e. H v^ 14, e. 12 ^ 10, ecc. (2) Cfr. Mill Log. 1. 8 e. 22. — 507 — potranno aversi delle leggi primitive della natura, quali le leggi del movimento, la coesione della materia, le leggi dell' azione del corpo sullo spirito e dello spirito sul corpo, hanno per Locke la stessa incertezza, per la ragione che sono (o saranno) delle verità induttive, e non a priori (1). Lo scetticismo di Locke è coestensivo al suo agnosticismo : quando un rapporto costante tra i fenomeni sembra incoìnprensibile (nel senso metafisico), egli nega che si possa assicurare la costanza di questo rapporto; l'incomprensibilità del modo essenziale e l'in- certezza del modo fenomenale di produzione dei feno- meni, delle loro leggi, vanno sempre insieme, per Locke; perchè la certezza, egualmente che la comprensibilità^ d'una verità geiii'rale consiste per lui nella sua suscet- tibilità di essere da noi conosciuta a priori. Ora l'agno- sticismo di Locke non può al fondo differire, nella sua estensione, da quello degli altri filosofi che hanno ab- bracciato lo stesso sistema, per esempio gli odierni po- sitivisti (questo sistema non essendo arbitrario, ma fon- dato sulla natura stessa della nostra intelligenza) : tutti i fenomeni devono 30sì sembrare a Locke incomprensi- bili (nel modo essenziale della loro produzione], e per- ciò ancora tutte le leggi dei fenomeni incerte. Locke, è vero, fa menzione, come di casi eccezionali, di alcune verità generali sul reale che noi possiamo conoscere per la visibile connessione tra le idee, a priori (e di cui per conseguenza possiamo essere sicuri) : a quelle di cui si parla nei passi che abbiamo riportati, bisogna ag- giungere l'impenetrabilità della materia (2), la capacità dei corpi di muovere e di esser mossi per mezzo dell'im- pulsione, la divisione delle loro parti per conseguenza (1) V. notevolmente 1. 4 e. III. J 29. (2) L. 4, VII, 5. — 50S — - 509 deirintrusioiie di altri corpi (1), e forse alcune altre si- mili (2). Alcune di queste verità sono di quelle che Lo- cke chiama frivole; tale è l'affermazione che la fig'ura suppone r estensione ; quelle che sono istruttive aflfer- (1) J.. 4. HI. 18. (2) Al soi^oetto della eoinuiiicazione del nioviiiieiito jier l'ini- pulsioiie Locke sembra eoiitraddirsi. perdio talvolta ne ]»arla come di una veritjì a [n-ioii (1. e), talvolta come di un fatto puramente empirìe*», e «[uinili incomprensibile e incerto come verità .nenerale (v. 1. 2 e. 28 par. 28-29: l. i e. 8 par. 29). Quest'apparente contraddizione si spiega per un'osservazione che abbiamo fatto nel cap. IV : ([uando Locke vede nell'impul- sione una verità a priori (e per conse«;uenza conp)rensibile e certa), ei;li juMisa al fatto della nostra esperienza prescientitica e fa- miliare, senza tener conto della le«;«»e, scoverta dalla scienza, seconde» cui la forza passa dal corpo urtante al corpo urtato; ed ^ (piando pensa a (piesta leinge, che Q*f\ì vedo nella comunica- zione del movinu'uto dal corpo urtante al corjK) urtato una ve- rità empirica (e per conse«»uenza incom[>ren8Ìbile e incerta). Questo scambio dei risultati deiresi>erienza pifi familiare per verità a priori non e, iy Locke, la sola estensione illegittima che egli dà al «lominio deira])riori. Locke crede che il metodo dimostrativo e applicabile anche fuori della matematica. Ma su (piesto impiego illegittimo del metodo a priori, ciò che vi ha in lui di preciso si riduce, io credo, all'atfermazione che la mo- rale è dimostrabile, e alla sua pretesa di provare dimostrativa- mente l'evsistenza di Dio. La i>rima di ([ueste due opinioni ^ una delle forme del concetto della morale assoluta di cui par- leremo nella jiarte III : essa non ap])lica il metodo a priori allji conoscenza del reale, di ciò che è (ma di ciò che deve essere), e non appartiene a (piella classe <li applicazioni a cui attual- mente restringiamo la denominazione di metafìsica apriorista. In quanto alla pretensione di stabilire l'esistenza di Dio con prove dimostrative (e n<»n induttive), essa è evidentemente una conseguenza del ]»rincipio che non vi ha altra certezza che la intuitiva o la dimostrativa (perchè l'esistenza di Dio non deve . essere una cosa incerta). mano dei fatti estremamente familiari. Sicché noi ab- biamo qui lino di quei casi in cui si ha ragione di dire che le eccezioni confermano la regola : la certezza che Locke accorda a queste e simili proposizioni istruttive sul reale, non contraddice al suo scetticismo, anzi vi è logicamente legato, perchè, se Locke nega la certezza di tutte le altre proposizioni generali che possono farsi sul reale (cioè di tutte quelle che sono evidentemente di origine empirica, induttiva), è appunto, perchè esse non hanno 1' evidenza delle conoscenze aventi per oggetto dei fatti estremamente familiari, evidenza che, per lui come per gli altri filosofi che ammettono il presupposto della metafisica apriorista, è il tipo di quella che si sup- pone doversi trovare in ogni coìioscenza adequata. Le conoscenze delle connessioni più familiari tra i fenomeni, che sono il tipo a cui lo spirito si sforza di assimilare tutte le conoscenze delle connessioni dei fe- nomeni in generale, hanno, come abbiamo già notato, un grado di evidenza superiore, dovuta all'associazione molto intima tra le idee stabilite dalla frequente ripe- tizione delle esperienze; ciò che fa che allo scopo prin- cipale della metafisica apriorista, quello di spiegare i fenomeni, introducendo fra di essi dei legami necessari e razionali, si aggiunge un altro scopo, quello di ap- portare in tutto il sistema delle conoscenze questo grado superiore di evidenza, che non si trova mai nelle indu- zioni scientifiche, ma solo nelle verità intuitive o ap- parentemente intuitive (le induzioni incoscienti della esperienza più familiare), e in quelle che si deducono da queste, cioè nelle dimostrative. Il filosofo agnostici- sta, il quale suppone che la conoscenza dell' essenza reale delle cose trasformerebbe la sua conoscenza attuale delle loro proprietà da empirica in a priori, ammette che la realizzazione di quest' ideale di conoscenza, nel tempo stesso che gli darebbe la spiegazione delle leggi "TiinlT-ra-Mi fi 510 empiriche dei fenomeni, gli darebbe pure di queste legg-i una certezza superiore a quella che attualmente può ot- tenere dair esperienza e l'induzione. Ma se il grado di certezza, che l'uomo, limitato com'è alla conoscenza spe- rimentale, ha o può avere di queste leggi, è necessa- riamente inferiore alla certezza eh' egli ne avrebbe, se potesse acquistare delle cose una conoscenza adequata; la certezza umana, per conseguenza, non è una vera certezza; e cosi il presupposto della metafìsica apriorista diviene naturalmente, in un filosofo empirista come Locke, una sorgente di scetticismo. Lo scetticismo di Locke deriva, in ultima analisi, come il suo agnostici- smo, dal principio di causalità efficiente; quantunque vi sia una circostanza da cui questo fatto potrebbe es- sere velato, cioè che i rapporti tra i fenomeni, per la spiegazione dei quali egli immagina delle essenze reali sconosciute, e di cui invalida la certezza come conoscenze generali, vengono classati, non tra i rapporti di sequen- za, ma tra quelli di coesistenza. Locke naturalmente ritiene, come tutti i filosofi che ammettono delle essenze reali sconosciute, che è impossibile di conoscere le cause e il modo reale di produzione dei fenomeni; e, siccome una legge che è impossibile di scoprire a priori è per lui, non solo incomprensibile, ma anche incerta, così alla incomprensibilità delle causazioni empiriche (sem- plici uniformità di sequenza) egli aggiunge inoltre la loro incertezza (1). Ora è su questa incomprensibilità e incertezza delle causazioni empiriche che volge, al fondo, l'agnosticismo e lo scetticismo di Locke : sono sovra- tutto le coesistenze tra le proprietà delle sostanze che Locke dichiara incomprensibili e incerte, ma queste pro- prietà sono, per la massima parte, delle potenze attive - 511 — (1; L. 2 e. 23 $ 28, 29, l. 4 e. 3 ^ 28, 29, ecc. -e passive (1), e le loro coesistenze, per conseguenza, delle causazioni. Del resto Locke ammette la teoria meccanica, e questa teoria non riconosce nella natura altre unifor- mità primitive che delle leggi di causazione. § 8. Condillac, In Condillac il principio della meta- fisica apriorista, che una conoscenza adequata del reale sarebbe una conoscenza razionale, si complica con la dottrina psicologica che già abbiamo incontrato in Leib- nitz, secondo la quale tutte le verità evidenti per se stesse, e, quindi, tutte le verità razionali, sono delle ve- rità identiche, o in linguaggio più moderno, analitiche (nella III parte vedremo come questa dottrina deriva an- ch'essa dalla sofistica naturale del nostro spirito). Con- dillac pensa, come Locke, che se delle leggi delle cose noi abbiamo soltanto una conoscenza sperimentale, e non razionale, e perchè l'essenza delle cose ci è scono- sciuta. « Poiché mi è noto con evidenza ciò che sia triangolo, ne comprendo la natura, l'essenza, ed in que- sta posso scoprire tutte le proprietà di tal figura. In egual modo se conoscessi la natura ed essenza dell'oro, in essa scoprirei tutte le di lui proprietà. Il peso, la dut- tilità, o proprietà che esso possiede di essere ridotto in qualunque forma, e quella anche di resistere al martello, ecc., non sarebbero che la di lui essenza medesima o natura, che si trasformerebbe, e che in queste sue va- riazioni mi presenterebbe differenti fenomeni; ed io po- trei scoprire tutte le proprietà per mezzo d'un raziocinio ehe non sarebbe altro che un seguito di proposizioni tra loro connesse e della stessa natura (cioè indentiche). Ma non lo conosco in questo modo . . . Quando sopra un corpo stabilisco più proposi- sioni egualmente vere, in ciascuna affermo lo stesso (1) L. 2 e. 21 $ 2, e. 23 § 7-10, 37, v. 31 ^ 8, 13, e. 32 § 24, I. 3 e. 9 § 13, e. 11 $ 22, 1. 4 e. H $ 10, ecc. — 512 — dello stesso : ma non comprendo alcuna prova reale (cioè alcuna ragione puramente logica) ed identità del- l'una con l'altra. Quantunque il peso, la duttibilità, la malleabilità apparentemente non siano che una cosa stessa che si trasforma in diverse maniere, tuttavia non lo vedo. Così per mezzo deWevidenza di ragione non po- trei ottenere di conoscere questi fenomeni ; io non ho di essi conoscenza che dopo averli osservati ; e la cer- tezza che ne acquisto la chiamo evidenza di fatto » (1). La scienza assoluta, se essa fosse accessibile all' uomo, consisterebbe in un sistema di proposizioni puramente razionali, dedotte da una prima proposizione, la quale non sarebbe altra cosa che l'enunciato del principio d'i- dentità. «Se potessimo scoprire tutte le verità possibili, ed assicurarcene d'una maniera evidente, faremmo un.i serie di proposizioni identiche uguali alla serie delle ve- rità, e per conseguenza vedremmo tutte le verità ridursi ad una sola » (2). « Se potessimo in tutte le scienze se- guire la generazione delle idee, e cogliere e vedere da per tutto il vero sistema delle cose, vedremmo nascere da una verità tutte le altre, e ritroveremmo l'espressione abbreviata di tutto quello che sapremmo, in questa pro- posizione identica : lo stesso è lo stesso » (8). La dottrina secondo la quale le verità evidenti per se stesse, o piuttosto che gli psicologi i quali non am- mettono la teoria dell'esperienza ritengono evidenti per se stesse, sono delle proposizioni identiche, alleata alla dottrina che una scienza adequata delle cose sarebbe una scienza a priori, arriva logicamente a questo ri- sultato, che tutte le verità (almeno le generali) sono iden- tiche, non solo le razionali, ma anche quelle di fatto. (1) Logica, parte 2. cjip. IX. (2) Jrte di ragionare, 1. S, e H. (;i) Arte di pensare, e. 10. 513 — In effetto, una verità a priori, se essa non è evidente per se stessa, deve esser dedotta da verità evidenti per se stesse, e questa connessione tra le verità, che i)er- mette di dedurle l'una dall'altra, è necessariamente essa stessa una verità evidente per se stessa (come osservava Locke, l'intuizione è necessaria a ciascun passo della dimostrazione). Per conseguenza, se l'evidenza intuitiva consiste nella percezione dell'identità delle idee, tutte le verità razionali sono identiche; perchè, se esse non sono intuitivamente evidenti, devono potersi dedurre da verità intuitivamente evidenti; ma queste sono iden- tiche, e la deduzione, facendosi in forza di un'evidenza intuitiva, stippone anch'essa l'identità tra le verità che si deducono l'una dall'altra; sicché dire: verità dedotte da verità intuitivamente evidenti, è lo stesso che dire: verità di cui si riconosce l' identità con verità identi- che (1). Ora se una scienza adequata del reale sarebbe un sistema di verità tutte razionali, e quindi identiche; queste verità non cesseranno di essere identiche, per la circostanza che noi non possiamo averne una conoscenza razionale, ma soltanto sperimentale; poiché questa cir- costanza, esteriore ed accidentale alle verità stesse, non potrebbe cangiare la loro natura. Di là la dottrina di Con- dillac che tutte le proposizioni (noi dobbiamo intendere le proposizioni scientifiche, cioè generali), sono delle equa- zioni, e consistono ad aifermare lo stesso dello stesso ('2). Questa dottrina, limitata alle verità razionali, sarebbe una semplice conseguenza della dottrina psicologica secondo cui le verità evidenti per se stesse sono fondate sull'iden- tità: ma essa si riattacca al principio della metafisica a- priorista, in quanto Condillac la estende anche alle verità, la cui evidenza è, non di ragione, ma di fatto. Come Con- (1) Cfr. CondiUac. Arte di ragionare, 1. 1 e. 1. (2) Logiea, 2. ]){irte. e. S. Lingua dei e tieoìi. 1. 1 e. H. ecc. 83 — 514 — dillac estende la dottrina che ogni verità è identica dalle scienze razionali alle scienze di fatto, cosi fa pure per la dottrina che l'inferenza, il passaggio da ciò che sap- piamo a ciò che non sappiamo, è fondata sull'identità tra il dato e l'inferito, fra ciò che sappiamo e ciò che non sappiamo, e che il metodo per giungere alla sco- perta di nuove verità consiste unicamente a sostituire runa all'altra delle proposizioni fra loro identiche. Que- sta seconda dottrina, applicata alle scienze razionali (le matematiche pure), è, come abbiamo detto, una conse- guenza della prima, perchè in queste scienze la con- nessione tra il preconosciuto e l'inferito è, secondo la teoria intuizionista (voglio dire la teoria che non am- mette l'origine empirica degli assiomi e le altre pretese verità intuitive), un'intuizione della ragione, e un' in- tuizione della ragione è, secondo la forma particolare della teoria intuizionista della quale parliamo, una ve- rità identica. Ma se del processo logico delle scienze razionali— quale egli lo concepisce secondo la sua teo- ria sulle verità razionali— Condillac fa l'unico processo logico d'ogni scienza in generale, assimilando il metodo delle scienze di fatto a quello delle matematiche pure; questa non è più una conseguenza della sua teoria psi- cologica sulle verità razionali, ma è un'applicazione del principio della metafìsica apriorista. Locke, dall' impos- sibilità di ottenere del reale una conoscenza razionale, concludeva l'incertezza delle proposizioni generali sul reale. Condillac ammette anch' egli quest'impossibilità, ma vuol salvare le scienze di fatto dall'incertezza a cui Locke le condannava. Ora, dal principio della metafisica apriorista segue che la certezza, tra le verità d'inferenza, non si trova che nelle dimostrate: cosi Condillac am- mette che tutte le scienze, anche le sperimentali, sono dimostrative, e quindi, giacche la dimostrazione è fondata sull'identità, che in tutte le scienze, anche nelle spe- — 515 — rimentali, l'inferenza— beninteso, l'inferenza rigorosa— è sempre fondata sull' indentità, in modo che passando dal noto all'ignoto, dal dato all'inferito, non si fa che passare dallo stesso allo stesso. Se il metodo dimostra- tivo sembra proprio esclusivamente delle matematiche, ciò è, secondo Condillac, non perchè le altre scienze non siano succettibili di dimostrazione, ma perchè le matematiche hanno sulle altre scienze il vantaggio di possedere dei segni semplici e precisi, ciò che solo rende possibili delle dimostrazioni evidenti. Le altre scienze potrebbero fare delle dimostrazioni altrettanto evidenti, se si desse loro un linguaggio altrettanto semplice e preciso (1). Leibnitz aveva avuto un pensiero simile, quando immaginava la sua caratteristica universale. Quest' assimilazione che fa Condillac del metodo delle scienze del reale a quello delle matematiche pure, dif- ferisce da quella fatta da Cartesio e gli altri filosofi a- prioristi propriamente detti, perchè Condillac non pre- tende, come questi, trasformare le scienze di fatto in scienze razionali; ma è anch'esso un risultato di questo sforzo, che è l'essenza della metafisica apriorista, di as- similiare la forina delle conoscenze delle connessioni dei fenomeni in generale alla forma delle conoscenze delle connessioni più familiari (forma a cui le conoscenze di- mostrative si avicinano più che le indultive). In questo xjaso, l'assimilazione non mira allo scopo primario della metafisica apriorista, quello di rendere comprensibili, di spiegare, le leggi dei fenomeni— perciò Condillac do- vrebbe trasformare le scienze sperimentali in scienze a priori—, ma solo allo scopo secondario, quello di elevare il grado della loro evidenza. (1) V. Logica parte 2. e. 7 e 8, Arte di ragionare l. 1 e. 1 e e. 8, 1. 3 e. 11, Lingua dei ealcoli. Oggetto dell'opera, 1. 1 <i, 5 e 16, ecc. 516 — 517 « '.<i' § 9. Z)' Alembert. «Le verità che in ciascuna scienza si chiamano principii e che si riguardano come la base delle verità particolari, non sono forse esse stesse se non che conseguenze molto lontane di altri principi più generali che la loro sublimità toglie ai nostri sguardi. In effetto tutti i principii delle nostre conoscenze, in fi- sica, per esempio, sono le proprietà più sensibili che l'osservazione ci scopre nella materia; proprietà che di- pendono esse stesse dall'essenza, e se posso esprimermi così, dalla costituzione intima della materia, che non conosciamo in alcun modo, e non perverremo mai a conoscere. I principii delle nostre conoscenze in meta- fisica quella scienza dello spirito) sono pure delle osser- vazioni sulla maniera in cui l'anima nostra concepisce o in cui essa è affetta; osservazioni che dipendono si- milmente dalla natura più ignota, se è possibile, di ciò che pensa e di ciò che sente in noi Noi non sappiamo, se posso esprimermi così, né il perchè né il come di niente; a questo come ed a questo perchè dovrebbero nondimeno risalire le nostre conoscenze, per innalzarsi sino ai veri principii di tutte le verità. . . Perchè vi ha qualche cosa V Terribile quistione, e di cui gli stessi filosofi non sembrano, se oso parlar così, abbastanza spaventati; tanto essa è propria, per poco che la considerino in tutta la sua profondità, a far loro perdere il coraggio in tutte loro ricerche. Atei e teisti, donnnattici e pirronici, tutti sono forzati ad ammettere almeno un solo essere che esiste; per conseguenza un essere che è sempre esistito ; e tutti si perdono in quest' abisso immenso. Se noi sapessimo perchè vi ha qualche cosa . noi saremmo verisinìilmente molto avan- zati per risolvere la quistione come tale e tal altra cosa esistef Poiché verisinìilmente tutto è legato nell'universo più intimamente ancora che noi non pensiamo; e se noi sapessimo questo primo perché, questo perché sì imba- razzante per noi, terremmo in mano il capo del filo, che forma il sistema genale degli esseri, e non avremmo più che a svilupparlo e, per dir così, a svolgerlo senza pena, per conoscerne tutte le parti, invece di strapparne, come facciamo, alcune particelle isolate, che ci lasciano in una io'uoranza intera su tutto l'insieme e sul vero posto che esse vi occupano » (1). Perchè vi ha qualche cosa? è la quistione della me- tafisica apriorista a cui risponde la prova ontologica dell'esistenza di Dio (2); e questa prova, come abbiamo osservato, può riguardarsi come il primo principio del sistema di Cartesio, e, in ultima analisi, di quelli degli altri metafisici aprioristi dei quali abbiamo parlato. Quantunque d'Alembert non sia un caposcuola, ho vo- luto riportarne questo brano, perchè esso mostra d'una maniera sensibile come, in una fase della storia del pen- siero poco inclinata alle avventure metafisiche, l'ideale della conoscenza restava, al fondo, quale l'avevano con- cepito Cartesio e gli altri pensatori più arditi dell'epoca precedente.— Poicliè siamo a d'Alembert, osserverò pure su di lui che, come Locke, egli non trova la conoscenza realee la certezza che nelle verità dimostrate, cioè ottenute per il semplice paragone delle idee: dove manca la luce della dimostrazione, non vi ha per lui che il crepuscolo della probabilità e della congettura (3). vS 10. Hame. Quantunque la definizione di Hume della causalità sembri escludere la causalità efficiente e non lasciare che le semplici sequenze invariabili, tut- tavia la sua dottrina costante è, non che non esistono cause efficienti, ma che esistono, e noi non possiamo conoscerle. In tutti i suoi scritti Hume ammette che (1) Schiarimenti sugli eleni, di filos. IH. {2) Cfr. § 6. (8) V. Princ. della eonose. uni., e. V. — 518 — se, in fatto di causalità, le nostre conoscenze si ridu- cono alle sequenze costanti dei fenomeni, ciò è una prova della sfera stretta delle nostre conoscenze, dei limiti del nostro intendimento ; che le vere cause pro- duttrici dei fenomeni non sono gli altri fenomeni a cui essi seguono invariabilmente, ma delle forze e delle potenze che noi non possiamo conoscere ne concepire; e che, nelle cause empiriche, la capacità a produrre gli effetti dipende da una circostanza sconosciuta che si trova in queste cause, e che, se fosse sconosciuta, renderebbe ragione dei loro effetti, mentre attualmente il come della produzione di questi effetti è misterioso e inintelligibile. Il concetto di Hume della causa efficiente è quello della metafisica apriorista : il carattere distintivo tra la causa efficiente e 1' antecedente di una sequenza invariabile è, che mentre il rapporto tra questo e il suo conseguente non può conoscersi che per 1' esperienza, al contrario- il- rapporto tra la causa efficiente e il suo effetto sarebbe conoscibile apriori. Hume pensa, come Locke, che se, per la conoscenza delle leggi dei fenomeni, siamo ridotti air esperienza, ciò è perchè non possiamo conoscere- l'essenza delle cose (1). Il principale argomento con cui egli prova che, in ogni effetto della natura, il potere che lo realizza ci resta sconosciuto, e che la causa' em- pirica non è una causa efficiente, è che non si potrebbe mai dedurre, a priori, l'effetto dalla causa. Nel 4. Sag- gio, 1. parte, dopo aver mostrato che non vi ha un sol caso assegnabile in cui la conoscenza del rapporto che vi ha tra la causa e l'effetto possa essere ottenuta apriori, egli ne conclude che è impossibile di «asse- gnare le prime causefosse anche di una sola delle operazioni della natura», di «svelare in un solo effetto prodotto dalle (1) V. Tratt. della nat. um., Introd. - 519 — cause che l'universo racchiude, l'azione della potenza produttrice », di « comprendere questo legame indissolu- bile.e inalterabile che si suppone tra la causa e l'ef- fetto». Sul principio del 7. Saggio dice: «Alla prima vista d' un oggetto, non potremmo indovinare V effetto che ne deve risultare; tuttavia, se il nostro spirito scoprisse il potere e l'energia delle cause, noi dovremmo non solo indovinarlo, ma prevederlo anche senz'espe- rienza, per la sola forza del ragionamento, e pronun- ziare su di ciò con certezza. > E passando dall'esame delle azioni degli oggetti esteriori a quello degli atti volontari, confuta l'opinione che la coscienza percepisca il potere o V energia (efficienza causale) della volontà, per la ragione * che V influenza delle volizioni sugli organi corporali è un fatto conosciuto per esperienza, come tutte le operazioni della natura,e che non si avrebbe mai potuto prevedere questo fatto nell' energia della sua causa; » che noi non potremmo, indipendentemente dall'esperienza, conoscere i limiti dell'impero della volontà sugli organi, e rendercene ragione; che, se sen- tissimo il potere primordiale della volontà, dovremmo conoscere per ciò stesso il suo effetto immediato (che non è il movimento voluto, ma un altro, non sappiamo quale, di cui il movimento voluto è l'effetto ultimo). Il sentimento dello sforzo che noi facciamo per vincere una resistenza, non può darci l'idea di forza o di potere, perchè * noi sappiamo per esperienza ciò che risulta da questo sentimento, ma è impossibile di saperlo a priori ». Infine, noi non percepiamo nemmeno il potere efficace della volontà nell'influenza ch'essa esercita sul corso delle nostre idee e sulle nostre facoltà mentali, perchè in questo, come negli altri avvenimenti naturali, « l'os- servazionee l'esperienza sono le sole guide che abbiamo* : è per la sola esperienza, p. e., che possiamo scoprire i limiti dell' impero che 1' anima ha su se stessa, come — 520 — di (inolio che essa ha sul corpo, « non è ragionando nò per la contemplazione della natura delle cause e degli effetti » (1). (1) Hiiiiio ritinta la ((uaiità di verità a priori anche a qnelle cansa/ioni familiari da cni ci viene l'idea di cansalità efficiente: nna di «[ncste causazioni . cioè il movimento d' una palla per l'urto d'un' altra palla, è appunto uno dei suoi esempi favoriti ]>er mostrare che tutte le relazioni tra le cause e <i\[ effetti sono conosrinte per la sol» esperienza. Ora ([uesto fatto semhra in- compatibile con la nostra spiejjazione del principio che Hume ha in comune colla metafisica apriorista, cioè che il carattere delia connessione tr;i la causa efficiente e V effetto è la sua co- noscildlità a priori : secondo noi . (piesto ]>rincipio è un' indu- zione tirata dalle nostre esperienze sulle connessioni più fami- liari tra le cause e j^li effetti. Ora se Hume riconosce che queste connessioni sono conosciute dalla sola esperienza, come può in- ferire da esse che tutte le connessioni fra le cause (efficienti) e "li effetti devono essere conoscibili a priori ? Ma se si rifletterà al reale ]U"ocesso psicoloj^ico dell' inferenza di Hume, si vedrà che questa difficoltà non è che apparente. Prima di tutto bisogna fare una distinzione: l'inferenza immediata di Hume e <lei me- tatisi aprioristi non è clic i fenomeni devono avere delle cause produttrici . la connessione delle quali con j^li effetti sia una vonoacenzit <( priori . ma soltanto che questa connessione deve essere necessaria ed intrinsicamente evidente. Non è la stessa- cosa conoseenza a priori e verità intrinsicamente ecidente : 1' a- priorità ri«iuarda rori«;ine della conoscenza, e 8Ì,i;:nitìca che questa conoscenza non è originata dall'esperienza; l'evidenza intrinseca riguarda invece il motivo della credibilità della verità, e il sentimento «li questa evidenza accompagna la proposizione che si dii-e intrinsicamente evi«lente, anche dopo che la riflessione psicologica ha fatto riconoscere che la conoscenza di questa verità è dovuta all' esperienza. Se i metafìsici aprioristi, e Hume con essi, ritengono che le connessioni tra le cacse effi- cienti e gli effetti devono essere, non solo delle verità necessarie eà intrinsicamente evi<lenti, ma anche delle conoscenze a priori, 521 Alcuni credono che Hume abbia rigettato la causa efficiente, e abbia ridotto ogni causazione a una sem- plice sequenza costante. Quest'interpretazione si fonda sulle conclusioni del 7. Saggio; ivi egli si propone di fissare il significato dei termini potere, forza, energia. cioè non originate dall'esperienza, è perchè il sentimento della necessità e dell'evidenza intrinseca non si tnjva che- nelle co- noscenze a ]»riori o in quelle che il nostro s}Mrito è inclinato a credere tali. La difficoltà antecedente si ridnce dun(iue a questa : Ilume ha ric(niosciuto che alcune ùi (queste verità ac- coi»ipagnate dal sentimento della necessità e dell' evidcMiza in- trinseca sono delle conoscenze derivate dall'esperienza; jierchè allora esige che le causazioni efficienti, per cui egli non deve pretendere se non la condizione di essere necessarie ed intrin- secamente, evidenti, siano tutte «Ielle conoscenze inilipendenti dalla esjierienza i Inoltre, come va che egli esclude dalla classe •delle causazioni efficienti queste causazioni appunto che costi- tuiscono la ì»ase empirica dell' i<lea «li causazi«>ne efticiente ì Qui n«d siamo in presenza «Iella grande «lifficoltà «he. c«>me ab- biamo detto altra v«>lta, è il ])rincipale «)stacol«> che imp«Mlisce di com])ren<lere il vero processo ])sic«d«>gico per cui nasce e si sviluppa la nozione «li causa efficiente. Ma noi abbiamo già risolut«) questa diffic«dtà : abì)iani«) già si)iegato «iu«'st«) fatto l>arad«)ssastico — apparentemente incompatibile con «)gni spie- gazione empirica dell'origine della nozione di causalità efficiente— che le causazioni stesse, le «inali, secondo n«)i, «-«jstituiscono la base empirica d(^\V inferenza incosciente per cui ammettianu) il jn-incipic di causalità efficiente, cessano di sembrarci «Ielle cau- sazi«nii efficienti, e «li ventano incomjirensiìjili c«>me tutte le altre e tali da esigere una causazione reramcnte efficiente conu' in- termediari«> esjilicativo (vedi capit«d«> 4.) È questo fatto che si verifica in Hume : come la più parte «lei filosofi m«Ml«*rni . egli esclude dalla classe «Ielle causazi«)ni efficienti tutte le causa- zioni empiriche («piantun«iue la nozi«)ne di causazitnie efficiente non ha potuto venirgli che da alcune di «lueste causazi«»ni em- piriche) : e sicctnne la forma della necessità e dell'evidenza 522 legame necessario tra la causa e l' effetto ; e conclude che tutte le volte che noi parliamo di legame tra 1 a causa e l'effetto, noi non intendiamo altra cosa, oltre la sequenza costante tra due avvenimenti, che il legam'e tra le idee di questi avvenimenti costituito da una esperienza uniforme, per cui possiamo predire il secondo air apparizione del primo ; e che il rapporto che è tra la causa e 1' effetto non può essere considerato che di queste due maniere, e noi non ne abbiamo altra idea. Non vi ha dubbio che la conseguenza logica dì queste proposizioni non sia la dottrina che gl'interpreti di cui parliamo attribuiscono a Hume : ma, come abbiamo detto, Hume professa costantemente la dottrina contraria, cioè che le cause empiriche, quelle che non sono se non gli antecedenti a cui gli avvenimenti seguono costan- temente, non sono le vere cause produttrici di questi avvenimenti (1), e che l'efficienza causale, la connes- sione tra la causa e l'effetto, quantunque 1' esperienza non ce ne mostri alcun esempio, è qualche cosa di più di una semplice congiunzione (sequenza) costante tra due fenomeni. Le conclusioni del 7 Saggio, che paiono, e a rigor di logica sono, distruttive di ogni efficienza causale, sono in contraddizione con le premesse stesse su cui Hume le stabilisce. Nella I parte del Saggio, egli vuol provare che tutte le idee che l'esperienza può intrinseca (caratteri della oausazioue efficiente), oltre che nelle causazioni più familiari, che ej^li ha escluso dalla classe delle causazioni efficienti, non si trova (piasi esclusivamente che nelle verità a priori o che Hume ritiene ancora tali, così è in questa classe di verità che ej;li colloca le causazioni efficienti (s'intende nella supposizione che esse potessero diventare oggetti di co- noscenza). (1) Nel 4 Saggio, 1 parte, chiama le cause dell'esperienza pretese cause. — 523 darci della causalità si riducono a quella di una se- quenza costante : ora in questa dimostrazione egli sup- pone sempre che vi ha tra le vere cause produttrici e i loro effetti un legame più intimo che non sia quello di una semplice sequenza costante (legame che il pensiero potrebbe scoprire a priori nelle cause stesse, se potesse contemplare le vere cause), quantunque esso sia inac- cessibile air esperienza. « È invano che noi giriamo i nostri sguardi sugli oggetti che ci circondano, per con- siderarne le operazioni ; noi non siamo perciò più in grado di scoprire questo potere, questo legame neces- sario, questa qualità che unisce l'effetto alla causa, e rende l'una di queste cose il seguito infallibile dell'altra; noi vediamo ch'esse si seguono, ed è tutto ciò che ve- diamo. » «La scena dell'universo è soggetta a un can- giamento perpetuo; gli oggetti si seguono in una suc- cessione continua ; ma il potere o la forza che anima la macchina intera, si cela ai nostri sguardi. >^ Questa tesi, che 1' esperienza non e' istruisce mai del legame che rende inseparabili gli avvenimenti che si seguono; che il potere che realizza gli effetti, l' energia da cui essi procedono, non ci è mai manifestata ; che in tutte le operazioni della natura, il modo in cui esse si compiono è incomprensibile e misterioso; Hume la dimostra, esa- minando le azioni degli oggetti esteriori, quelle del- l'anima sul corpo e dell'anima su se stessa, e si riassume così: « Non pare che alcuna operazione corporale in parti- colare possa farci concepire la forza agente delle cause, o il rapporto ch'esse hanno coi loro effetti. Tutto ciò che le nostre ricerche più profonde ci scoprono su questo puntò, sono degli avvenimenti al seguito d' altri avve- nimenti. La stessa difficoltà ritorna, quando contem- pliamo le operazioni'dell'anima sul corpo : noi osserviamo il movimento al seguito della volizione ; ma il legame che li unisce, o l'energia che l'anima spiega nella pròdazione deireffetto, è ciò che non potremmo ne osservare né com|)rendere. L'impero dell'anima sulle sue proprie facoltà o sulle sue idee non è concepibile. Così tutto sommato, la natura non ci offre un solo esempio di legame da cui potessimo prendere 1' idea. Tutti g\ì av- veniuìenti sembrano essere scuciti e staccati gli tini dagli altri: essi si seguono, in verità, ma senza che osserviamo il minimo legame fra di loro : noi li vediamc», per dir così, in congiunzione, ma non mai in connessione». Ma tutto ciò è impossibile di metterlo d'accordo con la con- clusione di tutto il Sao'gio : se noi non abbiamo altra idea della connessione tra la causa e l'effetto che quella di una sequenza costante tra due avvcMiimenti, e del legame mentale empirico fra questi avvv'iiimenti che ci permette d'inferire l'uno dall'altro, Ihime dovrebbe vedere anche in connessione gli avvenimenti che egli non vede che in congiunzione, perchè essi si seguono costantemente, e noi |)ossiamo inferirli gli uni dagli altri; il potere che realizza gli effetti sarebbe manifesto tutte le volte che noi abbiamo costatato gli antecedenti a cui questi effetti seguono costantemente ; sarebbe inutile d'immaginare, per ispiegare questi eff'etti, delle cause sconosciute o un potere secreto nelle cause co- nosciute; ne si saprebbe, infine, perchè Hume neghi alle cause dell' esperienza il carattere di cause veramente produttrici dei loro effetti, per la ragione che da queste cause noi non potremmo inferire questi effetti a priori, ina soltanto dopo le lezioni dell' esperienza. Vi hanno dunque in Hume due dottrine distinte sulla causalità, la dottrina psicologica sull'idea di causalità e la dottrina ontologica sulle cause : la prima è la teoria empirista^ che riduce l'idea di causalità a quella di sequenza in- variabile; la seconda è la teoria metafisica^ che ammette delle cause, tra cui e gli effetti vi ha un legame più intimo che quello di una semplice sequenza invariabile. — 525 — Le due dottrine contraddicono l'una all'altra, ma Hume mantiene l'una e l'altra. E che egli non intende sacri- ficare la dottrina ontologica alla psicologica, si rileva anche dalle parole che seguono le proposizioni in cui egli stabilisce quest' ultima : « Vi ha un esempio più colpente della nostra ignoranza e della sorprendente debolezza dell'intendimento umano? Sicuramente se vi ha tra gli oggetti un rapporto di cui c'importa d'essere istruiti, è quello di causa e d' effetto Tuttavia talee l'imperfezione delle idee che ne abbiamo, che è impossibile di ben definire cosa è causa, senza imprestare questa definizione da qualche cosa di estraneo al soggetto. Gli oggetti similari sono sempre congiunti a degli oggetti similari; prima esperienza che ci serve a definire la causa : un oggetto talmente seguito da un altro oggetto, che tutti gli oggetti simili al primo siano seguiti da oggetti simili al secondo. La vista d'una causa conduce l'anima, per il suo passaggio abi- tuale, all'idea dell'effetto ; seconda esperienza che for- nisce una seconda definizione : la causa è un oggetto talmente seguito da un altro oggetto, che la prescìiza del primo faccia sempre pensare al secondo. Queste- definizioni sono prese tutte e due da circostanze estranee alla natura delle cause: è un inconveniente senza rimedio; non vi ha mezzo di pervenire a una definizione più esatta, e noi non potremmo determinare (juesta circostanza che lega le cause agli effetti. Non solo noi non abbiamo idea di questa connessione; noi non sap- piamo nemmeno ciò che desideriamo di conoscere, quando ci sforziamo di concepirla.» Questa contrad- dizione del resto, questa perplessità, non deve sorpren- dere in uno scettico come Hume. Uno dei caratteri dello scetticismo -- e segnatamente di quello di Hume — è l'opposizione tra le credenze naturali dell'uomo e i risul- tati della riflessione scientifica. Lo scettico non prende partito né per le une né per g^li altri, e nemmeno in- tende di conciliarli, quando vi ha contraddizione fra le une e gli altri : così, nella quistione del mondo esteriore, Hume ammette la credenza naturale che le cose materiali esistono per se stesse e sono indipendenti dai nostri sensi, e al tempo stesso la validità delle ob- biezioni dei fenomenisti (o, come sono detti ordinaria- mente, seguaci di Berkeley) contro questa credenza. Così fa pure nelle quistione della causalità : egli ammette al tempo stesso la credenza naturale delle cause efficienti, e la vera teoria psicologica suU' idea di causalità, che tende alla distruzione di questa credenza. Si potrebbe cercare di eliminare questa contraddi- zione di Hume, ammettendo che tutto ciò che egli dice delle forze secrete produttrici degli avvenimenti e di un legame tra le cause e gli effetti che é qualche cosa di più di una sequenza costante, sia, non il suo vero pensiero, ma una concessione che egli fa alle opinioni dominanti. Ma questo metodo d'interpretazione, che cer- cherebbe di eliminare le contraddizioni di Hume, arri- verebbe a una radicale trasformazione della sua tiloso- fia, in nn senso affatto contrario al concetto tradizio- nale che se ne ha, e al senso letterale delle sue propo- sizioni, su cui questo concetto é fondato. Si avrebbe al- trettanta ragione di vedere un semplice accomodamento alle opinioni dominanti, lontano dal vero pensiero del- l'autore, nelle proposizioni di Hume implicanti l'ammis- sione di un mondo esteriore indipendente, quanta se ne avrebbe di vederlo in quelle implicanti l'ammissione di cause efficienti distinte dai semplici antecendenti costanti dei fenomeni. E se nella quistione del mondo esteriore, si fa di Hume, non uno scetttico, ma un fè- nomenista, alla maniera di Stuart - Mill e di Bain, non si dovrà, se si vorrà essere coerenti, cessare di consi- derare come scettica la filosofia di Hume in generale? 527 - Questa è l'opinione a cui inclinerebbe Stuart - Mill (1); ma egli stesso confessa che sarebbe difficile di provarla d'una maniera decisiva. Io credo per me che si deve respingere come arbitraria ogn' interpretazione di un sistema filosofico, che presterebbe all'autore delle dot- trine contrarie a quelle che egli esplicitamente professa. Noi lasceremo dunque a Hume le sue contraddizioni, e ci terremo all' opinione tradizionale che lo considera come uno scettico. Ma quest'opinione deve essere rifor- mata nella parte che riguarda i motivi o la genesi di questo scetticismo. I metafisici hanno visto nello scetti- cismo di Hume una conseguenza del suo empirismo (2): ma gli sviluppi più recenti dell'empirismo mostrano che non vi ha fra di esso e lo scetticismo una connessione naturale. Hume é uno scettico, non perché egli è un empirista, ma perché il suo empirismo si ferma a mez- za via. Se, per esempio, egli é uno scettico nella qui- stione del mondo esteriore, é perchè non si risolve ad abbracciare la concezione rigorosamente empirista, il fenomenismo di Mill e di Bain, che risolve gli oggetti materiali in sensazioni e possibilità di sensazioni. Cosi ancora, se egli rende sospette tutte le conoscenze d'in- ferenza sul reale, non é perché rigetti, come gli rim- proverano i metafisici, le pretese verità a priori, ma perchè ammette i presupposti della filosofia apriorista. Per lui, come per i metafisici aprioristi, la vera cono- scenza é una conoscenza a priori (3), ciò che, come sap- piamo, è una conseguenza del principio che il legame (1) V. Filos. di Hamilton, o. 28 (trad. frane, p. 611). (2) V. fra gli altri Hegel Introd. alVEnciel., § 39, e Rosmini N, S. sulVorig. delle id., t. 1, sez. 4, cap. 3, art. 5. (3) Le « vere scienze », le « scienze propriamente dette », sono le dimostrative, cioè le matematiche pure (Saggio sulla filos. accad., verso la tìne). Hfmtm — 528 — tra le cause efficienti e <i;\\ eifetti deve essere conoscibile a priori. Di là il suo scetticismo sulle relazioni tra le cause e g\ì effetti dell' esperienza, e quindi su tutte le conoscenze d'inferenza sulle cose di fatto. Questo scetticismo è contenuto principalmente nel Sag-gio intitolato Dubbi scettici sulle operazioni deW in- tendimento umano. In questo Saggio e nel susseguente, Soluzione scettiche dei dubbi precedenti, Hume si propone di cercare quale sia il fondamento delle inferenze che facciamo sulle cose di fatto. Lo scopo diretto dell'autore è dunque di stabilire delle verità psicologiche: ma come lo indicano i titoli dei due Sag-gi, Hume vede nei risul- tati della sua ricerca dei motivi di scetticismo, sem- brandogli che il presu[)[)Osto ultimo, su cui eg'li trova che le inferenze sulle cose di fatto sono fondate, non ha buone ragioni che possano giustificarne l'ammissione. La 1. parte del Saggio Dubbi scettici ecc. stabilisce- che non vi ha alcun caso assegnabile in cui la cono- scenza del rapporto che è tra la causa e l'effetto possa essere ott(;nuta a {)riori, e che tutte le leggi della na- tura sono conosciute per la sola esperienza. Ciò posto, Hume si domanda nella 2. parte: Qual è la base su cui si appoggiano le inferenze che noi tiriamo dall' espe- rienza ? Perchè, dopo che noi abbiamo visto nel passato due fatti, che noi chiamiamo causa ed effetto, congiunti l'uno con l'altro, ci attendiamo ch'essi saranno ancora congiunti nell'avvenire, ed in tutti i casi, e inferiamo, dall'apparizione dell'uno, la presenza anche dell'altro? Questa quistione, siccome Hume crede che le forze produttrici degli effetti, le cause efficienti, sono scono- sciute, si traduce per lui in questi termini : Perchè a- vendo visto nel passato che degli oggetti, dotati di certe proprietà sensibili, hanno avuto la facoltà di produrre certi eff'etti, cioè che certe forze scerete sono state unite con certe proprietà sensibili, noi ci attendiamo, anche 529 — per l'avvenire, che gli stessi oggetti o altri oggetti do- tati delle stesse proprietà sensibili, avranno la facoltà di produrre gli stessi effetti, cioè che le stesse forze scerete saranno unite con le stesse proprietà sensibili? Non si vede alcun legame tra le qualità sensibili e queste forze secrete; «non si vede niente né nel colore né nella consistenza né nelle altre qualità sensibili del pane, che abbiamo la minima affinità con le facoltà di nutrire e di conservare; se vi si vedesse qualche cosa di simile, si sarebbe in grado d'inferire queste facoltà secrete dalle qualità sensibili dalla loro prima apparizione, e senza ricorrere all' esperienza, ciò che è negato da tutti i tì- losoff e smentito dal fatto. » Donde concludiamo dunque che le qualità sensibili e le forze secrete devono essere costantemente e regolarmente congiunte insieme? Si risponderà che lo concludiamo da ciò che le abbiamo trovate congiunte insieme nell' esperienza passata : ma perchè concludiamo dal passato all'avvenire, da ciò che abbiamo sperimentato a ciò che non abbiamo s])erimen- tato? Questa proposizione: io ho trovato sempre un tale oggetto seguito da un tale effetto, non è la stessa che questa : io prevedo che tutti gli altri oggetti che si ras- somigliano per le loro apparenze (per le loro proprietà sensibili) si rassomiglieranno pure i)er i loro eff^etti (o per le loro facoltà secrete). Il legame fra le due propo- sizioni non è percepito per un'evidenza intuitiva. Si cercherebbe d'altronde vanamente una ragione che po- tesse provare questo presupposto ultimo di tutte le no- stre inferenze sulle cose di fatto, cioè che 1' avvenire sarà conforme al passato, ciò che non abbiamo speri- mentato a ciò che abbiamo sperimentato. E per far ve- dere che non può esservi alcuna prova tale, Hume di- vide tutte le prove possibili in due generi : le diìuo- strative, e le induttive, eh' egli chiama con Locke ra- gionamenti probabili. Ora la dimostrazione non ha luogo — 530 - nel caso che noi consideriamo, perchè nell'opposto delle verità dimostrative vi ha ripugnanza, ma non ripugna in alcun modo nò che il corso della natura sia cangiato, ne che gli oggetti simili in apparenza (cioè per le loro proprietà sensibili' a quelli su cui abbiamo fatto delle esperienze, producano degli effetti differenti, e anche contrari! cioè abbiano delle forze scerete differenti, e anche contrarie). Tolti gli argomenti dimostrativi, non restano che gli argomenti induttivi o probabili; ma voler provare il principio che l'avvenire sarà conforme al passa- to, il non sperimentato allo sperimentato, per degli argo- menti probabili o induttivi, sarebbe commettere un cir- colo vizioso, perchè tutti ([uesti argomenti presuppon- gono ({uesto principio. Hume ha dunque stabilito questa verità psicologica e logica, che tutte le nostre conoscenze sulle cose di fatto derivano dall'esperienza; che il fondamento ultimo delle nostre inferenze sulle cose di fatto, il principio della uniformità del corso della natura, è una verità induttiva; che questa induzione, per cui dalla uniformità nel passato (o più generalmente nel già sperimentato) concludiamo all' uniformità nelT avvenire (o più ge- neralmente nel non ancora sperimentato), essendo il fondamento ultimo su cui si appoggiano tutte le nostre inferenze, non ha un fondamento ulteriore su cui essa stessa si appoggia. Sin qui Hume non è che uno dei più luminosi interpreti della filosofia dell'esperienza — e non potrebbe vedersi nella sua teoria che un solo di- fetto, cioè che egli non ha compreso che le inferenze delle scienze dimostrative, vale a dire delle matematiche, sono anch'esse empiriche, cioè induttive — : ma Hume crede inoltre che i risultati a cui egli è pervenuto sulla bas(» ultima delle nostre operazioni intellettuali, riguar- danti le inferenze sulle cose di fatto, siano propri a spar- gere il dubbio e il sospetto sulla validità di queste ope- 531razioni. Cosi egli dice: «L'esperienza del passato non deponendo che rapporto a questi oggetti dederminati e a questo tempo preciso di cui essa ha potuto giudicare, di qual dritto si può trasportarla ad altri tempi, e ad altri oo-P-etti, di cui la rassomiglianza coi precendenti potrebbe, a tutto prendere, non essere che apparente (la rassomiglianza nelle forze secrete potendo non cor- rispondere alla rassomiglianza nelle proprietà sensibili,? È questo il gran punto sul quale insisto. Il pane che io mangiava, è qualche tempo, mi nutriva: ciò torna a dire che un corpo dotato di tali qualità sensibili era allora provvisto di tali o tali virtù secrete; ma ne segue che altro pane deve nutrirmi pure in altro tempo, o che le stesse virtù devono sempre trovarsi con qualità si- mili? Non vi ha qui un'ombra di necessità. Almeno non si può impedirsi di convenire che questa conseguenza, questo seguito di pensieri, questa induzione, sono delle cose in cui non vediamo chiaro». E ancora: «Dacché vi ha il minimo sospetto che la natura può cangiare il suo corso, il passato cessa d'essere una regola per l'av- venire; l'esperienza perde ogni uso, e non può far na- scere alcuna conclusione. Così è impossibile ch'essa proviquesta rassomiglianza dell'avvenire al passato ; poiché essa non potrebbe impiegare prova che non la suppon- ga anticipatamente.. Io voglio che il corso della natura sia stato regolare sin qui : bisognerà sempre un nuovo argomento per dimostrare che continuerà ad esserlo. Invano voi pretendete avere studiato la natura dei corpi nel libro dell'esperienza: la loro natura nasco- sta, e per conseguenza la loro influenza e i loro effetti, potrebbero aver cangiato, senza che si fosse fatto alcun cangiamento nelle loro qualità sensibili : ciò accade qualche volta, e in alcuni oggetti; perchè non potrebbe accadere in ogni tempo, ed in tutti gli oggetti ? (Juale logica, qual seguito di ragionamenti, vi mette in sicurezza contro questa supposizione?» Oltre che da questi luoghi, lo scetticismo di Huiiie intorno alle inferenze sulle cose di fatto si rileva principalmente dal comincia- mento della II parte del Saggio Dubbi scettici, dal co- minciamento del Saggio susseguente, e, più chiaramente ancora, dalla parte del Sagyio sulla filosofia accademica che si riferisce alla quistione. Come abbiamo visto, le ragioni su cui questo scet- ticismo è fondato, sono : che le relazioni tra le cause e gli effetti non si conoscono a priori, e, che runiformità del corso della natnra non potrebbe essere dimostrata. Tutto ciò che Hume dice sull' impossibilità di provare questa uniformità si riduce a dire che essa non può es- sere provata dimostrativamente; induttivamente, essa è provata. Tutte le induzioni particolari implicano, come ben dice Hume, questa induzione generale; e oltre l'indu- zione, non vi ha altra prova che la dimostrazione: sicché cercare, com'egli fa, una prova che possri giustificare tutte le induzioni, tanto le particolari, (pianto la generale, è cercare una prova che non sia induttiva, per ciò necessa- riamente una prova dimostrativa; e concludere che la prova cercata non esiste, è concludere semplicemente che ciò, di cui si è cercata la prova, non può essere dimostrato. La conclusione scettica di Hume dunque suppone questa premessa non provata, ma ammessa come evidente per se stessa, che, per avere la certezza sarebbe necessario o che la connessione tra le cause e gli effetti si conoscesse a prio- ri (1) o almeno che la conformità dell'avvenire al passato, (l) Si (levo notare che lliinie. si domainla : Con i[ni\\ dritto aumiettianio che le stesse proprietà sensiìiili saranno senijn-e conjiiunte con le stesse forze secrete i ma non si «lonianda : Con <inal dritto aniniettianio inoltre ehe le stesse forze seerete pr.>- durranno sempre ^H stessi effetti t Ei^pnre se vi lianno ne-li a<»-enti tisici delle torzc^ ipertisielie da cui dii^-ndono i lt»ro ettV'tti, — 538 del non sperimentato allo sperimentato, potesse essere dimostrata. Questa premessa sarebbe impossibile a Hume di provarla — e a noi di confutarla, ma abbiamo il dritto di respingerla in virtù del postulato necessariamente im- plicato in ogni atto dell'intelligenza, che la conoscenza non è un'illusione, che si deve aver fede nel valore reale delle nostre facoltà conosciute — : essa è il risultato del sofisma a />/vor/ della metafisica apriorista. Per Hume, come per i metatìsici aprioristi, la co- noscenza adequata e la certezza non si otterrebbe che per r assimilazione della forma delle conoscenze delle connessioni dei fenomeni in generale alla forma delle co- noscenze delle connessioni più familiari. Quest'assimila- zione non sarebbe possibile che in tre ipotesi: 1. Che noi conoscessimo le cause effìdenti dei fenomeni, tra cui e i loro effetti noi vedremmo una connessione a priori. Sarebbe la conoscenza assoluta, che ci darebbe al tempo stesso la spiegazione completa e la completa certezza. La prima parte del Saggio, nella quale l'autore, dopo aver mostrato l'inqìossibilità di scoprire a priori il rapporto tra le cause e gli effetti, ne deduce che le cause effi- cienti ^ono inconoscibili, ha per oggetto di respingere que- sta l^Mpotesi. 2. Che noi conoscessimo a priori la coesistenza di tali qualità sensibili e tali forze secrete (di tali cause fisiche e tali cause effidentiy, in altri termini, che noi co- lon lo stesso dritto eoa cui Hume dnl»ita della coesistenza nni- forme tra proprietà scnsildli simili ne^^li agenti tìsici e forze se- eret^ simili. potreld»e anclic dubitarsi della relazi(nie uniforme tra forze secrete simili ed effetti simili. Ma Hume trova indn- bitahile che le stesse forze secrete protlurranno gli stessi effetti, perchè egli suppone che la relazione tra (pieste forze e i loro effetti sarehì»e conosciuta a priori, [uirchè conoscessimo (Queste forze: e il suo dubbio non si estende che alle relazioni tra le cause e gli effetti tra cui non vi ha clu* una connessione em l)irica. — 534 — iK^cessinio a priori che tali cause fisiche sono capaci dì produrre tali effetti, ma senza conoscere il meccanismo per cui li producono, cioè le cause efficienti. La cono- scenza allora non sarebbe assoluta come nella 1'^ ipo- tesi: rassimilazioue al tipo sarebbe meno completa; ma essa sarebbe ancora tanta da aversi, non solo la certezza, ma ancora in certo modo una spiegazione dei fenomeni. QuestMpotesi è respinta nella 2^^ parte del Saggio. 3^ Che si potesse almeno t^mo.sfmre che il corso della natura è uniforme, che l'avvenire somiglierà al passato, il non sperimentato allo sperimentato. In quest'ipotesi, non avremmo più una spiegazione dei fenomeni; l'assimila- zione al tipo non raggiungerebbe che lo scopo di ele- vare il grado di evidenza delle conoscenze sperimentali, che da induttive diverrebbero dimostrate (l' evidenza delle verità dimostrate somiglia più air evidenza tipo^ che è intuitiva, che quella delle verità induttive) — Ri- gettando queste tre ipotesi, Hume mostra l'impossibilità dell'assimilazione cercata, e quindi l'incertezza della conoscenza. Da ciò che è stato detto di Loche e di Hume, ab- biamo il dritto d' inferire che una delle sorgenti dello scetticismo — questo fenomeno dello spirito umano non meno naturale e costante della metafisica, eh' esso ac- compagna come il rovescio accompagna il dritto— è questa tendenza del nostro spirito, su cui è fondata la meta- fisica apriorista, per cui egli si sforza di assimilare la forma delle conoscenze delle connessioni dei fenomeni in venerale, alla forma delle conoscenze delle connessioni più familiari. Questa tendenza ha per risultato di pro- porsi (quantunque d una maniera più o meno incosciente) l'evidenza di queste ultime conoscenze come tipo unico a cui la certezza di tutte le conoscenze deve essere misurata. Una delle sorgenti dello scetticismo è il sen- timento dell' impotenza dello spirito a realizzare l'assi- — 535 milazione cercata, della disparità tra la conoscenza e l'evidenza a cui si perviene e la conoscenza e l'evidenza a cui si aspira. È verisimile che non vi sarebbe pes- simismo, se l'uomo non nascesse assurdamente ottimista: il pessimismo risulta dalla delusione di questa tendenza all'ottimismo innata al nostro spirito. Io non dirò che lo scetticismo risulta parimenti dalla delusione di questa tendenza naturale, se non innata, al nostro spirito, a cercare un' evidenza superiore a quella a cui può per- venire : il parallelismo non sarebbe esatto, perchè, se questo è uno dei motivi dello scetticismo, non è il mo- tivo unico. Gli altri motivi li incontreremo nelle parti seguenti di questo Saggio, poiché, come vedremo, le sor- o-enti da cui deriva lo scetticismo sono, al fondo, le stesse sorgenti da cui deriva la ìuetafìsica. § 11. Kant ha fondato tutto Tedifizio della sua Cri- tica sul principio che l'esperienza non può dare origine a proposizioni necessarie e rigorosamente universali (1). Questo principio — comune per altro a quasi tutti i psi- cologi che non ammettono la teoria dell'esperienza-è, nella parte che nega l'universalità rigorosa di qualsiasi proposione a posteriori, un prodotto della metafisica a- priorista, derivante dalla stessa sorgente da cui lo scet- ticismo di Locke e di Hume sulle conoscenze generali di origine empirica, con cui esso ha l'analogia più evidente. È per una conseguenza di questo principio che Kant esio-e che la conoscenza filosofica, la quale deve stabi- lire i fondamenti e i primi principii di tutte le cono- scenze, sia una conoscenza a priori, e che egli dà per- ciò come tale la Critica della ragion pura e tutte le altre parti della sua propria filosofia (2 . Questa preten- (1) Cvit. della rag. pura Introd. n. II. (2) Crit. della rag. pura, Metodologia e. 3. Per ciò che ri- — 53G sione (li Kant, che la sua filosofìa è un sistema di co- noscenze a priori, è, senza dubbio, infondata; il punto di partenza della Critica sono delle osservazioni sui giu- dizi, sui concetti, sulle intuizioni, ecc., cioè dei fatti dell'esperienza interna, e dei fatti g-cnerali, la cui ge- neralizzazione non può essere che un processo d'indu- zione. Ciò basta a provare che il metodo che Kant ha effettivamente seguito non è quel metodo interamente a priori ch'egli ha preteso di seguire; ma per confessare che i risultati a cui egli perveniva avevano per fonda- mento l'esperienza e l'induzione, Kant avrebbe dovuto o rinunziare alla certezza apodittica ch^egli reclamava per essi, o rinunziare al principio che l'esperienza non può dare delle conoscenze generali rigorose, Dei due scopi della metafisica apriorista, il prima, rio ch(» è d'introdurre tra i fatti dei legami razionaU e necessari, e il secondario che è di elevare il grado di certezza delle conoscenze, Kant non può avere di mira che quest'ultimo, quando egli reclama per la sua filo- sofia la qualità di scienza a priori: noi non potremmo attrilmir-li anche il primo, se non nel caso che egli si proponesse, ciò che non fa, di costruire, a priori, senza niente ammettere come dato, le leggi del soggetto co- noscente, e, in generale, le leggi dei fatti che formano l'ooo-etto delle sue ricerche filosofiche, come poi fecero i suoi successori a cominciare da Fichte. Tuttavia vi ha una parte dell'opera filosofica di Kant, in cui è evi- dente anche lo scopo primario della metafisica apriori- sta : sono gli FAementi metafisici della scienza della na- tura, guesti contengono una fisica i)um, una teoria della materia e del movimento realmente a priori, in cui non si accetta dall'esperienza che il concetto della o;nnnla la Ciitira (h'Ua ra-ionc pura . v. anche Prcfaz. alla 1 ediz. verso la mota, e Prefaz. alla 2 (mHz. vorso la tino. - 537 materia, come una estensione mobile ed impenetrabile: Kant vi segue il metodo geometrico, [)rocedendo per assiomi, definizioni e teoremi con la loro dimostrazione, e vi deduce a priori, oltre la sua teoria personale sulla costituzione della materia, il principio della conserva- zione della massa, il principio d'inerzia e le altre leggi del moviniento, e sinanche la legge newtoniana dell'at- trazione. ^ 12. Fichte, Schelling, Hegel. Tutti sanno clu^ que- sti filosofi rappresentano il periodo, per dir così, acuto della speculazione a priori. Bisogna però guardarsi -e la stessa osservazione conviene su per giù per tutti i metafisici aprioristi -dal malinteso di credere che questi filosofi fossero tanto assurdi da ritenere che per otte- nere la scienza essi potessero dispensarsi di consultare i fatti, e bastasse di contemplare i propri pensieri. Non si tratta, dice Schelling, di passarsi dell'esperienza, e di costruire la natura con semplici idee; perchè noi non sappiamo niente che per 1' esperienza ; ma si tratta di trasformare le conoscenze sperimentali in un sapere a priori, dandosi la coscienza della loro necessità raziona- le a;. Lo stesso press'a poco dice Hegel: La filosofia ha per punto di partenza l'esperienza, e il suo contenu- to non è che quello delle scienze sperimentali ; ma al contenuto di queste scienze essa dà la forma che le è propria, cioè la forma di conoscenza necessaria ed a priori (2). Su questi filosofi saremo brevi: noi supporremo * le loro dottrine conosciute — i pochi cenni che noi po- tremmo darne sarebbero inintellioibili per quelli che già non le conoscessero -e ci limiteremo a indicare il loro rapporto con la sofistica naturale dei nostro spirito. Ciò stesso, nel presente capitolo, non possiamo farlo che (1) fntroduz. alla filoa. della natura. (2) Introduz. aWeneu'lop. § 12. - 538 d'una maniera incompleta, e anticipando sul seguente; la suddivisione della metafisica apriorista, di cui queste dottrine fanno parte, appartenendo propriamente all'ar- gomento di quest'altro capitolo. La prima osservazione che ci si presenta su questi sistemi è il legame intimo tra la spiegazione idealista e il metodo a priori. Kant avea dato il suo idealismo per una risposta alla quistione : Com'è possibile la co- noscenza a priori ? Questa conoscenza è possibile, ri- spondeva Kant, perchè è il pensiero che dà le leggi alle cose. I limiti della conoscenza a priori erano dun- que, secondo Kant, i limiti della parte che ha il pen- siero nella formazione del mondo dei fenomeni; e l'op- posizione tra r a priori e 1' empirico corrispondeva al- l' opposizione tra il soggetto e l'oggetto, tra la forma, ingenita al soggetto, e la materia, data dal di fuori. Nell'idealismo post - kantiano, caduto il dualismo del soggetto e r oggetto, della forma e la materia, ca- deva al tempo stesso la separa'.ione dei due domini della conoscenza empirica e dell'apriori; il dominio della pri- ma era assorbito in quello della seconda, come l'og- getto era assorbito nel soggetto. Tutte le leggi del mon- do reale noi possiamo leggerle, dice Fichte, nel nostro proprio pensiero ; la natura non ha mistero si oscuro, piega si nascosta, che non ci sia dato di penetrarvi, perchè le sue leggi le sono imposte dal nostro pensie- ro (1) D'altra parte, il carattere particolare dell' idea- lismo post - kantiano è ch'esso fa dell'attività logica del pensiero nel senso che abbiamo spiegato nel cap. 2.), la forza produttice di tutte le cose : donde segue che spiegare le cose, descrivere il meccanismo della loro produzione, è costruirle a priori. Cosi l'idealismo e l'a- (1) Destinai. delVnoìno. tiad. fniiic. di Barchou de Penhoen, 2 odiz. !>. 194 e 288. - 539 — priorismo sono, in questi sistemi, alternativamente prin^ cipio e conseguenza l'uno dell'altro; perchè, come il loro idealismo importa una costruzione a priori delle cose, cosi la possibilità di una assoluta conoscenza a priori delle cose importa, conformemente alla spiegazione di Kant dei giudizi sintetici a priori, un idealismo egual- mente assoluto. Se ora ci si domanda se, volendo spie- gare la formazione dei sistemi, bisogna derivare il loro Tdealismo dal loro apriorismo, o piuttosto il loro apriori- smo dal loro idealismo, risponderemo che non bisogna fare né l'una né l'altra cosa. Tanto l'idealismo, quanto l'apriorismo, hanno per questi filosofi un valore ciascuno per se stesso, e non come semplice conseguenza di un principio prestabilito: ciò che basta a provarlo è la possi- bilità di derivare direttamente tanto l'uno quanto l'altro dalle sorgenti generali dei concetti metafisici. Ciò che caratterizza la filosofia tedesca, dominante da Fichte ad Hegel, è, come disse Cousin, con l'approvazione dello stesso Schelling, che essa aspira a riprodurre nelle sue concezioni l'ordine stesso delle cose (1); in altri termi- ni che, per questi filosofi, come per Spinoza, l'ordine (^ la connessione delle idee sono identici all'ordine e la con- nessione delle cose. Per definire questa filosofia, alla nota generica della metafisica apriorista, che è la produzione della conoscenza per un metodo puramente deduttivo, bi- sogna aggiungere questa nota differenziale specifica, che lo sviluppo della dimostrazione corrisponde allo sviluppo stesso dell'essere, che la filiazione logica delle conoscenze rappresenta la filiazione reale delle cose stesse, che il mo- vimento o il progresso del pensiero, per cui si produce la conoscenza, è la riprodazione del movimento o del progresso delle cose per cui queste vengono prodotte. Questo metodo è espresso assai bene dalla parola co- (X) V. Schelling, Giud. sulla filos. di Coiisin. I. Metodo. ' ' — 540 — struzione : dimostrare mici cosa è costruirla^ far vedere il modo in cui essa è prodotta, perchè il principio che serve a dimostrarla, il prhicijyruni cognoscendi, è al tempo stesso il principio di cui essa deriva, ciò che la fa essere, il prindpiuTìi essendl. Il rapporto logico tra principio e conseguenza è identico al rapporto ontolo- gico tra producente e prodotto, e possiamo dire, tra causa ed effetto, purché ciò s'intenda con la riserva che tra le cause ed effetti, di cui si tratta, non vi ha una successione cronologica, ma soltanto logica. Conside- rando dunque i termini della serie logica che, per que- sti filosoti, costituisce il sistema della conoscenza e al tempo stesso dell' essere, come essenti fra di loro nel rapporto di cause e di effetti— ciò che, con la riserva suddetta, abbiamo il dritto di fare, perchè essi riguar- dano evi<lentemente i termini logicamente posteriori come prodotti dai termini logicamente anteriori — noi possiamo affermare che questa metafìsica, come ogni metafisica apriorista, suppone il principio che la connes- sione tra la causa (efficiente) e l'effetto è una connes- sione razionale e necessaria, che la ragiore può scopri- re a priori per il semplice paragone delle idee. Non trovando tra le idee altra connessione a priori, da po- ter servire alla formazione di un sistema, che la con- nessione tra il principio e la conseguenza nella dedu- zione, questi filosofi identificano questa connessione con quella tra la causa e l'effetto : ma perciò essi devono cercare il vero incatenamento causale, quello che può soddisfare il bisogno che ha lo spirito di conoscere le cause efficienti^ non nella serie fenomenale delle cause e degli eft'etti propriamente detti, ma in una serie ideale, in cui, tra ciò che produce e ciò che è prodotto, la suc- cessione sia non cronologica (non essendovi alcuna successione tale tra il principio e la conseguenza ob- biettivamente considerati), ma semplicemente logica. E ciò che noi chiariremo nel capitolo seguente. - 541 § 13. Per mostrare quanto si estenda 1' infiuenza del sofisma a priori della metafisica apriorista — ciò che è uno degli scopi di questa escursione storica — le dottrine di una filosofia più modesta non hanno per noi meno importanza, che gli audaci sistemi dell'idealismo tedesco. Beid ammette anch' egli che una conoscenza adequata delle leggi delle cose sarebbe una conoscenza a priori : se noi non possiamo averne che una cono- scenza empirica, è perchè l'essenza delle cose è inac- cessibile alle nostre facoltà. «Vi ha degli esseri creati che conoscono l'essenza delle cose, in modo da poter dedurne i loro attributi e la loro costituzione, ovvero questa conoscenza è la prerogativa esclusiva dell'essere onnipotente che le ha fatte? Noi 1' ignoriamo, ma ciò che è certo è ch'essa oltrepassa la portata delle facoltà umane. Noi concepiamo l'essenza di un triangolo, e da questa essenza possiamo dedurre le sue proprietà : ma essa non è che un universale, e poteva essere concepita dalla mente umana, benché nessun triangolo indivi- duale fosse mai esistito. È solamente, come la chiama ^^ocke, un'essenza nominale, espressa da una definizione. Ma ogni cosa che esiste ha una essenza reale, che è superiore alla nostra comprensione, e perciò noi non possiamo dedurre le sue proprietà e gli attributi della sua natura, come facciamo rispetto al triangolo » (1). Non bisogna dimenticare che gii attributi delle sostanze consistono sovratutto, come diceva Locke, nelle loro })otenze attive e passive. Noi troviamo pure in Reid l'altro principio della metafisica apriorista, che la certezza assoluta non ap- partiene, tra le conoscenze generali, che a quelle ch(^ sono indipendenti dall' esperienza. Egli distingue due specie di evidenza : 1' evidenza dimostrativa e la pro- li) ^"^fiOO^ ^'^f^^' f^'^'-*>f*'^i*^ff" '^'».-iii<^ ^' *'• -• — 542 - babile. La vera scienza è la dimcstratìva : essa non volg-e che sulle idee astratte, che si concepiscono astra- zion fatta dell' esistenza delle cose (quali le idee dei numeri e delle figure). I legami e le opposizioni tra queste idee, le loro convenienze e disconvenienze, sono immutabili, e costituiscono delle verità necessarie, e che si ha avuto rag-ione di chiamare eterne (1). Male verità che non risultano dalla percezione della convenienza o disconvenienza delle idee, sono contingenti : esse sono soggette a limitazioni e restrizioni, perche dall' espe- rienza non possono risultare delle verità di una univer- salità illimitata. L'evidenza delle verità contigenti non è che probabile : p. e. V evidenza che le leggi della natura non hanno eccezione, e che esse saranno nel- r avvenire le stesse che sono state nel passato, non è dimostrativa, ma semplicemente probabile. Tutte le verità concernenti 1' esistente sono contingenti ; solo l'esistenza di Dio è una verità necessaria, cioè suscet- tibile di essere dimostrata (noi non abbiamo bisogno d'indicare il motivo di quest'eccezione) (2). Steirart af^enns. esplicitamente il principio cardinale della nuHafisica apriorista, cioè che il proprio del legame tra la causa efficiente e l'effetto è di essere necessario e conoscibile a priori (questi due caratteri, si sa, si ridu- cono ad un solo, perchè la necessità di un rapporto non |)uò significare altra cosa che il sc^iìtimento di ne- <5essità accompagnante l' idea di questo rapporto, e (1) Questo fatto, che i metafisici iioii accordano il titolo di eterne che alle verità necessarie ed a i)riori o pretese tali, ba- sterebbe ad indicare l' universalità, presso i metafisici, del pre- oimlizio che l'esperienza non può dare delle verità generali di una certezza assoluta. (2) V. S(tf/{/i sulle fae. mtellett.. Sa,u\nio (> e. ^, e. 5, e. <> ^Scsto. 2), Sajigio 7 e. 3, ecc. 543 — questo sentimento non accompagna che le verità a priori o pretese tali). Egli definisce la causa efficiente: una cosa che si suppone necessariamente legata con l 'effetto; e per appoggiare la proposizione che nelle ricerche fisiche non si ha mai in vista di scoprire « i legami necessari o le cause etficienti dei fenomeni, » cita dei luoghi di parecchi autori (Barrow, Locke, Hobbes, Bacone), i quali in realtà non dicono altro se non che il rapporto tra le cause e gli efietti è conosciuto per l'esperienza, e non mai a priori, supponendo cosi, come una cosa evidente per tutti, che il rapporto tra la causa efficiente e l" efietto deve essere conoscibile a priori. E ciò dei resto eh' egli dichiara in seguito esplicitamente con queste parole : « In effetto, se noi potessimo in alcun caso vedere la maniera in cui la causa (efficiente) pro- duce il suo effetto, noi saremmo in grado per ciò stesso di dedurre 1' effetto dalla sua causa ragionando a priori » (1 ). Galluppi ritiene anch'egli (e in ciò non fa che ade- rire all'opinione quasi universale dei metafisici) che la conoscenza della essenza delle cose trasformerebbe la conoscenza delle loro proprietà da empirica in a priori. Così dice : « Una scienza pura, cioè interamente a priori, dell' anima è impossibile, perchè supporrebbe la cono- scenza dell'essenza dell' anima, conoscenza di cui siam privi. Viceversa noi siam sicuri che ignoriamo l'essenza dell'anima, perchè siamo nell'impossibilità di stabilire sull'anima alcuna proposizione indipendente dall'espe- rienza » (2). Inoltre egli riguarda l'idea della scienza, quale 1' aveva concepita Cartesio, come l' ideale della conoscenza perfetta. «L'oggetto della filosofia è di spie- (1) V. Elen. della filos. dello spir. ntn., v. 1 e. 1 sez. 2 e nota C. (2) Siffftjio jìloH., t, 5 \n\v. 47. — 544 — gare l'esistenze, l'esistenze spiegabili sono l'esistenze condizionali. Queste non possono spiegarsi senza l'esi- stenza assoluta. Neil' idea di un condizionale io non trovo r esistenza : il giudizio che pronunzia sull' esi- stenza di un condizionale è dunque un giudizio sintetico, e per ciò sperimentale .... Ponendo 1' assoluto, io pongo l'esistenza, e con (questa prima esistenza spiego l'esistenze condizionali. Maio non conosco l'es- senza dell'assoluto; non posso perciò conoscere a priori l'esistenza dell'assoluto; e il mio giudizio, che pronunzia sull'esistenza dell'assoluto, è pure sintetico : per essere analitico (cioè a priori), io dovrei conoscere l'essenza divina. L'esistenza in generale è, in conseguenza, un dato per me, ed io la conosco a posteriori, non già a priori. Se potessi partire dall'assoluto, e far derivare da esso a priori tutte l'esistenze condizionali, io com- prenderei interamente la natura, e la mia scienza sa- rebbe perfetta ...... Noi non giungiamo al- l'assoluto, se non j)artendo dal condizionale, e siamo neir impotenza di vedere gli effetti nella loro causa prima; per tale ignoranza non possiamo comprendere e spiegare perfettaimnite la natura H geometra possiede una scienza esatta, perchè il suo metodo è interamente a priori : i suoi giudizi son tutti analitici, perchè egli conosce adequatamente l'essenze degli oggetti su di cui ragiona Il metodo del filosofo non può essere affatto lo stesso di quello del geometro; il primo non può pronunziare i suoi giu- dizi sull'esistenza delle cose, se non vi è condotto o immediatamente o mediatamente dall'esperienza; e in conseguenza noi non possiamo conoscere alcuna esi- stenza a priori, come avverrebbe nel caso ci fosse pos- sibile di dedurre l'esistenze condizionali dall'esistenza assoluta » (1). (1) Sti(/(/to fìlon.. t. ') par. 1>H. — 545 - Bosminl è nei sistemi degl' idealisti tedeschi (po- steriori a Kant) che vede idoleggiato 1' ideale della scienza assoluta. «Noi conosciamo, egli dice, imperfet- tamente le essenze delle cose, essenze che costituiscono l'oggetto delle nostre intuizioni; onde accade che non tutto quello che troviamo poi nelle realità sensibili, e che appartiene alla cognizione di predicazione (,1), si riscontri nell'essenza, sì che una parte di quest'ultima cognizione ci rimane priva di ragione, giacché ogni ragione sta nell' essenze Se un primo intelletto è la causa totale di tutti gli enti finiti, quel primo intelletto dee avere in sé il loro essere intelli- gibile, ossia la loro essenza non imperfetta e vota come quella dell' intendimento umano, ma adequata e reale anch' essa Chi potesse vedere • queste essenze delle cose, quali sono in Dio, conoscerebbe pienamente il mondo, senz'aver bisogno d'alcuna espe- rienza esteriore e d'organica sensitività; il che è quanto dire lo conoscerebbe, tutto quanto egli è, a priori ; la qual cognizione e costruzione del mondo reale a priori è il fastigio della sapienza, a cui tende senza posa la mente. Ma la mente umana, per la imperfezione, come dicevamo, con cui conosce le essenze, l'essere intelligi- bile del mondo, prende vie diverse. Ella si propone il problema, e fin qui nulla in lei v'ha di reprensibile. Ma il filosofo, prima di sapere se e come sia da lui solubile, facilmente ammette il pregiudizio, che sia solubile, e solubile direttamente: pregiudizio certamente antifilo- sofìco come tutti gli altri pregiudizi, pur tale che dà un grande titillamento al sao orgoglio. Mettendosi dunque al lavoro per trovare una soluzione diretta, egli, privo dei materiali a ciò necessari, supplisce col- r immaginazione; e così nacquero quei sistemi a priori (1) VA'v. Teos, 11 i)roì)l. «loU'ontolog.. e 1. 85 546 — che comparvero in Germania, tanto allettevoli per la sola forma ^speculativ^a; che anche la sola forma a priori alletta, benché imbottita d'immagini di nessun valore, perchè rende una cotal traccia di quella sapienza a priori che è propria della Mente suprema» (1). Mamiavi dice : « Tutti i giudizi percettivi e speri- mentali vestono la forma sintetica, per la ragione ge- neralissiina che V intimo essere delle sostanze ci è na- scosto e si può pensare che rimarrà sempre tale » (2). La conoscenza ddV intimo essere delle sostanze conver- tirebbe dunque i giudizi attualmente sperimentali e sintetici che noi possiamo fare sulle loro proprietà, in giudizi analitici o a ()riori (secondo Mamiani, come se- condo Galkij)})!, tutti i giudizi a priori sono anali- tici) (3).. ^, 14. Infine, noi dobbiamo segnalare la presenza del principio della metafisica apriorista in alcuni di questi filosofi contemporanei a cui ordinariamente si estende la designazione alquanto vaga di positivisti : basteranno i due seguenti, nei quali esso si mostra con gli svilup])ì più estesi. (1) Teosojìrt. liì». M. sez. H v. 1 art. 7. (2) Couipcììflio e siiiti'si della propria Filosofia, par. XVI. (8) L. Ft'.rri. (Stiffijio su lift storia della filos. in Italia al nei'. 10, t. 1 iK»«i. tOf) (\ altro v('.) attribuisce a Gioberti la dot- trina clic tutti i giudizi sintetici, tanto quelli a priori quanto quelli a posteriori, sono tali, perch^ l'essenza intima degli es- seri, da cui derivano i loro attributi, è impenetrabile : se la l'onoscessimo, noi ]>otremmo dedurne per analisi (j^uesti attri- l)uti, e tutti i giudizi sarebbero analitici. Gioberti, per (i[uel che 8Ì sai»pia. non ha mai esplicitamente formulato (|uest{i dottrina : ma essa [mtrebbc forse inferirsi da certe proposizioni di ({uesto filosofo, sovratutto da ciò che e<ijli dice \\q\V Introd . allo st. della Jilosof., e. 1. sulla <leducibilità dei concetti assolati e relativi dall'essenza dell' AVj^e e iU'Wcsistcitte e sui iiiudizi sintetici a jiriori assolati. (Milano 1850, t. 1 pag. 307-812). — 547 — Taine. La sua idea della scienza è la stessa al fondo che quella di Schellinge e di Hegel ^meno l'idealismo) (1). Egli definisce la causa : « un fatto da cui si può dedurre la natura, i rapporti e i cangiamenti degli altri » (2). Ma questi fatti, che egli chiama cause, sono dei fatti generali (riguardati come individuali), delle nozioni astratte realizzate; e il rapporto tra la causa e l'effetto si converte nel rapporto tra il principio e la conse- 2'uenza. Il les-ame invincibile delle cose, la forza attiva con cui ci figuriamo la natura, non è che la necessità logica che lega il principio alla conseguenza; e l'assioma di causalità significa che la conseguenza suppone il principio, e che ogni qualità e ogni esistenza ha la sua ragione in qualche termine anteriore (logicamente) e superiore (cioè più astratto) da cui può essere de- dotta (3). Noi ritorneremo sulla dottrina del Taine nel capitolo seguente : per ora aggiungeremo che secondo lui r universalità illimitata non può mai trovarsi nelle conoscenze sperimentali, ma solamente in quelle a priori (4). Spencer. La filosofia di Spencer è, come quella di Cartesio, una spiegazione meccanica dei fenomeni con la pretensione di stabilire a priori i principi! di questa spiegazione. La scienza deve essere, egli dice, « un aggregato organizzato di deduzioni dirette e indirette tirate dalla persistenza della forza» (5): la conoscenza filosofica è il sapere completamente unificato, e la unifi- cazione del sapere è compiuta, quando, dopo aver fuse (1) V. h'Intellig. eap. ult. in fine e Stor. della Ietterai, ingl., t. 4 e. 5 § II, Vili e e. 4 § II, IH. (2) / filos. eia ss. cap. idt. (8) Stor. della letterat. inyl.. t. 4 e. 5 § II, VII. (4) V. h'Intellig., pirte2. 1. 4 e. 2 § II, Vili, ihid. I-II, ecc. (5) Pr. prine.. par. IIK^. 548 gradatamente le generalizzazioni più ristrette della scienza in generalizzazioni di più in più larghe, le più larghe di tutte vengono dedotte da una verità ultima, che è il principio della persistenza della forza (l). In quanto a questo principio, esso non è un risultato del- l'induzione, ma un dato a priori della coscienza, un'in- tuizione della ragione ; e noi dobbiamo ammetterlo, non perchè esso sia provato dall'esperienza, ma perchè la sua negativa è inconcepibile : in effetto concepire che la forza non sia persistente, che la sua quantità totale diminuisca o aumenti, sarebbe concepire che qualche cosa divenga niente e niente divenga qualche cosa, ciò che è in)possibile (2). Per la loro derivazione da una verità primitiva necessaria ed a priori, le ge- neralità della scienza sono anch' esse delle verità ne- cessarie ed a priori, e la filosofia è una sintesi razionale, una costruzione dei fenomeni. Conformemente a (juesta teoria della conoscenza, Spencer deduce dnlla persi- stenza della forza, oltre nlle leggi del movimento (o) e al principio della trasformazione ed equivakmza delle forze (4), la indistruttibilità della materia (5), l'unifor- mità del corso della natura (persistenza delle relazioni tra le forze) (G)^ il principio che il movimento è sempre ritmico (7), quello che esse segue sempre la linea della più grande trazione o della minore resistenza o la ri- fi) Pr. fji'inr,., \yd\\ S7. ('fi*. ])ar. 1!)2. (2) Pr, pi ine. \r,iv. 7^\)-iV2. Vh'. par. r)S. jiar. M, par. 04, par. 7S. (3) V. Pr. princ. ^ .")♦), 57. Si e Siuji/l di tuor., di sr. e d'estet. Ohhiez, ni primi princ. v risp. S. r Conclusione. (4) 7V. princ. ^ 7S. (5) Pr. princ, ^ ."ìS-ói. (6) Pr. prine., ^ H3-f)5. (7) Pr. princ, % SS. 549 sultante delle due (l); infine, le leggi che, secondo lui, necessitano revoluzione (l'instabilità dell'omogene o (2), la moltiplicazione degli effetti (3), la segregazione (4), a quindi anche V evoluzione stessa (5), requilibno., suo termine inevitabile (6), e la dissoluzione dopo 1' equi- librio (7). La presenza nella materia delle forze di at- trazione e di ripulsione, e le leggi dell'azione di queste forze, benché non si derivino dal principio della persi- stenza della forza, sono anch' esse considerate come verità riecessarie^ (la cui negativa è inconcepibile) e in- dipendenti dall'esperienza (8). Sembra che il vero principio primo di questa serie di deduzioni che, secondo Spencer, deve costituire l'or- ganismo della scienza, sia per lui, non il principio della persistenza della forza, ma la massima che l'es- sere non può venire dal niente né ridursi in niente. E in realtà è da questa massima che Spencer deduce il suo preteso principio intuitivo. In effetto questa mas- sima è stata considerata, sin dai primordi della filo- sofia, come un principio assiomatico; mentre è un fatto evidente dell'esperienza interna che la legge della per- sistenza della forza — considerata almeno come la sem- plice espressione dei rapporti costanti di successione dei fenomeni -- non può essere riguardata come una verità evidente per se stessa. Ma Spencer non considera il principio della persistenza della forza come una sem- (1) Pr. princ, % «SI. (2) Pr. princ, § 155. (8) Pr. princ, % IH2. (4) Pr. princ, § l(>i). (5) V. Pr. princ, § 147 e 189. («) Pr. princ, % 176. (7) V. Pr. princ, % 190. (8) V. Pr. princ. § 74 (cfr. § 88) e § 18. — 550 — plice espresBÌone dei rapporti dei fenomeni : questa forza^ di cui la persistenza è un dato a priori della coscienza, è, secondo lui, la forza iperfenomenale, la realtà assoluta di cui tutti i fenomeni sono la manifestazione (1). Con- siderando, come fa Spencer, la forza come una sostanza (e non come la semplice attitudine che hanno ì corpi a modificare lo stato di riposo e di movimento degli altri corpi), la deduzione della legge della persistenza della forza dal principio che T essere non può essere creato uè annichilato, diviene meno forzata, non solo, ma la deduzione stessa viene dissimulata, V intervallo che vi ha tra il principio e la conseguenza svanisce, la conseguenza si confonde col principio. La forza es- sendo una realtà, anzi la sola realtà che esista vera- mente, la proposizione che afferma la persistenza della forza equivale alla proposizione che afferma che la quantità della realtà è immutabile, che l'essere consi- derato nella sua totalità non può avere né accresci- mento ne diminuzione (2). Di qui si vede che anche nel sistema di Spencer, come in quello di Cartesio e degli altri metafisici aprioristi di cui sopra abbiamo parlato, la serie delle deduzioni riposa sopra una base metafisica, che in lui è la sostantificazione della forza; e si vede inoltre che, come abbiamo detto, il principio della persistenza della forza — quale legge scientifica relativa ai fenomeni — non è, in questo sistema, il prin- cipio veramente ultimo, ma una conseguenza del prin- cipio ulteriore, che l'essere (la realtà assoluta che è il sustrato di tutti i fenomeni) non può avere ne comincia- mento nò fine (3). Sull'origine delle affermazioni intuitive che, se- (1) Pr, princ, § f>0-62. (2) Sufjfji di morale ecc. v. 8. Obbioz. sui primi ju-inc. e ri- sposte. Conclusione. (3) Cfr. cap. V § 8 sulla line e Saggio i e. IX. — 551 — condo Spencer, costituiscono la base della scienza, troviamo in lui due dottrine diverse. Nei Primi PriU' cipii egli considera certamente il princijuo della per- sistenza della forza come una verità a priori nel sen- so tradizionale della parola (1) : invece in altre o[)e- re (2^ considera questo e gli altri principii assioma- tici come a priori per l'individuo ma a posteriori per la specie, cioè dovuti all' accuinulaziane e trasmis- sione organica delle esperienze avitiche. La differenza tra le due dottrine è senza inìi)ortanza per la quistione se il sistema di Spencer sia costruito sul tipo della fi- losofia apriorista. L' essenza di questa filosofia sta nel metodo : essa ha per og-getto, come abbiamo tante volte ripetuto, di stabilire tra i fenomeni dei legami ufces- sari e razionali^ e, per quest'oggetto, la condizione è che il metodo della scienza sia deduttivo, e che il punto di partenza della deduzione siano dei princi[)ii ammessi come verità evidenti per se st-^^.-se e necsssarie. Nel sistema di Spencer, questa condizione e esattamente adempiuta : egli fa derivare le generalità della scienza da principii assiomatici, che, secondo lui, è impossibile di provare induttivamente (8), e non hanno altra prova che la loro evidenza intrinseca; e a questi principii attribuisce l'inconcepibilità della negativa, che è il piìi alto grado di necessità che noi possiamo immaginare. La quistione: come il nostro spirito si trova in possesso di questi principii? sono essi delle acquisizioni empiriche o delle necessità primordiali del pensiero V è una qui- (1) V. Saggio 1 e. IX \\. 2 a pag. 505. (2) V. Psicol. % 480, 488, 208, ecc.. e Saggi di inorale ecc. Obbiez. e Risp. n. 8. 0 e conclusione. (8) Lo Spencer insiste sa «{uest'iinpossibilità in tutte le sue opere, anche in ([nelle in cui spiejia l'oriiiinc delle conoscenze assioniaiiche per l'eredità delle esperienze. V. Saggi di mor. ecc., 1. e. — 552 — stioue che intere5?sa la psicolog-ia, ma non il metodo filosotìeo. In (juaiito al rapporto dell' apriorismo di Spencer con la ricerca delle cause efficienti, si presenta la stessa difficoltà che si è a*ià presentata per Cartesio, Male- branche e Leihnitz. Le cause veramente produttrici dei fenomeni non sono, per Spencer, altri fenomeni, ma delle cause ultrafenomenali sconosciute e inconoscibili. Per ((uesto filosofo vale naturalmente la stessa risposta che per gli altri; i legami razionali e necessari ch'egli stabilisce tra i fenomeni possono chiamarsi causazioni efficienti, ma solo nel senso tecnico che noi diamo al termine, cioè in quanto questa forma necessaria e ra- zionale è modellata sulla forma delle conoscenze che per il nostro spirito costituisi'ono (d' una maniera in- cosciente) il tipo della causazione efficiente. Se al di là delle cause efficienti fenomenali lo Spencer ammette altre cause efficienti più degne di questo titolo, questo fatto, oltre che è una conseguenza della sua teoria sul mondo esteriore, che ci accorda la conoscenza, non delle cose in sé, ma solo dei loro fenomeni (apparenze), si spiega pure per la natura stessa della soluzione che la filosofìa apriorista dà del problema delle cause effi- cienti. Al b'isogno del nostro spirito di conoscere le cause, questa filosofia non dà che una.soddisfazione in- completa, direi quasi piuttosto un simulacro di soddi- sfazione che una soddisfazione reale: questa non po- trebbe ottenersi che seguendo lo slancio spontaneo del nostro spirito, che costituisce la metafisica istintiva dell'uomo, e che tende a spiegare tutti i fenomeni, ri- conducendoli alle sequenze che ci sono le più familiari. Solo una tale spiegazione sarebbe completa, radicale (nel senso metafisico della parola spiegazione) : ogni altra necessariamente lascia ancora nelle cose spiegate deìV incomprensibilità ; e a (juesto fenomeno suhhiettivo — 553 - si dà, lo sappiamo, un valore obbiettivo, interpretandolo come un limite della conoscenza. Al suo scopo primario, che è di stabilire tra i fatti dei rapporti razionali e necessari, la filosofia apriorista aggiunge, come sappiamo, uno scopo secondario, quello d'introdurre nel sistema delle conoscenze sul reale l'è- videnza matematica, dimostrativa. E ciò di cui Spencer ci dà un esempio nella sua dottrina del postulato uni- versale. Questo è che ogni proposizione di cui non pos- siamo concepire la negativa deve essere vera : esso è implicato in ogni atto dell'intelligenza, ed è per esso che si o'iustificano le premesse ultime delle nostre conoscenze da cui tutte le altre dipendono. Lo stesso postulato giu- stifica pure il legame che riattacca le conoscenze deri- vate alle primitive-, sicché l'inconcepibilità della nega- tiva è il criterio unico della verità (1). Per questa dot- trina la filosofìa di Spencer è nell'opposizione più radicale con la filosofia dell'esperienza, la quale inibisce di am- mettere una cosa senza prova, e non riconosce nell'e-videnza intrinseca (spesso illusoria) d'una proposizione un criterio sufficiente della sua verità. È vero che se si prende l'inconcepibilità della negativa nel senso stretto, bisoana convenire che noi siamo forzati ad ammettere la verità delle proposizioni in cui essa si trova: è una fatalità del nostro pensiero, a cui sarebbe impossibile di sottrarsi. Ma nel senso stretto, rinconcepibilità della ne- gativa non si trova mai nelle proposizioni concernenti, come diceva Hume, le cose di fatto, cioè l'esistente, la realtà: essa non si trova che nelle proposizioni così dette analitiche, e in generale nelle affermazioni che non im- plicano altro che delle percezioni di somiglianze e di differenze. Ma non appartiene all'argomento di questo (1) V. PsieoL Analisi generalo, e. IX, XI, XII. CtV. Stuart- Mill, Loij.. l. 2 e. VII. u ^ 'f — 554 capitolo di fìiì^eutere la validità del criterio di Spencer e i limiti della sua applicabilità (1) : qui dobbiamo sol- tanto costatare il fatto che, elevando l'inconcepibilità della negativa a criterio unico della certezza, lo Spencer fa, come gli altri aprioristi, dell'evidenza matematica (cioè intuitiva o dimostrativa) il tipo unico di ogni evidenza. (2) (1) V. su ciò. Saggio I e. IX. (2) QuantuiKiiie lo scopo di questo capitolo non sia di fare una rivista «•cuerale di tutti i tilosoti che hauuo aiumesso il principio della uietatisica apriorista, pure io credo di dover fare menzione d'un altro tra i })iù illustri tilosoti contemporanei, rHartiuauii. Egli risolve la realtà in due elementi costitutivi, la Volontà e l'Idea. La Volontà è releniento illogico, il cui carattere è l'indeterminazione, il libero arbitrio, che talvolta va sino ad in- dentiticare con l'azzardo: ma l'iblea è governata, nella sua evolu- zione, da una necessità logica, la cui legge è il principio della logica fornuile, cioè il i>rincipio d'identità e di contraddizione. È que- sta necessità logica che determina, a ciascun momento, la som- ma delle Idee che l'ormano il cinitenuto della Volontà : ma il come del mondo, a ciascun momento, non è che il contenuto ideale realizzato dalla Volontà; il come del mondo e dumiue, a ciascun momento del processo, determinato da una necessità logica. 11 mondo e nella sua esistenza un atto continuo di Vo- lontà ; ma il processi» t(»tale <lel mondo ò nel suo contenuto un processo logico. In altri termini, che a un momento dato il mondo esista, ciò dipende da un atto della Volontà : ma che esso esista così, che si producano tali fenomeni, ciò dipende dall' Idea, e quindi dalla necessità b)gica che determina il suo sviluppo, (V. Filos. deirineosciente, v. 2., Gli ultimi principii III). Questa spiegazione del mondo di Hartmann è dunque, da una parte, come quella di Hegel e dei suoi predecessori, una spie- gazione idealista, che assimila all'attività logica del nostro pen- siero la forza produttrice di tutti i fenomeni; e dall'altra parte è, come questi stessi sistemi idealisti, una spiegazione apriorista, che incatena i fenomeni coi legami della necessità logica (che lega al principio la sua conseguenza). Bisogna notare, nondi- 555 § 15. Prima di terminare questo capitolo, dobbiamo ricordare un'altra manifestazione della filosofia apriori- sta, la quale, quantunque non sia un'applicazione siste- matica dei processi di questa filosofia alla spiegazione universale della natura, è tuttavia anch' essa una con- seguenza del suo principio. I matematici, non meno che i filosofi, per istabilire i principii fondamentali della mec- canica, preferiscono spesso alle prove realmente convin- centi, cioè quelle dei fatti, dei ragionamenti sofistici, ma che si danno l'aria di essere degli argomenti dimostra- tivi. Adottare in meccanica, dice d'Alembert, un prin-cipio che sia di verità puramente contingente (che non sia una verità necessaria) «minerebbe la certezza della meccanica, e la ridurrebbe a non essere più che una scienza sperimentale» (1). «Un vero fisico non ha più bisogno dell'esperienza per dimostrare le leggi della mec- canica e della statica, che un geometra di regola e di compasso per assicurarsi che ha risoluto un problema difficile » (2). Fra questi ragionamenti a priori per provare le leggi della meccanica, ve ne ha una classe che merita un'at- tenzione particolare : sono quelli fondati sul principio che i matematici chiamano della ragion sufficiente. Per esempio, per dimostrare la prima legge del movimento, cioè che un corpo, una volta mosso e abbandonato a se stesso, continuerà a muoversi uniformemente in linea meno, che la spiegazione di Hartmann si allontana dal tipo di una spiegazione rigorosamente apriorista, per ({uesf elemento d'indeterminazione che la Volontà introduce nel processo del mondo : il come del mondo e, a un momento dato, necessario, di una necessità logica ; ma l' esistenza del mondo, a questo mo- mento, è invece contingente, dipendendo dall'elemento illogico, dal libero arbitrio della Volontà. (1) Prine. della eonosc, XVI. ^2) Prine. y XX. 556 — retta, si dice che, se non fosse cosi, il corpo dovrebbe deviare sia a destra sia a sinistra, ma non vi ha alcuna ra- o'ione perchè esso devii in un senso piuttosto che in un altro. Archimede si serve pure dello stesso ragionamento, per istabilire a priori alcune ]jroposizioni fondamentali della statica. Così egli stabilisce che, se si sospendono dei pesi uguali alle due estremità di una bilancia, in cui tutto sia uguale da una parte e dall'altra, il tutto re- sterà in riposo, perchè non vi ha alcuna ragione perchè un lato discenda piuttosto che l'altro. L'argomentazione fondata ^\\\ principio della ragion sufficiente sembra a Mill tanto importante, ch'egli fa di questo principio uno dei sei generi di sofismi a priori ch'eo'li enumera. Io non voglio contestare alla massima che ini fatto di cui non possiamo immaginare una ra- o-ion sufficiente, cioè una ragione che spieghi il fatto (nel senso metafisico della parola spiegazione), non può esi- stere, il titolo di sofisma a priori. I ragionamenti, i)er vui i filosofi aprioristi pretendono dimostrare le leggi del realf, non hanno tutti lo stesso grado di plausibilità: mentre alcuni sono evidentementi artificiali e forzati (spesso sino al punto che è assai difficile di comprendere ciò che potrebbe chiamarsi la iovz^ probante del sofisma, c-ome accade, per esempio, per molte deduzione di Hegel), ve ne hanno invece altri (quantunque in minor numero) a cui lo spirito aderisce senza sforzo, e come per un'in- clinazione naturale. Questi ultimi, quando sono dovuti, non ad un errore accidentale, ma ad una disposizione comune dello spirito umano, possono chiamarsi dei so- fismi a priori— come tutti i sofismi a priori, sono delle induzioni incoscienti, che il nostro spirito ha una ten- denza, più o meno grande, ad ammettere come delle ve- rità intuitivamente evidenti — . Ma, in ogni caso, il vero sofisma a priori, il pregiudizio che ha esercitato un'in- tìuenza decisiva sul filosofo apriorista, è quello che costituisce la base stessa della filosofia apriorista : è esso che persuade di negligere la prova dell'esperienza, che infine è quella per cui lo stesso filosofo apriorista si è reso certo della verità, e di preferirle un altro genere di prova, quantunque non ugualmente convincente. Quer st'osservazione vale anche naturalmente per le pretese- dimostrazioni matematiche dei principii della meccanica. Ve ne hanno di plausibili — come quelle che abbiamo in- dicate e le altre simili che xAlill dà per esempi del suo 3*» genere di sofismi a priori (il principio della ragion sufficiente)— ma ve ne hanno altre (e in più grau nu- mero) il cui carattere sofistico è evidente. Ecco, p. e., come un filosofo dimostra che, se un corpo in moto ne incontra un altro in quiete, il prinìo comunica al secondo una porzione del suo moto, e la porzione che perde il corpo urtante è uguale a quella che acquista il corpo urtato. (Prima ha, dimostrato che « niun corpo può darsi il moto che non ha né distruggere quello che ha», ma vi ha bisogno, per cangiare lo stato di riposo o di mo- vimento d'un corpo, di una causa esterna ~ principio che è, egli dice, un'applicazione del principio più ge- nerale della causalità—) «È necessario che il corpo in moto o spinga innanzi il corpo urtato o non lo si)inga innanzi: nel primo caso se.il corpo urtante non comu- nicasse porzione del suo moto al corpo urtato, quest'ul- timo passerebbe da se stesso dallo stato di quiete a (jucllo di moto, il che è contrario al principio enunciato (cioè che niun corpo può darsi il moto che non ha ecc.); nel se- condo caso se il corpo urtante non comunicasse alcun moto al corpo urtato, e ciò non ostante si ponesse in quiete, distruggerebbe il moto che ha, il che è anche contrario al principio enunciato r> (1). (Ma non è evidente che nel primo caso, quand'anche il corpo urtante non (1) G:illu]»i)i, Sauijìo filoaofieo. t. H par. i)0. — 55S — perdesse niente del suo moto, il corpo urtato si muove- rebbe, non spontaneamente, dando a se stesso, come dice l'autore, il movimento che non ha, ma per l'azione di una causa esteriore? e che nel secondo caso se il corpo urtante si fermasse senza che il corpo urtato acquistasse alcun moto, il corpo urtante non si fermerebbe da se stesso, distrug-gendo, come dice l'autore, il moto che ha, ma sarebbe fermato da una forza esterna?) Ma il grado maggiore o minore di speciosità di queste pretese dimo- strazioni è un punto secondario : la speciosità dell'ar- gomento non è mai, in alcun caso, il motivo unico che lo fa impiegare. E ciò di cui lo stesso Mill conviene, quando, a proposito degli esempi del suo terzo genere di sofismi a priori, dice: «D'ogni tempo i geometri si sono esposti al rimprovero di voler provare i fatti più gene- rali del mondo esteriore per mezzo di ragionamenti so- fistici, per evitare di appellarne alla testimonianza dei sensi». Ora è questa tendenza generale che importa il più di spiegare : perchè un argomento a priori, quan- tunque meno convincente, e spesso patentemente sofi- stico, si preferisce alla prova empirica, che è la sola ca- pace di determinare realmente la convinzione, e quella che l'ha effettivamente determinata nello stesso autore? Ciò avviene evidentemente perchè, mentre la prova em- pirica mostra semplicemente che la cosa è cosi (che vi ha una tale uniformità di sequenza), l'argomento a priori sembra inoltre proprio a mostrare che la cosa deve essere necessariamente cosi, e a rispondere in un certo modo alla quistione del perchè. Se è ai fatti della meccanica che il metodo dimostrativo è stato di preferenza appli- cato, ciò non è soltanto perchè, come è stato osservato (1), 1 matematici trasportano nella trattazione delle matematiche applicate le abitudini intellettuali contratte nello studio delle matematiche pure. Bisogna anche tener pre- sente un'altra considerazione, cioè che le leggi fonda- mentali della meccanica sono, tra le leggi conosciute della natura, le sole che siano ritenute come primitive, anzi è da esse, secondo la concezione prevalente nella filosofia moderna, che tutte le altre leggi della natura de- rivano. Tra le leggi fondamentali della meccanica, quelle delle azioni a distanza (che, secondo una delle forme della concezione meccanica del mondo, sono anch'esse delle leggi primitive) sono state, è vero, raramente di- mostrate con ragionamenti a priori : è che le numerose ^ discussioni sulla possibilità dell'azione a distanza hanno stabilito la convinzione generale che queste leggi (sup- posto che non possano ricondursi ai fenomeni dell'urto) sono inintelligibili e ribelli a qualsiasi tentativo di spie- gazione. (1) P. e. (la Stewart, Ehm. della fil. dello spir. nni.. voi. H e. 2 sez. 4 ii. 'S. ttmittmuiammmmm imiìw iiuiiaieeeaeafcgaBgaa^^jì^.: Appendice al cap. VI. § 1. Noi abbiamo sin (jiii considerato il metodo a priori, in ([Uanto esso ha per oggetto di dare una si)ie- o-azione dei tenonieni, come una delle forme sotto cui si realizza il concetto di causalità efficiente: ma è evi- dente che questo metodo non si applica esclusivamente», alle relazioni tra le cause e gli effetti. L'importanza in- comparabilmente superiore di (jnesta classe di relazioni non deve farci perdere di vista che gli altri rapporti tra i fenomeni sollecitano anch'essi dalla metafisica una spiegazione. Come lo spirito umano non è pago di aver costatato che tal fenomeno segue invariabilmente tal altro fenomeno, ma domanda inoltre perchè deve se- guirlo ; così esso non e pago di aver costatato che tal fenomeno accompaf/na invariabilmente talaltro fenome- no, ma cerca inoltre una ragione che faccia compren- dere la necessità di questa congiunzione invariabile. La spiegazione metafìsica, noi lo abbiamo visto al sog- getto delle cause efficienti, presenta due tipi generali che sono due modi distinti di assimilare tutti i fenomeni a quelli che ci sono i più familiari : V uno— è la meta- fìsica istintiva dello spirito umano — fa dei ra|)[)orti più familiari tra i fenomeni l'intermediario esplicativo di tutti gli altri ; 1' altro cerca invece di spiegare h». rela- zioni generali dei fenomeni assimilando la loro fornia^ :5(> 1 562 - 563 — quali oacretti della conoscenza, a quella che è propria delle |)iù familiari tra (jueste relazioni. Sarebbe inutile di considerare a parte il primo di (|uesti due tipi di spieo-azione nella sua a|>plicazione alle relazioni distinte dalle causali ; siccome non vi hanno, al di fuori dei ra[)})orti di se(|uenza, altri rap])0rti tra fenomeni che sembrino capaci di servire iV intermediario esplicativo universale (conica per esempio i fenomeni dell' urto e dall'azione volontaria), le spiegazioni della metafìsica istintiva non si riferiscono g-eneral mente che alla ricerca delle cause (^ftìcienti. Ma il secondo tipo di spiegazione metafìsica, (juando si a]»plica alle relazioni distinte dalle causali, è indipendente dalla quistione delle cause ef- ficienti, perchè esso non cerca che di trasformare i rap- porti generali tra i fenonìeni, quahuniue sia la specie di questi rapporti, da sem})licenìente positìci e contbì- geììti in razionali e vvceniiari. Il presupposto, su cui è fondato il metodo a priori, è, come abbianìo detto, un' inferenza incosciente, per cui la fornìa (U^lla conoscenza di tutti i rapporti gene rali dei fenomeni viene assimihua alla forma della co- noscenza dei più familiari tra questi rapporti. Come dal g'ran numero delle nostre esperienze di causazione noi concludiamo ehe tutti \ fenomeni sono sottomessi alla legge di causalità, cosi da ciò che le causazioni più familiari che noi abbiamo sperimentate — per conseg'uenza la parte |)iù considerevole della somma delle nostre e- sperienze di causazione -si sono presentate alla nostra coscienza coi caratteri della y?ece.s.9/7^Ì! e dell'evidenza in- trinseca, razionale, noi concludiamo che (piesti carat- teri devono ritrovarsi in tutte le causazioni. È inneo-a- bile che noi facciamo (juesta conclusione, perchè l'uomo ha la credenza istintiva che ogni fenomeno ha una causa efficiente le non semi)liceniente un antecedente a cui esso segue invariabilmente), e il carattere rigorosamente comune a tutte le nozioni che lo spirito umano si è fatto della causa efficiente — sia che l'abbia concepita come fenomenale o come ultrafenomenale, come conoscibile o come inconoscibile, sia che nel concepirla si sia con- formato alla sua tendenza più spontaiuia, che è di ele- vare a tijio universale le causazioni più familiari, o a quella meno spontanea, che è di elevare a tipo univer- sale, non queste stesse causazioni familiari, ma la forma che è loro propria quali oggetti della conoscenza — il carattere rigorosamente comune, dico, a tutte ({ueste nozioni, è che trrv la causa e 1' effetto deve esservi un le^^ame necessario e di un'evidenza intrinseca, razionale. Ed è ugualmente innegabile che questa credenza ap- parentemente istintiva deve essere una g-eneralizzazione di esperienze di causazioni, le (inali ci sono state date con questi caratteri che costituiscono la nostra nozione di causalità efficiente: senza di ciò, Tidea di causalità efficiente sarebbe inesplicabile al punto di vista della teoria dell'esperienza. Ora, le nostre esperienze di cau- sazione non costituiscono soltanto le premesse di que- st' induzione, che tutti i fenomeni sono sottomessi alla leo-o-e della causalità: esse costituiscono inoltre, unite alle altre esperienze di relazioni uniformi tra i feno- meni, le premesse di quest'induzione i)iù g-enerale, che tutti i fenomeni sono sottomessi a relazioni uniformi. E, della stessa maniera che da ciò che i fatti più fa- miliari di causazione— per conseguenza, come abbiamo detto, la parte più considerevole della somma delle no-stre esperienze di causazione — si sono presentati alla nostra coscienza come necessari e razionalmente evi- denti, noi concludiamo che tutte le causazioni devono essere necessarie e razionalmente evidenti; da ciò che i fatti più familiari di causazione e tutti gli altri fatti .egualmente familiari di rapporti uniformi tra i fenomeni si sono presentati alla nostra coscienza come necessari e raziouanionti evidenti — ciò ehe è un risultato della ripetizione estremamente frequente delle esperienze di ciascuna specie di <iuesti rapporti — noi concludiamo pure che tutti i rapporti uniformi dei fenomeni in uenerale devono essere necessari e razionai menti evidenti. Ne segue che la metafisica cerca di trasformare, da j>ura- niente positive (cioè anunesse solo sulla fede dell' espe- rienza) e contingenti (cioè tali che la suj)posizione del contrario è perfettamente concepibile), quali esse sono per la scienza, in razionali e necessarie, non ié sole lei>-i!i di causazione, ma tutte le leiz'u'i dei fenomeni in generale; in altri termini che il metodo a priori viene applicato, egualmente che alle causazioni, a tutte le altre uniformitcà della natura. g 2. Il più notevole tra i concetti derivati dall' ap- plicazione del principio della metaiisica apriorista alle uniformità della natura in generale, è la suj)posizione che vi ha in ciascuna cosa (cioè in ciascuna specie di cose; un che di fondamentale . wu'rsseìfza, (h\ cui tutte le proprietà defila cosa derivano e possono dedursi (o almeno potrebbero dedursi, se qiu^sV essenza fosse da noi conosciuta). Le proprietà che costituiscono ciascun ge- nere di esseri che noi conosciamo, ci sono date. [)er dir COSI, come scucite e staccate U) une dalle altre. Noi non vediamo j)erchè ad un' estensione iuìpencHrabih» è con- giunta l'inerzia, la gravità, ecc., come anche la capa- cità di ])resentare, in certe circostanze, i fenomeni della vita, e in certe altre, quelli del sentimento e del pen- siero; noi non vt^liamo pcM'chè alla Hgura esteriore par- ticolare ad un animale è costantementt' unita una certa orii'anizzazione intcn-iore e delle facoltà psichiche deter- minate. Queste diverse proprietà non hanno le une con le altre una^connessione che ci sembri necessaria e di un' evidenza intrinseca, razionale. Ma, secondo il pre- supposto che i rapporti uniformi dei fenom(Mii devono — 5G5 essere necessari e di un' evidenza razionale . tra le di- verse proprietà che costituiscono ciascun genere di es- seri dovrebl>e esservi una connessione necessaria e ra- zionale; per conseguenza, data una i)ro[)rietà del genere, o queir insieme di ju'oprietà che è sufficiente a distin- guere il genere dagli altri, tutte le altre proprietà del genere dovrebb(M'o i)oterne essere dedotte. Cosi, siccome tra le proprietà mostrate dall'esperienza, non troviamo questa proprietà o conq)lesso di proprietà distintive, da cui tutte le altre possano dedursi, ne concludiamo che la proprietà o le ])roprietà distintive, da cui tutte le altre potrebbero dedursi, non sono oggetti della nostra esperienza : sono (jueste proprietà fondamentali scono- sciute, le (piali si sup])one che, se noi le conoscessimo, basterebbero a darci a priori la conoscenza di tutte le altre, che noi chiamiamo (cioè che i metafisici chiamano) V essenza della cosa. Nel capitolo ch(^ pr(;cede, noi ab- biamo considerato la dottrina, che vi ha per ciascuna sostanza un' essc^nza sconosciuta, dalla quale, se fosse conosciuta, potremmo dedurre tutte le proprietà della sostanza, come una consegùe.nza del principio della cau- salità efficiente, perchè la maggior parte delle jjroprieta delle sostanze sono, come dice Locke, delle potenze di aa'ire e di patire, e la dottrina su|)pone che la cono- scenza delle essenze ci farebbe comprendere perchè tali sostanze siano dotate di tali potenze, in altri termini come tali cause abbiano una, connessione razionale e necessaria con tali efletti : ma è evidente che, per essere esatti, noi avremmo dovuto considerare questa dottrina come una conseguenza, non del principio di causalità efficiente, ma del principio più generale che tutte le connessioni uniformi tra i fenomeni devono essere ne- cessarie e razionali, perchè non tutte le proprietà che attribuiamo alle cose si rapportano unicamente al loro modo di agire e di patire. Quando ci si dice che, se noi - 5GH — conoscessimo l'essenza della materia, noi comprenderem- mo perchè essa è inerte, perchè è grave, ecc., perchè è capace, in date circostanze, di vivere, di sentire, di pen- sare ; siccome questi e altrettali attributi non indicano che le potenze attive o passive della materia, noi pos- siamo vedere in (jucsf afterinazione una semplice con- seguenza del principio che gli eff'etti devono avere con le loro cause una connessione razionale e necessaria. Ma quando Reid dice che ogni cosa che esiste ha un'es- senza, dalla quale, se essa non fosse superiore alla no- stra comprensione, noi potremmo dedurre le sue pro- prietà e gli attributi della sua natura, noi non possiamo vedere in quest' attermazione generale che una conse- guenza di un principio avente una generalità uguale, cioè del principio cln», tutti i rapj)orti costanti tra i fe- nomeni devono essere razionali e necessari. Il concetto deW essenza dei metafisici moderni può sembrare a primo aspetto assolutamente opposto a quello dei metafisici antichi: in effètto, mentre per i primi l'es- senza d'una cosa è ciò che vi ha in essa di j)iù occulto e di più impenetrabile, per i secondi invece l'essenza era ciò che vi avea nella cosa di [)iù notorio, e che co- stituiva la nozione stessa di questa cosa. Non di meno fra questi due significati della parola essenza, con le dottrine che essi implicano, vi ha un legame naturale, e il concetto modcn-no deriva incontestabilmente dall'an- tico. Il fondo comune dei due concetti è 1' idea (impie- gando le espressioni di Hume sui rapporti tra le cause e gli effètti; che tra le diverse proprietà di un genere non vi ha semj)licemente conf/i unzione ^ ma anche con- nessione, in modo che, data l'una, le altre potrebbe es- serne dedotte, se questa proprietà primitiva fosse cono- sciuta. I logici, la più parte almeno, distinguono, come tutti sanno, due sorta di definizioni, quelle di nome e 5G7 — quelle di cosa. La definizione nominale, si dice, non fa conoscere che il senso del nome, mentre la definizione reale fa conoscere la natura stessa della cosa definita. Cosi l'essenza d' una cosa era, secondo i logici peripa- tetici, r insieme degli attributi che costituivano la de- finizione reale della specie a cui questa cosa a])parte- neva. Io non discuterò il valore della distinzione delle definizioni in nominali e reali; osserverò semplicemente— ciò che non potrà, credo, incontrare opposizione - che possono distinguersi due classi di defiiìizioni, di cui chiamerò le une comjdete e le altre incomplete. Chianio completa una definizione che conq)ren(ie tutti gli attri- buti primitivi, che sono comuni agli oggetti apparte- nenti al genere definito; e chiamo incompletii una defi- nizione che comprende, non tutti questi attributi comu- ni, ma solo quanti sono sufficienti a distinguere il ge- nere definito da tutti gli altri. Per attributo priniitivo poi intendo quello che non è la conseguenza di (lualche altro attributo: per esempio esser terminato da tre linee rette è un attributo primitivo del triangolo, ma avere la somma degli angoli uguali a due retti non è un attri- buto primitivo, perchè può dimostrarsi che una figura terminata da tre linee rette deve avere questa proprietà. La definizione del triangolo, del cerchio, delTellissi, e, in una parola tutte le definizioni geometriche, sono complete, perchè esauriscono tutti gli attrilmti ])rimitivi comuni agli oggetti appartenenti a ciascun genere de- finito. Ma la definizione: l'uomo è un animale ragio- nevole, è una definizione incompleta^ |)erchè non com- prende tutti gli attributi primitivi comuni agl'individui del genere umano, ma solo (pianti sono sufficienti a di- stinguere questo genere da tutti gli altri. Se alcuno, per conservare la distinzione tradizioìiale delle defiiìizioni di nome e di cosa, volesse chiamare ^// casa le complete, e eli nome le incomplete, io credo che potrebbe farlo — r)()S — senza iin]>ropri(?tn, i)erchè una detinizione completa ta co- noscere la natura o l'essenza della cosa definita, queste parole nafara o essenzci di una cosa non potendo indicare altro, ([uando veng'ono prese in un senso non metafisico j ma positivo, che la totalità deg'li attributi, conosciuti e co- nosciì)ili, di (juesta cosa (i primitivi). Non tutte le specie sono suscettibili di detinizioni complete^ come quelle delle figure geometriche. Le specie e i generi deg'li oggetti naturali — per eseìnj)io l'uomo, V animale, V oro, ecc. — possiedono un gran ìuunero di attributi tutti egualmente, a quanto sembra, primitivi, e di cui alcuni sono ancora sconosciuti : si potrebbe fare una collezione di tutti cjuelli che sono conosciuti, ma questa collezione si chia- merebbe una descrizione e non una detinizione, [)erchè ]>er (h^Hnizione s'intende una breve formula, una pro- posizione*, e d' altronde, (|uand'anche si chiaiìiasse de- finizione, non sarebbe una definizione che spiegherebbe la natur(( o rss^nzcf della cosa, perchè nìanclierebbero gli attributi non ancora conosciuti, (o almeno non si sarebbe mai sicuri che la cosa non lia, oltre gli attributi enunu'rati, degli attributi sconosciuti i, i quali fanno parte anchessi della natura o essenza della cosa. Ma i ])eripatetici ammettevano che anche di queste specie e generi, aventi un gran nunun-o di proprietà indipen- denti, a (juanto pare a noi, le une dalle altre, possono darsi delle definizioni, come noi diciamo, coììiplete^ cioè delle detinizioni che esauriscono 1' essenza della cosa definita. Tali definizioni doveaiKì essere costituite, come tutte le altre, dal genere prossimo (a cui la specie de- finita era subordinata^ e dalla differenza specifica: una sola difl'erenza doveva bastare, non semplicemente a distinn-uere la cosa definita da tutte le altre, ma a far conoscere e svilupjìare la natura di questa cosa. Come [)Otevano essi credere che la natura d' una COSI, per esempio l'uomo, avente un si gran numero di proprietà fisiche e mentali, potesse riassumersi in una formula sì breve? È che mentre noi rit(;niamo (juesto gran nuiirero di proprietà come tutte egualmente pri- mitive, i peripatetici credevano invece che di primitive non ve ne potevano essere se non tantci quante erano necessarie per distinguere la specie: fra tutte le pro- prietà appartenenti in proprio alla specie definita (cioè non comuni alle altre specie del genere f)rossimo) una sola era, secondo essi, primitiva, ed era questa che, sotto il nome di differenza specifica, costituiva, unita al ge- nere prossimo (il (juale anch'esso poteva definirsi jìer il genere suj)eriore e per la differenza propria, una sola), l'essenzM o natura della specie. Le altre proprietà della specie erano derivate; esse fluivano, o emanava- no, come dicevano gli scolastici, dall'essenza, cioè dai due attributi compresi nella definizione, e potevano es- serne dedotti. Così il fondamento della dottrina della logica peripatetica sulla definizione reale, e, (piindi, sull'essenza, era (juesto presupi)osto metafisico : che le diverse proprietà di ciascun genere di esseri sono, non semplicenumte in congiunzione, ma anche in connessione, cioè non indipendenti e staccate le une dalle altre, ma tenute insieme per un legame razionale e necessario (1). (l) Invece Stuart — Alili (Lo.i;-. t e. (> p;irai;r. 2, e. 7 pani.i^r. 5), vede nella dottrina ])erii)a,tetica suU' essenza una di ([ueste «illusioni imM>a*;ate dal lin.i;ua,irui,» » «li cui hi inetalìsiea è si fertile. 1/ illusicme ((Uisisteva, seconih) lui . a scambiare il si- gnificato del nome per la natura della cosa. Secondo la dottrina di Stuart - Mill sui concetti (cioè sui si<»nitìcati dei nomi ge- nerali) l'applicazione di un nome di classe implica l'atfermazicme ai un o-rupp(» <le1inito di attributi, che ejili chiama la connota- zione del nome, e che non è che una parte solamente della to- talità de.i,4i attributi comuni alla classe : «tuand" anche tutta que?t'altra parte <li attributi non inclusa nel «irupp<' venisse in un caso a mancare, noi applicheremmo sempre, secondo lui, il — 570 — § 3. Questo fondamento è assai evidente in Aristo- tile. La detinizione, egli dice, è il principio della dimo- nome, iiia non l'applic-hei-eiinno mai. se venisse a mancare uno solo deoli altiil>iiti inehisi nel gruppo. Ma i peril>ateti<-i . dice Mill, .-nino, a causa (Iella loro dottrina sulle sostanze seconde, incapaci di comprendere clie una cosa è ciò che si dice essere, seuiplicemente ])er il possesso di (iU(d orupi)o di attributi a cui <rli uomini liauno voluto applicare il nome. Essi invece aveano ridea va-a che ì- per qualche cosa che la fa essere ciò che è, cioè che le conferisce questa varietà di proprietà clie costituiscono la sua natura propria. Ma siceomc non pi)tevan(» scoprire ciò che fa che la cosa è ciò eh»' v-ssa è, se ne tenevano a ciò c)ie la fa essere ciò che è espresso dal suo nome, r'wv chiamavano essenza della cosa questa pi)rzione, spesso piecolissima. dei suoi attributi che è iMHinotata dal n(»:ne. Mill a--iun-e (e. <> para-. :^ che. sieco- me jjli errori non si distru^-ono die lentamente, così, bandita la falsa idea (hi ]»eripatetici sulle essenze, le sopravvisse non per- tanto una sua conseouenza; ò l'idea sulle essenze dei metatìsiei moderni. Le essenze individuali erano una tìnzionr nata dalla falsa idea delle essenze di classi, e Locke stesso, dopo aver estirpato Tei-rore fondam^Mitale (nn^strando che le pretese essenze di (dassi erano semplicemente la sio;niticazione dei h)ro nomi), non potè liberarsi dalla sua e(Mise-uenza, e ammise delle essenze di oiiiictti individuali, che supixmeva essere le eause delle pro- prietà sensibili di «piesti o.^j^etti. La prima dit^icoltà contro la .spieoazicme di Mill è che la definizione pei peripatetici non con»]n-endeva tutti -li attributi, che. secondo la dottiina di Mill, ccstituiscom) la connotazione del mmie : questa spie-azione non rende conte» d«41a re-ob, che una sola diilerenza era sufficiente alla delìnizione. }Kn-chè. come tMserva lo stesso Mill (e T, para-. 2 infine, e. S para-. •^) . la conn<dazitM»e d(d ni»me comprende ordinariamente più che un solo attributo ditlerenziale. Chiesta dimcoltà è -rave, perchè ciò che si tratta sovratutto di side-are nella dottrina peripatetica sulla detinizione essenziale è a]>punto come essi potevano credere di esaurire, con una s(da differenza, la natura della specie ; e questo fatto imn può siùe-arsi se non ammettemb» come prin- 571 strazione, e deve esser tale che si possano, per mezzo di essa, conoscere gli accidenti (cioè gli attributi non cipio della dottrina che, per la connessione necessaria tra le ]>roprietà, l'ima di esse poteva dare tutte le altre. Ma vi ha una difficoltà pili -rave ancora : è che hi dottrina di Mill, in cui s'impernia la spie-azione, secondo la ([uale l' ai>plicazione di un nome di classe implica V affermazione di un -rui»p(> de- finito di attriì)uti, che è soltanto una parte della totalità de-li attributi comuni alla elasse, non è, a mio credere . che una semplice tinzione. Supponiamo due nuovi individui che ablnamo una somi-lianza s(do parziale con -li individui -ia conosciuti di una classe, ma che ne siano differenti l'uno per certi attri- buti e r altro pin- certi Jiltri; e animettianio che 1' uno v«'n-a a-ore<»ato alla cl;!s>c. l'altro no. Ciò non potrà essere che in-rchè -li attributi che 1' uno ha in comune con la classe sono in )»iii -ran numero e di piiì -rande importanza che <[U(d!i clic lia m comune l'altro: noi non cerchiamo soltantc» se 1' individue» . di cui è quistione se esso debba o no essere a--re-ato alla classe, possiede o no una porzione definita de-li attributi comu.ni a-1'individui -ià facienti parte della classe ((luella porzione che Mill ritiene che costituisca la connotazione del nome), ma tac- ciamo una stima -enerale della somi-lianza tra l' individue» e la classe, sommando tutte le semii-lianze parziali, e,-uardamlo perciò alla totalità de-li attributi. (Su questa <lotirina di Mill sulla connotazi(me dei nomi confr. Sa.u-io 1 e. 1). A--iun-ijnno infine che non si vede perchè i peripatetici hannc» scambiato il si-nificato del nome con la natura stessa della cosa. Ciò è. dice Mill, perchè avevaiu) questa va -a idea dell' essenza . che essaera ciò che conferiva alla cosa le sue proi>rietà. e non iM»tevanotrovare niente di simile: ]>erciò si contentarono di (piest*' altre essenze che conferiscono alla cosa, non ciò che essa è. ma ciò che la fa chiamare col suo nome. Sia pure ! Ma perchè essi si erano formata (iU(\sta va-a idea della essenza i È, rispimde Mill. perchè essi ammettevano il sistema realista . .secondo cui i oeneri e le s])ecie sono delle entità distinte da-T individui e ad essi inerenti ; perciò essi credevano (die una cosa e cii» «lie si dice essere per la sua partecipazione alla natura di una i-erta 572 - inclusi lucila d.etìiiizioiie) propri alla cosa (li : la dimo- strazione è af. punto il metodo per rendere noti questi accidenti {2\ per consei^'uenza, [)er riattaccare at>'li at- tributi inclusi nella definizione le altre proprietà della cosa. Evidentemente, il tipo su cui Aristotile, come il suo maestro, concepisce T ideale del metodo scienti- fico, è (juello della g'eometria. La condizione della scienza tsostioiza u;('H('rjil('. M.\. ]>riiii;i di tutto. \iì (l(>tti'iii}i ili ([iiistioiic (Iella (;ss('iiz:i e «[Uclla (M>rrelativa della dci'mizioiic si trovano .«;ià in Aristotile-, e questi u<m è un i-ealista : la forma e la materia n<»u si <listiii_u,»ioiu) i>er lui ( lie looieameuti^ : la sua ]K>lemiea eoutro Platone è a]»puuto uiui nuerra alle sostanze menerali . inerenti a.u T i udivi ti ui (V. ea)». se^ut'ute). I)'altvou«l<' resterebbeiM^ sem]U'e a spiegare i medivi did sistt'ina realisi ;i : hi spienJi/iiMie. ammessa <la Mill . (Lo.u. 1. '^ e *> ^. t). vhv non vede altro nel realisnu) elu' il jU'otlidto di una ])retesa toiulenza naturale a realizzare le astrazioni, cioè, al tornio, a prendere le ]>arole per eose . U(»u è fondata wv sovra «lati stori<'i uè suU' osservazione ])sieoloiiiea {\ . eap. seguente). Inoltre' queste sostanze seeoiule inerenti aiil' indi\idui . a cui eonferiseono la lore» natura. <l<'- vono essere supposte comprendere la totalità dejili attributi di questa natura, ('enne Aristedile rimpr«>verava a Platone, le sostanze Li'eiu'rali ihmi potevaiu) avere elie le jjreiprietà stesse dotili esseri iiulividuali (s' intende le proprietà ^em-rali) . e «[uesti non le aN'evano, se non ])erebè erano loro eomunieate da quelle. Non si vede elunijne eonu' Mill s]ùenln perediè alle assenze eraiH» date, non tutti .i;li attributi della (dasse. ma sedo (luesta ]>orzione (die secondo lui costituisce la connotazieme d(d nome: intanto è ])er ispieuare <[U<»st(» fatto <dl'(^,^•li mette in rap- iK)rto la dottrina dell'essenza con ri^jotesi delle sostanze seconde. Per qiunito spetta alla dottrina sulle esse^nze di Locke (e deiili altri metafisici moelei'ui) ncui lio niente d' importante da aiiiiiuuiieM'e al «iia «letto. (1) V. ed Didot Anal. Posi. 1. XXXlll. (5), II. ili. {'.)) 3fet. VI. JX. (1). XU. I\ . (:^) /V at). 1. 1 (>i). Pbys. IV. IV. (2). ecc. (2i Jli'f. ì! II. llLM. V. I (1). Pc Ah. 1. I. (2). Anni. Post. 1. .il. (21. l. X (5): ec<'. :'^!ili.j:|JiÌl|IMIIiMi!ÌlL 573 — è che essa sia dimostrativa il): la dimostrazione, nel senso stretto, è una deduzione che parte da ])rincipii noti e eerti per se stessi (2). Il noto e certo per se .stesso d'Aristotile, in verità, non corrisponde di tutto punto a ciò che noi diciamo evidente per se stesso o intrinseca- mente. Egli distingue due sorta di principii, cioè di pro- posizioni immediate o indimostrabili che sono le pre- messe ultime della dimostrazione: i principii coutuni e i 2)ropri. I principii comuni sono quelli da cai i)rocede la dimostrazione; i principii propri quelli circa cui la di- mostrazione ha luog'o. I principii da cai si dimostra sono le verità assiomatiche : i principii circa ciu\ sono, per ciascuna dimostrazione, il soo^g-etto, di cui essa fa conoscere g'ii accidenti, o, più propriamente, le proposi- zioni (immediate o indimostrabili) su questo so<>'getto, e ve ne hanno due per ciascuno: la definizione, e l'ipotesi, la (juale è r affermazione dell' esistenza reale della cosa conforme alla definizione (8). Cosi, per i [)rincipii d(f cui, il 7ioto e certo per se stesso d'Aristotile equivale esatta- mente al nostro evidente intrinsecamente o evidente per se stesso: invece l'ipotesi, che afferma l'esistenza di un oo-g'etto reale conforme alla definizione, non |)uò consi- derarsi come una verità intrinsecamente evidente. Con tutto ciò Aristotile può dire che la proposizione è nota o certa per se stessa, perchè essa enuncia, non una ve- rità d'inferenza, ma una verità immediata, intuitiva, cioè dataci inunediatamente dalla percezione. In quanto alla definizione per se stessa, cioè considerata se[)aratamente diiìV ipotesi ^ non vi ha per essa né certezza né incer- (1) h'th. Xie. Vi, ni. (4): V ('^): VI (1); Anal. Posi. II. XV. (8) eee : (2) V. A,Hd Pr. II, XVIII (2); To,,. I, I (IJ - G). m V. Anni. posi. I. VII (2): 1, X (1 - G) (eonf, I, II. (13-14) I. XI. ()); 1, XXXII (12): Afri. II. II. (8-12). — 574 — tezza d'alcuna specie : essa non è che l'espressione d'un concetto, e non una proposizione (affermazione) d) Osserviamo che per lo scopo della dimostrazione di stabilire una connessione necessaria e razionale tra gli attributi inclusi nella definizione e le altre proprietà della cosa definita, non occorre che l'esistenza di questa cosa sia una verità intrinsecamente evidente, ma basta che siano tali i principii per cui questa connessione viene di- mostrata (i principii da cui). I prin::ipii assiomatici da cui, secondo Aristotile, la dimostrazione deve precedere, sono, è vero, per lui, non delle intuizioni puramente razionali, come, in generale, per i filosofi aprioristi moderni, ma dei risultati delPin- duzione (2): ma ciò non impedisce che il metodo pre- conizzato da Aristotile sia anch'esso un metodo a priori. Noi abbiamo già osservato che l)isogna distinguere tra la quistione psicologica : le verità assiomatiche sono delle necessità primitive del pensiero o dei risultati dell'espe- rienzaV e la quistione del metodo: è, o no, una condi- zione della conoscenza filosofica adequata al suo oggetto che essa sia dedotta da principii assiomatici, cioè dotati di evidenza intrinseca e necessari'^ In Aristotile noi tro- viamo un altro esempio del fatto che abbiamo già in- contrato in Spencer, vale a dire, un metodo a priori (cioè che vuol dedurre la conoscenza da principii intrin- secamente evidenti) proposto come ideale del metodo scientifico, in unione con una [)sicologia empirista, (cioè che spiega per V esperienza la presenza neir a- uima di questi principii intrinsecamente evidenti) (o). (1). Anni. Post. I. II (U); I, X. (9). (2) V. Anal. Pont. I, XVIIl, li, XV, Anni, Pr. II. XXV, Mh. A'^iV. VI, ili r^). (3) Di ih un'antitesi tra il proo;res8o logico e il protjresso cronologico della coiio.sceuza. che Aristotile esprime diceiiclu che kuaaiagii — 5(0 — Tornando alla teoria dell'essenza, Aristotile concepiva dunque le definizioni degli esseri reali e la loro funzio- ne nella scienza del reale sul modello delle definizioni altro (> ciò che ^ il più noto e anteriore ]>er naturd o assohiia- meììte e altro ciò che è il \n\ì noto e anteriore per ìiol : il più noto e anteriore per voi essendo il ]>articolarc, il sensibile^ e il più noto e anteriore per natura essendo al contrario i princi])ii più universali. (/b»7//. Post., l.ll (5-10) ). Il più jioto e anteriore per natura e il })rincipio logico «Iella conoscenza ; il }>iù noto e anteriore per ììoì ne e il })rincipio cronologieo. Il }»rincipio cro- nologico (Iella conoscenza e il ]>articolare e il sensiliile. perchè * ojiiii conoscenza deriva, in ultima analisi. daircs]>erienza : ma il principio logico della conoscenza è ciò clie vi ha <li i»iù uni- versale, perdio la scienza deve essere ded(>tta da principii evi- denti ]>(^r se stessi, e questi sono i i)iù univeisali. (^uantun<[ue la conoscenza cominci sempre dal ])articolare (sia perchè le ve- rità assiomatiche furono in origine acMjuistate per l'esptu'ienza, sia perchè ])rimji di conoscere il àlOZl dd fatto, deducen«lolo dai i)rincijni universali, ed ehnjuulolo così esso stesso a verità j^enerale, noi abbiamo ujià or<linariamente la coiH)scenza speri- mentale deU'O'^^' cioè deiresistenza del fatto in alcuni esempi particolari): ^\^n\ pertanto la cono.sc(Miza dei fatti })arti<M)lari di- pende logicamcìde da <[uella dt^i ])rincipii universali, ma la co- noscenza dei principii universali è logicamente ìndip(;ndente da quella dei fatti i)articolari. {Maxime autem seihilia snnt ipsa prim^a et caìisae. Propter haec enim et ex iis eoetera eognoscan- tur, scd noi) haec per suhiecta. Met., I, li (5)). Quest'api)arente contraddiziono si risolvo ritlettendo che, secondo Aristotile, i principii della dimostrazione, quantun<pie siano ori<;inati dal- l'esperienza, non sono nuunetiHi perchè prorati dalPesperienza, ma per la loro evidenza intrinseca : essi sono certi per se stessi: al contrario, oujni scienza essen<lo dimostrativa, la certezza delle conoscenze particolari, acquistate per la scienza, dii)ende dalla certezza dei ])rincipii. Aristotile, chiamando assoluta o per natura l'anteriorità logica dei })rincii)ii universali, e relativa o fìcr noi ranteriorità cronologica dei fatti particolari, sembra accordare alla prima delle figure e la loro funzione nella g'eometria : come il g-eoinetra dà, nella definizione del cerchio, deU'elis.si, ecc., la {)roprietà fondamentale di ciascuna di queste iig'ure, a cui la dimostrazione fa vedere che tutte le altre si riattaccano per un legame necessario e intelligibile a priori (1), cosili filosofo deve (perchè la sua scienza sia adequata alToggetto a conoscere) dare, nella defini- zione dell'uomo, dell'animale, ecc., la proprietà fonda- mentale di ciascuno di questi esseri, e poi far vedere, per la dimostrazione, che tutte le altre vi si riattaccano per un higame egualmente necessario e intelligibile a priori. Bisogna guardarsi dal credere che il metodo di- mostrativo, j)er Aristotile, non abbia altro scopo che di ottenere un grado superiore di certezza : i\\ contrario una Hpocie di <)l)l)i<'ttività, ('11(5 ritìutH alla Hecoiichi. ft inu» di quei tanti vt\sti<;i di jilatoiiismo rlie si trovano U(dle i'sju'essiinii «rAristotilc : o^xU li.i l'ap|mrenza di fare, come IMntone (v. eap. seguente). dell'antiTiorità logica un'anterioritìì ontolooica. della stessa inaniei'Ji eli*' <(uando eliiania i prineijìii della dimostra- zione caKse della conclusione (cioè della stessa cosa diinostratji). Nel caso ju-esentc 1' ol>hiettivazione e un'esiu-essione metaforica di <iutjst*i<lt4a. clit^ l'anteriorità e ]>iù granile notorietà (secondo l'ordine logico) dei i)rincipii universali è assoluta, eiot> la stessa per tutti e in tutti i casi, mentre l'anteriorità e la jdiì grande notorietà del fatto [)articolare (secondo l'ordine cronologico) è relativa, varia secondo gl'iiulividui e i casi. In elfetto, se è costante che la conoscenza di alcuni ]>articolari (indeterminata- mente) jireceda quella «Udl'universale, è jniramente accidentale che i particolari (d«termin;iti) la cui (^(mo-^iicuiza ha. effettiva- mente preceduto la conos<'enza dell'universale, siano qut^sti o (quegli alti'i. (I) («li studi delhi forme geometriche «consistono essenzial- mente . per ciaseuna linea o sui>ertìcie, a riattaccare tutti i feuonìeni geometrici che t^ssa può jiresentare a un solo feìunueno fondamentale, riguardato come definizione primitiva». A. ('onte, (^orsit di filos. posi!, voi. 1 lez. -t risulta evidentemente dalle sue dichiarazioni che per lui, come per gli altri filosofi aprioristi, il valore di que- sto metodo consiste principalmente in ciò ch'esso fa vede- re il perchè, la ragione dei fatti, ne dà spiegazione (1). Egli considera anche gli attributi inclusi nella defini- zione come le cause delle proprietà della cosa definita (il medio della dimostrazione è la causa, per Aristotile, e la definizione è il ìttedlo)\ [)erchè essi sono la ragion sufficiente (nel senso leibnitziano della parola) della presenza di ([Ueste proprietà nella cosa (2). E in questo 1 1 (1) V. An«L Post. l. 1, e. 2. (2) Aristotile identifica continuamente questi due conc<'tti : la causa di un fatto e la ragione di una verità : OCIIIOC ì- per lui tanto la etttfsti ((uanto la ì'((f/io)U'. V. Anni. Post. 1. II. (5). (!M. IX. (5), II. X. (1.2). hJth. hJnd. II. VI. (5, ()), ecc. Il princii^io (hdla conoscenza n<Hi viene identificato c(mi ((nello «hdressere solo \\v\ caso di due ]»r(qu-ietà di una cosa, che, conformemente alla teoria aristotelica dcdla «leflnizione. si ritengono ncìcessariamente coniu'ìsse. e di cui Tuna si suppone logicamente anteriore all'altra: ma i princi])ii <lella «limostrazione in geiuM-ale vengono riguar- djite come cause della cosa dim(»strata. Xel ]uim<> caso. V ana- logia d<d rapi)orto tra le due ]U'oi)rietà e ([uello tra la causa e l'effetto è evidente: l'assimilazioni^ e ]uiì ardita, ([uando un i)riu- ci[Uo univ(M'sale viene considerato come causa del fatt«> jKirtico- lare che se ne ]uiò dedurre. X'^oi ah]»iani<> <juì uin» degli es<'nipi }>iù segnalati che ci (jffra Aristotile di traslormazioin- di una re- lazione logica in relazione ontol(»gica. Xotiamo che ({uesta tra- sformazione non pi»treh]>e aver luogo che in una tilosi>lia clu^ non vede ch(^ ih',1 metodo a pri(H-i. cioè tlimostrativo, il solo metinlo rigorosannuite scientifico : è soltanto quando il met(Ml<> della scienza (^ il dimostrativo, cioè (luamh» la cinn)sce-nza si dedu<*e da ])riucipii evidt^nti per se stessi, che esiste un'analogia fra il ra])i)orto tra le ])rcmesse e la conseguenza e <[uello 'tra la causa e l'c^fìetto (i^eibntz dice: «La ragione è la verità conosciuta, di cui il legame con un'altni meno conosciut:i fa dare il nostro as- sentiuìento all' ultima. Ma iuirticolarment<' <• per eccellenza si senso che i peripatetici potevano dire che le proprietà fluiscono o emanano dall'essenza, e che questa ne è la causa efficiente o produttrice: è vero -he neoli scolastici, conformemente alla loro tendenza -aratteristica ad ob- biettivare le relazioni e le distinzioni puramente log-iche (tendenza di cui essi avevano trovato il -erme in Ari- stotile, se non nei concetti stessi di questo filosofo, nelle espressioni troppo realiste di cui eo-li li'riveste), questeme- tafore prendevano il passo sul concetto stesso che essi esprimevano, cioè la connessione necessaria e razionale tra ressenza e le proprietà (tale è la connessione tra la causa efficiente e l'effetto), e al tempo stesso l'anterio- rità loo-ica della prima sulle seconde (1). cìùanui raKioìie. s.. è la musa non solo del .io>tro giudizio, ma ancora della verità stessa, eia rhc si rhiama purr nujwne a priori e la causa ludle cose corrisponde alla nujione nelle ve- rità .V. S. suWintcnd. um. 1. t, e. 17, vS 1.) In eletto è solo allora che la verità delU- eonse-nenze dipende da (inedia dei prin- cipii ma non reeiproeamente la verità dei prineipii da (luella delle concernenze,: se invece le pren.esse generali si ammettono sulla prova dei latti particolari, la verità delle premesse dipende da quella delle onseonenze altrettanto che la verità delle con- seguenze da quella delle piemesse. (1) Non dobbiamo passare sotto silenzio che non tutti gli at- tributi della specie eram» ritenuti dai peripatetici derivare dal- l'essenza, ma solo i iH'opri : si ammettevano, oltre i propri, degli attributi comuni a tutti gl'individui della specie che sopraggiuu- gevano all'essenza, ma ncm ne derivavano, erano gli aeeidenti ivseparahili. Tanto il proprio quanto l'accidente inseparabile e- rano predicati universalmente della specie; ma solo il proprio era predicato ueeessariameute. Questa necessità della predicaziime del proprio era quella specie di necessità che si attribuisce alle ve- rità il cui -contrario è o si pretende inconcepibile o ripugnante .V IVrtirio Isag. De Accidente, e cofr. Zabarella Commeu. m Anul. Post. l. 1. c.ont. 52): era inlatti (Questa necessità che con- veniva a un predicato il quale poteva essere dimostrato del sog- «iiiBiiTinijujiuiiijMiiiwiijMi,iijiimMi - 579 Ora è chiara la filiazione del concetto dell'essenza della metafisica moderna dal concetto dell'essenza della filosofia peripatetica : mano mano che si disperava di trovare queste definizióni luminose, rischiaranti tutta la getto . Per la dottrina dell'accidente inseparal)ile i peripatetici si mettevano in contraddizione col concetto del predicabile acci- dente (Vaccidente, quale uno dei cimine predicabili, si definiva: quod inesse ae non inessc cidem pofest, Porfirio Tsufj. De ac- cid., Arist. Top. 1, IV (S). al tempo stesso che col ])resupposto fondamentale della teoria della detìniziime e dell'essenza. Il mo- tivo ])er ammettere degli attributi generali della specie che tut- tavia non derivavano dall'essenza, era, pare, l'idea che un attri- buto derivante dall'essenza non poteva trovarsi che là «love si trovava l'essenza stessa: infatti il proprio si definiva, non solo: un attributo necessario derivante dall' essenza, uni ancora : un attributo (non essenziale) che conviene a tntta la specie e ed essa sola. Forse quest'idea era una conseguenza della tendenza che si ha generalmente ad ammettere che lo stesso eftetto «^ sempre dovuto alla stessa causa (il V. sofisma a priori di Stuart-Mill), l'essenza, come abbiamo detto, essendo considerata come causa e le proprietà come efictti. Per mettere d'accordo il principio che uno stesso effetto non può av(;re che una sola causa col pre- supposto della teoria «lell'essenza (che vi ha una connessione necessaria tra tutti gli attributi della specie j, bisogna ammet- tere che tutti gli attributi generali della specie . salvo quelli che sono comuni a tutto il genere, sono proi»ri della specie: ma si era forzati dall'esperienza ad ammettere anche degli attributi generali, che, senza essere generici, non erano nemmeno propri esclusivamente della specie ; di là il concetto ibrido dell' acci- dente inseparabile. Del resto la contraddizione tra il concetto dell'accidente in- separabile e l'esigenza generale della teoria faceva sì che la re- gola che il proprio doveva convenire esclusivamente alla sola specie era posta in obblio, e degli attributi che, conformemente a questa regola, avrebbero dovuto considerarsi come accidenti inseparabili, erano invece considerati come propri, cioè come de- rivanti dall'essenza (p. e. la sfericità della luna, dice un peri- i- t I — ÒSO natura della cosa, (jiieste difterenze spociticlio da cui tutte le proprietà degli esseri dovevano poter essere dedotte, le essenze, benché sì continuasse ad ainnietterle, si al- Jontaiiavano dal campo della conoscenza effettiva, sinché esse cessarono di essere considerate come roi>-o'etto della definizione, e allora il concetto moderno (il metafisico) dell'essenza prese il posto del concetto antico (1). pateticM). «U'i'iv.i sciizjj (lul>l»io (1;j11;i iiatuni. dolht Iumm. e )>otr(iblH' diinostmrsi, str «picstji luitiira losst- conosciuta. V. Zahan'lla Ih' nn'ido dcmoHstnii. 1. 1. <•. l:^). In ol;iiì caso, ^li ac<idciiti iii- sc]>aral)i!i «lovcvaiio essere ^iiulica/i <li poco iiiinicro e di poca iiiijiortauza in contVoiiK» a^li essenziali e ai pro)MÌ (se no. questa parte ae^li attributi della cosa come avrebbe )M>tuto seainì)iarsi con la natura stessa della cosa, cioè con la totalità <lei suoi at- tributi ^ ) : ciò è tanto vero che talvolta si diceva «li tutti l-Iì attributi in ;;«'nerale che essi derivavano dall' essenza (v. p. e. Zabarella De ined. fh'moHHfntt., i. 1, e. IS. 1. 2. e. n), lii-nar- dandc» così i propi'i come la re.<;«da. e «ili accidenti inseparabili <'ome un'eccezione. Suiraccidente insej»arabile il IJnin fa <iuesross<'i-vazionc : « Il concomitant<' inseparabih' è, \^. e., il colore de^li animali di cui il colore non ha mai variato, come la bian<'hezza dei cÌìtiì e il c<dor nero dei ctuvi (era l'esempio preterito deiracci<lente inse- parabile). Se noi ilomandiamo peicdiè un attributo che ac<M>m- l>a.i;na sempre la specie, e vhi\ non è considerato comj; un jh'O- pritnn, non è introd(>tto nell'esseuza. ci si risponden'bbe verisi- milmente che il ccdore de:;li animali ì* una (qualità variabile, in- stabiN- : esso cangila spesso allorch»' tutte le altn- qualilà s<'ni- l»rano i-estare le stesse; p<'r conseguenza si lascia orilinariamente da parte <tuamlo si tratta di determinare i carattt^ri della s])ecie . (ili esempi citati .^iustiMcano «jucst'abit iidine. Xè il color bianco dei ciiiui. Jiè il coloi- nero dei corvi, è universale in «pieste specie {LfH/ìrn 1. 1. e. 2. ìi. is). (l) S. Tommaso «lichiara «du; le ess(Mi/e delle cose, le loro dirterenze essenziali, sono sconosciute. |)ercui. in luo^o di queste, si <- obbli.nati . nelle d(iliiiizioni . a far uso di dirterenz<; acci- dentali, le quali non s(»no «die il s^'^ll<^ <l«dr<'ssenza da «Mii «'ss«' i — ^-nrfi'TwrÉ-SiTaT La dottrina aristotelica del l'essenza, come tanti altri dei concetti filosofici d'Aristotile, deriva senza dubbio da Platone. Anche per Platone, il principio della scienza è la definizioiìe (1); e la definizione platonica si fa, come l'aristotelica, per il <>"enere prossimo e la differenza spe- cifica, una sola, ])erchè la dicotomìa (divisione del genere in due specie per l'au'o'iunzione di due differenze mu- tuamente opposte), che è il metodo di Platone periscoprire le definizioni (2), non può dare che una sola differenza specifica. Ora questa definizione, evidentemente, doveva esaurire la natura della cosa definita; i)erchè il metodo di divisione avea per oi4'i>'etto di dìmoHlrarp le Idee (le spe- cie', nel tentpo stesso che di dcfììììrlo. e la dialettica di Platone era, come (j nella di Heg*el, un metodo che pre- tendeva di riprodurre, nelTordiiu'. dei concetti, la 4>enesi stessa delle cose, di ricrearle per il i)ensiero (8). Sicché, scopreìulo le definizioni delle Idee, erano le Idee stesse, quali esse sono in se stesse, che Platone intendeva avere sco\'erte, e la definizione doveva essere 1' esprc^ssione esatta, completa, della natura dell'Idea (della Specie). Ma perciò era necesssario che i caratteri esjdicìfamerde in- clusi nell'essenza fossero supi)Osti racchiudere impìicifa- vìcììfe tutti gli altri caratteri della specie : è solo a (|ue- «b*ri\"an<K (He m-ifafi'. (^)ua<'st. X. Art. I.) I^a jiarola ess<'.nza nid s(;nso «Iella nietalisica m«Kl«'rna («'«m la «bittrina (di«' «juesto sens(j iniplica) si trova u,ià . «-«mie nota (Ìi<dM'rti (fnfro'l. (dìo JSfHcl. (U'iln fi/os.. t. 2. nota 15.')) n«'i «'in<i[U<'centisti e antdu' nei trecentisti italiani . («bd «[uali il v«M*abolari«> «bdla (h'iisca «dta dei testi p(^r c«)m]U'ovar(^ «piesta detinizione della parola : l'inind*» ju'incipi«) «bdb' i)ropri«"tà naturali «b'ih' cose). (1) X«d M«'n«)ne (71 ab. Si> c-«l. Ulti h) stabilisce «[uesta re- o«da «li met«>do. «die per c<Mn)sc<'r<' 1«* pr«)i>ri«'tà «l'una «-osa bi- so"'mj juima avt-r «M»nos(dut«» l'c^ssenza «li «pu'sta «-osa. (2) V. «*ap. se^Ui^nte. {'^) V. cap. seguente. -témtUtm sta condizione che la dialettica poteva essere, come Tim- niaginava Platone, una ricostruzione a priori del mondo delle Idee (cioè di questa stessa natura reale contem- plata sub specie aeternìtatis). Questo rapporto tra la dia- lettica di Platone e la teoria della definizione ch'egli ha in comune con Aristotile, lo vedremo più chiaramente nel capitolo seguente. §4. La dottrina platonico- aristotelica sulla definizio- ne, oltre la connessione necessaria e intelligibile a priori tra le diverse proj)rietà di un genere, suppone di più l'anteriorità logica di uno dei caratteri differenziali del genere su tutti gli altri. Ma vi hanno anche dei casi in cui la prima di queste due suyjposizioni sta senza l'altra. Ascoltiamo, p. e., Leibnitz : «Quando un'idea è distinta, e contiene la definizione o le marche reciproche dell'og- getto, essa potrà essere inadequata o incompleta, cioè quando queste marche o questi ingredienti non sono |)ure tutti distintamente conosciuti, p. e. : l'oro è un metallo che resiste alla coppella e all'acqua forte. Questa è un'i- dea distinta, perchè dà delle marche o la definizione del- l'oro; ma non è completa, perchè la natura della cop- pellazione e dell'operazione dell'acqua forte non ci è abbastanza conosciuta. Donde segue che (juando non vi ha che un'idea incompleta, lo stesso soggetto è suscet- tibile di più definizioni indipendenti le une dalle altre, di modo che non si potrebbero sempre tirare l'una dal- l'altra, uè prevedere ch'esse debbono appartenere allo stesso sogg^etto, e allora la sola esperienza c'insegna ch'esse gli appartengono tutte al tem|)0 stesso. Cosi l'ora potrà ancora essere definito il più pesante dei nostri corpi, o il più malleabile, senza parlare di altre defini- zioni che si potrebbero fare. Ma non sarà che quando gli uomini avranno penetrato più avanti nella natura delle cose che si potrà vedere perchè appartiene al più pesante dei metalli (o al più malleabile) di resistere a queste due prove dei saggiatori » (1). L'autore suppone dunque che quando l'idea è completa (cioè quando ab- biamo una conoscenza distinta degli attributi inclusi nella definizione) le diverse definizioni di cui il soggetto è su- scettibile (facendo tante definizioni quanti sono i carat- teri differenziali) si possono tirare l'una dall'altra, e pre- vedere indipendentemente dall'esperienza ch'else appar- tengono tutte allo stesso soggetto : in altri termini egli suppone, come Platone ed Aristotile, che le diverse pro- prietà della specie sono necessariamente legate, e che l'una può dare tutte le altre; ma non riguarda, come essi, una di queste proprietà come primitiva, e le altre come derivate. Vi ha nella scieìiza moderna una notevole applica- zione del concetto che le diverse proprietà di un genere hanno una connessione necessaria e intelligibile a priori, senza la supposizione dell'anteriorità logica di una pro- prietà sulle altre: è la dottrina di Cuvier della correla- zione necessaria fra le parti di un organismo. Questa dottrina si riassume nelle seguenti parole dell'autore: «Ogni essere organizzato forma un insieme, un sistema unico e chiuso, di cui le parti si corris|)ondono mutua- mente e concorrono alla stesssa azione definitiva per una reazione reciproca. Alcuna di queste parti non può can- giare senza che le altre cangino pure, e per conseguenza ciascuna di esse, presa separatamente, indica e dà tutte le altre» (2). In altri termini, la funzione di ciascuna parte di un organismo cooperando con le funzioni di tutte le altre, ciascuna parte deve adattarsi a tutte le altre : donde segue, secondo Cuvier, che una [)*irte qual- siasi e la sua forma può indicare, indipendentemente dal- Posservazione, quali altre parti devono coesistere con (1) ìY. .y. aulVhU. um. 1. 2. e. 31 «^ P (2) Discorso sulle rivoluzioni della superficie del iflobo. ^ VV^. essa, e ([ualo deve essere la loro forma, in modo che cia- scuna i)iiò essere data da ciascuiraltra, e tutte da una sola. Ciò importa che vi ha fra tutti i caratteri, i quali entrano nella descrizione di una specie, di un genere, di una famiglia, ecc., in nna ]>arola di tutte le classi di qualsiasi grado di generalità in cui i naturalisti distri- buiscono gli esseri viventi, una connessione tale che, dato un solo carattere della classe, tutti gli altri se ne possono dedurre. Il i)rincipio della finalità interiore de- gli esseri organizzati, dal quale Cuvier dcM'iva la sua leizae della correlazione organica, non ha nella sua dot- trina una base teologica : se gli organi sono adattati gli uni agli altri e al regime di vita dell'animale, ciò non è perchè il Creatore ha voluto che sia cosi, ma perchè ciò è una condizione necessaria dell'esistenza dellaui- niale, perchè se una funzione fosse modificata d'una ma- niera incom|)atil)il(* con le altre, l'animale non j)otre!)l)e esistere. Le leggi delle coesistenze e correlazioni degli organi possono essere sco[>erte a priori, deducendole dal princi[)io delle condizioni di esistenza ([)rincipio delle cause finali dei metafisici;; ma p(*r l'imperfezione delle sue conoscenze sull'influenza reciproca delle funzioni e l'uso degli organi, il naturalista è spesso costretto di abbandonare il metodo razionale, e contentarsi di ({uello Hupplemeiìfctre dell'osservazione, che gli fa conoscere che una relazione è costante, ma senza farglicnìe compren- dere la ragione. . Bisoo-na distinguere fra una dottrina che si limita ad ammettere l'adiUtanìento degli organi fra di loro e al moilo di vita dell'animale, e una dottrina che [>re- tende che un cangiamento (qualsiasi lìegli organi ren- derebbe l'animale improprio al suo modo di vita, e che resistenza e lo stato di ciascuna part(^ dell'organismo è talmente legata all'esistenza e allo stato delle altre, che, data,r una . le altre non potrebbero essere d' una ma- óSf) - niera differente senza che vengano meno \i\ condizioni necessarie dell'esistenza dell'animale. Di (jueste due dot- trine la scienza contemporanea accetta la priuìa, ma re- spinge la seconda, che è <]uella di Cuvier. Ciò che si deve notare è che la correlazione di cui si tratta nella lea'ii'^^- di Cuvier. è, come osserva Spencer (1), ì?('cess(( ria in (lue- sto senso^ che la contraddittoria sarebbe inconcepibile: egli dichiara infatti che la necessità delle leggi che de- terminano i rap))orti degli organi è dello stesso grado che (juella delle verità matematiche (2). E in ciò che consiste l'essenza della teoria. « L'argonunito di Cuvier, dice Spencer (o), non consiste a dire : Un omoplata di I (1) Suf/f/i (li fuor, di se. r (fi csfcl. VII. (Fisiolo-ii.i trascoii- doiitc) trjMl. U'iUìc. p. 2()r). 2«)7 - 2<)S. (2) « K in <pi('sta (liiMMi<h']iza delle t'iiii/ioiii. in ((Mesto soc- corso eli' esse si ])rostano r<'ci]H'oc;iinente . che sono fon<late 1(^ loLijni elle determinano i rMjjporti dei loro or^Mni, e che smto (l '((ita ìK'cr.'ùsilit (ff/xdlc a (-/Kclfa (/clic Icf/f/i nic/afisic/tc o ìn((te- inntieh • . jnTcliè è e\i(lente che V ai-nìoni:« conveniente ti'a ^li (r^ani che aiiiscono ;.';li uni su^li altri è ima con<lizione neces- sarijj (leiresisteijza dell'essere a cni aj>])ai"ten!iono. e che se una delle sue tunzioni fosse nioditìcata «l'una nianiera inconipatilule con le moditicazioni delle altre, <|uest'esserc non jiotrebbo «esistere» {AìKtf. eoH(fH(r((l(( 1. lezione art. t). K ind Discorso sìiìlc rirolu- zioni (Iella sKjtcrficic del f/loho : ^ !*>!> : « In una ]>ar(da la forma del dente trascina la t'orma del (ondile. <juella (hdl'omoplata, <pi(dla delle unghie . c(uae V er[uazi(nie d' una curva trascina tutte le .sue proprietà : e come prendemlo ciascuna ])r(»j)ri(»tà sci>arata- menti' per l)ase d'un'e<piazione paiticcdare, si ritroverebbe e l'e- ([uazionc ordinaria e tutte le altre proj>rie:tà «piaulunque, così l'uniiliia. r(nm>plata. il condile . il temore e tutte 1<^ altre osna preso ciascuno separatamente danno il dente o si (bjuuo reci- procamente: e cominciando da ciascuno di loro <[U(\i»:li che pos- sedesse razi(nu»lm<M«te le le«;ni dell' economia organica ])otreì)be rifare tutto l'animale. (;{)• fri. p. 2(;r). — 586 - tal forma può essere rapportato a un mammifero carni- voro, perchè tutti i mammiferi carnivori a noi conosciuti hanno in fatto tali omoplati ; ma perchè essi devono averli tali; perchè il modo di vita dei carnivori sarebbe iiììpossibile senza di ciò ». Lo scopo di Couvier è di con- vertire le verità di fatto della scienza naturale, in ve- rità razionali e necessarie, ciò che è il carattere per cui abbiamo definito la metafìsica apriorista. ^. 5. La classe più notevole delle uniformità della natura differenti dalle leggi di causazione, di cui la metafisica si è proposta la spieg^azione, sono certamente quelle di cui abbiamo parlato sin qui, cioè le coesi- stenze dei caratteri che sono propri a ciascun ii'enere di esseri reali. Dopo (jueste, le più importanti si rife- riscono alla costituzione del mondo (del cosmos) consi- derato come un tutto. La spie.uazione di (questa seconda classe di uniformità — in quanto è un ogg-etto di spe- culazione metafisica — quando si ammette che il mondo (il cosmos) ha avuto un cominciamento o almeno ch'esso ha una causa, quantunque non anteriore di tempo, si rapporta alla ricerca delle cause efficienti : ma essa esce necessariamente dal dominio di questa ricerca, quando si ammette che il mondo è senza cominciamento e senza causa. In questo caso, come in tutti gli altri in cui spiegare non significa assegnare la causa efficiente, pare che la metafisica non abbia a sua disposizione che due forme di spiegazione: T una di esse cerca la ragione dei fatti nelle cause finali, ma senza attribuire questa finalità della natura a una causa intelligente — spiega- zione che, senza personificare esplicitamente le forze della natura, contiene tuttavia una specie di vago an- tropomorfismo, cercando di rendere più intelligibili le operazioni della natura con assimilarle a quelle del- l'uomo—: T altra è la spiegazione apriorista, che tende a convertire le verità positive in verità razionali e necessarle (1). Così sono queste le forme di spiegazione metafisica che noi troviamo nella cosmologia di Platone e in quella di Aristotile (il primo di questi filosofi am- mette, come il secondo, che il mondo è eterno e senza causa esteriore) (2). E evidente infatti che Aristotile non pretende soltanto mostrare come il mondo è fatto, ma ancora che esso deve essere fatto così, e ciò sia perchè così è necessario e non potrebbe essere altrimenti (spie- gazione apriorista), sia i)erchè così è il meglio (spie- gazione teleologica). Come esempi marcati della prima forma di spiegazione possono citarsi i luoghi in cui egli dimostra : cIh; vi hanno tre sorta di cor})! semplici, e non ve ne possono essere di più (8); che non vi ha che un sol moml >, e sarebbe impossibile che ve ne t'osse più di uno (4;; che deve esservi più di un movimento nel cielo (5i', che il mondo è necessariaiiumte sferico ((ii; ecc.: come esenipi della seconda forma, quelli in cui spiega perchè il cielo si muove da oriente a occidente (7); perchè le stelle sono sferiche (8); ecc.: In quanto a (1) Noi abbiamo visto ('(mio nella (h)ttrina di Ciivit^r «h^lla eorrehizioiie (leU(i forme la s})ieiiazioue apriorista si tVmde con la teleologica, l'uà fusione di queste due forme di sjueoazioue deve ammettersi pure nelle coneezioni di Platone e di Ari- stotele sulla connessione tra i caratteri delle classi naturali, poiché la loro dottrina sulla definizione, secondo cui le proprietà possono dedursi a priori dall'essenza, deve conciliarsi ctm l'importanza suprema che il i)rincipio d(dle cause tìnali ha nella loro tllosotia conìc mezzo di spiegazione. {2i V. Su]>plem. i\ Il [ntagorismo nel Timeo. (:^) De Coelù 1. I. II. 2-5 ed. Didot, IH. 7. ('fr. (ialileo Dialof/hì sfii massimi sistemi, giornata ì>rima. verso il principio. (4) De Coelo l. I. IX. (5) De Coelo 1. lì. ili. (H) De Coelo 1. II. IV. (7) De Coelo l. II. V. (3) De Coelo 1. II. XI. 588 Platone, la sua spiegazione del eosuios è, se 8Ì prende il Timeo alla lettera, una si)ieo\azione teleolog'ica e teolo^'ica : ma uuardando, più che alla lettera del Ti- meo, ai |)rincipii •>-enerali del sistema delle Idee, si vedrà chela teleologia platonica è, non trascendente, ma inuiianente, e che essa fa parte, come un momento su- bordinato, di una s[)ie^azione essenzialmente apriorista, per cui r ultima rag-ione delh; cose sta nella necessità, lo(''ica, che fa si che esse non potrebbero, senza con- traddizione . essere altrimenti di come sono. A tal fine bisoa'na tener presente: 1. Che il Deminrii'o del Timeo è un elemento |)ura- mente rapi)resentativo. il <juale siml)o!e.ii\ii'ia V Idea del Bene : per conseg'uenza la fabbricazione del mondo per opera del Demiura'o rappresenta questo concetto astratto, che tutte le Idee, e quindi le cose, i)roce(lono dall'Idea del I)ene. '2. che le Idee non sono fuori delle cose, mn nelle cose stesse, o piuttosto che esse non sono che le cose stesse contenìi)late siih specie aeterìàUitis : per conse- guenza, l'Idea del Bene non è che la leg'g-e o la forma della finalità innnanente nelle cose (ma considerata, conformemente al realismo del sistema delle Idee, non conn^ un concetta» astratto, ma come una realtà concreta). :i che r essenza della dialettica platonica consiste nella identificazione del rapporto ontologico tra la causa e l'effetto col rapj)orto logico tra il principio e la con- seg-ut-nza : i)er conseguenza la proposizione clie tutto procede dall'Idea del- Bene equivale, nel sistema di Platone, alla proposizione che tutto deve dedursene. 4. che la dialettica platonica è un metodo dimo- strativo, che stabilisce le Idee a priori: per conseg'uenza, neir intendinuMìto di Platone, deve essere stabilita a priori, dimostrata, anche T Idea del Bene (vale a dire l'esistenza di quest'Idea e quindi della legge di linalità interna che è nelle cose). 589 - Noi dilucideremo questi punti nel capitolo seguente e nei Supplementi B e C in fine del volume. §. i\. Alcune delle uniformità di cui abbiamo fatto menzione si esprimono con una proposizione, il cui soggetto è, non un genere, ma un individuo, come : il mondo è unico, il mondo è sferico, ecc. Ma vi ha anche un caso, nella metafisica moderna, in cui la si)ie- gazione apriorista si applica ad una uniformità, che si esprime con una proposizione, che oltre ad avere il soggetto individuale, è, di ])iù, non attributiva, ma esistenziale.' Una uniformità o legge della natura con- siste generalmente in una connessione costante tra fe- nomeni : tuttavia . se vi ha qualche cosa, che esiste, e non può non esistere, in ogni tempo, la proj)osizione affermante 1' esistenza perpetua e necessaria di questa cosa è una proposizione in qualche modo universale ^ che esprime una vera uniformità, una legge del reale; e questa uniformità, come tutte h^ altre, esige, se non è evidente per se stessa, una s})iegazione dal metafìsico. Di tali ])roposizioni esistenziali ve ne hanno due nella filosofia moderna: una del materialista, che afferma l'e- sistenza perpetua e necessaria della materia, e l'altra del teista, che aft'erma quella di Dio. La seconda i)ro- posizione non aiferma soltanto un oggetto che esiste costantenu^nte, ma che esiste costantemente con gli stessi invariabili attributi: così il fatto che essa aft'erma nìe- rita il nome di uniformità jdii che quello aft'ermato dàlia l)rima. Più importante ancora è un'altra differenza tra le due proposizioni ; cioè che mentre la materia e la sua persistenza è un fatto dell'esperienza più familiare, l'esistenza di Dio, lungi di essere un fatto familiare, non è nemmeno un fatto dell'esperienza. Ora sono sol- tanto i fatti che non sono familiari che sollecitano il metafisico a cercarne una spiegazione : è perciò cln^. il materialista non cerca la ragione dell' esistenza della materia, ma il teista cerca quella dell'esistenza di Dio. -t- Alla quistione: perchè Dio esìste? non può rispon- dersi assegnando la causa efficiente, perchè Dio è la causa prima; e nemmeno la causa finale, perchè egli è il fine ultimo. La sola forma di spiegazione applicabile in questo caso è la spiegazione apriorista, che consiste ad elevare i fatti a verità necessarie: così i metafisici hanno risposto alla quistione con pretese dimostrazioni a priori dell'esistenza di Dio, le quali hanno per oggetto di mostrare, non solo che Dio esiste, ma che la sua esistenza è metafisicamente necessaria, e la sua non esistenza metafisicamente impossibile, cioè inconcepibìe e contraddittoria. Le dimostrazioni di cui si tratta, per corrispondere all'uopo, devono essere assolutamente a priori, cioè non devono partire da alcun dato empirico, e perciò contingente (per esempio l'esistenza del mondo o quella del nostro si)irito), come fanno gli argomenti a posteriori, sia induttivi, sia dimostrativi ; poiché in questo raso non sarebbe metafisicamente necessaria (vale a dire tale che il contrario sia inconcepibile) la conclu- sione stessa, cioè l'esistenza di Dio, ma, semplicemente il legame tra la premessa e la conclusione, cioè tra l'e- sistenza del dato empirico, da cui si partirebbe, e quella di Dio. Per conseguenza, queste dimostrazioni non de- vono dedurre 1' esistenza di Dio da quella di qualche altra cosa: infatti, noi potremmo, a rigore, concepire una dimostrazione, la quale concludesse all'esistenza di Dio come metafisicamente necessaria, deducendola dal- l'esistenza di un' altra cosa, ma purché l'esistenza di quest'altra cosa fosse anch' essa metafìsicamente neces- saria; ma, secondo i principii del moderno teismo, non può esservi, oltre a Dio, altra cosa la cui esistenza sia necessaria. Le dimostrazioni dell' esistenza di Dio di cni parliamo, possono tutte comprendersi sotto il titolo oenerale di argomento ontologico (1). Quest'applicazione (1) La forina più celebre deirargona uto outologieo è la diiuo- strazione di Cartesio di cui abbiaiiìo parlato, che deduce Pesisten- rnRtr-t.iMi-aK-iiiCgea 591 del metodo a priori ad una uiiifoiinità, che non è che una semplice proposizione esistenziale, è il termine e- streino a cui si estenda questa induzione incosciente, che abbiamo visto essere il punto di partenza della metafisica apriorista. Il successo dell'aro-omento ontoloo-ii-o nella iiietah- siea moderna, malgrado il carattere evidentemente so- fistico di tutte le forme di quest'argomento, sarebbe in- comprensibile, se esso fosse una semplice i>rova dell'e- sistenza di Dio, e non al tempo stesso una soluzione, za di Dio dal coucetto dciressen- perfettissimo. Unii dimostrazio- ne identica per il fondo alla eartesiam.. si trova già. .•omo tutti sanno, in S. Ansel.no. - Un'altra forma dell'arKomento «ntolojiieo può formularsi eosì: Dio >. il vero essere, l'essere puro e senza re- strizione: ma è imi.ossil.ile e contraddittorio .-he il vero essere non sia; Dio dunque uocessariamente i'. Questa forma si trova in S Bonaventura f/(».er. m^r. ;,- i>*'»»H,- e. 3). in Malebranche (v. Mie della ver.. ì. 4. e. ll.(, in Gioberti (v. Mr. allo si. della filos. Milano 1850 t. 1. paji. 272; e efr. p. 274. 2Hfi. 310-311. e crii altri luoghi delle sue opere iu cui atferma che .1 «indizio VEnte è ft analiticoì - Altre forme della dimostrazione a priori deducono l'esistenza di Dio. non dal suo concetto o essenza, co me le precedenti, ma dai suoi attributi. I.a più notevole è u.iella di Clarke: il tempo e lo spazio, l'eternità e l'immensità, sono delle cose necessarie . che fe impossibile di c.ncepire che non esistano; ma queste cose sono degli astratti, che suppongono un essere concreto in cui ineriscano come attributi . e questo non può essere che Dio; dumpie l'esistenza di Dio è necessaria (V. Tratt. dell'esist. ecc. e. 4, pag. 20-26, Framm. d'um, W«. pag. 164 - 16.5. ecc.; Allo stesso tipo di dimostrazione a priori, dedotte, come questa di Clarke. da un'appartenenza di Dio. e non «lalla sua essenza (e aventi per eggetto di stabilire la necessità me- tafisica dell'esistenza di Dio), possono ricondursi «luella di Ro- smini fondata sella necessità dell'essere ideale e la sua inerenza iu Dio (N. S. sulVorig. delle idee. n. 14.-ì8 e 1460J. e quella di Mamiani fondata sulla realtà delle verità eterne e la loro ine- renza ili Dio. (V. Uonfe.is. d'vn metaf. v. I, 1. 1. e. 11). 592 — l'unica iimnag'iiiabile, (|uantuu(|iie illusoria, d' un ju-o- blema, che si presenta naturalmente, se non inevitabil- nunite, nella moderna, filosofia teologica (1). Lo stesso (1) KsMit. <nijiiitmH|U(^ tni uli ar^oiucnti (liiiMJstnnivi della esistenza <li Din tum tr<>\'i naturale (the il cosiuolo^ico. e clnaiiii r oiit<)lou,i(.M» una s(Mnpli(M^ iiiuuvazioue dello spirito sc(da>ti«*o . pure dice : « f^a ueeessitsi assoluta è il vero abisso «Iella l'ai^iouc^ iiinaua Non possiamo difenderei dal ])ensìero seguente u^ s(»]»portarIo. che un cssen* che noi ci iap})resentianio eonu' il i»ifi elevat<> di tutti :j.li esseri p«>ssi\>ili . <liea in qualehe soi-ta a. se stesso : io sono da un'eternità all'altra: niente inni esiste tu(>ri di ine. <'ln' piM- mia volontà; ììin domtr sono io dmif/itr i » i/)if(ìetti trusmuf. 1. 2. e. '^. sez. 5). Ilartinann : « Alcuna iilosotia non può oltrejiassare la So- stanza (die è al tornio di o^ni esistenza; noi <'i troviamo <jui in ]U'esenza del problema ]>rimitivo. il quale è di sua natura inso- lubile. La terra riposa suU'idei'ante. 1' elefante sulla tartaru.Lia: ma su cdie ripos.-i hi rartarniia i (Mie si eonsi<leri come l'ul- tinio i»riu<-i|no. sia il Dio jiersonale. siji la Sostanza <li Spimiza, sia rid«'a o la Volontà, sia rillusiom* sub])iettiva o la materia: non n«' ie>ita iimmio stalulito eln' nna sostanza ultima esiste eoi suoi attrilniti. Mu donde viene elie essa esiste . e<l <'siste con o questi caratteri propri, poieliè niente non viene da niente ( Vn Dio ])eisonale diverr(dd»e pazzo; o. se jiotesse. si darcddx' la morto india sua disperazione di non pt»ter risolvere reni.nnia «bdl'eter- nità sostanziale, (di'eijli troverebbe in se stesso. <'<mn' data in- dipendentenu'nte dalla sua v<dontà e dalla sua e«>seienza L(> sjurito umano è senza dubì)io trojipo grossolano e tr(»]>]>o basso jH'i- mni aìdtuarsi prontamente al ))iù grande dei misteri (die r iiivilui>i>aiio . jn'r non ('(mteiitarsi di porre esattamente il problema senza cercare di risolveido» (Filf)x, delV hwose'inìte 3. ])arte. XW (ili ultimi i>rinci])ii. n. \). N(d abbiaim» ^ià riterito un luo^o di (ijilluppi, (die aiiiiiiett(^ (die. se noi c(Mioscessinio l'essenza di Dio. potremnn» dedurne, a, prioi'i. la sua esistenza: e un altro di d'Alemlx^rt. (die vede nella ([uistione d(d iK'rehì' deir(\sist(;uza (Ud primo essere il problema capitale da cui dipendono tutti ujli altri. A.i;;i;iuii.i»ianio (he tutti I lÉ^*-' 59; fjSo titolo di dimostrazione a priori^ con cui quest'ariiomento veniva desìf>'nato «quando il senso della parola a pi-io ri non era ancora quello attuale, c'indica chiaramente che esso è stato, sin dall'inizio, compreso come un ragiona- mento che non prova semplicenKMite che Dio esiste, ma fa vedere inoltre la rag'ione perchè e<idi esiste: si sa in effetto che <>-li scolastici chiamavano a jn-iori la dimo- strazione che provava un fatto per la sua causa (il ter- mine causa essendo usato, come abbiamo visto, dai pe- ripatetici in un senso lato, in cui poteva comprendersi pure la rag'ione dell'esistenza d'una cosa, (iuantun(jue questa ra*>'ione noti fosse una causa jirop ria mente detta). L' anolog'ia della rag'ione a priori per cui si dimostra l'esistenza di Dio, con la causa, è stata sfiinta ancora più innanzi nella metafisica mod(M-na, in cui — ed (i ciò che prova della maniera [)iù palpabile (|ual(* sia il mo- tivo e lo scopo dell' a rg'o mento ontologico — alcuni, e dei [)rincipali, tra i fautori di (juest'arg'omento affermano netttamente ch(^ la ragione « y^y/o/v' dell'esistenza di Dio è la cuttHCi di (juesta esistenza. Secondo Cartesio, si deve domandare di Dio, come d' ogni altra cosa esistente, qual è la causa per cui egii esiste; e Dio fa in (lualche modo riguardo a se stesso ciò che la causa (efficiente riguardo all'effetto (1): e quantuncjue egli non emetta quest' affermazione a proposito dell' argomento ontolo- gico, non può esservi dubbio ch'egli non abbia di mira i tilosoli che inii)iej;an(> rar<;(unento <'osìno/o</i<'o ((die con(dud(*- dagli esseri eonfinf/cnfi. i (piali non hanno in se stessi la ragione (hdla loro esistenza, un (essere ne^'cssario il (piale ha in se stesso la laj^ioiie della sua esistenza). arg(miento (die molti riguardano come la base priiKdjiale del teismo, ammettono, implicitamente o |)ure esplieitamente. (die vi ha un pendii' «bdl'esistenza di Dio. (1) V. Nisfìosfe alle See. ohhiez. X. 1 pa-. MS - :^S^^. :i!i:M^!>4, t5S, e ffisp. (d/r (^latrtr ohhicz., t. 2 iiag. «M-74. 594 r analo^^-ia tra la ragione per cui si dimostra Dio a priori e la causa efficiente. In effetto, come schiarimento € difesa contro le obbiezioni che gli vengono mosse, dice : che Dio è per sé come per una causa formale, ma può riguardarsi, in un senso analogico, come causa ef- ficiente di se steso, per il gran rapporto che vi ha tra la causa formale, cioè la ragione presa dall'essenza di Dio, e la causa efficiente (li; che la proposizione che Dio è per se come per una causa (e non come : senza causa) d(^ve intendersi in ([uesto senso, che l'essenza di Dio è tale, che è impossibile che egli non esista sem- pre (2), e che non ha bisogno, per esistere, di una causa esteriore (3); e che la causa o la ragione per cui egli esiste da sé, e non ha bisogno, per esistere, di una causa esteriore, è Viinmensltà della sua essenza (4) (non bisogna dimenticare che l'argomento ontologico di Car- tesio deduce V esistenza di Dio dal suo concetto o es- senza di essere infinito in cui tutte le perfezioni devono essere comprese (5)). Spinoza, dando una forma rigida- (1) V. l^isp. (lìlr (,h(t(rtf. ohbiez.. t. 2. puj;. (>2-7l. (2) V. Jiisp. ((Ih' Sci', ohhicz, t. 1. p. 1^80. (8) V. Kiap. (illr Oiutrtr ohbiez., t. 2. p. (>5-l>8. (4) Risp. itili' Sei'. Ohhii'z., t. 1. pajj. 4o<S, Jlisp. nlle i^iarte ohhiez, t. 2. <»1. <i2. <>S. (5) Cartesio dà pure mi altro scliiarinìciito alla proposizione che Dio t' [ìiT s«^ i'oiiìc per ima causa; vìoh che la causa per cui Dio ^. e continua senii»r<' ad essere, è l'imniensitiì della sua pò tenza (V. Hiapoata nlh- Sn-. Ohhiez., t. l.pag. 879, 882. 888. 385, ecc.) Questo concetto potreì»l»e sen)l)rare senza connessione con l'ar- goniento ont<do<;i<(> : ma. per fortitìcare quest'argomento, ej^li dice appunto (nella stessa Risposta alle Sec. Obb. t. 1. pa«;. 894) che neir idea di un essere sovranamente possente h contenuta l'esistenza necessaria, e che considerando 1' infinita potenza di (piest'essere. noi conosciamo cire<iii può esistere per la sua pro- pria forza, e di là possiamo) concludere elio realmente ej^Ii esiste. — 595 — mente dommatica al concetto cartesiano (che era nell'ar- monia più perfetta con lo spirito della sua propria fi- losofia), chiama Dio la causa di sé, e comincia l'Etica con questa definizione : Per causa di se intendo ciò la cui essenza racchiude 1' esistenza, o ciò la cui natura non può concepirsi senza che si concepisca esistente. I.eibnitz, come abbiamo visto, dopo avere stabilito che non vi ha niente di cui non sia possibile, a chi cono- scesse abbastanza le cose, di assegnare una ragion suf- ficiente, propone come prima quistione ; perchè vi ha qualche cosa? quistione a cui risponde che la ragion sufficiente dell' esistenza di Dio si trova in lui stesso, quella dell'esistenza delle altre cose in Dio; e senza dubbio, egli non sarebbe stato alieno dall' ammettere che la ragione, per cui dimostrava a priori T esisteìiza di Dio, era, non solo la ragion sufficiente, ma la causa^ di quest'esistenza, perchè egli identifica in generale la ragione a priori con la causa efficiente (1). Secondo Clarke infine la necessità assoluta di esistere che è in Pio— la quale consiste nell' impossibilità di negare Dio senza un'espressa contraddizione (2) — è il fondamento su cui l'esistenza di Dio è poggiata (8), la ragione che lo determina ad esistere piuttosto che n non esistere (4), ed esiste semiire. Ciò è evidentemente una su.i;\u.('stioue del <'on- cetto i)recedente, e ])otrebbe ri,iz;uardarsi come una variante del- l'ariiomcuto ontolo<i;ico. (1) •' Quejili che prova una cosa a priori ne rende ragione ])er la causa etìiciente .. {Disc, tlel/a riHifonn . th-Ua fede ìoh hi rui/., 59) V. pure il luogo citato nel ^ 8. nota (2) a pa^. (577). (2) Tnttf. delPesist. e ilet/li ntlrih. dì Dio. <•. 1 (Opere filrts, trad. frane, ed laecpies. ])a^. 21j. (8) Ihid., e. 2 pa.n". 18. e. 4. pa-. 2n. Frunun. d'una lettera jiaj;. 102, LeAt. n un eeelesiu.sf., pai;. 1S1-1N2. (4) 'Tnitt. dtlVcHÌst. ecc., e. 2 p. 18. e. I p. 211. Fruuntt. di una leti., pa«;-. Ifi2. mi la causa interiore delia sua esistenza (1); questa neces- sità assoluta dell' esistenza di Dio è anteriore alla sua esistenza stessa, non anteriore di tempo, ma di natura, perchè la necessità di esistere non presuppone l'esistenza, ma, al contrario, V esistenza è una conseguenza della necesità di esistere (2). I fautori dell'argoiìiento ontolog-ico che, come Ar- nauld (3) e Gioberti ^4) hanno protestato contro questa indentificazione della ragione con la causa, convena'ono tuttavia sul t'ondo della (juistione, perchè ammettorm che la dimostrazione a priori dà, non solo la prova dell'esistenza di Dio, ma anche la ragione che spiega perchè Dio esiste. Ora è a (juest'idea che si riducono le proposizioni precedenti di Cartesio e degii altri, sve-stendola dell'in vilupi)0 metaforico in cui è contenuta : è evidente infatti che nessuno di (juesti hi oso fi ha iden- tificato rPdlmente la ragione con la causa ; perciò avreb- bero dovuto riguardare l'essenza di Dio (Cartesio) o la necessità assoluta (Clarke) come delle cone realmente distinte dall'esistenza di Dio ed esistenti per se stesse; ma lo stesso Spinoza non si sping*e sin là. perchè, quantuiKjae la sua filosofia sia fondata sulla realizza- zione dei concetti astratti e l' obbietti vazione dei rap- porti logici tra questi concetti, egli non i)uò supporre (1) Tru/f. ^fr/!'rsisf. ecc., e. 3 pMu. 17, /><•//. (t un eeclesiaHt. piiii. 1^1. <'<(•. Jnoltrc. Dio (^ <lctto cjiiisa dell'esistenza di se stesso, (c. J) p. II)). (2) Trnft. tee. v. i paji. 19, Fritinm. d'unti lett. p. 1(12, ltj3, Lett. il tnt t'i'cU'sìiist . p. IS2. (:^) V. Opere ai Descartes ed. Cousiii. t, 2 p. 27-2S ((Quarte obl>Ì('ZÌ(HlÌ). U) V. Infroflx:. allo studio drlhi fiJos., t. l notti ♦)2—, ed. Mi- lano I.S50 )»a--. trit-t.^ó. Cfr. iòid. jkijì. 2M!».29(). tJrr. nios. di A, Rosmini. Hnisselle iStS t. 1 ]>a,u. :^()4-S()r), ecc. - 597 — un principio realmente anteriore al principio primo del suo sistema. È vero nondimeno che questi filosofi pren- dono in un senso troppo realista le loro proprie meta- fore, scambiando una vaga analogia con una vera iden- tità : ciò mostra quanto sia naturale di confondere la ragione a priori con la causa efficiente; è una confu- sione simile a quella che facevano gli aristotelici quando riguardavano l'essenza come la causa efficiente delle proprietà. Sono dei fatti propri a spargere (pialche luce sull'origine dei sistemi di cui tratteremo nel ca- pitolo seguente, i quali, come vedremo, sono fondati sulla identificazioìu\ nel senso più rigoroso, del rap- porto fra il principio e la conseguenza e (piello tra la causa e l'effetto. In compenso, quella specie di vago e inconscio realismo che è nelle proposizioni precedenti, in cui r essenza e la necessità assoluta sembrano trat- tate come delle cose anteriori all'esistenza io agli attri- buti, nelle proposizioni dei peripatetici), che i)roducono l'esistenza vO gli attributi), riceverà della luce, alla sua volta, dal realismo franco (^ deciso di (luesti si- stemi (1). (\) Non ]K)ssiani<> lascijire <picsto so^jjjetti». senza far men- zione di nna <l(»ttrina. che i^ nna conse«-nenza, «piantunqne indi- retta. deiraniniÌ!^sione «leirarL-oniento ontolo;iii'o. (Quando il nie- tatisico vnol rendersi conto della presenza delle conoscenze a ])riori, ch'e-li ammette, md nostro s]drito. sijie-are .[nesta cidn- cidenza tra il pensiero e la realtà, la s(dnzione natnrale che olisi i)resenta «lei problema è che queste conoscenze risnltano dal- l'intuiziom- immediata dell' intelli-ibile, come la com»scenza spe- rimentale da (iuella del sensibile: e una delle forme più ordi- narie che prende la dottrina dell' intuizione razionah- e (pudla dell'intuito di Dio e delle verità in Dio. Questa dottrina. jKjr quanto parad(»ssastica. non ha, niente tuttavia, per quel che ri- guarda le conoscenze a priori in neuerale, clu; sia direttamente Tn contraddizione coi fatti, tranne che queste conoscenze, ch'essa - 598 prcteiuli* a [)ri »ri e (lat(^ da mi intuito immanente, evidentemente non sono, eome essa deve ammettere, eontinuamente j)resenti al nostro pensiero. Ma. per quel che rij^uarda la co)ioscenza di Dio, si aj[»\u;iunu;e nna contraddizione con l'esperienza [»in fla<;rante ancora : e le stranji teoria psicoloijiea implicata in <piesta dot- trina, che r esistenza di Dio e una verità intuitiva . cioè evi- dente per se stessa e che non lia bisogno di essere provata. É in «juesta teoria che noi vediamo una conse<»;uenza dell'ammis- sione deirariifomento ontolojLiico. E in effetto le torme i)iiì or<li- narie e più phnisihili di <iuest'ar«^omento deducono Fesistenzii di Dio dal suo concetto, e ne la deducono, non introducendo, cmne altre i)remesse, delle proijosizioni sintetiche, ma i)er una semplice analisi di ([uesto concetto, che i)retende mostrare che non si può, senza contraddizione, disniiiniiere dall'idea di Dio ([uella dell'e- sistenza, e coni;inni;ervi inv<'ce «quella della non esistenza. In al- tri termini, l'ari^omento suppone, coni'.* hanno ricosciuto e incul- cato ([uelli ch(5 lo hanno ])roj>osto, che il concetto di Dio rac- chiude (luello della sua esistenza : ma se è così, come ben osserva (TÌ(d)erti yTììtrod. tomo 1. nota 51) pag-. 442). la voce Dìo eiiuivale alla proposiziont^ I)i<t e e l'idea comprende il lijiudizio. e allora l'ar- «^omrnto ont(doa;ico non è ]>iu unji dinn^strazione. ma soltanto la costatazione di questo tatto, che è impossibile di conc(q)ire Dio (di concepirlo d'una maniera chiara) senza concepire al tem')0 stesso ch'ejili esiste ed esiste necessariamente, e l'esistenza di Dio da teon^ma diviene assioma. Lo stesso Cartesio è costretto qual- che volta a convenirne: così nelle sue Hajjjioni che provano l'e- sistenza di Dio ecc. dis})ost(^ d' una maniera geometrica, vi ha questa domanda : « In quinto luogo io domando che si fermino lungamente^ a contemplare la natura dell'essere sovranamente perfetto; e tra altre cose che essi considerino che nelle idee di tutte le altre nature l'esistenza possibile si trova bene contenuta^ ma che nell'idea di Dio non h solo un'esistenza l)ossil)ilt^ ch(^ si trova contenuta, ma un'esistenza assolutamente necessaria. (Ciò è riguardato da C'artesio conu' una verità assiomatica. V. nelle stesse Kagioni ecc. l'assioma 10). Perchè da ciò solo, e senza alcun ra<iìona ine èlio, essi conosceranno che Dio esiste: e non sarà loro meno cliiaro e«l evidente, senz'altra prova, che è manifesto che due è un luimeru pari ti che tre è un numero impari e cose si- mili. Perchè vi ha delle cose che sono così conosciute senza proce __ 599 - _ — j da alcuni, che altri non intendono che per un lungo discorso e ragionamento». (Risposte alle seeonde obbiezioni. Opere, t. 1. p. 45H). Senza dubbio, questa conseguenza dell'argomento onto- logico, che l'esistenza di Dio è una proposizione identica e <iuindi una verità evidente per se stessa . quantunque logicamente ti- rata, è una di «quelle conseguenze estreme di certe teorie, che lunoi tli sembrare giustiticate dal principio da cui sono dedotte, non sono proprie che a mostrare, d'una maniera ])iìi pali>abile. l'assurdità di ([uesto princi])io : ma io non pretendo che la dot- trina che l'esistenza di Dio è una verità evidente per se st(\ssa. sia un seguito naturale dell'argomento (Mitologico, ma solo che essa pare meno strana, (juando si considera in relazione con quest'argonn^nto. avrebbe sembrato (cioè nelle scienze e al buon pisciare pi ricerba pag. i3 lin. 2 sarebbe sembrato p. 17 lin. 5 (cioè delle scienze p. 18 lin. 16-17 e al l)uon piacere p. 29 lin. 8 si riserba p. 38 lin. 1 ma un modo essenziale ma il modo essenziale p. 42 l. 12-13 nota e tutti gli altri esseri che si con- (e tutti gli altri esseri che si cepiscono sul tipo di essa concepiscono sul tipo di essa) p. 43 1. penult. L'antropomorfismo da capo p. 69 1. quintult. testo si unice 5i ""'^^^ p. 181 1. 23 del cosmos e la forma del cosmos è la formo p. 195 1. quintult. testo necessita di tener conio necessità di tener conto p. 227 l. 17 evidente intrinseca evidenza intrinseca. p. 99 bis n. 1, l. 8 la aggezza assoluta la saggezza assolup. 102 bis lin. ult. Rem. scivntif. ^e^- scientif. p. 103 bis n. 1, 1. 1 pag. 160-161. Pa&- ìGO-161), p. 105 bis n. 4, 1. sestult. Ibu-al-Awàm Ibn-al-Awam p. 106 bis 1. ult. testo di questa spiegazione quella di questa spiegazione - quella p. HO bis n. 1,1. l Phvsicall Physica hll — 750 p. Ili bis 1. terzult. testo Erastito Eraclito p. i{2 bis 1. 12 testo dall'anima degli astri deiraniina degli astri nota lin. 1. 1. 1. Taziano 1. I). Taziano p. 1i5 bis 1. 28 della loro potenra della loro potenza p. 118 bis 1. 26-27 sui fatti obbiettivi nei fatti ol^biettivi p. 119 bis 1. 9 testo sull'argomento nell'argomento 1. ult. note De anima I. II. De anima l. I. e. II. 6 p. 120 bis 1. 9 testo la sensilità e il pensiero la sensibilità e il pensiero n. 1. 1. 1 125-126 126-127 3 ecc. 380, ecc. n. 2 Teof farlo Teofrasto n. 3 Placita IV. 4, Arist. De an. I. Placita IV. IV. 4, Arist. i;e ; li. 1, 12 1. IL 3 e 12 p. 121 bis 1. 5 Van Ilelmont i Van Helmont p. 122 bis n. 3 e 4 V. Organo N. Organo p. 125 l)is 1. 15 Baerhaane Boerhaave 1. 20 pseudonismo pseudonimo p. 127 bis testo 1. penult. di sottomettere di sottomettersi 1. ult. e di formare e di formarne, p. 128 bis n. 1 Estermann Eckermann p. 130 bis 1. 10 eccitazione da una parte - eccitazioni da una parte 1. 25 sulla formazione nella formazione 751 — p. 132 bis 1. 15 che può condursi che può condurci p. 142 bis 1. 16 essere assoluto Tessere assoluto p. 148 bis n. 4, 1. ult. Stahl observe Stahl. observ. p. 151 bis n. 3 Monadol. 1. 64-65 Monachi. 64-65 p. 152 bis 1. 4 corpi organici (1). Qui corpi organici (1)-. Qui p. 153 bis nota 1. 2 6 marzo !« marzo p. 154 bis 1. 1 ti (1) è ti) (l) è n. 3 Gfr. al />. De.^-Bosses 17 marzo EpUt.alp. Des-BossesW marzo p. 159 bis 1. 15 assolutamente i parti assolutamente di parti 1). 160 bis n. 3, 1. 2 (Dut. II. I. 46>, Resp. (Dut. II. 1.46), Monadol. 2, Resp. p. 16a bis n. 2 sire insita ' sire de ci insita p. 167 ])is nota, 1. 15 confusa dell'universo il confusa dell'universo) il p. 169 bis 1. 2 testo una teotia una teoria 1. 2 nota non semina da ciò non segua da ciò p. 172 bis 1. 1 mistero relè mistero reale 1. 13 forza richiedente forza risiedente p. 173 bis 1. 12 quella cis insita ({uesta cis insita 1. 22. è una volta entrata è una volta entrato p. 177 bis note, 1. 1 in nota. Ciò però in nota) -Ciò però 1. 3 in seguito). in seguite. p. 179 bis 1. 8-9 hanno sensazione, ma non nel hanno sensazioni, ma non, nel senso stretto, senso stretto, 1. 12 non, vi ha in esse non vi lia in esse p. 194 ì)is ì. 18 come la reale come reale p. 195 bis n. 4 1. 0-7 interno: (.bid. nota 27, nota 24, interno (v. ibid. nota 27, noto artic. 4, ecc) è 24. artic. l,. ecc.): è p. 201 bis 1. 21 da queste conformità da queste uniformità p. 203 bis 1. 12 i fenomeni appariscono i fenomeni ci appariscono p. 213 bis 1. quortult. reffetto: Kant retfetto; Kant p. 214 bis 1. 0 sia «che facciano sia che facciano p. 216 bis 1. 9 connexio recam ronnervio reram p. 230 bis 1. sestult. ha due fatti tra due fatti [). 234 1. 27-28 Idea filosofia della niosofia 1. 29-30 necetralizzare neutralizzare p. 272 1. 19 tal ettetto "" ^al effetto p. 280 1. 16 e di assegnare è di assegnare 1. 231. distolsero I' distolsero p. 281 1. 14 L'alternativa è inevitabile L'alternativa, secondo lui. è dunque inevitabile p. 285 n. 1, 1. 6 che sanr che sarà p. 291 1. 26 ci tratterebbe si tratterebbe p. 292 1. 18-19 ma, evidente "la è evidente p. 307 1. 1 III Noi abbiamo > Noi abbiamo p. 308, nota, 1. 3 non magis nos magis 1. 4 debat d.^beat i p. 311. nota, 1. 0 È cosi in genere È così in generale p. 312 1. ult. testo L'attrazine L'attrazione p. 315, nota, 1. 8 dall'infanzia dell'infanzia p. 320, nota. 1. 2 di (juesta di filosofia di questa filosofia p. 322, nota, 1. 27-:^8 caduta del corpo primitivo caduta del corpo primitiva p. 329 1. 1 Qualunque la filosofia Quantunque la filosofia p. 335 n. 2, 1. 13-14 in rjue.^to modo in qwesto mondo 1. ult. la successone! 1» successione p. 346, nota, 1. 20 10 possa o lo sappia lo possa e lo sappia p. 349 n. 2 1. 1 Tvndall II Tyndall p. 350 1. 6 dove sembrava allora doveva sembrare allora p. 374 1. 21-22 questa inferenza questa inferenza p. 384 nota 96 e seg. 96 a e seg. p. 385 l. 4 dalla nostra affermazione della nostra afi^ermazione p. 390 1. t che e si suppongono che si suppongono p. 407 1. 24 ^6 § '^> p. 415 l. 27-28 11 ministero ^^ mistero p. 419 1. 3-4 metaempirico o metafisico metaempirico e metafisico p. 422 n. 1 l. 1 Harcllton Hamilton p. 423 1. sestult. K E ancora E ancora p. 432 1. 1 note dei enunciati d'enunciati p. 438 l. 9 l'oggetto della scienza loggetto di questa scienza ->- 754 — p. 441 1. 10 che ci sono i più familiari che ci sono le più familiari p. 443 n. 1 1. 2 (t. 11 1. 3 Sec. obì)iez. p. 451 1. 15 restando la stessa p. 453 1. 17 (cioè quali sono p. 457 1. 7 di setpienze invarial)ill p. 4<)4 1. ult. testo poterlo presentare p. 469 8 4 1. 1 di Descartes p. 482 n. 2. 1. 4 non potendo esserne p. 485 n. 3 e. !). 5^ 2 p. 491 n. 4 1. 2 e. 9 f^ 12 p. 494 1. 11 aggiungerne delle altre nota 1. 4-5 principio generale - p. 495 1. 21 parti insensibili p. 509 1. 20 tra le idee stabilita p. 529 1. 8 abbiamo la minima atìinità abbia la minima aflìnitn p. 540 1. 4 di cui essa deriva da cui essa deriva p. 540 n. 3, 1. 8 si sappia io sappia p. 549 1. 3 la segregazione d), la segregazione (1)), p. 557 1. 5 di prova, quantunque non u- di prove, quantunque non u- gualmente convincente gualmente convincenti p. 506 1. 31-32 le altre potrebbe esserne de- le altre sono per ciò slesso da- (jotte te, e possono esserne dedotte, o potrebbero esserne dedotte et 11 Lee. obbiez. restando lo stesso (cioè qual sono di sequenza invariabili poterla [presentare di Descares non potendo essere e. 3. § 9, e. 9 § 12 aggiungere delle altre principio, generale parti sensibili tra le idee stabilite ^DD p. 568 1. 5-6 conosciuti e conoscibili conosciuti o conoscibili p. 571, nota, 1. 8 che abbiamo che abbiano 1. 12 l'altro no ^ l'altro no p. 573 1. 14-15 le proposizioni le prenozioni 1. 20-21 evidente intrinsecamente o evi- evidente intrinsecamente o per dente per se stesso ^e stesso n. 3 1. 1 (cfr. I. 11 (13 14) cognoscantar ne dà spiegazione Top.l. IV. (8), bisogna ammettere propri della specie in questo soccorso necessità, logica in fine del volume con o questi quistionc; perchè -cfr. I. 11. (13-14)-; p. 575, nota, 1. 23-24 cogno^cuntar p. 577 1. 4 ne dà la spiegazione p 579, nota, 1. 5 Top. 1. IV. 8), 1. 20-21 bisognava ammettere 1. 22 proi»ri della sola specie p. 585 n. 2, 1. 1-2 e tiuesto soccorso p. 588 1. 8-9 necessità logica p 589 1. 2 allo stesso capitolo p. 592, nota, l. 19-20 con <iuesti p. 595 1. 10 (juistione: perchè N B È incorso un errore nella numerazione delle pa^rine. La pagina che, la seconda volta, ha il numero 85, dovrebbe avere invece il numero 233. Similmente il numero di ciascuna delle pagine seguenti, sino alla fine del volume, dovrebbe essere au- mentato d'i 148. Nell'indice e nell'errata-corrige le pagine sono indicate col numero erroneo con cui sono state stampate. Nel- rerrata-corrige le pagine che portano lo stesso numero si di- stinguono aggiungendo la parola bU al numero di quelle nume- rate erroneamente. INDICE CAP. I. Cause empiriche e cause mbtaempirichk. § 1. Oggetto di questo Saggio. 2. La causa nel senso scientifico . 3. Distinzione tra la causa nel senso meta- fisico (causa efficiente) e la causa nel senso scientifico 4. 1 filosofi hanno ammesso generalmente que- sta distinzione 5. Impossibilità di provare la dottrina di Comte sulle cause efficienti (> Oo-o-etto della l*^ parte di questo Saggio. 1-9 9-11 11-15 15-24 25-32 32-40 CAP. II. L'antropomorfismo. Art. 1. La Filosofia teologica. § 1. La filosofia teologica nel periodo prescien- tifico Funzioni della divinità come principio esplicativo dei fenomeni — La divinità come principio motore La divinità come principio di una spiega- zione teleologica dei fenomeni. 4. Le prove dell'esistenza della divinità 41-51 51-71 71-102 ia2-129 i*W— r- Ti — 758 - 759 § 5. I concetti della teologia trascendentale — Immutabilità ed extra-temporalità di Dio — Ptig. Dio come l'Infinito o l'Assoluto Il dualismo e il panteismo nella filosofia antica e nella moderna .... 163-201 7. Il valore delle prove dell'esistenza della divinità dipende da quello del concetto di causa efficiente 201-232 Art. 2, L'animismo come spie<^azione dei fenomeni biologici. § 8. Osservazioni generali suH'animismo come ipotesi biologica. La spiegazione animista dei fenomeni bio- logici 87-102 10. Estensione del dominio della coscienza in conseguenza dei principii dell'animismo. 102-106 11. Spiegazione intellettualista dell'istinto L'ilozoismo. § 12. Osservazioni generali sull'ilozoismo L' ilozoismo nella filosofia antica e mo- derna 119-128 14. L'ilozoismo nella filosofia contemporanea 128-143 Art. 4. Il panpsicliisino. § 15, Osservazioni generali sul panpsichismo . 144-148 16. La monadologia di Leibnitz I panpsichisti moderni L'idealismo. § 18. Osservazioni generali sull'idealismo. L'idealismo di Kant 200-213 20. L'idealismo assoluto dei successori di Kant 214-219 Art. 6. fi concetto (li causalità deirantroiiuuiorllsmo. 8 21. leoria volizionale della causazione e teorie tìi ' '^•^0-235 amni — ^ "^^ '^2. Osservazioni su queste teorie La filosofia meccanica o impulsionista. § 1. Della filosofia meccanica o iinpulsionista in generale 2. Il principio, su cui è fondata la filosofìa meccanica, in Cartesio e i cartesiani, in Hobbes, in Spinoza, in Newton 3. nei primi newtoniani, in Locke, in Leib- nitz, in Clarke 4. in Huygens, Bernouilli, Eulero, d'Alem- bert, Hume, Reid, Dugald-Stewart, Ha- milton, Galluppi, Rosmini, Cuvier . 5. nei fisici e filosofi contemporanei 6. La proposizione che 1' azione a distanza è inconcepibile, assurda e contraddittoria 251-259 260-264 264-273 273-280 280-289 289-304 GAP. IV. Origine e sviluppo dell'idea di causa ef- ficiente. 1. Le causazioni più familiari ci sembrano spiegarsi da se stesse e potere spiegare tutte le altre 305-312 2. Proposizioni di filosofi che hanno ricono- ^11 § - 760 — ^iuto questo fenomeno psicologico (di Bacone, Stuart-Mill, Bain, Clifford, Stallo) 3. L' idea di causa efficiente deriva dall' e- sperienza delle causazioni più familiari . 4. Le causazioni più familiari non sembrano misteriose che nella riflessione scientitìca 5. Perchè 1' azione volontaria diventa mi- steriosa .....•• 6. Perchè diventa misteriosa, in generale, l'azione mutua tra lo spirito e il corpo . 7. Perchè diventa misteriosa V attività inte- riore dello spirito 8. Perchè diventano misteriose l'impulsione e le altre azioni fìsiche più familiari — Conclusione sulle rag-ioni per cui le cau- sazioni più familiari perdono la loro in- telligibilità . 9. La tendenza naturale a spiegare \^ se- quenze non familiari riconducendole alle familiari, e quindi il principio di causa- lità efficiente nella sua forma primitiva e spontanea, non possono avere alcun valore obbiettivo 10. Forma secondaria del principio di cau- salità efficiente — Il principio di causa- lità efficiente è un'induzione incosciente dalle causazioni più familiari . 11. Origine comune e differenziazione pro- oressiva dei concetti fisico e metafisico della causalità La dottrina dell'inconoscibile e l'idea di CAUSA EFFICIENTE.- La dottrina dell' inconoscibile come applicazione del principio di causalità effi- ciente nella sua forma secondaria . § 2. La proposizione che non conosciamo l'es- senza delle cose 3. Il fondamento principale della teoria del- Pinconoscibile è il principio di causalità efficiente 4. Questo fondamento non può pretendere ad alcun valore obbiettivo .... 5. Ciò è provato più chiaramente dall'esame dell'inferenza incosciente di cui è la con- clusione 6. Schiarimenti al paragrafo precedente 7. Noi conosciamo o possiamo conoscere resseuza delle cose e il modo essenziale della produzione dei fenomeni . La Forza nel senso metafisico . CAP. VI. La FILOSOFIA apriorista. § 1. Lo sforzo di ricostruire la realtà a priori è una delle tendenze più generali ddla speculazione metafisica La filosofia apriorista è sovratutto un'ap- plicazione del principio di causalità effi- ciente .....••• 3. La filosofia apriorista in Cartesio . 4. in Malebranche 5. in Spinoza ....••• 6. in Leibnitz 7. in Locke ....8. in Condillac. 9. in d'Alembert ...... 10. in Hume ae: - 762 II § 11. in Kant 12. in Fichte, Schelling, Hegel 13. in Reid, Dugald-Stewart, Galluppi, Ro- smini, Gioberti, Mamiani .in Taine e Spencer e in Hartmann . 15. Le pretese dimostrazioni dei principii della meccanica La filosofìa apriorista al di fuori della ri- cerca della causa efficiente 2. Dottrine della filosofia apriorista sulla essenza e la definizione 3. Dottrine di Aristotile e di Platone in par- ticolare Dottrine analoghe e particolarmente quella di Cuvier della correlazione organica 5. Spiegazioni della filosofia apriorista della costituzione del cosmos (e particolarmente quelle di Platone e di Aristotile) 6. L'argomento ontologico come applicazidella spiegazione apriorista I *afc.-^«Nf **:; -^^ 00321465 ( \ 1- iC V -i fcr^. i% "• .\ 1. 'Sk! "*»*'/-* % ./^ :• '^ %^%. .^ -^^f^i *^:-'l ^ • m som TEomii oella cokosceiizii ! FiLOsoFU um w^tmmt^^m^tm^i^f^ PALERMO Remo Sandron LA CAUSA EFFICIENTE Tomo Secondo 3SCCAPO VII. IL REALISMO DIALETTICO. § 1. Uno dei fenomeni più strani della storia del pen- siero e che sollecita più vivamente una spiegazione dalla filosofia della metafisica, è certamente il realismo, nel senso della scolastica, vale a dire la realizzazione delle astrazioni. Come lo spirito umano ha potuto ingannarsi sino a tal punto sul significato dei nomi astratti e generali, da attribuire alle realtà stesse questa astrat- tezza e questa generalità che non ' appartiene che alle parole ? Alcuni, negando la difficoltà invece di risoverla, hanno preteso che il nostro spirito ha una ten- denza naturale a riguardare le astrazioni come real- tà. Secondo Max Mùller, usando un nome astratto, si concepisce per ciò stesso una qualità come sogget- ta, cioè come sostanza. Di più, unendo a questo no- me un verbo, quando si dice, per esempio, «il giorno comincia » o « la notte si avvicina », si presenta come Jig^nte questa qualità trasformata dal linguaggio in una sostanza. Infine, nelle lingue antiche ciascuna di queste parole avea necessariamente una desinenza esprimente — 2 - \ il genere, che era inaHcliile o feiii minile, il neutro es- sendo di formazione posteriore, e ciò produceva nello spirito un'idea corrispondente di sesso. «Quale ha do- vuto essere il risultato di tutto ciò % conclude 1' autore. Sinché gli uomini non pensavano che con 1' aiuto del linguaggio, era semplicemente impossibile di parlare del mattino o della sera, della primavera o dell'inverno, senza dare a queste concezioni qualche cosa d'un carat- tere individuale, attivo, sessuale, in una parola, di un carattere personale » (1). Questa spiegazione della realizzazione delle astrazioni è applicata da Max Miiller nel dominio della mitologia. Simili spiegazioni sono state applicate da altri alle astra-zioni realizzate della metalìsica. Secondo Condillac, i fi- losofi hanno realizzato le astrazioni, perchè formandosi delle idee astratte, concependo le modificazioni separa- tamente dall' essere a cui appartengono, il nostro spirito è costretto a considerarle come qualche cosa di reale. Queste modificazioni, concepite cosi separatamente, per- dono ogni realtà, ma per una contraddizione necessaria lo spirito deve supporre ancora che abbiano della realtà, perchè altrimenti non potrebbe farne l' oggetto del suo pensiero. Ciò è perchè è impossibile di pensare il niente: se si pensa, si deve pensare a qualche cosa, e pen- sare a niente sarebbe propriamente non pensare (2).Mill nella sua Logica enumera tra i sofismi a priori del nostro spirito (cioè gli errori in cui una pro- posizione è accettata come evidente per se stessa) « il pregiudizio naturale di attribuire un' esistenza obbietti- va a delle astrazioni. » Questo pregiudizio naturale o sofisma a priori proviene, come la più parte degli altri, (1) Max MiUler, Saggi sulla mitologia eomparata^ traduzione frane, 2» ed., I p. 70-73. (2) Condillac, Arte di pensare, C. 8.» dalla tendenza a supporre un' esatta corrispondenza fra le leggi dello spirito e le leggi del mondo esteriore, e può enunciarsi in questa formula generale: Ciò che può essere pensato a parte esiste a parte. Gli uomini hanno avuto in ogni tempo una forte propensione a concludere che là dove vi ha un nome, deve esservi un' entità di- stinta corrispondente a questo nome. Bianchezza e cosa bianca non sono che delle espressioni diftbrenti dello stesso fatto; « ma tale non era l' idea che suggeriva anticamente questa distinzione verbale, sia per il volgare sia per i sa- pienti. La bianchezza era un' entità, inerente o aderente alla sostanza bianca; e così pure le altre qualità. Ciò andava sì lungi che anche i termini generali concreti erano considerati, non come dei nomi d' un numero in- definito di sostanze, ma come dei nomi d' una specie particolare di entità chiamate Sostanze universali » (1). « Quest' errore sulla significazione dei termini gene- rali, aggiunge l'autore, costituisce il Misticismo, pa- rola più spesso pronunziata che compresa. Nei Veda, presso i Platonici o gli Hegeliani, il misticismo non consiste in niente altro che ad attribuire un' esistenza obbiettiva alle creazioni subbiettive del pensiero, alle nostre idee e ai nostri sentimenti, e a credere che os- servando e contemplando queste idee di nostra fabbrica noi possiamo leggervi ciò che avviene nel inondo este- riore. » Da (lueste ultime parole sembra che il Mi 11 in- traveda la relaziolie naturale, che noi metteremo inluce nel corso di questo capitolo, fra la realizzazione delle astrazioni e il metodo a priori. Egli non spiega que- sto carattere dei sistemi realisti,, di voler leggere ciò che avviene nel mondo esteriore contemplando le idee di no- stra fabbrica^ ma, secondo i suoi principi!, deve vedervi una conseguenza diretta della tendenza naturale a sup- (1) Stuart Min, Logica, Uh, V, e. 3o, } 4. -. 4 - porre un' esatta corrispondenza fra le lefigi dello spirito e le leqgi del mondo esteriore. Secondo Stallo, la realiz- zazione delle astrazioni proviene dalla supposizione (su cui sono fondati, esplicitamente o implicitamente, tutti i sistemi metafìsici) che vi ha una corrispondenza fissa fra i concetti e la loro filiazione da una parte, e le cose e la loro dipendenza mutua dall' altra. I concetti e»: sendo, air ingrosso, la significazione delle parole, e que- sta circostanza, che le parole designano originariamente delle cose o almeno degli oggetti di sensazione e la loro azione mutua sensibile, che ha dato luogo a questa sup- posizione ingannevole. Essa, al contrario delle viola- zioni ordinarie delle leggi della logica, forma, a certi, punti di vista, lo sviluppo naturale dell' evoluzione del pensiero e può essere chiamata un errore strutturale deir intelligenza (1). .^,11^ Noi crediamo inutile un esame particolareggiato tiene proposizioni di questi autori. Ci limeteremo a due con- siderazioni molto ovvie. 1« L'osservazione psicologica non mostra che vi sia in noi una propensione naturale a n- guardare le astrazioni come realtà, cioè come entità di- stinte sussistenti per se stesse. É un fatto d' una espe- rienza interna, che basterà di indicare al lettore, senza insistervi più oltre. 2» Non vi ha alcuna prova che gli uomini, in un periodo qualunque dell'evoluzione delli^ umanità, storico o preistorico, abbiano riguardato siste- maticamente le astrazioni come esseri reali, le qualità come sostanze. I mitologi, osserva giustamente Spencer, ragionano secondo la supposizione che i popoli primitivi sono stati inevitabilmente spinti a personificare delle astrazioni, ma di questa supposizione non danno alcuna prova : Max Muller afferma che era loro impossibile di parlare del mattino e della sera, della primavera e dell'in- (1) La materia e la fisica moderna, cap. IX. verno, senza attribuire ad essi l'individualità, l'attività, il sesso e la personalità, ma per dimostrare che l'impos- sibilità di cui si parla è esistita realmente, bisognereb- be qualche cosa di più che una affermazione autorita- ria (1). Questo difetto di prove si fa sentire più vivamente quando si va, come il Mill, sino ad affermare che anti- camente, sia per il volgare, sia per i sapienti, la hian- chezza non era una espressione differente dello stesso fatto espresso dalle parole cosa bianca, ma era un'entità, inerente o aderente alla sostanza bianca, e così pure le altre qualità. Come ammettere, senza prove di fatto, che vi è stata realmente, nella storia dell'umanità, un'epoca caratterizzata da questo stato di spirito che immagina il Mill? L'unico sofisma a priori, Vimìco errore struttu- rale dell' intelligenza che noi dobbiamo ammettere, per- chè è un fatto evidente dell'osservazione psicologica, e che, per conseguenza, possiamo supporre anche nelle fasi più antiche dello sviluppo della civiltà, è la tendenza a modellare tutte le nostre idee sul tipo di quelle che ci sono le più abituali, di cui la forma più importante é quella per cui abbiamo spiegato il concetto di causa efficiente e le sue diverse applicazioni, vale a dire l'assi- milazione spontanea di tutti i fatti ai più familiari. É solo questa tendenza che può essere considerata come un sofisma a priori, una proposizione erronea accettata come evidente per se stessa non potendo essere che il risultato di un'inferenza incosciente, la cui conclusione ci s'impone con una forza quasi irresistibile, appunto per l'immensa massa delle esperienze su cui è fondata, cioè i fenomeni più abituali della nostra esperienza, ob- biettiva o subbiettiva. È dunque a questo sofisma a priori che dobbiamo ricondurre la realizzazione delle astrazioni come tutte le altre illusioni della metafisica, se voglia- incipii di sociologia, trad. frane, voi. 1 p. 618. (1) Pt^ - k\ mo vedervi l'elfetto, non di una immaginazione arbi- traria o di un errore fortuito del ragionamento, ma di una tendenza naturale dello spirito umano. La realizzazione delle astrazioni costituisce, secondo A. Comte, il carattere essenziale della metafisica. Comte ammette, come si sa, che lo spirito umano passa suc- cessivamente per tre stati, il teologico, il metafisico e il positivo. Lo stato metafisico è destinato ad aiutare lo spirito umano a passare dallo stato teologico al positivo, a servire di transizione fra il primo, che è il suo punto di partenza necessario, e il secondo, che è il suo stato definitivo, l'opposizione tra lo spirito teologico e lo spi- rito positivo essendo troppo radicale, e la nostra intel- * ligenza essendo antipatica ad ogni cangiamento bru- sco (1). Il passaggio dallo stato teologico al metafisico « s'opera naturalmente, in un soggetto qualunque, per la sostituzione graduale dell'entità alla divinit«à, allorché le concezioni religiose si generalizzano diminuendo senza cessa il numero degli agenti sovrannaturali così bene che la loro intervenzione attiva, e sovratutto quando esse pervengono, se non in realtà, almeno in principio, ad una rigorosa unità suprema. In questo ultimo stato generale della filosofia teologica, l'azione sovrannaturale, perdendo la sua specialità primitiva, non ha potuto abi- tualmente abbandonare la direzione immediata del fe- nomeno senza lasciarvi, in sua vece, una misteriosa en- tità, dapprima necessariamente emanata da essa, ma alla quale, per l'uso giornaliero, lo spirito umano ha dovuto riferire, di una maniera di più in più esclusiva, la pro- duzione particolare di ciascun avvenimento. Ora, questa strana maniera di filosofare ha dovuto essere lungamente necessaria, sia per facilitare il declivio graduale della teologia, eliminando a poco a poco l'intervenzione spe- ciale delle cause sovrannaturali, sia per preparare lo slancio progressivo della fisica, abituando sempre di più alla considerazione esclusiva dei feoomeni : all' uno e all'altro titolo questa situazione transitoria costituisce al tempo stesso un sintomo inevitabile e un indispensa- bile concorso » (l). Altrove l'autore caratterizza lo stato metafisico così : « Nello stato metafìsico.... gli agenti so- vrannaturali sono rimpiazzati da forze astratte, vere entità (astrazioni personificate) inerenti ai diversi esseri del mon- do, e concepite come capaci di generare per se stesse tutti i fenomeni osservati, di cui la spiegazione consiste allora ad assegnare per ciascuno l'entità corrispondente » (2). Stuart-Mill riassume la dottrina di Comte sul periodo metafisico, dicendo che questi intende per esso quello € in cui si prendevano i nomi astratti dei fenomeni per le cause della loro esistenza» (3). E altrove: « Il modo di pensare che Comte chiama metafisico rende conto dei fenomeni riferendoli, non a volontà sublunari o celesti, ma ad astrazioni realizzate» (4). L'osservazione più ovvia che si presenta contro questa teoria che è una delle fondamentali di A. Comte, è la inesattezza evidente d'una definizione della metafisica, che la fa consistere unicamente nella realizzazione delle astrazioni. Quand'anche non si dia per oggetto, come fa abitualmente Comte, alla speculazione non positiva che la ricerca dell'origine e della destinazione dell'universo e delle cause intime o generatrici dei fenomeni (ciò che noi chiamiamo le cause efficienti)^ nessun positivista con- testerà che nel cerchio di questa speculazione devono (1) Comte. Corso di filosofia positiva voi. I e<l. 4» p. 9. Conf. voi. IV Lez. 51 p. 497. (1) T. IV Lez. 51. (2) T. I p. 9. (3) Log. Uh. VI. e. X, nota verso la fine. (4) Stuart-Mill, A. Comte e il positivismo, trad. frane, p. 11. - 8 - - 9 — comprendersi, oltre alla realizzazione delle astrazioni, altri metodi e altri concetti, che non meritano meno di questa il nome di filosofia metafisica, essendo in contraddizione, da una parte, con lo spirito della filosofia positiva, cioè sperimentale, e non potendo riguardarsi, da un' altra parte, come delle forme dell^ filosofia teologica. Dei due processi generali di cui lo spirito umano si è servito per api)licare il concetto di causa efficiente, cioè 1' an- tropomorfismo e l'apriorismo, la teoria di A. Corate non tiene alcun conto del secondo. Esso intanto è uno dei tratti più caratteristici della speculazione metafisica, e Littrè ha definito questa filosofia d'una maniera meno inesatta che il suo maestro, facendola consistere essen- zialniente nel metodo a priori (1). In quanto all'antropo- morfismo, quantunque la sua forma più diftusa sia la fi- losofia teologica, vi hanno altre forme (cioè, per non parlare che di quelle che pretendono dare una spiega- zione universale delle cose, Vilosoismo, il panpsichismo e V idealismo), che non possono evidentemente classarsi fra le concezioni teologiche^ e devono prender p<»sto, per conseguenza, fra le metafisiche (2). Ma oltre ai (1) L'inipvilsioiie metafisica deiriDtelligenza, dice il Littrè nel suo scritto A. Comte e Stuarl-Mill, (Frammenti di fi log. posit pag. 249), fu di pensare che tutto ciò che le pareva logicamente ragione delle cose doveva essere ragione delle cose eflfettivaraente. Vi è stato bisogno di molti secoli e di molto lavoro per distrug- gere la forza pretesa del ragionamento a priori. E nello stesso scritto, pag. 274 : «egli (A. Comte) rigettava la filosofia teolo- gica sostituendo delle leggi alle volontà, e la filosofia metafisica rimpiazzando le nozioni a priori con nozioni a posteriori». (2) La stretta affinità tra queste altre forme dell'antropomor- fismo e la filosofia teologica dà in parte ragione a un altro concetto di A. Comte, secondo il quale i tre stati si ridurrebbero al fondo a due, il vero spirito generale della filosofia metafisica consistendo. / concetti relativi alla quistione delle cause efficienti, non si può non t^ner conto, per caratterizzare la me- tafisica, almeno di un altro ordine di speculazioni: sono quelle relative alla quistione del mondo esteriore. Ciò ci mostra un' altra lacuna della definizione di A. Comte. La dottrina delle monadi, sia nel senso di Leib- nitz, sia nel senso di quei filosofi che non intendono per esse che degli elementi assolutamente semplici in <5ui si risolve la realtà materiale, e in generale tutte le ipotesi trascendenti sulla natura della cosa in sé dei corpi, non potrebbero non comprendersi in un concetto gene- rale della filosofia metafisica senza escludere metà della metafisica moderna. Ora tutte le concezioni a cui abbia- mo accennato non implicano affatto una realizzazione di astrazioni, e occupano, non pertanto, un posto assai più largo, nella storia della metafisica, che la stessa realizza- zione delle astrazioni per cui la caratterizza A. Comte. come quello della filosofia teologica, « a prendere per principio, nella spiegazione dei fenomeni del mondo esteriore, il nostro senti- mento inmiediato dei fenomeni umani » (T. Ili lez. 40). Ma questo concetto è incompatibile non quello che la metafisica cont*iste nella realizzazione delle astrazioni : non si vede au^i come, stando al primo di questi due concetti, la realizzazione delle astrazioni possa entrare nel campo delle concezioni metafisiche. Questa base comune tra le concezioni teoloijiche e la più parte delle concezioni metjiflsiche. ohe consiste, come dice Comte, «a pren- dere per principio, nella spiegazione dei fenomeni d«l mondo esteriore, il nosrro sentimento immediato dei fenomeni umani», mostra che la filosofia teologica non è ohe un caso della filosofia metafisica, e che sarebbe quindi più giusto di considerare la prima cerne una modificazione (cioè un modo di essere) della se- conda, anziché, come fa l'autore, la seconda come una modifica- zione della prima (V. t. IV lez. 51). !• - Un' altra osservazione, naturalmente legata alla pre- cedente, è che Cointe si esagera l'importanza, nella sto- ria del pensiero, della realizzazione delle astrazioni. La teoria dei tre stati suppone che lo spirito umano, in un certo stadio del suo sviluppo, è condotto inevita- bilmente a riguardare le astrazioni come delle realtà. Ma i dati della storia non autorizzano questa supposi- zione. Quando ci si parla di un periodo, nella storia del pensiero umano, in cui i fenomeni erano sistematica- mente spiegati per delle entitTi o delle astrazioni perso- nificate, noi pensiamo naturalmente al medio evo e alla filosofia scolastica. Ma nella stessa filosofia scolastica il rea- lismo, nel senso stretto della parola, cioè quello che consi- dera gli universali come delle realtà obbiettive, distinte dalle cose ed esistenti fuori del pensiero sia umano sia di- vino, non era l'opinione prevalente. « Se per essere con- tato fra i realisti, osserva Haureau, bisogna dire che l'universale isolato, separato dalle cose sensibili e dal- l'intelletto umano, è una cosa, res, un oggetto reale, nel vero senso di questa parola, se ne troveranno pochi (fra i dottori scolastici) che siano di questa opinione. Noi sappiamo che nel numero dei platonizzanti ve ne sono che hanno accettato come delle realtà, dotate di mate- ria e di forma, queste essenze universali di cui essi pretendevano definire la natura misteriosa ; ma sappia- mo pure che tale non è stato il sistema adottato dalla più parte fra di loro » (1). In quanto alle qualità occulte e alle altre entità simili degli ultimi scolastici, a cui i cartesiani e i filosofi del rinascimento facevano la guerra, esse non implicavano necessariamente una realizzazione di astrazioni. Le qualità occulte, le virtù specifiche, le forme sostanziali, ecc. non erano considerate, almeno (1) Haureau, Filosofi t scolastica, tomo 1, e. Ili, pag. 71. -11- dalla più parte di quelli che le ammettevano, come degli esseri sussistenti per sé stessi e realmente distinti dalle cose in cui risiedevano. La forma sostanziale e la materia erano, così per Aristotile come per la più parte degli scola- stici, degli elementi concettuali,, non reali, della vera so- stanza, cioè dell'oggetto individuale, quantunque si l'uno che gli altri esprimessero spesso questa distinzione logica in termini appropriati piuttosto a una distinzione reale (1). Quando gli scolastici spiegavano i fenomeni, come dice Comte, per le semplici denominazioni astratte dei feno- meni stessi, quando dicev^ano, p. e., che il fuoco riscalda perchè ha la qualità di produrre il calore, o che l'oppio fa dormire perchè ha la virtù dormitiva, questa spiega- zione, in quanto non era una semplice tautologia, con- sisteva a supporre che esiste nella causa una qualità misteriosa, la quale, se fosse conosciuta, spiegherebbe radicalmente l' effetto. Era il concetto della causa effi-ciente nella stessa forma in cui l'ammette il Comte: essi supponevano, couìe lui, al di là delle condizioni osserva- bili della produzione dei fenomeni, delle cause intime o generatrici e un modo essenziale di produzione, che sfug- gono necessariamente all'osservazione. Così, quando Car- tesio sbandiva le qualità e le potenze occulte degli sco- lastici, sostituendovi la spiegazione meccanica dei feno- meni, cioè riducendo tutti i fenomeni al movimento pro- dotto dall'impulsione, egli non inaugurava, come crede Comte (2), il periodo positivo, ma sostituiva a una con- cezione relativamente positivista (perchè, quantunque ammetteva le cause efficienti, le poneva al di là della ricerca scientifica) una concezione e un metodo essen- zialmente metafisici, perchè la spiegazione cartesiana — anche senza tener conto dei concetti teologici eh' egli (1) V. il 5 2. (2) Voi. 1, p. 19 e altrove. — 12 — sovrapponeva alla sua spiegazione meccanica, e del metodo generale aprioristico di cui questa era un'appli- cazione — era costruita sullo stesso tipo che quella die consiste « ji prendere per principio, nella spiegazione dei fenomeni del mondo esteriore, il nostro sentimento im- mediato dei fenomeni umani », cioè era, come questa, un prodotto della tendenza istintiva del nostro spirito ad assimilare tutti i fenomeni a (jnelli che ci sono i più fa- miliari. Ma se la realizzazione delle astrazioni non è stata un fatto generale nemmeno nella filosofìa scola- stica, noi cercheremo invano dove porremmo collocare, nella storia dell'evoluzione del pensiero umano, questo stato supposto in cui gli agenti sovrannaturali venivano sostituiti da entità o astrazioni personificate, o, come dice Miil, si prendevano i nomi astratti dei fenomeni per le cause della loro esistenza. Osserveremo infine che la teorìa dei tre stati di A. Comte, quand'anche fosse vera, non sarebbe tutt'al più che una generalizzazione empirica. Perchè gli uomini, o i filosofi, a un certo periodo dello sviluppo dello spirito umano, realizzavano le astrazioni ? L'azione sovrannatu- rale, dice Comte, non ha potuto abitualmente abbando- nare la direzione immediata del fenomeno senza lasciar- vi, in sua vece, una misteriosa entitTi. Ma perchè que- sta cosa, che prendeva le veci dell' azione sovran- naturale, doveva essere precisamente un' entit<à, cioè un' astrazione realizzata ? In una parola Comte non ci spiega perchè alla filosofia teologica succede ap- punto la filosofia metafisica, cioè la realizzazione delle astrazioni, e non un'altra torma qualsiasi di speculazio- ne, più o meno chimerica. Egli ci dice che lo stato me- tafisico è destinato ad aiutare lo spirito umano a pas- sare dallo stato teologico allo stato positivo ; che que- sta strana maniera di filosofare ha dovuto essere lunga- mente necessaria sia per facilitare il declivio graduale — 13 - della teologia, sia per preparare lo slancio progressiva della fisica. Ma ciò è indicare l'utilità, il fine^ del feno- meno, non le cause che l'hanno prodotto. Comte spieghe- rebbe dunque lo stato metafisico per la sua causa finale^ egli che fa consistere lo spirito della filosofia positiva nel rigetto di qualsiasi ricerca sulle cause finali, non meno che sulle cause prime e sull'essenza intima delle cose? Stuart-Mill, che accetta la teoria dei tre stati di A. Comte (1), cerca di spiegare come la filosofia teologica si è trasformata nella filosofia metafisica (caratterizzata dalla realizzazione delle astrazioni). « È uno dei punti imba- razzanti della filosofia, egli dice, di spie2:are come il ge- nere umano, dopo aver immaginato un semplice seguito di nomi per cojiservare i rapporti di certe combinazioni d'idee o d^immagini, ha potuto dimenticare la sua pro- pria operazione sino al punto d' investire d^ una realtà obbiettiva queste creazioni della sua volontà, e di pren- dere il nome di un fenomeno per la sua causa efficiente. Ma ciò che sarebbe un mistero, se si considerasse al punto di vista puramente dogmatico, si trova rischia- rato dal punto di vista storico. Queste parole astratte, che per noi ora sono semplici nomi dei fenomeni, non e- vano tali alV origine (2) Il punto di vista metafisico non è stato ìiua perversione del punto di vista positivo, ma una trasformazione del punto di vista teologico. Per formare una classe iV oggetti, lo spirito umano non è par- tito dalla nozione di nome, ma da quella di divinità, (Non è partito dalla nozione di nome, perchè i nomi, suppongono che le classi si siano già formate; ma per- ii) Log. 1. Vr, e. X, J 8, e ^. Conile^ e il positivismo verso il principio. (2) ('onfrouta il luogo della Log. 1. V, e. IH, $ 4, citato sul principio «lei paragrafo. - 14 - che ha dovuto partire dalla nozione di divinità?) La realizzazione d' astrazioni non veniva da ciò che la pa- rola rivestiva nn corpo, ma da ciò che un feticcio spo- gliava gradualmente il suo. .. Così lunffi che si estese il feticismo, e così lungamente che durò, non vi ebbe astra- sione né classificazione deffli ofjifetti, e per conseguenza non posto per il modo metafisico di pensare. (Come il Mill potrebbe provare questa strana affermazione? Nel linguaggio del feticista non vi erano che nomi propri? e se vi erano dei nomi comuni, come poteva non esservi una classificazione degli oggetti?) Ma tosto che Vagente volontario di cui il volere reggeva il fenomeno ebbe ces- sato di essere l'oggetto fisico esso stesso, e fu trasferito in un posto invisibile donde sorvegliava una classe in- tera delle operazioni della natura, cominciò a sembrare impossibile che quest' essere potesse esercitare la sua possente azione a distanza, se non per l'intromissione di qualche cosa presente in questo luogo. Sotto l'influenza dello stesso pregiudizio naturale che rese Newton inca- pace di concepire la possibilità della sua propria legge di gravitazione senza un etere sottile, che riempisce lo spa- zio intervallare, e a traverso cui l'attrazione potesse co- municarsi— per l'effetto di questa stessa infermità natu- rale dello spirito umano, parve indispensabile che il dio, situato a una certa distanza dall' oggetto, dovesse agire per 1' intromissione di qualche cosa risiedentevi, che fosMe l'agente immediato; il dio avendo partecipato a questo alcun che d' intermediario la forza per mezzo di cui esso influenzava e governava 1' oggetto. Quando gli uomini sentirono il bisogno di dare un nome a que- ste entità immaginarie, essi le chiamarono la natura dell'oggetto o la sua essenza o le virtìi risiedenti in lui o di molte altre maniere differenti. Queste concezioni me- tafìsiche furono riguardate come affatto reali, e dap- prima come puri strumenti nelle mani delle divinità cor- — 15 — rispondenti. Ma dacché si prese l'abitudine di attribuire alle entità astratte non solo 1' esistenza sostanziale, ma ancora Fazione reale ed efficace, accadde in conseguenza che le entità furono lasciate in piedi allorché la cre- denza alle divinità venne a declinare, poi a perdersi, e un sembiante di spiegazione dei fenomeni, simile a ciò che esisteva prima, si trovò fornito dalle entità sole, senza che fossero rapportate ad alcuna volontà. Quando le cose fun)no giunte a (luesto punto, il modo metafi- sico di pensare si era completamente sostituito al modo teologico» (1). Il pernio della spiegazione di Mill è che quando gli agenti volontarii a cui la filosofia teologica attribuisce la i)roduzione dei fenomeni, non furono più gli oggetti stessi, ma delle divinità situate fuori degli oggetti e a una certa distanza da essi, in virtìi del pregiudizio na- turale che non j)uó esservi azione che a contatto, s'im- maginarono delle entità situate negli stessi oggetti, af- finché l'azione della divinità potesse giungere a questi per il loro intermediario. Questa spiegazione é tutt'altro che soddisfacente, perché in virtù dello stesso pregiu- dizio naturale che non può esservi azione a distanza, avrebbe bisognato immaginare un'altra entità posta fra la divinità e l'entità risiedente nell' oggetto, e poi una terza entità fra la seconda e la divinità, e così di se- guito. Ma lasciamo ciò. Il vero punto che bisognava li- scluarare la spiegazione lo lascia nell' oscurità. Perché questa qualche cosa d'intermediario, necessaria affinché la divinità potosse agire sull'oggetto, doveva essere pre- cisamente un'entità, cioè un'astrazione realizzata? Forse questa spiegazione deve essere completata con quella che l'autore ci dà nella Logica, cioè che gli uomini realizza- ci) Stuart-Mill, A. Comte e il positivismo, tradiiz. frane, pag. 19-23. — 16 - — 17 — rono le astrazioni in virtù deiraltro pregiudizio naturale che ciò che può essere pensato a parte esiste a parte f Ma se è così, non si vede perchè lo stiito metafisico sia apparso dopo lo stato teologico, perchè gli uomini non abbiano cominciato a realizzare le astrazioni che dopo la cessazione del feticismo. Fu, dice Mill, perchè durante il feticismo non vi ebl>e astrazione né classificazicme degli oggetti. Ma per qual ragione ? Inoltre questi sviluppi che Mill dà alla teoria di Corate ingrandiscono un altro dei punti deboli di questa teoria, cioè la supposizione gratuita che vi è stato un periodo, nello sviluppo dello spirito umano, in cui la realizzazione delle astrazioni era un fatto universale— sorvoliamo sulla stranezza di attribuire agli uomini appena usciti dal feticismo le no- zioni di ììature o essenze delle cose e di virtù alla scola- stica, che, stando ai dati della storia, non appariscono che con Platone e Aristotile e i loro discepoli—. Stuart Mill fa una enumerazione delle astrazioni a cui i filosofi hanno attribuito l'obbiettività; ma questa enu- merazione è ben lungi dal provare che vi è stato un periodo, dopo la cessazione del feticismo o ad un'altra epoca qualunque, in cui tutti gli uomini, o i filosofi, hanno considerato generalmente le astrazioni come en- tità reali. «A questa fase (la metafisica) non é più un Dio che produce e dirige ciascuna delle diverse opera- zioni della natura : è una potenza o una forza o una qualità occulta, considerate come esistenze reali inerenti, benché ne siano distinte, ai corpi concreti nei quali esse risiedono e i quali animano in qualche sorta. In luoiro delle Driadi presiedenti agli alberi e producenti e rego- lanti i loro fenomeni, ciascuna pianta o ciascun animale- possiede allora un' anima vegetativa, la Spenuxrj i/jv^rj d'Aristotile. A un periodo ulteriore l'anima vegetativa diviene una Forza plastica, e più tardi ancora un Prin- cipio vitale. Gli oggetti allora si conducono come fanno II perché è la loro Essenza d'agire così ovvero in ragione di una virtù inerente. Si rende conto dei fenomeni per le tendenze o le inclinazioni supposte dell'astrazione Na- tura, che, benché riguardata come impersonale, è rap- presentata come agente per una sorta di motivo e d'una maniera più o meno analoga a quella degli esseri co- scienti. Aristotile afferma la tendenza della Natura verso il meglio, ciò che gli fornisce la teoria d' un gran nu- mero di fenomeni naturali. L'elevazione dell'acqua nella pompa è attribuita all'orrore della natura per il vuoto. La caduta dei corpi gravi e 1' ascensione della fiamma e del fumo sono interpretate come tentativi fatti da cia- scuno di essi per occupare il suo posto naturale. Dalla dottrina che la natura non ha interruzioni (non habet saltum) si deducono molte conseguenze importanti. In medicina la forza curativa della Natura (vis medivatrix) fornisce la spiegazione dei processi riparatori che sono rapportati, dai fisiologi moderni, ciascuno alle sue ope- razioni e alle sue leggi particolari » (1). « Nessuno negherà, a meno d^ignorare interamente la storia del pensiero, che in tutta l'antichità e in tutto il medio evo la specu- lazione è stata impregnata dell'errore che consiste a pren- dere delle astrazioni per delle realtà. Le famose Idee di Platone furono la generalizzazione e la sistematizzazione di questo errore. Gli Aristotelici lo perpetuarono. Le essenze, le quiddità, le virtù risiedenti nelle cose furono accettate come una spiegazione bona fide dei fenomeni... L'esistenza reale delie sostanze universali fu la qui- stione in litigio nella famosa controversia della fine del medio evo tra il Nominalismo e il Realismo, controversia che rappresenta uno dei punti capitali della storia del pensiero, perché è la prima lotta di questo per emanci- (1) ^. Comte e il posit, trad. frane, p. 11-12.I 4. 'A A - 18 — parsi dall'impero delle astrazioni verbali. I Realisti fu- rono il partito più forte; ma benché i Nominalisti aves- sero per un tempo soccombuto, la dottrina contro di cui essi si erano ritoltati cadde, dopo un breve inter- vallo, col resto della filosofìa scolastica. Ma mentre le sostanze universali e le forme sostanziali, costituenti la specie più grossolana di astrazioni realizzate, furono più presto messe da parte, le Essenze, le Virtù e le Qualità occulte loro sopravvissero lungamente e furono per la prima volta completamente espulse dal dominio dell'esi- stenza reale dai Cartesiani Anche lungo t^mpo dopo Descartes si continuò ad immaginare delle entità fittizie (come le chiama felicemente il Bentham) per rendersi con- to dei fenomeni più misteriosi, sovratutto in fisiologia, dove, nascosti sotto una grande varietà di espressioni, delle forze o princìpii misteriosi erano o rimpiazzavano la spiegazione dei fenomeni degli esseri organizzati. Per i filosofi moderni queste finzioni sono semplicemente i nomi astratti delle classi di fenomeni che loro cor- rispondono > (1). Alle astrazioni realizzate enumerate qui dall' autore possiamo aggiungere quelle degli antichi Indiani e degli Hegeliani, indicate in un luogo citato in una nota precedente (2), e avremo una lista pres- soché completa dei fatti che possono addursi per so- stenere la teoria di A. Comte e di Stuart Mill, che vi ha un periodo nella evoluzione del pensiero umano, lo stato metafisico, la cui nota caratteristica ed essen- ziale é di elevare le astrazioni al grado di realtà. Ma molti dei concetti indicati dal Mill non hanno al- cun titolo per essere riguardati come astrazioni realiz- zate. L' anima vegetativa di Aristotile, egualmente che (1) Stuart -Mill, A. Comie e il positivismo, traduzione frane, pag. 17-19. (2) Log. 1. V, e. 3 J 4. — 19 - la sua anima umana (eccetto il nous) e animale, non è data da lui come una entità reale: è l'insieme delle funzioni del corpo organizzato, la sua forma o la sua energia, e questa, come le altre forme o essenze delle cose, non è per lui una realtà sussistente per sé stessa, non si distingue dalla materia realmente, ma solo c&n^ cettualmente. Le proposizioni dello stesso Aristotile e dei Peripatetici e le altre proposizioni simili, che attribuiscono alla natura delle tendenze e delle inclinazioni come ad un essere cosciente, sono, non dico affiitto innocenti, ma certo meno ree di metafisica di quanto lo suppone il Mill. « Non bisognerebbe, dice Naville (1), esagerare 1» portata di questa mitologia, nella quale si deve fare la I^arte delle forme del linguaggio. L'orrore del vuoto at- tribuito alla natura, Famore del riposo attribuito ai cor- pi, erano delle formule che aggruppavano un gran nu- mero di fatti reali. Il male era di prendere l'espressione figurata di un gruppo di fatti per un principio di spie- gazione al quale la ricerca si termava. È manifesto, per esempio, che sinché si considerava l' orrore del vuoto come la spiegazione dell'ascensione dell'acqua in una pompa, non si dovevano studiare i rapporti del fatto col peso dell' atmosfera y> (2). Noi ammet- tiamo che in queste espressioni vi era spesso qual- che cosa di più che delle semplici metafore: era il concetto di una finalità incosciente attribuita alla na- (1) Orig. della fisica moderna, Rev. scientif. 2a ser., t. 8. (2) Per mostrare quanto si può andare lungi in questa via, di attribuire gratuitamente delle assurdità ai filosofi, metafisici o non metafìsici, prendendo strettamente alla lettera le loro espressioni metaforiche, basterà di citare l'esempio di Max-Miil- ler, che vede una personificazione della natura nella dottrina di Darwin della scelta o selezione naturale. V. Nuove Letture sulla scienza del linguaggio, trad. ital. II voi. p ^ I tura, in cui lo spirito vedeva un sembiante di spiega- zione dei fatti, perchè vi trovava una vaga assimilazione delle operazioni della natura a quelle dell'uomo, confor- memente a quest'illusione naturale che ci spinge a cre- dere che un fatto non è spiegato che quando è assimi- lato ai fatti che ci sono i più familiari. Ma se ciò è metafisica, non è però realizzazione di astrazioni, perchè la più parte dei filosofi, egualmente che il volgare, in- tende per natura il complesso di tutti gli esseri esistenti o almeno osservabili, e non un'entità astratta, né se ne fa un'entità astratta quando si personifica, ma semplice- mente si umamizza (in una parola, nelle proposizioni sulla natura indicate dal Mill, non vi ha del realismo, ma una forma vaga delV antropomorfismo). Semba dun- que che il Mill ha fallito in questo suo tentativo di dare un senso accettabile alla proposizione del Comte, che il sistema metafisico tende, come gli altri due, al- l'unità, e che il suo ultimo termine « consiste a conce- pire, in luogo delle differenti entità particolari, una sola grande entità generale, la natura » (1). Per quanto con- cerne le sostanze universali, le forme sostanziali, le qua- lità occulte, ecc. degli scolastici, noi abbiamo già fatto le nostre riserve quando abbiamo discusso la tesi stessa del Comte. Delle riserve simili dobbiamo fare per l'altra entità, che il Mill considera come la più importante fra le astrazioni realizzate dalla metafisica, cioè la Forza. (2) (1) A. Comte Corso di filos. posit, voi I p. 10. (2) Nella Filos. di Hamilton, cap. 16, sulla fine, sembra ri- durre tutto le entità metafisiche, cioè tutte le astrazioni realiz- zate, a quella di forza. È a notare che qui 1' autore spiega le astrazioni realizzate, ridotte al concetto di Forza, altrimenti ohe nella Log. lib. V o. 3 } 4 e nello scritto A . Comte e il positivi^ smo. Questa spiegazione si riassume nella proposizione che la forza è una nozione puramente subbiettiva, che è un « prodotto - 21 — La più parte dei pensatori moderni intendono certa- mente per forza qualche cosa di più che le condizioni osservabili che si trovano in un corpo, per cui può mo- dificare lo stato di riposo o di movimento di altri corpi— € in questo senso la forza, è come le qualità occulte degli scolastici, una varietà della forma della causa efficiente che noi possimo cliiamare agnosticista — : ma pochi ri- guardano la forza come un essere distinto dalla materia e sussistente per se stesso, che è il meno che si possa esigere per classificarla fra le astrazioni realizzate. Così, fatte queste sottrazioni ed altre simili, ecco press'a poco ciò che ci resta di astrazioni realizzate, fra i concetti che hanno avuto un' importanza reale nella storia del pensiero: quelle degli antichi Indiani, dei Platonici, dei veri realisti del medio evo (che erano una minoranza), degli Hegeliani; di più le Forze di quei pochi tìsici o fi- losofi che considerano la forza come separata dalla ma- teria, e il Principio vitale e altre entità congeneri che molti fisiologi e filosofi consideravano un tempo come le cause dei fenomeni degli esseri animati (a cui si potrebbe aggiungere anche l'anima, che, considerata come una so- stanza, è certamente della stessa famiglia che il principio vitale). È evidente che questi dati non autorizzano la conclusione che fra il periodo teologico e il periodo po- sitivo ne n'ha uno intermediario in cui la realizzazione delle astrazioni è un fatto generale, e nemmeno quella che è nella realizzazione delle astrazioni che consiste es- senzialmente o precipuamente questo stato intermediario della generalizzazione e dell'astrazione operanti sulla sensazione reale di sforzo muscolare o nervoso. » Questa terza spiegazione dello stato metafisico sarebbe assai migliore delle altre due, se fosse realmente possibile di ricondurre tutte le astrazioni realiz- zate, e generalmente tutti i concetti metafisici, a quello di Forza <nel senso trascendente di questo termine). — 22 - - 23 fra la filosofia teologica e la filosofia positiva, cioè la iiKitafisica. Fra i concetti clie si considerano o possono conside- rarsi come delle astrazioni realizzate, bisogna fare certe distinzioni. Bisogna distinguere prima di tutto due casi : l'uno è quando gli astratti, cioè le qualità, come tali^ Tengono considerata come realtà sussistenti per se stesse; e Taltro, quando ai nomi, a cui per noi corrispondono degli astratti, cioè delle qualità, si fanno invece C4*rri- spondere degli oggetti concreti, cioè non degli indeter" wìinaii reali j quali sono gli astratti considerati come es- perì sussistenti per se stessi, ma degli esseri assoluta- mente determinati. Per conseguenza l'Aurora o la Notte sostantificate dal facitore di miti, ovvero la Forza o il Prijucipio vitale di quei fisici o fisiologi che li conside- rano come esseri reali distinti dai corpi in cui risiedono, (o anche l'Anima, considerata com^ una sostanza) noo eono ilelle astrazioni realizzate nello stesso senso in cui lo sono le Idee (cioè le Specie) platoniche o gli Univer- aali dei realisti scolastici- Per Platone e pel realista sco- lastico l'Uomo universale o l'Essere universale non ha aitilo cxmtenuto che quello del concetto generale di uomo o di essere (per esprimerci in termini della dottrina or- dinarla, eioè eoneettuaiifita) j solamente ciò che |Mjr il eooeettualista è una semplice astrazione mentale, è per loro una realtà distìnta^ quantunque astratta, cioè indtn terminata. Al contrario là dove noi vediamo delle qua* litò o delle semplici denominazioni astratte àft\ fenomeni^ il facitore di miti vede invece delle persone; là dove noi vediamo delle attitudini o delle proprietà dei corpi, il fisico che sostantifica la forza, il vitalista, Tanimista, vedono invece degli oggetti concreti, semimateriali o af- fatto immateriali, ma che sono tutt* altra cosa che la ^mplice obbiettjvazione dei nostri concetti di forza o di vita o di animazione. Gli esseri Aurora e Notte e le so- stanze Forza, Anima e Principio vitale sono degli esempi del primo caso di realizzazione di astrazioni; l'Uomo uni- versale e l'Essere universale di Platone e dei realisti sco- lastici sono degli esempi del secondo caso : è evidente che è solo in quest' ultimo caso che può parlarsi con stretta proprietii di astrazioni realizzate. Un'altra di- stinzione che non bisogna negligere, è tra il caso in cui si realizzano accidentalmente certe astrazioni, e quello in cui si realizzano sistematicamente le astra- zioni. Questa distinzione coincide, quantunque non per- fettamente, con la prima. Platone e il realista scola- stico obbiettivano, in principio se non praticamente, tutti i concetti astratti e generali; questo caso è ben dif- ferente da quello dell'uomo primitivo o del filosofo in- diano che non fanno corrispondere delle persone o delle sostanze che a un certo numero solamente di nomi astratti, o del tisico, del fisiologo e del filosofo animista che non sostantificano che la forza, l'anima e il principio vitale. È solo nel primo caso che può applicarsi la definizione della metafisica di A. Comte e di Stuart Mill. Volendo dunque esprimerci con proprietà, una filosofia che ha per carattere essenziale la realizzazione delle astrazioni, significherà per noi una filosofia in cui si verificano queste due condizioni : l'uua che le astrazioni si realizzino si- stematicamente, e Faltra che le astrazioni realizzate siano ancora degli astratti, quantunque reali, cioè non siano niente di più che la semplice obbiettivazione dei con- cetti astratti. Fra le dottrine di cui ci è occorso di parlare sin qui, come esempi veri o pretesi di realizzazione di astrazioni, queste due condizioni non si trovano che nei sistemi delle Idee di Platone e di Hegel e in quello degli Universali dei realisti scolastici. Nei casi in cui queste due condizioni non si verifi- cano, crediamo vano di cercare una soluzione generale della quistioue : perchè si realizzino le astrazioni. In certi — 24 — 25 casi ha dovuto agire im processo simile a quello per cui si sono formati un gran numero di miti e di leggende, cioè l'interpretazione letterale di proposizioui metaforiche ricevute da un' autorità troppo ciecamente rispettata. Come dalle parole del Corano che Dio aperse il cuore di Maometto e da altre simili espressioni metaforiche il mu- sulmano ne ha concluso che 1' arcangelo Gabriele aprì effettivamente il petto del profeta, con tutte le altre cir- costanze di questa leggenda (1); così il fanatico settore di un caposcuola indiano, da certe proposizioni del ma^ stro in cui la virtù sarà stata presentata figuratamente come un oggetto leale e dotato di attività, ha potuto concluderne- ciò che ammette la setta dei Djainas (2) — che la virtù (dharma) è una sostanza particolare che penetra il mondo e che è la causa dell' ascensione del- l'anima verso la regione superiore. Questa spiegazione naturalmente è sovratutto applicabile quando si tratta di scuole filosofiche in cui troviamo, al più alto grado, le condizioni che possono fiivorire un tale processo; co' me nelle sette indiane, dove vediamo, oltre all'assenza di spirito critico e della libera ricerca individuale, per au- torità dei libri sacri e dei semidei per capiscuola, le dot- trine trasmesse oralmente o per mezzo di aforismi scritti estremamente oscuri, i seguaci di una setta formanti una corporazione distinta,, e Vipsidixitismo, per usare la parola di Bentham, rinfocolato da una sorta di fanati- smo religioso, anche quando i dogmi filosofici sono in- dipendenti dai dogmi religiosi, perché la filosofia è con- siderata come un mezzo per la beatitudine eterna e per l'acquisto di un potere sovrannaturale anche in questa (1) V. Tylor. La civilizzmior, e primitiva trad. frnnc. t. I p. 471. (2) V. Colebrooke Saggi sulla filosofia degV Indiani, tradiiz. frano, p. 215-216. vita (1). Noi spiegheremo pure così (2) la dottrina dei Pitagorici — scuola che ci presenta anch'essa, evidente- mente, le condizioni richieste — che le cose sono numeri (questa proposizione potendo considerarsi come una rea- lizzazione di astrazioni, perchè fa dei numeri delle realtà sussistenti per se stesse). In altri casi la realizzazione di astrazioni è certamente l'opera della libera ricerca in- dividuale, applicata seriamente alla soluzione di un pro- blema filosofico; ma possiamo spiegarla come un effetto indiretto delle ordinarie illusioni naturali del nostro spi- rito, senza supporre l'intervento di una tendenza parti- colare che ci spingerebbe naturalmente a riguardare gli astratti come rejiltà. Quando Cartesio riduce la materia all'estensione, egli realizza senza dubl)io un'astrazione, perchè che altro è l'estensione, separata dal colore e dalle altre qualità sensibili ? (3); ma è perchè egli vuol conser- vare alla materia l'obbiettività (conformemente alla ten- denza istintiva che ci spinge ad obbiettivare le nostre sensazioni) e dopo avere rigettato quella delle proprietà secondarie, nel concetto di materia non trova a buon dritto altra cosa che il concetto di estensione (4). Quei Cartesiani che pensavano che, nella comunicazione del movimento, lo stesso movimento (idem numero) passa da un corpo ad un altro, come se esso fosse qualche cosa di sostanziale (5), realizzavano l'astrazione movimento per- ii) V. Colebrooke p. 3. 8, 10, 32, 117,119,151, 153,157,207, 210, eoe, Ueguaud Studi di fìlos. ind. iu Rev: phiL t. I, eco. (2) V. Supplem. K^. (3) V. la parte 2» di questo Saggio. (4) V. il mio studio sulla dottriua della materia iu Kosuiiui e la secouda parte di questo Saggio. (5) V. LeiV)nitz iV. Saggi sulV inlend. nniano t. II e. 21 § 4 e e. 23 $ 28. 2H — che il fatto nonfamiliare della conservazione del movimento sembrava loro più comprensibile dopo che lo avevano assi- milato al lìsitto familiariss imo della conservazione della materia, in virtù della tendenza naturale del nostro spirito a credere che un fenomeno non è spiegato che (juando si è assimilato a qualcuno di quelli che ci sono i più familiari. È allo stesso motivo che si deve, in certi casi, la realizza- zione dell'astrazione /or^ra, mentre in altri casi, p. e. nella dottrina di Hirn, essa ha piuttosto per iscopo di ricondurre l'azione a distanza a una sorta di azione a contatto (vale a dire ancora un fenomeno non familiare a un fenomeno /amiliarissimo) supponendo che, se il corpo agente è di- stante dal corpo su cui agisce, è almeno a contatto con questo il principio a cui appartiene realmente Fazione, cioè la Forza (1). L'anima e la forza vitale si sostantifi- cano, come spiegheremo nell'Appendice, per conciliare il fatto del passaggio della materia dallo stato vivente allo stato non vivente, dallo stato cosciente allo stato non co- eciente, e viceversa, col principio incosciamente presup- posto, e che è un'induzione delle nostre esperienze più familiarì, che le cose ^on possono cangiare nelle loro proprietà sostanziali, lo stesso principio che è la base della dottrina dei quattro elementi di Empedocle, delle omeomerie di Anassagora, degli atomi di Leucippo e di Democrito, delle monadi di Herbart, ecc. Il Nous dello stesso Anassagora e di Aristotile potrebbe considerarsi anch'esso un^astrazione realizzata, e a più buon dritto la volontà di Schopenauer (perchè, dopo averne soppresso l'intelligenza e la coscienza, non resta di questo processo psichico che chiamiamo volere che una forma senza con- tenuto^ : i primi sostantificano l'intelligenza, perchè cre- dono che, fra le proprietà dello spirito, essa è la sola che sia compatibile con l'impassibilità e l'immutabilità (I) V. volume precedente» enp. V. — 27 che devono essere i caratteri della causa prima; l'altro la volontà, senza l'intelligenza e la coscienza, perchè vuol conciliare il principio d'uno spiritualiemo estremo che il fondo delle cose è alcun che di psichico, con la dottrina materiaUsta che l'intelligenza e la coscienza non sono che dei fenomeni cerebrali. Negli uni e nell' altix> questa realizzazione di astrazioni é una conseguenza in- diretta della t»endenza ad assimilare le azioni della na- tura alle azioni dell'uomo, che è un caso di quella più generale a ricondurre tutti i fatti a quelli che ci sono i'più familiari. In tutti questi casi la vera sorgente del- l'illusione è il sofisma a priori che ci spiega tutte le il- lusioni della metafisica, cioè, enunciandolo nella forma più generale, la tendenza a modellare tutt^i le nostre idee sul tipo di quelle che ci sono le più familiari, di cui l'effetto più importante è quello studiato nella prima parte del presente Saggio, vale a dire la nozione di causa efficiente e le sue diverse applicazioni. È ad esso che dobbiamo ricondurre quella realizzazione di astrazioni in cui si verificano le due condizioni precedentemente indicate, cioè la forma di metafi^tica die può definirsi propriamente come un'obbiettivazionedei concetti astratti: è hi sola realizzazione di astrazioni che per noi è suscet- tibile di una spiegazione generale, alla quale sarà consa- crato il resto di questo capitolo. J 2. Cominciamo per definire d' una maniera più chia- ra questa forma di metafisica. Si sa che alla (luistione: che cosa corrisponda, nella realtà, ai nomi generali « astratti, che è che essi significhino, si sono date tre so- luzioni, elle, prendendo queste denominazioni dalla filo- sofìa dei medio evo, possiamo chiamare il realismo, il ooneettualismo e il nominalismo. Secondo il nominalismo, non solo non vi Itanno nella realtà che oggetti concreti e particolari, ma noi non abbiamo altre idee che di oggetti concreti e particolari; un nome generale, cioè un nome IN j 28 - — 29 — di classe, iiod sìguifica altro, e non può altro suggerirci allo spirito, che le idee degli oggetti particolari e con- creti appartenenti alla classe — in quanto ai nomi a- 8tratti,essi non servono che ad esprimere più brevemente la stessa idea che potrebbe essere espressa da una proposizione che non avesse per termini che dei no- mi designanti gli oggetti concreti corrispondenti (1) — . Il concettualismo, che è la dottrina più diftusa tra i filosofi^ ammette, come il nominalismo, che non vi han- no nella realtà che oggetti concreti e particolari, ma, a differenza del nominalismo, suppone che, oltre alle rap- presentazioni di oggetti concreti e particolari, noi abbia- mo delle rappresentazioni astratte e generali (concetti), cioè in cai sarebbe rappresentato solamente ciò che è comune a tutti gli individui della classe, con l'eschisione di tutte le particolarità proprie ai diversi individui. P. e. oltre all' idea di questo e quel triangolo particolare (reale o immaginario), noi avremmo, secondo questa dottrina, l'idea astratta e generale di triangolo, che rappresente- rebbe le qualità che possono essere attribuite in comune a tutti i triangoli, ma senza le particolarità che sono proprie ad uno o ad alcuni, p. e. le dimensioni, il colo- re, il posto determinato, l'essere equilatero, isoscele o sca- leno, l'essere rettangolo, ottusangolo o acutangolo, ecc. Una tale idea si chiama generale, in quanto conviene a tutti gl'individui d'una classe; astratta in quanto non rappresenta che le qualità comuni a tutti, con Tesclu- sione delle particolarità proprie a questi e a quegli altri. Secondo il realismo j come vi hanno, nella realtà, delle cose corrispondenti alle idee concrete e particolari e di cui queste sono le rappresentazioni, cosi vi hanno pure, nella realtà, delle cose corrispondenti alle idee astratte generali e di cui queste sono le rappresentazioni, delle l4 (1) V. il Saggio lo, cap. lo, { 20. ir I *' cose che sono a queste idee ciò che la realtà è all' im- magine, al ritratto 1' originale. Vi ha dunque, secondo questo sistema, un triangolo astratto e generale, di cui l'idea astratta e generale di triangolo è la copia nel no- stro spirito; e così pure un uomo, un animale, un al- bero, un essere, astratto e generale, di cui l'idea astratta e generale di uomo, di animale, di albero, di essere è ì\ facsimile e, per dir così, il duplicato, nel nostro pen- siero; a ogni idea astratta e generale (ammessa dal con- cettualismo) corrisponde una cosa astratta e generale, di cui essa è la rappresentazione o l'immagine. Questo triangolo, quest'uomo, quest'animale, ecc. astratti e ge- nerali non sono delle entità misteriose e inconoscibili (come la Forza o il Principio vitale) e nemmeno delle personificazioni (come l'Aurora o la Notte dei miti o gli Eoni degli Gnostici): una cosa astratta e generale non è che l'idea astratta e generale corrispondente, che s^im- prime, per dir così, nella realtà, che si obbiettiva e si esteriorizza, che passa, se mi è lecito di esprimermi così, dallo stato debole allo stato forte (trasportando a que- sto sistema la distinzione di Spencer tra le sensazioni propriamente dette, cioè la realtà del volgare, e le sen- sazioni riprodotte o rappresentazioni); il concetto astratto e generale e la cosa astratta e generale hanno lo stesso contenuto, l' uno nella forma del pensiero, e l'altra in quella della realtà. Il triangolo, l'uomo, l'animale, ecc. astratto e generale non ha, in altri termini, o piuttosto non è, che l'insieme delle qualità comuni a tutti i trian- goli, a tutti gli uomini, a tutti gli animali, senza le particolarità proprie a questi e a quei triangoli, a que- sti e a quegli uomini, a questi e a quegli animali. Que- sto triangolo, quest'uomo, quest'animale, ecc. astratto e generale è uno in se stesso, ma è presente allo stesso tempo, senza moltiplicarsi e senza dividersi, in tutti i triangoli, in tutti gli uomini, in tutti gli animali indi- — 30 — viduali — per questa sua presenza nei diversi individui apparisce multiplo, mentre in realtà non è che uno — : se tutti i triangoli, tutti gli uomini, tutti gli animali indi- viduali si rassomigliano, se sono tutti triangoli, uomini, animali, e li chiamiamo tutti egualmente con lo stesso nome, è perchè in tutti egualmente è presente lo stesso triangolo, lo stesso uomo, lo stesso animale astratto e generale. Una cosa astratta e generale non è, insomma, che un attributo trasformato in sostanza; ma questa so- stanza non è altro che l'attributo stesso considerato co- me esistente per se stesso, quantunque non mai isolato, ma sempre in compagnia degli altri attributi che com- . pongono ciò che per noi è la sola realtà (ma che per il realista è un tessuto di cui le realtà astratte formano la trama), cioè gli oggetti concreti e individuali. Le cose astratte e generali non sono dunque un altro mondo, un'altra realtà, che si sovrappone alla realtà empirica : sono la stessa realtà empirica, cioè la realtà concreta, decomposta in elementi astratti, ma di cui ciascuno si considera pure come una realtà, e non come una sem- plice astrazione mentale. Nei pensatori in cui 1' obbiettivazione dei concetti è una vera filosofìa, cioè uno sforzo del libero pen- siero individuale per darsi una spiegazione delle cose (e non un' ipotesi senz' alcun valore esplicativo, e che non ha altro fondamento reale che l'autorità e un cieco tradizionalismo), alla obbiettivazione dei concetti è u- nito un metodo, che consiste a scoprire questi concetti obbiettivati per un procedimento a priori e deducendoli gli uni dagli altri, e che noi {tossiamo chiamare dialet- tica (prendendo questa parola in un senso più lato che i suoi autori), perchè così è stato chiamato dai due rap- presentanti più illustri di questa forma di metafìsica, cioè Platone ed Hegel. Senza questo metodo, l'obbiettivazioue dei concetti è un'ipotesi assolutamente vana; non è una — 31 — spiegazione delle cose che unitamente a questo metodo. Esso, considerato nei suoi tratti essenziali — cioè comuni ai diversi sistemi, e da cui gli altri derivano — può es- sere descritto brevemente così : si comincia per porre a priori un concetto, s'intende, obbiettivato, cioè si stabili- sce, per ragioni {uiramente logiche, vale a dire indipen- denti dall' osservazione, che esiste nella natura la real- tà corrispoudente a questo concetto (facendo vedere p. e., che la non esistenza di questa realtà sarebbe in- trinsecamente impossibile e contraddittoria); da questo concetto primitivo si deducono altri concetti (pure ob- biettivati), cioè si fa vedere che, data la realtà corri- spondente a quello, sono pure date, per una conseguenza necessaria, le realtà corrispondenti a questi; da questi altri concetti se ne deducono, della stessa maniera, degli altri, e da questi altri altri ancora, e così di seguito, sin- ché si siano scoverti, a priori, per questa deduzione pro- gressiva, tutti i concetti obbiettivati, cioè tutto il reale, perchè il reale, in questi sistemi, si risolve nei concetti obbiettivati ed è da essi costituito. La deduzione di cui si tratta in questi sistemi non è quella che la logica chiama così, cioè il sillogismo; ma essa pretende di con- cludere con necessità (nel senso stretto della parola, che Kant definisce l'impossibilità di concepire il contrario) e senza partire dai dati dell'osservazione; così, quantun- que si allontani più o meno dalla deduzione della lo- gica comune, fra i due processi di ragionamento che que- sta ammette,cioè la deduzione e rinduzione,è la prima che essa prende per tipo, ed è in opposizione assoluta con la seconda. È questa differenza fra la loro pretesa deduzione e la vera deduzione dei logici che è il principale ostacolo per comprendere questi sistemi e lo scopo a cui essi tendono : per conseguenza, per dare un'idea approssima- tiva di questa forma di metafisica, noi prenderemo come esempio un sistema in cui la deduzione si allon- - 32 — tani / il meno che sia possibile, dalla vera deduzione, cioè da quella dei logici. Nel sistema che ci servirò co- me esempio (e che, come vedremo a suo luogo, non è una semplice immaginazione, ma una realtà storica) i concetti obbiettivati formano delle coppie, e ciascuna di queste coppie è ciò che chiamiamo una legge della na- tura. La legge della natura, p. e., espressa dalla propo- sizione Vanimale è mortale, è la coppia dei due concetti obbiettivati 1' Animale (astratto e generale) e la Morta- lità ; la legge della natura espressa dalla proposizione la wateria gravita, la coppia dei due concetti obbietti- vati Materia e Gravitazione; ecc. Così, se ogni animale è mortale, è perchè l'Animale astratto e generale, pre- sente in tutti gli animali, è accoppiato alla Mortalità; se ogni corpo gravita, è perchè il Corpo astratto e gene- rale, presente in tutti i corpi, è accoppiato alla Gravi- tazione; ecc. Ora fra queste leggi della natura ve ne ha di più generali e di più particolari : ciò vuol dire che 1 concetti obbiettivati, le cui coppie costituiscono queste leggi, sono di gradi differenti di generalità, e per con- seguenza anche di astrattezza. Le leggi più particolari formano diversi gruppi, di cui ciascuno si condensa in una legge più generale; le leggi più generali cosi otte- nute formano pure diversi gruppi, di cui ciascuno si condensa in una legge ancora più generale ; e così di seguito, sinché si giunga a una legge suprema unica, in cui tutte sono riassunte e condensate. Questa legge suprema è un assioma: essa deve ammettersi, non in virtù d' un' induzione dalle leggi particolari e dai fe- nomeni da cui queste possono ricavarsi, ma perchè la sua esistenza è intrinsecamente necessaria e la sua non esistenza intrinsecamente impossibile e contraddittoria. Dalla legge suprema, assiomatica, si deduce un gruppo di leggi meno generali — quantunque le più generali di tutte le altre — ; da ciascuna di queste leggi un gruppo — 33 — di leggi meno generali ancora — ma più generali che le rimanenti — ; e così di seguito, sinché si siano scoverte a priori tutte le leggi della natura per una deduzione progressiva, che va sempre da una legge più generale a un gruppo di leggi più particolari. Ogni legge è, ricor- diamolo, unji coppia di entità astratte e generali: così questa deduzione progressiva consiste a passare conti- nuamente da una coppia di entità a un gruppo di altre coppie di entità, meno astratte e meno generali che quella. La coppia primitiva si ammette per la sua evi- denza intrinseca; ciascuna delle altre si ammette in virtù di una deduzione, cioè come conseffuenza di una coppia precedente che ne è la premessa. In questo sistema noi possiamo vedere, io credo, più chiaramente che in un altro quale sia lo scopo e il mo- tivo di questa forma di metafìsica. Questo scopo e que- sto motivo è V assimitazioììs del rapporto logico tra il principio e la conseguenza al rapporto ontologico tra la causa e V effetto. Che vuol dire infatti che la coppia di entità CD può dedursi dalla coppia di entità AB ? Che data AB, sarà data perciò CD ; che se AB esiste esi- sterà pure CD; infine, che l'esistenza di AB trascinerà necessariamente con sé l'esistenza di CD. Ma ciò è pres- soché dire che AB è la causa e CD il suo effetto, poiché ciò che noi chiamiamo causa ed effetto sono due cose di cui se l'una esiste esiste anche l'altra, in altre parole, di cui l'esistenza dell'una trascina necessariamente l'e- sistenza dell' altra. Per la trasformazione delle leggi in entità il principio logico, cioè il principium cognoscendi^ si è trasformato in un principio ontologico, cioè in un principium essendi, e la deduzione di una proposizione da un'altra proposizione in una derivazione reale di una cosa da un'altra cosa. Per noi nella realtà non esistono che fenomeni particolari; una legge della natura non è Ili » che un'espressione più o meno sommaria di un complesso di questi fenomeni; come esistenza distinta da questi fe- nomeni, una legge non è che una proposizione, o al più un'idea generale. Che data la legge a (la legge più ge- nerale che è il principio) è data anche la legge b (la legge più particolare che è la conseguenza), in altri ter- mini che se esiste la legge a, deve esistere anche la legge b, vuol dire semplicemente per noi che se la pro- posizione a è vera, deve essere anche vera la proposi- zione b. Tra la legge che è il principio e la legge che ne è la conseguenza non vi ha dunque per noi, che le consideriamo come proposizioni o come semplici con- cetti, che un rapporto puramente logico. Ma se le leggi sono, non più dei semplici concetti o delle proposizioni, ma delle cose, delle realtà distinte le une dalle altre e dai fenomeni, (juesto rapporto logico diviene anche on- tologico. Perchè allora dire che se la legge a è, è anche la legge ò, vorrà dire che se il reale a esiste, esiste anche perciò l'altro reale b, che di questi due reali il secondo deriva realmente (e son semplicemente che se ne deduce) dal primo, e che il primo è il principium essendi del secondo (e non semplicemente che ne è il principium co(/no8cendi)> Per vedere più chiaramente che la realizzazione delle a- strazioni, cioè, in questo caso, la trasformazione delle leggi in entità, è la condizione per cui il rapporto pura- mente logico tra la legge generale che è la premessa e le leggi particolari che ne sono le conseguenze, viene trasformato in un rapporto ontologico tra la causa e i suoi effetti, dobbiamo riflettere che la legge generale e le leggi particolari che se ne deducono non sono che due enunciazioni diverse (se le leggi non sono che proposi- zioni) o al più due rappresentazioni diverse (se le leggi sono delle idee generali) di una sola e stessa realtà, cioè di un complesso di fenomeni. Questa stessa realtà, questo stesso complesso di fenomeni, che la legge gene- ^ - 85 - rale esprime o rappresenta d' una maniera piii indeter^ minata, le leggi particolari l'esprimono o rappresentano d'una maniera più determinata. Così quando si deducono le leggi particolari dalla legge generale, passando dal principio alle conseguenze il pensiero non passa da una realtà ad altre realtà distinte, ma dalla espressione o rappresentazione più indeterminata, più astratta, di una realtà,a un'altra espressione o rappresentazione meno inde- terminata, meno astratta, della stessa realtà. Il progresso dal più indeterminato al più determinato,dal più astratto al più concreto, è soltanto nel nostro i^ensiero: ma se le leggi sono delle entità, se degli astratti si fanno delle real^i distinte, il progresso del pensiejo che, nella deduzione delle leggi, passa gradatamente da nno stato più inde- terminato a uno stato più determinato, da uno stato più astratto a uno stato più concreto, è la rappresentazione di un progresso identico nella realtà, che passa anch'essa gradatami nte da uno stato più indeterminato o più a- stratto (le leggi più generali) a uno stato più determi- nato o più concreto de leggi j)iù particolari). In altri termini, prima della realizzazione delle astrazioni, il passaggio dal più astratto al più concreto, cioè dal prin- cipio alla conseguenza, era semplicemente un processo logico; dopo la realizzazione delle astrazioni diviene an- che un processo ontologico, uno sviluppo, una deriva- zione reale, un passaggio dal producente al prodotto, dalla causa all' effetto. Nel seguito di questo capitolo mostreremo d' una maniera più chiara e più completa come la realizzazione degli astratti sia la condizione ne- cessaria perchè il rapporto logico tra il principio e la conseguenza nella deduzione venga identificato al rap- porto ontologico tra la causa e l'effetto. Qual è dunque il motivo per cui si realizzano le astrazioni ; nel nostro caso, per cui le leggi si riguardano come entità ? È per- chè la produzione reale delle cose, il modo essenziale di (1 I 14 - 36 - questa produzione, come dice Couite, sia una causazione efficiente, e non delle semplici sequenze invariabili. In questa forma di metafìsica, la vera causazione non è l'incatenamento regolare dei fenomeni die si succedono nel tempo, ma questa deduzione che è al tempo stesso una derivazione reale, questo passaggio continuo dal principio alla conseguenza, dal più astratto al più con- creto, che ha luogo, al di fuori del tempo, nelle entità astratte, che sono la vera realtà in cui si risolvono i fenomeni. Quando il realista trasforma le astrazioni in realtà per assimilare il rapporto tra il principio e la con- seguenza a quello tra la causa e 1' effetto, egli non in- tende assimilarlo al rapporto tra 1' antecedente di una sequenza invariabile e il suo conseguente, ma a quello tra la causa efficiente e il suo effetto. E infatti il raiv porto di derivazione tra l'entità principio e le entità conseguenze (nel nostro esempio tra la legge più gene- rale e le leggi più particolari che se ne deducono) ha tutti i caratteri che distinguono la causazione efficiente da una semplice sequenza invariabile. Questi sono, come sappiamo : l^ che il legame tra la causa e 1' efìetto sia d'un'evidenza intrinseca ; 2" che sia necessario ; S*» che la causa spieghi, d' una maniera radicale, esauriente, V effetto, in modo da non lasciare alcun adito ancora alla domanda: perchè? È evidente che questi caratteri si ritrovano nel legame tra il principio e la conseguenza nella deduzione, dopo che, per la elevazione dei prin- cipii e delle conseguenze al grado di entità reali, la de- duzione è diveuuta una derivazione reale. Nella dedu- zione la connessione tra il principio e la conseguenza è indipendente dall'esperienza, e si vede, non solo a pilori, ma anche immediatamente ; di più questa connessione ha la più alta necessità che noi possiamo immaginare, cioè l' impossibilità assoluta di concepire il contrario. Per vedere che anche il terzo carattere si ritrova nella T. - 37 — derivazione successiva delle entità le une dalle altre, non si deve dimenticare una circostanza essenziale del me- todo con cui esse si deducono, cioè che 1' entità primi- tiva, da cui tutte le altre vengono gradatamente de- dotte, è posta a priori, per la necessità intrinseca della sua esistenza, o, ciò che è lo stesso, l'impossibilità in- trinseca della sua non esistenza. Questa forma di meta- fìsica non è dunque che un'applicazione del concetto di causazione effìciente, uno sforzo per ritrovare al di là del mondo dei fenomeni— o piuttosto in questo mondo stesso, ma nella sua struttura latente e nel processo la- tente della sua auto-produzione — quest' incateuamento di vere cause e di veri effetti (secondo la nostra nozione spontanea della causalità), che non si riesce a trovare nei fenomeni stessi, i quali, come tali, cioè nella loro esteri(>rità, non ci presentano che degli antecedenti e dei conseguenti di sequenze invariabili. La circostanza suindicata del metodo che, insieme alla realizzazione delle astrazioni, costituisce l'essenza di questa forma di metafìsica, cioè che l'entità primitiva da cui si fanno derivare tutte le altre viene posta a priori, per la necessità intrinseca della sua esistenza, è un carattere essenziale di questo metodo e comune ai diversi sistemi Senza di essa il rapporto tra i i)riucipii e le conseguenze non potrebbe identificarsi a quello tra le cause e gli effetti. Ciò non è solamente perchè, Del- l' assenza di questa condizione, la spiegazione non sa- rebbe radicale, esauiien te— poiché resterebbe a spiegare il primo principio per cui le altre cose vengono spie- gate—; ma anche per un'altra ragione. L'anteriorità cro- nologica della causa verso l'effetto è sostituita, in que- sta metafisica, da una anteriorità di natura, la quale non è che l'anteriorità logica del principio verso la con- seguenza in un metodo puramente deduttivo, o piutto- sto la obbicttivazionc di essa, conformemente al carat- •t\ — 38 — - 39 - tere generale di questa filosofìa, che consiste a dare un valore e un'esistenza obbiettivi a ciò che non ha che un valore e un' esistenza meramente logici. Quest' anterio- rità logica dei principii verso le conseguenze suppone che il principio primo sia stato stabilito a priori; se non fosse così, il metodo non sarebbe a priori e pura- mente deduttivo, ma i principii sarebbero provati dalle loro conseguenze, e in definitiva dai fatti dell' osserva- zione di cui esse sono l'espressione astratta; ma allora le conseguenze avrebbero lo stesso titolo ad essere ri- guardate come logicamente anteriori ai principii che questi ad essere riguardati come logicameute anteriori a quelle. Così, nel sistema che ci serve di esempio, se la legge generalissima da cui tutte le altre si deducono, non fosse stabilita a priori, per la sua necessità intrin- seca, essa sarebbe una semplice generalizzazione, un'in- duzione, delle leggi particolari che se ne deducono; ma allora essa non avrebbe un'anteriorità logica su queste, perchè essa sarebbe provata da queste come queste sa- rebbero provate da essa. Perchè i principii siano logica- mente anteriori alle conseguenze, bisogna che la cer- tezza delle conseguenze presupponga la certezza dei prin- cipii, ma (piella dei principii non presupponga quella delle conseguenze. Perciò il metodo deve essere pura- mente deduttivo, e per conseguenza il primo principio deve essere stabilito a priori, cioè, come abbiamo detto, per la sua necessità intrinseca. Se il primo principio non fosse Jstato stabilito a priori, se, quindi, i principii non fossero logicamente anteriori alle conseguenze, la dipendenza fra la certezza dei principii e quella della conseguenza sarebbe reciproca; allora non si avrebbe il dritto di dire che 1' esistenza delle entità conseguenze dipende da quella delle entità principii, perchè con la stessa ragione potrebbe dirsi che l'esistenza delle entità principii dipende da quella delie entità conseguenze. Il I principio, se non fosse logicamente anteriore alle sue conseguenze, non sarebbe veramente il loro principimn coffnoscendi^ perchè si avrebbe altrettanta ragione di ri- guardare le conseguenze (p. e. le leggi più particolari) come il principium cofynoscew(^?i del loro principio (p. e. della legge più generale . Quindi, in tal caso, l'entità princi- pio non potrebbe essere riguardata come il principium esfìendi delle entità conseguenze, perchè il principium cssendi, in questa metafisica, non è che lo stesso prin- cipium coijnoscendi, che ha acquistato un valore obbiet- tivo dopo l'obbiettivazione delle astrazioni, cioè dei prin- cipii e delle conseguenze. Ciò è dire, in altre parole, che la deduzione non sarebbe una derivazione reale, o che il rapporto tra il principio e la conseguenza non sa- rebbe identico a quello tra la causa e l'effetto. Lo scopo dunque a cui tende questa metafisica, cioè 1' assimila- zione del rapporto tra il principio e la conseguenza a quello tra la causa (efficiente) e l'effetto, ha per condi- zione necessaria che il metodo sia puramente deduttivo, e quindi che il principio primo sia stabilito a priori, come intrinsecamente evidente e necessario : questa con- dizione è altrettanto indispensabile che l'obbieitivazione dei concetti astratti e l' incatenamento logico continuo fra questi concetti obbietti vati. I rappresentanti più celebri di questa forma di me- tafisica non riguardano i concetti obbiettivati come uniti per coppie, come nel sistema che ci è servito di esempio: così la loro deduzione, il loro metodo dialettico, si ap- plica, non a delle coppie di concetti obbiettivati di cui ciascuna è considerata come una legge della natura, ma a dei concetti obbiettivati isolati, di cui ciascuno rap- presenta una forma o una determinazione costante e ge- nerale del reale, per conseguenza, qualche cosa di simile, anch'esso, a una legge della natura nel sistema che ci è servito di esempio. Inoltre la deduzione nei loro sistemi - 40 ~ - 41 si allontana di più che in questo dalla vera deduzione, cioè da quella della logica ordinaria : basterebbe già questa dilì'erenza importante che la deduzione va da un semplice concetto ad un altro, e non da una pro]K)8Ì- zione ad un' altra (cioè da una coppia di termini ad un'altra) come la deduzione ordinaria. Ciò non pertanto il processo è essenzialmente lo stesso. Si comincia per porre a priori, per la sua evidenza o necessità intrinseca, un concetto obbiettivato, da esso se ne deducono degli al- tri, da questi altri ancora, e così di seguito; e Tinsieme dei concetti obbiettivati costituisce una serie di termini, che divengono sempre meno astratti o più concreti, ma- no mano che si va dal principio primo verso le conse- guenze ultime— e infatti le conseguenze, in qualsiasi de- duzione, non potrebbero essere che il principio stesso a uno stato più determinato o più concreto.— Si vede così come anche in questi altri sistemi la realizzazione delle astrazioni ha per risultato 1' assimilazione del rapporto tra il principio e la conseguenza a quello tra la causa (efficiente) e 1' effetto, e ne è la condizione necessaria. Se i concetti che stanno fra di loro nel rapporto di prin- cipi i e conseguenze, non fossero che delle semplici astra- zi<mi mentali o dei termini generali di cui ciascuno esprime una classe di cose o di fenomeni, il loro rap- porto non sarebbe che logico; dedurre l'uno dall' altro significherebbe semplicemente che, se questo è vero, deve essere vero anche quello. Il progresso dal jnù indeter- minato al più determinato, dal più astratto al più con- creto, avrebbe luogo soltanto nel nostro pensiero, e non nella stessa realtà, perchè il concetto principio (cioè il più astratto) e i concetti conseguenze (cioè i meno a- stratti) non rappresenterebbero che gli stessi insiemi di cose o di fenomeni, l'uno d'una maniera più astratta o piìi indeterminata, gli altri d'una maniera meno astratta o più detenninata. Ma se i termini che si deducono gli I'- uni dagli altri non sono dei semplici concetti, cioè delle astrazioni mentali, ma delle realtà, allora dedurre B da A significherà, non semplicemente che se il concetto A è vero anche il concetto H deve essere vero, ma che se il reale A esiste anche il reale B deve esistere, che Tesi- stenza di A trascina con sé l' esistenza di B, in altri termini, che A è la condizione di B, lo produce, ne è la causa. Il progresso dal più astratto al più concreto, dal più indeterminato al più determinato, non avrà luogo soltanto nel nostro pensiero, ma sarà la realtà stessa che sì metterà, per dir cosi, in movimento, che passerà grada- tamente da uno stato più astratto o più indeterminato a uno stato, più concreto o i)iù determinato, in modo che questi stati successivi (non cronologicamente, ma logica^ mente) costituiscano una serie di momenti, in cui il con- seguente deriverà sempre dal suo antecedente, ne sa- rà un prodotto, un effetto necessario. Non dimentichiamo che <|ue8t'incatenimento di cause e di effetti, ottenuto per l'obbiettivazione dei ccmcetti e il legante logico continuo introdotto fra di loro, è modellato sul tipo della cansa- zione efficiente, e non su quello della semplice uniformità <ii sequenza, perchè il legame tra la causa e l'ettètto è in- trinsecamente evidente e necessario (poiché tale è il le- game tra il principio e la conseguenza nella deduzione), e perchè l'effetto è spiegato d'una maniera radicale ed esau- riente (poiché si deduce da un principio anch'esso evi- dente intrinsecamente e necessario) Per dare un'ide^i generale di questa forma di metafi- sica, dobbiamo aggiungere che talvolta, invece dell 'ob- biettivazìone dei concetti propriamente de ti, si mette in opera un altro processo analogo, che conduce pure allo stesso risultato, cioè la trasformazione del rapporto tra il principio e la conseguonza in un rapporto tra la causa (efficiente) e l'effetto. Quest'altro precesso consiste anche esso come l'obbiettivazione dei concetti propriamente — 42 — detti, nell'accordare un' esistenza per sé agli attributi, concepiti ciascuuo separatamente dagli altri che coesistono con esso nei soggetti concreti; ina invece di fare rappre- sentare, come quando si obbiettivano i concetti, ciascun attributo da un tipo unico, presente al tempo stesso nei diversi individui che ne partecipano, si eleva al grado di realtà sussistente per se stessa, non questo tipo unico, ma tutto ciò che esso rappresenta, vale a dire tutto il contingente dell'attributo esistente nell'universo reale. P. e. l'estensione, come entità astratta sussistente per se stessa, sarà, non il concetto obbiettivato di esten- sione, ma tutta l'estensione esistente nell'universo, se- parata dagli altri attributi con cui coesiste nelle realtà concrete. Noi diremo con più precisione di questa va- rietà della nostra forma di metafisica nei ^ 24 e seg. di questo capitolo. Qui basterà di accennare che anch'essa unisce alla realizzazione delle astrazioni il metodo che noi chiamiamo, in senso lato, dialettico; vale a dire che essa incomincia per porre a priori, come intrinsecamente evi- dente e necessaria, un'astrazione primitiva, da questa de- duce altre astrazioni, da queste altre ancora, e così di se- guito, in modo che tutte queste astrazioni formano una serie di termini logicamente successivi, in cui si passa continuamente dal più astratto al più concreto, mano mano che si va dal principio primo verso le conseguenze ultime. Anche in questo caso la realizzazione delle astra- zioni ha per iscopo di trasformare il legame logico tra queste astrazioni in un legame ontologico : mercè que- sta realizzaziooe, il progresso dal più astratto al più con- creto ha luogo nella realtà stessa e non soltanto nel no- stro pensiero, e dedurre un'astrazione da un'altra non significa seuiplicemente che se un'idea o una proposizione è vera è anche vera un'altra idea o un'altra proposizione, ma che se un reale esiste, esiste anche un altro reale, e che perciò il primo è il priiìCìpium essendi dell'altro (e ~ 43 non soltanto il prìncipmm coiinoscendi), vale a dire lo produce o ne è la causa. Questa causa è una causa e/- Hciente, per le stesse ragioni die abbiamo indicato pre- cedentemente. Questa identificazione che fa il metafisico realista tra la semplice ragione logica e la causa efficiente . ha la sua prima radice nell'analogia che sembra esistere fra questi due concetti, anche al punto di vista ordinario. La parola «perchè» significa al tempo stesso la causa di un fatto e la ragione che lo spiega o per cui dobbiamo ammetterlo. Quest'analogia è al più alto grado quando la ragione che prova o spiega un fatto consiste a de- durh) da principii evidenti per se stessi e necessari, ciò che anticamente si chiamava ragione a priori. Ricor- diamo un luogo di Lei bnitz precedentemente citato: (1) « La ragione è la verità conosciuta di cui il legame con un'altra meno conosciuta fa dare il nostro assentimento all'ultima. Ma particolarmente e per eccellenza si chia- ma ragione, se è la causa non solo del nostro giudizio, ma ancora della verità stessa, ciò che si chiama pure rafjione a priori, e la causa nelle cose corrisponde alla ragione nelle verità ». Quest'analogia che il nostro spi- rito stabilisce naturalmente tra la ragione e la causa, si mostra tuttora chiaramente quando la legge secondo cui avviene un fenomeno viene chiamata la causa del fe- nomeno (senza pensare a sostantificare le leggi della natura, come nel sistema che ci è servito di esempio della nostra forma di metafisica); e, come abbiamo visto, Aristotile ammette che la vera dimostrazione consiste a dimostrare per le cause, intendendo per cause tanto la causa efficiente e la finale quanto le premesse da cui una proposizione si deduce in un ragionamento pura- mente deduttivo — (lueste premesse potendo essere sia (1) Vessenza, da cui si deducono secondo Aristotile le prò- prietà, sia una proposizione più generale qualsiasi per cui si dimostra una proposizione più paiticolare— (1) Con- formemente a questo significato aristotelico del termine causa; che confonde la causa propriamente detta con la ragione a priori, dimostrazione a priori, nel medio evo, equivaleva a dimostrazione per le cause; e nello stesso senso il Vico dice che di tutte le scienze umane le ma- tematiche unicamente procedono a somiglianza della scienza divina, perchè esse sole provano dalle cause. (2) Noi abbiamo visto pure come i Peripalitici hanno svi- luppato il concetto aristotelico che gli attributi essen- ziali sono le cause dei propri, affermando che l'essenza produce i [)ropri per emanazione (Averroe), che è la causa efficiente dei propri (S Tommaso), che i propri fluiscono dall'essenza che è la loro causa (Duns-Scoto), e alrre pro- posizioni dello stesso genere (3); e infine come la ragione su cui è fondata la prova a priori dell'esistenza di Dio, vale a dire l'argomento ontologico, sia stata riguardata dagli autori che hanno proposto quest'argomento, come la <!ausa dell'esistenza di Dio (4) In tutti questi casi il rap- porto tra la ragione e la causa non può oltrepassare la semplice analogia : ma questa analogia diviene una vera identità, quando la ragione di una cosa e questa cosa stessa sono considerate come due realtà distinte, mediante l'obbiettivazione dei concetti o qualche altro processo simile. Il perchè è evidente: la causa e l'effetto sono due fatti distinti e separati, e per conseguenza una astrazione ncm può essere riguardata propriamente come (1) V. App. al cap. VI Cfr. anche il presente capitolo, pa- ragrafo 22. (2) Vìvo Risposta a tre gravi spposizioui contro il libro De nntiquissima Italorvm supientia, (3) Cfr. Append. al cap. VI. (4) V. Append. al cap. VI. •i la causa d'una cosa, se non quando si suppone che essa ne sia distinta e separata (o piuttosto separabile) (l) nella realtiì, e non per una semplice astrazione mentale. La nostra spiegazione dell'obbiettivazione dei concetti che le dà per iscopo di tiasformare il nesso logico, intro- dotto fra questi concetti, in un nesso ontologico, sem- bra in contraddizione con un fatto, che è tuttavia quella che la parola realismo suggerisce prima d'ogni altro, vale a dire il realismo scolastico. Nella filosofia scola- stica troviamo l'obbiettivazione dei concetti, ma senza il mettnlo dialettico — vale a dire senza il nesso logico in- trodottola i concetti obbietti vati— : essa non può dunque avere, in questa filosofia, lo scoi)o che le abbiamo asse- iTuato II realismo del medio-evo sarebbe un fatto asso- lutamente inesplicabile, se fosse l'opera del pensiero individuale, liberamente e seriamente applicato alla so- luzione di un problema filosofico— |>erchè, senza la dialet- tica, la realtà degli universali è un'ipotesi senza scopo e senza motivo, un mistero più oscuro aggiunto gratui- tamente ai misteri, v^eri o pretesi, del mondo reale, ohe la metafisica ha per compito di rischiarare—: esso non si comprende che per il carattere tradizionalista e autori- tario della filosofia scolastica. I realisti del medio èva non sono che dei platonici: i loro universali non sono che le Idee platoniche, ma per dir così, allo stato fos- sile; vi manca la vita, lo, sviluppo, questo processo, al tempo stesso logico ed ontologico, per cui, un concetta obbiettivato essendo dato, sono dati progressivamente tutti gli altri; ciò che manca, del resto^ alle stesse Ide^» platoniche nell'interpretazione ordinaria, perchè questa, come i realisti del medio evo, toglie dal platonismo ciò che vi ha in esso di più arduo, ma che gli dà unica- mente un valore e una giustificazione, cioè la dialettica^ (1) V. Supplem. B. — 46 - come metodo di dediirire i concetti obbiettivati per tra- sformare il loro nesso logico in un nesso ontologico. Gli storici si accordano a vedere nei realisti scola- stici una scuola di platonizzanti (1) ; ma per rendere conto deirorigine di questa fdosoHa, airintìuenza diretta di Platone, per se stesso o per l'intermediario dei Pla- tonici, bisogna aggiungere Pintiuenza indiretta, non me- no grande, ch'egli esercitò per mezzo di Aristotile. Al- meno a partire dal secolo XIII, il realismo si dà come un^interpretazione d'Aristotile altrettanto che il nomi- nalismo. Duns-Scoto, per esempio, come tutti i filosofi della sua epoca, è un peripatetico: egli ammette la realtà degli universali perchè crede di trovarla in Aristotile, e distingue il suo proprio realismo da quello di Platone, attribuendo a questo, secondo P interpretazione anche oggi più ricevuta, la dottrina della trascendenza delle Idee^ cioè che esse sono fuori delle cose, ne sono una dupli- cazione, mentre gli universali dello stesso Duns-Scoto e, secondo lui, di Aristotile sono nelle cose stesse, ne sono l'elemento costante e generale. Non vi ha dubbio che A- ristotile non si presti a una tale interpretazione, quan- tun^pie assai lontana, secondo noi, dal vero significato della sua dottrina: ciò è tanto vero che, non solo i suoi oppositori del rinascimento e dei primordi della filosofia moderna, ma ancora molti interpreti moderni (2), l'hanno (1) V. Haureau. Filosofìa scolastica (e. 3. 4, 5 e altrove). We- ber Storia della filosofia europea (pag. 220, 222, 237, ecc.). Lange Storia del materialismo (trad. frane, t. 1 pag. 176-177 e altro- ve)., ecc. ' (2) P. e. Brucker (Hisl. pkil. doctr. de ideis sez. I } IX). De- gerando (Stor. compar. dei sist. di filos, 1* ed. t. 1« p. 167), Stuart-Mill (Log. 1. 1" e. 6 $ 2 e ^. Comte e il posti, trad. frane, p. 12 e 17), Lange (Stor. del mater. irad. frane, t. 1» p. 193 e altrove), ecc. 47 - inteso d'una maniera simile, riguardando le sne sostan- ze seconde, cioè le forme o le specie, come realmente distinte dalla materia e sussistenti per se stesse. Aristo- tile certamente è un concettualista: una gran parte della sua Metafisica è una polemica contro i concetti realizzati, cioè le Idee platoniche, e la distinzione tra la forma o «^(Fo^ e la materia non ha in lui un valore onto- logico, come in Platone, ma semplicemente logico. Le Specie o Idee, secondo Platone, erano i concetti astratti e generali delle cose, obbiettivati, in altri ter- mini gli attrituiti corrispondenti a questi concetti ri- guardati come sostanze, cioè come esistenti per se stessi, quantunque non fuori delle cose come ammette P interpretazione tradizionale, ma nelle cose stesse : ogn' Idea era una in se stessa, ma era presente al tempo stesso in tutti gli oggetti che partecipavano al- l'attributo di cui l'Idea era la sostantificazione. Inoltre Platone, nell'ultimo periodo della sua speculazione, ridu- ceva l'Idea di una cosa alla sola forma di questa cosa, astrazion facendo dalla materia, e riguardava la materia (senza forma) come un'entità pure esistente per se stessa ma assolutamente distinta dalle Idee; sicché ciò che noi diciamo il reale, vale a dire l'oggetto concreto e parti- colare, risultava per lui dal concorso di questi due ele- menti, realmente distinti cioè esistente ciascuno per se stesso, l'Idea o specie e la materin. Aristotile conserva la distinzione platonica tra la forma o specie delle cose e la loro materia: la specie o forma d'una cosa era per lui il concetto astiatto e generale che si riferisce alla classe a cui questa cosa appartiene, o piuttosto l'at- tributo o insieme di attributi corrispondende a questo concetto, ed em una e la stessa per tutte le cose di una stessa classe; ma essa, come una e la stessa per tutte le cose d' una classe, e come distinta, cioè a parte, dalla ma- teria, non aveva che un'esistenza concettuale; non esi- — 48 — steva così nella realtà— in cui non vi hanno secondo Ari- stotile die oggetti concreti e particolari— ma solo nel pen- siero, che si forma l'idea astratta della forma o specie e quella della materia, e se le rappresenta isolatamen-^e l'una dall'altra. Ma questa distinzione della forma o specie e del- la mataria, fondamentale nella sua fìlosotìa, è espressa spes- so da Aristotile^ con formule in cui queste astrazioni sem- brano trattate come vere entità, e die piuttosto che al concettualismo dell'autore sarebbero adattate al reali suu) platonico. La forma o specie è una sostanza così bene chela cosa concreta e particolare, che, per distinguerla «la essa, è chiamata la sostanza composta o con la materia, mentre la forma è una sostanza scevra di materia (l), Vi hanno tre sostanze, la forma o specie, la materia, e la terza ciie risulta da amendue, cioè la cosa concreta e parti- colare (2)— nelle Crt%/or/e (8) le forme o specie sono chiama- te sosfa/e^e seconde --. La cosa concreta e particolare è com- posta della forma o specie e della materia, ed è divisibile in queste due parti, e perciò è chiamata la sostanza coni' posta, il (Jvyo'Aov. il tutto, la specie insieme con la materia, la forma mescolata alla materia, ecc. (4). La forma (l);v. Met. VII. XI, VIU. Ili, ecc.Nou indicliiauio i luogbi, che s'iucontrauo ad ogni passo, iu lui la forma o specie è chiamata V ovaia, perchè iu essi questa parola, piuttosto ohe sostanza, si- gnifica essenza, vale a dire ciò ohe neUa cosa corrisponde al concetto o detiuizioue di questa cosa. Ma questi due significati del termine ovata non sono in Aristotile distinti, e per conse- guenza questo termine implica il primo di essi anche quando non denota direttamente che il secondo. (2) V. Met. VII. Ili, VII. XIII. 1, VII, XV, 1, Vili. 1. 6, Vili. II. XII. Ili 3. ecc. («) Gap. 3. (4) Met. HI. I 10, III. IV. 6,8, VII. Ili 2,5. VII. Vili 3 5. VII. X. 12, VII. XI l,H,n, VII. XIII 1, VII. XV 1. Vili. I 6, Vili. — 49 — e la materia né si generano né periscono, perché ambedue devono preesistere all'oggetto generato-in altri termini le forme o specie dagli esseri (p. e. dell'uomo, del cavallo) sussistono sempre, così bene che la materia — : ciò che diviene o si fa è l'accoppiamente o il concorso di que- ste due cose; per esempio non é il rame né la sfera che diviene, ma questa sfera di rame, la quale si fa dal rame (materia preesistente) e dalla sfera (specie o forma pure preesistente) (1). La specie o forma e la materia mno 2)rmeìpri, cause ed elementi delle realtà concrete (2). La prima è superiore alla seconda (3); é più essere che questa e le è anteriore di natura (4). È dal concorso di queste due cause che sono prodotti gli esseri [individuali; in questa produzione Veliìog, è come il padre e la materia come la madre; la materia desidera la forma, come la fem- mina il maschio (perché la contiene in potenza, e tende perciò a riverstirsene in atto) (5). La forma é assimilata a un oggetto che ne contiene un altro o che sta sopra di esso; la materia a quello che vi è contenuto o vi sta sotto (6). L' eldog è uno e lo stesso nei diversi individui di una spe- cie; il singolare è tale perché M'sl&o? si unisce la mate- ria, che è diversa nei diversi individui (7). Tavolta Il 7-9, Vili- III, X. IX 2-3, XI. II 10, XII. Ili 3-4, XU V 3, Phys. II. I 12, De Coelo I. IX 2, ecc. (1) Met. VII. Vili 1-4. VII. IX 7, VII. XV. 1, Xll. IH, eco (2) Met. I. Ili 1, V. II. Vili. IV 4, XII. II 6, XII III 5 XII. IV, Xll. V, Phys. II. IH, II. VII. ecc. (3) De part. anim. 1. 1. 640. (4) Met. VII. HI (2). (5) Phys. I. IX. 2-3. (6) De Coelo II. XIII 3, IV. Ili 3, IV. IV 10. (7) V, Met. VII. Vili 8, VII. XV 2, X. III. 3-5, XII. Vili. 12, De Coelo I. IX 2 — 5. È il germe della dottrina di S. -m^mmf^'^^ !■- ir-' -. "Aristotile indica la forma con le stesse espressioni di cui Platone si era servito per indicare l'Idea : altro è la fornvd stessa per se stessa e altro la ftirma mescolata con la materia; altro il cielo stesso (vnìe a dire la forma o la specie), e altro questo cielo, cioè il primo mescolato con la materia (1). Queste proposizioni e nianiere di esprimersi di Aristotile tanto più facilmente potevano indurre in errore i suoi commentatori scolastici, perchè egli preferisce 1' interpretazione trascendentalista delle Idee platoniche, cioè quella che le riguarda come post^ fuori delle cose; ciò che dava qualche verisimiglianza all'opinione che la dottrina di Aristotile dilferiva da quella di Platone, non perchè in questa gli universali erano delle realtà, mentre in quella non erano che dei concetti, ma perchè nell'una erano fuori delle cose e nell'altra nelle cose stesse, quantunque reali egualmente nell'una e nell'altra. Ciò che Aristotile conserva, in sostanza, della distin- zione platonica tra 1' eUog, ricondotto alla sola forma, e la materia, è quest' idea, corrispondente sino ad un certo punto ai dati dell' osservazione, che il reale può decomporsi in due elementi, concettuali, non reali essi Tommaso che la materia è il principio d'iudividuazione. Il pro- blema scolastico, quale sia il principio d'individuazione, è un semplice non senso al punto di vista del nominalismo, secondo cui né esiste né può concepirsi che esista un essere che non sia indivi diuile ; esso non ha senso che se si ammette che l'essere primitivo è una realtà universale, perchè allora nasce le neces- sità di spiegarsi perchè questa realtà si manifesta in una mol- tiplicità di particolari. Noi vedremo (Supplem. C) che la dottrina di S. Tommaso sul principio d' individuazione, il cui germe si trova, come abbiamo detto, in Aristotile, non è ohe la ripro- duzione di una dottrina platonica. (1) De Ooelo I. IX 2,5. M«^.:'%^ — 51 — stessi come voleva Platone, che sono d' una suprema importanza per la concezione del mondo, perchè rappre- sentano r uno e r altro ciò che vi ha di stabile nelle cose, e al tempo stesso ciò che vi ha di logicamente primitivo, cioè che, servendo alla spiegazione del resto, è esso stesso senza spiegazione. L' uno la materia, che non si distrugge né si crea, ed è il fondo immutabile in cui s'imprimono successivamente le forme cangianti; 1' altro i tipi generali di queste forme, senza origine e senza fine e immutabili anch'essi come la materia stessa: tanto la materia, quanto questi tipi, considerati nei loro attributi essenziali, cioè che sono sufficienti a definirli, sono dei dati ultimi dell' esperienza, che noi dobbiamo ammettere senza dimostrazione— non vi ha, dice Aristo- tile, dimostrazione dell'essenza (e anche in ciò si trova in disaccordo con Platone)—, ma da cui dobbiamo sfor- zarvi di dedurre tutto il resto. Per quest'idea la filoso- fia di Platone e di Aristotile è in un' antitesi radicale con tutte le filosofie anteriori. Essa prende per punto di partenza l' eternità dell' ordine attuale del mondo (nel senso più largo dell' espressione, cioè l' eternità e stabilità delle specie, della terra, degli astri, ecc.), men- tre le filosofie anteriori erano anzitutto delle cosmogo- nie. Di più essa ammette che ogni specie di esseri è governata da leggi proprie e speciali, che non derivano dalle forze generali che agiscono in tutta la materia, mentre le filosofie anteriori tendevano a spiegare tutti i fenomeni per i soli elementi materiali e le forze costanti da cui questi sono animati (1). Ma quest'idea, prima di tutto, non ha un'espressione perfettamente esatta nella divisione del singolo in due elementi, anche concettuali, forma e materia— perchè 1' sMog di una classe di es- (1) Cfr. l'Appi mdice. — 52 — Beri, il suo tipo costante e generale, comprende anche la materia, e questa entra necessariamente nel suo Xóyog e nella sua essenza, cioè nel suo concetto e nella sua definizione. — Inoltre, ciò che è il più importante, per- chè Aristotile, in molte delle sue formule e delle sue proposizioni, tratta questa distinzione logica come una distinzione reale, e sembra elevare queste astrazioni al grado di esseri sussistenti per se stessi? L'una e l'altra circostanza, evidentemente, sono dei resti del realismo di Platone nel concettualismo del suo discepolo. Per comprendere 1' apparente realismo di Aristotile bisogna tener sempre presenti sopratutto due fatti : eh' egli è stato lungamente un platonico, e che nei suoi scritti egli s'indirizza specialmente a dei platonici (1). Così, da lina parte, quel concetto eh' egli ritiene in sostanza, come abbiamo detto sopra, della distinzione platonica tra 1' eUog e la materia, festa associato alle formule in cui 1' ha ricevuto nella scuola di Platone e a cui si è lungamente abituato; e da un'altra parte, come ogni no- vatore, egli cerca di presentiire i suoi propri concetti sotto quell'aspetto che li faccia sembrare meno discosti dalle idee e dalle abitudini mentali del pubblico a cui egli si rivolge. Ecco come il realismo del medio evo de- riva da Platone, in gran parte, per 1' intermediario di Aristotile. Aristotile ne è, per dir così, il veicolo, che lo trasmette agli scolastici. Come quei semi, rimasti per (1) Nella Metafisica, nella sua polemica coniro la dottri- na delle Idee, Aristotile parla come se tanto egli quanto i suoi lettori fossero dei platonici: « secondo i modi con cui dimostriamo che esistono le idee », m secondo l'opinione secondo cui diciamo es- servi le Idee », <( Idee delle cose di cui non crediamo che ve ne siano >j ecc. ^^oi in questi luoghi significa i platonici. V. Met. li- bro lo, cap. 9o. 53 — secoli inattivi nelle piramidi egiziane, si svilupparono quando furono gettati in un terreno conveniente ; così 1 residui del platonismo, rimasti nel corpo delle dot- trine aristoteliche come dei materiali inerti e non assi- milati, germogliarono e riprodussero l'antico platonismo da cui erano originati, (juando, introdotti nella scola- stica, trovarono le condizioni più favorevoli al loro svi- luppo; cioè la mancanza del senso della realtà e del vero spirito filosofico, e in compenso lo spirito pedantesco che interpreta sacrificando la sostanza alla forma, inse- parabile da un cieco dogmatismo, e 1' amore del para- dosso che è l'accompagnamento naturale d'una scienza vuota di fatti e arida d'idee, che consiste in vane con- troversie, in cui si dibattono eternamente le stesse qui- stioni. Il platonismo del medio evo era, non lo dimen- tichiamo, un plat(mismo incompleto, in cui manca ciò che dà un valore al sistema delle Idee, cioè la dialet- tica. Era il solo che potesse svilupparsi dalle formule aristoteliche : i residui della dialettica platonica in Ari- stotile — p. e. l' assimilazione del principio logico alla causa nella sua teoria della dimostrazione — non erano tali da prestarsi ad uno sviluppo analogo. In conclusione, il realismo scolastico non potrebbe spiegarsi per i principiii generali per cui noi spieghiamo i concetti metafisici, per la semplice ragione che esso non è, a parlar propriamejite, una metafisica — per ciò dovrebbe essere anzitutto una vera filosofia, dovrebbe dare una soluzione, o un sembiante di soluzione, al problema del perchè o a qualche altro dei problemi inevitabili, per quanto illegittimi, che l'intelligenza u- mana non può non proporsi, e che formano il dominio naturale che appartiene alla metafisica. — Esso non si spiega che per ragioni storiche, perchè non è 1' opera della libera ragione, ma del tradizionalismo. Ma questa spiegazione ci riconduce infine all'origine prima dei con- -~ 54 — • cetti ricevuti per tradizione. Qui la nostra spiegazione^ ([uella che vede nelT obbietti vazione dei concetti un mezzo per applicare V idea di causa efficiente, non ci abbandona, perchè tale è, come vedremo, il motivo e lo scopo della dottrina platonica. Direttamente la nostra spiegazione non si applica che ai sistemi in cui Tobbiet- tivazione dei concetti è unita al metodo dialettico, ma indirettamente essa spiega anche quelli in cui non vi è unita, perchè le sopravvivenze, nello sviluppo della cul- tura umana, non si comprendono che per le ragioni che ne hanno determinato la prima apparizione, quando non erano dei semplici organi rudimentari, ma avevano uno scopo e una funzione. E del resto, parlando general- mente, è deatro questi limiti solamente — cioè quando essi sembrano dare una soluzione ai problemi naturali dello spirito umano che costituiscono il dominio della metafìsica — che noi crediamo che i concetti metafìsici si possono spiegare per le tendenze naturali della nostra intelligenza (sofìsmi a priori). Quando non sono che una modifìcazione o una mutilazione o combinazione arbitra- ria di concetti preesistenti, che il metafìsico senza genio ha imprestati, sfigurandoli, da un vero metafìsico, cioda un pensatore geniale, per quanto chimerico, questa spiegazione ci abbandona: essa non può dare ragione dei concetti derivati che solamente in quanto la dà dei concetti primitivi. Il seguito di questo capitolo avrà per oggetto i si- stemi in cui l'obbiettivazione dei concetti è unita al me- todo dialettico — nel senso largo sopra indicato che noi diamo a queste parole—: il tipo di metafìsica in cui con- corrono questi due caratteri, potendo esserci utile un termine che lo indichi brevemente, noi lo chiameremo realismo dialettico. § 3. Il rappresentante più illustre del realismo dia- lettico, nella fìlosofìa moderna, è Hegel. Se la realtà de- i gli universali nim è riguardata ordinariamente come una delle basi del sistema di Hegel, è perchè essa è in- viluppata nella dottrina, che l'autore presenta come più fondamentale, dell'identità dell'essere e del pensiero, e data come una conseguenza di questa. Questo sistema ha due facce, V idealismo e il realismo (che, nel senso in cui qui prendiamo questo termine, non è 1' opposto di quello). Nel capitolo II 1' abbiamo considerato sotto la prima di queste due facce; qui lo considereremo sotto la seconda. Gli elementi del sistema hegeliano sono, come si sa, la dottrina delle idee e la dialettica. Ricordiamo breve- mente in che consistano l'una e Faltra. Il reale è, secondo Hegel, un seguito di idee, di cui ciascuna è identica al suo oggetto. Queste idee s<mo astratte e generali, sono, in una parola, dèi concetti; per conseguenza ciò che esse rappresentano e con cui s'identificano, sono degli oggetti astratti e generali come esse. Così ciascuna idea, per esempio quella dell'essere, del divenire, del tempo, del movimento, è al tempo stesso il concetto astratto e generale dell'essere, del di- venire, del tempo, del movimento, e l'essere, il dive- nire, il tempo, il movimento astratti e generali, consi- derati come esistenti per se stessi, perchè il pensiero e l'essere penstito sono una sola e stessa cosa, che si chia- ma jiensiero in quanto è pensata, ed essere in quanto esiste nel mondo reale. Hegel ammette dunque, come Platone e i realisti scolastici, che un termine generale rappresenta una realtà generale, distinta dalle cose par- ticolari a cui questo termine si applica, e che non è che l'attributo comune a queste cose a cui il termine si applica, sostantifìcato, cioè riguardato come sussistente per sé stesso. Ciascuna di queste realtà, come le Idee di Platone e gli Universali degli scolastici, è una in se stessa, ma presente al tempo stesso in tutti gli oggetti concreti e particolari che partecipano all'attributo di cui è la sostantificazione. Hegel differisce da Platone e dai realisti scolastici, in quanto gli Universali non sono, per questi, che degli oggetti, mentre per lui sono al tempo stesso degli oggetti e dei pensieri, l' oggetto es- sendo inviluppato nell'idea che lo pensa, e facendo una cosa sola con quest^idea. La dialettica di Hegel, cioè il suo metodo di dedurre le idee, va da un'idea all'idea contraria, e poi a una terza idea che comprende l'una e l'altra, p. e. dall'essere al non essere, e poi al divenire^ che comprende nella sua unità tanto l'essere quanto il non essere (perchè il divenire è il passaggio dal non essere all'essere). Tesi,. antitesi e sintesi, questo è, dice Hegel, il ritmo eterni» dell'idea: tutte le idee formano una serie successiva, in cui si passa sempre dai termini antecedenti ai termini conseguenti secondo una legge costante, che fa seguire a un'idea l'idea antitetica e a queste un'altra idea più comprensiva che coMCi7m le due idee opposte, cioè che contiene l'una e l'altra nella sua unità. La sintesi, cioè questa terza idea più com- prensiva, porta essa stessa un'altra opx)osizione, la quale chiama alla sua volta un'altra sintesi, e cosi di seguito, sinché si giunga al teimine ultimo della serie, che è la sintesi suprema, racchiudendo in se stesso tutti i ter- mini precedenti e conciliando tutte le opposizioni. Que- sto passaggio dalla tesi all'antitesi e da esse alla sintesi non lega solamente tutti i termini successivi della serie isolatamente considerati; ma lo stesso rapporto vi ha fra le parti, cioè le serie parziali, in cui si divide la serie intera, e fra le suddivisioni di ciascuna parte, e così di seguito, sicché il sistema di Hegel è stato paragonato ad un tempio gotico, in cui il tipo dell'insieme si ritrova in ciascuna delle sue parti. Passando da un'idea all'idea opposta, e da esse alla terza idea che le comprende amendue, Hegel intende dedurre la seconda idea dalla 57 luima, e la terza da esse due ; vale a dire egli pre- tende che data la prima idea, è data la seconda come sua conseguenza necessaria, e date queste due idee, è data anche la terza, come conseguenza necessaria dell'una e l'altra. Così, percorrendo la serie succes- siva delle idee, per questo movimento regolare che va continuamente dalla tesi all'antitesi e da esse alla sintesi, si va continuamente dai principii alle conse- guenze, che divengono alla loro volta principii di altre c<mseguenze, e così di seguito, in modo che tutta la serie forma una catena logica continua, in cui i termini precedenti sono sempre i principii dei termini immedia- tamente susseguenti, e i termini susseguenti le conse- guenze dei termini immediatamente precedenti. Queste idee, non dimentichiamolo, non sono dei semplici con- cetti, ma anche delle cose astratte e generali, che sono gli oggetti di questi concetti. Perciò passare da un^idea all'idea opposta e da queste all'idea sintetica che le con- tiene amendue^ è ancora dedurre da una cosa astratta e generale un'altra cosa astratta e generale, e da queste una terza che contiene l'una e l'altra; ciò che vuol dire che data la prima entità, è data anche come sua conse- guenza necessaria la seconda, e date la prima e la se- conda, è data anche come loro conseguenza necessaria la terza, in modo che la catena logica continua delle idee è anche una catena ontologica continua di realtà, in cui i termini susseguenti derivano sempre dai termini immediatamente precedenti e i termini ])recedenti dan- no origine ai termini immediatamente susseguenti. La deduzione di Hegel somiglia ben poco alla vera de- duzione, ma ha in comune con essa queste due condizioni: l'una che il passaggio dal principio alla conseguenza è fondato sull'identità, per cui la deduzione essendo da un'idea all'idea contraria, Hegel ammette che i contrarli Bono identici. L'altra che la conseguenza è il principio — 58 — stesso a uno stato più concreto, più determinato (l'insie- me delle conseguenze che possono dedursi da un prin- cipio, con la deduzione ordinaria, equivalendo al prin- cipio stesso, che esse esprimono sotto una forma più concreta o determinata). Ciò si verifica nel terzo mo- mento del movimento dialettico, la terza idea, cioè la sintesi, essendo più concreta delle due idee opposte che essa sintetizza, perchè comprende queste due idee come delle note o determinazioni proprie. Dalla combinazione di questi due principii, cioè l'identità delle idee opposte e l'essere esse contenute nella terza idea, più concreta, che le sindetizza ed è pure identica con esse, ne segue che i diversi termini successivi della serie, cioè tutte le idee, non sono che degli stati differenti che attraversa successivamente uno stesso essere, dei momenti successivi dello sviluppo di un'idea unica. Questo sviluppo è un passaggio continuo da uno stato più astratto a uno stato più concreto, per cui l'idea si aggiunge progressivamente delle nuove determinazioni, di cui ciascuna deriva, logi- camente e ontologicamente, da quelle che la precedono. Ciò che vi ha di più difficile a spiegare nel sistema di Hegel è la forma particolare della sua deduzione, sovratutto questo enorme paradosso che un contrario può dedursi dal suo contrario, e l'altro, legato con esso, e che è effettivamente, come è stato detto, un rovescia- mento completo delle leggi del pensiero, che i contrari sono identici,, e che la contraddizione, per conseguenza, è una legge del pensiero e della realtà. Il motivo deter- minante di queste dottrine ha dovuto essere, senza dub- bio, l'aver compreso nettamente questo fatto incontra- stabile, che la vera deduzione, quella che è fondata sul semplice principio d'identità, non è un progi-esso reale dei pensiero, ma semplicemente apparente — in termini logici, non è un'inferenza reale ma solo apparente — ; mentre ad Hegel era necessario un metodo che, pur es- — 59 — scudo una deduzione, fosse allo stesso tempo un pro- gresso reale del pensiero, perchè doveva rappresentare un progresso reale nelle cose stesse, una deduzione che non deduce delle verità nuove, ma si aggira nel- l'idem per idem, come fa il sillogisuìo, se essa rappresen- tasse una sequenza reale nelle cose stesse, non potendo rappresentare che la sequenza dello stesso allo stesso, cioè l' immobilità, senza sviluppo alcuno, e quindi senz'alcuna derivazione reale. Ora la deduzione di Hegel doveva rappresentare una derivazione reale, perchè l'es- senza del realismo dialettico è, come cerchiamo di mo- strare, la trasfosmazione del nesso logico in un nesso ontologico, del rapporto tra priucipio e conseguenza in un rapporto tra causa ed effetto. Abbandonata la lo- gica comune che prescrive di andare dallo stesso allo stesso, e cercando un metodo nuovo che andasse invece dal differente al differente, il rapporto di contrarietà era preferibile per Hegel a qualsiasi altro rapporto di differenza, perchè esso determina, data un' idea, quale sia l'altra idea che deve seguirla, coni' è necessario in una deduzione, in cui la premessa deve rappresentare la causa, e la conseguenza l' effetto di questa causa. Dei fatti psicologici assai ovvii davano, inoltre, qualche speciosità a questo concetto, che vi ha un passaggio necessario da un'idea all' idea contraria. Non è solo che la contrarietà è, come la somiglianza, una forza di as- sociazione fondata sul contenuto stesso delle rappresen- tazioni e indipendente dall' esperienza ; ma è anche, come abbiamo osservato altrove (1), che le idee con- trarie, purché s'intenda per idee le nozioni generali, cioè di classi, si suppongono e si implicano reciprocamente, in modo che è impossibile di avere la nozione della retta (cioè della classe delle linee rette) senza avere pure la (1) Saggio 1. e. 4 § 16. nozione della non retta (cioè delle liuee che restano fuori della classe delle rette), la Doziooe del caldo (cioè della classe degli oggetti caldi) senza quella del freddo (cioè degli oggetti freddi), del sauo senza quella del ma- lato, della luce senza quella dell'oscurità, ecc. Ciò è per la ragione evidente che noi non possiamo esserci formata l'idea di una classe senza distinguere ed opporre gli og- getti che vi abbiamo inclusi e quelli che ne abbiamo esclusi; ed anche attualmente non possiamo rappresen- tarci i primi come formanti una classe, senza distin- guerli e opporli ai secondi, e per conseguenza senza rappresentarci, in un certo modo, anche i secondi. È ciò che vi ha di vero nella proposizione di Bain che ogni •conoscenza è relativa, perchè la nozione di una cosa implica sempre la nozione di una cosa opposta (1). Da «io che le idee contrarie si suppongono e si implicano mutuamente, Hegel ne conclude naturalmente che anche le cose contrarie, cioè le entità astratte e generali, l'es- jsere e il non essere, l'unità e la moltiplicità, la luce e l'oscurità, ecc, si suppongono e si implicano mutuamente: è una conseguenza necessaria dell' identità dell' essere ^ del pensiero. Un altro fatto che ha potuto suggerire ad Hegel il suo principio che dato uno degli opposti è dato anche l'altro, è l'implicazione reciproca dei cor- retativi, p- e. alto e basso, grande e piccolo, agente e paziente^, padrone e servo, ecc, non potendo darsi degli oggetti a cui si applichi l'uno dei due termini, senza darsi anche degli oggetti a cui si applichi l'altro (2). Ammesso una volta che un contrario può dedursi dal- l'altro — ciò che certamante è una cosa ben diversa dai fatti psicologici indicati, e non ha con essi che una vaga (1) V. Sagorio 1. e. 2. § 13 uota. (2) Cfr. Saggio 1. o. VI $ 16. ~ 61 — analogìa—, Hegel ne conclude che i contrari sono iden- tici, perchè la deduzione non può fondarsi che sul prin- cipio d'identità. Questo rapporto ambiguo fra i due ter- mini, che è al tempo stesso d' identità e di differenza (cioè di contrarietà) concilia l'esigenza della deduzione,, che il passaggio dal principio alla conseguenza sia giu- stificato dalFidentità, con l' esigenza opposta del reali- smo, che questo passaggio sia un progresso reale del pensiero e dell'essere, e che x>erciò la conseguenza dif- ferisca dal principio, e non sia una ripetizione, totale o parziale, del principio stesso. L' altro concetto fonda- mentale della dialettica hegeliana, cioè che, dati i due contrari, è dato anche un terzo termine che comprenda Funo e l'altro, è destinato a soddisfare a questa condi- zione della deduzione, che la conseguenza non sia che il principio stesso, divenuto più co»ncreto o più determinato. Il passaggio al terzo termine ha l'aria di essere giusti- ficato dall'identità dei due primi, la concezione dei due contrari come due lati di uno stesso essere, ciò che è supposto dalla loro identità, richiedendo Tidea di un essere unico di cui entrambi siano delle note o delle determinazioni, e quindi una terza idea in cui le due idee contrarie coesistano e siano, per dir così, fuse l'una con l'altra e unificate. Data questa legge del metodo dialettico, le due idee contrarie indicano la terza che deve seguirle, come la prima di esse indica la seconda: è a questa condizione, come abbiamo osservato, che la seconda può essere riguardata come un eflfetto della prima, e La terza come un effetto della prima e della seconda. L'assimilazione del principio alla causa e della con- seguenza all'effetto suppone, come abbiamo notato nel paragrafo precedente, che la conoscenza sia puramente a priori, e quindi che il principio primo sia stabilito an- ch'esso per una necessità logica. È ciò che ha luogo in^ fatti nel «istema di Hegel. Le due idee priraitiv e, cioè l'es- I ' . — 62 - sere e il dou essere, souo dimostrate per la loro implica- zione nmtua Se dato Tessere è dato anche il non essere, e dato il non essere è dato anche 1' essere — come se^ue dalla legge generale della dialettica che dato l'uno dei due contrari è dato anche l'altro — ciò prova che l'esistenza dell'essere e del non essere è logicamente necessaiia, o ciò che vale lo stesso, la loro non esistenza logica- mente impossibile. In effetto Pipotesi della non esistenza dell'uno o dell'altro, dato il legame necessario che esiste tra i due, sarebbe un'ipotesi che si distruggerebbe essa «tessa. Se non vi fosse l'essere, non vi sarebbe che il non essere; ciò che è impossibile perchè dato il non es- sere è dato anche l'essere. E viceversa, se non vi fosse il non essere, non vi sarebbe che l'essere; ciò che è pure impossibile, perchè dato l'essere è dato anche il non es- sere. Senza l'esistenza necessaria delle due idee primi- tive, i principii, in tutto il seguito delle deduzioni, non ridarebbero logicamente anteriori alle conseguenze. In questo caso i principii non potrebbero assimilarsi alle cause e le consegiienze agli effetti, perchè si avrebbe al- trettanta ragione di dire che l'esistenza delle entiti\ con- seguenze dipende da quella delle entità principii, che eli dire che è l'esistenza delle entità principii che di- pende da quella delle entità conseguenze. Il sistema dì Hegel ha, come abbiamo detto, una doppia faccia, idealismo e realismo. Come idealismo, esso spiega l'universo, considerandolo come prodotto dall'atti- vitii logica del pensiero : sotto quest'a8i)etto è una forma dell'antroporaortìsmo,come l'abbiamo riguardato nel capi- tolo 2^. Come realismo^ e più propriamente come realismo dialettico, esso crede di scoprire ciò che A. Comte chiama il modo essenziale di produzione delle cose, identificando il nesso logico tra il principio e laconsegueza al nesso onto- logico tra la causa e Teffetto. Guardando il sistema dalla faccia dell'idealismo, il movimento dialettico delle idee è — 63 - il progresso del ])ensiero che deduce (come sarebbe in Eu- clide il seguito delle proposizioni che s'incatenano le une alle altre); guardando il sistema dalla faccia del realismo dialettico, il movimento dialettico delle idee è il progresso delle cose stesse che sono dedotte (come sarebbe in Euclide il seguito delle verità o dei fatti, significati dalle pro- posizioni successive che s'incatenano). Hegel non afferma esplicitamente, come fanno altri realisti dialettici, che il principio logico è identico alla causa e la conseguenza all'effetto. Il suo predecessore Schelling (che è anch'egli un realista dialettico) nega anche quest'identità. Come abbiamo visto in un capitolo precedente (1), la filosofia e le matematiche oltrepassano, secondo lui, il punto di vista dell'incatenamento causale ; un fatto non viene spiegato (in filosofia) trovandone la causa in un altro fenomeno, ma trovando il principio donde derivano tutti i fenomeni. Hegel avrebbe aderito a questa proposizione di Schelling; nella Logica infatti (2) egli non intende per causalità che una forma particolare di successione tra fenomeni. E certamente, non si può dire che le en- tità che, nel realismo dialettico, procedono le une dalle altre, sono tra di loro delle cause e degli effetti, che usando le parole causa ed effetto in un senso differente dall'ordinario. La differenza più saliente è che tra le cause e gli effetti propriamente detti la succesione è cro- nologica, mentre tra le cause e gli effetti del realismo dialettico non è che logica e metafisica (ciò che Platone e Spinoza GÌiìxim^no anteriorità e posteriorità di natura). Un'altra differenza è che la causa e l'effetto propria- mente detti sono due fenomeni distinti e separati, men- tre la causa, nel senso del realismo dialettico, sussiste (1) Gap. 20 J 20. (2) V. Lof/iea paragrafi 153-154, - 64 - 65 - nell'effetto— è, eome dice Spinoza, una causa imwanenie— e l'eftetto non è che la causa stessa a cui si è ag«:iunta una nuova determinazione; perchè in «piesto pro^^iesso reale delle cose che, secondo il realismo dialettico, corri- sponde al progresso lo;]pco del pensiero, non vi ha, come abbiamo detto, che uno stes-^o e unico essere, che passa successivamente da uno stato sempre più astratto o più indeterminato a uno stato sempre più concreto o più de- terminato. È perciò che Schelling ed Hegel, per indicare la derivazione reale delle entità conseguenze dalle en- tità principii, al concetto di causalità preferiscono quello di svihfppo. Chiamandola sviluppo, essi intendono para- gonarla alle fasi successive deiresistenzadi un essere (p. e. di un organismo), ma di cui le susseguenti siano condizio- nate unicamente dalle precedenti (e non anche da condi- zioni esterne, come nell'organismo), e vi sia fra queste e quelle un legame necessario, nel senso sti^tto della pa- rola, cioè quello che i metafisici immaginano tra la causa efficiente (e non il semplice antecedente in una sequenza invariabile) e il suo eftetto. Ma è evidente che un tale sviluppo, se esso fosse una successione cronologica, non sarebbe che una forma della causalità. Si avrebbe dun- que lo stesso dritto, giacché la mancanza della succes- sione cronologica non fa ostacolo, a chiamare una tale derivazione reale una causazione che a chiamarla uno sviluppo. Se le entità derivate, nei sistemi di Schelling e di Hegel, possano chiamarsi effetti delle entità da cui derivano, e queste cause di quelle, non è, al postutto, che una quistione di parole. Dicendo che il realismo dialettico identifica il principio e la conseguenza alla causa (efficiente) e all'effetto, noi vogliamo dire sempli- cemente che esso spiega la produzione delle cose, as- similandola, come l'antropomorfismo e le altre fomie della metafisica, quantunque d'una maniera più lontana, a quelle causazioni della nostra esperienza più familiare. che sono il tipo dell'idea di causa efficiente. La qui- stione essenziale è se Schelling ed Hegel considerino le entità conseguenze come derivate realmente (cioè onto- logicamente), e non soltanto dedotte, dalle entità prin- cipii. Ora non vi ha dubbio che essi non le considerino così. Schelling afferma, in propri termini, che l'assoluto produ<e le idee, e che le idee jprot^wcowo altre idee (cioè quelle che sono logicamente anteriori quelle altre che si deducono da esse) (1). Ed Hegel e gli hegeliani non par- lano ripetutamente della filiazione delle idee (o anche delle cosecorrispondenti) le une dalle altre ? non dicono che un'i- dea viene o esce da un'altra, e chequesta apporta o chiama necessariamente quella; che la Natura procededalla Logica e lo Spirito dalla Logica e dalla Natìira, come nella tri- nità cristiana il Figlio procede dal Padre e lo Spirito Santo dal Padre e dal Figlio; che la dialettica (cioè la legge secondo cui le idee derivano le une dalle altre) è la forza per cui si realizza l'attività dell'idea; ecc.? Queste espressioni in verità possono anche significare il punto di vista dell'idealismo, cioè che i concetti, in cui si risolve la realtà, si seguono e s'incatenano in virtù del loro legame logico, come le proposizioni d'Eu- clide (e non le cose significate da queste proposizioni). Ma ciò clh; mostra che uno almeno dei loro significati è l'altro punto di vista del sistema, cioè il realismo dia- lettico, è che esse equivalgono per gli autori alle afìfer- mazioni che un'idea essendo data, è data per ciò stesso un'altra idea, che le idee si seguono e s'incatenano in un ordine necessario, ecc. Le proposizioni d'Euclide non seguono necessariamente alle proposizioni da cui si de- ducono; souo le verità o i fatti significati dalle prime (1) V. Filosofìa e religione, pag. 28-35. - G6 - ctie seguono nvcessariamente dalle verità o i fatti signi- ficati dalle seconde. Così queste affermazioni hegeliane non possono denotare il progresso del pensiero «»'«««- duce (punto di vista dell'idealismo), ma il progresso delle cose che vengono dedotte (punto di vista del rea ismo dialettico). Ciò che mostra pure che le espressioni hege- liane significanti una derivazione reale tra le idee desi- guano la sequenza logica della cosa che si deduce dalla co.a da cui si deduce (e non semplicemente il legame psicologico tra i pensieri corrispondenti a questa se- quenza logica) è che questa derivazione implica, seconde. He-el e i suoi, una sorta d'identità di ciò che deriva con ciò da cui deriva. Quando essi chiamano il seguito e l'incatenamento delle idee lo sviluppo, o il divenire, o il movimento dell'idea; quando dicono che un idea passa, o si continua, o si trasforma in un'altra; quando i diversi gradi del progresso dialettico, a ciascuno dei quali si produce, com'essi dicono, una nuova idea e una nuova forma dell'esistenza, sono da essi riguardati come i momefttid'un'idea unica; quando affermano che l'essere o l'idea passa continuamente da uno stato più astratto a uno stato più concreto; essi considerano i diversi termini della serie, come abbiamo detto sopra, come degli stati successivi che attraversa uno stesso essere, di cui i prece- denti condizionano e determinano necessariamente 1 susse- guenti. Ma non sono le proposizioni o i pensieri costituenti una deduzione o un seguito di deduzioni, sono le veritiv o i fatti che si deducono gli uni dagli altri, che possono e devono considerarsi come una sola e stessa cosa (una 8ola e stessa verità, un solo e stesso fatto), che prima si concepisce in una forma più astratte e più indetermi- nata, e poi successivamente in forme sempre pm con- crete o più determinate. È questo passaggio graduale di uno stesso essere da uno stato più indeterminato a - 67 - uno stato più determinato, da uno stato più astratto a uno stato più concreto, che Hegel chiama uno sviluppo, una successione di momenti, ecc., e che noi possiamo riguardare come un incatenainento di cause e di eftìbtti. in quanto i gradi o i momenti posteriori sono determinati e apportati necessariamente dai gradi o momenti ante- riori Del resto che questo sviluppo, questa successione di momenti, questa filiazione delle idee, e, in una pa- rola, questa derivazione reale di cui parlano gli hege- liani, non sia, almeno sovratutto, che la derivazione lo- gica tra la cosa che si deduce e quella da cui si deduce — della quale si fa qualche cosa di obbiettivo, perchè delle cose che derivano logicamente le une dalle altre si sono fatte delle realtà obbiettive, e non delle semplici astrazioni mentali — è affermato nelle loro proposizioni che lo sviluppo logico è identico allo sviluppo ontolo- gico, che il movimento del pensiero corrisponde al mo- vimento della realtà, che l'incatenamento e l'ordine delle idee rappresentano l' incatenamento e 1^ ordine delle cose, ecc. Il Taine ha dunque, in sostanza, ben interpre- tato Hegel, affermando (some vedremo nel $ 6") che il suo sistema è fondato su una certa teoria della causa- lità, la quale consiste a riguardare come causa il prin- cipio logico e come effetto la conseguenza. Aderendo a questo concetto del Taine, noi non intendiamo altro affermare, in ultima analisi, se non che Hegel riguarda i termini o momenti successivi della serie dialettica come derivanti realmente, e non soltanto logicamente^ gli uni dagli altri, e che questa derivazione reale è per lui la stessa derivazione logica, considerata obbiettiva- mente, cioè che essa consiste in questo che, data l'esi- stenza di un termine, è data perciò stesso per necessil'esistenza di un altro termine, questa necessità essendo una necessità logica. Riguardando, come il Taine, que- Tmm . r' ru \^ — 68 - sta dottrina di Hegel per una teoria della causalità, uoi vogliamo dire semplicemente che essa è un'applicazione del concetto di causalità efficiente. Essa applica questo concetto, perchè, secondo essa, l'esistenza di un termine dipende dall'esistenza di un altro termine, e questo è la condizione data la quale quello esiste e non può non esistere; ciò che, salvo l'assenza della sequenza nel tempo, è ciò che noi intendiamo per causalità. Di più perchè in questo legame tra il termine da cui un altro deriva e quest'altro che ne deriva, vi hanno i caratteri che distinguono una causazione efficiente da una semplice causazione empirica o sequenza invariabile, vale adire: che l'effetto è spiegato dalla causa d'una maniera esau- riente, cioè senza lasciare adito ancora alla domanda perehè; che il legame tra la causa e l'effetto, cioè la ca- pacità che ha la prima di produrre il secondo, e il se- condo di essere prodotto dalla prima, è evidente razio- nalmente, cioè per il semplice rapporto delle idee,e non per l'esperienza; e infine che questo legame è necessario, nel senso più stretto della parola necessità. Questi risultati sono ottenuti da Hegel, considerando i termini succes- sivi della serie dialettica, non come semplici astrazioni mentali, ma come entità aventi un'esistenza propria e realmente distinte le une dalle altre. La base del sistema di Hegel, come di tutti gli altri sistemi di realismo dialettico, è dunque questo principio: che la scienza è una deduzione progressiva, in cui si de- ducono sempre dei reali da altri reali (e non semplice- mente dei concetti o delle proposizioni da altri concetti o altre proposizioni), affinchè il rapporto tra la premessa e la conseguenza venga assimilato a quello tra la causa e l'effetto. Se le premesse e le conseguenze non fossero dei reali, l'assimilazione sarebbe impossibile, perchè la causa e l'effetto sono due fatti reali, distinti e separati 1' uno dall' altro. La conseguenza necessaria di questo principio è la realizzazione delle astrazioni. Infatti que- sti reali che si deducono gli uni dagli altri non possono essere che dei concetti obbiettivati, o, parlando d' una maniera più generale, delle astrazioni realizzate. Ciò è per due ragioni : P II realista dialettico non pretende di poter conoscere a priori e, perciò, dedurre, tutti i fatti particolari dell' esperienza, vale a dire tutti gli esseri individuali con le circostanze e gì' incidenti particolari della loro esistenza. Ciò a cui aspira la filosofia aprio- rista, di cui il realismo dialettico non è che una specie, è di riprodurre il contenuto stesso della scienza empi- rica, dandogli la forma dell' apriorità e della necessità. Ora la scienza non conosce che il generale: essa non determina i fenomeni particolari e le serie accidentali che essi compongono, ma le leggi di questi fenomeni, cioè le loro sequenze o coesistenze costanti; essa non de- scrive gli esseri individuali, ma le forme o i tipi co- stanti di questi esseri. Così il realista dialettico, e il fi- losofo apriorista in generale, anche quando ha Tauda- cia di un Hegel, non pretende di conoscere a priori e di dedurre che ciò che vi ha di costante nella natura, le leggi e le forme generali dell'esistenza: non sono tntti gli uomini individuali, con tutti i loro caratteri particolari e tutti gli avvenimenti, anche insignificanti, della loro vita, eh' egli può pretendere di dedurre e di conoscere a priori, ma l'uomo in generale, cioè i carat- teri costanti del tipo umano; non tutte le cadute parti- colari di tutti i corpi che sono caduti nel passato o che cadranno nell' avvenire, ma la caduta dei gravi in ge- nerale, la legge o la determinazione generale del peso o della gravità. Ciò che deduce il realista dialettico sono dunque delle proposizioni astratte e generali, di cui cia- scuna pone l'esistenza di una legge o forma o determi- nazione generale delle cose (p. e. dell' essere, del dive- nire, della gravità, dell'uomo, ccc). Ad ognuna di que- -To- ste proposizioui nou corrispoude, per noi, nella realtà che una classe di oggetti o di fenomeni individuali, cia- scuno coi suoi caratteri e le sue circostanze determi- nate: per noi, la realtà che corrisponde alla proposizione che esiste il peso, sono tutti i gravi che cadono, che sono caduti e che cadranno ; la realtà che corrisponde alla proposizione che esiste V uomo, sono tutti gli uo- mini che vivono, che sono vissuti e che vivranno ; e così di seguito. Ma quando il realista dialettico deduce V esistenza dell' uomo o quella del peso, egli non può intendere, per questa sua deduzione, di porre, cioè di affermare, il complesso dei singoli uomini e delle singole cadute coi caratteri particolari e le circostanze determi- nate con cui esistono, sono esistiti, ed esisteranno nella realtà. Ciò è perchè il reale ch'egli deduce, cioè di cui pone o afferma 1' esistenza per la sua deduzione, deve essere Veffetto e la conseguenza necessaria dei principii da cui lo deduce. Ma 1' esistenza dei singoli uomini e delle singole cadute reali, coi caratteri e le circostanze particolari della realtà, non è la conseguenza necessa- ria, e quindi nemmeno 1' effetto, dei principii da cui deduce l'esistenza dell'uomo o quella del peso in gene- rale. Egli ammette infatti che i singoli uomini e le sin- gole cadute, con le circostanze determinate con cui si sono presentati e si presenteranno nell'esperienza, è im- possibile di dedurli; ciò ch'egli ammette solamente che si possa dedurre è l'esistenza del tipo e della legge ge- nerale, dell' uomo e della gravità. Vi hanno dunque, se- condo il realismo dialettico, due elementi nella realtà empirica, cioè nella nostra realtà : 1' uno deducibile e perciò necessario — è 1' elemento costante della natura, le leggi dei fenomeni e le forme generali degli esseri—; l'altro non deducibile e perciò contingente— è l^lemento variabile, le particolarità dei fenomeni e degli oggetti individuali, in cui queste leggi e questo forme si realiz- I — 71 - zano— . L' uno di questi elementi disgiunto dall' altro non è per noi che un' astrazione, ma il realista dialet- tico deve considerarlo come una realtà, perchè ciò che egli deve dedurre è un reale, e questo non può essere il nostro reale, in cui l'elemento necessario e deducibile è mescolato con l'elemento non deducibile e contingente, e che perciò non può essere la conseguenza necessaria dei principii già stabiliti e non può, quindi, riguardar- sene come l'effetto. Questo reale che egli deve dedurre non può essere dunque che 1' elemento necessario e de- ducibile, per sé solo, astratto, cioè disgiunto, dall'altro elemento che l' accompagna nella realtà empirica, e considerato come esistente per sé in questo stato di strattezza. È infatti questo elemento astratto che può solo riguardarsi come la conseguenza necessaria dei prin- cipii già posti, e quindi, se è una realtà e se anche essi sono delle realtà, come effetto di questi principii (1). 2^ Come abbiamo detto nel paragrafo precedente, i reali che fauno da principii e quelli che fanno da conseguenze non possono essere che una sola e stessa realtà, che passa da uno stito più astratto o più indeterminato a uno stato più concreto o più determinato, perchè, nella deduzione, le conseguenze non fauno che porre, sotto una forma più concreta o più determinata, quello stesso che i principii avevano già posto sotto una forma più astratta o più indeterminata. Ciò implica che i principii, cieè tutti i reali che, ad un grado qualunque del pro- cesso deduttivo, fanno da premesse, non possono essere delle realtà concrete, ma astratte, cioè delle astrazioni realizzate. Risultano dunque da ciò che abbiamo detto due caratteri comuni a tutti i sistemi di realismo dia- lettico : 1' uno che i reali che esso deduce progressiva- (1) V. per più ampi sviluppi § 23'^ Realizzazione delle astra- zioni. 72 - mente gli uni dagli altri, non sono delle realtà con- crete, ma delle astrazioni realizzate^ e l'altro che queste astrazioni realizzate formano una scala di astrazione de- crescente, non essendo che gli stati successivi o, come dice Hegel, i momenti, di nno stesso e unico essere, che passa gradatamente da uno stato più astratto o più in- determinato a uno stato più concreto o più determinato. Noi ritroveremo questo secondo carattere, così bene che il primo, in tutti gli altri sistemi di cui parleremo nel seguito del capitolo. I caratteri del sistema di Hegel, come di qualsiasi altro sistema di realismo dialettico, possono dividersi in due gruppi: gli uni sono comuni a tutti i casi di questa forma di matafisica, gli altri particolari a ciascuno dei singoli casi. Questi ultimi, nel sistema hegeliano, sono le dtie differenze essenziali di questo sistema, cioè l'i- dealismo da cui in esso è accompagnato il realismo dia lettco, e la forma si)eciale della deduzione, che con- siste a passare dalla tesi all'antitesi e poi alla sintesi, ovvero dipendono da queste due differenze essenziali. I primi sono dati dallo scopo stesso a cui mira il realismo dialettico, cioè l'identificazione del rapporto tra il i)rin- cipio e la conseguenza a quello tra la causa efficiente e l'effetto. Noi abbiamo già parlato di alcuni di essi, quali sono, oltre alla realizzazione delle astrazioni e al pas- saggio graduale dal più astratto al più concreto, la ne- cessità che la deduzione differiscaa dalla deduzione or- dinaria (perchè deve essere un progresso reale del pen- siero e delle cose), e che il primo principio sia stabilito a priori (affinchè i principii siano logicamente anteriori alle conseguenze, e possano quindi considerarsene come delle cause). Dobbiamo anche parlare di due altri ca- ratteri del sistema hegeliano che sono pure comuni, come questi, ai diversi sistemi di realismo dialettico, e si spiegano anch' essi per lo scopo di questa forma di - 73 metafìsica. L'uno è l'unità di metodo, la legge costante che governa i passaggi dalle idee date ad altre idee, il ritmo immutabile del movimento dialettico, che si com- pie uniformemente, nel sistema di Hegel, nei tre mo- menti della tesi, dell' antitesi e della sintesi. Lo scopo è evidentemente una identificazione più completa del rapporto tra le premesse e le conseguenze a quello tra le cause e gli effetti. Perchè un reale possa considerarsi come la causa efficiente d'un altro reale, non basta che il primo sia seguito dal secondo per un legame necessario e intrinsicamente evidente che ha con esso, ma bisogna accora che questa sequenza avvenga secondo una legge o una uniformità determinata, perchè anche la causa- zione efficiente è una causazione, e causazione vuol dire sequenza invariabile, cioè che avviene secondo una legge o una uniformità determinata. Questa condizione del metodo dialettico, perchè il nesso logico tra principio e conseguenza possa trasformarsi in un nesso ontologico fra causa ed effetto, importa naturalmente la varietà nel tempo stesso che l'unità, vale a dire la molti plicità dei passaggi logici nel tempo stesso che una legge uniforme che governi questi passaggi. La moltiplicità dei pas- saggi logici si ottiene per la graduazione nella dedu- zione, per la esi)licazione solamente graduale e progres- siva delle conseguenze implicate nel primo principio. La legge costante a cui si conformano questi passaggi logici, è la legge di causazione del mondo delle astrazioni realizzate, la loro sequenza invariabile, per cui Hegel riguarda il metodo dialettico come la legge al tempo stesso del pensiero e delle cose. Questa moltiplicifcà dei passaggi logici e questa legge costante che li governa, le ritroveremo negli altri sistemi in cui all' obbietti va- zione dei concetti è unito il metodo dialettico, nel senso generale che abbiamo spiegato, cioè il metodo di sco- - 74 - piire a priori, ileduceDdoli gli uni dagli altri, questi con- cetti obbietti vati. Uua conseguenza diretta dell'unità di metodi», e quindi indiretta dell'identiticazione del principio alla causa e della conseguenza all'effetto, è il monismo lo(jico ed on- tologicoy cbe è anch'esso un carattere comune del rea- lismo dialettico, La deduzione parte, in tutti i sistemi, da un primo principio unico (monismo logico) ; ne segue, poiché le conseguenze non sono che i principii stessi a uno stato più concreto, che tutte le astrazioni realizzate costituiscono gli stati successivi di un essere unico, che passa continuamente da uno stato più astratto a uno stato più concreto (monismo ontologico). Il monismo lo- gico, di cui l'ontologico è uua derivazione, risulta dal- l'uniformità di legge a cui è sottoposto il mondo delle astrazioni realizzate Essa importa che fra tutte le astra- zioni realizzate vi ha un rapporto determinato che lega le une con le altre. Così una pluralità di principii egual- mente primitivi e perciò senza legame l'uno con l'altro sarebbe in contraddizione con questa uniformità di legge. Queste entità di cui si facessero dei principii egual- mente primitivi e senza legame l'uno con l'altro, do- vrebbero essere anch'esse legate fra di loro dal rapporto costante che costituisce la legge universale. Supponiamo, p. e., che nel sistema di Hegel vi fossero più serie d'Idee indipendenti fra di loro, e per ciascuna serie un prin- cipio proprio senz'alcun legame coi principii delle altre. Tutti i termini di ciascuna serie, in quest'ipotesi, e tutte le parti, grandi e piccole, in cui ciascuna serie si di- vide, sarebbero fra di loro nel rapporto costante di tesi, antitesi e sintesi, ma non le diverse serie relativamente le une alle altre, nò i principii distinti che formano i punti di partenza delle serie distinte. Ciò sarebbe in con- traddizione con la legge universale del mondo ideale, che tutte le idee e tutti i gruppi d'idee si dispongano - 75 ~ in un ordine determinato, secondo il rapporto costante di una opposizione seguita <la una sintesi. Anche le di- verse serie supposte e i principii supposti di quc^ste se- rie dovrebbero essere uniti dallo stesso rapportò, ciò che importa una serie unica e un principio primo unico, e quindi il monismo, non solo logico, ma anche ontologico. Questo è, come abbiamo detto, un carattere comune del realismo dialettico, che ritroveremo in tutti i sistemi di cui parleremo in seguito. Fra tutti i sistemi di realismo dialettico, quello di Hegel, quantunque ne sia l'esempio più illustre, almeno nella filosofia moderna, è il meno proprio ad indicarci chiaramente in che consista l'essenza di questo tipo di metafisica. Ciò è per diverse ragioni, che noi possiamo ri- durre a tre: 1®. La realizzazione degli universali è in- viluppata in questo sistema nella dottrina che le cose sono dei concetti, e presentata come una conseguenza dell'identità dell'essere e del pensiero; ciò che non solo dissimula il vero perchè di questa realizzazione, ma potrt* b- be anche far credere che l'identità dell'essere e del pensie- ro è essenziale nel realismo dialettico. 2®. La deduzione di Hegel è così difforme dalla vera deduzione^ che si com- prende appena come l'autore abbia potuto considerarla corno tale. Ciò può avere per risultato di nasconderci che il carattere essenziale del metodo di questa metafi- sica è di essere o piuttosto di pretendere di essere una deduzione, vale a dire ciò che i logici chiamano con questo nome. Inoltre potrebbe farci credere che l'iden- tità dei contrari e le altre particolarità della dialettica hegeliana siano dei caratteri essenziali di questo me- todo, che noi dobbiamo attenderci di ritrovare in tutti gli altri sistemi analoghi. 3<*. Hegel non afferma esplici- tamente il principio fondamentale del suo sistema, cioè l'identità del rapporto logico fra il principio e la conse- guenza col rapporto ontologico fra la causu e l'effetto. — 76 - — 77 ^ Per queste ragioni saranno per noi più istruttivi gli altri sistemi: quello del Taine, a cui ora passeremo, sarà forse il più istruttivo di tutti, perchè la sua dedu- zione è la deduzione dei logici, e perchè egli espone della maniera più netta la teoria della causalità che è la base del realismo dialettico. $ 4. Non vi ha dubbio che Taine consideri V astratto e generale come una realtà sussistente per se stessa. Egli parla continuamente di cose generali^ che corrispondono alle idee e nomi generali. (1) Un'idea astratta e generale è ciò che corrisponde, nel nostro pensiero, a una cosa astratta e generale nella realtà; è a questa che deve ag- giustarsi, è essa che è il suo oggetto (2). 0 piuttosto, siccome tutte le nostre idee non sono che immagini di sensazioni, e noi non abbiamo, a parlar propriamente, idee astratte e generali, sono i nomi generali che corrispon- (1) Inlcllig. 2a parte 1. 4** e. !<> in princ: <t Sin qui non ab- biamo considerato che le cose particolari e la conoscenza che ne prendiamo; ci resta a considerare le cose generali e le idee ohe ne abbiamo. Perchè vi hanno delle cose generali, cioè delle cose comuni a molti casi o individui; sono dei caratteri o gruppi di caratteri acqua designa un gruppo di caratteri che s'in- contra sempre lo stesso in un'infinità di liquidi .... bere de- signa un gruppo di caratteri ohe s'incontra sempre lo stesso in un'infinità d'azioni... È così per le altre parole del dizionario; cia- scuna designa un carattere o gruppo di caratteri che si presenta o può presentarsi in molti casi o individui naturali. Ecco un nuovo oggetto di conoscenza, t.ome vi hanno in noi dei pensieri che corrispondono ai casi e individui particolari, così vi hanno in noi dei pensieri che corrispondono ai caratteri generali; si chiamano idee generali. » V. pure la stessa opera. 2» ed. t. 1° p. 5, 29, 67, t. 20 p- 257, 2«1. 400, 401, ecc. (Nella più parte di questi luoghi, come nel luogo citato, le cose generali sono opposte agli oggetti individuali). (2) Intelliy. 2a ed t. 2o p. 240, 244-245, 249, 261, 262, 302, 507, 333, 417, dono alle cose astratte e generali, e le rappresentano,- o, come dice il nostro autore, le sostituiscono, nel nostro pensiero (1). Sono questi nomi, non le pretese idee a- stratte, che ci rendono presenti le cose generali (2): un nome generale (p. e. albero o poligono) e la cosa astratta e generale corrispondente formano una coppia^ tale che il primo termine tiri dietro di sé, faccia appa- rire, il secondo termine (3). Se un nome si applica a tutti gl'individui d'una classe, è perchè designa il carat- tere astratto presente in tutti questi individui, ed è legato con lui: esso equivale alla vista, che non possiamo avere, di questo carattere astratto (4). Alla presenza dinnanzi a noi di una qualità generale nasce in noi una tendenza a nominare ed un nome (5); tutte le volte che la cosa astratta e generale è presente negli oggetti, il nome è (1) Inlellig. t. 1«» 21-22, 25-26, 28, 36-37, .50, 56. 66, 71, t. 2© 232, 243, 244-245, 266, ecc. (2) Intellig. t. 1» l. lo e. 3« n. IV. (3) [nletlig. 1. 1«» e. 1« n* IV, e. 2<> n. 1, ecc. (4) Intellig. 2^ parte 1. 4° o. lo § lo n. 11: « Pertanto se esee (le percezioni e rappresentazioni sensibili degl'individui d'una classe) lo evocano (il nome), è grazie a ciò che tutte hanno in comune, e nou grazie a ciò che ciascuna d'esse ha di proprio; pertanto ancora se esso le evoca, è grazie a ciò che tutte hanno di comune e non grazie a ciò che ciascuna di esse ha di proprio; per conseguenza in fine esso è attaccato a ciò che tutte hanno di comune e a ciò solamente. Ora questo qualche cosa è ap- punto il carattere astratto, lo stesso in tutti gl'individui della classe. È dunque a questo carattere, e a questo carattere solo, ohe il nome, mentalmente inteso o pronunziato, corrisponde; ciò che si esprime dicendo che il nome designa e significa il carat- tere. Di «luesla maniera il nome equivale alla vista, esperienza o rappresentazione sensibile, che non abbiamo e non possiamo avere, del carattere astratto presente in tutti gli individui si- mili. Esso la rimpiazza e fa lo stesso ufficio ». (5) Intellig. t. lo p. 34. p. 56. 78 presente nel nostro spirito, tutte le volte che essa è as- sente, esso è assente; così sostituisce la sua esperianza o la sua rappresentazione che ci sono impossibili (1). Noi 79 — (1) Intellig. 1. 1» o. 2o IV : « Esso (il nome) corrisponde alla qualità comune e distintiva che costituisce la classe e che la se- para dalle altre, e corrisponde solamente a questa qualità ; tutte le volte ohe essa è presente, esso è presente, tutte le volte che essa è assente, esso è assente ; esso è destato da essa, e non è destato che da essa. Di questa maniera è il suo rap- presentante mentale, e si trova il sostituto d'una esperienza <5hf ci è interdetta. Esso tiene luogo di quest'esperienza, fa il suo ufficio, le equivale — Artifìcio ammirabile e spontaneo della nostra natura: noi non possiamo percepire né mantenere isolate nel nostro spirito le qualità generali, sorta di filoni preziosi che costituiscono l'essenza e fanuo la classificazione delle co- se; e tuttavia per uscire dalla grossa esperienza bruta, per apprendere l'ordine e la sirutlur't interiore del mondo, (la strutttura interiore del mondo, perchè esso si compone, come di vari strati, di astrazioni realizzate più o meno astratte), bi- sogna che noi le ritiriamo dalla loro ganga, e le concepiamo a parte. Noi ricorriamo a un sotterfugio, associamo a ciascuna qualità astratta e generale un piccolo avvenimento particolare e complesso, un suono, una figura facile a immaginare e a ri- produrre; e rendiamo l'associazione si esatta e si stretta che or- mai la qualità non possa apparire o mancare nelle cose, senza che il nome apparisca o manchi nel nostro spirito, e reciproca- mente. La coppi. i così formata rassomiglia a questi strumenti di fisica e di chimica che, per un debole effetto sensibile, uno spoststmento d'aghi, una variazione di tinta, mettono alla por- tata dei nostri sensi delle decomposizioni di sostanze o delle va- riazioni di correnti poste fuori della portata dei nostri sensi Similmente, quaado si tratta d'una qualità generale, di cui non possiamo avere né esperienza né rappresentazione sensibile, noi sostituiamo un nome alla rappresentazione impossibile Per questa equivalenza (tra il nome e la rappresentazione) i carat- teri generali delle cose arrivano alla portata della nostra espe- rienza...,.» non abbiamo esperienza o percezione delle cose astratte e i^enerali considerate ciascuna isolatamente (1); ma esse non esistono al di là di questo mondo come le Idee di Platone secondo la più parte degl' interpreti (2). Sono quali forme viventi mescolate alle cose (3) ; costitui- scono la porzione uniforme e fìssa dell'esistenza dispersa e successiva (4), i soli elementi che siano da per tutto gli stessi e rinascano sempre gli stessi (5); come gl'in- dividui e gli avvenimenti, in cui esse esistono, sono delle forme dell'esistenza, e non differiscono dagl'indi- vidui e dagli avvenimenti che perchè sono delle forme più stabili e più diffuse (6). Per indicare l'esistenza per sé delle cose astratte e generali e al tempo stesso la loro inerenza nelle cose concrete e partirolari, Taine dice, come Platone, che quelle sono presenti in queste o altre (1) V. oltre i l. cit. nelle note 4 p. 77 e 1 p. 78, Intellig. 1. 1" o. 2» n. 1 in fine, n. II in princ, u. IV in princ, e e. 3 n. IV in principio e in fine. (2) V. Intellig. 2o 300-302, luogo che riporteremo in una no- ta seguente. (3) Saggi di critica e di Storia, Prefazione: Le qualità e si- tuazioni generali che fanuo e disfanno le civiltà, e di cui la no- stra vita effimera non è che un fiotto nella loro corrente, ci ap- pariscono « non come formule astratte, ma come forze viventi mescolate alle cose, da pertutto presenti, sempre Jigenti, vere divinità del mondo umano, ohe danno la mano al di sotto di esse ad altre potenze padrone della materia come esse lo sono dello spirito, per formare tutte insieme il coro invisibile di cui parlano i vecchi poeti, che circola a traverso le cose, e per cui vive e palpita l'universo eterno ». Qui le cose astratte e gene- rali non sono solamente sostanti dcate, ma quasi personificate. (4) V. Intell. 20 p. 236, luogo che riporteremo in una nota se- guente. (5) V. Intellig, 2» p. 301, il luogo che riporteremo nella nota (6) V. lo stesso luogo indicato nella nota precedente. iiS — 80 — „ Il I I Il II I I — n^— rr-^^^^» espressioni equivalenti (1); che vi sono incluse o conte' nate (2); che ne sono delle porzioni o dei frammen' (1) V. Intellig. t. 1» p. 36 e 37, t. 2o p. 232, 236, 237, 238, 239, 240, 245, 249, 257,295, 297, 301,309, 311, 312,319,348,486, 487, 489, 490, Filos. class, p. 367, Posit. ingl. p. 144, 145. ecc. Notiamo le espresioni: « i caratteri generali sono gli abitanti pili dittnsi della natura» e «hanno il più largo posto nella scena dell'essere (v. Intellig. 2» p. 237, 1<* riportato in una nota seg.); i caratteri comuni « sono molto più diffusi nello spazio i> ohe i caratteri che persistono in un essere particolare {Intellig. t. p. 238); questi estratti (noi diremo asiratti) « presenti in molti punti del tempo e dello spazio » (t. 2'' p. 240); più un carattere è ge- nerale e astratto, « più occupa posta, e lega individui nella na- tura|» (p.249); dei caratteri più generali «che universalmente diffusi sotto svisamenti diversi >> (p.257); nella natura un carattere, « è sempre annegato in una folla d'altri » (p. 319); « dei dati gone- eali, cioè diffusi in territori esteriori molto vasti » {Posit. ingl, p. 144); « dei dati universali, cioè diffusi su tutto il territorio del tempo e dello spazio » (ihid.J. Notiamo pure sotto un'altro punto di vista: Intelligenza t. 2<^ p. 393; gli assiomi affermano che « se il primo dato s' incontra in qualche parte e notevolmente nella natura, il secondo dato non può mancare d'incontrarvisi > (perchè infatti un'astrazione realizzata, essendo sussistente per se stessii, non potrebbe incontrarsi anche fuori della natura ì) — In alcuni dei luoghi indicati le cose astratte e generali non si dicono presenti (o assenti) nelle cose donerete e particorari, ma in altre cose pure astratte e generali, ma meno delle prime. E in effetto la relazione tra il più astratto e il meno astratto in cui il primo inerisce, non potrebbe essere diversa che quella tra l'astratto ed il concreto. (2) V. Intellig. t. 2"' p. 269, 309, 392, 401, 402, 403. 404. 405, 406, 407. 409. 410, 412, 415, 417, 418, 425, 466, 483. 487, Posit. ingl. p. 116, 125, 132, 140, 144, 145, Filos. clas. p. IX. ecc. Ripetiamo la stessa osservazione della nota precedente, cioè che nei luoghi indicati l'autore dice le cose astratte e generali in- eluse o contenute (o altre espressioni equivalenti) tanto negli og- getti concreti e particolari quanto in altre cose pure astratte e - 81 — ' ti (1); che sono gli elementi (2), i semplici (3), i compo- nen<f (4), e le cose i composti che ne risultano (5); ecc. generali (ma meno della prima). Nelle note seguenti ci dispen- seremo di ripetere Tosservazione analoga : basterà di dire ora in generale ohe l'autore si serve, com'è naturale, delle stesse e- spressioni per indicare sia la relazione dell'astratto al concreto sia quella del più astratto al mono astratto di cui il primo si dice ohe è una nota (quando si risruardano come semplici concetti). (1) V. / filos. class, o. X p. 250, 3» ed.: « Il tutto è soggetto o sostanza, le parti sono attributi o qualità.... sempre e da per tutto ove si trova, l'attributo è una qualità, un astratto, una porzione del soggetto. Questa pietra è pesante, la materia è estesa, questa pianta vegeta, il sole è brillante; in tutte queste frasi Tattributo è un membro separato dal soggetto. L'estensione è una porzione del tutto che si chiama materia; il peso è una porzione del tutto che si chiama pietra; la vegetazione è una porzione del tutto che si chiama pianta; lo splendore è una porzione del tutto che si chiama sole ». L* Intellig. t. lo p. 22 ed. 2*: « La cifra aritmetica non sostituisce la cosa intera con tutte le sue qualità e caratteri, ma solamente la sua quan* tità e il suo numero » ; sostituisce solamente « qualche cosa dell' oggetti immaginato, cioè a dire un frammento, un e- stratto ». P. 25-26: Il nome generale « è astratto perchè de- signa un estratto, cioè una porzione d'individuo, la quale si ri- trova in tutti gl'individui del gruppo esso è generale percè astratto; convieue a tutta la classe, perchè l'oggetto designato non essendo che un pezzo, può ritrovarsi in tutti gl'individui della classe.... Ecco una coppia d'una specie nuova (la coppia fra il nome e l'astratto designato), poiché il suo secondo tar- mine non è un oirgetto di cui possiamo avere percezione ed espe- rienza, cioè a dire un fatto intero e determinato, ma una por- zione di fatto, un frammento ritirato per forza e per arte dal- tutto naturale a cui appartiene e senza di cui non potrebbe sus- sistere » (fenza di cui non potrebbe sussistere, perchè le astra- zioni realizzate non esistono che nella natura, per conseguenza, nelle cose concrete). Possiamo noi avere l'esperienza, percezione 6 — 82 — — 83 — Questi elementi non ricevono un' esistenza fittizia daU l'astrazione; essi esistono per sé stessi, ma nelle cose; ciò vuol dire che ciascun elemento non esiste solo ma in unione ad altri elementi, insieme ai quali costituisce o rappresentazione sensibile di questo frammento staccato e isola- to?... » T. 20 p. 483: « Per ragione esplicativa s'intende uno o più caratteri del soggetto, inclusi in esso come un frammento iu un tutto, pivi astratti e più generali di esso, e che essendo legati èssi stessi all'attributo, legano l'attributo al soggetto. Ciò torna a dire ohe l'attributo non è legato al soggetto stesso tutto intero, ma ad uno o più caratteri astratti e generali del soggetto ». P. 487: Un attributo che un soggetto ha comune con un altro soggetto « appartiene a questa porzione del nostro soggetto che si compone di caratteri presenti in esso e nel secondo soggetto, cioè a dire comuni all'uno e all'altro, cioè a dire infine gene- rali. Donde segue pure che appartiene solameute a una porzione del nostro soggetto, in altri termini a un frammento, a un estratto, a un astratto incluso nel nostro soggetto ». V. a. Intellig. t. 1® p. 21, t. 20 p. 239, 309, 402, 404, 489, Posit. ingl. p. 116, 117, 128, 130, 131. ecc. (2) Intell. p. 2» 1. 4. e. 2. § 1, 11 (2^ ed. t. 2. pag. 402-404): « Del gruppo di caratteri che costituiscono un corpo terrestre, Newton non ne avea conservato che uno, la proprietà di essere una massa in rapporto con un'altra massa; egli aveva eliminato il resto. Del gruppo di caratteri che costituiscoro un pianeta egli non ne avea conservato che uno, la proprietà di essere una massa in rapporto con un'altra massa; egli aveva pure eliminato il resto. Egli aveva dunque liberato (degagé) dai due gruppi una proprietà asttatta e generale, più astratta e più generale che ciascuno di essi, contenuta in ciascuno di essi come una parte iu un tutto, come un frammento in un insieme, come un elemento in una somma. Invece di legare come i suoi predecessori il peso fil pri- mo gruppo totale, e la tendenza centripeta al secondo gruppo totale, egli legava il poso e la tendenza centripeta a un elemento che si trovava lo stesso nei due. Per quest'esempio evidente vediamo in che consiste il dato intermediario che ci fornisce la ragione d'una legge. Essendo dato l'oggetto sottomesso alla legge» ^ iiDO dei suoi caratteri, un carattere compreso nel gruppo iS «lei caratteri che lo costituiscono, un carattere incluso in esso, più astratto e più generale che esso, in breve un estratto da estrarre », Se si spiegasse la legge di gravità, « si liberprebbe {on dégayerait) nel corpo che gravita un carattere più astratto e più generale ancora che la gravitazione.... quest'ultimo carat- tere esplicativo avrebbe gli stessi tratti e la stessa situazione che gli altri. Sarebbe dunque come gli altri una porzione, un ele- mento, un estratto del precedente, (cioè della proprietà generale dei corpi a cui Newton ha legato la gravitazione), e si troverebbe come gli altri nel precedente in cui è incluso ». Posit. ingl. § 11, III: Con la definizione della sfera (o di un altro oggetto qualun- que) « si riduce un dato infinitamente complesso a due elem'enti. (I due attributi che entrano nella definizione sono dunque gli elementi dell'oggetto definito). Si trasforma il dato sensibile in dati astratti.... Vi ha in fuori della definizione molte maniere di fare riconoscere l'oggetto... Solameute queste designazioni non so- no delle definizioni esse non riducono la cosa ai suoi fattori, non la ricreano sotto i nostri occhi, non mostrano la sua natura intima e i suoi elementi irriduttibili,.. Vi ha una definizione in ciascuna scienza; ve ne ha una per ciat^cun oggetto. Noi non la possediamo da per tutto, ma la cerchiamo da per tutto. Noi fiiamo pervenuti a definire il movimento dei pianeti per la forza tangenziale e Tattrazione che lo compongono... Noi lavoriamo a trasformare ciascun gruppo di fenomeni in alcune leggi, forze o nozioni astratte. Noi ci sforziamo di attingere in ciascun og- getto gli elementi generatori, come li attingiamo nella sfera... e in tutti i composti matematici » — V. pure Pos. ingl. § 11 II pa- gina 115, $ 11, VI p. 131, $ 11, VII p. 134-136 (luoghi citati in note seguenti), $ 11, V pag. '127, Intellig. 2^ ed. t. 2. p. 392, 405, 407, ecc. — Come gli astratti in generale sono gli elementi delle cose concrete, così tra gli astratti stessi i più astratti (i meno comprensivi) sono gli elementi dei meno astratti (i più compren- sivi), iu modo che, decomponendo gli elementi stessi nei loro ele- menti, si giunge infine ad elementi primi, indecomponibili. Posit. - 84 - - 85 - questi corhposti ohe si chiamano cose. L' astrazione non fa che considerare ciascun elemento a parte, cioè solo; sceverandolo dagli altri elementi con cui è unito; essa e riduzione, che non è che una specie di astrazione ingl. J ir F//-r////). i57-/^7.- Trovate queste coppie d'astratti ohe si cbiaraiano leggi della Datui*a, « noi pratichiamo su loro la stessa operazione che sui fatti (cioè di ridurle ai loro ele- menti)... Quantunque più astratte, esse sono aucora complesse Esse possono essere decomposte e spiegate... Vi ha luogo per loro come per i fatti, di cercare gli elementi generatori in cui possono risolversi.... e l'operazione devo continuare sinché si sia giunti ad elementi assolutamente semplici, cioè tali che la loro de- composizione sia contradittoria... Vi hanno dunque degli ele- menti indecomponibili.... Possiamo noi conoscere questi elementi primi? Per mio conto, io lo penso, e lu ragiene ne è che es- sendo degli astratti, essi non sono situati al di fuori dei fatti, ma compresi in essi, in modo che non si ha che a ritirameli. Ben pili, essendo i più astratti, cioè i più generali di tutti, non vi hanno fatti che non li comprendano e da cui non si possa estrarli. Sì limitata che sia la nostra esperienza, noi possiamo dunque attingerli, ed è secondo quest'osservazione che i moderni metafisici d'Alemagna hanno tentato le loro grandi costruzioni. Essi hanno compreso che vi hanno delle nozioni semplici . cioè degli astratti indecomponibili, che le loro combinazioni generano il resto, e che le regole delle loro unioni o delle lord contrarietà mutue sono le leggi prime dell'universo.... Se qualcuno racco- gliesse le tre o quattro grandi idee a cui mettono capo le no- stre scienze, e i tre o quattro generi d'esistenza ohe riassumono il nostro universo.... se in seguito, isolando gli elementi di questi dati, mostrasse ohe essi devono combinarsi come sono combinati e non altrimenti; se provasse infine che non vi hanno altri ele- menti e che non ve ne possono essere altri, egli avrebbe abbozzato una metafisica senza usurpare (empiéter) sulle scienze positive...» V. pure I filos, class. Prefaz. p. IX-X 3^ ediz., in cui è ripetuto lo stesso concetto che nell'ultimo tratto citato» aggiungendo ohe « tale è l'idea dello natura esposta da Hegel ». (3) V. Posit. ingl. $ 11. II (luogo citato nella nota seguente), e $ 11, VII (luoghi citati in una nota seg. di questo paragrafo e nel paragr. 6», testo). (4) Posit. ingl. { 11 li (p. 115-116): «Ogni conoscenza con- siste dapprima a legare o addizionare dei fatti. Ma ciò ter- minato, una nuova operazione comincia, la più feconda di tutte e che consiste a decomporre questi dati complessi in dati sem- plici. Una facoltà magnifica apparisce... io voglio dire l'astrazione, che è il potere d'isolare gli elementi dei fatti e di considerarli a parte. I miei occhi seguono il contorno d'un quadrato, e l'a- strazione ne isola le due proprietà costitutive, l'eguaglianza dei lati e degli angoli. Le mie dita toccano la superficie d'un cilindro e l'astrazione ne isola i due elementi generatori, la nozione di rettangolo e la rivoluzione di questo rettangolo intorno ad uno dei suoi lati preso come asse Da per tutto altrove è lo stesso. Sempre un fatto o una serie di fatti può essere risoluto nei suoi componenti. È questa decomposizione che si reclama allorché si domanda quale è la natura d'un oggetto. Sono que- sti componenti che si cercano allorché si vuol penetrare nell'in- teriore d'un essere. Sono essi che si designano sotto i nomi di forze, cause (cause nel senso del realismo dialettico), leggi, es- senze, proprietà primitive. Essi non sono un nuovo fatto aggiunto ai primi; ne soao una porzione, un estratto ; sono contenuti essi, non sono altra cosa che i fatti stessi. Non si passa, sco- prendoli, da un dato a un dato dift'erente, ma dallo stesso allo stesso, dal tutto alla parte, dal composto ai componenti. Non si fa che vedere la stessa cosa sotto due forme, prima intera, poi divisa; non si fa che tradurre la stessa idea da un linguaggio in un altro, dal linguaggio sensibile in linguaggio astratto ». (5) V. Posit ingl. } 11, II (il luogo citato nella nota pre- cedente), J 11. III (il luogo citato nella nota 2 p. 82), $ 11, VII, (il luogo che citeremo nel parag. 6» testo), Intellig. 2» ed. t. 2» p. 292-293, p. 474, ecc. I fenomeni o oggetti particolari, es- sendo composti di elementi astratti, sono delle cose complesse : — 86 - consistono ad estrarrCj a ritirare, a staccare, a separare^ dalle cose questi elementi e le loro coppie che chiamiamo l^ggi (perchè una legge non è, come vedremo, che una coppia di astratti), ad isolarli, a metterli a parte, a me<- terli a nudo, ecc. per la eliminazione o espulsione o sepa- razione, ecc. degli altri elementi con cui coesistono. (6) V. Posit, ingl. $ 11, II (il luogo citato nella nota precedente), } 11, III (il luogo citato nella nota 2 p. 82), $ 11, VI (il luogo che citeremo nella nota seguente), $ 11, VII (che citeremo in una delle note seg.). Intellig t. 2» p. 240, eco. Gli astratti stessi decomponendosi in elementi più astratti, sono pure complessi — v. Posit. ingl. $ 11 VII (il luogo citato nella nota 2 p. 82)-^o eomposti—v. Posti. tngL. ihid, il luogo che citeremo nel paragr. 6o — : i meno astratti o meno generali sono pia complessi che i più astratti o più gene- rati — V. Intellig, t. 2o p. 237 e 418.— Per conseguenza le cose che noi chiamiamo reali (e le astrazioni in cui osse si risolvono meno le più astratte di tutte) sono dei gruppi o delle riunioni di astratti— V. Intellig. p. 2*1. 4o o. 2° } 1, II (il luogo citato nella nota 2 p. 82), Posit. ingl. § 11, VI (luogo che citeremo nella nota seguente), Intellig. p. 2» 1. 4» e. 3o $ 111, III (un soggetto distinto, p. e. questo parallelogrammo, o anche il parallelo- grammo in sé, è < una somma o riunione di caratteri >) Intellig. p. 2» 1. 4° e. 20 III (un carattere astratto non si trova che in un caso o individuo particolare « cioè in una compagnia di altri ca- ratteri»), ecc. — Un fatto è un gruppo fittizio e un ananasso ar- bitrario (perchè gli elementi, cioè gli astratti, che lo compongono non sono uniti che accidentalmente) Posit. ingl. $ 11, VII. Un fatto è ancora (Posit. ingl. ibid.) < una sovrapposizione di leggi » (perchè una legge è una coppia di astratti, cioè di entità reali, e un fatto è dovuto al concorso di più leggi). (6) Intellig. t. 2. p. 256 €... separare (démiler) il tipo reale e costante ohe fa ciascun specie, ciascun genere, ciascuna fami- glia, ciascun ordine, ciascuna classe» (il tipo si distingue dalla specie, dal genere, ecc., e li fa per la «uà presenza in tutti gli individui della specie, del genere, ecc.) Intellig. 263 : L'unità di - 87 ^ Per indicare questa operazione, al termine astrazione il Taine ne preferisce uno nuovo, castrazione il), perchè il ciascun mucchio di pietre « non è che un carattere generale del- l'oggetto, e questo carattere può essere liberato (degagé), ritirato, messo a paite per i processi ordinari, cioè a dire per mezzo di un nome, e in generale per mezzo di un segno. Ben più, non ve ne è più facile a mettere a parte, perchè tutti gli og- getti lo presentano ». Inteilig. t. 2. 271-273 : « Ciascuno di questi limiti, superfìcie, linea o punto, è un carattere del cori)o, carat- tere isolato per astrazione, considerato a parte, e di più gene- rale, cioè comune a molti corpi, o a dir meglio universale; cioè comune a tutti i corpi. Noi lo stacchiamo e lo notiamo per mez- zo di simboli A qnesti elementi così rappresentati aggiungetene un altro, il movimento; esso s"* incontra pure nella più parte dei corpi che percepiamo; ' si può dunque staccame- lo ». Intellig. t. 2 p. 294 : « Ecco delle leggi; ciascuna di esse o<msiste in un? coppia di caratteri generali e astratti che sono legati. Da un lato questa proprietà d'essere del ferro e d'essere esposto all'umidità, dall'altro la nascita di questo composto chimico che si chiama ruggine; da un lato la suprema durezza e dall'altro la proprietà di essere un cristallo di carbonio puro... è visibile che tutti questi dati sono- dei caratteri generali, cioè a dire co- muni a un numero indetìnito d'individui o di casi; che tutti que- sti dati 8«>no dei caratteri astratti, cioè degli estratti, considei-ati a parte^.... » P. 417: «l'intermediario esplicativo (cioè la ragione d'una legge) si è sempre mostrato a noi come un carattere o una somma di caratteri inclusi nel primo dato della coppia (cioè della legge), più generali di esso se si considerano a parte, accessibili alle nostre prese poiché sono compresi in esso, e separabili da esso per i nostri processi ordinari di isolamento e di estrazione — Una volta che, l'intermediario è separato (démclé) e rappresen- tato nello spirito da un'idea corrispondente, si fa in noi un lavoro intensivo che si chiama dimostrazione...» I filos. class. Prefaz. 3^ ed. p. IX : < Ma allo stesso tempo se ne può concludere contro i positivisti che le cause npn sono un mondo misterioso e inaces- sibile. che esse si riducimo a delle leggi, tipi o qualità dominanti. - 88 - primo, per l'uno che uè fa il concettualismo, ha perduto il Bigniticato suggerito dalla sua etimologia, cioè di trai — 89 -- fuori dagli oggetti qualche cosa che già esisteva in essi. Così egli chiama lo cose generali degli estratti (8), ohe possono esaere osservate direttatnente e in se stesse, che sono racchiuse negli oggetti, che pertanto si può estrarnele, che le primo avendo la stessa natura delle ultime possono essere come le ultime separate (dégagées) per astrazione dai fatti che le contengono, ohe l'assioma primitivo (cioè la coppia di astratti piti generale) è compreso in ciascun avvenimento che esso causa, come la legge del peso è compresa in ciascun avvenimento che essa produce » (le cause sono per Taine, come spiegheremo in seguito, gli a- Btratti e le loro coppie). / filos. class. 3' ed. p. 163-164 : « Io ho tracciato un triangolo particolare, determinato, contingente, peribile, A B C, (le astrazioni realizzate sono generali, indeter- minate, necessarie, eterne) per fermare la mia immaginazione e precisare le mie idee. Io ho estratto da esso il triangolo in ge- nerale; perciò non ho considerato in esso ohe delle proprietà co- muni a tutti i triangoli e non ho fatto su di esso che delle OO' struzioni che potrebbero convenire a tutti i triangoli. Analiz- zando queste proprietà generali e queste costruzioni generali, io ne ho estratto una verità o rapporto univerale e necessario (l'egua- glianza degli angoli a due retti). Io ho ritirato il triangolo ge- nerale compreso nel triangolo particolare ; ciò ohe è un* astra- zione. Io ho ritirato un rapporto universale e necessario conte- nuto nelle proprietà generali della costruzione generale; ciò che è ancora un'astrazione...» Posit, ingl, J II, II X17 : «in questa operazione (l'astrazione), che è evidentemente fruttuosa, invece di andare da un fatto ad un altro, si va dallo stesso allo stesso; invece di aggiungere un'esperienza a un'esperienza, si mette a parte qualche porzione della prima» Posit, ingl. } 11 VI (pa- gine 131- 133): «Resta l'induzione, che sembra il trionfo della pura esperienza. Ed è appunto l'induzione che è il trionfo del- l'astrazione. Quando io scopro per induzione che il freddo causa la rugiada, o ohe il passaggio dallo stato liquido allo stato so- lido produce la cristiiUizzazione, io stabilisco un rapporto tra due astratti. Nò il freddo, né la rugiada, né il passaggio dallo stato liquido allo stato solido, né la oristalizzazione non esistono in sé (vale a dire isolatamente). Sono delle porzioni di fenomeni, degli estratti di casi complessi, degli elementi semplici racchiusi in insiemi più composti. Io ne li ritiro e li isolo; isolo la rugiada presa in generale da tutte le rugiade locali . temporanee, par- ticolari, ohe io posso osservare; isolo il freddo preso in generale da tutti i freddi speciali, variati, distinti, ohe possono prodursi fra tutte le differenze di tessitura, tutte le diversità di sostanza, tutte le ineguaglianze di temperatura, tutte le oomplicazioni di circo- stanze. Io cougiungo un antecedente astratto con un conseguente astratto, e li congiungo, come mostra lo stesso Mill, per mezzo di separazioni, di soppressioni, di eliminazioni. Io espello dai due gruppi che li contengono tutte le circostanze adiacenti; di- stinguo (démélej la coppia nell' accerchiamento che 1' offusca; stacco, per una serie di comparazioni e di esperienze, tutti gli accidenti parassiti che si sono incollati con essa, e tiniseo così per metterla a nudo. Io ho l'aria di considerare venti casi dif- ferenti, e nel fondo non ne considero che uno solo; ho l'aria di procedere f>er addizione, e insomma non opero che per sottra- zione. Tutti i processi dell'induzione sono dunque dei mezzi di astrarre, e tutte le opere dell'induzione sono dunque dei le- gami di astratti ». Intellig. t. 2^ p. 319 : « Tutti questi metodi (i metodi induttivi di Mill) hanno ricorso allo stesso artifizio, che è l'eliminazione o Tesolusione dei caratteri che non sono il carattere cercato. Sia un carattere conosciuto; esso è accompa- gnato, seguito e proceduto da dieci altri. Quale o quali di que- sti dieci sono legati alla sua presenza, in modo che la sua pre- senza basti perché essi siano dati come compagni, antecedenti e conseguenti \ Tutta la difiìcoltà e tutta la scoverta sono lì. Per risolvere la difficoltà e per operare la sooverta, bisogna eli- minare, cioè escludere, fra i dieci quelli ohe non sono legati di questa maniera alla^ua presenza. Ma siccome effettivamente non si può esoluderli, e ni'lla natura il carattere cercato è sempre an- negato in una folla d'altri, si riuniscono dei casi che, per la loro 90 - — 91 — (laudo a questo termiue uu siguitìcato pressocliè iden- tico a quelli di porzione o di frammento: estratto equi- vale al fondo ad astratto, ma indica che quest' astratto esiste già nelle cose, e l'astrazione non fa che considerarlo isolatamente. Quando il Taine parla di astrazione, egli non dà a questo termine o ai termini analoghi il significato ordinario, percliè egli non ammette delle idee astratte diversità, autorizzano lo spinto a espellere questa folla. Si cer- cano degl'indizi che ci permettano di distinguere il carattere cercato e i caratteri parassiti L'espulsione fatta, non resta d'innanzi a noi che il carattere cercato» —V. a. Intellig. 1. 1^ p. 25- 26 (luogo citato nella nota 1 p. 81), Intellig. p. 2» 1. 4o e. 2» $ 1. II, e Posit. ingl.^ ll.VIII(luo;^hi citati nella nota2 p.82).Pt>»i<. ingl. J 11, II (luogo citato nella nota 4 p. 85), Posit. ingl. $11, IV pag. 125, Mlo8. class, ed. 3» p. 363, 364, 365, 367, 368. InteUig. ed. 5» p. 9-10, Intellig. ed. 2* t. lo p. 29, p. 57, t. 2. p. 249. 292, 300, 302, 311, 312, 392, 401, 405, 412, 474, 490. ecc. (7) V. Posit. inni. $ II, Vili e Intellig. t. 2. p. 403 (citati in nota 2 p. 82), Int 2» p. 417. e Filos. class. IX e 163 (citati nella nota prec), Int. t. 1. 57, t. 2. p. 263, 271, 273, 292, 300, 302,333, 392, 401, 405, 474, ecc. (8) Intellig. t. 2. pag. 240 « Se iu questo fascio (di caratteri, la cui persistenza fa l'individuo) si omettono tutti i tratti per- sonali,, il residuo è la razza, vale a dire un carattere presente in quest'individuo e in molti altri. Un estratto di questo residuo è la specie, vale a dire un carattere presente in molte razze. Un estratto di quetto estratto è il genere, vale a dire un carat- tere i)re8ente in molte specie ; e così di seguito A questi estratti o residui, presenti in molti punti del tempo e dello spazio, corrispondono in noi dei pensieri d'una specie di- stinta e che noi chiamiamo idee generali e astratte ». V. a. In- ietlig. lo 22 e lo 25 e 2o 487, citati in n. 1 p. 81, Intellig. p. 2» 1. 4 e. 2. § 1, II, citato in n. 2 p. 82, Posit. iìi^l. } 11, II, citato in n. 4 p. 85, PosH. ingl. § 11, VI e Intell. 2o 294, citati nella n. penult. e Intell, t. lo p. 28, t. 2o p. 302, p. 418, ecc. né quindi una facoltà di astrarre, ma semplicemente, come abbiamo visto, dei nomi generali e un'associazione di questi nomi con le cose generali. Questa è un'altra prova che dimostra che tutte le espressioni con cui egli attribuisce agli astratti un'esistenza isolata, cioè per sé, devono prendersi nel senso più rigoroso, perché questa esistenza isolata non avendola, secondo lui, nel nostra pensiero, non potrebbero averla altrove che nella realtà. Per denotare le sue astrazioni realizzate il Taine aggiunge, come Platone, al nome della classe corrispondente dellé^ parole indicanti che il carattere o gruppo di caratteri, che, secondo lui, è il vero oggetto designato da un nome di classe, deve considerarsi come esistente per set stesso separatamente dagli altri caratteri con cui è unito nei diversi individui della classe: egli dice, p. e. il po- ligono puro, l'albero in generale (1), il miriagono intel- ligibile (opposto al miriagono sensibile) (2), l'unità para o astratta (opposta al dito o al sasso visibile) (3), il trian- golo astratto, il ferro in sè(4),il parallelogrammo in sè'5),il triangolo generale(6),ecc. si noti l'analogia con le espressio- ni platoniche-; il poligono puro, l'albero in generale,ecc. significa : il gruppo dei caratteri comuni a tutti i poligoni, (1) Intellig. lo 26-27. (2) Intellig. lo 67: « Noi poniamo da un lato il miriagono in- telligibile e l'idea precisa che gli corrisponde, dall'altro il mi- riagono sensibile e l'immagine confusa che gli corrisponde ». (3) Intellig. 2o 265-266. (4) Intellig, 2o 301-302. (5) Intellig. 2o 485: « La stessa analisi, se invece di un sog- getto individuale, come questa goccia di pioggia o questo paral- lelogrammo, si considera un soggetto più o meno generale, come il 4)ar^llelogrammo in sé o l'acqua in generale ». (6) Pilos. class. 3» ed. p. 164.— v. nota 6 p. 86. • i - 92 — a tutti gli alberi, ecc, esistente per se stesso, seuza i caratteri particolari a questo o a quel poligono, a questo o quell'albero, ecc. (1). 11 poligono puro, l'albero in ge- nerale, ecc. è uno in se stesso, presente allo stesso tempo, senza moltiplicarsi e senza dividersi, in tutti i poli- goni particolari, in tutti gli alberi, ecc. (2). Noi ab- biamo visto infatti che a un'idea o a un nome generale corrisponde, secondo Taine, una cosa generale — ricor- diamo cL'egli suole contrapporre le cose generali e gl'in- dividui (3) — e una cosa astratta è allo stesso tem- po per lui una cosa generale, p. e. il triangolo a- stratto, il freddo e la rugiada isolati, il poligono puro j(cioè astratto o isolato), il parallelogrammo in sé (cioè Ancora astratto o isolato) equivalgono al triangolo gene- (1) Int. 1. 26-27 (p. 1»1. l.c. 2. 11): Il poliv:ouo puro è una figura a molti lati senza che questi lati facciano un numero (eioè quattr«s cinque, sei, ecc.); ciò che esclude ogni esperienza •e rappresentazione sensibile l'albero in generale ha un'altezza, un fusto, delle foglie, senza avere tale altezza, tal fusto, tali foglie ». (2) V. Scmgi di crii, e di stor, Prefcus. (luogo citato nella nota 3 p. 79), Intellig, t. 1. p. 25-26) (citato nella n. 1 p. 81), t. 2. p. 232 (citato nella noti 1 p. 76), p. 240. (citato nella nota S p. 90), p. 244-245 (citato nella nota 4 p. 77), p. 236-237, 301, -309, 401, ecc. (1) P. e., indipendentemente dai luoghi citati nella n.l p. 76, neWIìUellig, t. i. p. 28, < Un miriagono è un poligono di dieci mila lati. Impossìbile d' immaginarlo, anche colorato e partico- lare, a più forte ragione generale e astratto » (per provare che il vero oggetto designato da un nome generale è irrapresenta- bile); e nel t. 2, p. 27 2-27 3\ La tabella e il punto e la linea segnati in essa con la matita « sono delle cose sensibili e parti- scolari, ma che sostituiscono dei limiti assolutamente astratti e generali » (cioè la supertìcie in se, la linea in se e il punto tu sè).^ V. a. Filos, class, pag. 163-164 (il luogo citato nella n. 6 P* S6) « Intellig, t. 2. p' 485 (citato nella nota 5 p. 91). il 1 - 93 - rale(ì)fS.\ freddo e alla rugiada prm in generale (2), al poligono in generale (3), al parallelogrammo soggetto ge- nerale (4); ciò implica che vi è una sola entità astratta per tutti gl'individui del genere, e non altrettante quanti vi sono individui. Che più soggetti hanno lo stesso at« tributo, significa che la stessa entità astratta, eadem nti^ mero, è presente allo stesso tempo, pur restando una e la stessa, in molti soggetti distinti (5); le entità astratte (1) V. nios. class, p. 163-164, cit. nella nota 6 p. 86. (2) V. Posit, ingl, $ 11, VI, nella nota 6 p. 86. (3) V. Intellig. 1. 26-27, cit. nella nota 1 p. 92. (4) V. Intellig. 2. 485, nella nota 5 p. 91. (5) Intellig. t. 2. p. 264: <t Osserviamo dunque una serie di oggetti o d'avvenimenti, avendo cura di non considerare in ciascuna di essi che la sua capacità d'entrare come componente in una collezione. Perciò omettiamo di partito preso tutti i suoi altri caratteri; dopo questa separazione, una fila di pioppi, un se- guito di suoni, ogni altra fila o seguito cessa di essere una fila di pioppi, un seguito di suoni, un seguito o fila di oggetti o di avve- nimenti determinati; essa non è più che un seguito, fila o serie di uni o di unità. Ora. a questo punto di vista, tutti gli uni sona lo stesso uno e tutte le serie di uni sono la stessa serie; perchè i caratteri che distinguono gli individui gli uni dagli altri e le serie le une dalle altre essendo stati esclusi, gl'individui non possono essere più distinti gli uni dagli altri, e le serie non pos- sono essere più distinte le une dalle altre ». — Ecco come dimo- stra gli assiomi che se a due grandezze eguali si aggiungono due grandezze eguali le somme sono eguali, e se da due grandezze eguali si tolgono due grandezze eguali i resti sono eguali : In- tellig. p. 2» l. 4. J 11, IV. « Sia una collezione d'individui si- mili, tal gregge di montoni, o una collezione d'unità astratte, tal gruppo mentale d'unità pure, figurate agli occhi per mezzo d'uno stessio segno tracciato più volte.... compariamo una di que- ste collezioni con un'altra collezione analoga, e facciamo corri- spondere, col pensieso o altrimenti, un primo oggetto della pri- - 94 — «queste creatrici immortali » sono «sole stabiliti a tra- verso riiifìnità del tempo che spiega e distrugge le loro ma con un primo oggetto della seconda, un secondo con un se- condo, e così di seguito, sinché una delle due sia esaurita. Due oasi si presentano— Ovvero le due collezioni sono esaurite in- sieme; allora il numero dei montoni è lo stesso nel primo e nel secondo gregge, il numero delle unità è lo slesso nel primo e nel secondo gruppo, nel qual caso si dice ohe le due grandezze sono eguali. Eguaglianza significa dunque presema dello slesso numero. — Ovvero Tuna delle due collezioni è esaurita avanti l'al- tra; allora il numero dei montoni è differente nel primo e nel secondo gregge; il numero delle unità è differente nel primo e nel secondo gruppo; in questo caso si dice ohe le due grandezze sono ineguali Ineguaglianza significa dunque presema di due numeri differenti (Questa frase e quella corrispondente suU'efiCuaglianza sono state scritte in corsivo da me; le altre parole, sia nel tratto precedente che in quello che segue, dallo stesso autore. La pa- rola stesso è scritta in corsivo per indicare che deve intendersi nel senso più rigoroso possibile). — Ora per questa sorta di gran- dezze noi possiamo provare l'assioma (il primo). Siano due gran- dezze eguali a cui si aggiungono delle grandezze eguali. Secondo l'analisi precedente, ciò significa che la prima collezione contiene un certo numero d'individui o d'unità, ohe le se ne aggiunge un certo numero, che la seconda contiene lo stesso numero d'indi- vidui o d'unità che la prima, ohe le se ne aggiunge lo stesso nu- mero che alla prima, che nei due oasi lo stesso numero è ag- giunto allo stesso numero, e che pertanto le due collezioni fi- nali contengono lo stesso numero aggiunto allo stesso numero, vale a diro lo stesso numero totale d'individui o d'unità, donde segue, secondo la definizione {eguaglianza significa eoo.) ohe le due somme o grandezze finali sono delle grandezze eguali. (Come ho osservato nel Saggio ì. questa dimostrazione suppone ohe per lo stesso numero s'intenda uu numero astratto, un'entità, ohe, una in se stessa, sia presente allo stesso tempo in tutte le col- lezioni ohe perciò oi appariscono uumerioamente eguali. Se la parola stesso non dovesse intendersi in questo senso stretto, essa si- - • opere, sole indivisibili a traverso l'infinità dell'estensione, che disperde e moltiplica i loro effetti » (6); quando sco- gnitìoherebbe eguale, e allora la pretesa dimostrazione non sarebbe ohe la più aperta petizione di principio. La stessa osservazione vale per la dimostrazione seguente dell'altro assioma).— Simil- mente, siano due grandezze eguali, da cui si tolgono due gran- dezze eguali: secondo la stessa analisi, ciò significa che la prima collezione contiene un certo numero d'individui o d'unità, che le se ne toglie un certo numero, ohe la seconda contiene lo sfesso numero d'individui o d'unità che la prima, che le se ne toglie lo stesso numero ohe alla pi ima, in modo che nei due casi lo stesso numero è diminuito dello stesso numero, e che, per- tanto, le due collezioni finali contengono lo stesso numero di- minuito dello stesso numero, vale a dire lo stesso numero restante d'individui o d'unità; donde segue ancora secondo la definizione, ohe i due resti o grandezze .finali sono delle grandezze eguali. Dalle grandezze artificiali passiamo alle grandezze naturali. (Qui l'autore passa a dimostrare gli assiomi per le grandezze geometriche, come sopra ha fatto perle aritmetiche: omettiamo questo tratto, per- perchè non è una prova diretta di ciò che abbiamo asserito nel testo). . .. Che il lettore prenda la pena d'esaminare l'artificio di questa prova (di tutta la dimostrazione). Per il pensiero, e con la con- fermazione ausiliaria dei fatti sensibili, noi facciamo corrispon- dere, membro a membro, due grandezze artificiali (cioè due col- lezioni di unità), o facciamo coincidere, elemento ad elemento, due grandezze naturali (due grandezze geometriche — ciò si riferisce alla parte omessa — ); se questa corrispondenza o questa coincidenza sono assolute, l'idea d'eguaglianza nasce in noi. Noi veniamo di assistere alla sua nascita, e scorgiamo il suo fondo ; essa rac-chiude un elemento più semplice, e si riduce all'idea dello stesso; in effetto, a un certo punto di vista, omissione fatta di ciò ohe bisogna omettere (cioè astraendo dagli altri elementi dif- ferenti dalla quantità) le due grandezze divengono la stessa. Per conseguenza, al punto di vista inverso, addizione fatta di ciò ohe bisogna aggiungere (cioè unendo alla quantità altri elementi - 96 — |Ì»i««M^^™»iÌ»l*«IMMii— ^liiPMiBMMWIiaiBMiilMii»*— WP^M»^ÌÌI^ÌiMÌMiM^^— ^-^^^ prianio una legge per mezzo d'un'induzioue, abbiamo Parìa di coDsiderare venti casi digerenti, ma in realtà non ne diiferenti da essa) la stessa grandezza si trasforma ili due gran- dezze egriea/t. Togliete alle due graudezze i loro tratti distiutivi, alle due grandezze artificiali eguali la proprietà d'appartenere a due collezioni distinte, alle due grandezze naturali eguali la proprietà di avere delle posizioni distinte; esse divengono la stessa gran» dezza. Reciprocamente, prendete due volte la stessa grandezza, e attaccatela volta per volta a due collezioni distinte o a due posizioni distinte; essa si trasformermerà in due grandezze eguali^. Ecco ora la dimostrazione deW assioma che ogni fatto o legge ha una ragione esplicativa. Dopo il tratto citato nella nota 1 p, 81 In» tellig. t. 2, p. 483, (ohe io prego il lettore di rileggere) l'autorecontinua : « Per dimostrare questa proposizione (cioè che un at- tributo pili generale del soggetto non è legato al so ^getto tutto intero, ma ad uno o più caratteri astratti e generali del sog- getto), analizziamo a vicenda l'attributo e il soggetto. Noi ab- biamo detto che l'attributo (essendo piil generale del soggetto) è comune al soggetto e ad altri. Ciò significa che esso è lo stesso nel soggetto e in altri (La parola strsso scritta in corsivo qui e nel seguito ò neritta così nel libro stesso del Taine). Cosi la ca- duta, la struttura chimica, il peso sono gli stessi nella nostra goccia di pioggia e nelle sue vicine. Così Tegunglianza dei lati opposti è la stessa in questo parallelogrammo e in tutti i paralle- logrammi, nel parallelogrammo ad angoli retti e nel parallelo- grammo i cui angoli non sono retti. Pertanto dire che il sog- getto possiede un attributo comune ad esso e ad altri, è dire che altTi soggetti, reali o possibili, possiedono \o stesso attributo che esso. L'eguaglianza dei lati opposti h la stessa nel mio pa- rallelogrammo e in quest'altro; la struttura chimica è la stessa nella mia goccia di pioggia e in quest'altra. In altri termini presa in sé, omissione e soppressione fatta dei soggetti distinti in cui risiede, l'eguaglianza dei lati opposti del mio parallelogrammo si confonde con 1' eguaglianza dei lati opposti dell' altro, e la struttura chimica della mia goccia di pioggia si confonde con la struttura chimica dell'altra, come tal triangolo, staccato dal — 97 — consideriamo ebe un solo (perchè è la stessa legge, cioè la stessa coppia di entità astratte, che si manifesta in tutti posto che occupa, e trasportato per sovrapposizione su tale altro, coincide e si confonde assolutamente con esso (In una parola, ciascuna di queste due entità astratte, eguaglianza dei lati op- posti e struttura chimica d*una goccia di pioggia, è una sola e stessa cosa, presente l'una in tutti i parallelogrammi e 1' altra in tutte le gocce di pioggia).— Ora consideriamo il soggetto. Ciò che noi chiamiamo un soggetto, un soggetto distinto, è una som- ma o riunione di caratteri che non si ritrovano tutti e rigorosa- mente gli stessi in alcun altro, per quanto simile s'immagini. Que- sta goccia di pioggia, anche se le'si suppone una forma, un volume, una temperatura, una struttura interna esattamente le stesse che alla sua vicina o alla seguente, possiede inoltre dei caratteri che non possiede né la sua vicina né la seguente, cicè la sua situa- zione nel tempo rapporto ai suoi precedenti e nello spazio rap- porto ai suoi dintorni.... La stessa analisi se invece di un sog- getto individuale, come questa goccia di pioggia o questo paralle- logrammo, si considera un soggetto più o meno generale, come il parallelogrammo in sé o l'acqua in generale l'acqua com- parata al mercurio, come il parallelogrammo comparato all'esa- gono regolare, è un soggetto distinto, che, essendo distinto, pos- siede forzatamente, come questa goccia di pioggia, uno o più caratteri per cui si distiqgue da ogni altro soggetto più o meno simile a cui é comparato — Eccoci giunti a questa conclusione che il nostro soggetto essendo distinto da un altro soggetto non è lo stesso e possiede nondimeno lo slesso attributo. Rimpiazziamo i termini per la loro detlnizioue. Soggetto distinto significa somma o riunione di caratteri di cui uno o alcuni sono assenti nell'altro soggetto; è a questa somma o riunione che direttamente o indi- rettamente l'attributo appartiene. Di là tre ipotesi, e tre ipotesi solamente. Ovvero l'attributo appartiene direttamente alla somma dei caratteri riuniti; ovvero le appartiene indirettamente, sia ap- partenendo a questa porzione della somma che si compone dei 7 - 98 - questi casi) (7). Ogni carattere o gruppo dì caratteri, co- mune ad una classe, è uno come un individuo o un av- caratteri assenti nell'altro soggetto, sia appparteueudo all'altra porzione. Ora le due prime ipotesi sono contraddittorie. In ef- fetto, da una parte, l'attributo non può appartenere alla por- zione delU somma che si compone dei caratteri assenti nel scondo soggetto; perchè allora non apparterrebbe al secondo sog- getto, poiché questi caratteri vi mancano; ora, per definizione, gli appartiene. D'altra parte, l'attributo non può appartenere alla somma dei caratteri riuniti; perchè, allora non apparterrebbe al secondo soggetto, poiché questa riunione vi manca; ora, per de- finizione, gli appartiene. Queste due supposizicmi essendo escluse, non resta che la terza. Donde segue che l'attributo appartiene a questa porziimc del nostro soggetto che si compone di carat- teri presenti in ess<» e nel secondo soggetto, cioè comuni all'uno e all'altro, cioè infine generali. Donde segue pure che appartiene solamente a una porzione del nostro soggetto, in altri termini a un frammento, a un estratto, a un astratto incluso nel nostro soggetto; ciò che si doveva dimostrare.» (Ripeterò l'osservazione fatta nel Saggio i. Questa dimostrazione suppone che un attri- buto generale, cioè comune a molti soggetti distinti, sia un'en- tità unica, presente allo stesso tempo in tutti questi soggetti distinti. Perchè infatti le due prime ipotesi (cioè che l'attributo appartiene alla somma dei caratteri riuniti di uno dei due sog- getti, o che appartiene alla porzione di questa somma phe si com- pone dei caratteri assenti nell'altro soggetto) sono, secondo l'au- tore, contraddittorie 1 Perchè lo stesso attributo non potrebbe appartenere una volta alla somma dei caratteri riuniti del primo soggetto, e un'altra volta alla somma dei caratteri riuniti del secondo soggetto I ovvero in un caso ai caratteri differenziali del primo soggetto, e nell'altro caso ai caratteri differenziali del se- condo soggetto ] Perchè si suppone che quest'attributo è un'en- tità unica, eadem numero, e che per conseguenza sarebbe im- possibile che appartenesse simultaneamente a più cose, o meglio a più entità, distinte, come per servirmi di una comparazione — 99 — venimento particolare; non differisce da essi che per la sua stabilità e la sua diffusione in molti soggetti distinti. È perciò che non vi ha niente di sorprendente se si trovano a un carattere generale dei compagni, dei pre- cursori e dei successori, come se ne trovano a un indi- viduo particolare o a un avvenimento momentaneo. Cia- scuno dei caratteri generali essendo uno come ciascuno degl'individui e degli avvenimenti particolari, noi dob- volgare, sarebbe impossibile che la nlessa moneta, eadem nu- mero, si trovasse simultaneamente nella mia tasca e nella vostra). Per mezzo dell'assioma dimostrato della ragione esplicativa l'autore dimostra il principio dell'induzione (cioè che un carat- tere generale indicai sempre la presenza d'un altro carattere ge- nerale a cui è legato). Riportiamo anche questa dimostrazione : « Un carattere generale è un attributo, lo stesso in molti sog- « getti distinti. Ora, secondo l'assioma (della msrioHc cs/^/ica^im;, esso appartiene, non direttamente a tale o tal soggetto distinto, ma indirettamente a tutti per V intermediario di tuia ijorz ione che loro e comune, e che, a questo titolo, ò un carattere generale; dimodoché esso suppone la presenza d'un altro carattere gene- rale a cui appartiene; così la sua presenza basta per garentiroi la presenza di quest'altro. Di più. (luest'altro a cui esso appar- tiene è generale ; in altri termini ceso gli appartiene in non imposta qual soggetto, qual ambiente, qual luego, guai momento; in altri termini ancora la presenza di quest'altro basta per tra- scinare e pertanto per garentirci la sua presenza. Così, in ge- nerale la presenza dell'uno, quello che ci è già conosciuto, basta per garentirci la presenza dell'altro, quello che ci è ancora sco- nosciuto e che cerchiamo di riconoscere (demélerj » Intellig, t. 2, pagina 489, lo devo avvertire il lettore che l'ultimo tratto citato e quello precedente ("cioè la dimostrazione dell'assioma della ragione espli- cativa) sono stati soppressi e sostituiti da altri nella 4. edizione. (6) Filos, class. 3» ediz. pag. 368. (7) Posit. ingl. { 11, VI, citato nella nota 6 a pag. 86. — 100 - bianio attenderci a trovare a quelli, come a questi, dei contemporanei, dei precedenti, dei seguiti, delle parti- colarità, delle proprietà personali (1). Se la narura è sotto- posta a leggi generali, se vi hanno delle sequenze e delle coesistenze costanti tra i fenomeni (fatto che dovrebbe sor- prenderci, perchè noi possiamo immaginare benissimo uu mondo assolutamente caotico, senza alcun ordine, senza al- cuna legge), ciò è perchè vi hanno delle coppie di entità astratte, vale a dire certe entità astratte sono in un rap- porto di sequenza o di coesistenza con certe altre: ogni entità astratta essendo una in se stessa ed essendo pre- sente in tutta una classe di cose o di fenomeni, se essa è accoppiata con un'altra entità astratta pure una in sé stessa e suscettibile di essere presente in tutta una classe di cose o di fenomeni, ne seguirà che dapertutto ove si troverà la prima si troverà necessariamente anche la se- conda con cui essa è acccoppiaia, e la coppia di entità astratte, presente in un'intìnità di coppie di esistenze fe- nomenali, ci apparirà come una sequenza o coesistenza uniforme, una legge, di fenomeni. Se ogni uomo è mor- tale, se questa legge non soffre alcuna eccezione, è per- chè l'uomo astratto è unito alla mortalità astratta, e ijlt conseguenza da pn* tutto dove si troverà il primo, por- terà con sé la seconda; se riscaldando i metalli essi co- stantemente si dilatano, è perche il riscaldamento <lel metallo in sé stesso (cioè astratto) è unito alla dilata- zione del metallo in sé stessa (cioè astratta), e per conse- guenza dapertutto dove sarà presente il primo trascinerà con se la seconda; una legge della natura è dunque una còppia di astratti, o piuttosto il suo fenomeno ; l'(1) Intellig. t. 2. p. 301-302 (luogo obe riporteremo nella nota Heguente). — 101 - della coppia apparisce come uniformità di rapporti tra fenomeni, come l'unità di ciascun astratto, isolatamente considerato, apparisce come uniformità di fenomeni, i- solatamente considerati, cioè come identità specifica, ge- oerica, ecc. (1). Come gli altri realisti dialettici, il Tai ne (1) lìitcllif/. 2a ed. t. 2. p. 236-237 «... vi hanno dei carat- teri comuni la cui presenza moltiplicala e ripetuta lega tra loro i diversi individui della classe. Questi caratteri sono la porzione uniforme e fissa dell'esistenza dispersa e successiva, e ciò solo basterebbe a far comprendere l'interesse che abbiamo a sepa- rarli (les dcgaf/cr) ed apprenderli. Ma la loro importanz:i, si fa notare ancora meglio per un altro tratto. Non siamo noi che li creiamo per la comodità del nostro pensiero; non sono dei sem- plici mezzi di classare, degli strumenti di mneraotecnia. Non solo essi esistono in fatto, fuori di noi . e spesso ben al di là della corta portata dei nostri sensi e delle nostre congetture; ma ancora essi sono efficaci, l ciascuno di loro, per sé stesso e per sé solo, ne trascina con sé un altro che è il suo compagno, il suo antecedente o il suo conseguente, e fa con esso una coppia che si chiama una legge.... i caratteri generali sono, non solo gli abitanti più diffusi, ma anche gli attori piii importanti della natura; oltre il più largo posto, essi hanno sulla scena dell'es- sere la prima parte e la più decisiva azione ». Intellig: t. 2. pa- gina 257 : Per certe classi « l'idea generale acquisita corrisponde a una cosa efì'ettivamente generale, cioè a un gruppo di carat- teri che si trascinano o tendono a trascinarsi l'un l'altro, quali si iiiano gl'individui e le circostanze in cui l'uno di essi è dato, p P. 2*j3 : v« Nella natura i caratteri generali non sono staccati gli uni dagli altri; qualunque sia quello che noi abbiamo notato, non manchiamo mai di trovarlo legato a qualche altro. Difatti l'uno trascina l'altro o almeno tende a trascinarlo. Ora è il primo che trascina il secondo, ora è il secondo che trascina il primo, ora è <>ia8Cuuo di essi che trascina l'altro. In tutti questi casi i due ca- ratteri formano una coppia, e questa coppia si chiama una legge p P. 308: «... un carattere, preso a parte, ha un'influenza; per sé - 102 - riguarda le astrazioni realizzate come le cause delle cose e al tempo stesso come la sola realtà. Le cause dei stesso e per sé solo, ne trascina qualche altro contemporaneo, antecedente o conseguente; basta che esso sia dato, perchè uno o più altri siano dati. » P. 312 : Nel metodo induttivo che Mill chiama di differenza, si prendono due casi, il primo in cui il ca- rattere conosciuto (il primo termine della ooppia) è dato, il se- condo in cui non è dato. « Poiché per la sua sola presenza, esso (il carattere conosciuto) ne introduce un altro sconosciuto, quando sarà assente non Tintrodurrà; quest'altro ohe avrebbe introdotto mancherà, e, per tanto, non si troverà nel secondo caso » Pa- gina 300-302 : « .... qualunque siano i due caratteri, simultanei o successivi, momentanei o permanenti, il legame per cui il primo trascina, provoca o suppone il secondo come contemporaneo, con- seguente o antecedente, non è che una particolarità del primo considerato solo e a parte. S'intende per ciò ch'esso ha. per se stesso, la proprietà d'essere accompagnato, seguito o preceduto dall'altro; ecco tutto. In altri termini, basta che esso esista per- chè l'altro sia il suo compagno, il suo precursore o il suo suc- cessore. Dacché esso è dato, aloun'altra condizione non è richiesta; le circostanze possono essere qualunque, ciò non importa. Che esso sia dato in tale o tale individuo, con tale o tal gruppo di altri caratteri, in tale o tal luogo o momento, ciò è indifferente; la proprietò che esso ha non dipende né dalle circostanze . né dall'individuo, nò dal gruppo circostante degli altri caratteri, né dal luogo né dal momento; preso a parte e in se stesso, iso- lato per l'astrazione, estratto dai diversi ambienti in cui si trova, esso possiede questa proprietà. È perciò che in qualunque am- biente venga trasportato, esso la conserva con sé. Se la ha sem- pre e da per tutto, è perchè la ha da sé stesso e per sé solo; se la ha senza eccezione, è perchè la ha senza condizioae. Se tutti i triangoli ra'^chiudono una somma di angoli uguale a due retti, è perchè il triangolo astratto ha la proprietà di racchiudere una somma di angoli uguale a due retti. Se tutti i pezzi di ferro sottoposti all'umidità si arruginiscono, è perchè il ferro preso a — 103 — fatti particolari sodo i fatti generali, cioè le leggi, da cui si deducono (2), o in altri termini, i dati complessi parte, in se stesso (cioè il ferro in sé, il ferro astratto), e sot- toposto all'umidità presa a parte, in se stessa (all' umidità a- stratta), possiede la proprietà di arruginirsi. Se la legge è uni- versale, è perché essa è astratta. Niente di sorprendente in que- sta costituzione delle cose. Non è più strano di trovare dei com- pagni, dei precursori e dei successori a un carattere generale che di trovarne a un individuo particolare o a un avvenimento momentaneo. Senza dubbio, nello sparpagliamento infinito e il flusso irrimediabile dell'essere, questa sorta di caratteri sono i soli elementi che siano da per tutto gli stessi e rinascano sem- pre gli stessi; ma essi non esistono in fuori degl'individui e de- gli avvenimenti come voleva Platone (interi)retato alla maniera ordinaria), né in un mondo altro che il nostro; perchè essi sono i caratteri degli avvenimenti e degl'individui che compongono il nostro mondo. Come gì' individui e gli avvenimenti, essi sono delle forme dell'esistenza, e non differiscono dagl'individui e da- gli avvenimenti che perchè sono delle forme più stabili e più diffuse. A questo titolo, noi dobbiamo attenderci a trovare anche ad essi dei contemporanei, dei precedenti, dei seguiti, delle par- ticolarità, delle proprietà personali, e per riuscirvi, non si ha che ad osservarli per se stessi e a parte.— È appunto in ciò che consiste la difficoltà. Perchè come osservare a parte un carat- tere che, essendo un estratto, non s'incontra e non può incon- trarsi che in un caso o individuo particolare, vale a dire in una compagnia di altri caratteri? Come fare per istudiare nella na- tura il ferro in se esposto slW umidità in generale, e per costa- tare che, in questo stato di astrazione, esso ha per conseguenza la ruggine in generale? Come fare per separare (deméler) il triangolo astratto che non è né scaleno né isoscele né rettan- golo, per misurare i suoi angoli astratti che non sono né eguali né ineguali, e per costatare che, iu questo stato strano, la loro somma è uguale a due retti ? » (L'autore mostra che gli artifici del metodo induttivo e del deduttivo sono destinati a risolvere — 104 — - 105 — dell' esperienza hanno per cause gli elementi semplici, cioè ffli astratti, in cui si risolvono (3); V astrazione e la facoltà di scoprire i principii (4) ; la sorgente degli «sseri è un sistema di lesrgi (cioè di coppie di astratti) (5); questa dilfiooltà). P. 399-401: « Quando tra due dati possibili o reali abbiamo costatato un legame, accade spesso che questo legame si spieghi, e possiamo allora, non solo affermare che i due dati sono legati, ma anche dire perchè sono legati. Tra i due dati ohe lanuo coppia, se uè trova un altro intermediario che, essendo legato da uua parte al primo e da un'altra parte al secondo, provoca per la sua presenza il legame del secondo e del primo... Niente di più importante che questo dato intermediario, poiché è esso ohe, per la sua inserzione fra i due dati, li salda in una coppia Bisocrna cercare in che esso consiste.... Vi ha già un caso in cui sapphimo tutto ciò, quello degli oggetti individuali sottoposti a a leggi conosciute. Per esempio. Pietro è mortale, queste due rette traacciate su questa tabella e perpendicolari a una terza sono parallele : ecco delle coppie di dati in cui il primo membro è un oggetto individuale, particolare, determinato, non generale. Di più questi oggetti sono sottoposti a leggi conosciute; nm sap- piamo che tutti gli uomini, nel numero dei quali è Pietro, sono mortali, che tutte le rette perpendicolari a una terza, nel nu- mero delle quali sono le nostre due rette, sono parallele. Ora, in questo caso, rintermediario esplicativo che lega all'oggetto individuale la proprietà enunciata è il primo termine d'una legge generale : se Pietro è mortale, è perchè è uomo, e ogni uomo è mortale; se le nostre due rette sono parallele, è perchè sono perpendicolari a una terza, e tutte le rette perpendicolari a una terza sono parallele. Ma uomo è un carattere incluso in Pietro, estratto da lui, più generale che lui ; similmente perpendicolari a una tersa è un carattere incluso nelle nostre due linee, e- stratto da esse, più generale che esse. Donde si vede che, nel caso degli oggetti individuali sottoposti a leggi conosciute, 1 in- termediario che lega a ciascun oggetto la proprietà enunciata è un carattere incluso in esso, più astratto e più generale di esso, comune ad esso e ad altri analoghi, e ohe, trascinando per la sua presenza la proprietà enunciata, la porta con se in ciascuno degVindividui a cui appartiene. » (L'autore mostra in seguito che la stessa è la natura dell'intermediario esplicativo, «quando si tratta, non più di legare una proprietà a un oggetto individuale, ma di legare una proprietà n una cosa generale. x>) Posit. inql. $ 11 V p. 130 (e Tntelliq. t. 2. p. 393) : Poijhè negli assiomi i due dati (cioè i due astratti che l'assioma mette in rapporto) « sono tali ohe il primo racchiùde il secondo, noi stabiliamo per ciò stesso la necessità della loro unione : da pertutto ove sarà il primo esso porterà il neeondo, poiché il secondo è una parte di esso, ed esso non può separarsi da sé ».— V. pure Posit. ingl. •J 11, VI (citato nella nota 5 a p. 93), Intellig. 2» ed. t. 2o pag. 294 e p. 319 (citati nella nota 6 a p.86). p. 483 (citato nplla nota 1 a p. 81), pag. 486-487 (nel luogo che con tene la dimostrazione dall'assioma della ragione esplicativa) e p. 489 (citati nella nota 5 a p. 93), Posit, ingl. 5 11, VII p. 136 (che citeremo in una nota seguente), In- iellig. ed. 5» t. 1» p. 9-10 (che citeremo in nota nel§seg.). In- tellig. ed. 2* t. 20 p. 296-297, 307, .309-311, 415-416,490, ecc. (2) V. Filos. class. 3a ed. p. VIII-IX e cap. XIV, Posit. ingl. } 11, IV. ecc. (3) Posit. ingl. ^ 11, VII (p. 134-139)— Per conseguenza gli astratti in cui il concreto si decompone, ne sono, secondo il Taine, non solo gli elementi, ma anche i fattori: v. Intellig. t. 2» p. 392, Posit. ingl. pag. 120 ($ 11, III, luogo citato nella nota 2 a p. 82). pag. 138 ecc. Questa causalità degli astratti, e quindi la loro realizzazione, è pure implicata in certe proposizioni come queste: le ragioni dell'orbita che la terra descrive intorno al sole, sono dei caratteri che, inclusi nella terra, le prescrivono questa curva {Intellig, t.2o p. 409), o la conducono su di essa (p. 416); le ragioni per cui un numero è divisibile per 9, o per cui il poligono con- tiene una comma di angoli retti eguale al doppio dei suoi lati meno quattro, sono dei caratteri che, inclusi negli elementi del numero o del poligono, obbligano il primo a lasciarci dividere per 9 (latell. t. 2o p. 410) e il secondo a contenere quella somma di angoli retti (p. 412); eco. ■^T" - 106 — _^ il mondo scoverto dall'esperieoza trovala suaragione coinè la sua immagine nel mondo riprodotto dall'astrazione (6) Considerando gli astratti come cause delln realtà concrete (ed anche come cause gli uni degli altri, v. * seguente), il Tainc ci dà la prova più evidente della esistenza per sé che loro attribuisce: evidentemente egli non potrebbe riguardare delle proposizioni o delle semplici astrazioni mentali come le cause dei fatti reali o di altre proposi- zioni o astrazioni mentali, di cui esse non sono che le premesse logiche. Un'altra prova dell'esistenza per sé che il Taine atttibuisce agli astratti, è che essi sono, secondo lui, il vero essere, mentre il concreto non è che un'ap- parenza (7). La scienza lavora a ridurre il mondo dei fenomeni ad alcuni elementi astratti (8), a Irasformare i fatti concreti in astrazioni (9) ; la natura è, nel suo fondo sussistente, un sistema di leggi (e non Bemph- ce ha per sorgente un sistema di leggi) (10) ; T osser- vazione sensibile non ci dà di essa che un'idea illusoria^ dobbiamo risolvere il mondo dell'esperienza negli astratti (4) Posit. ingl. $ 1^» ^• (5) Filos, class. 3» ed. p. IX. (6) Filos, class, p. X. (7) Per apparenza non dobbiamo però intendere un semplice fenomeno subbiettivo. SI tratta del concetto metafisico (cioè inim- ma-inabile e contradittorio) di apparenza obbiettiva, qMaìe si trova p e in Hegel o in Platone V. Suppl. B, IX. (8) V. Posit. ingl. p. 122, p. 135 ($ 11. VII, luogo che ripor- teremo nella terra nota dopo questa), Filos. class, p. 368 (ohe riporteremo nel $ 5»), eoe. (9) V. Posit. ingl. p. 121 ($ H, IH, luogo riportato nella nota 2 a p. 82) e Filos. class, p. 302 (luogo che riporteremo nel } 5«). (10) Posit. ingl. § 11, Vili, p. 147 (che citeremo in nota nel J 6o) e Intellig. 5a ed. t. 1« p. 9-10 (che citeremo nella nota la del } 5o). — 107 — e nelle loro coppie (che si chiamano leggi) per passare dall'apparenza alla verità (1). Il mondo, contemplato dai (1) Posit. ingl. § 11, VII (p. 134-136) : « Noi vediamo ora 1 due grandi momenti della scienza e le due grandi apparenze della natura. Vi ha due operazioni, l'esperienza e l'astrazione; vi ha due regni, quello dei fatti complessi e quello degli ele- menti semplici (cioè dagli astratti in cui si decompongono). Il primo è l'effetto, il secondo la causa. Il primo è contenuto nel se- condo e se ne deduce, come una conseguenza dal suo principio (In un senso le astrazioni realizzate sono contenute nelle cose concrete — è la contenenza secondo la comprensione — in un altro senso le contengono — è la contenenza secondo Vesten- sione — ), Tutti e due si equivalgono ; essi sono una cosa sola censiderata sotto due aspetti. Questo magnifico mondo can- giante, quesro caos tumultuoso d'avvenimenti che s'incrociano, questa vita incessante infinitamente variata e multipla, si ridu- cono ad alcuni elementi e ai loro rapporti. Tutto il nostro sforzo consiste a passare dall'uno all'altro, dal complesso al semplice, dai fatti alle leggi, dalle esperienze alle formule. E la ragione ne è visibile, perchè questo fatto che io percepisco per i sensi o la co- scienza non è ohe una fetta (Iranche) arbitraria che i miei sensi o la mia coscienza tagliano nella trama infinita e continua dell'es- sere. Se essi fossero costruiti altrimenti, ne intercetterebbero una altra; è l'azzardo della loro struttura che ha determinato questa. Essi sono come un compasso aperto, che potrebbe esserlo meno, e potrecbe esserlo più. Il cerchio ch'essi descrivono non è natu- rale, ma artificiale. Esso lo è si bene, che lo è in due maniere^ all'esteriore e all'interiore. Perchè, allorché io costato un av- venimento, l'isolo artifìciamente dal suo accompagnamento na- turale, e lo compongo artificialmente d'elementi che non fanno un insieme naturale. Quando io vedo una pietra che cade, se- paro la caduta dalle circostanze anteriori che realmente le sono congiunte, e metto insieme la cpduta, la forma, la struttura, il colore, il suono, e venti altri circostanze che realmente non solegate. Un fatto è dunque un ammasso arbitrario, nello stesso — 108 — seDsi e dalla coscienza, ò un seguito di fenomeni fuggi- tivi, senza niente di stabile, un iìusso universale, una Buccessione di meteore; contemplato dall'astrazione, è un insieme di forme persistenti, di leggi fisse, in una pa- tola di cose eterne ed immutabili (1). Cosi si trova giu- stificata la profonda intuizione degli antichi pensatori tempo che un taglio arbitrario, cioè a dise un gruppo fittizio, che separa ciò che è unito, e unisce ciò che è separato (Unisce ciò che è separato, perchè gli astratti che compongono un fatto particohire non sono uniti che accidentalmente ; separa ciò che è unito, perchè ciascuno di questi astratti non è, per dir così, che una metà, cioè uno dei due membri della coppia . che si chiama h gge, e che è, secondo Trine, il vero essere reale, cioè sussistente per sé). Così, sinché noi non guardiamo la natura che con la osservazione sola, noi non la vediamo quale è; non abbiamo di essa che un'idea [provvisoria e illusoria. È propriapente un arazzo che non Vediamo che dal rovescio. Ecco perchè oerciamo di voltarlo. Noi ci sforziamo di separare (démeler) delle leggi, cioè a dire dei gruppi naturali, che siano effettivamente distinti dal loro accom- pagnamento e che siano composti di elementi effetti vamente u- niti. Noi scopriiimo delle coppie (di astratti), cioè dei composti reali e dei h3gami reali. Noi passiamo dall'accidentale ail neces- sario, dal relativo all'assoluto, dall'apparenza alla verità. » (1) V. Intellig. 5* ediz. pag. 8-9. Le astrazioni realizzate sono immutabili (« sole stabili a traverso l'infinità del tempo ohe spiega e distrugge le loro opere » Filos, class, p, 368 l. e.), perchè rapprosentauo i tipi e le leggi costanti secondo cui si producono i fenomeni; sono eterne, perchè esistono fuori del tempo, cioè non si succedono nel tempo come gli oggetti e i fenomeni particobiri che le manifestano (V. Filos. cldss. 371 : l'assioma eterno, ci<»è la legge suprema, riempie il tempo e lo spazio, ma « resta al di sopra del tempo e dello spazio »; e ofr. la stessa opera pa- gine 136-137). È questa l'idea dell'eternità nei sistemi che rea- lizzamo le astrazioni, come vedremo più particolarmente espo- nendo i sistemi di Platone e di SDinoza. — 109 — indiani, che il vero reale non può cangiare, perchè è impossibile che il niente diventi qualche cosa e che quaU che cosa diventi niente (1). In conclusione il Taine è un realista nel senso del medio evo, vale a dire gli universali non sono per lui dei nomi né dei concetti, ma degli esseri reali, distinti dagli oggetti particolari. Vi ha un uomo astratto, che non ha che gli attributi comuni a tutta la specie, senza aver alcuno degli attributi particolari ad alcuni indivi- dui: quest'uomo astratto, uno in sé stesso, è presente allo stesso tempo in tutti gli uomini; se questi si somigliano, se sono tutti uomini e si chiamano tutti così, è perchè in tutti si trova lo stesso uomo, apparendo come multiplo, benché in realta non sia che uno. Lo stesso che abbiamo detto dell'uomo, dobbiamo dire dell'animale, dell'albero, del rosso, del verde, del movente, del mosso, e in una parola di tutte le classi corrispondenti a un termine ge- nerale; per ciascuna classe vi ha un' entità astratta (un animale astratto, un albero astratto, un rosso astratto, ecc.), che non ha, come l'uomo astratto, che gli attributi comuni a tutta la classe, e che è con gl'individui della classe nella stessa relazione che l'uomo astratto con gli uomini parti- colari. Ciò che distingue gli astratti delTaine da quelli di Hegel è che per il primo essi non sono dei pensieri come pernii sec(mdo. Per Hegel l'essere, il non essere, il di- venire e tutte le altre astrazioni realizzate del suo siste- ma esistono nelle cose e sono al tempo stesso dei pensieri, perchè per lui la realtà è identica al pensiero; il Taine non ammette questa identità, e le sue astrazioni realiz- zate sono delle forme puramente obbiettive. Un' altra (1) V. Nuovi Saggi di critica e di storia. Il Buddismo. - 110 — particolarità del sistema del Taine è che ogni astratto è, secondo lui, accoppiato con qualche altro, con cui è in un rapporto di sequenza o di coesistenza, in modo che ciascuna di queste coppie rappresenti ciò che si chiama una legge della natura. Così un astratto non è, secondo il Taine, un essere completo, ma la metà di un essere completo ; i veri esseri sono le coppie di a- stratti, td è a queste che si applica, come vedremo in seguito, quel processo o metodo che nel sistema del Taine corrisponde a ciò che Platone ed Hegel chiamano dialettica. Questa partic(»larità è caratteristica nel si- stema del Taine, e lo distingue da tutti gli altri sistemi di realismo dialettico, § 5. Queste coppie di entità astratte e universali, che noi chiamiaìiìo leggi della natura (o di cui piuttosto ciò che cliiamiamo leggi della natura sono la manifestazione fenomenale), sono ordinate in gerarchia. Le leggi (cioè le coppie di astratti) più particolari si dividono in gruppi di cui ciascuno si deduce da una legge (cioè da una coppia di astratti) più generale : queste leggi più gene- rali alla loro volta si dividono pure in gruppi di cui ciascuno si deduce da una legge ancora più generale; queste leggi ancora più generali formano anch'esse dei gruppi che si deducono ciascuno da una legge più ge- nemle; e così di seguito, sinché si giunga a una legge suprema unica, da cui tutte le altre si deducono, per una deduzione progressiva, che va sempre da una legge più generale a un gruppo di leggi più particolari (1). La (1) Intellig, ed. 5» t. lo p. 9-10. « Ma oi resta un altro mezzo di comprendere le cose (altro che l'osservazione, che ci mostra il mondo come un seguito di fenomeni fuggitivi), e a questo se- condo punto di vista> che completa il primo, il mondo prende — Ili — legge suprema è una verità assiomatica (2), cioè tale che la sua negazione implicherebbe contraddizione (3); l'au- un aspetto diflerente. Per l'astrazione e il linguajjgjio, noi iso- liamo delle forme persisienti, delle leggi fisse, vale a dire delle coppie di universali saldati a due a due, non per accidente, ma j>er natura, e che. in virtù del loro legame stabile, riassumono una moltitudine indefinita di incontri (cioè di casi in cui la legge si verifica) Per lo stesso processo, al di là di queste prime cop- pie, noi ne isoliamo altre, più semplici (cioè più astratte), ohe, simili alla formula di una curva, concentrano in una legge ge- nerale una moltitudine indefinita di leggi x^articolari. Noi trat- tiamo allo stesso modo queste leggi generali, sino a che infine la natura, considerata nel suo fondo sussistente, apparisca alle nostre congetture come una pura legge astratta che, sviluppan- dosi in leggi subordinate, arriva in tutti i punti dell'estensione e della durata alla nascita incessante degl'individui e al flusso inesauribile degli avvcnimeuti. » I filos. class. 3^ ed. p. VIII-IX: « Se ne è concluso contro gli spiritualisti che non vi ha bisogno d'inventare un nuovo mondo per ispiegare questo, che la causa dei fatti è nei fatti stessi.... che la sorgente degli esseri è un sistema di leggi, e che tutto l' impiego della scienza è di ri- durre l'ammasso dei fatti isolati e accidentali a qualche assioma generatore e universale (Segue il tratto citato nella nota 6 a pag. 86 che io prego il lettore di rileggere, e poi continua con le parole seguenti) È perciò che al di là di tutte queste ana- lisi inferiori che si chiamano scienze, e che riducono i fatti ad alcuni tipi e leggi particolari, può esservi un' analisi superiore chiamata metafisica, che ridurrebbe queste leggi e questi tipi a qualche formula universale. » Posit ingl, p. 137 ($ 11, VII) : « Vi hanno dunque degli elementi indecomponibili, da cui derivano le leggi più generali, e da queste le leggi particolari, e da queste leggi i fatti che osserviamo. » (Come si vede dal contesto, gli < elementi indecomponibili » sono le entità più astratte, quelle ohe si trovano al termine dell'astrazione e ohe per conseguenza costituiscono la coppia di vniversali i più universali di tutti, — 112 — tore la chiama 1' assioma eterno (4). La conoscenza del reale sarà un giorno a priori, come sono attualmente le matematiche (5), e consisterà a dedurre tutto dall' a«- sioma eterno (6). Da questo si concluderà non solo che il reale, attualmente conosciuto col metodo dell' osser- vazione, deve necessariamente esistere, ma anche che il non reale deve necessariamente non esistere, in modo che si veda che ciò che esiste è logicamente impossi- bile che non esista, e che ciò che non esiste è logica- mente impossibile die esista, e questi tre termini, reale,, possibile e necessario, coincidano perfettamente (7). L'i- in altri termini quella che noi abbiamo chiamato la legge su- prema). V. a. I filos. class, p. 350-371 (cap. XIV), che riassu- meremo o citeremo nel seguito del paragrafo. (2) Filos. class, pag. iX (luogo citato nella nota preced. et nella nota 6 a pag. 86) e paii:. 370-371 (luogo che citeremo nel seguito del paragr.). (3) V. Posit. ingl. $ 11 V e fnlellifj. p. 2^ 1. l» e. 2» $ 11 Vili. (4) V. Filos. class, p. 370-371. (5) Intellig. t. 2«» p. 471-473. (6) V. Filos. class. i)ag. 368 e seg. (luoghi che citeremo nel seguito del paragr.). (7) Filos. class, p. IX X : « Essa (quest'analisi supcriore chia- mata metatisica— V. il luogo citiito nella nota 1 a p. 110) riceverebbe da ciascuna scienza la detiuizione a cui questa scienza arriva, quella óell'estensione. del corpo astranomico, delle leggi fisiche, quella del corpo chimico, dell'individuo vivente, del pensiero. Essa decomporrebbe queste definizioni in idee o elementi più semplici, e lavorerebbbe ad ordinarli in serie per sepanire (dé- ìnélcr) la legge che li unisce (che è quella ohe abbiamo chia- mato legge suprema). Essa scoprirebbe cosi che la natura è un ordine di forme che si chiamano le une con le altre e compon- gono un tutto indivisibile. Infine, analizzando gli elementi e le- defiuìzioni. essa cercherebbe di dimostrare ch'essi mm potevano- - 113 - dea del Taine (come, del resto, di tutti gli altri aprioristi, anche i più radicali) non è però che si deve escludere assolutamente l'osservazione, che si deve, per dir così, chiudere gli occhi, e costruire la realtà per la sola forza del pensiero. Il punto di partenza della scienza è neces- sariamente l'osservazione: è dai fatti dell'esperienza che si devono estrarre le leggi (cioè le coppie di astratti) più particolari; da queste delle leggi più generali, e cosi di seguito, sinché si giunga alla legge universalissima Ma scoverta questa per (juesto metodo di estrazione x^vo- gressiva, si vedrà che essa è una verità assiomatica, e allora comincerà il processo inverso, che, invece di sa- lire, come il primo, dai fatti alla legge suprema per le leggi intermediarie, discenderà dalla legge suprema ai fatti, per le leggi intermediarie, ma percorse in senso inverso, in modo che si vada sempre non, come la pri- riunirsi che in un certo ordine di combinazioni, che ogni altro ordine o oom binazione racchiude qualche contraddizione intima, ohe questo seguito ideale, solo possibile, è lo stesso che il se- guito osservato, solo reale, e che il mondo scoverto dall'espe- rienza trova così la sua la ragione come la sua immagine nel mondo riprodotto dall'astrazione — Tale è l'idea della natura esposta da Hegel... » (Confronta Posit. ingl. $ 11, Vili, l'ultimo tratto citato nella nota 2 a p. 82 .Gli « elementi » di cui si tratta in questi due luoghi non sono gli « elementi indecomponibili » di cui nel luogodel Posit. ingl. citato neUa nota 1 a p. 110. Quelli erano le entità più universali da cui tutto il resto si deduce ; gli ele- menti di cui si tratta qui sono invece gli astratti piìì semplici in cui possono decomporsi tutte le astrazioni realizzate, com- prendendo anche fra di essi le note differenziali ohe bisogna ag- giunirere alle entità che sono più universali per costituire le meno universali immediatamente subordinate. La descrizione che 8 - 114 — _^__ ma volta, dal particolare al generale, cioè dalla conse- guenza al principio, ma dal generale al particolare, cioè dal principio alla conseguenza. Il secondo metodo, cioè la deduzione, ritroverà le stesse cose trovate già col primo metodo, cioè con l'estrazione; sarà lo stesso cam- mino, gli stessi passi, ma fatti in un ordine opposto; il primo metodo è andato dalla base al vertice della pira- mide, il secondo andrà invece dal vertice alla base. De- ducendo dall' assioma eterno le veritii trovate la prima volta per Pestiazione, la conoscenza empirica diventerà una vera scienza, cioè una conoscenza razionale; le ve- rità di fatto saranno trasformate in verità a priori ; ciò che prima appariva come contingente, apparirà come necessario; ciò di cui prima si sapeva solamente che è, 8i saprà allora anche perchè è. La deduzione, in una pa rola, non deve trovare niente di nuovo, ma dare sol- tanto alle vetità scoverte induttivamente i caratteri del- Vapriorità e della necessità, ciò che vuol dire ancora che essa deve spiegarle. Ecco come il Taine descrive il metodo eh' egli preconizza (1). Siano i fenomeni della vita animale. Una parte di questi fenomeni, vale a dire la natura e i rapporti d'un gruppo d'organi e d'opera- zioni, e i cangiamenti che questo gruppo subisce da spe- cie a specie e nello stesso individuo, si dedurranno dalla funzione della nutrizione. Sono cinquecento fatti ridotti a un solo. Noi separiamo un fatto generale, cioè co- mune a tutte le parti del corpo vivente e a tutti i mo- menti della vita, la nutrizione o riparazione degli or- Taine fa in questi due luoghi del metodo, diciamo così, dtalet- tieo-^che però egli stesso non chiama mai così-è poco precisa, perchè egU cerca delle formule che convengano egualmente al suo proprio sistema e a quello di Hegel). (1) Filos. class, cap. XIV. — 115 — gani, e ne facciamo derivare tutto un gruppo di fatti. Questo non è composto che di conseguenze; quello è il fatto sommario e generatore. Un' altra parte dei feno- meni, vale a dire ancora un gruppo di organi e di ope razioni e i suoi cangiamenti da specie a specie e nello stesso individuo, si dedurranno da un'altra funzione, la distruzione o decomposizione continua dell' organismo : è anche questo un fatto universale e costante come la nutriziooe, a cui, come a questa, può ridursi tutto un gruppo di fatti, che non ne sono che le conseguenze. Un'altra parte dei fenomeni infine si dedurranno dal tipo, che deve persistere in tutti i cangiamenti dell'in- dividuo e di generazione in generazione. Tutti i feno- meni dell' organismo animale si saranno dunque ridotti a tre fatti generali, la nutrizione, la dissoluzione e il tipo. Riduciamo ancora, cioè cerchiamo di dedurre tutti questi tre fatti da un principio unico. Supponiamo che il tipo sia un fatto primitivo, e che gli altri due, cioè la nutrizione e la decomposizione, possano derivarsi da esso; è il tipo stesso che sarà questo principio unico (1). « Il tipo sarà dunque la causa del resto (cioè il fatto ge- € neraledacui derivano tutti gli altri fatti). Si dedurranno <( da esso tutti i fatti che compongono l'animale adulto. € Ciascun gruppo di questi fatti si è dedotto da un fatto < dominatore. Tutti i fatti dominatori si saranno dedotti «dal tipo. Noi non avremo più che una formula unica, <( definizione generatrice, da cui uscirà, per un sistema 4(di deduzioni progressive, la moltitudine ordinata degli « altri fatti — Voi intravedrete allora lo scopo di ogni « scienza, e comprenderete che cosa è un sistema. Guar- € date di là come abbiamo proceduto. Noi ci siamo te- (1) Ed. 3a, pag. 350-361. — 116 — ^_ « nuti uella regione dei fatti ; non abbiamo evocato al- « cim essere metafisico (1), non abbiamo pensato che a « formare dei gruppi. Questi gruppi dati, li abbiamo rim- « piazzati per il fatto generatore. Abbiamo espresso « questo fatto con una formula. Abbiamo riunito le di- « verse formule in un gruppo, e abbiamo cercato un « fatto superiore che le generasse. Abbiamo continuato « così, e sianìo arrivati infine al fatto unico, che è la « causa nniversale. Chiamandolo causa^ non abbiamo vo- « luto dire niente altro se non che dalla sua formula « possono dedursi tutti gli altri e tutte le conseguenze « degli altri. Noi abbiamo trasformato cosi ia moltitu- « dine disseminata dei fatti in una gerarchia di propo- « sizioni, di cui la prima, creatrice universale, genera « un gruppo di proposizioni subordinate, che, alla loro € volta, producono ciascuna un nuovo gruppo, e così € di seguito, sinché appariscano i dettagli moltiplicati e € i fatti particolari dell'osservazione sensibile, come si € vede in un getto d'acqua il fascio della sommità spar- ge gersi sul primo bacino, cadere sui gradini in fiotti ogni « volta più numerosi, e discendere di piano in piano, sinché «infine le sua acque si accumulano nell'ultimo bacino, « dove le nostre dita le toccano » (2). In questa scala (l) Il Taino non riguarda le sue astrazioni realizzate oouie esseri metalisioi, perch?^ non sono fuori dei fatti (come gli agenti ipotetici degli spiritualisti— v. Filosoii class. Prefazione), ma nei fatti stessi, di cui sono una porzione, un estratto, ecc. (2) P. 361-363 Queste proposizioui.di cui ciascuna produce un grup- po di proposizioni subordinate, sino alle ultime, cbe pi'odueono i fatti particolari deirosservazione sensibile— li producono, perchè, se ancbe i fatti sensibili non fossero prodotti dalle proposizioni, l'autore non chiamerebbe 1» proposizione prima «definizione ge- neratrice » e « creatrice universale »— rappresentano ciascuna una —in- di ricerche tutti i passi sono segnati. Formato un gruppo di fatti, noi ne separiamo per astrazione qualche fatto generale, e ne deduciamo tutti gli altri. Riunendo uu gruppo di questi fatti general: (che l' autore chiama generatori, perché da ciascuno deriva tutto un gruppo di fatti particolari), cerchiamo per lo stesso processo quello che genera gli altri. Così dall'insieme dei feno- meni dell'organismo vivente abbiamo separato per astra- zione tre fatti generali, il deperimento, la riparazione e il tipo, e abbiamo dedotto da ciascuno un gruppo di questi fenomeni. Questi tre fatti generali alla loro volta li abbiamo riuniti in un gruppo, e da questo abbiamo staccato per lo stesso processo una proprietà di tipo, dalla (juale gli altri due fatti si deducono (1). Il fatto più generale da cui si deduce ciascun gruppo di fatti, si trova in questi fatti stessi, e se ne separa per astra- zione. « Ora tutte le volt-e che voi incontrate un gruppo naturale di fatti, potete mettere questo metodo in uso, e scoprite una gerarchia di necessità; ne é qui del mondo morale come del mondo fisico. Una civiltà, un popolo, legge della natura, cioè una coppia di entità astratte; per con- seguenza il Taine, parlando della gerarchia delle proposizioni, intende parlare propriamente della gerarchia di queste coppie di entità astratte. Così, dicendo che una proposizione produce un gruppo di proposizioni subordinate, egli riferisce, in ur senso traslato, alle proposizioni quel rapporto di causa e di effetto, che come vedremo, egli attribuisce, nel senso proprio, alle cose si- gnificate dalle proposizioni, cioè alle coppie di entità astratte; o forse per queste proposizioni egli intende appunto i loro signi- ficati, cioè le coppie di entità astratte, come quiindo noi per assiomi o principii intendiamo, non le proposizioni stesse, ma i fat- ti, o meglio, le leggi, che esse significano. (1) Pag. 368. ^{ — 118 — un secolo, hanno una definizione, e tutti i loro caratteri o i loro dettagli non ne sono che la conseguenza e gli sviluppi. PeF esempio, considerando la società a Roma, voi vi distinguete la falcolta molto generale di agire in corpo, con una vista d'interesse personale.... Voi stac- cate questa facoltà egoista e politica, e ne deducete tosto tutti i caratteri della società e del governo romano.... Da questa facoltà si deducono i differenti gruppi di a- bitudini morali; da ciascuno di questi gruppi un ordine di fatti complicati e ramificati in dettagli innumerevoli, la vita privata, la vita pubblica, la vita di famiglia, la religione, la scienza e l'arte. Questa gerarchia di cause è il sistema d'una storia (L'autore, come vedremo in se- guito, chiama causa di un fatto il fatto più generale da cui quello si deduce). Ogni storia ha il suo, e voi ve- dete come si ottiene. Per 1' astrazione, si separano nei fatti esteriori le abitudini interiori, generali e dominanti. Per l'astrazione, in ciascun gruppo di qualità morali, si separa la qualità generale e generatrice (cioè da cui le altre si deducono) A poco a poco si forma la pira- mide delle cause (cioè dei fatti di più in più generali, da ciascuno dei quali si deduce un gruppo di fatti più particolari), e i fatti dispersi ricevono dall' architettum filosofica i loro legami e le loro posizioni Supponete che questo lavoro (di formare la piramide delle cause) sia fatto per tutti i popoli e per tutta la storia, per la psicologia, per tutte le scienze morali, per la zoologia, per la fisica, per la chimica, per l'astronomia. All'istante, l'universo quale noi lo vediamo sparisce. I fatti si sono ridotti, le formule li hanno sostituiti; il mondo si è sem- plificato, la scienza si è fatta. Sole, cinque o sei propo- sizioni generali sussistono. Restano delle definizioni dell'uomo, dell'animale, della pianta, del corpo chimico, delle leggi fisiche, del corpo astronomico, e non resta niente altro. Noi attacchiamo i nostri occhi su queste f i — 119 — definizioni sovrane; noi contempliamo queste creatrici immortali, sole stabili a traverso l' infinità del tempo che spiega e distrugge le loro opere, sole indivisibili a traverso l'infinità dell'estensione che disperde e molti- plica i loro eftetti. (1) Noi osiamo di più ; considerando che esse sono molte, e che sono dei fatti come gli altri (dei fatti generali), cerchiamo di farvi scorgere e di separarne (en dé(jager) per lo stesso metodo che nelle altre (cioè per l'astrazione) il fatto primitivo e unico da cui esse si deducono e che le genera. Noi scopriamo l'unità dell'u- niverso e comprendiamo ciò che la produce. Essa non viene da una cosa esteriore, straniera al mondo, né da una cosa misteriosa, nascosta nel mondo. Essa viene da un fatto generale simile agli altri, legge generatrice da cui le altre si deducouo, come dalla legge dell'attrazione derivano tutti i fenomeni del peso, come dalla legge delle ondulazioni derivano tutti i fenomeni della luce, come dall'esistenza del tipo derivano tutte le funzioni dell'animale, come dalla facoltà dominante di un po- polo derivano tutte le parti delle sue istituzioni e tutti gli avvenimenti della sua storia. L'oggetto finale della scienza è questa legge suprema; e quegli che, con uno slancio, potesse trasportarsi nel suo seno, vi. vedrebbe, come da una sorgente, svolgersi, per dei canali distinti (1) Queste « detinizioni sovrii.ne», queste « creatrici immortali», ecc., sono trattate così chiarameute come delle realtà, che è evi- dente ohe noi dobbiamo intendere per esse, non le definizioni propriamente dette, ma le astrazioni realizzate che ad esse cor- rispondono, e che, secondo il Taina, esse significano. L'autore le chiama definizioni perchè non sono altra cosa che i gruppi di attributi compresi nelle definizioni — ben inteso che questi at- tributi si considerano, non come dei nomi o dei concetti, ma come delle entità esistenti per se stesse — . - 120 - - 121 - e ramificati, il torrente eterno degli avvenimenti e il mare infinito delle cose >(1). Questa legge suprema è, come tutte le altre, un'entità, o piuttosto una coppia di entità, un'astrazione realizzata. Essa è l'immobile, l'onnipossente, la creatrice, ecc.; il tempo e lo spazio derivano da essa, ma essa è fuori del tempo e dello spazio ; essa è un essere unico, e la sua unità costituise 1' unità dell'uni- verso, perchè ogni essere è una forma o una particola- rizzazione di quest'essere unico: tutte queste attribu- zioni suppongono evidentemente che la legge suprema esi- ste perse stessa, qimntunque presente nei fenomeni. Inol- tre la legge suprema è, come abbiamo detto, un assioma, e la sua scoverta trasformerebbe la scienza da induttiva ed empirica in deduttiva ed a priori. ^ Per questa gerarchia di necessità (lo stesso che prima ha chiamato gerarchia o piramide delle cause) il mondo forma un essere unico, indivisibile, di cui tutti gli esseri sono le membra. Alla suprema sommità delle cose, al più alto dell'etere lu- minoso e inaccessibile, si pronunzia ra««iowa eterno (cioè al principio del sistema delle cose, che è la parte per noi pili oscura, ma in se stessa più chiara, di questo sistema, si pone la legge suprema, evidente per se stessa e necessaria come un assioma), e il rimbombo prolun- gato di questa formula creatrice compone, per le sue (mdulazioni inesauribili, l'immensità dell'universo. Ogni forma, ogni cangiamento, ogni movimento, ogni idea è uno dei suoi atti. Essa sussiste in tutte cose, e non è limitata da alcuna cosa. La materia e il pensiero, il pianeta e l'uomo, gli ammassi di soli e le palpitazioni d'un insetto, la vita e la morte, il dolore e la gioia, non vi ha niente che non l'esprima, e n(m vi ha niente che l'esprima tutta intera. Essa riempie il tempo e lo spazio <coi fenomeni in cui si manifesta), e resta essa stessa al disopra del tempo e dello spazio. Essa mm è com- presa in questi, e questi derivano da essa. Ogni vita è uno dei suoi momenti, ogni essere è una delle sue forme; eie serie delle cose discendono da essa, secondo necessità indistruttibili, legate dai divini anelli della sua catena d'oro (1). L'indifferenza allusione all'assoluto di Schelling), l'immobile, l'eterna, l'onnipossente, la crea- trice, alcun nome non l'esaurisce; e quando si svela la sua faccia serena e sublime, non vi ha spirito d'uomo che non si pieghi, costernato d'ammirazione e d'orrore. Allo stesso istante questo spirito si rialza; egli obblia la sua mortalità e la sua piccolezza; egli gode per simpatia di questa infinitii cb'egli pensa, e partecipa alla sua gran- dezza» (2). Questo monismo del Taine, vale a dire la sua dot- trina che vi ha nna legge suprema unica da cui tutte le altre possono dedursi, è una conseguenza naturale del suo metodo di dedurre le astrazioni realizzate, noi potremmo dire, applicando il termine usato da Platone e da Hegel, della sun dialettica. La legge che governa il mondo delle astrazioni realizzate è, secondo il Taine, che ciascun gruppo di coppie di astratti è prodotto da una coppia di astratti più generale, in altri termini che ogni molti plicità si riconduce ad una unità superiore. Sevi fosse, al vertice del sistema, una pluralità di (1) Pag. 363-369. (1) Queste serie delle cose ohe discendono dalla legge suprema sono ciò che prima ha chiamato gerarchia di necessità e piramide delle cause — meno naturalmente il vertice. — La catena d'oro che, secondo i poeti, era sospesa al trono di Giove, simboleg- giava, secondo i neoplatonici, le potenze superiori o le cause della natura, poste fra il mondo sensibile e la causa suprema. (2) Pag. 370-371. — 122 - coppie di astratti egiialinente primitive, ciò sarebbe in contraddizione con questa legge, perchè anche (jnesta pluralità dovrebbe ricondursi ad una unità superiore. Daltronde l'unità di principio è, come vedremo nel se- guito, un carattere comune di tutti i sistemi di realismo dialettico. Il Taine, ammettendo che ogni gruppo di leggi deve dedursi da una legge superiore, suppone che l'unico modo di spiegare le leggi della natura è il terzo di quelli enumerati da Stuart Mill, cioè «l'agglomerazione di più leggi in una legge più generale che le racchiude tutte». (1) È perchè l'esigenza del realismo dialettico è l'assoluta uniformità di metodo: il metodo di dedurre le astrazioni realizzate è infatti, nel realismo dialettico, non un semplice processo logico, ma una legge obbiet- tiva delle astrazioni realizzate stesse, il processo reale secondo cui esse si sviluppano o si producono. La pro- duzione delle astrazioni realizzate deve essere sottoposta a una legge uniforme, come è a delle leggi uniformi che è sottoposta hi produzione dei fenomeni. § 6. Il Taine confessa che la sua filosofia è costruita sullo stesso tipo che quella di Hegel. Egli mette Hegel al di sopra di tutti i filosofii (2), e dopo Hegel, Spinoza (un altro realista dialettico) (3) : ciò che vi ha di vero, secondo lui, nell' hegelianismo è che il mondo dell' e- sperienza ha la sua ragione in un mondo di astrazioni, e che, queste astrazioni possono essere ritrovate a priori, e dedotte progressivamente le une dalle altre, in modo che, data l'una, siano date necessariamente tutte le al- tre (4). Questa filosofia, dice il Taine, € ha per origine (1) Stnart iMill Logica lib. 3. oap. 12 ( 5. (2) V. I filos, class, pag. 133 e 348. (3) V. gli stessi luoghi indicati nella nota precedente. (4) Ifilos. class, pag. VIII-X(i luoghi citati nelle note 1 a p. 110, — 123 — una certa nozione delle cause. Io ho cercato qui (cioè nel libro 1 filosofi classici) di giustificare e d'applicare 7 a pagina 112 e 6 a pagina 86) e Posit. ingl. paginal40-141 (J 11, Vili, il penultimo dei tratti citati nella nota 2 a pa- gina82)V. anche i luoghi seguenti: Po»i<.mgrZ.pag.l47 ($ 11, Vili, in fine): Le due risorse dello spirito umano sono 1' esperienza, quale la descrivono i fìlosoti inglesi, e l'astrazione, quale l'ha descritta l'autore (cioè quale operazione i cui prodotti non sono delle semplici astrazioni mentali, ma delle realtà che esistono per se stesse, e di cui le jiiù semplici o più astratte sono la ragione delle più complesse o meno astratte) « La prima conduce a considerare la natura come un incontro di fatti, la seconda come un sistema di leggi; impiegata sola, la prima è inglese; im- piegata sola, la seconda è alemanna. » Il compito della nazione fraucese è di precisare le idee alemanne (cioè, come risulta da ciò che ha detto precedentemente, le idee di Hegel e dei filosofi affini), correggendo e completando lo spirito alemanno con lo spirito inglese. Ideal ingl. § II, III : L'idea di sviluppo, a cui si riduce il sistema di Hegel, e che consiste a considerare l'uni- verso come una serie di termini che si necessitano mutuamente l'un l'altro, è il legato filosofico che 1' Alemagna moderna ha fatto al genere umano. Filos. class, cap. tilt, p, 369-370 : La de- duzione, che l'autore descrive in questo capitolo e che noi ab- biamo visto nel paragrafo precedente, di tutte le leggi della natura da una legge suprema assiomatica (leggi nel senso del Taine, cioè astnizioni realizzate), è quello stesso che hanno ten- tato i metafisici alemanni (cioè Schelling ed Hegel) « con un'au- dacia eroica, un genio sublime e un'imprudenza più graude an- cora che il loro genio e la loro audacia ». I loro sistemi sono ca- duti, perchè il processo deduttivo non era stato preceduto da un processo induttivo sufficiente; 4f ma i resti crollati della loro opera sorpassano ancora tutte le costru zioni umane per la loro magnificenza e per la loro massa, e il piano semi-spezzato che vi si distìngue, indica ai filosofi futuri lo scopo che bisogna in- fine attingere» (Cfr. Posil. ingl, p. 141 e seg., dopo il tratto ohe abbiamo indicato al principio di questa nota). Iniellig, 2^ e- — 124 — questa nozione. Io non ho cercato altra cosa qui né al- trove » (1). Un sistema filosofico dipende dall' idea che si ha della causalità. «. Precisando l'idea di causa, si può rinnovare la propria idea dell'universo » (2). € Se voi intendete per causa una certa c(»8a*, avrete una certa idiea dell' universo e della scienza, e se voi intendete per causa una cosa differente, avrete un'idea differente della scienza e dell' universo » (3). Gli spiritualisti e i positivisti iiuiuaginano le cause dei fenomeni c-ime de- gli agenti situati al di là dei fenomeni stessi; i primi li assimilano alla volontà umana, i secondi li dichiarano inconoscibili (4). L' autore mostra « che la causa d' un diz. t. 2. p. 492: L'esistenza deUe cose si può provare senza ri- correVe aU'esperienza, poiché, come la quantità reale, secondo i luateinatici, non è che un caso della quantità immaginaria, caso particolare e singolare in cui gli elementi della quantità imma- ginaria presentano certe condizioni che mancano negli altri casi, così l'esistenza reale non è che un caso dell'esistenza possibile, caso particolare e singolare in cui gli elementi dell'esistenza pos- sibile presentano certe condizioni ohe mancano negli altri oasi. 41 Ciò posto, non si potrebbero cercare questi elementi e que- ste condizioni i Hegel l'ha fatto, ma con imprudenze enormi ; forse un altro, con più misura, rinnoverà il suo tentativo con piti successo. » (1) I filos, class, psg. X (dopo il tratto indicato nel principio della nota precedente). Confronta Posii ingl. J 11, 1 : Ciò che l'autore conserva della filosofia degli Alemanni (cioè, al solito, di Hegel e filosofi affini) è < la loro idea della causa »; le cause, in 'questo senso, si scoprono per l'astrazione. (2) Filos, class, p. Vili. (3) Flos, class, p. VI. Cfr. Posit ingl. p. 60: La parola causa «porta nel suo seno tutta una filosofia. Dall'idea che voi vi at- taccate dipende tutta la vostra idea della natura. Rinnovare la nozione di cause è trasformare il pensiero umano ». (4) Filos. class, p. VI-VII. — 125 — fatto è la legge o la (jiialità dominante da cui esso si deduce; che una forza attiva è la necessità che lega il fatto derivato alla legge primitiva, che la forza del peso è la necessità logica che lega la caduta d'una pietra alla legge universale della gravitazione» (I). Le cause dei fatti sono dunque nei fatti stessi : non bisiìgna inven- tare un nuovo mondo per ispiegare questo, come fanno gli spiritualisti, né dichiarare questo inesplicabile, rele- gando le cause in un mondo misterioso e inaccessibile, come fanno i positivisti. La causa d' un fatto concreto è un'entità astratta compresa in esso, cioè la legge o tipo o qualità dominante da cui esso si deduce ; e la causa d' un'entità astratta è un'altra entità più astratta compresa in essa, cioè la legge, tipo o qualità domi- nante superiore, da cui essa si deduce (2). È questa l'idea della causalità che l'autore accetta da Hegel (3). (1) Filos. class, p. VIII. (2) Filos. class, p. VIII-IX (v. i luoghi citati nella n. 1 a p. 110 e H a p. 8H). Cfr. Posit. ingl. p. 116 (luogo citato nella u.4a p. 85): Per cause intendiamo i componenti dei fatti, cioò gli astratti in cui si risolvono; esse non sono un nuovo fatto aggiunto ai primi, ma Hono contenuti in questi, ne sono una ])orzione, un estratto, ecc. (3) V. filos. class. \). IX'X (il luogoeitato nella nota 7 a p. 112 e quello citato nel testo verso il principio di questo paragra- fo). Hegel, come abbiamo notato, non chiama esplicitamente un'astrazione causa dell'altra astrazione che se ne deduce. Tut- tavia jl Taino ha razione di dare per origine alla filosofia hege- liana « una certa nozione delle cause », perchè Hegel, conside- rand<» la deduzione logica come una derivazione reale, ha evi- dentemente di mira una certa idea di derivazione reale, che è a]>punto ciò che noi chiamiamo causazione efficiente, quantunque egli stesso non la chiami così; per conseguenza, l' idea fondji- mentale del suo sistema, cioè di ricondurre questa derivazione reale alla deduzione logica, è, come dice il Taine, « una certa no- — 126 - Conformemente a qiiest' idea della causa e dell' eflTetto, che identifica la prima al principio logico e la seconda alla consegueenza, il Taine considera V essenza d' una cosa, cioè gli attributi che entrano nella sua definizione, come la causa degli altri attributi di questa cosa, per- chè, secondo lui, tutti gli altri attributi- d'una cosa pos- sono dedursi da quelli che compongono la sua defini- zione. L'essenza d'una cosa è « la causa interiore e pri- mordiale di tutte le sue proprietà »; la definizione è la «formula generati ice > ; e 1' attributo che la costituisce «una proprietà generatrice e prima » (cioè non derivata),che è «la sorgente del resto», o « da cui derivano le altro (1). Beninteso che questi attributi che entrano nella definizione, sono delle entità esistenti per sé stesse: sono degli elementi di cui si compone l'oggetto stesso, i suoi elementi (jeneratori, i suoi /a«on (2). Il sillogismo va dalla causa all'effetto, perchè va da una legge a un fatto o a una legge più particolare che se ne deduce, e così si prova un fatto, come dice Aristotile, mostrando la sua causa. La vera prova della mortalità di Pietro, Gio- vanni e compagnia non è che tutti gli uomini sono mor- tali, ma che l'uomo astratto è accoppiato alla mortalitji: è questa coppia di astratti che, presente nella natura, è la causa della mortalità di Pietro, Giovanni e compa- gnia, e che, presente nel nostro spirito, ne è la prova. Il sillogismo va dunque dalla causa all' effetto, perchva dall'astratto al concreto, e non dal generale al par- ticolare, come dicono i logici ordinari (3). Notiamo zione delle cause », vale a dire una forma speciale eli' egli dà all'idea di causalità efficiente. (1) PosiU ingl. } 11, III. (2) V. nota 2 a p. 82. (3) PosiL ingl. $ 11, IV. — 127 — questa distinzione fra la proposizione generale che tutti gli uomini sono mortali, cioè la legge nel senso ordina- rio, e la legge nel senso del Taine, cioè la coppia degli astratti uomo e mortalità: non è la prima che è la causa, ma la seconda, perchè la causa è un' astrazione realiz- zata, distinta dai fatti particolari, quantunque contenuta in essi, e non una generalità, che noa è che la somma dei fatti particolari. Come i fatti particolari hanno per cause le leggi astratte, contenrte in essi e da cui si de- ducono, così le leggi astratte hanno per cause altre leggi più astratte, contenute in esse e da cui si deducono: nel sistema del Taine, come in tutti gli altri sistemi di realismo dialettico, l'essere si sviluppa passando conti- nuamente dal più astratto al più concreto, ed è in questo passaggio che consiste la vera causazione. Così trovare la causa d'una cosa, oggetto particolare o astrazione realiz- zata, è considerare a parte un astratto contenuto nella cosa stessa, e la facoltà di scoprire le cause è l'astrazione (1). 11 Taine sviluppa il suo concetto della causalità nell'ultimo capitolo del suo libro 1 filosofi classici: il metodo, ch'egli descrive in questo capitolo e che noi abbiamo rtassunto nell'ultimo paragrafo — consistente a dedurre i fatti dalle leggi, cioè dalle coppie di astratti, queste leggi da altre leggi superiori, e cosi di seguito, sinché si giunga a una legge suprema, assiomatica, da cui tutto il resto gradata- mente si deduce— non è che il metodo di scoprire le cause dei fenomeni, e poi le cause di queste cause, e così di seguito, sinché si giunga a una causa prima, esistente per sé stessa, da cui deriva gradatamente tutto il resto. Egli comincia per definire la causa : « Un fatto da cui si possano dedurre la natura, i rapporti e i cangiamenti (1) V. Posit. ingl. ? II, 1. -'I degli altri >. Se dunque la nutrizione è una causa, «si potranno dedurre da essa la natura e i rapporti d' un gruppo d' operazioni e d' organi ; si potranno pure de- durre da essa i cangiamenti che questo grupjio subisce da specie a specie e nello stesso individuo. Questo è? L' esperienza risponderà. Se essa risponde s^, la nutri- zione avendo le proprietà delle cause, è una eausa ; e l'ipotesi giustificata diviene una verità » (1). Ora l'espe- rienza risponde che dalla nutrizione può dedursi tutto un gruppo di fatti (cioè la natura e i rapporti d' un gruppo d' operazioni e d' organi e i loro cangiamenti). « Dunque la nutrizione è la causa di tutto un gruppo di fatti » (2). La nutrizione è un fatto, ma « un fatto gè- nerale, cioè comune a tutte le parti del corpo vivente e a tutti i momenti della vita » (3| ; anche il deperi- mento o la decomposizione continua è «un fatto uni- versale e costante ». È anch' esso una causa come la nutrizione? Se è una causa, si potranno dedurre da esso come dalla nutrizione, la natura e i rapporti di tutta una serie di fatti e i loro cangiamenti. Ora l'esperienza dichiara che è così. « Dunque il deperimento è la causa di un gruppo di fatti > (4). Anche il tipo è una causa: resta a sapere se è una causa primitiva o è un effetto della funzione. Se è un effetto della funzione, si deve dedurre da essa l'esistenza, le variazioni, la persistenza del tipo. Ora questa deduzione è impossibile ; dunque il tipo non lia per causa la funzione. Supponiamo che dal tipo possano dedursi la decomposizione, la nutri- zione e tutte le altre funzioni; il tipo sarà allora la causa del resto. Noi avremo < la definizione (jeneratrice, donde uscirà, per un sistema di deduzioni progressive, la mol- titudine ordinata degli altri fatti » (1). Guardate, conti- nua 1' autore, come abbiamo procednto. Noi abbiamo formato dei gruppi di fatti ; abbiamo sostituito a eia- scun gruppo il fatto generatore (sostituito, perchè il fatto generatore, il principio, non è che il riassunto dei fatti generali, delle conseguenze); abbiamo riunito i diversi fatti generatori in un gruppo; abbiamo cercato « un fatto superiore che li generasse ». « Abbiamo continuato così, e siamo arrivati infine al fatto unico, che è la causa univer- sale. Chiamandolo causa noi non abbiamo voluto dire nien- te altro se non che dalla sua formula si possono dedurre tutti gli altri e tutte le conseguenze degli altri. » Così abbiamo trasformato la moltitudine dei fatti in una gerarchia di proposizioni, «di cui la prima, creatrice universale, //e/iem un gruppo di proposizioni subordinate, che, alla loro vol- ta, producono ciascuna un nuovo gruppo, e così di segui- to ) (2). In questa ricerca delle cause tutti i passi sono se- gnati. Astrazione (che consiste a separare un fatto generale dai fatti particolari in cui è contenuto), ipotesi ;che questo fatto generale è la causa di questi fatti particolari) e verificazione di quest' ipotesi (che consiste a dedurre i fatti particolari dal tatto generale); tali sono i tre passi di questo metodo. « Un gruppo formato, noi ne sepa- riamo per astrazione qualche fiitto generale. Ammettiamo per ipotesi che esso è la causa degli altri. Conoscendo le proprietà delle cause (cioè che dalle cause si possono (1) Pag. 351. (2) Pag. 851-354. (3) Pag. 350-351. (4) Pag. .3.55-3.57. (1) Pag. .358-862. (2) Pag. 361-363, luogo citato nel pai^igr. preced. V. nello stesso paragr. la nota 2 a p. 116. - 130 — dedarre i fatti di cui esse sodo le cause), veritìchiamo se le ha: se non le ha, tentiamo l'ipotesi e la verifica- zioue sui suoi vicini, sinché noi troviamo la causa. Riu- nendo un gruppo di cause o fatti generatori, cerchiamo per lo stesso processo quale genera gli altri. È così che noi abbiamo operato poco fa. Abbiamo separato per a- straziope due fatti generali, il deperimento e la ripara- zione; abbiamo ammesso per ipotesi che erano la causa, l'uua delle operazioni nutritive, l'altro delle operazioni dissolventi. Abbiamo verificato queste due ipotesi (de- ducendo dal deperimento e dalla nutrizione i fatti di cui si erano supposti le cause). Riunendo queste due cause e un altro fatto generatore, il tipo, abbiamo staccato, per lo stesso processo, lina proprietà di tipo dalla quale tutte e due si deducono » (e che è quindi la causa di queste due cause) (1). Lo stesso processo può applicarsi ai fatti del mondo morale. I fatti particolari che com- pongono la vita di un popolo si deducono dalle abitu- dini interiori, generali e dominanti, separate per astra- zione da questi fatti particolari; queste qualità morali si deducono da una qualità più generale e più dominante, p. e. la facoltà egoista e politica del popolo romano, sparata da esse per astrazione. Così si forma una gerarchia, una piramide, di cause : nel mondo morale, come nel mondo tìsico, la causa non è che un fatto; un fatto ge- nerale, separato per astrazione dai fatti particolari che ne sono gli effetti; un fatto generale, da cui gli altri pos- sono dedursi (2). Supponete questo lavoro fatto per tutte le scienze fisiche e per tutte le scienze morali. I fatti si •v: (1) Pag. 363. (2) Pag. 364-367, luogo in parte riassunto e in parte riportato uel parag. precedente). — 131 — sono ridotti ad alcune definizioni; noi contempliamo que- ste creatrici immortali, sole indivisibili a traverso l'in- finità dell'estensione che disperde e moltiplica i loro ef- /etti; noi cerchiamo di separarne per astrazione il fatto primitivo e unico da cui si deducono e che le genera. Noi scopriamo così che ciò che forma 1' unità dell' u- niverso è un fatto generale simile agli altri, legge gene- ratrice da cui le altre si deducono, e da cui derivano, come da una sorgente, per dei canali distinti e ramifi- cati, il torrente eterno degli avvenimenti e il mare in- finito delle cose (1). Questa legge suprema, quest' as- sioma eterno, è la formula creatrice, il cui rimbombo prolungato compone, per le sue ondulazioni inesauribili, l'immensità dell'universo; essa non è compresa nel tempo e nello spazio, ma questi derivano da essa; è l'indifferenza (perchè è ciò che vi ha d'identico in tutti gli esseri), l'ow- nipossente, la creatrice; e le serie delle cose (cioè delle astrazioni realizzate e, come ultimo termine, dei fenomeni) discendono da essa, legate dai divini anelli della sua catena d'oro(2).È,in una parola, la causa prima, percui tutto esiste, mentre essa esiste perse stessa (per questa necessità intrin- seca, che è espressa dalle parole « 1' assioma eterno »). Così, supposto che questa legge fosse infine scoperta, noi arriveremmo al vertice della piramide delle cause, e l'opera dell'astrazione sarebbe terminata. Nel Positi- vismo inglese questa teoria della causalità è riassunta così: « Vi hanno due operazioni, l' esperi enaa e l'astra- zione ; vi hanno due regni, quello dei fatti complessi e quello degli elementi semplici (cioè quello degli oggetti (1) Pas:. 368-369, luogo riportato nel paragr. precedente. (2; Pag. 370-371, luogo riportato nel parag. precedente V. nello etesso paragr. la nota 1 a p. 121. - 132 — concreti e quello delle entità astratte in cui essi si ri- solvono) (l). Il primo è l'effetto, il secondo la causa. Il primo è contenuto (implicitamente) nel secondo e se ne deduce, come una conseguenza dal suo principio.... Tutto il nostro sforzo consiste a passare dall'uno all'altro, dal complesso al semplice, dai fatti alle leggi (cioè alle cop- pie di astratti), dalle esperienze alle formule.... E queste prime coppie trovate, noi pratichiamo su di esse la stessa operazione die sui fatti, perchè, a un minor grado, hanno la stessa natura. Quantunque più astratte, sono ancora complesse. Esse possono essere decomposte (in astrazioni più astratte) e spiegate (2). Esse hanno una ragion d'es- sere. Vi ha qualche causa che le costruisce e le unisce. Vi ha luogo per esse, come per i fatti, di cercare gli e- lementi generatori (cioè delle coppie di astratti più sem- plici) in cui possono risolversi e da cui possono dedursi, e l'operazione deve continuare finché si sia giunti ad e- lementi assolutamente semplici, cioè tali che la loro de- composizione sia contraddittoria (questi elementi assolu- tamente semplici sono la coppia di astratti i più astratti di tutti). Che noi possiamo trovarli o no, essi esistono; l'assioma delle cause sarebbe smentito, se essi mancas- sero Vi ha dunque degli elementi indecomponibili, da cui derivano le leggi più generali, e da queste le leggi (1) V. le note 2 a p. 82, 5 a p. 85 e 1 a p. 107. (2) La spiegazione d'una le«;ge implica, secondo Taine, la sua decomposiziout^, non perchè, spiegandola, essH si risolva in una pluralità di leggi più generali (l® e 2^ modo di spiegazione di Mill), ina perchè ciò che la spiega, vale a dire ciò da cui essa si deduce, è una legge più astratta contenuta in essa, e l'astra- zione è una decomposizione, appunto perchè l'astratto è conte- nuto nel concreto (o in un meno astratto), e non si fa che e- strarnelo. — 133 — particolari, e da queste leggi i fatti che osserviamo (1). Noi possiamo ora compreud-re la virtù e il senso di que- st'assioma delle cause che regge tutte cose, e che Mill ha mutilato. Vi ha una forza interiore e costringente che suscita ogni avvenimento, che lega ogni composto, che genera ogni dato. Ciò significa, da una parte, che vi ha una ragione ad ogni cosa, che ogni fatto ha la sua legge; che ogni composto si riduce in semplici (cioè che il più concreto si risolve nel più astrat- to) (2); che ogni prodotto implica dei fattori (3); che ogni (1) V. nota 1 a \}. 110. (2) Ripetiamo l'osservazicme della nota penultima. Dicendo che ogni composto si riduce in semplici, l'autore intende dire «empliocmente che i fatti concreti si risolvono in coppie di astratti e le coppie di astratti in altre coppie di astratti di un'astrattezza maggiore. Ma ciò non importa per lui che ogni coppia di astratti deve risolversi in una pluralità di coppie più astratte : il con- creto deve risolversi in più coppie di astratti, perchè un fatto è « una, sovrapposizione di leggi ». ma una legge interiore ncm è una sovrapposizione di più leggi superiori, perchè se fosse così, le cause, cioè le leggi, non formerebbero una piramide, e non i)otrobbero risolversi tutte in una legge o causa unica (l'as- sioma eterno). La dottrina del Taiue, come si vede dall'esposi- zione dell'ultimo capitolo dei Filosofi elassici, fatta nel paragrafo precedente, è che ogni gruppo di leggi inferiori deve dedursi da una legge superiore unica; gli elementi (i semplici) in cui si risolvimo quelle coppie di astratti inferiori sono dunque questa coppia di astratti superiori. Si risol/ono in essa, perchè essa è la legge sommaria in cui tutte sono contenute, e per conseguenza tutta hi loro realtà e, per dir così, tutta la h)ro sostanza si riduce alla realtà e alla sostanza di questa coppia unica. In ciascuna di un gruppo di leggi subordinate a una legge superiore possono distinguersi, per usare il linguaggio del Taiue, due porzioni: ciò che vi ha di comune in tutte, cioè questa legge superiore a cui - 134 - qualità e ogni esistenza devono dedursi da qualche ter- mine superiore e anteriore (4). E ciò significa, da altra sono subordinate, e ciò clie vi ha di particolare iu ciascuna, per dir così, la sua differenza. Di queste due porzioni il Taine con considera come un'entità sussistente per se steessa ohe la prima, come Platone delle due porzioni in cui divide la Specie (il genere e la diU'erenza) non con considera come Idea, e per conseguenza come ycooiaiói^, che una sola, il genere (v. $. 17o). E come Platone (v. SuppL B p. 1». VII. B) riguarda i Generi come gli elementi delle Specie (benché il concetto delhi specie non sia costi- tuito dal solo concetto liel genere, ma anche da quello della ditt'e- renza) e i due Generi supremi, cioè l'Essere e il Non essere, come gli elementi di tutte le Idee (benché ogn'Idea abbia, a lato di que- sta porzione comune a tutte, una porzione propria), così il Taine riguarda la coppia di astratti superiore come gli elementi a cui si riducono le coppie inferiori (benché ciascuna di queste coppie inferiori abbia una porzione difterenziale oltre a questa porzione comune e generica), i'iò é perché il mondo delle astrazioni realiz- zate è, per l'uno e per l'altro, hi piramide delle eause, e per con- seguenza un astratto, per loro, non può avere un'esistenza per sé che quando é una causa, cioè quando da esso si deducono altre astrazioni realizzate. Che il Taine consideri una sola parte delle astrazioni in cui può decomporsi l'idea d'un oggetto come tulli gli elementi dell' oggetto stesso, quando 1' altra parte può de- dursi da essa, si vede anche dai luoghi dove espone la sua teoria della definizione, in cui dà come gli elementi dell'oggetto definito i due soli attributi che entrano nella definizione, perchè tutti gli altri attributi possono, secondo lui, dedursi da questi (V. Posit. ingl. § 11, III nella nota 2 a p. 82 e } 11, II nella nota 4 a p. 85). Il realisnu» dialettico non può misconoscere questa verità innegabile, che il generale non è altra cosa che l'in- sieme dei particolari; è perciò che esso risolve la realtà delle entità conseguenze (degli effetti) in quella delle entità principii (delle cause), nel tempo stesso che dà alle une un'esistenza di- stinta da quella delle altre. (3) Come abbiamo osservato nella nota 3 a pagina 105, — 135 — parte, che il prodotto equivale ai fattori, che tutti e due (cioè il prodotto e i fattori) non sono che una stessa cosa sotto due apparenze (5) ; che la causa non diffe- risce dall'effetto; che le potenze generatrici non sone che le proprietà elementari (cioè gli astratti che l'autore ri- guarda come elementi)', che la forza attiva per cui ci fi- guriamo la natura non è che la necessità logica che tra- sforma l'uno nell'altro il composto (cioè il più concreto) e il semplice (cioè il più astratto), il fatto e la legge (per fatto si deve intendere, non solo un fatto partico- lare, ma anche un fatto generale, cioè una legge, in quanto si spiega per una legge superiore). Così noi designia- mo anticipatamente il termine di ogni scienza, e teniamo la possente formula che, stabilendo il legame invincibile e la produzione spontanea degli esseri, pone nella natura la molla della natura, nel tempo stesso che conficca e stringe nel cuore di ogni cosa vivente (cioè di ogni cosa esistente) le tenaglie d'acciaio della necessità». Questa e- sposizione della dottrina della causalità non differisce da quella che fa nei Filosofi classici; vi manca però un le astrazioni in cui si risolvono i fatti o gli oggetti concreti, ne sono dette, non solo gli eleinenliy ma anche i /allori, per si- gnificare che ne sono le cause, come dice Spinoza, immanenti Per la stessa ragione sono dette, non solo gli elemenli, ma an- che i fattori, delle coppie di entità astratte le coppie di entità più astratte in cui esse si risolvono. Fattori è lo stesso che ele- menti generatori, come le ha chiamato sopra, (4) Noi ritroveremo iu altri realisti dialettici, cioè Platone e Spinoza, questo termine anteriore (e il suo correlativo j[?os/mor<?^ ]»er significare la derivazione, al tempo stesso logica ed ontolo- gica, di un'entità da un'altra entità. Naturalmente si dice ante- riore ad un'altra l'entità da cui quest'altra deriva, e la seconda si dice posteriore alla prima. (5) V. nota 2 a p. 133, in fine. ^..- ••^•^myr^ - 136 — elemento importante. È l'esistenza necessaria della cansii prima, cioè della legge suprema, la sua assiomaticità. Questa è indispensabile affinchè la deduzione possa ri- guardarsi come una derivazione reale. Se infatti la legge* generale non fosse stabilit^a che per una generalizzazione delle leggi particolari subordinate, se il metodo della vera scienza andasse dal particolare al generale e non dal generale al particolare, perchè le leggi particolari deriverebbero dalla legge generale, e non piuttosto la legge generale dalle leggi particolari ? Se queste de- rivano da quella, è perchè quella è logicamente ante- riore^ cioè perchè le leggi particolari non possono essere date se non è già data la legge generale, mentre questa è già data senza che quelle siano ancora date. In altri ter- mini, per usare il linguaggio di Aristotile, perchè la legL'e generale è assolutamente più notoria che le leggi parti- colari, quantunque queste possano essere più notorie per noi. Ciò importa che il metodo della l'em conoscenza sia puramente deduttivo, che vada sempre dal generale al paricolare (e mai dal particolare al generale); il che im- plica che il punto di partenza, cioè la legge più gene- rale di tutte, sia un assioma. È a questa condizione dun- que che la deduzione può divenire una derivazione reale, in altri termini che il rapporto logico tra il principio e la conseguenza può identificarsi al rapporto ontologico tra la causa e l'effetto. Ma ciò che è il più importante di osservare su (piesta teoria della causalità è che essa è legata inseparabil- mente alla realizzazione delle astrazioni . Le cause dei fatti, dice Taine, sono le leggi, e la causa di un gruppo di leggi è una legge più generale, e così di seguito, sino alla legge suprema, assiomatica, che è la causa di tutte le cause. Questo concetto suppone necessariamente che le leggi siano deile realtà esistenti per se stesse, delle coppie di 'entità astratte, come ammette il Taine, o, se st, — 137 — vi ha un'altro modo di sostantifìcarle, un'altra forma qual- siasi di astrazioni realizzate; che le leggi particolari ab biano un'esistenza distinta da quella dei fenomeni, e le leggi generali un'esistenza distinta da quella delle leggi particolari subordinate. Supponiamo infatti che non sfa così, e prendiamo il termine le(/ffe della natura nel suo significato ordinario (cioè in <iuello che esso ha sia nella teoria nominatista sia nella concettualista) In questo caso una legge particolare non sarà che un'espressione sommaria dei fenomeni che se ne possono dedurre, e una l«^gge generale che un'espressione sommaria delle leggi particolari che se ne possono dedurre, e quindi, in ultima analisi, di una classe più larga di fenomeni. Così essendo, la legge suprema, e il gruppo di leggi immediatamente sabordinate ad essa, e i gruppi immediatamente subor- dinati a questo gruppo, e così di seguito, sino all' ultimo bacino del getto d'acqua, cioè al mondo dei fenomeni, non saranno che delle espressioni differenti, cioè più o meno astratte, più o meno sommarie, di una sola e stessa cosa, che è precisamente questo mondo dei fenomeni : andando da un grado all'altro della gerarchia, le espres- sioni, o se si vuole aache, i concetti differiranno, perii loro grado di astrattezza o di sommarietà, ma la realtà che loro corrisponderà, la cosa espressa o rappresentata, ^arà sempre una sola e sempie la stessa, il mondo dei fenomeni. Ma allora il progresso della deduzione, la di- scesa da uno a un altro grado della gerarchia, sam un progresso del pensiero, che si rappresenterà il reale di una maniera sempre meno astratta, sempre più deter- minata, ma a <iuesto progresso del [»ensiero non corri- sponderà un progresso analogo nel reale stesso; non sarà questo stesso che. come il pensiero, passerà gradatamente da uno stato più indeterminato o più astratto a uno stato più determinato o più concreto; e per conseguenza la de- duzione non sarà una derivazione reale, poiché perciò ogni nuovo passo nella deduzione dovrebbe rappresen- tare la produzione di alcun che di nuovo nella realta stessa, e il rapporto ha il principio e la conseguenza non potrà identificarsi a quello tra la causa e 1 eftetto. In breve 1' identificazione del principio alla causa e del a conseguenza all' effetto suppone necessariamente che le due cose che si riguardano come principio e come con- se^'uenza siano due realtà distinte l'una dall'altra (come avviene nel sistema del Taine e in generale nel realismo); ma se il principio e la conseguenza -cioè l'insieme delle conscuenze - sono la stessa cosa espressa o pensata di due maniere differenti (come avviene nel nomiualisino e nel concettualismo), è impossibile che l'uno si consideri come causa e l'altra come effetto, perchè la causa e 1 ef- fetto sono necessariamente due cose differenti, e una stessa cosa non può essere la causa e l'effetto di se stessa (1). $ 7. Fra i grandi sistemi di realismo dialettico e (juel- lo di Platone che ha la più grande affinità col sistema del Taine, col quale lia comuni, oltre alla obbiettivazione dei concetti e al metodo dialettico (quale noi 1' abbiamo descritto nella sua forma generale), altri caratteri più speciali, che possiamo ridurre a «piesti tre : i concetti obbiettivati considerati come puri oggetti (e non anche come pensieri, come in Hegel); la gerarchia fra di essi, fondata sulla loro generalità descrescente; e una dedu- zione che somiglia alla deduzione ordinaria, perche non va, come questa, che dal generale al particolare. I con- cetti obbiettivati sono chiamati da Platone, come si sa, le Idee, cioè le specie - noi scriveremo la parola idea con la maiuscola, per distinguere il senso platonico e t (1) Noi Bou abbiamo indicata qui ohe una delle ragioni della obbiettivazione dei concetti. V. per 1' altra $ 3. p. 69-71 e $ 23 Bealizzazione delle astrazioni. — 139 — greco del termine da quello affatto differente che ha nelle lingue moderne, e che, per la sua confusione col primo, ha forse contribuito, più che qualsiasi altra ragione, a far accettare V interpretazione tradizionale del sistema platonico — Le Idee platoniche sono state erroneamente interpretate in un doppio senso. L' interpretazione tra- dizionale vede in esse i pensieri, cioè i concetti gene- rali, della divinità creatrice, che sono stati gli archetipi, i modelli, secondo cui questa ha creato le cose. A que- sta interpretazione, che non ha alcuna base nei testi e che è con essi nella contraddizione più evidente, la più parte dei critici moderni ne sostituiscono uq' altra, fon- data, più che sui testi stessi di Platone, sull' esposizione del sistema platonico clie fa Aristotile. Questa seconda interpretazione vede pure nelle Idee gli archetipi, i model- li, delle cose, ma non ne fii dei pensieri della divinità co- me la prima : le Idee sono, secondo essa, degli oggetti esistenti fuori delle cose, in un altro mondo, e fra questi oggetti e le co«e non vi ha altro rapporto che quello tra 1' esemplare e la copia. Questa seconda interpretazione non è così arbitraria come la prima, ma in compenso essa rende il sistema delle Idee perfettamente vano e sen- za scopo. L' interpretazione tradizionale comprende al- meno che V ipotesi delle Idee deve essere, come qualsiasi altra ipotesi sia scientìfica sia metafìsica, una spiega- zione del mondo, una risposta alla quistione delle cause; non comprendendo, sì per la sua arduità che per il suo carattere poco naturale, la spiegazione del mondo, la risposta alla quistione delle cause, del realismo dialettico., cerca, per dare uno scopo e una significazione al plato- nismo, di assimilarlo alla metafisica perenne dell' uma- nità, cioè all' antropomorfistica, non vedendo nelle Idee che un elemento di una spiegazione teologica. Ma alla interpretazione trascendentalista che pone le Idee fuori delle cose, ma senza farne dei pensieri, sfugge necessarianiente la spiegazione del realismo ai al etti co— per- chè questa suppone che le Idee, o generalmente le en- tità astratte e universali, siano immanenti, cioè nelle cose stesse, ne siano 1' elemento costante e generale —, senza poterle sostituire un'altra spiegazione, come cerca di fare 1' interpretazione teistica. L'interpretazione trascendentalista (non teistica) è fon- data, oltre che sull' autorità d'Aristotile, sul motivo di voler salvare le idee platoniche da un'inconcepibilità di questo sistema, che è comune agli altri sistemi di rea- lismo dialettico. Le Idee sono gli attributi generali delle cose sostnntificati, e di cui ciascuno è riguaidato come uno in se stesso, ma inerente al tempo stesso nei di- versi individui a cui viene attribuito. Più chiaramente, l'ipotesi delle Idee consiste essenzialmente in questi due punti: 1° Gli attributi astratti delle cose, p. e. la bian chezza, 1' umanità, la corporeità, ecc., non sono delle semplici astrazioni mentali, ma delle realtà. Essi sono, in un senso, delle astrazioni, in quanto non si trovano altrove ohe nelle realtà concrete, negli oggetti bian- chi, negli uomini, nei corpi, ecc, in cui coesistono con gli altri attributi da cui queste realtà concrete sono co- stituite, e perciò, considerandoli isolatamente, noi li a- straiamo^ cioè li separiamo dagl'insiemi di cui essi fanno parte. Ma poiché ciascuno coesiste con altri, esso esiste pure per se stesso, perchè le cose che coesistono devono avere ciascuna una esistenza per se stessa. La bianchezza dell'oggetto bianco, l'umanità dell'uomo, la corporeità del corpo, ecc. sono dunque delle cose reali, (juantun- que astratte, che si trovano nell'oggetto bianco, nell'uo- mo, nel corpo, ecc, e ne fanno parte, come il mio brac- cio o la mia testa si trova nel mio corpo e fa parte di esso. xMa come il mio braccio o la mia testa ha un'esi- stenza per sé distinta da quella delle altre parti del mio corpo con cui coesiste, così la bianchezza, 1' umanità, ^. la corporeità, ecc. hanno ciascuna un'esistenza per sé, distinta da quella degli altri attributi degli oggetti bian- chi, degli uomini, dei corpi, ecc, con cui coesistono. L'a- stratto, in una parola, non è nn termine uè un semplice concetto, ma un essere reale; e il concreto non è la realtà unica, ma una realtà di secondo ordine, un composto, i cui elementi sono degli esseri astratti. 2" Gli attributi comuni dei diversi individui non sono semplicemente si- mili, ma identici: ciascun attributo generale è un essere unico, non vi hanno altrettante entità quanti sono gli individui in cui si trova (juest' attributo. P. e. uou vi hanno altrettante bianchezze astratte quanti vi hanno oggetti bianchi, altrettante umanità astratte quanti uo- mini, altrettante corporeità astratte quanti corpi, ecc. Vi ha una sola Hianchezza (il bianco «^esso per se stesso) j una sola Umanità (l'uomo stesso), una sola Corporeità (il corpo «^e««o), ecc., che esiste niìmiìtannsLìnente, senza moltiplicarsi e senza dividersi, in tutti gli oggetti bianchi, in tutti gli uomini, iu tutti i corpi, ecc Se tutti gli oggetti bianchi o tutti gli uomini o tutti i corpi sono egualmente bian- chi o uomini o corpi, se tutti si somigliano e portano lo stesso nome — in una parola se vi hanno nella natura delle classi, dei gruppi di esseri speci licamen te o gene- ricamente identici, —è perchè in tutti gli oggetli bian- chi « è presente y^ la stessa Bianchezza, in tutti gli uomini la stessa Umanitti, in tutti i corpi la stessa Corporeità, ecc., o, in allri termini, perchè tutti gli oggetti bianchi € partecipano » alla stessa Idea del bianco, tutti gli uo- mini alla stessa Idea dell'uomo, tutti i corpi alla stessa Idea del corpo, ecc. Ciascun'Idea è una in se stessa, ma sembra moltiplicarsi per la sua presenza simultanea in molti individui. (l)Ogni attributo generale è dunque una (1) Mep, 476 a. /T entità unica, che è presente allo stesso tempo in tutti gli oggetti che partecipano a quest'attributo. Se questo attributo è generale è perchè, essendo imo e lo stesso in se, si trova simultaneamente in molte cose; la parte- cipazione di queste molte cose a una stessa entità spiega perchè loro sia comune lo stesso attributo — Ma come Vuno può esistere simultaneamente nei molti, senza mol- tiplicarsi e senza dividersi ? È questa Tinconcepibilità da cui 1' interpretazione trascendentalista mira a salvare il sistema delle Idee. Ma questa inconcepibilità è una con- dizione necessaria del realismo dialettico, perchè (luesta metafica è una spiegazione delle cose in quanto unisce alla obbiettivazione dei concetti il metodo dialettico, e questo suppone che, dediicendo le Idee, si deducano le cose stesse, e quindi che il mondo delle Idee e quello delle cose non siano due mondi diversi, ma due aspetti diversi (V astratto e il concreto) sotto cui può conside- rarsi il mondo unico della realtà. Ciò che vuol dire, in altri termini, die le Idee non siano fuori delle cose (tra- scendenti), ina nelle cose stesse (/mma/ieHfj), che Vastratto non esista che nel concreto, e che il concreto non sia che r astratto stesso, a un grado ulteriore di determi- nazione. In opposizione alla interpretazione trascendentalista della più parte dei critici contemporanei, è sorta la in- terpretazione del Teichmuller, che è identica in sostanza aquella di Hegel. (1) Il vantaggio di questa interpretazione è che essa riconosce Vimmanema delle Idee, quantunque sembra che non metta sufficientemente in luce la loro sostanzialità, dalla quale sovratutto l'altra interpretazione deduce la trascendenza — deduzione, in un senso, logica, ma che sfigura la concezione platonica, e le toglie qual- (1) V. ChiappeUi L* interpretazione panteista di Platone. siasi valore filosofico. — Ciò che Hegel comprese esatta- mente è la stretta affinità del sistema platonico col suo proprio sistema. L'uno e l'altro sono costruiti sullo stesso tipo, sono delle varietà di una stessa specie, che noi chiamiamo realismo dialettico. Ma da questa identità spe^ ci/Ica Hegel conclude erroneamente a un'identità quasi assoluta. Egli pretende ritrovare in Platone gli elementi della sna propria dialettica, attribuendo anche a lui il principio dell'identità dei contrari, e gli fa ammettere pure la dottrina dell'identità dell'essere e del pensiero- ciò che è il motivo principale per cui il Teichmuller nega il significato evidente delhi immortalità dell'anima in Platone, cercando in essa il simbolo di quella dottrina, ch'egli non riusciva a trovare nell'autore in forma aperta e letterale. — La conseguenza è che a questa interpreta- zione sfugge, come a tutte le altre, il vero significato della dialettica platonica, e quindi il modo in cui Pla- tone spiega 1' universo, perchè la spiegazione causale delle cose, il loro modo essenziale di produzione, è, nel suo sistema come negli altri analoghi, il metodo dialet- tico (che è la legge stessa delh', cose e non un semplice mezzo che uìettiamo in opera per conoscerle). Un'interpretazione esatta della dottrina delle Idee ha bisogno di distinguere nettamente due parti, sino ad un certo punto indipendenti, (piantunque non senza legame fra di loro, della filosofia platonica. Questa filosofia con- tiene due spiegazioni del mondo, due risposte alla qui- stione del perchè. In un senso, la causa efficiente è, per Platone, Dio, cioè l'anima del mondo, e l'universo è spie- g.ato d'una maniera antropomorfistica. È un'applicazione del concetto immediato, spontaneo, della causalità effi- ciente. In un altro senso, la efficienza causale, la spie- gazione dell' universo, sta nel processo dialettico, cioè nel modo in cui le Idee procedono, o si deducono, pro- gressivamente le une dalle altre. È un'applicazione del- - 144 — l'altra fo^nia del concetto di causalità efficiente. Queste due spiegazioni coesistono armonicamente, senza mesco- larsi e senza turbarsi l'una con 1' altra. Vi ha un- Idea di Dio o dell' anima del mondo, come delle altre cose, e quest' Idea si spiega, come tutte le altre, per la sua produzione, al momento necessario, nella evoluzione e- terna del mondo delle Idee. Dio o 1' anima del mondo non è un'essenza spirituale nel senso moderno: è, come l'anima dell' uomo, esteso, in movimento continuo, e muove i corpi comunicando ad essi il proprio movimento. La dottrina dell' anima del mondo si le;ia col sistema delle Idee perchè questo contiene una spiegazione teleo- logica delle cose (l'Idea suprema, vale a dire più univer- sale, da cui le altre derivano, è l'Idea del bene, cioè pres- s'a poco, come vedremo, della finalità). Il legame più im- portante che ha con la dottrina delle Idee quella dell'a- nima umana, è l' ipotesi che le anime hanno intuiti» le Idee in una vita anteriore, e che la scienza (la quale è a priori) è perciò una reminiscenza. Non vi ha luogo di respingere il senso letterale, cercandovi invece un senso riposto, delle dottrine platoniche sulFanima, sia divina, sia umana (semimaterialità, preesistenza e immortalità, reminiscenza, ecc.\ si perchè sarebbe arbitrario, sì per- chè esse entrano perfettamente nell' ordine dei concetti dell'epoca. La dottrina della intuizione delle Idee in una esistenza anteriore, con la sua conseguenza, cioè che la conoscenza è una reminiscenza di quest' intuizione, è costruita essenzialmente sullo stesso tipo che le altre dottrine di una intuizione sovrasensibiìe ( Malebran- che, Gioberti, ecc.), e serve, come queste, a spiegare la coincidenza tra il pensiero e la realtà in una conoscenza indipendente dall'esperienza (l). Le dottrine platoniche (l)V.Saggio 1. e. 3. J 7. - 145 — sull'anima hanno dato luogo a delle interpretazioni in- compatibili col significato reale della dottrina delle Idee, di cui le più importanti sono : 1^ che Platone ha am- messo la dottrina dell' identità del pensiero e dell' es- sere, e che l'immortalità dell' anima, 1' intuizione delle Idee in un'esistenza passata e la reminiscenza non sono cliedei simboli di questa dottrina 2*^che l'anima del mondo è un'entità intermediaria fra le Idee e le cose, in modo che è i)er mezzo di essa e, per dir così, a traverso ad essa, che l'azione delle prime si esercita sulle seconde 30 che Dio è identico all'Idea suprema (l'Idea del Bene) o al complesso di tutte le Idee. Noi esporremo le dot- trine di Platone sull'anima e la divinità, e discuteremo queste interpretazioni, in un Supplemento alla fine del volume. Vi hanno dei punti, nel sistema delle Idee, che non si riattaccano ai principii fondamentali di questo sistema (cioèall'obbiettivazione dei concetti, e al legame logico introdotto fra i concetti obbietti vati per assimilare il rap- porto tra il principio e la conseguenza a quello tra la eausa e l'effetto), e di cui anzi alcuni sono in contrad- dizione con le loro conseguenze più naturali. Tali sono le dottrine: 1» che le idee sono numeri; 2^ che esse co- stituiscono le sole /orme delle cose, ad esclusione della materia-, ^^ che le Idee e tutti gli esseri risultano da due principii egualmente primitivi, 1' uno formale e l' altro materiale, 4t^ che le entità matematiche formano una terza classe di esseri, intermediari fra le Idee e le cose. In un altro Sup[)leinento alla fine del volume daremo l'inter- pretazione di queste dottrine, e cercheremo i motivi su cui sono fondate. Il sistema di Platone ci occuperà assai più largamente che qualsiasi altro. È ciò che non ci sembra inoppor- tuno, sì per l'influenza eccezionale ch'esso ha esercitato 10 V - 146 - nella storia del pensiero amano, sia direttamente, sia per l'intermediario della filosofia aristotelica (1), sì per le controversie a cui ha dato luogo la sua interpretazione. La quistione più controversa, quella deW immanenza o trascendenza delle Idee, per non interrompere con una argomentazione troppo prolissa il corso della nostra e- sposizione, la tratteremo in un altro Supplemento. In questo capitolo parleremo solamente della dialeiilca, mostrando in che consiste e come essa sia una spiega- zione delle cose, e indicando le prove che giustificano il nostro modo d'interpretarla. § 8 La teoria della conoscenza di Platone è un apriorismo il più radicale. I sensi non sono, secondo lui, una sor- gente della conoscenza, sono anzi per essa un ostacolo. 11 corpo è un impedimento all' acquisto della scienza, quando viene associato a questa ricerca. Se qualche cosa della verità può manifestarsi all'anima, è nell' atto del pensiero, quando essa non è turbata né dalla vista né dall'udito, ma racchiusa in se stessa e sciogliendosi per quanto è possibile da ogni commercio e da ogni contatto col corpo, aspira a conoscere ciò che é. Non è per mezzo degli occhi o degli altri sensi che si perviene a scoprire le "essenze delle cose, ma bisogna per ciò applicare il pen- siero stesso all'oggetto che si considera, € non associando agli atti della ragione né quelli della vista né quelli di aìcun altro senso, ma impiegando il pensiero puro nella ricerca della pura essenza di ciascuna cosa. )» (2) La (1) V. § 2» p. 46 e seg. (2) Fedone 65 a.— 67 a. Il dialettico senza l' aiuto degli ocelli né degli altri sensi si eleva alla conoscenza dell'essere per la sola forza della verità (Rep, 537 d), o in altri termini, per la ragione sola (Rep. 532 a-b). V. a Fedone 82 e-83 b, Rep, 511 b-c. eco. - 147 >- fe scienza é dunque il prodotto della spontaneità dello spiri- to- questo non deve ceicare la verità al di fuori, ma in se stesso: perciò Platone dice che il movimento dell'intel- ligenza é, come quello dell' universo, in se stessa e da se stessa. (1) Di là la maieutica che egli attribuisce a Socrate: questi non fa che aiutare il parto dell'idea, se l'int^erlocutore è fecondo, ed è evidente che quelli che tirano profìtto dalla sua conversazione, non imparano niente da lui, ma ritrovano in se stessi delle conoscenze che già possedevano, e eh' egli trae dalle viscere della loro anima (2). Per conoscere tutto il di vino— Platone chiama divino tutto ciò che è sovrasensibile e quindi anche le Idee —basta guardare dentro se stessi, nella propria intelligen- za (3). La sapienza è una virtù insita nell'anima, non é come le altre virtù dell'anima e del corpo, che soprav- vengono per 1' esercizio e 1' educazione : Y intelligenza somiglia all' occhio; come questo non può non vede- re, quando è rivolto verso gli oggetti rischiarati dal- la luce, COSI quella non può non intendere quando è ri- volta verso l'intelligibile, cioè verso l'essere realmente esistente (4). In certo modo la scienza di tutto ciò che esiste ci è innata, quantunque non ne abbiamo coscienza (5): e ciò (1) Tim. 34 a. 40 b, 8!) a. (2) Teeieto 149 a — 151 d. (3) Alcih 1. 133 b-c. (4) Rep. 518 b — 519 b. — L'ultima proposizione è una con- seguenza evidente dell' apriorismo, ed è facile di trovare delle proposizioni simili negli altri filosofi aprioristi. V. p. e. Cartesio Jiieerca della verità per il lume naturale (Opere pubblio, da Cousin voi 11. pag. 334), Malebranche Rieerca della verità 1. 6. e. 1, Leibnitz iV. S, sulVint, uni. 1. 4 e. 13 $ 1, ecc. (5) Aristot. Mei. 1. I. IX. 28. V. anche (oltre i luoghi che cite- remo in seguito sulla reminiscenza) Politico 277 d — 278 e : noi conosciamo naturalmente tutto, ma come in un sogno; acquistare una conoscenza nuova è passare dal sogno alla veglia. -«r-*" — 148 - che si dice imparare non è in realtà che ricordarsi dì ciò che già si sapeva. Ciò die h) prova è che tutti gli uomini, se sono bene interrogati, trovano tutto da se stessi: che s'interroghino su delle ligure di geometria o su di altri oggetti simili, e vsi vedrà che è così (l . E in- tatti Socrate nel Menone si rivolge Jid un giovane schiavo^ e lo conduce, per mezzo di convenienti interrogazioni, a scoprire che, per avere un (juadrato dop])io di un altro, bisogna elevarlo sulla diagonale di quest'nltro. È mani- festo, dice Socrate, che è da se stesso che lo schiavo scopre questa verità, e che egli non gl'insegna niente, ma si limita a interrogarlo sulle sue proprie opinioni: le inter- rogazioni di Socrate non fanno che risvegliargli ciueste o- pinioni, che già si trovavano in lui, e che, così risve- gliate, divengono conoscenze. «Così egli conosce senza a- vere imparato da alcuno, tirando la scienza dal suo pro- prio fondo Ed egli farà lo stesso per le altre parti della geometria e per tutte le altre scienze » i2). La dottrina della reìnitiiscenza contiene evidenteniente due proposizioni distinte: l'una è hi costatazione di un preteso fatto psicologico (che non è che una generaliz- zazione illegittima di ciò clie Platone ha osservato nella geometria), cioè che lo spirito tira la conoscenza dal suo proprio fondo, o in altri tninini, che la conoscenza è a priori; V altra la spiegazione di (luesto fatto, cioè che ranima ha contemplato le Idee in una vita anteriore, e che è ])erciò che l'intelligenza in questa vita attuale jmò riprodurre a priori l'intelligibile (3). Di queste due pro- posizioni, noi non dobbiamo per ora fare attenzione che (1) Fedone 72 e — 73 b. (2) Meno. 81 o — 86 b. (3) V. Menoue 81 <; — 8(> 1». Fedone 72 e — 77 b, Fedrj 21«— 250, ecc. — 149 — alla ])rima: della seconda ci occuperemo in seguito, mo- strando che la spiegazione platonica è costruita essen- zialmente sullo stesso tipo che le altre ipotesi dei tilosotì aprioristi per cui essi hanno cercato di spiegare questa inverosimile coincidenza che la loro dottina stabilisce fra il pensiero e la realtà. § 9. Una teoria della conoscenza empirista ha per cor- relativo il metodo induttivo; una te<u'ia della conoscenza ^ipriorista, il metodo deduttivo. Cosi è questo il metodo inculcato da Platone. Si deve, in ogni ricerca, stabilire un principio, e poi farne derivare tutto il resto (1). Se vi ha bisogno, quindi, di giustiiìcare una proposizione, lo si fa derivandola da qualche proposizione superiore, e questa ancora da un'altra, e continuare così sinché si arrivi ad un princii^io che ci sembri sufficientemente so- lido (2). Ciò che distingue la scienza daWopinione vera, (1) Crai. 436 d: « In ogni cosa ò sul principio che ciascuno deve portare una lunga attenzione e un lungo esame, per vedere se esso è stato ben posto o no : dopo averlo esaminato sufficiente- mente, bisogna che tutto il resto sembri derivarne». Nel Fedone 100 a è così che descrive il metodo ch'egli segue dacché ha sco- verto la dottrina delle Idee : « supponendo sempre il principio ohe mi sembra più valido, tutto ciò che mi sembra più valido, tutto ciò che mi pare essergli coìiforme lo ammetto come vero. e così fo sia ohe si tratti della ricerca delle cause, sia di qual- 8ia8i altro oggetto ; tutto ciò che non gli è conforme lo rigetto come falso. > (2) Fedone 101 d-e (dopo aver detto che le cose sono belle per ]*Idea del bello, grandi iier l'Idea del grande, ecc.): «se dovessi rendere ragione di quest' ipotesi (cioè dell' Idea del bello, o del grande, ecc.), non lo farai allo stesso modo, ponendo ancora u- u' altra ipotesi, quella che ti parrà più conveniente tra i prin- cipii superiori, finché perverrai a qualche cosa di sufficiente ? E discutendo del principio (cioè della proposizione ultima da — 150 — è che nella prima abbiamo anche la conoscenza del per- chè, della ragione di ciaftcuna proposizione; nella seconda conosciamo la proposizione, ma senza il perchè (1). Vi ha, in verità, un altro carattere distintivo, anch' esso importante: è che l'opinione, anche vera, è sempre in- certa ed ondeggiante, mentre la scienza è immutabile (2). Ma questo secondo carattere non è che una conseguenza del primo. Menone è sorpreso perchè si faccia più caso della scienza che dell'opinione vera, e perchè siano due cose differenti. Socrate risponde : « Le opinioni vere, sinché restano ferme, sono una bella cosa e producono ogni sorta di vantaggi; ma esse non consentono a restare f^rme lungamente e fuggono dall'anima dell' uomo; di- modochè esse non sono d' un gran pregio, a meno che non si leghino per il ragionamento tirato dalla causa. cui le ipotesi saranno state dedotte ) e delle cose che se ne deducono, non ti guarderai di confondere tutto insieme, come fanno gU antilogi, se vorrai giungere alla scoverta di alcuno degli esseri?» Platone chiama ipotesi una proposizione, anche la più certa, sinché non è stata dedotta. (Confr. Bep. .509 d-511 e 533 a — 534 a, luoghi che citeremo in seguito.) Le ipotesi di cui sì tratta qui' (come nei luoghi della Bvpiihhliea) sono delle propo- sizioni che pongono l'esistenza di qualche Idea; così il precetto di Giustificare una proposizione, deducendola da altre superiori, non si applica qui che a tali proposizioni (Platone vuole ohe si deducano da altre ponenti delle Idee superiori — cfr. gli stessi luoghi della Repubblica). Ma noi abbiamo il dritto di generaliz- zare questo precetto, perchè, come vedremo, la scienza, nel senso rigoroso del termine, consiste appunto per Platone in un in- catenamento di tali proposizioni e i principii da cui esse si de- ducono. (1) V. Tim. 28 a, 51 d — e. Conv. 202 a, eco. (2) V. Tim, 51 d — e, Meno, 98 a, ecc. — 151 - I Questo è ciò che sopra (1) abbiamo chiamato reminiscenza. Queste opinioni cosi legate divengono dapprima scienze, e poi stabili. Ecco come la scienza è più preziosa della opinione vera, e con»e essa ne differisce per Fincatena- mento»(2). 11 carattere essenziale della scienza è dunque secondo Platone Fincatenamento deduttivo delle propo- sizioni. Le parole del luogo citato che abbiamo scritto in corsivo, ci mostrano inoltre il rapporto tra il metodo deduttivo e Papriorismo di Platone. Se la deduzione non è altra cosa che la reminiscenza, siccome questa implica il principio che lo spirito tira la scienza dal suo proprio f(mdo » o in altri termini che la conoscenza è a priori, ne segue, da una parte, che la coooscrjnza a priori di Platone non è che una conoscenza che si produce per la deduzione pura, e da un'altra parte, che la deduzione platonica è un metodo a priori, vale a dire che il suo punto di ymrtenza non sono delle proposizioni induttive e sperimentali, ma dei principii evidenti per se stessi. Questo risulta del resto da tutte le altre prove dell' a- priorismo di Platone. Il metodo platonico non è dunque solamente deduttivo, ma dimostrativo. Platone, corne tutti i filosofi aprioristi, eleva il metodo geometrico a metodo universale della scienza. Noi abbiamo osservato nel pa- ragrafo precedente che, nel Menone, la dimostrazione geo- metrica è il dato di fatto, da cui Platone conclude il princìpio generale che la scienza è a priori, e quindi la dottrina della reminiscenza. (i 10. Una conseguenza e al tempo stesso un indizio dell'apriorismo è l'importanza capitale, quasi esclusiva, attribuita al metodo. È ciò che si vede in Cartesio, in (1) Meno. 81 e — 86 b, luogo citato nel paragr. precedente. (2) Menone 98 a. — 152 -- Hegel e, in uua parola, in tutti i filosofi aprioristi. Pla- tone non fa eccezione. Egli designa il proprio metodo col nome di dialettica. In un senso lato, la dialettica è V arte d' interrogare e di rispondere (l;— Platone, con tutta la scuola socratica, vede nel dialogo la forma na- turale d'investigare la verità (2j— .In un senso più ri- stretto, è il metodo per arrivare alla conoscenza delle essenze delle cose, delle Idee (3). Ma tale è l' impor- tanza del metodo in questo sistema, che la stessa parola dialettica serve ad indicare la scienza degli oggetti stessi su cui versa questo metodo, cioè la scienza del mondo ideale (4). Un altro carattere che Platone ha in comune con tutti i filosofi radicalmente aprioristi, è che per lui la filosofìa non è una scienza, ma tutta la scienza. La dialettica, egli dice, è la scienza che conosce tutte le altre scienze (5). Queste non fanno che apprestare i ma- teriali alla dialettica ; è essa che mette in uso le loro scoverte (6). 11 filosofo ama la sapienza, non in tale o tal altra delle sue i)arti, ma tutta intera (7), e non me- (1) V. Oratilo 390 e, Bep. 534 à, eec. Verso hi fine del VII della Bcp. (537 e-539 d) Platone lamenta gV inconvenienti deUo studio della dialettica quale viene insegnata ai suoi giorni. In questo luogo sono compresi in un concetto comune e desi- gnati con gli stessi termini il metodo proprio dell'autore e l'arte della discussione che insegnavano i sofisti. (2) Il pensiero stesso è, egli dice, un dialogo dell'anima con sé stessa, in cui essa s'interroga e si risponde. Teet, 189 e-190 a. Cfr. Sof, 263 e, 264 a. (3) V. liepuhhl., fine del lib. 6o e lib. 7^, (4) V. Fileho 57 e-59 d, Bep, 511 e e 531 d-535 a. Nel ^V fista 253 c-254 a la dialettica è identificata alla filosofia. (5) FU. 57 e — 58 a. (6) Eìitid. 290 e. (7) Bep. 475 b. — 153 — rita questo nome se non colui che mostra del gusto per ogni sorta di scienze, clie vi si dà con ardore, e che è in- saziabile d' imparare (1) Bisogna dunque che il dialet- tico abbia un'anima che aspiri, sin dai primi anni, al possesso di tutta la verità (2), e ad abbracciare nella loro universalità le cose divine ed umane, contemplando tutti i tenii»i e tutti gli esseri (8); ed è nella sua natura di ricercare le essenze di tutte le cose, o, per usare la espressione stessa di Platone, V essenza tutta' intera, senza rinunzi ire ad alcuna delle sue parti (4). In verità r oggetto della tìlosoMa, o della dialettica, non sono i fenomeni, ma S(»lamente le Idee (5) : ma la scienza non è che delle Idee, dei fenomeni non vi ha che opinione — perchè la scienza è dell' universale, e V universale è ridea (6) -; così, siccome l'oggetto della filosofia o della dialettica non è una parte, ma la totalità, del mondo ideale, essa è, malgrado ciò, la scienza universale. Questa universalità della filosofia deriva dall' essenza stessa della metafisica apriorista, della stessji maniera che r importanza attribnita al metodo. Gli altri sistemi metafisici consistono a dare una spiegazione dei fe- nomeni, introducendo degli agenti ipotetici posti al di là dei fenomeni stessi ; e in questi sistemi, la fi- losofia non è propriamente che la teoria di questi a- genti ipertìsici.e della loro azione sul mondo rea^ le (7). Ma che un metafisico apriorista trascenda o no il (•) Ivi, 475 e. (2) Ivi. 485 d. (3) Ivi, 486 a. (4) Ivi, 485 b. (5) Ivi. 475 e-480 a. (6) V. Supplem. suU'imnian. delle Id. plat. (7) P. e. Aristotile identifica la scienza prima con la teologia. V. Mct. 1. 6 e. 1. — 154 — — 155 - mondo reale, il processo essenziale della metafisica a- priorista è, in ogni caso, tutt'altro: il suo scopo è d'im- primere nel reale stesso il carattere della necessità e della razionalità, e il mezzo per raggiungere questo scopo un'elaborazione del sapere empirico per trasformarlo in un sapere a priori. Così in questa forma di metafisica la filosofia non si distingue dalle altre scienze per un con- tenuto proprio, ma per la forma, cioè per il metodo scien- tifico: il suo contenuto è quello delle altre scienze, che queste hanno prodotto con un metodo empirico, e ohe essa pretende riprodurre con un metodo a priori (1). Al- l'universalità della conoscenza filosofica questa varietà della metafisica apriorista che presentemente studiamo (cioè quella che al metodo a priori o dimostrativo unisce la realizzazione dei concetti) aggiunjre costantemente un altro carattere, cioè la sua sistematicità, il legame in- timo introdotto tra tutte le verità (2). Né anche su questo (1) CoDfr. i luoglii di ScheUiiig e Hegel citati nel cap. 6» (2) Citiamo anche qui Schelliug: «l'idea deUa scienza assoluta, incondizionale, che è assolutamente una, e nella quale ogni scienza è pure necessariamente una, di questa scienza prima, che non si divide in più rami che per corrispondere ai diversi gradi del mondo ideale visibile, e si sviluppa nell'albero incommensurabile della conoscenza p. « Ogni pensiero che non è stato pensato in questo spirito dell'unità e dell'universalità è in sé vuoto e deve essere rigettato. Ciò che non è suscettibile d* essere compreso armoniosamente in quest' insieme organizzato e vivente è un» sostanza inerte che, secondo le leggi organiche, sarà, presto o tardi, espulsa » (Lezioni sul metodo degli studii accademici, 1^) Ed Hegel : « I^ scienza dell' assoluto è necessariamente siste- matica... essa deve, in altri termini, formare un insieme di co- noscenze legate strettamente fra di loro » € Una tìlosofia ohe non riposa sopra una conoscenza sistematica non costituisce una scienza, ma piuttosto una forma, una maniera di sentire indivi- ì punto Platone fa eccezione: « Ogni specie di figura, ogni costituzione di numero, ogni ragione d^armonia e di ri- voluzione degli astri, tutte le cose devono manifestare il loro mutuo accordo a chi imparerà secondo il vera metodo, e lo manifesteranno se chi impara guarda al- l' unità, perchè la riflessione gli scoprirà un legame unico che unisce naturalmente tutte le cose » (1). Non si può conoscere la natura d' una cosa sola, per esempio dell' anima o del corpo, senza conoscere la natura di tutto l'universo {2\ Così, nel suo piano di e- ducazione tracciato nella Repubblica. Platone prescrive che lo studio delle scienze, affinchè non sia un lavoro inutile, pervenga ai loro punti di contatto e alla loro pa- rentela reciproca, e le comprenda nella loro affinità (3); duale e contingente quanto al contenuto. Una conoscenza non è giustificata che quando essa è il momento di un tutto, in fuori del quale non è che un' ipotesi o un'opinione soggettiva. » (In- irod. alV Enciclopedia), Del resto questa unità sistematica, propria della elasse di metafìsici di cui parliamo, più che dalle loro dichiarazioni su ciò ohe deve essere la scienza speculativa, si vede dal modo in cui essi hanno cercato effettivamente di realizzarla. Rimandiamo anche perciò a quello che abbiamo detto in questo capitolo su Taine e a quello che diremo su Spinoza. (1) Epinom. 991 e— 992 a. Cfr. FU. 18 e. Ivi, per illustrare il metodo dialettico, è proposta come esempio l'invenzione delle lettere: dopo aver distinte le varie lettere e riunitele in generi, e riuniti questi generi in uno solo (come vedremo che fa la dia- lettica per le specie di tutti gli esseri), l'inventore delle lettere,. € vedendo che nessuno potrebbe apprenderne una sola separata- mente e senza a]»prenderle tutte, ne immaginò il legame come unico e faciente di tutte qualche cosa di uno, e l'arte rispettiva chiamò, col nome d'un 'arte unica, grammatica)». (2) Fedro 270 e. (3) Rep, 531 d. \ — 156 — e elle, dopo che sono state studiate isolata niente, siano presentate nel loro complesso, perchè sia compresa, in una vista d'insieme, « l'affinità di queste scienze fra di loro e della natura dell'essere ». Questa è la prova mi- gliore per distinguere da ogni altro l'ingegno dialettico; chi è idoneo a una vista d'insieme è dialettico, gli altri no (3). Il legame di tutte le verità fa che, datane una, noi possiamo, senz'altro, ritrovare tutte le altre. « Tutta la natura essendo aflìne, e l'anima avendo appreso tutto, niente impedisce che alcuno, ricordando una cosfi sola, ciò che gli uomini chiamano imparare, ritrovi da se stesso tutte le altre, purché abbia della costanza, e non desista dalla ricerca : ricercare infatti e imparare non è altro che ricordarsi )> (1). In altri termini, tutte le cose es- sendt) legate fra di loro, il ricordo di una sola può ri- chiamare tutte le altre — il jiassaggio da una conoscenza ad un'altra è identificato all'associazione delle idee, per cui un ricordo suggerisce un altro ricordo. — ^la questa reminiscenza non è, come abbiamo visto, che la dedu- zione. (2) Così noi comprendiamo in che consista questo leiranu^ naturale che unisce tutte le cose : è un legame loirico. che deve incatenare tutte le conoscenze, deduceu- dole da un principio unico. § 11. Per formarci un' idea più precisa del metodo platonico, cioè della dialettica, noi dobbiamo paragonarlo col metodo matematico. È ciò che fa Platone stesso nel 6'^ e 7« della Repubblica. A questo riguardo noi abbiamo già osservato che (questi, come in generale tutti i meta- fìsici aprioristi, ha immaginato il suo metodo filosofico — 157 - sul tipo di quello delle matematiche — le sole, tra le siiienzc costituite, che siano puramente deduttive. - Una conferma di questa osservazione è che egli vede nello studio delle matematiche una preparazione indispensa- bile a quello della dialettica (l). Esso ne è \ii propeden- dea (2) o il preludio (3): è esso die rende utile, da inutile che era, la facoltà dell'intelligenza (4); che purifica e ria- nima l'organo della verità, acciecato e quasi estinto dalle altre occupazioni della vita (5); che libera l'anima, im- prigionata nella caverna dei sensi, e la fa ascendere nella regione superiore (6); e che la volge, dalle tenebre ov' era immersa, verso la luce dell'essere e del vero (7)* Infatti, l'intelligenza essendo come l'occhio, che non può non vedere quando è rivolto verso la luce (8;, l'impor- tante è di farla volgere verso la verità, di dirigerla bene in modo che guardi là dove bisogna guardare (9): questa evoluzione ('J£(>^«/^^>//;) dell'intelligenza è l'opera delle matematiche. Questo rapporto fra la dialettica e le matematiche è espresso da Senocrate con una frase un po' volgare ma incisiva, chiamando queste i manichi della Jìloso/ia (lU). Fra le scienze che costituiscono la propedeutica delhi dialettica, vengono contatta, oltre le mateaiaiiche pure, cioè il calcolo (la logistica) a la geo- (3) Kep. 537 e. (l) Meli. 81 d. (1) V. Men. 98 a, 1. <*it. nel punip:. prec. (1) ICep, lil>. VII. (2) liep. 586 (1. (3) Hep, 531 ti, 532 ti. (4) liep. 530 e. io) 527 d — e. (G) 532 h — e. (7) 521 e. (8) V. pjiragr. 8. (9) 518 b — 519 b. (10) V. Diog. Liiert. IV. 10. inetria, anche alcuno che possiamo riguardare come ma- tematiche applicate, cioè l'astronomia e V armonia. Ma queste scienze hanno valore sopratutto, per Platone, come esercizi ed applicazioni delle matematiche pure; •egli vuole che si studino, non tanto per la conoscenza dei fenomeni reali, quanto per i problemi matematici a cui dà luogo la considerazione di questi fenomeni (1). Il pensiero di Platone è, al fondo, che solo le matematiche possono svegliare il bisogno della conoscenza filosofica— contraddistinta da questi due caratteri: l'universalità e astrattezza dell'oggetto, e il metodo dimostrativo — e al tempo stesso darne anticipatamente un modello, quan- tunque imperfetto. Questa seconda proposizione è tanto vera, che Platone divide l'intelligibile in due parti, l'una che è l'oggetto della matematica, e l'altra della dialet- (1) Bep. 529 (1 — 530 e ^V. questo luogo e la sua interpieta- zioue nel Suppletn. stili' imman. delle Idee, parte 2. u. Ili sulla fine). Evidentemente Platone riguarda lo studio delle mnteuia- tiche applicate (astronomia e armonia) come un accessorio di quello delle matematiche pure (geometria e logistica). Così quan- do vuol dare un' idea generale dei processi delle discipline che formano la propedeutica della dialettica, egli non descrive che quelli della logistica e, sopratutto, della geometria (Hep, 510 b- 511 a); e volendo indicare tutte queste discipline nel loro insie- me, non fa espressamente menzione che della sola geometria, o della geometria e della logistica, considerandone le altre C(mie un -accompagnamento. Così a 510 e: « la geometria, il cailcolo e simili »; a 511 b: « la geometria e le ani sorelle »; a 511 d: «T abito delle co- se geometriche e delle cose simili »; a 533 e: « la geometria e le ar- ti seguaci •>; a 536 d : « il calcolo, la geometria e tutta la prope- •deutica della dialettica. » Come si vede, la geometria prende il passo sulla logistica: è perchè è la prinui che otfre più spiccato ciò che per Platone è la caratteristica della vera scienza, cioè l'incatenamento deduttivo. tica, e considera la prima come un'immaginazione della seconda (1). Noi diremmo ciie il modello è la matema- tica, e la dialettica l'immagine; ma Platone inverte la relazione. Com'egli chiama le cose immagini delle Idee, che egli ha immaginate sul modello delle cose, così chiama il metodo matematico immagine della dialettica, ch'egli ha immaginata sul modello del metodo matematico. $ 12. Veniamo ora alle dift'ereuze fra il metodo mate- matico e il metodo dialettico. Perciò faremo parlare Pla- tone stesso: KEP. 509 D Socrate: Abbi dunque due specie di og- getti^ il visibile e l'intelligibile.... E come prendendo una linea divisa in due parti i- neguali, dividi ancora secondo lo stesso rap- porto ciascuna di queste due parti, quella del visibile e quella dell'intelligibile, e giusta la chiarezza e l' oscurità relative, per una delle parti del visibile avrai le immagini (2). E Chiamo immagini prima le ombre, poi i fau- 510 A tasini rappresentati nelle acque e sulla su (1) V. Bep. 515 e — 516 b, 532 a-c, e confr. il Suppl, C. £nt. matem., nota ultima, sulla line. (2) Platone rappresenta la totalità degli oggetti della cono- scenza per una linea divisa in due parti, di cui l' una rappre- senta la parte piìi chiara e l'altra la parte più oscura di questi oggetti, cioè l'una l'intelligibile e l'altra il visibile; e vuole che ciascuna di queste due ])arti sia suddivisa secondo lo stesso rap- porto secondo cui è stata divisa la totalità, cioè in modo che l'una delle due suddivisioni del visibile, e di quelle dell'intelli- gibile, sia altrettanto più chiara dell' altra quanto tutto l'intel- ligibile è più chiaro di tutto il visibile. La suddivisione meno chiara del visibile saranno le immagini. - 160 - B C perfìcie dei corpi opaclii, lisci e brillanti, e tutte Te altre rappresentazioni di questo ge- nere.... Per l'altra parte poni gli oggetti cìie (|ueste immagini rapjiresentauo, cioè gli a- nimali, le piante e tutti i prodotti della natura o del Parte.... Se vuoi, <liremo ancora elle la divisione è stata fatta secondo il rap- porto del vero e del non vero, di (piesta numiera: come V opinabile (cioè il visibile) è al conoscibile (cioè all' intelligibile) così V immagine è «illa cosa (1).... Vediamo (ua come si deve dividere rintelligibile ... Una parte di esso l'anima è costretta «l'investigare servendosi come <l' imm.igini degli oggetti che già sono stati divisi, e partendo da i- potesi, non per risalire al principio, ma per discendere alla conclusio^le ; 1' altra parte, andando dalle ipotesi al princii)io che non è un' ipotesi, e stMiza servirsi di immagini come fa per la prima, procedendo unicameiì' te con ldce> per via di Idee (avio'tg eìòeni <h^ avKhy tì]t^ ^iHoihìy lotovutyr^) Tu sai infatti che (|uelli che trattano la geo- metrìa, la logistica e altre arti simili, sup- ]»oiigono il pari e l'imj>ari e le ii.rure e tre specie di angoli e altre cose simili secondo (1) Vale a dire la proporzionalità fra le due parti del visibile o dell'intelliccibile, paragouate tra di loro, e il visibile e rintelligibile, parasjonati riino con l'altro, sunsisterà ancora, se invece di para- gonare questi oggetti per il grado della loro evidenza^ si para- goneranno per quello della loro realtà: le cose sodo altrettanto più reali delle immagini quanto rintelligibile lo è del visibile. D E 511 A B ciascuna arte, e che supposte queste cose come conosciute, non credono dover darne ragione né a sé stessi uè agli altri, come di verità manifeste per t«itti; e che infine, par- tendo da queste ipotesi, discendono logica- mente, di proposizione in proposizione, sino alla conclusione che si erano proposti di di- mostrare.... Tu sai pure ch'essi si servono di figure visibili, e ragionano sopra di qué- ste, ma dirigendo il pensiero, non ad esse, ma a quelle di cui esse sono le immagini, facendo le dimostrazioni, p. e., in grazia del quadrato litesso e della diagonale stessa (cioè delle Idee), ^ non del quadrato e della dia- gonale che essi disegnano, e così per tutte le altre figure, sicché essi usano come d'im- magini delle figure che disegnano, e delle quali vi hanno pure le ombre e le immagini nelle acque, cercando di contemplare quelle altre figure che non si possono contemplare che con la ragione (r?j ^la^oia),,,. Io ho chia- mato questa una parte dell'intelligibile, ma ho detto che nella sua investigazione 1' a- nima è costretta a servirsi d' ipotesi, non andando al principio, poiché non può ri- salire al di là delle sue ipotesi, e a fare uso come d'immagini delle cose stesse che alla loro volta hanno per immagini altre cose inferiori, in paragone delle quali sono chia- mate reali e come tali state classate nella nostra divisione.... Per l'altra parte dell'in- telligibile io intendo quella che la ragione stessa attinge per la potenza della dialettica, le ipotesi non facendo principii, ma real- 11 D £ . - 162 — mente ipotesi, servendosene come di gradini e di punti di appoggio, sincliè pervenga a ciò che non è un' ipotesi, al principio del tutto {lov nayzóg)^ e attintolo e attaccandosi nuovamente (nàhy av) alle cose att.accate ad esso, discende così sino alla conclusione, senza fare uso assolutamente di alcun sen- sibili», ma solo di Idee, andando a:t Idee per via di Idee, e terminando ad Idee («Aa' eìi^eaiy aliolg ÓL^aviiby Big avià^ y.ai zeUvià u^ BuSr^. Glaucone. Comprendo, quantunque non ab- bastanza. Mi pare che tu dica qualche cosa di arduo ; ma in somma tu vuoi stabilire che la parte deli' essere e dell' intelligibile che si conosce per la scienza della dialettica, è più evidente di quella che si conose per quelle che chiamiamo arti, che hanno per principii delle ipotesi, e chi contempla i loro oggetti ò costretto certamente a con- templare con la ragione {dtayoia) e non coi sensi, ma poiché investiga non risalendo al principio, ma da ipotesi, non ti sembra a- vere intelligenza (yovà^) intorno a questi oggetti, benché col principio diverrebbero intelligibili. La facoltii delle cose geometri- che e simili tu la chiami, mi sembra, razio- cinazione {<Siàvoiay) e non intelli(jenza (^où/'), come se la rasiocinazione fosse qualche cosa d'intermedio tra V opinione e V intelligenza,'^ Socu. Tu mi hai compreso peifetta mente. Ora a quelle quattro parti di cui abbiamo parlato, applica queste quattro alfezioni del- l'anima : V intelligenza (yór^ai^) alla supre- ma, alla seconda la raziociiiazione, alla ter- %; -.ff - 163 - za la fede, e all'ultima V immaginazione {1); ordinandole secondo questo rapporto: quanto gli oggetti a cui si applicano partecipano del- la verità, altrettanto esse partecipano dell'e- videnza. » Kep. 533 B «Ninno certamente ci contesterà che il me- todo dialettico é il solo che cerchi di perve- nire, con un ordine dato (vó6} na^ù ;rarróg),alle essenze di tutte le cose; ma la più parte delle altre arti non si occupano che delle opinioni degli uomini e dei loro bisogni, o delle pro- duzioni e composizioni, o della conservazione delle cose prodotte e composte; le altre che abbiamo detto imrtecipare in qualche modo C all'essere, cioè la geometria e quelle che la seguono, sognano intorno all'essere, ma é im- possibile ad esse di vederlo in veglia, sinché, servendosi d' ipotesi, le lasciano immobili e non possono rendL-rne ragione. Quando infatti vi ha un principio che non si conosce, quan- d' anche la conclusione e le proposizioni in- termedie derivate da ciò che non si conosce siano ben legate fra di loro, come una tale dimostrazione potrebbe formare una scienza ? Solo il metodo dialettico procede per questa via, facendo risalire le ipotesi al principio per renderle ferme, e trae a poco a poco l'occhio D dell' anima dal pantano barbarico in cui é (1) Cioè y intelligenza jille Idee, la razioeinazione air iute 111- gi1»ile che »i conosce per le mateiuaticlie. la fede alle cose (alla realtà feuomeuale), e V immaginazione [eiy.adca) alle immagini {elxóyeg), \ — 164 - inimerso, e lo eleva nell'alto, serveudosi per ministri ed ainti delle arti di cui abbiamo parlato: le quali spesso, per l'abitudine, ab- biamo chiamato scienze, ma abbisognano di un altro nome, più chiaro dell'opinione ma più oscuro della scienza; noi sopra le abbiamo chiamato rmiocinazione, ma non è fra noi (luestione di nomi, occupandoci di cose tanto importanti... Chiamiamo dunque, come sopra^, E la prima porzione scienza^ la seconda razio- chiazione, la terza fede e immagi nazione la 534 A quarta; e le due ultime opinione, le due pri- me intelligenza {yóìjdit^): Vopinione intorno al divenire (ai fenomeni), V intelligenza intorna all'essere; e ciò che l'essere è al divenire, l'/'/i- telligenza è aìVopinione, e ciò che l' intelligen- za all' opinione, la scienza alla fede e la ra- siocinazione tiW immaginazione. » Fermiamo le proposizioni più importanti: 1.0 Vi hanno quattro forme di conoscenza, o meglio dì credenza, corrispondenti a quattro classi di oggetti che possono cadere sotto queste facoltà. Come le (juattro classi di oggetti (Idee, intelligibili matematici (1), cose, imnia- gini) formano una serie discendente secondo il grado della loro realtà, così le quattro forme di conoscenza (intelli- genza o scienza, raziocinazione, fede, immaginazione) for- mano una serie discendente secondo il grado della loro e- videnza. L' opinione, il cui grado più alto è chiamato fede e il più basso immaginazione, é, come sappiamo^ una proposizione empirica, cioè non dimostrata, ma fon- li) Per la qiiistione cbe cosa bisogoi intendere per la parte dell'intelligibile cbe si conosce con le niateiuaticbe, rimandiamo al Suppl. C. Ent. inat., nota tiniile. — 165 1-1 I data sull'induzione o l'analogia. La raziocinazione equi- vale al metodo motematico, l'intelligenza o Scienza alla dialettica (1). Sorvoliamo sulla corrispondenza che Platone pretende stabilire fra i termini delle due serie, la subbiet- tivae l'obbiettiva -concetto forzato e pieno d'incoerenze, <5 in cui l'autore stesso non ha potuto vedere niente di rigoroso (2)— e non facciamo attenzione che ad un punto, cioè che alla dialettica viene attribuita un'evidenza su- periore a quella della geometria stessa. L'evideuza della geometria, per cui essa supera le altre conoscenze (che Platone chiama opinioni), consistendo nel suo carattere di (1) Questa divisione delle forme della conoscenza, o della «redenza, fu ammassa, in sostanza, da Pbitone sino all' ultimo atteggiamento che egli diede alle sue dottrine, che è quello che noi conosciamo per l'esposizione di Aristotile. Essa coincide infatti con quella del De anima 1. 1. cap. 2. 7, salvo che qui la scienza, ohe nella Repubblica equivale all'intelligenza, occupa invece il seccmdo grado, corrispondendo alla (fidi^ota della Re- pubblica, e j'opinicne non viene suddivisa. Invece di ciò si ag- giunge un'altra forma, cioè la sensazione, che nella Repubblica manca, perchè la divisione non vi è fatta a un punto di vista psicologico, ma semplicemente logico. (2) Una proposizione generale, anche empirica (e chiamata per conseguenza da Platone un' opinione), dovrebbe riferirsi alla Idea, perchè il concetto generale secondo Platone ha per oggetto l'Idea (V. Suppl. B in fine del volume). Tuttavia la sua dot- trina costaate è che tutte le proposizioni empiriche, anche le generali, non hanno per oggetto che i fenomeni, il sensibile (vedi ^•wi.59c— d, FiL 59 a — b, ecc.)— L' applicazione deWimma- ginazione alle immagini non ha altra base che la relazione fo- netica fra le due parole [sUaaia^ eUcoy) Del resto un' idea simile si trova anche in Aristotile, che attribuisce wlU fantasia le apparenze illusorie degli oggetti (p. e. del sole come pedale— De Anima 1. III. III. 10). u I b - 166 — Bcieììza a priori e dimostraii va, la dialettica dunque è inù perfettauiente a priori e più perfettamente dimostrativa che la stessa geometria. 2.0 La dialettica è più evidente della matematica, perchè non è, come questa, fondata sovra ipotesi. P a- tone chiama ipotesi una proposizione che si ammette senza darne la dimostrazione (benché essa non sia assiomatica) (1). La proposizione più certa, se non è dimo- strata (e, ripetiamolo, se non è nemmeno assiomatica), non è dunque per lui i^\ieim^ ipotesi - non dimentichiamo che per dimostrazione bisogna intendere una deduzione pura, cioè le cui premesse ultime non sono induttive ed empi- riche, ma evidenti per se stesse - Le matematiche sono fondate sovra ipotesi, perchè esse non dimostrano resisten- za dei loro oggetti (cioè dei numeri, delle figure, ecc.). Pia- tone crede dunque che anche le matematiche pure siano scienze esistenziali: egli non ammetterebbe la tesi che io ho cercato di stabilire nel saggio 1. (e specialmente nel e 6.), cioè che le matematiche si distinguono dalie scienxe fisiche, perchè non hanno per oggetto che dei rapporti di somiglianza, e non affermano niente sulP esistenza delle cose. Platone pensa invece, comeDugald-Stewart e Stuart- MiU (2), che le matematiche abbiano fra le loro premesse (1) Noi abbiamo visto ch« anche Hegel ehiauia ipotesi ogni proposizione non dimostrata (nel luogo citato al parag. 10. - una conoscenza che non è un momento di un tutto, cioè del sistema, essendo precisamente per Hegel una proposizione "««/l»";*;^*^^^^ ta — )E lo stesso fa in altri luoghi; p. e. nella Lo</. § LXXVUl. « la scienza pone in principio il dubbio universale, cioè rigetta ogn' ipotesi, e non ammette se non ciò che è dimostrato ». (2) V Dugald-Stewart meni, della fil. dello spirilo umano t. 3. e. 2. .-.ez. 4. I e Stuart-MiU Logica 1. 1. e 8, 1. 2 e 5, ecc. Io ho parlato di questa dottrina nel Saggio 1. e 6. § 10 e e. 7. J 5. — 167 — certe proposizioni affermanti dei fatti fisici, cioè l'esistenza e le proprietà di certi oggetti, e, come questi filosofi, chiama queste proposizioni delle /j>o/es/. (1 ) In quanto alle mate- matiche applicate, non vi ha alcuna diflìcoltà a compren- dere perchè Platone dica che esse si fondano su ipotesi: egli non esprime così che questo fatto evidente, che i dati ul- timi su cui (pieste scienze riposano, sono stati trovati per l'osservazione e non per il ragionamento a priori. La dimostrazione dialettica si distingue duiiqae dalla dimostrazione matematica — e questa è la differenza che Platone mette più in vista— in ciò che solo la prima è una vera dimostrazione; cioè che solo essa respinge ogn' ipo- tesi, ogni dato empirico e continf/ente, e non ammette che bielle premesse razionali e necessarie, vale a dire o evidenti per se stesse o dedotte da altre evidenti per se stesse. /: (1) Ma in un altro senso, ('hiamaudole ipotesi, questi tilosotì vogliono dire che i fatti supposti da queste proposizioni sono, d'una maniera rigorosa, fisicamente irrealizzabili: per essi queste proposizioni nou souo, come per Platone, precarie, perchè sem- pliceniente empiriche, ma false. Per un verso anzi la loro opi- ni(me è diametralmente opposta a quella di Platone : per loro l'evidenza speciale delle matematiche è dovuta alla loro ipo- teticità; per questi, esse non sono abbastanza evidenti perchè ipotetiche. Per Platoue il carattere ipotetico delle matematiche ntui è che provvisorio: esso appartiene loro necessariamente in quanto scienze limitate; ma la loro «lestiuazione è di venire in- corporate nel sistema universale delle conoscenze, costruito dalla dialettica (V. FU, 57 e - 58 a, L\itid. 290 o, ii>ÌHom. 991 e — 992 a, luoghi citrati), e allora le loro ipotesi cesseranno di esse tali, perchè verranno ricondotte al principio (Rep. 533 e, luogo citato) E in eft'etto queste ipotesi nou suppongono, al fondo, che l'esistenza di certe Idee — perchè esse non souo delle proposi- zioni particolari ma universali — e la dialettica, come vedremo più chiaramente in seguito, deve dimostrare l'esistenza di tutte le Idee. — 168 — Tuttavia anche la dialettica, in un senso, parte da ipotesi. Noi sappiamo che la tilosotìa aprioiista non pretende far senza dell'esperienza, ma trasformare il sapere empirico in razionale, rivestendone il contennto della forma della ne- cessità e dell'a priori. Il punto di partenza del dialetticè dunque necessariamente l'esperienza, per conseguenza le ipotesi-, ma queste ipotesi egli si affretta a dedurle da altre ipotesi superiori, e queste da altre ancora, e così di se- guito, sinché arrivi a delle premesse che non siano più delle ipotesi, cioè, come abbiamo detto, a delle premesse razionali e necessarie. Allora la scienza si è fatta; la co- noscenza empirica si è trasformata in conoscenza a priori: e il dialettico può rifare il suo cammino in senso inverso, ritrovando sui suoi passi le sue ipotesi precedenti, nìa di- venute delle verità dimostrate, e salite a quel grado su- premo di certezza che è il privilegio delle projmsizioni ne- cessarie. Vi hanno così nel metodo dialettico due procedi- menti, di cui la via è una, ma di direzioni opposte: l'uno risale dalle ipotesi a ciò che le giustifica, cioè dalle con- seguenze ai principii, sino al principio primo — è il pro- cesso della scienza che si fa, e corrisponde a ciò che Schelling chiama la filosofia regressiva — l'altro discende dal principio primo alle conseguenze - è quello della scienza già fatta, e corrisponde alla filosofia progressiva di Schel- ling. — Il primo di questi processi è descritto a 510 B e a 533 C, e l'uno e l'altro a 511 B-C. (1) (1) A questi due processi si riferiscono pure i due luocrhi del Fedone citati nel $ 9., il primo (100 a) al discensivo, e V altro (101 de) aU'asoensivo. Però in quello il processo discensivo non è descritto nella sua totalità; Platone dice « e supponendo sem- pre il principio che mi semlu'a più valido » ecc.; la parola sup- ponendo (tnotìtutyo^)^ indica che il principio di cui qui si tratta non è il principio primo. àyvnóOeiog^ della Repubblica. Il metodo - 166 - 3.<* Quantun(|ue le proposizioni del matematico si rife- riscano, in definitiva, alle Idee, pure i suoi ragionamenti non volgono, inimediatamente, che sulle cose (cioè sopra oggetti particolari e sensibili), che sono come delle imma- gini per cui le Idee vengono rappresentate. La dialettica, al contrario, n »n volge, anche immediatamente, che sulle Idee stesse, e in tutto lo svolgimento della sua dimostra- zione non entra assolutamente alcun.a rapx>resentazione sensibile. Con questa distinzione fra il metodo matematico e il dialettico, Platone esprime due circostanze impor- tanti in cui l'uno differisce dall'altro. Primo: secondo il presupposto platonico che la conoscenza generale si rife- risce all'Idea, le proposizioni matematiche devono appli- carsi alle Idee (al triangolo in sé, al circolo in sé, alla de- cade in sé, ecc.); ma ciò non distrugge questo fatto d'e- sperienza, che esse possono anche intendersi, ed è così che sono generalmente intese, come enuncianti dei rapporti tra cose fenomenali. Invece, le proposizioni della dialet- tica non possono affatto interpretarsi come enuncianti delle relazioni tra fenomeni: ciò è perchè (come chiari- remo nel numero seguente) l'oggetto della dialettica non sono che dei rapporti logici tra le Idee, a cui non cor- risponde alcuna relazione simile tra i fenomeni. Secondo: la dimostrazione geometrica comprende due momenti ; nel primo, che è la dimostrazione propriamente detta, infatti di cui qui si tratta non è nn desideralum, c<mie nella Re- pubblica, ma è il metodo stesso che l'autore ha effettivamente seguito. Ora Platone non ha preteso, come Hegel, di dare il sistema universale e comjileto della scienza: il suo metodo egli non l'applica che d'una maniera frammentaria e in ricerche par- ticolari; e nel suoi saggi dialettici, come vedremo in seguito, i suoi punti di partenza sono dei pri:«cipii derivati, che egli non deduce, per conseguenza, delle ipotesi. - 170 la proposizione iiou si dimostra eia» della tigura indivi- duale che si ha d'innanzi agli occhi; l'altro èia genera- lizzazione, l'applicazione della stessa eonclusioue ad ogni altra figura che può essere enunciata negli stessi termini. Questo processo di generalizzazione non è una vera in- duzione, perchè se noi applichiamo la conclusione par- ticolare a tutte le altre figure, è semplicemente perchè sappiamo che Io stesso potrebbe dimostrarsi di qualun- que di queste altre. Nondimeno, come osserva il Bain (1), questo ricorso continuo a figure particolari dà ad una scienza puramente deduttiva, qual è la geometria, l'ap- parenza di una scienza induttiva e sperimentale (2). Ma Platone respinge dal metodo dialettico questa stessa apparenza di un metodo induttivo e sperimentale: il dia- lettico non deve « far uso assolutamente di alcun sen- sibile » (3), ma. come abbiano visto, « senza l'aiuto de- gli occhi uè degli altri sensi, elevarsi alla conoscenza del- l'essere per la sola forza della ragione e della verità. » (4). Qui cade a proposito di notare il legame intimo che vi ha, nel pensiero di Platone, tra le sue dottrine logi- che e gnoseologiche e la teoria delle Idee. La dialet- tica, e la scienza, che, nel senso rigoroso, è un suo si- nonimo, secondo Platone, non hanno per oggetto che le (1) Logica. Logica delle matematiche, Geometria. (2) All'epoca di Platone si ricorreva alle figure anche uell'a- ritim'tica. « Lungo tempo ancora dopo Platone, i Greci impiaga- vano, per le dimostrazioni teoriche, delle linee e delle serie di punti destinate a figurare ai lore occhi i numeri su cui ragiona- vano » (Tannory IMucazione plutonica, nella Rev. Philos. dicem- bre 1881). (3) Bep. òli C. (4) Eep. 532 a-b e 537 d. 1. e. al $ 8. — 171 - Idee (1). Ne segue che tutto ciò che Platone dice sull'a- priorità della scienza e il suo metodo deduttivo, noi dob- biamo applicarlo anzitutto alla scienza delle Idee — ed è ad essa, d'altronde, che si applicano, anche immedia- tamente, la più parte delle proposizioni, relative a questi due oggetti, che noi abbiamo citate ?iei paragrafi prece- denti. — La verità di questa osservazione è anche pro- vata dall'ipotesi metafisica che Platone pone per base al suo apriorismo, e dall'interpretazione ch'egli dà, confor- memenie a quest' ipotesi, del processo deduttivo. Io in- tendo parlare della dottrina della reminiscenza: questa dottrina consistendo essenzialmente nella supposizione che l'anima ha intuito le Idee in una vita anteriore, non spiega, almeno direttamente, che l'apriorità e il pro- cesso deduttivo della scienza delle Idee, vale a dire della dialettica (2). 4.® Le verità che il dialettico deduce le une dalle altre, non sono, a parlar propriamente, delle proposizioni, ma dei concetti — dei concerti 4)bbiettivati, cioè delle I,iee — È ciò che risulta da 510 B e ^ovratutto da 511 B-C. Si noti l'espressione 2)r///c/j>/o del tutto [rov nat^iòz)^ cioè dell'universo, designante la verità primitiva da cui tutte le altre si deducono: questo principio del tutto, e^ videntemente, non ha un'esistenza puramente mentale, ma obbiettiva; non è una semplice proposizione, ma un essere reale. Lo stesso risulta dal Fedone 99 d — 100 a e 101 d-e, il principio di cui si parla nel primo di questi luoghi essendo un' Idea come le ipotesi di cui si parla (1) V. oltre i due luoghi di cui ci occupiamo attualmente, TiiH, 28 a e 51 d, Parm. 135 b-c, FiL 58 a — 59 d e 61 d-e, Rep. 476 e — 480 a, ecc. (2) V. il num. seg. — 172 - nel 8ecoudo (1). Perciò la stessa progressione dialettica, €he Platone descrive come un' ascensione graduale da un' ipotesi a un' altra ipotesi superiore — cioè da una conseguenza a un'altra conseguenza meno remota — sino al principio primo che le giustifica tutte, è pure da lui descritta come un'ascensione graduale dalla contempla- li) Ecco iuteirraluiente il primo luo^o (cìi cui uel } 9'> nota prima è «tata citata ima parte;: « Credetti, dopo essermi stancato nella considerazione delle cose, che io dovessi guardarmi che mi ac- cadesse come a quelli che guardano un'ecclissi di sole: alcuni in fatti perdono la vista, se non guardano V immagine di que- st'astro nell'acqua o in un altro ambiente somigliante. Mi venne in pensiero qualche cosa di simile, e temetti di perdere la vista dell'anima, se io guardassi le cose con gli occhi o cercassi di co- noscerle con un altro senso qualunque. Credetti dunque di dover ricorrere alle ragioni (kóyovg^ che potremmo anche tradurre concetti), e guardare in esse la veritìi delle cose. Ma forse que- sta similitudine non -è interamente giusta, perchè io non accor- derei che colui che guarda le cose nelle ragioni guardi nelle immagini piuttosto che colui che le guarda nei fatti. Ma è questa la via per cui mi misi, e supponendo sempre la ragione UdyoA che mi sembra più valida, tutto ciò che si accorda con essa, pongo come vero — e così fo, sia che si tratti di cause, sia di qualsiasi altro oggetto — ciò che non si accorda, rigetto come falso. » Qui la parola Aó/og significa al tempo stesso concetto e ra- gione, e si applica alle Idee nell'uno e nell'altro senso: l'Idea infatti non è solamente un concetto realizzato, ma è anche un perche; le cose avendo il loro perchè nelle idee, e le Idee stesse in altre Idee piit elevate nella scala dialettica. (Anche Aristotile chiama Informa Uyo^, lua questo termine, in quest'applicazione, non può significare, per lui. che concetto). Al J 9, invece di ra- gione, ho tradotto, per più chiarezza, ptnncipio. Per il Fedone 101 d-e v. { 9. no^a 2. — 173 — zione d'un'Idea a quella di un'altra sino all'Idea ultima da cui tutto si deduce (1). Perciò ancora la dialettica ora è rappresentata come un metodo deduttivo puro che deve costituire la scienza universale, e ora come la ri- cerca dei concetti, o delle essenze, di tutte le cose ^2); e in effetto, percorrendo tutta la s.u'ie dei principi i e delle conseguenze, qualunque sia il termine della serie a cui si fermi, e la direzioni'; ascensiva o discensiva ^ in cui la percorra, il dialettico non trova altra cosa che dei concetti obbietti vati. La deduzione dialettica va dun- que dalla posizione di un'Idea alla posizione di un'altra o di altre Idee, aventi con quella un legame logico ne- cessario: questo legame logico unisce, se si vuole, delle proposizioni, ma purché s'intenda che ciascuna di queste proposizioni non pone che 1' esistenza di qualche Idea» È come nei sistemi di Hegel, di Schelling, di Spinoza, di Taine, e in una parola di tutti gli altri che, come quello di Platone, aggiungono al metodo a priori la realizza- zione dei concetti: in tutti questi sistemi, come in quello di Platone, la deduzione non volge propriamente su delle proposizioni, ma su dei concetti realizzati. Si vede pure dagli stessi luoghi 510 b e 511 b-c che la deduzione dialettica va da Idee a Idee per via di Idee: in altri termini tutti gli anelli della catena deduttiva sono delle Idee, e il passaggio dall'Idea precedente alla Idea conseguente (dalhi premessa alla conseguenza) è una deduzione immediata. Il yovg (che corrisponde alla dia- lettica) si distingue dunque dalla (hàt^oia (deduzione (1) V. $ seg. (2) V. Bep. 533 b (il principio del secondo tratto riportato), 534 bc, 532 a-b, 490 b, 485 b, Fed. 65 e — 60 a, ecc.; e confronta ciò che diremo nei $ 17-19 sulla definizione e il suo rapporto con la dieresi. - 174 - ordiDaria o metodo luateniatieo) per quest' altro carat- tere, cioè die il primo è iu certo modo intuitivo, tauto percbè conosce immediatamente i rapporti logici tra le verità, quanto perchè, queste verità essendo degli oggetti reali, il pensiero si limita, nel processo conoscitivo, a ri- produrre le cose stesse, col loro ordine e la loro connes- sione (1). La seconda al contrario è </mpr«/ra, perchè le sue verità, cioè i rapporti tra le cose che costituiscono il contenuto delle sue proposizioni, non le conosce im- mediatamente, e il pas-^aggio stesso da una verità ad un'altra non si fa che per rintermediario di una dimo- strazione. Questa differenza tra le due forme di cono- scenza è indicata dalla stessa relazione dei termini che le denotano: dtàyoux in contrapposto a yovz ci dice ab- bastanza che vi ha nelF una una mediatezza che non «siste nell'altro. Anche Aristotile, il cui linguaggio filo- sofico deriva, per tanti rispetti, da quello di Platone, chiama yov^ la conoscenza dei priucipii, che è imme- diata, e la semplice apprensicme dei concetti, ciò clie <!orrisponde pure peifettamente al significato platoiìico, l'intelligen/.a o dialettica ]datonica non eseicndo che la semplice apprensione dei concetti obbiettivati — come abbiamo detto, nell' ordine e la connessione stessa che esistono fra di essi (2).— Il dialettico va dunque da una Idea ad un'altra senza bisogno di una dimostrazione pro- li) Ordo et canne vio idearum idem est ne ardo et connexio rermn. (*J) Questa iiumediatezza o iutuitività del yov^ platonico è stata notata auche da Leibuitz. « Non male platonieis quatuor in niente coguitiones agnoseimtui', Sensus, Opinio, Scientia, Intellectns; nempe Experimenta, Coniecturae, Denioustratio et pura Intellec- tio, quae oeritntis nextiin tino vienlis ictn pereipit t> Epist. ad ffanschiiim. De phil. platon. HI, - 175 — priamente detta — le Idee si dimostrano per la h)ro sem- plice successione - : egli non impiega assiomi, non in- terpone, fra le verità ch'egli dimostra, delle proposizioni introdotte in grazia della dimostrazione stessa, ma pro- gredisce continuamente da un essere reale a un altro es- sere reale, senza interrompere mai questo progresso del pensiero, mescolando, come dice Spinoza, ciò che è sol- tanto nell'intelligenza con ciò che e nella realtà (1). Il dialettico, in una parola, non ragiona, ma vedere in ef- fetto la conoscenza dialettica, se non è nel senso proprio xxw'' intuizione intellettuale— perchè questo termine esprime la presenza immediata dell'essere al pensiero, che Platone non ammette —,è la riproduzione o il risveglio di un'/w- tuisione intellettnale ; noi sjippiamo infatti che 1' anima ha intuito 11 Idee in una vita anteriore, e che la scienza attuale è una reminiscenza (2). Anche questa intuitività (1) Confronta Spinoza De iniellcctus emendalione XII. Ii3 e XIV. uy. (2) La spiegazione della scienza per la reminiscenza di un'in- tuizione anteriore delle Id e prova al tempo stesso l'uno e l'al- tro dei due punti che abbiamo stabilito in questo numero; cioè che nella dimostrazione dialettica le verità che si deduc<Mio e quelle da cui si deducono sono delle Idee, e che il pas- saggio da un' Idea ad un' altra è una deduzione immedia- ta. Infatti il carattere essenziale della scienza essendo l' iu- catcnamento logico, cioè deduttivo, delle verità, segue da questa spiejjazione che l' anima ha auche intuito quest' inca- teuamento logico — e Platone ammette esplicitamente questa conseguenza quando identifica la reminiscenza e la deduzione (v. Meno 08 a, l. e.)— Ma l'anima non ha intuito dello proposi- zioni ideile verità puramente astratte), ma degli esseri reali (cioè delle astrazicmi, ma realizzate); dunque quest'inoateuìimente lo- gico essa non ha potuto intuirlo che tra esseri reali, e non tra proposizioni. Di più, se quest' incateuameuto logico ha potuto es- sere oggetto d'intuizione, tra le Idee logicamente incatenate la — 176 — o immediatezza della deduzione è una nota comune di questa varietà della filosofia apriorista caratterizzata dalla realizzazione dei concetti. Nel capitolo precedente noi abbiamo parlato della classazione di Spinoza delle forme della conoscenza; abbiamo visto che la forma più alta è la conoscenza intuitiva, che deduce, per una dedu- zione immediata, gli effetti dalle cause, a partire dalla causa prima, che non deduce, ma apprende imme- diatamente ; e abbiamo notato che queste cause e questi effetti sono delle astrazioni realizzate, come le I- connessione deve essere innnediata, deve vedersi, per dir così, a colpo d'occhio; in altri termini il passaggio logict) da un'Idea ad un' altra deve essere una deduzione immediata. Se per fare questa deduzione fosse necessario V intervento di altri principii o concetti intermediarii (che non fossero delle Idee), siccome questi non hanno potuto essere intuiti (perchè il solo oggetto dell'intuizione è stato il reale, cioè le Idee), nemmeno rincatena- mento o connessione logica fra le Idee avrebbe ])otuto essere in- tuita. Noi potremmo aggiunijere che questa immediatezza risulta anche per un altro verso dall'assimilazione deUa deduzione alla reminiscenza : quest' assimilazione suppone ohe la conseguenza segue il principio come un ricordo segue un altro ricordo; dun- que nel primo caso, come nel secondo, la sequenza avviene im- mediatamente, e non per l'intermediario di un ragionamento. Noi osserveremo, del resto, che le due proposizioni stabilite in questo numero, cioè che la dimostrazione dialettica non consiste .die a dedurre delle Idee da altro Idee, e ohe questa deduzione è immediata, non ne fanno in realtà che una sola: è che le pre- messe e le conseguenze, in questa dimostrazione, non sono ohe delle Idee, o, per parlare più generalmente, dei concetti realiz- zati; proposizione che non è altro che quella di Spinoza « che l'ordine e la connessione dei pensieri sono identicici all' ordine e alla connessione delle cose. » 177 dee platoniche (1). In Megel, il pas.sjijL'-io da anidra ad un'altra è accompagnato da una di ìn(»sl razione; ma v e- vidente, con tutto ciò, che per lui niridea è sufficiente- mente dimostrata dalla sua posizione stessr, al posto e al momento che le compete neirevojiizionc dell'Idea as- soluta (2). È una conseguenza della dottrina dvW unità dello sviluppo logico e <lello sviluppo ontologico, e di quella dell'identità dell'essere e del j)ensiero. Lo stesso deve dirsi di Schelling (che anch' egli anjuìette, in so- stanza, questi due principii di Hegel) La filosofia è jmt lui ww'' intuizione Intellettuale', la vera dimostrazione èia costruzione', e costruire una cosa è mostrarla nelT asso- luto, indicare il grado o il momento del suo sviluppo a cui essa corrisponde (3). Ciò che abbiamo detto in (pu\sto nuinen» sarà confermato nel seguiti», esponenth» altri punti della dottrina platonica. 5 '' Le Idee non si deducono tutte immediatamente dal primo principi*», nui la deduzicme è graduale: dall' Idea [primitiva altre Itlee, da queste altre ancoia, e così di se- guito (4\ Insieme a questo carattere <lel meto<lo dialet- tico, cioè la moltiplicità dei gradi o dei passaggi della iiedu/ione, noi dobbiamo indicarne un altro: è 1' ordine (ì) La classazione delle forme della conoscenza di Spinoza è dunque identica, in sostanza, a quella di Piatene; esse non ditfe- riscono clic in uu punto secondario, cioè la suddivisione dell'o/zf- nione, (2) 11 metodo hetreliauo, dice il Vera, « pone i termini dimo- «traudoli, e li dimostra ponendoli » Introd, alla Logica di Hegtì pag. 128. ^3) V. Willm Storpia (iella filos. a lem, da Kant uino ad Hegel f, 3. p. 367-369. (A) \\ 611 U-c, 12 — 17S — regoliui' con cui si seguoin» ì concetti (1). Che bisogna intendere per quest'ordine ? f] nna disposizione simme- trica delle ld<*e, una legge generale della loio successio- ne, come la tricotomia hegeliana (tesi, antitesi e sintesi)? Noi ci limitiamo per ora a congetturarlo. FI seguito mo- strerà che questa congettura è fondata, e che il plato- nismo si contorma [)ienamente a (pu\st 'altra esigenza del rcalisììio dialettico, che è la sistematUità che potremmo chiamare obbiettiva, cioè V unità nella moltiplicità dei passaggi logici, un ritmo, una legge comune che li re- gola, e che è comerimmagine, nelle successioni del mondo delle Idee, <li <]uest'ordinft e t|uesta regolarità che osser- viamo nelle successioni del mondo dei fen<mieni. 6." Notiamo a parte, intine, un altro carattere generale del realismo (halettivo, v]w non è, come vedremo a suo luogo, che lina conseguenza della sifiteìnattcità^ cioè l'u- nità di principio. Le Idee si deducono tutte, immediata- mente o mediatamente, da un principio unico, che è an- ch'esso, naturalmente, un'Idea. (2). Noi abbiamo già in- contrato questa proposizione in un luogo citato del Me- none (3), in cui si dice che, in virtù del legame di tutte le cose e della reminiscenza, noi [)ossiamo, ricordata una cosa sola, ritrovale da noi stessi tutte le altre. Siccome questa reminiscenza è la deduzione, e le cose dedotte e ipiella da cni si deducono non sono, ))er conseguenza, che delle Idee — perchè, come abbiamo notati) al numero 4**, questa è la sola deduzione che la reminiscenza possa spiegare —, la proposizione del Menone ha (piesto signi- ficato, che data hìì' Idea, noi possiamo da essa dedurre tutte le altre. È una esigenza evidente dei presupposti (1) V. 533 b. (2) V. 510 b, 511 b e 533 e. (3) 81 d. — 179 — logici e gnoseologici di Platone che quest'Idea primitiva ii;ia stabilita a priori: senza di ciò la conoscenza non sa- rebbe a priori, (piesf Idea sarebbe uuUpotcsi^ e la dedu- zione dialettica non sarebbe una dimostrazione. § 18 1/ idea primitiva da cui tutte le altre si dedu- cono, è l'Idea del Bene (o del Buono, zov àyaHov) — questa Idea è naturalmente, come tutte le altre, l'attributo o- monimo delle cose realizzato, cioè considerato come e- sìsteute per sé stesso e come uno e lo stesso, letteral- mente, in tutti gli oggetti a cui si attribuisce — . Ecco ciò che lo prova: 1." Tutto ciò che è intelligibile lo è per l'Idea del Bene (1). L'intelligenza è come la visione. Se alla vista e al visibile non si aggiungesse la luce, né la vista vedrebbe, né il visibile sarebbe veduto ; e fra tutti gli astri non vi ha che il sole, la cui luce faccia vedere chiaramente gli oggetti. Ora ciò che il sole è nel mondo visibile, rapporto alla vista e agli oggetti visi- bili, l'Idea del Bene è nel mondo intelligibile, rapporto all' intelligenza e agli oggetti intelligibili. L'Idea del Bene è ciò che dà la luce a tutte cose; è per quest' I- dea che gli oggetti conoscibili sono conosciuti ; essa è la causa della scienza e della verità come conosciuta dalla ragione, fornendo la verità agli oggetti conosciuti e dando al conoscente la potenza di conoscere (2). A 518 e, evidentemente continuando la similitudine col sole, l'Idea del Bene è chiamata « il più chiaro dell'essere » Il significato di «pieste proposizioni è sidegato suftì- cientemente da ciò che segue il primo dei luoghi citati (3). Vi ha un principio primo del conoscere da cui deriva (1) Kep. \ì e VII. (2) V. 507 V — 50i» b e 540 a. Ccmfr. 517 e, luogo che riporte remo nel uiim. seg. (3) V. il $ pree. 180 — ogDÌ verità; avere V intetligensa o, ciò che è lo stesso, la scienza^ d'uuacosa, è poterla dimostrare^ e dimostrarla è dedurla da questo principio primo; esso è evidente im- mediatamente, le altre verità non sono evidenti che per esso. Questo principio primo del conoscere, evidente im- mediatamente, e per cui tutte le altre verità sono evi- denti, è l'Idea del Bene. 2.» Il principio del tutto di cui nei luoghi del pre- cedente paragrafo, è la stessa cosa che l'Idea del Bene, e 1' ascensione graduale da ipotesi in ipotesi sino al principio del tutto, è un' ascensione graduale da Idea in Idea sino all' Idea del Bene (I). 11 VII libro della Repubblica comincia con un'allegoria, con cui Platone rappresenta il progresso dello spirito nella conoscenza. Egli immagina dei prigionieri rincliiusi sin da bambini in un antro sotterraneo, con la faccia sempre rivolta a una stessa parte, e senz' altra luce che quella che viene da un fuoco acceso a una certa distanza, in alto, dietro di loro. Di loro stessi e degli oggetti che passano al di fuori, questi prigionieri non vedranno altra cosa che le ombre che si disegnano nel lato della ca- verna esposto ai loro sguardi; gli oggetti reali, per loro, Baranno «lueste ombre; e tutta la loro scienza si ridurrà a discernere acutamente le ombre che passano, e a ri- cordarsi l'ordine con cui sogliono passare, le loro se- quenze abituali, le loro concomitanze. Che si sciolga qual- cuno di questi i)rigionieri, e si faccia ascendere nella re- gione superiore I egli dovrà abituarsi gradualmente alla vista degli oggetti reali, per non restare abbìigliato dalla soverchia luce. E prima discernerà facilmente le ombre e le immagini nelle acque degli mmiini e degli altri es- (1) liejj. VI 6 VII. -181 seri ; f)oi questi esseri stessi ; in seguito di notte potrà guardare le stelle e la luna; ed è intìne che potrà con- temi)laie il sole stesso, e vederlo quale è. Dopo ciò, ra- gionando intorno a quest' astro, concluderà che è esso che produce le stagioni e gli anni, che tutto governa nel mondo visibile, e che è la causa in certo modo delle cose stesse ch'egli vedeva nella caverna (1). Il senso di quest'allegoria ci è spiegato dall'autore stesso. Il prigio- niero nella caverna è lo spirito circoscritto tra i dati dell'intuizitme sensibile (2); la liberazione, la conversione verso 1' intelligibile (n€()fay(oyrj) per lo studio delle mate- matiche (3); le ouibre e le immagini nelle ac<iue, gl'in- telligibili matematici (4); la vista graduale degli oggetti reali, prima degli animali, poi delle stelle e della luna, e intìne del sole, è la progressione dialettica da Idea in Idea sino all' Idea del Bene (5). « Ultima iielF intelligi- bile è l'Idea del Bene, e appena può vedersi, ma vedu- tala, si conclude che essa è la causa di tutto ciò che è retto e bello, che nel visibile genera la luce e il sovrano della luce (cioè il sole), e neirintelligibilc, essa sovrana, fornisce la verità e l' intelligenza » (6). Piima ha già detto che come il sole dà agli oggetti visibili, non solo la visibilità, ma anche la produzione e il nutrimento, così l'Idea del Bene dà agli oggetti intelligibili, non solo riutellibibilità, ma anche tessere e l'essenza (7). 3.« L'Idea del Bene è il principio delhi spiegazione uni- (1) r»ll a - TìK» versale delle cose (l). ADassfigora lia compreso che l'in- telligenza è la causa di tutte cose - dottrina conforme a quella dell' autore sull' anima del mondo —, ma egli non ha visto la conseguenza del suo principio, cioè che essa ha dovuto tutto disporre nel miglior modo possi- bile, e quindi, se alcuno vuol trovare la causa dell'esi- stere di ciascuna cosa, o del suo nascere o perire o u- n'altra modificazione qualsiasi, bisogna ch'egli trovi come l'ottimo per ciascuna cosa sia di esistere o di agire o di patire d' una maniera tale (2). È così che Anassagora avrebbe dovuto spiegare le cause delle cose : per e- sempio dicendo se la terra è piana o rotonda, egli a- vrebbe dovuto farne vedere la causa e la necessità, mo- strando ciò che è l'ottimo, e che l'ottimo è che essa sia tale; e dicendo che la terra è posta nel centro dell'uni- verso, mostrare che l'ottimo è che essa sia nel rientro; e similmente per il sole, la luna e gli altri astri, le loro velocitji relative, le loro rivoluzioni e tutti gli altri loro fenomeni, egli avrebbe dovuto mostrare come 1' ottima sia che ciascuno di essi agisca e patisca come fa. In una parola a tutte queste cose egli non avrebbe dovuto as- segnare altra causa se non questa, che 1' ottimo è che esse siano come effettivamente sono (3). La causa di cia- scuna cosa è l'ottimo per questa cosa; la causa comune di tutte, il bene comune a tutte (4). Invece di ciò, Anas- sagora non mette innanzi altre cause che l'aria, l'etere^ l'acqua e altre cose ugualmente assurde; egli fa come se alcuno, volendo spiegare le azioni di una i)erRona, non Fedone \}7 b (2) V. \)7 l.-e. (3) 97 d — 118 M. (4) 98 b. yy V, — 183 — parlasse che di ossa, di muscoli e di nervi, negligendo la vera causa, che è la scelta deirottimo. Kgli, con tutti gli altri fisici, danno il nome di causa a ciò che non lo inerita, confondendo (india cli<^ è veramente causa con ciò senza di cui la causa ncm ])roduìiebbe il suo ef- fetto (1). Essi non ammettono altre cause che mecca- niche ; « e la ])otenza per cui le <M)se sono disposte nel miglior modo in cui potevano esserlo, uè ricercano, nò stintano che vi sia in essa qualche forza divina; ma cre- dono di aver trovato un Atlante più foite di questo, più immortale e più capace' di contenere T universo, e non ijensano che è il buono e ccmveniente che collega e contiene tutte le cose » (2). (jui il principi!» del Bene è pres<Mitato come una conseguenza del teismo, e non come una necessità primordiale, come nella TJe[Mibblica: ma, come in questa, tutto deve dedursi da <|uesto ]»iin- cipio Spiegar*», infatti, non è che dedurre. E in effetto la spiegazione del Fedone, (/Me,v/o c'.s'/>/e perchè è }/ attimo^ implica la proposizione generale che» viù che esiste è l^ot- fimo, a qiu^.sta projK>sizione può logicamente convertirsi in <|uest'altra: CIÒ cAc è Vottiwo csiaic.Wix da <|uesta pre- messii noi possiamo dedurre l'esistenza tli <*iascuna cosa reale, prendendo c,ome altra premessa la ragiom^ per cui nel Fedone (|uesta esistenza viene spiegata, cioè che esfia è r ottimo. Ora la proposizione ciò che è T ottimo eniste ^ equivale ]>erfetta mente alla posizione dell'Idea dell'Ottimo o, ciò che è lo stesso, del Bene, p(Mchè, conu^ spi(»gheremo in seguit<», la dialettica platcmica. i»onendo lui concetto, intende porlo in tutta Testensione di cui esso è logica- mente suscettibile. 11 meceaiiismo della ileduzione, in questo caso, è quello stesso che PIat<nH* desciive in se- (l) HS h ~ yy b. (2)1)0 e. V. SII questi» liu>j5t» il Suppl. fiiiiriium. delK* 1«1«m'. Vili. ' ^iiito, nel hii»<;o del Fedone stesso che noi abbiiiino ri- I»oi({ito liei i^* 0 nota 1 e 12 n." -t: posto un concetto (in questo cas ), quello deirottinio),aniniett»ere come vero ciò che è eonfoiuie ad esso, rigettare come falso ciò che non lo è. L' interprete trascendentalista ohbietterà che qui non si tratta delFIdea del liene, ma del bene attributo comune delle cose stesse: ma l'Idea del Bene ncni è che l'attiibuto comune delle cose, che Platone riguarda, \um come una seni [d ice astrazione, ma come ima reità; e d'al- tronde, nel tratto che abbiamo posto tra virgolette, cbiamando il bene una potenza che dispone le cose nel miglior modo possibile e in cui risiede una forza divina, e un Atlante che contiene Funi verso, egli lo considera espriissjimente come un'entità sussistente [»er se stessa, cioè come un'Idea. 4.« Tutte le Idee e tutte le cose si assorbiscono nel- l'Idea suprema, che è così ì'unO'-tutto.K ciò che si vede dal seguente luogo (l'Aristotile: « E ciò ehe sembra fa- cile, il dimostrine che tutto è uno, non riesce; poiché dal- VastnaìoìK' {>/; i/Miau) non risulta che tutte sose sono una, ma ne lisulta semplicemente qualche cosa in sé (qualche Idea) una » (1) ilm^^V usi razione a cui allude Ari- stotile, è rcqu'razione dello spirito che noi chiamianìo con questo nome, con la differenza che per noi, o piuttosto pei concettualisti, il risultato di <iuesta operazione è nn sem- plice conretto, per Platone era un concetto obbietti vato. Come per un ]nimo [)rocess<» di f(*'^rf/c/ow<?, applicato agli oggetti sensibili, si ottenevano le Ide(^ più vicine alTindi- |1) MvJ. I. I. IX. 21. OoiiiV. il roiiiineiito a qucstu hiotio di Alt\ss;uiihn «li Aliodisia. e vi-di anche per Ì'E'/Mtaiz Mei, 1. III. VI. r». 1. XIV. III. 1, ecr. CoiilV. imre per quc.stt» liiojst» il Siq»- ploiiieiitn sniriimii. delle Idee platoiiielie. p. I, V. 4. siilbi fine. viduale, cioè di una compreìtsione massima, così per un'r/- strasìouc ulteriore e progressiva, applicata alle Idee stesse, si ottenevano altre Idee di una comprensione mano mano decrescente, cioè sempre più astratte, sinché si giungevaal- Pldea i)iù astratta di tutte, che secondo l'esposizione di d'Aristotile era quella dell'Essere o dell'ano. Ma secondo quest' esposizione stessa l'Idea dell'Es.sereo dell'Uno era identica a <iuella del Bene. Così (luest'a.strazione suprema in cui il tutto è uno, non è altra cosa che l'Idea del Bene. Quest'Idea è Vuno-ttUto, perchè e il i)rincipio di cui tutte le altre Idee sono le conseguenze, e le conseguenze sono implicitamente cont4?nute nel princi|)io. Questo monismo logico - che non bisogna confondere col panteismo, per- chè un'entità astratta come il Bene di Platone o l' As- soluto di Schelling non potrebbe chiamarsi Dio che per metafora — si trova anche in Schelling, in Spinoza, in Taine, e più o meno in tutti i realisti dialettici, secondo il grado maggiore o minore di somiglianza che la loro pretesa deduzione ha con la sola deduzione che ammetta la logica — in cui la conclusione è un caso particolare del princi|iio generale che ta da piemessa. — Qual è, in questo monismo, il ra[q>orto delle cose derivate col prin €Ìpiof Dire che tutto vi è virtualmente ccmtenuto come in un germe, e che ne esce per una specie di svilupj)o o di esplicazione, non è che una semplice espressicme rap- presentativa. Il realismo dialettico consiste nell' <dd»iet- tivazione, non solo dei concetti, nìa ancora dei rapporti logici fra (juesti concetti; per conseguenza, per indicare il ra|)porto in <|UÌ.stione, noi non abbiamo che un' espres- sione ade(|uata: le altre cose scmo nel principio e deri- vano da (piesto, come le conseguenze» sono nelle pre- messe e derivano da (lueste. 5'^ Nella forma della filosotia platonica, che noi pos- siamo chiamare il platonismo puro, e che è quella che noi troviamo nelle opere dell'autore e di cui facciamo l'è- — 186 — sposizione, cjuesto monismo è rigoroso. Ma uella forma die ci la troiioscere Aristotile, la (juale appjirtieiie all'ul- timo periodo della speculazioni' di Platone, ed è, come vedremo in un Supplemento alla line del volume, un sincretismo tra i concetti propri a questo filosofo e quelli dei Pitagorici, a questo monismo rigoroso succede una specie di <lualisnio. Le Idee e le cose, in (piesta seconda forma, vengono da due principii, l'Uno o l'Essere, che è identificato al Bene (1), e la Materia. La dif!erenza penV è meno protbnda di (juanto potrebbe sembrare sulle pri- me, perchè, come spiegheremo in seguito, il vero principio,, quello da cui le Idee propriamente si deducono, non è che il primo; solamente la Materia è riguardata come indipen- dente da esso ed egualmente primordiale. Ma ciò che im- porta qui di segnalare in questa dottrina è <*.he i due prin- cipi vengono riguardati come gli elementi di cui tutte le Idee e tutte le cose sono costituite (2). Questo implica evi- dentemente che, in questa seconda forma del platonismo,, tutto il reale viene assorbito nei due principii, come nella fiUMua ])rimitiva lo era nell'uno <li essi. Ciò è tanto vero che Aristotile fa ripetutamente alla dottrina dei due ele- menti l'obbiezione che non ])otranno esistere che gli ele- menti soli, e niente altro di piò (3); e che, secondo un'in- dicazione di Teofrasto (4), vi erano dei platonici, i quali atfernuivano che la verità e l'essere stanno tutti nei due principii. E appena bisogno di osservare che, se i due il) V. )>er l'identità tra 1' riio o Essere v il ììvììv. Mei. 1. L VL 8. VII. 5, IX. 21, 1. XII. X. 1, 4, I. XIV. IV. 2-7, V. 1, A7/i. Kufl. 1. I. Vili. 14. ero. (2) V. su ipiesta «l<»ttnii:i ilei due elementi il Suppl. sul pita- gorisnid plutonico. (.^) Mei. 1. III. IV. iMO, 1. XI. II. 11. 1. XIII. X. 2-8. (41 Mei. 13. — 187 — ])rincipii costituiscono tutta la realtà, e sono come la so- stanza di cui tutte le Idee e tutte le cose sono fatte, è perchè essi sono dei principii nel senso logico, cioè dei concetti in cui tutti gli altri sono im])licitamente conte- nuti, perchè possono dediir.^ene (l). 6^ La dottrina che i due elementi sono i principii da cui tutto si deduce, si trova in Aristotile anche d' una maniera esplicita. La conoscenza di una cosa (|ualun(iue (intendiamoci, una conoscenza scientifica ) presuppone quella dei due elementi. « Come si potranno imparare gli elementi di tutte h^ cose? È evidente infatti che anterior- mente non si potrebbe conoscere nulla » (2). Di piò la co- noscenza dei due elementi ci dà, indipendentemente dalla esperienza, la c<uioscenza di tutte le cose. «E gli oggetti sensibili come potrebbero conoscersi senz'averne la sensa- zione ? Eppure sarebbe necessario, se quelli itavra) sono gli elementi di tutte le cose, da cui queste risultano come le voci composta (cioè le sillabe) dai loro propri elementi (dalle lettere) » (8). Altrove Aristotile parag<ma il modo in cui le cose derivano dai due» principii a (juello in cui le conclusioni derivano dalle premesse. «Se i principii <le- vono essere universali, an<*he le cose che ne derivano do- vranno es.sere universali, come nelle dimostrazioni » (4). (1 ) Per quc'sto sij^ni tirato logico della parola eleinrnU (aTtt/yfja) iniplii'ante rideii che essi sono dei principii di deduzione, cou- Ironta Aristotile Mei. 1. V. III. 3 <« si dicouo elemenli delle di- inoHtrazioui le prime dimostrazioni e che si contengono nella più p«rt« delle altre»), e 1. III. III. 1 («si dicouo elenienli «Ielle ligure quelle le cui dimostrazioni si «'ontengono nelle diuiostrsi- zioni di tutte le altre o della più parte j^ ). (21 Mei. 1. I. IX 27. (3) L. I, IX. 20. (4) L. XIII. X. 8. 'r ! ' k^M^lèa — 188 - § 14r. L'Idea del Bene non è solo il princìjiio logico {prìncipium cognoscenfìi) delle altre Idee, ma ne è anelie il principio ontologico (priiuiplum essendi) « Tn pensi senza dubbio come me che il sole d.à agli oggetti visibili, non solo la potenza di esser visti, ma anche la generazione e Taccrescimento e la nutrizione. Così tu puoi dire che gli oggetti conoscibili, non solo devono al Bene l'esser cono- sciuti, magli devono ancora l'essere e 1' essenza » (1). 11 prigioniero liberato dalla caverna, nella sua ascensione nella regione visibile, dopo aver guardato il sole, conclu- de che è esso che produce le stagioni e gli anni, che tutt^ governa nel mondo visibile, e che è la causa delle cose stesse ch'egli vedeva nella caverna. Così lo spirito, nella sua ascensione nella regione intelligibile, dopo aver contem- plato V idea del Bene, conclude che essa è la causa di tutto ciò che è retto e bello, che è la sovrana del mondo intelligibile, e che è essa stessa che genera il sole e la luce e— noi possiamo aggiungere, per completare il paralle- lismo tra l'immagine e il suo significato — tutto ciò che egli percepisce nel mondo visibile — perchè, come il sole rappresenta l'Idea del Bene, così le ombre della caverna rappresentano gli oggetti visibili — (2). Il Bene è chiamato il padre del sole anche a 506 e, 507 a, 508 b-c. Questa identità tra il principium essendi e il principhnn (ofino- scendi è pure implicata nell' espressione « il principio dell'universo » per designare la [iremessa ultinta da cui tutte le altre Idee si deducono (3). Alla causalità del Bene si allude anche nel libro X. della stessa Re|)ub- blica (597 b-e), in cui si dice che Oio ha pi'odotto va- (1) liep. 501) b. (2) V. ^ 13" ij. 2". (8) V. $ 12" u. V' e ^ 13" n. 2". r^. — 189 iuralmenie l'Idea del letto e ogni altra Idea. Siccome Pia. tone non conosce altro Dio, nel senso proprio, che l'a- nima del mondo, e (|uesta non può produrre che ciò che ha un cominciaraento nel tempo (1); e d'altra parte i termini Dio e divino sono da lui spesso applicati ai prin- cipii delle cose, cioè }i Ile Idee (2); così qui per Dio noi doobiamo intendere l' Idea suprema, che è il principio di tutte le altre. Intatti a 597 e il produttore delle Idee è chiamato il re, come il Bene a 509 d e 517 e. Nel Fedone 97 b-99 e (citato nel $ juec. n. 3) Timpiego della ])arola causa non può provare la causalità del Bene: dicendo che la causa dell'esistere e del modo di esistere di una cosa è che ciò è l'ottimo per essa, non se ne as- segna la causa efficiente, ma semplicemente la raf/ione. Ma in fine del luogo in cui il Bene è chiamato un A- tlante che sostiene l'universo, e la potenza per cui le cose sono disposte nel miglior modo possibile e in cui risiede una forza divina, Platone gli attribuisce senza dubbio, non solo la sostanzialità, come abbiamo osservato nel r)aragrafb precedente, ma anche l'efficienza. 11 concetto della causalità universale dell' Idea de! Bene si ritrova nell'esposizione d'Aristotile, benché in- viluppato nelle dottrine pitagoreggianti. Il Bene della liepubblica è chiamato l'Uno o l'Essere (3), ed è dato (1) V. Suppl. C 11 pitagorismo nel Timeo, (2) Teet. 176 e. Parm. 134 ce. Tim^ 37 e, 41 a, 92 v, Sof, 25é A-b, Fedo. 80 a-b, 83 e, 84 a, FU, 62 a-b, Conv. 211 e, Bep. 500 c-e, 611 e, ecc. Senocrate chiaiuava Dei l'Uno (cioò il Beue) e la Dualità indefinita (la Materia); 1* Uno il primo Dio e il padro de^li Dei, la Materia la madre (Stol». Ed. phys, 1. 1. e. 2. 29). Si veda pure ciò che diremo sul Demiurijo del Tiìneo in questo «tesRo $ e nel Suppl. C. (H) V. f prec. n. 50, - " < I" '* come riiiio dei dwi^rineipii delle Idee e delle cose(l), l'al- tro essendo la Materia, che, al punto di vista della dot- trina dei numeri, si chiama anche la Dualità indefinita — abbiamo i^ìii notato che questo dualismo appartiene a una tase posteriore della speculazione platonica, il cui carattere essenziale è una fusione dei concetti proprii del plat<misnio eoa quelli dei Pitagorici - Principio in Aristotile è sinonismo di c«j(8a(2)-e d'altronde FUno e la Materia non sono chiamati solamente i principii, ma anche le cause (3)-; così i principii delle Idee e delle cose significa: le condizioni che determinano resistenza delle Idee e delle cose e il modo di (juest'esistenza. Tuttavia, siccome Aristotile chianui principii e cause anche gli e- lementi concettuali da cui le cose sono costituite, cioè la forma e la materia ; e d' altra parte i due principii platonici sono detti anche gli chmcnti.vY\\\\i^ Vessenza di tutte le Idee, l'altro la materia: se ne potrei die infe- rire che la parola principii in (piesto caso non esprime alcun' efficienza, e indica semplicemente gli elementi concettuali (e siccome Phitone e un realista, anche reali), da cui le Idee e le cose sono costituite. E certamente i due principii platonici sono gli elementi da cui le Idee e le cose sono costituite: ma ciò non esclude la hm> ef- ficienza, implica solainen:>e ch'essi sono delle cause im- manenti. L'Uno e la Materia sono i due concetti più a- stratti che si ritrovano nel contenuto di tutti gli altri concetti realizzati che Platone chiama Idee; in altri ter- mini, in tutte le altre Idee vi ha la panisia dell'Uno e (1) V. Met. l. I. VI, 4, 6. vili. 11, IX, 17-18, 21, l. XIll. VI. 5, 9, VII. 8, Vili. 7. 21, IX. 17. X, 1. XIV. IV. 2-3, 8. V. 1, 3, ecc. (2) V. Met. 1. V, I. 3, 5. (3) Met. I. III. III. 13. 1. VII. XVl. 4. eco. ' ^ — 191 - della Materia. Ma ciò non basta per chiamare il inimo Vessensa, e tutti e due gli elementi, delle altre Idee, ne per chiamameli i principii; perchè essi non sono che la porzione comune del contenuto delle altre Idee, e a lato di questa vi ha inoltre la porzione i)ropria e differen- ziale. Come abbiamo osservato nel paragrafo precedente (n. 5*^ ), chiamando le due astrazioni supreme gli elementi di tutto il reale, Platone ammette che tutto il reale si risolve in queste due astrazioni, ciò che egli può tare perchè secondo lui esse contengono implicitamente tutte le altre Idee, come i principii (nel senso logico) le loro conseffuenze. Similmente, chiamando l'Uno 1' essenza di tutte le Idee, Piatone ammette che le essenze di tutte le Idee si risolvono in <|uest'essenza unica, perchè (oltre che non ne sono che delle determinazi(mi o delle speci- ficazioni, come vedrenu» nel jmragr. 16), essa le contiene tutte implicitamente, essendo il principio di cui (pielle sono le conse</wen^e(l). Nell'uno e nell'altro caso noi non abbiamo, al fondo, che la supposizione di un nesso logico fra le due porzioni del contenuto delle Idee, la comune e ìs. ììropria. Ora, come il nome di elementi dato alle due entità più astratte, e ciucilo, dato all'una di esse, di essenza di tutte; le Idee, suppone che la seconda di cpie- ste due porzioni derivi logicamente dalla prima, così il nome di principii suppone che essa ne derivi ontolor/i' cannente: se così non fosse, le due entità non determi- nerebbero le Idee nella loro esistenza e nel loro juodo di essere, e non potrebbero esserne chiamate i principii e le cause. Nel sistema di Platone come in tutti gli altri costruiti sullo stesso tipo •— che io chiamo realismo dia- lettico — vi ha fia le diverse astrazioni realizzate (in lin- (1) Conf. § pree. u. 4. N I ' - 192 - giia^gìo liegeliano, fra i diversi iiionienti del sistema), nel tenipo stesso die un rapporto di differenza^ un ra[> porto (Videntità — è questo il gran i)aradosso di tali si- stemi, che in Hegel arriva alla negazione del luincipio di contraddizione. - Quando Platone dice die tutto è uno o, ciò die vale lo stesso, che TUno o il Hene è Tessenza di tutte le Idee, egli si mette al putito di vista dell' /- dentità ; ma «piando «lice che ne è la causa o il prw- cìpiOj si mette invece necessariumente al punto di vista della differenza. Così noi troviamo in Aristotile, per indicare il ra]>porto fra l'Uno e le Idee, due formule di- verse, ai>parentemente esclusive V una <leir altra, ma che non sono che due espressicmi differenti di una stessa dottrina: secondo l'una, l'Uno è Vessenza di tutte le T- dee (1); secondo l'altra, è la causa alle Idee della loro essenza, o di ciò che esse sono (2). La seconda formula coincide evidentemente con le prop()sizi<mi della Repub- blica di cui al cominciamento del paragrafo, salvo la dualità di principii, di cui nella Repubblica non vi ha alcuna traccia. Nella dottrina dei numeri (nella quale le Idee vengono identitìcate con questi) il rapporto tra i principii e le cose derivate è rapppresen tato come una (jenerazione, I numeri e le cose sono (jenerati dall'Uno e dalla Materia ;3). Delle altre formule con cui la derivazione delle Idee e delle cose dai due primi principii viene espressa neir esposi- zione d'Aristotile, ci riserbiamo di parlare in un altro paragrafo. Qui dobbiamo ancora indicare la cosmogonia (1) V. Mei, l. I. VI. 4, 7. l. III. 1. 12, IV. 21-.22, ecc. (2) V. Met. l. I. VI. 7, VII. 3, 5. (3) V. Met. 1. 1. VI. 6,1. XI. II. 7, 1. XIII. VII. 4,10, 11, ^ail. 21, 28. IX. 7, i. XIV. I. 3, II. S), 111. 13-14. IV. 1, 6, ecc. — 193 _ del Timeo, in cui hi dottrina dei due fuindpii è espicssa in forma simbolica : la Materia o Dualità indefinita vi e rappresentata da una massa informe agitata da un mo- vimento disordinato, e l'Uno o Hene da un Demiurgo che v'introduce l'ordine e v'impiinìe delle torme e ddFe spe- eie definite (1). Ndl'allegoria dd Timeo il princi])ì(» ve- ramente attivo, efficiente, è (,uello che rappresenta l'I- dea <lel Bene (2) : ciò è perchè l'esigenza delia dialet- tica <li Platone è, come vedremo in seguito, V unità di priudpio, sia al punto di vista Unjico, sia al punto di Vista ontolof,ico: così r^gli non attribuisca proj^riamenf^^ la funzione di causa prima, altrettanto che quella di premessa ultima da cui le Idee si deducono, che all'uno dei due principii, conservando in qualche guisa, nello stesso dualismo ch'egli tiene dai Pitagorici, il nioni>smo primitivo ddla Repubblica. Andie ndl'esposizione <l'A- ristotile il principio per eccellenza è quello die corri- sponde all'Idea del Rene (3): così PUno è chiamato spesso il principio (/, ài^xrj) (4), come se Platone non ammettes- m che un principio unico, ed è rappresentato come il prin- cipio attivo, in contrapposto alla Materia che sarebbe un principio passivo, comequando, nelle cosmogtmie dei fisici (1) V. Siippl. e. // pitagorismo nel Timeo, (2) Così (^rautore, interpretando il Timeo, dice che Platone rappresenta il mondo come generato (quantunque secondo lui sia eterno), in quanto non esiste per se stesso, ma deriva da altra causa (Mullach. Fr. 2). (.S) V. (oltre i luoghi indicati nelle tre note seguenti) Met, 1. III. III. 7-S, 13. 1. XI. I. 11, II. 6. (4) V. Met, 1. VII. XVI. 4, 1. XI, II. 7, 1. XIII. Vili. 27. ì. XIV. III. 12, IV. 5. • 18 am — 194 - e dei teologi, trova il suo coniRpoiideute nella causa mo- vente e foniiatrice (p.e.il Nous d'Anassagora) (l),o. nella generazione «lei numeri, lo paragona al padre, mentit? la Materia eorrisp<mderel)be alla madre (2). La vera fun- zione dei due prineipii, del resto, non può essere com- presa eliiaramente che dopo Tesposizione completa della dialettica platonica. Ora (piai è il come di questa causazione che Platone attribuisce aiiridea tlel Bene ? Quest' Idea, non dimenti- chiamolo, non è altro ehe 1' attributi» comune delle cose che noi chiamianio buone, supposto esistente per se stesso, ed inw e ^> stesso in tutti gli oggetti a cui viene attribuito. Per concepire il mo(h> della sua efticienza, noi dobbiamo dun«|ue mettere <la parte qualsiasi rappresentazione che as- simili quest'eftlcienza a (pielladi un agente ]>eisonale, qna- lunqnesiala forma in cui possiamo immaginarla: quando Platone chiama il Bene Dio, egli non fa che una metafora per significare ch'esso è la causa primitiva e universale Da un'altra piute l'enmnazione, Firradiazione e tutte le altre immagini <*he i neo-platonici prendevano dalla natura inanimata, non sono più accettabili che <|uelle che può suggerire l'identificazione del Bene a un Dio personale Ncm vi ha in Platone alcuna traccia di rappresentazioni simili; e d'altromle tutte cpieste ij>otesi Siirebbero super- (1) V. MrL I. 1. Vili. IMI, 1. XIV. IV. 2-4. (2) V. Mei. 1. 1. VI. H. É una ruppiesentazione che rimouta senza (lnl>l»io sino a Platone. 11 Bene nella Uepubblioa è detto . come aì)bianio visto . il padre del sole ; così pure il Demiurgo, nel Timeo, il padre del mondo e dogli l>ei {IHm. 28 e, 37 e. 41 a, 42 e. ecc.). Confi*. Plutarco Pskofjeiiia «Zarata, maestro di Pitagora, «liiamò la Dualità indefinita la madre dei numeri, e 1' Unità il padre) . e ciò cbe abbiamo detto su Serocrate nella nota (2) a pag. 189. / — 195 — fine, perchè ciò che sappiamo della dialettica platonica contiene già una risimsta alla nostra quistione. Le Idee sono dei concetti realizzati, tra cui si pretende stabilire un nesso logico, quello che vi ha tra le i)remesse e le conseguenze nel ragionamento deduttivo. L' Idea del Bene è la premessa prima e assiomatica da cui tutte le altre si dedncono; essa è il princiino di cui queste sono le conseguenze. ISe (piesto nesso logico non fosse che tra proi>osizioni o anche tra semplici concetti, esso non sa- rebbe che logico; ma essendo tra concetti realizzati, non è sohiniente logico, ma è anche ontologico. Se il princi- pio è, la conseguenza è: supposto che «piesto principio e qnesta conseguenza sono delle entità reali, cioè che vi hanno delle entità reali che stanno fra di loro nel rap- porto di priucipio e conseguenza, ciò vuol dire che, data l'entità principio, è <lata anche Pentita conseguenza, in altri termini, che l'esistenza dell'una trascina con sé l'e- sistenza dell'altra, ciò che costituisc-e fra le due entità nn vero rapporto causale, o almeno (luel rapporto ana- logo che i testi ci autorizzano a<l ammettere che Plat<5ne stabilisce tia il Hene e le altie Id^^e. Tra il priììcipium co(jnoscendi e il princip'ìnm essendi, tra il uesso logico e il nesso ontologico, non vi hu duuque semplicemente coincidenza, ma identità: vi ha un nesso unico che è al temiK> stesso logico e ontologico, che noi chiamiamo lo- gico al punto di vista subbiettivo, cioè rispetto al nostro pensiero die deduce le Idee, e <*1ie al ])unto di vista ob- biettivo, cioè considerando le Idee in s:^ stesse, chiamiamo ontologico. Questa identità tra il legame logico e l'on- tologico è indicata chiaramente da Platone (juando, per designare la funzione logica del Hene, il suo posto di primo principio nella deduzione, lo chiama « il principio dell'universo»: questa denomiuazioae sarebbe inoppor- tuna, se la deduzione non fosse per lui una derivazione reale, in altri termiui, se il rapporto tra il principio e — 196 le conseguenze non equivalesse al rapporto tra la eausa e gli effetti. Forse il termine causazione non è il più proprio a designare questa derivazione delle entità conse- guenze dalla entità principio: essa differisce da una cau- sazione almeno in questo punto, che la causa e l'effetto sono due cose distinte e separate, mentre l'entità prin-* cipio inesifite nelle entità conseguenze, essendo una por- zione (la porzione comune) del loro contenuto. È perciò che nei sistemi moderni analoghi al platonismo al ter- mine causazione si è preferito quello di sviluppo: questo secondo termine è il più proprio a significare questo pas- saggio dall'implicito all'esplicito, questo rapporto d' i- dentità, nel tempo stesso che di differenza, fra l'antece- dente e il conseguente, che risulta dalla trasformazione del nesso logico in un nesso ontologico. Tuttavia esso ha bisogno di essere chiarito, aggiungendo che lo svi- luppo di cui si tratta è uno sviluppo necessario, ciò che è al fondo un ritorno all'idea di causalità, che è la sola successione che noi concepiamo come necessaria. Un al- tro chiarimento indispensabile è che in questo sviluppo la successione non è cronologica, ma logica: essa signi- fica che i termini posteriori hanno bisogno, per essere stabiliti, dei termini anteriori, mentre gli anteriori non hanno bisogno dei posteriori. Noi vedremo in uno dei paragrafi seguenti che questa successione logica (che è anche ontologica, perchè 1' obbiettivazione dei concetti porta con sé, come abbiamo osservato, l'obbiettivazione dei loro rapporti logici) è chiamata, nel sistema plato- nico, come poi in altri sistemi analoghi, anteriorità e posteriorità di natura. § 15. Come abbiamo spiegato nel § 12, la dialettica platonica è una serie continua di deduzioni, tale che la conseguenza della deduzione antecedente diviene il prin- cipio di una deduzione susseguente, e che in questa ca- tena di principii e conseguenze ciascun anello è, non 197 — una proposizione, ma un concetto realizzato, un' Idea. Ma risulta dal parag. precedente che il nesso logico tra le Idee è anche ]>er Platone un nesso ontologico. Ne se- gue che la dialettica platonica è anche un incatenamento continuo di cause e di eft'etti,in cni ciascun effetto èia causa di un ettetto ulteriore, sinché la catena sia com- pleta, queste cause e questi effetti essendo, non delle cose che si seguono nel tempo, ma delle cose eterne tra di cui la successione non è che logica E infatti noi abbiamo nettato che quando, descrivendo il metodo di dedurre le Idee, Platone chiama 1' Idea ultima da cui tutte le altre si deducono «il principio dell' universo», egli riguarda evidentemente questa deduzione come una derivazione reale. Ora questa deduzione è a gradi mul- tipli — il dialettico, attinto il principio dell'universo, si attacca a ciò che è attaccato ad esso, e discende così sino alla conclusione, andando ad Idee per via d'Idee, e terminando ad Idee —. Dunque anche la derivazione è a gradi multipli, e come la premessa ultima da cui tutta la serie si deduce è il principio primo (nel senso onto- logico) rap[)orto a tutta la serie, così le ])reniesse parti- colari sono dei principii secondi e derivjiti rapporto alle Idee particolari che se ne deducono. Una conferma di questa interpretazione si ha nel Me- ' none 98 a (1. cit. al § 9), in cui si dice che le opinioni divengono conoscenze scientifiche, quando sono legate per il ragionamento tirate» dalla causa, {aluag Anyia^oì) Questo legame è il legame deduttivo che incatena tutto lo scibile, e le cose che esso lega sono, non delle pro- posizioni, ma delle Idee. Infatti Socrate soggiunge: «que- sta è la reminiscenza di cui sopra abbiamo parlato , e la reminiscenza è il ricordo dell'intuizione delle Idee (1) (1) V. ^ 12 n. 4 uota 2 a y. 175. — 198 — Così il rafjìonamento tirato dalla causa sigli itìca: la de- duzione di un' Idea da un'altra Idea che ne è la cauna. Tuttavia potrebbe credersi che questo luogo non abbia la portata che uoi gli attribuiamo, perchè la parola tutia significa spesso in Platone, non la causa efficiente, ma sera- pliceniente la raf/ioììe. Delle prove più concludenti troviamo in Aristotile, ma esse non possono essere con) prese che dopo un'esposizione completa del metodo dialettico. Noi le ri- mandiamo perciò ad un alti'o paragrafo, e pei- ora ci li- miteremo ad aggiungere alcune osservazioni d'indole ge- nerale. La prima è che in tutti i sistemi in cui, come in <luello di Platone, vi ha la realizzazione dei c<mcetti u- nita al metodo deduttivo, vi ha pure 1' identità dello sviluppo logico con lo sviluppo (mtologico. È ciò che ab- biamo osservato pei sistemi di Hegel, di Schelling, di Taine, e che osserveremo in seguito per cjuello di Spi- noza. In alcuni di «piesti sistemi la derivazione delle T- dee è chiamata nno sviluppo, in altri (come abbiamo visto nel sistema di Taini^, e come vedremo in quello di Spinoza) è data apertanu^nte per una causazione, e- gualmente che nel sistema platonico. L'argomento tirato da quest' analogia diviene più fort;e, se si jiensa che le particolarità del metodo deduttivo seguito in (piesti si- stemi — cioè che la deduzione è una dhnostrasione (vedi § 12 n. 2^), che essa è immediata (v. n. 4*^), che i prin- cipii e conseguenze sono n<Hì delle ])roposizioni ma dei concetti realizzati (ivOi ^ ^^- J^ltre di cui abbiamo parlato al §12 - sono comuni anche a Platone, ed esse tendono tutte — ciò che per alcune è evidente, e per le altre spiegheremo in seguito — ad assimilare sempre più il rapporto tra il principio e la conseguenza a quello tra la causa e l'elletto. Queste analogie non si spiegano che por l'impressione comune che (piesti sistemi tendono a produrre, che è la realizzazione dell'idea di causalità ef- — 199 — fìciente per la trasformazicme del nesso logico, introdotto fra i concetti, in un nesso ontologico. Un'altra osservazione che conduce per un' altra via allo stesso risultato, è che l'origine d<»lla dottrina delle Idee non può trovarsi altrove che nella ricerca delle cause efficienti. In generale un'ii»otesi metatisica nasce dall'una o dall'altra di queste due quistionì: (|uali sono le cause efficienti 1 qual è la cosa in se di (piest' apparenza che chiamiamo materia ? Le Idee non possono essere una soluzione del problema della cosa in se: 4|uesto i»ro- blenia non esiste per Platone ; egli è un realisla uatu- rate, come «piasi tutti i filosofi della sua e])Oca. Per conseguenza l'ipotesi delle Idee non ha psituto avere il suo punto di partenza che* nel [U'obhMua delle cause ef- ficienti. E lo stesso Piatirne «iichiara che è cosi. Nel Fe- done (96a-10l e)egli ci racconta come sia pervenuto alla dottrina delle Idee e della dialettica. Da giovane si era dato con ardore allo studio della fisica, bramoso di co- nosc(Me le cause di tutte le cose, perchè ciascuna: cosa nascr*, perchè perisce, perchè esiste (9() a-1)). Ma questo studio, lungi di fargli cimoscere il perchè dtille cose, gli rese incomprensibili i fatti stessi che ])rima gli parevano 'più chiari. (9(» c-97 b) Lesse con lo stesso ardore ì libri mI' Anassagora, piacendogli la sua <lottrina che V intelli- genza è la causa di tutto; ma non vi trovò, come spe- rava, una spiegazione teleologica dell'uni verso (97 b — 99 a). Vide invece che Assagora fa come gli altri tìsici, •i quali non ammettono che cause meccaniche, scfuhbiando per la vera causa ciò che non è che la <*ondizione senza di cui essa non produrrebbe il suo effetto. (99 b-c) Per a|q>rendere (piale fosse questa causa si sarebbe fatto vo- lentieri il discepolo di chicchessia; ma non avendo po- tuto uè ini parali j da altri uè trovarlo da se stesso, si mise per un' altra via alla ricrerca d(4la causa (99 c-d). Pensò che bisognava guardare le cose non in se stesse, - 200 — — 201 — iiiji iK*i Ioni '/.óyot^ paileDclo sempre dal h'tyn^ cìie gli seniln-asse il iiic<;!:lio stabilito, e declucendone tutto il resto (99 d-l(X) a~ V. $ 9 nota iniiiia e J 12 d. 4 nota ]ninìa). La specie di causa die escogitò è quella di cui non cessa mai di parlare, l'Idea del bene, del bello, del grande e di ogni altra cosa (100 b). E d'allora alla quistione quale sia la causii d'una cosa o d' un suo attributo, egli non dà che questa risposta assai semplice, che è l' Idea della cosa o dell'attributo (100 c-101 e) ; e se deve dare ragione di quest'ipotesi, lo fa deducendola da un'ipotesi 8U])eriore, e cos'i di seguito, sincbè pervenga a un prin- cipio che basti a sé, stesso. (101 d-e V. $ 9 nota secon- da) Nel VII della Repubblica la conoscenza ein[Mrica è distinta dalla vera scienza, in quanto ha per oggetto, non dei veri rapporti causali, ma delle semplici sequenze invariabili: tutta la scienza del prigioniero nella caverna si riduce a sapere come le ombre sogliono seguirsi e ac- com])agnarsì (V. $ 13 n. 2^*); ciò che implica che Platone ha il concetto d'una causazione jnù vera che quella che egli trova nel mondo delle cose, e che non ha potuto trovare che nelle Idee e nella dialettica. Alle dichiara- zioni <li Platone dobbiamo aggiungere la testimonianza di Senocrate, il quale detìnisce la filosofia (che per un platonico non piu> essere altia cosai che la dialettica) € la scienza delle cause jn'ime e dell'essenza intelligibi- le y> (l;, e qu<*lla d' Aristotile, che cominciii il capitolo in cui fa la critica del sistema delle Idee, osstM-vando che i partigiani di questo sistema vi furono condotti dalla ricerca delle cause. (2), (1) V. MuUacli Fraiiiiii. 6i. [2) Mrt. 1. I. IX. 1. Ora in (jual modo le Idee possono fornire una spie- iì:azione causale delle cose? Fcuse in quanto un'Idea è la causa delle cose omonime'!^ in quanto, p. e., le cose belle sono tali per la presenza o la partecipazione del Bello, le cose grandi pei- quella del Grande, eccJ Comun- que s'interpreti il rapporto tra le Idee e le core, è evi- dente che questa non è una spiegazione. 8e ammettiamo, come vogliono la più parte degl' interpreti, che le Idee siano fuori delle cose, tutto il rapporto tra le Idee e le cose è che quelle sono i modelli e queste le copie : ma resistenza dei modelli non spiega menomamente 1' esi- stenza delle copie. Ciò è sì evidente che gP interpreti trascendentalisti sono stati costretti ad ammettere che la dottrina delle Idee non ha per iscopo di spiegare le cose, ma di rendere possibile la conoscenza (1). Se in- vece le Idee sono, come noi crediamo, nelle cose stesse — cioè se un'Idea non è che Fattributo omonimo delle cose, supposto esistente per se stesso, ed uno e lo stenao in tutti gli oggetti a cui viene attribuito — certamente l'esistenza delle Idee porta necessariamente con se l'esi- stenza, nelle cose, degli attributi omonimi. Ma è questa una spiegazione ? È spiegare le cose dire che esse hanno un certo attributo per la presenza o la partecipazione di -iiuest'attributo, considerato come una realtà e ncm conie lina semplice astrazione ? È una di quelle spiegazioni che il Bain chiama illusorie, e che c<msistono a ripetere in altri l^ermini il fatto stesso che si tratta di spiegare (nel nostro easo, il fatto è tradotto dal linguaggio ordinario in quello della filosofia realista): una spiegazione perfettamente si- mile a quella del medico di Molière, che 1' oppio fa donnire perchè ha la virtù dormitiva ; in uua parola non una (1) V, per qiiest opinione il Sappi. B parte I. n. 3. spiegazione, ma iiua pura tautologia. Qualunque sia tlunque il modo d'interpretare le Idee, che esse siana immanenti o trascendenti, varrà sempre [ler questa jjarte la critica d'Aristotile, eh' esse sono un inutile raddop- piamento degli esseri, e che Platone iia fatto com(» aK cuno che, volendo contare un certo nuniero di oggetti, per riuscirvi più facilmente, ne aggiungesse degli altri. Noi non abbiamo, per cimseguenza, la scelta che fra due i- potesi : o le Idee non hanno alcuna reale ethcienza né alcun vah)re reale cernie principii esplicativi, o se li hanno, noi dobbiamo cercarli, non nel loro rapporto con le cost^ ma nei loro rapporti fra di loro, cioè nella dialettica. Ciò vuol dire che Platone ha voluto spiegare, non le e- sistenze particolari, ma :e forme generali di <|ueste esi- steuze — spiegare significa mostrare il modo in cui le cose si producono —, e la sua spiegazione consiste in ciò, ch'egli deduce queste forme le une dalle altre, a partire da un primo principio assiomatico, e le riguarda come esistenti per se stesse, affinchè questji deduzione sia al tempo stesso una produzione reale. È solo a questa con- dizione che la dottrina delle Idee è una dottrina liloso- fica. Noi osserveremo infine che 1' identilà dello svilupfio logico con l'ontologico è suppost4i dall'inseimrabilità che ]*latone stabilisce fra la scienza o la dialettica e le Idee. È una sua dottrina costante che la dialettica non ha \ìer oggetto che le Idee (1), e cosi puie la scienza (2). Ciò non è, come potrebbs credersi, perchè il «concetto gene- rale si riferisce all' Idea: infatti, come vediamo nel Ti- meo 59 c-d e nel Filebo 59 a-b, egli dà per ogg<*tto alle (1) V. /*/. r)7 e — Tiil d, ò'o/. 25S r — 254 a. Hejj. 5:52 a — 534 e. eoe. (2( V. Jiep. 47« e -180 a. 5(«> il -511 e. 538 l>— 534 a. ecc. — 203 ricerche fisiche, quantunque evidentemente esse si rife- riscano al generale e non al particolare, non le Idee j ma i semplici fenomeni. La dialettica, invece di dedurre le Idee stesse, potrebbe dedurre i generi e le specie delle cose che le Idee rappresentano : ma in questo caso la deduzione non sarebbe una derivazione reale, perchè, come abbiamo più volte osservato e come spiegheremo più chiaramente in seguito, è la sostantifìcazione dei concetti che trasforma il nesso logico fra di loro in un nesso ontologico. Ora la deduzione per Platone deve es- sero una derivazione reale — senza di che essa non sa- rebbe una spiegazione— :ecco perchè la scienza, il cui ca- rattere essenziale è il metodo deduttivo, e la dialettica, che non è che un altro nome per significare questo me- todo, non possono avere secondo lui altro oggetto che i concetti sostantitìcati. Questo ci fa comprendere pure un argomento del Parmenide (135 b-c; per istabilire l'esi- stenza delle Idee, cioè che se non si ammettessero ciue- ste, si distruggerebbe la dialettica; e unakro, che non ne è che una variante, del Timeo (51 d — 52 a), in cui l'esistenza delle Idee si fa dipendere dalla difì'erenza fra la scienza e l'opinione vera, cioè, al fondo, dalPesistenza «tessa della scienza. In un senso si ha ragi<me di dire che la dottrina delle Idee ha per iscopo di rendere la scienza possibile. Le Idee, senza la dialettica, non avreb- bero alcun valore, ma questa senza di quelle sarebl>e un semplice metodo subbiettivo, e non, come è per Pla- tone, la rappresentazione del processo stesso per cui le cose si producono; quindi le Idee non hanno altro scopo che di rendere la dialettica possibile. Per la trasforma- zione delle veritji generali in esseri generali, l'incatena- mento deduttivo divenendo un' incateuamento causale y la scienza si trova costituita, perchè essa è, come dita poi Aristotile, la conoscenza della causa. $ 16. Noi abbiamo esposto sin qui (salvo un sol punto, - 204 — <5Ìoè rassegnazione del posto di primo principio all' Idea del Bene) i caratteri della dialettica platonica che essa ha comuni con gli altri sistemi costruiti sullo stesso tip<», <ihe noi chiamiamo realismo dialettico: ci restano ad e- ^porne i caratteri propri e distintivi. Quest'ordine a cui ci conformiamo, per quanto ci è possibile, nella nostra esposizione, ci è consigliato dalla natura stessa del sog- getto La deduzione di Platone, di Hegel e di rutta que- sta famiglia di metafìsici non è niente affatto una de- duzione nel senso ordinario e vero di questo termine ; e ciò per questa ragione assai semplice, che il vero me- todo deduttivo, quello che la logica (udinaria chiama così, non si presterebbe all'applicazione che, nei loro si- stemi, pretendono fare di questo metodo. È evidente che questi filosofi, poi metodi particolari ch'essi hanno im- maginato, si sforzano di imitare, per (juanto è possibile, ciò che la logica chiama il metodo deduttivo : tutta la forza e il valore dei loro sistemi è in quest' apparenza <ìi deduzione, di cui sono obbligati a contentarsi, in di- fetto di una deduzione reale. Ma le loro imitazioni (si pensi p. e. alla deduzione di Hegel), sono sì difformi dal loro modello, che sarebbe impossibile di comprendere lo scopo e il significato di questi metodi, se non si sapesse prima (piai è l'ideale di metodo ch'essi cercano di rea- lizzare, approssimativamente e alhmtanandosene in sensi differenti. Ecco il perchè dell'ordine che ci siamo tracciati nell'esposizione del metodo platonico. La stessa eccezione che siamo stati obbligati di fare alla regola che ci siamo proposta— perchè senza di ciò non avrem- mo potuto stabilire gli allri punti della dottrina che ab- biamo trattati — è appena se è un'eccezione. Tutto ciò, infatti, che abbiamo detto del primo principio di Platone — salvo questo nome: < il bene >, c<m le suggestioni che esso implica — potrebbe convenire ugualmente allo -«assioma eterno» di Taine, o alla Sostanza di Spinoza, __ — 205 — o all'Assoluto di Schelling. Noi non sappiamo altro sin qui se non che il concetto primitivo da cui tutti gli altri si deducono, è chiamato da Platone l'Idea del Rene: ma. qua! è precisamente il contenuto di questo concetto ? e (piale la sua relazione con gli altri concetti ? È da questi due punti che cominceremo il resto della nostra espo- sizione. La relazione dell' Idea del ]5ene con tutte le altre è quella del genere con le specie: ogni Idea, e per conse- guenza, ogni cosa è una determinazione o una forma particolare del bene (rò «/«.'/ó//, che varrebbe forse me- glio tradurre: il buono). Così secondo la Repubblica (533 b-c) il dialettico definisce 1' Idea del Bene, astraendola (à(ùeh(^y) da tutte le al tre (1); secondo il Filebo (54 a-c) ogni essenza è nella classe del bene; secondo il Fedone (1. e. al $ 13 n. 3) ciò che esiste è sempre l'ottimo, e il bene h^^a Q contiene tutte le cose; secondo il Timeo tutto ciò che è fatto secondo un modello eterno (cioè secondo una Idea) è bello (28 a-29 a — il bello per Platone è, come diremo in seguito, identico al bene), e il Demiurgo, nella creazione dell'universo, volle che ogni cosa fosse buona, per quanto era possibile, e costruì il bene in tutto ciò^ che fu generato (29 e— 30 b, 48 a, 68 e, ecc.) Delle prove ancora più concludenti troviamo in Aristotile. Noi ab- biamo già visto che il primo principio platonico (che A- ristotile chiama abitualmente l'Uno o l'Essere, e che i- dentifìca al Bene) è 1' essenza comune di tutte le Idee (§ 14), e l'astrazione suprema in cui tutto si unifica ($ 15 n.4«)(2). A queste indicazioni aggiungeremo queste altre (1) V. per quest' espressione e le altre analoghe di cui Pla^ tone si serve per indicare l'astrazione, il Suppl. B n. 6° sulla fine. (2) Coint» abbiamo osservato al 6 6<) n. 4^ la tendenza del rea* — 206 — (per coiupreiulere la ciji portata iiou si deve dimenticare che l'Uno o Essere deiresposizione aristotelica non è altra cosa €he il Bene della Repubblica): L'Uno è 1' sló'oz e \a forma di tutti i numeri (cioè di tutte le Idee) (1), e <|uesti sono con esso nello stesso rapporto clie le specie col gene- re (2'. L'identità dell'Uno col Bene e dei numeri con le Idee ha per conseguenza che tutte le Idee e tutte le cose sono, seccmdo Platone, dei beni (3). L'Uno o l'Essere è l'Idea più universale (4) : essa non è Kemplicemente un universale, ma un genere (5); è il prim<t genere^ cioè il genere sonnno(6),che si predica di tutte le cose e in cui tutte le cDse sono contenute (7). Notiamo, infine, Targo- mento con cui si dimostrava l'esistenza del Non Essere, che, se non esistesse questo, tutti gli esseri si ridurrebbero ad un solo, l'Essere stesso (8): esso sup[K>ne che il contenuto d'ogn'Idea consti di due parti, la comune o generiCii, che è l'Essere, e la propria e distia ti va^ che non essendo l'Essere, può essere compresa sotto il concetto generale del Non Essere. Del resto è si ovvio che Platone abbia ammesso l'universalità assoluta dell'Idea dell'Essere, che lisnio dialettico :i risolvere il tutto uel primo priucii)io deve ren- lizzarsi d'una maniera più completa in un sistema, in cui, cimie in quello di Platone, il primo principio è al tempo stesso il con- cetto più generale nel quale tutti gli altri sono compresi. (1) V. AfeL 1. I. VI. H. l. XIII. IX. 24-28. 1. XIV. 1, 4. (2) Mei. 1. XIII. IX 5. (:^) 3[et. 1. XIV. IV. 5-(). (4) Met. 1. III. III. 7, 13, 1. III. IV. 24, ecc. (5) Mei. l. I. IX. 24, 1. III. III. 7, 8, 13. 1. Vili. VI. «. 1. X. II. 2, 1. XI. I. 11. (6) Mei. 1. 111. III. 7-8. 13, 1. XI. I. 11. (7) 3Iet, 1. I. VI. 7, 1. III. III. 7-8. 1. VIII. VI, H, 1. X. 11. 1-^2, 1. XI. I. 11, ecc. (8) Mei. 1, XIV. II. 4. - 207 — noi avremmo potuto su questo punto dispensarci di qual- siasi prova, limitandoci a ricordare il punto realmente importante, cioè l' identità fra quest' Idea e quella del Bene (1). Ora <|ual è il signilicato o, come abbiamo detto, il contenuto dell'Idea del Bene ? di quest'Idea che Platone identifica con quella dell'Essere, peichè vi vede il piano o il tipo generale secondo cui tutti gli esseri sono co- stituiti ? Elevando il concetto del bene (o, piuttosto, del m buono) a tipo universale, Platone vuol dire evidente- mente : che tutte le opere della natura sono ben fatte, che da per tutto domina il principio delle cause finali, e che 1' universo dev' essere spiegato teleologicamente . Così Aristotile fa corrispendere il Bene platonico alla |1) Nel periodo pitagoreggiante, in cui al mtnisitio h sosti- tuito il dualismo^ V elemento materiale è altrettanto univorsak*. e della stessa maniera, che l 'elemento esaemiale. Per più anq>i sviluppi su questo punte» rinviamo al Suppl. B parte 1» n. 7, B, e al Suppl. C. / (Ine clementi: e intanto citiamo: Platone Sof. 2.">fi d-25ii h (universalità assiduta del No)i Essere — che, come ve- dremo, non è altro che la Materia dell'esposizizionc aristotelica — e sua inerenza, come attributo, in tutte le Specie), Aristotile Phys. 1. III. VI. 11 (il Grande e Piccolo, cioè la Dualità inde- finita, contiene tutti i sensibili e tutti gl'intelligibili). Mei, l. III. III. .5 (i platonici sembrano servirsi dell'Uno o Essere e del Grande e Piccolo come di generi), 1. V. III. 1 (gli elementi sono i massi- mamente universali) e 1. XII. X. 4 e 1. XIV. IV. 7 (l'elemento ma- teriale essendo identico al male, tutti gli esseri devono partecipare al male — si noti che nel linguaggio platonico la partecipazione di un'Idea è hi sua inerenza quale attributo — ). Nel terzo dei luoghi citati Aristotile dice sembrano, perchè. quautun<iue il principio materiale abbia lo stesso dritto ad assere riguardato come ge- nere, pure Platone non considera come tale (e quindi anche cmue Idea) che il principio essenziale. — 208 — 8iia causa fiuale, al rò oi'J 'ty^xx (1). Vi ha però fra i due coll- idetti questa differenza, clie il bene di Platone non può signi- ficare il fine per cui una cosa esiste, come il rò ov tPBxa di Aristotile, perché in questo caso non sarebbe l'essenza stessa della cosa (2). Piuttosto che il fine stesso, esso in- dica dunque l'appropriazione delhi cosa a «piesto fine: in altri termini, ogni cosa è buona, per Platone, in quanto è appropriata a un certo scopo, e questa proprietà ge-^ uerale delle cose di avere degli scopi ed esservi appro- priate, considerata in astratto e sostantificata, si chiama l'Idea del Bene. Il miglior commentario della dottrina sul Hene è il suo legame col concetto di una mente ordinatrice. Noi abbiamo visto come nel Fedone la proposizione che tutto è il meglio possibile, è presentata come una conseguenza (1) V. Mei, 1. I. VII. 4-5. IX. 21. (2) È perciò che Aristotile uega che Phitoiie uhbhi aiumestitt^ nel senso proprio, la ciuisa iiuale. V. Mvt. l. l. VII. 4..5, 1. ^^, Da (luesto luogo e «lall'altro citato nella nota precedente (in cui dice che le Idee non hanno niente a fare con la causa, finale, quantunque Platone ahhia fatto di questa uno dei due principii) fti h concluso ohe secondo Aristotile il suo maestro ha omesso il principio delle cause finali. La verità è che Aristotile atterma non che egli ha omesso questo principio, cioè la dottrina che vi hanno dei fini nella natura (ciò che sarebbe un errore evidente e ine- splicabile) . ma che secondo lui il fine non ò una causa ; e ciò perchè, nel senso speciale che la parola causa ha nella dottrina delle Ideo, ohe Aristotile riguarda giustamente come il punto centrale della filosofia di Platone, non vi hanno per questi altr» cause che il principio essenziale e il principio materiale. È per la stessa ragione che gli rimprovera puro di aver omesso la causa efficiente (v. MtL 1. I. VI. 7. 1. I. VII. 3, 1. I. IX. 21, eco.) . quan- tunque r anima sia evidentemente per Platone una causa effi- ciente, nel senso aristotelioo, cioè motrice. — 209 — della dottrina, desiderata in Anassagora, che il Nous, causa prinui dell'universo, ha disposto tutte le cose nel miglior modo in cui potevano esserlo. Il desideratuìu del Fedone è realizzato nel Timeo. Ecco in breve la cosmo- gonia che ci è narrata in questo dialogo. Il mondo, cioè l'universo ordinato, il cosmos, è 1' opera di un artefice supremo (demiurgo), che si è associati, come esecutori dei suoi disegni, altri artefici inferiori (divinità generate dal demiurgo). Prima dell'azione demiurgica la uiateria era in uno stJìto caotico: Dio volle che ogni cosa fosse buona, e cangiò il disordine primitivo nelFordine attuale, servendosi come di mezzi delle cause materiali, ma co- struendo egli stesso il bene in tutto ciò che produceva (1) Egli (il demiursjjo) diede la forma agli elementi, ne com- pose il corpo del mondo, produsse l'anima e gli animali immortali (cioè, oltre il mondo stesso, la terra e i corpi celesti) ; le divinità generate, imitando la sua potenza creatrice, produssero i vegetali, l'uomo e gli altri ani- mali mortali. Il Demiurgo e gli Dei generati agiscono, in tutto ciò che fanno, con un piano e per uno scopo : per ogni cosa prodotta, Timeo ci mostra la provvidenza e i savi consigli della divinità che hanno presieduto alla sua produzione (2). Egli distingue due generi di cause, la necessaria, che non è che una concausa, i cui effetti sono fortuiti e irregolari, e la divina, che produce con intelligenza il buono e il bello (3). Il meccanismo delle cause finali è assimilato così completamente al suo tipo, cioè all'art^e umana, cjie la creazione del Timeo può dirsi, a rigor di termini, una vera fabbricazione (4). (1) Tim. 30 a, 46 c-d, 68 e. (2) Tim, 30 b, 31 e— 32 e, 32 e -33 a, 33 b, 33 e— 34 b, 38 o, 39 b, 40 a-b, 4 1 e, eco. (3) Tiii^. 46 o-e, 48 a, 68 e — 69 a. (4) V. Tim. 33 b, 36 b— e, 73 e, 74 c-d, 76 b-c, ecc. 14 — 210 — Sarebbe difficile di dire sino a qiial punto la teleo- logia di Platone è realmente, come apparisce nel Fedone e sovratutto nel Timeo, una teleologia trascendente, cioè implicante un agente iperfìsico, analogo alla volontà umana. È una dottrina non dubbia del nostro autore che l'anima è la causa prima del movimento, per con- seguenza di ogni fenomeno, e che quella che governa il mondo è l'anima migliore, cioè intelligente (come di- mostrano i movimenti dei corpi celesti), e agente sempre in vista del bene. (1) Ma non ne segue che il bene deve essere spiegato interamente per V anima. Vi hanno al- meno due casi in cui questa spiegazicme è certamente inapplicabile: l'anima non ha potuto produrre se stessa (che è anch' essa una specie del Bene), né niente di ciò ch'è eterno, perchè essa è una causa che agisce nel tem- po, e la cui efficienza è semplicemente motrice. Ora come vedremo nel Suppl. C (2), il mondo, cioè il sistema at- tuale dell'universo, è, secondo Platone, eterno, e la co* smogonia del Timeo non deve essere presa in senso let- terale. In quanto al Demiurgo, la cui funzione è di pro- durre ciò che non potrebbe essere prodotto dall'anima, esso non è che un simbolo dell'Idea del Bene: la causa immanente del Bene è rappresentata come un agente e- steriore e personale (3). Non vi ha dubbio quindi che la teleologia platonica non sia, sino ad un certo punto, immanente : in un senso, essa lo è anche interamente, perchè anche nei casi in cui il bene deve essere spie- gato per l' anima, questa non ne è la causa che in un (1) V. Leg. 891 c-898 e, 903 b-d, 966 d— 967 d, Epinom. 982 a— 983 d, 988 o-e, Fedro 245 e— 246 e, FU. 26 e— 30 d, Sof, 265 b— 266 e, Rep. 379 a— 380 e, ecc Confr. il Suppl. D. (2) Il pitagorismo nel Timeo. (3) V il Suppl. C. // pitagor. nel Tim, — 211 — senso, per dir così, fisico, cioè come un semplice ante- cedente. La vera causalità sta nella connessione logica delle Idee, e in questo senso il bene non ha altra causa che se stesso, perchè il bene nelle cose non è che l'Idea stessa del Bene, e questa è una necessità primordiale dell' essere, il principio assolutamente primo che non suppone niente prima di sé (l). Perchè dunque questa etessa teleologia immanente è rappresentata da Platone come una teleologia trascendente "? Perchè egli sa che il concetto di finalità incosciente non può essere compreso che per quello di finalità cosciente (1). Il fine è un'idea essenzialmente umana, e applicarla alla natura è stabi- lire un'analogia fra le sue produzioni e quelle della no-» (1) € Vi hanno in Platone, dice Janet (Le cause finali Appen- dice IX) due teorie della iiualità l'una metafisica, l'altra tìsica. Secondo 1' una, le cose sono buone perchè partecipano al bene ; secondo l'altra le cose sono buone perchè sono fatte per il bene. Nel primo caso la finalità è immanente e deriva da una causa impersonale : nel secondo caso è trascendente, e suppone una causa personale. » Bisogna aggiuugere però che la prima teoria si applica universalmente a tutte le cose, mentre la seconda, nella sua applicazione, è necessariamente limitata. Inoltre po- trebbe dubitarsi se le due teorie siano realmente inconciliabili come crede il Janet: esse non lo sono che se si ammette che la spiegazione del realismo dialettico, che rende ragione dei fatti deducendoli da principii logicamente anteriori, è incompatibile con la spiegazione fisica, che ne rende ragione per altri fatti anteriori cronologicamente (antecedenti invariabili). Il contrasto, qualunque esso sia, delle due teorie della finalità non è che quello delle due dottrine distinte della metafisica di Platone, quella delle Idee e quella dell'anima, e dei due concetti distinti della causalità di cui queste due dottrine sono l'applicazione. (2) Si vedano pure, sui motivi del simbolismo del Timeo, le altre considerazioni che facciamo nel Suppl. C. Pitagor, nel Tim. — 212 — stra attività. L'espressione ^/mZ?7à incosciente o immanente non è che un' enunciazione più breve di questa propo- sizione: che i prodotti della natura sembrano^ quantun- que non lo siano, gli effetti di un'attività cosciente, a- gente con un piano e per uno scopo. Ogni definizione possibile della finalità deve tornare, in ultima analisi, a quella di Reid, in quel suo principio metafisico che ha tutta l'apparenza d'una tautolo.i^na: «I sefjni deW intelli- yenza e del diserjno nell'effetto provano un disegno e una intelligenza nella causa. » (1) Questo è dunque il con- cetto che Platone sviluppa nel Timeo e nel Fedone: le cose della natura o sono effettivamente l'opera d'un'in- telligenza agente con un piano e per uno scopo, o sono costituite come se fossero l'opera d'una tale intelligenza. È perchè sono costituite così che esse si chiamano buone, e questa costituzione stessa, concepita aviò xaO' abtó^ è l'Idea del Bene, forma comune di tutti gli esseri (2). Questo significato dell'Idea del Bene risulta nettamente dai caratteri per cui Platone la definisce. Alcuni di questi (1) Reid Saggi sulle facoltà inlelleUunU delVnomo. Saggio 6» oap. 6". (2) Anche nel Gorgin. 506 d, il concetto del Bene è chiarito per la sua analogia con la finalità umana. « Noi siamo buoni, noi e tutte le altre cose che sono huone . per la presenza di qualche virtù. . . . Ma la virtù di ciascuna cosa, o strumento o corpo o anima o qual si voglia essere animato, non vi si trova all'avventura, ma si deve all'ordine, alla regola e all'arac che sono stati posti in ciascuna di queste cose ». Qui la parola arle^ in quanto si applica agli oggetti naturali, sembra non avere che un valore metaforico, come quando noi [>arliamo dell'ar^t^^io della natura — Kant dice: la tecnica della natura (Critica del giudizio, passim) — senz^ivere perciò Tintenzione di personificarla, ma u- nicamente per indicare V analogia fra certi prodotti naturali e quelli dell'industria umana. - 213 - caratteri non sono che delle espressioni generiche della idea di finalità: l'ordine (raf^c, xófruog) (1) raccordo fra i vari elementi di un tutto (2), la proporzione (3), il mi- surato (4), l'opportuno (5). ecc. Una determinazione più precisa è 1' appropriazione di ciascuna cosa alla sua fun.- zione: la virtù o la bontà dell'occhio è di essere appro- priato alla vista, dell'orecchio, all'udito, ecc. (6). Ma questa definizione non conviene che a quella che si è chiamata finalità di uso o di appropriazione, e il cui tipo è l'or- ganizzazione degli esseri viventi, in cui le diverse parti sembrano fatte l'una per l'utilità dell'altra, e tutte per l'utilità dell'insieme. Così nel Timeo, descrivendo la for- mazione degli animali, Platone non manca di mostrare, per <iuanto glielo potevano permettere le sue conoscenze fisiologiche, 1' uso di cia^^cuna parte e lo scopo per cui è stata costruita così (7). Da questa specie di finalità pos- siamo distinguere col Janet (8) quella che egli chiama finalità di piano, e per cui tipo possiamo prendere i movi- menti regolari del nostro sistema planetario. È sovratutto comefinalitàdi pianoche il bene è realizzato dal Demiurgo: nei movimenti regolari degli astri (9;, nella forma sferica del cielo e dei corpi celesti (10), nelle forme dei corpi ele- (1) Gorg. 503 e— 504 d, 505 d-e, Tim. 30 a, Bep. 500 c-e,ecc. (2) FU. 25 e — 26 d, «3 d — 64 a, Sof. 228 a, Bep, 441 e — 444 b, Bep. 591 d. ecc. (3) FU. 64 d — 65 a, 66 a-b, Tim. 87 e — 88 e. (4) FU. 64 d-e, 66 a-b. (5) FU. 66 a (6) Bep. 352 e — 354 a. V. ancbe 601 d. (7) V. Tim. 44 e — 47 d, 69 e — 76 e, 77 e — 79 a. (8) Le cause finali 1. I cap. V. pag. 227 e seg. (9) V. Tim. 34 a — 40 d Cfr. Leggi 896 e - 898 e e 966 e— 967 a. (10) Tim. 33 b e 4i) a. — 214 — mentari, che sono ì poliedri re^ijolari della geonietria(l),iiella proporzionalità fra i quattro elementi di cui è composto il corpo del mondo (2), e in una parola in tutto ciò che è prodotto dal Demiurgo stesso. Nel periodo pitagoreg- gìante questa forma di finalità prende il passo sull'altra^ prestandosi più facilmente a un' interpretazione mate- matica: così, secondo VEpidomide (3), il numero è la causa di tutti i beni, ed è « assente da ogni movimento in cui non vi ha né ragione uè ordine né beltà né ritmo né armonia, e in generale da tutto ciò che partecipa a qual- che male. » In questa forma, il Bene si manifesta nelle essenze stesse dei numeri come ordine regolare ed im- mutabile (4). Il principale ostacolo all' intelligenza di questa dot- trina di Platone é che una dottrina essenzialmente on- tologica é presentata da lui come una risposta a una quistione puramente etica (5). Alla domanda dei socra- (1) Tim. 53 b — 5p e. (2) Tini, 31 b — 32 e, 56 e, 69 b. (3) 978 a-b. (4) Arist. Eth, End. 1. I. Vili. 12-13. (5) Ciò fa prima di tutto per evitare T inverosimiglianza di attribuire a Socrate delle rioercbe troppo diverse da quelle obe gli erano abituali; nel cbe, oltre un intento letterario, vi ha l'in- tenzione seria di riattaccare le proprie dottrine a quelle di lui^ facendo vedere cbe non ne sono cbe uno sviluppo (su questa ten- denza di Platone a riattaccarsi ai lilosofi precedenti, v. Supple- mento C. // Pitagorismo nel Timeo e nel Fileho, sul principio; Sono gli stesM motivi per cui, nell'esposizione della teoria delle Idee, gli esempi più abituali sono dei concetti morali, o di cui si fa uso continuamente nella conversazione ordinaria: p. e. il buo- no, il giusto, il bello, il grande, il piccolo ecc. (nel Parmenide — V.130 b-e— Socrate esita se deve ammettere Idee dell'uomo, del fuo- co, dell'acqua e, in una parola, degli oggetti della natura.) Sembra — 215 — tici: quale il bene per noli in altri termini, in che consiste la felicità umana ? egli risponde con una teoria sul bene delVuniverso. Il Bene, essenza comune di tutto ciò che esiste, é questo stesso bene, a cui ogni anima a- spira, facendo tutto in grazia di esso (1), che alcuni ri- ducono al piacere ed altri all'intelligenza (2), ma che è superiore all'uno e all'altra, perchè esso è perfetto e pie- namente sufficiente, mentre nessuno si contenterebbe di una vita di piacere senza intelligenza né di una vita di intelligenza senzii piacere (3). Evidentemente, questa i- dentificazione non importa per Platone che il concetto della felicità sia identico a quello del Bene, oggetto su- premo dell' ontologia, perchè noi non potremmo attri- buirgli il non senso che la forma o essenza comune di tutto ciò che esiste, è la felicità. La felicità è un bene, non il bene, vale a dire non è che una delle specie con- tenute nel genere supremo Nondimeno Platone può ri- guardare il possesso della felicità come la stessa cosa che quello del Bene, perchè questo stato desiderabile dell'a- nima, in cui consiste la felicità, è tale, e non il suo con- trario, per la partecipazione o parusia del Bene. Così, questo Bene la cui parusia nella vita umana costituisce la felicità, essendo quel Bene stesso che ò il piano ge- nerale secondo cui tutti gli esseri sono costituiti, alla inoltre che Platone abbia paura cbe lo si accusi di smarrirsi in speculazioni oziose: è un resto di quell'utilitarismo socratico (v. Senof. Memorah. l. 4» o. 7o), di cui, pur ridendosene qualche volta (v. Rep. 527 d-e), dà un'esempio non dubbio, quando ban- disce i poeti dalla sua repubblica (v. l. 3o 392 d— 398 b, e 1. lOo 595-608 b(1) Bep. 505 e. (2) Rep, 505 a-d, FiL 20 c-22 e,- 60 b-61b, 66 a, 66 d-67 a. (3) V. i luoghi del FU, citati nella nota precedente. k — 216 — domanda: quale sia il bene per «oif egli può rispondere dicendo quale è il bene delV universo. Facendo cosi, non confonde la quistione etica con la quistione ontologica, ma considera la prima come un caso della seconda (1). Per ricondurre il bene suhhiettivo. oggetto dell'etica, al bene obbiettivo, oggetto dell'ontologia, Platone ha po'- tuto partire da un'osservazione assai ovvia, cioè il sen- timento di soddisfazione che accompagna lesercizio nor- male delle proprie funzioni. La legge della finalità nella natura ha per tipo l'organizzazione - è là sovratutto che 1 filosofi hanno cercato il dominio delle cause finali (2)- ed estendendo (jucsta legge a tutta la natura, Platone non ha ftitto che generalizzare una proprietà degli es- seri viventi, su cui Socrate (3) ed altri pensatori (4) a- vevano, prima di lui, rivolto 1' attenzione. Neil' essere vivente stesso, questa proprietà si manifesta al più alto grado, quando l'insieme delle sue funzioni si esercita di una maniera armonica e regolare, in una parola, nel suo stato fisiologico. Questo bene del corpo vivente, questa sua completa appropriazione ili suoi fini, è avver- tito internamente come benessere: qualche cosa di ana- logo ha luogo per 1' anima. L' anima, che è l'essere vi- vente per eccellenza, ha anch'essa uno stato fisiologico e uno stato patologico: lo stato fisiologico dell' anima, la sua sanità, è la virtù, il vizio ne è la malattia (5). Ora (1) Confr. Arist. Eth. i\ic. 1. I. VII. U-I(j. Maf/n. Mar. 1. I. I. 23-25. (2) V. specialnicDte Kant Critica del ffiudisio, (3) V. Senof. Memor. 1. lo o. 4». (4) Notevolraente Ippocrate. V. Gnìetìo De plaeitis Ilippr^craiis et Platonis 1. 9» e. 8». (5) V. Rep. 409 e-410 a, 444 e- 445 h, H08 e - 610 o. Sof. 228 a-e. Leggi 853 d — 854 e, 862 ce, eoe. — 217 — la vita virtuosa è identica alla vita felice (1); ne segue che la felicità è, in ultima analisi, lo stato ^«io%/co del- l' anima, e che il bene per noi non è così che un caso del bene dell' universo. Questa subordinazione del con- cetto etico del bene a quello ontologico fa che, per de- finire il primo, Platone si serve delle stesse espressioni generali della finalità, che gli hanno servito per definire il secondo. La virtù, che, come abbiamo detto, s' iden- tifica con la felicità, è l'ordine nell'anima (2), l'accordo fra le sue parti (3), la sua appropriazione completa alle sue funzioni .4); e le definizioni del Filebo, la proporzione, il misurato, l'opportuno, si applicano al tempo stesso al bene dell'uomo e a queHo dell'universo (5). Delle due specie di finalità distinte da Kant, V este- riore - cioè l'utilità d'una cosa per un'altra — e Vinte- riore - cioè l'appropriazione a un fine interno, come nel- r organismo, il cui fine precipuo è la conservazione di sé stesso — è la seconda che prevale nella teleologia di Platone. Ecco ciò che lo prova: 1'' Identificando il bene in se stesso col bene per noi, questo è elevat > necessa- riamente a tipo del bene universale. Il bene di ciascuna cosa deve essere dunque concepito per analogia col bene nostro (quello che costituisce la nostra felicità), cioè con un bene desiderabile per l'essere stesso in cui è presente. Così l'Idea del Bene è chiamata « ciò che vi ha di più (1) Rep. 352 e— 354 a, 445 u-b, Gorg. 470 e - 471 a, 507 d — 508 b, ecc. Coiifr. (per Seuocrate) Mullacli Fr. 63 e Arist. Topie, 1. VII. I. 4. (2) Gorg, 503 e— 504 d, 506 d-e. Rep. 500 e— e, ecc. (3) V. FU. 25 e— 26 b, 63 e— 64 a, Sof. 228 a-b, Rep. 441 e — 444 b, Rep. 519 d, ecc. (4) Rrp. 352 e— .353 e. (5) FU, 64 a e seg. - 218 — felice nell'essere » (1), il che, se dovesse essere preso alla lettera, implicherebbe che il bene in tutti gli esseri è la felicità^ e secondo un'indicazione dell'^^tca a Eudemo (2) i numeri (i numeri ideali di Platone) aspirano all' unità come al loro bene (3). 2« La felicità essendo, come abbiamo visto, un caso della sanità, Platone eleva anche questa a tipo del bene universale. Così nella Rep. 608 e— 610 e il male, anche negli esseri non viventi, è ricondotto alla malattia: il male del ferro, la sua malattia, è la ruggine, del legno la putredine, ecc. Citiamo pure il comincia- mento di una definizione di Speusippo '4) : \4yafiòy tò ahiot^ (T(oir^(jta^ zolg ovai^ dove la parola ahioy deve essere presa nel ^^ji^o immanente della teoria delle Idee, secondo cui la causa d'un attributo nelle cose è la parusia dell'Idea corrispondente. 3*^ Aristotile fa corrispondere, come ab- biamo detto, il bene platonico alla causa finale. E lo stesso fa Piatone medesimo nel FU, 53 d — H d, identificando così il fine con l'essenza, come fa spesso Aristotile (5). È ciò che non potrebbero fare se il bene fosse l'utile, cioè un mezzo e non uno scopo. Neil' ipotesi d' una finalità interna, l'essere appropriato ad un fine (ciò che sarebbe per noi la definizione del bene) e il fine stesso non sono due cose necessariamente distinte. L' organismo ha per (1) Rep. 526 e. (2) L. I. Vili. 14. (3) A questi luoghi si può aggiungere Fedro 250 e, in cui le Idee che l'anima contempla nel piano della verità sono chiamate- € perfette, semplici, immobili e felici apparizioni (warraara). I> (4) MuUach. Pi^agm. graecorum philoph, yoìxxine 3o, Speusippo Fragm. 111. (5) Phys. 1. I. IX. 2-3, 1. IL* II. 7-8, 1. II. VII. 7, 1. II. Vili. 7, De pari animai, 1. I. I., ecc. — 219 - fine se stesso, cioè la propria sussistenza (1). 4® Il bene è secondo Platone identico al bello (2). Ora questo è un fine per se stesso e non come mezzo per un fine ulte- riore. Socrate identificava anch' egli il bello col buono ^ ma riducendolo, come questo, all'utile (3). Questo con- cetto, dentro certi limiti, sarebbe ammesso anche da Platone (4), ma purché non s'intenda per utile una finalità puramente esteriore. Se si prende in questo senso, la tesi socratica è respinta nell'Ippia Maggiore (5), perchè, l'u- tile essendo la causa del bene, avrebbe per conseguenza che il bello non sarebbe bene, né il bene bello. 5° Nel periodo pitagoreggiante, il Bene è anche identificato > (1) Non abbiamo aggiunto ai luoghi citati la definizione di Speu- sippo (la quale escluderebbe assolutamente qualsiasi finalità e- steriore): '' Ayaòòt^ zò abzov tt^sxst^ (Muli. Fr. 46), perchè niente prova che essa si riferisca al bene in se stesso (cioè on- tologico), e non piuttosto al bene per noi (cioè etico). (2) V. Tim. 28 a-b, 29 e — 30 b, 87 e — 88 e, FU. 64 e, Conv, 201 e, 204 e, FAsis 216 d, ecc. Confr. Speusippo Definiz. di Pla- tone 414 e (MuUach. Fr. 110). (3) V. Senof. Memornh. III. 8 e IV. 6. (4) V. Gorg. 474 d — 475 a. Qualche cosa di simile pensava anche Goethe. Una creatura è bella, secondo lui, sovratutto quando la costruzione delle diverse membra è in armonia con la sua de- stinazione naturale, e può attingere il suo scopo. Così una gio- vane nubile non sarà bella, se non ha il bacino largo, il seno ab- bondante. Se un cavallo è bello, è perchè tutto nellaj sua orga- nizzazione serve perfettamente a uno scopo legittimo. Noi am- miriamo l'eleganza, la leggerezza graziosa dei suoi movimenti, ma vi ha ancora in esso qualche altra cosa che ci potrebbe spiegare un buon cavaliere o un conoscitore di cavalli; noi non ne rice- viamo che l'impressione generale. (Eckermann Conversazioni di Goethe v. 1. traduz. frane, pag. 345). (,5) 295 e — 297 d. \ - 220 - <;ome sappiamo, con l'Uno. In questa identificazione Pla- tone lia evidentemente di mira questa unità nella varietà, ili cui alcuni hanno cercato 1' essenza deì bello. La re- golarità (finalità di piano), il concorso di tutte le parti •di un tutto a uno scopo comune (finalità di appropria- zione), sono delle specie di unità nella varietà. L' unità per eccellenza, V individuo, è il tutto in cui questo scopo è interno, cioè l'essere organizzato (1). 6® Le considera- zioni precedenti hanno la loro conferma nel Timeo, la €ui teleologia è, nella massima parte dei casi, interiore. In questo dialogo il concetto delle cause finali è appli- •cato sovratutto, descrivendo la formazione del mondo (come un tutto individuale) e quella dell'uomo. Nella formazione del mondo lo scopo del Demiurgo è di farne un tutto completo (2), un essere vivente immune da vec- <5hiezza e da malattia (3) e sufficiente a se stesso (4), un dio felice (5), grandissimo, ottimo, bellissimo e perfet- tissimo (6). Nella descrizione della formazione dell'uomo la teleologia di Platone, per quanto fantastica, non è che un'applicazi<me di questo principio fisiologico, ciie un ca- rattere generale degli organi è la loro utilità per 1' or- ganismo stesso ^7) Sarebbe inutile di ripetere ciò che abbiamo detto della forma degli elementi e degli altri esempi di finalità di piano nelle opere del Demiurgo : - 221 - osserviamo solamente che la finalità di piano è eviden- temente una finalità interiore. Da ciò che precede potrebbe concludersi che noi po- tremmo definire il bene (l'astratto): l'appropriazione del- l'essere a un fine interno; e il buono (il concreto): l'es- sere appropriato a un fine interno. (1) Ma questa gene- ralizzazione sarebbe troppo assoluta. Il Bene platonica oscilla fra due tipi, che sono quelli del concetto stesso di finalità: il [prodotto dell'arte umana (finalità esterio- re), e quello, come dice Kant, della fecwfm della natura, cioè l'organismo (finalità interiore). Così in certi casi il bene si traduce evidentemente nell'utile. (2), e anche nel Timeo non mancano degli esempi di finalità esteriore: i vegetali sono stati creati per servire di nutrimento agli animali (3); il sole, non solo perchè il mondo divenisse, per la produzione del tempo, più simile al suo modello (4). maanche porche gli uomini acquistassero la conoscenza del numero (5); ecc. Neiripotesi di una finalità puramente in- terna, la spiegazione teleologica non potrebbe essere u- niversale, tanto i)iiì nel sistema platonico, in cui do- vrebbe applicarsi, non solo agli esseri reali, ma anche alle loro parti e alle loro qualità astratte. Infatti tutto (1) L' individuo, secondo la definizione di Virchow, è «una comunità unitaria nella quale tutte le parti concorrono a uno scopo omogeneo. » (2) Tim. 32 d, 33 a, 34 h. (3) Tim. 33 a. (4) Tim. 33 d, 34 b, 68 e. (5) Tim. 34 b. . (6) Tim. 92 e. 30 a-b. 68 e, ecc. (7) V. Tim. 44 o — 47 d, 69 e — 76 e, 77 e — 79 a. (l) L'Idea platonica può prendersi in due sensi, di cui l'uno e- sprinie l'attributo stesso, e l'altro Togjajetto, in genere, che pos- siede l'attributo. Così la stessa Idea ora ò chiamata con un nome concreto, e ora col nome astratto corrispondente: il grande e la grandezza (v. p. e. Parm. 131 a — 132 a), il bello e la bellezza (ibid. 134 e), la mensa e la mensalità (v. Plat. Kep. 596 b — 597 e e Diog. Laert. VI. 53), ecc. {2) V. Rep. 601 d e Gorg. 474 d — 475 b. (3) Tim. 77 a-c. (4) 37 e — 38 e, (5) 39 b. >' « 1/ -' — 222 — <5iò di cui vi ha Idea, deve essere, come abbiamo visto, una specie del Bene; ma non vi ha Idea solamente del- l'uomo, dell'albero, del corpo celeste, ecc., ma anche del- l'osso, della foglia, del colore, della figura, ecc. Ora l'osso o la foglia non hanno il loro fine in se stessi, ma nello intero organismo; e così pure al colore, alla figura, ecc. non potrebbe attribuirsi altra finalità, salvo in casi spe- <5iali, che di contribuire al bene dell' universo, o di un altro tutto di cui siano delle parti. Del resto l'Idea del Bene non è, come tutte le altre, che la realizzazione dell'attributo omonimo, e questo, il significato del ter- mine corrispondente: essa non può essere dunque che la generalizzazione di tutti i casi in cui questo termine è applicabile (1). Prima di finire sulla quistione del significato dell'I- dea del Bene, dobbiamo aggiungere un'osservazione, che non potrà essere compresa chiaramente che dopo l'espo- sizione couipleta della dialettica platonica. Definendo il Bene pel concetto generale di finalità, noi ci atteniamo strettamente, per quanto ci sembra, al pensiero dello autore; ma non ne segue che questi avrebbe trovato sod- disfacente la nostra definizione. Come abbiamo accen- nato nel parag. 13 n. 3», e come spiegheremo nel seguito della nostra esposizione, non è solamente necesssario, secondo Platone, che tutto ciò che esiste, sia bene, ma an- cora che tutto ciò che è bene^ esista. Vi ha, in altri termi- ni, seconda lui, una condizione generale, che trovandosi nell' essere possibile, fa che questo sia, non semplice- mente possibile, ma reale : questa condizione generale della realizzazione del possibile è la conformità all'Idea (1) Confr. Arist. Mh. Nie, 1. I. VI. 2-4, Eth. Eud. 1. I. Vili. 7-8, Magn. Mor 1 I. 1. 18-20. — 223 — suprema. È così che il dialettico scovre la realtà, in lin- guaggio moderno, la costruisce: ciò che è conforme al Aóyo^ supremo, egli lo ammette come vero, ciò che non gli è conforme, lo rigetta come falso (1). Il reale è dunque un caso definito del possibile (2), e definire la Idea suprema è appunto definire questo caso, enunciare questa circostanza, che si trova sempre nell'essere reale, e non si trova mai nell' essere semplicemente possibile: Questa circostanza è espressa completamente, definendo il bene pel semplice concetto generale di finalità V Sem- bra che Platone non lo credesse: evidentemente, secondo lui, una tale definizione non circoscrive abbastanza il reale, non lo distingue abbastanza dal semplice possi- bile. La formula della realtà dovrebbe essere più pre- cisa, dovrebbe aggiungere alla nostra definizione un altro elemento differenziale. Qual è quest' elemento ? Platone confessa di non conoscerlo (3). Quest'arcano (per usare l'espressione di Schelling) nascosto nclVassoluto, che è la sorgente d'o(jni realtà^ egli non pretende di averlo sve- lato. È a questa condizione che un'applicazione rigorosa del metodo dialettico sarebbe possibile: ma Platone non ha preteso, come Hegel, di costruire la scienza, ma so- lamente di mostrare ciò che essa deve essere.§ 17. Ciò che caratterizza la dialettica platonica, è il metodo di divisione {dieresi). Esso consiste a dividere un genere nei generi immediatamente inferiori, questi in altri generi inferiori ancora, e così di seguito, sinché si giunga ai generi indivisibili, cioè alle specie, nel senso stretto di questo termine. Questa divisione si applica, (1) Coufr. Fedone 100 a, 1. cit. a p. 149 n. 1 e a p. 172 n. 1. (2) Confr. Taine L* intelligenza voi. 2. 1. 4. cap. 3 in tìue. 9 (3) V. Kep. 505 a e 506 e. in cui fa dire a Socrate che non conosce sufficientemente l'Idea del Bene. 224 — non nlle classi, cioè agli aggregati d' individui ma alle Idee (1), cioè ai concetti realizzati, corrispondenti a que- ste classi. >e p. e., il genere animale si divide in mor- tale ed immortale, il significato immediato di questa dieresi è, non che gl'individui che costituiscono la classe owiwa^e devono distribuirsi nelle due classi inferiori mortale ed iwi- mortale, ma che l'Idea, cioè il concetto obbietti vato, di Animale, contiene le due Idee, cioè i due concetti ob- biettivati, inferiori, di Mortale ed Immortale. Per conse- guenza Platone riguarda un'Idea universale come un tutto, e le Idee più particolari ad essa subordinate, come delle parti di questo tutto (2). E siccome questa divisione in parti, cioè nelle Idee più particolari che essa contiene, non distrugge l'unità dell'Idea universale, di là la for- mula platonica che tutto è al tempo stesso uno e molti^ o, ciò che vale lo stesso, che Vuno è molti e i molti sono uno (3). È la grande inconcepibilità del sistema delle I- dee, che nessuna spiegazione potrebbe rendere più in- telligibile. Platone, è vero, considera Vuno e i molti come due stati o due momenti successivi nello sviluppo della Idea (anteriorità e 'posteriorità): l'Idea, una nel momento anterioie, diviene multipla nel momento posteriore (4). Ma questa successione, (piesf anteriorità e posteriorità, non è cronologica, ma solan)ente logica, e resta sempre la difficoltà come l'idea possa esistere simultaneamente in due stati coutrarii. (1) V. FU. 14-19 b. Sof. 235 d, 253 b - 254 b, Polit. 258 o, 262 b, 286 a, Fedro 265 a— 266 b. eoe. e Alex. Aphrod. in phil. princ. I. t. 42. Confr. Suppl. B parte 1», IV. (2) V. Suppl. B p. 1» VII. A. (3) V. Suppl. B p. 1. V. 4. (4) V. § 22 e confr. Suppl. B p. I. V. 4. e VII. A. — 225 — La dieresi platonica è, o piuttosto pretende di essere, una classiticazione naturale : in altri termini, essa si propone di distribuire gli esseri in gruppi secondo le loro affinità reali (I). Di più, percliè dei gruppi in- feriori siano riuniti in un gruppo superiore, 1' affinità deve essere tale, che (piesf ultimo gruppo possa, rispetto ai primi, considerarsi come un genere, nel significato ri- goroso della parola; o, in termini ]>iù esatti — la die- resi applicandosi, come abbiamo detto, non ai gruppi stessi, ma alle Idee corrispondenti—, non a tutti i gruppi che potrebbero formarsi per la riunione di gruppi^ infe- riori, corrispondono delle Idee, ma solamente a quelli che possono riguardarsi come generi (nel senso indicato). Così Aristotile chiama costantemente {feneri le Idee u- uiversali (cioè tutte quelle che comprendono sotto di sé altre Idee più particolari) (2). Inoltre egli obbietta ai pla- tonici, che, auimessi anche i loro presupi>osti, Vuno mm potrebbe essere unMdea, perchè è un scMuplice universa- (1) È ciò ohe prova lo .stesso riinprovero «-lie Aristotile fa ai platonici, di spezzare, nelle loro dieresi, le ««lassi naturali (col- locando, p. e.; una parte degli uccelli fra o;li auimali aquatici ^ e un'altra in un genere diverso— v. De partib animai. 1. ì^q. 2^ e 3o). Quest'obbiezione sarebbe senza valore, se alle esigenze della dieresi platonica bastasse anche una classificazione artificiale. È questa condizione di una buona divisione, di non violentare i rapporti reali tra gli esseri, che Platone ha di mira quando rac- comanda al dividente di « dividere per membra secondo la na- tura delle cose, e cercare di non spezzare alcuna parte, come farebbe un cattivo scalco » {Fedro 265 e). (2) V. Mei, 1. I. IX. Ili, 1. III. 1.9, 1. III. III., 1. V. III. 5, 1. V. XXV. 3, 5, 1. VII. XII. 34, 1. VII. XV. 7, 1. Vili. I. 3, 1. X. II. 12, 1. XI. I. 11-12, 1. XII. I. 2. 1. XIII. IX. 5, Ca- teg, X. 3-4, ecc. 15 sale, e non un genere (1); il die implica, - ciò che del resto è affenuato esplicitamente nel commentario d' A- lessandro d'Afrodisia (2) — che i platonici non facevano Idee di tutti gli universali, ma solamente dei generi e delle specie (3). Il significato della parola ffenere, in A- ristotile, è identico press' a poco a quello che essa ha presso i logici moderni. La sua definizione, quantunque puramente grammaticale, coincide, al fondo, con quella di Stuart Mill (4): un nome attributivo, che si applica a più oggetti differenti di specie, significa un genere, quan- (1) Mei. 1. I. IX. 24. (2) V. Alex. Aphiod. in phil. prim. 1. 79. (3) Ciò risultii Anche dal Politico, 262 ti — 2(53 d, in cui 1' o- «pitc oleate, che motto in pratica il metodo platonico, esorta il «uo intorlocntore a non dividero seniplicemente per parti . ma per treneri. Com\ non hisogna. ojfli dice, dividere ^li animali in uomini 0 bruti, perchè bruto non è un genere, questo nome non indicando una affluita reale tra gli esseri a cui si applica. Sic- come la dieresi è ovidontemente per Platone un metodo generale, che abbraccia tutti i casi in cui delle Idee più particolari sono contenute nell' ostensione d'un'Idea più universale (v. Sof, 253), questo luogo del Politico prova, come quelli citati d'Aristotile e d'Alessandro d* Afrodisia, non solo che la dieresi è una olassi- ficaizione per generi, ma ancora che tutte le Idee universali (cioè contonouti altre Idee nella loro estensione) sono, o piuttosto pre- tendono essere, delie Ideo di «reneri. (4) V. Log. 1. I. e. 7 $ 3 e 4, 1. IV. e. 7. J 4. Meno questa differenza — senza dubbio importante, ma non per la quistione presente— che, secondo Mill, un genere si distingue per una mol- titudine indefinita di caratteri che non derivano gli uni dagli al- tri, mentre, secondo Aristotile, tutti gli attributi di un genere derivano da un piccolo numero di attributi primordiali, cioè quelli che ne costituiscono Vesseìiza, o, in altri termini, ohe servono a definirlo. V. lApp. al cap. VI. — 227 - do risponde alla domanda : che è* (1) Così bianco non sarà un genere del cigno o della neve, perchè non dice ciò che queste cose sono, ma semplicemente una loro qua- lità (2). Da ciò che abbiamo detto non bisogna però conclu- dere che Platone non ammetta Idee che delle specie e dei generi delle Sf)sr.anze, cioè degli ogi^etti individuali con- creti. LUndividuale può anche essere per Platone una sem- plice astrcazioue, p. e: la bianchezza di questa neve, di questa carta, ecc. Così l'Idea del Bianco esisterà, a titolo d^Idea specifica, altrettanto che quella dell'Uomo, e l'I- dea del Colore, a titolo d'Idea generica, altrettanto che quella dell'Animale. Negli scritti platonici le Idee delle qualità, delle quantitsi, delle relazioni,ecc. sono anche d'un uso pili frequente che quelle delle sostanze: la proposizione di Aristotile, che, secondo i principii di Platone, non pos- sono esservi Idee che delle sole sostanze (3), non è una indicazione storica, ma una semplice deduzione (4). (1) Top. 1. I. IV. «. ) Top. 1. IV. I. 3-5. (S) Mei. 1. I. IX. 4-5. . (4) Di che vi ha Idea secondo Platone ì di tutti i concetti in- distintamente ì o vi hanno concetti a cui non corrisponde alcu- n'Idea? Da una parte l'analogia e la dottrina che il concetto si riferisce all'Idea spingevano Platone ad ammetterne una per ogni termine generale. Ma da un' altra parte, per la natura stessa e lo scopo deir ijiotesi, le Idee non potevano rappresentare altro per lui che i diversi tipi di cose e di fenomeni che osserviamo nella natura. Conformemente a questo punto di vista, a quanto ne dice Proclo {in Parm. V, 133), egli definiva V Idea (espri- mendo il rapporto fra le Idee e le cose in una forma popolare): « la causa esemplare di ciò che vi ha di costante nella natura». Così, secondo Aristotile . non si ammettevano Idee degli oggetti artificiali (v. Mei. 1. I. IX. 12, 1. III. IV. B, l. Vili. III. 5, l. XI. II. 10. 1. XII. HI. 4), dei negativi {àtei. l. 1. IX. 2, 1. XIII. / — 228 — Alla dieresi corrispoude un processo inverso, che Platone IV. 6), e dei relativi {Mei. 1. I. IX. 3, 1. XIII. IV. 7); e, geoondo Alessandro d'Afrodisia {in phil, pr, 1. I. t. 39 e 56), neppure dei mali.. Ma 8u questo puuto Platone non precisò il suo pensiero che nell'ultimo periodo della sua speculazione: e infatti noi ve- diamo che nei suoi scritti, quando ciò gli fa comodo per la di- scussione, non esita a supporre delle Idee, di cui poi negherà l'esistenza. Così, secondo il 1. V. delle Repubblica (475 e — 476 a), vi ha un' Idea del cattivo, del brutto e dell' ingiust», non meno che del buono, del bello e del giusto, cioè dei mali altret- tanto che dei beni ; secondo il 1. X (596-597) . del letto, della mensa e degli altri utensili ; secondo il Cratilo (389-390), della spola e degli altri strumenti; e secondo il Sofista (257 d — 258 d), del non bello, del non grande e di tutti i negativi. L* esistenza delle Idee dei mali sarebbe in contraddizione col rapporto di specie a genere che Platone stabilisce fra le altre Idee e quella del Bene. Tutto ciò che esiste, per lui, è necessariamente bene, quantunque questo non è mai un bene assoluto. Il bene asso- luto è come una norma, a cui ogni essere tende ad avvicinarsi senza raggiungerla mài pienamente: la legge delle cose è questa tendenza, ma che esse se ne allontanino in questo o in quel senso determinato (p. e.: una malattia o una deformità nell'es- sere vivente) è un avvenimento puramente fortuito, e Platone per conseguenza non ammette' che esso si produca conformemente ad un tipo. Tuttavia è anche una legge delle cose che ir bene non sia mai assoluto; e perciò Platone, nell' ultima forma della sua filosofìa (cioè all'epoca stessa in cui esclude le Idee dei mali), ammette, come obbiettivamente esistente, un concetto generale del male, che riconduce alla materia delle Idee (v. Suppl. C. I due elementi) Per una ragione analoga, nel tempo stesso che re- spinge le Idee dei negativi e dei relativi, Topposizione e la re- lazione essendo anch'esse delle leggi necessarie degli esseri, am- mette anche un'Idea del Non Essere, che riconduce pure all' e- lemento materiale, e delle Idee di alcune delle relazioni fonda- mentali delie cose, quali l'Eguaglianza e la Disuguaglianza e lo — 229 — chiama ì^xOeai^ (astrazione) (1) e (Tvat^ycoyrj (riduzione al- V unità) (2). U astrazione o riduzione aW unità svolge dalle cose individuali le Idee delle specie, da queste quelle dei generi prossimi, e così di seguito, riunendo progres- sivamente gli esseri in gruppi più estesi secondo i gradi decrescenti della loro affinità, e rappresentando ciascun gruppo per un'Idea di più in più generale. Le Idee for- mano dunque una gerarchia, una scala di generalità cre- scente, che la dieresi e la avi^ayiùyrj percorrono in senso contrario, V una andando dalla sommità alla base, dal- l'uno al multiplo, dal generale al particolare, e 1' altra dalla base alla sommità, dal multiplo all'uno e dal par- ticolare al generale. Qresto processo di astrazione progressiva, di cui poi la dieresi devo percorrere tutti i gradi in una direzione opposta, o continuerà sinché si sarà formato di tutte le Stesso e il Diverso, che riconduce ai duo elemepti contrari (v. Suppl. C. I due elementi). L'esclusione di eerte Idee è anche una conseguenza del metodo di divisione: questo suppone, co- me abbiamo detto, che ogn'Idea superiore sia un genere; cosi nn attributo oamuue a molte specie non può dar luogo a un' I- dea, se esso non serve di fondamento a una distinzione geì.erica. In questo caso sono compresi evidentemente i negativi (p. e. non uomo . non bianco, non quadrato ecc.). Inoltre non potrebbero ammettersi, secondo questo metodo, Idee delle differenze (ra- gionevolCt bipede, ecc.), benché Aristotile supponga talvolta che l'elemento differenziale d'un'Idea sia anch'esso un'Idea altret tanto che l'elemento generico (v. Met. 1. VII. XV. 6-7, 1. VII, XIV. 2, l.VIII. VI. 2, ecc.): ciò egli fa certamente perchè 1' esi- fitenza separata di uno dei due elementi (cioè del genere) gli sem bra avere per conseguenza necessaria l'esistenza separata anche dell'altro. (1) V. $ 13° n. 4<^. (2) Fedro 2«« b e FiL 23 e, 25 a, d. l 'f " -~ 230 — Idee un sistema unico, riducendole ad uua sola, o si fer- merà a una pluralitàdUdee indipendenti che non potranno ricondursi a un'Idea più generale. Ciò che abbiamo detta nel paragrafo precedente prova che di queste due ipotesi è la prima che dobbiamo ammettere. L'Idea del Bene a dell'Essere è, come abbiamo visto, il genere sommo, in cui tutti gli altri generi sono contenuti: alla sommiità della gerarchia sta dunque un'Idea unica; ogni pluralità si ri- conduce a un'unità superiore. Così al sistema delle Idee si applicano esattamente (lueste parole di Bacone. € Tutta la natura delle cose è come acuta, e simile a uua pira* mide, perchè il numero degl' individui che formano la larga base della natura è infinito. Questi individui si riuniscono in ispecie, che sono pure in gran numero; poi le specie si elevano in generi, i quali a misura che le idee si generalizzano, vanno rinserrandosi di più in più, in sorta che al fine la natura sembra riunirsi in un sol puu* to» (i). Ecco dunque l'ordine in cui le Idee sono disposte: alla testa l'Idea del Bene, la regina,comelachiamaPlatouey del mondo intelligibile (2): questa contiene sotto di sé un gnippo di Idee meno generali, ciascuna delle* quali con- tiene un nuovo gruppo, e così di seguito, discendendo sempre una scala di generalità decrescente, dai gradini di più in più larghi, che va dal genere sommo alle spe- cie infime per una moltitudine di generi intermediarii. Il mondo ideale si forma per la divisione e suddivisione (1) De dignilate et augmentis scientiaruni l. 2. e. 13. (2) V. Mep. 509 d e 517 e. L' Idea del Bene è chiamata an- che r Idea ultima (v. Hep. 517 b-c, 532 b, 540 al, perchè è il termine ultimo della avyaytùyfi^ ruscensione graduale da Idea ad Idea, di cui nel VI. e VII. della Mepubbliea (v. ^ 12. u. 2. e $ 13. n. 2), non essrndo altra cosa, come vedremo nel $ 19, che la avyaycoyi], : I '4 — 231 - ^^^"'^^^— ^^^—^" " ' ""' l»—^»^™. mi I "Il" i.™«.ii.«^i _ ...i^i». ma III I III in il^i _ mi ^ i uhm i saaaH^.^^M^_^iM progressiva dell'Idea suprema: è essti che sarebbo il punto di partenza della dieresi, se Platone applicasse questo metodo, non frammentariamente, com'egli si limita a fan% ma d'nna maniera completa e sistematica (1). Nella dieresi platonicn ogni divisione e suddivisione è composta di due parti; in una parola, questa dieresi è una dicotomia. Così, nella scala delle Idee, ogn' Idea di un gradino superiore ha sotto di se due sole Idee del gradino immediatamente inferiore, in altri termini, chia- mando genere l'Idea superiore, e specie le Idee inferiori, cioè più particolari, immediatameuie subordinate, ogni genere^ nel sistema platonico, non contiene che due spe- cie. È la regola a cui Platone si conforma costantemente oegli esempi che dà del suo metodo (2), e che prescrive espressamente nel Politico (:$). Dalla sua parte Aristotile, (2) Xel periodi» pitagoreggiimte, alla sommità del mondo i- deale si ammettono, come sappiamo, non uno ma due universali Hupremi (i due elementi). Ciò si concilia con le e8ij;enze del me- t-odo platonico, che suppone un punto di partenza unico per la dieresi, considerando l'uno dei due clementi come il genere sommo e la specie [elò^o^) tli tutte le Idee (v. $ 1<». pag. 20(>-207i, e l'altro come la materia (Lo stesso risultate» ha la fuuzii»ne di essenza (ovaia)^ assegnata al prim<» elemento — v. ^14 — perchè oi^aia^ per Platone ed Aristotile, equivale ad elòo^). Per pif. ampi svi- luppi su questo punto rinviamo al Suppl. C [due elemeuii delle Idee: ivi (sulla fine) spiegheremo pure la dinìc(»ltà che presenta il luogo del Sofista (254 e — 259 b). in cui. oltre iil Non Essere (cioè alla materia delle Idee), è attribuita anche ad altri c<»ncctti ob- biettivati (lo Stesso e il Diverso) la stessa universalità che al- l' Idea dell' Essere. (2) V. Sof. 21$) a— 26.S o, 264 e e seg.. rolit. 2.58 b— 207 e, 276 d-e, 279 e — 283 a. (H) 262 b. - 232 — tutte le volte in cui è qui^tione «Iella dieresi platonica, «uppone sempre che essa è una dicotomìa (1). Tuttavia Platone permette che si divida per un numero magp:iore, quando la divisione per due non è possibile (2); ma i>er questa impossibilità non bisogna intendere un'impossi- bilità obbiettiva, ma un' incapacità del dividente a cui sfuggono le Idee iutermedinrie (3). E in effetto il metodo di divisione, secondo Platone, non è, come vedremo, un semplice artifizio logico, ma la legge stessa del mondo ideale: il carattere di questo metodo, per conseguenza, è l'assoluta uniformità. Ciò è tanto vero che nella dot- trina dei numeri ideali, in cui la diei-esi è rappresentata dalla generazione progressiva dei numeri, a ogni nu- mero anteriore si fanno generare due numeri posteria- ri (4), riconoscendo così la dicotomia come legge uni- versale dello sviluppo delle Idee (5). (1) V. Mei. l. VII. XII., De pari, animai 1. 1. cap. 2 e 3, Anal. Posi. 1. II. V. e XII. Anni. Pr, 1. I. XXXI, ecc. (2) V. Poi. 287 b V seg. e FU. IH d. (3) Così uella divisione per otto, di cui nel luogo del Potit. ci- tato nella nota precedente, evidentemente il dividente ha saltato due ^radi (cio^. una prima divisione in due parti, e la suddivi- sione di ciascuna di queste in altre due, che suddivise alla loro volta della stesvsa maniera, foruiano così il numero otto.) (4) V. Suppl. C. I numeri ideali. (5) Qualche volta Phitone, nelle sue dieresi, fa uso della se- zione doppia, vale a dire » dopo aver diviso un genere per due secondo una difì'erenza data, torna a dividerlo ancora per due secomlo una nuova diftereuza. Così nel Sof. 265 b— 26« d l'arte di l'are è divisa in divina e umana, e poi in arte di fare le cose stesse e arte di fare le immagini. Altre due sezioni doppie si hanno nel Politico (281 d— 282 a e 282 b-o). Più che col metodo dicotomico, questa maniera di dividere sembra in coutraddizioue col principio che o» n'Idea universale deve essere un genere. — 233 - Ciascun membro d'ogni dicotomia è caratterizzato da una differenza unica (l), e le due differenze sono con- trarie (2). Così 1' animale si dividerà in mortale ed im- mortale, il mortale in provvisto di piedi e senza piedi, il provvisto di piedi in bipede e multipede, il bipede in pennuto o senza penne (3), e similmente i generi colla- terali (4). L' importanza e lo scopo di queste particola- rità del metodo di Platone saranno spiegati nel § 20^: prima bisogna esporre la sua dottrina sulla definizione, ciò che faremo nel paragrafo seguente. (1) V. .SV. 219 a — 236 e, .364 e e seg., PoliL 258 b — 267 e, ^76 d-e, 279 e — 283 a. Aristotile De pari, animai. 1. I e. 3o, Mei, I. VII. e. 12, ecc. (2) V., oltre i luoghi della nota precedente, Arist. Mei. 1. X. VIII., Anal. Pr. 1. I. XXXI, Anal. Posi. l. II. V.. I. II. XII. (3) V. Anal. Posi. 1. II. V.. Anal. Pr. 1. I. XXXI, Mei. 1. VII. XII. (4) Platone pratica il metodo di divisione nel Sofista e nel Polilico. In questi due dialoghi hi dieresi è fatta servire alla ri- cerca della definizione, del sofista nell'uno e del politico nell'al- tro. Per conseguenza dei due generi in cui si divide ciascun ge- nere superiore, non viene suddiviso che quello in cui è compreso 1* oggf'ttt) a definire. La definizione si forma aggiungendo pro- gressivamente al primo genere, che è il punto di partenza della dieresi, le differenze che caratterizzano i generi intermediari e la specie infima, trovati con le divisioni successive. Nel Sofista, la dieresi che giunge alla scoverta della vera definizione, è pre- ceduta da altre che non sono ohe semplici tentativi, e queste ancora da un' altra, che è data come esempio del metodo a se- guire, e <Mm cui si cerca la definizione del pescatore all'amo. Le tre tavole seguenti riassumono tre dieresi di quest(» dialogo (nel quale il metodo è applicato con più rigore), cioè quella per tro- vare la definizione del pescatore all' amo, e uno dei tentativi e la definitiva per trovare la definizione del s(»fi8ta. 0) § ^ 03 1 g n^S^ So cQ S '', i*' © «a. .£.5^ g •S-^ ^ o p tm ^ * Sf § ? ® O; a^ ^ cs S 5 i .£ :5 o oc lU q: oc S>3' © ? iS o S SS .5 ffl? / ;:z a p <^ ^ SII » — :8 -^ N OS iJiS m4 ^^ Ss 1^3 '^^ ^ o © S à .S a^ *i ce 4) 00 5 o ce « « 52 § s N co © A S,^ tu (ì) or 0 tu q: ì l-s P 4> O ^ 05 S? .Z;^ T ^ 0^ P 0) oc <© > s © ® *p ^ OD S ce -^ c3 p 'oe r2 I o ^ P * ^ OD e 08 « ^ ^ I 'c 2 „ c8-^ i* a p^.C o ©5 P ao © a:i: oc ^ .^ «8 ^ :g .t; 0^ n3 g^ 0) .P I P -kJ — V 03 c8 5^'5 e^ p, p .p P'C © cc S 00 © t^ P P 00 p •^ P P © ^ Cd CO w cu 1 N <0 Sm «Pi^ ^ SS P«i^ ce p ^ . '.'I O P OD P © bO » p fi .S^ I tì w t- ;-; e« 2 * •- 08 ^ 4^ CO 'è^ ^ 08 &4 „ O ^ P ce ^ oc ce 08 Pi ^^ OD p ^5 ^ o P Cd P4 s, A. f O g — 237 § 18. La dieresi, quantunque abbia un valore per se stessa (come vedremo nel prossimo paragrafo) è tuttavia presentata da Platone come un metodo per la ricerca della definizione. Il rapporto intimo della definizione con la dieresi si vede già al primo colpo d'occhio dalla sua stessa composizione. « I logici antichi, osserva il Mill,, sembrano aver creduto che la definizione ordinaria avea pure per uftìcio di formulare la classificazione usuale e, secondo loro, naturale, delle cose, cioè la loro distri- buzione in ispecie, e di segnalare il posto superiore, collaterale, o subordinato, che ciascuna specie occupa rapporto alle altre. Si spiegherebbe così la regola che ogni definizione deve necessariamente farsi per genus et differentiam, e perchè una, sola difterenza qualunque er» considerata come sufficiente » (1). Ma la dieresi per Pla- tone non è solamente un metodo per ottenere la defini- zione; si può anche dire che per lui dieresi e definizione sono una sola e stessa cosa, che si chiama ctieresi conside-^ randola nel processo della sua formazione, e si chiama definizione, considerandola già formata, cioè nel risul- tato di questo processo. La dieresi non è, in sostanza, che una catena di definizioni : in effetto la definizione platonica si fa per il genere prossimo e la differenza spe- cifica (una sola), e nella dieresi ciascun membro di ogni divisione viene espresso indicando il genere diviso e l'una delle due differenze opposte secondo cui esso si di- vide. Per conseguenza, se vogliamo comprendere il va- lore e il significato della dieresi di Platone, noi dobbiamo- domandarci quale sia il valore e il significato della sua definizione. Come abbiamo osservato nelP appendice al capitola (1) Log, I. 1. o. 8. — 238- precedeute, la definizione (quella almeno che si fa per gemis et differentiam) è stata considerata di due maniere diffei^enti: o come una semplice indicazione i>er far ri- conoscere la cosa significata dal nome, distin lenendola da tutt^.le altre; o come l'espressione completa della natura o essenza di questa cosa^ vale a dire della tota- lità dei suoi attributi primitivi, cioè che non possono dedursi da altri attributi. Se è il primo caso che vale per la definizione platonica, la dieresi non è che una semplice classificazione delle Idee con la indicazione dei caratteri su cui è fondata questa classificazione; se vale invece il secondo caso, la dieresi non è una semplice •classificazione, ma è una vera ricostruzione del mondo ideale. Neil' appendice al capitolo 6^ noi abbiamo am- iiiesso questa seconda ipotesi, deducendola da conside- razioni generali sulla dialettica platonica: qui dobbiamo stabilirla sulP esame dei testi, il cui risultato possiamo lidurre ai punti seguenti: 1.® La definizione esprime l' essenza della cosa [ol- ma) (l), o in altri termini, ciò che questa cosa è (o tan) (2) (1) V. Plat. Fedo. 78 d, Fedro 237 c-d, 245 «, Fìiiifr. 11 a, Meno 72 b. Leg. 895 d . 896 a . Bep, 534 b, eco. ; Arist. Met, i. VII. XII, 2, 7, d.Anal^Pr, 1. I. XXXI, 2, Anal. Posi, 1. II. V. 2-4. 1. II. XII. 13-15, eec. (2) Meno 71 a-d, 72 c-d, 73 e, 74 b-e. 76 a-b, 77 a-b, 78 b, 79 b-e. 80 b, d, 86 o-e, 87 b. 100 b. FU. 62 a, Sof, 217 b, 218 b, 226 a, 231 e, Teet. 145 e, 146 e, 148 d . 174 b, 175 o, 200 d, Char7i, 159 a, 172 e. 175 d. Laeh, 190 d-e, 191 e, 192 a, 194 b-c. 199 e, Lys. 222 b . 223 b, Fedro 238 d, 265 d, 269 b, Futifr. 5 d, 6 d-e, 9 e. 11 a-b, 14 e, 15 e. Farm. 135 e, Ipp, Mngg. :286 d-e, 287 de, 289 c-d, 292 d, ecc.^() zi taii <» semplicemente ti itrtt formula con cui Platooe propone 1a ricerca della defi* — 239 — ^1 L' alata d 'una cosa è il suo essere, la sua vera real- tà (1). E infatti questo termine, nella lingua filosofica dei Greci, riunisce al tempo stesso i significati dei due termini italiani essema e sostanza (2), e nel linguaggio speciale di Platone è un sinonimo d'Idea (3), per designare gii esseri veri in cui si risolve la realtà fenomenica (4). Nel periodo pitagoreggiante, in cui le cose risultano, non dalle sole Idee, ma anche dalla materia, 1' oùtria non e che la forma, come in Aristotile (5); ma essa è Dizione — indica evidentemente Vensema (v. Fedotie 65 e, 75 d— efr. 78 .i—, Meno 72 b, Eutifr, 11 a, Bep. 522 e— 525 b, 533 a— — 534 b, ecc.), come in Aristotile, in cui la seconda di queste due forme sostantificata (rò u t^ti) è T equivalente di aiata (V. Mei. 1. I, VI, 7-etr. 4-, 1. VI. I. 1-4, 1. VII. IV, 8, IX, 4, 1. XI. VII. 2-4, ecc.). (1) V. Teet, 186. (2) Del resto l'essenza no/m/ia^« (V. Locke Sag. sulVititendim. um, 1. 3. e. 3-6, Mill Log. 1. 1. o. 6-8, Bain Log. I. 1, e. 2, ecc.) è una inrovazion** moderna, allo «cojm di conciliare la dottrina tradizionale, ohe la definizione è la spiegazióne dell'essenza, col concetto della più jjarte dei logici moderni, eh' essa non è che la spiegazione del senso del n<mie. (3) V. Suppl. B. p. I, n. 1. 4) V. Sup)»l. B. p. I, n. 9«-L'ideutità dell'Idea con V avata spiega perchè Platone, per designare le Idee, si serve delle pa- role S iau preposte ai nomi corrispondenti— p. e. S tati xkiyri (Bep. i597 a-c). t} iau intatfjf^tj {Parm. 134 a). ^Q iazt (preposto) a un nome) vuol dire al tempo stesso : ciò che il nome propria- mente signiftoa (V. Suppl. B. p. 1, n. 2). e : l'essenza della cosa ricercata dalla detìnizione (v. Fedone 75 d e 92 e). I due sensi coincidono, perchè ciò che il nome significa è spiegato appunto dalla definizione. (5) V. Arist. Mei. \. I. VI. 4, 7, VII, 3.» m »» - 240 — ancora il solo essere vero, e la materia è ricondotta al non essere (1). 2.® Definire un concetto è dire ciò die vi ha di co- mune in tutti gli oggetti sottoposti a questo concetto (2), Così definire il simulacro è dire ciò che vi ha di comune nei diversi simulacri, e che, come unico in tutti, chia- miamo c<m un nome unico, simulacro (3); definire la fi- gura, dire ciò che è lo stesso nel rotondo, nel retto e in tutti gli altri oggetti che chiamiamo figure (4); definire la virtù, dire in che tutte le virtù sono una sola e stessa cosa (5), cioè far vedere ciò che è lo stesso in tutte e quattro (la fortezza, la temperanza, la giustizia, la pru- denza), e che, essendo uno in tutte, chiamiamo giusta- mente con un sol nome, virtù (6). In altri termini, de- finire è generalizzare, trovare in una moltitudine di og- getti particolari la specie unica che li comprende, ab- bracciando questa moltitudine in una formula gene- rale (7). 3." Conoscere una cosa (nel generale, p. e. la virtù, la santità, ecc.) è conoscerne la definizione (8); ignorare la definizione è ignorare la cosa stessa (9). LHntelligenza o la scienza d' una cosa, o piuttosto della sua Idea, è V intelligenza o la scienza di ciò che questa cosa è (1) V. Suppl. C. / due elementi, (2) V. Sof. 240 a, 247 d— e, 3feno, 72 e. 74 d, 74 e-75 a, Leg, 964 a, 965 c-d, 966 a, eoo. (3) Sof. 240 a. (4) Meno 75 a. (5) Leg. 964 a. (6) V. 965 c-d. (7) Teet. 148 d. (8) V. Polii, 278 e, Euti/r, 15 d-e, Leg, 964 a. (9) V. Meno 71 b, 79 o, 80 d, Teet, 147 b, 196 d, e, Laeh, 200 a. — 241 (o iati) (1); insegnare questa cosa, o piuttosto la sua Idea, è spiegare ciò che essa è, darne la definizio- ne (2). La dottrina che la conoscenza dell' Idea consir ste nella definizione della cosa corrispondente, risulta anche dal princìpio dell'autore che le Idee non si cono- scono che per la dialettica (3), la conoscenza che la dia- lettica dà dì un' Idea — considerata per se stessa, cioè indipendentemente dai suoi rapporti logici con le altre Idee — non potendo essere altro (come vedremo nel pa- ragr. seguente) che la definizione della cosa (4). 4.« La definizione è l'espressione adequata dell'Idea; essa la rappresenta più fedelmente che un ritratto l'ori- ginale (5). Cosi nel linguaggio di Platone questi due ter- mini, la definizione e l'Idea definita, prendono spesso il posto l'uno dell'altro. Nel Politico (6; sì dice che l'ospita eleate fa il politico (volendo dire che lo definisce), come diciamo di un pittore o di uno scultore che fa l'oggetto stesso. Cercare e trovare la definizione è cercare e tro- vare r Idea stessa che si tratta di definire (7); il defi- (1) V. Fedo, 75 a-c, FU, 62 a, Sof. 227 b, Bep. tSi b-c. (2) V. Euti/r. 14 e, 15 e, 6 de. (3) V. FU. 57 e-59 d, Rep. 511 b-c, 532 a-533 d, ecc. (4) V^. pure Polii, 286 a ; « Le cose incorporee, che souo le più belle e le più grandi, gi mostrano chiaramente col solo Xóyog e non altrimenti ». {5) V. Polii. 277 a-c. (6) V. 257 a, 268 e, 311 o. (7) V. Sof, 218 e, d, 221 e, 223 a, 224 e, 225 a, e, 226 a, 231 e, 235 b-d, 236 d, 239 e, 241 b-c, 253 e, 261 a, Polii. 262 b, 264 a,' 267 e, 275 d, 280 e, 282 d, 284 a, b, 287 e, 304 a. Meno 73 d[ 74 a, b, 80 d, Teet, 148 e, 196 d, 210 a, Lach. 194 a-b, 199 c-I 200 a, Fedro 266 a-b, eco, Cfr. Arist. De parlib animai 1. I, e. II, 16 — 242 — ueute nioHtra, niaiiiiVHta cjuest' Idea (1); la conoscenza che la definizione ne dà è così completa, che Platone la cliiania una vista (2), benché egli non ammetta un in- tuizione propriamente detta delle Idee che in una vita anteriore. L'Idea è composta degli elementi stessi di cui 8i compone la definizione, cioè del genere e della diffe- renza (3). Essa non è, al fondo, che la definizione obbiet- tivata (4), e perciò Platone la chiama 'Àóyog (5), (cioè col ili ]»riiic. e e. Ili (ed. Ditlot. t. 3.pa<j. 224 lin. 21 e pag. 225 liii. 18 e 39) — V. Hììvhv Suppl. B. p. I, ii. 4, per la dottrina di Pla- tone clic lii detiiiiziono hì riforÌHce all'Idea. (1) V. Polii, -ififi e. 2H8 e, 283 a, 286 a. 287 a, 304 a. Sof, 2fi4 e. 2H5 a, Kulifr. 11 a. Meno 79 d. Rep. 533 a. ecc. (2^ Kuiifr. « e, So'', 235 d, 23« d, 268 h. Tièu. 39 e. 6Vmr. 210 e— 212 jì. Kep. 336 o. 369 h, 430 d, 432 b-c, 434 d— 435 a. 476 b. 479 e, 504 ab . 511 o, 517 b-c . 517 d-e, .518 c-d, 519 d, 520 e, 525 n, 531 e— 532 o, 533 a-ì>. 540 a. Leg. 965 c-d, eoe. In al- cuni di questi luotrhi non è espressamente al definente (o. ciò ohe vale lo stesso . al dividente) che Platone attribuisce questa co- noscenza delle Idee ch'egli chiama metaforicamente vedere; \m\j come abbiamo detto, è un principio platonico ohe le Idee non si ctmosoono che per la dialettica, e la conoscenza che questa dà di un'Idea, considerata isolatamente, non è altra cosa che la de- finizione. P^) V. AriKt. J/ij<. 1. III. III. 9. 1. V. III. 5. XXV. 5,1. VIL XIV. 1-2. XV. 6-7. 1. Vili. VI. 2, 1. XIII. VII. 17, Anal. Post. 1. II. XII. 11, ecc. (4) AriHl, Met. 1. XIII. IV. 4: «Socrate non poneva «epira^t (/ft)(>«frrtf) gli universali e le definizioni; questi (Platone e hi sua scuola) li separarono tyÒQiaatA^ ^ tali esseri chiamarono Idee ». Sul significato di ^(OQKfZóg^ ;^ft)^iCft), eco. v. il Suppl. B. p. 1. n. 6 sulla line. (5) Fed. 99 e— 100 a. — 248 — nome che dà alla definizione) (1), come Aristotile la sua forma (2), che, come si sa, corrisponde all'Idea platonica. Ma se la definizione phatonica deve esaurire la natuiu della cosa definita, ne se^ue che essa deve comprendere indistintamente ciascuno dei suoi attributi? È ciò che sembra incompatibile con la reticola che Platone segue costantemente nelle sue dieresi, di definire ciascun ge- nere per una sola differenza, essendo evidente che un ge- nere non differisce da un altro per un unico attributo. Per Platone, come per Aristotile e tutti i filosofi che hanno ammesso h* definizioni essenziali, la definizione non comprende esplicitamente che un certo numero degli attributi dell'oggetto definito, quelli che poi sono stati chiamati attributi essenziali; tutti gli altri, i propri, non li couiprende che implicitamente^ cioè in quanto deriva- no, o possono dedursi, dagli essenziali. È ciò che Pla- tone indica chiaramente quando afferma che la cono- scenza delle proprietji suppone quella dell'essenza. È im- possibile, egli dice, di conoscere se un oggetto abbia una data proprietà, se ncni si conosce ciò che esso è (ò' Uti) (3); ricercando le proprietà d'un oggetto, si deve prendere per principio la sua definizione (4); è ad essa che bisogna guardare, e riferire ogni cosa, in tutto il se- (1) V. So/. 218 e,221 b . 231 e . Polii. 274 e, 277 e . 285 d, FU. 62 a, Fedro 245 e, Leg. 895 d-896 a. 964 a. Teet. 148 d, 208 b, ecc. (2) V. Mei. l. I. X. 2, 1. V. 2. 1. l. VII. X. 11, l. VII. XV. 1, l. VIII. I. 6, l. XII. II. 6. HI. 5. PA,y», l. II. III. 2, De gen. 1. I. II. 21. ecc. (3) Meno 71 ab. 86 d. Rep. 3.54 e. (4) Meno 86 d . 100 b, Protag. 361 o, Rep. 354 b-c, Fedro 237 h d. 1 - 244 — guito della ricerca (1). Ciò importa evidentemeute che la defìnizione contiene delle premesse per portare delle inferenze sugli attributi non compresi nella definizione stessa; il che, la conoscenza essendo per Platone a priori, significa che, data la definizione, si possono dedurre da essa a priori, cioè indipendentemente dalPosservazione, tutte le proprietà dell'oggetto definito. Ciò è confermato dal Fedone 100 a, in cui Platone riassume il suo metodo in questa regola unica: prendere per princio il Xóyog che sembra il meglio stabilito, e ammettere come vero ciò che gli è conforme, ciò che non lo è rigettarlo come falso. Questa regola di metodo valendo per ogni ricerca, essa prescrive di dedurre, non solo ogn' Idea inferiore dall' Idea superiore, ma ancora tutti gli attribuiti di una cosa dalla sua definizione. Qui kóyoq (oltre che ra- ifione, cioè principio da cui le cose si devono dedurre) significa al tempo stesso concetto e definizione: questi due significati al fondo si equivalgono, perchè la defini- zione, secondo tutti i concettualisti, non è che l'analisi, o lo sviluppo, del concetto. Questa dottrina dì Platone sulla defìnizione sembra un accompagnamento naturale del realismo dialettico. An- che nei sistemi, in cui la dialettica non è rappresentata, come in quello di Platone, come una ricerca della defini- zione, essa deriva dal carattere generale di questa filoso- fia, eh 'è di aspirare a riprodurre, come insieme di con- cetti, l'universalità stessa dell' essere e del conoscibile. Quando Hegel riduce la scienza a una serie di concetti, coi loro rapporti di successione logica, siccome questa è per lui la scienza universale, egli ammette implicitamente che tutte le proprietà e relazioni delle cose devono dedursi dai loro concetti. La dottrina è formulata della maniera (1) Fedro 237 d, 238 de, 263 e. — 245 — più espicita in Spinoza ed in Taine. Le proprietà delle co^e, dice Spinoza, non s'intendono, sinché s'ignorano le loro essenze; se si tralasciano queste, si sovverte necessaria- mente la concatenazione del pensiero, che deve rappresen- tare quella della natura stessa. Talis requiritur conceptus rei sive definitio. ut omnes proprietates rei, dum sola^ non nufcni cum aliis conjuncta spectatur, ex ea concludi poS"' »int. Questo per le definizioni delle cose create; ma lo stesso requisito è poi assegnato alla definizione della cosa in- creata. Anche per questa si richiede ut ab ejus definitione omnes ejus proprietates concludantur (1). La stessa dottri- na nel Taine, benché espressa sotto una forma più on- tologica che logica. <( La definizione è la proposizione che marca in un oggetto la qualità da cui derivano le altre e che non deriva da un'altra qualità. Non è una propo- sizione verbale, perchè v'insegna la (jualità d'una cosa. Non è l'affermazioned'unaqualitàordinarìa, perchè vi ri- vela la qualità ch'è la sorgente del resto. È un'asserzione d'una specie straordinaria, la più feconda e la più preziosa di tutte, che riassume tutta una scienza, e in cui ogni scienza aspira a riassumersi >. Così nella definizione della sfera « si annunzia che tutte le proprietà d'ogni sfera derivano da (|uesta formula generatrice. ... si esprime l'es- senza della sfera, cioè la causa interiore e primordiale di tutte le sue proprietà. Ecco la natura di ogni vera defi- nizione » (2). Causa, secondo Taine, è, lo sappiamo, un fatto più generale, da cui può dedursi un altro fatto o un gruppo di altri fatti. § 19. La dialettica di Platone non è che la dieresi. Così nel Sofista (253 d — e; dice : < Dividere per generi e né la stessa specie prendere per diversa né la diversa per la stessa, non diciamo essere questo l'ufficio della scienza (1) V. De intellectns emendalione XI li, (2) Storia della letteratura iìiglese, t. '1, l. V, e. V, § 2, III, - - '" ' - - _ . - -, III I r — - dialettica f — Così chi è capace di fare ciò, vede acuta- mente un'Idea unica diffusa in molti, esistenti ciascuno separatamente, e molte Idee differenti contenute sotto una Idea unica, e ancora un'Idea unica in molti tutti ridotta all'unità, e molte Idee affatto distinte (1): que^ sto è saper discernere, per mezzo della divisione per ge- neri, quali comunicano fra di loro e quali no. — Ma (pie- sta scienza dialettica tu non l'attribuirai, io penso, che a chi puramente e giustamente filosofa. » Nel Fedro (265 <l-2tì6 b) dopo aver raccomandato di ricondurre a un'Idea unica, guardandolo con una veduta comprensiva, ciò che è sparso <iua e là, e poi dividere e suddividere I>er ispecie com(* per altrettante articolazioni naturali, soggiunge : < Per me, o Fedro, io sono amante di que- ste divisioni e riunioni ((rvyaycoywt')^ per essere più in grado di ben pensare e di ben [tarlare, e se vedo qual- cuno che sia capace di comprendere 1' uno e il mul- tiplo qual è in natura, io cammino sulle sue tracce come su quelle d' un dio. Quelli che hanno questa capacità, dio sa se a torto o a ragione, ioli chiamo sino ad ora (1) Preseuti pure in questi ni'4li lutti, cioè una in ciascuno (Un tutto è il couìplfsso di cose o d'Idee inferiori cont-enute sotto un'Idea). Oss(^rvian^o, per dare ragione di quest'interpretazione, che queste tnolte Idee affatto disliìite non i)Otrebbero contrai>i)or8Ì alle molte Idee differenti contenute sotto un"* Idea unica, intendendo l>er esse delle Idee che non possono ricondursi a un'Idea più ge- nerale : perchè in questo caso affatto distinte dovrebbe signifi- care : che non partecipano in comune a qualche altra Idea ; si- gnificato inammissibile, poiché secondo il Sofista (v. 255-25U) tutte le Idee partecipano a <iuelle deWessere e del non essere e delh» stesso e del diterso, e queste stesse le une alle altre. Di più il contesto esige che anche in queste molte Idee affatto distinte si veda un ciiso della dieresi e della sinagoge, come avviene infatti nella nostra interpretazione. — 247 — — ^'^™- M»WIIIMI Il ini. I .. ! .1 il . ... -M-i .1 I 11^ / dialettici.» Nel Filebo (15 d-19 b) la dieresi è evidente- mente pret^entata come il metodo scientifico per eccel- lenza : non vi ha né può esservi metodo più bello di questo, di cui l'autore è stato sempre amante, ma che spesso- sfuggendogli, lo ha lasciato inope e desert4> (16 b); è per esso che è stato messo in luce tutto ciò che è stato scoverto con arte (16 e); è un dono degli dei agli uomini, inviato per un Jtltro Pnmioteo con un altro splendidissimo fuoco (ibiil.); non si è sapienti in un soggetto qualsiasi, che quando si è in gra<lo di appli- care questrO metiodo (17 b-e). Il metrodo così esaltato da Platone non può essere senza dubbio che il dialettico (1); e del resto è ciò che egli dice esplicitamente, (piando dà per carattere proprio della discussione dialettica, che la distingue dalla eristica, il passare da ini' Idea generale albi moltitudine infinita dell'individui, ncm iuìmediata- mente, ma per l'intermediario delle. Idee più particolari in cui essa si divide e suddivide (17 a). La stessa iden- tificazione della dieresi con la dialettica nel Politico (285 c-286 a) (2), in cui l'aut.ore ci avverte che, come un fanciullo che si esercita nelle lettene (yiìàuuaia) viene in- terrogato su quelle di cui consta un nome, non per la sola quistione su questo nome, niit per divenire più (frammatieo in ogni quistione, così le dieresi di (luesto di«'ilogo non hanno solamente per iscopo di cercare il Àóyog del politico, ma di rendere più dialeUiei in ogni soggetti», o, ciò che vale lo stesso, più capaci di « dare e ricevere ragione (Aóyoz) » di ciascuna cosa (3). Ag- ii) Vedi } 12.0 (2) V. anche 286 b-287 a. (3) Conlr. liep. 581 e, in cui questa lo<^uzioue, capace di dare e ricevere ragione, h impiegata evidentemeule come l'equivalente di dialettiro. 248 - — 249 - giun^iaìuo infine il Sofista 227 a (1), in cui il metodo di di- visione è cliianiato il «metodo delle ragioni (rà)#/ kóy(oy) y^ — ^ le ragioni » (o/ 'Aóyoi) nel linguaggio platonico si- gnifica la stessa cosa che € la dialettica » (2)—; e Alfes- sandro Afrodisio in phil. pr. I. 42, il quale, commentando l'osservazione d'Aristotile (1. I. VI. 5) die la dottrina delle Idee è nata dallo studio posto nella dialettica, in- tende per « dialettica » la definizione e il processo di cui essa è il nìomento finale, cioè la dieresi. Come si vede dal secondo dei luoghi citati, la dia- lettica è talvolta ricondotta, non alla semplice dieresi, ma alla dieresi e alla sinagoge (3). Ma questa differenza non ha alcuna importiinza, perchè la dieresi implica la sinagoge, come un suo momento subordinato. La die- resi infatti non è che una classa/ione, e questa suppone la formazione delle classi, cioè dei concetti generali, ciò che Platone chiama (rvyay(oyrj. In certi casi la dialet^ tica sembra anche ridotta alla sola sinagoge. Così se- condo la Repubblica 537 e il dialettico è il sinottico, cioè chi sa abbracciare molti oggetti in una vista d'in- sieme, comprendendo le affinità tra le conoscenze e tra gli esseri; secondo V Epino mide 991 e il primo e il più bel modo di esaminare le cose è di riconduri-e in tutt^s le discussioni il particolare al generale ; e secondo le Letjfii 965 e non vi ha metodo più luminoso per lo spirito nmano che di poter guardare a un'Idea unica dai molti (1) Cfr. PolUk'o 266 d. (2) V. p. e. Hep. 538 o-53H d e Aristotile. AIeL 1. 1. VI. .5. (3) Allelui nel Filelìo il metodo di cai si parla a i5 d-19 b ora è rappresentato come una semplice dieresi — v. 16 c-17 a —, e ora come una riduzione del multiplo all'uno (sinagc»ge) e una ri- soluzione dell'uno nel multiplo (dieresi)— v. 15 d-e e c<»nfr. IS a-c— ^ -6 dissimili. Ciò è perchè, trovati tutti i concetti generali, vale a dire tutte le classi, e superordinandoli gli uni agli altri secondo il grado della loro generalità crescente — operazioni che sono del dominio dèlia «rrra;/r,);/)y— ;il risultato sarà una classazione sistematica di tutte le Idee, in altri termini, la loix) dieresi. Per la stessa ragione, siccome Platone identifica la definizione con la sinago- ge (1) — perchè la definizione, non essendo che l'esposi- zione del concetto, si ottiene, come (piesto, svolgendo ciò che vi ha di comune in una classe di oggetti (2Ì— egli riconduce pure hi dialettica alla definizione. È ciò che fa nel Fiìebo 61 e-62 a, in eui la scienza più vera, cioè la dialettica (3), è ridotta alla conoscenza di ciò che è la giustizia stessa e tutte le altre Idee, o in altri termini, alla possessione del loro JLÓyoz'^ e in quella ste^^sa parte della Repubblica (4) in cui la dialettica è specialmente considerata come un metodo di dedurre gradatamente tutte le Idee da un'Idea suprema. Così a 533 b : « non vi ha che il metodo dialettico che cerchi di prendere con un ordine determinato ciò che è ciascuna cosa » ; e a 534 b : « non chiami dialettico colui che prende la de- finizione dell'essenza di ciascuna cosa?». Ma per ricon- durre la dialettica alla definizione Platone ha ancora una ragione più decisiva: è che la dieresi è il processo di cui la definizione è il risultato, e può anche consi- derarsi essa stessa, come abbiamo osservato (5), come una catena di definizioni. (1) V. Fedro 265 d-266 b, 277 b-e. Teeteto UH d, Lefjf/i J«63 c-964 a. 965 o-d, eoo. (2) Cfr. J 18, n.o 2.« (3) Conf. 58 a-59 «1. (4) Fine del I. 6 e 1. 7. (5) V. p. 18 sul priuoipio. > > » t » — Il MI! ^ Il HI .III I 111.^.^ • • m ^ I 1—^ I MI I II M .1 ! I I 11 I La dialettica essendo la dieresi, noi dobbiamo dunque applicare alla dieresi ciò che nel § 10 e seguenti abbiamo detto della dialettica considCTat.a genericamente : que- st'applicazicme ci darà i caratteri speciali del metodo platonico, di cui sino al $ 15 non abbiamo considerato, quasi esclusivamente, che quelli comuni con gli altri sistemi di realismo dialettico. Noi abbiamo visto : che la dialettica è una catena continua di deduzioni, in cui la conseguenza della deduzione antecedente diviene il prin- cipio dtjlla deduzione, susseguente (1); che questi prin- cipii e conseguenze non sono delle proposizioni, ma delle Idee, in modo che la deduzione consiste a pas- sare dalla posizione di un'Idea a ({uella di altre Idee (2); e che il principio primo è l'Idea del Bene, cioè l'Idea più universale, di cui tutte le altre sono delle specie o delle forme particolari. (3) Noi abbiamo visto pure che questa catena di principi i e conseguenze è percorsa dalla dialettica in due direzioni op[K>ste : 1' una ascensiva (àyà^ats:) (4), che va dalle conseguenze ai principìi, ])artendo dalle conseguenze ultime per arrivare al prin- cipio primo; e l'altra discensiva, che va dai jirincipii alle conseguenze, part^ìudo dal principio primo per ar- rivare alle conseguenze ultime (5). Ciò che abbiamo detto nel paragr. 17 ci permette di determinare in che consistono questi due processi opposti della dialettica: il processo discensivo, che va dall'Idea del Bene alle (1) V. $ 12. (2) Ihid, (3) V. ^ 13 e ^ 16. (4) V. per questo termine liep, 511 b, 515 e-516 b. 517 a-b, 519 d. 532 ii-b, 533 c-d. (5) V. S 12. — 251 — sue specie particolari, è la dieresi — noi sappiamo che que- sta, applicata d'una maniera completa, deve abbracciare tutto il mondo ideale, partendp dall'Idea suprema che sta al vtrtice della piramide — ; il processo asceitsiiWj che arriva come ultimo termine al termine primo della dieresi, cioè all'Idea del Bene, è la sinagoge La dieresi dunque non è solamente una classifica- zione ma anche una deduzione : in questa deduzione il genere diviso funge da principio, le specie, cioè i generi immediatamente inferiori in cui si divide, da ccmseguenze — • (juesti generi e queste specie, come abbiamo detto nel paragr. 17, non sono delle collezioni di oggetti par- ticolari, ma le Idee che loro corrispondono — . Che fa in- fatti il dividente? Pone prima l'Idea di un genere, e poi quelle delle specie contenute in questo genere (1) Perchè questo processo sia una deduzione, bisogna dun- que che tra la prima di queste due posizioni-^quella del- l'Idea dv\ genere — e la seconda — quella delle Idee delle specie contenute in questo genere — vi sia il rapporto di principio e conseguenza. La deduzione del dividente è COSI un passaggio continuo dalia posizione di un'Idea a quella di altre Id€?e, come abbiamo visto della de- duzione del dialettico, prima d'aver identificato la dia- lettica con la dieresi. Questo passaggio continuo dalla l>osizione d'un'Idea — quella di un genere — alla posi- zione di ailtre Idee — quelle delle specie che e^so con- tiene e di cui ciascuna diviene alla sua volta il genere di una nuova divisione — è un passaggio da un'afferma- zione esistenziale ad un'altra affermazione esistenziale : ogni divisione stabilisce che esistono, nel genere diviso^ t«li specie determinate, ed esse sole, dopo che si è sta- bilito, in una divisione antecedente, l'esistenza, in un (1) Coufr. Filebo IH d. — 252 — altro genere superiore, di questo genere e del genere •collaterale, e di essi soli. In verità il dividente non af- ferma espressamente l'esistenza del primo genere, quello «he costituisce il punto di partenza di una dieresi : ma la posizione di questo genere, cioè dell'Idea corrispondente, deve implicare anch'essa un ^affermazione — perchè n(m potrebbe servire da premessa in una deduzione, se non fosse l'equivalente di una proposizione —, e la posizione di un'Idea non può implicare altra affermazione che •quella dell'esistenza di quest'Idea. La dieresi, conside- rata come metodo di dedurre le Idee, è dunque un se- guito continuo di affermazioni esistenziali, in cui l'ante- cedente è il principio della susseguente e la susseguente la conseguenza dell'antecedente. Il principio afferma l'e- sistenza di un' Idea generica: la conseguenza, che esi- stono, contenute in quest'Idea generica, tali Idee specifiche determinate, ed esse sole. Ogni affermazione parziale com- presa in questa conseguenza, cioè quella dell'esistenza di ciascuna Idea specifica (che diviene un'Idea generica in una divisione ulteriore) è «alla sua volta il principio di una nuova conseguenza, che non è che un'altra afferma- zione esistenziale simile all'affermazione totale della con- seguenza pt^cedente. Applicando il metodo di una ma- niera completa e sistematica, si avrà il sistema delle Idee riprodotto in un sistema di affermazioni esisten- ziali, che dall'Idea supi^ema del Bene o dell'Essere an- dm sino a quelle delle specie infime, discendendo tutti i gradi della generalità per una deduzione progressiva, che svolgerà continuamente dal generale il complesso dei particolari in esso contenuti. La proposizione che la dieresi è un metodo deduttivo, che consiste a dedurre dal genere le specie che esso con- tiene, significa che noi possiamo, secondo Platone, per la sola forza della logica e indipendentemente dall'osser- vazione reale, scoprire nell'Idea generica le Idee speci- — 253 — fiche ad essa subordinate; ciò che implica che noi pos- siamo, secondo questo filosofo, conoscere a priori che un dato genere si divide in tali specie determinate. In questa deduzione in cui Platone fa consistere la dieresi ^ il principio, abbiamo detto, afferma che un certo genere esiste, la conseguenza che, in questo genere, esistono tali specie determinate, ed esse sole. Questa conseguenza contiene così due affermazioni : l'una che tali specie de- terminate esistono; l'altra che non esiste alcun' altra specie, e che esse sole esauriscono tutta l'estensione del genere. L'una e l'altra di queste affermazioni sono secondo Platone delle verità deduttive, cioè che noi scopriamo nell'Idea generica perlasolaforzadellalogicaeindipenden- temente dall'osservazione reale. Due sono dunque le ve- rità a priori, incluse secondo Platone, in ciascuna divi- sione: la prima che il genere contiene queste specie, e la seconda che non contiene che queste sole. Una ve- rità a priori essendo anche una verità necessaria, cioè il cui contrario è inconcepibile, queste due verità non sono solamente a priori, ma anche necessarie, cioè il loro contrario è inconcepibile. Platone suppone dunque in ciascuna divisione; 1» che, esistendo il genere-cioè data la realizzazione, nella natura, del concetto generico cor- rispondente — esistono necessariamente le specie reali de- terminate che esso contiene; e 2" che queste specie esau- riscono, pure necessariamente, l'estensione del genere,, in modo che l'esistenca di qualche altra specie sarebbe inconcepibile. Un esempio potrà chiarire questa diffe- renza tra la dieresi platonica e una semplice classifica- zione. Quando il naturalista divide i vertebrati in mam- miferi, uccelli, rettili e pesci, egli non enunzia che una verità di fatto : egli afferma semplicemente che queste classi esistono, e che esistono esse sole. Così la divisione del naturalista non che è una semplice classificazione: per essere una dieresi alla platonica, egli dovrebbe mo- - 254 — strare, non solamente die i inani in ìferì, gli uccelli, ecc. esistono, ina die non possono non esistere (dato che esi- stano dei vertebrati); né 8olament.e che queste sole classi <?sÌ8tono, ina che esse sole possono esistere, e l'esistenza -di qnalche altra chisse è inconcepibile. Vi hanno dei casi in cui questa seconda supposizione della divisione pla- tonica si veriftea effettivamente; p. e. quando si divide la linea in ietta e curva, o, per tornare alle clnssitìca- zioni del nasumlista, quando si divide Tanimale in ver- tebrato e invertebrato : noi vediamo che, nel jnrenere dato, (pieste sole specie possono esistere, e non solamente che esse sole esistono; la divisione esaurisce necessaria^ mente tutta l'estensione del genere, |>erchè 1' esistenza di qualche altra specie sareb>>e inconcepibile. Ma f»er- chè una tale divisione tosse una dieresi alla platonica, bisognerebbe che si verificasse anche la prima supposi- zione; ciò che non è, perchè dato il concetto della linea o dell'animale, e dato che (piesto concetto si sia realiz- zato nella natura, non è necessario (nel senno indicato di questo termine) ch'esso si sia realizzato in tutte le specificazioni di cui è logicamente suscettibile; in altre parole, non è necessario che, se esisti^ la linea o l'ani- male, esiste tanto la retta quanto la curva, tiinto il ver- tebrato <iuanto l'invert^^brato, la realtii del concetto non importando la realtà di tutte le sue specie possibili, cioè concepibili, ma solamente di (jualcuna di (|ueste s|»ecie Noi abbiamo visto che la ]M>sizione dell' Idea generica implica, per Platone, l'afterniazione dell'esistenza di que- st'Idea, e che è quest'affermazione che funge da principio (cioè da premessa) nella deduzione in cui consiste la «dieresi. La posizione dell'Idea della linea o dell'animale equivale dunque per Platone all'affermazione della realtà ^i questi concetti — l'Idea platonica non è, lo sappiamo, ^he il concetto obbietti va to—; in altri termini essa equi- vale all'afiermazione dell'esistenza della linea o dell'ani- — 255 — male. Ma perchè dalla posizione del concetto di linea o di animale, e dall 'affermazione esistenziale che, se- condo Platone, implica questa posizione, possa dednrsi l'esistenza della retta e della curva, del vertebrato e del- l'invertebrato, bisogna che Platone, ponendo un con- cetto, intenda affermarlo in tntta la sua estensione logica — intendendo per estensione logica quella che abbraccia, non tutte le specificazioni di questo concetto che si sono realizzate nel mondo obbiettivo (questa potrebbe chia- marsi l'estensione reale), ma tutte le sue specificazioni possibili, cioè concepibili -. Per esprimere lo stesso pen- siero con una locuzione platonica, bisogna che Platone, ponendo l'Idea della linea o dell'animale, intenda affer- mare, non semplicemente che la linea e l'animaie esiste, ma che esiste tutta la linea e tatto Vanimalc — espres- 'sioni di cui Platone si serve per indicare che il genere denotato dal nome va preso nella sua t^otalità (l); ciò che noi esprimeremmo dicendo: ogni linea, ogni animale, salvo che la locuzione platonica implica, oltre alla rea- lizzazione evidente dei concetti di linea e di animale, che questi concetti si prendono nella loro estensione logica, mentre nella nostra locuzione sono presi nella loro estensione reale—. Così la dieresi platonica, conside- rata come metodo di dedurre le Idee, s)ippone, in ultima analisi, queste due condizioni : 1» che le specie in cui un genere si divide siano tutte le specie possibili di que- sto genere; in altri termini, che la divisione di un con- cetto generico esaurisca tntta la estensione logica di questo concetto; e 2*^ che ponendo il concetto generico, esso si aflPermi come reale, pure in tutta la sua esten- sione logica. Queste condizioni realizzate, la dialettica di Plat Olle sarebbe una vera deduzione, nel senso pro- (1) V. Sappi. B. pe la n^ VII, A ^"•^ — 256 — prìo e logico del termine, e non una semplice sofistica, come quella di Hegel : noi vedremo in seguito sino a qua! punto si realizzino. Questo significato della dieresi platonica, che noi ab- biamo dedotto dalla identità di questo metodo col me- todo dialettico, quale è descritto sovratutto nel 6*' e T». della Repubblica, è anche confermato, oltre a ciò che diremo nel prossimo paragrafo, dalle seguenti osserva- zioni : 1.^ lu apriorità della dieresi è espressa chiaramente nel Timeo 39 e: « Quali e quante specie la mente vede inesistere in ciò che è animale (vale a dire nell'Idea del- l'animale) (1), tali e tante stabilì (il Demiurgo) che que-^ sto mondo dovesse riceverne ». Ciò significa evidentemente che si può, per la semplice inspezione dei concetti, e indi- pendentemente dall'osservazione del mondo reale, cono- scere le specie in cui un genere si divide (2). Questa-, apriorità non è del resto che un'applicazione delle dot- trine generali di Platone sulla scienza e il metodo scien- tifico (3). Ch'egli abbia fatto effettivamente quest'appli- cazione si vede anche nel Politico '111 d— 278 e, dove dice che noi conosciamo naturalmente tutto, ma come in un sogno, e ac<{uistare una conoscenza nuova è passare dal sogno alla veglia (4); jjerchè egli non enuncia qni que- (1) V. Suppl. B. p. 1, n. 2. (2) Più giù (il b-c) dice cbe ne non fossero stati creati gli ani- maU mortali, il mondo non sarebbe perfetto, perchè non conter- rebbe tutti i generi degli animali (v. a. 92 e): « Tutti i generi »- qui non può significare tutti quelli cbe esistono di faitOy cioè ch« l'osservazione ci mostra nel mondo reale, ma tutti quelli che < la mente vede inesistere in ciò che è animale », cioè che noi co- nosciamo a priori che devono esistere, (3) V. $ 8 e 9. » (4) Coufr. § 8. - 257 - ste proposizioni generali t5he per applirarle al caso par- ticolare di cui è (|uistione, cioè W nuove dieresi neces- sarie per comiJetare la dehnizione del politico. 2.^ Aristotile ci attesta che, secondo la scuola pla- tonica, la dieresi è uua diuiostrazione. Nelle AnaL Fast. 1. il. V egli attribuisce ai fautori di questo me- todo la pretesii di stabilire con esso (liiuostralirameiìfe che tutt^o ciò che è nel genere diviso si trova o nelPuno o neir altro dei due opposti secondo cui il genere si divide, in altri termini che (|uestr» comprende realnxMitc^ le specie detìnite per (juesti due opposti, e n(»n com- prende che queste sole speci(» (1). Xelle AnaL f'r, 1. I. (l) « Xoii fa un silh»»;isiiio vhì crostniiscc la dfHiiizinnc col nietodo divisivo. Conu* infatti ìwUv fonchisioni senzji medio, st^ alcuno dico che, s;» è «nu*sto, è necess:niauieiitc quest'altro, av- viene che altri ne domandi il pcrclir; . così ndlc dctìniziimi co- struite col metodo divisivo. Che è liionio ? l'u animale mortale, pedestre, bipede, implume. M.i perche t si domanda per ciascuna di «lueste attribuzioni. Il dividente #//m e di mosti fra roti i a die- resi y come erede, eke tulio v o morfitle o immortale (tutto vu<d dire evidenteuuuite : tutti» ciò che «> nel j^euere di cui mortale e immortnle sono le differenze. cio«> nel ;;enere animale). .Ma tutto questo discorso non e una definizione. Per cui. iiuand'anclie si dimostri con la dieresi. In definizione almeno non si fa con sil- logismo*. (Arist. Aitai. P.^si. 1. I. V. «). Per conjprendere hene questo luogo, bisogna confnmtarh> con Anni. Pr, l. I, XXXI, in cui Aristotile fa vedere che. per ciascuna delle elivisioni suc- cessive, è senza prova che la cosa definita si pone nell'uno dei due membri di «luesta divisione anziché nell'altro; p. e., in una dieresi per ottenere hi definizione dell' uomo . dopo aver diviso raninmle in mortale e iunnortale, è senza prova che si dice che l'uomo è mortale; perchè da ciò che ogni animale è o mortale o iunnortale, ne segue che l'uomo deve essere o l'uno o l'altro, ma n«m che sia l'uno anziché l'altro. 17 i *i> — 2.>S — XXXI, cont:iit;iiHl<) lo opinioni platonidic sul valore di- mostrativo «Ulla dieresi j, mostra elie essa non potrebbe servire alla dimostrazione di oji^ni quistione (l), e che non è che una piccola ])or/ione del metodo dimostra- tivo (2): proposizioni in eui non possiamo vedere natu- ralmente che le jintitesi delle tesi di Platone, di cui sap- piamo *x'\ìi h* Idee sulla universalità del metodo dialet- tico (:^). Nella sua critica della dottrina che la dieresi è' lina dimostnizione, Aristotile prende di mira, quasi esclu- sivamente, un'applira/Jone di questa dottrina, cioè che è una dinKKsMazione della <h*tìnizione (4). È perchè egli- iion considera la diensi rlie come un mezzo per trovare la detinizione: è così int'attti che IMatone la presenta nei i\\w dialoghi in <ui pratica (piesto metodo, cioè il Solista e il Politico (ò) - <-iò in eui dobbiamo vedere un altro esem|Mo dello sforzo costante di (piesto filosofo di riattaccare, più che può, le sue speculazioni alle ricerche di Socrnteedei socnitici (H)-. NelPAppendice al cap. 6 (1) V. t-5. Ctr. il coiiimcuijuio d'Alcssaudn) «l'Afrodisia. (2) V. l. (3) V. «piosto pjinij»r. pa^. 2t7 sul luogo dol Fileho 15 d— 19 b, e il palagi'. 10. (4) Amtt. I*r. l. I. XXXI v^AunL Poni. l. II. V. (5) V. la nota in line del ^ 17. (6) La dieresi dimostra . necoiido Platom*, la definizione, in quanto dimostra resistenza dell'Idea definita. Dimostrata per la dieresi l'esistenza d'un* Idea, Platone ammette ehe sia dimostrata al tempo stesso la sua definizione, pcrebò egli jiresuppone che i caratteri che si vanno progressivamente aceumulaudo nelle di- visioni successive per arrivare alla posizione di tpiest' Idea, de- vono costituire la totalità dei suoi caratteri esHemiali, cioè pri- mitivi e da cui tutti gli altri possono dedursi (v. $ 18). Per la dottrina che la definizione si riferisce all'Itlea, v. il Sappi. B, p. I, n. IV. — 259 - noi abbiamo visto quale sia il sioniticato del termine di dimostraziouG in Aristotile, cioè che essa non è per lui una sempliee deduzione, ma una deduzione in cui la proposizione conclusa diviene, per la deduzione stessa, una verità razionale e necessaria. 3^ Come ablùamo osservato nel § 10'\ Piatirne defini- sce la dialettica l'arte d'interrogare e di rispondere (i), ^ designa con <iuesto nome tanto il metodo particolare -al suo sistema, quanto l'arte della discussione ordina- ria, quale V insegnavano i sofisti (2). Notiamo ehe cif) ^gli fa nei luoghi stessi in cui espone il metodo dialet- tico, descrivendolo, ud FHvho, come metodi» di divisio- ne e sin}igO;i;e, e nella Repubblica, eome metodo di de- durre le l4lee e scoprire le Ipro definizioni Questo pas- saggio n-a il senso stretto del termine (lialetliea (eon eui designa il metodo particolare al suo [»roi)rio sistema) e il senso più lato (eon cui desig'ia l'arte della discussione in generale»; (piesta idenliiicaziiuie. per conseguenza, tra i due concetti, il più i)articolare e il più generale, desi- gnati da (luesto termine; signitìcaiìo evidentemente che, secondo Platone, la sua dialettica non differisce in so- stanza da una discussione ordinaria ben condotta, o, fa- cendo astrazione dalla forma dialounca, clic è un (ilemento accessorio (3), dal ragionamento ordinario e dai processi (1) Nella Rep. 584 d e altrove. (2) Nella Rep, 537 o - 539 d. V. anche Fileho 15 e - 16 a. (3) Come si vede nei dialo<»bi propriauu*.ute dialettici, cioè il JSofìsta e il Politico, in cui, come dice il Tocco (Ricercht piato- niche, \\\g. 154|. « la forma drammatica scomparisce per far luogo all'espositiva, e alla ricerca in comune del vero da scoprire sot- tentra rinsegnaniento della verità già trovata». Nel Sofista (217 <5-d) lo stesso ospite eleate riconosce elio il dialogo non h no- <3C88niio. V^^^-• BBBBI I I — 260 - di cui esso fa uso. Platone non può essere dunque, come Hegel, r inventore di una logica uiwvtv, diversa ttalla comune e in antitesi c«>n essa: la sua dialettica non può essere cbe un caso dalla logica comune, e deve fondarsi sugli stessi principii. Ora la logica comune non conosce che due processi, 1' uno che conelude dai particolari al generale (induzione), l'altro che conclude dal generale ai particolari (deduzione). Sono appunto i due processi della dialettica di Platone (le due vie, com'egli li chiama) (1> descritti nel VI. e VII. della Repnhhlica, e che noi ab- biamo identificati, V uno con la sinagoge e V altro con. la dieresi (2). L' osservazione precedente trova nn' altra confer- ma nel luogo più v.ilte citato del Fedone (100 a), i» cui Platone riassume il metodo da lui seguito dopo la scoverta della teoria delle Idee, cioè: stabilito un prin- cipio, porre come vero ciò che si accorda (^),A(oa)^€r) co» esso, e rigettare come falso ciò che non si accorda (3). Questo luogo prova che la deduzione a cui aspira Pla- tone è una vera deduzione, fondata sul principio della coerenza - come si vede dalla parola greca citata - e che non pone esplicitamente nella conclusione se noa ciò che implicitamente è contenuto nella premessa. 4« Tutte le Idee, come abbiamo visto (§ 13) si dedu- U) V. Kep, 532 e. ^2) In verità la siuagoge noo oorrispoDcle che a quella specie d'induzione, che non ia che lia.smnere in una proporzione gè- nerale tutti i fatti particolari osservati. La vera induzione dei lo'Tici moderni, quella che estende realmente la nostra conoscenza, aiTdando dai fatti osservati a quelli non osservati, non può aver luogo in un metodo assolutamente aprioristico, qual ^ la dialet- tica di Platone. (3) Confr. $ », J 12 n. 2.^ (la nota in tìue) e u. 4^ e $13 n. 3\ — 261 — <50no dal heiw, e questa è l'idea generalissima, di cui tutt« le altre sono delle specie o delle particolarizzazioni. <§ 16). È naturale d'inferirne che la deduzione platonica, cioè )a dialettica, (o, più propriamente il processo d/^cew- Mvo di questa dialettica) conclude sempre dal generale ai particolari, dall' Idea dal genere a quelle deHe sue specie. Questa osservazione conduce più prossimamente al nostro scoi>o, si^ ricordiamo ciò che abbiamo notato al § 13. n. 3", cioè che il modo in cui nel Fedone viene spiegata l'esistenza di ciascuna cosa suppone che il prin- cipio della deduzione platonica di tutte le cose dall'Idea del Bene sia (fuesta proposizione generale: fMtto ciò che è bene esiste — è questo per altro il solo senso in cui possiamo concepire che le forme particolari del Bene si deducano dall'Idea generale — Se è così, non è logico di concluderne che la deduzione platonica consiste, in tutti i suoi gradi, a porre un genere in tutta la sua estensione logica — tutta la linea^ tutto Vanimale, o, in linguaggio ordinario, ofjni linea possibile, offni animale possibile — e poi a dedurre, dal genere così posto, tutte le specie che implicitamente contienef Che ponendo un' Idea ge- nerale, cioè suscettibile di dividersi in Idee più partico- lari, Pl}#one intenda affermare il genere corri s[»on dente in tutta la sua estimsioue logica, non è solo una gene- ralizzazione del fatto che ciò egli fa ponendo l'Idea del Bene, ma può anche concludersi da una conseguenza necessaria di questo fatiti. Se tutto ciò che é bene esiste^ ne seguirà che tutte le specificazioni possibili del Bene devono esistere; quindi ancora tutte le specificazioni pos- gibili di ciascuna di queste specificazioni. Così, tutti i generi esistenti essendo per Platone delle specificazioni del Bene (§ 16.), la conseguenza sarà che tutte le specie possibili di un genere s<mo reali, in altri termini, che dato un genere, sono date per ciò stesso tutte le sue specie possibili. Platone ammette dunque che ogni concetto generico, più o meno generale, ch'egli deduce dal Bene, può essere atfermato in tutta la sua estenèione logica. Se ciò non prova che questi concetti intende a^ fermarli così nelFatto stesso in cui li dediice, pròva al- meno cìu^ esiste la condizione necessaria perchè possa farlo; e noi dobbiamo supporre eh' egli lo fa effettiva* mente, se vogliamo spiegarci la progressività della de- duzione dialettica, cioè coni' essa sia una deduzione h gradi multipli, che va continuamente, com'egli dice, * da Idee a Idee per via di Idee. > È l'ipotesi più ovvia, o a dir meglio, la sola ovvia, che possa farci comprendere questo tratto essenziale del metodo dialettico, precisando- ciò che d'una ni iniera generica abbiamo stabilito nel § 12» 5.^ Come ultima prova dell'identità tra la dieresi e là deduzione dialettica, indicheremo il rapporto di aHieno- rità e posteriorità che Ptatone ammette tra le Idee - come fanno, con gli stessi termini o con termini analo- ghi, tutti i metafisici i cui sistemi appartengono al tipo realismo dialettico — V a ìì ter io rità e posteriorità indica i gradi successivi dello sviluppo logico, significando la de- rivazione dell' Idea posteriore dall' Idea anteriore, Orav secondo Platxme, Vaiiterittre è il generale, e il posteriore il [mrticolare: l'Idea generica è anteriore alle Mee spe- cifiche, e queste sono ad essa posteriori. Dunque, se- condo lui, le Idee specifiche derivano logicamente dalla Idea generica; questa è il principio, e quelle le conse- guenze ; e lo sviluppo logico delle Idee è un progressi continuo dal generale al particolare, che va dal ver- tice della piramide ideale a: la sua base, passando succes- sivamente per tutti i gradi intermediHri. Della dottrina dell'anteriorità e posteriorità delle Idee parleremo più lungamente nel § 22: ma qui era necessario di accen- narla, mostrandola sotto il suo aspetto logico, mentre aUora la considereremo sotto l'aspetto ontologico. Prima di finire questo paragrafo, noteremo la stretta affinità tra il sistema di Platone e quello di Taine, af- finitji tanto più col|)ente che (|uesto filosofo, accettando l'interpretazione trasceìulentalista della teoria delle Idee, non era posto a un t>unto di vista da cui potesse com- prendere il valore e il signifiejito della dialettica plato- nica. Ricordiamo la gerarchia di necessità di cui parla il Taine, di cui la [»riina, creatrice universale, genera un gruppo di necessità subordinate, che alla huo volta ]>roducono ciascuna un nuovo grujipo, e così di seguito, 'Sinché appariscano i dettagli moltiplicati e i fatti par- ticolari dell'osservazione sensibile. Ric(udiaino pure che queste necessità non sono delle semplici proposizioni ge- nerali o dei concetti astratti, ma delle cose astiatte e generali, in altre parole dei concetti realizzati come le Jdee platoniche; che le necessità superiori sono le gè- ralità più elevate, e le necessità inferiori ad esse subor- dinate le generalità meno elevate che esse contengono- e infine che questa produzione o generazione di necessità ncm è che la filiazioni» logici, per cui la consegaenza derì%\'i dal principio. Del lesto sircome la deduzione del Inaine non è una divisione del genere nelle sue specie, come quella di Platone, ciò die vi ha di comune tra i due fil isofi, oltre alla realizzazione dei concetti e agli altri caratteri del realismo dialettico (fra cui la sistema- ticità (I) e l'unità di principio) (2), si riduce a quest'i- dea assai naturale, che la dediizi(Mie. come filiazione lo- gica dei concetti realizzati, è concepita sul tipo della deduzione ordinaria, cioè come una conclusione dal ge- nerale al particolari' {'A), {li V. $ 12" 11. 5". (2) V. ^ 12'» II. <).«• i'ò) Si potivhbe <lmiqin' ilin- dn. m.l rettìisttnt (lltb'lllc.a i si- Ktcìiii di Platone v «li Taiiu' rappiesent:iiio un jrem'n^ dÌHtinto ^t iti Come abbiamo spiegato nel paragrafo prece- dente, la dieresi platonica, considerata come metodo de- duttivo, è fondata su due principii : l'uno che le s[>ecie in cui un genere si divide sono tutte le sue specie pos- carattcrizzatii da ciò. rlic i concetti obbiettivati foruiauo uua ge- rarchia ai piiiicipii di lina generalità crescente, in modo che la deduzione va «einpre da un principio generale a un gruppo di principii più particolari compresi 8otti> di esso. 11 carattere spe- cifico del sistema platonico è che questa deduzione è al tempo stesso una classitioazione, in altri termini, ohe i due processi lo- gici deUa deduzione e della divisione formano per Platone una sola e stessa cosa . eh' egli chiama il metoffo dialettieo. Questa circostanza speciale del sistema di IMatoue tiene forse in gran parte allo stato delle conoscenze positive nella sua epoca. Delle due parti in cui si può dividere la scienza della natura. ci<»è la fisica f,e7ierale e la fisica parlieolare o storia naturale, le prime acquisizioni scientifiche non potevano concernere quasi unica- mente che la seconda: in tali condizioni del sapere positivo è ov- vio di considerare couìc primitive e irriduttibili le uniformità «pedali osservate nei domini particolari della natura ed elevarle a tipo di tutt*^ le uniformità dei fenomeni, e i concetti particolari allo studio degli esseri viventi esercitavaut> facilmente un' in- fluenza preponderante sulla concezione del mondo e dell' essere in generale. Hi là quella filosofìa che potrebbe chiamarsi orr/a- nicisia di cui . nella storia del pensiero greco . Platone ed Ari- 8t4»tile ci danno gli esempi più evidenti. I^ definizione d' Aristo- aie deir essere naturale in generale € ciò che mosso continua- mente da un principio interno perviene a un fine determinato » {Phys. 1. 11. VII. 10) è evidentemente foggiata sul tipo dell'es- sere vivente. U concetto dell'essere in Plat<me ed Aristotile ap- parisce con questi caratteri: di essere governato da leggi propri© cioè speciali (ciò che spiega V imporwinza . nella loro filosofia, deiresscHza e della definizione): di essere la causa spontanea dei proprii cangiamenti; e di tendere, in tutte le manifestazioni della sua attività, ad uno scopo interno. Sono i caratteri che, nella interpretazione primitiva dei fatti . dovevam» essere attribuiti >igli esseri viventi, lì mondo delle Idee è sovratiitto per Platone la rappresentazione del mondo degli esseri viventi: l' universi» sensibile h un animale che contine tutti gli animali sensibili, e il suo archetipo è Tldea deiranimale, c<mtenente, come sue parti, tutte le Idee generiche e specifiche degli animali (V. Tim. 30 e — 31 b. e confr, 39 e. 41 b-c, 61) e. J»2 e. Confr. pure Arist. Mei, 1. XIII. Vili. 18 : Se i numeri ideali vanno sino a dieci, non ye ne «iranno per tutte le idee: le specie degli animali sono di pifi. — i»er comprendere come Platone possa ridurre tutto il mondo delle Idee al couiplessc» delle Idee degli animali, bisogna ricordare ch'egli riguarda ccuiie animali le piante, gli astri e il mondi» stesso come un tutto. Tuttavia il pensiero di matone non ò che non vi hanno altre Idee che di animali, ma che il complesso delle Idee degli esser animati, dall' Idea universale di essere aniniait<» alle specie infime degli animali, contiene in sé tutto il nuuido delle Idee, ogn' Idea che non sia Idea di es- sere animato . essendo quella di qualche parte o qualche attri- buto di essere animato). Del resto l' infiuenza dei c<»ncetti de- sunti dalla considerazione degli esseri organizzati sulle conce- zioni generali della filosofia platonica si rileva sovratutto nei tre punti seguenti: !•» 1 termini f'Jto, tZrfof « ^»n<»»""«- <'«>""' ^^^ P»^*^»^*' italiane corrisp<m<lenti specie, genere, tipo ecc., esprimono dei concetti che hanno avuto evidentemente la loro ])rima origine nella comparazione degli esseri organizzata e richiamano s<»vra- tiitto dei rapporti esistenti tra questi esseri. Queste par(»le sin- oontrano ad ogni passo nelle opere di zoo:(»gia, di botanica e di scienze affini. La dottrina delle Idee ci mostra anche per un al- tro lato linfiuenza della concezi«>iie che abbiamo chiamato orfia- nieÌHÌa\ è. che essa vede nelle Idee \v necessità primitive della natura, ciò che importa che i fenomeni di ciascun essere (come, almeno in apparenza, quelli degli esseri organizzati) si spiegano per la natura o l* essenza speciale di quest' essere, in altri ter- mini che «»gni cosa ha delle leggi speciali da cui sono regolati i »uoi fenomeni. La riduzione iXaWcHsema alla forma, che si trova - 1-. ^. — 266 - sìbili, in altri termini che la divisione esaurisce l'esten- sione lofifica del genefe; e l'altro che, ponendo nn con- tauto in Platone quanto in Aristotile . è sujriserita aneli' essa «lalla considerazione degli esseri organizsati, perchè in questi la forma è, come dice Cuvier {Regni animale. Introduzione. 8), più essenziale che hi materia Aggiungiamo in fine rhe le attìnità di diversi gradi esistenti tra gli ess<*ri viventi, tra quelli sovratutto tra cui non si ammette alcun legame geneah»gico. suggeriscooo vagamente V idea di qualche cosa d' identico e di esistente per se stesso, di un;i torma comune che s'inq»rime nei diversi esseri di uno stesso tipo. Così Agassiz dice: « (41* individui sono sola- mente i sustrati di tutte queste categorie della struttura su ciìi si fonda il sistema naturale della zoologia » ( Della speeie e della classificazione in zooloffia, e. I.l.l «Gl'individui non eostituisconola specie, la rappresentano (e cosi pure il genere, la famiglia. 1" or- dine, ecc. fhìd. eli VI.) <« Cuvier cinsegna che i sott'oregni {enì- branche nienls) s(mo fondati sulla distinzione di piani di struttura diversi, di fornte o di modrfli differenti . dentro cui ijli animali Harelèhi'r(t stali per e,os) dire fasi» [fhide'm <•. II. 1.1 « A meno che le forze tisiche già in attività non ahhiano immaginato questi piani. e non li ahhiano in seffnito iènpressi nel mondo materiale come nn modello nel (piale la nalura fonderebbe ormai costantemente tatti f/li esseri, non avrehhero potuto aver luogo queste relazioni generali tra gli animali. » (/hid. e. I, VÌI. Confr. Vii Che si pren- dano qui'stc metafore nel senso proprio, e si avrà il sistema delle Idee. 2.'» Il metodo di Flatcmc non è che il metodo dei naturaliftti (la cui prima applicazione ò stata alla natura vivente), al quale egli airgiunge 1' apriorità e la necessità, in una parola la dedu- zi<me. La gerarchia delle Idee platonicln^ ci dà un'immagine ag- grandita e, ]»er dir Cv>8i, condensata di i[uesta gradazione molti- plicata di tipi di una generalitìi d^'cr.'S^ente, di questa disposi- zione arborescente delle fornu^ della natura, che è sì evidente sovratutto nella natura vivente. Senza dubbio i gradi delhi ge- rarchia, nel mondo ideale di Platon**, s(mo assai più numerosi ohe 267 cetto generico, s'intende atferma^rlo iu tutta la sua estensione logica. Il secondo di questi due principii sup- le categorie, esprimenti i diversi gradi di athnità tra gli esseri viventi, ammesse dai naturalisti, anche moderni. Senza dubbio an- cora, la più parte delle at!ìnità si; cui i gruppi sono fondati nelle classificazioni odierne dei naturalisti, non pcitevano nemmeno e»- sere sospettate all'epoca di Platone. La classitìcazione degli ani- mali di Linneo non com])rende che quattro gradi (classi, or- dini, generi e specie!; Aristotile. ehe è riguardato come il fonda- tore delle grandi chissiticazitmi (V. Cuvier ^SVorm delle scienze na- turali t. P^ pag. 14<») non ammette che tre graditi generi s(un- ^•»i (ui^aatn', P- e. gli uccelli, i i»esci, i serpenti, ecc.). i generi medi (utyà'/ia) ^ l*- specie (V. De animalilms Ifistoriar 1. I. I — VI.. 1. IV. 1. Ma (dtre le identità di organizzazione su cui sono fVmdati <|uesti gruppi, vi hanno per Aristotile delle analo^ gie o anche identità parziali su cui ]>ossono fondarsi altri gruppi. Così i «eneri sommi rhe corrisponderebbero press' a poco allo odierne classi dei vertebrati, si riuniscimo nella categoria ge- nerale di tt'diua <*i^*' provvisti di sangue, che corrispon<lerebbe al sottoregno tlei vertebrati. Al di sopra di (|uesti». divisioni A- ristotile ammette naturalmente quella <ii animale e quella supe- riore di essere vivente). Cert;iniente Platone n(m erji un natura- lista; egli non era capace di distinguere, nei gruppi ch'egli for- mava, l'analogia più o meno reale dalla vera affinità. Ma appunto perciò doveva essere portato a nioltiplicare indeti aita niente i gradi di affinità tra gli esseri reali, per questa temleuza a trovare da per tutto un'idea generale, che costituisce secondo lui lo spi- rito fatto per la diah'ttica. L'inipm-tanza della natura vivente nella dieresi platonica risulta anche dalla, critica di Aristotile, questo metodo, negli esempii eh* egli ne dà . applicandosi per il solito agli esseri animati (v. Mei. 1. VII. XII.. De pari, ani- mal. 1. I. e. IL e IIL, Anat. f*r. 1. I. XXXI. Anul. Post. T. IL V., 1. IL XII., ecc.) Si sa inoltre che il successore imme- diat<» di Platone, Speusippo. mostrò le affinità tra gli esseri ns'ili cere indole specialmente tra gli esseri viventi (v. MiiUaoh — 268 - pone il primole non implica die la determinazione dì prendere i concetti in un senso particolare, difforme, a dir vero, da qnello in cui generalmente vengono presi. Il primo è la condizione necessaria del seconde^, ed im- plica una veduta particolare sulla natura reale delle cose. È esso dunque il tratto veramente caratteristico della dialettica platonica: noi dobbiamo stabilirlo d' una ma- niera più diretta, mostrando al tempo stesso il modo determinato in cui Platone ha cercato di applicarlo. Perciò prima di tutto noi richiameremo l'attenzione del lettore sui caratteri particolari della dieresi platoni- ca, di cui abbiamo parlata in fine del * 17, cioè che ogni divisione è una dicotomia, che ciascun membro di ogni dicotomia è definito per una differenza unica, e che le di» differenze sono contrarie. Quale potrebbe essere lo scopo di queste condizioni a cui Platone si astringe co- stantemente nella pratica del suo metodo? Queste con- dizioni implicano una certa ipotesi sulla natura reale — e un'ipotesi evidentemente contraria ai fatti dell'osser- vazione —, perchè, ricordiamolo, il metodo di Platone è un metodo naturale, in cui ciascuna parte di ogni «livi- FragtH. phil gmeror. voi. IH. Fnigm. SpciiKÌppi 20y-22r)) : era evidenteineute un' uppiicaziimc e uua confcruiii, »al teiiciio dei fatti, dei priiicipii della dialettica platoiiiea. 8.'» Infine il concetto teleologico, di cui Platone fa la forimi generale di tutti gli esseri t^ la legge foudanientnle della natura, ha la sua applicazione più plausibile, l'unica secondo alcuni filosofi, come Kant, noi inoivdo degli esseri viventi. In una nota del^ 21 noi vedremo come certi sviluppi ilei concetto teleologico i»i al- cuni natunilisti moderni possono gettare qualche luce sovra uno dei punti più importami della dialettica platonica, cioè die le specie reali in cui un genere si divide, sono tutte le spìccie pos- sibili di questo genere. — 269 — sioue deve essere un genere (v. J 17), e la definizione di ciiM^cuno di questi generi deve abbracciare. la totalità dei suoi, attributi primitivi (v. $ 18). Qual è dunque, ci do- mandiamo, il motivo di quest' ipotesi f La risposta non è diffìcile: è che essa era la più propria a dare una torma determinata all'ideale di metodo che Platone si era pro- posto. Il linguaggio ci offre numerosi esempi di coppie di contrari, in cui noi vediamo che il genere in cui essi sono contenuti, non solo non contiene di fatto che questi soli membri, ma che non può contenere che essi soliy resistenza di qualche altro essendo inconcepibile. Questi contrari si chiamano contrari senza medio: tali sono: uno^ più; movimento, riposo; luce, oscurità; retto, curvo; sa- lute, malattia; saggio, pazzo; scabro, liscio; ecc (1). Ai casi in cui dei nomi distinti sono impiegati per desi- gnare i contrari, dobbiamo aggiungere gli altri in cui V uno dei nomi contrari si forma unendo all' altro un prefisso indicante \a negiizione: p. e. finito, infinito; nor- male, anormale; pari, dispari; conosciuto, sconosciuto; ecc. Al di fuori di questi casi noi troviamo raramente che i membri in cui si divide un concetto generico siano tutti i membri logicamente possibili: è un fatto dovuto in parte alla struttura del linguaggio, e in parte alla natura stessa delle cose, che noi ci limitiamo a segnalare senza cercare di spiegarlo. Per conseguenza Platone, in cerca di divisioni che esaurissero l'estensione logica dei generi divisi, eleva questi casi a tipo universale delle sue dieresi, l'esigenza del suo sistema, come di tutti i (I) Cfr. Bain Log. 1. 1, o. 1. n. 13-15. Vi bauno, secondo lui. nella lingua inglese parecchie centinaia di tali coppie di con- trari, in cui per designare ciascuno dei due viene impiegato un nome distinto come negli esempi ohe abbiamo citati. sistemi di realismo dialettico, essendo rasgoluta unifoi»- mità di metodo, perchè il metodo, in <iuesti sistemi, non è nn semjdice processo siihbiettivo, ma la le^ge delle eose stesse, cioè dei concetti fealizzati. La diviene pla- tonica non e dunque semplicemente in due opposti, ma in due opposti fra cui non vi ha medio, cioè oltre ai quali un'altra specificazione del <::enere diviso, non solo non esiste di fatto, ma non può essere concepita. E in- fatti, nelle dieresi del Sofista e del Politico e neìjli e- sempi che dà Aristotile del met«)di> platonico, noi ve- diamo lo sforzo evidente di dividere in o])])osti di questa specie (1): perciò basta di <lare uno s<jjuardo alle tavole che si trovano nella nota finale del $ 17, e alP esempio ehe abbiamo citato sulla fine dello stesso paragrafo. In certi casi Platone non riesi'e ad t»ttenere una tale oppo- sizione, ma è impossibile che vi riesca in tutti i casi, il suo metodo non essendo che una semplice utopia, che non potremmo att-enderci di vedere realizzata d^ma ma- niera completa., : Che gli opposti in cui Platone divide siano, almeno a quanto egli ]>retende, degli opposti senza medio, è un fatto attestato espressamente nel luogo seguente di Ari- stotile : < Non è necessario che il definente e il dividente (1) V. Sofista 219 a— 23H e. 264 e e se^'., Polit 258 h-267 e, e Arist. Anal. Pr, I, XXXI. Anni. Posi. II. V, II. XII (8-12), Departih. Animai. I. II e III. 3f«/. VII. XII, ecc. Nel /^o/*<.279 c- 283 a, ili cui vi hauuo le dieresi per trovare V arte del tessere. que8t(» sforzo è meno evideute. Ma queste dieresi non sono fatte secondo le regole : in molti casi infatti V autore si limita a di- videre in due specie, senza indicare le ditferenze ]»er cui esse dovrebbero definirsi- Ora 1' opposizione, e per conseguenza l'op- posizituie senza medio, non è, per Platone, iu'inediatamente fra le apecie stesse, ma fra le dift'erenze che le definiscono. conosca tutte le cose che esistono (1^... Se pone gli op- posti e la differenza (2), e che tutto cade o nell' uno o nell'altro di questi opposti, e pone che la cosa cercata si trova ueir uno, e ciò conosca; niente importa che egli sappia o ignori le altre cose a cui le differenze possono attribuirsi. K manifesto infatti che se, procedendo così, perverrà alle specie in cui non vi, ha più differenza,, avrà la definizione dell'essenza della cosa. Che poi ogni, cosa cada nella divisione, sie quelli sono degli opposti fra cui non vi ha medio, non è semplicemente postulato (cioè ammesso senza ])rova benché aì>bia bisogno di es- serC; pnivato); poiché è necessario che tutto ciò che è con- tenuto nel generi*, si tr.>vi o nell'uno o nell'altro di que- sti opjmsti. se sono veramente la differenza di (jnel ge- nere > (3). r Le parole se somf def/li opposti fra cni non vi Ita me- dio noi dobbiamo intenderle come se 1' autore dicesse : s'è vero, come suppongono (juelli che adoperano questo metodo, che sono degli opposti fra cui non vi ha medio. (1) Come aH'ermavano al<Miiii platonici : Spciisippy, secondo i oommeutatori d'Aristotile (v. Mulbicb Frng. phil. graec, Speus. Fr. 204-20H). Sulla spiegazione di Filopono di <iuest*opinione di Speusippo, cioè <*bc egli cercava con quest' argomento di riget- tare la divisione e la definizione, v. il Suppl. C // pilay. nei dincep. di Plat.y Speus: noi non possiamo vedervi, invece, come ivi spiegheremo . cbe un' espressione del princijiio platonico del legame intimo di tutte le eonoscenze. (2) La differenza non è naturalmente che uno di questi oppo- sti. 4'*i**totile si esprime cosi perchè egli vuole enunziare due condizioni, cioè che il dividente ponga due o)q)osti come al so- lito, e che fra di essi si trovi una differenza per la definizione cercata. (3) AnaL Posi, II. XII. 13-15. — 272 - lofatti elle cosa vuol provare Aristotile? <5he non è ne- cessario elle il dividente conosca tutte le cose che sona contenute nel genere diviso — se questo è il genere as- solutamente primo, conni ricliiederebln* un' applicazio- ne rigorosa del metodo, tutte le cose in generale — . A questa proposizione può obbiettarsi che, se non si co- noscono tutte le cose contenuta nel genere, è senza prova che si ammette che esse cadano tutte nell'uno o nell'al- tro degli opposti in cui esso si divide. Aristotile risponde che, se si verifica la cx>ndizione della dieresi, voluta da quelli che impiegano questo metodo, cioè che gli oppo- sti in cui il genere si divide siano degli opposti senza medio, non vi ha bisogno di prova per ammettere che tutto ciò che è cont^^nuto nel genere deve cadere o nel- l'uno o nell'altro di questi opposti. E infatti per essere sicuri che una divisiinie è couipleta, noi non abbiamo bisogno di conoscere tutto ciò che è compreso nel genere, che <)uaDdo essiv esmirisce la estensione retde di questo irenere, ma non la sua estensioue lotfica —y. e. nella di- visione dei vertebrati in mammiferi, uccelli, rettili e pesci. — Ma quando una divisione esaurisce, non solo l'esten8i<me reale^ uìa anche 1' estensione loiiica del ge- nere — come in quella degli animali in vertebrati ed invertebrati — noi possiamo ammettere senza prova che la divisione è completa, iierchè è una verità evidente per se stessa. La condizione della dieresi che essa deve dividere in opposti senza medio, ci fa anche comprendere l'impor- tanza e il signitìcato del principio platonico che la stessa è la scienza dei contrari, in altri termini che è impossi- bile di conoscere V uno dei contrari, se non si conosce al tempo stesso anche V altro (I). Questo piincipio era I ritenuto così importante per la dialettica platonica, che Aristotile lo dà, insieme allo studio dei contrari in ge- nerale, come carattere distintivo tra questa dialettica e quella di Socrate (1). Evidentemente esso serviva a Pla- tone per mostrare la necessità della dieresi per la defi- nizione. Infatti^ secondo questo principio^ la conoscenza di un'Idea implica quella dell'Idea contraria, che è l'al- tro membro della divisione, e conosciute queste due Idee, si conosce per ciò stesso l' Idea immediatamente supe- riore che le contiene ambedue, perchè non è che la parte comune delle loro definizioni; la conoscenza di quest'I- dea implica pure, alla sua volta, quella dell' Idea con- traria e dell' Idea superiore che le contiene ambedue, e così di seguito (2). Ora ciò che c'importa d'osservare è che questo principio, che la stessa è la conoscenza dei contrari, non è vero ohe se si tratta di contrari senza medio. In questo caso le due nozioni contrarie si suppon- gono reciprocamente, perchè ciascuna di esse è la nega* zione dell'altra, e ogni nozione suppone la nozione ne- gativa corrispondente. Una nozione generale, infatti, non è che il significato d' un termine generale, e per cono- scere con precisione il significato di un termine, bisogna (1) V. Fedone 97 d e Legj?i 816 e. (1) Mei, 1. XIII. IV, 4. (dopo avere parlato della defiuizione socratica come antecedente della dottrina delle Idee) : « Allora (all'epoca di Socrate) non vi era ancora la forza dialettica per poter considerare i contrari, anche a parte della definizione^ e ricercare se la stessa è la loro scienza. Due sono le cose che si possono a buon dritto attribuire a Socrate: i ragionamenti induttivi e la definizione dell'uni versale >. (2) Per la dottrina che, per definire una cosa, bisogna ancdefinire la cosa contraria, cfr. il Bain che ha una dottrina analogar Logica 1. 4, e. 1, n. 2 e 4. 18 I<1 — 274 — 275 •- sapere, non solo i casi in cui può essere applicato, ma anche quelli in cui non può essere applicato; ciò che è appunto avere la nozione negativa opposta a questo termine. . j n Il pernio su cui volge la nostra interpretazione della dialettica platonica (e potremmo anche dire del sistema intero delle Idee) è questo significato, che noi abbiamo spiegato, della divisione dicotomica. Alcuni interpreti, tirando una conseguenza legittima dalla maniera ordina- ria di comprendere la dieresi, vedono nell'ammirazione di Platone per il metodo dialettico e quelli che sanno pra- ticarlo, « una meraviglia quasi infantile »; indizio, essi aggiungono, di un pensiero giovane, che contempla per irV'ma ^"^'^ >^ proprio mondo. Secondo noi invece, la dieresi platonica è l'attuazione, la più completa che fosse possibile, d'un ideale elevato, quantunque chimerico, della scienza e del metodo scientifico. Stabilito che, i»er la di- visione in due contrari senza medio, tutt« le specie in cui un genere si divide sono tutte le sue specie logica- mente possibili, ne segue che ciascun genere può essere affermato, secondo Platone, in tutta la estensione di cui è logicamente suscettibile. Vi ha dunque, secondo lui, una gerarchia di proposizioni di meno in meno generali, di cui ciascuna stabilisce l'esistenza di un genere, after- mandolo in tutta la sua estensiore logica -meno le ul- time, che stabiliscono l'esistenza dei generi infimi, cioè delle specie nel senso piii stretto, perchè queste, nel siste- ma delle Idee, non hanno un' estensione, né logica né reale (1)-. La prima stabilisce l'esistenza del genere su- (1) Sono gl'individui (ró àtofia). Arist. Mei. l. III. III. 9, An. Post. II. V. 4, De pari. anim. 1. I. III. ed. Didot. prtg. 224. eoo. L'essere, in questo sistema, non è ohe l'essere necessario, cioè !'i, premo, e può formularsi così: tutto ciò che è bene, esi- ste — tatto ciò che è bene vuol dire, come abbiamo spie- gato, ogni bene possibile, ogni specificazione del concetto del bene cbe noi possiamo concepire— .A questa sono su- bordinate altre due proposizioni che stabiliscono l'esisten- za dei due generi inferiori in cui il bene si divide; a cia- scuna di queste altre due, che stabiliscono l'esistenza dei generi inferiori in cui si divide ciascuno di questi due generi, e così di seguito; ogni proposizione affermando, in una forma generale, che esiste tutto ciò che il nome del genere sigoi fica— tutto ciò che è animale, animale mortale, animale mortale provvisto di piedi, ecc. - e che le proposizioni susseguenti esprimono d'una maniera di più in più determinata e particolare. Ciascuna di queste proposizioni è la premessa, di cui le proposizioni subor- dinate sono le conseguenze: così, percorrendo, dalla som- mità alla base, questa gerarchia di proposizioni, noi fac- ciamo una deduzione continua, che non è che lo svi- luppo graduale di ciò che è implicitamente contenuto nel primo principilo^ e che da questo andando di conseguenze in conseguenze sino alle conseguenze ultime, non fa che esprimere sotto forme sempre più larghe e più partico- lari ciò che esso enunzia già nella forma più cempen- diosa e più generale. Ogni proposizione corrisponde a un'Idea, e la gerarchia delle proposizioni alla gerarchia delle Idee, che la dieresi percorre dall'alto in basso, an- ridea; il ooutina:ente, vale a dire ciò che noi chiamiamo Tiadi- yiduale, non è un essere, cioè una realtà, ma un semplice feno- meno. Per conseguenza, Tldea generica ha un'estensione, perchè contiene sotto di sé le Idee specifiche; ma queste non hanno e- stensione, perchè tra gli esseri reali sono i più particolari di tutti, ohe non possono contenere sotto di sé niente di più particolare. — 276 — dando dall'Idea del Bene a quelle delle specie infime, e la sinagoge dal basso in alto, dalle Idee delle specie in- fime a quella del Bene. Tutto ciò non è che un corolla- rio della dottrina della divisione dicotomica, quale noi l'abbiamo interpretata. Ma poiché ad ogn' Idea di genere corrisponde per Platone una proposizione affermante la esistenza di questo genere in tutta la sua estensione logica — ciò che è la conseguenza immediata della divi- sione in due contrari senza medio, per mezzo della quale il nostro corollario è stato dedotto dobbiamo noi am- mettere che Platone, nell'atto stesso che pone un' Idea generica, intende affermarla in tutta la sua estensione logica ? Ciò non segue, in verità, dalla divisione in con- trari senza medio : ma come non ammetterlo, quando sappiamo che Platone dà la dieresi per una deduzione^ e questa è la condizione necessaria perchè essa sia tale? Per vedere quanto vi ha di chimerico nel me- todo platonico, e comprenderne al tempo stesso il valore e il significato, non dobbiamo dimenticare due punti d'u- n'importanza capitale, che abbiamo stabiliti nell'esposi- zione precedente. L'uno che questo metodo è un metodo naturale, che, nelle sue divisioni e suddivisioni, pretende di aggruppare gli esseri secondo le loro reali affinità; e l' altro che la definizione, che la dieresi dà di ciascun genere, per il genere superiore e 1' una delle due diffe- renze opposte per cui questo si divide, è una definizione essenziale, che deve esaurire la totalità dei caratteri pri^ mitivi del genere, cioè che non possono dedursi da altri caratteri. Non sarebbe impossibile di dividere tutti gli esseri in modo che ogni divisione e suddivisione consti di due soli membri, e che questi due membri siano de- finiti, come vuole Platone, da due contrari senza medio: ma alcune delle classi così ottenute non avrebbero per caratteri che degli attributi puramente negativi; la clas- sificazione non sarebbe naturale; e la definizione di cia- — 277 - ficun genere potrebbe bastare a distinguerlo da tutti gli altri generi reali, ma non ne determinerebbe la natura, in modo da poter convenire a questo solo genere, e non ad altri generi possibili, quantunque non reali, aventi una natura più o meno differente. Questa è la circostanza sovratutto importante per la dieresi platonica, che ogni definizione per essa ottenuta deve determinare con una precisione assoluta la natura del genere definito, in modo che se questa fosse minimamente differente, la definì- zione non potrebbe più convenirgli : senza di ciò la di- visione non mostrerebbe questa coincidenza tra il reale e il possibile, che è la condizione precipua di questo metodo e la sua speciale caratteristica. Infatti supponia mo che le definizioni delle specie infime non avessero che la precisione sufficiente a distinguere ciascuna spe- cie da tutte le altre specie reali : ciascuna di queste de- finizioni, quantunque tra le specie reali non si appliche- rebbe che ad una sola, sarebbe anche applicabile ad infinite altre specie possibili, che, pur avendo la stessa definizione, differirebbero da essa più o meno profonda- mente. P. e. Vanimale mortale bipede implume — suppo- sto che da questa definizione non potessero dedursi tutti gli altri attributi della specie umana, come sarebbe la esigenza del metodo platonico - quantunque tra tutti gli esseri reali non potrebbe designare che l'uomo solo, abbraccerebbe, nel tempo stesso che l'uomo, un'infinità di altri esseri possibili, aventi una forma, una struttura e altri caratteri fisici e psichici più o meno differenti da quelli dell' uomo. Ma in questo caso la dieresi non mostrerebbe che le specie esistenti dell'animale esistono necessariamente, e che esse sole i)ossono esistere : essa non sarebbe dunque una ricostruzione a priori del mondo reale, perchè in una tale ricostruzione necessario, reale e possibile sono dei termini che hanno precisamente la stessa estensione. La condizione dunque perchè la dieresi '^ 'a - aia, come vuoìe Platone, una ricostruzione a priori del reale, è che le definizioni, per essa ottenute, esauriscano r essenza, cioè la totalità de^^li attributi primitivi, dei generi definiti. Allora la dieresi mostrerebbe che le spe- cie esistenti — che essa ha riprodotte tali quali esse e- fiistono, e, per dir cosi, ricreate — esistono necessaria- mente, perchè contenute nell'Idea suprema, la cui esi- stenza (in tutta la sua estensione logica) è. come sap- piamo (1), data a priori e, per conseguenza, necessaria; e che esse sole possono esistere, perchè esauriscono l'esten- sione logica dei generi immediatamente superiori, e que- sti quella dei generi ancora superiori, e così di seguito, in modo che l' Idea suprema, cioè il tipo universale e necessario di tutti gli esseri, si è realizzato in tutte le specificazioni di cui è logicamente suscettibile, e tutto ciò che è possibile è reale, come tutto ciò che è reale è necessario. È così che la dieresi è una dimostrazione, e che le verità empiriche (le ipotesi)^ ottenute nel processo ascensivo della dialettica, sono trasformate, nel processo discensivo, in verità razionali e necessarie. La dialettica platonica — a parte le supposizioni re- lative al primo principio, per cui rimandiamo al § 21 è fondata dunque su tre presupposti: 1.® che ciascun genere possa dividersi per due contrari senza medio ^ senza violentare, con questa divisione, le affinità reali degli esseri che si tratta di classificare. 2.® che le defi- nizioni formate per l'accumulazione progressiva delle dif- ' ferenze su cui si fondano le successive divisioni, esau- riscano la totalità degli attributi primitivi dei generi definiti. 3.0 che, nel passaggio continuo da Idee a Idee per via d'Idee, in cui consiste la dialettica, la posizione (1) V. $ 50 n. 6.0 di un' Idea generica implichi l'affermazione di quest'Idea in tutta la sua estensicme logica. L' attuabilità del me todo platonico dipende dalla verità o erroneità dei due primi presupposti : il terzo, supposta la verità dei due primi, non trascinerebbe per se stesso alcuna impos- sibilità pratica neir applicazione del metodo, ma pre- senta in coinpenso delle difficoltà d' indole teorica, che mettono in forse la legittimità logica del metodo stesso, considerato come un ideale e astrazion facendo dalla sua attuabilità. Platone ha il diritto di attribuire alle sue Idee un'estensione logica e, in generale, un' esten- sione qualsiasi ^ Evidentemente le esigenze della dialet- tica vengono in ccmtraddizione con quelle della nostra facoltà rappresentativa, quando cerchiamo di concepire gli universali come delle realtà obbiettive e sussistenti per se stesse. Vi hanno certe condizioni della rappre- sentazione, da cui il metafisico non può esimersi, anche quando oltrepassa i limiti del rappresentabile: una di queste condizioni è l'individualità; tutto ciò che noi con- cepiamo, o crediamo semplicemente di concepire, se non è un essere individuale, non può essere che un ag- gregato di esseri individuali. Quando Platone divide, co- m'egli dice, tutto il bene, tutto l'animale, tutto l'animale mortale, ecc — vale a dire, come abbiamo spiegato, ogni bene possibile, ogni animale possibile, ogni animale mortale possibile—, egli pretende al tempo stesso che le sue divisioni non si riferiscono che alle Idee ; ma è evidente eh' egli non potrà mai riuscire, io non dico a rappresentarsi, ma a immaginare di rappresentarsi, un essere obbiettivo corrispondente a tutto il bene, a tutto Vanimale, a tutto l'animale mortale, com'egli immagina di rappresentarsi un essere obbiettivo corrispondente al bene, iiiVanimale, M'animale mortale semplicemente. In altri termini, la sua Idea non può essere che un con- cetto obbiettivato, e non può, per conseguenza, considerata per se stessa, cioè indipeDdentemeDte dalle Idee subordinate e dalle cose a cui si dice che si partecipa, avere un'estensiooe ne reale né logica, perchè, come am- mettono i concettualisti, la quantità in estensione è e- steriore al concetto, e gli appartiene, non assolutamente come quella in comprensione, ma relativamente ai con- cetti subordinati e alle cose a cui esso si applica. Ciò è perchè un concetto, sia obbiettivato, sia come semplice rappresentazione supposta esistente nel nostro spirito, noi non potremmo immaginarlo che conformemente a questa condizione delPimmaginabile che è V individua- lità, vale a dire come un individuo astratto^ sussistente nella realtà o semplicemente rappresentato, come un tipo di tutti gl'individui di una classe, che ha tutti gli at- tributi identici in tutti questi individui, e nessuno di quelli particolari a certi individui determinati. Platone concepisce dunque 1' Idea come un individuo astratto, presente al tempo stesso in tutti gì' individui concreti e particolari, e che uno in se stesso, sembra molti- plicarsi apparendo come altro nei diversi individui par- ticolari in cui è presente: tutte le forme in cui egli esprime il rapporto fra le Idee e le cose, che l' Idea è l'uno nei molti (1), che è una e la stessa in tutti gli oggetti particolari (2), che è presente in ciascuno di questi ogget- ti (3), ecc., tendono a questo concetto, che è enunciato apertamente nel V della Repubblica, dove dice che «cia- scuna delle Idee è una, ma pare molti, apparendo da per tutto per la loro comunione con le azioni e coi corpi (1) V. Suppl. B p. l.a, V. 30 B. (2) Ibid. (3) Ibid. VI, A. (4) 476 a. e la recìproca fra di loro» (4). Ma se è cosi, vi ha con- traddizione fra il concetto dell'Idea in se stessa e quello dell' Idea nella sua funzione nel processo dialettico. Di •questa contraddizione potrebbe farsi un argomento con- tro la nostra interpretazione della dialettica platonica, obbiettandoci che la dieresi non può essere una de- duzione, perchè manca una condizione indispensabile, cioè l'equivalenza fra la posizione dell' Idea generica e l'aflfermazione del genere corrispondente in tutta la sua estensione logica. Ma malgrado questa inevitabile incon- gruenza fra i due elementi del sistema, cioè le Idee e la dialettica, non si negherà ohe la deduzione di Pla- tone (quale la nostra interpretazione gliel'attribuisce) so- migli a una vera deduzione più che quella di Hegel. Essa si fonda, in ultima analisi, sopra un equivoco (prendendo per generale ciò che è semplicemento a«fraf<o), ma si tiene strettamente, facendo astrazione dalla prati- •ca, ai principii della logica comune, e non è, come quella del filosofo tedesco, un rovesciamento aperto delle leggi fondamentali del ragionamento. Se con tutto ciò questi ha dato la sua dialettica per una dimostrazione, a più forte ragione ha potuto farlo Platone; e il confronto tra 1 due filosofi ci mostra un altro esempio di un fatto che si può più volte osservare nella storia del pensiero u- mano, cioè del cai^attere più semplice e più naturale delle concezioni del mondo antico, in comparazione di quelle del mondo moderno, più ricercate e più artificiali. Noi termineremo questo paragrafo, mostrando che nella dieresi si verificano le cojidizioni generali del me- todo dialettico, che abbiamo descritte nel $ 12° (n. 2-6.) 1.® La dimostrazione dialettica diflerisce dalla dimo- strazione matematica, in quanto questa, quantunque in definitiva si riferisca alle Idee, non volge immediata- mente che sugli oggetti particolari e sensibili; quella, al contrario, volge, anche immediatamente, sulle sole ' » - Idee (1). Con ciò Platone indica due diflferenze tra il metodo matematico e il metodo dialettico. L' una che, mentre le verità della matematica enunciano, al- meno immediatamente, dei rapporti tra oggetti par- ticoli^ri, (p. e, d'eguaglianza, d' ineguaglianza, ecc.), le verità della dialettica non enunciano invece che i rap- porti logici fra le generalità, che Platone sostantifica, chiamandole Idee. Questi S(mo: dei rapporti di contenenza (cioè che tale Idea generica contiene tali Idee specifiche), e di sequenza logica (cioè che l'Idea generica è il prin- cipio di cui le Idee specifiche sono le conseguenze): essi non possono correre fra gli oggetti particolari, ma solo tra le generalità, e non sono quindi suscettibili del dop- pio senso che Platone altribuisce alle verità matemati- che, interpetrate, dal filosofo, come rapporti fra Idee (fra il quadrato in sé e la diagonale in sé), e dìil volgare, come rapporti fra cose individuali (fra questo o quel qua- drato e questa o quella diagonale). L' altra differenza tra il metodo matematico e il metodo dialettico è che, nella geometria, una proposizione non si dimostra im- mediatamente che della figura particolare che si è co- struita, estendendo in seguito la stessa conclusione a tutte le altre figure che possono enunciarsi negli stessi ter- mini. Ciò dà a questa scienza l'apparenza d'una scienza induttiva e sperimentale, mentre la dialettica, cioè la dieresi, deve essere un metodo deduttivo puro, che deve respingere ogni dato empirico, e non deve trarre il ge- nerale che da un' altra generalità superiore. In verità, Platone, nelle sue dieresi, non si conforma esattamente a questa condizione del suo metodo ; stabilendo le sue classi, egli indica spesso alcuni casi, o anche la totalità dei casi, compresi in una classe. Ciò il più delle volte (1) V. % 12 n. 3. 283 ha pei iscopo di chiarire il concetto della classe (1); ma qualche volta lo soopo è evidentemente di giustific ire una dieresi per un appello all' esperienza (2). Allora il processo puramente dialettico della dieresi, che trae il particolare dal generale, si complica col processo oppo- sto, cioè con la sinagoge; e noi sappiamo del resto che, secondo Platone, il processo discensivo, cioè la dieresi, suppone, come suo antecedente, il processo asi^ensìvo, cioè la sinagoge Ma ciò non toglie niente al carattere essenzialmente deduttivo e aprioristico del metodo pla- tonico, perchè la filosofia apriorista, come abbiamo altre volte osservato, non pretende far senza dell'esperienza, ma trasformare i dati empirici in verità razionali. 2^ La dialettica è un passagu:io continuo, come dice Platone, da Idee a Ide^ per via di Idee (3) Ciò si ve- rifica esattamente nella dieresi. Infatti il dividente non fa che porre, prima una classe generale, e poi succes -di- vamente le classi di meno in meno generali, in cui quella si divide e suddivide. Ciascuna di queste classi è un' I- dea, perchè la dieresi, secondo Platone, si riferisce alle Idee (4); e il passaggio da classi in classi è una deduzione di Idee da Idee, perchè ponendo un' Idea, Platone in- tende affermarne l'esistenza, e l'esistenza delle Idee meno generali è una conseguenza dell' esistenza dell'Idea più generale che le contiene. La dialettica è pure presentata da Platone come una ricerca delle essenze, cioè delle de- finizioni, di tutte le cose (5): ma la definizione è l'espres- (1) V. Polii, 259 d — 260 a, Sof, 220 b - e, 222 e, 226 e — 227 a. 235 d, 266 a - d, 267 a, eoe. (2) V. Polii. 264 o-d e Sof. 223 e — 224 a e 267 b-c. (3) V. i 5.0 n. 4.0 (4) V. % 17. sul priucipio. (5) V. $ 12. n. 4° e J 19. verso il priucipio. - 284 — sione adequata dell'Idea, P analisi del concetto di cui questa è 1' obbiettivazione (1); siccLè la scoverta della definizione non è cbe la scoverta dell'Idea definita, la die- resi dando al tempo stesso le classi, cioè le loro Idee, e la totalità dei caratteri per cui si definiscono (2). La proposizione cbe la dialettica è un passaggio continuo da Idee a Idee per via d' Idee, stabilisce due caratteri ^el metodo dialettico. L'uno che le verità che il dialet- tico deduce le une dalle altre, non sono propriamente delle proposizioni, ma delle Idee — sono, se si vuole, delle proposizioni, ma di cui ciascuna non fa che porre un'I- dea, affermarne 1' esistenza — ; e l'altro cbe in questo incatenamento deduttivo, che costituisce il processo di- scensivo della dialettica, tutti gli anelli sono delle Idee, in altri termini che da Idee a Idee la conseguenza è im- mediata, cioè si vede intuitivamente e non mediante un ragionamento. La dieresi — considerata come un ideale, e astrazion facendo dalla pratica — soddisfa anche alla seconda di queste due condizioni della dialettica: si vede intuitivamente e che data l'Idea generica sono date le Idee specifiche — perchè per ciò basta di vedere che queste date specie sono contenute in questo dato genere — e che non sono date che queste sole Idee specifiche— perchè la divisione in due contrari senza medio mostra immediatamente che questi esauriscono l'estensione lo- gica del genere — . Nel metodo platonico è tanto impor- tante di vedere che la posizione delle Idee specifiche se- gue dalla posizione dell'Idea generica, quanto di vedere che dalla posizione dell'Idea generica non segue che la posizione di queste sole Idee specifiche. Ciò è perchè, se vediamo in una dieresi che tutte le divisioni successive, —285 — sino agli indivisibili, esauriscono 1' estensione logica dei generi divisi, noi vediamo al tempo stesso che questi generi devono essere affermati in tutta la loro estensio- ne logica, e che la dieresi è una deduzione e non una sem- plice classificazione.3.® La deduzione dialettica deve conformarsi al tempo stesso a due condizioni: l'una la molti plicità dei passaggi logici, e l'altra una legge comune a cui tutti questi pas- saggi si uniformano (1). Nella dieresi si verificano pie- namente queste due condizioni del realismo dialettico : essa è una deduzione a gradi multipli, e in ciascuna de- duzione particolare si realizza il tipo uniforme della di- visione dicotomica. Questa, nel sistema platonico, è ciò che la tesi, antitesi e sintesi nel sistema hegeliano: vale a dire 1' uniformità di sequenza del mondo ideale, che, nelle sequenze logiche tra le Idee, è ciò che una legge di causazione nelle successioni tra i fenomeni. 40 Dalla condizione precedente dell'uniformità di se- quenza nel mondo ideale segue un' altra condizione del realismo dialettico, cioè l'unità di principio (2). È ciò che si vede chiaramente nel sistema platonico, in cui, la legge delle Idee essendo che si dispongano secondo il tipo della divisione dicotomica, niente vi sarebbe di più incoerente che una moltiplicità d'Idee primitive, cioè che non potessero subordinarsi a un'Idea piìi generale. Qui cade a proposito di osservare che il legame fra tutte le verità di cui parla Platone (3), suppone secondo lui la loro derivazione comune da una verità più generale; in altri termini, che la deducibilità di tutte le Idee da . (1) V. } 180. (2) Confr. } 19. la nota in fine del n. 2o. (1) V. $ 12 n. 50. (2) V. } 12 n. 60. (3) V. J 10. r I » <l* I ' » ^ » lil I» 1 1 - un'Idea unica suppone, per Platone, che questa sia (come lo esige la dieresi) V Idea più generale, in cui tutte le altre siano contenute. Ciò vediamo nel luogo più volte citato dal Menone 81 d, secondo cui è per V affinità di tutta la natura (cioè per la costituzione di tutti gli es- seri secondo un tipo comune) che si può, ricordata una cosa, ritrovare da se stesso tutte le altre. ò<> La condizione perchè la deduzione dialettica sia una dimostrazione, è che V Idea primitiva sia stahilita a priori (1). La dialettica essendo la dieresi, quest'Idea primitiva, che è come l'assioma da cui parte la dimo- strazione dialettica, deve essere l'Idea più generale, cioè quella del Bene. L'apriorità del primo principio è espressa chiaramente da Platone, quando dice che la dimostra- zione dialettica non è fondata sovra ipotesi come la di- mostrazione matematica, perchè la dialettica toglie alle ipotesi il loro carattere ipotetico, deducendole dal prin- cipio che non è un'ipotesi {àyvnó&stog) -ipotesùcome ab- biamo spiegato, è per Platone un dato empirico, sinché non è stato dimostrato (2) —Questo principio àt^vnó&ezog, cioè certo a priori e non dato semplicemente dall'espe- rienza, è il punto di partenza della dieresi, cioè l'Idea del B«ne. La proposizione che quest'Idea dà l'evidenza a tutte le altre (3) implica infatti eh' essa è evidente immediatamente — perchè senza di ciò come potrebbe rendere evidenti le Idee che se ne deducono ? — ; e del resto quest' evidenza immediata è indicata da Platone — 287 — anche esplicitamente, quando chiama il Bene « il più chiaro dell'essere » (1). La filosofia prof^ressiva, che va dal primo principio alle sue conseguenze, suppone, come antecedente, la fi- losofia re(jres8iva^ che va dalle conseguenze al primo prin- cìpio; perchè è una legge del nostro spirito, che nessun filosofo apriorista ha ignorato, che la nostra conoscenza cominci dall'esperienza (2). Le ipotesi devono essere ri- condotte al principi) gradualmente, cioè deducendo u- n'ipotesi da un'altra ipotesi superiore, e così di seguito, sinché si giunga al principio che non è uua ipotesi (3). Questo è il processo ascensi vo della dialettica (filosofia regressiva): il processo discensivo (filosofia progressiva) percorre gli stessi gradi in senso inverso (4), ritrovando sui suoi passi le ipotesi precedenti, ma trasformate in verità razionali e necessarie. La corrispondenza di questi due processi C(m la sinagoge e la dieresi è una delle prove più evidenti della nostra interpretazione della dialettica platonica. 1 caratteri del metodo platonico che abbiamo per la geconda volta enumerati, sono dei caratteri generali del realismo dialettico', essi derivano, come vedremo in se- guito, dallo scopo stesso di questa metafìsica, cioè di realizzare, per 1' obbietti vazione dei concetti, l'idea di causa efficiente, trasformando in una connessione ontolo- gica la connessione logica introdotta fra questi concetti. 9 21. Oltre il metodo direttOj di cui abbiamo parlato sin qui, vi ha nella dialettica platonica un metodo in- i f (1) V. $ 12 D. 20 e 60. (2) V. Bep, 510 b— 511 e 533 b-d (luoghi riportati al J 12), e confi-. § 12 n. 2. (3) V. Rep. 507 o — 509 b, 577 b-o e 540 a, e confr. $ 13 n. 1 e 2. (1) Rep. 518 e. (2) V. $ 12 n. 2. (3) V. Fedone 101 d-e e Rep. 511 b. (4) V. Rep. 511 b. itesa %Vii N diretto, di cui parleremo in questo paragrafo. Questo se- condo metodo, che è un complemento indispensabile del primo, è indicato ed esemplificato nel Parmenide. Esso consiste a sviluppare le conseguenze contraditto- rie implicate in un'ipotesi data, e Parmenide (che dà il nome al dialogo, e ne è il protagonista) lo applica alle due ipot43si opposte che si possono fare sull'uno, cioè che «siste e che non esiste. Prima Zenone ha letto un suo- scritto in cui confuta 1' opinione comune che vi hanno- molti esseri, dimostrando che da quest'ipotesi ne segui- rebbe necessariamente una cosa impossibile, cioè che i molti esserì avrebbero al tempo stesso degli attributi contradittori (1). Parmenide raccomanda, come un mezzo indispensabile alla scoverta della verità (2), di esercitarsi nel metodo praticato da Zenone, ma apportandovi due mo- dificazioni: l'una di applicarlo, non agli oggetti sensi-bili, ma alle Idee (3). (Platone suppone in questo dia» lo^o, come fa anche del resto implicitamente nel Sofista e nel Politico, che Parmenide e gli Eleati in generale ammettono il sistema delle Idee); e l'altra di esaminare non solo le conseguenze che derivano dall'ipotesi che una cosa (o a dir meglio, un'Idea) esista, ma anche quelle che derivano dall'ipotesi che essa non esista (4). € Per e- sempio, se vuoi prendere l'ipotesi che ha fatto Zenone^ se la pluralità esiste, bisognerà esaminare ciò che av- verrà alla pluralità per se stessa e nel suo rapporto con l'unità, e ciò che avverrà all' unità per se stessa e nel suo rapporto con la pluralità; e ancora bisognerà di (1) V. 127 e -128 d. (2) V. 135 d, 136 e, 136 e. i3) V. 135 e. (4) V. 136 a. nuovo esaminare, se la pluralità non esiste, ciò che av- verrà e air unità e albi pluralità tanto per se stesse quanto nel loro rapporto reciproco. Così pure, se si sup- [>one che la somiglianza sia o non sia, bisoonerà vedere ciò che avverrà tanto nell'una (|iianto nell'altra ipotesi, e a ciò che si è supposto, e alle altre cose, sì conside- rati per se stessi che nei loro rapporti reciproci. E lo stesso si dica della dissoni ìc^lian za, del moto e dello stato, della generazione e della corruzione, dell'essere stesso e del non essere. E in una parola, che che tn supponga, sia esistente sia non esistente sia avente qualsiasi altro at- tributo, bisognerà esaminare ciò che gli avverrà e per se stesso e relativamente a ciascuna delle altre cose che sceglierai, e a molte e a tutte egnalmcMite; e poi ancora ciò che avverrà alle altre cose, e i)er se stesse e relati- vamente a quella che avrai ])resa, tanto nell'ipotesi che esista quanto in quella che non esista, se vuoi, perfet- tamente esercitato, j)enetrare a fondo la verità > (1). Per far comprendere meglio questo metodo, cedendo alle pre- ghiere di Socrate e degli altri astanti, Parmenide ne dà un esempio (2) applicandolo alPIdea deirunità. Egli sup- puue dunque prima che l'uno esista, e poi che esso non esista; e deduce egualmente, tanto dall'una quanto dal- l'iti tra ipotesi, che l'uno e le altre cose, sì considerati in se stessi che nei loro rapporti reciproci, hanno al tem- po stesso degli attributi contrari e non hanno nessuna di questi attributi (3). Le deduzioni di Parmenide non sono che dei sofismi sottili, il più spesso nemmeno spe- li) 136 a-c. (2) 136 e— 137 b. (1) 137 o e. 8gg. sino alla fine. 19 - 290 - ciosi: la seconda ipotesi non è trattata meglio della pri- ma; la (lertuzioue nell'una è altrettanto sofistica che nel- raltra (1). La più parte degli interpreti hanno torturato il l ar- meiiirte per .crearvi nn risultato dogmatico e positivo,, credendo che bisogni vedervi qualche cosa di più di ci«> per eui lo dà lo stesso Platone, cioè di nn semplice eser- cizio dialettico (2). Noi uon dobbiamo tener conto delle interi)retazi<.ni arbitrarie che pretendono di scoprirvi un senso riposto diftorme dal suo significato letterale, quali sono quelle dei neophitouici, di Hegel e dogli hegeliani, del Fouillèe, e in una parola di tutti gli autori che hanno interpretato Platone col proposito di trovarvi delle /jro- fonde verità, cioè, nella nngliore ipotesi, le loro proprie dottrine filosofiche. Faremo solamente un' osservazione suir interpretazione di Hegel, che vede nella diakttica del Parmenide la dottrina dell'identità dei contrari. He- gel ha compreso la i)rofonda affinità tra il suo proprio eistenia e quello di Plat<.ne: sono infatti due esemplari d'uni, stesso tipo, quella metafisica che noi chiamiamo realismo dialettico. Ma questo tipo nei due sistemi si realizza di maniere differenti, che Hegel ha il torto di voler identificare. 1/ idea generale della dialettica, co- mune tanto a Platone (pianto ad Hegel, è quella At un metodo a priori, in cui i concetti obbiettivati si dedu- cono gli uni dagli altri, in modo che questo processo logico di deduzione sia al tempo stesso uno sviluppo on- tologico, una filiazione di questi ctmcetti obbiettivati. Ma (1) V. per ..«euivio lU e - U5 b, 145 b-e. 145 o - 146 a. 14« b - 147 b. 148 a-b. 148 d - 149 d. 149 d - 151 b (ne la a ipotesi) . e 161 d. 161 e 162 b, 162 b-c, 162 e. 164 o (nella 2 ipotesi). • (2) V. 135 c-d, 13B a, e, e, 137 b. — 291 — quest'idea generale nei due sistemi si realizza di maniere differenti. Il principio dell' identità dei contrari nel si- stema hegeliano è legato alla forma speciale del suo me- todo di dedurre i concetti, che consiste a passare da un concetto al suo opposto e poi a un terzo che li coucilii- Ma questo principio non potrebbe avere alcuna funzione nella dialettica platonica, perchè questa deduce i con- cetti passando dal geneiale ai particolari subordinati. Un metodo come quello praticato nel Parmenide, cioè che consiste a dimostrare la coesistenza dei contrari in uno stesso soggetto, non può crmiprendersi altrimenti che come metodo confutativo. E d'altronde Parmenide dice espressamente che questo metodo non è che quello che è stato praticato da Zenone (135 d)* ora lo scopo di Ze- none è stato di dimostrare che è impossibile che vi 43Ìano molti esseri, percliè è impossibile ch'essi abbiano degli attributi contrari. Più speciose, per conseguenza, chele interpretazioni |»rece.lc*n temente indicate, sono quelle del Zeller, del Tocco e di altri critici, che vedono nella 2. parte del Parmenide (1) una riduzicme all'assurdo delle due tesi opposte sull'uno, per istabilirne indiretta- mente una terza, che Platone non enuncierebbe esplicita- (1) La parte dialettica del Parmenide, cioè quella die deduce le conseguenze contraddittorie derivanti dalle due ipotesi sull'uno, -è preceduta da una prima parte che contiene delle obbiezioni eontro la teoria delle Idee. I critici di cui parliamo ammettono <5he ciò che forma il legame tra le due parti del dialogo, è che il risultato indiretto della 2. parte . cioè della <lialettca, è una nuova concezione delle Idee, che evita le obbiezioni della 1. parte, modificando il rapporto fra le Idee e le cose. Questo concetto non ha più alcun fondamento nella nostra interpretazione delle Idee (ohe dimostriamo largamente nel Snpplem. B), perchè esso sup- pone r interpretazione Irascendenialisln, li-"" — 292 - • mente, ma che lascerebbe nondimeno intravedere. L'idea in cui s'impernia quest' altro modo d'interpretare il Par- menide, consiste in sostanza a considerare la prima ipotesi esaminata dal filosofo eleate - se l'uno è-come l'equivar lente della tesi stessa della filosofìa eleatica, cioè che tutto è uno (1), o che l'uno solo esiste con l'esclusione del molti (2). Mail concetto primitivo da cui esso muove, cioè che la parte dialettica del Parmenide è la confutazione di certe tesi per istabilirne indirettamente qualche altra, potrebbe anche dar luogo ad un' altra interpretazioue, che indi- cheremo quautunque non sia stata proposta da alcuno^ perchè, fra tutte le interpretazioni di questo genere, sa- rebbe la meno apertamente contraria al significato evi- dente delle due ipotesi esaminate da Parmenide. Essa consisterebbe ad ammettere che se l'analisi della prima posizione: V»mo è, arriva a delle conseguenze contrad- dittorie, ciò è, secondo Platone, perchè il contenuto del concetto dell'uno è stato inesattamente determinato, e che così tutta la parte diiilettica del Parmenide avrebbe per risultato indiretto una determinazione più esatta di questo contenuto. Ma contro tutte in generale le inter- pretazioni che vedono nella 2. parte del Parmenide una dimostrazione ex absurdh di una tesi qualsiasi, sta il fatto incontestabile che le due ipotesi opposte esaminate dal filosofo eleate, se l'uno esiste e se l'uno non esiste y sono due proposizioni rigorosamente contraddittorie, che non lasciano alcuna possibilità ad una terza proposizione intermedia. E infatti Parmenide ha detto che l'eser- cizio, dialettico eh' egli propone a Socrate, consiste ad esaminare, dopo le conseguenze dell' esistenza di (1) V. Zeller Filos. dei Greci, v. 2. pag. 565, 3. ediz. (2) V. Tocco Ricerche ptatoniche, pag. 112 e 169). 1 — 293 — ciascun concetto (V Uno, il Molti, la Somiglianza, la Dissomiglianza, ecc.) quelle ancora della non esisten- za dello stesso concetto. Conformemente a questo prin- cipio, egli esamina prima ciò che accadrà se 1' Uno esiste, e poi ancora ciò che accadrà se lo stesso Uno non esiste. L' Uno non vuol dire 1' Uno eleatico o Dio o le Idee in generale o qualsiasi altro concetto si- mile, platonico o non platonico, che gl'interpreti hanno immaginato o potrebbero immaginare. L'Uno vuol dire semplicemente l'Idea dell'unità, ciò che i concettualisti chiamano il concetto dell'unità, realizzato, in altri ter- mini quest'attributo, che noi intendiamo indicare chia- mando una cosa una, obbiettivato e considerato come un'entità unica esistente per se stessa («rrò xuO' abvó) (l). (1) E infatti Parinenide ha d*»tto che il metodo, che poi ay)- plica all'uno, deve applicarsi alle Idee (135 e, 1. e). Con forme- niente al principio che ha stabilito, quantuuqi'C dica che comin- cerà per la sua propria ipotesi (137 b), quest'uno della cui esi- stenza o non esistenza esamina le conseguenze, non è 1' uno e- leatico, che è un'unità concreta (cioè un essere concreto che ha per attributo l'unità), ma l'unità astratta, l'attributo stesso se- parato dagli oggetti concreti a cui appartiene, in una panda l'I- dea dell' uno. Cosi 1' uno di cui è quistione è chiamato slòo" (158 e) e alzò rò tV (137 b, 153 c-e, 1.58 a, ecc.), espr«'8si<mi che, come sr sa, designaiuo lo Idee. Così ancora dal concetto di que- st'uno si escludono tutte le note che non entrano nel puro con- cetto dell'unitùy separando questo concetto da tutti gli altri con- cetti distinti, p. e. l'essere, l'identità, la diversità (v. 139 o — 140 a, 142 b-c, 143 ab, ecc.); e da una moltitudine di luoghi 089 d, 144 o-e, 147 a, 149 c-d, 157 e — 158 d, 159 d — 160 b, 164 d-e, 165 b-c, 165 e — 166 b, ecc.) si vede evidentemente che l'uno di cui si tratta non è che l'entità che è presente in tutti gli oggetti a cui applichiamo il nome uno, o in altri termini, alla quale questi oggetti partecipano. Non è quistione in sostanza che dell' unità matematica, vale a dire quella per la cui ripetizione Ai il— 294 — Questo è il puiìt» che bÌROcrna anzitutto fissare, se vo- gliamo realmente interpretare il Parmenide e non fare si forma il numero (v. 147 a, 149 c-d, 153 a. 153 do, 159 d — 160 b. 164 de ecc.), cousidenita naturalmeute, non come una semplice astrazione, ma come un' astrazione realizzata. Alcuni critici, dall'analogia d'un luogo del Solista (244 e - 245 a) contro l'uno eleatico - in cui si dice clic se questo fossa veramente uno, uou dovrebbe avere uè parti nò figura - col eominciamenta della la ipotesi del Parmenide (137 e e)- in culle stesse deter- minazioni si escludono dall'uno di cui si tratta in questo dialo- go—. hanno conolu-io che la 1. parte della 1. parte di quest'i- potesi ò una confutazione dell' uno eleatico. Mu è evidente che in tutto il dialogo è quistione di uno stesso uno: come in un»v parte si parlerebbe dell'uno eleatico, se in tutto il resto si parla dell'Idea dell' uno ì Nt»n è sorprendente d'altronde che Platone nel Sofista deduca dall'uno eleatico la stessa conseguenza che nel Parmenide deduce dall' Idea dell' uno, perchè la deduzione nel primo dei due dialoghi è fondata sulla identificazione arbi- traria dell'imo eleatico a una pura astrazione, a ciò che Platone chiama l'uno stesno. in altri termini all'Idea dell'uno (vi si dice in sostanza che se l'uno è di figura sferica, come vuole Parme- nide, esso ha delle parti e iiuindi non può essere veramente uno, perchè ciò che è veramente uno, cioè 1' uno alesai — lò cV aitò — non può avere delle parti). Ma come può dire Parmenide, mentre si tratterà dell' Idea dell'uno, ohe comincerà dalla sua propria ipotesi, cioè dall'uno eleatico] Ciò dipende forse da qualche cosa di più che l'affinità dei due concetti e l'identità della forma verbale con cui si espri- mono {V uno). Platone attribuisce a Parmenide e agli Eleati in generale la teoria delle Idee - ciò ohe secondo me non è una semplice finzione drammatica (v. Sappi, C 11 pilagor. nel Timeo e nel Fileho)-:Qg\i deve dunque, tra le dottrine conosciute degli Eleati, cercarne qualcuna che si presti a questa interpretazione arbitraria della loro filosofia. Il loro Uno e il loro Ente, sia perchè designati con dei nomi che sembrano sostantificare degli 295 — una costruzione arbitraria. Le due ipotesi esaminate nella 2* parte del dialogo non sono né più né meno che queste: «piest'entità che corrisponde al termine nuo esi- ste; quest'entità non esiste. Parmenide non dice : quali conseguenze si avranno se ammettiamo che quest'uno è tutto, o che esso solo esiste, e non i molti *? (1) Egli non determina nemmeno il concetto dell'uno d'una maniera particolare per poi esaminare le conseguenze che deri- vano da (juesta determinazione: V uno non é preso che nel significato ordinario di questo termine, a cui non bi- sogna che aggiungere, conforuìemente ai ]»rincipii del si- stema platonico, le condizioni generali ( eli' obbiettiva- zione dei concetti. Non vi ha oltre di ciò, nelle due i- potesi esaminate, alcun presupposto, né espresso né sot- tinteso. Le conseguenze che se ne svolgono, nascono semplicemente dalle supposizioni che l'unità abbia o non abbia una realtà obbiettiva (nel senso che queste parole hanno uel sistema deJle Idee): esse ne nascono per via di ragionamenti certamente capziosi, ma suftìcienteinente intelligibili per se stessi, e senza sottintendere qualche altra supposizione (p. e. clu^ 1' uno é tutto, o che esso attributi, sia perchè immutabili e ultrafenomenali (quantunque immanenti) come le Idee platoniche, diventan«>. nel T interpreta- zione di Phitoue, l'Idea dell'uno e dell'ente. Su' questo concetto si troveranno più sviluppi nel Suppl. C. Pilay. nel l'ini, e nel FU.: qui noteremo che il processo è al fondo lo stesso che quello ohe abbiamo osservato nella confutazione «Iella dottrina eleatica nel luogo citato del Sofista. (l) Come può r ipotesi che 1' uno è equivaler* . come dice il Zeller, a quella che tutto è uno, o, come dice il Tocco, che l'uno soltanto è. quando Parmenide esamina lungamente ciò che av- viene all' uno nei suoi rapporti con le altre cose e ciò che av- viene alle altre cose in se stesse e md loro rapporti con l'uno l / - 296 — — 297 — solo esiste con l'esclusione dei molti, o che il concetto deirunità si deve determinare d'una maniera piuttosto che d' un'altra) (l;. Se la dialettica del Parmenide mi- u* il)lu verità uua parte delle nr^omoutazioDi del Pariueuide sup- pougoDo una certa detenuinazioue del cimoetto dell'imo, che lum eutra nel aigniticato comune di «[uesto termine : è ohe, conforme- mente alla 8ua abitudine di elevare le Idee airassoluto (v. Suppl. B, parte 2*, n" III), Platone intende per unt» un'unità assoluta, pura, senz' alcuna mescidanza di pluralità |v. la 1& parte della 1» parte della 1^ ipoteai — 137 e. — 142 a — e, nella 2^* parte della stessa ipotesi. 157 e e 159 e): mentre gli oggetti a cui attribuiji- mo r unità sono generalmente delle unitii che contengono una pluralità. È la prova migliore clic può invocare in suo appoggio l'opinione secondo cui lo scopo della parte dialettica del Parme- nide è di conciliare l* unità con la moltiplicità (e specialmente l'interpretazione clic abbiamo supposto, secondo cui questa parte del dialogo avrebbe per risultato indiretto una determinazione più esatta del concetto dell' unità). Ma questa determinazione dell'uno coinr esclusivo di qualsiasi moltiplicità non è supposta ohe da una parte solamente delle deduzioni della 1» ipotesi : la più parte sono indipendenti da questa sup]>osizione ; basterà di citare (|uellc che abbiamo già citato nella nota 8 del ))aragiiilo ^da 1 (4 e a 151 b). Da un altro canto essa è abituale a Platone, e si trova, ntui solo nella Repubblica (521 e — 525 a, 525 e — 52(» a), ma ji nelle nel Sofista ^245 a), che è posteriore al Parmenide per- dio vi alliule jciò che basterebbe ad escludere che questo dia- logo iib)>ia per iscopo di ctunbatterbi, per sostituirgliene un' al- tra). Del resto questa determinazione del concetto deiruuità non è, eome abbiamo notat<i . che un caso di un processo generale che Platone applica a tutta una classe d'Idee — p. e. oltre l'uno, all'ugujile. al retto, al giusto, ecc. — ; processo che si può osser- vare in tutti gli s(n'itti platonici, fra cui lo stesso Parmenide, e che è supposto nella polemica «l'Aristotile, il quale, come si sa, esp<me e critica il sistenui delle Ideo nella sua fonua definiti v» i\. Suppl. H. parte 2-*, n. III). rasse a un risultato, questo non potrebbe essere dunque che negativo: quando la tesi e l'antitesi formano un'al ternati va completa, e si dimostrano non pertanto egual- mente assurde, 1' unica conseguenza che se ne possa ti- rare è che la conoscenza è impossibile e che la ragione s'inviluppa in contraddizioni insolubili. Sarebbe inutile, da altra parte, diniostrare che questa non può essere r opinione di Platone. Noi dobbiamo aggiungere, contro ogni interpretazione che attribuisce alla parte dialettica del Parmenide l' intenzione di giungere a un risultato qualsiasi, positivo o negativo, che la più pajte delle ar- gomentazioni sono dei sotismi così evidenti, che è im- possibile di ammettere che Platone se ne sia servito sul serio per dimostrare una tesi qualunque. Ed è notevole che, come abbiamo osservato, le deduzioni dell'i, 2*» ipo- tesi (se l' uno non esiste) non sono meno solistiche che <|uelle della 1*. L'unico mezzo che ci resterebbe per am- mettere che la dialettica del Parmenide mira a un ri- sultato positivo, sarebbe di supporre che Platone non fa sul serio che le deduzioni di una sola ipotesi. Delle due ipotesi egli deve ammetterne una, e noi sappiamo qual è; ma dalla 2*^ parte del Parmenide sarebbe impossibile di deciderlo. Ma da (juesto fatto incontestabile, che la 2* parte del Parmenide è un semplice esercizio dialettico, che non può condurre, né direttamente, né indirettamente, a. stabilire una tesi qualsiasi, se ne deve concludere, come fanno il Grote ed altri interpreti, che 1' autore non ha alcun proposito dogmatico ? Questa interpretazione, chesopprime interamente il valore tìlosotico del dialogo, è pertanto la più ovvia nella maniera ordinaria di inten- dere la dialettica platonica. 11 proposito dogmatico, o in altri termini, il valore tìlosotico della dialettica del Par- menide, non si comprende che mettendola in rapporto <5on la dialettica propriamente detta, cioè con la dieresi. ti — 298 - Esso deve cercarsi, non nei risultati a cui quel metodo- conduce, ma nei presupposti che esso implica, i quali sono quegli stessi che presuppone la dieresi. La dialet- tica platonica è fondata su tre principii : 1.» Che l'esi- stenza deir Idea del Bene può stabilirsi a priori, ed è per conseguenza una verità necessaria (l). 2.'^ Che data l'Idea del Bene, sono date necessariamente tutte le spe- cificazioni possibili di quest'Idea (poasibili vuol dire che non racchiudono una impossibilità logica) (2) Ciò, posta che l'esistenza dell' Idea del Bene è una verità a priori e per conseguenza necessaria, implica che anche resi- stenza di ciascuna delle specificazioni possibili di (pie- st'Idea è una verità ujjcualmente a priori e per conse- o-uenza necessaria B.*» Che l'Idea del Bene è l'Idea di tutte le Idee, il tipo comune di tutti gli esseri; in altri termini che tutto ciò che esiste, ogni Idea, ogni forma dell'esistenza, è una fonna determinata o, come abbiamo detto, una specificazione dell' Idea del Bene (3). Anche questo terzo principio è una verità a priori e necessaria: infj\tti esso è uno dei punti fondamentali della dialettica, cioè della scienza quale la concepisce Platone, e, secondo lui, ogni verità scientifica deve essere a priori e neces- saria (4). Segue dai tre principii riuniti che, sec<mdo- Platone, tutto ciò che esiste è necessario che esista, e (1) $ 12 n. 2 e 6, § 13 u. 1, $ 20 n. ó. (2) V. $ 13, 16. li) e 20. (3) V. $ 16 e 17. (3) V. $ 8-13 — La necessità e apriorits\ «Iella proposizione che tutto ciò che è è bene, risulta del resto dalla riduzione del- l' Idea del Bene a quella dell' Essere. Per questa riduzione in- fatti le divisioni dell' Essere saranno la stessa cosa che «{uelle del Bene, e quindi tutte le forme possibili (cioè concepibili) del- l'essere la stessa cosa che tutte quelle, del bene. — 299 — sarebbe logicamente impossibile che non esistesse; e vi- ceversa che tutto ciò che non esìste è necessario che non esìsta e sjirebbe logicamente impossibile che esistesse. Tutto ciò che esiste^ tutto ciò che non esiste non significa ogni essere particolare, ma ogni f«>rma generale dell' e- sistenza, ogn'Idea, che esiste o che non esiste. Nel gene- ralo dunque, secondo Platone, tutto ciò che è reale è necessario, e tutto ciò che non è reale è logicamente impossibile, e per conseguenza questi tre termini, pc^si- bile, reale e necessario, sono, c;)me abbiamo detto altra volta, perfettamente coestensivi. Ciò è vero tanto del sistema di Platone quanto di ogni altra forma di reali- smo dialettico, anzi, in generale, di ogni filosofia che eleva il metodo a priori a metodo scientifico universale. Questi presupposti della dieresi platonica, che ciò ciie è reale è necessario, e ciò che non è reale è logicamente impossibile, sono quegli stessi che presuppone il metodo del Parmenide. Questo m-todo c;)nsiste intatti a svilup- pare le contraddizioni che derivanr) dall'ipotesi dell'esi- stenza o da quella della non esistenza. Ma se dall' ipo- tesi dell'esistenza di una cosa derivano delle conseguenze contraddittorie, che altro può ciò provare se non che è impossibile che quest i cosi esista ? E se le conseguenze contraddittorie derivano invece dall' ipotesi della sua non esistenza, che altro si dimostra con ciò se non che è neces-iarit» che la cosa esista ? Il metodo del Parme- nide implica dunque questi presupposti: che l'esistenza d'un'Idea che esiste può dimostrarsi facendo vedere che dall'ipotesi della sua non esistenza risultano delle con- seiruenze contraddittorie: e che, viceversa, la non esi- stenza d'un'Idea che non esiste può dimostrarsi facendo vedei-e che le conseguenze contraddittorie risultano dal- l'ipotesi della sua esistenza. Per noi l'esistenza o la non esistenza delle specie o forme generali degli oggetti, al- trettanto che degli stessi oggetti particolari, sono cose — 300 — di fatto, che non possono stabilirsi che con prove tìi fatto: per Platone sono delle verità necessarie ed a priori, che possono dimostrarsi per le conseguenze contraddittorie <5he derivano dalle ipotesi contrarie. Bisogna distinguere il metodo ettfettivamente seguito nel Parmenide e quello ohe deve seguirsi e di cui il primo non dà che un esem- pio per farlo comprendere. Il metodo ettettivameute se- guìto, cioè V esercizio dialettico sulP uno, è, come lo chiama Platone, un giuoco che somiglia a una cosa seria {jifìay^aismórig naióià^ 137 b). Nel giuoco le conseguenze contraddittorie si deducono taut4> dall' una quanto dal- l'altra delle due ipotesi contrarie, e la deduzione non può essere, anche per Plaloue, che un tessuto di sotìsmi. La cosa seria è il metodo indiretto per dimostrare o ri- gettare le Idee : esso deve essere una vera dimostrazio- ne, e le conseguenze contraddittorie non può dedurle che da una sola ipotesi, da quella della non esistenza se l'Idea deve ammettersi, da quella dell' esistenza se deve rigettarsi. Se i due processi (il <jiaoco e la cosa seria) differiscono, è perchè Platone non vuol dare un'ap- plicazione reale del suo metodo, ma un semplice esem- pio che ne faccia comprendere il meccanismo. La 1» parte dell'esercizio dialettico sull'uno è un esemiùo— forse sarebbe meglio dire: un'immagine-dei metodo indiretto per dimostrare l'esistenza delle Idee che esistono; la 1* parte un esempio dello stesso metodo per dimostrare la non esistenza di quelle che non esistono. I due esempi sarebbero più chiari, se volgessero su due Idee distinte: volgono su una sola e stessei Idea i>er escludere la pos- sibilità di un risultoAto, e mostmre che si tratta di un giuoco, e non della cosa seria che esso rappresenta. Se si domanda perchè Platone, invece di fare un'applica- zione reale del suo metodo, si limita a darne un esem- pio imperfetto, che non ne manifesta che il meccanismo esteriore, la risposta non è difficile : è che quest' appli- — 301 - cazione non si sente in grado di farla. Il metodo pro- posto nel Parmenide è un'utopia assolutamente irrealiz- zabile, perchè 1' esistenza e la non esistenza si stabili- scono, come abbiamo detto, con prove di fatto, e non per lo sviluppo delle contraddizioni inerenti alle ipotesi contrarie, o per qualsiasi altro metodo a priori. Platone ben s' accorge che le applicazioni eh' egli può fare del metodo che immagina, non corrispondono all'ideale che si è formato, e che cercando delle dimostrazioni, egli non trova che dei ragion<amenti sofistici. Per conseguenza egli si contenta di un esempio, che invece di una vera applicazione, sia, come abbiamo detto, un'immagine del suo metodo, in modo che 1' assenza dell' intenzione di concludere scusi il carattere sofistico della deduzione. È qualche cosa di simile a ciò che fa nel Sofista e nel Po- litico: anche qui non abbiamo un'applicazione reale del metodo, ma un'immagine imperfetta che non ne esprime che la forma, perchè la dicotomia non viene applicata alle vere Idee, e non ha quindi vero valore scientifico (1). Il metodo dialettico, tanto diretto quanto indiretto, non è per Platone che un ideale, certamente attuabile in se stesso, ma ch'egli ha la coscienza di non poter attuare (2), Queste considerazioni spiegano pure perchè il metodo per dimostrare l'esistenza e quello per dimostrare la non (1) La dieresi, come sappiamo, noD si applica clie alle Idee (v. } 17), ed è UQ 'esigenza del sistema delle Idee, come Platone ammette espressamente nell'ultimo periodo della sua speculazione ohe non vi siano Idee che di « ciò che vi ha di costante e di perpetuo nella natura » (v. $ 17). Per conseguenza, come non vi hanno Idee degli oggetti artificiali, non vene dovrebbero es- sere, per la stessa ragione, delle arti, che intanto sono l'oggetto delle dieresi nel Sofista e nel Politico. (2) Cfr. Filebo 16 b. '>esistenza si applicano, nel Pannenide, a una sola e stessa Idea. Ciò non è solamente, come abbiamo detto, per mo- strare Fassenza d'un'intenzione seria. Se Platone avesse «upposto la non esistenza di uu^Idea reale per dare nn «sempio del metodo per dimostrare l'esistenza, e l'esi- stenza iV un' Idea cliinierica [)er darne uno del metodo per <limostrare la non esistenza, il carattere necessaria- mente sofistico della deduzione avrebbe dato un indizio della inattuabilità di questi metodi. Perciò egli preferi- sce un esempio in cui sia esclusa assolutamente la pos Sibilità di giungere a un risultato, qual è quello di sui>- porre prima l'esistenza e poi la ntui esistenza della stessa Idea; così questo carattere solìstico della <ledu/ione seni- breni una conseguenza inevitabile, non dell'inattuabilità dei mètodi in se stossi, ma delle condizioni anormali in <5ui si praticano. In conclusione la dottrina racchiusa, quantunque non espressa esplicitamente, nel Parmenide, è questa : che la non esistenza di ciò che è reale prendendo il reale nelle sue forme generali — e l'esistenza di ciò che non è reale sarebbe un' iiìi possibilità logica; e che, per con- seguenza, r esistenza o la non esistenza d' un' Idea può essere dimostrata, mostrando che dall' i|K)tesi contraria derivano conseguenze contraddittorie fra di loro. La se- conda proposizione non è in verità una conseguenza ne- cessaria della prima, ma da questa a quella il passaggio non è diftìcile, perchè, un'impossibilità logica essendo una nozione che riunisce degli elementi incompatibili, dalla proposizione che un'ipotesi è un' Impossibilità lo- gica non vi ha gran distanza a quella che quest'ipotesi trascina con sé delle conseguenze contraddittorie. Que- sta dottrina del Parmeni<le si ritrova in parte nel Fe- done, in cui si dice che bisogna controllare l'ipotesi del- l'esistenza d'un'Idea, esaminando se le conseguenze che ne derivano si accordano o non si accordano fra di loro(l). Ciò corrisponde al principio del Parmenide che l'esistenza d' un' Idea erroneamente ammessa trascine- rebbe conseguenze contraddittorie. Ma sin qui il metodo non avrebbe che una portata negativa. La trasforma- zione essenziale del metodo di Zenone, che da negativo lo muta in positivo, è l' altro principio che le conse- guenze contraddittorie derivano pure dalla non esistenza d'un'Idea reale. Per questa trasformazione la dialettica distruttiva degli Eleati diviene costruttiva, cioè un me- todo indiretto per diuìostrare a priori le Idee, che, come spiegheremo in seguito, è un complemento indispensa- bile del metodo diretto, cioè della dieresi. L'altra mo- dificazione del metodo di Zenone, cioè che esso deve applicarsi alle Idee e non albi cose sensibili, risulta dal concetto della dialettica platonica in generale. Tanto il metodo diretto quanto il metodo indiretto hanno per og- getto ciò che è necessario e conoscibile a priori; ora tale ijon può essere ciò che è peril)ile e particolare, ma ciò che è immutabile ed universale, e questo è l'Idea platonica. Nella sua parte negativa (cioè in quanto sviluppa le contraddizioni implicate nell' ipotesi dell' esistenza d'Idee che non esistono) il metodo indiretto del Parme- nide è una riprova dei risultati del metodo diretto, cioè della dieresi, e di uno dei principii fondamentali che questo presuppone, cioè che tutto ciò che esiste non è e non può essere che una forma del Bene. La sua ap- plicazione più ovvia, in questa parte negativa, sarebbe di dimostrare l' impossibilità di certe specie di un genere, che sembrano possibili quantunque non siano reali. La dieresi sarebbe già una dimostrazione di ciuest' impossi- bilità, perchè esaurendo essa, non la sola estensione reale^ (1) V. Fedone 101 d. Cfr. § U. ..., -r-- "^^^ ma tutta la estensione logica del genere, escludere que- ste specie dalle divisioni è mostrare che esse, non sola non esistono, ma è impossibile (d' un'impossibilità lo- gica) che esistano. Ma con tutto ciò si presenterebbe sempre naturalmente la quistione: se tutte le specie pos- sibili dell'animale devono esisterò, perchè non esiste il centauro, la chimera o qualsiasi altra specie che noi pos- siamo immaginare, quantunque non la troviamo nella realtà f Platone risponderebbe che il centauro, la chi- mera e qualsiasi altra >^pecie immaginabile, ma non reale, è un concetto incoerente e implicante delle con- traddizioni, che il metodo del Parmenide svilupperebbe in una serie di coppie di attributi contraddittori (1)^ (1) La quistioue è tanto più naturalo, che la divisione dieoto- iniea (per contrari senza medio) non potrebbe jrinnijere, come ab- biamo osservato nel paragrafo precedente, che a formare delle elassi, di cui alcune sarebbero detìnite per semplici negazioni, e tutte per dei caratteri, che potrebbero bastare a distinguere cia- Bcuua chisse reale da tutte le altre, ma che non detìn irebbero questa classe in modo che la definizione convenisse alle sole forme reali e non a forme ipotetiche più o meno ditferenti dalle reali. A ciò Platone risponderebbe senza dubbio che per determinare d'una maniera completa la natura di ciascuna classe, e mostrare così ohe non vi hanno altre forme possibili che le reali . ai ca- ratteri ottenuti per la dicotomia si devono aggiungere altri ca- ratteri ohe ne sono inseparabili e che hanno con essi un legame necessario e conoscibile a priori (Cfr. J 18). Sarà forse utile di ravvicinare le soluzioni ohe Platone ha dato o ha potuto dare di queste difficoltà della sua dieresi, con certe idee di un zoo- logo moderno, cioè di Cuvier (il quale ha in comune con Pla- tone, oltre al punto di vista teleologico, una tendenza evidente air apriorismo), tanto pit che, come abbiamo osservato, la con- cezione delle Idee platoniche è modellata sovratutto sulla natura vivente (v. § 19 nota ultima). Noi abbiamo parlato della dottrina — 305 — Nella sua parte positiva (cioè in quanto mostra le con- seguenze contraddittorie derivanti dall'ipotesi della non di Cuvier della connessione dei caratteri negli esseri organizzati (Appendice al cap. 6«) : abbiamo visto ohe essa è fondata sulla necessità di una cospirazione armonica tra le funzioni e gli or- gani dell'animale (cospirazione armonica che sarebbe un caso di ciò che Platone chiama 1' Idea del Bene) ; e che le leggi che e- sprimono queste connessioni di caratteri sono, secondo l'autore, altrettanto necessarie e a priori che le verità matematiche. Da tiuesto principio della connessione necessaria dei caratteri Cu- vier ne deduce ohe si può dimostrare a priori la necessità di certe interruzioni nella catena degli esseri, per l'impossibilità a priori che certi caratteri coesistano, cioè che certi organi si tro- vino simultaneamente nello stesso organismo. Così nella lezione ya dell* Anatomia comparata, dopo aver indicato nell' art. 3» le principali differenze di cui sono suscettibili gli organi che ser- vono a ciascuna funzione animale, nell' art. 4o dice : « Si vede che supponendo ciascuna delle differenze d'un'oigano unita suc- cessivamente con quelle di tutti gli altri, si produrrebbe un nu- mero considerevolissimo di combinazioni, che corrisponderebbero ad altrettante classi di animali. Ma queste combinazioni, che sembrano possibili quando si considerano d'una maniera astratta, noi' esistono tutte nella natura, perchè, nello stato di vita, gli organi non sono semplicemente ravvicinati, ma agiscono gli uni sugli altri, e concorrono tutti insieme ad uno scopo comune. Per- ciò le raodifioazioui dell'uno esercitano un'influenza su quelle di tutti gli altri. Quelle di queste modificazioni che non possono esistere insieme, si escludono reciprocamente, mentre altre si chiamano, per dir così, e ciò non solo negli organi che sono fra loro in un rapporto immediato, ma ancora in quelli che paio- no a prima vista i più lontani e i più indipendenti. » Gene- ralizziamo quest'idea di Cuvier; ammettiamo ohe, se le com- binazioni d'organi e lo classi d'animali corrispondenti, che sem- brano posHihili quando si considerano d* una maniera astratta, 20 — 306 — esistenza d'Idee che esìstono), Tapplicazione più impor- tante del metodo indiretto del Parmenide è di dare una non esistono tutte nella natura, è sempre per la ragione di cui parla Cuvier (come sembra che egli dica, quantunque è diffìcile che tale sia il suo pensiero) ; noi avremo questo concetto plato- nico : che tutte le specie immaginabili dell'animale che non esi- stono^ non esistono perchè è logicamente impossibile che esista- nOy e questa impossibilità logica consiste in ciò, che l'Idea del- l' Animale (come del resto tutte le altre) contiene 1' Idea del fiene, mentre queste specie immaginabili ohe non esistono, non contengono l'Idea del Bene (cioè non vi ha in esse questo con- corso di tutti gli organi a uno scopo comune, di cui parla Cu- vier), e quindi sono delle idee contraddittorie in cui noi riunia- mo confusamente i caratteri dell'animale con altri caratteri che sono con essi incompatibili. Generalizziamo ancora l'idea di Cu- vier; estendiamola dagli esseri viventi a tutti gli esseri della na- tura ; avremo il principio fondamentale della dialettica di Pla- tone, che tutto ciò che non esiste non può esistere perchè non è bene, perchè tutto ciò che esiste deve essere necessariamente bene, e tutto ciò che è bene deve necessariamente esistere. La quistione perchè tutte le specie che noi possiamo imma- ginare in un genere dato non esistano, può presentarsi, come abbiamo detto, in questa forma : perchè le classi ottenute per la divisione dicotomica si efifettuino solamente nelle forme real- mente esistenti, e non in altre forme dififerenti possibili, ohe po- trebbero essere definite per gli stessi caratteri su cui si è fon- data la divisione. Noi abbiamo detto ohe la soluzione, ricavata dalla teoria della definizione, è che ai caratteri su cui si fonda la divisione e per cui le classi si definiscono, sono necessaria- mente cougiunti, e se ne possono dedurre, gli altri caratteri propri delle forme realmente esistenti e che le differenziano da tutte le altre forme possibili (o piuttosto, come dice Cuvier, che sembrano possibili quando si coièfiiderano d'una maniera astratta). Questo concetto di un legame logicamente necessario fra tutti i caratteri di una classe, che forma la sostanza della dottrina pla- — 307 — base al metodo diretto, cioè alla dieresi. In questa forma del realismo dialettico, i concetti si deducono per la tonico -aristotelica della definizione, ha un'analogia evidente col principio di Cuvier che fra tutte le parti di un essere organiz- zato vi ha una dipendenza mutua, conoscibile a priori e logica- mente necessaria, in modo che da ciascuna di queste parti pos- sono dedursi tutte le altre (V. Appendice al cap. 6o). Tale è, secondo Cuvier, questa dipendenza reciproca fra le parti di un organismo, ohe ciascuna specie di esseri potrebbe essere ricono- sciuta por ciascun Irammento di ciascuna delle sue parti. (Di- scorso stille rivoluzioni della superficie del globo j { 132), e che dalla vista di un solo osso si potrebbe concludere la forma di tutto lo scheletro (Anat. compar.j lez. 1'^ art. 4^>), anzi rifare tutto l'animale (Discorso ecc. $ 139). Questo principio non si ap- plica solamente alla specie, ma a tutte le categorie della classi- ficazione, sino al concetto di animale e a quello di essere vi- vente in generale. «La minima faccetto d'osso, la minima apo- fisi, hanno un carattere determinato relativo alla classe, all'or- dine, al genere e alla specie a cui esse appartengono, sino al punto ohe tutte le volte che si ha soltanto un' estremità d' osso ben conservato, si può con dell' applicazione, e aiutandosi con un po' di destrezza dell'analogia e della comparazione effettiva, determinare tutte queste cose cosi sicuramente che se si posse- desse r animale intero »> (Discorso ecc. § 147). (U analogia e la comparazione effettiva non sono che degli aiuti, l'essenza del me- todo è la deduzione fondata sulla correlazione necessaria tra le parti di un organismo). Conformemente a questo principio, egli mostra la dipendenza necessaria fra i caratteri delle divert^e classi dei vertebrati (Regìio animale, 35), fra quelli degli esseri organizzati in generale {ibid, 8), fra quelli che sono propri agli animali distinguendoli dalle piante (ibid, 11 e Anat, compar,, lez. 1» art. lo), ecc. Ogni coesistenza di caratteri di qualsia'» grado di generalità, che il naturalista può costatare negli esseri vi- venti, è dunque secondo Cuvier una connessione necessaria, risuK tante dalla necessità a priori d'una finalità immanente nell'organir — 308 — 309 dieresi, ma questa suppone un concetto primitivo, che non può dedursi per la dieresi stessa, della stessa ma* Bino (cioè, com'egli si esprime, ohe tutte le parti di ud organi- smo concorrano a uno scopo comune). Anche per Platone il le- game necessario tra tutti gli attributi di un genere, che per- mette di dedurre tutto il resto da quelli compresi nella defini- zione, doveva fondarsi, almeno precipuamente, sul principio te- leologico, perchè secondo il Fedone (97 b — 99 o) la causa X>erchè una cosa ha un attributo qualsiasi, è che V ottimo per essa è di avere quell'attributo. Ogni connessione di caratteri di Cuvier ha naturalmente per conseguenza l'esclusione a priori di nn'infìnità di coesistenze di caratteri : se tal fonna di A coesiste neeesftariamente con tal forma di B, è logicamente impossibile che coesista con tutte le altre forme di B immaginabili. Così pure per Platone ogni legame tra ciascuno degli attributi su cui è fondata la divisione, e ogni altro attributo di un genere che si può dedurre da quello, ha per conseguenza V impossibilitìi lo- gica e la contraddizione (perchè è così eh' egli determina l' im- possibilitìi logica) d' un' intiniti\ di altre coesistenze di attributi, che potrebbe dimostrarsi col metodo del Parmenide, facendo l'i- potesi deir esistenza d' Idee in cui avessero luogo queste coesi- stenze. Dando la massima generalizzazione al principio della connes- sione dei caratteri di Cuvier, esso includerebbe il principio della dieresi platonica, che le specie reali in cui un genere si divide sono tutte le specie possibili di questo genere. Infatti ogni divi- sione esprime una coesistenza di caratteri, solamente 1' esprime con una proposizione disgiuntiva : A si divide in B e C, vuol dire che i caratteri di A coesistimo o con quelli di B o con quelli di C, ma ntm mai con altri caratteri che non si trovano né in B né in C. Così, se anche questa coesistenza di caratteri è una «con- nessione necessaria, è esclusa a priori la ]>ossibiliUi, oltre B e (>, di altre specie di A. Ma con ciò non avremmo che uno dei prin- cipii fondamentali della dialettica platonica, cioè che ciò che non è reale è necessario ohe non esista : per avere questa dialettica in nieia che la catena delle proposizioni geometriche sup- pone dei principii che non possono formare 1' oggetto d^alcun teorema. Ora <|uesto concetto primitivo — o a dir meglio r oggetto reale che corrisponde a questo con- cetto — non può ammettersi semplicemente come dato di fatto : in <]uesto caso esso non sarebbe che wwHpotesi, e 1' incatenamento di deduzioni, in cui consiste la die- resi, non sarebbe una dimostrazione. Allora la cono- scenza non sarebbe a priori, e il principio non avrebbe una vera priorità logica sulle conseguenze, ciò che im- porta che il rapporto tra il principio e la conseguenza non potrebbe identificarsi al rapporto tra la causa e l'effetto, perchè l'anteriorità ontologica della causa verso V effetto (indispensabile perchè 1' una sia una causa e l'altro un effetto) non è, in questo sistema, che l'ante- riorità logica del principio verso la conseguenza. Il con- cetto primitivo, vale a dire l'Idea del Bene, deve dun que stabilirsi a priori: essa deve essere quindi o un as- sioma o una verità anch'essa dimostrata. Ma Fesistenza dell' Idea del Bene non può darsi per una verità assio- matica, cioè per una di quelle verità che basta che siano enunciat;e ed intese perchè siano ammesse : essa deve essere dunque una verità dimostrata. Per una tale dimostrazione noi moderni penseremmo naturalmente a qualche cosa come 1' argomento ontologico, vale a dire intero (a parte la realizzazione dei concetti), bisognerebbe aggiun- gere l'altro principio egualmente fondamentale, cioè che ciò che è reale è necessario che esista. Non avremmo, in altri termini, e. IO il presupposto della prima metà del metodo del Parmenide, quella che fa l'ipotesi dell'esistenza, cioè della sua applicazione negaliva^ che bisognerebbe completare per quello dell'altra metà di questo metodo, quella che fa l'ipotesi della non esistenza, cioè della sua applicazione positiva. — 310 - un argomento clie provi l'oggetto mostrando che il suo concetto stesso ne include la realtà, o come si dice or- dinariamente, che la sua essenza implica resistenza. È questa infatti la sola argomentazione per cui si possa dimostrare direttaìneute un primo principio (vale a direuna cosa che non potrebbe dedursi da un' altra cosa). Ma di una tale argomentazione non troviamo alcun in- dizio in Platone. Non vi hanno nella dialettica platonica che due metodi per dimostrare le Idee : il metodo diretto, che è la dieresi, e il metodo indiretto del Parmenide. L'Idea del Bene, non potendo dimostrarsi per la dieresi, deve dunque dimostrarsi col metodo del Parmenide. Ammettendo ciò noi non tacciamo un'ipotesi, perchè il metodo del Parmenide- si applica alle Idee in generale; esso deve quindi applicarsi anche all' Idea del Bene. È per quest'applicazione che questo metodo è un comple- mento indispensabile della dieresi, e che Platone può dire che esso è necessario alla scoverta della verità (!)• Noi possiamo anche dire che la parte positiva del me- todo del Parmenide, cioè quella che sviluppa le con- traddizioni risultanti dall'ipotesi della non esistenza, non ha, al fondo, altro oggetto che di dimostrare l'Idea del Bene. Noi dobbiamo ammettere che, secondo Platoue, se l'ipotesi della non esistenza delle altre Idee esistenti implica delle conseguenze contraddittorie, ciò è perchè es- se sono delle forme del Bene, e negando una di esse si nega una forma del Bene; sicché in tutte le dimostrazioni indii*et- te che partono dall'ipotesi della non esistenza, in ultima a- nalisi l'unico punto dimostrato è che il Bene, in qualsiasi forma, o, come dice Platone, tutto il Bene, deve esistere, ciò che è il vero principio primo della dieresi. Di que- wì (1) V. Paru. 135 d, 136 o, 136 e, 1. o.). — 311 ~ sta maniera l' impossibilità logica della non esistenza delle altre Idee è una conseguenza dell'impossibilità lo- gica della non esistenza dell' Idea del Bene, ciò che è necessario perchè 1' esistenza di quest' Idea sia una ve- rità logicamente anteriore a quelle dell'esistenza di tutte le altre. Così Fldea del Bene, quantunque sia necessario dimostrarla, è in un senso una verità immediata, in quanto tutte le altre verità della dialettica (cioè tutte le altre Idee) si deducono da essa, ma essa non si deduce da altra cosa, e si prova per l'inconcepibilità della sua negazione. Il metodo del Parmenide, mettendo in luce quest'inconcepibilità, mostra l'inseparabilità tra il con- cetto del bene e quello della sua esistenza: è una spe- cie di argomento ontologico indiretto, e noi siamo sem- pre alla definizione spinoziana del primo principio : ciò la cui essenza implica l'esistenza (o, come spiega Io stesso Spinoza, ciò la cui natura non può concepirsi se non esistente) (1). (1) È for»e alla dinioHirazioDe dell'Idea del Bene col metodo del Parmenide che allude il luogo seguente della Repubblica: <• Chi non è capace di definire, separandola da tutte le altre, l'Idea del Bene, e, come in una mischia, penetrando per tutto confu- tando (è)$7re(> èy ^a/yi àia nàyTcoy èkéyxoyy óie^mp)^ « avendo cura di con/alare non secondo V opinione ma secondo la realtà^ procedere in ttitto ciò con ragioni inconcusse, questi dirai che non conosce né il bene stesso né alcun altro bene », ecc. (lib. VII, 534 b-c). Le parole scritte in corsivo sembrano indicare un pro- cedimento per istabilire l'Idea del Bene, che consiste in un me- todo confutativo ohe si applica all'universalità delle cose. E in- fatti è, in un senso, all' universalità delle cose che deve appli- carsi il metodo del Parmenide per istabilire il primo principio. Poiché le verità fondamentali sul primo principio non sono so- lamente che il Bene esiste ed esiste necessariamente, ma anche t { ^ — 312 — Un'altra osservazione prima di finire sul Parmenide. La dieresi suppone necessariamente un altro metodo di- verso per dimostrare il suo punto di partenza. Ma per- chè Platone preferisce il metodo indiretto, cioè la dimo- strazione ex ahsurdis f E perchè il metodo indiretto lo concepisce come lo sviluppo di una serie di coppie di attributi contraddittori inerenti simultaneamente allo stesso soggetto ? Né l'uuo né l'altro di questi due punti della dottrina platonica ha, bisogna convenirne, un le- game necessario coi due punti centrali del sistema, cioè l'ipotesi delle Idee e la dieresi. Per ispiegarli dobbiamo anche tener conto di un altro fatto, cioè dello sforzo evidente di Platone di rìattaccarsi alle tradizioni filoso- fiche dell'epoca, nel Parmenide alla scuola eleatica (V. Suppl. C. n. IV). Questo sforzo apparisce della maniera più chiara quando egli attribuisce a Parmenide e agli Eleati in generale la dottrina delle Idee. Questa scinola essendo celebre per la dialettica — Zenone [tassava presso gli an- tichi per esserne stato l'inventore — Platone, in cerca di punti di contatlo con le tradizioni più illustri, non po- teva mancare di cercare di riattaccarvisi anche per (|ue- sto lato. Il Parmenide non ha duncjue solamente per issopo di tracciare un metodo indispensabile al conse- guimento della verità, ma anche di avvicinarsi agli Eleati mostrando che la sua projjria dialettica deriva dalla e- ohe esiste uecessariiiiueiite ogui forma del Bene, e die tutti) eiò ohe esiste ò uecessiiriaineute una foruia del Beue (in uua pa- rola che è ueoessario che tulio il Bene esista et che osso sia ridea universale). Per dimostrare queste proposizioni bÌKOj::no- rebbe ooufutare, d' uua maniera generale, 1' ipotesi della non esistenza di tutto ciò cbe è bene — cioò di tutto ciò cbo esi- ste — e quella dell'esistenza di tutto ciò cbe non ò beue — cioè di tutto eiò cbe non esiste — . — 313 — leatica. Così egli imita, in questo dialogo, la dialettica di Zenone, assegnandole una funzione importante nel suo proprio sistema, e attribuendola, nella nuova forma ch'egli le dà, al fondatore della scuola, ci mostra il vec- chio eleate che l' insegna al giovane Socrate. Dopo il Parmenide, Platone riguarda come stabilito che la sua dialettica si origina da quella degli Eleati, e nei dialo- ghi in cui è praticata la dieresi, cioè nel Sofista e nel Politico, la parola non è a Socrate, ma a un supposto filosofo della scuola eleatica (1). § 22. Abbiamo visto nel ^ 14 che l' Idea del Bene è, non solo il principio logico, ma anche il principio onto- logico, la catisa^ di tutte le altre Idee. Abbiamo visto pui'e che 1' essere il principio logico delle altre Idee e l'esserne il principio ontologico non sono due fatti distinti, ma due espressioni difterenti di uno stesso fatto, perchè se un concetto si deduce da un altro, ed essi sono, non dei semplici concetti, ma delle realtà, dei concetti rea- lizzati, la realtà premessa è il principinm essendi della realtà conseguenza, e la deduzione e<iuivale a una de- rivazione reale, a una produzione delì'ettetto dalla sua causa. Nel $ 15 abbiamo indicato le prove, ])er dir così, generiche, da cui si può concludere che Platone ha e- steso questo legaìne causale a tutti i gradi della dedu- zione progressiva in cui consiste la sua dialettica, in modo che l' incatenamento logico eh' egli introdiice fra tutte le Idee sia al tempo stesso un incatenamento di cause e di effetti. Ora la deduzione per Platone è la die- resi; il genere è il principio, le specie in cui si divide le conseguenze. Ne segue che tra le Idee dei generi e le Idee delle specie — intendendo sempre per genere la classe "X (1) V. Sofista in principio. — 314 - — 315 — 1 li superiore e per 8i)ecie le classi immedìataraente inferiori in cui si divide— vi La, secondo Platone, una deriva- zione, non solo logica, ma anche reale; che Tldea gene- rica è la causa e le Idee speci fiche i suoi effetti, o in altri termini, trattandosi di una causalità, non esteriore, ma immanente, che la serie delle Idee, secondo la loro generalità decrescente, costituisce i gradi successivi, i momenti, di uno sviluppo necessario, che è al tempo stesso logico ed ontologico. È ciò che dobbiamo provai*e particolarmente nel presente paragrafo. I gradi successivi, i momenti, di questo sviluppo ne- cessario, logico ed ontologico, sono indicati da Platone, come poi da Spinoza, coi termini anteriore e posteriore di natura (nQÓisfJok^ xaì vaze^ot^ xaià (pva^i'). Secondo le de- finizioni di Aristotile, Platone ha chiamato anteriore ciò che può essere scii::a il posteriore, mentre il posteriore non può essere senza l'anteriore (1); ovvero : ciò tolto il quale è tolto anche il posteriore, mentre tolto il poste- riore, non è tolto perciò l'anteriore (2). In altri termini, il posteriore porta con sé l'anteriore, mentre l'anteriore non porta con sé il posteriore (p. e. leomo porta con sé animale, mentre animale non porta con sé uomo). Que- sto rapporto di anteriorità e posteriorità corre tra i con- cetti generici e specifici, o, parlando più propriamente, tia le realtà corrispondenti a questi concetti: il Genere (P Idea) é anteriore alle Specie (le Idee), e queste gli sono posteriori (3). Le specie opposte che provengo- (1) V. Met, 1. V. XI. 8, Caieg. IX. 3, X. 4, ecc. (2) V. Met. 1. XI. I. 11-12, 1. VII. XV. 7, 1. XIII. Vili. 14, Eth. End. 1. I. vili. 2, Top. 1. VI. IV. 5. (3) V. p, e. Eth. End. 1. I. Vili. 9-10 : anteriore è il oomuue e separabile (yoyoiatóy — P^^' il significato di questo termine v. Sappi. B. VI); a tutti i multipli sarebbe anteriore il Multiplo. no dallo stesso Genere per la stessa divisione si chia- mano simultanee di natura {oifia rfi (omei) (l). Aristotile usa i termini anteriore e posteriore in un senso più lato, ma nel sistema platonico, come termini tecnici aventi il si- gnificato delle definizioni precedenti, non denotano che una relazione tra il generale e i particolari. Ciò risulta dai luoghi d'Aristotile, in cui si vede che pei platonici, perchè una cosa sia anteriore ad un'altra, deve essere Phytt. 1. II. III. 2, 6 e Met. 1. V. II, 1. 8: Le cause di una stessa cosa possono essere 1' una anteriore e V altra posteriore, ciò ohe avviene quando V una è il genere di cui V altra è una specie ; p. e. della sanità lo sono il medico e l'artofice, del dia- pason il doppio e il numero. Met. 1. I. IX. 3 e 1. XIII. IV. 8: secondo i partigiani delle Idee, dovrebbe essere prima non la Dualità, oom'essi ammettono, ma il Numero (perchè più generale). I primi generi sono ì generi più vasti (v. Met. 1. III. I. 9, 1. III. III. 7, 9, 10, 13. 1. XI. I. 11-12); i primi di tutti gli es- seri sono rUno o Essere, identico al Bene, e la Dualità indefi- nita, cioè le due Idee più universali di tutte (v. Met, 1. I. IX. 3, 1. XI. I. 11, 1. XIII. X. 5, 1. XIII. Vili. 21, 1. XIV. IV. 2-5, 1, XIV. V. 1, ecc. Quest'applicazione dei termini anteriore e posteriore e sinonimi si vede pure in Categ. IX, 4, Top. 1. VI. IV. 5. Mei. 1. VII. XII. 9, 1. XIII. IX. 2-3, 1. XIII. IX. 6, 1. XIV. I. 5, ecc.: noi riporteremo in seguito alcuni di questi luoghi. Anche Alessandro d'Afrodisia, commentando i luoghi che si ri- feriscono ai platonici, applica i termini anteriore e posteriore ai concetti generici e specifici : v. in phil. pr. 1. 58, III. 40, ecc. (1) V. Categ. X. 3 e Top. 1. VI. IV. 14. Quantunque Aristotile non attribuisca espressamente questa denominazione ai platonici, non può esservi alcun dubbio che non appartenga ad essi, tanto per r allusione al metodo di divisione (e divisione per opposti), quanto per il suo rapporto evidente coi termini anteriore e po- steriore. — 316 - — 317 — separabile {x^oiìimóy)^ cioè sussistente per se stessa (1) — infatti due concelti di cui l'uno poitii con sé, cioè in- clude, l'altro, se si tratta di concetti obbiettivati, non possono essere nel sistema platonico che una Specie e il suo Genere — ; e più chiaramente ancora da altri luo- ghi in cui Aristotile, dopo aver supposto che, nel sistema platonico, un'entità è anteriore ad un'altra, ne conclude che quella deve abbracciare questa nella sua generalità (2). Lo stesso risulta pure dalla definizione del termine si- multanei di natura ; perchè il significato di questo ter- mine, nella definizione che ne dà Aristotile, oltre il caso indicato di specie opposte in cui un genere si divide, non abbniccia che un altro caso che può rientrare in esso, cioè quello di due termini correlativi, quali il dop- pio e la metà (i correlativi essendo una sorta di oppo- (1) V. Eth. Eud. I. I. Vili, y-lO, luogo iu parte citato, e Metaf. 1. XIII. II, 10-15. (2) Così in Met. 1. XIII. IX. 3 fa quest'obbiezione a Platone: il Lungo e Corto da cui procedono le linee, il Largo e Stretto da cui procedono i piani, e l'Aito e Basso da cui procedono i so- lidi (V. per questa dottrina Suppl, C. Entità uiatem.) si seguono (cioè sono fra di loro anteriori e posteriori)? In questo caso il piano sarà una linea e il solido un piano (perchè il Largo e Stretto sarà una specie del Lungo e Corto e TAIto e Basso una specie del Largo e Stretto). Un'obbiezione analoga fa un po' più giù (1. XIII. IX, 6) a dei platonici dissidenti (cioè a Speusippo). E in Met, 1. XIII. Vili, 14 obbietta ohe l'unità che è nella dua- lità dovrebbe essere anteriore ad essa, perchè tolta la prima si toglie anche la seconda; e che per conseguenza quest'unità, es- sendo anteriore ad un'Idea (cioè alla Dualità), dovrebbe essere un' Idea d' Idea (Idea d' Idea non può significare, applicato al sistema platonico, ohe specie di specie, cioè Idea generica d' un'I- dea specitica). sti, e questi potendo considerarsi come due specie di uno stesso genere) (1). Dopo quello che abbiamo detto nei paragrafi prece- denti, non abbiamo bisogno di mostrare che questo rap- porto di anteriorità e posteriorità, che Platone stabilisce fra il generale e i particolari subordinati, implica se- condo lui il legame logico tra principio e conseguenza. Ci resta a stabilire che egli ha riguardato espressamente questo legame anche come ontologico (dico espressamente ^ perchè un legame logico tra concetti obbiettivati è ne- cessariamente, per il fatto stesso di quest' obbiettiva- zìone, un legame ontologico). Un indizio di questo significato dell'anteriorità e po- steriorità platonica l'abbiamo già nel senso in cui que- sti termini vengono usati nella logica di Aristotile. Si sa la dottrina di Aristotile sulla dimostrazione : la di- mostrazione scientifica è quella che si fa per le cause, e si dimostra per le cause quando si dimostra per priora (o, continuando a tradurre come abbiamo fatto il ter- mine greco corrispondente, per gli anteriori) (2). Il con- cetto di «anteriore implica cosi per Aristotile quello di causa (3): per priora egli intende delle verità, che non siano solamente le premesse da cui altre verità, cioè le posteriori, si deducono, ma che siano anche le cause dell'esistenza di qiu'ste altre verità. Cause non vuol dire (1) V. per questa dcAuizione Categ. 1. X. 2 5. In Top. 1. VI. IV. 12 e 14, oltre il primo caso, vengono indicati, invece dei cor- relativi, gli opposti in generale. (2) V. sovratutto An, Post, 1. I. II. (3) V. An. Posi. 1. I. IX. 9: Causas vero etiam esse oportet... et priora, si quidem causas. E 1. I. 9, 5 : Nam scit magis qui ex superioribus causis scit; ex priorihutt etenim scit quando ex non aliunde etfectis causis scit. — 318 — cause della coDclusione — perchè ciò è comune tanto alle dimostrazioni scientifiche, quanto a un'altra deduzione che non si fa per priora — ma anclie della cosa stessa, del fatto che è V oggetto della conclusione (1). Così il senso aristotelico delP anteriorità e post'Criorità include al tempo stesso due concetti, come quello che attribuia- mo a Platone: il rapporto logico tra il principio e la conseguenza, e il rapporto ontologico tra la causa e l'ef- fetto. Senza dubbio, chiamando cause le premesse di una dimostrazione scientifica, Aristotile fa un uso improprio del termine causa : è solo in un senso traslato che l'es- senza può essere chiaiiìata causa delle proprietà che se ne deducono, o gli assiomi matematici dello proposizioni dimostrate (2). È, come in Platone, una confusione tra il principium cognoscendi e il prìncipium essendi : tra i principia cognoscendi Aristotile riguarda come cause quelli che può più facilmente identificare con questa. Potrebbe dirsi che attribuendo la causalità a delle pro- posizioni o a dei semplici concetti, Aristotile eleva per un momento delle astrazioni al grado di realtà — perchè noi non possiamo riguardare come cause che delle cose che esistono per se stesse, e si distinguono dai loro ef- fetti realmente, e non soltanto logicamente —Questo rea- lismo, per dir così, metaforico di Aristotile è al vero realismo di Platone come p. e. la personificazione poe- ti) Cfr. Pacoiolati: Tnstitnliones logicar peripntetiene par» III, cap. IX fine. (2) V. App. al cap. ^^. Ma hì deve notare che la causa, in questa teoria, non è presa sempre in questo senso improprio; la causa può essere la causa finale o anche la causa nel senso più stretto, cioè la efficiente {nel significato aristotelico). V. Anal. Post. 1. II. X. — 819 — tica delle forze della natura è alla personificazione reale dei miti e delle religioni naturaliste. Questa personifica- zione, che nella coscienza del poeta non è che uno stato istantaneo, diviene in quella del facitore di miti uno stato permanente e definitivo: così il vago realismo d'un Ari- stotile, che confonde la causa con la ragione, dà luogo al realismo deciso d'un Platone o d'un Spinoza, quando nella coscienza del filosofo è divenuto uno stato perma- nente e definitivo. È per altro un fatto indiscutibile che l'uso che fa Aristotile dei termini anteriore e posteriore si riattacca a quello che ne faceva Platone. Le sfere di applicazione di questi termini coincidono sino ad un certo punto nei due filosofi : anche per Aristotile l'universale è anteriore, e il particolare ad esse subordinato, poste- riore (1). Di più, per distinguere l'anteriore dal poste- riore (presi nel senso logico ed ontologico che Aristotile at- tribuisce a questi termini), egli si serve talvolta del cri- (1) Così neW Anal. Post, 1. I. XXIV, 14 intende per propo- sizione anteriore V universale e per posteriore la particolare in essa compresa — ciò che d' altronde non potrebbe essere altri- menti, dato il significato logico dei termini anteriore e posteriore, la conseguenza essendo un caso particolare della premessa mag- giore. (Un po' prima, 1. I. XXIV. 7, ha detto che l'universale è causa). lìnd, 1. I. II, 10, distinguendo Tanteriore di natura e l'an- teriore per noi, dice che anteriore di natura è il generale, per noi il particolare. Come per Platone il genere è anteriore alla specie, e le specie in cui il genere si divide, simultanee di na- tura {Top, 1. VI. IV, 5,14. Nella parte di questo capitolo delle Topiche, in cui tratta dei luoghi per provare che una definizione non è fatta, come deve essere, per priora, questo termine è preso quasi sempre in un significato identico al platonico, cioè come sinonimo di piìì generale. — 320 — terio stesso di Platone, cioè die anteriore è quello tolto il quale si toglie anche il |>osteriore (1). (1) V. Top. VI. IV, 5— È curioso fteguire le vicende dell' ubo dei termini pHore e posteriore da Platone alla filoKofia moderna. Gli scolastici, continuando ad usarli nel senso aristotelico, chia- mavano dimostrazione n priori quella che si faceva i>er le cause (o per le ragioni considerate come cause), e a posterioì^i quella ohe si faceva per gli effetti (p. e. 1' argomento cosmologico per provare 1' esistenza di Dio e quello fisico-teologico sarebbero a posterion, l'argomento ontologiccì sarebbe a priori, perchè prova Dio assegnando la causa, cioè la ragione, della sum esifrtcììzn^. Sin qui il significato dei termini è ancora quello di Platouo. Ma siccome nel ragionamento induttivo il prineipium eognoacendi non può assimilarsi al prineipium essendi come nella dimostrazione propriamente detta (cioè quella che deduce da principii evidenti per se stessi), così la dimostrazione propriamente detta si disse a pHori, e il ragionamento induttivo a posteriori. Di lìi fu fa- cile il passaggio al significato che questi termini hanno nella fi- losofia moderna, e conoscenza a posteriori divenne il sinonimo di conoscenza sperimentale, conoscenza n priori «piello di cono- scenza razionale, o indii)endente dall' esperienza. È notevole ohe, dopo questo cangiamento della connotazione dei termi- ni, la loro denotazione coincide ancora con quella di Plato- ne, perchè anche Platone avrebbe chiamato la conoscenza spe- rimentale del generale « posteriori ( cioè dai suoi effetti ), mentre la conoscenza dalle cause era per lui a priori nnche nel senso moderno della ])arola, cioè razi<male. Nella iMeta- fìsica Aristotile usa i termini anteriore e posteriore in un scuso più vago di quello ch'essi hanno nella sua teoria della dimostra- zione. Tuttavia anche nella Metafisica questi termini hanno un significato ontologico, non ben definito forse, nia in cui risaltano sovratutto questi due concetti : quello di una derivazione del po- steriore — ma che non è necessariamente causale, come si vede p. e. in III. VI, 4, in cui chiama la potenza anteriore all' atto (non nel senso cronologico) — e quello di un maggior grado di — 321 — Ma senza esagerarci uè diminuirci V importanza di questo legame storico tra la dottrina di Aristotile e quella di Platone, per istabilire il significato dei termini ante- riore e posteriore, noi passeremo ad altre prove più im- portanti che ridurremo a queste tre: P I termini anteriore e posteriore indicano una se- quenza metafisica, il cui tipo, nel mondo dell'esperienza, è la successione cronologica, specialmente quella che av- viene secondo una legge, p. e. V evoluzione degli orga- nismi. Non sam inutile di citare le definizioni che Ari- stotile dà del significato primitivo dei termini anteriore {nQóz€Qoy) e simultanei («.uà), prima di passare a definirli nel loro significato platonico. « Una cosa si dice ante- riore ad un'altra principalmente e massimamente secondo il tempo, secondo cui l' una è detta più vecchia e più antica dell'altra » (1). « Simultanee si dicono nel senso più stretto e assoluto le cose la cui produzione è nello stesso tempo > (2). Nella Metaf. l. XIV. IV. si parla della realtà dell'anteriore {\. Mei. l. XIII. II. 14: gli anteriori sono superiori nell'essere, ro) shai vneQpàkkei), Anche il secondo di questi due concetti si riattacca al significato platonico dei termini, perchè Platone considera 1' anteriore come più reale del poste- riore. (Si veda più giù, in questo stesso paragrafo). (1) Categ. IX. (2) Categ. X. 1. V. anche X. 5 — Le rappresentazioni che si fa Ari- stotile della derivazione delle Idee dai primi principii, implicano tutte una successione nel tempo. In Met, XIV. V. 3-4 domanda ai platonici: come i numeri (cioè, pei platonici ortodossi, le Idee) vengono dai due principii 1 per una mescolanza ? per una composi- zione ? ne vengono come da materiali che continuano ad esistere in essi f o come da un germe ? (allusione all'idea di sviluppo di cui parleremo in seguito) o come da nn contrario che si cangia nel suo contrario f Altrove (Met. XIV. 11. 1-2) si rappresenta 21 \ - 322 — — 323 — quistione (era una controversia tra i platonici) se il bene deve riguardarsi come principio, o deve ammettersi che sia generato posteriormente. Alcuni moderni (i platonici che sostengono la seconda opinione) convenendo, dice Aristoti- le, coi teologi (secondo i quali l'ordine nel mondo è stato preceduto dal chaos), ammettono che il buono e il bello non appariscono che nel progresso della natura degli esseri {nQoek&ovarjg if\q toyy o^kùp (ùv<tb(ù^). I poeti antichi, con- tinua Aristotile, avevano un'opinione simile, perchè attri- buivano il principato e il regno su tutte cose, non ai primi esseri, quali la notte o il cielo o il chaos o l'oceano, ma a Giove. Nel capit. seguente (in princ.) dice di questi platonici che paragonano i principii del tutto a quelli delle piante e degli animali, perchè si va sempre (tanto questa derivazione come un passaggio dalla potenza all' atto — ciò che, egli dice, è impossibile, perchè le cose eteme non pos- sono essere che in atto. - In Met. XIV. IV 1, dopo aver rife- rito la proposizione platonica che l'Idea del due viene dal Grande e Piccolo (lo stesso che la Dualità indefinita) eguagliati, osserva: dunque prima erano ineguali e poi divennero eguah, e non h in grazia della speculazione che fanno la generazione dei 7iumeH (in altri termini, questa generazione deve intendersi nel senso stret- to, come implicante una successione nel tempo). A questa pseudo- idea di causalità, che il realismo dialettico attribuisce alle sue astrazioni reaUzzate, non può corrispondere niente di rappresen- tabile, in cui non entri V idea di una sequenza nel tempo, per- chè è solo come una sequenza nel tempo che noi conosciamo e possiamo immaginare la causalità. È perciò che le espressioni platoniche, indicanti la derivazione tra le Idee, suggeriscono sempre questa sequenza. Il senso reale di queste espressioni - anche quando non indicano che una semplice sequenza, come i termini anteriore e posteriore — è del resto abbastanza chiaro, se si aggiunge all'idea di sequenza quella di necessità, implicata nel loro significato logico. Causalità infatti, nel significato comune (ohe è lo stesso, ai fondo, ohe quello della metafisica), vuol dire appunto sequenza necessaria. nel tutto quanto nelle piante e negli animali ) dal più indeterminato e più imperfetto al più determinato e più perfetto (If ào^iazcoy àiek^i/ oh àei za v€k€ióz€()a)' e che così avviene, secondo essi, anche nei primi, tanto che l'Uno (cioè il loro primo principio) non è nemmeno un essere(l). Questi priim, di cui parlano questi platonici, che vengono paragonati agli esseri primitivi nelle antiche cosmogonie, questo progresso della natura degli esseri, questo sviluppo che va sempre dal più indeterminato e imperfetto al più determinato e perfetto, e che ha il suo analogo in quello delle piante e degli iiuimali, non de- vono intendersi in un senso cronologico. Non si tratta evidentemente che d'una successione metafìsica, come si vede nell' opposizione tra 1' esser principio (il bene) e l'esser generato posteriormente, perchè il modo in cui il primo principio dei platonici genera le altre cose non è una produzione nel tempo, ma una derivazione ab ae- terno, in cui la successione non è che logica. La com- parazione del tutto alle piante e agli animali è un' an- ticipazione dell'idea di sviluppo nel senso hegeliano; il passaggio continuo dal più indeterminato e imperfetto al più determinato e perfetto non è che il passaggio continuo dal più astratto al più concreto, che avviene tanto nella dialettica di Hegel quanto in quella di Pla- tone, e noi possiamo aggiungere, in qualsiasi altra de- duzione di qualsiasi altra forma di realismo dialettico. I platonici di cui si tratta sono Speusippo e la sua scuo- la: sono dei dissidenti, ma essi non hanno abbandonato la dotttina platonica dell' anteriorità e posteriorità, uè quella che l'anteriore è il generale e il posteriore il par- ticolare. Infatti Aristotile ripete contro questa scuola la (1) Vedi, per questa proposizione chn l'uno non è un essere, Supplem. C. V, Speusippo, — 324 — obbiezione che ha fatto a Platone, che se i principii materiali delle grandezze non si seguono, non si vede perchè il solido debba comprendere la superficie, e la superficie la linea, ma se si seguono^ la superficie dovreb- be essere una linea e il solido una superficie (1). Per il riferimento a Speusippo tanto di quest'obbiezione quanto delle opinioni precedenti, rimandiamo al Suppl. C. n. V; ma per vedere che nei due casi si tratta degli stessi filosofi, basta di confrontare Met. 1. XIII. IX, 6 e seg. con tutto il capitolo 1. XIV. IV. 2J^ 1j^ anteriorità e posterioritàj nei numeri ideali, indica una filiazione di questi numeri gli uni dagli altri. Pla- tone, nell'ultima forma della sua filosofia, ammette due sorta di numeri: i numeri ideali (cioè le Idee, che, in quest'ultima forma del suo sistema, sono dei numeri) e i numeri matematici (cioè che formano l'oggetto dell'a- ritmetica). Un carattere distintivo tra i numeri ideali e i numeri matematici, è che i primi hanno anteriorità e po- steriorità. Anche i numeri matematici hanno, in un senso, anteriorità e posteriorità, in quanto costituiscono una serie i cui termini si seguono con un ordine determina- to. Ma questo senso dei termini anteriore e posteriore non è quello tecnico che questi termini hanno nella fi- losofia platonica (2) Così Aristotile per indicare il nu- mero ideale, in contrapposto al numero matematico, di- ce: quello che ha anteriorità e posteriorità (3). Per con- seguenza noi dobbiamo ammettere che quest'anteriorità e posteriorità dei numeri ideali deve intendersi nel senso proprio, cioè tecnico, della filosofia platonica. La filia- zione che Platone ammette tra questi numeri che hanno anteriorità e posteriorità, è questa: ogni numero genera (1) V. Mei, XIII. IX. 6 e oonfr. 2-3. (2) V, Suppl. C. Ent. matem. (3) V. Met. 1, XIII. VI. 6. — 325 — due numeri, 1' uno pari che nasce dal suo raddoppia- mento, e l'altro dispari che nasce da questo raddoppia- mento e r aggiunzione dell' unità (I). Ora noi vediamo in Aristotile che i termini anteriore e posteriore appli- cati a questi numeri (o alle unità che li costituiscono) significano appunto l'ordine di questa generazione. Cosi in Met. XIII. VII. 4-5: « le unità che sono nella prima Dualità (cioè nel Due ideale) sono generate simultanea- mente (aaa)... se l'una unità fosse anteriore all'altra, sa- rebbe anteriore anche alla Dualità che è da esse.» Ihid. 19: « Né bisogna nascondersi che avviene (nella dottrina dei numeri ideali) che vi hanno delle dualitfi anteriori e poste- riori, e similmente per gli altri numeri. Le dualità infatti che sono nella Tetrade (cioè nel Quattro ideale) siano simul- tanee fra di loro: ma esse sono anteriori a quelle che si tro- vano nell'Otto (nell'Otto ideale), e sono esse che hanno ge- nerato—come la Dualità in sé aveva generato esse stesse — le tetradi che si trovano nell'Otto in sè.»(2) In XIII. VIII.14: «L'unità (quella che è una parte dellaDualità ideale) do- vrebbe essere anteriore alla Dualità: infatti, tolta essa, è tolta anche laDualità (il criterio di Platone i^er distinguere l'anteriore e il posteriore). Dunque dovrebbe essere ne- cessariamente un'Idea d'Idea, essendo anteriore r un'Idea, e dovrebbe essere stata generata anteriore >. E ibid. 28 : « Ciascuna delle due unità (che costituiscono la Duali(|à ideale) dovrebbe essere anteriore alla Dualità (perchè, dice Aristotile, somiglia di più all'Uno in sé, e questo è anteriore a tutto). Ma non dicono così; quella che gene- rano la prima (tra tutte le cose che generano) è la Dualità.» (1) V. Suppl. C. I, sulla line. (2) Bisogna notare che nei luoghi citati Aristotile estende l'an- teriorità e posteriorità, che Platone ammette tra i numeri, alle L' anteriorità e posteriorità dei numeri ideali non può essere altra cosa che l'anteriorità e posteriorità delle I- dee che essi rappresentano, e la filiazione tra i numeri anteriori e posteriori corrisponde alla subordinazione lo- gica (di genere e specie) tra le Idee rappresentate (1). Cori questa filiazione tra i numeri non può significare altro che una filiazione tra le Idee che rappresentano, essendo evidente che, generando i numeri, Platone geìiera le cose stesse (cioè le Idee) con cui li identifica (1). In altri ter- unità che li costituiscono (quando chiama simultanee le unità dello stesso numero, e anteriori e posteriori quelle dei numeri che sono in questo rapporto.) Lo stesso fa in altri luoghi, come XIII. VII. 22 (in cui chiama l'unità che fa parte di un numero, simultanea al numero stesso) e a XIII. Vili 2 (in cui domanda, nelU ipotesi che le unità dei diversi numeri — che, secondo Platone, sono eterogenee — differiscano di quantità, se sono le prime le minori o le posteriori vanno crescendo, o se è al contrario). Sin- ché si tratta dei numeri stessi, si potrebbe supporre che V an- teriorità e posteriorità non signilìchi che i diversi gradi di ge- neralità delle Idee che questi numeri rappresentano. Ma questa spiegazione essendo inapplicabile alle unità, questi termini, in questo caso, non potrebbero avere altro significato immaginabile ohe la successione metafisica di cui nel n. 1. (1) Si veda, per una maggiore eluoidazione di questo punto, il Suppl. C, I, sulla fine. Qui aggiungeremo solamente che il penultimo dei luoghi citati prova, non solo che 1' anteriorità e posteriorità, applicata ai numeri ideali, ha il solito significato definito d:i Aristotile (ciò che dimostra il criterio usato per di- stinguere l'anteriore e il posteriore), ma ancora che un numero anteriore rappresenta un' Idea più universale, come apparisce dalle parole Idea rf' Idea, che noi abbiamo già spiegato in una nota precedente. (2) Così Aristotile dioe(3/e(. 1. XIII. Vili. 21): ^Generano le cose che seguono (za énófzeya-^cioh che seguono ai due prinoipii), come mini la generazione progressiva dei numeri gli uni dagli altri non è che 1' espressione, in termini pitagorici, di questo nesso ontologico tra le Idee, che è 1' obbietti va- zione del loro nesso logico. E per conseguenza i termini an- teriore e posteriore, che significano i diversi gradi di que- sta generazione, significano pure i diversi gradi dello sviluppo delle Idee, o, ciò che vale lo stesso, i diversi anelli del loro incaten amento causale. 3^ Anteriore (e i termini simili) è sinonimo di prin- cipio, posteriore di cosa derivata da questo principio. Così tutte le entità, di cui si ammette generalmente che Pla- tone le ha riguardate come principii, sono anteriori alle cose di cui sono i principii. L*Uno (cioè, senza pitagori- smo, l'Essere o il Bene) e la Dualità indefinita sono i primi degli esseri, anteriori a tutte le altre cose, che sono chiamate za énó/aeya (1). Le Idee sono anteriori alle cose, e sono pure chiamate i primi degli esseri (l' Idea del Bene è il primo dei beni, la Dualità ideale la prima dualità, ecc.) (2). Siccome i numeri ideali non producono soltanto le cose, ma anche le entità matematiche, essi sono anteriori anche alle entità matematiche, che, come tutti i concetti obbietti vati, producendo le cose di cui so- no i concetti, sono anteriori a queste, e si dicono perciò medie fra le Idee e i sensibili (3). Pei platonici per cui i primi numeri sono gì' ideali, le cause prime di tutti U vuoto f la proporzione, V abbondante ^ e le altre cose tali, dentro ki decade; perchè alcune cose attribuiscono ai principiialtre (cioè quelle che seguono) ai numeri ». (1) V., oltre i luoghi citati nella nota 3 a p, 314, Met, 1. I. IX. 17, 1. XIII. IX. 1, 1. XIV. I. 12, ecc. (2) V. Met, 1. VII. VI. 4, 1. XIII. VI. 2, VII. 4, 1920, Vili. 5-7, 1. XIV. IV. 8, Mh. Eud. 1. I. Vili. 1. 3. Alex. Aphrod. in phil. pr. I. 43, ecc. (3) V. MeL 1. XIII. II. 10-15 e IX. 2, e oonfr. Suppl. C. III. r i — 328 ^ gli esseri sono i numeri ideali; sono i numeri matema- tici per quelli per cui i primi numeri sono i matemati- ci (1). La sinonimia tra principio— iiìoh principio assoluto — e primo (come anche tra cosa derivata e cosa poste- riore^ « apparsa nel progresso della natura degli esseri ») è evidente nei due luoghi della Metafìsica citati al n. l« (cioè Met. 1. XIV. IV. e 1. XIV. V. 1). Aristotile conti- nua ad usarli come sinonimi nel tratto che se^»ue il pri- mo di «luesti due luoghi (2), e lo stesso fa anche altro- ve, come in Met. 1. XIII. VII. 23-26, in cui dopo aver detto che anteriore ha due sensi, nell'uno dei quali anteriore è V universale, e nell' altro la materia di cui un oggetto si compone, rimprovera a Platone di riguardare l'Uno in sé come principio nell'uno e nell'altro di questi due sensi del termine anteriore (come universale, perchè ogni nume- ro è uno, e come materia, perchè si compone di unitji) (3). Ma 1' e(]uivalenza di primo e di anteriore a principio è sovratutto evidente in Met. 1. XI. I. 11-12: 4( L' Uno e l'Essere possono specialmente riguardarsi come cou tenenti (1) V. Mei, 1. XIII. VI. (2) Mei. 1. XIV. IV. 4: « È Btrauu che al pnmo cil eterno e suf- ficientissiino a se stesso, questi stessi attributi primi, la suffi- cienza a se stesso e 1' eterna censervazione, non appartengane in quanto ò bene. Dunque è conforme alla ragione che sia vero affermare che il principia è tale (cioè è il Bene), ma è impossi- bile ohe sia 1* Uno in sé.... Ne segue una grave ditticoltà, che al- cuni hanno cercato di evitare, riconoscendo ohe l' Uno è il primo pHncipio ed elemento, ma del numero matematico ». (3) Questa equivalenza tra anteriore e principio di ciò a cui si dice anteriore, si vede pure in Met. 1. XIII. Vili. 28, cioè nel luogo citalo al n. 2**, in cui si dice che le unità della Dualità, somigliando al primo principio, cioè l'Uno in sé, più della Dua- lità stessa, dovrebbero esserle anteHori. — 329 — tutti gli esseri, e sembrare si>ecialmente pnncépie per es- sere primi di natura. Tolti infatti essi, sono tolte anche {<rvi^ai/ai{)Bitai) le altre cose, poiché tutto è uno ed essere (Perchè dall'esser primo, cioè anteriore a tutto il resto, seguirebbe essere il principio assoluto, se non perchè l'an- teriore è il principio di ciò a cui è anteriore?)... In quanto le specie sono tolt« tolti i generi {avt^ayaiQBizai zoìg yéyeai)^ più sembrano principii i generi che le specie. Principio infatti è rò (Tvi^ai^ai()ovyy> — vale a dire ciò tolto il quale è tolto anche ciò di cui si dice principio— .La definizione di principio è dunciue la stessa che quella di anteriore. In tutti questi luoghi, riferendosi essi alle dottrine plato- niche, Aristotile deve usare sì il termine primo che il termine principio nel significato platonico. In Top, 1. IV. I. 10, in cui non deve usarli, a dir vero, nel senso pla- tonico, ma in quello certamente del linguaggio filosofico dell' epoca (e che è comune perciò anche ai platonici), dice : <( Ciò che è principio è pvimo, e ciò che è primo è principio » (1). Ora, ripetiamolo, se principio, nel senso assoluto, cioè di primo principio, è il sinonimo di jpr/mo, cioè di quest'altro assoluto il cui relativo corrisi)ondente è anteriore^ principio nel senso relativo deve essere si- nonimo dell'altro relativo, cioè di anteriore. In altri ter- mini, come ciò che è anteriore a tutio il resto è il prin- cipio di tutto il resto, così ciò che è anteriore ad un'al- tro sarà il principio di quest'altro a cui si dice anteriore. Indipendentemente dal significato dei termini ante^ (1) Anche in Anal. Pont. 1. I. II. 11 Aristotile dice: «Lo stesso dico primo e principio »; ma noi non possiamo tirarne al- cuna deduzione sul significato platonico di questi termini, perchè qui parla della sua propria terminologia, e relativamente alla sua teoria della dimostrazione. 330 — — 331 — riore (o primo) e posteriore^ abbiamo altre prove in A- ristotile che dimoBtrauo che Platone considera le Idee più universali come principu delle Idee più particolari. La principale è che i platonici chiamano i generi priìi- cipii dello specie, e per conseguenza anche deglMndividui compresi nelle specie — (per specie qui deve intendersi, come si vedrà dal seguito, le specie infime). In MeL III. I Aristotile enumera le quiationi dubbiose che il filosofo deve esaminare, e una delle quistioni è questa: « E se i principii e gli elementi sono i generi, o gl'ingredienti nei quali si scompone ciascuna cosa. E supposto che i generi, se gli ultimi che si predicano degl' iudiviJui o i primi; p. e. se Panimale o l'uomo è principio ed ha più essere (^à'A'Aòy èazi) al di là del singolare (na()à zò xa*' exaazo»^ — è uno dei modi con cui Platone esprime la relazione tra le Idee e le cose)—» (1). Questa quistione non è un sem- plice dubbio che si propone Av'stotile, ma ha un fon- damento storico. Infatti in Met. 1. V. IH. 5, parlando dei significati della parola elemento, dice: < Alcuni chiamano elementi i generi, e più che la differenza, perchè il ge- nere è più universale > (elemento per i platonici è sino- nimo di principio — v. Met. XIV. IV. 8). E in Met. Vili. I. 3, indicando le cose che sono riguardate come so- stanze : € Avviene a un altro punto di vista il genere essere più sostanza delle specie, e l'universale dei par- ticolari >(ciò che corrisponde al fzàkkóy iati di Met. III. 1. 9). Ora questi generi, che sono riguardati come principii, come elementi ii come piii sostanze delle specie, non sono eviden- temente dei semplici concetti, ma dei concetti obbiettivati, cioè delle Idee: questa è dunque una dottrina platonica, perchè noi non possiamo attribuire le Idee che a Platone, e d'altronde essa non si comprende che in relazione alla dieresi platonica, cioè come una trasformazione in un legame ontologico del legame logico tra le Idee generiche e le Idee specifiche (1). Ma se l'una delle due soluzioni della quistione che ci presenta Aristotile (cioè che prin- cipi i ed elementi sono i primi generi, vale a dire i generi nel senso stretto), è una dottrina filosofica della sua epoca, non ne segue che lo stesso deve dirsi del- l'altra (cioè che principii ed elementi sono i generi ul- timi, vale a dire le specie). Questa seconda soluzione, che non è che l' antitesi della tesi platonica, Aristotile la propone per indicare che la proposizione che i gene- ri sono principii e più sostanze delle specie non è una (1) Met. III. I. 9. (l) Per Platone le Idee generiche danno più essere e sono piil sostanze delle Idee specifiche, perchè per lui 1' essere e la so- stanza delle Idee specifiche sono contenuti in certo modo in quelli delle Idee generiche. Ciò è perchè le Idee specifiche si deducono dalle Idee generiche, e per conseguenza esistono im- plicitamente in queste e non ne sono che un' esplicazioìie L la stessa ragione per cui Platone dice che tutto è uno, e, egli stesso o alcuni discepoli, ohe tutto l'essere è nei due principii (Confr. ( 13 n. 4 e 5). La sostanza, disseminata nel momento posteriore, esiste, concentrata, nel momento anteriore, perchè l'Idea si svi- luppa passando dall'uno al multiplo. Chiamando le Idee gene- riche elementi, Platone esprime, al fondo, lo stesso concetto, per che questa dcuomiuazione implica che tutto il reale delle Idee specifiche e delle cose si risolve nelle Idee generiche (confr. 13. n. 5.) Così tanto la denominazione di elementi quanto quella di pia sostanze delle Idee specifiche equivalgono, in ultima analisi, all'altra di 2>W«c*/>/i: ogni principio è j^ev Vìeitoné elemento e piic sostanza di ciò di cui è principio, perchè le cose derivate non sono per lui ohe le cose stesse da cui derivano, e la derivazione non è che uno sviluppo, cioè uno svolgimento o, come abbiamo detto, una esplicazione. ^ • — 332 - (/ conseguenza necessaria della dottrina delle Idee, e che le dottrine platoniche forniscono anche dei motivi per sostenere la proposizione contraria, cioè che le specie sono più principii e più sostanze dei generi (1). La qui- stione se i principii siano i generi o le specie si ritrova in Met Xr. 1. 12 (2) e ITI. IH. 7-13. In quest'ultimo luogo j- ri- L (1) Nella maniera iu cui la presenta Aristotile, la tesi che gli elementi e i principii sono i generi (e non gì' ingredienti) sem- brerebbe la dottrina comune di due sistemi HIos liei, di cui l'uno ammetterebbe che elementi e principii sono i generi primi, e l'altro i generi ultimi. Ma il vero è che tutti quelli ohe sosten- gouo questa tesi non la intendono ohe in una sola delle due forme indicato da Aristotile, vale a dire ammettono che questi elementi e principii sono i iroiu'ri primi, cioè i generi propriamente detti. Ciò si vede nel III cap. dello stesso lib. Ili, in cui Aristotile ripre- senta con più sviluppi la quistione se principii ed elementi siano i generi o gì' ingredienti. Ivi, esponendo le ragioni in appoggio dello due proposizioni contrarie, è cosi che dice sulla prima: «In quanto conosciamo ciascuna cosa mediante le definizioni, e i ge- neri sono principii delle definizioni, è necessario che i generi siano anche principii delle cose definite. E se avere la scienza degli esseri è avere quella delle specie secondo cui gli esseri sono nominati, i generi, di certo, sono i principii delle specie. i^ (Met. III. Ili, 4). È appena bisogno di osservare che queste ragioni su cui si appoggia la proposizione che i principii sono i generi, proverebbero abbastanza — se fossero necessarie altre prove ohe la proposizione stessa— ohe si tratta di una dottrina dolla scuola platonica. In seguito vedremo che le ragioni su cui è appog- giata r altra pretesa forma della tesi, cioè che i principii sono i generi ultimi e non i primi, sono desunte anch'esse, quantunque forzatamente, dalle dottrine platoniche. (2) <* Se più è principio ciò che è più semplice che ciò che lo è meno, siccome le ultime delle cose che vengono dal genere {là Igxo-io. i(bv £x zov yéyovg, vale a dire: le ultime entità che il dividente ricava dalla diviene del'genere, in una parola le — 333 — si ripete negli stessi termini la quistione di III. I. 9, cioè se, supposto che i principii ed elementi siano i generi e non gl'ingredienti, deve ammettersi che sono i primi generi o gli ultimi; ma per primi generi s'intende i primi nel senso più stretto, cioè il genere sommo di Platone, rUno o Essere, che Aristotile, seccmdo la sua abitudine, sdoppia in due generi distinti, V uno e 1' essere. Però questa dottrina che i generi supremi, cioè l'uno e l'es- sere, sono i principii primi delle cose, è riguardata come un'applicazione della dottrina più generale che i prin- cipii sono i generi (1), e come legata solidariamete con specie infimo) sono più semplici dei generi — esse infatti sono in- divisibili, mentre i generi si dividono in molte e diffsrenti spe- cie —, più le specie ohe i generi sembrerebbero essere principii. Ma in quanto le specie sono tolte tolti i generi, più sembrano principii i generi: principio infatti è ^ò av^ai^aiQovìf)^ (v. più su, questo paragr. n. 3, in cui è già stata citata 1' ultima parte di questo luogo). Si osserverà facilmente che gli argomenti tanto per l'una quanto per l'altra delle due tesi contrarie sono tirati da dottrine platoniche. La ragione in appoggio della prima tesi, che « più è principio ciò che è più semplice ohe ciò che lo è meno», è una deduzione forzata dalla dottrina eh e il primo principio è l'Uno in sé (confr. Met. III. III. 10). (1) < Non è possibile che 1' uno sia un genere degli esseri, e nemmeno l'essere. È necessario infatti ohe le differenze di cia- scun genere siano e ciascuna sia una. Ma è impossibile tanto che le specie di un genere si predichino delle proprie differenze, quanto che sé ne predichi il genere separatamente dalle sue spe- cie. Per cui se l'uno o l'essere è un genere, nessuna differenza sarà una uè essere. Ma se non sono generi, non saranno nem- meno principii, se sono i generi che sono principii » (Met. III. III, 8). — È evidente ohe in questo luogo la parola genere deve intendersi nel senso stretto, cioè come quello a cui sono subor- dinate delle specie. essa: infatti confutando la prima dottrina, Aristotile fa delle obbiezioni, che non hanno di mira direttamente essa stessa, ma la seconda, perchè vogliono dimostrare che le specie sembrano principii più che i generi (1). La (1) 4 Oltre a ciò le differenze saranno principii piìt che i ge- neri. Ma se anche esse sono principii, i principii ♦ per dir così, diventano infiniti, specialmente se si pone come principio (cioè come principio primo) il primo genere. (Questo luogo prova ohe le differenze secondo i platonici non sono principii, com yotrebhe sembrare da Met. V. III. 5, luogo citato, in cui si dice che € alcuni dicono elementi i generi, e piìi che le differenze» I platonici non possono riguardare le differenze né come principii né come ele- menti, perchè essi nou le considerano come delle entità sussi- stenti per sé stessi, in una parola come delle Idee. — Alessandro d'Afi^disia, in phil, pr. III. 40, commentando questo luogo, nota che Aristotile combatte la dottrina che i generi sono principii, perchè nel suo pensiero essa è legata con quella che sta confu- tando, cioè che i principii primi sono i generi sommi). E te l'uno ha più natura di principio, Tuno essendo l'indivisibile... e i generi essendo divisibili in specie, sarà più uno l'ultimo predicato (cioè, la specie infima— e quindi sarà più principio che il genere. Cfr. Met. XI. 1,12, luogo citato a p. 332.) L'uomo infatti non è un genere degl* individui (quindi, non si divide in essi come un genere nelle specie —V. per tutto questo periodo il comm. d'Aless. d'Afrod., I, 41), Inoltre nelle cose in cui vi ha anteriorità e posteriorità (non nel senso tecnico aella filosofia platonica che abbiamo spiegato) nou è possibile che ciò che si predica in comune di esse sia qualche cosa al di là di esse fnaoà zai^ra— cioè sene faccia un'entità distìnta): p. e. la dualità essondo la prima dei numeri, non vi sarh un Numero (generico) al di là (ntroà) delle specie dei numeri; e similmente non vi sarà una Figura al di là delle specie delle figure (si al- lude a un' argomento capzioso dei platonici, fondato sul doppio senso delle parole anteriore e posteriore, per escludere le Idee generiche dei numeri e delle figure — v. il commento d' Aless. d'Aphrod., I, 42, e confr. Suppl. (C. IIDMa se di queste cose non - 335 - prima dottrina essendo incontestabilmente platonica, deve esserlo anche la seconda; e del resto basterebbe a provarlo la natura degli argomenti che servono a com- batterla, perchè questi non potrebbero avere del valore che per un platonico, e non si comprendono che come argomenti ad hominem. In questa discussione del 1. 3** cap. 3<* della dottrina che i principii primi sono i primi generi, cioè 1' uno e 1' essere, questa dottrina viene ri- guardata, non solo, come abbiamo detto, come un' ap- plicazione di quella che i principii sono i generi, ma come una conseguenza del presupposto che il più univeisale è sempre principio del più particolare (1). Evidentemente vi hanno dei generi al di là (nagà) delle specie, molto meno ve ne saranno delle altr^; di queste cose infatti sembra massimamen- te ohe vi siano dei geperi. Tra gl'individui invece non vi ha ante- riorità e posteriorità {p per conseguenza ciò che si predica in comune di essi, cioè la specie, può essere alcun che al di là di essi, vale a dire può farsene un'entità distinta). Di più dove c'è un meglio e un peggio, il meglio è sempre anteriore ; per cui di tali cose non potrebbe esservi genere. Per queste ragioni dunque le specie ehe si predicano degl'individui, sembrano essere principii più che i geneH, > (Met. 1. III. III. 9-12). (1) € Se infatti gli universali sono sempre più principii, (vale a dire: se più un'entità è universale, e più è principio) è chiaro ehe saranno principii i generi sommi; perchè questi si predicano d'ogni cosa. » (Met. 1. III. IH. 7.) Il principio e la causa deve essere al di là (^nagà) delle cose di cui è principio, e poter essere separato (^^o)Qi^ofiéyr^y) <ia ©ss® (sono due espressioni platoniche per indicare ohe il comune si astrae e se ne fa un'entità distinta — v. Supp. B. parto 1. n. VI. sulla fine e parte II. n. II). Ma perchè si ammetterebbe esservi alcun che di tale al di là (nagà) dei particolari, se^non perchè si predica in universale e di tutti t Ma se per ciò, i più univer- sali più si devono porre principii (xà fÀàkkoy xa&ókov ^àkXoy 'liL questa proposizione non è certo la base della dottrina che i primi principii sono i concetti universalissiniì, ma an- che di quella che le Idee generiche sono i principii delle Idee specifiche. Se Aristotile la indica solamente come il presupposto della prima, è perchè nella sua esposizionedel sistema platonico, come del resto nelle opere stesse di Platone, tiene più posto la dottrina che tutte le Idee derivano dalle Idee universalissime, che quella più ge- nerale di cui essa non è che un caso, che le Idee più particolari derivano sempre dalle Idee più universali (1). ^Bxéoy àgyàg, cioè iiua cosa più universale più si deve porre principio che unii meno universale) ; per la qual cosa principii saranno i primi generi. » (13). Più principio non può voler dire ohe : un principio più pri- mitivo, Sicché la proposizione che i più universali sono più principii significa che gli universali di diversi gradi formano una scala di principii, in cui il più generale è un principio più pri- mitivo che il più particolare. Ma ciò alla sua volta non può voler dire altra cosa se non che questi principii derivano gradatamente gU uni dagli altri, il più particolare dal più generale ; non i»uò avere, in altri termini, altro senso che quello che noi abbiamo spiegato déìV anteriorità e posteriorità, (1) Le Idee generiche essendo i principii delle Idee specifiche, ne sono anche le causCy perchè principio e causa sono dei termini perfettamente equivalenti, tanto per Platone quanto per Aristotile. Così in Met.l. V. XVIII. 7, troviamo la proposizione: € L'uomo ha molte cause, l'animale, il bipede », che noi non possiamo che ri- ferire ai platonici, perchè evidentemente implica la realizzazione dei concetti di animalo e di bipede. (In questo luogo . come al- trove, p. e in Met. 1. IX. 9, per bipede non devo intendersi la dif- ferenza dell'uomo, perchè le differenze per Platone non sono I- dee, ma un genere subordinato ad animale e superordinato ad uo- mo). Il concetto che le Idee più generali sono i principii dello più particolari, è espresso pure indicando il rapporto delle Be- ll concetto indicato in Met. III. Ili, che il più generale è sempre il principio del più particolare, è quello che rias- sumo tutto il sistema platonico. Le Ideo (cioè le Specie) sono i principii delle cose, le Idee più universali i prin- cipii delle Idee più particolari, e il principio primo è l'Idea univcrsalissima del Bene, identico all' Uno e al- l'Essere. Per questo concetto il sistema platonico ha una più grande coerenza che le altre forme del realismo dia- lettico. Perchè il processo per cui l'Idea più astratta si astrae dalla più concreta^ e il processo inverso per cui l'Idea più concreta deriva dalla più astratta, non sono che urni continuazione di quelli per cui le Idee si astrag- gono dalle cose, e le cose derivano dalle Idee. In una parola la stessa rehizione di universale a particolare, che vi ha fra le Idee e le cose, vi ha tra i gradi suc- cessivi dello sviluppo delle Idee. Ma più che V identità che la relazione tra le Idee più universali e le più par- conde alle prime con la preposizi<me ^^ ^^^ significa evidente- mente una derivazione. Così rà U tov ytyov:; "cl luogo citato nella quartultima nota, Met. 1, XI. 1. 12, come altrove (p. e. in Categ. X. e Top, 1. VI. IV. li. in cui Aristotile parla souza dubbio alla plutonica) per dire : i generi inferiori e le specie di uu genere. Si noti che iu questo stesso mi lo troviamo frequentemente e- spressa la derivazione delle Idee e delle cose dai duo principii primi. I numeri ideali e le altre entità sono, o vengono, o i pla- tonici li fanno, l^ t(ò,f ct^jjfO)//, ix to\) fcVò^ xat zfjg àoQtatov ^vàdog, tx Tov iyóg o £X tf}^ àogiazov óvàóo^ semplicemente, ecc. V. Met. XIII. IX. 7, XIII. X. 8, XIV, IV. 6, XIV. 5 3-5, 1 IX. 16, III. IV. 30, XIII. VI. 5, VII. 3-4, IX. 10. X. 5-6, XIV. II. 3, III. 11-12, IV^. 3, eoe. In alcuni luoghi, come nei quattro primi citati, è chiaro che questa derivazione indicata dalla pro- posizione l-x non è uu i semplice composizione da elementi.,22 — 838 — ' ticolari ha col rapporto tra le Idee e le cose, a noi im- porta di notare quella che essa ha col rapporto tra l'Idea del Bene e tutte le altre Idee. Noi troviamo in Aristotile le stesse formule per esprimere la relazione tra il Bene e le altre Idee e per esprimere quella tra le Idee più generali e le più particolari subordinate. Come l'Uno o Bene è princi- pio e causa di tutte le Idee, così le Idee generiche sono principii e caìise delle Idee specifiche (Cfr. questo paragr. col paragr. 14) L'Uno o Bene è elemento di tutto ciò che e- siste, ed ha più essere delle cose che ne risultano (perchè tutto è uno, e l'essere sta tutto nei due principii): le Idee generiche sono elementi anch'esse, ed hanno più essere che le Idee specifiche, (confr. § 13. n. 4 e 5. e questo §, nota a p. 331). La derivazione di tutte le cose dall'Uno e l'e- lemento materiale è indicata chiamandoli primi e ante- riori a tutte le altre cose, (cfr. questo paragr. nota 3 a p. 314 e n. 3« in principio) : la derivazione delle Idee più par- ticolari dalle Idee più generali è pure indicata coi ter- mini anteriore e posteriore. L' Uno e la Dualità indefi-nita generano tutti i numeri ideali, e questi sono pure generati gli uni dagli altri, quelli che corrispondono alle idee più particolari da quelli che corrispondono alle Idee giù generali, (confr. M4r e questo § n. 2«) La derivazione delle entità più particolari delle entità più universali è anche rappresentata come i gradi successivi di uno svi- luppo, e questa rappresentazione significa pure la deriva- zione di tutte le cose dal primo principio, perchè il primo principio è il primo grado, il punto di partenza, di questo sviluppo (confr. questo § n. 1^). Infine la prepiìsizione |x indica tanto la deriva zione di tutte le cose dai principii primi quanto la derivazione delle Idee più particolari dalle Idee più universali, (cfr. n. 1 a p. 336). Tra le formule che esprimono il rapporto di tutte Idee coi primi principii, una sola non trova la corrispondente tra quelle che esprimono il rapporto delle Idee più particolari con le Idee più ge- — 339 — nerali: è la riduzione dei due principii l'uno all'essenza e l'altro alla materia di tutte le Idee, destinata a con- ciliare la teoria pitagorica dei due elementi coi presup- posti della dialettica platonica. Questo parallelismo tra le due serie di formule prova d' una maniera evidente l'identità dei rapporti che esse esprimono, e non lascia alcun luogo a dubitare che la derivazione delle Idee più particolari dalle Idee più universali sia altra cosa che quella di tutte le Idee dall'Idea universalissima. Sia che indichino Tuna, sia che indichino l'altra, esse non pos- sono significare che una sola e stessa cosa : 1' obbietti- vazione del nesso logico tra il principio e la conseguenza e la sua identificazione con quello ontologico tra la causa e l'effetto (1). (1) Le espressioni che indicano la derivazione di tutte le Idee dal principio essenziale (l'Uno o il Bene), indicano egualmente la derivazione di tutte le Idee dal principio materiale (la Dualità indefìnita). È che il rapporto delle Idee con l'uiìo dei due prin- cipii non può differire in sostanza dal loro rapporto con Ta'tro. Platone, considerando come genere e come Idea V uno solo di questi principii (perchè la dieresi esige un punto di partenza u- nico)t riguarda necessariamente esso solo come primo principio logico (perchè la deduzione non è che la dieresi) e quindi come causa prima (perchè il rapporto tra la causa e V efietto non è che il rappoi*^o tra il principio e la conseguenza). Ma in realtà il principio ch'egli chiama materiale ha lo stesso dritto ad essere riguardato come jirimo principio di tutta la deduzione, o per con- seguenza come causa prima. Infatti anche per esso si verificano le due condizioni per cvù un' entità deve essere riguardata come il principio logico e come la causa di altre entità: è che queste ne siano delle specificazioni, e che ne siano tutte le specifica- zioni logicamente possibili (v. } 19 e 20). Se Platone non attri- buisce propriamente la funzione di primo principio logico (cioè di punto di partenza della dieresi) e la causalità che al princi- i %\ - 340 - § 24. Noi termineremo l'esposizione del sistema pla- tonico, mostrando come l'identificazione del rapporto tra il principio e le conseguenza con quello tra la causa e 1' effetto, è l' idea madre, e, per dir cosi, il germe di questo sistema. Siccome tutti gli altri sistetni di realismo dialettico derivano dallo stesso germe e dalla stessa idea madre, ciò sarà mostrare al tempo stesso come i carat- teri generali di questa forma di metafìsica siano le con- seguenze di questa identificazione. Il sist>ema platonico, e in generale ogni sistema di realismo dialettico, si riduce a due dottrine : le astra- zioni realizzate, che Platone chiama Idee, e il metodo dialettico. Noi indicheremo dunque successivamente come 1' una e 1' altra, considerate nei loro tratti generali, ri- sultano dal concetto di causalità che è l'origine di que- sta filosofia. I. Bealiszazione delle astrazioni. Questa, come ab- biamo detto nel J 3®, è necessaria per due ragioni : 1"* Il realismo dialettico, come qualsiasi altra fomia di filoso- fia apriorista, non pretende di scoprire a priori o di de- durre i fenomeni e gli oggetti individuali con le loro cir- costanze particolari, ma ciò che vi ha di costante e di generale nella natura — questo è infatti l'oggetto della conoscenza scientifica, e la filosofia apriorista non aspira che a riprodurre il contenuto stesso della scienza posi- tiva, dando a questo contenuto la forma dell'apriorità e della necessità—. Per conseguenza il realista dialettico di- stingue due elementi in ciò che noi chiamiamo il reale, pio ohe egli chiama essenziale, egli non può farlo che arbitra- riamente e, per dir così, verbalmente : il suo scopo è di soddi- sfare in un certo modo all' esigenza della sua dialettica, che è l'unità di principio, in contraddizione con la sua nuova dottrina della dualità, che egli deve ai pitagorici. « — 341 — vale a dire nella realtà empirica: l'elemento costante e generale, eh' è il solo che egli ammette che sia deduci- bile e necessario, e V elemento particolare e variabile, che è per lui non deducibile e contingente. Questi due elementi del reale non sono separabili, al punto di vista comune, che per una semplice astrazione mentale; ma egli deve ammettere che il primo ha in realtà un' esi- tenza indipendente e distinta da quella del secondo, per- chè ciò che egli deve dedurre sono degli esseri reali, e non delle proposizioni o delle semplici astrazioni men- tali — ciò che è la condizione indispensabile perchè la deduzione rappresenti una derivazione reale, cioè un rap- porto di causa e di effetto—. P. e. Platone deve dedurre e dimostrare a priori che esistono le specie degli uomini e dei cavalli, coi caratteri costanti e generali di queste specie, ma non che esistono, sono esistiti ed esisteranno i dati uomini individuali e i dati cavalli individuali del mondo reale, coi caratteri particolari di ciascun indivi- duo, e gl'incidenti particolari della sua esistenza. L'ele- mento costante e generale di queste specie, distinto dal- l'elemento particolare e variabile, cioè individuale, non è, al punto di vista comune, che un'astrazione mentale; ma Platone deve considerarlo come reale, quantunque astratto, perchè è esso solo, isolato dall' elemento indi- viduale, che egli deve dedurre, e ciò che egli deve de- durre deve es$ere una realtà, e non una semplice astra- zione mentale. Se egli non lo deducesse isolato dall'ele- mento individuale, la sua deduzione non potrebbe rap- presentare una derivazione reale, un nesso ontologico di causa ed effetto, e non semplicemente logico di princi- pio e conseguenza. Supponiamo infatti che quando egli pone, deduceudole dai principi! che ha posti precedente- mente, la specie dell'uomo e quella del cavallo, i reali eh' egli intende porre cim questa sua deduzione siano i cavalli e gli uomini individuali dati del mondo dell' esperienza: questa deduzione non potrebbe rappresentare una derivazione i-eale delle cose dedotte da quelle da cui si deducono, perchè i cavalli e gli nomini indivi- duali dati del mondo dell'esperienza, che sono, secondo Platone, contingenti e indeducibili, non ijotrebbero es- sere la conseguenza necessaria delle cose da cui si de- durrebbero, e quindi nemmeno Veffetto, perchè l'effetto è ciò che è dato necessariamente data la sua causa. Que- sti reali eh' egli deve porre, deducendoli da quelli che ha posti precedentemente, devono essere dunque ciò che vi ha di generale e di costante nelle specie degli uomini e dei cavalli, astratto da ciò che vi ha in esse di par- ticolare e di variabile, cioè d' individuale ; perchè ciò solo, per Inr, è una conseguenza necessaria dei principii già posti, e può quindi, essendo una realtà e non una semplice astrazione mentale, considerarsi come un ef- fetto di cui questi principii sono la eausa. Ciò che vi ha vdi costante e di generale nelle specie degli uomini e dei cavalli, astratte» da ciò che vi ha in esse d'individualee di variabile, e considerato, in questa astrattezza, come una realtà, è ciò che Platone chiama l'Idea dell'uomo e quella del cavallo. L'Idea dell'uomo e del cavallo sono dunciue le specie stesse degli uomini e dei cavalli, astra- zion facendo dal loro elemento contingente e non dedu- cibile, e considerate nel solo elemento necessario e de- ducibile : sono queste specie stesse, perchè ciò che Pla- tone intende dedurre è il mondo reale stesso, quello che è l'oggetto della nostra esi)erienza, di cui è costretto a negligere certe circostanze, perchè le ritiene non dedu- cibili. Queste circostanze che si devono negligere, e fatta astrazione delle quali, il residuo è l'Idea, sono le parti- colarità e l'esistenza stessa degl'individui; ciò che resta è il tipo dell'uomo e del cavallo : quello che è necessa- rio e deducibile è che, nella realtà, questo tipo esista; che esso si effettui in tali o tali altri individui determi- i\ f* — - nati, ed anche in tale o tale altro numero determinato d'individui, questo è non deducibile e puramente con- tingente. Questi tipi, astratti dalle particolarità degl'in- dividui in cui si manifestano, ed anche da qualsiasi nu- mero o moltiplicità d'individui, e considerati, in questo stato d'astrazione, come reali, sono le Idee. Deducendo le Idee, Platone intende dedurre le specie stesse del mondo dell'esperienza — e infatti, come abbiamo detto, ciò che egli deve dedurre è il mondo reale —, perchè le Idee sono per lui queste specie stesse, senza certe de- terminazioni con cui ci sono date nel mondo dell'espe- rienza : l' Idea è la specie allo stato astratto, la specie l'Idea allo stato concreto, cioè l'Idea a cui si aggiunge la determinazione del numero e le differenze che distin- guono ciascuno dei multipli cosi ottenuti, vale a dire la posizione in un punto determinato del tempo e dello spazio, i caratteri individuali, gì' incidenti della storia di ciascun individuo, ecc. Di più, non solo l' Idea è la stessa cosa die la specie, che solamente si concepisce astrazion facendo da alcune delle sue determinazioni; ma la specie, in quanto è veramente reale, non è che l'Idea. Tutte queste determinazioni che, aggiunte all' I- dea, costituiscono la specie, non sono veramente reali, perchè non sono dedotte : infatti il realista dialettico deve dedurre tutto il reale, perchè la sua deduzione rap- presenta il modo essenziale di produzione dell'universo reale ; quindi ciò che non può dedursi non può essere per lui veramente reale (1). La specie, come complesso d'individui, è dunque un fenomeno, un'apparenza, quan- tunque obbiettiva, la cui realtà è l' Idea ; e il mondo delle Idee non solo è il mondo stesso dell' esperienza, (1) V. Suppl. B parte 1», n. IX. -344— considerato astrazion facendo da alcune delle sue deter- minazioni, ma è tutto ciò che vi lia di reale in questo mondo dell'esperienza. Tutto ciò che abbiamo detto in questo numero si applica tanto al sistema di Platone quanto a quelli di Hegel o di Taine, e in generale a tutti i sistemi che obbiettivano i concetti e in cui que- sta obbietti vazione è unita al metodo dialettico. I con- cetti obbiettivati, in tutti questi sistemi, rappresentano 1' elemento necessario e deducibile del mondo, astratto dall'elemento indeducibile e contingente^ e considerato, in questa astrattezza, come reale e come la sola cosa che sia veramente reale. Noi spiegheremo in seguito perchè questi filosofi vedono quest'elemento necessario e dedu- cibile del mondo precisamente nei concetti obbiettivati. 2.* Nella deduzione la ccmseguenza, o piuttosto l'insieme delle conseguenze, non è che il principio stesso in una forma, più detcrminata o più concreta. I fatti reali che corrispondono alle conseguenze sono gli stessi che i fatti reali che corrispondono ai principii, semplicemente i prin- cipii esprimono questi fatti d' una maniera più astratta o più indeterminata, le conseguenze d'una maniera più concreta o più determinata,. Così, se non vi ha altro di reale che il singolo, i fatti particolari dell' esperienza, al progresso nella deduzione non corrisponderà alcun progresso nelle cose stesse ; passando dal principio alla conseguenza, non si passerà dall'aftermaziono d'un reale a quella di un altro reale ; il reale affermato sarà sem-pre lo stesso; prima espresso d'nna maniera più astratta o più indeterminata, poi d' una maniera più concreta, o più det,erminata Allora la deduzione non rappresenterà una derivazione reale, o, ciò che è lo stesso, il rap- porto logico tra il principio e la conseguenza nou jiotrà identificarsi al rapporto ontologico tra la causa e l' ef- fetto, perchè questa identificazione suppone che da un reale si deduca un altro reale, la causa e 1' effetto essendo due fatti reali, distinti e separati l'uno dall'altro. Ciò che 8i è detto è vero tanto nell'ipotesi del nomina- lismo quanto in quella del concettualismo: nella seconda ipot-esi alle proposizioni che fanno da principii corrist)on- deranno dei concetti più astratti; a quelle che fanno da conseguenze dei concetti meno astratti ; ma le realtà rappresentate da questi concetti saranno sempre le stesse realtà, che i concetti corrispondenti ai principii pense- ranno d' una maniera più astratta, e quelli corrispon- denti alle conseguenze d' una maniera meno astratta. Così il progiesso dal più astratto al meno astratto, dal più indeterminato al più deteiminato, avverrà solamente nel nostro pensiero e non nella realtà stessa, e la dedu- zione non potrà rappresentare una derivazione reale, perchè, passando dal principio alla conseguenza, non si passerà da un reale ad un altro reale, ma il reale affer- mato sarà sempre lo stesso, che solamente si pensem ora d'una maniera più astratta o più indeterminata, ora d' una maniera più concreta o più determinata. Perchè dunque la deduzióne sìa una derivazione reale, e il rap- porto tra il principio e la conseguenza s'identifichi col rapporto tra la causa e l'effetto, è necessario che al no- minalismo o al concettualismo si sostituisca il realismo, cioè che si amfuetta che l'astratto e l'indeterminato ha un' esistenza per sé, indipendente e distinta da quella del concreto e del determinato. Allora il progresso dal più astratto o più indeterminato al più concreto o più determinato avrà luogo nella realtà stessa, e non sola- mente nel nostro pensiero ; passando dal principio alla conseguenza, si passerà da un reale ad un altro reale, e non semplicemente da un'espressione o rappresentazione a un' altra es[>ressìone o rappresentazione dello stesso reale; e deducendosi un reale da un altro, la deduzione rappresenterà una derivazione reale, perchè il principio e la conseguenza saranno due realtà distinte, come sono aa«a — 346 — ' due realtà distinte la causa e 1' effetto a cui si cerca d'identificarli. Tutto ciò ha la sua applicazione più evi- dente nel sistema platonicOo La dialettica platonica con- siste a dedurre da un genere le sue specie, p. e. dall'a- nimale Taniraale immortale e l'animale mortale, dall'a- ni male mortale Tanimale propriamente detto e la pianta, dall'animale propriamente detto quello provvisto di piedi e quello senza piedi, ecc. Essa pretende che se l'animale è, sono anche necessariamente l' animale immortale e rlnimale mortale; che se l'animale mortale è, sono an- che necessariamente l' animale propriamente detto e la pianU, e così via; e vede perciò neir ani. naie il princi- pium essendi o la causa dell' animale immortale e del- l' animale mortale, nell' animale mortale il principium essendi o la causa dell' animale propriamente detto e della pianta, e così via. È evidente che se non esistes- sero che degli animali individuali, se animale, animale mortale e animale immortale, pianta e animale propria- mente detto, ecc. non fossero che dei termini generali o dei concetti generali ; deducendo dall' animale 1' ani- male immortale e l' animale mortale, dall'animale mor- tale l'animale propriamente detto e la pianta, ecc., que- stui deduzione non potrebbe avere alcuna pretesa a rappresentare una derivazione reale, in altie parole il principio e la conseguenza non potrebbero identificarsi alla causa e all'effetto. < Se l'animale è, sono anche ne- cessariamente l'animale immortale e l'animale mortale », significherà semplicemente che se una proposizione è vera, sarà vera necessariamente anche un'altra proposi- zione, ovvero che se un concetto è vero, cioè è con- forme alla realtà, saranno anche necessariamente veri, cioè conformi alla realtà, altri concetti ; ma non potrà significare che se un reale esiste, esistono anche neces- sariamente altri reali. Gli oggetti reali che si afferme- ranno dicendo € l'animale esiste », saranno gli stessi che gli oggetti reali che si affermeranno dicendo « l'animale immortale e l'animale mortale esistono »; semplicemente questi oggetti reali la prima volta saranno espressi o rap- presentati d'una maniera più astratta o più indeterminata, la seconda volta d'una maniera più concreta o più de- terminata. Il legame tra il principio e la conseguenza non sam dunque ontologico, perchè non si dedurranno dei i-eali da nitri reali differenti^ ma sarà semplicemente logico. Ammettiamo invece, come vuole Platone, che oltre agli afaimali concreti e individuali, vi siano degli animali astratti e generali; che i termini animale, ani- male mortale e animale immortale, ecc. designino cia- scuno un essere reale distinto da tutti quelli designatidagli altri. Allora il progresso dal più indeterminato al più determinato avrà luogo nella realtà egualmente che nel nostro pensiero, e la deduzione rappresenterà una derivazione reale, perchè deducendo dall'Animale l'Ani- male immortale e l'Animale mortale, dall'Animale mor- tale l'Animale propriamente detto e il Vegetale, ecc., si dedurianno sempre dei reali da altri reali distinti; per- ciò fra il principio e la conseguenza il legame non sarà semplicemente logico, ma anche ontologico, poiché, il principio e la conseguenza essendo delle realtà distinte, il principio non sarà semplicemente il principium cogno- scendi y ma anche il principium essendi, ciò che vorrà dire che il principio sarà in qualche sorta la causa, e la conseguenza l' effetto di questa causa. Ciò che ab- biamo detto in questo numero ci mostra al tempo stesso due condizioni necessarie di una filosofia, che è fondata sulla identificazione del rapporto tra il principio e la conseguenza con quello tra la causa e l'effetto: l'una che si realizzino le astrazioni, e l'altra che queste astrazioni realizzate formino una scala di astrazione decrescente, in modo che la deduzione vada sempre da entità piùastratte ad entità meno astratte, e queste entità più a- stratte e meno astratte siano gli stati logicamente sue- s ^1 r — 348 - l cessivi di una stessa realtà, che passa progressiva- mente da uno stato più astratto a uno stato meno astratto (anteriorità e posteriorità di natura). Questa seconda condizione l'abbiamo anche trovata in Hegel e in Taiue e la ritroveremo in Spinoza, e possiamo considerarla come un carattere generale del realismo dialettico. Vi ha un punto che ci resta a rischiarare. Le consi- derazioni precedenti ci mostrano che una tilosofia fon- data sulla identificazione del principio e della conse- guenza alla causa e all' effetto deve realizzare necessa- riamente le astrazioni : ma perchè queste astrazioni realizzato sono precisamente dei con cri 11 obbietti vati, come abbiamo visto in tutti i sistemi di cui abbiamo parlato! I concetti obbiettivati non rappresentano ade- guatamente l'elemento costante e necessario della realtà empirica. Non ò solo un fatto costante e generale della natura che esiste il tipo Uomo — ciò che corrisponde al concetto obbiettivato dell' avzoài^6()o)7iog —, ma anche che questo tipo si realizza in una moltitudine d'indivi- dui, che, sparsi nella serie del tempo, occupano succes- sivamente tutta la serie (secondo la dottrina antica della . stabilitti ed eternità delle specie). Che t^sistauo tali o tali altri individui determinati ed anche tal o tal altro nu- mero determinato d'individui sarà, secondo i presupposti del realismo dialettico, un fatto contingente : ma che esistano, ed esistano sempre, molti individui, non è un fatto che ha lo stesso titolo ad essere rigtardato come necessario che l'esistenza stessa del tipo che essi realiz- zano ! L' astrazione realizzata che rappresenta la specie umana, non dovrebbe essere dunque, nel sistema di Platone e degli altri realisti dialettici, una moltiplicità indeterminata d'individui umani indeterminati che occu- pano successivamente dei punti indeterminati in tutta la serie dei tempi, anziché 1' Uomo indeterminato, a- stratto assolutamente dal numero e dal tempo, e non li semplicemente da un numero e da un tempo determinati? Se sì ammette che un indeterminato reale può concepirsi e può esistere, il primo di (luesti due indeterminati reali non è altrettanto concepibile e altrettanto possibile che Paltro f Perchè dunque Platone e gli altri realisti dia- lettici di cui abbiamo parlato, hanno concepito le astra- zioni realizzate che rappresentano le specie reali degli esseri, nella seconda forma anziché nella prima ? A. questa quistione rispondono gli argomenti di Platone per provare l'esistenza delle Idee. Se si negliggono gli argo- menti più deboli, gli altri possono ridursi sommaria- mente a questi due : l*» la somiglianza generica e speci- fica degli esseri, questo fatto sorprendente che lo stesso tipo si ripresenta uniformemente in individui distinti ed anche senza alcun legame fra di loro (come p. e. nei minerali e nelle specie diverse delle piante e degli ani- mali che non hanno fra di loro, al punto di vista antico, alcun legame genealogico), non può spiegarsi che ammet- tendo che tutti gli esseri che si somigliano partecipano in comune a qualche cosa che è una e la stessa in tutti : questa qualche cosa è l'Idea; 2® la verità dei concetti e delle conoscenze scientifiche (che sono unioni tra con- cetti) suppone l'esistenza di oggetti reali che corrispon- dono adequatament-e a questi concetti : questi oggetti sono le Idee (1). Si avrebbe torto di vedere in questi ar- gomenti i soli motivi per cui Platone ammetteva l'esi- stenza delle Idee. S' egli trovava questi argomenti con- cludenti, è perchè aveva bisogno di astrazioni realizzate (per potere identificare il rapporto tra il principio e la \ I (I) V. per la 1» prova il Supplem. B parte la, no V. 3o B, e per la 2' prova (cioè per il gruppo di argomenti che essa rias- sume) lo stesso Supplem. y lo stesso luogo e parte 1» n» III. II conseguenza a quello tra la causa e l' effetto), e questi argomenti gliene fornivano: vi era in essi un motivo sut- fftciente, non per realizzare le astrazioni, ma per prete- rire ad altre le astrazioni realizzat* che potevano basarsi 8u di essi. Si sarebbe ingiusti, d' altronde, verso questi argomenti di Platone, negando assolutamente ad essi qualsivoglia valore. La 1» prova contiene la sola spie- gazione che abbia dato la metafisica di «no dei fatti più Lprendenti della natura: è uno dei più importanti di nuelli di cui il darwinismo si propone di dare una spie- gazione scientifica - ma pei soli esseri viventi, e la. Landò inesplicato 1' altro fatto per cui lo spiega ci^ la legge di eredità. - La 2» prova - o, p.uttos^ il 2« Ippo di prove - presenta, sotto le forme che Piatone credeva più incalzanti, una conseguenza, secondo no. logica, della teoria dei concetti. Un pensatore che non avesse avuto bisogno, come Platone, di astrazioni rea- toZ avrebbe respinto il principio in forza de la con- ^uSza, invece di ammettere la conseguenza in forza def principio. Ma se la teoria dei concetti non fosse la dottrina comunemente ricevute, sarebbe evidente per tutti, secondo me, che delle idee astratte suppongono necessa- rSTente ddle realtà egualmente astratte. Come ho detUi nel Saggio 1» (1), il pensiero implica naturalmente la ere- denza o la supposizione di un oggetto, reale o possibile, che abbia, nella forma dell'obbiettività, il contenuto stesso che l' idea ha nella forma della rappresentez.one. Nel- l'esereizio naturale del pensiero, queste stessa distinzione fra una rappresentazione e un oggetto rappresentato per noi non esiste: noi crediam.. istintivamente che i pen- siero colga immediato.nente l'oggetto pensato, e che ciò 1 \i . (1) V. cap. 1», $ 3» e $ 7« -351 — lì che è presente al nostro spìrite, sia quest'oggetto stesso e non la sua rappresentazione, perchè questa, della «tessa maniera che la sensazione, si obbiettiva, ed è riguar- data come una cosa esteriore. Quest'illusione, come tutte le illusioni naturali, persiste anche quando noi abbiamo appreso che è un'illusione : anche allora noi continuiamo a proiettare, per dir così, al di fuori di noi, o almeno al di fuori del momento attuale, le nostre rappresenta- zioni, e a credere che ciò che è presente al nostro spi- rite non sono delle semplici rappresentazioni, ma gli oggetti stessi rappresentati. È quest'illusione naturale il meccanismo per cui si ottiene il risultato che il pensiero si riferisce all' oggetto pensato ; che quando noi ricor- diamo, prevediamo, in una parola affermiamo, quantun- que non vi siano nel nostro spirito che delle semplici i*appresentazionì, ciò che noi intendiamo di affermare non sono queste rappresentazioni, ma i fatti stessi che esse rappresentano. I fatti stessi significa, come abbiamo detto, degli Oggetti, reali o possibili, che abbiamo, nella forma dell' obbiettività, il contenuto stesso che le idee corrispondenti hanno nella forma della rappresentazione, Ne segue che, se noi abbiamo delle idee astratte, noi dobbiamo istintivamente proiettare, per dir così, al di fuori di noi queste idee astratte, come proiettiamo al di fuori di noi le idee concrete, e credere di avere pre- senti al nostro spirito, non delle semplici rappresenta- zioni astratte, ma degli oggetti astratti corrispondenti. Questa, illusione naturale persisterà anche quando la ri- flessione psicologica ci avrà appreso che il nostro pen- siero non coglie immediatamente gli oggetti, ma non consiste che in semplici rappresentazioni; e avrà per ri- sultato, anche allora, che quando noi avremo delle idee astratte, e formeremo dei giudizi unendo delle idee a- stratte, noi ammetteremo o supporremo degli oggetti a- stratti corrispondenti (reali o possibili, secondo che cre- -.1 r,i 352 - 1 - r deremo o no alla verità dell'idea astratta), e intenderemo di affermare l'unione di questi oggetti astratti nella real- tà, come le loro rappresentazioni saranno unite nel no- stro pensiero. Questa conseguenza forzata del concettua- lismo, in cui noi abbiamo visto una prova della erro- neità di questa teoria, doveva sembrare a un filosofo che, come Platone, cercava delle astrazioni realizzate, una prova evidente della loro esistenza; di più doveva dargli un motivo sufficiente per preferirò i concetti ob- biettivati a qualsiasi altra forma di queste astrazioni realizzate che egli cercava » Tanto l'una quanto 1' altra delle due prove per cui Platone stabiliva la realtà degli astratti - cioè che i concetti suppongono degli oggetti reali che siano, per usare il linguaggio della scolastica, formalmente ciò che i concetti stessi sono obbiettivamente ^ e che la somiglianza specifica e generica si spiega per la presenza di una stessa entità in tutti gl'individui della specie e del genere — soddisfaceva al tempo stesso alla doppia esigenza di astrazioni realizzata che vi ha nel rea- lismo dialettico: vale a dire di sepamre 1' elemento co- stante e necessario della natura dall'elemento variabile e contigente, e di fare del princìpio e della conseguenza due realtà distinte, che rappresentino uno stesso essere a due gradi differenti di astrazione. Queste due prove dei concetti obbiettivatì non sono speciali al solo Platone, ma comuni, in sostanza, a tutti i filosofi che obbiettivano i concetti. Quando Taine spiega le sequenze e coesistenze uniformi dei fenomeni per gli accoppiamenti delle entità astratte presenti in questi fenomeni ; quando dice, per esempio, che se tutti i triangoli hanno gli angoli uguali a due retti, è perchè gli angoli astratti del triangolo o- atratto sono eguali a due retti, o che se tutti i pezzi di ferro sottoposti all'umidità si arruginiscono, è perchè il ferro in sé, sottoposto all'umidità in se stessa, ha per con- — 353 — seguenza la ruggine in generale (1); questa spiegazione è perfettamente identica a quella di Platone, quando spiega 1' identità specifica e generica delle cose per la presenza in tutte di un'Idea unica. Ed Hegel, risolvendo tutti gli esseri in concetti obbietti vati, non ammette an- ch'egli, come Platone e Taine, che in tutti gli oggetti di una classe è presente uno stesso concetto obbietti- vato t e se è così, non spiega implicitamente, coine quelli fanno esplicitamente, la somiglianza degli oggetti della classe per la partecipazione comune allo stesso concetto obbiettivato ! Non è meno evidente, dall'altra parte, che quando Hegel stabilisce l'esistenza dei concetti obbiet- tivati in virtù del principio dell' identità dell' essere e del pensiero, la sua prova ha per primo punto di par- tenza, come gli argomenti di Platone, oltre alla teoria dei concetti, la corrispondenza assoluta e necessaria tra la rappresentazione e la cosa rappresentata, che secondo lui non si spiega che per la loro identità. In quanto a Taine, quantunque esplicitamente egli non ammetta i concetti, deve ammettere non di meno che noi pensiamo le cose astratte e generali -— perchè è evidente che per credervi, come egli vuole, dobbiamo pensarle — ; di più egli sostiene che i nomi e le conoscenze, cioè le propo- sizioni, generali hanno per oggetto queste cose astratte e generali: ma se è cosi, questi termini generali, che sono o possono essere accompagnati dal pensiero delle cose generali, significano, al fondo, dei concetti, i quali anche per lui, come per Platone e per Hegel, implicano neces- sariamente degli oggetti astratti corrispondenti (perchè non sono secondo lui, come secondo essi, che il pensiero (1) V. } 4. 23 — 354-- di questi oggetti astratti). Noi vedremo tuttavia nei pa- ragrafi seguenti che non tutti i realisti dialettici si sono rappresentate le astrazioni realizzate sotto la forma pre- cisamente di concetti obbiettivati: ciò non ha niente di strano, se si ammette che le due prove indicate per i- stabilire la realtà degli astratti, non sono il vero motivo per cui si realizzano le astrazioni, ma per cui si dà una forma speciale a queste astrazioni realizzate, necessarie per applicare il concetto di causalità che è la vera base del Idealismo dialettico. II. Metodo dialettico. Noi faremo un'enumerazione dei caratteri generali di questo metodo, cioè che sono co- muni al sistema di Platone e agli altri sistemi di rea- lismo dialettico, indicando come ciascuno si deduca dal concetto fondamentale di questa forma di metafisica. 1° il metodo del realismo dialettico c<msi8te a dedurre delle astrazioni realizzate da altre astrazioni realizzate. Questo metodo, essendo una deduzione, ha necessaria- mente per tipo la deduzione della logica, cioè il sillogi- smo, ma si allontana più o meno, non meno necessaria- mente, da questo tipo, perchè deve dedurre dei reali da altri reali — poiché senza di ciò il principio non potreb- l>e assimilarsi alla causa e la conseguenza all'effetto. — Ciò importa che questa deduzione deveessei^e un progresso reale del pensiero, che rappresenta un progresso reale nelle cose stesse ; mentre la vera deduzione, essendo fondata rigorosamente sul principio d'identità, non può che affermare nella conclusione, sotto una forma diffe- rente, ciò che era stato già affermato nelle premesse. Questa difformità necessaria della deduzione del realismo dialettico dalla vera deduzione fa che spesso non si com- prenda che essa pretende di essere una deduzione, come è avvenuto generalmente per la dialettica platonica. Que- sta che, come abbiamo visto, consiste a dedurre da un genere tutte le sue specie reali, che sono al tempo stesso I ri -355- \_ tutte le sue specie possibili^ non sarebbe una vera de- duzione che se la premessa fosse, non l'affermazione del concetto generico (obbietti vato, cioè dell'Idea del genere), come è di fatto, ma la proposizione generale che tutte le specie possibili del genere devono esistere. Ma in que- sto caso non si dedurrebbero dei reali da altri reali di- stinti; quindi la deduzione non rappresenterebbe una derivazione reale, ma il rapporto tra il principio e la conseguenza sarebbe puramente logico, e non potrebbe identificarsi a quello ontologico tra la causa e l'effetto (1). 2^ Le astrazioni realizzate che, in questa deduzione, fanno da principii e quelle che fanno da conseguenze, devono formare una scala di astrazione decrescente, in modo da costituire degli stati logicamente successivi di un essere unico, che passa gradatamente da uno stato più astratto o più indeterminato a uno stato più concreto o più determinato. Ciò è perchè, come abbiamo detto precedentemente (I, no 2»), la conseguenza, o piuttosto l'insieme delle conseguenze, non potrebbe essere che il principio stesso in una forma più concreta o più deter- minata, e il passaggio dal più astratto o più indetermi- nato al più concreto o più determinato, in cui consiste la deduzione, deve rappresentare un progresso nella realtà stessa, e non semplicemente nel nostro pensiero, senza di che la deduzione non rappresenterebl)e una deriva- zione reale Ciò importa che il più astratto o più inde- terminato e il più concreto o più determinato siano due realtà distinte, quantunque al tempo stesso due forme d'un'esistenza unica, e non semplicemente due espres- sioni o due rappresentazioni distinte di una stessa realtà (1). È un tratto clie abbiamo trovato in tutti i sistemi precedenti e che è più essenziale al realismo dialettico che la stessa obbietti vazione dei concetti, come vedremo nei paragr. seguenti, in cui lo ritroveremo in Spinoza, le cui astrazioni realizzate non sono, a parlar propria- mente, dei concetti obbiettivati. 3« Il primo principio — noi diremo in seguito perchè il primo principio è necessariamente unico — deve essere stabilito a priori, per la sua necessità intrinseca, in modo che la conoscenza sia puramente a priori, e la deduzione sia una vera dimostrazione. Ciò è perchè, nel realismo dialettico, l'anteriorità cronologica della causa verso l'ef- fetto è sostituita da una anteriorità logica (che; obbiet- tivata., si chiama anteriorità di natura). La certezza delle conseguenze deve dipendere dalla certezza dei princìpi!, ma questa deve essere indipendente da quella. Se non fosse così, Pesisenza delle entità conseguenze non dipenderebl)e dalla esistenza delle entità priucipii, e il rapporto tra il principio e la conseguenza non potrebbe identificarsi a quello tra la causa e l'effetto (2). 4<) Non solo la dimostrazione dialettica non deduce che delle astrazioni realizzate da altre astrazioni realiz- zate, ma questa deduzione deve essere, per quanto è pos- sibile, immediata, vale a dire il legame logico fra le a- strazioni realizzate che fanno da premesse e quelle che fanno da conseguenze deve vedersi, per quanto è possi- bile, intuitivamente e non mediante un ragionamento, in modo che dalla posizione delle une si passi immedia- tamente a quella delle altre, e la dimostrazi(me non con- sista che nella loro posizione successiva. Di questa ma- il) Cfr. } 2, p. 34-35, } 3, p.71-72, } 6 sulla fine. (2) Confr. } 2» P 62, } 6, p. 136, J 21, p. 309. niera lo svihippo della dimostrazione non è che la ri- produzione dello sviluppo stesso della realtà, e la scienza è una sorta d' intuizione, in cui il pensiero non fa che asssistere, per dir cosi, alla evoluzione delle cose, limi- tandosi a rifletterla passivamente come uno specchio. È ciò che è espresso nel principio hegeliano dell' identità dello sviluppo logico con lo sviluppo ontologico e nella proposizione di Spinoza: ordo et connexio idearum idem est ac ordo et connexio reixim. Questa identità è spiegata da Platone considerando la scienza come un risveglio dell' intuizione del mondo ideale in una vita anteriore. Spinoza la chiama una conoscenza intuitiva, e Schelling la fa consistere, nel senso proprio, in un'intuizione intel- lettuale. La ragione di questa immediatezza della dedu- zione del realismo dialettico è che il principio logico deve identificarsi con la causa efficiènte. Perchè una causa possa considerarsi come efficiente, la sua connessione con l'effetto deve essere una verità, non solo razionale, ma anche intuitiva, deve essere evidente per sé che la causa è capace di produrre l'effetto, e 1' effetto <lì essere pro- dotto dalla causa. Ne segue che il legame logico tra il principio e la conseguenza non potrebbe identificarsi col rapporto tra la causa cuciente e l'effetto, se questo le- game logico non si vedesse intuitivamente, ma fosse ne- cessario di stabilirlo per una dimostrazione (1). 5.® La deduzione dialettica implica una moltiplicità di passaggi logici — vale a dire tutte le entità non si deducono immediatamente dal primo principio, ma si passa gradatamente «la questo alle conseguenze ultime per una moltitudine di anelli intermediari. — Di più tutti- questi passaggi logici sono regolati da una legge costan- (1) Confr. oap. VI, } 5 e questo cap. } 12 n. 4» e { 20, n. 2®. — Sòs- te; in altre parole, il metodo della deduzione è rigoro- samente uniforme, ed è considemto come la legge stessa delle astrazioni realizzate. Questa legge, nel sistema he- geliano, è il passaggio dalla tesi alPantitesi e da queste alla sintesi ; nel sistema platonico, la divisione dicoto- mica deiridea generica nelle Idee specifiche; nel sistema del Taine la gerarchia delle coppie di astratti, secondo cui un gruppo di leggi inferiori deriva costantemente da una legge superiore. È nel mondo delle astrazioni i*ealizzate ciò che una sequenza invariabile nel mondo dei fenomeni, salvo che qua si tratta di una sequenza cronologica e là di una sequenza semplicemente logica. Questa uniformità di sequenza delle astrazioni realizzate, che implica al tempo stesso una moltiplicità di passaggi logici e una legge comune che li regola, è evidentemente un corollario dell'identità tra il principio e la conseguenza e la causa e Peffetto. Infatti, se la causazione efficiente si distingue dalla causazione empirica perchè il legame tra la causa e l'effetto è intrinsecamente evidente e ne- cessario — ciò che è la ragione determinante per iden- tificarla col rapporto tra il principio e la conseguenza —, essa non è al postutto che una forma della causazio- ne, e causazione vuol dire sequenza invariabile (1). 6.^ Un altro carattere, che è una conseguenza del precedente, è l'unità di principio. La legge c(miune che regola i passaggi logici, implica che tutte le astrazioni realizzate si dispongano in un ordine uniforme, secondo un tipo costante che si riproduce a tutti i gradi del progresso dialettico, e si ritrova in tutte le parti del mon- do delle astrazioni realizzate. Questo tipo costante consi- ste, come sappiamo: nel sistema di Platone, in due Idee (1) Confr. } 3 p. 73, J 5 p. 121-122, J 12 n. 5o e J 20 n. 3©. — 369 — opposte subordinate a un'Idea più generale ; in quello di Hegel in due idee opposte seguite da una terza che le sintetizza; in quello di Taine, in un gruppo di leggi inferiori subordinate a una legge superiore. Questo tipo costante deve realizzarsi sempre e da per tutto, perchè è la legge del mondo delle astrazioni realizzate : ognu- na deve essere dunque con le altre in rapporti deter- minati, in modo che questi rapporti riproducano il tipo costante secondo cui tutte sono disposte ed ordinate. Ma ciò sarebbe incompatibile con una pluralità di prin- cipii primi : anche questi dovrebbero avere fra di loro quei rapporti determinati, necessari perchè il loro insieme presenti anch'esso il tipo comune, ciò che importa la su- bordinazione degli altri a qualcuno di essi o di tutti a qualche altro principio «uperiore. P. e. una pluralità di generi sommi pel sistema di Platone o di leggi su- preme nel sistema di Taine richiederebbe, perchè non vi fosse un'eccezipne al tipo universale che è la legge di ciascuno dei d|ie sistemi, un altro genere o un'altra legge ancora superiori, a cui questi generi o queste leggi fossero subordinati. Nel sistema di Hegel upa pluralità d'idee ugualmente primitive e indipendenti le une dalle altre richiederebbe che anche queste idee si ordinassero fra di loro secondo la legge comune di un' opposizione seguita da una sintesi, ciò che importerebbe la sequenza logica delle altre da qualcuna fra di loro. Questa unità di principio che potrebbe chiamarsi monismo logico, im- porta un'altro monismo, che potremmo dire ontologico. Le conseguenze, nel realismo dialettico, non essendo che i principii stessi a un grado più avanzato di deter- minazione, dire che tutte le astrazioni realizzate si de- ducono da un principio unico^ è dire che tutte costitui- scono degli stati logicamente successivi di un essere u- nico, che passa progressivamente da una stato più in- determinato a uno stato più determinato. Questo moni- — 360 — smo logico ed ontologico, che è anch^esRo un carattere generale del realismo dialettico, è una conseguenza in- diretta del concetto di causalità su cui è f(»^ata que« sta filosofia, derivando da un altro concetto che ne de- riva della maniera più diretta, cioè, come abbiamo visto nel numero precedente, la legge uniforme del metodo dialettico (1). } 24. Il stisteraa di Spinoza è un realismo dialettico, come quelli di Platone e di Hegel, ma in questo sistema le astrazioni realizzate a cui si applica la dialettica, cioè la deduzione, non sono delle Idee come in quelli di Platone e di Hegel. La dialettica non può dare il reale nella sua integrità, ma solamente l'elemento necensario del reale: questo, nel realismo dialettico, si astrae, per conseguenza, dalPelemento contigente, e si considera, in questa sua astrattezza, come una realtà distinta, pre- sente nelle cose, ma sussistente per se stessa. Nei si- stemi di Platone e di Hegel questo elemento necessario del reale, astratto dall'elemento contigente, sono le Idee, cioè i tipi generici e specifici, riguardati ciascuno come Vuno nei molti, vale a dire come uno in se stesso, ma presente, pur restando uno e lo stesso, in tutti gl'indi- vidui della specie o del genere. Nel sistema di Spinoza, invece, sono le cose stesse multiple e infinite, conside- rate, come dice l'autore, sub specie aeternitatis ; vale a dire ciò che vi ha di costante negli stati successivi del- l'universo, riguardato come una realtà eterna, cioè al di fuori del tempo, presente in tutti questi stati succes- sivi, ma sussistente per se stessa. Un' altra circostanza caratteristica del sistema di Spinoza è la relazione di- versa ch'egli stabilisce fra il pensiero e le cose. Platone - 361 — (1) (Confronta } 3 p. 74-75, } 5 , $ 20 n. 4o. si metteva al punto di vista più ordinario, nel quale il pensiero e la realtà appariscono come due cose affatto distìnte, fra cui non vi ha che un rapporto di azione reciproca; per Heg(»l tra il pensiero e la realtà vi ha un'identità assoluta; per Spinoza vi ha un parallelismo, che si spiega per un'identità fondamentale, anteriore, (nel senso platonico e spinozista del termine) alla loro distinzione. Sono questi due caratteri propri del sistema di Spinoza, che, uniti a quelli comuni del realismo dia- lettico, danno un'impronta speciale a questo sistema, e rendono conto dei suoi tratti più generali. Il concetto che riassume tutta la fisolofia di Spinoza è la celebre proposizione : Ordo et connexio idcarum idem est ac ordo et connexio rerum. Questa proposizione e- sprime al tempo stesso il principio del realismo dialet- tico — cioè l' identità del rapporto tra il principio e la conseguenza col rapporto tra la causa e 1' effetto — e quello del parallelismo tra il pensiero e le cose. Quan- tunque a noi non importi studiare il sistema di Spinoza che in quanto è uno sviluppo del primo dei due prin- cipii, pure, questa parte essendo inseparabile dall'altra, cioè quella per cui è uno sviluppo del principio del parallelismo, noi dobbiamo esporre tanto l' una quanto l'altra, facendo precedere <iuest'ultima, senza la quale non ci sarebbe possibile di far comprendere la prima. Il principio del parallelismo tra il pensiero e le cose è !a dottrina del parallelismo psico— fisico, salvo che il termine parallelismo, nel sistema di Spinoza, va preso in un senso assai più rigoroso. In questo sistema, oltre alla concomitanza costante tra i fenomeni psichici e certi fenomeni fisici e la loro indipendenza reciproca (1), (1) Per questi due punti della dottrina di Spinoza v. Eth. parte II Prop. 5, 6, 7 col Cor. e lo Sohol., 9, 12, Cor. prop. 17, Pr. 18 e Schol. parte III Prop. 2, e Schol. parte V Prop. 1, eco: il parallelismo importa : P Glie ogni fatto fisico ha ud con- comitacte psichico e viceversa. Ne segue che non vi ha corpo senza spirito come non vi ha spirito senza corpo, che tutto è animato che ogni cosa vive, sente e pensa (1). Ne segue pure che ad ogni fatto fisico non corrisponde che un solo fatto psichico, concetto che, come vedremo, ha per risultato dMntegrare le singole anime degli oggetti partieotari nelPanima unica del tutto, trasformando il sistema di Spinoza da semplice ilozoismo in un vero panteismo. 2^ Che il fisico e lo psichico sono, come dice Fautore, due espressioni difterenti di una sola e stessa cosa (2). Per conseguenza la serie fisica v la serie psi- chica non si corrispondono solamente pei loro rapporti di concomitanza costante, ma fra i termini delle due serie vi ha, insieme alla loro differenza, una identità parziale, come se fossero modellati sovra un tipo co- mune, che gli unì e gli altri rappresentano, quantun- que gli uni differentemente dagli altri. Questo paralle- lismo psico — fisico così inteso, è, insieme al concetto generale del realismo dialettico, il germe da cui si svi* luppa tutta la metafisica dì Spinoza. Il tratto che salta più agli occhi nella filosofia di Spinoza — e che è, come spiegheremo, una conseguenza del principio del parallelismo— è la sua dottrina dell'u- nità dì sostanza. L'universo è un essere unico, che si chiama Dio o la Natura (Deus sive natura). Dio o la Natura è una sostanza infinita, la cui essenza è costitui- ta da un numero infinito di attributi, ciascuno infinito nel suo genere, ma di cui noi non ne conosciamo che (1) V. Eth. parte II, Sohol. prop. 13. (2) V. Eth. p. II Schol. pr. 7. — 363 — due, l'estensione e il pensiero (1)— grandioso non senso, in cui noi dobbiamo vedere, piuttosto che un prodotto del genio metafisico dell'autore, un effetto di questa ten- denza verso il colossale e l'iperbolico, che caratterizza l'immaginazione orientale — Ogi^i cosa è un modo della soistanea unica, che esprime d'una maniera determinata e finita — questi due termini per Spinoza sono equiva- lenti (2) — l'essenza di questa sostanza, cioè per quanto noi ne conosciamo, l'estensione e il pensiero infiniti (3) In questo concetto della sostanza il principio del paral- lelismo si mostra evidentemente in due punti. Per Spi- noza, come per Cartesio, ^essenza della materia consi- ste nell'estensione, e per conseguenza l'estensione è per lui la sostanza delle cose materiali, vale a dire ciò che vi ha in esse di permanente, e di cui tutti i loro feno- meni sono dei modi di essere o delle determinazioni, cioè delle forme, degli atteggiamenti svariati. Similmente tutti i fenomeni psichici sono per Spinoza delle forme o degli atteggiamenti svariati di una cosa permanente, che è il pensiero assolutamente considerato, o, come e- gli lo chiama ancora, il pensiero sostansialc (4). Ciò (1) V. Dio, Vuomo eco. trad. frano, pag. 7, 9, 19, 40, 128, 130, 131, 133, Eth. parte 1. Def. 6, Sohol. prop. 10, Schol. prop, 15, Dim. prop. 16, parte II Dira. prop. 1 e Schol., Sohol. prop. 7, Epist. 66, Epist. 68 (fr. 67), ecc.(2) V. Eth. parte 1. Dim. prop. 21. Prop. 28 e dim., parte II Def. 7, De ini. emetul, 108. Ili, Episl. 44 (4 - 10), EpisL 50 ^4), ecc. (3) Eth. Parte I. Prop. 15, Cor. pr. 25, Dim. pr. 28, Dim. pr. 29, Schol., Dim. pr. 31, Dim, pr. 36, Parte II Def. 1., Dim. pr. 1, Dim. pr. 5, Schol. pr. 7, Dim. pr. 9, Cor. pr. 10, ecc. (4) V. Dio, Vuomo eco. p. 51-52, Epist. 27, 7 (ofr. Epist. 26, 6), Epist. 37, 3 - 4, Eth, p. I. Prop. 21 o dim., 23 e dim., 31 e dim., parte II Prop. 9 e dim., eoe.*mmi I 1'' ri — 364 - suppone : 1^ Che tutti gli altri fenomeni psichici siano ricondotti al pensiero. Oosì la psicologia di Spinoza è l'esempio più tipico di quella che Wundt chiama intel- lettualista. Tutti i fatti interni, apparentemente diversi dal pensiero, sono pure dei pensieri, ma confusi: i sen- timenti stessi (o come dice Spinoza, gli affetti) sono an- ch'essi delle idee confuse (1). Ciò è perchè il principio del parallelismo importa, come abbiamo detto, che il fi- sico e lo psichico sono due espressioni diverse d' una sola e stessa cosa, e rappresentano, per dir così, un tipo comune, su cui l'uno e l'altro sono modellati. Ora questo non è concepibile che assimilando tutti gli ;iltri fenomeni psichici al pensiero, alla rappresentazione. 2^ Che vi sia una sostanza del pensiero, di cui tutti i pensieri siano delle forme cangianti e limitate, come vi ha una so- stanza materiale di e:iì tutto ciò che avviene nel mondo fisico è una forma cangiante e limitata (2). Questo con- cetto di un pensiero sostanziale, die è il substratum per- manente di tutti i pensieri, è una conseguenza naturale del principio cartesiano che l'essenza dello spirito con- siste nel pensiero, e si ritrova, in altra forma, in Male- branche e in altri cartesiani (3). Noi vedremo nell 'Ap- pendice, cap. 2^ che sulla natura dello spirito, con- cepito come una sostanza, cioè come un substratum per- manente su cui i fenomeni psichici sono tVmdati, la metafisica ha immaginato costantemente un certo numero' d^ipotesi, e che una di <iueste è che la sostanza dello — 365 — spirito è anch'essa un fatto psichico, cioè un pensiero o un sentimento, permanente e fondamentale. La dot- trina del pensiero sostanziale di Spinoza è senza^ dubbio una forma di quest'ipotesi; salvo che egli cerca, non la sostanza dell^anima individuale, ma quella deir anima del tutto, di Dio o della Natura. Ma essa è anche evi-^ den temente un'applicazione del principio del parallelismo, perchè essa trasporta nel mondo psichico, cioè nell'at- tributo del pensiero, quella stessa^relazione tra la sostanza e suoi modi, che 1' autore vede nel mondo fisico, cioè nell'attributo dell'estensione. La prima determinazione del pensiero sostanziale, il suo modo originario da cui tutti gli altri derivano, e- terno come il pensiero sostanziale stesso, sono le idee, cioè l'intendimento o la conoscenza (1). Il sistema di Spi- noza non è un semplice ilozoisnìo, ma è anche un pan» teismo, perchè egli attribuisce al tutto, come tale, un'in- telligenza propria, distinta da quelle degli esseri parti- colari, quantunque queste nonne siano che delle parte- cipazioni. L'intendimento, nella cosa pensante, cioè nel tutto considerato sotto l'attributo del pensiero, è unico come ii suo oggetto : è una conoscenza assoluta, una copia perfetta, di tutto il reale, un sistema d' idee che rappresenta esattamente il sistema delle cose, e in cui ad ogni oggetto reale corrisponde un'idea unica, come (1) V. Elh. Parte III. Def. 3 e AffecL Getter Definii, ed JKr- plie. (in fine di questa parte), Parte V. Dim. prop. 3, Cor. prop. 4, Diui. prop. 17, eoe. (2) V. i luoghi indicati nella nota penultima. (3) V. Append* alla parte I. cap. 2». (1) Le idee o T intendimento sono il modo originario del pen- siero, anteriore di naturo ^ come dice Spinoza, a tutti gli altri, perchè gli altri modi del pensiero, cioè gli altri fatti psichici, si risolvono, secondo lui, in idee confuse e inadequate, e queste nascono, come ora spiegheremo, dalle idee adequate. V. Dio Vuomo ecc. p. 130 trad. frano., Eth, p. II dim. prop. 11. e i 1. indicati nella nota 1, pag. preccd. «p — 366 — — 367 — ad ogni idea corrisponde un oggetto nnico nella realtà (1). L' idea corrispondente ad un oggetto costituisce il lato interno di quest'oggetto, cioè la sua anima o, come dice Spinoza, la sua mente (2), di cui però l'oggetto stesso non ha che una percezione imperfetta (3). Noi e tutti gli esseri pensanti individuali siamo parti di un essere pen- sante unico; il nostro intendimento si confonde con l'in- tendimento unico che è nella cosa pensante ; le nostre idee sono una partecipazione delle sue idee (4). Ogni idea considerata assolutamente, vale a dire in quanto esiste in Dio, cioè nel tutto, è vera, perchè è della na- tura del pensiero di corrispondere perfettamente all'og- getto pensato (5). Le nostre idee vere ossia adequate sono le idee stesse del tutto, del suo intendimento unico, che noi percepiamo nella loro integrità (ex loto, vale a dire noi ne partecipiamo in modo che questa partecipa- zione continua a rappresentare esattamente 1' oggetto, come l'idea nella sua totalità) (6): le nostre idee false o (1) V. Dio, l'uomo e la beat. trad. fi-auc. p. 45-46, 51-52, lOT- 108. 130, Vò2,Mh, parte II Prop. 3. e diui., 4 e dira., Dim. pr. 5, Cor. prop. 7, Schol., Scbol, pr. 8, Cor. prop. 9 e dim., Dim, pr. 12, Sohol. pr. 13, Dim. pr. 15, Dira. pr. 19, Pr. 20 e dim., Dim. pr. 24, 25, 30, 38, 39, 43, eoe. (2) y.Dio, ruomo eoe. 51-52, 107-108, Mh.v- H Dim. pr. 12, Sohol. pr. 13, Dim. pr. 15, Dim. pr. 19, eoe. (3) V. jWo, Vuomo eco. pag. 107 nota, n. 9, Eth p. II Prop. 19 e dim.. 23 e dim, Soboi. prop. 28, Prop. 29 e Cor, ecc. (4) V. De inielL emend. 73, Dio, V uomo eoo. p. 107 nota n. 10 in fine, pag. 123 n. 2. (efr. p. I. oapit. 9), Mh. p. II Cor. prop. 11, Sohol. pr. 43, p. V, Schol. pr. 40, eoo. (5) V. De ini. emend, 73, Eth, p. II Pr. 32, 33 e dim, 34 e dim, 36 e dim, ecc. (6) De ini, em, 73. Eth. p.e 2. pr. 34 e dim., eoo. di una maniera qualunque inadequate sono ancora le idee del tutto, ma che noi percepiamo per frammenti, o, come dice Spinoza, ex parte o mutilate (1), l'errore non essendo niente di positivo, ma solamente una priva- zione di conoscenza (2). Per ispiegare le nostre idee ina- dequate, cioè frammentarie, Spinoza dice che le idee adequate corrispondenti sono in Dio, cioè nel tutto, in quanto egli costituisce, non la nostra mente soltanto, ma insieme ad essa le menti di altri oggetti, o in altri termini in quanto egli ha, non l' idea del nostro corpo soltanto, ma insieme ad essa le idee di altri corpi (3). Così il pensiero unico di Dio, cioè del tutto, non esiste al di fuori dei pensieri individuali; è questi pensieri in- dividuali stessi, addizionati e fusi in un solo pensiero; come un' immagine unica che risulti dalla sovrapposi- zione di molte immagini, in modo che l'immagine risul- tante rappresenti d' una maniera perfetta e completa la cosa stessa che le immagini componenti rappresentano imperfettamente e parzialmente. Evidentemente quest'i- potesi di Spinoza di una intelligenza unica del tutto, di cui le intelligenze individuali sono delle partecipazioni, è un effetto della tendenza costante della metafìsica a fare dell'universo, come dice Schopenhauer, un macran- tropo, a dargli una coscienza e una personalità. Ma non è meno evidente ch'essa è un'applicazione del principio del parallelismo. 11 concetto che ogn' idea, assolutamente (1) De ini, ememt, 73, Eth. p. II Cor. prop. 11, Prop. 33, Cor. prop. 29, p. III Dim. prop. 1., eco. (2) V. Mh. p. II Prop. 33 e dim, Prop. 35 e dim, Scbol. prop. 43, eoo. (3) V. Eth. p. Ili Dim. prop. 1., p. II Cor. prop. 11, Dim. prop. 19, 24, 25, 28, 30, ecc. — 368 — considerata, è vera ed adequata, Spinoza lo deduce e- splieitamente dalla proposizione che ordo et connexio idearum idem est ac ordo et connexio rerum (1). Da que- sta proposizione egli avrebbe potuto dedurre egualmente che l'idea, assolutamente considerata, deve essere unica per ciascun oggetto, e per conseguenza V intem ipotesi, perchè essa non consiste che in questi due concetti. Il parallelismo psico-fisico, cioè il parallelismo tra l' idea e la realtà (perchè tutto lo psichico si risolve nel pensiero, e tutto il pensiero nelle idee vere e ade- quate) risulta, secondo Spinoza, dalla identità fondamen- tale di questi due lati inseparabili dell' essere. La so- stanza pensante, egli dice, e la sostanza estesa sono una sola e stessa sostanza, che ora si comprende sotto l'uno, ora sotto 1' altro di questi due attributi. Così pure un modo dell'estensione e l'idea di questo modo è una sola e stessa cosa, espressa di due maniere difterenti. In al- tri termini, un corpo e l'idea di questo corpo, o, ciò che è lo stesso, la sua mente, è una sola e stessa cosa, che ora si concepisce sotto 1' attributo dell' estensione, ora sotto quello del pensiero. P e. il circolo reale e l'idea del circolo stesso che è in Dio (vale a dire l' idea ade- quata e, se non fosse una stranezza, l'anima di questo circolo) è una sola e stessa cosa che si spiega per due attributi diversi. P. e. ancora la volizione e il movi- mento corporeo che 1' accompagna è una sola e stessa cosa, che chiamiamo volizione quando la consideriamo sotto l' attributo <lel pensiero e la spieghiamo per le leggi di questo, e chiamiamo movimento quando la con- sideriamo sotto l'attributo dell'estensione e la spieghia- mo per le leggi del moto e della quiete. Ne segue che (1) Mh. p. II. Dira. prop. 32, 36, 38, 39. :l - 369 - sia che noi concepiamo la natura sotto l'attributo del- l'estensione, sia che la concepiamo sotto l'attributo del pensiero, noi troviamo da una parte e dall'altra un solo e stesso ordine, una sola e stessa concatenazione di cause ed effetti ; che p. e. la serie delle azioni e passioni del corpo corrisponde alla serie delle azioni e passioni del- Tanima, quantunque l'una si svolga indipendentemente dall'altra. Dall' una e dall' altra parte noi vediamo se- guirsi le stesse cose; ma ora Ic^ consideriamo come modi del pensiero, ora come modi dell'estensione (1). Il concetto di Spinoza, che metteremo più in luce in se- guito, è che l'idea e il suo oggetto (e per conseguenza, l'ani- ma e il corpo) sono due modi di essere di una sola e stessa cosa che, una in se stessa, si ritiova sotto queste due forme distinte, pur restando identica a se stessa. I fatti che egli vuole spiegare sono sovratutto due. L'uno che l'idea e la cosa hanno per dir così, lo stesso contenuto, questa sotto la forma delia realtà, quella sotto la forma del pensiero. L'altro la concomitanza costante, la corri- spondenza, tra i fenomeni psichici e i fenomeni somatici che li accompagnano. Nel secondo di (|uesti due fatti si è visto sempre un mistero : è sem])re sembrato incom- prensibile che il fenomeno psichico sia prodotto dal fe- nomeno tìsico corrispondente, e questo da quello (2). Dalla pretesa impossibilità di un legame causale tra i due ordini di fenomeni (che egli ammette con Malebian- che e con Leibnitz), Spinoza ne conclude che non vi ha fra di loro che una semplice concomitanza, un paralle- (1) AVA. p. II. Schol. prop. 7 e Scbol. prop. 21 e p. IH Scbol. prop liftino, e, come Malebranche e Leibnitz, cerca un'ipotesi per impiegare <|ue8ta concomitanza. 11 primo fatto, cioè la conformità tra il pensiero e le cose, è tanto più un problema per Spinoza, che e^li non ammette, uè che le cose agiscano sul pensiero né che il pensiero agisca sulle cose. L'ipotesi di Spiuoza per ispiegare i due fatti è co- struita sullo stess'> tipo che tutte le ipotesi metafisiche in g«»nerale : egli cerca un fatto familiarissimo, e assi- mila a questo i fatti che si tratta di spiegare. Questo fatto familiarissimo è che una stessa cosa, in due modi di essere o stati differenti, deve ^somigliare e corrispon- dere a- se stessa. È ciò che osserviamo il più abitual- mente : ma <]uesti due modi di essere differenti di una stessa cosa noi non possiamo concepirli che successivi, mentre Spinoza pretende concepirli simultanei. È perciò che quest'ipotesi è un concetto metafìsico nel senso più stretto, cioè trascendente l'immaginazione, e non soltanto l'esperienza. § 25. Oltre il parallelismo tra il fisico e lo psichico, cioè tra i modi dell'estensione e i modi del pensiero, la proposizione che V ordine e la connessione delle idee sono identici alVordine e alla connessione delle cose significa, come abbiamo detto, che lo sviluppo logico del i)ensiero corrispomle allo sviluppo reale dell'essere. È quella stessa identità tra il processo logico e il processo ontologico che abbiamo osservato in Platone, in Hegel e in Taine. Spinoza suppone, per conseguenza, come essi : cht la vera conoscenza è un sapere a priori, che si produce per il solo movimento logico del pensiero, cioè per un me- todo puramente deduttivo; che questa deduzione non volge su delle proposizioni, ma su delle semplici idee (beninteso, delle idee astratte); e che i gradi o momenti successivi nel progresso della deduzione rappresentano dei gradi o dei momenti successivi nel progresso del reale in se stesso (anteriorità e posteriorità di natura - 371 — nel senso che abbiamo spiegato parlando di Platone), in modo che il principium cognoscendi sia anche il principium essendi, e il legame tra le premesse e le conseguenze s' identifichi col legame tra le cause e gli effetti. È un'altra forma del parallelismo tra il pensiero e le cose, purché si ammetta il presupposto gnoseolo- gico dell'autore, cioè che vi ha una conoscenza del reale assoluta mente a priori, che lo spirito sviluppa dal suo proprio fondo per la sola forza logica del pensiero. Vi hanno, secondo Spinoza, tre (fcneri di conoscenza, ed è il terzo che è il solo ade(|uato (1). Esso procede dalla cognizione dell' essenza di Dio alla cognizione dell' es- senza delle cose (2), e questo passaggio dall'una cogni- zione all' altra è una dedusione (3): così il terzo genere di conoscenza consiste a dedurre tutte le cose partico- lari dall'essenza di Dio, cioè della Sostanza. L'esistenza di ciò da cui tutto il resto si deduce, cioè di Dio o della Sostanza, è una verità evidente per se stessa, assioma- tica — senza di ciò la conoscenza non sarebbe a prio- ri — (4r): Dio o la sostanza è la « causa di sé », vale a dire «ciò la cui natura non può concepirsi che come esistente », o « ciò la cui essenza involge 1' esisten- za », in altri termini dal cui concetto o dalla cui de- finizione segue necessariamente che deve esistere (5). (1) ConlVouta oap. VI, $ 5. (2) Eth. p. II, Schol. 2. piH)p. 40. p. V. Schol. piop. 20, Dim. prop. 31, Schol. prop. 36, ecc. (3) V. Klh, p. II Scbol. prop. 47 (cfr. Scbol. 2o prop. 40), p. V, Dim. prop. 10, De iulelL emend. 41-42, 91-94, 99-104, ecc. (4) Per la uecessità, nel realismo dialettico, che il primo prin- cipio della deduzione sia una verità a priori v. pag. 256 e i 1. in- dicati nella n. 2 di pag. 3.56. (5) V. Eth p. I, Def. 1 . e 8. Prop. 7 e dim.. Schol. 2. prop. SE -^ 372 - K Dio è la causa di tutte le altre cose nello stesso senso- in cui è la causa di sé (1), vale a dire, come la sua esi- stenza segue dalla sua essenza, cosi è dalla sua essenza che segue pure V esistenza delle altre cose (2). Tutte le cose seguono eternamente dall' essenza di Dio, come dall'essenza del triangolo segue eternamente che i suoi tre angoli sono uguali a due retti (3) (eternamente, per- 8, Prop. 11 e dilli., Diui. prop. 19, eoo. Questa dottrina di Spi- noza che l'esisteuza di Dio, cioè la prima verità da cui si de- duooDo tutte le altre . si deduce dalla sua essenza o dal suo concetto, è iiaturaliuente una variante della dottrina corrispon- dente di Cartesio. Anche Spinoza riguarda, come Cartesio, Tidea di esse*'f, necessarioj cioè la cui esistenza segue dal suo concetto, come inseparabilmente legata a quella di essere perfettissimo, cioè assolutamente infinito — benché talvolta sembri considerare, come fa Cartesio, l'esistenza necessari:^ come una conseguenza dell'infinità (v. Eth. p. I Schol. prop. 11, Epist. 27. 6, Epy 40. 4. VI), e tal altra invece l' infinità come una conseguenza dell'esistenza necessaria (v. Eth. p. I Schol. \. prop. 8, Episi, 40. 3. Ili, Ep. 41. 4-5 e 10) - . È su questa inseparabilità tra il concetto di essere necessario e quello di essere assolutamente infinito che è fondato il suo paradosso che Dio o la Natura deve avere un numero infinito di attributi, e non soltanto quelli che noi conosciamo, cioè il pensiero e l'estensione (v. Eth. p. I Schol. pr.. 10, Epist, 27, 6, Ep, 40, 4. VI, Episi. 41. 8-10), sia perchè dall'esi- stenza necessaria dell'essere segue la sua assoluta infinità, (cfr. i 1. indicati nella peiiult. parentesi), sia perchè è solo da questa asso- luta infinità che può seguire la sua esistenza necessaria. Spinoza non si allontana molto da Cartesio, dando l'esistenza di Dio per una verità assiomatica, perchè anche questi talvolta considera l'esistenza necessaria dell'essere perfettissimo piuttosto come un assioma che, come una verità di dimostrazione. (V. Kisp. alle See. Ohbiez. ed. Cous. t. 1. p. 456 e 460). (1) V. Eth. p. 1. Schol. pr. 25. (2) V. Eth. p. 1. Schol. pr. 25, Dim. 34. Prefaz. p. IV. (3) V. Eth. p. I Schol. prop. 17 e p. II Schol. prop. 49 verso la fine» - 373 - che le conseguenze d' una verità eterna devono essere anch'esse delle verità eterne). La dottrina di Spinoza è, come sappiamo, che tutte le proprietà d' una cosa de- vono potersi dedurre dalla sua essenza, cioè dalla sua definizione (1): ora le altre cose non sono che dei modi della sostanza unica, cioè di Dio; così egli vede tra Dio e le cose lo stesso rapporto che tra 1' essenza e le pro- prietà, e ammette che tutto ciò che esiste deve dedursi dall' essenza o dalla definizione di Dio, come le pro- prietà di una cosa si deducono dall'essènza o dalla de- finizione di questa cosa (2). Per esprimere la derivazione delle cose da Dio, Spinoza dice il più abitualmente -e noi vedremo il perchè — che le cose secinono o sono se- gnite (il più delle volte necessariamente (3), spesso anche senza quest' avverbio (4)) dall' essenza o dal- la natura di Dio (o di alcuno dei suoi attributi). Ma al- tre volte indica più chiaramente il senso lo<jko di que- sta derivazione, dicendo che se ne concludono o se ne dedu- cono (5)j e confrontando dei testi in cui ripete uno stesso (1) V. questo capit. p. 245. (2) V. Eth. p. 1. Dira. prop. 16, e cfr. Schol. prop. 2."ì e p. IV Dim. prop. 4. (3) V. Eth. p. 1. Dim. prop 16, Schol. prop. 17, Dim. prop. 21, prop. 23, Schol. prop. 28. Dim. prop. 29, Dim. proi). 33. Schol. 20, Dim. prop. 3.^, p. II Prefaz., Prop. 3 e dim., Dim. prop. 5, Cor. i)rop. 6, ecc. Spesso questa forma è sostituita da un'altra «imile, cioè che le c<»se seguono dalla necessità della natura odel- Vessema divina: v. Eth. p. I Schol. prop. 15 verso la fine, Prop. 16, Dim. prop. 17, Schol. prop. 29, Cor. 2o prop. 32, Ap- pend. della p. 1 verso la fine, p. II Schol. prop. 45. p. V. Schol. prop. 29. ecc. (4) V. Eth, p. I, Schol. prop. 17, Prop. 21 e dim., Prop. 22, Dim. pr. 23, Dim. e Schol. prop. 28, p. II Prefaz. ecc. (5) V. Eth. p. 1. Dim. prop. 23, Schol. prop. 25, p. II Cor. prop. 6, p. IV Dim. prop. 4, ecc. r — 374 — concetto, si vede che tutte queste espressioni sono per rautove e^iuivalenti (1). In questa dottrina di Spinoza dobbiamo notare l' identità con quelle di Platone e di Hegel, e al tempo stesso la differenza. Tutte le idee, per Spinoza, devono dedursi da un'idea unica (2), come per Platone e per Hegel: ma quest'idea, per l'uno, è un con- cetto astrano — perchè l'essenza, considerata a parte, non è che un'astrazione — ma non un concetto generale come per gli altri due - perchè Dio o la Natura è un indivi- duo, e non un'entità generale come le Idee di Platone o di Hegel —. Che una cosn si deduca da un'altra, e che questa sia la causa e quella 1' effetto, sono per Spinoza delle pro- posizioni perfettamente equivalenti. Egli dice ad ogni passo che Dio è la causa di tutte le cose, che queste sono, o sono state, prodotte da lui, ch'egli le determina o le ha determinato ad essere e ad operare, che le crea o le ha creato, ecc.; parla continuamente dell'azione di Dio, della sua potenza, ecc. Ma tutto ciò signitìca che le cose possuìfo dedursi dall' essenza di Dio, ne sono le conseguenze; o a dir meglio, poter dedursi dall' essenza di Dio ed esserne causate sono per Spinoza una sola e stessa cosa, perchè per lui la causa è identica al prin- cipio logico e V effetto alla conseguenza (3). Noi abbiamo visto infatti che Dio è la causa delle cose nello stesso ^1) V. Mh. p. I Prop. 16 e dim., Prop. 23 o diiii., Schol. prop. 25, p. II Cor. prop. 6, p. IV Dim. prop. 4, eoo. (2) V. De ini. em, 42, 91, 91), eoo. (3) L' espressioDo più abituale di Spinoza, che le cose srguoìw o sono seguile dall'essenza di Dio, esprime il doppio aspetto del rapporto tra Dio e lo cose, cioè tanto il logico (ohe le cose sona le conseguenze deir essenza di Dio) quanto 1' ontologico (che ne sono gh effetti). — 375 - senso in cui è la causa di sé, vale a dire in (|uanto dal- l'essenza di Dio può dedursi l'esistenza delle cose come se ne può dedurre la suji propria esistenza. Così, dimo- strato che tutto ciò che cade sotto un intelletto infinito può dedursi dall'essenza di Dio come le proprietà d'una cosa dalla sua definizione (1), l'autore ne conclude: che Dio è la* causa di tutte le cose (2); che è causa per sé e non per accidente (3) ; che è la causa assolutamente prima (4:); ch'egli agisce per la sola necessità della sua natura (5); e quindi che è causa libera (6); che è ante- riore a tutte le cose per causalità (7) ; che è causa effi- ciente tanto dell' essenza quanto dell' esistenza delle cose (8;; che è causa efficiente anche di ciò che deter- mina le cose ad operare in un certo ìnodo (9); che le cose non avrebbero potuto essere prodotte da lui in niun altn) modo né in niun altro ordine (10). Dire che le cose sono, o sono stiate, prodotte da Dio, e cli'(ssse ^^eguono, cioè possono dedursi, dalla sua essenza, sono delle espre^.s- (1) AV/i. p. 1 prop. lf>, 1. e. (2) Cor. 1, proj». IH. V. a. Dim. prop. :U. (3| Cor. 2. Ciò vuol dire fhe è causa neci-ssariameiito. clie non può non produrre gli ett'etti che pn)du<o. V. Pio. Viionio ecc., cap. 3. n. 4 e cap. 0. (4) Cor. 8. (5) Dim. prop. 17. Nello Scliol. della prop. 3. p. II. questa jjroposizione è data, non come una conseguenza della proposi- sioue 16, ma come equivalente ad essa V. a. Hrefaz. del a p. IV (6) Cor. 2. prop. 17 — « Si dice libera quellji e.osa die esiste per la sola necessità della sua ujitura ed è determinata ad aj^ire da sé sola». (Parte 1. Del". 7). (7) P. 1 Schol. prop. 17. (8) P. 1 Sehol. prop. 2."). (9) P. 1 dim. prop. 20. (10) P. 1 Prop. 33 e Dim. f. sioni elle Spinoza (jonsidera come identiche di senso (1): le cose che sono in potere di Dio significa le cose che seguono dalla natura di lui (2); la sua potenza, causa di tutte le cose, è la sua stessa essenza, in quanto tutte le cose seguono da (piesta (3). Come si vede dalle proposi- zioni precedenti, quando Spinozii parla di Dio come cau- sa, egli non intende propriamente attribuire la causa- lità che air e««enra di Dio — due cose differenti, perchè Dio è il tutto, la sostanza coi suo modi, Vessenza di Dio è quest'astrazione che Spinoza riguarda come il substra- tum del tutto, la sostanza separatamente dai modi—. Così egli dice che le cose emanano o fluiscono dalla natura di Dio (come dall' essenza del triangolo deriva 1' egua- glianza dei suoi angoli a due retti) (4); che Dio è causa, o a<?isce, per la necessità della sua natura (5); che è da questa necessità della natura divina che le cose sono state determinate ad essere e ad operare in un certo modo (6); che Dio* è causa dei modi dell' estensione in quanto ha l'attributo dell'estensione e dei modi del pen- siero in quanto ha V attributo del pensiero (7) (perchè (1) V. p. 1 Schol. prop. 17 (in princ), Uiui. prop. 28. Sohol., Dim. prop. 33, Schol. 2. prop. 33 e App. p. 1. (2) P. 1 Schol. 17 in princ. e Dim. prop. 35. (3) F. 1 Prop. 34 e dim. Dim. prop. 36, App. p. 1 in princ. p. II Schol. pr. 3, Cor. pr. 7. (4) Mh. p. 1 Schol. iirop. 17, Kpisl. 49. 5-7. (5) P. 1 Cor. 2. prop. 17, Dim. pr. 26, Dim. pr. 34, App. p. 1 in princ, p. II Schol. prop. 3, ecc. (6) V. p. 1 . prop. 29 e dim., e dim. prop. 33. Una proposi- zione jinaloga nell'App. alla p. 1 (in princ), cioè ohe tutte le cose furono predeterminale dn Dio, non dalla sua volontà, ma dalla gita assoluta natura, (7) P. 1. Dim. pr. 32, p. II Pr. 5, 6, dim. pr. 45 ei-v. — 377 — r essenza è il complesso degli attributi (1) e le cose si deducono dall'attributo di cui sono i modi (2) ); ecc. Spi- noza distingue la natura naturante e la natura naturata: la natura naturante è definita « Dio in quanto è consi- derato come causa libera», e consiste negli attributi della sostanza astrattamente considerati ; la natura na- turata è tutto ciò che segue dall'essenza di Dio, vale a dire i modi di questi attributi (3). Talvolta non è Dio stesso che è riguardato come causa delle cose, ma l'at- tributo divino di cui esse sono i modi, (cioè il pensiero o l'estensione) (4): è l'espressione più esatta del pensiero di Spinoza, che senza dubbio userebbe più spesso, se non volesse discostarsi dal linguaggio comune. Il principio e la conseguenza considerati come realtà oggettive sono una stessa cosa in due stati differenti : quello a uno più astratto, più indeterminato; questa a uno stato più determinato, più concreto. Infatti la con- seguenza non è che un'applicazione, un caso particolare, del principio. La conseguenza racchiude dunque il [irin- cipio, come il concreto racchiude l'astratto. Di là l'as- sioma di Spinoza, che l'idea dell'effetto involge, cioè racchiude, l' idea della causa (5). Ne segue che le idee di tutte le cose involgono l' idea dell' essenza di Dio, (1) Def. 4, p, 1. (2) V. Dim. prop. 21, Pr. 23 e dim., Schol. 29, p. II Cor. prop. 6, ecc. (3) P. I Schol. prop. 29. (4) V. p. 1. Dim. prop. 28 e p. II Dim. prop. 5. (5) As8. 4, p. 1. Cfr. De int. em. 92 (la conoscenza d' un ef- fetto non è che una conoscenza più perfctt-i della sua causa) e 96. I (la definizione d'una cosa creata deve comprendere la sua causa prossima). a — 378 — — 379 - perchè questa è la causa di tutte le cose (1). Quelle dei modi del pensiero non involgono che quella dell' attri- buto del pensiero; perciò i modi del pensiero non pos- sono avere per causa che l'attributo del pensiero (2). E in generale le idee dei modi di un attributo non invol- gendo che l'idea dell' attributo stesso, questi modi non possono avere per causa che Dio considerato sotto que- sto solo attributo (3). Le cose pensata seguono e si con- cludono dall' attributo di cui sono i modi, della stessa maniera e con la stessa necessità che i loro pensieri dall'attributo del pensiero (4). Dall'identità della causa col principio logico e dell' effetto con la conseguenza segue pure questo canone del metodo di Spinoza, che la vera scienza procede dalla causa all'effetto — perchè la dimostrazione procede dal ])rincipio alla conseguenza — e consiste a conoscere le cose per le loro cause (5). Di là l'identità del processo con cui si produce la conoscenza (1) Elh. p. 1. Prop. 25 (cfV. pr. lo e diiii.), Schol. 28, p. II Dini. pr. 1, pr. 45 e dim., ecc. Un'altra espressione dello stesso concetto è che tutte le cose esprimono in un modo deter in inalo V essenza di Dio. V. Eth. p. 1. Cor. prop. 25, Dim. prop. 36, p. II Def. 1, Dim. prop. 1, Dim. pr. 5, Cor. prop. 10. ecc. La propo- sizione che le idee di tutte le cose involgono l'idea dell'essenza di Dio, equivale, al fondo, a quella che tutte le cose sono dei modi della sostanza divina. 1/ essenza di Dio essendo compresa in tutte le cose, cioè nei suoi effetti. Dio è, dice Spinoza, causa immanente, non transiente (V. Elh. p. 1, pr. 18 e dim.). (2) P. II Dim. prop. 5. (3) P. II dim. prop. 6. Nella dim. della prop. 45 il ragiona- mento è invertito : le cose hanno per causa Dio considerato sotto l'attributo di cui sono i modi, quindi le loro idee devono invol- gere il concetto di quest'attributo. (V. a. Episl. 66. 3). (4) Cor. prop. 6. (5) Eth, p. Il Schol. prop. 18, De ini. em. 19. IV, 85, 92, eco. col processo con cui si produce la realtà stessa : or do et conuvxio idearuni idem est ae ardo et connexio rerum (1). La concatenazione delle nostre idee (vale a dire, la loro concaten.azione logica) deve essere tale che il «ostro pen- siero non sia che la rappresentazione delle cose (2): esso deve andare da una cosa all'altra, progredendo secondo la serie delle cause ; i nostri concetti devono derivare, cioè dedursì, gli uni dagli altri, come le cose concepite derivano, cioè sono prodotte, le une dalle altre (3). Ma quest'antitesi fra i concetti che si deducono e le cose con- cepite che sono prodotte, non rende esattamente il pen- siero di Spinoza: che le cose sono prodotte le une dalle altre significa che possono dedursi le une dalle altre; e similmente che i concetti si deducono (jli uni da(/li altri può esprimersi pure dicendo che sono prodotti gli uni dagli altri (4). Non vi ha da una parte uji incatenamento (1) V. Elh. p. II Prop. 7. Spinoza dimostra questa proposi- zione per l'assioma che la conoscenza dell'effetto dipendente dalla conoscenza della causa. (2) V. De ini. em. 41-42. 85, 91. 99. (3) V. De ini. em. 41-42 e 99. (4) De ini. em. 41 : « Adde quod idea eodem modo se habet obiective, ac ipsius ideatum se habet realiter. Si ergo daretur aliquid in natura nihil commeroii habens cum aliis rebus, eiu» etiam si datur essentia obiectiva, <iuae convenire omnino debe- ret cum formali, nihil etiam commercii haberet cum aliis ideis^ id est. nihil de ipsa poterimus concludere ; et contra, (luae ha- bent commercium cum aliis rebus, uti sunt omnia quae in na- tura existunt, intelligentur et ipsorum etiam essentiae obiectivae idem habebunt commercium, id est, aliae ideae ex eis deducen tur, (juae iterum habebunt commercium cnm aliis p. L' autore aggiunge in nota (alle parole nihil etiam commercii haberet cum aliis ideis): Commercium hahere cum aliis rebus est produci ab aliis aut alia producere (Essenlia ohieiliva vuol dire. '^ — 380 - causale nella realtà, e da un' altra parte un incatena- mento deduttivo nel pensiero : è un solo e stesso inca- tenauiento, che ora si considera tra le cose, e ora tra le loro rappresentazioni. Aftinché il nostro pensiero rap- presenti di questa maniera l'esemplare della natura, bi- sogna che tutte le nostre idee siano prodotte da quella che rappresenta 1' origine e la sorgente di tutta la na- tura, cioè l'essenza di Dio, in modo che questa idea sia l'origine e la sorgente di tutte le altre idee (1). Ciò che è necessario di osservare è che quest'incatenamento cau- sale delle cose, identico all' incatenameli to deduttivo dei concetti, non ha luogo tra le cause e gli etfetti fenome- nali — cioè che sono dei fatti particolari e separati gli uni dagli altri — ma tra i gradi successivi dello svi- luppo di quest' essere unico, che Spinoza chiama Dio o la Natura. Come si vede da ciò che precede, quest' incatena- mento causale, che è al tempo stesso un incatenamento deduttivo, abbraccia, anche nel sistema di Spinoza, molti anelli (come in tutti i sistemi che identificano il rap- porto tra la causa e l' effetto col rapporto tra il princi- pio e la conseguenza). Il terzo genere di conoscenza con- siste a dedurre dall'essenza di Dio le essenze delle cose €onfoiiuemeiite al linguaggio scolastico, la rappresentazione; es- sentia formalis, la realtà) — Si veda pure il u. 42, nella nota se- guente, e il n. 99. nel { 27. (1) De int, em. 42 (è la continuazione del luogo riportato nella nota precedente) : « Porro ex hoc ultimo, quod diximus. scilicet quod idea omnino cura sua essentia formali debeat convenire, pate;i iterum ex eo quod, ut mens nostra omi.ino ref'erat natnrae exemplar, debeat omnes suas ideas producere ab ea, quac refert originem et foutem totius naturare, ut ipsa etiam sit fons cete- rarum idearuni ». Si veda pure il n. 99. — 381 - particolari : ma queste non si deducono immediatamente da quella, non ne sono gli effetti immediati. L' essenza di Dio e le essenze delle cose particolari sono i termini estremi di una serie, in cui ciascuno degli altri termini è la conseguenza e l'effetto del termine precedente, e la pre- messa e la causa del termine susseguente (1). Tra i modi infiniti ed eterni di Dio— tutto ciò che segue dall'essenza divina è eterno ed infinito come essa — Spinoza distin- gue quelli che seguono immediatamente da un attributo divino, e quelli che seguono da un attributo divino me- diante qualche modo che segue da quest' attributo (in altri termini che seguono da un modo che è seguilo dal- l'attributo) (2). Seguire da un attributo divino o da un suo modo significa al tempo stesso, come sappiamo, po^ tersene dedurre (3) ed esserne prodotto (4). Tra i modi che seguono dagli attributi mediatamente, niente ci vieta di (1) Così Spinoza parla di cause prime e di cause prossime - intendendo la parola causa nel senso spiegato, in cui è 1' equi- valente di principio logico — Il terzo genere di conoscenza ora è fatto consistere nel conoscere le cose per le cause prime — Ulh, p. II Schol. prop. 18, De int. em. 70, eco. — ed ora nel conoscere l'essenza di ciascuna cosa per la sua causa prossima — De int, em. 19 IV. 92, eco. — (La seconda deiìnizione equivale alla pri- ma, perchè anche la causa prossima deve essere conosciuta per la sua causa prossima . e cosi via via sino alla causa prima). Nell'Appendice alla p. I contrappone gli effetti ohe sono pro- dotti immediatamente da Dio a quelli che per prodursi hanno bisogno di piìì cause intermediarie. Gli effetti che sono prodotti immediatamente da Dio sono quelli di cui si tratta nella propo- sizione 21 ohe egli cita, cioè i modi ohe seguono immediatamente dagli attributi. (2) V. A7/i. p. I prop. 21-23 e 28. (3) V. Dim. prop. 23. (4) V. Dim. prop. 28. '• JMStfii**. — 382 - — 383 — supporre che ya uè siauo dei più prossimi e dei più re- moti; iu altri termini, che oltre a quelli che seguono da un attributo attraverso un solo modo, ve ne siano degli altri che ne seguono attraverso una pluralità di modi di cui Tuno segue dall'altro (1). È a ciò che pensiamo na- turalmente, quando Spinoza parla di una serie di cause, che il nostro pensiero deve riprodurre come concatena- isione logica di ccmcetti (2). Inoltre, come mostreremo nel § 27. Spinoza ammette, al di là <legli attributi, qual- che cosa di più fondamentale, che ne è il substratum come essi lo sono dei modi — è ciò ch'egli chiama Ves- sere assolutamente indeterminato—, e la logica «lei sistema esige che gli attributi se ne deducano e ne siano pro- dotti, come i modi si deducono <? sono prodotti dagli attributi. Nella serie delle cause, cioè delle cose eterne ed in- finite, il cui incatenamento causale è rappresentato dal- l'incatenamento logico dei concetti, il termine susse- guente è sempre una determinazione del termine prece- dente. È l'attuazione del principio che l'idea delFettetto involge l'idea della causa. Il primo termine della serie (1) A ciò non si oppone la proposizione di Spinoza che i modi ohe non seguono immediatamente da qualche attributo divino, devono seguirne mediante qualche modo (aliqua modificalione) che segue da un attributo (Dim. prop. 23). Infatti questo modo può essere la conseguenza di uno o più altri modi anteriori, e nondimeno Spinoza può parlare anche in questo caso come se fosse il solo modo intermediario, perchè ogni modo contiene in 66 stesso i modi anteriori di cui è la conseguenza (conforme- mente all' assioma che l'idea dell' effetto racchiude l' idea della «ausa). (2) V. De int. emend. i»9, e oonfr. 91 ed Eih, II p. Schol. prop. 18. i è Vessere assolutamente indeterminato: gli attributi, cioè l'estensione e il pensiero sostanziale, ne sono le prime determinazioni. I modi immediati dell' estensione sono la quiete e il movimento (l). I modi mediati sono coi modi immediati nello stesso rapporto che questi con gli attributi (2). Un esempio dei modi mediati (pure nel- l'attributo dell' estensione) è « l' aspetto di tutto 1' uni- verso (facies totius universi) che pur cangiando di ma- niere infinite, resta nondimeno sempre lo stesso » (3). È una determinazione dei modi immediati, perchè ogni va- rietà nel mondo materisile consiste in una diversa di- stribuzione della quiete e del movimento e nella diversa natura del movimento stesso (4). Ciascun termine della serie è il substratum di quello che lo segue, vale a dire ha con esso la stessa relazione che la sostanza coi modi. L'essere si forma, ])er dir così, per strati successivi, ag- giungendosi progressivamente nuove determinazioni, di cui la susseguente è la c<mseguenza e Fetfetto della pre- cedente. In questo progresso, è un solo e stesso essere, che passa continuamente, come per una forza interna che lo necessita a svilupparsi, da uno stato più indeter- minato a uno stato più determinato. È ciò che sopra ^ abbiamo chiamato i gradi successavi dello sviluppo di Dio e della Natura: ma si deve intendere d'una succes- sione, non cronologica, ma solamente logica, perchè le (1) V. Episl. 65. 4 e 66. 8. Cfr. Dio, V uomo ecc. pagine 45 e 133. (2) Cfr. la dim. della prop. 22. Eth, p. 1, con la dim. della prop. 21. (3) Epist, 66. 8. (4) V. Eth. p. II gli assiomi, lemmi, ecc. tra la prop. 13 e la prop. 14; e Dio, Vuomo, ecc. pag. 51-52 e 133-134 trad. frane. — 384 — conseguenze dell'essenza di Dio sono, come abbiamo detto, eterne come il loro principio. Questo concetto di Spinoza, che il processo secondo cui le cose si producono è uno sviluppo continuo al di fuori del tempo, che consiste a passare costantemente da uno stato più astratto, più indeterminato, a uno stato più concreto, più determinato, è, vi ha appena bisogno di notarlo, un carattere comune del realismo dialettico, che noi abbiamo già incontrato in tutti i sistemi pre- cedenti. § 26. Ciò che sef/ue, cioè si deduce, dall' essenza di Dio, non sono gli oggetti peribili e cangianti, ma ciò che vi ha di eterno e di immutabile nella natura. Le cose seguono o jlaiscoao dalla natura di Dio < sempre con la stessa necessità, allo stesso modo che dalla na- tura del triangolo segue ab aetenio ed in eterno che i suoi tre angoli sono eguali a due retti. » « L' onnipoten- za di Dio è stata in atto ab aetenio, e rimarrà in eterno nella stessa attualità » (1) Tutto « procede per una certa eterna necessità della natura » (2), tutto < segue dalla eterna necessità della natura di Dio » (3^ Come è per un' eterna necessità che le cose derivano dall' essenza di Dio, così è per un' eterna necessità che devono concepirsi come derivate da quest'essenza (4) (perchè l'ordine e la connessione delle idee sono gli stessi che l'ordine e la connessione delle cose): tutti i decreti di Dio involgono una verità ed una necessità eterne (5). Tutte queste prò- (1) Eth. p. 1. Scbol. pr. 17. (2) Mk. App. p. 1. (3) P. 2. Schol. pr. 45. (4) P. 5a Dira. prop. 22 e dini. prop. 23. Cfr. Schol. pr. 42 (il sapiente è conscio di se stesso o di Dio e delie cose per una certa eterna necessità). (5) Epist. 49. 7. 1 ' — 385 — posizioni sono basate sulla prop. 16 parte 1» (ehe l'au- tore cita), in cui ha dimostrato che tutto deriva dalla essenza di Dio come le proprietà d'una cosa dall'essenza di questa cosa. Il concetto che esse esprimono è clie la essenza di Dio è una causa eterna ed immutabile, che agisce d'una maniera eterna ed immutabile: la conse- guenza è che gli effetti di questa causa devono essere anch'essi eterni ed immutabili. Spinoza afferma ripetu- tamente l'eternità (1) e l'immutabilità (2) degli attributi divini, cioè del pensiero e dell'estensione considerati as solutamente, vale a dire astratti dai loro modi. L' eter- nitti è pure esplicitamente attribuita a tutti i modi ne- cessari degli attributi, sia immediati che mediati: tutto ciò che segue dall' essenza di Dio, sia immediatamente sia mediatamente, è, come abbiamo detto, eterno ed in- finito come essa (3). In quanto all'immutabilità esplici- tamente è affermata in Dio l'uomo e la beatitudine di tutti i modi immediati (4) ^che sono i soli modi eterni ed infiniti che Spinoza ammette in quest'opera) (5), e nel- l'Epist. 66. 8 dell'unico esempio che, in tutti i suoi scritti, egli dà dei modi mediati, cioè dell' « aspetto di tutto l'u- niverso » che, come abbiamo visto, resta sempre lo stesso malgi-ado i suoi infiniti cangiamenti. Noi dobbiamo dun- que ammettere che tutti i modi necessari (cioè che se- (1) Mh. p. 1* Dini. prò. 10, pr. 19 e dim., ecc. y2) Eth. p. la Cor. 2o pr, 20, Dim. pr. 21, p. 2a Soh. lo pr. 10, p. 5a Schol. prop. 20 De int. em. 76, Dio V uomo e la beat. p. 19, 34. 40 (in nota), 41, 42, 129, eco. (8) Dio Vuomo e la beat. p. 4546, 64, Eth. p. 1» pr. 21, 22, 23, Dim. pr. 28, p. 5^ Scoi. pr. 40. (4) V. Dio, Vuomo e la beat. p. 30 (n. 8») e 46. (5) V. Dio, Vuomo e la beat. p. 44-46 e 64. 25 — 386 — guoiio necessaria mente dall' essenza di Dio), tanto ^11 immediati qnanto i mediati, sono, secondo Spinoza, non solo eterni, ma anche immntabili. Ciò è confermato dal De intellectus emendatione (1), in cui la serie delle cauae^ cioè ress(*nza di Dio e le cose che gradatamente se ne deducono (vale a dire, come sappiamo dall'Etica, i modi immediati e mediati che seguono dagli attributi divini), è chiamata la < serie delle cose fisse ed eterne, y> ed oppo- sta a (|uel]a delle « cose singolari mutabili. > Del resto Pimmutabilitii in Spiiìoza accompagna necessariamente l^eternità, perchè T eterno per lui non è ciò che esiste in ogni tempo ^ ma ciò che esiste aldi fuori del tempo (2), e, per conseguenza, di ogni successione e di ogni cangia- (1) XIV. 99-101, luogo che riporteremo nel $27. (2) Eth. p. I DEF. Vili. Per aeternitutem iutelligo ipsam existeutiam, quatenus ex sola rei aeternae defìnitioue necessario sequi concipitur. ESPLICATIO. Talis euiin existeutia ut aeterna veritas, sicut rei essentia, concipitur, propteraque per duratio- nem aut lem pus explieari non poteste tametsi dura Ho principio et fine carerà concipintur. Clr. nella parte 5» (Dim. pr. 23 e Scbol., e Dim. pr. 29) l'antitesi fra l'esistenza eterna e V esistenza ohe si spiega o si definisce per il tempo e la durata. — Per compren- dere questo concetto dell' eternità di Spinoza (che è quello del realismo dialettico in generale), si deve avvertire che le « cose fisse ed eterne» sono, come spiegheremo in seguito, delle entità a- stratte, per concepire le quali bisogna fare astrazione di certe de- terminazioni della realtà empii ica. fra di queste la posizione nel tempo e la durata. Che le « cose fisse ed eterne » sono fuori del tempo e della durata, significa dunque che devono essere concepite astrazion facendo del tempo e della durata (tanto di un tempo e di una durata determinati quanto del tempo e della durata infiniti), ed esistono cosi come devono essere conceDite. perchè le astrazioni, in questi sistemi, sono delle realtà, e non dei sem- plici concetti. - 387 — mento. Le cose fisse ed eterne, cioè i modi eterni ed in- finiti dell'Etica, costituiscono, in un senso, tutto il reale, perchè Spinoza afferma, da una parte, che queste sole cose seguono, o possono dedursi, dall'essenza di Dio(l), e da un'altra parte, che tutte le cose seguono, o possono' dedursi, da questui essenza (2) Ciò non importa però che 1 modi eterni ed infiniti non siano altro che il complesso delle cose particolari, cioè empiriche. Ciò che prova che essi hanno un'esistenza distinta è che Spinoza nega che le cose « singolari », ossia «finite e che hanno una du- rata determinata», siano prodotte dall'essenza di Dio assolutamente considerata, sia immediatamente sia rae- diatamente (3). Vi ha in (,uesto sistema una doppia se- ne di cause, a cui corrisponde un doppio ordine di realtà. Una cosa singolare (o, come la definisce l'autore, finita e che ha un'esistenza determinata) lia per causa un'altra cosa singolare, che la precede nel tempo, questa un' al- tra, e così di seguito all' infinito (4). Queste cose non sono prodotte dall' essenza di Dio assolutamente consi- derata, cioè non se ne possono dedurre. È l'ordine delle realtà empiriche, e la loro causalità è una causalità em- pirica, cioè che si riduce a una sequenza invariabile. Ma al di là delle realtà empiriche vi ìmnno le co^a fisse ed eterne, cioè l'essenza di Dio e i modi eterni ed intì- (1) Mh. p. I prop. 21-23, V. anche i 1. indie, nella nota dopo la seguente.(2) V. Etk, p. I Schol. prop. 15 (verso la fine), Pr. 16, Schol. pr. 17, Schol. pr. 25, Schol. pr. 29, Pr. 33, Sohol. 2o, Dim. pr. 34, Pr. 35, App. p. 1, Epi^t. 49. 5-7, e?c. (3) V. Età. p. I Dim. prop. 28 e Schol., p. II Dim. prop. 9 e Dim. pr. 30. (4) V. Eth. p. I Prop. 28 e Dim. pr. 32, p. II Dim. prop. 9 e Dim. prop. 30. - 388 — Diti, che SODO prodotti dall'essenza di Dio assolti tameDte coDsiderata, cioè che se De deducouo. Per quest'altro or- diDe di realtà vale im'altra causalilà: è quella del rea- lismo dialettico, iu cui causa equivale a principio logico ed effetto a conseffuenza, e che Spiuoza ha di mira, quaudo dice che l'idea dell'effetto ìd volge, cioè racchiude, l'idea della causa. Le cose fisse ed eterne haono, come abbiamo detto, un' esistenza per sé, distiDta dall' iDsieme delle cose singolari; ma sono presenti in queste (1), e ne sodo le cause prossime (3). Chiamaudole cause prossime, Spi- li) V. De ini. em, 101 (nel luogo ohe riporteremo nel J 27). Per questa presenza (naoovdta plalonica) delle « cose fìsse ed e- terne » nelle cose che esistono nel tempo, il concetto dell' eter- nità viene completato e avvicinato al cor.cetto volgare, ohe ne fa uua durata infinita (V VEpist. 29, in cui Spinoza definisce la eternità « infinitam existendi fruitionem »). In un certo senso può dirsi che le « cose fisse ed eterne » esistono sempre, cioè in ogni tempo, perchè le cose fenomenali in cui esse sono presenti (come l'astratto è presente nel concreto) esistono sempre, cioè in ogni tempo. Ma in se stesse, vale a dire astrazion facendo delle cose fenomenali in cui sono presenti (o a dir meglio delle altre de- terminazioni che, aggiunte ad esse, costituiscono le cose feno- menali), sono fuori del tempo e della durata: esse sono anteriori al tempo e alla durata, che appariscono a un grado posteriore dello sviluppo dell'essere (anteriorità e posteriorità di natura), al -rado ultimo, perchè Spinoza riguarda il tempo e la durata come la nota distintiva dell'individuale, oiob, come dicevano gli oolastici, àeWomnimode determinatum (cfr. nota 2 a p. 386). (2) V. De ini. emend., thid. Lo stes^^o concetto, espresso d'una maniera differente, nello Scolio alla prop. 28 p. 1» dell' Etica : ivi si distinguono le cose immediatamente prodotte da Dio (cioè i modi eterni ed infiniti, si immediati che mediati) e le cose sin- golari che sono prodotte mediante quelle; Dio è causa assolnfa- mente prossima delle une (cioè delle cose fisse ed eterne), delle altre può anche dirsi causa remota. - 389 - Doza intende dire delle cause immanenti (perchè sono presenti negli eftetti), e considera, per conseguenza, le cose singolari, prese nel loro insieme, come le stesse cose fisse ed eterne ad un grado ulteriore di determinazione. Noi sappiamo infatti che — intendendo le parole causa ed effetto nel senso del realismo dialettico — l'ettetto nou è per Spinoza che una determinazione della causa, vale a dire la causa stessa a uno stato più determinato, meno astratto. È perciò che le cose singolari sono chiamate «le cose che hanno un' esistenza determinata » (1): finito e determinato e infinito e indeterminato sono per Spinoza dei termini equivalenti, perchè il finito per lui è il de- terminato, cioè il concreto, e l'infinito (le cose fìsse ed eterne) l'indeterminato, cioè l'astratto (2) Un'altra prova (1) Eth. p. I Dim. prop. 21. Prop. 28 e Dim.. ecc. L'espres- sione « esi.Atenza detenninatJi » è per Spinoza l' equivalente di «durata determinata» (che equivale alla su:i volta a «durata finita») e l'opposto di «eternità». Ma (siccome denota l'esisten- za individuale) eswa deve significare anche l' idea che natural- mente suggerisce, cioè che le cose a cui si applica sono delle realtà concrete, e non delle astrazioni realizzate come lo. « cose fisse ed eterne ». (2) V. VEpist. 50, in cui si trova la celebre proposizione « de- terminatio negatio est », ohe egli prova per la oonsi'lerazione che la figura, cioè una delerminaiione eli 'estensione, non h che una limitmione di questa (perchè non esiste nell' es:;ensione in- finita, ma solamente nelle estensioni finite). Questo principio che la determinazione è una negazione, cioè una limitazione, si veri- fica, nel sistema di Spinoza, in tutti i passaggi del reale da un grado anteriore al irrado posteriore. Così la quiete e il movi- mento, che sono i modi immediati dell' estensione, cioè le sue prime determinazioni, ne sono pure delle limitazioni (perchè la estensione in quiete è limitata dall' estensione in movimento, e viceversa). Così pure l'estensione e il pensiero sono delle limita- - 390 - che dimostra che a quest' indetermiDato (cioè alle cose fìsse ed eterne) è attribuita uua realtà propria, distinta dal complesso delle cose «che hanno un'esistenza deter- minata >, è l'uso frequente del tempo passato per indi- care la derivazione dall' essenza divina dei modi eterni ed infìniti e, in generale, di tutte le cose (di cui « le cose fisse ed eterne > sono 1' elemento veramente reale) (1); seguirono (2), furono prodotti (3), furono creati (4), ecc (5). Spinoza può esprimersi così, perchè le cose fìsse ed e- terne essendo distinte da quelle che esistono nel tempo^ la loro produzione non è un fatto che si ripete continua- zioni dell' essere assolutamente indeterminato^ perchè questo è as- solutamente infinito, mentre i suoi atttributi si limitano l'uno con l'altro, e non sono infiniti che ciascuno nel suo genere (V. Epist. 41). (1) Per Spinoza, come per tutti i realisti dialettici, il vero es- sere è l'elemento eterno e necessario delle cose. È ciò che è af- fermato iraplicitjimente nelle proposizioni in cui dice ohe tutte cose seguono, cioè si deducono, dall'essenza di Dio (v. nota 2 a p. 387) se si mettono in rapporto con le altre in cui dice invece che da quest' essenza non seguono, cioè non si deducono, che i modi eterni ed infìniti (v. nota pure a p. 387). (2) V. Eth. p. I Prop. 23 e Dim., Dim. pr. 29, Dim. pr. 33, Schol. 2o, App. p. I (verso la fine), Prefaz. p. II. (3) V. Eth, p. I Schol. prop. 28, Prop. 33, Schol. 2. prop. 33. (4) V. Eth, p. I Schol. 2. prop. 33, App. p. I verso la fine. Dio, V uomo e la beat, trad. frane, pag. 27, 30, 33. 34, 36, 37, 38, ecc. (5) Indicherò pure Eth. p. 1. Schol. prop. 17 (tutte le cose fluirono necessariamente dalla natura di Dio — come dall'essenza del triangolo segue l'eguaglianza dei suoi angoli a due retti — ), Prop. 29 e Dim. Prop. 33 (tutte le cose sono state detcrminate dalla necessità della divina natura ad essere e ad operare in un certo modo) e App. p. I. sul principio (tutte le co»e furono pre- determinate dall'assoluta natura di Dio). — 391 mente per un tempo infinito, ma che avviene una volta sola, al dì fuori del tempo, e può quindi coiisidf^rarsi come passato (quantunque nell'eternità non vi sia, come dice l'autore, né quando né ante né posti (1), porche non è in feri, ma già compiuto ab aeterno. Spinoza distingue due njodi di concei)ive le cose, o piuttosto due forme della loro esistenza stessa : da una parte il loro essere empirico, la loro esistenza nel tempo e nella durata, che noi ci rappresentiamo per i sensi e l'immaginazione; da un'altra parte le cose considerate 8uh specie aeiern itati f(, che s4)iio 1' oggetto della scienza assoluta. Considerare le cose sub specie aeternitatis vuol dire concepirle come eterne (2), e questo non è per Spinoza un pensiero fittizio o una semplice astrazio- ne mentale, ma le cose pensate sub specie aeterni- tatis sono, secondo lui, eterne come si pensjino. Le cose, dice, Spinoza, in due modi si concepiscono da noi come attuali (cioè come reali): l'uno in (pianto esistono in un certo tempo e in un certo luogo, l'altro in quanto seguono, cioè si deducono, dalla essenza di Dio. Le cose che si concepiscono a questo secondo modo come vere ossia come reali, le concepiamo sotto la specie (1) Eth, p. I. Schol. 2. prop. 33. (2) V. A7/«. p. II. Cor. II. prop. 44, p. V. Dim. pr. 23. Dim. pr. 29, Schol., Dim. pr. 30, ecc. Questa eternità, in alcuni dei luoghi indicati, è espressa come la esclusione di ogni relazione di tempo e di ogni durata, perchè è in ciò che consiste anzitutto, per Spinoza, reternità (quantunque essa implichi inoltre che ciò che in se stesso è al di fuori del tempo e della durata è pre- sente in ciò che occupa tutto il tempo e tutta la durata, concetto inseparabilmente legato al primo, perchè ciò che ò al di fuori del tempo e della durata è, secondo Spinoza, »;iò che esiste ue- eessarianiente). — 392 - dell'eternità (1). Noi dobbiamo concepire le cose sotto la specie dell'eternità, perchè è con una eterna neces- sità che derivano dalla essenza di Dio (2). Questa spe- cie di eternità sotto cui devono essere concepite è la stessa eternità della natura divina. Dobbiamo concepirle eterne come la natura divina, perchè dobbiamo contemplarle come necessarie e percepire questa loro necessità quale* è realmente in se stessa: ora in se stessa questa neces- sità delle cose è la stessa necessità della eterna natura di Dio (3). L'esistenza eterna è l'esistenza che segue ne- necessariamente dall'essenza di Dio. È in questo senso che Dio è eterno (cioè in quanto la sua essenza implica la sua propria esistenza): è in questo senso pure che le cose si concepiscono sub s[)eci<'ì aeternitatis, cioè in quanto si concepivscono come esseri reali per la essenza di Dio, o in quanto per questa essenza involgono l'esistenza (vale a dire in quanto la loro esistenza è una conseguenza necessaria dell'essenza di Dio) (4). Che le cose concepite (1) Klh. \ì. V. Schol. pr. 29: « Re» duobus modis a n()l»is ut ìic- tiialcs coacipiuiitur, vel quateuus easdem cura relatioiie ad cer- tuni tcuipus et locum existere, vel quateuus ipsas in I)eo con- tili»'ri et ex naturae divinae necespìtate coupequi conoipiuius. Quae auteni hoc secundo modo ut verae seu reale» coucipiuutur, eas 8ub aeternitatis specie coucipimus. » (2) V. Mh. p. V. Dim. pr. 22. (:^) COR. II. PR. 44: De natura ratiouis est res coucipere sub specie aetwnitatis. DEMONSTR.: De natura enini rationis es rea ut necessarias et non ut contingeutes eoutenipbiri. Hanc autem rerum necessitatem vere, hoc est, ut in se est percipit. Sed haec rerum necessitas est ipsa Dei aeternae naturae necessitas. Ergo de natura ratioiiis est res sub hac aeternitatis specie contemplari. (4) Eth. p V. Dim. prop . 30: Aeternitas est ipsa Dei essen- tia, quateuus bacc necessariam involvit exìsteutiam. Res igitur sub specie aeternitatis siano per Spinoza delle realtà ve- ramente eterne, oltre che da queste proposizioni risulta dalla sua dottrina, che la scienza assoluta, cioè il terzo genere di conoscenza, deve contemplare le cose sub spe- cie aeternitatis (1). Tanto più che secondo il principio del parallelismo (orda et connexio idearum idevn. est etc.) deve esservi equazione perfetta tra il pensiero e la real- tà- e che il terzo genere di conoscenza è una conoscenza intuitiva (2), in cui non hanno luogo, per conseguenza, -delle astrazioni puramente mentali o altre rappresenta- zioni ausiliarie (3), ma 1' intelligenza non fa che ripro- durre l'oggetto intelligibile come la percezione l'oggetto sensibile.^'Questa equivalenza tra una cosa concepita sub specie aeternitatis e una cosa realmente eterna, si vede inoltre nei luoghi in cui espone la sua dottrina dell'eternità della mente umana. La mente umana è e- terna in ciuanto è 1' idea del corpo umano concepito sub specie aeternitatis (4/. ma il corpo umano concepito sub specie aeternitatis è eterno come la mente stessa. Cosi Spinoza parla dell' esistenza presente della mente, che 4c si <letioisce o si spiega per il tempo e la durata» (5), di- 8tin«aiendola dalla sua esistenza eterna o al di fuori del tempo e della durata; e parla pure, negli stessi luoghi sub specie aeternitatis concipere est res concipere, quateuus per Dei essentiam ut entia realia coucipiuutur, sive quatenus per Dei essentiam involvunt existentiam. (1) V. Eth. p. V. Schol. pr. 29, Dim. pr. 31, Dim. pr. 33, eco. (2) Dio, l'uomo e la beat. trad. frane, pag. 5556, Eth. p. II. Schol. II. prop. 40, p. V. Schol. prop. 36, />« ÌH<. ew^^Hrf. 24, ecc. (3; De int emend. 93, 99, ecc. (4) V. Eth. p. V, Pr. 23, Dim. e Schol. (5) Eth. p. V. Dim. prop. 23 e Schol. V. pure p. III. Schol prop. 11. . *^ 6 Ubigli Btea^ierflMoi, éitìV esigenza, presente del corpo (1)^ che < si detìnisee o si spiega per il tempo e la durata » (2)^ ciò che implica che anche per il corpo vi ha un'esistenza eterna, al di fuori del tempo e della durata. Così ancora la mente, « in (pianto si conosce o si considera sub spe- cie aeteruitatis » vale lo stesso che la mente « in quanto è eterna, » (3) e le cose realmente eterne, come quelle considerate sub specie aeternitatis, hanno per contrap- posto le cose € in quanto si considerano con relazione a un certo tempo e a un certo luogo > (4). Che il corpo umano deve avere, come la mente umana, una doppia esistenza, l'una temporanea e l'altra eterna, è d'altronde la conseguenza inevitabile di uno dei principii fon- damentali del sistema di Spinoza, cioè del parallelismo (1) P. V. Dilli, pi-. 21, Dim. pr. 23, Schol. pr 29 e Diiii. V. pure p. III. Schol. prop. 11. (2) P. V. Dim. pr. 23, o Dim. prop. 29. (3) V. Eth, p. V. Prop. 30 (mens uoàtra quatenus se et cor- pus sub specie aeternitatis co«;noscit) e Diin. (lo stesso, ma in- vece di cognoscit, eomipil) e Prop. 36 (Deus quatenus per es- seutiam humanae mentis sub specie aeternitatis cousideratam explicari potest). V. pure Dimostr. prop. 37: mentis natura qua- tenus ipsa ut aeterna veritas per Dei uaturam consideratur. Quatenus ut aeterna veritas per Dei natnrnm consideratur non differisce essenzialmente dalla espressione più abituale conside- rata sub specie aeternitatis^ perchè le cose si considerano sub specie aeternitatis in quanto si riguardano come verità necessarie dedotte dell'essenza di Dio. (Cfr. lo Schol. della prop. 29, ripor- tato nella nota 1 a p. 392. La frase di questo scolio quatenus ex naturae divinne necessitate conseqni concipimus è evidentemente l'equivalente di quella della Dim. prop. 37 quatenus ut aeterna veritas per Dei naturam consideratur. (4) V. Schol. prop. 29 e Sch. prop. 37. V. pure i luoghi della p. V. indie, nelle duo note prima della precedrnte. — 395 - psico-tìsico (date le sue dottrine che la mente è V idea del proprio corpo (1), e che la nostra mente, in quanto è eterna, è l'idea del nostro corpo concepito sub specie aeternitatis (2)). Non può esservi, secondo Spinoza, né uno spirito senza corpo né un corpo senza spirito, per- ché il tìsico e lo psichico, sono per lui le due facce in- separabili sotto cui si rivela una realtà unica. Spinoza afferma, come conseguenze del parallelismo psico-fisico, che le idee delle cose singolari, cioè le loro menti o le loro anime, non durano che mentre durano le cose stes- se (3); che :i' anima non è stata mai senza corpo, né il corpo senza anima (4); che l'esistenza presente della nostra mente (cioè quella che si definisce per il tempo e la durata) cessa quando cessa l'esistenza presente del nostro corpo (5). Per la stessa ragione deve ammettere — se vi ha, oltre all'esistenza presente, un'esistenza e- terna della nostra mente — che questa seconda esistenza ha luogo anche per il nostro corpo, perché il corpo di cui la nostra mente é l'idea nella sua esistenza eterna, é il corpo stesso della sua esistenza presente, concepito sub specie aeternitatis (6). Tutto ha dunque, secondo Spi- noza, una doppia esistenza, l'una temporanea e 1' altra eterna, il nostro corpo come la nostra mente, e come il nostro corpo tutti gli oggetti contemplati dalla ragione, perché la ragione, come abbiamo visto, deve contemplare (1) V. Uth, p. II. Propr. 11, Prop. 13, e Cor. e Schol. di questa. (2) V. la nota 4 a p. 393. (3) P. II. Cor. e Schol. pr. 8. (4) Dio Vuomo e la beat. trad. frane, la nota a pag:. lOfJ. (5) Eth. P. III. Schol. pr. 11. Cfr,. Schol. prop. 17 p. II. (6) Cfr. ciò che diremo nella nota finale di questo paragrafo sul vero significato della dottrina dell'eternità della mente umana. — 396 — tutto sub specie aeternitatis. Essa deve conteraplare sub specie aeteruitatis tutte le cose presenti, passate e fu- ture (1), salvo che deve contemplarle non come presenti, passate o future, ma come eterne. Gli avvenimenti stessi devono essere contemplati sub specie aeternitatis, per- chè anch'essi sono oggetti della ragione, ed è solo la loro temporaneità che non è che oggetto dell' immagi- nazione (2). Tutti gli avvenimenti, come tutti gli ogget- ti, esistono dunque a un doppio stato: l'uno nel tempo e nella durata, come li conosce l'immaginazione, e l'altro fuori del tempo ed eterno, come li conosce la ragione. Non si deve credere però che le cose considerate sub specie aeternitatis sono gli oggetti individuali con tutti i loro earatteri individuali, e con questa sola differenza, che bisogna rappresentarseli, non come temporanei, ma come eterni. Le cose concepite sub specie aeternitatis non sono delle finzioni, ma ut verae seti reales concipiun- tur (3). Perciò devono rappresentare ciò che vi lia di e- temo e d'immutabile nelle cose, Telemeuto costante della natura, che è sempre lo stesso nella successione e il can- giamento incessante dei fenomeni. Non sono, a parlar prnpriamente, gli oggetti individuali, con le circostanze che fanno di ciascuno tale o tal altro individuo distinto e differente dagli altri, che bisogna rappresentarsi come eterni, ma le forme o i tipi costanti della natura, che essi rappresentano, e di cni non sono che degli esempi. Le cose concepite sub specie aeternitatis sono gli oggetti della scienza assoluta, cit»è del terzo genere di conoscen- za (4): ma la realtà empirica, 1' individuo, non può es- — 397 - sere, secondo Spinoza, un oggetto del terzo genere di conoscenza. Noi abbiamo visto infatti che il terzo genere di conoscenza consiste a dedurre le cose dall'essenza di Dio (1), e che le cose < singolari » o « che hanno un'e- sistenza determinata» non seguono, cioè non possono dedursi, dall' essenza di Dio (2). Inoltre il terzo genere di conoscenza consta d'idee adequate (3); ma Spinoza non ammette che delle cose empiriche, individuali, vi siano delle idee adequate. Noi non abbiamo che una cogni- zione inadequata, o delle idee mutilate e confuse, sia del nostro corpo, considerato come oggetto individua- le (4), e delle sue modificazioni (5), sia delle parti che lo compongono (6) e dei corpi esterni (7) considerati come ogi^etti individuali, sia della nostra mente (8) e del- le idee della nostra mente corrispondenti alle modi- ficazioni del nostro corpo (9). Tutti gli oggetti em- pirici, individuali, noi non ce li rappresentiamo che mediante le modificazioni del nostro corpo (10), e le rappresentazioni così formate costituiscono l' immagina- (1) Eht. p. IV prop. 62 e Dim. (-2) V. Schol. prop. 62 p. IV. (3) £th. p. V Soho). pr! 29 (oli. uella nota 1 a p. 392). (4) V. i 1. cit. nella nota 1 a p. 393. (1) V. parag. '5 pag. 371. (2) V. pag. 387 (3). (3) Mh. p. II Schol. pr. 40, Dim. pr. 41, Sch. prop. 47, p. V Prop. 28, De int. emendai. 24, 29, eoo. (4) Eth. p. II Prop. 19, Pr- 27, Cor. pr. 29. (?) Eth, p. II Pr. 28. (6) Eth, p. II Pr. 24. (7) Eth. p. II Cor. 2. pr. 16, Pr. 25, Pr. 26, Cor. pr. 29, p. Ili Afttct, gener, definii, (8) Eth, p, II. Pr, 23, Schol. pr. 28, Prop. 29, Cor. prop. 29. (9) Eth, p. II. Schol. pr. 28.,, ^ (10) Eth, p. II. Prop. 19, Propr. 23, Prop. 26 e Cor., Cor. prop. 29, Schol. II. pr. 40, p. V. Prop. 21, ecc. — 399 - K zione (1), che noQ è che il grado infimo di conoscenza, e non consiste che in idee inadequate (2). Che le cose concepite sub specie aeternitatis si svestano della loro individualità, risulta del resto dai luoghi precedente- mente citati (3), in cui esse si contrappongono alle cose concepite con relazione a un certo tempo e un certo luogo (perchè la posizione in un tempo e in un luogo determinati sono state sempre riguardate come le con- dizioni dell'esistenza individuale). Ciò che si concepisce sub specie aeternitatis, non sono, a parlar propriamente, le cose stesse, ma le essenze delle cose. L'essenza, in ef- fetfco, è \\u' eterna verità (4), cioè necessaria (5) e che si verifica sempre (6), perchè è sempre la stessa nella sue- (1) Eth. p. II. Schol. pr. 17. i^or. prop. 26. Scliol. II prop. 40. p. V. Prop. 21, De ini. emend. 84.86-88, 91. (2) Eth, p. II. Schol. pr. 17, Cor. pr. 26, Schol. 11. pr. 40 De ini. emend. 74. 84, 86-90, 91 ecc. -Che delle cose inclividuali non VI siano idee adequate «i vede pure dalla distinzione tra gh atìetti che si riferiscono alle cose di cui abbiamo intelligenza e quelli che si riferiscono alle C(»se singolari (V. Ufh. p V Prop. 7 e Schol. prop. 20 u. 3), e dalla proposizione che. for* mandoci delle idee chiare e distinte, cioè adequate . doi nostri affetti, h separiamo dal pensiero delle loro cause esterne (cioè delle cose particolari ohe ne sono l'oggetto o V occasione) e li uniamo invece a dei pensieri veri (V. Sch. pr. 4 e cfr. Schol pr. 20). (3) Schol. prop. 29 e Schol. prop. 37 p. V. (4) Età, p. I. Exiplicat. Def. Vili, Schol. 2. prop. 8, Schol. prop. 17, De ini. em. 67- Dire di una cosa che ^ si considera come un'eterna verità p equivale per Spinoza a dire che € si considera sub specie aeternitatis » V. Eth. p. V. Dim. prop 37 1. cit. nella nota 3 a p. 394, e cfr. questa nota. (5) V. De int. em. 67 e 100. (6) V. De ini. em. 54 n. 3. cessione degrindividui (1), e una verità che si verifica sempre, per un apriorista radicale come Spinoza, è una verità necessaria. E infatti il terzo genere di conoscenza (il cui oggetto sono, come sappiamo, le cose considerate sub specie aeternitatis) deduce propriamente dall'essenza di Dio, non le cose stesse, ma le loro essenze (2). Così Spinoza preferisce di dire che ciò che si considera sub specie aeternitatis è l'essenza del corpo umano, anziché il corpo umano stesso (3) (e se non fa lo stesso per la mente, è perchè e.ii^li vuol esporre la sua dottrina della eternità della mente umana in una forma che l'avvicini, più che sia possibile, alla dottrina comune dell'immortali- tà dell' anima, e per un' altra ragione che vedremo nella nota in fine del paragrafo). Ci si potrebbe obbiettare in ve- rità che l'essenza d'una cosa non differisce per Spinoza dal- la cosa st-essa, perchè egli dice in una definizione (4) che all'essenza d'una cosa appartiene « ciò, dato il quale, la cosa necessariamente è posta, e tolto il quale, la cosa ne- cessariamente è tolta, o ciò senza cui la cosa e viceversa ciò che senza la cosa non può uè essere uè concepirsi», facendo così entrare nell' idea dell'essenza d' una cosa individuale tutte le note che entrano nell'idea di questa cosa stessa (5). Ma è chiaro che nell' uso della parola essenza egli non si conforma sempre a questa defini- zione: quando dice che l'essenza è un'eterna verità, egli Jl) V. Elh. p. I. Schol. pr. 17. (2) V. Elh. p. II. Schol. Il pr. 40 e De ini. em. V. (3) V. Elh. p. V. Prop. 22. (4) Elh. p. II. Def. II. (5) È in questo significato che intende la parola essenza nel- l'Ass. 1., nello Schol. della prop. 17, nella Prop 37 e nel Cor. 2. della prop. 44, II parte. — 400 — b ' n Don può intendere per questo termine che ciò che in- tendono generalmente gli altri filosofi, cioè V essenza comune a tutti gl'individui d'una specie, l'oggetto d'una definizione generale. Che sia questa l'essenza che deve essere contemplata sub specie aeternitatis è ctmfermato dal Trattato De int emend, (1), in cui dice « che le es- senze delle cose singolari mutabili > non devono rica- varsi da queste cose stesse, ma devono cercarsi nelle «co- se fisse ed eterne >, le quali possono riguardarsi come « dei generi delle definizioni delle cose singolari muta- bili >. A queste essenze cosi intese (cioè come oggetti delle definizioni generali, concepiti separatamente dalle proprietà particolari a tale o tal altro individuo), Spi- noza non attribuisce, come gli altri filosofi, una semplice esistenza concettuale, ma una realtà propria e distinta, perchè le cose considerate sub specie aeternitatis non sono per lui, come abbiamo visto, delle astrazioni men- tali, ma delle cose veramente eterne e sussistenti per se stesse. Evidentemente, le cose considerate sub specie aeter- nitatis non sono altro che i modi et-erni ed infiniti dell'^^ica e le cose fisse ed eterne del Trattato De in- tellectus emendatione. Infatti le cose considerate sub spe- cie aeternitatis sono quelle che formano 1' oggetto del terzo genere di conoscenza, e questo consiste a dedurre le cose dell'essenza di Dio: ora, secondo l'Etica (2), dal- l'essenza di Dio non seguono, cioè non possono dedursi, che i modi eterni ed infiniti, e secondo il Trattato de int. emend. (3), la serie delle cause, gli oggetti che la ragione deduce gli uni dagli altri, non sono che le cose ~ 401 (1) $. 101, luogo che riporteremo nel paragr. 27. (2) Prop. 21 23 p. I- (3) }. 99-101. fisse ed eterne. Noi possiamo dunque applicare alle cose considerate ^«6 specie aeternitatis ciò che Spinoza afferma dei modi eterni ed infiniti o delle cose fisse ed eterne e viceversa. Ora noi abbiamo visto che le cose fisse ed eterne (o i modi eterni ed infiniti) hanno un'esistenza distinta da quella delle cose singolari e temporanee ma sono presenti in esse e ne sono le cause immanenti] e non sono che esse stesse a uno stato «.9//77^/o, cioè se- parate da alcune delle loro determinazioni. Lo stesso dobbiamo dunque dire delle cose considerate sub specie aeternitatis. Spinoza le identifica con le cose sin-ohiri e temporanee (riguardandole come queste cose stes'se con- cepite di un altro modo), perche le cose considerate sub specie aeternitatis e le cose singolari e temporanee sono e stesse cose a due gradi differenti di determinazione, .le une a uno stato astratto, le altre allo stato con- creto. Ma può al tempo stesso distinguerle, e può am- mettere che le une sono presenti nelle altre (1) e ne sono le cause immanenti, perchè secondo lui l'astratto esiste per sé, quantunque non si trovi che nel con- creto, e r effetto è la causa stessa a uno stato più avan- zato di determinazione. La sola difficoltà che presenta rinterpretazione di questa dottrina di Spinoza è di sa- pere con precisione quali sono le determinazioni del rea- (1) Le cose considerate sub specie aeternitatis non sarebbero considerate così, se non fossero, non solo esistenti fuori del tempo e della durata, come ce le rappresenta Spinoza, ma anche pre- senti nelle cose che occupano tutto il tempo e la durata : è a questa sola condizione che una cosa esistente fuori del tempo e della durata può essere riguardata come eterna, perchè noi in- tendiamo per eternità una durata infinita, o, come dice Spinoza, la « fruizione infinita dell'esistenza ». 26 — 402 — le (cioè del reale empirico, delle cose esistenti nel tempo e nella durata), di cui bisogna fare astrazione per con- cepire le cose sub specie aeternitatis, cioè per farne delle cose fisse ed eterne, dei modi eterni ed infiniti di Dio. Questa quistione- siccome le cose considerate sub specie aeternitatis sono le cose in quanto formano oggetto del terzo genere di conoscenza, o, ciò che è lo stesso, in quanto seguono necessariamente, cioè si deducono, dalla essenza di Dio— equivale a quella di sapere qual è pre- cisamente l'oggetto del terzo genere di conoscenza, in altri termini quali sono le determinazioni delle cose che Spinoza rignanhi come necessarie e deducibili dall' es- senza di Dio, e quali quelle che riguarda come acci- dentali e non deducibili. Senza dubbio ciò che Spinoza riguarda come necessario e come deducibile è ciò che vi ha di eterno e d'immutabile nelle cose, l' elemento permanente e sempre identico della natura: ma si tratta appunto di sapere ciò che egli considera, nelle cose, come eterno ed immutabile, e al tempo stesso come esi- stente per sé, benché presente nelle cose stesse; quale è nelle cose l'elemento variabile e fenomenale che non è che l'oggetto deìV immaginazione, e quale l' elemento sempre ideutico a se stesso e veramente reale (1) che è l'oggetto della vera scienza. Su questa quistione, bisogna convenirne, noi non troviamo quasi altro in Spinoza, d'una maniera espli- cita, che ciò che possiamo trovare in qualsiasi altro realista dialettico, p.e. in Platone. L'elemento eterno e necessario della natura si distingue dalle cose indivi- duali, è costituito dalle loro essenze comuni, ed esiste per sé (benché presente nelle cose individuali), al di (1) V. Nota 1 a p. 390. — 403 — fuori della successione e del cangiamento. Ciò implica che, per concepire quest' elemento eterno e necessario, noi dobbiamo fare astrazione di ogni determinazione del reale come complesso di cose individuali, e non in- cludere nei nostri concetti che 1' universale puro, le forme e le leggi generali della natura. Anche in ciò Spinoza si accorda esplicitamente con gli altri realisti dialettici. Le basi della nostra conoscenza razionale sono, dice Spinoza, delle nozioni comuni a tutti gli uomini, che rappresentano ciò che vi ha di comune a tutte le cose (1) : di queste proprietà comuni di tutte le cose noi a4>biawio delle idee adequate (2), e siccome esse non costituiscono l'essenza di alcuna cosa singoiar© (Bel senso della parola essenza di cui si tratta nella Def. II P. II) (3), devono essere concepite senza alcuna relazione di tempo, ma sub specie aeternitatis (4). Noi abbiamo anche idee adequate di ciò che è comune al corpo umano e ad al- tri corpi esterni e alle loro parti (5): infine tutte le idee che si deducono da idee che sono, nella nostra mente, adequate, sono anch'esse, nella nostra mente, adequa- te (6). La conoscenza razionale è una conoscenza uni- versale, che è costituita da nozioni comuni (cioè gene- rali) e da idee adequate delle proprietà delle cose (e non delle cose stesse) (7); e se Spinoza contrappone la conoscenza del terzo genere a quella del secondo in (1) Mh. p. II Cor. 2. prop. 44. Cfr. Prop. 38 e Cor. (2) P. II Prop. 38. (3) V. p. 399 (4). (4) Cor. 2. prop. 44. (5) P. II Prop. 39. (6) Prop. 40. (7) V. P. II Sohol. 2. prop. 40 e cfr. Schol. prop. 36 p. V. — 404 — quanto la prima lia per oggetto il singolare (1), ciò non è perchè essa non sia una conoscenza universale come quella del secondo genere, ma perchè l'universale che è l'og- getto del secondo genere di conoscenza non è che la collezione dei particolari, astrattamente considerata, men- tre quello che è 1' oggetto del terzo genere esiste per se stesso indipendentemente dalle cose particolari, ed è quindi singolare anch'esso (2) (quantunque non nello stesso senso che le cose che si chiamano propriamente singolari, cioè le mutabili) (3). E infatti ciò che nel Cor 2. alla prop. 40 II parte ha detto del 2° genere di conoscenza, che esso è costituito «di nozioni comuni e di idee ade- quate delle proprietà delle cose », Spinoza lo consi- dera, nelle Dim. delle proposizioni 7 e 12 della parte V^ come una definizione generale della ragione, quindi non può non applicarsi anche al 3« genere di conoscenza, che è la conoscenza razionale per eccellenza (4). Si vede anche dal primo di questi due luoghi che queste € proprietà della cose » di cui si tratta nel Cor. 2* prop. 40 II parte, sono, « le proprietà comuni delle cose», cioè, non le proprietà comuni a tutte le cose (di cui nella Prop. 38 parte II), ma tutte le proprietà generi- che e specifiche in generale (perchè nella Dim. della (1) Hlh, p. V Sch. pr. 36. (2) Elh p. V Schol. prop. 86, Schol. prop. 37, De ini. em. 93, 99, 101. (3) Nel De int. em. nello stesso luogo in cui chiama le cose fisse ed eterne « singolari», distinguendole dalle cose singolari «mutabili» ($ 99-101), intende per «singolari» senz'altro le « mutabili » (^ 101, 102 e 103), cioè le cose singolari nel senso ordinario. (4) De natura rationis est res sub quadam aeternitatis specie percipere (Cor. 2. prop. 44 parte lì). — 405 — prop. 7 p. V gli affetti clie si riferiscono alle « pro- prietà comuni delle cose » sono tutti quelli che « na- scono dalla ragione », i quali vengono apposti a quelli che « si riferiscono alle cose singolari », e nello Schol. alla prop. 20 n. 3 -— in cui si cita questa prop. 7 — gli 4C affetti che si riferiscono alle proprietà comuni delle cose » sono detti invece « gli affètti che si riferiscono alle cose di cui abbiamo intelligenza » e contrapposti a quelli « che si riferiscono alle cose che concepiamo d'una maniera confusa e mutilata, » cioè alle « cose singolari » di cui nella prop. 7.) (l). È superfluo, del resto, dimo- strare che il 3" srenere di conoscenza ha per oggetto, se- condo Spinoza, l'universale in se stesso^do\)o che abbiamo visto che esso non ha per os»getto le cose individuali, e che non si riferisce che alle essenze comuni di que- ste cose. Ciò che bisogna notare è che questi uni ver- gali, di cui Spinoza fa delle cose eterne sussistenti per se stesse, comprendono per lui tutto ciò che vi ha di generale nelle cose, sino alle loro leggi più particolari e alle loro specie ultime. Noi abbiamo visto infatti che si deve concepire sub specie aeternitatis V essenza del corpo umano e quella della mente umana, e similmente le essenze di tutte le cose, perchè il terzo genere di co- li) Nella Dim. delhi prop. 12 p. V « le cose che intendiamo chinramente e distintamente » (cioè gli oggetti della conoscenza razionale), non sono solamente « le proprietà comuni delle cose », ma anche ciò che può dedursi da esse : ma anche questo non può essere che alcun che di generale, perchè di tutte « le cose obo intendiamo chiaramenle e distintamente » (e non delle sole 4 proprietà comuni delle cose ») si dice che le loro rappresenta- zioni vengouo in noi eccitate più spesso che quelle delle altre (evidentemente perchè queste sono particolari ed esse sono ge- nerali). I - 406 - iiosceuza consiste a dedurre dalPesseuza di Dio tutte le cose^ cioè propriamente, le loro essenze. Aggiungiamo che di tutte le modificazioni del nostro corpo e di tutti i nostri affetti noi possiamo formarci delle idee chiare e distinte, cioè adequate, e, per conseguenza, conoscerli col terzo genere di conoscenza (1); che dall' essenza di Dio seguono necessariamente, insieme alla mente umana, tutti i suoi fenon\eni (2), i diversi gradi di perfezione degli esseri (3) e tutto l'ordine della natura (4); e che, perchè il nostro pensiero rappresenti la realtà, dobbiamo produrre tutte le nostre idee da quella dell' essenza di Dio (5) (per « tutte le nostre idee » dobbiamo intendere tutti i nostri concetti generali; per conseguenza per tutti i concetti generali vi devono essere degli oggetti corri- spondenti, cioè delle € cose fisse ed eterne, » che si de- ducono dall'essenza di Dio). Noi abbiamo detto, com- mentando la proposizione di Spinoza che la ragione deve contemplare sub specie a6<<?rw/<a/is tutte le cose presenti, passate e future : « salvo che deve contemplarle, non come presenti, passate o future, ma come eterne ». A- vremmo dovuto dire, per essere esatti, che la ragione deve fare astnizione, insieme alla loro temporaneità, di tutte le circostanze, che sono legate a questa tempora- neità, vale a dire di tutte le loro particolarità puramente individuali, che sarebbe assurdo di contemplare sub specie aeternitatis, perchè sarebbe assurdo di farne delle forme stabili, costanti, della natura. (1) Eth. p. V Pr. 3, Prop. 4 e, Cor., Prop. 14, Prop, 15, Scbol. prop. 20. (2) Eth. Pref. della p. II. (3) Elh. App p. I verso la fine. (4) Eth. p. I Prop. 33 e Sehol. 2«>. (5) De hit. em. 42. 91, 99. 1 »_ 407 — Potrebbe credersi, ed effettivamente è stato creduto da alcuno, che le € cose considerate sub specie aeterni- fatis )> o le «( cose fisse ed eterne » siano identiche alleIdee platoniche (1). E nel fatto le une e le altre sono delle astrazioni realizzate; le une e le altre rappresentano l'elemento eterno e necessario delle cose ; le une e le altre sono la constantificazione dell'universale, che è considerato egualmente nei due sistemi come avente un'esistenza distinta da quelle delle cose individuali, ma come presente in queste cose e causa immanente di esse. Ma non si può ammettere che Spinoza jibbia de- terminato dello stesso modo che Platone «luesf uni- versale che ha come lui sostantifìcato. Per separare l'elemento eterno e necessario delle cose dall' elemento mutabile e contingente, Platone e Spinoza hanno fatto due ipotesi differenti, e il confronto dei due sistemi ci mostra che le determinazioni della realtà femmcììale, di cui bisogna fare astrazione per concepire il vero reale, che è 1' oggetto della vera scienza, sono maggiori in Platone che in Spinoza, in altri termini, che le astra- zioni realizzate del primo sono più astratte che quelle del secondo. (1) Così l'editore di Spinoza Carlo Hermann nella prefazione al 2. volume dice del Trattato De intellectus emcudatione : lu hoc traetatu... persequitnr divini Platonis de idcis doctrinam... Le parole ohe seguono ravvicinano il metodo che Spinoza espone in questo trattato, alla dialettica tii Hegel. L'autore ha un'idea giusta della dottrina di Spinoza nei suoi tratti, per dir così, generici, vale a dire comprende perfettamente che è un reali- smo dialettico, e la identificazione che ejzli fa delle « cose fisse ed eterno » con le Ideo di Phitone. non è che l'esagerazione di una verità evidente, cioè l'affinità strettissima tra i sistemi dei due filosofi. — 408 - Il realista dialettico non pretende di dedurre tutto l'universo reale, con tutte le circostanze particolari che sono proprie agli individui che lo costituiscono, ma so- lamente ciò che vi ha di costante nella natura, le leggi e le forme generali delle cose. L'esistenza di questo o quell'individuo determinato e le proprietà peculiari che li caratterizzano, sono, secondo il realista dialettico, in- deducibilì — in altri termini, non sono necessarie, ma contingenti — ; ciò che è necessario, ciò che deve dedursi, è che esiste il tipo generale secondo cui gì' individui sono costituiti, ma non che questo tipo si realizza in tali o tali altri individui. Ora l'idea che è il germe del realismo dialettico, è che l'incatenamento deduttivo dei concetti rappresenta l'incatenamento causale delle cose. Dunque, la serie dei principii e delle conseguenze, in quest'incatenamento deduttivo, non essendo che concetti delle forme generali delle cose . la serie delle cause e degli effetti, nell' incatenamento causale corrispon- dente, non possono essere che le stesse forme gene- rali delle cose, che sono gli oggetti di questi concet^ ti. Supponiamo che queste forme generali delle cose, che il realista dialettico deduce, si concepiscano, non astrazion facendo dalle circostanze degli oggetti indi- viduali con cui sono congiunte nella realtà, ma unita- mente a quesie circostanze : in questo caso esse non sa- rebbero più delle conseguenze necessarie dei principii da cui si deducono — perchè queste circostanze non se- guono da questi principii — ciò che torna a dire che non né sarebbero atfatt<' delle conseguenze. Ma, secondo il realismo dialettico, la conseguenza è lo stesso che l'ef- letto, e il principio lo stesso che la causa. Così, se que- ste forme generali delle cose si concepiscono unitumeute alle circostanze degli oggetli individuali con cui sono unite nella realtà, e non astrazion facendo da queste circostanze, esse non sono più gli effetti necessari delle — 409 — cause da cui derivano, ciò che torna a dire che non ne sono affatto degli effetti, perchè la causa è una causa e l'effetto è un effetto per il legame necessario che vi ha (o piuttosto che il realista dialettico e, in generale, il metafisico, ammette che vi sia) tra la causa e l'effetto. Per conseguenza, affinchè la sua deduzione rappresenti il movimento stesso, lo sviluppo, dell'essere -in altri ter- mini affinchè il principio logico sia identico alla causa e la conseguenza all'effetto - il realista dialettico deve concepire queste forme generali delle cose, che egli de- duce, astrazion facendo dalle circostanze degli oggetti individuali con cui sono unite nella realtà (cioè in quella che noi chiamiamo così, nella realtà empirica): ciò vuol dire che deve considerarle come sussistenti per se stesse, come aventi un' esistenza propria e distinta da quella degli oggetti individuali in cui si trovano, in una pa- rola che di queste astrazioni deve fare delle realtà. A<»- giungiamo che deve farne, non solamente delle realtà, ma le sole realtà vere, perchè lo sviluppo del pensiero che deduce essendo identico allo sviluppo reale delle cose, non può esservi altro di veramente reale òhe ciò che si deduce, e il resto non può essere che fenomeno. Spi- noza si accorda con Platone in ciò, che l'uno e 1' altro concepiscono queste forme generali delle cose, vale a dire ciò che vi ha di eterno e di costante nella natura, ciò che è necessario e deducibile, come esistenti per se stesse, indipendentemente dagli oggetti dell' esperienza in cui si trovano, e come costituenti la sola vera realtà: ma essi differiscono in ciò, che, come abbiamo detto, il secofido, nel concetto ch'egli si forma di quest^ ele- mento eterno, necessario e veramente reale delle cose, conserva certe determinazioni della realtà empirica, che il primo ha pure soppresse. Per dare un'esistenza per sé a quest'elemento eterno e necessario delle cose, e sepa- rarlo dall'elemento variabile e contingente, Platone fa - 410 — l'ipotesi àeWuno nei molti. Quest'elemento eterno e ne- cessario delle cose non è che le concordanze delle esi- stenze individuali successive, i punti di somiglianza che vi hanno fra di esse: Platone suppone che queste somi- glianze siano delle identità parziali, che gl'individui di una specie o di un genere si somigliano perchè conten- gono alcun che di identico, qualche cosa che, una in se stessa, sia presente al tempo medesimo, pur restando una stessa e identica cosa, in tutti gl'individui della specie o del genere. Ciò è, come sappiamo, l'Idea platonica. Ora è evidente che vi ha nella realtà empirica una de- terminazione anch'essa eterna e necessaria, ma che tut- tavia non è rappresentata nel mondo delle Idee plato- niche: è la moltiplicità degli esseri in cui si realizza il tipo generico e specifico. Perchè l'Idea, cioè il tipo ge- nerico o specifico, si realizza in una moltitudine d'indi- vidui? È questo, secondo Platone, un fatto contingente, o non deducibile, e che, per conseguenza, non ha alcuna ragione di essere; perchè tutto ciò che è necessario, a deducibile, deve essere rappresentato nel mondo delle Idee. Ora l'Idea è come un individuo unico, presente al temiM) stesso nella moltiplicità degl' individui empirici» ma in se stessa senza alcuna moltiplicità individuale. La moltiplicità individuale è esteriore all'Idea, e non è che un fenomeno (ciascuna Idea è unica, ma apparisce come molti) (1), perchè la vera realtti è l'Idea, ciò che è necessario e deducibile, e tutto il resto non è che feno- meno. Ma è evidente che, se è un fatto contin/jente che esista tale o tal altro invividuo, se è ancora un fatto con- tm^ew /e che esista un tal numero determinato d'individui, l'esistenza di una moltitudine d'individui è, secondo i pre- li) Rep. 476 a. — 411 — supposti del realismo dialettico, un fatto necessario altret- tanto che l'esistenza della forma generale che essi rappre- sentano, perchè, come è un fatto costante della natura che esiste, nelle cose, questa forma generale, così è un fatto costante della natura che essa è rappresentata da una moltitudine d'individui. Ora è in ciò che le «cose con- siderate sub specie aeternitatis » o « le cose fìsse ed e- terne » di Spinoza difteriscono dalle Idee platoniche: esse non sono, come queste, delle unità senza moltiplicità^ ma accolgono in se stesse la moltiplicità che noi osser- viamo nei fenomeni, vale a dire rappresentano, insieme agli altri fatti costanti e necessari della natura, questo fatto altrettanto costante e necessario che le forme ge- nerali delle cose si realizzano in una moltitudine d' in- dividui, e sono realmente delle specie e dei generi^ e non degl'individui eterni come le Idee platoniche. E infatti Spinoza non fa consistere, come Platone, il processo per cui l'iutelligibile si astrae dalla realtà em- pirica, in una riduzione del multiplo all'uno, cioè nella soppressione della moltiplicità, ma in una eternizzazione del temporaneo, nella soppressione del tempo e della durata. Ciò implica che l'intelligibile, per lui, deve com- prendere in sé tutto ciò che vi ha di eterno nella na- tura, per conseguenza anche la moltiplicità degl'indivi- dui. Semplicemente questi devono essere concepiti, non come temporanei e successivi, ma come eterni — perchè le astrazioni realizzate di Spinoza sono in se stesse fuori del tempo e della durata, ma presenti in ciò che oc- cupa tutto il tempo e tutta la dur.ita — e senza le cir- costanze particolari che fanno degl' individui dell' e- sperienza tali individui determinati — perchè queste circostanze non fanno parte dell'elemento eterno e ne- cessario della natura, ma costituiscono 1' elemento va- riabile e contingente — .Noi possiamo dire, in breve, che le « cose fisse ed eterne » di Spinoza sono le Idee — 412 — platoniche cadute nella raoltiplicità, cioè concepite cia- scuna non come una, come le concepiva Piatone, ma come molte. Ciò è confermato dal luo^o del J>e in tei- lectìis emendatione, in cui enumera le « proprietà dell'in- telletto » (1). Una di queste proprietà è : < Res non tara « sub duratione, quam sub quadam specie aeternitatis « percipit et numero infinito; vel potius ad res percipieu- «, das nec ad numerum, nec ad durationem attendi t. € Quum antem res imaginatur, eas sub certo numero, « determinata duratione et quantitate percipit ». Quando soggiunge vel potius nec ad numerum . . . attendit, egli non intende dire che l' intelletto non si rappresenta le cose come multiple — perchè in questo caso non si com- prenderebbe come prima abbia potuto dire che le per- cepisce in numero infinito — ma che non se le rappre- senta di {%n numero determinato, come si vede dal con- trapposto con Pimmaginazione che le percepisce invece sub certo numero. Infatti come abbiamo notato, che il tipo generico o specifico sia rappresentato da tale o tal altro numero determinato d'individui non è nn fatto costante della natura, ma appartiene all'elemento mutabile e con- tingente delle cose. Noi spiegheremo in seguito in qual senso l' intelletto percepisca le cose in numero infinito, e in qual senso le percepisca senza un numero deter- minato. Che il realismo di Spinoza non sia precisamente quello di Platone e del medio evo, cioè l'obbiettivazione delle idee generali del concettualismo, si vede anche da certe sue proposizioni, che parrebbero dare ragione a (piegli espositori, che, come il Ritter, fanno di lui un nomina- lista. Spinoza rigetta, della maniera più esplicita, la — 413 — realtà degli universali nel senso tradizionale (cioè, come abbiamo detto, dei concetti generali realizzati). È ciò che egli fa più volte a proposito della quistione del li- bero arbitrio. La dottrina del libero arbitrio, secondo lui, suppone che le volizioni abbiano per causa, non al- tri fatti precedenti, ma la volontà, e riguarda per con- seguenza quest'astrazione, la volontà, come avente una esistenza per sé, distinta da quella delle volizioni stesse. Ora la volontà, dice Spinoza, non è che un essere di ragione. Essa « dirterisce da questa e quella volizione allo stesso modo che la bianchezza da questo e quel bianco, o 1' umanità da questo e quell' uomo ; sicché è altrettanto impossibile a concepire che la volontà sia causa di questa e quella volizione, quanto che Vumanità sia causa di Pietro e di Paolo » (1) (ciò che intanto ac- cadrebbe nel sistema di Spinoza, se l'essenza dell' uomo considerata sub specie aeternitatis fosse 1' umanità così intesa, cioè in termini platonici, l'Idea dell'uomo). «Al- cuni più abituati a occupare il loro spirito con degli es- seri di ragione che con le cose particolari, che sole esi- stono realmente nella natura, trattano questi esseri di ra- gione, non come tali, ma come esseri reali. Poiché l'uo- mo, avendo tale o tal volizione, ne fa un modo generale di pensare, che chiama volontà, come dall'idea di tale o tal uomo particolare si fa un'idea generale dell' uomoj e siccome non sa separare gli esseri reali dagìi esseri di ragione, ne segue che considera questi come delle cose reali... La volontà, come abbiamo detto, non essendo che l' idea generalizzata di tale o tal volizione particolare, non è per conseguenza che un modo del pensiero, un ens rationis e non un ens reale; niente per conseguenza (1) } 108. (1) Epist. II, 9-10. — 4i4 può essere causato da ee^sa, perchè niente può venire da niente > (1). Non vi ha alcuna facoltà assoluta di volere, come non vi ha alcuna facoltà assoluta d'intendere, di desiderare, di amare, ecc. « Queste e simili facoltà o sono affatto fittizie o non sono niente di più che esseri me- taiìsici, cioè universali, che sogliamo formare dai parti- colari (vale a dire, come dice in seguito, sono #( delle nozioni univc^rsali, che non si distinguono dai singolari da cui le forniamo »); sicché l'intelletto e la volontà sono a questa e quell'idea o a questa e quella volizione, come la lapideità è a questa e quella pietra, o l'uomo a Pietro e a Paolo » (2). Delle proposizioni simili troviamo nello Schol. alla prop. 49, combattendo, non il concetto che le volizioni abbiamo per causa la volontà, ma quello che la volontà si distingua dall'intelligenza, e sia qual- che cosa di altro che l'affermazione (con cui l'autore la identifica). < La volontà è un essere universale c/oéu?t't- dea, con cui spieghiamo tutte le volizioni singolari, vale a dire ciò che vi ha in queste di comune » (3). E poi, dopo aver detto che 1' affermazione, in cui consiste la volontà, non è in tutte le idee che in quanto si conce- pisce astrattamente: <c Per cui viene sovratutto da notare quanto facilmente e' inijanniamo, (juando confondiamo gli universali coi singolari, e gli esseri di mgioue e gli astratti con le cose reali >. La realtà degli universali, nel senso platonico e del realismo del medio evo, è pure esplicitamente negata a proposito della dottrina che Dio (1) Dio, Vtimio e la beat, trad. frane, pag. 89-90. (2) Eth. parte II, Schol. prop. 48. (3) Per universale intende i concetti generali del concettua- lismo, come si vede dalle parole che vengono in seguito; « L'uni- versale si dice egualmente di uno, di molti e d'infiniti individui ». — 415 — non conosce le cose particolari, ma solamente i generi. «Quantunque gli aristotelici dicano che le idee platoni- che non esistono e non sono che degli esseri di ragione, tuttavia anch'essi sembrano spesso considerarle come cose reali, poiché dicono espressamente che la Provvidenza non ha riguardo agl'individui, ma solamente ai generi; che p. e. Dio non ha mai applicato la sua provvidenza a Bucefalo, ma al genere cavallo in generale. Essi di- cono ancora che Dio non ha la scienza delle cose parti- colari, ma solo delle cose generali, che, nella loro opi- nione, sono immutabili ; ciò che attesta la loro igno- ranza, perchè sono precisamente le cose particolari che hanno una causa, e non le generali, poiché queste non sono niente » (1). E altrove : « Intanto non bisogna tra- sandare l'errore di alcuni che stabiliscono che Dio non conosce che le cose eterne, quali gli angeli e i cieli, che fìnsero ingenerabili e incorruttibili per la loro natura; e che di questo mondo non conosce che le specie, che sa- rebbero anch' esse ingenerabili e incorruttibili. Questi sembra che vogliano errare a bello studio ed escogitare le cose pili assurde.... Stabiliscono che Dio ignora le cose realmente esistenti e gli attribuiscono la conoscenza de- gli universali, che non sono, né hanno alcun' essenza oltre i singolari » (2). Ma ciò che mostra della maniera più evidente che le « cose fìsse ed eterne > di Spinoza non sono Vuno nei molti come le Idee platoniche, ma contengono in sé la moltiplicità individuale, è il modo in cui egli concepi- sce Dio e i suoi attributi e modi necessari. Le cose fìsse ed eterne sono Dio stesso nei gradi differenti della sua (1) Dio, Vuomo e la beat., trad. fr. pag. 38. (2) Cogitatorum metaphysicorum, II. VII. 5. — 416 — determinazione progressiva (meno l'ultimo in cui diviene un complessi) di esistenze temporanee e contingenti): cioè Dio come essere assolutamente indeterminato, come cosa estesa e come cosa pensante assolutamente considerate (cioè astrazion facendo dalle loro moditìcazioni) e come cosa estesa e cosa pensante modificate con modificazioni che seguono necessariamente dalla loro essenza. Ora cia- scuna di queste cose è concepita da Spinoza, non come alcun che di comune a una moltitudine di oggetti par- ticolari simultaneamente esistenti, ma come una cosa in- finita che abbraccia la totalità di questi oggetti parti- colari. L'origine della natura (vale a dire Dio come la cosa fissa ed eterna dalla quale derivano tutte le altre) non è, dice Spinoza, un'entità astratta, cioè universale; è un ente infinito, cioè che è tutto l'essere, e al di fuori del quale non vi ha alcun essere (1). Come Dio, quale essere as- solutamente indeterminato, è l'essere assolutamente infini- to che comprende tutto l'essere delle cose (2), cosi Dio con- siderato sotto 1' uno o sotto l' altro dei suoi attributi è un essere infinito nel suo genere, che comprende tutti gli esseri che partecipano a quest'attributo (3). Limitan- doci agli attributi che conosciamo. Dio è un corpo infi- nito, di cui tutti i corpi sono delle parti, animato da per tutto da una mente infinitii, di cui tutte le menti sono delle parti (4): la sua essenza, da oii il 3® genere (1) De ini, emend. 76. (2) iL'pist, 41. 810, Dio, rnomo, ecc. trad. frano, pag, 22. M:th. p. 1, dim. pr. 32. (3) Elh, p. 1 Def. VI, Pr. 8, Dim. pr. 16, p. II Pr. I e 8ohol., ecc. (4) V. Mh, p. I, Pr. 14 e Corollarii, Pr. 15 e Schol., Dim. pr. 18, Cor. pr. 25, Pr. 28. Schol. pr. 29, Pr. 30, p. II, Def. I, Pr. 1 e 2, Schol. pr. 7, Pr. 8, e Cor. e Schol., Pr. 9, Cor. pr. di conoscenza deduce tutte le cose, contemplate sub spe- cie aeternitatis, è questo <-.orpo e questa mente infiniti, considerati come sostanze pure, cioè astrazion facendo dai loro modi o affezioni (1). L'estensione come cosa fissa ed eterna, Véstensione in sé (2), non è l'Idea dell'esten- sione, vale a dire ciò che vi, ha di comune in tutte le estensioni determinata, ma l'estensione infinita, la cosa estesa unica che è la totalità delle cose estese partico- lari (3)j e così pure il pensiero in sé, il pensiero asso- luto (4), come cosa fissa ed eterna, non è ciò che vi ha di comune in tutti i pensieri o in tutti i pensanti de- tcrminati, ma un pensiero infinito diffuso ia tutte le parti di questa estensione infinita, la cosa pensante unica che è la totalità degli esperi pensanti particolari, la so- lo, Pr. 11 e Cor., Schol. pr. 13, Pr. 20, Pr. 22, Pr. 23, Pr. 30, Pr. 33, Pr. 36, Pr. 39, Pr. 43, p. V, Pr. 22, Pr. 23.* Schol. pr. 29, eco. (1) V £th, p. I, Def. 3-6. Pr. 1, Dim. pr. 5, Pr. 10 e Schol., Schol. pr. J5, Pr. 16, Pr. 19 e Schol., Corollari pr. 20, Pr. 21-23, Pr. 28 e Schol., Schol. pr. 29. Pr. 31, Pr. 32, p. II pr. 1 e 2,' Pp. 5, Pr. 6 e Cor., Pr.. 8 e Cor., Scolii e Cor. Pr. 10, Schol. 2o pr. 40, Schol. pr. 47, p. V Prop. 22, Pr. 25, Schol. pr. 29, Pr. 30, Pr. 31, Schol. pr. 36, ecc. Quantunque Spinoza non ammetta che una sostanza unica, egli chiama auche sostanze gli attributi dell'estensione e del pensiero, perchè il primo è il substratum di tutto ciò che vi ha di fisico, e il secondo di tutto ciò che vi ha di psichico. V. Dio, Vuomo e la beat, trad. frane, pag. 17, 51, 52, AVA. p. I Sohol. pr. 15, p. II Schol. pr. 7, ecc. (2) V. per quest'espressione Dio, Vuomo e la beai., trad. frano, pag. 16. (3) V. Dio, Vuomo e la beai., trad. frane, pag. 15-17, Eih. p. I Schol. pr. 15, p. II Def. 1», Pr. 2, Schol. pr. 7, ecc. (4) V. per quest'espressione Eih. p. I, Dim. pr. 31. 27 ~ 418 - stanza psìchica luoudìale ^ infine, di cui ogni anima è una parte e ogni fenomeno psichico una modificazione (1). Le altre cose fisse ed eterne, cioè i modi necessari clie seguono dagli attributi divini, sono infinite come questi attributi stessi e l'essere assolutamente indeterminato che è il loro substratum. Le cose considerate sub specie aeter- nitatis «ono, oltre agli attribuii di Dio, le sue proprietà — perchè Spinoza assimila il modo in cui le cose proce- dono dal primo principio a quello in cui le proprietà derivano dall'essenza (2)—: questa altre cose fisse ed eterne sono ancli'esse degli attributi di Dio, che si distinguono dagli attributi propriamente detti, perchè questi sono primitivi e costituiscono 1' essenza divina, essi sono de- rivati e si deducono da quest'essenza (3). Ne segue che (1) V. Episl. 37, Dio, Vuomo e la beat. trad. frane, pag. 51-52, 107, 12'9-130, 134, Eth, p II Pr. 1 e Schol., Pr. 5, Schol. pr. 7, Pr, 9 e Dim. e Cor, Dim. pr. 20, ecc. (2) V. Elh. p.e 1. Prop. 16 e Dim. (3) Il vero primitivo, la vera origine della natura ^, secondo Spinoza, l'essere assolutamente indeterminato. Ma nell' Etica considera come il primitivo la sostanza quale complesso degli attributi, facendo consistere il 3o genere di conoscenza nella de- duzione delle coso, non da Dio come essere assolutamente inde- terminato, ma dagli attributi divini (V. p. e. Schol. 2. pr. 40 p. II). Sembra che questo latto sia una conseguenza della sua d.)t- trina che Dio ha un numero infinito di attributi, di cui non ne conosciamo che due, mentre tutti gli altri ci sono sconosciuti. Ciò importa che il primitivo per noi, cioè il punto di partenza della nostra deduzione, non può essere il primitivo in se siessOf ma (gualche cosa di posteriore. Se fosse il primitivo in se stesso, vale a dire l^ens absolute indeterminatum, noi dovremmo poter dedurne tutti gli attributi — perchè questi ne derivano, e ohe una cosa deriva da un' altra cosa significa per Spinoza che se ne può dedurre — : ma allora la più parte di questi attributi — 419 — queste altre cose fisse ed eterne sono infinite come Dio stesso di cui sono le proprietà : ne segue inoltre che sono qualche cosa d' individuale e non dei concetti generali realizzati, perchè Dio, di cui sono i modi o le affezioni, non è un concetto generale realizzato, ma un individuo infinito, di cui tutti gli altri individui sono delle parti. Così il movimento, come cosa fissa ed eterna, è il movi- mento infinit», diffuso nell'estensione infinita di cui è un modo immediato (1): è la collettività dei movimenti che si producono simultaneamente nell'universo, che non si distingue dalla totalità dei movimenti particolari, se non in quanto, per concepirlo, bisogna fare astrazione dal tempo e dalla durata (2). Così pure l'intendimento, come non dovrebbero esserci, come sono, sconosciuti e inconoscibili. Spinoza deve ammettere dunque che nella nostra deduzione noi non possiamo partire dal principio assoluto — probabilmente perchè non ne abbiamo un'idea adequata — ma da principii re- lativi. L'essere assolutamente indeterminato è, come dice Schel- ling, l'arcano nascosto nell'Assoluto che è la sorgente d'ogni realtà: quest'arcano per noi è impenetrabile, e noi dobbiamo derivare le nostre idee, non dalla sorgente, ma da ciò che ne deriva immediatamente, cioè gli attributi che conosciamo. (1) V. Dio Vuomo e la beat. pag. 30 n. 5f> e 8*> e pag. 45-46. (2) Il movimento come cosa fissa — cioè immutabile — ed e- terna sembra una contraddizione nei termini, perchè il movi- mento è la negazione stessa dell'immutabililà. Ma questa con- traddizione, reale o apparente, è inevitabile in tutti i sistemi di realismo dialettico, e si trova in Platone e in Hegel altrettanto che in Spinoza. Per Platone rimandiamo al Supplem. B p 1. n. X, verso la fine; per Hegel basterà di citare le parole se- guenti del Vera : « Esse (le Idee) sono tutte immutabili ed e- terne. Non vi ha, in effetto, né avanti né dopo né generazione né alterazione nella sfera delle Idee E le Idee di tempo e di movimento esse stesse, che per la cosa fissa ed eterna, che è un modo immediato del pen- siero come il movimento dell' estensione, è l' intendi- loro natura sembrauo dover essere sottoposte ulla nascita e ali» morte, sono, esse pure, inperibili ed eterne. Perchè ciò clie na- sce e ciò che perisce ò tal tempo e tal movimento, ma non la loro essenza » (Vera hìlrodvz. alla filos. di Hetjel o. 4 $ 4). Il movimento in sé — vale a dii-e 1' Idea del movimento secondo Platone e secondo Hegel, e secondo Spinoza il movimento con- siderato sub specie aetrmitatis — è dunque immutabile in quanta l'essenza e le leggi del movimento sono immutabili. Quando Spinoza o gli altri realisti diallettici dicono di una cosa che im- plica la successione e il cangiamento, qual è il movimento, che essa è al di fuori del tempo e della durata, intendono i)arlare di un tempo e di una durata determinati, in altri termini della posizione di questa cosa in un certo tempo e in una certa du- rata; ma anche il tempo e la durata hanno . per questi filosotì, la loro essenza eterna ed imumtabile, e questa deve trovarsi necessariamente nelle cose fisse ed eterne che noi non possiamo concepire che come implicanti il tempo e la durata. Confr. il Supplemento B. il luogo ci taito. Per comprendere sufficientemente ohe cosa sia, secondo Spinoza, questo movimento eterno ed im- mutabile, bisogna farci prima un'idea completa delle sue « cose fisse ed eterne >, in altri termini, delle sue astrazioni realizzate. Per ora ]M)ssiamo diro, senza pretendere ad una precisione ri- gorosa, che il movimento in sé, il movimento come cosa fissa ed eterna, secondo Spinoza, è l'insieme di tutti i movimenti che avvengono nell'universo in un momento qualsiasi della sua du- rata, concepito facendo astrazione da tutto le circostanze che sono particolari a questo momento e non sono comuni a tutti gli altri. Quest'insieme di movimenti, astratto da queste circo- stanze, si concepisce come esistente in sé stesso al di fuori del tempo e della durata, ma come presente in tutti gl'insiemi di movimenti fenomenali che si producono nell'universo nei diversi momenti del tempo e della durata' Esso ò eterno perchè tutti questi insiemi di movimenti fenomenali, in cui è presente, riem- mento infinito, che comprende tutte cose in ogni tem- po (1), infinito, eterno ed immutabile, come il pensiero sostanziale, di cui è una modificazione necessaria. È l'in- tendimento unico che esiste nella cosa pensante, lo spec- chio unico ili cui si riflette l'universo unico (2); ogn^idea e ogni mente (considerata sub specie aeterniiaiis) è con- tenuta in esso (3); ogni essere pensante è una parte di quest' essere pensante unico (4); « la nostra mente, in quanto intende, è un modo eterno di pensare, limitato da un altro modo eterno di pensare, questo da un altro ancora, e così di seguito alPinfinito, sicché tutti insieme costituiscono l'intendimento eterno ed infinito di Dio» (5). Il solo esempio che ci dà Spinoza dei modi necessari mc- diati è l'aspetto di tutto l'universo, immutabile attra- verso i suoi infiniti cangiamenti (6) : come le cose fisse «d eterne di cui abbiamo parlato precedentemente, è una «osa individuale, infinita, e che rappresenta, non ciò che vi ha di comune in una moltitudine di esistenze parti- colari, ma la collettività di queste stesse esistenze parti- colari, concepite senza la successione e il cangiamento. Il carattere comune delle cose fisse ed eterne di Spinoza è di essere infinite (7), e di realizzare, non dei concetti piouo tutto il tempo e tutta la durata ; ed è immutabile perchè é presenta in essi sempre lo stesso e senza partecipare al loro cangiamento. (1) V. Dio Vuomo e la beat p. 45-46, Epis, 66. S, Eth. p V Sch(d. pr, 40, ecc. (2) V. Dio l'uomo e la beat. p. 45-46, 123, 132. ecc.; e cfr. parag. 24. (3) V. Eth, p. V Pr. 22, Pr. 36 (cfr. Pr. 33), ecc. (4) Gir. $ 24. (5) Eth. p V Schol. pr. 40. (6) Episl. 66. 8. (7; Le idee assolute, secondo il Ife intellectvs cmend. (108. — 422 — geoerali come le Idee platoniche, ma dei concetti col- lettivi: l'estensione è l'insieme di tutte le estensioni, la cosa pensante di tutte le cose pensanti, il movimento di tutti i movimenti, ecc. Non sono, ripetiamolo, l'uno nei molti come le Idee platoniche, ma i molti stessi ed infiniti, concepiti come eterni ed immutabili. Raccogliendo i risultati dell'esposizione precedente, noi vediamo che le astrazioni realizzate di Spinoza hanno tutti i caratteri delle Idee platoniche, meno uno, cioè 1' unità dell'Idea, in modo che si trova giustificata, almeno d'una maniera approssimativa, la nostra proposizione che esse sono le Idee platoniche stesse, concepite ciascuna, non come una, ma come molte. Noi abbiamo visto infatti che le cose che seguono necessariamente da Dio sono eterne ed immutabili, ehe hanno un' esistenza distinta da quella delle cose singolari, cioè empiriche, ma sono presenti in queste e ne sono le cause immanenti, e die costituiscono le loro essenze e corrispondono alle loro definizioni generali. Noi abbiamo visto inoltre che ogni cosa deve essere concepita svh specie aeternitatis y cioè come eterna; che le cose concepita sub specie aeternitatis sono, secondo Spinoza, eterne come si pensano (e quindi, anche immutabili, perchè sub specie aeternitatis devono II-III) devono CRprimere rinfinitA. Le idee assolute sono quelle che formano il punto di partenza della deduzione, quelle che rappresentano le cause prime delle cose e ohe sono esse stesse, per conseguenza, le cause prime di tutte le nostre idee. Nell'E- tica, come sappiamo, l'infinità è affermata, non solo deirli oggetti delle idee assohite, cioè della sostanza e dei suoi attributi (v. pag. 417), ma anche delle cose ohe ne derivano, cioè dei modi, immediati o mediati, che seguono necessariamente dagli attri- buti (V. p. I prop. 21-23). — 42:^ - cencepirsì non solo le cose, ma anche gli avvenimenti); e che ogni cosa i>cr conseguenza, la nostra mente come il nostro corpo e tutto ciò che può essere oggetto della nostra mente, ha una doppia esistenza, 1' una il feno- meno, temporanea e mutabile, e l'altra, l'essenza, eterna ed immutabile. Ma noi abbiamo visto [)ureche le cose che seguono necessariamente da Dio, o, ciò che vale lo stesso, le cose considerate sub specie aeternitatis, non sono la realizzazione dei concetti (jenerali, ma dei concetti col- lettivi, delle cose : che l'estensione, come cosa fijssa ed eterna, è la collettività di tutte le cose estese simulta- neamente esistenti, l'intelligenza di tutte le intelligenze, il movimento di tutti i movimenti, ecc. Conformemente a questo principio, l'umanità, come cosa fìssa ed eterna (o considerata sub specie aeternitatis) non è, come per Platone, un individuo umano concepito come eterno ed immutabile, ma la collettività degl'individui umani, si- multaneamente esistenti a un momento qualsiasi della durata del genere umano, concepita come eterna ed im- mutabile. E lo stesso che dell'umanità dobbiamo dire di tutte le specie e di tutti i generi delle cose, cioè di quelli che possiamo concepire sub specie aeternitatis, vale a dire di cui possiamo ammettere che sono sem- pre esistiti, ed esisteranno sempre nella natura (natural- mente Spinoza ignorava la dottrina dell' evoluzione e i fatti su cui essa è fondata, e ammetteva la stabilità e l'eternità delle specie). Quest'umanità, cosa fissa ed e- terna, è in se stessa fuori del tempo e della durata, ma è presente nell'umanità fenomena^le esistente nei mo- menti successivi del tempo e della durata: è l'umanità tipica che persiste sempre la stessa in tutte le genera- zioni umane successive, il substratum immobile e vera- mente reale di cui queste generazioni successive sono le forme o le apparenze cangianti, in una panda ciò che vi ha d'identico in tutti i momenti successivi della durata del genere umano, astratto da ciò che vi ha di variabile, e concepito come esistente per se stesso. Ciò che infatti è necessario di avvertire è che, per conce- pire gli uomini sub specie aeternitatis, non basta di farci una sappresentazione della totalità degli uomini attuali, e concepirli al di fuori del tempo e della du- rata, cioè come eterni ed immutabili, ma bisogna fare anche astrazione da tutte le circostanze che sono parti- colari agl'individui attuali, e non sono comuni a tutti i momenti successivi della durata del genere umano. Infatti le cose considerate sub r^pecie aeternitatis, cioè come eterne ed immutabili (le cose «fisse ed et<?rne ») non possono essere delle finzioni senza scopo, ma de- vono rappresentare ciò che vi ha di costante e di per- petuo nella natura. Per conseguenza un'altra circostanza di cui bisogna fare astrazione per concepire il genere umano sub specie aeternitatis, è il numero determinato d'individui che esiste a tale o tal momento della sua durata : esso, come gli altri generi, deve concepirsi come costituito da una moltitudine d'individui, ma non da un numero determinato, perchè se è un fatto costante e necessario che il tipo umano o un'altra forma qualsiasi della natura è rappresentato da una moltitudine d'indi- vidui, è variabile e contiqgente che questa ipoltitudine d'individui sia uno o un altro numero determinato. Que- sta inconcepibilità delle cose fisse ed eterne di Spinoza, di essere uua moltitudine d'individui senza un numero determinato, è «evitata n(^l sistema platonico, in cui cia- scuna specie è concepita come un essere unico (l'uno nei molti ; ma questa inconcepibilità non è maggiore che le altre inerenti a qualsiasi sistema di realismo dia- lettico: una moltitudine che non è una moltitudine de- terminata, non è né più né meno irrappresentabile che l'uomo in s:- di Platone, che non è né biaikco né nero, né alto né basso, né dt>tto né ignorante, ecc., o 1' ani- male in sé, che non è né uomo né cavallo né qualsiasi altro animale determinato. Non è che un' altra forma della difficoltà di rappresentarsi un'astrazione realizzata. Ecco dunque il processo di cui bisogna servirsi per con- cepire le cose fisse ed eterne di Spinoza, cioè per con- <5epire sub specie aeternitatis le specie o i generi delle <M)se o dei fenomeni (p. e. l'umanità, l'intelligenza, il movimento, ecc.). Bisogna immaginare le totalità delle <jose o dei fenomeni appartenenti alla specie o al ge- nere dato, che esistono nei diversi momenti della du- ratji della specie o del genere; confrontare fra di loro queste totalità successive di cose o di fenomeni ; e se- parare ciò che vi ha d'identico in tutte da tutto ciò che vi ha di particolare ad alcuna o ad alcune : ciò che vi ha d'identico in tutte è la specie o il genere concepito sub specie aeternitatis, cioè come esistente in se stesso fuori del t^mpo e della durata, ma presente in queste totali tii successive la cui serie riempie tutto il tempo e tutta la durata. L'ipotesi di Spinoza ha lo stesso scopo <ihe (|uella di Platone: astrarre l'elemento costante e necessario delle cose dall'elenjento mutabile e contin- gente, e considerare il primo, nella sua astrattezza, come sussistente per se stesso. Questo astratto, sussistente per se slesso, Platone lo fa consistere in ciò che vi ha di comune a tutti gl'individui di una specie o di un genere, considerato come qualche cosa d'identico che è presente in tutti questi individui; Spinoza lo fa consi- stere invece in ciò che vi ha di comune a tutti i mo- menti successivi della durata della specie o del genere, <?onsiderato come qual(*.lie cosa di identico che è pre- sente in tutti questi momenti successivi. Il risultato a cui mira l'una e l'altra ipotesi è di separare ciò che nelle cose è deducibile da ciò che non lo è, in modo ohe ciò che si deduce esista con la indeterminazione stessa con cui si deduce, e il pro'^resso della deduzione — 426 — — 427 — rappresenti Io sviluppo stesso delle cose, cioè il Ioni incatenamento causale (nel senso trascendente del rea- lismo dialettico). Ci resta a chiarire come tutte le cose che seguono necessariamente da Dio siano, non solo eterne e, por conseguenza, immutabili, ma anche infinite. Le specie o i generi delle cose, considerati sub specie aeternitatis, non possono essere infiniti che in quanto, considerati nella loro esistenza empirica, comprendono un numero infinito d'individui simultaneamente esistenti. Ora in certe specie o generi, p. e. quelli delle piante e degli animali, il numero degl'individui simultaneamente esi- stenti che li costituiscono a ciascun momento della dura- ta della specie o del genere, non è mai che un numero finito. Come conciliare ciò con la dottrina che tutto ciò che segue necessariamente dall'essenza di Dio, e per conseguenza tutte le cose contemplate sub specie ae- ternitatis, non sono che i modi eterni ed infiniti di Dio t Evidentemente una specie o un genere di piante o di animali non può essere per Spinoza uno dei modi eterni ed infiniti di Dio, perchè egli non può ammetterne l'in- nità come ne ammette l'eternità e la stabilità; non può essere che una parte di uno di questi modi. Spinoza am- mette che tutte le cose contemplate sub specie aeter- nitatis sono i modi eterni ed infiniti di Dio, perchè egli fa dell'essenza di Dio il primo principio, e assimila il modo in cui le cose derivano dal primo principio a quello in cui le proprietà derivano dall'essenza. Ma egli non pretende perciò che un modo eterno ed infinito di Dio deve essere necessariamente costituito da parti fra fra di loro omogenee (p. e. come l'estensione o il pen- siero sostanziale). Un esempio di un modo eterno ed in- finito costituito da parti eterogenee, è il solo modo me- diato di cui si parli negli scritti di Spinoza, cioè l'a- spetto di tutto l'universo (facies totius universi), che persiste immutabile attraverso i suoi infìniti cangia- menti. Noi non oseremo di affermare se sia in questo modo eterno ed infinito, ovvero in un altro o in più altri analoghi, che sono compresi, come delle parti, le specie e i generi degli esseri viventi, e in generale, tutte, le specie e tutti i generi propriamente detti (vale a dire tutta la natura in quanto è l'oggetto delle scienze di classificazione). La sola affermazione che autorizzino le proposizioni dell'autore è che i modi eterni ed infiniti di Dio devono comprendere tutto il reale, e che per con- seguenza tutto ciò che esiste, contemplato sub specie aeternitatis, deve essere contenuto, come una parte, in qualche modo eterno ed infinito di Dio. Un'altra osser- vazione che dobbiamo aggiungere è che lo stesso in- sieme di esseri, che considerati come specie, cioè conce- piti nei loro attributi specifici, costituiscono un certo modo eterno ed infinito di Dio, se si considerano più astrattamente, vale a dire se non si concepiscono che nei loro attributi generici, possono costituire altri modi anteriori, cioè meno mediati Noi sappiamo infatti che lo sviluppo di Dio o della Natura è una determinazione progressiva, una successione di stati di un solo e stesso essere, che da uno stato più astratto o più indetermi- nato va semprn a uno stato più concreto o più deter- minato. Ai diversi gradi delH classificazione (p. e. ne- gli esseri viventi, classi, ordini, famiglie, generi, ecc.) possono dunque corrispondere dei modi eterni ed infi- niti di Dio, più o meno astratti, in cui gli stessi esseri sono contenuti, ma concepiti d'una maniera più o meno astratta. P. e. in uno di questi modi l'uomo sarà con- tenuto concepito come uomo, in un altro anteriore con- cepito semplicemente come mammifero, in un altro come vertebrato, ecc. È la scala delle Idee platoniche, ma in cui ogni gradino contiene una moltitudine d'Idee, e cia- scuna di queste Idee stesse è concepita, non come una, Ni ~ 428 — ma come multipla. La dottrioa che le cose contemplate sub specie aeternitatis sono delle pirti dei modi eterni ed infiniti di Dio, fa cLe una cosa contemplata sub specie aeternitatis può, secondo Spinoza, considerarsi a .due punti di vista: cioè come una delle unità il cui in- sieme costituisce una specie o un genere determinato, e come una delle unità il cui insieme costituisce un modo eterno ed infinito di Dio. Di là la proposizione di Spinoza cbe sopra abbiamo citato, cioè che la ragione, contemplando le cose sub specie aeternitatis, le conce- pisce Jn numero infinito, o piuttosto senza attendere al numero (vale a dire, come abbiamo spiegato, a un numero determinato) Le concepisce senza attendere a un numero determinato, in quanto sono delle unità checostituiscono una specie o un genere dati; le concepisce in nnmero infinito, in quanto sono delle unità che co- stituiscono un modo eterno ed infinito di Dio (1). (1) Si vede da ciò ohe abbiamo detto a pag. 31)3-395 e in tutto il paragr. che nella dottrina di Spinoza dell'eternità della mente umana non si tratta di un'eternità personale, ma la credenza comune nell'immortalità dell'anima non potrebbe essere al più per lui cbe un simbolo del concetto della sua metafisica dell'e- ternità deìVeasema dell' anima. Non vi ha altro d'incorrutibile, dice Spinoza, che Dio e i suoi modi universali — cioè i modi eterni ed infiniti che seguono necessariamente dagli attributi olivini _(v. Dio Vuomo e la beat. pag. 64), e questi, lo abbiamo visto, hanno un'esistenza distinta da quella degli esseri indivi- duali, e sono costituiti, non dalle cose ste-se. ma dallo loro es- senze. L'eternità o immortalità dell'anima, come eternità o im- mortalità inuividuale, sarebbe in contraddizione, come abbiamo osservato, con uno dei principii fondamentali del sistema di Spinoza, cioè col parallelismo psico — fisico e la dottrina su cui esso è basato, che il fisico e lo psichico sono due aspetti diversi di una sola o stessa realtà. Spinoza afìerma esplicitamente Le astrazioni realizzate del realismo dialettico risultano da un doppio processo di astrazione. L' uno le conseguenze inevitabili di queste premesse, cioè che V idea (vale a dire la mente o l'anima) e il suo oggetto (il corpo di quesra mente o di questa anima) non possono esistere l'una senza l'altro né reciprocamente {Dio Vuomo e la beat. pag. 107) ; che Puna di queste due cose non dura, cioè non cs'ste nel tempo, che quando dura anche 1' altra (Eth. p. II Cor. e Schol. prop. 8, Dio Vuomo e la beat. pag. 114, ecc.); ohe l'anima non è stata mai senza il corpo, come il corpo non è stato mai senza l'anima (Dio Vuomo e la beat, pag. 106); e che quando il corpo è di- strutto, anche l'anima è distrutta (Dio V uomo e la beat. pag. 51-52,114, 130, Ethy. II Schol. prop. 17, p. Ili Schol. prop. II). Un'altra considerazione che non bisogna negligere è che l' im- mortalità individuale suppone delle concezioni sul destino dell'a- nima dopo la morte (paradiso, inferno, ecc.), che non sarebbero possibili in un sistema naturalistico come quello di Spinoza. Secondo Spinoza, vi hanno per 1* anima, come per tutti gli altri oggetti, due stati o due forme di esistenza: l'esistenza pre» sente ohe si definisce per il tempo,e la durata, e questa appar- tiene all'anima individuale; e l'esistenza eterna cioè fuori del tempo e della durata, che apx)artiene, non all'auiniii individuale, ma all'anima considerata sub specie aeternitatis, cioè all'es- senza dell'anima. Questa essenza dell'anima, quest'anima <c cosa fissa ed eterna », non è l'anima dell'uomo individuale, cioè quello « che ha un'esistenza determinata », ma l'anima dell'uomo eterno, che fa parte dell'umanità eterna, cioè di quest'umanità astratta, che è, come abbiamo detto, il substratum immutabile, di cui tutte le generazioni umane successive sono le forme o le apparenze cangianti. La prima esistenza, quella che si defini- fjce per il tempo e la durata, appartiene all'anima in quanto è l'idea di un corpo individuale, determinato; ma essa è limitata come quella di questo corpo stesso : come si vede dai luoghi precedentemente citati, l'anima come idea di un corpo indivi- duale^ cioè come anima individuale, non comincia ad esistere consiste a separare l'elemento eterno e necessario delle cose dall'elemento mutabile e contingente — è quello che, ^'1 nel sistema di Spinoza, abbiamo studiato nel precedente paragrafo — ; l'altro consiste a separare, in questo stesso che cominciando l'esistenza del corpo, e cessa d'esistere quando cessa l'esistenza del corpo. L'esistenza eterna appartiene all'ani- mu in quanto è l'idea dell'essenza del corpo considerata sub spe- cie aetern'tatis {Eth. p. V prop. 22-23); essa oon le appartie- ne dunque che in quanto la sua essenza stessa si considera sub specie aeternitatis, vale a dire, non come anima individuale, determinata, ma come anima astratta, di cui l'anima individuale è una delle forme o apparenze cangianti. K in eiletto : lo Spi- noza dice espressamente che l' esistenza eterna della mente non può detinirsi per il tempo e la durata (p. V dim. prop. 23 e schol. e dim. prop. 2i- ), o in una parola, che non dobbiamo confonderla con la durata, come fa la credenza volgare dell'im- mortalità dell 'anima (Schol. prop. 34). 2<> La mente non è eterna che in quanto segue necessariamente dall' essenza di Dio (Eth. p. V Dim. prop. 22, Dim. prop. 23, Dim. prop. 30. Schol pr. 42): ora, come sappiamo, dall'essenza di Dio non seguono che i modi eterni ed infiniti, e questi hanno un'esistenza distinta da quella degli oggetti individuali. 3.o L'amore intellettuale di Dio, che è eterno nel senso stesso in cui è eterna la mente, è opposto allecose che si considerano con relazione a un tempo e a un luogo determinati, cioè alle cose individuali (Schol. prop. 37). 4.» L'e- sistenza eterna, del corpo come della mente, è opposta alla loro esistenza presente, che si detluisce per il tempo e la durata (v. questo $ pag. 393-394), ciò che importa che la mente è eterna nel senso stesso in cui è eterno il corpo. 5.<> La mente « in quanto è eterna » e la mente « in quanto è considerata sub specie ae- ternitalis » sono per Spinoza due espressioni equivalenti (v. que- Bto $ pag. 394). 6^ intine, la mente, in quanto intende (che, come vedremo, è la sola parte eterna dell' anima) e il suo amore in- tellettuale di Dio sono parti di un modo eterno ed infinito di Dio, cioè dell'intendimento eterno ed infinito e dell'amore intel- lettuale infinito con cui Dio ama se stesso (V. p. V Schol pr. 40 « Pr. 36. Cfr. l'osservazione che abbiamo fatta al n. 2^). Confor- memente al principio del parallelismo psico-fisico, al corpo « cosa fissa ed eterna» corrisponde un' anima «cosa fissa ed eterna», come un'anima fenomenale e peribile corrisponde al corpo feno- menale e peribile. Sono i due aspetti inseparabili di una sola e stessa realtà . («onsiderata ora come astrazione realizzata, e ora come esistenza concreta e individuale. Ma 1' eternità della mente ha anche, e sovratutto . per Spi- noza, un altro significato. In questo secondo significato è una teo- ria della conoscenza, ed ha la più stretta analogia con l'immor- talità dell'anima nel senso hegeliano. Questa teoria della cono- scenza, come le altre analoghe del realismo dialettico, ha per isoopo di spiegare la corrispondenza fra il pensiero e la realtà. Il problema di spiegare la corrispondenza tra il pensiero e la realtà è più incalzante nel realismo dialettico, perchè al puntodi vista di questo sistema la corrispondenza è maggiore che al punto di vista ordinario. Infatti : 1^ il realismo dialettico fa con- siatere il vero reale in astrazioni realizzate, e noi non siamo a- bituati ad ammettere come astratte le cose, ma le idee: 2» esso pretende di sviluppare la conoscenza dal fondo stesso dello spi- rito, per la forza interna del pensiero e indipendentemente dal- l'azione delle cose, cioè dall'esperienza; 3o infine, in questo svi- luppo della conoscenza il progresso del pensiero, cioè V incate- namento dei principi! e delle conseguenze, rappresenta lo svi- luppo stesso delle cose, cioè l'incatenamento delle cause e degli effetti. (Per quanto riguarda Spinoza, vedremo meglio il lo e il 30 punto nel paragrafo seguente). Nei realisti dialettici troviamo tre soluzioni differenti del problema, corrispondenti alle rela- zioni diverse stabilite fra il pensiero e le cose. Platone ammette l'opinione ordinaria, secondo cui il soggetto e l'oggetto sono due realeà distinte ohe agiscono Tuua su 11' altra. A questo punto di vista il pensiero, come conoscenza, è subordinato all'oggetto co- nosciuto, e considerato come il prodotto dell' impressione delle cose. Così Platone spiega la corrispondenza fra il pensiero e la * -1 * ti 432 — elemento eterDo e necessario delle cose, certi elementi concettuali dagli altri, considerandoJi come esistenti per realtà per l'intuizione delle Idee che l'anima ba avuto nella su» esistenza passata. Hegel è un idealista, cioè riguarda le cose come rappresentazioni, che sono prodotte dall' attività del pen- siero. Così egli può spiegare la corrispondenza fra 1* essere e il pensiero per la loro identità, ammettendo ohe il pensiero filoso- fico è il pensiero assoluto, che comprende tutti i gradi prece- denti dello sviluppo del pensiero, e per conseguenza tutta la realtà. Spinoza non subordina il pensiero alle cose come Pla- tone, né le cose al pensiero come Hegel, ma riguarda il fisico e lo psichico come due serie parallele, ohe si corrispondono per- fettamente, senza che l'una abbia azione suU' altra : il paralle- lismo, cioè la corrispondenza, fra le due serie è spiegata per la loro identità radicale, cioè per l'unità del suhstrntum, di cui sono due forme o due aspetti diff*erenti. A questo punto di vista è ovvio che Spinoza riguardi la corrispondenza tra il pensiero fi- losofico e il suo oggetto corno un caso del parallelismo psicofi- sico, cioè di questa corrispondenza generale ch'egli suppone tra il fisico e lo psichico, e che applichi ad essa la stessa spiega- zione : egli ammette dunque che il pensiero filosofico e il suo oggetto sono due serie parallele, che si corrispondono perfet- tamente . perchè sono due forme o due aspetti difterenti di una sola e stessa essenza. (V. Eth, p. II Prop. VII col suo Cor. e Schol.). Spinoza ammette dunque anch' egli V identità dell'es- sere e del pensiero, ma in un altro senso ohe Hegel : per Hegel le cose sono presenti nel pensiero, e non sono esse stesse che pensieri; per Spinoza 1' identità dell' essere e del pensiero con- siste nell'unità del loro subatralum^ dell' essenza comune di coi sono le manifestazioni. In Platone la corrispondenza tra il pensiero e la realtà è qualche cosa di accidentale : essa non è spiegata per i principii del sistema, ma per un semplice fatto, l'intuizione delle Idee in un'altra vita. Ma in Spinoza e in Hegel la spiegazione è basata sui principii fondamentali dei loro sistemi, anzi in generale del — 433 - se stessi, indipendentemente da questi altri, eonie esso si è considerato esistente per se stesso, indipendente- realismo dialettico. Uno di questi principii è che l'essere si svi- lui>pa arricchendosi progressivamente di nuove determinazitmi, andando continuamente da uno stato più astratto ji, uno stato più concreto : ne segue ohe i gradi posteriori dello sviluppo dei- Tessere comprendono i gradi anteriori, che questi devono ritro- varsi in quelli. La spiegazione di Hegel è basata su questo prin- cipio : le cose si ritrovano nel pensiero filosofico, perchè questo è l'ultimo momento dell'evoluzione dell'idea, che comprende in se stesso tutti i momenti precedenti. Un altro principio fonda- mentale del realismo dialettico è che l'astratto è un essere unico che esiste per se stesso, e si ritrova, restando uno e identico a se stesso, negli esseri più concreti che ne sono le determinazi<mi. È su di esso che è basata la spiegazione di Spinoza: ciò die vi ha di comune aH'es.sere e al pensiero, egli lo considera come un essere unico ed esistente per sé, ohe si ritrova simultaneamente «eir uno e nell' altro, e di cui l'uno e l'altro sono due modi di essere distinti. Ciò diverrà più chiaro nel paragrafo seguente. L'essere che si rivela sotto questi due aspetti difterenti, cioè il fisico e lo psichico. 1' estensione e il pensiero, esiste per Spi- noza, come sappiamo, a un doppio stato: come cose temporanee, € che hanno un'esistenza determinata », e come cose c<msiderate sub specie aeternitatis, cioè come astrazioni realizzate. Il pen- siero, ohe è il parallelo delle cose temporanee e mutàbili, è esso stesso nn pensiero temporaneo e mutabile: è il pensiero che co- stituisce le anime degli oggetti individuali, cioè concreti, e tutti i loro fenomeni. Il pensiero che è il parallelo delle cose fisse ed eterne, è un pensiero esso stesso fisso ed eterno —perchè è l'al- tro aspetto sotto cui si rivela 1' essere come cosa fissa ed eter- na — : questo pensiero è un pensiero astratto, come le cose fisse ed eterne sono delle cose astratte . e costituisce il lato mentale di queste astrazioni realizzate. Il pensiero temporaneo e muta- bile ha per oggetto le cose temporanee e mutabili, cioè concrete; 28 — 434 - meote dairelemcDto contingente e mutabile da cui si è separato. Col primo processo di astrazione il vero reale il peusiero fisno ed eterno ha per oggetto le cose fisse ed eterne, oÌ4»è le distrazioni realizzate. Ora il pensiero filosofico non ha per oggetto le cose temporanee e mutabili, ma le cose fisse ed eter- ne (le cose considerate sub specie aeternitatig) ; in altri termini, non le cose concrete, ma le astrazioni realizzate. Di più l'ordine e la connessione del pensiero filosofico non sono identici all' or- dine e alla coniìessione delle cose temporanee e mutabili, ma a quelli delle cose fisse ed eterne, delle astrazioni realizzate : in- fatti r inoatenamento dei principii e delle conseguenze, che co- stituisce il 3® genere di conoscenza, non rappresenta l'incatena- mento delle cause e degli efl:'etti fenomeni, ma l'incatenamento delle cause e <legli ett'etti astrazioni realizzate, vale a dire i gradi successivi di questo sviluppo estratemporaneo dell'essere che va progressivamente da uno stato piìl astratto o più indeterminato a uno stato più concreto o più determinato (V. il $ 25 e il $ se- guente). Da ciò Spinoza conclude che il pensiero filosofico non è il parallelo delle cose temporanee e mutabili, ma delle cowe fisse ed eterne, delle astrazioni realizzate. Ciò vuol dire che esso è una parte del pensiero fisso ed eterno, ohe. come abbiamo detto, costituisce il lato mentale di queste astrazioni realizzate, e ohe la nostra mente . quando pensa le cose aiib specie aeternitatis, partecipa a questo pensiero fisso ed eterno, e sì identifica con esso. Un pensiero fisso ed eterno significa un pensiero ohe esiste fuori del tempo e della durata: la nostra mente, quando pensa le cose sub specie aetemiiatis, esiste dunque fuori del tempo e della durata, ed è eterna ed immutabile come le cose che essa pensa. È questa la teoria della conoscenza, che costituisce so- vratutto il signi.^cato deircternità della mente umana. Questa teoria della conoscenza consiste in sostanza in due proposizioni : 1* Che le nostre idee, che hanno per oggetto le cose considerate stib specie aeternitatis, sono eterne, cioè esi- stono fuori del tempo e della durata. Questa dottrina forma il soggetto principale della 5* parte dell'Etica, e siccome non po- . — 435 — si astrae dal fenomeno, e l'essere si risolve in Idee (Pla- tone) o in cose considerate sub specie aeternifa.ti8 (Spi- trebbe dar luogo a difficoltà d'interpretazione, ci limiteremo ad indicare i luoghi relativi, cioè Pr. 23 e Schol., Pr. 29, Pr. 31 e Sohol. 33 e Sohol. 38 e Sohol. 39 e Schol., Schol. pr. iO, Schol. pr. 42. (V. anche per questa dottrina Dio, l* uomo e la beat^ pag. 123-124). 2a Che queste nostre idee eterne . che hanno per oggetto le cose considerate sub specie aeternitatis, sono una partecipazione delle idee eterne di Dio, cioè dell' intendimento unico che Spinoza attribuisce al tutto come tale. Questa è un'ap- plicazione di una dottrina che noi abbiamo esposta nel <^ 24 Noi abbiamo visto in questo paragr.: che vi ha nel tutto, consi- derato come un essere unico, un sistema unico d'idee, in cui ad ogni oggetto reale corrisponde un' idea unica . come ad ognuna di queste idee corrisponde un oggetto unico nella realtà; che questo sistema unico d'idee costituisce l'intendimento unico che vi ha nella cosa pensante, l'essere pensante unico di cui tutti i pensanti particolari sono delle parti; e che le idee di questi es- seri pensanti particolari sono una partecipazione delle idee di quest'essere pensante unico, una partecipazione ex loto quando sono adequate, ex par<e quando sono inadequate; (v. pag. 366-367). Ne segue che le nostre idee delle cose considerate sub specie aeternitatis — e sono le sole idee adequate che Spinoza ci attri- buisce (V. pag. 397) ~ sono una partecipazione delle idee delle cose considerate sub specie aeternitatis che si trovano in que- sto sistema unico d' idee che costituisce l' intendimento dell' es- sere pensante unico. Non vi ha dubbio infatti che uell' inten- dimento unico di Dio vi siano le idee delle cose considerate sub gpeeie aeternitatis: in Dio, dice Spinoza, vi ha l' idea della sua essenza e di tutte le cose che seguono necessariamente da essa (dall' essenza di Dio non seguono necessariamente che le cose considerate sub specie aeternitatis), e questa idea è unica come è unico il suo oggetto (v. Mh. p. II, prop. 3 e 4). Inoltre que- ste idee di Dio che hanno per oggetto le cose eterne, cioè la sua essenza e le cose ohe ne seguono necessariamente, devono essere — 436 — noza); col secondo, dalle Idee o cose considerate sub spe- cie aeternitatis più concrete si astraggono altre Idee o delle idee esse stesse eterne, perchè 1' ordine e la connessione delle idee sono identici all' ordine e alla connessione delle cose (p. II. Prop. 7 e Cor.), e le idee devono seguire dall'attributo del pensiero della stessa maniera e con la stessa necessità in cui le cose ideate seguono dagli altri attributi (Cor. prop. 6). Così è per un'eterna necessità che vi ha in Dio l'idea del corpo umano considerato sub specie aeternitatis, come il corpo umano consi- derato sub specie aeternitatis segue per un'eterna necessità dal- l' essenza di Dio. (V. p. V, Dim. prop. 22 e 23). Che le nostre idee delle cose considerate stib specie aeternitatis siano una par- tecipazione di queste idee divine, Spinoza lo afi'erma esplicitamente nello Schol. alla prop. 40. (la nostra mente, in quanto intende, è un modo eterno di pensare, limitato da un altro modo eterno di pensare, e questo da un altro ancora e così all'infinito, e tutti insieme costituiscono 1' intelletto eterno ed infinito di Dio), col quale si devo confrontare la prop. 36 (il nostro amore intellet- tuale di Dio — che accompagna il 3« genere di conoscenza ed è eterno come essa, v. Cor. prop. 32 e Prop. 33 — è una parte del- l'amore intellettuale infinito con cui Dio ama se stesso). Questa dottrina è anche contenuta nello Schol. alla prop. 36, iu cui identifica la nostra idea di Dio con Dio stesso (cioè, eviden- temente, con r idea che Dio ha di se stesso;, perchè de- duco la proposizione che la nostra mente dipende e deriva da Dio, da quella che l'idea di Dio è il fondamento del 3» genere di conoscenza. lutine essa si ritrova in Dio, /' uomo e la heat^ dove riguarda il nostro intendimento, in quanto è eterno, come identico all'iutendimento eterno ed infinito di Dio, cioè all'inten- dimento eterno unico che esiste nella cosa pensante (cfr. pag. 123 n. 2» pag. 45-46). Spinoza C(msidera il sistema d'idee eterne, che hanno per og- getto le cose eterne, e di cui le nostre idee di queste cose sono una partecipazione, come lintendimento infinito di Dio, ohe è il modo necessario e immediato dell'attributo del pensiero (v. Schol. — 437 — cose considerate sub specie aeternitatis di più in più a- stratte (p. e., nel sistema platonico, dall'Idea dell'uomo pr. 40 e Dio, Vtiomo e la beat, pag. 123 n. 2 e pag. 4r..46) —quan- tunque r intendimento infinito di Dio debba anche comprendere le idee delle cose individuali, cioè temporanee— Ciò egli fa evi- dentemente perchè questo sistema d' idee eterne costituisce per lui ciò che vi ha di essenziale e di veramente reale nell' inten- dimento infinito, conformemente al suo principio che le cose fisse ed eterne costituiscono l'essenza e la vera realtà delle cose tem- poranee e mutabili. Siccome le idee divine temporanee e muta- bili e ohe hanno per oggetto le cose temporanee e mutabili, co- stituiscono alla loro volta la realtà di tutto ciò che vi h.i nel mondo psichico nella sua esistenza temporanea e mutabile — per- chè i fenomeni psichici distinti dalle idee non sono per Spinoza che idee confuse, e tutte le idee sono una partecipazione, per- fetta o imperfetta, delle idee dell' intendimento divino —ne se- gue che questo sistema d* idee eterne costituisce l'essenza e la vera realtà del mondo psichico, di cui tutti i fatti psichici sono la manifestazione fenomenale, come tutti i fatti fisici sono la manifestazione feujmienale delle cose eterne corrispondenti a que- ste idee. È un' applicazione del principio del parallelismo : alle cose fisse ed eterne devono corrispondere dei pensieri fissi ed eterni, che sono il suhsfrnlum dei pensieri temporanei e muta- bili, come le cose fisse ed eterne sono il snhstratum delle cose temporanee e mutabili. Così il sistema d' idee eterne, di cui le nostre idee delle coso considerate sub specie aeternitatis sono una partecipazione, costituisce il lato mentale e, per così dire, l'a- nima, delle cose fisse ed eterne, e il principio dell' identità tra l'aninm e il corpo, l'idea e il suo oggetto, spiega il parallelismo tra la conoscenza filosofica e il vero reale che ne è l' oggetto, come spiega il parallelismo tra i fenomeni psichici e i fenomeni fisici. In quanto al pernio su cui volge questa spiegazione della conoscenza filosofica, cioè il principio dell'identità tra il fisico e lo psichico, a ciò ohe abbiamo detto nel $ 24, pag. 368 e sgg. e in questa nota stessa pag. 433, non aggiungeremo che un'osserva- I * — 438 — quella del bipede, dall'aiiimale^ dall'essere vivente, eec), che si considerano conae aventi una realtà distinta da esse, zìoDe : è che questo principio apparisce per la prima volta nello Scolio alla prop. 7, parte II, in cui 8tabilit*ce la celebre tesi : orda et connexio idenrnm idem est ac ordo et connexio rerum ^ e ohe questa tesi, in questa proposizione, è presa nel senso del reali- smo dialettico, cioè come 1' equivalente della dottrina hegeliana dell'identità tra lo sviluppo logico e lo sviluppo ontologico. Ma un'altra osservazione che non dobbiamo negligere è, che per es- sere giiisti verso li spiegazione di Spinoza, bisogna anche tener conto della sua dottrina dell'idea dell'idea. Come ad ogni oggetto corrisponde la sua idea, cosi a quest'idea corrisponde l'idea di que- st'idea; fra le idee e le iaee delle idee vi ha lo stesso paralleli smo che fra gli oggetti e le idee, e questo parallelismo è spie- gato della maniera medesima, cioè per l' identità fondamentale tra l'idea e l'idea dell'idea. (V. Eth. parta II, Prop. 20. 21, 22, 23, 29, 43, e Schol. prop. 21). Di questa maniera si comprende come noi possinmo avere una conoscenza filosofica, non solo delle cose fisse ed eterne che costituiscono il lato fisico del vero reale, ma anche di quelle che ne costituiscono il lato psichico. Questa teoria d* Ila conoscenza forma talmente il significato principale della dottrina dell'eternità della mente umana, che Spi- noza parla il più spesso come se essa ne formasse tutto il significa- to* La mente si rappresenta le cose nel tempo e nella durata in quanto è peribile {Eth. p. V Schol. p. 23, Prop. 29, ecc.); inquanto è eterna non si rappresenta che le cose considerate sub specie aeternitatis (Prop. 29, Prop. 31, ecc.). Essa n(m è dunque eterna, che in quanto concepisce le cose sub specie aeternitatis (Schol. prop. 31): anche la parte che conosce le cose col secondo genere di conoscenza è eterna (Dim. prop. 38), ma per istabilire questa proposizione Spinoza si fonda su quella precedentemente stabilita, che la mente concepisce le cose sub specie aeterni- tatis in quanto è eterna. Egli pensa evidentemente che, quan- tunque il 20 genere di conoscenza non abbia per oggetto, come il 30, le astrazioni realizzate (cioè le cose considerate sub specie - 4)9 - ma come presenti in esse, della stessa maniera che le Idee o le cose considerate sub specie aeternitatis in ge- aeterutiatis nel i-euso pr<»prio del termine), tuttavia esso si life- riscc all' universale —benché non astratta» dai particolari e so- stantificato — e la possibilità di questo pensiero dell* universale si spiega per la presenza nell'anima delle idee eterne che han- no per oirgetto le cose eterne. Il 2«> e il 3t' genere di conoscenza cos^itnendo l'intelletto, e l'insieme degli altri fatti ntentali l'im- maginazione (perchè i fatti distinti dal pensiero consistono, se- condo r autore, in idee coi.fuse). la proposizione che riassume la dottrina di Spinoza è che la parte eterna della mente è l'in- telletto, la parte peribile l'immaginazione (Cor prop. 40. V. a. Prop. 21. Prop. 34 e Scholi e Schol pr. 39). Ciò vuol dire non che la mente in quanto è eterna non ha che la facoltà dell' intelli- genza, ma che eiò che vi ha di eterno nella mente sono gli atti stessi dell' iutelligeuza, le idee e le conoscenze intellettuali, che, come sappiamo, sono eterne, cioè esistenti fuori del tempo e della durata. E infatti quando Spinoza dice che la mente, in quanto conosce le cose sub specie aeternitatis, non ha mai cominciato, non solo ad esistere, ma nemmeno a conoscere le c<»se sub specie aeter- nitatis (Schol. prop. 31. cfr. Schol. prop. 33). egli non i.uò voler .dire, evidentemente, che la niente individuale non hamai comincia- to, non solo ad esistere, ma nemmeno a conoscere le cose sub specie aeternitatis, ma che la mente che conosce le cose sul» specie ueter nitatis non è la mente individuale, ma la mente che non è altro che le conoscenze sub specie aeternitatis. e quest» è sempre esistita, come sono esistite sempre le sue conoscenze. Questa equivalenza tra l'eternità della mente e l' eternità delle eouoscenzc sub spe- cie aeternitatis non è uicno evidente quanto dice che piìi nume- rose sono le conoscenze del 2» e del 3o genere, o più grande l'a- more intellettuale di Dio che accompagna queste conoscenze, e maggiore è la parte delia mente che « rimano » o che « è eter- na » (Pr. 38 e Schol. 39 e Schol). Conformemente a questo prin- cipio, egli va sino a non considerare come eterna che la mente del sapiente - eioè la parte della mente del sapiente che cono- I* I — 440 — nèrale si considerano come presentì nelle cose fenome- nali, cioè individuali e temporanee.8ce le cose ««/> specie aeternisatis — mentre quella dell* ignorante sarebbe tutta peribile (Sohol. prop. 42, infine dell'opera) ; con- cetto che ritroviMmo neirEpist. 37. {^ 5). in cui si attribuisce a Spinoza r a iter m azione che V anima dell'empio muore assoluta- mente (l'empio sarebbe l'uomo che non conosce che i fenomeni. e non ha alcuna conoscenza di Dio, cioè delle cose fìsse ed e- terne). Nel trattato su Dio, Tuomo e la beatitudine è più volte ripetuta l' idea che l'anima si rende eterna per la sua unione con Dio (o con le sostanze eterne) — v. pag. 52. 118. 114, 323-124, 134 —, e questa unione consiste nel 3» genere di conoscenza (che in questo trattato è il 4», perchè il lo è suddiviso in due) e l'amore intellettuale di Dio che ne deriva , Alla conoscenza delle cose considerate sub specie aeternìtatis partecipando, almeno in potenza, tutti gl'individui della specie umana, questa conoscenza deve trovarsi nell'essenza dell'uomo, cioè nell'uomo tisso ed eterno, che fa parte dell' umanità fìssa ed eterna. In realtà essa non appartiene alla mente individuale, cioè all'anima come idea del corpo temporaneo e mutabile, ma alla mente considerata sub specie aeternìtatis, cioè come idea del corpo considerato sub specie aeternìtatis (v. prop. 29, 31, ecc.), e l'individuo non vi partecipa che in quanto partecipa alla sua essenza eterna, di cui è la realizzazione nel tempo e nella durata. Infatti le idee delle cose considerate sub specie aeter- nìtatis sono al di fuori delle condizioni dell'individualità, e non esìstono ehe nel mondo delle astrazioni realizzate: la mi>nte non può dunque possederle che inquanto essa stessa è un'astrazione realizzata. L'indivìduo, che conosce lo cose sub specie aeternì- tatis, sopprime le condizioni della propria individualità, e si i- dentihca con la essenza eterna che è presente in esso e che è il suo substratuni; egli si ritira, per cosi dire, nel pììi ìntimo di se stesso, spogliandosi della temporanietà e di tutte le altre deter- minazioni dell'esistenza fenomenale. In verità l' essenza della mente umana non consiste nelle sole idee delle cose considerate — 441 - Che in Spinoza si trovi anche questo secondò processo •dì astrazione, noi potremmo inferirlo, almeno come pro- sub specie aeternìtatis, perchè tutto ciò che esiste nell' uomo temporaneo deve essere rappresentato nell'uomo eterno, quantun- que astrazion facendo dalla temporauietà e da tutte le circo- stanze che vi sono legate. Ma ciò che vi ha di più intimo nel- l'essenza della mente umana, l'essenza, per dir così, di questa es.senza, consiste nelle idee delle cose considerate sub specie aeter- nìtatis, perchè l'essenza della niente consiste nella conoscenza (mentis essentìa in cognitiuue cousìstìt. Dim. prop. 38 e Seh. prop. 36)f e per conseguenza la conoscenza sub specie aeternìta- tis è l'essenza della mente eterna, come la mente eterna è l'essenza della mente temporanea e mutabile. È perciò che Spinoza può ehiamare eternità della mente nmana l'eternità delle idee delle cose considerate sub specie aeternìtatis, benché queste non costi- tuiscono che una piccola parte dei fenomeni della psiche umana. La teoria <lella conoscenza di Spinoza che abbiamo esposta in questa nota, importa un'eccezione apparente al ])rincipio del parellelismo j)sico- tisico. Spinozii ammette che per ogni fenomeno psichico vi ha un fenomeno fisico che gli corrisponde, e vice- versa; ma le idee delle cose considerate sub specie aeternìtatis non hanno, secondo luì, alcun concomitante fisico.. Le idee che ci vengono medianto leafi'ezìoni del corpo, cioè i suoi movimenti, sono iuadequate. e rinsieme di queste idee si chiama immagina- zione. {Eth. p. II Schol. pr. 17, Pr. 26 e Cor,, Cor. pr. 29. Schol. 2o pr. 40, De iut. eménd. 74, 84-91, ecc.) — come abbiamo detto, è in •esse che si risolvono tutti i fenomeni della psiche che sogliamo distinguere dal pensiero — . Ma la concatenazione delle idee che si fa secondo 1' ordine e la concatenazione delle affezioni del corpo, deve distinguersi da quella che si fa secondo l'ordine del- l'intelletto, per cui la mente percepisce le cose per le loro cau.se prime {Elh. p II Schol. pr. 18). Le idee dell' intelletto nascono -dalla forza intima dell'intelletto stesso, che si spiega per le sue leggi proprie, e non dalle cause esterne: esse sono ])rodotte dulia niente pura, e mm dai fortuiti movimenti del corpo. {Eth. p. 11 -i;V^^pé<MÌM^* — 442 — - 443 — babile, dalla sua dottrina delle cose considerata sub spe- cie aeternitatis. Le cose considerate sub specie aeterni- tatis sono delle astrazioni realizzate: l'astratto è dunque per Spinoza una realtà, ed egli ha potuto dare un'esistenza per sé, come a queste astrazioni, così alle astrazioni supe- riori a cui esse sono subordinate. Ma la prova più impor- tante e che ne rende ogni altra superflua, è Tidentifìca- zione del rapporto tra il principio e la conseguenza col rapporto tra la causa e l'effetto. La realizzazione delle a- Btrazioni-di quelle formate pel secondo dei due processi che abbiamo distinti — non è una conseguenza di questa identificazione, ma è questa identificazione stessa espressa in altri termini. Così nel parag. 25 noi non abbiamo potuto fare a meno di anticipare sul paragrafo presente, essendo impossibile di esporre la dottrina che il rapporto tra il principio e la conseguenza è identico al rapporto tra la causa e l'etfetto, senza attribuire a Spinoza, più o meno esplicitamente, anche la dottrina che i principii hanno una realtà distinta da quella delle conseguenze, in altre parole, che non sono delle semplici astrazioni mentali, ma delle cose esistenti per se stesse, delle astrazioni rea- Schol. pr. 29. p. V. Soboi. pr. 23. De ini, emend. 84. 86, 91). Questa eccezione al principio del paraUeli srao non è. come ab- biamo detto, ohe apparente. Il parallelo dei pensieri fi»RÌ ed e- terni non possono essere dei fenomeni, ma delle cose egualmente fisse ed eterno. Prima di finire questa nota dobbiamo avvertire che per com- prendere bene questa teoria della conoscenza di Spinoza e i motivi su cui essa è fondata, bisogna formarsi un'idea esatta della corrispondenza perfetta ch'egli suppone, tra lo sviluppo del pensiero, cioè del pensiero filosofico, e lo sviluppo d.ll'essere. Perciò bisogna aggiungere a ciò che abbiamo detto nel para- grafo 25 ciò che diremo nel paragrafo seguente. lizzate. Spinoza non poti*ebbe riguardare il principio e la conseguenza come causa ed effetto, se non li riguar- dasse come due realtà distinta: è per questa realizzazione che il rapporto semplicemente logico tra principio e con- seguenza diviene un rapporto onfologivo tra causa ed effetto. Il sistema delle conoscenze, nel realismo dialet- tico, è una catena di nozioni astratte, in cui l'astrazione è decrescente, e che sono logicamente legate fra di loro, in modo che la nozione precedente (cioè la più astratta) sia il principio di quella che immediatamente la segue, e la susseguente (cioè la meno astratta) la conseguenza di (luella che immediatamente la prece<le. Queste no- zioni più o meno astrìitte rappresentano le stesse cose, ma concepite d'una maniera più o meno astratta— per- chè la conseguenza non fa che porre esplicit-amente ciò era posto implicitamente dal principio, e non è che il principio stesso in una forma più sviluppata— : per con- seguenza, se l'astrazioni! non fosse che mentale, il pro- gresso nella deduzione non sarebbe che un progresso nella determinazione con cui il pensiero concepirebbe le cose, mentre le cose stesse resterebbero immobili. Se invece l' astrazione non è semplicemente mentale, ma anche reale, in altri termini se a queste nozioni astratte corrispondono delle realtà astratte, il progresso nella deduzione è un progresso nella determinazione delle cose stesse — in altre parole il passaggio dall'indeterminato al determinato non avviene nella sola conoscenza, ma neir oggetto conosciuto -: allora ogni nuovo passo nel ragionamento segua un nuovo passo nello sviluppo del- l' essere, e il movimento del pensiero corrisponde al movimento stesso della realtà. Ora in questo sviluppo progressivo dell' essere, in questo passaggio continuo delle cose da uno stato più indeterminato a uno stato più determinato, gli stati successivi sono fra di loro nel rapporto logico di principio e conseguenza: ciò vuol dire — 444 - che dato il precedente è dato pure il couseguente, che la esistenza dell' uno trascina necessariamente 1' esistenza dall'altro. Ma dire che l'esistenza dell'uno trascina ne- cessariamente l'esistenza dell' altro, è dire che 1' uno è la causa e l'altro l'effetto: così, per la realizzazione delle astrazioni, il rapporto puramente logico di principio e conseguenza diviene un rapporto di causa e di effetto, e. questa causa è efficiente, perchè il legame tra il prin- cipio e la conseguenza è un legame visibile a priori e n«ecessario. Applichiamo ciò che abbiamo detto al siste- ma di l^piuoza. Il 3° genere di conoscenza parte da una nozione astratta, 1' essere assolutamente indeterminato, e ne deduce progressivamente altre nozioni astratte, ma di cui ciascuna è sempre meno astratta dì quella da cui si deduce immediatamente: dall'essere assolutamente in- determinatosi deducono immediatamente gli attributi, da- gli attributi i modi immediati, da questi altri modi, e così di seguito. Queste nozioni astratte su cui volge la deduzio- ne di Spinoza^ dell'essi re assolutamente indeterminato, degli attributi, dei modi immediati, e dei modi mediati che da essi progressivamente si deducono, rappresentano le stesse cose, cioè l'insieme degli esseri, che Spinoza chia- ma Dio o la uà tura; ma le rappresentano d'una manie- ra sempre meno astratta, l'estensione e il pensiero d'una maniera meno astratta che l'essere assolutamente inde- terminato, il riposo e il movimento e i modi immediati del pensiero di una maniera meno astratta che l'estensio- ne e il pensiero, e così ili seguito. Nel progresso della de- duzione, nel passaggio dall'essere indeterminato agli at tributi, ai modi immediati, ai modi immediati di que- sti modi ecc.^ è sempre l'insieme degli esseri l'oggetto reale a cui si riferisce il nostro pensiero, ma quest' in- sieme degli esseri noi lo pensiamo d' una maniera di meno in meno astratta. Per conseguenza, se l'astrazione non fosse che mentale, vale a dire se l'essere assoluta- ~ 445 — mente indeterminato, l'estensione e il pensiero assolu- tamente considerati, ecc., non esistessero, in questo stato di astrazione, che unicamente nel nostro pensiero, il progresso della deduzione non sarebbe che un progresso nella nostra conoscenza, che andrebbe progressivamente determinando ciò che in principio non le era stato dato che d'una maniera assolutamente indeterminata; questo progresso, questo passaggio dall' indeterminato al de- terminato, non avrebl)e luogo che nel nostro pensiero, perchè di leale non vi sarebbe che il concreto, e questo è assolutamente determinato. In questo caso il rapporto tra il principio e la conseguenza non sarebbe che logi- co: r incatenamento deduttivo non potrebbe assimilarsi all'incat^mamento causale, perchè al progresso del pen- siero non corrisponderebbe un progresso nella realtà, alle nozioni successive che Spinoza deduce le une dalle altre, non corrisponderebbero, nella realtà, dei momenti suc- cessivi che deriverebbero gli uni dagli altri. Ma ammet- tiamo che l'essere assolutamente indeterminato, l'esten- sione e il pensiero indeterminati, ecc. non siano delle semplici nozioni astratte, mi delle astrazioni realizzate, in altre parole che esistano delle cose reali che non siano che essere assolutamente indeterminato, estensione e pen- siero indeterminati, ecc.: allora alla serie delle nozioni che si deducono le une dalle altre corrisponde una serie di cose che ilerivano le une dalle altre, i momenti suc- cessivi nello sviluppo del pensiero rappresentano dei momenti successivi nello sviluppo dell'essere stesso, e le premesse diventano delle cause come le conseguenze di- ventano degli eftetti. L' identificazione del rapporto tra il principio e la conseguenza a quello tra la causa e l'ef- fetto è dunque il risultato della realizzazione delle astra- zioni: senza di essa questa identificazione sarebbe impos- sibile, perchè la deduzione non sarebbe che un processo logico e non una derivazione reale, in una parola perchè r — 446 — lo sviluppo logico non sarebbe al tempo stesso uno svi- luppo ontologico. Questo sviluppo logico che è al tempo stesso uno sviluppo ontologico, è indicato nel realismo dialetti- co dall' espressione anteriorità e posteriorità di natu-^ ra. È il termine che usava Platone, e che in Hegel è sostituito dalla parola momenti. La successione pura- mente logica e metafisica è simboleggiata dalla succes- sione cronologica. Questi termini esprimono lo stesso concetto che il realista dialettico esprime chiamando cama il principio logico ed effetto la conseguenza, cioè che la deduzione non è un semplice processo logico, ma una derivazione reale - semplicemente il rapporto tra il principio e la conseguenza viene assimilato meno aper- tamente al rapporto tra la causa e l'effetto. — Noi tro- viamo dunque un' altra prova della realizzazione delle astrazioni (di. quelle ottenute col secondo dei due prò- cessi indicati) nell'uso che fa Spinoza della espressione platonica. Anteriore e posteriore di natura significa in Spinoza, come in Platone, quella sequenza metafisica nelle cose stesse, che è il correlativo della sequenza lo- gica nel nostro pensiero (1). Altre volte questi termini sono usati in un senso che non implica la realizzazione delle astrazioni, ma significano anche allora la relazione tra ciò da cui una cosa deriva e la cosa stessa deriva- ta (2). Che anteriore di natura, quando l'applica a delle (1) Antenore di natura (pnor natura) è uaato in questo senso neir Mh. p. I. Prop. 1, Dini. prop. 5. App. alla p. I p. II. Sohol. prop. 10 {tam eognitione quam natura prior. vale a dire tanto logUamente quanto ontologicamente); in Dio, V uomo e la bi'.at, pag. 127 I. eoe. Posteriore di natura nello stesso luogo del- l'App. alla p, I. Simnl natura in />e Intell. emend. 102). (2) V. Mh. p. I. Schol. prop. 17. p. II. Dim. prop. 11, Dira, prop. 24, Dim. prop. 25. Dio, V uomo e la beat. pag. 127. VII. ì — 447 — astrazioni^ implica per Spinoza la loro esistenza per sé, si vede nella dimostrazione della proposizione 5. « PROP. V. Nella natura delle cose non possono darsi due o più so- stanze della stessa natura o attributo. DIMOSTR. Se se ne dessero più distinte, dovrebbero distinguersi o per la diversità degli attributi o per la diversità delle affezioni. Se solo per la diversità degli attribuii, si concederebbe dun- que non darsene che una sola dello stesso attributo. Ma se per la diversità delle affezioni, siccome la sostanza è ante- riore di natura alle sue affezioni, deposte dunque le affezioni e considerata in se stessa, cioè veramente considerata, non potrà distinguersi da un'altra, cic»è non potranno darsene più, ma solamente una > (1). In una notii del trattato su Dio, l'uomo e la beatitudine si dimostra che « non vi ha parti nell'estensione avanti ogni modificazione» (cioè nell'e- stensione come anteriore ai suoi modi — proposizione di cui parleremo in seguito — ) fondandosi sul principio che € l'estensione come estensione > (o come si è detto un po' prima nella stessa nota, < l'estensione in sé y^) esiste senza i suoi modi e avanti i suoi modi. La realizzazione delle astrazioni (nel senso indicato) 'NeìVMh. p. I. Sohol. prop. 17 e p. III. Sohol prop. 2 simul natu^-af applicato alle cose e ai pensieri per signidoare la loro indipendenza reciproca (cioè che uè i pensieri sono prodotti dalle coso, uè le cose dai pensieri), ed anche, senza dubbio, la loro de- rivazione simultanea dal loro substratum comune. (1) La sostanza si considera dunque veramente, cioè si pensa quale è in realtà, quando si pensa separata dai suoi modi, de- positis affectionibus. Inoltre dalla indifierenziabilità di due so- stanze dopo ohe si è fatta astrazione dai loro modi, Spinoza non potrebbe concludere la loro reale identità, se esse non esistessero realmente come si concepiscono dopo quest' astrazione, cioè a parte dei loro modi. I — 448 — — 449 - è supposta pure da due altre dottrine di Spinoza ( che non sono anch'esse che delle espressioni differenti del principio delPidentità tra lo sviluppo logico e lo svi- loppo ontalogico). L'nna è il y)arallelisnio tra il pensiero e le cose, in quanto per pensiero sMntende il pensiero filosofico, cioè quello che conosce le cose col terzo ge- nere di conoscenza. Siccome il 3<> genere di conoscenza consiste a passare gradatamente da una nazione astratta ad un'altra nozione pure astratta, ma meno astratta della precedente, la dottrina del parallelismo implica che a questa serie di pensieri astratti conisponda una serie di cose egualmente astratte, tanto più che il pen- siero e V oggetto pensato non sono due cose differenti, ma due aspetti differenti di una sola e stessa cosa, che da una parte apparisce come pensiero e dall'altra come realtà. L'altra dottrina è che il S*^ genere di conoscenza è intuitivo. È il carattere più essenziale, per cui Spi- noza lo distingue dal secondo genere (1). La conoscenza del 3^ genere è una scienza intuitiva (2), in cui lo spi- rito non fa alcuna operazione intellettuale, ma ve- de (3); non è una convinzione fondata sul ragionamento, ma è il sentimento e il godimento della cosa stessa (4); que- sta è perc(^pita immediatnmente ed in se stessa, come r oggetto sensibile è percepito immediatamente ed in se stesso dall'intuizione sensibile (5). Per questa intui- tività della conoscenza filosofica Spinoza non intende, (1) V. Dio ruomo e la beat, pag. 55-56, Eth. p. II Scbol. 2o pr. 40, De ini, emend. 24. (2) Mh, p. II Schol. 2» pr. 40. p. V Schol. pr. 36, eoe. (3) De int. emend. 24. (4) Dio, l'uomo e la beat. pag. 56. (5) Dio, Vnomo e la beat. pa«;. 55. come potrebbe credersi, che l'oggetto pensato è presente nel pensiero e s'identifica con esso, come, secondo la credenza del volgjire sulla percezione sensibile, l'oggetto sentito è presente nella sensazione e s'identifica con essa — perchè ciò sarebbe contrario al principio del pa- rallelismo fra il pensiero e le cose — : il senso di questa dottrina di Spinoza è che nella conoscenza filosofica lo spirito non è che uno spettatore, che l' intelligenza si limita a ricevere Tini pressione degli oggetti intelligibili, come la vista degli oggetti visibili, riproducendoli in se stessa e riflett,endoli come uno specchio, in modo che il pensiero non sia che, l' immagine della realtii e « l'or- dine e la connessione delle idee siano identici all'ordine e alla connessione delle cose stesse ». Dato (jiiesto con- cetto sulla natura della conoscenza filosofica, alcuu'astra- zione puramente mentale non può aver luogo in questa conoscenza, come non può avervi luogo alcun 'altra ope- razione intellettuale che non abbia il suo riscontro nella realtà; delle nozioni astratte non potranno che rappresen- tai^e degli oggetti astratti, ai principii e alle conseguenze nel nostro pensiero corri spon desanno dei principii e delle conseguenze nella natura, e la nostra deduzione non saì^ che un'immagine della derivazione reale delle cose stesseo Perciò Spinoza raccomanda di non conce- pire le cose (nella conoscenza filosofica) astrattamente o, ciò che per lui vale lo stesso, uni versai niente (1), di non passare mai, nel progresso della deduzione, agli a- stratti ed universali (2), e non mescolare ciò che è sol- (1) V. De int. emend. 7.5-76, 98, eoo. (2) V. De int. emend. 93 e 99, luoghi che riporteremo in se- guito. 29 — 450 — tanto nell'intelletto con ciò che è nella realtà (1); e di- stingue la conoscenza del 3® genere da quella del 2^ per ciò che questa ha per oggetto l'universale, mentre quella ha per oggetto il singolare (2). Per astratto in- tende evidentemente un'astrazione puramente mentale, vale a dire una nozione per cui il reale — che può es- sere anche un'astrazione realizzata — non è concepito in tutta la sua determinatezza, e in cui la mente separa ciò che non è separato (^(OQiaióy) nella realtà: la cono- scenza del 2^ genere ha per ogetto l'universale, perchè essa non concepisce che astrattamente ciò che è comune a tutta una classe; quella del 3» genere ha per ogetto il singolare, perchè concepisce la classe stessa, non a- strattamente, ma qua! è in se stessa considerata «mò spe- cie aeternitatis. Tanto è vero che Spinoza dà un'esistenza per sé al- l'essere assolutamente indeterminato, 1' estensione e il pensiero indeterminati, e le altre astrazioni che si de- ducono da queste, ch'egli attribuisce loro, in questo stato astratto, delle proprietà contrarie a quelle che esse hanno in qnanto si trovano negli oggetti concreti o nelle altre astrazioni meno astratte ad esse subordinate. È ciò ch'egli fa della maniera più esplicita per l'esten- sione. L' estensione come estensione, cioè 1' est-ensione in sé, l'estensione come sostanza, è indivisibile : la di- visibilità appartiene ai modi dell' estensione, non all'e- stensione stessa. Dividendo una cosa estesa, p. e. l'acqua, si divide « il modo della sostanza, e non la sostanza stessa, la quale resta sempre la stessa, che essa sia mo- li) De ini. emend. 93. (2) V. Eth, p. V Schol. prop. 36 e Schol. prop. 37, De ini. emend. 101, eoo. dificata in acqua o in altra cosa »; in altri termini, essa si divide « in quanto è acqua, non in quanto è sostanza corporea » (cioè estensione) (1). Spinoza nega che l'e- stensione in sé sia divisibile, perchè la divisione sup- pone l'esistenza dei corpi e del movimento, e questi sono dei modi dell'estensione, posteriori all'estensione stessa. Egli avrebbe espresso il suo pensiero in una forma più rigorosa, se avesse detto che l'estensione in sé non è né divisibile né indivisibile — perchè è evidente che, se l'astratto manca di alcune delle determinazioni del concreto, esso non può avere però altre determinazioni positive che siano incompatibili con esse — . Anche in questa forma più rigorosa si affermerebbe dell'estensione in sé un attributo che è in contraddizione con un attri- buto delFestensione concreta; ma la forma di Spinoza, mettendo più in antitesi l'attributo dell'una con quello dell' altra, mette più in rilievo la loro distinzione, e mostra più chiaramente che la prima non è secondo lui una semplice astrazione, ma ha un'esistenza per sé, in- dipendentemente dalla seconda. Ma dove il realismo di Spinoza apparisce della ma- niera più evidente, è in un luogo del trattato De intelle- ctus emendatione, che riporterò per disteso, perchè lo cansidero come l'espressione più netta e più completa del pensiero dell'autore : « 99 In quanto all'ordine poi, e € aftinché tutte le nostre percezioni vengano ordinate 4C ed unite, si richiede che, quando prima può farsi e « lo domanda la ragione, ricerchiamo se si dia qualche « essere, e al tempo stesso quale, che sia la causa di (1) V. Dio Vnomo e la beai. pag. 16-17, Eih. p. I Prop. 12, Prop. 13, Cor. e Sohol., Sohol. prop. 15, De ini. emend. 87, Spisi, 29. 5-7, ecc. I tutte le cose, in modo che la sua essenza obbiettiva 4( (cioè la sua idea) sia pure la causa di tutte le nostre « idee, e così la nostra mente, come abbiamo detto, rap- « presenti, quanto più è possibile, la natura. Infatti a- « vrà obbiettivamente la essenza stessa di essa e lo « stesso ordine e la stessa unione. Donde possiamo ve- « dere come in primo luogo ci sia necessario di dedurre * sempre tutte le nostre idee dalle cose fisiche, cioè da- « gli essevi reali, progredendo, per quanto è possibile, « secondo la serie delle cause, da un essere reale ad un « altro essere reale, e in modo da non passare agli a- € stratti ed universali, né concludendo da essi qualche 4( reale né concludendo essi da qualche reale. L' una e « l'altra cosa infatti interrompe il vero progresso dell'in- « teletto (1). 100 Ma bisogna notare che per la serie delle « cause e degli erseri reali io non intendo la serie delle cose singolari mutabili, ma soltanto la serie delle cose « fisse ed eterne. lafatti sarebbe impossibile alla umana « debolezza di tener dietro alla serie delle cose siniro- « lari mutabili, tanto per il loro numero che supera o- « gni moltitudine, (juanto per le infinite circostanze in « una sola e stessa cosa ^ di cui ciascuna può essere 453 — « (1) Confronta 93 (prima ba detto ohe si deve conoscere l'ef- fetto per la causa) : « Quindi non ci sarà mai lecito, quando si « tratta della ricerca delle cose, di concludere alcun che dagli « astratti, e ci guarderemo bene di mescolare le cose ohe sono <i soltanto nell'intelletto con quelle che sono nella realtà: Ma « l'ottima conclusione sarà ricavata da qualche essenza partico- « lari) affermativa, cioè da una vera e legittima detinizione. In- « fatti dai soli assiomi universali rintelletto non può scendere <• ai singolari, poiché gli assiomi si estendono a un' intinità di « cose, e non determinano l'intelletto a contemplare uno piutto- « sto che un altro singolare ». « causa che la cosa esista o non esista. Poiché la loro < esistenza non ha alcunaconnessione con la loro essenza, « ossia, come già abbiamo detto, non è un' eterna ve- « rità. 101. Ma del resto non abbiamo bisogno di com- « prendere la loro serie: in effetto le essenze delle cose < singolari mutabili non si devono ricavare dalla loro € serie o ordine di esistere, poiché questo non può darci « altro che delle determinazioni estrinseche, delle rela- € zioni, o al più delle circostanze, e tutto ciò è ben lon- « tano dall'intima essenza delle cose. Questa deve cer- « carsi soltanto nelle cose fisse ed eterne, e insieme nelle € leggi, scritte in queste cose, come nei loro veri codici, < secondo le quali tutte le cose singolari si producono « e sono ordinate; anzi queste cose singolari mutabili « così intimamente e, per di così, essenzialmente dipen- « dono dajle fisse, che senza di esse non possono essere « né concepirsi. Quindi queste cose fisse ed eterne, quan- « tunque siano singolari, pure per la loro presenza do- € vunque e la loro latissima potenz«a f^aranno per noi « come degli universali o dei generi delle definizioni ^ delle cose singolari mutabili, e le cause prossime di € tutte le cose ». Questo luogo, dopo ciò che abbiamo detto nei due pa- ragrafi anteriori, non ha bisogno di molli commenti. Ci limiteremo a notare: che le cose fisiche o gli esseri reali di cui si tratta in questo luogo, sono delle cose fisse ed eterne, che si distinguono dalle cose singolari mutabili, in cui sono presenti, e di cui sono le essenze e le cause immanenti; che la serie di (jucsti esseri reali é una se- rie di cause, cioè che essi costituiscono una catena di cause di cui 1' una procede dall' altra, e ciò nel senso trascendente che la parola causa ha nel realismo dialet- tico, perché (piesta serie di cause si distingue dalla serie delle cose singolari mutabili ; e infine che il progresso ininterrotto dell'intelletto da un essere reale ad un altro, percorrendoli secondo la serie delle cause, cioè secondo il loro iucatenamento eausale, è nna deduzione conti- nua, in cui si conclude sempre un essere reale da un al- tro essere reale. Ma la serie delle cose che si deducono runa dall'altra, e di cui quella da cui si deduce è con- siderata come la causa di quella che se ne deduce, sono, nel sistema di Spinoza, l'essere assolutamente indeter- minato, gli attributi divini, cioè il pensiero e l'estensione indeterminati, e i modi eterni ed infiniti che derivano, immediatamente e mediatamente, dagli attributi (nei quali modi eterni ed infiniti sono contenute tutte le cose considerato sub specie aeternitatis, concepite a gradi differenti di astrazione secondo i gradi di prossimità dei modi agli attril>uti). Sono ciueste cose dunque gli esseri reali di cui si tratta nel luogo citato, e l'essere assolu- tamente indeterminato, gli attributi divini e le altre a- strazioni che se ne deducono, non sono dtlle semplici astrazioni, ma delle astrazioni realizzate, di cui la più astratta esiste indipendentemente dalla meno astratta, in cui è contenuta e di cui è la causa immanente, come tutte esistono indipendentemente dalle cose concrete, in cui sono contenute e di cui sono le cause immanen- ti (1). Si vede anche dal s^ 99 e dal $ 93 che abbiamo riportato in nota, non solo che il 3« genere di conoscenza consiste a dedurre gradatamente da un essere reale un altro essere reale, ma che tutte le premesse e tutte le conseguenze non sono in questa deduzione che esseri reali Ciò vale a dire che questa deduzione è immediata, cioè che essa passa immediatamente dalla posi- zione di un essere reale alla posizione di un altro essere reale, senza l'intervento di assioni o altre proposizioni intermediarie, e in una porola senza una dimostrazione propriamente detta. È perciò che Spinoza chiama la co- noscenza del 3" genere una scienza intuitiva: essa è in- tuitiva sì perchè i suoi oggetti non sono delle astra- zioni, ma degli esseri reali, si perchè la connessione tra questi esseri reali non è conosciuta per ragiona- mento, ma immediatamente. Questa immediatezza delle deduzione è, come abbiamo notato (1), un carattere ge- nerale del realismo dialettico, che Spinoza ha comune con Platone e gli altri rappresentanti di questo tipo di metafisica. Così il rapporto tra il principio e la conse- guenza è assimilati) di più a quello tra la causa e l'ef- fetto, i»erchè nelle causazioni familiari da cui è venuta l'idea di causazione efficiente, il legame tra la causa e l'effetto non si vede per ragionameato, ma immediata- mente. Inoltre l'identificazione del principio logico alla causa e della conseguenza all'effetto implica che l'astra- zione realizzata che si riguarda come la causa di un'al- tra astrazione realizzata sia la premessa unica da cui questa si deduce: se occorressero altre premesse, ne sa- rebbe una delle cause, ma non la causa completa (2). Questi due principii del metodo di Spinoza, che le cose che si deducono sono degli esseri reali, e che la deduzione è immediata, costituiscono, presi insieme, il significato della sua proposizione che l'ordine e la con- nessione delle idee sono identici all'ordine e alla con- nessione delle cose - a parte il parallelismo psico — fi- li) L'immanenza della causa uell' effetto è si chiara in Spi- noza, che il rapporto delle « cose fìsse ed eterne > fra di loro e con le cose non potrebbe dar luogo, nel suo sistema, alle stesse quistioni a cui ha dato luogo nel sistema platonico. (1) ^. 12, u. 40. (2) Ci'r. cap. VI, $ 5 e anche questo capitolo *S 12 n. 4». ^ — 456 — sico come dottriua psicologica e cosmologica —. Questa proposizioue, in questo suo significato trascendente, e- quivale, al fondo, al principio hegeliano dell'identità tra lo sviluppo logico e lo sviluppo ontologico. Ma Hegel non presentando la serie delle astrazioni realizzate che egli deduce, che come i gradi uecessivi di uno sviluppo, noi non possiamo che per induzione altribuirgli come scopo ultimo di assimilare il rapporto tra il principio e la conseguenza al rapporro tra la causa e l'ett'etto. Spi- noza li identifica esplicitamente, e ci mostra così nella luce più completa il vero scopo e 1' essenza intima del realismo dialettico (1). (1) Prima di finire «u Spinoza dobbiamo giustitìcare unarter- mazione che al>biamo ripetuto più volte, sia esplieitameute 8ia implicitamente, cioè che al di là degli attributi Spinoza suppone qualche cosa di più indeterminato, ohe è agli attributi ciò che que- sti sono ai modi, vale a dire ohe esiste per se stessa, quantun- que presente negli attril>uti, come gli attributi esisttmo per se stessi, quantunque presenti nei modi. Noi nim lo fju^ciamo ohe alla fine di questo paragrafo, perchè la prova potissima di que- sto punto della metatìsioa di Spinoza si ha dal confronto della dottriua di cui abbiamo parlato verso la line del paragrafo 24, che la cosa estesa e la iosa pensante sono due aspetti o due espressioni ditì'erenti di una sola e stessa cosa, con la dottrina che ha formato l'argomento del paragrafo precedente e di que- sto pariigrafo. che il reale risulta da astrazioni realizzata, e che per conseguenza ciò che è comune a molte cose è riguardato come una realtà distinta, unica in se stessa, ma presente al tempo stosso in ciascuna di queste cose. La sola maniera pos- sibile d'intendere la prima dottrina è che vi ha nelhi cosa estesa e nella cosa pensamte, oltre agli attributi propri in cui differi- scono, una essenza comune in cui sono identiche, e che questa essenza comune della cosa estesa e della cosa pensante è un'en- tità unica, esistente per se stessa e <4ie, senza perdere la sua — 457 — § 28. Noi abbiamo incontrato nel corso di questo ca- pìtolo diverse forme del realismo dialettico, caratteriz- unità e senza dividersi, è presente al tempo stesso nell' una e nell'altra— come l'estensione è un'entità unica, presente al tempo «tesso nei suoi due modi immediati, cioè la quiete e il movi- mento, o l'umanità, come cosa fissa ed eterna, è un'entità anica, presente al tempo stesso in tutte le generazioni successive del- l'umanità fenomenale — . Questa dottrina di Spinoza non sembra suscettibile di alcun altro senso: ma noi non siamo fondati ad attribuirle questo, che perchè sappiamo che egli riguarda 1' a- stratto come reale, e il comune come separabile [/woKTTÓt^), cioè come un'entità unica esistente per sé e presente al tempo Btesso in ciascuna delle cose a cui si dice comune. Questa inter- pretazione è tanto più giustificata ohe, per indicare la relazione della cosa estosa e della cosa pensante con la cosa unica di cui •esse sono i due aspetti, Spinoza si serve degli stessi termini che usa per indicare la relazione dei modi degli attributi con gli at- tributi stessi. Così egli dice, da una parte, che ogni cosa, cioè •ogni modo degli attributi divini, certo et determinato modo ex- primit l'essenza di Dio o alcuno dei suoi attributi {Eth. p II Cor. pr. 25. Dim. pr. 36, p. II Def. I, I)im. pr. 1, Dim, pr. 5, Cor. pr. 10, p HI Dim. pr. H, ecc.^ e dall' altra parte, che l'e- stensione aliquo modo Dei natnram exprimit (Epist. 41. 10 — neXV Etieri si dice più volte degli aitributi che esprimono l'es- senza di Dio, p. e. nelle P I Dim. pr. 19 e nella P II Dim. pr. I; ma in questi luoghi l'essenza di Dio significa forse il com- plesso degli attributi stessi, non il loro substratum — ) e ohe un modo dell'estensione e l'idea di questo modo sono una sola e «tessa cosa, duohus modis expressa (Eth. p II Schol. pr. 7). Così pure noi troviamo da una parte : Deus qnatenus per naturum humanae mentis explicatur (Eth. p II Cor. pr. 11. Dim. pr. 43, p^ V Pr. 36 e Dim.). per significare: Dio in quanto è modificato di questo modo particolare che è la mente umann; e dall'altra parte : Dio come e«)sa pensante et non quatenus alio atlrihuto explicatur (Eth. p. II Pr.,5, p. Ili Dim. pr. 2); e ancora: ilcir- - 458 — — 459 — zata ciascuna dal modo differente di concepire le astra- zioni realizzate. Questo modo è legato evidentemente alla concezione particolare del mondo propria a ciascun autore. Platone si rappresenta le astrazioni realizzate colo esistente nella natura e l'idea divina di questo circolo sono una sola e stessa cosa quae per diversa atirihuta explieatur (Etli. p. II Schol. pr. 7 — nello S<jhol. prop. 2 p. Ili: la volizione e il naovimento corporeo corrispondente sono una sola e stessa cosa, che chiamiamo volizione quando si considera sotto l'attributo del pensiero e per esso explieatur; nello stesso Schol. pr. 7 p II: la sostanza pensante e la sostanza estesa sono una sola e stessa sostanza, quae iam sub hoc iam sub ilio attributo eomprehenditur — compre htndi tur ha evidentemente lo stesso senso che explieatur). Questi termini exprimit^ explieatur e loro sinonimi, sia che in- dichino il rapporto frH gli attributi e 1' essere unico che essi manifestano, sia che indichino quello tra i modi e gli attributi, devono significare, nell'un caso e nell'altro, uno stesso concetto: la relazione fra le determinazioni e l'indeterminato di cui sono le determinazioni (quest'indeterminato essendo considerato come una realtà, e non come una semplice astrazione). Naturalmente noi dobbiamo attribuire a Spinoza, non solo il concetto che l'estensione e il pensiero sono due determinazioni di un essere unico (l'essere assolutamente indeterminato) esistente per sé e presente nell'una e nell'altro, ma anche quello che o<;ni modo dell'estensione e il modo corrispondente del pensiero nono due determinazioni di una cosa unica (una modificazione dell' essereassolutamente indeterminato), pure esistente per se e presente nell'uno e nell'altro. Dal primo al secondo dei due concetti la conclusione non è forzata, e Spinoza la faceva perchè vi trovava una spiegazione della corrispondenza fra il pensiero e la realtà, e in generale tra l'ordine fisico e l'ordine psichico. L' esistenza per sé d'un 'entità astratta, che è il substratum comune dell'e- stensione, del pensiero e degli altri attributi (e che Spinoza chiama l'ens absolute indeterminatum, Epist, 41. 8-10). oltre che nei luo- ghi in cui è quistione della dottrina dell'identità tra il pensiero e le cose, è indicata chiaramente anche altrove, e sovrattutto in un luogo del trattato su Dio Vaomo e In beat, in cui afferma che gli attributi sono alla sostanza ciò che i modi sono agli at- tributi (p. 22 trad. frane. : « se tu voi chiamare sostanze il cor- porale e l'intelletluale rapporto ai modi che ne dipendono, bi- sogna pure che li chiami modi rapporto alla sostanza da cui dipendono; perchè essi sono concepiti da te, non come esistenti per se stessi, ma della stessa maniera che tu concepisci volere^ sentire, intendere, amare come i modi di ciò che tu chiami so- stanza ])ensante, a cui tu li riferisci come non facenti che uno con essa: donde io concludo che l'estensione infinita, il pensiero infinito e gli altri attributi infiniti non sono niente altro che i modi di quest'essere uno, eterno, infinito, esistente per sé, in cui tutto è uno, e al di fuori del quale alcuna unità non può essere concepita >). In questo luogo per sostanza s'intende il substra- tum degli attril)uti, che esiste per so, tndipendentemente dagli attributi stessi, mentre nell'Etica la sostanza significa ordina- riamente il complesso degil attributi. Tuttavia nella Dim. pr. 32 p. I per sostanza s'intende, come nel luogo citato di Dio.Vuomo e la beat., qualche cosa di anteriore agli attributi, da cui questi derivano, come i modi derivano da essi (« Che se si suppone una volontà infinita, deve pure ad esistere e ad operare essere determinata! da Dio, non in quanto è sostanza assolutamente in- finita, ma in quanto ha un attributo che esprime 1' essenza in- finita ed eterna del pensiero »; e per conseguenza, la volontà, anche infinita, « non più dirsi causa libera, ma solo necessaria o coatta ». Nello Schol. alla prop. 29 ha detto che Dio h causa libera in quanto è natura niturans, cioè in quanto è il complessso degli attributi considerati d'una maniera indeterminata. Qui vuol dire dunque che se la volontà infinita derivasse immediata- mente dalla sostanza assolutamente infinita, sarebbe un attributo e farebbe parte della natura nnturans, cioè di Dio come causa Ubera; ma derivando invece da un attributo, fa parte della na- tura naturata, e quindi non di Dio come causa libera). L'esistenza di uu'entità unica, anteriore al pensiero e alVesten- — 460 — Del modo più ordinario del realismo — se non del rea- lismo dialettico —, cioè come dei concetti obbietti vati, in altri termini come degli oggetti aventi, nella forma della realtà, il contenuto stesso che i concetti nella forma della rappresentazione. Questi concetti obbietti- v^ti di Platone sono dei puri oggetti, tra cui e i cou- sione, e che sia la radice comune dell'uno e deirultra, è del resto indispensabile in Spinoza, affinchè il suo sistema sia realmente un monimo e non un dualismo: se non vi fosse qualche cosa di an- teriore, da cui l'estensione e il pensiero derivano, tutte le no- stre idee non si ridurrebbero ad un'idea unica come vuole l'au- tore {De intellemend. 91, 99 ece.— vale a dire, nou si dedurreb- bero da un'idea uuioa). ma vi sarrebbero due principii. e non un principio unico. Quest'argomento è tanto più forte, che l'unità di principio, cioè la sistematizzazione completa di tutti i concetti obbiettivati, è un carattere comune del realismo dialettico, che abbiamo incontrato in tutti gli altri rappresentanti di questa forma di metafìsica. Quest'unità di principio noi non possiamo attribuir- la a Spinoza che nell'ipotesi che egli ha ammesso qualche cosa di assolutamente indeterminato di cui il pensiero e l'estensione sono le determinazioni primitive ; e viceversa, in quest'ipotesi, noi dobbiamo attribuirgliela necessariamente. Se Spinoza ha ammesso questa qualche cosa di assolutamente indeterminato, egli non ha potuto non vedervi il principio — nel senso logico ed ontologico che questo lerniine ha nel realismo dialettico — dell' estensione e del pensiero e di tutti gli altri attributi divini (benché nell'E- tica ammetta, per il motivo indicato nella nota 3 a p. 418, che la deduzione non deve partire che dagli attributi). Nel suo, sistema, e nel realismo dialettico in generale, il più concreto deriva, cioè si deduce, dal più astratto di cui è una determinazione : la causa prima e il principio logico primo deve essere dunque 1' essere assolutamente indeterminato, da cui il pensiero e 1' estensione indeterminati devono dedursi. come tutte le altre cose si dedu- cono dal pensiero e l'estensione indeterminati. — 461 — cetti stessi non vi ha altro rapporto che quello che la cosa rappresentata ha con la sua rappresentazione: inol- tre essi non hanno gli uni con gli altri altro legame ne- cessario che quello derivante dai rapporti di contenenza tra i concetti, per cui le Idee generiche accompagnano necessariamente le Idee specitìche, che le contengono come loro parti. Le astrazioni realizzate del Taine sono dei concetti obbiettivati e dei puri oggetti, cioè distinti dal pensiero, come quelle di Platone; ma esse non esi- stono ciascuna per sé come queste, ma formano delle coppie, ognuna delle quali costituisce una legge della natura. La difterenza tra queste due forme, la più an- tica e la più moderna, del realismo, corrisponde eviden- temente alla dirtereuza tra la concezione onjamcista del mondo (1), così naturale al punto di vista della scienza antica, e la concezione, che si può chiamare in un senso lato meccanica, della scienza moderna, che vede nei fe- nomeni, non la manifestazione dell'essenza o natura par- ticolare a ciascuna specie di esseri, ma il risultato di un rigoroso determinismo causale, governato da leggi co- stanti e universali. Le astrazioni realizzate di Hegel non sono solamente l' obbietti vazione dei concetti, ma sono identiche ai concetti stessi, e non dei puri oggetti come quelle di Platone. È che Platone, come tutti i filosofi antichi, divide ingenuamente la credenza naturale, che dà agli oggetti un' esistenza assoluta, indipendente dal soggetto percepente; mentre Hegel identifica la realtà col pensiero — con un pensiero permanente e assoluto, cioè indipendente da un soggetto pensante particolare—, per conciliare la credenza naturale dell' esistenza asso- luta degli oggetti col risultato della moderna teoria della (1) V. ^ 19 nota ultima. — 462 - conoscenza che gli oggetti non esistono che in quanto sono conosciuti. Le astrazioni realizzate di Spinoza dif- feriscono da quelle dei filosofi precedenti, perchè non sono, come esse, dei concetti obbietti vati. Questa diffe- renza è legata alla dottrina spinozista dell' unità di so- stanza, cioè al suo panteismo, che è una conseguenza del parallelismo psico-fisico, quale lo comprende questo filosofo (1). I concetti obbiettivati suppongono l'uno nei molti, cioè che ciascuno si realizzi in una moltitudine di oggetti particolari : ciò che implica una moltiplicità di esseri, e non un essere unico come vuole Spinoza. Oltre che nelle forme differenti con cui si nappresentano le astrazioni realizzate, le diverse concezioni del mondo dì questi filosofi si riflettono pure nelle forme differenti del loro metodo, cioè della dialettica. Alla concezione organicista di Platone corrisponde la sua dieresi, (juesta olassazione a gradi multipli, di cui egli fa la legge uni- versale delle Idee, avendo la sua applicazì(me più evi- dente nel mondo degli esseri viventi. La gerarchia di leggi del Taine somiglia alla gerarchia di tipi di Fia- tone, ma si oppone a questa come alla concezione orga- nicista antica si oppone la concezione meccanica moder- na, che sostituisce alla essenza o forma la legge (cioè il rapporto uniforme di sequenza o coesistenza tra feno- meni), e vede nelle leggi particolari dei fenomeni dei casi di leggi più universali. Il concetto cardinale della dialettica hegeliana che gli opposti si chiamano e si danno l'uno con l'altro, dipende evidentemente dalla sua dot- trina dell'identità dell'essere e del pensiero, perchè esso trasforma in legge ontologica delle cose una legge psi- cologica dei pensieri. Spinoza, conformemente alla sua dottrina dell'unità di sostanza, per cui egli vede in tutti i generi di esistenza degli attributi o proprietà di un essere unico, ammette che le cose si deducono dal primo principio (cioè dalla essenza o definizione della sostanza) come le proprietà di un oggetto (p. e. di una forma geo- metrica) si deducono dalla essenza o definizione di que- flt' oggetto. Ma malgrado le differenze fra i diversi sistemi, si rivela in tutti una nniià di piano, una vera omologia (1), tanto più colpente, che essa non si spiega per un legame storico, per una filiazione degli uni dagli altri o da uno stipite comu- ne—ed in ciò questa omologia differisce da quella dei natu- ralisti -, ciascun sistema essendosi prodotto indipendente- mente dai sistemi precedenti (salvo un certo rapporto del Taine con Hegel), e senza anche che l'autore (salva ancora l'eccezione di cui sopra) avesse una conoscenza sufficiente dei sistemi precedenti. Spinoza e Taine interpretano Pla- tone alla maniera trasceudentalista {cioè riguardano le Idee come poste fuori delle cose), e non mostrano di avere alcun sospetto del vero significato della sua dialettica; Hegel non comprende né la dialettica di Platone né quella di Spinoza, perchè fa consistere quella del primo nella sua propria dottrina dell' identità degli opposti, e rim- provera al secondo che egli non applica alla filosofia che il metodo matematico (che per Spinoza non conviene che alla conoscenza del secondo genere), e che nel suo sistema tutto è inghiottito dalla sostanza come in un abisso, senza che essa produca niente di reale e di po- sitivo (2) (ciò che mostra che Hegel non comprende che Spinoza fa derivare le altre cose dalla sostanza, per una filiazione al tempo stesso logica ed ontologica come (1) V. { 23. (2) V. Logica 4 151. 464 — quella del metodo dello stesso Hegel). Questa omologia^ questa unità dj piauo, dimostra che la spiegazione delle cose in cui consiste il realismo dialettico, è una di quelle predeterminate, per così dire, dalla struttura stessa del- l'intelligenza umana: essa infatti è il prodotto del con- cetto inevitabile, per quanto illegittimo, di causazione efficiente — coi caratteri, tiinte volte indicati, di neces- sità, di evidenza intrinseca e di esplicabilità radicale degli effetti per le cause — e dell'analogia tra una con- nessione d'idee, ohe rappresenta un rapporto tra fenor meni realmente o apparentemente razionale e necessario^ e la connessione tra il principio e la conseguenza nella deduzione; analogia che, oltre alla teoria della causalità che è l' idea madre del realismo dialettico, dà luogo a quella che nel Saggio 1" abbiamo chiamato dottrina ana- litica dei (fiudizi a priori, perchè anche questa è fondata nella confusione e l'identificazione di ({ueste due connes- sioni mentali analoghe (1). È notevole che in tutti i sistemi alla spiegazione del realismo dialettico è congiunta una o un' altra forma dell' antropomorfismo. Queste forme variano secondo le diverse concezioni del mondo a cui sopra abbiamo ac-cennato. Alla concezione organicista di Platone corri- sponde ripotesi teologica dell' anima del mondo, perchè il concetto delle cause finali nasce naturalmente dalla considerazione degli esseri organizzati. Nel Taine tro- viamo invece il panpsichismo, questo e 1' ilozoismo es- sendo le sole forme dell' antropomorfismo che possano accordarsi con la concezione meccanica. Hegel è un idea- lista^ cioè vede nelle cose il prodotto dell' attività del pensiero, questa spiegazione essendo la più ovvia quando (l) V. Saggio lo, oap. 4o, $ 18. - 465 delle cose non si fìinno che delle rappresentazioni. In quanto a Spinoza, la sola concezione antropomorfìstica che possa permettergli il suo [uincipio del parallelismo psicofisico, è, non una spiegazione propriamente detta fondata sull' antropomorfismo, cioè che spiega le cose considerandole come prodotte da un'attività analoga al- l'attività umana, ma la presenza in tutte le cose dell'a- nima (^ del pensiero, il fatto fisico non essendo l'effetto del fatto psichico, ma essendone semplicemente accom- pagnato. Questa unione del realismo dialettico con altre forine di spiegazione metafisica — all' antropomorfismo, nei si- stemi di Spinoza e di Taine, sì aggiunge anche l'/mpw^ sionismo — si comprende facilmente per il carattere par- ticolare di questa filosofìa. Piuttosto che una spiegazione delle cose, essa dà un sembiante di spiegazione — inten- dendo per spiegazione un'ipotesi che, quantuncpie insus- sistente, dà una soddisfazione al bisogno di conoscere le cause elidenti — ; si potrebbe paragonarla ad Issione, che stringe la nuvola invece della dea. La causazione effi- ciente, secondo il concetto immediato ed istintivo, non è che una specie di sequenza invariabile; la produzione delle cose, di cui si tratta nel realismo dialettico, imita i caratteri per cui una causazione efficiente si distinguedalle altre causazioni, ma non è più una sequenza tia fenomeni; ai fenomeni sono sostituite delle entità, e alla successione nel temi)o una successione puramente logica. Come queste entità sono le immagini dei fenomeni a cui si sostituiscono, così la loro produzione è un'immagine della causazione : il realismo dialettico mette i simulacri al posto delle cose stesse; a ciò che darebbe una soddisfa- zione al bisogno di conoscere le cause efficienti sostituisce un succedaneo, e gode dell'immagine, n<m potendo pos- sedere la realtà. Evidentemente se il realista dialettico 30 — 466 — ricorre a uu sistema sì poco naturale, è perchè egli non può immaginare un' applicazione completa tlel concetto di causalità efficiente in un mondo di realtà concrete e particolari : non potendo concepire le cose nel modo con- forme alle tendenze spontanee del nostro spirito, cerca di concepirle in un modo quanto più è possibile, somi- gliante, costruendo una nuova forma di causalità effi- ciente ad imitazione della forma immediata ed istintiva. Il realismo dialettico e la teoria della causalità su cui esso è fondato, sono degli effetti della tendenza naturale dello vspirito umano ad assimilare, più che può, le sue nozioni ulteriori e riflesse sulle cose alle sue nozioni spontanee e immediate. Questa è un caso di una ten- denza più generale, che è, secondo me, l'origine di tutti i concetti metafisici, cioè ad assimilare tutte le nostre rappresentazioni a quelle che ci sono le più abituali. La tendenza ad assimilare tutti i fenomeni a quelli che ci sono i più familiari — per cui abbiamo spiegato 1' ori- gine del concetto di causalità efficiente — non è che un altro caso della stessa tendenza generale. Un altro caso ancora è la ripugnanza ad ammettere certe verità scientifiche che ci forzano a formarci dei fatti delle rap- presentazioni contrarie alle abituali (p. e. il movimento della terra o V azione fisica a distanza), e lo sforzo a trovare dei compromessi tra queste verità e le nozioni abituali che esse contrariano (p. e. l'ipotesi di Tico-Bra- he che i pianeti volgono attorno al sole, ma il sole con tutti i pianeti attorno alla terra, o, in un altro or- dine d'idee, la dottrina di Kant della libertà noumenale, mentre gli atti del me fenomenale sarebbero soggetti a un determinismo rigoroso). Un effetto inevitabile di questa tendenza generale dello spirito umano è che, quando non si può ammettere, nella sua integrità, qualcuno di quei concetti che sono i risultati di certi processi spontanei e istintivi della nostra intelligenza, s'immaginano delle — 467 - dottrine filosofiche che, quantunque non riproducano per- fettiimente questo concetto, permettono di concepire le cose nel modo, più che è possibile, analogo. È ciò che io ho detto: assimilare le nozioni ulteriori e riflesse sulle cose alle nozioni spontanee e immediate. Il miglior e- sempio di quest'assimilazione, come fondamento di con- cetti metafisici, sono tutte le dottrine dei metafisici su- gli oggetti est^eriori. La dottrina delle monadi, della Volontà di Schopenhauer, dell'inconoscibile, e in una pa- rola tutte le ipotesi trascendenti sulla natura delle cose non liaono altro motivo che di fare risorgere, sotto una nuova forma, il concetto naturale ed istintivo della cosa in sé che non è, in questa sua forma imme- diata, che la pura e semplice obbietti vazione delle no- stre sensazioni. Il realismo trasfigurato del metafisico — noi intendiamo per questo termine tutte le forme tra- scendenti del realismo — non è che un succedaneo del realismo naturale. Discutere il valore di (jnesta forma riflesso, del realismo non appartiene all'argomento della prima parte di questo Saggio, ma a quello della seconda: noi possiamo tuttavia affermare, come un fatto psicolo- gico evidente, che la forza con cui s'impone al nostro spirito non sta tanto negli argomenti su cui si appog- gia, quauto nella sua analogia col realismo istintivo. La è la ripugnanza nat»irale ad ammettere la dottrina di Stuart-Mill — che tuttavia è il risultato inevitabile della filosofia dell'esperienza — che la materia si riduce a sensazioni e possibilità di sensazioni : questa tlottrina si respinge senza esame, perchè troppo contraria alle nostre credenze istintive. Dopo che la riflessione scien- ha distrutto la credenza naturale che esistono, fuori del nostro spirito, degli oggetti estesi, c<dorati,, ecc., e che sono (juegli stessi che costituiscono l'oggetto immediato delle nostre sensazioni, noi sentiamo il bisogno di sostituire a questi oggetti qualche cosa di - 468 — analogo: di là tutte queste teorie (dimamismo, paupsi- chÌ8ino, teoria dell' inconoscibile, ecc.) più o meno dif- formi dalla credenza naturale, ma die, quantunque non la riproducano né in tutto né in parte, le sono, quanto più é possibile, somiglianti (1). È un effetto della ten- denza indicata del nostro spirito, ad assimilare le con^ cezioni ulteriori e riflesse sulle cose alle concezioni spon- tanee e immediate. Come altri esempi di questa tendenzii possiamo citare la dottrina della percezione immediata in tutte le sue forme filosofiche — perchè nessuna di que- ste si conforma alla credenza naturale che i nostri sensi colgono immediatamente gli oggetti esteriori, ma non fa che assimilarvisi—, e le dottrine degl'irfo/f, emanati dagli oggetti, di Democrito e di Epicuro, delle specie inten- zionali di alcuni scolastici, delle immagini nel cervello di molti fra i primi filosofi moderni, alle quali si può an- che aggiungere quella seconrio cui le idee sono degli og- getti esistenti nel nostro spirito, ma distinti dalla per- cezione che se ne ha (2), perchè anche questa non è, come le precedenti, che un' assimilazione al modo istintivo di rappresentarci il fatto della percezione e del pensiero, cioè come una fissazione, uno sguardo, della coscienza su un soggetto esteriore alla coscienza stessa (3). Io mo- strerò nella 3* parte un altro esempio della stessa ten- denza nelle dottrine filosofiche sul bene assoluto (che e l'idea fondamentale di quasi tutti i sistemi di etica): (!) Vi'v. SiijiKio lo cap. IX, $ 7 e 8 e pajr. 5f»8-;ìfi9. (2) Lirclerc, Bnicker, Genovesi, ecc. A questi potremuio uuire i tilosoH scozzesi, Koyer-Collard. ecc., che fauno della cosoieuza stessa uu che <li distinto dai fenoiueui psichici di cui si ha la iCoscieu/a. (3) CIV. Sa^jiio l", pajr. 10 e .521. — 469 — queste non sono che un'assimilazione alla credenza istin- tiva della morale assoluta — la quale, per un efietto del- l' altra tendenza ad assimilare tutti i fatti a quelli che ci sono i più familiari, considera le nostre nozioni mo- rali come comuni a tutti gli uomini e a tutti gli esseri che immaginiamo sul tipo umano, e come evidenti per se stesse — dopo che questa credenza, in questa sua forma immediata, è stata distrutta dalla riflessione scientifica. Il realismo dialettico nasce dunque dal concorso di que- ste due tendenze naturali del nostro spirito: quella per cui assimiliamo tutti i fenomeni a quelli che ci sono i più familiari, e quella per cui assimiliamo le concezioni ulteriori e riflesse sulle cose alle concezioni spontanee e primitive. Per un effetto della prima tendenza noi am- mettiamo che ogni fenomeno ha una causa e^ciente, cioè che spieghi l'effetto d'una maniera esauriente (nel senso popolare e metìifisico della parola spiegazione) ed abbia con esso un legame necessario ed evidente intrinseca- mente. Per un effetto della seconda, quando non si può immaginare, nel mondo delle realtà concrete, un'appli- cazione sufficiente di questo concetto istintivo della cau- salità, si realizzano le astrazioni e s' introduce fra queste astrazioni realizzate un incatenamento logico continuo, considerando il principio logico come causa e la conse- guenza come effetto. Ciò si fa perchè il principio logico, quando i principii e le conseguenze sono delle entità, diviene anche un principio ontologico, e nel rapporto tra questo principio e le conseguenze che se ne fanno derivare, si trovano i caratteri che distinguono una cau- sazione efficiente da una semplice causazione empirica o sequenza invariabile. Piuttosto che un' assimilazione alle causazioni familiari da cui ci è venuto il concetto istintivo di causazione efficiente, la teoria della cau- salità del realismo dialettico è, se mi è lecito di dir così, un' assimilazione a quest' assimilazione. Tuttavia sono — 470 — queste causazioni familiari il tipo primitivo su cui sono modellate le causazioni del realista dialettico; tipo con cui non hanno necessariamente che una vaga somiglian- za, quale le ombre della caverna, nell' allegoria del pa- dre del realismo dialettico — che noi dobbiamo prendere a controsenso — potevano avere con le cose, dei cui si- mulacri erano le ombre. APPENDICE DELLA PARTE PRIMA CAPITOLO I Nihil oritup, nihil interit. § 1. La nozione di causa efficiente con le sue ap- plicazioni è la manifestazione incomparabilniento più importante della tendenza naturale del nostro spirito ad assimilare tutti i fenomeni a quelli che ci sono i più familiari: ma la metafisica ci presenta altre manifestazioni di questa tendenza, di cui una non può non formare un oggetto speciale del nostro studio, per il gran posto che essa non ha mai ces- sato di tenere nella storia del pensiero. Se noi div^idiamo tutti i fenomeni della nostra esperienza, vale a dire tutta la massa delle perce- zioni che noi abbiamo avute sin dal primo momento della nostra esistenza, in due grandi categorie, met- tendo nell'una tutte le esperienze che ci hanno mo- strato un cangiamento nelle proprietà delle cose, vale a dire nei caratteri per cui noi distinguiamo le cose particolari e il cui complesso si chiama V essenza d'una cosa, e mettendo nell'altra le esperienze che €i hanno presentato le cose con le stesse proprietà IV f 1 / I che essi ci avevano prima mostrato, è evidente che quelle della seconda categoria sono, senza compa- razione, le più frequenti, le più familiari. Inoltre, se noi facciamo un'altra divisione in questa massa totale delle nostre esperienze, riunendo in una classe tutte quelle che ci hanno presentato un cangiamento in qualsiasi qualità delle cose (e non semplicemente nei loro caratteri distintivi, essenziali), e in un'altra tutte quelle che ci hanno presentato un non cangiamento qualitativo e niun altro cangiamento che nelle posizioni reciproche delle cose, è evidente ancora che, quantunque la differenza numerica tra le due classsi non sia in questo caso così grande come nel caso precedente, la seconda classe sorpassa di gran lunga la prima per la frequenza o fa- miliarità dei fenomeni (si devono anche compren- dere sotto la parola fenomeno le esperienze di un assoluto non cangiamento). Perchè la verità di queste osservazioni venga pienamente compresa, non sarà forse inutile di far notare, primo, che di una gran parte dei cangiamenti che noi osserviamo nella na- tura gli antecedenti sfuggono alla nostra percezione attuale — p. e. noi vediamo cadere la pioggia ma non vediamo la trasformazione del vapore in acqua; noi vediamo il lilo d'erba sorgere dal suolo, ma non vediamo la trasformazione del germe in filo dYn'ba— e che in questi casi perciò il cangiamento delle pro- prietà non deve contarsi fra le nostre esperienze ; e secondo, che la più parte dei cangiamenti quali- tativi delle cose non si producono che mediante una gradazione continua, impercettibile— p. e. il fanciullo cresce, il giovane invecchia, ma senza che noi ab* biamo mai attualmente la percezione del cangiamento, il quale non è conosciuto che dalla riflessione che <5onipara degli stati separati da lunghi intervalli — sicché, in questi casi, le percezioni stesse che ci ven- gono dagli esseri sottoposti ad un continuo cangia- mento, vanno ad accrescere nel fatto la massa delle esperienze del non cangiamento, e, per conseguenza la forza che questa massa esercita sulle associazioni tra le nostre idee. La conseguenza di ciò che ab- biamo detto è che, conformemente alla tendenza ge- nerale ad assimilare ciò che ci è meno familiare a ciò che ci è più familiare, noi siamo naturalmente inclinati ad ammettere che il fondo dell'essere è per- manente, immutabile, e che il cangiamento non è che superficiale o anche apparente, e a spiegare la natura, partendo dalla ipotesi che non vi ha mai in realtà un cangiamento nella essenza del reale, in altri termini che niente, al fondo, nasce né muore, o anche dalla ipotesi più radicale che non vi ha mai nelle cose un cangiamento qualitativo, intrinseco, ma il cangiamento si riduce al mutamento dei rap- porti reciproci di posizione e non attinge mai le cose in se stesse. La tendenza a concepire le cose di questa maniera è cosi naturale al nostro spirito, che essa si mostra anche nelle nostre metafore più ordinarie — il piacere che dà una metafora è forse dovuto in a una soddisfazione del profondo bisogno della nostra intelligenza di identificare, di assimilare — e nelle forme più abituali dei linguaggio: p. e. si dice che la scintilla si sprigiona dalla selce, e la pa- rola sviluppo o evoluzione serve ad indicare i can- giamenti ordinati che si producono in un tutto, come VI VII se ciò che viene in seguito fosse già contenuto in ciò che era prima, d'una certa maniera latente, in- viluppata. § 2. L' esempio forse più notevole del sofisma a priori dì cui parliamo, lo troviamo nel primo periodo della filosofia greca, cioè nei fisici ionici e negli oleati. Ciò che questi filosofi si propongono in primo luogo, è la ricerca dell'essenza immutabile delle cose, del fondo permanente dell'essere che non attinge il cangiamento. Siccome la tendenza filosofica che ca- rattorizza questo periodo del pensiero ellenico non è messa sufficientemente in luce dagli espositori- più desiderosi di trovare una connessione logica nella successione dei concetti filosofici che di com- prendere la loro derivazione dalle disposizioni na- turali dello spirito umano — noi dobbiamo darne un'esposizione al nostro punto di vista, esposizione che sembrerà forse troppo diffusa per il soggetto di questo scritto, ma noi saremo nella necessità di giu- stificare le affermazioni che avanzeremo. Noi sappiamo da Aristotile che il principio co- mune di tutti i fisici, ammesso da loro come una ptuposizione assiomatica, è che l'essere non può venire dal non essere né ridursi al non essere. 11 senso di questa proposizione non è semplicemente che la materia non può crearsi dal niente ne di- ventare niente, ma anche, come ci spiega lo stesso Aristotile, che le cose non possono cangiare di na- tura, cioè che delle cose aventi una natura deter- minata non possono cangiarsi in altre di una na- tura differente, o, per parlare il linguaggio di questo e di quelli di cui egli espone le opinioni» I I che gli esseri non possono né nascere né perire, che non vi ha in realtà né generazione né corru- zione (1). I diversi sistemi dei fisici non sono, an- zitutto, che delle realizzazioni differenti di questo principio generale, a tutti comune. La maniera più chiara e più coerente di realiz- zare questo principio è quella seguita dai fisici che il Bitter chiama iììeccanisù\ cioè di ammettere una pluralità di sostanze qualitativamente immutabili, e di cui non cangiano che i reciproci rapporti nello spazio. Dal principio che l'essere non può comin- ciare né finire questi fisici ne concludono così, non solo l'immutabilità della natura o essenza delle cose, ma la loro assoluta immutabilità qualitativa: e in verità non vi ha tra le due specie di mutazioni una distinzione precisa, le qualità non potrebbero net- tamente separarsi in due categorie, le une essenziali, le altre non essenziali. Per altro Timmutabitità delle qualità, così bene che T immutabilità dell'essenza, era anch'essa compresa nel senso, necessariamente vago ed ondeggiante, dell'assioma dei fisici^ questa proposizione (a parte l'enunciazione che essa rac- chiude della persistenza della materia) essendo l'e- spressione di questa oscura tendenza del nostro spi- rito che ci spinge a ricondurre più che possiamo il fenomeno meno familiare, che è il cangiamento nello stato delle cose, al fenomeno più familiare^ (1) V. Arlst. Phys 1. I VIU; 1. I. IV. 2-3; i^et. 1. I. III. 2-3, t 1. m. V. 3; 1. X. VI. 14, ecc. vili che è la loro persistenza nello stesso stato. La fisica meccanista si presenta in una forma più primitiva — perchè conforme alla credenza spontanea della ob- biettività di tutti i dati della percezione sensibile — -e al tempo stesso più metafisica — per le ipotesi tra- scendenti sulle forze motrici — in Anassagora ed Empedocle; negli atomisti, in una forma più scien- e rigorosamente naturalista, che l'ha resa su- scettibile di sopravvivere a tutti gli antichi concetti filosofici, e di ritrovarsi, la stessa per il fondo, nella scienza moderna. Empedocle ammette, come tutti sanao, quattro so- stanze materiali : la terra, l'acqua, l'aria e il fuoco^ <5he sono le forme più comuni e al tempo stesso più inarcatamente differenti con cui la materia si pre- senta ai nostri sensi. Le particole di queste sostanze elementari, cangiando la loro posizione rispettiva, congiungendosi e separandosi, danno luogo a tutto «ciò che vi ha di variabile nell'universo; ma ciascuna sostanza in sé è sempre la stessa, sempre simile a se stessa (1). Empedocle nel suo poema sgrida gli stolti checredono che qualche essere possa nuova- mente prodursi e poi cessare di esistere; che ciò che non esisteva prima della nascita e non esisterà più è nato dopo la morte. Ciò è un'illusione; non vi ha, a parlar propriamente, né nascita né morte; non vi ha che congiunzione e separazione di sostanze che persistono sempre le stesse, poiché Tessere non può <1) V. Versi 96.97, 128.133 Mullach. V, IX venire dal niente nò diventare niente (1). Ciò che gli antichi chiamano alterazione (cioè il cangiamento nelle proprietà sensibili, p. e. da bianco in nero, da caldo in freddo, da secco ad umido, da molle in duro, e viceversa) non è al punto di vista di Em- pedocle — e di tutti i fisici che ammettevano più sostanze primordiali — meno impossibile che ciò che gli antichi chiamano generazione e corruzione (2); ciascuna sostanza conserva sempre le sue proprietà sensibili particolari; come un pittore, con un nu- mero limitato di colori, convenientemente mescolati. (1) Versi 98-119 Mullach : AUud vero tibi dlcaiii: nec ortus est ullius rerum mortali uni, neo funestae mortis interltus, sed ftola mlxtio mixtorum(iue secretlo, generati© vero in his rel)us ab hominlbun vocatur. eo enim. quod non est, fieri neqult ut quidquam orlatur, ens vero Interire nullo pacto potest; semper enim superabit, nuocumque quls illud propulerlt. Sed malls utique mos est diffiderò veris ac legltlmis: tu vero, quemadmodum certa Musae nostrae argumenta jubent, tenete, mente In praecordlis divisa. At UH, quldciuid ad houiluls slmilitudlnem mixtum In aetheris lucem [pervaserit vel ex agrestlum anlmantium genere vel fruticum vel volucrium, Id quldem natum putant; quum vero Illa secernuntur, hoc infaustum fatum Inepte appellant, sed ad consuetudinem ii>se me accomodo. 8tultl: neque enim pei-splcax tpsls mentis acìes est, ut qui quod prius non erat Id gignl existiment aut emorl aliquld et penltus Intercidere. Neque vlr sapiens tal la oplnetur, quamdlu vivant mortales, quam IllI certe vltam vocant, tamdiu Ipsos esse et bona lls malaque evenire, antequam vero concreti et postquam dissoluti siut, nlhil esse. (2) Arist, Qen et corr. 1. I. I. 6-9. 1. II. I. 7, Met. 1. I. III. 7, ecc. V anche Plut Plac I. 24, Stof. I. 414. X può riprodurre tutta la varietà che noi osserviamo nella natura, così questa può produrre tutta questa varietà mescolando convenientemente le quattro forme elementari (1). Ma nella mescolanza ciascuno degli elementi si conserva inalterato; non vi ha fu- sione tra un elemento e un altro, ma semplicemente juxta - posizione (2). Secondo questo punto divista le proprietà sensibili del composto risultano dalle proprietà sensibili degli elementi della stessa ma- niera in cui il grigio risulta dal bianco e dal nero. Una quistione che s' impone necessariamente ai fisici meccanisti è quella dell'origine del movimento. Essi non possono contentarsi di quest'idea vaga dei fisici unizzanti, loro predecessori, secondo cui il tutto, cioè il mondo considerato nel suo insieme, avrebbe la proprietà di produrre spontaneamente movimento, proprietà che noi non osserviamo nelle sue parti, cioè negli elementi materiali che lo costituiscono. In queste noi non vediamo che Vinersia, l' incapacità di passare da se stesse dalla quiete al movimento (3); e sarebbe contrario al prin- . (I) Vei-si 134-144 M. (2| Ai-lst. De Geu, et Corr, 1. II. VII. 3; Galeno In Hlppoor. De fiat, hojfi. Comment. prlin. al tento 2, fìne, e al testo 12. (3) In verità Empedocle ammette un movimento naturale dei corpi pesanti, come la terra,' verso Jl basso, e del fuoco verso l'alto (Arlst. De An. 1. II. IV. 7,Gen,et corr. 1. II. VI. 9: movimento In cui egli sembra vedere un caso della tendenza che ha secondo lui il simile ad unirsi al suo simile, v. Versi M. 262-266, 321-323. iJ38.3:J9). Ma quan- d'anche egli avesse ammesso che (jnesto movimento fosse dovuto a una tendenza inerente agli elementi stessi (e non alle forze motrici di cui diremo), questa opinione isolata di Empedocle, come quelle analoghe che gli altri fisici meccanisti hanno avuto o hanno potuto avere, non può impedirci di attribuir loro la dottrina dell'Inerzia della materia, che risulta dairimpresslone generale del loro sistema. XI cipio dell' immutabilità qualitativa della sostanza l'ammettere che una sostanza, ordinariamente inerte, possa acquistare in certi casi la proprietà di met- tersi spontaneamente in movimento. Supporre d'al- tronde che il mondo, considerato come un tutto^ abbia una spontaneità di movimento che manca alle sue parti costitutive, sarebbe sempre ammettere un cangiamento qualitativo in queste parti, poiché è in esse, al postutto, che dovrebbe prodursi questo movimento spontaneo della cui facoltà il tutto vor- rebbe supporsi dotato. Ne segue che la produzione del movimento non può essere attribuita agli ele- menti materiali : perchè essi fossero in certi casi capaci di mettersi spontaneamente in movimento, bisognerebbe, essendo essi qualitativamente immu- tabili, che il movimento, e la stessa specie di mo- vimento, si producesse in essi costantemente, cioè d'una maniera continua. Ora, supposta l'inerzia de- gli elementi materiali, bisognerà ammettere ovvero che non vi ha mai produzione di nuovo movimento, e che il movimento di un corpo è sempre dovuto alla spinta o alla trazione di qualche altro corpo, ovvero^ se vi ha produzione di nuovo movimento, ch'essa è dovuta a delle forze motrici distinte e se- parate dagli elementi materiali. Empedocle am- mette la seconda di queste due ipotesi : così egli aggiunge ai quattro elementi materiali due forze motrici (del resto concepite anch' esse come estese nello spazio secondo le concezioni semi-materialiste antico spiritualismo), cioè 1' amore e l'odio, di cui il primo è la causa della riunione delle sostanze e quindi della produzione delle cose, e il secondo XII della separazione delle sostanze, e quindi della dis- soluzione delle cose (1). La dualità delle forze mo- trici è data ad Empedocle dal principio stesso del- l'immutabilità qualitativa della sostanza : egli non comprenderebbe che una stessa forza producesse al- ternativamente i due movimenti contrari di attra- zione e di repulsione, di riunione e di separazione, delle particole elementari. Un'altra quistione, che si presenta naturalmente al punto di vista dei fisici meccanisti, è quella del- l' origine della sensibilità e del pensiero. Che la stessa materia da incosciente diventi cosciente e vi- ceversa è contrario al principio dell' immutabilità qualitativa della sostanza. Per conseguenza bisogna ammettere o che la materia è sempre e in tutte le sue parti dotata di sensibilità e di pensiero; ovvero che queste sono delle proprietà inerenti sia a qual- che sostanza materiale particolare, sia ad una so- stanza diversa dalla materia. Noi ritroviamo le tre differenti ipotesi nei tre diversi sistemi della fisica meccanista. L'ipotesi di Empedocle è la pri- ma, cioè egli ammette che ogni elemento senta e pensi (2); e il principio dell'immutabilità della sostanza è da lui spinto sino al punto di non attri- buire a ciascun elemento che una funzione sen- ed intellettuale sempre invariabile ed iden- tica : ciascun elemento non conosce che il suo si- mile (secondo il principio di alcuni antichi filosofi (1) Versi M. 64-69, 77-87, 126-127, U9.153, 191 sqq.; Atlst. Met. 1. I. . 2-6, VII. 3-4, 1. XI. X. 5, Oeìi. et corr. 1. U. VI. 5 e sqq, ecc. (2) M. Versi 29S, 378-382. XIII che il simile si conosce dal simile), e cosi anche noi con la terra conosciamo la terra, col fuoco il fuoco, con l'amore 1' amore, ecc., la sensibilità ed intel- ligenza di un tutto essendo la somma delle sen- sibilità ed intelligenze elementari (1). L'ilozoi- smo di Empedocle è una conferma della esattezza della deduzione, da noi data, della dottrina sulle forze motrici. Potrebbe sembrare infatti che l' ipo- tesi dell'animazione degli elementi materiali avrebbe dovuto dispensare Empedocle dal ricorrere a delle forze motrici distinte dalla materia stessa. Ma il problema della causa del movimento è per Empe- docle subordinato al problema di conciliare la pro- duzione del movimento col principio dell' immuta- bilità qualitativa della sostanza : l'ipotesi dell' ani- mazione della materia non modificava per niente questo fatto dato dall'osservazione^ che la materia è ordinariamente inerte, ed Empedocle non poteva attribuire, in certe condizioni particolari, a questa materia, quantunque senziente e pensante, la pro- prietà di mettersi spontaneamente in movimento, senza contraddire al suo principio fondamentale, cioè quello della immutabilità della sostanza. La dottrina di Anassagora sugli elementi mate- riali è più radicale che quella di Empedocle. Egli non crede che un numero limitato di elementi pos- sano spiegare, per la loro aggregazione e disgre- gazione, rinfiuita varietà che si osserva nella na- (1) Per cui Arist. dice che Eiiiped. fa constare rjiìiliiia dagli ele- meutl. V. De An. 1. I. II. 6, V. 5-13. ecc. »1 ti XIV XV tura. Secondo lui devono esservi tante sostanze ele- mentari quante specie vi hanno di corpi che pos- sono distinguersi per le loro proprietà sensibili: il ferro, 1' oro, la carne, 1' osso, il sangue, ecc., e in una parola tutti i corpi che Aristotile chiama omeomeri (1), cioè tali che la natura delle parti in cui possono dividersi è identica a quella del tutto, sono per lui delle sostanze tutte primordiali ed eterne, che nou possono provenire da altre so- stanze ne cangiarsi in altre sostanze (2). Di più sic- come ciascuna delle specie di sostanze che noi pos- siamo distinguere contiene in se stessa delle diffe- renze individuali, Anassagora ammette che vi ha un numero infinito di elementi (di germi), di cui è esattamente simile ad un altro (3), ma che tutti differiscono sia per la forma, sia pel co- lore, sia pel gusto, sia per qualsivoglia altra pro- prietà sensibile (4). Questi elementi, ora congiun- gendosi ora separandosi, producono tutti i cangia- menti che noi osserviamo nelle cose, ma ciascuno si conserva sempre identico a se stesso. Se delle sostanze differenti sembrano procedere le une dalle altre, è questa un'illusione, la quale si spiega per il fatto che nessuna sostanza è pura, ma ciascuna (1) Donde 11 nome di omeomerie con cui vengono designati 1 prln- clpll materiali di Anassagora (V. Zeller pag. 877-879). (2) Arlst. De gen. et corr. I.I. I. 2-9; De Coelo 1. UI. 3, Met, l.I. III. 8; Lucrezio I. v. 830 e sqq ; ecc. (3) Fr. 4 Mullach, Arlst. Phys 1. I. IV. 1-3, 1. m. IV. 4, Gen. ^t corr. 1. I. I. 3, De Coelo 1. m. IV. 1-4, Met. 1. I. UI. «, VU. 2. (4) Fr, 3 M. è mescolata a particole di tutte le altre sostanze (1). Così Tassimilazione degli alimenti nella nutrizione non avviene perchè questi si trasformano in ossa, in sangue, in carne, ecc.: queste sostanze esistevano già preformate negli alimenti stessi (2); esse non fanno che separarsi dalle altre sostanze con cui erano mescolate, e riunirsi alle sostanze omologhe del corpo dell' animale (3) Anassagora non nega meno energicamente di Empedocle che qualche cosa possa cominciare ad esistere o finire di esistere. « Quando gli Elioni, egli dice, parlano di nascere e di morire, essi fanno uso di termini di cui non dovrebbero servirsi, in realtà niente nasce e nien- te muore, ma delle cose già esistenti si riunisco- no, e poi si separano. A parlar propriamente, bisognerebbe dunque chiamare il cominciamento delle cose una composizione, e la fine una disgre- gazione » (4). Ciò che è stato detto della inalterabi- lità degli elementi di Empedocle si applica pure agli elementi di Anassagora; e a più forte ragione, poiché a ogni minima differenza qualitativa corri- spondendo per quest'ultimo una sostanza elementare differente, il minimo cangiamento di qualità equi- varrebbe per lui a un cangiamento di essenza. Gli antichi, a cominciare da Aristotile, fanno derivare la dottrina delle omeomerie dal principio che l'es- {\) Fr. 3, 5, 6, 13, 16; Arlst iVi//5. 1. I. rv\ (2) Placita 1.1.111.8-10. (3) Confr. e. 2. pag. 90 n. 2. (4) Fr. 17 M.3, 1. III. IV. 5. XVI sere non può venire dal non essere né ridursi al non essere (1). Il problema dell'origine del movimento e quello origine della coscienza sono risoluti da Anas- sagora, ammettendo che tra le altre sostanze eterne immutabili ve ne sia una che abbia la proprietà di pensare e di sentire, cioè la Mente, il Nous. Il concetto dell'inerzia della materia è espresso in lui della maniera più energica, poiché egli ammette che all'origine il tutto era in un'immobilità assoluta, che il movimento non cominciò che per l'azione del Nous sulla materia (2). TI Nous (eh' egli conce- pisce come esteso nello spazio, e costituito, come tutte le omeomerie, di parti omogenee fra di loro e col tutto) è partecipato dai diversi esseri animati, in maggiore o minor quantità, ma da per tutto iden- tico nella qualità (3), e produce in essi la sensazione e il pensiero (4). Il Nous non cessa mai di agire nella maniera che gli è propria : il corpo dorme, ma l'anima veglia sempre (5). §. 3. Il principio che l'essere non può cominciare né finire (6) condusse Leucippo e Democrito a un'ia- (1) AriHU PhffS l.I.V^I.2-:^, 3Iet. 1. III. V.8, P/acita 1. e, 1.1.111.8-10. (2) Fr. 6-7 MuHach; Arist. Fliys l.VIII. 1 2. (3) Fr. 5-6 M. Arlst. De nti. 1. I. II. h. (1) Aristotile [De an, 1. 1. II. I. e. cfr.l. I.II.13) «lice che Anassa^^ora non fa differenza fra II nous e Tanlma, porche, mentre per lo stesso Aristotile alla sostanza nous non appartiene che la fnnzlone superiore tleiraninia, cioè 1' Intel llj?enza, essa Invece per Anassagora è anche Il principio delle funzioni Inferiori. (.5) Placita l.V. XXV. 3. (6) V. Diog. IX. 44, Alex. ad. Met. IV. 5. Stab. Ed. I. 414, Plu- tarco adv. Col, S. 4-5. terpretazione dei fenomeni fisici, in cui l'inaltera- bilità assoluta della sostanza derivava dal concetto stesso della materia. Concepita infatti la materia come destituita di qualità sensibili e perfettamente solida (cioè di una densità e durezza assoluta)^ non è possibile d'immaginare in essa altro cangia- mento che nella posizione reciproca delle sue parti,, e noi abbiamo così le condizioni generali di una fisica costruita sullo stesso tipo che quelle di Em- pedocle e di Anassagora. Ciò che caratterizza in primo luogo il sistema degli atomisti è la dottrina della subbiettività del colore e delle altre qualità sensibili (le qualità se- conciarie dei moderni). Democrito prova questa dot- trina per la relatività della percezione sensibile (1); ma essa può direttamente dedursi dal principio, che è la presupposizione dei fisici meccanisti, della immutabilità qualitativa della sostanza. Se in ef- fetto queste qualità dei corpi fossero reali, esse sarebbero invariabili ; ma ciò è contrario all' e- sperienza. Noi vediamo infatti che una cosa, con- servando la sua identità materiale, può nondimeno cangiare di colore (2), e dei corpi, composti di ele- menti eterogenei, presentano all'occhio una massa perfettamente omogenea, ciò che non avverrebbe, se ciascuno di questi elementi diversi avesse il suo colore proprio ed invariabile (3). Anassagora ed Empedocle, dotando ciascuno dei loro elementi di (1) Teofrasto De scnsn ecc. G3-64. (2| V. Arlst. Geiicrat,et corr, 1. I. II. 9. (3) V. Lucret 1. v. 777-781. I I I % t r I XYIII proprietà sensibili determinate, si trovavano ad ogni momento in contraddizione con la testimo- nianza dei sensi: di là la loro diffidenza verso la per- cezione sensibile (1); di là ancora delle proposizioni paradossastiche come quella di Anassagora, così celebre presso gli antichi, che la neve è oscura (poiché l'acqua di cui è formata è oscura) (2). L'ipotesi della solidità assoluta della materia nei suoi elementi ultimi, insieme all'ipotesi del vuoto, sono destinate a conciliare col principio dell'immu- tabilità della sostanza i fenomeni del cangiamento nella densità dei corpi, e so\a-atutto nel loro stato fisico (cioè il cangiamento da solido in liquido, da liquido in gazoso, e viceversa). È il secondo di questi fenomeni che è particolarmente in contraddizione col principio della immutabilità della sostanza — il qual priniàpio non è, come abbiamo detto, che una suo-ffestione delle nostre esperienze più familiari. — Il caniriamento nello stato fisico dei corpi è un fé- nomeno relativamente straordinario; il fenomeno ordinario, familiare, è la persistenza in quello stato in cui si trovano. Così Leucippo e Democrito am- mettono la solidità come lo stato invariabile della materia in se stessa, e il vuoto interposto tra le particole solide come la causa della diminuzione di densità che accompagna la trasformazione dei corpi solidi in liquidi e di questi in gazosi. (3) Ma am- . (1) Y. Empod. V. 57 Miinach, Sesto lìfath. VII. 90. (2) Sesto Pyrrh. 1. 3:?, Clcer Acad, li. 23, ai, Galeno De simpìic, medicamente II. 1, ecc. (3) I fisici anteriori aveano jxlfi ricondotto 11 cangiamento di stato fisico alla rarefazione e condensazione. XIX messa una volta la solidità, come carattere comune di tutti gli elementi della materia, e il vuoto, si troA^ava più coerente di attribuire a questi elementi, non un certo grado di densità, ma una densità asso- luta (cioè di concepirli come resistenti a qualsiasi compressione), e di spiegare per il vuoto tutte le differenze di densità che si osservano nei corpi, tanto più che il cangiamento di densità della ma- teria è al postutto un fenomeno meno familiare, e •quindi meno intelligibile, che la sua persistenza nello stesso grado di densità (1). Alla densità assoluta degli elementi si aggiunge la durezza assoluta, cioè la resistenza a qualsiasi sforzo tendente a cangiarne la figura ; e ciò sia perchè la durezza sembra legata alla densità (2), (1) Arlst. (Pliys. 1. IV. VI 4,6) espone gli argomenti degli Ato- misti per provare li vuoto, 1 quali si riducono in sostanza a questi tre : 1" il movimento non sarebbe possibile senza il vuoto, per- chè uno spazio pieno non potrebbe dar posto al corpo clie si muove. 2" la compressione, la condensazione dei oorpi, per cui uno stesso corpo può occupare uno spazio minoro di prima, suppone il vuoto. 3" un corpo può introdursi nello spazio occupato da un altro cor- po, in modo che i due corpi insieme occupino lo stesso spazio cne prima era occupato da un solo di essi. Di questi argomenti 11 2. corrisponde al motivo che noi abbiamo assegnato all'origine della dottrina: gli altri due per essere probanti devono presupporre l'Im- possibilità che una materia continua occupi uno spazio ora maggiore e ora minore, dilatandosi e condensandosi, vale a diro prendere come concesso ciò che era appunto in quistlono tra i partigiani della con- tinultii della materia e quelli del vuoto. Il primo argomento deve presupporre anche che tutta la materia sia solida, ipotesi la quale alla sua volta presuppone il vuoto. Sicché noi dobbiamo ammettere, come vero scopo della dottrina, quello di spiegare la rarefazione e la condensazione. (2) V, Teofrasto De sensn 62. l^ _ XX sia per una ragione di coerenza nella spiegazione dei fenomeni. Infatti la facilità a cangiare di figura dei corpi non solidi spiegandosi per la mobilità de- gli elementi solidi separati che li costituiscono, il cangiamento di figura di un corpo solido (p. e. di di un corpo elastico) deve spiegarsi pure, se si vuol essere coerenti, per il movimento di particole divise e separate fra di loro, e quindi i corpuscoli solidi, le particole ultime in cui la materia è divisa, ciascuna delle quali è necessariamente continua ed indivisa (indivisa, non indivisibile, perchè non ab- biamo ancora dedotto il concetto deir atomo) non possono concepirsi come suscettibili di un cangia- mento di figura. Un'altra conseguenza che Leucippo e Democrito tirano dal principio dell'immutabilità della sostanza è il rigetto della dottrina delFunità della materia, della convertibilità reciproca di tutte le sostanze ammessa dai più antichi fisici. Questa dottrina, come lo prova il fatto ch'essa fu universalmente abbracciata dai primi fisici, e che essa prevalse in ogni tempo nella filosofia greca, era l'inter- pretazione più ovvia dei dati deirosservazione, la quale mostrava che le sostanze più marcatamente differenti (i quattro elementi degli antichi) erano convertibili T una nell'altra: ma la dottrina am- messa invece da Leucippo e Democrito, d'una plu- ralità di sostanze primordiali, di cui ciascuna con- serva eternamente la sua propria natura e le pro- prietà particolari che la distinguono, era più confor- me al principio a priori che gli esseri non possono ne nascere nò perire. n XXI Ora una materia di una solidità assoluta (cioè di una densità e di una durezza assolute), in tutte le sue parti, e destituita di colore e di tutte le altre proprietà che non siano tangibili, è una materia assolutamente omogenea: tra le sue parti non po- trebbero concepirsi altre differenze che di figura o di grandezza. Così è per la figura e per la gran- dezza che secondo Leucippo e Democrito gli ele- menti materiali si distinguono fra di loro (1). Si potrebbe forse supporre ch'essi avrebbero potuto distinguere gli elementi di diversa natura per delle energie o attività differenti : ma anzitutto per Leu- cippo e Democrito, come per gli altri fisici mecca- nisti, la materia è, come diremo, inerte, non è attiva; e poi non si comprenderebbe come un sustrato per- fettamente omogeneo in tutte le parti potesse mani- festare nelle sue parti distinte delle attività insite differenti. Così, le sostanze differenti distinguendosi per la grandezza e la figura degli elementi costi- tutivi, la inalterabilità di queste sostanze, la in- convertibilità delle une nelle altre, suppone che gli elementi costitutivi conservino sempre la stessa grandezza e la stessa figura, cioè ch'essi siano in- divisibili (2). Allora il concetto A^Waionio si trova costituito. Il concetto dell'inerzia della materia a Leucippo e Democrito risultava d'una maniera più necessa- ^•1 (1) Arist. Met 1. I.IV.H; Gen. et corr, l.I. II. 4-9; Vili. 8, 12, 16, De Coelo 1. I.VII-18, 1. III.IV.5,8, Phi/s. 1. I.II.l, 1. III.IV.4.6 ecc. (2) Cfr. Arlst. De Coelo 1. lU.VII, 10. s • * >♦ * |> «! '^ XXII ria ancora che ad Anassagora e ad Empedocle; poiché la materia allo stato solido sembra manife- starci la sua inerzia d'una maniera più evidente che ad un altro stato fisico. Ma gli atomisti inten- dono mantenersi in un terreno rigorosamente na- turalista, e non ricorrono a delle ipotesi trascen- denti per ispiegare 1' origine del movimento : essi ammettono perciò che il movimento non ha origine, che non vi ha movimento che sia spontaneo, e che il movimento dei corpi è sempre prodotto dall'urto di altri corpi (1). Come essi si rappresentano la materia universale sul tipo dei corpi solidi, così essi elevano a tipo universale del modo di produzione del movimento l'azione meccanica che noi osser- viamo tra i corpi solidi (2). (1) Arisi. De Gen. et corr, 1. I. VITI, 5, Fìac, 1. I, 25], 26, Stob. Ed, I, 348, 394; SIiiipl. De Coelo 260 b; Alex, ad Met. I. 4, Cic. De fato 20. (2) Noi nou possiamo ammettere con Zeller, Lnnge ad altri espo- che Leuclppo e Democrito abbiano spiegato l'origine del mo- vimento attribuendo agli atomi 11 peso alla maniera di Epicuro, cioè una tendenza naturale al movimento verso 11 basso. Ciò è esplicita- mente contraddetto da molti autori antichi, quali Alessandro, Ps. Plu-, Stobeo, Cicerone nel luoghi citati nell'ultima nota, che mettono In opposizione sotto questo rapporto la dottrina di Democrito e quella di Epicuro, e queste testimonianze sono tanto più attendibili, che vi era più motivo d'ingannarsi, confondendo a torto le due dottrine an- ziché distinguendole a torto. Inoltre questa interpretazione è impli- citamente contraddetta dallo stesso Aristotile, il quale dice che Leu- cippo e Democrito non hanno cercato la causa del movimento (Met. 1.1. IV, 8; 1. XI, VI, 7), e non hanno accordato agli atomi alcun mo- vimento naturale {De Coelo 1. III. II, 3). Se malgrado ciò il Zeller attribuisce agli antichi atomisti la dottrina degli atomisti posteriori, è perchè egli assegna, come scopo precipuo, alla fisica nieccanista quello di spiegare il divenire, e perciò ritiene che una causa prima del movimento sia un elemento essenziale di una tale fìsica. Ma l'og- getto principale del meccanisti, come degli altri fisici, era la ricerca della essenza Immutabile delle cose, noi dobbiamo perciò considerare^ XXIil In quanto al problema dell'origine della coscienza, si crederà forse che gli atomisti Thanno abbando- nato come affatto insolubile secondo i loro princi- pii; o almeno che essi non hanno potuto, in ogni caso, darne una soluzione che si avvicinasse a quella della dottrina animista. Tuttavia questo che sembra naturale e necessario al punto di vista del mate- rialismo moderno, non era tale al punto di vista del materialismo antico: gli atomisti, come quasi tutti gli altri materialisti antichi, accettavano la di- stinzione comune tra anima e corpo (quantunque, conformemente per altro alle concezioni dell'animi- smo primitivo, r anima fosse per loro anch' essa materiale). Così bastava di dare all'anima un sustrato materiale specificamente distinto da quello delle altre sostanze — ciò che era assa-i conforme ai principii della fisica ineccanista — ^^v avvicinarsi al punto di vista del dualismo spiritualista. Noi abbiamo visto che la distinzione del Nous dalle sostanze materiati come essenziale alla loro fisica la dottrina dell'inerzia della materia, ma non quella di una causa prima del movimento. Dall'altra parte, noi non possiamo nemmeno, a difetto di testi- monianze precise, affermare col Lewes che Democrito abbia spiegato 11 peso stesso per l'impulsione (quantunque Aristotile, /?e Coelo l. I. Vin. 14, sembri alludere a questa dottrina, la quale potrebbe con- venire agli atomisti meglio che a qualsiasi altro degli antichi filosofi). Sembra più verisimile che Leuclppo e Democrito, con tutti gli altri fisici, considerassero la caduta dei gravi (cioè dei corpi aventi un certo grado di densità, perché pare che gli antichi atomisti attribuis- sero al corpi meno densi, non una tendenza a cadere, ma una tendenza a portarsi in alto- v. Aristotile De Coelo 1. IV. U) come un fatto abba- stanza naturale ed intelligibile, in ragione della sua famUiarità, del quale non occorreva di dare una spiegazione. XXIV era anzitutto in Assagora una conseguenza della dottrina delle omeomerie. Democrito non distingue l'anima da tutte le sostanze corporee; egli la iden- tifica ad una sostanza particolare, il calore, in modo che il calore e l'anima sembrano per lui due concetti assolutamente coestensivi, due termini perfetta- mente sinonimi, il calore essendo per se 8teg;so anima, come l'anima calore (1). Cosi egli sembra fare della coscienza un attributo inseparabilmente congiunto al calore, e perciò dÌLfonde l'anima in tutto l'universo (2), dal quale gli esseri animati l' assorbono, assor})endo il calore. Questa dottrina di Democrito, data la sua spiegazione perfettamente naturalista del mondo, non si comprende che come uno sforzo por rendere conto dell'origine della co- scienza, conformemente al principio della fisica meccanista cho TesscTO non può né nascere ne pe- rire (3). . §. 4. Potrebbe sembrare che la concezione mec- canista essendo, come abbiamo notato, l'applicazione più chiara e più coerente del principio comune dei fisici che l'essere nou può A^enire dal non essere né ridursi al non essere, noi dovremmo trovare questa concezione al punto di partenza della fisica greca, e non quella che vi troviamo in effetto, di una so- (1) Arlst. De An, 1.I.II.3, De respirar, e 4. (2) V. oUr© I 1. citati nen'ultlma nota, Plut. P/ac, \. IV. IV. 4, 1. I. vn. 13, Stob. Ed, I. 56, (fililo cantra Jnlianttm I, 4, Clc. Nat. Deor. I. XLIII. 120, ecc. (3) E a questa dottrina suiranima dearll antichi atomisti che si riat- tacca l'Indicazione del Ps. Plut. (Plac. V, 254) che, secondo Lencippo, la morte convlen? al corpo, nou alTanlma. XXV stanza primordiale unica, e della oonvertibilità re- ciproca di tutti i corpi (1). Ma noi abbiamo osservato che una fisica meci^anista si trova necessariamente in contraddizione con la testimonianza dei sensi, e che, nella sua forma più sviluppata, questa fisica arriva a un sistema che nega la realtà dei dati immediati della percezione sensibile. Inoltre una pluralità di sostanzo primordiali inconvertibili l'una nell'altra è un'idea contraria alle prime apparenze, (1) ISl potrebbe tuttavia ammetterò col llltter che la fisica ììiecca- nista abbia avuto anche tra i più antichi fisici 11 suo rappresentante, cioè Anassimandro. E ciò che sembra risultare da due testi di Aristo- tile in cui la dottrini d'Anassimandro è assimilata a (juella del fisici meccanlsti. Nell'uno di <iuestl testi (Phys 1. I.IV. 1) Aristotile divide tutti i fisici in due catej^orie, di cui f?ll uni ammettono una sostanza primordiale unica facendone derivare le altre cose per via di condensa- zione e di rarefazione, e gli altri fanno separare le contrarietà conte- nute nell'uno, cioè nell'indistinto primitivo, ed è in questa seconda ca- tegoria ch'egli compi'ende Anassimandro, insieme ad Empedocle e ad Anassag«»ra. Nell'altro testo (Met.l.XI. II. 3) attribuisce ad Anassi- mandro, al tempo stesso che ad Empedocle e ad Anassaj^ora, l'Idea di una mescolanza primitiva, e assimila la sua dottrina a (juclla dello stesso AnassajJTora e di Democrito di uno stato originarlo del mondo in cui tutte cose erano insieme (cioè in cui tutto il reale preesisteva allo stato di attualità, e non semplicemente di potenza come nella materia dello stosso Aristotile). Se, seguendo questo indicazioni (a cui si potrebbe agglun'^ere quella di Teofrasto ap, Simpi. in Plnjs. fot. 6 b, che assimila la dottrina di Anassagora sugli elementi mate- riali a (luella di Anassimandro, per non parlare di Simplicio stesso In Phi/s fol. 6 a, 32 b, 51 b, e di altri testimoni posteriori), si fa di Anassimandro un meccanista, bisognerebbe attribuirgli una fìsica analoga a (luella che Parmenide espone nelta 2** parte del suo poema, cioè la dottrina di due elementi, l'uno caldo (e al tempo stesso tenue, luminoso, mobile), l'altro freddo (e al tempo stesso denso, oscuro, inerte). È ciò che risulterebbe combinando l'indicazione di Aristotile (di una separazione delle contrarietà), con un'altra indicazione di Plutarco (ap. Eus. Praep. evang. I. 8, che dice che alla formazione XXVI XXVII alle inferenze risultanti dalle osservazioni più ovvie: queste mostravano che le forme più marcatamente differenti della materia, cioè i tre stati fisici dei corpi, a cui si aggiungeva il fuoco come una quarta forma non meno spiccatamente distinta, potevano procedere le une dalle altre ; se ne concludeva che le forme meno differenti erano anch'esse converti- bili, e che vi era una materia unica che poteva del mondo avvenne una separazione del grerrae, YÓ^VXO'^, del caldo e del freddo}, e un] altra di Stobeo {Ec/. I. 500, secondò cui il cielo è formato dalla mescolanza del caldo e del freddo). Una tale Interpre- tazione spiejjherebbe anche 11 fatto altrimenti difficile a corapren- dere, che Parmenede dà questa dottrina, che egli non ammette, come Vopinione degli nomini. Ma questa interpretazione, e in generale qualsiasi interpretazione wcccauisti della fisica di Anassimandro, ha contro di so le testimo- nianze della più parte degli autori posteriori, 1 quali gli attribui- scono invece la dottrina di una sostanza primordiale unica diversa dai quattro elementi. Sicché noi non possiamo niente affermare di sicuro sulla vera dottrina di Anassimandro, tanto più che queste te- stimonianze, quand'anche dovessimo seguirle, non c'insegnano niente sullo spirito della fìsica di Anassimandro, poiché esse non e- indicano per qual processo, secondo questo filosofo, 11 multiplo sarebbe uscito dall'uno (l'indicazione che le diverse sostanze derivano dalla sostanza primordiale per rarefazione e condensazione essendo esplicitamente contradetta da Aristotile). L' interpretazIoMe del Zeller secondo cui Anassimandro si sarebbe contentato dell' idea vaga che la sostanza omogenea primitiva si divise in una moltlplicltà di sostanze diffe- renti, oltre che fa discendere a un livello troppo basso 11 valore fi- losofico di Anassimandro, è obbligata a torturare i testi indicati di Aristotile, e non rende conto dell*lncontestabIle analogia che, secondo ciuesti testi, deve ammettersi tra la fisica di Anassimandro e quella meccanisti. Si potrebbe forse immaginare un'interpretazione che mettesse di accordo le indicazioni che assimilano Anassimandro ai fisici mecca- nisti con quelle secondo cui egli avrebbe ammesso una sostanza unica indeterminata (v. Diog. Laert. II. I. P/ac, 1. 3., e principalmente Teo- frasto 1. e, che sembra attribuirgli la dottrina di una sostanza ///- prendere tutte le ferme. Ma ammettendo V unità della materia e la convertibilità reciproca di tutte sostanze immediamente date dall' osservazione^ i primi fisici non rinunzia^ano perciò al princi- pio, considerato come evidente perse stesso, che l'essere non può nascere ne perire, e, quindi, che delle cose aventi una natura determinata non possono cangiarsi in altre cose di una natura dif- ferente. Quando essi dicono che tutto è aria o fuoco o acqua, il loro pensiero non è semplicemente che vi ha una materia unica, e che perciò la sostanza che costituisce le cose diverse dall'aria o dal fuoco o dall'acqua, nell'eterna circolazione dei suoi stati ha già attraversato quello di aria o di fuoco o di acqua. definita secondo la specie e secondo la grandezza) : si potrebbe, cioè, attribuirgli l'idea di Teleslo della materia indeterminata, e del caldo e del freddo, concepiti come due entità sussistenti per se stesse, che si dividono il dominio di questa materia. Infatti Aristotile (Phys. 1. III. V. 10) parla dell'opinione secondo la quale Vinflnito non può avere alcuna delle proprietà contrarie per cui 1 differenti corpi si distinguono fra di loro, perché una sostanza infinita avente certe proprietà determinate renderebbe impossibile l'esistenza di altre so- stanze aventi delle proprietà opposte. Se riferiamo quest'Indicazione ad Anassimandro, come fanno i commentatori d'Aristotile, sembre- rebbe risultarne che l'infinito di Anassimandro (supposto ch'egH ab- bia ammesso un principio materiale unico) resta nel suo stato d'in- determinazione, anche dopo che le sostanze particolari ne sono state formate. La materia di Anassimandro sarebbe dunque, per usare una espressione di Rosmini, un' indeterminato reale, o, in altri termini un'astrazione realizzata (e in effetto Aristotile, De gen. et corr. I.II. I. 3, 5, per distinguere questa materia senza alcuna delle proprietà contrarle dalla materia qual essa è nella sua propria dottrina, dice che la seconda non é separabile come la prima, assegnando così tra le due dottrine lo stesso carattere differenziale per cui egli suole di- stinguere 1 suoi propri concetti da quelli di Platone). Ora la realiz- zazione dell' astratto materia supporrebbe necessariamente la realiz- XXYIII XXIX Ciò che permane nelle trasformazioni continue della materia non è soltanto, per essi, il sustrato comune indeterminato delle diverse sostanze materiali : in questo caso, non si avrebbe ragione di elcA^are una qualunque delle forme che prende alternativamente la materia a base ed elemento di tutte le altre : non vi sarebbe, in ultima analisi, vera differenza tra le varie opinioni dei fisici unizzanti: ben più tra queste opinioni e quella di Aristotile non vi sarebbe al- cuna opposizione reale, e la polemica di questo fi- losofo contro i fisici che, come lui, ammettevano l'unità della materia, si ridurrebbe a una semplice logomachia. Xoi non dobbiamo dunque interpretare la dottrina dei fisici unizzanti semplicemente nel senso che, al punto di partenza e al punto di arrivo della evoluzioije del mondo, tutto ///, e nuovamente sarà^ aria o fuoco o acqua: noi dobbiamo intendere inA^ece che tutto attualmente è aria o fuoco o acqua. znzione di altri astratti . cioè delle forme che differenziano la mate- ria; e noi dovremmo ({ulndl comprendere le contrarietà della cui se- parazione è qnlstlone nel luo^o Indicato della Fisica, nel senso più rigoroso della parola contrarietà, che indica, non le cose aventi le proprietà contrarle, ma le stesse proprietà contrarle. Queste contra- rietà si ridurrebbero, per Anasslraando. alla contrarietà fondamentale del caldo e del freddo, che Anassimandro avrebbe trattato come de- frli esseri reali {separabili, per usare l'espressione abituale di Ari- stotile), rappresentandoseli come iugenerabill e imperiblll. e sempre gli stessi e nella stessa quantità, e determinanti per il semplice pas- saggio da un luogo ad un altro tutti 1 cangiamenti del mondo mate- riale. Di là la proposizione, attribuitagli da Diogene Laort. (II. 1), che l'universo cangia continuamente nelle sue parti, ma 11 tutto resta immutabile. Sarebbe senza profitto per il nostro argomento svilup- pare più largamente un' ipotesi dalla «luale, non potendo venire ap- poggiata su dati storici precisi, non si potrebbe tirare alcuna conse- guenza. che la sostanza primitiva, di cui tutte le cose sono state fatte, persiste ancora, al di sotto delle sue nuove parvenze, nelle cose derivate. Questo mondo dice Eraclito (1), è stato, è e sarà sempre un fuoco immortale; egli non dice soltanto: questo mondo è stato fuoco, e tornerà ad essere fuoco.- Similmente Diogene d'\pollonia non dice semplicemente che tutto viene dallo stesso (Paria) e si risolve nello stesso, ma ancora che tutto è lo stesso (2|. E i testi- moni più autorevoli, come Aristotile, attribuiscono a tutti i fisici che ammettono un principio materiale unico la dottrina che una sostanza determinata (Taria o il fuoco o Tacqua, ecc.) è la materia universale (3), la sostanza (4) o la natura (5) di tutte le cose, il sustrato di tutti i fenomeni (6), Tessere unico che (1) Fr. 27. Mullach. (2) /'/*. 2 Mullacli: la prova che tutto è lo stesso è che altrimenti le cose non potrebbero venire l'ima dall'altra (ct'r. Fr, 0) né mesco- larsi nò agire l'una sull'altra (secondo il principio che solo il simile può agire sul simile). (^) Met 1. IV IV a. Gcn, et corni. II I 2, 1. II III 4, Met, 1. 1 Vili 1, De Coe/o 1. Ili V 10, Phys. 1. I IV 1, (Jeii, et corr. l. II V 1. (4) Arist. Met. 1. 1-1II.24: Plurimi eorum qui primo pliilosopbati sunt, solas illas caiisas existimarunt esse principia . «juae in mate- riae specie sunt. Ex quo enim omnia entia sunt. et ex (ino primo fiunt. et ad (^uod ultimum corrumpuntur, substantia qui<Iem perma- nente, mutata vero passionibus, hoc elementum et hoc omnium en- tium osse principium aiunt : et oh hoc nihil fieri ne«iue corrumpi opinantur. tanquam huiuscemodi natura somper conservata Oportet enim aliquam naturam aut unam aut plures esse, e quibus caetera fiunt, illa conservata. Pluralitatem tamen et speciem huius principii non eandem omnes dicunt, sed Thales aquam ait esse etc. V. a. Mef. I. I.IV.S, Phfjs. ecc. t5. Mrf. 1. I III 3, 1. IV IV 3 Phijs, 1. 11.1.7-9, 1. I VI 4. (U) Vf'f. 1. l III 2-3, 1. I IV S, Phys. 1. II 1 9 - - ». è al fondo di tutti gli esseri ( 1 ). Questi fisici pensano adunque che l'elemento primitivo di cui tutte le cose sono fatte, si mantiene identico a se stesso, attraverso tutti i mutamenti del mondo mate- riale; che gli esseri derivati passano, ma la sostanza primordiale resta, ed è incorruttibile ed eterna (2); e che perciò, a parlar propriamente, niente nasce e niente perisce (3), il fuoco o l'acqua o l'aria che costituisce l'essenza di tutte le cose, non cessando mai di essere quello che è. Di là sembrerebbe seguirne che di tutti gli stati (1) Met. 1. I. V 9, 1. II. IV 23, 1. IX II 1, Gen. et corr. 1. 1. 1. 2. (2) Diog. Fì\ 7, « Atqne hoc ipsum est corpus aeternum et immor tale: caetera partim fmnt, partim deficiunt » Arist. De Coelo 1. III. 1.3: * Quidam autem, caetera quidem omnia fieri, fluireque dicunt, ac ni- liil prorsus stabile esse; unum autem quid solum permanere, ex quo haec universa transfigurari sint apta: quod quidem et alii complu- res et Heraclitus Ephesins dicero velie videntur. . Arist. 3Iet, 1. I. Ili 2 4, ]. e. Arist. Met. 1 IV IV 3: Item natura dicitur, ex quo primo inordinato exsistente et immobile ex sua potontia est aut fitaliquid eorum (juae natura sunt, ut statuae vasorumque aeneorum aes natura dicitur, ligneorum vero lignum: similiter autem et de ceteris. Ex bis enim unumquodque est, prima materia salva. Hoc enim modo etiam eorum quae natura sunt elementa dicunt esse naturami quidam ignem, quidam terram, quidam aerem, quidam aquam, quidam aliud tale dicentes, et quidam aliiiua horum, qui- dam vero baco omnia». Arist Bhijs. 1. 11.1.7-10: « Jam vero quibus dam videtur natura et essentia eorum quae natura Constant, esse id quod primum cuique rei inest, informe per se: ut lectirae natura est lignum, statuae vero aes. . . . Idcirco alii terram, alii ignem, alii aèrem, alii aquam, alii nonnulla ex bis, alii baec bomnia, inquiunt esse rerum naturam. Quod enim quisque existimavit esse tale, sive unum sive multa, boc et tot inquiunt esse universam essentiam, reliqua autem omnia esse borum affectiones et habitus et dispositiones. Et borum quidem quodvis esse sempiternum (non enim esse ipsis mu- tationem ex se ipsis); cetera vero fieri et interire infinities «. (3) Met 1. I. III. 3. 10, Pys 1. I.VIII, Gen. et. corr. i.hI.2S, che noi vediamo attraversare successivamente alla materia, secondo questi fisici, uno solo è reale, e gli altri non sono che apparenti ; che le sostanze materiali non sono da noi percepite. secondo la loro realtà, all'infuori dell'elemento primitivo; che quan- do p. e. l'aria di Anassimene si è cangiata in acqua o in terra, è a noi che pare acqua o terra, mentre in realtà non xi ha ancora che l' aria primitiva. Tale è il senso in cui Lucrezio comprende queste dottrine; così egli dice contro Eraclito (1): Dicere porro ignem res omneis esse, neque ni lavi Rem veram in numero rerum constare^ nisi ignem, Quod facit Ilice' idem, perdei ir iim esse videtur. Nam contra sensiis ab sensibiis ipse repugnat, Et lahefactai eos, linde omnia eredita pendent; Unde ìiic cognitus est ipsi, qiiem nominai ignem. Credit enim sensiis ignem cognoscere vere; Caetera non credit, quae nilo darà miniis sunt. Ma in verità né Eraclito nò gli altri fisici uniz- zanti pensavano ridurre a semplici apparenze il- lusorie le forme in cui l'elemento primitivo si tra- smutava, quantunque sia questo il risultato a cui essi sarebbero stati condotti se avessero sviluppato rigorosamente le conseguenze contenute nelle loro af- fermazioni. Dal princij3Ìo a priori (a priori in quanto era non una conclusione, ma un'anticipazione dell'e- (1) I. V. ()91 Hqq. y XXXII I I sperienza) che Tessere non può nascere né perire, e che una cosa perciò non può cangiarsi in un'altra di una natura differente, essi concludevano che il fuoco o l'aria primitiva non poteva cessare di essere lo stesso fuoco o la stessa aria; l'esperienza (quale essi l'interpretavano) mostrava, al contrario, che T ele- mento primitivo si trasformava in altre sostanze di cui tutte le proprietà erano essenzialmente dif- ferenti dalle sue: essi non sacrificavano il fatto al principio, ma nemmeno il principio al fatto; e ciò che vi ha di caratteristico nelle loro vaghe e oscure concezioni è la coesistenza nel loro spirito di que- ste due idee incompatibili, la forza con cui l'una e l'altra s'imponevano non permettendo loro di ri- nunziare all'una o alFaltra, ne di vedere (;he vi era tra di esse una contraddizione insolubile (1). L'idea che nelle trasformazioni della materia la sostanza si conservava nondimeno identica a se stessa, doveva condurre i fisici unizzanti a una ma- niera di vedere analoga a quella dei fisici mecca- nìstì\ che non ammettevano altro cangiamento nelle cose che nei rapporti di spazio. Essi credevano che gli stati differenti della sostanza unica erano do- vuti ai irradi differenti della sua condensazione (2), (1) Naturai monto Arlstotllo non ha manoato di notare II carattere eontradittorio (lolla dottrina di iiuosti flsiol V. De Oeiì, et COrvA.ll, V. 1-2. (2) Per Anasslmene: Plut. ap. Kum. Vraep. Erang. I. H, Plut./)e Prim. Friy, e. 7; Slmpllo. /// /V//A9. fol. 32, Ippol. Ref, haeres., 1,7. (OrlgenlH Phllosophoumona). Per Dioj?ene d'Apollonia: Dloj?. Laert. 1X> .57. Per Erael.: Diog. Laert. IX. H e «ejfjr.. Plut. Placita 1.3, 2.5.2«, Siuipl. /// Phìjs 0 a, :nO a. Per tutti: Arist. Mct, 1. I. IV. 8, P////S, I. I, XXXIII e siccome la condensazione e la rarefazione non sono che un avvicinamento e un allontanamento dello particole fra di loro, il movimento della materia spiegava secondo essi tutti i cangiamenti che si os- servano nella natura (1). Così è alla congiunzione e alla disgiunzione delle parti della sostanza ele- mentare che essi riconducono, come i fisici mecca- nisti, tutti i mutamenti apparenti di sostanza (2) rv, 1, 1. I.VI. 6, De Gerì, et corr. 1. II. III. 4, Gal. in Hippocr. De nat» hom, I. 2, ecc. Avvertiamo che per la esatta comprensione del concetti dei fisici unizzanti bisogna tener presente che essi non am- mettevano il vuoto, e perciò nemmeno ciò che noi diclamo la costi- tuzione molecolare della materia, cioè la sua divisione In particelo ultime separate le une dalle altre e conservanti sempre In se stesse la stessa densità. (1) Ippol. Ref, haeres 1. e; Simplic. in Phi/s, fol. 6 a (per Anas- simene); Plut. ap. Eus. Praep. erang. I, 8 (per Dlog. d'Apoli.); per tutti: Arlst. De gen. et corr, 1. II. IX, 7, Phys, 1. VUI. IX. 3. (2) Arlst. De Coelo 1. III. V, 5: quelli che ammettono 11 fuoco co- me corpo primitivo, e lo distinguono per la tenuità delle particole (cioè Eracllte e 1 fisici che professano una dottrina analoga, in op- posizione ai platonici che lo distinguono per la figura), da esso com- postosi (è)C TOtJTOD aUVTlOsaévO'J, cioè dalla integrazione, dalla confluenza delle sue particole) dicono prodursi le altre cose come per l'ammassa mento di un pulviscolo (xaOòCTUSp àv £1 OL>[XCpUaa)[X£V0D (};y)YlXaTO(;) V. anche ibid, 1, Met 1. I. VIII. 3-6, Phgs, 1. VIII. IX. 3, ecc: È questo processo meccanico nella produzione delle sostanze che fa dire a Lucrezio contro Eraclito : (1. Versi 646-665 Nam cur tam variae res possent esse, requiro. Ex uno si sunt Igni puroque creatae. Nihil prodesset enim calidum denserier ignem, Nec rarefìeri, si partes ignis eandem Naturam, i^uam totus liabet super Ignis, haberent. Acrior ardor enim conductis partibus esset: Languidior porro disjectis disque supatls. Amplius hoc fieri nihil est quod posse rearis Tallbus in causis; nedum varlantia rerum Tanta queat densis rarlsqne ex ignibus esse. f XXXIV i i r 1 (apparenti perchè, come abbiamo detto, niente nasce al fondo e niente perisce); e Aristotile fa consistere la differenza fra di essi e gli Eleati, i quali negano qualsiasi specie di cangiamento, in ciò che i primi, d'accordo coi secondi per ogni altro cangiamento, non negano però il movimento, il cangiamento nello «pazio (l). Le forme e le differenze del multiplo non sono, secondo i fisici unizzanti, che gradì dif- ferenti di densità e di rarità, di concentrazione e di dilatazione della materia universale (2): divenuta più densa o più rara essa pare differente (3); ogni differenza tra le cose non è al fondo che quanti- tativa, ridiicendosi alla maggiore o minor quantità di materia che occupa uno spazio dato (4). Da que- ste indicazioni degli antichi testimoni noi possiamo concluderne che, secondo questa scuola di fisici, la rarefazione e la condensazione della sostanza universale non è semplicemente la causa dei suoi cangiamenti di stato e delle differenze qualitative -che si manifestano in questi stati differenti; ma ancora che questi stati differenti e le qualità dif- ferenti che li caratterizzano non consistono, in se stessi, che nei diversi gradi di densità e di rarità, di concentramento e di diffusione di una sostanza qualitativamente immutabile, o piuttosto i cui can- giamenti qualitativi non sono nella loro essenza (1) Met, 1. I. V. 9; cfr. 1. I. III. 10. (2) Arlst. Fhus* 1. I. IV. 1. (3) Ippol. 1. e. TUDXVO'JjJLSVOV (rarla, secondo Anasslineue) yÒ(.Q (4) De Coelo 1. UI.V. 2. . » XXXV che cangiamenti quantitativi e puramente spaziali (1), qualche cosa come una concentrazione e una diffu- sione di certe qualità fondamentali che la sostanza non perde mai. Per quanto tali idee siano oscure, anzi affatto inconcepibili, esse si presentavano na- turalmente al punto di vista dei fisici unizzanti, i quali per conciliare il principio preteso assioma- tico deirimmiitabilità della sostanza con le trasmu- tazioni che presenta l'esperienza, non avevano altro mezzo che di ridurre tutti i cangiamenti della na- tura al cangiamento di posizione nello spazio, come poi fecero, con ideo più chiare e coerenti, i fisici meccanisti. ^-i (1) Ciò che precede è negato recisamente da Zeller, almeno per Eraclito. Non sC deve, egli dice, avanzare con alcuni autori (tra i quali egli ha il torto di non comprendere Aristotile: v. De Coelo ]. III. V, 5, 1, e, e 9, in cui estende a quelli che ammettono il fuoco come elemento, il rimprovero che per i fisici nnizzanti la diiferenzn tra le sostanze è soltanto quantitativa e quindi un che di puramente relativo) che. secondo Eraclito, le sostanze secondarie procedono dal fuoco e si risolvono in fuoco per via di condensazione e di di- latazione. Senza dubbio quando il fuoco si cangia in umidità e l'u- midità in terra, vi ha condensazione, come, nel caso contrario, vi ha dilatazione. Nondimeno, nel pensiero di Eraclito, questa conden- sazione e questa dilatazione non sono la causa, ma la conseguenza del cangiamento di sostanza. In etfetto, secondo lui, non è il rav- vicinamento delle particole del fuoco che fa passare l'elemento igneo allo stato umido, e l'elemento umido allo stato solido o terroso; ma se un elemento meno denso diviene un elemento più denso, è perchè il fuoco si è ti asformato in umidità, e l'umidità in terra. Così pure perchè il fuoco rinasca dalle altre sostanze, non basta che gli ele- menti primitivi di queste sostanze s'allontanino gli uni dagli altri: bisogna una nuova trasformazione, un cangiamento qualitativotanto delle parti quanto dei tutto. (Certamente un cangiamento qualitativo è necessario, ma esso non é per Eraclito, come per gì altri fisici della stessa scuola, che una conaeguenza, — nel senso lo- XXXVI §. 5. Il principio deli-unità e immutabilità della sostanza è sostenuto della maniera più radicale da Eraclito, il quale spinge questo principio sino alla conseguenza estrema della identUà dei contrari. Eraclito riconduce tutte le differenze dell'essere, che costituiscono la moltiplicità e il divenire, alla opposizione per contrarietà. La legge delle cose è, secondo lui^ la loro opposizione mutua: tutte le cose sono per coppie di contrarli; ogni cangiamento è il passaggio da uno stato al suo stato opposto (1). Tutto nasce dalla discordia, dice Eraclito nel suo linguaggio figurato; la guerra è la madre e la so- vrana di tutte le cose (2); Tarmonia del tutto è co- gico, non semplicemente un effetto — del cangiamento «li densità o di posizione reciproca delle parti). La ragione decisiva por cui si deve ammettere questa interpretazione è, secondo Zeller, che ogni altra sarebbe incompatibile con la dottrina fondamentale di Eraclito del flusso di tutte le cose. Una sostanza immutabile non sarebbe compatibile con questa dottrina. Per la stessa ragione, nella dottrina che tutto è fuoco t^gli non vede che un simbolo della legge del divenire, quantunque Eraclito nella sua propria coscienza non sappia ancora di- stinguere, egli dice, tra l'idea generale e la forma sensibile sotto cui quest'idea è espressa. (In altri termini quantunque Eraclito prenda questa dottrina nel senso letterale, e non come un semplice simbolo. Molti saranno, come me, incapaci di rappresentarsi un simile processo mentale in un pensatore qualunque: se Eraclito prende in un senso letterale la proposizione che tutto è fuoco, essa può essere uu sim- bolo per un altro che filosofa sulla dottrina di Eraclito, ma non. per Eraclito stesso. È come quando Hegel dicj che i domini reli- giosi sono dei simboli della sua propria tìlosofia : il ciedente am- mette questi domini come dottrine positive e non come simboli: per Hegel sono simboli, precisamente perchè per lui non sono più ve- li) Diog. Laort. I. X, 7.8, Stab. EcL I. 58, Filone quis divinarum rerum heres sii. p. 509-510, Quaest in Gen, III. 5 fine. (2) Muli. Fr. bT, 39, 44, Eth. End, 1. Vili, I, 11, Plut De Jsid. et Osir^ ap. 48 e Simpl. in Arist. Cut, f. 104 b. (in Muli, illustr. a Fr. 37). XXXVII stituita dall'opposizione reciproca delle parti (1|. Que- sta proposizione che l'opposizione è una legge uni- versale delle cose si spiega sufficientemente per una generalizzazione dell'osservazione: questa in verità non la giustifica che sino ad un certo punto (non essendo vero che tutte le nostre nozioni possano distribuirsi per coppie di termini contrari, come luce e tenebre, maschio e femmina, salute e malattia, ecc. a meno che alcuni dei termini non siano puramente negativi, come non uomo, non bianco, ecc., nel qual caso la pretesa legge delle cose diverrebbe una semplice proposizione verbale); ma non deve sor- prenderci che, in un'epoca scientifica sì primitiva, Eraclito, come già prima di lui altri filosofi, quali Alcmeone e i Pitagorici, sia stato così profonda- mente colpito dall' osservazione delle opposizioni rità).Ma noi non abbiamo alcun motivo per prendere la proposizione di Eraclito che tutto è fuoco in un senso differente delle proposi- zioni analoghe degli altri fisici, p. e. di quella d'Anassimene o di Diogene d'Apollonia che tutto è aria. (Sia detto di passaggio, la differenza tra le due proposizioni non è tanto grande quanto sem- bra a prima vista; perchè Eraclito non sembra rappresentarsi il fuoco primitivo da cui tutto è stato fatto, come una fiamma, ma piuttosto come una sostanza calda e aeriforme. V. Zeller stesso p. 588, 589 e sovratutto la nota 582,2) Se Zeller fosse stato con- seguente, avrebbe dovuto dare un'interpretazione simbolica, non della sola dottrina di Eraclito, ma delle dottrine corrispondenti di tutti i fisici che ammettono un solo elemento. La dottrina del di- venire (di cui d'altronde le Zeller dà un'interpretazione iperbolica e puramente fantastica, intentendo che le cose sono ad ogn' istante distrutte e nuovamente create come per incanto, ogni cosa cambiando ad ogni momento le particole materiali che la costituiscono - v. p. 619 - •620) non è una prova che Eraclito nega l'immutabilità della sostanza (nel senso che ho spiegato perle dottrine dei fisici unizzanti in generale) j (1) Eht. Eud. 1. VII. I, 11, Muli. Fr. 37, 38 e 93. mmm t ' ' ■ ■■ ■>■ XXXVIII XXXIX delle cose, da vedervi una legge importante della na- tura. Noi non dobbiamo per altro lungamente fermar- ci su questa dottrina di Eraclito: essa non c'importa per se stessa, ma solo per il suo rapporto con lal- tra legge dei contrari, stabilita da questo filosofo. Come l'essere si è scisso in una moltiplicità di esi- stenze reciprocamente opposte . e come passa in- cessantemente da uno stato ad un altro stato op- posto, cosi esso, secondo Eraclito, mantiene la sua identità a traverso di tutte le opposizioni. Tutti i contrari sono identici: la stessa cosa sono il giorno e la notte (1), il bene e il male (2), il puro e Tim- perchè appunto egli vuole eccettuato dalla legge del cangiamento universale l'uno che è il sustrato permanente di tutti i cangiamenti e di cui ogni cangiamento non è che una diversa configurazione (v. A- rist. De Coelo 1. Ili, I. 3, 1. e. a p XXX n.2) Per un'illusione di prospet- tiva assai naturale, nella tesi del continuo flusso delle cose, perchè è la più decantata dagli antichi, per il suo carattere paradossastico (V. Arist. Top, 1. I. IX, 5), si vede il pensiero fondamentale di Era- clito; e poi, per l'esagerazione^di un concetto giusto in se stesso, che è quello della connessione intima tra tutte le parti di un sistema filosofico e la subordinazione necessaria di certe parti ad altro più dominanti come in ogni tutto organico (esagerazione che discende direttamente dal preconcetto hegeliano di vedere in ogni sistema della storia la realizzazione di una categoria logica, o, in generale, di un momento del sistema vero e universale- il quale,. del resto» per gli storici hegeliajio — eclettici, alla maniera di Zeller, è ancora, e sarà sempre in incubazione — ) si pretende che tutte le idee del sistema devono logicamente derivarsi dal preteso pensiero fonda- mentale. Ma se vi ha in Eraclito un pensiero che merita di esser considerato come fondamentale, è quello ch'egli ha in comune con tutti i filosofi dell'epoca : l'assioma che l'essere non può venire dal non essere, e che perciò niente nasce al fondo e niente perisce. E (1) Fr. 89. (2) Fr. 90; Arist. Top, 1. Vili. IV. 11, Ph!jH. 1. I. II, 14. i puro (1), l'alto e il basso (2), l'ascensione e la di- scesa (3), il retto e il tortuoso (4). La nascita è morte e la morte nascita (5); il mortale è immortale, e l'im- mortale mortale (6). La stessa cosa è il vivente e il morto, il vegliante e il dormente, il giovane eil vecchio (7). Tutte è uno (8); Dio è giorno e notte,, està ed inverno, guerra e pace, fame e sazietà, e tutti i contrari (9); come tutti gli opposti procedono dall'uno, così da tutti risulta Tuno (10). Questo di- scordando sempre da se stesso, concorda sempre con se le altre proposizioni di Eraclito devono derivarsi dal suo pensiero fondamentale, la legge stessa del divenire, cioè la dottrina che tutto è in movimento e niente in quiete, (perchè, come abbiamo visto, i fisici unizzanti, ugualmente che i meccanisti, riducono tutti i can- giamenti al movimento) deve derivarsi anch'essa dall'assioma dei fisici. Il che noQ è difficile, perchè, se le proprietà essenziali del reale sono sempre le stesse (ciò che è il senso di quest'assioma), come- la sostanza primitiva, che è vivente ed in un'agitazione perpetua,, potrebbe trasmutarsi in una massa affatto morta ed inerte? (Plut. Piaci. 28: 'HpàxXlTO; Y]p£[Xiav TioCl aTÒCOlV £x Tciv 6X(ùV àvY)Cei* SOTl vàp TOOtO 'CWV VSXCWv). Con la stessa conseguenza con cui gli Eleati concludono dall' assioma della fisica che tutto è immobile (vedi più giù su questi filosofi), Eroclito ne conclude invece che tutto é in movimento; ciò che è dotato di un movimento spon- taneo ed incessante non potendo diventare una materia inerte.. (1) KaOapóv e [xiapóv. Fr 88. (2) Fr. 91 (3)1>. 32;91. (4) Fr. 91. (5) Clem. Sfroin. III. iM. (6) Ippol. nefuL Haere^.IX. 10 (in Muli, illustr.a Fr. 62). (7) Fr. 46. (8) Fr. 91.'; Filone Lei/ (illeg. II. 62. (9) Fr. H6. Le due ultime antitesi, guerra e pace ^ faine e sazietà^ indicano i due stati fra cui alterna il mondo : quello della divisione- o del cosmos, e quello dell'unità e omogeneità, in cui tutto è fuoco.. (10) Fr. 45. XL se stesso (1); la costituzione dell'essere è come quella dell' arco e della lira (di cui le due metà sono al tempo stesso identiche ed opposte) (2). Ora in qual senso dobbiamo noi comprendere le proposizioni di Eraclito affermanti l'identità dei con- trari ? Siccome queste proposizioni, prese alla let- tera, sono inintelligibili e implicitamente contrad- dittorie, perciò potrà credersi necessario di sforzarsi a darne un' interpretazione che le adatti al senso comune, e tolga ciò che vi ha in esse di ripugnante. Così p. e. quando Eraclito dice che il giorno e la notte sono la stessa cosa, s'intenderà, come fa Zel- ler, che lo stesso essere ora è chiaro e ora oscuro, ovvero, come fa Schuster, che essi sono la stessa cosa in quanto l'uno e l'altra sono egualmente delle di- visioni del tempo (3). Cosi ancora, quando Eraclito dice che la stessa cosa è il vivente e il morto s'in- tenderà che la stessa materia attraversa a vicenda i due stati della vita e della morte (4). Ma tali interpretazioni non solo sono lontane dal signi- ficato naturale delle parole di Eraclito, ma han- no anche contrarie le più gravi testimonfanze de- gli autori antichi. Cosi è nel senso più letterale(1) Plato Conv, 187 a; Soph, 242 d. e. (2) Fr. 38 e ^. (3) Ippolito {Refut Haeres IX 10) che ha conservato le parole di Eraclito, intendo che la luce è identica airoscurità, il bene al ma- le, ecc. (4) Questa sembra essere l'interpretazione di Plutarco {ConsoUit, ad ApolL, X). Il Fr, 60 Muli, (la vita e la mort« è tanto nella nostra vita quanto nella morte) è una prova ohe Tidontità non è solo del sustrato materiale della vita e della morte, ma della vita e della morte medesime. XLI possibile che Aristotile comprende le proposizioni di Eraclito: egli attribuisce a questo filosofo l'opi- nione che l'esser bene e l'esser male è la stessa cosa, e che i contrari sono identici per Vessenza o per la definizione (1) (e non semplicemente per la materia, come nella precedente interpretazione della propo- sizione: lo stesso è il vivente e il morto). Secondo lo stesso Aristotile (2) ed altri autori antichi (3), E- raclito nega il principio di contraddizione, ammette €he allo stesso soggetto appartengono degli attributi opposti, e che le due proposizioni contraddittorie sono vere 1' una e l'altra. In effetto, se i contrari sono identici, tanto varrà predicare d'un soggetto un attributo quanto l'attributo contrario. È proba- bile che questa conseguenza del principio dell'iden- tità dei contrari — che verisimilmente Eraclito avreb- be respinta — sia stata dedotta da quegli eraclitiz- zanti che, come Cratilo, esageravano grottescamente le dottrine di questo filosofo, e ne deducevano delle proposizioni scettiche: ma siccome la conseguenza derivava effettivamente dalla premessa, essa poteva venire attribuita, non senza fondamento, ad Era- clito stesso (4). (1) Phy8, 1. I. II. 14. (2) Mef, 1. III. III. 8, VII. 9, Vili. 1, 1. X. V. 8, VI. 16, Top, 1. Vili. IV. 1. (3) V. Specialm. Sesto Emp. Pjrrh, 1, 210-21:^. (4) Tanto più che questo filosofo, per arrivare alla tesi della iden- tità dei contrari (in astratto), cominciava mostrando che lo stesso fatto o la stessa cosa (concreta) presenta degli aspetti contrari: p. e. per provare l'identità del bene e del male mostra come i rimedi dei medici possono essere riguardati al tempo stesso come beni e come mali {Fr, 90)— Aristotile non vuole assicurare che la tesi della verità XLIl XLIil Noi dobbiamo dunque rigettare come inutile qual- siasi tentativo di rendere più intelligibile la tesi di Eraclito della identità degli opposti: per dare a que- sta tesi un senso concepibile, bisognerebbe liberarla dalla contraddizione che è in essa implicata; ma al- lora non sarebbe più la tesi della identità degli op- posti, la dottrina di Eraclito non sarebbe spiegata, ma sostituita da un'altra dottrina. 11 caso è lo stesso che per la tesi corrispondente di Hegel: non vi ha alcun mezzo per renderla intelligibile, non è possibile di da- re un senso a ciò che è un controsenso. Comprendere una dottrina metafisica in questi casi non è altra cosa(U tutte e due le proposizioni contradittoric debba attribuirsi aUo stesso Eraclito. In Mei. 1. III. IH. H dice « È impossibile di pensare che la stessa cosa sia e non sia, come alcuni credono che dica Era- dito ; poiché non é necessario che si creda tutto ciò che si dice». (Queste ultime parole non significano, come crede il Zeller — pag. 48:M—,che se Aristotile non vuole attribuire categoricamente ad Eraclito l'opinione in quistione, è perchè questi V ha effettiva- mente enunziata, ma senza credervi o senza comprenderne il senso, ma spiegano in generale come il fatto che vi hanno delle persone che a parole ammettono la realtà della contraddizione, non sia con- trarlo al principio che è impossibile di pensare che la contrad- pizione si realizzi). Il Zeller attribuisce ad Eraclito la dottrina della coesistenza dei contrari nello stesso sogetto (invece di quella della identità dei contrarli), e la deduce dalla dottrina del dive- nire continuo di tutte le cose (FHo8,dei G'r^ci p. rj95-H03 ; confr.p.678 .6S2). Questa deduzione non è secondo me ammissibile, quantumiue possa sembrare che abbia l'appoggio dell'autorità d' Aristotile. Per comprendere il valore di questa deduzione, bisogna farsi una giusta idea della conseguenza scettica che gli eraclitizzanti come Cratilo tiravano dalla dottrina di Eraclito del divenire, cioè che di ciò che diviene niente può con verità affermarsi, e non vi ha perciò alcuna scienza possibile né alcuna proposizione che sia vera (Arist. Met.. 1. III. V. 12, 1. I. VI. 1, 1. XII. IV. 2. Nel I. di questi luoghi Ari- stotile assegna (luesta dottrina a « qiielli che dicono di eraclitizzare »; che indicarne il motivo e Torigine. Per Hegel il motivo è, come abbiamo detto altrove, la necessità della iden- tità delle idee, perchè possano dedursi le une dalle altre: naturalmente Eraclito non potè esser condotto alla sua dottrina, come Hegel, da considerazioni dialettiche; l'assioma comune dei fisici spiega que- sta dottrina di Eraclito come la maggior parte delle altre dottrine di questi filosofi. negli altri due la chiama semplicemente, «eraclitica». Noi non dobbiamo perciò attribuirla allo stesso Eraclito, perchè essa è uno scetticismo e un agnosticismo assoluto, ed è incompatibile con la filosofia di Eraclito come con qualsiasi filosofia dogmatica). Per in- tendere la proposizione di Cratilo, si consideri un punto in movi- mento neir atto che esso passa da un punto determinato dello spazio, A, ad altro punto qualunque . B, concepito il più vicino ohe sia possibile ad A. Per quanto il punto B si concepisca pros- simo al punto A, vi saranno sempre delle posizioni tra A e B, che il punto in movimento deve occupare dopo di aver lasciato la posizione A e prima di passare nella posizione B: ma ciascuna di queste posizioni interposte, essendo un punto distinto da A. sarà separata da A da (jualche intervallo, ed è necessario perciò che tra essa ed A s'interpongano altre posizioni. Qual è dunque la posi- zione che il punto in movimento occupa immediatamente dopo la posizione A ? E impossibile di dirlo, percliè qualsiasi punto si as- segni prossimo ad A, esso, essendo distinto da A, ne sarà separato da qualche intervallo, che il punto in movimento deve aver per corso prima di passare nel punto assegnato, e perciò questo non può essere la posizione immediatamente successiva alla posizione A. La posizione immediatamente successiva ad A è dunque un che d'in- determinabile e d'indeterminato, di cui può dirsi soltanto che essa deve essere distinta da A e da tutti i punti distinti da A, ma sen- za poterla in so stessa indicare; di essa saranno vere delle proposi- zioni negative : non è A, non è B, non é C, ma non sarà vera al- cuna proposizione affermativa: è D. Che si generalizzi questa dif- ficoltà implicata nella idea della continuità del movimento (cfr. 2. parte. Le antinomie della ragione), si avrà il concetto di un cangia- mento universale continuo in cui ciascuno degli stati successivi è fi: V XLIY Per l'identità degli opposti ciò che Eraclito vuole stabilire è V unità e l' identità del tutto ; la eterna perminenza nella sua propria identità di quest'es- sere unico che diviene tutte cose. Il cangiamento essendo da uno stato ad un altro stato opposto, per- chè r essere resti identico a se stesso nel cangia- mento, bisogna che gli opposti siano identici. L'uno essendo divenuto multiplo, e la varietà essendo co- stituita dair opposizione, perchè i molti siano uno, un uno che nelle A^arietà si ritrova dapertutto iden- tico a se stesso, bisogna che gli opposti siano iden- sempre un punto di transizione, e perciò un che d'indeterminabile, posto tra due stati determinati qualunque : questo è il fondamento della i)roposizione di Cratilo che, ciò che continuamente diviene non essendo mai in uno stato determinato, non vi ha alcuna deter- minazione che possa con verità attribuirsi alle cose, le quali sono tutte in un continuo divenire. Ora è evidente che la conseguenza della dottrina del divenire assoluto non è secondo Eraclito e secondo la logicala proposizione che tutto è vero, cioè che raflfermativa e la negativa sono entrambe vene e che i contrari coesistono allo stesso tempo nello stesso sog- getto ; ma piuttosto la proposizione che niente è vero, che nes- suno dei due attributi contrari appartiene in realtà al soggetto chediviene, che passa dall' uno all'altro dei due stati contrari, e che ogni aifermazione è falsa (e quindi anche, può dirsi, ogni negazione, in quanto la proposizione negativa si consideri come implicante l'af- fermazione di uno o un altro degli attributi positivi compresi nel giro del termine negativo, che è l'attributo della proposiziono ne- gativa, se si dà a questa la forma infinitiva— p. e è non bianco im- plica l'affermazione di uno o un altro dei colori distinti dal bianco—). Perciò quando Aristotile parla della dottrina eiaclitica che tutto è vero, non può essere quistione di una deduzione dalla dottrina del divenire, ma noi dobbiamo i)ensare piuttosto a una dcau- zione dalla dottrina della identità dei contrari. Lo stesso Aristo- tile parla, è vero, come di una conseguenza della dottrina del di- venire, dell' opinione che le due proposizioni contraddittorie pos- .sono emettersi egualmente sullo stesso soggetto (Mei, 1. X. VI. 9): XLV tici. In una parola il principio di Eraclito è che l'essere non può cangiare di natura e di proprietà; perciò tutti gli stati differenti che esso successiva- mente attraversa devono essere, al fondo, identici. Eraclito spinge assai più in là che gli altri Usici unizzanti il concetto dell'immutabilità della sostan- za : per questi l'identità dell'essere non è che una identità materiale; ma per Eraclito l'unità e l'iden- tità del tutto non consiste semplicemente in ciò che un sustrato materiale uno e sempre identico a se stesso soggiace a tutte le forme che costituiscono gli esseri differenti (dando anche alla identità materiale il senso, che noi abbiamo attribuito alle dottrine di ma, come risulta dal contesto, quest'opinione non consiste a preten- dere che le due proposizioni sono vere l'una e l'altra, ma che, l'una non essendo vera più dell'altra, si ha tanta ragione di affermare runa <iuanta se ne ha di affermare l'altra (Cfr.Plat. TeetA^2 d-lK3 b). D' altronde Aristotile riconosce che la dottrina del divenire è in contraddizione con la proposizione che tutto è vero o che i contrari coesistono nello stesso soggetto {3fet. 1. III. V. 16), e che, mentre Eraclito fa tutto vero, la consegifenza della dottrina del divenire è invece che tutto è falso (Cfr. specialmen Mei. 1. III. VII. 9 con Met. 1. Ili Vili. 6). Ao'<'iun<»^eremo infine sull'interpretazione di Zeller della teoria dei contrari di Eraclito, che, quand'ancte la coesistenza dei con- trari potesse riguardarsi come una conseguenza della dottrina del continuo divenire, nessuna forse delle proposizioni particolari di Eraclito che noi conosciamo (lo stesso è il giorno e la notte, il vi- vente e il morto, ecc.) si presterebbe al una tale deduzione (dato e non concesso che tali proposizioni affermino la coesistenza dei con- trari, e non la loro identità) ; perciò bisognerebbe che ciascun mo- mento del tempo fosse il punto di transizione tra il giorno e la notte, che ciascun istante della nostra esistenza fosse il confine tra la vita e la morte, ecc. Cosi pure quando Sesto Empirico (l. e.) attri- buisce ad Eraclito l'opinione che il miele è al tempo stesso dolce ed amaro, noi possiamo pensare ad una deduzione dalla teoria dell'i-^ denti tà dei contrari, ma non da quella del continuo divenire. XLYI XLYII questi fisici, di una sostanza materiale sempre iden- tica a se stessa di cui non cangia che la posizione nello spazio) ; le forme stesse che riveste successi- vamente il sustrato materiale, cioè le qualità diffe- renziali e le energie specifiche per cui i vari esseri, costituiti dalla stessa materia, si distinguono, si ri- solvono, per Eraclito, nell' uno e nell' identico (1). Ma alla quistione : come queste forme differenti siano identiche, cioè come la loro differenza possa conciliarsi con la loro identità, sarebbe inutile di attendersi da Eraclito una risposta precisa o sem- plicemente intelligibile. Perciò egli dovrebbe fare le parti tra ciò che \\ ha nelle cose d' identico e ciò che vi ha in esse di differente o di opposto; in- vece non troviamo in lui che quest' asserzione — contraddittoria se la prendiamo alla lettera, vaga se vi cerchiamo un senso qualunque — che gli op- posti sono identici. La proposizione di Eraclito che gli opposti sono identici non è per altro né più né meno contraddittoria delle proposizioni dei fisici unizzanti in generale che tutto è aria o che tutto è fuoco (proposizioni incompatibili con resistenza di altre sostanze distinte dall' aria o dal fuoco). Noi abbiamo osservato che in quest'ultimo caso la con- ci) Arist. Phìj», 1. I. II 14 : Se gli Eleati dicono che tutto è uno secondo la definizione, ciò tornerà a sostenere la tesi di Eraclito. Lo stesso sarà il bene e il male, lo stesso 1' uomo e il cavallo — Asclepio! Schol ia Arist.652 a) dice che per Eraclito vi ha una defi- nizione unica per tutte le cose, proposizione che certamente non può attribuirsi ad Eraclito, ma che esprime, quantunque in una éorma troppo rigida, il pensiero di questo fìlosoto dell' unità eè»fn- •zialey e non semplicemente materiale^ di tutte le cose. traddizione nasce, perchè il principio ammesso a priori, in forza di un sofisma naturale, dell'immu- tabilità della sostanza, coesiste nello spirito di que- sti filosofi col fatto, dato dairosservazione, del can- giamento di una sostanza in un'altra sostanza; cosi nel caso di Eraclito, il principio, ammesso a priori in virtù dello stesso sofisma, che tutte le cose sono identiche di natura, perchè la natura delle cose (le quali tutte sono costituite della stessa materia e perciò reciprocamente convertibili) non può can- giare, coesiste, noi pensiero di questo filosofo, col fatto, dato dall' osservazione, dell' esistenza di cose aventi delle nature differenti e reciprocamente op- poste. 11 principio e il fatto, l'identità e l'opposi- zione, non si escludono per Eraclito, quantunque siano esclusive Tuna dell'altra; esse si consiunsono, ma non si conciliano, nella formula contraddittoria della identità degli opposti It). (1) Aristotile dà come motivo di una delle opinioni che negano il i)rincipio di contraddizione, l'assioma dei fisici ehe V essere non può venire dal non essere {il qual motivo prova l'origine fisica della dottrina fondata su di esso, dottrina perciò che, tra le diverse opi- nioni sovversive del i)rincipio di contraddizione, noi dobbiamo rico- noscere per quella della scuola di Eraclito). Quando una cosa passa da uno stato ad un altro, il secondo stato verrel)be dal non essere, se i due stati fossero semplicemente contrari, e non al tempo stesso identici, di guisa che il secondo stato preesistesse in certo modo nel primo : questo non deve essere perciò uno solo dei due contrari, ad esclusione assoluta dell'altro, ma in certo modo anche l'altro (V.Mei, 1. X. VI.2-3; cfr. 1. III. V. B.) Il motivo addotto da Aristotile coin- cide al fondo con quello che noi abbiamo assegnato alla dottrina di Eraclito: non si deve che applicare alla dottrina dell' identità dei contrari l'argomento che Aristotile applica invece alla sua conse- guenza, cioè a quella della coesistenza dei contrari nello stesso sog- l^etto. • - 'A ' li -■< /•■,. XLVIII IL § 6. Gli Eleati sì accorsero che il principio dell'u- nità e immutabilità della sostanza è incompatibile col fatto della pluralità e del cangiamento : così, per salvare il principio, essi rigettarono il fatto, dichia- randolo una semplice apparenza senza realtà. La proposizione fondamentale degli Eleati, come di Eraclito, e in generale dei fisici unizzanti, è che tutto è uno (1). Quest' uno è per gli Eleati, come pei fisici ionici, il sustrato unico e permanente di tutto ciò che i sensi ci presentano, la sostanza co- mune di tutti i corpi. Gli Eleati descrivono l'Essere come una massa continua, senza lacune prodotte dal non essere cioè dal vuoto (2), omogenea (3), senza differenza di densità (4), immobile tanto nella tota- lità quanto nelle parti (5). Esso è infinito di gran- dezza, secondo Melisso (6); finito e di forma sferica, secondo Parmenede (7). La differenza tra Fune de- (1) Proposizione che noi dobbiamo distinguere da quosf altra: Tessere è uno ; perchè mentre questa non indica che la soppressione della moltiplicità. la prima indie, pure la riduzione deUamoltìph. cita all'unità. Cosi Timone la dire a Xenofane che dapertutto ove rivolge il suo pensiero, tutto si risolve per lui in un'essenza xmica sempre identica a se stessa (Versi 82-87 Mullach) V. ^"<^^^^' /^j/^J fané, Teofrasto ap. Simpl. Phljs, 5b, Sesto Empir. PijTrh. I. 22o, ecc. Pe^gli Eleati posteriori, oltre il luogo di Parmenide che tra poco ri- porterò nel testo, v. Plato. Teet. IHO e, Soph. 242 d, Anst^Phys • I . (8, 11, 14), ITI. (1, 3), Gen. et Corr. L Vili. (3-4), Met. I. 3 (1041), II. IV. (26), XI, X. (8\, ecc. .. » • ^ r. (2) Parmen. V. 78-81, 90-9^, 106-108; Mei. Fr. 5,14; ctr. Arist. De Gen. et Corr. I. Vili. (2). (3) Parmen. 78 e sqq. (4) Mei. Fr. 5, 14; cfr. Parmen 1. e. ^ .. ' (5) Parmen. V. 60, 82-87, 90-93, 97-101 ; Mei. Fr. 5, 14. (6) Mei. Fr. 2, 3, 8, 10; Arist. Do Gen. et Corr. I. Vili, (.i), Phys I. II. (10, 13), Met. I. V. (10). ^ ^.r . t q (7) Parmen. V. 82-89, 102-109 ; Teofrasto ap. Alex, ad Met. 1. d. gli Eleati e 1' uno dei fisici ionici è, come osserva Aristotile (1), che i primi non negano soltanto, co- me i secondi, la generazione e la corruzione, ma anche il movimento e ogni specie di cangiamento in generale; per conseguenza anche ogni moltipli- cità, questa, secondo la dottrina dei fisici unizzanti, non essendo che un risultato del cangiamento. Que- st' universo, dice Parmenide, tutte queste cose che gli uomini, ritenendole come reali, dicono essere e non essere, nascere e perire, mutar di luogo e cam- biar di colore^ tutto ciò non è in realtà che un solo essere, unico, immobile, senza principio e senza fine, permanente sempre nello stesso stato (2). Il pensiero rientra anch'esso in quest'unità; esso non è distinto dall'essere, perchè non yì ha niente all'infuori del- l'essere, e questo è unico e sempre identico a se stesso (3). Alcuni espositori, come il Zeller, trovano il fondamento del sistema eleatico in un argomento capzioso, per cui Parmenide cerca di provare 1' u- nità assoluta dell'essere. All'infuori dell'essere, egli dice, non potrebbe esservi che il non essere; ma il non essere è niente; dunque l'essere è unico (4). Noi non possiamo ammettere, come abbiamo al- tre volte osservato, che un sistema metafisico si (1) Met. I. III. 10. (2) V. 93-101, 82-86. (3) Parmen. V. 94 sqq., 43-44. (4) Io ho esposto l'argomento sotto la forma in cui lo dà Teofra- sto (ap. Simplic. in Phf/a 25 a). V. anche per questo argomento (che non potrebbe ricavarsi dai soli frammenti di Parmenede) Arist.. Phfjs I. III. 4 «qq., Met, I. V. 11, II. IV. 26, XIII. II. 4. ^1 fondi sovra un sofisma puraimente ////>/>) ^ perchè allora la metafisica non sarebbe che una volgare sofistica. Tra il processo del metafìsico e quello del sofista non vi sarebbe, in questo caso, altra diffe- renza che neirintenzione : ma questa differenza ren- derebbe anche più incomprensibile l'origine della metafìsica; ciò che è inconcepibile è che delle con- vinzioni così contrarie al senso comune siano pro- dotte da motivi così poco idonei. Parmenide ha potuto credere alla forza probante del suo sofisma. ma dopo che già era convinto della sua tesi per altri motivi, e questi motivi non possiamo cercarli che in qualcuno dei soHsmi naturali à^Wo spirito umano. Per ricondurre il sistema degli Eleati ai sofismi a priori del nostro spirito, e metterlo al tempo stesso in connessione con le idee dominanti dell' epoca, noi non possiamo che dedurle, con Aristotile (1), dall'assioma della fisica che l'essere non può né co- minciare né finire, deduzione che in effetto noi tro- viamo nei frammenti stessi di questi filosofi (2).Grli Eleati non concepiscono, non solo che la ma- teria possa cominciare e finire, ma anche che le cose possano cangiare di natura e di qualità (ciò che, non bisogna dimenticarlo, è il senso dell' as- sioma dei fisici). Così secondo loro la moltiplicità non sarebbe possibile che ad una sola condizione : che vi fossero molte sostanze inconvertibili 1' una (1) Phys. I. Vili. (2) V. Parmen V. 67-77, 82^ e Mei Fr. 1, 6, U, 12, 13, 17. Per Xenofane vedi De Melisso ecc. e. 3 in principio, Simplicio P/iy« f. 5, Plittarco ap. Euseb. Pr. ev I. 8. LI neir altra e qualitativamente immutabili. « Se vi fossero molte cose, dice Melisso, esse dovrebbero essere tali quale io suppongo Tuno. Se é in realtà la terra e l'acqua e l'aria e il ferro e l'oro e il fuoco, e questo vivente e quello morto, e il bianco e il nero, e tutte le altre cose che gli uomini credono reali; se queste cose sono, e noi rettamente vediamo e udia- mo ; ciascuna cosa deve continuare ad esser tale quale ci é sembrata la prima volta, e non mutarsi né divenire altra, ma essere sempre tale quale essa è. Ora noi diciamo che rettamente vediamo e udia- mo e intendiamo; intanto ciò che è caldo ci sembra diventare freddo e ciò che è freddo caldo, ciò che è molle duro e ciò che è duro molle, e il vivente morire e risultare dal non vivente, e tutte queste cose mutarsi, e ciò che é stato ed è non essere mai simile a se stesso. Sicché é chiaro che non rettamente noi vediamo né rettanif^nte queste cose sembrano esser molte. Non si muterebbero infatti, se fossero vere; ma ciascuna cosa sarebbe sempre tale qual essa ci é apparsa. Se ciò che é si mutasse, V essere perirebbe, e il non essere verrebbe all' esistenza » (l). Parmenide, nella seconda parte del sno poema, in cui egli vuol mostrare come le cose dovrebbero concepirsi nel- cepirsi nell'ipotesi che l'opinione comune (che am- mette la realtà del multiplo e del cangiamento) fosse vera, espone una fisica meccanista, in cui le cose si producono per la mescolanza di due sostanze primordiali, contrarie l'una all'altra e ciascuna sem- (1) Fr. 17. -r~T LII LUI ( pre identica a se stessa (1). Questa fìsica non sem- bra a Parmenede soddisfacente, essendo per lui un errore di ammettere più sostanze primordiali — non bisogna ammetterne, egli dice, che una sola (2) — ; e se si domanda perchè gli Eleati, dopo avere in- travista la possibilità di una tal fisica, le avessero non pertanto preferito la dottrina per noi meno soddisfacente dell'Uno immobile, noa si può dare al- risposta se non che la supposizione di una plu- ralità di principii materiali, con tutte le altre ipo- tesi accessorie della fìsica meccani sta, sembrava loro in contraddizione coll'esperienza; dalPosserva- zione che le forme più differenti della materia (cor- rispondenti a ciò che gli antichi chiamano i quattro elementi) sono convertibili Funa nell'altra, essi ne concludevano, come tutti i fisici che li avevano pre- ceduti, che vi ha una sostanza materiale unica, la quale prende a vicenda tutte le forme. Noi non abbiamo alcuna difficoltà a comprendere come 1' assioma dei fisici 'conducesse a negare la realtà di ciò che gli antichi chiamano generazione e corruzione (p. e. la trasformazione degli elementi materiali l'uno nell'altro, o la produzione di un es- sere vivente e il suo ritorno allo stato di materia bruta); in effetto questi fatti sono direttamente in contraddizione col principio che V essere non può avere coniinciamento né fine. Noi riattacchiamo pure facilmente allo stesso principio la negazione della realtà di' ciò che gli antichi chiamano altera-,1) Versi 113-131. (2) V. 114. 4i| t ìsione (p. e. il cangiamento di colore o delle altre proprietà sensibili): noi abbiamo visto infatti che i fi- sici meccanisti tiravano da questo principio la stessa conseguenza. Ciò che sembra diffìcile è di derivare dall'assioma dei fisici la negazione della realtà del movimento. Infatti se i fisici concepiscono più fa- cilmente che le cose conservino le loro qualità an- ziché il cangiamento di queste qualità, e preten- dono per conseguenza o di ricondurre al primo il secondo di questi fatti (i meccanisti) o di ridurlo a un semplice fenomeno senza realtà (gli eleati), è perchè il primo fatto è per noi assai più familiare ehe il secondo : ma il cangiamento di luogo non essendo per noi un fatto meno familiare che la persistenza nello stesso luogo, non si vede quale difficoltà gli Eleati potessero trovarvi. Tuttavia, quantunque la negazione della realtà del movimento non derivi immediatamente dall'assioma dei Usici, ne può essere dedotta indirettamente : si vedrà in effetto, considerando la quistione dell'ori- gine del movimento, che vi ha connessione tra que- sta negazione e la conseguenza immediata dell'as- sioma, che è la non realtà del cangiamento di es- senza e di proprietà; connessione la quale parrà più evidente, se si rifletterà che per gli antichi, ignorando essi la dottrina moderna della conserva- zione dell'energia, e credendo che vi ha ad ogni istante annichilazione di movimento, la perdura- zione del movimento nell' universo supponeva ne- cessariamente che r annientamento del movimento in una parte venisse compensato dalla produzione di movimento in un' altra parte. Perciò bisognava LIV LY o che la materia avesse in qualcuna delle sue forme il potere di produrre spontaneamente il movimento (p. e. l'aria, secondo Anassimene e Diogene, il fuoco, secondo Eraclito), o che questo potere appartenesse ad un essere diverso dalla materia (come nei siste- mi degli spiritualisti, Anassagora, Platone, Aristo- tile, ai quali Parmenide stesso sembra accostarsi nella seconda parte per le figure mitiche di Afro- dite e di Eros). Neil' ipotesi d' una sostanza unica, la possibilità di qualche cosa capace di produrre spontaneamente il movimento, era legata alla pos- sibilità del cangiamento nelle proprietà e l'essenza delle cose, cioè a quella che la stessa sostanza da materia inerte (che è la forma più abituale sotto cui essa ci apparisce) si mutasse in un essere attivo e vivente. Non ammettendo questa possibilità, gli Eleati rendevano impossibile l'origine del movi- mento, e quindi il movimento stesso. Essi non po- trebbero nemmeno cercare 1' origine del movi- mento nei mutamenti di luogo che accompagnano l'alterazione delle sostanze (p. e. quando l'acqua si cangia in vapore o il vapore in acqua) (1). perchè quest'alterazione non essendo secondo essi reale j il movimento che l'accompagna non può essere nemmeno reale. Un movimento originario (cioè che non fosse l'effetto di un movimento anteriore), .iella supposizione della unità e immutabilità assoluta della sostanza, non sarebbe possibile che ad una condizione: cioè che la facoltà di produrre questo movimento potesse considerarsi come una qualità (1) Confr. Plato Tim. 6S a-c. immutabile della sostanza, e quindi che esso si pro- ducesse continuamente in tutta la materia— in tutte le sue p;irti e a ciascun istante della durata — con la stessa energia e la stessa direzione. Sarebbe un'i- potesi simile a quella di Herbart del divenire asso- luto o movimento senza causa nel suo trilemma del movimento (1). Una tale ipotesi essendo in contradi- zione con l'esperienza, gli Eleati ne concludono che il movimento, impossibile nella sua origine, non è che un'apparenza senza realtà (2). Applicando M.'uno dei lìsici ionici il principio della non realtà di qualsiasi specie di cangiamento, noi avremo Vuno degli Eleati, coi caratteri astratti e negativi con cui questi filosofi lo concepiscono. L'idea dirigente è che bisogna eliminare dal reale ciò che è variabile, e non ritenere per vero se non ciò che resta invariabile a traverso tutti i cangiamenti. Di là l'omogeneità assoluta dell'Essere in tutte le sue parti. Tutte le differenze che noi per- cepiamo nelle diverse parti della materia essendo delle forme che una stessa materia può successiva- mente prendere e lasciare (poiché, secondo la dot- trina dei fisici unizzanti, una stessa materia sog- giace a tutte le forme), ne segue che alcuna di esse non è reale, secondo gli Eleati, poiché il reale non è, secondo essi, che l'invariabile. Per conseguenza (1) Introduzione alla filosofìa, § 104-11 ">. (2) Aristotile {MeU 1. LUI, 10), dopo aver parlato della quistione del principio del movimento, dice : Alcuni di <iuesti che ammisero ruuo (gli Ebati), co«J€ vinti da questa difficoltà, dicono immobile l'uno e tutta la natura. LVI le parti dell' Uno non possono differire per il co- lore (1) o per la densità (2) o per qualsiasi altra qualità sensibile, tutte questt? determinazioni non essendo che semplici fenomeni, apparenze senza realtà. L'Essere degli Eleati è, al fondo, un essere astratto (3), il cui concetto si ottiene per la soppres- sione di tutte le determinazioni che differenziano i diversi esseri particolari; esso non può che essere assolutamente omogeneo, una volta che si è fatta astrazione di tutte le differenze del reale dato dai sensi. Secondo questo processo di eliminazione gli Eleati avrebbero dovuto negare dell'Uno tanto il riposo quanto il movimento, poiché l'inerzia e l'at- tività ci sono date l'una e l'altra come due stati variabili dello stesso essere (di una stessa materia). Ma non era possibile di concepire che un essere esteso nello spazio (come gli Eleati si rappresen- tavano l'Uno e come doveano necessariamente rap- presentarselo, non essendo esso altra cosa che il su- strato comune e immutabile di tutti gli esseri sen- sibili) non fosse né in riposo né in movimento. Tuttavia (visto che un essere esteso senza colore, senza densità determinata, ecc. non é, al postutto, meno inconcepibile) noi potremmo forse ammettere (1) V. Melisso Fr. 17 1. e. (2) V. Fr. 5, 1. e. (3) E notevole che Aristotile chiama V Essere degli Elati aÒTÒ TO OV {Phys, 1. 1, Vili, 2). applicandogli una denominazione ch'egli non snoie applicare che alle Idee platoniche (del resto, conforme- mente allo stesso Platone), e talvolta anche ai principii dei Pitago- rici, ehe non sono anch'essi che delle entità astratte.LVII che ^li Eleati, negando dell'Essere il movimento, non intendevano perciò affermarne la quiete: il loro vero pensiero potrebbe essere quello che Teofrasto sembra attribuire a Xenofane, cioè che l'Essere non è né in movimento né in riposo, e che la sua eterna permanenza nello stesso stato deve intendersi di uno stato che esclude tanto il riposo quanto il movi- mento (1). Al processo di eliminazione di cui abbia- mo parlato aggiungiamo la negazione del vuoto (dot-trina comune a tutti i fisici eccetto gli atomisti), e avremo tutti i caratteri distintivi dell'Essere eleatico. Non essendovi alcun vuoto che possa separarne le parti, e queste non potendo nemmeno staccarsi le une dalle altre per il movimento, l'Essere è necessaria- (1) V. Sim[)licio in Phfjs commento al 1. I, e. II d' Aristotile; «tr. De MelHHo ecc. e. b.. TootVasto dice, secondo Simplicio: jxiav Ss TfjV àfyY)v r^Toi sv tò ov xai ;rav, >ta\ o'jts :re7U£pao[j.£vov oSts aTusioov, oSts %tvou[j.svov outs Y]ceaoiiv l]sV0CpàvYjV... ÙTUOTLOscOai (l'essere e il tutto non è né finito né infi- nito, sia pere h^, come e indicato nel De MhIìhho ecc. 1. e, quantunque esso non sia infinito, la limitazione non potrebbe nemmeno attribuir- glisi, perchè in «lucsto caso dovrebV>e essere limitato da <iualche altra cosa; sia perché Xenotane si é contraddett.>, ora attribuendo al mondo la forma sferica, con che egli veniva a negare la sua infinità, e ora ammettendo che la profondità della terra e l'alt^iz/.a dell'aria si e- stendono all'infinito, con che veniva a negare la finità del mondo). Il Zeller crede che Simplicio ha mal compreso le parole riferite di Teolrtiato, spiegandole egli stesso, senza appoggiarsi più su questo autore, nel modo che é stato esposto nel testo, e che il vero senso di queste parole é che Xenofane non dice se l'essere primitivo ó in riposo o In movimento. Ma quest'interpretazione mi sembra inam- missibile, non fosse altro per la ragione che, se Xenofane non si fosse pronunziato, e :me crede Zeller, mila quistione del movimento dell'essere, Teofrasto non potrebbe concluderne eh' egli non ha sta- bilito niente su questa quistione: ciò che dovrebbe concludersi in- vece dal silenzio di Xenofane é che epjli ha mantenuto, al contrario LVIII LIX mente unico e indivisibile (1), e noi comprendiamo come la realtà del multiplo sia negata dagli Eleati d'una maniera tanto recisa quanto quella del can- giamento. Ora qual è il senso che gli Eleati attaccavano a queste negazioni? Annientavano essi d'una maniera assoluta la pluralità e il cangiamento, per conse- guenza tutta la natura sensibile, o conservavano ai fenomeni un resto di realtà? È una quistione di- battuta fra gli espositori: la prima interpretazione sembra la più conforme al senso più ovvio delle propo- sizioni degli Eleati, ma la seconda ha una verosimi- glianza intrinseca assai più grande, e può anche invocare in suo appoggio Tautorità di molti autori antichi, tra cui alcuni conoscevano certamente nella loro integrità gli scritti di questi filosofi (2). Il con- cetto di fenomeno^ di apparenza, e quello correlativo di essere, di realtà, che netti e recisi come sono per il senso comune, sembrerebbero non poter dar luogo ilei suoi snnccssori, la realtà del niovirnento, poiché «luando un fi- losofo non ne^a un daU del senso comune, si devo intendere ch'egli lo ammette: e nel fatto lo «tesso Zeller, inferendo dal presunto si- lenzio di Xenofane, é quest'opinione che gli attribuisce. In verità noi potremmo intendere le parole riferite di Teofrast.» (ammettendo col Zeller che nell'esposizione di Simplicio non vi sia niente altro che si debba a quest'autore) nel senso che Xenofane non ha stabi- lito né la realtà del movimento né la sua non realtà, ma nell'ipotesi che in questa quistione vi fosse in questo filosofo <iualche contrad- dizione come in quella della limitazione del mondo. Più giù avremo occasione di tornare su questa indicazione di Teofrasto. (1) V, Parmenide versi 78 SI, Melisso Fr. 15, Arist. l)t (fenerat et cornipt, 1, I. vili. 2. (2. Come di Plutarco (v. Adi\ Col. 13) e Simplicio (v. in Phgn, coni- mento al 1. I, e. II d'Aristotile). * ad alcuna incertezza od equivoco, non hanno, per alcuni metafìsici, che un senso vago, il quale non potrebbe indicarsi senza riunire dei termini contrad- dittori. Per Platone, per Hegel e per altri filosofi, i quali, come gli Eleati, non riconoscono per vera- mente reale che l'essenza eterna ed immutabile delle cose, la natura sensibile non è che un fenomeno senza realtà, un'apparenza; ma per ciò essi non intendono che essa non sia altra cosa che un feno- meno subbiettivo, il quale non esiste che nella sensazione. Vi n'apparenta obbiettiva è per noi una contraddizione nei termini, il concetto di appa- renza essendo per noi identico a quello di feno- meno subbiettivo: tuttavia tale è secondo Hegel la natura sensibile — un' apparenza obbiettiva —, e quantunque questa espressione non sia propria che di lui, essa potrebbe convenire egualmente, per designare il valore della natura fenomenale, in tanti altri sistemi in cui, come nel suo, il fe- nomeno, cioè r individuale, il cangiante, è Un che di medio, come dice Platone, tra l'essere e il non essere. Si potrebbe d'altronde dubitare se, in tutti i momenti dello sviluppo intellettuale dell'uomo, il concetto di apparenza sia costantemente legato a quello della subbiettività, come lo è certamente nella sua forma più chiara e sviluppata : un'ombra, un' immagine nell' acqua o nello specchio, quella proiettata da una lanterna magica, sono delle ap- parenze per il fanciullo e per l'uomo privo di qual-. siasi coltura ; ma sono anche per essi necessaria- mente subbiettivo? Quando più fanciulli guardano rimmagine della lanterna magica, non pensano essi LX piuttosto che vedono tutti la stessa cosa, come Reid dice che gii uomini vedono tutti lo stesso sole? Queste considerazioni possono far ammettere la pos- sibilità che il fenomeno, cioè il diverso e il can- giante, sia per gli Eleati ww' apparenza obbiettiva, e non un semplice fenomeno suhbiettivo che non esiste se non in quanto è sentito. Certamente di questa maniera si attribuirebbe agli Eleati una contraddizione : quella che il loro siste- ma era destinato a risolvere, tra il principio del- l' immutabilità della sostanza e il cangiamento dato dall'esperienza, verrebbe a riapparire sotto un'altra forma. Ma una tale contraddizione è inevitabile nel sistema eleatico : ammettiamo .pure che i canaria- menti e la varietà della natura non siano per loro che dei fenomeni subbiettivi ; essi esisteranno non- dimeno a titolo di fatti dello spirito, e quest'^5/- ^teiiza sarà sempre incompatibile col principio del- l'unità e dell'immutabilità assoluta dell'essere. Una conseguenza di quest' osservazione è che ci è im- possibile di prendere alla lettera e in tutto il loro rigore le affermazioni degli Eleati sull'unità e l'im- mutabilità di ciò che esiste; come queste affermazioni non possono essere una prova che essi negavano l'esistenza dei fatti subbiettivi, quantunque com- presi nella pluralità e il cangiamento di cui essi non volevano ammettere la realtà, cosi non provano d'una maniera decisiva che la pluralità e il can- giamento del mondo esteriore fossero privi per essi di qualsiasi esistenza obbiettiva. Noi non compren- diamo una dottrina che riduce la natura visibile a puri fenomeni subbiettivi, a semplici sensazioni, che LXI come il risultato di una profonda critica della co- noscenza, di una riflessione, almeno, sul carattere relativo delle nostre percezioni : ma tutto ciò manca negli Eleati; manca ancora nei loro continuatori, ì Megarici; e sarebbe certamente molto inverosimile che questi ultimi, in un'epoca in cui il pensiero dei Greci si era già rivolto verso le ricerche di que- st'ordine (a cominciare almeno da Protagora), non si fossero dati anch'essi a speculazioni cosi in ar- monia coi loro principii, se fosse vero che la na- tura sensibile non consisteva per loro che in feno- meni subbiettivi. Qualunque sia il motivo del si- stema eleatico, esso non può avere infine che lo scopo di rendere il reale più comprensibile : ma sopprimere il reale — c:ó che è semplicemente quello che gli Eleati avrebbero fatto nell' ipotesi della subbiettività del fenomeno — non è compren- derlo. Secondo noi questo sistema non si spiega che per uno sforzo di conciliare l'esperienza, la natura varia e cangiante, col principio dell'unità e dell'im- mutabilità della sostanza, concepito in tutto il suo rigore : nelT ipotesi dell' obbiettività del fenomeno, Tesperienza, la natura, non viene immolata a que- sto principio — nel qual caso l' esistenza dell' Uno stesso non avrebbe più fondamento —, ma si cerca di acicordarla con esso per mezzo dell'idea vaga di apparenza obbiettiva, distinguendo il fenomeno can- giante e Vessenza immutabile (1). (1) L'obbiezione più forte contro quest'Interpretazione sono le proposizioni degli Eleati sul valore deilla conoscenza sensibile e le 4 I À ' i- r fi .1 t ì --r LXII LXIII § 7. Su tutto il periodo della filosofìa greca rap- presentato dai fisici dobbiamo fare un- osservazione generale, che si riattacca pure all'argomento di que- sto capitolo» Se questo periodo si mette in rapporto col susseguente, rappresentato da Platone e da Ari- stotile, si vede immediatamente fra le due tendenze filosofiche un'opposizione, che Aristotile esprime di- <jendo che i fisici non hanno ricercato che il prin- cipio materiale, trascurando e anche sopprimendo l'altro elemento costitutivo della natura degli esseri, cioè il principio formaìe o essenziale (1). Ciascun es- sere, nella filosofia di Platone e di Aristotile, ha in se stesso, considerato come un tutto individuale, un principio interno di attività, che è irruduttibile alle energie proprie agli elementi materiali da cui esso è costituito. Questo principio è riposto nella essenza o nella forma speciale di ciascun essere, vale a dire esso è differente negli esseri specifica- mente differenti: ciascuna specie di esseri è gover- nata da leggi proprie ed è, per dir così, autonoma, queste leggi non essendo dei semplici casi delle leggi universali della materia . dei risultati neces- sari del concorso delle forze generali della natura. I fisici invece tendono a sj^iegare le forme, cioè le Indicazioni corrispondenti degli antichi testimoni, proposizioni e In- dicazioni che possono riassumersi cosi: bisogna rigettare la testimo- nianza del sensi che ci mostrano 11 reale come multiplo e cangiante, e non credere che alla ragione . la quale ci prova che esso è uno e Immutabile (v. Parmenide versi 49, 53-56, Melisso Fr. 17, Arlst. Gè- neranU et corrent 1. I. Vili. 2-4, Met, 1. I. V. 11, De Melisso ecc. 974 b, Arlstocle ap. Euseb. Praep, evang. XIV. 17, Plutarco ap. Euseb. Pr, ev. I. 8, Sesto Math, VII. 111-114, Cfr. Arlstot. De Coelo 1. III. I. 2, Timone ap. DJog. IX. 23). Ma quest'obbiezione non po- trebbe essere decisiva. Platons si esprime slmilmente al soggetto della conoscenza del seasl e della realtà del sensibile (v.p. e. Phaedo 83 a-b: quam fallax oculornm, qnam fallax anriam caeterornmque sensnnm sit considerano neqne nlli creda t praeterqnam sibi, qnatenus ipse per se cogitet qmdlihet eornm quae snnt per se, quod vero per alia consideret exsistens in aliis alind ut nihil existimet vernm ; esse vero talia qnidem visibilia ac sensibilia, ecc. ): tuttavia Platone non Intende certamente negare l'obbiettività della percezione sensibile. Né ci sembra sicuro, come crede 11 Zellei, che Aristotile abbia compreso la dottrina eleatlca nel senso della subblettlvltà del feno- meni. Non mancano In Aristotile del luoghi che sembrano Invece suppone 11 contrarlo. Tale è notevolmente quello che è già stato citato (1) Met. 1. I. III. 2 1. I. Vili. 3, De an, 1. I. I. 11, De pari, ani- mal. I. I. I, De gen. et corr, 1. II. IX. 7 sqq., 1. II. VI. 4-6, Phyès, I. II. Vili. 2, 10, De Coelo 1. III. II. 5, ecc. ì H\ a proposito di Eraclito, contenente un ravvicinamento tra qnesto filo- sofo e gli Eleatl. C/ome si deve Intendere, domanda Aristotile iPhys. 1. 1. II. 11, 14), la proposizione che tutto è uno V forse nel senso che vi ha per tutte cose una stessa definizione? ma allora per gli Eleatl, come per Eraclito, sarà la stessa cosa 11 bene e II male, l'uomo e 11 caval- lo; ecc. (cfr. Physs, 1. I. III. 3: è Impossibile che tutto sia uno per la forma, ma è solo possibile per la materia; è per la forma che le cose differiscono — jiure contro gli Eleatl). Qui Aristotile sembra at- tribuire agli Eleatl un monismo che non sopprime la moltlplicltà fe- nomenale, ma la riconduce all'unità della sostanza. Del più antichi testimoni l'altro che noi possiamo consultare sugli Eleatl più che in semplici frammenti, cioè Platone, è incontestabil- mente più favorevole alla Ipotesi della obbiettività che a quella della subblettlvltà del fenomeno. Infatti Platone stabilisce un rapporto sì Intimo tra la sua propria metafisica e quella degli Eleatl . che va sino ad attribuire a Parmenide la dottrina delle Idee-finzione che naturalmente non si può riguardare come un' immaginazione pura- mente capricciosa, ma in cui deve vedersi l'espressione in forma fan- tastica della proposizione astratta che vi ha una stretta connessione tra la dottrina delle Idee e la filosofia eleatlca -, L'analogia fra V idea- lismo platonico e la metafisica degli Eleatl sarebbe in effetto assai colpente, se questi considerassero, al pari di Platone, il particolare e 11 cangiante come 1' apparenza obbiettiva dell' Essere immutabile. Ma se gli Eleatl sopprimevano d'una maniera assoluta il multiplo e 11 cangiante, cioè tutta la natura, la dottrina eleatlca sarebbe la più ^ LXIV LXY nature particolari degli esseri, per le proprietà de- gli elementi materiali e per le forze generali da cui questi sono animati. Essi non concepiscono che un tutto abbia delle energìe che non siano il risultato delle energie dei suoi elementi costitutivi, e perciò gli esseri particolari, p. e. gli esseri viventi, non potrebbero, secondo essi, essere governati da leggi particoiari ; da per tutto essi non possono vedere che l'azione delle leggi generali che governano la materia. In una parola noi troviamo nei fisici i primi rudimenti di una concezione della natura prevalente nella scienza moderna, cioè della spie- gazione fisico-chimica o semplicemente meccanica opposta al sistema deUe Idee (più opposta che qualsiasi altra fra le dottrine dei fisici), poiché le Idee non sono altra cosa che lo stesso multiplo e cangiante considerati nelle loro leggi, nelle loro forme generali. Grli argomenti di Zenone e di Melisso contro 11 movimento, sic- come negano slnanche la possibilità di questo — il primo facendo ri- sultare dal concetto del movimento delle conseguenze contraddittorie, il secondo negando il vuoto e sostenendo che esso è la condizione del movimento — possono sembrare una prova decisiva contro l'in- terpretazione che farebbe del movimento un fenomeno obbiettivo» Ma del filosofi moderni hanno ritenute le obbiezioni di Zenone contro il movimento insolubili, e tuttavia non ne hanno negato l'obbiettività. Hamilton, p. e., dice: Gli argomenti di Zenone provano che il movi- mento^ (iuantunque certo come fatto, non può essere concepito come possibile, perchè esso implica contraddizione (V. Mill. Fitos. di Ha- milione 24". In queste difficoltà del movimento Hamilton vede un caso della legge che condanna lo spirito umano a delle antinomie Insolubili, tutte le volte che tenta di olti*epassare la conoscenza del fenomeno, in cui esso è necessariamente circoscritto: queste antino- mie provano, secondo lui, che noi non conosciamo l'assoluto, ma solo il condizionato, cioè solo « le manifestazioni relative d'un'esistenza in se stessa incomprensibile. —La filos» dell'assolato nei Frammenti della fllos. di Hamilton tradotti da Peisse pag. 20. —) Cosi gU argo- menti di Zenone dimostrerebbero, secondo Hamilion, che il monda \ di tutti i fenomeni del mondo fisico. Ma ascoltiamo Aristotile : « I fisici, i quali dicono che è la mate- ria che produce gli esseri per il suo movimento, distruggono l'essenza e la forma. Essi attribuiscono certe forze ai corpi, e ne fanno produrre le cose d'una maniera puramente meccanica, sopprimendo la causa secondo la specie (cioè il principio formale o l'essenza). Dopo avere supposto che la natura del freddo è di concentrare le parti della materia e quella del caldo di disgregarle, e che ciascuno degli altri principii di quest'ordine agisce naturalmente o pa- tisce d'una certa maniera, è da tali principii e per sensibile non è la realtà assoluta, ma non che è un semplice feno- meno subbiettlvo. Ma ciò che prova d' una maniera più diretta che Zenone poteva «conservare al movimento un resto di realtà obbiettiva, anzi ciò che può riguardarsi come un indizio importante che tale effettivamente sia stata la sua opinione, è la forma in cui 1 Megarici presentano gli argomenti del loro predecessore. Il megarlco Diodoro Crono, dopo- aver provato, secondo Zenone, l'impossibilità del movimento, aggiun- geva che, se non è vero dire del mobile che si muove, si può tutta- via dire che 67 è mosso. (V, Sesto Empir. iI/flr///.X. 48, 85 e sqq. V, 143, Pyrrh, 11.242,245, III. 71, ecc.). Per comprendere questa distinzione, bisogna tener presente che gli argomenti di Zenone erano fondati sulle difficoltà derivanti dal concetto della continuità del movimento (cioò del passaggio successivo del mobile per tutti I punti interme- diari fra due posizioni distinte — v. questo Saggio parte 2* Le anti- nomie della ragione). Secondo Diodoro Crono, si può dire si è mosso, perchè effettivamente il mobile occupa successivamente delle posi- zioni distinte; ma non si può dire si muove, perchè il movimento- non è continuo. Non essendovi continuità nel movimento, il corpo- sta successivamente in ciascuna delle posizioni successive che esso occupa, e non si muove mai ; per indicare che il corpo occupa una nuova posizione, si può usare il perfetto, che indica 11 termine del- l'azione, l'azione compiuta, ma non mal 11 presente, che indica l'azione stessa, l'azione che si compie. (Confr., per il senso della distinzione tra si muove e si è mosso, Arist. Pìujs. 1. VI. I. 8). La distinzione di LXVI LXVII 4ali cause eh' essi dicono tutte le cose esser prodotte ^ perire. Essi fanno come qualcuno che attribuisse alla sega e agli altri strumenti la causa della produ- zione degli oggetti fabbricati da un artigiano » (1). E altrove : Non bisogna imitare gli autori antichi, i quali dicevano piuttosto come gli esseri si gene- rassero che come fossero; poiché gli esseri non sono così perchè così sono prodotti, ma piuttosto sono prodotti così perchè così sono, cioè perchè tale è la loro forma, come avviene per un edilizio, la ge- nesi di ciascuna cosa essendo in grazia della sua -essenza, e non viceversa. Non bisogna dunque fare Dlodoro €rono, per la stessa forma eonti*addittorla con cui è espressa, ci indica che essa non era destinata, nell'intenzione di questo fili»- «jofo, a salvare il movimento, rettificandone il concetto per la elimi- nazione di un elemento falso, cioè della continuità. Dlodoro Inten- deva dimostrare, come Zenone, la natura contraddittoria e l' impos- sibilità del movimento, quantunque esso fosse un fatto attestato dal- l'esperienza ; r essersi mosso senza muoversi mal, 1' esistenza d'un fatto impossibile, provava che questo fatto non era veramente reale, che esso non era che un semplice fenomeno, quantunque obbiettivo (dai luojj^hi citati di Sesto risulta chiaramente che Dlodoro ammetteva la non realtà del movimento e al tempo stesso la sua obbiettività). In ogni caso II movimento, per i Megarici come per gli Eleati, non poteva consistere in altra cosa che nell' apparizione successiva di fenomeni perfettamente simili (p. e. una certa forma con un certo colore) in posti differenti, non n?! trasporto, a traverso lo spazio, della sostanza stessa, del sustrato di questi fenomeni; polche tutte le differenze del reale, che costituiscono una moltlpUcltà di cose, non sono per loro che delle apparenze che si mostrano in diversi punti del sustrato comun3, p9r se stesso omogeneo (e ciò tanto nell'ipotesi della obbiettività di queste apparenze, quanto in quella della subblettlvità). Data questa concezione del movimento, la sua obbiettività fenome- naie è conciliabile con l'Immobilità dell'essere vero* La dottrina di Dlodoro Crono sul movimento è, per la nostra qulstlone, un dato tanto più importante, che da questa dottrina si può (1) De Geru ti corr, 1. II. IX. 7 e sqq. k €onie Empedocle, il quale spiegava molti caratteri degli animali per qualche accidente loro avve- nuto quando furono prodotti; attribuendo p. e. tal conformazione della spina all' essersi spezzata per oontorsione. Se l' uomo consta di tali membra, è perchè tale è l'essenza dell'uomo: senza di queste membra non sarebbe uomo, ed è così perchè non potrebbe essere altrimenti, o perchè così è il me- glio. Ma gli antichi non cercarono che il principio materiale e la causa analoga: quale fosse, e come il tutto ne nascesse, e per qual causa motrice, p. e. la concordia e la discordia, o la mente, o anche «rgomeutare che la scuola megarlca in generale non rigettava d'una maniera assoluta la pluralità e il divenire. Ora questa scuola non fa- ceva che continuare la filosofìa de-li Eleati (l'opinione che i Megarici hanao ammes-^o le Idee prima di Platone, non che è una congettura ar- bitrarla di alcuni critici moderni, ch'ò impossibile di ammettere quan- do si è compreso lo scopo e l'origine dell'ipotesi delle Idee). La stessa conclusione, cioè che 1 MogarlcI (e quindi probabilmente anche gii Eleati) non rigettavano assolutamente 11 cangiamento, sembra risul- tare dalla confutazione della dottrina megarlca sulla possibilità, che troviamo In Aristotile Mei. 1. Vili. III. I Magarlcl negano ciò che In linguaggio aristotelico si chiama la distinzione iva potenza ed atto: essi non ammettono che Vatto, ma non Aa potenza; per loro, in altri termini, non è possibile se non ciò che e reale, dò che è avvenuto o che avverrà; ciò che non è avvenuto e non avverrà, secondo loro, non poteva avvenire e non potrà avvenire, (v. Cicero De fato 7. 9, Plu- tarco De Stoicor. repugnant, XLVI, ecc. su Dlodoro Crono — non ab- biamo alcun motivo per ammettere che la tesi di Diodoro Crono fosse differente da quella del primi Megarici.) Aristotile obbietta che questa tesi rende Impossibile il divenire (o, com'egli dice, 11 movimento e la generazione), perchè so ciò che non è /;/ atto non è nemmeno /// pò- tema, ne segue che ciò che presentemente non è, non è possibile che di- venga In avvenire (art. 4). È evidente che nessuno dimostrerebbe per l'assuiMlo la falsittà d'una tesi, mostrando -che essa condurrebbe logi- camente ad una proposizione, che per lui è evidentemente falsa, ma che per 1 sostenitori della tesi confutata è la verità fondamentale del LXYTII una causa puramente meccanica; la materia soggia- cente avendo insita una certa natura necessaria, co- me fervida il fuoco, fredda la terra, e l'uno leggiera, l'altra grave; ed è così che essi generano Tuniverso. E così anche dicono della produzione delle piante e degli animali; p. e. che scorrendo Tacqua nel corpo, si sia prodotto il ventre e ogni ricettacolo del cibo e dell'escremento, e le narici si siano aperte per il passaggio dell'aria. I fisici espongono l'origine e la causa delle forme degli esseri viventi come un fab- bro che parlasse d' una mano di legno : dicono da quali forze siano state fabbricate ; il fabbro parla foro sistemi. (Il ZeUer — 2^ parte pcag. 220 — crede che la uef^nzlone della potenza è le3:at!i, nel contatto dei Megarlci, a quella del dive- nire: ma la di^duzlone di Aristotile è forzata; fra le due dottrine non può ei^servl In realtri alcuna eonuesslone, tanto più che non vi ha ragione, come abbiamo osservato, di distin«jruere la tesi dei primi Megarlcl da (luella di Dlodoro Crono). La stessa osservazione vale, e a più forte ragione, pei* l'obbiezione immediatamente precedente. In conseguenza della tesi del Megaricl, dice Aristotile, « non vi sarà ne Gildo nèireddo né dolce nò assolutamente alcun sensibile all'infuorl della sensazione; pev cui avverrà loro di dire la proposizione di Pro- tagora «(art. 2.) Qui la forma stessa In cui è espressa l'obbiezione esclude indubbiamente che i Mega -lei ammettano giù la dottrina di Protagora (cioè che 11 sensibile non esiste se non In quanto è sentito) Intanto, se secondo l Megarlcl e gli Eleatl il multiplo e il cangiante non consistesse che in fenomeni subblettlvl, la loro dottrina sarebbe giù quella di Protagora, cioè essi ammetterebbero della m.^niera più esplicita l'assurdltù a cui vuole forzarli Aristotile. * che non vi ha né caldo né freddo né dolce ne assolutamente alcin sensibile alPin- fuorl della sensazione ». Ma il più forte argomento contro l' interpretazione del sistema eleatlco nel senso della subbiettlvitù del fenomeno ci sembra 11 rap- porto tra Xenofane e gli oleati posteriori. Pare certo, sia per certe proposizioni di questo filosofo sulla dlvinltù (v. Fr. 3 Muli. : Dio muove o governa 11 tutto — che cosa governerebbe Dio, se non esi- stesse una natura?—), sia per le sue opinioni cosmologiche, ch'egli LXIX diseure e di trapano, essi di terra e d'aria. Ma meglio il fabbro, il quale sa che non basta il dire come mediante lo strumento si sia formato il cavo e il piano, ma aggiunge che ciò avvenne, perchè egli aggiustò i colpi d'una tale maniera e a tal og- getto, cioè affinchè l' opera ricevesse una forma tale (1). Altrove Aristotile paragona i fisici a qual- cuno che pretendesse di spiegare la forma di un edilìzio, dicendo che i gravi si ]jortano natural- mente in basso e i leggieri in alto, e che è perciò che le pietre e le fondamenta si trovano nella parte inferiore dell' edifizio, al di sopra la terra perchè non rigettava assolutamente li cangiamento e la natura sensibile (v. pure nel De Melisso ecc. e. 4^ sul. princ. un' obbiezione contro Xenofane dalla quale risulta ch'egli manteneva l'esistenza del mul- tiplo). Intanto le testimonianze più autorevoli attribuiscono allo stesso Xenofane la dottrina dell'Immutabilità assoluta dell'essere e della non realtà del cangiamento (Aristotile Mei. 1. I. V. 9-10, Arlstocle ap. Euseb. Pr. ei\ XIV. 17, Plutarco ivi 1-8, Sesto Empir. PijrrJi, I. 225, ecc.) Quand'anche l'indica'/lone già citata di Teofi-asto sul ri- poso e il movimento dell'uno— tutto dovesse intendersi, non nel senso che Xenofane esciludeva da esso tanto l'uno quanto l'altro, ma in quello che Teofrasto non può attribuirgli la dottrina nò della realtà né della non realtà del movimento, questa indicazione non potrebbe farci ri- gettare le altre testimonianze, che identificano la dottrina di Xeno- fane con quella degli Eleatl posteriori: essa proverebbe soltanto cha nella prima vi era qualche incoerenza, che si spiegherebbe suppo- nendo che, per gli Eleatl, la realtà del movimento e, in generale, del sensibile era qualche cosa di equivoco. Ma se si suppone col Zeller che Xenofane ammetteva assolutamente la realtà del cangiamento e del sensibile, e che gli Eleatl posteriori la rigettavano assolutamente, non si comprende più il rapporto tra l'uno e gli altri, e non si vede come gii antichi potessero identificare le due dottrine. La quistlone : 1 fenomeni hanno per gli Eleatl un'esistenza ob- biettiva o subbiettiva? non deve confondersi con quest'altra: la fi- sica che Parmenide espone nella 2* parte del suo poema ha o no un (1) De pari, anim, 1. I. I. LXX meno pesante, e alla sommità il legno perchè più leggiero di tutti gli altri materiali (2). Non è semplicemente la teleologia e il carattere dialettico della filosofia di Platone e di Aristo- tile che mettono questa filosofìa in opposizione a quella dei fisici. Vi ha fra di èsse un'antitesi fon* data su due concezioni della natura, di cui la meno metafìsica non è, in tutti i punti, quella dei fisici. Senza dubbio le speculazioni sul principio formale o essenziale sono strettamente legate in Aristotile con la sua teoria della definizione — che, come ab- biamo visto, è un' applicaziono di quella forma di valore reale ? La risposta a (questa seconda (lulstlone. Io credo, non pò* trebbe essere In o«;nI caso che negativa: Parmenide dichiara catego- rie imeute che nella seconda parte del suo poema ej?II non esprime le sue proprie opinioni, ma dello opinioni che gli sembrano erronee. Cereamente Parmenide (luallfica pure come una semplice opinione del volgo la realtà d^lla nioltlpllcità e del cangiamento (Versi 99 e S3g., luogo riportato nel testo; Teofrasto ap.Alex. In Phil. pr. Ari- stotells 1.3. ), e perciò potrebbe credersi che la realt{\ ch'egli attribuisce alla fisica della 2" parte del suo poema sia necessariamente eguale a quella ch'egli attribuisce al multiplo e al cangiante. Ma non è cosi. Se Parmenide ha ammesso, come ci sembra più A-erlsImile, l'obbiettività del fenomeno, la realtà del multiplo e del cangiante è secondo lui Un'o- pinione falsa. In quanto Vapparensa dell'essere veramente reale viene presa per l'essere reale stesso; ed egli crede che, se ([uest'oplnlone fosse vera, sarebbe Indispensabile una fìsica qual è quella della 2' parta del suo poema, fondata sul principio di una pluralità di sostanze primor- diali qualitativamente Immutabili (V. Arlst. Met. 1. I. V. 11 e Teofra- sto 1. e. ). Ma egli non chiamerebbe la sua fisica un discorso fallace, un'opinione che non merita alcuna fede, per la semplice ragione che l fenomeni di cui essa tratta non sono degli esseri reali, come credono gli uomini, ma del semplici fenomeni : se questa fisica contiene un'e- sposizione esatta del fenomeni, essa è vera, quantunque non abbia per oggetto che del fenomeni privi di vera realtà. Gli antichi autori (Plu- tarco, Simplicio, ecc.) che confondono la qulstlone del valore della (2) Phys, 1. II. IX. 1. (Confronta Plato. Leggi 889). LXXI spiegazione metafisica che abbiamo chiamato filo- sofia apriorista — e con la sua concezione teleolo- gica del mondo — che è un' applicazione dell'altra forma, la più spontanea, di spiegazione metafisica,, implicando, anche in quanto questa teleologia è im- manente, una certa assimilazione delle operazioni della natura a quelle dell'uomo — : a questi concetti Platone ne aggiunge degli altri più spiccatamente metafisici, cioè la realizzazione delle astrazioni e le altre dottrine connesse. Ma se noi sbarazzia- mo dai concetti metafisici con cui è legata, questa introduzione del principio formale o essenziale co- me principio cosi primitivo e irriduttibile nella costituzione degli esseri che quello della materia, e avente delle leggi proprie così primordiali che quelle della materia stessa ; in altri termini se noi la riduciamo alla proposizione che gli esseri manifestano delle proprietà che non sono la risul- tante o la somma delle proprietà degli elementi materiali che li costituiscono; noi dobbiamo vedere in questa proposizione il risultato di una semplice osservazione dei fatti scevra da anticipazioni dell' e* sperienza e da qualsiasi ipotesi. L'ipotesi dei fisici che non lascia negli esseri alcun principio di di«i fìsica del poema di Parmenide con quella della obbiettività del sensi- bile secondo Parmenide, non considerano il vero motivo e 1' origine del sistema eleatlco: questo sistema sarebbe Incompatibile col concetto di una pluralità di sostanze materiali tutte egualmente primordiali, perchè l'uno degli Eleatl, come l'uno degli altri fisici, non ò che 11 sustrato comune di tutti 1 corpi (l'essere, per l fisici e, al fondo, anche per gli Eleatl, non è che il corpo), e suppone la convertibilità reciproci^ di tutte le sostanze materiali. LXXII • stinzione, non vedendo nelle loro proprietà speci- fiche che il risultato delle proprietà degli elementi materiali e delle forze che agitano tutta la materia, non è meno metaempirica nella sua origine che le concezioni teleologiche e dialettiche di Platone e di Aristotile. Questa ipotesi non è semplicemente le- gata alla fisica meccanista : certamente il rimprovero di Aristotile, di distruggere il principio della forma o della specie j s'indirizza particolarmente ai rappre- sentanti di questa fisica, a Democrito e sovratutto ad Empedocle ; ma Aristotile lo estende a tutti i fisici in generale. I meccanisti^ sia perchè la loro fisica era più moderna e più sviluppata, sia perchè essi applicavano d'una maniera più netta e rigorosa il principio, che l'essere non può né nascere né pe- rire, davano più occasione al rimprovero di Aristotile: ma la concezione della natura a cui esso viene di- retto era una conseguenza del principio stesso che era l' assioma di tutti i fisici, questo implicando l'impossibilità che l' essenza di un tutto differisca dalV essenza degli elementi da cui è stato costituito •e in cui si risolverà, e per conseguenza una spie- gazione meccanica della vita e della natura in ge- nerale. §. 8® Quantunque la filosofia greca posteriore ai fisici potrebbe mostrarci altri esempi della ten- denza filosofica che noi studiamo in quest'appen- dice (1), tuttavia siccome non vi troveremmo dei si- (1) L'influenza del principio che Tessere non pnó né nascere né perire potrebbe ritrovarsi nel concotto della materia dello stesso A- ristotile. Secondo Renan, Aristotile ha ammesso, per la sua teoria LXXIII stemi in cui l'impronta di questa tendenza sìa cosi marcata come in quelli di cui abbiamo parlato — ad eccezione, s'intende, delle dottrine che, come quella di Epicuro, non fanno che continuare delle dottrine più antiche — : così sarà per noi più interessante di osservare l'influenza dello stesso sofisma a priori che ha inspirato i fisici greci nella filosofia di un altro popolo antico, cioè degl'Indiani. Le tre principali dottrine ontologiche della fi- losofia Indiana, la sanki/a, la vaiseschika e la vedan- tina, corrispondono in un certo modo alle tre scuole in cui possono dividersi i filosofi greci di cui abbia- mo parlato, cioè fisici unizzanti, fisici meccanisti ed Eleati. Secondo Colebrooke, la sankya (la scuola di Ka- pila) ha in comune coi fisici greci il principio ex nihilo nihil fit « Ciò che non esiste, dicono i fi- losofi di questa scuola, non può per alcuna opera- zione possibile d'una causa ricevere l'esistenza». Così l'olio è nella semenza del sesamo prima che ne sia estratto. La natura della causa e dell'effetto è la stessa: un drappo non può differire essenzial- della materia, questa « psofonda verità» : «l'Identità del fondo per- manente dello cose, l'eternità dell' oceano di essere, alla saperficie •del quale si svolgono le linee sempre oscillanti e variabili dell'indi- vidualità». (Renan Aoerroe e l'averroismo pag. 115). — Ricorderemo pure la singolare dottrina del Timeo di PI itone, secondo la quale i <jorpi elementari — i quali sono dei poliedri regolari e consistono nelle superficie da cui sono terminati — si trasformano gli uni negli altri per la l »ro decomposizione nei piani che li costituiscono cuna nuova composizione degli stessi piani in altri solidi di una forma differente (v. Plato Timeo 53 e, l. 57 b, Arist. De Coelo 1. III. I-III VII, ecc.). È una specie di atDmismo, in cui gli atomi sono non dei corpi ma delle superficie. LXXIV mente dalla lana con cui è stato tessuto. Conforme- mente a queste premesse, i sanki/as ammettono che il primo principio, da cui le altre cose derivano, la Prakriti o Pradhana, che è la causa materiale del tutto, contiene tutto in uno stato indistinto o invi- luppato. Tutto esce dal primo principio, e tutto vi rientra (alla fine del mondo), senza che perciò niente di assolutamente nuovo si produca e niente assolu- tamente perisca. La uscita o emissione degli effetti dalla causa e la riunifìcaziòne del tutto, cioè il ri- torno dell'universo al primo principio, ha per tipo la tartaruga che fa uscire le sue membra dal guscio e ve le fa rientrare di nuovo (1). Nella vaiseschika (scuola di Kanada) si trova qual- che cosa come una combinazione della dottrina degli Atomisti e di quella di Empedocle. Come elementi materiali questa scuola ammette cinque generi di atomi, corrispondenti ai quattro elementi dei Greci, a cui, come alcuni dei Greci stessi, ne aggiunge un quinto, l'etere. Questi atomi non sono tutti solidi ne destituiti di qualità sensibili, come quelli di Demo- crito ; ma, come gli elementi di Empedocle, ciascuno è dotato delle qualità che noi osserviamo nella so- stanza corrispondente. Secondo l'esposizione di Co- lebrooke si può ammettere che questi atomi sono inalterabili, e che le proprietà dei composti sono la risultante di quelle degli elementi (2). L' anima è una sostanza distinta dagli elementi materiali, come U) V. Colebrooke Sa(j(jio sulla flloft. deqV Indiani trad. frane, pa- gine 37-39 Cfr. pag. 17. (2) V. Saggio sulla ftlos, deyVImh pag. 63-83. Cfr. pag. 218-220. LXXV lo provano le sue proprietà differenti ; ed è, come essi, imperibile ed eterna. La materia è per se stessa inerte, e il movimento le viene impresso dallo spi- rito (1^ La proposizione che condensa la vedanta è: L'essere supremo (Brahma) è la causa materiale cosi bene che la causa efficiente dell'universo. Brahma è l'e- lemento etereo dal quale tutte le cose procedono e al quale ritornano tutte (2). Ma trasformandosi negli esseri finiti, Brahma non perde la sua identità, perchè i Vedantini non comprendono che l'essere reale possa nascere o perire. Nel Bhagavad-gìtà (un episodio filosofico del Mahà-Bhàrata), che è una delle grandi autorità della filosofìa vedantina, vi ha questa proposizione : Qiiod vere non est id fieri neqiiit ut existat, nec ut esse desinat quod vere est. La con- seguenza di questo principio è che Brama è l'essenza unica in cui tutte le cose si risolvono. Già il Veda dice: Tutto ciò che esiste è Brahma; tutto ciò che (1) Colebrooke Op. cit, pag. 56-57, 52-53 (nota di Pautliier), 73. (nota di Pauthier), ecc. (2) Questo panteismo è fondato, come notammo altrove, sul con- cetto della materialità doli' anima e di Dio, e della convertibilità reciproca di tutte le sostanze materiali (cfr. FiL teoloy, § 6). — Le idee- degl'Indiani sugli elementi e sull'ordine della loro conversione re- ciproca sono analoghe a quelle dei Greci. Secondo il codice di Manu (V. Schlegel Saggio sulla lingua e la fllos. degl'Indiani, lib. 4. II) e secondo i Vedantini (v. Calebrooke pag. 202), gli elementi, nell'or- dine con cui procedono gli uni dagli altri, sono: l'etere, l'aria, il fuoco, l'acqua e la terra. I Vedantini ora identificano Dio con. l'etere (Colebr. p. 163), ora ne lo distinguono (v. Regnaud in Rev, phil, t» 5. p. 536) e in questo caso fanno dell 'etere 1' elemento che procede immediatamente da Dio o dallo Spirito (sempre concepito- nel senso del semimaterialismo dell'animismo primitivo). 'I LXXVI noi sentiamo per l'odorato o tocchiamo per il tatto è Brahma. Dio è sotto forma di schiavi e sotto quella di fuggitivi; egli è l'animale quadrupede in un luogo, e in un altro è pieno di gloria (1). La differenza tra la causa e l'effetto non invalida^ dicono i Vedantini, la identità di Brahma come causa e come effetto. Un effetto non è altro che la sua causa; Brahma è unico e senza secondo, egli non separato da se stesso esistente nel mondo dei corpi. Brahma è come il mare, il quale non è che acqua, ma in cui si osservano modificazioni distinte, quali la spuma, i flutti, ecc.; in realtà da una parte niente nel mare differisce dall'acqua di cui esso è formato, come, dall'altra parte, niente differisce dall'anima universale, di cui il mondo intero non è che una modificazione. Come causa dell'universo Brahma è simile ad una pezza di stoffa inviluppata, ed il mondo è simile a questa stessa stoffa sviluppata, di cui si riconosce la identità con la stoffa già in- viluppata (2). Ma tali comparazioni — le quali suppongono che nell' essere assoluto vi siano delle modificazioni reali — non esprimono d' una maniera adequata il pensiero definitivo dei Vedantini : questo è che l'Es- sere assoluto in se stesso resta immutabile attraverso tutti i cangiamenti a cui l'universo è sottoposto. Brahma è impassibile, inaffettato dalle modificazioni del mondo, come il puro cristallo che pare colorato L XX VII per il fiore rosso d'un ibisco, ma che in realtà noti cessa di essere trasparente. En:li è lo stesso in tutte cose: non vi ha in lui diversità né variabilità; nev suna moltiplicità (1). La contraddizione tra quest'u- nità e immutabilità dell'Essere che è la sostanza universale, e i cangiamenti e la pluralità delle cose è risoluta dai Vedantini, cjme dagli Eleati, distin- guendo il fenomeno e la realtà: questa distinzione corrisponde a quella del costante e del transitorio. Brahma, il solo oggetto costante, è distinto da tutto il resto che è transitorio; Brahma solo è reale, il resto non è che apparenza (2). Diverse forme illu- sorie e diversi svisamenti sono rivestiti dallo stesso spirito. «Il sole luminoso, quantunque unico, tuttavia, riflettuto nell'acqua, diviene multiplo: tale è pure l'ani- ma divina increata, per uno svisamento sotto diversi modi » (3). « Il mondo sembra reale, sinché Brahma non è compreso; ma Vyogi, di cui l'intelletto è per- fetto, con l'occhio della conoscenza percepisce che o- gni cosa è Spirito; egli conosce che queste forme cor- porali delle cose sono Spirito, e che fuori dello Spi- rito non esiste niente. Di tutto ciò che è visto, di tutto ciò che è inteso, non esiste che Brahma: tutto ciò che sembra esistere fuori di lui non è che un'il- lusione, come l'apparenza dell'acqua (il miraggio) nel deserto » (4). Brahma non si trasforma dunque che in apparenza: le forme cangianti degli esseri finiti non sono che vane immagini a cui non corrisponde altro (1) Colebr. Op, ciU p. 285-286. (2) Colebrooke Op. cit. pag. 178, Regnaud Studi di fllosopa indiana in Rev, phil. t. 5. p. 166, 171. (1) V. Colebrooke Op, cit, p. 183-187 e p. 272 Atma-Bodha 35).. (2) Regnaud. (Stuli di filosofia indiana) in Rev. phil. t. 4. p. 598.- (3) V. Colebrooke Op. cit, pag. 178, 187. (4, Attna-Bodha (^onosc. dello spirito) di S'ankara, 7, 47, 48, 63, 64.. ' N LXXVIIT r i^ di reale che Brahma, Tessere immutabile che appa- risce sotto queste forme diverse. Qui si presenta la stessa quistione che per gli Eleati. Quando i Yedantini chiamano il multiplo e cangiante. una semplice apparenza, intendono perciò ridurre la natura a dei fenomeni puramente subbiet- tivi, o quest'apparenza è per loro un'apparenza obbiet» Uva ? Il carattere fenomenale delle cose, per i Vedan- tini come per gli Eleati, non è il risultato di ricerche sulla natura della nostra conoscenza, dimostranti il valore relativo e puramente subbiettivo della perce- zione, ma è la conseguenza di questa premessa, che l'essere non può cominciare né finire, che le cose non possono cangiare di natura e di proprietà, unita a quest'altra, che non vi ha una pluralità di sostanze primordiali inconvertibili l'una nell'altra, ma una so- stanza unica che prende forme differenti. Dato questo motivo della dottrina, noi dobbiamo preferire d'inter- pretarla nel senso della obbiettività piuttosto che in quello della subbiettività del fenomeno. Quest'ultimo senso sarebbe d'altronde incompatibile con altre pro- posizioni dei Vedantini, notevolmente con le altre rappresentazioni del rapporto tra Dio e il mondo. Quando paragonano Brahma a una stoffa inviluppata e il mondo a questa stoffa sviluppata; quando dicono che Brahma si trasforma nelle sostanze corporali come l'acqua in ghiaccio, e che queste sostanze sa- ranno da lui riassorbite alla consumazione di tutte le cose; quando tra Brahma e le cose particolari stabiliscono lo stesso rapporto che tra la terra e i vasi fatti di questa terra o tra l'oro e gli ornamenti d'oro; ecc.; i Vedantini affermano chiaramente l'obbiettività delle forme finite. Questi concetti potreb- bero difficilmente coesistere con quello di Maga, (cioè della fenomenalità degli esseri finiti), non vi sarebbe tra gli uni e l'altro alcuna gradazione pos- sibile, se i Yedantini riguardassero il multiplo e cangiante come dei fenomeni subbiettivi, e non come r apparenza obbiettiva dell' Essere immuta- bile (1). § 9. Nella filosofia moderna il principio della im- mutabilità della sostanza si afferma sin dal risor- • gimento del pensiero filosofico. La più parte dei primi filosofi moderni o inaugurano la spiegazione meccanica della natura o proclamano un panteismo, in cui Dio è concepito come 1' essenza sempe iden- tica a se stessa dogli esseri transitori e variabili. Sotto la forma unitaria e panteistica, il principio dell'immutabilità della sostanza si trova, nel modo più accentuato, in (iiordano Bruno. Nelle esistenze finite egli non vede che le manifestazioni diverse e cangianti di un essere in se stesso unico ed im- mutabile. « Quel tutto che si vede di differenza ne li (1) Negli Vpanichad (sezioni finali dei Veda) vi ha già il concetto deirimmutabilità di Brahma, non che quello di Brahma sostanza comune di tutti gli esseri; ma non ancora quello di maya o del ca- rattere illusorio delle cose sensibili (v. Regnaud Rev. phil. 4. p. 589- •6)3). La successione cronologica dei concetti corrisponde cosi alla loro successione logica— Regnaud mostra che in S'ankara (il più ce- lebre commentatore dei vedanta-soutra, che sono il testo dei filosofi vedantini) o negli stessi soutra si trova già il concetto di mai/ a (Rev. 2)hiU t. 5. p. 16M66 e t. 6. p. 596), ciò che Colebrooke avoa negato (Colebr p. 203— Per S'ankara del resta ciò risulta abbastanza dalla citazione precedente). Manca perciò di fondamento la suppo- .siziono di Colebrooke che questo concetto sia un impiestito degli .ultimi scrittori vedantini a qualche aUra scuola. H i: i J' N i> t 5 - LXXX corpi, quanto alle formazioni, complessioni, ligure, colori ed altre proprietadi e comunitadi non è altro che un diverso volto di medesima sustanza, volto la- bile, mobile, corrottibile di un immobile, perseverante et eterno essere, in cui son tutte forme, figure e mem- bri, ma indistinti e come agglomerati, non altrimenti che nel seme», ecc. (1).^ L'essere primordiale none dunque soltanto secondo Bruno il sustrato perma- nente di tutte le cose, di cui tutto ciò che vi ha .in queste di vario e di cangiante non è che un modo di essere ; esso è ancora il seno fecondo di tutto ciò che nasce, in cni ogni cosa preesiste, per dir così, allo stato latente, in modo che tutto ciò che viene all'esistenza non viene dal niente, non comincia d'una maniera assoluta, ma si spicca dal fondo permanente dell'essere, diventa manifesto, mentre prima era occulto. Bicordiamo la stoffa in- viluppata che si sviluppa dei filosofi indiani, e la tartaruga che fa uscire le sue membra dal guscio e ve le fa rientrare. « Ogni potenza et atto, che nel principio è come complicato, unito et uno, ne le al- tre cose è esplicato, disperso e moltiplicato » (2). ciò che vi ha di vario negli esseri si trova nell'essere primordiale, ma fuso insieme, in modo da formare un'essenza assolutamente semplice e, per cosi, una massa perfettamente omogenea. « L'u- niverso è tutto quel che può essere, secondo un esplicito, disperso, distinto: il principio suo è (1) De la causa, principio et uno, ed. Wagner p. 281. 2) Op, ciU pag. 261. LXXXI unitamente et indifferendemente, perchè tutto è tutto et il medesimo semplicissimamente, senza differenza e distinzione » (1). « La potestà si assoluta non è semplicemente quel che può essere il sole, ma quel ch'è ogni cosa, e quel che può essere ogni cosa, potenza di tutte le potenze, atto di tutti gli atti, vita di tutte le vite, anima di tutte le anime, essere di tutti gli esseri. Onde altamente è detto dal rive- latore: Quel ch'è me invia, colui ch'è dice così. Però quel che altrove è contrario et opposìto, in lui è uno e medesimo, et ogni cosa in lui è medesima » (2). Noi vediamo qui come Bruno, per conciliare l'unità dell' essere primordiale con la varietà degli esseri derivati, è condotto a delle idee analoghe a quelle di Eraclito (3). Il principio dell'identità dei contrari,, in Bruno, come in Eraclito, non deriva da conside- razioni dialettiche, come nell'idealismo tedesco, ma. dal }frincipio che l'essere non può venire dal niente. La differenza tra Eraclito e Bruno è che, mentre da questo principio il primo ne conclude immedia- tamente che gli opposti sono identici nelle cose stesse, il secondo immediatamente non ne conclude se non che tutti gli attributi delle cose devono tro- varsi nell'Essere primordiale, e solo mediatamente che in quest'Essere per conseguenza gli opposti de- vono essere identici, senza di che gli attributi re- ciprocamente incompatibili delle cose non potreb- bero coesistere in un essere unico e semplice. (1) Ivi. (2) Op, ciL p. 263. 3) Questo rapporto con Eraclito è stabilito dallo stesso autore.l^ Vedi Oj), citata pag. 285. LXXXII filosofia antica con cui il sistema di Bruno ha uno stretto rapporto è quella degli Eleati, di cui egli loda e difende le dottrine. « Tutto quello, egli dice, che fa diversità di geni, di specie, differenze, proprietadi, tutto che consiste ne la generazione, cor- ruzione, alterazione e cangiamento, non è ente, non è essere, ma condizione e circostanza d'ente e d'es- sere, il quale è uno, infinito, immobile, soggetto, materia, vita, anima, vero e buono» (1). «Quello che fa la moltitudine ne le cose non è lo ente, non è la cosa, ma quel che appare^ che si rappresenta al senso ^ et è ne la superficie de la cosa » (2). In un altro luogo della stessa opera (3) 1' universo è chiamato uji simulacro^ un' immagine^ un' ombra del suo principio. (Ricordiamo che « quel tutto che si A'ede di differenza ne li corpi » non è che « nn diverso volto » di « un immobile, perseverante et eterno es- sere»). Noi vediamo qui quanto Bruno è vicino al concetto della fenomenalità del mondo degli Eleati e dei Vedantini (ammesso che per questi filosofi questa fenomenalità debba intendersi nel senso ob- biettivo), concetto che solo potrebbe dare un sem- biante di soluzione alla contraddizione che vi ha tra l'immutabilità dell'Uno tutto e i cangiamenti del- l'universo. Potrebbe forse credersi che per Bruno questa contraddizione non esiste, perchè egli non attribuisce l'immutabilità che all' Uno in se stesso, (1) Op. cit. p. 284. (2) Op, cit. p. 285. (3) Pag. 261. nel suo stato implicito. Ma tale osservazione non toglie la contraddizione, indica soltanto il punto preciso in cui questa si trova. L' uno e il mondo non sono, nel sistema di G. Bruno, che è un pan- teismo rigoroso, due esseri distinti -e separati: l'Uno vive nel mondo, vi è contenuto, perchè esso è la stessa del mondo. Ma Bruno astrae questa sostanza del mondo dai suoi modi di essere parti- <?iolari, e ne fa un essere sussistente per se stesso, «enza però staccarlo dal mondo, di cui, anche in questo stato di astrazione, esso continua ad essere la sostanza (1). L' Uno esiste dunque simultanea- (1) Per questa facilità a realizzare delle astrazioni Bruno ci rivela la sua posizione storica : come quasi tutti gli altri pensatori della Rinascenza, egli non é ancora un filosofo moderno, egli non é che a metl emancipato dalla scolastica. Molti concetti fondamentali della metafisica di Bruno portano l'impronta di questa tendenza ad elevare a realt.i sussistente per se stessa l'indeterminato, ciò che non è che un prodotto dell'astrazione. Ciò non è vero soltanto del con- cetto dell'Uno (che, come abbiamo osservato, è una sostanza senza gli accidenti, quindi un'astrazione, e al tempo stesso una realtà, a cui competono degli attributi opposti a quelli del mondo, di cui non- dimeno è la sostanza). Bruno considera le anime degli esseri partico- lari come le individuazioni di un'Anima universale unica, la quale non è già l'insieme delle anime o delle vite particolari, ma il loro principio, che esiste per sé slesso prima di particolarizzarsi e mol- tiplicarsi (s'intende d'una priorità logica e metafisica), press' a poco <'.ome un'Idea di Platone. La stossa materia (in astratto) sembra tal- volta vagamente realizzata. Cosi quando egli dice (in un luogo che •cita Lange — t. 1", 2* parte e. 3" — per provare la tendenza mate- rialista di questo filosofo) che la materia contiene nel suo seno tutte le forme, e che queste escono dall' interiore della materia per l'at- tività della materia stessa, la quale le fa uscire da sé, simile alla parturiente, che per i suoi sforzi convulsivi spinge il figlio fuori del suo seno; allora, accordando alla materia un' anteriorità metafisic .sulla forma, egli sembra considerarla come esistente per se stessa LXXXIY mente in due stati contrari : in se stesso, cioè nel suo stato astratto, egli è il tutto, ma allo stato im- plicito; nel mondo, egli è ancora lo stesso Uno, ma allo stato esplicito, disperso, moltiplicato. Ora è e^ vidente che questi due stati opposti non potrebbero appartenere simultaneamente allo stesso essere, a meno che Bruno non dica con Platone e con Hegel (i quali tra le Idee e le cose stabiliscono lo stesso rapporto che Bruno tra l'Uno e il mondo) che di questi due stati l'uno solo è reale, e l'altro non è che apparente. In Telesio il principio dell'immutabilità della so- stanza arriva ad una concezione della natura che è assai vicina alla spiegazione meccanica, ma che al tempo stesso tiene strettamente ancora, come i concetti di G. Bruno, all'ambiente intellettuale di un'epoca, in cui i prodotti dell'astrazione vengono trattati come degli esseri concreti. Gli elementi delle cose sono secondo Telesio una materia indetermi* nata, senza qualità, e il caldo e il freddo che de terminano e qualificano questa materia. Il caldo e il freddo sono delle nature sussistenti per se stesse^ che si contendono il dominio della materia: la ma- teria esiste dunque per se stessa indipendentemente indipendentemente dalla forma— Il principio generale applicato in questi concetti di Bruno é che il reale, considerato nella sua essen- za, la quale si risolve in principii astratti o indeterminati, é immu- tabile, e che il cangiamento non attinge che la superficie dell'essere; di più queste stesse determinazioni .particolari e cangianti, che si producono alla superficie dell'essere, sono considerate non come pro- dotte dal niente, ma come tirate dal suo fondo permanente, che^ le contiene in se stesso a^ uno stato implicito • involuto. LXXXY dalle sue qualità, e queste indipendentemente dalla materia. Le altre proprietà contrarie che differen- ziano la materia sono ricondotte alla contrarietà fondamentale del caldo e del freddo: col caldo sono congiunte la tenuità, la luce, la mobilità; col freddo la spessezza, l'oscurità, l'inerzia. Le proprietà dif- ferenti dei cori3Ì provengono dunque dalla presenza nella materia dell'uno o l'altro dei due principi! contrari, o dalla proporzione in cui l'uno e l'altro vi coesistono. Le proprietà medie sono la risultante del concorso delle proprietà opposte, che abbiamo indicato : cosi i colori provengono dalla mescolanza del bianco e del nero, cioè della luce e dell' oscu- rità. Ogni cangiamento si riduce perciò alla diversa distribuzione nello spazio del caldo e del freddo e- sistenti nell'universo: questi, della stessa maniera che il loro sustrato materiale, non nascono ne pe- riscono, sono sempre gli stessi e nella stessa quan- tità, e soltanto passano da un luogo ad un altro. Così niente si produce di assolutamente nuovo e niente assolutamente si distrugge : ogni cangiamento qualitativo si riduce al cangiamento nei rapporti degli stessi elementi, sempre identici a se stessi. Anche nel suo insieme 1'unÌA^erso resta immutabile, perchè i cangiamenti che si producono in un punto sono compensati da cangiamenti contrari che devono prodursi in qualche altro punto. Il caldo e il freddo sono forniti di senso : infatti, dice Telesio, questo non potrebbe trovarsi negli animali, nei composti, se esso non esistesse negli elementi (1). (1) V. Fiorentino, Bernardino Telesio, LXXXVI § 10. Telesio ci fornisce un esempio molto evi-^ dente del fatto che, tutte le volte che lo spirito umano cerca di formarsi una concezione delle cose in conformità del principio dell'immutabilità della sostanza, egli è obbligato a girare, quando non arriva sino ad essi, attorno ai concetti del meccanismo, che soli permettono di realizzare questo principio d'una maniera intelligibile. Noi abbiamo già osservata come gli stessi fisici greci che ammettevano una so- stanza unica cercavano, come i meccanisti, di ridurre al movimento tutti i cangiamenti della natura. Le stesse immagini impiegate dai filosofi monisti i cui concetti sembrano i più lontani da quelli del mec- canismo — la stoffa inviluppata che si sviluppa, la tartaruga che spinge fuori le sue membra e poi le ritira, l'unione e complicazione delle cose nell'Uno e la loro dispersione ed esplicazione nel mondo, ecc. — ci mostrano che tutto ciò che vi ha di rappresen- tabile nelle loro oscure concezioni, perchè è la sola base sensoriale o empirica su cui esse si sono svi- luppate, si riduce a quelle stesse esperienze che, generalizzate d'una maniera coerente, danno ori- gine alla concezione meccanista, cioè a quelle e- sperienze che ci offrono come fenomeno il più fa- miliare la persistenza delle cose nelle loro proprietà e il movimento per cangiamento unico. Cosi niente di più naturale che il ritorno della concezione mec- canica insieme a quello della chiarezza del pen- siero (1), e la pronta prevalenza di questa conce- fi) Per Tìuccanica noi qui intendiamo una concezione deUii na- tura che consiste ad ammettere che tutti i fenomeni del mondo ob- LXXXVII zione nella filosofia moderna. Già Gralileo dice contro il concetto peripatetico della generazione e corru- zione : « Io non son mai restato ben capace di questa trasmutazione sustanziale, per la quale una materia venga talmente trasformata, che si deva per neces- sità dire quella essersi del tutto destrutta, sì che nulla del suo primo essere vi rimanga, e che un altro corpo, diversissimo da quella, se ne sia prodotto; ed il rappresentarmisi un corpo sotto un aspetto, e di lì a poco sotto un altro differente assai, non ho per impossibile che possa seguire per una semplice tra- sposizione di parti, senza corrompere o generar di nuovo » (1). Ma è a dei filosofi un poco po- steriori, a Cartesio e agli altri celebri pensatori suoi contemporanei, fra cui bisogna mettere in prima linea Gassendi, il rinnovatore dell'atomistica, che si deve l'espressione rigorosa di questo principio, di- venuto quasi un assioma nella scienza moderna, che tutti i cangiamenti del mondo fisico si riducono allo spostamento di parti materiali in se stesse inalterabili. Fra le due dottrine sull'essenza della materia che possono servire di base a una concezione mec- biettivo sono dei fenomeni meccanici. Per conseguenza il significata in cui usiamo questo ternvine in questo paragrafo e nei due seguenti deve essere distinto da quello in cui l'abbiamo usato nel capitolo III, in cui filosofìa meccanica è stato por noi l'equivalente di fllonofla im- puhionisfa (cioè di una spiegazione della natura in cui non solo tutti i fenomeni del mondo fisico si riducono a processi meccanici, ma anche tutti i fenomeni meccanici al movimento prodotto per im- pulsione). Allora, conlormandoci aU'uso di molti sostenitori di que- sto sistema, conia parola meccanica abbiamo designato una npeciCr di cui ora con la stessa parola designiamo il genere, (1) Dialoghi dei massimi sistemi Giornata l*". liXxxYiir canica soddisfacente alle esigenze della scienza mo- derna — quella di una materia continua e perfet- tamente omogenea in tutte le sue parti, e quella di molecole separate dal vuoto, omogenee qualitativa- mente e inalterabili, e solo suscettibili di differire per la forma o per la grandezza— è l'ultima senza dubbio che noi possiamo rappresentarci d'una ma- niera più netta. Quantunque, al punto di vista della possibilità di formarsene una rappresentazione, il concetto di molecole non aventi altra qualità che r estensione e l' impenetrabilità non manchi anche esso di gravi difficoltà (che noi svilupperemo nella 2. parte di questo Saggio), tuttavia queste non sono €0si evidenti come quelle inerenti al concetto di una materia continua ed omogenea, quella sovra- tutto a cui si va incontro quando si cerca di rap- presentarsi il movimento e delle forme distinte al seno d'una massa continua ed assolutamente indifferente(l). Sarebbe interessante, ma molto al di sopra della nostra competenza, di cercare se sia stato questo vantaggio della dottrina della discontinuità, cioè, nel fatto, dell'atomistica, che ha determinato la sua vittoria definitiva sulla dottrina della continuità, procedente da Cartesio. Ma, comunque sia di ciò, non vi ha dubbio che l'atomistica non sia stata al- l'origine, come la dottrina rivale di Cartesio, una speculazione a priori, cioè derivata dalle tendenze spontanee dello spirito, e non un'induzione logica tirata dai fatti. Gassendi, a cui si deve l' introdu- ci) V. il mio studio sulla dottrina della materia in Rosmini, fa- scicolo 1" la nota a pag. 15. LXXXIX zione degli atomi nella scienza moderna, non in- tende che risuscitare la dottrina di Epicuro: così l'atomistica di Gassendi e dei fisici che lo segui- rono, non è ancora essenzialmente che quella di E- picuro e di Democrito. « Gli atomi di Boj le (che introdusse l'atomistica nella chimica) sono quasi gli stessi, dice Lange (1), che quelli di Epicuro, quali Gassendi li ha fatto rientrare nella scienza. Essi hanno ancora delle forme differenti, che influiscono sulla stabilità e l'inconsistenza delle combinazioni. Un movimento violento ora rompe la coesione di certi atomi, ora ne riunisce altri, i quali, come nel- l'atomistica antica, si appiccano gli uni agli altri con le loro facce piene di scabrosità, per mezzo di sporgenze, di dentelli, ecc. Quando avviene un can- giamento nella combinazione chimica, le più piccole molecole d' un terzo corpo s' introducono nei pori separano due corpi combinati. Esse possono allora combinarsi con l'uno di loro, grazie alla con- delle loro facce, meglio che questo non era combinato prima col secondo corpo; e il movi- mento precipitato degli atomi porterà via le mole- cole di quest'ultimo ». Naturalmente, come osserva Lange, questa forma dell'atomistica (che assimilava l'azione reciproca tra le molecole alle più familiari tra quelle che noi vediamo fra le masse sensibili) dovette soccombere allorché fu accettata la legge di Newton sull'attrazione : allora s' introdussero le attrazioni e le repulsioni tra le molecole, e le forme svariate di prima non furono più necessarie per (1) Stor, liei water. IP parte 2" e. 2". xc ispiegare la loro unione. Ma questa modificazione non spostava la base logica dell'atomismo: non si po- trebbe vedere, sotto il apporto del loro valore scien- tifico, una differenza essenziale tra l'atomistica del secolo 17^ e 18^ e quella di Democrito e di Epicuro, perchè nessuna delle prove, in cui la scienza at- tuale riconosce il fondamento della teoria atomica, era conosciuta prima di Dalton. Dalton mostrando che nell'ipotesi, generalmente ammessa, degli atomi si poteva spiegare la regolarità dei rapporti di peso nelle combinazioni delle sostanze (la legge delle proporzioni fisse e quella delle proporzioni multiple) supponendo che gli atomi di ciascuna sostanza han- no un peso definito, e che ciascun atomo di una so- stanza si combina con uno o con due, ecc., atomi di un' altra sostanza, diede alla teoria atomica la base che essa ha attualmente nella chimica. Così gli atomisti contemporanei ammettono che è Dalton che fece entrare la teoria atomica nella sua fase sperimentale: nessuno, dice Naumann, ha dimostrato coi fatti, prima di Dalton, i dritti e l'utilità dell'a- tomistica (1). Noi possiamo dunque, senza esitazione, classare Tatomistica moderna, prima di Dalton, non meno che quella di Democrito e di Epicuro, tra i prodotti di questa tendenza spontanea che ha il no- stro spirito ad ammettere che 1' universo è sostan- zialmente immutabile^ o, come dicevano i fisici greci, che l'essere non può venire dal non essere, ne ri- dursi al non essere. Così 1' assioma dei fisici greci (1) Elem, di termo chimica, citato da Lange SL del mai. voi. 1" nota 2 alla 3'^ parti. XCI noi lo ritroviamo negli atomisti moderni, in termini che ricordano, della maniera più precisa, Anassagora,. Empedocle e Democrito. D'Holbach, p. e., dice : « A parlar esattamente, niente nasce e muore nella na- tura; vi ha solamente una combinazione ed una se- parazione di ciò che era combinato » (1). Sembrerà una coincidenza singolare che la scienza sia venuta a confermare ciò che non era che una semplice veduta a priori dello spirito, là quale, co- me tutte le altre ipotesi che si sono immaginate sui così detti principi i ultimi delle cose, non aveva la sua sorgente che nella sofìstica naturale dello spi- rito umano. Potrà anche sembrare più sorprendente che la conferma del principio degli antichi fisici che non vi ha né generazione ne corruzione, cioè che le cose non possono cangiare di natura e di proprietà, sia venuta appunto dalla chimica, la quale, se dobbiamo stare ai risultati immediati del- l'osservazione, ci mostra invece che tutto cangia continuamente e della maniera più radicale di na- tura e di proprietà, poiché il carattere proprio della combinazione chimica, che la distingue da una sem- plice mescolanza^ è di far disparire completamente le qualità fisiche delle sostanze che si combinano, dando luogo ad una nuova sostanza, le cui proprietà,- ad eccezione del peso, non po/^sono dedursi dalle proprietà degli elementi da cui essa risulta. Qui il progresso delle acquisizioni positive della scienza si fa in una direzione opposta a quella seguita dalle (1) Sist. della nai, 2. p. e. V. XCIl xeni sue ipotesi. Mentre i primi chimici supponevano, conformemente alle tendenze spontanee della cre- denza, che il composto doveva avere delle proprietà identiche o simili a quelle degli elementi — a prio- ri, noi ci attenderemmo infatti che le proprietà del composto dovrebbero essere la somma o la media di quelle dei componenti, ciò che è la suggestione delle nostre esperienze più familiari —, la chimica moderna invece, mostrando il contrario, si è for- mata in opposizione a queste tendenze spontanee — è perciò che il risultato di una combinazione chi- mica sembra un fenomeno sorprendente e miste- rioso — : ma la teoria atomica procede assolutamente nel senso di queste tendenze stesse, riducendo ad una semplice congiunzione e separazione di ele- menti, senza cangiamento qualitativo, ciò che la semplice osservazione immediatamente dà come una conversione di più sostanze in una nuova sostanza unica, e una riconversione di questa sostanza nelle sostanze primitive. Ciò che si deve osservare è que- sto carattere comune che la teoria atomica ha con le dottrine metafisiche, cioè di ricondurre dei fatti che ci sembrano sorprendenti, perchè relativamente poco familiari — e si noti, dei fatti generali, delle uniformità della natura, che potrebbero ben essere dei fatti ultimi che non ammettono spiegazione — ad altri fatti che ci sembrano naturali ed evi- denti per se stessi, perchè estremamente familiari. Noi abbiamo osservato che, quando Democrito ri- conduceva i fenomeni del cangiamento nello stato fisico dei corpi ai diversi rapporti di elementi co- stitutivi invariabilmente solidi, egli dava una spie" gazione di questi fenomeni, nel senso popolare o metafisico della parola spiegazione, cioè riducendo ciò che è meno famliare a ciò che è più familiare : questa osservazione si applica pure naturalmente alla odierna ipotesi della costituzione molecolare della materia, poiché, qualunque sia la differenza del modo in cui Democrito e di quello in cui il fisico moderno si rappresentano i rapporti tra le molecole per costituire i differenti stati fisici della materia, e quali si siano i motivi che il fisico mo- derno può avere, in più di Democrito, per ammet- tere che ww. fluido non è fluido in tutte le sue mi- nime parti, come si presenta alFosservazione, ma è un aggregato di particole solide; malgrado queste differenze, vi ha Tuguale risultato di ricondurre dei fenomeni relativamente poco familiari a un feno- meno estremamente familiare, qual è quello, che noi vediamo a ciascun istante, di corpi che, restando gli stessi, cangiano unicamente le loro posizioni reciproche. Questa riduzione di ciò che è relativa- mente strano e non familiare a ciò che per la sua familiarità sembra assolutamente naturale e non avente bisogno di alcuna spiegazione, è più evi- dente ancora nella spiegazione del chimico che ri- conduce ciò che per la semplice osservazione non è che una conversione reciproca di sostanze — le combinazioni e decomposizioni chimiche — alla con- giunzione e separazione di particole inalterabili. Non è meno evidente infine che quando il fatto della regolarità dei pesi secondo cui si combinano le sostanze, viene spiegato, supponendo che ciascuna sosta iza semplice è costituita di particole egualiXCIV indivisibili, e che le particole pure eguali in cui si divide la sostanza composta si formano per l'u- nione di questo particole ultime delle sostanze ele- mentari, di cui ciascuna conserva la propria inte- grità; allora il fenomeno che serve di intermediario esplicativo è, come nelle spiegazioni metafisiche, un fatto che sembra più comprensibile in se stesso, perchè è più familiare, del fatto che si tratta di spie- gare. La regolarità dei rapporti di peso nelle combi- nazioni chimiche sembra, per una necessità psicolo- gica, al chimico stesso, un fenomeno sorprendente e misterioso, perchè non è un dato della sua esperienza di tutti gl'istanti (come, p. e. l'urto o il movimento volontario), ma non si rivela a lui che nelle ricer- che ch'egli fa nel suo laboratorio; al contrario, noi siamo perfettamente abituati (non meno che alle espe- rienze dell'urto o del movimento volontario) a ve- dere gli oggetti più familiari che ci circondano con- servare la loro integrità, e non cangiare che di posto; e un'esperienza egualmente familiare mo- strandoci che questa facoltà che hanno gli oggetti materiali di conservare la propria integrità è in rapporto con la loro durezza, noi troviamo affatto naturale che dei corpi infinitamente duri, come si suppongono gli atomi, siano anche assolutamente indivisibili (1). A questo tratto comune che l'ipotesi (1) L'ipotesi di alcuni fisici moderni della elastlcltfi degli atomi è evidentemente una deviazione dal tipo, per dir cosi, naturale dei concetto dell'atomo. L'elasticità degli atomi si ritiene indispensabile per la teoria cinetica dei gas, secondo la quale un gaz è costituito da dartlcole solide che si muovuono continuamente in tutte le direzioni xcv della costituzione molecolare e atomica della mate- ria ha con le ipotesi metafìsiche bisogna aggiungerne un altro: è che le molecole — intendendo per questa parola i corpuscoli distinti e separati in cui la ma- teria si suppone in atto divisa, ma senza includervi possibili. Affinchè dopo gli urti delle particole 11 movimento non sia perduto, ed esso possa essere perpetuo, le particole devono essere per- fettamente elastiche; se fossero Ine^astlche o Imperfettamente elasti- che, vi sarebbe perdita di movimento ad ogni Incontro. SI ritiene puro che l'elasticità assoluta dogM atomi sia reclamata dal principio della conservazione dell'energia; polche la perdita di movimento nell'urto del corpi duri e iuolastlcl si concilia con «[uesto principio ammettendo che il movimento della masse diviene un movimento interiore delle loro molecole; spiegazione natur.almente inapplicabile nell'urto delle particole ultime della materia, che non sono esse stesse costituite di particole più piccole. Ma è evidente che Tatomlstica non può ammettere il concetto dell'elasticità degli elementi ultimi della matei-Ia, che fa- cendo violenza alle sue esigente più naturali: sia perchè 1' Indivisi- bilità dell'atomo non si spiega e non si concepisce che nell' ipotesi della sua durezza e rigidità assoluta; sia perchè la contrazione e la dilatazione del corpi è, nalla teoria atomica, l'effetto della dimi- nuzione o dell'aumento del vuoto comproso tra le parti materiali.— Un'idea notevole, jìerchò mostra di una maniera palpabile la contra- dlzlonl tra il concetto dell'el.astlcltà dell'atomo e 1 presupposti ge- nerali dell'atomismo, è quella emessa dal Lange (St. del mater v. 2^ parte 2* e. 2") secondo la quale l'atomo (elastico) si comporrebbe di sotto atonU, e questi ancora di sottoatoml inferiori, e co^i all'infinito. È evidente che di questa maniera il concetto stesso dell'atomo sparirebbe, perchè ogni minima porzione di materia sarebbe, non solo divisibile, ma divisa già in atto. Di più noi abbiamo in quest'Idea di Lange la inconcepibilità latente della divisibilità della materia all'Infinito resa evidente, e, per dir così, sensibile, per questa sostituzione al concetto della divisibilità tlel concetto di una divisione attuale, e in parti se- parate dal vuoto.— Un'altra deviazione dall'atomismo naturale, desti- nata a risolvere le accennate ed altre difficoltà della teoria, è l'Ipo- tesi di Thomson, secondo cui gli atomi sarebbero del turbini formati da movimenti rotatori in un fluido continuo e assolutamente omo- geneo. In un tal fluido questi turbini sarebbero permanenti. É una ipotesi fondata sulle ricerche' che Helmholtz avea fatte sugli anelli - I- XCVI l'idea dell'indivisibilità di questi corpuscoli e tanto più gli atomi, non sono, come gli esseri tra-scendenti della metafisica, delle vere cause, nel senso che questi termini hanno nella celebre regola di Newton; vale a dire si tratta di esseri ipotetici di una natura affatto particolare, tale che l'esperienza turbini — un cottile anello di Ilciuldo di cui cltìscuna molecola è ani- mata da un movimento di rotazione attorno dell'anello in un piano per- pendicolari» a (jnelio di (luest'anello— .|Ielmoltz mostrò che, se non esi- stono attriti esteriori, un tale sistemasi manterrà Indefìnitamente in e- quiUbrlo ( V.Heni loi Ipotesi attuali sulla costituì ione- della materia p.9). I/lpotcsi di Thomson è, come si vede una fusione dell'atomistica con la dottrina ca"teslana d'una materia continua e assolutamente omo^^^ea, ed essa si conforma alla condizione jjenerale della teoria meccanica, di ammettere cioè 1' inalterabilità della materia e di ridurre tutti i cangiamenti al movimento. Se non che ciò che nella concezione di Thomson fa la funzione di materia è una materia, per dir così, tra- scendentale, non è la nostra materia: la nostra materia consiste, nel- l'Ipotesi di Thomson, nei turbini, cioè In certi movimenti, che hanno luogo in (luesta materia trascendentale. Ciò sujrprerlsce una riflessione sulla natura di (|uesta ipotesi, la quale dimostrerebbe forse che ossa non ha che /// apparenza una base sperimentale. Thomson dota di certe proprietà II suo fluido ipotetico per anaioj?la ai nostri fluidi, ai fluidi dell'esparienza, e da questa proprietà deduce la sua Ipotesi. Ma la inferenza dal nostri fluidi al suo fluido ipotetico è leggittima? Io credo che Thomsou non sia autorizzato a trasportare al suo fluido Ipotetico né le proprietà dei nostri fluidi ne ({ualslasi altra leg^e del mondo materiale. Le legsji della natura fìsica, cioè della materia, non possono essere, secondo Tomson, che l'espressione generale del modo di comportarsi dei suoi atomi— turbini nei loro reciproci rap- porti in condizioni determinate. Un' inferenza sperimentale è dun- que un'inferenza dal modo in cui questi turbini si sono comportati in date condizioni al modo in cui gli stessi turbini o altri turbini analoghi si comporteranno nelle Identiche condizioni. Dalle proprietà (1) Avendo bisogno di un termine por indicare il concetto ge-nerale che tutti i corpi, qualunque sia il loro stato fisico, sono co- stituiti di particole solide, facendo astrazione della forma particolai e di questo concotto che vede nelle particole costitutive degli atomi, cioè delle piccole masse indivisibili, ci serviamo a quest'oggetto della parola molecola, impiegandola non nel senso che essa ha nella scien« za moderna, ma in un senso più confórme alln sua etimologia. XCVII non ci fornisce alcun esempio degli attributi di cui questi esseri si suppongono dotati. La solidità asso- luta che si suppone nelle molecole, questa potenza inlìnita, come dicova Bernouilli, di resistenza alla compressione e alla deformazione, ò un'attributo sco- nosciuto airesperienza. Lo stesso deve dirsi natural- mente di questa potenza infinita che si suppone nell'atomo, di resistenza a qualsiasi forza tendente a dividerlo. Tra le parti della molecola o dell'atomo si suppone una forza di coesione di una natura affatto speciale, una forza la cui esistenza non è stata mai costatata nel mondo dell'esperienza (1). della nostra materia — fluida o altra — che è un aggregato di tur- bini, non può niente inferirsi sulle proprietà di un'altra materia ipo" tetica, elle sarebbe altra cosa che un aggregato di turbini. Tra la •nostra materia e la materia trascendentale, che, secondo Thomson, serve ad essa di sustrato come la nostra materia serve di sustrato al suo proprio movimento, non vi ha identità e perciò, mi sembra, nessuna inferenza legittima. — Le deviazioni dal tipo normale dell'a- tomistica di un carattere assolutamente metafìsico, quale la dottrina che riduce gli atomi a punti matematici, o, come si dice per li so- lito, a centri di forze, si rapportano alla qulstlone del mondo esteriore e noi ne parleremo nella 2* parte. Notiamo per ora che 11 nome di dinamiche date a queste dottrine non toglie che anch'esse — parti- colarmente quella sunnominata degli atomi — punti o centri di for- ze — siano. In un senso, meccaniche, conformaìidosi anch'esse al prin- cipio generale della concezione meccanica, cioè la spiegazione del cangiamenti dei mondo fisico per il cangiamento dei rapporti di ele- menti in se stessi inalterabili. (1) Naturalmente ó qui che si è sempre vista la grande difficoltà della teoria. Cosi Thomson chiama « s apposizioni mostruose » quelle di « frammenti di materia infinitamente duri e infinitamente rigidi, frammenti di materia di cui alcuni dei chimici più eminenti non temono d'aff'ermare temerariamente l'esistenza come un'ipotesi pro- babile * (citato da Henriot Ipot, alt, sulla co^itit, della inai, p. 10) • Secondo Du Bois-Reymond 1' atomo indivisibiley inattivo e, sede di li XCVIII Un'ipotesi che ricorre a cause non vere, cioè a forze di cui non si è costatata l'esistenza nella natura, è necessariamente un'ipotesi illegittima, come vuole la regola di Newton, o questa circostanza costituisce semplicemente un grado d'improbabilità intrinseca dell'ipotesi che, per compenso, deve rendere più esigenti sul numero e la qualità delle sue prove? È una delle più ardue quistioni della logica, a cui non ci attenteremo di dare una risposta : ma la so- miglianza che abbiamo notata tra la dottrina mole- colare o atomica e le dottrine dei metafisici sugge- risce inevitabilmente una riflessione, che io sotto- metterò al lettore non senza un'esitazione assai na- turale in chi non ha alcuna competenza ne in fisica jiè in chimica. La teoria molecolare e atomica è, come si con- viene dai suoi stessi fautori, una semplice ipotesi, e un'ipotesi che non sembra suscettibile di essere moi provata (1). Misurare il grado di probabilità forze che agiscono attraverso il vuoto, ó un controsenso e una chi- mera (/ limiii della fllos, naturale in Rev, scient, 2" ser, v, 7). Un'idea che meriterebbe forse d'essere sviluppata, ò che ordi- nariamente le cause non vere supposte dai fisici, quali gli atomi, le molecole, 1' etere, i fluidi imponderabili che si ammettevano pri- ma, ecc. hanno la funzione di spiegare i fenomeni nel senso metafi- sico della parola spiegazione, cioè assimilandoli ai fenomeni più fa- miliari, p. e. a quelli della trasmissione del movimento por l' im- pulsione (come l'etere), o a quelli, più generali, del mutamento dei rapporti di spazio senza cangiamento qualitativo (Cfr, ciò che di remo più giù sui fluidi imponderabili). (1) « Nessuno oggi, dice Bain, vede più in questa teoria (l'atomica) che una finzione rappresentativa, che non é suscettibile di alcuna prova, e che non ha altro valore che di esprimere facilmente i fatti » j(Log. 1 5 e ìL, 12 — Bain chiama finzioni rappresentative le ipotesi XCIX di un'ipotesi — quando si conviene d' altronde sul punto più importante, cioè che quest'ipotesi non è rigorosamente provata — è un'operazione estrema- mente ardua e delicata del giudizio, che, per essere ben compiuta, esigerebbe il concorso delle più pro- fonde conoscenze nelle scienze speciali relative, e dell'abitudine, unita a una preparazione conveniente, di considerare le quistioni al punto di vista della logica e della teoria della conoscenza; concorso che è sventuratamente molto raro a trovarsi in un fisico o in un chimico^ e più ancora in un filosofo. Nel caso dell'ipotesi molecotare o atomica, la quistione che non possono essere stabilite come fatti reali, cioè provate, e la cui importanza òche servono a rappresentarsi i fenomeni d'una ma- niera sistematica: fra queste finzioni rappresentative egli enumera oltre la teoria degli atomi, quella della costituzione molecolare della materia, (luella delle ondulazioni eteree per ispiegare i fenomoni della luce, la spiegazione dello stato solido, liquido e gazoso per le attrazioni molecolari e la repulsione dovuta al calore, ecc. Log. 1. 3 e. Ib, 5). Per dimostrare la proposizioae di Bain che 1' ipotesi de gli atomi e tutte le ^Mre flnzioiii rappretfeìitative non sono suscettibil- di diventare delle verità provate, basta torse la considerazione sei guente. Per provare la realtà d'un ii^otesi sarebbe necessario di sod- disfare a queste due condizioni : di stabilire, in jirimo luogo, che un'ipotesi è indispensabile, cioti che il fatto che si tratta di spiegare reclama assolutamente una spiegazione; e in secondo luogo che l'i potesi che si ammette è la sola ammissibile, cioè la sola che possa spiegare il fatto. Ma sembra che le ipotesi scientifiche che il Bain chiama finzioni rapprenentative (e che sono, su i)er giù, quelle che suppongono delle cause non vere), quand'anche potessero soddisfare alla seconda condizione, non potrebbero mai soddisfare alla prima. Ciò è perchè esse non hanno per iscopo di spiegare dei fatti isolati e particolari, ma dei fatti costanti e generali, delle uniformità della na tura. Nel primo caso un'ipotesi è indispensabile, perché è neces- sario che il fatto sia spiegato, nel senso scientifico, cioè che sia sot- t oposto alle leggi generali dei fenomeni : nel secondo caso (se si ha i ! c della misura del suo grado di probabilità si com- plica per questa sua conformità, che noi abbiamo notata, alle tendenze spontanee del nostjo pensiero, conformità che per se stessa non costituisce la mi- nima prova in favore di una teoria. Allora si ren- derebbe indispensabile una specie di equazione per^ sonale, per la quale nella forza con cui Tipotesi ci s'impone, bisognerebbe fare la parte di ciò che vi ha in essa di obbiettivo, cioè di dipendente dal va- lore delle prove sperimentali, e di ciò che vi ha di subbiettivo, cioè di derivante dalla tendenza spon- tànea del nostro pensiero, che, in virtù della con- formazione stessa del nostro spirito e delle sue abi- tudini prescientifiche, ci spinge ad accettare Pipo- tesi, indipendentemente dal valore delle suo prove, n questo stato della questione sembra naturale di demandarsi : il credito di cui l'ipotesi molecolare e atomica gode nella scienza moderna è assolutamente commisurato alla forza delle sue prove, o non vi ha un eccesso, di cui bisogna rendersi conto per la forza addizionale di questo sofisma naturale del nostro spirito, che gli rappresenta il fondo dell'essere come immutabile, e il cangiamento come superfi- ciale e limitato ai rapporti delle cose, senza toccare le cose stesse ? Tra queste due supposizioni, il fatto ragione di riguardare il fatto come una vera uniformità, una leggo rigorosamente generale, dei fenomeni) l'esigenza di una spiegazione potrebbe essere illusoria e fondata sul concetto metafisico corrispon- dente a t^uesto termine, poiché la supposizione che il fatto è senza spiegazione (cioè che si tratta di una leggo primitiva della natura) non è in contraddizione con l'assioma dell'uniformità di legge che è queUo ehe nel primo caso ci obbliga a cercare una spiegazione. CI incontestabile che la teoria era generalmente am- messa prima che si trovassero le prove che at- tualmente costituiscono la sua base logica; la con- tinuità tra la forma più antica e la forma più mo- derna dell'atomistica (1); non è un'indizio che la ve- rità sta nella seconda? Qaeste domande non sem- breranno troppp audaci a quelli che sono abituati a considerare i concetti dal punto di vista storico. « Quegli, dice il Lange, che vede nella storia Fin- dissolubile mescolanza di errore e di verità; quegli ehe comprende che per avvicinarsi di più in più allo scopo infinilamente lontano, cioè la conoscenza perfetta, bisogna oltrepassare innumerevoli gradi intermediari; quegli che vede come l'errore stesso diviene un agente di progresso variato e durevole; quegli non concluderà facilmente, dall'incontestabile progresso del presente, al valore definitivo delle nostre ipotesi » (2). Noi aggiungeremo infine un' altra osservazione sul principio generale della concezione meccanico, <5Ìoè che tutti i cangiamenti della materia si ridu- <?ono al movimento delle sue parti. Il presupposto su. cui questo principio è fondato è la distinzione, comunemente ammessa, tra le proprietà primarie e le proprietà secondarie dei corpi : le prime, che, secondo Cartesio, si riducono alla semplice esten- sione, e, secondo l'opinione più accettata, all'esten- sione e alla resistenza o impenetrabilità, sono ob- li) V. Lange Storia del materialismo, (2) Ibid, V. 2" parte 2* e. P. '\ cu CHI > . ? it : ti biettive ; le seconde, cioè il colore e tutte le altre, non sono che subbiettive. Ma questa distinzione sol- leva delle difficoltà insolubili, che hanno dato luogo a tutte le dottrine trascendenti sulla cosa in sé : qui dobbiamo limitarci ad indicarne sommariamente al- cune, riserbandoci di svilupparle nella 2*^ parte. Se il solo attributo obbiettivo della materia è la estensione, come pretende Cartesio, allora è impos- sibile di distinguere la materia dallo spazio vuoto, e il mondo corporale si ridurrà a una massa con- tinua e perfettamente omogenea. Ora non solo ò im- possibile di concepire V estensione come esistente per se stessa — non potendo noi pensarla che come un attributo del reale e non come lo stesso reale, come un astratto e non come un concreto— ma è di di più impossibile, come abbiamo già accennato, di concepire, al seno di una massa continua e senza alcuna differenza fra le sue parti, delle forme di- stinte e del movimento, perchè queste cose suppon- gono delle differenze. Concepire il movimento in una massa continua sarebbe concepire, in questa massa, delle parti tra loro discernibili, che si scam- biano il posto runa con V altra; se queste parti di cui si afferma che Tuna ha preso il posto dell'altra non sono discernibili, questo cangiamento, che si afferma a parole, non è né percettibile né pen- sabile. In realtà alcun cangiamento non è possibile in una massa concepita alla maniera cartesiana, poi- ché tutti gli stati successivi, in cui essa si trova in tutti gl'istanti della durata, sono assolutamente iden- tici fra di loro. Queste difficoltà in apparenza spa- riscono nella dottrina della discontinuità della ma- teria, perché allora il pieno e il a noto ci danno questa differenza indispensabile per concepire la distinzione delle cose e il movimento ; di più, di- stinguendo la materia dal puro spazio, si ammette in questa dottrina che vi sia nella materia un at- tributo diverso dall' estensione, che si aggiunge a questa, e fa della materia un concreto, e non un semplice astratto qual è la sola estensione. Ma la difficoltà é appunto di dire in che consista questo attributo, distinto dall'estensione e dai suoi modi, che concretista., s'è lecito dir così, la materia, e la dif- ferenzia dalla semplice estensione, cioè dal puro spazio. Quest'attributo è, si dice, la resistenza o la impenetrabilità : ma ciò che non si dice né potrebbe dirsi è che cosa esprimano queste parole resistenza e impenetrabilità di più che dei semplici rapporti tra gli estesi — se se ne toglie le sensazione che noi pro- viamo nelle dita quando tocchiamo, la quale natu- ralmente non possiamo trasportare nella materia e farne una qualità obbiettiva delle cose stesse — . La resistenza della materia non è altra cosa che la dif- ficoltà che vi ha a spostare le sue parti : essa in- dica dunque semplicemente che certi cangiamenti nei rapporti spaziali tra gli estesi non sono possi- bili. L'impenetrabilità è l'impossibilità che un esteso occupi la posizione d' un altro, in altri termini che due estesi si confondano in un'estensione unica, che cessino di essere due estesi e diventino uno solo» Ma ciò non indica altra cosa che la persistenza di ciascun esteso a conservare la sua propria esten- sione; non ci dice qual'è l'attributo che quest'esteso ha in più dell' estensione stessa. Tutti gli attributi • \fr. =P=s= CIY della materia — nella supposizione della non realtà del colore e delle altre proprietà secondarie — non indicano che l'estensione, i suoi modi (forma, gran- dezza, ecc.), i rapporti di posizione, e il cangia- mento di questi rapporti; ma noi non possiamo dire che cosa sia ciò che si estende, ciò che è il soggetto a cui si attribuiscono questi rapporti di posizione. La materia, si dice, si distingue dal puro spazio, perchè essa è impenetrabile, divisibile, mobile, ecc., attributi che non possono convenire allo spazio: senza dubbio; ma siccome questi e tutti gli altri attributi che si predicano della materia, non si riducono inline che all'estensione e alla posizione, attributi che conven- gono pure allo spazio, o bisognerà rassegnarsi ad identificare la materia e lo spazio, come fu costretto a fare Cartesio^ o bisognerà ammettere, come carat- tere che differenzia la materia dallo spazio, non la mobilità, l'impenetrabilità, ecc., ma qualche cosa di più primitivo che, aggiungendosi all'estensione, co- stituisce questo concreto materia, la quale, senza questa qualche cosa, non potrebbe essere né im- penetrabile, ne mobile, ecc., perchè non sarebbe che un semplice esteso, in altri termini una pura esten- sione, che niente distinguerebbe dallo spazio vuoto. Questa qualche cosa che, diffusa, per dir così, qua e là nella pura estensione senza forme né limiti, ne differenzia le parti, costituisce il concreto materia, e distingue il reale dallo spazio, cioè dal niente; non è che il colore, o, in generale, le proprietà se- condarie. Quando si è analizzato sufficientemente il concetto di materia, si vede che lo spirito umano, se vuole formarsi una concezione netta e coerente CV del mondo esteriore, e al tempo stesso restare sul terreno dell'esperienza e dell'intuizione sensibile — condizione che è superfluo di aggiungere, perchè al di fuori di questo terreno non vi hanno concezioni nette né coerenti— è costretto in quest' alternativa : o il fenominismo di Mill e Bain, che riduce la realtà esteriore a sensazioni e possibilità di sensa- zioni; o il realismo naturale— non quello di Eeid— che non spoglia la materia delle sue proprietà sen- sibili, ma accorda l'obbiettività al colore e alle altre, e non alla sola estensione, la quale senza le pro- prietà sensibili non è che il niente realizzato (1). Ora à evidente che chi accetterà l'una o l'altra di queste due soluzioni, non ammetterà la pretesa della filosofia corpuscolare o di qualsiasi altra forma pos- sibile della concezione meccanica, di ridurre tutti i cangiamenti dell'universo al solo movimento. § 11. Ad una concezione meccanica coerente, se essa vuol realizzare completamente il principio che niente nasce e muore nella natura, non basta di riddurre al movimeato tutti i cangiamenti del mondo materiale; bisogna ancora che la materia mantenga invariabilmente le stesse facoltà relativamente al movimento ; cioè o che l' inerzia sia lo stato inva- riabile della materia, o, se essa è attiva, che que- st' attività, e la forma sotto cui essa si manifesta, siano egualmente invariabili. Su questo punto Ba- cone può essere riguardato come il precursore. « È evidente, egli dice, che ogni uomo che cono- (1) V., il mio stulio sulla dottrina di Rosmini sulla materia 1. e. e il Saggio 1. e. 9. § S. pag. 524-526. evi scesse le passioni, gli appetiti e i processi primi- tivi della materia, avrebbe per ciò solo una cono- scenza generale e sommaria dei fatti passati, pre- senti e futuri » (1). « Si deve affermare che la ma- teria è munita, provvista e formata di tal maniera, che ogni virtù, ogni essenza, ogni atto e ogni mo- vimento possono esserne delle conseguenze o delle emanazioni naturali » (2). L' idea di Bacone è che tutti i fenomeni possono dedursi da un fenomeno primordiale, che è il movimento naturale della ma- teria. Così egli paragona la scienza ad una pira- mide o ad un cono, alla cui sommità sta « la legge sommaria della natura », « 1' opera che Dio opera dal comineiameno sino alla fine » (3). « Tutte le cose si elevano per una sorta dì scala all'unità ». Que- sto fenomeno universale, collocato alla sommità della piramide scientifica, in cui « la natura sembra riu- nirsi in un sol punto » (4), questa « causa di tutte le cause », è « l'appetito o lo stinnilns (la tendenza primitiva o la forza primordiale) della materia, o, per sviluppare un po' più il nostro pensiero, il mo- vimento naturale dell'atomo. È questa forza unica, che agendo sulla materia, forma e costituisce tutti i composti » (5). Ma il meccanismo di Bacone (che d'altronde que- sto filosofo non sviluppò d'una maniera sistematica). (1) Della saggezza degli antichi XI. (2) De Princ, atque Orig, (3) Dignìf, et aagm, acient, 1. 3. e. 4. (4) Dd ilignit. et atigm acient, 1. 2. e. 13 '5) Saggezza degli antichi Cupidon. CVII fondato sull'idea fantastica di una materia attiva e vivente, doveva cedere il passo all' altro mecca- nismo, inaugurato da Cartesio, fondato sul concetto più positivo d'una materia inerte, che non fa che ricevere e comunicare il movimento per l' impul- sione. Nel capitolo 3^ abbiamo considerato questa dottrina — alla quale esclusivamente abbiamo dato allora il nome di meccanica — sotto un altro punto di vista, cioè come una realizznzione del principio delle cause efficienti : ma è evidente che essa è al tempo stesso una realizzazione del principio del- l'immutabilità essenziale dell' essere — almeno dei- Tessere materiale — poiché non attribuisce ai corpi che la proprietà, sempre e da per tutto identica, di conservare il movimento ricevuto e di comunicar- selo reciprocamente per 1' urto, riducendo ad una sola e sempre la stessa le forme apparentemente differenti e variabili dell'energia. Oltre questa for- ma del meccanismo, fondata sul concetto dell'iner- zia o passività assoluta della materia, non ne è è possibile che un'altra, che realizzi il principio dell' immutabilità essenziale dell' essere, ma che al tempo stesso faccia della materia qualche cosa di — sia che quest'attività si attribuisca alla ma- teria per se stessa, sia che si faccia provenire dalle forze di cui si suppone che la materia è la sede—: è la dottrina che spiega anch'essa tutti i fenomeni del mondo fisico per le leggi dell'equilibrio e del movimento, ma come cause motrici riconosce le forze, attrattive e repulsive, inseparabili dagli ele- menti della materia — sia che si supponga che que- ste forze sono ad essi essenziali, sia che si sup-CVIII ponga che sono con essi costantemente associate — . Queste due forme della teoria meccanica, che sono le concezioni della natura prevalenti nella scienza moderna, possono far pensare che questa ha com- pletamente realizzato l'assioma dei fisici greci che l'essere non può venire dal non essere né ridursi al non essere ^ che non vi ha generazione ne cor- ruzione ; poiché secondo la teoria meccanica, nel- l'una e l'altra delle due forme, il reale, considerato nei suoi elementi ultimi, si mantiene sempre iden- tico a se stesso, e non vi ha mai nelle cose un can- giamento essenziale, questi elementi, in tutti gli aggregati che essi formano successivamente — nei quali non si manifestano altre proprietà che quello degli elementi stessi — essendo invariabili tanto nella loro sostanza e qualità quanto nel loro modo di agire e di patire. Ma è evidente che la teoria meccanica, se essa vuol applicare rigorosamente il principio che la materia non può mai manifestare delle proprietà essenzialmente nuove, e che perciò le proprietà di un tutto non possono essere che la somma delle proprietà degli elementi materiali che lo hanno co- stituito, deve estendersi anche ai fenomeni della co- scienza, facendo dell'attività psichica una risultante delle attività proprie agli elementi della mì.teria. Senza dubbio il problemi di ricondurre i fenomeni della coscienza alle proprietà degli elementi della ma- teria non nasce esclusivamente al punto di vista del meccanismo, essendo esso una conseguenza imme- diata del principio generale che il meccanismo rea- lizza sotto una forma speciale, cioè che l'essenza delle CIX cose non può cangiare: ma al punto di vista del meccanismo il problema s'impone con una forza particolare, appunto perché il meccanismo è l'ap- plicazione più coerente di questo principio. Applicando il principio dell'immutabilità dell'es- senza delle cose alla quistione della coscienza, lo spirito umano incontra naturalmente due soluzioni opposte, ma che sono non pertanto 1' una e l'altra delle conseguenze dello stesso principio. Dal fattD che i fenomeni della coscienza, di cui certi asTSTre- gati degli elementi della materia sono temporanea- mente la sede, differiscono essenzialmente dalle proprietà di questi elementi isolatamente conside- rati, in virtù del principio che le cose non possono cangiare nella loro natura, lo spiritualista conclude che è necessario che un altro elemento, differente essenzialmente dalla materia, e di cui la coscienza è la proprietà immutabile, si sovraggiunga all' ag- gregato materiale, e sia con questo temporanea- mente associato. Dal fatto che ciò che è la sede dei fenomeni della coscienza è un aggregato di elementi materiali, il materialista conclude invece, in virtù dello stesso principio, che queslii fenomeni non pos- sono essenzialmente differire dai fenomeni che sono propri agli elementi materiali isolatamente consi- derati (1). Ma se la soluzione spiri filali sta è sem- (1) E evidente che il parodosso cartesiano che gli animali sono degli automi è nna conseguenza rigorosa dello stesso principio, nel- l'ipotesi spiritualista; un aggregato non potendo avere delle prò- pi'ietà essenzialmente differenti da quelle degli elementi, la coscien- za non può trovarsi negli animali, in cui non vi ha, come nell'uo- mo, un elemento ess?nzialmente differente dagli elementi jnateriali,. clic viene ad aggiungersi all'aggregato. ex plice, la soluzione materinlìsta è doppia, potendo farsi due ipotesi : 1^ che i fiittti della coscienza non siano dei fenomeni assolutamente nuovi, che si pro- ducono la prima volta negli aggregati che noi chia- miamo esseri animati, ma dei fenomeni preesistenti negli elementi che hanno costituito questi aggregati (e persistenti in essi dopo la dissoluzione degli ag- gregati stessi); e 2^ che questi fatti non siano asso- lutamente distinti dai fenomeni fisici, propri agli elementi che hanno costituito gli aggregati, ma sostanzialmente identici con essi. La prima delle due soluzioni materialiste — le sole che siano in armonia con una concezione rigorosamente mecca- nica dell'universo — si trova, oltre che nei sistemi ilozoisti in generalie, in quei sistemi panpsichisti, in cui, come in quelli di Clifford . Wundt, Taine, ecc., la psiche dell'uomo e degli animali è riguar- data come una risultante degli elementi psichici corrispondoiiti a ciò che noi chiamiamo elementi della materia, o in cui, come in quello di Leibnitz (il quale, a parlar propriamente, è una conci- liazione della soluzione materialista con la spiri- tualista), essa è riguardata come una delle unitìi psichiche, delle monadi, che costituiscono il compo- sto che noi percepiamo come materia. L'altra solu- zione — la quale consiste nell'aff ormare un'identità sostanziale tra i fenomeni fisici (processi nervosi) che sono le condizioni dei fenomeni della sensa- zione e del pensiero e questi fenomeni stessi — è stata ammessa sotto due forme : 1^ estendendo ai fe- nomeni mentali la dottrina che vede nelle diverse forze fisiche gli aspetti differenti di una forza unica CXI che, identica al fondo, apparisce successivamente sotto forme diverse, si è ammesso che la sensazione e il pensiero è un altro aspetto o un'altra forma di questa forza medesima, il movimento che è l'ante- cedente della sensazione e del pensiero divenendo sensazione e pensiero, come il calore suono o l'elet- tricità luce. 2^ — è la forma che ha incontrato più favore — si è ammesso che il fenomeno fisico che è la condizione del fenomeno mentale e lo stesso fenomeno mentale sono, non due fatti distinti e 8u«»cessivi, ma un solo e stesso fatto, che presenta^ due facce differenti, l' interna e 1' esterna, la sub- biettiva e 1' obbiettiva, la distinzione non essendo, come dice Lewes, che nel modo di apprensione, vale a dire, quello che i sensi apprendono come fisico, come movimento, essendo appreso dalla co- scienza come mentale^ come sensazione e pensiero. Questa identità del fisico e del mentale — l'iden- tità nel senso più stretto, cioè nella seconda for- ma — è stata affermata a tre punti di vista diffe- renti : del materialismo, cioè subordinando e ri- conducendo lo spirito alla materia, come nelle dot- trine di Hobbes (1), Erasmo Darwin (2), d' Hol- (1) V. De Carpare pars IV. cap. 25 art. 2. La sensazione non è che il movimento degli organi del senso, e precisamente quella par- te di questo movimento immaginata da Hobbes, che sarebbe un ri- torno dall'organo centrale verso l'esterno, cioè verso i punti della periferia da cui è partita l'eccitazione (ipotesi destinata a spiegare la localizzazione alla periferia e la proiezione al di fuori delle sen- sazioni). (2) NeUa sua Zaonamia definisce l'idea : « una contrazione, un movimento o una configurazione delle fibre che costituiscono l'or- gano immediato del senso. » « Le nostre idee, dice egli ancora, sono CXII bach (1), Moleschott (2), Strauss (3), Spencer (4), dei movimenti animali (lelForgano sensitivo». Questa confusione tra il fatto psichico e la sua condizione fisica regna, dice Mill, dal principio alla fine nei quattro voluQii della Zoouomia (Mill. Lo(j, lib. V. cap. 3., § 8). (1) Le sensazioni, le percezioni, le idee tutte le operazioni del- Tanima, sono dei movimenti degli organi dei sensi e del cervella V. Sitit. della natura 1. p. e. VII e VIII-D'Holbach ammetto pu- re la possibilità della soluzione ilozoista. (2) «Il pensiero è un movimento della materia» Circolaz, della vita, lettera IH. (3) V. Vecchia e nuova fede, § 65. (4) ciò che, sotto l'aspetto obbiettivo o dal lalo estemo, è un cangiamento nervoso (un movimento molecolare), è, sotto il suo a- spetto subbiettivo o dal suo lato interno, uno stato di coscienza V. Frinc. di PhìcoL t. 1. 1. p. e. 6. e altrove); lo spirito e l'azione nervosa sono i due lati, subbiettivo e obbiettivo, d'una sola e stessa cosa (e. 7. § r)6 e altrove). L'aver classato la dottrina di Spencer fra (luelle che ricondu- cono lo spirito alla materia richiode una giustificazione. In effetto questo filosofo si difendo d'essere materialista e dichiara illusoria il tentativo di tradurre sia lo spirito in termini di materia sia la materia in termini di spirito (§ 63 e altr. ) I fenomeni dello spirito e quelli della materia sono le due facce, subbiettiva ed obbiettiva, sotto cui si manifesta una sola e stessa realtà, ma questa realtà ul- tima non può essere chiamata né spirito né materia, lo spirito e la materia non essendo che le sue manifestazioni fenomenali ed essa stessa restando inconoscibile nella sua essenza (§ 272. 273 e altr.) Che ragione può aversi allora di chiamare la dottrina di Spen- cer una dottrina materialista, che riconduco lo spirito alla mate- ria ? Questa ragione è secondo me, che dei due aspetti sotto cui si manifesta l'inconoscibile, l'uno, il fisico, è costante, e l'altro, il psi- chico, non è che transitorio : esso non apparisce che là dove esiste una struttura fisica appropriata (lo spirito non è diffuso da per tutto neir universo, come nelle dottrine panpsichiste o in quella dell' i- dentità del reale e dell'ideale,. Ne segue che, l'essenza d'una cosa es- sendo per noi determinata dai suoi attributi costanti e non dai suol attributi transitori, e qualsiasi nozione che noi possiamo formarci dell'Inconoscibile dovendo tirarla dal conoscibile, quest*essenza sco- nosciuta che si manifesta come spirito e come materia noi dobbiama necessariamente rappresentarcela in termini di materia. Ma contro ciò potrà dirsi che questa distinzione tra i fenomeni della matoria» cxin che sarebbero costanti, e quelli dello spirito, che sarebbero transitori, non ha al fondo niente di reale, le manifestazioni fenomenali dell'In- conoscibile essendo per Spencer tutte egualmente subbiettive e psi- chiche, poiché il conoscibile, il fenomeno, non consiste, in ultima ana- lisi, che negli stati della nostra coscienza. Niente di più giusto che quest'osservazione; ma essa dimostra d'una maniera anche più diretta che la dottrina di Spencer riconduce lo spirito alla materia. Se si va al fondo delle cose, la vera dottrina di Spencer è, non che vi sia una realtà a due facce, l'una subbiettiva e l'altra obbiettiva, ma che vi ha una realtà, l'Inconoscibile, e un fenomeno o un'apparenza di questa realtà, lo spirito o gli stati di coscienza. Lo spirito non è dunque che nnfenomeno; la realtà appartiene all'opposto dello spirito, al fuori di me, a ciò che non ha coscienza. L'Inconoscibile non è per Spencer che la materia e la forza : l'affermazione d'una realtà assoluta in- conoscibile equivale nei Primi principii all'affermazione della persi- stenza della forza, e quantunque l'Inconoscibile non abbia in realtà degli attributi spaziali, vi ha nondimeno in lui un nexus che noi dobbiamo rappresentarci come spazio o estensione, e Spencer sente così fortemente questa necessità di dare un fondamento obbiettivo, nell'Inconoscibile, ai rapporti di spazio, che talvolia sembra consi- derare ijnesti rapporti come reali, come obbiettivi (p. e. nei Pr, Pritic. par. 20 sulla fine). La verità di questa proposizione, che Spencer riconduce lo spirito alla materia, si mostra della maniera più evidente nelle sue affermazioni relative alla sostanza dello spirito. La nostanza dello spirito è naturalmente l' Inconoscibile : ma ciò che bisogna notare è il rapporto che Spencer stabilisce tra la spirito qual è da noi conosciuto, cioè l' insieme dei nostri stati di coscienza, e la sostanza dello spirito. Qaesto rapporto è quello del fenomeno alla realtà. L'esistenza, nel vero senso della parola, appartiene nello spirito a ciò che persiste, alla sua sostanza; i fenomeni dello spirito, come quelli della materia, non sono che delle apparenze cangianti della realtà permanente inconoscibile, (v. Princ, di Psic. paragr. .50, 473, 476). Ora se noi domandiamo che co- sa sia questa realtà persistente di cui i fenomeni dello spirito sono delle apparenze, la risposta è che la sostanza dello spirito, il me tra- ascendente non é altra cosa che l'organismo « Dire che il me è qual- che cosa di più che la serie delle sensazioni o delle idee che sono date come presenti, è vero o falso secondo il grado di comprensio- ne che si dà alla parola. È vero se noi vi comprendiamo il corpo con tutte le sue strutture e le sue funzioni; ma è falso se noi limitiamo la nostra asserzione al me cosciente ». «Il me sostanziale, inconoscibile nella sua natura ultima, ci è fenomenalmente cono- sciuto, sotta la sua torma statica, come l'organismo; sotto la sua forma dinamica, come una forza che si diffonde nell' organismo ». « Il me che sopravvive continuamente come soggetto di questi stati CXIV oxv Lewes (1), Sergi (2), ecc.; del panpsichismo j cioè ri- solvendo la materia in spirito, come nella dottrina di cangianti (di quest'aggregato di stati subbiettivi che costituisceno il me mentale) è questa porzione deirinconoscibile, che è condizio- nata staticamente in certe strutture nervose, le quali sono penetrato <la questa porzione dell'Inconoscibile, dinamicamente condizionata, che noi chiamiama energia» (Addizione al paragr. 220 in fine del 2. voi. dei Princ, di PsicoL trad. frane.) L'identificazione del mentale e del fisico, in un sistema che non jiconos«e altri fatti mentali che quelli che accompagnano le funzio- ni del sistema nervoso, e necessariamente una riduzione del men- tale al fisico, perchè, ripetiamolo, l'essenza di una cosa è per noi determinata, non dai suoi attributi transitori, ma dai suoi attributi permanenti, e perciò questa realtà a due iacee, che si manifesta come spirito e come materia, se lo spirito non è riguardato che co- une un fenomeno transitorio, noi dobbiamo necessariamente rappre- sentarcela, nella sua essenza, come materia. Noi dobbiamo aggiungere che talvolta Spencer, invece della dot- trina dell'identità dei fenomeni mentali e delle loro condizioni fi- siche, sembra ammettere la dottrina affine della trasformazione del- le energie fisiche nelle energie mentali {Primi principi par. 71). (1) Lo stato psichico e lo stato corporale, che ne è la condizione, nou sono due fatti, ma un sol fatto lo cui si distinguono i due aspetti, come si può distinguere In una stessa linea r^rva il lato convesso e 11 lato concavo. Per comprendere questa dottrina di Lewes nel suo vero significato, cioè come una riduzione del mentale al fisico, bisogna notare che essa non è che un'applicftzlone del suo pt-lnelplo dell'iden- tità della causa e dell'effetto : un fatto è identico all'insieme delle sue condizioni, non è qualche cosa che si sovrag^iunge ad esse. Per Lewe^ vale la stessa osservazione che abbiamo fatta per Spencer : il fisico è 11 costante, e 11 mentale non è ehe 11 transilorlo ; perciò questa real- tà a due facce, che si mosti'a come spirito e come materia, non può essere al fondo, nella sua essenza, che materia. E vero che la dottrina di Lewes che le cose hanno sempre una doppia faccia, l'una obbiet- tiva e l'altra subblettlva, Il mondo materiale, per quanto ne cono- sciamo, risolvendosi In sensazioni nostre, non potrebbe essere consl- slderata come una dottrina materialista. Ma se noi non facciamo, sino ad un certo pnnto, astrazione dalle qulstionl gnoseologiche sul xnondo esteriore, diffìcilmente troveremo tra i filosofi moderni un Materialista, per la semplice ragione che difficilmente vi troveremo un realista naturale, cioè questa fede ingenua nella realtà obbiettiva del dati del sensi che 11 materialismo classico accetta dalia credenza naturale. (2) Il fatto psichico o cosciente è composto di elementi fisici o incoscienti (negli Elementi di Psicologia e In altre opere) ; proposi- zione che evidentemente contiene ridentlfìcazlone del fatto della co- scienza con le sne coniizioni somatiche. Tuttavia 11 Sergi afferma pure che il processo fisico è V antecedente àe\ fenomeno della coscienza (ciò che è Impossibile se sono un solo e stesso fatto), e va anche sino a pirlare di una trasformazione dei due fenomeni l'uno nell'altro, sembrando così passare dalla teoria dell'Identità del fisico e del men- tale — uel senso più stretto — alla teoria vicina della trasformazione reciproca fra le energie fisiche e le mentali (V. Origine dei fenomeni jisichici e loro significazione biologica cap. 8. É notevole nna coincidenza— senza dubbio fortuita- -tra la dottrina di Hobbes e quella del prof. Sergi, Il quale, slmilmente al primo, spiega la localizzazione delle sensazioni negli organi periferici e nello «pazlo esteriore, per l'ipotesi di un'onda nervea ri/lessa, cioè ammet- tendo che « le onde nervee che partono dalla periferia, giungendo al centri, si riflettono per la stessa via, e si fermano al luogo d' eccita- zione. » Il Sergi, come Hobbes, chiama questa riflessione della cor- rente nervosa « una tendenza alla causa esterna. » É evidente che questa non è una spiegazione nel senso scientifico della parola; polche ammesso anche il fatto dell'onda riflessa, siccome la coscienza non sa niente dell'esistenza di questo fatto, esso uon potrebbe essere un motivo di localizzare la percezione al posto in cui arriva l'onda ri- flessa, che l'esperienza non ha mal trovato in connessione con la sen- sazione. Ma ò si familiare questo fatto, che la sensazione viene Istin- tivamente localizzata al posto dove si osserva la causa materiale della •sensazione, che non si vede, o si dimentica, che questo fatto, appa- rentemente Istintivo, sarebbe incomprensibile, se noi non sapessimo che è l'esperienza che ha formato nal nostro spirito le connessioni mentali corrispondenti. Il proprio del fenomeni molto familiari è, noi lo sappiamo, che essi sembrano uon aver bisogno di spiegazione, e poter servire anche di spiegazione agli altri fenomeni. Così l'identità del luogo in cui si produce la causa fisica della sensazione, e di quello In cui la sensazione viene spontaneamente localizzata, sembra un fatto perfettamente naturale e che si spiega da se stesso: 1' onda nervea, partita da un certo punto, ritorna a questo stesso punto; è evidente dunque che è là che dobbiamo localizzare la sensazione. Inoltre, in una concezione materialista — nel senso più stretto della parola — in cui 11 fatto psichico è concepito come un fenomeno dinamico della materia nervosa, non è sorpreaidente che si applichino al fatti della •coscienza 1 rapporti di spazio propri alle loro condizioni fisiche, e ehe si trovi quindi una connessslone naturale tra il trasporto del -j. >!*'-^ ex VI { k fi Taine (1) e di altri panpsichisti (è sotto un altro aspet- to la dottrina stessa che già abbiamo considerato co- me una forma della prima soluzione materialista); e infine del sistema della identità del reale e dell' ideale (Pechner), che non subordina né lo spirito alla ma- teria ne la materia allo spirito, ma fa del fisico e del mentale i due aspetti paralleli, e costantemente uniti, dell'essere assoluto. Ma, all'uno o all'altro di questi punti di vista, il risultato della teoria è sem- pre lo stesso: identificare i due ordini di fenomeni, che sembrano i più essenzialmente differenti, quelli I I • ' nervea dal centro nervoso all'orjjano perlfei'Ieo e il trasferimenta t'.eHa sensazione dal primo al secondo punto. Ma quando la sensazione st localizza, non ne11'or<;^anUnio stesso, mi al di fuori, come uella parcfzione visuale— ciò che ordinirlameato si chiama proiezion3 dell'Immagine sensoriale — '|uale spiegazione del fatto può dare la teoria dell'onda riflessa? Ohi ha meditato abbastanza sulla storia del concetti metafisici, o sa che le analogie più vagli3 e Imprendibili spesso hanno tenuto il luogo di spiegazioni— si forte a 11 bisogno che ha lo spirito umano di una spieffasionc dei fenomeni (nel senso metafisico della parola)— questi non troverai umoristica, «ih perfettamente seria, la riflessione che. nel pensiero degli autori della teoria, vi ha forse qualche cosa come l'idea vaga di uni continua- zione ideale del movimento perceziouale. ((uasl che la percezione aves- se qualche analogia con un proiettile. Il cui movimento, impressogli dalla mano, si continua nella stessa direzione, anche dopo clie la mano si è staccata da esso. Queste osservazioni, naturalmente, non tolgono niente al valore reale delle opere del prof. Sergi, come non tolgono nU nte alla gloria del suo predecessore Hobbes. Un'Idea originale e Ingegnosamente espres- sa, anche ((uando è un'Idea metafisica, è sempre una prova di forza intellettuale: è ciò che alcuni positivisti contemporanei sembrano non comprendere, perchè essi non comprendono che la metafisica ò un fatto naturale dello spirito umano— come lo prova anche un certo numero delle loro dottrine— e non un fatto arbitrarlo o Inerente sol» tanto jf un certo grado delia cultura. (1) V. Ij'IntelUy. parte l. 1. 4. e. 2. cxvir della natura fisica e quelli della coscienza, in modo €he il più grande saltns della natura, il passaggio dall'inanimato all' animato, dall' incosciente al co- sciente, e viceversa, si concilii in qualche modo col principio evidente per se stesso che l'essenza delle cose resta sempre la stessa e che le proprietà di un tutto non possono essenzialmente differire dalle pro- prietà degli elementi. Non vi ha dubbio che, fra le diverse applicazioni di questo principio alla qui- stione dell' origine della coscienza, non sia questa la più conforme alle idee della concezione meccanica, fiovratutto quando si considera — ciò che è certa- mente il pensiero intimo di molti sostenitori della teoria — il fisico, cioè il movimento, come la realtà, e il mentale, cioè la sensazione e il pensiero, come una specie di apparenza di questa realtà (1). Qui ci troviamo in presenza della seconda delle due difficoltà insolubili delle teoria meccanica (ri- guardando come la prima l' impossibilità indicata (1) Un autore tedesco, Langwieser, in una polemica contro la conferenza di Du-Bois-Reymond al congresso di Lipsia, che ricono- sceva rirriduttibilita dei fenomeni della coscienza ai fenomeni fisici, e quindi l'impossibilità di applicare ad essi la spiegazione meccanica, dice: « La nostra coscienza non può farci conoscere l'anatomia del nostro corpo o almeno le fibre del nostro cervello : cosi essa non è una coscienza nel senso obbiettivo della parola; perciò noi non possiamo riconoscere subbiettivamente le nostre sensazioni per quel- lo che sono » Il Lange che riferisce queste parole, le fa precedere <ia questo commento : LI materialismo si afferra si forte alla realtà € ai movimenti della sua materia, che un partigiano sincero di que- sta dottrina noa esita lungamente a sostenere che ii movimento del cervello è il reale e l'obbiettivo, mentre la sensazione non è che u- na specie di ajìparenza o di riflesso ingannatore dell'obbiettività». Lange Stoi\ del niater, t. 2. parte 2. ci.]di rappresentarci la materia destituita delle pro- prietà sensibili). La logica forza la teoria meccanica ad ammettere l'una o l'altra delle due soluzioni ma- terialiste della quistione dell'origine della coscienza — l'ilozoismo o l'identità del fisico e del mentale — : ma è impossibile di ammettere l'una o l'altra di queste soluzioni senza contraddire ad altre esigenze non meno imperiose della teoria. Sì ammetterrà la soluzione materialista propriamente detta, che iden- tifica il pensiero al movimento ? non lo si può, sen- z'abbandonare quella chiarezza delle idee, quella, quella intelligibilità, che distingue la concezione meccanica da tutte le altre concezioni che realiz- zano il principio comune della immutabilità dell'es» senza delle cose. Si ammetterà, invece, la soluzione ilozoista ? ma allora la meccanica degli atomi di- viene il romanzo degli atomi; la concezione mecca- nica perde quel carattere di rigore scientifico che costituisce la sua superiorità sulle concezioni rivali del mondo. Sembrerà forse che la soluzione ilozoi- sta — a differenza della soluzione materialista pro- priamente detta, cioè della identità del fisico o del mentale — ci offra almeno delle nozioni perfetta- mente intellegibili : ma se uiò può ammettersi per l'ilozoismo, considerato in se stesso, non si può am* mettere per l'ilozoismo applicato alla soluzione del problema deirorigine della coscienza. La nozione di un atomo animato e cosciente è senza dubbia una rappresentazione perfettamente realizzabile; ma è impossibile di rappresentarsi che dalla riunione delle coscienze distinte degli atomi risulti la co» scienza unica che appartiene all'aggregato degli atomi; un nie^ una coscienza unica, non può essere concepito come la somma di una moltitudine di me o di coscienze distinte. L'una e Taltra delle due so- luzioni materialiste della quistione dell'origine della> coscienza mostrano così il tratto distintivo delle concezioni metafìsiche propriamente dette; cioè, ol* tre all'assenza completa di prove, l'impossibilità di essere rappresentate, il racchiudere delle impossibi- lità intrinseche, delle contraddizioni. Vi hanno dun- que due punti in cui viene a mancare l' intellegi- bilità della teoria meccanica : l'uno è la distinzione delle proprietà primarie e secondarie della mate- ria, che è il fondamento della teoria, e l'altro l'ap- plicazione della teoria ai fenomeni della coscienza. §. 12. Le considerazioni precedenti spiegano per- chè la maggior parte dei Jautori della teoria mec- canica si sottraggano alla necessità, per quanto im* periosa, di sottomettere alla teoria i fenomeni delle coscienza. Il valore assoluto della teoria meccanica non viene ordinariamente reclamato che nel domi- nio del mondo fisico; ma in questo dominio si am- mette che l'applicazione della teoria è illimitata, e che non vi ha altra maniera possibile di compren- dere i fenomeni. Noi possiamo considerare Du Bois- Reymond come il fedele rappresentante di questa tendenza filosofica, nella forma in cui essa ha l'a- desione della maggior parte dei pensatori che sono alla testa del movimento scientifico contemporaneo. «La filosofia naturale, egli dice, ha per iscopo di comprendere il mondo materiale, e a questo fine tende a ricondurne i cangiamenti a dei movimenti d'atomi causati dalle loro forze centrali costanti» a in altri termini, a risolvere i fenomeni della natura in meccanica degli atomi. È un fatto d'esperienza psicologica che, tutte le volte, che una tale riduzione è effettuata con successo, il nostro bisogno di cau- salità è, per il momento, completamente soddi- sfatto » (Ij. L'autore non ammette che un limite a questa spiegazione meccanica di tutti i fenomeni della natura : questo limite è il limite stesso, o più propriamente l'uno dei due limiti, della nostra co- noscenza (l'altro essendo l'incomprensibilità della essenza della materia e della forza), e consiste nel- l'impossibilità di ricondurre il pensiero o la sensa- zione al movimento degli atomi. « Con la prima sensazione di piacere e di dolore che proA^ò l'essere più semplice^ all'inizio della vista animale sulla terra, s'apri quest'abisso insuparabile; d'allora il mondo divenne doppiamente incomprensibile ». Ma nella quistione dell'origine della vita l'autore non trova un limite della nostra conoscenza, e perciò nemmeno della teoria meccanica : la quistione non è, egli dice, che un problema di meccamica estre- mamente arduo. (2) Quantunque la meccanica mo- lecolare che presiede alla costituzione degli esseri organizzati, come quella che presiede alla cristal- lizzazione e alle reazioni chimiche, non ci siano, al- meno per ora, accessibili; tuttavia la realizzazione del nostro ideale della conoscenza suppone che que- sti fenomeni siano spiegati meccanicamente. Non (1) / Limiti della Filos, tiatnr. In Rev. sciente 2^ ser, voi. 7, (2) Ibid. vi ha per noi altra conoscenza che quella dei fatti meccanici : solo le leggi fisico — matematiche sono delle vere leggi, che s'impongono per una neces- sità logica (1). Il lato particolarmente paradossastico della teorìa meccanica, come concezione generale del mondo fi- sico, è la sua applicazione ai fenomeni della vita. Qualunque sia il successo della teoria meccanica nel dominio della natura inorganica, vi sarà sempre, per questa teoria, la grande difficoltà di identificare due ordini di fenomeni, la cui distinzione essenziale sembra cosi evidente, quelli della materia bruta e quelli della materia vivente. Senza dubbio, la dif- ficoltà che incontra la teoria meccanica nella qui- stione dell'essenza della vita, è dovuta in parte a dei pregiudizii tradizionali e naturali al nostro spi- rito, di cui la scienza moderna ha fatto giustizia. L'uno è questa spontaneità del movimento, questa attività caratteristica dell' essere vivente, per cui egli sembra aviere in se stesso la causa dei propri cangiamenti; e l'altro questa teleologia, queste tracce di disegno, che si sono sempre viste specialmente nella struttura e nelle funzioni degli esseri orga- nizzati. È conformemente a questi concetti che A- ristotile definisce gli esseri che sono /?^r natura — con una definizione che è evidentemente una gene- ralizzazione tirata dalla natura degli esseri viventi: — le cose il cui movimento procede da un principio interno ed è indirizzato ad un fine (1). Ma la dot- (1) Darwin contro Gaìianù (2) V. Phifs. 1. II. Vili. 10. trina della conservazione dell' energia mostra che questa spontaneità del movimento è una pura illu- sione, tutte le forze che si manifestano negli esseri viventi non potendo essere che l'equivalente di altre forze fisiche disparse dando loro origine. In quanto alla finalità degli organismi, Darwin ha dato una spiegazione, che la teoria meccanica può conside^ rare come un gran passo verso la sua completa realizzazione. Ma con tutto ciò, deduzione fatta di queste due difficoltà su cui i metafìsici hanno so- vratutto insistito, resta sempre nei corpi viventi un carattere essenzialmente differenziale, col quale non si trova alcuna analogia nei fenomeni della mate- ria bruta : è questa persistenza del tipo generico nella successione delle generazioni e del tipo indi- viduale attraverso gli scambi incessanti della ma^ teria— carattere per cui la scienza moderna definisce la vita, con Troviranus : « la vita è l'uniformità co- stante dei fenomeni nella diversità delle influenze esteriori »; con Plourens : « la vita è una forma ser» vita dalla materia » ; e meglio ancora con Cuvier: « l'essere vivente è un turbine a direzione costante, nel quale la materia è meno essenziale che la forma ». Vi hanno nell'essere vivente, dice Claudio Ber- nard, due ordini di fenomeni : 1. i fenomeni di creazione vitale o di sintesi organizzatrice; 2. i feno- meni di morte o di distruzione organica. « Se al punto di vista della materia e della forza, nel mondo vivente come nel mondo bruto, niente si perde e niente si crea, non è così al punto di vista della forma. Nell'essere vivente tutto si crea, s'organizza • morfologicamente. Nell'uovo in isviluppo, i muscoli^ le ossa, i nervi appariscono, e prendono il loro po- sto, ripetendo una forma anteriore da cui l'uovo è uscito ». « Di questi due ordini di fenomeni, il primo solo è senza analogo diretto, particolare, speciale all' essere vivente. È una sintesi evolutiva. È ciò che vi ha di veramente vitale. È la vita». L'altro al contrario è puramente fisico-chimico. « Sono dei fenomeni di morte vera, quando si producono in un organismo». «Ora, ed è ciò che vi ha di più ri- marchevole, noi siamo vittime d' un' illusione abi- tuale, e quando vogliamo caratterizzare la vita^ noi indichiamo un fenomeno di morte. Noi non vedia- mo i fenomeni della vita. La sintesi organizzatrice resta interiore, silenziosa, nascosta, raccogliendo senza rumore i materiali che saranno spesi nell'e- spressione fenomenale. Noi non vediamo dunque di- rettamente i fenomeni di creazione vitale. Solo lo istologo, l'embriogenista^ seguendo lo sviluppo del- l'elemento o dell'essere vivente, prende dei cangia- menti, delle fasi che gli rivelano questo lavoro sordo : qui un deposito di materia, là una forma- zione d' inviluppo o di nucleo, là una divisione o una moltiplicazione, una rinnovazione. Al contrario i fenomeni di distruzione vitale o di morte sono quelli che ci saltano agli occhi, e per i quali siamo tentati di caratterizzare la vita. I segni ne sono e- videnti, eclatanti : quando il movimento si produce,, quando un muscolo si contrae, quando la sensibi- lità e la volontà si manifestano, quando il pensiero 8i esercita, quando la gianduia secerne, la sostanza dei muscoli, dei nervi, del cervello, del tessuto glan- dulare si disorganizza, si distrugge e si consuma^ [Di sorta che ogni manifestazione di un fenomeno, nell'essere vivente, è necessariamente legata a una distruzione organica, e sotto una forma paradossale si può enunciare questa verità che io ho espressa altrove: la vita è la morte» (1). L'opposizione che la concezione meccanica della vita incontra nella scienza, moderna non è dunque dal punto di vista metafìsico della teleologia, né dal punto di vista prescientifìco che riguarda quest'at- tività esteriore dell'essere vivente — in cui Claudio Bernard non vede che dei fenomeni di morte e che egli riconduce ai fenomeni generali della materia — come il carattere distintivo per cui i corpi viventi sono separati come da un abisso dalla materia bruta. La quistione tra i meccanisti e quelli che non am- mettono la loro teoria è : il fenomeno dell'eredità o quest'altro fenomeno analogo della continua restau- razione che fa di se stesso l'individuo vivente se- [(i) Le definizioni della vito, nella Ilev scieni, 2. ser. t. 13. Cefr, Oauthier Origine dell'en'^rgiu negli esseri viventi^ nella Uev scient, ser. 3. t. 12. Ivi l'autore, oltre alle opinioni analoghe di al. tri naturalisti, riferisce queste parole di Chevreul : « Un corpo or- ganizzato ha in sé la proprietà di svilupparsi con una costanza am- mirabile nella forma della sua specie, e la facoltà di dar nascita ad individui che riproducono alla loro volta questa stessa forma. È là che si trova per noi il mistero della vita e non nella natura del- le forze a cui si possono rapportare immediatamente i fenomeni ». Bicordo pure delle proposizioni simili di Matteucci : (dopo aver det- to che i fenomeni della vita devono ridursi a fatti fisico-chimici) vi ha, nell'organismo vivente, qualche cosa che pare inviluppata dal- la più grande oscurità, e che è senza analogia coi fenomeni fisici e chimici. Io voglio parlare di questa grande incognita che si nascon- de in un grano, producente sempre la stessa pianta dal comincia- jEuento sino alla fine». (V. Beo, scient» 1. ser. t. 2, p. 339}.]condo la forma determinata che gli è propria — re- staurazione che dal fatto più ordinario della rein- tegrazione degli elementi per la nutrizione va sino alla rigenerazione, in certi organismi, degli organi più complessi — questi fenomeni essenziali della vita sono riduttibill alle leggi generali della materia e del moto? La teoria della conservazione dell'energia non decide la quistione in favore del meccanismo; essa prova semplicemente che le forze vitali — in- tendendo con questa parola non degli agenti miste- riosi, delle ipostasi, ma un asemplice espressione iir stratta dei fenomeni della vita — non possono creare energia, ma solo trasformarla. La teoria dell' evo- luzione fa intravedere la possibilità di ricondurre tutti i fenomeni svariati del mondo vivente a un piccolo numero di teggi comuni, ma i fenomeni es- senziali della vita, cioè l'eredità e. generalmente, la persistenza della forma nella continua rinnovazione della materia, lungi di dedurli, essa li suppone come le premesse ultime delle sue deduzioni. Questi fenomeni sin qui inesplicabili — e che non \ i ha alcuna difficoltà intrinseca a considerare come dei fatti ultimi che non ammettono spiegazione ulteriore, ma solo un'espressione più rigorosa sotto forma di leggi precise — avranno mai il loro Newton, che li riconduca alla meccanica degli elementi della ma- teria? Quello che serabrj, evidente — tanto evidente che r autorità degli eminenti fisiologi che propu- gnano la teoria meccanica non è una ragione che deve impedire di dirlo— è che sinché questo Newton non sarà venuto — ciò che Kant trovava assurdo di sperare (l)-la teoria meccanica della vita non sarà che un'ipotesi, meno ancora che un'ipotesi, una sem- plice congettura sulla scienza avvenire, poiché essa si riduce all'affermazione che questo Newton verrà o potrebbe venire (cioè verrebbe, se l'ideale della conoscenza umana fosse conseguibile). L'autorità dei sommi maestri della scienza che emettono quest'af- fermazione dà certamente ad essa un gran peso: ma dei fisiologi non meno autorevoli dichiarano che quest'affermazione è affatto gratuita e senza fonda- mento nella scienza, e c4assano la teoria meccanica (1> . Egli è in effetto assolutamente oerlo che noi non possiamo a», prendere a -onoscere d'una manle.-a sufficiente, e a più forte ra-lo- Zr'\7,rl'f ''" « '" '«"-o possibilità Interrore per del prlnclpll puramente meccanici della natura; e si p„6 s„,te. nere «ratamente con un'eguale certsz.a ch'egli è assurdo per de^U yoTlt : •^» *" =^'""^' " «» "?-»- «"-e qualche ufo. ^o Newton verrà un giorno a splejja.^ la produzione d'un filo d'erba per legg. na:arall a cui alcun disegno non ha presieduto .. (Critica del ff,ua.,w paragr. LXXVI). Come si vede da queste parole W prezzamentodlKantè sovratutto fondato su considerazioni d^rd^ne t^leolog co. Del .^sto, come si sa, lo stesso punto di vista teleoYogi! co n.„ ha per Kant alcun valore obbiettivo, ma non, foncu" che sopra una necessità subblettiva della nostra intelligenza. Ne»" .,u|! «Uone della spiegazione degli esseri organizzati. 1. nostro Teli si avvolge necessariamente, secondo Kant, In un antinomia ZS le; perche da una parte noi non concepiamo che alcuna pro.luzlonc di n"he"m:T ..''u '^^«' PU-'-nte ^ca nlche; ma dall'altra parte, la spiegazione meccanica applicata a clZ produzioni della natura (gli esseri organizzati, sar.. semi" Ins^! e ente e d'un'estenslone limitata (quantunque non possiamo ZZt su dove questa spiegazione possa estendersi,, e nol'^obbUmo uT^! sanamente giudicare della natura e della possibilità di qn^sl It dazioni secondo 11 concetto delte cause finali, senza vederi aTcunn^ do possibile d. conciliare questi due punti di vista 1^,7.101 .nat vn'n." bT":"' " '«'-«o'"»'- « "eo.-L'altern« l'v^n^ vltablle che Kant suppone tra 11 meccanismo e la teleologia uZ tra le ipotesi relative alla « ricerca delle cause pri- me, che la scienza non potrebbe attingere » (1). qul<»tlone della vita, s'incontra pure negli autori contemporanei, p. «. in Wundt Trattato di Fisiologia umana. Introduzione, dove sta- bilisce che l'antico concetto della vita era fondato sul punto di vista delle cause finali, mentre « la maniera di vedere oggi dominante e che "SJ chiama ordinariamente l'ipotesi fìsica o meccanica, ha la sua ori- gine nella concezione causale della natura, In quale è da lungo tem- po prevalsa nelle branche affini della scienza naturale, e secondo la tiuale la natura ò una S9mplice citona di cinse e d'effetti, le leggi nUime dell'azione causale essendo le leggi della meccanica »,— Notia- mo quest'affermazione di Wundt che la teoria fisica o meccanica è la sola che realizzi l'incatenamenlo causale tra i fenomeni : la stessa affermazione si trova in altri fisiologi meccanlsti, p.e. in Du Bols— Reymond (parole citate) e In Haeckel Libera scienza e libero inse- gnamento* pag. 0, 10, 11. (1» CI. Bernard Definiz. della vita. Sinché il Newton non sarìl venuto, noi non possiamo sapere se la dottrina meccanica (o, in generale, fisico-chimica) della vita ha ef- fettivamente un senso o è una di quello che Spencer chiama pseudo- idee (e quindi nn concetto metafisico nel sen^o più stretto del termi- ne). Innesta dottrina Infatti si riduce a questa proposizione : le leggi della vita sono deducii)ili dalle leggi generali del mondo fisico. Ora f*e questa deduzione, qualunque Ipotesi possa Immaginarsi, è impos- i^lbile (non per 1 limiti della nostra conoscenza, ma per la natura •stessa delle cose); se le leggi della vita non po.ssono essere una con- t^eguenza dolle leggi generali del mondo fisico; affermare che lo so- no, che la deduzione è possibile, è evldentametfte enunciare, non un semplice errore di fatto, ma un'Impossibilità logica. Quesla Impossi- bilità logica o, ciò che è lo stesso, (luest'assurdltà intrinseca, che po- trebbe essere contenuta nella concezione meccanica, attualmente deve per necessità sfuggirci, perchè la proposlztone astratta : le leggi del- ia vita sono deducibili dalle leggi generali della materia, è, come o- gnl proposizioni astratta, un puro simbolo, li cui significato consiste nelle rappresentazioni concrete corrispondenti. Se una rappresenta- zione concreta corrispondente al simbolo (al cosi detto concetto a- stratto) è possibile. Il simbolo ha un senso, è Intelligibile; se non vi ha una rappresentazione (concreta) possibile che gli corrisponda . i\ sìmbolo non ha senso, vi ha un non senso, un'impossibilità logica. La rappresentazione concreta corrispondente alla proposizione astrat- ta • le leggi della vita sono deducibili dalle leggi generali della ma- [Il foiivlamento della concezione fisica o meccanica della vita è semplicemente in un'induzione tirata dall'osservazione che i progressi della scienza si sono fatti nel senso della spiegazione fìsica dei fe- nomeni, o si deve ammettere l'influenza di qualche principio considerato come evidente per se stesso? Se si riflette all'influenza che il principio che l'es- sere non può venire dal non essere, cioè che il reale non può cangiare di natura e di proprietà, ha sempre avuto nella storia del pensiero umano; alla forza con cui quest'altro principio, che ne è una conseguenza, cioè l'impossibilità che un tutto abbia delle proprietà essenzialmente distinte da quelle, riunite, degli elementi fuori del tutto, s'impone al nostro spirito; infine al carattere assiomatico delle affermazioni dei meccanisti— che la spiegazione mec- canica è la sola maniera possibile di comprendere i fenomeni, eh' essa è la sola che possa realizzare tra questi l'incatenamento causale, che le leggi della meccanica sono le sole vere leggi, perchè s'impon- gono con una necessità logica — si troverà verisimile che delle considerazioni a priori non siano estranee ai motivi che fanno abbracciare questa teoria. Ben feria, «irebbe la deduzione effettuata. Effettuata questa deduzione, si vedrebbe al tempo stesso che la oontrezlone meccanica ò intelllglblte e che e^sa è vera (o almeno verisimile, se questa deduzione si ottenessa Immaginando qualche agente Ipotetico, Il cui modo d'azione però fos- se conforme alle leggi generali della materia e del moto). Ma sinché questa deduzione non sarà effettuata, o non sarfi provato che una ta- le deduzione è Impossibile, noi nou possiamo sapere, non solo se la concezione meccanica è vera o falsa, ma nemmeno se ossa ha un sen- so o è un non senso, se è uu'Idea vera, nel sen^o lelbuitziano, o una Idei falsa, cioè un'lmposslbllltìi logici.]più, noi troviamo nei suoi fautori delle affermazioni più esplicite e precise. « Se nei corpi viventi, dice Preyr, la materia possedesse altre fotze fisiche o di qualsiasi natura che nei corpi non viventi al- lora gli elementi costituenti la materia dovrebbero possedere ora tali forze, cioè a dire tali proprietà ora tali altre; perciò gli elementi non sarebbero più invariabili e immutabili, essi non sarebbero più delle sostanze elementari, ciò che implica con- traddizione » (1). Lo stesso pAsupposto, cioè che gli elementi devono essere invariabili, e che perciò un composto non può avere delle proprietà che non siano la risultante di quelle dei suoi componenti, A^ediamo nel seguente ragionamento di Huxley. Do- po aver parlato delle proprietà fisiche e chimiche dell'acqua e del ghiaccio, tra le quali e quelle del- l'idrogeno e dell'ossigeno non esiste la più leggiera rassomiglianza, egli continua : « Questi fenomeni e (1) Rev, scient. 3* ser. t. 7. Le forze dei corpi viventi. In verità Preyer crede * che alPInfuori delle loro affinità, qualche cosa d'essenzialmente differente da tutte le forze fisiche e chimiche quali si considerano oggi, l'eredità, deve determinare il modo secondo cui reagiscono le une sulle altre le combinazioni chimiche esistenti nell'uovo, come anchd l'ordine e la disposizione delle loro molecole, In maniera che un embrione di un essere vivente che rassomiglia, al generatori dell'uovo, se ne sviluppi, e che, anche con una composi- zione degli uovi qualitativamente e quantitativamente slmile, degl'in- dividui differenti possano risultarne ». Ma l'eredità si spiega per la memoria inconsclente della materia vivente, e per mettere d'accordo questa spiegazione col fatti della fisica e della chimica, bisogna attri- buire la stessa facoltà a tutta la materia (V.cap. 2" paragr. 9, In fine). Io non so se questa possa dirsi una spiegazione fisica della vita ; ad ogni modo essa si conforma al principio generale della spiegazione fisica, cioè che le proprietà del corpi viventi non differiscono essen- zialmente dalle proprietà della materia In generale.]molti altri così curiosi costituiscono ciò che noi chiamiamo le proprietà deir acqua, e noi non esi- tiamo a credere che, d' una maniera o d' un'altra, queste proprietà risultano da quelle dei suoi ele- menti componenti. Noi non supponiamo una forza misteriosa, chiamata acquosità, che entra in scena e prende possesso dell'ossido d'idrogeno tosto ch'esso è formato, e guida in seguito le particole acquose Terso i posti eh' esse devono occupare sulle fac- cette del cristallo o ilei mezzo delle foglioline della brina. Noi viviamo al contrario colla speranza e la confidenza che un giorno, grazie ai progressi della fisica molecolare, noi potremo passare dai costituenti dell' acqua alle preprietà dell' acqua stessa, così facilmente che oggi possiamo dedurre il movimento di un orologio dalla forma delle sue parti e dalla maniera in cui esse sono disposte (1). Vi ha altra cosa allorché dell'acido carbonico, del- l' acqua e dell' ammoniaca dispariscono, e al loro posto nasce, sotto l'influenza del protoplasma già esi- stente, un peso equivalente di materia vivente? » (2). Ciò che dobbiamo pure notare nelle parole citate di (1) La confidenza di Huxley non è divisa dal due più eminenti logi(5l suol connazionali. Nell'azione chimica, dice Baln, non si può predire 11 carattere del composto dal caratteri degli elementi La composizione delle cause è la legge, considerando la causa come un potere motore, una forza : ma nelle azioni chimiche non si tratta di una composizione di forze, ma di sostanze (Logica 1. 3" o. 4" 20-21J E Stuart. Mlll : È Impossibile di dedurre tutte le verità della chi- mica e della fisiologia dalle leggi o proprietà delle sostanze semplici o agenti elementari {Logica t. 1" llbr. 3" e. 6" § 2"). È interessante di notare di l'attitudine dei rappresentanti della filosofia dell'esperienza verSD la teoria meccanica come concezione generale della natura. (2) La base fisica della vita, nella Rev, seleni. »er. 1* t. 6". CXXXI Huxley è l'alternativa che esse propongono tra l'ipo- tesi dGÌVacqnosifn e quella che le proprietà dell'acqua sono deducibili dalle proprietà dei suoi componenti, cioè, facendo l'applicazione della similitudine, tra l'ipotesi della foi'^a rifa/e e quella che le proprietà degli esseri viventi sono deducibili dalle proprietà degli elementi materiali. Abbiamo osservato che le ipotesi contrarie dello spiritualista e del materialista, per rendere conto dell'origine della coscienza, par- tono egualmente dallo stesso principio, cioè che le cose non poscono cangiare nella loro natura : di là lo spiritualista conclude che la coscienza, non tro- vandosi negli elementi materiali, deve essere ap- portata da un' altro principio distinto da questi e di cui essa sia la proprietà immutabile; il materia- lista ne conclude invece che la coscienza che ap- parisce nel tutto non può essere essenzialmente di- stinta dalle proprieià degli elementi costitutivi. Dalle <iiffìcoltà delle ipotesi materialiste lo spiritualista argomenta la necessità della sua propria ipotesi, e viceversa dalle difficoltà dell'ipotesi spiritualista il materialista la necessità della sua. Così ora possiamo osservare che l'ipotesi fisica o meccanica e l'ipotesi vitalista sono l'applicazione di un principio comune alla quistione dell'origine e dell'essenza della vita, cioè dello stesso principio che la natura delle cose non può cangiare. Dall'osservazione che i fenomeni dell'essere vivente sono essenzialmente distinti dai fenomeni degli elementi materiali che 1' hanno co- stituito, il vitalista conclude, in virtù di questo principio ammesso come evidente per sé stesso, che la vita è apportata da un'altro elemento distinto dagli elementi materiali che viene ad aggiungersi al composto (diciamo : un elemento distinto dagli elementi materiali, quantunque il principio vitale sia stato spesso concepito come una specie di fluido, p. es. la matiera vifae diffusa di Hunter, di cui un autore quasi contemporaneo ha potuto dire che in Inghilterra essa è una parte della religio medici (!)• ma è evidente che in questo caso, come in quello dell'animismo primitivo, a una sostanza materiale particolare si attribuiscono delle proprietà essen- zialmente differenti da quelle della materia comune). Dall'osservazione che i corpi che manifestano i fe- nomeni della vita non sono che. aggregati degli eie* menti della materia bruta, e finiscono per risolversi in questa materia bruta, il meccanista conclude in- vece, in virtù dello stesso principio, che le proprietà degli esseri viventi non possono differire essenzial- mente dalle proprietà della materia bruta. Dall'as- surdità di un principio vitale sostantifìcato si ar- gomenta da una parte la necessità della spiega- zione fisico - chimica o meccanica della vita, come pall'altra parte dairimpossibilità di questa spiega- zione, che distrugge la differenza essenziale tra la materia A^ivente e la materia morta, si argomenta la necessità di una sostanza speciale, che si associ agli elementi materiali, e aggiunga ad essi, finché dura l' ossociazione, le nuove proprietà della vita. Dall'una e dall'altra parte la terza ipotesi che rompe la pretesa necessità dell'alternativa, ipotesi che non (1) Bence Jones V. Materia e forza fn Rer. scifut* «er l" anno png. 62 e 98. suppone niente ma si limita a costatare il fatto, cioè che la stessa materia in condizioni differenti possiede delle proprietà essenzialmente differenti, viene respinta a priori\ ciò che è perfettamente na- turale, perchè essa è contraria alla tendenza spon- tanea del nostro spirito a ricondurre il meno fa- miliare al più familiare, e per conseguenza a spie- gare i fatti per la supposizione che il reale persiste nelle stesse proprietà, questa persistenza essendo per noi un fenomeno assai più familiare che il cangiamento delle proprietà (1). (1) Evidentemente ciò ohe abbiamo detto in questo paragrafo e nel precedente, non si applica soltnnto alla coiicozlona meccanica del mondo, ma a tutte le forme dulia concezione fisico-chimica. Noi non ci slamo limitati a parlare della prima che perchè ne è la forma più <»omunemeatc ammessa, e quella che sembra la conseguenza più na- turale del principio della fisica moderna che tutti 1 cangiamenti del mondo fisico si riducono al movimento degli elementi di una materia che non ha altre qualità che l'ostenslone e rimpeuetrabllitfi: ma è e- ridente che la identificazione del fenomeni della materia vivente e cosciente a quelli della materia bruta è una conseguenza del concetto generale che riduce tutti I fenomeni a (luelll fisico-chimici, e non <lella forma particolare di questo concetto che riduce inoltre tutti l fenomeni fisico-chimici a (luelli meccanici. Questo elemento specifico, differenziale, della concezione meccanica (la riduzione di tutti i fe- nomeni fisico-chimici al feuomani meccanici) non ha avuto nel testo alcuna spiegazione. E In effetto esso non potrebbe riguardarsi come una semplice applicazione del principio che noi abbiamo formulato con 1© parole nichil oritnr^ nichil iuterit. Cosi, se vogliamo spiegare anch'esso per questo processo d'inferenza incosciente da cui derivano 1 concetti metafìsici, e quelli in generale che si ammettono d'una ma- niera assiomatica ma che 1' osservazione non potrebbe giustificare, noi dobbiamo carcame l'origine pare In uni suggestione deli' espe- rienza più familiare, ma indipendente da quella a cui si devono i concetti di cui parliamo in quest'Appendice. E evidente che 11 principio su cui è fondata la teoria che tutti 1 fe- nomeni del mondo fisico, anche <iuelli della chimica, non possono essere [La metafisica dei metafisici— non quella che i fisici fanno senza saperlo, come il borghese geu- tiluomo faceva della prosa senza saperlo--ci mostra altre applicazioni del principio dell'immutabilità dell'essenza delle cose, che unite alle precedenti, ci possono far concludere che l' influenza di questo principio, nella storia del pensiero umano, non è stata quasi meno universale che quella del principio di causalità efficiente. Noi indicheremo, d' una ma- niera generale, i seguenti gruppi di sistemi: 1. I sistemi di atomismo metafisico, in cui agli ato- mi, cioè masse indivisibili ma estese, dei fisici, co- che l'effetto dAlle lejrgl della meceanlca, (almeno quando non si Mup- poue che 11 movimento deve spiegarsi unicamente per 1' Impulsione) è che tutta la materia, al fondo, deve avere un' esrnenza e delle prò- prletfi Identiche. É facile di vedere In (lutsto principio una sujrpre- stlone delle esperienze plìi familiari, se si tlen conto di questo fatto die la scienza moderna, nej,'aiido l'obbiettività delle qualità sensi- bill (le secondarle), e componendo tutti l corpi di elementi di una solidità e di ima durezza assolute, sopprime. In definitiva, ogni ca- ratiere differenziale tra materia e materia. Un elemento materiale nin potrebbe differire da un altro che per la grandezza e la figura. Noi possiamo supporre, è vero, che essi siano dotati <li energie par- tlcolarl, che l'uno abbia un modo d'agire e di patire che gli è asso- lutamente proprio e pe. cui si distingue essenzialmente dallaltro-ed è m ciò che dovrebbe consistere la differenza fra gH elementi chimici, supponendo che essa sia primordiale e Irrlduttlblle-. Ma ciò che ap- punto è contrarlo alla suggestione delle nostre esperienze più familiari, òche del frammenti di una materia qualitativamente omogenea - noi potremmo dire: della stessa materla-l quali non differiscono che per la grandezza e la figura In cui, per dir cosi, sono stati tagliati pos- sano avere del modi di agire e di patire radicalmente differenti. Noi abbiamo osservato tante volte che le diverse porzioni di una stessa specie di stoffa o di legno o d'un'altra materia (lualslasl, se differiscono per la grandezza e per la figura, non hanno perciò una natura e delle proprietà differenti, salvo quelle proprietà che sono una conseguenza della figura e della grandezza stesse. Se noi chiamiamo statiche 1^ cxxxv me unità costanti o elementi del reale, vengono soh- stituiti degli esseri semplici o inestesi — monadi, sia nel senso panpsicliista sia nel senso dinamista, forze o centri di forze, atomi semplici o punti materiali, ecc. — i cangiamenti del mondo fenomenale essendo spiegati, come nell'atomismo, pei cangiamenti dei rap- porti tra le unità elementari. I sistemi di atomismo metafisico non sono al fondo che delle forme tra- scendenti della concezione meccanica, tutti i can- giamenti del mondo materiale essendo ridotti, in questi sistemi, al cangiamento nelle relazioni di spazio, sia che in queste relazioni si veda un at- tributo reale degli esseri semplici — ciò che è certa- mente una contraddizione nei termini, poiché un es- sere semplice, cioè inesteso, non occupando uno spazio, non potrebbe essere nello spazio — sia che non si veda in esse che delle manifestazioni feno- menali d'un ordine reale «intelligibile». In questo gruppo è a segnalare il sottogruppo dei sistemi pan- psichisti, nei quali, col dualismo dello spirito e della materia, viene soppresso il più profondo dei cangia- proprlelà per cui sogliamo distinguere le diverse sostanze secondo 11 giudizio Immediato del sansl, e dinamiche quelle che esse manifestano In circostanze determinate, noi possiamo formulare il risultato delle nostre esperienze più familiari cosi: delie sostanze identiche nelle loro proprietà statiche non possono differire nelle proprietà dinamiche (tranne In quelle che non potre')bero riguardarsi come caratteri dif- ferenziali nelle sostanze, quali sono quelle che sono una conseguenza della grandezza, della figura, della posizione ecc.) Il concetto fonda- mentale della spiegazione meccanica, per cui essa si dlstlnijue dalla semplice sple^^azlone fisico-chimica, cioè l'identità essenziale di tutta la materia, sarebbe l'estensione di questa conclusione agli elementi della materia, dato li concetto moderno della materia, che sopprime tra le sostanze, materiali ogni differenza nelle qualità statiche. ]nienti della natura, e perciò la più evidente con- traddizione che il principio che l'essere non può venire dal non essere incontra nell'esperienza. 2. I sistemi monisti che risolvono tutte le cose in una sostanza unica, sempre identica a se stessa, sia che di questa sostanza facciano un che di spiri- tuale, come Dio, l' Idea (Hegel), la Volontà (Scho- penauer), l'Incosciente in cui sono associate la vo- lontà e Fidea (Hartmann), ecc.; sia che ne faccia-io un che di differente dallo spirito e dalla materia (vale a dire da tutto ciò che conosciamo), come la Forza inconoscibile di Spencer, ehe egli si rap- presenta come qualche cosa di cui le forme can- giano, mentre la sostanza resta sempre la stessa (1). Come si vede, noi impieghiamo qui il termine monismo in un senso più stretto di quello che esso ha il più abitualmente nel linguaggio filosofico con- temporaneo, secondo il quale indica tutti quei si- stemi che non ammettono la dualità dello spirito e della materia. In questo senso il monismo equi- A^ale il più spesso sia all'ilozoismo sia alla dottrina dell'identità del fisico e del mentale: noi abbiamo già parlato di queste applicazioni del principio del- l'immutabilità. La scienza obbiettiva non può spiegare ciò che noi chiamiamo il mondo esteriore senza riguardare i suoi cangiamenti di forma come delle manifestazioni di qualche cosa che rimane costante sotto tutte le forme » Primi principii paragr. 191. Qui Spencer non parla che dei cangiamenti del mondo esteriore: in quanto ai cangiamenti del mondo interiore, noi abbiamo visto che questi si distinguono fenomenalmente da quelli del mondo esteriore, ma realmente sono identici con essi (cioè con quella parte di essi che costituiscono le condizioni fisiche dei fenomeni psichici). Il Realismo, che risolve le cose in un sistema di concetti realizzati, cioè di entità astratte e ge- nerali (Platone, Spinoza, Schelling, Hegel, Taine, ^cc.) Queste entità astratte e generali essendo ciò che vi ha di permanente e d'immutabile nella na- tura— le leggi eterne e le forme eterne degli es- seri -e il cangiante, il particolare, essendo riguar- dato come Yapparenza obbiettiva di quest'Essere im- mutabile, la conseguenza del Eealismo è che l'es- sere non nasce né perisce e che non vi ha nel reale alcun cangiamento (1). 4. Il Criticismo, Vi ha, secondo questo sistema, nella varietà delle nostre conoscenze, un elemento invariabile : è la forma stessa della nostra cono- scenza, che, nella sua applicazione agli oggetti co- nosciuti, si manifesta come legge generale del mondo dei fenomeni. Quest'elemento invariabile della no- stra conoscenza, che è ciò che vi ha di permanente nella scena perpetuamente cangiante delle appari- zioni, è la forma inerente al soggetto stesso cono- scente, la funzione invariabile per cui egli coor- dina la A^arietà delle impressioni sensibili. È evi- dente che, secondo il criticismo, se la forma della nostra conoscenza fosse variabile, se le funzioni e la natura del soggetto conoscente cangiassero, Tor- dine della natura conosciuta sarebbe alterato, non vi sarebbe più in essa un corso uniforme. Così a questa quistione : perchè vi ha un ordine uniforme o delle le«roji costanti nei fenomeni ? il criticismo risponde : perchè la forma di cui il soggetto cono- (1) Cfr. cap. VII, § 4", pag. 108.109. 4 I / scente impronta gli oggetti conosciuti è sempre la stessa, perchè la natura di questo soggetto cono- scente è costante. Facendo questa risposta, il cri- ticismo applica — non in verità il principio che l' essenza delle cose è immutabile — ma un altro principio più fondamentale di cui questo è la con- seguenza, cioè che la persistenza degli oggetti nella stessa essenza o nelle stesse proprietà è una cosa naturale e che si comprende da sé stessa, e che quindi può servire di base alla spiegazione dei fe- nomeni. Spiegando l'ordine uniforme o le leggi co- stanti dei fenomeni per la invariabilità della for- ma della conoscenza, e quindi per la costanza della natura del soggetto conoscente, esso suppone infatti che questa costanza, come, in generale, la persi- stenza di una cosa nella stessa natura e nelle stesse proprietà, è un fatto che si comprende senza bi- sogno di spiegazione, e che perciò può servire d'in- termediario esplicativo del fatto che ha bisogno di essere spiegato, cioè V esistenza di leggi costanti, di un ordine uniforme, nel mondo dei fenomeni, o delle apparizioni. A ciò che abbiamo detto potrebbe farsi un'ob- biezione : il principio che la persistenza delle cose nelle stesse proprietà è comprensibile (mentre il cangiamento delle proprietà non lo è), non può ap- plicarsi alle cose se non in quanto si concepiscono nel tempo (questa persistenza non essendo che una permanenza nel tempo). Ma, nel criticismo, il tempo essendo una forma subbiettiva della nostra cono- scenza, questo principio perciò non può applicarsi al soggetto conoscente, considerato come soggetto — e non come oggetto della conoscenza, cioè come semplice apparizione — perchè questo soggetto, con- siderato in sé stesso, non è sottomesso alla condizione del tempo. La stessa obbiezione può farsi riguardo al gruppo antecedente cioè ai sistemi rea/isti] le Idee di Platone e di Hegel e le altre astrazioni realizzate congeneri essendo anch'esse al di fuori del tempo. La risposta a quest'obbiezione è che per la costi- tuzione stessa della nostra intelligenza, è impossi- bile di formarci, come abbiamo spiegato nel Sag- gio 1^, una rappresentazione rea/e del sovrasensibile, del non fenomenale. Ne segue che, mentre il me- tafìsico parla di cose non sottoposte al tempo e alle altre condizioni del sensibile e del fenomeno, è sotto queste condizioni nondimeno che egli è costretto in realtà a rappresentarsele. L' analogia dalle sue rappresentazioni rea/i con le esperienze che sono le premesse della sua inferenza incosciente, basta a quest' assimilazione che costituisce la base e il valore esplicativo dei concetti metafisici. La nostra osservazione sul criticismo, che esso spiega l'uni- formità dell'ordine della natura per la costanza delle proprietà del soggetto conoscente, si applica, meglio ancora che a Kant, ai sistemi posteriori di criticismo, nei quali l'elemento propriamente idealista del Kantismo — cioè l'attività, 1' efficienza causale, dell'intendimento e dei concetti puri nella forma- zione del mondo dell'esperienza— è lasciato nell'om- bra o è anche sparito, come in Renouvier, in Lange e in altri filosofi (p. e. Forrier) che si riattaccano più o meno da vicino a Kant. In questi sistemi non resta del criticismo originale che la dottrina. «•^ CXL del doppio elemento della conoscenza, l'uno inva- riabile ed essenziale al soggetto conoscente, la for- ma cioè la legge, l'altro variabile ed avventizio; la materia cioè le sensazioni ; e questa dottrina, de- stinata evidentemente alla spiegazione dei fenomeni, non potrebbe spiegare, come il criticismo originale, che perchè i fenomeni non si succedono all'azzardo, ma vi ha in essi un ordine stabile ed uniforme. § 14. Fra i sistemi a cui abbiamo accennato, ve ne ha alcuno nel 1*^ gruppo (atomismo metafìsico) che merita un' attenzione particolare. Tale è sovra- tutti quello di Herbart. Non vi ha forse nella filo- sofìa moderna un altro sistema che porti cosi spic- catamente l'impronta del sofisma a priori che stu- diamo in quest'Appendice. Grli elementi ultimi delle cose non sono per Herbart degli atomi fisici — la materia della fìsica non essendo per lui che un'ap- parenza, un fenomeno subiettivo — ma essi sono calcati della maniera più evidente sul concetto del- l'atomo fisico. Herbart chiama il suo sistema un atomismo qualitativo^ perchè le qualità semplici che costituiscono gli esseri. — i quali sono qualitativa- mente differenti e non omogenei come gli atomi — vi tengono il posto dei frammenti indivisibili di ma- teria dell'atomismo. L'essere di Herbart è assoluta- mente semplice : non solo esso è senza estensione ed indivisibile, ma non vi ha in esso una pluralità 'di proprietà; un reale non ha che una qualità, o, a parlar propriamente, non è che una qualità unica e semplice. (1) Le sostanze — ^qualità di Herbart CXLI sono, come le sostanze materiali degli atomisti, as- solutamente immutabili : non vi ha nel reale alcun cangiamento interiore, in altri termini niente can- gia negli elementi considerati in se stessi; il can- giamento, ciò che accade, non è che un cangiamento nei rapporti degli elementi, nella loro disposizione, o, come dicono gli herbartiani, nel loro collega^ mento. Quando il meccanismo vuol ridurre tutti i can- giamenti al (Cangiamento dei rapporti nello spazio, la più grave difficoltà è per esso di rendere conto dei cangiamenti interni che deve riconoscere in al- cuni esseri, cioè i fenomeni psichici: un meccani- smo rigoroso non indietreggia innanzi alla conse- guenza che questi fenomeni sono anch' essi movi- mento, per quanto questa proposizione sia eviden- temente inintelligibile. Ln- stessa difficoltà si presenta nel sistema di Herbart, ma d'una maniera più ge- (1) La sostanza — vale a dire ciò che vi ha di permanent-e nelle cose— non è, nel concetto coniuno, che l'esteso, ciò che persiste nello spazio : Herbart toglie al reale l'estensione, ma fa delle sue qualità delle sostanze, vale a dire attribuisce loro quella permanenza asso- luta che ordinariamente non si attribuisce che a ciò che occupa lo spazio (e in quanto occupa lo spazio). Una conseguenza di questa trasformazione di qualilà inestese in Hontanse è che la coesistenza di più (jualità in un essere é impossibile. Una qualità, rigu.ardata come un che di assolutamente permanente, è già — supposto d'al- tronde che essa possa concepirsi per se stessa— una sostanza: di più noi non possiamo concepire che una di questo qualità inerisca in un'altra o tutte e due ineriscano in un soggetto comune, poiché noi non possiamo rappresentarci altrimenti la coesistenza di più qua- lità (p. e. odore, sapore, calore — non sono le qualità di Herbart, ma il sovrasensibile non può modellarsi che sul sensibile) in uno stesso soggetto, se non rappresentandocele come inerenti tutte egual- mente in une stesso esteso. I» « fi' ■«•4- CXLII nerale. Non solo egli ammette — ciò di cui non potrebbe fare a meno — degli stati interni nella monade anima, ma tutte le monadi, tutti i reali, hanno secondo lui degli stati interni, i quali ci sono sconosciuti nella loro natura, ma che, come osserva Lotze (1), non bisogna credere molto dissimili da quelli dell'anima. È da questi stati interni, da que- sta attività interiore delle monadi, che derivano i cangiamenti delle cose nello spazio. Questo concetto non deve sorprenderci in un sistema din^mista quale quello di Herbart : noi vediamo in esso un altro o- sempio di questo vago antropomorfismo che abbia- mo più volte segnalato in cèrti concetti metafìsici, e il cui germe si trova già nell'idea comune della forza (nel senso trascendente di questo termine). Supponendo degli atti interni anche negli elementi della materia, di cui egli ammette uon pertanto l'as- soluta immutabilità, Herbart non introduce una contraddizione nuova nel suo -sistema — questa esi- ste dacché la coscienza ci obbliga a riconoscere in noi stessi dei cangiamenti interiori — ma non fa che generalizzarla. Herbart pretende che gli stessi cangiamenti negli stati interni delle monadi non sono che semplici cangiamenti nei rapporti fra di esse, nel loro collegamento, come il meccanista con- seguente pretende che la sensazione e il pensiero non sono che movimenti degli atomi. La conseguenza rigorosa del principio di Herbart che non vi ha, nell'essere reale considerato in se stesso, alcun cangiamento possibile, sarebbe di non accordare al caniriamento, almeno al cano;iamento interno, che un valore puramente fenomenale^ di non vedervi, come gli Eleati, che una semplice apparenza — della stessa maniera che il priniùpio del meccanismo che ogni cangiamento, e quindi anche il pensiero, si riduce al movimento di elementi immutabili in se stessi, condurrebbe a nen vedere nel pensiero che un'apparenza illusoria del movimento — . È così che talvotta è stata interpretata la dottrina di Herbart (1); ma tale non è veramente il suo pensiero. Egli non nega che i cangiamenti interni siano reaU,, ma afferma al tempo stesso — ciò che contraddice a questa proposizione — che tutti i cangiamenti si ri- ducono a quello della relazione tra gli esseri. Una cosa, egli dice, può cangiare, per la sua relazione con altre cose, senza cangiare in se stessa : così una stessa nota musicale può essere giusta o falsa, se- condo i rapporti in cui si trova con altre note ; una stessa retta è una tangente relativamente ad un cer- chio, e diviene una secante relativamente ad un altro cerchio. A questo concetto inintelligibile, che gli stati in terni delle cose non esistono assolutamente, ma non sono che semplici relazioni fra queste cose, si riat- i^acca pure la dottrina delle perturbazioni e degli atti di conservazione di sé, per cui Herbart pretende di ri' solvere il problema della possibilità del cangiamen- to. Gli stati interni delle monadi, come le rappre- (1) Psicol, flsiol, trad. frane, p. 161 (1) V. Diz, fllos. di A. Frank, artic. Herbart. ] sentazioni dell'anima, sono degli atti di conserva- zione di sé di questi monadi, per cui esse reagi- scono contro le pertubazioni prodotte da altre mo- nadi. Quando due monadi, aventi qualità contrarie, s'incontrano a uno stesso punto, nasce fra di loro un'opposizione, una lotta, essendo impossibile la coesistenza di qualità contrarie : ciascuna monade resiste all'invasione dell'altra, fa uno sforzo per conservarsi quale essa è, cioè nella sua propria qualità. Questa mutua opposizione importa in cia- scuna delle due monadi una passione — è la pertur- bazione— e un'azione — è Tatto di conservazione di se. — La periurbazione può panigonarsi a una pressione, la conservazione di se a una resistenza. Pressandosi o turbandosi reciprocamente, ciascuna delle due monadi eccita V altra alla resistenza, a uno sforzo di conservazioiie di se: ma le due so- stanze, con tutto ciò, non provano alcun mutamento; come, pressando l'uno contro Taltro due atomi, cia- scuno si opporrebbe all'invasione dell'altro, mani- festando la sua forza di resistenza, ciò che sarebbe uno sforzo contro lo sforzo contrario tendente a comprimerlo, ma senza che perciò i due atomi ces- sassero un istante di restare nel loro stato inva- riabile. Come dal rapporto particolare in cui gli a- tomi sono posti, nasce questo sforzo di resistenza di ciascun atomo, che è un avvenimento ma che non importa alcun cangiamento reale nell'atomo stesso, non essendoA^ stato in realtà altro cangia- mento che nella posizione reciproca dei due atomi, cioè in una loro relazione; così dal rapporto partico- lare in cui le monadisono poste, nasce l'atto di consei'- vazione di sé di ciascuna monade, che è un avveni- mento ma che non importa alcun cangiamento reale nella monade stessa, non essendovi stato in realtà altro cangiamento che nelle relazioni, nel collega- mento, delle monadi. Ciò che vi ha di particolare nel sistema di Her- bart, ciò che mette questo sistema in contrasto con la concezione meccanica, e che diffonde su di esso un'oscurità a cui non è comparabile quella che può trovarsi in alcuni punti della concezione meccanica, è l'unione di questi due punti di vista incompati- bili, quello dell' assolufa immutabilità della so- stanza e quello della sua attività interiore, in altri termini, di un concetto dinamico e di un concetto meccanico che riduce tutti i cangiamenti del reale ài cangiamento nelle relazioni tra le unità costitu- tive. La stessa unione di questi due concetti si trova nel sistema del filosofo siciliano prof. Corico, che fu senza dubbio un pensatore distinto, e merita anch'egli di essere ricordato. Il concetto fondamen- tale del prof. Corleo è ciò che egli chiama la « ret- tificazione dell'idea di sostanza ». Bisogq^ rigettare l'idea conmune che vede nella sostanza qualche cosa di uno e al tempo stesso di multiplo: la so- stanza reale non è il soggetto d' inerenza di una pluralità di fenomeni (accidenti), non è qualche cosa che ha la potema di fare successivamente degli atti differenti, di ricevere successivamente delle modi- ficazioni diverse. Una sostanza semplice non rac- chiude alcuna potenza : la sostanza non è che atto, sempre lo stesso atto, un atto identico ed invariabile. La rettificazione dell' idea della sostanza consiste dunque nel togliere alle sostanze reali, agli ele- menti ultimi delle cose, qualsiasi mutamento, qual- siasi successione di stati, qualsiasi moltiplicità. Ma la sostanza, quantunque immutabile come Fa- tomo, non bisogna perciò concepirla come 1' atomo dei fisici. Prima di tutto la sostanza è assolutamente indivisibile, senza parti, senza estensione (la divisi- bilità all'infinito della materia essendo un'idea con- traddittoria) : inoltre essa differisce ancora dall'ato- mo, quale lo concepiscono i fisici, perchè mentre que- sto è un che di passivo e d'inerte, il cui attribuito non è che la sua proprietà di occupare uno spazio, e la cui realtà non è che la sua presenza nello spazio; al contrario la sostanza reale è essenzialmente at- tiva, l'attività essendo 1' essenza stessa dell' essere reale. A parlar propriamente, non vi hanno due cose, la s(>stan>'<a e la sua azione : 1' azione non si distingue dalla sostanza, sostanza ed azione sono due termini equipollenti; l'essere reale è un^n^ione sostantiva o una sostanza^azione. 11! azione non biso- gna concepirla come una modificazione della so- stanza — ^n vi hanno modificazioni nella sostanza — ^ come una seccessione di stati ; ma come lo stato immanente, sempre lo stesso, della sostanza. La contraddizione tra il concetto dinamico, e il con- cetto meccanico dell'assoluta immutabilità dell'essere — ehe nel sistema di Herbart si manifesta come con- traddizione tra il concetto di un essere senz' alcun cangiamento interiore e quello di una moltiplicità di stati di cui quest'essere è successivamente il sog- getto — qui prende un'altra forma : l'aziono, che noi non possiamo rappresentarci altrimenti che come un cangiamento, una successione, è concepita come uno stato permanente, immutabile. L'idea della sem- plicità assoluta della sostanza (assenza di ogni mol- tiplicità interiore), che Corleo ha in comune con Herbart, deriva, per il primo, come per il secondo, dai due concetti riuniti dell' assoluta immutabilità della sostanza — che esclude il moltiplico come suc- cessivo — e della sua inestensione e indivisibilità — che lo esclude come coesistente — . Lra sostanza essendo assolutamente invariabile, come si deve comprendere dunque 1' esistenza del fenomeno, cioè del variabile, nella natura ? È la concezione meccanica naturalmente che offre il tipo su cui il Corleo modella la spiegazione del cangia- mento. Ogni cangiamento non è che un cangiamento nelle relazioni, nella posizione reciproca degli ele- menti, ciascuno di questi in se stesso restando inva- riabile. Non bisogna credere che gli elementi per il loro concorso possano mai produrre qualche fenome- no nuovo, che sia qualche cosa di più o di diverso che la somma delle proprietà degli elementi stessi: il rapporto tra il fenomeno, vale a dire ciò che esi- ste d'una maniera transitoria, e la sostanza, vale a dire ciò che esiste d'una maniera permanente, è il rapporto tra il composto e il semplice, tra W.piìi e Viino, La sostanza è un'azione semplice, un'azione sostanti- va; il fenomeno è un'azione composta, un insieme di azioni sostantive o di sostanze — azioni. « È la com- posizione che muta e passa, non i singoli atti so- stantivi che sono sempre gli stessi ». Ciò si ai3plica al pensiero : esso non è una serie di modificazioni di una sola sostanza — ciò che sarebbe incompati- ■< »' •r. cxLviir CXLIX I : bile, con rimmutabilità della sostanza — ma è una azione composta di quest'azione sostantiva che noi chiamiamo anima, e delle azioni sostantive che noi chiamiamo elementi materiali; esso cangia e si muta^ perchè il composto cangia e si muta, per Paddizione,^ sottrazione, o trasposizione degli elementi. La sostanza, lo sappiamo, non è per Corico come un atomo, inattivo in se stesso, e che può, sotto l'azione di forze a lui straniere, manifestare suc- cessivamente forme differenti di attività : al contra- rio, la sostanza è per essenza attiva, e quest'attività è immutabile, costituendo l'essenza stessa della so- stanza. Ne segue che il contingente, per dir così, di azione, che esiste nel mondo, è quantitativamentee qualitativamente invariabile: le azioni possono comporsi, decomporsi, ricomporsi in aggregati dif- ferenti, ma ciascuna delle azioni elementari, cosr bene che il loro totale esistente nel mondo, restano sempre invariabili. La natura, considerata nei suoi stati successivi, è sempre, al fondo, identica; non soltanto identica come il mondo degli atomisti, com- posto sempre degli stessi atomi, ma identica ancora in quanto le azioni elementari, e quindi anche le azioni composte, cioè i fenomeni, dello stato ante- cedente, sono sempre identiche, al fondo, a quelle dello stato susseguente. In altri termini, vi ha iden- tità tra i fenomeni antecedenti e i fenomeni conse- guenti, tra le cause e gli effetti: l'effetto, il conse- guente, non è che la somma delle sue cause, dei suoi antecedenti, ed è identico con esse. Se la causa e l'effetto ci sembrano due cose differenti, è che noi, per una sorta di sezione arbitraria, stacchiamo \ dall' insieme una delle condizioni del fenomeno, e la consideriamo come causa del fenomeno, senza tener conto delle altre concause che con essa con- tribuiscono al risultato : ma « se tutte le cercassimo e le ponessimo sotfc'occhio, l'identità dell'effetto to- tale con tutte le concause che lo producono e lo fanno essere quel che è, risulterebbe evidente- mente ». Vi ha tra il sistema del Corico e quello di Herbart una somiglianza si colpente, che si è creduto di ve- dere nel primo un plagiario del secondo: la supposi- zione di un legame tradizionale, per ispiegare i punti di contatto tra i sistemi, s'impone, quando si vede nei concetti metafìsici qualche cosa di fortuito e di arbitrario. Ma noi sappiamo che la metafisica è un tatto naturale dell'intelligenza umana, e che il me- tafisico, anche nei suoi concetti i più apparentementi lontani dal pensare comune, non fa che sviluppare certi germi che tutti gli spiriti naturalmente porta- no in se stessi. I tratti comuni tra Herbart e il prof. Corico si spiegano, io credo, sufficientemente, senza bisogno di supporre che questi li abbia im- prestati da quello. La dottrina della semplicità as- soluta della sostanza risulta, come abbiamo notato, dai concetti della sua immutabilità e della sua ine- stensione e indivisibilità: questi costituiscono il ca- rattere comune dell'atomismo metafisico — che, come vedremo nella 2* parte, è una delle forme naturali che prende il realismo nella sua inevitabile evolu- z ione — ; quello è, come abbiamo visto, un prodotto di questa tendenza naturale del nostro spirito — che costituisce la base ultima della metafisica — a ricondurre tutti i fenomeni a quelli che ci sono i più familiari. Questa tendenza spiega, nel tempo stesso che il concetto delPimmutabilità della sostanza, quello di ridurje il fenomeno, il variabile, al cangiamento dei rapporti tra le sostanze : il tipo per questi concetti era per altro esibito dalla teoria meccanica. § 15. La dottrina dell'identità della causa dell'ef- fetto—che noi abbiamo già incontrato nel prof. Cor- leo — ci fornirà Tultimo esempio del sofisma a priori^ che studiamo in quest'appendice, applicato a una concezione generale dei fenomeni. Questa dottrina non bisogna confonderla né col principio di alcuni filosofi greci, che il simile non può agire che sul simile, né con l'altro, più analogo^ che la causa deve essere simile all'effetto. Questi due principii sono delle generalizzazioni eccessive dell'esperienza, assai comprensibili in uno stadio primitivo della ricerca scientifica; ma non potrebbero riguardarsi come con- cezioni metafìsiche, se si vuol dare a questa parola un senso definito. Mancano ad essi l'uno e l'altro dei tratti generali che caratterizzano le concezioni me- tafìsiche ; essi non sono, come la dottrina stessa del- l'identità della causa e dell'effetto, delle nozioni ir- rappresentabili o implicanti delle impossibilità in- trinseche; e, quel ch'è più, non sono nemmeno il prodotto di alcuna di queste tendenze spontanee^ e quasi fatali, dello spirito umano, che noi chiamiamo con Mill sofismi a priori. Al contrario, la dottrina del- l'identità della causa e dell' effetto si riattacca della maniera più evidente a queste tendenze spontanee dello spirito — di cui la principale é quella che ci spinge a ricondurre tutti i fenomeni a quelli che ci sono i più familiari —, non essendo che uno degli sviluppi più estremi del principio che il reale é nella sua essenza invariabile, o, come dicevano gli antichi fisici, che l'essere non può venire dal non essere né ridursi al non essere. Ascoltiamo Hamilton: * Quando noi apprendiamo^ egli dice, che una cosa comincia ad esistere, noi siamo costretti dalle leggi della nostra intelligenza a credere ch'essa ha una causa. Ma che vuol dire quest'espressione: avere una causa? Se analizziamo il nostro pensiero, troveremo che ciò significa sem- plicemente che, poiché noi non possiamo concepire il cominciamento d' una nuova esistenza, bisogna che tutto ciò che si vede apparire sia esistito prima sotto un'altra forma. Noi siamo affatto incapaci di concepire che il contingente d'esistenza possa au- mentare o diminuire. Da una parte noi siamo inca- paci di concepire che niente divenga qualche cosa^ e d'altra parte che qualche cosa divenga niente. L'a- forisma : ex niliilo nihil, in nihiliim nil posse reverti, esprime nella sua forma più netta il fenomeno intel- letuale della causalità. — Si concepisce dunque che un effetto e le sue cause sono una sola e stessa cosa. Noi crediamo che le cause contengono tutto ciò che è nell'effetto, e che l'effetto non racchiude niente di più che ciò che era contenuto nelle cause. Omnia mu- tantnr, niìiil interit, é questo quello che noi pensiamo, che noi dobbiamo pensare. È là il fenomeno mentale della causalità: noi neghiamo necessariamente che la cosa che sembra cominciare ad assere cominci in realtà; e identifichiamo necessariamente là sua esi- stenza presente con la sua esistenza passata ». Questa idenitficazione dell'esistenza poesente della cosa che sembra cominciare ad essere con la sua esistenza pas- sata consiste ad ammettere che, come dice l'autore, « le cause continuano sempre ad esistere attualmente nei loro effetti », e che « un effetto non è niente di più che la somma o totalità di tutte le cause parziali di cui il concorso costituisce la sua esistenza (1). La dottrina della causalità di Hamilton ha la adesione di Spencer. « Io penso, egli dice, d'accordo in ciò con Hamilton, che la nostra credenza alia necessità delle cause viene dalla nostra impotenza a concepire un accrescimento o una diminuzione (1) La dottrina di Hamilton contiene due proposizioni che biso- gna distinguere: Tuna ha una portata ontologica, e afferma l'iden- tità della causa e dell'effetto; l'altra ha una portata psicologica, e afferma che il principio di causalità — che Hamilton riguarda, non come un'acquisizione dell'esperien/a, ma come una legge o una ne- cessità del pensiero — si deduce da un principio o da una necessità del pensiero più primordiale, cioè l' impossibilità di concepire die l'essese venga dal non essere. Di queste due proposizioni, la prima è una concezione metafìsica, nel senso più rigoroso della parola — essa è un prodotto di una tendenza spontanea e generale, di un sofisma a priori, dello spirito umano — ; la seconda non potrebbe ri- guardarsi, secondo me, come una concezione metafìsica propriamente detta, noi sei:.so rhe non può riattaccarsi alle tendenze generali sofìstiche a priori del nostro spirito, quantunque il suo punto di par- tenza, l'apriorità del principio di causalità; sia un prodotto del so- fisma a priori xaT^ è^OXYjV della psicologia, di cui diremo nella 3* parto di questo Saggio, e perciò una vera dottrina metafìsica. La pretesa deducibilità del principio di causalitl dall' inconcepibilità di un cominciamento assoluto dell'essere ha lo scopo di ricondurre la legge (mentale) della causalità a una legge più generale, quella del condizionato, che è secondo Hamilton la legge fondamentale dell'intelligenza, e consiste a stabilire che il solo concepibile è il condizionato, e questo sta fra due incondizionati egualmente incon- cepibili, che sono 1' uno l'illimitato e l'altro l' incondizionalmento dell'essere considerato nella sua totalità ». (1) Cosi nei Primi prindpii (2) egli deduce il principio di causalità da quello della persistenza della forza (cioè dell'immutabilità della quantità del reale» (3), dedotto, alla sua volta, dall'impossibilità di concepire che il niente diventi qualche cosa o qualche cosa niente. Ricordiamo infine la dottrina di Lewes. L'effetto e la causa non si distinguono che logicamente. Un fatto è identico alle sue condizioni^ e non è niente di sovraggiunto ad esse. Non vi hanno due cose — da una parte un grnppo di condizioni (cause) e d'al- tra parte un risultato (effetto) — ma una sola e stessa cosa vista differentemente. Ciò che noi chiamiamo le condizioni di un fatto sono i fattori analitici che noi abbiamo scovorti nel fatto : questi fattori, con- siderati analiticamente, si chiamano cause ; la loro limitato (rincondizionalmente limitato sarebbe un tutto assoluto, limitato, che non fosse una parte di uu tutto più grande— come -dovremmo concepire l'essere, se potessimo concepire un comincia- mento assoluto—, ovvero una parte assoluta, che non fosse divi- sibile in parti minori V. nei Frammenti tradotti da Peisse Filosofia deW assoluto). La legge del condizionato è, come si sa, la dottrina •che dà un carattere personale alla filosofia di Hamilton. Cosi la sua deduzione del principio di causalità dalla legge acl condizionato é un esempio utile a mostrare che sofisma a j^riori e sofisma naturale non sono due termini perfettamente equivalenti. Facendo questa -deduzione, Hamilton fa un' applicazione troppo estesa d' una sua idea favorita: questo ó un sofisma naturale, ma non è un sofisma -a priori (come quelli su cui è fondata la metafìsica), perchè non dfi luogo a delle conclusioni che s' impongono al nostro spirito come verità evidenti per se stesse. (1) Saffffi scientifici, Obbies, e risp, sui primi principii, Conclas, (2) // conoscibile cap. VIL (3) Obbies, e risp, sui pr, princ, Conclns, CLIV somma, considerata sinteticamente, si chiama ef- fetto. La teoria dell'identità della causa e dell'effetto fa riscontro alla teoria d'Eraclito dell'identità dei contrari. Se noi facciamo astrazione del modo in cui viene concepita la legge del divenire-che il fi- losofo antico si rappresenta come un passaggio con- tinuo da uno stato al suo stato opposto, mentre i filosofi moderni se la rappresentano per l'idea più scientifica di un rapporto definito tra ciascun can- giamento e dei cangiamenti antecedenti determi- nati (legge della causalità) — le due dottrine si ri- ducono egualmente a questa proposizione, che il reale divenendo incessantemente altro, resta nondi- meno costantemente Io stesso, cioè che il diverso è identico, che il cangiamento non è un cangiamento. È per altro a questa formula, a questa contraddi- zione nei termini, che arrivano egualmente tutti gli sviluppi più estremi del sofisma r//?m;7 che fa l'argomento di quest'appendice, la dottrina degli E- leati, dei Vedantini. di G. Bruno, dei filosofi rea- listi (nel senso degli scolastici), che riduce il cangia- mento ad un'apparenza, non meno che la dottrina dell'identità degli opposti o quella dell'identità della causa e dell'effetto (se il cangiamento è un'appa- renza, Fapparenza di una realtà immutabile, il can-^ giamento è dunque in realtà un non cangiamento^ il diverso l'identico). Ciò che diciamo della dottrina dell'identità della causa e dell'effetto può pure na- turalmente riferirsi alFapplicazione particolare di questa dottrina ai fenomeni psichici — l'identità del fisico e del mentale—; anche qui pretendendosi identificare dei termini che non possiamo rappre- sentarci che come essenzialmente ed assolutamente differenti. Forse si dirà che se la dottrina dell'identità della causa e deireffetto, presa alla lettera, non è che una flagrande contraddizione, ciò prova semplicemente ohe questa dottrina non deve intendersi nel senso rigorosamente letterale. Ma se noi non cerchiamo in questa proposizione che dei concetti perfetta- tamente intellegibili, non tardiamo ad avvederci che la proposizione non è, in questo caso, suscet- tibile di un senso qualsiasi. Quando si dice che la causa e l'effetto sono la stessa cosa, che la causa continua ad esistere nell'effetio, noi dobbiamo in- tendere per le parole cause ed effetti i cangiamenti del reale — poiché la legge della causalità non è che la legge dei cangiamenti. — Ora è assurdo di attribuire la persistenza a dei cangiamenti, di dire con Hamilton ^-he la « cosa » che noi vediamo esi- stere attualmente come effetto non comincia ora ad esistere, ma è già esistita prima come causa di quest'effetto. Se questa persistenza, che la dottrina dell'identità della causa e dell'effetto attribuisce alle cause e agli effetti, noi vogliamo limitarla a que- sto elemento del reale che noi possiamo effettiva- mente rappresentarci come persistente, allora noi non ammettiamo più in alcun modo un'identità tra le cause e gli effetti, poiché la legge della causa- lità non si applica all'elemento persistente, ma al- l'elemento cangiante del reale. E' l'obbiezione di Mill contro Hamilton. Hamilton, dice Mill, scam- bia l'uno per l'altro due dei quattro sensi distinti CLVI che la parola causa ha nella filosofia peripatetica — la causa materiale e la eausa efficiente — : nei suoi esempi egli mostra che un composto è identico ai suoi elementi materiali ; ma gii elementi non sono le cause del composto, perchè la legge della cau- salità non si applica alla materia, ma ai suoi can- giamenti, e perciò le cause sono le azioni che han- no determinato una nuova posizione degli elementi, e l'effetto la nuova posizione di questi elementi. (1) In favore della dottrina dell'identità della causa e dell'effetto potrà invocarsi la teoria della persi- stenza e trasformazione dell'energia. È press'a poco in questo senso che il Bain dice che « Hamilton ha dato, per la legge di causalità, una formula che equivale esattamente al principio di conservazione » (dell'energia). « Si può dire, continua il Bain, che egli ne ha scoverto il primo l'espressione » (2) E in- (1) So si ammetto la teorÌB. atomica o aXmQno molecolare déìÌRxniK' teria, l'elemento persistente del roale, che resta fuori del dominio della legge di causalità, sarà un che di qualitativamente invariabile di cui non cangiano che i rapporti spaziali tra le sue parti; e, con- siderando il mondo dal punto di vista obbiettivo, tanto gli effetti fjuanto le cause non saranno che dei cangiamenti di posizione. Se invece si respingesse questa sostanza qualitativamente invariabile come nn prodotto dei sofismi a priori del nostro suirito, allora l'e- lemento persistente del reale (si parla naturalmente della realtà fì- sica) non avrebbe altro d'invariibile che U massa, cioè, al fondo, la costanza con cui la stessa materia riceve la stessa velocità dall'. izione di forze eguali. Ma che vi siano nella materia dei cangiamenti qua- litativi o interiori, come in quest'ipotesi, o che tutti i cangiamenti della materia siano puramente esteriori e si riducano al cangiamento di posizione, resta sempre che è ai cangiamenti, e non a ciò che permane durante i cangiamenti, che si applica la legge della cau- salità, e quindi i termini di causa e d'effetto. (2) Log, 1. 3" e. i*" 11. 17. CLVII fatti, tutti i cangiamenti della materia ridicendosi a delle forme dell'energia, e l'energia non creandosi né annichilandosi mai, sembra che cosi potrebbe darsi un soxiso intelligibile all'affermazione che la causa continua ad esistere nell'effetto, ed è identica all' effetto. Non vi ha dubbio che questo concetto non sia uno dei fondamenti della dottrina, se non nel pensiero di Hamilton, in quello degli autori posteriori. Ma per istabilire la dottrina sul principio della conservazione e trasformazione dell' energia, è necessario di comprendere questo principio in un senso trascendente, metaempirico. Al punto di vista empirico, questo principio non fa che stabilire dei rapporti quantitativi definiti tra i fenomeni: per la costatazione di questi rapporti questi fenomeni non hanno cessato di essere distinti e differenti gli uni dagli altri. Quand' anche si ammetta la teoria dell' unità delle forze fisiche — nel senso non tra- scendente, cioè quello secondo cui tutte le azioni fisiche vengono ridotte alla trasmissione del movi- mento per l' impulsione —, siccome il movimento, nella sua circolazione incessante nella materia, can- gia continuamente, non solo per questo mutamento del suo su strato meteriale, ma nella velocità, nella direzione, in tutte le qualità per cui un movimento può differire da un altro movimento; cosi non si potrebbe dire, anche in quest' ipotesi, che i movi- menti antecedenti (le cause) sono una sola e stessa cosa eoi movimenti conseguenti (gli effetti). Per af- fermare che, nella trasmissione e trasformazione dell'energia, vi ha qualche cosa che persiste sempre la stessa, bisognerà fare della forza un quid di so- CLVIII CLIX hV stanziale, di cui non cangia che la forma — pren- dendo alla lettera la parola trasformazione^ come se si trattasse d'un oggetto materiale — e l'associa- zione con una porzione determinata della motoria. Ma \\\ questo caso si abbandonerà il dominio del sensibile e del rappresentabile — al di fuori del quale sarebbe evidente per tutti che non vi ha niente d'intelligibile, se non fosse questa tendenza fatale che spinge lo spirito umano ad oltrepassare l'esperienza (tendenza di cui noi cerchiamo l'espres- sione generale e la spiegazione psicologica)— -.Di più, se noi ammettiamo questa sostanza — forza, che migra di corpo in corpo, e prende successivamente delle forme differenti, la forza entrerà, con la materia, a far parte di questo elemento persistente del reale, a cui non si applica la legge di causalità; la legge di causalità, e i termini cause ed effetti, non sareb- bero applicabili a ciò che della forza è sempre iden- tico, alla sostanza, ma a ciò che di essa passa e si muta, ai cangiamenti della sostanza (trasmigrazioni, trasformazioni, ecc.) ; sicché ne anche allora si riu- scirebbe a dare un senso alla proposizione che le cause sono una sola e stessa cosa coi loro effetti, che vi ha identità fra questi e quelle. Sembra dunque vano ogni sforzo per rendere in- telligibile la proposizione. Noi non possiamo, rela- tivamente a questa dottrina, che ripetere press' a poco un' osservazione che abbiamo fatto relativa- mente alla dottrina dell'identità degli opposti di Eraclito. Essa non contiene la soluzione di una quistione, ma il postulato che la quistione è solu- bile, il postulato, cioè, che, quantunque il princi- pio a priori — vale a dire ammesso in virtù delle tendenze spontanee della credenza — che il reale è in sostanza invariabile, che non vi ha mai nelle cose un cangiamento assoluto, essenziale, sembri— e sia effettivamente, per noi— in contradizione coi can- giamenti dati dall' osservazione ; nondimeno i fatti dell'osservazione devono necessasiamente conciliarsi col principio, che è evidente per se stesso; e che questa conciliazione suppone la possibilità d'identificare i cangiamenti successivi della natura coi cangiamenti con cui hanno una relazione costante. Ma la dottrina non ci mostra come la conciliazione sia possibile: questa identificazione, che si suppone come una con- dizione per ottenerla, è irrealizzabile nel pensiero. Se noi la prendiamo alla lettera, lungi di risolvere la contraddizione, essa non fa che darle una forma più palpabile: se ci rifiutiamo a prenderla alla lettera, noi cerchiamo inutilmente quale possa essere il senso definito che si debba annettere alla propo- sizione. ^ CAPITOLO II Il concetto deiranima. § 1. Parlando dell' animismo primitivo, abbiamo visto che in esso^ col concetto dell'animazione della natura, o, più generalmente, con l'assimilazione delle forze della natura alla nostra attività umana, è im- plicato il concetto della dualità, della distinzione di duo sostanze, neir uomo e nelF essere animato. Questo secondo elemento della metafisica dell'uomo primitivo restò allora senza spiegazione : ma ora siamo in grado di ricercare quale sia il suo rapporto con le tendenze naturali dello spirito umano da cui derivano generalmente i concetti della metafisica. È evidente che se vi ha una dottrina a cui con- venga il nome di metafisica — nel senso definito in cui noi intendiamo la parola, comprendente il con- cetto che la dottrina ha la sua base nella costitu- zione stessa della intelligenza umana — questa è senza dubbio la dottrina animista (come ipotesi sulla natura degli esseri animati), che noi incontriamo in tutti i luoghi, in tutte le epoche, in tutte le razze, in tutti i gradi dello sviluppo della cultura. Questa considerazione deve farci rigettare quelle spiega- zioni dell'idea à^Wanima che ne cercano l'origine, non in un lato permanente dello spirito umano, ma CLXII in un certo stato intellettuale dell'umanità preisto- rica, che per noi, uomini attuali, è un mondo inte- ramente scomparso, e che noi diflìeilmente potrem- mo oggi riprodurre in noi stessi, anche in imma- ginazione. Tale è la spiegazione di Spencer, secondo la quale Tidea dell' anima è nata dalla interpreta- zione, grossolana e infantile, che l'uomo primitivo dava di certi fenomeni, sovratutto le ombre e le immagini viste, per esempio, nell'acqua e le rappre- sentazioni del sogno. Lo Spencer, partendo dal fatto che alcune popolazioni selvagge identificano l'ani- ma con l'ombra del corpo umano o con la sua im- magine, ammette che l'uomo primitivo, scambiando questi fenomeni per oggetti reali, ne concludeva che ciascun essere ha un duplicato. I fenomeni del sogno confermavano e davano una forma più defi- nita a questa concezione di un doppio, di un altro sé dell'uomo; Tuonio primitivo ò incapace di distin- guere il subbiettivo e Tobbiettivo; non avendo an- cora ridea di un mondo interiore, egli realizza ne- cessariamente i suoi sogni. Cosi, non solo le imma- gini viste nel sogno sono per lui i duplicati degli esseri reali conosciuti nella veglia, ma egli suppone che, mentre 1' uomo è immerso nell' immobilità del sonno, l'anima, il duplicato — che è la stessa cosa che, l'ombra o l'immagine — va vagando qua e là, facendo le azioni e visitando i luoghi che gli ap- pariscono nel sogno. Per conseguenza, quando l'in- dividuo è in uno stato momentaneo d'insensibilità — di sincope, di apoplessia, di catalessi — l'uomo primitivo crede che l'altro se siasi momentanea- mente assentato : questa stessa assenza dell'altro se, CLXIII prima creduta temporanea — perchè l'uomo primi- tivo, secondo Spencer, comincia per isperare nella resurrezione — poi definitiva, spiega l'insensibilità della morte (l). Ora, ammettendo che questo sia il processo psi- chico da cui è risultata primitivamente l'idea del- l'anima — processo che non potrebbe concepirsi se non nello stato selvaggio il più estremo — come spiegare la persistenza dell'animismo, quando non si tratta più delle razze inferiori e del grado infimo dello sviluppo della civiltà ? Secondo l' ipotesi di Spencer e le altre analoghe sull'origine della teoria animista, questa non potrebbe essere, nelle razze pervenute a un certo grado di sviluppo intellet- tuale — io non dico semplicemente negli attuali popoli inciviliti — che la sopravvivenza, dovuta a una cieca tradizione, di una vecchia idea non più adattata al nuovo ambiente intellettuale; una super- stizione nel senso dell' etimologia che alcuni, al punto di vista dei concetti moderni, assegnano a questo termine — ciò che persiste delle antiche eià—'^ in una parola, una specie di organo rudimentario neir organismo sociale. Ma noi non possiamo con- siderare la dottrina animista, nei popoli inciviliti, ed anche nei popoli barbari, come un semplice or- gano rudimentario : l'energia vitale di questa dot- trina, la sua influenza, dimostrano che la sua forza deriva da un' impulsione attuale, e non da un' im- pulsione già una volta ricevuta, e il cui effetto per- (1) Principii di socioì* voi. I. e. 8-13 e 26. I »-^ CLXIV siste per un'inesplicabile inerzia dello spirito umano. Forse si dirà che nei popoli pervenuti a una eerta maturità, o piuttosto che hanno sorpassato il cer- chio d'idee della prima infanzia, la base delFani- mismo non è più nelP intelligenza, ma nel senti- mento soltanto : ma allora sarebbe stato più coerente di assegnare lo stesso fondamento anche all' ani- mismo primitivo. Lo Spencer e gli altri pensatori che studiano le idee di quest'ordine al punto di vi- sta antropologico^ hanno ragione, io credo, di con- siderare l'animismo come una vera teoria filosoflctty cioè come un'ipotesi destinata sovratutto a rendere conto dei fenomeni : quantunque 1' uomo sia certa- mente portato a realizzare le sue speranze e i suoi timori, questa tendenza del nostro spirito non ba- sterebbe per sé sola a spiegare l'origine delle cre- denze umane, la speranza e il timore stessi suppo- nendo che l'intelligenza ha qualche motivo per am- mettere 1' esistenza o la verisimiglianza di ciò che si spera o si teme. Ma se si ammette che l'idea del- Faninia è un concetto filosofico — allo stesso titolo che l'altro elemento della teoria animista, cioè la concezione antropomorfistica della natura—, non si può considerare l'animismo dei popoli pervenuti a un certo grado di cultura come una semplice su- perstizione; e allora si deve ammettere che i motivi e il fondamento dell' animismo primitivo non pos- sono essere essenzialmente differenti da quelli dello spiritualismo moderno, e che l' idea dell' anima è, sin dalle prime origini della civiltà, il prodotto di una tendenza naturale ed essenziale dello spirito umano — come abbiamo visto che l'autropomorfìsma CLXY del filosofo selvaggio è il prodotto di quella stessa tendenza, naturale ed essenziale al nostro spirito, che spinge il filosofo incivilito alla più parte delle sue concezioni metafisiche — . § 2. Se noi cerchiamo i motivi della filosofia spi- ritualista, quali essi possono desumersi dallo studio storico della quistione, noi possiamo, con Lotze (1), riassumerli insomma nei tre seguenti : 1^ La sen- sazione, il pensiero, il desiderio, in una parola i fatti della coscienza, sono dei fenomeni essenzial- mente differenti dai fenomeni della materia (dal mo- vimento e dagli aitai cangiamenti di cui i corpi inanimati sono suscettibili). Per rendere conto dun- que dell'apparizione di questi fenomeni (e della loro scomparsa dopo la morte), è necessario di ammettere l' intervento (e la separazione) d' un principio di- stinto dalle sostanze che costituiscono il corpo, e la cui natura possa spiegare la natura speciale di que- sti fenomeni. Osserviamo che quest'argomento non è semplicemente impiegato dagli spiritualisti mo- ilerni — per cui 1' anima è dna sostanza spirituale nel senso stretto della parola — : noi lo incontriamo pure presso gli animisti antichi — che, come vedre- mo, riguardavano l' anima come qualche cosa di semi-materiale — . Così Cicerone dice : Non è pos- sibile di trovare sulla terra un'origine per l'anima: essa non può essere formata da alcuno degli ele- menti che noi conosciamo, perchè in questi non si trova il pensiero (2). E i filosofi ortodossi indiani (1) rrìtic. di pnic» fUiol, e. 1. (2) Ta,sviilane 1. 1. 27. CLXYI opponeyano ai materialisti che il sentimento e il pensiero non appartengono ai corpi, agli elementi materiali (1). 2^ La materia (inanimata) è inerte, passiva: nel suo movimento obbedisce alle leggi del meccanismo, ed è necessariamente determinata da oause esteriori. Ma gli esseri animati hanno in se stessi il principio del movimento : essi possiedono un'attività spontanea, possono da se stessi dar comin- ciamento a una nuova serie di cangiamenti nel mondo materiale, di cui essi sono la causa prima (2). Questa facoltà prova, della stessa maniera che la facoltà pre- cedente, la presenza, negli esseri animati, d'un prin- cipio distinto dagli elementi della materia. Quest'ar- gomento della necessità di un principio attivo che si sovraggiunga alla materia inerte, sembrava a Leib- nitz praferibiie, per provare l'esistenza dell'anima come principio distinto dalla materia, all'argomento antecedente, cioè alla differenza del pensiero e della sensazione dai fenomeni materiali (3). Qui è appli- cabile la stessa osservazione del numero precedente. Questo motivo conviene tanto allo spirìtualiswo mo- derno quando al semi-materialismo degli antichi a- (1) Colebrooke Sayuio sulla flloi, deuV IndUini traci, fran.p. 239.. (2) In Lotze rargomento e condotto in modo da sui)i>orre il Ubero •arbitrio. Io ho creduto più conforme ai dati storici di presentarlo sotto una forma più generile, cioè come implicante semplicemente l'attività spontanea, la libertà fisica, la quale esisto necessariamente se e quando esiste la cos'idetta libertà morale (il libero arbitrio), men- tre al contrario l'esistenza della prima non suppone necessariamente l'esistenza della seconda. (3; Opera ed. Dutens t. II. pars I. p. 207-208. Cfr. p. 84, p. 2::0 e 231, pars II p. li>5 {Responsiones nil Stahlianas observatioties, ad XXI, 7), ecc. U J CLXYII nimisti. L- uomo, a tutti i gradi del suo sviluppo intellettuale, ha sempre distinto l'animato dall'ina- nimato per la sua attività spontanea, e l'animista ha sempre trovato nella natura dell'anima la causa di quest' attività. Si sa che Platone, il gran siste- matizzatore dell'antica filosofìa animista, dà come es- senza o definizione dell' anima « ciò che muove se stesso », e stabilisce che 1' anima è il principio del movimento nel mondo dei corpi, ciò che prova che essa è indipendente da questi, ed è loro non poste- riore, come pretendono i materialisti, ma anterio- re (1). Con ciò Platone non fa che compiere uno sviluppo naturale del concetto dell'anima nella filo- sofìa greca : Aristotile osserva infatti che uno dei caratteri per cui gli antichi filosofi in generale a- veano distinto l'anima era di concepirla come causa di movimento nel corpo (per il suo proprio movi- mento) (2). 3"" L'unità della coscienza non permette di rapportare Tattività intellettuale a un aggregato di elementi uniti fra loro : il soggetto delle sensa- zioni e dei pensieri che co-^tituiscono una coscienza, unica deve osseine semplice, indivisibile, e quindi immateriale. Se questo soggetto fosse la materia, questa ha delle parti, e perciò le sensazioni e i pen- sieri dovrebbero dividersi tra le sue parti : ma da ciò non potrebbe risultarne l'unità della coscienza. Naturalmente io non pretendo che questa sia una enumerazione completa degli argomenti dei filosofi (1) Fedro 245, Let/f/i X. 891 e e sqq. (2) Arist. De An, 1. 1. e. 2. CLXYin CLXIX spiritualisti ; ma sono questi quelli che sono stati impiegati più frcquentamente e che sembrano avere più forza probante. § 3. Tuttavia, queste tre prove della filosofia .9^/- ritualista non potrebbero essere riguardate tutte e- gualmente come motivi A^ÌVannnisìuo. Distinguiamo tra animismo e spiritualismo: il primo è un genere, di cui il secondo è una specie. Il Tylor ha soddis- fatto a un'esigenza indispensabile del linguaggio fi- losofico, servendosi del primo di questi due termijii per indicare la riconoscenza, in tutte le razze u- mane, dell'anima come sostanza distinta, uso a cui il secondo termine non sarebbe stato proprio, perchè legato al concetto dell'assoluta immaterialità di que- sta sostanza. L'anima non è una sostanza spirituale nel senso moderno della parola, cioè assolutamente immateriale, che nella fase più recente deUa teoria animista : è bisognato che l' intelligenza umana si fosse lungamente esercitata all'astrazione filosofica, e familiarizzata con le idee astruse del sovrasensi- bile, prima di ammettere un concetto a cui non cor- risponde niente di sensibile né d'immaginabile. Così la dottrina della dualità (anima e corpo) non è al- l'origine, come dice Baia (l), che un doppio materia- lismo : la sostanza spirituale è opposta alla sostanza corporale, non perchè la seconda è materiale e la prima no, ma perchè la seconda è costituita di una materia più grossolana, e la prima di una materia più sottile. Le razze inferiori, come ancora fra di* noi gli uomini privi di coltura, concepiscono per il solito l'anima come qualche cosa di vaporoso o di etereo avente la forma umana, ordinariamente im- palpabile e invisibile, ma che può manifestarsi ai sensi in certe occasioni, p. e. nel sogno e nella vi- sione. A questo concetto è talvolta illogicamente as- sociato quello di una materialità più grossolana, come lo indica, p. e., il costume molto diffuso di spargere della cenere o della farina per potervi os- servare le impronte lasciate dai passi degli spiriti: quest'uso esisteva anche presso gli Ebrei, e può tut- tora incontrarsi nell'Europa incivilita. L'esistenza che l'anima conduce nell'altra vita non è che una copia dell'esistenza attuale : essa può mangiare, bere, parlare, camminare, e darsi alle occupazioni solite nella Aita corporale (1). Questo stosso doppio materialismo, che caratterizza l'animismo popolare, è ammesso pure generalmente dagli antichi filosofi. Senza dubbio noi troviamo una tendenza crescente a distinguere lo spirito dalla ma- teria— tendenza la quale deve finalmente arrivare al concetto delF immaterialità assoluta — .Aristotile osserva che uno dei caratteri per cui i suoi ante- cessori hanno definito l'anima è Tincorporeità^ cioè la composizione dalla materia più sottile (2). Fra gli elementi materiali è l'aria o il fuoco (questi due e- lemonti non sono nettamente distinti presso i primi fisici) che i filosofi greci, i quali ammettono quasi (1) Lo spirito e il corpo e. 7. (1) V. Tylor La civili -.zuz.primif, e. 11, 12, 13. 15. <2) De nn 1. I. e. 2. 21). — i — f^ — CLXX tutti la distinzione deir anima e del corpo, riguar- dano preferibilmente come sostanza deiranima. Nel mondo antico, queste non erano delle concezioni ma- terialiste : gli stoici, che nella filosofia antica rap- presentano evidentemente la tendenza anti-materia- lista, considerano 1' anima come del fuoco o come uno spirito (7uv£0tj.a) caldo (1), ciò che è l'essenza del- l'elemento divino che penetra e governa tutto l'u- niverso. Similmente Cicerone dà all'anima gli attri- buti di divina, immortale, ed anche semplice; ma ciò non esclude la sua materialità : l'anima si eleva in alto sino agli astri per la sua purezza e leggerezza; noi non conosciamo la sua forma, la sua grandezza, la sua sede; noi non sappiamo se possa cadere sotto i sensi o vi sfugga por la sua sottigliezza (2); egli non sa comprendere cosa possa essere un Dio asso- lutamente incorporale (3). Quegli stessi filosofi, che stabiliscono la più recisa opposizione tra lo spirito e il mondo dei corpi, non hanno ancora la nozione di una sostanza spirituale, cioè inestesa : secondo A- nassagora il Nous è la più sottile di tutte le so- stanze (4), e si fraziona nei diversi esseri animati, nei quali si trova in maggiore o minor quantità (5) ; secondo Platone, l'anima è invisibile, almeno per noi (6), ma ha una grandezza, e si muove continua- li) V. Cicero. Tnscul, I. X. Pluf. Flac. 1. IV. e. III. ecc. (2) TuHcuì, 1. 1. 17-19 e 22. (3) Nai. Deor, I. :J0. «4) Muli. iV. 6. (5) Muli. Ft\ 5, 6; Arist. De An. 1. I. II. 5. (6) Leyyi H98 d-e. Fedone 79 b. CLXXI mente, comunicando ai corpi il proprio movimento, come potrebbe farlo, un corpo ad altri corpi (1). In verità potrebbe credersi che il concetto della spiri- tualità si trovi già in Aristotile, perchè il Nous separato è per lui indivisibile, senza grandezza, senza materia (2): ma per poter attribuire ad Ari- stotile la nozione della sostanza spirituale, nel senso moderno, bisognerebbe che questo filosofo avesse ammesso nel Nous, al di là del pensiero, un quid co- me substratum del pensiero, ciò che non è (3), il Nous non essendo che una semplice attività intellettuale, un'intelligenza identica all'intelligibile, in cui ciò che pensa e ciò che è pensato non è che il pensiero stesso (4). Noi possiamo dunque affermare che nel periodo veramente classico della filosofìa greca, la nozione di sostanza spirituale resta ancora scono- sciuta. Il doppio materialismo è pure la dottrina dominante presso i primi padri della chiesa, sino al 5"^ secolo, quantunque presso i filosofi, notevolmente i neo- plutonici, si fosse già iniziata la dottrina della im- materialità. I primi padri della Chiesa avevano due motivi per ammettere che l'anima è materiale: primo, ciò che non è materiale non è una sostanza, e se- condo, se lo spirito non fosse corporale, esso non potrebbe essere affettato dalle ricompense e sovra- tutto dalle punizioni dell'altra vita. Se l'anima non (1) Plato Le(ji]i X. 894 b sqq., Timeo B4 b sqq, Aristotile De an. 1. l. e. 3, ecc. (2) Phy8. Vili. e. ult. ; Met, XI. e. 6, 7, 8, ecc. (3) V. De An. 1. III. e 4. (4) De an. 1. 3. e. 5. Mefaf. 1. XI. e. 7. e. 9. ecc. CliXXII è un corpo, chi è, domanda Tertulliano, quest'essere che discende agl'inferni dopo la morte, e vi resta sino al giorno del giudizio ? L'anima ? ma ciò è im- possibile se l'anima è niente : ora ciò che non è un corpo non è che niente. D'altronde un essere incor- porale non potrebbe soffrire prigionia, e sarebbeimmune da pena : se l'anima è capace di sentire il tormento e il piacere, in mezzo al fuoco dell'inferno o nel seno di Abramo, ciò dimostra la sua corpo- ralità, poiché una cosa incorporale sarebbe neces- sariamente impassibile (1). Non vi ha niente, dice S. Ilario (2), che non sia corporale nella sua sostanza; e Arnobio (3) domanda chi sarà tanto imbecille e illogico per ammettere che delle animo inestese o per loro natura incorruttibili possano essere toccate dalle fiamme e sottomesse agli altri tormenti dello inferno. L'anima, dice S. L*eneo (4), ha degli occhi, una lingua, delle dita, ed è di una forma simile in tutto a quella del corpo, ma non è un corpo. L' ultima proposizione non include la sua assoluta incorporalità; essa è incorporale comparativamente ai corpi grossolani dei mortali (5). Taziano ammette, come gli stoici, che lo spirito umano, non che quello degli animali, delle piante, degli astri, ecc., è una parte dello spirito divino, diffuso da per tutto nelle natura (6). Cosi lo spirito è secondo lui divisibile: (1) Tortull. Lib, de Anima e. (2) S. Ilar su S. Matt. (3) Adv. Geiit,, 1. 2. (4) Iren. 1. 2. e. 63. (5) L. 2. e. 34, 1. 9. e. 7. (6) V. e. 2. § 12. p. 111-112. cLXxm d'altronde se l'anima non avesse delle parti e non fosse divisibile, essa non potrebbe essere diffusa per il corpo (1), Alcuni padri ammettevano la materia-lità tanto di Dio quanto dell' anima, altri, come il S. Ambrogio (2), non accordavano l' immaterialità che alla sostanza divina. La dottrina dell' immate- rialità dell'onima non oomineiò a prevalere che al 5" secolo, per opera sovratutto di alcuni padri pla- tonizzanti, fra i quali bisogna assegnare il primo posto a S. Agostino. § 4. Questa rapida escursione nel dominio della steria ci mostra che un argomento che conclude alla semplicità o spiritualità dell'anima non potrebbe essere uno dei fondamenti (\e{V animismo^ considerato come la lilosofla generale e spontanea del genere umano : di più, siccome il concetto della spiritualità è, come mostreremo, il risultato naturale dell'evolu- lusione della teoria animista, potenzialmente impli- cato nei pré^supposti stessi dell'animismo primitivo, noi non potremmo vedere nemmeno in un tale ar- gomento il motivo reale della filosofia spiritualista. Così delle tre prove indicate come motivi della dot- trina della sostanzialità dello spirito, noi non pos- siamo riguardare come veri fondamenti della dot- trina che le prime due soltanto, ed escludere la terza, quella che conclude dall'unità della coscienza alla semplicità e indivisibilità del soggetto pen- (1) Oi'it. Ade, Ci'. (2) Atnbr. da A'n\i.'f i u CLXXIV sante (1). Ora è evidente che le due prove non sono che due casi particolari d'un'argomento più gene- rale, nel quale perciò dobbiamo riconoscere la vera base dell'animismo, e che potrebbe formularsi così: Certi corpi che si chiamano animati, ai fenomeni generali della materia aggiungono altri fenomeni d'una natura affatto speciale, e sono perciò netta- mente opposti ad altri corpi, che, per l'assenza di questi fenomeni speciali, si chiamano inanimati; ora siccome i corpi animati si formano dagl'inanimati, e ritornano dopo un certo tempo allo stato inani- mato, non essendo cosi che per un tempo limitato (1) Quest'argomento ò fondato suUa falsa assimilazione delle di- verse parti dell'organismo senziente a dei soggetti senzienti distinti e separati. « Se una sostanza che pensa, dice Bayle, non fosso una che come un globo é uno, essa non vedrebbe mai un albero intero, non sentiiobbe mai il dolore eccitato da un colpo di bastone. Ecco un mezzo onde convincersi di ciò. Considerate la figura delle quattro parti del mondo sa di un globo ; voi non vedrete in questo globo cosa alcuna che contenga tutta l'Asia o anche un fiume intero, il luocro che rappresenta il regno di Siam, e voi distinguete un lato drirto 0 un lato sinistro nel luogo che rappresenta l'Eufrate. Nasce da ciò che, se questo globo fosse capace di conoscere le figure di cui è stato adornato, non conterrebbe cosa alcuna la quale potesse dire : io conosco tutta VEuropa, tutta la Francia, tutta la città di Am- sterdam, tutta la Vistola : ciascuna parto del globp potrebbe sola- mente conoscere la parte della figura che le sarebbe caduta in sorte; e come questa parte sarebbe si piccola che non rappresenterebbe luogo alcuno per intero, sarebbe assolutamente inutile che il globo fosse capace di conoscere; da questa capacità non risulterebbe alcur. atto di conoscenza, o per lo meno sarebbero atti di cono- scenza molto diversi da quelli che noi sperimentiamo, poiché i no- stri rappresentano un albero intero, un intero cavaUo. Prova evi- dente che U soggetto colpito da tutta l'immagine di questi oggetti non è divisibile in molte parti; e perciò che Tuomo, in quanto pensa^ non è corporeo o materiale o composto di molti esseri. Se egli fosse tale, sarebbe niente sensibile ai colpi del bastone, poiché il dolore H: \i fi CLXXV la sede di questi fenomeni che caratterizzano lo stato animato, se ne deve concludere che, durante questo tempo limitato, al corpo, alla materia visibile e tangibile, è associata un'altra sostanza, invisibile e intangibile, che è l'agente e il soggetto reale di questi fenomeni. Le due prove particolari appli- cano l'argomento generale all'uno e all'altro dei due caratteri più salienti, che distinguono l'animato dal- l'inanimato, cioè la coscienza e l'attività spontanea : l'una e l'altra prendono per punto di partenza la differenza essenziale di questi due ordini di feno- meni, caratteristici dello stato animato, dai fenomeni 8Ì dividerebbe in tante particelle quante ve ne sono negli organi colpiti. Ora questi organi contengono un' infinità di particelle, e cosi la porzione del dolore che converrebbe a ciascuna parte, sa- rebbe si piccola che non si sentirobbo affatto.» Diz, art. Leucippo. E Galluppi, dopo aver citato Baj-lo, aggiunge : « La coscienza del- l' unità sintetica della percezione comprende dunque la percezione dell' unità o della semplicità del me che sintetizza. Meditando sul paragone che noi facciamo degli oggetti che agiscono su dei nostri sensi, sui giudizi ai (inali danno luogo le loro impressioni, il senti- mento dell'unità semplice, indivisibile, immateriale dell'essere pen- sante risuUcrà'luminosamonte. (Quando voi vi riscaldate la mano, è sicuro che provate una sorte di piacere : se nel tempo medesimo venga avvicinato al vostro naso un odor piacevole, sentirete uu'altraspecie di piacere. Se io vi domando quale di questi due piaceri maggiormente vi piaccia, voi mi risponderete quello o questo : voi dunque paragonate insieme questi due piaceri e giudicate di essi nel tempo medesimo. Se dopo esservi riscaldato e di avere odorato, io vi faccia gustare una vivanda, voi potrete certamente dire quale di questi due piaceri sia il maggiore ; bisogna dunque che ciò che in voi giudica abbia sentito tutto ciò. Questo stesso io che giudica, conosce se un piacere dei sensi sia maggiore del piacere della sco- verta di una verità, o di quello che reca l' esercizio della virtù, e sceglie fra queste due cose; il medesimo soggetto, dunque, il quale prova i piaceri sensibili, prova altresì gli spirituali, e giudica e vuole : è questa una prova che la coscienza del me, che si sente af- CLXXVI dello stato inanimato, e (lall'identità della materia, che passa alternativamente dall'uno alFaltro di que- sti due stati, concludono, 1' una che ciò che fa che Tessere animato senta e pensi — o piuttosto ciò che è esso stesso il soggetto della sensazione e del pen- siero —, l'altra che ciò che fa che Tessere animato sia dotato di attività spontanea — o piuttosto ciò che è esso stesso il soggetto di quest'attività spontanea— non è il corpo, mi un quid distinto dal corpo e con questo temporareamente associato. Ma in che con- siste il legame fra tale conclusione e i dati su cui essa è fondata? come si giustifica il passaggio da fetto da tutte queste sensazioni, e che opera in seguito, non ò mica la coscienza del vostro naso che sente gli odori, uè della vostra mano che sente il calore; poiché come la mano o il naso sono due cose assolutamente distinte, egli è tanto possiìiile che V una senta ciò che sente l'altro, quanto è possibile che noi sentiamo in questa camera il piacere che ora sentono quelli i quali sono al teatro; bi- sogna dunciuo che la coscienza che avete del me il quale sente l'o- doro ed il caloie nello stesso tempo, non solo non sia la percezione del naso e della mano; ma bisogna altresì che sia la percezione di un soggetto unico, semplice e privo di parti; perchè se avesse i)arti, runa sentirebbe l'odore, mentre l'altra sentirebbe il calore, e non vi sarebbe giammai il sentimento di una cosa, la quale sentisse in sieme 1' odore ed il calore, li paragonasse, e giudicasse che l'uno è più piacevole dell'altro » (Eleni, di ftlos, 1. 3. e. 8). Tutta la forza dell'argomento svanisce, se noi togliamo la supposizione che la mano il naso — o, secondo la fisiologia,' le diverse parti del cervello in cui sarebbe la sede dei fenomeni fisici che sono i supposti antecedenti della sensazione e del pensiero — sono, secondo il materialista, dei soggetti senzienti e pensanti distinti, come noi che Miamo in queata camera e le jìersone che «mio al teatro. Ma chi nega la sostanzialità dello spirito non è perciò obbligato a concepire le diverse cellule o molecole del cervello corra altrettante persone distinte. Ciò che sente o pensa non è la mano o il naso, né (juesta o quella porzione della corterrcia cerebrale, ma 1' uomo, all' occasione di un contatto della mano o del naso, o, supponiamolo, d' un movimento molecolare in CLXXYII questi a quella? Se noi rivolgessimo queste do- mande ad alcuno dei filosofi spiritualisti che fanno quest' inferenza, egli risponderebbe forse che il legame fra i dati da cui s' inferisce (la differenza essenziale dei fenomeni dello stato animato da quelli dello stato inanimato, e la identità del sustrato ma- teriale che è ora nelT uno ora nell'altro di questi stati), e la conclusione che se ne inferisce, è evidente per se stesso, e non ha bisogno di una giustifica- zione ulteriore. Ma noi che sappiamo, che la evi- denza intrinseca non può essere il fondamento ul- timo di una connessione tra le nostre idee, e che qualche parte del cervello. Supponiamo queste parti isolate, fuori del concerto organico, non vi sarebbe più né sensazione né pensiero. Non bisogna, per altro, prestare gratuitamente al materialista l'as- surda immaginazione che il fatto della coscienza abbfa una località,. nel senso stretto della parola, come p. e. il movimento o la figura e in una parola ciò che può essere oggetto della percezione visuale. Bayle, nella sua finzione del globo che prende conoscenza delle fi- gure su di esso dipinte, suppone tra le percezioni e le differenti parti del globo lo stesso rapporto che tra queste e le figure : cosi «gli immagina la coscienza divisa in frammenti e sparsa nelle di- verse parti della materia, e anche divisibile, come la materia, all'in- finito. Quando si dice che 1' uomo, quale oggetto della percezione •esteriore, è il soggetto della coscienza, si vuol dire semplicemente che tra i fenomeni materiali, cioè esistenti in un luogo, i quali hanno la loro sedo nel corpo dell' uomo, e i fenomeni spirituali, cioè non esistenti in alcun luogo, i quali costituiscono la coscienza o il me mentale dell' uomo, vi ha una corrispondenza secondo rapporti de- finiti di simultaneità o di successione. E quando si dice che le por- zioni differenti di questa coscienza o di questo me mentale — il quale non è, è vero, che una serie di stati di coscienza, ma una serie che bisogna concepire, non come un aggregato di elementi separati ed aventi ciascuno un' esistenza indipendente, ma come un tutto uno « continuo, in cui non si distinguono delle porzioni separate che per una sorta di astrazione — corrispondono a dei fenomeni fisici esistenti in porzioni differenti del me della percezione esteriore, CLXXVIII tutte le connessioni mentali (quelle almeno che hanno per oggetto l' esistente) derivano, in ultima analisi, dall'esperienza, dobbiamo cercare se vi sia^ un principio generale, fondato sull'esperienza, che il ragionamento sottintende, e che è un altro ante- cedente logico indispensabile per giustificare il pas- dagli antecedenti enunciati della conclusione alla conclusione stessa. Questo principio generale supposto, questo altro antecedente logico che noi cerchiamo, non è che il principio stesso su cui sono fondati tutti gli altri concetti metafìsici che noi ab- biamo percorsi in quest' Appendice, vale a dire il cioè del corpo, non si stabilisce ha i due ordini di fenomeni che un semplice rapporto esteriore, non si rompe 1' unità e continuità del me mentale, spargendone i frammenti tra le diverse parti del me fisico. Il me*mentale può essere concepito come una semplice serie di stati di coscienza ? È un' altra quistione, a cui più giù avremo occasione di toccare. L' argomento che dall' unità empirica della coscienza conclude all'unità assoluta del substratum della coscienza, è talmente diffuso tra i filosofi spiritualisti, e questa scuola gli dà tanto peso, che noi non possiamo vedere in esso un semplice sofisma artificiale, ma dob- biamo vedervi l'espressiona di un sofisma a priori o ìiaturale, I so- fismi di questa natura, che stabiliscono come intrinsecamente evi- dente l'impossibilità di una connessione obbiettiva, suppongono una inconcepibilità relativa, una difficoltà subbiettiva a formare la con- nessione ideale corrispondente, e questa difficoltà non può essere che un risultato dell'esperienza. Ma, in questo caso, sembra diffìcile di spiegare in che consista e donde abbia origine l'inconcepibilità, poiché non vi ha un concetto più abituale e fondato su esperienze più familiari che quello che la coscienza ha la sua sede in un substra-» tum, la cui unità non esclude la moltiplicità, e che le diverse sen- zazioni sono localizzate nelle parti differenti di questo substratum (la mano, il piede, ecc.). Noi abbiamo però la conoscenza di un fe- nomeno psicologico che può venirci in aiuto; noi sappiamo cioè che i fatti più familiari diventano incomprensibili dopo che la scienza ha mutato il modo prescientifìco di cojicepire questi fatti. L'in- CLXXIX principio secondo cui le cose non possono cangiare di natura, e una stessa sostanza non potrebbe, in tempi differenti, avere delle proprietà essenzialmente differenti. Ammesso questo principio, se si riconosce d'altra parte che vi ha una differenza essenziale tra le proprietà dell'essere animato e quelle della materia inanimata da cui esso procede e a cui esso ritorna, non se ne deve concludere che le proprietà differenziali dell' essere animato, il sentimento, il pensiero, l'attività spontanea, ecc. suppongano la coo- perazione col corpo di un'altra sostanza distinta dal corpo e con esso temporaneamente congiunta? non se ne deve concludere inoltre che quest'altra sostanzar è il soggetto reale, il vero possessore, del sentimento, del pensiero e delle altre proprietà distintive del— concepibilità o piuttosto l' incomprensibilità, su cui è fondato Par»- gomento degli spiritualisti, potrebbe derivare da questo, che la teo- ria corpuscolare ha sostituito al concetto naturale di un corpo uno- e continuo, quale sede della coscienza, quello di una moltiplicità di corpuscoli separati e, nella forma più ordinaria della teoria, non solo senza continuità, ma anche senza contiguità (o, neU 'atomismo metafisico, di una moltiplicità di monadi). Allora, l'idea dell'unità della coscienza essendo per noi strettamente associata a quella del- l'unità del corpo, una coscienza unica che sia la proprietà di un aggregato di corpuscoli ci sembra cosi incomprensibile come se que- sta coscienza unica si attribuisse ad un gregge o ad un esenùto. Io credo che sia questa la difficoltà che costituisce la forza probante del sofismti, quantunque, nell' espressione dell' argomento, questo* punto possa talvolta esser perduto di vista, e, per dare all' argo- mento una portata generale, non si distingua tra una materia con- tinua, e una materia, quale si ammette effettivamente, costituita di corpuscoli separati. Si ricordi l'idea di Diderot che, per evitare la difficoltà dell'unità della coscienza, al punto di vista dell'ilozoismo, crede necessario di ammettere la continuità materiale (e non la costituzione molecolare) dell'organismo. CLXXX l'essere animato, in modo che, come è essa che le ha apportato nel corpo, cosi è ad essa che spettano dopo avvenuta la separazione dal corpo, quando questo è ricaduto neirincoscienza e nell'inerzia della materia inanimata ? Non bisogna però dimenticare che l'inferenza del filosofo animista non è ordinariamente, come le al- tre inferenze su cui sono fondati i coiicetti della metafisica, che un' inferenza incosciente. Il principio dell'immutabilità dell'essenza delle cose, che la con- clusione suppone, non determina questa come un principio coscientemente invocato e riconosciuto; l'inferenza, espressa sotto la forma logica del ragio- namento cosciente, avrebbe bisogno di questo prin- cipio; ma invece di esso è la massa delle nostre esperienze passate di cui esso è la generalizzazione, che agisce d'una maniera cieca e puramente orga- nica, e la conclusione che esse determinano è o può essere la sola cosa di cui si abbia coscienza. Noi comprendiamo così come il filosofo animista può non ammettere in tutti i casi il principio generale che^ praticamente, egli ammette nel caso speciale; e comprendiamo pure come, per giustificare la con- clusione, siano spesso impiegati dei ragionamenti capziosi e puramente artificiali^ invece del ragiona- mento naturale di cui essa è il risultato. § 5. Una conferma della spiegazione data dell' o- rigine dell' animismo la troviamo nel fatto che le altre soluzioni dello stesso problema, che lo spirito umano incontra naturalmente quando respinge la soluzione animista, sono fondate sullo stesso prin- cipio su cui questa, secondo noi, è fondata. L'ilozoi- •;i • V CLXXXI smo e la dottrina dell'identità del fisico e del men- tale— le soluzioni differenti dell' animismo del pro^ blema dell'origine della coscienza — riconoscono an- ch'esse, lo abbiamo visto, con 1' animismo, il prin- cipio che l'essenza delle cose non può cangiare; ed essi non evitano la conclusione animista che ne- gando il dato di fatto che ne è la premessa, cioè la differenza essenziale, assoluta, tra il cosciente e l' incosciente. Lo stesso fatto si osserva, passando dalla quistione della coscienza a quella dei caratteri puramenti fisici che distinguono i corpi animati: quando, per la spiegazione di questi caratteri, non si accetta il concetto dell'anima o altri concetti ana- loghi, si ammette invece la teoria meccanica, o più generalmente fisico-chimica, della vita che nega la differenza essenziale tra i fenomeni della materia animata e vivente e quelli della materia bruta, sal- vando cosi il principio eh 'esso ha in comune con le dottrine rivali, dell' impossibilità di un cangia- mento neiressenza delle cose. Quest'osservazione ci conduce a una considerazione generale sui concetti diversi, e apparentemente opposti, che lo spirito u- mano si forma delle forze e della loro relazione con la materia, e sull'influenza che il principio dell' invariabilità essenziale del reale ha su questi concetti. Sarebbe una ripetizione inutile, se insistes- simo sull'analogia, da una parte, tra la teoria ani- mista e la teoria vitalista — la quale, sia detto per incidente, si presenta pure, come la prima, sotto le due forme distinte della materialità (fluido vitale e concetti simili) e dell'immaterialità (forila vitale pro- priamente detta)— e dall'altra parte, tra le dottrine materialiste opposte all'animismo e al vitalismo, il carattere comune delle quali è l'identificazione dei fenomeni caratteristici dell'animato e del vivente a quelli dell'inanimato e del non vivente. Ciò che ora dobbiamo notare è che, anche nei limiti del dominio della semplice materia bruta, noi troviamo, insieme all'antao:onismo di una concezione materialista che unisce inseparabilmente la forza alla materia, e una concezione dualista che fa della materia e della forza due entità distinte e separabili, l'accordo, tra le due concezioni antagoniste, sopra un principio comune, che è lo stesso nel quale convengono le soluzioni opposte dei problemi della coscienza e della vita, cioè l'invariabilità dell' essenza delle cose. Quando la materia presenta dei fenomeni nuovi che prima non presentava, quando viene riscaldata, illuminata, elettrizzata, ecc., e cessa poi di presentare questi fe- nomeni, è una vera concezione dualista, analoga a quella dell' anima o della forza vitale, di spiegare il fatto, ammettendo, come già facevano i fisici, dei fluidi imponderabili speciali, la cui presenza o as- senza è la causa della presenza o assenza nella materia delle proprietà corrispondenti. Si suppo- neva che il calorico o l' elettrico entrassero nei corpi, producendovi lo stato particolare <»he si chia- ma con lo stesso nome di calore o di elettricità, e poi ne uscissero, alla cessazione dei fenomeni corrispondenti (quantunque in verità si fosse co- stretti ad ammettere che i fluidi potessero trovarsi nei corpi d'una maniera occulta o dissimulata, cioè senza manifestarvisi con dei fenomeni sensibili, co- me il calore che si diceva latente, o l'uno dei due CLxxxin fluidi elettrici che si supponeva neutralizzato dal fluido di natura contraria), come lo spirito o la forza .vitale sono supposti entrare in altri corpi per pro- durvi la coscienza e la vita, e poi separarsene, alla cessazione di questi stati particolari. Dal principio che una sostanza non può cangiare di natura e di proprietà, si concludeva nell' un caso, come si con- clude neir altro, che il cangiamento del corpo era dovuto alla presenza e all' assenza di un' altra so- stanza distinta dal corpo stesso, la sostanza supposta ritenendosi anch'essa come invariabile nella sua es- senza, donde la necessità di distinguere una plu- ralità di fluidi, ciascuno non potendo produrre che un ordine di fenomeni, senza di che si sarebbe ri- nunziato al principio dell'invariabilità dell'essenza. Questo dualismo in fisica sembra definitivamente abbandonato, almeno sotto la forma semimaterialista, perchè sotto la forma, per dir cosi, spiritualista, che sostituisce delle forze immateriali ai fluidi impon- derabili, esso ha ancora dei rappresentanti fra i fisici moderni, come Hirn, che partendo « dalla diversità dei fenomeni per concludere alla diversità delle cause », riconosce nel mondo fisico l'esistenza di tre elementi almeno, specificamente distinti dalla ma- teria, capaci di manifestarsi come potenze dinamiche (questi elementi sono, oltre alla forza gravifica, che non ha rapporto alla presente quistione, la forza e- lettrica e la forza calorica). Ora la fisica non ha potuto abbandonare questa concezione dualista del rapporto tra la forza e la materia, prima di iden- tificare le varie categorie di fenomeni, già attribuite ciascuna a ciascuno di questi agenti distinti, che erano supposti per rendere conto dell'apparizione, a un certo momento, di fenomeni nuovi, prima non esistenti, nella materia, e dei quali perciò non . potè farsi a meno se non quando cominciò ad am- mettersi che i fenomeni non sono essenzialmente nuovi, cioè che la materia, cominciando a mani- festarli e poi cessando dal manifestarli, non can- gia perciò di proprietà — secondo la spiegazione meccanica di questi fenomeni, che riducendoli tutti al movimento che i corpi si trasmettono secondo le leggi dell'urto, non vede nella materia che la pro- prietà, sempre invariabilmente la stessa, di appro- priarsi il moA^imento ricevuto per impulsione e di trasmetterlo per lo stesso mezzo. Così è salvo^ nella nuova teoria, il principio dell'invariabilità dell'essenza delle cose, che già avea condotto all'ipo- tesi antica degli imponderabili come agenti speci- ficatamente distinti; e noi vediamo anche qui, come nella quistione della vita e in quella della co- scienza, da una parte una concezione materialista (cioè che non fa la forza separabile dalla materia), fondata sulla identificazione dei fenomeni differenti che la materia in condizioni differenti manifesta; dall'altra parte una concezione dualista (per cui la forza è separabile dalla materia), che suppone degli agenti speciali per ispiegare la presenza e assenza alternativa di speciali fenomeni nella materia ; e l'una e l'altra delle due concezioni opposte fondata sul principio comune che l'essenza delle cose è in- variabile. Ciò che può servire a mostrare quanto .vi sia di vero neir osservazione di Bacone, che le opinioni più opposte (io non dirò, com'egli effetti- vamente dice, le illusioni più opposte) derivano il più spesso da una sorgente comune. § 6. D'una maniera generale, l'ipotesi dei'anima è destinata a spiegare il passaggio della materia, sia dallo stato inanimato allo stato animato, sia dallo stato animato allo stato inanimato: ma noi non potremmo attenderci dall'intelligenza dell'uomo primitivo che egli si fosse proposto il problema della vita sotto una forma rigorosamente generale. Probabilmente il filosofo selvaggio non si dice che la materia che costituisce l'essere vivente è la stessa materia che è già esistita allo stato di materia bruta, e che perciò la trasnaturazione di questa materia, la acquisizione delle nuove proprietà vitali, necessita riiitervento di un altro principio. Ma ciò di cui egli non può mancare di essere colpito è il feno- meno della morte, l' opposizione fra il cadavere e l'uomo già un istante prima ancora vivente. « Egli ha visto, dice Huxley, il guerriero pieno di una feroce energia, il capo dispotico della sua tribù forse, rovesciato da un colpo inatteso. Un fanciullo può insultare impunemente V uomo che era, non è già che un istante, sì terribile; una mosca riposa tran- quillamente sulle sue labbra da cui uscivano degli ordini sempre ubbiditi. Pertanto l'aspetto fisico di quest' uomo sembra pressoché lo stesso che allor- quando egli dormiva, e che dormendo si immagi- nava esso stesso staccato dal suo corpo ed errare nella terra dei sogni. Non è che questa qualche cosa che è l'essenza dell'uomo, è stata costretta in effetto di partire, e d'errare al di fuori per la violenza che le si è fatta subire, e ci trova ora incapace, ovvero il -' « dimentica, di ritornare nel suo inviluppo? Non con- serva alcuni dei poteri che possedeva durante la vita ? » (1) Confrontiamo questo ragionamento, che noi prestiamo, con Huxley, al filosofo selvaggio, col ragionamento di un filosofo incivilito. « L'aspetto di un cadavere, dice Schopenhauer, mi mostra che là ogni sensibilità, irritabilità, circolazione, ripro- duzione, ecc., hanno cessato. Io ne concludo con certezza che il principio, a me sconosciuto, che metteva tutto ciò in attività, ha cessato di asire: che esso se ne è dunque separato ». (2) La nostra spiegazione dell'origine dell'animismo si accorda sino ad un certo punto con quella di Tylor, di cui ecco il riassunto con le parole stesse dell'autore: « L'intelligenza umana, ad uno stato di coltura ancora poco avanzato, sembra sovratutto preoccupata di due categorie di problemi fisiologici. Cioè : primo ciò che costituisce la differenza tra un corpo A ivente e un corpo morto, la causa della ve- glia, del sonno, della catalessia, della malattia, della morte. Poi, la natura di queste forme umane che appariscono nel sogno e nelle visioni. Meditando su questi due ordini di fenomeni^ gli antichi filosofi sel- vaggi devono essere stati portati, al principio, a que- sta induzione tutta naturale cli^ vi ha ili ciascun uomo una vita e un fantasma. Questi due elementi sono in istretta connessione col (^orpo. La vita lo rende atto a sentire, a pensare, ad agire; il fantasma è la sua im- magine, un secondo se stesso. Tutti e due pure sono ì •t (1) // poslt, e la se. contemp. iu Rei\ sciente sei-, I. t. 6.° (3) // mondo come volontà e come rappresentazione, v.2.cap. 41. nettamente separabili dal corpo, — la vita è suscet- tibile di ritirarsene, di lasciarlo insensibile o morto; il fantasma può apparire a persone lontane. TJn se- condo passo ci sembra facile per questi selvaggi, se noi consideriamo l'estrema difficoltà che provano le genti incivilite a romperla con questa dottrina. Esso consiste semplicemente a combinare la vita e il fantasma. Tutti e due appartengono al corpo: per- chè non apparterrebbero pure l'uno all'altro ? Perchè non sarebbero le manifestazioni d'una sola e stessa anima? Si considerano come uniti? si ottiene per risultato questa concezione ben conosciuta, che si potrebbe chiamare la dottrina àéWanima apparmo- naie o ^^\V anima-fantasma. Tale, in effetto l'idea che le razze inferiori si fanno dell'anima personale o spi- rito. È un'immagine umana, sottile, immateriale, un vapore in qualche sorta, una nebbia, un'ombra; essa è la causa della vita e del pensiero nell'individuo che anima, la padrona indipendente della coscienza e della volontà del suo possessore corporale, pre- sente o passato; essa può lasciare il corpo dietro di sé e trasportarsi rapidamente di luogo in luogo; gene- ralmente impalpabile e invisibile, ma suscettibile an- che di manifestare qualche proprietà fìsica, apparisce agli uomini, nella veglia o nel sonno, come un fan- tasma separato dal corpo ma di cui conserva l'ap- parenza ; dopo la morte di questo corpo continua ad esistere e ad apparire, ed ha la facoltà di pe- netrare, di dominare e d'agire nel corpo d'altri uo- mini, d'animali, ed anche nel seno d'oggetti inani- mati. Senza dubbio, questa maniera di comprendere l'anima non potrebbe essere universalmente applicata; ma essa è sufficientemente generale per ben renderci l' idea tipo, che non fa che modificarsi in ciascun paese con divergenze più o meno pronun- ziate. Perchè queste idee, che si ritrovano dapper- tutto sulla terra, non sono delle produzioni pura- mente arbitrctrie e convenzionali dello spirito u- mano. Sono delle teorie che derivano forzatamente dalla testimonianza indubitabile dei sensi, quale la interpreta una filosofia primitiva realmente conse-guente e razionale. D'altronde, l'animismo originale rende conto così bene dei fatti, ch'esso ha conser- vato il suo posto nelle sfere più elevate della col- tura. Modificato, rimaneggiato dalla filosofia classica, da quella del medio evo, trattato con più libertà ancora dalla filosofia moderna, esso ha si chiara- mente conservato le tracce del suo carattere primi- tivo, che, nello psicologia attuale del mondo inci- vilito, le prime età potrebbero riconoscere e recla- mare il loro bene » (1). Come si vede, il Tvlor — conformemente d'altronde alla maggior parte dei pensatori contemporanei che hanno considerato la quistione dal punto di vista deiretnologia — annette un'importanza capitale, per la spiegazione dell'animismo, alla interpretazione realista del sogno. Ma, si può domandare, tale in- terpretazione è veramente il principio, o è piuttosto la conseguenza della dottrina animista? Ciò che fa pensare che uno dei punti di partenza dell'idea del- l'anima sia l'oggettivazione delle immagini viste (1) Civilizsnz, primitiva voi. 1* cap. 11 nel sogno, è specialmente questo tratto dell' animi- smo popolare per cui il Tylor lo chiama « la dottrina dell'anima — fantasma », vale a dire il concetto che l'anima ha la forma stessa dell'uomo, e ne è come un'immagine. È sullo stesso fatto che è fondata la idea di vedere un altro dei punti di partenza del- l'animismo nell'oggettivazione dell'ombra e dell'ima- gine riflettuta; p. e., dall'acqua. Ma se noi pensiamo alla grande importanza che il semplice principio dell'associazione delle idee — senza niente che abbia la rassomiglianza più lontana con un'inferenza lo- gica — ha avuto nella formazione delle credenze u- mane, si ammetterà forse che questo principio può dare una spiegazione soddisfacente del fatto in qui- stione. « Se si esamina, dice Mill, in che si accor- dano la più parte delle cose che in differenti tempi e da diverse nazioni e razze sono state considerate come dei presagi di qualche avvenimento impor- tante^ felice o infelice, si troverà che esse offrono generalmente questa particolarità, che fanno nascere nello spirito l'idea del fatto che sono supposte an- nunziare » (1). Il Tylor stesso estende questa spiega- zione alle arti magiche ed alle scienze occulte in generale (2). « Ciò che ci dà principalmente, egli dice, l'intelligenza delle scienze occulte è questa osservazione che esse riposano sull' associazione delle idee, facoltà che si ritrova alla base stessa della ragione umana, come a quella della sragione. (1) Logica 1. 3" e. 3°. (2) C. IV. fiXO L'uomo, benché in uno stato intellettuale ancora molto inferiore, dopo essere perv^enuto ad associare nel suo pensiero delle cose che l' esperienza gli ha insegnato essere materialmente con nesso, arriva per errore a intervertire questo rapporto e a concludere, dalla loro associazione subbiettiva, un' associazione obbiettiva corrispondente. Egli ha cercato così d'indovinare, di predire e di provocare degli avvenimenti per mezzo di processi di cui noi possiamo oggi riconoscere il carattere pura- mente immaginario. Un vasto insieme di testimo- nianze preso nel mondo selvaggio barbaro e in- civilito, mostra che le arti magiche risultano da questo errore che fa prendere un'associazione ideale per un'associazione reale ». È evidente che molte idee dell'animismo popolare non hanno un'origine di- versa : sarebbe inutile, p. e., di cercare, per la cre- denza generalmente diffusa che gli spiriti frequen- tano i cimiteri, o la casa che essi abitavano quando erano congiunti col corpo, un' altra ragione che quella assai naturale che questi luoghi sono i più propri a sugrerire l' idea degli spiriti dei morti. Quando un'associazione d' idee è molto intima, noi abbiamo qualche cosa che si avvicina ad una vera necessità mentale, a un sofisma naturale o a priori — il risultato di questo Saggio sarà di mostrare che è in ciò che consiste 1' essenza di questo processo psicologico a cui sono dovuti i concetti metafìsici in generale — . L' associazione tra delle facoltà psi- chiche che noi non abbiamo sperimentate che nel- l'uomo o nell'animale e una forma esteriore d'uomo o d'animale è talmente intima, che noi potremmo vedere quasi, nell'idea di associare a un'entità che è supposta godere della personalità umana, una forma umana, il prodotto di un sofisma a priori del nostro spirito : non solo questa era un'immaginazione na- turale, ma l'intelligenza dell'uomo primitivo doveva trovare più facile a comprendere che questa ma- teria, di cui lo spirito era costituito, potesse sentire, pensare, ecc., avendo la forma umana, che se essa avesse avuto invece una forma con la quale il sen- timento, il pensiero, ecc. non erano stati mai tro- vati associati nell' esperienza. Senza dubbio l'asso- ciazione che legava Tidea dello spirito d'un indi- viduo a quella della figura di quest'individuo non era talmente forte da agire d' una maniera simile sull' intelligenza del selvaggio : ma ammesso una volta il principio che lo spirito aveva una forma umana, niente di più ovvio che di attribuirgli quella stessa forma individuale con cui era associato nel- Timmaginazione. Naturalmente il sogno alimentava l'idea, quantunque nata sopra un altro terreno, e l'allucinazione^ originata dall'idea stessa, veniva a darle la riconferma più evidente. In quanto all' i- dentificazione dell'anima con l'ombra, che s'incontra in alcune popolazioni, e ad altre idee analoghe^ si potrebbe vedervi delle interpretazioni posteriori, brutalmente letterali, di espressioni destinate al principio ad indicare l'incorporeità dell'anima e la sua forma umana, per un caso di quella malattia del linguaggio, in cui M. Muller vede il processo fondamentale della formazione dei miti. § 7. Tra le idee essenziali della 'metafìsica dei po- poli poco coltivati non si trova quella dell'immor- CXCII __^_ talità assoluta dell' anima, non si trova almeno come credenza generale : la credenza alla soprav- vivenza al corpo — alla quale è spesso unita quella alla preesistenza — è quasi universale, ma è molto diffusa pure V idea che V anima può subire una seconda morte (1). E' evidente tuttavia che il con- cetto dell' immortalità è il prodotto naturale e ne- cessario d' un animismo conseguente. In effetto il presupposto dell'animismo è, come abbiamo detto, la impossibilità che ciò che sente, pensa, agisce, ecc. divenga insensibile, incosciente, inattivo, ecc., e vi- ceversa : ora la conseguenza di questo principio è di stabilire fra queste due forme dell'esistenza un dualismo radicale, in modo che 1' una sia assoluta- mente inconvertibile nell' altra. Allora, non sono possibili per un animista realmente conseguente che due dottrine : s' egli non ammette la possibilità di una creazione e d'un annientamento assoluti, deve pensare che l'anima (nella sua sostanza almeno, se non nella sua esistenza individuale) è senza comin- ciamento né fine, eterna — è la dottrina di molti fi- losofi antichi, come Platone, i Platonici, i Vedan- tini (2) e le altre celebri scuole indiane (3), filosofi che noi possiamo considerare come i rappresentanti della forma più sviluppata dell'animismo nel mondo antico — ; o s' egli ammette la possibilità della crea- ci) V. Tylor e. XII. (2) V. Colebr. trad. Panth. p. 179, 181-182, Regnand in Sei;. phiL t. 5° p. 171-172. (3) Y. Colebr. trad. Panth. p. 22 (sankhya), 52-53 e 56-57 (nyaya), 70-71 e 73 (vaisechika). !' H I I zione e dell'annientamento assoluto, egli deve pen- sare che l'anima non può cominciare ad esistere cha per creazione né potrebbe finire d'esistere che per un annientamento assoluto— é la dottrina dello spi- ritualismo moderno (1)—. Ma l'uomo primitivo natu- ralmente non é capace né di stabilire dei principii generali né di sviluppare sistematicamente un'idea sino alle sue conseguenze ultime : egli può ben im- maginare una spiegazione per un fenomeno parti- colare da cui é vivamente colpito, qual é la morte del suo simile; ma^ quantunque nel caso particolare egli ammetta praticamente il principio che il cosciente e attivo non può trasformarsi nell'incosciente e inat- tivo, egli non pensa che, per la stessa ragione, l'a- nima non deve mai morire; perciò egli dovrebbe concepire la quistione sotto una forma universale^ e applicare la sua meditazione a un soggetto troppo (4) L'anima, dice S. Agostino, è la vita, e 11 principio della vita: per ogrni essere vivente. Essa dunque non può morire : perchè, se potesse essere senza vita, non sarebbe Tanlma, ma una cosa animata (che non ha la vita per se stessa, ma la deve alla presenza dell'ani- ma). De immortalit, aniniae e. 9. L' argomento di Sant'Agostino — che non è al fondo che quello di Fedone fPhaedo 102 b sqq: 11 solo, tra tutti quelli del dialogo che Platone dia come decisivo), svolto, dalla mescolanza con la dottrina delle Idee, ed espresso sotto una forma più propria e più vibrata — è perfettamente concludente: l'al- ternativa della vita e della morte nell' anima sarebbe In contraddi- zione con l' Ipotesi dell' animismo che quest' alternativa negli esseri viventi deve spiegarsi per la presenza e la separazione del principia della vita. Secondo quest'Ipotesi, l'anima stessa non potrebbe perdere la vita che perchè 11 principio della vita si separa da essa : ma al- lora la vera anima sarebbe qnesto principio della vita dell'anima, e questa sarebbe, come dice S. Agostino, non V anima, ma un che di animato. lontano dalle sue percezioni attuali per poterla sol- lecitare. D'altra parte, l'esistenza futura delPanima egli non l'immagina che sul tipo dell'esistenza pre- gente — conformandosi a questa tendenza naturale del nostro spirito ad assimilare il non conosciuto e il non familiare al conosciuto e al familiare—. L'a- nima nell'altro mondo mangia, beve, danza, caccia, lavora la terra, combatte, ecc.; i suoi beni e i suoi mali sono i beni e i mali stessi di questa vita (1) : spinto da questa tendenza assimilatrice, il selvaggio finisce per ammettere che l'anima può essere anne- gata, uccisa, ecc., senza accorgersi che perciò egli si mette in contraddizione col suo punto di par- tenza. L'idea antica della materialità dell'anima sembrerà certamente ad alcuno strana ed antifìlosofìca— tale è la forza dell'abitudine—: per noi invece il proble- ma è, non di spiegare come sia nata Tidea della ma- terialità dell'anima, ma come sia nata quella della sua immaterialità. Il concetto della materialità si spiega da se stesso, poiché è evidente che noi non possia- mo concepire se non una sostanza materiale, l'idea di sostanza— cioè di un quid permanente che sia il sustrato di fenomeni cangianti — essendo per l'in- telligenza umana affatto equivalente all'idea di corpo. Ma bisogna riconoscere nondimeno nel concetto del- l'immaterialità il risultato naturale dello sviluppo della filosofìa animista. Questo sviluppo ci mostra, vcome dice Spencer, una dismaterializzazione progres- a) y. Tylor e- XUI. _sìva dello spirito, di cui il primo passo, inevitabile per non mettersi in una contraddizione troppo di- retta con l'esperienza, si fa già nella fase più an- tica della dottrina, concependo l'anima come un che d'impalpabile ed invisibile. Noi abbiamo visto inoltre che la conseguenza logica dell' animismo è di sta- bilire un dualismo radicale tra l'anima — l'essere co- sciente e attivo — e il corpo — l'essere incosciente e inattivo —, in modo che non sia possibile il pas- saggio dall'una all'altra di queste due forme della esistenza. È un altro passo considerevole verso l'op- posizione assoluta tra le due sostanze, il quale nella Btoria della filosofìa greca è rappresentato dalle teorie di Anassagora e di Platone: ma questo dualismo non è ancora incompatibile con l'idea che l'anima sia una cosa estesa nello spazio, una sostanza ma- teriale particolare, distinta ed opposta a tutte le altre. L' ultimo passo — il più importante al punto di vista della teoria della conoscenza, perchè si tratta di varcare il confine che separa il dominio del rappresentabile da quello dell'irrappresentabile — è anch'esso un portato naturale dei presupposti generali della concezione animista : l'idea della ma- teria ordinaria è già strettamente associata nel no- stro spirito a quella della incoscienza e della inat- tività; quando lo stesso corpo vivente diviene, per usare l'espressione di un filosofo spiritualista (1) un ^orpo di morto^ in cui la vita non risiede che come in un ricettacolo, allora il concetto di materia finisce (l) Malebranche Ricerca della verità, XI Schiarimento. OX per essere 1' equivalente perfetto di una sostanza, incosciente, morta, inattiva, e insuscettibile di mai acquistare la coscienza, la vita, l'attività. Questi at- tributi non sono soltanto legati alla materia per un'associazione. intima tra le idee; il legame è anche logico ; se tutti i corpi dell' esperienza sono inco- scienti e inattivi e incapaci di divenire il contra- rio, non se ne deve concludere che il corpo in gè- nerale è incapace di coscienza e di attività ? Ne se- gue che l'anima non può essere una sostanza ma- teriale, e il dualismo iniziale arriva così al concetto iperfisico della sostanza spìnto, della stessa maniera che, nel dominio della natura inanimata, il duali- smo analogo dei corpi concepiti come assolutamente inerti e passivi e di qualche cosa che deve ad essi sopraggiungersi come principio di ogni attività ar- riva al concetto analogo di forze trascendenti, im- materiali, l'idea di forza divenendo necessariamente incompatibile con quella di materialità, dopo che a questa si è legata l'idea opposta della assoluta inat- tività. Ma ciò che dobbiamo notare è che tra le due forme successive dell'animismo - la materialista e la spiritualista - 1' opposizione non è cosi assoluta, come pare a prima vista : tutti i vari modi di con- cepire la sostanza dell'anima, dalla grossolana ma- terialità di quelle intelligenze primitive che cer- cano le impronte dei passi degli spiriti, sino al più puro ^ spiritualismo del filosofo moderno che nega che l'anima sia in un luogo, non sono che dei gradi differenti di un'evoluzione continua, in cui vediamo all' opera un processo di sottilizzazione e di astra- zione progressiva applicato al concetto della materia, quale esso risulta immediatamente dai dati della percezione sensibile, cioè di uia cosa che può essere vista e toccata. Quando l'antico filosofo ani- mista ha soppresso, nella sostanza dell'anima, la vi- sibilità e la palpabilità, ma lasciandovi sussistere altre determinazioni della materia, quali l'esten- sione, il movimento ecc., una tale sostanza non è più una materia, secondo l'idea primitiva che i sensi <;i hanno dato della materia, ma, siccome, sin da Cartesio, noi siamo abituati a fare dell' esteso 1' e- quivalente esatto del corporeo, noi non esitiamo a riconoscere che la sostanza anima di un tal filosofo non è al fondo che un corpo. Ora, quando il filo- sofo spiritualista moderno, dall'antico concetto gros- solanamente materialista dello spirito, oltre la vi- sibilità e la palpabilità, toglie anche l'estensione, ma lasciando sussistere la sostanzialità, l'operazione è in questo secondo caso della stessa natura che nel primo ; si tratta di una nuova astrazione ope- rante sul concetto primitivo della materia; e ilresiduo è, nel secondo caso, una determinazione della ma- teria, come nel primo, poiché la categoria di so- stanza, per dirla con Kant, non è applicabile che ^g'ì oggetti dell'esperienza esteriore, o a ciò che ci è dato in una intuizione nello spazio (1). Il concetto della sostanza spirituale non può dunque essere mo- dellato che sul tipo delle sole sostanze che noi co- nosciamo e possiamo rappresentarci, le materiali : (1) V. Analit, trascendente, l, 2^ Scoi, gener. al sistema del prin- elplt 2^ edlz. Cfr. Dlalett, trascendent, 1. 2° Paralog* della rag. jfara. In fine del capit. e Confutai, dell'argom, di Mendelsohn, ->. N " 'I cxcYiir l'elemento positivo di questo concetto — la sostanzia- lità — non è tratto che della materia ; il semplice, Finesteso e il resto che si aggiunge alla parola so- stanza, non sono che degli elementi negativi, espri- menti che si intende fare astrazione di certe deter- minazioni della materia. § 8. L'idea che lo spirito è una sostanza, cioè che oltre alle sensazioni, sentimenti, pensieri, volizio- ni, ecc., vi sia qualche cosa di permanente — mate- riale o immateriale— come sustrato di questi feno- meni, è prima di tutto una conseguenza necessaria dell'ipotesi animista, che vede nella vita il risultato della congiunzione dei due elementi di cui l'uomo e ogni essere animato si suppone composto, e nella morte il risultato della loro separazione. Non vi ha altra rappresentazione possibile di due elementi ca- paci di stare ora uniti ed ora separati che quella di due sostanze materiali, di due corpi, che possono cangiare il loro rapporto nello spazio — ciò che ci mostra sotto un altro aspetto la verità d' un' osser- vazione antecedente, vale a dire la comunanza di origine tra l'animismo e la teoria meccanica, le e- sperienze familiari che servono di tipo all'una delle due dottrine potendo riconoscersi per le stesse, al fondo, che quelle che servono di tipo all'altra — . Così, quando il doppio materialismo primitivo è stato rigettato, questa rappresentazione non potrebbe più considerarsi come adequata alla realtà, ma resta il concetto astratto di due sostanze capaci di unirsi e di separarsi, concetto che non è più un'idea rappre- sentabile dopo che runa delle due sostanze finisce di considerarsi come un corpo e come capace di entrare con l'altra in rapporti di spazio, ma che, come tutti i concetti trascendenti, cioè oltrepassanti il sen- sibili e r immaginabile, non è modellato che sul sensibile e l' immaginabile, vale a dire, nel nostro» caso, sulla rappresentazione primitiva di due corpi che si uniscono e si separano, e trova in questa rappresentazione — per esprimerci sotto una forma che non implichi una teoria determinata sulla na- tura dei concetti trascendenti — un'approssimazione e un simbolo indispensabili. Ma, oltre l'animismo come spiegazione della vita e della morte, l' idea che lo spirito è una sostanza ha un' altra sorgente. Per dilucidare questo punto, dobbiamo entrare in alcune considerazioni che non hanno un rapporto molto stretto col nostro presente argomento, ma che non possiamo evitare, essenda esse, oltre alla loro importanza per la quistione del valore dell'idea della sostanza spirito, indispensa- bili per comprendere certi sviluppi di quest' idea, che ci presenta la storia della metafisica. Tutte le volte che lo spirito è concepito come e- sistente per sé, separatamente dal corpo, noi abbia- mo una tendenza quasi invincibile a considerarlo, come una sostanza, cioè a supporre, al di sotto della, serie fluente degli stati di coscienza che costitui- scono lo spirito quale fenomeno dell'esperienza, un quid permanente come loro sustrato. Ciò può aver luogo anche indipendentemente dalla teoria animi- sta, del che possiamo trovare un esempio in alcune^ proposizioni di Stuart— Mill. Stuart— Mill non è uno spiritualista, e nondimeno egli non ammette che lo- spiriso sia una semplice serie di stati di coscienza. ce « Noi siamo forzati, egli dice, di riconoscere che cia- scuna parte della serie è attaccata alle altre parti mediante un legame che loro è comune a tutte, e che non è la catena dei sentimenti per se stessi: e €ome ciò che è lo stesso nel primo e nel secondo, nel secondo e nel terzo, nel terzo e nel quarto, e •così di seguito, deve essere lo stesso nel primo e nel cinquantesimo, quest'elemento comune è un e- lemento permanente » (1). Quest'elemento permanen- te, distinto dalla catena degli stati di coscienza, non può essere altra cosa che la sostanza spirito dei fi- losofi spiritualisti, quantunque il Mill, poco prima del luogo citato, neghi di adottare « la teoria co- mune che riguarda lo spirito come una sostanza». Noi dobbiamo prima di tutto sbarazzare la qui- stione da un possibile equivoco. La proposizione che lo spirito, il me, è una collezione di sensazioni — intendendo naturalmente per sensazioni tanto i dati della percezione esteriore quanto quelli del senso intimo— non è che la semplice espressione dei fatti dell'esperienza interiore, senza mescolanza d'ipotesi o interpretazione di qualsiasi natura : ma essa non deve intendersi come se queste sensazioni che co- stituiscono la collezione, fossero altrettanti elementi aventi ciascuno un'esistenza propria e indipendente, come degli atomi, fra di cui non vi fosse che il rapporto puramente esteriore di una semplice juxta — posizione. Tra le cose esteriori non vi hanno altri rapporti che quelli di tempo e di spazio : ma tra gli (1) Filo8, di Hamilton Appendice ai e. 11. e 12., suUa fine. COI stati di coscienza che costituiscono un me, una co- scienza unica, oltre i rapporti di tempo, cioè di suc- cessione e di simultaneità— qui naturalmente non è a parlare di quelli di spazio —, vi ha un rapporto più intimo, che non ha niente di analogo nelle cose del mondo esteriore, ma che se noi vogliamo indi- care con un termine che nel suo senso proprio e originario non può convenire con\e, quasi tutti quelli che appresta il linguaggio, che alla realtà esteriore, lo possiamo fare con le parole : continuità della co- scienza. La coscienza è un tutto uno e continuo, non un aggregato di elementi indipendenti : è que- sto un fatto evidente dell' esperienza interiore, di cui lo stesso Hume sarebbe convenuto, se la qui- stione gli si fosse presentata in questi termini. Sta- bilire un rapporto tra le nostre Idee, fare un ra- gionamento, avere la percezione di un tutto com- plesso, sarebbero degli atti impossibili, se fra le idee successive o simultanee da cui essi risultano, non vi fosse che un semplice rapporto di simulta- neità o di successione, come quello che esiste tra le idee di Se, di coscienze, differenti. Se tra queste idee che appartengono a me che stabilisco il rap- porto, ragiono, percepisco il tutto complesso, non vi fosse un legame particolare, che non esiste tra le idee di spiriti distinti, sarebbe altrettanto possibile in questo caso che questi elementi si riunissero per costituire l'atto unico del rapporto, del ragionamento, della percezione, quanto nel caso che ciascuno di essi fosse uno stato di coscienze differenti. Pren- diamo per esempio un semplice rapporto di succes- gione o di coesistenza — ai quali si riducono, in ul- CCII tima analisi, al punto di vista semplicemente ob- biettivo, tutti i rapporti che noi possiamo stabilire fra le nostre idee (1)— .Noi non percepiamo le suc- cessioni e le coesistenze obbiettive che per delle suc- cessioni e coesistenze fra le nostre percezioni, e non ci rappresentiamo questi rapporti che per dei rap- porti corrispondenti tra le nostre rappresentazioni (in quanto alle coesistenze vi sarebbero delle ri- serve da fare, ma non importano alla quistione pre- sente). La conoscenza della successione e della si- multaneità è dunque la coscienza della successione e della simultaneità delle nostre idee, cioè la co- scienza delle nostre idee come successive e simul- tanee. Ora avere coscienza della successione o si- multaneità delle idee A e B, o di queste idee come successive o simultanee, importa uno sguardo u- nico della coscienza, una coscienza unica che riu- nisce la coscienza di A e quella di B. La coscienza di A e quella di B, prese ciascuna isolatamente e succedentisi Funa all'altra, non potrebbero dare la coscienza del rapporto di successione tra A e B: questa coscienza non è dunque una semplice juxta- posizione, un aggregato, delle due coscienze succes- sive di A e di B, ma è una coscienza unica, conti- nua^ in cui le due coscienze successive sono com- prese. Ma costatare l'unità della coscienza, la continuità tra i suoi stati successivi, non è costatare l'esistenza di un elemento permanente, accompagnante ela- fi) V. Saggio 1 e. 2. ceni scuAO di questi stati successivi, e che persiste, sem- pre lo stèsso, dal primo all'ultimo di questi stati (e che esiste anche negl'intervalli in cui alcuno stato di coscienza non esiste). Sono due cose diffe- renti, di cui la prima è un fatto d' esperienza in- terna, la seconda un'ipotesi metafìsica. È evidente che quando Mill conclude dall' una delle due cose all'altra, come fanno i metafisici, egli si allontana dai principii fondamentali della sua filosofia, cioè di quella dell' esperienza. Il principio supremo di questa filosofia è che non bisogna niente ammetterà in virtù di una semplice evidenza intrinseca, spesso fallace, ma tutto provare — senza altra eccezione che i portulati indispensabili ad ogni operazione detta ragione, che è impossibile di stabilire col ragionamen- to, perchè ogni ragionamento, li presuppone (1) —, e provare non è che estendere a nuovi casi particolari un rapporto (di sequenza, di coesistenza, ecc.) già costata- to per l'esperienza nei casi identici, tutte le volte che quest'esperienza è tale che la generalizzazione del rapporto ne sia garentita. Nel nostro caso, alle dif- ficoltà logiche che solleva il criterio della evidenza intrinseca, se si ammette che il Me trascendente è CDnosciuto a priori, per un' intuizione della ra- gione, si unisce l'impossibilità psicologica di porre nello spirito un' idea di cui non potrebbe trovarsi l'origine nell'esperienza. Ma noi non possiamo nem- meno ammettere che l'atto dello spirito, per cui il Me trascendente è conosciuto, sia un' inferenza lo- fi) V. Saggio 1° e. 9. CCIV gira. Questa proposizione: « la continuità della co- scienza richiede l' esistenza di un Me sostanziale, permanente », stabilisce fra le due cose un legame che — se si ammette che esso è una semplice infe- renza — r esperienza non ha mai potuto in alcun caso costatare. Questa proposizione non può essere un caso particolare di una proposizione più gene- rale già induttivamente stabilita, perchè il fatto di cui si tratta, la continuità della coscienza, è un fatto unico nel suo genere, di cui l'esperienza non presenta un analogo. Ad una sola condizione pò- tremmo noi dunque inferire dalla continuità della coscienza la cosa che si pretende con essa legata, cioè il Me sostanziale, alla condizione cioè che noi conoscessimo dei casi in cui il legame tra le due cose fosse, non una verità d'inferenza, ma un dato del- l'osservazione. Non vi ha dunque che un mezzo per rendere la proposizione conciliabile coi principii del metodo sperimentale, cioè con quelli della logica: è di supporre, come fanno una gran parte dei filo- sofi spiritualisti, che il legame è effettivamente un dato dell'osservazione, che il Me sostanziale non s'inferisce, ma si esperimenta, si percepisce. Ma, per questa supposizione, l'accordo coi principii del metodo sperimentale non è che apparente. La per- cezione è uno stato di coscienza del soggetto per- cepente, che può interpretarsi sia come un feno- meno puramente subbiettivo, che non esce dal sog- getto percepente, sia come un atto che oltrepassa questo soggetto ed attinge 1' oggetto percepito, che perciò si suppone presente nella coscienza. Ma per preferire questa seconda interpretazione, come fa OCV l'ipotesi di cui parliamo, non vi ha che questa ra- gione da poter addurre, che la portata obbiettiva della percezione, la presenza dell'oggetto nella co- scienza, è una credenza naturale, irresistibile, che accompagna la percezione. E cosi l'ipotesi presup- pone il principio in cui noi abbiamo riconosciuto l'antitesi di quello del metodo sperimentale, cioè che la semplice evidenza intrinseca è un criterio sufficiente, che la credenza è una prova della realtà della credenza stessa. Ben più, in questo caso, il rimedio è peggiore del male perchè l'evidenza in- trinseca della proposizione che l'unità della co- scienza suppone un Me permanente, sostanziale po- trebbe forse ammettersi come fatto psicologico, se non come criterio logico, ma non quella della pro- posizione che questo Me è una percezione imme- diata della coscienza. Quando la teoria della per- cezione immediata si applica agli oggetti del mondo esteriore, essa si giustifica per un appello alla cre- denza naturale del genere umano; ma la teoria della percezione immediata della sostanza Me non è una credenza naturale del genere umano; non è che un'ipotesi di alcuni metafisici, immaginata per ispie- gare la possibilità della conoscenza di questa so- stanza. E un'ipotesi delle non meno strane, che pre- senta delle inconcepibilità come queste: 1° Si ammet- te generalmente che la sostanza dello spirito è un che di sconosciuto e d'inconoscibile, e la divergenza delle opinioni dei metafìsici sulla natura di questa sostan- za è una prova che essa non può essere l'oggetto di una conoscenza immediata; come la natura di una cosa imme liatamente presente alla coscienza potreb> COVI be restare assolutamente sconosciuta? 2^ La perce- zione suppone una dualità di termini, un soggetto percepente e un oggetto percepito, mentre qui non vi sarebbe che un termine unico che sarebbe al tem- po stesso il soggetto e Toggetto (1). Sembra nondimeno che quando noi consideriamo il Me, il complesso dei fenomeni della coscienza, separatamente dal suo sustrato . corporale, l' idea di una sostanza, d' una cosa che permane durante la successione di questi fenomeni, sia una suggestione naturale, che noi non possiamo impedire che ci venga allo spirito, per quanto possiamo respingerne il valore obbiettivo. È un fatto d'osservazione psi- cologica, e di cui Stuart-Mill può fornirci un e- sempio, quest'idea dovendo avere in lui un mo- tivo indipendente dallo spiritualismo o, general- mente, dall'animismo, che potrebbe essere appunto (1) Stuart-Mill non si fjnda, per istabilire V esistenza del me permanente, suir unità della coscienza direttamente y ma sul fatto -della memoria come implicante l'affermazione deirunità di coscien- za, cioè, per dire la cosa con le sue stesse parole, la credenza che le sensazioni rammentate hanpo formato realmente una parte della stessa catena di coscienza di cui il ricordo di queste sensazioni è la parte attualmente presente. Il solo fatto, egli dice, che rende ne- cessaria la credenza a un Me, il solo fatto che la teoria psicologica (la quale risolve lo spirito, come la materia, in sentimenti e possi- bilità di sentimenti) non può spiegare, è la memoria. La nozione del Sé è perciò secondo lui un accompagnamento delle operazioni di questa facoltà, ma egli non vuol decidere se noi ne abbiamo di- rettamente coscienza neir atto di ricordarci, o se, non avendo co- scienza di un So, noi siamo forzati d* ammetterlo come una condi- zione necessaria della memoria; in altri termini, se noi conosciamo il Sé por una percezione immediata o per un' inferenza {Filos, di Hamilton e. 12 e App. ai e. 11 e 12). Non vi sarà certamente alcuno che metterà in dubbio li fatto CCYII . questo, che, negando la realtà obbiettiva della ma- teria, egli deve rappresentarsi lo spirito separata- mente da un sustrato materiale. Ora quale può es- sere la spiegazione di questo fenomeno psicologi- co ? Ciò che deve mostrarci la via in questa ricerca è il principio che le illusioni naturali, i sofismi a priori del nostro spirito, sono il risultato di coe- sioni mentali puasi inseparabili, coesioni mentali che non hanno potuto essere formate se non dal- l'esperienza: ora la sola sostanza, la sola cosa per- manente, con cui l'esperienza ci mostra associato lo spirito o la coscienza, e con la cui idea l'idea che la memoria implica la credenza che io stesso, l'io che ricorda, e non un altro, ho avute le sensazioni ricordate, né la realtà di questa credenza: ma questa credenza non è che la semplice affer- mazione di ciò che noi abbiamo chiamato unità della coscienza. Ammettere che essa contiene inoltre la nozione di un me perma- nente—a meno che per questo me permanente non s'intendala per- dona flaica, la cui rappresentazione in effetto è un accompagnamento abituale del ricordo delle sensazioni passate (vedi il seguito del te- sto) — non è che un caso di queir errore, tante volte rimproverato al metodo introspettivo nella ricerca psicologica, di vedere nella co- scienza dei fatti che non vi sono, prendendo per fatti della coscienza le proprie interpretazioni di questi fatti. L'esistenza di un me per- manente e trascendente (cioè cha non è né i fenomeni della coscienza né la persona fisica che li accompagna) é poi cosi poco la condizione necessaria della memoria e della sua realtà, che,, nella supposizione di questo me, niente vi La di più naturale che il dubbio di Locke, «e l'identità della persona, cioè della coscienza, non possa conti- nuare, malgrado che la sostanza che pensa non sia più la stessa, e se questa sostanza rimanendo la stessa, non possano esservi nondi- meno più persone o coscienze distinte (infatti è perfettamente con- cepibile che una sostanza abbia la convinzione di aver fatte certe azioni o avute certe sensazioni che un' altra invece ha realmente latte o avute, come anche che questa sostanza perda totalmente il sentimento della sua esistenza passata — ciò che non sarebbe una pura ipotesi, ma un fatto dell' esperienza — Saggio sulVinUnd, um. ccyiu dello spirito o della coscienza ha una coesione stret- tissima, quasi inseparabile, è il Me fisico, il su- strato materiale di questa coscienza. È vero in un senso che la concezione del Me non è sem- plicemente quella di una serie di sensazioni, pen- sieri, volizioni, ecc., ma comprende inoltre la no- zione di qualche cosa che perdura e resta sempre la stessa durante lo svolgersi di tutta la serie, e che questa cosa che perdura ce la rappresentiamo come il soggetto, in cui le sensazioni, i pensieri, le volizioni, ecc., ineriscono. L'io, che nel linguaggio dello psicologo non è che il nome dello spirito, della coscienza, nel linguaggio ordinario significa invece 1. 2. e. 27). Del resto lo stesso Mill conviene che il fatto della me- moria (e quello della previsione in cui egli vede pure un motivo per ammettere un me permanente, ma che egli riconduce al feno- meno della memoria) resta egualmente inesplicabile tanto se si am- mette la teoria che il Me non è che la serie dei sentimenti, quanto se si ammette la teoria che esso è altra cosa che questa serie. « La verità, egli dice, è che noi siamo in faccia all'inesplicabilità finale, alla quale, come lo fa osservare Hamilton, arriviamo inevitabil- mente quando tocchiamo ai fatti ultimi ; e in generale si può dire che una maniera di formularla non pare più incomprensibile di un'altra che perchè il linguaggio intero è appropriato all'una, e si accorda si male con l'altra, che non si trovano per esprimere que- sta che delle parole che la negano. La vera pietra d' inciampo è forse meno in una teoria del fatto che nel fatto stesso. Ciò che vi ha di realmente incomprensibile è forsa che una cosa che ha ces- sato d' esistere, o che non ha ancora cominciato ad esistere, possa nondimeno essere, in eualche sorta, presente : che una serie di sen- timenti, di cui l'infinitamente più gran parte è passata o avvenire possa essere raccolta, per cosi dire, in una sensazione presente ac- compagnata dalla credenza nella sua realtà » (e. 12. sulla fine). Una proposizione di Mill ha per noi tanta importanza che non possiamo farla passare senza discuterla, quantunque il luogo possa sembrare inopportuno, ammettiamo che il fatto della memoria^ CCIX lo spirito e il corpo insieme, anzi il corpo a pre- ferenza dello spirito. È evidente infatti che il pro- nome me y della stessa maniera che un nome desi- gnante un se qualsiasi, non è la rappresentazione della serie degli stati di coscienza che richiama im- mediatamente al pensiero, ma quella della persona fisica. Di più, come nel modo abituale di conce|lire i fenomeni psichici, la persona fisica è il soggetto di questi fenomeni, cosi è mediante la rappresentazione dell'unità e identità della persona fisica, che noi concepiamo ordinariamente l'unità e identità della catena di cui questi fenomeni fanno parte. Ciò è evidente quando si tratta di altre persone: come noi non possiamo attribuire un fatto psichico a con le credenze che essa implica, sia un fatto ultimo, cioè che essa non possa ricondursi a delle leggi psicologiche più generali; ne se- gue che esso è, come tutti i fatti ultimi, inesplicabile; ma ne se- guirà pure che esso è incomprensibile ? Ciò sarebbe contrario all& teoria della conoscenza, i cui principii sono stati solidamente stabi- liti dallo stesso Mill. Se noi ammettiamo che il fenomeno è l'unica esistenza di cui possiamo essere certi, bisogna ammettere pure che- la parola incomprensibile, quando si applica ai fatti ultimi, costanti, generali, della natura o dello spirito, non ha senso, che essa non- indica niente almeno che abbia un valore obbiettivo, quantunque possa indicare un fatto psicologico reale. Un fatto particolare è in- comprensibile, se esso non è stato sin qui ricondotto alle leggi ge- nerali, ai fatti ultimi : ma i fatti ultimi essi stessi non possono pre- sentare questa specie d'incomprensibilità, la sola che abbia un va- lore obbiettivo; per essi, incomprensibile non può significare se non- ché ohe vi ha qualche cosa che oltrepassa l'esperienza e i fenomeni, l€t quale, se la conoscenza umana potesse attingervi, spiegherebbe i £Bi>tti in quistione. Noi abbiamo stabilito che questa specie d'incom- prensibilità non è che un fenomeno psicologico, senz'alcuna portata obbiettiva. Ma nel caso presente può sembrare difficile di assegnare l'origine d«ll' incomprensibilità, perchè questa accompagna i fatti poco o niente familiari. Come un fenomeno così familiare qual è la*. ccx un me determinato che rappresentandocelo in con- nessione con un individuo fisico determinato, cosi non possiamo attribuire due fatti psichici successivi a uno stesso me determinato che rappresentandoceli entrambi in connessione con uno stesso individuo fisico determinato. Quando si tratta di noi stessi, fors# la* regola non è così assoluta : ma io credo che ciascuno può osservare in se stesso che ordinaria- mente non si rappresenta come sua una situazione psicologica in cui, in un passato più o meno lon- tano, si è trovato, che rappresentandosela congiun- tamente al suo proprio individuo fisico; e che una parte almeno di questa credenza accomqagnante ogni atto della memoria, che io stesso, e non un altro, sono quello che ha fatto l'azione o provato la sen- sazione ricordata, è Taffermazione dell' identità del me fisico, che era il sogggtto di quest'azione o di memoria può dunque sembrare incomprensibile? (quando lo afferma un persatore come Mill, noi dobbiamo ammettere che, se esso non è realmente incomprensibile, bisogna almeno che quest' apparenza d' incomprensibilità sia reale). Io credo che questa difficoltà si ri- solva, ricordando il principio che i fatti stessi più familiari diven- tano incomprensibili quando la interpretazione scientifica di questi fatti è differente dalla loro intoi pretnzione prescien tifica e, per dir cosi, naturale, e riflettendo che questo principio trova la sua appli- cazione anche nel fenomeno della memoria, la quale, secondo la credenza naturale, non è una rappresenrazione, un'immagine della cosa ricordata, come ammettiamo noi, ma attinge e involge la cosa stessa, come ammetteva Reid che pretendeva essere il restauratore delle credenze naturali. Ciò che non si vede però ò come questa incomprensibilità della memoria, cos'i intesa, possa servire a pro- vare l'esistenza di un me trascendente]; ma, come abbiamo visto, il Mill riconosce che l'incomprensibilità sussiste egualmente tanto se si respinge quanto se si ammette questa ipotesi. CCXI questa sensazione, col me fisico che è il soggetto delle mie azioni e sensazioni attuali. Il me fisico dunque, oltre che è concepito come il soggetto, il substratum necessario, dei fatti psichici, rappresenta, nel nostro pensiero, l'unità e identità della coscienza, e dà la coesione alla collezione delle sensazioni, formando la base comune a cui tutte stanno attac- <;ate : ne segue che, quando noi concepiamo lo spi- rito, la serie dei fatti della coscienza, come "separato dal corpo, ci sembra che questi fatti siano quasi delle astrazioni realizzate, degli accidenti senza so- stanza, e che la collezione delle sensazioni abbia perduto ciò che ne costituiva il legame e la continui- tà. Di là lo sforzo di restitufre alla serie il suo sub- stratum e il principio della sua coesione, in altri termini, di sostituire un equivalenie al me fisico soppresso. Il me trascendente è dunque un succe- daneo della persona fisica, che il metafisico imma- gina naturalmente, per conformarsi il più che è possibile a un'abitudine quasi irresistibile della no- stra intelligenza — abitudine che genera una corri- spondente tendenza a credere, per la legge psico- logica, segnalata da Mill, che noi tendiamo a cre- dere necessariamente legate le cose stesse le cui idee sono necessariamente legate —, dopo che quest'abi- tudine non può essere più soddisfatta nella forma primitiva e genuina, per la separazione dello spi- rito dalla sua base materiale. Noi sappiamo infatti — ciò di cui la forma secondaria della nozione di causa efficiente ci ha mostrato un esempio evidente — che il nostro spirito, tutte le volte che una cir- costanza qualunque viene a contrariare le sue tenclenze naturali, e che così esso è costretto ad abban- donare le prime concezioni che si era spontanea- mente formato dei fenomeni, è inclinato a model- lare le sue concezioni ulteriori e riflesse intorno a questi fenomeni sulle spontanee e primitive. Ora il me trascendente non si concepisce che per analogia alla persona fìsica: esso è, come questa, una so- stanza, cioè un essere che sussiste d'una maniera permanente ed è sempre lo stesso nella successione dei fenomeni psichici; il soggetto o snbstratum, a cui questi fenomeni ineriscono ; e ciò la cui unità e identità è la base dell'unità e identità della persona. È sempre il fantasma del corpo, per quanto le for- me sotto cui il filosofo moderno lo concepisce pos- sano essere lontane dall' antica teoria dell' anima- fantasma. § 9. Quando la sostanza spirito è concepita come: immateriale, e al tempo stesso come un che di di- stinto dai sentimenti, pensieri, ecc., in una parola dai fatti della coscienza, si ha necessariamente l'i- dea di una sostanza sconosciuta e misteriosa (1) di cui non ci è possibile di formarci alcuna nozione, tutte le nostre nozioni reali non avendo altri oggetti che i corpi, le presentezioni dei sensi esterni, e i fatti del senso intimo, della coscienza: inoltre la dottri- na ha questo difetto evidente, al punto di vista della logica, di supporre una forma dell'esistenza che non ha alcuna analogia nell'esperienza. Così la dot- trina dei cartesiani e di altri filosofi, che la sostan- Il filosofo spiritualista somiglia al re Lear di Shakespeare, comandava : Chi sa ^i essi chi sono io ? za dell'anima consiste nel pensiero (ovvero nel sen- timento, nella percezione, ecc.) — quantunque essa sia quella che si allontana di più dalla forma na- turale della teoria della sostanza anima, vale a dire dal doppio materialismo primitivo, e dalle esperienze familiari su cui la teoria in generale è modellata, e, per conseguenza, non possa dare che una soddisfa- zione meno completa alle tendenze dello spirito che l'hanno fatto immaginare - pure si spiega, non solo come uno sforzo assai naturale di penetrare l'es- senza delle cose, ma ancora per questo vantaggio che e^sa ha sullo spiritualismo ordinario, di non ammettere altre forme della realtà che quelle che sono date dairesperienza. Ma è strano che, sia che si tratti dell' essenza dello spirito sia che si tratti di quella della materia, delle due ipotesi tra cui il metafisico può scegliere quando le concezioni, più spontanee sono state abbandonate, e di cui l'una consiste ad ammettere una forma della realtà asso- lutamente sconosciuta ed inconoscibile, e l'altra a non riconoscere altra forma della realtà che quella che, è data nella conoscenza immediata, nella coscien- za — modo di vedere che, applicato alla materia, dà luogo al panpsichismo oppure all'idealismo, e appli- cato allo spirito, alla dottrina che la sua sostanza consiste ilei pensiero o nel sentimento ecc. — è stra- no, dico, che delle due ipotesi è la più sperimen- tale che è il punto di partenza della metafisica più astrusa e più arrischiata. La prima conseguenza che si offre allo spirito — e senza dubbio la meno allarmante — della dottrina che la sostanza deir anima consiste nel pensiero (qui la parola pensiero deve intenders come il sinonimo di stato di coscienza in gene- rale) è la proposizione cartesiana che l'anima pen- sa sempre. In effetto ima sostanza deve esistere d'una maniera continua ; così se in questa sostan- za non vi ha altra cosa che il pensiero, o piuttosto se essa non è altra cosa che il pensiero, non può mai darsi un istante in cui essa non abbia qualche pensiero. Se l'anima cessasse un istante di pensare,, la sostanza sarebbe allora annichilata, e una nuova sostanza sarebbe creata, quando l'anima ricomin- ciasse a pensare. TJn'alra conseguenza è la teoria delle idee innate. Questa teoria è già virtualmente contenuta nella dottrina che l'anima pensa sempre. È ciò che Locke comprese perfettamente, quantunque egli sembri non aver visto che il punto essenziale a decidere tra lui e ì cartesiani era precisamente se, come egli 1' assume senza provarlo, la sostanza dell'anima dovesse ri- porsi in qualche cosa di sconosciuto, ovvero in ciò che solo è attestato dalla coscienza. Se l'anima pen- sa sempre, domanda Locke, quali sono le idee che si trovano nell'anima d'un fanciullo, prima della, sua unione col corpo, o al momento preciso di que- sta unione, prima d'aver ricevuto alcuna idea per la via dei sensi? Bisogna allora che lo spirito abbia delle idee che gli sono naturali, e che egli non ha ricevuto per l'intermediario del corpo (1). In verità dalla supposizione che 1' anima pensa sempre, non ne segue, come osserva il traduttore francese Coste,. (1) Saggi snirintend, 1. 2" e. 1" s 17 JHqti. che l'anima abbia avuto delle idee prima di essere stata unita al corpo, poiché essa potrebbe aver co- minciato ad esistere nel momento stesso eh' essa è stata unita al corpo : ma il Coste non dovrebbe concludere da quest'osservazione che sin dal primo momento dell'esistenza dell'anima, i sensi possono fornirle delle idee, comunicandole le impressioni degli oggetti esteriori. Prima che l'anima abbia una sensazione, il corpo deve comunicarle l'impressione ricevuta dall'oggetto esteriore; la sensazione è la rea- zione dell'anima che segue all'azione del corpo su di essa (nell' ipotesi che il corpo e l' anima siano due sostanze); dunque l'anima deve esistere prima di sentire. Ma inoltre la necessità che vi sia nello spirito qualche cosa che non sia dovuta al corpo, è una conseguenza necessaria del concetto che lo spirito esiste indipendentemente dal corpo, senza di che esso non potrebbe essere una sostanza. Se tutto ciò che vi ha nello spirito di reale non è che un effetto, sia immediato, sia mediato, dell'azione del corpo, allora l'esistenza stessa dello spirito sarà una conseguenza dell' azione del corpo, lo spirito, per esistere, dipenderà dal corpo, non esisterà per sé stesso, e per conseguenza non sarà una sostanza. La necessità delle idee innate derivava per Carte- sio dalla definizione stessa della sostanza (una volta che egli concepiva lo spirito come una sostanza, e come una sostanza consistente nel pensiero) : « una cosa che non ha bisogno se non che di se stessa per esistere », o, per non pregiudicare alla dipendenza delle cose finite da Dio, « che può esistere senza l'aiuto d' alcuna cosa creata » (1). E la definizione cartesiana è perfettamente esatta: i fenomeni, cioè i cangiamenti, delle sostanze, vale a dire dei còrpi, dipendono dall' azione di altre sostanze, di altri corpi; ma l'esistenza stessa dei corpi è indipendente da quella di altri corpi. Deve esservi dunque nella sostansa anima, come nei corpi, qualche cosa di pro- prio che le appartentenga per sua natura e che non sia una conseguenza dei suoi rapporti con al- tre sostanze : ma niente resterebbe all'anima di pro- prio e appartenente ad essa por sua natura — nella supposizione che tutto ciò che vi ha in essa non è che pensiero — se tutte le sue idee fossero nate dai sensi, e, quindi, aA^ventizie e dipendenti dal corpo (2). (1) Princijnì della filosofia, I parte, (2) Ecco come V anonimo cartesiano, autore del Trattato della natura dell'anima e dell'origine delle sue conoscerne contro il sistema di Locke e dei suoi partigiani, stabilisce che vi sono delle Idee che i-uomo riceve da Dio prima che 1 sensi possano agire su di lui: « L'anima essendo essenzialmente spirituale, essendo stata creata pen- sante, bisogna necessariamente che sin da questo primo Istante vi sia <iua]che 0773^^1 roale al qiiile es=ja pen^a; perchè potrebbe dirsi che In questo primo momento Tanlma pensa a nulla ? Pensare a nulla e non pensare affatto è la stessa cosn. Se dunque si ammette che Ta- nima pensa tosto che essa comincia ad esistere, si deve indlspensabil- anente convenire ancora che essa ha sin d'allora un oggetto a cui essa pensa >. Lelbnitz obbietta a Locke : « Questa tavola rasa di cui tanto si parla non è a mio avviso che una finzione Quelli che parlano tanto di questa tavola rasa, dopo d'averle tolto le Idee, non potreb- fcero dire che cosa le resti Mi si risponderà forse che questa tavola rasa dei filosofi vuol dire che l'anima non ha naturalmente ed originariamente che delle facoltfi nude. Ma le facoltà senza qual- che atto, in una parola, le pure potenze della scuola, non sono ^he Il concetto delle idee innate non è così innocente al punto di vista della correttezza intrinseca come quello della continuità del pensiero nell'anima. Se, come abbiamo visto nel saggio l*^, è dell'essenza stessa del pensiero di risolversi in elementi sensoriali, un preteso pensiero che non constasse di elementi sensoriali, non sarebbe un pensiero — secondo il solo concetto concepibile che noi possiamo formarci del pensiero — : la teoria delle idee innate è dunque un concetto metafìsico nel senso più stretto, non es- sendo un semplice errore di fatto, ma un'impossi- bilità logica. Ma quand'anche non fosse così, questa teoria me- fiu2ionl, che la natura non conosce, e che non si ottengono che facendo delle astrazioni *. {N, S, sull'intend, 1. 2" e. 1" § 2). Le idee innate in Lelbultz rlposcino sulla base stessa che In Carlerlo : quan- tunque talvolta egli si o;ipongi alla dottrina cartesiana nella sostanza dell'anima (p. e. neW Esame di MelebrancUe, ed.Dutens.t. 2' p. l*" pag.214, ove dice: lo spirito non è 11 pensiero, come dicono i c^rte- slanl, ma un soggetto o un concretnm che pensa), tuttavia la sua pro- pria dottrina, in ottima analisi, non differisce essenzialmente da quella di Cartesio. Nelle monadi non vi ha altra cosa che percezioni ed ap- petiti ; anzi, le monadi non sono altra cosa che rappresentazioni di lenomeul col transito a nuovi fenomeni, cioè che percezicnl ed ap- petltl (Cfr. e. 2" § 16 p. 158). E iu queste proposizioni che dobbiamo vedere l'espressione del vero pensiero pi Lelbultz, perchè la mona- dologia, come tutte lo altre varietà del panpsichismo, suppone il principio che non si può ammettere altra forma della realtà che quella che è data nella esperienza immediata, nella coscienza. Citiamo infine Rosmini : « I filosofi che immaginano 1' uomo a principio pi ivo di ogni sentimento, lo fanno veramente una statua: e quando in questa statua, che non è un soggetto sensitivo, preten- dono che al toccamento del corpi esterni nascano le sensazioni, seb- bene nella statua nulla ci sia di simile, descrivono allora un proce- dimento Inesplicabile, un mistero contrario all'ordine consueto della natura. Dico un procedimento inesplicabile, perchè si fatta origine del sentimento, che comincia di tratto a trovarsi là dove punto non c'è, oltrepassa l' Intelligenza nostra ({uanto la creazione dal nulla. Tale Ipotesi è altresì contro l'ordine costante della natura, la quale HiU ^ i riterebbe sempre di avere un posto nella storia dei concetti metafìsici (in questo senso più stretto), in grazia almeno della dottrina della visione ideale^ di cui essa è uno dei punti di partenza. Tutte le volte che si ammettono nello spirito delle conoscenze in- dipendenti dall'esperienza, nasce il problema di spiegare la possibilità e l'origine di queste cono- scenze; e una delle soluzioni che si presenta natu- ralmente al metafìsico è che queste conoscenze ven- gono da una percezione sovrasensibile, intellettuale. Questa spiegazione si conforma perfettamenfe al tipo generale delle spiegazioni metafìsiche, che con siste a ricondurre il fatto a spiegare, vero o sup- posto, alle nozioni che ci sono più familiari. Ciò è tanto vero che la dottrina della intuizione ideale suppone che l'oggetto intuito è immediatamente pre- sente al pensiero intuente, della stessa maniera che il realismo naturale suppone che 1' oggetto percepito dai sensi è immediatamente presente nella perce- non opera per salto ; e eerto vi sarebbe un saUo, ove noi . al tocco che di uol fa un corpo esterno, passassimo dil non sentir punto noi stessi, a senti, e di repente e noi stessi e qualche cosa fuori di noi. Contemporaneo a quel movimento esterno, che non ha nulla di slmile con la sensazione, si sarebbe, per così dire, acceso in noi e creato uno spirito; polche quale idea ci possiamo noi formare deUo spirito privo al tutto di qualunque sentimento e di qualun ine pensiero? Lo spirito non ha estensione né altre qualità di corpo; togliete a lui anche le qualità dello spirito, che sono il sentire e l'intendere, e voi l'avete annullato, o certo nella vostra mente l' idea di uno spirito è al tutto svanita; purché supplendo voi a quella con un giuoco della vostra immaj?Inazione, non v'immaginiate poi, o fingiate d'Immagi- narvl, uno spirito d'una specie quale non è data nò dali'osservazlou» uè dalla coscienza, e noi mettiate nel luogo dello spirito vero del quale avete cancellata l'idea *,(N*S, snll'orig, delle idee, v, 2" n. 718). zione sensibile, quantunque la gran maggioranza dei filosofi moderni rigetti, su questo punto, la cre- denza naturale, sostituendole la teoria che ciò che lo spirito percepisce immediatamente è, non l'og- getto stesso, ma una rappresentazione dell'oggetto. Ora la prevalenza, nella scienza, della teoria rap- presentativa non impedisce che la maniera più fa- miliare di concepire il fatto della percezione — in cui lo stesso filosofo rappresentazionista lo conce- pisce spontaneamente tutte le volte eh' egli ha una perceziona — sia appunto quella del realismo natu- rale. Così è su questa, non sulla nozione scientifica della percezione rappresentativa, che il metafisico modella la sua visione ideale: Malebranche non dubitava della dottrina generalmente ammessa dai filosofi della sua epoca, che noi non percepiamo i corpi che per l' intermediario di una rappresenta- ziene; ma se egli avesse ammesso, in conseguenza, che è di questa stessa maniera che noi vediamo le idee in Dio, la visione ideale non sarebbe stata più per lui una spiegazione delle idee innate, per- chè egli non avrebbe ricondotto, allora, il fatto da spiegare alle nozioni più familiari del nostro spi- rito (1), La dottrina che lo spirito è una cosa che dura (1) La dottrina delle idee innate può essere cosi bene li principio che la conseguenza, della dottrina dell'Intuizione intellettuale. Quan- do troviamo la dottrina deli' intuizione intellettuale unita a quella che la sostanza dell'anima consiste nel pensiero, o ad un'altra ana- loga sulla sostanza dell'anima, la quale supponga che questa conten- ga in sé delle idee anteriormente all' esercizio dei sensi (come p. e. nel sistemi di Matebrauche e di Rosmini), evidentemente noi dobbiamo considerare come uno almeno dei punti di partenza della dottrina ccxx continuamente (che esso pensa sempre), e quella che esso esiste per se, che, per esistere, non dipende dal corpo, avvicinano certamente la nozione dello spirito, concepito come non contenente in se altra cosa che il pensiero, alla nozione di una sostanza: ma perchè V assimilazione dello spirito alla so- stanza sia la più completa possibile, bisogna anche ammettere in lui un fondo permanente, un elemento che persiste sempre lo stesso, nel mutamento con- tinuo dei fenomeni, e che sia il sustrato in cui questi fenomeni cangianti ineriscono. È questa la proprietà più caratteristica della sostanza, per cui noi V abbiamo definita. Ora, nella supposizione che nello spirito non vi sia altra cosa che pen- siero, o sentimento, ecc., in una parola che tutto il suo contenuto debba essere concepito per ana- logia ai dati della coscienza, questo fondo perma- nente dello spirito, questo sustrato dei suoi feno- meni cangianti, non può essere altra cosa che delMntult3 li dottrina delle idee innate, e quella j^ulla »o«itanza del- l'anima come punto di partenza più lontano. Ma la dottrina dell'in- tuito non è stata immaginata soltanto per ispiepai-e le idee innate: considerata In generale, essa ha per oggetto di spiegare le idee e le contS'tnie che si suppongono indipendenti dall'esperienza, qualun- que sia 11 motivo che faccia ammettere delle idee e dello conoscenze di questa specIe.È evidente che questo motivo non è unicamente una certa dottrina sulla sostanza dell'anima: quasi tutti i metafisici, qua» iunque siano le loro idee sull'essenza dello spirito, ammettono che le verità che ci sembrano intrinsicamente evidenti, sono Indipendenti dall'esperienza, opinione, che, come abbiamo detto nel Saggio 1", può riguardarsi corno 11 risultato di un' inclinazione naturale del nostro spirito. Alla tendenza spontanea che ci fa conslderai'e le verità che sembrano intrinsicamente evidenti come a priori, si aggiunge questa forma di speculazione metafisica, che abbiamo studiata nei cap. VI. CCXXI qualche pensiero, o sentimento, ecc., in una parola qualche cosa di analogo ai fatti reali della ooscionza. Di là il concetto che la sostanza dello spirito è un sentimento o un pensiero sostanziale, cioè imma- nente e continuo, di cui tutti i fenomeni transitori della coscienza sono dei modi di essere, come tutti i fenomeni transitori del corpo sono dei modi di essere della sostanza del corpo, che persiste al di sotto di questi cangiamenti. I Cartesiani non potevano mancare di sviluppare in questo senso la dottrina del maestro. « L'essenza dello spirito, dice Malebranche, non consiste che nel pensiero, come l'essenza della materia non con- siste che nell'estensione Per questa parola pen- siero io non intendo lo modificazioni particolari dell'anima, tale o tal altro pensiero, ma il pensiero sostanziale, il pensiero capace di ogni sorta di mo- dificazioni o di pensieri, come per l'estensione non s'intende una tale o tal altra estensione^ la rotonda e VII., il cai oggetto ò di convertire Ife verità (o pretese verità) In- duttivo in verità intrinsicamente evidenti, e quindi a priori. Ciascuno di questi motivi della teoria delle conoscenze a priori può avere per effetto mediato la dottrini dell'intuito razionale, e quella delle idee innate che ne è la conseguenza. Un altro motivo che produce la dottrina delle idee innite per la me- diazione di quella dell'intuito, può trovarsi nella stessa teoria ordinaria sulla sostanza dello spirito, che considera questo come un che di di- «tinto dai fenometil della co^clenzi, e di sconosciuto nella sua essenza (spiritualismo). Quando il filosofo spiritualista ammette la dottrina della po;'ceeione immediata degli oggetti esteriori - ciò che è la re- gola nella filosofia spiritualista dell'ultimo secolo -egli è natural- mente portato ad estendere per nnalogla la stessa dottrina alla so- stanza me, ciò che Implica Videa innata del me come sostanza (al- meno quando si «uppoue, come sembra il più naturale, che questa percezione che 11 me hi di se stesso, è Immauante), o la quadrata, ma l'estensione capace dì ogni sorta di modificazioni o di figure » (1). L'autore paragona altrove le differenti percezioni particolari dell'ani- ma, relativamente alla sostanza dell'anima, cioè alla percezione o pensiero sostanziale che ne costituisce l'essenza, alle differenti figure che può ricevere la cera, relativamente alla cera stessa (2). Regis de- finisce l'anima : un pensiero che esiste in se stesso e che è il soggetto delle diverse maniere di pen- sare. Egli distingue il pensiero, che costituisce la sostanza dell' anima, e i pensieri particolari, che non ne sono se non delle modificazioni differenti: vi ha questo divario tra il pensiero, che costituisce la mia natura, e quelli i quali non sono che dei modi di essere, che il primo è un pensiero fisso e permanente, e gli altri sono cangianti e passeggieri. Ma il pensiero che costituisce la mia natura non è il pensiero in generale (una semplice astrazione) ma un pensiero fìsso, singolare e determinato, che è il soggetto dei pensieri particolari (3). Arnauld dice : « I cangiamenti che avvengono nelle sostanze semplici non le fanno essere una cosa diversa da quella che erano. Ciò è appunto quello, per cui le cose o le sostanze si distinguono dai modi o maniere di •essere, che si possono anche chiamare modificazioni. Ma le vere modificazioni non potendosi concepire senza concepire la sostanza di cui esse sono modi- ficazioni; se la mia natura è di pensare, ed io posso I (1) Rie. della ver. 1. 3" e. 1". (2) Rie. della ver. 1. 1" e. 1". (3) Plouquet Esame del fatai, t. 2** nez. 3» e. H'*. pensare a diverse cose senza cangiare di natura, è necessario clie questi diversi pensieri non siano se non che differenti modificazioni del pensiero che fa la mia natura. Porse vi ha in me qualche pen- siero che non cangia, e che si potrebbe prendere per l'essenza della mia anima. Io ne trovo due che potrebbero credersi tali : il pensiero dell' essere universale, e quello che 1' anima ha di se stessa; perchè sembra che 1' uno e l' altro si trovi in tutti gli altri pensieri : quello dell'essere universale, per- chè tutti i pensieri raccliiudono l' idea dell' essere, non conoscendo l'anima nostra alcuna cosa se non sotto la nozione di essere o possibile o esistente (è il germe della dottrina di Rosmini sull'essere ideale); e il pensiero che l'anima nostra ha di se stessa, per- chè di qualunque cosa io conosca, conosco che la conosco, per una certa riflessione virtuale, che ac- compagna tutti i miei pensieri » (1). L'esempio più notevole di quest'applicazione del concetto di sostanza ai fenomeni della coscienza si trova senza dubbio nella filosofia di Rosmini : la sua dottrina sul sentimento fondamentale e quella sull'intuizione dell'essere ideale non hanno altro scopo che di trovare tra i fenomeni del sentimento e del pensiero la sostanza dell'anima, cioè questa cosa permanente, di cui i pensieri e i sentimenti successivi non sono che dei modi di essere. Ma per l'importanza di questa dottrina nel sistema di Ro- smini, e l'importanza di questo sistema nella fìlo- .V- (l) Delle vere e delle false idee^ e. 2. ' V sofia nazionale, ne faremo un'esposizione particola- reggiata in un Supplemento alla fine del volume: è ad esso che rimandiamo per una maggiore delu- cidazione di questa forma del concetto di sostanza anima, che cerca questa sostanza nei fatti stessi della coscienza. Qui termineremo per un' osserva- zione generale sulle diverse forme di questo con- cetto: è che i diversi modi in cui è stata concepita l'essenza della sostanza anima non sono, al fondo, che quelli stessi in cui è stata concepita l'essenza della materia. La materia è stata concepita: 1^ Come materiale (mi si permetta di esprimermi così), cioè conformemente alla nozione ordinaria e naturale che gli uomini si fanno della materia, come una cosa estesa, visibite, palpabile, ecc., ciò che è la sola rap- presentazione reale che lo spirito umano può for- marsi della materialità (questo concetto della ma- teria ha il suo riscontro nella forma primitiva della dottrina animista, che il Bain ha chiamato il doppio materialismo). 2^ Come una cosa sconosciuta e inco- noscibile, punto di vista al quale devono anche ri- condursi le dottrine cosi dette dinamiche, che risol- vono la materia in elementi semplici, cioè assolu- tamente indivisibili e inestesi (a questa concezione della materia corrisponde lo spiritualismo ordinario). 3^ Come consistente in percezione e appetito (mo- nadologia di Leibuitz) o volontà (Schopenauer, M. de' Biran, ecc:) o tendenza, ecc:, in una parola come analosfa alla realtà che ci è data nella coscienza (è, d'una maniera generale, la dottrina che abbiamo chiamato panpsichismo, alla quale corrisponde quella che la sostanza dell'anima consiste nel pensiero, o nel sentimento, ecc.). Che i tre soli modi possibili ccxxv di concepire la materia si ino pure i tre soli modi possibili di concepire la sostanza dello spirito, non è un fatto sorprendente, anzi è necessario, perchè noi non possiamo pensare che con le idee che abbiamo, e l'idea della materia e quella della sostanza, che ciò si riconosca o no, non sono due idee distinte, ma una sola e stessa idea. Ma prima di finire non sarà forse inutile di met- tere in guardia il lettore contro un possibile ma- linteso. La dottrina che non ammette che lo spirito sia una sostanza^ non sopprime l'opposizione radi- cale tra lo spirito e il corpo, anzi è una conseguenza di questa opposizione, perchè se si nega la sostan- zialità dello spirito, è appunto per l' impossibilità di applicare allo spirito un concetto, che non con- viene se non alla materia. Da ciò che lo spirito non è una sostanza non si deve concludere che lo spi- rito è niente, o che la materia ha una realtà piti grande che quella dello spirito. Al contrario, tutti coloro per cui lo sviluppo della filosofia moderna, da Cartesio sino ai nostri giorni, non è il libro chiu- so dai sette sigilli, sanno che lo spirito è un fatto mentre la materia non è che un'ipotesi, e un' ipo- tesi che presenta le più gravi difficoltà — che noi svilupperemo e discuteremo nella II parte, perchè sono esse che danno l'impulso alla evoluzione della concezione realista del mondo esteriore, determinan- do le forme metafisiche di questa concezione. DI ROSMINI SULLA SOSTANZA DELL^ANIMA \i La dottrina di Rosmini sulla sostanza dell' anima è una conseguenza del principio fondamentale della sua filosofia — principio in se stesso rigorosamente speri- mentale — che la realtà è costituita dal seutimento. Cosi il suo concetto della sostanza dell'anima si ottiene fon- dendo insieme queste due idee incompatibili, quella di un sentimento e quella di una sostanza. L'anima, dice Rosmini, è un sentimento originario e stabile, principio e soggetto di tutii gli altri sentimenti. è un sentimento sostanziale o un sentimento sostanza: fio d' una persona è il sentimento proprio e incomuni- cabile di questa persona (t). La facoltà, di sentire è co- stituita da un atto primitivo e permanente che è la base e la radice di tutti gli atti avventizi e mutabili di questa facoltà (2): quest'atto originario e immanente del senso Rosmini lo chiama il sentimento fondamentale, ed è in esso che fa consistere la sostanza del principio senziente, dell'anima puramente sensitiva. Le prove di cui Rosmini si vale per istabiLro l' esi- stenza del sentimento fondamentale, sono generalmente ^"1 (1) Psic, 53, 75, 79, 81, 82, 91, 106, 124, 129 ecc.; iV. sr. 440 e n., 528 n. 2, 626, 627, 719, 1195 e segg., ecc. (2) N. S, 1008, 1021-1025, Psic KB.Tc^os. 5. 279, ecc. - 2 - fondate sul con(3etto della sostanzialità deir anima (i) non che su quello dell' unità e dell' identità del me, lo' quali suppongono secondo lui 1' unità e V identità del nostro sentimento nella pluralità e il cangiamento degli stati della nostra sensibilità, in modo che sia sempre lo stesso sentimento nei suoi diversi modi (2). Il sentimento fondamentale è il sentimento dell' io percettivo del proprio corpo (3) : esso è unico, ma com- prende, come due poli opposti e inseparabili, un principio e un termine, cioè un soggetto che percepisce e una cosa che è percepita (4), Questa cosa che è percepita col sen- timento fondamentale è il proprio corpo: il nostro corpo (o almeno tutte le parti sensitive del nostro corpo) è da noi abitualmente e uniformemente sentito d'una maniera intima che non bisogna confondere con le percezioni dei scusi esterni, quantunque questo sentimento, per essere coniiuuo e sempre il medesimo, suole sfuggire alla no- stra osservazione. Questo sentimento intimo, per cui ranima percepisce il proprio corpo, è, nel suo stato nor- male, un sentimento di piacere blandamente e equabil- mente diffuso in tutta Testensione del corpo (almeno del corpo sensitivo) (5), o più propriamente- V estensione di questo corpo è una proprietà, un modo del sentimento stesso (poiché secondo Rosmini il corpo non è se non in quanto è sentito, e non esiste se non nel sentimento (6). (1) Ps. 82-91 98-106, iV. &\ 717-719, eco. (8) Ps. m TI, 97, 171-173, 2216, N. ^, 887, ecc. (3) N. S, 716, 1025, 1027 eoo. (4) Ps, 145-H9, 25J-254, 459, 718 n. 5, eoo. <5) N. S, sez. 5. parte 5. e. 3. e 4. (6) V. il mio studio suUa dottrina di Rosminr sull'essenza della materia Notiamo che questa dottrina e quella del sentimento fon- damentale sono intimamente connesse, e si suppongono l'una con Il sentimento fondamentale è a noi innato, perchè esso è rio, e noi siamo innati a noi stessi (1) ; esso non ci manca mai, in alcun momento della nostra esistenza, perchè noi non possiamo mancare a noi stessi (2) ; in- fine esso persiste nel flusso continuo degli altri fenomeni avventizi dello spinto, perchè il me, la persona, persiste ed è sempre identica a sé stessa (3). Ma è evidente che questa persistenza del sentimento fondamentale, nella successione dei sentimenti avventizi e transitori, non sarebbe sufficiente per se sola a riguar- dare questo sentimento come il me o la sostanza dell 'a- I l'altra. Mentre, da una parte, senza la i)ermanenza del sentimento fondamentale la permanenza, e quindi la nmltà, del corpo sarebbe impossibile, dall'altra parte, senza l'inesistenza del corpo nel prin- cipio senziente, senza il panpsicltlsmo di Rosmini, la sua dottrina sulla sostanzialità dell'anima sensitiva sarebbe senza motivo. Per- chè Rosmini cerca una sostanza, un quid permanente, che sia il sustrato dei fenomeni dell'anima sensitiva ? Perchè questo sustrato non può essere pia per lui il me fisico, il corpo : infatti come i fe- nomeni dello spirito potrebbero avere per sustrato 11 corpo se que- sto non è esso stesso che un fenomeno dello spirito ? L'ipotesi della sostanzialità dell'anima in Rosmini non ha per oggetto, oome nel- 'animismo primitivo, di spiegare l'origine della vita e il passaggio dalla vita alla morte : la vita, per Rosmini, non sorge, né si perde, nel seno della materia bruta; tutta la materia è per lui animata, e le anime degli elementi materiali che costituiscono un individuo vivente, organizzato, sono degli elementi costitutivi dell'anima di quest'individuo. L'esempio di Rosmini ci mostra della maniera più evidente l'importanza capitale del secondo dei due motivi che noi abbiamo assegnato alla dottrina che lo spirito è una sostanza — cioè quello risultante dall'associazione intima dell'idea dello spirito con quella del corpo — per ispiegare le forme della dottrina che ripon- gono questa sostanza negli stessi fenomeni della coscienza. (1) N. S. 42S n. 2, 441, ecc. (8) N. S, 538 n. 2, Psic. IGS n., eco. (3) Psic. 97, 171-173, Teos. 5. 42, 45, 279, eoe. — 3 - Dima : perciò è necessario ancora che questo sentimento abbia con gli altri fenomeni della sensibilità lo stesso rapporto che la sostanza ha coi suoi accidenti o modi di essere. In effetto se il sentimento fondamentale non fosse in tale rapporto con gli altri sentimenti, se esso non fosse il soggetto a cui questi si riferiscono, l'ipotesi del sentimento fondamentale non farebbe che aggiungere un'altra sensazione a questa collezione di sensazioni, in cui fanno consistere il me quelli che non ammettono che il me sia una sostanza: mentre Rosmini cerca ciò che dà l'unità alla collezione delle sensazioni, questa sostanza me che tutte le raccoglie ed unizza, perchè tutte in essa ineriscono. Il sentimento fondamentale è così chiamato da Ro- smini, perchè è in esso, secondo lui, che sono fondate tutte le altre sensazioni (i) (e fra queste bisogna com- prendere le riproduzioni che fa V immaginazione delle sensazioni passate) (2). Il sentimento fondamentale è dunque la sede delle sensazioni avventizie, e queste ad esso si attengono come a loro sustrato (3). E in effetto l'estensione del nostro corpo da noi continuamente per- cepita col sentimento fondamentale, è la sede in cui tutte le sensazioni avventizie vengono percepite; poiché secondo Rosmini l'estensione è un dato comune di tutte le sensazioni, l'estensione percepita di ogni sensazione essendo l'estensione stessa dell'organo in cui essa ha la sua sede (4). Ciò non è vero soltanto delle sensazioni Interne, che noi localizziamo in punti determinati del (1) N. S, 716, 1196, Teos. 5. 32, 42, Ps. 866, eco. (2) V. Psic. parte 1. 1. 3. o. 9. art. 2. (3) Ps. 2216, Teos. 5. 36, eco. (4) N. S. 426, 729, 734, 837, 858-868, Ps. 774-777, Teos. B. 876, 6. 19, 82 eoo. V nostro corpo: ma le stesse sensazioni esterne, che ci danno le nozioni degli oggetti esteriori, hanno un' estensione identica a quella dell' organo percipiente, poiché tutte le percezioni dei sensi esterni si riducono secondo Rosmini al tatto, e noi non percepiamo che la superficie dei corpi esterni, in quanto essa coincide e s'identifica con la su- perficie dell' organo percipiente, sicché V estensione im- mediatamente percepita nelle sensazioni esterne non è che l'estensione stessa del sentimento fondamentale (1). Di più, siccome il sentimento fondamentale, che è na- turalmente un sentimento di piacere, ma che può variare, rendendosi più o meno piacevole o anche doloroso (se- condo i cangiamenti del corpo), sostiene e contiene tutte le sensazioni avventizie, cosi il piacere o il dolore ac- compagna, in qualche grado, tutte le sensazioni, se pure non voglia dirsi che tutte le sensazioni sono dei modi del piacere e del dolore (2). Potrebbe dirsi che il sentimento fondamentale è nella costituzione dello spirito ciò che lo scheletro o il nucleo nella costituzione dei corpi: ma Rosmini trova che queste comparazioni non sono adequate (3). Queste compara- zioni, in effetto, non danno un' idea esatta della natura del rapporto tra il sentimento fondamentale e le sensa- zioni avventizie: questo rapporto non è di quelli che possono correre tra fenomeni distinti e separati, fra atti distinti e separati dello spirito. Vi è al contrario una relazione d'inerenza reciproca tra il sentimento fonda- mentale e le sensazioni avventizie, perchè il sentimento fondamentale è il me o la sostanza dello spirito, e perciò (1) V. N. S. sez. 5. parte 5. o. 9. (2) N. S. 725-727, 756, 837 e n. 1., 889, eco. (8) Teos. 5. 36. — 4 - la relazione fra esso e gli altri fenomeni dello spirito è quella che vi ha fra la sostanza e gli accidenti, fra Tente e i modi di essere dell'ente. Le sensazioni avventizie (e tra esse bisogna comprendere, come abbiamo detto, lo rappresentazioni deirimmaginazione) sono delle modifi- cazioni del sentimento fondamentale: quando una sen- sazione nuova sopravviene nello spirito, essa non è già nuovamente creata, ma è una nuova forma che prende il sentimento fondamentate preesistente, è il sentimento fondamentale stesso eccitato e modificato, il quale di- venendo una nuova sensazione, il sentimento non mu- ta r essere, ma il modo doir essere (1). La sostanza dello spirito, cioè del sentimento, resta la stessa, non cangia che la forma : è, per ripigliare la similitudine di Malebranche, la stessa cera che prende un'altra figura. Per conseguenza Rosmini va anche sino ad affermare che le sensazioni avventizie preesistono, quantunque in un modo diverso, nel sentimento fondamentale (cioè nel sen- timento abituale e primitivo deiranima per cui essa per- cepisce se stessa in unione col proprio corpo). In que- sto sentimento originario che costituisce la sostanza del- Tanima si contengono tutte queste appendici ch'es5>a prende poscia nel suo sviluppo (2). Perchè il senziente resti identico a se stesso, egli deve avere inerente, sin dal principio della sua esistenza, un sentito nel quale vir- tualmente si compreu'lano tutte le future sensazioni (3). (1) y. S. 701-706, 723-727, 735-736, 887 e «egg, 1026, Ps, 279, 442 e segg., tav. sinott. del senso, 1880, 2079, Teos. 6. 32-36 eoo. (8) Ps, 130. (3) Ps. 171, 175, 178, 184, 2079, Teos. 5. 83-36, 241, 279, iV. S. 887-888, eoo. Il principio senziente prima di sentire attualmente la nuova sensazione, la sentiva dunque virtualmente. Ma che cosa vuol dire sentirla virtualmente ? « Se per sen- tire virtualmente s' intendesse non sentire niente af- fatto, dimodoché vi avesse un passaggio tra il non sen- tire affatto e il sentire attualmente, in tal caso con la nuova sensazione sorgerebbe un principio nuovo di sen- tire, non resterebbe il precedente identico; la sensa- zione nuova non sarebbe modificazione di un senti- mento ]»i ecedente, sarebbe un sentimento del tutto nuo- vo ella s:« ssa Conviene dunque dire che la nuova sensazione preesiste in un altro modo . quasi nasco- sta e confusa in un sentimento maggiore, in quel sen- timento che costituisce l'energia propria del principio senziente Secondo questo concetto (della virtualità sensitiva) un principio senziente, un soggetto, contiene in sé (sentimento fondamentale) tutte le sensazioni di cui è suscettivo restando identico; ma le contiene in- distinte, fuse insieme, senza l'ultima perfezione dell'atto, in un primo grado di atto, a cui manca l'ultimazione. Laonde fé si considera quale operazione si faccia nel- l'anima nostra allorché noi ascoltiamo un concerto di musica, converrà dire che tutta quell'armonia che si sente si sv(*glia ed eccita nell'anima stessa, dove si trovava latente; ella dimorava nel sentimento fondamentale e so- stanziale adunata insieme e fusa con tutte le altre pos- sibili sensazioni formanti un sentimento solo che è ap- punto il fondamentale, manchevole dell'atto ultimo e di. stinto, al qu.ale venne provocato dall'organico eccita- mento » (j). Le sensazioni non sono dunque « create di nuovo quando cadono nella nostra coscienza, ma si estrin- (1) Teos. 5. 36-36. 5 — secano, da implicite diventano esplicite, il sentimento non cangia Tessere, ma il modo deir essere» (1). Nei luoghi citati e in più altri Rosmini si rappresenta la mutazione del sentimento, che avviene alla nascita di una sensa- zione avventizia, come un passaggio dall'implicito allo esplicito, dairinvoluto all'evoluto, dallo stato latente alla manifestazione esteriore Noi abbiamo visto che è a simili rappresentazioni che si è generalmente ricorso per mo- strare come nei cangiamenti apparenti delle cose l' es- sere in se stesso resti nondimeno identico ed immuta- bile. E cosi che i Vedantini (per far comprendere come l'universo è identico a Brama da cui esso è uscito) usano Timmagine di una stoffa inviluppata che si sviluppa o della testuggine che fa uscire le membra dalla sua scaglia. Vi ha un'altra immagine usata dai filosofi vedantini che può fornirci una rappresentazione conveniente del rapporto che Rosmini stabilisce tra il sentimento fonda- mentale e le sensazioni avventizie. I Vedantini compa- ravano Brama al mare, il quale non è che acqua, ma in cui si osservano dei flutti, della spuma e altre modi- ficazioni dell'acqua. L'acqua del mare rappresentava per essi l'essere primitivo, e i flutti, la spuma, ecc.; l'uni- verso creato. Noi possiamo invece rappresentare per quella il sentimento originario e abituale dell'anima, e per que- sti le sensazioni avventizie. Come i flutti, la spuma, ecc., non sono fuori del mare, ma in esso, cosi le sensazioni avventizie non sono fuori del sentimento fondamentale, ma in esso : e come i flutti, la spuma, ecc. : non sono che l'acqua stessa modificata, cosi le sensazioni avventi- ci) Psic, 2079. zie non sono che lo stesso sentimento originario e imma- nente dell'anima modificato. Rosmini spinge sino al limite estremo l'assimilazione dello spirito (i fenomeni della coscienza) ad una sostanza; egli applica al mondo interiore della coscienza l'assioma degli antichi filosofi che Tessere non può venire dal non essere, che niente nasce e muore, che il reale è, al fon- do, immutabile; principio che é una generalizzazione dei fenomeni r»iù familiari dell'esperienza, ma semplicemente dell'esperienza esterna ; ma una volta che Rosmini con- cepisce lo spirito come una sostanza, il soggetto come un oggfMto, non deve trovarsi strano ch'egli applichi al mondo subbiettivo un principio che i filosofi ordinaria- mente non applicano che al mondo obbiettivo. Il sentimento fondamentale, quale T abbiamo sin qui descritto, rioti esiurisce tutta la sostanza dell' anima. L' a- nivna umana non è solo un principio senziente : se non fosse che questo, essa non potrebbe sopravvivere alla morte del corpo ; perchè T attività del senso è condizio- nata dalle funzioni degli organi e quindi dall'esistenza del corpo vivente. L' anima sensitiva non perisce del tutto secondo Rosmini alla morte dell' animale, ma essa perde la sua individualità : come essa si è formata, con la forma- zione del corpo vivente, per la composizione delle anime degli elementi materiali di cui il corpo è stato composto, cosi essa si discioglie in queste anime elementari, con la dissoluzione dei corpo nei suoi elementi (1). O piuttosto, siccome la vera sostanza non è per Rosmini che T anima', il corpo non essendo che un sentito, e non esistendo che in e per il principio senziente (2), cosi è l' anima sola (1) Psic, 459, 603-6J2, 663-667, eoo. (2) V. il mio studio sulla dottrina dell'essenza della materia in Bosmini. - 6 - in realtà che sì compone e si diacioglìe, queste anime elementari di cui essa si compone e in cui si discio- glie, essendo al pari di essa dei sentimenti sostanziali, in ciascuno dei quali inerisce come suo termine uìì corpo. L' anima sensitiva è dunque in un senso immortale se- condo Rosmini : ma questa immortalità non è quella che il dogma religioso attribuisce allo spirito umano. Per salvare l' immortalità individuale dello spirito umano Ro- smini unisce neiruomo al principio senziente un princi- pio intelligente: questo sopravvive alla dissoluzione del- r animale umano, e può avere un' esistenza separata dal corpo, perchè T attività dell' intelligenza secondo Rosmini è condizionata necessariamente come quella del senso a degli organi corporali (I). Come il principio sensitivo è costituito da un atto ori- ginario ed immanente del sen^o, così il princìpio intel- lettivo è costituito da un atto originario ed immanente dell'intelligenza (2). Un atto primitivo ed essenziale dell'intelligenza, un pensiero essenziale, è dunque il su- strato di tutti i pensieri avventizi, come un atto pri- mitivo ed essenziale del senso è il sustrato di tutte le sensazioni avventizie. Questo pensiero essenziale, in cui tutti i p-^nsieri sono contenuti e che tutti suppongono, come tutte le sensazioni sono contenute nel sentimen- to fondamentale e lo suppongono, è la più universale ola più astratta di tutte le idee, l' idea dell' essere. L' intellezione dell' essere è la sostanza del principio in tellettivo, come il sentimento fondamentale del princi- pio sensitivo (3). LMdea dell'essere indeterminato che (1) V. y, S. 177 n, 2, 685 n. 2. (2) ^\ S. 48J-484, 521, 535, ^7, 545, 662, ecc. (3) Ps, 307-309, 566, 628, 657, 679, 685, 687, 688, 694, 1006, 1009, 1176 1196, eoo. ' il principio intellettivo ha inerente sin dall' origine della sua esistenza, contiene virtualmente tutte le intellezioni future, come il sentimento fondamentale, tutte le future sensazioni, perchè tutte le intellezioni possibili non sono che delle determinazioni dell'idea dell'essere (1). Que- 8t' idea è perciò innata, non è un risultato dell'astrazione, non viene all' anima dal di fuori per il canale dei sensi: tutte le altre idee sono acquisite, e nascono dall' unione deir idea dell' essere con una percezione dei sensi che dà a quest'idea una determinazione particolare (2j. Ro- smini paragona l' idea dell' essere, che costituisce la na- tura stessa dell'intelligenza, alla tavola rasa d' Aristotile, 0 ad una pagina bianca su cui le esperienze dei sensi ven- gono ad imprimere dei caratteri (3). La natura dell' in- tendimento, dice Rosmini, consiste in uno sguardo conti- nuo che mira V essere, e che vede tutto ciò che spetta alla ragione dell' essere, come sono le condizioni e de- terminazioni dell' essere stesso (4). «L'ente indetermi- nato che sta a noi continuamente ed immobilmente pre- sente è come la carta bianca ove il nostro spirito mira e riguarda. Ora le determinazioni di quest' oggetto non sono che un' aggiunta accidentale al medesimo, una scrit- tura sulla detta carta ». Quindi con queir atto medesimo col quale vediamo l'essere, vediamo ancora in lui, e giammai senza lui, le sue determinazioni, come guardando la carta, noi vediamo pure con lo stesso sguardo tutti 1 caratteri che vengono in essa tracciati (5). (1) Pi, 171, 178, 184, ecc. (2) N, S, sez. 5. parte 1. o 2. (8) N. S. 538. (4) N. S. 624. (5) y. S. 623. -7- n L'atto del principio intellettivo, considerato per se solo, consiste nella semplice apprensione dell' essere universale e indeterminato: ma l'apprensione dell'essere rivestito delle determinazioni particolari somministrate dal senso, non è r atto del solo principio intellettivo, come non è quello del solo principio sensitivo, ma è l'atto di questa unica e semplice anima dell' uomo, che è al tempo stesso intellettiva e sensitiva, perchè in essa si comprendono, unificati, tanto il principio sensitivo quanto l'intellet- tivo. Rosmini chiama 1' anima dell' uomo, questa unità del principio sensitivo e del principio intellettivo, il principio razionale, perchè egli considera la ragione come una ri- sultante dell'unione della sensibilità e dell' intelligenza (1) Gli oggetti che cadono sotto la nostra conoscenza constano secondo Rosmini di due elementi : un elemento che viene dalla pura intelligenza; è l' essere universale, r idea del quale costituisce la forma stessa dell'intendi- mento, e deve perciò trovarsi in tutti gl'intesi — e un ele- mento che viene dal senso ; sono le determinazioni o differenziazioni dell'essere, separate dall'essere stesso. Di là la distinzione di Rosmini tra la percezione semitiva e la percezione intellettiva (che con più proprietà egli avrebbe potuto chiamare percezione razionale) (Sì.-'^la percezione sensitiva non coglie che il secondo elemento degli oggetti, vale a dire le determinazioni dell' essere senza l'essere stesso (per cui un sentito come puramente tale non è un essere secondo Rosmini) (3) ; la percezione (1) Psic, 187, 189, 227, 228, 264, 287, 291, 689, 719, 1012, 1013, 1121 1122, 1186, 1J95, .V. S, 480-482, eoo. (2) .Y. S. 55, 56, 63, 64, 132, 326, 338, 454, 455, 458, 474-478, 480-482 536, 538, 622-624, ecc. (3) P6ic, 7^-lS, 291, 641, 675, 1176-1177, 1184, Teos. 5. 37-42, eco. intellettiva completa la sensitiva, aggiungendo a questa il primo elemento, cioè 1' essere, e contemplando cosi i sentiti nella forma dell' essere, cioè come esseri. La per- cezione intellettiva, questa sintesi primitiva del sentito con l'idea dell'essere, è il talamo in cui il principio in- tellettivo si congiunge col principio sensitivo (1) : essa è r atto primitivo del principio razionale, di questo prin- cipio unico e duplice al tempo stesso, che costituisce 1' es- senza dell'anima umana (2). Come la sostanza del principio sensitivo è costituita da un atto immanente del senso, il sentimento fondamen- tale animale, e la sostanza del principio intellettivo è costituita da un atto immanente dell' intelligenza, la apprensione dell' essere universale, così la sostanza del principio razionale, risultante dall' unione dell' uno con r altro, è costituita da un atto immanente, che è la sintesi dell'atto immanente del senso con l'atto im- manente dell' intelligenza. L' atto immanente del prin- cipio razionale è una percezione intellettiva, il cui og. getto è il sentimento fondamentale animale, cioè il principio senziente congiuntamente al suo termine cor- poreo : questa percezione intellettiva fondamentale si distingue dal sentimento fondamentale animale, in quanto ciò che nel sentimento animale è puramente sentito, diviene inteso nella percezione razionale, cioè viene appreso nella forma intellettuale dell' essere o come es- sere (3). Quantunque Rosmini affermi energicamente l'unità e (1) Cfr. Ps. 264.(2) X S. 1025-1026, Psic. 266, ecc. (3) Ps, 75, 264, 265, 266, 286, 287, 291, 420, 641, 645, 671, 689, 719, 1012, 1013, 102b, ecc. la semplicità dello spirito umano (1), è evidente tuttavìa che la sua dottrina ò al fondo un vero dualismo : il prin- cipio sensitivo e il principio intellettivo sono associati durante la vita, ma essi si separano alla morte dell'uo- mo. Alla quistione come questi due principii possano co- stituire un soggetto unico e semplice, Rosmini risponde che ciò avviene per la percezione che Tun principio ha dell'altro. Questa percezione è immediata, cioè il perce- pito si percepisce in se stesso, e non mediante una sua rappresentazione (2): per essa avviene runificazione dei due principii, perchè, quando un principio sente un altro principio, siccome il principio sentito non è altra cosa che un sentimento, e si tratta di una percezione immediata^ cosi il principio percepiente s'identifica col principio per- cepito, e si veritìca la massima che ex percipiente et per- cepto fit unum (3j. Questa percezione uniàcatrice dei due principii non è che la stessa percezione fondamentale che costituisce la sostanza dell'anima razionale : nella percezione immanente del sentimento fondamentale ani- male, Rosmini considera questo come il percepito, e il prin- cipio intellettivo (che, secondo lui, è il portatore dell'i- dentità del soggetto umano) (4) come il percipiente (5). Il principio intellettivo, che mira continuamente l'essere, vede anche in esso la sua determinazione particolare, cioè il sentimento fondamentale animale : questa perce- zione che il principio intellettivo ha del sentimento ani- ci) Ps, 125-126, 174-184, 227, 264, 430 e sgg., 686 e 9gg., 716 e sgg., eoo. (2) Psic. 291 n. J, Teoa. 5. 494, eoo. (3) Ps. 264, 266, 292, 420, 578, 641, 671, 689, 719, 1012, 1023, Teos, 5. 220-221, 324, 339, 373, 450, 461, 474, 493-494, ecc. (4) Psic, 187-190, 687-688, ecc. (5) Psic, 641, 645, 671, 1176-1177, Teos, 5. 381-382, 460, 474, 493, ecc. male si concilia, secondo Rosmini, con la dottrina, la quale esige che, perchè un principio conservi la sua i- dentità, ciascuno dri suoi atti deve essere virtualmente compreso nell'atto primo che ne costituisce l'essenza; poiché, il sentimento animale essendo una determinazione particolare dell'essere, esso è virtualmente contenuto nel- l'essere universale, e quindi la percezione del sentimento animale è virtualmente compresa nella percezione del- l'essere universale che costituisce la sostanza del princi- pio intellettivo (1). Noi dobbiamo aggiungere che, mentr*^ da una parte, Rosmini spiega Tunificazione dei due principii mediante la percezione intellettiva, dall'altra parte egli dà l'unità del soggetto umauo come ragione e fondamento di que- sta sintesi del sensibile e dell'intelK ttualo, che ha^uogo nella percezione iutelleitiva (2). Cosi la p rcezione in- tellettiva è spiegata per l'unità dello spirito umano, e que- sta alla sua volta è spie^fata per la p^^rcezione intellet- tiva: Rosmini non spiega dunque l'unità del nostro spi- rito, essa è inesplicabile nel suo s stema, che, come ab- biamo detto, è un vero dualismo ; » ppure la dottrina di Rosmini sulla sostanza dell'anima aveva lo scopo di dare un fondamento all'unità e all'identità del mq ! Cosi qui accade questo fatto strano, che non è pertanto nuovo nella storia delle dottrine metafisiche, cioè che il feno- meno stesso, che l'ipotesi è destinata a spiegare, diviene un'obbiezione invincibile contro questa ipotesi. La dottrina di Rosmini sulla sostanza dell'ain'in \ non 8i limita a dare una risposta a questa quistione partico- lare della psicologia metaempirica : al contrario essa è i (1) V. Psic. 190, 264, 671, eco. '^ (8>.iV. S. 128, 338, 454, 611, 622, eco. — 9 — r' '» il punto di partenza di una moltitudine di speculazioni tanto psicologiche, quanto ontologiche, sicché il sistema filosofico di Eosmi DÌ non è in gran parte che uno svi- luppo e una conseguenza di questa dottrina. La teorica dell'essere ideale è il fondamento, non solo di una psi- cologia arbitraria (perchè Rosmini vuol mostrare, per la analisi delle operazioni dell'intelligenza umana, che esse suppongono tutteTidea innata dell'essere), ma anche quello di una metafìsica non meno arbitraria, quest'idea innata dell'essere, affinchè essa possa avere un valore obbiettivo, e si comprenda la sua presenza nel nostro spirito indipen- dentemente dall'esperienza, supponendo, secondo Rosmi- ni, che lo spirito umano abbia l'intuizione immediata del- l'oggetto reale corrispondente a quest'idea (l'essere uni- versale 0 indeterminato, che noi predichiamo di tutti gli es- seri, è un attributo divino, che viene comunicato agii esseri ereati; noi percepiamo in Dio quest'attributo, ma senza percepire la sostanza divina; quebta percezione è immanenie, e costituibcc l'idea dell'essere continuamente presente al nostro spirito). Di là un'ontologia delle più .ardue, che non è se non il contracolpo dell'ideologia rc- sminiana. La dottrina dell'essere ideale è ciò che vi ha di più caratteristico nella filosofia di Rosmini, e ne è ordina- riamente considerata come la parte fondamentale; ma chi studia i concetti metafisici per darsi ragione sovratutto del loro perchè e della loro origine, non può vedere al- tra cosa in questa dottrina e in tutti i suoi sviluppi psi- cologici e ontologici che una conseguenza di un risultato a cui Rosmini è pervenuto nella sua ricerca della sostanza dell'anima (!)• tj (1) La dottrina giobertiana dell'intuito ohe sostituisce all' es- sere ideale o astratto di Bosmini l'essere reale o concreto, cioè Dio stesso (e non uno dei suoi attributi) ha dei motivi in parte analoghi alla dottrina rosminiana. Gioberti ammette, come Bosmini, che in tutte le facoltà del- l'anima vi hanno due stati o due modi di esercitarsi, l'uno imma- nente e continuo, l'altro successivo e discontinuo: il primo è la baso e la radice del secondo. Il sentimento fondamentale di Bosmini è lo stato immanente del senso; l'intuito di Dio è lo stato immanente del pensiero o il pensiero immanente. Il pensiero immanente non è mai assente dallo spirito umano; esso si trova nel fanciullo, nel dormiente, ecc.; e, se si parla di questo pensiero, è vero di dire che l'anima pensa sempre. Il pensiero immanente non è un atto parti- colare del pensiero, ma la stessa attività pensante, l'essenza stessa del pensiero (analogamente, il sentimento fondamentale non è una sensazione particolare, ma la stessa facoltà sensitiva, e il simile per le altre facoltà dello spirito). Esso è dunque una potenza, ma non nel senso ordinario della parola, che fa della potenza una semplice astrazione, ma una potenza nel senso leibnitziano, quae conatum involvitj un ohe di concreto e perciò includente un principio di a- zione. Il pensiero immanente essendo l'atto iniziale che costituisce la potenza di pensare, ne segue che il pensiero successivo non è che un'applicazione, un'attuazione particolare determinata, del pen- siero immanente. Il pensiero immanente ha per oggetto l'ente u- niversale, il pensiero successivo, le esistenze particolari; quello per- cepisce Dio come ente puro, questo percepisce Dio come ente in relazione con le esistenze, cioè Dio creante gli esseri finiti (V. Pro- toh t. 1., Intuiz. e rifless.). E siccome la creazione è secondo Gio- berti l'individuazione delle idee generali (v. Inlrod. Milano 1860 1. 1. 294-295, Err, filos. di A. Rosmini Brusselle J843 t. 1. 335-344, ecc.) che tutte sono comprese nell'Idea, cioè in Dio, noi possiamo dire anche che il pensiero immanente ha per oggetto l'Idea pura, e il pensiero successivo l'Idea individuantesi o esplicantesi esteriormente. Ciò che vi ha di comune tra la dottrina di Gioberti e quella di Bosmini è il concetto di un fenomeno stabile, immanente, dell'at" tività psichica, che è il substratum dei fenomeni transitori. Appli- cato all'attivila intellettuale, questo concetto importa la necessità di ammettere un' idea o delle idee essenziali allo spirito e perciò innate. Per giustificare poi il valore obbiettivo di queste idee innate, quindi indipendenti dall'esperienza, e spiegare la loro coincidenza con la realtà, tanto Gioberti quanto Bosmini ammettono un'intui- zione ragionale dell'oggetto intelligibile. Ma le dottrine dei due fi- losofi non si fondano sovra un principio assolutamente identico. Il principio della dottrina di Bosmini è, come abbiamo visto, che la sostanza dell'anima oonsiste nel sentimento (o, con un termine più generale, nel fenomeno della coscienza); ciò che è un'applicazione — 10 - ""; A r*, partioolare del prìneipio più genera/e ohe il reale è oostitoito daj seniimeuto. Ma non è questo prinoipio (o un principio analogo) che può essere il fondamento della dottrina di Gioberti. Perchè, quan~ tunque la filosofia delle opere postume di Gioberti aia un panpsi- chismo che risolve ogni essere nel pensiero (e quindi anche la so- sttknza dell'anima), la prima forma della sua filosofia invece riguarda le sostanze, e per conseguenza anche la sostanza anima, come delle forze sconosciute, dichiarando la loro essenza assolutamente ine- scogitabile. Ora, nella prima forma della filosofia di Gioberti, si trova già non solo la dottrina dell'intuito razionale come atto immanente dell'intelligenza (e quella del sentimento fondamentale), ma anche il concetto ohe quest'intuito costituisce la sostanza aterina dell' in- telligenza (Il pensiero è l'intuito dell'Idea; senza questo, esso non sarebbe pensiero, Intr, Mil. J850, t. 1. J64, 173, 249, eco. : Il possesso intuitivo dell'Idea forma la nostra intelligenza ; la creazione della intelligenza non è altra cosa ohe la comunicazione, nell' intuito, deU' Intelligibile divino. Ibid, t. 1. 468, 527-528— cfr. Errori Filos, di A. J^oamini Brusselle 1843 1. 1. pag. 301-302—, t. 2. 29, 67, ecc.). Il fon- damento della dottrina giobertiana deve essere cercato in questa tesi: che la potenza non è un'astrazione, ma una cosa reale e con- ereta, e consiste in uno sforzo spontaneo, in un atto incoato (v. /n- trod, 2. 243, 1. 106, Proleg, del Primato 1. ed. napoletana pag. 46-48, ProtoU Napoli 1861 t. 2. pag. 190, ecc.). Questa tesi è secondo Gio- berti una conseguenza della concezione dinamica delle cose. E in- fetti questa concezione (di cui spiegheremo l'origine nella 2. parte) risolvendo il reale in forze senza materia, toglie dalle cose questo substratum permanente che fa si che noi le chiamiamo sostanze* (poiché, come abbiamo avvertito, la sola idea che noi abbiamo della sostanza si riduce alla materia). Ma per un effetto di questa incon- scia tendenza che ci spinge ad assimilare tutte le nostre idee a quelle che ci sono le più familiari, il metafisico dinamista si sforza di restituire agli esseri la loro sostanzialità, ristabilendo, sotto u- n'altra forma, questo substratum permanente\,oh'essi hanno perduto nella sua dottrina filosofica: in altri termini, egli cerca di rappre- sentarsi la forza, cioè l'attività, la potenza, come una sostanza. Di là risulta, primo, l'idea che la potenza non è mai inattiva (poiché la sostanzialità importa la continuità dell' esistenza) ; e, secondo, perchè la sostantificazione sia più completa, la supposizione di un continuo, immanente, quale substratum degli atti transitori della forza o potenza, substratum che è alla sostanza forza ciò che là materia alle sostanze corporee (vale a dire il fondo permanente su cui a^ppariscono successivamente i fenomeni variabili). Questa 1 tesi, ohe ogni potenza è un atto primo e costante, da óul risultano degli atti secondi e variabili, è comune anche a Kosmiili (v, N, S, 1008) : ma per Rosmini essa risulta dal principio che il concettò di realtà è sinonimo di quello di attività psichica, di coscienza ; per Gioberti invece dal principio che il concetto di realtà sinonima, non con quello di attività psichica, ma con quello più generale di attività. Dalla fusione del concetto di attività con quello di sostanza nasce, per l'uno e per l'altro di questi filosofi, l'idea di un atto im- manente come substratum degli atti transitori di ciascuna potenza: ma l'uno si rappresenta ciascuno di questi atti immanenti come un fenomeno stabile della coscienza, perchè ogni attività è per lui at- tività psichica, coscienza; per l'aitro il concetto di atto immanente è più esteso che quello di fenomeno stabile della coscienza, perchè il concetto di attività è più esteso ohe quello di coscienza. Ne segue che per Rosmini i fenomeni stabili della coscienza, che egli si rap- presenta come il substratum dei fenomeni variabili, esauriscono la sostanza dello spirito, questo, come tutti gli altri esseri, non essen- do per lui che coscienza: per Gioberti invece questi fenomeni sta- bili della coscienza non possono costituire tutla la sostanza dell'a- nima, perchè egli suppone, al di là dei fenomeni della coscienza, un principio sconosciuto, da cui essi derivano, che egli chiama 1' é?8- senza dell'anima. Cercando un substratum permanente ai fenomeni successivi dello spirito, affinchè sia possibile di concepire questo come una sostanza, e cercandolo in qualche atto continuo e im- manente, Gioberti, come Rosmini, non può trovare altro di rappre- sentabile che dei fenomeni della coscienza, immaginati con l'attri- buto della continuità e della stabilità; ma per Rosmini questo rap- presentabile è tutta la sostanza dell'anima; per Gioberti invece vi ha di più in questa sostanza un nucleo oscuro, una cosa ohe sfug- ge assolutamente alla rappresentazione, e si chiama l'essenza. Cir- coscritta nei limiti delle forze di cui possiamo formarci una rap- presentazione— cioè le potenze psichiche che sono le sole forze im- materiali di cui abbiamo l'idea-^la dottrina di Gioberti che la po- tenza consiste in un atto immanente (e per conseguenza l'applica- zione di questa dottrina alle facoltà del nostro spirito) riposa dun- que sullo stesso fondamento che quella di Rosmini : la differenza tra i due filosofi è che mentre il secondo non vuole ammettere delle forze d'una natura diversa da quelle di cui può formarsi una rap- presentazione (donde il suo panpsichismo), il primo estende al di là dei limiti del rappresentabile il concetto di forza immateriale, e, oon esso, quello di un atto immanente quale substratum degli atti transi tori di questa forza. Noi dobbiamo aggiungere infine, perchè non si dia alle oonsi- — u — derasiom ohe preoedono un'importanza troppo assolata, ohe, mentre la dottrina di Rosmini delle idee innate (cioè dell'idea innata del- l'esfiore), e quella connessa dell'intuizione intellettuale, non sono che un risultato delle sue speculazioni sulla sostanza dell'anima, noi non possiamo, al contrario, vedere in quest'ordine di specula- zioni il motivo unico delle dottrine corrispondenti di Gioberti. E- videntemente Gioberti, e gli altri fìloslfi che, come Yoi, ammettono un'intuizione razionale di Dio e della verità in Dio (S. Agostino, S. Bonaventura, Malebranche, Cousin, ecc.), ciò che vogliono spie- gare per questa dottrina, è, in generale, la possibilità delle cono- scenze indipendenti dall'esperienza, la loro coincidenza con la realtà. In Rosmini, l'intuizione razionale non spiega che l'idea innata del- l'essere; -in questi filosofi, oltre le idee innate, spiega anche i giu- dizi a priori. Cosi essa è anzitutto in questi filosofi una conseguenza dell'apriorismo e dei sofismi naturali da cui esso deriva. La dottrina delle idee innate, come abbiamo osservato (App. o. 2 § 9.), è, in tutto o in parte, una conseguenza di questa conseguenza. IMMANENZA DELLE IDEE PLATONICHE. Come prova deirimmanenza noi possiamo addurre in primo luogo i termini di cui Platone si serve per in- dicare le Idee. Questi sono : lòéoL (specie, forma) (1), il suo sinonimo sl8o^, yéyoi; (genere), cpóot^ (natura^), oùaCa (es- senza) ed altri simili : p : e: T ISéa (forma o essenza) del pari (Fedone 104-105), l'sISog (forma o essenza) della co- noscenza (Crat. 440 a-b), gli st^yj (specie) del piacere (Fi- lebo 19 b, 20 a e, ecc.), il y^vos deirinfinito (Fil. 25 a, 52 e, ecc.), la ^ùoit; del bene (Fil. 60 b), Voùoioi, del colore (Crat. 423 e). Questi termini non si riferiscono sempre alle Idee, ma solo quando denotano Tuniversale, come negli esempi citati, indicando sia le diverse specie di es- seri (l'uomo, Tanimale, il bianco, ecc.) considerati in generale, sìa Tattributo o insieme di attributi comuni a (J ) Bammentiamo che, neirinterpretazione del sistema platonico, bisogna guardarsi dal lasciarsi influenzare dal senso che la parola idea ha nelle Lingue moderne, Come nota il Martin e tanti altri e- spositori di Platone, furono gli Stoici i primi ohe diedero a questo termine un senso psicologico e analogo a quello che ci è familiare . I neo-platonici, conformemente alla loro interpretazione del sistema di Platone, intendevano per idee i pensieri dell'intelligenza creatrice, cause esemplari delle cose, e la parola ritenne lungamente questo significato neoplatonico e teologico, per tutto il periodo della sco- lastica, ed anche dopo la rinascenza. La diffusione del termine nel senso attuale si deve a Cartesio, e Locke si scusa di usarlo in questo senso, come di un nelogismo (Sag. sull'int. um. Preamb. sulla fìne). -12- ciascuna specie (rumanità, Tanimalità, la bianchezza, .) considerati pure in generale. Naturalmente vi ha un'infinità di luoghi in cui questi termini sono impiegati con questo significato generale, e in cui è evidente che ri8éa, Velòoz, il Yévo^, ecc., di cui si tratta, non sono delle entità trascendenti, cioè poste fuori delle coso di cui si dicono I8éa, el8og, vévog, ecc. (1) : se non che, l'in- (1) Vedi, per es., per il termine elfio^ : Polit. 258 o; e;262b, d, e; 263 b; 267 b; 278 e; 285 a; b; 287 e; 288 a; d; e; 289 b; 291 e; 304 e;306 a; e; 807 d; Sof. 219 a; e; d; 220 a; e; 222 d; e; 223 o; 225 o; 226 e; e; 227 o; 228 a; 229 e; 234 b; 235 d; 236 e; d; 259 e; 260 d; 264 o; 266 d; Fil. 18 o; 19 b; 20 a; o; 23 e; d; 32 b; 33 o; 35 d; 48 e; Teet. 157 e; 178 a; 181 c-d; 187 o; 205 d; 208 b-o; Crat. 386 e; 389 b; 390 a; b; e; 411 a: 424 o; d; 440 a-b; Fedro 265 a; e; 266 a; 270 d; 271 d; 273 e; 277 b; o; Conv. 205 b; 210 b; Meno. 72 o; e: Eutiphr. 6 d; Rep. 4 d; 437 o; d; 445 o; d; 449 a; 477 e; e; 510 o; 530 o; 532 e; 544 a: 581 o; e; 585 b; o; 597 e; Tim. 53 e; 57 e; d; 58 d; 59 b; e; Leggi 864 b; a; Parm. 133 b e 135 b (le Idee sono chiamate le specie degli es- seri: s18y) xc5v òvt(i)v); eco. Per n termine lÒéoi,: Fil. 16 d; 25 b; 60 d; Fedo. 104 b; d; e; 105 d; PoUt. 258 e; 262 b; 307 e; Sof. 235 d; 253 d; Fedro 265 d; 273 e; Eutiphr. 6 d; 6 e; Crat. 390 a; Conv. 204 o; Tim. 46 e; Rep. 544 d; Parm. 135 a e b (le Idee sono chiamate lòéoLi XCDV OVXODV V. pure perciò Ar. Met. 1. I, VI, 2 e 1. XIII, IV, 4); ecc. Per la parola yévoc: Sof. 253 b-c; e; 254 d; 260 a; b; 261 a; 263 d 264 e; 266 e; 268 a: 224 e; e; 226 a; 228 b; 235 e; Fil. 23 d; 24 a; 25 a 26 d; e; 32 d; 44 e; 52 e; 63 b; Polit. 260 b; e; 263 a; e; 266 a; b; e; e 267 b; 279 a; 285 b; e; Tim. 50 e; 51 d; 53 e; 54 b; e; 55 d; e: 56 e; 57 o 58 e; d; 59 b; e; ecc. Aristotile chiama le Idee platoniche ^ivY] iffiv ÒVX(i)V (Met. 1. IliriII). Per la parola cpóot^: Fil. 18 a; 24 e; 25 a; 26 e; 60 a; b; Crat. 387 a; 3^ e; Teet. 174 b; 175 e; Fedro 270 b-e; Tim. 55 b.; 58 a; Polit. 278 b; Leggi 862 e; ecc. Per la parola oòaCa: Fedo 65 e; Crat. 338 e: 423 d-e; 424 b; ecc. Il termine oùoCa (nel significato di essenza) prova, d' una maniera più palpabile che gli altri, rinerenza delle Idee nelle cose : come terprete che ammette la trascendenza delle Idee plaloni- che, dirà, in molti casi in cui questo significato imma- nente è indiscut'bile, che i termini I5éa, slSog, ecc. non vengono usali nel senso tecnico, e non designano le I- dee. Ma questa scappatoia dell' interprete trascendenta- lista^ la quale per altro non è possibile in tutti i casi, potrà valergli ben poco anche per quelli in cui crederà di potervi ricorrere, perchè è un principio platonico che l'oggetti d^l concetto e della conoscenza generale è TI- dc», e quin«li, tutte le volte che alcuno di questi termini indica il punto di vista generalo, noi dobbiamo presu. mere ch'esso si riferisce all'Idea. Senza dubbio, è pos- sibile che Platone abbia alcune volte usato questi ter- mini oon un significato generale, senza pensare perciò a fare dell'univrrsale a cui sì riferivano, un'entità uni- rà sussistcnt • ? or sé stessa; è certo anzi che vi ' hanno diM ca?i eccezionali, in cui il significato generale non potrebbe affatto implicare la supposizione di un'entità generale corrispondente (1); e l'interprete trascendentalista potrà anche aggiungere, a difesa della sua proposizione, che, nell'ipotesi stessa della trascendenza delle Idee, Pla- tone sarebbe stato tuttavia costretto, in un gran numero di casi, cioè quando egli voleva indicare il punto di vi- nta generale nella cons'derazione delle cose, ad impie- gare i termini Idèa, sl8og, ecc. in un senso immanente, perchè la lingua non gli offriva altri termini per s'gni- infatti l'essenza potrebbe essere concepita fuori delle cose di cui è l'essenza ? Che le Idee siano per Platone le essenze delle cose, è poi confermato da Aristotile in Met. 1. I. VII, 3, 1. I. IX. 1:1, 21, 1. III. IV. 6, 7, 1. VII. XIII. 3, 1. Vili. III. 5. (1) Per es. quando l'universalità delle cose fenomenali o un ge- nere di queste cose vengono opposte alle loro Idee, come nel Tim. 4S e e 50 e e nella Bepubbl. 597 b. '?- - 18 J r m «I ficare l'universale nelle cose, che quegli stessi che nel senso tecnico particolare, proprio esclusivamente del suo sistema, significavano Tuniver^^ale fuori delle cose. (Que- st'espressione : l'universale fuori d^lle cose, è evidente- mente un controsenso; ma l'interprete trascendentalista ha bisogno di questo controsenso per definire le Idee platoniche). Ma cosi egli confesserà che, nell'ipotesi della trascendenza, Platone, oltre che sì metterebbe persisten- mente in contraddiziono, col suo principio che il concetto generale si riferisce all'Id'^a, userebbe i termini I5éa, el^og ecc; quando essi designano le Idee: in un senso affatto diverso dal loro significato più ovvio, e che è quello stesso in cui vengono usati il più abitualmente da lui stesso. 2^ I termini designanti ciascun'Idea, cosi bene che quelli, di cui abbiamo parlato, designanti le Idee in ge- nere, provano l'immanenza. Le stesse parole che indi- cano le cose, indicano pure le loro Idee : il movimento, lo stato, la somiglianza, la dissomiglianza, ecc., senz'al- tro, significano l'Idea del movimento, dello stato, della somiglianza, della dissomiglianza, ec3., (1). Qual è il criterio per distinguere quando il nome indica l'Idea e quando le cose ? non ve ne può essere che un solo : quan- do il nome significa il concetto generale (l'uomo, il mo- vimento, ecc.,), noi dobbiamo presumere ch'esso si rife- risce all'Idea (2); quando il suo significato viene ristretto a denotare degli oggetti particolari (quest'uomo, il mo- vimento di questo corpo, ecc.,), allora non può riferirsi (1) V. Pannen, 129, 131 a, d, 135 e, 136 a-b, Fedo. 65 d, 74 a, o, d, 75 a, e, 76 d, 77 a, 100 d, e, 101 a, b, o, IQQ e, 104 a, b, RepnhhL 524, Tim, 30 o, Fedro 251 a, eco. (2) V. nota III. che alle cose. Non è questa la prova più palpabile che le Idee non sono separate dalle cose, ma sono le cose stesse considerate in ciò che vi ha in esse di generale ? Gli aggiunti, quali aùxó, aùxó xaG'aOxó, 8 Ioti, che si uni- scono al nome della cosa, quando occorre un segno per di- le Idee dalle cose particolari, non possono mutare il 8^'gnificato immanente del nome a cui si uniscono, per- chè essi non indicano che il punto di vista dell'astrazione: aòxè àvGpwTiog (l'uomo stesfio) vuol dire l'uomo in ge- nerale, considerato negli attributi che costituiscono il stesso di uomo, astrazion facendo da tutte le difTeronzo individuali, di nazionalità, di razza, ecc.; aùxò TÒ xaXóv (il bello stesso) vuol dire la beltà in generale, la stessa beltà che è l'oggetto del nostro concetto di beltà, astrazion facendo da tutti gli altri attributi che, insieme alla beltA, si trovano negli oggetti particolari a cui que- sto concetto si riferisce, cioè, che si chiamano belli (1); (1) L'aÙTÓ, dice Aristotile Eth.Eud.(l.I.VIII,11)si aggiunge per indicare il concetto generale.— Il significato di OLÒzó^ risulta della maniera più netta da un luogo del quinto libro della Repubbl. La sete, in quanto è sete, si dice in questo luogo, non è che l'appetito deUa bevanda, e non di una bevanda molta o poca, calda o fredda, ecc.» in una parola, di una certa bevanda. Se per la i^apoDota della mol- titudine la sete è molta, sarà l'appetito di molta bevanda, se è poca di poca; se alla sete si aggiunge il calore, si avrà l'appetito di una bevanda fredda, se si aggiunge il freddo, l'appetito di una bevanda calda: ma la sete stessa (aÙTÒ òi'])OQ)t n^n è che l'appetito della be- vanda sfossa (aÙToO 7l(i)[iaxog), l'animo di chi ha sete, in quanto ha sete, non vuole altra cosa che bere. E in generale, per le cose relative ad altre cose, ciascuna cosa stessa (xà aùxà Sxaaxa) è relativa soltanto a ciascuna cosa stessa (aùxoO éxàaxou), ma quel- le che sono a un certo modo determinato sono relative a cose che sono pure a un certo modo determinate : p. e. il maggiore (sem- plicemente) è relativo al minore (semplicemente), ma il molto mag- -14- 0 loTc xXCvT], 8 laxiv àyaGóv, ecc. fciò che è letto, ciò che è bene, ecc.), vuol dire ciò che è propriamente significato dal nome letto, dal nome bene, ecc., e che non è altro se non quello che ciascuno di questi nomi propriamente significa, ciò che noi propriamente chiam'amo letto, be- ne, ecc., nelle cose particolari a cui applichiamo questi nomi, cioè quell'attributo o insieme di attributi che i ter- mini letto, bene ecc. connotano, astrazion facendo dagli altri attributi con cui e.«si Fono congiunti nelle cose par- ticolari che questi termini denotano, cioè ancora il letto in generale, il bene in generale, ecc. (1) Il significato di giore è relativo al molto minore. Cosi per le scienze : la soienza stessa (èmaXTQjiY) OLÒZ'h) è scienza dello scibile stesso^ (jia9TQ|iaT0g tt'^TOi)), ina una certa scienza determinata d' nn certo scibile determinato: p. e, essendovi una scienza di edificare le case, si di- stingue da tutte le altre scienze particolari, prendendo il nome di architettura; essendo d'una cosa particolare e determinata, anch'es- sa si fa particolare e determinata. Cosi pure la s'iienza dei salubri e degl'iasalubri, essendo scienza non dell'oggetto stesso di che è scienza la scienza (semplicemente^, madi un certo oggetto partico- lare, cioè il salubre e l'insalubre, anch'essa si fa determinata e parti- colare, e si chiama perciò, non scienza semplicemente, ma, per l'ag- giunzione d'una determinazione particolare, scienza medica (Bep. 437 d-439 a). Non è evidente cha aùxè SC^^OC ^^* ^^^^ stessa)^ OLÒZÒ Tz(ò\iOL (la bevanda sftfssr»), aÙTYj èmoTT^fiY] (la soienza sf<?s8a> aòxò |iòc0Y][ia, (lo scibile stesso) non designano delle entità trascendenti (fuori delle cose), ma quello stesso che noi chiamiamo sete, be- vanda, scienza, scibile, considerati in astratto ? Questo significato di aÙTÓ^ si troverà anche abbastanza chiaro in Teet. 176 o; Pam. 129 b; Crat. 439 c-d; Fedone 74; 78 d; 108 b; Rep. 478 e; 476 a-c; 479 a, e; 525 a, e (cfr. 684), Eutifr. 6 d-e; Ipp. magg. 286 e; ecc. (1) Vedi Crat. 889 b, d. Parm. I29 a, b, Fedone 74 d, 75 b. Rep. 532 a, 597 a, e, ecc. Cfr. 3f<?no. 74 b-e Per compi endere bene il valore di 3 laxt, aÙTÓ^ e simili nel linguaggio platonico, è utile di tener presente aùxd xaO'aGxó è il medesimo che quello di 8 loxt e del sem- plice aùxó : il xaB'aOxó (per se stesiiO) si aggiunge per indicare d'uua maniera più energica che dell* oggetto, designato dal nome, non deve prendersi che quel solo la disiinzione tra la detonazione e la connotazione dei nomi. Secondo questa distinzione che i logici peripatetici ìacevano nel significato dei nomi (e che Stuart-Mili ha introdotto nella logica contemporanea), il no- me denoia ciascuno degli oggetti (concreti) appartenenti a una classe, e connota l'attributo o gli attributi (astratti) comuni a questa classe (se non tutti, quelli almeno che entrano nella definizione delia classe). Per un vero nominalista, il vero significato del nome consisterà nella sua de- notazione; ma per un concettualista consisterà invece nella sua connota- ; infatti, neir ipotesi dell'esistenza di concetti generali, un nome ge- nerale è il segno d'un concetto generale, e questo è costituito dall'attributo o insieme di attributi comuni a una classe o per cui la classe si definisce. Tale è la dottrina dello stesso Stuart-Mill (il quale, quantunque si dia per nominalista, è in realtà un concettualista (V. il Saggio 1. e. 1.): la siguiìicazione reale d'un nome generale non è secondo lui che la sua connotazione, questa consistendo negli attributi inclusi nel concetto (v. Log 1. 1. e. i. § 5, e. 5, § 2, § 7, e. 7. § 1. e. 8, § 1, 1. 4. e. 3. '^4, e. 4. § 1, e 6. § 5, ecc.)« e una proposizione, i cui termini sono dei nom- generali, non afterma che una relazione tra attributi (v. Log. 1. J. e. 5. § 4, e. 6. § 5, Fa, di Hamilton, e 18. sulla fine, e. 22. sul principio ecc.) Ora se al concettualismo, come teoria,psicologica, si aggiunge il rea- /umo^ come dottrina ontologica, in altri termini se si ammette che ai concetti astratti e generali corrispondono delle entità astratte e generali, allora il vero significato dei nomi si riferirà a queste entità, perchè esse non sono che i concetti, cioè le connotazioni dei nomi generali, realizzate. In effetto secondo Platone i nomi sono propriamente i segni delle idee, e le cose prendono la denominazione di queste per la loro presenza e partecipazione (V. Fedo 102 b, 103 b, e, io4 a, Parm. I3O e-l3J a, Meno, 74 d-75 a, 70 a, Sof, 240 a, Lach. I92 a, ecc. Cfr, Arist. Eth. hud, 1. I Vili. 2, Met, 1. I. VI. 2, ecc.) È questa, al fondo, la dottrina dei concet- tualisti, secondo cui i nomi sono i segni degli attributi, e vengono dati agli oggetti in vista degli attributi che essi possiedono, tradotta in lin- guaggio realista. Vi ha tuttavia tra la dottrina di Platone e la concet- tualista questa difìerenza: secondo Platone, i nomi generali sono i nom| delle Idee; il concettualista invece, quantunque ^X\ ammetta che i nomi — 16 — N attributo 0 insieme di attributi che costituisce ìa nozione generale di quest'oggetto, lasciando in disparte tutte le particolarità individuali, tutti gli attributi concomitanti che differenziano i concreti, tutto ciò, in una parola, che non è incluso nel concetto generale (1). Senza dubbio 3 generali concreti, p. e. uomo, animale, bianco, buon), ecc. significano propriamente gli attributi— perchè la loro applicazione agli oggetti indica la presenza di certi attributi, e viene fatta in ragione di questi attribu- ti—, non dirà però che questi nomi sono i nomi degli attributi . perché gli attributi vengono denotati, non da essi, ma dai nomi astratti che ne derivano, p. e. umanità, animalità, bianchezza, bontà, eec. Sicché mentre secondo Platone le cose prendono il nome delle Idee, secondo il concet- tualista a! contrario sono gli attributi che prendono il nome delie cose» perchè animalità viene da animale, bianchezza da bianco, ecc. La ragione di questa differenza é che secondo il concettualista gli attributi sono sem- plicemente degli attributi— che non si concepiscono per sé stj non per una astrazione della mente— e non allo stesso tempo delle 80stan2e, cioè delle realtà sussistenti per se stesse; per conseguenza non può applicarsi ad essi un nome concreto, perchè questi nomi non denotano che le sostanze. Ma le Idee sono per Plat.ne non solo attributi — delle cose che ne parte- cipano—ma anche sostanze, potendo darsi per definizione dell'Idea ch'essa è un attributo sostantificatc; per conseguenza egli può denotare gli at- tributi quali esistenti per sé. cioè le Idee, coi nomi concreti. Si osservi che la dottrina platonica di cui parliamo è una prova e-, vidente della immanenza delle Idee, perché é chiaro che ciò che i nomi propriamente significano non può essere che gli attributi delle cose nelle cose stesse, e non delle entità trascendenti /i*oW delle cose. Toroando ora al significato di o SOTt, aùxóg, ecc. nel linguaggio platonico, noi possiamo formularlo brevemente, dicendo che questi ter- mini, aggiunti a un nome, identificano la denotazione di questo nome alla sua connotazione, indicano che ciò che ii nome denota non è che quello stesso che esso connota. (1) V. Parm. I29, Meno, loo b, liep. 4yQ b, 524 d, ecc. Cfr. Hep, 528 b, in CUI si oppone al solido in movimento che è l'oggetto dell'astro- nomia, il solido a'JXÒ xaO'aOxó che é l'oggetto della geometria. L'aOxò xaG'aùxó (e il femminile aOxY] xaO'aòxT^v), oltre che ai nomi delle co- il i'- p laxi xXCvT), aòxó xaXóv, xaXòv aòxó xa9*a6xó ecc., non si- gnificano solamente che il letto, il bello, e ogni altra cosa di cui è quistionf*, devono concepirsi d'una maniera astrat- ta, ma di più chVssi hanno un'esistenza reale in questo stato astratto, ch'essi sono delle sostanze nel tempo stesso che delle astrazioni — la determinazione della sostanzia- lità-è chiaramente espressa sovratutto dal termine aOxò xaG'aòxó, perchè e^s^re xaG'aOxó significa sussistere per se stesso, essere non un semplice predicato, ma un sogget- to (1): ma da ciò V interprete trascendentalista non deve affrettarsi a concludere che il letto, il bello, ecc., di cui si tratta, sono delle entità situate in un altro mondo, al di fuori dei letti, delle cose belle, ecc., particolari. La quistione non è già se Piatone abbia o no conce- pito le Idee come sostanze; ma se queste sostanze egli le abbia o no considerato al tempo stesso come inerenti nelle cose e costituenti i loro attributi. Non vi ha dub- bio che queste due nozioni, essere delle sostanze, e ine- rire nelle cose come loro attributi, sembrino al nostro punto di vista contraddittorie, ma è in questa contrad dizione che sta l'essenza della dottrina delle Idee e del realismo in generale, e il significato di aùxò xaG'aOxó e degli altri termini equivalenti designanti le Idee riunisce appunto queste due nozioni, per noi incompatibili. Am- se, può essere aggiunto ai termini glSog, OÙaCa e altri designanti le 1- dee in genere, per indicare che le forme o essenze di cui si tra Uà devono essere considerate ciascuna per sé sola, astrazion facendo dalle altre for- me o essenze con cui si trova mescolata nelle cose (come pure che, cosi considerate, esse non sono deile semplici astrazioni, ma anche delle realtà — delle astrazioni realizzate — ). La stessa osservazione per OLÙzÓQ. (1) V. Arist. Magn. Mor. 1. J. I. 12. Net. 1. XI X. 3, ecc. Cfr Mei. 1. V. XVIII. 8. Anal. Post 1. I.IV. 5. — 16 -i mettere che le Idee platoniche sono fuori delle cose è am- mettere che, quando si pensa e quando si parla, i nostri coDcetti e i nostri nomi generali si riferiscono a delle en- tità poste fuori delle cose. Ma se si conviene che, quando si pensa e quando si parla, 1 nostri concetti e i nostri nomi generali si riferiscono agli attributi esistenti nelle cose stesse, bisogna anche convenire che le Idee plato- niche esistono nelle cose stesse come loro atiributt. In ef- fetto i valore dei termini aòxó, aùxò xaG'aOxó, o éoxt e simili è precisamente questo, di far significare ai nomi, a cui essi si aggiungono, quello stesso appunto [quello stesso, non qualche cosa di s mile o di eguale) a coi i nostri con- cetti e i nostri nomi generali, tutto le volte che pensia- mo o che parliamo, si riferiscono, in quanto questi con- cetti e questi nomi sono i segni e i rappresentanti, non delle cose concrete, ma degli attributi di queste cose (i). (1) li senso immanente di questi termini è abbastanza chiaro negli esempi cne abbiamo citato nelle note, e gli altri che si potrebbero ag giungere, per illustrare il loro significato nella li ngna filosofica di Platone. Contro alcuno di questi esempi l' interprete irascendenfaiisla potrebbe fare l'obbiezione che non vi si parla delle Idee: e sia pure ! ma ciò non in- validerebbe la forza dell'argomento, perchè se aùxóg e gli altri termini e- quivalenti designano, quando non sono impiegati in un senso tecnico, cioè implicante la realizzazione dei concetti, gli attributi delle cose stes- se considerati nella loro generalità e nella loro purezza astratta, essi non possono designare altra cosa, quando il loro senso è tecnico, cioè quando implica questa realizzazione dei concetti. La cosa designata nei due casi deve essere la stessa: salvo che nel primo caso non si pensa, come nel secondo, ad elevare questa cosa, cioè quest'astrazione., al grado di entità reale, sussistente per sé stessa Una prova del significalo immanente dei termini platonici aÙXÓ e xaG'auxÓ si ha anche nell' uso che fa Aristotile di questi termini, quando se ne serve, come Platone, per indicare il punto di vista dell' a- strazione, perchè è certo che i concetti che essi esprimono in Aristotile non possono rappresentare delle entità trascendenti. V. per ciò De 6'o0/o Como può ridoa, che è uni, identificarsi chi gli attri- buii dell», coso particolari, che sono multiple ?.Comc può Tuno essere nei moti? Certamente ciò è difficile a con- cepire; ma lo stesso Platone confes-a clic qu sta è la grande diffi»,oltà del sistema dell»? Id'^c (I). I. I. IX. 2, 5, \iet. 1. VJI. Xr. 2. 1. VII. JII. 4. X. J3, 1 VI. IV, 3. 1, XI III. 8, ecc. È sovratutto notevole ii primo dei luoghi citati, in cui distingue la forma sUssa per se slessa (aOxTQ xaG'aOxr^v) e questa forma mesco- lata con la materia: p. v. la forma (gen^.'-aie e astraila) del circolo e un circolo parcicolare, quella della slera e una sfera particolare, quella del <-ielo (che potrebbe ritrovarsi in una moluiudiuc di cieli possibili) e que- st'unico cielo reale che noi osserviamo (La stessa distinzione un po' piii innanzi— >1. I. IX. 5-^«> espressa con le parole: il cielo sleao — aOx(j) OÙpavq) — e questo cielo), in altri casi Aristotilo usa questi termini iti un senso identico quasi assolutamente al platonico (cioè indicante, oltre aU'aslrPzione, anche la sostanzialità): è quando essi gli servono ad esprimere dei concetti di altii filosofi che, come Platone, hanno realizzato delle astrazioni; ed anche in questi casi il significato immanente «* indubitabile, perchè i filosofi di cui si tratta hanno incontestabilmente consi(icrato le loro astrazioni rea- lizzate come inerenti alle cose, e non come (ìa. la ^iniiik trascendenti. Cosi vengono chiamati aOxÓ i'Tno, il Finito e l" Infinito dei Pitagorici (v. Phys 1. IH. V. 1-4 — cfr. Met 1. XI. X. 2-0—, Mei, 1. I, V. 13, 1. IH, IV 22— <"fr. 25 —, l. X. Il lì, dicendo che questi filosofi consideravano queste astrazioni, non come s<'mplici attributi degli esseri concreti, ma come realtà sostanziali (in Ph»/s, 1. I. VHI. 2 aOxó viene anche applicato al l'Essere degli Kleati, perchè anche questo era in un certo modo la realiz- zazione del concetto astratto dell'essere): e llnfinito degli stessi Pitagorici viene anche detto, per questa ragione, xaG'aOxó (V. l^h^'s 1. II! I / 2), confermando la nostra osservazione antecedente che la determinazione della sostanzialità espressa da questo termine non porta come conseguenza quella della trascendenza. (1) Ad aòxó, xaB'aOxó, 0 èaxi corrispondono gli epiteti, dati alle Idee, di xaBapÓV (pure; v. Fedone 67 a-b, TU d, 83 e, Conv. 211 e), slXlxpivé; (schietto — V. Fedone 66 a, 67 a-h, Conv, 211 e)» dt|llXXOV - 17 - -i f Prima di passare a un altro ordine di prove, segna- lerò una formula di cui Platone si serve per indicare bre- vemente la sua dottrina : il beHo ( o il bello stesso o il bello stesso per se stesso) è qualche cosa, il buono, il giusto e ciascuna specie degli esseri è qualche cosa (1); vuol dire : si deve ammettere un' Idea del bello, del beno, della giustizia e di ogni altro attributo generale delii cose. La predicazione è qualche cosa attribuisce al bello, al buono, al giusto, ecc., in astratto, la realtà, affer- ma che essi non sono puri nomi né semplici concetti, ma entità reali aventi ciascuna un' esistenza propria e distinta. Ora m queste proposizioni : e il bello, il buono, ecc. è qualche cosa », questi astratti, di cui Platone af- ferma la sussistenza reale, sono, per lui, delle entità im- manenH o trascendenti V sono gli attributi del'e cose ndl^ cose stesse, o gli esemplari di questi attributi posti fuori delle cose V È una semplice quistione grammaticale. È evidente che la proposizione : «il bello, o il buono, ecc. (immisto — V. Couv. 211 e, FU. 59 e), |X0V02t5éc (uniforme — v. fr- done 78 d, 80 b, 83 e, Conr, 21J b, e), ecc. : questi termini signifi- cano, come quelli, che noi dobbiamo rappresentarci l'Idea per un concetto rigorosamente astratto, isolando ciascun attributo gene- rale delle cose da tutte le circostanze concomitanti, non perchè esi- sta realmente isolato da esse, ma perchè, concepito astrazion facendo da esse, ha tuttavia una realtà propria, un'esistenza distinta e in- . dipendente. (1) P. e. nel Fedone 66 d. •* Diciamo che il giusto è qualche cosa o niente ?— Qualche cosa, per dio! — E il bello, e il buono, sono qualche cosa? — E come no?— Hai visto mai alcuna di queste co- se ? - Giammai, disse - O forse l'hai percepito per qualche altro dei sensi corporei ? io parlo di tutte, della grandezza, della sanità, della, e in una parola dell'essenza di tutte le cose, vale a dire di ciò che è ciascuna cosa. „ V. anche Fedone 74 a-b, 100 b, 102 b. Crai 430 e, fppia maity, 287 'j-d, Protay. 330 b, d, Rep, 476 o-d, 480, eco. I è qualche cosa » è una proposizione, non verbale e ana- litica, ma reale e sintetica, vale a dir»», in cui la nota, espressa dairattributo, non era contenuta nel com;etto del soggetto, ma gli è aggiunta neir atto stesso che viene attribuita al soggetto. L' essere qualche cosa, cioè la realtà, la sussistenza per sé stesso, è dunque una nota che non è compresa nel significato del soggetto il hello^ il buono, ecc.; il bello, il buono, ecc., quale semplice sog- getto della proposizione, designa semplicemente V astratto, ma non ancora V astratto sostantificato\ la determinazione della sostanzialità è aggiunta posteriormente air enun- ciazione del soggetto. Ma se il bello, il buono, ecc., come semplice soggetto della proposizione, non designa V a- stratto sostantificato, cioè V Idea platonica, cosa de- signerà? non altro che lo stesso astratto che nel lin- guaggio comune è significato d«lle parole il bello, il buono, ecc. ( dacché queste parole non possono qui essere com- prese nel senso tecnico, qualunque esso sia, particolare alla dottrina delle Idee) ; vale a dire V attributo della beltà, della bontà, ecc. nelle cose stesse, considerato d'una maniera, non solo astratta, ma anche generale. Per conseguenza è a questa beltà, bontà, ecc, che sono nelle cose, considerate d' una maniera astratta e ge- nerale, che, nelle proposizioni di cui parliamo, viene attribuita la sussistenza per se stesse ; e le Idee plato- niche sono gli attributi generali delle cose, sostantificati, ma nelle cose stesse, e non degli attributi simili o eguali, fuori delle cose, quali sarebbero neir interpretazìo'*- tra- scendentalista (1). (1) Nel Timeo la quistione tra il realismo e il nominalismo, con- tenuta nella domanda della nota precedente, è posta in termini, per noi moderni, più netti. ** Il faoco stesso in se stesso, domanda — 18 — » III. È, come ^ìh accennammo, nn principio platonico che il concetto e la conoscenza generale si riferiscono ali' Idea. Ciò risalta in primo luogo dalle prove per cui Platone dimostra resistenza delle Idee, di cui la più ai- parte non sono che delle applicazioni di questo principio. Tali sono le seguenti : Il concetto si riferisce aWuno nei molti, a qualche cosa che si predica di tutti i singolari come uno e lo stesso in tutti, senza identificarsi con alcuno di essi : ma ciò a cui si riferisco il concetto è; vi hanno dunque, oltre :• singolari, le Idee — Il concetto non si riferisce alle cose particolari, peichè queste periscono, mentre esso permane e resta sempre lo stesservi ha dun- que, oltre le cose particolari e feribili, qualche cosa che permane e resta sempre la stessa, e a cui il concetto si riferisce ; è V Idea — Non vi ha scienza dei singolari, perchè es^si sono infiniti di numero e indeterminati ; la scienza invece non può avere che un oggetto finito e deter- minato; questo è ridea.— La medicina, la geometria, ecc. Timeo, e tutte le altre cose di cui diciamo che sono aOxà xaB'aOxà, hanno veramente un'esistenza reale, o una tale esistenza non con- viene che agli oggetti che vediamo e percepiamo con gli altri sensi, e non vi ha niente oltre di questi, ma vanamente diciamo esservi un sl5og intelligibile di ciascuna cosa, mentre esso non è che una pa- rola? „ (rt/i<t'o 51 b-o). È di uno stesso slòoi che qui si domanda se ha una sussistenza reale, come pretende Platone, o se è una parola, come vuole il nominalismo : dunque, l'siSo^, che, secondo il nomi- nalismo, è una parola, essendo nelle cose, cioè l'universale; l'siSog, che ha una sussistenza reale, deve essere pure nelle cose, cioè anch'esso l'universale. Se fosse fuori delle cose, l'sISog che Pla- tone ha di mira, quando dichiara che è un'entità reale, non sarebbe queir sldog stesso, che il nominalista ha di mira, quando dichiare che è un nome. I i sono la scienza, non della sanità di questo o di quellO| ma della sanità semplicemente, non di questo o di quel cerchio, di questo o quel commensurahile, ma del cerchio e del commensurabile semplicemente ; vi ha dunque la sanità stessa, il cerchio stesso, il commensurabile stesso, ecc.— La scienza non si riferisce ad alcun particolare, ma air universale, a ciò che è uno e lo stesso in tutti i par- ticolari : ma ciò a cui si riferisce la scienza è ; vi ha dunque l' Idea. (La prova antecedente ò fondata suU' a_ strattezza della scienza, questa sulla sua universalità) — (1), La dimostrazione suppone che ciò di cui si dimostra è : ma non si dimostra di alcun particolare, ma dell' uni- versale, di alcun che di uno e lo stesso che si dice di molte cose; la dimostrazione suppone dunque che vi hanno nelle cose (OTidpxetv èv xor? ouai Arist. An. Post. l.I. XXIV. 3) delle nature universali a cui essa si riferisce (2). insistiamo sull'espressione aristotelica Oiiòcpxstv Iv •cote oyot (che, se non èia riproduzione esatta d'una formula platonica, è certamente modellata sulle formule platoniche), nemmeno sulla desift-nazione dell'oggetto del concetto — cioè dell'Idea— come qualche cosa che è una e la stessa in tutti gli oggetti particolari : sono degli esempi di altre prove dell'immanenza che esamineremo a suo luogo. Per ora dobbiamo limitarci a questa quistione: i nostri con- cetti e le nostre scienze — cioè le nostre conoscenze ge- nerali — si riferiscono agli attributi generali dello cose nelle cose stesse o a degli attributi simili fuori delle cose? questa sanità, p. e., che è 1' oggetto della medicina, è la sanità degli uomini e degli animali, o un' altra sanità V. per queste prove Arist. Met. 1. 1.'lX. (2), 1. HI, IV. (i), ecc., e il commento di Aless. Aprod. (in phil. pr. Arist.) al primo di questi luoghi. (2) V. Arist. Anal. Post. l. I. XI. 0), 1. I. XXIV. (3,0). — 19 — V i inori degli uomini e di ogni altro essere reale ? A ciò r interprete trascendentalista risponderà che i nostri con- cetti e le nostre scienze si riferiscono agli attributi delle cose nelle cose stesse, ma che Platone parla, non dello oggetto a cui si riferiscono efTettivaniente i concetti umani e le scienze umane in generale, ma dell' oggetto a cui essi devono riferirsi, se si vuol salvare la loro verità, dopo che si è riconosciuto che questa verità non può fondarsi sulla loro relazione con gli oggetti sensibili. Le prove platoniche delle Idee conterrebbero dunque, se- condo questa interpretazione, una teoria della conoscenza, la quale rettificherebbe quest* illusione naturale, per cui gli uomini riferiscono spontaneamente i loro concetti e le loro conoscenze generali agli attributi delle cose nelle cose stesse, e sostituirebbe a quest^ oggetto immanente un oggetto trascendente. Ma Platone non dice : i concetti e le conoscenze generali, che gli uomini erroneamente ri- feriscono agli attributi stessi delle cose, essi dovrebbero riferirli invece agli esemplari dì questi attributi fuori delle cose — quali sono le Idee neir interpretazione trascen- dentalista. — Al contrario, egli suppone che gli oggetti a cui gli uomini riferiscono — e non: a cui dovrebbero riferire — i loro concetti e le loro conoscenze generali, sono le Idee (1) È ciò che noi vediamo, non solo negli ar- ca) Naturalmente Platone non pretende che tutti qucll i che hanno una nozione generale sanno che l'oggetto di questa nozione è un'Idea: tutti ntenscono le loro nozioni generali agli attributi generali delle cose agli astratti, e questi sono Idee; ma solo il filosofo sa che sono Idee, ciocche ciascuno di questi astntti ha un' esistenza propria e distinta; e per ciò della sola conoscenza filosofica è vero di dire, nel senso stretto . che ha per oggetto le Idee. Cosi non vi ha contraddizione tra il principio che ogni nozione generale si riferisce alle Idee, e V opposizione che Platone stabilisce tra l'opinione, che ha per oggetto i fenomeni -anche quando 1 4 gementi per V esiste nza delle Idee che ci sono perve- nuti per il tramite, di altri autori, ma in una moltitudine di luoghi degli scritti stessi di Platone. Cosi egli dice che i fabbri del letto, della mensa, della spola fanno le loro opere, guardando alle Idee di queste cose, a ciò c?ie è letto, ciò che è mensa, ciò che é spola (Rep: 596 b, Crat. b) ; che il facitore dei nomi impone i nomi, guardando a ciò che è nome (Crat. 389 d); che il geometra si serve di figure visibili come di immagini, ma il suo pen- siero è diretto a quelle di cui queste sono le immagini, al quadrato stesso e alla diagonale stessa, non al quadrato e alla diagonale particolari eh' egli descrive (Rep. 510 e-e); che V aritu. etico ragiona sui numeri sfessi ^ e non sui numeri aventi corpi visibili e palpabili (cioè: non sulle cose concrete a cui i concetti dei numeri si applicano — Rep. 525 526 a) ; che lo spìrito, distinguendo gli at- tributi contrari delle cose (l'uno, il multiplo, il grande, il piccolo, ecc.) che sono confasi nella percezione sensi- bile, e contemplandoli separatamente gli uni dagli altri, si eleva dal sensibile e dal fenomeno air intelligibile e air essenza (Rep. 523-524). Se si afferma di due cose. essa si riferisce al generale, come p, e nel Fibbo 59 a-b e nel Timeo 59 c-d-e la scien7a, nel senso stretto cioè la dialettica, che sola ha per og- getto le Idee. Platone dà le Idee per oggetto alla dialettica, perché que- ste due parti del sistema platonico, la dottrina delle Idee e la dialettica, sono fatte Tuna per Taltra, talmente che la realizzazione dei concetti re- sterebbe senza valore e senza scopo, se fosse scompagnata dal metodo dia- lettico. È perciò che alle proposizioni generali del tilosofo stesso ^ quando esse non sono il risultato del metodo dialettico, vengono dati per oggetto, non le Idee, ira i fenomeni, come si vede nel luogo citato del Timeo. Il metodo empirico (il quale non può dare per risultato che la semplice opi- nione) studia le coesistenze e sequenze (cronologiche) tra i fenomeni, e perciò ha per oggetto i fenomeni ; il metodo dialettico (che è deduttivo, e dk quindi per risultato la scienza vera) studia le sequenze (logiche-anterio- rità e posteriorità di natura—) tra le Idee, e perciò ha per oggetto le Idee. -20 - p. e. dnl moto e dello stato, che tutte e due .sono, Platone ne conclude che sì pone per il pensiero una terza entità, r Essere, comn contenente lo due prime (Sofista 250 a-b V. pure 243 e). Il principio è espresso poi d'una maniera generale nel Fedro, secondo il quale alcun* anima non può vonre in un corpo umano, se non ha contemplato le Idee, perchè è il proprio dell'uomo di comprendere secondo la specie, raccogliendo la moltitudine dei sensi- bili in una unità razionale, ciò che è la reminiscenza delle Idee che l'anima ha contemplato (249 b-c). A questi luoghi, per non moltiplicare inutihr.ente le citazioni, non ne aggiungerò che un altro: è nella Rep. 486 a, in cui dice che lo spirito del filosofo a<?pira ad abbracciare l'u- niverso, a comprendere tutto il divino e l'umano, e ch'egli contempla tutto il tempo e tutto V essere, riferendosi a quella che ha detto un poco prima (48o b), cioè che il filosofo studia l'essenza che sempre è (le Idee), e tuffa questa essenza. Ciò prova, non solamente che la scienza si riferisce «He Idee, ma ancora, della maniera più di- retta, che la scienza delle Idre è la scienza delle coso stes-e. E questo d' altronde un punto su cui troviamo le informazioni più esplicite nello stesso Aristotile, il quale attribuisce ai partigiani delle Idre il principio che avere la scienza delle cose è avere la scienza delle specie secondo cui le cose si dicono.(MQt. 1. IH. III. 4, 1. Ili, VI. 6, ecc.) (1j. If (4) Per indicare il punto di vista del. a teiria delle Idee Platone dice nel Fedone (99 e) eli egli ha ricorso ai concclfi (sl^ XOÙ^ XÓYOOg) guardando in éSsi la verità derrli esseri — è 1' equivalente di ciò che e» dice Aristotile, cioè che la scienza delle cose è la scienza delle Idee .secondo esse si dicono— : e poi (loo a) oppone quello che guarda gli esseri nei concetti a quello che li guarda n^i tatti— Sono gli stessi esseri che ven- gono guardati ora nei tatti (nell'esperienza ) ora nei concetti : il mondo intelligibile e il mondo sensibile noi sono che Io stesso mondo, guar dato da di\e punti di vista ditt'erenti; ciò che ali* intelligenza apparisce come un mondo di entità astratte, non v che quello stesso cke ai sensi apparisce come un mondo di cose concrete. Rendiamoci ora un conto esatto della teoria della conoscenza che gl'interpreti trascendentalisti attribui- scono a Piatone, secondo la quale i concetti si riferiscono, non agli attributi stessi delle coso, ma ad altri attributi simili separati dalle cose. Ciò è tanto più importante, che gì' interpreti trascendentalisti, vedendo l'assoluta inu- tilità delle Idee trascendenti per la spiegazione delle cose, danno per iscopo alla dottrina delle Idee, non di spiegare le coso, mi di salvare la realtà della conoscenza. Ve- diamo come la teoria in quistione salva la realtà della conosc nza. I predicati dei giudizi, ci dicono i logici, sono in generale delle nozioni astratte, dei concetti; i sog- getti possono essere sia dei concetti sia delle rappresenta- zioni concrete e particolari. Il giudizio afferma che al genere o all' individuo, a cui si riferisce il concetto o la rappresriitazioiio particolare che fa da soggetto, inerisce V attributo a cui si riferisce il concetto che fa da predi- cato. L' interprete trascendental'sta di Platone aggiunge che, secondo Platone, gli attributi, a cui si riferiscono i concetti che fanno da predicati — cioè le Idee — non ineriscono nelle cose, a cui si riferiscono le rappresenta- zioni particolari che fanno da soggetti. Di più, siccome gli argomenti che provano 1' immanenza delie Idee nelle cose sono quegli stessi che provano l' immanenza delle Idee più generali nelle Idee più particolari, e gli argo- menti chn secondo V interprete trascendentalista prove- rebbero la separazione delle Idee dalle cose, proverebbero pure la separazione delle Idee più generali dalle Idee più partidolari ; così egli aggiunge ancora che gli Attri- buti, a cui si riferiscono i concetti che fanno da predi- cati, non ineriscono nei Generi a cui si riferiscono i con- cetti che fanno da soggetti. Uomo non inerisce sl Socrate, Animale non inerisce ad Uomo. Ma se è cosi, come pos- siamo affermare che Socrate è uomo, che 1' uomo è ani- — 21 - • male ? La conseguenza della teoria che gì* interpreti ira- scendent alisi i attribuiscono a Piatone — ciò è tanto evi- dente che alcuni di questi interpreti lo hanno apertamente riconosciuto (1) — è il paradosso di quegli eristici (2) di cui Platone si ride nel Sofista, e contro cui é diretto ciò che si dice in questo dialogo della comunione o me- scolanza dei Generi — i quaM permettono che il buono pia buono e 1' uomo sia uomo, ma non soffrono che sì dica di un uomo che è buono. Lo stesso giudizio anali- tico, che né Hume credette possibile di attaccare, né Kant necessario di giustificare, sarebbe impossibile secondo Platone interpretato dagl' interpreti trascendentalisti^ e non ci resterebbero che le proposizioni puramente iden- tiche, cioè tautologiche. IV. La definizione secondo Platone si riferisce airidea, e solamente all'Idea. Questa dottrina non solo è implicita- mente contenuta nel principio che il concetto e la cono, scenza generale si riferiscono all'Idea, e in quello che la dialettica — di cui la definizione è un elemento essen- ziale — versa nelle Idee, ma é espressamente attribuita a Platone da Aristotile, che la dà anzi come il fon- damento del sistema delle Idee (3). Noi dobbiamo dunque ammettere che quando un dialogo platonico ha per oggetto la ricerca della de- finizione, quest'i definizioni che Platone cerca, o che egli dà, sia comm definitive sia come semplici ten- tativi, si riferiscono alle Idre: in effetto, lo scopo di Platone in questi dialoghi è dì illustrare con esempi la teoria della definizione, e sarebbe inconcepibile che in (1) V. p. e. Tosco Ricerche platoniche p. 35. (2) I Megarici, e seconflo l'opinione dì alcuni storici— che io ritengo erronea — anche i Cinici. (:t) V. Met. 1. I. VI 1-2, 1. XIH. IV. 2-4. 7 questi esempi egli si mettesse in contraddizione con uno dei principii fondamentali della teoria di cui essi devono fare Papplicazione. D'altronde, che l'oggetto della definizione sia r Idea, é quello che Platone dichiara esplicitamente in molti di questi dialoghi. Così nelPEutifrone Socrate do- manda al suo interlocutore: cosa è il santo che é lo stesso in tutte le azioni sante (5c-d), e lo prega di spiegargli, non uno 0 due dei molti Fanti, ma quell'aÒTÒ xò slòog, queir cesa unica, per cui tutte le cose sante sono sante, affinchè possa servirsene come di un paradigma neir applica- zione del nome: santo (6 d-e). Neil' Ippia maggiore co- mincia per istabilire che tutte le cose belle sonò belle per il bello, e questo è qualche cosa (287 c-d)-noi sappiamo il significato di questa formula platonica), e domanda al sofista: che é questo bello? che é il bello stesso, di cui tutti gli altri belli sono adorni; che quando è presente sl una cosa qualunque, pietra, legno, uomo, dio, ecc., a questa appartiene di esser bella ? (289 d, 292d.294 a, e, ecc. -^ la presenza (napowoia) é uno dei termini soliti di cui Platone si serve per indicare il rapporto dell' Idea con le cose). Nrl Menone la virtù, di cui si cerca ciò che essa sia, é Pel^oc che hanno lo stesso tutte le virtù (72 e), la virtù che é una e non molte (72 a, 74 a, 77 a), l'uno in tutti (73 d), la Yirtù che è una e la stessa in tutte le virtù e in tutti i virtuosi (73 a, e, d, 74 a, b), ciò che corrisponde propriamente a questo nome: virtù (74 de) — tutte que- ste designazioni, per cui Platone suole indicare le Idee, provano chiaramente la loro immanenza, ma noi suppor- remo per ora ch'esse potrebbero convenire indifferente- mente tanto alle Idee immanenti quanto alle trascendenti; lo stesso vale per la presenza dell'Ippia maggiore—; e per giustificare la poFsibilità della ricerca contro Tobbiezione di Menone che sopprime ogni conoscenza, s' invoca la dottrina che la conoscenza é una reminiscenza (81 e seg.). - 22 - ciò che suppone che la virtù, che si vuol conoscere, è quella stessa virtù, che T anima ha intuito^ vale a dire ridea della virtù. Nel Politico, si avverte che le dieresi, che devono condurre alia scovorta dell'arte politica e del politico, hanno per oggetto le Idee (262 b, 286 a), e nel Sofista si dice che 1 oggetto della ricerca è l'Idea del sofista (235 d). Ma, da un altro lato, è incontestabile che le definizioni li Platone si riferiscono alle cose stesse. Cosi nel Sofista, in cui si cerca la definizione del Sofista e dell'arte sofi- stica, questo sofista, di cui si vuol conoscere ciò ch'egli è, è quello stesso che successivamente apparisce: come un cacciatore mercenario di uomini giovani e ricchi, co- me un mercante di conoscenze che si rifVriscono all'ani- ma, come un rivenditore in dettaglio di queste conoscenze, come un venditore di prima mano delle stesse, come un atleta nella lotta di parole, il quale si arroga l'arte eri- stica, come un purgatore dell' anima dalle opinioni che le impediscono l'acquisto della scienza (231 d-c), ma so- vratutto come contraddittore e maestro agli altri di que- sto stesso (232 b) ; che ha una scienza appaiente, ma non vera (233 e); che, quando noi affeimiamo ch'egli ha un'ar- te fantastica, e lo chiamiamo un facitore di simulacri, ci domanderà cosa sia un simulacro, e s». noi gli risponde- remo citandogli le immagini degli specchi, dell'acqua ecc., sì riderà di noi che gli parliamo come ad un uomo che vede, fingendo di lion a\ cr visto mai né specchi ne ac- qua e di non sapere nommeiio che cosa sia la vista (239 d-e), e infine ci costringerà a confessare che ciò che non è, in un certo modo é (240 e) ; che nega che si dia il falso, poiché ciò che non é non può partecipare all'es- sere, e, dopo che si è visto che partecipa all'essere, forse,dirà che alcune specie partecipano del non essere e altre no, e l'opinione e il discorso sono di quelle che non ne partecipano (260 c-d); ecc. E l'arte sofistica è quella che ha questo stesso ai fista (221 d, 239 e, 240 e, d ecc;) Parte che fa profissione di disputare in grazia della virtù ed csìgf^ danaro per mercede (223 a) ; la caccia ai gio- vani ricchi e nobili (223 b) ; l'arte per cui si possono in- cantare con discorsi i giovani e ancora lontani dalla ve- rità, mostrando loro delle immagini, in parole, di tutte cose, in modo da far loro credere che si dice la verità e si e il più sapente di tutti gli uomini in tutte le cose (234 e); un'arte n;enzognera da cui la nostia anima è tratta ad opinare il falso (240 d); ecc. Nel Politico, la scienza regale o politica, di cui si ricerca ciò che es?a è, è una che non può trovarsi nella moltitudine né dei ric- chi né di tutto il popolo, ma in uno o due o pochissimi, che si devono chiamare re, sia ch'essi comandino o che vivano da privati, che comandino ai volenti o ai no- lenti, con leggi scritte o senza, ecc. ^259 ac, 292 d — 293 e, 297 b — e, 300 e) ; questa scienza non comporrà di buon grado lo stato di buoni e di cattivi, ma quelli che possono formarsi ai costumi saggi li rimett rà a persone capaci di educarli, essa dando degli ordini e presiedendo a tutto, gli altri li condannerà alia morte o all'esilio, o li tottometterà alia schiavitù, e tra i buoni naturali pren- derà i caratteri forti, simili ai fili dell'ordito, e i mode- lati, simili a quelli del ripieno, e li intreccerà gli uni con gli altri, Icrmendone il più bello di tutti i tessuti (308 d — 309 b, 311 e); ecc. E il politico che ti tratta di definire è quello ci e ha questa scienza (266 e, 276 e, ecc.); a cui bisogna consegnare le redini dello stato (266 e) ; che ha cura del gregge umano come un pastore (275 b); ecc. 11 bello dell'Ippia maggiore è quel bello che é bello per tutte le coso e iu tutte le circostanze (?92 e — 293 e), e Socrate propone di definirlo : ciò che ha la potenza di produrre qualche bene ( 296 d — 297 d) ; e : ciò che ci reca - 23 - diletto mediante 11 senso della vista o dell' udito (297 e e segg.). NeirEutifrone, Eutifrone risponde alla domanda di Socrate, che il santo è ciò che è aggredevole agli dei (6 ej, e Socrate dice (7 a) che infine ha risposto com'egli desiderava (vale a dire che questa risposta definisce, beue o male, il santo stesso^ la specie); e in seguito si propon- gono queste altre definizioni : il santo è la parte del giu- sto che ha per oggetto la cura degli dei (12 e); é la scienza delle domande e dei doni che bisogna fare agli dei (U c-d). Nel Menone, la virtù, di cui si domanda ciò che essa sia, é la stessa virtù, di cui si domanda come essa soprav- venga agli nomini, se possa insegnarsi o no (71 ab, 86 c-d, 87 b, 100 b, ecc.); e si propongono queste definizioni : la virtù é il saper comandare agli uomini (73 d),; è il desiderare le belle cose e potersele procurare (77 b). Nello stesso dialogo Socrate, per dare dei modelli d'una definizione secondo la sua intenzione, definisce la figura : in ogni figura dico essere figura ciò in cui termina il solido (76 a ); e il colore : un fiusso di figure proporzio- nata alla vista e sensibile (77 b.) Evidentemente, questo colore, questa figura, questa virtù, questo santo, questo bello, questo politico e arte politica, questo sofista e arte sofistica, di cui si ricerca ciò che eiascona di que- ste cose è, sono le cose stesse che tutti chiamiamo con questi nomi, e non dalle entità trascendenti: e lo stesso deve dirsi della giustizia della Repubblica (v. 1. 1, 1. Il 357-368, 1. IV 427 d e segg.), della scienza del Teeteto, della fortezza del Protagora e del Laches, dell'amico del Lisis, della temperanza del Carmide, e in una parola di tutto ciò di cui Platone dà o cerca la definizione in tutti i dialoghi che hanno per oggetto questa ricerca. Ma se le definizioni platoniche non si applicano che alle cose stesse, come può Platone affermare ch'esse si riferiscono alle Idee, e solamente alle Idee? Nell'ipotesi i della trascendenza delle Idee, ciò sarebbe incomprensibile; ma nell'ipotesi dell' immanenza, si comprende perfetta- mente. Piatone sostiene che la definizione ha per oggetto l'Idea, e Tldea sola, perchè quello che si definisce, quello di cui si vuol sapere ciò che esso è, non è l individuo — l'individuo, considerato nella sua individualità, è indefi- nibile, e ad ogni modo egli non è quello stesso che dice la definizione comune; Tizio ha, ma non è, questo gruppo di attributi che costituisce la nozione dell'uomo, la sua definizione; per dire ciò che egli è, bisognerebbe ag- giungere agli attributi di uomo le particolarità individuali che gli sono proprie—; quello che si definisce, quello di cui si vuol sapere ciò che esso è, è l'essenza comune de- gli individui, l'oggetto della nozione generale, e questo è, secondo Platone, l'Idea. É perchè quest'essenza, che è l'oggetto della definizione, è l'essenza comune degl'indi- vidui, e non si trova altrove che negl'individui stessi, che la definizione si applica alle cose; ma indirettamente, e in quanto, e solamente in quanto, queste partecipano alle Idee, vale a dire, in quanto si considera in esse, non l'elemento indivuale, ma l'elemento comune; Tizio si de finisce, non corno Tizio, ma come uomo; Protagora non come Protagora, ma come sofista. Quando poi la defi- nizione si applica, non a questo o quell'individuo, ma a tutti gl'individui della classe, p. e. a tutti gli uomini, a tutti i sofisti ; allora, per il fatto stesso che si emette una proposizione generale, l'elemento individuale sparisce, e non resta che Telemento comune, qu^^llo a cui si applica direttamente la definizione, l'Idea; perchè, secondo Pla- tone la conoscenza generale si riferisce all'Idea. Per con- seguenza, cercare o dare la definizione degli uoniiuio dei sofisti, non è altra cosa che cercare o dare la defini- zione dell'Idea dell'uomo o di (|uella del sofista; dire ciò che è l'uomo o il sofista considerato in generale, è dire — 24 — SS mm ciò che è ridea dfU'uomo o quella del solista; porche ruomo e il sofista, considerati in generale, non sono altra cosa che l'Idea dell'uomo e l'Idea del sofista. In verità, noi potremmo, per la stessa ragion », riguar- dare tutte le proposizioni generali che si trovano negli scritti platonici, qualunque sia il loro contenuto, come altrettante prove dell'immanenza dello Idee, perchè, da una parte, è evid^^nte che queste proposizioni si riteri- scoDO allo cose, e d'altra parte, secondo i principi! pla- tonici, ogni nozione generale non può avere per ogget o che l'Idea. Ma io non ho creduto potermi avvalere di questo genere di provo, perchè non è rara nei filosofi uua contraddizione tra la teoria e la prat ca : ma una tale con- traddizione sai ebbe inammissibile, quando questa pratica è precisamente un esempio destinato a mettere in azione la teoria. Cosi noi non cercheremo un'altra prova analoga del - rimmanenza che nflle dieresi platoniche. La dieresi è la divisione del genere nelle sue specie; essa piende per punto di partenza uno dei generi più vasti, lo divide nei ge- neri immediatamente inferiori cioè meno est si, qursti in quelli ancora immediatamente inferiori, e cosi di Feguit'^, sinché si trovino le specie infimo, che sono quelle di cui si cerca la definizione. Tutta la dialettica platonica sta nella dieresi : la definizione stessa vi è compresa, per che non ne è che il termine e il risultato. Il metodo della dieresi è praticato nel Sofista e nel Politico, e lo dieresi di questi due dialoghi hanno appunto per iscopo, come ci avverte lo stesso Piatone (1), di dare degli esempi di questo metodo, che, come abbiamo detto, non è che la dialettica stes-ia. Noi dobbiamo ammettere, per conse- guenza che le dieresi del Sofista e del Politico si appli- cano alle Idee cioè che i generi divisi e le specie in cui si dividono sono delle Idee, perchè è l'Idea che è p*oggetto proprio ed unico della dialettica (1). È quello el resto che Platone dice espressamente nei luoghi di questi due dialoghi superiormente citati a proposito della definizione (come anche in uno dei luoghi del Politico che riporteremo tra poco). Intanto è evidente che le dieresi del Sofista e del Politico si riferiscono alle cose stesse, e non ad entità iperfisiche. Non per provarlo— perchè ciò non ha bisogno di essere provato— ma perchè il pensiero possa fissarsi su qualche cosa di concreto, e non siresti nel vago dell'astrazione, io darò qualche esempio. Ecco dunque la prima dieresi del Sofista ; L Osp. Eleate. Delle arti, si può dire, tutto, vi hanno due specie. Teb- TETo: Quali? L'Osp. El.: L'r gricoltura, e ogni lavoro relativo a qualsiasi corpo corruttibile, e quello relativo a ogni oggetto fabbricato che noi chi^^miamo suppellettile, e l'arte imitativa, tutto ciò potreble a buon dritto chia- marsi con un sol nome— Teet.: Cerne, e con qual nome? L'Osp. El. : Per tutto ciò che prima n^n era e poi viene (1) Polii. 285 e— 287 a. (1) Per la dottrina che le Idee sono l'oggetto, e l'oggetto unico, della dialettica, V. FU. 58-59, Rep. 476-480, 500-511, 532-584 Parmen 135 b-d, lini. 5i b-52 a. Fedone 99 d-ioo a. So/, 253 b-254 b, ecc. Per l'identità della dialettica e della dieresi v, oltre l'ultimo dei primi indicati, ciò che ne abbiamo detto nel cap. 7. - Aristotile dà come motivo della dottrina delle Idee, non solo la proposizione chela delinlzione non può a ere per loggetto che le Idee (e non le cose), ma anche quella più generaie che a dialettica (cioè tanto la definizione quanto la dieresi) non può avere che quest'oggetto, V. Mei. 1. I, VI, 5 e il commento d'Aless. d'Afrod. a que- sto luogo — Del resto, che le dieresi di Platone si riferiscono alle Idee, é provato abbastanza dalle prove stesse che dimostrano che le sue defini- zioni si riferiscono alle Idee ; poiché ciò a cui si applica la definizione non SODO che le sezioni ultime, gl'indivisibili a cui arriva la dieresi. —* ' 1 - t. 1 portato airesistenza, noi diciamo di quello che lo porta all'esistenza, che fa, e di quello che vi è portato, che è fatto. Tebt.: Giustamente— L'Osp. El.: È questo l'og- getto della potenza ch^ hanno tutte le arti che nbbiamo -TEET : Si, è questo- L'Osp. El. : Noi le chia- meremo dunque in generale l'arte di fare— Tebt : Sia L'Osp. El: Poi, ogni specie di disciplina e di scienza, il negozio e la lotta e la caccia, siccome non producono niente, ma, tra le cose che esistono e sono state prodotte, delle une s'impadroniscono por la potenza del discorso e dell'azione, le altre difendono contro quelli che vo- gliono impadronirsene, cosi tutte queste parti potreb- bero riunirsi convenientemente sotto il titolo di arte di acquistare. »— Le due ultime dieresi dello stesso dialogo : «L'Osp. El. : L'imitatore opinante è moltiplice; perchè Tuno è| uno sciocco che crede di sapere le cose che o- pina, ma la specie dell'altro, per la volubilità dei suoi discorsi, dà molto a sospettare e a* temere che ignori le cose, che innanzi agli altri si dà l'aria di conoscere— Tebt.: Ve ne ha certamente dell'uno e dell'altro genere che hai detto -L'Osp. El. : Chiameremo dunque l'uno imitatore semplice, e l'altro imitatore simulatole ?-Teet.: E con ragione -L'Osp. El.: E il genere del secondo;',* diremo unico o doppio ?—Teet. : Veditu-L'Osp El'Ì Guardo, e due me ne appariscono: vedo l'uno capace di simulare in pubblico con lunghi discorsi alla moltitu- dine, l'altro in privato, con brevi discorsi, costringendo l'interlocutore a mettersi in contraddizione con se stesso »- La prima dieresi del Politico: « L'Ospiste: Come trovare la via della scienza politica ? (vale a dire : in quale classe di scienze dobbiamo cercare questa scienza V) bisogna scoprirla, e separandola dalle altre, imprimerle un'Idea unica, e le altre direzioni segnando d'un altra Specie unica, far concepire al nostro spirito tutte le scienze come essenti due Specie L'aritme- tica e altre arti consimili non sono scevro da ogni azione, e non esibiscono una semplice conoscenza?— Socrate il giovane : Cosi è — L' Osp : Ma quelle, che spettano alla fabbricazione e ad ogni altra operazione manuale, possiedono invece una conoscenza che si rapporta na- turalmeate all' azione, e fanno gli oggetti materiali a cui danno 1' esistenza, e che prima non erano — So- crate IL giovane: è chiaro — L' Osp. : Cosi dividi tutte le scienze, chiamando l'una attiva, l'altra semplicemente speculativa— Socrate il giovane: Siano queste le due specie della scienza, u7ia essendo tutta la » (1) — Nello stesso dialogo a 281 d-c : «L'Osp. : « Prima consideriamo due arti, che sono circa tutte le cose che si fanno. Socr. : il giov. : Quali ?-L'Osp. : L'una, con causa della produzione, l'altra la causa stessa— Socr. : il giov : Come ?— L'osp.:Tutte quelle, che non fabbricano la cosa stessa, ma somministrano ai fabbricanti gli strumenti, nella cui assenza ciascuna arte non potrebbe compiere l'opera che le è assegnata, chiamirmo eoncause, quelle che fanno la cosa stessa, cause »— E a 30.ó e, distinguendo la politica dalle arti più affini (l'oratoria, la militare e la giudiziaria): « L'Osp.: Quella poi che presiede a tutte queste, e veglia alle leggi e a tutti gli affari dello stato, e tutte cose rettamente contesse, denotandola sua facoltà (1) Notiamo le parole in corsivo . Socrate risponde cosi, per mostrare ch'egli ha compreso che la dieresi si riferisce alle Idee come l'ospite eleate ha detto al principio del luogo citato. — È per- chè la dieresi si riferisce propriamente all' if no (l'Idea) e non ai molti (le cose), che nel Politico e nel Sofista i nomi designanti i generi ohe si tratta di dividere, e le specie in cui vengono divisi (cioè i nomi comuni degli oggetti appartenenti a questi generi e a queste specie), si trovano, di regola, al singolare. - 26 - col nome comune, chiameremo giustametìte, mi sembra, scienza politica. » Io devo avvertire il lettore, che non conoscesse questi due dialoghi— e un'avvertenza analoga avrei potuto fare sulle definizioni— che non è ia questo o in quel punto isolato, ma è dal principio sino alla fine, che le dieresi del Sofista e del Politico ci mostrano con la più grande chiarezza che esse si applicano, non ad entità iperfisiche, ma alle cose stesse (1): ciò è tanto evidente, che nes- sun interprete trascendentalista certamente oserebbe so- stenere che in queste dieresi si tratta delle làQQirascen- denti] forse però alcuno dirà che in esse non potrebbe nemmeno trattarsi delle Idee immanenti, perchè anche queste sarebbero al postutto dfìlle entità ultrafenomenali, metaempiriche, mentre è incontesta bi le che le arti e le scien- ze, di cui si fa la divisione nel Sofista e nel Politico, sono le scienze, e le arti fenomeni, e fenomeni egualmente, cioè oggetti della nostra esperienza, sono gli oggetti su cui versano queste arti e queste scienze, e i soggetti in cui esse risiedono (ai quali si applica pure la divisione). (1) Che le dieresi di Platone si applicano alle cose nel tempo stesso che egli afferma che hanno per oggetto le Idee - e quindi che le Idee per lui si identificano con le cose — non si vede solamente dai dialoghi destinali a mettere in pratica il metodo di divisione, cioè dal Sofista e dal Politico^ ma anche da quei luoghi degli altri dialoghi, in cui, inculcando la divisione come regola generale di metodo, ne dà qualche esempio particolare ; perchè in questi casi, mentre nella regola si parla di una dieresi delle Idee, negli esempi si tratta invece di una dieresi delle cose. È così che si fa nel Fi' Icho 14-19, dove si deduco dalla costituzione stessa degli esseri eterni (cioè le Idee), di cui ciascuno è al tempo stesso uno e molti, che bi- sogna in ogni ricerca stabilire un'Idea unica per tutto, e sforzarsi di scoprire il numero d'Idee comprese sotto di quella, e poi quello ohe è compreso sotto ciascuna di queste, e cosi di seguitò, siiichè Ma. quegli che facesse quest'obbiezione, mostrerebbe ch'egli non sa porsi esattamente al punto di vista del- Tipotesi dell'immanenza. Le Idee non sono che le cose considerate d'una maniera astratta e generale, e le cose considerate d'una maniera astratta e generale non sono che le Idee. La dieresi avendo per oggetto, non delle cose particolari, ma i generi eie specie delle cose, ha perciò per oggetto le Idee, anche quando Platone non parla esplicitamente che di una divisione delle cose; perchè secondo Platone, ogni nozione generale direttamente non si riferisce che alle Idee. Come i concetti e i nomi, che sono i segni dei concetti, non si riferiscono direttamente che alle Idee, cioè agli Attributi, e alle cose solo indi- rettamente, in quanto partecipano dogli Attributi; cosi ogni proposizione generale, ch'essa sia una definizione, o una dieresi, o che abbia un altro contenuto qualunque, non ha per oggetto che le Llee; essa si riferisce pure alle cose, ma indirettamente, in quanto queste possiedono gli Attributi, i cui rapporti, astrattamente considerati, costituiscono il vero significato della proposizione. Ogni proposizione generale é dunque, in certo modo, per Pla- tone, un'espressione a doppio senso : essa significa al tempo stesso le cose e le Idee; questo doppio senso non si scopra tutta la moltitudine compresa nell'unità primitiva ; e si danno come applicazioni di questo metodo la divisione delle lettere ohe fa la grammatica, e quella dei suoni che fa la musica— le quali certamente non trattano di suoni e di lettere trascendenti —, e si esorta ad applicarlo al piacere e alla saggezza, cioè incontestabil- mente al nostro piacere e alla nostra saggezza, perchè si tratta di quel piacere e di quella saggezza, di cui si ricerca se il bene — que- sto bene la cui possessione deve renderci felici — consista nell'uno o nell'altra - È cosi che si fa pare nel Fedro 265 a -266 b e 270 b- 273 e (cfr. quest'ultimo luogo con 277 b-c). - 27 — ì lì W' è che il doppio significato dei nomi, la connotazione, che si riferisce all'astratto e al general»*, e la denota- zione, che si riferisce al concreto e al particolare. Supponiamo, per chiarire il punto di visto di Platone, che vi hanno r* almrnte, come ammettono la più parte dei filosofi, dei concetti, cioè delle rappresentazioni astratte e generali (1). Quale sarà per un filosofo logico, che ammette la teorica dei concetti, il vero significato di una proposizione generale ? Una proposizione generale è l' espressione di un giudizio generale, e un giudizio generale consta d'i- dee generali, di concetti; dunque la proposizione ge- nerale non può riferirsi che a ciò a cui i concetti si riferiscono, cioè agli attributi, agli astratti; direttamente, essa non può riferirsi alle cose particolari e concrete, perché, quando facciamo il giudizio, non vi hanno nel nostro pensiero le rappresentazioni di queste cose parti- colari e concrete, ma i loro concetti, cioè delle rappre- sentazioni astratte, delle rappresentazioni di attributi. Il significato diretto della proposizione sarà dunque TafiTer- mazione di un rapporto tra attributi: p: e : Tuomo è un animale, significherà propriamente che Tattributo ani- male fa parte del gruppo di attributi uomo (2). Ma (1) Avverto una volta per tutte che quando, per rendere conto delle idee dei metafisici realisti, parlo delle operazioni del pensiero in termini che implicano la teoria dei concetti, io non intendo fare adesione effetti- vamente a questa teoria. Non intendo decidere se la verità stia m essa o nella teoria contraria che non ammette altre ideo che rappresentazioni di cose concrete e particolari. Ma mi attengo alla teoria dei concetti, pri- mo perchè è conformemente a questa ttoria che i metafisici di cui si tratta si rappresentano necessariamente le operazioni deli' intelligenza; e poi perchè questa è la dottrina stabilita e la sola, pei conseguenza, che abbia a sua disposizione un linguagì>io già fatto che permette di essere breve e di farsi facilmente comprendere. (2) Cor. Mill. Log. Ir 1. o. 5. g é, e. 6 § 5, Pil. di Hamilton, oftp. 18 saUa fine, 22. sul principio, eoo. Siccome il gruppo di attributi uomo non si trova altrove che negl'individui concreti e particolari, cosi la proposizione si riferirà pure a questi, ma, come abbiamo detto, non direttamente, perchè non é alcun individuo né tutti d'indivìdui che noi ci rappresentiamo, affermando che Tuomo é un animale, ma semplicemente l'uomo a- stratto, Toggetto del concetto. Aggiungiamo ora aUMpotesi concettualista l'ipotesi realista : supponiamo, cioè, che gli oggetti dei concetti, vale a dire gli attributi, gli astratti, abbiano ciascuno un'esistenza propria e distinta, ch'essi siano, parlando il linguaggio di Piatone, delle Idee. Quale sarà il signi- ficato diretto di una proposizione generale ? sarà l'affer- mazione di un rapporto tra Idee. L'uomo è animale, af- fermerà l'inerenza dell'Animale nell Uomo. Ma siccome l'Uomo non si trova altrove che negli uomini, cosi la proposiziono si riierirà pur^i agli uomini, cioè agl'indi- vidui concreti e particolari; ma questo secondo signifi- cato sarà indiretto, perchè, affermando che l'uomo é a- nimale, non è quest'uomo né quello, né la totalità degli uomini, che si trova presente al nostro pensiero, ma sem- plicemente l'Uomo, l'astratto. Cosi, che Platone affermi che delle proposizioni, ch'e- gli riferisce evidentemente alle cose— definizioni, dieresi, e in una parola tutte le proposizioni generali— si rife- riscono alle Idee di queste cose, é una conseguenza lo- gica della teoria dei concetti, unita alla realizzazione degli oggetti di questi concetti : ma quést' affermazione implica l'identificazione delle Idee con le cose, cioè con le cose considerate d'una maniere generale ed astratta. Essa sarebbe un*inconcepibilità nell'ipotesi della trascen- denza^ che sopprime l'identità tra le Idee e le cose, e f *i del sensibile e dell'intelligibile, del concreto e dell'astratto. - 28 - due realtà assolutamente differenti e separate Tuna dall'altra, e non, come vuole Piatone, una sola e stessa vista da due laii differenti. V. L'idea platonica essendo T oggetto del concetto, sostantificato, i caratteri dell'Idea sono i caratteri stessi del concetto, cioè 1' astrattezza e Tuniversalità. Ora di questi due caratteri, l'interpretazione trascendentalista ammette il primo, ma nega, in sostanza, il secondo Dico m sostanza, perchè gP interpreti trascendentalisti, trasci- nati dalla forza stessa della verità, chiamano, come noi, le Idee platoniche universali; essi convengono del nome se non della cosa ; ma è evidente che bisognerebbe can- giare radicalmente il significato di questo nome prima di poterlo applicare convenientemente alle Idee platoni- che quali essi se le rappresentano. Universale vuol dirc- elo che può essere attribuito a tutti gl'individui di una classe, l'attributo comune di tutti questi individui; ma 1 Idea, per l'interprete trascendentalista, non è un attri- buto di questi individui, né di. tutti né di alcuno, perché attributo inerisce nel soggetto, mentre l'Idea, secondo lui, non inerisce nelle cose, ma è fuori di esse. L'inter- prete trascendentalista parlerebbe con più proprietà se dicesse che le Idee platoniche sono, non gli universali, ma 1 contenuti dei concetti universali, realizzati; perchè secondo la sua interpretazione, le Idee corrispondereb' bero ai concetti nella loro comprensione solamente, ma non nella loro estensione; ora l'universalità si rapporta ali estensione, e non alla comprensione. Sicché la qui- stione sull'immanenza o trasceudcnza delle Idee si riduce al fondo, a questa : l'Idea è semplice rr ente l'astratto o è anche l'universale? Ma per l'abuso che gl'interpreti tra- scendentalisti fanno della parola universale, noi dobbia- mo sostituire a questa parola una perifrasi, e formulare la quistione cosi : l' Idea platonica è o no un attributo comune delle cose, che Platone si rappresenta come uno e Io stesso (nel senso più stretto di queste parole) in tutte le cose che possiedono quest'attributo ? il bianco stesso, il bello stesso, l'uomo stesso, è una bianchezza, una bellezza, una umanità fuori degli uomini, degli oggetti belli e degli oggetti belli e in tutti gli oggetti bianchi, o é questa bian- chezza, questa bellezza, quest'umanità che è 1' attributo comune degli uomini, degli oggetti belli e degli oggetti bianchi, ma concepita come qualche cosa che è una e la stessa (e non semplicemente simile o uguale) in tutti gli uomini, in tutti gli oggetti belli e in tutti gli oggetti bianchi? L'universalità— cosi definita— delle Idee platoni- che è sufficientemente dimostrata dalle prove antecedenti; ma vi hanno delle prove ancora più esplicite, che passere- mo in rassegna in questo numero. Tra queste prove io non comprenderò i lunghi numerosi, in cui Aristotile afferma esplicitamente o suppone che le Idee platoniche sono uni- versali, ch'esse si predicano universalmente o in comune di tutte le cose (cioè di tutte le cose appartenenti a una classe determinata), che sono i generi degli esseri, ecc., perché rinterpetretrascendentìlista potrebbe dire, e con qualche apparenza di ragione, che Aristotile fa qui del termine universale e dei suoi sinonimi Tuso improprio che abbiamo rimproverato a lui stesso; mi limiterò per conseguenza ai soli testi di Platone, « di Aristotile non aggiungerò che alcuna di quelle indicazioni il cui significato non può lasciar luogo ad alcun dubbio. V II modo in cui Platone mette in antitesi l'Idea e le cose prova che l'Idea é l'universale, perché le cose sono opposte ad essa come particolari : p. e: « il fabbro, non la Specie del letto, ma qualche letto »> (1) ; ma (1) Kep. 597 a. V 1 1 — 29 — Dio (il Bene) produce « il letto che realmente é, e non qualche letto » (1); « il vero amante della scienza aspira all'essere vero, e non si ferma ai molti singolari che sono creduti essere » (2) ; < invoco di considerare lo Stesso stesso (cioè l'Idea dello stesso), abbiamo considerato i singoli stessi (cioè le cose particolari a cui conviene il predicato : stesso) » (3); « bisogna prendere chiaramente o il bene (cioè senz'alcun dubbio, l'Idea del bene), o qualche forma di esso » (4); ecc. Se Tldea fosse trascen- dente^ mancherebbe la ragione deirantitesi; al particolare deve corrispondere il suo opposto, il generale. 2« Astrarre, generalizzare, è, secoudo Piatone, riunire il multiplo neiruno, cioè le cose neiridea, ole Idee spe- cifiche nell'Idea generica. Cosi nel Sofista 253 d dice che il dialettico « vede acutamente un' Idea unica sparsa per una moltitudine di cose, separate le une dalle altre, e molte Idee distinte contenute sotto un' Idea unica, e un'Idea unica per molti tutti (cioè sparsa per molte spe- cie) in uno raccolta » (Sf oXwv tcoXXcSv èv Ivi g'jvyjjiiiésvyjv); nel Fedro 26o d, che « bisogna ricondurre ciò che è qua e là disperso, guardandolo con una veduta d'insieme, ad un'Idea unica », e chiama questa riconduzione delle cose all'Idea, o delle Idee più particolari a un'idea più gene- rale, una riunione (ouvarcovii^ 266 b); nello stesso dialogo, 273 e, rifiuta la perizia nell'arte del dire a chi non è capace di « dividere gli cs-^cri per ispecie e di nuovo comprendere i singoli in un'Idea unica »; nel Po^i7 285 b, raccomanda di ♦ racchiudere tutto ciò che è affine den- (1) 597 d. (2) 490 a-b. (3) Alcib. 1. 130 d. (4) Filebo 61 a. tro una somiglianza unica (l) o rivestirlo dell* essenza d'un certo genere »; nel Filebo Socrate si sforza di « guar- dare prima il finito e l'infinito ciascuno diviso in molti e disperso, e poi di riunire (ouvaYstv) nuovamente in uno, per vedere come l'uno e l'altro é al tempo stesso uno molti » (2) ; ecc. Tutte queste espressioni potrebbero anche essere impiegate da un concettualista o da un no- minalista—ma è ciò precisamente che prova l'immanenza delle idee platoniche — : in quelli, non sarebbero che dele metafore un po' ardite, in Platone devono pren- dersi il più letteralmente possibile; l'unità, in cui si rac- chiude, o a cui si riduce, il multiplo, non è, per quelli, chf». un'unità mentale, trasportata, per metafora, nelle cose, ma por Platone è un'unità reale; unificare, iden- tificare, per quelli non è che r similare, per Platone si tratta d' una unificazione e d' una identificazione nel s^nso più strétto di queste parole. Sui luoghi citati e gli altri che si potrebbero aggiungere, si deve osservare ch'essi possono dividersi in due categorie : in tutti vi ha il concetto dell'unificazione del multiplo; ma in alcuni quest'unificazione ò il riconoscere che l'attributo comune che é in molte cose (p. e. il bianco cheé in questa carta, quello che è nella parete, quello che è in questo libro, ecc.) è un'entità unica, e non tante entità quante vi hanno cose che possiedono l'attributo; negli altri ciò che si tratta di unificare sono le cose stesse (o le Idee) che possiedono l'attributo comune, o, più propriamente, gli at- tributi omonimi, e non semplicemente questi attributi (1) Per somiglianza (óiiotoTYjg) bisogna intendere non la rela- zione tra gli oggetti simili, ma il fondamento di questa relazione, il carattere loro oomune par cui ossi sono chiamati simili. (2) 23 e. omoDimi; vale a dire non sì dice semplicemente che Tu- manità che è in me, in voi, in quello, ecc. è un'umanità unica, che Tanimale che è nell'uomo, nel cavallo, nel bue è un'Animalità unica, ma ancora che tutti gli uo- mini diventano uno neirUomo, tutti gli animali uno nel- l'Animale, ecc. (1). Questi due aspetti della riduzione del multiplo neir uno si vedranno più chiaramente nei due numeri seguenti. 3« La risoluzione degli attributi omonimi di tutte le cose in un' entità unica è espressa da Platone sotto due forme un po' differenti, ma equivalenti disignifìcato. A. Uno è il bello, uno il buono, uno il grande, uno è, in una parola, tutto ciò che è coìinofato da ciascun nome generale, e questo bello, questo buono, questo grande, ecc. è Tldea del bello, del buono, del grande, ecc. Cosi nella Bep. 475 e— 476 a : « Poiché il bello e il contrario del brutto, questi sono due ; ed essendo due, ciascuno è uno. E lo stesso deve dirsi del giusto (I) Un'altra distinzione che si potrebbe fare è dei luoghi che si riferiscono al rapporto tra l'Idea e le cose e quelli che si riferiscono al rapporto tra l'Idea generica e le Idee specifiche. Non ho cre- duto necessario di fare questa distinzione, sia perchè nella più parte dei casi Platone ha di mira tanto la unificazione del multiplo reale nell'Idea, quanto quello del multiplo ideale in un' Idea superiore; sia perchè un'interpretazione coerente del sistema delle Idee deve ammettere tra le Specie e le cose lo stesso rapporto, o d'immanenza o di trascendenza, che ira i Generi e le Specie (v. num. VII). La stessa osservazione vale per il num. 4. Come genelizzare è per Platone astrarre l'Idea comune a molte cose, che è riguardata come una e la stessa in tutte ; così ragionare per ana'ogia è per lui trasferire la stessa Idea, già costatata e deter- minata nell'oggetto da cui si tira l'analogia, nell'altro oggetto la cui natura si vuole rischiarare per quest'analogia. V. Pulii, 278 e, Hep. 434 d. e dell' ingiusto, del bene e del male e di tutti gli sXSy): ciascuno é uuo esso stesso, ma per la xotvcDvCa (cioè la partecipazione ad osso) delle azioni e dei corpi e la reciproca (la partecipazione degli sXòri gli uni agli altri), da per tutto apparendo, ciascuno pare molti ». E a 479 a : « Che ci risponda dunque questo buon uomo, che iion crede al bello stesso, né ammette che vi sia alcuna Idea del bello sempre la stessa, ma crede molti i belli ; que- st'amatore di spettacoli che non accrrderà mai che uno è il belio, uno il giusto, e cosi ogni altra cosa ». E a 493 e : « Il volgo crederà uiai o soffrirà che si dica che vi ha il bello stesso, ma non molti belli, e qualsiasi stesso (cioè il bene stesso, il giusto stesso, il grande stesso), e non molti qualsiansi (cioè molti beni, molti giusti, molti grandi, ecc.)?» Se le Idee del bene, del bello, del giu- sto, ecc. fossero trascendenti, come potrebbe dire Pla- tone che vi ha un solo bene, un solo bello, un solo giu- sto, ecc. ? In questo caso vi sarebbero altrettanti beni, belli, giusti, ecc., quante vi hanno cose che possiedono que- sti attributi, più il bene stosso, il bello stesso, il giusto btcf^so, ecc. E a questa prima forma con cui viene espressa l'unificazione degli attributi omonimi delle cose, che noi possiamo rapportare pure una delle prove, riferita da Alessandro d'Afrodisia (1), per cui si dimoi^trava l'esi- stenza delle Idee: Ciò che noi aifermiamo come vero è; ma noi affermiamo come vero che vi hanno cinque con- centi, tre armonie, ecc.: dunque ciascuno di questi con- centi é realmente uno, ciascuna di queste armonie è real- mente una, ecc., e vi hanno le Idee di questi concenti, di queste armonie, ecc. Alessandro d'Afrodisia presenta (1) In phil, pr. Arisi, 1. 1. e. 9. testo 62. - 31 ~ ^-!^ quest'argomento un pò* diversamente, ma che Platone lo presentasse press*a poco nella forma che abbiamo det- to, è anche confermato dal cominciamento del primo dei luoghi citati (1), che ne è una variante, o piuttosto una applicazione particolare. B. La grandezza che è in tutti gli oggetti grandi, la bellezza che è in tutti gli oggetti belli, è una sola e stessa grandezza, una sola e stessa bellezza, ecc., e questa gran- dezza, questa bellezza ecc., una e la stessa in tutti, è la Idea della grandezza, della bellezza, ecc. Così nel Par- menide 132 a : « Io penso, dice a Socrate il filosofo oleate, che tu credi che ciascuna Specie è una, per questo : quan- do molte co.^eti semb-ano grandi, forese, contemplandole, una certa Idea unica la stessa ti sembra essere in tutte, e perciò ammetti che la grandezza è una » . E poco dopo, quando Socrate, confuso dalle obbiezioni del vecchio fi- losofo, batte in ritirata, e passando dal realismo al con- cettualismo, dice che, « forse ciascuna specie è una no- zione, e non esiste altrove che nelle nostre anime », Par- menide, che in questo dialogo è il vero rappresentante della teoria delle Idee, gli domanda: « Ma che? Ciascuna di queste nozioni, che è una, è la nozione di niente ? ~ Socrate : Ciò è impossibile — Parmenide : E dunque la nozione di qualche cosa ? — Socr. : Si — Parm. : Di qual- che cosa cosa esistente o non esistente ? — Socr. : Esi- stente — Parm. : Non è di qualche cosa di uno, che que- sta nozione concepisce come presente in tutti gli oggetti, ed essente una certa forma unica ? — Socr. : Si — Parm. : E non sarà un'Idea questa cosa che si concepisce essere una, essendo sempre la stessa in tutti gli oggetti ? » (2). Nelle Uggì 965 c-d, I'Ateniesb : 4c Si può più esatta- mente esaminare checchesia che guardando ad un'Idea unica dai molli dissimili?- Clinia. Forse -L'Atemfsk: Non forse, ma certamente non vi ha metodo più lumi- noso di questo per lo spirito umano. Ci bisognerà dun- que, sembra, obbligare i custodi della nostra divina città a vedere prima esattamente cos' è che per tutte quattro (le virtù) è lo stesso, che essendo uno nella fortezza, nella temperanza, nella giustizia e nella prudenza, giusta- mente chiamiamo con un sol nome, virtù ». Nel Con- vito 210 b si chiama una demenza il non credere che uno e Io stesso è il bello in tutti i corpi; nel Mmom si cerca che coea sia la virtù unica che è per tutte le virtù (i); che cosa sia la figura che è la stessa in tutte le figure (2) ; nel Sofista (240 a) che cosa sia il simulacro unico che è in tutti i simulacri; ecc.: Nella Metafisica l. XIII, IV, 10 Aristotile domanda «Se la diade è una e la stessa nelle diadi corruttibili e le molte ma eterne (3), perchè non sarà pure la stessa nella diade stessa e nelle particolari ?» — qui Aristotile fa a Platone l'obbiezione del terzo uomo, ma ciò che c'importa èia pro- posizione che gli attribuisce, cioè che la diade è una e la stessa in tutte le diadi -;nel 1. Ili, IV, J, 9 fa ap- poggiare la dottrina della realtà degli universali suirar- gemente che « in t«nto conosciamo tutte le cose, in quanto vi ha un che di universale, un che di uno e lo stesso», e che « non vi sarebbe scienza, se non vi fosse un che di (1) Rep, 475 e-476 a. (2) 132 b-o. (1) 74 a-b. (2) 76 a, 76 a. (3) I numeri matematici, che, nell'ultima forma del suo sistema, Platone faceva intermediari Ira il numero ideale e i numeri sen- sibili. V. Sup2jtem. C. — 32 - uno in tutti » (l);e in una moltitudine di luoghi afferì ma esplicitamente o indubbiamente suppone che i Pla- tonici chiamavano Tldea Vuno nei molti (2). Noi sappia- mo pure da Alessandro d'Afrodisia, che certament'^ lo aveva attinto da Aristotile, che uno degli argomenti, e di quelli tenuti in magior conto, per dimostrare Tesistf^nza delle Idee, era questo: che gli oggetti che sono simili tra di loro (cioè che hanno questa somiglianza definita cui si riuniscono in una stessa classe) non possono es- tali che perchè partecipano a qualche cosa la stessa che è propriamente quello che viene predicato in comune di questi oggetti, e questa cosa è Tldea (3). (1) Cfr. num. III. (2) Met, 1. I. IX. 1, 2, 5, l. VII. XVI. 6, eco. (3) In Metaph. Arisi, 1. J, e. 9. testo 59. Alessandro d'Afrodisia c'informa anche di una variante di que- st'argomento, ch'egli espone cosi: che vi ha una causa delle cose costantemente farsi, e farsi secondo un tipo costante; e questa causa è l'Idea comune a queste cose. Anche esposto sotto questa forma* che non sappiamo se sia esattam ente quella con cui Platone lo pro- poneva, quest'argomento prova l'immanenza dell'Idea, cioè che la Idea è l'Attributo che è uno e lo stesso in tutti gli esseri della stessa specie. Infatti, se l'Uomo fosse una semplice causa esemplare degli uomini, posta al di fuori di essi, essa non ci spiegherebbe perchò uno stesso tipo si riproduce costantemente in esseri distinti fra di loro ; per la semplice ragione che l'Idea separata non sarebbe una causa efficiente, vale a dire una causa che a priori si riconosce ca- pace di produrre l'effetto che le viene attribuito— e naturalmente nemmeno una causa empirica, cioè la cui azione è stata dimostrata dall'esperienza — .Al contrario, se si ammette che l'Idea è nelle cose, la somiglianza delle cose che partecipano alla stessa Idea può essere dedotta a priori da questa partecipazione a una stessa Idea; tra la causa e l'effetto vi ha un legame necessario; e per- ciò, dato l'effetto — la somiglianza di tutti gli uomini — noi possiamo inferirne la causa — la partecipazione a una Idea comune --, perchè questa causa è una causa che noi già sappia- mo essere capace di produrre l'effetto, ciò che è la condizione in- A questi dati non aggiungerò alcun commento. L'e- spressione più netta sotto cui può formularsi l' ipotesi daW imvianenza e precisamente questa, contenuta nelle citazioni precedenti, che gli attributi omonimi di tutti gli esseri non sono in sostanza che un Attributo unico, e questo è l'Idea; che quest'Attributo inerisce, uno e lo stesso, nella moltitudine degli esseri dei quali predichiamo dispensabile di qualsiasi ipotesi, fisica o metafisica, vera o falsa, che lo spirito umano possa fare sulle cause dei fenomeni. L'argomento di Platone che gli oggetti simili non possono es- sere tali che per la partecipazione a qualche cosa comune, suggeriva agli avversari della sua teoria 1' obbiezione del ^tco uomo, della quale gl'interpreti trascendentalisti delle Idee platoniche fanno gran caso, perchè essa prova, secondo essi, che la teoria contro cui era diretta, era quella delle Idee trascendenti. L'obbiezione del terz'uo- ma è questa : se tutti gli uomini sono simili perchò partecipano a uno stesso, all'Uomo in sé, l'Uomo in sé e gli uomini debbono pure essere simili perchè partecipano a qualche cosa di comune ; vi ha dunque, oltre l'uomo fenomenale e l'Idea dell'uomo, un terzo uomo distinto dal fenomeno e dall'Idea; e l'obbiezione continuava preten- dendo che la somiglianza del terz'uomo con gli altri supporrebbe un quarto uomo, a cui tutti gli altri uomini partecipassero, e cosi di se- guito all' infinito (V. per quest'obbiez. Plato. Parmen, 132 a-b, 132 d,- 133 a, Arist. Met, 1. I, IX, 3, 5 e Aless, d' Afrod. commento al primo di questi due luoghi). Non vi ha dubbio che, perchè quest'obbiezione fosse logicamente inappuntabile, essa dovrebbe essere diretta contro le Idee terascendenti - se l'Idea è nelle cose, non vi ha motivo di do- mandare la causa della somiglianza tra le Idee e le cose, perchè l'Idea non è altro che questo punto di coincidenza comune per cui tutte le cose simili si dicono simili - ma resterebbe a provare che l'obbi ozione del terzo uomo era logicamente inappuntabile. Nella dottrina delle Idee immanenti vi ha quel tanto che, so non è sufficiente perchè que- st'argomento sia perfettamente concludente, basta perchè esso abbia quella plausibilità necessaria a un argomento perchè gli avversari di una teoria ne facciano uso. In effetto, Platone ha un bell'affer- mare che le Idee, quantunque siano sostanze per se stesse, inori-, aoono nondimeno nelle cose, e ohe, quantunque ciascuna sia una, .% t \ — 33 — rattiibuto. Certamente questa prova deirimmanenza — che in verità non è una prova, ma la ripetizione, in ter- mini più chiari, della tesi stessa che si tratta di prova- re—non sembra con tutto ciò soddisfacente a^Finterpreti trascendentalisti : ma che si può fare di più ? non altro che pregare questi interpreti che cerchino di rappresen- tarsi nettamente la tesi deirimmanenza delle Idee, vale si trova nondimeno simultaneamente in una moltitudine: queste determinazioni sono incompatibili, noi non possiamo rappresentar- cele insieme; noi non possiamo concepire che una sostanza inerisca in altre sostanze come un attributo, che un essere unico si trovi al tempo stesso, senza frazionarsi, in una moltitudine di esseri diffe- renti. Ne segue che delle sostanze quali Platone finge le Idee, non potremmo rapjìresentarc'ìe che esistenti separatamente dalle cose ; l'Uomo in sé, in quanto noi possiamo immoijinarlo, non lo possiamo che come un uomo particolare, distinto e separato dagli altri uo- mini, questi nati e peribili, esso eterno: è questa la base dell'inter- pretazione trascendentalista delle Idee platoniche, e la chiave per comprendere tutte le vicende di questa teoria. Cosi, se l'obbiezione del terzo uomo non vale contro le Idee quali Platone le afferuia, direbbe egli, quali oggetti dell'intelligenza, poiché egli afTeruia che esse sono nelle cose ; vale però contro le Idee quali noi possiamo rappresentarcele, quali oggetti, direbbe Platone, d' un'immaginazione circoscritta nelle condizioni del sensibile •.•; perchè noi non \)0^ siamo rapp/É'StfM/arftf/t' che separate dalle cose: é quanto basta alla vis probante dell'obbiezione del terz'uomo, quantunque quest'argo- mento, in sostanza, non sia che un sofisma. •.• I metafìsici hanno un mezzo assai comodo per superare tutte le difficoltà : é di distinguere tra inmufjinare ed intende^-e. Se noi tro- viamo le loro teorie inconcepibili, essi rispondono che ciò é perchè « si pretende d'immaginare ciò che non si i)uò se non intendere, come se si volessero vedere i suoni o udire i colori „. Vedi Cartesio t. I, p. 163, ed. Cousin, Leibnitz N, S, sulVint, um. 1. IV, e. III, ^ 6, De ipsa nat. sire de vi ins, r, Epist. ad P, Des-Iiosa. 16 Giug. 1712 (ed. Du- tens t. 2, p. 1. p. 298), Spinoza De intelL emend. 84-91, ecc. Tra l'em- pirismo e la metafisica tutta la quistione è, al fondo, se questa di- stinzione deve ammettersi o no. 2^3 a dire la dottrina che le Idee sono, delle sostanze sì, ma inerenti nelle cone come loro nttributi — nozioni certa- mente incompatibili, io sarò il primo a convenirne—, e di fare per un istante la supposizione che tale sia stata realmente la dottrina di Platone— ciò eh? non è chiede'* poco, perchè si può essere sicuri che la più parte de- grinterpreti trascendentalisti, per non dire tutti, non hanno fatto mai seriamente questa supposizione —, e poi di saperci dire come, in questo caso, Platone avrebbe potuto esprimere la sua dottrina d'una maniera più chiara e più c-^plicita che dicendo che in tutti gli oggetti grandi la grandezza è una e la steFsn, e questa è Tldea della grandezza, e cosi la bellezza in tutti gli rggetti belli, l'umanità in tutti gli uomini, l'anim^^lità in tutti gli ani- mali, ecc. Negare che la dottrina di Platon^, sia realmente quello che essa suona, perchè questi dottrina, cosi in- tesa, ci sembra racchiudere una impossibilità logica, prima di tutto non è conforme ai criteri di una buona ermeneutica; e poi, oltre che per assolvere Platone da una contraddizione gliesene addrssenbboro cento altre, si otterrebbe per risultato, che si fn recherò dire a Pla- tone delle assurdità— perchè chi vorrà snstenere che la dottrina delle Idee, immanenti o trascendenti, non sia un'assurdità?— senz'alcun motivo né scopo, perchè il si- stema delle Idee trascendenti non spiegherebbe niente, non conterrebbe alcuna di queste vedute ardite e ge- niali, che scusano e fanno comprendere gli errori dei grandi pensatori metafìsici, perchè di natura da s< durre rintelligenza con la prospettiva di una spiegazione uni- versale e radicale delle cose, cui la scienza positiva si dichiara incapace di attingere. D'altronde Platone ha avuto cura di togliere al l'interprete trascendentalista qualsiasi pretesto per rifiu- targli la dottrina che le idee sono gli Attributi generali — 34 — delle cose, ciascuno dei quali inerisce, uno e lo stesso, in tutte le cose aventi degli attributi omonimi, fondan- dosi sulle difficoltà logiche contenute in questa dottrina: noi sappiamo infatti dallo stesso Platone che queste dif- ficoltà sono precisamente quelle stesse che gli avversari obbiettavano alla teoria delle Idee. Ecco come esse ven- gano proposte nel Parmenide : <• Parmenide : Dimmi dun- que, pensi tu, come dicevi, che vi hanno certe Specie, da cui le cose, partecipandone, prendone le loro deno- minazioni? che p. e. le cose sono simili per la parte- cipazione della somiglianza, grandi, belle, giuste, per quella della grandezza, della bellezza, della giustizia ?— Io ne sono persuaso, disse Socrate— Ora ogni cosa che par- tecipa della Specie, non è necessario che partecipi o di tutta la Specie o di una parte ? o vi ha, oltre di questi, un altro modo di partecipazione? — E come ve ne po- trebbe essere un altro ?— Credi tu che la Specie sia tutta in ciascuno dei molti, una essendo, o altrimenti ?— Che cosa può impedire, o Parmenide, disse Socrate, che ine- risca tutta?— È che essendo una e la stessa, inibirà tutta simultaneamente in molte cose che sono separate le une dalle altre, e cosi essa stessa sarà separata da se stessa — Ma no, disse Socrate ; come il giorno, essendo uno e lo stesso, esiste simultaneamente in molti luoghi, e non è perciò separato da se stesso ; cosi niente impedisce che ciascuna Specie esista simultaneamente, una e la stessa, in tutti gli oggetti, senza separarsi da se stessa. — Bei » è il tuo, o Socrate, di far esistere una sola e stessa cosa simultaneamente in molti oggetti! è come se co- molti uomini con un velo, tu dicessi che Tuno è tutto intero nei molti. Non è vero che dici qualche cosa di simile ? — Forse, disse Socrate — Ma il velo sarà tutto intero in ciascuno, o soltanto una parte in uno, e un'al- tra parte in un altro ?— Una parte soltanto — Le Speciedunque, o Socrate, saranno divisibili, e le cose che par- tecipano di esse parteciperanno di una parte, e non vi sarà più in ciascuna cosa tutta la Specie, ma una parte soltanto— Cosi pare. — Vorresti dunque, o Socrate, che la Specie sia veramente divisa ? e sarà ancora una dopo que- sta divisione ? — No, affatto — Vedi in effetto : se tu di- viderai la grandezza stessa, ciascuno dei molti grandi sarà grande, non per la grandezza, ma per una parte della grandezza, necessariamente più piccola della grandezza stessa; ora ciò non ti sembra assurdo?— Assolutamente— ... In che modo dunque, o Socrate, le altre cose partecipe- ranno alle Specie, se non possono riceverle né in parte né in totalità? » (1). Questa stessa obbiezione del Parmenide si ritrova, in riassunto, nel Filebo 15 b, dove Socrate spiega quali siano le controversie quando si stabilisce un Uomo, un Bue, e il bello uno, e il buono uno, e al- trettali unità : « Prima di tut*o, egli dice, si contesta se si devono ammettere questa sorta d'unità come realmente esistenti ; poi si domanda come ciascuna di esse, essendo una e sempre la stessa, e non ammettendo né genera- zione né corruzione, possa tuttavia essere immutabilmente una e la stessa (2) ; e in seguito se negli esseri gene- rati e infiniti di numero deve porsi divenuta molti e fra- zionata, 0 tutta intera in ciascuno, separata essa stessa da se stessa, ed è questa che sembra la cosa più impos- sibile dol mondo, che un solo e lo stesso essere sia allo stesso tempo in uno ed in molti ». Potrebbero tali ob- biezioni dirigersi alle Idee trascendenti? se il rapporto tra l'Idea e le cose non fosse che quello tra l'esemplare (1) 131 a-e. (2) Che difficoltà potrebbe trovarsi nell'essere l'Idea una e sem- pre la stessa, se essa fosse fuori delle cose? ìA — 35 - .n. / » e le copie, che ditìScoltà vi sarebbe a concepire che uno stesso esemplare potesse servire di modello a molte co- pie ? sarebbe perciò necessario di ammettere o che l'esem- plare si trova tutto intero in ciascuna delle copie, o che esso si fraziona in tante parti quante sono le copie, e che una di queste parti esiste in una delle copie, e un'altra in un'altra? Non è evidente che queste obbiezioni non possono comprendersi altrimenti che come lo sviluppo delle impossibilità logiche contenute in una dottrina, che afferma che un solo e stesso Attributo inerisce simulta- neamente in una moltitudine di soggetti? Senza dubbio Platone doveva pensare che queste ob- biezioni non toccavano il segno, e che la sua dottrina sfuggiva al dilemma proposto nel Fileho e nel Parmenide: ma tutto ciò che possiamo concluderne è che queste dif- ficoltà non sembravano a Piatone insolubili come sem- brano a noi. Quale sia la soluzione egli non lo dice né nel Parmenide (\) né nel Fllebo: ma egli ne ha imma- ginato una ; noi la troviamo in uno dei luoghi citati : Il (1) Alcuni interpreti credono che la parte dialettica del Parme- nide contiene una dottrina riposta destinata appunto a risolvere le obbiezioni del principio del dialogo: per me io non posso vedervi se non quello per cui Platon'e la dà manifestamente, cioè un sem- plice esercizio dialettico di cui nel cai). VII § 2J abbiamo mostrato la relazione con la dialettica platonica. Del resto le ipotesi ohe tro- vano nella seconda parte del Parmenide le soluzioni delle obbiezioni contenute nella i)rima, non fanno al nostro caso, perché esse sono state immaginate nella supposizione che le obbiezioni siano dirette contro le Idee trascendenti, quantunque tra queste obbiezioni una sola, quella del terz'uomo, possa essere interpretata a questo modo; ma basta che Platone dichiari che le Idee esistono per se stesse (cioè come sostanze), o che egli le distingua dai fenomeni, perchè 1' in- terprete trascendentalista ne concluda immediatamente che esse sono separate dalle cose. bello, il brutto, il giusto, l'ingiusto e ciascun altro sUog è uno in se stesso, ma apparendo qua e là, nelle cose e negli altri sT5y] che ne partecipano, ciascuno pare molti (1). E in effetto, la quistione, ridotta ai minimi termini, è que- sta : L'esperienza ei mostra il bello, il brutto, in una parola, ciascun attributo generale delle cose, non come uno, come suppone la teoria delle Idee, ma come mul- tiplo, l'attributo che è in un soggetto essendo numerica- mente distinto dallo stesso attributo che é in un altro soggetto. Come risolvere questa contraddizione Ira l'espe- rienza e la teoria delle Idee ?— se le Idee sono immanen- ti ; poiché è solo in quest'ipotesi che la moltiplicità del- l'attributo nella moltitudine dei soggetti esclude Tunità dell'Idea—. Il concetto vago che una delle due contraddit- torie, cioè il dato dell'esperienza, la moltiplicità dell'at- tributo, non è che un'apparenza — un'apparenza, s'in- tende, obbiettiva— àk^ non una soluzione reale della con- traddizione— perciò bisognerebbe sopprimere realmente l'una delle due contraddittorie, dichiarando la moltipli- cità dft 'attributo una vera apparenza, cioè un'apparenza subbietiiva —, ma un sembiante di soluzione, per questa vaga assimilazione del fatto, che è in contraddizione con la teoria, ad un'illusione senza realtà, assimilazione vaga che è tutto il significato del termine apparenza, quando esso non ha il suo significato proprio di apparenza sub- biettiva o semplice illusione. Su questo concetto della dot- trina platonica dovremo ritornare in uno dei numeri seguenti. 4* L' astratto e il concreto non sono due cose dif- ferenti, ma una sola e stessa cosa a gradi differenti di (1) Rep, 476 a. "I determinazione: l'astratto è il concreto, ma indetermi- nato; il concreto é l'astratto, determinato. Siccome poi r astratto è suscettibile di più determinazioni distinte e divergenti (l'animale, determinandosi, diviene nomo, ca- vallo, ecc:; l'uomo, quest'uomo alto o basso, dotto o igno- rante, ecc:); cosi il movimento di concretizzazione o deter- minazione progressiva dell'Idea— perchè l'Idea non è, per dir cosi inerte, ma vivente, e la sua vita, il suo sviluppo, nel sistema di Platone come in quello di Hegel o di qual- siasi altro filosofo realista, è il suo passaggio continuo da uno stato più indeterminato, pili astratto, anno stato più determinato, più concreto — questo movimento è al tempo stesso una moltiplicazione progressiva, per cui ciò che è unità nel momento anteriore, nel momento po- steriore diviene moltiplicità (si tratta, ben inteso, di un'an- teriorità e posteriorità, non cronologica, ma logica e me- tafìsica). Di là la formula platonica che tutto (cioè tutto ciò che corrisponde a un nome generale : l'uomo, l'a- nimale, il bene, ecc .) è al tempo stesso uno e molti (un Genere e molte Specie, ovvero una Specie'^ e molti individui) o ancora uno, molti ed infiniti (un Genere, molte Specie ed infiniti individui). Nel Filebo, in cui questa formula principalmente è impiegata, dopo che si è convenuto tra gl'interlocutori che vi hanno molte spe- cie del piacere e della scienza, Socrate dice : « Fermiamo ancora di più per una confessione mutua questo prin- cipio, che cau8a grandi imbarazzi a tutti gli uomini, ai volenti ed anche qualche volta ai nolenti. Io parlo del principio in cui ci siamo imbattuti, e che è di una na- tura ben sorprendente; è in cfiVitto una cosa strana a dire che ìiiolti sono uno e che uno è molti', ed è facile di muovere controversia a chi sostiene in ciò il prò o il contro 9 (1). Filebo crede che Socrate alluda alla dif- (1) 14 o. fìcoltà, divulgata presso gli eristici del tempo, come ad un soggetto unico possano inerire molti attributi; ma Socrate si spiega, soggiungendo che la difficoltà di cui egli parla, nasce « non quando l'uno è preso tra le cose soggette alla nascita e alla morte— quando si tratta di un tale uno, si conviene che non bisogna disputare in ciò con alcuno— ma quando sì cerca di stabilire un uomo, un bue, e il bello uno, e il bene uno (vale adire quando il multiplo fenomenale si risolve nell'uno ideale); è su queste unità e le altre della stessa natura che i senti- menti sono divisi e vi ha della contestazione... Io dico che lo stesso, fatto uno e molti dalle ragioni, si trova da per tutto e sempre, per il passato come oggi, in cia- scuna delle cose di cui si parla {dalle ragioni vuol dire: dalla dialettica; questa trasforma continuamente l'uno in molti, per la dieresi, e i molti in uno, perla auvaYwyì^; e Socrate intende dire che questo fatto, che la stessa cosa diviene per la dialettica ora uno e ora molti, è un fatto generale) : ciò non cesserà mai, e non è ora che inco- mincia, ma è, mi sembra, una proprietà, immortale e incapace d'invecchiare, delle ragioni stesse Gli an- tichi, che erano migliori di noi, e stavano più vicini agli dei, ci hanno tramandato quest'oracolo, che tutte le cose che si dicono esistere eternamente (le specie) constano di uno e di molti, ed hanno insite in sé la finità e l'infinità (constano di uno e di molti, non è che un'altra maniera di dire che ciascuna è uno e molti; Piatone si serve di questa espressione, perchè cerca una forma che possa convenire tanto alla sua propria dottrina quanto a quella dei Pitagorici, nella quale, cioè nell'afiìnità dei suoi con- cetti con quelli del platonismo, sta tutto il fondamento storico della supposizione fantastica di una dottrina, tra- mandata dagli antichi eotto la forma oscura di un ora- colo, e il cui senso riposto era la teoria delle Idee e la — 37 - dialettica. Egli può attribuire ai Pitagorici la proposi- zione che tutto consta, non solo dell'uno ma anche dei molti, perché questa seconda entità faceva parte di una delle loro due serie di elementi contrari). E che, tale essendo l'ordine di queste cose, noi dobbiamo sempre, nella ricerca di ciascun oggetto, stabilire un'Idea unica per tutto; e si può ritrovarla, perchè vi esiste; scoverta questa, cercare se dopo una ve ne ha due, o, se non due, tre o qualche altro numero; e ciascun uno di questi (cioè ciascuna di queste Idee) esaminare ancora cosi, sinché si veda, non solo che T^no primitivo è wno e moZ/f ed infiniti, ma anche quanti è (cioè quante Specie com- prende l'Idea da principio stabilita) ; e non si deve appli- care alla moltitudine l'Idea dell'infinito, prima di vederne ogni numero che s'interpone tra l'infinito e l'uno (cioè non si deve considerare la moltitudine infinita, vale a dire gl'individui, prima di considerare successivamente tutte le moltitudini determinate, vale a dire tutte le divisioni e suddivisioni 'del Genere stabilito in principio; p. e. se questo genere è l'Animale, e Platone ammettesse la clas- sificazione dei naturalisti moderni, prima di enumerare i Tipi, le Classi, gli Ordini, le Famiglie, i Generi, le Specie) ; solo allora si può lasciare ciascuno di tutti gli wm andare a disperdersi nell'infinito Ciò che ho detto è chiaro nelle lettere, e puoi vederlo nelle cose che hai appreso nell'infanzia. La voce che ci esce dalla bocca è una e al tempo stesso infinita in moltitudine, per tutti e per ciascuno. Ma per nessuna delle due cose di- veniamo sapienti, né perchè conosciamo della voce l'in- finito, né perchè conosciamo l'uno, ma ciascuno di noi diviene grammatico perchè conosce quanti e quali essa é (cioè, come spiega a i8 b-c, perchè nell'infinito della voce sa discernere i diversi generi e specie di suoni). È per la stessa cosa che si diviene musico: una è la voce anche per quest'arte; pure bisogna porne due, il grave e l'acuto, e terzo il tono medio ed è a questo modo che bisogna esaminare tutto ciò che è uno e molti » (i). Posto questo principio generale, Socrate vuol farne l'ap. phcazione alla sapienza e al piacere : « Uno diciamo es- sere ciascuno di essi: ora il discorso precedente ci chiede come ciascuno è uno e molti, e come ciascuno non è su- bito infiniti, ma V uno e 1' altra hanno un certo numero prima di divenire infiniti ». Filebo, comprendendo Tinter- rogazione di Socrate, dice: « Socrate sembra domandarci 86 il piacere ha o no delle specie, e quante e quali siano e cosi similmente per la sapienza ». E Socrate : « È come dici : in effetto, come ha mostrato il discorso precedente, di noi sarà di alcun valore in checchesia, se non è capace, di rispondere a questa domanda su tutto cho è uno e simile e lo stesso e il contrario (vale a diro: su tutto ciò che é al tempo stesso uno e molti, e perciò anche lo stesso e diverso, simile e dissimile) » (2). Poi, il principio viene applicato ai quattro generi, in cui Socrate divide tutti gli esseri che sono nell'universo, o piuttosto a tre di questi generi, (il finito, l'infinito e' il composto dei due) : Socrate ricerca come ciascuno di essi è uno e molti (3), riunendolo — come dice nel luogo ri- portato al num. 2«— in uno, dopo averlo guardato diviso in molti e disperso. La formula che lo stesso è uno e molti, non si trova solamente nel Flleho. Così, nelle Leggi 963 e l'Ateniese dice: « Giacché vi hanno quattro specie di virtù, ciascuna è una, poiché sono quattro : e tuttavia abbiamo chiamato (1) 15 a - 17 d. (2) 18 e -19 b. (3) V. 23 e, 24 a, 25 a, d, 26 d. - 38 — uno tutte queste; diciamo infatti la fortezza virtù, la pru- denza virtù, e cosi le due altre, come se realmente siano non molti j ma quest'wwo solo, virtù». E a 964 a: « Io t'ho spiegato come la prudenza e la fortezza sono diffe- renti e due : tu spiegami come sono uno e lo stesso. Fi- gurati che tu devi dirmi come, essendo quattro, sono uno; e domandami, dopo avermi insegnato che sono uno, che io t'insegni come sono quattro» (l'Ateniese domanda insom- al suo interlocutore la defììiizione comune della virtù). E a 966 a : « Ma che? non diremo noi lo stesso del bello e del buono? i nostri custodi devono sapere soltanto co- me l'uno e l'altro sono molti, o anche come sono uno ?» Nel Menone 72 a, dopo che Menono, interrogato cosa sia la virtù, risponde quale sia la virtii dell'uomo, quale della donna, quale del fanciullo, quale del vecchio, ecc., So- crate dice che, cercando una virtù, ha trovato presso di lui uno sciame di virtù, e a 11 a, lo esorta a lasciare la virtù intera e sana, e a cessare di fare di uno molti. In questi luoghi il molti rappresenta le Specie rispetto al Ge- nere : ma altrove rapprrsenla gl'individui, le cose, ri- spetto all' Idea. Cosi nella Rep. 507 a-b : « Diciamo che vi hanno molti belli e molti buoni e similmente ogni al- tra cosa, e li distinguiamo col discorso ; e poi il bello stesso e il buono stesso, e cosi tutti quelli che poneva- mo come molti, di nuovo ponendo secondo un'Idea Unica di ciascuno, come unica, chiamiamo ciascuno ciò che è; e quelli diciamo vedersi, ma non intendersi, le Idee in- tendersi, ma non vedersi » . Ora io domando al lettore : 1® è chiaro o no che nei luoghi citati l'uno è identificato coi molli, e i molti con l'uno? che i molti sono riguardati, non come un'altra cosa dall'uno, ma come l'uno stesso, e l'uno non come un'altra cosa dai molti, ma come i molti stessi? che l'uno e i molti sono, non due cose completamente differenti e separate, da una parte l'uno, da un'altra parte i molti, ma una sola e stessa cosa, che si considera sotto due a- spettì differenti, ora come uno, ora come molti ? 2^ è chiaro o no che quest'uno e questi molti sono l'Idea e le cose, ovvero l'Idea generica e le Idee specifiche ? 3^ é chiaro che, questi due punti ammessi, ne risulta un terzo, cioè che l'Idea e le cose, l'Idea generica e le Idee spe- cifiche, sono una sola e stessa realtà considerata sotto due aspetti differenti, e non due realtà completamente dif- ferenti e separate? Ora se le Idee platoniche sono im- manenti, se e«se sono gli universali nel senso rigoroso della parola, cioè i concetti generici e specifici, rea- lizzati, ma nelle cose stesse; è questo appunto che deve avvenire: che l'Idea generica, quantunque di- stinta dalle Idee specifiche, e sussistente per se stessa, deve identificarsi nondimeno con queste Idee specifiche, cioè con la loro totalità, e l'Idea specifica, quantunque distinta dagli individui, deve non pertanto identificarsi eon la totalità degli individui; perchè, come abbiamo detto, l'universale e il particolare, l'astratto e il concreto (o, più generalmente, il più astratto e il più concreto) non possono essere, anche nel S'stema realista, che una cosa stessa a gradi differenti di determinazione — gradi diffe- renti di determinazione che, per noi, non sono che delle vedute m(ntali differenti Fotto cui il medesimo oggetto viene considerato, ma che il metafisico realista, con quella confusione sistematica tra l'obbiettivo e il subbiettivo che è il carattere proprio di questa forma di metafisica, tra- sporta nell'oggetto stesso, e ne fa degli stati differenti, dei momenti diversi di sviluppo (non successivi, ma simulta- nei) di un solo e stesso essere—. L'identificazione dell'uno coi molti, risultante dalla inevitabile identità fra l'astratto e il concreto (cioè fra il più astratto e il più concreto) tiene nel sistema platonico un posto più cospicuo che ne- — 39 - gli altri sistemi analoghi, per Tirr.portanza suproma che la dialettica platonica dà alla relazione tra i generi e le specie; ma è evidente ohe questa identificazione ha luogo in tutti i sistemi realisti. L'Idea dell'essere, p. e., non si identifica, per Hegel, con tutte le altre Idee, le quali non sono che TEst^ere primitivo, che riceve successivamente nuovi gradi di determinazione ? e ciascuna di queste Idee, una in s**. stessa, non apparisce infiniti nello spazio e nel tempo ? Quest'Essere è dunque, come V Essere di Pla- tone, uno, molti, rd infiniti allo stesso tempo. Ma questa conseguenza inevitabile del realismo non ha luogo che quando le astrazioni obbieitivate dal realista si suppon- gono nelle cose stesse — supposizione che d'altronde fanno tutti i realisti; il proprio dall'interpretazione trascenden- talista, cioè di questa forma dell'interpretazione trascen- dentalista che vede nelle Idee platoniche tutt' altra cosa che i pensieri della divinità, è di attribuire a Platone una dottrina che non trova riscontro in alcun' altra dottrina conosciuta — ; se le Idte platoniche non fossero che gli archetipi delle cose fuori delle cose, e le Idee generiche che gli archetipi delle Idee specifiche, egualmente se- parati da queste, il rapporto tra le Idee e le cose, tra le Idee generiche e le specifiche, sarebbe esclusivamen- te un rapporto di differenza, e non questo rapporto am- biguo, di differenza al tempo stesso e d'identità, che i filosofi realisti sono obbligati di supporre tra l'astratto e il concreto — o più propriamente tra il più astratto e il più concreto —, appunto perchè i loro astratli non sono fuori dei concreti, ma i concreti stessi guardati dal punto di vista d^irastrazionc. Evidentemente, Platone trascen- dentalista avrebbe calunniata la sua dottrina, facendone uscire la conseguenza — ch'egli si contenta di chiamare strana, ma che è in verità inconcepibile e contradditto- ria — che l'uno e molti e i molti sono uno : questo corol- lario del sistema platonico è cosi chiaramente connesso con l'immanenza delle Idee, che l'interprete trascenden- talista potrebbe a buon dritto farne una delle più forti obbiezioni contro Tinterpietazione delle Idee come imma- nenti, se Platone l'avesse dissimulato, invece di proclamar- lo arditamente, come ha fatto, sventuratamente per Tin- terpretadone trascendentalista. L'identità tra i molti e l'uno suppone l'assorbimento dei molti nell'uno, cioè delle cose nell'Idea, e delle Idee specifiche nelF Idea generica. Dire che tutti gli animali sono l'Animale, e che l'Animale è tutti gli animali, è ri- sohere tutti gli esseri animati in un'essenza unica, l'A- nimale. Ora siccome tutte le Idee sono, secondo Platone, subordinate ad un'Idea suprema, la più universale di tutte, che tutte le abbraccia nella sua universalità, ed é l'eiSo^ di tutti gli £t$Yj, l'Idea di tutte le Idee, ne segue che tutte le Idee, e quindi tutte le cose, si risolvono in que- sta essenza universalissima, che Platone chiama il Buono, l'Essere, l'Uno, ecc. Quest'Idea è, come d-ce Schelling del suo Assoluto, l'universo concentrato in un punto : il mondo delle Idee e delle cose non sono che il Buono o l'Essere allo stato esplicito, e il Buono o l'Essere è il mondo delle Idee e delle cose allo stato implicito. È a questa dottrina della ri- soluzione del tutto in una Lenità suprema, che si riferisce (juesta indicazione d'Aristotile in Met, 1. 1, IX, U: « E, ciò chesembra facile, dimostrare che tutto è uno, non riescerpoi- che dall'astrazione (sxBeaic;) non risulta che tutti sono uno, ma risulta semplicemente (jualche cosa in sé (qualche Idea) nna, se pure si concedono tutte le loro supposizioni: ma nemmeno ciò, se non si concede che ogni universale è genere; ora questo per alcuni universali è impossibile». Aristotile fa qui alla proposizione di Platone due obbie- zioni: una (ò la seconda) che Platone non ha il dritto di htabilire un'Idea unica comune per tutte le cose di cui si - 40 - predica Tessere o Timo, perchè queste cose, quantunque loro si applichi lo stesso nome, non costituiscono un ge- nere ; e Taltra (la prima) che, ancorché si fosse autoriz- zati a stabilire un'Idea unica comune per tutte le cose di cui si predica Tessere o l'uno — cioè per tutte le cose, perchè di tutte si predica Tessere e T uno—, ne segui- rebbe semplicemente che vi ha un'Idea delTes^sere o del- l'uno, ma non che tutte le cose si risolvono in una cosa unica, l'Essere oTUno. Facendo quest'ultima obbiezione, Aristotile dimentica la dottrina del Filebo, ciò che in lui non é sorprendente, perchè tutta la sua interpretazione del platonismo tende ad esagerare il rapporto di diffe- renza tra le Idee e le cose (e tra le Idee generiche e spc cifiche) a scapito di quello à' identità : ma, qualunque sia jl valore delle obbiezioni d'Aristotile, ciò che risulta in- contestabilmente dal luogo citato, è che Platone tirava dal sistema delle Idee la conseguenza che tutto è uno. Ora questo monismo sarebbe inconcepibile, se le Idee fos- sero separate dalle cosi^ e le une dalle altre: in questo caso il mondo ideale sarebbe, non un'unità multipla, ma una moltiplicità senza unità ; e s'ì p^r un'inconseguenza si ammettesse che le Idee, pur essondo fuori dello cose, si riducono all'unità in un'Idea suprema, questa suppo- sizione non basterebbe ancora a rendere conto della pro- posizione platonica riferitaci da Aristotile, perchè ciò che è affermato da questa proposizione è che tutto è uno^ e non semplicemente che tutte le Idee sono uno. Su qu'^sto concetto di una Unità suprema che contiene virtualmente il tutto, rimandiamo a ciò che abbiamo detto parlando della dialettica platonica. VI. Per indicare il rapporto tra T attributo e il sog- getto, noi diciamo che l'attributo è nel soggetto, e che il soggetto ha l'attributo. Questi termini e i loro sinoni- mi sono in un certo modo dei traslati, come tutti quelÙ i esprìmenti delle concezioni astratte, 1 quali primitiva- m*»nte non significano che delle idee più concrete, ma che hanno con queste concezioni astratte una certa ana- logia su cui è fondato il passaggio dall'uno all'altro dei due significati. Nel nostro caso, questo significato primi- tivo e più concreto è, per i teruìini che indicano il rap- porto dell'attributo al soggetto, la presenza locale, e per quelli che indicano il rapporto del soggetto all'attributo, il possesso. Nel sistema realista, in cui gli attributi ven- gono considerati come sostanze, inesistenti nei soggetti, ma aventi, in essi, un'esistenza propria e distinta, que- ht'analogia tra il significato primitivo e più concreto dei termini indicanti il rapporto tra il soggetto e l'attributo, 0 il significato nuovo e più astratto in cui vengono ap- plicata è naturalmente più grande. Per conseguenza Pla- tone, per indicare il rapporto tra le Idee e le cose, pre- ferisce, fra i termini che esprimono il rapporto tra il sog- getto e l'attributo, quelli che, anche usati in questo nuovo significato, suggeriscono più vivamente le idee del loro significao primitivo, vale a dire della presenza locale e del possesso. Di pin, il possesso dell'attributo essendo, nel sistema realista, comune a molti soggetti, noi possia- mo attenderci a priori che, per indicare il rapporto delle cose alle Idee, cioè dei soggetti agli Attributi, verrà data la preferenza a quei termini che esprimono, non solo il possesso, ma la comunanza nel possesso. Di là, nel pla- tonismo, i termini tecnici presenza^ esser presente (Tiapo'j- o£a, uapsìvat e sinonimi), per indicare la relazione delle Ilee alle cose, e partecipare, partecipazione ([xexéxeiv, jjls- TaXajjipavetv, xoivwverv, ecc., e i nomi corrispondenti ixéGsgi^, jiexaXYj'^^ig, xotvwvia, ecc. ) per indicare la relazione delle cos^ alle Idee. Naturalmente questi termini non sono i soli che Platone impieghi per denotare il rapporto tra le Idee e le cose: degli altri, alcuni esprimono il concetto della -41 - immanenza d'una maniera anche più energica. L'oso di tutti questi termini (parusìa, partecipazione e gli altri) è cosi naturale nell'ipotesi d»*irimaianenza dello Idee, e diviene si imbarazzante in quella della trascendenza, che basterebbe di enuoeiarli per provare la prima delle due ipotesi: ma siccome il 80g<>etto è stato molto discusso, e le lunghe discussioni hanno per risultato di spargere del dubbi sulle cose più chiare, cosi noi siamo obbligati ad un'e8poii;izione più minuziosa, per il comodo della quale li divideremo in due gruppi, riunendo gli altri attoroo ai due termini tipici parusia e partecipazione. Quando Platone dice che gli oggetti sono bianchì per la presenza (napouoCal, in «ssf, della bianchezza, belli per la presenza della bellezza, ecc., chi vorrà negare che Tidea che ci suggerisce immediatamente la parola presenza^ sia la presenza deirattributo nel soorgetto? Noi saremmo autorizzati a cercare un altro significato, se ciò che si dice essere presente non fosst) la bianchezza, la bellezza, ecc., in una parola se le Idee platoniche fossero altra cosa che degli attributi realizzati. So si trattasse p. e. delle divinità delle specie di alcuni popoli selvaggi, a cui il Tylor ed altri paragonano le Idee platoniche (1), ch'essi intendono, alla maniera tradizionale, come degli archetipi, noi dovremmo intendere per la parola parusia la dimora di uno spirito feticcio in un oggetto; p. e., una cosa è bella per la presenza dell'Idea del bello, signifi- cherebbe allora che essa è bella perchè è posseduta dallo spirito che presiede alla specie delle cose belle. Ma l'Idea del bello essendo, non uno spirilo feticcio, nò una divi- nità, né una forza, né alcun altro degli agenti iperiisici (1) V. Tylop Xa aivilizsaz, primit, t. 2, o. XV, suU» tìne. che sono stati riguardati come cause efficienti dei feno- meni, ma l'attributo bell-zzi, considerato come un'entità reale, è ragionevole cercare alla proposizione un altro si- gnificato che questo si ovvio, che la cosa è bella perchè ineri-^ce in essa l'attributo Bellezza V Alcun interprete tra- pcendentalista non ha mai detto, per quel che io sappia,- d'una maniera preei'^a quale sia il significato della pa- rola parusia Fecondo questa interpretazione: mail para- gone del Tylor ci suggerisce l'unica soluzione che l'in- terprete trascentalista possa darà al problema (problema nell'ipotesi della trascendenza) della parusia platonica. Le Idee di Platone, potrebbe dirsi, sono presenti nelle cose come noi diciamo che Do è presente nel mondo: la parola presenza, trattandosi di un oggetto inesteso che non è nello spazio, non potrebbe avere alcuna significa- z'ono precisa; essa indica semplicemente una vaga assi- milazione, che si tenta di fare, del rapporto tra due og- getti, che si suppongono tra di loro nella relazione di causa e di effetto, di agente e di paziente, a quel rap- porto locale, che solo può fflr comprendere la possibilità dell'azione di una c^sa su di un'altra, lo spirito uma- o avendo sempre trovato incoucc|ibile che una cosa agisca dove essa non è. Per quanto questa interpretazione della parusia pla- tonica sia intrinsecamente inverisimile— e in effetto l'at- titudine di un modello, quale l'Idea nell'interpretazione trascendentalista, a produrre delle copie, è altrettanto inconcepibile nell'ipotesi d' un' azione a contatto quanto in quella d'uu'azione a distanza-^ sicché Platone avrebbe senza alcun profitto complicato il suo sistema d'un'ipo- tesi tanto onerosi, che introduce nel sistema delle Idee trascendenti qml'a stessa es'stenza simultanea dell'uno nei molti, che è la più grave difficolta del sistema delle Idee immanenti— pure è tutto quello, io credo, che Tiu- - 42 — terprete trascendentalista può dire per rendere cont^ dei- Taso che Platone fa del t'armine parusia e degli nitri dello stesso ordino. Per conseguenza, è in questi ter- mini che io proporrò la qu'stione deir interpretazione della parusia platonica : la presenza delle Idee nello cose è la presenza delPattributo nel soggetto, o e una presenza quad locale, per cui le Idee, separate dalle cose, quantunque non siano in alcun luogo, pure si trovano in un certo modo dove sono le cose (non ì/i loco sed ubi, come dicevano gli scolastici deiranìma), d' una maniera che. del resto, è impossibile di dire con pm precisione ? Tra le due interpretaziooì il lettore potrà giudicare dagli esempi segu*^Jìti. Ipp. Mago. 289 d : '* Il bello stesso, di cui tutti gli altri belli (le co«?e belle) sono orwrt/i (xooiisrxaO, e appaiono belli, tutte le volte che è /^msew^c (TcpoorivyjTai) quella spe- cie ...... (Le erse belle potrebbero essere ornaf^ di un bello, che non è una loro proprietà? lutante questo bello di cui si cerca la definizione è certamente l'Idea del bello. Cfr. n. IV.) Ih. 294 a : * Il conveniente (per cui si è proposto dì definire il bello), diremo che è ciò che, essendo presente (Tiapavsvóiievov), fa par» r bello ciascuno degli oogetti a cui è presente (uap^), o ciò che lo la es- sere bello? Se il conveniente fa parere le cose più belle di quel che sono, il conveniente è una sorta d' in- ganno intorno al bello, ò non è ciò che noi cerchiamo (l). Poiché noi cerchiamo ciò per cui tutte le cose belle sono belle, come è per recce5?so che tutte le erse grandi sono grandi : per esso infatti tutte sono grandi, e, quan- d'anche non sembrino tali, purché eccedano, è necessario che siano grandi » (1) Ippia dice (294 e.) « Ma il con- conveniente, o Socrate, fa le cose ed essere e parer belle, quando è presente (irapóv) «; a cui Socrate : « É dunque impossibile che le cose realmente belle non sembrino belle, essendo presente (Tcapóvxo;) ciò che le fa parere tali ♦ (2> Parmen : 149 e : 4 Se o TUno avesse piccolezza e le «Itre cose grandezza, o ITJno grandezza e le altre cose piccolezza, quella delle due specie a cui fosse presente (TrpooeCrj) la grandezza non sarebbe maggiore, quella a cui la piccolezza, minore ?— Necessariamente— Sodo dun- que queste due spi eie, la grandezza e la piccolezza ? se infatti non fossero, non sarebbero contrarie fra di loro, e non inerirebbeio {èxy^x'^oia^y) negri! esseri. » (Il seguito mostra più chiaramente ancora che la grandezza e la piccolezza di cui si tratta sono delle Idee, delle astra- zioni realizzate). Filebo 60 e. e La qj'Jatg del bene in ciò d fferisce dalle altre, che chiunque dei viventi a cui è presente (jiapeCr)) sempre, in tutto ed assolutamente, non ha più bisogno di niente altro, ed ha tutto ciò che gli (1) Qaesto conveniente è pure un'entità trascendente ? ma chia- mandolo un inganno, Socrate suppone evidentemente oh' esso en- tra nella sfera delle nostre percezioni. (1) Quest'eccesso è anch'esso un'entità trascendente ? dovrebbe esserlo se il bello lo è, poiché Socrate dice che le cosa grandi sono grandi per l'eccesso, come le cosa belle sono belle per i\ bello. In- tanto qui è evidente ohe la proposizione: le cose grandi sono grand[ per l'eccesso, signiftoa puramente e semplicemente ch'esse sonotaU perchè eccedono. (2) Ippia, cha non sa niante dalla teoria dalle Idee, può inten- dere altro per la presenta del conveniente che la presenza di un attributo nel soggetto ? anche Socrate quindi deve intendere la stes- sa ©osa, se tra i due interlocutori non vi ha un equivoco. \0 -^ 43 - basta perfettamente » (1) Rep. 437 de : « Socr. : La séte in quanto è sete, non è Tappetito, neiranima, di qaal che cosa di più che ciò che noi diciamo (cioè la bevanda) non è, p. e., l'appetito di una bevanda calda o fredda molta 0 poca, in una parola di qualche bevanda deter minata; ma se alla sete si aggiunge {npoQ%) il calore apporterà di più Tappetìto del freddo, se si aggiunge il freddo, del caldo; e se per la presenza (7:apoiio(av) del molto la sete è molta, apporf^rà l'appetito del molto, se « poca, del poco ; ma la sete stessa non é l'appetito di altro che di ciò di cui lo è per sua natura, vale a dire della bevanda stessa ; e cosi la fame del cibo. — Cosi è, disse Glaucone; ciascun appetito in se stesso é V appe- tito solamente dell' oggetto per se stesso a cui rsso si riferisce per sna natura; Tesserlo di un tal oggetto o tal altro oggetto determinato sono delle cose che si ag- giungono. » (2) Carmide 159 a : « E, chiaro che se in te è presente (Tzdpto-zi) la temperanza, tu hai di che formarti un'opinione intorno ad essa. È necessario infatti che ine- rendo (IvoDaav) essa apporterà, s'è vero che imrisce (iveottv), qualche sentimento di so stossa, da cui ti verrà un'o- (3) Il bene, di cui si tratta nel Fileho^ è incontestabilmente una Idea, un concetto realizzato, come si vede, p. e., a 66 a, in cui è chiamato il primo bene (denominazione per cui si designa l'Idea — V. Arist. fra gli altri, Kth, Knd. 1. I, Vili), e gli è assegnata una na- tura eterna (ciò che è il carattere distintivo delle Idee). Si negherà che la <^ùotg del bene, di cui si parla a 60 e, sia la stessa cosa che il primo bene, di cui si parla a 66 a ? Ma perchè ? Il primo bene, l'Idea, non può essere che ciò che corrisponde al concetto, cioè ap- punto la ^ùai^ del bene. (2) Questo molto di cui vi ha la parasia nella sete è dunque una nuova circostanza, come il caldo e il freddo, non compresa nel con- cetto di sete, e che si aggiunge alla sete considerata secondo il con- cetto, cioè in astratto, come una differenza. I plnione su ciò che sia e quale sia la temperanza. Non lo credi?— Lo credo— E avendone un'opinione, poiché sai parlare greco, potrai dire ciò che essa ti sembra. — Forse— Dicci dunque che cosa sia, secondo la tua opi- nione, la temperanza, affinchè possiamo congetturarne se essa inerisce (svsoxiv) in te o no.» (Questa temperanza è- Toggetto a cui si riferisce la definizione, per conseguenza ridea della temperanza). Lisis 217 c-e : « Alcune cose dico essere tali quale è ciò che è ad esse presente (xò Tiapóv), alcune altre no. Cosi se un oggetto si tinge d* un certo colore, (^ prc*c/i/e (Tiixpeoxt), mi sembra, a ciò che si è tinto ciò con cui si è tinto.— È presente— Ma ciò che si è tinto è allora dello stesso colore di cui è ciò che glMnerisce (xò éiióv) ? — Non comprendo— Cokì forse comprenderai. Se i tuoi capelli, che sono biondi, si tingessero con la biacca, sarebbero bianchi, o piuttosto lo sembrerebbero ?— Lo sembrereb- bero—Eppure sarebbe presente (TiapeCrj) in essi la bian- ch(^zza — SI — Con tutto ciò non sarebbero più bianchi di prima, presente (Tiapoùor^g) la bianchezza non sarebbero né bianchi ne neri. — È vero — Ma quando, o amico, la vecchiaia apporterà questo stesso colore, allora saranno tali quale è ciò che sarà presente (xò Tiapóv), bianchi per la presenza [izol^omoìol) del bianco. — E come no V — Ora questo io ti domando : ciò a cui é presente (iiap^) qualche cosa, è sempre tale quale è la cosa che e presente (xò Tiapóv) ? ovvero lo è, se questa cosa è presente (iiap^) in un certo modo, se no, no ?— Cosi piuttosto, disse » (Qui Platone distingue la parusia in due specie, di cui Tuna, la più intima, è evidentemente V inerenza dell' attri- buto nel soggetto. Ora è questa sola specie di paru- sia che rende ciò a cui una cosa è presente tale quale è questa cosa : cosi è questa la specie di parusia che compete air Idea, perche la parusia dell'Idea rende le cose tali quale è l'Idea). -44- NaturalmeOte T interprete trascendentalista dirà al suo solito che in alcuni dei luoghi precedenti o forse anche in tutti Platone non parla delle Idee. Ma per- chè, se è un principio platonico che il concetto gene- rale si riferisce all' Idea ? A questo perchè egli non potrebbe dare che una sola risposta : che nei casi in cui evidentemente si tratta d'una realtà immanente, noi non possiamo ammettere che Platone parli delle Idee, perchè un'Idea platonica non pnò essere che un'en- tità trascendente. Ma non è questo un mettersi al di fuori di ogni discussione, e sostituire alle prove il pro- prio capriccio ? Sì può sfidare V interprete trascenden- talista a separare nettamente i casi in cui Platone parla delle Idee e quelli in cui no -tutte le volte, s'intende, in cui si tratta d'un concetto generale—; a dirci, limitan- doci alla quistione presente, per esempio, come noi pos- siamo distinguere i casi, in cui la parusia significa l'i- nerenza deirattributo nel soggetto, da quelli, in cui si- gnifica non si sa qual rapporto misterioso tra un'entità trascendente e un oggetto della natura. L' impossibilità di fare questa distinzione dovrebbe renderlo accorto che il significato di questo tei mine non può in un caso dif- ferire sostanzialmente da quello che chiaramente ha in un altro. Gli esempi seguenti — come anche in parte alcuno del precedenti, segnatamente il penultimo — si riferiscono, non ai termini TiapoooCa, Tiapstvat ed equivalenti, ma ad altri analoghi, che esprimono l'inerenza delle Idee nelle cose d'una maniera anche più ch'ara. Cratilo 389 b (subito dopo aver detto che, se si rompe la spola, il fabbro guarderà, per farne un'altra, non alla spola rotta, ma all'sISog, a ciò che è spola): *' Quando si tratta di fabbricare delle spole per delle stoffe fine o grossolane dì filo o di lana o di qualsiasi altro genere, non è necessario che tutte abbiano (S/s'-v) V stéos della spola?,, EìUHf. 5 d : '* Che cosa dici essere il santo e l em- pio neiromicidio e in ogni altra azione? non è lo stesso il santo in tutte le azioni ? e 1' empio, il contrario del santo ? non è lo stesso e simile e avente (Ix^v) un Idea unica, secondo l'empietà, tutto ciò che è empio? „ Menane 72 e : ** Le virtù, quantunque molte e di- verse, ìianno (Ix^'^ai) tutte un certo sISo^ lo stesso per cui sono virtù, al quale bisogna guardare per rispondere alla domanda : che cosa è la virtù?,, (lì. Filebo 65 : ** Non potendo prendere il bene m un Idea unica, prendiamolo in tre Idee, la beltà, la proporzione e la verità (qui tutti gl'interpreti convengono che si tratta del bene Idea).... Compariamo ciascuna di queste tre col piacere e l'intelligenza, e vediamo se Tuno o l altra ha più affìoità con esse-Parlì della beltà, della verità e della scienza? - Si.... Dopo la verià, considera la mi- sura, se il piacere {^possegga (xéxxr.Tai) più della s ipienza o la sapienza più del piacere - Anche questa quistione è facile a risolvere Io penso che non vi ha niente di più smisurato che il piacere e la gioia, uè di più misurato che l'intelligenza e la scienza - Ottimamente. Rispondimi an- Cora sulla terza cosa: l'intelligenza partecipa della be à più che il piacere, in modo che l'intelligenza sia più bella del piacere, o al contrario? (2)... Il piacere non e dun- (1) Gai vi ha la paratia dell'Idea generica nalle Idee speoifi-,a 1^ p"ova che questa é una partecipazione nel senso tee- nico, cioè quella delle cose alle Idee. — 45 — qne né il primo né il secondo bene : ma il primo bene é circa la misura e il misurato e l'opportuno e quaut'altre cose tali devono credersi aver sortito una natura eter- na.... „ (Non è chiaro che questa misura e questa beltà che VinteìUgenzA possiede o a cui partecipa più del piacere, sono delle Idee?). Fedone 103 b : ** Allora (nella prima prova dell' Jm- mortalità) si diceva che dalla cosa contrai ia viene la con- traria, ora si dice invece che il contrario stesso non può mai divenire contrario a se stesso, né quello in noi (p. e. la mia 0 la vostra piccolezza, la mia o la vostra grandezza) né quello nella natura (la piccolezza e la grandezza in generale, cioè le Idee del piccolo e del grande). Allora, o amico, si parlava delle cose che hanno (èxóvxwv) i con- trari e che chiamiamo cel nome di questi (1), ora di que- sti stessi, dei quali vierenti (èvóvxwv) le cose prendono il nome con cui le chiamiamo : è di questi stessi che dicia- nio che l'uno non può mai divenire Taltro,, (2) Ibid. 103esegg. : *'Vi ha qualche cosa che ch'ami Caldo e qualche cosa che chiami Freddo ?-OTtaraente-È forse un caldo quale il fuoco e un freddo quale la neve?-No, per dio ! - Ma un Caldo che é altra cosa che il fuoco e un Freddo che è altra cosa che la neve? — Si (3J- Ora tu ammetterai, io credo, che giammai la neve, ricevuto (aegaiiévYjv) il Caldo, resterà quale era prima, ma, venuto 0) Cfr. num. II. carta 15, nota. <2) Cosi tanto il contrario in noi quanto quello nella natura sono inerenti nelle cose, e il contrario nella natura non può ine- rire in essa che nel senso stesso in cui t' inerisce il contrario m noi, cioè come un attributo nel soggetto. (3) Distingue il Caldo e il Freddo Idee, che sono propriamente gli oggetti a cui si riferiscono questi nomi, dalle cose fredde e caldo, dai partecipanti. (7:pootóvxotì ad essa il Caldo, è necessario che si sottragga o che perisca — Senza dubbio — E similmente il fuoco, ve- nuto ad esso il Freddo, deve o sottrarsi o perire, ma giam- mai potrà, ricevuto il Freddo, restare ciò che era prima — È ve o — Tale è dunque la natura di ceit^ cose come queste, che non solo VelòoQ stesso deve essere chiamato sempre dello stesso nome, ma anche qualche altra cosa, che non è quello, ma ha sempre, sinché è, la forma di quello. Ciò che io dico sarà forse più chiaro con questo esempio: r Impari (rsISog stesso) non è necessario che jibbia sempre lo stesso nome? — È necessario — Ora io ti «domando : è la sola cosa che abbia sempre questo nome, o vi ha anche qualche altra cosa, che senza essere ciò che è l'Impari, tuttavia deve sempre chiamarci, non solo col suo proprio nome, ma anche con quello d'impari, per- chè tale è la sua natura che non può mai essere abban- donata (à7:oXs(u£oeat) dall'Impari ? (Se la parus'a deirim- pari non fosse quella deir attributo nel soggetto, il non CFsere mai abbandonata dairimpari sarebbe una ragione per chiamare sempre una cosa col nome deirimpari?) Per esempio, la triade non deve sempre chiamarsi e col suo proprio nome e cen quello dell'Impari, quantunque que- sto non sia la stessa eosa che la triade? ma tale é tut- tavia la natura e della trìrde e della pentade e della metà di tutti i numeri i che ciascuno, quantunque non s-a ciò cheèrimpari, è nondimeno sempre impariti)... Ecco dnn- qm c<ò che io voglio dimostrare : che non solo ì contrari non si ricevono (où 56xó[ieva) fra di loro, ma ancora tutte quelle erse che, senza e.«^sere reciprocamt^nte contrarie, (5) Queste ultime parole spiegano ciò che vuol dire flou ^^aaere mai abbandonata daìV Impari. — 46 - hanno (Ixst) sempre i contrari, non ricevono mai quella Idea che è contrarla a quella che è in esse (év aOior^ oìjo^y, ma venendo (sTitoóor^c) questa, o periscono o si sottrag- gono. I tre, per esempio, noa diremo noi che periranno 0 accadrà loro checchesia, avanti di divenire pari, men- tre sono tre? (L'esempio spiega che una cosa ricevere ridea contraria a quella che è in essa, significa : questa cosa acquistare V attributo contrario a quello che ha). Non solo dunque le Specie contrarie non soffrono Vac- cesso reciproco (oùx ùnoixéyti éTcìóvi'àXXyjXa), ma anche certe altre cose (sia Sp-ciesia cose particolari) non sof- soffrono Vacc^esso dei contrari (ciré delle Specie contrarie) Queste cose sono quelle, le quali forzano ciò che occupano (xaTàax^2)ad avere (ta/eiv), non solo la propria Idìn, ma anche quella di qualche contrario.— Come dici ?-Corae di- cevamo poco fa : sai infatti che ciò che occupa Tldea del trp, è necessario, non solo che sia tre, ma anche dispari (L^esempio, al solito, prova che la parusia dell'Idea non è che il possesso dell'attributo)-Certamonte— Ora iodico che in una tal cosa (neiridea del tre) non entrerà (IX9oi) mai l'Idea contraria alla forma che è la causa di ciò — Giammai — Questa forma è la dispari — Si - La contraria ad essa è quella del pari - Si - Nel Tre dunque non en- trerà (ifjgeO mai l'Idea del pari - Giammai - CoM il Tre é privo (àtaoipa) del Pari — Privo — Dunque è im- pari — Si — Vediamo dunque come possiamo deter- minare quali siano quollo cose, che, quantunque non siano contrarie a una certa cosa» pure non ricevono (5é- XsxaO mai questa; come la Triade, cho, pur non essendo contraria al Pari, non riceve mai il Pari, perchè sempre apporta (éTitcpépet) il contrario di questo; e la Diaie il contrario dell'Impari, e il fuoco quello del Freddo, e cosi via via. Vedi se possiamo determinarle cosi : non soIvO il contrario non può ricevere il contrario, ma ancora quello chQ apporta qualche contrario alle cose in cui va (Trj) non può ricevere il contrario di quello che apporta (ì) Io rico mincerò a farti delle domande, e tu rispondimi, non quello stesso che io ti domando, ma un'altra c^sa, seguendo lo esempio che io ti darò : io voglio dire che . oltre quella risposta sicura che abbiamo stabilito in principio (cioè che le e se belle sono belle per il Bello, le cose grandi grandi perla Grandezza, ecc.:— v. 100-lOlì, ne vedo uuh altra che nasce dalle cose che abbiamo detto ora. Per esem- pio, se tu mi domandassi cosa è che trovandosi in uno oggetto ((j) àv zi è'^yé'^rizoLi) questo diviene c^ldo, io non ti darei quella risposta sicura ed ignorante che è il Caldo, ma un'altra più dotta, che segue da quello che abbiamo detto ora, cioè che è il fuoco. Similmente se mi doman- dassi cosa è che trovandosi nel corpo, questo diviene ma- lato, non ti risponderei che è la Malattia, ma che è la febbre; e se mi domandassi cosa è che trovandosi nel nu- mero, questo è impari, non ti rispond^^rei che è l'Impari, ma che è l'unità; e cosi per le altre cose (2). Intendi (6) Ciò che l'Idea apporto alle cose in cui ra, è evidentemente un attribnto di queste cose; ma è anche un'Idea, perchè i contrari in tutto questo ragionamento sono considerati come delle Idee; per conseguenza noi dobbiamo intendere questo apportare (sTCìcpépStv) nel senso più letterale, o meglio più etimologico, possibile, cioè come se l'Idea portasse nelle cose in cui ra il suo proprio attri- buto—quella delle Idee contrarie a cui ossa partecipa - della stessa maniera ohe noi, entrando in un luogo, vi portiamo con noi ciò che teniamo addosso. Questo senso realista della parola è perfet- tamente conformo al carattere delle altre espressioni di cui Pla- tone si serve in tutto questo luogo, e prova l'identità - numerica - dell'attributo nell'Idea che apporta il contrario e nelle cose in cui lo apporta, (2) Questo caldo, questa malattia, questo impari sono le Idee; se no, rispondere che un oggetto è caldo per il caldo, ecc. non sarebbe quella risposta ignorante e sicura stabilita nel principio, perchè questa consisteva a spiegare l'essere e il divenire delle cose - 47 - ciò che voglio dire ? — Perfettamente — Rispondimi dun- que : cosa è che trovandosi (sYyévYjxat e. «.) in un corpo, questo è vivente? — L'anima —È sempre cosi ? — Sem- pre. — L'an'ma apporta dunque sempre in ciò che oc- cupa (xaxàaxTQ), la V^lta ? — Senza dubbio — Vi ha un con- trario della Vita, o non ve ne ha ? — Vi Iia — Qual è ? La Morte — Dunque Tanima non riceverà mai il contrario di ciò che essa apporta sempre, secondo il principio d| cui sopra siamo convenuti — Senza dubbio — Ma come abbiamo chiamato poco fa ciò che non può ricevere Tldea del pari ? — Impari — E ciò che non può ricevere la Morte, come lo chiameremo ?— Immortale — MaTanimanon può ricevere la Morte — No — L'anima è duncjue immortale ? — Immortale. »• Bisogna ora fare alcune osservaz'oni su tutto il con- testo. La prima è che non potrebbe esservi alcun dub- bio che i nomi cho io ho scritti con la maiuscola o che sono preceduti dalla parola Idea, non designino realmente delle Idee, delle astrazioni realizzate. Ciò non è solamente provato dairevidente realismo delle espressioni indicanti la parusia : andare, venire, entrare, occupare, ecc. — co- me potrebbero questi termini applicarsi a delle semplici astrazioni, se queste astrazioni non fossero considerate come delle realtà?— e dagli altri indizi su cui ho richia- mato ratteuzionc in alcune delle note o ohe il lettore ha per la parasia e partecipazione delle Idee. Aggiungiamo ohe que- sta Malattia, quest'Impari, questo Caldo devono trovarsi nelle cose nello stesso senso in cui ri si trovano la febbre, l'unitji e il fuoco - giusta la dottrina fìsica qui ammessa da Platone, secondo la quale il calore sarebbe l'effetto della presenza interiore del fuoco -, vale a dire presenti non d'una presenza esteriore, ma interiore, come quella di una parte nel tutto. potuto notare da se stesso; ma è dichiarato esplicitamente dallo stef-so Platone. E in effetto egli fa precedere questa prova deirimmortalità, che ritiene la più rigorosa, da una esposizione della teoria delle Idee, perchè per ottenere una tal prova è necessario, egli dice, di esiminare a fondo la causa della generazione e della corruzione (95 e-90 a), o questa causa è la presenza o partecipazione delle Ideo e la loro sottraziono (99 d e segg.) ; e a 100 b Socrate dico a Cvìbete che, se questi gli accorda Te sistenza dt*lle Idee, egli gli dimostrerà che Tanima è immortale. Qual è il legame tra questa dimostrazione deirimmortalità del- l'anima e la teoria delle Idee? È cho questa teoria ap- presta la base, per dir cosi, induttiva al principio che è il cardine deirargomento, cioè che una cosa che confe- risce sempre un certo attributo alle cose che essa occu- pa, non può mai avere l'attributo contrario. Platone fa vedere prima che questo principio si verifica nel rapporto tra le Idee e le cose, che il Tre, p. e., che rende sem- pre impari tutto ciò che occupa, non può mai essere pari ; è ne conclude per analogia che il principio deve pure verificarsi nel rapporto tra Tanima e il corpo, per con- seguenza che Tanima, la quale rende sempre vivente tutto ciò che occupa, non può mai morire. Co>i tutta la forza delTargomcnto sta nell'analogia tra la parusia dell'Idea nelle cose e quella dell'anima nel!' ess»^re vivente (se- condo la dottrina auimista) : se l'astratto non fosse nel concreto come raninia è nell'essere animato, vale a dire come una realrà avente un'esistenza propria e distinta; se il Tre, p. e., fosse un semplice attributo delle cose che si dicono tre, e non un attributo elevato al grado di realtà sostanziale; 1' aoa^ogia non esisterebbe, e mancherebbe all'argomento ogni forza probante. L'argomento suppone dunque la dottrina delle Idee — la re«»lizzazione delle /' -48 — astrazioni —, e al t'^inpo stesso che le Idee siano presenti nelle cose, come Tanima è presente neU'eesere animato. Qualche dubbio potrebbe forse sorgere relativamente alle Idee dei contrarli: caldo, freddo, pari, impali, ecc. Siccome Platone ha distinto un po' sopra il contrario in noi e il contrario nella natura^ Tinterprete trascendenta- lista potrebbe obbiettare che nel nostro contesto il caldo, il freddo, il pari, V impari, ecc. corrippondono forse al contrario in noi, e non al contrario nella natura, e che non è necessario che siano il caldo, il freddo, il pari, lo impari, ecc. Idee. Ma quest'obbiezione non varrebbe nien- te, perchè per il contrario in noi Platone intendeva Tat- tributo considerato, non nel suo concetto generale, ma come proprietà di una cosa particolare, fenomenalmente^ quantunque non realmente^ distinta dalle proprietà omo- nime delle altre cose particolari (1) ; e Tattributo consi- derato cosi, cioè individualizzato, fenomenalizzato, Pla- tone non lo considera come avente una realtà propria e distinta; questa non compete che all'attributo conside- rato secondo il concetto generale, airidea Ora nel nostro luogo il caldo, il freddo, il pari, l'impari ecc., designano incontestabilmente ciò che corrisponde al concetto gene- rale, e delle entità reali: quindi non può trattarsi che del Caldo e del Freddo, del Pari e dell'Impari, ecc. nella natura, vale a dire delle Idee. In secondo luogo si deve osservare che tale è l'energia dei termini designanti la parusia delle Idee (venire^ andare, entrare, occupare, es- sere in, ecc. da parte delle Idee, e da parte delle cose o delle Idee inferiori avere, ricevere, ecc.), © la compara- zione con la presenza dell'anima neiressere vivente è tal- (1) V. n. Vili. mento indispensabile all' argomento di Platone, che so per questa parusia non si deve intendere la presenza del- l'attributo nel soggetto, non ci resta che di ammettere che Platone paragona la presenza delle Idee nelle cose a quella dell'anima, non nell'essere animato, ma nel corpo, o, prendendo quest'analogia nel senso più stretto, che le Idee sono presenti nelle cose d'una presenza locale, come i*anima nel corpo, e che esse sono la causa della gene- razione e della corruzione entrando nelle cose ed uscen- done, precisamente come la teoria animista suppone che l'anima è la causa della vita e della morte entrando nel corpo ed uscendone— la presenza di Dio nel mondo a cui abbiamo paragonato la parusia delle Idee secondo l'interpretazione trascendentalista, è una comparazione troppo inadequata alla energia delle espressioni di cui si serve Platone e al parallelo con la presenza dall'ani- ma nel corpo — Io credo che non vi sia alcun interprete che voglia dare questo significato alla parusia platonica, prestando a Platone un concetto, che oltre a dotare le Idee dilla prodigiosa facoltà, attribuita a certi santi del cattol'cismo e di altre religioni, di trovarsi al tempo stesso in molti luoghi, sarebbe in contraddizione con le affer- mazioni dell'autore, il quale diirhiara che le Idee non sono in alcun luogo (1) — naturalmente noi non possia- mo dare alcuna importanza alla frivola distinzione degli scolastici non in loco, sed uhi, perchè queste parole si- gnificano semplicemente che l'anima è in luogo e non lo è — ; ma pe ve ne fosse qualcuno, bisognerebbe fargli riflettere che quest'in'^onspguenza di dare una posizione nello spazio a ciò che è immateriale, se si comprende (J) Tim, 52 b-c. L«3 Idee non sono in alcun luogo, quantunque le cose, di cui sono gli attributi, sono in un luogo, perclic Tessere iu un luogo non compete che a ciò che è esteso. — 49 — quando Tessere immateriale di cui si -tratta è uno spirilo, sarebbe inammissibile trattandosi di entità come le Idee platoniche. Ciò è perchè questo quid, questo substratum sconosciuto, che si chiama sostanza nello spìrit>, noi non lo concepiamo che sul tipo di ciò che si chiama sostanza nel corpo, vale a dire di questa cosa che persiste nello topazio, della materia; e tutto ciò che ci suggerisce di rap- presentabile la parola sostanza — nel senso della parola in cui si dice che Tanima è una sostanza Cl)—,noa e che la sostanza materia, ciò che riempie lo spaz'o; nou è dun- que strano che, anche dopo che la concezione, affatto materialista, dciraniraismo primitivo è stata sostituiti da concezioni più raffinate, si cont'nui ad attribuire allo sp'rito, considerato come una sostanza, delle determina- zioni che non competono se non alla materia. Ma Pla- tone nou potrebbe rappresentarsi le Idee come aventi una posizione nello spazio, psrchò egli non immagina in esse niente di analogo a questo substratum, concepito, come abbiamo detto, sul tipo della materia, che lo spirituali- sta immagina nello spirito ; poiché Tldea platonica non è che il contenuto del concetto realizzato, l'attributo con- siderato, nella sua astrazione, come avente un'et^istenza propria e distinta, e niente altro di più. SI osservi, in terzo luogo, ch^, se la paru ia dell'Idea non è l'inerenza dell'attributo nel soggetto, il ragiona- namento di Platone non può avere alcuna pretesa a quel- l'evidenza dimostrativa eh** l'autore si propone. L'^ pro- posizioni che Platone stabilisce come evidenti per se stese non sono tali che nell'ipotesi dell'immanenza delle Idee. Per esempio, egli stabilisce il principio che le cose che hanno sempre l'uno di due attributi contrari non poFSono (1) V. App. aPa parte prima. mai ricevere l'Idea contraria a quella che é in e'^se: che p. e. il fuoco, essendo e8<?enzialmente caldo, non può ri- cevere l'Idea del freddo, il Tre, essendo dispari, quella del Pari, ecc.: nell'ipotesi dell' /mrwanen^a, nient'^ di più evidente di questo principio, perchè esso non è che l'enun- ciato, in termini realisti^ del pi nei pio di contraddizione. Ma sel'Ideaè trascendente, quale inconseguenza— io parlo d'un'inconseguenza assoluta, d'un'impossibilità logica — vi sarebbe a supporre che in una cosa possa esservi la parusia dell'Idea corrispondente all'attributo contrario a qu'llo pof^seduto ^'a qu'^sta cosa? e perchè lapaiusiadi un'Idea sarebbe incompatibile con quella simultanea del- l'Idea contraria, se queste Idee fossero separate 1' una dall'altra e tutte e due dalle cose a cui si dicono essere presenti ? Similmente, quando Socrate dice : '* E neces- trario che le cose che occupa l'Idra del tre siano, non solo tre, ma anche impari,,, si potrebbe rispondergli : Ma per- chè? Perchè le cose a cui è presente l'Idea del tre — se questa presenza deve intendersi nel senso trascendenta- lista — non sarebbero invece quattro e pari ? In effetto, neir ipotesi della trascendenza, non vi sarebbe alcuna connessione necessaria, visibile a priori, tra la parus'a dell'Idea e l'inerenza dell'atribuo corrispondente a que- st'Idea. E della stessa maniera che, in quest'ipotesi, si perderebbe 1' ev'denza delle proposizioni che servono di premesse al ragionamento, si perderebbe egualmente quel- la della crnnessicne tra una preposizione ed un'altra, perchè questa connessione è il più delle volte fondata sulla sostituibilità reciproca tra la inerenza dell'attributo e la parusia dell'Idea corrispondente. Dalla propos'zione che in un numero non vi può essere la parusia del Pari non si potrebbe concludere co7i necessità che questo nu- mero è dispari ; dalla proposizione che nell' anima non vi può essere la parusia della Morte non si potrebbe con- cludere con necessità che l'anima è immortale, perchè, - 50 come abbiamo detto, non vi sarebbe alcuna contraddi- zione a supporre simultaneamente in una cosa la paru- sia dell'Idea e Tinerenza dell' attributo di nome coiit'*a- rio. Ma per vedere la giustezza della nostra osservazione, basterà di restringersi alla proposizione m cui s'incar- dina tutto il ragionamento di Platone e che noi abbiamo chiamato la brse induttiva di questo ragionamento, cioè che un'Idea non può avere l'attributo contrario a quello che essa conferisce alle cose con la sua parusia. E indu- bitabile che Platone riguarda questa proposizione come evidente per se stessa, e non avente b'so^no per essere ammessa che di essere enunciata e ccmpre?a — si rilegga la pai te del luopio citato in cui questa proposizione viene stal'ilita — ; e tale è in effetto nell'ipotesi delFimmanen/a delle Idee: ma nell'ipotesi della trascendenza, in cui la coinciHpiìza tra la parusia dell'Idea in una cosa e la par- tecipazione, di questa cosa all'attributo omonimo (e quindi a ciascuno degli attributi più astratti ì acchiusi in que- st'attributi) è, non è vnx connessione necessaiia ed a iriori, ma un mistero inesplicabile, la proposizione diviene una pura aflermazioue dommatica. Senza dubbio, purché si ammetta il principe che la paru'-ia df^ll'Idea ó la causa per cui le coso possiedono l'attributo dello stesso nome, il ragionamento di Platone corre, anche neiripot<»si della trascendenza : ma s'ccome questo principio è, in questa ipotesi, non un assioma, ma un postulato — nel senso aristotelico della parola postulato — e questo postulato ò Fottinteso a ciascun paFso del ragionamento, questo per- de ogni chiarezza, e non può più aspirare ad essere una dimostrazione, come Platone evidentemente pretende (t). i li n Se le Idee sono gli attributi generali delle cose nelle cose stesse, ma considerati come entità reali, di cui cia- scuna è una e la stessa in tutte le cose di cui l'attributo viene predicato, l' impiego della parola partecipazione (jiéOsgis) e sinonimi, per indicare il rapporto delle cose alle Idee, uon è meno naturale che quello della parola presenza e sinonimi per indicare il rapporto delie Idee alle cose. Partecipare ad una cosa lett<^ralmente significa averne una parte, o avere il tutto, ma in comune con altri; e ciò, quando questa cosa è un Attributo, qual è l'Idea anche secondo l'interpretazione trascendentalista, non può voler dire altro se non che essere uno dei sog- getti ai quali quest'Attributo è comune. Di più questo significato adempie all'altra condizione, a cui deve con- formarsi il significato di questo termine, che è di asse- j^nare, nel tempo stesso che indica il rapporto tra le cose e le Idee, la ragione per cui le cose sono ciò che sono : in effetto, la causa per cui una cosa è buona, è bella, è grande, ecc., è, secondo Platone, perchè essa partecipa all'Idea del buono, del bello, del grande, ecc. La par- tecipazione delle Idee— e la stessa osservazione vale an- che per la parusia — è una causa che spiega, nel senso metafisico della parola spiegazione, perchè le cose hanno i loro attributi ; tra la causa— la partecipazione o para- ci) AggiungiMio che, secondo grinterpreti trascendentalisti, questo postulato non ha per Platone, almeno nel Fedone, che il valore di una semplice ipotesi. In efletto il luogo del Fedone (loo d) in cui Platone suppone la parusia delle Idee come causa alle cose dei loro attributi, sembra riguardare la parusia e 'a par'ecipazione come due ipotesi distinte, di cui si può ammettere luna o l'altra, per ispiegare rassimilazione delle cose alle Idee. Noi vedremo più giù che il vero senso del luogo non è quesio, |>erchc la parusia e la partecipazione non sono due cose diverse, ma due espressioni che* signifn:ano una sola e stessa cosa ; ma l' in erprete trascendentalista d«'ve necessariamente intenderlo cosi, perchè, per dare di questi due termini un'interpretazione conlorrae all'ipotesi della trascen- denza, egli <• obbligato ad attribuire ad essi due significati diil'erenti. — Bl —sia deiridea - e l'efFetto — la possessione dell'attributo corrispondente — essendovi un legame necessario e visi- bilo a priori^ e senza questa condizione la ragione che si assegna di un fatto non potendo essere, per un meta- fisico, una spiegazione di questo fatto (1). Ma non solo questo significato del termine par^ecipa- zione — cioè la possessione di un Attributo che si ha in comune con altri soggetti — è quello che è il più natu- rale, ma è anche il solo che da alla parola un senso reale, vale a dire che le faccia esprimere un concettj determi- nato. Neir ipotesi della trascendenza delle Idee, non vi lia tra le cose e le Idee altro rapporto immaginabile che la somiglianza: dicendo che le cose partecipano alle Idee, Platone vuol dire, fecondo Tinterpretazione trascenden- talista, che le Idre, separate dalle cose, comunicano a queste degli attributi simili ad osse; che le cose diven- gono somiglianti alle Idee, per un'influenza delle Idee sulle cose. Ma quale è il modo di questa comunicazione? in che consiste questa influenza? Il come dellVffìcienza delle Idee trascendenti è inconcepibile ; noi non possia- mo formarci alcun' idea di quest'azione per cui esse ren- (1) È evidente che, qnainìo Platone dice che una cosa partecipa al bello, al buono ecc., nel significato di queste propo:^izioni è contenuta ratiei ina- zione che la cosa è bella, è buona ecc.. Ma non e meno evidente che le stesse proposizioni assegnano al tempo stesso la c^usa per cui la cosa è bella, è buona, ecc. : se no come potrebbe egli dire che la cosa <^ bella per la partecipazione del bello, buona per la partecipazione del buono, ecc. 1 Il termine partecipazione significa -aX tempo stesso un fatto — la posses- sessione di un certo attributo —, e la causa di questo fatto. Ciò è perchè qui il fatto e la sua causa non sono due fatti distinti e separati; la causa del fatto — vale a dire la partecipazione o parusia dell'Idea — non e che il fatto stesso — la possessione dell'attributo corrispondente — interpretato secondo una teoria particolare, tradotto, dal linguaggio comune, nel lin- guaggio della dottrina reclista. 'ij*j t derebbero le cose simili a se stesse. Platone, con la pa- rola partecipazione, intende indicare nn rapporto tra le erse e le Idee, che contenga una ragione dell'essere delle cose e dei loro attributi. Ma supposta la ^ra,sce^^n^en2a delle Idee, non può tra le cose e le Idee immaginarsi a^cun rap- porto che spieghi perchè le cose sono ed hanno i loro attri- buti; tanto meno quindi potrebbe immaginarsene qualcuno che aggiungesse a questa condizione quel'a di poter essere denominato con la parola partecipazione : ne segue che, mila supposizione della trascendenza, non vi ha alcun concetto determinato che possa corrii-pondere a questa parola. Ciò è tanto vero che gì' int^ rpreti trascenden- talisti sono obbligati a convenirne : Platone, dicono que- st'interpreti, non ha determinato la vera natura del rap- porto tra le Idee e le cose, egli non ha detto che cosa è la metessì, la parusia, ecc. (1); e in prova della loro tesi citano certi luoghi d'Aristotile, che io devo mettere sotto gli occhi del lettore, per fissar bene lo stato della quistione sull'interpretazione della metessi platonica. Ecco dunque questi luoghi. Mei. l.I. VI. 2: « I Pitagorici di- cono che gli esseri sono per 1" imitazione dei numeri; Pla- tone, mutando il nome, per la partecipazione delle Spe- cie; ma che cosa sia questa imitazione o questa parte- cipazione, vattel'a pesca (àcpsìaav sv xoivw ^Yjxsrv) v . Ibid 1. I. IX. 21 : '* Volendo dire la sostanza delle cose sensibili, po- niamo (noi platonici) altre sostanze ; ma come queste siano sostanze di quelle, lo diciamo vanamente (dia xsv^g), polche 'a partecipazione, come abbiamo già detto, è nien- 0) V. Chiappelli. V intcrpretaz. panteist, di P/alone, pAg. 104, 149, 166, ecc. ^ 52 - te » (1) ìbid. i. 1. IX. 8 : t Ì)ire chele Specie sono degli esemplari e che le altre cose ne partecipano, è pronun- ziare delle parole vuote di senso (xsvoXoystv) e fare delle metafore poetiche » . Sui due primi di questi luoghi dobbiamo osservare che la critica che essi contengono non ha necessaria- mente il senso che le danno gì' interpreti trascendenta- listi, vale a dire che Platone non attaccava alla parola partecipazione alcun concetto preciso. Forse gl'interpreti trascendentalisti hanno ragione d' intenderla così e di ammettere ch'essa suppone (nel concetto d'Aristotile) la trascendenza delle Idee : ma questa critica Aristotile avrebbe potuto farla, anche supponendo l' immanenza delle Idee; in questo caso essa vorrebbe dire, non che la parola partecipazione non significa alcun concetto determinato, ma che la partecipazione. — la cosa corri- spondente al concetto significato da questa parola — è un che d' inintelligibile— cloche ò perfettamente vero -, perchè non si comprende, e Platone non ha fatto niente per fare comprendere, come una sostanza può inerire in altre sostanze quale attributo, come l'uno può esistere si- multaneamente nei molti, e tutte le altre impossibilità della dottrina delle Idee, Che il senso della critica sia (juesto o sia piuttosto quello che vogliono grinterpreti trascendenta- listi, è ciò che io non oserei affermare ; perchè, come vedremo a suo luogo, le testimonianze d'Ai istotile sulla (1) Notiamo che V indicazione contenuta in questo luogo, cioè clie per la partecipazione i | latonici intendevano spiegare come le Idee fossero le sostanze delle cose, è una prova che il signiti^'ato della parola partecipa- zione è quello che noi diciamo: se infatti la pai tecipazione non sigiiili- casse r inerenza del partecipato nel partecipante, come Platone avrebbe potuto pretendere di spiegare per la partecipazione come le Idee, cioè i partecipati, fossero la sostanza delle cose, cioè dei partecipanti t quistione dell'immanenza o trascendenza delle Idee solió incerte e discord*; e per conseguenza, per alcune delle sue critiche, è difficile decidere se esse sono fatte nella supposiz'one dell'immanenza o In quella della trascen- denza 0 abbracciano Puna e l'altra supposizione (com'è probabilmente il caso per quella di cui parliamo) In quanto all'ultimo dei luoghi citati, il rimprovero ch'esso contiene è diretto senza dubbio alle Idee t'ascendenti; perchè Aristotile suppone che il rapporto tra le Idee e le cose non sia che quello tra il modello e le copie (vedi tutto il contesto MeL 1. I. IX. 8-10); e ci dice nettamente che, con o senza la confessione degl'interpreti tra- scendentalisti, sarebbero, nella loro interpretazione, la partecipazione e tutti gli altri termini indicanti il rap- porto tra le Idee e le cose : delle metafore poetiche e delle parole vuote di senso (IJ. Forse il lettore dirà ch'egli non comprende quale sia la d Gerenza tra una parola vuota di senso e una cosa inintelligibile; e che, se è vero, come io lo confosso, che la partecipazione, nel senso che io attribuisco a que- sto termine, è un che d'inintelligibile e racchiude delle impossibilità logiche, non si vede qual vantaggio abbia l'interpretazione che io ammetto, tu quella degl' ioter- (1) Ai luoghi citati d'Aristotile possiamo aggiungerne un altro che é in Afei, I. vili. VI. 6, in cui dice che i platonici sono incerti nel deter- minare che cosa sia la partecipazione e quale sia la sua causa. Ma dob- biamo noi realmente ammettere nei platonici quest' incertezza che loro at- tribuisce Aristotile ? o dobbiamo supporre piuttosto che Aristotile, esitante sul significato della dottrina platonica, attribuisce alla dottrina stessa queir incertezza che è nel suo proprio si)irito ^ Ciò é tanto più verisimile che questa dottrina, oltre di riunire degli elementi fra di loro incompati- bili, è vestita talvolta, come nel Timeo, di certe rappresentazioni che, se l'ossero prese alla lettera, sarebbero in contraddizione ooi concetti filoso- fici di cui esse non sono che un'espressione simbolica. — ». preti irascendentalisH^ che confessano che a questo ter- mine non cosrisponde alcun concetto determinato. Non è qui il luogo di determinare d'una maniera rigorosa la differenza tra una parola vuota di senso (cioè a cui non corrisponde alcun concetto determinato) e nna cosa inin- telligibile : ma, airiogrosso, possiamo dire che vi ha questa differenza che, mentre delle parole vuote di senso non indicano alcnn* id^a, almeno alcunMdea precisa, delle parole che significano una cosa inintelligibile, indicano delle idee determinate, precise, ma queste idee sono tra di loro incompatibili, non possono fondersi in una rap- presentazione unica. Per mo, e per tutti quelli che am- mettono 1 princìpii della filosofia d^ir esperienza, ogni ipolesi metafisica o, più generalmente, metaempirlca — ridea di Hegel o la Sostanza di Spinoza o V Assoluto della metafisica ordinaria, ecc., della stessa maniera che lo spazio pseudosferico o a n dimensioni degli odierni me- tagcometri— ò una cosa inintelligibile, in questo senso deUa parola inintelligibile; e il perchè è facile a dirti : è che rappresentarsi per noi equivale ad immogivare, e noi non possiamo immaginale se non ciò che può es- sere roggetto dei nostri sensi o della nostra coscienza, 0 che ha con gli oggetti dei nostri sensi o del»a nostra coscienza una somiglianza definita. Per tutte le idee che 1 metaempirìci pretendono di farci concepire, essi no prendono gli elementi nel mondo delP esperienza, cioè dei sensi e della coscienza; ciascuno di questi elementi è un predicato generale che conviene a una classe di og- getti sperimentabili o almeno immaginabili ; ma non vi ha alcun oggetto, né sperimentabile né immaginabile, a cui tutti questi predicati generali, presi insieme, possano convenire (1) . Macon tutto ciò nessuno pretenderà seriamen- te che Spinoza, Hegel e tutti 1 metafìsici e i metaempirìci in generale non sanno quello che si dicano : ora quando io dico che la partecipazione è una cosa inintelligibile, io affermo semplicemente che Platone, come tutti i metafi- sici e metaempirìci, ha detto delle cose che non possia- mo immaginare-, ma quando Tinterprete trascendentalista afferma, sulla testimonianza o pretesa testimonianza d'A- ristotile, che la partecipazione è una parola a cui non corrisponde alcun concetto determinato, che Platone non ha detto che cosa sia la partecipazione, la parus'a, ecc., ciò che questo significa, in lingua povera, è appunto che Platone, il divino Platone (come lo chiamano quest'in- terpetri), non sa quello che si dica. Premesso ciò, diamo degli esempi deir uso che Pla- tone fa del termine nif tessi e sinonimi : da essi il let- tnre potrà vedere che il senso di questi termini è chia- rissimo-quantunque implichi delle impossibilità logiche— e che noi non siamo ridotti alla necessitàdi ammettere che essi sono delle parole vuote di senso come vooliono gli interpreti trascendentalisti. Naturalmente il solo impiego di questi termini che ci interessa, e a cui si limiteranno i nostri esempi, è quando la cosa a cui sì partecipa è un astratto, e la cosa che partecipa riceve, per questa p^irte- cìpazionc, il predicato corrispondente a quest^ astrat o. Neir immensa maggioranza dei casi — di quelli, s'intende, in cui l'uso dei termini è questo che ho d tto — T imma- nenza del partecipato nel partecipante è evidente; ma, il p. ispesso, non lo è altrettanto che il part:^c:pato siaunldea, cioè che esso sia considerato da Platone come un'entità sus- sistente per se stessa — quantunque ciò possa presumersi, in viriù del principio platonico che Toggetto del concetto i (1) V. Saggio I p. 421 e 425, 529, 533. -64 - -i. ;»*,.»»-••• * generale è lìdea (1). Ma anche allora il luo^o non é senza importanza come prova del significato della metcssi : per- ciò alcuni dei nostri esempi saranno presi da questa nu- merosa classe di luoghi, in cui il senso immanente è in- contestabile, ma si può dubitare che Platone consideri come un'Idea l'astratto a cui si partecipa; e comince- lemo da essi: Leggi 902 b: (per provare che gli dei hanno cura de- gli aifari umani). « Gli affari umani non partecipano (|is- Téxei) della cfóoig animata, e di tutti gli animali non è Tuomo che venera massimamente gli Dei ?— Certamente— Ora tutti gli animali mortali appartengono agli Dei, a cui appartiene tutto l'universo ». Ibid. 963 e : (spiegando la distinzione tra la fortezza e la prudenza) « l'una (la fortezza) si riferisce al ti- more, e ne partecipano (fisxéxst) anche le bestie e i co- stumi dei piccoli fanciulli; infatti per natura e senza ra- gione l'animo diviene forte; al contrario senza ragione l'animo non fu né è né diverrà mai prudente e dotato d'intelligenza, ciò essen lo un'altra cosa.» (1) In qualche caso vi haano anzi delle circostanze che sembrano eslu- dere che Platone pensi a realizzare l'astratto a cui egli dice che una cosa partecipa, P. e. nel Polìtico 273 b, dove dice che la natura corporea par- tecipava di molto disordine prima di essere ridotta ali ordine presente; o nel Filebo 18 e, dove parla della specie di lettere che partecipano, non della voce, ma di qualche suono (in questi esempi, le parole molto e gual- che, particoiarizzando il concetto, indicano che il disordine e il suono a cui si partecipa, non devono essere prtsi nella loro ge»ieralità, e non pos- sono, per conseguenza, essere delle Ideoj— Nel Parmen.lZZ v — \'^^ b, in cui, distinguendosi gli attributi fenomeni dalle Idee, si dice che le cose partecipano ai pruni ma non alle seconde, la parola partecipare (nsxéYS-v) ha un significato dill'erente dal! ordinario e affatto speiiale a questo luogo isolato. Tim, 51 e : (per provare che l'intelligenza e l'opinione vera sono due generi differenti) « l'una nasce in noi per l'istruzione, l'altra per la persuasione; Tuna è sem- pre accompagnata dalla vera ragiono, l'a'tra è senza ra- gione; runa non può esser mutata per alcuna persuasione, l'altra è soggetta a questo mutamento; dell'opinione vera partecipa (iisiexci) ogni uomo, dell'intelligenza gli dei e solo un piccolo numero degli uomini ». Sof, 248 c-d; «Noi abbiamo stablta come sufficiente», questa definizione dell'essere, cioè quando in qualche cosa è presente (Tiap^) la potenza di patire o di agire rapporto a qualche altra cosa, anche la minima. Si. Ma a ciò rispondono (gli amici delle Ideo) che il divenire è partecipe (Ysvéoei jiéisaxi) della potenza di agire e di patire, ma questa potenza non conviene all'essere — Ed hanno ragione? — A ciò noi diremo che li preghiamo di dichiararci più nettamente se consentono che l'anima co- nosce e l'essere è conosciuto. Essi lo confessano — Ma che? il conoscere o tesser conosciuto chiamate voi aziono o passione o l'una e l'altra cosa? o l'uno passione e l'al- tro azione? o dite che né l'uno né l'altro partecipano (jisxaXajipàvsiv) ad alcuna di queste due cose? » liep, 472 b-c: « Se troveremo quelle sia la giustizia, esigeremo forse che l'uomo giusto non debba niente dif- ferire da c^sa, ma essera assolutamente quale ò la giu- stizia ? o basterà se si approssima ad essa e ne partecipa ([lexéxK/) più di ogni altro ? » • liep. 478 de : « Non abbiamo detto sopra (i) che fc qualche cosa ci apparisse tale che fosse e non fosse al tempo stesso, questa sarebbe media tra il puro essere e (1) V. 477 a-b. — 55 - il non essere assoluto, e non le spetterebbe né la scienza DÒ Tignoranza, ma ciò che apparirebbe medio tra la scien- za e r ignoranza? —Si — Ora media tra di queste ci ap- parve ciò che chiamiamo opinione. Si. Quello che ci resta dunque a trovare è ciò che partecipa ({isxéxov) dell'uno e dell'altro, cioè dell'essere e del non essere, e che non può rettamente chiamarsi ne essere puro né puro non essere, affine di chiamarlo a buon dritto, se noi lo troveremo, op'nabile, attribuendo il med'o al me- dio e gli estremi agli estremi > (In seguito mostra che questo medio tra 1' essere e il non e>ssere sono le cose sensibili, perchè di esse può dirsi al tempo stesso che sono e che non sono. V..479 a-d.) Rep. 585 b-d : (per provare ehe i piaceri dello spirito sono più veri che quelli del corpo). « Qual riempimento è più vero, quello che si fa per le cose che sono più (cioè, come spiega in seguito, che hanno più essere), o quello che si fa per le cose che sono meno (cioè che hanno meno essere)? — Senza dubbio quello che si fa per le cose che sono più.— Ora quali generi credi che partecipino (iisTéxs'.v) più al puro essere, quelli del cibo e della bevanda e di tutto ciò di CUI il corpo si nutrisce, o l'elSog dell'opinieoe vera, della scienza, dell'intelligenza e in una parola di tutte le virtù? É corì che devi giudicarne : ciò che è con- giunto al sempre simile e immortale e alla verità, e tal è esso stesso, e in un tale nasce, ti sembra essere più, che ciò che è congiunto al mortale e non mai simile, e tale è esso stesso, e in tale nasce? — Di gran lunga è superiore ciò ihe è congiunto al sempre simile — E l'ts- sen/a dei sempre simile partecipa (liexéxsi) più all'essere che alla scienza?— No— O che alla verità?— Nemmeno (1) — Se partecipasse meno alla verità, non parteciperebbe meno all'essere? — Necessariamente — In generale dunque i gr- neri che spettano alla cura del corpo partecipano (iiexéx^O alla verità e all'essere meno di quelli che spettano alla cura dell'anima? — Molto meno — E il corpo stesso meno dell'anima? — Si — Dunque ciò che si riempie di cose che p ù sono ed esso stesso più è, si riempie più real- mente che ciò che si riempie di cose che sono meno e me no è f sso stesso ? — E come no ? » Leggi 859 e-860 a : (per mostrare che, chiamando turpi le pene inflitte ai delitti, ci mettiamo in contraddi- zione con la massima che ciò che è giusto è bello) « .... se tutte le cose che si attengono alla giustizia sono belle, nel numero di tutte sono anche le passioni che subiamo, le qui» li sono pressoché uguali alle azioni che facciamo — E che perciò?— Ogni azione che è giusta, quanto par- tecipa (xotvoDv^) del giusto, altrettanto è partecide (fisxéxov) (1) V. 477 b - 478 d. (1) L'essenza del sempre simile partecipa alla scienza, perchè l'esser sempre simi'e è un attributo della scienza. In quest) caso la metessi ha dunque un senso diirerente dall'ordinario. Ordinariamente è l'individuo che si dice partecipare della specie, e la specie del genere : ma in questo caso ò il genere che si dice partecipare della si>ecie, il conctiiio dì sempre simile essendo più esteso che quello di scienza^ e comprendendolo nella sua estensione. Tuttavia quest'altro senso della partecipazione potrebbe ricondursi al senso ordinario, in quapto il genere, se non partecipa — ne^ senso ordinario della parola — alla specie nella sua totalità, vi partecipa in parte, cioò in alcuni degl' individui che esso comprende. Si noti che se il genere fosse separato dagl' individui, come sarebbe nell' interpretazione trascendentalista del sistema delle Idee, e non immanente in essi, e iden tico in certo modo con essi — perchè, come abbiamo visto, l'uno è i molti e i molti sono l'uno—; Platone non potrebbe attribuire ad esso uu rapporto di partecipazione che in senso rigoroso non conviene che ai suoi individui. — 56 -,\ ^^^-^ del bello-E come no ?-Dunque anche ogni passione che partecipa (xoivtov?) del giusto, so converremo che, quanto è partecipe del giusto, altrettanto è bella, il nostro di- scorso non sarà discordante - È vero - Ma se afferme- remo che vi sia alcuna passiono giusta ma turpe, il giu- sto e il bello discorderanno, perchè le cose giuste si di- ranno turpissime ». Nessuno negherà, io credo, che nei lunghi citati e in un'infinità d'altri in cui la parola partecipare — cioè le parole che noi traduciamu cosi — viene impiegata d'una maniera simile, la cosa a cui si partecipa sia un attri- buto della cosa che ne partecipa, e partecipare non si- gnifichi altro che possedere l'attributo. Ciò è, sia perchè, come nei primi cinque esempi, vi hanno delle rag-oni che mostrano che la cosa a cui si partecipa è una proprietà degli oggetti deiresperienza, e non un'entità trascenden- te ; sia perchè, come negli ultimi tre, se la partecipa- zione s' intendesse nel senso dell' interpretazione tra- scendentalista, verrebbe inopportunamente interrotta la connessione ddle idee, la quale richiede semplicemente che alla cosa che è detta partecipare, venga attribuito un certo predicato; sia per altri motivi. Certamente l'in- terpr, te trascendentalista dirà, in questi casi, che la cosa a cui si partecipa non è un'Idea; e noi confessiamo che non si potrebbe, il più delle volte, né affermare recisa- mente, né negare, ehe l'autore pensasse ai elevare lo astratto di cui parlava al rango di entità reale, benché egli avrebbe dovuto farlo per essere strettamente coe- rente alle proposizioni cardinali della sua dottrina. Ma questo dubbio non annulla il valore dei luoghi di cui si tratta come prove del senso immanente della metessi pla- tonica : in effetti, se nella più parte dei casi partecipare a un astratto significa per Platone possederlo come un proprio attributo, non si vede perchè gli si debba dare i- un altro significato in altri casi affatto simili, e solo dif- ferenti dai primi per la circostanza che Platone fa un'applicazione esplicita del suo principio che un astratto è un'entità reale; tanto più che è impossibile, come ab- biamo osservato altra volta, di tracciare una linea di se- parazione tra i casi in cui Platone pensa a realizzare le astrazioni di cui egli parla, e quelli in cui non vi pensa. Nei luoghi seguenti le cose a cui si partecipa sono incontestabilmente delle Idee. Parm. 132 e (per confutare la supposizione che le Idee, sono dei pensieri) : « Ma che ? non è necesrario, poiché dici che le altre cose partecipano (fisxéxs'.v) alle Idee, di ammettere o che ogni cosa costa di pensieri (sx voYjjidxov slvai) e tutto pon-^a, o che le cose non pensano, mentre sono pensieri ? » ^Le Idee sono dunque elementi costitutivi delle cose che ne partecipano). Ibid. 142 e : « Quando si dice compendiosamente : l'uno è; ciò non significa lo stesso che : l'uno partecipa all'es- sereV » (1). (Potrebbe Platone- affermare d'una maniera più esplicita che partecipare a un'Idea non significa altra (1) L'uno e l'essere nel Parmenide jono seuz 'alcun dubbio delle Idee. Infatti Tesercizio dialettico sull'uno Tarmenide lo dà come un esempio del metodo di cuj ejjli prima ha parlato in generale, il quale, a differenza della dialettica di Zenone, che volgeva sul sensibile, doveva avere per o^i^etto le Idee. In quanto all'essere, Platone lo tratta evidentemente, non come una semplice astrazione, ma come un'entità reale (v. specialmente 142 b-lH e); e ingenerale questa realizzazione sembra aver luogo per tutti gli attributi, a cui l'uno e le altre cose sono detti partecipare (v. p. e. sulla grandezza e la piccolezza 349 e- 150 d). Alcuni dei luoghi citati si rifeii- scono. non alla partecipazione delle cose alle Idee, ma a quella delle Idee ad altre Idee : ma ciò non può impedirci di presentarli come prove della immanenza delle Idee nelle cose, perchè è chiaro che la metessi non può avere che lo stesso significato, sia che si tratti di quella d'una cosa ad una Idea, sia che si tratti di quella d'un'ldea ad un'altra Idea. /i > 57 - cosa che la possessione dell' attributo? La stessa afferma- zione si trova a 152 a : « Essere ò altra cosa che la par- tecipazione (fiéBcgis) dell'essere col tempo presente? Ed era e sarà sono altra cosa che la partecipazione (xo;v(!)v{a) dell'essere col tempo passato e col futuro) ? ». Ibid, 144 ab : « Se T uno è . è necessario che anche il numero sia — Senza dubbio — Ma, se il numero è, vi saranno più cose e una moltitudine infinita di esseri :o il numero infinito in moltitudine non è anche partecipe (lisxéxwv) dell'essere? (Come nel luo^o prccpden!e, parte- cipare all'essere è riguardato come l'equivalente di avere l'attributo essere). E se tutto il numero parlccìpa (fisiéxei) dell'essere, ciascuna delle sue parti non ne parteciperà (jjLSxéxoO pure ? — Si — L' essere è dunque distribuito (vevé- fiY]Tai) per tutti i molti esseri, e non è assente (àTiooxaxet) da alcuna delle cose che sono, s'a la più grande, sia la più piccola. 0 è assurdo di fare una simile domanda? in effetti, come l'essere potrebbe essere assente (àuooTaTotir)) da una cosa che è? — In nessun modo — L'essere ò dun- que diviso, per quanto è possibile, in parti grandissime e piccolissime, e di ogni sorta di maniere; esso è ciò che vi ha di più frazionato, e le sue parti snuo infinite » (l). (1) Questo luogo, come tanti altri dei seguenti e quello del Par- menide stesso 131 a— e che abbiamo già citato (v. IV. 3° B), mo- strano chiaramente che la partecipazione d'una cosa a un'I iea non significa altro che la parusia dell'Idea nella cosa. Una cosa parteci- pare al Bello, non vuol dire, come ammettono gì* interpreti trascen- dentalisti, chel' Ideadel bello comunica alla cosa uà nttributo simile a se stessa, ma vuol dire semplicemente che la cosa ricove (iéxsxat), ha in sé (1x^0 ^' I^®* ^®^ bello. È esattamente lo stesso rapporto che si chiama parusia, quando si prende come soggetto di esso la Idea (o piuttosto, In generale, il partecipato), e partecipazione, Farm. 149 e: o Diciamo che le altre coso dall'uno ne quando si prende come soggetto la cosa (o, in generale, il parteci- pante). Dopo ciò che abbiamo detto sulla parusia, è inutile d'insistere ancora su questo fatto evidente, che la presenza o inesistenza dell'Es- sere, del Bello, del Grande ecc. (o dell'Essanza, della Beltà, della Grandezza, ecc., perchè le Idee sono pura designate da Platone coi nomi astratti) negli esseri, nelle cose belle, nelle cose grandi, 030. non può sigaiticara altra cosa che la presenza o inesistenza dell'attributo nel soggetto. Tuttavia l'uso che Platone fa del ter- mine che noi traduciamo per la parola partecipazione*, ci fornisce un'altra prova che non dobbiamo negligere. La partecipazione, ab- biamo detto, non significa altro che la parusia nella cosa o Idea» che si dice partecipare, dell'Idea a cai si dice partecipare. Ma d'al- tra parte, è incontestabile che la partecipazione significa la posses" sione dell'attributo corrìspondontc all'Idea a cui si partcipa. È ciò che si può vedere, non solo da questo luogo e dai due precedenti, ma da tutti i luoghi che abbiamo citati sulla partecipazione; per- chè, quand'anche in alcuno di questi luoghi per Ut cosa partecipata si volesse intendere un'Idea té'ffureìi dente, ciò che sarebbe assoluta- mente impossibile di negare è che, quando Platone dice, p. e., che le cose sensibibili partecipano dell'essere e del non essere (Rep 478 d-e, 1. e), che le azioni partecipano del bello altrettanto che del giu- sto {Le(i. 859 e, 1. e.) e"3c., ciò che egli vuole esprimere è che le cose Sdnsibili sono al tempo stesso e non sono, che le azioni sono altret- tanto belle quanto giuste, ecc. Ma un'espro{^-;ione il cui significato è la parusia dell'Idea, non potrebbe significare la possessione dell'at- tributo, se la parusia dell'Idea e la possessione dell'attributo non fos- sero la stessa cosa. Per infirmare questa conclusione si dirà forse che non è necessario cha la parusia dell'Idea fosse por Platone l'equiva- lente della possessione dell'attributo, ma basta che per lui il secondo «lei due fatti, pur es-jando distiate dal primo, fosse legato al primo co- me l'effetto alla causa, perchè un'esprosdone, che direttamente si- gnificava l'uuD dai due fatti— la parusia dell'Idea (quand'anche que- sta s'intendesse nel senso trascendentalista, cioè come una semplice presenza locale o quasi locala) — suggerisse pure l'altro fatto che ne era la conseguenza — la possessione dell'attributo — E ciò è vero: ma la possessione dell'attribato non è semplicemente un'associa- zione dell'idea direttamente espressa dalle parole partecipare alVen' sere^ al non essere, al -bello, al (jiitsto, ecc.; ma è, come si può ve- -58 — sono l'uno né partecipano ([isxéxsO all'uno, so pure sono derlo dai laoghi citali, l'idea stessa che queste parole esprimono di- rettamente, il loro suinificatOj ciò che è ben altra cosa che una sem- plice suggestiono. Che una parte almeno — ed è quanto basta all'argomento pro- cedente— del significato delle parole che noi traduciamo per par- tecipare e partecipazione, sia la possessione dell'attributo omonimo all' Idea a cui si partecipa, è talmente evidente ohe è anche am- messo dagl'interpreti trascendenralisti: perciò possiamo dispensarci di provare più abbondantemente questo punto con luoghi scolli a questo scopo; basteranno quelli che ci è accaduto e ci accadrà di ci- tare, quantunque con un altro scopo, cioè di provare immediata- mente il senso immanente della metessi. La differenza tra noi e gl'interpreti trascendentalisti è che per questi la possessione dello attributo omonimo all'Idea partecipata è foIo una parlo del signi- ficato della partecipuzione — l'altra parte essendo che quest'attri- buto è comunicato, non si sa come, dall'Idea —; per noi invece è tutto il significato. Ciò non vuol dire che esser bello, buono, ecc. e par- tecipare al Bello, al Buono, ecc., sono delle proposizioni perfetta- mente identiche: se cosi fosse, Platone non potrebbe dire, senza avvolgersi in una vana tautologia, che la causa a una cosa di es- sere bella ò la sua pari ecipazt une al Bello, né, com'egli spesso fa, inferire, dalla partecipazions di una cosa all'Idea, che questa cosa possiede l'attributo corrispondente, e viceversa, dalla possessione dell'attributo, che la cosa che lo possiede partecipa all'Idea corri- spondente. Platone può farlo senza rimprovero di frivolezza, per- chè, quantunque lo due proposizioni: esser bello o buono, ecc., e: partecipare al Bello o al Buono, ecc., indicano lo stesso fatto, que- sto fatto però è considerato a due punti di vista differenti: una proposizione lo considera al jìunto di vista comune, che non im- plica alcuna teoria particolare, e l'altra al punto di vista del rro- lismoy che considera gli attributi, non come semplici attributi, ma come attributi-sostanze. Prendiamo qui l'occasione di ripetere sulla partecipaziene due osservazioni che abbiamo già fatto sulla parusia. Quando Platone dice che una cosa è bella, è buona, eco. per la sua partecipazione al Bello, al Buono, ecc., è altrentanto naturale d'intendere ch'essa lo è perchè possiede l'attributo Bontà, Beltà, ecc. (considerate come entità reali), che quando egli dico che la cosa è bolla por la parusia altre da esso — Certamente — Dunque nelle altre nòti ine- del Bello, buona per la parusia del Buono, ecc. Ciò è perchè, come abbiamo tante volte notato, se le Idee non fossero gli attributi delle cose, non vi sarebbe per le parole metessi e i)arusia alcun senso pos- sibile che facesse comprendere come Platone possa dare la metessi o parusia delle Idee come la ragione degli attributi delle cose: è sol- tanto quando per le Idee s'intendono gli attributi delle cose— sostan- tificati — che vi ha tra la metessi o parusia dell'Idea e l'inerenza nella cosa dell'attributo corrispondente questo legame necessario ed evi- dente per se stesso che deve esservi tra la ragione ohe si adduce per ispiegare un fatto e questo fatto. È per lo stesso motivo che noi dob- biamo vedere una prova dell'immanenza delle Idee nei luoghi nu- merosi — di cui ci asteniamo di dare degli esempi, perchè sa que- sto soggetto basta ciò chs è stalo detto p-irlando della parusia — nei quali Platone conclude immediatamente dalla partecipazions all'Idea alla possessione dell'attributo omonimo, e viceversa dalla possessione di un attributo alla partecipazione all' Idea omonima; come una prova simile abbiamo già vista nei luoghi in cui Platone procede della stessa maniera riguardo alle parusia. IMatone non po- trebbe passare immediatamente dalla premessa alla conseguenza, considerando quest'inferenza come una cosa che va da so, se non fosse d' un'evidenza immediata che la molossi o parusia dell' Llea importa, nelle cose, la possassione dell'attributo omonimo, e que- sta — data la ipotesi dell'esistenza delle Idee — la metessi o parusia dell'Idea omonima: ma questa evidenza non esiste che dando alla metessi e alla parusia un senso immanente. Bisogna convenire, è vero, che, quando si tratta della partecipazione, anche l'interprete trascendentalista può rendere conto di quest'inferenza immediata, nel caso almeno in cui la premessa è la partecipazione all'Idea e la conseguenza la possessione dell attributo : ma ciò avviene per- chè egli non ammette, contro l'evidenza dei testi, che ciò che la metessi di una cosa a un'Idea significa, è la parusia dell'Idea nella cosa. Per gl'ini erprexi trascendentalisti, come per noi, la metessi all' Idea include nel suo significato la possessione dell'attributo omo- nimo : ma questa inclusione, nell'ipotesi della trascendenza, è inam- missibile, se si fa, com'è necessario, della metessi l'equivalente per- fetto della parusia. Una sola è l'interpretazione trascendentalista possibile, che permettano i testi evidenti che provano che i termini ohe noi traduciamo per partecipare (jjiexéxsiv, jisxaXafxpocvsiv, ecc.) — 69 - 4lì^. risce {evsoxiv) il nomerò, non merendo (fiYj évóvxo^) in esse l'uno (1). — Come potrebbe inerirvi ? — Le altre cose dun- que non sono né uno né due né designate per il nome di alcun altro numero ». (L'inerenza delTuno e del numero nelle altre cose é co^i l'inerenza delT attributo nel sog- getto). Ibid. 157 b-e : « Diciamo ciò che accadrà alle altre co- se, se Tuno è ? — Beiamolo — Poiché sono altre dall'uno^ esse 1 on sono Tuuo, poiché in questo caso non snreb- bero altre dall'uno — È giusto -- Tuttavia le altre cose non sono prive (axépexaO affatto dell' uno, ma ne par- tecipano ([isxéxs^^ in qualche modo (2) — Perchè ? — Per- ché le altre co-^e dall'uno sono altre da esso, perché hanno delle parti; se non avessero pai ti, sarebbero assoluta- mente uno — È giusto — Ma lo parti non sono parti che di ciò che é un tutto . ... (3). Se dunque le altre cose sono per Platone i fiinonimi di avjre (sx*-^)» fic37are {tix^O^Oi'.^ e altri simili, con cui egli designa quallo stesso rapporto tra le cose e la Ilea ch'egli indica coi termini esser presente (napstv ai), ine- gistere (èvsrvai), ecc., qaanio concilerà come soggetto di questo rapporto, non le cose, ma le Idee: e di ammettere che la metessi, come la parusia, significa che le Idee «lono nalle cose press' a poco come Torricelli diceva eh 3 la forza è nella materia, cioè come in un vaso. Ma è vero però che se l'interprete trascendentalista ac- cettasse questo senso della metessi, egli si metterebbe in contrad- dizione coi testi non meno evidenti che provano che il senso di questo termine deve includere la possessione dell'attributo omonimo all'Idea a cui la cosa è detta partecipare. (1) Cosi la partecipazione di una coia all'uno è equivalente all'i- nerenza dell'uno in questa cosa. (2) Quest' antitesi tra esser privo e partecipare indica che la partecipaziono iill'uno signitica la parasia dall'u io, (3) Nelle paro'.o che mancano mostra che la parte non si dice 1 .1 hanno delle partì, partecipano (iiexéxsO anche al tutto e all'uno » (i). Ibid, \bH b-c : « Le altre cose dall'uno partecipano (jis- TaXajipotvsi) all'uno, quando non sono né l'uno né parte- cipi (fjtexéxovxa) dell'uno — Dunque quando sono moltitu- dini, in cui non enemce (svi) l'uno ». (La partecipazione all'uno equivale cosi air l'inerenza deiruno). Ibtd, 159 b-160 a: t Diciamo da capo, seTunoé, ciò che é necessario che accada alle altre cose dall'uno — Diciamolo — L' uno noi é separato (x^)pi^) dalle altre cose, e le altre cos3 separati cx^P^s) dall'uno?.... Inoltre diciamo che il vero uno non ha parti. — Conivi potrebbe averne? — Dunque né l'uno intero sarà nelle altre cose (eir) èv zoi(; dcXXois) nò delle parti di cssr, se l'uno è se- parato (xwpC^) dalle altre erse, e non ha parti — Cosi è — Le altre cose non parteciperanno disxéxot) dunque in niun modo dell'uno, non partecipando ([xexéxovxa) né del- l'uno intero né dì alcuna parte di esso (2)— In niun modo, a quanto pare — Le altre cose dunque non saranno in niun modo uno, né avranno in sé alcun che di uno (3). parte dei molti che costituiscano un tutto, ma di un certo uno, che è ciò che si chiama tutto; e dopo ciò concludo immediatamente con la proposizione seguente. (1) Questa conclusione ci prova che partecipare al tutto e al- l'uno significa essere un tutto e un uno, perchè il ragionamento da cui essa è tirata non stabilisce altro se nonché ciò che ha delle parti — 9ome le altre cose, di cui si ò convenuto che ne hanno — deve es- sere un tutto e un uno.(2) Le oltre cose partecipare alVuno è equivalente a: Viino essere nelle altre cose^ ed è in antitesi con : l'uno essere separalo dalle al' tre cose. Potrebbe provarsi più chiaramente che la partecipazione a un'Idea non significa altro cha la parusia o inerenza di quest'Idea? (3) Conseguenza immediata dalla non partecipazione all' Idea alla non possessione dell' attributo corrispondente. Y. la nota 1 a carta 57 p. 2. — 60- ww- — No certamente — Né per conseguenza saranno molte: se fossero molte, ciascuna di esse, quale parte del tutto, sarebbe una; ma al presente le altre cose dall'uno non sonò né una né molte né parti né tutto, poiché non par- tecipano (fisTsxeO in alcun modo dell' uno — É giusto — Le altre cose non sono dunque né due né tre, né vi ha in esse alcun che di tale, se sono prive (axépsxai) affatto dell'uno (1)— Così é— Dunque né sono esse stesse simili o dissimili, né vi ha in esse alcuna somiglianza o dissomi- glianza. In effetto se fossero simili e dissimih*, o vi foss»^ in esse qualche somiglianza e disomiglianza, le altre cose dair uno avrebbero in sé (sxot av év éoLuzolg) due spe- cie contrarie fra di loro — Co>i pare — Ma é impossibile che partecipi ([isxéxs'-v) a duo ciò che non può partecipare (fxsiéxoO a nessuno (2) — È impossibile — Le altre cose non sono dunque né simili né d ssìmìli né simili e dis- simili al tempo hte-^so : poiché se fossero simili e dissi- mili, parteciperebbero (iiszéxoi) ad una una delle due spe- cie ; se fossero simili e dissimili al tempo stesso, parte- ciperebbero alle due specie contrarie (3); ora ciò é parso impossibile — E vero — Le attre cose dall' uuo non sono dunqu'^ né le stesse né diverse, né in movimento né in riposo ; non divengono né periscono ; non sono né più grandi né più piccole né eguali ; né hanno alcun altro di tali attributi ; perché se avessero alcuno di tali at- ei) Esser prive rìelPuno equivale a )io)i p<irU'('ipnre all'uno^ ciò che prova, come già osservammo, l'ideatilìi di signilicato tra la partecipazione e la parusia. (2) Sinonimia tra parlcciparf a ìì n'Idea e averla in sé la so- mif^lianza e la dissomiglianza essendo qui evidentemente conside- rate come Idee —, e conseguenza imme<liata dalla possessione dell'at- tributo alla partecipazione dell'Idea omonima, (3) Conseguenza immediata, come sopra. I itributi, parteciperebbero (fisGégsi) ad uno e a due e à tre, e al numero pari e all'impari, a cui abbiamo visto es- sere impossibile partecipare (jisxéxstv), eisendoprive (oxs- pofiévot^) interamente dell'uno (1). » Farm. 163 c-d: « Non cerchiamo noi ciò che deve ac- cadere all'uno se esso non é ? — Si — Quando diciamo non é, ciò significa altro che l'assenza (àTioDoiav) dell'es- sere da ciò che diciamo che non é? — Niente altro (2j — • (1) Antitesi tra ess^r prive d'tiri'Idoa e patieviparc a quest'Idea, e conclusione immediata dalla possessione di corti attributi alla partecipa- zione delle Idee corrispondenti e delle Idee dei numeri a cui queste Idee partecipano. Notiamo che se la partecipazione avesse il significato che le danno l?rinter^-reti trascendentalisti, il ragionam-^nto di Platone sarebbe impos- sibile. Platone ragiona cosi : ciò che non partecipa all'Idea dell'uno ne a quella di alcun altro numero non può essere ne simile uè dissimile né avere alcun altro attributo, perchè non può partecipare alle Idee corrispondenti a questi attributi, e la ragione per cui non può parteciparvi ò che, ciascuna di queste Idee essendo una, partecipa all'Idea dell'uno, e più di loro prese insieme formando un certo numero, partecipano all'Idea di questo numero, e per conseguenza ciò che parteciperebbe ad uua o più di (pieste Idee parteciperebl>e all'Idea dell'Uno o all'Idea di q'jesto numero. Il ragiona- mento corre, se per partecipazione s' intende la parusia . perchè e chiaro che in una cosa, in cui é presente un'Idea, deve ess'^re anche presente ogni altra Idea che è presente in quest' Idea. Ma se la partecipazione d'una cosa a un'Idea significasse, come vogliono gì' interpreti trascendentalisti, che la cosa e fatta ruU' esemplare di quest' Idea, non sarebbe sempre vero che la cosa che partecipa a un'Idea, partecipa ai>che alle altre Idee a cui quest'Idea partecipa : nel caso particolare sarebbe falso, poiché l'a- vere o uno o due o tre, ecc. esemplari non porta [)er conseguenza l'avere per esemplare l'Idea deli 'uno, del due, del tre, ecc., della slessa maniera che, per inipiegare un esemi)io d'Aristotile {Mei. I. I, IX, 4) 1 avere per esenvlare una cosa eterna, qual e l' Idea, non porta per conseguenza di avere per esemplare l'Idea dell'eterno. (2) Se l'assenza dell'Idea significa la stessa cosa che la ptivazione del- l'attributo, la presenza dell'Idea significherà dunque la stessa cosa che la possessione dell'attributo. — 61 — Quando diciamo che una cosa non è, intendiamo dire che essa in qualche modo è e in qualche modo no; o dire non è significa semplicemente ch'essa non è affatto, e non es- sendo, non partecipa (fisxéxst) in niun modo all'essere? — Questo semplicemente - Dunque ciò che non è, né potrà essere ne potrà partecipare (ixsTéxsiv) in alcun al- tro modo airessere - Non lo potrà - Ora divenire e pe- rire sono altra cosa se non l'uno ricevere (fisxaXaiipàvsiv) Tessere, e l'altro perderlo ? (àTioXXóvai) ?- Niente altro - Ma CIÒ che non partecipa (4,... ixéisaxiv) per niente di esso, non potrà nò riceverlo (o5t av Xa^tpavoi) ne perderlo (oQx'à- TzoXXùoi) - Come lo potrebbe V-All'uno dunque, poiché as-* solutamente non e, non conviene nò di possedere (o50'éx- xsov) nò di perdere ((o5x'à7raXXexxéov) né di ricevere (or^ze fisxaXyjTixéov) l'essere in alcuna maniera — Pare - Dun- que l'uno che non ò non perisce né diviene, poiché non partecipa (fxsxsxsO in alcun modo all'essere (1). » Sof. 251 a-260 b : « Diciamo eome diamo ad una stessa cosa più nomi -Apporta un esempio di ciò -L'uomo 251 B chiamiamo con molti nomi, attribuendogli dei colori, delle forme, delle dimensioni, delle virtù e dei vizi, pei quali attributi e molti altri non solo lo diciamo uomo, ma anche buono, e altre cose innumerevoli; e lo stesso fac-, clamo per gli altri oggetti, ponendo ciascuno come uno, e al tempo stesso come molti per i molti nomi con cui lo chiamiamo - È vero — Così abbiamo, io penso, prepa- rato un festino ai nostri giovani e ai nostri vecchi tardi (1) L'essere che ricevono le cose che divengono, e che perdono le cose elle periscono, «'. certamente un essere immanente in queste cose- ora quest'essere evidentemente è quello stesso a cui ciò che é partecipa e a cui l'uno che non è non può partecipare; dunque la partecipazione ò di un'Idea non trascendente, ma immanente nelle cose che ne partecipano. c D istruiti ; ai quali para facile di obbiettarci che è impos- sibile che uno sia molti e molti uno, e che sono al colmo della gioia quando non permettono che l'uomo si dica buono, ma soltanto che il buono si dica buono, e l'uomo uomo Senza dubbio tu incontri spesso delle persone, che s'applicano a simili arguzie, e qualche volta anche dei vecchi che, per povertà di spirito, ammirano queste cose, e credono di avervi trovato il colmo della sapienza— È vero. Afiìnchò il nostro discorso libracci tutti quelli che si Fono occupati d' una maniera qualunque dell' essere, le n* strc domanrlc devono intcnder-i come dirette tanto a questi quanto rg'.i altri con cui abbiamo precedente- mento disputato (cioè i fisici e gli amici delle Idee)— Quali sono queste domande?— Se non congiungeremo né l'essere col movimento e col riposo, nò alcun'altr.i cosa con al- cun' altra, ma le ammetteremo nei nostri discorsi come immiste (afitxxa) e incapaci di partecipare (iisxaXajipaveiv) l'uua dell'altra; 0 le identificheremo tutte, ammettendo che sono tutte capaci di una comunione reciproca; 0 per al- cune lo f»mTnetteremo e per altre no? quali di questi tre partiti diremo che essi sceglieranno? — Io non saprei che cosa rispondere per loro : perché non fai tu ciascuna dello tre r'sposte possibili, cercaudo quali conseguenze risultano da ciascuna? — Tu dici bene; e supponiamo, se vuoi, ch\*ssi rispondano prima che non vi hi «Icnua comunione possibile di alcuna cosa con un' altra; p r conseguenza il moto e il riposo non parteciperanno fjis- 252 A Oégsxov) in akun modo all'essere ?— Non parteciperanno — Ma che ? sarà l'uno 0 l'altro di essi, non partecipindo ((Tipog- xotvtóvoOv) delTessere? — Non sarà — Questa confe sione, a quanto pare, ha subito tutto rovesciato, e idommi di quelli che mett'no tutto in movimento, e di quelli che lo lasciano in riposo come uno, e di quegli altri che ammettono che, sotto il rapporto delle loro Idee, gli esseri sono sempreinva- E — G2 — B riabili e nello stesso stato: tutti infatti aggiungono Tes- sere, dicendo gli uni che le cose sono realmente in mo- vimento, e gli altri che sono realmente in riposo — Cosi è — E quelli che ora compongono e ora decompongono il tutto, sia riducendo tutto ad uno, e facendo uscire dal- l'uno una varietà infinita, sia decomponendo il tutto in un numero finito di elementi, e componendolo da questi stessi elementi, sia supponendo che ciò si faccia a vicen- da, sia continuamente, in tutti i casi non potrebbero dire niente di vero, se non vi ha alcuna mescolanza (£ùfi[xigts)— E giusto—Ciò che vi ha di più piacevole è che essi stessi hanno bisogno del discorso questi che non permet- tono che di una cosa se ne dica un'altra per la parteci- pazione di quest'altra (xotvwvia TcaOiìiiaToc éxspou) (1) — Come?— Essi sono costretti di servirsi a ogni momento delle parole essere^ separatamente.dagli altri, per sé e di mille altre che non possono astenersi di adoperare e di con- nettere nei loro discorsi; dimodoché ossi non hanno bi- sogno di un altro che li confuti, ma, come suol dirsi, hanno il nemico in casa, e portano da per tutto con sé stossi il loro contradittore, che mormora dentro di loro, come quel pazzo di Euricle (un ventriloquo che preten- deva di avere nel ventre un demone profetico)— Gli so- migl.ano in effetto, e tu dici la verità— Ma che? se la- sciamo a tutte cose la facoltà di una comunione recl- pioca V— Questa supposizione posso confutarla anch'io— (1) Avere il 7ioc0Y)|ia d' un* Idea significa partecipare a questa Idea. V. Sofista stesso 245 a-c. Per oonsej^uenza la xoivwvta del TidOr^iJia di un'altra cosa— cioè di un altro Genere, perchè le cose di cui -li tratta qui, sono, come si dice in seguito, dei Generi — si- gnifica aver parte a questo raprorto delle cose col Genere, che Platone chiama ordinariamente partecipazione. B Come? — É ehe il movimento sarebbe in riposo, e il ri- poso in movimento, se si raescolassero V uuo coir altro (èTiiYipotaOYjv èic'àXXi^Xwv) — Ma è assolutamente impossi- bile che il movimento sia in riposo e il riposo in mo- vimento — E come no? — Resta dunque soltanto la terza supposizione— Si— Infatti è necessario che sia vera una di queste tre supposizioni, o tutto mescolarsi (aufi|xCYvua9at), 0 niente, o alcune cose si e alcune no. — È necessario — Ma le |»riine due abbiamo visto che soni impossibili— Si — Dunque chi vuol rispondere giustamente deve ammettere la terza supposizione— Certamente— Poiché alcune cose 253 A possono mescolarsi e altre no, esse sono press' a poco com»i le lettere, delle quali alcune possono congiungersi fra di loro, ali re non lo possono. Ma tutti conoscono quali lettere pò sono associarsi fra di loro, o vi ha bisogno di un'arte per chi vuol fare ciò d'una maniera conveniente? — D'uti'arte- Quale? — La grammatica— P] non è lo stesso pei suoni gravi ed acuti? Chi ha l'arte di conoscere quali si accordano e quali no, è musico; chi l'ignora, é straniero alla musica... Ebbene! poiché siamo convenuti che i ge- neri si mescolano (iitSsws sx^'-v) similmente tra di loro, non ha bisogno di procelere nei suoi ragionamenti con una certa scienza chi vuol mostrare quali generi si accordano (a'j|i(^(!)v£t) e quali non si ammettono (oO Séxexai) fra di loro?... E come chiameremo questa scienza? Dividere per generi. e non prendere la stessa specie per un'altra né un'altra per la ste-s-i, non é questo l'ufficio della scienza dialet- tica?—Si— Chi é cap-rice di far ciò, vede acutamente un'Idea unica diffusa pur molte cose (Sia uoXXwv... Tiavxy] Siaxsxaixé vT]v) che cj^istoiio Kseparatamente l'una dall'altra, e molte Idee diverse compresa sotto un'Idea unica, ed un'Idea unica per molli lutti iu uuo raccolta, e molte Idee di- stinte e separale fra di loro: ({uesto é saper discernere, per mezzo della divisione per geneii, quali sono in co- munione fra di loro, e quali no € D - 63 — 254 B Poiché siamo convenuti che dei generi alcuni souo in co- munione reciproca e alcuni no, alcuni con pochi, alcuni con C molti, e di altri niente impedire la loro comunione con tutti intuite», cose, continuiamo la nostra discussimi, non esa- minando tutte le Specie, per non restare confusi dalla loro moltitudine, ma scegleadone alcune di quelle che hanno una più grande estensione, e vedendo prima qunle sia ciascuna di esse, e poi quale comunione abbia con B le altre I generi più estesi, tra quelli di cui abbiamo parlato, sono l'essere, lo etato e il movimento— I più e- steiri di gran lunga— p] due di essi diciamo che non si mescolano (àiiCxxo)) l'uno con l'altro — Certamente — Ma l'essere si mescola (jjitxxóv) a tutti e due : lutti e due in effetto sono— Senza dubbio— Essi sono tre— Certamente— Dunque ciascuno è altro dagli altri due, e lo ste>so con ^ se stesso?— Si— Ma che sono questi lo stesso e altro che abbiamo nominat ? sono due generi diversi dai tre supe- riori, necessariamente sempre mescolali (gu|ijuYV'j}jiévo)) con essi, e così bisogna esaminare cinque generi in luogo di 255 A tre; o senz'accorgercene, abbiamo chiamato qualcuno dei tre generi superiori lo stesso ed altro? — Forse— Ma il moto e lo stato non sono né lo stesso nò l'altro B Tuttavia tutti e due partecipano (iistsxsxov) dello stesso e dell'altro. ..Poniamo dunque lo stesso come una quarta € specie oltre le tre specie superiori? -Poniamolo— ....Quinta D deve dirsi la natura deli' altro che é nelle spec'e(év xor^ E et$£oiv o'joav) che noi abbiamo scelte— Si— E diremo ch'essa é diffusa per tutie queste (5ta tiocviwv slvai SLsX-rjXueutavj, poiché ciascuna é ahra dalle altre, non per U natura di se stessa, ma per il partecipare (iiexéxs'-v) all'Idea del- l'allro. Certamente. Cosi diremo adunque dei cinque generi riprenden- doli ad uno ad uno — Come? — Primo che il movimento è affatto altro dallo stato; o non diremo cosi? — Cosi — Dunque non é lo stato. Giammai — Ma è per il par- 256Atecipare (jxexéxetv) all'essere— È— Ancora il movimento è altro che lo Stesso- Si— Non é dunque lo Stesso— No— Tut- tavia si é convenuto tra noi, che è lo stesso per il par- tecipare (iJLsxsxstv) allo Stesso— Si- Bisogna dunque rico- scere sen/a difficolià che il movimento è lo stesso e non è lo stesso; non è infatti nello stesso senso che noi di- ciamo che è lo stesso e che non è lo stesso; ma quando diciamo che è lo stesso, è per la partecipazione ((iisOsgiv) dello stesso relativamente a se stesso (cioè in quanto B ^sso è lo stesso con se stesso); quando diciamo che non è lo stesso, è per la partecipazione (xoivoovtav) dell'Altro, per cui, distinguendosi dallo Stesso, è, non questo, ma un altro, sicché giustamente si dice che non è lo Stesso— Senza dubbio— Cosi se il movimento partecipasse fjisxa- X(X|JLpav£v) dello stato, non sarebbe assurdo di chiamarlo stabile — Sarebbe con ragione, poiché siamo convenuti che dei generi alcuni si mescolano (iityvooGai) fra di loro D e altri no— Sosterremo senza timore che il movimento è altro che l'essere ? — Senza il mìnimo timore — Dunque è evidente che il movimento é non essere, ed é essere, poi- ché partecipa diexéxeO dell' Passere? — È evidente — Ne segue che il Non essere è nel movimento (èni xs xivtq- 05(0^ elvat) e in tutti i generi ; poiché in tutti la natura dell'Altro, rendendo ciascuno altro dall'Essere, ne fa un non essere; e perciò tutti diremo con ragione non ent', e ancora, perché partecipano (jjisxéxsO dell'Essere, essere ed enti 259 A I generi sono mescolati (oD|i|iiYV'jxaO fra di loro, e l'Es- sere e l'Altro sono d ffusi per tutti e l'uno nell'altro (Sia ndvxwv xal ei'àXXrjXtov SisXyjX'jOóxa) ; l'Altro, partecipando (liexaaxóv) dell'Essere, per questa partecipazione (|isOegtv) è, ma non é quello di cui partecipa (jisxéaxsv), ma altro; 3 ed essendo altro dall'E^fsere, è evidentemente necessario 'S- — 64 - che sia non essere; T Essere poi, essendo partecipe (|ie TstXiQcpós) dell'Altro, ò altro dagli altri generi, ed essendo altro da essi tutt'', non è ciascuno di e>si nò tutti sii altri insieme fuori di se s'esso, sicché Tiilssere senza dubbio in maniere innumerevoli non è, e gli altri generi, ciascuno preso a parte e tutti insieme, sono in molte maniere e in molte maniere non sono E Voler separare (àTioxwpf^eiv) ogni cosa da rgni altra manca di grazia, ed annunzia uno spirito straniero alle Muse e alla filosofia— Perchè?— Il separare (SiaXOetv) cia- scuna cosa da tutte le altre è la distruzione complea di ogni discorso: in effetto noi abbiamo il discorso per l'in- treccio (au[i:iXox75v) delle specie fra di loro. — È vero — 2()0 A Vedi con quale opportunità abbiamo combattuto costoro, e li abbiamo costretti a lasciare che .si m€.s(Otino (jitY'^'jaOat) runa con Taltra— Perchè ?— Perchè il discorso sia anche esso uno dei generi che esistono. Si sopprimerebbe, se si concedesse non esservi alcuna mescolanza TiiCfiv) di niente con niente. » Facciamo alcune osservazioni su questo luogo del Sofista. 1« Siccome gl'interpreti generalmente cenvengono che in questo luogo si tratta dei rapporti di partccipazicne * tra le Idee, ci limiteremo alla quistione se questi rapporti implichino o no l'inererza dell'Idea partecipato nell'Idea partecipante— nel senso speciale che questa parola ine- renza ha nella nostra interpretazione del sistema delle Idee—. Se noi vedremo che la implicano, ciò sarà una prova dell'immanenza delle Idee, esendo evidente che se, quan- do si tratta della partecipazione d'un'Idea ad un'altra, parledpazione significa V inerenza del partecipato nel partecipante, essa non può significare il contrario, quan- do si tratta della partecipazione d'una cosa ad un'Idea. Come prove delPinerenza, notiamo prima di tutto le espressioni mescolarsi ([iCYvuaO-at, aujjifiCYvooO'at) e mescolanza (lAtgt?, gO|i|iigts) e quelle che indicano la diffusione d'una cosa in una moltitudine di altre cose (Ij— tralascio altre espressioni non meno probanti, perchè identiche o simili ad alcune di quelle che abbiamo già incontrate nei luoghi precedentemente citati — Il termine mescolanza significa, è appena bisogno di dirlo, la parusia. Esso esprime r immanenza d'una maniera anche più energica, a un certo punto di vista, che il termine parusia : per questo potrebbe intendersi, come si è detto sopra, che il parteci- pato è presente nel partecipante d'una semplice presenza loca'e 0 quasi locale; la parola parusia non esprime que- sta unione di due sostanze in una sola, indicata dalla pa- rola mescolanza — sì pensi al significato di questa parola (|xigi^) nella fìsica d'Aristotile —, Aggiungiamo che, sic- come Platone considera senza alcun dubbio la mescolanza dì due Idee come un'espressione affatto equivalente nel hignificato alla partecipazione deiruna delle due Idee al- l' altra, noi abbiamo qui la prova più evidente della verità di un' osservazione precedente, cioè che il senso della parola partecipazione è la parusia dell'Idea parte- cipata nella cosa o nell'Idea partecipante, e che, per conseguenza, sapendo anche che questa parola significa per Platone la possessione dell'attributo omonimo all'I- dea a cui si partecipa, noi possiamo concluderne che la parusia dell'Idea non è altro che la possessione dell'at- tributo omonimo, e quindi che l'Idea e l'attributo sono la stessa cosa. Senza dubbio, la parola mescolanza è un'espressione (1) V. 253 d, 255 e, 259 a. E bisogna aggiungere 260 b, in cui dice che il Non essere è disseminato (SteoTiapjxévov) in tutti gli esseri. (2) V. 252 d, 253 e, 255 e, 256 d. — 65 - inadequata al concetto che essa significa, come più o meno lo sono necessariamente tutte le altre di cni PIa- tone 8i serve per indicare i rapporti tra le Idee « tra queste e le cose, prr la semplice ragione che questi rap- porti differiFcono toio coelo da tutto ciò che le parole di ogni linguaggio umano sono destinate a significare. La parola mescolanza esprime con proprietà questo cant- tere del rapporto tra le due Idee, che e-se som delle so- stanze di cui l'una si trova contenuta nelfalira, |ur es- sendo due sostanze distinte luna dalPaltra — l'Idea del- rUomo e quella dell' Animale, quantunque la seconda sia compresa nella prima come una parte di essa, sono nondimeno due sostanze distinte, poiché Tldea dell'ani- male si trova anche fuori delllica dell'uomo, in quella del leone, del cavallo ecc. — Ma ess.ì è in'^satta, fercbr le sostanze che si mescolano sono comp^etan ente distinto runa dall'altra : l'ura r.on fa parte dell'altra, come l'I- dea partecipata della partecipante. Per conseguenza lo interprete trascendentalista può dire cho. la mescolanza dei generi del Sofista indica ben^i un'intima cong un- z^one tra le Idee, ma non Viwwarìenza dellldea parte- cipata nell'Idea partecipante, poiché per immanenza noi intend'amo piecisamente questo inrsistere del partecipato nel partecipante come una parte di e^so, che la parola mescolanza non esprimo. Ma quale sarà allora, secondo l'interprete trascendentalista, qursta intima congiunz ore tra le Idee che Platone chiama mescolanza ? e che ra- gione egli ha potuto aveie per ammetterla ? Nell'ipotesi ^^W immanenza la parola mescolanza ha un s^gnificRto perfett«mente determinato (quantunque non sia ^osm- bile una rappresentazione corrispondente, ciò che, come abbiamo notato, è un difetto comune a tutte U do trine metafis'che) e di cui si trova fac Imente la ragione nel realismo dell'autore: cioè che, s'ccome le Idee sono i concetti realizzati, cosi vi hanno tra dì esse gli stessi rapporti di contenenza reciproca, in comprensione e iu estensione, che si ammettono tra i concetti. Ma che significherà la mescolanza nell'ipotesi della trascendenza ? qual è il senso, il concetto determinato, che può corri- sponde: e a questa parola, applicata a delle sostanze im- matc riali ed esenti dai rapporti di posizione? Questo stesso vago conato di assimilazione — dei rapporti tra le Idee a questo rapporto tra le sostanze materiali che chiamia- mo mescolanza — a cui si ridurrebbe tutto il significato della parola, sarebbe inoltre senza motivo e senza scopo; poiché quest'assimilazione, né avrebbe alcun legame lo- gico con Itpolesi delle Idee, né gioverebbe a rendere que- st'ipotesi più coerente o più verisimile o più propria a sp'cgare i IVnomeni, né darebbe alcun soccorso per ri- spondere alla quistione, cosi imbarazzante nell'ipotesi del- la trascendenza, della possibilità di predicare un concetto di un altro, alla cui soluzione è destinato da Platone ciò che dice su questo rapporto tra le Idee a cui dà il no- me di mescolanza. Delle considerazioni simili valgono per 1 termini che e^primoro la diffusione di un'Idea in una moltitudine di altre Idee: questa parusia dell'uno nei molti, che, nel- l'ipo'esi deli'immanenz», ha un senso preciso e di cui si comprende perfettamente il legame con la realizzazione de^ii Universali, non avrebbe, nell'ipotesi della trascen- denza, né significato né ragione alcuna, e inoltre intro- durrebbe gratuitamente, come abbiamo già detto, nel si- stema delie Idee trascendenti quella stessa inconcepibilità che é la dilhcoltà più grande del sistema delle Idee im- naui nti. 2" La qu'stione a cui Platone risponde con la teoria della p»ìrtecipazione, è: come noi diamo ad una cosa più nomt^ vale a dire, in ultima analisi, come possiamo congiun- - 66 - gere un soggetto e un predicato. Si sa, in effttto, che gii altri nomi che si aggiungono al nome soggetto per d - terminarlo, possono considerarsi come equivale nti a \ al- trettante proposizioni incidenti di cui essi sono i predi- cati: e d'alironde la partecipazione, chVsm s'intenda nel senso dell'immanenza o in quello della trascendenza, non potrebbe render conto della congiunzione, nel discors*^, di altre parole che del soggetto e dfl predicato, perchè Platone dice che una cosa partecipa a un'Idea— o un'I- dea ad un'altra Idea—,quando della rosa può predicarsi l'attributo corrispondente all'Idea— o della prima Idea quello corrispondente aUa feconda—. La quistione della possibilità di unire un nome ad un altro è presentata da Piatone in termini generali : es'^a comprende tanto il caso in cui il nome sog^et oè prrso universalmente— p. e. l'uomo o tutti gli uomini— quanto il caso in cui è preso particolarmente— p. e. un uomo o alcuni uomini— Tuttavia è evidente che la partecipa- zione tra le Idee (se almeno noi vogliamo intendere la partf cipazione nel scns'> ordinario che questa parola ha in Platone) non potrebbe rendei e conto che della possi- bilità delle proposizioni universali : l'Idea dell'uomo non può partecipare a un'nltra Idea, il cui attributo omoni- mo non appartiene che ad un uomo o ad a'cunì uomini; quantunque in questo caso potrebbe dirsi che la specie umana— intesa come la collettività degl'individui uomini — partecipa a quest'Idea, non potn^bbe dirsi che vi parte- cipa l'Idea deirUomo, perchè l'Idea non rappresenta la specie come collettività degl'individui, ma l'insieme degli attributi comuni a questa collettività. Platone ha dun- que dimenticato di rispondere alla quistione propostasi, per il caso in cui il nome soggetto è preso particolar- mente ? o se egli nella sua risposta ha contemplato an- che questo caso, come si applica ad esso ciò che egli dice sulla coTiunìone dei generi ? Sono delle quìstlonì che noi tralasceremo, perchè non hanno una relazione molto stretta col nostro soggetto, e ci limiteremo al caso che Platone ha, se non esclusivamente, almeno specialmente, di mira, cioè alle proposizioni universali e alla partecipa- zione tra le Idee come fondamento della possibilità di queste proposizioni. Noi abbiamo già notato che, nell'ipotesi della trascen- denza delle Idee, la congionzìone del soggetto e del piedicaio tarebbe impossibile, perchè, gli oggetti dei con- cetti essendo le Idee, e il rapporto del predicato col aog- g€ tto essendo quello deirinerenza dell'uno nell'altro, qué- sta congiunzione suppone l'inerenza delle Idee nelle cose e nelle altre Idee subordinate; e che perciò la conse- guenza logica della dottrina della trascendenza sarebbe la tesi erisica che non si può affermare che ^^omo è bur no, ma solo che l'uomo è uomo, e il buono è buono (1); tesi alla cui confutazione è appunto destinata la teoria della partecipazione dei generi gli uni agli altri. Cosi se la partecipazione dovesse intendersi nel ^enso degli interpreti trascendentalisti, lungi di poter fornire una risposta alla quistione : com'è possibile la congiunzione di un soggetto e di un predicato? essa renderebbe la quistione insolubile, questa cougiuazione essendo impos- ti) Platone stesso dichiara che il separare ogni cosa da ogni al- tra renderebbe impossibile il discorso (v. 259 e); ciò che implica la condanna della dottrina che gli attribuiscono gl'interpreti trascen- dentalisti — dico implica^ perchè sarebbe impossibile di trovare in Platone un rifiuto esplicito della dottrina della Idee separate, per la semplice ragione ch'essa gli è affatto sconosciuta—. La proposi- sione citata conterrebbe questo rifiuto esplicito^ se i Megarici, co- me credono, secondo me erroneamente, alcuni critici, avessero am- messa qaesta dottrina. — 67 — sibile in qualsiasi rapporto tra le Ide e tra le Idee e Io cose che non sia quello d'iramanenzR; e sarebbe singolare che Platone, per confutare la tesi dei Megarici—deirim pos- sibilità di ogni giudizio non tautologico —mettesse in- nanzi la teoria delle Idee e dei loro rapporti tra di loro e con le cose, che, nell'ipotesi della trascendenza, sa- rebbe precisamente l'appoggio più forte della tesi con- futata. Ma ciò che dobbiamo ancora osservare è che . Pla- tone, nel luogo citato del Sofista, non solo dà la teoria della partecipazione per il fondamento e la giustifica- zione della sintesi tra il soggetto e il predicato, ma, quel ch'è più, identifica il rapporto di partecipazione d^lle Idee le une alle altre al rapporto che noi— cioè tutti quelli che pensano e che parlano, anche quelli che non ammettono la teoria delle Idee— stabiliamo tra il soz- getto e il predicato, quando formiamo un giudizio o e- nunciamo una proposizione. Per es^mp*o, quando Pla- tone domanda se noi dobbiamo non coogiungere lo sta^o e il movimento con Tessere, né alcun altro genere con un altro, ma ammetterli nei no tri discorsi come immilli e incapaci di partcc'pire gli uni agli altri, evidentemente egli considera la partecipazione dell'Idea del movimento e dello stato a quella delFessere come equivalente al rapporto che noi stabiliamo tra il soggetto movimento o stato e il predicato essere, quando congiungiamo lo stato e il movimento con l'essere, cioè diciamo che il movimento o lo stato è. Similmente quando egli paragona la mutua mescolanza delle Idee, cioè la partecipazione d«lle une alle altre, al'a capacità che hanno le lettere di essere unite e all'accorlo dei snoni musicali, e dice ch'^, poiché i generi alcuni si mes-o'ano fra di loro e altri no, vi ha bisrgno per (ssi, come ppr lo letlere e i suoni musicali, di una scienzn che mostri quali si accordano e quali non sì ammettono fra di loro; quest'accordo o associa- bilita dei generi— per cui naturalmente dobbiamo inten- dere la possibilità d« Ha loro sintesi quali soggetti e pre- dicati nelle propo-izioni— non ha un significato differente che la loro mescolanza o partecipazione degli uni agli altri. Ma se le Idee fossero separate dalle cose e cia- scun'Idea da ciascun'altra, come vog'iono gl'interpreti trascendentalisti, le Idee non potrebbero essere gli attri- buti dele coso, ma solo gli esemplari di questi attributi, e parimenti un'Idea non potrebbe essere 1' attributo di un'altra Idea, ma solo l'esemplare di quest'attributo. Quando noi congiungiamo l'essere al movimento— cioè quando affermiamo : il movimento è— quest'essere che noi congiungiamo al movimento è, secondo l'interprete tra- scendentalista, un'imitazione o un simulacro dell'Essere a cui il movimento partecipa, mentre è evidente che per Platone é qu sl'E^sere stesso : in efifetto egli direbbe in- differentemente, per esprimere lo stesso fatto, sia che i due generi possono congiungersi tra loro e si accorda- no—considerando il fatto sotto il suo aspetto logico— sia che essi partecipano l'uno dell'altro o si mescolano l'uno con Taltro— considerando il fatto sotto il suo aspetto on- logico — .Ma questa stessa distinzione di un aspetto lo- gico e di un aspetto ontologico, sotto di cui le due dif- ferenti sorta di espressioni di cui si serve Platone, con- siderebbero il rapporto tra i generi, abbiamo avuto forse torto di farla; poiché il sistema platonico é essenzialmente una realizzazione dei rapporti logici, per conseguenza il logico e rontologico per Platone s'identificano; e così, nel caso presente, il rapporto ontologico tra i generi, cioè la partecipazione di un'Idea ad un'alt'-a, non è al- tro—nell'ipotesi, ben inteso, dell'immanenza delle Idee — che il loro rapporto logico, cioè l'inerenza dell'attributo nel soggetto, obicttivato. E in effetto, per V immanenza — 68 -^ delle Idee, noi noa intendiamo altra cosa ss non che le Idee ineriscono nelle cose e le Idee più generali nelle più particolari— in una parola i partecipati nei parteci- panti—della maniera in cui Tattributo inerisce nel sog- getto. Che Platone consideri il rapporto tra il partecipante e il partecipato come identico al rapporto tra il soggetto e il predicato, è dimostrato pnre da questa circostanza, che egli fa della quistione della partecipazione unaqui- stione comune a tutti i filosofi, anche a quelli che non ammettono la teoria delle Idee. Quando egli domanda ai Fisici se essi ammetteranno che rè il movimento e lo stato partecipano all'essere né alcun'altra cosa ad un'altra, ov- vero che ciascuna cosa partecipa di ciascun' altra cosa, ovvéro infine che vi hanno delle cose che partecipano l'una dell'altra e altre che non partecipano; e mostra che se non vi ha alcuna mescolanza, cioè partecipazione, i Fisici non potrebbero dire né che vi ha il movimento ne che vi ha lo stato, e che tutte le altre proposizioni dei Fisici sarebbero ugualmente false; che si deve intendere por queste cose, di cui si domandano i rapporti dì partecipa- zione, e la cui mescolanza sarebbe indispensabile per la verità delle teorie dei Fisici ? (1) Senza dubbio, queste cose sono nel sistema di Platone le Idee: ma egli non po- trebbe domandare ai Fisici quali siano i rapporii tra le Idee, né potrebbe dire che le proposizioni dei Fisici — in cui si afferma un termine generale d'un altro termine (1) Per i.idicaP3 questi ognratti, di cai egli domanda ai fisici quali siano i rapporti di partecipazione, Platone non dice né Idea né specie né generi nò niente altro di simile, ma si serve sempli- cemente dall'aggettivo al ndulro: così io ho tradotto aggiungendo all'aggettivo il termine vago coso. generale — suppongono la partecipazione d'un' Idea ad un'altra, pnichè i Fisici non sanno niente delle Idee, e non conoscono che la realtà fenomenale. Per queste cose di cui i-ì domanda quali siano i ra[ porti di partecipazione, si deve durque intendere alcun che che possa essere co- mune tanto a Platone, che fa la domanda, quanto ai Fi- sici, a cui la domanda é fatta: ciò non può essere altro che gii oggetti dei concetti generali, considerati senza determinare se (ssi siano delle entità iperfìbiche, confor- memente al sistema realista, ovvero semplicemente le classi degli rggetti fenomenali e i loro attributi, confor- memente all'opinione volgare che è il punto di vista dei Fisici. Per conseguenza il rapporto di partecipazione di cui è quistione tra Piatone e i Fisici, deve essere un rap- porto che può correre egualmente tanto tra le entità iper- fìsiche del primo quanto tra le classi e gli attributi fe- nomenali dei secondi. Ma queste classi e attributi dei Fi- sici sono, non delle cose trascendenti, ma immanenti; e perc'ò il solo rapporto di partecipazione che può esistere fra di loro, é quello deirinerenza del predicato nel sog- getto. Dunque anche il rapporto di partecipazione tra le entità iperfisiche di Platone deve essere il rapporto d'ine- renza del predicato nel soggetto. Allo stesso risultato si perverrà, CFaminando la po- lemica con gli erist'ci che negano la validità di qual- siasi giudizio non identico. Platone attribuisce a questi filosofi di negare la partecipazione di qualsiasi cosa ad un'altra; cosi egli dice che essi non permettono che una cosa sia detta di un'altra per la partecipazione di que- st'altra (1); che essi separano ogni cosa da ogni altra f2); che egli li ha combattuti e forzati a permettere che (1) 252 b-c. (2) 259 e. - 69 — una co8a si iLescoli con un'altra (1). Lo cose di cui essi negano, secondo Platone, la partecipazione dell'una al- l'altra, per loro, come per i Fisici, non possono essere le Idee (2j, ma semplicemente le classi degli oggetti feno- ramali e i loro attributi; e la so'a partecipazione chi essi nrghino è quella del soggetto al predicato, vale a dire la possibilità di attribuire questo a quello. Dunque per la partecipazione di una cosa ad un'altra, che que- ste cose siano delle Idee ovvero semplicemonte delle ebusi e degli attributi di queste class», Platone incende che la seconda, la partecipata, inerisce nella prima, la parteci- pantp, come il predicato nel soggetto. L'osservazione precedente ne suggerisca, o piuttosto ne implica, un'altra, a cui non sarà forse inutile di dare un posto a sé, quantunque essa non abbia un'attinenza diritta con la qiiistione della partecipayion . Le cose, sui cui rapporti di partecipazione Plato-ie interroga i Fisci, e di cui attribuisce agli eristicl che non am- m ttono se non i giudizi identici, di negaro questi rapporti, sono, come abbiamo detto, degli oggetti che P'^ssorio ess'-re con«jiderati di due maniere dìfferent*, cioè conoe a^trflzioni realizzate, come Idee-da Platone-, e come sempl ci classi degli oggetti d'esperienza e loro attributi (non ri*8lizzati)— Hai Fjsici e gli cristici-Ma lo classi e i loro at ributi di questi filosofi non sono cer- tamente delle cose trascendenti : dunque anch*^ le Idee platoniche devono essere immanentL E in ett'fiti è evi- (1) 260 a. (2) Che i Megarici abbiano ammes«4o la teoria deUe Idee, è una supposizione d'alcuni autori moderni ohe non ha né verosimiglianza intrinseca né alcun fon lamento storico. Confr. qaesto Supplemento parte I, n. X. dente che quando Platone domanda ai Fisici se essi am- mettono o no che il movimento e lo stato partecipano airessere, egh non può parlare di un movimento, di uno stato e di uà essere fuori delle cose, ma di questo movimento, stato ed essere che sono degli attributi delle cose— da Piatone riguardati come Idee, cioè come at- tributi—sostanze e dai Fisici come semplici attributi — . Similmente quando agli eristic:*, che non vogliono che si dica che l'uomo è buono né che un altro predicato qualunque si predichi di un soggetto differente da esso, Platone attribuisce di separare il buono dall'uomo e ogni cosa da ogni altra e di non permettere la loro me- scolanza, qieste cose che essi separano e di cui non per- mettono la mescolanza, non possono essere certamente gli esemplari trascendenti dell'uomo, della bontà e di ogni altra cosa espressa dai nomi generali, che questi filosofi ci proibiscono di affermare l'uno dell'altro; per- chè Vuomo è buono e tutte le altre proposizioni che questi filosofi c'inibiscono, noi non le riferiamo ad esemplari trascendenti delle cose, ma alle cosa stesse. E in una parola quando Platone dice che il discorso nasco dalla mutua complicazione (o'j|i7iXoxf^) delle specie, per queste specie— che sono evidentemente le Idee— noi non pos- siamo intendere delle entità trascendenti, perche i nomi generali di cui i discorsi umani si compongono, e i con- cetti che ad essi corrispondono, non si riferiscono ad oggetti trascendenti, ma immanenti. Ma questo è un punto che ese^*, come abbiamo detto, dall'argomento del presente numero, ed entra in quello del numero III (l). (1) Un'altra prova evidente ohe i generi, di cui Platone discute nel Solista i rapporti di partecipazione, sono delle realtà immo>ieii(i, l'abbiamo in ciò che Platone dice del discorso sulla fine del luogo — 70- # Nella mescolanza del Sofista vi ha il ^erme d'un'im- magtnp, a cui alcuoi platonici ricorrevano per rappre- sentarsi il rapporto tra le Idee e le cose. Alcuno, dice Aristotile (Mei, 1. I. IX. ì), potrà credere che le Idee sono causa alle cose deircssere ciò che sono, come il bianco, mescolato, è causa a un oggetto di essere bianco. Egli attribuisce questa proposizione ad Eudossio e a molti altri (1), e la paragona alla dottrina delle omeo- merie di Ana^^sagora. Questa comparazione del rapporto tra le cose e le Idee a cui esse devono i loro attributi, a quello tra l'oggetti coloralo e la sostanza colorante, mostra d'una maniera cosi evidente V immanenza del 'e Idee nelle cose, che Tinterprete trescendentalista, per citato (260 a) e nel seguito (260 b-264 b): egU classa il discorso tra i generi di cai ha discusso qaasti rapi)orti di partecipazione, e do- manda se il non essere si mescoU a questa specie come ha visto che si mescola alle altre (v. 260 a-e). Ora il discorso di cui Platone parla, è incontestabilmente il nostro discorso, non l'archetipo di esso : ma se questo genere è una realtà immanente, gli altri, con cui esso è classato, non possono essere delle entità trascendenti. Aggiungiamo che il Non essere, che è uno dei generi di cui si cercano i rapporti di partecipazione con gli altri, e che è anzi l'og- getto precipuo di tutta la digressione di cui fa parte questa discus- sione sui rapporti di partecipazione tra i generi, è riguardato co- me l'oggetto dell'opinione falsa (della reale, della nostra) — v. 236- 264. — Ma l'oggetto dell'opinione falsa sono i non esseri - cioè le cose che non sono e che noi crediamo falsamente che siano - : dunque Platone concepisce il Non esst^re, non come un archetipo dei non esseri, separato da essi, ma come la loro iorma generale, in essi immanente. È certamente una stranezza di realizzare, come fa Platone, anche il concetto di ciò che non è; ma, facendolo, egli non può considerare il rapporto tra questo concetto realizzato e le cose particolari comprese sotto il concetto di cui è la realizzazione, come differente da quello fra gli altri concetti realizzati e le cose particolari subordinate. (1) Cfr. il comm. d'Aless. Afrod. conciliare quest'indicazione d'Aristotile con la sua in- terpretazione, non potrebbe dire altro se non che la propos zone appartieu's non a tutti i platonici, ma ad una fraz'one, e questa poteva ben essere una scuola di d'ssident'. Ed è vero che Aristoti'e Fembra riguardare questa proposizione come una doitrira particolare: in- certo, com'egli era, sulla qnistìone fc il rapporto tra le Idee e le cose fosse un rapporto d'immanenza o di tra- scendenza, non è difficile di corapron^lerc com'egli po- tasse vedere delle differenze reali nella maniera di con- cepire quc-to rapporto là dove non si trattava che di una sempl ce diiferenza nell'epprossione dt-llo stesso con- cetto. Co ì noi 1. 3** e. 2^ e 1. IS'^ e. 1«, 2« e Scegli distingue quelli che ammettono le entità matematictie (i Numeri e le Figure geometriche) nelle cose e quelli che le ammet- tono separate dalle cose: verosimlrrente non vi era tra gli gli uni egli altri una differenza di dot:;rina, come afferma Aristotile, ma semplicemente gli uni esprimevano l' imma- nenza di queste entità di una maniera più energica che gli altri. La quistione del rapporto tra le Idee e le co^^e era di troppo momento pfl significato e lo scopo dell'ipotesi stessa delle l'iep, perchè potes^^e essere l'o^rgetto di una divergenza reale tra i parcigìanì di qu^st' ipote-i. Nella proposizi'^ne d' Eudosr!o non bisogna vedere che una rappresentazione materiale della dottrina ordinaria della partecipazione : anche Platone si serviva Hi rappre-en- •ta'/ioni sim 1', p. e. n^l Fé Jone, in cui le Id^e si fanno venire nelle cose e ritirarsene (1), determinando in (1) La grandezza che è in noi, dice a 102 e, quando viene il suo contrario, si deve credere o ohe fugge e si rilira, o che perisce. Vedi pure lOB a e 104 e. Platone non fa due ipotesi, non intende dire, cioè, che alla grandezza che è in noi deve avvenire o l'una o l'ai- 71 — esse, per questa veauta e questo ritiro, V apparizione e la disparizione degli^ attributi corrispoiidenii. Queste proposizioni evidentemente non potrebbero essere prese alla lettera, perchè cosi le Idee si sottoporrebbero alle condizioni dell'esistenza nello spazio, del mutamento, ecc., condizioni che, secondo Piatone, noa competono che al fenomeno : esse non sono che 1' espressione, sotto una forma sensibile, del concetto sovrasensibile della parteci- pazione e della parusia, cioè della dottrina che gli attri- buti omonimi di t it i gii esseri non sono in sostanza che una ì-ola entità, un solo Attributo, uno e lo stesso in tutt'. A (jueste rappresentazioni m^ter-'ali (^el rapporto tra le cose e le Idee dobbiamo ug^inogere la descrizione simbolica della formazirne dell' anima nel Timeo. Ivi Platone racconta che il Demiurgo compose l'anima— no- tiamo, l'anima cosa, non l'anima Idea—, mescolando in una calda'a V essenza inditnsibile e sempre la stessa con Vessenza che diviene divisibile circa i corpi, e facendo tra di queste du3 cose, porche ciò non avrebbe alcun senso: ma vuol dire che, quando una cosa cassa di essera grande, questa per- dila dalla grandezza può considerarsi sotto due punti di vista, cioè sia coma una cassazione dall'e^iistenza di quest'attributo, sia come la cas-^aziane della parusia dell' Idaa corrispondente a quest' attri- buto. In quanto la grandezza che è in una cosa si considera co- me t't'trìmeaoj cioè come individualizzata e distinta dalla grandez- za che è nelle altre cose, esija perisce : ma in quanto si considera, nella sua ffisenza ruale^ cioè cjme la grandezza una e la stessa che è in tutta le cosa grandi, essa non perisce, ma cessa soltanto la sua parusia nella cosa. Quest'interpretazione è confermata dall'auto- rità d'Aristotile, il quale dica ^ Ih' fimcrat. 1. II, IX, 5) ohe nel Fe- done le Idee si considerano come causa etlioienti, perchè le cose si fanno nascerò per la receziona (nsx5tXYj'];tv) della Idee e perire per la loro sottrazione ( dcTio^oXVjV) : quest'ultima indicazione non può alludere che ai luoghi citati. anche entrare nella mesc( lanza la natura dello stesso e quella del diverso {Tim, 35 ab, 41 d). Che cosa si debba intendere precisamente per queste entità di cui il Demiurgo compose l'anima, è controverso. Io intendo: per Vessenza indivisibile esemjire la stessa l'Idea de' l'anima; per Vessenza che diviene divisibile circa i corpi la inate- teria, di cui Pia one -ncU'ultima for^na del suo sistema — fa un elemento delle cose distinto dalle Idee; per lo stesso e il diverso le due entità ch^^. egli - sempre nell'ul- tima fjnna del suo sistema, iu cui .^i avvicina ai Pita- gorici—riguarda, l'uoa come la forma comune di tutte le Idee, e per con^e^uonzianijhe delle, c^se, l'altra coni'*, la materia tanto delle Id'C quanto delle cose, e che chiama pure finito e infinito, essere e non es-ere, bene e male, uno e dualità indefinita, eguale e ineguale, ecc. (l). Ma che si ammetta questa interpretazione o un'altra, è, per la (jaistione presento, un punto d'un'importanza secondaria; perchè le diverse interpretazioni si accordano sul pun o più importante, cioè che alcuni degli elementi, di cui Platone compone l'anima, sono Idee. Ora l'anima della cui composizione egli p ria, è uni cosa : dunque bisogna anche ammettere che il rapporto tua le Idee e le cose è quello che vi ha tra gli elementi e il loro co n posto, ciò che è raffVrmazione più en^rg ca deiriinina- nenzi delle I Ice. La più parte degl' iuter[»reti t-a ayn- deiitnlisti, s(5 non tutti, non accorderebbero, è vero, eh », l'anima è per Plafone una cosa, cioè una SMnpliee realtà fenomenale : essi ammettono invece che l'anima fa parte della classe delle entità matemat'che, che Platone di- ci) V. per quest'interpretazione Suppl. C, TV, A. - 72 — stingaeva, nel periodo pitagoreggiante, dalle Idee pro- priamente dette 0 Duroeri ideali, e che venivano chia- mate entità intermediarie (tra le Idee eie co ie); e danno della composzioue delTanima nel T/meo questa interpre- tazione, che Platone la compone delle Idee e dell'ele- mento sensibile o della materia, f erchò essa è per lui d'una natura intermediaria fra le Idee e le cose. None qui il luogo di discutere questa identificazione deiranima ad un'entità matematica : qui basterà di osservare che essa lascia intatta la contraddizione che vi ha tra la interpretazione trascendentalista delle Idee e la compo- sizione dell'anima nel Timeo, In effetto, secondo l'inter- prete trascendentalista, le Idee devono essere trascen- dent', tanto di fronte alle cose, quando di fronte aUe en- t'tà matematiche o intermediari^». Tutte le deterniina- zìoni che Platone o Aristotile attribuiscono alle I<le^, di essere delle sostanze, di essere cia^'cuna aOiò xaB'aOxó, di essere x^P-^'c* o xs^^ptaiaéva (separabili o separate), ecc., che provano, secondo l'interprete trascendentalista, che le Idee sono fuori delle cose, prov* Tribberò ugual- mente che e^se sono fuori delle entità intermediarie. Per conseguenza 1 interprete trascendentalista è costretto in quest'alternativa : o di ammettere che le Idee sono im- manenti nelle entità intcrmedia-ie, e allora si avrà Tin- congrueuza che le ste-jse determinazioni significh**ranno ora la trascendenza delle Idee e ora la loro immanenza; o di ammettere che le Idee sono fuori delle entità inter- mediarie, e allora gli elementi di cui l'anima è compo- sta saranno fuori dell'anima. L' identificazione, che noi abbiamo fatto, tra la me- teFsi e la parusia sembra contraria a un luogo del Fe- done (100 d), di cui non dobbiamo tralasciare di occu- parci, tanto più che gl'interpreti trascendentalisti vi ve- dono una prova della loro interpretazione. Ivi Socrate, dopo avere stabilito che vi ha un bello, un buono, un grande ecc., per se stesso, e che una cosa è bella per- chè partecipa ([lexéxei) di quel bello, dice : < Dunque io non comprendo più né potrei comprendere queste spie- gazioni sapienti (alxia; ao^ot^) che ci si danno : ma se alcuno mi dice che una cosa è bella a causa dei suoi colorì vivi o della sua forma o di altre proprietà simili, io lascio andare tutte queste ragioni che non fanno che turbarmi, e dico a me stesso semplicemente e senz'arte, fors'anche troppo semplicemente (tacog sOi^eoog) che non altro fa bella una cosa se non il bello, per la sua pre- senza (r.apo'ja{a) o per la sua partecipazione (xoivoovCa) o in qualunque modo esso sopravvenga (TipoaytYvsTai); che su questo non voglio affermare niente, ma ciò che so- stengo è che tutte le cose belle sono belle per il bello. Questa mi pare la risposta più sicura per me e per ogni altro, e appoggiandomi su questa base, penso di non cader mai, ma di poter rispondere sicuramente, io e chiunque altro, che le cose belle sono belle perii bello ». Gl'interpreti trascendentalisti vedono in queste parole la prova che Platone non determinò mai esattamente il rappor- to tra le cose e le Idee, perchè essi le intendono come se la Tiapo'jota, la xoivwvfa e le altre espressioni di cui egli suole 8»*rvirsi per indicare questo rapporto, significassero delle ip itesi dift'erenti che possono farsi su di esso, e l'autore confessasse che egli era incerto a quale di queste ipotesi sì dovesse dare la preferenza. Ma contro questa inter- pretazione sta il fatto evidente che tutte le volte che Platone allude alla metessi o alla parusia, egli non ne parla come di semplici ipotesi, ma il suo linguaggio è intcamente aftermativo. E per vederlo, non è necessario di uscire dallo stesso Fedone. Nella dimostrazione del- l'immortalità dell'anima che noi abbiamo citato— vale a dire un po' più giù del luogo di cui si tratta— la parusia - 73 - è espressa della maniera più energica, e, certo, non in un modo dubitativo; e nel luogo smesso di cui si tratta la parola npoo^iy^^zai^ la quale esprime evidentemente la parusia, deve valere per tutti i casi, qualunque sia il nome che si debba dare al rapporto delle Idee con le cose. Della metessì si parla immediatamente prima e un poco dopo di questo luogo stesso (100 e, 101 e)— due luo- ghi strettamente connessi con esso —, e se ne parla d'u- na maniera egualmente categorica. In quanto allaxoivowia, essa è per Platone, come si vede abbfl stanza da alcuni dei luoghi citati, un perfetto sinonimo della «jiiGsgic. Ma se la 7iapo*jaia, la xoivcovCa, la [léGsSi?; non sono delle ipotesi differenti sul rapporto delle Idee ron le cose, qual è allora il senso del luogo di cui parliamo V Queste parole e tutte le altro espressonì di cui Platon^ si s rve per indicare il rapporto tra le cose e le Idee, hignificano lo stesser concetto, ma nessuna di esse lo esprime d'una maniera adequata. E che questo rapporto essendo una cosa unica nel suo genere, non vi ha, come abb'amo già detto, alcuna parola che possa esprimerlo. Ciò che vi ha sovratutto d'inesprimibile è naturalmente il carattere di questo rapporto che è la ccusa principale dell' oscurit\ del sistema delle Idee, vale a dire l'es'stenza s'muUanea dell' uno nei molti. Questo carattere essendo nec ssa- riamente assente da tutti i fatti osservabili o semplice- mente rappresentabili, che le parole 7:apot>a£a, iiéOsgi?, xoi- vcDvCot, ecc. potevano evocare all' in maginazioce, ciò ba stava perchè queste parole fosseio giudicate impossenti ad esprimere la relazione tra le cose e le Id(e. La pa- rusia ha il vantaggio di esprimere del^a maniera [nù e-nergica l'inesistenza delle Idee nelle cose; ma non im- plica, anzi esclude, l'esistenza simultanea di una stessa Idea in molte cose, perchè la presenza di una cosa in un luogo — che è il fatto rappresentabile corrispondente alla parola parusia — circoscrive l'esistenza di questa cosa nei limiti di questo luogo particolare. La [léGegig e la xoivwvCa hanno sulla Tiapouota il vantaggio di esprimere che una stessa Idea è comune a molte cose : ma i fatti rappresentabili significati da queste parole si distinguono dal rapporto delle cose con le Idee, perchè, quando più erse partecipano r»d una sola, é necesFario che questa si divida in più parti, o, se resta indivisa, è impossibile che la cosa partecipata entri a far parte della sostanza delle cose partecipanti, come l'Idea delle cose. Platone non dice dunque, nel luogo di cui parliamo, che la TiapouaCa, la xoiv(!)v{a, ecc. sono delle ipotesi diverse che possono farsi sul rapporto tra le Idee e le cose, e che egli non intende affermare categoricamente nessuna di queste ipo- tesi ; ma che il rapporto fra le cose e le Idee potrebbe in certo modo classarsi tra gli uni o gli altri di quelli che i Greci indicano con le parole TiapouaCa, xoivwvta, ecc., ma egli non intende affermare che esso debba classarsi tja gli uni o gli altri, per la semplice ragione che que- ste classazioni sono tutte inesatte. Che que.Nto rapporto, qualunque sia il nome con cui si debba chiamarlo, sia un rapporto d'immanenza, è del resto ciò di che il no- stro luogo porta in se stesso delle prove sufficienti. Il Bello deve essere causa della beltà delle cose belle nei senso stesso in cui lo sono le altre cause sapienti che Platone non approva e a cui viene messo in opposizione, vale a dire i colori vivaci, la forma, ecc. ; ma queste non sono delle cause esteriori, ma delle proprietà delle cose che fanno si che si dia ad esse il predicato bello : dun- que il Bello, dovendo essere una causa della stessa na- tura, non può essere una causa esteriore alle cose belle, ma una proprietà di queste cose. Un'altra prova evidente dell'immanenza é l'opposizione che Plalone stabilisce tra le spiegazioni che egli non ap- - 74 - I I prova e quella che egli prorone: le prime sono delle spie- gazioni sapienti ; la sua è una spiegazione sicura, con cui non si rischia di ingannarsi, ma semplice, senz'arte e quasi quasi un'ingenuità. La stessa opposizione è ri- petuta un po' più giù, 101 e, dove dice: « Ma che? j-e si aggiunge uno ad uno, non avrai timore di dire che è l'addizione la causa di divenire due, o che questa cau a è la divisione se 1' uno si divide in due? e ron dichia- rerai altamente che tu non conosci altro modo con cui una cosa si produca che partecipando (iiexaoxóv) al'a es- senza a lei propria, della quale partecipa (jisxdoxr^), e che per conseguenza tu non sai altra causa di dive- nire due, che la partecipazione disxdoxsaiv) della dua- lità, e che è necessario che partecipi (iisxaoxsìv) di essa tutto ciò che diviene due, come dell'unità tut o ciò che diviene uno? non abbandrnerai le addizion*, le divisioni e le altre sott-gliezze di questo geuerr, lasciandt>le a dei più sapienti di te? per te, temendo, come suol dirsi, la tua^ombra e la tua ignoranza, non risponderai co.-ì, con- tentandoti della ipotesi sicura che abbiamo stabilita ? j> Sulla stessa idea m* ritorna a 105 b-c : ivi Socrate, do- mandando a Cebet^ qual è la cosa, che quando sovrag- giunge a un oggetto, questo si liscalda, dice a costui che non deve rispondergli con quello stesso che egli do- manda, non deve dargli quella risposta sicura, ma igno- rante, stabilita al princip'o, cioè che questa cosa è il caldo, ma una risposta più dotta, cioè che è il fuoco. Ora Platone non potrebbe parlare cosi, se ìe cose belle sono belle per il bello volesse dire ehe esse sono tali pò: che sono state fatto ad imitazione dell'Idea trascendent<3 del bello, perchè questa spiegazione sarebbe più ric^rcat», o come dice Platone, più sapiente di qualsiasi altra : le parole di Platone al contrario sono naturalissime, se la Idea è un attributo delle cose, perchè in questo caso la spiegazione ha tutta Tarla di essere una mera tautolo- gia, somigliando, come abbiamo detto, a quella del me- dico di Molière che l'oppio fa dormire perchè ha la virtù dormiti va. E qui il luogo di parlare dì un epiteto che Aristotile dà alle Idee platoniche, e in cui gl'interpreti trascen-dentalisti vedono una delle prove più forti della loro in- terpetazi «no. Quest' epiteto è x^ptaxó^ (separabile o se- parato), e Aristotile Io dà alle Idee per indicare il loro rapporto sia con le cose sia tra di loro. Quantunque noi non troviamo questa parola negli scritti platonici, tutta- via l'uso frequente che ne fa Aristotile, quando parla delle Idee, non lascia pressocchè alcun dubbio che si tratti di un'espressione platonica, tanto più che in certi casi jn cui egli Tusa (1), ha tutta l'aria di riprodurre le proposizioni di Platone o dei platonici con le loro pro- prie espressioni. Gl'interpreti trascendentalisti intendono per questa parola che le Idee sono separate dalle cose e ciascuna da ciascun'altra : ma noi dobbiamo cercare per essa un signiiìcato che non sia in contraddizione coi risultati evidenti a cui conduce sulla quistione dell' im- manenza o trascendenza dello Idee V esame imparziale degli scritti platonici. Noi cerchiamo, ben inteso, non il significato che Aristotile dà alla parola — ciò riguarda direttamente, non la dottrina di Platone, ma l'interpre- tazione aristotelica di questa dottrina —, ma quello che esso ha potuto avere per lo stesso Platone. Un primo dato che può metterci sulla via per trovare qupsto significato, noi lo abbiamo nel luogo della Repub- blica, 523-524, in cui Platone distingue le percezioni dei sensi che eccitano l'intelligenza alla ricerca e quelle che (1) V. p. e. Eth. End. 1. 1, Vili. ;f — 75 — non lo fanno. Le seconde sono quelle che non inviluppano una contrarietà : p. e. alla vista di tre dita, Tintelligen^a non è obbligata a ricercare cosa sia il dito ; il seoso lo giudica sufficientemeDtp, perchè ciò che apparisce come dito non apparisce al tempo stesso come il contrario del dito. Le prime invece inviluppano qualche contrarietà : p. e. noi non possiamo percepire una cosa molle che non ci sembra al tempo stesso dura, una cosa grande che non ci sembri al tempo stesso piccola, e viceversa. Il senso non dichiara che la cosa sia ciò piuttosto che il suo cjn- trario, e la stessa percezione viene annunziata alFanima come percez'one al tempo stesso del molle e del duro, del grande e del piccolo, ecc. « In tali cose, continua Socrate, l'anima eccita la ragione e Tintelligenza a ri- cercare se ciò che le viene Annunziato sia una sola cosa ovvero due - Glaucome : E come no ? — Sock. E se ap- paiono due, ciascuna delle d'ie non apparirà differente ed una ? - Glauc. : Si - Socr. : Se dunque ciascuna ap- pare una e amendue due, queste due penserà separate (xsxwptoiiéva) : se le pensasse non separate (àxt&ptaxa), non penserebbe due cose, ma una sola — Gl.: È giusto — Socr. : La vista, noi diciamo, vedeva il grande e il pic- colo; ma non come un che di separato (xexwpiafxévovì, ma come un che di confuso (o'jYxsxu|iévov). Non è vero? — Glauc. : Si— Socr. : Ma per rischiarare ciò, l'intelligenza è costretta a vedere il grande e il piccolo, non confusi (ooYxsxujisva), ma distinti (ÒKop'.afxéva), al contrario del senso-GLAUC. : È vero-SrcR. : E non siamo cosi eccitati a ricercare cosa sia il grande e cosa sia il piccolo ?-Gl. : Certo-SocR. : Ed è pure oo^i che abbiamo distinto l'in- telligibile dal sens bile-GL. : Giustamente. » Qui cviden- temente la parola xsx(opia|iévov non significa che il grande e il piccolo esistono isolatamenle l'uno dall'altro e dalle cos<-, ne la parola àxwpioxov il contrario di questo isola- mento : qui non si tratta di altra separazione che di quella che r intelligenza opera nella formazione dei concetti; separato (xsxwptaiiévov) vuol dire semplicemente astratto, e vedere il grande e il piccolo separati (xsxwptajjiéva) vuol dire considerarli in astratto, cioè nei loro concetti^ del resto questo grande e questo piccolo che V intelli- genza, cioè l'astrazione, vede distinti e separati, lungi di essere dogli ogjyetti trascendenti, sono quello stesso grande e quello stesso piccolo che il senso vedeva in- separati e confusi nella percezione degli oggetti concreti. Aristotile usa pure spesso le parole lopioxó^ e xexw- pia[xévog nel senso di astratto^ e x^p^^^siv nel senso di a- Htrarre, Cosi egli dice che gli oggetti della matematica, vale a dire i numeri e le grandezze, sono per il pensiero Xwp'.axa dal movimento (1); che il matematico x^pi^si que- sti oggetti (2); che li pone come xsxo)pia|iéva dagli acci- denti (cioè dagli attributi concomitanti con cui esistono nelle cose) (^3); o semplicemente che li apprende o li con- templa come xextópt<^|AÌva (4) o come x^ptaxcc (5). Simil- mente la forma (elSoaj è per Aristotile x^P^^'^^^v secondo il concetto (6), quantunque non lo sia nella realtà; e cosi pure la materia (7). Il senso delia parola x^ptaióg per Platone, per metterlo d'accordo coi concetti di questo fi- los-^'fo che nni conosciamo dalle sue proprie opere, deve essere determinato in conformità di questi dati; e allora noi otteniamo per questa parola un significato presso- (1) Phis, 1. II, II, 3. (2) Ihid. (iJ) MeL 1. XIII, III, 8, 9. (4) De an, 1. Ili, VII, 7. (5) Met. 1. VI, I, 5. (6) Phys. 1. II, I, 12, Met. 1. V, VIII, 5, 1. Vili, I, 6, ecc. (7) JJe Geu. 1. I, V. G. — 76 — :jt, "V- che identico a quello dell'espressione aOxè xaO'aOtó. Xto- pioTÓg— che noi dobbiamo tradarre non per separato, ma per separaò/7e~.8ignifica che ciascuna Idea, cioè ciascun attributo, a cui questo nome viene applicato, può isolarsi, per il pensiero, da tutti gli altri attributi con cui esso coesiste nelle cose, e che, concepito in questo isolamento, è ancora una realtà, perchè, essendo una sostanza e non semplicemente un attributo, la sua esistenza è indipen- dente dall'esistenza degli altri e da quella delle cose in cui coesiste con gli altri. Lldea ò detta separabile dalle cose e dalle altre Idee— e dalla materia, che, nell'ultima forma del sistema platonico, è un elementi delle cose distinto dalle Idee (l)-come iu un oggetto materiale una parte si dice separabile dal tutto e dalle altre parti con cui forma questo tutto ; c'oè perchè avendo un'esi- stenza propria e distinta, il pensiero può rappresentar- sela come separata, quantunque in fatto non lo sia. An- che secondo il concettualista noi possiamo rappresen- tarci ciascun attributo separatamente dagli altri, stac- candolo per il pensiero dai tutti concreti nei quali coe- siste con essi: ma il concettualsmo non ammette che gli attributi esistano nel tutto concreto di cui sono le parti concettuali, di un'esistenza propria e distinta come vi esistono le parti materiali. Per conseguenza il con- cettualista Aristotile non può attribuire all'sleos il nome Xcoptaxóv senza fare delle riserve: è che questo nome non gli conviene propriamente che nel sistema realista di Platone, perchè dire uoa cosa separabile importa, non solo che essa può essere concepita separatamente, ma che può essere concepita separatamente come reale. Delredto, quantunque il termine xop'.axós, applicato alle (1) V. Supplem. C. entità platoniche, implichi spesso, nell'uso che ne fa Aristotile, la separaz-ofie di queste entità nel senso del l'interpretazione trascendentalista — per la ragione che egli n'n può concepire che ciò che è una sostanza sia al tempo stesso un attributo e un attributo comune a molte cose-, pure non mancano nello stesso Aristotile degli esempi che confermano che il senso del termine per Platone è quello che noi abbiamo detto. Cosi egli chiama xwpiaxóv lo spazio che secondo i Platonici costi- tuisce la materia dei corpi e non esiste altrove che nei corpi stessi (1), e dice (2) che Platone nel Timeo non ha spiegato se ciò che riceve tutto (xò TravSsxé?:) si separi (XwpiCisxa'.) dagli elementi (il ^xavesxés a cui allude Ari- stotile è la materia <iuale viene rappresentata nel Timeo 50 a-c, in cui Platone la det'^rmina d'una maniera che l'avvicina al'a materia aristotelica, e sembra per conse- guenza farne un principio distinto dallo spazio). Siccome la materia platonica è certamente un principio imma- nente, cosi in questi casi non può trattarsi di una sepa- razione rea'e, nel senso trascendentalista, ma di questa separabilità ideale che nel sistema realista compete al- l'astratto, quantunque questo sistema non lo consideri che come un elemento del concreto. Xwpiaxóv è chiamato pure da Aristotile V infinito che secondo Platone è la materia tanto delle cose quanto delle Idee (p. e. : in MeL 1. XI. X. 2) ; ed anche questa è senza dubbio una entità immanente, come lo stesso Aristotile attesta nei termini più chiari nella Fhys. 1. III. IV. 2, in cui dice che per Platone T infinito è nelle cos3 sensibili e nelle Idee (3). (1) Phys. 1. rV, VII, 3. (2) De general, l. II, I, 3. (8) V. pare il nanxero seguente. -77 — Il senso che noi diamo alla parola x^P'-oxo^ risulta anche nettamente dalla Met. ìrXlV. V. 3: ivi Aristo- tile domanda come il numero venga dagli elementi (rUno e la Dualità indefinita); sesia per la mescolanza (l^'-È'-s) o per la composizione (aùvOsais) di questi elementi. Nel primo caso, egli obbietta, l'uno non sarebbe xwptaióv. Qui xwp'.oTÓv non deve intendersi nel senso trascenden- talista, perchè allora l'obbiezione sussisterebbe anche nel- l'ipotesi che il numero venisse dagli elementi per com- pos'zione; mentre per Aristotile essa non sussiste che nell'ipotesi in cui esso ne viene per mescolanza. Il senso dell'obbiezione d'Aristotile è che nella mescolanza gli elementi non conservano un'esistenza propria e distinU come nella composizione, perchè il proprio della mesco- lanza (fiig-) è l'annullamento delle sostanze mescolate come sostanze distinte e la sostiiuzione ad is^e di una nuova sostanza; per conseguenza se il numiro venisse dalla mescolanza dell'Uno e della Dualità indefinita, que- sti elementi non potrebbero esistere nel numero di una esistenza propria e distinta come vuole Platone. Aggiun- gerò infine che in Met, 1. VII. XIV. 2, facendo duo ipo- tesi sul rapporto tra le Idee generi.rhe e le specifiche, di cui l'una è che l'Idea generica esista, numerica nente una e la stessa, in ciascuna delle Idee specifiche, applica a quella il termine x^P'-^xó^ (tanto riguardo a (queste quanto riguardo agV individui) in quest' ipotesi stessa, che è evidentemente quella dell'immanenza. L'uso che Aristotile e Platone stesso nel luogo citato deUa Repubblica fanno del verbo x^p^^stv edeisuoi'derivati,ci autorizza a supporre che questo verbo era un termine tecnico di cui Platone si serviva per denotare quest'ope- razione del pensiero che noi chiamiamo astrarre, con que- sta differenza, beninteso, che, mentre per noi l'astrazione è un artifizio puramente subbiettivo che non ha alcun ìli riscontro nella realtà, al contrario per Platone, come pertutti i filosofi r**fl listi, essa è l'organo per cui lo spirito apprende la real'à vera, e quindi l'operazione doveva in- cludere, per Platone un momento di più che per noi, vale a dire l'afiVrmaz'onc dell'esistenza indipendente dell'og- getto che ne era il risultato. E certo almeno che Pla- tone usa in questo senso delle espressioni analoghe, p. e. à^aipsìv (l'Idea del bene da tutte le altre) (1), à^opi^sLv (2), ecc. Quest'uso della parola x^'^P-Jstv spiegherebbe perfet- tamente quello di x^pt-aióg, che significherebbe, secondo la sua etimologia, astraibile o astratto, implicando natu- ralmente nel senso di queste parole l'idea dell'esistenza per sé, che secondo noi è agli antipoii dell' astrazione, ma secondo Platone ne era inseparabile. Oltre all'ep'teto di xwp'-axóg, Aristotile dà alle entità platoniche quello di xsxwpiajiévos (che però non usa cosi spesso come il primo). Sul senso di questa parola biso- gna fare una distinzione: l'sl^os può es<=»ere detto o y.Byoy- p\.Gliv^o'^ seniplicemente, o xsxwpiajiévov dalle cose sensibili, dagli esseri, ecc. Il primo di questi due casi non presenta alcuna difficoltà: nell'ipotesi dell'immanenza, cosi bene che in quella della trascendenza, ciascuna Idea è sepa- rata dalle altre Tcioè non da tutte, ma da tutte quelle di cui non è né un genere né una specie) e dalla materia, quantunque unita con esse negli oggetti concreti in cui essa è presente; perchè l'Idea è una sostanza, e una so- stanza esiste in se stessa e al di fuori delle altre. In quanto al secondo caso, xsxwp'.ajxévog dalle cose potrebbe signifi- care: che è stato separato j9er il jyensiero dalle cose; e in (1) Rep, 534 b. L'Idea del bene è l'sido; degli sl^r^» e perciò si trova in tutte le Idee. (2) Parmen. 133 b. ^78- '<" ; 1 f questo senso l'espressione si applicherebbe alle Idee consi- derate, non assolutamente, ma in relazione all'operazione dello spirito che noi chiamiamo astrarre^ e che Platone avrebbe chiamato xcopJJsiv. Il bello, il buono, il grande, ecc. xsxwptojiéva dalle coj^e vorrebbe dire il bello, il buono, il grande, ecc. concepiti in se stessi, cioè quali appariscono al pensiero dopo che questo ha isolato ciascuno di essi dagli altri attributi e da tutte le circostanze particolari che lo accompagnano negli oggetti concreti. Ma Aristo- tile applica questa e simili espressioni alle Idee, consi- derandole evidentemente, non in relazione alToperazìone dello spirito per cui l'Idea viene appresa in se stessa, ma assolutamente: p. e. egli dice: secondo alcuni le entità matematiche sono xsxwpiaiJisva dai sensibili, secondo al- tri nei sensibili stessi (1). Quest'uso della parola xsx^opt- o|jL£voc; sembra implicare la t'-ascendcnza deMe I Ice, ed af- fettivamente Aristotile la impiega in questo senso. Ma siccome non vi ha alcuna ragione per ammettere che le espressioni d'Aristotile siano la riproduzione fedele di quelle di Platone, cosi non può farsi di quest'uso del'a parola xsxwpiaiisvoj un argomento diretto a favore della trascendenza, a parte quello, certamente grave, ma in- diretto, che può tirarsi dall'autorità d'Aristotile come in- terprete del sistvima platonico. VII. Il rapporto tra le Ide3 generiche e le Idee spe- cifiche non può essere che identico a quello tra le Idee e le cose: se il primo rapporto è d'immanenza, il secondo non può essere di trascendenza. Ciò risulta prima di tutto dall'indole stessa della teoria delle Idee. Gli stessi mo- tivi che Platone aveva per ammettere l'immanenza dei Generi nelle Specie, dovevano anche fargli ammettere la immanenza delle Specie negl'individui : s'egli riguardava i Generi come inerenti nelle Specie, ciò non poteva es- sere che per questa ragione assai semplice, che il gene-rale non si trova altrove che nel particolare ; ma per la stessa ragione egli doveva riguardare le Specie come ine-renti negl'individui. Dall'altra parte, tutte le inconcepi- bilità legate, nella dottrina dell'immanenza, alla sostan- tificazione degli universali, esistevano egualmente, tanto nel rapporto tra le Idee e le cose quanto in quello tra le Idee generiche e le Id^». specifiche. Se Platone avesse ammesso la trascendenza delle Idee rispetto alle cose pfr evitare l'assurdità che una sostanzi inerisca in altre so- stanze come attributo, che l'uno si trovi simultaneamente in ciascuno dei molti, ecc. ; per gli stessi motivi egli a- vrcbbc dovuto ammettere la trascendenza delle Idee dei generi ri^^petto alle Idee delle specie. Per conseguenza tutte le determinazioni delle Idee, che all'interprete tra- scendentalista sembrano una prova della separazione delle Idee dalle cose, proverebbe! o pure la separazione delle Idee generali dalle Idee più particolari. Se i termini ov, oOata, aOxò %a(i'aOxó, e gli altri attribuiti alle Idee per in- dicare la loro sussistenza per s^ stesse, significano, nonsolo che l'Idea è una sostanza, ma che è una sostanza che esiste separatamente da ogni altra; l'Idea sarà sepa- rata tanto dalle cose quanto da tutte le altre Idee. Se il Xcopiaió; e il x£x^'>?-^IJ'*voc; d' Aristotile prov^ano la tra- scendenza dell'Idea di fronte all'oggetto riguardo a cui questi termini le vengono attribuiti, essi proveranno la trascendenza delle Idee gen'^riche di tronte alle Idee spe-ifiche, j eichè Aristotile li attribuisce alle prime a riguardo delle seconde (1). Se quando le Idee si dicono (1) V. Met, l. Ili, [, 15, 1. Xni, I. 4,J. XIII, IL 0) V. Klh. End. 1. I, VllT, y-10, y[el. 1. Ili, III, IB, 1. VII, XIV, 2, XV, 6, 1. X, II, 2, 1. XIII, X, 6, ecc. - 79 - i essere :iapà ì sensibili, noi dobbiamo intendere, non solo che esse sono delle sostanze distinte dalle sensi- bili, ma ancora che esistono al di fuori di queste ; bi- sogDerà ammettere pure che le Idee dei gi neri sono al di lucri delle Idee delle Specie, perchè le prime hoio dette essere Tiapd le seconde (Ij. E in una parola, tutte le prove che secondo grinterpreti trascendentalisti dimostrano la trascendenza dille Idee di fronte allo cose, dimostrereb- bero egualmente quella delle Idee più generali di fronte alle Idee p ù part colarì, perchè queste prove si riducono, jn uliima analisi, alla sostantificazione delle Idee e alla loro dist'nzione dall^*. cose. Ag^riungiamo che gli stessi termini e le stcss^, formule di cui Piatone si serve per indicare il rapporto tra le Idee e le cose, gli servono ugual- mente per indicare il rapporto tra le Idee più generigli e le Idee più particolari. Cosi, quando Platone chiama la gene- ralizzazione una oDvaYcoYTp cu è una riduzione del multiplo liirunità; quando chiama l'Idea l'uno nei molti ; quando dice che Tuno è molti e i molti sono uno; quest'uno di cui ej^li parla è tanto l'Idea rispetto alle cose, quanto la Idea generica rispetto alle Idee spr cifiche, e i molt», tanto le cose rispetto all'Id^^a quanto le Idee specifiche rispetto all'Idea generica (2j : ora, la relazione che Platone sta- bilisce tra TYino e i molt', non può nei due casi essere difiFerenie. Così pure la p'irola partecipare — cioè le pa- role gre. 'he che le corrispondono — non può avere due sensi di (ferenti, quando Piatone dico delle cose che parte- cipano alle Idee, e quanio dice delle Idee che parteci- pano ad à'tre Idee più generali (3). (1) V. Ari-;t. Met. 1. Ili, III, 11, 1. VII, XIII, 6, XV, 7, 1. XIII, X, 6, FJth. lùid. l. I, Vili, 9, Plato. Sof. 250 b, eco. (2) V. niim. V. (3) V. num. precedente. Segue da ciò che abbiamo detto che ciò che prova immediatamente l'immanenza delle Idee più generali nelle Idee più part'colari, prova anche mediatamente l'imma- nenza delle Idee nelle cose. È a questi clas?e di prove che appartengono, almene in parte, alcune di quelle espo- ste nei numeri precedenti — notevolmeilte la comunione dei generi del Sofista, l'identità tra l'uno e i molti del Fllebo, la .«-eneralizzazione considerata* come una ridu- zione del multiplo all'uno--: le prove che esp^rr^mo nel presente numero appartengono pure alla stessa classe. Il rapporto fra le Idee generali e le Idee particolari è considerato da Platone a un doppio punto di vist*», corrispondente al doppio punto di vista sotto cui possono considerarsi i concetti, (juello dell' estensione, e quello dell' intensione. A Considerando i concet*;i, e quindi le Idee, che non sono se non i concetti realizzati, al punto di vista del- Pestensione, le Idee specifiche sono contenute nelle Idee generiche. Questo punto dì vista è naturalmente quello della dialettica, poiché la dialettica platonica è la divi- sione del genere nelle specie, e considera quindi il ge- nere nella sua estensione. Siccome nella divisione (diaipsT.;) le specie sono ri- guardate come parti del genf^re, e l'oggetto proprio di questo metodo sono esclusivamente 1^, Id'e, cosi la dia- lettica — vale a dire 1' uno dei due elementi costitutivi df Ila teoria delle Idee — ha p«»r bas^. il concetto che le Idee specifiche ^ono^Mr/ideiridea generica. Per la prova della proposizione che l'oggetto proprio ed esclusivo della divisione sono le Idee, rimando al num. IV : in quanto alla propos zione che nf^lla divisione le specie sono ri- guardate come parti del genere, sembrerà una puerilità di credere che sia necessario di prov<irla. Tuttavia sic- come può esservi (jualche lettore che noa abbia alcuna - 80 — V nozione della dieresi platonica, e questi potrebbe imma- ginare che Platone nelle sue dieresi non riguarda le spe- cie in cui il genere viene diviso come parti di esso — ciò che infatti sarebbe la conseguenza inevitabile dell' ipo- tesi della trascendenza —, cosi non sarà torse inutile di provare coi testi 'anche questa proposizione. Perciò ba- steranno i due luoghi seguenti : Polii, 2(]2 a 263 b : Lo straniero (riprovando una di- visione di Socrate) : « Non separiamo una pi«*.cola parte per opporla ad altre grandi e numerose, né prendiamo una parte soìza la specie, ma la parte abbia al tempo stesso specie. E bello di separare subito da tutto il resto ciò che si cerca ma vale di più andare dividendo per metà, e meglio cosi scopriremo le Id'»e ; ora è ciò che importa sovratutto in ogni ricerca — Socr. : Ma come si può i atendere più chiaramente che la parte e la spe- cie non sono la stes-^a cosa, ma due cos^ difieren^iV — Lo stran.: Ottimo fra gli uomini, non è lieve ciò che mi domandi Guardati bene però di pensare di aver udito da me alcuna cosa determinata intorno a que- sto — Socr. : Intorno a che? — Lo «tran. : Che la part^ e la specie siano due cose differenti — Socr. : Perchè? — Lo STRAN. : La specie v necessarìament*^ una parte di ciò di cui si dice che è una specie, ma non è necessario che una parte sia al tempo stesso una specie. Non dimenti- care mai, 0 Socrate, che io cerco di dividere di questa maniera (cioè par parti che sono specie) anziché delPal- tra (cioè per semplici parli) ». Fedro 265 c-266 b : « Vi hanno due cose che sarebbe interessante che un uomo abUe potesse trattare con arte. Prima, di ricondurre ad un'Idea unica, guardandolo con una veduta comprensiva, lutto ciò che è sparso da una parte e dall'altra e poi di sapere di nuovo dividere per ispecie come per altrettante articolazioni naturali, cer- cando di non mutilare alcuna parte come farebbe un cat- tivo scalco. Cosi poco fa i nostri due discorsi (fatti l'uno in lode, e Paltro in biasimo dell'amore) hanno cominciato per prendere la specie generale del delirio, e come un sol corpo si compone di membra doppie, chiamate con lo stesso nome, cioè le destre e le sinistre, similmente essi hanno conside- rato il delirio come una specie unica, e Puno, dividendo la parte sin^'stra e suddividendola, non si è fermato che dopo aver trovato un certo sinistro amore, ch'esso ha colmato di rimproveri ben meritati ; l'altro, avendo preso la destra del delirio, vi ha trovato un altro amore, simile al pri- mo di nome, ma divino, che ha colmato di lodi, vantan- dolo come l'autore dei più grandi beni. Per me, o Fe- dro, io sono amante di queste divisioni e riunioni (ao- vaY0)Yó5v), per essere più in grado di ben pensare e di ben parlare; e se credo di scorgere in alcuno la capacità di guardare all'uno e ai molti, io seguo le sue orme come quelle d'un dio. Quelli che hanno questa capacità, dio sa se a torto o a ragione, io li chiamo sin qui dialettici ». In questi luoghi non potrebbe supporsi che Platone, mentre riguarda le specie come parti del genere diviso, dimentica il suo principio che l'oggetto a cui si applica la dieresi sono le Idee — ciò che è la sola risorsa a cui potrebbe ricorrere l' interprete trascendentalista per ne- gare che le Idee specifiche siano considerate come parti dell' Idea generica — Infatti in essi è affermato esplicita- mente che il vero oggetto della dieresi sono le Idee : e oltre di ciò la supposizione potrebbe al più essere am- missibile nei casi in cui questo metodo non è che praticato; la pratica, potrebbe dirsi in questi casi, non corrisponde alla teoria ; ma nei due luoghi citati Platone si mette al punto di vista teorico, dandone nell'uno delle regole, e nell'altro inculcandolo come metodo generale, e ciò con un'enfasi che basterebbe essa sola a provare che egli lo -81 ^ considera nella sua applicazione alle Idee, poiché è in quest'applicazione che esso diviene una soluzione del pro- blema delle cause, efficienti, e acquista perciò il pregio inestimabile in cui è tenuto da Platone. Del resto, oltre alle dieresi e ai luoghi relativi a que- sto metodo, che Tlatone riguardi le Idee sprcifiche come parti deir Idea generica, risulta anche da altri luoghi, nei quali non vi ha alcun dubbio che le specie e i generi di cui si tratta sono le Ideo. Cosi nel Sofista 257 c-2r)8 d : « La ^ùgk; del diverso mi pare essere frazionata (xaTa/.s- xspfxaxio^aO come la scienza. Questa è pure una; ma cia- scuna parte di e^^sa, riferendosi a un soggetto particolare, prende un nome particolare; e perciò vi hanno molte arti e molte scienze — Senza dubbio — Non vale la stessa cosa per le parti (.uópia) della y-Jx^ del diverso, un-> in Fé stessa V — Forse, ma spiega in che modo — Vi ha una parte (iiópiov) del Diverso, che si oppone al Bello ? — Si — Ha qualche nome o non ne ha V ~ Lo ha ; perchè ciò che chiamiamo non bello non è che ciò che è diverso dalla cpóac; del bello — Bisogna porre nel numero degli esseri il Non hello non meno che il Bello? - Non meno — E bisogna pure dire che il Non grande è similmente che il OrandeV — Similmente— Dunque anche il Non giusto porremo di fronte al Giusto, come se il primo non esis a meno che il secondo V — Certamente — E lo stesso vale per le altre cose, poiché noi abbiamoo visto che la cpjot; del diverso è nel numero d^gli esseri; e ammettendo che essa è, bisogna anche ammettere che le sue parti (ixópiaj sono — E come no V — Per conseguenza Topposizione di una parte (jióp.o'j) della (f'jG.g del diverso a quella dell'es- sere non è meno un essere che l'Essere stesso; e signi- fica, non il contrario di questo, ma solamente il diverso — Evidentemente — Come la chiameremo V — È chiaro che è il Non essere, che noi cerca v^amo pin- causa del sofi- f1 sta Noi abbiamo non solo dimostrato che i non es- seri sono, ma spiegato ancora che cosa sia la specie del non essere; poiché avendo provato che esiste la cpóots del diverso, e che si trova divisa (xaTaxsxspiiaxtaiiévYjv) in tutti gli esseri, nella loro relazione reciproca, abbiamo osato di dire che la parte iiiòp\.o^) di essa, opposta a ciascun es- sere, è realmente il Non essere. » Nel 7imeo 30 c-d si cerca quale sia Tanimale — l'ani- male Idea, non "animale cosa — a somiglianza del quale il mondo è stato f'atto. Quest' animale, dice Timeo, non può essere uno (<i quelli che sono nel genere della parte (jiico'); -— cioè che sono delle parti), perchè ciò che è fatto a somiglianza delT imperfetto non può essere bello; ma è l'animale <f di cui tutti gli altri animali, presi per ge- neri e per individui (cioè ppr ispecie, perchè gì' individui di cui qui si tratta sono Idee), sono delle parti (jidpia). Esso contiene in sé (iv éaoxò) TispiXagòv sxet) tutti gli ani- mali intelligibili, come questo mondo contiene noi e tutti gli animali visibili». Per conseguenza (31 ab) essendo fatto sopra un tale esemplare, il mondo è unico : « poiché quello che contiene (xò Tispiexov) tutti gli animali intelligibili non può essere un secondo con un altro; perché allora esi- sterebbe necessariamente un altro ancora, di cui ciascuno dei due sarebbe una parte (népo;), e il mondo sarebbe stato fatto a somiglianza, non di questi due, ma di quest'altro che conterrebbe (rwspié/ov) tutti e due. Affinché dunque que- sto mondo fosse simile per la sua unità all' animale as- soluto (TiavTSAsì), il suo autore non ne ha fatto né due né un' infinità, iva non ha prodotto che questo solo cielo, che è e sarà unico ». A 39 e poi, cominciando a narrare la produzione degli animali, Timeo dice che il mondo, in quanto al resto, somigliava al modello alla cui imita- zione è stato fatto, e ma non racchiudendo tutti gli ani- mali che sono nati nel suo seno, per questa ragione era — 82 — ancora dissimilt ; perciò il Demiurgo aggìuDgcva ciò che gli mancava, riproducendo la natura del suo modello. Per conseguenza, quali e quante specie V intelligenza vede inesistenti rivo'iaa^) in ciò che e animale (xòi '6 iaii ?;tr)ov), tali e tante h labili che questo mondo dovesse ri- ceverne». Quest'animale assoluto o intero, che contiene tutti gli altri animali intelligibili come delle parti, non può essere che l'Idea generale dell' animale. In effetti, quando un nome si riferisce alle Idee, non può signifi- care nel linguaggio di Platone che l' Idea delle cosr a cui questo nome appartiene. Ciò è coul'ermato inoltre dall'argomento con cui Platone dimostra che quest'ani- male ò unico, cioè 'he se ve ne fossero due, ve ne sa- rebbe anche necessariamente un altro, che li conterrebbe amendue, e sarebbe questo l'animale assoluto. Lo stesso argomento si trova nel'a nep, 597 c-d per dimostrare che non |,uò esistei e che una sola Idea del letto; e sotto una forma generale può svilupparsi cesi : per tutti i molti compresi sot.o un concetto comune vi ha un' Idea (ciò che è dimostrato dalla prova per l'esistenza delle Idee), e non può esservene che una sola, poiché, se ve ne fos- sero di più, queste farebbero parto dei molti compresi sotto il concetto eoinuiu', perciò al di bopra dì questa nini-' liplicità bisognerebbe cercare aucora un'unità, e sarebbe «iuella, e non le precedenti, l'Idea dei molti compresi sotto ifconcetto comune. Infine ciò che toglie ogni dubbio è la denominazione di o sar. ^coov, perche o san equivale, come abbiamo visto (n. II), ad aOxó, e significa che il -lome acuì si aggiunge viene applicato all'Idea delle cose de- notato da questo nome. Platone può riguardare T Idea dell'animale come l'esemplare del mondo, perchè, siccome egli ammette l'animazione delle piante, della terra e degli astri, cosi ogni sostanza è per lui un essere animato o almeno una parte di un essere animato ; e per conse- guenza, tutti gli oggetti dei nostri concetti essendo con. U'uuti nelle sostanze, le Idee degli esseri animati, cioè le parti dell' Idea dell'animale, esauriscono in un certo modo tutto il contenuto del mondo ideale. La relazione di tutto e parti stabilita tra l' Idea ge- nerale e le Idee particolari subordinate presenta una dif- ficoltà. La specie è certamente uux parte del genere, se por genere e per ispecle s'intende la collettività degl'in- dividui : ma V Idea non «• la collettività degl' individui, ma solamente l'attributo o insieme d'attributi comune a questa collettività. Ora l'insieme degli attributi specifici non è contenuto come una parte nell'insieme degli at- tributi generici. Sembra dunque che il concetto che l'I- dea specifica abbia con l'Idea generica la relazione della parte col tutto, sia incoaapatibile, tanto con l'ipotesi della trascendenza delle Idee, quanto con quella della loro im- manenza. Per risolvere questa difficoltà bisogna ricor- darsi della formula platonica che l'uno è i molti e i molti sono Tuno, e della sp'egazione che ne abbiano data (V, 4^). Tra l'uno e i molti — cioè tra il (ien^re e le Specie, tra la Specie e gl'individui — vi ha una relazione che è al tempo stesso di differenza e d'identità. L'uno e i molti, nell'ipotesi dell'immanenza, s'identificano necessariamen- te, perchè sono la stessa co3a, il primo in astratto, i se- condi in concreto; quantun(|ue al tempo stesso si distin- guano, perchè l'astratto e il concreto non sono solamente due punti di vista subbiettivi sotto cui la stessa cosa viene considerata, ma due gradi o momenti successivi (logicamente) dello sviluppo dell'essere, che, pur con- servandosi identico a se stesso, passa continuamente — questa è la vita dellldea — da uno stato più astratto o più indeterminato a uno stato più concreto o più deter- minato. Questa determinazione o concretizzazione pro- gressiva dello stesso essere, ammessa necessariamente in tutti 1 sistemi che realizzano gli universali, nel sistema -.83 — di Platone, per la maniera in cui egli concei)isce la d'a- Jettica, cioè il metodo di dedurre le Idee — metodo che non è altra cosa, in Platone come negli altri metafisici realisti, che la riproduzione subbiettiva di questo stesso processo per cui Tessere si sviluppa por una concretiz- zazione progressiva — è al tempo stesso una divisione progressiva, ciò chs nel momento anteriore, più inde- terminato, è wno, nel momento posteriore, più determi- nato, trovandosi molti, Platone chiama dunque ciascuno dei molti una parte deir^mo, poiché i molti non sono che Vuno stesso che, det'^rminandosi, si divìde. Certa- mente questo concetto non è facile a comprendere, «nzi, per dire la cosa com'è, é assolutauif^nte inintelligibile; ma è la conseguenza inevitabile de'la reaMzzazione de- gli universali. Questa conseguenza però non ha luogo che quando dell'universale si fa un'entità immanente, vale a dire quando, realizzanlos», esso non cessa di es- sere veramente un universale, cioè la proprietà cornine dei particolari. Ma se l'Idea è trascendente, essa non è più, a parlar propriamente, Tuniversile, non è più le cose stesse considerate dal punto di vista dell'astrazione: al- lora l'astratto e il concreto, l'uno e i molti, sono sola- mente distinti, e non al t-^mpo stesso distinti e iden- tificati. Il rapporto di tutto e parti stabilito tra l'Idea gene- rica e le Idee specifiche ci fa comprendere certe locu- zioni che al punto di vista ordinario sarebbero strane. Platone chiama le specie di un genere parti (jiipr^, iió- P'.a, T»jn^naxa, ecc.) dell'oggetto deao'aco dal nome gene- rico, e qu^^sto tutto (oXo;, 715;, ecc.) relativamente alle specie del genere. Cosi, oltre agli esempi di queste locu- zioni nelle dieresi delle arti e delle scienze del Sofista e del Politico, dice: le parti del delirio (Fedro 265 b, 266 a), dell'imprudenza (Alcib. 2'' 140 e), dell' ignoranza {Sof. Jìl 7. ? ^^2 d), della figura {ML 12 e), ecc., intendendo le loro specie; neWEutifr. J; oL ""^ f""" '^ ''^''*^ ^ '' P^^^'1 Sì^^^o ; nel Fo- nt. 266 a, eh egli ha diviso tutto quanto l'animale do- mestico e vivente in gregge; nel Conr. 205 b-d, che un sl5o; part colare dell'amore é chiamato col nome del tutto amore; ecc. (1). Il delirio, il piacere, la figura, ecc., non significano la collettività delle cose o dei fenomeni chia-mati con (luesti nomi, ma il concetto della cosa o del fé- nomeno la generale: cosi le loro specie non potrebbero, al punto di vista comune, esserne chiamate delle parti' Se Platone lo ia, è perchè, secondo luì, il concetto si ri^ ferisce all'Idea, e le Idee specifiche sono parti deiridea generica. Per conseguenza, per questo delirio, per que- sto piacere, per questa figura, ecc., bisogna intendere la Idea del delirio, del piacere, d^lla figura, ecc. : e sicco- me nella più parte di questi casi, se non in tutti, è evi- dente che Platone non parla di entità trascendenti, ma del delirio, del piacere, della figura, ecc. in noi e nelle cose, cosi noi dobbiamo vedervi un'altra prova — imme- diata - - dell'immanenza delle Idee. rn'altra maniera di formulare il rapporto tra l'Idea più generale e le Idee più particolari ad essa subordi- nate, è di riguardare la prima come contenente e le se- conde come contenute. K ciò che si vede nei luoghi ci- tati del 7meo e in tanti altri, tra cui basterà d'indicare Sof. 250 b (luogo citato al num. IH carta 20) e Sof. 253 d, Jydro 273 e, l'olit. 2S5 b (luoghi citati al n. V. 2«)! Evidentemente Platone non può dire che l'Idea generale co atiene le Idee particolari che nello stesso senso in cui noi ^'^l (1) Cfr. Menane 77 a, luogo citato a carta 38 (a. V, i»), e 79 a. — 84: — / diciamo che il concetto generale contiene i concotti par- ticolari ; vale a dire in quanto le sfere, in estensione, delle seconde cadono dentro la sfera, in estensione, della prima. Ora l'estensione non è una proprietà cheappar- tiene agli oggetti dei nostri concetti, agli astratii, con- siderati in se stessi, cioè nel loro coiìtenuto intrinseco; ma appartiene ad essi in ragione degli oggetti, i con- creti, di cui essi sono gli attributi. Noi diciamo che ani- male è più esteso di uomo^ e lo contiene, in quanto gli oggetti di cui si predica animale, sono più numerosi di quelli di cui si predica uomo, e la totalità dei secondi è una parte della totalità dei primi. In assenza di og- getti, di cui uomo e animale siano gli attributi, non po- trebbe parlarsi, per essi, di estension'^, non potrebbe dirsi che il secondo è più esteso del primo e lo contiene. Ora, secondo gFinterpreti trascendentalisti, non vi hanno, \ov Platone, oggetti, di cui uoìno e animale^ considerati co- me Idee, siano gli attributi : Tldea dell'uomo non è un attributo degli uomini, Tldea delP animale non è un at- tributo degli animali, ne degli animali cose, ne degli ani- mali Idee. Per conseguenza, Platone non potrebbe dire dell'Idea dell'animale ch'essa contiene l'Idea dell' uomo e degli altri animali : le Idee, separate dalle cose e le une dalle altre, avrebbero semplicemente intensione, non avrebbero estensione (1). lo ho creduto di dover distin- ii*ip (1) Noi dobbiamo vedere perciò una prova dell'immanenza delle Idee in lutti i casi in generale in cai Platone attribuisce ad esse un' estensione. P. e. nel Sof. 254 c-d (luogo citato nel numero |)re- cedente), dove chiama le Idee dell'essere, «iello stato e del movi- mento i generi pia grandi ({isyiaia) tra quelli di cui egli ha par- lato: non potrebbe chiamarli cosi, se non li riguardasse come con- tenenti, nella loro estensione, un più gran numero di oggetti che sVi altri. guere la proposizione che l'Idea generica contiene le Idee specifiche da quella che le Idee specifiche sono parti del- l'Idea generica, quantunque in certi casi, come nei luo- ghi cH«iti del Timeo, le due proposizioni siano eviden- temente equivalenti, perchè la prima non include neces- sariaiaente nel suo significato questa identificazione del- l'uno coi molti inclusa nel significato della seconda. Per rappresentarsi un'Idea come inviluppante, nella sfera del- la sua estensione, un'altra Idea, Platone non ha bisogno di riguardare la seconda come una parte della prima, ma solo di riguardare la totalità degli oggetti in cui 67 /rova la seconda come una parte della totalità degli oggetti in cui .st trova la prima.B. Considerando le Idee al punto di vista dell'inten- sione, le Idee generali sono contenute nelle Idee parti- colari. Una delle prove più palpabili di questa proposi- zione ci è fornita dallo stesso Aristotile, malgrado la sua innegabile inclinazione verso l'interpretazione trascen- dentalista : è la dottrina dei due elementi delle Idee e delle cose— dottrina appartenente alle ultime speculazioni di Platone, e per la cui conoscenza noi siamo ridotti quasi unicamente all'autorità d'Aristotile— Secondo que- sta dottrina, tutte le Idee sono costituite da due elementi (oToixsta) che corrispondono al Fine e Infinito dei Pita- gorici, e che Aristotile chiama talvolta con questi stessi nomi, ma il più ordinariamente con quelli di Essere e Non essere o (al punto di vista della teoria dei numeri, ai quali le Idee venivano identificate) di Uno e Dualità indefinita (o Grande e Piccolo). L' uno o essere era la essenza (oOaia) o forma o specie (zllo^) di tutte le Idee; la dualità indefinita o non essere ne era la materia (2). (2) Mot. 1. I, VI, 3-8, 1. Ili, III, 5, IV, 21-30, 1. IV, II, U, U XIV, I, II, IV, eco. -85 — 1 1 (1 t / FI Il nome dì elemmii dato ai due prìncipìì ultimi delle cose non deve farci illusione sul vero significato di questa dottrina : queste due entità non sono al fondo che due Idee generiche, a cui tutte le altre sono subor- dinate come loro specie, vale a dire dei predicali uni- versali, comuni a tutti gli esseri ([), considerati come delle sostanze (per cui vengono loro applicati i termini aOxó, xaH'aóió, x^ptoTóv, indicanti lastrattezza dell'Idea e insieme la sua sostanzialità) (2), e ciascuno come uno nel molti (3). In verità Piatone non considera rome Idea di genere nel senso stretto che quello dei due elementi che fa da sl5o;, e che non è altra cosa che T Id*>a del bene (4j, che nel 6^ e 7° libre della Rep. ^ daU come il principio dell' essere e della conoscenza — è questo, come vedremo a suo luogo, un artifizio destinato a con- ciliare la dottrina, dovuta ai Pitagorici, di una dualitii di principii con l'esigenza della dialettica, cioè della die- resi, la quale richiedeva al vertice della piramide che costituiva il mondo ideale, non due Idee, ma una Idea u- nica come genere supremo—: ma la denominazione stessa di materia delle Idee data all'altro elemento, per distin- guerlo da un'Idea di geaere propriamente detta, ci dice (1) Met. 1. I. VI. 4-7, IX. 24, 1. III. III. 6,^-8, 13, IV. 24, 1. V. III. 4, 1. X. IL 1-2, 1. XI. I. 11, 1. XIJI. Vili. 25-28, 1. XIV. I. 13, IV. 5-6, ecc. V. a. pel Xon essere Plato. Suf, 256 d-259 b. (2) Phys. 1. ili. IV. 2, V. 1-3, Mct. 1. I. VJ. 4, IX. 17, 1. III. J U IV. 21-30, 1. VII. XVJ. 3-6, 1. X. II, 1. XI. II. 6-7, X. 2-5, I. Xiv! V.' 3, eco. (3) MeL 1. I. VI. 6, IX. 24, 1. III. I. ]1, iv. 9, 26, VI. 1^, 1. V. JII. 4, 1. VII. XVI. 5-6, 1. X. If. 1, 1. XI. a. 11, 1. XIII, X. 1-6, 1. XIV. II 4, 11, 12, IV. 7, eoo. (4) Met. 1. I. VI. 8, VII. 5, IX. 21, 1. ^l. X. 1. 4, 1. XIV, IV. 2-7. V. 1, EUi. Eud. 1. I. vnu 14, eoo. abbastanza che anch'esso è al fondo un predicato gene- rale, comune a tutte lecose— meno, s'intende, l'elemento opposto— poiché il nomed'una materia (il legno, l'oro, ecc.): è un nome generico applicabile alle cose che sono fatte (interamente) di questa materia. Per conseguenza tra i due elementi e le Idee deve esservi lo stesso rapporto, d' immanenza o di trascendenza, che vi ha tra le Idee dei generi e «juclle delle specie, e questo non può, come abbiamo detto, differire da quello che vi ha tra le Idee delle specie e le cose individuali. Tanto piti che il rap- jorto tra i due elementi e le Idee è designato dagli stessi termini che designaao quello tra le Idee generi- che e le specifiche o tra le Idee e le cose : p. e. le Idee sono dette partecipare (ijlstsxsiv) (l) agli elementi, e que- sti sono chiamati separabili o separati (xwpiaia o y.sy/o- P'.ajjiéva) (2). (Jli stessi termini, come abbiamo più volte o^^servato, non potrebbero indicare, in un caso, un rap- • porto d'immanenza, e in un altro, un rapporto di tra- scendenza. Ora non vi ha dubbio che il rapporto dei dtie principii con le Idee sia quello dell'immanenza: se non fosse cosi, non potrebbero essere chiamati elementi, e l'uno materia, l'altro forma o essenza, delle Idee.. E si noti che Aristotile prenie la parola elemento nel senso ' stretto : cosi egli fa inerire (OTcocpxstv, svjTiapxstv, slvai sv) i dae principii negli esseri derivati (3); chiama que- sti, rapporto ad essi, dei composti (aóvS'cxa) (4j; paragona (1) MH, 1. I. VI. 4, I. XII. X. 4, 1. XIV. IV. 7, ecc. (2) Mei, 1. IV. II. 16, 1. XI. II. 6, X. 2, 1. XII. X. 1, 1. XIV. I. 2, li. 13, V. 3, ecc. (8) ^fcL 1. V. m. 4-5, l. XII. IV. 3, l. XLV. II. 2, Phys. I. III. IV. 2, eoe. (4) Mt't. l. XU. IV. 3, 1. XIV. 11. 1. m Vi V '\ n modo in cui essi formano gVi esseri a quello in cui le lettere formano le sillabe (1); li considera entrambi co- me materia dei composti (2) ; e fa l'obbiezione che, se ciascun elemento è uno di numero (come dice Platone), e non semplicemente di specie, non vi saranno altri es- seri che gli elementi stessi (3i. Un'osservazione analoga vale per il nome di materia dato all'uno dei due princi- pii: questo principio è per Aristotile il sustrato (j-oy.s:- jisvov), nelle Idee, al quale la forma inerisce (4); para- gona il rapporto delle I lee con esso a quello della meusa col legno di cui è fatta (5) ; considera la sua funzione nel sistema platonico come identica a quella che ha la materia nel suo proprio sistema ((3), tranne che Platone confonde la materia con la privazione, menti e egli le di- stingue (7) ; e lo riguarda come la potenzialità di tutte le cose, come il tutto allo stato indetermina^r», prima di determinarsi per la partecipazione delle for.aiih). La proposizione che il principio materiale è gli esseri stessi in potenza è attribuita anche a Platone stesso (9) ; e ve- diamo una singolare applicazione di questo concetto nella formazione dei numeri, le uiità del primo numìro che viene formato, cioè della dualità definita, essendo ri^-uar- (1) MeL 1. I. IX. 29-30, 1. XU, IV. 3, l. Xlll. X. 2^, 6, eoe (2) Met. 1. Xni. Vili. 23-28, 1. XIV. 11. 1-5. (3) Met, 1. m. IV. U, 1. XI. n. 11, I. XUl. X. 2-3, 6. (4) Met, 1. 1. VI. 7, 1. 1. IX. 22, eoo. L'oUmauto matoriale è an- che detto luogo (xwpa) del'eleinento formale (Mei, 1. XIV. IV. 7), ciò ohe prova rimmanenza dell'uno e dell'alt ro. (5) Met. 1. 1. VI. 6. (6) Phys. 1. 1. IX. 1-3, Met. 1. XlV, 1. 12, 11. 13, IV. 7, eco. (7) Phys, 1. 1. IX. 1-3. (8) Met. 1. 1. VIU. 0-11. (9) Met. 1. XIV. 11. 12. '! IN > P" dale da Platone come le unità stesse della dualità in- definita il Grande e il Piccolo), eguagliate (i). In quanto a'Telemento che serve di forma, la conseguenza naturale della teoria dei numeri <> di fargli qualche volta rappresentare una parte ch^ convif^ne alla ma- teria piutosto che jilla forma; la <,nal cosa, fc dissi- mula la fcnziono e il significato reale di questo princi- pio, è jcrò la prova più palpabile c'era sua immanenza. Aristotile osserva che i platonici cocsiderano Puno al Um- l>o f-tosho come i*( mia e specie dei numeri — perchè cia- scun numero è uno — e come parte e materia di essi— lerchr i Lumeri .^ono composti di unità — (2). È a (jue- sta funzfrne deiruno come materia dei tiimeri che può riferirsi pure l'obbiezione che le unità che compongono i diversi numeri non possono diffeiire, come vogliono i platonici, perchè essi parlano dell'urio in se, da cui tutte le unità sono costituite, come se questo fosse un elemento di parti similari (e|iO'.o|i£pé;) come il fuoco o rac<jua(o); e Pindicazìone che nella formazione dei numeri (dairuno in se e dalla dualità indefinita) l'Uno in sé era riguar- dato come l'unità media nei numeri impari (4) — i nu- meri di cui si tratta in tutti questi cas', non bisogna obliarlo, non sono allra cosa che le Id'^e — . Infine, come prova dell' immanenza dell'uno o essere, citerò l'argomento con cui Platone dimostra l'esistenza .1. V. .1/./. I. xni. VII. 4, Vni. 12-1;K l. XIV. IV. l. La dualità iiidcliiiita era Jiiiche chiMiiiala l'iiiegualo, e l'uno, alla cui parteci- l»aziouo era dovuta la l'orinazione dei numeri, l'eguale. (2) Mrt. I. Xlll. Vni. 23-28. (3) Met, l. 1. IX. 17. (4) Met, 1. Xlll. VII. 13. - 87 - I del non essere (l'a-tro elemento); cio'^ che se non esistesse il non essere, non potrebbe darsi una moltìplicità di esseri, poiché allora tutti gli esseri sarebbero un solo essere, Tes- sere slesso (1). Platone non potrebbe dire : tutti gli esseri sarebbero l'essere stesso, se l'essere fosse fuori d^^^ìì es- seri. Il senso deirargomento è che, se insieme aliVssfre (cioè all'attributo connotato da questo nome) non vi fosse negli esseri ciò che non è l'essere, vale a dire il non ev sere, tutti gii esseri non sarebbero altra cosa che l'essere; e Targomeoto suppone, prr crnseguenza, che tanto l'es- sere stesso quanto l'elemento opposto siano negli fsseri. Negli scritti platonici, l'immanenza dell'Idea de' bene —che, come abbiamo detto, corrispmde al princij ^o che Ariiitotile chiama l'uno o Trs-Jere— nelle altre Idee n* n è meno evidente : ersi nel VII della liepublica si dice e h^^ non ha alcuna conoscenza del bene chi non sa definirne lldea, astraendola da tutte le altre (534 b-c); e quest'Id»»« é chiamata V ottimo negli esseri (532 e), // jnl: chiaro (518 e e il piii felice (52r) e) delV essere i t'essere siirniliea ìì*1ì rs- seri, vale a dire le Idee, considnate gencralment •, cioè nel loro concetto comune, e per conseguenza, il piìi chiaro et il più felice delV essere vuol dire: ciò che vi ha di più chiaro e di più felice negli e.^seri, cioè nelle Idee). Aggiungiamo che, se al punto di vista dell'intensioni', i due Generi supremi sono nelle Specie, al punto di vi- sta dell'estensione invece (lueste sono in quelli : e in effe to Platone dice tanto dell'Uno quando della Dualità indefinita che essi contengono (Tiep'.éxstv) tutti gli esseri (2). Platone non considera solamente come elementi delle t . « I <i <Idee i due Universsli supremi, ma tutti i Generi sono da lui riguardati corre elementi e parti delle loro Specie. Infatti Aristotile agita la quistione se bisogna riguar- dare come elementi (axoixsìa) degli esseri gì' ingredienti materiali di cui le cose si com|.ongono, ovvero i ge- neri (1), considerando la seconda opinione come legata alla realizzazione degli universali (2) e alle proposizioni— proprie della scuola platonica- che ciascuna cosa m co- nosce per la definiziono, e che avere la scienza degli es- seri non è che avere quella della specie (3). K nel I. Vdella Metafisica, in cui spiega i significati dei tei mini filosofici, dice che alcuni chiamano elementi (axoixs^a) i geueri (e. III. 5-aggiungendo subito che, in tutti i si- gnificati dati alla parola, l'flemento è riguardato come inerente (IvuTiapxov) nelle cose di cui si dice eleoicnto); e che, mentre a un punto di virata la specie è chiamata parte (jiépo^) del genere, a un altro punu> di vista è il ge- nere che è chiamato parte (iiépo;) delia specie fc. XXV. 5). I filosofi che fanno quest'uso delle parole parte ed eie- 7nento non possono essere che i platonici, perchè evi- dentemente esso implica la realizzazione dei concetti : il genere, considerato come la collettività degl'indivi- dui, non potrebbe essere chiauato parte ed elemento della specie, perchè, in questo senso, il gen(^.re non è contenuto nella sp'^cic; e considerato come una semplice astrazione (come il complesso dfgli attributi che costituiscono il concetto generico), non lo potn bbe nemmeno, perchè le parole parte ed elemento implicalo la realtà della cosa a cui vengono applicate. Altrove {Met. I. VII. XIII. 10), dopo aver obbiettato ai platonici che, si5 si ammettesse la realtà degli universali, in una sostanza individuale vi (1) V. Met. 1. XIV. Jl. 4. C2) V. AUl. 1. Xi. J. 11, /'//A'. 1. in. vi. 11. (1) V. gpecialmeiito Afct. I. 111. III. (2) Ibid. 13. (3) Ibid, 4. — 88 - I sarebbero più sostanze, mentre è impossibile che una so- stanza consti di più sostanze che le ineriscano in atto; Aristotile si propone questa diMcolcà : ma « so alcuna so- stanza non può risultare da universali, né comporsi di più sostanze attualmente esistenti, la sostanza Farà al- lora ijualche cosa di non composto, e non sarà possibile di darne la definizione. » Ciò suppone che alcuni filosofi riguardavano la definizione come una decompos'zione del definito nei suoi elementi costitutivi (il genere e la differenza), e che (laesti elementi erano, secondo essi, de- gli universali e delle sostanze. (Questo concetto era in- fatti naturalissimo al punto di vista delia teoria delle Idee ; poiché, quantunque Platone non elevasse al grado d'Idea che il genere solo, e non la differenza— perchè il multiplo, per lui, deve sempre poter ricondursi all'uno—, pure, se si ammette che il Genere esist.» nella Specie d'un'esl- stenza propria e distinta, la conspguenza inevitabile sarà che anche la diff'erenza vi esi-iterà d' un' esistenza propria e distinta (l). Infine, che Platone chiamasse i U) Siccome Platone stabilisce tra le Idee \n\\ Kcnerali e le più panicolari ad esse subordinate un rapporto di priorità e posteriorità (perclic la dialettica platonica è l'ondata sul principio che il più particolare deriva, logicamente e ontologicamente, dal più generale), cosi egli ammette che la sostanza consta di elementi di cui gli uni sono anteriori e gli altri posteriori. È a questo concetto ))latonico che allude evidentemente Aristotile in Mei. 1. WU, XU. 9, dove dice: « Nella sostanza non vi ha alcun ordine: intatti che senso ha il dire che in essa una parte <• anteriore e un'altra è posteriore "i » Ciò prova almeno che Platone riguarda le Id<*e più generali come ele- menti costitutivi delle Idee più particolari (ammettendo che (|ui per sO' stanze Aristotile intenda, non le cose stesse, ma le loro essenze, poiché egli parla della sostanza quale og<^etto della delinizione). Infatti, se le Idee, a cui una sostanza (ld**a o cosa) partecipa, l'ossero separate da essa, non vi avrebbe ragione di compone questa sostanza di parti distinte, corri- spondenti alle Idee a cui partecipa, inoltre il rapporto di priorità e p/i- stej iorità deve essere esclusivamente [iroprio alle Idee, perchè esso si- gnifìca, come abbiamo accennato, un processo, logico e al tempo stesso ontolegico, di tiliazione, che non ha luogo che nelle Idee. Generi elementi, ò confermato da un luogo del Politico ^ 271 d-278 d, in cui spiega forche si deve ricorrere ad esempi per illustrare i soggetti difficili. « Noi sappiamo, egli d'C, che i fanciulli, mentre imparano a leggere, riconoscono assai bene ciascruna delle lettere (axotxera) nelle sillabe più corte e più facili, e sono capaci di par- larne con giustezza. Ma se essi incontrano queste stesse lettere in altre sillabe, restano incerti, e ne giudicano e parlano falsamente. Ora la maniera più facile e più bella di condurli a ciò che non sanno ancora, non sa- rebbe questa? Bitogn^rebbe prima ricondurli alle silla- be in cui hanno opinato rettamente su queste stesse lettere, e, riconducendoveli, porre a lato le sillabe che ancora non sanno, o mostrare, conia comparazione, che in entrambi i composti vi ha una stessa somiglianza (1) e una stessa natura, sinché le sillabe in cui hanno o- pinato rettamente, essendo state comparate con tutte quelle non sapute ed essendo divenute degli esempi, loro apprendano, per ciascuna di queste lettere, in tutte le sillabi», in cui si trovarw, a designare come diversa quella che è diver-a dalle altre, e come sempre la stessa « identica a se s'CFsa quella che è realmente la stessa. Non è abbastanza chiaro ora p^r noi che vi ha esempio, quando ciò che è lo stesso è appunto riconosciuto come file in due cose separate, e quando ben inteso e consi- derato come uno in ([uesti due casi distinti, ma analoghi, diviene l'oggetto d'una sola e stessa opinione vera? Dobbiamo dunque sorprenderci se la nostra anima, che è naturalmente nello stesso stato per gli clementi (axot- (1) Sulla parola somiglianza (ò|ioióxr^g) cfr. la nota 1 a carta 30 pag. I. - 89 —y I |- .\' ^ -^ Xefa) di tutte cose, trova qualche volta ia verità su cia- scun elemento particolare in ceni composti e vi si at- t'eno, e poi cade neircrrore su tutti quf sti elementi con- M'derati in altri soggetti; se essa si forma un' opinione giusta su certi elementi quando li incontra incerti tutti, e li misconosce interamente trasportati nelle sillabe lun- ghe e difficili delle cose?» Questa realizzazione degli at- tribuii generali delle coso, implicata dal nome, che viene loro dato, di elementi, e dalla comparazione con le let- tere, in uà altro autore sarebbe una semplice metafora; ma in un real's^a come Platone deve prendersi al senso proprio. Vi ha appena bisogno di osservare che (juesto luogo prova T immanenza dei Generi, non solo nelle Specie, ma anche nelle cose ste-se. Vili. Gli elomenti delle Idee sono anche per Platone gli elementi delle cose (1): l'Uno o E>\sere èlVss?nzadi tutte le cose cosi bene che di tutte le Idee (2), ia Dua- lità indcilnita o Non essere, la materia (3). Io non ag- 0) V. Arist. Met, l. I. VI. 3-4, l. I. IX. 26-BO, 1. III. III. 5, 1. XIII. IX. 17, 1. XIV. I, II. ecc. (2) V. Met. 1. I. VI. 3-4, 1. III. I. 12, IV. 21, I. VII. XVI, 3, 1. XIII, VI. 5, eco:. (3) V. Mei, l. T. VI. 3-4, 1. XII. X. 3-4, I. XIV. I. 1-3, 0-12, IV. 6-7, ecc : Bisogna dHliugaore in Platona dna princìpii dittorenti, ai quali viene dato eguaiinonte il nome di materia: cioò la matoriri delle cose e la materia comune tanto alle cose qua.ilo allo Idea. La prima è lo spazio, al quale Platone riconduca rost;3nsion 3 dji corpi, e corrisponde a ciò che noi chiamiamo propriamanta materia; è una determinazione che si trova esclusivamente nallj cose, e mtfcnva nelle Idee, la <iuali rappresentano solamante la formo ^ le cose ri- sultando cosi dalla sintesi delle Idaa (l'orma) e dello spazio (ma-teria). La materia comune alle Idea e alle co^e rapprasenta una serie di determinazioni generali degli esseri — p. e. il non essero, giungerò niente per provare che questi termini dementi, essenza, materia, devono intendersi nel loro significato naturale, che implica Timmanenza : sarebbe fare delle ripetizioni inutili, perchè la più parte dei luoghi d'Ari- stotile, citati nel numero prf cedente come prove del- l'infinito, la moltiplicità, il male, la diversità, il movimento, ecc.— opposte a quelle di un'altra serie— p. e. l' essere, il finito, l'unità, il bene, l'identità, lo stato, ecc. —che vengono riunite nel principio opposto a questa materia, vale a dire nell'elemento formale. I due elementi vengono il più abitualmente chiamati Essere e Non essere, ])erohè Platone riguarda le determinazioni della serie dell'elemento l'ormale come positive, e le determinazioni corrispondenti della serie opposta come negativa; e Uno e Dualità indefinita al punto di vista della teoria dei numeri (V. per questa dottrina Supple- mento C.) La materia propria delle cose e la materia comune alle cose e alle Idee vengono ricondotte a un principio unico, la Dua- lità indefinita, uno dei caratteri del pitagorismo platonico, come del pitagorismo genuino, essendo questa riduzione illogica a uno stesso numero o a uno stesso principio di concetti essenzialmente differenti; ma ciò non toglie che le due materie siano due entità di- stinto l'una dall'altra Qu andò Aristotile dice che secondo Platone gli elementi della Idee sono pura gli elementi delle cose, senza dubbio egli comprende nell'elemento materiato anche lo spazio, quantunque questo non sia un elemento delle Idee : ciò è perchè, come abbiamo detto, lo spazio, quantunque sia un'entità distinta dalla materia delle Idee, viene ricondotto con essa a uno stesso principio. Sa- rebbe però un errore di cradere che, anche ammettendo che nelle cose non vi sia altra materia che lo spazio, baslerebbe questa ridu- zione dello spazio a uno stesso principio insieme con la materia delle Ideo, perchè (iue~;ta potesse eisero identificata con la materia delle cose; o che la |>roposiziona «l'Aristotile che gli elementi dello Idee sono gli elementi delle co^e non importa quindi necessaria- mante, come noi ammottianu, che la materia delle Idee si ritrova realmente nelle co-se. Certamente tra gli elementi delle cose e gli elementi delle Idoe non potrabba ossarvi un' identità completa : l'elemento materiale dello cose deve diflforira in ogni caso dall'e- lemento materiale delle Idee, perchè questo non comprendo lo -90 — I rimmanenza dei due principi! nelle Idee, provano egual- mente la loro immancuza nelle cose. In effetto le in'dica- zioni o allusioni d^ Aristotile relative alla dottrina dei due elementi, si riferiscono il più spesso, non alla pro- posizione che questi due princ-pii sono gli elementi delle spazio. Ma l'impossibilità di prendere una proposifsione in un senso perfettamento rigoroso non è una ra{rione |)er preterire il mono rigoroso dei sensi di cui essa sarebbe suscettibile. Ora è questo che noi faremmo per la proposizione d'Aristotile in questione o a dir meglio por la dottrina di Platone che questa proposizione ci rife- risce, se per l'elemento materiale nelle cose non intendessimo che lo spazio; perchè allora la materia delle cose e quella delle Idee sarebbero due entità completamente distinte, non vi sarebbe fra di esse alcuna reale identità, nò totale né parziale. D'ahronde l'e- lemento materiale delle Idee deve essere identico all'elemento cor- rispondenti^ delle cose nello stesso senso in cui lo è l'elemento for- male : l'Uno non rappresenta due concetti distinti come la Dualità indefinita; noi non potremmo assegnargliene uno come forma dello Idee, e un altro ditfereate come forma delle cose; per conseguenza anche l'elemento materiale dove rappresentare uno <^:tosso concotto nelle Idee e nelle cose. Che sia cosi, è confermato dalle determi- nazioni che Aristotile attribuisce alla materia platonica, in luoghi m cui egli la considera come elemento delle cose cosi bene che delle Idee : cioè che essa è un genere (v. 1. III. UT. 5^, che è l'uno nei molti (p. e. quando fa l'obbiezione che se gli olemouti «logli es- seri fossero ciascuno uno di numero, e non solamente di specie, non vi sarebbero che i soli elementi— v. 1. III. IV. 9-10, 1. XI. IL 11,' 1. XIII. X. 2-3), che rappresenta al tempo stesso la parte di ma- teria e di st eresi (v. Phiis 1. I. IX. 1-3), che è il tutto allo slato d'mdeterminazione (v. Met. 1. I. Vili. 9-11), che è la natura <lel male (v. 1. XII. X. 3-4, 1. XIV. IV. 6-7), che è il non essere (cioè l'opposto dell'attributo essere-v. Mei 1. XIV. II. 4 e seg.), che ò il contrario dell'altro elemento (v. Phìjs 1. I. IX. 3, .!/«>/. 1. IV. 11.14, 1. XII. X. 2-3, l. XIV. I. 1-3, <;, IV. 0-8), ecc : Questo determinazioni non potrebbero convenire al semplice spazio, ma convengono per- fettamente sia alla materia dello Idee per se sola, sia a<l os^a in unione con lo spazio. Idee, e a quella che sono gli elementi delle cose, consi- derate l'una a parte dell'altra, ma alla proposizione che sono gli elementi di tutti gli esseri, cioè delle cose cosi bene che delle Idee (1). Ciò che si deve notare è la connessione logica che viene affermato esistere tra la proposizione che i due principii sono gli elementi dfUe Idee e quella che sono gli elementi delle cose, «E perchè, dice Aristotile C2), le Specie sono le cause delle altre cose, gli elementi di quelle credè (Platone) che fossero gli clementi di tutti gli esseri » (3). Ora questa connessione non esiste, e- videntemeate, che iif IT ipotesi delT immanenza de'le Idee. S'j le Idee sono clementi delle coSi% necessariamente anche i loro elementi saranno elementi delle cose: ma se le Idee non sono che dogli archetipi di cui le cose sono le copie, tutto ciò che potrà seguirne sarà che le cose hanno degli elementi che sono le copie degli elementi delle Idee, ma non mai che gli elementi delle cose sono una sola e stessa cosa con gli elementi delle Idee. L' i- dentità tra questi e quelli non si spiega dunque d'una (1' Indicherò nondimeno un certo numero di luoghi, la piìi parte oitaii nel numero precedente. V. dunque, per tutti e due gli elementi: Mei. l. I. IX. 29-30, 1. III. IV. 9-10, l, IV. II. 14, 1. XI. II. 11, 1. XII. IV. 3, 1. XIII. X. 2-3, 1. XIV. IV. 7, ecc. Per l'ele- mento materiale: /V///s. l. I. IX. 1-3, 1. HI. IV. 2, VI, 11, Met. 1. I. Vili. 9-11), IX. 22, 1. XIV. II. 8, 12-13, ecc. Per l'elemento formale : .l^>^ 1. T. IX. 24, 1. V. III. 4-5, 1. XI. I. 11, l. XIII. VIII. 27, L XIV. II. 4, ecc. (2) Mei. l. I. VI. 3. (3) Notiamo che Aristotile distingue quattro specie di cause, di cui una è la causa essenziale, l'essenza; e che questa è delle quattro specie di causalità la sola che conviene secon<io lui alle Idee pla- toniche. \. Mei. Io stesso cap., g 7. • - 91 - 7^ toaniera naturale che nelìMpotesi deir immanenza delle Idee. Ma non teniamo conto di questa considerazione : ammettiamo, ciò che non è, cho anche nell'ipotesi della trascendenza delle Idee possa darsene una spiegazione pausibile. Kesterà sempre r incoerenza di riguardare alcune entità come immanente, e alcune altre come tra- scendenti, mentre queste entità appartengono tutte allo stesso tipo : concetti realizzati. I due elementi hanno, come abbiamo df tto, tutti i caratteri delle Idee : ciascuno è un predicato universale degli esseri di cui si dice elemento, riguardato come sussistente per se stesso e come uno e lo stcFso in tutti- uno di essi è anche certamente da Platone chiamato un Idea, nello stesso senso che tutte lo altre, porche ciò che neiresposizione d'Aristotile è detto l'Uno o l'Essere non è che la slessa entità che negli scritti platonici è detta 1 Idea del bene. Le stesse inconcepibilità che, ne! sistema dell immanenza, sono legale alla realizzazione degli altri concetti ~ l' impossibilità di comprendere come una so- stanza sia al tempo stesso un attributo di altre sostanze come r uno.sì trovi simultaneamente nei molti ree -esi' stono egualmente per la realizzazione dei concetti rappre- sentati dai due elementi. (;ii stessi termini che indicano i rapporti tra le altre Idee e le cose indicano il rapporto tra 1 due elementi e le cose, tanto quelli che possono addursi come prove dell'immanenza, quanto quelli in cui gì' inter- preti trascendentalisti vedono una prova della trascen- denza : cosi la relazione degli elementi alle cose ò chiamata parusia (1), e quella delle cose agli eleme.iti metessì (9). gli elementi sono detti essere Tiapa le cose (3), e sono chiamati x^P^xa e xsxwpiajiéva (semplicemente o dalle cos^) (1) ; ecc. Se ammettiamo la trascendenza dello Idee, dovremmo dunque ammettere necessariamente an- che la trascendenza degli elementi; se ammettiamo, co- me siamo forzati di farlo, l'immanenza di questi, dob- biamo anche ammettere, non meno nrc^ssariamente, la immanenza di quelle. Per l'immanenza di uno dei due elementi noi non abbiamo alcuna prova diretta negli scritti di Platone, perchè in questi scritti non si trova la dottrina dei due elememi (tranne, come vedremo, d'una maniera simbo- lica nel Timeo) : ma l'immanenza dell'altro, cioè dell'I- dea del beno, è naturalmente in Platone più evidenteche nello stesso Arislotile. Cobl n( 1 Timeo (46 e d) dico che le cause materiali (quelle che riscaldano e raffred- dano, condensano e dilatano, e producono altri effetti simili) sono dei mezzi di cui Dio si serve per compiere (àTioTsXwv) l'Idea dell'ottimo. Nel Fedone, dopo avere spie- gato che per ogni cosa la causa di essere e di essere nel modo in cui è e non altrimenti, è il bene di cia- scuna cosa in particolare e di tutte in generale, e che questa soluzione del problema delle cause è la conse- guenza logica della dottrina di Anassagora (97 c-99 b), rimprovera a costui e agli altri fisici che non si servono, nella spiegazione dei fenomeni, che di semplici cause meccaniche, « e la potenza prr cui le cose sono disposta nel miglior nndo in cui potevano esserlo, né ricercano né stimano che vi sia in essa qualche forza divina, ma credono di avor trovato un Atlante più forte di questo. i(1) V. p. e. Elh, Eud, 1. I. Vllf. 1,2. (2) lUK End. i. I. Vili. 2, 3, Met. 1. XII. X. 4, I. XIV IV 7 ecc (3) Met. 1. I. VI. 5, I. III.,Jj. 13,,. x. II. 1, ecc. 0) MeL 1. IV. [I. J6, 1. XI. ir. (i. X, 2, 1. XII. X. i, 1. XIV. II. 3, />/i/yt. I. Iir. V. J, Klh, Sic, 1. 1. VI, 13, ecc.v;- — 92 — più immortale e più capace di contenere (ii^XXo^j grjvéxovxa) l'universo, e non ammettono che e il buono (zx^olH^) e conveniente che collega (guvSsìv) e contiene (guvéxetv) tutte le cose (90b-c-Io stesso verbo g-jvéxsiv attribuito prima aWAflanie più forte ecc., e poi al buono e con- veniente, prova che il buono e conveniente é la stessa cosa Q^ieìh potenza per cui tutte le cose nono disposte ecc., che è l'oggetto con cui VAtlayite pih forte ecc. viene con- frontato). In (lueste parole vi ha evidentemente la rea- lizzazione dell'astrazione il bene (Tàya^óv) : ma questo bene non può essere che quello stesso di cui sopra ha parlato, e d'altronde, se fosse un bene trascendente, non si potrebbe dire di esso che contiene e collega tutte le cose Ma la prova più forte dell'immanenza dell'Idea del bene, in Platone, è l' identitìcazione dì quest'Idea con la fe- licità degli uomini (o generalmente degli esseri viventi). Quest'identificazione si vede della maniera più sensi- bile nel Filebo. In qursto dialogo si cerca che sia il bene (xàva^óv) : se sia il piacere (come ritengono i più) 0 la sapienza fcome ritengono altri, p. e. i Megarici)' o qualche altra cosa (1M4 b). Filebo sostiene che é il piacere; Socrate comincia per ammettere che è la sa- pienza; ma poi muta d'avviso, e diceche il bene none né runa né l'altra cosa, ma una terza, diversa da esse e migliore di amendue (20 b). In effetti, egli domanda, « la condizione del bene non è necessario che sia il per'- fette, 0 deve essere il non perfetto V-Puotarco • Ciò che vi ha di più perfetto, o Socrate - Socu. : Ma che? il bene non è sufficiente per se sfosso ?-Prot. : Senza dubbio, ed è in ciò che differisce da tutti le altre cose^ SocR. Questo ancora mi sembra sovratutto necessario di affermare di esso, che tutto ciò che lo conosce lo ricerca e lo desidera, sforzandosi di attingerlo e di possederlo e niente si cura delle altre cose, faori di quelle che si e ffettuano insieme ai beni — Prot. : A questo i;on si può contrastare— SocR. : Esamim'amo dunque e giudi- chiamo la vita di piacere e la vita d'intelligenza, pren- dondole ciascuna a parte — Prot. : In che modo ? — So.R. : In moJo che l'intelligenza non entri assoluta- mente nella vita di piacere, e il piacere nella vita d'in- telligenza : infatti, se l'uoo o l'altra fossero il bene, non avrebbero più bisogno di altra cosa; ma se 1' uno 0 l'altra sembreranno aver bisogno di qualche altra cosa, non potranno essere per noi il vero bene» (20 d — e). Risalta, dall'esame del'e due vite, che nessuno vorrebbe una vita con tuiti i piaceri, ma scnz'alcun'intelligenza,nò con tutta rintclligeiiza ma senz'alena piacere; e cho la vira che tutti vorrebbero sarebbe quella in cui il pia- cere fosse m'^scolato con Tintelligenza. « E dunque evi- dente, che nò V una nò 1' altra delle due vite (quella di piacere e quella d' intelligenza) ha il bene : poiché essa sarebbe sufficiente, parfctta, e degna della scelta di tutti gli esseri, che potessero vivere per sempre così. » (22 b). Qui nasce un' altra quistione : quantunqu'^ né il piacere né la sapienza sia il bene, pure V uno o l'al- tra potrebbe credersene la causa : ora Socrate sostiene che, checchesia ciò che ricevuto dalla vita mista (di piacere e d' intelligenza) questa si fa dcsilerabile e buon*», r intelligenza gli somiglia e gli é affine più che il piacere, e perciò (lucsto non otierrìl né il primo né il secondo posto (22 d). Seguono delle digres-^ioni che non c'int:'ressano, e sulla fine del dialogo viene ripi- gliata la quisJone sulla natura del bene e se esso sia più affine al i lacere o all'intelligenza; ma prima Socrate, riassumenio il cominciamento della discussione, dice: « Filebo affermava che il piacere é il fine legittimo di tutti i viventi, lo scopo a cui tutti devono tendere; che esfo è il bene per tutti, e che questi due nomi, bene e i - 93 - piacere, competono alla stessa cosa e aduna cpóat^unicd. Socrate lo negava, e affermava che, come vi hanno due nomi differenti, co..i il bene e il piacere hanno nna ^^^,^ differente Tuno dall'altro, e che la sapienza è più che il piacere partecipe della condizione del bene (60 a-b) La qpóa.s del bene in ciò differisce dalle altre cose che qualunque dei viventi a cui è presente (Tiapsiyj) sempre ed assolutamente, non ha più bisogno di altro, ma ha quanto gli basta perfettamente (60 b-c) .... Ma abbiamo visto che né il piacere nò la sapienza è sufficiente.. . Nò Tuno nò l'altra ò dunque il perfetto, il desiderabile per tutti, il bene assoluto Bisogna per conseguenza o scoprire il bene chiaramente o qualche forma (tótiov) di esso, per vedere, come abbiamo detto, a chi dobbia- mo assegnare il secondo posto (60 a-6l a) %. Ora, soggiunge Socrate, «non abbiamo* noi incon- trata una via che conduce al beneP-PaoT. : Quale via ?- SocR. : Se alcuno, cercando un uomo, apprendesse la casa dove egli abita, non avrebbe un grande aiuto per trovarlo V-Prot. : Certo-SocR. : Cosi il presente e Jl precedente discorso ci avvertono che non dobbiamo cer> care il bene nella vita semplice, ma nella vita mescolata (di piacere e d'intelligenza) -Prot. È vcro-Soca. : E abbiamo più speranza di trovarlo in quella che è ben mescolata che neTopposta.-PROT. ; Molto più- Socr • Facciamo dunque la mescolanza » (61 n-b). Questa si fa unendo i piaceri veri e quelli che accompa-nano la sa- lute e la virtù, con le scienze, e facendovi anche en- trare la verità, perchò ciò a cui non si mescola la verità (w m l^t'£o|xsv àXTì9-£tav) non potrebbe esistere (64 b); e compiuta cosi la mescolanza, Socrate dice : « Se noi di- cessimo di essere pervenuti al vestibolo del bene e della sua abitazione, non avremmo in certo modo ragione ?— Prot. : Cosi mi pare-SocR. : Che vi ha dunque in (|ue- sta mescolanza di più prezioso e che sembri specialmente la causa dell'essere una tal condiziono desiderabile per tutti ? (64 e.) In ogni mescolanza non ò difficile di vedere quale sia la causa che la rende pregevole o di nessun pregio Ogni mescolanza che non partecipi della misura e della cpuoig del proporzionato rovina ne- cessariamente le cose mescolate e se stessa la prima (64 d).... Cosi la natura del bene se n' ò fuggita in quella del bello, perchò la misura e la proporzione sono da per tutto beltà e virtù Ma roi abbiamo detto che la verità entra con esse nella mescolanza (aOxor;; sv tv; xpaaei |i£|iiX^a'.-64 e) Por conFegucnza, se non possiamo prendere il bene in una forma (ì5éa) unica, prendiamolo in tre forme, beltà, mi>ura e verità, e diciamo che tutto ciò come uno ò la causa di ciò che vi ha di pregevole nella mescolanza, e perchò é bene, perciò la mescolanza è pure un bene » (65 a). Ora ò facile di giudicare se il piacere o la sapienza sia più affine al bene (xoO àpiaio-j) : perciò bisogna comparare l'uno e l'altra con le tre for- me in cui il bene ò apparso. Fatta (juesta comparazione, risulta che l'intelligenza ò più che il piacere affine alla verità (65 c-d i, chVssa possiede (xsxTr^xai) di più la mi- sura (65 d), e che partecipa (iisxsayjqrs) di p.ù alla behà (65 e). Così la conclusione di questo paragone e di tutto il dialogo ò che < il piacere non ò il primo bene (xxf^iia) nò il Fecondo; ma il primo ò circa la mi^ul•a, il mode- rato, l'opportuno e quant'altre cose tali si deve credere aver sortito la natura eterna (citò il primo bene ò ripo- sto nella misura, nel moderato, ecc., ma nella misura, nel moderato, ecc. che hanno sortito la natura eterna, vale a dire gl'ideali, non i fenomenali) il secondo è circa il misurato, il bello, il perfetto, il sufficiente e tutte le altre co-e di questo genere » (questa seconda seria ò il j — 94- identica alla prima, ma ciascuno dei termini nella pri- ma significa Tastratto, l'attributo aOxò xaB'aGxó, nella seconda i concreti, cose o Idee, che partecipano alTat- tributo); e nella scala dei beni (xiV^iiaxa) il piacere ò inferiore alla sapienza, e occupa Tultimo grado (6^ a-c). Ma prima di finire, Socrate, riassumendo un'altra volta la discussione, dice : « Filebo afferma che il bene (xàYa- 0óv) è per noi il piacere tutto intero io indignato deiropinione di Filebo, che è pure quella di moltissimi altri, ho detto che l'intelligenza è di gran lunga migliore e più vantaggiosa alla vita umana che il piacere ((3G d-e) . Noi abbiamo visto in seguito della maniera più chiara che né l'uno né T altra é sufficiente Perciò tanto il piacere quanto Tintelligenza essendo apparsi in questo discorso privi della sufficienza e della perfezione, né Tuno né l'altra potè essere il bene sfesso (aOxó) Ma essendo apparso un altro terzo, superiore ad amen- due, Tintelligenza di gran lunga più che il piacere ci apparve affine alla essenza (ì5ia) del vincente» (67 a). Facciamo ora qualche osservazione. Che il primo be- ne, di cui si parla a 66 a, sia l'Idea del bene, non po- trebbe esservi alcun dubbio. Ciò è, non solo perché alla misura, il moderato, l'opportuno e simili, che sono come tanti aspetti del bene, viene attribuita la natura eterna, ma anche perchè noi sappiamo che il primo bene vuol dire per Platone l'Idea del bene (1), conformemente al- l'uso ch'egli fa dei termini significanti l'anteriorità e la posteriorità, di cui abbiamo detto nel capitolo VII. Ma non bisogna credere che questo primo bene sia qualchecosa di differente dal bene di cui si tratta nel resto del dialogo. Che il bene sulla cui natura si discute tra So- li) V. Arist. Ehi. Kud, 1. I. Vili. crate e i suoi iuterlocutori sia riguardato come un'Idea è ciò che sarebbe già sufficientemente provato dal prin- cipio platonico che il concetto generale e la ricerca del- l'essenza si riferiscono aU'Idea, non che dall'uso dei ter- mini che nel linguaggio platonico significano le Idee— il bene stesso (aOxó-67 a), la cpóai^ del bene (60 b), del pro- porzionato (U d), dd bello (64 e), l'iòéa (67 a)— e il'rap- porto tra le Idee e le cose— esser presente (7iapsrvai-60 e), partecipare (}i£xaXa|JL?dv eiv-65 e)—. Ma la prova più forte l'abbiamo in una moltitudine di circostanze che dimostrano che Vti<ivH/Aom',bene è elevata al rango di realtà sussisteute per se stessa. È a qu-^sta realizzazione che si pensa natu- ralmente, quando Platone dice che né la vita di piacere né la vita d'int"l»igenza ha (elyz) il bene (22 b); che è rice- vendo (Xa3wv) il beno, che la vita mista si fa buona f22 d); che ogni vivente a cui é présente la cpóai; del bene nm ha bisogno di a'tro (60 e); che il bene è ciò che vi ha di più prezioso nella mesco'anza (64 e, d, 65 a); ecc.. Ma questa rralizzazinne si vede della maniera più evidente quando Piatone dice che la verità (64 b, <•) e le altre forme del bene (64 e) fanno parte della mes?o- lanza, e sovratulto quando paragona il rapporto tra il bene e la vita mista a quello di una persona e la sua abitazione (61 a-b), e chiama questa stessa vita l'abita- zione d9\ Bene (64 e). Il bene, di cui si discute tra So- crate Filebo e Protarco, è dunque incontestabilmente l'Idea del bene (noi sappiamo come le premesse per cui Piatone prova l'esistenza dt-lle Idee giustificano la stra- nezza che Filebo e Protarco, i quali non sanno niente della teoria delle Idee, discutano nondimeno sopra un'I- dea) : ma questo bene è quello che alcuni fanno consi- stere nel piacere, e altri nella sapienza; che chi lo co- nosce cerca e appetisce, sforzandosi di attingerlo e di possederlo; che quando si ha, non si ha più bisogno di — 95 — altro; ecc.; in una parola lo stato dell'anima in cui Pla- tone fa consistere la felicità. Aggiungiamo clie l'imma- nenza dell'Idea è provata inoltre dalle esprcssoni si-ui- ficanti la parusia, che noi abbiamo già segnalato in parte come prove della realizzazione del concetto ; p. e. elio la vita mista non potrebbe esistere veramente, se non VI fosse mescolata la verità -che è una forma del Hcnc- (64 b); che con la verit/i .s* rmscolam in questa vita le oltre forme del Bene (64 e) ; che essa é l' abitazione del Bene (61 a-b, 64 e); che questo è ciò che vi ha di PIÙ prezioso «e//rt mescolanza (év xj S-Jn.u£g6i -64 e); eco. Infine, il nomo xx^-ia rposscpso) con cui è chiamato il primo bette, e la cla.csazione di esso insi-me agli altri xxYinaxa, cioè la sapienza, il piacere, ecc. (a 6C°a.c, do- ve si fa la granduazionedei beni), ci dicono abbastanza che questo bene è anch'esso, come il piacere, la sa- pienza e gli alcri, un beno nostro, un bene che noi pos- sodiamo o potremmo possedere. La stessa identificazione tra il bene obbiettivo -l'Idea - e il bene subiettivo-la felicità degli uomini-ha luo-o nella KepubUka, con questa ditferenza che. m<'ntr(> m-l Fikbo prevale la^pett ) subbicttivo, per cui alcuni i.,- lerprcti hanno potuto negare-cni.c abbiamo vsto, con- tro levidenza - che il bene di cui si tratti il. questo dialogo, sia l'Idea. invec3 nella Repubblica prevale l'a- spetto obb:cttivo. Ivi (I. VI. e VII.) il bene 6 presentato come la più alta delc Idee, sovrana del mondo intelli- gibile, e principio pI tempo Messo dell'essere e del co- noscere. Jla questo stesso bene 6 il bene nostro, un pos- sessi del unstro fpirit-^. tì ciò che si vede chiaramente dal luogo seguente (505 a-50(5 a): «Socuate: La mas- sima disciplin.i è l'Idea del bene (cioè quella che ha per oggetto quest'Idea), della (juale (Idea) le cofc gioste e le altre avvalendosi (7ipoax.orìaa;i£va) divengono vanta»- ■na giose e convenienti (cioè le cose giuste e le altre sono vantag-giose per la presenza dell'Idea del bene) Noi non conosciamo sufficientemente qu^stldea; ma, igno- randola, non ci sarebbe di alcuna utilità di conoscere le altre erse senza di essa, come non ci gioverebbe di possedere qualche cosa senza il bene. O credi tu che sia utile di avere qualsiasi possesso, ma non buono? o di conoscere tutte le* altre erse senza il bene, e niente co- nosci re di buono e di bello ? U)— Animante : Non lo credo, per Giove!— SocR. : Tu sai che i più credono che il bene sia il piacere, e altri, più eleganti, l'intelligenza— Ad. : Si— SocR. : E che questi ultimi non sanno spiegare che cosa sia quest'intelligenza, ma infine sono ridotti a dire che è l'intelligenza del bene Ma che? quelli che definiscono il bene il piacere, non sono neir errore non meno ch^ gli altri ? non sono essi costretti a con- fessare che vi h<ìnno dei piaceri cattivi ?— Ad. : Senza dubbio— SocR. : Accade dunque», ad essi di ammettere che le stesse cose sono al teiwpo stesso buone e cattive E non è chiaro che mentre molti sarebbero contenti di agire e di possedere le co-^e giuste e belle apparenti ma non reali, a nessuno però basterebbe di possedere dei beni apparenti, ma tutri cercano i reali, e dispregiano in c'ò l'apparenza? — Ad. Certamente— Socr. : Ora su questo bene, che ogni anima ricerca, e tuito fa in grazia (1) Xoliamo che <iaamlo Platone dice : " conoscere tutte le altre cose senza il bone „ la parola />t';i:> si«^niiìca evid^nl omento l'Idea; danque ancha q-aando ha dotto: " possedere qualche cosa senza il b3n3 „, questo bene, della cui ])oss3ssione si tratta, deve essere l'I- dea. Apjghingiamo che " poss.^dere qualche cosa senza il bene» cioè senza l'idea, equivale, non meno evidentemente, ad avere qualsiasi possesso ma non buono; per conseguenza il beno non è che il bene attributo delle cose buone. 96 di esso, iii'IovinanJo che è qualche cosa, ina dubitando e non comprendendo sufficientemente che cosa sia, ne avendo intorno ad esso una stabile credenza, quale ha intorno alle altre co^e, per cui perde anche le altre cos^ se vi ha alcun che di utile; su tale e tanto oggetto di- remo noi che dovranno essere ciechi i migliori, a cui dobbiamo affidare la somma delie cose?» Socrate vuol mostrare con queste parole la necessità che i magistrati siano istruiti nella disciplina ch^ ha per oggetto il bene. Convenutosi di ciò, Adimante gli domanda : « Ma tu, o Socrate, credi che il bene sia la scienza, o il piacere, o qualche altra cosa differente? » (506 b). Socrate risponde che non ha la scienza del bene, e non vuol parlarne se- condo una semplice opinione; perciò invece di dire che cosa sìa il bene, parlerà piuttosto del figlio di esso, so- migliantissimo al padre (506 ce). Questo è il sole, che il bene generò analogo a se stesso : ciò che esso è nel luogo intelligibile rapporto all'intelligenza e agrintellì- gibili (le Idee), il sole è nel luogo visibile rapporto alla vista e alle cose visibili. L'uno regna noi mondo intel- liiiibile, l'altro nel mondo visibile; come il sole dà agli oo-^-etti visìbili la possibilità di esser visti e insieme la gi^nesi e raccrescimenlo, cosi il bene dàagrintelligibili la possibilità di essere intesi e insieme l' e^^sere e l'es- senza (507-509 dì (1). La dottrina dei due elementi ha molta analogìa, senza esserle identica, con una dottrina esposta nel Fileho, che ò anch'essa una del'e prove più evidenti dell'immanenza delle Idee. Io porrò sotto gli occhi del lettore la parte del Fileho che si riferi«^ce a questa dottrina. € SocR. : Dividiamo in due, o piuttosto in tre, tutti gli esseri che sono neiruuìvers> Noi dicevamo che Dio ha insegnato che degli esseri l' uno è illimitato (:J:istpov) e l'altro limite (jiépac;). Contiamo dunque questi per due specie e mettiamo per terza ciò che risulta dalla mescolanza di amendue.... Per due di questi generi cer- chiamo di vedere come ciascuno di essi ò uno e molti, guardandolo prima diviso in molti e disperso, e poi ri- ducendolo nuovamente ad uno. I due generi di cui parlo sono quelli jhe ho posti dapprima, cioè il limitato fTispas £Xov) e rillimitato. (I) Cercherò di mostrare come l'illi- mitato è in certo modo molti : il limitato ci aspetti Considera in primo luogo il pii!i caldo e il più freddo, se scopri in essi qualche limite, o se piuttosto il più e il meno che si trovano in ques:e specie, finche vi si tro- vano, impediscano loro di avere un fine : infatti soprav- venendo il fine, anch'essi finiscono <'. non sono più — Prot. : È vero — Socii. : Del più caldo e il più freddo diciamo dunque che vi ha sempre in essi il più e il meno— Pkot. : Senza dubbio — Socr. : Questa ragione ci mostra che queste due coee non hanno fine : e non a- vendo fine, esse sono necessariamente infinite (àicsipo)) Il torte e il piano hanno la stessa natura che (1) Per il s3nso di questa identificaeione dsl bene etico (la fe- licità) col bene ontologico (la forma gsnerale di tutti gli esseri) V. Gap. VII. § 16. (1) Come si vede, Platone chiama l'uno dei tre generi— l'opposto dell'illimitato— ora limite e ora limitato. Anche questa è un' imi- tazione dei Pitagorici: intatti questi chiamano pure l'uno dei due elementi dei numeri e delle cose ora limite o limitante (rcspac;, Tis- palvov) ora limitato (7i£7i£paa|iévov) V. perciò Fr. di Filolao ap. Stob. I. 454, I. 456, I, 458, Plato. Fileho 16 e, Arist. Met. 1. I. V. 5-6, 13, 1. I. Vili. 15, 1. XIV. III. 14, ecc. - 97 - / il più e il meno; perche dovunque si trovino, fanno che la cosa non abb'a una quant'tà d: terminata, ma sia sempre più forte che nn'alira più ])iuna e p'ù piana che un'altra più fort<% introducordo in tu-te li azioni il maggiore e il minore e facendone sparire l quanto. In- fatti, come si ù detto, se non facessero sparire il quanto, ma lasciassero questo e la misura entrare nel luogo del più e del meno, del forte e del piano, questi sarebbero respinti dal luogr» che occupavano. Ne il più caldo e il più freddo rest. rcbbero, se ricevessero il (juanto; poiché jl più caldo e il più freddo progrediscono sempre senza mai fermarsi; il quanto invece si è fermato, e ha ces- sato di progredire. Il più caldo e il p'ù freddo sono, per cons^'gueoz'^, illimitali Veii ora se aa.mette- remo questo carfittere distintivo della natura deirillimì- tato, p< r non estenderci troppo p-^rcorrenioli tutti — Prot.: Quale carattere V—Socii. : Tutto ciò che ammette il più e il meno, il forte e il piano, il troppo e tutte le qua- lità simili, bis^giia porl-^, com > in una unità (w; sic; sv) n^l genere dell'illimitato, conformemente a ciò che si ò detto sopra, ciré che bisogna, per quanto ò possibile, riunendo (a'jvayaYÓvxas) ciò che è diviso e disperso, im- primergli il cor.trassegiìo di una natura unica Cosi tutte le cose che non ammettono queste qualirà ma le contrarie, in primo luogo V eguale e V eguaglianza, poi il doppio e tutto ciò che è conie un numero ò a un altro numero o una misura a un'altra misura, pare che faremo bene riteren Jole al limite.... Quale Idea poi di- remo avere il terzo, cioè quello che risulta dalla me- scolanza di questi due? Noi parlavamo poco fa del più caldo e del più freddo— Prot. : Si— SocrC.. : Aggiungi il più secco e il p'ù umido, il più e il meno numeroso, il più veloce e il più tardo, il più grande e il più pic- colo, e tutto ciò che sopra abbiamo posto nell'unità della 7 •I natura che ammette il piùe il meno --Prof.: Parli della na- tura dell'illimitato?— Soc ?. : Si. Mescola (au[xji(YVD) ora con essa la progenie del limite— Prot.: Quale progenie?— Quella che avr^^mmo dovuto raccoglie e in uno (oDvaYaysLv sic, Iv), come abbiamo fatto per quella dell'illimitato, ma non abbiamo ancora raccolta li progeiie dell'eguale, del doppio e di tutto ciò che fa cessare la dissensione tra i duo contrari, e v'introduce U misura e l'accordo per mezzo d» l numero— Prot. Comprendo : mi pare che tu dica che, se si mescolano insiemi queste due specie, ri- sulteranno da ciascuna mesco'anza certe produzioni — SoCR. : E ti pare giustamente— Prot. : DI' adunque — SocR. : Non è vero che nelle malattie la giusta mesco- lanza di queste due specie produce la sanità?— Prot. : Senza dubbio— Sock: Che nell'a'juto e il grave, il ve- loce e il taralo, che sono illimitati, la stessa mescolanza introduce il limite, e dà la pui grande perfezione a tutta la musica ?— Prot. : Beoissimo— Socr. : Similmente, nel caldo e il freddo, essa fa cessare il troppo e l'illimitato, e vi sostituisce la misura e la proporzione ? — Prot. : Certamente— Socr. : Le stagioni, e tutto ciò che vi ha di bello nella natura, nasce -dunque da questa mesco- lanza del limitato e dell' illimitato?— Prot. : Senza dub- bio—Socr. : Lascio da parte un' infinità d' altre cose, quali la bellezza e la forza con la sanità, e nell'anima altre qualità bellissime e in gran numero. In effetto la t'ia dea stessa (la dea del piacere, cioè Venere), o bel f'ilebo, considerando la deprav^azione degli uomini e i loro eccessi d' ogni genere, e vedendo che non vi ha alcun limita nei piaceri e nella soddisfazione della con- cupiscenza, vi ha stabilito la legge e l'ordine che sono del genere del limitato—.. . Prot.: Tu metti, mi sem- bra, nellA natura delle cose, primo V illimitato; secondo il limite ; in quanto al terzo, non comprendo ancora— 98 - 4: sufficientemente quello che vuoi dire— Socr. : Ciò è per- chè la moltitudine dei generi di questo terzo ti ha stor- dito. Tuttavia anche V illimitato presentava molti ge- neri (Ysvr^), ma s'ugnati della nota comune (xw yìvsi) del più e del meno, apparvero una cosa unica (§v ècpavr^) — Prot. : É vero— Socr. : li limite non ne present«ava un gran numero, e non abbiamo avuto difficoltà ad am- mettere che fosse ano di sua natura— Prot. : Che diffi- coltà poteva esservi ?— Socr. : Nessuna. Di' dunque che io metto per terzo quest'uno : tutto ciò che é prodotto dalla mescolanza degli aliri due, tutto ciò che viene al- l'esistenza per le misure stabilite col limite. » L'interpretazione della dottrina contenuta nel luogo citato p'-esenta agl'interpreti dello difficoltà, sovratuto perché essi si ostinano a identificare il limite (rcépa?) e l'illimitato (àpsipov) del Fihbo con altri concetti plato- nici, conosciuti indipendentemente da questo dialogo. Alcuni vedono nel Tispac; le Idee, altri le entità mate- matiche : l'àTisipov equivarrebbe alla materia, che nel- respos'zione aristotelica del sistema platonico viene chia- mata Non essere o Grande e Piccolo. Siccome l' imma- nenza del Ttspac; e dell' àTisipov del Fdebo nelle cose ò ÌQCont3siabile, e gli stessi interpreti trascendentalisti sono obbligati ad ammetterla, dall' identificazione del Tiipa; con le Idee segui necessariamente l'immanenza di queste. Quindi gl'interpreti trascendentalisti preferiscoin di ve- dere nel Tispa^, piuttosto che le Idee, le entità mate- matiche. Ma l'ipotesi della trascendenza delle Idee non vi fa un gran guadagno. Infatti le entità matematiche, quantunque Platone le distingua dalle Idee propriamente dette, hanno nondimeno tutti i caratteri delle Idee : vale a dire sono degli attributi generali delle cose, conside- rati come sostanze, e ciascuno come uno e lo stesso in tutte Je cose di cui è l'attributo (l'uno nei molti) La < .'Iì i m I distinzione delle entità matematiche dalle Idee, cóme vedremo a suo luogo (1), è stata fatta al punto di vista della teoria dei numeri ideali, ed è una dottrina del- l'ultimo periodo della speculazione platonica : cosi negli scritti di Platone noi non troviamo mai questa distin- zione, e in alcuni luoghi anzi, come nel Fedone 301 e e 104 d, queste entità sono poste chiaramente allo stesso rango che tntte le altre Idee. Aggiungiamo che gli stessi argomenti che, secondo gl'interpreti Irascendentalist', provano la trascendenza delle Idee propriamente dette, proverebbero egualmente quella delle entità matematiche: p. e. anche le entità mitematiche soud dette essere Tiapa le cose (2), e chiamate ^(op'.axa e xs^^p'-ajasva da esse (3). Se le entità matematiche sono immanenti, le Idee non possono dunqu3 essere trascendenti : ne segue che se il TiÉpac; del Filebo e(j[uivalc alle entità matematiche, s'c- come esso è immanente, anche le Idee devono essere immanenti. Ma io non posso ammettere l'equivalenza del Tiépag né con le Idee nò con le entità matematiche. Del signi- ficato di questa dottrina del Filebo ci occuperemo in segu'to (Suppl. C.) : ivi vedremo che il uépa^ e Tàpstpov del Filebo sono speciali a questo dialogo, e non hanno un equivalente perfetto in altri concetti platonici; e che questa dottrina rappresenta una fase transitoria nell' e- voluzione di Platone verso il pitagorismo, il cui risul- tato definitivo fu la teoria dei numeri ideali e dei due (1) Supplem. C, III. (2) V. Arisi. Met. 1. UI. I. G, II. 15, 17, 18, 22, I. XIII. I. 1-2, IL 3, 5-8 ecc. (3) Arisi. Mei. I. XI. II. 7, 1. XII. I. 3, 1. XIII. VI. 6, 1. XIV. 1.1 3, 4, 7. /eco. — 99 — -r*— ^ Il'» elementi delle Idee e delle cose, che noi conosciamo per mezzo di Aristotile. Quello che c'jmporta per ora è di costatare un fatto che è al di sopra di txUte le conte- stazioni a cui ha dato luogo l'interpretazione della dot- trina del Filebo, K che tanto le entità che Platone riu- nisce sotto il termine comune di :iépac:, quanto le entità che egli riunisco sotto quello di àTisipov, sono evidente- mente delle astrazioni realizzate della stessa natura che tutte le altre che noi troviamo nella filosofia platonica. Il più freddo e il più caldo, il più veloce e il più tardo, ecc. da una parte, e IVguale, il doppio, ecc. dall'altra, sono degli attributi delle cose elevati, non potrebbe es- servi alcun dubbio, al graio di entità sussistenti per se stesse. Di più que-ti attributi sono, non solo sostanlifi- cati, ma considerati ciascuno com'»> una sostanza nume- ricamente unica, della j-tes^a mauiera che tutti gli altri attributi delle cose che PUtone cliva al grado di so- stanze. E ciò che risulta chiaramente dalle propos'z'oai in cui Platone riguarda il Tiipa; e l'ànsipov ciascuno co- me uno e al tempo stesso molti (23 e, 24 a, 25 a, 25d, 26 d). Iq efTctto (luest'unità a cui il muliiplo viene ricon- dotto, non è per Platone un' unità semplicemente con- cettuale, ma uu' unità reale (l). Il T:épa^, e così pure r aTisipov, non è uno semplicemente nel senso che le entità a cui il termine viene applicato s no comprese in un genere unico; ma quest'uniu\ importa di più che questo genere è riguardato come una sostanza unica, co- me un'Idea. Per conseguenza, anche e a«?cuno dei molli compresi nell'unità del Tispa; e deira-s.pov— l'f^gualc, il doppio, ecc. da una parte, e il più caldo e il più freddo, (1) V. n. Y, 4.0 il più veloce e il più tardo, ecc. dall'altra— è uno nello stesso senso in cui il Tiépa; e l'aTisipov è uno : vale a dire ciascuna delle specie del Tispa^ e dell'àTisipov è ri- guardata egualinente coun^. una sostanza unica, come un'idea. Ma gl'interpreii tras-.-endcntalisti sono, come abbiamo detto, obbMgati a convenire che il Tiépa; e Pà- Ttsipov del Flhbo sono icnmanentì nelle cose : dunque es- si devono anche convenire che le Idee platoniche sono immaneni nelle cose (1). IX. Tutto il reale per Platone si riduce alle Idee. Cosi egli chiama le Idee gli ess?ri (xà ovia) (2) o V essere (xó ov (3), r\ oògìol (4) ), e, considerate in relazione al sog- (1) Un'altra prova dell'iinmaiianzi dolio Idoo è che Platone ri- guarda la proposjziona che il Tlépac; e l'àpsipov sono gli elementi dille CD-53— cio3 la dottrina contenuta noi luogo citato— com3 equi- valente alla proposizione che il Tlépa^ o V loeipO'^ sono gli ele- menti dello Idee. In effetto, sul principio del luogo citalo, dice: " Noi abbiamo detto ch3 Dio ha insegnato elio degli esseri l'uno è àrcsipov e 1' altro zipa^; „ (soggi ungondo ohe, oltre a questi due, vi ha un terzo genere, cioè quello che risulla dalla loro mescolanza, e che poi definisce: ciò che viene all'esistenza per le misure sta- bilite col limite). Ora questo è un richiamo che si riferisce a 16 e, dove ha detto che « gli anticld che furono migliori di noi e più vicini alla divinità ci hanno trasmesso quest'oracolo, che lo cose ohe si dicono essere oternamonto sono di uno e di molti, e com- prendono in sé il limite e rillimilazìone. » (Le cose che si dicono es- sere eternamente sono naturalmonte le Idee). Platone non potrebbe considerare le «lue proposizioni come equivalenti, se le Idee per lui non si identificassero in un certo modo con le cose, ciò che sarebbe impossibile neiripotosi della trascendenza. (2) F,uìro 241) e, ('rat, 431) c-d, 440 .b. Fedoni' 66 a, 65 e, 82 e, 83 b, 101 e, Rcp. 500 b, 532 e, ecc. (3) Fedro 248 b, 247 d, rim. 52 d, Fedone 65 e, 66 a-c, FU. 58 a, I^t'p, 477 a, b, 478 a, b, o, 480 a, 48i e, d, 4Sa e, 490 a, 501 d, 511 e, 518 e, 521 e, d, 525 a, 526 e, 529 b, 533 b, e, 537 d, ecc. (4) Sof, 246 b, e, liej), 4S6 a, 523 a, 524 e, 525 b, e, 526 e, 534 a. Il reale risolvendosi nelle Idee, ciascuna cosa (ixaaxov) signi- — 100 — \ getto conoscente, i veri (xàXyj^)^^ fi) o il vero ( xàXYjO-é^ (2), ■fi aXr^^sia (3)) Ciò non si comprende che nell'ipotesi del- l'immanenza. Se. le Idee fossero trascendenti, le Idee e le cose sarebbero due realtà distinte e separate, e Platone non potrebbe dire che tutto il reale consiste nelle Idee. Ma se le Idre sono gli attributi delle cose, siccome tutto Tessere si risolve nei loro attributi, cosi le C08e si risolvono nelle Idee, e queste costituiscono tuttala realtà. Nell'ipotesi dell' immanenza, il mondo delle Idee e il mondo delle cose. Vintdligibile e il sensibile^ non sono due mondi differenti, ma, come abbiamo detto, un solo e stesso mondo visto da due lati differenti : ciò che Tintelligeuza vede come un complesso di astraiti cioè d'Idee, è quello stesso che i sensi vedono come un complesso di concreti c:oè di cose. Tra l' intelligibile e il sensibile vi ha in certo modo il rapporto che vi ha tra il semplice e il composto : Tintelligenza decompone i con- creti in astratti, le cose in Idee (4). Platone non può ne- gare che il mondo sensibile differisce dal mondo m/e/- . ligibile. Se la realtà consiste nel mondo intelligibile, cioè nelle Idee, ne segue che il mondo sensibile, cioè delle cose, in quanto differisce dal mondo delle I^^ec», non ha lìca talvolta in Platone : ciascuna Idea. V. Fedone G5 e. IhUì, 66d-e le Idae sono anche chiamate le rose atesse (aOxà xà TlpdYriaxa). Noi abbiamo viste (al n. IJ) che per dire : V Idea del movimento, deììcf stato, dell'essere, ecc., Platone si serve semplicemente delle parole : il inovimento, lo stato, Vesaerey ecc. : ciò suppone evidente- mente che le cose per lui si ri-;olvono nelle Idee. (1) Fedro 248 o, 247 d, liej), 519 b, 520 e. (2) Fedone 66 d, 67 b, 84 a. (3) Fedro 249 b, Jiep. 475 e, /ee?i>. 525 e, b, 520 b, eoe. (4) Confr. Taine Posit. imjL § JJ. JI. VII, L'InteHùjA, 1. l. 1. e. 2. IV, t. II. p. II, 1. 4. e. 2. ni, ecc.. H M realtà. É tale è in effetto la dottrina di Platone. In altri rasi, in cui per verità si deve inteniere la conoscenza vera, e non l'oggetto di questa conoscenza, la veW^à si- gnifica la conoscenza delle Idee (l). Altrove la verità vuol dire la condizione degli oggetti veri, la proprietà che e^si hanno di esser veri, e questa condizione o pro- prietà è attiribuita unicamente alle Idee (2). Cosi l'Idea ò chiamata il vero essere (ov ovxw;; («3), TiavxsXw^ ov (4), xsXéw^ ov (5), slXtxpivw^ ov (6), oòoicc ovxo)^ ouaa (7), àXYjO-toc; cpóai^ 'yKdpy^oDooL (8), ecc.), ciò che implica che l' indi- viduo non è tale; e questo vero essere e opposto alle cose che son credute essere (9), cioè le cose particolari. Il divenire (Yèvsa'.c:) o ciò che diviene (yiY'^óiisvov) — è per quest'attributo ch'^ P)atoae caratterizz i il sensìbile — è opposto all'essere (10) e al vero (11), e sì dice di esso che non è mai realmente (12), che non è un essere (13). <1) V. Fedro 248 b, Fedone 65 b, 63 a, b, ecc. (2) 7iV/). 508 d, 597 b, e, eoo. (3) Fedro 247 e, 249 e, Ti,u, 52 e, FU, 59 d, R.p. 490 b. (4) Sof. 249 a, I^ep, 477 a. (5) Jiep. 597 a. (6) Re)). 477 a, 478 d, 479 d. (7) Fedro 247 e. (8) Tini, 52 b. (9) Kep, 490 a-b, Fedro 249 e, 247 e. (10) Tini, 29 e, 52 d, AVj9. 508 d, 518 e, 521 d, 525 b, 525 e, 521 e, 534 a, ecc. (11) J^ep, 508 d, 525 e, eco. i (12) Tini, 28 a, Crat. 439 e. (13) Tim. 50 b. Nel Sof, 246 b dice : i partigiani delle Specie pongono in queste la vera oùaia: iii quanto a ciò che i Fisici chia- mano veriti\, essi lo chiamano non oùoiOL, mn. una certa genesi fluente. 101 — il letto reale (xXCvyj ovxo); o'joa) (1) significa V Idea del letto; là bellezza vera {za àXY)8-èG xaXXXog) (2) l'Idea della bellezza; il vero nimero (6 àXYjGivò^ àpL0|jiós) <^ le verj figure (xà àXvjH; axTjfiaxa) (3) le Idee dei numeri e de' le fig-ure (cioè, propriamente, le entità mat^natiche). L'in- dividuale non ò un essere, ma qualche cosa di simile all'essere (4); noa è né essere né non essere ma parte- cipa dell'uno e dell'altro, è un che di medio tra il puro essere e l'assoluto non essere (3). I sensi non ci fanno conoscere il vero (6); il sensibile è credut*) vero, ma nonlo è (7), almeno non ha una verità assoluta (8); questi non si trova che nelle Idee (9). Tra gli argomenti per dimostrare l'esistenza delle Idee vi hanno questi: se vi ha qualche cosa di vero, esistono le Idee, perchè niente delle cose presso di noi è vero; il numero è degli es>eri, ma le cose presso di noi non sono esseri, dunque il nu- mero è delle Idee, e queste esistono; le definizioni sono degli esseri, ma nessuna di queste cose è, Fono dunque le Idee (10). Le fonr.e che riveste succrssivarnent.». 1 \ materia sono apparenze (^avxotajjiaxa) degli es-^eri veri, cioè de' le (1) Rf^p, 597 d. (2) i'Vd/o 249 d. (3) I?ep. 529 d.. (4) Jiep. 597 a. (5) Jeep, 477-479. (6) Fedone 66 a, d, 83 a-b, eco. (7) Fedo. 83 b, 83 d, Rep, 597 b, e", 516 a, ecc. (8) Fedo, 83 e, FU, 59 b. R^p, 511 e (cfr. 5iU a), ecc. (9) Fedo, 65 e, FU, 58 e— 59 e, Eep, 484 e, 511 e, ecc. L'Idea è, come il solo essere vero, cosi pure il solo essere certo (pspaiov— V. Tim. 29 b, 51 d-e). Il sensibile noa è certo, perchè è qualche cosa di ambigno, di cui non può dirsi né che è né che non è* (10) Aless. Afrod. bi phU pr, I. t. 56. I,,:l|''I fi li Idee (1); ciascun sltoc, è uno in se stesso, ma per là partéci- pazinne ad es'o dei corpi e dello aziou', da per tutto appa- rendo (cfavxa^ó|i£vov), pare (cpacvsxat) molti (2). L'acqua, il fuoco, l'ari Ji, la terra non sono, ma appariscono (cpav- xa^sxai) (.i); la materia pare (^atvsxai) acqua, fuoco, ecc. secondo che riceve le immagini di questi (4), (cioè delle Idee dell'acqua, del fuoco, ecc. Platone si esprime cosi, perchè 1' acqua reale, il fu^co reale, ecc. sono le Idee dell'acqua, del fuoco, ecc.) Le cose non sono che im- magini deMc Idee; e chiamandole immagini (slxóvsg (5), stdcoXa (6), ecc.), Platone non vnol dire semplicemente ch'esse sono fatte ad imitazione delle Idee, ma ancora ch'esse non hanno una vera realtà ; infatti queste st- xóvsc, £t5(i)Xa, ecc. vengono opposti agli esseri veri (le I !ee). Il volgare, che non ammette la teoria delle Idee, vive coT.c in un sogno (7), perchè, come colui che Fogna, prende delle semplici immagini per esseri reali. Ciò che vi ha di reale negli oggetti che ci mostrano i sen-i, so-no le Idee : della grandezza, della s mìtà, della robu- stezza e, in una parola, dell'essenza di tutte le cose, il verissimo non è ciò che ne percepiscono i sensi, m«a ciò che ne percepisce la ragione, vale a dire le Idee (8); 1 sensi c'ingannano, e per conoscere la verità delle cose, dobbiamo rinunziare, per quanto è possibile, all'uso de- gli organi del corp'>, e contemplare con la mente ste sa (1) Tihi. 52 e. (2) Rep, 476 a. (8) Tim. 40 d-50 b. (4) Tihi, 50 e, 51 b, 52 e. (5) Fjdè'O 250 b, Tim. 23 b, e, 52 e, ecc. (6) Fedro 250 d, Rep. 523 e, 532 e, 5B4 e, CjhvUo 212 a, eC3. (7) Rep. 476 e, Rep, 534 e, Titn. 52 b, ecc, (8) Fedone 65 e. • i " > per se stessa gli esseri stessi per se stessi, cioè Tintelli- gibile ed invisibile (1); a traverso il corpo, noi vediamo gli esseri (le Ider), come a traverso un carcere (2). Da tutte queste proposizioni risulta con la più grande evidenza, quantunque Platon", bisogna confessarlo, ron lo formuli mai nettamente, il conc^^tto che le cose sono alle Idee ciò che l'apparenza è alla realtà: ciò che è in realtà un mondo d'Idee apparisce come un mr»ndo di cose, d'individui concreti. In effetto, se le cose non sono una realtà, saranno un'apparenza: ma un'apparenza suppone una realtà che apparisce divera da quello che è; per conseguenza, non essendovi altro di reale che le Idee, la realtà, di cui il mondo sensibile è l'apparenza, non può essere che il mondo ideale. Se le Idee fossero separate dare cose, noi non comprenderemmo come possa negare la realtà del sensibile, e ridurre tutto il reale alle Idee: -na se le Idee sono comprese nelle cose, e costi- tuiscono la sola realtà, ciò che vi ha di reale nel mondo sensibile non sarà ch'3 il mondo d'elle Idee, e allora il mondo sensibile, come tale, sarà l'apparenza del mondo delle Idee. Considerando il mondo sensibile come un'appa- renza, Platone non intende negare la sua obbiettività, per- chè egli non ammette che ciò che i sensi percepiscono sia un semplice fenomeno subbiettivo. Per Platone, come per Hegel, il mondo che noi chiamiamo reale è un' appa-renza delle Idee, ma un'apparenza obbiettiva. Senza dub- bio un'apparenza oltbiettiva è una contraddizione nei ter- mini; perchè una cosa non reale, un'apparenza, signi- fica un fenomeno subbiettivo che si prende a torto per IJ! H n una cn.ca obbiettiva. Una cosa, di cui si riconosce l'ob- biettività, non può, d'una maniera intelligibile, clas^^arsi tra le cose il cui caratterd essenziale è la mancanza di ob- biettività; ma questa classazione ininte]li;;ibile era il solo mezzo che Platone potesse tentare | er conciliare l'esi- stenza di un mondo di cose col principio che ogni realtà consiste neMe Idee. Questa riduzione del sensibile a una apparenza dell' intelligibile spiega perchè, tra tutte le filosofie preced«nt', l' eleatica fo'^se, dopo la pitagorica, quella di cui Platone riconoscesse il legame più intimo con la sua propria filosofia : è che per Platone, come per gli Eleati (1), il mondo mutabi'e, percepito dai sensi, èl'apparenza obbiettivi d'una realtà immutabile. Il concetto che le co«e sono 1' apparenza delle Idee sarebbe evidentemente incompatibile con la dottrina della trascenienza. Primo, perché, come abbiamo notato, se le Idee f.>ssero separate d^lle cose, Platone non potrebbe ridurre tutto il remile alle Id'^.e, e non avrebbe alcuna ragione per negare la realtà del sensibile. Secondo, per- chè questo concetto suppone che il mondo delle Idee e il mondo degl'individui, l'intelligibile e il sensibile, siano, non due cose differenti, ma due aspoti differenti di una sola e stessa cosa. Noi abbiamo confessato, è vero, che questo concetto' non si trova in Platone nettamente for- mulato. Ma l'identità tra le cose e le Idee, che esso suppone, è ammessa della maniera più netta in molte delle proposizioni da cui lo abbiamo ricavato : p. e. quando dice che ciò che vi ha di verissimo nelle cose è quello che ne percepisce 1' intelligenza, vale a di- re le Idee (2) ; ch^ a traverso gli organi del corpo (1) Fedo 65 e-66 a, 66 d-e, 83 a-b. (2) Fedo 82 e. (J) V. Appeud. alla parlo p.-ima, e. ^°,l 6.° (2j Fedone 65 e, luogo citato. — 103 — i: ' noi vediamo gli esseri, ci'^è le Idee, coinè a traver- so un career vi (l) ; qiiand) chiama le Idee gli es- seri ; quando dice : ciascuna cosa (Sxaaxov), |>cr signi- ficare : ciascuna Idea (2) ; ecc:. Questa iJenti ;i tra le Idee e le erse, incoucepibile nell'ipotesi della trascen lenza, è una conseguenza logica di quella dell'immanenza. In effetti, come abbiamo più volte osservato, l'astratto e il concreto, o, più generalmente, il più astratto e il più concreto, non sono degli oggetti differenti, ma uno stesso oggetto a gradi differenti di determinazione ; questi gradi differenti di determinazione, che al punto di vista ordi- nario non esistono che nella nostra intelligenza, sono elevati dalla mi^tafisica realista a realtà obiottive; ma questa stessa metafisica non può non riconoscere l'iden- tità dell'oggetto, di cui essi sono i gradi differenti di determinazione; e perciò i.e fa degli aspetti o df>gli stati difft^ reati di uno stfsso essere, che nei gradi successivi di determinazione che c^so percorre, si conserva nondi- meno sempre identico a se stesso. Ci resta a spiegare perchè quest'ultimo grado della determinazione dell'es- sere, che è l'individuo, non abbia per Platone (e in ge- nerale per tutti i filosofi che uniscono al realismo il metodo dialettico) che il valore di una semplice appa- renza. La ragione più ovvia per riguardare il sensibile come un'apparenza ò ch'esso ò in contraddizione con l'altro aspetto deiressere, la cui realtà deve stare più a cuore a Platone, cioè con l'Idea. Ciascun sl5og è uno, ma noi lo vediamo come molli, disseminfito nello spazio e nel tempo : di questi due aspetti contraddittori dell' essere, i i rintelligibiie e il s<jnsìbile, Platone, sacrificando, come lutti i metafisici, il dato dell'esperienza al risultato dt-lla speculazione, dichiara che il reale è il primo e il secondo è un'apparenza, che l'sleo^ è uno in se stesso, ma pare molti. Tuttavia una consideraz'one più attenti mostra clic questa ragione non basterebbe per se sola a negare Iri realtà del sensibile. In ette!to questa centra Idizioue tra l'uno e i molti si trova a ciascun passo della determinazione progressiva d^irid'ja : come l'Idea specifica diviene molti negl'indi- vidui che ne partecipano, co>i l'Idea generica diviene molti nelle Idee specifiche che ne partecipano. Quci^ta moltiplicazione dell' Idea nelle Idee più particolari ad essa subordinate è per Platone anch'essa una semplice apparenza : ciascun sldog pare molti, tanto per la parte- cipazione de'lc azioni e dei corpi, quanto per la partecipi- zioiic degli altri slòri W- Ma Platone non dichiara perciò che le Idee particolari sono delle semplici apparenze del- l'Idi a generale : è che vi ha in esse, oltre l'elemento ge- nerico, che, come molti e diverso nelle diverse Idee, è un'apparenza dell'Idea generica, un elemento differen- ziale; e questo è irriduttibile all'Idea generica, e reale come eséa. Ora anche nell'individuo vi ha un elemento differenziale, che si aggiunge all' elemento specifico : sembra perciò che Platone dovrebbe conservare la realtà degrindividui in grazia delle differenze individuali, come conserva quella della Specie in grazia delle differenze specifiche. Al cominciamento di questo numero, per ispiegare la dottrina di Platone che tutto il reale consiste nelle (1) Fedone 82 e, loogo citato. (2) Fedone 65 e, luogo citato. (1) V. Rep, 476 a. - »-r" ' i i I Idee, noi abbiamo detto che gli esseri si decompongono nei loro attributi, i quali, considerati gen'^ralmeite, sono d^»lle lie»^. Infntti questa è la sola ragione plausibile, che Platone e ogni altro nietafis'co che prot 'ssa lastessa dottrina, potrebbe addurre per giustificarla; ed io ho ci- tato il Taine, il quale ammette effettivamente che il rap- porto tra le entità generali — corrispondenti alle Idee platoniche — e le cose è quello che vi ha tra le parti e i tutti, i componenti e i composti. A questo punto di vista» l'elemento differenziale, che si aggiunge alla Specie por costituire l'individuo, sarebbe un complesso di caratteri, di cui ciascuno è generale e corrisponde a un'Idea, e che ba- sta a determinare V individuo, perchè il conceremo di tutti non ha luogo che in un singolo individuo. Ma questo punto di vista ò, rigorosamente parlando, inammissibile. Vi ha. necessariamente nell' individuo un elemento, chi*, è irridut- tibile al generale, all'Idea. Prima di tutto, la posizione in un punto determinato dello spazio e del tempo. Poi, un cumulo di caratteri generali, per quanto si moltiplichino, non potrebbe fornire una rappresentazione adequata, pre- cisa, dell' individuale. È perciò che i realisti del medio evo ammettevano un principio particolare, V ecceità, che si aggiungeva agli Universali per formare l' individuo. Il vero motivo per cui Platone e gli altri filosofi, i cui si- stemi sono costruiti sullo stesso tipo del sistema plato- nico, non fanno come i realisti del medio evo, ma risol- vono tutto il reale in entità generali, bisogna cercarlo, non nel realismo per se stesso, ma nella dialettica. Io chiamo dialettica ogni metodo in generale di de- durre i concetti realizzati (che Platone chiama Idee) gli uni dagli altri, allo scopo di assimilare il rapporto tra il principio e la conseguenza a quello tra la causa e lo effetto. La dialettica non ò un semplice processo sub- iettivo per dimostrare le cose, ma è il processo stesso per cui le cose si producono, la legge della loro causazione reale. Questa legge non determina le successioni cronolo- giche dei fenomeni, ma le succe-isioni logiche delle entità in cui la mot;ifis'ca realista r.solve il reale. Queste en- tità si deducono le une dall«ì altre secondo un metodo costante fche, p. e, per Platone è la divisione del genere nelle sue specie, per Hegel il passaggio dalla tesi all'an- titesi e poi alla sintesi); e il proprio di questa deduzione è che fra le entità che si deducono e quelle da cui si deducono, non vi ha semplicemente il rapporto logico di conseguenze e dì principii, ma anche il rapporto on- tologico di f fleti i e di cause, poiché l'essenza della me- tafisica di cui parlian^o consiste nella identificazione di questi due rapporti. Il nietfdo per cui procede questa deduzione essendo, come abbiamo detto, la legge di causazione delle entità ch<>, secondo la metafi^jica rea- lista, costituiscono il reale, ton può esservi niente nel reale che non si uniformi a questa legge, cioè che non possa dedursi secondo questo metodo; della stessa ma- niera che tra i fenomeni non può esservene alcuno che non si uniformi alle legji di causazione dei fenomeni. Ora nessun metafisico potrebbe pretendere di dedurre l'individuale; poiché la scienza non aspira a conoscere l'individuale, ma solo il generale. L'individuale non può dunque uniformarsi alla legge dialettica che governa il reale : la sua esistenza è in contraddizione con questa Ifoge; quardo, nella determinazione progressiva dell'es- sere, arriva il momento finale (finale almeno nel siste- ma platonico), in cui si passa dall'astratto al concreto, dal generale all'individuale, accade un avvenimento senza causa. Ecco perchè il metafisico real'sta non conta quest'avvenimento fra i gradi reali dello sviluppo del- l'essere, e dichiara il sensibila una semplice apparenza. Il metafisico realista non fa che quello che noi stessi farem- — 105 — I. mo innanzi ad un avvenimento, di cui saremmo eerti che non vi hanno nel mondo esteriore degli antecedenti capaci di determinarlo : noi lo dichiareremmo un sogno 0 un'illusione, il criterio principale, se non Tutiico, per distinguere il sogno o V illusione dalla realtà, essendo la possibilità o meno di mettere un fenomeno in connes- sione causale cogli altri fenomeni che costituiscono la serie che noi chiamiamo il mondo reale (1). Ci) Tutti i metafisici che. come Platone, realizzano i concetti, e am- mettono che questi concetti realizzati possono deduisi gli uni dagli al- tri secondo un metodo costante (che noi chiamiamo dialettico, perchè cosi è stato chiamato dai più celebri rappresentanti di questa forma di metafisica, Platone ed Hef?el), riguardano il sensibile, l'individuo, come non reale, ma soltanto apparente. Schelling dice: Non vi ha passaggio continuo dall'assoluto (l'entità suprema da cui tutte le altre procedono, la pia astratta di tutte) al mondo sensibile; non si può concepire l'ori- gine del mondo fenomenale che per un salto, per una discontinuazione perfetta dell'azione dell'assoluto. Perche fosse possibile di dedurre dall'as- soluto la nascita delle cose reali (cioè che noi chiamiamo tali), biso- gnerebbe che esse avessero in lui la loro ragione positiva : ora n^n vi ha in Dio (cioè nell'assoluto) che la ragione delle Idee, e le Idee alla loro volta non producono che delle Idee, e niuna azione positiva procedente da esse o dall'assoluto può formare un passajrgio da'I' infinito (il mondo delle Idee) al finito (il mondo dei fenomeni). L:i filosofia non ha alle cose fenomenali che una relazione negativa : essa hu meno per oggetto di provare che esse sono, che di mostrare che esse non sono (V. Willm Stor. della fiL aUm. da Kant sino ad Hegel v. 3. pag, 300-301) H»gel nella Logica paragr. 213 : « L'idea è il vero; perchè il vero consiste nella conformità tra la nozione e il suo oggetto.... Ogni essere reale tira la sua realtà dall'Idea, e non è che per l'Idea che è un essere reale... L'in- dividuo non corrisponde alla sua nozione (e per conseguenza manca di verità). » Nell'Introduzione all'Enciclopedia parag. VI : « Un'osservazione attenta del mondo distingue ciò che, nel vasto dominio dell' esistenza interna ed esterna, non è che un'apparenza fuggitiva ed insignificante da ciò che ba una vera realtà. .. Dio (cioè l'Idea) é la realtà più alta e la sola realtà, e, relativamente alla forma, l'esistenza è in parte apparenza I 1^ Il Zeller, quantunque sia Tuno dei principali rap- presentanti dell'interprctazioDe trascendentalista, rico- nosce che dalle proposizioni di Platone sulla realtà delle sole Idee e la non realtà del sensibile, ne segue il con- cetto che il mondo sensibile non è che un fenomeno del mondo ideale. Egli ammette che questo Iato della dot- trina platonica è in contraddizione con l'altro lato che egli le attribuisce, cioè la separazione tra le Idee e le cose; ma secondo lui esso importa, non l'immanenza delle Idee nelle cose, ma l'immanenza deUe cose nelle Idee (1). E in verità si deve convenire che sarebbe più e in parte realtà. Nella vita ordinai ia, tutti gli avvenimenti, l'errore, il male e tutto ciò che appartiene a quest'ordine di cose, come anche ogni esistenza passeggiera e peribile, sono accidentalmente chiamati delle real- tà ». Nota di Vera; « Vi ha nel'e cose un elemento apparente, accidentale» esteriore, e un elemento reale, necessario ed interiore. È quest'elemento che è l'oggetto della filosofia ». Vera nell'Introduzione alla filosofia della natura di Ile;;el, e. IX : « Il tempo e lo spazio costituiscono il sustrato e come i due fattori del'a natura; di tal sorta che ciò che è uno vi ipparisce come molti, e ciò che è simultaneo vi apparisce come successivo. E questo apparire non è un fatto o uno stato puramente subbiettivo ed esteriore alla na- tura, ma costituisce la condizione e la forma stessa della sua esistenza. » Taine nel Posil. intjl. § 11. VII ; « Questo magnifico mondo in movimento, questo caos tumultuoso d'avvenimenti che s'incrociano, questa vita in" cessante infinitamente variata e multipla, si riducono ad alcuni elementi e ai loro rapporti. Tutto il nostro sforzo consiste a passare... dal complesso al semplice, dai fatt alle leggi, dalle esperienze alle formule. Sinché non guardiamo la natura che per l'osservazione sola, noi non la vediamoquale è ; noi non abbiamo di essa che un'idea provvisoria e illusoria* Essa è propriamente una tappezzeria che noi non vediamo che dal rovescio. Ecco perche cerchiamo di voltarla. Noi ci sforziamo di distinguere delle leggi.., noi scopriamo delle coppie (di entità astratte)... noi passiamo dall'accidentale al necessario, dal relativo all'assoluto, dall'apparenza alla verità». (1) Filos. dei Greci II, I, pag. 625. — 106 — r<- esatto di riguardare il fenomeno come inerente nella so- stanza, che la sostanza come inerente nel fenomeno. È qui dunque il luogo di domandarci se s^a più giusto di formulare il rapporto tra le Idee e le cose nel sistema platonico, dicendo che le Idee sono immanenti nelle co- se, 0 dicendo piuttosto che le cose sono immanenti nelle Idee. Effettivamente il rapporto tra le Idee e le cose, o, più generalmente, tra il generale e il particolare, è con- cepito da Platone dell'una e dell'altra maniera. Queste due concezioni corrispondono alle due formule, Vuno nei molti e Vuno è molti. Secondo la prima, l'Idra ge- nerica è contenuta nell'Idea specifica, e questa negl'in- dividui. Secondo l'altra, l'Idea generica è la stessa cosa che la totalità delle Idee specifiche, e contiene quinii le Idee specifiche; e similmente l'Idea specifica è la stessa cosa che la totalità degl'individui, e contiene quindi grindividui. Vi ha però una differenza tra il rapporto dell'Idea generale con le Idee più particolari ad < ssa subordinata e quello dell'Idea con le erse; ed è che nel primo caso l'uno e i molti— cioè Tldea generale e le Ide? particolari subordinate— sono riguardati da Platone come due aspetti o due stati egualmente r«»ali che Tes- sere attraversa successivamente neUa sua progressiva determinazione; invece, quando l'uno r;ipprp.8enta l'Idea e i moiri le cose, di questi duo a-petti dell' essere uno solo, Vuìio^ è riguardato come reale, e l'altro, i molli^ è riguardato come una semplice apparenza. Questi rapporti contrari di contenenza reciproca tra il generale e i particolari non sono al fondoche la dop- pia re:azione che può stabilirsi tra i concetti, secondo che si guardano nella loro estensione o n^lla loro inten- sione : guardati nell' intensione, il particolare contiene il generale; guardali neiresiensione, il generale contiene il11 il ' '1 i particolare. Tuttavia bisogna riconoscere che queste due maniere di concepire la relazione tra le Idee generali e le Idee particolari e tra le Idee e le cose non sono perfetta- mente congruenti : ciò non è solo per la contraddizione che vi ha a rappresentarsi una cosa come parte di un'altra, e al tempo stesso quest'altra come parte della prima (secondo la formula dell'immanenza delle Idee nelle cose e dello Idee generiche nelle Idee specifiche, l'Idea sarebbe nella cosa e l'Idea generica nell'Idea specifica come una parte nel tutto; se«*,ondo la formula contraria invece le Specie sarebbero parti del Genere e gl'individui della Spec'e); ma ancora perchè le due concezioni suppongono in so- stanza due concezioni differenti dell'Idea. Il concetto può considerarsi a due punti di vista differenti : come rappresentante l'oggetto, a cui si riferisce, considerato d'una maniera astratta e generale; e come rappresen- tante l'attributo, per la possessione del quale a que- st'oggetto viene dato il nome corrispondente al concetto. Questi due punti di vista corrispondono al nome con- creto e al nome astratto ; p. e. animale ed animalità. Di qu?8ti due aspetti o, se sì ama meglio, di queste due forme del concetto, qual è che realizza Piatone ? è la rappresentazione astratta del soggetto animale, o quella dell'attributo animalUd V L'unae l'altra; e quantunque la realizzazione dell'una non sia perfettamente identica a quella dell'altra, egli non vi fa alcuna differenza. Infatti egli chiama indifferentemente l'Idea sia col nome con- creto : p. e. il grande (1), il piccolo (2), il padrone (3), (1) Fedo 100 b, Parm, 132 a. (2) Parm. 131 d. (3) Parm. V "^.' T^ il servo (1), Tuomo (2), il bue (3); sia col nome astratto : p. e. la grandezza (4), la piccolezza (5), la padronan- za (6), la servitù (7), la 7nen6*aZ//à (xpaTis^óxyjs da TpocTis^a mensa) (8). Evidentemente, per riguardare Tldea come contenuta nelle cose e Tldea generica come contenuta nelle Idee specifiche, l'Idea deve essere la realizzazione dell'attributo, p. e. dell'animalità; ma per riguardare le Idee generiche come contenenti le Idee specifiche e queste come coDt:'nenti le cose, l' Idea devo essere la realizzazione del soggetto, p, e. dell'animale, astratta- mente considerato. Di queste due concezioni dell'Idea è la prima che prevale, come apparisce da tutte le e- spressìoni del rapporto tra le Idee e le cose significanti o implicanti la parusia : è che è cosi che noi possiamo rappresentarci della maniera possibilmente più netta le Idee e la loro relazione con le cose e tra di loro; per conseguenza qurl'i che rigettano la sepaiaiione tra le IJeo e le cose preferiranno sempre la formula dell'im- maneu'za delle Idee nelle co<je. Ma quando Platone si mette più specialmente al punto di vista della dialettica, egli deve abbandonare questa concezione per l'altra ; poiché è evidente che non è p. e. la sostanzialità (^l'at- tributo) che si divide in corporeità e spiritualità, ma è la sostanza (il soggetto) che si divide in spirito e corpo; (1) Parm. J33 d-e, (2) FU, 15 a. (3) Ibid. (4) redo. 100 e, 101 a, Parm, 131 e, d, 132 a. (5) Fedo. JOO e, 101 a. (6) Parm. 133 e. (7) Parm. 133 e. (8) Diog. Laert. VI. 63. I lì / il il H e che non é ^animalità che si divide in umanità e bru- talità, ma è l'animale che si divide in uomo e bruto. A questo punto dì vista la formula più giusta del rapporto tra il generale e il particolare è l'immanenza del secondo nel primo, cioè delle Idee specìfiche nel'e Idee generiche —conformemente al Timeo 39 e, in cui Platone dice che l'intelligenza vede le Specie degli animali inesìstenti(èvouoag) DeirAnimale in sé— e per conseguenza anche delle erse nelle Idee. Bisogna dunque riconoscere que- st'oscillazione dì Platone nel concepire l'Idea : ma non si deve dimenticare che le due co)icezioni differenti sono l'una e l'altra esclusive della trascendenza delle Idee; che l'Animale in se stesso, cioè l'astratto, non è sepa- rato dall'animale concreto, ma è identico con esso, per- chè runo è i molH, e i molti sono Vuno'^ e l'Animalità in se stessa non è separata dall'animalità che è l'attri- buto dell'animale concreto,.ma è questa stessa animalità, perchè Vuno non è fuori dei molti, ma nei molti, X. La dottrina della non realtà delle cose sensibili è legata in Platone con quella d( l loro continuo divenire. Egli ammette la tesi di Eraclito, con gli sviluppi che le aveano dato gli eraclitizzanti più recenti. Il presup- posto su cui erano fondate le conseguenze che questi tiravano dalla dottrina del maestro era che ciò che can- gia di un cangiamento continuo non è mai, nel tem- po in cui cangia, in uno stato determinato (l) : essi ne concludevano che delle cose, che sono in un contiauo divenire, non vi ha alcuna conoscenza possibile, poiché niente potrebbe dirsi di vero di ciò che non è d'una (1) V. per questa proposizione Append. alla 1 . parte oap. l. § 6, e parte 2. Le antinomie della ragione. maniera determiaata (1). A questa conseguenza della tesi eraclitica, che Platone restringe naturalmente al sensibile (2), egii ne aggiunge un'altra, cioè cheeiòche diviene non è, proposizione che senza dubbio viene an- ch'essa dedotta dal medesimo presupposto (3). Per l'e- satta comprensione del legame tra la dottrina del con- tinuo divenire delle cose e le conseguenze che gli Era- clitizzanti e Platone ne deducevano, io rinvio perciò ai luoghi di qu-^sto scritto sopra indicati. La quistione che per ora c'interessa è un'altra, cioè : quando Platone op- pone l'Idea eterna e sempre la stessa alle cose che na- scono e periscono e sono in un divenire continuo, parla egli, come intendono gì' interpreti trascendentalisti, di due mondi separati e contrari, l'uno sottoposto a un perpetuo cangiamento, e l'altro esento da qualsiasi cau giamento; o di un mondo solo, che può consiaevarsi a due punti di vista oppo-ti, comò in un divenire c^nJiauo, guar- dato in ciò che ess3 ha di fenomenale, d' individuale, di contingente, e come immutabile, guardato in ciò che ha di rea^e, di generale, di necessario? Prima di tutto si deve osservare che questi stossi ca- ratteri di eternità (4) e d'immutabilità (5), attribuiti allo Idee, non si comprendono perfettamente che nell'ipotesi dell'immanenza. Le Idee sono eterne e sempre le stesse non è (1) V. Arìst. Met. 1. J. Vl,l, 1. IV. V. 12-lQ, 1, XI. VI. 612, 1. XIII. IV. 2. (2) V. Met. 1. I. VI. 1, 1. XIII. IV. 2, IX. 19. (3) V. Arisi, Mei, 1. IV. V. 12-13. (4) V. Fedone 79 d, Conv. SII a, FU, 15 b, 59 a, 7'ui?. 22 d, 29 a 37 a, 37 c-38 e, 50 e, 51 a, 52 a, 59 e, ecc. 5) V. Parm. 135 b, Conv. 211 b, Polli, 269 d, FU, 15 b, 59 e, Fe- do. 78 c-d, 79 a, d, e, 80 b, Tim, 28 a, 29 a, 38 a, 52 a, ecc. che la traduzione in linguaggio realista di questo risultato dell'osservazione più volgare : che nei cangiamenti inces- santi che avvengono nel mondo, le forme generiche e sjecifiche d^gli esseri non cangiano; che gl'individui periscono, ma le specie sono stabili. Per l'eternità delle Idee, Platone esprime lo stesso concetto, espresso da A- ristotile quando egli dice che le forme non nascono né periscono (1): l'uno e l'altro alla dottrina ai terìore dei F.sici di un'origine e di una fine del cosmos attuale go- s*iiuiscono la dottrina — più conforme alla tendenza innata del nostro j-pirito di generalizzare, quanto più è pos- sibile, la nostra esperienza — deireternità dell'ordine pre- sente del mondo (2). Ma se le Idee non sono le forme generiche e spcciticbe degli esseri, l'eternità, di cui ven- gono dotate, è arbi(raria come tutti gli altri caratteri, che ad c^sc hi attribuiscono : in elìctt'\ il male radicale e incurabile del sistema delle Idee trascendenti è la loro assoluta incapacità di esercitare sulle cose un'efficienza qualsiasi; sicché qualunque ipotesi secondaria di cui venga circondata l'ipotesi della loro esistenza, è, come questa, gratuita e priva di scopo, la loro causalità re- stando, in tutti i casi, egualmente misteriosa. prova dell'immanenza delle Idee è V argo- fi) V. Mei, 1. IX. X. 4, 1. VII. Vili. 1-4, IX. 7, XV. 1, ecc. (2) Se non cho per Ari>àtotile la forma non può considerarsi co- me identica negl'individui differenti che per metafora; per Platone invece quest'identità ò reale. Nel Parm 135 b, per significare rigel- tando la dollrina delle Idee^ dice : non lasciando che la forma (l$£a) di ciascuno detjli esseri (cioè di ciascuna specie di esseri) sia sem- pre la stessa. Ciò prova che l'Idea non è che la forma di ciascuna specie di esseri riguardata come sempre la stessa, cioè come nume- ricamente identica in tutti gl'individui che rivestono questa forma. — 109 — tnento per cui Platone dimostra la loro esistenza dal divenire continuo delle cose. Conformemente alla tesi degli Eraclitizzanti, è impossibile di avere la conoscenza di ciò che diviene : Platone ne conclude che bi90o:na ammettere un essere permanente, che sia il vero og- getto della conoscenza ; questo è V Idea (1). Quest' ar- gomento che Aristotile dà come il vero motivo del si- stema delle Idee — apprezzamento su cui dobbianro fare le nostre riserve, perchè i sistemi metafisici, secondonoi, non hanno per motivi dei sofismi artificiali come questo, ma i sofismi naturali dello spirito umano (2) -— era fondato, come la più parte degli altri argomen(1) V. Met. 1. I. VI, 1-2, 1. XIII. IV. 2, IX. 18-20. (2) Io credo anzi che si debba prendere al rovescio il rapporto che Aristotile — in un'epoca in cui non potremmo attenderci che lo spirito umano avesse già acquistato la coscienza delle sue tendenze metafisiche e dei processi per cui esse si realizzano— stabilisce fra la tesi degli era- clitizzanti e la dottrina delle Idee. La dottrina delie Idee non e una cn- seguenza della tesi degli eraclitizzaìiti, ma è questa che è, in Platone, una conseguenza di quella. Io non pretendo che Platone ammettesse U dottrina del continuo divenire delle cose in conseguenza delia sua dot- trina delle Idee, perchè non vi ha tra le due dottrine una oonnessionenaturale. Si deve dunque ritenere che Platone adottasse la tesi di Era- clito—che al punto di vista moderno è l'espressione esatta della verità, e che anche al punto di vista antico era un' interpretazione plausibile dei dati deirosservazione- per dei motivi indipendenti dal sistema delle Idee. Ma le conseguenze esorbitami, che gli Eracletiszanti come Cratilo dedu- cevano da questa tesi, cioè l'indeterminatezza delle cose, che continua- mente divengono, e la loro inconoscibilità, non dovettero essere accolte da Platone, che perchè egli vi trovava delle prove per dimostrare l'esi- stenza delle Idee. Similmente, quando Platone aggiunge, come conse- guenza dell'indeterminatezza di ciò che diviene, che ciò che diviene non è, egli ammette la legittimità di quest'inferenza, perchè vi vede una con- ferma della dottrina della non realtà del sensibile, ch'egli ha dedotta dal sistema delle Idee. / deiresistenza delle Idee tirati dalla scienza e dal Con- cetto, sul presupposto che tra le nostre nozioni e i loro ogcretti deve esservi una conformità assoluta. Per la dottrina deirindeterminatezza di ciò che continuamente diviene, non potrebbe esservi una rappresentazione assolu- tamente conformo, e quindi nemmeno una conoscenza, del l'indi vidu ile, perchè questa lo rappresenterebbe d'una maniera determinata, mentre ciò che diviene non è mai d'una maniera determinata. A questo noi obbietteremmo-ed è in efi'etto l'obbie- zione cheAristotile faceva alla tesi degli Eraclitizzanti (1) —che, per conoscere le cos^, non è necessario di for- marsi una rappresentazione esatta, precisa, dello stato 0 degli stati successivi ia cui si trova l'individuo, ma basta avere la conoscenza della forma specifica, dell'sISos comune degl'individui; ora questa forma non è attìnta dal divenire, perchè i cangiamenti dell'individuo, qua- lunque sia la loro natura, sono sempre contenuti dentro 1 limiti di essa, e per conseguenza la sui conoscenza, e quindi quella dell^. cns\ è possibile. Ma di quesfa miniera noi non faremmo la confutaz'one dell'argomento platonico, invece lo continueremmo : in effetto Platone soggiungerà che Toggetto di questa conoscenza dell'elSos comune degl'individui non sono gl'individui — la cono- scenza che ha per oggetto l'individuo sarebbe la rap- presentazione esatta e completa dello stato in cui esso si trova, e questa si è dimostrata impossibile — ma è TsISos in so st?ss'>, perchè deve esservi una conformità assoluta tra la nozione e il suo oggetto, e perciò una nozione astratta e generale, qual è la conoscenza del- {!) MeU 1. IV. V. 14; cfr. 1. XI. VI. 9. Tslaog comune, non può riferirsi che ad un oggetto egualmente astratto e generale. Ciò che prova che l'argomento di Platone mira a dimostrare un elSog che è Degl'individui, quantunque separabili (xwpioxóv) — nel senso che abbiamo spiegato — da essi, e non un elòoz che è fuori di essi, è che nel primo caso si attribuisce a Platone una proposizione incontestabile, cioè che l'oggetto della scienza non è ciò che vi ha nelle cose d'individuale, ma ciò che vi ha in e -so di generale; nel secondo caso invece gli si attribuirebbe questa proposizione stran», che la scienza si riferisce, non al mondo reale, ma ad un mondo fantastico, posto, non si sa dove, al di fuori del mondo reale. Forse V interprete trascendentalista dirà che Platone non vuole dimostrare quale sia l'oggetto a cui si riferisce, nel fatto, la scienza, ma quale sia quello a cui essa deve riferirsi. E sia pure. Ma si può attribuire a Platone V idea che la sclen/.a deve riferirsi a un altro mondo, e non a questo che ò il solo che cMntcressi di conoscere? Passiamo alle prove dirette, contenute negli scritti di Platone, che ci mostrano che l'essere, V immutabile, non è fuori del divenire, ma nel divenire stesso. La prima è l'attitudine ambigua di Platone verso la tesi eraclitica. Aristotile dice (Mei. 1. I. VI. 1) : « Conversato (Platone) da giovane con Cratilo, e familiarizzatosi con le opinioni eraclitee che tutti i sensibili continuamente fluiscono e non vi ha di essi scenza, mantenne anche io appresso le stesse opinioni. » E infatti la dottrina del continuo divenire delle cose noi la troviamo nel Fedone 78 e-80 b, nel Fileho 59 a-b, nel Sofista 246 b-c, nel Timeo 2y a, 52 a, ecc. Ma intanto vi hanno altri luoghi in cui Platone si mostra avversario risoluto di questa dottrina. E ciò che fa specialmente nel Teeieio. In questo dialogo la presenta come conducente logicamente alla tesi di Protagora che le cose non hanno in se stesse una natura determinata, ma sono quello che sembrano a ciascuno (152-157, 160 d, ecc.), ciò che deve riguardarsene come una sorta di confutazione per 1' assurdo (1); e la combatte apertamente a 179 d-183 e, luogo di cui basterà di cithre il tratto seguente, che è il più importante : « SocR. ; Tutto si muove, voi dite, tutto fluiscp. Non è cosi ? — Teodoro : Si. Socr. : Senza dubbio del doppio movimento che noi abbiamo distinto, di trasla- [(1) Alcuni vedono nel Teeieio una testimonianza storica sul rapporto tra Protagora ed Eraclito, e ammettono, fondandosi su di essa, che la tesi di Protagora deriva realmente dalla dottrina era- clitica del divenire. Ma che il legame tra le due dottrine sia una semplice speculazione di Platone, è ciò che egli stesso confessa chiaramente, quando dice che espone, non ciò che Protagora e i suoi partigiani dicono apertamente, ma il loro secreto (152 c-d» 155 d-e, 156 a). D'altronde che la deduzione del Teeieio non abbia alcun valore storico, risulta sufficientemente dalla mancanza di una connessione naturala tra le due dottrine, poiché è evidente che la tesi di Protagora è dedotta dal valore puramente subbiettivo delle sensazioni, e questo dalla loro relatività; ora non vi ha alcun rap- porto logico tra questi principii e la dottrina del divenire continuo delle cose. Aggiungiamo che Ira la tesi di Protagora e quella d^ Eraclito, non solo non vi ha un legame logico, ma vi ha anzi unaaperta contraddizione; perchè la prima distruggo l'obbiettività delle cose, ed è incompatibile con qualsiasi sistema dommatico. Il Zel- ler dice, è vero, ohe Protagora «ha incontestabilmente attribuito alle cose un' esistenza obbiettiva » (I. pai te t. 2. e. 3. § 4. 980); ma quest'affermazione non ha altra base che l'esposizione del Teeieio-» poiché Sesto Empirico (Purrh, 1. I. e. 32) che ò 1' altra autorità su si appoggia Zeller, non è un testimonio diretto, e si fonda an- ch'egli evidentemente sul Teeieio. L'antecedente storico della tesi di Protagora deve corcarsi, come ben nota il Lange (Sior. del ma- ter, t. I. n. 31 alla I parte), piuttosto che nella dottrina di Eraclito, nell'atomismo (di Leucippo), perchè questo era il primo passo verso la negazione assoluta del valore obbiettivo della sensazione. -Ili - V; zione e di alterazione ? — Teod. : E come do, se sì vuole che tutto si muova perfettamente ?— Sccr. : Se le cose can- giassero semplicemente di luogo, e non si alterassero, potremmo dire quale sia la natura di ciò che fluisce can- giando di luogo. Non è vero ? — Teod. : Certamente — SocR. : Ma siccome nemmeno è una cosa Ftabiie che ciò che fluisce fluisca bianco, ma anche in questo vi ha can- giamento, in modo che la bianchezza stessa fluisce e si muta in un altro colore, affinchè non si sorprenda in uno stato fisso; è mai possibile di dare a un colore un nome, in modo che questa denominazione sìa giusta ? — Teod. : Come sarebbe ciò possibile, o Socrate, sia per il colore, sia per un'altra di tale cose, se, mentre par- liamo, esse fuggono, poiché fluiscono continuamente? — SocR. : E che diremo delle sensazioni, p. e. di quelle della vista e dell'udito ? che esse permangono nello stato di visione o di audizione ?— Teod. : No, s'è vero che tutto si muove— SocR. : Non si deve dunque dire che si vede qualche cosa anziché che non si vede, né che si ha qualche altra sensazione anziché che non si ha, so tutto è assoluta- mente in movimento— Teod. : No, senza dubbio— Socr. : Ora la sensazione è la scienza, abbiamo detto io e Tce- teto— Teod. : Si— Socr. : Interrogati dunque che cosa FÌa la scienza, abbiamo risposto qualche cosa che non è scienza piuttosto che non scienza— Teod. : Cosi p«re — Socr. : Abbiamo giustificato la nostra risposta d'una bella ma- niera, noi che ci siamo sforzati di mostrare che tutto si muove per far ved'^re la giustezza di questa risposta (i) :quello che si è visto è, mi sembra, che se tutto si muove, qualsiasi risposta, su qualunque c<>sa si risponda, é egual- mente giusta, sìa che si risponda che la cosa è co>ì, sia che non è co>i, o, se ti piace meglio, che diviene cosi, o che non diviene cosi, affinchè le nostre parole non attri- buiscano ad essi (ai partigiani della dottrina del divenire) alcuna permanenza— Teod. : Dici bene -Socr. : Tranne in questo, Teodoro, che ho detto così e non così : queste pa- role non devono essere usate, poiché, essendo costo non cosìf le cose non sarebbero più in movimento; infatti né così né non così è movimento. I partigiani di questo si- stema dovrebbero inventare qualche altra parola, po'ché sin qui non hanno termini adattati alla loro ipotesi, tranne forse quvisto : in nessun modo. Questa espressione, ripe- tuta all'infinito, é la più conveniente per essi » (182 c- 183 b). E evidente che qni Fintone non accoglie, ma rigetta come assurda, la tesi di Cratilo che non vi ha alcuna proposizione vera sulle cose ch^> continuamente divvu- gono ; e che egli la presenta come una conseguenza inevitabile della dottrina del continuo divenire, per mo- strare che questa conduce ad una conseguenza assurda. Orri come conciliare quest'attitudine ostile coi luoghi dei suoi i-cr.tti in cui si mostra un propugnatore di questa dottrina, e con la testimonianza d'Aristotile ? La cosa si sp'ega pcrfeitamente, se si ammetto che l' immutabile e ciò che continuamente divien'3 non sono per Platone due (1) L'argomento del Teeleto è la definizione della scienza. Tee- teto, interrogato da Socrate, risponde che la scienza è la sensa- zione. Questa definizione, secondo Socrate, equivale all'opinione di Protagora, la quale alla sua volta equivale alla dottrina di Era- clito e degli altri sapienti del divenire continuo di tutte le cose. Di là l'esame di questa dottrina, allo scopo di confermare o d' in- firmare la definizione di Teeteto. -112- ' <\ mondi separati ed opposti, ma un solo e stes'^o mondo che può considerarsi a due punti di vista opposti : co- me in un divenire continuo, nel suo elemento apparente, individuale, e come immutabile, nel suo elemento reale, generale. Quando si mette al primo punto di vista, Pla- tone è un partigiano di Eraclito; quando si mette al se- condo punto di vista, è un avversario di Eracli*o, e un amico degli Eleati (1) Se il mondo non presentnss'^. a Platone questi due aspetti opposti, le due attitudini op- poste verso la dottrina del divenire sarebbero incompren- sibili. Del resto, non bisogna credere che quando Pla- tone parla, nelle sue prove per dimostrare l'esistenza delle Idee, della inconoscibilità dei sensibili, che continuamente divengono, egli ammetta tale quale la tesi di Cratilo che non può enunciarsi di essi alcuna proposizione vera: la inconoscibilità dei sensibili è una sottiglie7za di cui Pla- tone si serve per il comodo della twa argomentazione, ed essa non importa che non possiamo assegnare con verità ad una cosa alcun attributo, come pretendeva Cratilo, ma semplicemente che non è possibile, come ab- biamo spiegato, alcuna nozione adequata e completa dell'individuo, che lo rappresenti esattamente nella sua fisonomia individuale e, per dir cosi, nel suo colorilo preciso, perchè questa fisonomia e questo colorito can- gia continuamente, e non si trova mai perciò in uno stato determinato. È questa rappresentazione solamente ch'egli chiamerebbe una conoscenza dell'individuo, per- chè egli suppone, come abbiamo detto, che tra la cono- (1) Nel Teeteto, in cui combatte tutti i filosofi precedenti, ai quali tutti attribuisce l'opinione di Eraclito, non parla in tono a- michevole che di Parmenide e degli altri Eleati (V. 183 e). ]scenza e il suo oggetto deve esservi una conformità as-soluta. La tesi di Cratilo che non può enunciarsi di una cosa alcuna proposizione vi ra, sarebbe in contraddizione con la dotuina che le cose partecipano alle Idee, perchè che una cosa pariccipa a im'Idt'a vuol dire per Platone che della cosa può predicarsi V attributo corrispondente airi'lca. lia presenza dell'Idea nel sensibile inetto ne- cessariamente un limite al suo divenire continuo, e alla indeterminatezza di'» ne è la conseguenza : le cose can- giano continuamente, ma questi cangiamenli non oltre- passano nirii i ii iiiii necessari perchè e^-se abbiano una essenza deierinin.ita e partecipino ad attributi determinati. Noi abb'amo giA. vi^to (iium. IV.) che, quantunque la de- finizione non abbia propriamente per oggetto che l'Idea, tuttavia essa si applc i agl'individui, perchè l'Idea è l'es- scQza coniun»^. degl' individui. Secondo gl'interpreti trascendentalisti vi ha per Pla- tone, non un mondo solo, immutabile sotto un aspetto e sotto un altro in continuo divenire, ma due mondi, di cui nell'uno domina un' assoluta immutabilità e neiral- tro un divenire assoluto. In questa interpretazio^ne Pla- tone ammetterebbe pei f« fa mente la tesi di Eraclito, li- mitandola al mondo reale- eoe che noi chiamiamo co- sì—, e non respingerebbe che un'applicazione universale di questa tesi per cui essa si estenderebbe anche al mondo trascendente delle Idee. Ma, è incontestabile che nel Tee- teto non è rigettata la t( si del divenire assoluto, inquanto essa si applicherebbe al mondo ideale, ma quella del di- venire assoluto nel'o stesso mondo sensibile : è questa che Platone combatte, perchè i partigiani della dottrina del divenire non avevano parlato di altro mondo che del sensibile, ed egli stesso, neiresposiz'onc che fa di (juesta dottrina (152 d-ir)7 bì, non ha evidentemente in vista che il mondò sensibile. Quando poi comincia a di- — 113 — 'HU' I, ttumm^mammima scaterla, egli dichiara (179 d) che va ad esaminare quest'essenza sempre in movimento di cui sopra ha parlato : quesVessenzx sempre in movimento non può ai^nìficare che il mondo sensibile concepito secondo il siste- ma di Eraclito e dei suol partio-iaui; e del resto nel tratto di questa discussione che è stato citato, si vede chiaramente che Pla(;>)ne non esamina quali siano le conseguenze deiripotobi che tut^o l'essere, vale a dire tanto il mondo delle cose quando il mondo delle Ide-^, s'a sottoposto al un flusso continuo, ma quali siano le conseguenze deiripote^i che le cose-cioè le cose particolari, sensibiii-fluiscano e si muovano continuamente, tanto di un movimento di tr.ìsla/Jone quanto di un movimento di alter,azione-perchò la tesi eraHilica incl.ide necessariamenlc l'uno e Taltro di questi due moviuìonti— .Aggiungiamo che la limitazione che la dottrina ddle Id^^e apporta a quella del divenire continuo, non può salvare questa, se le Idee sono trascendenti, dalle conseguenze assurde che Platone ne fa derivare: la presenz.^ ch'ile Idee nel mondo sarebbe incompa-ibih^ coi T indcterminatezzj che la tosi di Protagora e quella .li Cratilo attribuiscono alle cose; ma Pe-^ist-nza delle hhe trascendenti sarebbe ])ertettamente coiieiliabil.; c^n <iuella di un mondo, in cui non vi fo^se chj u.i fluire continuo Renza nient^ì di fisso e di determinabile, come i)reten(le Cratilo, o delle semplici apparenze senz'éìleuiìa realtà, come pretende Protagora -a parte nat^ralm-nt ; la contraddizione intrinseca inerente nel concetto di un mondo slmile, considerato per se stesso — . L'opposizione del Tecteio alla dottrina del divenire ò cosi evidente, e la contraddizione che ne, risulta nella filosofia platonica è cos'i irisolubi.V nell'interpretazione tradizionale di questa fi osofia, che si potrebbe essere tentati ad ammettere che Platone non adottò la dottrina • del divenire che in un'epoca posteriore a quella in cu^ scrisse il Teeteto, Ma la testimonianza d'Aristotile {Mei. 1. I. VI. 1, 1. e ) è troppo esplicitamente contraria a quest'ipotesi: e d'altronde noi vediamo Platone, in uno stesso dialogo, mostrar.d in un luogo un propugnatore di questa dottrina, e in un altro un avver^^ario. Cosi nel Fedone a 78 e 80 b oppone alle Idee che sono sempre nello stesso stato le cose che non sono mai nello stesso stato, e a 90 e esorta a guardarsi dall'opinione di quei sedicenti saggi che non ammettono che niente nò nelle cose (io)v 7ipaY|iaxo)v) ne nelle ragioni sia costante, ma che tutto sia in un flusso e riflusso continuo come l'Euri pò, e alcuna cosa non restì jìer alcun tempo nello stes'-o stato; nel Filebo 43 a parla con ironia evidente della bontà della dottrina che tutto si muove continua- mente in ogni senso (si tratta dell'applicazione di que- sta dottrina ai cangiamenti del nostro corpo, non della sua estensione a un mondo trascendente), e a 59 a-b nega che possa darsi una scienza assolutamente vera delle co.-^e sensibili, perchè esse non sono, non furono, e non saranno mai nello stesso stato. Queste contraddi- zioni non hanno niente di st'-ano, perche corrispondono, come abbiamo detto, ai due punti di visti opposti, da cui le cose, nel sist^.ma platonico, possono considerarsi. Nel Cratilo^ mostrando che una moltituiinc di nomi implicano per la loro etimologia la dottrina del divenire continuo, Socrate dice : « Si, per il Cane, io credo di non aver male indovinato, osservando poco fa che gli antichissimi autori dei nomi, come la più parte dei sa- pienti dei nostri giorni, a forza di rivolgersi in ogni senso ricercando la natura delle cose, sono stati presi da vertigine; perciò ò avvenuto di parer loro che le cose stesse si volgono e si muovono assolutamente. E la causa di quest'apparenza essi non l'attribuiscono alla manierain cui sono int9riorinente affetti, ma stimano che lo cose stesse abbiano una tal natura che niente vi sia in esse di stabile e di fermo, ma fluiscano tutte e si muovano, e si agitino in ogni senso, e sempre divcng-ano » (411 a-b). (^le- ste parole condannano l'applicazione della dottrina del di- venire al mondo stesso dei nostri sensi, e non semplicemente la sua estens'one a un moodo iperfisico : è ciò di cui si vede la conferma a 43f)-437 dove, per mostrare a Cratilo che la conformità dei nomi a ([uesta dottrina non prova la sua ve- rità, Socrate gli fn vedere che molti nomi non vi si contor- mano, ma indicano invece la permanenza; perchè questi nomi indicano la permanenza (supponendo l'esattezza delle etimologie fantastiche del Cratilo) nelle cose stesse, non m un mondo trascendente. Nel luo^o citato non vi ha niente di più che nel Teetcto: ma sulla fine del dialo-o Platone sp-ega chiaramente che, se eg'i rigetta il dive- nire assoluto delle cose, è per la presenza, in esse, di un elemento immutabile, cioè dell'Idea. «Socr.: Gli au- tori dei nomi li hanno stabiliti secondo il sistema che tutto è in un movimento e in un flusso continuo - tale sembra essere stata la loro opinione-ma quest'opinione, se realmente essi l'hanno avuta, non è vera, ma sono caduti in un turbine, in cui sono stati presi da verti- gme e in cui trascinano e precipitano noi stessi. Esa- mina, o ammirabile Cratilo, ciò che io spesse volte sogno. Diremo noi che il bello stesso e il buono e eia- senno degli esseri sono qualche cosa ? (si sa che nel lin- guaggio platonico ciò vuol dire: esiste l'Idea del bello, del buono, e di ciascun'altra cosa?) o lo negheremo V~ Cratilo : Per me, o Socrate, io credo che sono qualche cosa-SocR.: Noi non cerchiamo se <iuak-h'; viso o qual- che altro oggetto di qu sta sorta ò bello, e tutto ciò sembra fluire; ma domandiamo: il bello stesso Cl'ldea) e sempre tale qual ù V-CuAr.: Necessariamente- SocR.: Sarebbe forse possibile di rettamente denominarlo, se sem- pre fugge, e di dire che esso è e che è ta^e ; o sa- rebbe necessario che, mentre noi parliamo, esso divenga subito un altro, e fugga, e non sia più tale ? — Crat. : Sarebbe necessario— Sorc: Come potrebbe essere qual- che cosa ciò che non è mai nello stesso stato ? se infatti vi ha un tempo in cui è neMo stesso stato, è chiaro che per quel tempo non vi ha in esso il minimo cangiamento; ma se ò sempre nello stesso stato e sempre lo stesso, come potrebbe cangiare e muoversi, poiché non lascia mai la sua forma (iòsa) ?— Crat. : Inniun modo— Socr.: Inoltre non potrebbe essere conosciuto da alcuno: poiché mentre la potenza conoscitiva tenterebbe di attingerlo, esso diverrebbe altro, in modo che sarebbe impossibile di sapere che e come sia, e perciò non potrebbe esservi alcuna conoscenza di ciò che non ò in alcun modo deter- minato— Crat. : E come tu dici— Socr.: Ma nemmeno si deve affermare, o Cratilo, che esiste la conoscenza, se tutte le erse si mutano e niente perniane. Se infatti questo stesso, la conoscenza, non si muta dal l'esser conoscenza, permarrà senq)re la conoscenza, e sarà conoscenza : ma se 1' z^.^o^ stesso della conoscenza si muta, e si cangia in un altro d^o^ di conoscenza, non sarà neppure conoscenza ; se perpetuamente si muta, perpetuamente non sarà cono- scenza (i). E secondo questo ragionamento non vi sarà nò (j) È evidente che l' £l5o^ della conoscenza di cui qui ritratta ò la f-pecie o la Torma stessa della conoscenza reale, di questo mondo, non un suo archetipo trascendente; ma non lo è meno che quest' £t5og è l'Idea, il concetto realizzato, perchè tutto questo luogo ha per iscopo di mostrare che il divenire continuo delle cose non attinge le Idee.> 'ri',"* il conoscente (rvtoaóiisvov) né il conoscibile frvwoer^oófievov)- che non vi sarà, neiripotrsi del divenire assoluto, il co- noscente, lo ha provato nel tratto chi immediatamente precede; che non vi sarà il conoscibile, lo ha provato sopra, mostrando che, in quest'ipotesi, niente potrebbe essere conosciuto). Ma se sempre é il conoscente (vt- Yvwaxov) e il conoscibile (rtrvo3oxó|xevov) e il bello e il buono e ciascuno degli esseri, le cose che ora diciamo non sembrano io niun modo simili al flusso e al movi- mento (1). Che questo sia il vero o quello che vogliono i partigiani di Eraclito e molti altri, non è forse facile di decidere; ma non ò di un uomo saggio scttomettere se stesso e la sua anima all'impero delle parole, e fi- dando in esse e nei loro autori, affermare, come uno che sa, e avere di se stesso e delle cose la cattiva opi-nione, che niente vi ha di stabile, ma tutto cangia come l'argilla, e credere che le cose (xà TTpaniaxa) abbiano la stessa disposizione che gli uomini malati di flussione, cioè che tutto (Tidvxa xpV^Iiaxa) sia in uno scorrimento e m flusso continuo» (L*^ parole Tipar^iaxa e xpv^il^axa e sovratutto le parole sottolineate di se stesso provano che (1) 7/ hr/lo, il buono r ciascuno dectli esseri sono ovMantemente lì hello sfesso, lì buono e ciascuna defili esseri, di cni sopra ha tìo- mandato se deve dirsi o no che sono qualche cosa, vale a dire le Idee. Dunque il conoscente e // conoscibile, che appartengono alla stessa sorio, sono puro della Idoe. Ma qvLe^to conosr.'nte e conoscibile non possono ossero qualche cosa di diverso dal conoscente e conoscibile di cui è quistione nella proposizione immediatamente i.recedente. Ora in questa proposiziono si tratta cort amenta del conoscente e conoscibile di questo mondo reale, non di qualli di un mondo trascendonte. Notiamo elio questo conoscente è la stessa cosa che la conoscenza e l'siao- della conoscenza di cui sopra : si sa infatti che Plat oue dà alle Idee ora il nome astratto e ora il nome concreto. N la dottrina del divenire continuo, che Platone respinge, ò quella del divenire continuo delle cose sensibili). L'immanenza dell'esse re, cioò delle Idee, nel dive- nire è confermata dal Sofista 248 e-249 d. Ma prima di mettere questo luogo sotto gli occhi del lettore, occor- rono dello spiegazioni sulla dottrina dell' immutabilità dell' Idea, che, quantunque non abb'ano il legame più intimo con rargcmento del presente numero, pure non saranno una digressione inutile, pcrclu> il nostro Fcopo non ò solo di provare l'immanenza delle Idee platoni- che, ma anche di elucidare, per quanto ci è possibile, la loro nozione. L'Idea è il concetto realizzato, e riguardato come uno ìlei molti. Cosi le determinazioni dell'Idea non sono che le deterniinazioui stesse delle cose subordinate al- l'Idea, cioè ((uelle che sono comuni a tutti gì' indi- vidui della specie. Bisogna dunque», rappresentarsi l'I- dea xome un individuo astratto, vale a dire f-pogliato di quegli attributi cLc non sono comuni a tutta la spe- cie : quest'individuo astratto à presente in tutti gl'indi- vidui concreti, uno e lo stesso in tult'. Sarebbe per con- seguenza in contraddizione con la nozione stessa del- l'Idea platonica il supporre che degli attributi, che ap- partengono a tutti grindividui della specie, non appar- tengano all'Idea, ovvero che appartengano all'Idea degli attributi che non appartengono agl'individui della specie. Ora ò un attributo comune a tutti gl'individui p. e. della specie umana di vivere, di nascere, di morire, di svilupparsi, di pensare, di camminare, ecc. Bisogna dunque ammettere nell'uomo in so, nell'Idea, (questi at- tril)iiti e tutti gli altri simili denotanti un cangiamento, e quindi una successione. Senza dubbio il cangiamento e la successione che questi attributi denotano nell'uomo in se, devono <listinguersi da quelli che essi denotang.amento e d, una .sncccssionc che occupano una por- tmpo; ...ycce,1 ca„.iaD,cnto e la suces«ioue che rsi- .tono ueir uomo i„ se,,.on possono occupare una po;. rt:,;ro "''•''' '; •-"- ^» un te.npo 0,n un altro tempo determinato,N „„ attri- termi: tV:'"'''' u-^•t--n.nviduo . terminato, e non alinonio oonsiderato in astratto cioò ne concetto comune „). Vn. successione che no'n 1' U'^JiO n. alcun te.npo dcternìinato non è né più né me o jnconcep,bi.e di una,ranc.o..a che non ha «'.cu.;:;:'" t.ta determinata o di t,n anio-ale che non è di alcuna speco determinata : questa concezione non ùnplica alte (1) T/I.lea. come Platone .lice noi Ti»<e„ 87 o-HS b è fuori .1«I tempo, La sn„ ote.ni.à non signiliea Co os.a esis.e .ut h, o i aurjbiito coinun.ì n, tuli rri'in.llv'U.i; r» • i ""^t un iv (oli V l^*^»'^""'"'- '»" i' loro conc.Uo cornane, ohUiet- ston.a .n un tom,.o delerminato, perchè,«o.ta non oon.pe.e ci, a «n m.lm.Uu, .lelonninato; né l'esistenza por,„„o iUenpo,e . ooncoi.jre 1 I.loa bisogna .liin.iiij fare astrazione .lol temi.o-consi .orato corno „„a porzione o co„.„ la .o,,,;,,,, .|là soTintìni^a ::i::;o;rcT;^"-'"^'"••^ '•-•---'"-•^^ l'e e^i n,Tl, ', ° "•"?"^"*- "' """«^-X" ^-'n..-. Così por .-IVe unVe la '''"' '""'"<'-« -'"M'I/cemonto ch'essa r jL . i:;a;ir:ci; „;^rr:uo\itmi:;"Mf'"'' "••'' lempo. Ma occuparo luito il fn»ii. . \ una propnoià, non «IoH'T.Ia.i i„ tom,,,) u impossibilità logiche ciie quelle inerenti in generale alla r- alizzazione degli astratti. É vero però che essa ha questo (li speciale, di presentare una insuperabile diffi- coltà verbale. Si dirà che l'uomo in sé nasce, muore, cresce, cammina, ecc. ? Queste espressioni sono impro- prie, perchè esse suggeriscono necessariamente V idea che questi avvenimenti hanno luogo nel tempo. Si dirà invece che non nasce, non muore, non cresce, non cam- mina, ecc. ? L'improprietà non sarà minore, perchè ii significato di queste parole esc'ude che questi atti ibuti : nascere, n.orire, crescerò, camminare, ecc. siano rappre- santati nel mondo ideah». Siamo in una regione inacces- sibile air immaginazione, e per cons'^guenza anche al linguaggio, poiché un pensiero che può essere espresso nettamente suppone una consistenza logica, che cessa nece-su-iamant3 là dove finisce il dominio dell'intuizione sensibile. Quando IMatone dice che lldea è sempre la stessa (icl ;^ aOxyJ (1 ), sempre uniforme Oiovosieà^ àst ov— il bello in sé e ciascun esrjere in sé) (2i, sempre allo stesso modo (àcì (oaaOxo)^) (:]) e nello stesso stato (àsL xaxi xaOxa) (1), che è immobile i àsi xaxà xaOxà i/^ov àxivVixwc;) (5), che non vi ha ia es a cangiam^-nto o al'erczione alcuna (6), (1) FU. 15 b, Pnnìif'n, 185 b, Polìt. 2(U3 d ro*}i-.208 a-b, rVrrr. 439 o, ecc. (2) Conv, 211 b, Frdom' 78 d. (8) Fu, 59 a-e, Follt, 200 d, ('ralA\\'ò o, Tini.2*d i\ F.done'lf^ c-d, 79 d, e, HO b, Ik,'p, 471) a, e, oce. ^4) /'/'. 59 a-c, 5S a. Polii. 209 d, Fedone 7S. c-d, 79 a, SO b, Tim- 2S a, 29 a, 35 a, 37 b, 52 a, y»VjA 479 a, o, 500 e, ecc. (5) Ti,n, 38 a. (6) Fedone 78 d. S •stSt 5 i ì * i ì che non nasce ne perisce (1), non cresce ne decresce (2), non diviene più vecchia nò più giovane (3), ecc. ; T in- tenzione di queste e simili espressioiii è sia di escludere dall'Idea i cang'iamenti che avveogono nel tempo, sia di affermare che l'Idea si ritrova, una e sempre la stessa, senza cangiamento o differenza alcuna, in tutti gr indi- vidui successivi che riempiono il tempo. Ma questa ma- niera di esprimersi, d'altronde inevitabile, si presta fa- cilmente ad un'interpretazione inesatta dell'Idea plato- nica, come una forma assolutamente immobile e priva di qualsiasi attività; anzi, se dovesse prendersi rigoro- samente alla lettera, la giustificherebbe. Per dare forza a questa interpretazione, agli equivoci occasionati dalle espressioni platoniche, si aggiungerebbero le cs'genze della nostra facoltà rappresentativa, poiché e evidente che rimmaginazione può rappresentarsi j)iù ffjcilinente una sostanza immobile e inattiva che esiste sempre la stessa per tutta la durata del tempo, anziché un' entità nssolutflmente astratta, posta fuori d( I tempo, e in cui vi ha del cangiamento e della succ» ssioi;e, ma un can- giamento e una successione che non avvengono nel tempo. Questa inlerpretaziore delle Idee platoniche ha avuto effettivamente luogo. È cosi infatti che se le rappresenta Aristotile : in un gran numero di luoghi egli attribuisce ad esse l'immobirtà (4), evidentemente in un senso as- ci) flL 15 b, Tim. :ì2 a, Coni-, 211 a, Fedujit' 79 d, SO b, 7iV^>. 485 b, 527 b, 585 e, ecc. (2) Coui'Uo 211 a (3) Tim, 38 a. (4) Mei. 1. I. VI. 3, l. I. VII. 3, l. 1. IX. 23, l. III. II. 22, l. III. IV. 4,1. VI. 1.15, 1. XI. 11.6,1. XII. 1.3, 1. XIII. I. 1-2, 1. XIII. II. 5. 7, Top,\,ll. VII. 3,1. VI. X.2, Phys, 1. II. IL 3-4, Kth. Jùtd, 1. I. VIII. 19, ecc. soluto che esclude pure questo mutamento estratempo- raneo di cui sopra abb'amo parlato, e le chiama anche le sostanze immobili (1); ed è notevole—è un'osservazione che potrà giovarci in seguito — che esclude esplicitamente da esse ogni attributo esprìmente una facoltà di ago di patire (Tioir^xixòv yj TiaGyjTixóv) (2). Sembra anche che questo fosse, presso i contemporanei, il concetto che volgarmente sì aveva delle Idee : ecco p. e. un argo- mento, che Alessandro d Afrodisia dice impiegato dai so- fi t', per concludere il ferzo uomo (il terzo uomo era una obbiez'one che i contemporanei facevano al sistema delle Idee, e che consisteva a dedurre dai principii stessi di Platone la ucceFS*tà di ammettere una terza specie di entità, distinte dalle Idee e dagl' individui) : « Quando diciamo Vuomo cammina^ non lo diciamo dell'Ideri, che è immobile, nò di alcuno dei singolari, che sono incono- scibili; lo diciamo dunque di un terzo uomo » (3). Que- sta interpretazione delle Idee ò evidentemente incompa- tibile con le esigenze più indispensabiii del sistema : il mondo ideale, cof-i concepito, rappresenterebbe una na- tura, per dir così, morta, non la natura reale; l'uomo in »ò, senza movimento, s'^nza attività, senza sviluppo, sa- rebbe, non la leabzzazione del concetto dell' uomo, ma un'immagine del cadavere umano* Nel Sofista 248-249 Platone respinge questa nozione delle Idee che ne fa delle sostanze immobili e inattive. Lo straniero clea'e (che è il personaggio che in que- sto dialogo rappresenta i concetti dell'autore), dopo aver distinto du<» classi di filosofi, di cui gli uni riducono (1) Mt't. l. XIV. I. 1, 1. XIV. IV. 4, ecc. (2) Top, 1. VI. X. 2. (3) Alex. Aphr. in pUit, pr. 1. I, t. 59. tutto il reale al taDgibile e alla materia, mentre gli al- tri « sostengono che il vero essere Fono certe specie in- telligibili e incorporali, e i corpi di quelli e la loro pre- tesa realtà riducono in polvere, ch^'amandola, non cfs. re, ma una certa genesi fluente »; propone questa defini- zione deiressere, che deve convenire tanto al corporeo, quanto all'incorporeo : ciò che ha una facoltà qualsiasi di agire o di patire. I materialisti non avranno difficoltà ad accettare questa definizione; ma come l'accoglieranno gli amici delle Specie ? Essi ci obbietteranno, dice lo stra- niero eleate, clic « la facoltà di falire e di agire (xoD 7rd- oxsiv xal Twoistv) compete alla genesi, ma all' essere non compete né l'una né l'altra. » L'eleate combatte questo concetto, dimostrando che anche le Specie ag'scono e patiscono, e che sarebbe un'assurdità di credere ch'esse siano immobili, o, ciò che vale lo stesso, di non ammettere del movimento e delle cose mosse in quanto mosse. Chi sono gli amici delle Specie ? Alcuni interpreti mo- derni credono che si tratti di qu?»lcuna delle scuole filo- sofiche contemporanfe o anteriori a Platone ; chi vede in essi gli Eleati, chi i Pitagorici, chi i Megarici, chi qualche altra scuola di socratici distinta da quelle di cui conosciamo le dottrine. Di tutte queste supposizioni é r ultima che sarebbe la più logica; perché la teoria delle Idee, non solo non si ha alcuna ragione di attri- buirla ad alcuna di quelle scuole di cui si conoscono le dottrine, ma sarebbe anzi assolutamente incompatibile con queste dottrine che se ne conoscono Ma anche que- sta supposizione cade innanzi alla testimonianza d'Ari- stotile, che dà J^latone come l'introduttore del sistema doPe Idee (1); obbiezione insupcrabi'e che é comune a (I) V. Mi't l. T VI. 1-5, 1. XIII. IV, Klh. yicoìH, 1. I. VI, ecc. tutte, e alla quale bisogna aggiungerne un' altra, cioè che la teoria delle Idee, vale a dire la realizzazione dei concetti, suppone la dialettica, vale a dire un metodo che produce la scienza a priori, deducendo questi con- cetti realizzati gli uni dagli altri, e non possiamo attri- buire un sim'le metodo a nessuna delle i^cuole filosofiche autcriori o contemporanee a Platone. La dottrina delle Idee essendo csclusivanrnte platonica,^// amici deUe Specie non possono essere altri, per conseguenza, Uie Platone e i suoi. Noi abbiamo visto che correva un'ine- satta interpretazione del sistema delle Idee, secondo cui queste si concepivano come delle sos:aiize immobili e prive di qua^iasi facoltà di agire e di patire. Il Sofista, atiribueiido questa concezione agli amici delle Specie, ci prova che (lue^t'interpretazione trovava anche eredito nella scuola platonica. Tuttavia noi non dobbiamo am- mtf.cre che Platone, combattendo nel Sofista l'immobi- lità delie Idee e la mancanza in esse della facoltà di agire e di patire, intenda solamente respingere questa falsa interpretazione della sua dottrina : se cosi fosse, non si comprenderebbe come egli pò es^e attribuire que- sta falsa concezione delle Idee agli amici delie Specie in generale. Senza dubbio, il su(» intendimento finale é di rigettare !a falsa interpretazione che veniva data ai suoi concetti; ma subordinatamente a questo, ne ha anche un altro, ci(é di condannale quelle espiessioni di que- sti conceiti, che noi iroNianio nei suoi scritti o di cui aveva fatto uso nel suo insegnamento orale, le quali avevano dato luogo a questa falsa interpretazione, e an- che, come abb.amo detto, se dovesseio prendersi in un senso sirettamente letterale, la giustificherebbero. proposizioni che egli condanna (che le Idee sono immo- bili e sempre nello stesso stato, che non hanno la facoltà di agire e di patire, che l'essere vero non vive, non Ili pensa, non si muove, ecc.) possono prendersi in due sensi : come dplle espressioni improprie del concetto che le Idee non sono soggette ai cangiamenti n*-l tempo, o in questo senso appartengono o potrebbero appartenere a Platone stesso; o come Taifermaziono che le Idee non sono soggette assolutamente ad alcun cangiamento (cioè né temporaneo nò estratemporan'^o), e in questo senso non potrebbero appartenere che ad alcuni degli amici delle Idee, perchè certamente Platone stesso non ha mai potuto pensare cosi. Platone condanna qu^^ste proposizio- ni, tanto se si considerino come semplici improprieià di lin- guaggio, quanto se si con^derioo come affermazioni di un concetto erroneo; ed è perciò che può attribuire le propo- sizioni condannate agli amici delle Idee in genera'e (1). Premesso ciò, ven'amo ora al luogo d^'l Sofista che ci ha portati a questa dlsgressione. Esso fa parte delia discussione contro le Idee immobili, ed è il seguente : « Straniero eleate : Ma che ? per Giove ! crederemo veramente che il movimento, la vita, l'anima, l' intelli- (1) Tanto è vero che Platone condanna, nei parUgiani deU' i- nattività e impai^^ibilità delle Idee, le sue proprie espr3«jsioni che hanno dato luogo a una falsa interpretazione della sua dottrina' ohe, per indicare gli stessi filosofi, egli si serve pure dello parole: « quelli che dicono che gli esperi quanto alle Idee sono sempre nello stesso stato e allo stesso modo Cxaxà xaÙTà (baaólto^) », riguardando indubbiamente queste determinazioni come equivalenti a quella dell' immobilità (2.V2 a). Le espressioni essere sempre xaxà TaùxQC e ó)aaÓTW^, applicate alle Idee, s'incontrano ad ogni momento nei dialoghi platonici— Questa contraddizione tra il So- fista che afferma il movimento e l'azione delle Idee, e gli altri dialoghi che li negano— contraddizione, badiamo, meramente ver- bole— spiega l'indicazione di Diogene Laerzio, che Platone applica allo Ideo dei termini contrari, chiamandolo non mohili o non in (/uiete (Diog, Laert. III. 64). ]genza s^no assenti da quello che realmente è (jiavTsXw^ ov), e che cs^o né vive né pensa, ma sene sta immobile, senza pos-iedere Tau^ustae santa iotelligcnza?— Teeteto: Sarebbe, o ospite, concedere una proposizione troppo strana— Stkan. : Ma diremo che prssedc Tintelligenza, e nou la vita ?— Teet.: E erme dirlo !—Stiian. : Ma ac- cordandogli runa e l'altra, negheremo ch'egli le abbia nelTanima ?-Teet : K in (jual altra parte potrebbe a- verl»^ ?-Stran.: Ma si può ammefere che abbia l'intel- ligenza, la vita e l'anima, ma che Cf^sendo animato sia nondimono iiiimol)ilc ?— Teen.: Tutto ciò mi sembra assur- do (1)— Stran. : Bisogna dunque ammettere che il mosso e il movimento sono— Thet.: K come no?— Stran.: Da ciò risult», o Tteteto, che se gli esseri fossero immobili, in nessuno, su nessuno oggetto e in nessun luogo po- trebbe esservi intelligenza— Teet.: Evidenteirente— (2) (lì Questo non vuol <lire, come intendono alcuni, che si deva attribuire l'inteMigen/.a, la vita, l'aniina e il movimento alle Ideo in generalo— porche i'Tdoa d'una cosa non può avere che gli at- tributi stessi che ianuo parte dal concetto di questa cosa— ma solo a quella di cui può essare quistione sa l'abbiano o no, vale a dire alio Idee dagli esseri intolliganti, animati, viventi a mobili— Sin qui Platona parla evidtuitcmanta dal moviuianto, della vita, dall'a- nima e doll'intollig(»nza nello Idee, vale a dire, idaali. (2; L'intelligonza e, per consoguenza, anche il movimento, di vui si parla qui, sono l'intolliganza eil movimento reali, cioè nello cose, e non |»lìi corno s()])ra, l'intelligenza e il movimento ideali» cioè nelle Idee : quasi o divarrà più chiaro dal seguito. Intanto ciò che ri-julla dal ragionamento precedente è, non che l'intelligenza reale -appone il luovimanto raalo, ma che l'intelligenza ideale sappone il movimento idealo. Per consaguanza Platone, conside- rando la prima di qunta due jii'o posizioni coma il risultalo del ragionamento pracad'^nto, la riguarda coma equivalente alla se- conda; ciò che egli non potrab])e fare, se il movimento e l'intel- ligenza ideali fossero par lui separali dall'intelligenza e dal mo- vimento reali, e non invece identici con c^si.llt -^ *.!' )'Hf.Stran.: Ma se ammettessimo che tutto ò in movimento e in agitazione, anche coi qiesta proposizione leverem- mo rintelligeiza dagli esseri —Teet. : Come ?- Stran. : Pare a te che senza il riposo possa mai esist'^re ciò che è nello stesso stato, della stessa maniera e nello stesso rappoito ? — Tbet. : Giammai— Stran. : E senza di ciò credi tu che vi sia o vi sia stata mai in (jiialche luogo jntell'genza ?— Teet. : No— Stran. . Ma si deve com- battere con tutte le ragioni quello che, di^^truggendo la scienza, il pensiero e l'intelligenza, nft'enni checchesia su qualche cosa — Teet. : t^ combatterlo con l'orza — Stran. : E dunque necessario che il filosofo e quegli che tiene in pregio queste cose nò approvi quelli che dicono il tutto immobile, sia come uno (gli Eleati) hia come molte Specie, nò dia ascolto a qu^l'i che mettono Tessere in un movimento universale (gli Eraclitici), ma voglia, imitando i fanciulli noi loro desiierii, che l'es- sere (il mondo ideale) e il tutto comprendano tanto le co^e immobili quanto quelle che sono in movimento » (248 e-249 d). Questo luog") non esclude solamente riminobilità as- soluta delle Idte, ma, come il luogo citato del Tedeto e quelli degli altri dialoghi che hanno la stessa portata, esclude anche il divenire assoluto delle cose sensibili. Di più, esso esprime nettamente il concetto dell'imma- nenza delle Idee nel divenire. Noi abbiamo g à notato che il movimento e l'intelligenza ideali vengono riguar- dati come equivalenti al movimento e all' intelligenza reali. Notiamo ancora l'identificazione tra il mondo idea'c e il tutto contenuta nelle parole sugli amici delle Idee : « quelli che dicono il tutto, come molte Specie, immo- bile»; e aggiungiamo infine che la stessa identificazione ha luogo a 252 a, dove ò detto di essi ; « quelli che di- cono elle gli esseri, secondo le Idee (xax's'idr^) sono sem- pre Urlio stesso stato e ('ella stessa maniera ». Platone non potrebbe esprimersi cosi, se per gU amici delle Spe- cie—vale a dire per lii e pei suoi -il mondo immu abile delle Idee e quel'o continuamente cangiante delle cose fossero due mon li separati, anziché, come abbiamo detto, due aspetti d'un solo e s esso mondo, che nel suo aspetto vevo^ cioè come un comples-o d'Idee, è immutabile— con le re^^trizioni, por Platone, che sopra abbiamo fatte— e nel suo aspft^o apparente^ ci< ò come un complesso d'in- dividui, è sottoposto a un cangiamento continuo. n. Noi abbirmo percorso le prove più importanti della immanenza ddle lice platoniche : ma la nostra dimostra- zione sarebbe incompletn, se non esaminassimo pure le ragioni dell' interpretazione contrariai. Queste possono ri- dursi alle seguenti : I. Il motivo princip-'le deh' int rpre%azione trascen- dentalista ò nella natura stessa del sistema delle Id^^e. Quando Platone chiama l'Idea tó 6v, oùata, aOxò xaO-'aOxó, Xwpoaxóv, ecc.; in una paro'a quando mo-^tra chiaramente ch'egli fa delle Idee ? Itret^ante ipostasi, cioò che le ri- guarda come sostanze, di cui ve ne ha una, e una sola, per tutti gli oggetti che si raccolgono sotto un nom^^ ge- nerale; l'interprete trascendentalista ne conclude imme-diatamente che le Idee per Platone srno separate dalle cos*». Que.ta conclusione è fondata sopra un principio perfettame ite giusto, e oè che una sostanza non puòessere al tempo stesso uà attributo, e non può, se essa è un ca, iu'^rire simultaneamente in una moltitudine di FO sgotti. Ma la dottrina di Platone consiste precisamen- te in questo, che gli attributi generali delle cose sono elevati al grado di sostanze, senza cessare perciò d'ine- rire nelle cose come loro attributi, e che ciascuna di queste sostanze ò riguarilata come Tudo nei molti, cioè come presente al tempo stesso, una num- ricwmente eia stessa, in tutti i soggetti a cui T attiibuti è comune. Senza dubbio questa dottrina è inconeepib'le e contrad- dittoria : dell^ ipostasi come le Idee platonich'^, noi lo abbiamo più volte confessato, non potrebbero concepirsi, per quanto la loro coccezione è possibile, che come Fe- parate dalle c«^se. Altre inconcepibilità noi troviamo nel sistema delTimmanenzì, se dalla formula Viuio nei molti passiamo a'ia formula rimo émolfi: è un non seupo di affermare, come f>i Platone e come è una cnns.»gueuza necessaria della realizz^izione degli astratti, che il più astratto e il più concreto, il Genere e lo S^pecie, sono al tempo stesso dift*erenti ed id.mtici; né Tinconcepibilità è evitata perchè Tiino e i molti si riguardano com»». duo stati su^c'ssivi n l!o sviluppi dell'esser», (anteriorità e e posteriorità) ; perciò la huccessione dovnbbe essere cronologica e non logica soltanto. L'interpret/iz'one tra- scendent lista ha dunque il vantaggio, bisogna ricono- scerlo, di evitare una gran parte delle inco-^copib lità inerenti al sistema del'e Idee: ciò spiega la prevalenza di quest'interpretazione, se sì rifletta alle <l ffi.'oltà di un esame accurato dei testi e di una su'ficiento intelli- genza dei mo ivi del sistema. Ma vediamo ora gl'inconvenienti, per dir co>i, intrin- seci della trascendenza do le Idee. Prima di tiitt>, qnan- tunque elevare le astrazioni al grado di realà esi.stcnti per se stesse sia in tutti i casi un' impos>ib lità man'fe-Jta, è tuttavia una conseguenza necessaria del e U'ggi della credenza che di queste due ipotesi, l'una che ammette che queste astrazioni siano parti integranti delle cose concrete, e l'altra che ne fa delle ipostasi solitarie col- locate al di fuori dello cose concrete, è la seconda che ci sembra più strana e p*ù evidentemente impossibile. La rag one è ovvia : è che essa è in una opposizione più aperta con lo nostre abitudini mentali : la prima ipotesi si conforma a queste abitudini in due punti importanti, cioè non ammettendo altri esperi che gli esseri concreti, quantunque questii siano da es^a decomposti in elementi astratt', e facendo dell'astratto, non un'enti'à isolata, ma un che d' inesistente nel concreto stesso. Ma V inconve- niente più grava dell' interpretiziona trascendentalista è che l'ipotesi delle Idee diviene in qu-sc' interpretazione senza motivo e senza scopo. Lo scopo di un' ipot -si qua- lunque, legittima o illegittima, è di spiegare i fenomeni : ma Tipof^si delle Idee trascendenti non fa niente per la 8piegaz'on<^ dei fenomeni, perchè non vi ha tra le Idee e la cose alcuna relaz'ooo immaginabile di causa e di efiFetto. La capacità delle l^ee a produrra la cose o i loro fenomeni non è uè una verità o pretesi venta evidente per se stessa, come deve essere pertanto una connessione cau«=iale propria a fornire una spiegazione metafisica— poiché nessuno pretenderà che vi ha tra l'esistenza delle Id"e e l'i'sistenza delle cose una di quella connessioni visibili a priori, in cui i metafisici fanno consistere la effic3nza cansa'e— ; e non è nemmeno un'induzione del- l'esperienza, perchè l'esperienza non ci mostra alcun caso, in cui dei moderi, quali gl'interpreti trascendentalisti si rappresentano le Idee, producono le loro cjpie. Non vi ha lutanti alcun'ipotesi possibile— vale a dire alcun'ipo- tesi che lo spirito umano possa ammettere, vera o falsa, probabile o improbabih~che non si conformi a questa condizione, cioè la capacità conosciuta della causa sup- posta a produrre l'effetto, sia che questa capacità si am- metta come una verità a priori, sia che si ammetta come un risultato della esperienza. Le Idee trascendenti non hanno dunque alcun'attitudine a spiegare le cose : è -122- -•X - --.. questo del resto an fatfo evidente di cui convengono ^li stessi interpreti trascendentalisti. (1). Tuttavia Tintcrpre. te trascendentali ta potrà dira che questa inettitudine alla spiegazione dei fenomeni è anche comune alle Idee immanenti. Senza dubbio, la presenza delle Idee nelle cose spiega, come abbiamo altra volta osservato, porche le cose possiedono gli attributi corrispondenti alle Idee, e lo spiega nel senso metafìsico della parola spiegazione' cioè in quanto vi ha tra la presenza doll'Idei e la pos- sessione dell'attributo una connessione necessaria e vi- sibile a priori. Ma qu sta è, come abbiamo osservato nel cap. VII, una di quelle spiegazioni apparenti o illu- sorie che consistono a ripetere in altri termini il fatto stesso che si tratta di spiegare; e quaniram-hv^. non fo so tale, siccome la possessione dell'attributo è un fatto in- telligibile e la presenza dell'Idea un fatto as-olurjim-nto ininteMigibile, cosi non vi avrebbe alcun profitto a intro- durre l'ipotesi delle Idee, perchè non si farebbe che spiegare il chiaro per l'oscuro. Sembra dunque, a que- sto punto di vista, vale a dire cods derando le Idee co- me cause e le cose come effetti, che le Idee immaneuii (1) Questa evidente inefficaci» delle Idee neH' ini erprci azione trascendentalista, qual è ammessa daUa più parte dji critici nio- derni, vale a dire quella che fa delle Idee allrettanto sostanze se- parate, è il fondamento precipuo dell' interpretazione teislicn, eioò di queU' altra forma dell'interpretazione trascendentalista ohe vede nelle Idee i pensieri dell' intelligenza creatrice. Quest 'interpretazione dà almeno al sistema delle Idee un motivo, e un motivo assai tacile a comprendere: se non che essa è interamente arbitraria. L'inter- pretazione che fa delle Ideo delle sostanze separate da Dio e dalle cose è anch' essa in contraddizione coi testi, ma non lo è d'una maniera cosi evidente, oltre che può appoggiarsi, almeno sino ad un oerto punto, soli' autorità d' Aristotile. non siano p ù che le Idee trascendenti capaci di fornire una spiegazione della natura: ma per comprendere la vera causalità delle Idee e come esse diano una spiega- zione della natura, noi dobbiamo metterci a un altro punto di vi^ta. e da questo vedremo che lo scopo del sistema delle Idee suppone come condizione necessaria la loro immanenza. Il sistema delle Idee è un realismo dialettico, vale a dire esso ammette, come un complemputo neccessario della realizzazione dei concetti, un metodo per iscopriro a priori questi concetti realizzati, deducendoli progres- sivamente gli uni dflgli altri, allo scopo di identificare il rapporto logico tra il principio e la conseguenza in que- sta deduzione, al rapporto ontologico tra la causa e r«ffet^o. Platine ha dunque realizzato i concetti, affin- chè rincatenaincuto logico, ch'egli stabilisce fra di essi, possa avi-re l'aria di un incatenamento causale. Infatti se il principio e la conseguenza fo*?sero delle semplici nozioni e noa delle nozioni realizzate, il principio non potri^bbe considerarsi come la causa e la conseguenza come l'effetto, la causa e l'effetto essendo df»lle cose o dei fa'ti reali e realmente distìnti, e non delle semplici astrazioni montali. Ma il principio e la conseguenza es- sendo delle ciitità reali, avviene che la loro sequenza logica somiglia a una sequenza causale, poiché T esi- stenza dell'entità principio trascina necessariamente la esistenza dell'entità conseguenza ^ questa esiste perchè esiste quella. I) principio e la cons'^guenza essendo, non delle semplici proposizioni generali, ma le verità obbiet-tive corrispondenti a qu ste propos'zioni, ne risulta che il principia non è semplìceote una premessa per dimo- strare la cons'cguenza, ma é la condizione reale dalla cui esistenza dip'^nde l'esistenza della conseguenza : In una parola il principio non è semplicemente il prinei•K^ u pium cognoscendi, ma é anche il pHnctptum essendt. QaestMncatenamcnto causale tra le nozioni realizzate è una causazione efficiente, perchè il It^gam ^ tra la causa e reffetto (cioè tra il principio e la conseguenza) è ne cessarlo e visibile a priori. Cosi lo scopo dell'ipotesi delle Idee é d'introdurre nella natura una causalità, che sia, non un semplice rapporto di sequenza Invariabile, ma una caumlità efficiente, cioè tale che tra lacausaeTef- fetto esista un legame intrinsecamente evidente e ne- cessario» • Ecco perciò come lo scopo deiripotesi delle Idee sup- pone necessariamente la loro immanenza. Sq le Idee sono gU elementi costitutivi delle cos^, il loro incatenamento logico sarà lo sviluppo reale d^lle cose, il modo in cui le cose si producono; e la dialettica, cioè la deduzione delle Idee, aarà la spiegazione della natura. Ma se le Idee sono fuori delle cose, la filiazione delle Idee non sarà più la prodazione, Tincatenamento causale, delle cose stesse; e la dialettica non sarà più una spiegazione della natura, poiché essa avrà per oggetto, non il mondo reale, ma un altro mondo, ch^ non ha sul mondo reale alcun'influenza immaginabile. Aggiungiamo ch^, nella ipotesi della trascendenza, la stessa filiazione logica delle Idee sa-ebbe impossibile, perchè questa suppone ridentità (e non semplcem'-nte la differenzi) t a Tldea da cui altre Idee si deduzione, e queste altre Idee che se ne deducono. In effetto, le conseguenze sono le con- seguenze del principio, perchè sono contenuto implicita- mente nel principio, vale a dire perchè il principio è le conseguenze stesse allo stato implicifì. Senza quest'iden- tità tra il principio e le conseguenze (cioè tra lo verità obbiettive che corrispondono alle proposizioni che si chia- mano, al punto di vista ordinario, principio e conse- guenze) non vi sarebbe dedazione possibile. Nella dia- lettica platonica il principio é V Idea generica, e le conspguenze sono le Idee specifiche: cosi questa dialet- tica suppone che tra Tldea generica e \à Ideo specifiche vi sia identità, e non semplicemente differenza; in altri termini suppone che Vuno sia molti e i molti siano uno. Ora nell'ipotesi dell'immanenza, in cui le Idee generiche e le Idee speci6che sono i generi st**ssi e le specie delle cose (quantunque considerati in a tratto, l'Idea generica è necessariamente identica con le Idee specifiche (1). Ma nell'ipotesi del'a trascendenza, in cui le Idee sono se- parate da 1»3 cose e le une da'le altre, t-a l'Idea generica e le Idee specifiche non vi ha più identità, ma sempli- cemente differetrza; l'I Ica generica non è più le Idee specifiche allo sfato implicito, e Je Id< e specifiche non sono più l'Idea generica allo stato esplicito; e per con- seguenza non vi ha più tra le Idee rapf orto di filiazione, percl.è la filiazione delle Idee è precisamente qu sta e- splicazioue progressiva dell'implicito primit'vo. II. Tra i motivi dell' interpr tazione trascendentali-ta, dopo la sostanzialità delle Idee e le inconccp bilità che ut r sultano nel sistema dcirimmanenza, dobb'amo asse- gnare il secourio posto a un malinteso a cai si prestano facilmente molte proposizioni di Platon*^, in cui egli non fa in realtà che d'stinguere Io Idee dalle cose Quasi tutti i luoghi degli scritti platoiiic', in cui si pretende vedo? e u»ia prova diroila della srparaz'one delle Idee dalle cos'% appartengono a que ta casse : là dove Pla- tone iio.i parli che di distinzione^ l'iaterpictc trascen- dentalista intende: separazione. In alcuni di qresti luoghi P.'at-^r.c distingue le I *ee (1) V. n. V. 4.0 dalle cose stesse, cioè dalle sostanze, in altri dai loro attributi. Il primo caso non presenta alcuna difficoltà : le Idee essendo delie sostanze, è naturale clie Platone parli delle Idee e delle cose come di sostanze distinte— distinte, badiamo, non «ejoaro/e— .Quando Platone distin- gue questo mondo e il Vivente in sé di cui esso è Tira- magine (1); questi belli e il Bello in se stesso (2) ; que^ 8ti cerchi e questa sfera umana e il C* rchio e la Sfera stessa divina (3); quando cppone l'oggetto della dialet- tica, che si riferisce alle cose che sono semp e le stesse, all'oggetto delle altre arti che si riferiscono a questo mondo e a queste cose che continuamente divengono (4); quando dice che vi hanno tre cose. Tessere (l'Idea), il luogo e il divenire (ciò che diviene) (5); che vi hanno due spei-ie di esseri, gl'intelligibili e i sensibili (6); che gli oggetti eguali non S( no gli stessi che l'Eguaglianza, ma questa è un es5sere altro da essi (7); che oltre (noLpd) le cose sensibili (e le intelligibili che cadono sotto un concetto comune) si deve ammettere un'Idea di quette cose (8); ecc. (9): se gl'interpreti trascendentalisti vedono (J) Tim, 30 c-d. Cfr. 39 e. (2) Conv. 211. (3) FU. 62 a (4) FU, 59 a-c. (5) Tim. 52 d, 52 a-b, 50 c-d. (6) Fedone 78 b-80 b (7) Fedone 74 (8) Fedone 74 a, Tim. 51 e, Sof. 250 b, ecc. (9) Anche Aristotile chiama l'universale « runa noLpd i molti, che è uno e lo stesso in tutti questi „ (Anal. Poster. 1. II. XV. 5. Talvolta, por indicare la distinzione tra le Idee e le cose, Pla- tone si serve anche deUa parola x^p^C (separatamente). È ciò che fa nel Parmenide, dove il filosofo oleate domanda a Socrate s'egli '•0-? in qìiesti e negli altri lunghi anàloghi a questi degli ar- gomenti contro l'immanenza delle l 'e •, é perchè quelli che anunottono questa seconda interpretazione non hanno spiegato abbastanza chiaramente che le Idee platoniche, qnantunquenon esistano fuori delle cose, S'^no nondimeno delle sost^^nze, cioè delle realtà sussistenti per sq stesse, e non delle semplici astrazioni mentali. Il pronome que- sto^ questi (65s, ouiog), indicante il mondo e gli oggetti S'nsibil', in opposizione alle Idee, non significa che que- ste sono in un altro mondo, ma che gli oggetti, a cui esso b\ rift-ridce, smo quelli che stanno presenti alla no- stra vista (1) e chr» noi possiamo mostrare cri dito o con veramonle disling i3 « X^P^C ^^^ ^^ ^^^^^ certe specie stessa (sTSy] aùxà àxxa) e X^P^C ^^^ ^^ altro lato) i partecipi di esse „ (130 b); s'egli ere le che vi sia una somiglianza stessa " X^P^C (* parte) di quella che noi abbiamo „ (130 b); un el^o^ dell'uomo « j^oopCg di noi e di quanti altri sono come noi » (130 e); un elSog del pelo, del fango, della macchia, ecc., xwpig, altri dal pelo, dal fango, dalla macchia, che noi possiamo toccare (130 c-d). Nel Sofista 248 a 1' o- spite eleate chiede agli amici delle Idee se essi ** dicono la genesi e i* essenza X^P^S distinguendole „ La parola x^p^C» bi^ogi^a ^^^' fessarlo, presa in tutto il suo rigore, significherebbe la trascendenzn ; e certamente Platone si sarebbe guardato bene di servirsene, se egli avesse potuto prevedere che del suo sistema si sarebbe data una falsa interpretazione che questo termine e i suoi deterivati, coi loro corrispondenti nelle lingue moderne, sono appunto i piii propri a formulara con ocncisione. Ma possiamo noi, foadanioci sa delle es pressioni isolate ed eccezionali, interpretare il sistema pla- tonico in un se.i-43 cha è in coatraddiziona con tatti i suoi concetti tondamentp'-i, attarmiiti costantemente in quasi tatti i luoghi dei suoi scritti in cui si parla delle Idee, quando d'altronde queste espres- sioni sono, al postutto, suscettibili di un significato che le metta d' accordo con questi concetti ? (1) V. Fedone 74 c-d, Tim. 51 e, eco. y tn altro segno simile, non quelli che si possono, collie dice Piatone, contemplare soltanto con rinteingenra (1). Non dobbiamo per altro dimenticare che la ditinzion'ì tra le Idee e le co^e non è che uno dei due Iati di que- sto rapporto ambiguo, al tempo stesso d' identità e di difiFerenzJ», che il sistema platonico e gli altri costruiti sullo stesso tipo stabiliscono tra l'astratto e il concreto, o, generalmente, tra il più astratto e il più concreto. Talvolta Platone sembra negare V identità, come nella Repubblica 476 c-d, in cui dice che quelli che non am- mettono il Bello in sé vivono come in un sogno, perchè credono che gli oggetti che somigliano al Bello, cioè che ne partecipano, siano, non semplicemente simili ad cfso, (1) Una delle maniere più abituali a Platone di esprimere la distinzione tra le Idee e le cose per le loro determinazioni contra- rie, è r opposizione tra l'intelligibile e il sensibile : essa implica ohe le Idee non sono oggetti dei sensi, ciò che del resto è affermato esplicitamente nel Fedone 66 d, 79 a, 83 b, Tim, 61 d, 52 a, Hep. 507 b-c, ecc. Qaest' opposizione evidentemente è naturalissima anche nel sistema dell'immanenza: tuttavia anch'essa si presta all'equi- voco, e può essere interpretata come una prova della trascendenza. Se si ammette che le Idee sono in noi, dice Aristotile (Top. 1. II. VII. 3), bisogna attribuire ad esse delle derminazioni contrarie : perehè, essendo in noi, esse cadrebbero necessariamente sotto i no- stri sensi, poiché per il senso della vista conosciamo la forma di ciascuna cosa ; mentre i partigiani delle Idee affermano che pos- sono percepirsi per la sola intelligenza. Qui Aristotile dimentica ohe, quantunque l' Idea, essendo la forma delle cose, sia per con- seguenza, in un certo senso, un oggetto della percezione sensibile, pure questa non la percepisce come Idea, cioè come sostanza separa- bile (xcopi^XT^ ^, e perciò, in un altro senso, l' Idea non è un o«r- getto della percezione sensibile. Peraltro l'identità tra 1' Idea e il percepito dai sensi è chiaramente affermata nella Repubblica 623-524, nel Fedone 65 e, 82 e, luoghi già citati (an. VI sulla fina e n. IX), ai quali aggiungiamo il Fedro 250 d, che citeremo in appresso (n. IV). ma la stessa cosa con rsso, mentre bisogna distingnéré l'uno dagli altri. Ma queste parole non sono dirette che contro la confusione che Topiniono op^o-ta a quella di Platone, cioè il nominalismo, fa tra le Idee e le cose. Il nominalista confonde le cose con le Idee, sia perchè prende le imm^gin», cioè le cose, per esseri reali, men- tre gli esperi reali non sono che le Idee; sia ancora per- chè il nominalismo, an mettendo che il nome generale non significa altra cosa che gli oggetti concreti e indi- v'duali, prrnde crronean,ente questi oggetti per IVggetto a cui ^i r feri-ce realmente il nome e il concetto gene- rale, cioè ridea. La distinzione tra la sostanza Idea e le sostanze cose ha pure p^r effetto di stabilire tra V una e le altre dei rapporti che nelT esperienza non esistono che tra oggetti separat*. Quando le Id< e sono chiamate cause delle cose (come ivi Fedine 95 c-101 e), anche in questo può ve- dersi una prf va della trascendenza, perchè infatii le cause e gli effetti empirici soi o, non solo discinti, ma anche separati. Ma ciò mostra sempl'c mrnte che il -rapporto tra le Idee e le cose nrn somiglia ad alcuno dei rap- porti che cadono sotto la nostra esperienza. Le Idee non sono cause delle c<'Se come cause eflficiebtì propriamente dette, come c«use motr'ci (per usare V espressione d' Ari- é^totile), ma sfno cause nel scn-^o che la ragione dell' e- sir^tere e del modo di esistere deU»^ cose è nclh». Idee. Si- miltnen'c qu-«n io le I^ee sono chiamate nodelli (ixapa- 5eÌYfiaxa) e le ces^ immagini (etxóvs^, stòcoXa, 6[ioiwjiaTa) (1), (1) V. Tim. 29 a-c, 39 e, 50 e, 51 a, b, 52 e, Fedro 250, Proclo in Parm, v. 133, Alcinoo Intr. in PI, Vili, ecc.— D' altronde anche Aristotile chiama la forma n(X.pdòZl'{[iOL{Y. Met, 1. v. II. 1, Phys. 1. II. III. 2.). • •r* -^x^ ciò suggerisce naturalmente l'idea della separazione, perchè tutti i modelli e le immagini che abbiamo visto o che possiamo rappreseutaref, sono separati, e non sem- ])licemcnte distinti, gli uni dalle altre. Il nomo d'imma- gini dato alle cose, in molti casi, ha evidentemente lo scopo, come abbiamo detto (n. IX), d'indicare la loro mancanza Ai una vera realtà: ma facendo anche astra- zione da questa circostanza, le Idee possono a buondritto riguardarsi come esemplari delle cose anche neir ipotesi dell'immanenza, poiché, immanenti o trascendenti, Tuomo in sé e il cavallo in sé, che Platone ha creati, sono sempre c'elle immagini degli urmìni e dei cavalli reali, imma- gini che, rovesciando il ra^jporto rrale, egli chiama natu- ralmente esemplari, perché il nome di esemplare conviene a ciò che è anteriore, e il nomo d' immagino a ciò che è posteriore, e le Idee sono anteriori alle cose, non di un' anteriorità cronologica, ma di un' anteriorità di na- tura, cioè logica e metaOsica. Le Idee sono chiamate paradigmi, non solo delle cose, ma anche dei loro attributi È che Platone distingue le Idee, non solo dalle prime, ma anche dai socordi. È ciò che egli fa, per esempio, nel Fedro 249 d, in cui la bel- lezza sensibile viene opposta alla bellezza vera, cioè all'Idea della bellezza. Questo richiede delle spiegazioni, perchè sembra ia contraddizione col concetto stesso del- l'immanenza, la quale consiste essenzialmente, come ab- biamo detto, neir identità delle Idee con gli attributi generali delle cose. L' Idea è il concetta astratto e generale, realizzato. Per conseguenza gli attributi dille cose sono identici alle Idee, ma in quanto vengono considerati nel loro con- cetto generale, in astratto. Ora perciò essi devono conce- pirt»i astrazion facendo dai soggetti in cui ineriscono : la bellezza di questo fanciullo, la grandezza di questa superficie, la bianchezza di questa carta, ecc. differiscono dalla Bellezza, dalla Grandezza, dalla Bianchezza, ecc. in se s^e^ce, pe'^chè contengono delle determinazioni che non esistono nel concetto astratto e generale della bellezza, della grandezza, della bianchezza, ece. Prima di tutto la bellezza, la bianchezza, la grandezza, ecc., quali at- tributi di questi soggetti determinati, non sono rigorosa- mente conformi agli attributi omonimi che si trovano in altri soggetti, ma ne differiscono per il grado, per la quantità e per tante altre circostanze : cosi esse devono essere distinte dalla bellezza, bianchezza, grandezza, ecc. quali oggetti dei concetti generali, perché ciascuno di questi é uno e lo stesso in tutti i soggetti che ne par- tecipane. Ma anche considerando la bellezza, la bian- chezza, la grandezza in questi soggetti determinati astra- zion facendo dal grado, la quantità e le altre circostanze ìq cui e se differiscono dagli attributi omonimi in altri soggetti, basta questa determinazione, di essere l'attributo di tal soggetto determinato, perché esse noi corrispon- dano rigorosamente agli oggetti dei concetti generali, poiché questa d» terminazione non é una nota che fa parte del concetto generale. Ne segue che tutte le op- posizioni, che Platone stabilisce tra le Idee e le cose, hanno pure luogo tra lo Idee e gli attributi considerati come proprietà d' individui determinali. La Bellezza in sé è eterna, cioè fuori del tempo, ed esente dal cangia- mento ; la bellezza proprietà di un oggetto determinato nasfe, per sce, cresce, ecc.; la prima é polo intelligibile, perchè il senso non percepisce la bellezza come sostanza, ma J^olo couìe U'i attributo; la bellezza individualizzata, ehe è un semplice attributo, è sensibile, perchè il senso la percepisce quale essa è; quella è una, perchè il con- cetto della belh zza è unico; 1^ bellezza che è in un in- dividuo determinato è altra, per la percezione sensibile. dalla bellezza che é in un altro individuo determinato per CU', mentre per r int-lligrenza vi ha una sola bellezza,' una sola grandezza, una sola bianchezza, ecc., per la percezione sensibile vi hanno molte bellezza molte gran- d^^zze, molte bianchezze, ecc. Queste oppo^izioni^^met- tono cipo infine air opposizione suprema dell'essere reale e del fenomeno : queste molte bellezze che i sensi percepiscono non sono in sostanza che la Bel- lezza in realtà unica, ma cho, apparendo qua e là, por la partecipazione ad essa dolle azioni o dei corpi' )mre molti (1). Ma perchè 1' intelligenza risolva questemolte bellezze fenomenali nella Bellezza reah^ unica, essa deve fare astrazione da tutte le determinazioni che non entrano nel concetto comune come i mo'ti uomini si risolvono nell'Uomo uno, facendo astrazione dallo difiFerenze individuali; come i mo'ti Animali si risolvono nell'Animale uno, facendo astrazione dalle diff renze spe- cifiche; co ì perchè le molte bellez/.c si risolvano nella Bellezza unica, per la cui parusia i molti belli sono belli, bisogna spogliarle dall'inerenza in tnle o tal altro individuo determinato e da tutte le altre crcostanze che le differenziano le une dalle altre. In riassunto, 1' attri- buto Idea e l'attributo proprietà di un tal soggetto par- ticolare si distinguono a due punti di vista : il primo è p'ù indeterminato, il secondo è più determinato, per- chè contiene delle determinazioni che non sono conte- nute nel concetto comune, se non altre, quella d'inerire in un tal soggetto particolare; il primo è l'essere reale, il secondo è il fenomeno, cioè l' apparenza (obbiettiva) di quest'essere reale. i i,r Questa distinzione tra l'Idea e l'attributo individua- lizzato ha por effetto naturale che, per indicare questa distinzione, Platone 8i serve talvolta di certe espressioni che sembrano negare la parusia delle Idee nelle cose. Cosi nel Fedro 247 e distingue la scienza che è nell'es- Fere vero da q^iella in cui vi ha cangiamento e che e- si^^te diflTercnte nei differenti oggetti cho ora (cioè nella vita terrestre in cui l'anima non percepisce che delle apparenze) chiamiamo esseri. Qui la distinzione è fatta sopratutto al pun»o di vista dell'opposizione tra la realtà e il leno neno. La scienza che è nell'essere vero è l'Idea della scienza, la quale, quantunque sa aùxr] xaG'aux^v, pure é l'atta inerire in un soggetto, perchè, il mondo delle I ^ee essendo una rappresentazione astratta del mondo sensibile, ciò che, come la scienza, nel mondo sensbl'. inerisca in un soggetto, deve inerire inunsog- gc to anche nel mondo delle Idee Nel Convito, dopo aver descritto il progr. sso del ret^o amante della bellezza, che dall'amore di un bel corpo passa a quello di tutti i b« i corpi, e poi alTamore e alla contemplazione del!a bellezza delle anime, dei costu-ni, delle leggi, delle Pcienz**, per pervenire infine alla contemplazione del bello in so stesso, determina questo bello di natura me- ravigliosa, la cui contemplazione è il termine di tutto il progresso anteriore. Esso « in primo luogo sempre è, non nasce né perisce, non cresce né decresce, poi non è bello in una parte, brutto in un'altra, né ora bello ora no, né bello a que?to fine, brutto a quell'altro (l), né bello in un luogo, brutto in un a^tro, o bello per alcuni, brutto per altri. Né si deve immaginare que- (1) Rep. 476 a. (1) Cfr. Senof. Memorab, 1. 3. e. 8. sto bello come un bel viso o delle belle mani o qualche alrra cosa di cui il corpo è partecipe, né come un bel discorso o una b Ila scienza, né come essente in qualche altra cosa^ p, e. un'animale^ la terrii^ il cielo o un altro oggetto qualunque, ma esso stesso p^r se stesso con se scosso, uniforme, sempre essente, e tutte le altre cose belle partecipi in certo modo di ess », in modo eoe che nascendo queste e perendo, niente gli si aggiunga o si sottragga, e niente patisca» (2ll a-b). Si è affermato che basterebbe questo luogo pir provare la trascendenza delle Idee ! Ma esso non contiene che le solite determi- nazioni delle Idee, come sostanze, come astraete, come immutabili, ecc. Si dice che il Bello è « esso stesso per se stesso con se stesso », per significare che nella sua astrattezza è una portanza, e, cono tale, csi-»te indipen- dentemente da ogni altra sosta n a: si aggiung -, è vero, che non deve immaginarsi come essente in qn.nl jhe altra cosa, p. e. in un anma^e, nrl'a t rra, rei ci lo, ecc., ma queste parole non fanno che distinguere il Bello, oggetlo del concetto comune, dal b ll«>, proprieià di U'ia cosa particolare. Nel Fedone 102 d si dice che «non solo la grandezza stessa non può essere al tempo stesso grande e pic?ola, ma anche la grandezza in noi non può mai ricevere la piccolezza », e p'>i a 1(>3 b, espri- mendo lo stesso concetto (che non è altro al fondo che il principio di contraddizione) iu u la forma generalo, che « il contrario non può mai essere il suo contrario, nò quello in noi né quello ìiella natura (èv t^ cpuget)». Che Topposizione tra la grandezza stessa e la grandezza in noi significhi semplicemente la distinzione tra T at- tributo nel suo oncet'o generale e lo scesso attributo individualizzato, e non implichi che la grandezza stessa sia fuori delle cose, t-i vede della m*^niera p'ù chiara da ciò che si è detto un po' prima (lOi b), cioè che, dopo che JS'ìa 1 L!J?*'LiBi' fi fu convenuto che vi hanno le Specie e che le altre cose ricevono la loro denominazione partecipandone, So- crate soggiunse che, poiché è cosi, quando diciamo che Simmia è più grande di Socrate e più p*ccolo di Fedone, veniamo ad affermare che vi ha in Simmia tanto la grandezza quanto la piccolezza (cioè le Specie, perchè altrimenti quest'affermazione non sarebbe più una con- seguenza di ciò di cui si è prima convenuto). Similmente che la distinzione tra il contrario (cioè Tuno qualunque di due attributi contrari) in noi e il contrario nella na- tura non implica la trascendenza di questo, si rileva dalle parole che seguono immediatamente, cioè che So- crate intende parlare, non delle cose che hanno i con- trari, ma di questi stessi contrari, per la cui inerenza (wv èvóvTCDv) le cose ricevono la loro denominazione ; e basta del resto a provarlo la stessa espressione « il con- trario nella natura », la quale indica nel modo più e- vidente che l'opposizione tra Tattributo m not e lo stesso attributo nella natura non è che quella tra il particolare e l'universele (1). Infine, nel Parmenide si distingue la (1) Ma, dice 1' interpatre trascendentalista, il contrario èv 1%a)Óaet vuol dire, non il contrario nella natur a, m», il cohìtatìo nella bua natura, Non è vero ; e se né ha una prova nella Rep. 497 b, e, 498 a, in cui la stessa espressione £V z% cpuost si ritrova impie- gata in un modo che non permetto alcun dubbio sul suo significato. Ivi r Idea del letto, in opposizione al letto particolare, che costruisce il fabbro, è chiamata, non solo « il letto nella natura » (497 e), ma anche più chiaramente « il letto che è nella natura » (XXCvTQ £V 1% cpóast oòoa — 497 b). Queste parole potrebbero mai significare : il letto nella sua natura ? Del resto la quistione sembra oziosa, perchè anche il letto, o un' altra cosa qualunque, nella sua natura, nou p»ò affatto significare un'entità trascendente.]somiglianza stessa da quella che abbiamo noi (130 b), e poi (133 c-134 e) la scienza stessa dalla scienza presso noi (7iap'r][iCv) o nostra, la verità stessa dalla verità presso noi^ il dominio e la servitù /j/6«&*t dai dominio e la servitù presso noi, e in generale le Specie dalle cose presso noi. Queste distinzioni, è appena necessario di dirlo, hanno lo stesso significato che quelle analoghe del Fedone: vi ha tuttavia questa differenza che, mentre nei luoghi ci- tati del Fedone la distinzione é fatta al punto di vista deir opposizione tra il generale e l'individuale, in quelli del Parmenide^ almeno nel secondo, sembra fatta spe- cialmente al punto di vista delTopposizione tra il reale e il fenomenale. Ma questo luogo del Parmenide merita che ce ne occupiamo più particolarmente, essendo il più favore- vole air interpretazione trascendentalista che io ricordi negli scritti di Platone, poiché esso contiene, olire alle espressioni indicate, delle proposizioni che hanno l'aria di negare esplicitamente la presenza delle Idee nelle cose. Ecco dunque la parte di questo luogo che e' interessa a questo riguardo : Tra le difficoltà cho presenta la teoria Si comprende dair insieme del luogo del Fedone ài cui si è par- lato che, distinguendo la grandezza e, in generale, il contrario in noi e la grandezza stessa e il contrario nella natura, 1' intendi- mento di Platone è di esprimere, quantunque forse non lo faccia d* una maniera sutfìcientemente esatta, la distinzione tra due forme di negare il principio di contraddizione : 1' una, quella che ammet- terebbe che il contrario nella natura possa essera il suo contrario, sarebbe l' identità dei contrari; 1' altra, quella che ammetterebbe ohe il contrario in noi, p. e. la {grandezza, possa ricevere il suo contrario, p. e. la piccolezza, sarebbe la contraddizione propria- mente detta, cioè una proposizione ohe affermerebbe di uno st e^so soggetto due attributi contrari. IJ. i>l Iti delle Idee, la più grave è, dice Parmenide, che sarebbe molto difficile dimostrare il suo errore a colui che pre- tendesse che le Specie, se esse esistessero, sarebbero inco- noscibili per noi. Perchè ? domanda Socrate — « Parm : E che io penso, o Socrate, che tu e chiunque altro am- mette che vi ha un' essenza stessa per se stessa di cia- scuna cosa, dovete da prima convenire che nes5wwac?/65se è in noi. — K come infatti potrebbe essere allora per se stessa ? disse Socrate-PARivi. : Dici bene. Per conseguenza quelle dello Idee che sono ciò che sono relativamente le une alle altre, sono relative alle Idee stesse, e non alle cose presso noi, delle quali noi partecipando riceviamo cia- scuna denominazione, sia che queste coso, debbano con- siderarsi come simulacri, sia d' un' altra maniera qua- lunque. Similmente le cose presso di noi che sono omo- nime a quelle, sono relative ad altre cose presso di noi, e non alle Idee che hanno la stessa denominazione.— Come di' tu ? domandò Socrate-PARM. : Per esempio, se alcuno di noi è servo o padrone, non è servo del pa- drone stesso, 0 padrone del servo stesso ; ma essendo un uomo, lo è di un altro uomo. Ma la padronanza stessa éciò che è della servitù stessa, e allo stesso modo la ser- vitù steesa é servitù della padronanza stessa. Ma né le cose in noi si riferiscono a quelle, nò quelle si riferiscono a noi, ma, come dissi, quelle sono relative fra di loro, e le cose presso noi relative similmente fra di loro. Com- prendi ora ciò che dico? — Comprendo perfettamente, ripose Socrate- Pakm. : La scienza stessa dunque sarà scien- za della verità stessa'?— -Socr. : Sì-Parm. : E ciascuna delle scienze in se stessa sarà scienza di ciascuno degli esseri in se stesso?— Soca. : Si— Parm. : Ma la scienza prcò^^^o di noi lo sarà della verità presso di noi? e ciascuna delle scienze presso di noi, di ciascuo degli esseri presso di noi fSocR. : Necessariamente — Parm. : Ma, come tu -iso- lili confessi, noi non abbiamo le specie stesse ^ ed esse non pos. sono essere presso di noi — SocR. ; No — Parm. : Cia scudo dei generi stessi non è conosciuto dalla specie stessa della scienza? — Socr. : Si. — Parm. : Specie che non ab' Marno — SocR. : No — Parm. : Nessuna specie dunque 8^ conosce da noi, poiché noi non partecipiamo della scienza stessa — Socr.: No, a quanto pare — Parm. : Sicché non sappiamo cosa sia il bello stesso e il bene stesso e tutte le cose che noi riguardiamo come Idee — SocR. : Ne corriamo il rischio » (133 c-134 c). Cosi, secondo questo luogo, le Idee no7i sono nelle cose, e queste non le hanno e non ne partecipano. Ma queste proposizioni, se dovessero prendersi in tutta l'e- stensione dei termini, sarebbero nella contraddizione più aperta con le proposizioni più abituali di Platone, perchè egli afferma costantemente che le cose parte- cipano alle Idee, che le hanno, e che Je Idee sono nelle cose (1). Ne segue che, se non vogliamo met- tere Platone in contraddizione con se stesso, noi non dobbiamo prendere le prime in tutta l'estensione dei termini; perchè per evitare la contraddizione tra due proposizioni di cui Tuna afferma ciò che l'altra nega, è la negativa che si deve intendere necessariamente in un senso restrittivo. Al fondo le proposizioni del Parmenide di cui si tratta non dicono niente di più che quelle già citate del Fedone e le altre analoghe : se le Idee si di- stinguono dalle cose che sono in noi, vuol dire che esse non sono in noi. Vi ha tuttavia questa differenza, che nelle proposizioni del Fedone la negazione della parusia è contenuta d'una maniera implicita, mentre in quelle (I t (1) V. n. VI. del Parmenide lo è d'una maniera esplicita (ben inteso, se queste proposizioni si prendono nel senso più asso- luto). Ciò mostra che la distinzione tra le Idee e gli at- tributi delle cosp, nel Parmenide, è fatta dal punto di vista da cui nel sistema delle Idee— interpretate come immanenti— il distacco tra le Id(>e e gli attributi delle cose apparisce più grande. Questo punto di vista è quello che considera il mondo sensibile come l'apparenza, e il mondo delle Idee come la realtà. Il Bello in sé, il Buono in sé, ecc. non esistono nel mondo dell'apparenza— cioè nell'aspetto apparente dell'essere—, ma nel mondo della realtà— cioè nel suo aspetto reale—; nel mondo dell'ap- parenza non esistono che le molte bellezze, le molte bontà, ecc., che sono nei molti belli, nei molti buoni, ecc., per- chè il senso non percepisce che la moltiplicità, Tunità è solo intelligibile, e apprendendola, l'int^ligenza si mette la contraddiz'one con la percezione del senso. Cosi Piatone può dire che le Idee non sono in noi o presso di noi, che noi non le abbiamo e non ne parte,cipiamo, in questo senso, che esse non fanno parte del mondo dei fenomeni : queste proposizioni negano la presenza fenomenale, sensibile, delle Idee nelle cose — perché le Idee non sono nelle cose sensibilmente, come una cosa fenomenale è in un'altra cosa fenomenale —, ma non la presenza sovra- sensibile che nel sistema platonico é indicata dal termine tecnico parusia. Certo etili non dice esplicitamente, nel luogo citato, che considera le cose come delle appa- renze dello Idee {iy MarabiLudiue di Platone non é di (1) Taltavia potrebbe trovar-jene un accenno là dova dice che le cose possono riguardarsi come simulacri (ójiO'.tóiia'aì delle Idee (133 d, e più ancora dove chiama le scienze in se stesse e gli es- peri in «e stessi (cioò le Idee; « ciascuna delle scienze che è (r\ loTlv) e ciascuno degli esseri cha è (o laxiv) (lìU a). descriverci minutamente tutti i gradi del processo mentale di cui le sue proposizioni sono il risultato : di tutte le sue speculazioni (sulle Idee, suiraniraa, ecc.) egli non ci presenta che i risultati, saltando sulle idee interme- diarie (quando dà le prove delle sue dottrine, ai veri motivi di esse, cioè ai gradi reali del processo mentale che lo hanno condotto a questi risultati, sostituisce dei sofismi puramente artificiali, che non potrebbero sembrare concludenti se non a chi è già, per altri motivi, convinto della verità della conclusione). Non si deve del resto dimenticare la difficoltà che vi ha, nel sistema deirimma- nenza, ad esprimere il rapporto tra le Idee e le cose : tutte le espressioni per cui noi possiamo indicare una di- stinzione tra sostanze, implicano pure necessariamente la 8e,parazione tra queste sostanze, perchè tutte le sostanze distinte che noi possiamo percepire o immaginare sono anche delle sostanze separate; per conseguenza Platone, quando vuole esprimere con concisione la distinzione tra le Idee e 'le cose, è facilmente condotto a servirsi di pro- posizioni che, se non s'interpretano in confronto con le altre parti dei suoi scritti, danno reagione air interprete trascendentalista. Una considerazione che bisogna sempre tener presente in questa quistione dell'immanenza o tra- scendenza delle Idee platoniche è che, nell' ipotesi del- l'immanenza, si può perfettamente rendersi conto delle proposizioni, per altro isolate, che sembrano contrarie, per questa difficoltà di esprimere il rapporto tra le I- dee e le cose— difficoltà che certamente deriva dall'incon- cepibilità di questo sistema, perchè le Idee, per quanto è possibile d'immaginarle, non possiamo immaginarle, bisogna convenirne, che come separate dalle cose—; mentre, nell'ipotesi della trascendenza, sarebbe impossi- bile di rendersi conto di tutti i concetti platonici esposti nella prima parte di questo Supplemento, che esprimono 0 implicano la presenza delle Idee nelle cose o l'identità tra le Idee e le cose, e costituiscono, non delle proposi- zioni isolate, ma la dottrina costante dell'autore. In altre proposizioni, in cui Platone sembra negare la parusia, egli non nega in realtà che una parusia lo- cale, l'esistenza delle Idee in un luogo determinato. È ciò che fa nel tratto seguente del Tmeo, che è anch'esso dagl'interpreti trascendentalisti citato come una delle prove più chiare della loro interpretazione : « Poiché è cosi (cioè poiché l'intelligenza e l'opinione sono due cose diflFerenti), bisogna convenire che esiste un'Idea, che è sempre la stessa, non nasce e non perisce, non riceve in se stessa altro d'altronde e non va essa atessa in altro ad alcun luogo (oìjzs cLÒxò ^ V bIòoì; -^ el<; àXXo noi tóv), non può percepirsi né per la vista né per alcun altro senso, e non può essere contemplata che dall'intelligenza ; e un'altra cosa, omonima e simile ad essa, sensibile, ge- nerata, sempre in movimento, esistente in un luogo de- terminato dal quale disparisce pprendo, e che può es- sere appresa dall' opinione congiunta alla s^^nsazione; e una terza cosa, il genere eterno del luogo che non pe- risce, dà un posto a tutto ciò che nasce, percettibile senza i sensi per un certo concetto spurio (1), appena credibile; (I) Platone chiama la nozione dallo spazio un concetto spurio, perchè efFeltivamente e^sa non è un vero concetto: un concet- to, nel senso rigoroso della parola, è la rappresentazione di ciò che vi ha di comune in molti oggetti, ma la nozione dello spazio si riferisce a un oggetto unico, perchè lo spazio è uno solo. (Il luogo, di cui Platone nel Timeo fa un principio e un elemento delle cose distinto dalle idee, non è né uno spazio particolare né l'Idea ge- nerale degli spazi particolari, ma lo spazio infinito, l'insieme di tutti gli spazi particolari) Cfr. Kant Estel, troscendent» § 2 n. 3 e 4 e I 4 n. 4 e 5. ai quaie rigrnardando, sogniamo e diclamo che ò neces- sario che tutto ciò che esiste sia in qualche luogo e oc- cupi uno spazio determinato, e che ciò che non è né in terra né in cielo non ha alcuna esistenza» (52 a-b) (1). ^è in (erra né in cielo— ciò che, come mostrano le pa- role seguenti, si riferisce alle Idee — vuol dire evidente- mente: in nessun luogo. L'Idea è fuori dello spazio nello stesso senso in cui è fuori del tempo; cioè in quanto l'e- sistere in un luogo determinato, come V esistere in un tempo determinato, sono delle determinazioni che com- petono a tal individuo particolare, ma non entrano nel concetto generale. Com'è possibile ciò? A questa do- manda non vi ha che una risposta : è che V Idea non è che il concetto generale realizzato ; e 1' apparire e il disparire degl'individui sono delle circostanze che non (1) Seguono le parole: « Tali determinazioni e altre simili at- tribuiamo pure all'essere che esiste veramente e ohe non vediamo in un sogno; e perchè noi sogniamo, siamo incapaci di distinguere» come uomini svegliati, e di dire la verità, cioè che l' immagine, poiché ciò in cui è nata non le appartiene, ed è il fantasma sem- pre agitato d'un altro essere, deve per conseguenza esistere in qualche altra cosa, attaccandosi in qualche maniera all'esistenza, o non essere assolutamente niente (Platone dà quilo spazio, iden- tico per lui alla materia, come un altro elemento che deve aggiun- gersi necessariamente all' elemento generale, cioè all' Idea, perchè sia possibile l'esistenza del particolare; in altri termini fa dello spa- zio o deW&mAteTÌ&iì principhim individnationis. Cfr. Supplem. C, li, sulla fine); ma l'essere che veramente è, è difeso da questa ragione vera ed esatta che, sinché due cose saranno differenti, esse non po- tranno mai essere l'una nell'altra in modo da essere al tempo stesso due coso e una sola. „ Per queste due cose che non possono essere l'una neir altra Platone non intende, come gli fa dire Cousin nella sua traduzione, l'essere vero e l'immagine, ma l'essere vero e lo spa- «io ; perchè l' intenzione di tutto questo luogo è di escludere dal- l' essere vero l' esistenza nello spazio. concernono il concetto generale. Dicendo poi che V I- dea non va in altro, Platone non esclude la presenza delle Idee n'^Ue cose, ma ci avverte che noi non dobbia- mo immaginare che, quando una nuova forma apparisce in qualche parte della materia, cioè dello spazio, Tldea corrispondente a questa forma si muova, per dir cosi, e vada ad occupare questa parte della materia, ma il na- scere e il perire delle cose non importa nelle Idee nes- sun cangiamento. È un concetto analogo a quello che e- sprime nel luogo citato del Convito, quando dice che le cose bello partecipano al Bello, ma « in modo che na- scendo esse o p-rendo, niente gli si aggiunga o gli si sottragga, e niente patisca ». III. Vi ha una classe d'Idee, 'a cui Platone dà un contenuto che sembra, ed è in realtà, a prendere la cosa a rigor di logica, incompatibile con la loro immanenza. Alcuni concetti non si applicano rigorosamente alle co- se, non corrispondendo esattamente ai loro attributi, ma sono piuttosto come dogi' ideali a cui questi non si con- formano che d'una maniera più o meno approssimativa. Tali sono i concetti che ci servono di norma per giudi- care le azioni morali-la giustizia assoluta, il dritto as- soluto non si realizzano mai perfettamente negli nomi- ni-; tali sono pure quelli delle figure geometriche-nel- la natura non vi hanno delle rette, dei cerchi, delle Ffere, rigorosamente conformi alla definizione j;eometri- ca-. In questi casi noi ci serviamo ordinariamente dello stesso nome per significare tanto l'attributo considerato nel suo concetto assoluto, quanto l'attributo delle cose reali corrispondenti, ma inadeqaatamente, a questo con- cetto : ma questo nome è in un certo modo equivoco, poiché è evidente che giusto, retto, sferico e i sostanti- vi corrispondenti, quando significano la giustizia asso- luta e la rettitudine e la sfericità assolute esattamente — 133 - conformi allo de finizioni geometriche, hanno un senso differente che quando significano la giustizia relativa degli uomini e la rettitudine e la sfericità relative delle linee e dei solidi reali. Ora alle Idee corrispondenti a questi nomi Platone dà per contenuto V attributo con- siderato nel suo concetto assoluto — p. e. T Idea del giusto rappresenta la giustizia assoluta, l'Idea della retta e delia sfera la retta e la sfera geometriche— e ammet- te al tempo stesso che queste Idee sono le Idee delle co- se reali a cui i nomi non convengono che in un Penso relativo -p. e. che gli uomini giusti, le rette e le sfc- re imperfette della realtà sono tali per la partecipazione dell'Idea del giusto, della retta e della sfera, cioè della giustizia assoluta e della rettitudine e sfericità «ssolute rigorosamente conformi alle definizioni geometriche —. Il luogo più importante per questa parte della dot trina delle Idee è il seguente del Fedone (74) : t Diciamo noi che Teguale è qualche cosa V io non parlo di un le- gno uguale a un legno né di una pietra uguale a una pietra ne di altre cose simili, ma di qualche altra cosa oltre di queste, deir eguale stesso : diciamo noi che esso è qualche cosa o no? — Lo diciamo, per Giove!, disse Simmia, e meravigliosamente — E sappiamo che cosa sia ?— Senza dubbio— Donde abbiamo attinta questa co- noscenza V non è da questi oggetti di cui abbiamo par- lato ? vale a dire non è vedendo dei legni, dei sassi o altri oggetti eguali, che abbiamo concepito reguale,che è diverso da essi? 0 non ti sembra diverso? Considera la cosa in questo modo : i legni e i sassi eguali non ci sembrano, senz'aver cangiato, ora eguali ora ineguali ? — Si — Ma l'eguale stesso ti è mai sembrato ineguale, o l'eguaglianza ineguaglianza ?— Giammai, o Socrate- Dunque non sono la stessa cosa questi eguali e l'eguale stesso— Non mi pare afl'atto che siano le stessa cosa, o Socrate— Nondimeno è da questi eguali, quantunque di'* versi dall' eguale stesso, che hai attinto col pensiero la conoscenza di esso. — È vero — Sia che esso somigli loro sia che non somigli ? — Certamente — Ciò infatti non ha alcuna importanza ; perchè dacché la vista d' una cosa ci fa pensare a un' altra cosa, sia che questa le somigli sia che non le somigli, vi ha ne- cessariamente reminiscenza— Senza dubbio— Ma, ripigliò Socrate, quando vediamo dei legni, o altri oggetti di quelli di cui abbiamo parlato, eguali, ci sembrano essi eguali come r eguale stesso, o piuttosto vi manca qualche cosa perchè s ano tali qual è l'eguale stesso?— Vi manca mo!to-~ Conveniamo dunque che quando alcuno, vedendo una cosa, pensa che questa tonde ad essere tale quale è un'altra cosa, ma senza poter ess**>rlo perf ttamente, e restandole inferiore ; è necessario che quegli che ha questo pensiero preconosca già queir altra cosa a cui egli dice che la prima rassomiglia d'una maniera imperfetta ?— E neces- sario—Che dunque ? non è questo che ci accade per gli oo-s-etti effuali e Teoruale stesso ?— Certamente— Dunque necessariamente noi abbiamo avuto la conoscenza del- l'eguale prima di quel tempo, in cui vedendo per la prima volta degli oggetti eguali, pensammo che questi tendono ad essere quale è l' eguale, ma non sono per- fettamente tali— Cosi èp. Questo liiogo, benché il suo scopo diretto s'a di di- mostrare la preconosceuza dell' Idea e la sua reminiscenza all' occa«5Ìone della percezione sensibile, pure contiene, come abbian o visto, una prova della sua esistenza : è un caso particolare di quella a cui allude Aristotile in Mei. I. IX. 3, rimproverandole di condurre ad ammet- tere Idee di i relativi, e che è esposta, quantunque d'una maniera alquanto confusa, nel commento d' Alessandro - 134 - d'Afrodisia (1). Ì)*una maniera generaìe possiamo to^ mulare questa prova cosi: Ài coDcetto deve corrispon- dere un oggetto reale ; ma vi hanno dei concetti, ai quali niente corrisponde rigorosamente tra gli oggetti sensibili ; per conseguenza a questi concetti devono cor- rispondere degli oggetti distinti dai sensibili ; sono le Idee. Le Idee che Platone riguarda come degli esemplari che nelle cose non si realizzano se non d'una maniera imperfetta, appartengono costantemente alla classe che noi abbiamo detta; vale a dire corrispondono sempre a nomi significanti degli attributi, che sono suscettibili di diversi gradi, e che hanno un grado massimo al di là di cui alcun altro non potrebbe esserne concepito ; grado massimo il quale, quantunque non sia che un sf-mplice ideale del nostro spirito, può tuttavia considerarsi come il vero significato del nome preso nel senso assolutamente rigoroso. Così nel Fileho 62 a-b il circolo e la sfera stessa divina sono riguardati come regolari, e opposti, come tali, a questi cerchi e a questa sfera umana riguar- dati come irregolari (2). Nel Parmenide 134 e si sup- pone che il genere stesso della scienza sìa molto più f (1) L'argomento, nella forma in cui l'e-^pone Alessandro d' A- frodidia, può riassumersi, io credo, così: I predicati convengono al- le cose sia esattamente sia come ad immagini: p. e. storno può designare sia gli uomini reali sia degli uomini dipinti. Cosi un predicato, p. e. eguale, che non conviene alle cose sensibili esat- tamente—perchè queste non sono mai tra loro perfettamente e- guali — deve convenire ad esse come ad immagini ; e per conse- guenza deve ammettersi l'esistenza d'un esemplare, di cui le cose sensibili sono delle immagini, e a cui il predicato conviene esat- tamente. (2) Cfr. Arist. Mei. l. III. II. 19-20. esatto (àxpi^éaxepov) della scienza presso di noi, e cosi pure la bellezza e ogni altra cosa (vale a dire ogni altra cosa suscettibile di diversi gradi di esattezza sino all'esattezza assoluta); e poi (134 d), in conformità di questa suppos'zione, l' Idea della scienza e della pa- dronanza vengono chiamate la scienza e la padronanza assoluta (àxptpsoxocxYjì. Nella Eep. 472 b-c Socrate dice ch'egli ha ricercato cosa sia la giustizia stessa a scopo di paradigma, poiché è impossibile che V uomo giusto sia perfettamente tale quale è la giustizia ; e nelle di- verse Etiche d' Aristotile o che portano il suo nome {Eth, Nic. 1. I. VI. 5-6, Magri. Mor. 1. I. I. 22, Eth. Eud. 1. I. VIII. 1-2, H, 18) ai filosofi che ammettono un'I- dea del bene è attribuita la dottrina .^.he quest' Idea è il massimo di tutti i beni. Dai luoghi aristotelici indi- cati si vede anche che la parola stesso (aOxórì aggiunta al nome per denotare l'Idea, nel tempo stesso che indi- cava che l'attributo di cui trattavasi era V oggetto del concetto astratto e generale, significava pure che que- st'attributo doveva prendersi in un senso assoluto (cioè . nella sua purezza, nel massimo dei gradi di cui esso è suscettibile). Questa dottrina di Platone che V Idea rappresenta l'attributo nel suo grado assoluto, è espressa anche sotto un'altra forma, cioè che l'attributo Idea non partecipa dell'attributo contrario, mentre le cose sensibili, subordi- nate all'Idea, partecipano sempre di tutti e due gli at- tributi contrari. Si è gii visto nel luogo citato del Fe- done che le coso eguali sembrano ora eguali ora ineguali (cioè possono riguardarsi tanto dell'una quanto dell'al- tra manif^raj, mentre l'eguale stesso non può mai aem- brarrt ineguale, o reguaglianza ineguaglianza. Similmente nel Convito (211) il Bello in se stesso, che è uniforme, sincero, puro, immisto, si oppone alle cose belle, che - 135 - sono belle in una parte, brutte in un'altra, belle per un rispetto, brutte per un altro, belle per alcuni, brutte per altri, ecc. Neir Ippia maggiore (289), avendo il sofista risposto che il bello in se stesso è una bella vergine, So- crate gli fa osservare che una bella vergine è brutta in com- para/.ione dì una dea, e conclude che, interrogato che cosa sia il bello stesso, egli ha risposto una cosa che è tanto bella quanto brutta. Nella Rep. 523 a-52f> a si di- ce che il senso vede Tuno e il multiplo, il molle e il duro, ecc. confusi l'uno con l'altro, perchè la stessa co- sa apparisce al tempo stesso una e multipla, molle e du- ra, ecc., ma Tintelligenza li distingue, vedendoli cia- scuno per se stesso e separato dal suo contrario; e si op- pone Tunità ideale, che è l'oggetto della matematica, al- le unità corporee, che sono l'oggetto dei sensi, in quan- to queste contengono sempre una moltiplicità, mentre quella è senza moltiplicità alcuna (1). Questo luogo ha qualche analogia con quello citato del Fedone, perchè vi si attribuisce ai dati della percezione sensibile che im- plicano degli attributi contrari, la proprietà di sollevare Tintelligenza alla contemplazione delle Idee, eccitandola a separare ciò che è confuso nella sensazione. Infine, nel- la stessa opera, 479, si prova che il solo essere vero è l'Idea e che le cose sono un misto di essere e di non essere, mostran- do che una cosa è e non è al tempo stesso ciò che si dice essere, perchè non vi ha alcuno dei molti belli che non sembri anche brutto, dei molti giusti che non sembri in- giusto, dei 'molti santi che non sembri profano, ecc. In questi due luoghi della Repubblica agli attributi contra- ri, suscettibili di gradi diversi, ma che hanno pure un (1) Cfr- Sof. 245 a-b, Parm. 129 b-e. maximum che può riguardarsi come il significato del nome inteso in tutto il suo rigore, si aggiungono quelli in cui vi ha una diversità di gradi, ma non un grado assoluto al di là del quale non possa concepirsene un altro, quali grande, piccolo, grave, leggiero, ecc. Queste due classi di attributi hanno il carattere comune di non convenire alle cose che d'una maniera relativa e in com- parazione con altre cose : un uomo si dice giusto in quanto è più giusto di altri uomini— perchè, come dice Platone, ne^^sun uomo giusto e tale quale è la giustizia ste-sa —,una linea (sensibile) si dice retta in quanto è meno flessuosa di altre linee, ecc., della stessa maniera che un oggetto si dice grande, piccolo, grave, leggiero, eec. in quanto è più grande, più pìccolo, più grave, più leggiero, di altri oggetti. La proposizione che la bootà, la giustizia, la rettitu- dine, la rotondità, ecc. Idee rappresentano questi attri- buti ad un grado assoluto, mentre essi nelle cose non si trovano che ad un g'-ado relativo e comparativo, è in- compatibile, come abbiamo detto, con la proposizione che questo Lice sono nelle cose. La contraddizione sta in ciò, che Timmanenza delle Idee nelle cos^ significa la loio identità con gli attributi delle cose concepiti d'una maniera generale, ma la bontà, la giustizia, la rettitu- dine, la rotondila, ecc. assolufe nen possono identificarsi ron gli attributi delle cose, perchè Platone ammette che li bontà, la giustizia, la rettitudine, la rotondità, ecc. dello c( se sono relative. Noi dobbiamo dunque costatare questa contraddizione in Platone: ma vi hanno delle considerazioni che la sp'egano, e ch-^ mostrano che la dottrina di cui parliamo, quantunque contradditoria al punto di vista dell' iijiniaueuza, è nondimeno a questo punto di vista che è nata, e non a quello della trascendenza. Noi sappiamo che uno dei principii del sistema delle - 136 - Idee è che il concetto e la scienza si riferiscono airidca : da questo principio segue che per ogni concetto e per ogni conoscenza scientifica si deve ammettere un* Idea che ne sia l'oggetto. Ora lo spirito umano si forma ne- cessariamente il concetto del buono, del giusto, della retta, del cerchio, della sfera, ecc. assoluti : di più la scienza che tratta del buono, del giusto, della retta, del cerchio, della sfera, ecc. si riferisce a questi concetti as- soluti, poiché Tetica non ha per oggetto le nozioni mo- rali in quanto si realizzano d'una maniera relativa nella condotta degli uomini, ma come norme di questa con- dotta, cioè come assolute, e così la geometria non ha per oggetto le figure approssimativamente regolari degli og- getti reali, ma le figure perfettamente regolari che non esi- stono se non nella definizione. Platone non poteva dunque rifiutare resistenza delle Idee corrispondenti ai nostri con- cetti assolutij senzA mettersi in contraddizione con uno dei principi! fondamentali del sistema delle Idee; e si noti che questi concetti si trovano specialmente nella sfera dentro cui si muovono le ricerche più abituali di Pia' tone, cioè Tetica e la matematica. L'ammissione di que- sta classe d'Idee è inconciliabile col principio che le I- dee sono gli attributi stessi delle cose : per essere coe- rente in un punto, Platone diviene dunque incoerente in un altro; ma la premessa che lo conduce ad ammetterti Idee che non potrebbero, in buona logica, identificarsi con gli attributi delle cose, quantunque lo forzi ad una conseguenza inconciliabile col principio dell'immanenza delle Idee, suppone nondimeno, considerata per se stessa, questo principio, la dottrina platonica che il concetto e la scienza si riferiscono alle Idee essendo, come abbia- mo visto, una delle prove più evidenti della loro imma- nenza. Mn ciò ehe si deve sovratutto notare è che la con- ii I ( traddizione che vi ha tra Tasssolutezza della bontà, giu- stizia, rettitudine, rotondità, ecc. Idee e V immanenza di queste Idee nelle cose, non esiste che al nostro punto di vista, secondo cui bontà, giustizia, rettitudine, ro- fondita^ ecc. sono dei nomi equivoci, che hanno un sen- so quando indicano questi attributi nel loro grado as- soluUì, e un altro quando indicano gli stessi attributi quali si trovano nelle cose, cioè in un grado relativo, e per conseguenza la bontà, giustizia, rettitudine, roton- dità, ecc. assolute non possono identificarsi con quelle che sono attributi delle cose. Questo punto di vista è il vero, ma non è quello di Platone. La bontà, la giusti- zia, la rettitudine, la rotondità, ecc. in se stesse, cioè astrattamente considerate, sono, per Platone, come ab- biamo visto, la bontà, la giustizia, la rettitudine, la ro- tondità, ecc. assolute. Ciò non è logico, perche il con- cetto astratto di ciascuno di questi attributi dovrebbe formarsi facendo astrazione da tutti i gradi di cui essi sono suscettibili, tanto dai relativi quanto dall'assoluto. Se noi ci domandiamo il perchè di questo difetto di lo- gica in Platone, la rispos;a è facile : è che dopo aver fatto delle Idee della bontà, della giustizia, della retti- tudine, della rotondità, ecc. assolute, Platone non ha al- tro mezzo per conciliare l'esistenza di queste Idee con la loro immanenza nelle cose, che quello di ammettere che la bontà, giustizia, rettitudine, rotondità, ecc. attri- buti delle cose, considerate in astratto, sono la stessa co- sa che questi stessi attributi elevati ad un grado assolu- to. Come può Platoue identificare l'attributo considerato in astratto eoa l'attributo elevato ad un grado assoluto? Anche qui la risposta è facile, perchè essa si desume ' naturalmente dall'opposizione che Platone stabilisce tra |e Idee di ciascuno di questi attributi, nelle quali l'at- tributo esiste nella sua purezza, e le cose subordinate a r i»| - 137 -- queste Idee, nelle quali l'attributo esiste mescolato col suo contrario. l'iatoue pensa che, per concepire la giu- stizia, la rettitudine, ecc. in se stesse, bisogna separare —nel senso della parola separare (xa)?£!;eiv) che abbiamo spiegato sulla fine del n. ^I-ciascuno di questi attri- buti da tutti gli altri che coesistono con esso nelle cose, per conseguenza anche dall'attributo contrario; la giu- stizia in se stessa sarà dunque una giustizia pura, sen- z'alcuna mescolanza d' ingiustizia, vale a dire la giu- stizia assoluta; la rettitudine in se stessa, una rettitudine senz'alcuna mescolanza di flessuosità, vale a dire la ret- titudine assoluta, conforme rigorosamente alla definizio- ne geometrica; e il simile per tutti gli altri attributi di questo genere. Gli uomini giusti, le linee rette (dell'e- sperienza), ecc. sono tali dunque per la partecipazione della giustizia, della rettitudine, ecc. assolute; se con tutto ciò la loro giustizia, la loro rettitudine, ecc. non è assoluta, è perchè partecipano anche all'ingiustizia, al- ia flessuosità, ecc. Dalla mescolanza delle due Idee op- poste, quantunque l'una e l'altra assolute, nascono gli attributi relativi delle cose, che sono intermediari tra i due a.ssoluti oppo.sti, e, po.ssiamo anche ammettere dalla diversa proporzione in cui le due Idee opposte sono me- scolate-perche Platone pensa che .si può partecipar<> a un'Idea a gradi differenti (l)-i gradi differenti di que- sti attributi; come le diverse gradazioni del grigio-e tutti i colori, come ammette Platone nel Protagora— nascono dalla mescolanza del bianco e del nero, della luce e dell'osciirità. I Alcuni ammettono che la dottrina di cui parliamo ha un valore generale per tutte le Idee, cioè che Plalooe concepisce ogu'Iiea come un tipo di perfez'one a cui gl'individui non si conformano che d'una maniera ap- prossimali va. E un punto di vista che potrebbe sem- brare giustificato da questa riflessione, che l'individuo non corrisponde mai esattamente al tipo normale della sua specie, che è come il piano che la natura sembra prendere per regola di tutt<^ le sue produzioni in questa specie, e al quale, come dice Kant, « la specie tutta in- tera è solo adeguata, e non questo o quell'individuo par- ticolare» (1). la ogni individuo, anatomicamente, vi ha sempre qualche anomalia (2), e le sue funzioni vitali non si compiono forse mai tutte d'una maniera perfettamente regolare. Ma l'Idea deve essere concepita, mettendo da parte tutto ciò che vi ha nci^:!' individui di eccezionale, e non tenendo conto che di ciò che è regolare, perchè una rappresentazione qualsiasi dell'Idea sarebbe impossibile, se volessimo farvi entrare solamente gli attributi degli individui della specie che sono rigorosamente generala escludendone quelii che sono semplicemente la regola^ ma con qualche eccezione. Cosi l'Idea sarebbe come una media di tutti gl'individui, come Kant dice della sua idea normale estetica (3); e potrebbe paragonarsi ai en- trai ti generici o tipici di Galton, ottenuti per la sovrap- posizione di diverse immagini, ritratti che sono più belli, a quanto si dice, di quelli j»articolari di cui sono la me- A u^^J' ' *• ^® <^os« ^'ono Simili a misura che partecipano della Somiglianza, dissimili, della Dissomiglianza. (1) Crif, del giudizio, % XVII. (2) V) Darwin Oririine dell' ff omo o„ 4. (3) Critica del giudizio, ibid. — 138 — dia, e ai qaali i concetti generali sono stati effettiva- mente paragonati (1). Qualunque sia il valore intrinseco di questo punto di vista, non si ha alcuna ragione di affermare che esso sia stato quello di Platone. Se Platone avesse determi- nato così l'Idea, egli si sarebbe posto in contraddizione coi principii generali del sistema, secondo cui Tldea è ciò che vi ha di uno e lo stesso in tutti gl'individui della specie : ora noi non possiamo ammettere altre contrad- aizioni a questi principii generali cl)e quelle che risul- tano esplicitamente dai testi. Ma questi ci autorizzano ad affermare solamente che Platone ha riguardalo come esemplari a cui le cose sono inadequate, le Idee corri- spondenti ai concetti che non trovano un'applicazione rigorosa nel mondo reale. L' argomento del Fedone 74 per dimostrare che Tldea è qualche cosa di distinto da- gli oggetti sensibili, e quello analogo esposto da Ales- sandro d'Afrodisia, non potrebbero applicarsi al di fuori di questi concetti : non potrebbe dirsi degli uomini o dei cavalli che V attributo uomo o cavallo non conviene ad essi rigorosamente^, come si dice delTattr buto eguale per gli oggetti eguali; e meno ancora ch'essi sono anche non uomini 0 non cavalli, come Platone dice che gli oggetti eguali sono anche ineguali, ì belli brutti, i giusti ingiusti, i santi profani, ecc. Per conseguenza, a difetto di prove che permettano di attribuire a Platone questa dottrina (2), noi (1) V. Delboeuf // sonno r i M>ffni pag. 19S. (2) Una prova di questa dottrina potrebbe vedersi nel luogo seguente della Repubòlica : « Gli ornamenti di cui la volta dei cieli è decorata, polche apparteni^ono all'ordine delle cose visibili, devono certamente ri- guardar^ji come ciò che vi ha di più belio o di più perfetto nel loro or- I possiamo dispensarci di esaminare se e come essa sia com- patibile con quella dell'immanenza delle Idee. IV. Vi hanno dei luoghi in Piatone chp, intesi alla lettera, significherebbero certamente la trascendenza: ma in essi i concetti platonici non sono esposti d' una maniera puramente scientifica, ma intimamente congiun- ti, o, a dir meglio, fusi, in modo da perdere il loro a- spetto genuino, con elem'^nti evidentemente fantastici, dine, ma sono molto deficienti se .si paragonano ai veri (alla vera ma Knificenza, come traduce Cousin). cioè ai movimenti con cui quella che è velocità e quelle che è lentezza (za cv TccxoG xa: r, oùaa ^paòùxrc cioè la velocità e la lentezza in se stesse, in astratto, perchè queste e- spressioni equivalgono a 5 sait zdxo<;, ó laxt ppaetjxy]^) nel vero (àX7jOtV(fj) numero e in tulle le vere (dXr^eÉaO figure si muovono runa rapporto alValtro. e muovono ciò chg ad esse inerisce (xà SV(5vxa) : le quali cose possono apprendersi solamente col pensiero e con la ra-ioné ma non con la vista. O pensi tu che possano apprendersi con la vista ? — No, disselli— Adunque della varietà che è nel cielo bisogna ser- virsi come di un esemplare per Tinsegnamento di quelle cose, non altri- menti che se alcuno vedesse delle figure fatte da Dedalo o da un altro eccellente artefice o pittore. Se (piello che le vedesse tosse un abile jreo- metra, le stimerebbe certatnente delle belle opere : ma gli sembrerebbe ridicolo di considerarle attentamente per iscoprirvi la verità degli eguali, dei doppi o di qualsiasi altD rapporto di misura-E sarebbe veramente ridicolo, disse Glaucone— Non tara lo stesso il vero astronomo, guardan- do i movimenti degli astri ? egli crederà che dallautore del cielo esso e le cose che sono in esso furono costituiti della maniera piii hella che è possibile in tali opere: ma il rapporto della notte col giorno, e di essi col mese, e del mese mn Tanno, e dei periodi degli astri con questi e Ira di loro, riterrebbe assurdo di credere che siano sempre della stessa maniera e non cangino mai, quando sono aventi corpo e visibili, e di cercare con ogni studio in queste cose delle verità rigorose -Certamente ora che ti ascolto pare lo stesso anche a we, disse Hlaucone -Trattiamo dunque l'astronomia come la geometria, servendoci dei problemi, e la-' -s- à sceverarli dai quali non vi ha altro mezzo che il confronto con le dottrine deirautore per cui non vi ha alcun dubbio che egli deve essere inteso alla lettera, prendendo per una dottrina reale ciò che è ad esse conforme, e tutto il resto per un semplice rivestimento poetico o un' alle- goria. Queste rappresentazioni fantastiche dei concetti di Platone che, prese letteralmente, proverebbero la tra- scendenza delle Idee, si riducono ai due miii del Timeo sciamo là i lenomcni del cielo (-à èv x^ oùpavép), 5e vogliamo, per lo studio deirastronomia, d'inutile rendere utile quest'organo del nostro spirito che la natura ha destinato airintelligenza >» {/^ep. 1. VII. 5^9 c-530 e) Potrebbe credersi che i movimenti con cui xò cv XOtYOC 6 iì oùoa ppaSóxrjg nel vero numero e in tutte le vere figure si muovono, ecc. sij^'nifichi le Idee do! movimenti dei corpi celesti; e che il senso di questo luogo sia che i movimenti dei corpi celesti non si fanno con pe- riodi costanti e, in una parola, con regolarità, ma questa regolarità che manca nei movimenti reali, esiste nelle Idee di questi movimenti. Ma Platone non dice tutto questo: di queste due proposizioni egli art'erma la prima, ma non la seconda. Tò ov zdyO(; e Tj 0»J0a jipaeóxY^^ sono la velocità e la lentezza astrattamente considerate; il vero numero e le vere figure sono quelli che rcrraano l'oggetto della matematica, vale a dire dei numeri astratti e al tempo stesso precisi e delle figure astratte e al tempo stesso regolari. Per ccnsejiuenza * i movimenti con cui xó òv xax^? e Yt QÒ^y. 3paò'3xY]f nel vero numero e in tutte le vere fi- gure si muovono » ecc. vuol dire : dei movimenti astratti, cioè per con eepire i quali deve farsi astrazione da qualsiasi corpo determinato e da ogni altra circostanza in cui essi possono aver luogo, e non determinare altra cosa che le loro velocità relative e la natura delle linee che essi seguono; di più questi movimenti astratti devono pensarsi avvenire se- condo rapporti numerici precisi e in linee perfettamente regolari (* I movimenti con cui xÒ òv zd/0^ e f^ oùaa ppa5'ixr^^ si muovono luno rapporto all'altra * significa : dei movimenti più veloci e dei movimenti più lenti considerati nel loro rapporto; « muovono xà évóvxa * : questi e del J^dro—iì chiamo miti per conformarmi ait W, ma sarebbe forse più proprio di chiamarli simboli o allegorie—. Nel Timeo Platone ci racconta che il mondo è stato fabbricato da un demiurgo, il quale si serviva d' una materia preesistente, informe e in un movimento disordi- nato, e compiva la sua opera contemplando le Idee stessi movimenti considerati assolutamente). Ma Platone non dice che questi movimenti ascratti siano le Idee dei movimenti dei corpi celesti: ciò è anche escluso dalle parole « in tutte le vere figure », poiché i movimenti dei corpi celesti non si fanno in « tutte le vere figure », ma soltanto, secondo i contemporanei di Platone, nella figura circolare. In questo luogo Platone raccomanda di studiare il njovimento d'una maniera puramente ipotetica, come la geometria studia le figure, supponendo, come il più conveniente per lo studio, che i movimenti si facciano secondo rapporti numerici precisi e in linee perfettamente regolari, perchè questa supposizione è necessaria per sottometterli a un calcolo rigoroso ; senza curarsi se i movimenti reali della natura corrispondano o no ai movi- menti ipotetici della teoria (anzi essendo sicuri che non vi corrispon- dono mai esattamente), come il geometra non si cura se nel mondo reale esistano 0 no delle figure conformi alle definizioni geometriche. Platone vuole che l'astronomia si consideri sovratutto come una occa- sione per questo studio ipotetico del movimento: è che Io studio di que- sta scienza ha sovratutto per lui il valore d'un esercÌ2fio matematico; la sua utilità non è tanto per la conoscenza dei movimenti reali degli astri quanto per i problemi matematici a cui dà luogo la considerazione di questi movimenti (« studiano T astronomia, come la geometria, in grazia dei problemi, e lasciamo là le cose del cielo *). Le scienze che nell'e- ducazione platonica di cui nei VII della Repubblica, formano la propedeutica della dialettica, hanno lo scopo di svegliare il bisogno e di fornire pre- ventivamente un tipo approssimativo della conoscenza assoluta, cioè di una scienza puramente deduttiva che lo spirito sviluppa dal suo proprio fondo. Ora a questo scopo non possono servire che le matematiche (.scienza dei numeri e geometria): ne segue che le scienze affini, come l'astrono- mia, che Platone riunisce con le matematiche sotto il nome comune di StavO'.a, non hanno per lui del valore, quasi esclusivamente, che come applicazioni delle matematiche. éóme modelli; ciò che, se dovesse prendersi sul serio, implicherebbe certanieote la separazione tra il modello e la copia, le Idee e le cose. Il carattere mitico del rac- conto del Timeo è generalmente riconosciuto dagF inter- preti moderni : ma i più ammettono che questo e gli altri miti filosofici che si trovano in Platone siano, non già il rivestimento fantastico di corcetti che V autore è pure in grado di determinare d'una maniera scientifica, vale a dire doi simboli, ma dei convincimenti reali d- Platcne, il quale hi dove gli mancava il concetto filosoi fico, vi avrebbe supplito con descrizioni fantastiche e poe- tiche. Noi non possiamo trattare qui questa quistioiie della natura del mito del Timeo, non avendo ancora stabilito i dati necessari per risolverla: perciò devo rinviare al Supplemento C, 7u IV. Ivi vedremo che la cosmogonia del Timto è un semplice simbolo, qual è la dottrina che questo simbolo rappresenta, e perch*'- Platrne ha pre- ferito la forma simbolica a un' esposizione puramente scientifica. Sono dei punti che ci sarebbe impossibile di dimostrare prima di avere esposto la dottrina simboleg- giata nella dcFcrizione mitica del Timeo e i rapporti di Platone col pitagorismo. Dimostrata la natura simbolica della narrazione del Timeo, sarà per conseguenza dimostrato il niun valore della prova che se ne può tirare per la trascendenza delle Idee. Per ora mi contenterò di ricordare un epi- sodio di qursta narrazione, di cui abbiamo già parlato al n. VI, cioè la formazione dell'anima, da cui si vede che Platone riguarda le Idee come un elemento costitu- tivo delle cose; e di aggiungere che l'immanenza è evi- dente nei luoghi di questo dialogo in cui l'autore parla, non più da mitologo, ma da filosofo, per esempio in quelli in cui chiama le Idee V essere (T, o dice che la (1) V. II. IX. matèria contiene tutto (1), per conseguenza anche le fdee. Quantunque la narrazione del 77'mco porti in se stessa delle prove chiarissime dimostranti che non deve essere intesa letteralmente, tuttavia non è difficile di capire come essa abbia potuto essere presa sul s'irlo : è che, intesa letteralmente, contiene una spiegazione del mondo— Pan- tropomorfistica— più conforme alle tendenze spontanee del nostso spirito, e per conseguenza d' Un valore più facile a comprendere, che la dottrina reale che essa si m- bolrggia (la quale d« 1 resto, per essere compresa, ha bi- sogno di una conoscenza profonda del sistema). Ma il carattere puramente fantastico e poetico della narrazione del Fedro (246 e-248 e) è talmente evidente, che nessuno potrebbe es«^pre tentato di prendere questo mito in un stnso letterale. Il soggetto del ra'^conto è V intuizione delle Idee che l'anima ha a^uto in una vita anteriore. Platone comincia con una semplice comparazione : Ta- nima è simile a un cocchio alato con un auriga e duo cavalli; i cavalli dell'anima divina sor.o tutti e due buoni e di buoni, di quelli delTanima umana l'uno è buono e l'altro cattivo (2). La virtù delle ali è di portare il grave (1) A 50 e: Sé/sxai toc nàvxa A 51 a la chiama TiavSsxsS» e a 50 e TÒ xà :idvTa £y.535ó|i£vov sv a'j'w ysvyj. In quanto la materia contiene le Idee, cioè è il loro suslrato, si dice she partecipa di esse. V. Tim, 51 a e Arist. Phys, l. IV. II 5, Met. 1. I. VIII. 11, ecc. Questo sen«o della parola partclpam cioè dei suoi equivalenti greci, è alquanto differente da quello in cui la troviamo libata negli altri scritti di Platone, nei quali sono le cose che partecipano alle Idee: ma anche in questo senso la pa- rola prova la presenza delle^ Idee nelle cose, e di ami maniera forse ancora più evidente. (2) L'anima secondo Platone consta di tre parti : l'auriga rap- presenta la parte superiore, cioè la razionale; i cavalli le due parti inferiori; il buono quella dove è il coraggio, il cattivo quella dove sono i desideri s«nsaali. nell'alto, dove abitano gli dei : Tanima a cui le ali sonò cadute, tende al basso e si unisce ad un corpo terreno. Le ali dell'anima si nutriscono del bello, del buono, del saggio e di tutto ciò che è di questo genere. « Quando ' (gli dei accompagnati dalle anime che possono e vo- gliono seguirli) vanno al convito e alle vivande, salgo- no alla sommità più elevata della volta celeste. I carri degrimmortali, sempre in equilibrio, si avanzano con leggierezza; gli altri saliscono con pena, perchè il cat- tivo corsiero s'aggrava, s'inclina e precipita verso la terra, se non è stato ben allevato dal suo cocchiere. È l'ultima e la più grande prova che l'anima abbia a so- stenere. Le anime di quelli che chiamiamo immortali, dopo essersi elevate sino al più alto del cielo, uscito fuori, 8i mettono sulla parte convessa della sua volta; e mentre vi stanno, il movimento circolare le porta in gi- ro, ed esse contemplano ciò che è fuori del cielo. Il luo- go sovraceleste (unspoupotvtoc) non è stato ancora cele- brato da alcuno dei nostri poeti, e non lo sarà mai de- gnamente. Ecco tuttavia com'ò, poiché non bisogna te- mere di dire la verità, sovratutto quando si parla sulla verità. L'es.venza realmente esistente, senza colore, Fen- za figura (1), impalpabile non può essere vista che dalla guida dell'anima, l'intelligenza. Intorno ad essa è il luogo della vera scienza. Come il pensiero degli dei che si nutrisce d' intelligenza e di sc'enza senza mesco- (1) Platone nega alle Idee la figura e il colore nello stesso senso in cui nega ad esse il cangiamento : egli non esclude da esse la fi- gura, il colore, il cangiamento irfea/i— vale a dire non nega che queste cose siano anch'esse rappresentate nel mondo ideale- ma solo la figura, il colore, il cangiamento fenomeni. anza, anche quello di ogni anima che deve raggiun- gere il suo destino, vedendo 1' essere, da cui era da lungo tempo separato, contento della contemplazione dell a verità, se ne nutrisce e gode, sinché il movimento circolare riconduca al punto di partenza. In questo giro vede la giustizia stessa, vede la temperanza, vede la i-cienza, nrn quella in cui vi ha cangiamento e che è diflereiite nei differenti oggetti che ora chiamiamo es- seri, ma la scienza che è in quello che è veramente es- sere; e dopo aver contemplato allo stesso modo gli al- tri esseri veri ed essorsene abbondantemente nutrita, l'a- nima rientra npirinterno del cielo, e se ne ritorna a casa. Subito che arriva, l'auriga conducendo i corsieri alla stalla, sparge d'innanzi ad essi l'ambrosia e versa il nettare. Tale è la vita degli dei. Fra le altre anime, quella che segue il meglio le anime divine e che loro rassomiglia il più, innalza la testa del suo cocchiere nel luogo sovraceleste, e va così, portata dal movimento cir- colare; ma è turbata dai suoi corsieri, e vede a stento gli esseri. Un'altra ora s'innalza ed ora si abbassa; per la inobbedienza dei suoi corsieri, vede alcuni esseri ed altri no. Le alt»*e vengono dietro, bruciando dal de- siderio di contemplare la regione superiore, ma non po- tendolo : sommerse, sono portate intorno, pigiandosi « gettandosi l'una sull'altra per cercare di oltrepassars*. Ne nasce; un tumulto, una lotta e un sudore estremo. Molte sono storpiate per colpa dei cocchieri, molte per- dono una gran parte delle penne delle loro ali; e tutte, dopo penosi e inutili scorzi, se ne vanno prive della vista dell'essere, e si pascono d' un alimento opinabile. La causa dei loro sforzi per vedere il campo della verità è che l'alimento conveniente alla parte migliòre dell'ani- ma si trova in questo prato, e la natura delle ali, che innalzano l'anima, se ne nutrisce; ed è una legge d'A- — 142 — \ drastia che qualunque anima, seguendo gli dei, ha ve- duto alcuno dei veri, resti immune sino all'altro circuito, e se può far questo sempre, sia sempre illesa » (il danno da cui quest'anima sarà preservata è rincarnazione) (i). Tutti i particolari di questa descrizione sono eviden- temente poetici e allegorici. Il luogo sovraceleste dove le Idee sono collocate, non lo è meno del cocchio alato con Tauriga e i due cavalli o la nutrizione delle ali del- l'anima con la contemplazione dell'essere: noi sappia- mo infatti che la dottrina di Platone è che le Idee non sono in alcun luogo (2). Che dritto si avrebbe dunque di ammettere che la trascendenza delle Idee non sia an- ch'essa una circostanza poetica, quando essa non ci è data che nell'immagine della loro collocazione In un luogo fuori del cielo? È certamente un problema di de- terminare sin dove si estenda, nel mito del Fedro, l'ele- mento fantastico, e quale sia il concetto filosofico che vi è racchiuso. Io non posso seguire quegl' interpreti che vedono una circostanza poetica e allegorica nella stessa intuizione delle Idee. Questa è ammessa, oltre che nel I^edro, nel Timeo (41 e) e in tutti quei luoghi in cui Platone parla della sua dottrina che la scienza è una reminiscenza, poiché questa dottrina ha appunto per fondamento l'intuizione delle Idee in una vita anteriore. In alcuni di questi luoghi (3) la dottrina della remini- scenza è esposta nella forma più scientifica che possa trovarsi in Platone, mancando, per conseguenza, qualsiasi ragione di supporre che si tratti d'una semplice allego- (1) Fedro 247 b-248 o. (2) V. Tim. 52 b-o, Arist. Phys, l. IV. TI. 5, I. TU. IV. 2, eoe, (3) Men, 80 d-86 a, Fedo, TI e-77 d, ofr. 91 e-92. ria (a meno di escludere a priori la pos3ibilìtà che Pla- tone abb-a ammesso seriamente questa dottrina e le al- tre che vi sono connesse), ed è data come una delle prove più forti dell'immortalità dell'anima. I più conse- guenti tra gl'interpreti che negano che la reminiscenza sia stata una dottrina seria di Platone, ammettono, è vero, che non solo la reminiscenza, l'intuizione delle Idee, la preesistenza, ecc., ma anche la stessa immorta- lità dell'anima sia in Platone un mito e un semplice himbolo. La dottrina rappresentata da quesU simboli sa- rebbe l'identità tra l'essenza dell'anima e il mondo i- deale, cioè tra l'intelligenza e l'intelligibile, il pensiero e Tessere. Non è qui il luogo di discutere quest'opinione : osserverò semplicemente che sarebbe impossibile a que- sti interpreti di assegnare un sol luogo negli scritti di Platone, in cui la dottrina che l'autore avrebbe simbo- leggiata con l'intuizione delle Idee, l'immortalità del- l'anima, ecc., cioè quella dell'identità dell'essere e del pensi» ro, sia chiaramente esposta, in una forma, non al- legorica, ma puramente t^cientifica. L'Idea di Platone è appunto in ciò che differisce da quella di Hegel ; questa è al tempo j^tesso un'entità generale e un concedo ge- nerale, mentre 1' Idea di Platone è solo un'entità ge- nerale, che non è identica al concetto generale, ma è solo V oggetto a cui questo si riferisce. Non vi ha d'altronde alcuna ragione, fondata sull'indole stes- sa di queste dottrine, che impedisca di ammettere che Platone abbia realmente creduto alla reminiscen- za e all'intuizione delle Idee in una vita anteriore. Il problema di cui Platone cercava la soluzione, era lapo^s b lità della coincidenza tra il pensiero e la realtà mila conoscenza a priori, problema che diviene d'un'ur- genza speciale nei s stemi costruiti sullo stesso tipo che il sistema platonico, perché secondo essi tutta la scienza - 143 - è a priori, e inoltre vi ha la più perfetta corrispondenza tra il pensiero e Tessere, questo essendo astratto e ^e nerale come quello, e l'ordine ontologico essendo iden- tificato con r ordine logico. Ora se noi esaminiamo le risposte che si sono date a questa quistione, vale a dire di spiegare questa coincidenza tra la conoscenza (a priori) e roggetto conosciuto, troviamo che la più parte di esse, compresa la dottrina dell'identità tra Tessere e il pen- siero, consistono ad assimilare il fatto al fenomeno fa- miliare in cui questa coincidenza ci pare naturalissima appunto perchè il fenomeno è familiare (senza di che Tassimilazione ad esso non potrebbe costituire una spie- gazione per un metafisico), vale a dire alla percezione sensibile (nella quale, secondo la credenza naturale, vi ha la presenzaimmediata dell'oggetto percepito) (1). He- gel assimila il rapporto tra il pensiero e il suo oggetto alla percezione sensibile solo in quanto ammette la pre- senza del secondo nel primo, come la credenza naturale ammette la presenza del sentito nella sensazione: T assi- milazione che fa Platone è più completa, perchè il rap- porto immediato del pensiero con le Idee è per lui una vera intuizione, che non si distingue dalla sensibile (quale questa è secondo la credenza naturale) se non in quanto la facoltà intuitiva non ò il senso ma Tintelligenza. Cer- tamente vi ha nell'intuizione platonica una circostanza, per cui essa si distingue dalle ipotesi analoghe di altri metafisici, e sembra avvicinarsi a un semplice mito : è che quest'intuizione ha avuto luogo in una vita anteriore. Ma un'intuizione attuale delle Idee sarebbe sembrata a piatone in contraddizione coi fatti : in effetto, si deve (1) Cfr. Append. e. 2 § 9 e Saggio I. o. B ^ 7. supporre che quest'intuizione è permanente nello spirito ? ma in questo caso la scienza sarebbe innata e continua- mente presente al pensiero. Si deve supporre invece che lo spirito intuisce un'Idea solo quando ha coscientemente il pensiero corr'spondente a quest'Idea? (dico cosciente* mente, perchè Tipotesi di un'intuizione permanente im- plicherebbe quella di un pensiero permanente, ma inco- sciente, di tutte le Idee) ma in questo caso non si com- prenderebbe perchè l'Idea viene, per dir cosi, a porsi dinnanzi allo spirito intuente precisamente nel momento richiesto dalla connessione logica o psicologica dei con- cetti. Io credo dunque che non si ha alcuna ragione di negare che Platone abbia realmente ammesso che l'a- nima ha intuito le Idee in un'altra vita, e che la cono- scenza che ne acquista nella vita attuale è una remini- scenza. L'ipotesi della reminiscenza poteva essere un complemento di quella dell'intuizione, perchè anche la prima consiste, come la seconda, nell'assimilazione del f tto che si trattava di spiegare a un fenomeno familia- rissimo, uniformandosi cosi anch'essa alla condizione necessaria di ogni spiegazione metafisica. Ma quali sono le condizioni di questa intuizione delle Idee in una vita anteriore? come comprenderne la pos- sibilità ? perchè in una vita anteriore è possibile ciò che non lo è in questa ? Sono delle quistioni a cui non si potrebbe pretendere da Platone una risposta. È qui che si origina il mito del Fedro, Platone, volendo rappresen-tare un fatto le cui circostanze sono irrappresentabili, non poteva darne che una rappresentazione poetica : ma questa, quantunque non fosse che una finzione, doveva avere tutta quella verosimiglianza che è necessaria in una finzione poetica. Ora la circostanza più naturale che si presentasse all'immaginazione di Platone, e la quale spiegasse d'una maniera poeticamente verosimile come :M X? rintuizione delle Idee, non possìbile nella vita attuale, lo è in una vita anteriore, era la situazione delle Lieo in un luogo, allora accessibile all'anima, ma ora inac- cessibile. Tutte le altre circostanze del mito, il cocchio alato, la nutrizione dello ali dell'anima, ecc. non sono che degli accessori di quest'idea, cioè di quest'immagine, fondamentale. L'esistenza delle Idee ili un luogo fuori del cielo si prestava, come le altre circostanze del mito, ad un senso allegorico : essa significa che le Idee non fanno parte del mondo sensibile, del mondo dei fenome- ni, il cielo rappresentando la totalità delle cose sen- aibili. Del resto Timmanenza, nel mito del Fedro^ oltre che dalla dottrina stessa della reminiscenza — la quale sup- pone che il concetto generale ha per oggetto Tldea, poi- ché é questo che viene riguardato come la reminiscenza dell'Idea intuita in uaa vita anteriore r249 b-cì— e dalla designazione delle Idee per i nomi V essere, il vero, ecc.,è chiaramente dimostrata dal luogo seguente: « Ma la belt<à (xdXXogì, come dicevamo, brillava allora tra quelli (cioè tra le Idee intuite dall'anima), e venuti in questo mondo, l'abbiamo percepita (xax6iXy]'^ap,ev aùxó), risplen- dente della luce più chiara, per il più acuto dei nostri sensi. La vista è in effetto il più sottile degli organi del corpo; tuttavia essa non percepisce la saggezza... mala sola beltà ha avuto questa sorte, di essere più di ogn» altra cosa manifesta ed amabile » (1). La beltà Idea, che l'anima ha intuito, è qui identificata con la beltà che i sensi percepiscono. La bellezza che vediamo qui (in que- sta vita) è pure distinta, è vero, da quella che intui- i vamo allora (quando eravamo in compagnia degli dei) (1) : ma noi abbiamo già osservato che il rapporto tra le Idee e il sensibile è al tempo stesso d'identità e di differenza, e che se la trascendenza delle Idee spiega la differenza, non può spiegare l'identità, mentre l'immanenza spiega tanto l'uno quanto l'altra. V. Veniamo infine alla prova più forte dell'interpre- tazione trascendentalista, la testimonianza d' Aristotile. Io non mi dissimulo la forza di questa prova, e riconosco che essa costituirà sempre l'ostacolo più grave che in- contrerà Tinterpretazione contraria. E certamente que- st'ostacolo sarebbe insormontabile, se la testimonianza d'Aristotile fosse così chiara e certa, come suppongono grinteppreti trascendentalisti. Ma essa è ben lungi dal- l'essere tale. Osserviamo in primo luogo che l'interpre- tazione d'Aristotile ha bisogno alla sua volta di essere interpretata, e gli stessi equivoci a cui dà luogo l'inter- pretazione di Platone, s' incontrano naturalmente in quella dell'esposizione che Aristotile fa di Platone. Nesegue che le prove contro l'immanenza delle Idee con- tenute in questa esposizione sono assai minori in realtà di quante ve ne trovano gl'interpreti trascendentalisti. Noi abbiamo già visto che molte espressioni per desi- o-nare le Idee e i loro rapporti con le cose in cui si pretende di vedere gli argomenti più forti della loro tra- scendenza, p. e. il x«>?'-^'^'^^) 1'**?* '^^ TioUa, ecc. non hanno necessariamente la portata che loro si attribuisco. La slessa osservazione vale per certe obbiezioni di A- ristotile contro la dottrina delle Idee, che secondo gl'in- terpreti trascendentalisti non sarebbero possibili che nel- (I) 25() d, (1) 249-250. -145 - :K- ripotesi della trascendenza; p. e. quella del terz'uomo. Noi abbiamo visto ('nel numero V, 3° B) che questa obbiezio- ne si comprende facilmente anche nelTipotesi dell'imma- nenza, ciò che è anche provato dal fatto che Platone, nel Parmenide, la rivolge contro la propria dottrina im- mediatamente dopo quella che mostra la difficoltà di con- cepire come Tuno inerisca simultaneamente nei molti. Una prova simile si ha per il rimprovero che Aristotile fa ripetutamente a Platone di avere raddoppiato inutil- mente gli esseri (1): questo raddoppiamento degli esseri, obbiettato alla dottrina delle Idee, dimostra così poco la loro trascendenza, che noi troviamo la stessa obbie- zione rivolta contro la dottrina che ammette le entità matematiche, non separate dalle cose (xexoptoiiéva tó5v alo^xdJv), ma nelle cose stesse (év Toig alo^yjxorg). Si deve notare inoltre che molti luoghi, in cui Ari- stotile si rappresenta certamente le Idee come separate dalle eose, non importano pertanto necessariamente che egli attribuisca a Platone questa dottrina. L'Idea plato- nica, come abbiamo più volte osservato, per quanto può essere un oggetto di rappresentazione, non può essere rappresentata che come separata dalle cose, perché è im- sibile di concepire come una sostanza sia al tempo stesso un attributo, e inerisca simultaneamente in una molti- tudine di soggetti. Per conseguenza Aristotile poteva am- mettere la separazione delle Idee dalle cose e ragionare su questa premessa, anche riconoscendo che i Platonici affermavano a parole il contrario— a parole, perchè nes- suna rappresentazione reale poteva corrispondere alle loro affermazioni— in quanto egli pensava che le Idee, se esse esistessero, non potrebbero esistere che separate dalle cose. É chiaro in alcuni casi che è cosi che si de- vono intendere effettivamente certe proposizioni in cui Aristotile nega l'inerenza delle Idee nelle eose. Cosi in Met. 1. I. IX. 7 dice; € Né (le Idee) giovano alla scienza delle altre cose— perche non sono sostanze di queste, poiché sarebbero in esse-iiè all'essere, non inerendo nei par- ' tecipantf: intatti potrebbe credersi ch'esse sono cause dell'estere delle cose come il bianco, mescolato, è causa a una cosa di esser bianca; ma è facile di confutare questo concclLo, che Eudossio ed alcuni altri hanno pro- posto, seguendo Anassagora » (1) Qui Aristotile mantiene la sua proposizione, che nega l'inerenza delle Idee nelle cose, anche di fronte alla proposizione di Eudossio e de- gli altri, che l'affermano della maniera più energica : è che egli distingue tra Tipotesi delle Idee considerata in se stessa, vale a dire nelle sue condizioni necessarie, e le affermazioni verbali dei platonici. Similmente in Met. 1. VII. XV7. 4-6 dice: <' L'Uno non può essere una so- stanza, per la stessa ragione per cui nessun altro comune può essere una sostanza. La sostanza, in effetto, non i- nerisce che a se stessa e a ciò di cui é sostanza. Di più nino non sarà simultaneamente in molte cose, ma il comune esiste simultaneamente in molte cose. Per cui è chiaro che nessuno degli universali é oltre (rcapa) i singolari separatamente. Ma quelli che ammettono le Idee in parte dicono bene, cioè quando le separano (x^ptCiovisg), s'è vero che sono sostanze; in parte dicono mal^, cioè quando chiamano l'Idea l'uno nei molti». Evidentemente (1) Met. 1. I. IX. 1, 1. XI. Il- 2, eoo. (1) Cfr. n. VI. verso la fino. -146- qui la proposizione << l'Uno non sarà simultaneamente in molte cose » non ò una testimonianza sulla dottrina platonica— perchè anzi Aristotile rimprovera ai platonici di asserire che l'Idea è l'uno nei molti—, ma una dedu- zione dello stesso Aristotile, che nega Tinerenza dell'Idea nelle cose come logicamente impossibile per le stesse ragioni che noi abbiamo dette, cioè perchè una sostanza non può inerire in un altro soggetto, e meno ancora in una moltitudine di soggetti allo stesso tempo (I). Tuttavia vi hanno dei casi in cui questa spiegazione è inapplicabile, e nei quali bisogna riconoscere che, par-lando della separazione delle Idee dalle cose, Aristotile non emette un apprezzamento proprio sulle conseguenze logiche dell'ipotesi delTesistenza delle Idee e le condi- zioni della loro rappresentabilità, ma attribuisce ai pia- ci) Cr'r. M. .Vor. 1. I. T. 12: •« Bisogaa parlare dell'l'loa del bcìie o no, ma piuttosto di quel bene coraune ch«» inoriselo in t aiti i bftiìi parlicolari? questo bone, in «ffoltt), parrà giiist amento Pss«^ro di- ver:^o dall'Idea. L'Idea iat'atti è neparabile lympiaTÓv! ftde^isleppr se stessa ( aOiò xaft'aùxc), ma il comune inerisco in tutti i i>ar- ticolari. Non è dunque lo stesso «il comune) col soparabile, jxjiohò è impossibile che ciò che è nepHrabile e capace .li caislore per se atesso inerisca in tutti i particolari ^. Noir/;/;r ;•'"./.!. 1. Vlìl. la distiu/j.me (k'l*l.lo.i .lil bone dal bene comune, '»ltr^ che da que-»l 'impossibilità ò'inerire al tempo stesso in molte cose (l. l. Vili. 11), è dedotta anche da un'altra ra- gione, cioè da ciò che il hene cornane ** inerisce anche ad un bene mediocre n (1. 1. Vili. IS— L'Idea del bene era riguardata come il bene assolato, senz'alcunM inescolan^^a di mnl.»,. <^ui la n(»cessità della trascendenza dell'Idea si fa derivare dalla dt»lori)iÌJiazi(»ne che Platone attribuisce ad al'une Idee, di rappresentare l'attributo ad un grado assoluto, mentre esso nella cose non si trova che ad un grado relativo (v. n. ili.) tonici di professare in effetto la dottrina che le Idee sotio separate dalle cose. Nelle Top. 1. II. VII. 3 dice: « Si deve considerare se si faccia qualche affermazione SII qualche soggetto, dalla quale ne seguirebbe che in questo soggetto inerirebbero delle proprietà contrarie' come se si affermi che le Idee siano in noi ».Kcontnua mostrando le contraddizioni che risulterebbero da questa affermazione, cioè che le Idee sarebbero al tempo stesso immobìli e mosse (perchè noi ci moviamo', intelligibili e sensibili (perchè le formo delle cose si percepiscono coi sensi). Qui Aristotile sembra sapporre almeno che Topi- nionc più abituale di quelli che ammettono le Idee, o la pili autorevole, sia, non Timmanenza, ma la trascen- denza. Foise però questo luogo potrebbe significare so- lamente, come altri di cui ci occuperemo i a s^guHo, che Aristotile ammette la possibilità delle due interpretazioni contrarie dei sistema delle Idee Ma in alcuni luoghi non può esservi dubbio che Aristotile non attribuisca recisa- mente ai partigiani delle Idee la dottrina della trascen- denza. Fra di essi segnalerò: P Quelli in cui le entità am- messe da Platone e dai platonici (Idee ed entità mate- matiche) vengono designate come separate dalle cose (xsxf>?''.'3jJLsva Te)v ovxwv, iG)f aìaBy^ifov, ecc.) (1) 2^ Quelli in cui la dottrina platonica sui numeri viene distinta dalla pitagorica, perchè i numeri pitagorici sono nelle cose e queste constano di essi, ma i numeri platonici sono separati (yoif/.axot o xsxo>p'.a^l6VGl) (2) 3^. Quelli in cui sì distinguono due frazioni nella scuola p' atonica, di cui runa ammetterebbe le entità matematiche nelle cose (1) V. J/W. 1. 11!. IV. 2.-), l. IH. n. 15, 1. Xlll. 1. 4, n. 9, 111. 3, 5. (2) V. Mei. l. Xlll. VI. 4, 7, i' XlV. HI. 2. . - 147- .^~ ■SpJX ì^ e l'altra separate (1). Si noti che Aristotile obbietta al- Topinione che queste entità sono nelle cose, che in que- sto cago anche le altre entità, le Idee, dovrebbero essere nelle cose (2). E dunque incontestabile che vi hanno in Aristotile un certo numero di luoghi in cui le Idee sono chiara- mente interpretate come separate dalle cose. Non ne se- gue però che la sua testimonianza sia assolutamente favorevole alla interpretazione trascendentalista, perchè, a iato di questi luoghi, l'esposizione aristotelica delle dottrine platoniche contiene delle prove cosi forti della Immanenza delle Idee, che basterebbero, anche nel caso che noi non possedessimo gli scritti di Platone, per ro- vesciare l'interpretazione tascendentalista, e restituire a queste dottrine il loro significato reale. Nel corso di questo Supplemento abbiamo già utilizzato alcune di que- ste prove; ma non abbiamo tenuto conto che di quelle la cui evidenza ci sembrava al di fuori d'ogni dubbio, e ci siamo astenuti di servirci di un gran numero di luo- ghi che, quantunque probanti per se stessi, potevano non- dimeno far nascere qualche esitazione, per la contraddi- zione con gli altri, in cui Aristotile sembra ammettere, oam- mette effettivamente, l'interpretazione trascendentalista. Ma cosi facendo, ci siamo privati di molte prove dell'imma- nenza delle Idee, che sarebbe tanto meno giusto di ne- gligere, che alcuni tratti della dottrina platonica, i quali dimostrano chiaramente quest'immanenza, risultano più nettamente ancora dall'esposizione di Aristotile che da- gli scritti stessi di Platone, o ancte non si trovano che nel solo Aristotile, perchè appartengono alla parte non scritta del platonismo ((Xypa^a ÒÓY[iaxa). Tali sono: 1. L'universalità delle Idee. L'Idea è, secondo Ari- stotile, ciò che si attribuisce a tutti gl'individui d' una specie 0 di un genere (l), il comune (xoivóv) nelle cose particolari (2), l'universale (xaeóXoi>) (3), il predicato in co- mune (xoiv^ xaxYjYopoójisvov) (4) o universalmente (xaGóXco xax.) (5) Si dirà che questo determinazioni non devono prendersi in un senso strettamente rigoroso, e che tutto ciò significa, non che le Idee siano realmente gli attri- tributi generali delle cose, ma che Platone ha trasformato i predicati generali in altrettante sostanze, in modo che queste sostanze astratte abbiano lo stesso contenuto che gli attributi generali delle cose, ma senza identificarsi con essi (6). E certamente bisogna ammettere che le espressioni designanti Tldea come l'universale non aveano per Aristotile che un significato vago ed incerto. Ma si deve notare che Aristotile non dice solamente dell' Idea che essa è l'universale, il comune, il predicato univer- (1) Mei. 1. 111. 1. 15, 11. 17-22, 1. XUl. 1. 4, II, IH. V. su que.ta di- stmzione il n. Vi, verso la fine. (2) V. MeL l. HI- 11. 21, 1. Xlll. U. 1. (1) Mei. l. III. 1. 9, 1. ITI. III. 7, 10, 12, 13. (2) Eih, A'ic. 1. 1. VI. 2, 3, 11, FAh. Eud, 1. I. Vili. 9, 10, 11 MeU 1. I. IX. 5, l. III. III. 1, 1. VII. XVI. 4, 1. XIII. IV. 10, 1. XIV. III. 12. (3) Mei. 1. III. III. 7, 13, IV. 1, VI. 5, 6, 1. VII. XIII. 2, 4, 7, XVI. 5, 1. X. II. 1, 1. XI. I. U, 1. XIII. IV. 4, IX. n-20, Eth. Nic. 1. I. VI. 3, A«. Post. 1. I, XXrV. 3, ecc.. (4) Eth. Eud. 1. I. Vili. 10, Met. 1. III. VI, 5, 1. VII. XIII. 7. (5) Met. 1. III. III. 13, VI. 6, l, VII. XIII. 2, 1. X, II. 1. (6) Cfr. n. V in principio. -.148 — salmente, ma ancora ch'essa è universale (1), che è co mane (2) e che si predica universalmente di tutti (3). Le ultime forme non sembrano suscettibili, come le prime del senso improprio che abbiamo detto. Più importante è ancora di segnalare certe obbiezioni conti'O la sostan- tifìcazioue degli universali: p. e. Avistocile dice (contro Platone): l'universale, o il comune, ecc. non può essere una sostanza, perchè è un attributo (4), o perchè ine- risce in molti (5). Queste obbiezioni suppongono che i termini Vuninersale, il comune, ecc. si applicano all'I- dea in un senso Rigoroso, perchè esse non valgono che in questo caso. Aggiungiamo infine che V individuo è chiamato, relativamente allldea, il soggetto (6). 2. Le Idee essenze o sostanze (oOaCai) delle cose. E una determinazione che Aristotile attribuisce a ogni momento alle Idee (7). Perciò noi potremmo rivolgere a lui stesso la domanda che egli fa ai platonici: Se le Idee sono le sostanze delle cose, come sarebbero sepa- rate? {Met, \. I. IX. 11). Questa domanda, s'intende, si rivolgerebbe ad Aristotile come interprete trascendenta lista: ma vi hanno delle ragioni per dubitare almeno che tutte le volte ch'egli afferma o suppone che le Idee sono le essenze delle cose, egli si tenga fermamente al punto (1) Elh, Aie. l. 1. VI. 3, MeL 1. IH. VI. 5, €>, l. XIII. IX. 17, 20. (2) Kth. yic, 1. I. VL 2, 3. 11, Fih, End. 1. I. Vili. 9, MeL 1. I IX. 5, l. XITJ. IV- 10. (3) MeL 1. III. III. lU, VI. ti, 1. X. IL 1. (4) Met, 1. VII. XHI- 4, 1, Vii. XVI. 4. ecc. (5) Met. l. VII. XUI. 2, l. VII. XVI. 5, 1. X. II. 1. ecc. (6) Mei, 1. VII. VI. 7. (7) Mei, 1. I. VI. 7, l. 1. IX. 11, 21. 1. lU. IV. 6, 7, l. VII. VI. 4-8, xm. 3, 4, i. Vili, ni- 5, i. XI. 11. 10, i. xiii. i. 2, 3, x. 2, i. xiv. v. 7-8, eoo. •>,i di vista di quest'interpretazione. La prima è eh' egli i- dentifi(ja continuamente re.<f»s'enza della filosofìa platonica con Vessenza della sua propria filosofia (1) (salvo, be- ninteso, che nel suo proprio sistema l'essenza non ha che un' esistenza concettuale, e si distingue dalla ma- (1) Cosi p. e. in Mt't, 1. 111. IV. 6: " Ancora, se la materia è. perchè è ingenita, molto piti ragionevole è che sia l'essenza, vale a dire ciò che la materia diviene. Infatti se non è nò questa né quella, non sarà assolutamente niente. Che se ciò è impossibile, è necessario che vi sia oltre il composto (Tiapà xò at3voXov) la forma (jiOp^Tj'i e la specie (£l$oc;ì. Ma se si ammette questa, è dubbio di quali cose si debba ammettere, e di quali no. É chiaro che non è possibile di tutte: non ammetteremo infatti che vi sia una casa oltre (TCapd) 1© f^ase particolari (i platonici, secondo Aristotile, non ammettevano Idee delle cose artilìciali)^ In 3/eM.XI. II. 10: «An- cora vi ha qualche cosa oltre il composto (:iapà iò aiivoXov) o no ? chiamo così la materia e ciò che è con essa (la forma). Se non vi ha, tutto ciò che è nella materia è corruttibile. Ma se vi ha, sarà ceriamonte la specie (sISol;) e la forma (pio pcpf/). Questa in quali cose vi sia e in quali no, è difficile determinare. In al- cuno cose è chiaro infatti che la specie non è separabile ;x(Op'.aiÓv),- p. e. nella casa- In Met, Vili. HI. 5 (mentre parla della dottrina della detinizione, o dell'essenza che ne è l'oggetto): -Se poi le essenze delle cose corruttibili siano separabili (xcopiaxatj non è ancora manifesto „ In Met. VII. VI spiegando che vi ha identità tra una cosa e la sue essenza, dice (4-8) che cosi è anche necessariamente nel si- stema delle Jdeo, r-oichè è necessario che il bene in sé, l'animale in sé ecc; siano identici con l'essenza del bene, dell'animale, ecc. L'essenza d'una cosa, quando Aristotile fa l'applicazione del prm- ci|>ìo nel sistema delle Ideo, non potrebbe avere un altro semso che quando la fa nel suo proprio sistema. Dunque anche nel sistema delle Idee l'essenza è, come nel suo proprio sistema, un principio intrinseco alla cosa di cui si dice l'essenza. - 149 — teria solo logicamente, mentre nel sistema platonico se ne distingue realmente, ed ha come entità distinta unNsistenza reale). Questa identificazione esige che Te- spressiene essenza delle cose, applicata alle Idee, sia presa nel suo significato proprio, e, per conseguenza, che le Idee siano immanenti. Lo stesso deve dirsi, e a più forte ragione, dell' obbiezione che Aristotile fa ai platonici, che sejuna è la sostanza di tutte le cose— cioè di tutte le cose subordinate a un'Idea — tutte queste cose saranno una cosa sola, perchè ciò la cui sostanza è una è necessariamente uno (1). Qui è applicabile la stessa osservazione fatta al numero precedente — che vale per tutte le formule platoniche neiresposìzione aristotelica—, cioè che non deve ammettersi che Aristotile dia costan temente alla proposizione le Idee sono le essenze delle cose il suo sigMìficato strettamente letterale, e neanche un senso determinato qualsiasi, perchè il prenderla nel senso letterale, come Aristotile sembra fare nei casi di cui abbiamo parlato implica, necessariamente 1' ammis- sione dell'immanenza delle Idee, e sarebbero quindi ine- splicabili i luoghi in cui egli mostra di ammettere T in- terpretazione trascendentalista ; e d'altra parte, escluso il suo significato letterale, non ve ne ha alcun altro di cui la proposizione sia suscettibile. 3. La materia il soggetto delle Idee. In Mei. 1. I. VI. 7, facendo 1 esposizione della filosofia di Platone, dice : « La materia soggiacente ( òiioxstfiévY); a cui si at- tribuiscono rUno nelle Specie e le Specie nei sensibili, (1) V. MeL 1. IH. IV. 7, 1. VII. Xm. 3, 1. XlII. X. 2, i la dualità del Grande e Piccolo (1)» Conformemente a questa proposizione—presa in un senso strettamente rigoroso— Aristotile in diversi luoghi riguarda l'individuo» nel sistema platonico, come il composto dell'Idea e della materia. E cosi che egli fa nei dne primi della terz'ul- tima nota ; e a questi aggiungeremo i seguenti : Mei» 1. III. IV. 8: < £ come la materia (se vi hanno delle essenze oltre i singolari, tanto nell'ipotesi.che l'essenza di tutti gl'individui sia una, come vuole Platone, quanto in quella che siano molte e diverse) diviene ciascuna di esse, ed il tutto (oóvoXov) è l'una e l'altra (l'essenza e la materia)?* Mei. 1. XII. X. 13: « Nessuno ha spiegato come il numero sia uno, o come siano uno l'anima e il corpo e in generale l'eidos e la cosa » (evidentemente questo rimprovero non potrebbe essere rivolto che ai platonici). Mei, 1. XII. V, 3 : «In atto è l'sISoc, se è separabile (XCDpioxóv), e ciò che è da amendue (dall' eldo; e dalla materia, vale a dire l'individuo); la steresi (la privazione dell' elòo^), come l'oscurità o la malattia: ma la materia è in potenza. Essa infatti è ciò che può divenire amen- due (cioè VbIòoq e la steresi)» Io non vedo come questi luoghi si potrebbero accordare con l'interpretazione tra- scendentalista. (1) Osserviamo che il rapporto delle Idee con le cose e la ma- teria delle cose non può essere differente da quello dell'Uno con le Idee e la materia delle Idee. Le Idee devono essere dette e essenze o le forme delle cose e ciò che ai attribuisce alla materia delle cose, nello stesso senso in cui TUno è detto 1' essenza o la forma delle Idee e ciò che si attribuisce alla materia delle Idee. Per conseguenza, l'immanenza dell'Uno nelle Idee e nella loro materia essendo incontestabile (v. n. VII), anche le Idee devono essere immanenti nelle cose e nella loro materia. -160- 4. Il rapporto dei numeri (ideali) con le cose. L'im- manenza dei numeri anzitutto è supposta dal mottvo che Aristotile assegna alla dottrina che essi sono sostanze e principii delle cose. In Mei. 1. III. V. 3-4 dice (metten- dosi al punto di vista dei platonici) : cMa iJ corpo ò me- no sostanza che la superficie, e la superficie che la linea, e la linea che Tunità e il punto : da que.ste cose infatti il corpo è determinato ((opioxat) (1). E queste cose sem- brano pot€^ essere senza il corpo, ma non il corpo senza di esse (in altri termini, secondo il modo di esprimersi che Aristotile attribuisce il più abitualmente^ a Platone : soppressa la superficie, ola linea, o il punto ounitA, sa- rebbe soppresso necessariamente il corpo; ma soppresso il corpo, non sarebbe soppressa necessariamente la su- perficie, la linea, Tunità o punto). Perciò, mentre i più antichi credono che la sostanza e Tessere sia il corpo, e le aitr^ cose affezioni di esso, in modo che i principi! dei corpi siano i principii di tutti gli esseri ; invece i più moderni e riputati più sapienti ammettono che questi principii siano i numeri» (2). E in Met. 1. V. Vili. 3: « Inoltre sono chiamate sostanze le parti che ineriscono (fiópia évjTiapxovxa) in tali erse (nel fuoco, la terra, gli animali, ecc.), che le terminano (ópC^ovTa), e le quali soppresse, è soppresso anche il tutto; come p. e. soppressa la superficie, è soppresso, come dicono alcuni, anche il corpo, 0 soppressa la linea, anche la supertìce : ed asso- ci) NeUa costruzione dell'esteso per i suoi termini e rinteryallo compreso tra di essi, immaginata allo scopo di ridarre la gran- dezza al numero, i platonici riguardavano il punto come una naità, V. Supplemento C, II, (2) Ofr., per comprendere questa conseguenza, la nota seguente. lutamente è il numero che sembra essere tale ad alcuni; niente essere infatti, soppresso questo, e questo termi' nave (ópec=tv) tutte le cose » (questo numero riguardato come sostanza non può essere che il numero— Idea, per- chè i platonici non sostantificano che T Idf a, l'univer- sale) (1). L'immanenza dei numeri è ugualmente supposta (a meno che non si vogliano intendere le parole d'Aristotile in un Fenso molto lontano dal letterale) in questa ob- biezione che egli fa alla dottrina dei numeri : t Non si è poi per niente determinato come i numeri (ideali) sia- no cause delle essenze e dell'essere: forse come termini, (1) Eoco come Aless. Afrod. {Comui. in Met. 1. I. VI. 6, t. 43) ci spiega, certamente secondo Aristotile, perchè i platomci ammet- ^ te vano che i numeri sono i principii delle cose, e identificavano le Idee con essi : Secondo loro il principio era il più anteriore e il pi'i semplice, o dei corpi erano più anteriori e più semplici i piani, dei piani le linee, e di queste i punti che essi chiamavano unità.... dello unità non vi era niente di anteriore, e di più semplice. Ora le unità sono numeri: dunque i numeri erano i prinripu di tutti, gli esseri. E poiché per loro i principii di tutte le cose erano le Idee, non potendo esservi un principio anteriore ai numeri, non restava, seconde loro, che di ammettere che le Idee sono numeri .Platone chiamava una cosa anteriore ad un'altra, quando il concetto della soconda racchiudeva quello della prima; vale a dire il più astratto era detto da lai auteriore al più concreto. Questo rappono di anteriorità importava per lui una sorta di causalità della oosa-cioò dell' entità- anteriore verso la posteriore; poiché il principio della dialettica platonica è che il più astratto e pi i generale è in .'erto modo la causa del più concreto e più particolare. Il segno dell'anteriorità d'una cosa su di un'altra era che soppressa la prima si sopprimerebbe anche la seconda, mentre soppressa qa..ta, non si sopprimerebbe quella: p. e. ^*^PP^««^^, /Z^^-^^^;; ?arobbe soppresso perciò anche l'Uomo, ma soppresso 1 Lomo, non sarebbe soppresso perciò l'Animale). -161- k quali i punti delle grandezze?... o comerarmonia è una proporzione di numeri, così pure V uomo e ogni altra cosa?... Ma è chiaro che (nel secondo caso) i numeri non sarebbero le essenze né le cause della forma. L'essenza infatti sarebbe la proporzione; il numero sarebbe la ma- teda y> (1). In diversi luoghi poi Aristotile sembra rap- presentarsi i numeri (ideali) come gli elementi costitutivi delle gr;indezze. In il/e/, l. XIV. III. 9, dico che quelli che ammettono le Idee « fanno le grandezze dalla materia e dal numero (ideale)». S'egli non si rappresentasse effettiva- mente i numeri come elementi costitutivi della grandezza, non si comprenderebbero delle obbiezioni come le se^ guenti : Met 1. III. IV. 29 (dopo aver detto che secondo i Pitagorici e Platone V Uno è sostanza per se stesso, cioè nel suo concetto astratto, e non è qualche altra cosa, p. e. qualcuno degli elementi dei Fisici) : «Ma come da un tal Uno o da più sarà la grandezza? Sarebbe come se si dicesse che la linea è composta di punti » . Ibid. 30 : (dopo aver detto che per produrre i numeri, cioè gl'ideali, e le grandezze, alcuni aggiungono airUno in sé un altro ele- mento, rineguaglianza) « Né si vede come dairUno e que- sta né come da un altro numero e questa possano farsi le grandezze .^ Mei., l. XII. X. 11 : « Se vi hanno le Idee o i numeri, non saranno causa di niente: certo almeno non del movimento. K poi come da cose senza grandezza sarà la grandezza e il continuo ? *. In alcuni di questi luoghi, a dir vero, non si parla delle grandezze sensi- bili, ma delle grandezze matemaUche, che erano inter- mediarie tra le grandezze sensibili e i numeri ideali : ma questa differenza importa poco, perchè, se le Idee fossero trascendenti riguardo alle cose, dovrebbero essere anche trascendenti, come abbiamo altra volta osservato, ri- guardo alle entità matematiche, Infatti, come abbiamo detto, le stps-e determinazioni che sembrano esigere la trascendenza delle Idee riguardo alle cose (aùxè xaG'a'nó^ Xo>ptox'5v, ecc.) esigerebbero pure la loro trascendenza ri- guardo alle entità matematiche; e l'immanenza delle Idee nelle entità matematiche dà luogo alle stesse inconce- pibilità che la loro immanenza nelle cose, non esclusa la più grave che è quella dell'inerenza simultanea del- l'uno nei molti, poiché anche delle entità matematiche ve ne erano molte, come attesta Aristotile (1), della stessa specie, vale a dire partecipanti a un'Idea (a un numero ideale) unica. Si dirà che tutti i luoghi d'Aristotile precedentemente citati, se possono provare che le Idee platoniche sono immanenti, non possono provare però che l'autore se le rappresentasse come tali, perchè bisogna evitare un'a- perta contraddizione tra questi luoghi e quelli in cui e- gli è chiaramente favorevole all'interpretazione trascen- dentalista; e per conseguenza si deve ammettere che A- ristotile riproduce le formule e le locuzioni platoniche, che in se stesse implicano l'immanenza, ma senza dare ad esse alcun significato preciso, anzi riguardandole co- me non suscettibili di un significato preciso. Ed io ri- conosco che quest'osservaziene é in gran parte giusta: essa però non mi sembra applicabile a tutti i luoghi citati, notevolmente a quelli in cui Aristotile fa delle obbiez'oni che non hanno valore se non nel caso che le (1) Met, 1. XIV- V. 6-7. (1) Met. 1. I. VI. 3, l. III. VI. 1-2, 000. -152 — formule platoniche si prendano nel loro significato pro- prio, implicante rinimanenza. Ma vi hanno anche altri luoghi, in cui r immanenza delle Idee, nel concotto d'Aristotile, è più evidente ancora. Di essi alcuni con- cernono il rapporto tra le Idee e le cose, altri solamente quello tra le Idee più generali e le più particolari : ma questa differenza per noi ha poca importanza, perchè Aristotile non poteva non comprendere le ragioni di coe- renza che esigevano che l'uno dei due rapporti fosse'iden- tico all'altro, e d'altronde le ragioni prò o contro V im- manenza delle Idee più generali nelle più particolari erano quelle stesse che valevano prò o contro l'immanenza delle Idee nelle cose. Dei luoghi che concernono il rapporto delle Idee ge- nerali con le Idee particolari, la parte più considerevole sono certamente quelli che dimostrano l'immanenza (nel concetto stesso d'Aristotile) dei due elementi, cioè deirU- no o Essere e della Diade indefinita o Non essere, in tutte le altre Idee (questi stessi luoghi, la più parte al- meno, provano pure l'immanenza di queste due Idee le più universali, che Platone chiamava gli elementi, nelle cose stesse). Noi ne abbiamo parlato ai n. VII e Vili, e non occorre ritornarvi. Ma vi hanno anche parecchi luoghi, in cui sono le Idee generali indistintamente che vengono riguardate come immanenti nelle Idee partico- lari. Cosi in Met, 1. VII. XV. 6-7 l' Idea del genere e quella della differenza si considerano come parti, e l'I- dea della specie come il tutto composto di queste parti (1)* (1) Altrove invoee lo Idee speoiliche souo oonsideraie come parti deU'idea generica, V. Met. 1. 111. III. 10, ). XI. 1. 12. Noi abbiamo Tisto oh© nel sistema delle Idee (immanenti) vi hanno necessaria^ mente al tempo stes-^o fra i Generi e lo Specie fjuesti due rapporti apposti. IWd. 1. XIIL X. 6, dopo aver obbiettava alla dottrina- dei due elementi che, se ciascuno di essi è uno di nu- mero (come vuole Platone) e non semplicemente di spe- cie, non vi saranno altri esseri che gli elementi stessi, agrgiunge che la stessa obbiezione ha luogo quando, ol- tre (noLpd) le Idee aventi lo stesso elfiog, si ammette al- cun che di separato (xexfoptoiiévov— vale a dire quando si ammette un'Idea generale oltre le Idee particolari su- bordinate a un concetto comune: Tobbiezione vale anche allora, perchò nel sistema dell'immanenza è inconcepibile p. e. come, TAnimale essendo unico, possano esservi non- dimeno molti animali, TUomo, il Bue, ecc.). Ibid. I. XIV. III. 12, dice che se il principio del numero matematico fosse qualche uno, diverso dall' t/7io che è il principio del numero ideale, VUno in se stesso sarebbe ciò che vi a- vrebbe di comune in questi due, e inoltre si dovrebbe ricercare come VUno potesse essere questi molti. Ibid. 1. XIII. Vili, 14 obbietta alla dottrina dei numeri ideali che l'unità che é nella Dualità è anteriore a questa, poiché, soppressa essa, si sopprimerebbe anche questa; e per conseguenza tale unità dovrebbe essere un'Idea d'I- dea, essendo anteriore a un'Idea (Un'Idea d'Idea signi- fica evidentemente un'Idea più generale, ossia anteriore, a cui partecipa un'altra Idea più particolare, o^^ia po- steriore. Ora quest' unità che dovrebbe essere un' Idea deiridea della Dualità, è in questa; perciò Aristotile si rappresenta l'Idea anteriore, cioè la più generale, come inerente nell'Idea posteriore, cioè nella più particolare). E in diversi luoghi (I) le parole ivipapxstv (inerire), Oitòlpxstv év (essere in) vengono impiegate per denotare sia la re- (1) V. Mei. I. VII. Xm. 4, 8..I. XIII. V. 12, AH. P<rtt. 1. ìi XXiV. 3. •^ 153 — V Iasione delle Idee generiche con ^ le Idee specifiche sfa qaella delle' Idee con le cose. L'immanenza delle Idee nel le*^ ' cose' é pòi supposta della maniera più evidente dairòtbiezione che Aristotile fa ripetutamente alla sostantiàcazione degli ^ universali, di condurre all'assurdità che una sostanza unica sia molte sostanze. « Se si astrarrà il predicato in comune e- se ne farà tina sostanza, Socrate sarà moiti animali, egli stesso, TUomo e l'Animale, s'è vero che ciascuna di queste cose significa Una so-^tanza e un che di unico (l). > «Ciò (che nessuno degli universali è sostanza) è chiaro anche per quésta ragióne, che è impossibile che una sostanza riéulti da sostanze che le ineriscano in atto. In- fatti le cose che in atto sono due è impossibile che siano uno in atto? potrà essere uno ciò che è due solo in po- tenza, come il doppio, ia cui vi hanno in potenza le due metà; è l'atto che separa Per cui, se la sostanza è qualche cosa di unico, es^^a non potrà risultare da sostanze ine- renti ; e in questo scuso Democrito ha ragione di am- mettere che è imposs bile che di due cose se ne faccia una sola o di una due: le sostanze infatti sono se- condo lui le grandezze indivisibili Tuttavia la no- stra conclusione presenta uria difficoltà : se è impos- sibile che una sostanza risulti da universali, perchè essi significano delle qualità e non delle sostanze (è uu' altra obbiezione che precedentemente ha fatto alla sostantifi- cazione d'egli universali), e se un* sostanza non può es- sere composta di più sostanze in atto, la sostanza sarà qualche cosa d'indecomponibile, e non vi potrà essere de (1) Met, L III. Vi. 6, finizione della sostanza » (perchè i platonici riguardano la definizione come una decomposizione del definito nei suoi elementi— V. n. VII B) (1). La stessa obbiezione è an- che presentata sotto un'altra forma : « La definizione non è T^H discorso unico per la congiunzione delle parti, come l'Iliade, ma perchè si riferisce ad un oggetto unico. Co- s'è dunque che fa che l'uomo sia uno, e perchè esso è uno e non più, p. e. l'animale e il bipede, specialmente se vi ha, come alcuni dicono, un animale in sé e un bipede in sé? perchè l'uomo non è questi, e perchè gli uomini non sono perla partecipazione, non di uno, l'Uo- mo, ma di due, l'Animale e il Bipede? allora 1' uomo (l'individuo, sembra) non sarebbe Uno, ma più, l'animale e il bipede» (2) «Perchè ciò che diciamo essere l'og- getto della definizione, è uno, p. e. l'animale bipede," à'è questa la definizione dell'uomo ? Perchè ciò è uno e'iibn più, r animale e il bipede? Infatti 1' nonio e il bianco sono più, quando l'uno non inerisce all'kltro; sono uiio, quando l'uno inerisce all'altro, e il soggetto (l'uomo^ ha un' affezione (la bianchezza). E allora che ciò diviene ed è uno, l'uomo bianco. Ma nel nostro caso una cosa nou partecipa dell'altra: il genere infatti non sei»bra»parte- cipare delle differenze; poiché lo stesso parteciperebbe dei contrari, le ditterenze per cui ilgenere differisce essendo (\) Met 1. VII, Xlir. 8-10. L'obbiezione che la realizzazione degli universali ha per conseguenza che una sostanza sia composta di pili sostanze, ò pure accennata a l. VII. XVI. Seal. VII. XIII. 5. (2) Met. contrarie. (1) E quand'anche ne partecipasse, vi sarebbe sempre la stessa difficoltA, se le differenze sono più, p. e. pedestre, bipede, implume. Perchè tutto ciò è uno e non molti ? che esse ineriscano non è una ragione sufficiente, poiché a questo patto da tutte ne risulterà una cosa sola » {da tutte vuoi dire: da tutte insieme le differenze con- trarle che si producono nella divisione, cioè da pedestre e volatile, bipede e quadrupede, implume e piumato, ecc., perchè tutte queste differenze ineriscono egualmente nei genere) (2). Forse si troverà che questi due luoghi sup- pongono Timmanenza del Genere e della Differenza nella Specie, ma non neirindividao. E sia pure ! ma come ab- biamo osservato, il rapporto tra le Idee generali e lel- doe particolari non potrebbe differire da quello tra le Idee e le cose. Un'altra obbiezione che suppone V immanenza delle Idee nelle cose, è quella dePa Metafìsica 1. IX. Vili. 15, cif è che, se vi hanno le Idee, avranno molto più essere le cose (p. e. lo sciente o il mosso) che le Idee (p. e. la scienza o il movimento in sé), perché le cose hanno più at- tualità, mentre le Idee sono le loro potenze. Nell'ipotesi deirimmanenza le Idee sarebbero effettivamente le cose in potenza, ma solo in quest'ipotesi, perché il potenziale e l'at- tuale sono, non due cose separate, ma due stati d'una sola e stessa cosa, stati che possono succedersi nel tempo, come (1) Nel metodo platonico, in cai la definizione è il risaltato della divisione per diootomia — Aristotile trova impossibile ohe lo stesso, cioè il genere, partecipi dei oontrarii, perchè egli ragiona sull'ipo- tesi ohe il genere sia ana sostanza, cioè an'idea: in qaest' ipotesi, il genere partecipando di dae differenze contrarie, si ha l'assordo che ad ana stessa cosa ineriscono dae contrari,(?) Met' U VU. XU. 1-2, il fanciullo è in potenza l*uòmo, o solo iogicatóenfe, c^iflé, secondo Aristotile, la materia è tutte le cose in poteiis^a. Nel secondo ctìso, il jotenziale è Tatiuàle stesso codIbì- derato in uno ^tato d'indeterminazione: rra le Idee, se sono immanenti, sono f recisamente le cose stesse allo stato indeterminato, cioè astratto. Infine citerò qu'^sfal- tra obbiezione della Phys. 1 IV. II. 5 : « Platone avrebbe dovuto dire com'è che le Idee e i numeri non sono nello spazio, se ciò che ne partecipa è lo Spazio (come egli afferma)». L'obbiezione é giusta supponendo che il par- tecipato sia, secondo Platone, neZpartecipante (l). Ma che significato potrebbe avere neir interpretazione trascen- dentalista, per cui il partecipato è fuoH del partecipante ? Basterebbe questo luogo per mostrare che Aristotile non si .rappresenta costantemente le Idee come trascendenti, e che la sua testimonianza sul rapporto tra le Idee e le cose è contradittoria ed incerta. D'altronde lo stesso Aristotile confessa la sua itìcer- tezza. Cosi in Met. 1. XIII. IX. 5 dice : « A tutte queste cose (cioè ai numeri e alle grandezze) è comune il dub- bio che vi ha sul rapporto del Genere con le sue Specie, quando si ammettono gli universali ; cioè se 1' animale che è in un animale sia Tanimale stesso o un altro di- verso dall'animale stesso (vale a dire se l'attributo ani- ci) Tattavia, malgrado la giastezza dell'ossesvazione d'Aristotile, Platone paò affermare al tempo stesso che lo spazio partecipa alle Idee e che qneste non sono nello spazio, perchè lo spazio riaiiisce nel sao sistema dae fanzioni e dae concetti differenti, qaello di materiale a qaesio panto di vista lo spazio è rigaardato come l'e- stensione para— e quello di luogo. Lo spazio partecipa alle Idee cbihe materia; ma le Idee non sono nello spazio, perchè lo spazio è an-che il laogo, e le Idee non sono in un luogo. -166- malità che e nell^uomo p nel leane ecc. sia l'Idea del- ranimale— ipotesi deirimmanenza— o qualche cosa di di- verso da quest'Idea —ipotesi della trascendenza—). Non vi ha alcuna ragione di dubitare, se questo non è separa/o (o separabile: xwpioxóv): ma se, come dicono quelli che am- mettono tali dottrine, TUno e i numeri (idealij sono se- parati (o separabili), non è facile di risolvere questa (lui- stione, se si può^dire che non è facile ciò che è affatto impossibile. Quando si concepisce l'uno nella diade oin un altro numero qualunque, é l'uno stesso che si conce- pisce o un altro uno ? » (1). E in Met. 1. VII. XIV: « Se esistono realmente le Idee, e 1' animale è nell' uomo e nel cavallo, deve ammettersi che sia Dell'uno e nell'altro, 0 numericamente uno e lo stesso (ipotesi dell'immanenza), o diverso (ipotesi della trascendenza). Dalla nozione si vede che è uno; poiché esprime la stessa nozione chi lo atribuisce all'uno e all' altro. Ora se vi ha un uomo in sé, sostanza e separato, è necessario che an- che le cose da cui risulta, quali sono l'animalo e il bipe- de, siano sostanze e separato ; iJicchò anche l'animale. .\' '.^-A ^ ì i '. • • 1 'Il ' én ijfii^i'.. ' l !' * . i y (1) Come si vede, iMncertezzi d* Aristòìile suV'ry dee più generali ejle Idee più particolari si estende anche, com'è naturale, a quello tra i due elementi e tutte le Idee, poichò i duo elementi non sono che le Idee più generali di tutte. Ciò, malgrado che in altri luoghi sembri indubitabile ch'egli ammetta l'inerenza dei due elementi nelle Idee e nelle còse Vv(*^.^^I e VtM)M(0 stosso dubbio sulla quistione dell'immanenza o trascttiidenza dei due eie menti è espresso in Met. 1. XIV. V. 4 : (dopo aver detto che quellj ohe ammettono che i numeri e gli esseri in generale risultano da- gli elementi, non hanno determinato in qual modo il numero ri- sulti da essi, se per la loro mescolanza o per la loro composizione o altrimenti) •* E poiché, quando una cosa risulta da altre, può ri- saltarne sia come da cose che le ineriscono, sia oome da cose che Se dùnque questo è uno e lo stesilo iieir uomo e nei cavallo, della stessa maniera che tu sei uno e lo stesso con te stesso, come potrà essere lo stesso in esseri separati? e come non sarà anche separato da F0 stesso V (1) E se parteciperà del bipede e del multtpede, ne seguirà una cosa impossibile ; poiché i contrari ine- riranno simultaneamente in uno stesso soggetto. Se no (cioè se il Genere non partecipa delle Differenze), com'è che potrà dirsi dell'animale che è bipede o che é pedestre ? 0 forse queste cose (il Genere e le Diflerenze) si compon* gonc» e si congiungono o si mescolano ? ma tutto ciò è as- surdo (sin qui contro l'ipotesi dell'immanenza). Si ammet- t'^rà invece che l'animale é diverso in ciascun animale par- ticolare? (ipotesi della trascendenza). Mavì saranno al. lora un'infinità di esseri, di cui l'essenza sarà l'animale... E di più l'animale in sé sarà molti (cioè vi saranno molti animali in sé), poiché l'animale che é in ciascun animale particolare é sostanza... Sicché ciascuno degli non le ineriscono, in quale di questi due modi il numero viene da- gli elementi ? Da cose che ineriscono non vengono se non le cose che sono fatte. Viene forse dagli elementi come da un germe ? ma niente può uscire dall'indivisibile. O forse ne viene come da un contrario non permanente (cioè come una cosa viene dalla sua contraria, quando questa ha cessato di esistere) ? ma le cose ohe risultano da altre a questo modo, risultano anche da qualche altra cosa permanente (cioò da una materia, che è il sustrato dei due contrari) », Aristotile cerca una rappresentazione (voglio dire una imnKtffuie) di ciò che ò irrappresentabile. (Cfr. Met, 1. XIII. IX. 7" quelli che ammettono che il numero viene dall'uno e dalla plura- lità, Speusippo— non hanno determinato il come, e vanno incontro alle stesse difficoltà a cui qualli che ammettono che essio viene dal- l'uno e dalla dualità indefinita, sia che si tratti di generazione, sia di mescolanza, ecc.) (1) Cfr. Plat. Parmen. 131 b. — 156 — imimali ohe sono ne^i animali particolari -è un «nimale In sé. E questo donde verrà, e come potrà venire dal- ridea dell'animale ? o in che modo sarà possibile que- st'animale in sè2 oltre l'Idea dell'animale? Queste stesse difficoltà accadono per le cose sensibili, ed anche WAg- glori » Le ultime parole ci mostrano che Aristotile era altrettanto incerto sul rapporto tra le Idee e le cose che su quello tra le Idee generali e le Idee particolari (1). Quest'incertezza d'Aristotile sui concetti fondamentali del suo maestro sembrerà strana : ma non bisogna di- menticare che il sistema platonico appartiene alla stessa classe che quello al cui autore si è attribuito di aver detto che nessuno dei suoi discepoli lo aveva compreso (2). (1) Qaest'inoertezsa sai rapporto fra le Idee generali e le par- ticolari si vede an^he in Mei. 1. VII. XII. 4: ** Se non vi ha affatto Genere oltre (napoc) quelle ohe sono come le specie d'an genere o vi ha, ma come materia di esse, è chiaro ohe la definizione è la nozione che risalta dalle differenze „. Qai si fanno due ipotesi, d* coi la prima è che non vi siano assolatamente Idee dei generi, e la seconda che queste Idee siano immanenti nelle Idee delle specie, Aristotile ammette perciò tanto la possibilità dell'immanenza quanto quella della trascendenza. (2) Non è per altro necessario a un metafisico di essere un He* gel o un Platone o uno Spinoza per essere non compreso o frain- teso da quegli stessi che sembrano nelle condizioni più favorevoli per intenderlo perfettamente. È una sventura che può accadere anche ai metafisici meno lontani dal senso comune, e che è infatti accaduta ai filosofi stessi della scuola del senso comune. La dot- trina fondamentale di Reid, che nella percezione noi abbiamo una conoscenza intuitiva degli oggetti esteriori (cioè una conoscenza in cui è presente l'oggetto stesso, e non una sua immagine men- tale) è stata intesa al rovescio da un altro dei più illustri filosofi della scuola scozzese, cioè da Brown, il quale attribuiva invece a Reid la dottrina ordinaria che nella percezione noi abbiamo della Del resto le ragioni dell* incertezza d'Aristotile sonò ab- bastanza ovvie. Egli vede da una parte che delle entità come le Idee, platoniche non potrebbero concepirsi che separate dalle cose, e che l'ipotesi deirimmanenza è una impossibilitrà logica e una contraddizione ; ma vede an- che dall'altra porte gli sforzi, benché vani, di Platone per collocare le Idee nelle cofe, identificandole coi loro attributi. Per risolvere i dubbi di Aristotile sarebbe bi- sognato un' esame sufficiente sui motivi e lo scopo del sistema delle Idee e le condizioni indispensabili per rea- lizzare questo scopo : ma un tale esame avrebbe sup- posto un grado di riflessione psicologica, che sarebbe vano di attendersi, anche da un Aristotile, in un'epoca in cui lo spirito òomincia appena a prendere se stesso per oggetto. realtà esteriore una semplice rappresentazione. Vi ha qualche ana- logia tra il caso di Brown e quello di Aristotile, perchè Brown, oltre d'essere un discepolo della scuola stessa di cui Reid fu il capo era in relazioni personali intime con Stewart, il propagatore delle dottrine di Reid (Stuart-Mill crede che l'interpretazione di Brown sia la vera, e sostiene contro Hamilton che la percezione per Reid non è immediata : ma i luoghi di Reid che egli cita per dimostrare il suo assunto-^v. FU. di Hamilton e, X— mostrano solamente che secondo Reid la concezione dell'oggetto esteriore, nella percezione è suggerita dalla sensazione, che è il segno naturale della presenza dell'oggetto percepito. Senza dubbio, se chiamando la percezione immediata, si vuel dire ch'essa è un atto dello spirito che non è preceduto e occasionato da un altro, la percezione per Reid non è immediata. Ma la quistione non era se sia o no immediata in questo sensOy ma se per Reid sia immediatamente presente nello spirito che percepisce lo stesso oggetto percepito, o solamente la rappresentazione di quest' oggetto, come ammettono la più parte degli altri filosofi. £ su questo punto che Hamilton Aveva rimpro- verato con ragione a Brown di aver fraiuteso Reid). IL PITAGORISMO PLATONICO •d. t Alcune dottrine di Platone, per cui Ik nostra srirg^oìite' unica o principale è negli scritti di -Aristotile, sam'.bbei'o inesplicabili al semplice puntò dì Vi^tà defila teoria delle Idee, quantunque mescoUce e fuse con le propos'zìoni di quelita teoria; e noi non po«»siamo spie«j^arlo, cbe per un sincretismo dei concetti propri dì Platone con quelli del pita*^orismo. Queste dottrine sono assolutamente prive di qualsiagii valore filosofico, ei sarebbe impossibile di as- segnare ad esse Porigino da cui derivano generalmente i concetti metafisici, vale a dire di dedurle d»«lle illu- sioni naturali o sofismi a priori del nostro spirito. In- vece o^se appariscono ii risultato di sneculazìoni arbi- Ir-afie .e di sofismi, puramente artificiali; e, sotto questo rapporto, escono dall'arg-omento di questo scritto, che è dt mostrare, hei sistemi che ci p-esenta la storia della filosofia, lo sviluppo della metafisica naturale dello spi- rito umano. Tuttavia è per noi indispensabile di occu- parci anche di queste dottrine : senza di ciò, la nostra in1;erpretazione del sistema platonico lascerebbe dei punti oscuri, che è necessario di chiarire, perchè potrebbero ri- torcersi contro di essa. Premettiamo alcuni cenni sulla filosofia pitagorica. Le dottrine principali e più caratteristiche dei Pitagorici consistano in queste due proposizioni : la prima che le rose sono fatte ad imitazione dei numeri (1) e sono esse stesse numeri (2) ; la seconda che tutto consta di due elementi contrari, che sene delle astrazioni riguardate come entità sussistenti per se stesse, cioè il Limite (tis- pag, Tcspatvov) o Limitato (TisTrspaaiiévov) ^ che era idenfi- cato con 1' loipari, e rillimitato (ineipov), ehe era iden- tificato col Pari (3). ^ ' Sull-a .dottrina che le cose souo numeri Hegel dice; <f Ammiriamo quest'arditezza a distruggere d* un colpo tutto il mondo sensibil»^, e a considerare il pens'ero com^^ l'essenza dell'universo. » Per m^, io devo confesf^are che non posso ammirare altra cosa che la grandezza di quelito non senso; in quanto al pensiero essenza deiru- niverso, è uno di quei concetti che Hegel presta gratui- tamente agli altri filosofi, per fare entrare i loro siatemi nel quadro artificiale, in cui egli presenta la storia della filosofia. Su'le dottrine dei Pitagorici devo ripetere l'os- servazione fatta sulle dottrine pitagoreggianti di Platone cioè che io non credo che es-^e possano essere derivate dai sofismi naturali del nostro spirito. Io non vedo cha un mezzo per comprendere in qualche modo la possibi- lità di dottrine come quelle della filosofia pitagoiica: è di ammette: e nella formazione di queste dottrine^ rn/ione di un processo simile a quello a cui si attrib»ii^ce la (1) Aristotile Mt't, 1. 1. VI. 2, Aristr.ssene ap. Stob. I XVI, ecc. (2) Ari>;t. Mei. 1. I. V, I. I. VI 4, L Xlìl, VI. 7, Vili. 9-io, I. XIV. IH. 2-4, ecc; PI ut. l*lar. 1. 1. IH. 14-24. ecc. i'i) Arist. Met, 1. I. V té formazione dei miti, ò almeno di lina gran parte di essi, cioè r interpretazione in un senso strettamente realista di proposizioni che all'origine non avevano che un senso figurato. Le dottrine religiose potrebbero fornirci parecchi esempi di credenze che hanno avuto evidentemente que- st'origine; e certo le condizioni del miluogo in cui si formò la filosofia pitagorica si prestavano facilmente all'azione di un tale processo. Questo, oltre che dal legame tra i discepoli di questa filosofia, che erano i membri della so- cietà pitagorica, e il carattere semi-religioso di questa Focietà, e dall'ossequio illimitato, che ne seguiva, all'au- torità del fondatore — personaggio a metà mitologico, ch« i proseliti riguardavano come un semidio —, era favorito anche dalla circostanza che la dottrina non si tramandava che oralmente. (1) Noi possiamo dunque supporre che Pi- tagora si era limitato ad ammettere l'esistenza di grandi analogie tra le cose i numeri, concetto oscuro e non su- scettibile di un significato preciso, ma che non era un non senso cosi evidente come la proposizione che le cose sodo numeri; e che questa proposizione non era per lui che un'e- spressione iperbolica per denotare d'una maniera energica e concisa queste pretese analogie delle cose coi numeri, non che il concetto più giusto, che le ricerche scientifiche della scuola ci danno il dritto di attribuirgli, della pre- senza in tutti i fenomeni di rapporti numerici regolari, e dell' importanza di questi rapporti per determinare la (i) Fìlolao fu il primo che mise in iscritto la dottrina pitagorica (un lecolo e forse più dopo la fondazione della scuola) V. Zeller p. 260-261 e P. 309. natura delle cose. Ma in seguito, per un effetto della tendenza naturale a prendere in uu senso strettamente proprio le proposizioni ricevute da un'autorità in cui si ha una ft-de cieca, si venne insensibilmente nella scuola a dare alla proposizione il suo significato letterale di u- n'identità assoluta tra i numeri e le cose (i); quantunque a lato di questa dottrina, per una di quelle incoerenze, di cui i s stemi tradizionalisti, com'era eminentemente il pi- tagorica, ci presentano frequenti esempi, coesistesse pure r altra, più conforme al pensiero del fondatore della scuola, che le cose sono fatte ad imitazione dei numeri. (2) (1) Questa spiegazione deve applicarsi naturalmente, non solo alla formula generale che tutto è numero, ma anche alle proposizioni parti- colari che facevano l'applicazione di questa formula. P. e. le proposizioni « il numero due è l'opinione », « il numero quattro è la giustizia », all'o- rigine non significavano, come vennero intese in seguito, l'identità asso- luta del numejo due con Topinione e del numero quattro con la giustizia, ma volevano dire semplicemente : il numero due rappresenta o simlx>- leggia l'opinione, e il numero quattro la giustizia; vale a dire affermavano soltanto l'esistenza di un'analogia tra questi numeri e queste cose. (2) Aristotile dà pure per motivo alla dottrina dei Pitagorici 2e ana- logie ch'essi credevano di vedere tra le cose e i numeri (v. Met, 1. I. V. 2) e i rapporti numerici regolari che osservavano nei fenomeni (^Met, 1. XIV. III. J.) Tuttavia (nel primo di questi due luoghi) egli parla anche di un altro motivo, cioè che i numeri sono i primi di tutti gli esseri, sembrando attribuire questo concetto ai Pitagorici stessi. Ma verisimilmente, cosi fa- cendo, egli presta al pitagorismo genuino un concetto che non appartiene che al pitagorismo di Platone e dei Platonici: infatti, che i numeri siano primi degli esseri, è evidentemente una conseguenza del principio pla- tonico che una cosa, cioè un' entità, è anteriore ad un' altra, quando, soppressa la prima, si sopprime anche la seconda : ora non vi ha alcuna ra- gione per attribuire questo principio ai Pitagorici. I Pitagorici non dicevano solamente che iuiio e numero^ ma ancora I numeri dei Pitagorici sono evidentemente delle astra- zioni realzzat '. Tuttavia non lo sono d* una maniera cosi assoluta come p. e. le Idee di Platone o quelle di 11**- gel. In effetto la preposizione che le cose sono num-^ri può considerassi a duo punti di vista opposti : in quanto ri- guarda come cose reali delle semplici astrazioni quali sono i numeri, questa proposizione è una realizzazione dì astrazioni; in quanto non accorda ai numeri un'esi- stenza distinta da quella delle cose, e non pone per con- segueuza altro di reale che le cos^ stesse, cioè gli og- getti concreti, essa non lo ò. In una parola, questi nu- meri—cose dei Pitagorici sono al tempo stesso astratti e concreti — questa contraddiziooe è uno degli aspetti iu cui si manifesta la contraddizione originaria contenuta nel loro concetto— : coni», numeri, sono astrati; come cose, sono concreti. Ma là dove il regalismo dei Pitagorici si mostra seu- z'alcuna ambiguità, ò nella dottrina dei due elementi. Il Limitato e rillimitato, come osserva più volte Ari- stotile (I), non designano delle sostanze (p. e. aria, ac- t ' che tutto e armonia (Arist. Mei. 1. I. V. 2); e in questa proposizione la parola armonia aveva un significato musicale, e designava l'ottava (vedi Zeller 329) All' origine di questa seconda proposizione può applicarsi la stessa spiegazione che abbiamo proposto per la prima; vale a dire il fon- datore della dottrina, dicendo che tutto è armonia, intendeva solamente alfermare l'esistenza di analogie proionde tra la costituzione delle cose e i rapporti dei suoni musicali; l'identificazione assoluta tra le cose e 1' ar- monia non avvenne cbe in seguito, per un etf'etto della tendenza segna- 'làta nel testo, a prendere in un senso strettamente letterale le proposi- zioni venute da un'autorità ciecamente rispettata. (1) Met, 1. I. V. 13, Phys, 1. III. IV. 2, V. 1-4. qua o fuoco), a* cui* questi termini vengono attribuiti come predicati, ma sono gli stessi attributi limitato e il- limitato che vengono riguardati come sostanze. La stessa osservazione vale per l'Impari e il Pari : questi termini non designavano i numeri impari e i numeri pari, ma delle entità corrispondenti ai concetti astratti dell'impari e del pari; erano, come il Limitato e V Illimitato, non degli attributi, ma dei soggetti. Per questa sostantifica- zione di semplici astrazioni, la filosofia dei Pitagorici ha una certa aria di somiglianza con quella di Platone. Vi ha però una differenza essenziale tra il realismo di Pla- tone e quel'o dei Pitagorici. In Platone, come In Spi- noza o in Hegel, il realismo deriva dai sofismi a. priori dello spirito umano, ed è destinato, con la dialettica che ne è il complemento indispensabile, a dare una soluzione ai problema delle cause .efficienti. Invece nel isisitema pitéigorico— come in altri sistemi che si sono formati in condizioni analogh<e, vale a dire che sono 1' opera, non del lilkero esame individuale, ma della tradizione e di un dommatismo cieco, per esempio nella filosofia degP In- diani o nella scolastica— il realismo è senz'alcuna utilità per la spiegaeione dei fenomeni; e la migliore ipotesi 0he si possa fare per rendersene conto è, io credo, di^rioor- rere a un processo simile a quello a cui abbiamo attri- buito la dottrina che le cose sono numeri, cioè di am- mettere che la realizzazione delle astrazioni ^iw/a^o, 27- ' limitato^ impari^ pari sia stata lettetto di malintesi sul significato di formule antiche, ricevute con, uik^. spirito ciecamente autoritario, e, come avviene in tal caso, in- tese d'una maniera troppo rigidamente letterale (1). ? -j 1 1 (1) Cfr. cap. VU. § i. o>; ^ ij: L ^ «160-. ÀiTa dottrhnr dei àné eleménti era legata quella deHe dieci oppos'^zioni, che però non era ammessa che da una parte delia scuola. Queste opposizioni erano : il li- mite 0 limitalo e Tillimitato, Timpari e il pari, Tuno e il multipk), il destro e il sinistro, il mascolino e il femmi- nino, il riposo e il movimento, il retto e il curvo, la luce e Toscurità, il bene e il male, il quadrato e il rettan- golo. Queste d'eci coppie di opposti erano riguardate dai Pitagorici come t principii degli esseri (1). Aristo- tile osserva eh' essi non determinavano chiaramente a quale delle quattro cause — materia, forma, causa effi- ciente, causa finale — questi principii dovessero ricon- dursi (2) : ma risuk» dai frammenti di Filolao (3) che li riguardavano come elementi costitutivi del reale. Evi- dentemente, il concetto racchiuso nella tavola dt^lle dieci opposizioni è la coesistenza da per tutto di cose o di de- terminazioni contrarie : ma que-sto concetto è rivestito d'una forma assolutamente arbitraria Perchè fra tutte le opposizioni delle cose si scelgono queste dieci, e si elevano al grado di principii ed eU menti degli esseri ? Forse questa dottrina è anch' essa, come la più parte delle altre proposizioni metafisiche dei Pitagorici, Talte- razione d'una dottrina primitiva più ragionevole, e nel pensiero del primo autore della proposizione, ch« è poi divenuta la dottrina delle dieci opposizioni quale noi la conosciamo, qu ste oppos'zioni determinate non erano che degli esempi particolari del principio generalo della coesistenza universale degli opposti. In ciascuna delii) dieci opposiaioni, l'uno dei membri era ricondotto al Li- mitato e Taltro airilliniitato (I). Speiso, in effetto, l'uno dei due concetti opposti— 1' uno, il bene, il riposo, il retto, il quadrato — rappresenta qualche cosa di definito, l'oggetto corrispondente al concetto non potendo essere che in un sol modr; e l'altro — il multiplo, il male, il movimento, il curvo, il lettangolo — qualche cosa d'in- definito, l'oggetto corrispondente al concetto potendo es- sere in un'infinità di modi (2). Questa riflessione però non potrebbe applicarsi a tutte le opposizioni; e nella ridu- zione di queste alla opposiz one fondamentale del Limi- tato e deirillimitato, i Pitagorici sono inoltre guidati dal concetto che il perfetto deve mettersi dalla parte del Limi- tato (0 Finito), e l'imperfetto dalla parte dell'Illimitato (per r analogia che vi ha tra V idea di perfetto e quella di (1) Met. 1. I, V. 6, 8, (2) Mai. 1. I- V. 8. 0} Ap. Stob, I. 458, I. 456. (1) V. Arirft. Eth, Nk. 1. II. VI. 14 (il male è, secondo i Pitago- rici, deirillimitato, il bene del limitato. Cfr. Kth. Nic. l. I. VI. 7 e Met. 1. XIV. VI. 7, in cui l'una delle due serie degli opposti, quella in cui è compreso l'uno, l'impari, il retto, è chiamata la serie dei beni e la serie del bello) ; Eudemo ap. Simpl. Ph^/s, 98 b (i Pita- gorici e Platone portano nel movimento i' infinito^; Aless. Afrod. in Met. I. V. t. 32, Plutarco Quaest. rom. 102, ecc. (per i Pitagorici l'impari è mascolino, il pari femminino); Eudoro ap. Simj)!. I*/iys 39 a (i Pitagorici chiamano l'uno dei due elementi impari, masco- lino, destro, luce, l'altro pari, femminino, sinistro, oscurità); eco. Filolao (nei Fr. ap. Stob. I. 456 e I. 458) parla, come di elementi costitutivi delle cose, di /imt/afi (cioè, propriamente l imita nti.^TlBp OLÌ - vovia— ) ed ilUìììitatif al plurale: è ciò che egli non farebbe, se oltre al Limitato e all'Illimitato unico non ammettesse molte forme di li- ndtato e d'illimitato. (2) Aristotile (Kth. Nie, l. II. VI. 14) dice : si può essere cattivi in mille forme, ma non si può essere buoni che in un sol modo; e appoggia questa proi>osizione sull'autorità dei Pitagorici, che pone- vano il bone nella classe del finito e il male in quella dell'infinito. .- ( r ' - 161 - finito). Infatti la nerie del Limitato è chiamata la serie (ouoToix^a) del bene e d< 1 btllo (1). Un'altra proposiz'one iir portante dei Pitagorici, sia per il loro stesso sistema, hia per l'intelligenza dei rapporti di esso con quello di Plhtui«e, è che i numeri vengono dall'Uno (2). Questa preposizione è troppo naturale, per- chè occorrano delle spiegazioni: solo bisogna avvertire che Aristotile applica all'Uno (3) la stessa osservazione ch'egli fa sul Limitato e T Illimitato, vale a dire che rUno non significa per i Pitagorici una sostanza che ha per attributo l'unità^ ma è lo stesso attributo unità q\ìq è riguardato da essi come una sostanza. Questa sostan- tificazione dell'uno è ur a conseguenza naturale della so- stantifìcazif ne dei nurreri : ma nel!' uno il carattere di ast* azione realizzata appurisce piùnetto che nei numeri. In questi è, come notammo, alquanto incerto, perchè essi vengono id< nt'ficati con le cose stesse : ma V uno, come prinrip'o ed elemento dei numeri, non può iden- tificarsi con ah una cosa part'colare (4). 0) Arist. Eth, yic. 1. 1. VI. 7, 1. XIV, VI. 7. Cfr. Eth, Nic. l. IL' yi. 14. (2) Arist. Mi't. 1. I. V. 6, 1. XIII. VI. 4-6, 9. (3) Mot, i. I. V. 13, 1. J. VI. 4, l. III. 1. 12, 1. HI. IV. 21-22. 1. X. U. 1. (4) I Pitagori, è vero, assegnano l'ano all'intelligenza, air anima, ecc.: ma il concetto dell'ano ha per loro evidentemente pii esten- sione che le cose particolari ch'essi riconducono a questo numero, e non è in quanto principio ed elemento dei numeri ohe l'uno viene identificato con queste cose. Come nota giustamente il Zel- ler (pag. 353), un concetto generalo, nella filosofia dei Pitagorici, riceve in un caso particolare una determinazione speciale, senza ohe perciò questa determinazione appartenga al concetto generale essenzialmente o in tutti i oasi. Questa realizzazione di astrazioni è il punto di con- tatto più notevole tra il sistema dei Pitagorici e quello di Platone. Ma si deve anche notare un'altra analogia. I principii degli altri filosofi anteriori a Platone sono gli elem« nti materiali di cui le cose sono fatte — Pacqua, l'aria, il fuoco, i quattro eh menti di Empedocle, gli atomi di Democrito, ecc. — o le forze motrici generali della natura — il Nous d'Anassagora, TAmore e 1' Odio di Emf edocle, ecc — : questa o.«servazione si applica an- che agli Eleatì, perchè l'Uno o Essere di questi filosofi non è che la materia universale delle cose, con questa differenza che le formo diverse, rivestite da questa ma- t<»ria, sono dichiarate delle semplici apparenze. I prin- cipii di Platone invece sono le essenze delle cose, i loro concetti generici e specifici (cioè gli oggetti corrispon- denti a questi concetti). Ora i numeri pitagorici corri- spondono anch'essi ai concetti generali delle cose, e rap- presentano le loro essenze. I Pitagorici dicono : la giu- stizia è il numero quattro, il matrimonio è il numero cinque, Topportunità é il numero sette, V opinione è il numero due (1), ecc ; un tal numero è quello dell'uomo, un tal altro quello del cavallo (2), ecc. Aristotile, è vero, liconduce i numeri dei Pitagorici tanto al principio es- senziale (3) quanto al principio materiale (4) : ma ciò vuol dire semplicemente che, a differenza dei numeri ideali di Platone, che rappresentano le sole forme delle (1) Arist. Met. L J. V. 2, 1. 1. Vili. 7, 1. XIII. IV.3, e Aless. Afrod. in Met. ì. t. 32. (2) Arist Met. 1. XIV. V. 6, Teofrasto Mei 11. (3) Met, 1. 1. V. 13, 1. I. VJ. 4, ecc. (4) Met, 1. I. V. 6. - 162 - cose, i numeri pitagorici rappresentano le cose stesse, in entrambe le parli che cr stitu'scono il loro concetto, cioè, per esprimerci nel linguaggio di Platone e d'Aristotile, il composto della forma e della maleria. L'ultima forma della filosofìa platonica risulta da una fusione dei concetti propri del sistema delle Idee coi con- cetti fondamentali del pitagorismo, di cui abbiamo par- lato. Le dottrine p^r cui questa seconda forma del si- stema differisce dalla prima, sono conosciute col nome di «Ypa^a SÓYfiaxa (dottrine non scritte), perchè, quan- tunque alcune si trovino già nel Timeo, nel loro insieme non sono state esposte da Platone che oralmente, nelle sue conf^rf nze sul Bene. Queste dottrine si riducono ai punti seguenti : 1" Le Idee, e per conseguenza le cose, sono numeri. 2<^Le Idee e le cose constano di due elementi, corrispon- denti al Limite e Illimitato dei Pitagorici. ò^ Le Idee rappresentano la sola forma delle cose. Cosi. p(r costituire U c(se, concorre con le Idee un al- tro fattore, la materia: questa è identica allo spazio. 4'» Le entità matematiche, ci^ò i numeri che sono Too-- getto delTaritmetica e le grandezze geometriche, quan- tunque s^ano, come le Idee, drgli universali realizzati, 81 distinguono nondimeno dalle Idee propriamente dette, e costituiscono un t**rzo genere di esseri, differenti al tempo stesso dalle Idee e dalle cose, e intermediari fra le une e le altre. Noi esamineremo successvamcnte queste quattro dot- trine. I. I niitnrri ideali La proposiziono che le Lire, e quindi le cose, sono numeri (1) non ha alcun legame nntu-ale col sistema delle Idee — es^a non p tnbbe dcdursi né dalla realiz- z«izione degli universali né dalla dialetcica, i due punti a cui il sistema ^i riduce—; ed ò d'altronde evidente che Pla- tone non sarebbe arrivato a questa dottrina senza l'in- flueaza della filosofia pitagorica. La teoria delle Idee — numeri ci apparisce dunque chiaramente come il risul- tato di un sincretismo tra la teoria propriamente pla- tonica delle Idee e quella pitagorica dei numeri. Ciò è confermato dalla testimonianza d' Aristotile. Questi comincia V esposizione doli i filosofìa platonica, osser- vando che in molte cose Platone ni un seguace dei Pitagorici, ma ne ebbo anche alcune che gli furono pro- prie; e poi, facendo la dis-inzione tra ciò che è proprio a Platone e ciò ch'egli deve ai Pitagorici, la parte che gli attribuisce come propria nella dottrina dei numeri è l'aver posto questi al di là delle cose (Trapàxà ataeyjxa), mentre i numeri pitagorici erano le cose stesse (2). Que- sta differenza significa che per i Pitagorici i numeri s'identificano immediatamente con le cose particolari, per Platone invece sono delle entità universali, che non s'identificano immediatamente che con le Idee, e con le cose solo mediatamente, in quanto l'essenza dì queste consiste nelle Idee. Aristotile ci attesta inoltre ch3 nella forma primitiva del sistema platonico la dottrina delle Idee non era le- gata a quella dei numeri, e che la identificazione delle (1) V. per questa dottrina Arist. Mei. 1. I. VI, l. I. VIU. I7-I8, 1. I. IX. I3 sqq. 1. XIII. VI-IX, «ce. (2) Met. 1. I. VI. 4. — 163 ^ Idee coi numeri avvenne in un perfodo posteriore. (1) Ciò risulta anche, indipendentemente dalla tfstimrnianza di Aristotile, dair esame delle Fcritlure platonkhe. Se hi eccettui 1' Epinomide (che del resto è di un' autenticità incerta) e il Timeo, nel quale la costiuzione dei corpi per le superficie (2) suppone certamente la dottrina che il reale consiste rei nume/i, non vi ha negli scritti pla- tonici alcuna traccia di questa de ttrina. Vi hanno anzi dei luoghi, in vari dialoghi, che escludono l'identità tra le Idee e i numeri. In tutti i casi in cui è quistione di numeri come entità (tranne néW Epinomide), come nella Repuhlica 522-526, nel Fedone 101 e 104-105, nel FlUhy 56-57, nel Parmenide 143-144, Platone non intende per essi che le determinazioni particolari che costituiscono l'oggetto dell'aritmetica, e non la sostanza stessa delle cose, com'e- gli farebbe se ammettesse già la teoria delle Idee — nu- meri. Aggiungiamo che in parecchi dei luoghi indicati b. attribuita ai numeri la comhinabilUà, cioè si fanno con- stare tutti da unità della stessa natura (3), mentre, conio diremo in seguito, il carattere dei numeri — Idee — vale a dire dei numeri con cui tutte le Idee sono identifi- cate—è V incombinabilità, cioè la composizione di ciascun numero da unità che non sono della stessa natura che quelle di un altro. Né potrebbe dirsi che i numeri di cui è quistione in questi luoghi sono quelli che nell'e- sposizione aristotelica vengono distinti dai numeri— Idee col nome di numeri matematici, e dati come interme- diari fra essi e i sensìbili ; e che l' autore, oltre questi numeri, potrebbe anche ammftt^re un altro genere di numeri (gì' ideali), rappresentanti, non H semplici de terminazioni aritmetiche*, ma l'essenzi stns^a delle cos^: è evidente infatti che egli lìon conosce altri numeriche quelli di cui parla. Ciò rinulta anzitutto da l'impiago in tutti questi luoghi del nome numero e di q lelli che de- signano i diversi numeri, come esprimenti, il primo la specie in generale, i secon li la specie riguardata come entità individuale alla maniera di Platone. Se l'autore ammettesse già due numeri, l'ideale e il matematico, l'e- spressiono generica il numero non potrebbe significare per lui il solo numero matematico; impiegata per deno- tare una sola delle due specie del numero, essa designe-rebbe piuttosto l'ideale, perchè i numeri ideali erano ri- guardati come r essenza tanto dei numeri matematici quanto dei sensibili, e il nome secondo Platone é pro- prio dell'essenza : similmente l'Unità, la Diade o la Triade non potrebbero significare che l'Unità, la Diade e la Triade ideali, tanto per la stessa ragione, quanto perchè dei numeri matematici — dopo la loro distinzione dagli ideali — ve ne erano molti della stessa specie (si ammet- tevano molte unità, diadi, triadi, ecc. matematiche) (1). Di più : nei luoghi del Fedone i numeri di cui vi si parla sono chiamati Idee, e posti alio stesso rango delle altre Idee — mentre s^ l'autore ammettesse inoltre i nu- meri ideali, ai numeri matematici, cioè rappresentanti le semplici determinazioni aritmetiche degli esseri, non assegnerebbe che la qualità d'intermediari tra le Idee e lecose—. In quello della Repubblica questi stessi numeri che rappresentano 1 soli attributi aritmetici sono chiamati l'essenza (oOoia) e la natura (cpóai;) dei numeri; ricevono, (I) Mei, 1. xiir. IV. 1. (%) V. questo Supplem. n. II. H. (3) V. FiUbo 56 d-e, Rep, 526 a, Parm, I43 e. (1) V. num. III. — 464 — per determinare di quali numeri si tratta, V attributo aùxó;, che, come sappiamo, si^mifica l'Idea, e che Ari- stotile, nelle sue allusioni «Ile dottrine platoniche, im- piega per indicare che il nome a cui si riferisce denota, non le cose né le entità intermediarie, ma la loro Idea (1); -e vengono opposti ai numeri sensibili in un modo che esclude la possibilità di una terza specie di numeri (2) In quello del Filebo infine si distinguono dne sole scienze sui numeri, quella del volgare, che addiziona unità di natura differente, e quella del filosofo, che non ammetto che unità tutte della stessa natura (il numero mate- matico); non vi ha luogo per una terza scienza, che am- mette, come quella del volgare, unità che non sono della stessa natura, ma senza addizionarle (il numero ideale). Aristotile fa menzione di cinque caratteri che distin- guono i numeri ideali, s*a dai numeri matematici sia dai numeri dei Pitagorici : 1« I numeri di Platone sono xwptaioi dalle cose, men- tre i numeri dei Pitagorici sono le cos« stesse (3). 20 I numeri di Platone sono monadici, vale a diro costituiti di vere naità, semplcì e incorporea, meatrc i numeri dei Pitagorici hanno grandezza (4). 3° Dei numeri matematici ve ne hanno m)lti d.jlla stesm specie (vi hanno molte uiità, diadi, triad-', ecc. matematiche), ma dei numeri ideali ciascuno è uno solo (1) V. Af^i, 1. I. IX. 5, 1. I. IX. 16, 1. llr. II. 17-19, 1. XI. 1. 7, ecc.(2) A. 525 d: i numeri stessi, non i numeri aventi corpi visibili e palpabili; a 526 a : quei numeri ch« possono pensarsi, ma non mai toc- carsi altrimenti. (3) Pàys, I. 111. IV. 2, Mei. 1. Xlll. VI. 6-7, I. Xlll. Vili. 9, l XIV 111. 2, ecc. . ^ V.(4) Mei. I. Xlll. Vi. 7, 9. <vi ha una sola unità, diade, triade, ecc. ideale) (1). 4^ I numeri matematici sono combinabili, cioè com- posti di unità omogenee, e quindi capaci di addizionarsi fra di loro, ma i numeri ideali sono incombinabili, cioè le unità che compongono uno dì questi numeri non sono omogenee con quelle che ne compongono un altro, e non possono, per conseguenza, addizionarsi con esse (2). 5^ I numeri ideali hanno fra di loro anteriorità e po- steriorità-, i numeri matematici no (3). Di questi caratteri il P non ha bisogno di ulteriori spiegazioni : esso vuol dire semplicemente che 1 numeri di Platone sono degli universali realizzati, al contrario di quelli dei I^itagoricì, che sono le cose stesse partico- lari. Il 2<^ ò legato alla dottrina che le Idee rap- presentano la sola forma delle cose (senza la materia), e il 3"' e il 4<^ a quella che le entità matematiche si di- stinguono dalle Idee e sono intermediarie tra di esse e le co3e : per conseguenza noi potrem-) occupircei3 che quando parleremo di queste due dottrine. Per ora ci oc- cuperemo solamente del 5®, cioè à}\V anteriorità e p Mi- riorità dei numeri ideali. Quest' anteriorità e posteriorità consiste in ciò, che i numeri ideali si generano progressivamente gli uni dagli altri. Per fare questa generazione, Platone riguarda (1) Mei. 1. 1. vi 3, 1. 1. IX. 5, 1. 111. vi. 1, ecc. {2) Mei. Xlll. VI. 6-8. (?) Mei. 1. I. Xlll. VI. 6. 1^'anterioritÀ e posteriorità non è propria esclusivamente dei numeri ideali che nel senso che spieghiamo in seguito, e che è quello ordinario e tecnico che (jaesti t<irmini hanno nella filosofia platonica. L'aateriorità o posteriorità di cui in Mei. l. 111. III. 11, Eth, Nic. 1. I. VI, 2 ei Edi. Eud, 1. 1. Vili. 9-10, è tutt'altracosuV. qiiesto Sappi. n. III); e in quest'al- tro senso essa conviene certatnante anche ai numeri matematici. — 165 - ciascuQ numero come una combinazione particolare del- rUno e della Dualità indefinita — è con questi nomi che vengono designati i due elementi delle Idee e delle cose, al punto di vista della dottrina dei numeri — Il numero Due nasce dalla moltiplicazione dell'Uno per la Dualità indefinita, e il numero Tre dall'aggiunzioGe dell'Uno al prodotto dell'Uno per la Dualità indefinita; il numero Quattro dalla moltiplicazione del Due per la Dualità in- definita, e il numero Cinque dall' aggiunzione dell' Uno al prodotto del Due per la Dualità indefinita; e co^l di seguito, sempre con questa regola : che il numero pari nasce dal numero equivalente alla sua metà moltiplicato por la Dualità indefinita, e il numero impari dall' ag- giunzione dell'Uno al prodotto del numero, equivalente alla metà del numero pari immediatamente inferiore, per la Dualità indefinita. Ogni numero dunque — cioè, se il numero ideale è finito, ogni numero, tranne quelli che sono generati gli ultimi— ne produce altri due : uno pari, che nasce dal suo raddoppiamento, e uno dispari, che nasce dal suo raddoppiamento e dall'aggiunzione dell'u- nità (1). Il numero che produce è detto anteriore, e i nu- meri che sono prodotti, posteriori. (2). Nella formazione dei numeri posteriori dal numero anteriore, concorrono con esso l'Uno e la Dualità indefinita : ma questi non Sono qualche cosa di esteriore che viene ad aggimngérsi a questo numero, ma Fono gli elementi stessi di questo nu- mero, sicché in realtà i numeri posteriori non vengono prodotti che dal numero anteriore. La Dualità indefinita è chiamata bisectiva, perche si suppone che, nella for- mazione dei numeri, essa raddoppia le unità del numero anteriore, dividendo in due ciascuna dì queste unità (1): ciò è per mostrare che le unità che costituiscono i numeri posteriori non vengono d'altronde che dal numero ante- riore. Per rendere conto dell' unità soverchia dei numeri dispari si dice che in questi numeri V unità media è lo stesso Uno in sé (2). Qual è era il significato di questa generazione suc- cessiva dei numeri ideali ? Noi sappiamo che 1' anterio- rità e posteriorità delle Idee; è il movimento dialettico per cui le conseguenze si sviluppano dai principi!, cioè —il rapporto tra il principio e la conseguenza essendo iden- tificato a quella tra la causa e 1' eifetto —gli effetti dalle cause ; e che l'idea anteriore è il Genere, e le Idee po- steriori le Specie m cui esso si divide. Ora l'anteriorità e posteriorità dei numeri non può essere altra cosa che r anteriorità e posteriorità delle Idee corrispondenti a questi numeri. I rapporti di filiazione tra i numeri (1) Vedi per questa formazione dei numeri ideali Ari^^t, Afet. 1. XIII. VII. 4, 10-11, 16, 19-20, 1. XIII. Vili. 12-13, 16, eoo. (2) Platone non riguarda un numero impari corno posteriore al numero pari immadiat amente inferiore, ma considera i due numeri oome nati simultanea mente dal numero equivalente alla metà del pari ; p. e. il Due e il Tre nascono simultaneamente dall' Uno, il Quattro e il Cinque dal Due, eoo. Cosi tanto le unità ohe oompon gono il Due quanto quelle che compongono il Tre vengono riguar- date oome immediatamente consecutive all'Uno in sé (.Het. l. XIII IX. 1 — al contrario di quelle ohe compongono gli altri numeri, le quali non gli succedono che mediatamente)] e Aristotile rimpro- vera a Platone di far produrre a un numero, da una stessa ma- teria (cioè dalla Dualità indefinita), più numeri, facendolo gene- rare una volta sola, mentre in tutti gli oggetti che si producono, la materia dell' uno non può mai essere la stessa che quella di un altro, e chi introduce nella materia 1' bIòoq deve agire tante volte quanti sono gli oggetti prodotti (Met. 1. I. VI. 6). (1) Alex. Aphrod. ad Arist, Mat. 1. I. VI. 5. (t. 43). (2) Arist. Met, 1. XIII. Vili. 13. — 166 ^ rappresentano dunque i rapporti di filiazione tra le Idee secondo il loro nesso dialettico. Questa corrispondenza tra la formazione progressiva dei numeri e lo sviluppo dia- lettico delle Idee si vedrà subito, gettando uno sguardo sulla tavola seguente, che noi possiamo chiamare l'al- bero genealogico dei numeri : • 1 2. 3, 4. 5. Vr- 6. 7. «. 9. 10. 11. 12. 13. 14. 15. La serie naturale dei numeri, coììì disposti secondo i loro rapporti di filiazione, rappresenta 1' ordine con cui le Idee corrispondenti si seguirebbero, se si fajcrse una divis-one completa, procedendo dal Genere supremo {VEn- sere o il Bene) alle Specie infime per tutti i Generi in- termediari. La produzioie d»i numeri inferiori dal nu- mero superiore rappresenta la produzione delle Idee par- ticolari dairidea generale : il numero anteriore ha sotto di se due numeri posteriori, p3rchè la divisione plato- nica è una dicotomia (1). (1) Non bisogna credere però che Platone, oell'assegnaro i nu- meri aUeldee, si tenga scrupolosamente ai concetti su cui ò fondata la dottrina deUa generazione progressiva dai numeri. Egli fa tal- volta rappresentare a dei numeri che sono fra di loro ne7 rapporto di anteriorità e posteriorità, delle Idee che non sono fra di loro nel rapporto di genere e specie. Cosi egli assegna all' intelligenza Il numero uno, alla scienza il num3ro due, all'opinione il numero tre e alla sensazione il numero quattro (Arist. De an. 1. I II Te Met. 1. XIV. III. 9. Cfr. Ps. Alex, tu Met. XIL IX.). Naturalmente ciascuno di questi numeri riceve diversi impieghi (e in effetti noi In questa formazione dei numeri è accolto il concetto pitagorico che i numeri procedono dalTuno. Come os- s rva Aristotile, l'altro elemento (V Infinito dei Pitago- lici) tu ricondotto a una dualità, per rendere possibile questa generazione progressiva dei numeri, senza di cui la fusione tra il sistema dei numeri e il sistema delle Idee non sarebbe stata completa, poiché la dialettica, altrettanto importante per questo sistema che la realiz- zazione degli universali, non sarebbe stata rappresentata. « Fece (Platone) dell'altra natura una diade, affinchè i numeri, dai primi in fuori, se ne generassero, come da sappiamo che il due è anche il numero della linea, il tre della su- perficie, il quattro del solido— 7V an. e 3fet. 1. c.-e, secondo Xenocrate, l'uno della linea indivisibile— v. n.V.— L'uno rappresenta anchel' Idea più universale,cioè l'Essere o il Bene, che è (luellaehe gli compete con- formemente alla regola che la filiazione dei numeri corrisponde al nesso dialettico delle Idee; e cosi il due, il tre e il quattro devono anche rappresentare delle Idee subordinate a quelle rappresentate dai numeri anteriori e superordinate a quelle rappresentate dai numeri posteriori. Neil' applicazione della dottrina dei numeri, Platone non può evitare lo stesso inconveniente che era accaduto ai Pitagorici (v. Ari6l. MH, 1. I. V. U, 1, I. VITI. 17, 1. VII. XI. 5, 1. XIV. VI. .S), cioè di assegnare a uno stesso numero dei con- cetti affatto differenti: e in eftetto, per quanto quest'attribuzione di un dato numero a un dato concetto fosse arbitraria, essa doveva essere pure fondata su <iualche analogia, e accadeva facilmente che in concetti differenti si trovasse un'analogia con uno stesso numero. Questa pluralità di significati data a uno stesso numero, oltre alla identificazione di coso differenti, portava necessariamente nel sistema [datonico l'altra inconseguenza che la filiazione dei nume- ri non corrispondeva esattamente alla filiazione delle Idee: per l'e- sattezza di questa corrispondenza, sarebbe stato necessario che cia- scun numero rappresentasse una sola Idea, quella che nell'albero genealogico delle Idee occupava lo stesso posto che il numero nel- l'albero genealogico dei numeri. — 167 - un'effigie, comodamente » (1). Per i numeri primi di cui parla qui Aristotile, bisogna intendere, conformemente airinterpret^zione d'Alessandro d'Afrodisia,! numeri di- spari—;>Wwe vuol dire: primi con due—; e il senso dello parale dai primi in fuori è che i numeri dispari non si generano, per mezzo della Dualità indefinita, così comodomente come i numeri pari (2). II. I due elementi I due elementi ^ono chiamati il Fine (Tiépag) e V In- filato (àTisipov) come quelli dei Pitagorici (3j, e identi- ficati, come questi, coi Dispari e il Pari (4). Per questa rome (cr altre circostanze di cui diremo in seguito, la dotti ina platonica mostra un rapporto evidente di pa- leutela con quella d<i Pitagorici : ma essa presenta pure delle differenze eFsenzialt corrispondenti al punto di vista proprio del sistema delle Idee. Anzitutto i due elementi di Platone sono dei predicati generali comuni a tutti gli esseri (5) : in effetto essi si trovano presenti in tutti gli esseri, e secondo il sistema delle Idee la presenza di una entità in molte cos'^ è la partecipazione in comune di queste cose all'attributo corrispondente all'entità. A que- (j) Arkt. Met. 1. I. VI. 5. (2) Cfr. Mct. l. XIII. Vili. 13 e l. XIV. III. 13. (3) Arisi. Met, 1. IV. II. 14 (cfr. il comm. di Aless. Afrod), Phys. I. III. IV. 2-3, 1. III. V. 1-3, Simpl. aMAris^P;<i/s.fol. in,Aristoss. Harmonic, eìam, l. II. sul princ, eoo. (4) Noi sappiamo almeno che quest'identificazione era fatta da Senocrate. V. Stob. Fxl. P/sys, U I. II. 29 e Arist. Mctaph. 1. XIII. Vili. 21 (per il riforimonto del secondo di questi due luoghi a Se- nocrate cfr. ciò che diremo di lai al num. V.). (5) V Supplem. B, num. VII, B. . sta particolarità, che ha la sua ragione nella dottrina dc'le Idee, se ne può aggiungere un'altra, che ha la sua ragione nella dialettica, ed è che, ch^'airando le due en- tità elementi, Platone non vuol dire solamente che sono gli elementi costitutivi di tutti gli esseri, ma ancora, per quest'identificazione costante del logico e dell'ontologico su cui è fondata la sua metafisica, che sono gli elementi costitutivi della conoscenza di tutti gli cs^'eri, vale a dire i principii da cui questa conoscenza si deduce (1). Ma la particolarità più caratteristica della dottrina di Platone è che i due elementi sono riguardati, l'uno come la forma o la specie (slSog) di tutte le Idee e di tutte le cose, e l'altro come la loro materia (2). (oxotxsta). Come osservammo altra volta (3), il concetto di ma- teria ha in Platone due applicazioni essenzialmente dif- ferenti : da una parte le Idee sono le forme delle cose, e per costituire le cosp, si aggiunge a queste forme una materia (lo spazio) ; dall' altra parte queste forme che sono Id Idre vengono da due elementi, una /orma e una materia. Cosi quest'ultima materia che si trova nelle Idee si trova naturalmente anche nelle cose, perchè le Idee non sono che nelle cose; ma la prima, cioè lo spazio, è fuori delle Idee,, ed è propria solamente delle cose. L'una di queste materie è evidentemente distinta dall'altra: tut- tavia, per una di quelle incongruenze di cui è piena que- sta dottrina dei due elementi, Platone non parla di due matere, ma di una sola — l'Infinito, il Grande e Piccolo, 0) V. Mi't, 1. I. IX. 27-30. Cfr. Met. 1. V. IH. 3 e 1. III. III. 1, in cui si trovji la siùt^gaziono di quest'uso della parola olomenti . (2) Cfr Supplem. B. VII. B. (3) Supplem. B. num. VIII. - <68 - il Non essere, ecc. significaDo tanto la materia comnuo alle Idee e alle cose quanto la materia proprie delle cose— riconducendo, sf condo il metodo incoerente dei Pita- gorici, a uca stfssa entità dei concetti assolutamente distinti. L'elemento formale non è altra cosa che V Idea del Bene (1). Cosi la modificazione, che la dottrina dei due elementi apporta nella forma primitiva del sistema, con- sista? nell'introduzirne di questa nuova entità, che con un temine che, per quanto concerne il rapporto dì que- st'entità con le Idee, non potrebbe intendersi che in un significato analogico, è chiamata materia, perchè Platone riguarda ancora l'Idea del bene come il genere supremo di cui tutte le altre Idee sono le specie, e per conse- guenza dei due elementi non considera come slSog che quello corrispondente a quest'Idea, e si rappresenta la relazione di quest'elemcDlo con l'altro come analoga a qriella della forma con la materia. Platone dà ai due elementi diversi nomi, corrispon- denti ai diversi punti di vista della dottrina. L'elemento formale, oltre che il Tiépa^ e il Bene, è chiamato anche l'Es.^ere (2), perchè è l'Idea generale di tutti gli esseri, e, al punto di vista deila teoria dei numeri, l'Uno (3;, perchè è i! principio da cui derivano le Idee- numeri, e i numeri, secondo i Pitagorici, derivano dall' utio. Per giustificare la riduzione dell'elemento formale all'Uno, si dice che ciascuna cosa, in quanto è, è una— la d'ssoluzione in molti ne è la morte—, e la sua fralvezza consiste nella persistenza in una stessa (1) V. Supplom. H. num. VII. H o Cap. VII paragr. 13. (2) V. Arisi. Mei. I. I. VII. 5, 1. IH. III.5, I. XIV. II. 4-12, occ. (3) V. Mct, 1. I. VI. 3-7. forma, e perciò l'Uno è causa alle cosedeiresseree del- l'esser bene (1). Di quest'identificazioue dell'Idea supre- ma con rUno ha potuto anche darsi un' altra ragione, cioè che quest'Idea è l'uno —tatto, vale a dire è il punto di partenza dell'evoluzione dell'essere, in cui il tutto esi- ste come uno (2). L'Ono è riguardato come elemento dei numeri a un doppio punto di vista, cioè tanto perchè ciascun numero è un tutto unico — ciò che è conforme alla funzione di elfio^ che viene assegnata all' Uno —, quanto perchè i numeri sono composti di unità— ciò chb dà occasione al rimprovero d'Aristotile che l'Uno funge anche da materia. —(3). L'Infinito, al punto di vista della dottrina dei numeri,è chiamato la Dualità indefinita (8uag àóptoxoc) (4), per rendere possibile la formazione progressiva dei numeri di cui abbiamo parlato (5); e il Grande e Piccolo, per mostrare che esso è una dualità, e stabilire cosi un passaggio dal concetto d'infinito a quello di dualità indefinita (6). Per giustificare questa riduzione dell' Infinito al Grande e Piccolo, si dice che l' infinito si trova tanto nella gran- dezza quanto nella piccolezza, perchè la quantità pro- ci) V. Alex. Aphr. ad Mei. 1. I. IX. 24. (2) Cfr. MeU 1. :. IX. 24. (3) Arist. Met, 1. Xlll. Vili. 25-28, Alex. Aphr. ap. Simpl. ad Phys,Ibi. 104. (4) Arist. Met. 1. Xlll. VII. 3, 4, H, I3, 16, 25, IX. 7, 1. XIV. 1. 9, 11. 3, 9, 111. 12, Al. Aphr. ad Mei. /. /. VI. 5, Simpl. ai Phys. fol.-Si. fot. 104, ecc. (5) La riduzione delllllimitato alla Dualità indefinita sì deduceva per altro naturalmente dalla sua identità, nella dottrina pitagorica, col Pari, n Pari infatti, come concetto generale, è in certo modo una dualità in- determinata; vale a dire una dualità alle cui unità non si attribuisce un valore determinato, potendo essere dei numeri qualunque. (6) Arist. Met. I. I. VI. 3-7. — 169 — ■^ cede airinfinito tanto nelT aumento quanto nella dimi- nuzione (l). Naturalmente il Grande e Piccolo non pos- sono essere considerati come elemento se non in quanto 8i riguardano come predicati attribuiti a tutti gli esperi: tuttavia, quantunque la grandezza e la piccolezza che si attribuiscono alle cose particolari s^ano necessaria- mente una grandezza e una piccolezza finite, Platone riguarda il grande e il piccolo in sé stessi come infiniti, perchè non vi ha alcun limite ne nei gradi della gran- dezza né in quelli della piccolezza. Per indicare il Grande e Piccolo nella sua funzione speciale di elemento dei numeri — poiché il Grande e Piccolo é una decomina- zione generica che designa tanto V demento materiale dei numeri quanto quello delle grandezze (v. n. IH) — 8'impìega la denominazione più particolare di Molto e Poco (2). Sul Molto e Poco vale naturalmente la stessa osservazione ?he abbiamo fatta sul Grande e Piccolo; vale a dire essi non sono che dei predicati generali dei numeri, ma quantunque il molto e il poco che sodo nei numeri siano necessariamente finiti, pure Platone riguarda il molto e il poco in se stessi comeinfini imperché tanto l'uno quanto Taltro progrediscono airinfinito. Per indicare che ai tratta, non di due entità, ma di una sola, il Grande e Piccolo è chiamato l'Ineguale (3): infatti l'ineguagliar.za consiste nel più e nel meno, e il grande e il piccolo sono delle nozioni comparative, una cosa dicendosi grande 0 piccola in quanto é maggiore o minore di un'altra. (1) Arist. Phys 1. IH. VI. 6, Alex. Aphr. ap. Simpl. ad Phys. fol. I04. (a) Arist. Mei. 1. I. |X. 19, 1. XIV. 1. 4, 9, 13-14, 11. 11. Alex. Aphr. ad MeU 1. I. VI. st (3) Arist. MeU 1. III. IV. 30. 1. X. V. 1. 4, 1. Xll. X.3, 1. XIV. 1. 3, 9. 11. 3, lo, 11, IV. 1, 6, V. 4. 5, Alex. Aphr. art MeL 1. 1.VI. 5, ecc. Uno dei punti fondamentali della dottrina è che i due elementi sono contrari (1), e Telemenlo materiale rappre- senta al tempo stesso la materia e la steresi (cioè la privazione dell' slSog) (2). Per indicare la seconda fun- zione, quest'elemento è chiamato il Non essere (3); e in generale a un nome impiegato per designare T uno de- gli elementi corriponde il suo contrario come designa- zione dell' altro elemento. Cosi, T elemento mat'^riale essendo chiamato T Ineguale, T elemento formale ri- ceve il nome di Eguale (4). Secondo questo principio, all'uno, nome dell'elemento formale, dovrebbe corri- spondere, come nome dell' elemento materiale, il mul- tiplo', tuttavia Platone oppone all'Uno il Grande e Pic- colo (5) e non il Multiplo, ma considera il Grande e Pic- colo come equi valente al Multiplo (6). In effetto il Grande e Piccolo, come elemento dei numeri, cioè delle Idee, è il Molto e Poco ; e il Molto e Poco non è che V espres- sione del concetto della moltiplicità sotto una forma che (1) Met, 1. IV. 11. 14, I. Xll. X. 2-3. 1. XIV. 1. I-3. 6, IV. 6-8, ecc. (2) Arist. Phys, 1. 1. IX. 1 3, 1. IH. 11. 1-2, Met. 1. XI. IX. 6-7. (3) Met, 1. XIV. 11. 4-I4, Phys, 1. 1. IX. 1-3, Phys.X, IH. H. i-2, ecc. (4) V. Arist. Met, 1. Xll. X. 3, 1. XIV. 1. 3, Alex. Aphr. ad Met, 1. I. VI. '5. (5) ;»/«/. I. I. VI. 4-7, 1. XIV. 1. 3-6, 1. XIV. H. IO (cfr. 1. XIV. I. lo), I. XIV. IV. 5-6, ecc. (6) Arist. Met, 1. XIV. I. 3: i platonici oppongono all' uno T ine- guale, riguardando questo come la natura della moltiplicità.— L* equiva- lenza'tra ilGrande e Piccolo e il Multiplo risulta anche dalla dottrina che la Dualità indefinita è la causa della moltiplicità degli esseri (v. A- rist. Met, I. XHl. Vili. 3, l. XIV. ll.)-perchè secondo il sistema delle Idee la causa di un attributo delle cose è la partecipazione all'entità corri- s ondente a quest'attributo —, e dalla proposizione che il numero parte- cipa all'Uno in quanto è alcun che di unico, e alla Dualità indefinita in quanto è una moltitudine (v. Alex. Aphr. ap. Simpl. ad Phyz, fol. lo4). — 170 — -=r- 4.r . I /■ fi il Diverso n lo n- Tf ' '*"«*<'t''e indica più volte Ln/ . -^ Diversità come denominazione dell'ele- mento materiale (1). Evidentememe l'elemento formale è ricondotto al concetto dello stesso, perchè i^ bone^olsl tat;trmr""'\"^"'^ P«'-"-- dell'^sseTn 'o a„u 4., P'uraiita di mozzi verso uno st«sso l'i- saltato (come si vede neffli esseri nro.««{, .• l IVo^mnU «;,\ • " organizzati che sono sultare d/ .'T*'** '^'"* «nitalità). Sembra anche ri- mate ia fé e«h """'"' '''^"'^'"'' (2) che l'elemento opTottV^^rc;'^^:^^^^^^^^ - '— « «.teresTin*,."""'?"' ^ ^"°^'«"' ^' ™»««"a e di P^n bulorn '*' ' ««'••'^°'«''*« «""lei lati aner»H .1?''*'"''°°* dello Stesso e del Diverso o di runl dt • ' :"'' ''"'"P^^- «' P°* comprendere come uno degli opposti sia riguardato come la materia e ra' r^J^TÌÌ '""'"* ' '•«•» ««««"dovi unità «.nza moltiphcità né identità senza diversità noi Ile dirp • il «»,.7/v7 1 u'versita, noi possiamo dando la moltiplicità e Ja diversità come il so^i^^etto del- 1 umtà e deindentità. Ma come il Non essere or ll fere e 1?.^!' ''''''^'''''' -™- ^« '-teria. di cui l'Es- essere, 1 Ineguale (dcvcaov), ecc. deve significare per Pia- (1) Phys. 1. 111. 11. 1, M^i^,. XI. IX. 6, 1. XIV. I. 6. (2) Ap. Sinipl. ad Arùt. Phys. fol. 98 b. tone, non il contrario dell'Essere, delFEguale, ecc., ma ciò che non è V Essere né partecipa, considerato in se stesso, air Essere, ciò che non è V Eguale né par- tecipa, in se stesso, air Eguale, ecc. In altri termini, Fc dallo cose si sopprime per il pensiero rid-a deir es- sere, deiregu«le, ecc., ciò che resterà, considerato nel suo concetto generale, si chiamerà Non essere, Inegua- le, ecc., e si riguarderà comft il sustrato a cui Tldea delTe^sere, deiregualo, ecc. inerisce come una forma (l). CIÒ non esclude però che il Non essere significhi anche, a un altro punto di vista, il contra-io dell'Essere, Tlne- guale il contrario deirp:guale, ecc : in eflVjtto Telemento materiale non funge solamente da materia, ma anche da stcresi.Il rapporto di contrarietà stabilito tra i dueelem* nti spiega perché, nel periodo pitagoreggìante, Platone prefe- risca, per designare Tldea supn ma, la denominazione di uno 0 essere a quella di bene : è che, chiamando l'elemento formale il Bene, T elemento materiale dovrebbe essere chiamato il Male; ma il Male non potrebbe afiPatto ri- guardarsi come la materia degli e-seri (2). L'incompatibilità delle due funzioni ass^^gnate all'ele- mento materiale c'indica chiaramente che la dottrina dei (1) Questa supposizione é confermata dall'argomento con cui Platon^ prova l'esistenza del Non essere, cioè che se non esistesse il Non essere, tutti gli esseri si ridurrebbero a un solo, l'Essere (Met. ì. XIV. 11. 4). Infatti il senso di quest'argomento e che, se negli esseri non vi fossero, insieme all'attributo essere, delle detenninaxioni distinte da quest'attri- buto, non esisterebbe che V attributo essere; sicché la moltiplicità degli esseri e resa possibile dall'esistenpa nelle cose di determinazioni distinte dair attributo essere. Queste determinazioni distinte dall' K-sere che si trovano negli esseri, guardate in astratto, cioè nel loro concetto generale, sì òhiamano Non essere. Anche nel Sofista (25Gd-239b) Platone dice che il Non essere non è il cjntrario dell' Essere, ma semplicemente ciò che è altro che l'Essere. (2> Cfr. Arist. Mei, 1. XIV. IV. 4-8. — 171 — -Nf- -H- due elementi è un concetto straniero, clie fiatone si sforza di adattare alla meglio ai concetti propri del suo siste- ma. La contrarietà dei due elementi è data a Platone dalla dottrina dei Pitagorici. La riduzione dei due ele- menti air elSog e alla materia ha per oggetto di conci- liare il dualismo della nuova dottrina con le esigenze della dialettica, cioè della dieresi. Questa suppone, al vertice della piramide ideale, un'Idea unica come genere supremo di tutte le Idee : la nuova dottrina invece am- mette, non uno, ma due universali supremi. Per conci- liare questi due punti di vista, Platone non riconosce il carattere di genere sommo di tutti gli esseri che all'uno dei due universali supremi ; per conseguenza, siccome egli ammette già, nel nuovo assetto che dà al suo si- stema, che le cose sono composte di sUo; e di materia, e che il conceìto generale delle cose è rappresentato dal- relSog, cosi trasporta dalle cos*^ alle Idee stesse questa distin- zione di dòoz e di materia, e riconduce V elemento che deve fungere da genere alTelSo^, e l'altro alla materia. Questa identificazione dei due elementi dei Pitagorici con TelSo^ e la materia è d'altronde suggerita dai nomi stessi con cui vengono designati. Se si prende la parola sISoc nel srnso meno astratto, cioè come indicante la forma visibile degli oggetti materiali, Tiépa? (termine) ed sUog sono pressoché equivalenti. Come per un'estensione del loro significato più concreto la parola slSog e il suo sinonimo jiopcpi^ acquistarono il senso lato che esse hanno nella filosofia di Platone e d' Aristotile, cosi un'estensione analoga poteva essere data alla parola Tiépa^, in modo che i significati filosofici di questi termini ve- nissero a coincidere. Quando l'elSog di cui si tratta non è più la forma visibile degli oggetti, la parola népa^, impiegata come sinonimo di sISo^, riceve certamente un significato assai lontano dall'originario : tuttavia, Ttldoc essendo ciò che definisce o determina gli esseri, V ana- logia tra il concetto di definizione o determinazione e quello di fine o termine bastava per giustificare il pas- saggio al nuovo significato. Cosi tiépag veniva a signi- ficare, ìq un scaso generico, l'eiSog in generale ; in un sen^o sp.^ciale, 1' el5og comune di tutti gli ess^^ri; e ciò, non solo p^r una specializzazione convenzionale del ter- mine, ma anche porche se uépag, nome comune, significa forma, il Tiépa;, none proprio d' un' entità unica, deve significare la forma nel suo concetto generale, cioè il j.ene e di tutte le forme, 1' elSo; dogli elSr]. Il termine Tiépa^ voltando dire la form^^ il termine àiisipov vorrà di) e, e ò che è senza forma, cioè la materia (1). Aggiungiamo che l'ideotìficaz'one del Tiépag con l'sldoc comune di tutti gli esseri, vale a dire con 1' Idea del bene, corrisponde anche a un altro significato di cui il termine nipcLQ è suscettibile, quello di Jine o scopo. Ciò che è stato dett^ trova la sua conferma in Ari- stotile. Egli (in Met. 1. V. XVII) assegna al termine Tiépag questi significati : la forma della grandezza o dell' og- getto aveiite grandezza; il fine o o^ Svaxa (la causa fi- (j) Con questo senso qualitalivo de! termine ^TlStpOV coesiste però il senso guanlilafivo, come si vede nella riduzione dell' aitsipov al Gran- de e Piccolo. Il termine ha anche altre applicazioni, più conformi al suo significato vol«;are, quello di grandezza superiore a qualsiasi grandezza finita : è ciò che avviene, qn-indo esso designa la materia delle cose, vale a dire lo spazio (v. B.), o quando si afferma che i sensibili sono infiniti per la materia, cioè per laTlsipOV (v. Arist. ap Simpl. in Artsl. Phys^ fol.in —Porfirio, ap; Simpl.PA.VJ. fol. loi, indica un'altra applicazione dello àueipov in un senso quantitativo, e oè che la divisibilità airmtìnito della grandezza dimostra che in ogni grandezza è racchiusa una certa natura d'infinito). — 17X — Bftlej ; r essenza (la causa formale). Nataralmente Ari- stotile trova questi significati nel linguaggio filosofico deirepoca, e, tra i suoi predecessori, noi non possiamo attribuire i concetti, che essi suppongono, che a Platone e ai platonici. Lo stesso Aristotile dalla sua parte iden- tifica talvolta il Tcipac con VAòo^ (1) e V&ntipoy con la ma- teria (2), e chiama anche Tcépa^ la caasa finale (Mei. 1. III. IV. 5, luogo in cui sembra alludere a un ragionamento dei platonici). La dottrina platonica dei due elementi, malgrado lo espediente a cui si ricorre, di non riguardare come slòo<; che un solo dei due universali supremi, resta sempre evidentemente in contraddizione coi principii della dia- lettica (dieresi), perchè questi richiedono, alla sommità del mondo ideale, non due universali supremi, ma uno solo. La contradizione, è vero, potrebbe essere attenuata ancora da questa rifiessione, che i due universali su- premi essendo ricondotti alla forma e alla materia di tutti gli esseri, la dualità è piuttosto apparente che reale, e non vi ha al fondo che un universale supremo unico, TEssere univeriale, di cui i due elementi sono la forma e la materia. Ma non cesserebbe con tutto ciò Tincoerenza di ammettere dae principii primi, mentre la dialettica esige un solo princip io primo, la legge del mondo ideale essendo che ogni plur9 lità si riduca costantemente ad una unità su- periore. La «contraddizione è dunque insolubile, ed essa ci indica che la dottrina dei due elementi è una modi- ficaziome posteriore del sistema delle Idee, dovuta a una nuova influenza, indipendentemente dalla qaale questo sistema si era formato. £ noi abbiamo in effetto delle (1) D^ Caelo I. 11. XIII. 3, Phys. I. IV. II. i-2, e cfr. De getter al. \. Il Vili. 4-5. (2) Phys. 1. m. VI. 10, VII. 6; cfr. M$t, 1. I. V. lo. prove che non lasciano alcun dubbio su questi due punti: cioè, primo, che Platone deve la dottrina dei due eie" menti ai Pitagorici, e, secondo, che questa dottrina è as- sente dal sistema di Platone nella sua forma primitiva, e segna, insieme alla dottrina dei numeri ideali, un nuovo periodo nella speculazione di questo filosofò. Nel e. 6^ del 1. I. della Metafisica, in cui fa l' espo- sizione della filosofia platonica, Aristotile dice: «Dopo le dette filosofie venne quella di Platone, che in molti punti segui questi (i Pitagorici, di cui prima ha parlato), ma alcuni altri no ebbe propri, in fuori della filosofia degritalici » . E, accennato alle dottrine principali di Platone, cioè la dottrina d«lle Idee, delle entità interme- diari*», dei due elementi, e la identificazione delle iJee ai numeri, continua con questo confronto tra la filosofia di Platone e la pitagorica, in cui indica i punti comuni lille due filosofie e quelli propri al solo Platone : «L'Uno stesso essere sostanza, e non qualche altra cosa a cui si attribuisca V unità, questo diceva come i Pitagorici ; e ancora come essi, che i numeri siano cause alle altre erse della loro essenza. Ma invece dell'Iofinito come uno porre una dualità, perchè egli fa V Infinito del Grande e Piccolo, ciò gli è proprio: inoltre egli pone i numeri oltre i sensibili, ma quelli dicono i numeri le cose stesse, e non pongono Tentità matematiche intermediarie tra i • numeri e le cose. L'aver posto V Uno e i numeri oltre le cose, e non come i Pitagorici, e l'introduzione delle Specie fu per lo studio della dialettica ^(della quale gli antichi non orano partecipi); V aver fatto poi dell'altra natura una dualità fu affinchè i numeri, eccetto i primi, se ne generassero comodamente, come da un sigillo. s> Risulta dunque dalla testimonianza d' Aristotile che Platone ha imprestato il suo elemento materiale dai Pita- — 178- gorici, ma apportandovi una modificazione, quella di ri- condurre quest'elemento alla dualità del Grande e Pic- colo. Senza dubbio, questa non è la sola modificazione importantv^ che Platone ha apportato alla dottrina pita- gorica; Aristotile no passa sotto silenzio un'altra che non ha un'importanza minore (forse perchè la riguarda come una conseguenza del sistema delle Idee) : è la ri luzione dei due elementi alla forma e alla mater'a universali. Il cangiamen'o risultante da queste e le altre modifica- zioni, necessitate dall'adattamento della dottrina pitago- rica al sistema platonico, è co^i profondo, che nasconde r identità fondamentale della dottrina di Platone con quella dei Pitagorici, e fra le due dottrino sembra non esistere un rapporto più intimo che quello di una sem- plice analogia. Ma vi ha un punto che non bisogna per- dere di vista. Qualunque sia stato il senso originario della proposizione dei Pitagorici che le cose constano di fine e d'infinito, dopo che queste astrazioni fine e in- finito cominciarono a riguardarsi come delle sostanze di cui le cose sono composte, la proposizione divenne un enigma incomprensibile, o a dir meglio una formula vuota a cui non era possibile di attaccare alcun senso determinato : per conseguenza Platone poteva riempire questa f rmula vuo'^a d^i suoi propri concetti, e, usando di quella libertà ch'egli si prende abitualmente coi dati della storia, dare questi concetti per il senso riposto della • dottrina pitagorica, taciuto o forsa anche smarrito dai più recenti filosofi di questa scuola che re avevano di- vulgato le dottrine. In effetto, il pit^igorismo di PUt ne, come vedremo in seguito, non cons'ste solamente ad appropriarsi i concetti dei Pitagorici, mn anche ad attri- buire a questi i suoi propri concetti. Per altro vi erano nella dottrina pitagorica dei due elementi certi lati a •iS\^i3 cui Platone poteva riattaccare il nuovo senso in cui egli prendeva questa dottrina. L'identificazione del uépag alla forma generale degli esseri e dell' àuetpov alla materia, che è il carattere più essenziale per cui si distingue la dottrina di Platone, trovava certamente un addentellato in alcuni concetti dei Pitagorici. Cosi, quantunque Ari- stotile riconduca tanto Tuno quanti l'altro dei due ele- menti dei Pitagorici alla materia — ciò che egli fa tal- volta anche j^er i due elementi di Platone, prendendo strettamente alla lettera la parola elemento (1)— tuttavia è TtXTistpov che egli considera specialmente come il prin- cipio materiale (^); e benché l'interpretazione degli au- tori posteriori che riguardano il Tiépag e l'àTieipov come cor- rispondenti ala forma e alla materia, sia senza dubbio dovuta a una confusione con la dottrina di Platone, tra le proposizioni conservateci dei Pitagorici ve ne hanno talune che darebbero a questa interpretazione una certa speciosità. Tali sono sovratutto quelle in cui essi si rap* presentano V illimitato (àustpov) che è nelle cose come compreso ientro il limite (uépag) e limitato da questo (3): in questa rappresentazione del rapporto tra il Limite e rilliroitato questi due concetti sono assai vic'ni a quelli della forma e della materia. Ma il vero punto di par- tenza per passare dalla dottrina pitagorica alla pro- pria Platone lo trovava, come abbiamo notato, n« ll'n- nalogia del concetto stesso di limite (Ttépa^) con quello di forma, e, po-^Fiamò anche ag-giungere, del concetto d' infinito (àTtsipov) con quello d' indefinito o indeter- minato—che p'r Platone, come per Aristotile, è il (1/ V. Mei, 1. XiV. 11. 1-2. (2) V. Met, 1. I. VII. 2 (3) V. Arist. Phys, l. 111. IV. 3 « Met, 1. XIV- HI. 1+ . m^fmai^tam^m -.ì- ^„. -/:;fi.:a^ carattere distintivo della materia (0-^ Egli poteva inol- tre fondarsi, per la riduzione del Tiépag al bene, sul dato che i Pitagorici chiamavano la Ferie (oDoxotxia) del finito la serie dei beni (e si noti che non solo il Finito era uno dei prineipii compresi in questa serio, ma era anche ad esso che tntti gli altri venivano ricondotti). In quai.to alle denominazioni di Grande e Piccolo e Dualità inde- terminata date all'elemento materiale, noi abbiamo vi- sto com'esso si riattaccavano a qnePe pitagoriche d'In- finito e di Pari. Sulle altre modificazioni della dottrina pitagorica osserveremo : che V identificazione dell' Uno con uno dei due elementi, mentre i Pitagorici lo face- vano risultare da amendue (e lo chiamavano perciò pari- dispari), poteva riattaccarsi alla sua classazfone ncMa auoxotx^a del limitato ; e la riduzione dei due elementi alFEssere e al Non essere, al concetto, emergente dalla tavola delle dieci opposizioni, che tutto consta di con- trarietà, e che queste si riducono tutte a quella del li- mitato e deirillimitato (infatti in ogni contrarietà Tuno dei termini può considerarsi come positivo e subordinarsi air essere, V altro come negativo e subordinarsi al non essere; e nelle opposizioni dei Pitagorici i termini che potevano preferibilmente considerarsi come positivi erano quelli che venivano posti dalla parte del llmHato) (2). (1) V. Arist. Mei. 1. I. Vili. 9-11, PhysA, 111. VI. U, Alex. Aphr. ad Mei, 1. I. t. 43, ecc. (2) Cosi Eudemo attribuisc • al non essere, nella dottrina pitagorica, un posto pressoché equivalente a quello che esso ha nella p!atonica : « Bene i Pitagorici e Platone portano nel movimento rindefinito.... e Io imperfetto e il non essere » (ap. Simpl. ad Arist, Ph?/s. I. 111. 11.). Qui evidentemente il non essere, come l'imperfetto e Tindefinito, è, per quanto coniarne i Pitagorici, una generalizzazione dei prìncipii della O'JOTOtX^a deirillimitato. ' Veliamo ora alle prove della posteriorità della dot trina. Questa ri>uUa prima di tutto dagli scritti stessi di Platine. È certo che, quando scriveva la Repubblica^ Pla- tone non ammetteva ancora la dottrina di una dualità di principi!. Nel 6® e 7® della Repubblica non vi ha, alla sommità del mondo ideale, che un^entità unica : è Tldea del Bene, sovrana del mondo intelligibile, in cui essa è ciò che il sole è nel mondo visibile, e principio unico dell'essere e del conoscere (1). Inoltre la dottrina dei due ilem^^nii, quale la concsciamo dairesposizione d'Aristo- tile, sappone quella dei numeri ideali, perchè Aristotile riguarda come il tratto essenziale e caratteristico del principio materiale di Platone che esso è fatto consitst^re (1) V. 5oé-5ot* d, 5io b— sii b, 516—517 e, 532533 d. Nello stesso dialogo, 478, si dà come un carattere delle cose sensi- bili» per cui esse sono opposte alle Idee, quello di partecipare al tempo stesso dell'essere e del non essere. Certamente questo non significa che l'essere e il n^n essere sono due elementi di cui le cose sensibili sola- mente, e non le Idee, sono composte; Platone vuol dire semplicemente che la realtà del sensibile non è un a realtà piena, assoluta: ma è evidente che egli non si espr imerebbe cosi, s'egli conoscesse già la dottrina che l'Es sere e il Non essere sono i due elementi delle Idee e delle cose. A 479, spiegando perchè le cose sensibili partecipano dell' essere e del non es- ser*», dà un altro carattere per cui esse si distinguono dalle Idee, cioè che in esse si trovano al tempo stesso degli attributi contrari. Anche nei Parmenide (l29a-130a, Isod-e) le cose vengono opposte alle Idee, perchè quelle partecipano simultaneamente di attributi contrari, e queste no; e liei Fedone (v 103 d-1o5a) si stabilisce il principio che un'Idei non può mai partecipare a due Idee contrarie (infatti è impossibile, nel metodo di divisione, di subordinare un'Idea a due Idee contrarie). Noi dobbiamo perciò ammettere che questi dialoghi sono anteriori alla dottrina dei due elementi, perchè secondo questa dottrina ciascuna Idea partecipa delle Idee contrarie dell'Essere e del Non essere, dello Stesso e del Diverso, del Finito e dell'Infinito, ecc. (vedi ciò che diremo appresso sulle due auoxoDciat di prìncipi! opposti). I m nel Graude e Piccolo (1) : ora, come osserva lo stesso Aristotile, Platone sostital airinfìnito uno dei Pitagorici la daaiità del Grande e Piccolo, per far servire questo principio alla generazione dei numeri ideali (2^ Noi sappiamo del resto (3) che la dottrina dei due elementi di cui è quistionein ArÌ8totile,fu esposta da Platone nei suoi discorsi sul Bene, in cui egli diede i risultati delle sue ultime speculazioni. Si potrebbe dire che ciò non esclude la possibilità di una forma anteriore della dot- trina, in cui il principio materiale non sarebbe stato ancora considerato come il Grande e Piccolo, e che Platone in seguito avrebbe modificata, mettendola in armonia con le sue nuove dottrine pitagoreggianti. Ma si leggano i luoghi d'Aristotile relativi a questa d'-ttrina, e si vedrà chiaramente che Platone non si è mai sf^rvito dei due elementi che come di principii dei numeri (4), e che Ari- stotile non conosce altra forma di essa che quella in cui il principio materiale si fa consistere nel Grande e Piccolo (5). Aggiungiamq che in Met. l. XIV. II. 4 le speculazioni platoniche sulla materia delle Idee vengono date come una deviazione (èxxpoTng) dairindirizzo primitivo. Alla dottrina dei duo elementi è legata in Platone, come nei Pitagorici, quella di due serie (oooToixCat) di prin- cipii opposti. Ad essa allude Aristotile in Phys. ]. III. (1) V. i I. indicati nelle due note dopo la seguente. (2) V. n, I. sulla fine. (3) V. Arist. Phys. 1. IV. 11. 2, 5, Simpllc. in Phys, Ibi. 32, lo4,ll7, J27, Alcss. Afrod. zk Met. 1. I. t. 43 e t. 60, ecc. (4) V. Mei, l. I. vi. 3-6, I. Xm. VII. 3, 1. XIV. 1 . 1-14, 1. XIV. V. 3-5, ecc. (5) Mei. 1. I. VI. 3-', 1. I. VII. e-3, i. I. IX. 22-23, 1. IH. 111. 5. 1. XU. X. 3, 1. XIV. 1. 3 sqq., 1. XIV. 11. 3-I4, Phy4, I. l. IX 1-2, ecc. II. 1-2 e Met. 1. XI. IX. 6-7. Nel primo di questi luoghi d cv»: • Alcuni dicono che il movimento è la diversità e rineguaglianza e il non essrre, mentre non vi ha alcuna necessità che gli aggetti si muovano, se sono diversi né se ineguali né s'», non esseri. Il mutamento non è né que.'^t » cose (la diversità, rineguaglianza, il non essere) né da es-^e piuttosto che dal'e opp-^sto. La ragione per cui hanno riconiotto il movimento a queste cose é per- ché sembra che il movimento sia qualche cosa d'indefi- nito, e i princ'pii dell'altri s'^ric fooaxotx^a) sono indefi- niti perchè privativi; nessuno di essi é infatti un'e senza determiu'ita né una qualità né alcuna d**lle altre categorie.» Lo stessa quasi parola per parola nel luogo della Meta- fisica. Questi luoghi si riferiscono a Platone, perché sap- piamo che Platone riconduce il movimento airelemonto materiale (1), e che la divers'tà, rineguaglianza e il non essere sono dellt^ denominazioni di quest'elemento. Inol- tre vi ha un luogo d'Eudemo, in cui é certamente qui- stione della stessa dottrina a cui alludono i due luoghi citati d'Aristotile, e questa dottrina é attribuita esplici- tamente a P atone (2j. Ora, quali sono i priocipii dell' altra aDoxoix'-a di cui parla Aristotile ? e — poiché Z'aZ/ra auaxotx^a suppone una ouaxoixia opposta — quali sono i principii della ouaxoixta opposta ? Senza dubbio tra i principii dell' «altra auaxotxfa» (1) V. Mei. 1. I. IX. 23 e 1. Xlll. Vili. 21. (2) Eudemo ap. Siinpl. ad Arist. Phys. 1. 111. Il: «Platone dice che il movimento è il grande e piccolo e il non essere e l'anomalo e quanti al- tri riduce alla stessa cosa : ma sembra assurdo dì dire che il movimento sia questo; infatti l'oggetto in cui è presente il movimento si muove, ma è ridicolo che, un oggetto essendo ineguale o anomalo, sia necessario che esso si muova» Questo luogo è quello che abbiamo indicato sopia per dimostrare che l'elemento materiale veniva anche chiamato l'anomalo -176- ^^ sono la Dvarsità, riaegaagliaaza o il Non essere; poi- ché, qnaado Aristotile dice : « perchè sembra che il mo- vimento sia qualche cosa d'indefinito, e i princìpii d'ìl- Taltra ouaxoix^a sono indefiniti », evidentemente e^li in- tende assegnare come raocione dell'aver ricondotto il mo- vimento alla diversità, all'ineguaglianza e al non essere, r indeterminatezza per cui il movimento somiglia alla diversità, all'ineguaglianza e al non essere. Di più il mo- vimento fa parte anch' esso dei principii dell' « altra ot>- axoix^a»: infatti, sq per ragione della riduzione del movi- mento al non essere, alla diversità e all' ineguaglianza Aristotile dà la somiglianza che il movimento ha, non coi soli non esser"., diversità e inegualianza, ma coi prin- cipii dell' « altra oooxoixCa » in generale, co è parche la riduzione di una cosa al non essere, la diversità e l'ine- guaglianza equivale per Aristotile alla sua classazione tra i principii dell' « altra ouoxoixta». Tra i principii del- l' € altra ouoxotxCa » trovandosi dunque il Movimento, la Diversità, T Ineguaglianza, il Non e-sere, tra i principii della otioxoix^a opposta devono trovarsi gli opposti, cioè lo Stato, l'Identità (lo Stesso), 1' Eguaglianza, 1' Essere. E siccome VesseTe^Veguaglianza^Videniità (lo stesso) sono dei nomi con cui viene designato l'elemento formale, e il non essere, V ineguaglianza, la diversità dei nomi con cui viene designato Telemento materiale, noi dobbiamo ammettere che i nomi dell'uno dei due elementi figurano anche come principii dell' una delle due ouoxoix^ai, e i nomi dell' altro come principii dell'altra. Ma di là non ne segue che tutti i principii dì una delle due ouoxoix^at figurino anche come nomi dell'elemento corrispondente : infatti il movimento non è un nomo deir elemento ma- teriale. Però il movimento, quantunque questo nome non venga applicato a designare l'elemento materiale, è ricondotto, come abbiamo visto, da Platone all' elemento materiale : cosi devono anche classarsi tra i principii dell' una o dell' altra delle due atioxotx^at quelle entità che, senza che i loro nomi vengano impiegati per desi- gnare l'uno o l'altro dei due elementi, sono nondimeno ricondotti all'uno o all'altro dei due elementi. A queste entità accenna Ari^^totile in generale in Mei, 1. XIII. Vili. 21, con queste parole : « Alcune cose assegnano (i Platoni- ci) ai principii, come il bere e il male, lo stato e il moto; le altre ai numeri.» Il male non è un nome delPelemento materiale, ma è, come il movimento, ricondotto airele- mento materiale (1). Che Platone riguardi i diversi nomi ch'egli dà all'uno e all'altro dei due elementi come corrispondenti a dei principii distinti, è una proposizione che non deve sor- prenderci : è questa anzi la sola interpretazione che sia conforme allo spirito del sistema delle Idee e alle abitu- dini del linguaggio platonico. Un nome, nella sua appli- cazione metafisica, non designa altra cosa per Platone che il concetto che esso comunemente significa, realiz- zato : cosi l'essere e il non essere, l'eguale e l'ineo naie, lo stesso e il diverso, ecc. non possono designare per lui che i concetti dell' essere e del non essere, del- Teguale e dell'ineguale, dello stesso e del diverso, ecc. realizzati. Ma i concetti dell' essere, dell'eguale, dello stesso, ecc., cosi bene che quelli del non essere, deirine- guale, del diverso, ecc. essendo distinti, ne segue che le entità Er'sere, Eguale, Lo stesso, ecc. cosi bene che Non essere. Ineguale, Diverso, ecc. devono anche essere delle entità distinte. Noi non possiamo dunque ammet- tere che tra 1' Essere, 1' Eguale, lo Stesso, ecc. da una (1) V. oltre il 1. e. Mei. l. I. VI. 8, 1. Xll. X. 4. L XIV. IV. - t parte, e dalPaltra, tra il Non essere, V Ineguale, il Diverso, ecc. vi sia una distinzione, non reale, ma sem- plicemente nominale, a meno di supporre che Plaone abbia creduto che ciascuna di queste due serie di nomi significhi uno stesso concetto. La stessa osservazione vale, a più forte ragione, per il movimento, il male e le altre cose che Platone riconduce all'uno o air altro dei due elementi, ma senza dare a questi i nomi corrispondenti: i concetti del mnle e del movimento essendo distinti tra di loro e dai concetti del non essere, dell'ineguale, del diverso, ecc., il Male e il Movimento devono essere delle entità distinte fra di loro e dalle entità Non essere, Ine- guale, Diverso, ecc. Tuttavia la distinzione che Platone stabilisce tra tutte queste entità non gV impedisce di riguardarle al tempo atesso come identiche. Per le entiià i cui nomi servono a designare uno dei due elementi, qucst' identificazione risulta sufficientemente da questa stessa applicazione che viene fatta dei loro nomi. Ma essa non è meno evidente per le altre: roi abbiamo già visto nel luogo citato di Aristotile (1) e in quello d'Eudemo (2) che il movimento è la Diversità, l'Ineguaglianza, il Non essere, il Grande e Piccolo, ecc. Di quest'identità degli altri principii d'una o-KjToix^a con quelli che figurano come nomi delleh mento corrispondente ai hanno le prove nella più parte dei luoghi d'Aristotile in cui è qui^^tione della relazione évi movimento o del male con l'elemento materiale. In Met. 1. I. IX. 23 dice : « la quanto al movimento, se esso é il grande e piccolo, si muoveranno anche le Idee». Ibid. 1. XII. X. 4 : « Tutte le cose parteciperanno al (1) Phys. 1. III. II. (2) Ap. Simpl, ad ArisU Phys. l. IIL IL male, salvo l'Uno, poiché il male in sé é l'altro elemento.*» Ibid. I. XIV. IV. 6-7 : t Alcuni (dei Platonici — vale a dire, per quanto possiamo giudicarne, tutti gli altri tranne Speusippo e i suoi) dicono l'Ineguale la natura del male. Ne segue che tutti gli esseri, salvo uno cioè l'Uno stesso, partecip'^ranno al male», ecc. Come si può intendere che delle entità distinte siano al tempo stesso identiche?Noi ritroviamo qui, mutai ìs mutandis, quello stesso rapporto ambiguo che abbiamo già incontrato tra l'uno e i molti (i molti fcono 1' uno e Tuno è i molti). Bisogna rinun- ziare su questo soggetto a qualsiasi concetto intelligi- bile. Tutto ciò che possiamo dire di più chiaro è che i diversi principii di ciascuna delle due ooaTotx^at sono ri- guardati da Platone come degli aspetti diversi— egual- mente obbiettivi— deirelemento corrispondente. L'espres- sione degli aspetti diversi egualmente obbiettivi è certa- mente un non senso — fra i diversi aspetti di un oggetto è uno solo che noi possiamo riguardare come obbiettivo— ma essa è forse la più appropriata per rendere l'oscuro concelto racchiuso in questa dottrina. Ciascuno dei principii dell'una e dell'altra ouoxoixta é certamente considerato come un attributo d'una uni- versalità assoluta, prosante in tutti gli esseri. In effetto Ih più parte di 'questi principii, per quanto possiamo giudicarne, figurano come nomi dell' uno o 1' altro dei due elementi ; ed è evidente che Platone non potrebbe dire che l'Essere o l'Eguale o lo Stesso ecc. è la forma di tutte le Idee, e il Non essere o l'Ineguale o il Diverso ecc. la materia, se l'Essere, il Non essere, l'Eguale, lo Ineguale, lo Stesso, il Diverso, ecc. non fossero per lui delle determinazioni comuni a tutti gli esseri. In quanto ai principii che, come lo Stato e il Moto, non figurano come nomi degli elementi, la loro universalità assoluta - 178 — è prorata, oltre che dal'a coerenza della dottrina, dal fatto che gli attributi corrispondenti a questi priiìcipii vengono riguardati come determinazioni inerenti alla forma o alla materia universali. È ciò che vediamo per . il Movimento. Nel Timeo la materia di tutti gli ess ri è simboleggiata da una massa in un movimento conti- nuo (1), e Xenocrate chiamava la materia di cui tutte le cose sono fatte àévaov (continuamente fluente) (2| Qu-sto stesso concetto era espret^so da Xenocrate sotto forma simbolica, quando chiamava 1' Unità 1" intelligenza e la Dualità indefinita l'anima del tutto (3) : 1 elemento ma- teriale è simboleggiato dall'anima, perchè qu^s'a è, se- condo Platone, perpetuamente in movimento, e comunica li suo movimento a tutto le altre cose (1* elemento tv r- maleo il Bene dallintelligenza, erme nel Tiineo, peicbè questa è la sola attività .mpiri.a che operi secondo il principio delle cuse finali) (4). Per altro 1' univer.-alità assoluta di tutte que.ste entità è infreute alla hro qua- lità di principi i, perchè, couformemente alla dialet ira platonica, ciò the è di una universalità solo relativa CIÒ che è contenuto sotto un'Idea più generale, non po- trebbe essere riguardato come principio. Cosi la dottrina (1) V. 30 a, 52 e-53 a, 88 d. (2) V. MuUaoh Pr. 78. (3) Stob. Ed. Phys. 1. I. o. 2. 29. (Muli. Xenoor. Fr. I). (4) Che U movimento sia un attributo universale comune a tu( t e le cose, risulta del resto dalla dottrina del divenire continuo dei sensibiU. Per altro non bisogna dimenticare ohe il mofim.nto (x{- VigoiS) ha nel linguaggio dei filosofi greci un significato molto lato, essendo press'a poco un sinonimo di cangiamento. Platone chiama anche movimento una relazione transitoria d' una cosa con altre anche che non importi in essa un cangiamento reale; p. e. l'esser conosciuta è un movimento deUa cosa conosciuta {Sof. 248j,V delle due ouaxotxtat di principii opposti dà una risposta alla quistione quali siano propriamente le determina- zioni delle co^e che i due universali supremi, cioè la forma e la materia delle Idee, rappresentano; la riunione degli attributi corrispondenti ai principii dell'una o del- l' altra ouoxoix^a ci dà il significato complelo dell' ele- mento rispettivo (1). Qufsta dottrina di due serie di principii opposti è evidentemente un'imta/ione di qu<'lla corrispondente dei Pitagorici. Cosi noi dobbiamo ammettere che questi op- posti non rappresentano solamente le determinazioni universali dell'essere, ma ancora, come quelli dei Pita- gorici, le opposizioni fondamentali delle cose. È a ciò che deve riferirai Tindicazione d'Alessandro d'Afrodisia (2) che Platone vedeva nell'Eguale e l'Ineguale o V Uno e la Diade indefinita e i principii degli esseri per se stessi e degli opposti ». I « principii degli opposti » è certamente (3) Fra questi principii opposti, riguardati come attributi co- muni a tutti gli esseri, sono, come abbiamo visto, il bene e il male. Elevando il male a principio e attributo universale delle cose, Pla- tone si mette certamente in opposizione con la forma primitiva del suo sistema: tuttavia quest'opposizione non è cosi grande co- me potrebbe sembrare a prima vista. Potrebbe credersi infatti ohe egli dia al male una parte eguale a quella del bene. Ma non è cosi. La forma e l'essenza degli esseri è il bene : ne segue che il male non ò che un accidente; se no, perchè l'essenza delle cose sarebbe il bene piuttosto che il male ? Noi abbiamo già osservato che il male non è nemmeno riguardato da Platone come la materia. E- videntemente il concetto di Platone ò che il bene è il tipo che tutti gli esseri tendono a realizzare, ma che nessuno realizza se non. d'una maniera approssimativa. Nel Timeo Dio realizza da per tutto l'Idea del bene, ma per quanto è possibile (v. 29 e— 30 a, 46 c-d, 48 a, ^ b, 56 e, 68 e— 69 b). Cosi in tutti gli esseri vi ha a lato del bene il male : ma la regola è il bene, e il male non è che l'eccezione. (1) Ad MeU 1. I. t. 43. ^ 119 — -r— >Un ^espressióne inesatta, almeno in un pnnio, cioè che Platone non poteva rguardare gli altri principi! delledue o^ozoix'^oLi come derivati dal T Eguale e l'Ineguale o rUno e la Diade — poiché in questo caso non sarebbero stati anch'essi dei principii—] ma gli altri dati che ab- biamo su questa dottrina ci autorizzano ad intendere la indicazione d' Alessandro in questo senso, che Platone riconduceva le opposizioni fondamentali delle cose ai due elementi delle Idee. Questo concetto dà anche la spiegazione di una dottrina d'Aristotile, che, come tante altre di questo filosofo (p. e. la distinzione de4a forma e della materia), non si comprende che per il rapporto della sua filosofia con quella di Platone. È la proposi- zione che tutte le contrarietà si riducono a quella del- l'unità e della pluralità (p. e. lo stato, l'eguale, lo st*',sso si riconducono all'unità; il moto, T ineguale; il diverso, alla pluralità) (1). Questa proposizione, di cui non po- trebbe vedersi tilcun legame coi concetti della filosofia d'Aristotile, si riattacca invece della maniera più natu- rale a quelli d'una filosofia che, come quella di Platone,fa consistere l'essenza delle cose nei numeri. E in effetto essa è contenuta in germe nella dottrina delle due ouoxoi- xCai di principii opposti. Questi principii opposti, al punto di vista della teoria dei numeri, erano ricon- dotti da Platone all'Uno e al Grande e Piccolo, e il Grande e Piccolo, specialmente come elemento dei nu- meri, cioè come Molto e Poco, equivaleva alla Pluralità: cosi, siccome le due serie di principii opposti rappresen- tavano, come abbiamo detto, le opposizioni fondamentali degli esseri, cioè le più generali e a cui la più parte delle altre, se non tutte, si riconducono ; di là si giun- (1) V. Met. l. IV. II. 5-8, 14-15, 1. X. III. 3, IV. 11, 1. XI. III. 4. gevà facilmente alla generalizzazione a* Aristotile — se l'autore di questa generalizzazione è stato Aristotile, e non Platone stesso — che tutti i contrarli si riconducono all'unità e alla pluralità. Una conferma del rapporto di questa dottrina d'Aristotile con la filosofia platonica po- trebbe vedersi in questa circostanza, che Aristotile trat- tava di essa nel libro sul bene (1), nel quale esponeva gli diypoLcpoL SÓYjiaTa di Platone (2). Probabilmente le due ouaxotxfat di Piatoti» compren- devano, come quelle d« i Pitagorici, dieci opposizioni (p« rchè dieci era il numero perfetto) (3), e noi possiamo supporre con qualche verrsimiglianza che fossero le se- guenti : 1^ Fine 0 Finito — Infinito (4). 2» Unità —Mol- t plicità. 3^ Dispari— Pari. 4^ Bene-Male. 5^ Stato-Moto. 6° Essere- Non Essere (5). 1^ Lo Stesso— Diverso. 8°E- gnaìe— Ineguale. 9" Rego lare-Irregolare (òjiaXóv-àv(i)|jiaXov) 10° Ordinato— Inordinato (xaxxóv-àxaxxov) (6). Di queste (1) V. Alex. Aphrod. in Met. 1. IV. t. 9 e 19, l. X. t. 9, 1. XI. t. 10. (2) V. Slmpl in Phys. fol. 32 e fol 104, in De Anima l. I. o. II, Al3s^. in Met. 1. I. VI. t. 43, 1. I. IX. t. 60, Filopono in Phys. 1. IV. II, eco. (3) V. Arist. Met. 1. I. V. 3. (4) Platone, cerne vediamo nel Filébo (v. 16 e, 23 e, 24 a, 26 b, d, 26 b, ecc.), doveva riguardare, all'esempio dei Pitagorici, il Fine e il Finito come equivalenti. (5) Naturalmente in quest'opposieione Non essere non significa ciò che non esiste, ma la negazione (p. e. non uomo, non bello, non grande) e la privazione (p. e. tenebre, silenzio, cecità). Senza dubbio, Platone preferisce per l'elemento materiale la denominazione di Non essere, perchè, come dice Aristotile, i principii dell* altra Q\}Q\0iyÌ0L sono privativi, e l'elemento materiale equivale al com- plesso di questi principii. (6) Teofrasto Metaf. 33 : Platone e i Pitagorici pongono Toppo- slzioue dell'uno e della dualità indefinita: in questa è 1' infinito, — 180 — opposizioni la prima metà sono comuni coi Pitagorici. Comparando nel loro insieme la tavola di Platoae e quella d'i Pitagorici, la prima si distingue per un carattere più astratto; e le opposizioni particolari a Platone pos- sono riguardarsi, per la più parte, come delie genera- lizzazioni di quelle dei Pit»g orici. Per giustificare il can- giamento ch'egli apportava nella dottrina dei Pitagorici, Platone poteva dire che, tra le opposiz'oni delle cose,' quelle che meritavano di essere elevate al grado di prin- cipi! ed elementi, erano le più generali. II tratto essenziale, per cui la tavola delle opposizioni di Platone si distingue da quella dei Pitagorici, è che i princi-pii opposti di Platone sono degli attributi universalissiml comuni a tutti gli esseri, e che i principii di ciascuna serie, riuniti, costituiscono uno dei due elementi di tutte le Idee : le altre differenze dipendono da questa diffe- renza fondamentale. Essa alla sua volta è una conse- guenza della dialettica platonica. Le dieci coppie di op- posti erano per i Pitagorici i principii delle cose : ora un principio è, secondo Platone, ciò che occupa il grado p.ù elevato nella scala del'a generalità, e che, come tale, SI trova al punto di partenza della dialettica, conside- rando qne^ta nella sua marcia d scensiva, che è qnella che corrisronde al progresso reale dell'essere. Per con- seguenza, delle entità distinte dagli Universali Hnpremi cioò dalla forma e dalla materia di tutte le Ide«, non potrebbero avere, n.l sistema di Platone, il carattere di Nel T.meo l'elemento materiale è rappreseatato da una massa che 81 muove disordinatamente (àtoéxxwc) « ohe il nom:,„„« »i. presenta l'Idea del bene. ^a pas^ Jar^r^' oS principii^ perchè sarebbero loro subordinate in genera- lità, e deriverebbero da loro : cosi le due oooxotx^at di principii opposti non potevano essere, in questo sistema, che la decomposizione dei due Universali supremi in due serie di attributi egualmente universali e aventi ciascuno una parte della loro comprensione. Questa modificazione aveva anche V effetto di ren- dere la dottrina pitagorica delle opposizioni meno arbi- traria. I Pitagorici prendevano all'azzardo certe opposi- zioni, e dichiaravano che esse erano gli elementi costi- tutivi delle cose : ma come queste oppjsizioni potessero essere gli elementi costitutivi delle cose, e perchè que- ste precisamente e non altre, erano delle quistioni che, nella dottrina dei Pitagorici, restavano senza risposta. A questa quistione Platone rispondeva con IVquivalenza tra le due serie di principii opposti (presa ciascuna nel suo complesso) e i due elementi delle Idee — Il concetto più nebuloso di questa dottrina di Platone, cioè l'iden- tifìcazione dei diversi principii di ciascuna delle due ouoxotx^at, aveva per lo meno un addentellato nella dot- trina corrispondente dei Pitagorici. Quando questi chia- mano rimpari mascolino e il pari femminino, e riguar- dano la ouoToixta del Finito come quella dei beni e la oDOTO'-x^a dell' infinito come quella dei mali, essi sembrano considerare il bene e il mascolino erme equivalerti h\- l'impari e al finito, e il male e il femminino come equi- valenti al pari e all' infinito. L' identificazione, nel s'- stema pitagorico, di c'aj^cnno dei pr'ncip i dell'una delle due auoTO'-x^at al Fini'o e di quflli dell'altra all'Infinito risulterebbe anche dall indicazione di alcuni autori che i Pitagorici ch'amavano l'uno dei due elementi impari, ma- schio, luce, destro, retto, slabile, ecc., e l'altro coi nomi — IM — contraTi (1). Per Platone quest'identificazione era neces- saria, s'egli voleva, ad imitazione dei Pitagorici, ricon- durre questi principii al Fine e air Infinito, e al tempo sti 880 conservare ad essi la loro qualità di principii. In effetto, oltre quest'identificazione, egli non avrebbe avuto che un mezzo per ricondurre ai due elementi, cioè al Fino e all'Infinito, le altre entità facienti parte delle due serie di opposti : quello di riguardare il Fine e l'Infinito come generi, e queste altre entità come specie. Ma allora queste entità non sarebbero i^tate più dei principii; poi- ché, come abbiamo più volte osservato, nf Hi dialettica platonica, ciò che è subordinato a qualche cosa di più generale, non è un principio, ma un essere derivato. Inoltre esse non avrebbero avuto più coi due elementi il rapporto speciale che ammetteva la filosofia pUagorica, ma semplicemente il rapporto comune che hanno con questi tutte le entità platoniche, tutte le Idee essendo con gli elementi nella relazione di specie a genere. Del resto, senza V identificazione dei principe* di ciascuna ouoTotxta, non si vede come Plafone avrebbe potuto fare coesistere la dottrina di una moltiplicità di principii con quella dell'unità, almeno con quella dell'unità del prin- cipio formai^, indispeuj'abile alla dialettica platonic?», perchè l'sISo^ supremo ron potrva essere che un. solo. La dottrina delle due ouoxoixiai di principii opposti sup- pone evidenteme».to qu» ll;i dei du*». elementi : per conse- guenza le prove che d mostrano che la se conda delle due dottrine è nata post< rrormente al sistema delle Idee e della dialettica, dimos'i-ano qnesta sfessa posteriorità anche per la prima. Sar bbc superflua qualsiasi osser- (1) y. Eudoro ap. Simpl. 7 7<i/8. 39a, 1, e. e Porfirio Vita Pytha^ gorue, §. 38. vazjone sulla contraddizione di questa dottrina coi prin- cipii della dialettica platonica, e la necessità, che ne se- gue, di spiegarne l'origine per una fusione dei concetti primitivi di Platone con un elemento straniero, indipenden- temente dal quale questi concetti si erano formati. Ma un'osservazione che non possiamo tralasciare è la rela- zione di questa dottrina con un luogo del Sofista, che senza questa recezione sarebbe incomprensibile. In questo dialogo (254 d-2f)6 e, 2n8 d, 259 a, 260 b) l'Essere e il Non e«8c e e lo Stesso e il Diverso vengono date come delle Idee d'un'universalità assoluta, a cui tutte le altre Idee partecipano. Ora, conformemente ai principii della dialettica platonica, non potrebbe esservi che una sola Idea d' una universalità as-oluta e a cui tutte le altre paitecipino. Questa incoerenza ci indica dunque che il Sofista è stato scritto nel periodo pitagoreggiante, e quando Platone ammetteva già la dottrina delle due ouoToix^at di principii rpposti. E in effetto l'Essere e il Non essere e lo Stesso e il Diverso fanno certamente parte di queste ouoToix^ai. Noi abbiamo del resto altre prove che dimostrano che, quando Platone Fcrivevail So- Jìsta, egli aveva già immaginato la dottrina dei due ele- menti. Cosi la più parte degl'interpreti hanno compreso, indipendentemente dalla nuova prova che noi apportiamo, che l'Essere e il Non essere di cui si tratta nel Sofista sono quegli stessi di cui è quistione nella Metafisica di Aristrtile, vale a dire i due »1( menti d^^lle Idee. Ciò ri- sulta prima di tutto da un'allusione della Met. 1. XIV. II. 7-8, cioè che Platone ha identificato il Non e sere, vale a dire la mat aia, con la natura del falso : questa allusione convii ne perfettamente al Sofista, perchè in questo dialogo Platone sostiene che il discorso e l'opi- nione falsa hanno per oggetto il Non essere, e sono — i82 — TT -^ falsi ppF la partecipazione del Non essere (1). Inoltre la lunga rìi^ressone per dimostrare l'esistenza del Nones- sere (236 d-260) prova che quesò' ent tà occupa noi si- stema un posto d'un'importanza speciale: Platone, è vero, dà per iscopo a questa digressione di stabilire resistenza del falso, difendendola dalle obbiezioni capziose dei con- temporanei; ma è evidente che questo non è che un pre- testo per riattaccare le sue speculazioni alle quistioni del giorno. Aggiungiamo che alla sommità del mondo ideale sta, nel Sofista, non l'Idea del Bene, ma quella dt^lFEssere (3j. B. Il puntodi partenza della dottrina sulla materia delle cose — cioè sulla materia e.st'^riore alle Idee e che si ag- giunge ad esse per costituire le cose — è la costruzione del corporale II corpo si compone delle superficie e dello (1) V. 236 d-241, 2G0 b-264. (2) Contro l'equivalenza del Non essere del So/;s/a col Non essero della Metafìsica vi sarebbe l'obbiezione che nel So/ìsta il Non essere non potrebbe riguardarsi come un principio primitivo,porcUò vi si dice che quest'Idea è contenuta sotto quella dal Diverso (257d-258d). Ma quest'obbiezione non ha un gran valore; perchè, siccome tanto il Di- verso quanto il Non essere si trovano in tutte le altro Idee, e per conseguenza anche l'ana nell'altra, cosi il rapporto di contenenza tra le due Idee è reciproco, cioè è altrettanto vero di dire eh > l'I- dea del non essere è contenuta sotto qu^^lla del diverso — perchèdel non essere può predicarsi il diverso- quanto di dira cha l'IdaadBl diverso è contenuta sotto quella del non essere-perche, reciproca- mente,del diverso può predicarsi il non essera—. Se l'Idea contenente dovesse riguardarsi, in questo caso, come anlerìore all'Idiia conte- nuta, vi sarebbe per conseguenza altrettanta ragione di riguardare il Diverso come anteriore al Non essere che di riguardare il Non essere come anteriore al Diverso : cosi il rapporto logico di conte- nente e contenuto non può importare, in questo caso, il rapporto o ntologico di anteriore e posteriore, (3; V. 243 c-d e 253 e-254 b. spaz'o che es -e racchiudono; le superficie similmente delle linee che le limitano e dello spazio compreso fra queste linee; e le linee dei punti che le limitano e dello spazio compreso tra questi punti. Il punto viene identificato con r unità. Un'esposizione completa di questa costruzione delfesteso non la troviamo, a dir vero, né in Platone né in Aristotile. Nel Timeo vi ha solamente la composizione del corpo dalle superficie (1). Ma Aristotile parla spesso dell'opinione che le superficie, le linee e i punti o unità sono soe^tanze, e che il punto o unità è più sostanza della linea, la linea più della superficie, e la superficie più del corpo (2), opinione che si deve afribuire a Platone e ai suoi, perchè essa é logrta alla dottrina delle Idee (3), e fondata sul motivo che so])presso il punto si sopprime- rebbe anche la linea, soppressa questa, la superficie, esop- pressa la superficie, il corpo (4). E evidentemente alla stessa opinione che allude Aristotile, quando respinge la proposi- zione che i punti e le linee sono la materia dei corpi (5). In- fine Alessandro d'Afrodisia afferma, come abbiamo visto altrove, che Platone fa venire i corpi dalle superficie, le superficie dalle linee, e queste dai punti, che consi^^era come unità; e che è questa la ragione per cui (1) V. 53 c-57 d. Cfr. Arist. De gen, 1. I. II. 8-9, 1. I. Vili. 8-9, 1. II. T. 4. De Coeìo l. III. I. 3 14, 1. III. VII. 1,5-10, 1, III. Vili. 1-3, I. IV. II. J-t), 13. (2) MI, 1. III. V, 1. V. VITI. 3, 1. VII. IL 25, l. XI. IL 7-8, l. XIV. IIL 6-7, l'hijs. l. V. IIL 9. (3) V. Met. l. VIL IL 5 e 1. XIV. IIL 6-7. (4) V. Met. 1. III. V. 3 e 1. V. Vili. 3-questo è, come sappiamo, il criterio di cui si serve Platone \)er stabilire che una cosa è an- teriore ai un'altra. Anche Alessandro Afrod. riferisce l'allusione a Platone (ad iJf^/, 1. VIL t. 3j. (5) ])e gen, 1. I. V. 6. - 183 ^ .. i egli ammette che i numeri sono i princìpi degli esseri (ad Mei. 1. I. t. 43) (1). Com' è che le superficie ven- gono dalle linee e le linee dai punti? Della stessa ma- niera certamente con cui, nel Timeo, i corpi vengono dalle superficie. La costruzione del corpo nel Titueo^ in effetto, sarebbe da sé sola incomprensibile : essa non si comprende che come parte di un processo, che ha per risultato di comporre il corpo dello spazio e delle unità che lo definiscono, cioè del numero (2). Per le superficie di cui si compongono i corpi biso- gna intendere dei piani, e per le linee di cui si com- pongono le superficie, delle rette. La costruzione del corpo, di cui abbiamo parlato, si applica particolarmente ai corpuscoli elementari; poiché Platone nel periodo pi- tagoreggiante ammette la fisica corpuscoUre, e ciascuno di questi corpuscoli 6 un poliedro regolare. Vi hanno cinque elementi corrispondenti ai cinque poliedri rego- (1) Quest'indicazione d'Alessandro d'Afrodisia, al fondo, non ci apprende niente di nuovo ; perchè la formula d' Aristotile, che il punto o unità è più sostanza della linea, la linea della saporticie e la superfìcie del corpo, signitìca precisamente che il punto o unità è il principio da cui deriva la linea, la linea il principio da cui deriva la superficie, e questa il principio da cui deriva il corpo, h* a n ter iore^ secondo Platone, ha più essere che ìì posteriore. Cosi Aristotile men- ziona pure la proposizione (evidentemente dei Platonici) ohe i ge- neri sono più sostanze delle specie (v. 3/t'M. Vili. I. 3)— In alcuni dei luoghi citati (Met. 1. III. V. 3-4, 1. V. Vili, 3; Aristotile dà anoh'egli la dottrina che i principii delle cose sono i numeri come una deduzione dall'opinione che le unità e, in generale, i termini del corpo sono sostanze e più sostanze del corpo stesso. (2) Bisogna anche vedere un'allusione a questa costruzione delcorpo per lo spazio e le unità nella domanda che Aristotile rivolge ai Platonici : com'è che i numeri sono cause dell'essere e dell'es- senza delle cose ? forse quali termini, come i punti delle grandezze ? Met. 1. XIV. V. 6. . lari: il corpuscolo della terra che e un cubo, quello del fuoco che è un tetraedro, quello dell'aria che è un ot- taedro, quello dell' acqua che è un icosaedro, e quello dell'etere che è un dodecaedro (1). Nel Timeo però Pla- tone non ammette ancora che quattro elementi, ed esclude esplicitamente il quinto, cioè il dodecaedro (l'e- tere). La stessa costruzione dei corpi per le superficie, per le linee e per i punti che li limitano è attribuita dagli storici della filosofia (2) anche ai Pitagorici. E in effetto Alesi^andro d'Afrodisia — per non parlare d'altri autori meno degni di fede, p. e. Diog. Laerz. (Vili. 25), i quali confondono sistematicamente le dottrine dei Pitagorici con quelle di Platone— dice tanto dei Pitagorici quanto di Platone eh' essi derivano i corpi dalle superficie, le superficie dalle linee, e le linee dai punti riguardati come unità, e che è perciò che ammettono che i principii delle cose sono i numi',ri (3). Inoltre, come nota giustamente il Zeller, è a una costruzione pitagorica del corpo simile a quella del Timeo che sembra alludere Aristotile, quando egli dice (Met. 1. XIV. III. 14) che i Pitagorici non hanno determinato se è dalle superficie o in qualche altro modo che si è formato il primo corpo (l'uno). È dunqu« pro- babile che nella sua costruzione drl'a grandezza estesa Platone )ia seguilo i Pitagorici : ma per attribuire que- sta dottrina ai secondi non si hanno altrettante prove che p<*r atiiibuirla al primo. In quanto alla dottrina che gli tlnienti sono i jolicdii regolari, essa ò dovuta cer- tamente ai Pitagorici. (1) V. Tim. 53 c-57 e, £>mom. 981, Senocrate /'r. TOMullach, eco. (2) V. Zeller Filos. dei Greci voi. I. 4. ediz. pag. 375^76, Bitter Stor. della filos, ant. t. I. 1. 4. e. 2. trad. frane, pag. 329 e seg.,eco. (3) Ad Met. l. I. t. 43, l. o. - 184 - Deducendo il corpo dallo spazio limìtito dalle unità, Platone ha evidentemente per iscopo di ridurre la ma- teria al semplice spaz o e di risolvere il reale nei numeri (1;. A questa deduzione del corpo si riattacca la distinzione della forma e d'ella materia, e la riduzione delle Idee alle sole forme delle cose, separaniole dalla materia. Nella nuova dottrina di Platon ^ le cose constano dunque di due elementi : l'Idea, che rappresenta la forma, e lo spazio. (1) Questo concetto, sviluppato con conseguenza, condurrebbe a spiegare con lo stesso processo con cui si spiega la grandezza estesa, o con dei processi analoghi, tutte le altre determinazioni del reale. Che Platone abbia l'atto eifeltivamente cosi, sarebbe ar- rischiato di affermarlo. Tuttavia alcune proposizioni platoniche potrebbero essere interpretate in questo senso. Nel Timeo (61c-68d) tutte le proprietà sensibili dei corpi — salvo, s'intende, la grandezza e la figura — sembrano riguardarsi come dei fenomeni subbiettivi (Però io non oserei attribuire recisamente a Platone quest'opinione; perchè Teofrasto dice che per le proposizioni del Timeo che ricon- ducono le proprietà sensibili dei corpi alle impressioni dei nostri sensi, Platone si è messo in contraddizione con la sua propria dot- trina, che conservava a queste proprietà la loro natura obbiettiva: V. De sensu e/ «é'ns. 60-61). Nel Ttmeastesfeo poi e tìqWq Le(jgi i fatti mentali pare ohe vengano identificati col movimento. V. //t'p^i 896e- 898b (il pensiero e tutti gli atti dello spirito sono dei movimenti delPanima); Tim, 37a-c, 47b-c, 89a, 90 d, ecc.,Arist. De Anima l. I. III. Jl-17 (l' intelligenza è un movimento circolare); tim, 43 c-d, 67 b (le sensazioni sono movimenti). É l'opinione dei più risoluti tra i materialisti moderni — di cui non mancavano gli antecedenti nelle dottrine dei Fisici (v. Arist. Mei. 1. IV. V. 7-8)— salvo che il movimento, con cui vengono identificati i fenomeni psichici, è at- tribuito da Platone alla sostanza anima: ma questa differenza non ha per noi alcuna importanza, perchè Platone riguarda la sostanza anima come una grandezza estesa. Sa noi congiungiamo queste due dottrine, vale a dire la subhiettività delle qualità sensibili dei corpi e l'identità delle operazioni dello spirito col movimento, noi otte- niamo — supposto che queste dottrine siano appartenute real- che rappresenta la materia (1). Ciò che importa sopfA- tutto di notare per V intelligenza dèi motivi di questa dottrina è che sono propriamente le Idee che, in un senso stretto, vengono identificae ai numeri — quantunque Pla- tone dica anche, in un senso meno rigoroso, che le cose sono numeri (2), perchè IVlemento che si aggiunge alle Ide^ per costituire le cose essendo lo spazio, cioè il vuoto, tutto il realrt si risolve nelle Idee, e per conseguenza nei numeri—. Ciò é tanto vero che Ari- stotile dà come carattere distintivo tra la dottrina dei numeri di Platone e quella dei Pitagorici che per quésti le cose constano di nunaerì e sono esne stesso numeri, ma per quello i numeri sono oltre (Tiapac) le cose o separati (XwptaxoC o xsx<*>P^afIAévot) dalle cose (3) A questa distin- zfonfe ne è legata un'altra, la quale implica anch' eséa che i numeri sono per Plaione le Idee; cioè che i nu- meri platonici sono monadici, vale a dire composti di vere unità, mentre le unità che co n pongono i numeri pitagorici hanno grandezza (4). I numeri platonici sono moiiiidici, cioè composti di unità incorport*ee indivisibili, perchè le Idee costituiscono la soia forma delle co«p, e Testensione viene a queste dall'altro elemento, cioè dallo spazio : le unità che compongono i numeri pitagorici hanno grandezza, p *rchè qu »>sti numeri sono le cose mente a Platone - una di queste auddci concezioni, dinnanzi a cui questo filosofo non era solito d' indietreggiare : cioè tutto il reale ridotto all'estensione e al movimento, e per conseguenza, mediante la costruzione della grandezza estesa per lo spazio limitato dalle unità, risoluto nel numero e lo spazio. (1) V. Tim. 48-52, Arist. M-.t, i. I. VI 7. Phys, l. IV. IL 2, 5, eoo. (2) V. Met, l. I. Vili. 18.(3) Met. l. I. VI. 4-5, 1. XIII. VI. 4, 6-7, l. XUl. Vili. 9-10, l. XIV. TLl.%, De Coelo l. III. I. 16. (4) Mei, 1. XIII. TI. 7-9. — 186 — «te^se, i composti di forma e materia, e da ciò Aristo- tile ne conclude che le loro unità sono gli elementi di cai i corpi si compongono, e devono essere anche esse per conseguenza estese e corporee. Questa differenza fra i numeri di Piatone, e quelli dei Pitagorici, cioè che 1 primi sono le Fole forme delle cose e i secondi i com- posti di forma e di materia, spiega anche perchè Ari- stotile non estende a Platone Tobbiezione, ch'egli fa ri- petutamente ai Pitagorici, che è impossibile che la gran- dezza estesa si componga di unità (1). Al numero se- guente vedremo un'altra prova di questa proposizione, che sono le Idee, cioè le forme, che vengono riguardate propriamente come numeri : è la distinzione tra le Idee delle grandezze o grandezze ideali e le grandezze ma- tematiche. Di questi due ordini di grandezze le prime sono numeri, perchè rappresentano delle semplici forme, le seconde no, perchè sono costituite dalle forme e dalla materia: per conseguenza le prime sono riguardate come Idee, ma le seconde (quantunque siano anch'esse degli Universali) come entità intermediarie tra le Idee e le cose. La dottrina che le Idee rappresentano le sole forme delle cosrt è evidentemente in contraddzione coi princi- pii del sistema delle Idee. I termini di cui Platone si serve per designare Vlde&— specie, genere, essenza, natura delle cose particolari-o ch'egli aggiunge al nome per indi- care che questo si riferisce all'Idea— aOxó, aOxò xae^aòxó, 6 Ioti—; le prove con cui ne dimostra l'esistenza — che quasi tutte si riassumono in questa proposizione: l' og- getto a cui si riferisce il concetto e la conoscenza gene- rale è ridea— ; la relazione ch'egli stabilisce tra le Idee (1) V. De Coelo 1. III. L 16-Ì7, Met. 1. XUl. VUl* 9-10, e le cose — che l'Idea è l'uno nei molti, il comune, l'u- niversale, l'astratto (xwptoxóv)— ; tutti gli aspetti, in una parola, sotto cui può considerarsi la dottrina delle Idee, non sono che degli sviluppi diversi di questo principio fondamentale: l' Idea è il concetto generale realizzato. Ora il concetto di una cosa non rappresenta la sola for- ma, ma la cosa stessa, il composto di forma e materia, concepita d'una maniera astratta e generale (1). Se a questa considerazione ne aggiungiamo un' altra, cioè che la dottrina di una materia che deve aggiungersi alle Idee per costituire le cose non si trova che nel Timeo, e che questa dottrina, peri' identificazione della materia con lo spazio, suppone certamente la dottrina dei numeri, — perché questa identificazione non si concepirebbe senza là costruzione del corporale per lo spazio e le uaità che lo limitano —, noi veniamo naturalmente a questa con- clusione che, sinché Platone non ha oltrepassato il sem- plice punto di vista del sistema delle Idee, l'Idea ha do- vuto rappresentare tanto la forma quanto la materia, cioè, per servirei dell'espressone d'Aristotile, il sinolo, 9 che la separazione delle Idee dalla materia e la loro ri- duzione a delle semplici forme è una modificazione po- steriore del sistema delle Idee, sotto l'influenza d'un mo- tivo straniero all'origine di questo sistema e legato alle (1) S.Tomm. Summa, /, Quaesi, LXXXV art, I ;« Alcuni hanno credu- to che la specie d'un essere naturale è solamente la forma, e che la materia non la parte della specie. Ma se fosse c^sl, nelle definizioni degli esseri natu- rali non dovrebbe entrare la materia. Per conseguenza bisogna dire invece che la materia è doppia, cioè la comune e la segnata o individuale: la comune come la carne e l'osso, l'individuale come questa carne e queste ossa. L'intelletto astrae dunque la specie dell'essere naturale dalla materia in- dividuale, ma non dalla materia comune. Cosi astrae la specie dell'uomo da queste carni e queste ossa, che non riguardano la specie, ma sono part deirindividuo; ma non può astrarla dalle carni e dalle ossa»* . — 186 — nuove dottrioe pitagoreggiauti. Qual^j ha potato essere questo motivo ? La risposta ci è suggerita dal fatto che Platone riconduce ai numeri, non le cose stesse, imme- diatamente, ma le loro Idee. Platone crede che vi ha qualche cosa negli esseri che è irriduttibile al numero, e gli sembra più facile d'identificare ai numeri le forme astratte dalla m«teria, che gli esseri stessi, i composti di forma e di materia. . Nel Filebo, che è il primo pa^so di Platone verso il pitagorismo, e in cui si trova il germe di tutt^ le dot- trine pitagoieggianti posteriori (l), si distinguono nelle cose due elementi costitutivi (2), che corrispondono in certo modo ai numeri ideali e alla materia — voglio dire, alla materia delle cose—. Il uépa; del i^^Vcfòo non sono i numeri, ma dai rapporti numerici : numero rapporto a numero e misura rapporto a misura (25 ab). Noi vediamo dunque che Platone non arriva alla dottrina pitagorica che gli esseri sono numeri che a traverso Tidea che la natura degli esseri è costituita da rapporti numerici. Nel JnlebOy il ^épag e TàTieipov non sono ancora identifi- cati alla forma e alla materia : tuttavia il grave e l'acuto, il caldo e il freddo, ecc., che determinati da certi rap- porti numerici, crstituiscoiio Tarmonia, le stagioni, ree, rappresentano qualche cosa come la materia, e i rap- porti numerici che li determinano, qualche cosa come la forma. La materia-spazio del Timeo e degli (Jtypa^ a eóy- fiaxa discende direttamente dalTànstpov del Filebo: è, come questo, l'elemento delle cose irriduttibile al numero. So- lamente, nel Filebo quest'elemento è più comprensivo, rappresenta un più gran numero di determinazioni delle (1) V. questo Supplera. n. IV. (2) V. Supplem. B parte I, n. Vili, carte 97-loo, Còse; nel Timeo e negli i^pa^ct aóYJiaxa è ridotto a ùiì minimum : la differenza tra i due concetti misura il pro- gresso di Platone verso la dottrina pitagorica dei nu- meri; ma Platone non fece m%i l'ultimo passo, quello d'identificare puramente e semplicemente, come i Pita- gorici, le cose coi num »ri. Sembra dalle obbiezioni di Aristotile che ciò che s! trovava di più strano nella dottrina dei Pitagorici era che l'estensione e la corporeità si facessero cons stero nel numero (1). Platone, da un lato, evitava in parte qtie«ta difficoltà, facendo d jlla materia uri elemento delle co»<5 distinto dai numeri; e dall'altro lato, riconducendola materia allo spazio, risolveva, come i Pitagorici, tutto il reale nei numeri. Separando la materia dai numeri, questi non venivano a rappresentare che le semplici forme. Ma ciò che ha dovuto essere il motivo preponde- rante per ricondurre ai numeri le forme delle cose piut- tosto che le cose stesse, è che la forma sembra potersi ridurre ai rapporti numerici tra i sustrati materiali. Ari- ptotile infatti, nella sua polemica contro la dottrina delle Idee, confuta il concetto che le Id^e sono numeri per- che 1« forme delle coss consistono mn rapporti nu- merici delle parti componenti (2); e noi possiamo, per conseguenza, fare rimontire questo concetto allo stesso Platone. Ccriamente dire che le forme delle cose consi- stono in rapporti numerici non equivale a dire che que- ste forme sono numeri, cioè che tal forma è il numero due, tal altra il numero t'^e, ecc.: ma Platone trovava nella prima di queste due proposizioni un' idèa media (I) V. Arist. De Coelo 1. III. 1. 16-17, Mei, 1. 1. Vili. i6, I. Ul. IV. 29, I. XML Vili. 9-1 o. I. XIV. 111. 4. (2) Mei. l. I. IX. J3-14, 1. XIV. V. 6-7. — 181-. per passare alla seconda. Questo passaggio, fondato sulla sostituzione tra due termini non equivalenti ma sempli- cemente analoghi, cioè i due concetti di rapporti nu- merici e di numeri f era senza dubbio un sofisma assai evidente : ma non era che con dei processi cosi poco legittimi che poteva arrivarsi al risultato che le cose sono numeri. Le conside razioni precedenti spiegano perchè non sono le cose stesse, ma le semplici forme delle cose, che vengono ridotte ai numeri : ma perchè le Idee vengono ridotte alle semplici forme delle cose? Evidentemente per identificarle ai numeri. Come spiegheremo in seguito, il risultato a cui tendono le speculazioni pitagoreggianti di Platone è l'identificazione delle sue proprie dottrine con quelle dplla filoso6a pitagorica. Per ottenere questo ri- sultato si mettono in opera al tempo stesso due processi: Tuno è Tintroduzioue nel proprio sistema dei concetti più caratteristici del sistema pitagorico, e Taltro un'in- terpretazione forzata delle formule del sistema pitagorico per ritrovarvi i concetti più caratterlFtici del proprio si- stema. Ora, da una parte, la proposizione generale della filosofìa pitagorica che gli es-teri Fono numeri, e le pro- posizioni particolari che ne fanno l'applicazione, cioè che Tuomo è un tal numero, un tal altro numero il cavallo, ecc., erano troppo caratteristiche, perchè Platone potesse non accogliere nel suo proprio sistema la stessa proposizione generale e delle proposizioni particolari, se non identi- che, analoghp. Queste proposiz oni, riferite agli esseri sensibili, non sono per Platone rigorosamente vere, per- chè egli vede propriamente nei numeri, non le cose stesse, ma le forme delle cose. Ma nel sistema platonico esse non devono riferirsi agli esseri sensibili, ma alle Idee; perchè gli esseri sono per Platone le Idee, e una t)roposizione che parla dell'uomo, del cavallo, ecc. in ge- nerale, ha per oggetto Tldea dell'uomo, del cavallo, ecc. Cosi, riducendo le Idee a delle semplici forme — che sono del resto il solo reale, perchè la materia non è che lo spazio — Platone ottiene, da una parte, di far entrare nel suo proprio sistema le proposizioni pitagoriche rela- tive alla identificazione delle cose coi numeri. Dall'altra parte, l'identificazione tra le Idee e i numori è un mezzo indispensabile per ricondurre le formule pitagoriche ai concetti proprii del sistema delle Idee. Attribuendo, co- m'egli fa — è un punto che dimostreremo in seguito — agli antichi filo^^ofi p'tagorici la dottrina delle Idee, Pla- tone si fonda naturalmente sull'analogia tra questa dot- trina e le dotitrine pitagoriche. Quest'analogia, come ab- biamo osservato, è doppia : primo, i numeri e le altre entità dei Pitagorici sono delle astrazioni realizzate come le Idee platoniche; secondo, i numeri pitagorici rappre- sentano, non la causa materiale o la motrice, come i principii degli altri filosofi anteriori a Platone, ma, come e Idee platoniche, la specie e il concetto. È dunque nella dottrina d»^i numeri che Platone crede di scoprire la dottrina delle Idee : ma se le Idee non fossero anche per lui identiche ai numeri, questa pretesa scoverta non raggiungerebbe il suo scopo, che è d'identificare la sua propria filosofia con quella dei Pitagorici, o piuttosto dei loro antichi predecessori. 11 legame della dottrina della materia, come un se- condo elemento delle cose distinto e separato dalle Idee, con la dottrina dei numeri è dimostrato, come ab' biamo detto, dalla identificazione della materia con lo spazio, perchè questa suppone la costruzione del corpo per lo spazio e i punti che lo limitano, concetto che evi- dentemente non poteva nascere che al punto di vista — IfiS — delle dottrine pitagoriche sui numeri (1). ^ ciò si pi^rà obbiettare che Platone ha polnto, nel periodo anteriore a quello in cui seguiva le dottrine pitagoriche sai nu- meri, ammettere la separazione delle Idee dalla materia e questa come un principio distinto, senza ancora ricon- durla allo spazio. Ma noi non troviamo né negli scritti di Platone né in quelli d'Aristotile alcuna traccia di una dottrina della materia come principio distinto diversa da quella del Timeo. Dalla lettura d' Aristotile risulta anzi chiaramente l'impressione eh' egli non conosceva altra (1) Per altro, che la costruzione della grandezza per i limiti eie spa- 210 racchiuso appartenga alle ultime speculazioni di Platone, é provato dalle contraddizioni di questa dotttrina coi principii della sua fìsica La costruzione piato nica non potrebln: applicarsi ad altre superficie che a del piani né ad altre linee che a delle rette, e per conseguenza essa sup- pone la dottrina dei corpusccli poliedrici. Ma questa dottrina richiede necessariamente l'ammissione del vuoto, perchè, come osserva Aristotile {D^ Coeìo) 1. 111. Vili. l),due solidi solamente, cioè il cubo e la piramide, potrebbero riempire ccmpletamente lo spazio. Intanto Platone nega lesi-' stenza del vuoto (v. 7im, sSa-c, óob-c. 79b-80c, Arist. Degen. 1.1. Vili. 9, De Coelo 1. llj. Vili. 1); e questo è uno dei punti fondamentali della* sua fisica, come lo mostra sovratutto la teoria dell' impulsione circolare V, 7im. 60b- e e /9b-8oc), che ha in questa fisica un'importanza capi- (lale, e che Piatone (come gli altri filosofi antichi che negano il vuoto) ammettere per ispiegare la possibilità del movimento senza il vuoto. Questa incoerenza dimostra che Platone non cominciò ad ammettere la dottrina dei corpi geometrici, e, per conseguenpa, la costruzione del cor- porale con cui essa è legata, che dopo che le sue idee generali sulla fisica si erano già fissate. Un'altra incoerenza non meno grave è la coesistenza nel Timeo della teoria dei quattro elementi con quella dei corpuscoli geometrici (la qnale sup- pone che vi siano altrettanti elementi che poliedri regolari) Più tardi Platone è più conseguente, e ammette coi Pitagorici un quinto elemento. Il carattere provvisorio della dottrina del 7im^o prova ch« la costruzione del corpo dallo spazio e i piani e, quindi, la dottrina della materia-spazio non possono datare da un'epoca molto anteriore a quella in cui fu scritto questo dialogo, nel quale tutti i critici si accordano a vedere una delle ultime composiiioui di Platone. forcmi doJto, dattrina pl^tQi^ca della mHt0rlaHr ben jKvtem della materia come entità sussistente per se stessa e distinta realmente dalla forma— che qu«»lla che è stata espo- sta nel Timeo e in cui essa viene idt ntiflcata allo spa- zio (Ij. Inoltre una vera materia— cioè una materia covi- ci ) In De gen. et corr, I. II. 0. I, stabilendo ì! principio che la ma- teria è inseparabile dalle contrarietà (il caldo e il freddo, il secco e l'u- mido) e non vi ha una materia X^P^^'^'^Q <lagji elementi, parla delie dot-» trine opposte a questo principio, e tutto ciò che dice di Platone si rife- risce alla descrizione che vi ha nel Timeo (5oac) della materia come* massa informe, prima che essa venga, ricondotta allo tpasio (« Ció> poi che è scritto nel Timeo non ha niente di definito; poiché, né si dice chiara- ramente se quello che riceve tutto X^P^C^'Cat dagli elementi^ né si fa alcun uso di alcun principio tale, quantunque prima si sia detto che vi ha qualche cosa che serve di sustbato agli elementi come l'oro agli og- getti aurei »). Siccome questa rappreseniaaione delia materia e in con- raddiaione eoo la sua identificazione allo spaaip, Aristotile crede di viti* dervi un accenno a un concetto distinto della materia, in cui essa ver- rebbe riguardata come un sustrato reale e non come un semplice spazio vuoto (sustrato che, conformemente alle dottrino esposte nel Timeo, do- vrebbe essere X^P^^'^^^ dagli elementi, ma che Platone non determina come tale, poiché egli invece non riconosce altra materia X^P^^*^ che lo spazio). Questo vago acc» nno del Timeo è tutto ciò che Aristotile trova nei concetti platonici di relativo a una materia X^P^^*^^ "• ^"' inteso, a una materia X^P^^*^^ concepita come alcun che di reale e non come spazio vuoto— . In Phys. l. IV. II. t dice: « Perciò (perchè lo spazia, pare l' intervallo della grandezza) Platone dice nel Timeo che la infiteria e lo spazio sono lo stesso : infatti il partecipante e lo spazio sono una sola e stessa cosa. Quantunque ivi e in quelli che si dicono dogmi non scritti chiami il partecipante diversamente, pure egli stabili che esso è il luogo e lo spazio ». E poi (1. IV. II. 5) : « Platone aviebhe dovuto dire perchè le Idee e i numeri non sono nello spazio, se il partecipante é lo spazio, sia che il partecipante sia il grande e piccolo, sia che esso sia la maicria. come scrisse nel Ttmeo; Aristotile non conosce dunque altre dottrine di Platone sulla materia, quale principio distinto dalle Idee e partecipante ad esse, che quella del Timeo e quella dei;li fiYP*9* 5ÓY|iaxa (la quali» — 189 — -TT" « » « rispondente al concetto ordinarlo della corporeità — se- parata dalle Idee sarebbe inconcepìbile nel sistema pla- tonico. L'essere per Platone sono le Idee ; qnindi egli non avrebbe potuto ammettere alcun che di reale che non si risolvesse in Idee. Nel Timeo può ancora chia- mare le Idee Tessere, quantunque con esse coesista nelle cose un altro elemento, perchè quest'altro elemento non è che lo spazio vuoto. Tutto nel sistema di Platone deve essere ricondotto a dei concetti realizzati : nel mondo d^^lle entità platoniche i^n principio che non fosse un concetto realizzato sarebbe cosi strano, come lo sarebbe un concetto realizzato in mezzo agli esseri del nostro mondo, di noi che non am- mettiamo che delle esistenze concrete. La materia — spazio era conciliabile col sistema dei concetti realizzati, non solo perchè lo spazio non è niente di reale, ma an- che per un altra ragione: è che lo Spazio può riguar- darsi anch'esso come un concetto realizzato. Trattandosi dello Spazio, V Idea, cioè il concetto realizzato, non si distìngue dalla cosa stessa. L' Idea è V uno nei molt^ vale a dire è ciò che vi ha di comune in tutti i parti- colari che cadono sott.o uno stesso concetto generale. Per conseguenza là dove non vi hanno molti, là dove un concetto non si riferisce che ad un solo particolare, la cosa e Tldea, T individuo e la specie, si confondono. Ciò non vuol dire che, se vi fossero Idee d»^gli oggetti concreti unici nella loro specie, quali il sole o la tTra — *» dovrebbero esservene, secondo la definizione dell'Idea: la causa esemplare di ciò che vi ha di costante nella natura (1) — le Idee di questi oggetti non si distìngue- non sì distingue dalla prima, che perchè nel Timeo la materia non è ri- condotta al Grande e Piccolo). (1) V. Proclo in Parm, V. I33. rebbero dagli oggetti stessi. Questi essendo sottoposti alla successione e al cangiamento, il molti è in essi rap- presentato dalla moltiplicità dei loro stati successivi; e l'uno nei molti, cioè l'Idea, sarebbe per essi ciò che vi ha d'identico in questi stati successivi. Ma nello Spa- zio non vi ha né successione né cangiamento : per con- seguenza siccome non vi ha che un oggetto unico che corri<4ponda al concetto dello Spazio —vale a d<re dello spazio infinito, di cui tutti quelli che in un altro senso del termine Tchi amiamo spazi sono delle parti — cosi la Idea dello Spazio e lo Spazio non fanno che una com sola (1). Perciò Platone, quantunque dica dello Spazio ch'esso è 1' oggetto di un concetto spurio — perchè un concetto, nel senso stretto del termine, è la rappresenta- zione dell' uno nei molti — pare lo chiama elòo<; (2) e Yìvo^ (3). Ma trattandosi della materia — voglio dire della vera materia —, l'Idea, cioè il concetto realizzato, e la cosa sarebbero necessaiiamento distinte. Ora quale sa- rebbe, nell'ipotesi di una dottrina della materia diversa dallo spazio, la materia che Platone avrebbe riguardato come un principio distinto dalle Idee e ch'^ bisogna ag- giungere ad esse per costituire le cose? La materia reale (1) Si potrebbe dire che l'Idea dello spazio e lo spazio diflerirebl>e:0 in quanto la prima saiebbe, come le altre Idee, al di fuori del Unipo. Ma se si fa dell'astrazione spazio un'entità, non si è obbligati —quando si pensa che vi hanno delle cose fuori del tt-mpo-ad ammettere che qm si'entità è nel tempo; né Platone dice mai che lo spazio di cui egli parla nel li- meo, considerato in se stesso (aùxò xaG'aOxó), sia sottoposto alla con- dizione del tempo, anzi implicitamente lo esclude, quando fa del tempo una cosa generata e dice che Vera e il satà non devono attribuirsi che alla genesi e al sensibile (v. Tim. 37 d-38 b). (2) 7im, 49 a, 5I a. CV) 48 e, 5O e, 52 a. -.-r'-" ù Udea della materia? Non avrebbe potuto essere (a materia reale, perchè tutto nel sistema platonico deve riduwj ad Idee, a concetti realizzati, e per conse^^uenza egli avrebbe dovuto ammettere un Idea, un concetto rea- lizzato, anche per questa materia, e allora il principio da cui e dalle Idee le cose verrebbero, sarebbe, non la materia reale, ma ridea della materia. Ma questo prin- cipio non ha potuto essere nemmeno Tldea della mate- ria, perchè è evidente che il principio materiale è per Platone un'entità astratta si, ma non generale (1). Se fosse un'entità generale, non si identificherebbe con lo spazio. Piatene riguarda lo spazio come identico, non al concetto generale dellVstens one corporea realizzato, ma all'estensione reale dei corpi individuali. e Questo carattere che distingue la materia delle cose dalle altre astrazioni realizzate del platonismo, di non essere cioè un'entità generale, fa che essa rappresenta, in <iue8to sistema, il principium individuationis. Non vi ha per noi niente di più vano che le discussioni de- gli scolastici sul principio d'individuazione. È che noi siamo nominalisti, e la ricerca del principio, cioè della causa, dell'individuazione suppone se essa ha un senso, che l'essere sia dapprima generale, e poi s'individualizzi in virtù di questo principio. La quisfone tanto agitata dagh scolast'ci era un legato del platonismo. La cosa individuale è costituita hi condo Platone da un elemento che essa ha in comune con altre cosp, cioè l'Idea, e da (M.i 1. 111. IV. 6 8, I. XI. 11. lo, I. XII. V. 3, ecc.) in cui e|,li riguarda, nel sistema platomco, la forn^a come equivalente al generale, e Usinolo] cioè 1 composto della forma e della materia, come equivalente airindi- viduale-ciò che non farebbe, se la materia fosse anch'essa un'entità ge- nerale come la forma. ^ Uh elemento che le è proprio e inoomutlicabile con aiti^ co -e, cioè la materia -^ perchè la materia di un ijorpo, vale a dire lo spazio che esso occupa, è necessariamente dist nta dalla materia di tutti gli altri corp^, e per tutte qut\ste materie individuali, cioè per tutte queste porzioni di materia o di sp>«zio, non vi ha un che di comune a cui esse si riducano, lo spazio o la materia non risol- vendcisi per Platone, come le altre cose, in un' entità universale — : ne segue che la materia — spazio è nel si- Hiema platonico il principio alle cose dell' essere, come dicevano gli scolastici, incomunicabili y cioè dell'essere degl'individui e Lon delle ent tà comuni. Non è ds^qme da mettere in quistionc ch»^ la mate ria funga, nel si steiua platonico, da principiujn individtéationis t la qui- siioue che potrebbe farsi sarebbe al più se Platone l'ha e.<plic'itameute riguardata come tale, cioè se egli si è proposto effettivamente il problema della causa dell' in- dividualità, dando a questo problema l'unica soluzione per lui possibile, e che era contenuta implicitamente nella dottrina dei due < lementi, l'uno generale e l'altro indi- \iduale, di cui egli componeva le cose. Ora a questa quistione dobbiamo rispondere affermativamente. Noi ab- biamo visto infatti che, nel Timeo, la ragione per cui l'immagine dell'Idea esiste nello spazio è che essa « deve esistere in qualche «Itra cosa, attaccandosi in qualche manieri aU'tsistenza, o non essere assolutamente nien^' te» (i); e che, nel '« spc sizione d'Aristotile, la materia è la ciiUsa dcila moltiplicità degli esseri (2). Si noti che Aristotile dà anche la materia come la causa deila inai- ci) V. Suppleni. B. parte II. n. 11. sulla fine. (2) V. questo stesso Supplemenco, carta I70. -191 — t*m P^ tiplicità delle unità (1), e che, discutendo il sistema di Speusippo (2), suppone che sia una necessità per questo filosofo di spiegare, per il principio materiale, la molti- tiplicità, tanto delle unità quanto dei punti (che per . Speusippo differiscono dalle un»tà): ciò prova che la ma- teria non é solamente la causa per cui Tessere primitivo si scinde in una moltitudine di essenze generali, ma an- che per cui ciascun' essenza generale si scinde in una moltitudine di esistenze particolari. La soluzione che Platone dava al problema deir in- dividuazione era la stessa che poi si presentava imme- diatamente agli scolastici, quando si proposero la prima volta lo stesso problema. Il fatto non è casuale, perchè il realismo e il semi-realismo del medio evo si riattac- » cano al platonismo, sia direttamente sia per i vestigi dei concetti platonici che si trovano in Aristotile (3). La dot- trina tomista sul principio d'individuazione era una ri produzione della platonica, perchè essa si trovava in germe in Aristotile, e questo germe era uscito da Platone. Aristotile adottò, come si sa, la dottrina platonica che le cose constano di due elementi, la forma e la materia, salvo che questi due elementi sono per Platone degli esseri reali e realmente distinti, mentre per Aristotile non sono che delle astrazioni mentali e non si distìn- guono che logicamente. Aristotile riguarda anch' egli, all'esempio di Platone, la forma (eldo^) come l'oggetto del concetto generale della cosa, e perciò come l'elemento co- mune a tutta la specie, e la materia come l'elemento proprio e differenziale dell'individuo — in altri termini questa ma- ter'a, che è l'uno dei due elementi in etti te spirito de- co'nponelacosa, none per lui la materia comune, come l'al- t' o elemento, la forma, è la forma comune, ma è la materia, come dice S. Tomma^^o, segnata o Individuale— : per conseguenza l'opposizione tra l'elSog in se stesso e il si- nodo, cioè il composto dell'elSog e della materia, equivale per Aristotile all' oppo'^izione tra il generale e l'indivi- duale (lì. La distinzione della forma e della materia, per Aristotile, non è, come abbiamo detto, che logica : tuttavia (come può vedersi in molti dei luoghi indicati nella nota precedente) egli esprime spesso questa distin- zione in termini più appropriati al r«>alismo platonico che al proprio concettualismo, e, a prendere certi luo- ghi isolatamente, si direbbe che le sostanze seconde — è cosi che veng^ono chiamate la forma e la materia— siano per Aristotile delle sostanze nel senso stretto della pa- rola, come la forme e la materia platoniche (1). Eviden- temente Aristotile deve a Platone, non solo la distinzione tra elòo^ e materia, con le due funzioni diverse di ele- mento generale e di elemento individuale assegnate al- l'uno e alTalira, ma anche la forma troppo realista in cui egli presenta questa distinzione. È alla scuola di Platone che Aristotile ha appreso a trattare delle sem- plici astrazioni come degli esseri reali : inoltre i suoi Bcritci sono indirizzati a un pubblico che è stato anche 0) Mei. 1. XIV. 11. 11. (2) AJci, I. XIII. IX. 6-12. (3) Cfr, e. VU. pag. 46-53. (1) V. Mei. 1. Ili 1. lo, IV. 3, 6, 1. V. VI. i5, 1. VII. Vili. I-4, 8, XV. 1-2, 1. vili. 1. 6, I. X. 111. 3, 5. IX. 2-3, 1. XI. 11. lo, I. XII. III. 8-4, 1. XII. Vili. 12, De Coelo I. I. IX. 2-5, ecc. Sono notevoli sovratutto i due ul imi luoghi : rultim> l'u 1' occasione della quistione sul principio d'individuazione; il pcnuUinio è più vicino ancora di questo e di qualsiasialtro luogo che io ricordi in Aristotile, alla dottrina di S. Tomn^so, (I) Cfr. e, VU. pag. 47 e seg., .^ -192- l'il Sm ' - «880 kfla scuola di Platone, ed egli deve presentare i auoi ooinoetti nella forma più prontamente intellig:iblle e più accettabile per il pubblico per cui scrive (I). Gli scola- stici, anche quelli che non sono francamente realisti, rin- cariscooo su questa tendenaa d'Aristotile a trattare dei meri concetti come realtà : di ìk le discussioni sul prin- cipio d* individuazione. Ora, la forma rappresentando, come abbiamo detto, per Aristotile Telemento generico, e la materia l'elemento proprio e differenziale dell'indi-idiwo, gl'interpreti più fedeli d'Aristotile non potevano trovave il i»riiicipio d'individuazione che nella materia. Può parere singolare che i veri realisti, cioè Duns Scoto e 1 aioi, respingessero questa soluzione, quantunque la più vicina a quella di Platone, al quale essi erano i più vicini. Ma non vi ha in ciò niente di sorprendente, per- chè una materia che non venga ricondotta a un' entità universale, è, come osservammo, in contradizione coi postulati fondamentali del sistema realista. Ora se si fa anche della materia un'entità universale, essa finisce di essere l'elemento proprio e incomunicabile dell'individuo, e diviene invece, come la riguardavano gli scoti sti, ciò che vi ha di più elevato nella scala della generalità. Prima di passare all'argomento del numero succes- «ivo, aggiungiamo qualche osservazione sui rapporti della dottrina della materia delle cose con le dottrine dei Pi- tagorici. Questa dottrina, a parte la costruzione della grandezza estesa per lo spazio e i limiti, che non po- tremmo attribuire con sicurezza ai Pitagorici, poteva Hattaccarsi ai loro concetti so vrututto nei punti seguenti: Primo, tanto Platone quanto i Pitagorici (2) riconducono i 7 I lo spazio air STistpov. Seconde», la costruzione del corpo pf»r lo spazio e i limiti, e anch**, come abb-ano osser- vato, la decomposizione dello cose nei due elementi for- ma e materia potevano mettersi in rapporto con la dot- trina pitagorica che le cose constano del népag e dello ànstpov. In fine, in certe proposizioni dei Pitagorici il concetto della materia sembra confuso con quello dello spazio (1). IH. Le entìtii matematiche Le entità matematiche sono gli oggetti delle scienze matematiche (2), in altri termini i concetti, su cui vol- gono queste scienze, realizzati. Per sci^^nze matematiche bisogna intendere le matematiche pure, cioè l'aritmetica e la geometria, a per entità matematiche quindi i nu- meri e le grandezze geometriche (le figure) (3). In ef- fetto Aristotile non parla mai di altre entità matemati- che (4): di più egli esclude che Platone ne abbia am- messo delle altre, quando gli rimprovera come un' in- conseguenza di non aver supposto delle entità simili, come per l'aritmetica e la geometria, anche per Tastro-(i) Cfr. oap. VII. pag, 52. (1) V. Arist. Phjs. U IV. Vi. 7, (ofr. l. Ui. IV. 2) e Stob. 1. 180. (1) V. i l. indicati nella nota precedente e Zqììqt FU. ilei Greci pag. 353, 382, 404-406. (•>) V. Mei. 1. I. IX. 16, 1. III. II. 15, l. VI, I. 5, l. XT. T. 8, l. XIII. II. 5-9, l. XIII. Ili, l. XIII. VI. 3, l. XIV. III. 3-4, eco. (3) V. Mei. l. III. I. 15 (ofr. l. XJII. I. 4 e II), l. III. II. 20, l. III. III. 11, eoo. (4) V. Met, l. III. I. 15, 1. XIII. I. 2, 1. XIII. II, Iti, VI. 6-8, IX. 2-14, l. XIV. II. 9, III, 4, 8-12, eoo. 0 PVP maàti tìmiifssi nomia, la prospettiva, V armonia, in una parola per le matematiche applicate (1). Le entità matematiche non sono che degli universali sostantilicati come tutte le altre entità della metafisica pla- tonica (2) : ma Platone le distingue dalle Idee, perchè le Idee, nel periodo pitagoreggiabte, sono i numeri ideali, ed egli non riconduce i concetti u>atematici a dei numeri ideali. Il carattere generale per cui le entità matematiche si distinguono dalle Idee, è che ve ne sono molte della stessa specie (3). L'Unità, U Diade, la Triade, ecc. idea- le è una sola; ma vi ha un' infinità di unità, di diadi, di triadi^ ecc. matematiche (4) Ciò vuol dire evidente- mente che nei numeri in cui V uno, il due, il tre, ecc. sono contenuti più volte, vi hanno altrettante unità, diadi, triadi, ecc. quante volttì bisogna ripetere Tuno, il due, il tre, ecc. per formare questi numeri (5), e che Platone ha riguardato tutte queste unità, diadi, triadi, ecc. come altrettante entità distinte. Cosi vi ha dapprima il numero due, poi T altro due che bisogna aggiungere a questo numero per avere il numero quattro, poi Taltro che bisogna aggiungere ancora per avere Jl numero sei, e cosi di seguito. Ciascuno di questi d^e è un'entità ma- tematica : essi sono infiniti, perchè il numero aumenta sino all'infinito; sono della stessa specie, perchè un due non differisce da un altro. iM a questa moltitudine dì due (1) V. Met, 1. III. II. 17-22, 1. XIII. II. 7-8. (2j V. Arisi. Met. l. I. VI. 3, 1. 111. 11. 15 sqq., 1. 111. Ul.Jl, 1. XI. I. 6-8, 1. Xlll. I-lU, VI, An. Pont, 1. I. XXlV.B,eco. Cfr. Fiat. Ifep. 509 d-511, 521-527, 583 b-534 a. Fedone lOJ o, 104 d, ecc. (3) V. M^t. 1. I. VI. 3, 1. m. VI. 1-2, ecc. (4) V. Met, 1. I. IX. 5, 1. Xlll. IV. 10, ecc. (5) Cfr. Arisi. Met, 1. Xlll. VII. 2, 7, 8, 11, 12, U, 16, 11), 21, 24-25, Vili. 5-7, 18. non possono essere tutti dei due che per la partecipa- zione comune ad un' essenza unica : questa è l'Idea del due, che non è altra cosa che il numero ideale Due. Della stessa maniera le molte unità matematiche non sono tali che per la partecipazione dell'unica Unità ideale; le molte triadi, tetradi, ecc. matematiche, per la parte- cipazione dell'unica Triade, Tetrade, ecc. ideali (1). La Unità, la Diade, la Triade, ecc. ideali, in quanto sono le essenze comuni di tutte le unità, le diadi, le triadi, ecc. particolari, sono chiamate l'Unità stessa (aùxi^), la Diade stessa, la Triade stessa (2); e perchè è da esse che pro- cedono le molte unità, diadi, triadi, ecc. particolari- per la relazione dì anteriorità e posteriorità che vi ha tra il generale e il particolare— sono anche chiamate ìsiprima unità, la prima diade, la prima triade, ecc. (3). Tra i numeri ideali e i numeri matematici non vi ha dunque, al fondo, che il rapporto che corre tra le Idee generiche e le Idee specifiche : ma Platone nega ai numeri mate- matici il nome d' Idee e di Specie, perchè questi nomi, nel periodo pitagoreggiante, non vengono attribuiti che ai numeri ideali. Per ispiegare come nei numeri ideali non ve ne hanno molti della stessa specie, egualmente che nei numeri ma- tematici, Platone mette innanzi un'altra differenza fra le due specie di numeri : è che i numeri matematici sono comhinabiliy cioè si addizionano fra di loro, ma i numeri (1) V. Met. 1. I. IX. 5, 1. Xlll. IV. 10, 1. Xlll. Vili. 5-7, 1. I. VI. 3-4, 1. 111. VI. 5-2, ecc. (2) V. Mei, 1. I. IX. 5, 1. I. IX. 16, 1. Xlll. VI. 2, l. Xlll. VII. 1, 9, 12, 14, 15, 21, 22, 24, 1. Xlll. Vili. 13, 19, ecc. {?.) V. Met. 1. Xlll. VI. 2, l. Xlll. Vn. 1, 4, 7, 8, 11,12, 19, 20, 24, l. XUl. VIU. 5-7, eco. — i94 — iae ideali sono inconib inabili, cioè non si addizionano fra di loro (1). Cosi un numero ideale non può riguardarsi, del pari che un numero matematico, come composto dei nu- meri più piccoli in cui può decomporsi (2) ; e per con- seguenza, nei numeri ideali in cui il due, il tre, ecc. sono contenuti più volle, non possono distinguersi al- trettante Diadi, Triadi, ecc., e considerarsi quali entità per sé come avviene nei numeri matematici. Alla quistione perchè i numeri ideali siano incombinabili Pla- tone risponde che l'addizione suppone l'omogeneità del'e unità che si addizionano, ma dei numeri ideali distinti costituiscono delle specie differenti, e per conseguenza le unità di un numero non sono omogenee con quelle di un altro (3). (1) V. Met. 1. Xni. VI. 2-5, VU, VHl. 1-7, 26, ecc. (2) Infatti, se il numero minore fosse una parte del numero maggiore, l'Idea rappresentata dall'uno sarebbe una parte dell'I- dea rappresentata dall'altro. P. e. se il Tre fosse una parlo »lel Quattro, e il primo rappresentasse 1' Idea dell' uomo e il secondo quella del cavallo, PIdea dell'uomo sarebbe una parte di quella <lel oavallo (V. Arist. Met. 1. XIU. VII. 25, Vili. 19, ecc. L' obbiezione contenuta nel secondo di questi luoghi è diretta contro la dottrina di Xenoerate, che identificando il numero ideale col matematico, oglìeva necessariamente a quello il carattere per cui Platone lo aveva distinto da questo, e lo faceva combinabile). Aristotile {MetA, XUl. VII. 9-11 e 25-26) accenna anche ad un'al- tra ragione, per cui, nei numeri ideali, il minore non potrebbe riguardarsi come una parte del maggiore. È che in questo caso sa - rebbe impossibile la generazione dei numeri quale l'ammette Pla- tone. Se p. e. il Due (ideale) fosse una parta <lel (Quattro, questo nascerebbe per l'aggiunzione di due altre unità a quelle del Due : ma allora, per generare il Quattro, non dovrebbe rendersi conto ohe dell'origine dello due nuove unità soltanto, e per conseguenza esso non potrebbe generarsi dalla moltiplicazione del Due per la Dualità indefinita. (3) V. i I. indicati nella nota penultima, e inoltro A/W. 1. I. IX. 15- 17, 1. XIV. VI. 9, eoo. Le entità geometriche sono pure molte ed infinite quelle della stessa specie, come i numeri matematici. Platone ammette due classi di entità pei concetti delle grandezze, come per quelli dei numeri : le grandezze matematiche e le Idee di queste grandezze. Le grandezze matematiche— che sono anch' esse, come abbiamo detto, degli universali sostantificati — non sono delle semplici forme come le Idee, ma contengono una materia iden- tica, al fondo, alla materia delle cose, cioè allo spazio, poiché non è altro che le dimensioni dello spazio gene- ralmente considerate; per conseguenza, siccome il nu- mero non rappresenta che delle pure forme, esse non vengono identificate a dei numeri (1). La materia delle linee si chiama W Lungo e Corto'^ quella dei piani il Largo e Stretto^ quella dei solidi VAlto e Basso: queste sonodelle forme del Grande e Piccolo (-2) (Dualità indefinita). Cosi nella Dualità indefinita Platone confonde tre con- cetti differenti, facendola servire al tempo stesso da ma- teria delle Idee, da materia delle cose e da materia delle grandezza matematiche. Questo per Telemento materiale: in quanto all'elemento formale (l'elSoc), le grandezze ma- tematiche lo ricev ono dai numeri ideali (3). Le linee vcn- (1) Met, 1. 1. IX 18-19, 1. ni. IV. 30, 1. XUl. IX. 2-4, 1. XIV. 11.9, 11, 1. XIV. 111. 8-10, eco. (2) V. Mei. 1. 1. IX. 18-19, 1. XUl. IX. 2-4, I. XIV. U. 11, ecc. (3) V., oltre i l. indicati nella nota seguente, quelli (che indi- cheremo in seguito) in cui le entità matematiche vengono date come intermediarie tra le Idee e i sensibili; ai quali aggiungeremo anche quegli altri in cui Aristotile riguarda le grandezze come po- steriori ai numeri ideali o, ciò che è lo stesso, come procedenti da essi (Met. 1. XIU. IX. 2-4, 1. I. IX. 19, I. lU. IV. 30, ecc.); e in cui dà le Idee come specie, non solo dei sensibili, ma anche delle entità matematiche {Mei. 1. 111. VI. 1-2, 1. A'IU. Vili. 17, ecc.), e come cause tanto dei primi quanto delle seconde {Met, I. 1. VI. 3, 4, 7, 1. XIV. U. 15| eoo.). li Ém m gono dal numero ideale Due (e dal Lungo e Corto); i piani dal Tre (e dal Largo e Stretto); i solidi dal Qua^ tro (e dall'Alto e Basso) (1) (a questi numeri Platone ad un'altra epoca o alcuni dei suoi discepoli sembrano averne sostituiti degli altri (2); ma ciò non ha per noi alcun'im- portanza). Il Due ideale dà dunque l'elSo^ alle linee, il Tre ai piani, il Quattro ai solidi (3); o, ciò che vale lo stesso, il Due ideale è Velòo(; generale delle linee, il Tre dei piani, il Quattro dei solidi (4). Ma quantunque Pla- tone chiami questi numeri 1' elòog della linea, del piano e del solido, egli non vuole che si dicano la linea stessa, il piano stesso e il solido stesso (5) : ciò ò evidentemente (1) Arisi. Met. 1. XIV. IH. 8-10, 1. VH. 11. 3-4, De an. 1. 1. U. 7, Ps. Aless. in Mct. 1. Xll. IX, ecc. (2) V. Met. 1. XIV. 111. 9, 1. Xlll. IX. 3. L' autore dell' P:puw .-. (V. 991 a) sembra riguardare 1' otto come il numero del solido (e conseguentemente il quattro come quello del piano). (3) Ps. Aless. in Met. 1. Xll. IX. (4) V. Arisi. Met. 1. VII. XI. 3-4, De an. l. I. 11. 7, ecc. (5) V. Met. 1. VII. XI. 3-5. In questo luogo Aristotile distingue due scuole platoniche: l'una riconduce tutti i concetti, anche quelli delle grandezze, alle semplici forme, e per questa il Due ò la linea stessa — è la scuola di Xenocrate, che sopprimeva la distinzione delle entità matematiche dalle Idee, e risolveva per conseguenza in numeri ideali anche le grandezze (v. questo Supplem. n. V)-- l'altra — sono i platonici strettamente ortodossi — non ammette che i numeri ideali rappresentino le grandezze stesse, ma solamente il loro elemento formale, e per questa l'sISog della linea, cioè il Due, differisce, per conseguenza, daUa linea stessa — È certamente per questa distinzione tra i numeri della linea, del piano e del solido e la linea, il piano e il solido stessi, che Aristotih> domanda se si deve ammettere o no che questi numeri siano delle Idee {Met. 1. XIV. III. 10). Ma non può esservi alcun dubbio che i Platonici non li considerassero effettivamente come tali : ciò risulta chiaramente dai 1. indicati nelle note precedenti, ei è incluso nella proposizione di cui in seguito, che le entità matematiche sono intermediarie II /] perchè essi rappresentano la sola forma della linea, del piano e del solido, e non le cose stesse, vale a dire la forma congiunta alla materia. Il numero della linea, del piano e del solido erano i soli numeri ideali, e per conseguenza, le sole Idee, che Platone ammettesse per le grandezze (1): e in effetto, queste Idee erano riguardate come le specie, nel senso moderno del termino, delle grandezze matematiche (2); quantunque tra le une e le altre, piuttosto che il rap- porto tra specie ed individui, vi fosse in realtà quello tra generi e specie. Oltre alle grandezze matematiche, ci si parla anche dì un altro genere di grandezze, che Aristotile distingue con la designazione di jwsterlori ai numeri (jisxà toò^ àpt0|ioóc— Me/. I. I. IX. 25-)o jyosteriori alle Idee (jjLSxà xàc; Laéas--XIII. VI. 8-). Alessandro d'Afrodisia (ad Met. 1. I. IX. t. 80) ci spiega che queste grandezze erano la Linea stessa, il Piano stesso e il Solido stesso, che Pla- tone riguardava come i principii da cui procedono le linee, i piani e i solidi matematici, e che, come questi, tra le Idee e le cose, le Idee, tra cui e le grandezze reali tramez- zano le grandezze matematiche, non potendo essere ehe i numeri da cui queste procedono e che ne rappresentano l'SiSo^. Del resto questi numeri sono chiamati Idee dallo stesso Aristotile nelle pa- role che seguono immediatamente al luogo indicato : " questi che a questo modo riattaccano le entità matematiche alle Idee f,; qui la parola tSéat riferendosi evidentemente ai numeri da cui de- rivano le grandezze matematiche, dei quali sopra ha parlato. (1) V. Arist. 3/é^/.l. Xlll. in. 8-10, Ps. Aless inMetA.XU.ìX. ecc. (2) V. Arist. Met. 1. VII. XI. 4-5. Se Platone dice che delle gran- dezze matematiche ve ne hanno molte della stessa specie, è ap- punto perchè considera l'siSo^ della linea, del piano, del solido come la specie, nel senso stretto, delle linee, dei piani, dei solidi mAtematioi. Mti tm egli dìstitigtieya dai numeri ideali (1). Naturalmente la Linea, il Piano e il Solido stessi differivano dalle Idee (numeri ideali) della linea, del piano e del solido, in ciò, che queste erano le semplici forme, mentre essi compren- devano anche la materia (2). La Linea stessa era Vslòo<; della linea (il numero ideale Due) congiunto col Lungo e Corto; il Piano stesso V el8og del piano (il Tre) con- giunto col Largo e Stretto; il Solido stesso VBlòo^àeì so- lido (il Quattro) congiunto eoa TAIto e Ba«so. Per con- ci) Questa spiegazione presenta, a dir vero, una difficoltà, ed è ohe Aristotile parla {Met. 1. 1. IX. 26), non di una linea, un piano e un solido, al singolare, ma di linee, piani e solidi, al plurale. Tuttavia noi dobbiamo accettarla, perchè essa ci permette di coor- dinare d'una maniera coerente la dottrina a cui allude Aristotile, all'insieme delle dottrine platoniche sulle entità matematiche. Per conciliare la ipiegaziono d'Alessandro col testo d' Aristotile, non abbiamo bisogno di supporre un' innovazioae di alcuni discepoli, che avrebbero aggiunto alla Linea, Piano e Solido in sé di Pla- tone altre entità dello stesso ordine, alle quali le parole d'Aristo- tile avrebbero potuto egualmente applicarsi : basta di ammettere che questi intende discutere la dottrina, a cui allude, nel suooou- oetto essenziale, cioè la distinzione tra le grandezze fisxi TOÒ^ aptOfiOÓg e le matematiche, anziché nella forma accidentale ohe Platone ha dato a questo concetto Non è senza ragione se di gran dezze fiexà TOÙ^ àpi0|JLOÓC Platone ne ammette queste tre solo: A ohe di esse non potrebbe esservene che una per ciascun'Idea delle grandezze e per ciascuna forma del Grande e Piccolo quale mate- ria delle grandezze; ognuna di esse non essendo, come diciamo in séguito, che un'Idea di grandezza e la forma corrispondente del Grande e Piccolo, pensate, non saparatamente, ma insieme. Ma Ari- stolile pare non comprendere ciò, perchè inclinato, com'egli è, al- l'interpretazione trascendoit aliata del sirtema delle Idee, sembra supporre ohe queste entità siano separate dalle loro ldee;e perciò crede arbitrario ohe se ne ammettano di pih o di meno. Quando Aristotile parla della provenienza delle grandezze dalla materia (il Lungo e Corto, ecc.), egli usale espressioni gene- seguenza, ammettendo una linea, un piano e un solido in se stessi, distinti dagli sISyj della linea, del piano e del soliJo, Platone non introduce delle nuove entità oltre questi eTSyj e la materia : la Linea stessa non è una terza cosa che si ag^iung^e airsISog della linea e alla sua ma- teria; ma non è altro che queste due cose, pensate, non a parte, ma congiuntamente. Questo ci fa comprendere perché, quantunque la linea, il piano e il solido in sègi distinguano dalle Idee e dalle grandezze matematiche, pure Platone non riconosce che due generi di entità, le Idee e \oi entità matematiche ; e infatti quando Aristo- lile parla dei geneii di entità ammes-e dalla scuola pla- tonica — e spesso certamente dà la sua enumerazione come completa — egli non fa menzione che di questi due soli (1). In Met. 1. I. IX. 25 fa l'obbiezione che nella classazion»^ platonica degli essf*TÌ non vi ha alcun posto p r le grandezze |jisxà xoò^ àptGfjtoóg, non potendo esse collocarsi né tra le Idee, né tr i le entità matematiche o intt^rmediarìe, né tra i sensibili (le tre sole classi am- messe, da Platone). In questo stesso luogo obbietta pure a Platone che egli non ha spivigato Torigine di queste grandezze: questi non l'ha fatto, perché la loro esistenza non segna un nuovo passo nello sviluppo degli esseri, fiche : le grandezze, le linee, le su[)3rficie, i solidi, o anche: la grandezza, la linea, la superficie, il solido, al singolare (v. Met, I. l. IX. 18-19, 1. 111. IV. 30, l. Xlll. IX. 2-4, 1. XIV. 11. 11); per con- seguenza ciò i^he egli dice deve applicarsi a tutte le grandezze e non alle sole matematiche, quindi anche alla Linea, alla Superfi- cie e al Solido stessi. Del resto Alessandro d' Afrodisia nel luogo indicato dà esplicitamente come principio di questi il Lungo e Corto, il Largo e Stretto e l'Alto e Basso. (1) V. Met. L 1. Vi. 3-4, l.lll. 1.6, l. 111. 11. 15,17-22, Vi. 1-2, l. VU. II. 3, l. XI. 1. 6-7, l XU. 1. 3, 1. Xlll. 1. 2, 1. XllL 11. 9, eoe. - 197 - mtt noTi essendo esse altra cosa, come abbiamo detto, chele loro Idee e la materia; ma Aristotile, per la sua pro- pensione air interpretazione trascendentalista, suppone che siano qualche cosa di nuovo, e rimprovera quindi a Platone di non avere indicato per queste entità, come per le altre, il processo secondo cui si producono. L'e- sistenza equivoca dello grandezze [lexà xoò? àptOiioóc quali entità distinte ci fa pure comprendere il fatto che Ari- stotile non ne parla che in qualche luogo isolato (oltre i due indicati, in Dean, 1. I. IL 7, in cui la prima lun- ghezza, larghezza e profondità pare che denotino la li- nea, la superficie e il solido in sé), e che e^li anche talvolta per le espressioni generiche /(? grandezze, le lun- ghezze, le superficie, i solidi, non intende senza dubbio designare che le grandezze matematiche (I). La linea, il piano e il solido iu sé non sono compresi tra le gran- dezze matematiche propriamente dette (cioè tra quelle che, come diremo in seguito, Platone fa intermediarie tra le Idee e le cose), perchè queste non sono che le spe- cie ultime dei generi linea, piauo e solido. Platone non ammette df lU*, e itila per i concetti gene- rici delle fijiure (p. e. del poligono o d^l poliedro), ma solo per quelli delle figure particolari (p. e. del triangolo, del quadrato, del cubo, à*AV ottaedro) (2). C'ò è senza (1) V. Mei. 1. nr. r. i5 (ofr. i. xni. i-iu.) e i. xiv. ni. s-ii. (2) Come risalta da Mei, l. III. 111. 11, in cai *j' attribuisce ai par- tigiani delle Mee l'opiaiona cbe non vi ha oXian numero (generi- co) oltre (7^2C,o:c) la specie dei numeri né alcuna figura (generica) oltre le sp3CÌ9 delle figura. Lo stesso può desumersi da uà altro luocro (l. III. vi 1-2), in cui alla dottrina dell' esistenza delle Idee oltre le entità miitcmatiche e i sensibili si dfi per ragione che, se esistessero la sol 3 entità matematiche, i loro principii non sareb- bero finiti di numero, ma solo di specie. (Se tra le entità matema- tiche vi fossero anche i concetti generici e non solamente gli spe- dubbio perchè, se tra le entità geometriche fossero anche rappresentati i concetti generici, egli non potrebbe ri- guardare l'sISog della linea, del piano e del solido come le specie — nel senso stretto, cioè come le specie infime— delle linee, dei piani e dei solidi matematici, e dire che queste linee, questi piani e questi solidi sono tutti della stessa specie. Queste proposizioni suppongono che tra le grandezze mAtematiche e le loro Idee corra lo stesso rapporto che tra gì' individui e le loro Idee specifiche : perciò le grandezze matematiche devono essere tra di loro, non subordinate nel grado di generalità, ma tutte cifioi, i principii di queste entità, anche se non si ammettessero che esse sole, sarebbero finiti di numero, non semplicemente di specie perchè è il generale, nel sistema platonico, che è il principio). Quest'esclusione dei concetti generici dei numeri e delle figure dal rango di entità sussistenti per se stesse è fondata su quest'ar- gomento capzioso: che nelle cose in cui vi ha anteriorità e poste- riorità— cioè che formano una serie i cui termini si seguono con un ordine determinato — il comune non è st^jaarabt/e (x^ptOTÓv), perchè, se lo fosse, esso sarebbe anteriore a tutti i termini della serie, anche al primo, e per conseguenza vi sarebbe qualche cosa prima della prima (v. Kth, End. 1. 1. Vili. 9-10; cfr. Met. 1. Ul. Ul. 11 ed Klh, Nic, I. 1. VI. 2). Il sofisma volge sul doppio senso dei ter- mini anteriore e p'isteriore, i quali ora significano la successione dei termini coordinati di una serie (p. e. quella dei numeri o dei po- ligoni), ora la subordinazione dei concetti secondo il grado della generalità (con le altre idee che nella filosofia platonica sono asso- ciate a questa subordinazione). Il motivo realo per cui Platone non ha obbiettivato i concetti generici delle figure, ò quello che diciamo in seguito. In quanto a quelli dei numeri, il motivo è ugualmente chiaro : è che facendo un'entità del concel lo generale di numero e di ogni altro dei concetti a cui i numeri particolari sono subordinali, queste entità o dovreb- bero illogicamente identificarsi con certi numeri particolari, o do- vrebbero porsi anteriori ai numeri particolari, che cesserebbero cosi di essere i primi di lutti gli esseri, co.ne esige necessariamente la loro identificazione con le Idee. - 198 sac coordioate, come grindividui, e tra di esse e le loro Idee non deve esservi alcuna entità di una generalità media, come non ve ne ha tra gì' individui e loro Idee spe- cifiche. In conclusione, ciò che vi ha di particolare nella dottrina delle entità matematiche si riduce in sostanza, per quel che concerne le grandezze geometriche, a non elevare al rango d'Idee, vale a dire di numeri ideali, che le forme dei generi supremi di queste grandezze, cioè della lioea, del piano e del solido in generale: in quanto al piani, ai solidi è alle linee particolari, i loro concetti vengono bensì realizzati, ma non sono ridotti a delle semplici forme, e per conseguenza non si fanno rappresentare da numeri ideali, e se ne fa una classe di entità distinte dalle Idee, che insieme ai numeri ma- tematici vengono ^'esignate col nome di entità matema- tiche. Cosi quando Platone dico che delle entità che sono l'oggetto della gec metriu ve n- hanno molte della stessa specie, tutto ciò che vi ha di chiaro nel significato di questa proposizione è che non vi ha che una Specie, cioè un'Idea unica, per tutte le linee, una per tutti i piani, una per tutti i solidi, lldea della linea, del piano del solido ; e che le linee, i piani, i solidi particolari, studiati dalla giometria, non sono riguardati come Idee. E evidentemente un'inconseguenza, come gli rimprovera Aristotile (I), di non riconoscere nelle diverse figure geo- metriche altrettante specie distinte : ma siccome le Idee non sono, nel periodo pitagoroggiante, che i numeri ideali, e queste figure non vengono ricondotte a dei nu- meri, cosi Platone non può vedere in esse delle Idee, e quindi nemmeno delle specie. Le entità matematiche erano dette dai Platonici in- (1) Mei. 1. VII. XI. 5. termediarie fra le Idee i sensibili (2). Ciò si spiega per- fettamente per quello che abbiamo detto. Le grandezze matematiche sono intermediarie tra le Idee delle gran- dezze e le grandezze sensibili, perchè tramezzano, per il loro grado di generalità, tra le une e le altre : sono superordinate alle sensibili, che sono particolari, mentre esse sone generali; e subordinate alle Idee, che sono più generali ancora di esse. Della stessa maniera i numeri matematici tramezzano tra i numeri Idee e i numeri fe- nomeni. Di più, siccome tra il generale e il particolare vi ha, nella metafisica platonica, il rapporto di principio e cosa derivata (anteriorità e posteriorità), cosi le entità matematiche tramezzano tra le Idee e i sensibili anche sotto un altro rapporto : le grandezze e i numeri mate- matici essendo subordinati in generalità alle Idee delle grandezze e dei numeri, essi procedono da quelle (sono posteriori alle Idee delle grandezze e ai numeri ideali); ed essendo superordinati in generalità alle grandezze e i numeri fenomeni, sono i principii da cui questi prò cedono (sono anteriori alle grandezze e i numeri feno- meni). Órinterpreti trascendentalisti danno un' altra spie-gazione del posto d'intermediarie tra le Idee e i sensi- bili, che Platone assegnava a queste entità. Secondo questi interpreti, le entità intermediarie sarebbero, per Platone, le Idee nel loro rapporto con la materia, cioè come leggi del mondo sensibile. Platone avrebbe cer- cati questi intermediari fra le Idee e le cose, perchè, le Idee trascendenti essendo incapaci di esercitare diretta- mente un'elficienza causale sui fenomeni, vi era bisogno, (2) V. Mei. I. I. VI. 3, 4, 1. IX. 16, 25, 1. 111. 1. 6, 11. 15, 17-21, VI. 1-2, 1. XI. 1. 7, l. XUl. 11. 9, 1. XIV. ni. 11, ecc. ittaai \ nel suo sistema, di mediatori, per cui la loro influenza si comunicasse al mondo fenomenico, e li avrebbe tro- vati nelle entità matematiche, perchè le leggi del mondo fenomenico si riducevano per lui a dei rapporti mate- matici. Sarebbe superfluo per noi di discutere quest'in- terpretazione, dopo che abbiamo mostrato Tinsussistenza della base su cui essa è fondata, che è la trascendenza delle Idee. Ma essa solleva una quistione, <5he non pos- siamo lasciare senza risposta, cioè : Le entità matema- tiche sono semplicemente la realizzazione dei concetti matematici, e non rappresentano che le determinazioni delle cose studiate dalParitmitica e dalla g'^.ometria; ov- vero il pitagorismo di Platone si manifesta anche di- rettamente in questa parte delle sue dottrine, e tutte le determinazioni delle cose, o, come dicono gì' interpreti di cui abbiamo parlato, le leggi del mondo fenomenico, sono state da lui ricondotte agli oggetti matematici ? in modo che tutti gli attributi rìegli esseri vengano nel suo sistema rappresentati tre voUe : nel mondo delle Idee, nel mondo delle cose e in quello delle entità interme- diarie? In altri termini, lo entità intermediarie tramez- zano soltanto tra gli attributi matematici delle cose e le Idee di questi attributi, ovvero tra il mondo delle cose e il mondo delle Idee nella loro totalità? Per discutere d'una maniera completa questa quistione dovremmo oc- cuparci del Ttépas del Fdebo, perchè è sulla pretesa iden- tità di esso con le entità matematiche che è fondata so- vratutto l'opinione che vede in queste entità le leggi del mondo sensibile : ma noi non lo potremmo qui senza fare altrove delle ripetizioni inutili, perchè questo è un ar- gomento che in seguito dovremo trattare. Per ora ba- sterà di esaminare la testimoaianz\ d'Aristotile : quando verremo all'interpretazione del Tiépa^ del Filebo, vedre- mo che non vi sarà luogo a modificare il risultato a cai quest'esame ci avrà condotto. Ora dalla testimonianza d' Aristotile risulta chiara- mente che le entità matematiche rappresentano, non tutte le determinazioni degli essf^ri — come sarebbe, se esse fos.sero « le Id**o stesse nel loro rapporto con la materia » —, ma semplicemente le determinazioni matematiche (cioè quelle che sono 1' oggetto delle matematiche pure). La dottrina delle entità matematiche consiste unicamente secondo Aristotile nella realizzazione dei concetti mate- matici. Cosi, quando egli si propone di esaminare questa dottrina platonica, la quistione è da lui formulata in questi termini : i numeri e le grandezze geometriche sono delle sostanze o no ? e se sono delle sostanze, esistono negli stessi esseri sensibili o fuori di essi ? (1). La ne- gativa della dottrina è per lui questa proposizione : le cose matematiche (xà ixaOYjjxaxtxoc) non sono separate (x(optoxoc o X6xwpt0|iéva) (2). K sul principio del 1. XIII. (e. I-III), in cui la discute il più largamente, si limita a combattere la proposizione, attribuita ai platonici ortodossi, che i numeri e le grandezze geometriche — e per numero evi- dentemente egli non intende in qu»^sta proposizione che r attributo comune di una collezione qualunque di oggetti (v. specialmente IL 6)— sono separati dalie cose, e quella, attribuita ad alcuni dissidenti, che sono delle sostanze inesistenti nelle cose stesse, e a mostrare che i concetti matematici non rappresentano degli esseri sus- sistenti per se stessi, ma delle proprietà degli oggetti sensibili, che il matematico astrae (xtopC^eO per la como- dità del suo studio. Non vi ha mai in tutte le allusioni (J)V. Mct. 1. IH. 1. 15, 1. Xlll. 1. 2. (3) V. Mei. 1. XI. 1. 8, 1. Xlll. IX. 12, I. XIV. ili. 3, eoo. — 200 — /v d* Aristotile a questa parte del sistema platonico una parola che supponga che le altre determinazioni degli esseri aiano state ricondotte dai Platonici ai concetti matematici, e che le entità matematiche rappresentino, come i numeri ideali, le forme stesse e le leggi del mondo delle cose. Il contrario è anzi supposto nel modo più evidente in parecchi luoghi, in cui la dottrina dei nu- meri matematici è posta in confronto con quella dei nu- meri ideali e con la dottrina pitagorica. Nel 1. ì'ò^ e. 1^ enunziando Targomento di questo libro, dice che prima tratterà « delle cose matematiche, senza aggiungere ad esse un'altra natura, per esempio se siano Idee o no, e se siano principii e sostanze degli esseri o no, madell^^ cose matematiche semplicemente se esistano o non esi- stano e in qual moie esistano»; poi delle Idee a parte (cioè a part^ dwlla tosi che le identifica coi numeri); e in terzo luogo dei numeri ideal . Il senso ddle parole tra virgolette è ceriamente— coire si vede dalle materie trat- tate nel libro e dall'ordine m cui si seguono — che pri- ma discuterà la dottrina dellt^ entità matematiche, cioè quella che attribuisce bensì alle cose matematiche una esistenza reale (ne fa delle sostanze), ma non aggiunge ad esse un'altra natura (non fa loro rappresentare d^lle determinazioni d^gli esseri differenti dalle matematiche) come fa la dottrina dei numeri ideali (la quale ricon- duce a delle co^e matematiche, cioè ai numeri, le Idee e la sostanza d^^llc cose). Nel e. 6® dello stesso libro, parlando delle diverse ipot^'si metafìsiche sui numeri, dice: « Ancora questi numeri possono essere o s«»parati (xwptaxou^) dalle cose (l'ipof si platonica), o non separ.it", ma negli stessi sensibili (l'ipot^^si pitagorica), noi però della maniera che abbiamo visto precedentement-i (cioè non secondo l'ipotesi, attribuita a dei platonici dissidenti, che i numeri matematici sono sostanze, ma inesistenti nelle cose stesse), ma in modo che gli esseri sensibili risultino dai numeri in essi inerenti». Qui la dottrina pitagorica sui numeri è distinta da quella dei platonici che ammettono i numeri matematici nelle cose stesse, perchè secondo qu(*lla le cose risultano dai numeri (cioè i numeri costituiscono l'essenza delle cose), secondo que- sta no : ma se i numeri matematici non rappresentas- sero unicamente le determinazioni aritmetiche desrli es- seri, ma fossero le Idee nel loro rapporto con la mate- ria 0 le leggi e le forme del mondo fenomenico, questa distinzione non potrebbe farsi, perchè, in tal caso, an- che pei platonici che ammettono i numeri matematici nelle cose stesse, queste risulterebbero dai numeri ma- tematici. Nel 1. XIV, sulla fine del e. 2^ e il principio del 3® : « Si potrebbe pure intorno ai numeri insistere sulla quistione perché si debba credere alla loro esi- stenza. PiT chi ammette le Idee, forniscono qunlche causa agli es eri, s' è vero che ciascun numero è un' Idea, e che le Idee sono cause in qualsiasi modo agli altri es- seri della loro es^'stenza; teoria che noi lasciamo ai suoi partigiani. Ma per chi non è di quest'opinione, perchè vede le difficoltà intorno alle Idee, e perciò non fa que- ste numeri, ma fa il numero matematico, perchè credere a' l'esistenza di questo numero, e in che esso è utile alle altre C3se? Né quelli infatti che lo ammettono dicono che questo numero sia causa di alcuna cosa— solamente ne fanno una certa natura esistente per se stessa (in altri termini non fanno altro che realizzare l'astrazione numero) — né si vede di che sia causa; in effetto, tutti i teoremi dell'aritmetica si riferiscono, come si è detto, ai sensibili (vale a dire : tutta l'utilità che si attribuisce a questo numero è di spiegare la conoscenza, poiché si - 201 - I - pretende che le matematiche devono avere per oggetto delle entità generali; ma questa pretesa é vana, perchè queste scienze si riferiscono invece agli oggetti partico- lari)—Quelli che ammettono le Idee e dicono che esse SODO numeri, astraendo tutto ciò che è uno nei molti, si sforzano di mostrare come e perche ciascuno di que- sti uni esista I Pitagorici, perchè loro sembrava che molte affezioni dei numeri ineriscono nei sensibili, ammisero che le cose seno numeri, non però separati, ma che le cose stesse constano di numeri. E perchè ciò? perchè le affezioni dei nu'neri si trovano nell' armonia, nel cielo e in molte altre cose. Ma quelli che ammettono solamente V esistenza del numero matematico non pos- sono dire niente di simile, secondo le loro ipotesi; ma si pi-etende che, senza questi condizione, la scienza dei numeri noti sarebbe possibile». Questo luogo afferma cosi esplicitamente che i numeri matematici sono la sem- plice sostantificazione degli attributi matematici, e non costituiscono le leggi e le forme del reale — né come inerenti nelle cose stesse, quali i numeri dei Pitagorici e i numeri ideali di Platone nella nostra interpretazione, né come cause esemplari, quali questi numeri neir in- terpretazione trascendentali-^ta, preferita da Aristotile — che grinterpreti i quali vedono nelle entità matematiche le Idee nel loro rapporto con la materia^ non potrebbero che cercare di attenuarne la portata, osservando che qui Aristotile parla, non della dottrina stessa di Platone, ma di quella di un platonico dissidente a cui egli attribuisce di non ammettere altre entità che le matematiche, cioè di Speusippo. Ma anche quest'osservazione non potrebbe giovare molto alla loro tesi, poiché Aristotile riguarda evidentemente le entità matematiche di Speusippo come equivalenti a quelle di Platone (1); salvo che Speusippo non fa queste entità intermediarie fra le Idee e le cose e vede nei numeri matematici i primi di tutti gli esseri (2). Ma da qu(sta differenza non potrebbe seguirne un di- vario nel significato delle entità matematiche tale da impedirci di applicare alla dottrina dei platonici in ge- nerale sui numeri matematici ciò che risulta, dal luogo citato, su quella di Speusippo. Anzi, i numeri matema- tici occupando nel sistema di Speusippo il posto che i numeri ideali occupavano in quello di Platone, Speu- sippo avrebbe avuto più motivi che Platone di dare ad essi un significato pitagorico, facendo loro rappresentare h^ leggi e le forme del mondo reale, e non le semplici determinazioni aritmetiche. E del resto questa stessa inu- tilità delle entità matematiche alle cose, che Aristotile, nel luogo citato e altrove (3), rimprovera a Speusippo, è da lui rimproverata anche ai platonici ortodossi, che fanno quest'^ entità intermediarie tra le Idee e le cose (4); mentre, so le entità intermediarie fossero le Idee nel loro rapporto con la materia^ esse avrebbero un'efficacia più reale delle Idee stesse (trascendenti), e più utilità, per cnnseguenza, per la spiegazione delle cose. Questa differenza tra la dottrina dei numeri ideali e quella dei numeri matematici, e in generale, delle en- tità matematiche, cioè che la prima implica una teoria del reale alla pitagorica, riducendo ai numeri le forme e le leggi delle cose, mentre la seconda non è che la sostantificazione delle proprietà studiate dall' aritmetica (1) Met, 1. XII. I. 3, 1. XIU. l-lll, vi, IX. 2-6, 13-14, 1. XIV. III. 4-12, ecc. (2) Vedi questo Supplem. n. V. (3) Mei. 1. XII. X. 14. 1. XIV. IH. 8. (4) V. Met. 1. XIV. lU. lo. — 202 - e dalla gec nutria, muKa anche chiaramente dal rap- porto che si stabilisce tra qiu ste entità e le scienze ma- tematiche. Noi abbiamo visto che le entità matematiche sono gii og'getti a cui si riferiscono la scienza dei numeri e delle grandezze; e Aristotile assegna questo motivo alla dottrina, che la possibilità delle matematiche (cioè del- Taritraetica e della geometria) suppone i numeri (mate- matici) e le grandezze come separabili (xwptaxa), cioè co- me sostanze. « Quelli che ammettono il numero (matema- tico) come separato (xcoptaióv), è perchè le proposizioni non si riferiscono ai sensibili, ma intanto ciò che dicono è vero e persuade lo spirito, che credono che il numero sia, e sia separato (xwptaxóv), e similmente le grandezze matematiche p. (1) È un' applicazione della prova delle Idee dalle scienze. Evidentemente su questo fondamento non potrebbe stabilirsi una teoria secoado cui i numeri e le grandezze costituirebbero le leggi del mondo reale, ma semplicemente la realizzazione dei concetti dei nu- meri e delle gran.lezze. Ciò poi che si deve notare è che la funzione di essere gli oggetti a cui si riferiscono le scienze matematiche, viene assegnata alle entità mate- matiche in contrapposto ai numeri ideali Cosi nel 1. Ili II. 15 Aristotile domanda s(5 «bisogni ammettere altre sostanze oltre le sensibili, e se un solo genere o più di queste sostanzt^, come quelli che ammettono le Idee e le entità intermediarie, alle quali dicono riferirsi le scienze matematiche ». E nel 1. I. IX. 16 osserva che, se le Idee sono numeri, « è necessario di stabilire un altro genere di numero, a cui si riferisca Taritmetìca, e tutte quelle entità che alcuni chiamano intermediarie >. L'aritmetica non può riferirsi al nimero ideale, perchè esso rappre- (1) M^i, l XIV. III. 4. senta, non le semplici proprietà aritmetiche delle cose, ma le leggi e le forme del mondo real ; e si riferisce al numero matematico, appunto perchè questo rappresenta, non le leggi e le forme del mondo reale, ma le semplici proprietà aritmetiche delle cose. Per conseguenza Ari- stotile dice dei filosofi che ammettono il solo numero matematico — per i quali questo num^^ro non è, come per Platone, che la semplice sostantificazione degli attri- buti matematici — ch'essi parlano delle cose matematiche matematicamente; mentre rimprovera a quelli che iden- tificano il numero matematico con l'ideale— e perciò gli fanno rappresentare dei concetti che oltrepassano la scienza dei numeri — di parlare delle cose matematiche non matematicamente (1), e di sopprimere in realtà il numero matematico, perchè fanno delle supposizioni loro proprie e non matematiche (2). Un'altra prova dell'equivalenza dei numeri matema- tici dì Platone coi numeri di cui parla 1' aritmetica, si ha nei caratteri per cui egli distingue i numeri mate- matici e gl'ideali. Questi sono, come sappiamo, la com- binabilità e V incombinabilità. Attribuendo l' una ai nu- meri matematici e l'altra ai numeri ideali, Platone evi- dentemente vuol significare che i primi sono i numeri stessi di cui sì tratta nell'aritmetica, mentre i secondi ne diflìeris^ono. È ciò che Aristotile ci indica in vari luoghi, p. e. in Met. l. XIII. VI. 2-3, in cui parla delle diverse ipotesi possibili sulle entità numeri, cosi: o i numeri sono differenti di specie, e qualsiasi unità è incombiriabile con qualsiasi altra; o tutte le unità sono combinabili l'u- na qualunque con un' altra qualunque, < come dicono (i) Mei. 1. XIU. vi. 8. (2) li. Xlll. IX. l3 e VIU. 8. — 203 - (i Platonici) essere 11 numero matematico — nel nurnero matematico infatti nessuna unità differisce da un'altra» (è evidente che qui il numero matematico vuol dire, non le entità che Platone designa con questo nome, ma i numeri nel senso ord'nario, di cui tratta la matematica)—; o le unità di ciascun numero sono combinabili tra loro, ma incombinabili con quelle di cascun altro (è l'ipotesi platonica sui numeri ideali); ovvero infine un numero è quale abbiamo detto il primo, un altro quale Tultimo, e un'altro «quale dicono i matematici » . Altrove \^Met. XIII. VII. 4) dice : « Se le unità sono incombinabili, e incombinabili Tuna qualunque con un'altra qualunque, non è possibile che questo numero s'a il matematico; poiché il numero matematico è costituito di unità senza differenza, e tutto ciò che si dimostra di es-^o (senza dubbio dai matematici) gli conviene come tale». Non è sorprendente che Platone abbia visto nell'incombinabilità il carattere distintivo per eccellenza del numero ideale da quello a cui si riferisce Taritmetica, la combinabilità dei numeri a cui essa si riferisce essendo il postulato fondamentale di questa scienza, che ha appunto p'^r og- getto la combinazione di questi numeri. Ma se i numeri matematici fossero le leggi dtl mondo sensibile e le Idee nel loro rapporto con la materia, essi dovrebbero essere incombinabili come gì' ideali : noi abbiamo visto infatti che questi sono ineombinabili,. perchè un'Idea non è una parte delle altre Idee; ora anche una legge della natura (nalvo l'inerenza del generale nel particolare, che esiste pure nelle Idee) non è una parte delle altre leggi della natura. lullne, il valore puramente aritmetico e geometrico delle entità matematiche è dimostrato da un'obbiezione che Aristotele fa ripetutamente alla dottrina. Per le stesse ragioni, egli dice, per cui vi hanno delle grandezze e dei numeri, intermediari tra gl'ideali e i sensibili, do- vrebbero anche esservi un alro cielo ed altri astri oltre i sensibili e le loro Idee ; e sim Imento delle entità in- termediarie tra le Idee e i sensibili per gli oggetti del- l'ottica e dell' armonia; e sensi ei oggetti dei sensi ed animali intermediari tra gl'ideali e i corruttibili; e una sanità intermediaria tra la sanità in sé e la sanità reale; e un terzo uomo intermediario tra 1' uomo in sé e gli uomini particolari; e in generale per tutte le cose di cui vi hanno Idee dovrebbero esservi delle entità interme- diarie tra le cose stesse e le loro Idee (1). È chiaro che quest'obbiezione suppone che le entità matematiche rap- presentano, non tutte le determinazioni del reale, ma solole matematiche (cioè quelle studiate dall'aritmetica e la geometria), e che il loro titolo d' intermediarie significa che esse tramezzano, non tra le cose e le Idee nella loro totalità, ma tra gli attributi aritmetici e geometrici delle cose e le Idee di questi attributi. Se esse tramezzassero tra le cose e le Idee nella loro totalità, e fossero le Idee stesse come leggi del mondo sensibile, Aristotile non potrebbe rimproverare alla dottrina di non ammettere per le altre cose, come per le grandezze e i numeri, un che d'intermediario tra l' Idea e il fenomeno, poiché il mondo delle entità intermediarie sarebbe già, in quest'i- potesi, un'altra ripetizione del mondo delle cose, come quello delle Idee. Stabilito il significato puramente matematico delle en- tità intermediarie, possiamo passare ai motivi della dot- trina. Il concetto che deve servirci di guida è la dipen- denza di questa dottrina da quella dei numeri ideali. (1) Met. 1. 111. 11. 17 sqq., 1. XIll. 11. 7-8, I. XI. I. 7.- — 204 — Questa dipendenza ci è att'^sfcata da Aristotile. Eicor- diamo il luogo cit*ito di M^t, 1. I. IX. 16. «Se le Idee sono numeri, sarà necessario di apparecchiare un altro genere di numero circa cui V aritmetica, e tutte quelle entità che alcuni ch'amano interm'^diarie ». La quistione si riduce dunque per noi a comprendere : perchè Pla- tone ha distinto i numeri matematici— cioè quelli che sono rogs:etto dell' ar tmetìca — dai numeri ideali — cioè da quelli con cui venivano identificate le Idee—, e li ha loro subordinati come più particolari; e perchè non ha riso- luto in numeri anche le grandezze geometriche — come avrebbe dovuto seguire dal principio generale che gli esseri sono numeri —, ma solo ls3 forme dei generi su- premi di queste grandezze. La dottrina pitagorica dei numeri, rìg'damcnte inter- pretata, avrebbe certamente condotto a fare una cosa sola delle Idee - numeri coi numeri aritmetici : è li in effetto che arrivò Xenocrate, il filosofo che, tra i plato- nici pitagoreggianti, è il più vicino al pitagorismo ge- nuino. Tuttavia non è sorprendente che Platone abbia indietreggiato dinnanzi a questa conseguenza logica dellafusione del sistema del'e Idee coi concetti pitagorici. Anche tra i veri Pitagorici, pochi verisimilmente avreb- bero acconsentito a prendere la formula che le cose sino numeri nel senso che gli esseri non sono altra cosa che i loro attributi aritmetici, che, per esempio, quando si diceva che la giustizia è il numero quattro, il matrimo- nio il numero cinque, Tanima il numero sei, ciò voleva dire precisamente che la giù tizia è identica perfetta- mente all'attributo comune a una collezione qualunque di quattro oggetti, il matrimonio di cinque, l'auima di sei. La sostantificazione platonica degli universali ve- niva poi al accrescere le assurdità di una talelnterpre- tazione. Se, p. e., Tldea deiruomo è il numero tre, biso- gnerà intendere per ciò che il complesso degli attributi comuni a tutti gli uomini, considerato come uno e lo stesso in tutti, è Tattributo comune a tutti i gruppi di tre oggetti, considerato anch'esso come uno e lo stesso in tutti ? o semplicemente che V entità chiamata il Tre in sé rappresenta al tempo stesso l'Idea dell'uomo e la es-enza comune di tutti i gruppi di tre oggetti, quan- tunque qu' ste s'ano due cose per se stesse distinte ? Ma in questo s< condo caso, per la stessa ragione per cui si fa un'entità distinta dell'Idea dell'uomo, dovrebbe anche farsi un'enttà distinta dell'essenza comune di tutti i gruppi di tre oggetti, cioè del tre matematico, l'esigenza necessaria del sistema delle Idee essendo che ciascun universale venga separato^ e se ne faccia un'entità esi- stente per se stessa. Noi comprendiamo dunque perfettamente la necessità, in cui Platone si è trovato, di ricorrere all'ipotesi poco naturale di un altro numero distinto da quello che è l'og- getto dell'aritmetica. Senza dubbio, quando, dopo aver affermato che le cose sono numeri, si soggiunge che que- sti numeri non sono quelli con cui ha da fare l'aritme- tica, la soc'ìnia proposizione ha tutta 1' aria di essere una sconfessione d^^lla prima; dei numeri differenti dalle determinazioni delle cose che studia l' aritmetica, non essendo, a parlar propriamente, dei numeri. Cosi la di- stinzione tra i numeri ideali e i numeri matematici ci dà un' altra prova di un fatto, che noi abbiamo notato a proposito della riduzione ai numeri della sola forma delle cose, cioè che il pitagorismo di Platone non è andato sino ad accettare l'identificazione pura e semplice delle cose coi numeri che egli trovava nelle formule pitago- riche. Ma l'allontanamento di Platone dai Pitagorici non — 205 — t^ .r^-mt-jt^^' \^ ^,;^ ;^^. f- ^^Vtvl > poteva esser tale da metterlo in aperta contraddizione con le loro proposizioni. È ciò le sarebbe avvenuto, se la distinzione del numero ideale dal matematico fosse assoluta, Qaando i Pitagorici rappresentavano le cose per dei numeri, identificavano, almeno verbalmente, i concetti delle cose con quelli dei numeri : essi dicevano, p. e., il numero quattro è la giustizia, il sette il tempo opportuno, l'uno la mente, il due l'opinione (1); e questi concetti dei numeri, con cui quelli delle cose venivano identificati, non erano evidentemente per loro che i con- cetti stessi che i nomi dei numeri esprimevano, quando designavano le semplici determinazioni aritmetiche. Il quattroy il sette, il due non erano per loro dei termini equivoci, quando indicavano i numeri della giustizia, del tempo opportuno e dell'opinione, e quando venivano im- piegati semplicemente per denotare i gruppi di quattro, di sette e di due oggetti. Per conseguenza i numeri ideali di Platone dovevano rappresentare i concetti (astratti e generali) dei numeri, a cui le stesse determinazioni arit- metiche erano subordinate; dovevano essere, in altri ter- mini, i numeri in sé, le essenze dei numeri, per la cui partecipazione gli stessi numeri matematici sono chia- mati uno, due, tre, ecc. Cosi Platone identificava in un certo modo, nel tempo stesso che li distingueva, ì numeri ideali e i numeri matematici. In eff'etto il rapporto che vi ha fra i due numeri, è quello di anteriorità e poste- riorità—ì numeri ideali, cioè quelli con cui egli iden- tificava i concetti obbiettivati delle cose, sono i primi numeri, perchè il primo è l' in sé (aùxó) ; i numeri ma- tematici sono loro posteriori, perchè il partecipante è po- steriore al partecipato— : ora il posteriore nonèchel'an- (1) V. Al, Afrod. in Arist. Met, 1. 1. V. t. 32. terirre stesso, a un grado ulteriore di determinazione o di concretizzazione. Da questa relazione che Plarore stabilisce tra i nu- meri matematici e i numeri ideali segue V altro punto capitale della dottrina. Secondo i principii della dialettica platonica, 1' anteriore e il partecipato è l'uno, il poste- riore e il partecipante, il multiplo. Il separàbile (x^pioTÓv) è il comune, Vuno nei molti : ora Platone dai numeri matematici separa (xwpCIJei) le essenze stesse dei nume- ri — i numeri ideali—, per la cui partecipazione il due, il tre, il quattro, ecc. matematici sono chiamati due, tre, quattro, ecc. : per conseguenza il due, il tre, il quattro, ecc. ideali, in relazione al due, al tre, al quattro, ecc. matematica, da cui si separano, devono essere ciascuno Vuno nei molti. Di là la propos'zione che dei numeri ma- tematici ve re hanno molti della stessa specie, cioè che vi ha una moltitudine di unità, di dualità, di trinità, ecc. matematiche, altrettante quante volte 1' uno, il due, il tre, ecc. si ripetono nel numero infinito. Non bisogna credere tuttavia che il numero ideale sia ciò che vi ha di comune nei molti numeri matematici ad esso subordinati; che l'Unità o la Duulità ideali siano alle unità o dualità matematiche ciò che la specie è agli individui o il genere alle specie. Se il numero ideale racchiudesse nella sua comprensione tutto ciò che vi ha di comune nei numeri matematici di cui esso è l'uno nei molti, la distinzione tra le due sorta di numeri non avrebbe più alcun siguificato ; perchè in questo caso i numeri ideali non sarebbero che le essenze o i concetti gene- rali dei numeri matematici. Il numero ideale comprende dunque, non la totalità delle note comuni ai numeri ma- tematici subordinati, ma una parte solamente di queste note-, non è il concetto comune dei numeri matematici, ma qualche cosa di più indeterminato. È ciò che Platone ci indica, quando fa deìVincombinibilità il carattere di- stintivo dei numeri matematici dai numeri ideali. Se i numeri ideali fossero i concetti comuni, nel senso stretto, dei numeri matematici, essi dovrebbero essere combina- bili come questi. Per Tincombinabilità del numeri ideali non bisogna iotendere la presenza in questi numeri d'un attributo positivo contrario a quello dei numeri mate- matici, cioè alla combinabilità, ma solo Tassenza di que- sto carattere dei numeri matematici. Essa significa dun- que che, tra le note del numero matematico di cui deve farsi astrazione per concepire il numero ideale, vi ha la combinabilità; che questa è una determinazione nuova, che, nella concnHizzazione progressiva deir essire si aggiunge al numero ideale, per formare il numero ma- tematico (1). Il pensiero di Platone è, al fondo, che il (1) Secondo Aristotile. Platone avrebbe ammesso che le unità dei di - versi numeri ideali sono dtJTeren^t fra di loro e non semplicemente non Identiche; e, per conseguenza, che questi numeri sono gli xxvix fuori degli altri, e non semplicemente che non sono contenuti zV^yxmvie^W altri come 1 matematici (vedi il. indicati nelle note 1 e 3 a carta 19i pagina 2 ) Ma, malgrado l'autorità di Aristotile, io non posso ammettere che Platone sia caduco in una contraddizione si evidente, qual è di fare dei numeri Ideali delle essenze di cui i numeri matematici partecipano, ed actribuire al tempo stesso ad essi dei caratteri positivi opposti a quelli dei numeri matematici. Il partecipato può, anzi deve, mancare di certi attributi del partecipante, perché esso è più astratto e questo più concreto; ma è im- possibile che abbia degli attributi positivi contrarli, perchè non è che una parte della sua comprensione. Nel sistema delle Idee, la negazione dell'identità non importa necessariamente latfermazione della differenza né la negazione della contenenza di una cosa in un' altra T affermazione dell' esteriorità dell' una cosa all'altra. Per formarsi un concetto più astratto, bisogna escludere certe note dei concetti più concreti in cui esso è compreso, ma questa esclusione non importa 1' inclusione di note positive contrarie. Ora le entità platoniche non sono che i concetti realizzata Platone può dunque negare di un'entità pia astratta certe de?- numero su cui volge T aritmetica — vale a dire ciò che noi chiamiamo numero — non è che un caso particolare del numero; che i numeri in se stessi, essenze comuni delle Idee e dei numeri matematici, sono alcun che di uno e lo stes'.o nelle noe e negli altri, e di più gene- rale» che le une e che gli altri ; che vi ha, al di sotto delle difierenze, un'identità fondamentale tra le determi- nazioni aritmetiche e le forme degli esseri, e il punto di coincidenza in cui queste e quelle convergono e s'i* dentificano, sono i numeri ideali. Semplicemente Platone non può dare espressamente le Idee (cioè le forme degli esseri) come V altro caso particolare del numero : la fu- sione del sstema delle Idee con la dottrina pitagorica dei numeri esige che le Idee siano identificate coi nu- meri in se stessi, non con un numero particolare; n^l secondo caso i concetti delle cose non sMdentificherebbero, terminazioni di un'altra entità più concreta in cui quella è compresa, senza intendere perciò affermare di essa delle determinazioni contrarie. Egli può, p, e., negare dell'animale in sé le note proprie dell'uomo, senza affermarne perciò quelle del bruto; negare dell'essere in sé le note pro- prie del mosso, senza affermarne perciò quelle del quieto. Senza dubbio è impossibile di concepire un animale che non è nò uomo né bruto, un essere che non è né mosso né quieto, delle cose che non sono né iden- tiche né differenti, né contenute l'una neiraltra né Tuna fuori dell'altra: ma io non pretendo che le entità platoniche siano concepibili. Il difetto dell'interpretazione d'Aristotile del sistema platonico è la sua tendenza a rappresentarsi, più che é possibile, le entità astratte del maestro sul modello delle cose sensibili e immaginabili: le Idee non sono, secondo lui, che dei sensibili eterni, come gli dei del volgare non sono che degli uomini eterni (AJet, l. 111. 11. 16). Di là la sua propensione al- l'interpretazione trascendentalista; di là il concepire, eh' egli fa, le Idee come delle forme immobili e inattive. Per un effetto della stessa tendenza, degli attributi indicanti la semplice assenza di certe determinazioni, sono intesi da lui come se significassero la presenza delle determinazioni con- trarie. — 207 — come nelle formule pitagoriche, coi concetti dei numeri, e inoltre i numeri -I«lee e i numeri aritmetici sareb- bero due corse assolu'amenfe distìnte, ciò che la subor- dinazione dei numeri matematici agl'ideali ha appunto per rggetto di evitare. In quanto all'altra parte della nostra quistione, cioè perchè Platone non risolvesse in numeri anche le gran- dezze geometriche, nri vi abbiamo già dato una rispo- sta assai ovvia : è che il numero ideale rappresentava la sola forma delle cose, menare le grandezze matema- tiche rappresentavano tanto la forma quanto la materia delle grandezze reali. Noi abbiamo visto infatti ch*^ le grandf^zze matematiche si compongono d' un elJog che esse ricevono dai numeri ideali, e d' una materia che non è altra cosa che Testensione (in lunghezza, in super-» ficie e in volume). Dall' altra parte abbiamo visto pure che il numero platonico si distingue dal numero pitago- rico perchè monadico, e che questa distinzione significa che il numero pit«»gorico ha grandezza, vale a dire delle cose rappresenta anche l'estensione, mentre II numero platonico e senza grandezza, cioè rappresenta la forma separata dalla materia o dalT estensione (termini equi- pollenti, perchè la materia delle cose, è per Platone lo spazio). Ma questa risposta che abbiamo data provoca naturalmente un'altra quistione : perchè Platone non ha ridotto le grandezze matematiche a delle semplici forme come gli altri concetti obbietivati della sua metafisica ? Evidentemente Platone ritiene V elemento materia indi- spensabile a costituire il concetto della grandezza. L'Idea platonica rappresenta, è vero, la sola forma : ma di questa forma egli ne fa l'essenza stessa, il concetto com- pleto della cosa. E ciò che risulta dai termini per cui egli designa le Idee, dalle prove con cui ne dimostrala esistenza, e in una parola da tutti i dati che abbiamo per determinare la natura dell'Idea platonica. Se questa non rappresentasse il concetto nella sua integrità, Pla- tone non le darebbe il nome stesso d^lla cosa, con Tag- giunzione delle parole aOxó, oìoxt, ecc., che indicano ap- punto che l'Idea è l'attributo o l'insieme di attributi con- notato dal nome; non la chiamerebbe il genere e la spe- cie, l'essenza e la natura ; non la riguarderebbe come l'oggetto a cui si riferisce il concetto e la definizione; non direbbe che è l'universale, l'uno nei molti, ecc. An- che per Aristotile, la cui dottrina sul'a forma e la ma- teria non è che la riproduzione di quella di Platone, salvo la differenza tra il concettualismo dell'uno e il realismo dell'altro, l'elSo^ (la forma) equivale all' oùaCa o xò -zi y]v elvai (l'essenza) e al Xóyoc (il concetto). Se dunque l^en- t'tà corrispondenti alle grandezze geometriche ne rap- presentassero la sola forma, Platone dovrebbe ammette- re che la forma, per se sola, esaurisce il concetto o l'es- senza di queste grandezze. Ma sarebbe strano che l'es- senza della grandezza (nel senso che i logici danno alla parola es'^enza) non fosse grandezza essa stessa— poiché, non bisogna dimenticarlo, la differenza tra il numero platonico e il numero pitagorico è che questo ha gran- dezza e quello no—; che l'attributo estensione (sinonimo, per Platone, di materia) non entrasse nel concetto della forma geometrica, la cui definizione è : uà' estensione circoscritta. Senza dubbio, è anche strano che l'rstensione non faccia parte del concetto dell'uomo; del dente, del- l' albero, e in una parola di tutti gli oggetti estesi. Vi ha tuttavia tra gli oggetti che hanno grandezza e le grandezze in se stesse una differenza importante. Quando Platone sopprime l'attributo estensione dal concetto del- ruomo, del dente o dell'albero, egli può credere che ne — 208 — ^ V Il ' restì ancora qualche cosa, e chiamare quosto resto l'es- senza dell'uomo, del dente, de'Talbero, perchè, oltre Te- stensione, la nozione di un oggetto esteso comprende tanti altri attributi : le altre qualità sensibili, le energie di cui è dotato, la funzione o lo scopo a cui è d^^stinato — è sovratutto per quest 'ultimo attributo chePlatone defi- nisce le cose (1)—; ma se si toglie T» stensione dal con- cetto della grandezza geometrica, è evidente che non re- sta assolutamente niente, perchè una grandezza geome- trica non é che una porzione limitata dell' estensione. Quest'impossibilità assoluta di dare per oggetto ai con- cetti delle grandezz», geometriche delle entità in cui l'at- tributo estensione non sia rappresentato, era un fatto di cui Platone aveva un' esperienza continua : la geome- tria — che era una delle scieaze di cui egli si occupava con specialità — essendo lo studio dei rapporti di misura delle grandezze estese, come potrebbe questa scienza ri- ferirsi ad oggetti senza estensione, e non suscettibili, per conseguenza, dì rapporti di misura ? La dottrina sulle grandezze, come quella sui numeri matematici, è dunque un effetto dell'adesione incompleta che Platone fa alla dot rina pitflgorica dtii numeri : l' incoerenza di distinguere le grandezzf^ matematiche, quantunque en- tità universali anch'esse, dalle Idee non è che un aspetto della contraddizione insolubile in cui egli necessariamente s'inviluppa, riducendo ai numero la sola forma delle cose, mentre è in esso che n^ fa consistere l'essenza. Ma quantunque Piatone si rifiutasse a risolvere le grandezze in numeri, egli non poteva tuttavia sottrarsi all'esigenza imperiosa della logica, che gl'imponeva, s'è vero che il reale consiste nel numero, a ricondurre tutto al numeri ideali. Per conseguenza fgli fa risultare le grandezze dai nnmeri ideali che ne costituiscono le for- me (sISyj) e dalla materia (Dualità indefinita). Ora se- condo i principii del sistema delle Idee, queste forme (sISyj) delle grandezze, che Platone rappresenta per dei numeri, devono essere necessariamente più elevate in general tà delle grandezze stese, cioè delle entità com- poste di forma e di materia e che egli chiama matema- tiche. Platone non può ad un concetto di grandezza far corrispondere al tempo stesso due ent'tà : un'entità ma- tematica, composta di forma e di materia, e una forma pura, rappresentata da un numero ideale. Ciò è perchè, nel sistema delle Idee, tra il più astratti e il più con- creto, in altre parole, tra ciò che si separa (xwptl^sxatj e ciò da cui si separa, vi ha la relaziona dell'universale al particolare, deWuno ai molfL Cosi, le entità rappre- sentanti le forme pure essendo più astratte delle entità rappresentanti i composti di forma e di materia, quelle devono essere più universali e queste più piirtìcolari; in nitri termini i concetti a cui si fanno corrispondere delle Idee-numeri devono essere, non gli stessi concetti a cui si fanno corrispondere dcìlle entità matematiche, cioè composte di forma e di materia, ma altri, a cui questi siano subordinati in generalità. E siccome i concetti, corrispondenti alle entità matematiche, sono alla loro volta più generali che le cose di cui essi sono i concetti, noi possiamo pure esprimere lo stesso fatto dicendo: che le grandezz'^ matematiche devrono essere intermediarie— c*oè devono tramezzare in generalità, e perciò anche occupare^n posti medio nella sequenza log^ica degli esseri (anteriorità e posteriorità) -tra le idee delle gran- dezze e le grandezze sensibili. Platone divide duugue i concetti delle grandezze in "(1) V. Arist. De An. 1. I. I. 31. - - due classi, a cui fa corrispondere due dififerenti sorta di entità: ai più particolari assegna le entità matematiche, composte di forma e di materia, e ai più generali le Idee -numeri, che sono delle semplici forme. Ma cosi facendo, va naturalmente incontro ad un'evidente in- coerenza, cioè di obbiettiva re di alcuni concetti il «iwo/o, il crmposto di forma e di materia, e di altri la sola forma. Perciò egli non ammette che altrettanti numeri ideali per le gTtndezze quante sono le specie del Grande e Piccolo che servono loro di materia: è che cosi l'in- coerenza viene in un certo modo evitata, poiché, unen- do ciascuno di questi numeri alla specie corrispondentKi del Grande e Piccolo, si ha il concetto obbiettivato nella sua integrità (forma e materia) —ciò che Platone chiama la linea stessa, il piano stesso, il solido stesso—', mentre, se si aggiun- gessero alcii numeri, si avrebbero necessariamente delle forme senza materia. Questo ci spiega perchè vi hanno delle Idee-numeri pei generi supremi delle grandezze, ma non ve ne hanno pei generi intermedi fra di essi e le specie ulti- me. In quanto airesclusione di questi generi intermedi an- che dal rango di entità matematiche, noi ne abbiamo già notato il perchè : è V assimilazione del rapporto tra le grandezze matematiche e le loro Idee al rapporto tra gli individui e le loro Idee specifiche ; assimilazione che è, alla sua volta, una cr nsegurnza della distinzione delle entità matematiche dalle Idee, Platone non potendo am- mettere questa distinzione senza negare a queste entità la qualità di specie, e riguardare come loro specie le Idee infime a cui le subordinava. Nella dottrina delle entità matematiche bisogna di- stinguere evidentemente due parti, che si sono formate in due periodi distinti della speculazione platonica. L'uua è Tobbiettirazione dei concetti dei numeri e delle gran- dezze geometriche : essa è nata dal punto di vista pu- ramente platonico, essendo una sempMce applicazione della teoria delle Idee, ed è per conseguenza anteriore air epoca del sincretismo con le dottrine pitagoriche. L'altra è la distinzione di questi concetti obbiettivati da quelli a cui si riserba il nome d'Idee, e il posto loro as- segnato d'intermediari fra queste e le cose : essa sup- pone la teoria dei numeri id»*ah*, e non può esser nata perciò che nel periodo p'tagoreggiante. Ciò è provato, oltre che dalla natura stessa di questa parte della dot- trina, dal luogo citato della Metafisica (I. I. IX. 16), in cui Aristotile dà la teoria delle entità intermediarie come una conseguenza della identificazione delle Idee coi nu- meri; e se ne ha la conferma negli stessi dialoghi di Platone. È evidente in effetto che nella classe delle Idee o delle Specie l'autore comprende, pressoché dapertutto ov'è quis'^ione della dottrina delle Idee, non una parte solamente ma la totalità dei suoi concetti obbiettivati (1), e talvolta anche e'^plicitamente, come nei luoghi del Fedone (101 e 104-105) indicati al n. I, quelli che in Ari- stotile sono classati tra le entità matematiche. Le modificazioni apportate alla dottrina primitiva su- gli oggeui matematici, per distinguerli dalle Idee-nu- meri e loro subordinarli, si riducono in sostanza, oltre alla restrizione arbitraria deiruso del termine Idea e si- nonimi, a tre punti : per quel che riguarda i numeri, la moltiplicità delle unità, diadi, triadi, ecc. matematiche, e la derivazione di queste dall'unica unità, diade, tria- de, ecc. ideali; per quel che riguarda le grandezze, la (1) V. Carmen. 129-135, Fedone 99 d-1or), Filebo 14 e- 19 b, Rep. 476 a sqj., 484-486, 5o7 b-c, 596 a-b, Sof. 246-349, 251-26o, Tim. 61 b- 52 d, ecc. — 210 — riduzione degli siStj della linra, del piano e del solido, e di essi soli, a numeri ideali. In quanto al primo punto, ch'esso sia stato una modificazione posteriore della dot- trina primitiva di Platone, risulta da parecchi luoghi, in cui, pai landò chiaramente del numero maten.atico, cioè di quello che è IVgoetto drir aritmetica, egli non ammette senza dubbio che una sola unità, una sola dua- lità, fcc. (1). In quanto agli altri due punti, per ist«bi- lire la loro pofcteriorità, non rccorrono altre prove che quelle esposta al n. I, che dimostrano la posteriorità della teoria dei numeri ideali. Qui noteremo soltanto che ciò che i luo;2:hi di Platone, di cni ivi si tratta, profano d'una maniera immediata, é sovratutto la posteriorità della dot- trina delle entità intermediarie. Infatti, se essi dimostrano che r autore non conrsceva ancora quella dei numeri ileal'*, è specialmente perchè le entità numeri, ruppre- sentanti i semplici attributi aritmetici delle cose, e corrl- spondeuti quindi ai numeri matematici dell' esposizione aristot lica, sono in questi luoghi riguardate come le Idee e le ess 'nze dei numeri, e per conseguenza come i primi numeri, escuiendosi cosi V esistenza di altri nu- meri anteriori (Cfr. n. I, carte 163-164) (2). (1) V. Fedinw jol e, lo4, Rep. 522-525, ecc. (2) Si è cre.lato di ritrovare la (listinzioae delle entità mate- matiche daUe Idee sulla Une del 1. W^eWok Repubblica. Ivi Platone divide l'intelligjibile ed il visibile in due parti, ohe stanno fra di loro, per l'evMenza o la verità, come tutto l'intelligibile sta a tutto il visibile. Alle due parti del visibile corrispondono le due forme inferiori della conoscenza, a cui Platone dà il nome comune di opi- nione : alle due parti dell'intelligibile le due forme superiori, che egli chiama intelligenza. Le due parti del visibile sono le cose reali e le loro immagini : alla prima corrisponde la fede, alla seconda rimmaginazione (slxaaia). Delle^ due parti dell' intelligibile l'un» è quella che s'investiga per la dialettica; l'altra è quella ohe s'investiga IV. Il pÌtagorl«ino nel Tiiiiet> e nel Fifeb» Risulta dall'esposizione pr ccleate che le altre dot- trine di Platone oltre quel'e di cui abbiamo parlato al per le scienze matematiche, che, oltr.ì la scienza dei numeri e la geo- metria, comprendono l'astronomia e l'armonia. Queste due parti del- l'intelligibile sono determinate da Platone, non per se stesse, ma per il metodo con cui si procede nel loro studio; così i loro carat- teri distintivi sono : 3. Nello studio della seconda parte (quella che è l'oggetto delle scienze matematiche) lo spirito procede bensì col metodo deduttivo, oome in quello della prima, ma la dimostrazione è incompleta, perchè il punto di partenza delle sue deduzioni sono delle semplici ipotesi : nello studio della prima parte (quella ohe è l'oggetto della dialettica), al contrario, il metodo è assolutamente dimostrativo, perchè il principio è, non una sdmplice ipotesi come in quello della seconda, ma una verità d'una certezza assoluta. 2. Nello studio della seconda parte, quantunque il vero oggetto del pensiero sia l'universale in se stesso (il quadrato %le^%o^ la diago- nale ^ie^ia^ i numeri .siedasi), pure ciò che esso prende immediata- mente per oggetto sono delle cose particolari e sensibili; nello stu- dio della prima parte invece, il pensiero non ha altro oggetto che l'universale, le Specie essendo il principio, il mezzo e il termine di tutta la dimostrazione (per queste differenza tra il metodo dia- lettico e quello delle matematiche, cfr. il cap. VII). Alla prima parte dell'intelligibile, tra le forme della conoscanza, corrispoa la la scienza, alla seconda la raziocina zìo ne (Stavoia). Le quattro forme della conoscenza, corrispondenti alle parti dell'intelligibile e del sensibile, partecipano dell' evidanza nella stessa misura in cui gli oggetti, a cui corrispondono, partecipano della verità. La prima parte dell'intelligibile sono, non potrebbe esservi al- cun dubbio, le Idee : la seconda parte é stata identificata con le entità matematiche; ma questa identificazione presenta delle dif- ficoltà insormontabili, quali sono le seguenti : 1. Le entità matematiche non sono che i numeri e le gran- dezze geometriche; mentre la seconda parte dell'intelligibile com- prende anohe, oltre gli oggetti dalla soienza dal naoiari e dalla 211 — cap. VII — e che consistono in sostanza in questi tre con- cetti : la realizzazione degli universali, la dialettica, e il bene genere supremo o forma comune di tatti gli esseri- geometria, quelli deU'astronomia e dell'armoaia. Dirà l'interprete trasoendentaUsta, per risolvere questa difficoltà, ohe le entità ma- tematiche rappresentano le leggi del mondo fenomenico, e per conseguenza costituiscono anche l'oggetto dell'astronomia e del- l'Armonia? Ma allora Platone dovrebbe dare la seconda parte del- l'intelligibile per oggetto, non, com'egli fa, a certe scienze speciali ma a tutte le scienze del reale, perchè tutte hanno per oggetto le* leggi del mondo fenomenico. E in questo caso, siccome le stesse •cienze avrebbero anche per oggetto le Idee-per il principio ge- nerale che la scienza si riferisce all'Idea-, le due parti dell'intelligi- bile non potrebbero venire distinte per le scienze di cui sono l'oggetto. 2. Il carattere per cui le entità matematiche si distinguono dalle Idee è ohe ve ne hanno molte della stessa specie. Nella sua applicazione ai numeri, questa proposizione significa, come abbiamo spiegato, che vi ha un'infinità di unità, di diadi, di triadi, ecc. ma- tematiche. Ma nella Repubblica Platone non ammette, come concetto realizzato, che una sola unità, l'Uno stesso (v 524 d, 625 a e)- e per conseguenza pure una sola Diade, una sola Triade, ecc Ciò risulta anche da tutto il contesto in cui l'Uno e gli altri numeri sono classati tra gli oggetti, che il senso vede confusi 001 loro contrari, ma che l'intelligenza separa, vedendo ciascuno dei contrari come uno. L'uno e i numeri di cai è quistione nei luo- ghi indicati, siccome sono dati come l'oggetto dell'aritmetica, sa- rebbero quelli formanti, con gli altri concetti matematici, la se- conda parte dell'intelligibile (se questa equivalesse alle entità mate- matiche) : per conseguenza dovrebbero essese identici ai numeri matematici dell'esposizione aristotelica. Ma questa identità, come .1 è visto, non esiste; e la differenza è d' un'importanza capitale, trattandosi del carattere delle entità matematiche per cui esse ve- nivano distinte dalle Idee. 3. La distinzione degU oggetti matematici dalle Idee importa la loro subordinazione ad esse come intermediari fra esse e le cose, e questa lappone, come risulta da tutta la nostra esposi- zione di questa parte della filosofia platonica, la dottrina dei nu- men ideali. Ma noi mostrammo al n. I (cju-te 163-164) ohe, quando sono il prodotto di una fusione,- avvenuta in un periodo ulteriore della sua specuUz'one, dei concetti propri a Platone stesso — quelli che abbiamo indicati — con quelli Platone scriveva la Repubblica^ egli non conosceva ancora questa dot- trina. E si noti che gli argomenti con cui l'abbiamo provato acqui- stano una forza particolare contro qaelli che nella seconda parte dell'intelligibile veleno le entità matematiche. In effetto essi non potrebbero revocare in dubbio la premessa da cai partono questi argomenti, cioè che i numeri, di cai è quistione nel VII della He- pubblica^ sono i matematici, vale a dire quelli rapprasentanti i sempli- ci attributi aritmetici; questi numeri essendo, secondo la loro tesi, di- stinti dalle Idee e ad esse opposti come appartenenti a un'altra se- zione del mondo intelligibile. Ma se si conviene che questi numeri sono i matematici, si de^e pure convenire che 1' autore non am- metteva ancora i numeri ideali, poiché, se li avesse già ammessi, egli non avrebbe potuto riguardare i numeri matematici come i numeri stessi e le essenza dei numeri (v. earte 163-164 e 209>210). i. Le due parti dell'intelligibile si distinguono in qaanto l'una è l'oggetto della scienza dialettica, e l'altra di un'altra scienza, egualmente deduttiva, ma d'un'evidenzi inferiore. Ora quest'esclu- sione dal dominio della dialettica non potrebbe convenire agli og- getti delle matematiche, considerati coma eatità. Essi soao dei concetti obbiettivati simili a tutti gli altri dalla mìtafisici plato- nica. Qaesti concetti hanno dei gradi differenti di generalità, e per conseguenza il metodo di divisii»ne deve applicarsi anche ad essi — Platone, è vero, dei numeri e della grandazze, dopoché ne fa delle entità intermediarie, non realizza che i concetti specifici; ma ciò non esclude l'applicazione del matoio dialettico, i concetti gene- rici occorrenti, che non si trovano tra le stesse entità intermedia- rie, trovandosi nelle Idee a cili esse sono subordinate—. Infina l'u- nità di metodo, che è uno dei carattari essenziali a qaesta forma di metafisica, esige che anche questi concetti entrino, con tutti gli altri, nel sistema universale, e si deducano, eoa lo stesso processo, dall'Idea suprema. E nel fatto Platone, tra gli o^jgatti sa cui volge la dialettica, comprende, in diversi luoghi, i concetti matematici. Nel Filebo 61 d-62 a, riferendosi a 53-59, in cai oppone la scianza dialettioA, che ha per oggetto ciò che esiste sempre ed è sampre allo stesso modo, a quella che ha per oggetto ciò che ò generato, -, dèi Pitagorici. Di queste dottrine alcane — quelle dei numeri ideali e dei due elementi delle Idee — non sono che lo dottrine principali dei Pitagorici con le modifica- dioe di aver distinto due soienze, l'ana circa le cose che Dascono e periscono, l'altra circa quelle che non nascono né periscono e sono sempre allo stesso modo, e pone tra gli oggetti della seconda, cioè della dialettica, il cerchio stesso e la sfera stessa, Neil' Kit ti' demo 890 b-c: • I geometri, gli astronomi, gli aritmetici sono pure dei cacciatori, perchè non fanno le figire, ma vanno alla ricerca di quelle che esistono; e siccome non sanno usarne, ma solamente scoprirle, quelli tra di loro che non sono insensati abbandonano le loro scoverte ai dialettici, perchè sa ne servano „. Neil' Ephiomidy (che, se non è di Platone, è certamente di u]\ discepolo dell' an- tica accademia) 991 e-992 a : "Bisogna che il consenso, <?he è uno, di tutte cosa, d'ogni figura, ogni costituzione di numero, ogni ra- giono d'armonia e di rivoluzione degli astri, si manifesti a quello ohe imparerà secondo il vero metodo; e si manifesterà, se chi im- para guarda all'unità; perchè la riflessione gli scoprirà che un sol legame unisce naturalmente tutte cose ^ (questo legame unico di tutte le cose non è che il legame dialettico, che riconduce ogni moltiplicità all'unità, e per cui tutte le Idee formano un slitema. Cfr Hep, 637 e). Nella Repubblica poi non può esservi dubbio che i numeri (oggetto dell'aritmetica) e le grandezze geometriche non siano inclusi nella parte dell'intelligibila ohe s'investiga par la dialettica. Da Una parte in effetto ci si dica che l'oggetto della dialettica è l'es- senza di ciasou>ia cosa (534 b, 533 b, eoo.) ; ciascuna cosa stessa (aùxò Ixaoxov— v. 532 a. 533 b); l'essere (ov, oOofa— vedi 532 e, 537 d, e quei luoghi in cui, come a 518 e, 521 e, 525 b, 525 e, alle discipline, la cui destinazione neil' educazione platonica è di pre- parare alla dialettica, si dà per iscopo di operare l'evoluzione dello spirito all'essere); il vero ^v. 519 b, 525 e, 527 b). Dall' altra parte si prescrive a qualli che devono occupara le prima caricha dello stato, di studiare il calcolo per contemplare l'ei-ianza dai numeri (v. 523 a-525 e); e le entità a cui si riferiscono l'aritmetica e la geo- metria ricevono anch'eise l'attributo stesso (aùxóg'— a 510 d il quadrato slesso e la diagonale sles^a^ a 525 a, d, e 1' uno stesso e i numeri slessi), e sono anch'esse chiamate essere (c-V a 521 d, 525 a» M3 b-c, 537 e; 0\}QÌ0L a 523 a, 524 e, hìh b, e, 526 e) e verità (525 b, e, zionì necessitate dal loro aggiustamento al sistema pla- tonico; le altre — quelle della mat<»ria delle cose e delle entità intermeiìarie — sono un effetto dell' adesione in- 526 b, 527 b). Aggiungiamo che l'ufficio assegnato alla dialettica è la definizione di ciascuna cosa (v. 531 e, 533 b, 534 b), e i numeri e le figure non potrebbero non essere compresi tra le cose a definire. Questa inclusione degli oggetti a cui si riferiscono le matematiche tra quelli in cui versa la dialettica, si vede pure chiaramente a 537 e, dove si raccomanda che le discipline— 1' aritmetica, la geometria, l'astronomia, l'armonia — che sono state studiate isolatamente nella fanoiullezza, siano più tardi presentate nell' insieme, '^ per dare una veduta d'insieme (s^C 0'JVO'|»Lv) dell'a 'finitiX e delle discipline fra di loro e della natura dell'essere „. tessere sono i concetti rea- lizzati; e questa 0'JVO']^t^ dell' affinità della natura dell'essere non è che la considerazione dialettica di questi concetti, come lo pro- vano anche le parole che seguono immediatamente : Con ciò si sperimaata massimamente l'ingegno dialettico o no; chi è O'ivOTl- Tixó^ è dialettico, chi non lo è no „. Notiamo che i luoghi citati sono tutti nel libro VII, che è una continuazione della digressione cha comincia sulla fine del VI con la bipartizione del visibile e del- l'intelligibila. Ohe cosa bisogna dunque intendere per la parte dell'intelligibiie che s'investiga per la scienza matematicha ? Non altro che le ve- rità studiate da queste scienze. Quantunque Platone non faccia di queste yerità delle entità sussistenti per se stesse coma le Idee, pure, siccome le considera d'una maniera obbiettiva, egli può op- porle alle Idee come un'altra spacie dall' intalligibile. Dall' altro canto le Idee possono e-jsare opposte alle verità dalle matematiche, perchè esse non sono che le verità della dialettica obbiettivamente considerate : la dialettica infatti non è che un seguito di proposi- sùoni esistenziali, logicamenta legate tra di loro, di cui ciascuna pone, cioè afi'arma, un'Idea, e il cui logama logico non è altra cosa che il legama ontologico fra le Idea stesse atfermate. Questa distinzione dalle verità scientifiche in dialettiche e ma- tematiche si rapparta dalla maniera più naturale all'oggetto dalla fine dal VI della Ròpuhblica, che è di dare una nozione generale del metodo dialettico, indicanio le so niglianz3 e la differenza tra le scienza matematiche e la scianza dialettica— ban inteso, considerato -i completa che Platoae fa alla doitrina pitagorica dei nu- meri. Ci resta a parlare dei motivi di questa evoluzione verso il pitagorismo. nella loro formo, non nella loro materia^: che avrebbe da fare con quest' oggetto la distinzione delle entità platoniche in Idea ed entità matematiche? Se la dae parti dell'iatellìgile fossero queste, né si comprenderebbe perchè Platone, parlando dei rapporti tra il meto io dialettico e il metodo matematico, abbia messo innanzi que- sta distinzione; né perchè, avendola messo innanzi, quando poi si tratta di determinare che cosa !*iano le due parti distinte dell'in- telligibile, non parli che dolle difterenze tra le matematiche e la dialettica. Le stesse differenze obbiettive assegnate tra le due parti dell'intelligibile non sono che quelle fra i due metodi scientifici, considerate obbiettivamente: per consegaanza esse convengono perfettamente come differenze tra le Idee (le verità della dialettica) e le verità delle scienze matematiche, ma niente affatto tra le Idee e la entità matematiche. Qaando Platone dica che la parta del- l'intelligibile che s'investiga per la dialettica ha un'evidenza su- periore che quella che s'investiga per la geometria e scienze affini, egli non fa che ripetere, in un'altra forma, che 1' evidenza della dialettica supera quella di queste scienze : ciò è tanto vero che dopo che Socrate ha spiegato le differenze del mato lo dialettico dal metematico, tra cui la pia saliente che quello non ha, come questo, per principii delle ipotesi (e per conseguenza ha un grado superiore di certezza), Glaucone risponde : Comprendo : mi sembri volere stabilire che la parte dell'essere e dell'intelligibile che con- templiamo per la dialettica è più evidente di quella che per le chiamate arti, a cui sono principii le ipotesi, e quelli che contem- plano queste cose (vale adire ciò di cui trattano queste ar/i), quan- tunque contemplino, con coi sensi, ma col pensiero, pure non ti paiono avere intelligenza intorno ad esse, perchè le loro ricerche partono da ipotesi, non risalendo al principio (5JJ e). Lo stesso si- gnificato al fondo ha l'altra differenza che Platone stabilisce fra le due parti dell'intelligibile, cioè che quella che s' investiga per la dialettica partecipa della verità più di quella che s'investiga per le matematiche : ciò vuol dire semplicemente che le verità della dialettica sono più certe ohe le verità delle matematiche. Alle en- tità matematiche Platone non avrebbe assegnato meno verità che alle Idee : verità in questo caso non avrebbe potuto significare che Noi dobbiamo prima di tutto stabilire un punto di fatto, che può gettare la più gran luce su questi molivi, e senza tener conto del quale non si avrebbe del pita- rtfa/(«— noi sappiamo che Platone ammette, quantunque questo sia per noi un non senso, dei gradi differenti di realtà—; ma alle en- tità matematiche, che esse siano la semplice sostantificazione de- gli attributi matematici, oche rappresentino le leggi dei fenomeni, non potrebbe assegnarsi un grado relativo di realtà, ma solo la realtà assolata come alle Idee, perchè eterne e immutabili (v. Arist. Met, 1. 1. VI. 3, 1. VIL I. 3, 1. XII. L 3, l. XIIL 1. 1-2, ecc.) come qneste. E d«l resto Platone non chiamerebbe, come abbiamo visto ch'egli fa, i concetti realizzati dei numeri e dalle grandezze essere e verità, s'egli non assegnasse ad essi che una realtà relativa. Platone stabilisce anche tra le due specie d'intelligibili un'al- tra relazione : quelli che s'investigano per le matematiche sono da lui riguardati come immagini di qaelli che s'iuvestigano per la dialettica. Ciò risulta già dalla divisione del visibile in cose ed im- magini; tanto più se si riflette che tra le due parti del visibile e delKin- telligibile, considerate luna rispetto all'altra, deve esservi lo stesso rap- porto che vi ha tra il visibile e l' intelligibile (v. 509 d-51oa), e che il primo è, secondo Platone, un' immagine del secondo. Ma la prova più esplicita se ne ha dove descrive rascensione nella regione superiore (5I5 e- 516 b), e spiega il significUo di questo simbolo (532 a-c), il rapporto tra le scienze matematiche e la dialettica essendo ivi comparato a quello tra Tintuizione delle immagini e l'intuizione delle cose stesse. Questa relazione con le Idee, bisogna confessarlo, converrebbe assai bene alle entità inter- mediarie, specialmente nell'interpretazione trascendentalista, secondo cui esse tramezzano, non tra i soli attributi matematici delle cose e le loro Idee, ma tra tutto il mondo sensibile e tutto il mondo ideale. Ma essa conviene egualmente alle verità matematiche. Ciò è per le stesse ragioni per cui Platone fa delle m^cmatìche la propedeutica della dialettica. I caratteri della scienza per Platone sono : l'astrattezza e universalità del- l'oggetto, e rincatenamento de<luttivo. Tra le scienze finite, egli non trova realizzati questi due caratteri, quantunque d'una maniera imperfetta, che nelle matematiche— d'una maniera imperfetta, perchè le verità matema- tiche, benché astratte e universali come le Idee, non sono, come queste, degli oggetti sussistenti per se stessi: e perchè la e atena delle loro dedu- zioni, oltre che non ha un valore ontologico, ma semplicemente logico, non parte dal principio, ma da ipotesi—. Per conseguenza Platone vede — 214 - « gorìsmo platonico che un'idea incompleta. E che, come abbiamo accennato, il pitagorismo di Platone non con- siste solamente ad appropriarsi i concetti dei Pitagorici, ma anche ad attribuire a questi i suoi propri concetti. È ciò che vediamo nel Filebo 16 c-e: ivi attribuisce loro nelle matematiche Un tipo, quantunque Imperfetto, su cui Io spirito può formai-si V ideale della scienza assoluta, cioè della dialettica, e nelle loro verità (considerate tanto ciascuna in se stessa quanto nella loro connessione) un simulacro delle verità di questa scienza, vale a diro del mondo delle Idee. Nell'allegoria della caverna, in cui sono rappresentate le diverse parti del visibile e dell'intelligibile e le forme corrispondenti della cono- scenza, il rapporto d'immagine a realtà ha tre significati distinti, perchè net'li oggetti rappresentati questo rapporto è triplice. Esso esiste: 1. tra le due parti del visibile, 2. tra il visibile e l'intelligibile, 3. tra l'intelli- gibile matematico e rintelligibile dialettico. Le ombre della caverna cor- lispondono alla parte più oscura del visibile, cioè alle immagini propria- mente dette : esse simboleggiano, non le cose stesse che noi chiamiamo reali, ma le loro apparenze sensibili, Platone non accordati lo cosi alla percezione sensibile— che è rappresentata dallo stato di prigionia nella caverna— che un valore subbiettivo. Le cose che noi chiamiamo reali sono simboleggiate dagli oggetti che portano i passanti lungo il muro tra il fuoco e i prigionieri, e di cui le ombre si proiettano nella caverna: cosi questi oggetti sono anch'essi delle immagini, perché le cose reali sono immagini delle Idee. V. 532 b-c, in cui essi sono chiamati StJwXa, e le ombre di questi slòooXa, percepite dai prigionieri nelU caverna, sono contrapposte alle ombre degli esseri, guardale dopo l'uscita dalla caverna, prima di poter guardare gli esseri stessi; e cfr. 5l7d: « le ombre del giu- sto o i simulacri (àYaX|xaTa) di cui sono le ombre». Uopo la li- berazione, il progresso del prigioniero nella conoscenza delle cose comprende due stadi: nel primo si volge verso il fuoco, e {«uarda gli oggetti di cui prima vedeva le ombre (qualli che a 532 b-c sono chia- mati sl5a)Xa)e il fuoco stesso (simbolo del sole); nel secondo esce dalla caverna, e ascende nella regione superiore, e questo stadio comprende alla sua volta due gradi, perchè prima guarda le ombre e le immagini la dottrina delle Idee e la dialettica. < Questo metodo (il dialettico) è, dice Socrate, un dono degli dei agli uomini, inviato per mezzo di qualche Prometeo con una sorta di splendidissimo fuf co. Gli antich*, che erano migliori di noi e più vicini agli dei, ci hanno tramandato come un oracolo che le cose che si d cono e-sere eternamente, con- stando deir unità e della pluralità, e avendo in sé per natura il fine e Pinfìnito; bisogna perciò, nella riceica di ciascun oggetto, stabilire sempre un'Idea unica per tutto — e si può ritrovarla perchè vi esiste—; scoverta questa, cercare se dopo Tuna ve ne ha due o, se non due, qualche altro numero; e ciascun uno di que*»ti e- saminare ancora così, sinché si veda, non solo che l'u- no primitivo é uno e molti ed infiniti, ma acche quanti è; e non applicare alla moltitudine l'Idea delTinfinitn, prima di vedere in essa ogni numero che s'interpone tra rinfinito e l'uno; allora solamente lasciare ciascuno di tutti gli uni andare a disperdersi n* ll'infinito. Gli dei, come ho detto, ci hanno trasmesso questo metodo di esaminare, d'imparare e di scambievolmente istruir- ci... » (1). Questi antichi, i quali ci hanno tramandalo degli esseri reali, poi questi esseri stessi (v, 5I5 C-5I6 b e 532 a-c). Que- ste ombre ed immagini degli esseri reali simboleggiano gì' intelligibili delle matematiche, e gli esseri reali le Idea. Nella liberazione dello spi- rito o la sua marcia ascendente nella verità, le scienze matematiche hanno due fun^ionl (v. 532 b-c), coi rispondenti, Tuna al primo stadio del pro- gresso del prigioniero dopo la sua liberazione (la conversione dalle om- bre verso il fuoco e j^li sI5(oXa), e l'altro al primo grado del secondo stadio (l'intuizione delle ombre ed immagini degli esseri reali nell'ascen- sione nella regione superiore). Platone attribuisce a queste scienze anche la prima funzione, cioè di convertire lo spirito dall'apparenza (le ombre) alla realtj\ sensibile (pli St5(oXa), perchè esse danno un'idea più giusta del mondo esteriore, rettificando lo illusioni della percezione, come fa la astronomia, che al cielo apparente sostituisce il cielo reale. (1) Cfr. Supplera. B, n. V, carta 37, — 215 — che le cose consfano dell'unità e della pluralità, ed han- no in sé per natura il fine e l'infinito, sono evidente- mente i Pitagorici, o piuttosto gli antecessori di questi filose fi -perchè naturalmente Platone non potrebbe at- tribuire le Idee e la dialettica ai Pitagorici contempo- ranei, di cui si leggevano gli scritti-. Altrove nel i^<«6eo stesso (23 e eqq.) Platone appoggia su questa tradizione di origine divina, di cui ha parlato nel luogo citato, la sua dottrina sul népa^ e l'ac;:eipov, quale egli l'espone in questo dialogo. Noi siamo dunque fondati ad ammettere che Platone dà la sua propria filosofia, qual es3a ò di- venuta dopo il sincretismo coi concetti pitagorici, per una restaurazione dell'antico pitagorismo, o di una sa- pienza prepitagorica di cui i Pitagorici non conservavano che delle tracce alterate. Attribuendo agli antecessori dei Pitagorici la dottrina delle Idee, egli attribuisce loro implicitamente quella dei numeri separati (xoipiczol). Di più nel Timeo egli mette in bocca a un pitagorico, ol- tre alla dottrina delle Idee, quella dei due elementi con le modificazioni ch'essa subisce nel suo proprio sistema (nell'epoca in cui il sincretismo coi concetti pitagorici, verso cui nel Filibeo non ha fatto ancora che il primo passo, è già compiuto), e la distinzione di forma (Idea) e maceria con la riduzione di questa allo spazio. In quan- to alle altre modificazioni ch'egli ha apportato alle dot- trine pitagoriche (la formazione, progressiva dei numeri, la distinzione del numero che rappresenta le essenze delle cose dal matematico, ecc.), noi non abbiamo in verità la prova specifica che Platone le abbia attribuite al pitagorismo originario. Ma sappiamo che un filosofo della sua scuola, Speusippo, intitola e dei numeri pita- gorici » un libro in cui egli espone la sua propria dot- trina sui numeri (1), dando, per conseguenza, questa per la dottrina pitagorica. La pretesa di Platone e dei Platonici che il loro si- stema fosse la riproduzione dell'antico pitagorismo, spie- ga come, nel concetto degli autori posteriori, le due fi- losofie finiscono per confondersi: la più parte di questi in effetto attribuiscono ai Pitagorici le dottrine proprie di Platone e per cui la sua filosofia si distingueva dalla loro, le Idee, i numeri separati (concep'ti come dei pa- radigmi, comform'imente all'interpretazione trascenden- talista delle Idee platoniche), e l'opposizione dell'Uno e della Dualità indefinita con la funzione assegnata a quello di principio formale e a questa di materiale (2). È notevole che questa confusione tra le dottrine pla- toniche e pitagoriche comincia già negli stessi discepoli immediati d'Aristotile: cosi l'opposizione dell'Unità e della Dualità indeterminata (con le proprietà piìi ca- ratteristiche che Platone assegna a quest' ultima) è at- tribuita ai Pitagorici anche da Teofrasto (Met. 33) Quest'avvicinamento ai Pitagorici non è, nella vita speculativa di Platone, un fatto isolato. Si sa che nei suoi scritti egli non espone mai le sue dottrine nel suo proprio nome: egli le mette in bocca a Socrate (3), a Parmende (4) e agii Eleati (5), a un pitagorico (6). Non bisogna credere che questa non sia che una finzione poe- tica: senza dubbio, quando gli autori antichi trattano i (1) V. lamblico Theol. arithm. p. 6X ed. Ast. (2) V. Zeller 317-320, 33o-335. (3) Nella piìi parte dei dialoghi. (4) Nel Parmenide» (5) Nel Sofisia e nel Politico, (6) Nel Timeo. — 216 — (L'air ghi di Platore coire documenti storici, e, fond^n- dosi feulJa sua testinr.oDiaMza, attribuiscono il sistema dHlc Idre a Socrate, a Parmenide, ai Pitagorici, cshi rivelano il difetto di senso critico proprio della loro epoca; ma non è meno evidente perciò che la maniera naturale di ermi: rendere Piatene è quella di questi autori, e che è ersi, vale a dire coire un testimonio attendibile sulle opinioni attribuite ai p^rsonagu^i dei suoi dialoghi, che egli vuole et^sere compreso. Una prova di ciò è la cura che ba, in parecchi dialoghi, dMiidicare le fonti da cui ha attinto. Queste in certi casi sono immaginate con l'intenzione evidente di spiegare come dei fatti gene- ralmente ignorati siano potuti v.'uire a conoscenza del- Fautore. Cosi nel Parmenide il colloquio tra Socrate e Parmenide (a cui si mette in bocca, della maniera più esplicita, la dottrina delle Idee), è narrato da un fra- tello uterino di Platone, Antìfoiite, il quale Pavrebbc ap- preso da un suo amico, testimonio auricolare e amico di Zenone (1). Per questo dialogo -cosi importante per comprendere 'il rapporto che Platone intende stabilire tra la propria filosofia e quella degli Eleati— che Tautora voglia che sì dia ad esso un valore storico è anche di- mof^trato dalla menzione che f4 in altri dialoghi della conversazioue di Socrate con Parmenide (2). \'incom- patibilità tra le opÌDÌoni conosciute degli Eleati e il ai- stema delle Idee non è per la fantasia di Platone un ostacolo insormontabile: le dottrine es^ o^te nei poemi di Senofane e di Parneuide non sono, secondo Platone, che dei miti (3), e per comprendere il viro pensiero di (1) V. il principio del Parmenide, (-i) Teeleto I83 e, SìtUla 217 e. (3) V. Sof, 2i2 d. qu sti filosofi, non è alla lettera che dobbiamo fermarci, ma cercare, più oltre, ciò che essi non esprimono, ma sr^ttlntendono. (1) Da questi fatti emerge con evidenza un fatto gene- ral^: è lo sforzo di Platone di riattaccare il proprio si- stema alle tradiz'oni filosofiche del popolo greco, la sua pretesa di dare la proprha filosofìa, non come una ri- voluzione, ma come una restaurazione. E lo stesso pro- cedimento dì cui <»gli si serve per accreditare le dottrine politiche e sociali insegnate nella Repubblica, Le istitu- zioni inculcate in que«<t' opera non sono, pretende Pla- tone, che quelle stesse che all'origine ha a^uto il popolo ateniese : ciò si r 1 »,va da una storia (una guerra an- ticamente combattuta tra gli Ate liesi e i popoli della (l) V. Teet, 183 e-lS4 a. Su che ha potuto fondarsi Platone per attribuire le Idee agli Eleati ? Sovratutto, senza dubbio, sulla loro dottrina che l'essere vero è eterno c«l immutabile. Aristotile (/><? Coelo 1. III. I. 2), dopo aver parlato di que- Ht'opioionc di Parmenide e di Melisso, osserva che « se anche per il re- 8ti> dicono bene, si deva credere però che essi non parlano da fisici. In elfctto esservi delle cose non generate e assolutamente immobili spetta ad una considerazione diversa e anteriore che la fisica; ma essi, perchè nienr,e altro credevano esservi che la sostanza delle cose sensibili, avendo compreso per i primi che esìstono certe nature ta^i (cioè non generate e assolutamente immobili), se vi ba qualche scienza o intelligenza, le pro,>osizioai adattate a queste nature trasportarono alle cose di qui •. Veri similmente noi abbiamo in questo luogo un pensiero di Platone ri- veduto e corretto da Aristotile (si notino le parole « se vi ha qualche 8 -lenza o intelligenza», che ricordano le prove per dimostrare l'esistenza delle Idee). Platone non avrebbe detto della filosofia degli Eleati di non ammettere che la realtà sensibile, e trasportare a questa ciò che non é vero che di una realtà sovrasen^ibile, ma solamente dei loro mUi, Per il rap-porto che Platone ha potuto stabilire tra le proposizioni degli Eleati e il siste- ma delle Idee, è anche notevole l'argomentazione di Parmenide per provare; l'unità dell'essere, che Teofrasto (ap, Si/np. in Phi/s, 25 a) riassume cosi: oltre all'essere non vi sarebbe cheli non essere; mail non essere è niente — 217 — favolosa Atlantide) scritta nei libri sacri degli Egi- ziani e che quei preti raccontarono a Solone (l). Platone ci presenta dappertutto, in filosofia come in politica e in religione, la strana alleanza di un ge- nio eminentemente innovatore con delle tendenze che noi non siamo abituati a trovare che associate ad uno stretto conservatorismo. Rispattoso delle antiche tradizioni (2); convinto che ogn' innovazione nelle idee e nei costumi è il pericolo p ii grave da cui la società deve guardarsi (3); non eonosceado il dogma moderno del progresso, e vedendo nella libertà e neiroriginalità deirindividuo piuttosto un agente di corruzion e che di miglioramento sociale (4); e sotto l'impero deirillusione del mondo antico che il bene è, no a neiravvenire, ma nel passato (5); non è sorprendente ch'egli abbia fatto dunque l'essere è uno. Su quest*argomentazione Aristotile nota (in Phys, 1. I. 111. 4-5) che,per poter cont^ludere, si dovrebbe intendere in essa per essere V essere separabile ^ ciò che corrisponde a 1 concetto astratto di essere considerato in se stesso (in altri termini l'Idea platonica dell'essere). (1) V. Timeo 17 c-27 b e Crizia'\o^ d- II3 b. Gran tore, discepolo di Platone, aflerma che il racconto sugli Atiantini e sulla identità della isti- tuzioni della Repubblica con le istituzioni antiche di Atene è una pura storia; e racconta che, per vincere l'incredulità dei contemporanei, Pla- tone mandò la sua narrazione agli Egiziani, i quali attestavano la verità dei fatti, alfermando che essi si trovavano inscritti in colonne tuttora esistenti (V. Proclo Comm. in Plotonis Timaenm pag. 24 ed. Basii.— in Mullach Cranioris Fragmenta Fragm. T— ). (2) V. FU. 16 e, Fedro 274 e, lim, 40 d-41 a, Ugii 863 e, 872 e- 873 a, 881 a, 887 d, 93I b, 948 b, ecc. (3) V. Rep. 424. Leggi 653-657, 659-660, 738 b-d, 741 a-h, 772 c-d, 71)7-799 b, 816 e, 8S3 e, 949 e-95o a, 95o d, 952 e, 9'>7 b, ecc. (4) V. Rep. 397 d-398 b, 401 b, 424, 547 a, 565 c-553 d. Uggì 656- 657, 659-6GO, 700-70I, 739 b-d, 78O a, 78j d, 788 b, 797-799 b, 801 c-d* 802 a-c, 8I7 b-d, 942 a-d, 952 c-d, ecc. (5) Le altre forme dello stato sono, secondo Platone, una degenera- zione progressiva della forma perfetta (cioè quella di cui traccia il dise- gno nella Repubblica), V. Rep, 1. Vili, e cfr. Arist. Politica 1. V e. Xll. o;:ni sforzo per conciliare con la tradizione le sue idée auducemente rivoluz'onarie. Questo sterzo di Platone di riattaccarsi hi passato non è per altro wn fatto uu'co nella storia della metafisica. E in questo senso che spinge naturalmente il metafisico la solitudine int-llettua'e in cui Io lascia il carattere paradosastfco delle, sue dottrine. Nelle scienze speciali, il pensatore più oripnale non può aspirare che ad ac- crescere, più o meno, il patrimonio comune dello cono- scenze: di più, per quanto egli voglia rinnovare radical- mente le nostre noz'oni sulle cose, egli divide con gli altri uomini certi nozioni fondamentali ch^ costituiscono ciò che 8i chiama il senso comune. Ma il metafisico pre- tende di rifare di fondo in colmo, con un piano intera • m^ntc nuovo, tutto il sistema delle conoscenze umane; le sue dottrini*, sono, in un punto o io un altro, in aperta contraddÌ7Ìone con le credenze naturali; il suo mondo rf-ale non é il mondo reale degli altri uomini; ciò che questi chiamano realtà, per lui è un'apparenza, un fe- nomeno; la vera realtà non è conosciuta che da lui solo. A lui (supposro che il suo sistema fosso vero) potrebbe applicarsi con più ragione ciò che Omero (1) dice di Tir sii agl'inferni, e che Platone (2) applica al vero uomo di stato: « egli solo pensa, gli altri non sono che dt Ile ombre erranti » (;5). Non è naturale ch'egli cerchi (1) Odiss. X V. 495. (2) Menoiie loo a. (3) Una condizione della possessione delia conoscenza fìlosotìca è, (XiC'i Schelling {Lezioni sul metodj degli ^ludi accademici Lea. 4), una chiara e viva concezione delia nullità di ogni conoscenza semplicemente finita (la conoscenza finita e la conoscenza non liiosofica, e la filosofìa è, s'intende, quella di Sclieliing). E 2i\trove {D^^i fnodo assoluto di conoicere negli Scritti filosofici tradotti da Benard pag. 3I8): Bisogna aprirsi vi- gorosamente un accesso sino ad essa (alla intuizione intellettuale o co- 'W I" dei compagni e de^H antecessori negli altri filosofi, sfor- zandosi di diminuire il suo isolamento e di accorciare in qualche modo la distanza che lo separa dagli altri uomini ? Ed è notevole che è, nei metafisici che si al- lontanano il più dal punto di vista comune che questo sforzo di riattaccare il proprio sistema alle tradizioni filo- sofiche apparisce più energico; p. e., tra i moderni, in Leibnitz e in Hegel. Si sa che Tautore delle monadi e deir armonia prestabilita si dava per un eclettico. « Io ho lungamente riflettuto, egli dice, sugli antichi m sui moderni, e ho trovato che pressoché tutte le opinioni adottate sono suscettibili di un buon senso » (1). Nel suo sistema si trovano riunita « la poca realtà sostanziale delle cose sensibili degli scettici; la riduzione di tutto alle armonie o numeri, idee e percezioni dei Pitagorici e di Platone; V uno e anche uno tutto di Parmenide e di Plotino, senza Fpinozìsmo; la connessione stoica, com- patibile con la spontiineità degli altri; la filosofia vitale dei Cabalisti ed Ermttiji che mettono del sentimento da per tutto; le tV^rme ed entelechie d'Aristotile e degli Scolastici; e con tutto ciò la spiegazione meccanica di tutti i fenomeni particolari hecondo Democratico e i noscenza fiIosoHca), ed isolarsi da tutti i iati dal sapere comune, a tal punto che alcuna v a, alcun sentiero, non possa condurre da questo ad essa. Qui comincia la filosofìa— Vera (Seconda Introduzicne alla filos. delio spirito^ pa^. CU), rispondendo alle obbiezioni contro il sistema di Hegel, assimila quesi;c obbiezioni (essendo fatte eia un punto di vista che non ò l'hegeliano) a quelle che sarebbero fatte da un essere che non pensa, pcr« che, egli dice, il pensiero non filosofico (cioè non hegeliano) non ò un pensiero, (1) Citato da Schelling Delia success, dei sUt. flìos. e della ma» niera di trattare la storia delta fllos, (negli Scritti pfvsoflci tradotti da Benard pag. 326). f i i • -. •.<%'. moderni; ecc.: si è mancato (dagli altri filosofi) per inno spirito di setta, limitandosi per la reiezione degli nitri » (1). Si sanno egualmente le idee di Hegel sulla storia della filosofia: « La stoiia della filosofia mostra nei diversi sistemi che sono apparsi una sola e stessa filosofia che ha percorso diffr^renti gradi, ed essa prova che i principii particolari di ciascun sistema non sono che dell'* parti d'un solo e sttsso tutto iche è il sistema di Hegel). L'ultima filosofia nrirordinc del tempo ò il risultato di luttc le filoscfie precedenti, e deve per con- seguenza contenerne i principii (2) Senza dubbio il tradizlonaliamo dì Hegel— con cui, tra i filosofi moderni, la comparazione e la più ovvia— rfsta ben al di sotto di quello di Platone. Hrgel si limita ad int rpretare arbitrariamente le filosofie del passato e a falsarne il carattere, per mostrare che ciascuna di esse è un mo- mento della propria filosofia (e che è perciò al tempo stesso vera, perchè è una parte della vera, e falsa, per- chè, essendo una parto, pretende di essere il tutto); ma non va sino ad attribuire agli antichi filosofi il suo proprio sistema, e, quel che è più, non adotta le loro dottrine. Ma V isolamento di Hegel non è cosi com- pleto come quello di Platone: i suoi contemporanei era- no già abituati a una filosofia che aspirava <- a ripro- durre nelle sue concezioni Tordine stesso delle cose » (3); egli aveva avuto prima di sé Schelling e Fichte (per non parlare di altri minori, come Novali?, Bardili, ecc.), e, prima di questi, Sp'noza, Cartesio con la più parte (1) Op, omn. Dutens t. II. parte I. pag. 79. (2) Introd. alVEncicL g XIIL <8) Gfr. oap. VI, paragr. 12. - 219 — degli altri filosofi che gli sono succeduti (coi quali aveva comuoe l'apriorismo, lo stesso Platone, 1 neoplatonici (i qunli avevano proclamato il principio dell' identità dell'essere e del pensiero), i realisti del medioevo, e co.; nei limiti stessi della verità storica, Hegel poteva tro- vare molti precursori. Invece, se vi ha un filosofo di cui possa dirsi ciò che Gioberii (l) dice in generale del genio speculativo, dì eas.^r^ quasi prolessin^*. maire creata, questo è prima d'ogni altro Platone. Li sua filosofia è nel contrasto più spiccato con quella di tutti i suoi pre- decessori: egli ha abordato il problema delle causo ef- ficienti da un lato interamente nuovo, che nessuno pri- ma di lui aveva mai intravisto; e se anch'egli ha cer- cato, come i suoi predecessori, l'elemento permanente delle cose, non è come cfsì nella materia che lo ha tro- vato, ma nella forma. Certo anche Platone è fii>Ilo dei passato, e ne riceve l'eredità: da Eraclito prende il prin- cipio del divenire ; da Socrate la definizione ; ai mate- matici deve r idea del metodo dimostrativo; prima di lui gli Eleati aveano visto nel mondo dei sensi l'ap- parenza cangiante di una realtà immutabile; il concetto teleologico era stato adombrato da Socrate e da Ippncratc, ed era contenuto virtualmente nelle dottrino di Anas- sagora, di Eraclito e di altri fisici; la sua dottrina sul- l'anima è una sistematizzazione dell'antico animi^ui^; la sua etica uno sviluppo dell'etica di Socrate; la sua fisi- ca una continuazione della fisica anteriore. Ma nessuno degli elementi der sistema delle Idee, né lareal'zzaziono degli unirversali, né il metodo a priori, come metodo scientifico universale- e tanto meno perciò la dialettica, (1) Inlrod. allo stud, della filot, cap. 2., Milano 1851) t. 1. p; 150. quale metodo di dedurre i concetti— non trova alcun ri- scontro nelle filosofie del passati. Bisogna pure tener conto, se si vuol paragonare Platone con Hegel, della diffc*renza tra T epoca del secondo e quella del primo, scarda necessariamente di senso storico, e in cui i docu- menti sul pensiero dei filosofi che si trattava d'interpre- tare, o mancavano affatto (come pei primi pitagorici), o non potevano avere quella precisione di linguaggio e quell'abbondanza di sviluppi, che sono il prodotto della maturità della coltura. Ciò che dobbiamo infino, notare é che questo bisogno di ritrovare nelle filosofie precedenti i principii della pro- pria filosofia e in questa quelli delle filosofie precedenti è, in Platone come in He^el e negli altri filosofi che hanno seguito la stessa forma di metafisica, una con- seguenza logica del'c loro teorie sulla conoscenza. La forma di metafisica dì cui parliamo consiste nella ob- biettivazionc dfi concetti, e nella ricostruzione a priori del n ale, deducendo progressivamente questi concetti obbicttivati gli uni dagli altri con un metodo regolare de- terminato, che non é eh", la legge stessa secondo cui le cose si sviluppano. Essa ammette cosi tra il pensiero cono- scente e l'oggetto conosciuto una corrispondenza tale, che, oltrepassando di gran lunga quella che noi siamo abi- tuati a vedere tra il pmsiero e le cose, esige, come tutti i fatti con cui non siamo familiari, una spiegazione; e le ipotesi a cui si ricorre per dare questa spiegazione, sono tali generalmente che e'sc rendono più completo an- cora, dopo la loro adozione, in questa metafisica, questo parallelismo primitivo fra il pensiero e le cose, che si trattava di spiegare. Queste ipotesi, limitandoci a par- lare di Platone e di Hegel, sono, come si sa, pel secondo^ l'identità deiressere e del pensiero (cioè del pensiero — 220 — generale e deir essere generale ), 0 pel primo, l'intui- zione delle Idee in una vita anteriore e la conseguenio reminiscenza. Conoscere, per Platone, è ricordarsi; p r Hegel, è l'evoluzione doA pensiero per una forza interna e secondo una legge di sviluppo che gli è propria. Nel- l'una e nell'altra ipotesi, la Pcienza ci ò in qualche modo innata; epsa prf esiste nell'anima, per dir cosi, allo stato latente, e non ha che r d estrirsecars'. Con queste premesse, come Platone o Hegel potrebbero ammettere che il proprio sistema, cioò la scienza stessa— poiché tutta la scienza, la vera scienza, per essi, è il sistema delle Idee- sia esclusivamente la loro creazione indivi- duale? che gli altri uomini non l'hanno mai connsciuto, né in tutto nò in parte ? chu tutta la filosofia anteriore non è che una continua aberrazioro? che la verità è u ti privilegio proprio, e che al di fuori d^lla loro filosofi i personale non vi ha che l'errore ? Con queste premesse anzi l'eMstenza dell'errore e dell'ignoranza diviene in- comprensibile; la verità dovrebbe essere il patrimonio comune di tutti gli uomini. E qui possiamo osservare, per incidente, come le ipotesi metafisiche vadano stra- namente al di là del loro scopo. Un'ipotesi che vuole spiegare perchè esiste il bene (la concezione teleologica del mondo) dà luogo alla insolubile difficoltà: qu«l è^l'o- rigine del male ? Un'ipotesi che vuole spiegare comò possa esistere la verità e la scienza, mette i suoi autori in faccia a un'altra quistione più imbarazzante: come può esistere l'errore e l' ignoranza? La nuova quistione in cui s'imbatte il realista dialettico (nella sua spiega- zione della coincidenza tra il pensiero e la realtà) è cosi poco suscettibile di una soluzione radicalo che quella in cui s' imbatte il teleologista : ma come questi cerca almeno di attenuare la sua difficoltà, falsando il bilan- C'o dei beni e dei mali nel monlo, cosi quegli cerca di fittenuare la sua, falsan^^o quello della verirà e dell'er- rore, della scienza e dell'ignor ^nza. Di là lo sforzo d ir uno di giustificare il passato dei suoi errori e delle sue ignoranze^ corrispondente a qu'^llo dell'altro di giu- stificare la natura dei suoi mali e delle sue imperfezioni; e per conseguenza, l'accostannento alle filosofie del pas- sato, attribuendo ad e^se i concetti della propria filosofia o anche accogliendo in qu<^sta i concetti di e^se. Gl'impulsi che spingevano Platone a riattaccarsi allo tradizioni filosofiche era naturale che si dirigessero di preferenza verso il pitagorisrno. Vi erano vari motivi che agivano in questo senso. Primo, Talta riputazione di sapi^^nza, di cui. godeva necessariamente una vasta associazione dedita ai Uvori scientifici, come quella a cui app'irtenevano i filos'^fi pitairorici; poi, l'analogia delle idee al punto dì vista politico, sociale, morale, religioso, a cui possiamo nuche aggiungere la comunità degli studi matematici e l'importanza pressoché eguale che entrambe le filosofie attribuivano a questa scienza. Ma il motivo preponderaot*», senza dubbio, deve cer- carsi nell'affinità delle due filosofie, maggiore di quella che la platonica ha con qualsiasi altra delle ant che. Quefiit'affiniià, come abbiamo notato, consiste special- mente in questi due punti: i^ I princìpii dei Pitagorici (i numeri, gli elementi e, sino ad un certo punto, lo due auaxotx^ai di contrari) sono delle astrazioni realizziate, come quelli di Platone. 2® Essi rappresentano sovratutto, non la causa materiale o motrice, come quelli degli altri filosofi anteriori a Platone, ma la specie o il concetto, come lo entità platoniche. Aggiungiamo infine la man- canza, sino ad un'epoca recente, di documenti scritti sulla filosofia dei Pitagorici; la loro predilezione per il *' -t linguaggio simbolico; il secreto che mantenevano su certe proposizioni— questo simbolismo e questo secreto concernevano altri punti che le loro dottrine filosofiche (I); ma ciò bastava per dare qualche credito air opinione che tutta la filosofia dei Pitagorici non stava in ciò che essi ne pubblicavano, e che questo stesso non doveva essere preso alla lettera —Era quanto occorreva pcrchò Platone potesse appl'care a tutto suo agio il suo metodo fantastico d'interpretazione. A. Il pitagorismo nel Timeo. Nel Timeo, alcune delle dottrine del periodo pitagoreggiante sono esposte aper- tamente, altro involto in una forma simbolica. Delle prime (la separazione della materia dalle Idee e la sua riduj zione allo spazio, e la composizione dei corpuscoli elemen- tari) ci siamo occupati nel numero procedente: qui parlere- mo delle seconde. L' argomento del Timeo è la narrazione dell' origine del mondo, e il supposto narratore è un filosofo pita- gorico, da cui il dialogo prende il nome. Il mondo ha avuto un'origine nel tempo: esso è stato formato da un artefice (demiurgo) che contemplava le Idee come modelli e si serviva di una maf^ria preesistente. Al priu- cipio la materia era agitata da un movimento confuso e disordinato; non vi erano in alcuna parte delle forme regolari e costanti; Dio (il demiurgo) fece passare le cose dal disordine alPordine, «effettuando da pf*r tutto ciò che era il migliore. Egli stesso formò Tanima, gli elementi, il cielo, il tempo, gli astri e la terra; poi co- (1) V, Zeller 297-298, 302, 426. mandò agli altri dei, ch'egli aveva prodotti, di produrre alla loro volta gli animali mortali. Questi, ricevuta da lui la parte immortale delTanima, che egli compose a somiglianza dell'anima del mondo, ne eseguirono il co- mando, imitando l'azione creatrice del loro demiurgo e padre, e formarono i corpi degli animali propriamente detti e delle piante che sono anch'esse una sorta di ani- mali, e la parte mortale dell'anima. Timeo mostra, in ogni opera particolare degli autori del mondo, le ragioni provvidenziali che vi hanno presieduto, e l'aggiustamento dei mezzi ad uno scopo determinato: gli dei, in effetto, sono stati obbligati di servirsi delle cause materiali, fa- tali nella loro azione e ribelli, sino ad un certo punto, alTaziono ordinatrice, ma hanno realizzato, per quanto è stato pos<<ibile, il bene in tutto ciò che hanno prodotto. Se si ammette Timmanenza delle Idee, è evidente che il racconto di Timeo non può essere proso alla lettera. Dio non avrebbe potuto creare il mondo senza creare allo stesso tempo lo Idre, perchè queste non «^ono altrove che nej monio stesso, di cui costituiscono l'elemento formale: 80 il mondo attuale ordinato è stato preceduto da un mondo disordinato, il Demiurgo ha annientato le Idee a cui prima la materia partecipava, e ne ha prodotto, al loro posto, delle altre. Perchè la cosmogonia del Timeo potes»<e essere presa alla lettera, bisognerebbe ammettere dunque che le Idee, che Platone dà co" stantcmcnte come eterne e — se si comprendono bpne i privici pii della sua d'alettica— come necessarie, possano C'is^re prodotte ed annientate. Ma indipendentemente da quest'ordine di considerazioni, che il racconto cosmogo- nico del Timeo non sia che un semplice mito e che esso non debba essere inteso letteralmente, noi ne abbiamo dello prove abbondanti, sia nel Timeo stesso, sia nel v»;ll complesso dclFopera di Platone, e nello testimonianze dei suoi dincepoli. Ecco le più importanti : 1*^ L'antropomorfismo grossolano che recrna in tutto il racconto. Le operazioni del Demiurgo e dello altre divinità che hanno concorso con lui alla proiuziono dol mondo, sono rappresentate come perfetta mento simili a quelle di un fabbro. P. e. ecco come Dio ha prodotto le ossa: « Dopo aver vagliato della terra pura e molle, egli la impastò, inzeppandola di midolla; in seguito mise questa mescolanza nel fuoco, poi laimmers»^ nclTacqua; poi nuovamente nel fuoco e nuovamente neH'acqaa; e facendola passare più volte dall'uno nlTaltro di questi due elementi, fece si che es«^a non potesjjc ossero disciolra né dall'uno né dalTaltro » (73 e). L'impossib lità di pren- dere sul serio simili rappresentazioni ò de Tuliima evi- denza, quando questo processo tutto meccanico attri- buito al creatore si applica ad oggetti nssolutimente insuscettibili come sono le entità astratte della metafi- sica platonica. E ciò che avviene nella composizione del- Tanima, che il Demiurgo formò, mese alando dentrii un vaso Tessenza indivisibile (riiea) con la divisibile (la materia) e con lo Stesso e il Diverso (35 ab, 41 dj. 2® L'intervento miracoloso del Demiurgo, che é un vero Deuft ex machina. Egli non spiega la sua aziono nel mondo che all'origine; in seguito questo basta a se stesso, e nrn ha bisogno d irintervento di alcun agente straniero (33 d, 34 b, 68 e). Il carattere dei principii filosofici è la generalità e la costanza della loro azione: al racconto mosaico della creazione in sei giorni i filo- sofi creazion'sti sostituirono la dottrina della creazione continua. Il mito concentra tutto in un punto del tempo: una legge generale diviene, in esso, un fatto particoUre. Bisogna anche notare ciò che si dice del Demiurgo, quando questi ha già rappre^^entata la parte che |?li é spettata nella creazione: « E quello che aveva ordinate tutte queste cose restava nel suo stato, secondo la sua abitudine » (42 e— ciò vuol dire che il Demiurgo aveva cessato di operare, rientrando nella sua quiete abituale). L'azione del Demiurgo apparisce dunque come un fatto isolato ed eccezionale, non solo rapporto al mondo in cui si é esercitata, ma rapporto al soggetto stesso che Tha esercitata. 3<> Le incoerenze evidenti nelle circostanse principali del racconto. La più sai 'ente é il movimento della ma- teria, prima della nascita del tempo. Per risolvere questa contraddizione si é preteso che il Demiurgo ha creato, non il tf mpo, ma il tempo ordinato: ma Platone dico chiaramente (37 e- 38 a) the il presente, il passato e il futuro sono forme del tempo creato dal Demiurgo (1). Il movimoLto disordinato anteriore alla formazione del cosmos, e, per conseguenza, dell'anima, é anche in con- traddizione col principio platonico, ammesso nel Timeo stesFO (2), che l'anima é il principio del movimento. Inoltre, se come si stabilisce a 50 e— 52 d, e come ri- sulta necessariamente dai principii del sistema delle Idee, il divenire (^éveotc) nasce dal concorso delle Idee e della materia, come sarà esso possibile prima deirazione del Demiurgo, che ha fatto partecipare la materia alle Ideo?— Da questa contraddiz'one ne viene un' altra pm espli- cita ancora. Gli elementi ora si fanno creati (53 b-c, 5r> bc, 57 c-.l, ()9 b-c), ora incr'^ati (48 b, 52 d.53 a). Da una parto infatti efsi devono esseie creati, primo perchè racchiude no il principio ideale, e, come .1 (1) Cfr. Proclo in Tim. p. 250 B. (2) V. 87 b e 46 d-e. abbiamo detto, la partecipazione alle Idee è, secondo il 7*meo, Topera del creatore; e poi perchè la spiegazione teleologica si estende anche ad essi, e anch'essi devono per consegneiìza es-^ere il prodotto dell'intelligenza (1). Ma da un'altra | arte devono esistere g à nella ^ì^bok; anteriore alla creazione, poiché il movimento disordinato prima della formazione del osmos non può avere per sustrato la mat'^ria indet'^rminata— questa per Platone non è che il semplice spazio— ma la materia divenuta dei corpi particolari per la sua circoscrizione — cioè per la circoscrizione dello spazio — dentro superficie deter- minate (2). ' Aggiungiamo infine, per limitarci alle incoerenze più notevoli, che l* supposizione di un essere int-lligcnt»» distinto dall'anima (Il Demiurgo) è in contraddzionc col principio, ammesso nel Timeo (30 b, 46 d) eripetiit-ì nel Snjista (249 a) e nel Filebo (30 e), che non può esservi intelli^senza genz-anima. 40 I punti cnt)itali della cosmogonia del Timeo sono questi due: T origine del mondo nel tempo, e un prin- cipia^ iot'^lligetite, separato da esso e distinto dairanima (il Demiurgo), che l'ha prodotto : ora nell'uno e nell'al- tro punto il Timeo è in contraddizione col complesso del- l'opera platonica. In quanto al Dera-urgo, esso non si trova che nel solo (1) Cosi nel Sofista (e65 e, 266 b) e nelle Laggì (892, 896-897) gli elementi sono prodotti dnU'anima. (2) Quando verremo alla spiegazione del significato del mito, si vedrà perchè è al soggetto degli elementi che si manit'esta so- vratutto la contraddizione inerente al concetto I una Y^veot-C an- tenore alla formazione del mondo e, per conseguenza, alla parte- cipazione della materia alle Idee. Timeo : di più le dottrine esposte negli altri scritti di Platone non Usciano alcun posto per un Dio tsascen- d^'ute come il Demiurgo del Timeo, Certamente la dot- trina costante di Platone è che la divinità è la causa prima di tutto— ben inteso, considerando il tutto come un complessD di fenomeni, e la causazione come un rap- porto tra questi fenomeni;— ma la divinità none, per lui, ch6 Tanima cosmica. Secondo il X delle Leggi (888-899) ciò che prova l' esistenza della divinità è che il movi- mento di ciò che muov^e se stesso— cioè delPanima — è il principio di tutti i movimenti (893 c-897 b); e che, per con»<ogueiiza, le cose che appartengono air anima, come rintelligenza, la preveggenza, Tart^, ecc., sono anteriori a quelle che appartengono ai corpi (892 a-b, 896 c-d), e Tauima è la causa prim i dei beni e dei mali, delle cose belle e brutte, giuste ed ingiuste, e, in una parola, di tutt^ le cos« (891 e, 896 a. 896 d, 897 a, 899 b.). Nel Fitebo (26 e-3l a), Tintelligeazaè T uno dei quattro generi in cui gli esseri sono stati divisi (30), quello che è la causa di tutti gli altri (2G e-27 b, 30 b, 30 e, 31 a): ma c-'sa non è che una facoltà delT anima cosmica (29-30), perchè la mente e la sapienza non possono esistere al- trove che nell'anima (30 e, 1. e). Nel T'udrò si dimostra che Tanima non può avere un'origine perchè essa è il principio di tutte le cose : infatti se il principio venisse da qualche cosi, non verrebbe dal principio, e alloca non sarebbe vero che tutte le cose vengono dal princi- pio (245 d). Nel Sofida (265 c-266 d) Dio è detto l'au- tore degli aniunli, le piante, l'acqua, il fuoci, in una parola, di tutti le così che si dicono prodotte dalla natu- ra; ma per questo Di ) si deve intendere V anima del mondo, conformemente al principio precedentemente (249 a 1. e.) -stabiliio, che l'intelligenza non può trovarsi - 2«4- che in uu 'anima. Nel mito del Politico (269-274) s? parla pure di un demiurgo del mondo; ma questo demiurgo «ppartieoe al genere ciò che muove se stesso (1), va'e h dire al genere anima. ìicW Epinomide, infine, il mondo è prodotto come nel Timeo; ma quello che l'ha prodotti non è un dio trascendente, ma Tanìma, quella stessa che anima il cielo e gli astri e li muove (97G e-978 d, 983 h, 984 b-c) : l'anima è la causa di tutte le cose, la buona delle buone, la cattiva delle cattive f9'<6 e-977 a, 981 b, 983 d, 988 d-e). L'autore deW Epinomide (ò per noi, sino ad un certo punto, indifferente che esso sfa Platone o uno dei suoi discepoli) afferma espressamente che non vi ha alcun altro essere incorporeo che l'anima (981 b, 983 d); e non riconosce altre divinità — a part*^ le supers'izioni relative ai demoni aerei, acquei ed eterei — che il cielo e gli astri, cioè le loro anime— in effetto, dopo aver detto che andrà ad esporre le vsue dottrine angli dei, egli non paria che di questi (2)—; il Dio supremo, il Dio per ec- cellenza, è il cif^lo o il mondo, che noi dobbiamo ppc- cialmente onorare e adorare, com^i fanno fitti gli altri dei e demoni (976 e- 977 a). Ma vi ha di più: il Demiurgo del Timeo no w è so la- mente in contraddizione con le dottrioe sulla niente e la divinità, ma con la stessa dottrina fondamentale di Pla- tone, vale a diro il sistema delle Idee. Questo esigo che tutto ciò che esiste sia ricondotto alle Idee ; ma non può esservi Idea del Demiu'-go. Infatti, ammetteremo che egli, creando il mondo, ha creato anche l'elemento ideale del mondo ? Ma allora è un principio sup^ir ore alle Idee.(1) V. 269 e-270 a e 273 b, d. (2) V. 980 «qq. Ammetteremo solamente ch'egli è stato la causa della individuazione delle Idee? Ma se, perchè le Idee s'indi- viduassero, è stata necessaria V azione del Demiurgo, come avrebbe potuto Tldea del Demiurgo individuarsi? Quest' osservazione, sia detto di passaggio, può servire a mostrare la poca consistenza deiropinione di quei cri- tici, i quali ammettono che il mito del T/m^oha per og- getto di supplire alPinsufficienza del sistema, rappresen- tando d'una maniera fantastica il passaggio dall' ideale al fenomenico, che Platone non poteva, per i presupposti stessi della sua metafisica, spiegare scientificamente. Essi obbliano che quando si è introdotto un creatore perso- nale del mondo e una materia in movimento preesistente— che non sono certamente delle entità generali — si è già fatto questo difficile pa^ssaggio dall'Idea al fenomeno — cioè airindividuale — che si sarebbe trattato di spiegare. Aggiungiamo che, se il Derainurgo del Timeo fosse un convincimento reale di Platone, esso occuperebbe evi- dentemente nel sistema, essendo irriduttibile alle Idee, il posto di un primo principio: intanto Platone non am- mette altri primi principii, prima del sincretismo con le dottrine pitagoriche, che V Idea del Bene, e dopo, che quest'Idea stessa, cioè l'Uno, e la materia o Dualità in- definita. In quanto all' origine del mondo nel tempo, la con- traddÌ7.ione del Timeo con gli altri scritti di Platone è sovratutto manifesta al soggetto dell'anima. La dottrina costante di Platone è che l'anima è, non solo immortale, ma eterna, ch'essa non avrà mai fine e non ha avuto mai cominciamento 0)- P^i* il mondo stesso, cioè per il (J) V. Fedro 246 0-246 a, Rcp. 611 a-b, Meno, 86 a-b, F^do, 70 c- 72 d, eoo. — 225 corpo, la contraddizione non è cosi aperta, perchè in al- tri scritti del periodo pitag'oroggiante, come noi Timeo e per motivi analoghi, la relazioQC tra l'universo visibile e i principii da cui es9'> deriva è, come v( dremc» in se- guito, rappresentata simbolicamente come un'efficienza nel t-.mpo. Così il motivo principRle, se non Punico, per attribuire a Platone la dottrina dell'eternità del mondo è che essa è una conseguenza necessaria dell' eternità delle Idee. Tuttavia questa dottrina si trova d'una ma- niera abbastanza esplicita in più luoghi dei dialoghi, co»ne neìFiltbo 16 c-e (1), nel Convito 20G e (2), nelle 7.^5^^1721 e (3), ed è presupposta nella definizione dell'Idea conser\a- taci da Proclo {in Parmen, V. 133): la causa esemplare di ciò che vi ha di perpetuo nella natura. K*^ I discepoli immediati di Platone intendono la co smogonia del Timeo in un senso allegorico. Platone, es-ii d'cono, non ignorava che il mondo è eterno e non ha avuto cominciamento; la genesi de3critta nel Timeo non è che un artifizio di metodo a cui egli ha ricorso per far comprendere più chiaramente i suoi concetti; la pro- duzione nel tempo simboleggia l' or.iine logico tra ciò che vi ha nell'essere di primitivo e ciò che di derivato. Que- st'interpretazione è attribuita a Crantore, a Senocrate, a (1> " Le ccMe che ai dicono essere eternamente constano di uno e di molti e hanno in sé per natura la tìnità e T intìnità r, (t. e. a carte 37 e 215). Queste cose a cui si attribuisce l'eternità non sono le Idee pure, ma le Idee già individuale, perchè qui T" intìnità^ desi- gna la moltitudine intìnila degl'individui. (2) - La generazione è un che di sempiterno e d'immortale nel genere mortale r^ (3) Il genere umano è esistito ed esisterà in ogni tempo. .Sp'^usippo, e ai discepoli di Platone in generale (1). Ari- stotile la rigetta, e vuole che Porigine nel tempo sia in- tera letteralmente : ma è evidente che, in questo caso, V opinione dei discepoli fedeli d' Platone, rimasti sino aiPultimo in intimità intellettuale col maestro, e che ne dividono il punto di vista, deve avere per noi più peso che quella di un discepolo che ha abbandonato la scuola (circostanza importante, perchè Piatone ha certamente scritto il Timeo negli ultimi anni della sua vita) ed è divenuto un acre avversario, e che del resto mostra ab- bastanza, per le sue esitazioni e i suoi equivoci nell'in- terpretazione d*l sistema delle Idee, di non essersi mai posto sufficientemente al punto di vista d*^.l maestro. An- che Teofrasto, discepolo d'Aristotile, pensa che forse la cosmogonia del Timeo deve intendersi nel senso allego- rico voluto dai discepoli di Platone (2). Una circo- stanza che dà più autorità alla loro interpretazione è che anch'essi facevano uso del metodo simbolico del maestro, rappresentando la dipendenza logica del derivato dal primitivo come un' origine del mondo nel tempo (3). Questo per l' origine nel tempo. In quanto al- l' altro punto fondamentale della cosmogonia del 2'imeOy cioè il creatore personale, noi non abbiamo con- ci) V. Arist. De Coelo 1. I. X. 4-6; Simpl. ad Arist, De Coelo comm. a questo luogo; Schol, cod, Reg, 1853 pag. 489 ed. Brandis; Schol, cod, Coisl. 166, p. 489 ed. Brandis; Proclo in Tim, pag. 85 A. ed. Basii.; Plutarco Psicogonia III. (2). Teofrasto Fr. 28 e 29 (ed. Didot). (3) Il luogo indicato d'Aristotile relativo a quest'interpretazione (/).' Cnelo I. I. X. 4-6) comincia con queste parole: " Il sussidio ohe cercano di darsi alcuni di quelli che fanno il mondo incorruttibile ma generato, non è vero. Essi dicono di aver parlato della gene- razione del mondo come i geometri che descrivono le figure ^ eco. — 226 - 1 tro di esso delle testimoDianze cosi esplicite dui disce- poli fedeli di Platone. Ma ia compenso Aristotile, non solo non conta il Demiurgo del Timeo tra i principii della filosofia platonica, ma non dice mai una parola che gli si rif-risca: anzi le sue parole implicitamente escludono resistenza di questa dottrina o altra simile tra quelle del suo maestro (1). Se Platone e la sua scuola avessero preso il Demiurgo sul serio, sarebbe un obblio in molti casi assolutamente inesplicabile, per esempio quando è qui8ti'>ne della eausa etficiente in Platone o de! perchè della partecipazione alle Idee, come in De. generaf. et corr. 1. II. IX. 5 6, Met, 1. I. VI. 7, 1. I. IX. S, 1. I. IX. 21, 1. XII. X. 9, 1. XII. X. 13, ecc. Il si- lenzio d'Aristotile è tanto più significante che, se il De- miurgo dovesse riguardarsi come una dottrina reale di Platone, esso non costituirebbe un semplice accessorio, (1) Il Chiapponi crede ohe Aristotile alluda al Demiurgo del Timeo in Met, l. I. IX. 8, con le parole : T( y^P ^oit xó Ipya- Jófisvov Tzpòz T:à€ ESéag ànopXsTiov ; che egli traduce con que- jàte : •* Che cosa è quest'artefice che contempla le Idee ? „, e para- frasa con queste altre : •* che vale il dire ohe vi ha un demiurgo il quMe opera secondo gli eterni paradimmi ohe gli stanno dinnanzi ?, Ma bisogna tradurre invece : <* ohi è che opera guardando le Idee?„; e il senso è, non, come vuole il Chiapponi, che Tartefice che con- templa le Idee non vale niente, ma che vi ha bisogno di un'arte- fice che contemplasse le Idee. È ciò che prova tutto il contesto. Aristotile vi dice : Dire ohe le Idee sono degli esemplari non spiega come le cose ne vengano, e non è ohe un vaniloquio e una meta- fora poetica, poiché bisognerebbe (per ispiegare come la cose ven- gano dalle Idee) qualcuno che guardasse le Idee e facesse le cose a loro imitazione. In effetto, continua Aristotile, la s»emplice esi- stenza di un esemplare non può essere la causa di una cosa essere o divenire simile a quest'esemplare, una cosa potendo egualmente essere o divenire simile ad un'altra tanto se questa esiste quanto se non esiste. ma una parte principale del sistema, speci ilmente nel- rinterpretazione trascendentalista, in cui sarebbe la sola soluzione che questi avrebbe tentata del problema della partecipazione (cioè della somiglianza delle cose alle Idee). 6® Infine, ch^ la cosmogonia del Timeo non sia che una semplice allegoria, è ciò che V autore stesso ci fa comprendere assai chiaramente. Così Timeo fa precedere il suo racconto da questo proemio : « In ogni cosa il punto principale è di comiaciare con un cominciamento conforme alla natura. Bisogna, rispetto air immagine (cioè al mondo sensibile) e al modello (le Idee), fare una distinzione, cioè che i di-jc^rsi devono avere dell'aifìnità con gli oggetti di cui trattano; co4 quando si pirla di un oggetto stabile, solido ed evidente (le Ilee), occor- rono dei discorsi stabili ed inconcussi, che, per quanto è possibile, non possano essere scossi né confutati, e non lascino nit^nte a desiderare sotto questo r ipporto ; ma quando si parla invece di ciò che è fatto a somiglianza di quello e non é che un'immagine, bastano dei discorsi verisimili e proporzionati a qa<*lli (cioè che siano a quelli nella stessa proporzione in cui Timmagine è al modello). Come il divenire è aire-^sere, cosila fedeèalla verità (vale a dire, come il fenomeno — il divenire — è un'immagine dell'Idea — dell'essere —, cosi la fede — cioè, evidentemente, la credenza che ha per oggetto un discorso verisimile, come quello ch'egli farà suirorigine del mondo— è un'immagine della verità). Se dunque, o Socrat**, dopo che tanti hanno detto tante cose sugli dei e sull'origine dell' universo, io non posso proferire un discorso rigoroso e del tutto coerente con se stesso, tu non devi esserne sorpreso; se non è meno verisimile che alcun altro, si deve esserne contenti, ricordando che io che parlo e voi che giudicate siamo degli uomini, sicché — 227 - su queste cose conviene appagarsi della verisimiglianza del milo (|iu8o€), e non richiedere di più» (29 b-d). Questo carattere allegorico del racconto cosmogonico di Timeo Piatone lo fa intravedere tanto sul Tuno quanto sull'altro dei due punti capitali di questo racconto — il Demiurgo e V origine nel tempo— .A 28 e Timeo dice: «E difficile di scoprire Fautore e il padre di quest'u- niverso, e scopertolo, è impossibile di parlarne a tutti ». Le ultime parole sono un'allu-iione evidente alla mas- sima pitagorica che tutto non è da dirsi a tutti (1)» ^ significano che ciò che Timeo dice del padre e dell'au- tore dell'universo — questi appellattivi, nel Tirrno^ desi- gnai)0 naturalmente il Demiurgo— none che.exoterico^ cioè non è che un'espression»- popolare di una dottrina rrcondita, su cui Timpo intende mantenere il secreto verso i non iniziati. Il luogo e' tato : « P] quello che aveva ordinato tutte queste cose restava nel suo stato, secondo la sua abitudine » (42 e), indica pure che la rappresen- tazione antropomorfistica del Timeo del principio crea- tore e della sua azione creatrice non è che un simbolo. Esso significa infatti che un' azione che si svolge nel tempo, o — poiché il tempo si dice creato dal Demiurgo - che implica la successione e il cangiamento, è in con- traddizione con la natura di questo principio, a cui com- pete, invece di una tale attività, la permanenza nello stesMo stato, l'immutabilità, che è l'attributo delle entità della metafisica platonica (2). Un'altra indicazione che (1) V. ArÌ9tos36ne ap Diog. VILI. i5. (2) Notiamo col Martin ohe la frase greca è ambigua : essa può significare o che il creatore restava nello stesso stato mentre prò. duceva il mondo, o che vi ritornava dopo aver agito nella proda- zione del mondo (v. Martin Timeo v. 2. pag. 153). Quest'ambiguità potrebbe essere voluta : il secondo senso corrisponderebbe al signi- ficato apparente del mito, il primo al recondito. il Demiurgo non deve essere preso alla lettera, è la sua scomparsa là dove Platone parla, non più da mito- logo, ma da filosofo (48 e-o2 d).Ivi egli non ammette che tre cose, Vesaere (le Idee), il luogo e la genesi (50 c-d, 52 a-d) : il Demiurgo è assente da questa classificazione generale degli esseri, e non può trovarvi alcun posto. Anzi la restrizione del significato della parola e.s.sere alle Idee esclude nettamente la possibilità di un' esistenza qualsiasi irriduttibile alle Idee, come sarebbe, il Demiurgo. Di più nel primo dei due luoghi indicati l'Idea è riguar- data come la causa efficiente e il padre dell' u^iiver^o sensibile, prendendo cosi il posto del creatore personale. Aggiungiamo, infine, l'avvertenza di Timeo ch'egli non parlerà del principio o dei principii di tutte le cose, per- chè ciò non gli è permesso dal metodo se;i'UÌto nel suo discorso (48 c-dj: è evid'^nte, come abbiamo osservato, eh**, se il Demiurgo fosse una dottrina reale, sarebbe il principio, o uno dei principii, di tutte l«» cose (1). Il carattere simbolico delT origine del mondo nel tempo, poi, è indicato della maniera p'ù chiara a 37 d, in cui il tempo, creato dal Demiurgo, è chiamato «im- magine eterna dell'eternità >>—- il tempo è la condizione di ciò che cangia, l'e'ernità di ciò che è esente dal cangiamento — . Questo luogo deve mettersi in con- nessione con quello che viene un po' dopo (38 b-c), in cui si dice che << il tempo ò nato insieme col mondo», e che « il modello (cioè le Idee) è per tutta la eternità, e il mondo è esistito, esi4e ed esisterà per tutto il (l) Notiamo però che Timeo non vuol dire ch'egli non parlerà affatto dei principii delle cose; infatti soggiunge che si limiterà, come disse al principio, al discorso verisimile, indicando cosi che è secondo la loro natura roalo ch'egli non ne parlerà, ma che, benché non ne dirà il vero, ne dirà il verisimile. — 228 - tempo ». Dicendo che il tempo e, per coasegueiiza, il mondo sono eterni (I) e non per tanto creiti, Plato le significa anche il sen-»o reale del simbolo, cioè una pro- cessione ab aeterno, ìq cui tra le erse procedenti e il principio da cui procedono Tanteriorità e posteriorità non è che logica. Si é creduto che Felemento rappresentativo della co- smogonia del Timeo consista unicamente nella produ- zione nel teuapo, e che il contenuto filosofico del m^to sia, per conseguenza, che il mondo procede eternamente da Dio, cioè da un'intelligenza creatrice. Ma questa in- terpretazione prima di tutto lascia intatta la difficoltà prin- cipale. Se il mondo t'osse creato da Dio, [questi creerebbe anche le Idee, perchè esse non sono che l'elemento per- manente e sostanziale del mond^. Ma noi non possiamo ammettere che le Idee sono cr«^ate : primo perchè, se- condo il Timeo^ esse preesistono, come paradigmi, alla creazione — cronologicamente se la creazione nel tempo deve prendersi alla letera, logicamente se essa è il sim- bolo di una processione ah aeterno^'^ poi perchè le Idee sono p"r Piatone le cause ultime, e i loro elementi i principi! ultimi, delle cose; e infine perchè ciò che è necessario non può essere creato, e Pldea è necessaria, di questa necessità assoluta che consiste in ciò che la sua non esistenza è logicamente impossibile e implica (1) Il luogo del Tiìneo in cui si stabilisce che il mondo è un'im- magine (.29 b) è tradotto cosi da Cicerone: "ex quo effìcitur ut flit necesse huuc, quem oernimus, mundum, simulaorum aelernum esse alieuius ((eterni y,. (Oicer. iJe univers,) Le parole aeternitm e<l aeterni non hanno le loro corrispondenti nel testo greco, almeno in quello che noi possediamo. Noi non sappiamo se Cicerone le leggesse nel suo testo; ma ad ogni modo il pensiero espresso nella sua tradazione di questo luogo non ò ohe quello implicitamente contenuto a 37 d-38 e. contraddizione (i). In questa interpretazione inoltre re- stano ancora tutte le difficoltà relative al Demiurgo : la impossibilità di un essere che non si risolva in Idee; il silenzio d'Aristotile; le opinioni di Platone sulla divinità; il principio che Pintelligenza non può trovarsi che nel- l*anima; ecc. Ma oltre alle difficoltà che la ereazione ab aeterno . (con un creatore personale) ha in comune con quella nel tempo, essa ne ha un'altra che le è particolare. Platone non conosce altra causazione — a parte l' anteriorità e posteriorità tra le Ide»», che non potrebbe chiamarsi una causazione che in un senso analogico — che quella che avviene nel tempo ed è una successione (ì). Per lui, come per Aristotile, causa efficiente, vuol dire causa mo- trice; e la causa prima, il primo motore. L' anima è la causa prima di tutte le cose, perchè essa produce il mo- vimento primitivo, da cui vengono tutti gli altri, e tutti i cangiamenti dipendono dal movimento (3). La dottrina sulla causalità dell'anima, che è la sola causa iperfisica — nel senso proprio della parola causa— che noi possiamo con prove attribuire a Platone, ci mostra anche che egli concepisce le cause al di là dell' esperienza, più che è possibile, sul tipo di quelle dell' esperienza ; la maniera in cui Pani ma produce il movimento essendo assimilata ai casi più familiari di produzione del movimento che \* (1) Platone, è vero, fa produrre le Idee le une dalle altre, e tutte, in definitiva, dall'Idea del Bene; ma ciò non toglio che ogni Idea sia senza causa esterna ed esista per se stessa, perchè l'Idea producente è immanente nelle Idee prodotte, e per conseguenza queste hanno in se stesse la ragione della loro esisteaza. (2) V. Filebo 26 e-27 b e Sof. 265 b-e. (3) V. Leggi 891-89». I [ ci presenta l'osservazione, poiché essa non metto in mo- vimento i corpi che per la comunicazione del proprio movimento. Interpretando la cosmogonia del Timeo corno una creazione ab ae(er>no, noi attribuiremmo dun- que a PJaton'ì dei concetti sulla causalità che gli sono assolutamente stranieri— e che del resto noi non po- tremmo attribuire ad alcun filosofo d Ila sua epocao di un'e- poca vicina, non comparendo essi nella storia della fi- losofia greca che coi neopitagorici e i neoplatonici—. Un grave inconveniente di qu sta interpretazione è poi di attribuire a Platone u»»a doitrina chVgli non ha mai esposta apert'imente, ( ioè svestita dalla sua forma simbol'ca. Evidentemente noi dobbiamo cercare nel con- tenuto filosofico del mito di 7/mf>o una dottrina che noi sappiamo gìh essere appartenuti certament • n Plotone: un'interpretazione che non soddisfa a (ju-sta con-h'zione, nrn solo è poco sicura, ma è intrinsecamente inverosi- mile, non essendo ammissibile ch'egli abbia esposto so- lamente sotto la forma enigmatica del simbolo una dot- trina tanto importante quanto è quella contenuta nel mito del Timeo, che ha Fenza dubbio per oggetto le cause ultime dell'universo. I risultati a cui si*imo già pervenuti ci indicano in qual dìrc'/Aone b sogna cercare. Non potendo trovarci nel Timeo né la dottrina di una creazirne nel tempo, né quella di una creazione ab atferno, ne segue che non può in a'cun modo trovarvs" la doitrina di un creatore- vaie a dire di un creatore personale— e che, per conse- guenza, il Demiurgo del Tiìneo non può essere che la personificazione di un principio astratto. Di più l'azione del Demiurgo | er la produzione del mondo non pot*-ndo realmente in-en-h r-'i e aiie un'efficieiua nel tempo, e non potendo nemmeno r«ppi esentare un'effioienza senza idea di successione— che è, come abbiamo detto, un concetto straniero a Platone e alla sua epoca - ; ne segue che noi non possiamo vedervi in alcun modo un'efficienza cau- sale nel senso proprio del termine, e che essa perciò non può essere che il simbolo di questa efficienza causale in un senso analogico, che nel sistema delle Idee è deno- tata coi termini tecnici anteriorità e posteriorità. Ora non vi hanno che due ipotesi che corrispondano a queste condizioni : o il Demiurgo rappresenta le Idee nel loro complesso, e la massa in movimento disordinato anteriore alla creazione la materia (delle cose) priva della pariecipazione del'e Id^ e ; ovvero essi rappresentano i due princip'i o elementi delle Idee e delle cose, cioè il primo il Bene o Uno, e l'altra la materia (delle Idee e delle crs ) o Dualità indefinita. Ma di queste due ipo- tesi la prima deve escludersi, perchè il Demiurgo non sarebbe una rappr< sentazione conveniene del mondo ideale. Esso non lo potrebbe essere che se le Idee fos- sero pensieri, ciò, che data la loro immanenza, non po- trebbe avere altro senso che l'identità dell' essere e del pensiero : ma questa è una dottrina, come spiegheremo altrove (l), che non possiamo attribuire a Platone. Re- sta dunque la seconda ipotesi. Platone ci dà nel Timeo una spiegazione t( leolrgica del mondo. La teleologia di Platone è una teleologia immanente^ la cau^^a della finalità deUe co'^e essendo un principio astratto risiedente nel C, cose stes-^e : ma questa tt'leologia diviene nel Timeo una tel'^ologia trascendente, nella quale, cioè, la fi' alita interiore d< Ile cose appari- Fce l'elfcttuazione del piano d'un fig'nte personale. L'ai- (1) Supplem. D. — 230 - ' legoria del Timeo consiste dunque essenzialmente in ciò che la causa impersonale e astratta del bene, cioè Tldea stessa del Bene, è rappresentata come una causa con- creta e personale. Questa personificazione dell* Idea del Bene non è un semplice giuoco deirimmaginazion^, ma ha per Piatone un alto valore didattico— e infatti Aristotile e i suoi comm<*ntatori ci rapportano che, secondo i di- scepoli di Platone, questi ha rappresentato il mondo come creato in grazia dell'insegnamento, JtfiaoxaXCag yL^P^"* (1)— • Per dilucidare Tldea del Bene, cioè il concetto teleo- logico, ch'egli pone alla base della spiegazione del mondo, Platone ricorre ad una similitudine. Egli dice: l'universo non ha la ragione della sua esistenza che in se stesso, nella sua necessità interiore; ma, considerato nel tutto così bene che nelle parti, esso é costituito come se fosse Pattnazione di un disegno intelligente; per conseguenza, siccome la causa dell' esistenza di ciascuna cosa e di tutte le sue proprietà é—come è detto nel Fedone (97 c- 98 b)— che il meglio è che essa sia e sia tale, noi dob- biamo, per comprendere il perchè di una cosa e della sua maniera di essere, immaginare che questa cosa è 1' opera d'un autore intelligente, e spiegare il disegno sapiente secondo cui è stata formata. Il carattere del- Pallegoria essendo di trasformare l'astratto in concreto, anche l'altro principio diviene nel Timeo^ da un' entità astratta, una realtà concreta, ed è rappresentato perciò come una materia determinata preesistente a cui si ap- plica l'attività del Demiurgo La materia premondana del Timfo, priva delle Idee e in un movimento confuso e disordinato, è una rappresentazione assai chiara del- l'elemento materiale- nella sua doppia funzione di mate- ria delh cose, qnella che Platone identifica allo spazio, e di materia delle Idee (e, per conseguenza, anche delle cose stesse) -perchè questo è, come d'ceTeofrasto (Met. 33) rinforme e il disordinato : questa mnterìa è rappresen- tata come agitata da un continuo movimento, perchè uno dei concetti che entrano nella significazione del princi- pio materiale è il movimento, per cui Xenocrate chia- mava, come abbiamo detto (1), questo principio àsvaov (sempre fluente), e lo simboleggiava per l'anima. Nella genesi premondana del Timeo possiamo pure trovare rap- presentati tutti gli altri concetti della ouoxoix^a dell'infinito: essa è l'tìTieipov, sia nel senso qualitativo, cioè d' inde fi- m7o— perhè non vi era in essa alcuna forma definita — sia nel senso proprio e quantitativo— perchè la variabi- lità in essa era illimitata (2) (oltre alla divisibilità all'in- finito della materia e del movimento) — ; è l' Ineguale, il Diverso e l'Anomalo, perchè allora non vi era la ri- petizione costante delle stesse forme, come nell' attuale (1) V. Ari-it. De Coalo, Simplic, SchoL cod. Heg, e Schol, rod. Cohl., i l. indicati neUa nota a carta 226. V. pure il l. di Plutarco Piicog, 0) V. questo Suppiem. n. II. carta 178. (2) Cfr. nel mito del Politico — che a 269 e- 270 a e più an- cora a 273 b-d ricorda evidentemente il mito del Tim^o— le parole di 273 d: •* Il dio che 1' ha formato.... non volendo che il mondo (per la degenerazione progressiva dalla primitiva imitazione pia esatta del governo del suo demiurgo e padre) si dissolva e s'im- merga nel luogo della dissomiglianza che è inJlnitOj ritornato al go- verno di esso„, ecc. Il luogo infinito della dissomiglianza in cui il monio s'immergerebbe per la sua dissoluzione, è quello stesso in cui era immerso anteriormente alla sua formazione (cioè alla formazione del cosmo»). - 23Ì — mondo ordioato (i); è il principio del male, perchè i) male, nel mondo attuale, è una sopravvivenza del di- sordine primitivo, che il Demiurgo non ha potuto che incompletamente ricondurre all'ordine (2) ; è il Non es- sere, perchè questo equivale alla stef-esi, cioè alla pri- vazione della forma; infine è la MoUiplfcità senza unità, perchè Tunità, Tindividualità, è costituita dalla forma. Se Tuno dei due principii del mondo che compariscono nel ThneOj cioè il Demiurgo, rappresentasse le Idee, l'al- tro dovrebbe rappresentare, come abbiamo detto, la ma- teria delle cose — ciò che si aggiunge alle Idee per co- stituire le cose —, cioè, come si ammette già in questo dialogo, la semplice estensione : ma in questo caso esso non comprenderebbe tante altre determinazioni oltre al- l'estensione, e non sarebbe la genesi precosmica che ci descrive Timeo. Questa interpretazione, indicataci dalle considerazioni generali precedenti, è confermata da un esame partico- lareggiato del t«»sto. Il significato del simbolo traspare abbastanza chiaramente dal cominciamento del racconto di Timeo. « Diciamo per qual causa il costruttore della genesi e di quest'universo li ha costruiti. Esso era òwono, e nel buono non vi ha mai invidia di alcuna cosa; stra- niero a questo sentimento, volle che tutto fosse, per quanto era possibile, simile a se stesso (3). Quegli che da uomini sapienti accetterà questo principio potissimo della genesi e del mondo, lo accett<»rà giustamente. In (1) Cfr. il 1. del Politico oitaio nella nota precedente. (2; V. Tim. 2y e, 30 a, 40 b, 46 d, 48 a, 53 b, 50 o, HO b, e cfr. Polit. 273 b-c. ;3) L'efficienza dell'Idea del Buono è di rendere le cose simili a se stessa, tiuesla essendo in generale la causalità dell'Idea. ft 11 il effetto, volendo Dio che f(»^se tutto buono e niente vi fo-se di cattivo, per quinto era poss bile ; trovato tutto ciò che era visibile, non queto, ma agitato da un mo- vimento confuso e disordinalo, dal disordine lo ridusse all'ordine, stimando che questo era meglio. Ora non era né è possibile aìVottimo fare altro che il più bello » (29 e-30 a). A 259 a l'autore dell universo (cioè il De- m urgo ) è chiamato « V ottima delle cause»; e a 37 a * l'ottimo degli esseri eterni (àst ovxow) e intelligibili». Quest'ultimo luogo è decisivo, perchè da una parte gli «esseri eterni» (àel ovTa)(l)egli «esseri intelligibili » (2) significano, nel linguaggio abituale di Platon^, le Idee; e da un'altra parte, il massimanumte buono è per lui ridea dei buono (3), il supremo grado di un attributo spettando all'Idea stessa corrispondente all'attributo (4). In tnt'o il racconto poi l'aspetto del Demiurgo che Ti- meo motte in rilievo, è che esso è la causa d(»l bene, cioè della finalità dellf cose (5) : esso è essenzialmente, com'è chiamato a 68 e, < il demiurgo deir ottimo e del più bello», perchè questo è il punto di coincidenza con l'Idea del Bene, su cui l'allegoria è fondata. Le immagini con cui l'Idea del Bene è rappresentata nel Timeo non sono senza esempi negli altri scritti di Platone. Nella Rep. b97 Dio ha generato l'Idea del letto, e per questo Dio non possiamo intendere che l'Idea del Bene, perchè è e^sa che dà h,\U altre Idee l'essere e la " i (1) V. Tiiiì, 27 d, 50 e, 51 a, 59 e, Fedone 79 d, eco- (2) V. Titn. 30 e, 30 d, 31 a, 51 b, 51 e, 51 d,52 a, 92 e, Jx'ep, 507 b-c, 508 e, 524 e, 532 b, Fedone 79 a, 80 b, 8.^ b, ecc. (3) V. Arisi. FAh, Xu; 1. I. VI. 6, Fth. Kud. l. I. Vili. 1-2, 11, IH, .V. Mor. 1. I. T. 22. (4) Ctr. Supplomen. B parte II n. TU, (5) V. Timeo 29 e- 30 b, 30 c-d, 31 c-33 a, 33b-34 b,37 a, 39 b-c, 40 a-b, 46 o-e, 48 a, 53 b, 58 e, 54 a, 56 o, 68 e, 69 b, ecc. — 232 ~ essenza (Itep, 509), e le Idee non hanno potuto essere prodotte da un dio propriamente detto, cioè da una causa personale. A 506 508 il B*5ne è detto il padre del sole, e implicitamente perciò di tutto T universo visibile. Nel Tee.teto 176-177 «vi hanno du'^ paradigmi nell'essere, Tuno divino e felicitisi mo, Taltro senza Dìo e miserrimo ». Questi due paradigmi sono senza dubbio le due Idee universalissime, cioè i due elementi, perchè Platone ri- guarda l'universale come un paradigma rapporto ai par- ticolari che gli sono subordinati (1). Anche Xeno crate (2) rappresentava 1' Uno o il Bene per T intel- ligenza, e lo chiamava Giove, il primo dio e padre degli dei (padre degli dei è detto il Demiurgo nel Timeo 41 a e 42 e). Non bisogna dimenticare che il no- me di Dio dato all'Idea del Bene none che una semplice metafora— una metafora è il germe d'un'allegoria—, per- chè, quest'Idea essendo l'essenza o la forma comune di tutti gli esseri, essa non potrebbe identificarsi con Tin- telligenza senza ammettere questa proposizione priva di senso, che la forma o Tess nza comune di tutti gli es- seri è Tintelligenza; e quand'anche nelle Idee platoniche si vedessero i pensieri della divinità, l'Idea del Bene sa- rebbe uno dei pensieri divini, ma non la divinità stessa che è il soggetto di questi pensieri. Ma ciò che non la-»cia alcun dubbio sulla nostra inter- (1) Prima ha detto: * è necessario che vi sia sempre qualche cosa contraria al Bene,; ciò che è un'alt ja prova che, all'epoca in cui scriveva il TeetelOy Platone ammetteva già la dottrina dei due prin- oipii opposti— La qualitìoa sentir Dio data al principio materiale e privativo ha un equivalente nel Timeo 53 b, in cui della genesi anteriore alla formazione del cosmos si dice che essa si trovava nello stato in cui deve trovarsi ciò da cui Dio è assente. (2) V. Stobeo EcU Phys. libro I, o. 2, 29. rrctaz'ore è che eFsa è quella dei discepoli immediati dì Platone. Secondo Simplicio (ad Arist. De Coeìoì. I. X) Xenocr^te e i platonici in generale dicono che per la produzione deiruniverso, nel TYmco, non deve intendersi una produzione nel tempo, ma che essa ha per oggetti d'indicare « Tordine d»lle cose che in esso (nell'universo) sono più prime e più composte». Le cose più prime vuol dire i primi principii; in esso, che questi prinMpii non sono del'e cause esteriori, ma inerirle mo n »,l mìniis'jesso- infine rop,)o<i^ioie tri le cos», più prime e le più com- poste è la prova più chiara che essi Sino gli elementi di tutte le cos'*, cioè TUno e la Dualità indettai ta. Questa interpretazione é attributi aXeiocrate anche n '.Hi Sco- lio cod. Coisl.: Platone, facendo il mondo prodotto, non ha inteso parlare d'uia prò luzoiie reale, rna « in gra^'a deirinsegnamento ha detto che il moad) è stato prodotto dalla materia preesistente e dall' sldos ». Qui i princpi del mondo di cui si tratta nel Timeo, sono idt^.nt'fieati con r slSog e la materia : V sleog e la materia sono, U sappiamo, 1' Uno e la Dualità indefinita. Più esplicita ancora è la testimonian/a di Teofrasto (snllMdentità dt^l, Demiurgo con l'Idea de) bene) : Platone dopo che alla filr»8ofia prima si diede alla storia della natura, e ammise due principii, V uno come materia (il 7iav5£X£s), 1' altro come causa e movente, e a questo dà la natura di dio e del bene {Fr, 48). Teofrasto sa che il Demiurgo deve identificarsi con rid»*a d^l bene, ma prende sul snMo il simbolismo del Timeo. Altrove (Me/. 33) Teofrasto st^isso sembra identificare la genesi anteriore al mondo con la Dualità indefinita, perchè, dopo aver detto che Platon3 ha ammesso due principii contrari!, TUno e la Dualità indefinita, e che questa è l'infiaito, Tinform'^, il disordinnt^, soggiunge : « per cui Dio non potrebbe tutto ricondurre -. 233 - air ottimo, ma solo per quanto gli è possìbile». Queste parole alludono evidentemente ai concetto, tante volte ripetuto nel Timeo, che il Demiurgo non ha potuto, per la resistenza della materia — cioè della massa in movi mento disordinato che gli è servita di materiale nella co- struzione del mondo -attuare il bene chu d'una maniera iQcompleta (i). Quest'identificazione della genesi pre- mondana del Timeo con la Dualità indefinita spiega pure il fatto che questa in un preteso scritto di Pitagora è chiamata anche Chao^ (2), perchè le proposizioni" attri- buite a Pitagora sulla Daalità indefinita non sono che quelle di Platone e i platonici. Nella crea/ione del mondo nel Timeo, coi Demiurgo concorrono gli dei generati. Bisogna perciò distinguere nel mito due parti, quella che si riferisse al primo, e quella che si riferisce ai secondi. Nell'una T allegoria consìste tanto nella creazione nel te-npo quanto nella na- tura personale attribuita all'uno dei principii delle cose. Nell'altra invece la concezione delle forze creatrici come persone non è una semplice allegoria, e questa si riduce in sostanza a rappresentare come avvenuta in un punto del tempo, all'origine delle cose, l'azione continua della divinità n^l governo del mondo. Il significato reale di questa parte del mito non è dunque che la dottrina co- nosciuta di Platone, che la divinità, cioè V anima del mondo, é la causa prima di tutti i fenomeni. La parte che nella creazione spetta al Demiurgo e quella che spetta agli dei generati sono nettamente delimitate: que- sti creano ciò che ua-ce e periscp, quello ciò che è im- (1) V. i 1. indicati a carta 231, pag. 2, n. 2. (2) V. Siriano citato in ZeUer Filoz, dei Greci voi. 1. ed. 4. pag. 333. peribile e, per conseguenza, eterno (questa distinzione è formulata as.«ai charamente nell'allocuzione del Demiurgo agli dei Venerati, a 41 e). L'oggetto principale della ccsmogrn'a del Ti^nco ^, come abbiamo detto, di dilucidare la crncfzione teleo- logica del mondo. In Plafone vi hanno, come nota giu- stamente il Janet, due teorie della finalità (1): l'una Im- manente, che suppone una causa impersonale (la parte- cipazione dell'Idea del bene), l'altra trasc ndrnte, che suppone una causa personale. La prima abbraccia nella sua spiegazione tutto ciò che es'ste; la seconda non si applica che a ciò che ha un' origine nel tempo, perchè la causa personale ch'essa suppone è 1' anma, e leffi- cienza di questa si svolge nel tempo, Platone n^n avendo ancora, come abb'amo osservato, l'i'^ea di una cau<=a ef- fic ente o jroduttr.ce, nel senso proprio dei termiui, che non preceda nel tempo la cosa prodotta. Siccome il con- cetto di ui:a finalità tra<5cendente è più chiaro che quello di una finalità immanente, cosi Platone si serve del primo per rischiarare il S' eondo. Di là la finzione del Demiurgo. Ma questa cau-a personale fittizia non viene adibita che per ciò che l'anima non può produrre : prodotte le cose eterne, e tra esse l'anima, l'opera del Demiurgo è ter- minata, perchè con l'anima si ha già, all'oggetto di rischiarare il concetto teleologico per l' intn duzione di cause personali, una causa reale, e non si ha più quindi bisogno di una causa fitiizia. Pt r lo scopo di Platone una causa reale vai meglio di una fittizia, perchè con essa la spiegazione teleologica delle cose viene, non solo resa più chiara, ma anche confermata, il principio che le cose procedono da una causa intelligente avendo, secondo Platone, come noi vediamo nel /^^e/one 97-99, per conseguenza necessaria qneDo delle cause fin«lf. I motivi per cni Platone nel Timeo preferisce di esporre le sue dottrine sotto nna forma simbolica, Fono di due ordini : gli uni tcngoco alla finzione che l'espo- sitore è un filosofo pitagorico, gli altri alla natura stcesa di queste dottrine. Timeo, facendo il mondo generato, parla da pitago- rico. I pitagorici, e in generale tutti i filosofie i teologi prima di Platone, parlano dfl mondo come originato nel tempo, e ne descrivono la formazione II modo di espo- sizione del Timeo é dunque richiesto anzitutto dalla ve- risimiglianza della finzione di questo dialogo: Platone espone i suoi concetti sui principii delle cose sotto la forma tradizionale del racconto cosmogonico, sia per confor- marsi alle dottrine della scuola a cui appartiene il per- sonaggio da cui fa esporre que;>ti concetti, sia perchè questa forma è come una marca della veneranda anti- chità, e le dottrine, ch'egli attribuisce a Timeo, proven- gono, a quanto pretende Platone (1), da una tradizione antichissima (2). Ma lo scopo di Platone non è semplice- mente di dare alla sua finzione una più grande verisi- mfgiìanza storica: facendo trasparire chiarameate il ca- rattere puramente exoreri^o ed allegorico del racconto cosmogonico di Timeo, Piatone in^eade al tempo gtesso indicare che la cosmogonia dei Pitagorici non è che un' espressione exoterica di una dottrina più filosofica; che essi hanuo reilmente ammessa, cime lui, Teternità (1 ) V. Filebo 16 c-e (2) Non bisogna dimantioare ohe le finzioni drammatiche dei dialoghi platonici non sono deUe semplici finzioni poetiche, ma l'autore intende attribuire realmente ai personaggi di questi dia- loghi le dottrine ch'egli mette loro in bocca. del mondo- noi sappiamo ch'egli pretende stabilire Ti- dentità delle dottrine degli antichi pitagorici con le sue proprie—; e che l'orìgine dell'universo nel tempo è per essi, come p»T lui, un simbolo significante la processione ab aeterno delle cose dai loro principii (\). L'ogg'itto principale d»lla cos-nogonia del Timeo è, come abbiamo visto, di dare una spiegazione teleologica del monlo. Il concetto teleo'ogico era sconosciuto ai Pi- tagorici; ma data l'importanza di questo concetto nella sua filosofici, egli noa può rinunziare a ritrovarlo anche in quella degli antichi Pitagorici, di cui vuole stabilire r identità con la propria. I Pitagorici insegnavano che tutto è stato prodotto da Dio (1). Platone prende per punto di part^nzi quest'Idola a-xe^soria della loro co- smogonia, ne fa l'idea prlncpale, la sviluppa facendola servire di base a una concezione finalistica dell'universo, e trasfigurata cosi la cosmogonia reale dei Pitagorici, l'attribuisce ai discepoli fedeli dei preiecassori di questi (1) Secondo Stobeo (1.450), Pitagora dice il mondo generato par un artifìcio logico (xax'èJltvoCav), ma non cronologicamente (xaià XP^^^^)- Ciò vaol dire, come bene spiega il Zeller, che i Pitagorici, parlando dolla formazione del mondo, non hanno vo- luto insagnare che la dipendenza logica del derivato riguardo al primitivo, e non un'origine nel tempo. Stobeo (1.420) riporta anche un frammanto. cartamante apocrifo, di Filolao, che afferma che il mondo è esistito sempre, e molti autori antichi attribuiscono a Pi- tagora questa dottrina (V. Zeller Jh'ilos. dei Greci pag. 378). Che l'o- pinione, secondo cui l'origine del mondo nel tempo, di cui hann u parlato i Pitagorici, non è una dottrina reale di questi filosofi, esi- sta gi^i all'epoca di Aristotile, risalta dal luogo della Met, l. XIV. III. 14-15: ** Né vi ha \^ojri a dubitare se i Pitagorici facciano o no la generazione; dicono infatti chiarameate y, ecc. (1) Filolao dice ohe Dio ha fatto il limite e l'illimitato. V. Si- riano in Afet. SchoL 925, b, \i '\ 1 » filosofi, interpretandola come un semplice simbolo dì una speculazione superiore, il cui contenuto coincide con le sue proprie dottrine sui principii delle cose. Fors'anche Timeo non è, nell'intendimento di Platone, il rappre- sentante soltanto del pitagorismo, ma di tutti gli anti- chi filosofi e teologi, che avevano attribuito alla divinità o alla mente o ad un altro principio analogo la prima origine deiruniverso; e il Demiurgo del Timeo noi cor- risponde solamente al dio creatore dei Pitagorici, ma a tutto ciò che Platone trova nelle tradizioni dei G.eci e dei barbari suscettibile di essere interpretato -secondo il metodo arbitrario d'interpretazione che gli ò proprio- come un'allegoria dell'Idea del bene (1). È a ciò che fa pen- sare Aristotile, quando dice che, se si tien dietro al pen- siero d'Anassagora, nella sua conseguenza logici, piut- tosto che a quello ch'egli ha esp:essammte detto, si rie- sce a fargli amm3ttere per principii V Uno (corrspon- dente al Nous) e la materia indegnità, come i platonici (2); quando assimila lo stesso Anassagora ed Empedocle (questi persihe ha posti l'Amicizia tra gli elementi) e Ferecide con altri teologi e i Magi ai platonici che am- mettono il Bene come princ-pio (3); quando attribuisce non solo ad Anassagora, ma ad Ermotimo, a Parmenide ed Esiodo (perchè entrambi pongono, egli dice, come principio l'Amore) e ad Empeiocle di amin3ttìre p^r principio la causa del bene ed anche, in un certo senso. (1) Si notino le parole del Tim9o dopo avere spiegato il motivo per cui Dio ha creato U m3ado (oioj la parte sipaziona della sua bontà) : - Qaegli che da uomini sapienti accetterà questo principio potissimo della genesi e del mondo, lo accatterà giunta n ante. (29 e, 1. e). (2) Met. 1. I. Vili. 9-11. (3) Met. 1. XIV. IV. 2-4. il bene in se slesso (i). Visto lo sforzo di Platone di ri- trovare i su'>i concetti nelle tradizioni dell'antica sapienza, quenti ravvlc namenti delle dottrina dei suoi predecessori con le sue proprie si troveranno certamente più natu- rali in lui che in Aristotile. Il principio del bene non potendo e-^sere, secondo le sue idee sui rapporti della propria filosofia col passata, affatto ignorato dair anti- chità, egli ve lo trova involto in oscuri simboli. Dire che Dio o l'intelligenza o qualche altra cosa di simile è il principio de'le cose è, al suo punto di vista, affermare implicitamente la d xtriiia della finalità; di più, le co- smogonie degli antichi non fot^uido essere intese lette- ralmente, per il loro carattere evidentemente mitico e per r assurdità di un'origiu», del mondo uel t.unpo, e quest'origine, per consegnenza, non potendo significare che il rapporto logico tra i principii e le cose derivate, le cans». ptTsmali o sem-personali, a cui i Pitagorici e gli aliri antichi sapienti hanno attribuito la formazione dell'universo, non possono es-^ere, egli pensa, che delle personificazioni, più o meno coscienti, di un principio astratto, e questo, non altro che l'Idea del bene. Aggiungiamo infine che, per la forma simbolica ed exoterica del Timeo, Platone vuol mostrare eh' egli si accoria con gli antichi Pitagorici, non meno per il fondo dello dottrine, che per la f<)rma esteriore della lo^o espo- sizione. Il carattere estremamente paradoss astice della filosofia pitagorica, unito alle altre ragioni acni abbiamo accennato al principio di questo numero (2), hanno do- vuto far nascere bei presto l'idea che le dottrine cono- sciu'^^e dei Pitigorlci noi eraio che dei sìmboli di spe- (1) Met, 1. I. III. 12-IV. 3 . (2) Carta '. U- ir culazioni più alte: Platone doveva farsi promotore dì quest'opinione, s'egli voleva giustificare la sua interpre- tazione del pitagorismo, tendente a indeutificare questa filosofia con la propria. Esponendo le proprie teorìe sotto il velo deirallegorìa, egli usava dunque un processo, che faceva parte del concetto che si aveva e che egli voleva che si avesse del pitagorismo, e si dava cosi anch'esso l'aria di un pitagorico (1). In quanto ai motivi dipendenti dalla natura stessa delle dottrine, noi vi abbiamo in parte accennato, attri- buendo il modo di esposizione del Timeo, sull' autorità di Aristotile e dei suoi commentatori, a un artifizio me- todico in graz'a dell'insegnamento (5t5aoxaXCas xapw) dcHa teoria della finalità. Ma qaesto motivo cosi enunciato perde gran parte della sua forzi. Il vero si è eh*. Pla- tone nel Timeo esprime la teoria della finalità antropo- morfisticamente, p?rchè Tespressione naturale del punto di vista teleologico è 1' antropomorfismo. I concetti che (1) Alla finzione del Timeo, di attribuire le dottrine esporle nel dialogo a un filosofo pitagorico, è legato anche l'aspetto sotto cui vi è presentato di preferenza il rapporto tra le Idee e le co^a. Qu >- st'aspetto è l'esemplarità delle Idee: siccome la formula pia iu uso presso i Pitagorici, per indicare la relazione tra i numuri ole cose, è che queste sono fatte ad imitazione di quelli (v. Arist. Met. 1. I. VI. 2), e le Idee platoniche corrispondono ai numeri pitagorici, Platone deve rappresentare le Idee sovratutto come modelli, per avere più facile la transizione dal sistema pitagorico dei numari a quello delle Idee. Egli ha tantd più interesse a mettere in ri- lievo questo carattere comune tra i numeri pitagorici e le Idee, cioè l'esemplarità, che dalla formula pitagorica che le cose sono fatte ad imitazione dei numeri può dedursi il carattere precipuo per cui i numeri di Platone, cioè le Idee, si distinguono da quelli del pitagorismo storico, vale a dire la loro distinzione dalle cose, l'essere X^p'-oioC dai sensibiU. Platone deve esporre sono tali, che è impossibile di esprimerli altrimenti che sotto forma analogica. Il con- cetto teleologico è un concetto essenzialmente antropo- morfista, un'as«imilazione, più o meno cosciente, delle operazioni della natura a quelle dell'uomo: spiegare i fenomeni per le loro cause finali è necessariamente at- tribuire alla natura un disegno e delle intenzioni come all'uomo. Il metafisico teologo, che ammette una fina- lità trascendente, trasporta seriamente nelle forze della natura questo disegno e queste intenzioni : ma quando si ammette invece una finalità immanente, cioè quando la spiegazione teleoloj;ica non è al tempo stes30 una spiegazione», teologica, noi abbiamo allora un concetto puramente analogico, che ci dice che la natura, quan- tunque non abb'a realmente né d'segno né intenzione, tuttavia sì comporta nelle sue operazioni come se avesse un dis'^gno e delle intenzioni. Sarebbe dunque impossibile di far comprendere il punto di vista teleologico, senza que- st'analogia delle azioni a cui presiede un dise^^no cosciente: noi potremmo anche dire che se questa finalità incosciente o immanente dei metafisici non teologi costituisce una spie- gazione delle cose, ciò avviene appunto — spiegare non essenio altro per la metafisica che assimilare ai fenomeni più familiari— per q'iesti vaga personificazione delle forze della natura ch'essa suggerisce airimmagìnazione, quantunqiie si rifiuti di ammetterla apertamente come tesi filolofica. Cosi sì avrebb3 forse ragione di doman- darsi se la trasformaz'one fantastica del Timeo dell'Idea del bjue in un Demiurgo che produce il bene con in- telligenza, sia S3mplicemente p3r Platone un artifizio metodico dovuto alla necessità di ricorrere a delle ana- logie di questa natura p3r far comprendere il punto di — 237 - vista teleologie ->, o se di più Platone, pur vedendo nella personfìcazione dell'Idea del bene una semplice allegoria, si compiaccia di qu*^8to rivestimento fantastico dei snoi concetti astratti, perchè vi trova una soddisfazione più completa a questo bis'^gno dello spirito, su cui è fondata la spiegazione teleologica, di assimilare le opere della natura alle azioni delPao no. Non vi ha dubb o infatti che il punto di vista tele Jìgico in Platone sia s!:re^ta- mente legato al punto di vista teologico, ei è verisimile che la deduzione del Fedone, in cui la teoria delle cause finali è presentata come una conseguenza della causalità universale deiriotellìgenza, rappresenti il processo reale del punsero platonico, che è andato, come sembra più naturale, dal punto di vista teologico al teleologico, an- ziché da questo a quello. Ma quando i discepoli di Platone dicevano che la ge- nerazione del mondo nel r/meo era sta^a fatta 5i5aaxaXix; Xapiv, Vf^risimilmente essi non avevano soltanto in vista la dihicidazione del concetto della finalità per la pn-so- nificazione dell'Idea del bene. Per la concezione djlPal- tro principio, detcrminato d'una manieri purammte scientifica, n^n vi ha meno difficoltà q,\ì^ p^r quella d.5l Bene. Uno dei lati piìi n5b ilo^i del oncet'io deirelemento materiale è, com 5 abb'amo osservato, ch'esco è consi ie- rato al tempo sesso come la materia e come la sten»s'. In quanto è la steresi, es^o e il contrario deirelemento formale: non è senza forma, ma ha la forma opp-»s a; è Tineguale, il disordinato, il male, ec3. C)m^ ciò puì essere la materia di cui gli esseri sono fatti, se per ma- teria s'intende quello che resta della cosa arrazion fa- cendo della forma, e non un materiale preesinte it^ co n^> quello di cui si servono gli artefici per prò lurre le loro opere ? Evidentemente, di queste due maniere di rappre- sentarsi la mat ria, è solo la prima che Jcorrisponde al concetto di materia, filosoficamente determinato; ma per far entrare in questo concetto anche la steresi, Platone è obbligato a sostituirle la seconda, e a rappresentare, per consegu'^nza, l'unione dei due elementi come un fatto avvenuto nel tempo. Sembra che noa fosse solamente nel Timeo che Platone si servisse di questa rappresen- tazione. Almeno, Aristotile gli attribuisce la proposizione che il Due, il primo numero generato, viene dall'Ine- guale eguagliato, rimproverandogli che l'essere ineguale e l'essere eguagliato sono dunque due stati successivi del- l'Ineguale, e che per conseguenza non è semplicemente co- mmessi dicono, in grazia della contemplazione (xoO Gscrtp^oai Ivsxsv -questa espressione corrisponde evidentemente al St^aaxaXia; x^P'-v del De Coelo 1. I. X.) che i platonici fanno la generazioae dei numeri {Met. 1. XIV. IV. 1). Può arguirsi da ciò che, anche nella generazione dei numeri, Piatone Jrappreseatava talvolta 1' anteriorità e posteriorità fra i principii e le coie derivate quasi come un'anteriorità e posteriorità cronologica. È forse a tali rappresentazioni che allude la proposizione, attribuitagli pire da Aristotile {Met. 1. XIV. II. 7), che « bisogna partire da un'ipotesi f^lsa, come i geom3tri che suppongono d'un piede una linea che realmente non è d'un piede »: questa proposizione, in effetto, si riferisce senza dubbio a una certa rappresentazione della materia, poiché Aristotile Inda come ua'illazioned3l principio, ara:Ti3S4o nel Sofista, che la materia (il Non essere) è la natura del falso (l). (1) Il Timeo non ò la sola opara di Platoaa in cai il mondo si faccia generato. Nel mito del Politico si parla pure d'an demiurgo e padre dell'universo come nel Timeo {Polit. 239 d-270 a, 273 b-d) — 238 — Un'altra delle dottrine legate al pitagorismo plato- nico, indicata oscurainente nel Timeo ^ ed espressa an- ch'essa sotto forma mitica e simbolica, è quella della il mondo deve tutti i beni a qaallo che l'ha formato, e tutti i mali alla deformità anteriore, o piuttosto al principio materiale, ohe era partecipe di mólto disordine prima di essere ricondotto (dal de- miurgo e padre del mondo) all'ordine presente (i6. 273 b-c — ofr. an- che la n. 2 a carta 231 pag. I) La coincidenza di queste proposizioni coimito del Timeo è troppo colpente, par non vadarvi un'allusione a questo: che il Politico sia degli ultimi scritti di Platone ò provato d'altronde dalla sua posteriorità al Sofista, che contiene già la dot- trina del Non essere. Ancha neìV K pino m irle (se questo dialogo è di Platone) il mondo è generato (v. 978 d, 981 b, 983 b, 984 b-c, ecc.), ma il suo autore, coma abbiamo già notato, è l'anima del mondo stesso, e non un dio trascendente (v. carta 224). Nelle Lefffji, infine, l'anima è la pia antica di tutte le cose generate : essa è nata innanzi a tutti i corpi, e le cose che appartengono all'anima, come la preveggenza, l'intelligenza, l'arte, la volontà, i ragiona- menti, le opinioni vere, sono nate prima di quelle che apparten- gono al corpo, come la lunghezza, la larghezza e la profondità, il molle e il duro, il grave e il leggiero, e in una parolaia forza dei corpi, perchè l'anima è la causa prima di tutte le cose (892, 896, 966-967, ecc.). Siccome questi scritti appartengono indubbia- mente, come il Timeo, al pariodo pitag^raggiaate, noi po-isiam) concluderne che Platone, a quest'epoca, per conformarsi alle dot- trine pitagoricha— o piuttosto a ciò che egli riteneva un'espres- sione exoterica e allegorica delle dottrine raali dell'antico pitago- rismo—rappresentava l'universo come originato nel tempo, non ve- dendo naturalmente in quast'origine nel tempo oha un semplice simbolo. 'SeìV Epinomide e nelle Lefigi l'anima apparisce come an- teriore anche ai corpi che, secondo la dottrina reale di Piai ona, non hanno avuto mai cominciamanto (il mondo come un tatto, la terra e gli astri), e come la loro causa efficiente, perchè la conservazione del cielo e dei grandi corpi che sono in esso, la Iopj persiste iza nella forma attuale e il legame che tiene unite le loro parti, sono dovuti, secondo Platone, all'anima; rappresentandosi cosi mitica- mente l'azione continua di questa com3 un fatto avv'enito in ui punto del tempo. Aristotile infatti allude alla dottrina che il cielo si conserva e permane eternamente per l'aziona dell'anima (quel- formazìone deiranima. Neirinterpretaz'cne di questa dot trina, l'importante è per noi di determinare il significato delle entità, che miticamente vengono rappresentate come gl'ingredienti di cui il Demiurgo compone l'anima. Ecco quali sono questi ingredierii: « DelTessenza in- divisibile e sempre la stessa e di quella che diviene di- visibile nei corpi compose (il Demiurgo) una tei za specie di essenza intermedia, la quale, anche lispetto ulla na- tura dello stesso e a quella del divirsr, compose inter- media tra r indivisibile di essi e il divisibile per i corpi; e prese queste tre cose (ciré, come rif-ulta chiaramente da ciò che segue, lo Stesso, il Diverso e l'essenza int^^r- media, ccmposta dall'esFenza ind. visibile e dalla divisi- bile), le mescolò tutte in una sprcie unica, adattando per forza allo Stesso la natura del Diverso refrattaria alla mescolanza. E avendo mescolato ins eme con V es- senza (cioè, evidentemente, Tesseuza intermecìia), e delle tre cose fattane una sola, questo tutto nuovamente, divise in tante parti quante bisognava, tutte composte dello Stesso, del Diverso e delFessei'za. Le difficoltà dell' interpictazione di questo luogo si l'anima a cui è dovuto il suo movimento —v. De Coelo 1. II. I. 6); e noi non possiamo attribuire questa dottrina che a Platone, per- chè egli solo, prima di Aristotile, ha ammesso un'anima cosmica, forza motrice del cielo, e la perpetuità dell'universo. Ciò è confer- mato dal Timeo 38 e e 58 a-b. Nel primo di questi luoghi si dice ohe i corpi degli astri vennero legati con legami animati; e nel- l'altro si parla d'uno sforzo del contorno del mondo per congiungersi con se stesso, che preme tutti i corpi che esso contiene, e non la- scia alcun vuoto tra di loro : evidentemente Platone ha immagi- nato questo sforzo per i«piegare la coesione tra le parti materiali dell'universo, e, secondo i suoi principii, egli non ha potuto attri- buirlo che all'azione dell'anima. (1) Timeo 35 a-b. 1 V — 239 — m>mmm> 1 J! i ' i' f- riducono in sostanza a sapere: che cosa sì debba inten- dere per Vessenza indivisibile e per lessema divisibile; e che per la natura dello stesso e quella d» 1 diverso. In quanto alla prima quist one, é evidente che Ves- senza indivisibile e sempre la stessa nel lino-uag^io pla- tonico è ridea: non lo ò mono che per il hu> contrap- posto, r essenza divisibile, deve intendersi la materfa- spazio (Platone dice : T essenza che diviene divisibile nei corpi, perchè lo spazio per se stesso non è fisi- camente divisibile; non lo diviene che in quanto co- stituisce la materia delle cose). Ma V Ide^ designata dalle parole essenza indivisibile e sempre la sfessa, è tutto il mondo ideale, o é semplicemente V Llea specifica, la forma eterna e generale, deiranima? Se si comprende il senso della partecipazione platonica, l'anitra non po- trebbe partecipare a tutte le Idee se non aVa condizione che essa fos^e tutte le cos-, ident ficand^si col tutto. Ma la dottrina che l'anima è identica al tutt^ —dottrina a cui non si potrebbe dare altro seis) int lligibile che quello di Hegel e dell' interpretazione del Teichmuller, cioè l'identità del soggetto e dell' oggetto, di pensiero e dell'essere -non si trova mai apertamente in Platone: ben più, noi mostreremo eh' essa sarebbe inconciliabile con la sua dialettica. Per V essema indivisibile noi dob- biamo dunque intendere l'Idea o la forma dell'anima; e la composizione dell'anima dalla mescolanza dell' essenza indivisibile e d^^lla divis bile non rappresenta se non il concetto che essa risulta, come tutte le altre cose, dal- l'Idea o forma e dalla materia. Perchè intendere infatti il luogo in quistione in un senso che attribuirebbe a Platone una dottrina che noi non sappiamo se gli sia appartenuta, quando si può indendeila in uno che non gli attribuisce altre dottrine se non quelle che noi sap- piamo certamente essergli appartenute? In quanto «Ho Stf sso e al Diverso, noi abbiamo visto altrove i motivi che si hanno, indipententemente dalla intorprrfizione di questo luogo del Timeo, per ammet- tere che essi erano dei principii compresi nelle due odotoi- X£at di contrari, che Platone identificava ai due elementi, e delie denominaz'oni di questi elementi stessi, come l'Uno e la Dualità indeterminata, l'Es^^ere e il Non es- sere, l'Eguale e Tlneguale, ecc. (1). Ma ciò che prova d'una maniera indubitabile che la cosa è cosi, é l'au- torità d'Aristotile, il quale afferma (2) che Platone nel 2'imeo compose l'anima dagli elementi (e per elementi Aristotile intende costantemente l'Uno o E >tsere e la ma- teria) a fine di spiegare la conos -enza conformemente al principio dei fisici che il simile si conosce dal simile (3). All'autorità d'Aristotile possiamo aggiungere anche quella di Xenocrate, il quale, secondo Plurarco, interpretando la composizione dell'anima nel Timeo, vede negli ele- menti di cui essa è stata composta i due elementi dei numeri, cioè 1' Uno e la Dualità indeterminata (4). « t (1) V. Supplem. 1), (1) V, questo Supplem. carte 170, 176, 179, 182. (2) De Anima I. I. II. 7. (3) V. per questa spiegazione Tim^ 37 a-c, e cfr. 44 a-b. (4) V. Plutarco Psicogonia. Secondo Plutarco, Xenocrate ag- giungeva all'Uno e alla Dualità indeterminata lo Stesso e il Diverso come principii della quiete e del movimento: cosi egli avrebbe ri- guardato lo Stesso e il Diverso come due altri principii dell'anima distinti dall'Uno e dalla Dualità indeterminata. Ma vi ha qui senza dubbio un'inesattezza di Plutarco o^dell'autore secontlo cai egli ri- ferisce l'opinione di Xenocrate (Eudoro), come basta a provarlo il fatto ohe Platone e i platonici identificavano, come abbiamo visto - 240 — ì Platone, chiamaDdo lo Stesso indivisibile e il Diverso divisibile^ non intende identificarli con V essenza indivi' sibile e l'essenza divisibile di cui prima ha parlato: egli vuol dire che l'anima è per la sua composi/ione inter- media tra il divisibile e Tindivisibile, non solo avuto riguardo ai fattori immediati da cui essa risalta (l'Idea (v. questo Supplem. carta 176), la quiete e il movimento, e per con- seguenza anche i loro principii— il principio d'una casa essendo nel sistema delle Idee il concetto universale, obbiettivato, a cui la cosa è subordinata — ai due elementi delle Idee - numeri — Xenocrate, sempre secondo Plutarco, avrebbe inteso per l'essenza indivisibile rUno e per l'essenza divisibile la Dualità indeterminata: con tutto ciò la sua interpretazione concorderebbe, nel punto es43nziale, con la nostra, perchè l'importante è di riconoscere che gli elementi, di cui è composta l'anima, non sono altra cosa che quelli di cui qual- siasi altro essere è composto.- Semplicemente, mentre secondo la nostra interpretazione Platone avrebbe considerato nell'anima, come in tutti gli altri esseri, una doppia composizione, quella dall' Uno e la Dualità indeterminata, e quella dall'Idea e la materia, secondo l'interpretazione ohe Plutarco attribuisce a Xenocrate, egli non ne avrebbe considerato che una sola, la prim-i. Plutarco riferisce anche, secondo Euforo, un'altra interpreta- zione, che rimonterebbe a Crantore. Secondo questa, Platone ha composto l'anima dalla natura intelligibile, dalla materia, e dal- l'identità e la diversità, di cui tutte le cose partecipano; e ciò, con- formemente a quello che dice Aristotile (v. I)j unA. I. II. 7 e 1. 1. V. 5 sqq.), perchè l'anima, par poter conosoare tutto, deve essere composta di tutte cose. In questa interpretazione la natura intel- ligibile non è, come in quella di alcuni critici moderni, tutto il mondo ideale, ma la sola Idea o forma de 1' anima : è cosi che la comprende certamente Plutarco, perchè egli dice che questa in- terpretazione si riduce a comporre l'anima, come tutte le altre cose, dalla specie o forma e la materia (v. Psicog. III). L' interpreta- zione di Crantor# è identica in sostanza alla nostra, parche per la Identità e la Diversità s'intendano i due elomenti delle Idea e delle cose, ciò che è necessario di fare, perchè le interpretazioni di Xe- pocrate e di Aristotile dovevano pare avere qualche fondamento. " r e la materia';, ma anche ai fattori più remoti (i due ele- menti). L'uno dei due elementi è chiamato indivisibile, perchè è l'Unità; l'altro, divisibile per i corpi, perchè uoa delle sue funzioni è di essere la materia dell'i cose — quantunque questa denominazione gli convenga sotto questo rispetto soltanto, e non sotto l'altro, cioè come materia delle Idee — E ioutilc di discutere l'opinione di quei critici che per lo Stesso e il Diverso intendono le Idee e la materia: contro di essa vale, oltre a ciò che è stato detto ora, quello che si disse sopra a proposito dell'in- terpretazione dell'essenza indivisibi'c e l'essenza divisibile . Contro questi' interpretazione dell'essenza indivisibile e l'essenza divisibile (cioè quella che vede nell'una il mondo ideale e nell'altra la materia) ora possiamo ag- giungere che, se l'anima venisse composta di tutte le Idee, sarebbe superfluo, per ispiegaro la conoscenza, di comporla anche dei due elementi. Componendo l'anima dello Stesso e del Diverso e della terza essenza intermedia, ch'egli ha già composto dell'Idra e della materia, Platone sembra riguardare quest'essenza come distinta dall'essmza dell'anima, e come un semplice ingrcdicnt'; nella composizione di essa, e lo Stesso e il Diverso come degli clementi estranei all'essenza intermedia, che bisogna aggiungere a questa per avere l'essenza dell'anima. Ma in realtà l'essenza in- termedia, composta dalla indivisibile e dalla divisibile, non è altra cosa che l'essenza stessa dell'anima — ed è perciò che Platone la ch'ama semplicemente Vessenza^, e lo Stesso e il Diverso non sono fuori dell'essenza inter- media, mane sono gli elementi. Semplicemente la forma sim))olica scelta da Platone (di una mescolanza in una caldaia; non può rappresentare d'una maniera adequata il concetto della partecipazione. Lo Stesso e il Divèrso, — 241 - i I cioè le due Idee più uaiverjali a cui tutte le altre par- tecipano, sono le determinazioni generali che 1 'anima ha in comune con tutti gli altri esseri: a queste deter- minazioni comuni bisogna aggiungere il proprio, il dit- ferenziale, dell'anima, che ne fa un'essenza particolare distinta dalle altre. Ma questo proprio, questo differen- ziale, non può considerarsi come separato dall 'essenza deiranima ed esistente per se senza le determinazioni comuni che esso d'ffcr'^nzia, perchè nel sistema delle Id^^e ciò che si separa, facendosene un'entità per se, è la spe- cie e il genere, ma non la difft^renza: ne segue che Pla- tone non può rappresentare la partecipazione dell'anima agli Universali supremi che per l'immagine della loro mescolanza con es«a. Anche nel Sofista la partecipa- zione d'un'Idea alle altre sotto cui essa è contenuta è chia- mata una mescolanza (di quest'Idea con (juestc altre) (1). Platone dà all'essenza dell'anima un posto intermedio fra i suoi ingredienti, perchè egli assegna alle cose una natura intermedia tra le entità da cui esse risultano (2): ma evidentemente con ciò egli intende indicare inoltre che, in virtù della sua stessa composizione, .ranima ha un carattere medio tra l'indivisibile e il divisibile: non è assolutamente indivisibile com-; l'Idea e l'Uno, perchè estesa e quindi composta di parti, ni assolutamente divi- sibile come la materia, perchè indis.solubile e incorruttibile. Alla nostra interpretazione della comprsizione del- l'anima nel Timeo può farsi l'obbiezione che Plutarco (3j fa a quella di Crantore, cioè che l'anima esseado com- posta allo stesso modo che tutte lo altre cose, non si li) V, Sof. 251 il, 2r>2 h, «, 'i-KJ h, e, 254 .1, v, 2:^5 I., 2r,V»a, 200a, «ce. (2) V^ il Timeo Atesso 50 d. (3) Psiojii, 111. Vede come questa composizione convenga ad essa più che alle altre. La risposta è che, esponendo! particolar- mente la composizione dell'anima, Platone non ha per iscopo d' indicare ch'essa ha un' origine e dei principii speciali: il suo scopo è invece, primo, come osserva Ari- stotile, di fare un'applicazione dal principio che il simile si conosce dal simile; e poi, siccome le rappresentazioni ordinarie del Zim^o, intese letteralmenle, implicherebbero la trascendenza, di contrapporre ad esse un' altra rap- preseutazione, in cui il concetto dell'immanenza sia ener- gicamente espresso, qual è quella della mescolanza. B. IL pitagorismo nel Filebo, Il pitagorismo del Ih- lébo consiste in sostanza nella dottrina sul limite (itépag) e l'illimitato (àTisipov). (1). In questo dialogo Piatone di- vide tutto ciò che esiste in tre generi: il limite o limi- tato (2), r illimitato e il composto dell' uno e dell'altro. Il genere dell' illimitato comprende tutte le qualità che (1) Piatone noa prende solamsnle dai Pitagorici la formula che le cose sono composte di limite e d'illimitato, ma anche quella eh 3 esse constano di uno e di molti (v. FU, 16 e e sqq., e cfr.iSupplemento B, V, 4.). Ma qui il pitap^orismo di Platone è rolla forma anziché nella sostanza: egli non vuol dire, com3 i Pitagorici e come egli stesso in un parici^ ulteriore dilla sua speculazione, che l'unità e la pluralitìi sono degli elementi di cai l3 cotì3 sono composte, ma che tutto è al tempo stesso uno e malti, cioè che ciascuna Idea generale contiene una moltiplicità d'Idee particolari. Con questa formula dunque egli non innova niente nelle sue dottriije primitive; semplicemente le esprime in una forma che dà ad esse un sembiante di affinità con quelle d'di Pitagorici— Un'altra evidente aflfettazione di pitagorismo vi ha nel FUfho, quando il metodo dialettico, cioè la divisione per goniri e p3r ispecie, è presentato come una ricerca di numeri (v. IH d, H e, e, J8 a— b, e, li> a): an- che qui il pitagorismo è puramente verbale, e non importa alcun avvicinamento reale alle dottrine dei Pitagorici, (2) Cfr. la nota a carta i»7. — 24;j - oaos suscettibili di una variabilità all'infinito, tan^.o nel- r aumento quanto nella diminuz-one : tali sono il caldo e il freddo, il forte e il piano, il secco e rumido, il ve- loce e il tardo, il molto e il poco, il grande e il pic- colo, ecc. Siccome queste qualità non vengono attribuite che in un senso comparativo — chiamando un corpo caldo o freddo, noi vogliamo diic che esso è più caldo o più freddo di altri corpi ; eh amando un movimento veloce o tardo, che esso è più veloce o più tardo di altri moviment'; ecc. — così Platone si serve, per deno- tare queste qualità, di termini comparativi : più caldo e più freddo, più veloce e più tardo, ma: gioie e minor % più o meno numeroso, ecc., e dà come carattere ge- nerale dell'illimitato l'ammettere il più e il meno. Dalla natura comparativa dello qualità del genero deirillimi- tato segue che esse si esprimono per una coppia di termini oppost», uno positivo, che indica il comparativo di maggioranza, e uno negativo, che indica il compa- rativo di minoranza : il termine caldo, attribuito a un corpo, significa che esso è più ca^do di altri corpi, che in relazione ad esso si chiamano freddi; il termine velocp, attribuito a un movimento, significa che esso è più veloce di altri movimenti, c\v\ in relazione ad cs-^o si chiamano tardi; ecc. Verisimilmente (luesto concetto, che gli attributi, appartenenti alla classe deirillimitato. da cui risultano gli e^^seri, racchiudono in sé una dua- lità di ternoioi contrari, è anche un'imitazione della dot- trina pitagorica che tutto consta di contrarietà. Al ire- nere del limite appartengono i rappoiti numeiici o, più generalmente, metrici: l'eguale, il doppio, il triplo, ecc. Dall'applicazione dei rapporti numerici o metrici, cioè del limite, alle qualità dell' illimitato nasco il terzo genere {}{ composto del limite e deirillimitato ): p. e. certi rapporti metric', applicati al cahifo o al freddo, da- ranno luogo alla temperatura particolare delle varie di- visioni del tempo; altri rapporti metrici, applicati all'acuto e al grave, daranno luogo agli accordi musicali; ecc. Questa temperatura e questi accordi appartengono, per conseguenza, al terzo genere 1). Il pensiero di Platone è evidentemento che nelle cose, o, più propriamente, nei loro attributi, bisogna distin- guere due elementi — due elementi concettuali, ma che, secondo le abitudini della speculazione platonica, ven- gono elevati ad entità sussistenti p^r sé—: una qualità astratta, il cui concetto ^i ottiene per la soppressione di qualsiasi grado determinato, e che è suscettibile di ri- cevere un' infinita varietà di gradi, che crescono e de- crescono sino all'infinito; e il grado che questa qualità ricevo in un caso determinato, e la cui espressione e, per conseguenza, il cui concetto, sono dati da un rapporto metrico (cioè riferendosi a una certa unità di misura). Sic- come non è possibile di deterniinare il grado cho per mezzo del rapporto metrico, cosi questo secondo elemento^ genericamente considerato, si riduc*^ a una relazióne fra quantità: l'eguale, il doppio, ecc., e in una parola, come dice Platone, tutto ciò che è numero rapporto a numero e misura rapporto a mfsura (vale a dire ogni rapporto di un numero con un altro numero e di una misura con un' altra misura). Certamente le qualità che Platone comprende nel genere dell'illimitato, non assumono mai, nella realtà, che un grado finito ; e, considerate in se stesse, non bisogna concepirle come elevate a un grado infinito— ciò che non potrebbe accordarsi con la loro fun- zione di elementi delle co.-e reali, e che per altro sarebln* (i) V. ft/, 2$ e— 20 a, luogo c-ilalo a cario 97-1)8. u !! una contraddizione nei termini—nè come il complesso di tutti i gradi finiti, crescenti e decrescenti all'infinito, con cui esse si trovano negli oggetti particolari; ma devono pensarsi facendo astrazione da qualsiasi grado e misura determinati, perchè il grado e la misura è un alti-o elemento che si aggiunge ad esse per formare gli attri- buti particolari delle cose, e d\altronde un'entit/i platonica non é il complesso degli attributi omonimi degli oggetti particolari, ma l'attributo in se stesso, cioè nel suo concetto astratto e generale. Tuttavia queste qualità vengono ri- condotte air illimitato, perchè non vi ha alcun limite neiraumento e ntUa diminuzione dei gradi di cui sono suscettibili : è un'osservazione analoga a quella che ab- biamo fatta sul Grande e Piccolo e il Molto e Poco de- gli ìyP*"?* 8ÓY|Aa'ca. Per completare il concetlo àA limite, dobbiamo ae:- giringere che, applicandosi alle qualità della categoria dell'inimitato, esso non dà a queste semplicemente un grado e una misura, ma un grado e una misura con- venienti: in efl^etto la misura, nel Filebo{l), è uno degli aspetti in cui si mostra l'Idea del bene. I rapporti nu- merici, che costituiscono il limite, non fissano solamente il grado, in cui gli attributi del genere dcU' illimitato, considerati d^ una maniera assoluta, devono attuarsi nelle cose particolari; ma determinano anche le rela- zioni quantitative tra gli e'ementi di cui queste sono composte, introducendovi della proporzione e dcirarmo- nia. In questo senso, essi si applicano specialmente ai termini opposti deiriUimitato, l'uno relativamente all'al- tro : perciò si dice che il limite fa cessare la discensione tra i due contrari, e li rende proporzionati e accordati (o!Ì[i(^(t)va) per mezzo dei numero (25 e). Cosi tutto ciò che vi ha di bello nella natura— e per conseguenza tutti gli esseri conformi al loro tipo, perchè il buono e il bello 1% per Platone, la forma delle forme— risultano da una contemperazione armonica di contrari : p. e. le divisioni dell' anno da quella del caldo e del freldo ; 1' armonia musicale da quella delT acuto e del grave; ecc. (26 aj. Questo concetto non è forse senza legame con la dottrina pitagorica che tutto r annonìa. Ai tre «generi di cui abbiamo parlato sin qui Platone ne aggiunge un quarto: è la causa elìiciente-degli altri e della mescolanza del lìmite e dell' illimitato. Questo quarto geu'ìre è costituiti, come dimostreremo in seguito, dall'intelligenza e dall' anima. Platone comincia per divi- dere tutti gli esseri che Fono nell' universo in tre generi, benché poi parli anche di un quaito, perchè questo rientra in uno dei tre primi: in effetto l'anima e l'intelligenza de- vono essere composte, come tutte le altre cose, di limite e di illimitato. La difiicoltà dell' interpretazione dì questa dottrina del Flkho è che il limite e l'illimitato, di cui è quistione in questo dialogo, non potrebbero identificarsi con nes- suno dei concetti della filosofia platonica, sia tra quelli che troviamo negli altri scrìtti di Platone, sia tra quelli che conosciamo per l'esposizione d'Aristotile. Molti in- terpreti, è vero, identificano l'illimitato con la materia; in quanto al lìmite, alcuni vedono in esào le Idee, altri le entità matematiche o intermediarie. Ma tutte queste opinioni presentino delle impossibilità evidenti, che noi indicheremo, corninriando dairillìmitato. L'illimitato del Jùlebo ha senza dubbio una grande analogia con la materia degli àypacpa SóYiJtaia : «anche questa è chiamata TaTis'.pov; inoltre essa è ricondotta al (1) V. 64 c-65 a. - 244 — I e f .-A i f ( grande e piccolo, e IMlimitato del Filebo è definito « la natura che riceve il più e il meno». Ma a lato a <iaestc somiglianze vi ha una differenza important'^ ed essen- ziale: il Grande e Piccolo degli ótypac^a Òó^iiolzol è un concetto semplice, un'entità unica; rillimitato del Filebo è un'unità articolata, cioè in esso sotto Tunità generica (il più e il meno) è compresa una moltitudine di specie (il più caldo e il più freddo, il più veloce e il più tardo, il più acuto e il più grave, ecc.). Ciò che corrisponde al Grande e Piccolo è il concetto generico dclP illimitato (del Filebo) : ma quello non si divide, come questo, In più specie particolari; dalla determinazione o concretiz- zazione del Grando o Piccolo risultano immediatamente le Idee, cioè le essenze (sreneriche e specifiche) delle cose, non delle specie particolari di grande e piccolo. Al Grande e Piccolo, 6 vero, è anche ricondotta ima pluralità di concetti distinti, cia<^cuno dei quali si considera come un'entità per se, cioè l'una dcUe due a'iaTotyjai di con- trarli: ma questi concetti sono, per quanto poFs'amo giudicarne, affatto diversi da quelli che costituiscono le specie deirillimitato nel Filebo ; ben più, il carattere delle due dottrine differisce nei punti più essenziali. Primo, i concetti delle due ouoxoix^ai di contrari sono dei prin- cipii, cioè non sono subordinati ad alcun concetto su- periore; le specie deirillimitato nel Filebo, invece, sono necessariamente delle cose derivate (dall'illimitato in sé stesso, cioè nel suo cmeetto generico), il rapporto tra il principio e la cosa derivata equivalendo, nella dialettica platonica, a quello tra il genorale e Jl particolare. Se- condo, quelli (il Non essere, il Diverso, il Multiplo, ecc.) sono tutti di una universalità assoluta ; queste (il più caldo e il più freddo, il più secco e il più umido, il più acuto e il più grave, ecc.) non valgono ciascuna che per una categoria particolare di fenòmeni. In quelli, infine, un concetto della classe dell'illimitato ha il suo contra- r'o nel concetto corrispondente di quella del limitato; le spese dell'illimitato del /«/cfto racchiudono invece la con- trarietà in se stesse, esprimendosi ciascuna per una cop- pia di termini opposti. Passando ora al limite, ecco le difficoltà principali che si oppongono alla sua identificazione con le Idee: 1® Il mondo ideale è Tinsieme di tutti i concetti delle cose, obbiettivati; il limito del 7'7/c 60 non comprende che una certa classe di df'terminazioni matematiche. Tuttavia, ^iccome le Idre, rell'uliimo periodo della sppculazionc platonica, Fono stute ricondotte a dei numeri, si è cre- duto che il I mite del Filebo equivalga a questi numeri, eoe agl'idea' i. Ma Platone non ha ricondotto le Idee a dei rapporti numerici, quali sono quelli che nel Filebo vengono chiamati lìmite, ma semplicemente a dei numeri: anche il limite del File\o consiste, se si vuole, in numeri, ma questi numeri sono proporzionali^ non cardinali come i numeri ideali. Come dice Aristotile {Mei. 1. I. V. 14), da ciò che la dualità è la prima cosa a cui può attribuirsi il doppio, non no segue che il doppio hia la stessa cosa che la dualità. Lungi che le Idee— numeri possano equi- valere a dei relativi, come quelli che costitni-jc^no il lin.ite del Filebo, Platone anzi, nell'ultitno perodod-lla sua speculazinn<*, escludeva i relativi dal mondo dello Idee (1), e quandi anche i concetti d 1 limite del Filebo, 2^ Le idee Fono le essenze delle cose: ma l'essenza d'una cesa evidentemente non è esaurita dai rapporti numerici, che corrono tra gli elementi di cui questa è (1) V. Arist. Met, l. I. IX. 3, e cfr. cap. VII. nota 4 a pag. 227. — 245 — composta. Non lo t> nlmeno, sé quésti rapporti si con- siderano d' una maniera astratta, come vengono consi- derati nel Fdebo : per avere Tessenza della cosa, si do- vrebbero fare entrare nel concetto del rapporto numerico gli elementi stessi, i sustrati, tra cui esso sussiste. Per esempio, se Tarmonia è un rapporto numerico tra i suoni, l'essenza dell'armonia sarà i suoni con questo rapporto numerico, non il solo rapporto numerico astratto. Pla- tone, è vero, ncH'ultima forma della sua filosofìa, toglie dairidea o essenza la materia, e la riduce alla sola for ma: ma questa materia non ò che lo s]>azìo, o Testen- sione. Ora l'illimitato del Mlebo comprende assai più determinazioni che la semplice estensione : esso ne com- prende anche assai più che la materia nel senso più lato, cioè quale uno dei due elementi delle Idee e delle cose. 3<» Il limite e Tillimitato, nel Filebo, sono dati, non solo come elementi delle cose, ma anche come elementi delle Idee (1). Come potrebbe dunque il limite identifi- carsi con le Idee, di cui non è che un elemento? ' 40 Nel Filebo, Tillimitato (òcTisipov) non fa parte del li- mite, gli è anzi opposto come un altro elemento degli esseri. Dunque il limite non può equivalere alle Idee, perchè queste, secondo l'esposizione aristotelica, con- stano anche dall' ótTieipov. Siccome il limite del Pllébo consiste io determinazioni matematiche, la sua identificazione con le entità mate- matiche ha più plausibilità; ma anch'essa incontra dello difficoltà insuperabili : 1^ Anche contro di essa vale la prima obbiezione che abbiamo fatto alla identificazione con le Idee ; vale a dire che i concetti del \Fi7e6o sono dei rapporti numerici, mentre i numeri matematici (che sono le sole entità ma- tematiche a cui questi concetti possono assimilarsi) sono dei numeri nel senso stretto, cioè cardinali. 2« I numeri matematici non sono che i nostri con- cetti dei numeri, sostantificati, cioè questi attributi co- ' ninni delltì diversa collezioni di oggetti, che noi chia- miamo numeri, considerat', nella loro astrattezza, come s'i<»s'stonti per se stessi. Il valore di questi numeri è, in un certo senso, assoluto, vale a dire, lo stesso numero ])uò valere, qualunque sìa la natura degli oorgetti nu- merabili: non vi ha dunque per ciascuno di c^si qualche cosa che sìa il suo correlativo necessario, come per i rapporti numerici e metrici che costituiscono il limite del Fdebo. Ciascuno di questi ha un valore relativo a una specie determinata dell' illimitato, che è quindi il suo contrapposto e il suo complemento necessario. Se tale rapporto numerico vale, per esempio, per rarmonìa, ed ha perciò come relativo il grave e 1* acuto, per le stagioni varrA, non lo stesso rapporto, ma un altro, che^avrà p^r corrMatìvo il caldo e il freddo. In una pa- rola il limite e l'illimitato/ e le specie detcrminate dcl- runo e dell'altro/ sono dei concetti che si suppongono recìprocamente. Se i numeri- matematici fo«s-ro, non semplicemente, come noi ammettiamo, i nosfi roncpfì dei numeri sostantificati, ma le leggi del mondo feno- menico e le Idee nel loro rapporto con la materia, se- condo un'interpretazione che noi abbiamo già discussa (1), anch'essi supporrebbero, è vero, un opposto come cor- relativo necessario: quest'opposto sarebbe la materia, perche essi non potrebbero rappresentare, come le Idee 0) V. Itf e e 23 e. Cfr. Supplem. 15, Vili, nota tinaie (carta 100). (1) V. questo Supp. n. III. A ' \ Stesse, che la semplice foi-ma. Ma allora, perchè il limite del FiUho corrispondesse ai numeri matematici, Tillimi- tato dovrebbe corrispondere al semplice spazio, poiché le entità intermediarie, essendo posteriori alle Idee (supposto, come vu'^le quest'interpretazione, ch'esse tramezzassero tra la totalità del mondo ideale e la totalità del mondo reale) non potrebbero essere meno comprensive (Ji queste. 3^ Il limite, nel Filébo, è, come abbiamo detto, un elemento delle Idee. Ma le entità matematiche non ci sono mai date per elementi delle Idee: ciò sarebbe anzi in antitesi colla loro qualità di eatità intermediarie tra le Idee e le cose. L'elemento infatti è anteriore alla cosa di cui è elemento, mentre le entità intermediarie sono invece posteriori alle Idee. 4» Perchè Platone potesse riguardare le entità mate- matiche come uno dei quattro generi in cui vengono divisi tutti gli esseri, e?se dovrebbero costituire per lui una classe di entità distinta dagli altri concetti obbiet- tivati, in altri termini, egli dovrebbe ammettere già la distinzione tra le Ide« e le entità matematiche. Ma quando scriveva il Fileòo, Platone non conosceva ancora questa distinzione: in questo dialogo in effetti (l) tutti i con- cetti obbiettivati in generale sono chiamati Idee e riguar- dati come oggetti della dialettica (mentre dopo la distin- zione tra entità matematiche e Idee, il metodo dialet- tico non si applica che a queste, perchè dei numeri e delle figure vengono realizzati i concetti specifici soltanto e non i genenci— v. questo Supplem. Ili carte 197-198) (2). (1) V. 14 C-i 9 b, e cfr. questo Supplem., Ili, carta 210. (2) Che nel Fiìeho anche i concetti matematici siano oom- presi nella sfera della dialettica, si vede pure da 58 a, in cui dopo aver distinto le matematiche dallo altre arti e 1' aritmetica Di più, li distinzione delle entità matematiche dalle Idee Importa il posto, assegnato a quelle, di intermediarie tra qucHte e le cose, ciò che suppone la dottrina dei numeri ideali (1): ma Platone, nel Filebo, parla come se egli non conoscesse ancora questa dottrina (2) Delle entità inter- mediarie, inoltre, ve ne sono molte della stessa specie: VI ha una specie, cioè un'Idea, unica della diade, della triade, ecc., ma molte diadi, triadi, ecc. matematiche. Ma, nel FtYeòo, ciascuno dei concetti compreM nella cate- goria del limite, cioè 1' eguale, il doppia, ecc., è eviden- temente riguardato come un'entità unica, perche Platone dà questi concetti come i molti in cui si divide il Li. mite (dopo aver detto che mostrerà come tanto il limite quanto r illimitato sono al tempo stesso uno e molti — cfp. Supplem. B. n. VII! sulla fine) (3). Aggiungiamo infine che nei concetti del limite del Filebo la moltiplicifà viene ricondotta ad una unità supcriore, ciò che, come abbiamo osservato, non avviene nei numeri matematici. e la geometria dei filosofi da quelle del volgare, dice che la dialet- tica è la scienza che conosce tutte le scienze di cui ha parlato. La dialettica per Platone comprende in un certo senso tutte le altre scienze, perchè ogni scienza è virtualmente compresa nella cono- scenza delle essenz3 delle cose, che è l' oggetto della dialettica. (1) V. questo Supplem. u. III. (2) V. questo Supplem. n. I carte 168-164. (3) FiO specie si del limile che dell' illimitato sono insomma dello Idee, benché IMatone, quando dice che le cose che si dicono essere eternamonie (cioè le Idee) constano di limite o d'illimitato, non riguardi propriamente come Idee che i concetti del terzo ge- nere, vale a dire di quello che risulta dalla mescolanza del limite con l' illimitato. Ciò è perchè lo scopo della dottrina del Filebo è di comporre gli esseri di questi duo elementi, ad imitazione dei Pitagorici, e perciò l'iatone non può riguardare propriamente come esseri che i Composti, e non gli elomenti stessi. -247 5^ Se Platone coutnsse tra i Inttori del reale Io en- tità matcraaticho, sarebbe inesplicabile com'egli passi invece sotto silenzio le Idee. Per evitare questa difficoltà, gl'interpreti che vedono nel limite le entità matem«tieh<», ammettono che le Idee sono comprese nel quarto genero, quello che Platone chiama causa della mescolanza (del limite e dell'illimitato) e della generazione, ed anche causa di tutte le cose (cioè d-^gli altri tre generi), e semplicemente causa. E in effetto le Idee sono per Pla- tone delle cause, e nel Fe^/one (95 e— 101 e) vengono an- che chiamate cause della generazione e della corruzione; e nel Filcho stesso (G4 e- G-i a) l'Idea del bene è detta la causa per cui la vita mescolata (di piacere e di saggezza) e gradevolissima, pregevole e buona, ed anche la causa di tutto ciò che vi ha nella mescolanza (del piacere con la saggezza). Ma il termine cau«a, attribuito alle Idee, non ha lo stesso senso che quando Platone l'applica al quarto genere del Filebo. Questo termine non conviene alle Idee che in un senso lato, come sinonimo di principio: le Idee sono cause delle cose, in quanto queste sono ciò che sono per la partecipazione di quelle. Invece, quando si tratta del quarto genere del Mlcbo, la causa deve intendersi nel senso stretto; essa vuol dire: un fe- nòmeno—cioè un'«s'stenza sottoposta al tempo e a tutte le altre condizioni d'^irindividuaMtà— che è la condzione di un altro tVnomeno e lo spiega. Cosi Platone deduce l'esistenza del quarto genere del Filebo dal principio che ciò che diviene deve divenire per una causa (:26 e): ora l'ipotesi delle Idee non è dedotta da questo prin- cipio, nò se sì guarda ai motivi reali della teoria, nò se si guarda alle prove su cui Platone la stabilisce. Quando poi ci si dice (2JJ e— 27 a) che la causa equivale a ciò che fa Ttio'.oOv) e l' effetto a ciò che è fatto (uoio'jjis- vov), è chiaro che per questa causa dobbiamo intendere una causa attiva, un agente: quest'agente di più deve essere personale, perchè ciò che è classato nel quarto genere ò chiamato l'opifice (dr|[iiou(5Yo0v) delle cose clas- sate negli altri tre (27 b> Il genere della causa, nel Fi/ebo, corrisponde a ciò che Platone altrove chiama la cau'^a prima, e talvolta anche semplicemente la causa (1), di tutte le cose, vale a dire Tanima del mondo. Che il quarto genere del Filebo consista unicanipnte nell'anima e neirintelligenza— la quale non esiste altrove che nel- l'anima (2) -si rileva della maniera più evidente dall'esa- me particolareggiato che Platone fa di questo genere, perchè, dopo aver detto che va ad esaminarlo più lun- gamente, non parla poi che di osse (28 e— 30 d): dimo- stra (he la mente governa il tutto, perchè questa pro- posizione è degna dell'aspetto del mondo, del sole, della luna, delle stelle e di tutte le rivoluzioni celesti (28 d — e), e perchè, come noi prendiamo }>li elementi del nostro corpo dal corpo dell'universo, cosi l'anima non può venirci d'altronde che da un'anima cosmica (29 a— 30 a); e conclude che del (juarto genero, che è in tutte le cose, questa parte che ci dà l'anima, ohe ripara la salute nelle malattie, ecc. non deve stimarsi la Fapicoza tutta quanta e di tutte le forme, e che nelTuniverso vi ha molto illimitato, sufìiciente limite, e una causa che presiede ad essi, la quale orna e dispone ;;]i anni, el stagioni, i mesi, ed è chiamata a buon dritto mente e sapienza (oO b-c) (3). Por fare rientrare, malgrado ciò. (1) V. I.t'init Si*«) H-b, 8% d, Sl»U b, h'itiaohiUh' '.W e — 1>77 rt.V»SJ b, mn d, S>88 d-o . (2) V- UO e. (3) In senguito Platone dic3 che " l'^telligenza è del genere deUa causa di tutto cose » (30 e), ei anche che essa è •* affino alla i -1 — 248 — nel quarto gciiertì anche le Id^x;, alcu li d^^l'iaterpre ti che identificano il limite con le entità matematiche, Af- fermano che per Platone le Idee e il Nous in fondo coincidono: ma questa proposizione, come abbiamo os- servato altrove, non sarebbe intelligibile che nella dot trina dell'identità dell'essere e del pensiero, dottrina che non possiamo attribuire a Platone.' Aggiungiamo che la classe delle entità matematiche contiene, oltre i numeri matematici, anche le grandezze (le quali non procedono da questi numeri, come ha cre- duto qualche interprete, ma immediatamente dagl' idea- li) (1); cosi se il limite del Filebo 8\ fa identico ai pri- mi, non si comprende nemmeno perchè Platone non conti fra gli elementi costitutivi del reale anche le se- conde. 6'* Quelli che identificano il limite con le entità ma- tematiche sono i sostenitori dell'interpretazione trascen- dentalista del sistema delle Idee. Ciò è naturale, perche lo scopo di quest'identificazione ò di appoggiare la tesi che le entità matematiche sono le leggi e le forme del mondo fenomenico, e questa tesi suppone elio queste entità siano intermediarie nel senso che esse tramezzino. causa e pressoché dello stosso genere „ (Bl a), donde potrebbe in- ferirsi che r inteUigenza e 1' anima non sono isoli oggetti compresi nel qaarto genere, e che anzi esse non sono aggregate a questo genere che d'una maniera un po' forzata ed impropria. Ma in que- sti luoghi Platona parla dell' intelligenza umana, perchè ri^ponde alla quistione a qual genere appartenga la saggezza che ò uno dei due ingredienti della vita mescolata (cioè della vita felice); ed esita S3 possa classarla rigorosamente nel genere della causa del tutto, per- chè questo è propriamente costituito dall' intelligenza e l' anima cosmiche. (1) V questo Supplem. n. III. carte 105- V^C, non tra le Idee di certi attributi e questi attributi stessi nelle cose sensibili, ma tra la totalità del mondo ideale e la totalità del mondo sensibile (1). Ora questa inter- pretazione delle entità intermediarie suppone alla sua volta la trascendenza delle Idee; perchè è, ci si dice, per l'impotenza delle Idee trascendenti a esercitare una causalità reale sulle cose, che Platone è stato condotto ad immaginare queste entità, affinchè esse servissero da mediatori, in modo che Tinliuenza delle Idee potesse comunicarsi per il loro mezzo al mondo sensibile. Ma se le Idee sono trascendenti, anche le entità matemati- che devono essere trascendenti. Le entità matematiche sono dei predicati universali sostantificaii della stessa maniera che le Idee (2); per conseguenza le stesse in- concepibilità che risultano dall'immanenza delle Idee ri- sultano egualmente dall' immanenza delle entità mate- matiche: le stesse espressioni indicanti la relazione tra le cose e le Idee, in cui si vedono le prove più forti della trascendenza di queste, servono pure ad indicare la relazione tra le cose e le entità matematiche (3); i concetti realizzati dei numeri e delle figure, della stessa maniera che le Idee del bello, del buono, del giusto, ecc., vengono riguardati come degl' ideali a cui le cose non si conformano che d' una maniera approssimativa (4); se è evidente in certi luoghi d'Aristotile ch'egli si rap- presenta le Idee come poste fuori delle cose, non è meno evidente, negli stessi o in altri luoghi, ch'egli si rap- 0) V. questo Supplem. n. III. carta 199. (2) V. Ji'p. 509 d- 511, 621-527, 533 b-534 a, Fedone 101 o, 104 d, Met. 1. I. VI. 3, l. III. II. 15 sqq., 1. XIII. I-III, VI, eco. (3) V- Supplem. B. n. VIII. carta 99. (4) V. Fileho 62 a, Hep. 525 d-526 a, Arist. Met. l. III. IL 19-20 1. XI. I. 8, eoo. * - M«~ presenta cosi. anche le entità matematiche (1); e in una paroU, tutte le ragioni che si avrebbero per ammet- tere la trascendenza delle une, varrebbero egualmente per ammettere la trascendenza delle altre. Intanto il li- mite del Filebo, come convengono gli stessi interpreti trascendentalisti, è immanente, è un elemento delle cos«^ stesso. È impossibile dunque che esso sia identico aUt», entità matematiche. 7"^ Per dotare le entità matematiche dell'efficienza cau- sale che, nella loro inerpretazione, manca alle Llf*e, e farle supplire cosi a questo difetto del sistema, che, se- condo loro, è il motivo della dottrini d^^lle entità inter- mediarie, grinterpreii trascendentalisti sono obbligati a misconoscere la loro natura di semplici predicati jicne- rali sostantificati, e le identificano con l'anima del mondo Cosi quelli che vedono nA limite d^^l /^</eò> le entità ma- tematiche, è necessario che facciano del limite e della causa (che, come abbiamo mostrato, non è che l'anima del mondo) una sola e stessa cosa, mentre Platone ne fi due generi distinti— e d'altronde la causa non potrebbe non essere distinta dalle cose di cui è la causa— . E biso- gna notare che Piatone stabilisce espressamente e dimo- stra che il SYjiiLovYpoOv, vale a dire il quarto genero, è altro necessariamente dagli oggetti compresi nei tre primi generi (27 a-b). (1) V. Met. 1. III. I. 15, IT. 17 sqq, 1. XIII. I. 4, 1. XIIT. II, 1, XIII. in, 1. XIV. III. 3-7, ecc. Nella più parte di questi luoghi» è vero, Aristotile distingue due frazioni nella scuola platonica, di cui 1' una avrebbe ammesso le entità intermediarie o matematiche fuori delle yo»©. © t' altra nelle cose stesse. Ma una divergenza ana" Ioga di opinioni è da lui attribuita ai platonici anche intorno alle Idee, quando oppone ni resto della scuola quelli che, come Eudossio, a ssimilavano la parusia delle Idee nelle cose a quella di una so- stanza colorante nell'oggetto colorato (v. Supplemento B carte 70-71) Il limite del Filebo non può dunque identificarsi né con le le Idee né con le entità matematiche: noi abbiamo visto inoltre che nemmeno l'illimitato equivale alla materia degli àypa^a S^yiiaxa Sùcome questi concetti non trovano il loro equivalente in alcun altro dellt^ opere stesse di Pla- tone 0 dell'espo-iizione aristotelica, ed é d'altronde evidente la loro affinità con quelli della scuola pitagorica, noi siamo fondati perciò a vedere in questa dottrina del Filebo un primo tentativo dell'autore di avvicinare la propria filosofia a quella dei Pitagorici. Sappiamo infat- ti che il pitagorismo di Platone, anziché essere dovuto a un'influenza che questo filosofo abbia passivamente subita, é stato piuttosto qualche cosa di voluto, di cer- cato: non é quindi sorprendente che la sua forma defi- nitiva sia stata preceduta da un primo passi, in cui ravvicinamento tra le due filosofie non è così stretto co- me diverrà in seguito. Non é dubbia, da uu'a'tra parte, Tanteriorità del Filebo al periodo del sincretismo con le dottrine p taj^oriche, che noi conosciamo dall'esposizione d'Aristotile: all'epoca del Filebo Platone non conosce ancora la dottrina dei numeri ideali (1), e nemmeno della matova, sia perchè questa suppone quella (2), sia perchè il limite e l'illimitato del Filebo diff'eriseono da quelli dell'esposizione d'Aristotile (3), e se Platone co- noscesse già la dottrina dei due elementi degli aypa^a dÓYfiaxa, Cj^li non darebbe ai due elementi del Fdebo u:\ì stessi nomi. Che il pitagorismo del Filebo non sia stato che un primo passo, risulta poi abbastanza dal confronto dei concetti di questo dialogo con quelli degli òcYpa-^a 8ÓY[xaxa. Limitandoci alla dottrina dei due ele- (1) V. questo Supplem., II, carte 163-164. (2) V. questo Supplem, I, carte 175 e 188-190. (3) V. sopra, carta 244. — 250 — menti —perchè sareb supe rfluo di notare che la propo- sizione che la natura degli esseri è dominata e deter- minata da rapporti numerici, è meno pitagorica della proposizione che gli esseri sono numeri—, osserviamo: che negli (Xypacpa SÓYiiaxa il limite e Tillimitato sono ciascuno un'entità unica, come nella filosofia pitagorica, mentre nel Filebo sono due generi divisi in una moltitudine di specie; che le coppie dei concetti opposti della classe del- l'illimitato, corrispondenti alle due ouoxoix^at di prin- cipii contrarli dei Pitagorici, hanno con questi poca ana- logia, mentre le due aooxoixCai degli àypacpa Sóyiiaxa sono identiche in parte a quella di Pitagorici, e per il resto possono, per quanto ne sappiamo, riguardarseae come una generalizzazione ; che i concetti dello due ouoxoixfai degli Sl-^^ol^cl SÓYfxaxa sono dei principii^ come quelli delle due ouoxoix^oli dei Pitagorici, mentre le coppie di opposti del Mlebo sono subordinate airillimitato in se stesso; infine, che nel Fi/eòo l'opposizione è nel seno stesso dell'illimitato, mentre negli atypacpa Sóyixaxa è invece, come nella dottrina pitagorica, tra un principio della classe del li- mite e un altro di quella dell'illimitato (1). Ma malgrado le diflerenze profonde tra le dottrine pitagoreggiaati degli fiypacpa Sóyjiaxae quelle del ^l/e&o, tuttavia la più parte delle prime hanno evideutementc un antecedente e un addentel- lato nelle seconde. Indipendentemente dall'idea generale che le cose constano di liuiite e d'illimitato, è da notare: che il grande e piccolo, a cui negli àypacpa 8ÓY|iaxa è ri- condotto il secondo dei due elementi, procedo in linea retta dal più e meno, che nel Filebo è il carattere gene- rale e aistintivo della natura dell'illimitato; e che la distinzione del limite e dell'illimitato del Filebo, con la (1) Gfr. carta 244. riduzione del primo a dei rapporti numerici, è assai vicina alla distinzione di forma e di materia del Timeo e del- Tesposizione aristotelica, e la riduzione della prima a dei numeri (1). Se ricordiamo V osservazione già fatta, che il concetto che le forme sono numeri sembra sup- porre quello che esse possono ridursi a rapporti nume- rici tra i sustrati materiali (2), vedremo più chiaramente il legame tra la dottrina dei numeri ideali e il limite del Filebo (S). V. Il pitagori($iuo nei discepoli di Platone Quest'argomento ha per noi tanto più interesse, che le innovazioni dei platonici dissidenti riguardano, non il sistema delle Idee in se stesso, ma la fusione di que- sto sistema coi concetti pitagorici. Di queste innovazioni le più importanti, anzi le sole importanti, per quanto possiamo giudicarne dalK^ indicazioni d'Aristotile, sono quelle di Speusippo e di Xenocrate, e concernono sovra- tutto la dottrina sui numeri matematici, la loro relazione con le Idee e le cose. Aristotile in effetto parla spesso di tre dottrine dei platonici sui numeri: alcuni distin- guono il numero ideale e il numero matematico— èia dottrina dello stesso Platone—; altri ammettono che il numero ideale è lo stesso che il matematico; altri infine non ammettono che il numero matematico (4). Delle due (1) Gfr. questo Sapplem., II, carta 186. (2) V. questo Supplem., II, carta 187. (3) V. sopra, carta 243. (4) Queste dottrine sono le sole di cui parla Aristotile : di più in parecchi luoghi in cui egli enumera queste tre opinioni sui numer: {Met. 1. XII. 1. 3, 1. XUI. I. 2, 1. Xtll. VIII. 8, 11, 1. XIII, IX, 13-14), — 362 — ' - ultime dottrine a cui allude Aristotile, la prima è quella di Xenocrate, e la seconda quella di Speusippo. Malgrado la cronologia, noi cominceremo per esporre le idee del primo, che si è meno allontanato dal platonismo orto- dosso. Xenocrate. La dottrina dell'identità del numero ideale col matematico (I) equivale al fondo, com«3 osserva Ari- stotile (2), alla soppressione del numero matematico di Platone. In questa dottrina in efletto non vi ha più posto per le molte diadi, triadi, ecc. matematiche, che Platone subordinava alla Diade, Triade, e ce. ideali. La Diade, Triade, ecc. ideali sono dette anche matematiche, perchè esse rappresentano al tempo stesso le Idee degli esseri (p. e. dell'uomo, delPanimale, ecc.) e gli attributi arit- si vede eh* egli intende fare una enumerazione completa delle opinioni dei platonici, e ch^ non conosce una quarta opinione. Tuttavia alcuni storici hanno veduto un'allusione ad una quarta opinione in queste pa- role della Met, 1. XIII. VI, 7 : « Aìtri crede il primo numero, quello della Specie, uno essere: alcuni invece, che questo stesso sia il mate- matico » Le parole in corsivo indicherebbero, secondo questi storici, un'altra dottrina dei platonici sui numeri, la quale non ammetterebbe che il solo numero ideale. Ma esse non indicano in realtà che la dottrina stessa di Piatone, nella quale il primo numero, cioè l'ideale, ó solamente ideale, e perciò uno, e non in un certo mwlo doppio, come nella dottrina in cui il primo numero è al tempo stesso ideale e matematico. Oltre che questo ò il solo senso grammaticalmente possibile, l'ipotesi di una dot- trina dei platonici sui numeri, la quale non ammetterebbe che il numero ideale, e rigetterebbe assolutamente il matematico, è per se stessa in- concep ibile, sia perchè anche i concetti matematici devono essere, ne sistema delle Idee, realizzati, sia perchò 11 numero ideale non potrebbe affatto riguardarsi come numero, se esso non rappresentasse pure ini certo modo le determinazioni aritmetiche delle cose (come la nella dot- trina di Platone, in cui i numeri ideali sono anche le Idee dei numeri matematici». (1) V. per questa dottrina Arist. Met. 1. XII. I. 3, 1. XIIl. I. 2, 1. XIU. VI. 7, i. Xlll. Vili. 8, 1. Xlll. IX. 13. (2) Met. 1. XIII. Vili. 8, 1. XIIl. IX- 13. luetici. Ma anche quelle di Platone rappresentavano gli Attributi aritmetici, perchè i numeri ideali, per lui, erano le Idee e le essenze dei numeri matematici. La differenza dei numeri di Xenocrate dai numeri ideali di Platone è che questi sono iìicomhinahili, mentre Xenocrate, sop- primeado la d'stinzione tra il numero ideale e il mate- matico, aopprime anche necessariamente il carattere di- stintivo per eccellenza fra i due numeri, e fa perciò il iinmero ideale comhinqbiU. Aristotile infatti (1) parla rMla dottrina di alcuni platonici sui numeri ideali, in cui le unità di un numero sono simili e combinabili con quelle di un altro (2), il numero minore fa parte del nu- mero magj>iore (3), e tutti i numeri s'no a dieci equi- valgono alla Decade in se stessa (4) -le due ultime pro- p-isizioni evidentemente non sono che altre espressioni della prima, cioè della combinabilità— Ora questa dottrina è certamente quella che noi attribuiamo a Xenocrate, sia perchè la combinabilità d*^i numeri ideali suppone il ri- getto della distinz'one tra questi numeri e i matematici, sia perchè Aristotile attribuisce ai filosofi a cui egli al- lude la dottrina delle linee indivisibili (5), eh», secondo la testimonianza concorde delle antiche autorità (6), ap- part'ene a Xenocrate (7).(1) Met. 1. XIIl. Vili 18-22, (2) V. 18 e I9. (3/ V, 19. (4) V, 21. (5) V. 22. (6) V. Mullach. Fragm. pkilos. graec. v. Ili pag. 118-12o. (7) Anche Platone aveva parlato della linea indivisibile (v. Arlst. Mei. \. 1. IX. 2o): ma nella dottrina di cui è quistione in Met. 1. XIU. Vili. 22 la linea indivisibile viene rappresentata per un numero particolare (l'unità— cfr. il commento del pseudo— Alessandro e di Siriano in Ar\&i^ Met, Xlll. IX. 3), mentre per Platone non vi ha certamente che un sol ì - 'r • • t M Soppressi i uumerì intermediari, la coerenza del sì- stema esigeva la soppressione delle entità intermediarie in generale, cioè anche delle grandezze matematiche. E in effetto ai partigiani dell'identità tra il numero ideale e il matematico Aristotile attribuisce pure la riduzione delle grandezze a dei numeri ideali. Cosi in Met. 1. XII. I. 3, per indicare le tre scuole in cui si dividono i pla- tonici, platonici ortodossi, scuola di Xenocrate e scuola di Speusippo, dice : alcuni dividono le sostanze separa- bili (cioè le entità della filosofia platonica) in due generi; altri pongono in ima sola natura le Specie e le entità matematiche (non semplicemente i numeri matematici); e altri non ammettono che le sole entità matematiche. E nel 1. XIII. Vili. 18-22, rimproverando ai platonici che ammettono la combinabilità dei numeri ideali, di restrin- gere il numero alla decade, rappresentando tutte le loro entità per i soli primi dieci numeri, dice che per loro anche le grandezze vanno sino ad un certo numero, « prima la linea indivisibile, poi la diade e poi ancora queste (cioè arcora grandezze) sino alla decade ». È evi- dentemente a questa dottrina che noi attribuiamo a Xe- nocrate, che allude pure nrl 1. VII. XI. 3-4, in cui rife- risce Topinione di alcuni filosofi che nei concetti delle grandezze non fanno entrare che la sola forma, esclu- dendone la materia, e riducono per conseguenza le gran- dezze a dei numeri - questi filosofi non posano essere che dei platonici, perchè i pitagorici non conoscono la distinzione di forma e materia —, e divide i partigiani delle Idee in due scuole, di cui V una ammette che il numero per tutte le linee (la diade), perch..- li suo sistema non ammette, e non potrebb » ammettere, che tre Idee di grandezze, della Linea, del Piano e del Solido. Due è la linea stessa, e Taltra che è, non la linea stessa, ma ridea della linea. Platone distingue le Idee-numeri delle grandezze (cioè della linea, del piauo e del solido) dalle grandezze stesse, perchè le prime non rappresentano che la sola forma, mentre le seconde, per lui, compren- dono anche la materia : Xenocrate invece, sopprimendo le grandezz 5 matematiche, non ammette, per le gran _ dezze come per tutte le altre cose, altri concetti realiz . zatl che quelli che rappresentano le semplici forme, e possono per coseguenza ridursi a dei numeri ; cosi non essemdovi più nel suo sistema dei concetti realizzati di grindez^e che includano anche la materia, le Idee (i nu- meri ideali) delle grandezze non si distinguono piìi per lui dalle grandezze stesse (1). Per attribuire a Xenocrate la dottrina delPidentità del numero ideale col matematico (e quindi anche la ridu- zione delle grandezze ai numeri) più che sulle testimo- nianze incerte dei commentatori di Aristotile— di cui al- cuni, come Siriano e Filopono ad Met, 1. XIII. Vili. 8, attribuiscono effettivamente questa dottrina a Xenocrate, ma Tattribuiscono anche a Speusippo— noi ci fondiamo sul legame che essa ha, nell'esposizione d'Aristotile, con quella delle linee e, più generalmente, delle grandezze, indivisibili (2). E ciò che abbiamo visto nel luogo indicato (1) Gfr. questo Supplem, n. Ili, e. IpS-lgC. (2) MeL 1. XIII. Vili. 8. Xenocrate non ammette soltanto delle linee indivisibili, ma delle grandezze indivisibili in generale (V. Stob. Ed. Phys. 1. I e. I4, Simpl. in Ari&t» Phys, pag. 30 A, ecc.)— L'ipotesi delle linee indivisibili, come abbiamo notato, era stata già emessa da Platone: Xe- nocrate sembra non aver fatto altro che riprendere quest' ipotesi d'una maniera definitiva, appog^^iarla su delle prove numerose (v. Arist. De liti, insecabilib.^ Phys 1, 1. IH. 9, De general, 1. I. II. II-I9, Simpl. tu Arist, Phys, pag. 3o A, Philop. in Arist, Phys, lib. I, fol. B, 16 e C, 1, The- mist. Paraphras, Phys, Arist, 1. 1, fol. 18. A, ecc.), e legandola con - 961 — MeL l. XIII. Vili. 18-22-, e lo ^te^^o si rileva pure da 1. XIII. VI. 8, in cui, dopo ave; distint) le diverse dot- trine dei platonici sui numeri — quella che ammette un numero ideale e un numero matematico, quella che iden- tifica i due numeri, e quella che ammette il solo numero matematico— continua: 'Similmente sulle lunghezze, i piani e i S'alili. Alcuni distinguono i matMuatici e quelli |xexà Tàc; Idéa^ (1) ; dì coloro che dicono altrimenti, gli uni parlano degli oggetti matematici matematicamente, quelli che non fanno le Id'e numf^ri né dicono esservi le Idee, (2); gli altri parlano pure degli og^^etn matematici, ma non matematicamente, poiché per loro né ogni gran- dezza può dividersi in grandezze, ne qualswogliano unità possono formare una dualità». I filosofi a cui Aristotile rimprovera di non parlare degli oggHti matematici ma- tematicamente, perchè ammettono delle grandezza», indi- visibili, sono senza dubbio quegli stessi, che, sopprimendo le entità intermediarie, riducono le gandezze a d**i nu- meri : in effetto anche quf^st'altra opiaioue sulle gran- dezze deve essere menzionata a lato di quelle di Platone l'altra ipotesi platonica dei coi pascoli elementari, comporne una teoria completa delle grandezze indivisibili— Platone aveva immaginato la linea indivisibile per sostituirla al punto, cb'egli non potiva ammettere come entità, perchè, come osserva Aristotile {MalA. I. IX. 20— v. il commento d'Aless. d'Afrod.— \ non gli sarebbe stato possibile di dedurlo da qualche forma del Grande e Piccolo (quale materia 'delle entità geometriche). Per Xenocrate il motivo di sostituire la linea indivisibile al punto non può essere precisamente lo stesso, perchè le sue entità matematiche, chenonsouD che dei numeri, non racchiudono la materia: ma per non fare del punto un'en- tità ha potuto bastargli questa considìrazione, che esso non potrebbe comporsi, cjme le {irandezze e ogni altro reale nel suo sistema, d'Idea forma) e di materia. (1) Platone. V. questo Supplem. n. 111. e, I96. (2) Speusippo, secondo l'interpretaaiona aristotelica del suo sistema. e di Speusippo; e d'altronde le parole « similmente sulle lunghezze, i piani e i solidi » ci indicano chiaramente che le tre opinionf, di cui é quistione in questo luogo, dei platonici sulle grandezze corrispondono alle tre, di cui sopra, sui numeri. Ag^^iungiamo che l'obbiezione che qualsivogliano unità non formano una dualità, ha di mira certamente i numeri-Idee (1) : ma qui serve ad appog- giare la proposizione che i filosofi contro cui essa è di- retta, parlano degli oggetti matematici non matemati- camente; dunque per questi i numeri ideali s'identificano coi matvinitici. La tiioria di Xenocrate, eh ì i numeri a cui si riducono g i esseri sono gli stessi che i matematici, è evidente- mente più pitagorica che l'ipotesi platonica di un numero ideale differente dal matematico, perchè i numeri di cui parlano i Pitagorici sono, come ossserva Aristotile (2), i numeri matematici. La riduzione delle grandezze a sem- plici numeri è anch'essa un nuovo passo verso i P.tago- rici, perchè questi non ammettono, come Platone, che le grandezze siano subordinate ai numeri, ma le identificano, come ogni altra cosa, ai num'^ri stessi. Un' altra imiti- zione evidente del pitagorismo è la restrizione del nu mero alla decade, perchè i Pitagorici consideravano i numeri seguenti come una semplice ripetizione dei primi dieci (3) Già Piatone, come c'informa Arist'^tile (4), non aveva fatto il numero ideale che sino a dieci : ma noi non dobbiamo intendere perciò che egli non ammet- tesse che i soli primi dieci numeri, perchè lo stesso Ari- dì V. Mei, 1. Xlll. VII. 22-23. (2) Mef, 1. Xlll. Vi. /. (3) V Ilierocl. In carm. aur, XX. 45-4S, Arist. MeL\. l. V. 3, Phi- lop. De an„ C, 2, al basso. (4) Phjys, 1. Ili VI. 6. — 254 - stotìle dà questa dottrina come particolare, fra tutti ì partigiani dei numeri ideali, a quelli per cui questi nu- meri erano combinabili, e, per consegueaza, identici ai matematici (cioè alla scuola di Xenocrate) (1). Il senso deirindicazione d'Aristotile (nel luogo della Fisica) sem- bra dunque piuttosto che nella formazione dei numeri ideali Platone si è fermato alla decade, ma senza deci- dere se dovessero ammettersi o no anche i numeri se- guenti. L'incertezza di Platone e dei suoi su questo punto ci è attestato in quest' altro luogo della Met. [}. XII. Vili. I) : «Quelli che ammettono le Idee dicono che le Idee sono numeri : ma dei numeri parlano, ora come se fossero infiniti, ora come se terminassero alla decade ». Qaest'incerteza si sp'ega per due esigenze contrari» del sistema. Da una parte, lo sforzo di Platone di accostarsi ai Pitagorici avrebbe dovuto avere per conseguenza di limitare il numero alla decada. : ma d'altra parte, la fu- sione della dottrina dei numeri coi principi! della dialet- tica, manifestantesi sovratutto nella loro generazione pro- gressiva gli uni dagli altri (che, come sappiamo, rappre- senta la dieresi delle Idee), richiedeva che a ciascun' Idea corrispondesse un numero distinto, e, quindi, che i nu- meri ideali fossero altrettanti quante le Idee. Xenocrate, sacrificando il bisogno di accordare la teo- ria dei numeri con la dialettica a quello deirimitazione pitagorica, ci mostra la stessa tendenza che nelle altre dottrine che gli sono particolari. Cosi Timpressione d'in- sieme che risulta dalle innovazioni di Xenocrate è in- somma ch'egli si è avvicinato ancora di più ai Pitagorici. Un'altra prova del pitagorismo più accentuato di questo (1) V. Met. 1. Xlll. Vili. 18-22, luogo già indicato. il filosofo è che egli, come c'informa Teofrasto fi), ha fatto degli sforzi più d'ogni altro platonico nell' applicazione della teoria dei numeri alle cose. Fra questi possiamo contare la celebre definizione dell' anima « un numero che muove se stesso » (2), quantunque essa non sia al- tra cosa che la definizione di Platone (ciò che muove se stesso; unita al concetto generale dello stesso Platone, che gli esseri sono numeri. Speusippo, Fra le dottrine dei platonici, enumerate da Aristotile, sui numeri e gli oggetti della matematica, una è quella secondo cui non vi sarebbero altre entità che le matematiche (3). Confrontando fra di loro i luo- ghi in cui si allude a questa dottrina, e segnatamente quelli che riportiamo nella nota (4), si vede che è qui- stione del sistema di Speusìppo. I concetti principali che caratterizzano questo sistema, secondo Aristotile, sono: 1® Non vi hanno, come abbiamo detto, altre entità che le matematiche; vale a dire Speusippo non ammette le Idee, e non realizza altri concetti che quelli dei nu- meri (matematici) e delle grandezze geometriche. i! .1 (1) Mei, Fr. 12. (2) V. Mullach Fragm phil. graec. v. 111. p. 12o-125- (3) V. per questa dottrina Arist. Metaph. 1. VII. 11. 3-5, 1. Xll. 1. 3, l. Xlll, 1. 2, VI. 6, 8, vili. 5-7, IX. 13, 17, 1. XIV. 11. 16-III. 3, 111,8, ecc. (4) Mei. l.VU. 11. 3-5: «Ancora, oltre i sensibili, alcuni credono che non vi sia alcuna sostanza; altri piò, e massimamente le eterne, come Pla- tone le Specie e le entità matematiche, due sostanze, e terza la sostanza dei corpi sensibili. Speusippo ammette pure più sostanze, a cominciare dairUno; e principii di ciascuna sostanza altro dei numeri e altro delle grandezze; poi dell'anima; e cosi moltiplica le sostanze. (Non attribuisce a Speusippo, come a Platone, le Specie. La sola sostanza iperfica che gli attribuisce, oltre ai numeri e alle grandezze, è l'anima, o piuttosto il prin- cipio dell'anima : questo è menzionato a lato dei numeri e delle grandezze e dei loro principii, non perchè sia un Universale, un concetto realizzato, come questi, ma perchè ò anch'esso una sostanza sovrasensibile). Alcuni I -i : I • il i i '»*. T i 2<> I numeri (matematici) sono i primi degli esseri; poi vengono, nell'ordine dì anteriorità e posteriorità {nel senso platonico), le grandezze geometriche; infine gli es- seri fisici, le cose (1). 3^ L'Uno è il primo principio, come per Platone, ma non è identico al Bene, che gli è posteriore. Come, negli animali e nelle piante, il bello e il perfetto non si tro- vano nel germe, ma appariscono in ciò che ne deriva; poi dicono che le Specie e i numeri hanno la stessa natura, e che le altre cose ne derivano, cioè le linee e le superficie sino alla sostanza del cielo e ai sensibili, (Qui si trat!.a evidentemente delia dottrina di Xenocrate; cosi numeri vuol dire i numeri matematici; per conseguenza sopra, parlando di Speusippo, questa parola ha pure lo stesso senso) ». Met, 1. Xll. X. i4 : «Quelli che ammettono per primo numero il ma- tematico, e cosi sempre un'altra contigua sostanza, e principii diversi di ciascuna, fanno la sostanza del tufo senza legame (S7lStao5t.tt)dy))^una sostanza intatti niente giova ad un'altra, sia che esista sia che non esista— e molti principii ; ma gli esseri non vogliono essere mal gover- nati. «Non è un bene il principato di molti; uno solo sia il principe » ». (Quelli che ammettono per primo numero il matematico, non possono es- sere che Cfuelli per cui non vi hanno, secondo Aristotile, altre entitA che le matematiche. In effetto, oltre a questa, Aristoti e non conta che altre due dottrine sui numeri e gli oggetti della matematica: quella di Pla- tone, per cui il primo numero è l" ideale; e quella di Xenocrate, che am- mette un solo numero, al tempo stesso ideale e matematico. V. Met. 1. Xlll. VI, 6-8, 1. XIU. Vili. 5-8, 11, 1. Xlll. IX. 13-14). Met. I. XIV. 111. 8-9: « Si potrà inoltre domandar»» da chi non sia troppo facile a credere, perchè in tutto il numero e, in generale, negli esseri matematici niente giovino Inno ali altro l'anteriore e il posteriore. Infatti, anche non esistendo il numero, esisterebbeio nondimeno le gran- dezze, per quelli che ammettono lo sole entità matematiche, e queste non esistendo, esisterebbero l'anima e i corpi sensibili. Ma. da quel che si vede, la natura non sembra sconnessa (è7l£tao5ta)5r|^) come una c«it- tiva tragedia. Ciò non accade a quelli che ammettono le Idee » ecc. 0) Met, 1. VII. Il, 4, 1. Xlll, VI. 0, I. Xlll. Vili. 5, I. Xlll. IX. 2-(i, ^ XIV. 111. 8-y, 1. XIV. IV. .s, 1. XIV. V. 3. cosi, nel tutto, il buono e il bello non sono nel princi- pio, ma nascono nel progresso dell'essere. Questo si svi- luppa, come un organismo, procedendo da uno Ftato più indet -rmiDato e più imperfetto a uno stato sempre più determinato e più perfetto (1). 4^ Delle tre clas^si di esseri ammesse da Speusippo (numeri, grandezze gv ometriche e erse), Vanteriore non giova niente alla posteriore. I numeri non sono le cause degli altri esseri : anche non esistendo i numeri, esiste- rebbero le grandezze geometriche, e non esistendo i nu- meri e le grandezze gecmetriche, esisterebbero le cose (2). L'» entità matematiche non hanno, per Speusippo come per Platone, che un significato puramente matematico; in altri termini, i numeri non rappresentano che le de- terminazioni aritmetiche delle cose, e le grandezze le geometriche. In effetto : 1^ Aristotile fa consistere essen- zialmente la dottrina delle entità matematiche di Speu- sippo, tonr.e quella di Platone, nella sostantificazione degli attributi matematici (aritmetici e geometrici), nel- r essere questi considerali come separabili o separati dallo cose fx^P-^'^^ ^ xsxwptoiiéva) (3). 2^ Speusippo dà, com«i Platone, le entità matematiche piM- gli oggetti delle scienze matematiche (aritmetica e geometria) (4): per con-i: ' (1) V. Met. 1. Xll. VII. 9, I. XVI. IV. 2-6, 1. XIV. V. 1. (2) V. Met. 1. Xll. X. l4, 1. XIV. 11. I5-I6, 1. XIV. 111. 8-9. (.3) V. Met, 1. Xlll. IX. 12 e l, XIV. 11. 15-111. 3; e cfr. questo Sap- plem. n. Ul. carte 200-202. Gli altri luoghi d'Aristotile ivi citati, meno Met, 1. Xlll. VI. 4, si riferiscono certamente anche alla dottrina di Speusippo, perchè, come abbiamo osservato (v. e. 20J -202), Aristotile riguarda le entità matematiche di questo lìlosofo come equivalenti a quelle degli altri piatonioi. (4) V. Met. 1. XIV. 111. 3-4, e cfr. gli altri luoghi d'Aristotilr ci- tati a e. 193 p. 1 n. 2, i quali devono riferirsi anche alla dottrina di Speusippo, meno Met. 1. I. IX. 16 e 1. 111. 11. 15, ohe non le si pos- i I 'I — 256 — I i^ seguenza esse nou sono che la realizzazione dei concetti di queste scienze, la sostantificazione delle propri<»tà delle cose che queste scienze studiano. La prova che stabili- sce l'esistenza di tali entità è che le matematiche non devono riferirsi agli oggetti sensibili, ma a delle lealtà astratte, universali ed eterne; ed Aristotile riguarda an- che questa prova come il motivo reale della dottrina (1). È evidente, come abbiamo osservato (2), che su questa base non potrebbe fondarsi una teoria che vede nei nu- meri le essenze o le leggi delle cose, ma solo la realiz- zazione delle astrazioni numeri. 3^ Aristotile oppone Speu- sippo a Xenocrate, in quanto quegli parla delle cosa ma- tematiche matematicamente (e il suo numero é vera- mente matematico), mentre questi ne parla non mate- maticamente, e sopprime in realtà il numero matematico. La ragione precipua di quest' opposizione^ è, come ab- biamo già detto, che i numeri matematici di Xenocrate sono gli stessi che gK ideali, e non si limitano quindi, come quelli di Speusippo, a'ia rappresentazione dei sem- plici attributi ariimetici (3). 4<^ Il luogo citato a car- ta 201 (4) prova chiaramente che i numeri di Speu- sippo non costituiscono 1' essenza delle cose (come po- trebbe credersi che sia in una dottrina, che non ammette, secondo Aristotile, altre entità che le matematiche), né come paradigmi, quali le Idee nelTinterpretazione tra- II sono riferire, perchè parlano delle entità matematiche come in- termediarie. (1) V. Mot. 1. XIV. II. 16. l. XIV. 111. 3, 111. 4, ecc. Cfr. n. Ili, e. 202, (2) Carta 202. (3) Cfr. e. 203. (4; Met. l. XlV. II. 15-111. 3. scendentalista, né come inerenti nelle cose stesse, quali le Idee nella nostra interpretazione o i numeri pitagorici* E lo stesso risulta dai luoghi, anch'essi già citati (ì), in cui ci si dice che, delle diverse classi di sostanze am- messe da Speusippo, le anteriori non giovano per niente alle posteriori, e che le cose esìsterebbero anche non esi- stendo i numeri e le grandezze, o** Infine, Aristotile ri- guarda, come già abbiamo detto, le entità matematiche di Speusippo come equivalenti a quelle d^gli altri plato- nici : per conseguenza anche le altre prove per cui ab- biamo stabilito (2) il significato puramente matematico delle entità matematiche di Platone, valgono pure in- direttamente per quelle di Speusippo. L'anteriorità d^i numeri sulle grandezza, e delle en- tità matematiche sulle cosi signific i, secondo le abitu- dini della filosofia platonica : i'^ che i concetti delle gran- dezze contengono, nella loro comprensione, quelli dei nu- meri, e i concetti delle cose quelli dei numeri e delle grandezze; e 2^ che le grandezze procedono dai numeri, e le cose dai numeri e dalle grandezze. Ma in Platone il rapporto di anteriorità e posteriorità implica che il po- steriore si deduce dall'anteriore, ciò che importa, come sappiamo, che questo è in un certo modo la cau«a di quello, perchè l'essenza della di?^lettica platonica consi- ste nella identificazione del rapporto logico fra il prin- cipio e la conseguenza col rapporto ontologico tra la causa e l'effetto. In Speusippo invece le tre classi di so- stanze da luì ammesse non si deducono Tuna dall'altra: le grandezze non si deducono dai numeri, né le cose dai numeri e dalle grandezze. E cosi che dobbiamo com* - ! (1) Met. 1. Xn. X. U, l. XlV. Ul. 8-9-cfr. n. 4 a o. 255. (2) A 0. 200-204. - tól - >Oji prendere la proposizione citata d*Aristotile, secondo cui la classe posteriore esisterebbe, anche non esistendo la classe anteriore. Ciò basta perchè Aristotile possa dire che Je sostanze di una classe non sono la causa di quelle delle' altre, benché la loro anteriorità e posteriorità im- plichi necessariamente, come abbiamo detto, che le po- steriori procedano, come di regola, dalle anteriori (1). Il principio di Speusippo che V essere si sviluppa an- dando da uno stato più indeterminato e più imperfetto a uno stato più determinato e più perfetto — è inutile di osservare che questo sviluppo non è un progresso nel tempo, ma una successione puramente logica — noa è in sostanza che quello della dialettica platonica che la legge dell'essere è di arricchirsi progressivamente di nuov^ determinazioni, di passare continuamr'nte da uno stato più astratto a uno stato più concreto. Ma hcnza dubbio Speusippo applica particolarmente questo principio alle sue tre classi di sostanz*», per indicare ch'esse formano una serie logica al tempo stesso ed ontologica, iu modo che il passaggio da un termine all'altro importa un pro- gresso nella determinazione dei concetti e de^li esseri corrispondenti a questi concetti, e nel tempo stesso una processione del più determinato dal più inletermiaato. L'altra applicazione particolare che fa Speusippo del principio, cioè la non identità dell' Uno col Bene e U possteriorità di qu<»sto, non è che un corollario del si- gnificato puramente matematico del numero e della sua anteriorità sugli altri esseri ; l' identificazione platonica del Bene con 1' Uno supponendo evidentemente che gli altri attributi delle cose siano ricondotti al numero. Ma vi ha, nella filosofia di Speusippo, un punto d'un'im- (1) Cfr. «io ohe diremo sulla iine di questo numera. I i portanza capitale — è il preteso abbandono della teoria delle Idee— su cui alla testimonianza d'Aristotile pos- sono opporsi delle prove contrarie, che mi sembrano prevalenti. La prova più forte, e che anche da sé sola sarebbe decisiva, sta nell'inverosimiglianza intrinseca delle stesse affermazioni d' Aristotile. Se noi ammettiamo che questi ci espone esattamente le dottrine di Speusippo, il sistema di questo filosofo sarebbe il più insolubile dei problemi che ci presenti la storia della filosofia. Perchè Speusippo avrebbe rigettato le Idee? Per le difficoltà, dice Aristo- tile (1), che si oppongono al sistema. Ma queste diffi- coltà consistono nelle inconcepibilità inerenti alla rea- lizzazione degli universali. Allora, perchè avrebbe am- messo le entità matematiche ? queste non sono anch'esse degli universali realizzati? L' ammissione delle entità mate- matiche non suppone il principio che 1' astratto è'realmente separabile (xtopwTóv), che la vera realtà è, non il particolare, ma l'universale? Se si ammette che ai concetti dei numeri e delle figure corrispoadono dei Numeri e delle Figure astratte e generali, che coerenza vi sarebbe poi a non ammettere che anche ai concetti degli altri attributi delle cose corrispon- dono altre entità egualmente astratte e generali? Se le en- tità matematiche di Speusippo rappresentassero l'essenza stessa delle cose, si potrebbe rispondere che esse bastavano alla realizzazione del principio che 1' essere si risolve in en- tità universali : ma poiché, come abbiamo dimostrato, esse non rappresentano che le determinazioni aritmetiche e geometriche, per lo stesso motivo per cui di queste de- terminazioni si fanno degli esseri reali sussistenti per se stessi, anche lo altre determinazioni delle cose devono (1) Met. 1. XIII. IX. 13 e l. XIV. IL 16. — 268 - essere elevate ad esseri reali e sussistenti per se stessi. Ma vi ha di più: la realizzazione dei concetti non ha un motivo e uno scopo, che unita al metodo dialettico, cioè al metodo deduttivo applicato alla scoverta di quisti concetti realizzati. E per quest' unione, come sappiamo, che il realismo divieue una soluzione del problema delle cause efficienti, perchè il rapporto tra principio e con- seguenza, dopo che questo principio e questa conse- guenza da semplici nozioni mentali sono scati trasfor- mati in entità sussistenti per se stesse, diviene un rap- porto tra causa ed effetto. Ora quale è stata, nell'ipotesi della v^erità dell* esposizione aristotelice, V attitudine di Speusippo verso il metodo dialettico ? Ha egli rinunziato a questo metodo ? Ma, in questo caso, perchè avrebbe ammesso delle realtà universali? Lo ha applicato ni soli concetti dei numeri e delle grandezze geometriche? Ma il metodo dialettico, come ogni altro sistema dei meta- fisici sulle cause effìcient', potrebbe avere altro oggetto che una spiegazione radicale e universale del mondo reale ? e d'altronde, ammesso il metodo della dieresi, avrebbe potuto esso ricevere soltanto un' applicazione parziale, e non abbracciare la totalità dei concetti ge- nerici e specifici ? o avere in una parte solamente della sfera della sua applicazione il valore obbieltivo ch'esso ha nella metafisica platonica, e nel resto un valore pura- mente logico ? Da un altro canto, noi abbiamo dei mo- tivi di credere che Speusippo, lungi di aver abbando- nato la dialettica platonica, come metodo scientifico uni- versale, è anzi verso questa parte che ha rivolto a pre- ferenza le sue speculazioni. In effetto, egli è stato il primo, come dice Diodoro (l), che ha contemplato nelle scienze ciò che vi ha di comune, e insieme le ha con- giunte, per quanto è stato possibile, Tuna con l'altra » (1); e nei suoi Dialoghi sui simili ha cercato le affinità degli esseri della natura a lui conospiuti, applicando partico- larmente la dieresi platonica a quella parte del reale che più ne sembra suscettibile, cioè il mondo vivente (2). E che la dieresi fosse anche per Speusippo un metodo de- duttivo, noi dobbiamo inferirlo dal suo apriorismo, an- ch'egli ammettendo, come Platone, che la ragione deve sforzarsi di ritrovare tutte le verità, partendo da quelle che sono evidenti per se stesse, e ricavandone gradata- mente le altre come conseguenze (3). Se dunque Speu- (1) Ap. Diog. Laert. IV. 2. (1) Cf^. per la portata di» quest'indicazione Platone Pep, 531 d e ^7 e, 1. cit. a pag. 155 e 156. (2) Cfr. o. VII. S 19 nota finale. (3) V. Proclo Comment. in prim^ Fitclid. elementor, 1. 111. 1 pa- gina 50 ed. graeo. in Mullaoh i'Y. 230. Filopono, commentando un l. dell'Ana?. Post, (1. U.c. XU. 13), in cui Aristotile parla dell' opinione — che Eudemo attribuisce a Speusippo che per definire una cosa bisogna anche conoscere tutte le altre, dice che Speusippo rigettava la definizione e la divisione. Ma è questa senza dubbio un' erronea inferenza di Filopono dal luogo stesso commentato. L'opinione di Speusippo non è, come ha ben avvertito il Bitter (v. 2. pag. 393 trad. frane), che un princi- pio dello stefcso Platone. La conoscenza per/'^ffa d'un'Idea suppone, secondo i principii della dialettica platonica, la conoscenza di tutto il mondo ideale. Infatti quest' Idea deve essere dedotta dall' Idea suprema, passando gradatamente per tutte le Idee intermediarie. Di più questo processo discensivo del metodo dialettico ha bisogno di essere preceduto da un altro processo ascensivo, per la scoverta delle Idee di più in più generali, a cui l'Idea di cui si tratta è su- bordinata. (V. Plat. Rep. 1. VI. 510 b-511 e, e cfr. e. VII. § 12, 19 e 20). Cosi, siccome questa scoverta d'un'Idea generale è tirata dalla conoscenza di tutte le Idee particolari che le sono subordinate, perchè non è che la generalizzazione di tutte queste Idee, ne se- gue ohe l'ascensione all'Idea più generale, e per conseguenza an- - »9 — *ippo ha ammesso il metodo dialettico, s'egli ha Scono- sciuto inoltre Tcsigtenza di entità universali; come cre- dere che, dopo aver accettato tutti i presupposti del- Tidealismo platonico, dopo essersi addossate tutte le gravi difficoltà del sistema, che sono le inconcepibilità della realtà degli universali e l'impossibilità di applicare ef- fettivamente il metodo dialettico come metodo dimostra- tivo, abbia rinunziato a fare un'applicazione coerente dei principii, che sola poteva dare al sistema un valore ii- losofico ? A ciò dobbiamo aggiungere che, senza la supposizione che Speusippo ammetteva anche le Idee, non si com- prenderebbe una particolarità del suo sistema, su cui tanto iusiste Aristotile, cioè inutilità dei numeri e, in generale, delle entità matematiche, alle cose. Questa inu- tilità non è un semplice apprezzamento d'Aristotile, come p. e. quella delle Idee dì Filatone - vale a dire le en- tità matematiche df Speusippo non sono inutili nel senso che il valore loro assegnato nella spiegazione delle co^e è chimerico — ; ma essa risulta evidentemente dalle pro- posiz'oni stesse dell'autore (si notino sovratutto le parole della Mei. I. XIV. II. 16, 1. e: Né quegli stesso che lo ammette dice che esso, cioè il numero matematico, sia causa di alcuna cosa). Se Speusippo ammette le Idee, noi comprendiamo perfettamente come il suo numero non ohe la diioensione da essa a na'altra Idea qualunque, cioè una definizione di quest'Idea, ottenuta col metodo di divisione prati- cato in tutto il suo rigore, richiede necessariamente che tutte le altre Idee siano conosciute. Se Speusippo avesse rigettato la defi- nizione, certamente egU non avrebbe fatta la collezione di quelle di Platone; e del resto essa è implicitamente ammessa neUa sua proposizione riferita da Simplicio a l ArLt. Categ.oA fol. 2 (v Mul- lach Fr. Speus. 207 e 208): si dicono omonime le cose di cui irnome è «omnne, ma la definizione ò diversa. sìa causa di niente (1), òondè, in generale, le sue entità matematiche non giovino in niente alle cose (2), e perchè queste esisterebbero, anche se esse non esistessero (3): è che ammesse le Idee, cioè le Idee degli esseri reali, questi si trovano completamente spiegati, e ogni altra entità è superflua (se i platonici ammettevano anche le entità matematiche, era perchè la coerenza del sistema delle Idee esigeva che tutti gli universali fossero sosta n- tificati). Ma se h^ sole entità ammesse da Speusippo sono le matematiche — sia che faccia loro rappresentare le sole determinazioni matematiche, sia che vi riconduca anche le altre determinazioni delle cose — che scopo e che motivo potrebbe avere per lui tale ipotesi, poiché essa non è fatta servire alla spiegazione del reale? Queste prove intrinseche sono fiancheggiate da altre prove estrinseche. Vi ha prima di tutto rinverosimiglianza che quello tra i discepoli di Platone, a cui doveva pre- mere più che ad ogni altro la gloria del maestro, desi- gnato senza dubbio dallo stesso Platone a succedergli neirinsegnaraento (4), ed egli stesso designante a suo successore un altro partigiano delle Idee (Xenocrate), abbia rigettato la dottrina fondamentale della filosofìa platonica, e che costituisce il carattere e il punto di connessione della scuola. Poi, la testimonianza di Dio- 0) Mei. l. XIV. U. 16. (2) Met. 1, XU. X. U e 1. XIV. IH. 8. (3) MeU 1. XIV. ni. 8. (4) Bitter. Storia della fllos, ant. t. 3. trad. frano, pag. : * Noi siamo ora in un tempo in cui la carica del professorato sembra essere stata trasmessa dai primi maestri ai seguenti (Diog. L. IV. 3); e la continuazione della scuola accademica tiene verisi- milmente alla poisessione del giardino dell' aeea lemia che aveva già posseduto Platone (Plat. De exiU 10) - :n grène Laerzio (1) e dì Cicerone (2), che affermano che Speusippo è rimasto fedele alle dottrine del maestro ; Tindicazione di Stobeo (3) ch'egli ha posto la natura dell'anima èv lòécf, xoO tcocvtt) Staoxaxou (potrebbe obbiettarsi che qui il termine lòéoL non va preso necessariamente nel senso tecnico della filosofia platonica; ma è questo il senso che esso ha nella definizione deiranima di Posi- donio (4), la quale, nella parte che c'interessa, è certa- niente imprestata a Speusippo); l'informazione di Ascle- pio ch'egli ha nmmesso una sostanza distinta per tutti i smiii (5) (ciò vuol dire che di tutto ciò che é uno nei molti ha fatti un'entità distinta); quella stessa inesatta d' al- cuni commentatori d'Aristotile (6) che gli attribuiscono come a Xenocrate la dottrina d'un solo numero, al tempo stesso ideale e matematico (essa si spiega per l'affinità di questa dottrina con quella reale di Speusippo, perchè, come diremo in seguito, i Numeri matemateci contene- vano le Idee delle cose, come i generi le specie). Ag- giungiamo infine che le affermazioni d'Aristotile si mo- strano incerte ei anche contraddittorie, poiché al tempo stesso che attribuisce a Speusippo di rigettare le Idee, gli attribuisce pure dì ammettere che le Idee non sono (1) IV, 2. (2) Aca^. 1. 9. (B) Kcl l. I. 0. 52. (é) V. Plut. Psicog. XXII. (5) *• Anche Speusippo disse esservi molte sostanze : altra disse essere delle grandezze, e altra dei numeri, e in tutti i st«n7t, e an- cora altra la sostanza della mente, e altra dell'anima, e altra del punto, e altra della linea, e altra deUa superficie „. Schol. Arist. pag. 740. a. ed. Brandis. (6) V. Siriano ad Met. 1. XUl. Vili. 8, Filopono allo stesso luogo, Scìiolia in Aristotelem pag. 820 A ed. Brandis (in Mullaoh Fragm^ phiì, graec. 111. pag. 113). nùmeri (l), proposizione che Implica evideatemente ch'egli ammettesse le Idee. Un error? d'Aristotile nell'iatepretaziooc di questo punto del sistema di Speusippo non sembrerà tanto strano, se si rifletce alla d fficoità che vi ha, tutte le volte in cui è quistione degli universali o altre astrazioni dei me- tafisici, a comprendere se un filosofo dà loro un'esistenza reale o semplicemente logica. È un fatto di cui lo stesso Aristotile può fornirci un esempio. Certamente, per lui, la forma e la materia non sono distinte che logicamente; eppure quant', senza contare gli oppositori del Rinasci- mento, che rendevano Aristotile responsabile degli orrori degli scolastici, noa l'hanno inteso come se egli ammet- tesse tra di esse una distinzione reale, e le riguardasse come vere s" stanze, nel senso che noi diamo a questo termine? (2). Viceversa alcuni fra i più francamente rea- listi degli scolastici sono stati compresi talvolta come se il loro realismo si riducesse, in sostanza^ a questa pro- posizione, a cui niun nominalista contradirebbe, che i generi e le specie non sono semplici concezioni del no- stro spirito, ma hanno un fondamento nella natura, eoe nelle affinità reali degli esseri (3). E passando ai filosofi (1) Met, 1. XUl. VI. 8: • Quelli che non fanno le Idee numeri, né esservi dicono le Idee „. Met. 1. XUl. Vili. 5: •* Quelli che non credono esservile Idee, né assolutamente né come essenti certi nu- meri,,. Met. 1. XIV. II. 16: •* Per quello che eosl non crede, perchè vede le difficoltà circa le Idee, sicché perciò non le fa numeri, ma fa il numero matematico „. (2) V. e. VU. pag. 46. (3) V. p. e. su Duns -Scoto Jourdain Filos. di S. Tomm. 1. II. e. 11. Dum. 111. (ofr., per il senso che quest'autore dà alla parola reaUsmo, principalmente l. 1. sez. 3. e. 111. in principio e num. 1, e 1. III. e. IV, num. l), e Conti Storia della fllos, voi. 2. pag. 127 (cfr. p, 50-53 e 90) —Alcuni anche (come il Weber, Stor» della filos» europ. — 261 - • moderni, uno dei hiìgliori storici della filosofia, il bit- ter (1), non dà espressamente Spinoza per un nominali- sta ? E quanti tra i lettori di Taine hanno compreso che questi è un filosofo realista (alla scolastica) ? Il malin- teso d'Aristotile si spiegherebbe, in ultima analisi, per le stesse ragioni che la sua preferenza per l'interpreta zione trascendentalista delle Idee di Platone. È impossi- bile, come abbiamo osservato, di formarsi una rappresen- tazione qualsiasi di entità sussistenti per sé stesse quali le Idee platoniche, altrimenti che come separate dagli oggetti reali. Per conseguenza, se noi ammettiamo che Speusippo, ammaestrato dairesperienza della falsa Inter- pretazione che si dava, da Aristotile e da altri, del si- stema del maestro, abbia energicamente insistito sull'im- manenza delle specie nelle cose; noi comprenderemo fa- cilmente come Aristotile, per la stessa ragione per cui, dalla evidente sussistenza per se stesse delle specie dì Platone, concludeva che esse erano trascendenti, abbia potuto concludere, dall'evidente immanenza delle specie di Speusippo, che esse non erano sussistenti per se stesse. Ciò che parrà più difficile a comprendere è l'interpreta- zione, malgrado ciò, degli oggetti matematici come en- tità reali (separate, naturalmente, dalle cose) : ma, per la novità della dottrina, Speusippo doveva insistere sul- Vanieriorità dì questi oggetti sulle cose reali, non meno che sull'Immanenza delle specie. Ora T anteriorità, nel senso platonico, importa evidentemente un'esistenza del- l' anteriore distìnta e indipendente da quella del poste- riore. 8. 40 e 41) danno Dans-Sooto per un oonoettaaliita o un semi-no- mmaiiita. (1) V. Stor. della fidos. mod. t. 1. trad. frano, pag. 2ff!. Vi ha un altro punto, nella filosofia di Speusippo, su cui l'impressione che risulta dall'esposizione d'Aristo- tile, ha bisogno di essere rettificata, o almeno comple- tata : è la relazione tra i numeri e lo cose. Noi abbiamo dimostrato, fondandoci su Aristotile, che i numeri di Speusippo non sono, come i numeri matematici di Pla- tone, che i concetti— i nostri concetti— dei numeri, rea- lizzati : ma ciò non toglie che la teoria dei numeri abbia in Speusippo, come negli altri platonici, un carattere pitagorico. In questi concetti realizzati, come in tutti gli altri della metafisica platonica e come nei semplici concetti di cui parlano i logici, bisogna distinguere la comprensione e V estensione : i numeri di Speusippo rap- presentano le semplici determinazioni aritmetiche delle co«e, consid' rati nella loro comprensione] ma considerati nella loro estensione, rappresentano le cose stesse, perchè sono gli Universali supremi, in cui queste sono conte- nute. Ciò risulta già dair anteriorità dei numeri sulle grandezze e le cose. In efletto V anteriorità e posteriorità, nel senso platonico, non importa solamente che il con- cetto deiranteriore è una parte di quello del posteriore, ma ancora che il po-^teriore è contenuto neir anteriore come in un genere. E che anche in Speusippo il rapporto di anteriorità e posteriorità debba essere inte^^o nello stesso senso, è confermato da un'obbiezione che Aristotile fa alla sua dottrina sulla materia delle grandezze, cioè che se vi ha una materia distinta per ciascuna classe di gran- dezze—linee, superficie e solidi— e questa materie si se- ffuono, vale a dire stanno fra di loro nel rapporto di an- teriorità e posteriorità, allora la superfìcie sarà una linea e il solido una superficie (1). Lo stesso risulta pure dalle 1 (1) Af«(. 1. xm. iz. s. — «62 - /Il'» indicazioni che attribuiscono ai iiùmerì Una causalità sulle cose. Aristotile (1) dice di Spensi ppo, come degli altri plato- nici, ch'egli fa dei numeri le carne prime degli esseri i2); e noi sappiamo da Jambli^jo (3) ch'egli ha chiamato la de-* cade il più efficaze e perfezionmte (cfootxwxotxiQv xal xeXe- oxixwxocTTjv) degli esseri, e una forma per se stessa autrice degli effetti del mx>ndo (xtov xoo[iot(5v à:ioxeX60|idxa)v xexvtxóv). La causalità dr'Ue entità platoniche sta nella derivazione dei particolari dal generale a cui sono subordinati : le Idee sono le cause delle cose, e le Idee generiche delle Idee specifiche; è uello stesso senso che i numeri possono essere cause. Infine, questa snperordinazione dei numeri alle cose come generi in cui queste sono contenute, è lina conseguenza della loro esemplarità. Secondo Jam- blieo (4), Speusippo ha anche chiamato la decade il pa- radigma più perfetto (x(p xou navxò^ tioit^x^ 9e(ji è evi- dentemente un'addizione di Jamblico); e secondo Aristo- tile (5), il punto, per lui, non è Y unità stessa, ma è quale Tunità, e la viateria delle grandezze (cioè lo spazio) non è la pluralità stessa (la materia dei numeri), ma è quale la pluralità. Ciò che nel platonismo è riguardato come paradigma, è il generale nel suo rapporto al par- ticolare : le Specie sono i paradigmi delle cose, e i Ge- (1) Met. 1. Xlll. VI. (2) Questo luogo sembra in contraddizione con gli altri già ci- tati, in cui si nega che i numeri di Speusippo siano cause degli altri esseri. Essi si conciliano, ammeltando, come abbiamo fatto, che quando nega ai numeri di Speusippo la causalità sulle altre cose, Aristotile vuol dire che nel suo sistema le altre cose non si deducono dai numeri, come avviene in quello di Piatone. Ctr. ciò che diremo sulla fine di questo numero. (3) V. TheoU arithm. pag. 61 ed. Ast. (4) Ibid. (5) Met. 1. XllL. IX. 6. neri delle Specie; cosi è in questo rapporto che i numeri di Speu«iippo devono essere con le gran lezzo e con le cose. Ma, i numeri essendo, per Speusippo, i generi delle cose, ne segue che anche per lui le cose sono, in un certo modo, dei numeri. Questa deduzione, infatti, è confermata da un luogo di Tcofrasto (1), in cui Speu- sippo è compreso tra i platonici che fanno risultare le cose dai numeri e dai loro elementi. E una conferma ancora più esplicita si trova in Jambitco (2). Questi c'in- forma che Speusippo assegnava alle cose particolari dei numeri distinti, come i Pitagorici e Platone: Tuno era il punto, il due la linea, il tre il triangolo e il numero della superfìcie, il quattro la piramide e il numero del solido. Evidentemente noi dobbiamo distinguere tra questi numeri - cose e i numeri matematici. I numeri matematici sono i numeri in se stessi, le cose sono nu- meri per la partecipazione dei numeri in se stessi, poi- ché, secondo i principi! della filosofìa platonica, le cose ricevono la loro essenza e la loro denominazione dalle Idee, cioè dalle entità universali, a cui partecipano. Questa distinzione tra i numeri matematici e i nu- meri - cose corrisponde in certo modo alla distinzione abituale tra i numeri astratti e i numeri concreti : n o potremmo per conseguenza servirci di questi stessi ter- mini per indicare le due sorta di numeri di Speusippo. I numeri astratti sono i numeri matematici; le cose sono questi numeri, concretizzati, h' essatesi sviluppa secondo Speusippo, noi lo sappiamo, procedendo dall'astratto al concreto : esso è prima numero, poi diviene graadezza. (1) Met. Fr, 12. (2) Theol. arithm., ibid. — 261 - infine cosa. Sicché gli esseri particolari possono consi- derarsi sotto tre aspetti, secondo il grado di determina- tezza dei loro concetti. Ciascun essere, a un primo grado del suo sviluppo logico, è un numero matematico, e per conseguenza, considerato a questo grado di determina- tezza del suo concetto, è un numero; al secondo grado del suo sviluppo logico é una grandezza geometrica, e per conseguenza, considerato al grado corrispondente di determinatezza del suo concetto, è una grandezza • al- Tultimo grado del suo sviluppo logico e considerato nel suo concetto completamente determinato,è,inene, una co«a. Le grandezze geometriche sono i numeri a un primo grado di concretizzazione^ cioè con nuove determinazioni che man- cano ai numeri astratti^ questi stessi numeri, a un grado ulteriore di concretizzazione^ cioè arricchiti ancora di altre determinazioni, sono le cose. Il rapporto tra i nu- meri—cose e i numeri astratti, cioè matematici, è dun- que identico, in sostanza, a quello tra i Generi e le Spe- cie, p. e. tra V Animale e V Uomo : le cose non sono i numeri in se stessi, come Tuomo non è l'animale in se stesso, r animale astratto ; ma esse sono numeri, come l'uomo è animale. Evidentem<»nte secondo Speusippo, come le cose, an- che le Idee delle cose devono essere numeri (Ij . In ef- fetto, assegnando le cose ai diversi numeri, egli deve prenderle per classi; vale a dire tutte le cose d'una stessa classe devono essere per lui rappresentate danno stesso numero (cosi l'uno non è solamente questo punto, ma il punto in generale; il due, solamente questa linea, ma la lioea in generale). Ora siccome le proposizioni che hanno per soggetto tutta una classe, secondo i principi! della filosofia platonica, si riferiscono propriamente all' Idea, ne segue che il numero assegnato ad una classe non è che il numero dell'Idea corrispondente a questa classe. Ne segue ancora che i numeri matematci devono essere anteriori, non solo alle cose stcss'^, ma anche alle Idee delle cose. Se infatti si d^ce d'una certa classe, p. e. l'uo- mo, l'animale, ecc., ch'essa è un certo numero, p e. il quattro, ciò vuol dire che il numero matematico corri- spondente è un elemento astratto comune a tutti gì' in- dividui della classe. Ma tutto ciò che è comune a tutti gl'individui della classe è compreso nell'Idea del'a classe (p. e. l'Uomo o l'Animale in sé comprende tutte le note comuni a tutti gli uomini o a tutti gli animali); per conseguenza questo numero matematico o deve essere la stessa cosa che quest'Idea— ciò che è impossibile, perché i numeri in sé di Speusippo difPeriscono da quelli di Pla- tone in quanto non s' identificano con le Idee — o deve essere un che di più astratto che quest'Idea e contenuto in e^sa, cioè nella sua comprensione. Quest'anteriorità dei numeri matematici sulle Idee, o meglio sulle Idee delle co^e— poiché i Numeri e le Grandezze in sé sono anch'^ essi in sostanzi delle Idee— è del resto compresa impli- citamente nelle proposizioni di Speusippo che i numeri sono i primi di tutti gli esseri (1), ch'essi sono le cause prime degli esseri (2), e che il primo numero è il mate- (1) N^lla proposizione, venente probabilmente dallo ttesgo gpeu- lippo, ohe le Idee non sono numeri (in Arigt. Met, 1. XIU. Vi. 8 1. Xlll. Vili. 5, 1. XIV. 11. 16, l. e), per numeri deve intenderai i numeri in se stessi, oioè i matematici. 0) Arist. M9t, l. XUl. VI. C, 1. Xlll. Vili. 6, l. XIV. V. 3. (2) Met, 1. Xlll. VI. 1. — 264 — matico (1). Inoltre essa può desumersi dairanalogia del rapporto tra i numeri matematici e le grandezze in se stesse, cioè le Idee delle grandezze; essendo evidente, quando Ari totile parla deiranteriorità dei numeri sulle grandezze, che per queste grandezze intende, non le particolari, i fenomeni, ma le generali, le entità. li sistema di Speusippo consiste essenzialmente in una nuova relazione stabìlita*fra i numeri ideali — cioè con cui le Idee e le cose s'identificano— e i numeri ma- tematici. Per distinguere i numeri-cose dai numeri del- l'aritmetica Platone aveva ricorso al concetto arbitrario che il numero in se stesso differisce dal numero di cui parlano i matematici, e a quello non meno arbitrario che le entità matematiche sono intermediarie fra le Ideo e i sensibili. Xenocrate, per evitare questi due inconve- nienti, abolisce la distinzione tra i due numeri, lasciando cosi intatto il paradosso pitagorico che identificava i concetti del'e cose coi concetti stessi dei numeri, quelli di cui è quistione neiraritmetica. Speusippo di^tingup, come Platone, i numeri cose, i numeri ideali, da quelli deir aritmetica ; ma facendo il contrario di quello che aveva fatto Platone, dichiara anteriore il numero mate- matico, e r ideale posteriore. La dottrina di Speusippo ha due vantaggi su quella di Platone : il primo di rico- noscere che il numero in se stesso, cioè n^l suo concetto, non può essere che quello dei matematici ; e l'altro di dare l'anteriorità tra i due numeri a quello che è real- mente più astratto, essendo dell'ultima evidenza che gli attributi aritmetici delle cose sono meno comprensivi, (1) Met. 1. Xli. X. 14 —Il namero matemntioo è chiamato il pri- mo numero, in rapporto ai numeri o«n cui s' identifloano le Idee e le cose, ai numeri contriti. J hanno meno determinazioni, che le loro essenze stesse, cioè le totalità dei loro attributi. Del resto, per ^questa modificazione apportata al pitagorismo platonico, Speu- sippo trovava un addentellato nella dottrina stessa del suo maestro. Come infatti, nel sistema di Platone, uno stesso numero poteva essere al tempo stesso più entità distinte? (inconveniente che Aristotile rimprovera pure alla dottrina dei pitagorici). Se il numero era comune a tutte, non doveva essere, per conseguenza, separabile da loro e loro anteriore? Ben più, Speusippo non faceva altro che spingersi più avanti nella stessa via per cui si era messo Platone. Questi si era allontanato dalla pura dottrina pitagorica, vedendo nei numeri, non le cose slesse, ma le sole forme delle cose; Speusippo, non le forme, ma alcun che di più astratto ancora, di meno comprensivo. Vediamo ora le altre modificazioni che Speusippo ap- portava al pitagorismo platonico, in conseguenza della nuova relazione, da lui stabilita, dei numeri con le Idee e le cose. Cominciamo dai caratteri dei numeri in sé. Primo, i numeri in sé di Speusippo sono combinabili (1), perchè questo è il carattere dei numeri matematici. Se- condo, Speusippo abbandona la generazione progressiva dei numeri gli uni dagli altri (2j, perchè questa rappre- (t> V. Arist. MeL l. Xlll. Vili. 6-7. (2) V. VI Met, ì, XIV. 111. 8, in cui Aristotile rimprovera a quelli ohe ammettono le sole entità matematiche, che per loro, non solo fra le diverse classi di esseri da loro ammessi, ma anche fra gli stessi numeri matematici (ixepi zoi) àpi^\iO\) Tiavxóg), l' anteriore non giova per niente al posteriore (contrariamente a queUo ohe av- veniva nel sistema di Platone). Qui le parole a*iteriore e poste- riore hanno al tempo stesso un doppio significato come nel- VEth, End. l. l. Vm. 9-10, seooado ohe si applicano a Sptusippo o — 365 - sentava il movimento dialettico delle Idee, la derivazione delle p^ù particolari dalle più generali, e i numeri in t^è per Speusippo non s'identificano più coi Generi e le Spe- cie delle cose. Terzo infine, nei numeri matematici di Speusippo nou ve ne hanno molti della stessa specie, come in quelli di Platone (1), perchè qupsta particolarità della dottrina platonica era legata al posto, assegnato alle entità matematiche, d'intermediarie tra lo Sp^ce e le cose. I due elementi di Speusippo sono l'Unità e la Plura- lità (2). Egli non riduce più i'demento contrario all'Uno alla Dualità indefinita, perchè lo scopo di questa dottrina di Platone era sovratutto di eftet»uare la generazione a Platone (alla cai dottrina sui numeri viene implicitamente op- posta «juella di Speusippo). Applicate a Platone, hanno il signifi- cato tecnico che loro si dà nella dialettica platonica; applicale a Speusippo, non possono significare che l'ordine dei termini di una serie progressiva qualunque, qual è quella dei numeri matematici. (1) Arist. (Met. 1. Xlll. Vili. 5-7) rimprovera a Speusippo di non distinguere, come Platone, una prima diade, una prima triade, eoe danna parte, e dall'altra molte diadi, molte triadi, ecc. Dunque Speusippo o ha ammesso solamente una diade unica, una triade unica, ecc., o solamente molte diadi, molte triadi, ecc. (senza su- bordmarle a un'altra diade, a un'altra triade, ecc. antoriori) Or* la seconda ipotesi è inammissibile, perchè, secondo i principii di tutta la scuola platonica, ogni nioltiplicità suppone un' unità su- periore, a cui deve essere ricondotta (2) V. Afelaf. 1. XIV. IV, in cui non si fa il no ne di Speusippo, ma SI parla di quei fil isofi che non identificano l'uno col bene e fanno questo posteriore a quello, opinione che, come sappiamo dal 1. Xll. VII. 9, è quella di Speusippo (e ohe del resto, nello stesso 1. XIV. IV- V. paragr. 5- è legata all'altra, certamente pure di Speusippo, che le prime sostanze sono i numeri matematici). V. an- che per la dottrina che stabilisce come elementi l'Unità e la Plu- ralità Met. l. Xll. X. 2s}, 7, 1. Xlll. Vi. 5, y, l. XIU. IX. 7-10,1. XIV. 1. 1-ti, 1. XIV. IV. 2-6, 1. XIV. V. 3-5, ecc. f -• > progressiva dei numeri (1) che Speusippo ha abbando- nata. L'Unità naturalmente è l'essenza (Oi^sia la forma), la Pluralità la materia (2). Speusippo identifica s**nza dubbio, ad imitazione di Platone, la prima ai limite o limitato e la seconda aWiltimiiato. Aristotile riguarda l'Unità e la Pluralità ora con e principii dei soli numeri matematici (3), ora come principii di tutti gli esseri (4). Di queste due versioni noi dobbiamo amm»^ttere la se- conda, tanto perchè la dottrina dei due elementi, nella scuola platonica, ha per iscopo di fondere il sistema dello Idee con le dottrime pitagoriche, e i due elementi dei pi- tagorici erano gii elementi di luite le cose; quanto per- chè l'unità di sistema, che è una delle condizioni delle dottrine metafisiche fondate sulla realizzazione dei con- cetti e sulla dialettica (cioè sulla deduzione progressiva di questi concetti realizzati gli uni dagli tìtn), esigeva che Speusippo deducesse tutte le sue entità da un prin- cipio unico come etdog comune di tutte (il principio con- tn»rio essendo conside-rato come la materia). Le propo- sizioni d'Aristotile che si trovano in contraddizione con la versione che noi accettiamo — tra cui la principale è quella che Speusippo stabiliva dei principii distinti per cia- scuna delle diverse clast^i di sostanze da lui ammesse (5) — non sono difficili a spiegarsi. Evidentemente 1' Unità e la Pluralità, quantunque loro venga data la funzione di elementi comuni di tutti gli esseri, sono particolar- (1) V. questo Supplem. carta 167. (2) V. Met, 1. Xll. X. 3, 1. Xlll. VI. 5, 1. XIV. 1. 3. (3) V. Mei. 1. VII. 11. 4, 1. XU. X. 14, l. XIU. VUl. 5, l. Xlll. IX. 6-12, eco. (4) V. Met, l. Xll. X. 2-3, 7, 1. XU. VU. 9, l. Xlll. VI. 5, 9, l. XIV. V. 1, evo. {b) V. 3/«f. 1. VU. U. 4, e 1. Xll. X. 14, l. e. a carta 265. 1 \ 1 '^ * • mente adattate a quella di elementi dei numeri; e in ef- fetto, gli elementi di tutti gli esseri essendo delle entità d* una universalità assoluta, e i numeri matematici es- sendo, tra gli esseri, i più astratti e che abbracciano tutti gli altri nella loro estensione, ne seguiva che questi ele- menti non potevano essere altra cosa che gli Universali supremi dei numeri matematici. Ma Aristotile considera i numeri matematici di Speusippo come trascendenti, cioè come separati (1); per conseguenza la parusia del- rUnità e della Pluralità in questi numeri non importa, per Ini, come por Speusippo, la loro parusia in tutti gli altri esseri. Cohi egli non può riconoscere la loro fun- zione di elementi costitutivi, cioè d'ingredienti, degli es- seri, che nella sfera dei numeri matematici. Da un altro canto egli non tiene alcun conto della loro causalità su- gli altri esseri, perchè questa, che non è altra cosa che il legame dialettico tra il principio e le cose dedotte dal principio, è una sorta di causalità che non può ricon- dursi ad alcuna delle quattro specie di cause riconosciute da Aristotile. Cosi egli non può vedere neir Unità e la Pluralità, rispetto agli altri esseri oltre i numeri mate- matici, il carattere di principii, in nessuno dei sensi di questo termine. Potrebbe credersi che per ragioni ana- loghe Aristotile dovrebbe vedere nell' Uno e la Dualità indefinita di Platone i principii dei soli numeri ideali e non degli altri esseri. Ma vi ha fra i primi numeri di Platone e quelli di Speusippo una differenza importante. I primi numeri di Platone sono identici alle Idee, e la dottrina che le Idee sono le cause di tutti gli esseri tiene troppo posto nella filosofia platonica . perchè Ari- stotile potesse Don tenerne conto, non considerando i principii di queste cause come principii ancora dei loro effetti. Al contrario i numeri di Speusippo appariscono cosi poco le cause delle entità posteriori, che queste, co- me dice Aristotile (1), esisterebbero, anche se quelli non esistessero (proposizione che esprime esattamente la dot- trina di Speusippo, come vedremo sulla fine di questo numero). Un'altra differenza che, quantunque abbia in se stessa poca importanza, ne acquista molta agli occhi d'Aristotile, è il modo in cui nel sistema platonico le grandezze vengono dedotte, facendole risultare dai nu- meri e dalla materia. Aristotile (2) mette in antitesi que- sta dottrina con quella di Speusippo, che fa la natura sconnessa come una cattiva tragedia (perchè, come ha detto nel numero precedente, le cose esisterebbero non esistendo le entità matematiche, e non esistendo i nu- meri esiterebbero le grandezze). La derivazione logica del realismo dialettico non ha per Aristotile alcun va- lore come derivazione reale : egli dà quindi più impor- tanza al suo simbolo materiale, che la esprime come la produzione di un tutto per i suoi elementi, e vi vede il nesso ontologico fra le diverse classi di entità, che non trova nel sistema di Speusippo. Non vi ha dubbio d' altronde che, quando Aristotile parla di principii distinti per le diverse classi di sostanze ammesse da Speusippo, questa parolaprmctpu non abbia un significato differente da quello tecnico che essa e il suo sinonimo elementi hanno nella filosofia platonica, vale a dire di concetti (realizzati) della generalità più elevata, da cui tutti ^\\ altri, più particolari e compresi flotto di essi, sono dedotti. Cosi per i principii delle gran- (2) V. Met. 1. Xm. vi. 6 9 1. XIV. 111. 3-5. (1) L. XIV. ni. 8. (2) Met. 1. XlV. Ul. 9. — 267 - r-M dezze Aristotile intende certamente il punto e lo spazio— con cui, coroe vedremo in seguito, Speusippo ' costruiva la grandezza estesa—: è ciò che risulta dalla Metafisica 1, XIII. IX. 6-12, dove il moflo in cui le grandezze ven- gono dal punto e dallo spazio è assimilato a quello in cui i numeri vengono dall'unità e dalia pluralità. Ora evidentemente il punto non può essere considerato come r elSog generale delle grandezze- Aristotile ne riguarda lo spazio come la materia—. In quanto poi al princìpio distinto deiranima, di cui si parla nel 1. VII. il. 4, per esso non può intendersi che il sustrato iperfisico dei fe- nomeni psichici ammrsso da tutti i filosofi animisti, la parola anima designando il complesso di questi fenomeni — secondo il senso, affatto naturalista, che questa parola ha nella filosofia dello stesso Ar stotile— e non la sostanza anima. Sarebbe infatti incomprensibile che Speusippo avess'^. separato Tanima dal sistema aniversale degli es- seri, rinunziando, per un'inconcepibile eccezione, a coor- dinarne ridea con quelle delle altre cose sotto un' Idea più generale : è ciò intanto che significherebbero le pa- role : nu principio distinto dell'anima, se il termine jorm- cipio dovesse prendersi nel senso tecnico della filosofia platonica che sopra abbiamo spiegato. Del resto, si vede chiaramf^nte dalle allusioni di Aristotile, che fra tutti i principii in generale, attribuiti a Speusippo (nel senso vago in erti il termine è impiegato dallo stesso Aristotile), il carattere di elementi (nel significato platonico) nen ap- partiene che all'Unità e alla Pluralità (1). Potrà sembrare strano che Platone chiami i due Uni- versali supremi elementi, e 1' uno Vessenza o la forma, l'altro la materia, delle Idee e delle cose. Questi nomi (1) V. 3/eM. Xlll. VII. 9, X. 2^,1. XIV. 1. 1-6. IV. 2-6, V. 1, V.3-6 u T--7- iìnplìcherebbero che queste due astrAzìoni, le più povere di contenuto di tutte le astrazioni realizzate della meta- fìsica platonica, esauriscano, nella sua totalità, la Fostanza di tutte le cose, che basti il loro concorso a costituire, integralmente, gli esseri, e che i concetti delle cose non con<*tino che dei loro concetti. Ma noi comprendiamo quest'apparente paradosso, mettendoci al punto di vista della dialettica platonica : siccome tutte le Idee si de- ducono dalle due Idee più generali— o meglio, dall'Idea più generale, perchè l'elemento materiale non è, nella dialettica platonica, che un vero principio, pep dir cosi, inerte come la nostra materia, e il principio attivo, ve- ramente produttore, non è che V slòoc, — ; cosi tutto è implicitamente contenuto in queste due Idee, e l'univer- salità d'agli esseri, con tutti gli attributi che li costitui- scono, risulta realmente*, in un certo modo, dalla loro unione. Naturalmente quest'osservazione deve applicarsi anche alla dottrina di Speusippo : quando Speusippo chiama l'Unità e la Pluralità gU elementi (l), eia prima Vessenza, l'altra la materia (2), degli esseri, ciò suppone che l'Unità e la Pluralità costituiscono, per lui, la so- stanza desili esperi, che questi sono implicitamente con- tenuti in quelle, e, per con«»eofiiPnza, che tutte le Idee de;»li es<?eri (Numeri, Grandezze e Idee delle cose) si deducono dall'Unità e la Pluralità— o piuttosto dalla sola Unità, perchè la Pluralità è la materia, e il vero prin- cipio dialettico, come abbiamo osservato, non è che l'sl- òo(; — . Lo stesso risulta dalTappellativo di principii. Ari- ci) V. per il nome di elementi dato all'Unità o alla Pluralità, i 1. indicati nella nota 2 a carta 265 pag. 2. (meno quello del l. Xll. X, in cui questo nome non è impiegato). (2) Per que:4ti nomi v. i l. indie, nella nota 2 a carta 266 p. 1. - 268 - stotile, è vero, osa questo tertnine in un senso vago, ma che, trattandosi di entità platonich'*, non potrebbe uscire, in sostaozH, da questi due significati, cioè, l'uno, di ele- menti costitutivi, d'ingredienti, per dir cosi, delle cose, e Tallro (che è proprianiente quello della dialettica pla- tonica) di cause prime, di esseri primitivi, da cui gli altri procedono. Tuttavia non vi ha dubbio che in alcuni ca*ii egli non chiami gli elementi di Speusippo />rmct/>u in questo secondo senso : è cosi che fa quando attribui- sce ad essi al tempo stesso la doppia qualità di elementi e di principii (p. e. nel 1. Xlll. VI. 5: «quelli che di- cono l'uno principio, essenza cu elemento di tutte le cose:>; e sulla tìne dello stesso capitolo: «tutti quelli che dicono 1' uno f^lemento e principio degli esseri»), e più chiaramente ancora, quando allude alla dottrina di Speusippo che il bene e 1' essere non sono identici al principio, ma gli sono posteriori (1), tanto più che egli oppone questa dottrina alla sua propria e a quelle dei teologri e di altri filnsofi che fanno della divinità o di un esHfr^ analooo U causa prima delle cc.se (nel senso dialettico, 1' appellativo di principio non conviene pro- priamente choi all'Uno; e infatti è a quest^elemento che lo dà a preferenza Aristotile, nei luoghi indicati e al- trove-) Dallaa Priorità dei numeri matematici sugli altri es- seri, e dall i loro non identità con le Idee e le cose, ne segu'^ che i due elementi -i quali, come abbiamo notato, non possono essere che gli attributi universali della classe più astratti di esseri, per conseguenza dei numeri ma- teraaviei — non hanno in Speusippo che un significato (1) Met. 1. Xll. VII. 9, 1. XIV. IV, 2^, V. 1. matematico. Cosi l'Uno non è il bene (1) né Tessere (2) —probabilmente il bene e il male (3) e Tessere e il non essere facevano parte delle due auoxotx^at di contrari, di cui stiamo per parlare, e che Speusippo non identi- ficava, come Plalone, ai due elementi, ma loro subordi- nava—né può identificarsi con alcun altro dei principii che esso rappresentava nella dottrina di Platone (cioè lo stato, l'eguale, lo stesso, ecc, tranne, naturalmente, il «èpa;). Il simile potremmo dire della Pluralità. Noi sappiamo da un luogo delTJ^^A. Nic, (I. I. VI. 7) che Speusippo ammetteva, come i Pitagorici (e come Platone), la dottrina delle due auoxoixtat di contrari]; ma questo luogo non ci apprende niente sul carattere della dottrina propria di Speusippo, tranne che chiamava (1) Met, 1. XUl. VII. 9 e l. XIV. IV. (2) L. XIV. V. 1. <3) In effetto, quantunque Speusippo facesse scendere l'Idea del bene dal grado di primo principio, e mettesse al suo posto, al ver- tice della piramide ideale, l'Unità matematica, egli non poteva ri- nunziare però interamente al concetto platonico della supremazia del bene nella natura, cioè, in sostanza, al concetto teleologico. Che egli non 1' abbia fatto noi possiamo desumerlo infat ti dagli stessi luoghi indicati d'Aristotile sulla non identità del bene col primo principio (Met, 1. Xll. VII. 9 e 1. XIV. IV. 3), Siccome le due ouaxoixfat erano formate di concetti della generalità più ele- vata, aggregandovi il bene, egli avrebbe conservato almeno all'an- tico principio platonico, per quanto era possibile nella sua propria dialettica, una specie d' universalità. — Che il bene non abbia più nella dialettica di Speusippo la funzione di principio, nemmeno delle sole Idee delle cose, si desume anche da uno dei m<>tivi, attri- buitogli da Aristotile {Met. l. XIV. IV. 5-6), per allontanarsi dalla dottrina di Platone : è che se il bene fosse identico all' uno, le specie essendo numeri, tutte le specie, tutti gli animali e le piante, sarebbero del beni. Inconveniente che resterebbe anche se le spe- cie non fossero numeri e il bene, senza identificarsi con l'uno, fosse tuttavia il principio delle specie (delle Idee delle cose). k~ 1^ runa deile due serie, pure come i Pitagorici, la serie dei beni, e vi ^comprendeva l'Unità (e, per conseguenza, nell'altra la Pluralità). Evidentemente, dalla funzione deirUnità e la Pluralità di principi di tutti gli esseri, ne seguiva che tutte le altre opposizioni delle dueouoxot- X^at dovessero ricondursi a quest' opposizione primitiva, subordinando, in ciascuna, V uno dei termini all' unità, identica al limitato, e l'altro alla pluralità, identica al- Tillimitato. Questa riduzione delle altre coppie di oppo- sti alla primitiva era in Platone, come sappiamo, una vera identificazione; ma in Speusippo non poteva essere che una semplice subordinazione identica, al fondo, a quella delle specie al genere. Queste coppie, in effetto, che dovevano rappresentare le opposizioni fondamentali del reale, cioè le più universali e a cui tutte le altre o la più parte possono subordinarsi, non avrebbero potuto, evidentemente, ridursi ai due semplici concetti dell'unità e della pluralità, nel significato puramente matematico. Verisimilmente Speusippo imprestava le opposizioni delle sue auaxotx^ai una parte da Platone, e il resto dai Pi- tagorici : è almeno ciò che potrebbe inferirsi da un luogo della Met (l. XIV. VI. 7) in cui si attribuisce ad alcuni filosofi che vedono nei numeri e, in generale, nelle en- tità matematiche, le cause della natura, di contare nella ouoTotxCa dei beni l' impari, il retto, V eguale, il qua- drato (1). Questa indicazione sembra doversi riferire a (1) " Ciò solo mettono in chiaro, ohe il bene esiste, e ohe della ooaxoixia del bello sono V impari, il retto, l' eguale, le potenze (àt òuvoc^isig, cioè i quadrati) di certi numeri „, Se, come conget- turiamo da questo luogo, Speusippo comprendeva in una delle due ouaTOtX^at il quadrato (naturalmente in quella del limitato), esso e il suo opposto l'oblungo (éTspó|iy)X£g) dovrebbero evidentemente Speusippo, perchè nò i Pitagorici, né Platone, né, per quanto pappiamo, altri platonici, tranne Speusippo, ri- guard^ivano come cause delle cose le entità matematiche in generale, cioè, non solamente i numeri, ma anche le grandezze geometriche (\), Alla dottrina che gli rlementi sono TUnità e la Plu- ralità (e non la Dualità indefinita) è legala, in Aristo- tile (2), quella che le grandezze vengono dal punto e dallo spaz'O, la quale, per conseguenza, noi dobbiamo attribuire anch'essa a Speusippo. Non si tratta, eviden- temente, che di una leggiera variante delia costruzione platonica della grandezza estesa : i solidi risultano dallo spazio racchiuso e dalle superficie che lo racchiudono; le superficie dallo spazio e dalle linee che lo circoscri- vono ; le linee dallo spazio, cioè dall'intervallo, e dai punti da cui sono limitate. Solamente, mentre Platone non aveva applicata questa costruzione che alle gran- prendersi, in questa sua dottrina, non nel significato puramente geometrico, ma in uno più largo, in cui quest'opposizione potesse applicarsi anche ai numeri (forse della stessa maniera che nel Tee- teto 147 e- 148 a). (1) Bel resto io credo che tutta la prima parte del cap. VI. del 1. XIV, della Met,^ sino al parag. 8, alluda alle dottrine di Speusippo Vi si parla infatti d'una teoria dei numeri, alla pitagorica, e non potrebbe essere quistione degli stessi pitagorici, perchè, in questa teoria, il rapporto tra i numeri e le cose è la partecipazione (xoi- VCDvCa — V. parag. 3), e la conclusione di tutto il capitolo è che gì oggetti matematici non sono i principii e non sono X^P^^'^^ <iai sensibili. Di più, la dottrina di cui si parla dal paragrafo 1 all'S viene distinta da quella dei numeri ideali (v. paragr. 9): non po- trebbe dunque essere che la dottrina dei numeri matematici, come cause delle cose, !a quale non avremmo alcun motivo di attribuire ad altra scuola platonica che a quella di Speusippo. (2) Met. 1. Xlll. IX. 6-12. — 270 — dezzé Cullerete e particolari, cioè ai corpi, Speusippo invece Tapplica immediatamente alle grandezze astratte e generali, cioè alle geometriche (i) Vi ha però tra la dottrina di Platone e quella di Speusippo una differenza, dipendente dalla modificazione che queliti apportava alla teoria dei numeri. Platone non faceva risultare propria- mente le linee dallo spazio e dai punti— poiché egli non ammetteva il punto come entità reale (2)— ma dallo spazio e dalle monadi, benché in questa costruzione le monadi fungessero in sostanza da veri punti ; Speusippo invece non poteva identificare più il punto con V unità, perchè gli esseri, p r lui, non erano più identici ai numeri in se stessi. Ma questa differenza era ben sottile, le unità di Platone, danna parte, in quanto servivano alla formazione delle grandezze estese, non potendo riguardarsi come vere unità (oè ideali né matematiche), e dall 'altra parte, il punto di Speusippo, come abbiamo visto, venendo dal- rUnità, ed essendo, per consegu<»nza, non in verità una unità asfraffa, ma una unità concreta. Quanto Aristotile (1) Per conseguenza la parola spazio, trattandosi della dottrina di Speusippo, deve prendersi in un senso un po' differente da quello ch'esso ha nella dottrina di Platone. Lo spazio del Timeo, dovendo servire alla produzione di oggetti individuali, è anch' esso un og- getto individuale, cioè il tutto di cui gli spazi particolari, finiti, sono delle parti. Lo spazio di Speusippo invece, in quanto almeno serve alla produzione di entità generali, deve essere un'entità ge- nerale anch'esso, quella di cui tutto ciò a cui diamo il nome di spazio, sia Io spazio totale, infinito, sia uno spazio finito, è una partioolariazazione (nel senso in cui le cose lo sono delle Idee). Quale materia dell'esteso, lo spazio non è chiamato da Speusippo xónog, come da Platone, ma StdaTTìjJia (v. >/«M, Xlll. 1X:.J11-12 ccfr.l. XIV. V. 2), forse perchè esso non è lo spazio esteso in tutte e tre le di- tensioni che in una sola delle tne classi di entità — linee, superfi- cie e solidi— che egli costruisce. 0) V. Arist. Met. I. I. IX. 20. -. . y. parla della dottrina che la superfìcie, la linea, il punto e r unità, o semplicemente la superficie, la linea e il punto, sono sostanze e più sostanze del corpo stesso (1); certao^ente egli non allude alla sola costruzione dell'e- steso che noi attribuiamo a Speusippo, ma a quella, in generale, della scnrla platonica. Tuttavia, se l'entità, da cui (e dallo spazio) procedevano le linee, è da lui chia- mata un punto, ciò sembra supporre che alcuno dei fi- losofi che ammettevano questa costruzione avesse già dato questa entità esplicitamente come punto — Senza dubbio Speusippo vedeva anche in questa costruzione dell'esteso, come aveva dovuto fare pure Platone — il punto essendo ricondotto all'unità o limite, e lo spazio alla pluralità o tVZimiYa^o— un'applicazicne del principio pitagorico che le cose constano del limite e àeW illimitato. Non ci resta, infine, che ad esaminare quali modifica- zioni ha potuto apportare nella dialettica platonica la nuova relazione che Speusippo stabiliva tra i numeri, da una parte, e le Idee e le cose, dall'altra (oltre alla detronizzazione dell'Idea del bene, di cui abbiamo già parlato). Dalla dottrina che V Uno e la Pluralità sono gli elementi di tutti gli esseri, non che dal bisogno del- l'unità sistematica, necessaria al tipo di metafisica a cui appartiene il sistema di Speusippo, segue che, come ab- biamo detto, tutt(5 le entità di questo filosofo devono secondo lui, dedursi dall'Uno e la Pluralità, o, più propria- mente, dall' Uno, perchè nella dialettica platonica (mo- dificata per la fusione del sistema delle Idee coi con- cetti pitagoricij il vero principio, in sostanza, è quello dei due elementi che funge da slSog. In altri termini, tutte le Idee, secondo Speusippo, quelle dei numeri. •'4 (1) Cfr. questo Supplem. carta quelle delle grandezze geometriche e quelle delle coso, devono nascere dalla dieresi progres^^iva deir Uno. A quest'oggetto, Speusippo non avrebbe potuto servirsi che deir uno o dell' altro di questi due processi. Cioè o di dedurre— s'intendr>, col metodo di divisione - prima dal- l'Uno i Numeri, e poi da ciascun Numero le Grandezze e le Idee deMe cose ad esso subordinate. Ovvero -siccome tutto ciò che esiste è al tempo stesso un numero, una grandezza e una cosa- di dividere gli esseri, nella loro universalità, tre volte, ciascuna ad uno di questi tre di- versi punti di vihta, cioè come numeri, come grandezze e come cose, partendo in ciascuna di queste tre divisio- dairUno come sIòoq generale di tutti gli esseri, sia ri- guardati quali numeri, sia quali grandezze, sia quali cose. A questo modo si avrebbero tre scale dialeit'che distinte, ma convergenti alla loro «emmHà nell' Udo, rappresentanti ciascuna la totalità degli esseri : quelU delle Idee dei numeri, quella delle Idee delle grandezze e quella delle Idee delle cose. Di questi due processi Speusippo non ha potu'o s-guire il primo, perchè, se nel suo sistema le grandezze si deducessero dai numeri e le cose dai numeri e dalle gran-i» zze, Aristotile non potrebbe dire che le cose esisterebbero anche non esi- stendo le entità matematiche, e le grandezze anche non esistendo i jnumeri. D' altvon'^e è solo il secondo di questi due processi che perii»ettcva di nou violebtare troppo apertamente le affinità reali delle cose. Noi dob- biamo dunque ammettere che secondo Speusippo le Idee di cose — cioè delie cose concrete, dei numeri all'ultimo gradì di concntlz '.azione — s' deducevano progressivamente, alla maniera di Platone, dalle Idee di cose più generali, a partire dall'Uno, da cui cohi queste Idee provenivano direttamente, e non a traverso quelle dei numeri e delle grandezze. Così Aristotile ha ragione di dire che ciascuna delle tre classi di entità esistereb- be anche se le altre non esistessero* Tuttavia, se le tre classi di entità non si deducevano l'una dall'altra, ciò non impediva che vi fosse tra di loro quella derivazione logica e, per conseguenza, anche ontologica, necessaria per chiamarle anteriori e posteriori. Questa derivazione, nel sistema di Speusippo, era un risultato non cercato del principio platonico che tutto ciò che esiste è logica- mente impossibile che non esista, e tutto ciò che non esiste logicamente impossibile che esista. I numeri sono, come abbiamo detto, una i|orta di generi relativamente alle cose e alle grandezze, che ne sarebbero come delle specie. Ora, in conseguenza di questo principio, ciascuno di questi generi si concretizza necessariamente nelle sue specie esistenti e in queste sole specie. E questo carat- tere che, unito all'esistenza pure necessaria del genere- che, in virtù dello stesso principio, compete anche ai numeri di Speusippo— e all' essere questa data anterior- mente a qu«»lla delle specie, fa della dieresi platonica una derivazione logica e, mediante la realizzazione dei concetti, anche ontologica. Speusippo può dunque, per le stesse ragioni, considerare come una derivazione lo- gica ed ontologica — benché in questo caso non si ap- plichi il metodo di divisione — anche il passaggio dai nu- meri alle grandezze e alle cose. Per le grandezze rela- tivamente alle cose vale lo stesso che abbiamo detto per i numeri relativamente alle grandezze e alle cose. E cosi che Speusippo può stabilire, tra le sue tre classi di so- stanze, un'anteriorità e posteriorità conforme al signifi- cato che questi termini hanno nella filosofia platonica. Quest'anteriorità e posteriorità, esistente tra le tre sfere in cui egli divide il reale, esiste, a più forte ragione nell^interno di ciascuna sfera; e ciò che riassume il si- stema di Speusippo, come del resto anche quello di Pla- tone, è Tidea di uno sviluppo estratemporale, ohe va sempre da uno stato più indeterminato a uno stato più determinato, e di cui egli vede Timmagine nello sviluppo delle piante e degl’animali.DOTTRINE DI PLATONE SULL'ANIMA E LA DI- VINITÀ' NEL LORO RAPPORTO COL SISTEMA DELLE IDEE I L'auiina e suo rapporto con le Idee e coi fenomeni (1) V. Arist. Met. 1. XIV. V. 1, I. o. Quantunque nel corso dì questo scritto abbiamo toccato parecchi punti delle dottrine di Platone sulT anima, gio- verà forse di presentare queste dottrine nel loro insieme, malgrado che ciò debba colarci delle ripetizioni inevi- tabili. Il nostro scr^po na turai ment'*. non sarà di fare un'e- sposizione di questa parte della filosofia di Platone: ci basterà d' indicare i puati più rilevanti p3r mettere in luce il significato reale delle dottrine platoniche, contro le interpretazioni erronee, e più o meno arbitrarie, che se ne sono date. Il sistema di Platone suM'anima è Tanimismo antico, sviluppato con più conseguenza che in alcun altro filo- sofo, e trasportato cosi, dalPuomo e gli altri esseri ani- mati dell'esperienza, all'universo, considerato anch'esso come un essere animato. Il carattere dell' animismo an- tico è che l'anima è riguardata, non solo come una so- stanza, ma come una sostanza analoga a quelle dell'os- servazione, cioè materiale o semi-materiale. Questo con- j 4 — 273 — H i _ f\ cetto dell' anima si trova, quasi senza eccezione, in tutti i filosofi greci prima d'Aristotile. Quelli fra di essi che noi pos3Ìamo considerare come i rappresentanti dello spiritua- lismo antico, come^ oltre a Platone, Anassagora, non sono spiritualisti nel nostro senso, perchè non hanno idea d'una sostanza assolutamente immateriale, cioè che non occupa uno spazio. Da un'altra parte i rappresentanti più genuini del materialismo, come Democrito, non sono ma- terialisti nel senso moderno, perchè anch' essi riguardano l'anima come una sostanza distinta dal corpo, benché ma- teriale come questo. Un materialismo rigoroso, cioè che non ammette il dualismo d'anima e di corpo, non si trova, prima d'Aristotile, che in alcuni pensatori isolati e d'una importanza secondaria : Ippone (secondo cui l'anima era acqua e il seme era la prima anima) (1), Crizia (che identificava l'anima col sangue) (2), e gli autori scono- sciuti della dottrina che l'anima è l'armonia del corpo (3), sono forse i soli, tra i filosofi ricordati da Aristotile, che noi possiamo riguardare come materialisti, nel senso mo- derno e rigoroso del termine. Anche dopo Aristotile, in cui (a parte la sua dottrina sul Nous) apparisce per la prima volta il concetto scientifico dell'anima (poiché per lui la distinzione dell' anima e del corpo si riduce a quella della forma e della materia), il concetto dominante continua ad essere quello della sostanzialità, e noi lo ritroviamo anche in Lucrezio, che si rappresenta l'anima come una sostanza sottile, che è diffusa in tutto il corpo, e di cui la parte dominante, cioè 1' animo o la mente, abita nel cuore (4). (1) Arist. De An, 1. 1. e. 2, 18. (2) Ibid 19. (3) Arist. De An, 1, 1. o. 4. 1-8; ofr. Plat. Fedo 85 e- 86 d e 91 d- 9ò a. (é) De ver, nat, 1, 111. Le dottrine platoniche sull'anima entrano dunque per- fittamente nell'ordine di idee dell'epoca, anzi general- mente del mondo antico. Cosi Platone non sente il bi- sogno di provare, ma afterma come un principio che nes uno potrebbe contestargli, questo presupposto fonda- mentale di tutta la teoria : che l'essere animato è com- posto di due sostanze, un'anima e un corpo; che la vita risulta dall' unione di queste due sostanze, e la morte dalla loro separazione (1). Tuttavia sulla base di questo dualismo egli fonda una dottrina che, tra quelle del doppio materialismo antico, è la più conforme ai con- cetti del moderno spiritualismo, riguardando 1' anima e la materia (cioè il substratum di tutti i corpi) come due sostanze diverse e radicalmente opposte. Ma con ciò Pla- tone non fa che sviluppare logicamente il concetto fon- damentale d' ogni animismo. Questo è che il principio della vita e della coscienza deve essere qualche cosa di distìnto dalle sostanze che costituiscono il corpo, poiché è impossibile di comprendere che una stessa sostanza passi dallo stato di vivente e di cosciente a quello di non vivente e di non coscientt», e viceversa (2). Ora, se è cosi, sarà pure incomprensibile una conversione reci- proca tra la sostanza anima e una sostanza materiale qualsiasi : per conseguenza, tutte le sostanze materiali essendo, secondo Platone, convertibili 1' una nell' altra, non vi sarà nell'universo che una sola dualità irridutti- bile e veramenie fondamentale, quella dello spirito e della materia. Nondimeno sarebbe un errore fare di Pla- tone un campione dello spiritualismo nel senso moderno. Egli resta ancora, in sostanza, sul terreno del doppio . t (1) V. Fedo, 64 e, 67 d, 105 d, Gorffio 524 b, Epinom, 981 a, eco (2) V. App, e. 2. § 4-6. — 274 - '1 '1 I I ] maUrialismo primitivo : ranima, secondo lui, è estesa (I) e si muove (2), e non afferma senza restrizione che non può essere oggetto dei sensi esterni (3). Il movimento deir anima é una conseguenza logica della sua semi- materialità : l'anima infatti è il principio motore dei corpi (perchè il movimento spontaneo è il carattere di- stintivo deir essere animato), e non si comprendo come una sostanza materiale o quasi materiale possa muovere se non comunicando il proprio movimento (4). Così Platone applica all'anima stessa la definizione che con- verrebbe all'essere animato, « ciò che muove se stesso •> (5), vedendo nell' attributo della spontaneità del mos^imento un'espressione più completa dell'essenza dell'anima che in quello della coscienza, forse perchè gli sembra che il movimento spontaneo implica necessariamente la co- scienza, mentre questa non implica quello. Il movimento spontaneo non solo è 1' attributo essenziale dell' anima, ma si trova in essa continuamente (6), perchè da una parte la vita, negli esseri animati che noi osserviamo sulla terra, consiste in un movimento incessante, la cui sorgente secondo Platone non può trovarsi che neli' a- nima, e da un' altra parte gli astri (il cui movimento spontaneo prova che sono anch'essi degli esseri animati) non cessano mai nemmeno essi di muoversi. Il doppio materialismo in Platone dà luogo ad una dottrina, che non è senza analogia, almeno se si prende strettamente (1) V. Tim. 34 b, 36 e, 35 a, 41 d, eco* (2) V. le note seguenti. (3) V, Append, e. 2. pag. CLXX. (4) V. e. 2 S 2 pag. 57-60. (5) V. Lefjgi 896 a e Fedro 245 e, (6) V. Tim. 36 c-37 e, 42 e, 43 a, 43a-44 d, 47 c-d,83 a, iH)d, 91 e 92 a, Fedro 245 e, ecc. alla lettera, con quella del moderni materialisti estremi dell'identità dei fatti psxhici e aei movimenti organici che ne sono la causa : il p3nsiero e tutti i fatti psichici in generale sono per Platone dei movimenti dell' ani- ma (1), proposizione che, intesa in un senso rigoroso, risolverebbe il subbiettivo nell'obbiettivo, e potrebbe avere per iscopo di far consistere tut!;o il reale nell'estensione e le sue modificazioni, per poi ridurlo più facilmente allo spazio limitato dalle unità, per conseguenza al numero. Tuttavia la proposizione non deve forse prendersi nel suo senso rigoroso: essa potrebbe significare semplice- mente che i movimenti deil'ani ma sono la causa del pen- siero e degli altri fatti psichici. Ma anche in questo caso si avrebbe evidentemente una sorta di dottrina seoiima- terialista, che spiegherebbe anch' essa i fenomeni della coscienza per quelli del mondo obbiettivo, e non diffe- rirebbe dal materialismo propriamente detto, che perchè ai movimenti dell'organismo verrebbero sostituiti quelli di questa specie di maieria imponderabile, invisibile e impalpabile, che è, secondo Platon^»., l'anima. Il concetto che l'anima muove gli organi per impulsione, cioè co- municando loro il proprio movimento (2), ci fa compren- dere quello della sua tripartizione. Platone crede eviden- temente che i movimenti vitali si propagano a partire da certi centri indipendenti fra di loro. Questi sono, almeno sovratutto, il cervello, il cuore e il fegato. Cosi egli divide l'anima in tre parti separate, dando loro per sedi le tre cavità del corpo in cui soao contenuti'questi r^ a. (1) V. carta J84, in nota. (2) V. Leggi 894 e-896 b, Fedro 245 c-246 a, Arisi. 2-4, ni. 9-11, V. 1-2. rie an, l. l. U. — 875 — •f'ì It organi— dottrina ammessi pure da Ippocrate, e che poi fa adottata da Galeno (1)—. La parte deiranima che è il substratura dell'intelligenza (il Xoyioxixóv) abita nella cavità cranica; quella in cui risiedono la collera e il co- raggio (il 0D|xós) è alloggiata nella cavità toracica ; la terza a cui appartengono gli appetiti sensuali, la più parte dei quali sono in rapporto eoa le funzioni della nutri- zione (r èTTiGDfAYjiixóvì è alloggiata nella cavità addomi- nale, nella regione posta tra il diaframma e Tombelico (2). L'esame psicologico viene a confermare questa triparti- z'one dell'anima, fondata senza dubbio su una base fi- siologica; poiché le attività psichiche corrispondenti alle tre partì manifestano, per la contrarietà delle loro ten- denze, ch'esse apparrengono a dei soggetti distinti (3\ Al concetto delia sostanzialità dell'anima è unita se- neralmente la dottrina della sua sopravvivenza, e spesso anche quella della sua preesistenzi. Tanto la soprav- vivenza quanto la preesistenza sono per Platone illimi- tate : Tanima, secondo lui, non è solamente immortale, ma eterna. Questa dottrina del nostro filosofo è, come quella deir opposizione radicale tra lo spirito e la ma. teria. uno sviluppo perfettamente logico del principio dell'animismo. L'ipotesi della sostanza anima, come sap- piamo, è destinata a spiegare il passaggio della materia dallo statD di vita e di cìseienza allo stato coatrario, e viceversa : siccome ci sembra incomprensibile che una stessa sostanza si trovi alternativamente in questi due stati contrari (per l'induzione istintiva, tirata dalle no- stre esperienze più familiari, che l'essenza delle cose non (1) V. Galeno De placitis Hippocratii et Platonis. (2) Tineo 69 o e sqq. (3) V. Rep, 1. IV. 431 e sqq. può cangiare), ne concludiamo che questo passaggio è dovuto a un'altra sostanza distinta, che è ilsubstratum della vita e della coscienza, e che ora si unisce alla ma- teria, ora se ne depara. Ma se si ammette che questa sostanza supposta, cioè la sostanza anima, è soggetta ossa stessa alla nascita e alla morte, si va incontro alla stessa difficoltà che si è voluto evitare con la sua sup- posizione, cioè rincomprensibilità che una stessa sostanza da vivente e cosciente diventi non vivente e non co- sciente, e viceversa : infatti, una creazione e un annien- tamento assoluti essendo inconcepibili, rincominciare ad esistere, per l'anima, non potrebbe essere che una tra- sformazione di qualche sostanza preesistente, che acqui- sterebbe le nuove proprietà della vita e della coscienza (che sono quelle che caratterizzano l'animaj, e il cessare di esistere un'altra trasformazione della stessa sostanza, che perderebbe le nuove proprietà acquistate. Le ragioni stesse per cui si suppone una sostanza anima, condu- cono dunque ad ammettere che questa sostanza non può cominciare ad esistere né cessare di esistere. Queste ra- gioni, a dir vero, non proverebbero rigorósamente l'e- ternità dell'anima individuale, ma quella della sostanza deiranima, di cui una certa individualità determinata potrebbe essere uno stato transitorio. Ma la forma più naturale, anzi la sola naturale, che possa rivestire il con- cetto della preesistenza e sopravvivenza della sostanza dell'anima^ è evidentemente ia preesistenza e la soprav- vivenza dell' anima individuale. L' identità dell' anima, infatti, suppone l'identità della coscienza; per conseguenza alla persistenza dell' anima deve corrispondere la persi- stenza della coscienza; ora noi non possiamo concepire che la coscienza persista (cioè che la stessa coscienza continui ad esistere) se non conservando la sua indivi- — 276 - dualità. La dottrina platonica deirimmortalità, anzi dcl- Teternità, delTanima ha dunque una basa logica perfet- tamente naturale (quantunque d' un' evidenza illusoria, come lutti i sofismi a priori del nostro spirito): ma Pla- tone, per dimostrare quest'immortalità, si serve di sofismi artificiali y che evidentemente non possono essere dei mo- tivi reali della dottrina. Ciò si spiega per la natura in- cosciente del processo logico di cui questa dottrina ò la conclusione. II concetto della sostanza anima non sup- pone necessariamente una deduzione dal principio ge- nerale che le sostanze non possono cangiare nelle loro proprietà essenziali, e meno ancora un'induzione co«c^6/^^e dalle nostre esperienze più familiari che ci suggeriscono questo principio gener.ile. La spiegazione della vita e della morte per la unione e la separazione della sostanza anima sembra evidente perchè permette di assimilare questi fenomeni alle esperienze più familiari, che mo- strano che le cose non cangiano nella loro natura, ma solo nei loro rapporti reciproci di posizione : ma si può non aver coscienza del processo di assimilazione, ma solo del suo risultato, cioè delT evidenza della spiega- zione, la quale ^Jembra perciò un* evidenza intrinseca. Così pure T ipotesi che la sostanza anima non muore né nasce sembra evidente, perchè permette un'assimiliazione più compieta, che V ipotesi contraria, alle stesse espe- rienze più familiari da cui si è conclusa V esistenza di questa sostanza; ma si può anche in questo caso aver • coscienza solamente deirevidenzx dell'ipotesi, e non del processo d'assi in ilazonc di cui quest'evidenza è il risul- tato. Non è du ique sorprenientj che Platone, per di- mo strare', l i nmortalità dell'anima, invece che delle prove Itali. cioi> dt^i sofismi naturali^ su cui questa dottrina è fon lati, si serva di sofismi puramente artificiali^ inca- paci per se stessi di determinare uoa convinzione : egli non ammette la dottrina che in virtù della sua evidenza intrinseca (cioè per un'inferenza incosciente); cosi si comprenle com% e rcando di dimostrarla agli altri, al passaggio reale per cui é pervenuto alla sua conclus^'one, del quale non ha cosnenza, egli sostituisca dei passaggi fittizi. Tuttavia si sarebbe ingiusti verso alcuni degli argomenti di Platone, riguardandoli come semplici sofi- smi artificiali : essi sono (oltre quello della reminiscenza, di cui parleremo ia seguito) quello del Fedro (245c-246 a) e l'ultimo del Fedone (102 b-107 a) (1), il solo, come no- tammo altrove (^), che Platone dia come decisivo (3). Il primo di questi due argomenti conclude l'eternità del- l'anima da (io che essa è il principio motore (4). Alla (1) Qaest'argomento è riportato, nella sia parte essenziale, nel Supplem. B, a carte 45-47. (2) Append. p. CXCIII. (3) V. Fedone 95 d-93 a, 100 b, 107 b. (4) ** Ogni anima è immortale, poiché ciò ohe sempre si maove è immortale, ma ciò che muove altro ed è mosso da altro, avendo un termine del movimento, ha un termino della vita. Solo dunque ciò che muova sa stos^o, poiché mai non manca a se stesso, non ca^sa mai di miov^er-ii, aazl a quante altre cosa sono mossa è la sorgente e il principio del movimento. Ora il principio è non ge- nerato, poiché è necessario che tutto ciò che si genera sia gene- rato dal principio, ma qaasto da nessuna cosa : se infatti il prin- cipio fosse generato da qualche cosa, tutte le cose non sarebbero geaerate dal principio. Ma poiché non é generato, è anche neces- sario che esso sia incorruttibile, poiché, se il principio venisse a mancare, né esso potrebbe nascere da qualche cosa, né altra cosa da esso.... Cosi dunque il principio del movimento é ciò che muove so stesso: questo poi non può né nascere né morire; altrimenti tutto il cialo e ogni generazione si fermerebbero necessariamente, né si avrebbe mai donde, ricuperato il moto, potessero rinascere. Ciò ohe è mosso da se stesso apparendoci essere immortale, se alcuno — 277 — » T' conclusione sì giunge per dei passaggi che, quantunque non siaoo perfettamente logici, non'sono però arbitrari: dal concetto che l'anima è il principio motore (suggerito dalla esperienza più familiare, che ci dà come carattere distintivo deir essere animato la spontaneità dei movi- mento), se si suppone la necessità d' una causa prima (per l'inconcepibilità di un regresso all'infinito nella ri- cerca delle cause), è naturale d'inferirne che questa causa prima è Tanima cosmica. Di là ne segae rigorosamente che quert'auima non ha avuto cominciamento : inoltre il più logico é di supporre che e^isa non avrà nemmeno fine (perchè nella supposizione contraria bisognerebbe ammettere o che, estinto il principio del movimento, Tu- fliverso cada nell'immobilità, o che air anima cosmica estinta succeda, nel governo del mondo, un'altra anima cosmica, la quale avendo avuto cominciamento, si avrebbe l'incoerenza di fare dell'anima cosmica ora una coìsl sen/.a cominciamento e una causa prima, e ora una cosa di-i venuta e avente una causa). Concluso che V anima co- mica è senza cominciamento e senza fine, è naturale d ^estendere questa conclusione alle anime individuali, che ne differiscono di grado, ma non di natura. L' ultimo argomento del Fedone s'impernia nella proposizione che ciò che apporta la vita dovunque si trova non può ri- cevere la morte : essa è 1' espressione del motivo reale della dottrina dell'immortalità, che è il le^'^ame locrico dirà ohe qaeata è l'e^^enza e la defiaiziona dall' animi, noa se ne pentirà. Infatti ogni corpo, a cui il movimanto viene dal di fuori è inanimato; ma quello che lo ha da se ste^o, è animato coms' se questa sia la natura dell'anima. Ma se è ooil, non esservi altro che muova se stesso sj non l' animi, per nesa^sità l'anima è non generata e immortale „. Fedro 245 e- 240 a. che vi ha tra la spiegazione animista— cioè che la vita e la morte sono dovute alla unione e alla separazione d'una sostanza distinta che e il substratum della vita e della co- scienza—e il concetto che la vita e la coscienza devono essere inseparabili da una tale sostanza (l). Se Platone prendesse la proposizione (o meglio il concetto eh' essa indica, senza esprimerlo sufficientemente) come principio, r argomento sarebbe naturale : la parte artificiale del sofisma è la pretesa dimostrazione di ciò cho egli do- vrebbe invece dare, e che effettivamente ammette, come una verità intuitiva. Le sorti dell'anima dopo la morte formano il soggetto della più parte dei miti di Platone (che bisogna distin- guere dai simboli, quali il Demiurgo e la cosmogonia del Timeo, o la contcmplaz'one delle Idee nel luogo i- peruranio del Fedro): in questi miti è difficile di fare le parti tra ciò che è un convincimento serio dall' autore e ciò che per lui stesso è una congettura più o meno verisimile o anche una semplice finzione; ma è certo ch'egli ha fede nel concetto generale che vi campeggia, cioè i premi e le pene in un'esistenza futura (2). Platone accoglie la dottrina, insegnata nei misteri, della tra- smigrazione delle anime ; e generalizzando questo dato tradizionale — quantunque, oltre al ritorno in questo mondo, reincarnandosi in corpi d' uomini o d' animali, parli anche del soggiorno delle anime in altri luoghi di premio o di punizione— giungle al concetto che l'anima è sempre congiunta ad un corpo, animando successiva- (1) Cfr. Append. e. 2. p. CXCIII. (2) V. FedoAii d-e, 63 e, 64 a, 72 d-e, liep. 608 e, 612 b-o, 613 a, 614 a, 621 0, Gora. 522 e-523 a, 524 b, 526 d, 527 a, 527 e, U-ij. 903 d- 905 a, eoo. — 278 — mente cirpi differenti secondo lo stati di perfezione o d' imperfezione a cui è pervenuta {Leggi 903 d- ma al- trove, in dialoghi verisimilmente anteriori, parla d'iioo stato dell'anima ìq cui è libera da qualsiasi corpo, p. e. nel Fedone lU e, ìq cui una tale esistenza è promessa durante Teteruità a quelli che si sono purificati suffi- cientemente per la filosofia). É inn^^gabile che la dottrina della metempsicosi, sovratutto in questa forma, per quanto possa sembrare strana a uà filosofo moderno, ha un va- lore filolofico superiore che quella deir esistenza eterna dell'anima dopo la morte in ui mondo as^olutameote immateriale, poiché ossa lega par sempre il principio spirituale alia natura, continuando ad ass^ffnarffli, in tutte le epoche della saa esi -utenza, la sua fuizione pro- pria, senza di cui è un'ipotesi seaza motivo e senza scopo, di forza animatrice e vivificatrice della materia. La dottrina dell'immortalità dell'anima in rapporto a quella della sua tripartizione solleva un problema, a cui Platone dà delle soluzioni differenti : sono immortali tutte e tre le parti, ovvero una sola, che sarebbe come il sub- stratum della personalità ? Nel Fedito (1) e ammessa la prima delle due soluzioni ; ma la dottrina definitiva di Platone, che troviamo nella RepubblLia (2) e nel Timeo (3), è l'immortalità del solo XoYiaxixóv (nel Fedone (4) sembra (1) 246 a e seg. (2) V. 1. X. 611 b-612 a. (3) V. 41 c-43 a, 69 c-72 d, 73 d, 89 e-90 d, eco. Il Timeo è cer- tamente una delle ultime opere di Platone, perchè appartiene al periodo del sincretismo con le dottrine pitagoriche. Anche nel Po- litico, ohe possiamo pure riguardare come uno degli ultimi dialoghi (cfr. Suppl. C, carta 238, in nota) si distingaono la parte immor- tale dell'anima (cioè la razionale) e la mortale (v. 309 o;. (4) V. 78 b-80 0. ohe Platone non ammetta la dottrina della tripartizione). La soluzione del Fedro é quella che esiggono i motivi fiksofici della dottrina dell'immortalità, poiché 1' anima è immortale perchè è la sostanza che ò il principio della vita, e sostanze e principii della vita sono anche le parti inferiori. I motivi etici e Fontimentali della dottrina del- l'immortalità esiggono invrce Tnltra soluzione, po'chè le speranze dell'altra vita lichiedono uno j-t^to d'IT anima in cui sia cs':'nte dalle passioni e dai bisogni del co'po, e in cui per conseguenza le parti inferiori resterebbero senza funzione. Forse Platone, negando 1' immortalità delle parti iiiferioii, intendi rifiutare solamente ad esse la persistenza dell'esistenza individuale, non quella della sostanza. Questa ò una conseguenza inevitabile dei pre- supposti di tutta la dot^rirn; e infatti i discepoli imme- diati di Platone insegnano 1' immortalità, non del solo (XoY'.aiixóv), ma dì lut*:a TaMima (l). L' immoitilità e preesistmza dell' anima si lega col sistema delle Id^e per la dottrina della intuizione delle Idee in un'alt "a vita e della remiirscenza (2). Noi abbiamo notato come il problema di spiegare la coincidenza tra il p3nsitU'o e la realtà nelU conoscenza a priori divenga più urgenti nel realismo dialettico (3): e infatti in quasi tutti i sistemi appartenenti a questo tipo (oltre il sistema adi Platone, in quelli di H^gel, di Schelling, di Spinoza (4 noi troviamo delle ipotesi destinate alla soluzione di questo problema. Fra le tre ipotesi pò sibili, cioè o che l'oggetto determina il pensiero, o che il pensiero determ'na l'oggetto, (1) V. Olimpiodori Gommoni . in Platon. Phaedo. ap. Cousin in Journnl des saranls 1835 p. 145. (2) V. e. VII p. 144 e Sappi. B varto 142-H4. (3) V. e. 143. (4) V. e. va. p. 431-412, in nota. . .1- ^ HI o che VI ha identità tra Tog-getto e il pensiero (I), sola- mente la prima e l'ultima sono compatibili col realismo dialettico: col sistema platonico non è compatibile che la prima, cioè queììadeW intuizione razionale, perchè le Idee di Platone non sono dri peusieri, come quelle di Hegel ma delle realtà puramente obbiettive (2). Noi abbiamo pure •indicato perchè alla dottrina meao mistica di un' intui- zione m questa vita Platone preferisca quella deirintui- zione m una vita anteriore e della reminiscenza di que- sta intuizione (3). Non ci resta da aggiungere che un os- servazione, cioè che, quantunque il pro^r^esso reale del pensiero di Platone sia stato evidentemente dalla dot- trina delP immortalità e preesistenza a quella della re- miniscenza, e non al contrario, non è strano chVgli ri- guardi la reminiscenza come una prova della preesi- stenza ed immortalità (4) : quest'argomento, al suo punto di vista, e un ragionamento perfettamente naturale — è il solo di quelli del Fedone, oltre l'ultimo, ch'egli crede rigoroso, almeno come prova della preesistenza (5) - perchè egli vede nella reminiscenza, e quindi nella pree' sistenza che essa suppone, l'unica spiegazione possibile della conoscenza a priori. Passando all'anima cosmica, cominceremo ricordando che essa è V unica divinità ammessa da Platone (6). Il Demiurgo del Timeo è un simbolo che rappresenta l'I- 0) V. Saggio J e. 3 § 7. (2) V. questo Sappi, n. ili. (3) V. Sappi. C carte U3-144. (4) V. Fedo. 71 e-77 a e Meno. 85 0-86 b. (5) V. Fedo, 91 e-92 e. (6) V. Sappi. C, carta 224. dea del Bene (1> Il nome di dio dato al Bene e ad al- tre Idee— e da Xenocrate tnche al principio materiale—, e quello dì divino dato a tutte le Idee in generale, è evidente che non devono prendersi nel senso proprio, perchè Platone non può avere Tintcnzione di personifi- care le sue astrazioni realizzate, che non sono che gli attributi generali delle cose, considerati cerne .sussistenti per se stess*. La parola divino, in questo come in tanti altri casi (2\ non significa che l'eccellenza dell'oggetto a cui si applica: quando insieme ali' idea della supe- riorità, viei e evocata vagamente rjuella della persona- lità (3), dair aggettivo divino Platone p?ssa al sostan- (1) V. Sapplem. C, carte 2:2-237. (2) V* il nana. seg. (8) Questo para essere generalmente il caso in tatti i laoghi in cui Platone chiama dei delle Idee altre che quella del Bene. Nel Parmenide 134 c-e si chiamano dei gli esseri ideali in cui risiedono come attributi la scienza in sé e la padronanza in sé (la scienza e la padronanza devono essere attributi e devono inerire in qual- che sostanza nel mondo delle Idee come in quello dei fenomeni). Sulla fine del TimeOf dove il mondo è chiamato ** dio sensibile im- magine del dio intelligibile n, questo " dio intelligibile „ è certa- mente l'animale che contiene tutti gli animali intelligibili, di cui a 30 c-d, cioè l'Idea dell'animale, parche è a sua somiglianza che il mondo è stato fatto. Nel principio dell'allocuzione del Demiurgo alle divinità generate, * dei di del (cioè figli di dei), opere di cui io sono l'artefice e il padre •* {Tim. 41 a), la parola dei, la seconda volta, deve denotare altre Idee oltre quella del Bene (rappresentata dal Demiurgo): noi pensiamo naturalmente all' Idea dell' animale (il dio intelligibile di cui sopraì e alle altre Idee meno estere a cui gli dei individui sono subordinati. Anche a 37 e, in cui il mondo semovente e animato, prodotto dal Demiurgo, è chiamato un "si- mulacro degji dei eterni „, è naturale d'intendere per questi " dei eterni « delle Idee, più o meno generali, di esseri animati, di cui il mondo è la realizzazione, — 2«0 — tivo dio, senza che intenda perciò assegnare alle astra- zioni che decora di questo nome, una funzione analoga, anche lontanamente, a quella degli esseri personali d'una forma qualsiasi della filosofìa teologica. In quanto all'I- dea del Bene, abbiamo osservato che Platone non può chiamarla dio che perchè vede in essa il primo principio delle cose (1)- la stessa ragione spiega naturalmente per- chè Xenocrate possa estendere qu'^.sto nome anche al principio materiale—. Al nostro punto di vitata moderno sembrerà strano che la divinità, nt-l senso proprio, non sìa per Platone che un principio derivato. Per un filo- sofo moderno Dio è Vassoliito (2), e perciò egli trove- rebbe assurdo di supporre un principio superiore a Dio stesso: ma questo concetto dell'assoluto, come carattere essenziale della divinità, manca ancora, come vedremo in seguito, in Platone, e in generale nella filosofia teo- logica antica non si sviluppa che d'una maniera incom- pleta. Il teismo in Platone è ass'so sulle sue basi naturali. Vi hanno secon lo lui due prove della divinità: la prova teleologica (tirata sovratutto dalla regolari à dei movi- menti deg^i astr) e quella fon<lata sul concetto chcì l'a- nima è il principio del movimento (:<). C« si Dio è per Platone il principio motore (4) e ordinatore (5) dell'uni- verjo-U doppia furi/Jone che li divinità, come princi- (1) V. cap. VII. p. 194. (2) V. e. II § 5. (3) V. voi. I o. 2 § 2 pajr. 53-54 e ^, 3. p. 83. (4) V. Fedro 245 c-e, Lefiffi 894 e- 896 b, Epinom. 988 d-e, ecc. (6) V. Filebo 26 e- 27 e, 28 d-e, 30 ed, Sot\&la 265 c-e, 266 b-d, Fedoni^ 97 e- 99 e, Timeo 4i e e seg. (cfr. Sappi. C, carte 233-234), Leuai 892 a-890 b, Oo3 d-3, 937 d, Kpbijmidc 981 b, 982 a- 983 e, 991 c-d, ecc. cipio esplicativo dei fenomeni, ha nella filosofia teologica amica, e possiamo anche aggiungere, nella teologia naturale d) — . Come abbiamo osservato (2), vi hanno in Platone due dottrine della finalità, 1' una imma- nenie e 1' altra trascendente. La prima consiste ad am- mettere che il Bene è V Idea delle Idee, il tipo uni- versale su cui tutti gli esseri sono costruiti, e che esso esiste per una necessità primitiva, tale che la sua non e.^istenza sarebbe inconcepibile e contradittoria. La se- conda spiega la finalità - d.^gli oggetti materiali e che hanno avuto un cominciamento — vedendo in essi degli efl'ctti d'una causa personale, agente con un piano e per ano scopo. Queste due dottrine non sono incompa- tibili, perchè non vi ha contraddizione ad ammettere al tempo stesso che è una necessità logica che i fenomeni si producano in grazia d'uno scopo, e che tra gli ante- cedenti dei fenomeu' che si producono cosi ve ne hanno alcuni inacc'ssìbilì aircsperienz^; e se si ammette que- sta seconda ipotesi, non solo non iV contradditorio, ma è naturale di supporre che gli antecedenti di cui si tratta devono essere tali da spiegare la natura dei loro conse- guenti. É vero però che una volta che la finalità viene spiegata per la sua necessità logica, un'altra spiegazione non potrà più riguardarsi come indispensabile. Ma ciò non toglie che l'analogia suggerisca, anche in questo caso, delle cause personali: semplicemente non si potrà più pretendere che il ricorso a queste cause sia neces- sario, e l'argomento teleologico, per conseguenza, non potrà più aspirare al valore di una prova completa (3). \ ' (1) V. voi. J e. 2 s 2-0. (2) V. cap. VII § 16 pag. 2U o «uppl. C. V carta 234. (3) Clr. e. 2, j» 7, 1- - 281 - Il concetto che Tanima è la forza motrice si sviluppa in Platone nella dottrina che essa è la causa prima di tutti i fenomeni (1), e in lui troviamo già, quantunque in una forma meno precisa che in Aristotile, Vargomento della causa prima per provare la divinità (2). La dottrina che Tanima e la causa prima implica quella dtilla sua du- rata infinita, almeno nel passato. Tuttavia nel Timeo le sì dà un' origine nel tempo, come all'universo in gene- rale; ma noi abbiamo visto che la cosmogonia del Ti- meo è un semplice simbolo, che rappresmta la deriva- zione lo/ica di tutte le cose dai due primi principìi (I Bene e la Materia) (3). Nelle Leggi si parla pure dcirn- nima come generata (anteriormente a tutte le altre coso, di cui è la causa prim?iì: è ch^, come abbiamo osservato, Platone nei suoi ultimi scritti, dandosi per un pitagorico, vuol conformarsi alia dottrina, secondo lui exoterica, dei Pitagorici, che attribuiva al mond) un'origine nel tempo (benché la loro dottrina reale fosse che esso è eterno) (4). L'insieme della teoria psicologica di Platone e il sistema delle Idee (che suppone Teternità e la necessità dell'or- dine attuale del mondo) esiggono indispensabilmente la dottrina deireternità dell'anima, insegnata, del resto, nel Fedro e in altri dialoghi (5). Ai motivi filosofici della credenza nella divinila e alle sue funzioni corrispondenti si aggiungono (come per la credenza nell' immortalità dell' anima individuale) i motivi etici e sentimentali e le funzioni che corrispon- (1) V. Suppl. e, caria 224. (2) V. oap. 2^2 pag. 63-54. (3) V. Sappi. C, carte 222-238. (4) V. Sappi. C, carte 235 e 238. <5) V. Sappi. C, carta 225, dono a questi. Platone si diffonde a dimostrare che gli dei hanno cura delle cose umane, non meno delle piccole che delle grandi (1). Che i nostri aflfari siano piccoli 0 grandi agli occhi degli dei, non può con- venire ad essi di negligerli, perchè la negligenza, l'inerzia, la mollezza non possono appartenere a dio, a cui bisogna attribuire l'eminenza in ogni virtù. D'al- tronde le cose piccole sono più facili a curare che le grandi (2)— riflessione notevole, perchè ci mostra quanto Platone è lontano dal concetto delT onnipotenza — . La provvidenza divina ha sovratutto per oggetto che cia- scuno abbia la sorte che merita, mettendo V anima che è divenuta migliore in un posto migliore, e la peggiore in uno peggiore (3): del divenire poi ciascuno di noi mi- gliore o peggiore ne ha lasciato le cause alla nostra vo- lontà; ordinariamente infatti ciascuno diviene di animo quale desidera di essere (4). Non bisogna credere però, come dicono i più, che Dio è causa di tutte le cose: egli è buono, e per conseguenza può essere causa dei soli beni, ma non dei mali (5). Vi hanno due sorta di anime, l'una buona e l'altra cattiva : i movimenti tendenti al bene sono prodotti dall'anima buona, quelli teadenti al male dalla cattiva (6). Quella che governa l'universo è Tanima buona: tuttavia Platone afferma che la somma dei mali sorpassa quella dei beni (7), ciò che, tenuto conto delle proposizioni precedenti, non permette di at- I (1) Le(jiii 899 d- 905 d. (2) Leggi 902 e- 9(^ a. (3) Leggi 9(» d- 904 e. (4) Leggi 904 o. Qaesto concetto è espresso simbolicamente aeUa scelta delle anime nel mito salla fine della Repubblico, (5) R$p. 379 a-380 e. (6) Leggi 896 e- 897 b, Kptnom. 988 e. (7) Leggi 906 a, R^u 379 o. — 2«2 —tribuire a Dio che una potenza molto limitata. Platone combatte le idee della religione popolare che e<^Vi erodo indegne della divinità, p. e. che gli dei si svisano sotto forme diverse ingannando gli uomini (l), che vi hanno fra di essi delle ingiurie e delle inimicizie reciproche (2), che i cattivi possono propiziarseli con doni ed adula- zioni {ii), ecc. Naturalmente, sarebbe vano di cercare in Platone i concetti della spiritualità e della seinplicifà di Dio. La divinità, cioè l'anima cosmica, è una specie del genere anima: essa ha dunque la stessa natura spmì- materiale dell'anima dell'uomo e degli altri esseri ani- mati, vale a dire è estesa (4), si muove continuamente if)), e muove i corpi comunicando loro il proprio movimen- to (6). Da ciò che precede si vrd 5 anche che mancano nella teologia platonica i concetti di r|uplla che abbiamo chiamato teologia frascendenfale (7), cioè le dottrine che Dio è immutabile e fuori del tempo, e che è V infinito 0 r assoluto {cioè che tutti i suoi attributi si elevano a un grado infinito o assoluto). Il Dio di Platone, lungi di essere immutabile, è, come abbiamo detto, in un mo- vimento continuo: inoltre egli ragiona, prevede, si ri- corda, ecc. (8>; d' altronde Platone non avrebbe potuto immaginare una coscienza che non consiste in muta- \*i ^ (1) h'ep. 38U d e Siiq. (2) Kep. 377 d- 378 e. (3) Le(j(ji 905 d- 907 b. (4) V. Tlm, U b, 35 a, 30 o, Ar. De un. 1. 1. 111. 12, ecc. (5) V. T'na. 36 e- 37 e, 47 b-c, 90 d, Fnlro 245 o, Ar. ì>e >'„, I. 1 ili. 15, ecc. (6) V. Legni 804 e- 89G b, Fedro 245 e- 246 a, Arisi, he an. l. l. n. 4, 111. 11. 17) V. e. 2 !^' 5. (8) V. e. 2 j» 5 p. 131. menti, perche- per lui i fatti della coscienza non sono che movimenti dell'animi (l). Il concetto che Dio è l'as- soluto 0 l'infioito implica quelli della sua potenza e cau- salità infinite (2). l^a la causalità e la potenza del Dio di Platone trovano un limite nella materia e negli altri esseri spirituali (tra cui l'anima cattiva», che sono egual- mente primitivi che lui: di più la sua efficienza si ri- duce unicamente all' azione motrice, e <|ue9ta non può esercitarla, come l'uomo o qualsiasi altro essere corpo- reo, che a contatto e per impulsione (3). Uisulta pure dall'esposizione precedente che la teologia di Platone è un dualismo radicale, in cui Dio e la materia— o, me- glio, la sostanza del mondo—sono, non solo due sostanze distinte, come in quasi tutti i sistemi della filosofia teo- logica antica, ma due sostanze egualmente primitive, coeterne e inconvertibili l* una nelP altra. Non è foi-ae inutile di osservare che, siccome Dio e le Idee sono due cose interamente differenti, questo dualismo non ha niente di contrario alla immanenza delle Idee nel mondo, né al monismo della prima forma del sistema platonico, in cui l'Idea del Bene è il tutto allo stato implicito. Per la stessa ragione esso non ha nie te di comune col dualismo della forma posteriore, in cui al Bene si aggiunge, come altro /.i li (1) V. e. 184 in nota. I luoghi ivi citati sall'id3nlità del pensiero al movimento si riferiscono o esclusivjun ante o anche all' anima dei mondo. (2) V. e. 2 Si 5 p. 135. (3) V. Suppl. C, IV. o. 229 e la p. prec. n. 0. Oltre alla sua azione motrioa per impulsione, Platone sembra attribaire all' anima «osmica uno sforzo per mantenere la coesione dell'universo e dei corpi celesti e la periistenza della loro forma (v. Suppl. C, IV. U nota a e. 238 e 239). Questo sforzo non è in verità un'azione motrice, ma è eviden. temente immaginato, come questa, sul tipo della nostra azione mnscolare. — 2<s:ì principio primo, k Materia, nò vi ha fra questi due daa- liami alcuna relazione logica. L'influenza reciproca tra la psicologia platonica e la sua teologia è evidente Al dualismo antropologico tra l'anima e il corpo corrisponde il dualismo cosmologico tra Do e il mondo materiale : alla indipendenza deli' anima cosmica dalla materia e alla sua primordialità e inconvertibilità con essa, richieste dalla sua funzione di causa prima, corrispondono l'ind- pendenza della psiche umana dalle condizioni somatiche e la sua esenzione dalla nascita e dalla morte. Ciò che vi ha di più oscuro nelle idee di Platone sul- animaèil carattere vago del suo concetto dell'indi vidua- htà psichica. Noi abbiamo visto che l'anima individuale è composta secondo lui di tre parti, ciascuna delle qaali costituisce in realtà un'anima distinta. Qualche cosa di simile SI ha nella sua dottrina dell' anima cosmica. Ri- guardando il mondo come un grande individuo animato egli concepisce l'anima che lo vivifica come unica, come quella di qualsiasi altro individuo animato («). Quest'a- nima è per lui, come abbiamo detto, la divinità : ma la sua unità non importa, per lui come per gli altri filo- sofi greci che ammettono un'anima del mondo, il mono- teismo, almeno rigoroso. Egli riguarda pure come indi- Tidui animati la terra e tutti gli astri, sì i pianeti che le stelle fi^se, e attribuisce quindi un'anima a ciascuno di questi corpi (2). Ognuaa di queste anime è conside- rata naturalmente come una divinità particolare (3) (1) V. Filebo 30 a, Tim. 30 h-o, 34 b-c, 36 d.37 o. eoo •83 e, 984 e, 985 d- 988 d, ecc. • «"j* b (3) V. i 1. ihd. nella nota precedente. Platone chiama dei non,olo I' anima del mondo e qnelle dei ' H lQollr3 egli ammette dei demoni, esseri d' una divinità imperfetta (tra cui ve ne hanno anche dei malefìci) (1). Ora per !e anicne della terra e degli astri, è evidente che, secondo Platone, esse non esìstono al di fuori del- Tamica cosmica, di cui sono come delle parti. Infatti nel Timeo il Demiurgo non costruisce che V anima del mondo e quelle degli animali mortali (2): degli astri non costruisce che i corpi (3), quantunque 1' autore li dia espressamente come esseri animati; e che vi siano altro anime oltre quelle che il Demiurgo ha costruite, è escluso dal luogo in cui si dice (dopo che si è narrata la for- mazione degli animali divini, cioè degli astri) che egli ha composto V anima degli animali mortali coi residui degr ingredienti con cui aveva composto V anima del mondo (4). Un'altra prova, anche più decisiva, è la di- visione dell'anima cosmica nel cerchio della natura dello stesso (che rappresenta il movimento diurno del cielo e i cerchi della natura del diverso (che rai)presentano le orbite dei pianeti) (5) : se i movimenti planetari sono at corpi celesti, ma anche il mondo slesso e gli stessi corpi celesti. Questa estensione dell' attributo della divinità dall' anima, a cui propriamente appartiene, all' essere animato (cfr. e. 2 § 1 p. 47 e S a pag. 167) è troppo ovvia, per poter farsene un argomento con- tro il dualismo di Platone, che risulta nettamente dalla sostantifi- oazione del principio spirituale e dalla opposizione radicale tra esso e la materia. (1) V. Platone Fedro 246 e, Conv, 202 e- 2(»a, to/r/t717b, 906 a, K^iinom. 984 b- 985 b, Plutarco de h. ut Oslr. 25-26 e de orarul. de^ feci li 17, ecc. (2) Tim. 34 e- 36 d e 41 d- 42 e. (3) V. 38 c-e e 40 a. (4) Tim. 41 d . (5) Tim, 36 c-d. Cfr. 37 a-c. - 284 - A -4- l . tribuitì airanima cosmica, siccome il principio del mo- vimento di ciascun ' pianeta deve essere la sua anima particolare, le anime particolari dei pianeti non possono essere che delle parti deiranimii cosmica, (/aes'a è dun- que per Platone un individuo superiore che contifne n I suo seno altri individui inferiori. Noi non troviamo al- cuna difficoltà ad ammettere, nA mondo fisico, delle in- dividualità di ordine divergo, in modo che un individuo di grado superiore contenda in se stesso degl' iii'iividui di grado inferiore (p. e. l'organismo e le cellule che lo costituiscono). Platone suppono che qualche cosa di ana- logo si dia anche nel mondo psichico : egli non trove- rebbe niente di strano nel concetto di Haeekel e di altri filosofi contemporanei, che riguardano V anima di un organismo vivent:^ come la risultante delle anime delle sue cellule. A dir vero Platone non può ri- guardare r anima cosmica come una risultante delle anime degli astri: queste, rapporto alla prima, piuttosto che agli elementi che compongono un tutto, potrebbero paragonarsi a dei rami divergenti da un tronco comune, o a dei punti emer;2:enti in una superficie, ciascuno dei quali costituisce un'unità distinta, quantunque sia al tempo stesso una parte di un' unità più comprensiva. Que- sto concetto d' un individuo psichico che contiene altri individui psichici, in Platone come negli altri filosofi antichi in cui lo troviamo, per quanto poco naturale in se stesso, e una conaeguenza logica d' un' idea natura- lissima al punto di vista della concezione animista della natura, cioè che in (jucsto grande individuo vivente che ò luaiverso, vi hanno delle parti, vale a dire i grandi corpi che si m?iovono in esso, che manifestando una vita sino al un certo punto indipendente, devono riguardarsi anch'essi come individii viventi. Se si suppone che la vita e i movimenti di un essere animato sono prodotti dall'anima che lo vivifica, siccome le vite e i movimenti degl'individui inferiori fanno parte della vita e <lei mo- vimenti deiriiiiividuo più vasto che li contiene, sarà lo- gico di concluderne che le anime dei primi fanno parte dell'anima del secondo, estendendo al concetto dell' in- dividualità psichica la relatività che vi ha in quello del- Pindividualltà fisica. A questo punto di vista le anime stesse degli animali propriamente detti non potranno ri- guardarsi come assolutamente distinte dalla grande anima del tutto : cosi secondo il Flleboìa. no,;tra anima ci viene da quella dell'universo (T), come se ne fosse una parte, che le condizioni della vita terrestre (2 hanno isolata, ma che prima era congiunta al tutto con legami più in- timi, benché avesse già un'esistenza individuale, perchè l'eternità d^lPanima importa, come abbiamo detto, la persistenza dell'individuo, e non semplicemente della so- stanza. Vi hanno in Platone, come abbiamo già osservato (3)* due spiegazioni del mondo, corrispondenti a due concetti differenti della causa efficiente. L'una è la dottrina del- l'anima cosmica: essa è una varietà della filosofia f.v^m- tiva dello spirito umano, e corrisponde al concetto spon- taneo della causalità, che ci fa considerare come causa- zioni efficienti le sequenze tra fenomeni che ci sono le più familiari. L'altra è il realismo dialettico, che intro- duce fra i concetti un nesso logico continuo, e, mediante (J) Fileho 28-29. (^) T/anìmadeH'aomo e degli altri animali b a abitato negli astri, parteoipando al governo del mondo, o, purilicata, ritornerà ad a- bitarvi. V. Tim. 41 d- 4^ d • 90 a e Fedro 246 b- 257 a. (H) (!ap. VII. pag. 14:vl44. — 285 — T*" - ' ^«n \*« r : la loro i'<*alizzaziond, dà a questo nesso logico il valore di un nesso ontologico, cioè trasforma il rapporto tra principio e conseguenza in un rapporto tra causa ed ef- fetto. L' uno di questi due generi di spiegazione non esclude l'altro, perchè non vi ha alcuna incompatibilità tra i due concetti della causalità su cui sono fondati. Il realista dialettico non può non ammettere anch'egli, ol- tre alla nuova specie di causazione che egli introduce cioè la filiazione tra i concetti realizzati, quest'altra spe- cie di causazione che tutti ammettiamo, e che si riduce a una successione costante tra fenomeni. Le tendenze istintive del nostro spirito lo spingeranno a immaginare, in queste sucessioni costanti tra i fenomeni che egli non può non ammettere, de^li antecedenti tali che possano spiegare ì loro conseguenti, cioè che ne siano delle cause produttrici o efficienti : questo processo di efficienza cau- sale può coesistere con quello del realismo dialettico, perchè Tuno produce dei fenomeni concreti e individuali, mentre Taltro non produce che delle entità astratte, cioè le forme e le leggi generali di questi fenomeni. Il rea- lista dialettico considera, è vero, le sue entità astratte come le cause dei fenomeni di cui sono le forme e le l^ggì generali : ma questa causazione non sarebbe in- compatibile con quella dei loro antecedenti fenomenali (cioè che sono dei fatti o degli esseri individuali e con- creti) che neir ipotesi, sconosciuta a qualsiasi realista dialettico, che le entità astratte fossero fuori dei feno- meni (come neir interpretazione trascendentalista delle Idee platoniche). Le entità astratte, secondo il realista dialettico, sono cause dei fenomeni, non in quanto li producono, ma in quanto sono delle condizioni senza di cui essi non potrebbero esistere, costituendo la loro essenza la loro vera realtà. Ma se fossero fuori dei fenomeni, I—m 1 1 «ii"ii " ^-O ^.^*^— WsT"^'M - non potrebbero esserne le cause che produoendoli : in questo caso la loro causalità e quella degli antecedenti fenomenali (ammessi a titolo di cause efficienti, com'è evidentemente Tanima del mondo di Platone) si esclu- derebbero a vicenda, e bisognerebbe scegliere tra Tuna e l'altra ipotesi (1). Potrà sembrare tuttavia che, se la spiegazione del realismo dialettico e quella della filoso- fia istintiva non sono incompatibili in quanto Tuna esclu- de l'altra, lo sono però in quanto Tuna rende l'altra su- perflua. Le due spiegazioni, in effetto, si applicano agli stessi fatti (tutti i fenomeni in generale); ma qnando un fatto si è già spiegato, è perfettamente inutile di cer- carne un'altra spiegazione. Questo ragionamento sarebbe valevole, se Tuna o l'altra delle due spiegazioni potesse sembrare soddisfacente, anche ad un metafisico; ma esse non lo possono né l'una né l'altra. Limitandoci a Pla- tone, è facile di mostrare che la sua dottrina dell'anima del mondo— anche senza tener conto delle difficoltà ine- renti a quest'ipotesi — non può dare che una soddisfazione incompleta a questo bisogno di conoscere le cause per cui tali ipotesi sono immaginate. Prima di tutto un'ipo- tesi sulle cause, per essere una spiegazione completa- mente soddisfacente dei fenomeni, dovrebbe essere tale da poterne dedurre la natura degli eff*etti, cioè da poter concludere, come conseguenza dell'ipotesi, che i fenomeni devono essere cosi come sono in realtà, e non altrimenti. Ma r anima del mondo può spiegare solamente perchè esiste il movimento e perchè vi ha un ordine nella na- tura (ciò che il metafisico chiama finalità) : essa non spiega perchè hanno luogo precisameute questi movimentì e perche esiste precisamente quest'ordine, che noi osserviamo nel mondo reale (noi non sappiamo, p. e-, perchè l'anima del mondo, da cui, secondo Platone (1), sono prodotti gli animali, le piante e tutti i corpi che vediamo sulla terrfl. produce queste specie piuttosto che altre, pure dotate di tìnalità, ma più o meno differenti). Di più, nei limiti stessi dentro cui si restringe questa spiegazione, per il fatto stesso che è desunta dall'ipotesi di agenti trascendenti, a cui non si può attribuire che un modo d'azione in gran parte diverso da quello degli agenti dell'esporienza, essa non può assimilare comple- tamente il modo di produzione dei fenomeni alle cau- sazioDi che ci sono le più familiari, ciò *\he sarebbe ne- cessario perchè la spiegazione fosse completamente sod- disfacente (p. e. Platone attribuisce airanimadel mondo la percezione degli oggetti (2>, ma senza i nostri organi dei sensi : è quanto basta per rendere il suo modo d'a- zione incomprensibile). Un'altra oscurità viene alla spie- gazione animista dalla sostantitìcazione dell' anima. La conseguenza dì questa è, come abbiamo visto, che l'a- nima muove il corpo per il proprio movimento, ciò che, importando che il movimento che essa produce imme- diatamente non è quello voluto, ma un altro non voluto ne saputo, allontana l'ipotesi animista dal tipo su cui è modellata, cioè la nostra aziono volontaria secondo il modo più familiare di rappresentarcela, e ne diminuisce quindi il valore esplicativo. Dall'altra parte, il realismo dialettico piuttosto che una spiegazione è, come abbiamo detto, un sembiante di spiegazione : quand' ^che il si- ti) V. Sof. 265 e- 266 b. (2) V. Tim. IVI b, Leggi d, ecc. Stema fosse vero, es^o no:i darebbe una soddisfazione reale al nostro bisogno di conr scere le cause efficienti, ma a queste cause che aspiriamo a cuioecere, sostitui- rebbe un succedaneo (1). L'insufficienza delle due spie- gazioni, «{uella del realismo dialett''co e quella della filo- sofia istintiva, ci dà ragione del fatto che non vi ha un sist ma, in cui la prima di queste spiegazioni non sia accompagnata dall' altra {•>), Tra le varie forne della filosofia istintiva, quella che era più in armonia col si- stema dell 1 Idee pUtonich^, era la teologica. Il sustrato della filosofia di Platone è una concezione del mondo che abbiamo chiamato organlcista, cioè domiuata dai concetti desunti dall'osservazione degli esseri viventi, e in cui Tessere vivente stesso è elevato a tipo di tutti glesseri in generale (3). L' infiiunza di questa eonce/ione organichta del mondo sul sistema delle Idee si osserva nell'ipotesi delle Idee stesse e sovratutto nei due tratti ca- ratteristici della dialettica f»latonica, cioè la dieresi, e TI. dea del Bene elevata a forma universale e principio primo di tutti gli esseri (4). Questa stessa concezione condu ce per una doppia via alla dottrina dell' anima cosmica : cioè assimilando il mondo e i corpi celesti agli esseri vi* venti, e suggerendo una spiegazione teleologica dell' u- niverso, che, se consiste in concetti chiari e non in una vaga e incosciente personlfieaz'one di ciò che si sa es- sere impersonale (o), non può non essere al tempo stesso (1) Cfr. voi. 2. p. 4455. (i) V. voi. 2. p. 464-465. (3) V. nota 3 a pag. 263, voi. 2. (4) V. la stos-ja nota 3 a p. 263, voi. 2. (5; V. «appi. C, IV, caria 2:?T. — -J.ST — . /- \ -ar-- Jf-» m una spieg^azione teologica. Naturalmente questa spie- gazione teleologica delle cose per un agente perso- nale è suggerita più immediatamente dal posto e la funzione deir Idea del Bene nella dialettica se non è essa piuttosto che li ha suggeriti (1)—. Cosi le due parti della metafìsica di Platone, cioè la teoria delle Idee e quella dell'anima, lungi di essere in contraddizione, si completano e si chiamano Tuna con l'altra. Noi abbia- mo visto pure la dipendenza reciproca tra le dottrine di Platone suir anima cosmica e quelle sull' anima indivi- duale (2), Quantunque Tanima sia un essere metaemplrico e la causa prima deh' universo fenomenale, è evidente che nella grande divisione degli esseri di cui è quistione nella filosofia platonica, essa deve classarsi insieme coi fenomeni. Al punto di vista del sistema delle Idee, la distinzione più profonda è quella tra l'astratto e il con- creto, tra Tuniversale e l'Individuale. Cosi vi hanno da una parte le entità astratte e universali— che nella prima forma della filosofia platonica sono considerate tutte come Idee, e nella seconda forma si distinguono in Idee ed entità matematiche (3)-e da un'altra parte le cose con- crete e individuali. Le prime sono riguardate come la vera realtà, le seconde come fenomeni (4). Non vi ha fra queste due classi alcun termine medio, e V anima, non esseado un'entità astratta ma una sostanzi concreta, deve far parte evidentemente della seconda. Ne segue che il rapporto dell' anima con le Idee non può essere (1) Cfr. Sappi. C, IV, e. 237. (2) V. sopra, carta 283, p. 2*. (3> V. Sappi, C, 111, o. 210. U) V. Sappi. B, parto I n. IX. diverso da quello che le altre cose fenomenali hanno con esse. Questo è, come sappiamo, che in tutte le cose appartenenti a una stessa classe è presente un'Idea unica/ che non è che la sostantifìcazione dell'attributo o somma d'attributi comune a tutta la classe. Per conseguenza in tutte le sostanze che si chiamano anima è presente una Idea unica, V Idea dell' anima, come in tutti gli esseri che si chiamano uomo, animale, albero, ecc. è presente l'Idea unfca dell' uomo, dell' animale, dell' albero, ecc. Naturalmente l'Idea dell'anima, come tutte le altre, ha i suo posto determinato nella gerarchia del mondo idealei vale a dire essa è contenuta in un'Idea più generale, questa in un'altra ancora più generale, e cosi di seguito, sicché si giunga al contenente universale, che è l'Idea del Bene : l'Idea dell' anima dunque, e quindi 1' anima stessa, parteciperà a tutte queste Idee di più in più ge- nerali a cui è subordinata. Se la classe generale anima cuotiene altre classi inferiori, che bisogna distinguere per difierenze essenziali, l'Idea generale dell'anima con- terrà altre Idee meno generali, corrispondenti ciascun a a ciascuna di queste classi inferiori. Ma tutte le anime individuali (compresa l'anima cosmica, che è anch'essa un essere individuale e concreto, e non un'entità astratta e generale) non potranno partecipare che all'Idea che è l'obbiettivazlone del loro concetto comune, e alle Idee più generali che sono 1' obbiettivazione dei concetti più estesi in cui esso è contenuto : V anima avendo un' es- senza particolare e distinta da tutte le altre cose, a que- st'essenza deve corrispondere un'Idea pariicolare e di- stinta da tutte le altre Idee. Vi hanno tuttavia degl'in- terpreti che pretendono che l'anima non partecipa a u- n'Idea unica, cioè l'Idea speciale dell'anima, ma a tutto il mondo ideale. Questa interpretazione misconosce il — 288 -^ concetto tbndamentale della dottrina di Platone sul!' a- nima, cioè che questa è una srstanza distinta, e non, p. e., la forma del corpo, come per Aristotile. E:«sa po- trebbe avere un senso, se ranima cosmica fosse per Pla- tone la forma deiruoiverso: ma con una tale ipotesi ^li si presterebbe gratuitamente un concetto, che non tro- viamo rò in lui nò in alcun altro d<i filosofi antichi, compresi i panteisti, che hanno ammesso un' anima del mondo (perche lutti presuppongono Panimismo, cioè la teoria della sostanza anima, quantunque questa secondo alcuni sa convertibile con le sostanze materiali, secon- do altri, come Platone, inconvertibile) 0). I/interpreta- zione in verità può anche avere un altro senso, indipen- dente da (|uest'ipotesi; sarebbe la dottrina dcir identità dell'essere e del pensiero: ma anche questa, come ve- dremo nel n. Ili, non può prestarsi a Platone che gra- tuitamente. Il concetto che l'anima partecipa a tutto il mondo ideale si fonda su un' interpretazione arbitraria della composizione dell'anima cosmica nel Timeo, che abbiamo discusso nel Supplcm. C, n. IV A (sulla fine). Ivi abbiamo visto cho la composizione dell' anima non difìeri^ce da quoli.i delle altre erse nel porlo lo pita^o- reggiante della filosofia platonica. Oltre che dt-lla sua Idea speciale e della materia, essasi compone anche dri due clementi (l'Uno e la Dualtà indefinita, eh"» nel Ti- nieo sono chiamati lo Stesso e il Diverso). Ma anche questa seconda composizione non è particolare all'ani- ma; perchè tutte le Idee e tuite le cose, nel periodo pi- tagoreggiaute, sono composti^ dei due elementi 2 : ciò (1) V. e. 2 5^ i». ri) V. Sappi. C, II. 11. che è particolare all'anima non è chela sua applicazione gnoseologica (1), cioè la spiegazione della possibilità della conoscenza per l'identità degli elementi del soggetto co- noscente e degli oggetti conoscibili. Secondo alcuni interpreti V anima sarebbe per Pla- tone un' entità intermediaria e, siccome le entità inter- mediarie sono le entità matematiche, anche un' entità matematica. Questo concetto, che rimonta ai neoplatonici. è fondato sull'interpretazione trascendentalista delle Idee platoniche, quantunque, come suole avvenire quando si tratta delle opinioni stabilite, esso si dia spesso come una prova di quest'interpretazione stessa di cui è una con- spguenza. Nell'interpretazione trascendentalista, come abbiamo osservato, la causalità universale delle Idee verso i fenomeni è incompatibile con quella dell'anima: p« r risolvere questa contraddizione si suppone che le Idee non siano che le cause remote dei fenomeni, ed agiscano sul mondo sensibile per l'intermediario dell'a- nima, che sarebbe la causa prossima. Questa fanzione dell'anima di intermediaria fra le Idee e le cose sembra più necessaria nella forma dell'interpretazione trascen- dentalista preferita dai critici moderni, secondo cui le Idee sarebbero, non dei pensieri dell'intelligenza crea- trice, ma delle sostanze obbiettive separate dalle cose : in questo caso infatti ogni efficienza diretta delle Idee diviene incomprensibile, e si crede perciò indispensabile Pintervento di un principio attivo come l'anima, per mezzo di cui possa esercitarsi la loro influenza sui fe- nomeni. Ora, se l'anima è una sostanza intermediaria fra le Idee e le cose, essa deve essere anche, come ab- 0) V. Sappi. C, IV, o. 240 e 242. — 28y - biamo osservato, un'entità matematica, perchè nel si- stema platonico, come sappiamo da Aristotile, il posto d'intei mediar! fra le Idee e le cose non è assegnato che alle entità matematiche. Per noire poi dei concetti cosi disparati quali sono quelli dell'anima e delle entità ma- temati'^he, si ricorre come termine medio a quest' altro concetto che le entità matematiche sono le Idee nel loro rapporto con la materia, cioè come leggi del mondo sensibile— perchè, Platone riguardando il mondo come un essere vivente, si crede di poter identificare le leggi dei fenomeni alle funzioni di un essere vivente, e queste al- Taniroa che lo vivifica— .Che le entità matematiche, in- fine, siano le Idee nel loro rapporto con la materia o le leggi del mondo sensibile, sarebbe provato dal FiZeò^, il TzépoLz di cui si tratta in questo dialogo, equivalendo, se- condo questi interpreti, ai Numeri matematici dell'espo- sizione aristotelica. Cosi questa costruzione è fondata sui presupposti seguenti : ì^ Che le Idee siano fuori delle cose. Noi l'abbiamo confutato nel Suppl. B. 2<* Che le entità matematiche rappresentano tutti gli attributi delle cose, e sono intermediarie in quanto tra- mezzano tra le Idee e le cose considerate nell* insieme dei loro attributi. Noi abbiamo visto invece (nel Sup- plem. C, n. Ili) che esse non rappresentano che i soli attributi aritmetici e geometrici delle cose, e che non tramezzano che tra i numeri ideali, in quanto costitui- scono le Idee (cioè i concetti obbiettivati più generali) dì questi attributi, e questi attributi nelle cose stesse, cioè individualizzati. Questo 2" presupposto è il punto di partenza per identificare l'anima, come principio me- diatore, alle entità matematiche, ed è contenuto impli- citamonte nella sopposiz'one che le entità matematiche sono le Idee nel loro rapporto con la materia o le leggi del mondo sensibile. 3<> Che il TzépoL(; del Filébo equivalga ai Numeri ma- tematici, ciò che proverebbe (vista l'evidente immanenza del «épas) che questi numeri sono nelle cose stesse— altro presupposto implicato nella supposizione che le entità matematiche sono le Idee nel loro rapporto con la ma- teria 0 le leggi del mondo sensibile. — Noi abbiamo visto che questa equivalenza tra il népa^ del /^ilebo e i Numeri matematici è inammissibile, e che la supposizione che i Numeri matematici e in generale le Entità matematiche sono nelle cose, è in contraddizione col 1*^ presupposto che è il fondamento ultimo di tutta la costruzione, cioè che le Idee sono fuori delle cose (1). 4^ Che le leggi del mondo sensibile possano identi- ficarsi con Tanima cosmica. Questa identificazione è una assurdità, perchè l'anima per Platone è una sostanza di- stinta : essa sarebbe tutto al più possibile se 1' anima fosse per lui, come p. e. per Aristotile, una semplice a- strazione, designante l'insieme delle funzioni della vita. Inoltre essa implica l'identità del népa^ del Filebo e del- l'anima, mentre Platone ne fa due generi assolutamente distinti. Evidentemenle gP interpreti trascendentalisti delle Idee platoniche devono avere una ben misera idea di Platone come pensatore, per potergli attribuire il cumulo di non sensi espresso in questa proposizione che l'anima è identica agli oggetti matematici e ai rapporti numerici (1> V. Sappi. C, IV. e. 246-249 — 200 - e metrici del Tispag del Filebo. L'anima per Platone è, lo sappiamo, una sostanza particolare, invisibile^ almeno per gli uomini^ ma estesa, in un movimento continuo, muovente la materia per la comunicazione del proprio movimento, e avente col corpo ch'essa anima determi- nati rapporti di posizione reciproca (I). Il népa; e le en- tità matematiche non sono che certi attribuii delle cose, considerati come esistenti per gè stessi, come tutte le al- tre entità della metafisica platonica. L'anima del mondo dunque e il mondo stesso sono due sostanze distiiite ed esteriori l'una all'altra ; il Tiépag, al contrario, come sono costretti ad ammetterlo gli steFsi interpreti trascenden- talisti, e quindi anche le entità matematiche, poiché gli equivalgono, esistono negli oggetti stessi che com- pongono Jl mondo, non sono un'altra cosa che viene ad aggiungersi a questi cggelt», ma un loro elemento ccn- cettuale, distinto realmente dagli altri, ma come in un tutto una parte si distingue dalle altre. Il Tiépag e le entità matematiche sono degli astratti, l'anima del mondo è una realtà concreta; quelli sono degli universali, que- sta è un essere individuale; i primi sono esenti dal can- giamento, come tutte le astrazioni realizzate di Platone e di qualsiasi altro realista dialettico, la seconda è il tipo più completo del divenire eraclitico. L' identifica- zione di concetti cosi disparati farebbe cosi poco vero. (1) Noi abbiamo visto che le tre parti deU' anima umana sono alloggiate nelle tre cavità del corpo. Sull'anima del sole Platone fra tre ipotesi (Leggi 898e-899a) : o sta dentro il sole come la nostra anima dentro il nostro corpo, o lo spinge dal di fuori «tando in un altro corpo, ovvero lo conduce essendo essa stessa s«nza corpo (ciò che, secondo i prinoipii di Platone, implica pure la supposizione che lo spinge dal di fuori). Simile— non solo nel divino Platone, come lo chiamano, certamente per un omaggio puramente convenzionale, gl'interpreti trascendentalista', ma in qualsiasi filosofo a cui possa farsi la modesta lode che sa quello che dice— che quand'anche essa fosse l' interpretazione più natu- rale dei testi, noi dovremmo rigettarla, e preferirne qua- lunque altra possibile, purché avesse un senso qualsiasi, anche il meno ovvio. Ma questa identificazione, lungi di essere l'interpre- tazione più naturale dei testi, è interamente gratuita ed arbitraria. L'identità dell'anima col Tiépa; non potrebbe essere provata che dal Filebo^ perchè il concetto del Jiépag è particolare al solo Filébo\ ma noi abbiamo visto che in questo dialogo gli esseri sono divisi in quattro generi, e che del Tcépa; e dell'anima si fanno due generi di- stinti (1). Né Aristotile né alcun altro autore, che possa considerarsi come una fonte storica par la filosofia pla- tonica, parla dell'identità dell'anima con gli oggetti ma- tematici 0 di alcun altro concetto simile. Le proposizioni in cui l'anima o la sua attività é mesm in rapporto coi numeri, non possono pro\rare l'identità, o anche un le- game speciale, tra essa e i numeri matematici, perché non sono evidentemente che delle applicazioni della dot- trina generale del picagorismo e del platonismo pitago- reggiante che ress3nza di tutte le cose consiste nei nu- meri. Xenocrate definisce l'anima: un nume roche muove se stesso; ma qu^jsta definizione non è che la fusione di due concetti che noi conosciamo suU' essenza dell' ani- ma, l'uno che essa é un numero, come quella di tutte le altre cose nel periodo pitagoregglante, e 1' altro che è ciò che muove S3 stesio. Vi ha d'altron le un'altra ra- (1) V. Sappi. B carte 97-100 e Sappi. C, IV, e. 247-249. — 291 — >^ hi gione per cui il numero, con cui Xeuocrate identifica Ta- nima, non potrebbe essere il numero matematico, quale entità d'Stinta dal numero ideale e intermediaria : è che egli non distingue più il numero ideale e il matema- tico, e non ammette più, quindi, le entità matema- tiche come intermediarie (1). Platone, come ci rife. risce Aristotile fin De an. 1. i« e. 2° 7), ha ammesso che r intelligenza è il numero uno, la scienza il nu- mero due, r opinione il numero della superficie, e il senso il numero del solido : ma si vede da questo luogo stesso che questi numeri non sono che dei numeri ideali, perchè i numeri della soperficie e del solido rappresen- tano le Idee a cui sono subordinati tutte le superficie e tutti i solidi matematici (2), e Asistotile afferma inoltre espliciUmente che i numeri di cui si tratta sono la stessa cosa che le Idee. La costruzione dell'anima nel Timeo^ su cui si fonda sovratutto V interpretazione che discu- tiamo, non è più probante, in sostanza, delle proposi- zioni precedenti. Le prove che vi si vedono sono : 1*^ L'anima, si dice, è composta del mondo ideale e della materia : se ne conclude che essa deve equivalere agli oggetti matematici, poiché questi sono Idee ranno- date con la materia, cioè come leggi del mondo sensi- bile—Noi abbiamo visto che non vi ha alcuna ragione per ammettere che Tanima è composta del mondo ideale, poiché, dovendo essa avere un' Idea propria, il più na- turale è d'intendere per Vessenza indivisibile^ non tutte le Idee, ma l'Idea dell'anima, e in quanto allo Stesso^ questo non può essere che l'uno dei due elementi (3). (1) V. Sappi, e, n. V. (2) V. Sappi. C, n. III. e. 196-198. (3) V. Sappi. C, IV, e. 839-242, e cfr. qae^to Sappi, o. Ma quand' anche V anima fos^e composta di tutte le Idee, non se ne potrebbe concludere la sua equivalenza con le entità matematiche. Questa conclusione suppone che queste entità partecipano a tutte le Idee, tramez- zando tra esse eie cose considerate nell'insieme dei loro attributi. Noi sappiamo invece (ì) che le entità mate- matiche, non avendo per contenuto che gli attributi ma- tematici delle cose, partecipano ai numeri ideali solo in quanto essi rappresentano le Idee di questi attributi, e non tramezzano che tra queste Idee e questi attributi nelle cose, cioè individualizzati. 2^ L'anima ha una natura media tra V essenza in- divisibile, cioè le Idee, e l'essenza divisibile, cioè la ma- teria (2) : ciò confermerebbe che essa equivale alle en- tità matematiche, poiché le entità intermediarie non sono che le matematiche—Questa prova è fondata, come la precedente, sui duo presupposti erronei che 1' anima è composta di tutte le Idee, e che le entità matematiche tramezzano tra la totalità delle Idee e le cose conside- rate nella totalità dei loro attributi. Inoltre essa con- clude affrettatamente dalla somiglianza dei termini alla identità dei concetti, supponendo come una cosa che va da sé che l'anima deve essere media nello stesso senso in cui lo sono le entità intermediarie ch3 conosciamo da Aristotile, e trascurando come di nessun rilievo la dif- ferenza che queste sono medie tra le Idee e le cose sen- sibili, mentre l'anima non sarebbe media che tra le Idee e la materia (cioè uno dei principi! da cui risultano le cose sensibili). Qaesta differenza è invece d' un' impor- -]i (X) V. Sappi. C, n. ITT. (2) V. Sappi, C, IV, e. 239. — 292 - fcanza capitale, perchè le entità intermediarie che ci fa conoscere Aristotile sono dette tali, in quanto sono po- steriori alle'Idee> anteriori alle cose sensibili, o (a un punto di vista^l^seniplicemente log-ico) in quanto hanno un grado di generalità medio fra le Idee e le cose sen- sibili, essendo comprese sotto le une come più partico- lari, e comprendendo le altre come più generali. Ma è evidente che Platone non può voler dire che l'anima è posteriore alle Idee e anteriore alla materia, o che è compresa sotto le Idee, essendone più particolare, e com- prende la materia, essendone più generale. In qual sen- so Tanima sia media tra il principio ideale e la materia ci è indicato dal Timeo smesso 50 d, dove ciò che nasce (il fenomeno) è chiamato la natura media tra e ò in cui nasce (la materia) e ciò a somiglianza di cui nasce (ri- dea). L'anima, come le altre cose individuali, ha una na- tura media tra Tldea e la materia, perchè tutte le cose individuali sono composte dell' Idea e della materia, e un composto deve avere delle qualità medie tra quelle degli elementi che lo compongono (1). 3^ L' anima cosmica deve equivalere agli oggetti matematici, perchè essa comprende in sé i rapporti ar- monici «matematici del sistema astronomico— infatti e.-^sa è divisa in parti proporz onali ai numeri del diagramma musicale, e poi in cerchi rappresentanti le rivoluzioni degli astri, e di cui quelli che rappresentano le orbite dei pianeti sono proporzionali ai numeri fondamentali del diagramma stesso (Tim. 35b-36d)— Ma che l'anima comprenda in sé dei rapporti armonici e matematici non è una ragione per identifìearla con le entità matema- é tlche. Sì avrebbe lo stesso dritto di identificare con esse gli elementi materiali, perchè formano una proporzione geometrica (l)"*e sono distinti p^r mezzo di figure e di numeri (2). Non vi ha, nell'uno e nelì' altro caso, che un' applicazione dei principii generali del pitagorismo. Sj dirà che ciò che prova che V anima cosmica equivale alle entità matematiche, non è solamente che essa com- prendejn se dei rapporti armonici e matematici, ma che questi sono quelli del sistema astronomico. Ma la corri- spondenza di questi rapporti nell'anima e neiruniverso, quand'anche fosse compi ta, non potrebbe significare la loro identità, nel senso stretto d^lla parola; e d'altronde questa corrispondenza si spiega sufficientemente al punto di vista dell'animismo, l'anima di un essere, in tutte le forme di questa dottrina, essendo, con più o meno e- sattezza, un duplicato dell'essere stesso. II L' interpretazione teistica del sislema delle Idee Secondo alcuni Dio equivale per Platone al Bene, 0 all'insieme di tutte le Idee, o all'uno e all'altro, perchè il Bene comprenderebbe in sé Tinsieme di tutte le Idee. Queste opinioni si fondano sull'interpretazione delle Idee platoniche-anche oggi la più diffusa tra le persone colte, quantunque abbandonata dalla più parte dei critici-che vede in esse i pensieri eterni della divinità creatrice, di U) Cfr. Sappi. C, IV. carta 241. (1) Tim. 31c-32c. (2) Tim, 53b e «eg. — 293 — cui Tuoi verso sarebbe la realizzazione. Questa interpre- tazione della doftrina delle Idee è stata da noi implici- tamente confutati nel Supplemento B, dove abbiamo sta- bilito invece che le Id^ non sono che gli attributi ge- nerali delle cose, considerati come delle realtà sussistenti per se stesse, e di cui ciascuno, uno in se stesso, esiste simultaneamente, senza moltiplicarsi e senza dividersi, in tutti gli oggetti a cui viene attribuito. Tuttavia, siccome nella 2^ parte del Supplemento stesso, in cui abbiamo" esaminato i motivi dell'interpreta «ione trascendentalista, abbiamo tenuto conto sovratutto di quelli su cui è fon- data la forma di quest'interpretazione che considera le Idee come delle forme puramente obbiettive, gioverà forse di esaminare a parte quelli su cui si basa Taltra forma, cioè la teistica, ciò che potrà servire di complemento alla dimostrazione della nostra interpretazione. Dopo ciò che abbiamo detto nel Supplemento B si spiega facilmente parche airinterpretazione teistica sia stata dai critici moderni preferita T altra forma deirin- terpretazione trascendentalista. Questa comprende almeno il tratto più caratteristico e più evidente della dottrina delle Idee, cioè che e'^sa sono delle entità astratte, gli attributi generali delle cose considerati come sostanze, quantunque fraintenda la dottrina in un altro punto im- portante, cioè ammettendo che questi attributi generali delle cose non sono quelli delle cose stesse, ma un loro duplicato. Ma l'Interpretazione teistica la fraintende anche nel primo punto, e per conseguenza non vi ha un luogo di Platone con cui non sia nella contraddizione più aperta. Una delle determinazioni più importanti delle Idee, ol- tre quelle che dimo3trano immediatamente che sono gli attributi delle cose Hosfcautificati, è che vengono riguar- date come il solo essere varo, e le cose individuali come un semplice fenomeno, Anch*essa è più manifestamente incompatibile con Tinterpretazione teistica che con l'al- tra forma dell'interpretazione trascendentalista : alla dif- ficoltà che ha in comune con la seconda, cioè di am- mettere un'altra realtà distinta e separata dall'essere véro^ la prima ne aggiunge un'altra più evidente, cioè che le Idee, che non sarebbero che dei possibili concepiti dal- l'intelligenza creatrice, verrebbero riguardate come più reali delle cose, che ne sarebbero* la realizzazione. SI aggiunga che T interpretazione teistica ha contro di sé, non solo le prove dell'immanenza delle Idee, ma anche le più importanti delle prove contro di questa, quali so- no la sostanzialità delle Idee (che, come abbiamo osser- vato, è il motivo principale dell' Inter pretaztone trascen- dentalista) (1), la testimonianza d'Aristotile, e i miti del Timeo e del Fedro^ in cui le Idee sono rappresentate come degli oggetti separati dal mondo^ ma distinti pure dal pensiero che li contempla. Lo stesso vantaggio del- l'interpretazione teistica, di dare all' ipotesi delle Idee uno scopo, che le manca assolutamente nell' interpreta- zione più ricevuta, costituisce, in ultima analisi, un al- tro argomento contro di essa, perchè, se le Idee fossero I pensieri dell'intelligenza creatrice, sarebbero le cause efficienti delle cose, nel significato proprio e naturale della causa efficiente (il sistema delle Idee, secondo la interpretazione teistica, non essendo che un caso della filosofia istintiva del nostro spirito). Ora ciò è escluso dalla testimonianza d'Aristotile, che nega alle Idee ogni causalità nel senso proprio, e afferma che Platone non ha ricercato che la causa formale e la causa mate- (1) V. Sappi, B carta riale (O-Arrstotile, nella sua esposizione della lllosofìa platonica, non fa parola deiranima del mondo, e tiene conto unicamente del sistema delle Idee-.La testimo- nianza d'Aristotile è confermata, in sostanza, da un e- same attento della dialettica platonica, che ci mostra che le Idee sono causp, ma in un senso analogico e molto lontano dalla nozione spontanea che ci formiamo della causalità; e d'altronde, in questo senso stesso, esse sono cause le une delle altre, ma non dei fenomeni. Alle prove contro l'interpretazione teistica fondate sulla dot- trina stessa delle Idee, «e ne aggiungono altre fondate su altri concetti della filosofia platonica, cioè che Pia- tone non ammette altra divinità che l'anima cosmica (2), che l'intelligenza secondo lui non si trova altrove che nell'anima (3), che egli non conosce altra causazione, nel senso proprio, che quella che consiste in una successio- ne (4), ecc. Le due forme dell' interpretazione trascen- dentalista delle Idee platoniche ci danno gli esempi più colpenti delle due maniere più abituali di trattare la storia della filosofia : l'una che pretende fondarsi su un esame scrupoloso dei testi, ma per difetto di sìntesi e di un concetto esatto dei motivi e della genesi della spe- CQlazione metafisica, non riesce a dare ai sistemi un significato intelligibile; Taltra che pretende costruire i sistemi, ed è interamente arbitraria. Naturalmente T e- sempio della seconda maniera è l' interpretazione tei- stica. L'oggetto di questa seconda parte di questo Sap- 0) Met, 1. I. JX. 6, 8, 11-12, 13, 21, VI. 7, ecc. (2) V. Sappi. C, IV, e. 224. ^) V. Sappi. C, IV, o. 223 pag. 2-. (4) V. Sappi. C, IV, e. 229. E plemento non è un eFame completo dell' interpretazione teistica. Esso importerebbe delle ripetizioni inutili, per- chè bisognerebbe ritornare sulle prove dell' immanenza delle Idee che abbiamo date nel Supplemento B. Qui ci limiteremo dunque a discutere le prove su cui e fondata quest'interpretazione. Siccome l'immanenza delle Idee ci sembra sufficientemente stabilita, se queste prove fossero coacludenti, dovremmo confessare che vi ha in Platone una contraddizione insolubile. Noi mostreremo che questa contraddizione non esiste, e che le proposizioni di Pla- tone su cui si basa l' interpretazione teistica, si spie- «•ano anche, e d'una maniera più sodlisfacpnte, nella nostra interpretazione. I motivi precipui, se non unici, dell'interpretazione teistica possono ridursi ai seguenti : !• Il significato che U parola idea ha nelle lingue moderne. Noi abbiamo osservat'^, dopo tanti altri, che in greco lÒi% non ha questo significato 0). Se si riflette che gli errori del volgare influiscono spesso anche suUe memi dei pensatori, non si troverà strano che questo equivoco sul significato della parola idea figuri anch'esso tra i motivi dell'interpretazione teistica. E hso, a dir vero, non ha potuto contribuire che alla sua diffusione, ma non alla sua ergine, essendo anzi quest'interpretazione che ha determinato il passaggio dal significato antico del termine al suo significato moderno. Certamente l'in- terprete teistico non ignora che ISsa non significa pen- siero-, ma quando egli dice che le Idee platoniche sono i pensieri dt>ll i divinità, una gran parte del pubblico a cui si rivolge trova naturalissimo che un'idea deve es- ci) V. Sappi. B, caria 12 nota 1. — 295 — sere il peDsiero di qualcuno, e si sa che, nelle quistioni filosofiche, il successo delle opinioni non dipende sola- mente dal suffragio dei dotti. 20 II teismo di Platone e la sua dottrJna cLe la di- vinità è la causa prima di tutti i fenomeni. Siccome per Platone le cause delle cose sono le Idee e la causa di tutto é l'Idea del Bene, se ne conclude che Dio deve essere identico a tutte le Idee o alPIdea del Bene— Noi abbiamo osservato che vi hanno nella filosofia platonica due sensi della parola causa, corrispondenti a due spie- gazioni del mondo, simultanee ma assolutamente di- stinte. In un senso, la causa vuol dire la causa effi- ciente, nel significato proprio del termine (quello che esso ha nella filosofia istintiva dello spirto umano). É in questo senso che la causa prima è la divinità. Il se- condo senso della parola causa è quello che essa ha nel realismo dialettico, e non è che T obbietti vazione del rapporto logico fra i concetti realizzati. É in questo sen- so che la causa di tutto è Pldea del Bene. Le Idee, a parlar propriamente, non sono cause delle cose in questo secondo senso, ma nemmeno nel primo. La causa, nel primo senso, è esteriore airefletto, mentre le Ide«i sono nelle cose, ne sono Telemento costante e veramente reale, da cui dipende il loro essere e la loro essenza. Il senso in cui le Idee sono cause delle cose, se non è precisa- mente identico al secondo senso (cioè a qu«^llo che è Tob- biettivazione del rapporto tra il principio e la conse guenza), può però ricondursi con esso a un concetto comune, perchè in entrambi i casi è il generale che viene riguajdato come causa, e i particolari subordinati come effetti. L'interprete teistico confonde questi sensi evidentemente distinti della causa in Platone, perchè non comprende né l'immanenza delle Idee ne il vero signi- ficato della dialettica. 3^ Il nome di dio che Platone dà al Bene e ad altre Idee, e quello di divino che dà a tutte le Idee in gene- rale. Il Bene è chiamato dio nel X libro della Repub- blica, dove dice che Dio ha prodotto Tldea del letto e ogni altra Idea (i). Ma qualunque sia la maniera d'in- terpretare le Idee platoniche, non può vedersi in questa deificazione del Bene che una semplice metafora, poiché il Bene è evidentemente un'Idea come tutte le altre, e non differisce dalle altre che perchè occupa il primo po- sto nella gerarchia del mondo ideale (cioè perché è la più universale dì tutte, e per conseguenza, secondo i principii della dialettica platonica, quella da cui tutte le altre si deducono). L'Idea del Bene, in qualsiasi in- terpretazione delle Idee, non può essere che Tastrazione bene (cioè l'attributo comune a tutte le cose che si dì- cono buone) esistente sotto una forma o sotto un'altra : se si ammette che queste astrazioni che Platone chiama Idee non hanno che un'esistenza mentale, e sono i pen- sieri dell'intelligenza divina, l' Idea del Bene sarà un pensiero dell'intelligenza divina, ma non l' intelligenza divina stessa che è il substratum o il complesso di questi pensieri (2). Si dirà che l'Idea del Bene comprende in sé l'insieme di tutte le Idee, e che è perciò che Platone può identificarla con l'intelligenza divina. Ma l'Idea del Bene non può contenere le altre Idee che come un con- cetto generale contiene i concetti più particolari subor- * dinati, cioè in estensione, e non in comprensione (ciò che sarebbe necessario perchè potesse riguardarsi come equivalente a tutto il mondo ideale). Nel secondo caso (1; (2) Cfr. Sappi. C, IV, o. 232. — 2% — il cooteouto dell'Idea del Bene sarebbe tuti' altro che quello del concetto astratto di 6ew^; mentre è evidente che le Idee platoniche, che esse esistano nelle cose o fuori delle cose, che siano delle realtà obbiettive o dei semplici pensieri, non potrebbero avere, in ogni caso, altro contenuto che quello dei concetti «stratti che loro corrispondono. Delle Idee altre che il B.3ne sono chia- mate dio nel Timeo die e nel Parmenide 134c-d. Nel primo di questi luoghi II mondo è detto « dio sensibile immagine del dio intelligibile», e l'interprete teistico ne conclude che, questo « dio intelligibile » essendo il mo- dello del mondo. Dìo è per Platone la stessa cosa che l'insieme delle Idee. Ma l'altro luogo del Timeo stesso. 37c, in cui il mondo è chiamato « simulacro degli dei eterni », mostra che questa conclusione è affrettata, e che Platone chiama dio anche delle Idee particolari, la cui personificaz'one nell'interpretazione, teistica è altrettanto impossibile che nella nostra, perchè non sarebbero se- condo essa che dei pensieri particolari della divinità. Un'osservazione analoga vale pel luogo del Parmenide. Ivi è chiamato dio il soggetto in cui risiedono la scienza in sé e la padronanza in 8è (donde potrebbe conclu- dersi che le Idee secondo Platone risiedono in Dio) Ma in seguito (134 d-e), invece di un sogifetto unico, si parla di più soggetti, cioè di dei al plurale, co che e- sclude che la scienza e la padronanza in sé risiedano nel Dio di cui è quistiooe n^W interpretazione teistica, che è naturalmente uno solo (1). lu quanto all' epiteto divino dato alle Idee in genera'o, esso non é per Pla- tone (e quest'uso del tcrmme non gli è particolare) che (1) Cfr. questo «uppl. e. 280 e cap. VII pag. J89, un sinonimo di eccellente, E ciò che si vede chiaramente nel Fedone 85e-86 a (l'armonia è divina, la lira e le corde sono terrestri e affini al mortale), 86c (l' anima è divinissima— nell'ipotesi che sia l'armonia del corpo—), 9i d (è più divina del corpo — nella stessa ipotesi—), Fedro 246 e (il divino è il bello, il saggio, il buono e tutto ciò che è tale), Bep. 500 d (sono chiamati divini tanto le Idee quanto il filosofo che le contempla), e ia tanti altri luoghi, in cui nessuno potrebbe essere tentato d'intendere per divino un attributo o un' appartenenza della divinità. 4« Il Demiurgo del Timeo. Il racconto del TimeOj se si prende alla lettera, è una prova dell' altra forma dell'interpretazione trascendentalista, perchè ci si parla di un demiurgo che ha costruito il mondo contemplando le Idee come modelli. Ma l'interprete teistico osserva con ragione che questa non è filosofia, ma mitologia : egli ne conclude che la distinzione tra il demiurgo che con- templa e il modello che è contemplato è una semplice immagine che non deve prendersi alla lettera, e che in realtà il demiurgo contempla il modello in se stesso, in altri termini che le Idee sono i pensieri del demiurgo, cioè dell'intelligenza creatrice. Ma se, non contenti del significato apparente del racconto del Timeo, si crede necessario di cercargliene uno riposto, non bisogna pre- ferire quello che sembra all'interprete stesso più soddi- sfacente come dottrina filosofica, ma quello che è indi- cato dalle proposizioni del Timeo stesso, dall' insieme delle dottrine di Platone e dalla testimonianza dei suoi discepoli immediati e dei loro contemporanei. Ora noiabbiamo visto che queste indicazioni concordano nel mostrarci che il Demiurgo non è un essere realmente personale, ma la personificazione di un' entità astratta^ — 297 ^ 1 cioè un simbolo dell'Idea del Bene, e che la cosmogonia del Timeo è un'allegoria della derivazione delle cose dai due primi principii (1). L'opinione deirinterprete teistico è senza dubbio più filosofica e più intelHgibMe che quelle dei sostenitori dell'altra forma dell' interpretazione tra- scendentalista, che prendono il Demiurgo alla lettera, considerandolo sia come un elemento filosofico dei si- stema platonico sia come un semplice elemento rappre- sentativo (cioè privo, per Fautore stesso, che lo ammette, di qualsiasi valore filoso fico -situazione psicologica che non è certamente facile a concepire) : ma questo van- taggio relativo non può bastare a provarla, quantunque basti per vedere nella cosmogonia del Timeo uno dei motivi precipui dall'interpretazione teistica. 50 L'arduità del sistema delle Idee e la familiarità del concettualismo e della filosofia teologica. Ciò fa che, sfuggendo il significato reale del primo, si cerca di dar- gliene uno riconducendolo ai secondi. Quantunque, come abbiamo mostrato nel V capitolo del Saggio P, un pen- siero astratto e generale è altrettanto inconcepibile che un essere astratto e generale, vi ha però tra le due ipotesi questa dififerenza, che la prima è ammessa da quasi tutti i filosofi e tutte le persone colte, ed è un prodotto spon- taneo dei sofismi a priori del nostro spirito, mentre la seconda non ha avuto, almeno nella filosofia moderna, che un numero molto esiguo di partigiani, ed èia meno naturale delle spiegazioni del mondo escogitate dai me- tafisici. All'epoca di Platone l'equivoco dell'interprete teistico di prendere un'entità astratta per un pensiero astratto non sarebbe stato cosi facile come ora, non solo perchè la teoria dei concetti verisimilmente non era ancora (1) V. Sappi. C, n. IV. stabilita, ma anche perchè Aristotile, a quanto sappiamo, è il primo che abbia ammesso la dottrina dell'immuta- bilità di Dio, e per conseguenza quella dell'eternità dei pensieri divini, che dà al Dio della filosofia teologica mo- derna (tanto più se si riguarda come una pura intelligenza) una certa aria di somiglianza col mondo ideale di Platone, specialmente interpretato alla maniera trascendentalista. L'altro elemento della dottrina delle Idee, cioè la dialettica, non è meno arduo che l'ipotesi delle Idee stesse. Que- st'arduità della dialettica è dovuta, oltre che alla diffor- mità del concetto di causalità su cui essa è fondata, dal- l'idea spontanea della causalità, alla maniera imperfetta in cui applica questo concetto. Aggiungiamo che nella supposizione della trascendenza delle Idee (ammessa da quasi tutti gl'interpreti) essa diviene necesssariamenle incomprensibile (1). Da queste difficoltà di comprendere la dialettica, senza di cui la dottrina delle Idee è una ipotesi senza motivo e senza scopo, nasce naturalmente il tentativo di trasformarla in una varietà della filosofia istintiva (cioè fondata sul concetto spontaneo della causa- lità), come dalle inconcepibilità del realismo nasce quello di trasformarla in un sistema concettualista. Questi due tentativi riuniti costituiscono il motivo principale dell'in- terpretazione teistica. Ma per mostrare su quali deboli basi si fondi questa interpretazione, sarà meglio di esaminare le prove che ne dà uno dei suoi principali sostenitori, cioè il Fouillée, nella sua opera La Filosofia di Platone (2). Il Fouillée, a dir vero, non ammette che le Idee non siano altra cosa (1) Gfr. Sappi. B carte 123—124. (2) V. parte I, lib. IX, oap. IV. .- 29« — rflS?.*- •nj "Tj r f 1' ì chA ì peDsitri deirintellfgeDza divina; egli conviene che ÌQ qaest'ipotesi non sarebbero che dei semplici possibili concepiti da Dio, e Platone non potrebbe chiamarle delle realtà : ovitog ovxa. Secondo lui le Idee sono primitiva- mente le perfezioni divine (rimedio peggiore del male, perchè che cosa può significare che il leone, p. e, o l'al- bero in se stessif cioè come semplici complessi degli at- tributi generali che costituiscono queste specie, sono delle perfezioni di Dio?); ma per conseguenza sono anche i pensieri divini, perchè Dio « ha coscienza di se stesso e delle determinazioni che inviluppa il suo eesere». Ma questo concetto del Fcuillèe non può impedirci di dare la sua arg( mentazione come efemjio deirargomentazione dr gl'interpreti teistici in generale, perchè è evidente che egli si serve di tutti gli argomenti che crede i più propri a dimostrare Tinterpretazione teistica, sia che provino che le Idee tono le perfezioni divine, sia che provino che Fono i pensieri divini. L'argomentazione del Fouillèe può di- vidersi in due parti : gli argomenti della prima parte sono dei luoghi del Timeo, con cui egli cerca di provare che le Idee non sono separate dal Demiurgo, ma sono nel Demiurgo stesso, cioè in Dio; quelli della seconda parte sono dei luoghi raccolti dagli altri dialoghi. Noi esamineremo questijargomentì a uno per uno, cominciando dalla prima parte. V II modello, dice il Fouillèe, è ciò che vi ha di più perfetto, è uno ed è vivente, cioèè un animale intelligibile. Egli ne conclude che non vi ha alcuna differenza tra esso e Dio—// modello è ciò che vi ha di più per f etto. Ma Pla- tone definisce forse Dio, come Cartesio: Tessere perfet- tissimo ? Noi abbiamo osservato che l'idea della filosofia teologica moderna che Dio è l'infinito o l'assoluto, cioè che possiede tutti gli attributi che giudichiamo dèlie péi^- fezioni a un grado infinito o assoluto, è un coticetto chS non si trova in Platone— quantunque le sue dottrine sitila divinità occupino un posto elevato nei gradi dello svi- luppo di cui questo concetto è il termine ultimo — uè in generale nella filosofia teologica antica. Nei luoghi del Timeo a cui allude il Fouillèe (1) per perfetto bisogna intendere completo. Platone dice che il mondo è statò fatto a somiglianza dell'Idea universale di animale, com^ prendente in sé tutte le Idee generiche e specifiche degli animali. Per conseguenza egli chiama il modello del mondo l'animale intelligibile perfetto o completo, perchè comprende tutti gli animali intelligibili (cioè tutte 16 Idee degli animali) Egli sembra chiamarlo pure (2) Il più per- fetto degli esseri intelligibili (e non semplicemente deglf animali intelligibili): ciò è perchè l'Idea universale df a- nimale con tutte le Ide3 generiche e specifiche degli a- nimali contengono in sé, in qualche modo, tutto il mondo ideale— senza di che Platone non potrebbe riguar latte come il modello del mondo — (3). Questi concetti nou hanno niente di comune con V essere perfettissima del moderni filosofi spiritualisti — Il mt)dello è uno. Questo argomento potrebbe valere contro l'altra forma dell'in- terpretazione trascendentalista, che ammette, o dovrebbe ammettere, che le Idee sono separate le une dalle altre, come dalle cose. Nella nostra interpretazione il mondo ideale non è una moltiplicità Senza unità, ma un'unità multipla, perchè l'Idea generale risiede nelle Idee parti- ci) Tim, 30o-31b, 39 d-e. Cfr. 41b-c, 69c, 92o. (2) Tira. 39 d. (8) Cfr. Sappi. B carta 82 e cap. VII pag. 265. -- 299 -. colarì, ed è, ìmplieltanlente, queste Idee stesse — Infine il modello è vivente. Ma Platone dice solamente che è ridea universale delPanimale con le altre Idee degli animali che essa comprende. Qaesto potrebbe prendersi in tre sensi, corrispondenti alle tre interpretazioni delle Idee in generale. Queste Idee, nella nostra interpretazione, sono gl'insiemi degli attributi comuni a tutti gli animali e a ciascun genere e ciascuna specie particolare di a- nimali, esistenti negli stessi animali reali. Nell'interpre- tazione trascendentalista seguita dalla più parte dei critici moderni, sarebbero questi stessi insiemi di attributi, ma fuori degli animali r>ali. Neirioterpretazione teistica, in- fine, i pensieri divini degli animali, e, secondo il Fouillèe, anche le perfezione divine corrispondenti. Di questi tre sensi il.FouUlèe non potrebbe ammettere T ultimo che arbitriariamente; e del resto non è quello ch'egli attri- bjsce alle parole di Platone. ^ Il testo stesso del Timeo identifica il Demiurgo e il modello. Infatti Platone d'ce : « Esente da invidia, Dio volle che tutte le cose fossero, per quanto era po->sibile, simili a se stesso». Ma Platone dice ancora: Simili alle Idee, al Vivente intelligibile. Dunque Dio è egli stesso questo Vivente che abbraccia in sé le Idee — Ma, come si vede da tutto il contesto, il Demiurgo volle chetuttJ le cose fossero simili a se stesso, in quanto egli era buono, e volle che tutte le cose fossero buone. Questa proposi- zioae presentarebbe un senso soddisfacente, anche pren- dendo il Demiurgo e i paradigmi alla lettera, e consi- derandoli come due cose distinte. Non si è contenti del senso letterale? ma allora questo luogo ci permette d'i- dentificare il Demiurgo, non all'insieme delle Idee, ma all'Idea del Bene, porche ciò ch'^ renda le cose buone, rendendole simili a se stesso, noa è l'insieme delle Idee, ma l'Idea del Bene (1). Il Fouilièe, a dir vero, crede che questo luogo identifichi il Demiurgo tanto all'insieme delle Idee quanto all'Idea del Bene, perchè queste due cose per lui si equivalgono. Ma noi abbiamo osser- vato (2) che quest'equivalenza ò impossibile anche nei presupposti deirinterpretazìone teistica, perchè il conte- nuto dell'Idea del Bene, come di tutte le altre, non può essere, in qualsiasi interpretazione, che quello stesso del concetto corrispondente. Per confermare l'identità tra il Demiurgo e 1' Idea del Bene, il Fouillèe aggiunge che, se Platone chiama Dio buono, e perchè è il Bene stesso; infatti «si oserà sostenere che Dio è buono per la sua partecipazione a qualche cosa dì superiore (cioè all'Idea del Bene distinta da Dio stesso) ? » Senza dubbio : Platone osava sostenere ciò e tante altre dottrine egualmente incompatibili col concetto moderno che Dio è l'assoluto, p. e. che vi hanno molti dei, che la divinità non ha creato la materia, che la sua potenza è limitata, ecc. (3), e tutti i filosofi antichi osavano sostenere cDme lui tali dottrine ed altre, secon- do il teismo moderno, non meno indegne della divinità. 3* Il Fouillèe cita il Timeo 3la-b (luogo che abbia- mo riportato e spiegato nel Supplemento B, carta 82), e lo commenta cosi : « Non ssmbra che Platone abbia vo- luto confutare anticipatamente quelli che moltiplicano gli esseri senza necessità, obbliando che l'unità è il ter- mine della dialettica ? Due dei che non differissero che (1) V. Sappi, e, IV, carte 231-232. (2> V. sopra, carta 296. (3) V. aue«to Sappi., T, carte 282-283» -* 300 -» per La loro funzione di modello o di artigiano, suppor- rebbero al di sopra di loro un dìo unico, che li abbrac- cerebbe T uno e T altro nella sua comprensione». Ma Platone in questo luogo non parla di due dei, ma so- lamente di due Idee dell'animale : egli dice che due Idee dell'animale sarebbero impossibili, perche supporrebbero al di sopra di loro un' Idea unica deir animale che le conterrebbe tutte e due. Del resto né è una conseguenza dei principi! della dialettica platonica che due del sup- porrebbero al di sopra di loro un dio unico che li ab- braccerebbe runo e Taltro, né j Platone, nella supposi- zione che combatte il Fouillèe, potrebbe riguardare il modello come un dio altrimenti che per metafora. 4? Platone, enumerando le cose che egli ammette, non parla che di tre, le Idee, lo spazio e la genesi, e non di una quarta, che dovrebbe essere il Demiurgo. E cosi che fa a 48e-49a, SOc-d, 52d (1). Il Fouillèe cita questi luoghi, e ne conclude che, poiché il Demiurgo manca nella enumerazione, esso deve essere identico a una delle tre cose enumerate, cioè alle Idee. Questo é senza dubbio il migliore degli argomeati ch'egli impiega per dimostrare Tidentità tra il modello e il Demiurgo. Ma esso non é probante che nella sua parte negativa, cioè contro quegrinterpreti che, come il Martin, pren- dono il Timeo alla lettera e ammettono che Platine ha pensato realmente che il mondo e stato costrait'> da un artefice che ha copiato un modello. Contro la sua parte positiva, cioè che il senso riposto del Timeo é che le I- dee esistono in Dio, valgono le osservazioni che abbiamo fatto sopra, sul 4« motivo dell'interpretazione teistica, e sarebbe inutile di ripeterle. Il Fouillèe osserva pure sul secondo dei luoghi in- dicati che il modello deve essere identico al Demiurgo, perché in questo luogo le Idee vengono riguardate come le cause delle cose, e paragonate al padre (lo spazio essendo paragonato alla madre, e la genesi al figlio) (I). Quest'argomento non può valere anch' esso che contro l'altra forma dell'interpretazione trascendentalista, se- condo cui le Idee non potrebbero essere che dei sem- plici esemplari, e la loro causalità sulle cose é assolu- tamente incomprensibile. 5*» Nel Timeo 68e Piatone dice : « Dio impiegava tutte queste cause per ausiliarie, ma mise egli stesso il bene in tutte le cose generate. É per ciò che bisogna distinguere du*^ sorta di cause, Tuna necessaria e l'altra divina, e noi dobbiamo cercare in ogni cosa la causa divina». Il Fouillèe commenta : «Platone nondistingue due cause divine, 1' una efficiente (cioè il Demiurgo), l'altra esemplare o finale (cioè il modello) ; egli non ne pone che una, l'Idea» —Ma in questo luogo non é qui- stione della causalità delle Idee. Le cause che si distin- guono in due generi sono le cause fenomenali, cioè fa- cienti parte dell'universo come complesso di tutte le esir stenze individuali. Confrontando questo luogo con due altri del Timeo stesso, cioè 46c-e e 48a, in cui é espresso evidentemente lo stesso concetto, si vede che per le cause divine bisogna inteudere quelle « che producono con in- telligenza il buono e il bello » ; le cause necessarie sono naturalmente gli agenti materiali. In questa bipartizione delle cause le Idee non vanno né nell'una né neir altra 1 0) Cfr. Sappi. C»oarta228. (1) Cfr. Sttppl. C, carta parte, benché la parusìa delle Idee vi sia necessaria- mente tanto nelle cause dell* una quanto in quelle del- l'altra, poiché tanto gli agenti materiali quanto gli a- genti spiritaali sono la realizzazione delle Idee e agi-scono secondo le necessità ideali. Fra le cause di- vine é compreso il Demiurgo, che, se si prende alla lettera, è anch' esso una causa, come abbiamo detto, fenomenale, essendo eviient3mente un individuo, e non un'entità astratta. Secondo noi il Demiurgo non dev^e prendersi alla lettera, e simboleggi i V Ide% del Bene : per conseguenzi le cause divine, oltre le cau^e intelli- genti (cioè le divinità generate), significano anche, al- legoricamente, la causalità del Bene. Questo però non ci costringe ad oltrepassare V ordine causale nei feno- meni, perchè la causalità del Bene non è in sostanza che la teleologia immanente nella natura. Siccome anche le cause intelligenti, nel senso proprio, agiscono teleolo- gicamente, le cause divine equivalgono alle cause finali, come le cause necessarie alle cause meccaniche (1). Que- sta divisione delle cause in due generi non è dunque che quella abituale a tutti i teleologisti, e non giustifica per niente la conclusione del Fouillèe. 6* L'ultimo degli argomenti del Fouillèe tratti dal Ti- meo k che non vi ha per Platone, egli dice, che « un solo Dio intelligibile, padre e modello del dio sensibile » (cioè del mondo — mentre, se il Demiurgo e il mondo ideale fossero distinti, ve ne sarebbero due). Per provare ciò egli cita il Timeo 34a : t É cosi che il Dio che esiste da ogni tempo, avea concepito il Dio che doveva (1) Cfir. oap. 2. 8 3 pag. 87-88, oap. 7. pag. 209 e Sappi. C, IV, e. 232 p. !• n. 6. nascere», e ìa conclusione del dialogo, in cui il moh- do è chiamato « dio sensibile, immagine del dio in- telligibile ». Il primo di questi luoghi proverebbe che vi ha un solo dio che esiste sempre (e non due, cioè il De- miurgo e il modello); il secondo proverebbe al tempo stesso che vi ha un sol dio intelligibile (ciò che è la stessa cosa che un sol dio c?ie esiste sempre), e che questo dio non è altra cosa che il modello. Dunque il Demiurgo e rinsieme delle Idee sono una sola e slessa cosa— Sa questo ragionamento si può osservare prima di tutto che nel secondo luogo il significato del dio intelligibile è tìr- coscritto per designare unicamente il modello, si dalla parola immagine che dalla parola stessa intelligibile (che nel linguaggio di Platone non significa che l'Idea); per conseguenza da questo luogo non potrebbe concludersi che, oltre questo dio intelligibile, Platone non ha potato ammettere un altro dio, anch'esso distinto dal dio sen- sibile, cioè il Demiurgo. Ma ciò che rovescia tutto il ragionamento è l'osservazione che qui Platone non può deificare il modello, considerato come uno (cioè V ani- male intelligibile che comprende tutti gli animali intel- ligibili), che nello stesso senso in cui altrove (1) deifica i modelli, considerati come più, cioè per semplice meta- fora (2). Passiamo agli argomenti tratti dagli altri dialoghi : lo Nel 6« della repubblica il Bene ci è rappresen- tato come principio sostanziale delle Idee e come causa efficiente degli oggetti sensibili. Naturalmente il Fouillèe ne conclude che il Bene per Platone non è altra cosa che Dio— Vi ha appena bisogno di osservare che que- (1) 37 e. (2) Cfr. questo Sappi, n. I o. 880 e n. Il o. 290. — ao2 — »> ^ .ini 8t*argomento non è che un caso dell'equivoco gfà ìadi^ cato deiridijer prete teistico, di scambiare la causa nel senso del realismo dialettico con la causa nel senso che gli è pili familiare, cioè rantropomorfìstìco. 2^ Nel 10^ della stessa Repubblica si dice che Dio ha prodotto 1' Idea del letto e tutte le altre Idee— Ma ne'.rinterpretazione del Fouillòe com'è che Dio potrebbe produrre le Idee ? se Dio non è secondo lui che Tinsieme delle Idee stesse ? La proposizione che Dio ha prodotto le Idee potrebbe avere un senso nella forma dell' inter- pretazione teistica (che non è quella ammessa dal Fouil- lèe), secondo cui Dio sarebbe il substratum e la sorgente delle Idee, cioè dei suoi pensieri eterni, press' a poco come, secondo lo psicologo spiritualista, la sostanza me è il substratum e la sorgente dei fenomeni della nostra coscienza. Ma in questo senso o in qualsiasi altro è as- solutamente incompatibile con le dottrine di Platone, ohe. considera evidentemente le Idee come iprincipii ul- timi (sia che dobbiamo intendere per esse delle entità astratte sia dei semplici pensieri) (1). L'interprete teistico dirà che Platone riguarda l'Idea del Bene come la causa di tutte le altre, e che Dio è appunto per lui l'Idea del Bene. Noi conveniamo con V interprete teistico che il Dio del 10^ della Repubblica, che produce 1' Idea del letto e lo altre Idee, non può es3ere che l'Idea del Bene. Ma aggiungiamo che questa deificazione dell' Idea del Bene non può essere che una metafora tanto nella nostra interpretazione quanto nella sua, poiché secondo questa ebsa non potrebbe essere che uno dei pensieri della di- ci) Cfr, Sappi. C, IV, e. 228-229. vinità, e la perFonificazione di un pensiero è altrettanto inconcepibile che quella di un'entità astratta (1). Il Fouillèe ammette anch'egli che questo Dio che produce l'Idea* del letto e le altre Idee è la stessa cosa che il Bene, e ne dà come prova che esso è chiamato in seguito (2) il re, espressione che si applica pure al Bene. Su questa prova basterà di ripetere l'osservazione precedente e l'altra dell'incongruenza del Fouillèe di ammettere che V insieme delle Idee (equivalente per lui al Bene) sia la cau^a delle Idee stesse. 3<> Nel Fedro (249c) si dice che dio é divino perché è con le Idee— Ma dio é con le Idee in quanto le con- templa (nel luogo iperuranio) (3). Anche le anime che sono al seguito degli dei le contemplano, senza che siano perciò i loro pensieri. 4« Nel Convito (211e-212^) l' Idea del Bello é chia- mata il bello stesso divino^ e si dice che chi la contem- pla d viene am'co di Dio. Il Fouillèe intende che que- st'Idea è « la beltà di Dio », e che chi la contempla di- viene amico di Dio perché il Bello é identico al Bene e per conseguenza a Dio— Ma è evidente che 1' Idea del bello non può essere chiamata divina che nello stesso senso in cui sono chiamate divine le altre Idee. Quando nel Filebo (4) le Idee del cerchio e della slera sono chia- mate il cerchio e la sfera stessa divina, dovremo in- tendere che queste Idee sono degli attributi di Dio? Se- condo gl'interpreti teistici in generale, queste Idee sa- rebbero dei pensieri particolari della divinità : ma pare (1) Cfr. carta 296. (2) 597 e. (3) Cfr. Supplem. B cario 141-144. (4) 62 a. - òOo — ad essi naturale che i pensieri che Dio ha del cerchio e della sfera siano chiamati il cerchio divino e la sfera divina ? Inoltre un pensiero di Dio è tutt'altra cosa che un attributo di Dio. Il f ouillèe dirà che le Idee del cerchio e della sfera sono anche delle perfezioni divine e non semplicemente dei pensieri divini. Noi potremo discutere questa proposizione, quardo il Fouillèeo altri ci farà comprendere che cosa significa— Aggiungiamo, suir altra parte deir argomento, che Platone stesso ci spiega sufficientemente, e senza che resti alcun bisogno della spiegaeione del Fouillèe, perchè chi contempla l'I- dea del Bello diviene amico di Dio (o piuttosto amato da Dio, esocpar^s) : è perchè partorisce e nutrisce la vera virtù, e non delle immagini di virtù, avendo visto il vero (cioè il Bello in se stesso, tipo della virtù e di tutto ciò che è bello), e non un'immagine (I). 5« Nel Teeteto la virtù, che è l'imitazione del Bene, è definita la somiglianza con Dio— Dunque, secondo il Fouillèe, se non ammettesse che il Bene è identico a Dio, Platone non potrebbe dire, come qualsiasi altro teista, filosofo 0 non filosofo, che il virtuoso è amato da Dio, o che gli somiglia ? Notiamo che nel luogo del Teeteto a cui allude il Fouillèe (2) Platone noa dice che la virtù si definisce la somiglianza con Dio, ma semplicemente che divenire giusto, santo e prudente è rendersi simile a Dio. 60 Nel IV libro delle Leggi (:\) Dio è chiamato il il principio, il fine e il mezzo di tutte le cose. Dunque egli è il Bene, poiché è il Bene il principio primo e il fine (1) Cont\ 212». (2) I76b. (B) 715 e. ultimo—Ma la proposizione citata dal Fouillèe (che d'al- tronde lo stesso autore afferma ricevere da un' antica tradizione) potrebbe provare tutto al più che il sistema teologico di Platone è il panteismo. Da ciò non potrebbe concludersi niente sulla dottrina delle Idee, perchè que- ste due parti della filosofia platonica sono, come abbiamo osservato, assolutamente distinte. Del resto Platone non dice «Dio é» ma « Dio tiene (exei) it principio, il fine e il mezzo di tutte le cose », proposizione naturalissima in qualsiasi forma, alquanto evoluta, della filosofia teo* logica. 7^ « La tua intelb'genza non è il bene, dice Filebo a Socrate -Si, la mia forse, o Filebo, ma per V intelli- genza vera e divina, io non penso che sia cosi » (i)— -E il migliore argomento che Tinterprete teistico possa im- piegare per provare che T Idea del Bene è identica a Dio. Infatti in questo luogo Socrate sembra affermare che Tintelligenza divina è i! Bene stesso. Ma la propo- zione potrebbe anche avere nn altro sens^, cioè che la semplice intelligenza è insufficiente alla felicità nostra, ma è sufficiente a quella di Dio. Infatti il bene nel Fi- lebe è considerato sovratutto nel suo aspetto subbietti- vo, cioè come felicità degli esseri viventi, V argomento del dialogo essendo appunto di ricercare in che consiste la felicità. Lo stesso luogo citato fa parte della conclu- sione di una discussione per cui si mostra che né una vita di pura intelligenza né una vita di puro piacere basta a costituire la felicità, ma per ciò è necessaria una vita mescolata di piacere e d' intelligenza. La ri- i (1) FUcbo 22 0. - 304 - sposta di Socrate a Filebo avrebbe dunque qaesto si- gnificato natnraliFSì'mo, di una riserva fatta in favore dell'intelligenza divina, cioè che Dio è felice, quantunque non viva che una vita di pura intelligenza. Questo si- gnificato sarebbe confermato da ciò che si dice in se- guito (1), che non solo non è verisimile, ma è anche sconveniente, di ammettere che la divinità provi del piacere e del dolore. Ora Tinsieme del dialogo non per- mette di dubitare che il senso delle parole di Socrate non sia effettivamente questo. Quello preferito dall' in- terprete teistico è incompatibile col contenuto dell' Idea del bene — che è evidentemente un attributo delle cose, di cui la felicità degli esseri viventi possa essere un caso particolare— e con la sua immanenza, cosi chiara in qae- sto dialogo, che noi vi abbiamo visto a buon dritto una delle prove più forti dell'immanenza delle Idee in ge- nerale (2). Aggiungiamo che esso è anche incompati- bile coi presupposti dell'interpretazione teistica, perchè secondo questi, come abbiamo tante volte osservato, l'I- dea^dei Bene non potrebbe essere che uno dei pensieri della divinità, ma non l'intelligenza divina, che è il sog- gètto 0 r insieme di qiesti pensieri (3). (1) 33 b. (2) Cfr. Sappi. B carte 92-95. (3) Alcuni interpreti che seguono l'altra forma dell'interpreta- sione trascendentalista, credono, fondandosi su questo luogo del Filebo f che il Bene per Platone non sia Dio, ma la ragione imma- nente nel mondo, a cui egli non intende attribuire propriamente la personalità. Questo senso è anche, se si pnò dir cosi, più im- possibile che quello dell'interprete teistico. Questi almeno, identi- ficando il Bene con l'intelligenza divina, è coerente allo spirito •Iella sua interpretazione, che vedo nelle Ideo platoniche delle con- 8** Dopo aver posto (nel Filebo) Tindeterminato, la determinazione o le Idee, e il genere misto, Platone dice che bisogna porre la causa di tutte queste cose. Dio sarebbe dunque la causa delle Idee e della materia — La base di quest'argomento (che del resto il Fouillèe non propone s^nza esitazione) è il concetto, di cui abbiamo visto l'inammissibilità (i), che il Tiépag del Fihbo^ che egli chiama la determinazione, sia identico alle Idee, e r^TiELpov alla materia. Tuttavia, siccome il Ttépag e l'dc- Tieipov sono anche, come abbiamo mostrato, gli elementi delle Idee (2), alcuno potrebbe giungere per questa via, con qualche apparenza di ragione, alla stessa conclu- sione del Fouillèe, cioè che la causa^ vale a dire Dio, è causa anche delle Idee. Ma questi non potrebbe essere l'interprete teistico, perchè il iispag e V ànstpov sono e- >identemente gli elementi delle cose reali (3), e non oezioni dello spirito. Ma per l'interprete trascendentalista che con- sidera le Idee come delle forme obbiettive, quantunque esistenti in un altro moido, come l'Idea del Bene può essere la stessa cosa che la Ragione? Per lui come per noi le Idee non sono che gli attributi omonimi dello cose sostantificati, per noi nelle cose stesse, per lui fuori delle cose. La ragione è dunque un attributo di tutti gli oggetti che chiamiamo buoni? e siccome per Platone tutto ciò che esiste è buono (perchè egli vede nell'Idea del Bene la forma universale e la identitìca a quella dell'Essere), tutto ciò che esiste per Platone (che non è un ilozoista), partecipa dunque alla ra- gione ? È evidente che l'interprete trascendentalista non attribui- rebbe a un filosofo moderno un non senso simile; ma a Platone gli è lecito di attribuire tutti i non sensi, perchè effettivamente, secondo la sua interpretazione, la filosofìa platonica non potrebbe spiegarsi che per una tendenza irresistibile verso le proposizioni prive di senso. (1) V. Suppl. C, IV, carte 244-245. (2) V. Suppl. B, vili, carta 100. (8) V. Suppl. B carta 97 e seg. possono riguardarsi come f le menti anche delle Idee che nella nostra interpretazione, che identifica in qualche modo le Idee con le cose, ma non in un'interpretazione che ne fa dei pensieri o delle perfezioni della divinità. Per altro, noi torniamo a domandare al Fouillèe com'è possibile che Dio sia causa delle Idee, mentre non è che le Idee stesse. Aggiungiamo (tralasciando per amore di brevità tante altre osservazioni non meno ovvie) che la causa non potrebbe essere causa anche delle Idee perchè non lo è che delle cose divenute (1) (mentre le Idee sono eterne), perchè la sua efficienza è assimilata alla nostra attività sul mondo esterno (2), e perchè essa non é evidentemente che l'anima del mondo (3), che non può produrre che del movimento, e per la comunicazione del movimento proprio (4). 9<* L'anima, nel suo viaggio al seguito di Dio, con- templa la scienza in sé, non questa scienza seggetta al cangiamento, ma quella che si trova nell' essere vero (5). L'Idea della scienza è dunque compresa in Dio. E d'altra parte il Parmenide c'insegna che la scienza in sé ha per oggetto le Ide ch'essa racchiude. Le Idee divengono così dei pensieri divini— Ma che cosa prova al Fouillèe che l'essere vero in cui si trova la scienza in sé, è Dio ? L' essere vero (3 èoxtv 6v ovxcog) in lin- ci) FU. 26e-27a. Cfr. Sappi. C. IV, o. 247, p. 2% (2) La causa è ciò che fa, e gli eifetti le cose che sono fatte {Filebo 26e-27a). La causa è anche chiamata.ropilice(5Yj|xtoupYo0v) degli altri tre generi {FU. 27b). Dio, per oonseguenjsa, seconao l'ia- terprete teistico, farebb'*, anzi fabbricherebbe, i propri pensieri. (3) V. Suppl. C, IV, o. 247-248. Cfr. e. 224. (4) V. questo SujìjìL n. I, e. 280, 282 e 283. (5) Fedro 247d-e. guaggio platonico des^'gna l'Idea, e per conseguenza qui non può significare che l'Idea di sostanza di cui la scienza in sé è l'attributo, perché ciò che è sostanza nel mondo à.*\\e cose deve essere sostanza anche nel mondo delle Idee, e ciò che è attributo in quello deve essere attributo anche in questo. Quando poi il Fouillèe afferma che « il Parmenide c'insegna che la scienza in sé ha per oggetto le Idee», la sua proposizione è incontesta- bile (1), ma quando aggiunge « che essa racchiude », non fa che un'asserzione interamente gratuita, perchè Platone non lo dice né nel Parmenide né altrove. 10^ E dio e non l'uomo che è la misura di tutte h». cose (Leggi IV, llGc). Cosi per Platone il principio e il fondamento della verità è Dio— Ma le parole precise di Platone sono : « Dio é la misura di tutte le cose molto più che alcun uomo. » Dunque secondo il Fouillèe anche l'uomo sarebbe per Platone principio e fondamento della verità, quantunque meno che Die, proposizione che è un non s( nso tanto se si ammette che la verità è og- gettiva quanto se si ammette che è soggettiva come pre- tendeva Protagora; perchè, se è oggettiva, come l'uo- mo potrebbe esserne principio e fondamento? e se è soggettiva, come Dio potrebbe esserlo più che l'uomo? La proposizione che Dio è la misura di tutte le cose, in quanto essa ha uoa portata gnoselogica, può significare, in Platone, non che il vero e il falso dipendono da Dio, ma semplicemente che in Dio vi ha un criterio infalli- bile del vero e del falso, perchè noi dobbiamo interpre- tare questa proposizione conformemente alle sue dottrine conosciute, e secondo queste è il pensiero che è deter- (1) V. Parmen. 133o-134d. - 306 — minato dalle cose (teoria dell'intuizione e della remini- scenza), non seno le cose che sono determinate dal pen- siero. li*' Aristotile parla di alcuni che hanno detto che Vanima e il luogo delle specie (xójiog stSwv) (1). Il Fouil- lèe ne conclude che Platone ha chiamato V intelligenza divina il luogo deMe Idee, perché quest'espressione che troviamo in Aristotele è, egli dice, evidentemente pla- tonica. Noi diciamo invece che è evidentemente anti- platonica— é una conseguenza delle prove dell' imma- nenza delle Idee date nel Supplem. ^—, e appartiene pro- babilmente ai Cinici, che contrapponevano al realismo di Platone il concettualismo, affermando che gli univer- sali non esistono che nel pensiero (2). Ili Ite Idee e il pensiero Secondo un'interpretazione di Platone, che rimonta ad Hegel, ed è stata ripresa e sviluppata da un critico contemporaneo, il Teichmuller, la reminiscenza, l'in- tuizione delle Idee in una vita anteriore, V immortalità dell'anima e le altre dottrine connesse non devono in- tendersi nel senso letterale, ma sono dei simboli d' una teoria gnoseologica ed ontologica, in cui Platone avrebbe preceduto Hegel. Questa è che, nel pensiero filosofico, il soggetto conoscente s'identifica con V oggetto cono- (1) De an. 1. 111. IV. 4. - t2> V, Zeller FUos, dei Greci trad. frano, t. IIL pag. 273 n. 1. sciuto, cioè con le Idee; che questo pensiero costituisce l'essenza intima dell'anima, ed è, per conseguenza, u- niversale, e quindi eterno, come il suo oggetto; infine che esso è il momento ultimo dello sviluppo eterno del- l'essere, TAssoluto, che comprende ogni cosa, e in cui tutti i contrari si unificano. L'immortalità dell'anima simboleggerebbe l'eteroarsi dello spirito, quando rientra nella sua vera essenza, identica al mondo ideale, e ha luogo cosi la conoscenza filosofica. L' intuizione delle Idee in una vita anteriore significherebbe la presenza delle Idee nel pensiero: essa é rappresentata come la percez'one di un oggetto esteriore, perchè è il solo caso, nell'esperienza, in cui l'oggetto sia presente immediata- mente al soggetto, e trasportata in una vita anteriore, per- chè ressenza universale dell'anima, da cui deriva l'a- nima individuale, si rappresenta come V antica natura (àpxaia cpOoi^) di questa. La reminiscenza, infine, signi- ficherebbe che la conoscenza è a priori, e che lo spi- rito la ritrac dalla sua antica natura, identica alle Idee conosciute. Ma perchè Platone, come dice uno di que- 8t' interpreti, « ha insegnato il vero mediante il fal- so?» (i). Perchè, invece di esporre la sua dottrina aper- tamente, ha preferito d'invilupparla in oscuri simboli ? Ciò é stato, ci si dice, per due ragioni. Primo, la verità nella sua forma pura è inaccessibile ai molti; a questi, affinchè ne partecipino in qualche modo, è necessario di presentarla sotto un involucro fantastico, in forma di miti e di allegorìe. Secondo, Platone era convinto che la religione é il vincolo più forte dell' ordinamento so- (1) Vera Platone e VimmortaUtà dulVaniina pag. 48. — 307 — ciale; perciò ha cercato di mettere d'accordo, almeno in apparenza, il pensiero filosofico con le credenze religiose, e tra le altre naturalmente con la più efficace di tutte, cioè quella deirimmortalità. L'obbiezione più ovvia che si presenta prima facie contro quest'interpretazione è V inverosimiglianza della situazione psicologica ch'essa suppone in Platone. Que- st'arte di dire una cosa e intenderne un' altra, qualun- que siano le frasi di cui si rivesta per darle un' appa- renza speciosa, è sempre una maschera che si mette al pensiero, una diplomazia che il filosofo usa verso gli altri 0 verso se stesso. Noi comprendiamo questo stato di spirito in un professore moderno, che nrn vuole a- lienarsi il favore di chi sta in alto urtando troppo ru- demente delle idee che fanno parte di un ordine stabi- lito, 0 in un dottore protestante, che deve fare il ser- mone della festa di pasqua, ma non ammette la venta storica del racconto degli evangeli sulla resurrezione. Anche quel nobile carattere di filosofo che fu Spinoza parla, nel senso in cui questo linguaggio pretende at- tribuirsi a Platone, oltre che dell'immortalità dell' a- nima, di Dio, del figlio di Dio, dell' amore di Dio, ecc., parole che nel suo sistema non sono che una decorazione : ma dobbiamo noi maravigliarci di ciò quando, malgrado questo velo prudente di cui ricopre le sue dottrine, che un teista ha tutta la ragione di ri- guardare come atee, lo vediamo diventare 1' oggetto della riprovazione universale ? Ma in Piatone, e al so»-- getto dell'iminortalità dell'anima, questa diplomazia sa- rebbe stata seuza motivo. Oltre che la mitologia dei Greci non accordava all'anima, dopo la morte, che u- n'ombra d'esistenza, oggetto piuttosto di timore che di speranza, e a cui non era legato alcun interesse e- tico (i), la credenza all' immortalità, o semplicemente alla sopravvivenza, non sarebbe stata riguardata, almeno all'epoca di Platone, come una condizione di ortodossia. Come sappiamo da Platone stesso, i suoi contemporanei — che consideravano come un dovere il culto degli dei dello stato— erano generalmente scettici riguardo alle antiche tradizioni sui premi e le pene dell'alira vita (2); i più pensavano che l'anima, appena uscita dal corpo, si dissipa e si annienta (3); e Socrate (nella Repubblica di Platone) (4) eccita la sorpresa del suo interlocutore, quando afferma che è immortale. Platone non si sarebbe dunque trovato in urto con la coscienza popolare, s'egli non avesse accolto tra le sue dottrine, o avesse anche rigettato, implicitamente o esplicitamente, la credenza in un'altra vita : tanto meno, per fare atto di ossequio alla fede dei suoi connazionali, avrebbe potuto credersi in obbligo d' insegnare e di dimostrare V immortalità dell* anima, nel senso rigoroso, e la sua eternità. Ma supponiamo che 1' epoca di Platone fosse tale da im- porre a un filosofo un ossequio apparente a queste dot- trine : che cosa dovremmo aspettarci da lui, supposto ciò ? ch'egli mettesse in luce i soli punti in cui i suoi concetti filosofici si accordassero coi concetti popolari, lasciando nell'ombra quelli in cui ne difterissero. Pla- tone dovrebbe dunque limitarsi in questo caso, come Ci) V, ZeUer Filos, dei Grecia Introd. gener. o. 2 § 5 L'antro^ pologia, V. anche, sul timore dell'altra vita, Q-ayau La morale d*E" picuro, l. II, o. Ili, I (pel paganesimo In generale), e ofr. Platone stesso Jiep. 386b-387o. (2) Jiep. 330 d-e. (3) Fedo. 80 d. Cfr. 70a e 77b. (4) V. 608d. ^ 308 — Spinoza e come Hegel nei casi analoghi, a cercare delle formule ambigue, che, quand' anche più adattate alle ci-edenze popolari, potessero pure applicarsi, anche for- zandole alquanto, ai concetti filosofici. Egli non insiste- rebbe quindi sul lato etico e sentimentale della credenza all'immortalità : non parlerebbe dei premi e delle pene nell'esistenza futura (1); non farebbe esprimere conti- nuamente ai suoi personaggi le speranze della felicità che attende nell'altro mondo il saggio che si è purifi- cato dalle passioni (2), e il timore della morte da cui la sicurezza di un'altra vita deve liberarli (3); sovratutto non metterebbe in bocca queste speranze a un caro mo- rente, col pensiero sottinteso che sono delle illusioni— quasi per una irrisione a ciò che vi ha di più umano nel sentimento religioso, nelle persone e nella circo- stanza in cui è il più umano di rispettarlo — Tutto ciò che vi ha nelle idee sull'altra vita di mitico e di saper- stizioso, nel senso stretto di questi termini, non sarebbe meno fuori di luogo; p. e., nel Fedone, i fantasmi che vagano attorno ai sepolcri (4j, e la descrizione del sog- giorno futuro dei buoni nell'alta superficie della terra (di cui noi abitiamo una cavità) e dei cattivi neo-li a- bissi che sono nel suo interno (5); perchè qual signifi- (1) V. Fedo. 63c, 64a, 67b-c, 69c, 72d-e, 8Ja-82b, 95c, lOTcOUc, 115b, TiìYì, 42 b-d, 90 d-9la, Meno, 81b, Teet. 176b-177a, Fedro 248e- 249b, Gorgia 622e e seg., Rep, 614a e seg., Legtji 903d-905a, 959b-c. 870d-o, 872e-873a, 880e— 881b, ecc. (2) V. il Fedone 63b-c, 63e-64a, 67b-c, 68a, 69c-e, 70b, 82 c.84b, 84e-85b, 95c, 114c-115a, 115 d, J17 b-o, (3ì V. pure il Fedone 63b-c, 64a, 67e, 68b, 69e, 77e, 84b, 84e-85b, 87e-88b, 91b-o, 95 d. (4) 81c-e. (ò) 108c-114c. cato potrebbe darsi a queste circostanze come simboli della dottrina filosofica ? Infine Platone non darebbe delle dimostrazioni dell'immortalità- ed è stato il primo a farlo—, o almeno queste dimostrazioni dovrebbero es- sere ambigue lome l'immortalità stessa, cioè, mentre apparent<»mente proverebbero 1' immortalità personale, dovrebbero essere suscettibfli di essere interpretate, nel loro senso reale, come prove delle dottrine che essa simboleggia; mentre è evidente che le dimostrazioni pla- toniche concludono univocamente, cioè alla sola immor- talità personale, e, per quanto si torturino, non si riu- scirà mai a far loro dimostrare l'eternità dell'essenza uni- versale dell'anima o 1' identità del soggetto e dell' og- getto (1). Ora possiamo noi concepire un filosofo della sini- stra hegeliana, che cerchi di dimostrare, senza equivoco, la verità (la verità storica, come sopra) dei racconti de- gli evangeli? Un'altra testimonianza in favore della sin- cerità di Platone nella dottrina dell'immortalità dell' a- nirna è il feuo atteggiamento in faccia alla religione in generale (che, conformemente all' interpretazione hege- liana dell'immortalità, non potrebbe essere per lui che un sistema di miti, a cui bisogna tributare un ossequio esteriore e cercare di farne dei s'mboli di verità filoso- fiche). Platone non si contenta di fare atto di adesione, reale o apparente, alle idee religiose dei suoi connazio- nali, ma cerca di migliorarle, di correggerle, e di assi- (2) Vedi queste prove nel Fedone l^a-ll^^ 78b-80c, 91e-94e, I02b- 107a, Meno**e 85c-86b, Fedro 245c-246a, Repubblica 608d-61lk. Un' a- nalisi di questi luoghi ingrosserebbe inutilmente questo volume, e d'altronde niente potrebbe sostituire l'impressione di evidenza che risulta dalla loro lettura. — 309 — i " i" ierle su una base filosofica. É ciò che fa per le idee sulla divinità, che egli fonda sulla dottrina deir anima cosmica, ed eleva si al punto di vista morale che me- tafisico, combattendo le superstizioni popolari incompa- tibili coi nuovi concetti da lui insegnati (1). Lo stesso fa pure per le idee sulla vita futura, sovratutto in due punti: elevando la credenza popolare nella sopravvi- venza e la preesistenza al concetto rigoroso (conseguenza logica deiranimismo) (2) di una durata senza comin- ciamento e senza fine, che cerca, oltre che di fondare su prove razionali, di legare alle altre parti del suo si- stema filosofico, cioè alla dottrina delle Idee (3) e a quella dell'anima cosmica (4); e basando la metempsi- cosi e le altre credenze sul destino futuro dell' anima sul concetto di una ricompensa morale (5), che mancava nei dati tradizionali (6), benché egli non facesse in ciò che aiutare un movimento cominciato prima di lui, e a cui doveano cooperare tutti gli spiriti religiosamente (1) V. questo Sappi, n. I, o. 282. (2) V. n. 1, o. 275-276. (3) V- n. I, o. 279. Tra gli argomenti deU' immortalità dell' a- nima, oltre quello per la reminiscenza, sono fondati pure sulla dottrina delle Idee 1' ultimo del Fedone (riportato in parte nel Suppl, B, carte 45-47) e quello per l'affinità dell'anima con le Idee (cfr. carta 830 p. 1» note 1 e 2). (4j V. n. I, e. 277 e 283. (5] V. n. I, e. 278 e 282. (6) Cfr. o.307p. 2»-308 p. KSeoondoi primi Pitagorici le migra- «ioni delle anime non erano regolate da ragioni di giustizia, ma era l'azzardo che determinava un'anima ad entrare in un corpo piut- tosto ohe in un altro (V. Martin Studi sul Timeo voi. 2. p. 38J). diù avanzati della sua epoca. Ma da un filosofo incre- dulo, quand'anche non prenda apertamente, in faccia alla religione, la posizione d'avversario, non potremmo aspettarci che Tindiffereoza religiosa, o al più un' ade- sione passiva (naturalmente esteriore) alle credenze sta- bilite: ma egli non opporrà, come faceva Platone, a queste credenze delle idee religiose più elevate, non sarà un riformatore, perchè questi non si trovano che tra i credenti più fervidi. Ci si dice, è vero, che Platone non si limitava a ve- lare prudentemente la sua irreligiosità, ma si giovava della religione come strumento politico, credendo utile e necessario che il Demo fosse ingannato. Con questa supposizione il seguace dell' interpretazione hegeliana può credere di evitare le inverosimiglianze precedenti, ma andando incontro in compenso ad altre non minori! La più colossale è naturalmente che un filosofo, prima, creda le proprie idee dannose e le contrarie utili, e poi di buona voglia (e non per prudenza come nella sup- posizione precedenle) si metta il bavaglio sulle proprie dottrine, non solo, ma predichi invece di esse -noi non parliamo di un filosofo salariato-\e dottrine contrarie. Ammettiamo tuttavìa che questo prodigio sia possibile: è certo che potremmo attendercelo da chiunque altro piuttosto che da Platone. Non vi ha sistema in cui do- vrebbe esservi meno bisogno di un codice religioso, co- me strumento di polizia e di moralità, che in quello di Platone e, in generale, dei moralisti usciti da Socrate. In questo sistema, che stabilisce come principio fonda- mentale dell'etica che la virtù e la felicità sono identiche, dovrebbe bastare, per la polizia e la moralità, la filo- sofia soia-se per moralizzare è necessario di far credere — 310 — che si può essere al tempo stesso santi e prrfetti egoisti—. Ma si dirà che la filosofìa non può penetrare nella mol- titudine, ed è a questa che sono destinati T immortalila dell'anima e gli altri miti. Ma è per la moltitudine che ha scritto Platone? È ad essa che sono indirizzati gli argomenti deirimmorlalità dell'anima, di cui alcuni, e i soli che l'autore creda decisivi, fondati sulla dottrina delle Idee, cioè la più astrusa che si trovi in tutta la storia della metafisica ? O si deve ammettere che Pla- tone mascherava il suo pensiero anche innanzi agl'ini- ziati, per paura che trapelasse ai profani? Ma ciò si- gnifica eh' egli ha voluto soffocare, per una specie di infanticidio intellettuale, la verta appena nata nel suo spirito— a meno che si chiami verità quella che « inse- gnava mediante il falso », ma con l'intenzione che ne-*- suno potesse apprenderla- Noi non diremo che questo sarebbe un fatto senza esempio nella storia della filosofia e della letteratura in generale, perchè, ammessa la sua possibilità, con qual dritto potremmo affermare che tutto ciò che un filosofo teista qualunque ha scritto o detto su Dio e sull'anima non è stata una finzione, prudente o filantropica, e un'allegoria simboleggiante, per esem- pio, per quanto riguarda Dio, la Realtà inconoscibile, o la finalità immanente nella natura, o l'ordine morale del mondo dovuto a cause naturali (come nella dottrina buddista del karma, che, per quanto strana, non è almeno un non senso come l'identità del soggetto e del- l'oggetto), e per quanto riguarda l'immortalità dell'a- nima, oltre all'identità del soggetto e dell'oggetto e al- l'immortalità della specie, l'indistruttibilità della forza di cui la psiche è una forma transitoria, o la persistenza della sensibilità negli atomi che compongono il nostro i corpo e tutta la materia ? Del resto, che si ammetta come motivo di Platone una diplomazia prudente o una santa impostura, questo motivo non potrebbe spiegare che l'immortalità dell'anima, la metempsicosi e gli altri miti ch'egli ha in comune con la religione: ma come spiegare la reminiscenza e l'intuizione delle Idee in una vita anteriore? Esse suppongono l'immortalità dell'a- nima, ma questa non le suppone, né è incompatibile con la dottrina che tutte e tre rappresentano : questa iden- tificazione del per s'ero col suo oggetto, possibile in uno spirito d'una durata limitata, perchè infatti diverrebbe impossibile, se questa durata si prolungasse indefinita- mente ? Una conseguenza necessaria dì quest' interpreta- zione dell' immortalità è di sopprimere completamente la dottrina di Platone sull'anima, cioè metà della sua metafis'ca. Il concetto fondamentale della parte di questa dottrina che si riferisce all' anima individuale, è il dualismo tra anima e corpo, in altri termini l'anima considerata come sostanza distinta : ora questo concetto è incompatibi'e cfn l'interpretazione dell'immortalità come simbolo dell't-ternarsi del pensiero nella conoFcenza filose fica. L'immortalità dell'anima non potrebbe s'm- boleggiare l'eterniià del pensiero (cioè del pensiero spe- culativo) che se questo fosse, come è iof' tti per Hegel e per Spinoza, Tesscnza dell'anima: ma per Platone il pensiero non è che un attributo dell'anima; la sua es- senza, cioè la sua sostanza, è un che di esteso, che è il suhstratum dei suoi movimenti, compresi quelli che si chiamano sentire, pensare, ecc., cerne le sostanze mate- riali sono il subsiratum dei loro movimenti e di tutti gli altri fenomeni del mondo esteriore. Il dualismo tra anima - m - e corpo, 0 la fi08tan2Ìalità dell' anima, nrn pnò essere dunque in quest'interpretazione che un 8«>mpliie mito (che cosa simboleggerà ?) come l' immortalità, la me- tempsicosi, la reminiscenza, ecc. Se è un mito la so- stanzialità dell'anima, sarà anche un mito la sua gran- dezza spaziale, il suo movimento (e per conseguenza la definizione che è ciò the muove te stesso), la dottrina che muove il corpo comunicandogli il proprio movi- mento, quella che occupa nel corpo un posto determi- nato, quella della sua tripartizione, e, in breve, di tutto CIO che Platone ha detto dell' anima non resterà una parola che abbia detto sul serio (e se questi miti sono dei simboli, e noi vogliamo interpretarli, il nostro im- barazzo non sarà minore di quello di Platone stesso, quando, dopo avere spiegato allegoricamente il mito di Borea che rapisce Oritia, si vede nella necessità di spie- gare della stessa maniera gl'Ippocentauri, la Chimera, i Pegasi, le Gorgoni e una moltitudine d'altri mostri, che per essere spiegati allegoricamente, esiggono « una certa sapienza rustica » e una gran perdita di tempo) (1). Lo dottrine sull' anima cosmica (cioè sulla divinità) non dovranno essere prese sul serio più che quelle sull'ani- ma individuale. Se infatti Platone parlava dell' immor- talità per nn ossrquio apparente alle credenze popolari, o perchè la credeva una favola necessaria all'ordine so- ciale, come non ammettere che era per lo stesso motivo che parlava di dio e della provvidenza ? Di più la dot- ti-ina sull' anima cosmica suppone lo st( sso dualismo (incompatibile, come abbiamo detto, con l' intrcrpreta- (1) Fedro 229b-e. zìone hegeliana deirimmortalità) su cui è fondata quella suiranima individuale : la prima è descritta, come la seconda, come una sostanza distinta dalla materia, e- stesa, in movimento, causa del movimento della materia per la comunicazione del proprio movimento, ecc. Si dirà che qui il mitico sta nel dualismo e negli altri con- cetti che ne dipendono, mentre la vera dottrina di Pla- tone era un panteismo ilozoista, in cui Dio era conce- pito come Tanima del mondo, ma senza che questa fos- se sostantificata e separata dalla materia. Ma— oltre che questa forma di panteismo è quasi totalmente scono- sciuta all'antichità (perchè, come abbiamo visto (1), quasi tutti i panteisti antichi pensano, come i dualisti, che l'a- nima del mondo è una sostanza distinta dal corpo del mondo)— con qual dritto potremmo ammettere che la dottrina di Platone era il panteismo, quando egli inse- gnava invece il dualismo ? Coerentemente all' interpre- tazione hegeliana dell'immortalità, tutto ciò che Pla- tone ha detto della divinità, o dell'anima del mondo, noi non dobbiamo intenderlo che come un simbolo, e non possiamo attribuirgli altro Dio che la sfera totale delle Idee (che, secondo quest'interpretazione sarebbero anche dei pensieri), o il pensiero assoluto, che sarebbe l'ultimo momento dell'evoluzione del mondo ideale. In- tanto tutti questi concetti di Platone sull'anima, sia co- smica sia individuale, hanno tutti i caratteri di una seria dottrina filosofica, e noi non potremmo aspettarci di trovarli in una semplice finzione. Noi noteremo : i* La naturalezza di questi concetti, cioè il fondamento che ^fi (1) Gap. 2. § 6. 312 — essi hanDo, come tutti ì concetti metafis'ci, nei sofismi naturali o a priori del nostro spirito. Platone ha anche stabilito il teismo sulle sue vere basi, che sono la spie- gazione teleologica del mondo (per uca teleologia co- sciente) e quella del movimento per Tanima (i). Il con- cetto della scstanzfal tà dell'anima, o del dualismo tra anima e corpo, fa parte anch'esso, come i precedenti, della metafisica naturale del nostro spirito, e la dottrina dell'eternità dell'anima e della sua distinzione radicale dalla materia, che Platone ne ha dedotto, è la forma più conseguente di questo concetto (2). Le dimostrazioni del- l'immortalità sono, é vero, sofistiche; ma quelle dell'esi- stenza delle Idee non lo sono altrettanto? e d'altronde l'argomento del Fedro e quello fondato sulla reminiscenza non sono dei semplici sofismi artificiali, e V ultimo del Fedone accenna al processo logico (quantunque il più delle volte incosciente) per cui si passa dal dualismo all'idea dell'immortalità (3). 2« Il carattere rigoroso di certi concetti che Platone sembra essere stato il primo ad ammettere. Tale é, oltre quello dell' eternità dell' a- nima, quello di Dio come causa pi ima, che è uno svi- luppo rlell'idfa che Tanin a è il jrncipio motore, al- trettanto rigoroso che Taltro dt^l dualismo tra anima e corpo (4). 3^ La coerenza fra tutte le parti della dottriua. Questa non consiste so'ameate nell'assenza d' incompa- tibilità delle une con le alt e, ma nella loro solidarietà, (1) Cfr. n. 1. e. 280 p. 2«, e cap. II. § 2-4. (2) Cfr. n. I, e. 274-276. (3) Cfr. n. I, o. 277-278 p. 1" e 279. (4) Cfr. n. I, e. 281. nella conseguenza con cui tutte si sviluppano a partire da un primo principio. Data la sostanzialità de' l'anima, ne vengono naturalmente, se non tutte con neces'^ità logica, queste conseguenze : che essa è estesa, che si muove e muove il corpo per il proprio movimento (am- messo che essa è la forza motrice), che questo proprio movimento è contiuuo, che occupa nel corpo una posi- zione determinata, che è divisa in più parti separate (data una certa ipotesi fisiologica), che è immortale ed è eterna, che è radicalmente distinta dalla materia, ecc. (1). La metempsicosi, quantunque non sia una con- seguenza dell'eternità dell'anima, è la maniera più na- turale di concepire la sua sopravvivenza e preesistenza, perchè aFsegna all'anima per tutta la sua durata la fun- zione di principio di vita, per cui essa è stata imma- ginata (2). In quanto all'intuizione delle Idee in un'e- fì utenza anteriore e alla reminiscenza, abbiamo osser- vato che, tra le ipotesi per ispiegare la coincidenza tra il pensieio e la realtà, l'unica compatìbile con le Idee platoniche era l'intuizione razionale, e che vi erano dei motivi per pieferire all'intuizione in questa vita stessa quella in una vita anteriore (3). Il dualismo tra anima e corpo si riflette in quello tra Dio e il mondo. Di più con la stessa conseguenza con cui sviluppa il dualismo antropologico, spingendolo alla dottrina dell'immortalità, Platone sviluppa anche il dualismo teologico, che in lui è radicale (cioè ò un dualismo nel senso stretto), la con- ci) V. n. I, o. 274-276. (2) Cfr. n. I, o. 278. (3) V. <iuosto Supplem. n. I, e. 279, e Suppl. C, carte 143-144, - 313 - vertibilità reciproca tra la sostanza deiranima cosmica e le sostanze nrìateriali, che troviamo nfi panteisti an- tichi, essendo altrettanto incompatibile, che la mortalità dell'anima individuale, col principio stesso del dualismo, cioè r imposFibilità che il cosciente verga dall' inco- sciente e, viceversa, questo da quello. Una conseguenza di questo dualismo teologico radicale è pure il concetto di Dio come causa prima, V idea di causa prima non potendo aver luogo nella forma antica del pantei- smo (1). 4^ L'assiomaticità che il principio fondamentale di tutta la dottrina, cioè il dialisnro tra l'anima e il corpo, doveva avere agli occhi di un contemporaneo di Platone. Non solo esso è un risultato immediato dei so- fismi a priori del nostro spirito, ma è ammesso quasi senza recezione (oltre che dalla credenza popolare) da tutti i fitosofi anteriori e da tutti i pensatori antichi in generale (2)— Tutti questi caratteri delle dottrine pla- toniche sull'anima (a cui dobbiamo aggiungere la co- stanza con cui sono irsegnate dall'autore) costituiscono altrettante prove intrinseche della loro veridicità: ve- dendovi delle finzioni, ci metteremmo in contraddizione coi più semplici canoni della logica dell'ipotesi, perchè invocheremmo una causa ipotetica per ispiegare un fatto che sì spiega abbastanza per le causeche sappiamo cer- tamente essere esistite (cioè i sofismi naturali del nostro spirito e il getìio eminentemente metafisico di Platone), e di più questa causa ipotetica sarebbe insufficiente a spiegare l'efiietto, p(ichè una semplice finzione non da- rebbe luogo a un sistema di concetti, in cui troviam(1) Cfr. cap. IT. § 2. pag. 66. (2) Cfr. n, I, 0. 273 e 288 p. 2.* tutta quella solidità che può trovarsi in una costruzione metafisica. Ma si pretende che l'immortalità dell'anima è in- compatibile con la dottrina fondamentale di Platone, cioè quella delle Idee. Platone, si dice, non avrebbe potuto ammettere l'eternità delle anime individuali, che facendo di esse altrettante Idee: per lui infatti l'eterno non è che l'universale; i su'^i principii non sono individuali, come nell'atomismo o nel sistema delle monadi; nel suo sistema l'elemento essenziale del mondo è 1' universale, e l'individuo è l'elemento accidentale, e non può avere, per conseguenza, che un'esistenza transitoria. É il solo argomento contro l'immortalità platonica che abbia qualche speciosità, perchè Platone in effetto mette più volte in opposizionfi ciò che è sempre, cioè le Ide»», e ciò che nasce e perisce, cioè le cose individuali (i), donde è facile di concludere che ogni cosa individuale per lui deve essere soggetta alla nascita e alla morte. Non bi- sogna però accordare al Teichmùller, come hanno fatto alcuni critici, pur non accettando la sua conclusione centro l'immortalità, che questa è in contraddizione coi principii stessi del sistema delle Idee : la contraddizione non è che con certe formule dì cui Platone si serve per mettere in contrasto le Idee e le cose per uoa delle loro diflerenze più ovvie— ben inteso, se queste formule si prendono in un senso assolutamente rigoroso— L'eternità delle Idee e la peribilità degl' individui non sono per Platone una conseguenza del principio che ciò che vi ha di sostanziale nel mondo deve essere eterno e ciò che (1) V. le note seguenti* - 311 — vi ha di accidentale peribile. Tanto l'una quanto l'altra non sono per lui che un risultato deiresperienza : questa ci mostra che le specie sono stabili, mentre grindividiii nascono e periscono; per questa tendenza innata del no- stro spirito alle generalizzazioni eccessive, che è secondo Baiu uua conseguenza dell'attività inerente air organi- smo (1), egli ne conclude, come sembra il più caturale prima delle scoverte della scienza moderna, che questa stabilità ò assoluta, ciré che esse sono eterne ed immu- tabili, proposizione la cui traduzione in linguaggio reali- sta è che le Idee esistono sempre e sono sempre le stesse. Questa deduzione dalTesperienza non può escludere che egli concluda, per altre deduzioni, che vi hanno, oltre alle Idee, altre cose eterne (benché non potrebbe dire anche di queste che sono sempre, perchè ogni esistenza indi- viduale non si classa per lui neire,s,sere, ma, nel diveìiire) . Ma che le stesse formule che sembrano in contraddizione con l'eternità dell' anima non devono prendersi in un senso assolutamente rigoroso, si vede da ciò, che in que- sto caso esse sarebbero anche in contraddizione con se stesse, perchè negherebbero implicitamente V eternità delle stesse Idee : se infatti ogni esistenza individuale, senza eccezione, è soggetta alla nascita e alla morte, anche la terra, gli astri e il cielo, che Platone considera come un individuo vivente, saranno soggetti alla nascita e alla morte, ciò che è la negazioue dell' eternità del- l'ordine attuale del mondo, di cui l'eternità delle Idee è l'espressione metafisica. In molti casi, per altro, in cui Platone sembra opporre le Idee eterne e gl'individui che (1) V. Bttin Lofjk'o l. VI e. 3. nascono e periscono, non abbiamo aVuna ragione di vedere altra cosa che l'opposizione solita tra 1' essere e il divenire— da. cui non si potrebbe niente concludere contro l'immortalità dell'anima, poiché il divenire con- tinuo delle cose non è più incompatibile con essa che con la persistenza, anche per un sol giorno, di qualsiasi oggetto individuale— L'espressione xò ov àsC (ciò che è sem- pre) oxà ovxa às{ (le cose che sono sempre), per designare le Idee (1), non implicano necessariamente che le cose opposte alle Idee, cioè le individuali, hanno tutte una durata limitata, perchè di quelle aventi una durata illimitata Platone non direbbe che sono sempre, ma che f^empre divengono. Nella più farle dei casi (p. e. quando è opposto a 5v— l'essere— ) (2), ily^Tvótisvov equi- vale evidentemente alla ysvsai; (il divenire— che indica in Platone il complesso delle cofc fenomeniche, perchè sog- gette a un divenire continuo) (3), e nei dobbiamo tra- durre, non cib che nasce, ma semplicemente ciò che di- viene (cioè con un' espressione più vaga, non signifi- cante che il cangiamento continuo a cui, secondo Era- clito e secondo Platone, le cose sono sottoposte). Quando a fix^oiiB^ov Platone aggiunge y.at àTioXX'Jjjtsvov (e che peri" sce) (4), non è necessario ch'egli pensi perciò ad altro che alla dottrina stessa del divenire, perchè, se è vero, come dice Eraclito, che tutto scorre, come un fiume, e niente permane, sarà vero, non solo che tutto continua- <1) V. Tim. 27 d, 37a, 50c, 51a,59c, Ffdo. 79d, Conr, 211a, FU. 59a, Kep, 527b, Glie, eco. (2) Come nel Tim. 28a e neUa /»*<'i). 518o e 521 d. i'à) V- Sof. 2é6c, 248a, e, liep, 525b, e, 52Ge, 534a, Tim. 38a, 52d, eoe. (4) V. Tim. 28a, 52a, Rep. 521e, 527b, FU, 15a, Conr. 211b. V. anche Jfep. 485b, Coììv, 211a, FU. 15b. — 315 — mente diviene, ma anche che tutto continuimente peri- sce, l'esistenza degli oggetti elie noi cliiamiamo durevoli, risolvendosi in una successione di stati differenti, di cui cia- scuno sparisce appena che è apparso, erme le orde del fiume, a cui le cose si paragonano (1). Ma in quei casi stessi in cui p'^r ciò che é sempre dobbiamo intendere semplicemente quello che ha una durata illimitata (fa- cendo astrazione dalT esenz^'one da q«a!s'asi divenire implicata nella parola è), e per co che diviene e ciò che perisce quello che, pur avendo una certa permanenza, incomincia ad esistere e finisce di es'stere (2), basta, per ispiegare come questa opposi/Jone possa rappresen- tare per Platone quella tra le Idee eie cfseindivi.Juali, che la nascita e la morte sia in queste la regola, e l'e- senzione dall'una e dall'altra Teccez'one. Anche Aristotile, quando parla delle dottrine platoniche, chiama le cose individuali i corrutiibili (c^Bapid), e h» oppone, come tali, alle cose eterne, cioè alle Idee (3); ma ciò non gli (1) E a questa decomposizione delle cose in una successione di fenomeni fuggitivi, che Platone sembra alludere, quando dice (nel Sofista 246l>c) che gli amici delle Idee dividono gli esseri, am- messi dai Fisici, in minime parli (xaxdc 0|JllXpà fitaBpa'JOVxeg), chiamandoli non •* essenza «, ma " una certa genesi fluente „. Come si T3de dall'opposizione tra V essere e il divenire^ Plalone si serve della dottrina di Eraclito per negare alle cose individuali una vera realtà. Per conseguenza egli deve preferire di presentarle sotto un aspetto in cui sembrino prive di qualsiasi sostanzialità, e quindi di qualsiasi permanenza, la sostanza nelle cose essendo appunto il permanente. (2) Come, p. e., nel Conv, 211a-b e nel FU, 15a-b e 36c. ^3) V. Met. 1. I. IX. 5, 13,25,1. III. II. 16, l. VII. XVI. 7, 1. Vili. III. 5, 6, 1. XI. IL 2, ecc. impedisce di domandare ai platonici in che le Idee gio- vino sia ai sensibili eterni hia a quelli che nascono e periscono (1), e di afl'ermare, al comìnciamento della sua esposizione del sistema di Platone, che questi ha fatto un'Idea di tutto ciò che vi ha di uno nei molti tanto nelle cose di qui (cioè le terrestri) quanto nelle eterne (cioè le celesti) (2). Con lo stesso dritto con cui il se- guace dell'interpretazione hegeliana può, con una certa apparenza di rigore logico, fondandoci su certe locu- zioni di Platone, concludere che l'anima per lui è mor- tale, altri potrebbe concludt re, fondandosi su altre lo- cuzioni, che essa si vede o si tocca o si percepisce per qualche altro dei nostri sensi. Infatti allo stesso modo che ciò che é aempre e ciò che nasce e perisce^ egli op- pone anche, e non meno frequentemente. Vinteli igibilt, e il sensibile (3) : ora in quest'opposizione V intelligibile non è evidentemente che Tldea; dunque, si concluderà, Ta- nima, non essendo un'Idea, non può essere per Piatone che qualche cosa di sensibile (4). Il vero motivo per cui si nega la sincerità della dot- trina di Platone del l'ini mortalità dell' anima, è che si (J) Afet, i. I. IX. 6. (2) Met, 1. I. IX. 1. (3) V, T,m. 28a, 37b-c, 38a, 48e-49a, 51a-b,c, d, 52a, Sof, 248a, Fedro 2i9h-c, Fedo, lòQ-7Qe, 79a-c, 83a-b, 99e, Jeep. 507b, eco. V. anche Arist. Met. 1. 1. VI. 3, IX. 6. 10, 1. Ili, IL 15-17, 21, I. VII. II. 3, XVI. 7, 1. XI. II. 1, 2, 1. XIII. I. I, 4, II. 1, 6, 16, III. 1, IV.' 2, 5, ecc. (1) Per l'accordo e il legame della dottrina dell' anima in ge- nerale con quella delle Idee rimandiamo a ciò che abbiamo detto nel n. I, carte 285-287, Ivi noi parliamo della dottrina dell' anima cosmica ; ma questa è legata strettamente con quella dell' anima individuale. — 31G — I t Vuol trovare nel nostro filosofo quella di Hegel dell' i- dentità del pensiero col suo oggetto. Questa dottrina sa- rebbe incompatibile con quelle della reminiscenza e del- rintuizione delle Idee in una vita anteriore, (d tsso sup- pongono Timmortalità dell'anitra: inoltre, non riuscendosi a trovarla, nelle opere platoniche, esposta in una forma puramente filosofica, si cerca di vedervela involta in m'ti e in allegorie, quali sarebbero l'immortalità deir anima e quelle due altre dottrine che la suppongono. Ma non solo la dottrina hegeliana non si trova, in Platone, e- sposta in una forma filosofica, ma vi gi trova invfce la dottrina contraria, cioè il punto di vif-ta ordinario, se- condo cui il pensiero e le cose crstituiscono una dua- lità irriduttibile di termini radicalmente diff'erenti e ir- reconciliabilmente opposti. La dottrina che il pcLsiero, nella conoscenza filoso- fica, s'ident'fica col suo oggetto, implica quella che le Idee sono pensieri. Se le Idee non fofsero pensieri per se stesse, esse non potreblero divenire pensieri nostri, (juan- do entrano nella stVra della nostra conoscenza. Ma le Idee di Platone, a diflerenza di quelle di Hegel, sono delle entità puramente obbiettive. Esse non sono che le cose stesse, considerate nel loro elemento sostanz'ale, cioè spogliate di tutto ciò che Platone riguarda, nell'es- sere, come accidentale L'Idea d'una cosa è Veasenza di questa cosa (t), e le Idee in generale sono anche chia- mate gli esseri e le cose (2). // movimento, lo stato, Ves- serey ecc. significa l'Idea 4el movimento, dello stato, (1) V. carte 12 e 148-149. (2) V. e. 100. dell'essere, ecc. (1); le entità d'^l Tispa^ e dell' àTistpov del i^t7e6o— elementi delle Idee euniversali sostantificati come le Idee stesse— sono le une il più caldo e il più freddo, il più secco e il piì^ umido, il forte e il piano, il grave e y acuto, ecc., le altre V eguale, il doppio, ecc., e le cose risultano dalla loro mescolanza (2); la Beltà che l'anima ha intuito, quando era in compagnia degli Dei, è questa stessa beltà che ora percepiamo con la vi- sta (3ì; ridea del bene è identificata con la felicità de- gli esseri viventi (4), e chiamata V ottimo negli esseri e il più felice ddVessere (5). Certamente le Idee non sono le cose che trasfigurate; ma i processi per trasformare le cose in Idee le lasciano, quali erano, dei semplici og- getti, non ne fanno dei pensieri. Il primo di que- sti processi è l' astrazione. L'Idea dell'uomo è un uomo astratto o indeterminato, cioè avente gli attri- buti comuni a tutta la specie, ma senza le parti- colarità proprie di uno o di alcuni individui. Per 'ttenore quest' Idea basta perciò di separare (xw- pt^^eiv) (G) in un uomo ciò che è comune con tutti gli altri uomini da ciò de non lo è: il risultato di questa separazione si chiamerà V uomo, senz' altro, o, per far comprendere che ron si tratta di un uomo detei minato, ma dell' uomo indeterminato o astratto, l'uomo stesso (aOióc), l'uomo .s/fs.<fo p<r se stesso (aOxòg xaO'aOxóv), ciò che è (S eoTv) uomo, l'uomo separabile (xw- pioTÓ?), ecc. Il nome uomo designa propriamente que- st'uomo astratto, od è esso il vero oggetto della defini- (1) v. o. 13 e 100. (2) V. e. 97-100. (3) V. e. 144. (4) V, e. 91-OG. (5) V. e. 87, p. 2.» (6) V. carte 76-78. — 317 - zìoae deiruomo; il norrìe e la definizione non si appli- cano a^li uomini individui, che perchè sono delle parti- colarizzazioni o delle determinazioni dell'uomo inaeter- minato. L'Id^^a non è dunque che un astratto (cioè, conie dice il Taine, un estratto, una porzione, di un o^^get^o concreto), considerato come esÌ5»tente per se stes-^o : essa non è propriamente, come suoi dirsi, il concetto, ma l'oggetto del concetto, realizzato ; il suo contenuto è quello stesso del concetto, ma questo contenuto che nel concetto esiste sotto la forma del pensiero, in essa esi-^te sotto quella della realtà, deirobbiettività. É perchè le Idee platoniche sono Tobbiettivazione delle «strazioni, cioè dei contenuti dei concetti, e niente di più, che Pla- tone può esprimere compendiosamente la sua dottrina, affermando che l'astratto è reale (p. e., come dice nel Fedone, che il giusto, il buono, il bello è qualche cosa, o, come dice nel Timeo, che gli slòri intelligibili delle cose esistono realmente e non sono dei semplici nomi) (1). L'altro processo per trasformare le cose in Idee è la ge- neralizzazione. L'Idea deiruomo non è solamente T uo- mo astratto, ma è anche l'uomo universale (2), e la sua antitesi è qualchenomo,eìmolti nomini singolari (^). Per noi dì universale, come di astratto, non vi hanno che dei nomi, e per il concettualista, che dei pensieri ; ma gli universali di Platone sono degli universali in re, e semplicemente in re : sono le specie e i generi (4), ciò a cui si applica la dieresi (5); e il contrario e il letto Idee, in opposizione ai contrari e ai letti particolari, (1) V. Suppl. B parte I n. II, e ofr. n. III. e IV, (2) V. o. 148. (3) V. e. 29. (4) V. Sappi. B n. I e VII. (5) V. n, IV (parte I). vengono chiamati il contrarioeil letto nella natura (1). Cia- scuno di questi universali essendo, non la totalità degli individui d'uoa classa, ma una sostanza unica che rap- presenta questa totalità, il processo di generalizzazione per cui dalle cose si giunge alle Idee, è un processo di unificazione. Esso si chiama o'jvaYoiyi^, cioè riunione, riduzione del multiplo alTuno ('i); e consiste a sostituire, per eia cuna classe, un individuo unico alla moltitudine degl'individui offerti dall'esperienza, riguardandolo come la vera realtà, di cui questi sono il fenomeno. É quanto basta per ottenere l'Idea platonica—ben inteso che que- sto proces-o di unificazione suppone già quello di a- Ftraz'one, cioè la elim-nazione di tutte le particolarità che differenziano il multiplo — : cosi, per esprimere la dottrina delle Idee, Platone dice : uno è il bello, uno é il giusto, ecc. (3); o — dopo aver detto che vi hanno molti belli, molti buoni, ecc. —che ciò che si è posto come molti sì deve porre nuovamente come uno (il bello stesso, il buono stesso, ecc.) (4). Questo è dunque l'Idea plato- nica, considerata in se stessa : un individuo astratto, a cui si riduce la moltitudine degl'individui di ciascuna class'», e per rappresentarsi il quale si fa astrazione da tutto ciò che non è comune a tutti gì' individui. Per completare la dottrina, non si ha che ad aggiungere la relazione tra quest'individuo astratto e grindividui con- creti (cioè ad aggiungerla espressamente, perchè essa è data implicitamente nella auvaYWYr^). Questa relazione (1) V. carte 45 e 129. (2) V. e. 29-30. (3) V. e. 30-31 . (4) V. e. 38. — 318 — }}, è espressa compendiosaraente nella formula V uno nei molti (I), e designata dai termìai temici napojjta e|xi- Osgig (2). L'Idea è il comune (3), ciò chi si p-edìca di tutti i singolari come uno e Jo stesso in tutti (4), ciò per la cui presema o partecipazione le erse sono ciò che hi dicono esspre (belli per la presenza o partecipazione dell'Idea del bello, uomini, dell'Idea dell 'uomo, ecc.) (5), e che (per questa sua presenza o partecipazione in co. mune) è la causa agli ogs^etti simili dell'esser simili (6). La grandezza che è in tutti gli oggetti grandi, la bellezza che è in tutti gli oggetti belli, ecc., è una sola e stessa grandezza, una sola e stessa bellezzi», ecc., e queste sono le Idee del grande, del bello, ecc.; l'Idea della fi- gura è la figura che é la stessa in tutte le figure; V 1" dea del simulacro è il simulacro unico che è in tutti i simulacri; ecc. (7). Tutte queste proposizioni e le altre simili non dicono in sostanza se non che 1' astratto è uno di numero; che gli astratti, che si possono isolare nei diversi individui d'una classe, per la soppressione dei caratteri particolari e la conservazione dei soli at- tributi generali, non sono semplicemente eguali, ma identici; che non sono molti e distinti fra di loro, ma si risolvono in un essere unico. In un solo individuo astratto, che si ritrova, uno e lo stesso, in tutti gl'indi- vidui concreti. Noi possiamo dunque cosi definire 1' I- (1) V. 0. 32. (2) V. Sappi. B n. VI. (3) V. o. 148. (4) V. o. 18. (5) V. Sappi. B p. f n. VI. (6) V. carta 32. (7) V. 0. 31-35. dea platonica : un individuo astratto (cioè non avente che i caratteri generali della classe), che è presente si- multaneamente in tutti gl'indiNÌdui, e che, per quef-ta Fua presccza simultarea in molt% pare molti ceso stesso, benché in realtà mn sia che uno. Quando i due processi per trasformare le cose in Idee si applicano alle cose considerate nella loro successione, si ha la determina- zione deiridea come ciò che vi ha di costante e di per- petuo nella natura. Con le Idee sono descritte come de- gli oggetti etorni e immutabili, e opposte alle cose che nascono e periscono, e non sono mai ma continuamente divengono (1). Ciò vuol dire che l'Idea e l'elemento permanente del divenire, che nel flusso continuo dei fe- nomeni le Specie sono stabili, che 1' individuo astratto si ritrova, sempre uno e lo stesso, nella suc-^essione de- gV individui concreti (2); e a questo punto di vista la dottrina delle Idee è espressa dalla propos'zione che la forma di ciascuno degli esseri (cioè di ciascuna specie di esseri) é sempre la stessa {eadem nnmero) (3). Se si fa astrazione dalla loro inerenza nelle cose, si ha il con- cetto delle Idee come paradigmi (4), cioè come modelli a cui la natura si conforma costantemente nelle sue pro- duzioni. E Taspitto, il più appariscente, della dottrina delle Idee, a cui si ferma l'interprete irascendentalista, ed é co:*i che sovratutto sono presentate da Aristotile. Ma che le Idee siano dei semplici oggetti, è altrettanto evidente quando si tiene conto delia loro immanenza (1) V. e. 108-109 e 117. (2) V. Sappi. B. n. X . (3) V. e. KW nota 2. (4) V. 0. m. ai9 - nelle cose che quando se ne fa astrazione : nel pn'mo caso sono un elemento delle cose (1), o piuttosto le cose stesse considerate astrattamente; nel secondo, ne sono i duplicati. Secondo Aristotile, le Idee non dift'eriscono dalle cose che per la loro eternità (2); sono dei sensibili eterni, come gli dei del volgare sono degli uomini e- terni (3). La loro essenza non differisce da quella delle cose; nelle une e n^lle altre il concetto è uno e lo stesso (4). Le fanno (i platonici) della stessa specie che 1 sensibili; non fanno che ag-giurgere la parola aùió (5). Cosi, per significare che i platonici non ammettono una Idea della casa, Aristotile dee che non vi ha, secondo essi, uca casa oltre (Tiapa) le case part colari (6); e ob- bietta che, secondo i loro principii, si dovrà ammettere un terzo uomo (oltre V ucmo sensibile e T uomo idea- le) (7), e che, come vi hanno delle entità intermediarie per le grandezze e pei numeri, vi sarà un altro cielo oltre il cielo sensibile e altri animali medi fra gli an'- (1) Le Idee dei generi, e specialmente dei due generi supremi (l'Uno e la Dualità indefinita), sono chiamate elemuuti detjli esseri. V. e. 88-91. (2) V. Met, 1. I. VI. 3, 1. I. IX. 8. 13, 1. III. II. 16, 1, XI. 11. 2- Un altro carattere differenziale è l'immobilità : cosi, secondo il primo luogo citato, Id entità matematiche differiscono dai sensibili perchè eterne ed immobili (come le Idae), dalli liee perchè ve ne hanno molte della stessa spacie. Ma probabilmente Aristotile ri- guarda l'immobilità come data implicitamente nell'eternità (perchè la eternità delle Idee platoniche è l'assenza della condizione del tempo). (3) L. 111. II. 16. (4) Met, 1. I. IX. 5, Eth. Xic. U I. VI. 5. (5) Met. 1. VII. XVI. 7. (6) V. e 149, nota 1. (7) V. e 33, in nota. . \ li' mali stessi e gli animali corruttibili (1). Nel periodo pi- tagoreggiaiite si flggiunf:e una nuova astrazione a quella per cui si ottiene )1 concetto geneja'e (o piuttosto il con tenuto di questo conc tto); si sopprime, cioè, la materia," e si fa dell'Idra una semplice foima. Questo teryo pro- cesso per ottenere Tld a ci mostra d'una maniera an- cora più evideLtc ch'essa ncn è che un' entità pura- mente obbiettiva. La foima infatti non esiste altrove che nella materia; e in efiTetto noi sappiamo dal Timeo e da Aristotile che ciò che partecipa alle Idee è la ma- teria, che es.'-a è il loro substratum o il soggetto di cui si pi edicano, e che l'individuo è un composto della ma- teria e de'l'Idea (2); e siccome la materia per Platine è identi«*a allo spaz'o, Arisvtile ne inferisce anche che le Idee ('ovrcbbiro essrre nello spfz'o(3). Senza dubb'o, ^e Platone amnwttesse la dottrina de l'identità d« ll'essere e del pen»ievo, nonholo le Idee, ma anche le cose fu lumeijali dovr^bbeio essere per lui dei pensieri. E «llora, astraendo il comune dalle cose, unificandolo, contemplando queste cose sub specie aeter- nifatis (secondo il concetto d' Aristoii'e the le Idee sono dei sensib li eterni), separando le loro forme dalla materia, siccome le cose sarebbero anche dei pensieri, se ne tirerebbero, non del semplici o\^^eW, ma degli oggetti che sarebbero al u mpo stesso dei pensieri. Ma siccome Piatone no i dice mai che le cose sono anche dei pensieri, e gli u >mini pensano generalmente che non sono che delie cose, noi dobbiamo ammettere ch'e- (1) Met, l. UT. II. 17-22 e 1. Xlll.. II. 7-8. (2) V. e. 132, 141, I4i)-150. (3) V. e. 155. - 320 -- gli divide, su questo soggetto, il punto di vista comune; e perciò che Tldea platonica, tirata dalle cose mediante i processi che abbiamo indicati, non è un oggetto che é al tempo slesso un jensiero, ma un semplice oggetto, che non si distingue dagli nini, quali gli uomini abi- tualmente se li rappresentano, che perchè è astratto, unico nella sua specie, eterno, e una semplice forma senza materia. Altre prove della semplice obbiettività delle Idee si avranno, esaminando le determinazioni che loro ven- gono attribuite per se stesse, o anche nel loro rapporto con le cose, ma indipendentemente d«l processo per cui il loro concetto e ricavato da quello delle cose. Le Idee sono per Platone V essere o gli esseìH (I), e Aristotile le chiama continuamente sostanze (2), Questa sostanzialità si vede altrettanto dagli attributi delle sostanze sensibili che vengono loro negati (p. e. quando Platone le chia- ma «l'essenza senza colore, senza figura, impalpabi- le » (3), o quando Aristotile e gli amici delle Idee del •Sb/?s^a pretendono che Fono assolutamente immobili e prive della facoltà di agire e di patire (4)), che da quelli che vengono loro conservati (p. e. quando Platone afferma, (1) V. e. 100-101. (2) V. Met. 1. I. IX. 4-5, 1. 111. 1. 6, 15, VI. 2-3, 1. VII. II. H, 6, Xlll. 2, 7, XIV. 5-2, XVI. 6, 8, 1. X. II. 1-2, 1. XI. II. 1, 2, 7, 1. XlU- 1. 2, IX. 16, 17, 20, X, 1, 7, ecc. Nel l. XIV. 1. 1 e IV. 4 e altrove le chiama le sostanze immobili; e nel 1. 111. VI. 5, 1. VII, Xlll. 8—10 e altrove obbietta che, nell'ipotesi delle Idee, in una sostanza vi saranno più sostanze (perchè una cosa o un'Idea partecipa a più Idee— V. o. 153-154). i3) Fedro 2Alc. U) V. e. 110-1-20. fi contro rinterpretazione degli amici delle Idee, che Tes- sere vero pensa, vive, ha un'anima e si muove) (1). Essa si vede pure dal loro rapporto con le cose rie Idee sodo la realtà, e le cose le immagini e le apparenze (2); eia parusia è assimilata alla presenza di una sostanza ma- teriale in un'altra (3). Nel periodo pitagoreggiante le Idee sono identificate ai numeri— che certamente sono degli oggetti, per quanto 1' antitesi tra soggetto ed oggetto può applicarsi a delle astrazioni (4)—; e composte di forma e di materia (5) come le cose. Insieme a queste determinaz'oni e ale alire che ci mostrano le Idee come semplici oggetti, non ne incontriamo alcuna che ce le mostri erme pensieri. Cosi, siccome al punto di vista comune— che d'altronde è il solo intelligibile— l'essere un oggetto è incompatibile con 1' essere un pensiero, non trovando mai in Platone una proposzione che, in un caso particolare o come priifcipio generale, escluda questa incompatibilità, noi dobbiamo ammettere ch'essa esiste anche per lui, e vedere nelle determ nazioni delle Idee come degli ogg« fi la negazione implcita della dottrina che sono dei pensieri. Noi non possiamo immaginare altra prova più completa delie precedenti che una proposizione in cui Platone ne- gasse espressamente la dottrina del 'identità dell' essere e del pensiero. E ciò ch'^ egli avrebbe certamente fatto, (1) V. e. 120. (2) V. e. 100-102 e 126. (3) V. e. 65 e 70-71. (4) E d'altronde questi numeri a cui s'identificano le Idee, sono essi stessi identificati ai punti che sono i termini delle grandezze, e considerati come gli elementi costitutivi di queste. V. carte 150-151. (5) V. Supplem. C. n. II. — 381 - ' * .'i; 'f'^^vr^f^-^f --^p-r ee fosFe venuto dopo Hegel. Ma siccome Platone, e chic- chessia alla sua epoca, ignorava che, fra le pseudo-idee che avrebbero immaginato 1 met. fisici, vi sarebbe stata ridentità deiressere e del pensiero, sarebbe assurdo di cercare in lui questa prova assolutamente completa. E non per tanto noi troviairo nel 7V?rwiew/c?e qualche cosa che vi si avvicina. E la confuta2ione del'a proposizione di Socrate, quando questi, battuto dalle obbiezioni del filosofo eleate contro la partecipazione, abbandona la realtà degli universali, e fa la supposizione che le specie non sono che dei pensieri, e vov possono esistere altrove che nelle anime— queste parole dimostrano che la suppo- sizione di Socrate non è l'identità dell'essere e del pen- siero, ma semplicemente il ccncettualismo— . « Che dun- que V, dice Parmenide, ciascuno di questi pensieri è uno, ma è il pensiero di niente?— Ciò èimpossibile— E il pen- siero di qualche cosa?— Si- Di qualche cosa che esiste o che non esiste ?— Che esiste— Non è di qualche cosa di uno, che questo pensiero pen^a in tutti gli oggetti, come una certa forma reale ?— Si— E non sarà una Specie questa qualche cosa che si pensa essere una, essendo sempre la stessa in tutti gli oggetti ? — Anche questo sembra necessario— Ma che? non è necessario, poiché le altre cose partecipano alle Specie, o che ogni cosa consti di pensieri e tutto pensi, o che le cose non pen- sino essendo dei pensieri ? » In questo luogo abbiamo la propos'zione che le cose sono dei pensieri (o, ciò che è lo stesso, constano di pensieri) presentata come una assurdità, perchè implicante o che tutte le cose pen- sino, 0 che non pensino mentre sono dei pensieri; e considerata pure come assurda, perchè conducente a que- sta pro|.osizioue, quella— non formulata esplicitamente, ma sottii'tesa nel ragionamento di Parmenide- che le Specie, essendo dei pensieri, sono al tempo stesso Vuno nei molti negli oggetti reali; e quindi anche la supposi- zione di Socrate, da cui essa è dedotta, che le Specie sono dei pensieri. Che fa infatti Parmenide ? Dimostra a Socrate che la proposizione che 1 concettualisti op- pongono alla teoria delle Idee, cioè che esse sono dei pensieri— siccome un pensiero generale ha per oggetto (secondo la mariera di argomentare abituale a Platone) un essere generale— implica, quantunque il concettuali- sta non lo comprenda, che questi pensieri, a cui egli pretende ridurre gli universali, devono essere al tempo stesso degli uni\ ertali in re; donde la conseguenza as- surda che tutto il reale si ribclve in pensieri, e quindi —ciò che mostra più palpabilmente la sua assurdità — che le cose o pensano, o sono prive del pensiero essendo pensieri. L'interprete che attribuisce a Platone l'identità dell'essere e del pensiero, alla prova schiacciante contro la sua interpretaz one ccntenuta in questo luogo del Parmenide, non potrebbe dare che una risposta : cioè che in questo dialrgo Platone (o meglio, l'interlocutore che rappresenta il huo pensiero, cioè Parmenide) mostra che l'ipotesi delle Idee e tutte le supposizioni che pos- sono farsi sul rapporto tra le Idee e le cose, fra cui quella che l'Idea è Vuno nei molti eh' egli ammette in tutti i suoi scritti, conducono (o sembrano condurre) a delle conseguenze assurde, e non pertanto <^gli mantiene tanto la dottrina delle Idee quando quella che un* Idea è presente simultaneancnte, una e la f-t'ssa, in tutti gli individui della specie; cosi egli potrebbe mantenere anche la dottrina dell'identità dell'essere e del pensiero, quan- tunque mostri che anche da questa derivano (o piuttosto sembrano derivare) delle assurdità. Ma vi ha fra i due - 332 - casi Tiiia diffnei za ìmyortai te. N* i dobbiamo guardarci dal credei e che le obbiezioni di PartneDide contro le Idee abbiano per Platone lo ^trsso Valore logico che vi troviamo noi stessi. L' obbiezioi e contro la partecipa- zione a 131a-e (1), per noi, è petfettàmente concludente, mentre quella del luogo di cui ora parliamo, contro la proposizione concettualista di Socrate, è patentemente sofistica, perchè le assurdità che si pretende far derivare da questa proposizione, non ne derivano che animrssa la validità dei soliti argomenti di Platone per dimostrare resistenza delle Idee. Ma tul valore di queste due ob- biezioni Platone doveva pensale precisamente il con- trario di ne i. La prima, come tulle le altre dirette con- tro le Idee concepite secondo il sistema realista (rreno forse quella di i32d-13i3a, che scmbia dirij:ere contro l'interpretazione irayc(7id(niolista della sua dottrina), doveva parere a Platone necepsariamentc sofistica, poi- ché egli mantiene, malgrado essa, il suo realismo— senza dubbio egli doveva considerarla come fondata sovra una concezione inesatta delle Idee e del loro rapporto con le cose, per cui si pretendeva, avrebbe forse detto come Car- tesio, « immaginare ciò che non sì può se non inten- dere » (2) — ; la seconda invece doveva parergli Tunica fra tutte (meno forse Teccezone di cui sopra) che fosse concludente, poiché l'impiegava, come l'arma più forte di cui potesse avvalerci, e ntro la negazione dei suoi oppositori, cioè il concettualismo. L'assurdo a cui Par- menide riduce la supposizione di Socrate, era dunque ij i. per Platone realm^ìnt^. un assurdo; e il seguace dell' ia- terpreta/.ioue hegelia la gli attribuisce una dottrina ch'e- gli ha condannata, nel modo più esplicito possibile in cui un filosofo possa condantiare una dottrina che gli è sconosciuta. Veniamo ora al pun'o che è direttamente in qui- s'ione, cioè alla dottrina, non dell' identità dell'essere e dol pensiero, ma dell' identità dell' e^^sere e del no- stro pensiero, dell'oorgeto conosciuto (le Idee) e della conoscenza. Quand'anche il segnncc dell'interpretazione hegeliana potesse provare che Platone ha ammesso la |,rima dottrina, egli non proveribbe ancora che ha affi- mi sso la seconia : al contrario, provando che non ha ammesso quella, si è provato pure che non ha ammesso questa, (ssendo evidente, come abbiamo not^ìto, che se le Idee non sono per se stesse dei pensieri, non possono divenire dei nostri pen^^ieri. Ma alle prove precedenti che, dimostrando che le Idee non sono per Platone che dei semplici oggetti, dimostrano pure indiret' amente che per lui non può esservi identità fra la conoscenza e l'oggetto conosciuto, noi possiamo aggiungere delle prò. ve dirette. Vi ha prima di tutto la prova negativa, cioè l'assenza di proposizioni in cui Platone affermi aperta- mente quest'identità; e a questo riguardo sono notevoli i luoghi in cui parla dei caratteri che distinguono la scienza dall'opinione (1), poche quest' ident tà, se 1' a- vesse ammessa, sarebbe stata certamente uno di questi caratteri, la presenza immediata dell'oggetto al soggetto conoscente essendo necessariamente per lo spirito uma- (1) V. Sappi. B carte 34-35. (2) V. e. 33 in nota. (1) V. specialmente Meno. 97d-98a e Tim. 5ld-e. Qfr. oap. VII pag. 149-161. / li : I. no il tipo supremo della certezza. Tra le prove positive daremo il primo posto ai luoghi numerosi in cui Pla- tone riguarda evidentemente (come farebbe chiunque altro tranne un h'^geliano) la conoscenza e l'oggetto co- nosciuto come due cose affatto distinte e separate. Io citerò quelli che mi sembrano più importanti. Sulla fine del Cratilo (439d-440b) (1) dice .^,he, se tutto diviene, il bello slensoj il buono s'esso, ecc. non potranno essere conosciuti da alcuno, perché, mentre la potenza cono- scitiva tenterebbe di a^mgerli, essi diverrebbero altri (difficoltà che non potrebbe aver luogo nella dottrina del- Tidentiià); e mostra che, neiripotesi di Eraclito, non vi sarà né il conoscente (cioè la conoscenza) né il cono- sciuto (due cose distinte). Nel Filebo la distinzione tra la conoscenza e l'oggetto conosciuto é affermata quando dice (2) che 1' intelligenza e la saggezza non consi- stono che nelle conoscenze intorno all' essere reale (le Idee — Tiepl xò òv ovitog), perchè « intorno a ciò che non ha alcuna stabilità (il diveirre) coTie po- trebbe esservi in noi qualche cosa di stabile?», ma «Io stabile, il puro, il vero, il sincero non può aver luogo in noi che intorno a ciò che è sempre nello stesso stato, della stessa maniera esenz'alcuna mescolanza ». Questa distinzione è affermata pure dove si tratta dei quattro generi in cui gli esseri vengono divisi (3), poiché 1' in- telligenza, cioè la causa, è un quarto genere oltre i tre primi, e si dice espressamente (4) ch'essa è laltra che le (1) Laogo riportato nel Suppl. B o 116. (2) 59 b-d. (8) 23O-30. (4) A 27 a-b. CÒS3 appartenenti agli altri tre generi (cioè gli esseri, cose e Idee, e il Tiépa; e l'^Tisipov che ne sono gli ele- menti) (1). Nella Repubblica 437 d-439 a (2) la scienza e il suo o2:s:etto sono n'o-iarlati come due cose diverse e correlative, come la sete e la bevanda, la fame e il cibo, il maggiore e il miuore, il doppio e la metà, il più ve- loce e il pili tardo, ecc.; e si nega (3) che la scienza (e in generale un correlativo) sia tale quale è Toggetto a cui si riferisce, p. e. che la Fcienza del salubre e del- Tinsalubre sia essa stessa s«lub e e insalubre, e quella del buono e del cattivo buona e cattiva (mentre è evi- dente vlie, nell'ipotesi dell'identità della conoscenza col suo oggetto, la scienza del salubre, essendo il salubre stesso, non potrebbe non essere salubre, e cosi pure quella del buono buona, ecc.) Nel Carmide Socrate ob- bietta al suo interlocutore che la scienza è dì qualche offffetto, che è altro* che la scienza stessa, p. e. la lo- gistica è del pari e dell'impari, che sono altri che la logistica, la statica del grave e del leggiero, che sono altri che la statica (4); e gli dimostra (5) che non è pos- sibile una scienza che abbia se stessa per oggetto (in- tanto, se la conoscenza fosse identica all'oggetto cono- sciuto, la conseguenza necessaria sarebbe che la scienza non avrebbe per oggetto che se stessa). La scienza, dice Socrate per dimostrare quest'impassibilità, è relativa a 0) Cfr. Sappi. B carta 100 n. I, e Sappi. C e 247 p. 2«248 p. • (2) Luogo riportato, in parte, a caria 14 in nota. (3) 438 e. (4) 166 a-b. (6) 167 c-168 e. — 324 - L qualche cosa, come il mag^gìore è relativo al minore, Il doppio alla metà, il piti al meno, il più grave al più leggiero, ecc. (proposizione che g'k incontrammo nel luogo della Repubblica)*^ cosi una scienza che avrebbe se stessa per oggetto sarebbe come un maggiore che fosse maggiore di se stesso, un doppio che fosse il dop- pio di se stesso, un p'ù che fosse p'ù che se scesso, ecc., con le cons'^guenze contraddittorie implicate in cia- scuna di queste ipot -si. Essa sarebbe pure, aggiunge Sccrate, com*^. una vìpta che vedrebbe se stes^^a e come un udito che udrebbe se stesso, ciò che supporrebbe che la vista avrebbe colore e l'udito avrebbe voce (confuta- zione che converrebbe perfettamente alla dottrina deiri- dentità della conoscenza e dell'oggetto conosciuto, per- chè secondo questa la conoscenza racchiuderebbe in se stessa il suo oggetto, come, nelle comparazioni di Platone, Tudiro la voce e la vista il colore). 'Si dirà che il Car- mide non ha uno scopo dogmatico, ma è un semplice esercizio dialetii.'o; ma Platone non dinbbe, anche in un esercizio dialettico, delle preposizioni in contraddizione con le proprie dottrina. Nel Sofista 248 lo straniero e leate (che in questo dialogo rappresenta le dottrine dol- Tautore) stabilisce, contro gli amici delle Specie^ che il conoscere è un'azione, e Pesser conosciuto una passione, e per conseguenza un movimento (questo conosciuto che, come tale, subisce uaa passione e un movimenta, è la essenza^ cioè le Idee) : ciò importa, primo, la distinzione fra i due termini antitetici, l'ageote, cioè lo spirito che conosce, e il paziente, cioè le Idee che sono conosciute; e secondo, che la conoscenza dellcs I lee è uà cangia- e ha luogo quindi nel t^mpo, mentre essa, se- condo la dottrina che si vorrebbe attribuire a Platone, essendo identica al suo oggetto, dovrebbe essere etrrna (cioè fuori del tempo) come quest' oggetto sfesso. Nel Tteteto 09lc-196b) i pensieri sono rappresentati come delle effigie degli oggetti su tavolette di cera esistenti nelle anime, e fra queste effigie vi sono quelle del cin- que HiessOy del sette stesso, del dodici stesso, e in gene- rale dei numeri astratti (che, secondo i principii di Pla- tone, non possono essere che delle Idee, o almeno delle entità matematiche— queste, nel periodo pitagoreggìante, si distinguono dalle Idee, ma non sono in sostanza che Idee come le altre, e non differiscono dalle altre che perchè non se ne fanno dei numeri ideali). Questa rap- presentazione implica evidentemente il concetto che il pensiero, anche quando ha per oggetto le Idee, lungi d'identificarsi con la cona pensata, ne è una semplice immagine. L'esteriorità delle Idee al nostro pensiero è provata pure dalle espressioni, cosi fiequenti sovratutto nel VII della Repubblica^ che nel senso proprio deno- tano la percezione visuale, ma che Platone impiega per designare la conoscenza delle Idee; p. e. vedere il bello in se steFSo {Rep, 476b), rivolgere V ott'mo nell' anima allo spettacolo dell'ottimo negli esseri (cioè dell'Idea del bene— lò. 532c), dirigrrein su l'occhio dell'anima e guar- dare ciò che dà la luce a tutte le cose (cioè ancora l'I- dea del bene— 16. 540a), ecc. (1). Quand' anche queste (1) V. Rep, 476b, d, 4796, 486a, 610e, 511c, 517o, d, e, 518 o-d, 6J9b, d, 620c, 524c, 525a, 526e, 529a-b, 533a, e, d, 540a, 596b, Conr. 210e,211b, d, e, 2J2a, Fedo. 82c, Sof, 247d, Meno, 72o, Crai, 389b, d, FiU 16d, Tim, 39e, eco. — 325 — espressioni volessero inteadersi come indicanti la prsenza immediata delle Idee al pensiero (come, secondo la credenza naturale, l'oggetto percepito è presente im- mediatamrnte a'ia percezione sensibile) —dottrina che non possiamo attribuire a Platone che quando si tratta della conoscenza primitiva delle Idee in una vita an- teriore—, resterebbe sempre la distinzione tra lo spirito conoscente e le Idee conosciute, perchè la p'»rcezione sensibile, sia secondo il concetto del volgare sia secondo quello del filosofo, implica la dualità di soggetto ed og- getto come due termini opposti e al di fuori Tuno del- l'altro. Un'altra prova della distinzione fra il pensiero e la conoscenza dell'Idea e l'Idea stessi sono gli argo- menti p<»r dimostrare l'esistenza delle Idee, tirati dalla scienza e dal concetto (I). Questi a'-gomenti suppongono che l'Idea è l'oggetto a cui si riferisce la conoscenza scientifica e il concetto, comi le cose particolari sono l'oggetto a cui si riferiscono le coio^cenz^ e i pensieri particolari (2) : da ciò che il concetto e la conoscenza scientifica si riferiscono a qualche cosa di astratto e ge-nerale, se ne conclude che vi hanno delle entità astratte e generali. Se Platone ammettesse che il nostro pensiero s'identifica con le Idee, la sua argomentazione, eviden- temente, dovrebbe essere condotta altrimenti : egli do- vrebbe sovratutto fermare, come base della sua argo- (1) V. Sappi. B, n. Ili, carte 18-19. (2) Aristotil3 obbietta ad uqo di qaesti argomenti (sembra, il secondo riportato a carta 18j ch3 sesoado esi^oyi dovrebbero essere Idee anche delle co^e paribili (cioè digl'ialivldai), perchò di qae * ste esiste ancora un /*a>i(asma (cioè un'immagine nella nostra mente) dopo che Q^iò sono parile, V. Mit, l. I. IX. 2. mentazìone, il principio che il pensiero è identico air es- sere; stabilito questo principio, dall'esistenza di pensieri astratti e generali— che è stata sempre considerata come un fatto di coscienza— ne seguirebbe naturalmente quella di esseri astratti e generali. E noi vediamo infatti in Hegel che la dottrina che è messa in rilievo non è che l'identità dell'essere e del pensiero : la realtà degli uni- versali (quantunque non abbia per lui meno importan- za) non è stabilita espressamente, ma data implicitamente in questa dottrina; e a molti parrà forse un paradosso che Hegel sia un realista. Aggiungiamo infine che l'i- dentità del nostro pensiero con le Idee sarebbe incom- patibile con certe proposizioni di Platone, quantunque non implichino, come le precedenti, la distinzione tra il pensiero e il suo oggetto. Tali sono: La composizione dell'anima dai due elementi nel Timeo (1)— essa ha per iscopo di spiegare la possibilità della, conoscenza (cioè in sostanza la coincidenza tra il pensiero e la realtà), e sarebbe quindi un'ipotesi completamente inutile data l'i- dentità del pensiero col suo oggetto—. Il principio am- messo nel Fedone che l'anima, come ogni altra cosa, non può accogliere in sé le Idee opposte (2) -mentre, nella dottrina dell'identità dell'essere e del pensiero, essa com- prenderebbe necessariamente tutti i contrari— .La dottrina del Timeo e delle Leggi che il pensiero é un n-ovi- mento (3) (e si tratta il più spesso del nous, il cui og- getto sono le Idee) (4)— essa implica che il pensiero, a- (1) V. Tim. 35a-b e 37a-c, e cfr. Sappi. C, IV, carte 239-242. (2; Fedo. 103d-106. V. Sappi. lì, carte 45-47. (8) V. questo Sappi., I, e. 276., (4; V. Leggi 897c, 898a, Tim. 37a-c, 4Òb, 42c, 43d-44b, 47b-c, 85a*b, 89a, 90d, 91e. Cfr. Arist. De an. l. I. III. 12-17. — 326 — vente per oggetto le Idee, è un semplice fenomeno, che si svolge nel tempo; mentre, neiripotesi delPidentitàdel pensiero con l'essere, il pensiero (il vero pensiero, cioè quello che ha per oggetto le Idee) è un'Idea che com- prende ia se tutte le altre, e, per conseguenza, eterna come le altre—. R cordiamo pure la proposizione del Teeteto (i) che il pensiero è un discorso dell'anima con se stessa—essa è incompatibile con l'identità dell'essere e dtl pensiero per la stessa ragione che la dottrina pre- cedente—. Tra le prove contro l'identità deir essese e del pensiero (cioè del nostro pensiero) non contiamo l'in- tuizione delle Idee in una vita anteriore e la reminiscenza, perchè il seguace dell'interpretazione hegeliana direbbe che sono dei semplici 7niti\ che noi prendiamo a torto per dottrine reali. Ora, che cosa può opporre quest'interprete alle prove precedenti ? Nessuna afiTermazione esplicita di Platone, ma solo delle proposizioni che, interpretate più o meno forzatamente, possono riguardarsi come delle allusioni alla dottrina ch'egli pretende attribuirgli. Cosi il luogo del X della Repubblica^ in cui si dice che per conoscere la vera natura dell'anima bisogna guardare alla suayf- Zoso/?a, significherà, secondo lui, che «se si vuol ricono- scere rfssenza dell'anima e sollevarsi dalla sua tempo- ranea e mortale manifestazione, si deve filosofare, poi- ché la filosofia sola ha per oggetto 1' eterno, il mondo ideale, che è identico alla natura dell' anima » (2). Il }ur>go del Timeo (90), che ci esorta a rendere simile Tin- telligenza air intelligibile, per conseguire il fine della vita più perfetta propostaci dagli dei, vorià dire che il fine ultimo dello sviluppo dello spirito e di tutto V es (1) 189e-190a. (2) TeiohmiiUer Quistione platonica^ pag. 20— Ma Platone non dice che l'essenza dell'anima consiste nella filosofia, ma sempUce- mente che qaesta ci dà un indizio di ciò che l'auiina è nella sua vera natura, cioè nella sua parte eterna (il XoYlOTlVwóVi sciolta dall'unione con con le due parti inferiori e ritornata all'eccellenza del suo stato originario (quando contemplavate Idee in compagnia degli dei). Ecco il luogo in quistione: " Né crederemo che tale sia l'anima nella sua verissima natura da aver molta varietà e disso- miglianza e differenza con se stessa (cioè che sia un comporto di parti eterogenee e non qualche cosa di semplice). Non è faci e che sia eterno il composto di molti né formato della più bella com- posizione, come ora ci apparve l' anima (che ha mostrato compo- sta di tre parti, che hanno fra di loro tendenze contrarie). La detta ragione (la prova precedente dell'immortalità) e le altre provano che l'anima è immortale. Ma per conoscere quale essa sia nella verità, non si deve guardarla deformata dalla comunione ol cirpo e con gli altri mah, quale ora la vediamo; ma quale è, divenata pura (cioè liberata dal corpo e dalle due parti inferiori, e dagli altri mali che derivano dalla comunione con essi), tale bisogn.i guardarla diligentemente con la ragione; e allora si troverà molto più bella, e si conoscerà più chiaramente la giustizia e tutte le altre cose di cui abbiamo parlato. Ora abbiamo detto la verità intorno ad essa, ma quale appare nel presente. Come quelli che vedessero il marino Glauco difficilmente potrebbero riconoscere la sua an- tica natura, perchè le antiche parti del suo corpo sono state le une spezzate, le altre corrose e totalmente sfigurate dalle onde, e ne sono formate delle nuove di conchiglie, d'alghe e di sassi, sicché più somiglia a una fiera anziché parer tale quale era per natura; cosi noi vediamo l'anima sfigurata da mali innumerevoli. Ma ciò a cui bisogna guardare, o Glaucone, è la saa filosofia (cioè il suo amore del sapere); bisogna considerare ^uali cose e-jsa at- tinge, di quali cose ricerca il commercio, come qnella che è affine al divino, immortale e sempre essente (cioè alle Idee— questa af- finità dell'anima, cioè della parte razionale che è la sua vera na- — 327 — VI sere sta oeiridentifìcazione del soggetto e dell' oggetto, che ha luogo nella conoscenza filosofica (1). Nella morte filosofica del Fedone, per cui V anima si distacca, per tura, con le Idee, proverebbe, come nel Fedone^ la saa semplicità), e quale diverrebbe datasi tutta a perseguire un tale oggetto (tutta, perchè si è separata dalle due parti inferiori), ed elevata per questo slancio dal pelago in cui ora è immersa, e scossi i ciot- toli e le conchiglie, ohe ora ha d'attorno molte e rudi e piene di terra e di sassi, come quella che si pasce di terra nei conviti chia- mati felici (la filosofia ci fa presentire quale diverrebbe 1' anima, ridotta alla sola parte razionale— che è la vera essenzza dell'anima, che degli accidenti transitori—e datasi tutta quanta alla contem- plazione delle Idee, come nella sua a*t^tica natura^ cioè nello stato originarlo da cni è decaduta). E allora potrebbe vedersi la vera na- tura di essa, e se sia multiforme (cioè composta) o uniforme (sem. plice) ed in qual guisa essa stia e come „ Rep, 6]lb-613a. (1) V. Chiappelli U interpretazione panteistica di P/afonc^, pagina 90 nota ]~Platone dice : « Bisogna correggere lo rivoluzioni ohe si operano nella nostra testa (quelle del XoYtOTtxóv) turbate sin dalla nostra nascita, studiando le armonie e i movimenti dell' u- niverso, e rendere simile (égo|iotd)oat) ciò che pensa a ciò che è pensato, secondo l'antica natura, e resolo simile, conseguire il fine della vita ottima proposta agli uomini dagli dei e per il presente e per l'avvenire, „ Rendere simile è ben altro che rendere identico; ed è inoltre completamente arbitrario di dare al fine di cui parla Platone il significato hegeliano di momento ultimo del processo eterno dell'anima e dell'universo. Prima Timeo ha detto, è vero, ohe chi si abbandona alle passioni sensuali non può avere che delle opinioni mortali, e diviene perciò egli stesso, pi^ che è pos- sibile, mortale, ma chi è dedito alla scienza, se consegue la verità, è necessario che abbia pen<jieri divini e immortali, e per - che non perda nessuna parte dell' immortalità, per quanto è possibile alla natura umana di parteciparne. È forse ciò che può trovarsi in tutti gli scritti di Platone di più favorevole all' interpretazione dell' immortalità che vede in essa 1' eternarsi quanto è possibile, dal coi pò, e pensa essa stessa per se stessa gli esseri stessi per se stessi, si vedrà il vero significato dell'immortalità platonica, cioè il rien- trare dell'anima nella sua essenza intima, il suo ritorno all'unità primitiva del soggetto e dell'oggetto (1). Ai luoghi del Convito, in cui è quistione dell'immortalità confe- guita per la generazione e per la contemplazione del- l' Idea del bel'o, si darà il senso che non vi ha per del pensiero per la sua identificazione col mondo ideale. Ma questa immortalità metaforica, che consiste nell'avere pensieri immortali, non può essere per Platone, per dir cosi, che una giunta alla vera immortalità, e non può escludere questa, in- segnata in tutto il dialogo e in questo lufgo stesso, comesi vede dalle ultime parole per il presente e per V avvenire, (1) Il Teichmiiller capovolge il vero rapporto tra la morte filosofica e la dottrina dell'immortalità. Egli vede nella seconda un' imma- gine della prima (interpretata come un eternarsi del pensiero e nna identificazione di esso col suo oggetto), mentre per Platone è la prima che è un' immagine della seconda. La filosofia, dice Pla- tone, ò un esercitarsi a morire o a vivere come se si fosse morto. Che cosa è, infatti, la morte ? È il distacco dell'anima dal corpo, in modo che l'anima esista essa stessa per se stessa separatamente dal corpo, e il corpo esso stesso per se stesso separatamente dalla anima. Ora il filosofo distacca, quanto più è possibile, l'anima dal cor- po, e aspira a vivere con l'anima sola : infatti egli disdegna i piaceri del corpo, e non prende cura di esso che per quanto vi è costretto dalla necessità; di più egli non fa gran caso della conoscenza delle cose per gli organi dei sensi, ma cerca di cono^;cerle per la sola ragione, con- templando con l'anima stessa per se stessa le cose stesse per se stesse, cioè le Idee) L'espres-jione V anima stessa per se stessa — aOiY) xaO'aO- TT^V — e le altre simili che s'incontrano ad ogni tratto dov'è quistione della morte fil )sofica, siccome aOxò^ xaO'aOxóv nel linguaggio pla- tonico significa le Idee, farebbero pensare al concetto del seguace dell'interpretazione hegeliana, che la morte filosofica è una sop- — 328 -. ranima altra immortalità che la dialettica, e quella che le è comune eoa tutte le altre cose, cioè la permanenza dell'Idea nel nascere e il perire degrind'vidui (1). Senaa pressione dell'individualità e un rientrare ell'anima nella sua es- senza intima, cioè nella sua Idea; l'anima stessa per se stessa ohe pensa gli esseri stessi per se stessi vorrebbe dire, secondo questo concetto, che la conoscenza del mondo ideale non compete all'a- nima come esistenza individuale» ma come Idea. Mao evidente che queste espressioni nel nostro caso non significano che il dualismo di Platone, cioè la sua dottrina animista : l' anima stessa per se stessa vuol dire l'anima sola, distaccata dal corpo, come il corpo stesso per se stesso vuol dire il corpo solo, separato dall'anima. V. 64 c). La morte filosofica" non è solo un'immagine dell'immortalità, cioè della vita avvenire, ma è ancho una preparazione a questa : essa è intatti una purificazione (xaOapot^), e solo le anime che si sono purificate, cioè quelle dei filosofi, saranno ricevute, dopo la loro uscita dal corpo,nel soggiorno degli dei, dove conseguiranno infine ciò che hanno tanto amato quaggiù, vale a dire la sapienza, che non è possibile, per l'ostacolo del corpo, di conseguire in questa vita. Perciò, parlando della morte o catarsi filosofica, Socrate fa l'apo- logia di se stesso, che non è dolente di morire, ma intraprende con buona speranza il viaggio che gli è imposto, come quegli che ha l'anima preparata, perchè purificata dalla filosofia. V. Fedone 64 a- 69 e e cfr. 80 e-84 b. (ì) V. a nvito 208C-212 b. Dopo aver detto che il mortale non ottiene l'immortalità che per la generazione (per cui la specie si perpetua), Socrate aggiunge che l'individuo stesso non si conserva che per un processo simile a quello per cui si conserva la specie. Infatti, p3r tutto il tempo della sua vita, ciascun animale non è * mai lo stesso, ma diviene sempre nuovo e sempre perisce e nei peli dubbio, oltre che dei luoghi isolati, il seguace dell' in- teipretazione hegeliana potrà anche invocare in suo ap- e nelle carni e nelle ossa e nel sangue e in una parola in tutto il corpo. Qualche cosa di simile avviene anche nell'anima : le abitu- dini, i costumi, le opinioni, gli appetiti, i piaceri, i dolori, i ti- mori, le conoscenze medesime non persistono mai gli stessi, ma nascono e periscono; solamente ciò che nasce è simile a ciò che è perito, sicché sembra lo stesso. Cosi si conserva il mortale, non perchè sia sempre assolutamente lo stesso, come il divino, ma perchè il simile si sostituisce sempre al simile. "Per questo mezzo il mor- tale partecipa all'immortalità, e il corpo e tulle le altre cose; l'im» mortale altrimenti „ —Secondo il seguace dell'interpretazione hege- liana fra queste altre cose mortali come il corpo bisogna compren- dere anche l'anima, perchè questo processo di sostituzione del si- mile al simile, per cui il mortale si conserva, è applicato da Pla- tone anche all'anima. Ma Platone, che è un animista, cioè am- mette una sostanza anima, un suhstrat'umf distinta dalle sue mo- dificazioni, non può ap[)licare questo precesso che alle modificazioni dell'anima, ma non al loro substratinn : egli non affermerebbe evi- dentemente che questo si conserva, come il corpo, per un ricambio di sostanza, per cui alle molecole vecchie se ne sostituiscono altre simili. Le parole e lidie le altre cose alludono dunque alle cono- scenze, le abitudini, i costumi, ecc., di cui sopra ha parlato, in una parola alle modificazioni dell'anima, ma non possono alludere all'a- nima stessa. Ciò è confermato dalle ultime parole V immortale al- trimenti, che devono intendersi come una riserva in favore dell'a- nima (Invece di àGavaTOV S'àXXyj -l'immortale altrimenti-, il Teichmiiller legge àSóvaxov e' àXXir)- impossibile altrimenti— ; ma è la prima lezione che si trova in quasi tutti i codici). Poi Socrate dice (parlando della contemplazione dell' Idea del bello come fine dell'amore) che chi guarda il Bello con quell'occhio con cui esso è visibile, diviene « anch'egli, se altro uomo mai, im- mortate „ (212a). Ciò significherà, pel seguace dell'interpretazione hegeliana, che l'immortalità platonica consiste nella contempla- \ — 329 - poggio certe proposizioni costanti di Platone, quali Taf- zione del mondo ideale, cioè nella identificazione dello spirilo con esso; e per confermare questo significato, egli potrà anche t'ondarsi sulla proposizione precedente di Socrate che l'amore è il desiderio dell'immortalità (207a), concludendone che, poiché Platone assegna come fine all'amore ora l'immortalità e ora la contemplazione del- l'Idea, queste due cose per lui devono essere identiche. Ma il desiderio dell'immortalità in cui Platone fa consistere l'amore, viene appagato per lui, non con la contemplazione dell' Idea del belio» ma, per quelli che sono fecondi nel corpo, con la generazione (v, 207d,208b, 208e), e per quelli che sono fecondi nello spirito, con la perpetuazione del pensiero mediante la tradizione e l' insegna- mento (209), Del resto, dicendo che chi comtempla l'Idea del bello diviene immortale, Socrate non afferma che l'immortalità consiste nella contemplazione dell'Idea, ma che ne è una conseguenza; e la ragione per cui ne è una conseguenza, basta a provare che l'immortalità di cui si tratta non é che quella insegnata dalla re- ligione : chi guarda l'Idea del bello, dice Socrate, siccome si motte in rapporto col vero bello, e non con immagini del bello, partorirà e alimenterà la vera virtù, e non delle immagini della virtù, e perciò diverrà amico di Dio, e immortale, se altro uomo mai, anche lui (2J2{i). È vero però che l'immortalità accordata a chi contempla l'Idea del bello non può essere l'immortalità nel senso ordinario, perchè questa non è un favore elio dio d spensa a ohi gli piace» né un premio concesso ai soli virtuosi, ma una necessità inerente alla natura stessa dell'anima (che deve essere senza cominciamonto e senza fine, perchè né potrebbe, come ogni altra cosa, crearsi o annichilarsi, e nemmeno venire da qualche forma della materia o tramutarsi in essa, essendo radicalmente distinta dalla materia) P«r quest'immortalità, che è il privilegio di pochi eletti, non possiamo intendere che l'esenzione dalla metempsicosi e la deificazione, che il Fedone promette ai soli filosofi (v. 80e-82b e lUc), e il Timeo a tutti gli uomini che hanno domato le passioni e sono vissuti nella giustizia (v. 42b-d). GÌ' Indiani chiamano anch' essi immortalità (amrita) lo stato di felicità a cui giungono i santi perfetti, in cui l'anima è liberata compietamente dal male ed esente da trasmigra- zioni susseguenti (V. Colebrooke iSagyi sulla flos. dcijl'Jnd, trad. frane, pag. 2di), finità deiranima con le Idee (1) (ch'egli interpreterà per un'identità di natura) (2), e Timmortalità accordata alla (1) Fedone 78 b-80 b e Rep, 49o b e 611 e, (2) Ma. per Platone essa non è invece che una vaga analogia. Nel Fedone (1. e) i punti di somiglianza dell'anima con le Idee che provano quest'affinità sono: 1® L'anima è invisibile come le Idee, mentre il corpo é visibile. 2* Quando l'anima considera le cose col corpo, cioè per mezzo dei sensi, il corpo la costringe a prendere per oggetto le cose che non sono mai le stesse : allora « vaga essa stessa, si conturba e barcolla come ubbriaca », perchè tali sono le cose con cui é in rapporto. Quando invece considera le cose per se stessa (aOxYj xaO'aOxT^v), prende per oggetto ciò che è sempre allo stesso modo (a)oaùxo)g ^X®^)? ^ allora cessa dal vagare, ed è relativamente a quest'oggetto (cioè alle Idee) sempre la stessa e allo stesso modo (dei xaxà xaùxà xal (boaùxco^), perchè tali sono le cose con cui è in rapporto; e questo stato dell'anima si chiama intelligenza. Dunque Ta^iima somiglia più a ciò che è sempre allo stesso modo (cbaa'Jxw^ — cioè alle Idee), e il corpo a ciò che cangia sempre, (Siccome in questo luogo vengono applicate all'anima delle espressioni che per il solito si applicano alle Idee, aOxYi xaG'aOxr^v, xaxà xaòxot, <b- oaÓXWg, il seguace dell'interpretazione hegeliana potrà dire che qui l'ani- ma è identificata alle Idee, perchè, nella conoscenza filosofica, il soggetto conoscente s'identifica, per Platone, con l'oggetto conosciuto. Ma è evidente che non si tratta d'altro che dell'opposizione, abituale a Platone — v, c^ VII. p. 15o-tra la rnutahilità dell'ophiione— che ha per oggetto le cose sensibili, quelle che l'anima considera col corpo— e l* immutabilità della scienza— che ha per Ofigetto le Idee, le cose che l'anima considera per se stessa—: l'espressione àsì xaxà xaOxà xal waaÙXWg applicata all'ani- ma significa questa specie d'immutabilità, che ha, secondo Platone, dell'af- finità con l'immutabilità assoluta che è propria delle Idee— iu quanto ad aÙXY] xaO'aOxr^v, ne abbiamo già parlato in una nota precedente — ). 30 Nell'associazione deHaninia col corpo, quella comanda e questo ubbidisce, Ma é proprio del divuto (in cui Platone comprende, come sappiamo, le Idee) di dominare, e del mortale di essere dominato. Dunque l'animasomi- gb a pia al divino, e il corpo al mortale— Oltre a questi tre punti di somi- glianza tra l'anima e le Idee, Platone accenna anche a un altro indizio della — 330 — sola paite razionale (1), (doode coccludrrà che, poiché la ragione è universale o impersonale (2), l'immortalità appartiene, non airanima individuale, ma all'essenza comune deiranima), e eovratutto cei te dottrine erronea- mente attribuitegli, quali l'identità di Dio o della Ragione con le Idee (per dimostrare la quale si servirà natural- mente degli stessi argomenti dell'interprete teistico, per quanto non sono incompatibili con 1' immanenza dello Idee) (3), la composizione dell' anima da tutte le Id» e (nel Tìiwifo—intendendo per Visnenza indivisibile e per lo sfesso le Idee nella loro totalità) (4), eia proposizione che l'anima è il luogo delle specie, riferitaci da Aristo- tile, e attribuita, anche da qualche suo commenta- tore (5), ai flaton'ci (6). Infine, egli potrà avvalersi di certe espressioni del nostro filosofo, che, prese per se sole e interpretate d'una maniera rigidamente letterale, sembrerebbero supporre la dottrina eh' egli pretende at- loro affinità : è la tendenza. innata dell'anima alla conoscenza dell'universale, cioè delle Idee (v. Fedo. 79 d e I^ep, 19o b e C13 e). Questa indica che è alfine con esse, secondo il principio che il simile si conosce dal simile (V. Suppl. C, IV, e. 240 pag. !•). (1) V. n. I, o, 278 p. 2'-279 p. 1-. (2) Perchè il seguace dell'interpretazione hegeliana trova rosi semplice che, tra le facoltà dell'anima, Ja sola ragione sia universale ? Unicamente perchè é la dottrina di Hegel e di alcuni altri metafisici. È evidente che una ragione universale (cioè una e la stessa in tutti gli uomini) è un non senso cosi perfetto che un'immaginazione o una sensibilità o un'emozio- nalità, ecc. universali. Semplicemente, alcun metafisico non ha mai parlato di queste. (3) Cfr. il n. II. (4) Cfr. Suppl. G, IV, e. 239-242. (5) V. Filopono ad Arisi, De Atì. lib, I fol. K, M, (6) Cfr. il n. II, e, 3oO trlbuirgli, quali il termine Xó^ot (concetti) applicato alle Idee nel Fedone 99d-100a (1), la frase dello atesso dia- locro 76e, in cui sì dice che noi troviamo l'esssenza (cioè acquistiamo la conoscenza delle Idee) perché è no- stra (2), e i tsrmini che in senso tecnico indicano la partecipazione degli oggetti individuali alle Idee, impie- gati qualche volta per denotare il rapporto che ha con esse il soggetto coaoscente (3). Ma è evidente che non sono queste le vere ragioni su cui si fonda la sua in- terpretazione. La vera ragione è che egli ritiene che un sistema come quello di Platone non si comprende che (1) V. cap. VII pag. J72 nota 1, in cui questo luogo è riportato per intero. (2) «Se esistono il Hello, il Buono e ogni essenza tale, e ad essa riferiamo gli oggetti percepiti dai sensi, ad essa che prima ci era presente e che ritroviamo essendo nostra (OTiap^ODaav TipÓTSpov àvsopCoxov- TS^ if]]Ji£X&pav 0^5aav)....Ia nostra anima esisteva prima della nostra na- scita ». Naturalmente la frase in quistione non significa che la remini- scenza : l'essenza è detta nostra^ perchè prima ci era presente^ perchè l'anima, nel suo stato originario, ne godeva come di cosa propria, ne aveva l'intuito permanente. (3) Sof. 248 a: col corpo noi comunicare ( xciVCDveiv ) con la ge- nesi, con l'anima per la ragione eon l'essenza reale. liep, 485 e : l'anima che deve partecipare (jiexaXrjCpsoOai) sufficientemente e perfettamente dell'essere. Ibi^. 533 : le altre arti (le matematiche) che abbiamo detto parte- ci^me (è7iiXa|i3dv£39ai) in qua'che modo all'essere. Tim,z^h\ il sole fu creato affinchè gli animali a cui ciò convenisse partecipassero (liexdoxoO del numero— Tutto ciò che può concludersi da questi luoghi è che Platone non impiega sempre i termini in quislione nel senso tecnico. Quando dice (nel Fedro 253 a) che ciascuu'anìma imita il carattere del dio di cui è stata al seguito «per quanto l'uomDpuò partecipare ( |ji£xaaX£t'v ) di dio », possiamo noi intendere : per quanto dio può esistere nell' uomo come un suo attributo o come un suo pensiero ì — 331 — per analogia a quello di Hegel— col quate effettivamente ha una stretta affioità—, e perciò crede necessario di pre- stare al primo i concetti propri del secondo. Ma dopo ciò che abhiamo detto nel capitolo VII ci sarà f«ci'e di mostrare che il s'stema platonico, non solo si comprende senza 1 concetti hegelian», ma si comprende anche me- glio, ed é con essi che sarebbe invece diliicile a com- prendere. L'opinione che le Idee platoniche sono pensieri si deve certamente, o'tre che alTintiueiiza dell' interpreta- zione teistica, a un'inferenza dal sistema hegeliano, in cui la realtà degli universali è presentata come una conseguenza dell'identità dell'essere e del pensiero (vi hanno dei pensieri generali, dunque, il pensiero essendo identico all'essere, questi pensieri generali sono pure degli esseri generali). Da ciò si conclude che la prima delle due dottrine è logicamente connessa con las(conda, e che perciò, trovandosi in Pla'one l'una, deve trovarsi in lui anche l'altra. Ma questa conclusione è evidente- mente affrettala. Noi abbiamo visto nel capitolo VII eh'*, a lato dei siatemi di Schelling e di Hegel, in cui gli a- stratti sono riguardati al tempo stesso come delle realtà e come dei pensieri, vi hanno altri sistemi realisti, quali quelli di Spinoza e di Taine (senza contare i realisti scolastici), in cui essi sono riguardati unicamente come realtà, cioè come entità puramente oggettive. La storia del realismo ci prova dunque che esso è indipendente daUa dottrina delPidentità dell'ersere e del pensiero. Ciò è confermato dall'esame dei motivi di questa forma dì metafìsica. La realizzazione degli universali, unita al metodo dalettico (nel senso che noi diamo a questo ter- mine quando parliamo di realLstao ilialetiico), ha per Iacopo, come sappiamo, di trasformare il rapporto logico tra principio e conseguenza nel rapporto ontologico tra causa ed effetto, per ottenere una nuova applicazione d'-l concetto di causalità efficiente. Questo scopo esige che le astrazioni, tra cui il metodo dialettico introduce il rapporto di principii e conseguenze, si considerino come realtà, ma non che si considerino al tempo stesso come pensieri. A questa spiegazione del mondo a cui mira il realismo dialettico, nei sistemi di Schelling e di Hegel se ne aggiunge un'altra indipendente da essa, e che può riguardarsi come una varietà della metafisica istintiva del nostro spirito (cioè quella che è l'applicazione spontanea e immediata del concetto di causalità effi- ciente) : è la spiegazione idealista, cioè l'attività imma- nente del pensiero elevata a tipo universale del modo essenziale di produzione dei fenomeni. La spiegazione idealista suppone che le cose siano riguardate come rap- presentazioni; e, perchè questa spiegazione sia compati- bile col realismo, bisogna che si vedano nelle cose delle rappresentazioni permanenti di uno spirito eterno ed uni- versale, in modo che la loro qualità di rappresentazioni si concilii in qualche modo con la loro obbiettività. Al- lora si ha l'idealismo obbiettivo. L'idealismo obbiettivo è dunque un' applicazione, non solo del concetto di causalità efficiente (in quanto eleva l'attività del pensiero a tipo universale di causazione), ma anche di quello di cosa in sé : il presupposto da cui esso parte, cioè che le C0S3 soao delle rappresentazioni permanenti di uno spi- rito eterno ed universale, ha infatti per oggetto di con- ciliare il risultato della riflessione filosofica che le cose sono rappresentazioni (nel senso lato di questa parola che comprende anche la p3rcezio ne), con la credenza naturale del genere umano ch3 esse soio degli oggetti perma lenti e di una realtà a:JS)luta, cioè indipendente — 332 — dal sogrgetto percepente. Quando il seguace delP intee- pretazione hegeliana attribuisce a Platone la dottrina che le Idee sono pensieri, gli attribuisce anche implici- tamente questa dottrina sulla cosa in sé che è il presup- posto della spiegazione idealista (nel senso proprio della parola idealismo, m cui noi naturalmente non Tappliche- remmo al sistema platonico delle Idee). Ma, mentre nella filosofia ant'ca vediamo rappresentati tutti i tipi di me- tafisica relativi al semplice concetto di causa efficiente (le tre prime forme dell'antropomorfismo di cui abbiamo parlato nel cap. 2^ l'apriorismo, il realismo dialettico), noi non vi troviamo invece nò questa né alcuna delle altre dottrine relative a quello di cosa in sé. È cosi vano di cercare nella filosofia greca V idealismo obbiettivo (o la dottrina che abbiamo detto esserne il presupposto) come lo sarebbe di cercarvi il panpsichismo o la dot- trina delle monadi (nel senso non leibnizinno, cioè di sostanze o forze semplici e inestese, ma ditter^nti dallo spirito). Ciò è perchè la riflessione scientifica non ha distrutto ancora, nel mondo antico, il concetto sponta neo della cosa, che non è che Tobbiettivazione delle no- stre sensazoni. In tutti i filosofi antichi, in generale, e penz'alcuna eccezione, noi non troviamo che il realismo vafura/e, e non mai ii realismo trasformato : nella sop- pressione d'Ile qualità sensibili nessuno è andato mai al di là degli fi tomisti, e la più parte non giungevano nemmeno sia là. L'idealismo obbiettivo, come tutte le altie dottrine metafisiche relative alla cosa in sé, non si concepisce che nella filosofia moderna, perchè suppone questo punto di vista che si è imposto mano mano al pensiero mo'^erno, sino a diventare un luogo comune, che le cose, quali noi le percepiamo, non esistono che' per la percezione e nella percezione. Uno dei fonda- menti dello scetticismo^ antico è, è vero, il dubbio sulla realtà obbiettiva : ma per cercare di conciliare la rela- tività del mondo esteriore al soggetto conoscente con la sua obbiettività, come fa l'idealismo obbiettivo, o sosti- tuire, come fa il r«*alis no trasformato, alla realtà sen- sibile un'altra realtà superiore ai sensi, conoscibile o inconoscibile, non basta il semplice dubbio sulla realtà assoluta degli oggetti quali noi li percepiamo, ma è necepsario che si ammetta già, come una ve- rità incontestabile, che essi, come tali, non esistono che per la percezione, e non sono che relativi al soggetto conoscente. Certamente la relatività dell'oggetto al soggetto percepente, come proposizione dogmatica, non è completamente straniera alla filosofia greca : noi la troviamo, prima dello stesso Platone, nella tesi di Protagora, di cui è evidentemente la base, che l'uomo è la mibura di tutte le cose, e che la verità è ciò che pare a cia«^cuno che sia. Ma la tesi di Protagora, che d' al- tre nde non sembra aver lasciato molti proseliti (1), ci mostra, per la sua esorbitanza stessa, questo carattere sofistico, nel senso moderno della parola, vale a dire questa assenza evidente di sincerità (2), che vediamo generalmente nelle proposizioni gnoseologiche dei Sofisti (quali, oltre questa di Protagora, quel'a di LEONZIO (vedasi) che non vi ha niente, o se vi ha qualche cosa, è incono- s ibile, o almeno inesprimibile, quella di Eutidemo (3) che ogni attributo conviene egualmente ad ogni soggetto, quella dì Licofrone (4) che non ammette alcuna unione (1) V. Platone Teeteto 16 S e-165a. (2) V. Arist. Met. 1. IV. IV. 24-26 (ctr. V. 1) e V. I7. (3) V. Platone CratUo 386 d. (4) V. Arist. Phys. 1. I. II. 15. di UQ so^^^getto con un predicato, percLè l'uno non può essere molli, ecc.). Noi ci spieghiamo, del resto, perfet- tamente perchè la filosofia antica non abbia mai oltre- passato, in sostanza, il realismo naturale: la dottrina della subbiettività di tutti i dati dei nostri sensi non ha potuto stabilirsi nella filosofia moderna, che perchè èia conseguenza inevitabile del concetto scientifico moderno della materia (semplice ipotesi di alcuni filosofi nell'an- tichità), che la spoglia delle qualità secondarie, la sub- biettività di queste trascinando necessariamente quella delle qualità primarie, che divengono, senza di esse, assolutamente irrappresentabili (i). Ma, accordato anche che Platone abbia potuto am- mettere la dottrina che le Idee sono pensieri, e quindi pure quella, che vi è implicata, che le cose sono rap- presentazioni, resterebbe a mostrare all' interpretazione hegeliana come essa possa conciliarsi, negli altri punti, con la dialettica platonica. Essa non attribuisce sempli- cemente a Platone la dottrina che le Idee sono pensieri, e l'altra che, nella conoscenza filosofica, il nostro pen- siero s'identifica con le Idee, ma quella deir identità del soggetto e dell'oggetto, cioè che è il nostro spirito, nella sua essenza, e non solamente il nostro pensiero specu- lativo, che s'identifica con l'universo, nella sua essenza, vale a dire con la totalità del mondo ideale. Per distin- guere questa terza dottrina dalla Feconda, noi suppor- remo che Platone ammetta realmente che le Idee sono pensieri e che, nell'atto della conoscenza filosofica, questi pensieri sono presenti immediatamente al nostro spirito. (1) V. questo volume Appendice alla parte i* pag. CI-GV, il mio Saggio /pag. 524-526, e il mio studio sìiììsl Dottriua di Jiosm ini suWeS' senza della materia fase, l» la nota a pag, 15. cioè noi ne abbiamo coscienza. S'egli non ammettesse che ciò, siccome questi pensieri, quantunque, nella conoscenza filosofica, entrerebbero a far parte della nostra]coscienza, esisterebbero per se stessi indipendentemente dalla no- stra coscienza, come, nell' ipotesi della percezione im- mediata, gli rggetti esteriori, quantunque, nell'atto della percezione, siano percezioni nostre, esistono per se stessi indipendentemente dalla nostra percezione; cosi in questa dottrina che supponiamo ammessa da Platone, piuttosto che l'identità dell'essere e del pensiero, dovremmo ve- dere una forma dell'intuizione razionale, nella quale, come nella visiono in Dio dì Malebranche, gli oggetti intuiti, invece che delle realtà puramente obbiettive, sa- rebbero dei pensieri. Ma che si accordi o no chela dot- trina di Platone, in questo caso, sarebbe suscetftbile di essere chiamata identità dell'* s: ere e del pensiero (dei nostro pensiero), ciò che è certo è che non potrebbe af- fatto chiamarsi identità del soggetto e dell' oggetto, né potrebbe vedersi simboleggiata nell'eternità dell' anima, perchè ciò che s'identificherebbe con l'oggetto e che si eternerebbe non sarebbe il soggetto stesso, cioè lo spirito nella sua essenza, ma un suo atto o fenomeno partico- lare, il pensiero filosofico. Per poter attribuire a Platone l'identità del soggetto e dell'oggetto e interpretare la sua doitrina dell' immortalità dell'anima come 1' eter- nar.M del pensiero nella conoscenza filsofica, sarebbe dunque necessario ch'egli avesse ammesso, consolo che le Idee sone pensieri e che ques:i pc ubicri divengono, nella conoscenza filosofica, pensieri no.»^tri, ma ancora ihe la conoscenza filosofica costituisce l'essenza del no- stro spirito, e che ques*a essenza del nostro spirito è identica all'essenza d( 11' universo, cioè a ciò che vi ha in questo di costante e di generale (vale a dire che nella conoscenza filosofica egli avrebbe dovuto ri- — 334 — guardare come essenza del nostro spirito, non semplice- mente, come potrebbe siipporsi, la coscienza o intuizione che abbiamo delle Idee, ma anche le Idee stesse chein- tuiamo o di cui abbiamo coscienza). E evidente che que- ste due proposizioni sarebbero considerate da tutti come delle assurdità impossibili a trovarsi in un filosofo qual- siasi, e che nessuno ardirebbe di attribuirle a Platone, se non si sapesse che sono state insegnate da Hegel e dal suo predecessore Schelling. Ma, per attribuirle a Platone, bisogna vedere se queste proposizioni, che nei due sistemi tedeschi hanno un significato — per quanto può dirsi dì una proposizione metafisica che ha un significato—, possono averne ancora uno nel sistema platonico. In Hegel la conoscenza filosofica può costi- tuire l'essenza dello spirito, perchè essa è nel suo sistema il termine ultimo della s rie di Idee che cf stituisconolo spirito, e nel termine ultimo di uoa serie, secondo uno dei principi! della sua dialettica, anzi in generale d'ogni dialettica (nel nostro senso), fì ritrovano tutti gli altri termini della serie stessa. Qussta essenza dello spirito poi piò iìeotifiea'-si on l'essenza di tutto T universo cioè con tutto il mondo ideale, perchè V ultimo termine della serie d'Idee che costituiscono la sfera dello spirito, é pure, secondo Hrgel, l'ultimo termine della serie to- tale delle Idee, e deve quindi, per il principio dialettico poc'anzi invocato, comprendere in fé tutto il resto del mondo ideale. Si pretende che anche per Platone la co- noscenza filosofica è r ultimo momento dello sviluppo dello spirito e di quello di tutto l'universo (questo svi- luppo dobbiamo intenderlo nel senso hegeliano, cioè co- me una successione di termini, procedenti l'uno dall'al- tro, e la cui processione e successione non sono che logiche). Ma bisogna vedere se queate psivole ultimo mo- mento dello sviluppo dello spirito e ultimo mo7f lento dello sviluppo dell* universo— co\ sottinteso che 1' ultimo mo- mento dello sviluppo dello spirito deve comi rendere tutti gli altri momenti dello spirito, e l'ultimo nOomento dello sviluppo dell'universo tutti gli altri momenti dell'uni- verso, cioè tutte le altre Id(e the ccstiiuiscono, con esso, ridea apsoluta— bisogna vedere, dico, se queste parole hanno ancora un senso, trasportate dal sistema di Hegel a quello di Piatene. Nella dialettica di Platone, come in quella di Hegel, ne-rultimo termine d'una se- rie devono ritiovarsi lutti i termini precedenti della serie stcsFa : ma può, nella diklt-ttica di Piatene, esservi, co- me in quella di Hegel, per tutta una sezione del mondo ideale (p. e. lo spinto, l'orgaDismo, ecc.) un termine finale unico, in cui si ritroviEO tutte le altri parti di questa sezione ? e per tutto il mondo ideale nel suo in- sieme, un altro termine finale unico, in cui si ritrovino tutte le altre parti del mondo ideale, cicè tutte le altre Idee che costituitcono, con esso, il sistema totale delle Idee ? Questo é post^ibile nella dialettica hegeliana, per- chè secondo essa vi ha, nello sviluppo delle Idee, oltre a un movimento di espansione, per cui le Idee si scin- dono e si moltiplicano (passaggio dalla tesi all'antitesi), un movimento sui-seguente di concentrazione, per cui ritornano all'unità (passaggio dalla tesi e l'antitesi alla sintesi). Ma nella dialettica platonica i on è possibile, perchè in essa lo Idee non si sviluppano che dividendosi; il movimento è sempre di scissione, e Don \i La mai i movimento contrario, cioè il ritorno all'unità. Alla fine dello sviluppo di uaa sezione del mondo ideale, o del mondo ideale nel suo insiem", non vi ha così, per Pla- tone, un termine unico, ma una moltiplicità di termini - 335 - distinti e separati : Tunità non esiste che al punto di partenza deirevoluzfone, questa consiste in una molti- plicazione progreFFiva, e al punto d'arrivo la moltipli- cità è massima. Airultimo momento dello sviluppo dello spirito non pcFsiamo dunque trrvarr, nella dialettica platonica, che le Specie Ultime dello spirito, o, se essa si applica, non allo spirito stesso, ma alle sue attività, le Specie ultime dei fenomeni dello spirito. Che si tratti di una sezione del mondo ideale o di tutto il mondo ideale nel suo complesso, il termine unico che comprende tutti gli altri non può essere per Platone che il più a- stratto di tutti, e non può ccmpiecderli che virtual- mente : i termini più concreti (anche nel senso hege- liano), più ricchi di detern»ii azicn^ Fono i più parti- colari, e questi non possoro comprendere che quelli di più in più generali a cui Fono Fubordinati. L' Assoluto, che comprende ogni cosa e in cui tutti i contrari si uni- ficano, non potrebbe essere duuqu'% nel sistema di Pla- tone, che l'Idea più astrati», la più povera di determi- nazioni e, per dir ersi, la meno attuale di tutte, cioè quella del Bene o dell'ICsscre. Se, per una me tafoi a ar- dita, chiamiamo quest'Assoluto Dio (come del resto ha fatto lo stesso Platone), noi pos^^iamo dire, applicando una locuzione di Schelling (!), che vi ha nel sistema platonico il Deus iwplicitus^ ma n^n il Deus cxplicitus. (1) V. Willm .Sfar, della flos. olenu ecc. l. HI {>. 3*23, T =as t-j-u. mBOSBmammaSK che riempisce la teoria vengono considerate del primo caso del secondo caso in quest'ultimo caso t. II il posto determinato pag. 9, nota, lin. 4 incompatibile non quello inc«'mpatibile con quello p. 14 1. 21 che riempisse p. 18 l. 25 la tesi p. 22 1. 7 Tdngonn considerati p. 23 1. 2 del secondo caso 1. 4 del primo caso 1. 5 in questo primo caso p. 25, n. 5, I. 1 1. II p. 28 I. 23 il posto determinati p. 34 1. 20-21 (e nonsemp'icemente che se ne dal primo (e non semplicemente ti edipee) dal primo, che se ne deduce), p. 44 n. 2 R tre gravi spposizioni a tre gravi opposizioni p. 60, nota, 1. 6-7 le necessità. la necessità p. 51 1. 16-17 dobbiamo sforzarvi dobbiamo sforzarci p. 79 1. 5 quali forme viventi quali forzo viventi n. 5 il luogo che riporteremo nella luogo che riporteremo in una nota iio^a seguente. p. 80, n. 1, 1.2 295, 297 5^Ì>5-297. l. 9 (noi diremo asiratti) (noi diremmo astratti) 1. 18 p. 393; gli assiomi p. 393 : gli :i-:siomi p, 81, note,l. 1 delle prime p. 89, nota, 1. 25 e preceduto p. 91, testo, 1. terzalt. — si noti l'analogia p. 99, note, 1. 15-16 (9C40 gli Appartiene in non im- e^ao gli appartiene in non tm« porta p. 107, nota, 1. 5 degli astratti p. 108 1. 3 ma contemplato p. 117 1. 0 di fatti più particolari p. 129 1. 8-9 dei fatti generali n. 1 p. 358-362 p. 137 1. 8 teoria nominalista p. U9, n. 1.1.7 tuttociò che mi sembra più valido non leggere queste parole p. 152 1. 6-7 senso più ristretto senso più stretto p. 1Ò9 1. 1 come un'immaginazione come un'immagine della prima e proceduto %ì noti l'analogia o gli porta dagli astratti contemplato di fatti particolari dei fatti generali p. 358-862 teoria nominalista 1. 1. e 8, 1. 2 e 5 I. e 6. ma di direzioni opposte gli oggetti visibili (533 b-c) al S 6' n. 4* p. 166, n. 2, 1. 2 1. 1. e. 8, 1. 2. e. 5 1. 3 1. e. 6. p. 168 1. 18 ma le direzioni opposte p. 188 1. 22 gli oggetti sensibili p 205 1. 12-13 (534 b-c) 1. ult. note al § 13° n, 4» ERRATA CORRIGE ri05 d*6 T7 e-79 a Hep, 519 d L II. VII. 7, in pìiil, prino. del gradino p. 213, note, 1. 1 506 d-e nota 7 77 c-79 a p. 217, n. 3, l. 2 591 d p. 218; n. 5, 1. 2 1. II. VII. 3,7, p. 224, n. 1, 1. 2-3 in phil prim, p. 231, 1. 8-9 nel gradino 1. 10-Jl note / i^wif elementi delle Idee I due clementi, A n. 2, 1. 1 Sot\ 219 a-263 e 5^4 e e seg. non è rappresentata 277 b-e Tesisi enea Am4l, Post. I. I. V. 6 le Idee •rmine di diinoblrazione Idea dal genere V. § 6° n. 6- puramente dialettico y à» n. 4*» Sof. 219 a-236 e p. 233, n. 1,1. 1 264 e 0 seg. p. 244 1. 23 non è presentata p. 249, note, 1. 1 277 b-o p. 253 1. 27 l'esistenza p. 257, nota, 1. 13 Anol. Posi. 1. IL V. e p. 258 1. 7 le idee p. 259 i. 1-2 termine dimostrazione p. 261 I. 6 Idea del genere p. 278 nota V. !!j li' n. 6" p. 283 1. 4 puramente deduttivo n. 3 S 12' n. 4" I I I I. I SXIC 'SfStfi 677 b-0 la 1* parte Met. 1. V. II. 1. 8 Categ, 1. X. 2-5 An. Post, 1. I. IX. 9 p. 286 n. 3 617 b-o p. 300 1. 22-23 la 2> parte p. 315, note, 1. 1 il/^f. I. V. II. ], 8 p. 317, n.'l, l. 1 Catefi. X. 2-5 n, 3, 1. 1 An, Post, l, I. IL 9 p. 318 1. 3 ma anche della cosa stessa ma cause della cosa stessa p. 327, n. 2,1.2 Fth End. 1. I. Vili. l. 3 Klh. Knd. l. I. Vili. 1-3 p. 328 1. IO Met. 1. XIII. VII. 23-26 Met. l. XIII. Vili. 23-26 p. 331, nota, 1. 1 dauno più essere hanno più essere p. SB4, nota, l. ult. Sappi. (C. Ili) Sappi. C. Ili) p. 335, n. 1, l. 6 Il principio e la causa ** Il principio e la causa p. 338 1. 24 delle entità più universali dalle entità più universali p. 339, nota, 1. quintult . cioè che queste p. 340 1. 1 §23 p. 351 1. 19 che abbiano p. 363, n. 2, 1. 2 Kpist. 41 p. 36:> I. 10 e i suoi inodi p. 366 n. 6 Eth, p. II p. 371, r, 4, 1.2 pag. 356 è che queste «24 che abbiamo Epht. 44 e suoi modi Eth, p. e 2. pag. o l'estensione a uno più astratto dipendente naturare JJio e della natura propteraque tutte cose nota pure rationis es Schol. pr. 29 dell'essenza di Dio la constanllfieazione da cui le forniamo abbiamo per causa runa il fenomeno, nei molti; realeà distinte n. 2" pag. 45-46 CORRIGE p. 377 1. 11 o l'estensione) 1. 16 a uno stalo più astrai lo p. 379, n. 1,1.2 dipende p. 380, n, 1, 1. penult. naturae p. 383, testo, 1. penult. Dio o della natura p. 386, n. 2, 1. 4 proptereaque p. 390, n. 1, l. 3-4 tHttu le cose 1. 7 nota 1 pure p. 392, n. S,l,2 rationis est p. 394, n. 1, I. 1 Schei., Prop. 29 p 400 testo, I. quintult. dall'essenza di Dio p. 407 1. 7 la sostantificazione p. 41 i I. 9 da cai le formiamo l. 14 abbiano per causa . p. 423 l. 4-r> runa, il fenomeno, p. 424 l. sestult. nei moUii; p. 431, nota, 1. quartult. realtà distinte p. 436, nota, I. quintult. n. 2 con pag. 4')-4('. p. 438, 1. 1 dall'animale, dall'essere vivente dell'animale, dell' »*ssere vivente — Ò'M) '— V iXuanto dice temporanietà eoslitaiscono App. alla p. I p. II nazione astratta <ii molli commenti inonimo Met. 1. I. III. 2-3, l p. 439, nota, l. 27 quando dice p. 440, nota, lin. lerzult. e p. 441, nota, 1. 3 temporaneità p. 441, nota, 1. 13-14 costituiscano p. 446, n. 1, 1. 2 App. alla p. I, p. II p. 4481. 8 nozione astratta p. 453 l. 24 di molti commenti p. 460, nota, 1. 3 monismo p. VII, n., 1. 1 ^fet, 1. I. III. 2-3, 10, p. VIII 1. 23-25 che ciò che non esìsteva prima che ciò che è nato non esisteva della nascita e non esisterà prima della nascita e non esi- più è nato dopo la morte sterà più dopo la morte p. IX, note, 1. ult. Stob. I, 414 p. X, note, 1. ult. dei loro sistemi p. XIV, n. 2, 1. 1 l)(f Coelo 1. III. III. 3 p. XVI n. 1 Phys, 1. I. IV. n. 6 Stob. Ed, p. XXIX, n. 4, 1. ult. Phys, 1. II. I. 9, ecc. p. XXX, n. 2, 1. 3 flueretiue 1. 7 III. 2-4 Stof. I. 414 del loro sistema Jh' Coelo I. III. 3 Phìjs. 1. I. VI Stah, KcL Pliya, ecc. Auireqae III. 2 4 ERRATA CORRIGE ectirae 1. 17 lecticae n. 3 Pys. 1. I. Vili, Gi'H i't corr. 1. Phya. 1. 1. Vili, Gen. et corr, l. I. I. 2-(5. I. I. 2, 6. p. XXXII, testo, 1. terzult. nei rapporti di spazio nei loro rapporti di spazio p. XXXVI, note, 1. 16-17 i domini religiosi i dommi religiosi 1. 18 questi domini questi dommi n. 1 Stab. KcL Stob. Ed. n. 2 Eth. Eud. 1. Vili. 1. J1, Plut. Eth, Eud. 1. VII. I. 11, Plut. De De h, et ()sii\ ap. 48 Is. et Osir. cap. 48 p. XXXVII, note, 1. 9 582, 2 588, 2 p. XXXIX 1. 6 Tutte è uno Tutto è uno p. XLI n. 2 Top. 1. Vili. IV. 1 Top. 1. Vili. IV. 11 p. XLIII, nota, 1.18-19 perc(»rso p. XLIV, testo, l. penult. nella varietà nota, 1. 8 secondo Cratilo p. LI 1. 24-25 non leggerlo p. LII 1. 20 < conducesse gli Eleati a negare p. LV 1. 6 o movimento senza causa o del movimento senza causa n. 2, 1. 3 <gli Ebati) (gli Eleati) p. LVII, nota, 1. 5 Ssvocpavr^v Ssvot^ocvrjV por corso nelle varietà secondo Eraclito nel-cepirsi conducesse a negare *<^«••i^ t Generante et corrente sappone e sqq. V, 143, p. LXIl, note, 1. 5-6 General, et cornipf, 1. quftrtult. supporre p. LXV, nota, 1. 30 e sqq., 143, p. LXXIIl, 1. 30 la sankya, la raisfschiha la sànìi,/a, la cckesilui note, 1. terzult. Timeo 53c. 1. 57b, Arist. De Coe- Ti.neo 53c.57b. Arisi, i^a Coeio lo 1. 111. I-IIl 1. jii. i^ j. iij p. LXXIV 1. 14 Nella rait-esika p. LXXV 1. 5 il vedanta P.LXXVII, 1. 18 il yógi p. LXXIX, nota, 1. 1 Nelle VponiAafli 1. 7 e 8 nutra p. LXXX, testo, 1. ult. esplicato p. LXXVII. nota, 1. 6 fenomeni meccanici p. XCVI, nota, l. 7 omogenea i. 18 queste proprietà p. C 1. 16 In questo stato p. CI 1. 20 della concezione meccanico della concezione moocanìca p. CXlll l. qui)itult. la nostra asserzione la nostra attenzione p. CXV, nota, 1.15-16 giungendo ai ceatri giungendo ai centri 1. ult. il trasporto del a H trasporto dell'onda p. ex VI, nota, 1. 8-9 si forte a il bisdgno si forte è il bisogno Nella roiseschiìiii la yedanta l'yogi Negli l'panichdd ifouira esplicito processi meccanici omogea questa proprietà n questo stato 1. penult. a un certo grado della cultura a un grado interiore dello sviluppo dell<a cultura p. CXXII 1. 6 Darwin ha dato Darwin ne ha dato p. CXXVI, nota, 1. 8-9 i'rìtkn ffct giudizio paragr. 6rt/ic« dt^/ f/é<«dè5to paragr. LXXIV LXXVII p. CXXIX 1. 4-5 viventi allora non viventi, allora - nota, 1. 7 • che rassomiglia, ai che rassomigli ai p. CXXX, note, l. terzult. notare di ratliludine Tentare l'attitudine p. CXXXII, }iota ser. !■ anno • ser. 1" anno 7 p. , l. 16 l'analogia dalle l'analogia delle p. CXL 1. 3-4 ed avventizio; la materia ed avventizio, la materia p. OLII l. 1 esistenza presente 1. 7 la sua esistenza » 1. 16, nota p. CLV l. ult. l'uno con l'altro p. CLIX 1. 10-11 coi cangiamenti con cui coi cangiamenti anteriori con cui p. CLXXIII 1. 4-5 come il S. Ambrogio come S. Ambrogio p. , nota, 1. 16 dopo esservi riscaldato dopo di esservi riscaldato p. , nota, 1. 1 ha i due ordini tra i due ordini p. 10 suppongano suppongono p. CLXXXL 1.2 dilferenli deiranimismo differenti dall'animismo - 341 — *i esistenza poesente la sua esistenza l'uno per l'altro ERRATA CORRIGE ci trova p. CLXXXVljUlt. si trova p. l. 17 problemi fisiologici problemi biologici p. CLXXXVII 1. U Tale, in effetto Tal è in effetto p. CLXXXIX 1. 8 riflettuta; p. e. dall'aoqaa riflettuta p. e. dall'acqua p. CXCII, note, l. ult. vai^esika p. CXCTII, nota, 1. 6 del Fedone p. CCI 1. 8 convenire, come p. CCITI 1. U-t5 della ragione' p. CCV I. 14 ammettersi, come p. CCXII, nota. 1. 2 domandava : Chi sa di essi ohi che domandava : Chi sa dirmi chi sono io ? p. CCXIII l. 17 le concezioni p. CCXVII, nota, 1. 3 Cartesio 1. 4 sulla sostanza l 8 in ultima analisi p. CCXXI, nota, 1. ult. è immanente p. CCXXIII 1. 15-16 perchè di qualunque cosa perchè, qualunque cosa carta 5 pag. 2. 1. 23 i flutti, la spuma, ecc.; i flutti, la spuma, ecc., o. 6, p. 2., n. i A. S. 177 n, 2, N. S. 177 n. 2, e. 12, p. 1., nota, l. ult. nelogismo neologismo vaisechika di Fedone convenire come, detta ragione ammettersi come nandava sono io ? le eonoezioni, Carlerio nella sostanza in ottima analisi è immanante ERRATA CORRIGE e. IB, p. 1., note, 1. 4 1. Vili. III. 5, ecc. p. 2., 1. 11 eoe; quando e&si designano le ecc., quando essi designano le Idee, 1. 15 II. I termini * n. 2 V. num. III o. 15, p. 1., nota, 1. 1 denotazione o. 17, p. 1., note, 1. 1 Met. 1. VII, XI. 11, 1. terzult. Ad aÙTÓ, aùxò xaG'aOxó, e. 18, p. 2., l. 4-5 la più parte e. 19, p. 1., note, l. 2 di Aless. Afrod. p. 2, nota, 1. 4 e questi sono le Idee e. 20, p. 1, testo, 1. 16 ' J^ep. 525c-526a e. 20, p. 1., nota, l. t nel Filebo 1.8 non da capo o. 23, p. 2., 1. 19-20 proporzionata alla vista proporzionato alla vista e. 24, p. 1., 1.8 ha, ma non ò ha, ma non è e. 25, p. 1., testo, l. 4 p'oggetto l'oggetto nota, 1. 4 dei primi indicati dei luoghi indicati p. 2., 1. 23-24 dei secondo;, diremo del secondo diremo o. 26, p 1., I 15-16 •con causa concausa i. Vili, III. 5. ; quar Idee: 2^ I termini V. nota III detonazione Met. l. VII, XI. 2, Ad aÙTÓ, xaO'auxd, la più alparte • di Aless. Aprod. e questi sono Idee Rep. 525-526a nel Fibbo È perciò — 342 • ERRATA CORRIGE Cor. Siccome e. 27, p. 2.. n. 2. 1. 1 o. 28. p. 1., 1. 1 siccome e. 29, p. 1., 1. « belli e ìq tutti gli oggetti non leggere queste parole p. 2., 1. li» e. 30, p. 1., 1.4 ciascuno nuovamente in uno p. 2.. I. H.4 nel bue, eco è 1. 6 risoluzione e. 31, p. J., 1. IH il grande slessoj ecc.) e. 33, p. 1., 1. 3 è precisamente questa o. 34, p. 2., 1. 6-7 vengono proposte e. 38, p. 2., 1.8 insomma 1. quintult. coi molti, o. 40, p. 2., 1. 13 generiche e le specifiche o. 44, p. 1., l. 20 prima, ma presente o. 46, p. 1., 1. 18 della misura ? p. 2.. 1. 19 Ibid, 1Q8g e segg. e. 60, p. 1., 1. 16-16 necessario p. 2., 1. 3 di un'Idea 1. 19 non è una connessione neces- non una connessione necessaria saria e. 51, p. 2., nota, l. 7 significa al tempo stesso significa dunque al tem|iu stesso nuovamente in uno nel bue è riduzione il grande stesso) e precisamente questa vengano proposte insom- coi molli, generiche e specifiche prima, presente della scienza ? ^ Jbid, 1(B e segg. neoestrario dell'Idea ^ S ERRATA CORRIGE il letture e in tale nasce ? nei lunghi citati 0, 54, p. 1., 1. 15-16 il lettore 0. 55, p. 2., testo, l. terzult. e in un tale nasce ? o. 56, p. 2., 1. 8 nei luoghi citati e. 57, p. 2., 1. 1 la possessione dell'attributo ? possedere un attributo ? nota, l. 2 (V. IV. 3° B) (V. V. 3» B) o. 58, p. 2., nota, 1.4-5 argomento procedente argomento precedente e. 59, p. 1., 1. 1 Dunque nelle altre Dunque nelle altre cose p. 2., 1. 3 né uno né due né una né due e. 60, p. 2., 1.17-18 se fossero simili e dissimili se fossero simili o dissimili e. 61, p, 2., 1. 14 àTiaXXsxxéov àTraXXaxxéov o. 62, p. 1., 1. 8-9 È vero. Affinchè È vero— Affinchè o. 73, p. 1., 1. 4-5 queste spiegazioni queste altre spiegazioni e. 81, p. 2., 1. 12 a un soggetto particolare a un oggetto particolare e. 82, p. 2., 1. 20 dalla prova dalle prove e. 86, p. 2., n. 2 l. XIV. II. 1-5 1. XIV. II. 1-2 e. 91, p. 2, 1. 23-24 che indicano i rapporti ohe indicano il rapporto o. 93, p. 2., 1. quintult. non potrebbe esistere non potrebbe esistere veramente e. 95, p. 1., 1. 18 pia prezioso nella mescolanza pi i prezioso nella mescolanza (64c); (64o, d, 65a) ohe esso è la causa della bontà di questa mescolanza (64 e, d, 65 a) — 343 — -^,^r,n ERIIATA CORRIGE ERRATA CORRIGE o. 99, p. 1., note, 1. ult. III. 3, 4, 7, o. JOO, p. 2., testo, 1. quintult. Tuttavia Platone non può e. J05, p. 2., 1. 8 un mondo di Idee, di entità a- stratte e generali e. 108, p. 2., n. 1, 1. 1 i. XI. VI. 6-12 n. 4, l. 1 Tim. 27 d o. 109, p. 1., 1. Il a generalizzare o. 110, p. 2., I. quartult. Timeo 28 a e. 114, p. 1., 1. 7 Fedone a 78e-80b o. «5. p. 2., 1. 1 e. 117, p. 1., n. 3, 1. 1 Fedone 78 c-d e. 121, p. 1., 1. 19 X03ptaTÓv 0. 122, p. 1., 1. 26 producono le loro copie producano le loro copie o. 125, p. 1., nota. 1. 13 e i suoi deterivati e i suoi derivati e. 127, p. 2., 1. 14 nel concetto comune come nel concetto comune : come e. 132, p. 2., nota, 1. 3 e perchè noi sogniamo e perchè cosi sogniamo e. 139, p. 2., nota, 1, sestult. dei periodi degli astri degli altri periodi degli astri e. 142, p. ]., 1. quintult. e si pascono e si pascono poi e. 145, p. 2., 1. 14 xsxoptajiéva x£xwpto|i£va e. 148, p. 2., 1. 3 come le prime come le prime, I. I. 3, 4, 7, Platone non può un mondo d'Idee 1. XI. VI. 612 Tim, 22 d di generalizzare Timto 29 a Fedone a 78 e 80 b YVWoGYjoófJtsvov) — Fedone 28 c-d Xcopoaxóv parlato implica, e essenze l XIII. V. 12 e. 149, p. «.. 1. 19 parlato, implica e 150, p. 1., nota, l. 3-4 le essenze e. 153, p. 1., nota 1. XIII. IV. 12 e. 168, p. 2., 1.17 tra le cose i numeri tra le cose e i numeri o. 159, p. l., note, l. quintult. primi degli esseri i primi degli esseri e. 165, p. 1., n.2 3M. l. XIII. VI. 6-8 iMet. 1. XIII. VI-VIII e. 166, p. 1., 1. 15 delle Idee; è il movimento delle Idee è il movimento e. 167, p. 1., nota, 1. 3 —v. n. V—), p. 2., 1. 9 A. I due elementi 1. 11 col Dispari e. 168, p. 1., 1. 14 non leggerlo p. 2., 1. 2 propria delle cose e. 170, p. 2., 1. 4 lo Stesso e. 175, p. l., nota. 1. l 532—533 d. p. 2., n 5, 1. 1 1. I. VII. 2-3 e. 176, p. 1., 1. 5-0 non è né in queste cose p. 2, 1. 7 l'indefinitezza e. 181, p. l.,l. 15 A queste quistioni 0. 183, p. 2, M i principii degli esseri — V. n. V.— I due elementi coi Dispari (oxoixs^a proprie delie co.se lo stesso 532533d. i. 1. VII e 3 non è né queste cose, l'indeterminatezza A questa quistione i principi degli esseri 11- oapi-<tale ammettere 1. IX. 16,25 per provare; è niente pag. 24 e'. Basii. i una yévso'.^ o immanente o. 188, p. 2., nota, 1. 13-14 capitale 1. 15 ammette o. 199, p. 1., nota, 1. l 1. I. IX. 16, 25 e. 217, p. 1.. nota, I. terzult. per provare 1. alt. è niente; p. 2., n. 1., 1. penult. pag. 24 A ei. Basii, e. 223, p. 2., n. 2, 1. 3 di una yévsotf e. 237, P.I., 1.21 f 1 e im manente c. 238, p. 1, 1. 13-14 non è semplicemente com'essi non è semplicemente, com' ossi «dicono, dicono, e. 239, p. 1., note, 1. 4 e la perpetuità doiruniverso e la perpetuità della forma att ualo dell'universo 0. 242, p. 2., 1. 1 ouo» gono 1.13 più o meno numeroso più e meno numeroso 0, 246, p. 1., 1. 19 come relativo come correlativo e. 248, p. 1., testo, 1. terzult. et le o. 251, p. 2., note, 1. 15-16 ne sistema delle Idee nel sistema delle Idee o. 253, p. 1., n. 2, 1. 1» Met,\. XIII. VIII. 8 non leggerlo p. 2., note, 1. terzult. forma) (forma) e. 254, p. 1., 1. 10 ci è attestato oi è attestata ERRATA CORRIGE delle ooqa matematicho n o potremmo Met. l. XIII. VII. 9 e. 270, da cui sono limitale di queste tre divisio— ^, a di Platone di Spinoza (4 supplem. C. V la loro vera realtà l suo posto cuotiene dih avanzati e. 328, le Idee). L'espressione non vi ha mai i R. 250, p, 2., I. 12-13 delle cose matematiche e. 203, p. 1. l. 24 noi potremmo e. 269, p. 1, n. 1 Met. 1. Xll. VII. 9 l>. 1., tosto, I. penult. da cui sono limitato (3) Co) Da questo processo non potreb- bero venirne che dei poliedri, per- chè esso non « applicabile, tra i so- lidi, che ai poliedri, tra le superfi- cÌ3, che ai piani, tra le linee, che alle rette : ma siccome per i pla- tonici i corpi erano composti di poliedri regolari, esso rendeva conto suttìcientemente delle gran- «iezze reali, e. 271, p. 2., I. 12 di queste tre divisioni 279, p. 1., testo, l. quartult. di Platone di Spinoza (4)j 0. 281, p. 1., n. 2 supplem. C. IV e. 285, p. 2., 1, ult. e la loro vera realtà e. 288, p. 1., l. 11 il suo posto 1. 18 contiene e. 310, p. 1., 1. 1. più avanzati p. 1., note, 1. quintalt. le Idea. (L'espressione 335, p. 1., l. quintult. non vi ha mai il — 345 I > 't I I IL REALISMO DIALETTICO 1. Perchè si realizzano le astrazioni ? Spiega- zioni correnti e precisazione della quistione. pag. 2. Il realismo, in quanto è una spiegazione del mondo (realismo dialettico), ha lo scopo di identificare il rapporto logico tra il principio e la conseguenza al rapporto ontologico tra la causa efficiente e 1' effetto— Origine del realismo degti scolastici ... » 6. Il sistema di Hegel Il sistema di Taine 4. Realismo (realizzazione dei concetti) del Taine Il suo metodo dialettico (cioè di dedurre i concetti realizzati) 6. L'idea fondamentale di questo sistema è Ti- dentifìcazione del rapporto tra il principio e la conseguenza a quello tra la causa ef- ficiente e reffetto . 11 sistema di Platone 7. Cenni generali sulla filosofìa di Platone. 8. Apriorismo di Platone Suo metodo puramente deduttivoImportanza capitale attribuita al metodo; uni- versalità della filosofia e sua sistematicità, pag. ì\. Affinità del metodo dialettico col metodo matematico • 12. Caratteri prepri del metodo dialettico, per cui differisce dal matematico Tutte le altre Idee si deducono da quella del Bene L'Idea del Bene non è solo il principio lo- gico, ma anche il principio ontologico (la causa produttrice) delle altre Idee, e non ne è il principio ontologico che in quanto ne è il principio logico 15. La deduzione progressiva delle Idee le une dalle altre é una derivazione reale delle Idee che si deducono da quelle da cui si deducono. » 16. L'Idea del Bene è la piùgenerale di tutte. Contenuto di quest'Idea Metodo di divisione e gerarchia delle Idee. » 18. Teoria della definizione ... » 19. La dieresi è una deduzione in cui V Idea divisa funge da principio, e le Idee in cui si divide da conseguenza Come la dieresi è una deduzione, e come si trovino in essa i caratteri distintivi del metodo dialettico di cui al § 12. Il metodo indiretto del Parmenide— E con questo metodo che deve dimostrarsi il primo principio (cioè l'Idea del Bene) Un'Idea generale non è solo il principio logico, ma anche onfoZo^rico (la causa), delle Idee più particolari in cui si divide. L'ohbiettivazione dei concetti e il metodo dialettico hanno per iscopo l'identificazione del rapporto tra il principio e la conseguenza a quello tra la causa efficiente e Teffotto. pag. 340-360 Il sistema di Spinoza 24. Idea generale della filosofia di Spinoza— Il concetto del parallelismo psico-fisico e suoi sviluppi » 360-370 25. Metodo puramentededuttivo— Identità dello sviluppo logico e dello sviluppo ontologico » 370-384 26. Le cose considerale sua specie aeternitatis L'essere, secondo Spinoza, è una serie di astrazioni realizzate che derivano logica- mente e ontologicamente le une dalle altre, in modo che il rapporto tra il principio e la conseguenza é identico con quello tra la causa (efficiente) e l'effetto. » 429456 28. Differenze e omologia fra tutti questi siste- mi—Come il realismo dialettico deriva dalla tendenza naturale del nostro spirito da cui derivano tutti gli altri concetti metafisici. NIHIL ORITUR, NIHIL INTERIT § 1 . Tendenza naturale a supporre che il reale nella sua essenza é immutabile . pag. I-VI 2. I fisici greci in generale -Dottrine di Empedocle e di Anassagora Il sistema degli atomisti Dottrine dei fisici che ammettevano una sostanza unica Dottrina di Eraclito della identità dei contrari 6. Dottrina degli Eleati 7. Spiegazioni meccaniche dei fisici in generale Dottrine dei filosofi indiani 9. Dottrine di Bruno e di Telesio. 10. La teoria meccanica (cioè la riduzio- ne di tutti i fenomeni a quelli mecca- nici) nella scienza moderna — Appli- cazione della teor'a alla costituzione della materia .... 11. Ancora della teoria meccanica- Ap- plicazione ai fenomeni psichici. 12. Spiegazione meccanica dei fenomeni della vita. Il principio della persistenza delle co- nelle stesse proprietà nelTatomismo metafisico, nei sistemi monisti, nel realismo, nel criticismo Dottrine di Herbart e del prof. Corico » 15. Dottrina delTidentità della causa e del l'effetto IL CONCETTO DELL'ANIMA § \, L'animismo (sostantificazionedeira- uima) è il prodotto d'una tendenza naturale dello spirito umano. 2. Le prove della sostanzialità dell' a- Materialiià dell' anima nella for- ma primitiva dell'animismo, L'animismo è anch'esso un' ap- plicazione del principio dell'im- mutabilità dell'essenza dollecose Le concezioni moniste si fonda- no su questo principio egual- mente che le dualiste. 6. E per esso che deve spiegarsi anche l'animismo dell'uomo pri- mitivo ..... 7. Il concetto dell'immortalità del- l'anima e quello delia sua im- materialità sono degli sviluppi naturali della teoria animista. 8. Il substratum, supposto indi sponsabiie, dei fenomeni psi- chici non è che il fantasma del corpo. La terza forma dell'animismo, cioè la dottrina che la sostanza dello spirito è un fatto psichico permanente che è il substratum di tutti gli altri nima. carte IMMANENZA DELLE IDEE PLATONICHE Pavte I. — Prove di quest' Immanenza I. I termini designanti le Idee in generale I termini designanti ciascon'Idea. carte 13-18 III. Il concetto e la conoscenza generale si riferiscono all'Idea La definizione e la dieresi, che hanno per oggetto le Idee, si riferiscono alle eose considerate d'una maniera generale ed astratta L'Idea è l'universale, ciò che è lo stesso in tatti gl'individui del genere . VI. La TiapouoCa, la fiéGegtg e le altre espres- sioni dell'inerenza nelle Idee nelle cose VII. Contenenza reciproca tra le Idee gene- riche e le Idee specifiche VIII. Gli elementi delle Idee sono anche gli elementi delle cose IX. Tutto il reale si risolve nelle Idee X. h'essere non è fuori del divenire, ma nel divenire stesso. » Parte II. — Discussione degli argomenti contro l' immanenza I. La sostanzialità delle Idee IL La distinzione fra le Idee e le cose inter- pretata come una separazione III. Le Idee considerate come esemplari a cui le cose non si conformano che appros- simativamente Le allegorie del Fedro e del Timeo V. La tesHmonianza d'Aristotile . Cenni snlle dottrine dei Pitagorici e sul pitagorismo di Platone in generale I numeri ideali II. I dne elementi A. La forma e la materia delle Idee B. La forma e la materia delle cose IIL Le entitli matematiche (come intermediarie fra le Idee e le cose) Il pitagorismo nel Timeo e nel Filebo Motivi deirevoluzione di Platone verso il pi- tagorismo A. Il pitagorismo nel Timeo (Carattere simbolico della cosmogonia del Timeo e suo significato). B. Il pitagorismo nel Filebo (il limite e Villimi- tato di questo dialogo) V. 11 pitagorismo nei discepoli di Platone Le tre dottrine dei platonici sui numeri carta 251 La dottrina di Xenocrate carte La dottrina di Speusippo L L'anima e suo rapporto con le Idee e eoi fenomeni (l'anima individuale carte 273-279— Panima cosmica e. 280-293). carte 273-293 IL L'interpretaasione teistica del siste- ma delle Idee (che le Idee sono i pen- sieri della divinità creatrice) HI. Le Idee e il pensiero (Interpretazione di Hegel e del Teichmiiller dell'immortalità dell'anima e altre dottrine connesse — Pla- tone non ammette l'identità dell' essere e del pensiero, e la sua Idea è un' entità puramente obbiettiva)
^>>^^^lriS/t .i:*.?.i* ;!iV^J i *t»«ii ::tr:!! !i:r, n •i u s VM lA '^^^ e\V è \^0\ 0\ <i \ \\ i^Ua. \v\ \ i tviia^ Nihil opitup, nihil interit. ' § 1. La nozione di causa efficiente con le sue ap- plicazioni è la manifestazione incomparabilmente più importante della tendenza naturale del nostro spirito ad assimilare tutti i fenomeni a quelli che ci sono i più familiari : ma la metafìsica ci presenta altre manifestazioni di questa tendenza, di cui una non può non formare un oggetto speciale del nostro studio, per il gran posto che essa non ha mai ces- sato di tenere nella storia del pensiero. Se noi dividiamo tutti i fenomeni della nostra esperienza, vale a dire tutta la massa delle perce- zioni che noi abbiamo avute sin dal primo momento della nostra esistenza, in due grandi categorie, met- tendo nell'una tutte le esperienze che ci hanno mo- strato un cangiamento nelle proprietà delle cosè,^^ale a dire nei caratteri per cui noi distinguiamo le cose particolari e il cui complesso si chiama 1' essenza d'una cosa, e mettendo nell'altra le esperienze che ci hanno presentato le cose con le stesse proprietà IV che essi ci avevano prima mostrato, è evidente che quelle della seconda categoria sono, senza compa- razione, le più frequenti, le più familiari. Inoltre, se noi facciamo un'altra divisione in questa massa totale delle nostre esperienze, riunendo in una classe tutte quelle che ci hanno presentato un cangiamento in qualsiasi qualità delle cose (e non semplicemente nei loro caratteri distintivi, essenziali), e in un'altra classe tutte quelle che ci hanno presentato un non cangiamento qualitativo e niun altro cangiamento che nelle posizioni reciproche delle cose, è evidente ancora che, quantunque la differenza numerica tra le due classsi non sia in questo caso così grande come nel caso precedente, la seconda classe sorpassa pure di gran lunga la prima per la frequenza o fa- miliarità dei fenomeni (si devono anche compren- dere sotto la parola fenomeno le esperienze di un assoluto non cangiamento). Perchè la verità di queste osservazioni venga pienamente compresa, non sarà forse inutile di far notare, primo, che di una gran parte dei cangiamenti che noi osserviamo nella na- tura gli antecedenti sfuggono alla nostra percezione attuale — p. e. noi vediamo cadere la pioggia ma non vediamo la trasformazione del vapore in acqua; noi vediamo il filo d'erba sorgere dal suolo, ma non vediamo la trasformazione del germe in filo d'erba — e che in questi casi perciò il cangiamento delle pro- prietà non deve contarsi fra le nostre esperienze ; e secondo, che la più parte dei cangiamenti quali- tativi delle cose non si producono che mediante una gradazione continua, impercettibile— p. e. il fanciullo cresce, il giovane invecchia, ma senza che noi ab- biamo mai attualmente la percezione del cangiamento, il quale non è conosciuto che dalla riflessione che compara degli stati separati da lunghi intervalli — sicché, in questi casi, le percezioni stesse che ci ven- gono dagli esseri sottoposti ad un continuo cangia- mento, vanno ad accrescere nel fatto la massa delle esperienze del non cangiamento, e, per conseguenza la forza che questa massa esercita sulle associazioni tra le nostre idee. La conseguenza di ciò che ab- biamo detto è che, conformemente alla tendenza ge- nerale ad assimilare ciò che ci è meno familiare a ciò che ci è più familiare, noi siamo naturalmente inclinati ad ammettere che il fondo dell'essere è per- manente, immutabile, e che il cangiamento non è <5he superficiale o anche apparente, e a spiegare la natura, partendo dalla ipotesi che non vi ha mai in realtà un cangiamento nella essenza del reale, in altri termini che niente, al fondo, nasce ne muore, o anche dalla ipotesi più radicale che non vi ha mai nelle cose un cangiamento qualitativo, intrinseco, ma il cangiamento si riduce al mutamento dei rap- porti reciproci di posizione e non attinge mai le cose in se stesse. La tendenza a concepire le cose di questa maniera è così naturale al nostro spirito, che essa 8i mostra anche nelle nostre metafore più ordinarie — il piacere che dà una metafora è forse dovuto in parte a una soddisfazione del profondo bisogno della nostra intelligenza di identificare, di assimilare — e nelle forme più abituali dei linguaggio: p. e. si dice che la scintilla si sprigiona dalla selce, e la pa- rola sviluppo o evoluzione serve ad indicare i can- giamenti ordinati che si producono in un tutto, come VI se ciò che viene in seguito fosse già contenuto in ciò che era prima, d'una certa maniera latente, in- viluppata. § 2. L' esempio forse più notevole del sofisma a priori di cui parliamo, lo troviamo nel primo periodo della filosofia greca, cioè nei fisici ionici e negli oleati. Ciò che questi filosofi si propongono in primo luogo, è la ricerca dell'essenza immutabile delle cose, del fondo permanente dell'essere che non attinge il cangiamento. Siccome la tendenza filosofica che ca- ratterizza questo periodo del pensiero ellenico non è messa sufficientemente in luce dagli espositori — più desiderosi di trovare una connessione logica nella successione dei concetti filosofici che di com- prendere la loro derivazione dalle disposizioni na- turali dello spirito umano — noi dobbiamo darne un'esposizione al nostro punto di vista, esposizione che sembrerà forse troppo diffusa per il soggetto di questo scritto, ma noi saremo nella necessità di giu- stificare le affermazioni che avanzeremo. Noi sappiamo da Aristotile che il principio co- mune di tutti i fisici j ammesso da loro come una pruposizione assiomatica, è che l'essere non può venire dal non essere né ridursi al non essere. 11 senso di questa proposizione non è semplicemente che la materia non può crearsi dal niente né di- ventare niente, ma anche, come ci spiega lo stesso Aristotile, che le cose non possono cangiare di na- tura, cioè che delle cose aventi una natura deter- minata non possono cangiarsi in altre di una na- tura differente, o, per parlare il linguaggio di questo filosofo e di quelli di cui egli espone le opinioni» VII che gli esseri non possono né nascere né perire, che non vi ha in realtà né generazione né corru- zione (1). I diversi sistemi dei fisici non sono, an- zitutto, che delle realizzazioni differenti di questo principio generale, a tutti comune. La maniera più chiara e più coerente di realiz- zare questo principio é quella seguita dai fisici che il Bitter chiama meccanisti^ cioè di ammettere una pluralità di sostanze qualitativamente immutabili, e di cui non cangiano che i reciproci rapporti nello spazio. Dal principio che l'essere non può comin- ciare né finire questi fisici ne concludono così, non solo l'immutabilità della natura o essenza delle cose, ma la loro assoluta immutabilità qualitativa: e in verità non vi ha tra le due specie di mutazioni una distinzione precisa, le qualità non potrebbero net- tamente separarsi in due categorie, le une essenziali, le altre non essenziali. Per altro Timmutabitità delle qualità, cosi bene che l' immutabilità dell' essenza, era anch'essa compresa nel senso, necessariamente vago ed ondeggiante, dell'assioma dei fisici^ questa proposizione (a parte l'enunciazione che essa rac- chiude della persistenza della materia) essendo l'e- spressione di questa oscura tendenza del nostro spi- rito che ci spinge a ricondurre più che possiamo il fenomeno meno familiare, che é il cangiamento nello stato delle cose, al fenomeno più familiare, (1) V. Arlst. Phys 1. I VUI; 1. I. IV. 2-3; Met. 1. I. III. 2-3, 1 1. lU. V. 3; 1. X. VI. 1-4, ecc. vili 1 1-; |.v €he è la loro persistenza nello stesso stato. La fisica meccanista si presenta in una forma più primitiva — perchè conforme alla credenza spontanea della ob- biettività di tutti i dati della percezione sensibile — e al tempo stesso più metafisica — per le ipotesi tra- scendenti sulle forze motrici — in Anassagora ed Empedocle; negli atomisti, in una forma più scien- tifica e rigorosamente naturalista, che l'ha resa su- scettibile di sopravvivere a tutti gli antichi concetti filosofici, e di ritrovarsi, la stessa per il fondo, nella scienza moderna. Empedocle ammette, come tutti sanno, quattro so- stanze materiali : la terra, Pacqua, l'aria e il fuoco^ che sono le forme più comuni e al tempo stesso più inarcatamente differenti con cui la materia si pre- senta ai nostri sensi. Le particole di queste sostanze elementari, cangiando la loro posizione rispettiva, €ongiungendosi e separandosi, danno luogo a tutto ciò che vi ha di variabile nell'universo; ma ciascuna sostanza in sé è sempre la stessa, sempre simile a se stessa (1). Empedocle nel suo poema sgrida gli stolti checredono che qualche essere possa nuova- mente prodursi e poi cessare di esistere; che ciò che non esisteva prima della nascita e non esisterà più è nato dopo la morte. Ciò è un'illusione; non vi ha, a parlar propriamente, ne nascita né morte; non vi ha che congiunzione e separazione di sostanze che persistono sempre le stesse, poiché l'essere non può (1) V. Versi 96-97. 128-133 Munach. IX venire dal niente né diventare niente (1). Ciò che gli antichi chiamano alterazione (cioè il cangiamento nelle proprietà sensibili, p. e. da bianco in nero, da caldo in freddo, da secco ad umido, da molle in duro, e viceversa) non è al punto di vista di Em- pedocle — e di tutti i fisici che ammettevano più sostanze primordiali — meno impossibile che ciò che gli antichi chiamano generazione e corruzione (2); ciascuna sostanza conserva sempre le sue proprietà sensibili particolari; come un pittore, con un nu- mero limitato di colori, convenientemente mescolati. (1) Versi 98-119 Mullach : Aliud vero tlbl dlcam: nec ortus est ullius rerum inortalium, nec funestae mortis interitus, sed sola iiilxtlo mixtoruiiique secretlo, ^eneratlo vero In hls rebus ab honiinibus voeatur. Ex eo enlm, quod non est, fieri neqult ut quldquam oriatur, ens vero Interlre nullo pacto potest; semper enlm superablt, quocumque quis lllud propulerlt. Sed uialls utlque mos est diffiderò veris ac legltlmls; tu vero, quemadmodum certa Musae nostrae arg^umenta jubent, tenete, mente In praecordlls divisa. At UH, quld(iuld ad honilnis slniUitudlnem mixtum In aetheris lucem [pervaserit vel ex agrestlum anlniantluni genere vel fruticuni vel volucrlum, Id quidem natum putant; quum vero Illa secernuntur, hoc Infaustum fatum Inepte appellant, sed ad consuetudlnem Ipse rae accomodo. 8tultl : neque enlm perspicax tpsis mentis acles est, ^ ut qui (juod prius non erat Id glgnl existlment Hut emorl allquid et penltus Intercidere. Neque vlr sapiens tal la opinetur, quamdlu vivant mortales, quam UH certe vltani vocant, tamdlu Ipsos esse et bona IIs malaque evenire, anteciuam vero concreti et postquam dissoluti slut, nlhll esse. (2) Arist, Qen et corr, 1. I. I. 6-9. 1. II. I. 7, Mei. 1. I. III. 7, ecc. V anche Plut Plac I. 24, Stof. I. 414.4 ILU! M_- -3^ XI V può riprodurre tutta la A^arietà che noi osserviamo nella natura, così questa può produrre tutta questa varietà mescolando convenientemente le quattro forme elementari (1). Ma nella mescolanza ciascuno degli elementi si conserva inalterato; non vi ha fu- sione tra un elemento e un altro, ma semplicemente juxta - posizione (2). Secondo questo punto di vista le proprietà sensibili del composto risultano dalle proprietà sensibili degli elementi della stessa ma- niera in cui il grigio risulta dal bianco e dal nero. Una quistione che s' impone necessariamente ai fisici meccanisti è quella dell'origine del movimento. Essi non possono contentarsi di quest'idea vaga dei fisici unizzanti, loro predecessori, secondo cui il tutto . cioè il mondo considerato nel suo insieme, avrebbe la proprietà di produrre spontaneamente il movimento, proprietà che noi non osserviamo nelle sue parti, cioè negli elementi materiali che lo costituiscono. In queste noi non vediamo che Vinerzia, l' incapacità di passare da se stesse dalla quiete al movimento (3); e sarebbe contrario al prin- (1) Versi i:U-U4 M. (2) Arlst. De Geu, et Corr, 1. II. VII. 3; (xaleno In lilppocr. De nat, hom. Comment. prim. al testo 2, fine, e al testo 12. (3) In verità Empedocle ammette un movimento naturale del corpi pesanti, come la terra, verso 11 basso, e del fuoco verso l'alto (Arlst. De An. 1. II. IV. 7,Gen.et corr. 1. II. ^^. 9: movimento in cui egli sembra vedere un caso della tendenza che ha secondo lui il simile ad unirsi al suo slmile, v. Versi M. 262-266, 321-323. 338-.339).Ma quan- d'anche egli avesse ammesso che questo movimento fosse dovuto a una tendenza Inerente agli elementi stessi (e non alle forze motrici di cui diremo), questa opinione isolata di Empedocle, come (luelle analoghe che gli altri fisici meccanisti hanno avuto o hanno potuto avere, non può Impedirci di attribuir loro la dottrina dell' inerzia della materia, che risulta dall'Impressione generale del loro sistema cipio dell' immutabilità qualitativa della sostanza l'ammettere che una sostanza, ordinariamente inerte, possa acquistare in certi casi la proprietà di met- tersi spontaneamente in movimento. Supporre d'al- tronde che il mondo, considerato come un tutto, abbia una spontaneità di movimento che manca alle sue parti costitutive, sarebbe sempre ammettere un cangiamento qualitativo in queste parti, poiché è in esse, al postutto, che dovrebbe prodursi questo movimento spontaneo della cui facoltà il tutto vor- rebbe supporsi dotato. Ne segue che la produzione del movimento non può essere attribuita agli ele- menti materiali: perchè essi fossero in certi casi capaci di mettersi spontaneamente in movimento, bisognerebbe, essendo essi qualitativamente immu- tabili, che il movimento, e la stessa specie di mo- vimento, si producesse in essi costantemente, cioè d'una maniera continua. Ora, supposta l'inerzia de- gli elementi materiali, bisognerà ammettere ovvero che non vi ha mai produzione di nuovo movimento, e che il movimento di un corpo è sempre dovuto alla spinta o alla trazione di qualche altro corpo, ovvero, se vi ha produzione di nuovo movimento, ch'essa è dovuta a delle forze motrici distinte e se- parate dagli elementi materiali. Empedocle am- mette la seconda di queste due ipotesi : così egli ^ggi^nge ai quattro elementi materiali due forze motrici (del resto concepite anch'esse come estese nello spazio secondo le concezioni semi-materialiste dell'antico spiritualismo), cioè l'amore e l'odio, di cui il primo è la causa della riunione delle sostanze e quindi della produzione delle cose, e il secondo il XII della separazione delle sostanze, e quindi della dis- soluzione delle cose (1). La dualità delle forze mo- trici è data ad Empedocle dal principio stesso del- l'immutabilità qualitativa della sostanza : egli non comprenderebbe che una stessa forza producesse al- ternativamente i due movimenti contrari di attra- zione e di I epulsione, di riunione e di separazione, delle particole elementari. Un'altra quistione, che si presenta naturalmente al punto di vista dei fisici meccanisti, è quella del- l' origine della sensibilità e del pensiero. Che la stessa materia da incosciente diventi cosciente e vi- ceversa è contrario al principio dell' immutabilità qualitativa della sostanza. Per conseguenza bisogna ammettere o che la materia è sempre e in tutte le sue parti dotata di sensibilità e di pensiero; ovvero che queste sono delle proprietà inerenti sia a qual- che sostanza materiale particolare, sia ad una so- stanza diversa dalla materia. Noi ritroviamo le tre differenti ipotesi nei tre diversi sistemi della fisica meccanista. L'ipotesi di Empedocle è la pri- ma, cioè egli ammette che ogni elemento senta e pensi (2); e il principio dell' immutabilità della sostanza è da lui spinto sino al punto di non attri- buire a ciascun elemento che una funzione sen- soriale ed intellettuale sempre invariabile ed iden- tica: ciascun elemento non conosce che il suo si- mile (secondo il principio di alcuni antichi iilosofl (1) Versi M. 64-69, 77-87, 126-127, 149-153, 191 sqq.; Ai-lst. Mot. 1. I. IV. 2-6, WL, 3-4, 1. XI. X. 5, Gen, et corr. 1. II. VI. 5 e sqq, ecc. (2) M. Versi 298, 378-382. XIII che il simile si conosce dal simile), e così anche noi con la terra conosciamo la terra, col fuoco il fuoco, con l'amore l'amore, ecc., la sensibilità ed intel- ligenza di un tutto essendo la somma delle sen- sibilità ed intelligenze elementari (1). L'ilozoi- smo di Empedocle è una conferma della esattezza della deduzione, da noi data, della dottrina sulle forze motrici. Potrebbe sembrare infatti che l'ipo- tesi dell'animazione degli elementi materiali avrebbe dovuto dis}rensare Empedocle dal ricorrere a delle forze motrici distinte dalla materia stessa. Ma il problema della causa del movimento è per Empe- docle subordinato al problema di conciliare la pro- duzione del movimento col principio dell' immuta- bilità qualitativa della sostanza: l'ipotesi dell'ani- mazione della materia non modificava per niente questo fatto dato dall'osservazione^ che la materia è ordinariamente inerte, ed Empedocle non poteva attribuire, in certe condizioni particolari, a questa materia, quantunque senziente e pensante, la pro- prietà di mettersi spontaneamente in movimento, senza contraddire al suo principio fondamentale, cioè quello della immutabilità della sostanza. La dottrina di Anassagora sugli elementi mate- riali è più radicale che quella di Empedocle. Egli non crede che un numero limitato di elementi pos- sano spiegare, per la loro aggregazione e disgre- gazione, Tinfìnita varietà che si osserva nella na- (Ij Per cui Arist. elice che Eiii|.ed. fa constare l'anima da^li ele- juenti. V. De Afi. 1. I. IL C. V. 5-13. ecc. ' t — "— ^ XIY tura. Secondo lui devono esservi tante sostanze ele- mentari quante specie vi hanno di corpi che pos- sono distinguersi per le loro proprietà sensibili : il ferro, V oro, la carne, 1' osso, il sangue, ecc., e in una parola tutti i corpi che Aristotile chiama omeomeri (1), cioè tali che la natura delle parti in cui possono dividersi è identica a quella del tutto, sono per lui delle sostanze tutte primordiali ed eterne, che nou possono provenire da altre so- stanze né cangiarsi in altre sostanze (2). Di più sic- come ciascuna delle specie di sostanze che noi pos- siamo distinguere contiene in se stessa delle diffe- renze individuali, Anassagora ammette che vi ha un numero infinito di elementi (di germi), di cui nessuno è esattamente simile ad un altro (3), ma che tutti differiscono sia per la forma, sia pel co- lore, sia pel gusto, sia per qualsivoglia altra pro- prietà sensibile (4). Questi elementi, ora congiun- gendosi ora separandosi, producono tutti i cangia- menti che noi osserviamo nelle cose, ma ciascuno si conserva sempre identico a se stesso. Se delle sostanze differenti sembrano procedere le une dalle altre, è questa un'illusione, la quale si spiega per il fatto che nessuna sostanza è pura, ma ciascuna (1) Donde il nome di omeomerie con cui vengono designati 1 prln- clpll materiali di Anassagora (V. Zeller pag. 877-879). (2) Arlst. De gen. et corr* 1.1. I. 2-9; De Coeto 1. HI. 3, Met. l.I. III. 8; Lucrezio I. v. 8110 e sqq ; ecc. (3) Fr. 4 Mullach, Arlst. Phys 1. I. TV, 1-3, 1. III. IV. 4, Geiu et corr, 1. I. I. 3, De Coelo 1. in. IV. 1-4, Met, 1. I. III. 8, VII. 2. (4) Fr, 3 M. XV è mescolata a particole di tutte le altre sostanze (1). Così l'assimilazione degli alimenti nella nutrizione non avviene perchè questi si trasformano in ossa, in sangue, in carne, ecc.: queste sostanze esistevano già preformate negli alimenti stessi (2); esse non fanno che separarsi dalle altre sostanze con cui erano mescolate, e riunirsi alle sostanze omologhe del corpo dell' animale (3) Anassagora non nega meno energicamente di Empedocle che qualche cosa possa cominciare ad esistere o finire di esistere. « Quando gli Elleni, egli dice, parlano di nascere e di morire, essi fanno uso di termini di cui non dovrebbero servirsi. In realtà niente nasce e nien- te muore, ma delle cose già esistenti si riunisco- no, e poi si separano. A parlar propriamente, bisognerebbe dunque chiamare il cominciamento delle cose una composizione, e la fine una disgre- gazione » (4). Ciò che è stato detto della inalterabi- lità degli elementi di Empedocle si applica pure agli elementi di Anassagora; e a più forte ragione, poiché a ogni minima differenza qualitativa corri- spondendo per quest'ultimo una sostanza elementare differente, il minimo cangiamento di qualità equi- varrebbe per lui a un cangiamento di essenza. Gli antichi, a cominciare da Aristotile, fanno derivare la dottrina delle omeomerie dal principio che l'es- (1) Fr. 3, 5, 6, 13, 16; Arist Phys, l. I. IV. 3, 1. III. IV. 5. (2) Placita 1.1.111.8-10. (3) Confr. e. 2. pag. 90 n. 2. (4) Fr. 17 M. v i XYI sere non può venire dal non essere né ridursi al non essere (1). Il problema delPorigine del movimento e quella dell' origine della coscienza sono risoluti da Anas- sagora, ammettendo che tra le altre sostanze eterne ed immutabili ve ne sia una che abbia la proprietà di pensare e di sentire, cioè la Mente, il Nous. Il concetto dell'inerzia della materia è espresso in lui della maniera più energica, poiché egli ammette che all'origine il tutto era in un'immobilità assoluta, e che il movimento non cominciò che per l'azione del Nous sulla materia (2). Il Nous (ch'egli conce- pisce come esteso nello spazio, e costituito, come tutte le omeomerie, di parti omogenee fra di loro e col tutto) è partecipato dai diversi esseri animati, in maggiore o minor quantità, ma da per tutto iden- tico nella qualità (3), e produce in essi la sensazione e il pensiero (4). Il Nous non cessa mai di agire nella maniera che gli è propria : il corpo dorme, ma l'anima veglia sempre (5). §. 3. Il principio che l'essere non può cominciare ne finire (6) condusse Leucippo e Democrito a un'ia- (1) ArifiUPhi/s l.I.VI.2.3, Met, 1. III. V.3, Placita 1. e, l.I. lU.H-lO. (2) Fr. 6-7 Mullach; Arlst. Fhys l.VIII. 1 2. (3) Fr. 5-6 M. Arlst. De art, 1. I. II. 5. (I) Aristotile {De an, l.I. II. 1. e. cfr. 1. 1. II. 13) dice che Anassagora non fa differenza fra II nous e l'anima, perchè, mentre per lo stesso Aristotile alla sostanza nous non appartiene che la funzione superiore dell'anima, cioè V Intelligenza, essa Invece per Anassagora è anche 11 principio delle funzioni inferiori. (5) Placita l.V. XXV. 3. (6) V. Diog. IX. 44, Alex. ad. MeU IV. 5, Stab, Ed. I. 414, Plu- t.^rco adv* Col* 8. 4-.5. XYII « terpretazione dei fenomeni fisici, in cui l'inaltera- bilità assoluta della sostanza derivava dal concetto stesso della materia. Concepita infatti la materia, come destituita di qualità sensibili e perfettamente solida (cioè di una densità e durezza assoluta)^ non' è possibile d'immaginare in essa altro cangia- mento che nella posizione reciproca delle sue partii e noi abbiamo così le condizioni generali di una fisica costruita sullo stesso tipo che quelle di Em- pedocle e di Anassagora. Ciò che caratterizza in primo luogo il sistema degli atomisti è la dottrina della subbiettività del colore e dello altre qualità sensibili (le qualità se-- condarie dei moderni). Democrito prova questa dot- trina per la relatività della percezione sensibile (1); ma essa può direttamente dedursi dal principio, che è la presupposizione dei fisici meccanisti, della, immutabilità qualitativa della sostanza. Se in ef- fetto queste qualità dei corpi fossero reali, esse sarebbero invariabili ; ma ciò è contrario all' e— sperienza. Noi vediamo infatti che una cosa, con- servando la sua identità materiale, può nondimeno cangiare di colore (2), e dei corpi, composti di ele- menti eterogenei, presentano all'occhio una massa perfettamente omogenea, ciò che non avverrebbe,, se ciascuno di questi elementi diversi avesse il suo colore proprio ed invariabile (3). Anassagora ed Empedocle, dotando ciascuno dei loro elementi di (1) Teofrasto De sensn ecc. 63-64. (2) V. Arlst. Generai, et corr, 1. I. II. 9. (3 ) V. Lucret 1. v. 777-781. XYIII proprietà sensibili determinato, si trovavano ad x)gni momento in contraddizione con la testimo- nianza dei sensi: di là la loro diffidenza verso la per- cezione sensibile (1); di là ancora dello proposizioni paradossastiche come quella di Anassagora, cosi celebre presso gli antichi, che la neve è oscura v{poichò l'acqua di cui è formata è oscura) (2). L'ipotesi della solidità assoluta della materia nei suoi elementi ultimi, insieme all'ipotesi del vuoto, sono destinate a conciliare col principio dell'immu- iabilità della sostanza i fenomeni del cangiamento nella densità dei corpi, e sov^ratutto nel loro stato fisico (cioè il cangiamento da solido in liquido, da liquido in gazoso, e viceversa). È il secondo di questi fenomeni che è particolarmente in contraddizione col principio della immutabilità della sostanza — il qual principio non è, come abbiamo detto, che una suggestione delle nostre esperienze più familiari. — Il cangiamento nello stato fisico dei corpi è un fe- nomeno relativamente straordinario ; il fenomeno ordinario, familiare, è la persistenza in quello stato in cui si trovano. Così Leucippo e Democrito am- mettono la solidità come lo stato invariabile della materia in se stessa, e il vuoto interposto tra le particole solide come la causa della diminuzione di •densità che accompagna la trasformazione dei corpi solidi in liquidi e di questi in gazosi. (3) Ma am- (1) V. Emped. v. 57 MuUach, Sesto Math. VII. 90. (2) Sesto Pyrrh. 1. 33, Cicer Acad, II. 23,31, Galeuo De siinplic, medicamente II. 1, ecc. (3) I fisici anteriori aveano già ricondotto il cangiamento di stato -fisico alla rarefazione e condensazione. XIX messa una volta la solidità, come carattere comune di tutti gli elementi della materia, e il vuoto, si trovava più coerente di attribuire a questi elementi, non un certo grado di densità, ma una densità asso- iuta (cioè di concepirli come resistenti a qualsiasi compressione), e di spiegare per il vuoto tutte le differenze di densità che si osservano nei corpi, tanto più che il cangiamento di densità della ma- teria è al postutto un fenomeno meno familiare, e quindi meno intelligibile, che la sua persistenza nello stesso grado di densità (1). Alla densità assoluta degli elementi si aggiunge la durezza assoluta, cioè la resistenza a qualsiasi sforzo tendente a cangiarne la figura ; e ciò sia perchè la durezza sembra legata alla densità (2), (1) Arisi. (Phys. 1. IV^.VI 4,6) espone gli argomenti degli Ato- misti per provare il vuoto, 1 quali si riducono In sostanza a questi tre : 1" il movimento non sarebbe possibile senza il vuoto, per- chè uno spazio pieno non potrebbe dar posto al corpo che si muove. 2" la compressione, la condensazione dei corpi, per cui uno stesso corpo può occupare uno spazio minore di prima, suppone il vuoto. 3" un corpo può introdursi nello spazio occupato da un altro cor- po, in modo che i due corpi insieme occupino lo stesso spazio cne prima era occupato da un solo di essi. Di questi argomenti il 2. corrisponde al motivo che noi abbiamo assegnato all'origine della dottrina : gli altri due per essere probanti devono presupporre l'im- possibilità che una materia continua occupi uno spazio ora maggiore e ora minore, dilatandosi e condensandosi, vale a dire prendere come concesso ciò che era appunto in qulstlone tra i partigiani della con- tinuità della materia e quelli del vuoto. Il primo argomento deve presupporre anche che tutta la materia sia solida, ipotesi la quale alla sua volta presuppone il vuoto. Sicché noi dobbiamo ammettere, come vero scopo della dottrina, quello di spiegare la rarefazione e la condensazione. (2) V, Teofrasto De sensa 62. XX sia per una ragione di coerenza nella spiegazione dei fenomeni. Infatti la facilità a cangiare di figura dei corpi non solidi spiegandosi per la mobilità de- gli elementi solidi separati che li costituiscono, il cangiamento di figura di un corpo solido (p. e. di di un corpo elastico) deve spiegarsi pure, se si Tuol essere coerenti, per il moAÙmento di particole divise e separate fra di loro, e quindi i corpuscoli solidi, le particole ultime in cui la materia è divisa, ciascuna delle quali è necessariamente continua ed indiA^isa {indivisa^ non indivisibile, perchè non ab- biamo ancora dedotto il concetto dell'atomo) non possono concepirsi come suscettibili di un cangia- mento di figura. Un'altra conseguenza che Leucippo e Democrito tirano dal principio dell'immutabilità della sostanza è il rigetto della dottrina deirunità delhi materia, della convertibilità reciproca di tutte le sostanze ammessa dai più antichi fisici. Questa dottrina, come lo prova il fatto ch'essa fu universalmente abbracciata dai primi fisici, e che essa prevalse in ogni tempo nella filosofia greca, era l' inter- pretazione più ovvia dei dati dell'osservazione, la quale mostrava che le sostanze più marcatamente differenti (i quattro elementi degli antichi) erano convertibili T una nell'altra: ma la dottrina am- messa invece da Leucippo e Democrito, d'una plu- ralità di sostanze primordiali, di cui ciascuna con- serva eternamente la sua propria natura e le pro- prietà particolari che la distinguono, era più confor- me al principio a priori che gli esseri non possono né nascere nb perire. XXI Ora una materia di una solidità assoluta (cioè di una densità e di una durezza assolute), in tutte le sue parti, e destituita di colore e di tutte le altre proprietà che non siano tangibili, è una materia assolutamente omogenea: tra le sue parti non po- trebbero concepirsi altre differenze che di figura o di grandezza. Così è per la figura e per la gran- dezza che secondo Leucippo e Democrito gli ele- menti materiali si distinguono fra di loro (1). Si potrebbe forse supporre ch'essi avrebbero potuto distinguere gli elementi di diversa natura per delle energie o attività differenti: ma anzitutto per Leu- cippo e Democrito, come per gli altri fisici mecca- nisti, la materia è, come diremo, inerte, non è attiva; e poi non si comprenderebbe come un sustrato per- fettamente omogeneo in tutte le parti potesse mani- festare nelle sue parti distinte delle attività insite differenti. Così, le sostanze differenti distinguendosi per la grandezza e la figura degli elementi costi- tutivi j la inalterabilità di queste sostanze, la in- convertibilità delle une nelle altre, suppone che gli elementi costitutivi conservino sempre la stessa grandezza e la stessa figura, cioè ch'essi siano in- divisibili (2). Allora il concetto àeWaiomo si trova costituito. Il concetto dell'inerzia della materia a Leucippo e Democrito risultava d'una maniera più necessa- (1) Arist. Met 1. 1.IV.8; Gen, et corr. 1.1. II. 4-9; Vili. 8, 12, 16, De Coelo 1. I-VIM8, 1. III.IV.5,8, P%«. 1. I.II.l, 1. III.IV.4.6 ecc. (2) Cfr. Arlst. De Coelo 1. lU. VII, 10. 'I XXII ria ancora che ad Anassagora e ad Empedocle; poiché la materia allo stato solido sembra manife- starci la sua inerzia d'una maniera più evidente che ad un altro stato fisico. Ma gli atomisti inten- dono mantenersi in un terreno rigorosamente na- turalista, e non ricorrono a delle ipotesi trascen- denti per ispiegare 1' origine del movimento : essi ammettono perciò che il movimento non ha origine^ che non vi ha movimento che sia spontaneo, e che il movimento dei corpi è sempre prodotto dall'urto di altri corpi (1). Come essi si rappresentano la materia universale sul tipo dei corpi solidi, così essi elevano a tipo univ^ersale del modo di produzione del movimento l'azione meccanica che noi osser- viamo tra i corpi solidi (2). (1) Arist. De Gen, et corr, 1. I. VITI, 5, Plac, 1. I, 23, 26, Stob. Ed. I, 348, 394; Slmpl. De Coelo 260 b; Alex, ad Met. I. 4, Clc. De fato 20. (2) Noi nou possiamo ammettere con Zeller, Lange ad altri espo- sitori che Leuclppo e Democrito abbiano spiegato l'origine del mo- vimento attribuendo agli atomi 11 peso alla maniera di Epicuro, cioè una tendenza naturale al movimento verso 11 basso. Ciò è esplicita- mente contraddetto da molti autori antichi, quali Alessandro, Ps. Plu- tarco, Stobeo, Cicerone nel luoghi citati nelPultima nota, che mettono In opposizione sotto questo rapporto la dottrina di Democrito e quella di Epicuro, e queste testimonianze sono tanto più attendibili, che vi era più motivo d'Ingannarsi, confondendo a torto le due dottrine an- ziché distinguendole a torto. Inoltre questa interpretazione è Impli- citamente contraddetta dallo stesso Aristotile, il quale dice che Leu- cippo e Democrito non hanno cercato la causa del movimento (Met, 1,1. IV, 8; 1. XI, VI, 7), e non hanno accordato agli atomi alcun mo- vimento naturale {De Coelo 1. IH. II, 3). Se malgrado ciò 11 Zeller attribuisce agli antichi atomisti la dottrina degli atomisti posteriori, è perchè egli assegna, come scopo precipuo, alla fisica meccanista quello di spiegare 11 divenire, e perciò ritiene che una causa prima del movimento sia un elemento essenziale di una tale fisica. Ma l'og- getto principale del meccanisti, come degli altri fisici, era la ricerca della essenza Immutabile delle cose, noi dobbiamo perciò considerare^ XXIil ^ In quanto al problema dell'origine della coscienza,. si crederà forse che gli atomisti l'hanno abbando- nato come affatto insolubile secondo i loro princi- pii; o almeno che essi non hanno potuto, in ognt caso, darne una soluzione che si avvicinasse a quella, della dottrina animista. Tuttavia questo che sembra naturale e necessario al punto di vista del mate- rialismo moderno, non era tale al punto di vista del materialismo antico: gli atomisti, come quasi tutti gli altri materialisti antichi, accettavano la di- stinzione comune tra anima e corpo (quantunque, conformemente per altro alle concezioni dell'animi- smo primitivo, l'anima fosse per loro anch'essa materiale). Così bastava di dare all'anima un sustrato materiale specificamente distinto da quello delle altre sostanze — ciò che era assai conforme ai principii della fìsica nfeccanista — ^ev avvicinarsi al punto di del dualismo spiritualista. Noi abbiamo visto che la distinzione del Nous dalle sostanze materiali come essenziale alla loro fisica la dottrini dell'inerzia della materia,, ma non quella di una causa prima del movimento. Dall'altra parte, noi non possiamo nemmeno, a difetto di testi-- monlanze precise, affermare col Lewes che Democrito abbia spiegato il peso stesso per l'Impulsione (quantunque Aristotile, i)^ Coelo 1. I. Vni. 14, sembri alludere a questa dottrina, la quale potrebbe con- venire agli atomisti meglio che a qualsiasi altro degli antichi filosofi). Sembra più verisimile che Leuclppo e Democrito, con tutti gli altri fisici, considerassero la caduta del gravi (cioè del corpi aventi un certo grado di densità, perché pare che gli antichi atomisti attrlbuls- «ero al corpi meno densi, non una tendenza a cadere, ma una tendenza a portai-sl In alto- v. Aristotile De Coelo 1. IV. II) come un fatto abba- stanza naturale ed Intelligibile, in ragione della sua familiarità, del quale non occorreva di dare una splegazioue. r -7-^ i XXIY era anzitutto in Assagora una conseguenza della dottrina delle omeornerie. Democrito non distingue l'anima da tutte le sostanze corporee; egli la iden- tifica ad una sostanza particolare, il calore, in modo •che il calore e l'anima sembrano per lui due concetti assolutamente coestensivi, due termini perfetta- mente sinonimi, il calore essendo per se stesso anima, come l'anima calore (1). Cosi egli sembra fare della coscienza un attributo inseparabilmente congiunto al calore, e perciò diffonde l'anima in tutto r universo (2), dal quale gli esseri animati l' assorbono, assorbendo il calore. Questa dottrina di Democrito, data la sua spiegazione perfettamente naturalista del mondo, non si comprende che come uno sforzo por rendere conto dell'origine della co- scienza, conformemente al principio della fisica jneccanista che l'essere non può nò miscere nò pe- xire (3). §. 4. Potrebbe sembrare che la concezione mec- «canista essendo, come abbiamo notato, l'applicazione più chiara e più coerente del principio comune dei fisici che l'essere nou può venire dal non essere nò Tidursi al non essere, noi dòA^remmo trovare questa 'Concezione al punto di partenza della fisica greca, e non quella che vi troviamo in effetto, di una so- ft) Arist. De An. 1.I.II.3, De respirata e. 4. (2) V. oltre I 1. citati neirultima nota, Plut. Plac, l. IV. IV. 4, 1, I. \TI. 13, Stob. Ed, I. 56. Clilllo cantra Jnlianum I. 4, Clc. Nat. J)eor. I. XLIU. 120, ecc. (3) E a questa dottrina «^ulFanlma degli antichi atomisti che si riat- l'Indicazione del Ps. Plut. (Plac. V. 254) che, secondo Lenclppo, la morte convlena al corpo, non all'anima. XXY stanza primordiale unica, e della convertibilità re- ciproca di tutti i corpi (1). Ma noi abbiamo osservato che una fisica medoanista si trova necessariamente in contraddizione con la testimonianza dei sensi, e che, nella sua forma più sviluppata, questa fisica arriva a un sistema che nega la realtà dei dati immediati della percezione sensibile. Inoltre una pluralità di sostanze primordiali inconvertibili l'una nell'altra ò un'idea contraria alle prime apparenze. (1) Si potrebbe tuttavia ammettere col Kitter che la fìsica mecca" nista abbia avuto anche tra 1 più antichi fisici il suo rappresentante, cioè Anassimandro. E ciò che sembra risultare da due testi di A risto- tlìe in cui la dottrini d'Anassimandro è assimilata a quella del fisici meccanisti. Nell'uno di questi testi (Phys 1. I.IV. 1) Aristotile divide 1 fisici In due categorie, di cui gli uni ammettono una sostanza primordiale unica facendone derivare le altre cose per via di condensa- e di rarefazione, e gli altri fanno separare le contrarietà conte- nute nell'uno, cioè nell'indistinto primitivo, ed è in questa seconda ca- tegoria ch'egli comprende Anassimandro. Insieme ad Empedocle e ad Anassagora. Nell'altro testo ( Met. l.XI. II. 3) attribuisce ad Anassi- mandro, al tempo stesso che ad Empedocle e ad Anassagora, l'Idea di una mescolanza primitiva, e assimila la sua dottrina a quella dello stesso Anassagora e di Democrito di uno stato originarlo del mondo in cui tutte cose erano insieme (cioè In cui tutto il reale preeslsteva allo stato di attualità, e non semplicemente di potenza come nella materia dello stesso Aristotile). Se, seguendo questo indicazioni (a cui si potrebbe aggiungere quella di Teofrasto np, Simpl, in PUijs. fot. 6 b, che assimila la dottrina di Anassagora sugli elementi mate- riali a quella di Anisslmandro, per non parlare di Simplicio stesso in Fht/s fol. 6 a, ^ b, 51 b, e di altri testimoni posteriori), si fa di Anassimandro un meccanista, bisognerebbe attribuirgli una fisica analoga a quella che Parmenide espone nelta 2** parte del suo poema, cloò la dottrina di due elementi, l'uno caldo (e al tempo stesso tenne, luminoso, mobile), l'altro freddo (e al tempo stesso denso, oscuro, Inerte). E ciò che risulterebbe combinando l'indicazioue di Aristotile di una separazione delle contrarietà), con un'altra indicazione di Plutarco (ap. Eus. Praep, evang. I. 8, che dice che alla formazione y f, V XXVI alle inferenze risultanti dalle osservazioni più ovvie: queste mostravano che le forme più marcatamente differenti della materia, cioè i 4re stati fisici dei corpi, a cui si aggiungeva il fuoco come una quarta forma non meno spiccatamente distinta, potevano procedere le une dalle altre; se ne concludeva che le forme meno differenti erano anch'esse converti- bili, e che vi era una materia unica che poteva del mondo avvenne una separazione del germe, YÓVIULOV, del caldo e del freddo!, e un' altra di Stobeo [Ed, I. 500, secondo cui il cielo ò formato dalla mescolanza del caldo e del freddo). Una tale Interpre- tazione spiegherebbe anche 11 fatto altrimenti difficile a compren- dere, che Parmenede dà questa dottrina, che egli non ammette, come degli nomini. Ma questa Interpretazione, e in generale qualsiasi interpretazione della fisica di Anass!raandro, ha contro di so le testimo- nianze della più parte degli autori posteriori, 1 quali gli attribui- scono invece la dottrina di una sostanza primordiale unica diversa dai quattro elementi. Sicché noi non possiamo niente affermare di sulla vera dottrina di Anassimandro, tanto più che queste te- stimonianze, quand'anche dovessimo seguirle, non c'insegnano niente sullo spirito della fisica di Anassimandro, poiché esse non c'indicano per qual processo, secondo questo filosofo, 11 multiplo sarebbe uscito dall'uno (l'indicazione che le diverse sostanze derivano dalla costanza, per rarefazione e condensazione essendo esplicitamente contradetta da Aristotile). L'interpretazione del Zeller secondo cui Anassimandro si sarebbe contentato dell' idea vaga che la sostanza omogenea primitiva si divise in una moltipllcltà di sostanze diffe- renti, oltre che fa discendere a un livello troppo basso II valore fi- losofico di Anassimandro, è obbligata a torturare 1 testi indicati di Aristotile, e non rende conto dell'Incontestabile analogia che, secondo questi testi, deve ammettersi tra la fisica di Anassimandro e quella meccanisti, SI potrebbe forse Immaginare un'interpretazione che mettesse di accordo le indicazioni che assimilano Anassimandro ai fisici mecca- nisti con quelle secondo cui egli avrebbe ammesso una sostanza unica indeterminata (v. Diog. Laert. II. I. Plac, 1. 3., e principalmente Teo- frasto 1. c.^ che sembra attribuirgli la dottrina di una sostanza in- XXVII prendere tutte le forme. Ma ammettendo l'unità della materia e la convertibilità reciproca di tutte le sostanze immediamente date dall' osservazione, 1 primi fisici non rinunziavano perciò al princi- pio, considerato come evidente perse stesso, che l'essere non può nascere nò perire, e, quindi, che delle cose aventi una natura determinata non possono cangiarsi in altre cose di una natura dif- ferente. Quando essi dicono che tutto è aria o fuoco o acqua, il loro pensiero non è semplicemente che vi ha una materia unica, e che perciò la sostanza che costituisce le cose diverse dall'aria o dal fuoco o dall'acqua, nell'eterna circolazione dei suoi stati ha già attraversato quello di aria o di fuoco o di acqua. definita secondo la specie e secondo la grandezza) : si potrebbe, cioè, l'idea di Telesio della materia indeterminata, e del caldo e del freddo, concepiti come due entità sussistenti per se stesse, che dividono il dominio di questa materia. Infatti Aristotile (Pliys. 1. III. V. 10) parla dell'opinione secondo la quale Vinftnito non può alcuna delle proprietà contrarie per cui 1 differenti corpi si distinguono fra di loro, perchè una sostanza infinita avente certe proprietà determinate renderebbe impossibile l'esistenza di altre so- stanze aventi delle proprietà opposte. Se riferiamo quest'indicazione Anassimandro, come fanno i commentatori d'Aristotile, sembre- rebbe risultarne che l'infinito di Anassimandro (supposto ch'egli ab- ammesso un principio materiale unico) resta nei suo stato d'in- determinazione, anche dopo che le sostanze particolari ne sono state formate. La materia di Anassimandro sarebbe dunque, per usare una espressione di Rosmini, un' indeterminato reale, o, in altri termini un'astrazione realizzata (e in effetto Aristotile, De gen, et corr. l.II. I. 3, 5, per dlstln'.?uere questa materia senza alcuna delle proprietà contrarle dalla materia qual essa è nella sua propria dottrina, dice che la seconda non è separabile come la prima, assegnando cosi tra le due dottrine lo stesso carattere differenziale per cui egli suole di- stinguere 1 suoi propri concetti da quelli di Platone). Ora la realiz- zazione dell' astratto materia supporrebbe necessariamente la reallz- XXYIII Ciò che permane nelle trasformazioni continue della materia non è soltanto, per essi, il sustrato comune indeterminato delle div^erse sostanze materiali : in questo caso, non si avrebbe ragione di elevare una qualunque delle forme che prende alternativamente la materia a base ed elemento di tutte le altre ; non sarebbe, in ultima analisi, vera differenza tra le varie oi3Ìnioni dei fisici unizzanti: ben più tra queste e quella di Aristotile non vi sarebbe al- cuna opposizione reale, e la polemica di questo fi- losofo contro i fisici che, come lui, ammettevano l'unità della materia, si ridurrebbe a una semplice logomachia. Noi non dobbiamo dunque interpretare dottrina dei fisici unizzanti semplicemente nel senso che, al punto di partenza e al punto di arrivo della evoluzione del mondo, tutto ///, e nuovamente sarà^ aria o fuoco o acqua: noi dobì)iamo intendere invece che tutto attualmente è aria o fuoco o acqua,zazlone di aUrl astratti, cioè delle forme che differenziano la mate- ria; e noi dovremmo quindi comprendere le contrarietà della cui separazione (j[uistione nel luogo indicato della Fisica, nel senso più rigoroso della parola contrarietà, che indica, non le cose aventi le proprietà contrarie, ma le stesse proprietà contrarie. Queste cantra» rietà si ridurrebbero, per Anassimando, alla contrarietà fondamentale del caldo e del freddo, che Anassimandro avrebbe trattato come de- gli esseri reali [separabili, per usare l'espressione abituale di Ari- stotile), rappresentandoseli come Ingenerablli e imperlblll. e sempre gli stessi e nella stessa quantità, e determinanti per il semplice pas- saggio da un luogo ad un altro tatti i cangiamenti del mondo mate- riale. Di là la proposizione, attribuitagli da Diogene Laert. (II. 1), che l'universo cangia continuamente nelle sue parti, ma 11 tutto resta immutabile. Sarebbe senza profitto per il nostro argomento svilup- pare più lat*gamente un' ipotesi dalla quale, non potendo venii'e ap- poggiata su dati storici precisi, non si potrebbe tirare alcuna conse- guenza. XXIX che la sostanza primitiva, di cui tutte le cose sono state fatte, persiste ancora, al di sotto delle sue nuove parvenze, nelle cose derivate. Questo mondo dice Eraclito (1), è stato, è e sarà sempre un fuoco immortale; egli non dice soltanto: questo mondo è stato fuoco, e tornerà ad essere fuoco. Similmente Diogene d'Apollonia non dice semplicemente che tutto viene dallo stesso (l'aria) e si risolve nello stesso, ma ancora che tutto è lo stesso (2). E i testi- moni più autorevoli, come Aristotile, attribuiscono a tutti i fisici che ammettono un principio materiale unico la dottrina che una sostanza determinata (Taria o il fuoco o l'acqua, ecc.) è la materia universale (3), la sostanza (4) o la natura (5) di tutte le cose, il sustrato di tutti i fenomeni (6), Tessere unico che (1) Fr. 27. Mullach. (2) Fr» 2 Mullach: la prova che tutto è lo stesso è che altrimenti le cose non potrebbero venire l'una dall'altra (cti*. Fr, (i) né mesco- larsi né agire l'una sull'altra (secondo il principio che solo il simile può agire'snl simile). (3) Met 1. IV IV 5i, Gen. et corr, 1. II I 2. 1. II III 4, Met, LI Vili 1, De Coelo 1. Ili V 10, Phys. 1. I IV 1, (ien, et corr. 1. II V 1. (4) Arist. Met. 1. 1-III.2-4: Plurimi eorum qui primo i)hilosophati sunt. solas illas causas existimarunt esse principia . quae in mate- riae specie sunt. Ex quo enim omnia ontia sunt. et ex quo primo fìunt. et ad quod ultimum corrumpuntur, snbstantia qui^Iem perma- nente, mutata vero passionibus, hoc elementum et hoc omnium en- tium esse principium aiunt : et ob lioc nihil Aeri neque corrumpi opinantur, tanquam liuiuscemodi natura semper conservata Oportet enim aliquam naturaci aut unam aut plurcs esse, e quibus caetera tiunt, illa conservata. Pluralitatem tamen et speciem huius principii non eandem omnes dicunt, sed Tliales aquam ait esse- etc. v. a. Met. 1. I. IV.S, Phif8. ecc. (5. J^J^ 1. I III 3, 1. IV IV 3 Phys, 1. II. 1. 7-9, 1. I VI 4. «i) Vet. 1. I III 2-3, 1. 1 IV H, Phys. 1. II 1 9. XXX è al fondo di tutti gli esseri ( l ). Questi fisici pensano adunque che l'elemento primitivo di cui tutte le cose sono fatte, si mantiene identico a se stesso, attraverso tutti i mutamenti del mondo mate- riale; che gli esseri derivati passano, ma la sostanza primordiale resta, ed è incorruttibile ed eterna (2); e che perciò, a parlar propriamente, niente nasce e niente perisce (3), il fuoco o l'acqua o l'aria che costituisce l'essenza di tutte le cose, non cessando mai di essere quello che è. Di là sembrerebbe seguirne che di tutti gli stati (1) Met. 1. I. V 9, 1. II. IV 23, 1. IX II 1, Gen, et corr. 1. 1. 1. 2. (2) Diog. Fr, 7. « Atqne hoc ip»ani est corpus aeternum et immor tale: caetera partirà fiunt, partim defìciunt* Arist. De Coelo 1. 111.1,3: « Quidam autem, caetera quidem omnia fieri, fluireque dicunt, ac ni- hil prorsus stabile esse; unum autem quid solum permanere, ex quo haec universa transfigurari sint apta: quod quidem et alii complu- res et Heraclitus Ephesins dicero velie videntur. » Arist. Met, 1. I. Ili 2 4, 1. e. Arist. Met. 1 IV IV 3: Item natura dicitur, ex quo primo inordinato oxsistente et immobile ex sua potentia est aut fit aliquid eorum quae natura sunt, ut statuae vasorumque aeneorum aes natura dicitur, ligneorum vero lignum: similiter autem et de ceteris. Ex hi» enim unumquodque est, prima materia salva. Hoc enim modo etiam eorum quae natura sunt dementa dicunt esse naturami quidam ignem, quidam terram, quidam aerem, quidam aquam, quidam aliud tale dicentes, et quidam aliqua horum, qui- dam vero hacc omnia». Arist Fhi/s, 1. II. 1.7-10: « Jam vero quibus ■dam videtur natura et essentia eorum quae natura Constant, esse id quod primum cuique rei inest, informe per se: ut lectirae natura est lignum, statuae vero aes. . . . Idcirco alii terram, alii ignem, alii aèrem, alii aquam, alii nonnulla ex his, alii haec homnia, inquiunt esse rerum naturam. Quod enim quisque existimavit esse tale, sive unum sive multa, hoc et tot inquiunt esse universam essentiam, reliqua autem omnia esse horum affectiones et habitus et dispositiones. Et horum quidem quodvis esse sempiternum (non enim esse ipsis mu- .tationem ex se ipsis); cetera vero fieri et interire infinities «. (3) Met 1. I.IU.3.10. Pys 1. I.VIII, Gen. et, corr. LI. 1,2S. XXXI che noi vediamo attraversare successivamente alla materia, secondo questi fisici, uno solo è reale, e gli altri non sono che apparenti; che le sostanze materiali non sono da noi percepite secondo la loro realtà, all'infuori dell'elemento primitivo; che quan- do p. e. Paria di Anassimene si è cangiata in acqua o in terra, è a noi che pare acqua o terra, mentre in realtà non vi ha ancora che l' aria primitiva. Tale è il senso in cui Lucrezio comprende queste dottrine; così egli dice contro Eraclito (1): Bicere porro ignem res omneis esse, neqne nllam Rem veram in numero rerum constare., nisi ignem, Quod facit Ilice' idem, perdelirum esse videtur. Nani contra sensus ah sensibus ipse repugnat, Et labefactai eos, unde omnia eredita pendent; linde ìiic cognitus est ipsi, quem nominai ignem. Credit enim sensus ignem cognoscere vere; Caetera non credit, quae nilo darà minus sunt. Ma in verità nò Eraclito ne gli altri fisici uniz- zanti pensavano ridurre a semplici apparenze il- lusorie le forme in cui l'elemento primitivo si tra- smutava, quantunque sia questo il risultato a cui essi sarebbero stati condotti se avessero sviluppato rigorosamente le conseguenze contenute nelle loro af- fermazioni. Dal principio a priori (a priori in quanto era non una conclusione, ma un'anticipazione dell'e- (1) I. sperienza) che l'essere non può nascere né perire, e che una cosa perciò non può cangiarsi in un'altra di una natura differente, essi concludevano che il fuoco o l'aria primitiva non poteva cessare di essere lo stesso fuoco o la stessa aria; Tesperienza (quale essi l'interpretavano) mostrava, al contrario, che l'ele- mento primitivo si trasformava in altre sostanze di cui tutte le proprietà erano essenzialmente dif- ferenti dalle sue: essi non sacrificavano il fatto al principio, ma nemmeno il principio al fatto; e ciò che vi ha di caratteristico nelle loro vaghe e oscure concezioni è la coesistenza nel loro spirito di que- ste due idee incompatibili, la forza con cui l'una e Taltra s'imponevano non permettendo loro di ri- nunziare all'una o airaltra, ne di vedere che vi era tra di esse una contraddizione insolubile (1). L'idea che nelle trasformazioni della materia la sostanza si conservava nondimeno identica a se stessa, doveva condurre i fisici unizzanti a una ma- niera di vedere analoga a quella dei fisici ineccU" nisti, che non ammettevano altro cangiamento nelle cose che nei rapporti di spazio. Essi credevano che ffli stati differenti della sostanza unica erano do- vuti ai gradi differenti della sua condensazione (2), (1) Naturalmente Aristotile non ha mancato di notare 11 carattere eontradittoi-lo della dottrina di questi fisici V. De Gen. et cor rA, 11, V. 1-2. (2) Per Anasslmene: Plut. ap. Eus. Praep. Erano- I. S, Plut./>e^ Prim. Frig, e. 7; Slmplic. /// Phijs, fol. 32. Ippol. Rcf, haeres., 1,7. (Orljjenls Phllosophoumena). Per DIo2:ene d'Apollonia: Dio^. Laert. IX» 57. Per Eracl.: DIog. Laert. IX. H e sejrg. . Plut. P/rtrr//« 1.3, 2.5-26, Slmpl. /// PhiiS^ a, :nO a. Per tutti: Arlst. Met, 1. I. IV. H, P////.S-, 1. I. e siccome la condensazione e la rarefazione non sono che un avvicinamento e un allontanamento dello particole fra di loro, il movimento della materia spiegava secondo essi tutti i cangiamenti che si os- servano nella natura (1). Così è alla congiunzione e alla disgiunzione delle parti della sostanza ele- mentare che essi riconducono, come i fisici mecca- nisti, tutti i mutamenti apparenti di sostanza (2) IV, 1, 1. I. VI. 6, De Gen, et corr, 1. II. III. 4, Gal. in Hippocr. De nat. hoiii, I. 2, ecc. Avvertiamo che per la esatta comprensione del concetti del fisici unizzanti bisogna tener presente che essi non am- mettevano 11 vuoto, e perciò nemmeno ciò che noi diciamo la costi- tuzione molecolare della materia, cioè la sua divisione In particole ultime separate le une dalle altre e conservanti sempre in se stesse la stessa densità. (1) Ippol. Ref* haeres 1. e; Simpllc. in Phtjs, fol. 6 a (per Anas- slmene); Plirt. ap. Eus. Praep. evang, I, 8 (per Diog. d'Apoll.); per tutti: Arist. De gen. et corr, 1. II. IX, 7, Phgs, 1. Vili. IX. 3. (2) Arlst. De Coelo 1. III. V. 5: quelli che ammettono 11 fuoco co- me corpo primitivo, e lo distinguono per la tenuità delle particole (cioè Eraclito e 1 fisici che professano una dottrina analoga, in op- posizione al platonici che lo distinguono per la figura), da esso com- postosi (èx TOÓTOD O'JVTlOsaévOD, cioè dalla integrazione, dalla confluenza delle sue particole) dicono prodursi le altre cose come per rammassamento di un pulviscolo (xaGàxsp àv £1 aU[JLCpDaa)[JL£VOl> (}>YlY[JLaTO?) V. anche ibid, 1, Met 1. I. Vili. 3-6, Phgs, 1. Vili. IX. 3, ecc: È questo processo meccanico nella produzione delle sostanze che fa dire a Lucrezio contro Eraclito : (1. Versi ()46-665 Nam cur tam varlae res possent esse, requlro. Ex uno si sunt Igni puroque creatae. Nlhll prodesset enlni calldum denserler Ignem, Nec rarefierl, si partes Igmls eandem Xaturam, quam totus habet super Ignls, haberent. Acrlor ardor enlm conductls partlbus esset: L.anguldlor porro dlsjectis disque supatls. Ampllus hoc fieri nlhll est (piod posse rearls Tallbus In causls; nedum varlantla rerum Tanta queat densls rarlsqne ex Ignibus esse. I xxxrv^ (apparenti perchè, come abbiamo detto, niente nasce al fondo e niente perisce); e Aristotile fa consistere la differenza fra di essi e gli Eleati, i quali negano qualsiasi specie di cangiamento, in ciò che i primi, d'accordo coi secondi per ogni altro cangiamento, non negano però il movimento, il cangiamento nello spazio (1). Le forme e le differenze del multiplo non sono, secondo i fisici unizzanti, che gradi dif- ferenti di densità e di rarità, di concentrazione e di dilatazione della materia universale (2): divenuta più densa o più rara essa pare differente (3); ogni differenza tra le cose non è al fondo che quanti- tativa, riducendosi alla maggiore o minor quantità di materia che occupa uno spazio dato (4). Da que- ste imlicazioni degli antichi testimoni noi possiamo concluderne che, secondo questa scuola di fisici, la rarefazione e la condensazione della sostanza universale non è semplicemente la causa dei suoi eangiamenti di stato e delle differenze qualitative ehe si manifestano in questi stati differenti; ma ancora che questi stati differenti e le qualità dif- ferenti che li caratterizzano non consistono, in se stessi, che nei diversi gradi di densità e di rarità, di concentramento e di diffusione di una sostanza qualitativamente immutabile, o piuttosto 1 cui can- giamenti qualitativi non sono nella loro essenza (1) MeU 1. I. V, 9; cfr. 1. I. UI. 10. (2) Arlst. Phìjs* 1. I. ly. 1. ^ <3) Ippol. 1. e. TWXVOÓJJLSVOV (raria, secondo Anasslmene) yap xot àpato6[j.svov Btàcpopov cpaCvsoOai. (4) De Coelo 1. ni.V. 2. ti <jhe cangiamenti quantitativi e puramente spaziali (1), qualche cosa come una concentrazione e una diffu- sione di certe qualità fondamentali che la sostanza non perde mai. Per quanto tali idee siano oscure, anzi affatto inconcepibili, esse si presentavano na- turalmente al punto di vista dei fisici unizzanti, i quali per conciliare il principio preteso assioma- tico deirimmutabilità della sostanza con le trasmu- tazioni che presenta l'esperienza, non avevano altro mezzo che di ridurre tutti i cangiamenti della na- tura al cangiamento di posizione nello spazio, come poi fecero, con idee più chiare e coerenti, i fisici meecanisti. (1) Ciò che precede è negato recisamente da Zeller, almeno per Eraclito. Non si deve, egli dice, avanzare con alcuni autori (tra i quali egli ha il torto di non comprendere Aristotile: v. De Coelo ]. III. V, 5, 1, e, e 9, in cui estende a quelli che ammettono il fuoco -come elemento, il rimprovero che per i fisici nnizzanti la differenzi! tra le sostanze è soltanto quantitativa e quindi un che di puramente relativo) che, secondo Eraclito, le sostanze secondarie procedono dai fuoco e si risolvono in fuoéo per via di condensazione e di di- latazione. Senza dubbio quando il fuoco si cangia in umidità e l'u- midità in terra, vi ha condensazione, come, nel caso contrario, vi ha dilatazione. Nondimeno, nel pensiero di Eraclito, questa conden- sazione e questa dilatazione non sono la causa, ma la conseguenza del cangiamento di sostanza. In effetto, secondo lui, non è il rav- -vicinamento delle particole del fuoco che fa passare l'elemento igneo hUo stato umido, e l'elemento umido allo stato solido o terroso; ma se un elemento meno denso diviene un elemento più denso, è perchè il fuoco si è ti asformato in umidità, e l'umidità in terra. Così pure perchè il fuoco rinasca dalle altre sostanze, non basta che gli ele- menti primitivi di queste sostanze s'allontanino gli uni dagli altri: bisogna una nuova trasformazione, un cangiamento qualitativo tanto delle parti quanto del tutto. (Certamente un cangiamento qualitativo è necessario, ma esso non ó per Eraclito, come per gì «litri fisici della stessa scuola, che una coìiseguenza, — nel senso lo- §. 5. Il principio dell- unità e immutabilità della, sostanza è sostenuto della maniera più radicale da, il quale spinge questo principio sino alla conseguenza estrema della .identità dei contrari. Eraclito riconduce tutte le differenze dell'essere, costituiscono la moltiplicità e il divenire, alla opposizione per contrarietà. La legge delle cose è, secondo lui^ la loro opposizione mutua: tutte le cose per coppie di contrarli; ogni cangiamento è il passaggio da uno stato al suo stato opposto (1). Tutto nasce dalla discordia, dice Eraclito nel suo linguaggio figurato; la guerra è la madre e la so- vrana di tutte le cose (2); larmonia del tutto è co- gico, non semplicemente un effetto -de\ cangiamento di densità o di posizione reciproca delle parti). La ragione decisiva per cui si deve ammettere questa interpretazione è, secondo Zeller, che ogni altra sarebbe incompatibile con la dottrina fondamentale di Eraclito del flusso di tutte le cose. Una sostanza immutabile non sarebbe compatibile con questa dottrina. Per la stessa ragione, nella <lottrina che tutto è fuoco t^gli non vede che un simbolo della legge del divenire, quantunque Eraclito nella sua propria coscienza non sappia ancora di- stinguere, egli dico, tra l'idea generale e la forma sensibile sotto cui quest'idea è espressa. (la altri termini quantunque Eraclito prenda * questa dottrina nel senso letterale, e non come un semplice simbolo. Molti saranno, come me, incapaci di rappresentarsi un simile processo mentale in un pensatore qualunque: se Eraclito prende in un senso letterale la proposizione che tutto è fuoco, essa può essere un sim- bolo per un altro che filosofa sulla dottrina di Eraclito, ma non per Eraclito stesso. È come quando Hegel dicj che i domini reli- giosi sono dei simboli della sua propria lìlosofta : il ciedente am- mette questi domini come dottrine positive e non come simboli: per Hegel sono simboli, precisamente perchè per lui non sono più ve- li) Diog. Laort. I. X, 7.8, Stab. EcU I. 58, Filone quis divinarum rerum heren hU. p. 509-510, Quaest in Gen. III. 5 fine. (2) Muli. iV. bT, 39, 44, FJh. Eud, 1. Vili, I, U, Plut De Uid. et Onir, stituita dall'opposizione reciproca delle parti (1|. Que- sta proposizione che Fopposizione è una legge uni- versale delle cose si spiega sufficientemente per una generalizzazione dell'osservazione: questa in verità non la giustifica che sino ad un certo punto (non essendo vero che tutte le nostre nozioni possano distribuirsi per coppie di termini contrari, come luce e tenebre, maschio e femmina, salute e malattia, ecc. a meno che alcuni dei termini non siano puramente negativi, come non uomo, non bianco, ecc., nel qual la pretesa legge delle cose diverrebbe una proposizione verbale); ma non deve sor- prenderci che, in un'epoca scientifica si primitiva, Eraclito, come già prima di lui altri filosoli, quali Alcmeone e i Pitagorici, sia stato così profonda- mente colpito dall' osservazione delle opposizioni rità).Ma noi non abbiamo alcun motivo per prendere la proposizione di Eraclito che tutto è fuoco in un senso differente delle proposi- zioni analoghe degli altri fisici, p. e. di quella d'Anassimene o di Diogene d'Apollonia che tutto è aria. (Sia detto di passaggio, la differenza tra le due proposizioni non è tanto grande quanto sem- bra a prima vista; perchè Eraclito non sembra rappresentarsi il fuoco primitivo da cui tutto è stato fatto, come una fiamma, ma piuttosto come una sostanza calda e aeriforme. V. Zeller stesso p. 588, 5a9 e sovratutto la nota 582,2) Se Zeller fosse stato con- seguente, avrebbe dovuto dare un'interpretazione simbolica, non della sola dottrina di Eraclito, ma delle dottrine corrispondenti di tutti i fisici che ammettono un solo elemento. La dottrina del di- venire (di cui d'altronde le Zeller dà un'interpretazione iperbolica e puramente fantastica, intentendo che le cose sono ad ogn'istante distrutte e nuovamente create come per incanto, ogni cosa cambiando ad ogni momento le particole materiali che la costituiscono - v. p. 619 - -620) non è una prova che Eraclito nega l'immutabilità della sostanza (nel senso che ho spiegato perle dottrine dei fisici unizzanti in generale),, (1) Eht. End. 1. VII. I, 11, MuU. Fr. 37, 38 e 93. delle cose, da vedervi una legge importante della na- tura. Noi non dobbiamo per altro lungamente fermar- ci su questa dottrina di Eraclito: essa non c'importa per se stessa, ma solo per il suo rapporto con l'al- tra legge dei contrari, stabilita da questo filosofo. Come l'essere si è scisso in una moltiplicità di esi- stenze reciprocamente opposte, e come passa in- cessantemente da uno stato ad un altro stato op- posto, cosi esso, secondo Eraclito, mantiene la sua identità a traverso di tutte le opposizioni. Tutti i contrari sono identici: la stessa cosa sono il giorno e la notte (1), il bene e il male (2), il puro e Tim- perchè appunto egli vuole eccettuato dalla legge del cangiamento- universale l'uno cheè il sustrato permanente di tutti i cangiamenti e di cui ogni cangiamento non è che una diversa configurazione (v. A- rist. De Coelo 1. Ili, I. 3, 1. e. a n.2) Per un'illusione di prospet- tiva assai naturale, nella tesi del continuo flusso delle cose, perchè à la più decantata dagli antichi, per il suo carattere paradossastioo- (V. Arist. Top. 1. I. IX, 5), si vede il pensiero fondamentale di Era- clito; e poi, per resagerazionejdi un concetto giusto in se stesso, che è quello della connessione intima tra tutte le parti di un sistema filosofico e la subordinazione necessaria di certe parti ad altre più -inanti come in ogni tutto organico (esagerazione che discende direttamente dal preconcetto hegeliano di vedere in ogni sistema della storia la realizzazione di una categoria logica, o, in generale, di un momento del sistema vero e universale — il quale, del resto^ per gli storici hegeliaj\o — eclettici, alla maniera di Zeller, è ancora e sarà sempre in incubazione — ) si pretende che tutte le idee del devono logicamente derivarsi dal preteso pensiero fonda- mentale. Ma se vi ha in Eraclito un pensiero che merita di esser considerato come fondamentale, è quello ch'egli ha in comune con tutti i filosofi dell'epoca : l'assioma che l'essere non può venire dal non essere, e che perciò niente nasce al fondo e niente perisce. E (1) Fr. 89. (2) Fr. 90; Arist. Top. 1. VIII. IV. 11, Phys. 1. I. II, 14. H XXXIX puro (1), l'alto e il basso (2), l'ascensione e la di- scesa ^3), il retto e il tortuoso (4). La nascita è morte e la morte nascita (5); il mortale è immortale, e l'im- mortale mortale (6). La stessa cosa è il vivente e il morto, il vegliante e il dormente, il giovane e il vecchio (7). Tutte è uno (8); Dio è giorno e notte, està ed inverno, guerra e pace, fame e sazietà, e tutti i contrari (9); come tutti gli opposti procedono dall'uno, così da tutti risulta l'uno (10). Questo di- scordando sempre da se stesso, concorda sempre con se le altre proposizioni di Eraclito devono derivarsi dal suo pensiero fondamentale, la legge stessa del divenire, cioè la dottrina che tutto è in movimento e niente in quiete, (perchè, come abbiamo visto, 1 fisici unizzanti, ugualmente che i meccanisti, riducono tutti i can- giamenti al movimento) deve derivarsi anch'essa dall'assioma dei fisici. Il che non è difficile, perchè, se le proprietà essenziali del reale sono sempre le stesse (ciò che è il senso di quest'assioma), come la sostanza primitiva, che è vivente ed in un'agitazione perpetua, potrebbe trasmutarsi in una massa affatto morta ed inerte? (Plut. I. 23 : 'HpàK>»iTO? Y)p£[xiav >tai axàaiv èx twv 5>.(ov àvY)p£l' SOTl yÒLp TOQtO t5)V VSXpWV). Con la stessa conseguenza con cui gli Eleati concludono dall' assioma della fisica che tutto è immobile (vedi più giù su questi filosofi), Eroclito ne conclude invece che tutto è in movimento; ciò che è dotato di un movimento spon- taneo ed incessante non potendo diventare una materia inerte. (1) KaOapóv e [xiapóv. Fr 88. (2) Fr. 91 (3) Fr. 32; 91. (4) Fr. 91. (5) Clem. Stroni. III. 434. (6) Ippol. Befut. Haeres.lX. 10 (in Muli, illustr.a Fr. G2). (7) Fr. 46. (8) Fr. 9.i; Filone Leg alleg. II. 62. (9) Fr. 86. Le due ultime antitesi, guerra e pace, fame e sazietà, indicano i due stati fra cui alterna il mondo : quello della divisione o del cosmos, e quello dell'unità e omogeneità, in cui tutto è fuoco. (10) Fr. 45. 'A XL XLI se stesso (1); la costituzione dell'essere è come quella dell' arco e della lira (di cui le due metà sono al tempo stesso identiche ed opposte) (2). Ora in qual senso dobbiamo noi comprendere le proposizioni di Eraclito affermanti l'identità dei con- trari ? Siccome queste proposizioni, prese alla let- tera, sono inintelligibili e implicitamente contrad- dittorie, perciò potrà credersi necessario di sforzarsi a darne un' interpretazione che le adatti al senso comune, e tolga ciò che vi ha in esse di ripugnante. Così p. e. quando Eraclito dice che il giorno e la notte sono la stessa cosa, s'intenderà, come fa Zel- ler, che lo stesso essere ora è chiaro e ora oscuro, ovvero, come fa Schuster, che essi sono la stessa cosa in quanto l'uno e l'altra sono egualmente delle di- visioni del tempo (3). Così ancora, quando Eraclito dice che la stessa cosa è il vivente e il morto s'in- tenderà che la stessa materia attraA^ersa a vicenda i due stati della vita e della morte (4). Ma tali interpretazioni non solo sono lontane dal signi- ficato naturale delle parole di Eraclito, ma han- no anche contrarie le più gravi testimonianze de- gli autori antichi. Cosi è nel senso più letterale (1) Plato Conv, 187 a; So2>h, 242 d. e. (2) Fr, 38 e ^. (3) Ippolito {Refut Haeres IX 10) che ha conservato le parole di ]Braclito, intende che la luce è identica all'oscurità, il bene al ma- le, ecc. (4) Questa sembra essere l'interpretazione di Plutarco {Consolai, <id ApolL j X). Il Fr, 60 Muli, (la vita e la morte è tanto nella nostra vita quanto nella morte) è una prova che l'identità non è solo del sustrato materiale della vita e della morte, ma della vita e della morte medesime. *i t possibile che Aristotile comprende le proposizioni di Eraclito: egli attribuisce a questo filosofo l'opi- nione che l'esser bene e Tesser male è la stessa cosa, e che i contrari sono identici per Vessen^a o per la definizione (1) (e non semplicemente per la materia, come nella precedente interpretazione della propo- sizione: lo stesso è il vivente e il morto). Secondo lo stesso Aristotile (2) ed altri autori antichi (3), E- raclito nega il principio di contraddizione, ammette che allo stesso soggetto appartengono degli attributi opposti, e che le due proposizioni contraddittorie sono vere 1' una e l'altra. In effetto, se i contrari sono identici, tanto varrà predicare d'un soggetto un attributo quanto l'attributo contrario. È proba- bile che questa conseguenza del principio dall'iden- tità dei contrari — che verisimilmente Eraclito avreb- be respinta — sia stata dedotta da quegli eraclitiz- zanti che, come Cratilo, esageravano grottescamente le dottrine di questo filosofo, e ne deiucevano delle proposizioni scettiche: ma siccome la conseguenza derivava effettivamente dalla premessa, essa poteva venire attribuita, non senza fondamento, ad Era- clito stesso (4). (i) pnys, 1. I. II. 14. (2) Met, 1. III. III. 8, VII. 9, Vili. 1, 1. X. V. 8, VI. 16, Top. 1. Vili. IV. 1. (3) V. Specialm. Sesto Emp. PUrrh, I. 210-213. (4) Tanto più che questo filosofo, per arrivare alla tesi della iden- tità dei contrari (in astratto), cominciava mostrando che lo stesso fatto o la stessa cosa (concreta) presenta degli aspetti contrari: p. e. per provare l'identità del bene e del male mostra come i rimedi dei medici possono essere riguardati al tempo stesso come beni e come mali (Fr. 90) —Aristotile non vuole assicurare che la tesi della verità XLIl XLIII y Noi dobbiamo dunque rigettare come inutile qual- siasi tentativo di rendere più intelligibile la tesi di Eraclito della identità degli opposti: per dare a que- sta tesi un senso concepibile, bisognerebbe liberarla dalla contraddizione che è in essa implicata; ma al- lora non sarebbe più la tesi della identità degli op- posti, la dottrina di Eraclito non sarebbe spiegata, ma sostituita da un'altra dottrina. 11 caso è lo stesso che per la tesi corrispondente di Hegel: non vi ha alcun mezzo per renderla intelligibile, non è possibile di da- re un senso a ciò che è un controsenso. Comprendere una dottrina metafisica in questi casi non è altra cosa di tutte e due le proposizioni contradittorie debba attribuirsi aUo stesso Eraclito. In Mti. 1. III. III. 8 dice « È impossibile di pensare che la stessa cosa sia e non sia, come alcuni credono che dica Era- clito ; poiché non é necessario che si creda tutto ciò che si dice». (Queste ultime parole non significano, come crede il Zeller — pag. 483-1 —, che se Aristotile non vuole attribuire categoricamente ad Eraclito l'opinione in quistione, è perchè questi 1' ha effettiva- mente enunziata, ma senza credervi o senza comprenderne il senso^ ma spiegano in generale come il fatto che vi hanno delle persone che a parole ammettono la realtà della contraddizione, non sia con- trario al principio che è impossibile di pensare che la contrada pizione si realizzi). Il Zeller attribuisce ad Eraclito la dottrina, della coesistenza dei contrari nello stesso sogetto (invece di quella della identità dei contrarli), e la deduce dalla dottrina del dive- nire continuo di tutte le cose (Filo8,dei Greci p. 595-HU8 ; confr. p.678 •6S2). Questa deduzione non è secondo me ammissibile, quantunque possa sembrare che abbia l'appoggio dell'autorità d' Aristotile. Per comprendere il valore di questa deduzione, bisogna farsi una giusta idea della conseguenza scettica che gli eraclitizzanti come Cratilo tiravano dalla dottrina di Eraclito del divenire, cioè che di ciò che diviene niente può con verità affermarsi, e non vi ha perciò alcuna scienza possibile né alcuna proposizione che sia vera (Arist. Met. 1. III. V. 12, 1. I. VI. 1, 1. Xn. IV. 2, Nel I. di questi luoghi Ari- stotile assegna questa dottrina a « quelli che dicono di eraclitizzareB; che indicarne il motivo e l'origine. Per Hegel il motivo è, come abbiamo detto altrove, la necessità della iden- tità delle idee, perchè possano dedursi le une dalle altre: naturalmente Eraclito non potè esser condotto alla sua dottrina, come Hegel, da considerazioni dialettiche; Tassioma comune dei fisici spiega que- sta dottrina di Eraclito come la maggior parte delle altre dottrine di questi filosofi. negli altri due la chiama semplicemente, «eraclìtica». Noi non dobbiamo perciò attribuirla allo stesso Eraclito, perchè essa è uno scetticismo e un agnosticismo assoluto, ed è incompatibile con la filosofia di Eraclito come con qualsiasi filosofia dogmatica). Per in- tendere la proposizione di Cratilo, si consideri un punto in movi- mento nell' atto che esso passa da un punto determinato dello spazio, A, ad altro punto qualunque, B, concepito il più vicino che sia possibile ad A. Per quanto il punto B si concepisca pros- simo al punto A, vi saranno sempre delle posizioni tra A e B, che il punto in movimento deve occupare dopo di aver lasciato la posizione A e prima di passare nella posizione B: ma ciascuna di queste posizioni interposte, essendo un punto distinto da A, sarà separata da A da qualche intervallo, ed è necessario perciò che tra essa ed A s'interpongano altre posizioni. Qua! è dunque la posi- zione che il punto in movimento occupa immediatamente dopo la posizione A ? E impossibile di dirlo, perchè qualsiasi pnnto si as- segni prossimo ad A, esso, essendo distinto da A, ne sarà separato da qualche intervallo, che il punto in movimento deve aver per corso prima di passare nel punto assegnato, e perciò questo non può essere la posizione immediatamente successiva alla posizione A. La posizione immediatamente successiva ad A è dunque un che d'in- determinabile e d'indeterminato, di cui può dirsi soltanto che essa deve essere distinta da A e da tutti i punti distinti da A, ma sen- za poterla in so stessa indicare; di essa saranno vere delle proposi- zioni negative : non è A, non è B, non è C, ma non sarà vera al- cuna proposizione affermativa: è D. Che si generalizzi questa dif- ficoltà implicata nella idea della continuità del movimento (cfr. 2. parte. Le antinonne della ragione), si avrà il concetto di un cangia- mento universale continuo in cui ciascuno degli stati successivi è XLIV Per l'identità degli opposti ciò che Eraclito vuole stabilire è l'unità e l'identità del tutto; la eterna permanenza nella sua propria identità di quest'es- sere unico che diviene tutte cose. Il cangiamento essendo da uno stato ad un altro stato opposto, per- chè r essere resti identico a se stesso nel cangia- mento, bisogna che gli opposti siano identici. L'uno essendo divenuto multiplo, e la varietà essendo co- stituita dall' opposizione, perchè i molti siano uno, un uno che nelle varietà si ritrova dapertutto iden- tico a se stesso, bisogna che gli opposti siano iden- sempre un punto di transizione, e perciò un che d'indeterminabile, posto tra due stati determinati qualunque : questo è il fondamento della proposizione di Cratilo che, ciò che continuamente diviene non essendo mai in uno stato determinato, non vi ha alcuna deter- minazione che possa con verità attribuirsi alle cose, le quali sono tutte in un continuo divenire. Ora è evidente che la conseguenza della dottrina del divenire assoluto non è secondo Eraclito e secondo la logicala proposizione che tutto è vero, cioè che l'affermativa e la negativa sono entrambe vene e che i contrari coesistono allo stesso tempo nello stesso sog- getto ; ma piuttosto la proposizione che niente è vero, che nes- suno dei due attributi contrari appartiene in realtà al soggetto che diviene, che passa dall'uno all'altro dei due stati contrari, e che ogni affermazione è falsa (e quindi anche, può dirsi, ogni negazione, quanto la proposizione negativa si consideri come implicante l'af- fermazione di uno o un altro degli attributi positivi compresi nel giro del termine negativo, che è l'attributo della proposiziono ne- gativa, se si dà a questa la forma infinitiva— p. e é non bianco im- plica l'affermazione di uno o un altro dei colori distinti dal bianco—). Perciò quando Aristotile parla della dottrina eiaclitica che tutto è vero, non può essere quistione di una deduzione dalla dottrina del divenire, ma noi dobbiamo pensare piuttosto a una dedu- zione dalla dottrina della identità dei contrari. Lo stesso Aristo- tile parla, è vero, come di una conseguenza della dottrina del di-, dell' opinione che le due proposizioni contraddittorie pos- .sono emettersi egualmente sullo stesso soggetto {Mei. 1. X. VI. 9): XLV tici. In una parola il principio di Eraclito è che l'essere non può cangiare di natura e di proprietà; perciò tutti gli stati differenti che esso successiva- mente attraversa devono essere, al fondo, identici. Eraclito spinge assai più in là che gli altri fisici unizzanti il concetto dell'immutabilità della sostan- za : per questi l'identità dell'essere non è che una identità materiale; ma per Eraclito l'unità e Tiden- tità del tutto non consiste semplicemente in ciò che un sustrato materiale uno e sempre identico a se esseri differenti (dando anche alla identità materiale senso, che noi abbiamo attribuito alle dottrine di ma, come risulta dal contesto, quest'opinione non consiste a proten- dere che le due proposizioni sono vere l' una e l'altra, ma che, l'una non essendo vera più dell' altra, si ha tanta ragione di affermare l'una quanta se ne ha di affermare l'altra (Cfr.Plat. TeetAS2 d-lS3 b). D' altronde Aristotile riconosce che la dottrina del divenire è in contraddizione con la proposizione che tutto è vero o che i contrari coesistono nello stesso soggetto (mt l. IH. V. 16), e che, mentre Eraclito fa tutto vero, la conseguenza della dottrma dei divenire è invece che tutto è falso (Cfr. specialmen Met. 1. III. VII. 9 con Mei. 1. Ili Vili. H). Aggiungeremo infine sull'interpretazione di Zeller della teoria dei contrari di Eraclito, che, quand'anche la coesistenza dei con- trari potesse riguardarsi come una conseguenza della dottrina del continuo divenire, nessuna forse delle proposizioni particolari di Eraclito che noi conosciamo (lo stesso è il giorno e la notte, il vi- vente e il morto, ecc.) si presterebbe al una tale deduzione (dato e non concesso che tali proposizioni affermino la coesistenza dei con- trari, e non la loro identità) ; perciò bisognerebbe che ciascun mo- mento del tempo fosse il punto di transizione tra il giorno e la notte, che ciascun istante della nostra esistenza fosse il confine tra la vita e la morte, ecc. Cos'i pure quando Sesto Empirico (l. e.) attri- buisce ad Eraclito l'opinione che il miele è al tempo stesso dolce ed amaro, noi possiamo pensare ad una dedu>Jone dalla teoria dell'i- dentità dei conlrari, ma non da quella del continuo divenire. Il questi fisici, di una sostanza materiale sempre iden- tica a se stessa di cui non cangia che la posizione nello spazio) ; le forme stesse che riveste successi- vamente il sustrato materiale, cioè le qualità diffe- renziali e le energie specifiche per cui i vari esseri, costituiti dalla stessa materia, si distinguono, si ri- solvono, per Eraclito, nell' uno e nell' identico (1). Ma alla quistione : come queste forme differenti siano identiche, cioè come la loro differenza possa conciliarsi con la loro identità, sarebbe inutile di attendersi da Eraclito una risposta precisa o sem- plicemente intelligibile. Perciò egli dovrebbe fare le parti tra ciò che vi ha nelle cose d' identico e che vi ha in esse di differente o di opposto; in- non troviamo in lui che quest' asserzione — contraddittoria se la prendiamo alla lettera, vaga se vi cerchiamo un senso qualunque — che gli op- posti sono identici. La proposizione di Eraclito che gli opposti sono identici non è per altro né più né meno contraddittoria delle proposizioni dei fisici unizzanti in generale che tutto è aria o che tutto è fuoco (proposizioni incompatibili con l'esistenza di altre sostanze distinte dall' aria o dal fuoco). Noi -abbiamo osservato che in quest'ultimo caso la con- (1) Arist. Phìjs, 1. I. II 14 : Se gli Eleati dicono che tutto è uno secondo la definizione, ciò tornerà a sostenere la tesi di Eraclito. Lo stesso sarà il bene e il male, lo stesso 1' nomo e il cavallo — Asclepio(Schol ia Arist. 652 a) dice che per Eraclito vi ha una defi- nizione unica per tutte le cose, proposizione che certamente non attribuirsi ad Eraclito, ma che esprime, quantunque in una forma troppo rigida, il pensiero di questo filosofo dell' unità eèètn- ziaUj e non semplicemente materiale^ di tutte le cose. traddizione nasce, perchè il principio ammesso a priori, in forza di un sofisma naturale, dell'immu- tabilità della sostanza, coesiste nello spirito di que- sti filosofi col fatto, dato dall'osservazione, del can- giamento di una sostanza in un'altra sostanza; così nel caso di Eraclito, il principio, ammesso a priori in virtù dello stesso sofisma, che tutte le cose sono identiche di natura, perchè la natura delle cose (le quali tutte sono costituite della stessa materia e perciò reciprocamente convertibili) non può can- giare, coesiste, nel pensiero di questo filosofo, col fatto, dato dall' osservazione, dell' esistenza di cose aventi delle nature differenti e reciprocamente op- poste. 11 principio e il fatto, l' identità e l' opposi- zione, non si escludono per Eraclito, quantunque siano esclusive l'una dell'altra; esse si congiungono, ma non si conciliano, nella formula contraddittoria della identità degli opposti (1). (1) Aristotile dà come motivo di una delle opinioni che negano il principio di contraddizione, l'assioma dei fisici ehe 1' essere non può venire dal non essere (il qual motivo prova l'origine fisica della dottrina fondata su di esso, dottrina perciò che, tra le diverse opi- nioni sovversive del principio di contraddizione, noi dobbiamo rico- noscere per quella della scuola di Eraclito). Quando una cosa passa da uno stato ad un altro, il §econdo stato verrebbe dal non essere, se i due stati fossero semplicemente contrari, e non al tempo stesso identici, di guisa che il secondo stato preesistesse in certo modo nel primo: questo non deve essere perciò uno solo dei due contrari, ad esclusione assoluta dell'altro, ma in certo modo anche l'altro (V. MeU 1. X. VI. 2-3; cfr. 1. III. V. 3.) Il motivo addotto da Aristotile coin- cide al fondo con quello che noi abbiamo assegnato alla dottrina di Eraclito : non si deve che applicare alla dottrina dell' identità dei contrari l'argomento che Aristotile applica invece alla sua conse- guenza, cioè a quella della coesistenza dei contrari nello stesso sog- getto. «f ' XLVIII § 6. Gli Eleati si accorsero che il principio dell'u- nità e immutabilità della sostanza è incompatibile col fatto (Iella pluralità e del cangiamento: così, per salvare il principio, essi rigettarono il fatto, dichia- randolo una semplice apparenza senza realtà. La proposizione fondamentale degli Eleati, come di Eraclito, e in generale dei fisici unizzanti, è che tutto è uno (1). Quest' uno è per gli Eleati, come pei fisici ionici, il sustrato unico e permanente di tutto ciò che i sensi ci presentano, la sostanza co- mune di tutti i corpi. Gli Eleati descrivono VEssere come una massa continua, senza lacune prodotte dal non essere cioè dal vuoto (2), omogenea (3), senza differenza di densità (4), immobile tanto nella tota- lità quanto nelle parti (5). Esso è inlinito di gran- dezza, secondo Melisso (6); finito e di forma sferica, secondo Parmenede (7). La differenza tra Tuno de- (1) Proposizione che noi dobbiamo distinguere da quest' altra: Tessere è uno ; perchè mentre questa non indica che la soppressione deUa moltiplicità, la prima indica pure la riduzione della moltipli- cità all'unità. Cosi Timone fa dire a Xenofane che dapertutto ove rivolge U suo pensiero, tutto si risolve per lui in un'essenza unica sempre identica a se stessa (Versi B2-:n Mullach) V. anche, per Xeno- fane, Toofrasto ap. Simpl. Phìfx, 5b, Sesto Empir. Pyrrh. I. 225. ecc. Per gli Eleati posteriori, oltre il luogo di Parmenide che fra poco ri- porterò nel testo, v. Plato. Teet. INO e, Soph. 242 d, Arist. Phys I. II. (8, 11, U), III. (1, 3), Gen. et Corr. I. Vili. (3-4), Met. I. 3 (lO-U), II. IV. (26), XI. X. (8V ecc. (2) Parmen. V. 78-81, 90-H tOG-108; Mei. Fr. 5, 14; cfr. Arist. De Gen. et Corr. I. Vili. (2). (B) Parmen. 78 e sqq. (4) Mei. Fr. 5, 14; cfr. Parmen 1. e. (5) Parmen. V. 60, 82-87, 90-^, 97-101 ; Mei. Fr. 5, 14. (6) Mei. Fr. 2, 3, 8, 10; Arist. Do Gen. et Corr. I. Vili. <B), Phys I. II. (10, 13), Met. I. V. (10). (7) Parmen. V. 82-80, 102-109; Teofrasto ap. Alex, ad Met. I. 3. IL gli Eleati e l'uno dei fisici ionici è, come osserva Aristotile (1), che i primi non negano soltanto, co- me i secondi, la generazione e la corruzione, ma anche il movimento e ogni specie di cangiamento in generale; per conseguenza anche ogni moltipli- cità, questa, secondo la dottrina dei fisici unizzanti, non essendo che un risultato del cangiamento. Que- st'universo, dice Parmenide, tutte queste cose che gli uomini, ritenendole come reali, dicono essere e non essere, nascere e perire, mutar di luogo e cam* biar di colore^ tutto ciò non è in realtà che un solo essere, unico, immobile, senza principio e senza fine, permanente sempre nello stesso stato (2). Il pensiero rientra anch'esso in quest'unità; esso non è distinto dall'essere, perchè non vi ha niente all'infuori dei- Tessere, e questo è unico e sempre identico a se stesso (3). Alcuni espositori, come il Zeller, trovano il fondamento del sistema eleatico in un argomento capzioso, per cui Parmenide cerca di provare 1' u- nità assoluta dell'essere. AU'infuori dell'essere, egli dice, non potrebbe esservi che il non essere; ma il non essere è niente; dunque l'essere è unico (4). Noi non possiamo ammettere, come abbiamo al- tre volte osservato, che un sistema metafisico si (1) Met. I. III. 10. (2) V. 96-101, 82-85. (3) Parmen. V. 94 sqq., 43-44. 4) Io ho esposto l'argomenfo sotto la forma in cui lo dà Teofra- sto (ap. Simplic. in PhyK 25 a). V. anche per questo argomento (che^ non potrebbe ricavarsi dai soli frammenti di Parmenede) Arist. Phlfs I. III. 4 sqq., MeU I. V. 11, JI. IV. 26, XIII. II. 4 ' « ^ig^ LI fondi sovra un sofisma puramente fittizio, perchè allora la metafìsica non sarebbe che una volgare sofistica. Tra il processo del metafisico e quello del sofista non vi sarebbe, in questo caso, altra diffe- renza che nell'intenzione : ma questa differenza ren- derebbe anche più incomprensibile l'origine della metafisica; ciò che è inconcepibile è che delle con- vinzioni così contrarie al senso comune siano pro- dotte da motivi così poco idonei. Parmenide ha potuto credere alla forza probante del suo sofisma, ma dopo che già era convinto della sua tesi per altri motivi, e questi motivi non possiamo cercarli che in qualcuno dei sofismi naturali dello spirito umano. Per ricondurre il sistema degli Eleati ai sofismi a priori del nostro spirito, e metterlo al tempo stesso in connessione con le idee dominanti dell'epoca, noi non possiamo che dedurle, con Aristotile (1), dall'assioma della pica che l'essere non può né co- minciare né finire, deduzione che in effetto noi tro- viamo nei frammenti stessi di questi filosofi (2). Gli Eleati non concepiscono, non solo che la ma- teria possa cominciare e finire, ma anche che le cose possano cangiare di natura e di qualità (ciò che, non bisogna dimenticarlo, é il senso dell' as- sioma dei fisici). Così secondo loro la moltiplicità non sarebbe possibile che ad una sola condizione : che vi fossero molte sostanze inconvertibili 1' una (1) Phys. I. vili. (2) V. Parmen V. B7-77, 82^ e Mei Fr. 1, 6, U, 12, 13, 17. Per Xenofane vedi De Melxsm ecc. e. 3 in principio, Simplicio P/iy« f. 6, Plutarco ap. Euseb. Pr, ev I. 8. nell' altra e qualitativamente immutabili. « Se vi fossero molte cose, dice Melisso, esse dovrebbero essere tali quale io suppongo l'uno. Se é in realtà la terra e l'acqua e l'aria e il ferro e l'oro e il fuoco, e questo vivente e quello morto, e il bianco e il nero, e tutte le altre cose che gli uomini credono reali; se queste cose sono, e noi rettamente vediamo e udia- mo ; ciascuna cosa deve continuare ad esser tale quale ci é sembrata la prima volta, e non mutarsi né divenire altra, ma essere sempre tale quale essa è. Ora noi diciamo che rettamente vediamo e udia- mo e intendiamo; intanto ciò che é caldo ci sembra diventare freddo e ciò che è freddo caldo, ciò che é molle duro e ciò che é duro molle, e il vivente morire e risultare dal non vivente, e tutte queste cose mutarsi, e ciò che é stato ed è non essere mai simile a se stesso. Sicché é chiaro che non rettamente noi A^ediamo né rettamente queste cose sembrano esser molte. Non si muterebbero infatti, se fossero vere ; ma ciascuna •cosa sarebbe sempre tale qual essa ci è apparsa. Se ciò che é si mutasse, l' essere perirebbe, e il non essere verrebbe air esistenza » (l). Parmenide, nella seconda parte del sno poema, in cui egli vuol mostrare come le cose dovrebbero concepirsi nel- cepirsi nell'ipotesi che l'opinione comune (che am- mette la realtà del multiplo e del cangiamento) fosse vera, espone una fisica meccanista, in cui le cose si producono per la mescolanza di due sostanze primordiali, contrarie l'una all'altra e ciascuna sem- el) Fr. 17. LII LUI pre identica a se stessa (1). Questa fìsica non sem- bra a Parmenede soddisfacente, essendo per lui un errore di ammettere più sostanze primordiali — non bisogna ammetterne, egli dice, che una sola (2) — ; e se si domanda perchè gli Eleati, dopo avere in- travista la possibilità di una tal fìsica, le avessero non pertanto preferito la dottrina per noi mena soddisfacente dell'Uno immobile, non si può dare al- tra risposta se non che la supposizione di una plu- ralità di principii materiali, con tutte le altre ipo- tesi accessorie della fìsica meccani sta, sembrava loro in contraddizione coU'esperienza; dall'osserva- zione che le forme più differenti della materia (cor- rispondenti a ciò che gli antichi chiamano i quattro elementi) sono convertibili l'una nelValtra, essi ne concludevano, come tutti i fisici che li avevano pre- ceduti, che vi ha una sostanza materiale unica, la quale prende a vicenda tutte le forme. Noi non abbiamo alcuna difficoltà a comprendere come V assioma dei fisici conducesse a negare la realtà di ciò che gli antichi chiamano generazione e corruzione (p. e. la trasformazione degli elementi materiali l'uno nell'altro, o la produzione di un es- sere vivente e il suo ritorno allo stato di materia bruta); in effetto questi fatti sono direttamente in contraddizione col principio che V essere non può avere conjinciamento ne fine. Nqi riattacchiamo pure facilw.^nte allo stessp principio la negazione della re,'\ltà: di 9ÌÒ che gli antichi chiamano altera- ti) Versi 113-1?>1. (2) V. 114. I zione (p. e. il cangiamento di colore o delle altre proprietà sensibili): noi abbiamo visto infatti che i fi- sici meccanisti tiravano da questo principio la stessa conseguenza. Ciò che sembra diffìcile è di derivare dall'assioma dei fisici la negazione della realtà del movimento. Infatti se i fisici concepiscono più fa- cilmente che le cose conservino le loro qualità an- ziché il cangiamento di queste qualità, e preten- dono per conseguenza o di ricondurre al primo il secondo di questi fatti (i meccanisti) o di ridurlo a un semplice fenomeno senza realtà (gli eleati), è perchè il primo fatto è per noi assai più familiare <5he il secondo : ma il cangiamento di luogo non essendo per noi un fatto meno familiare che la persistenza nello stesso luogo, non si vede quale difficoltà gli Eleati potessero trovarvi. Tuttavia, quantunque la negazione della realtà del movimento non derivi immediatamente dall'assioma dei fisici, ne può essere dedotta indirettamente : si vedrà in effetto, considerando la quistione dell'ori- gine del movimento, che vi ha connessione tra que- sta negazione e la conseguenza immediata dell'as- sioma, che è la non realtà del cangiamento di es- senza e di proprietà ; connessione la quale parrà più evidente, se si rifletterà che per gli antichi, ignorando essi la dottrina moderna della conserva- zione dell'energia, e credendo che vi ha ad ogni istante annichilazione di movimento, la perdura- zione del movimento nell'universo supponeva ne- cessariamente che r annientamento del movimento in una parte venisse compensato dalla produzione di movimento in un' altra parte. Perciò bisognava LIV o che la materia avesse in qualcuna delle sue forme il potere di produrre spontaneamente il movimento (p e l'aria, secondo Anassimene e Diogene, il fuoco, secondo Eraclito), o che questo potere appartenesse ad un essere diverso dalla materia (come nei siste- mi degli spiritualisti, Anassagora, Platone, Ariste- tile ai quali Parmenide stesso sembra accostarsi nella seconda parte per le figure mitiche di Afro- dite e di Eros). Neil' ipotesi d' una sostanza unica, la possibilità di qualche cosa capace di produrre spontaneamente il movimento, era legata alla pos- sibilità del cangiamento nelle proprietà e l'essenza delle cose, cioè a quella che la stessa sostanza da materia inerte (che è la forma più abituale sotto cui essa ci apparisce) si mutasse in un essere attivo e vivente. Non ammettendo questa possibilità, gli Eleati rendevano impossibile l'origine del movi- mento, e quindi il movimento stesso. Essi non po- trebbero nemmeno cercare l'origine del movi- mento nei mutamenti di luogo che accompagnano r alterazione delle sostanze (p. e. quando l' acqua si cangia in vapore o il vapore in acqua) (1) . perchè quest'alterazione non essendo secondo essi reale, il movimento che l'accompagna non può essere nemmeno reale. Un movimento originario (cioè che non fosse l'effetto di un movimento anteriore), .iella • supposizione della unità e immutabilità assoluta della sostanza, non sarebbe possibile che ad una condizione : cioè che la facoltà di produrre questo movimento potesse considerarsi come una qualità LY immutabile della sostanza, e quindi che esso si pro- ducesse continuamente in tutta la materia — in tutte le sue pirti e a ciascun istante della durata — con la stessa energia e la stessa direzione. Sarebbe un'i- potesi simile a quella di Herbart del divenire assO' luto o movimento sema causa nel suo trilemma del movimento (1). Una tale ipotesi essendo in contradi- zione con l'esperienza, gli Eleati ne concludono che il movimento, impossibile nella sua origine, non è che un'apparenza senza realtà (2). Applicando ìxWuno dei fisici ionici il principio della non realtà di qualsiasi specie di cangiamento, noi avremo Vano degli Eleati, coi caratteri astratti e negativi con cui questi filosofi lo concepiscono. L'idea dirigente è che bisogna eliminare dal reale tutto ciò che è variabile, e non ritenere per vero se non ciò che resta invariabile a traverso tutti i cangiamenti. Di là l'omogeneità assoluta dell'Essere in tutte le sue parti. Tutte le differenze che noi per- cepiamo nelle diverse parti della materia essendo delle forme che una stessa materia può successiva- mente prendere e lasciare (poiché, secondo la dot- trina dei fisici unizzanti, una stessa materia sog- giace a tutte le forme), ne segue che alcuna di esse non è reale, secondo gli Eleati, poiché il reale non è, secondo essi, che l'invariabile. Per conseguenza (1) Confr. Plato Tim. 5B a-c. (1) Introduzione alla filosofìa, § 104-110, (2) Aristotile {Met, 1. I. Ili, 10), dopo aver parlato della quistione del principio del movimento, dice : Alcuni di questi che ammisero V uno {gli Kb Ati), come vinti da guasta difficoltà, dicono immobile l'uno e tutta la natura. i '/ «r-** ótes / LYI le parti dell'Uno non possono differire per il co- lore (l) o per la densità (2) o per qualsiasi altra qualità sensibile, tutte queste determinazioni non essendo che semplici fenomeni, apparenze senza realtà. L'Essere degli Bleati è, al fondo, un essere astratto (3), il cui concetto si ottiene per la soppres- sione di tutte le determinazioni che differenziano i diA^ersi esseri particolari; esso non può che essere assolutamente omogeneo, una volta che si è fatta astrazione di tutte le differenze del reale dato dai sensi. Secondo questo processo di eliminazione gli Eleati aA-rebbero dovuto negare dell'Uno tanto il riposo quanto il movimento, poiché l'inerzia e l'at- tività ci sono date l'una e l'altra come due stati variabili dello stesso essere (di una stessa materia). Ma non era possibile di concepire che un essere esteso nello spazio (come gli Eleati si rappresen- tavano l'Uno e come doveano necessariamente rap- presentarselo, non essendo esso altra cosa che il su- strato comune e immutabile di tutti gli esseri sen- sibili) non fosse né in riposo né in movimento. Tuttavia (visto che un essere esteso senza colore, senza densità determinata, ecc. non è, al postutto, meno inconcepibile) noi potremmo forse ammettere <1) V. Melisso Fr. 17 1. e. (2) V. Fr. 5, 1. e. (3) È notevole che Aristotile chiama V Essere degli Elati aÒTÒ TÒ 5v {Phm, 1. 1, Vili, 2), applicandogli una denominazione ch'egli non suole applicare che alle Idee platoniche (del resto, conforme- mente aUo stesso Platone), e talvolta anche ai principii dei Pitago- rici, eho non sono anch'essi che delle entità astratte. LVII che gli Eleati, negando dell'Essere il movimento, non intendevano perciò affermarne la quiete: il loro vero pensiero potrebbe essere quello che Teofrasto sembra attribuire a Xenofane, cioè che l'Essere non è né in movimento né in riposo, e che la sua eterna^ permanenza nello stesso statò deve intendersi di uno stato che esclude tanto il riposo quanto il movi- mento (1). Al processo di eliminazione di cui abbia- mo parlato aggiungiamo la nega^.ione del vuoto (dot- trina comune a tutti i fisici eccetto gli atomisti), avremo tutti i caratteri distintivi dell'Essere eleatico. Non essendovi alcun vuoto che possa separarne le parti, e queste non potendo nemmeno staccarsi le une dalle altre per il movimento, l'Essere é necessaria- (1) V. Simplicio in Phijn commonto al 1. I, e. II d' Aristotile; cfr. De Melnm ecc. e. 3. 977 b.. Tootrasto dico, secondo Simplioio: TUSTcecaaijivov outs àrsicov, oSts xivo'Jasvov outs Y)osao3v liSVOCpàvYjV... 'JTTOTlOs'lOai (l'essore e il tutto non è né finito né infi- nito, sia pere h >, come e indicato nel /><? MhIìhho ecc. 1. e, quantunque esso non sia infinito, la limita/.ione non potrebbe nemmeno attribuir- glis', perchè in (jucsto caso dovrebbe essere limitato da qualche altra cosa; sia perché Xenofane si é contraddett.>, ora attribuendo al mondo la forma sferica, con che egli veniva a negare la sua infinitft. e ora ammettendo che la profondità delhi terra e l'alt-iz/.a. dell'aria si e- stendono airinfinito, con che veniva a negare la finità del mondo). Il Zeller crede che Simplicio ha mal compreso le parole riferite di TeolrHSto, spiegandole egli stesso, s^nza appoggiarsi più su questo autore, nel modo che é stato esposto nel testo, e che il vero senso di queste parole é che Xenofane non dice se l'essere primitivo é in riposo o in movimento. Ma quest'interpretazione mi sembra inam- missibile, non fosse altro per la ragione che, se Xenofane non si fosse pronunziato, e :me erodo Zeller, sulla quistione del movimento dell'essere, Teofrasto non potrebbe concluderne eh' egli non ha sta- bilito niente su qnesta quistione: ciò che dovrebbe concludersi in- vece dal silenzio di Xenofane é che egli ha m vntenuto, al contrario \- mente unico e indivisibile (1), e noi comprendiamo come la realtà del multiplo sia negata dagli Eleati d'una maniera tanto recisa quanto quella del can- giamento. Ora qual è il senso che gli Eleati attaccavano a •queste negazioni? Annientavano essi d'una maniera assoluta la pluralità e il cangiamento, per conse- guenza tutta la natura sensibile, o conservavano ai fenomeni un resto di realtà? È una quistione di- battuta fra gli espositori: la prima interpretazione sembra la più conforme al senso più ovvio delle propo- sizioni degli Eleati, ma la seconda ha una verosimi- glianza intrinseca assai più grande, e può anche invocare in suo appoggio Tautorità di molti autori antichi, tra cui alcuni conoscevano certamente nella loro integrità gli scritti di questi filosofi (2). Il con- cetto di fenomeno, di apparenza, e quello correlativo di essere, di realtà, che netti e recisi come sono per il senso comune, sembrerebbero non poter dar luogo dei suoi sncctssori, la realtà del movimento, poiché quando un fi- losofo non no.a un dato del senso comune, si deve intendere ch'egli lo ammette; e nel fatto lo «tesso Zeller, inferendo dal presunto si- lenzio di Xenofane, é quest'opinione che gli attribuisce. In verità noi potremmo intendere le parole riferite di Teofrasto (ammettendo col Zeller che nell'esposizione di Simplicio non vi sia niente altro che si debba a quest'autore) nel senso che Xenofane non ha stabi- lito né la realtà del movimento né la sua non realtà, ma nell'ipotesi che in questa quistione vi fosse in questo filosofo qualche contrad- dizione come in quella della limitazione del mondo. Più giù avrema occasione di tornare su questa indicazione di Teofrasto. (1) V, Parmenide versi 78-Sl, Melisso Fr. 15, Arist. De yenerat et corrupt. 1. I. Vili. 2. (2. Come di Plutarco (v. Ade. Coi. 13; e Simplicio (v. in Phytt, com^ mento al 1. I, e. II d'Aristotile). ad alcuna incertezza od equivoco, non hanno, per alcuni metafìsici, che un senso vago, il quale non potrebbe indicarsi senza riunire dei termini contrad- dittori. Per Platone, per Hegel e per altri filosofi, i quali, come gli Eleati, non riconoscono per vera- mente reale che l'essenza eterna ed immutabile delle cose, la natura sensibile non è che un fenomeno senza realtà, un'apparenza; ma per ciò essi non intendono che essa non sia altra cosa che un feno- meno subbiettivo, il quale non esiste che nella sensazione. Vìi apparenza obbiettiva è per noi una contraddizione nei termini, il concetto di appa- renza essendo per noi identico a quello di feno- meno subbiettivo: tuttavia tale è secondo Hegel la natura sensibile — un' apparenza obbiettiva —, e quantunque questa espressione non sia propria che di lui, essa potrebbe convenire egualmente, per designare il valore della natura fenomenale, in tanti altri sistemi in cui, come nel suo, il fe- nomeno, cioè r individuale, il cangiante, è un che di medio, come dice Platone, tra l'essere e il non essere. Si potrebbe d'altronde dubitare se, in tutti i momenti dello sviluppo intellettuale dell'uomo, il concetto di apparenza sia costantemente legato a quello della subbiettività, come lo è certamente nella sua forma più chiara e sviluppata: un'ombra, un' immagine nell' acqua o nello specchio, quella proiettata da una lanterna magica, sono delle ap- parenze per il fanciullo e per l'uomo privo di qual- siasi coltura ; ma sono anche per essi necessaria- mente subbiettivo? Quando più fanciulli guardano rimmagine della lanterna magica, non pensano LX piuttosto che vedono tutti la stessa cosa, come Beici dice che gli uomini vedono tutti lo stesso sole? Queste considerazioni possono far ammettere la pos- sibilità che il fenomeno, cioè il diverso e il can- giante, sia per gli Eleati un^ apparenza obbiettiva, e non un semplice fenomeno subbiettivo che non esiste se non in quanto è sentito. Certamente di questa maniera si attribuirebbe agli Eleati una contraddizione : quella che il loro siste- ma era destinato a risolvere, tra il principio del- l' immutabilità della sostanza e il cangiamento dato dall'esperienza^ verrebbe a riapparire sotto un'altra forma. Ma una tale contraddizione è inevitabile nel sistema eleatico : ammettiamo pure che i cangia- menti e la varietà della natura non siano per loro che dei fenomeni subbiettivi ; essi esisteranno non- dimeno a titolo di fatti dello spiritose quest'é'S/- steiiza sarà sempre incompatibile col principio del- l'unità e dell'immutabilità assoluta dell'essere. Una conseguenza di quest' osservazione è che ci è im- possibile di prendere alla lettera e in tutto il loro rigore le affermazioni degli Eleati sull'unità e l'im- mutabilità di ciò che esiste; come queste affermazioni non possono essere una prova che essi negavano l'esistenza dei fatti subbiettivi, quantunque com- presi nella pluralità e il cangiamento di cui essi non volevano ammettere la realtà, cosi non provano d'una maniera decisiva che la pluralità e il can- giamento del mondo esteriore fossero privi per essi di qualsiasi esistenza obbiettiva. Noi non compren- diamo una dottrina che riduce la natura visibile a puri fenomeni subbiettivi, a semplici sensazioni, che come il risultato di una profonda critica della co- noscenza, di una riflessione, almeno, sul carattere relativo delle nostre percezioni : ma tutto ciò manca negli Eleati; manca ancora nei loro continuatori, i Megarici; e sarebbe certamente molto inverosimile che questi ultimi, in un'epoca in cui il pensiero dei Greci si era già rivolto verso le ricerche di que- st'ordine (a cominciare almeno da Protagora), non si fossero dati anch'essi a speculazioni così in ar- monia coi loro principii, se fosse vero che la na- tura sensibile non consisteva per loro che in feno- meni subbiettivi. Qualunque sia il motivo del si- stema eleatico, esso non può avere infine che lo scopo di rendere il reale più comprensibile: ma sopprimere il reale — c:ó che è semplicemente quello che gli Eleati avrebbero fatto nell'ipotesi della subbiettività del fenomeno — non è compren- derlo. Secondo noi questo sistema non si spiega che per uno sforzo di conciliare l'esperienza, la natura varia e cangiantf^, col principio dell'unità e dell'im- mutabilità della sostanza, concepito in tutto il suo rigore : neir ipotesi dell' obbiettività del fenomeno, l'esperienza, la natura, non viene immolata a que- sto principio — nel qual caso V esistenza dell' Uno stesso non avrebbe più fondamento—, ma si cerca di accordarla con esso per mezzo dell'idea vaga di apparenza obbiettiva, distinguendo il fenomeno can- giante e Vessensa immutabile (1). (1) L*obblezIon9 più forte contro quest'interpretazione sono le proposizioni dejrll Eleati sul valore della conoscenza sensibile e le Su tutto il periodo della filosofìa greca rap- presentato dai fisici dobbiamo fare un'osservazione generale, che si riattacca pure all'argomento di que- sto capitolo. Se questo periodo si mette in rapporto col susseguente, rappresentato da Platone e da Ari- stotile, si vede immediatamente fra le due tendenze filosofiche un'opposizione, che Aristotile esprime di- cendo che i fisici non hanno ricercato che il prin- cipio materiale, trascurando e anche sopprimendo l'altro elemento costitutivo della natura degli esseri, cioè il principio formale o essenziale (1). Ciascun es- sere, nella filosofia di Platone e di Aristotile, ha Indicazioni corrispondenti degli antichi testimoni, proposizioni e in- dicazioni che possono riassumersi cosi: bisogna rigettare la testimo- nianza dei sensi che ci mostrano il reale come multiplo e cangiante, e non credere che alia ragione, la quale ci prova che esso è uno e Immutabile (v. Parmenide versi 49, 53-56, Melisso Fr. 17, Arist. Ge- nerane et corrent l. I. VIU. 2-4, Met, 1. I. V. 11, De Melisso ecc. 974 b, Aristocle ap. Euseb. Praep. evang, XIV. 17, Plutarco ap. Easeb. Pr, ev. I. 8, Sesto Math. VII. 111-114, Cfr. Aristot. De Coelo 1. III. I. -2, Timone ap. Diog. IX. 23). Ma quest'obbiezione non po- trebbe essere decisiva. Platone si esprime similmente al soggetto della conoscenza dei seMsi e della realtà del senslbUe (v.p.e. Phaedo 83 a-b: qnam fallax oculornm, qnam faìlax anriam caeterornmqae sensunm sii considerano neqne nlli credat praeterqnam sibi, qnatenns ipse per se cogitet quodlibet eornm qnae sani per se, qaod vero per alia consideret exsistens in aliis alind nt nihil, existimet vernm; esse vero talia qnidem visibilia ac sensibilia, ecc.): tuttavia Piatone non intende certamente negare I-obbiettività della percezione sensibile. Né ci sembra sicuro, come crede il Zellei, che Aristotile abbia compreso la dottrina eleatlca nel senso della subblettività dei feno- meni. Non mancano in Aristotile dei luoghi che sembrano Invece suppone il contrario. Tale ò notevolmente quello che è già stato citato (1) Met. 1. I. III. 2 1. I. Vili. 3, De an, 1. I. I. 11, De pari, ani- mai, 1. I. I, De geii. et corr, 1. II. IX. 7 sqq., 1. II. VI. 4-6, Physa. 1. II. Vili. 2, 10, De Coelo 1. III. H. 5, ecc. 1 in se stesso, considerato come un tutto individuale, un principio interno di attività, che è irrudutfcibile alle energie proprie agli elementi materiali da cui esso è costituito. Questo principio è riposto nella essenza o nella forma speciale di ciascun essere, vale a dire esso è differente negli esseri specifica- mente differenti: ciascuna specie di esseri è gover- nata da leggi proprie ed è, per dir cosV, autonoma, queste leggi non essendo dei semplici casi delle leggi universali della materia, dei risultati neces- sari del concorso delle forze generali della natura. I ^sici invece tendono a spiegare le forme, cioè le a proposito di Eraclito, contenente un ravvicinamento tra qnesto filo- sofo e gli Eieati. C'ome si deve intendere, domanda Aristotile (Phys, 1. 1. II. 11, 14), la proposizione che tutto è uno ? forse nel senso che vi ha per tutte cose una stessa definizione? ma allora per gli Eieati, come per Eraclito, sarà la stessa cosa il bene e II male, l'uomo e 11 caval- lo; ecc. (cfr. Physs. 1. I. III. 3: è Impossibile che tutto sia uno per la forma, ma è solo possibile per la materia; è per la forma che le cose differiscono— pure contro gli Eieati). Qui Aristotile sembra at- tribuire agli Eieati un monismo che non sopprime la moltipllcità fe- nomenale, ma la riconduce all'unità della sostanza. Del più antichi testimoni l'altro che noi possiamo consultare sugli Eieati più che in semplici frammenti, cioè Platone, è incontestabil- mente più favorevole alla Ipotesi della obbiettività che a quella della subblettività del fenomeno. Infatti Platone stabilisce un rapporto sì Intimo tra la sua propria metafisica e (quella degli Eieati, che va sino ad attribuire a Parmenide la dottrina delle Idee-finzione che naturalmente non si può riguardare come un' immaginazione pura- mente capricciosa, ma in cui deve vedersi l'espressione in forma fan- tastica della proposizione astratta che vi ha una stretta connessione tra la dottrina delle Idee e la filosofìa eleatlca -. L'analogia fra V idea- lismo platonico e la metafìsica degli Eieati sarebbe in effetto assai colpente, se questi considerassero, al pari di Platone, il particolare e il cangiante come V apparenza obbiettiva dell'Essere immutabile. Ma se gli Eieati sopprimevano d'una maniera assoluta il multiplo e il cangiante, cioè tutta la natura, la dottrina eleatlca sarebbe la più s* LXI V nature particolari degli esseri, per le proprietà de- gli elementi materiali e per le forze generali da cui questi sono animati. Essi non concepiscono che un tutto abbia delle energie che non siano il risultato delle energie dei suoi elementi costitutivi, e perciò gli esseri particolari, p. e. gli esseri viventi, non potrebbero, secondo essi, essere governati da leggi particolari ; da per tutto essi non possono vedere che l'azione delle leggi generali che governano la materia. In una parola noi troviamo nei fisici i primi rudimenti di una concezione della natura prevalente nella scienza moderna, cioè della spie- gazione fisico-chimica o semplicemente meccanica opposta al sistema delle Idee (più opposta che qualsiasi altra fra le dottrine del fisici), poiché le Idee non sono altra cosa che lo stesso multiplo e cangiante considerati nelle loro leggi, nelle loro forme generali. Gli argomenti di Zenone e di Melisso contro li movimento, sic- come negano slnanche la possibilità di questo — 11 primo facendo ri- sultare dal concetto del movimento delle conseguenze contraddittorie, 11 secondo negando 11 vuoto e sostenendo che esso è la condizione del movimento — possono sembrare una prova decisiva contro l'In- terpretazione che farebbe del movimento un fenomeno obbiettivo* Ma del filosofi moderni hanno ritenute le obbiezioni di Zenone contro 11 movimento Insolubili, e tuttavia non ne hanno negato l'obbiettività. Hamilton, p. e., dice: Gli argomenti di Zenone provano che 11 movi- mento^ quantunque certo come fatto, non può essere concepito come possibile, perchè esso implica contraddizione (V. Mlll. Filos. di Ha- millon e. 24". In queste difficoltà del movimento Hamilton vede un caso della legge che condanna lo spirito umano a delle antinomie insolubili, tutte le volte che tenta di oltrepassare la conoscenza del fenomeno, in cui esso è necessariamente circoscritto: queste antino- mie provano, secondo lui, che noi non conosciamo l'assoluto, ma solo il condizionato, cioè solo « le manifestazioni relative d' un'esistenza in se stessa iacomprensiblle. »— /,a fllos, dell'assoluto nei Frammenti della fllos, di Hamilton tradotti da Peisse pag. 20. —) Così gli argo- menti di Zeuone dimostrerebbero, secondo Hamilion, che il mondo di tutti i fenomeni del mondo fisico. Ma ascoltiamo Aristotile : « I fisici, i quali dicono che è la mate- ria che produce gli esseri per il suo movimento, distruggono l'essenza e la forma. Essi attribuiscono certe forze ai corpi, e ne fanno produrre le cose d'una maniera puramente meccanica, sopprimendo la causa secondo la specie (cioè il principio formale o l'essenza). Dopo avere supposto che la natura del freddo è di concentrare le parti della materia e quella del caldo di disgregarle, e che ciascuno degli altri principii di quest'ordine agisce naturalmente o pa- tisce d'una certa maniera, è da tali principii e psensibile non è la realtà assoluta, ma non che è un semplice feno- meno subbiettivo. Ma ciò che prova d'una maniera più diretta che Zenone poteva «conservare al movimento un resto di realtà obbiettiva, anzi ciò che può riguardarsi come un indizio importante che tale effettivamente sia stata la sua opinione, è la forma in cui 1 Megarlcl presentano gli argomenti del loro predecessore. Il megarlco Diodoro Crono, dopo, aver provato, secondo Zenone, l'impossibilità del movimento, aggiun- geva che, se non è vero dire del mobile che si muove, si può^tutta- vla dire che si è mosso. i\. Sesto Empir. iV«/A.X. 48, 85 e sqq. V, U3 Pyrrh, 11.242,245,111.71, ecc.). Per comprendere questa distinzione,, bisogna tener presente che gli argomenti di Zenone erano fondati sulle difficoltà derivanti dal concetto della continuità del movimento (cioè del passaggio successivo del mobile per tutti 1 punti interme- diari fra due posizioni distinte — v. questo Saggio parte 2" Le anti- nomie della ragione). Secondo Diodoro Crono, si può dire si è mosso perchè effettivamente il mobile occupa successivamente delle posi- zioni distinte; ma non si può dire si muove, perchè il movimento non è continuo. Non essendovi continuità nel movimento, Il corpo Sta successivamente in ciascuna delle posizioni successive che esso occupa, e non si muove mal ; per indicare che 11 corpo occupa una nuova posizione, si può usare il perfetto, che Indica 11 termine del- l'azione, l'azione compiuta, ma non mal il presente, che indica l'azione stessa, l'azione che si compie. (Confr., per il senso della distinzione tra si muove e si è mosso, Arist. Fhffs, I. VI. I. 8). La distinzione di LXTI tali cause eh' essi dicono tutte le cose esser prodotte e perire. Essi fanno come qualcuno che attribuisse alla sega e agli altri strumenti la causa della produ- zione degli oggetti fabbricati da un artigiano » (1). E altrove: Non bisogna imitare gli autori antichi, i quali dicevano piuttosto come gli esseri si gene- rassero che come fossero; poiché gli esseri non sono così perchè così sono prodotti, ma piuttosto sono prodotti così perchè così sono, cioè perchè tale è la loro forma, come avviene per un edifìzio, la ge- nesi di ciascuna cosa essendo in grazia della sua essenza, e non viceversa. Non bisogna dunque fare Dlodoro Crono, per la stessa forma eonti-addlttorlacon cui è espressa, t;l indica che es.«4a non era destinata, nell' Intenzione di questo filo- sofo, a salvare 11 movimento, rettificandone 11 concetto per la elimi- nazione di un elemento falso, cioè della continuità. Dlodoro Inten- deva dimostrare, come Zenone, la natura contraddittoria e V Impos- sibilità del movimento, quantunque esso fosse un fatto attestato dal- l'esperienza ; V essersi mosso senza muoversi mal, l'esistenza d'un fatto Impossibile, provava che questo fatto non era veramente rraìe, che esso non era che un semplice fenomeno, quantuntiue obbiettivo (dal luoghi citati di Sesto risulta chiaramente che Diodoro ammetteva la non realtà del movimento e al tempo stesso la sua obbiettività}. In ogni caso 11 movimento, per 1 Megarlcl come per gli Eleatl, non poteva consistere In altra cosa che nell' apparizione successiva di fenomeni perrettameute slmili (p. e. una certa forma cou un certo colore) in posti differenti, non nel trasporto, a traverso lo spazio, della sostanza stessa, del sustrato di questi fenomeni; poiché tutte le differenze del reale, che costituiscono una moltlplicltà di cose, non sono per loro che delle apparenze che si mostrano in diversi punti del sustrato comuna, par se stesso omogeneo (e ciò tanto nell'ipotesi della obbiettività di queste apparenze, quanto in quella della subblettività). Data questa concezione del movimento, la sua obbiettività fenome- è conciliabile con l 'immobilità dell'essere vero* La dottrina di Dlodoro Crono sul movimento è, per la nostra qulstlone, un dato tanto più importante, che da questa dottrina si può (1) De Cren, et corr, 1. II. IX. 7 e sqq. come GIRGENTI (vedasi), il quale spiegava molti caratteri degli animali per qualche accidente loro avve- nuto quando furono prodotti; attribuendo p. e. tal conformazione della spina all' essersi spezzata per contorsione. Se l'uomo consta di tali membra, è perchè tale è l'essenza dell'uomo : senza di queste membra non sarebbe uomo, ed è così perchè non potrebbe essere altrimenti, o perchè così è il me- glio. Ma gli antichi non cercarono che il principio materiale e la causa analoga : quale fosse, e come il tutto ne nascesse, e per qual causa motrice, p. e. la concordia e la discordia, o la mente, o anche argomentare che la scuola megarlca in generale non rigettava d'una maniera assoluta la pluralità e il divenire.Ora questa scuola non fa- ceva che continuare la filosofia defjrli Eleati (l'opinione che 1 Megarlcl hanno -ammesso le Idee prima di Platone, non che è una congettura ar- bitraria di alcuni critici moderni, ch'è impossibile di ammettere quan- do si è compreso lo scopo e l'origine dell'ipotesi delle Idee). La stessa conclusione, cioè che 1 Mogarlcl (e quindi probabilmente anche gli Eleati) non rigett;ìvano assolutamente il cangiamento, sembra risul- tara dalla confutazione della dottrini megarica sulla pos^ilbilltà, che troviamo In Aristotile Met, 1. Vili. III. I Magarlci negano ciò che In linguaggio aristotelico si chiama la distinzione tra potenza ed atto: essi non ammettono che Vatto, ma non la, potenza; per loro, in altri termini, non è possibile se non ciò che e reale, ciò che è avvenuto o ch3 avverrà; ciò che non è avvenuto e non avverrà, secondo loro, non poteva avvenire e non potrà avvenire, (v. Cicero De fato 7. 9, Plu- tarco Ds Stoicor, repugnant. XLVI, ecc. su Dlodoro Crono — non ab- biamo alcun motivo per ammettere che la tesi di Diodoro Crono fosse differente da quella dei primi Megarlcl.) Aristotile obbietta che questa tosi renle impossibile il divenire (o, com'egli dice, 11 movimento e la ffenerasioue), perchè so ciò che non è in atto non è nemmeno i?i po- tenza, ne segue che ciò che presentemente non è, non è possibile che di- venga in avvenire (art. 4|. È evidente che nessuno dimostrerebbe per l'assurdo la falsità d'una tesi, mostrando che essa condurrebbe logi- camente afl uni proposizione, che per lui è evidentemente falsa, ma «he per 1 sostenitori della tesi confutata è la verità fondamentale del I una causa puramente meccanica; la materia soggia- cente avendo insita una certa natura necessaria, co- me fervida il fuoco, fredda la terra, e l'uno leggiera, l'altra grave; ed è così che essi generano Tuniverso. E così anche dicono della produzione delle piante e degli animali; p. e. che scorrendo l'acqua nel corpo» si sia prodotto il ventre e ogni ricettacolo del cibo e dell'escremento, e le narici si siano aperte per il passaggio dell'aria. I fisici espongono l'origine e la causa delle forme degli esseri viventi come un fab- bro che parlasse d' una mano di legno : dicono da quali forze siano state fabbricate ; il fabbro parla foro sistemi. (Il Zeller — 2* parile pag. 220— crede che la negrazlone^ della potenza è le;j:ata, nel con?3tto dei Megarlcl, a quella del dive- nire: ma la d:^duzlon3 di Aristotile è forzata; fra le due dottrine non può e^^servl In realtà alcuna connessione, tanto più che n^n vi ha ragione, come abb'amo osservato, di distinoruere la tesi del primi Megarlcl da quella di Diolora Crono). La stessa osservazione vaie, «^ a più forte ragione, pe.' l'obbiezione Immediatamente prv?cedente. In conseguenza della tesi del Megarlcl. dica Aristotile, « non vi sarfi nò e lido né freddo né dolce né assolutamente alcun sensibile all'infuorl della sensazione; per cui avverrà loro «li <llre la proposizione di Pro- tagora «(art. 2.) Qui la forma stessa In cui è espressa T obbiezione esclude indubbiamente che i Megai'lci ammettano gifi la dottrina di Protagora (cioè che il sensibile non esista) se' non in quanto è sentito) Intanto, se secondo 1 Megarlcl e gli Eleatl !1 multiplo e il cangiante non consistesse che in fenomeni subbiettlvl, la loro dottrina sarebbe glfi quella di Protagora, cioè essi ammetterebbero della maniera più esplicita l'assurdità a cui vuole forzarli Aristotile. * che non vi ha né caldo né freddo né dolce nò assolutamente alcin sensibile all'in^ fuori della sensazione ». Ma il più forte argomento contro V interpretazione del sistema eleatlco nel senso della subbiettiviti\ del fenomeno ci sembra il rap- porto tra Xenofane e gli eleatl posteriori. Pare certo, sia per ce»-te proposizioni di questo filosofo sulla divinità (v. Fr. 3 Muli. : Dio muove o governa il tutto — che cosa governerebbe Dio, se non esi- stesse una natura?—-), sia per le sue opinioni cosmologiche, ch'egli d iscure e di trapano, essi di terra e d' aria. Ma meglio il fabbro, il quale sa che non basta il dire come mediante lo strumento si sia formato il cavo e il piano, ma aggiunge che ciò avvenne, perchè egli aggiustò i colpi d'una tale maniera e a tal og- getto, cioè affinchè l' opera ricevesse una forma tale (1). Altrove Aristotile paragona i fisici a qual- cuno che pretendesse di spiegare la forma di un edifizio, dicendo che i gravi si portano natural- mente in basso e i leggieri in alto, e che è perciò che le pietre e le fondamenta si trovano nella parte inferiore dell' edifizio, al di sopra la terra perchè non rigettava assolutamente II cangiamento e la natura sensibile (v. pure nel Ds Melisso ecc. e. ì9 sul. prJno. un' obbiezione coatro Xenofane dalla quale risulta ch'egli manteneva l'esistenza del mul- tiplo). Intanto le testimonianze più autorevoli attribuiscono allo stesso Xenofane la dottrina dell' Immutabilità assoluta dell'essere e della non realtà del cangiamento (Aristotile Met, 1. I. V. 910, Arlstocle ap. Ettseb. Pr, er, XIV. 17, Plutarco ivi 1-8, Sesto Empir. P(jrr1t, I. 225, esc. I Quand'anche l'Indicazione già citata di Teof rasto sul ri- poso e il movimento dell'uno— tutto dovesse intendersi, non nel senso che Xenofane esc»ludeva da esso tanto l'uno quanto l'altro, ma in quello che Teofrasto non può attribuirgli la dottrina nò della realtà né della non realtà del movimento, questa indicazione non potrebbe farci ri- gettare le altre tostimonianze, che identificano la dottrina di Xeno- fane con quella degli Eleatl posteriori: essa proverebbe soltanto che nella prima vi era qualche incoerenza, che si spiegherebbe suppo- nendo che, per gli Eleatl, la realtà del movimento e, in generale, del sensibile era qualche cosa di equivoco. Ma se si suppone col Zeller che Xenofane ammetteva assolutamente la realtà dei cangiamento e del sensibile, e che gli Eleatl posteriori la rigettavano assolutamente, non si comprende più il rapporto tra l'uno e gli altri, e non si vede come gli antichi potessero identificare le due dottrine. La quistlone : i fenomeni hanno per gli Eleatl un'esistenza ob- biettiva o subbiettiva ? non deve confondersi con quest'altra : la fi- sica che Parmenide espone nella 2^^ parte del suo poema ha o no un (1) De parU anim, 1. I. I. meno pesante, e alla sommità il legno perchè piti leggiero di tutti gli altri materiali (2). Non è semplicemente la teleologia e il carattere dialettico della filosofia di Platone e di Aristo- tile che mettono questa filosofia in opposizione a quella dei iisici. Vi ha fra di esse un'antitesi fon- data su due concezioni della natura, di .cui la meno metafisica non è, in tutti i punti, quella dei fisici. Senza dubbio le speculazioni sul principio formale o essenziale sono strettamente legate in Aristotile con la sua teoria della definizione — che, come ab- biamo visto, è un' applicazione di quella forma di valore reale ? La risposta a questa seconda quistlone, lo credo, non po- trebbe essere In ogni caso che negativa: Parmenide dichiara catego- rie imento che nella seconda parte del suo poema egli non esprime le sue proprie opinioni, ma delle opinioni che gli sembrano erronee. Certamente Parmenide qualifica pure come una semplice opinione del volgo la realtà d^lla moltlpllcltà e del cangiamento (Versi 99 e seg., luogo riportato nel testo; Teofrasto ap.Alex. In Phil. pr. Ari- stotells 1.3. ), e perciò potrebba credersi che la realtà ch'egli attribuisce alla fisica della 2* parte del suo poema sia necessariamente eguale a quella ch'egli attribuisce al multiplo e al cangiante. Ma non è così. Se Parmenide ha ammesso, come ci sembra più verisimile, l'obbiettività del fenomeno, la realtà del multiplo e del cangiante è secondo lui un'o- pinione falsa. In ciuanto V apparenza dell'essere veramente reale viene presa per 1' essere reale stesso; ed egli crede che, se quest'opinione fosse vera, sarebbe Indispensabile una fisica qual è quella della 2* partd^ del suo poema, fondata sul principio di una pluralità di sostanze primor- diali qualitativamente Immutabili (V- Arlst. MeU 1. I. V. 11 e Teofra- sto 1. e. ). Ma egli non chiamerebbe la sua fìsica un discorso fallace, un'opinione che non merita alcuna fede, per la semplice ragione che 1 fenomeni di cui essa tratta non sono degli esseri reali, come credono gli uomini, ma dei semplici fenomeni : se questa fisica contiene un'e- sposizione esatta dei fenomeni, essa è vera, quantunque non abbia per oggetto che del fenomeni privi di vera realtà. Oli antichi autori (Plu- tarco, Simplicio, ecc. ) che confondono la qulstione del valore della (2) Pft|/«. 1. II. IX. 1. (Confronta Plato. LeQcii 889). spiegazione metafisica che abbiamo chiamato filo- sofia apriorista — e con la sua concezione teleolo- gica del mondo — che è un' applicazione delPaltra forma, la più spontanea, di spiegazione metafisica, implicando, anche in quanto questa teleologia è im- manente, una certa assimilazione delle operazioni della natura a quelle dell'uomo—: a questi concetti Platone ne aggiunge degli altri più spiccatamente metafisici, cioè la realizzazione delle astrazioni e le altre dottrine connesse. Ma se noi sbarazzia- mo dai concetti metafisici con cui è legata, questa introduzione del principio formale o essenziale co- me principio così primitivo e irriduttibile nella costituzione degli esseri che quello della materia, e avente delle léggi proprie così primordiali che quelle della materia stessa; in altri termini se noi la riduciamo alla proposizione che gli esseri manifestano delle proprietà che non sono la risul- tante o la somma delle proprietà degli elementi materiali che li costituiscono; noi dobbiamo vedere in questa proposizione il risultato di una semplice osservazione dei fatti scevra da anticipazioni delVe- sperienza e da qualsiasi ipotesi. L'ipotesi dei fisici che non lascia negli esseri alcun principio di di- fislca del poema di Parmenide con quella della obbiettività del sensi- bile secondo Parmenide, non considerano U vero motivo e 1' origine del sistema eleatlco: questo sistema sarebbe Incompatibile col concetto di una pluralità di sostanze materiali tutte egualmente primordiali^ perchè l'uno degli Eleatl, come l'uno degli altri fisici, non è che 11 sustrato comune di tutti 1 corpi (l'essere, per 1 fisici e, al fondo, anche per gli Eleatl, non è che 11 corpo), e suppone la convertlblUtii reciproca di tutte le sostanze materiali. •■'j M^^ ^^ / ' '>«*l*fcr ; ts^TXatD- L riiiiprover< *^ AMIiftA* <|j dn^ftiiii^p^f»' il ^rmi'ifiic* fk4iia lormÈH < <leiLi i,^^',,^ ^ iuujf juLiÈii pari/ .iiirnHfilt- a rappi^ ^^^UàMti ai ^u^^c^u iki^i't e J,^-'iij.M-ni- *" i!^.iTnQiiitici 4^ ^:Mpe44M:àA- nui AtL^i^jiià*^ i.. -.^i-^na- i. ratti i /toi';/ A<} i6hA*fmà^, 1 metuuf: : mì, i^nn*^ la laro /i.*ii4/ i^CM piii MMUfTim * più K^iiiippaifc. f^ii ij^rdi^ ^tì^éi «ippJif4t'v<tiio C umx uiixnk^rkk \àu netta 4- Tx«roro#*i* #Mt?,«iiV4Hit, piti </<>;iiftioiii- n: rimprov4fro di Ari«iatiÌ€: i«n;;4^ i^ix MU^ «;Ofi*>if^w*friza (l*^i principio 4rt*?feKo fh*- 4f#ii j a/*«ivjiai <ij miti i fiisici . quM^o iinplii:ando ^ 'Mip»y»nioiijUi «in: i if...y, nau di UD tiitu. diff*-rit^fa <iitii e/ij>eti^At iUt)^Vì i^ii^mhnù da *-uJ - «UOo ^rHitituito < ili <;ui hi iAr><>M l'fia » |i*^r ironM^iru*fn2Ui una npi**- i^ii^/Àvui iii«.*i;< litJLica d»fllit vita *- d*^lla natura in s*^ è K' ^<^uaiituu<^u*- la liloMMia ;^re'-a poM^riore *ij /f;^/// piHii^Mi^- momU'dìi'ì aJtri *^M>nipi defila ten- 4t'u/>a filo*>*^h<a «li*- noi studiamo in que*jt*appen- d>4^ (Ij, tuttavia h,iiM)m.h non vi trov«^r*-nimo dei si- '1/ //i««««M>ii/,Éi ^Ì4?i ^tiuAityÌMj e*Mf y^mmn mm può ne nascere né JM»IM« ^*/i#-v*>U' nii-</y4ii-<>i /lÉfj «</u«;*-U#> «ieJlm mMWrui d^-llo stesso A- LXXllI sterni in cui l'impronta di questa tendenza sìa cosi marcata come in quelli di cui abbiamo parlato — ad eccezione, s'intende, delle dottrine che, come quella di Epicuro, non tanno che continuare delle dottrine più antiche — : cosi sarà per noi più interessante di osservare l'influenza dello stesso sofisma a priori che ha inspirato i fisici greci nella filosofia di un altro popolo antico, cioè degl'Indiani. Le tre principali dottrine ontologiche della fi- losofia Indiana, la sankifa, la vaiseschika e la vedan- tina, corrispondono in un certo modo alle tre scuole in cui possono dividersi i filosofi greci di cui abbia- mo parlato, cioè fisici unizzanti, fisici meccanisti ed Eleati. Secondo Colebrooke, la sankya (la scuola di Ra- pila) ha in comune coi fisici greci il principio ex nihilo nihil fit, « Ciò che non esiste, dicono i fi- losofi di questa scuola, non può per alcuna opera- zione possibile d'una causa ricevere l'esistenza». Cosi l'olio è nella semenza del sesamo prima che ne sia estratto. La natura della causa e dell'effetto è la stessa: un drappo non può differire essenzial- deUa materia, questa « p-sofonda verità» : «Tldentità del fondo per- manente deUo cose, l'eternità dell' oceano di essere, alla superfìcie del quale si svolgono le linee sempre oscillanti e variabili dell'indi- vidualità». (Renan Aoerroe e l'averroismo pag. 115). — Ricorderemo pure la singolare dottrina del Timeo di PI itone, secondo la quale i corpi elementari — i quali sono dei poliedri regolari e consistono nelle superficie da cui sono terminati — si trasformano gli uni negli altri per la 1 >ro decomposizione nei piani che li costituiscono e una nuova composizione degli stessi piani in altri solidi di una forma differente (v. Plato Timeo 53 e. 1. 57 b, Arist. De Coelo 1. HI. I-III VII, ecc.). È una specie di atomismo, in cui gli adorni sono non dei corpi ma delle superficie. LXXII stinzione, non vedendo nelle loro proprietà speci- fiche che il risultato delle proprietà degli elementi materiali e delle forze che agitano tutta la materia, non è meno metaempirica nella sua origine che le concezioni teleologiche e dialettiche di Platone e di Aristotile. Questa ipotesi non è semplicemente le- gata alla fisica meccanista : certamente il rimprovero di Aristotile, di distruggere il principio della forma o della specie, s'indirizza particolarmente ai rappre- sentanti di questa fisica, a Democrito e sovratutto ad Empedocle ; ma Aristotile lo estende a tutti i fisici in generale. I meccanisU\ sia perchè la loro fisica era più moderna e più sviluppata, sia perchè essi applicavano d'una maniera più netta e rigorosa il principio che Tessere non può né nascere né pe- rire, davano più occasione al rimprovero di Aristotile: ma la concezione della natura a cui esso viene di- retto era una conseguenza del principio stesso che era l'assioma di tutti i fisici, questo implicando l'impossibilità che Y essenza di un tutto differisca AM^'essensa degli elementi da cui è stato costituito •e in cui si risolverà, e per conseguenza una spie- gazione meccanica della vita e della natura in ge- jierale. §. 8^ Quantunque la filosofia greca posteriore ai fisici potrebbe mostrarci altri esempi della ten- denza filosofica che noi studiamo in quest'appen- dice (1), tuttavia siccome non vi troveremmo dei si- (1) L'influenza del principio che Tessere non può né nascere né perire potrebbe ritrovarsi nel concotto della materia dello stesso A- xistotile. Secoudo Renan, Aristotile ha ammesso, per la sua teoria Il « stemi in cui l'impronta di questa tendenza sia così marcata come in quelli di cui abbiamo parlato — ad eccezione, s'intende, delle dottrine che, come quella di Epicuro, non fanno che continuare delle dottrine più antiche — : cosi sarà per noi più interessante di osservare l'influenza dello stesso sofisma a priori ehe ha inspirato i fisici greci nella filosofia di un altro popolo antico, cioè degl'Indiani. Le tre principali dottrine ontologiche della fi- losofia Indiana, la sankya, la vaiseschika e la vedan- tina, corrispondono in un certo modo alle tre scuole in cui possono dividersi i filosofi greci di cui abbia- mo parlato, cioè fisici unizzanti, fisici meccanisti ed Eieati. Secondo Colebrooke, la sankya (la scuola di Ka- pila) ha in comune coi fisici greci il principio ex nihilo nihil fit, « Ciò che non esiste, dicono i fi- losofi di questa scuola, non può per alcuna opera- zione possibile d'una causa ricoA^ere l'esistenza». Così l'olio è nella semenza del sesamo prima che ne sia estratto. La natura della causa e dell'effetto è la stessa: un drappo non può differire essenzial- della materia, questa « psofonda verità» : «l'Identità del fondo per- manente dello cose, l'eternità dell' oceano di essere, alla superficie del quale si svolgono le linee sempre oscillanti e variabili dell'indi- vidualità». (Renan Amrroe e l'averroismo). — Ricorderemo pure la singolare dottrina del Timeo di PI itone, secondo la quale i corpi elementari — i quali sono dei poliedri regolari e consistono nelle superficie da cui sono terminati — si trasformano gli uni negli altri por la 1 »ro decomposizione nei piani che li costituiscono e una nuova composizione degli stasai piani in altri solidi di una forma differente (v. Plato Timeo 53 e, 1. 57 b, Arist. De Coelo 1. IH. I-IIf VII, ecc.). È una specie di atomismo, in cui gli adorni sono non dei corpi ma delle superfìcie. mente dalla lana con cui è stato tessuto. Conforme- mente a queste premesse, i sankyas ammettono che il primo principio, da cui le altre cose derivano, la Prakriti o Pradhana, che è la causa materiale del tutto, contiene tutto in uno stato indistinto o invi- luppato. Tutto esce dal primo principio, e tutto vi rientra (alla fine del mondo), senza che perciò niente di assolutamente nuovo si produca e niente assolu- tamente perisca. La uscita o emissione degli effetti dalla causa e la riunifìcazione del tutto, cioè il ri- torno dell'universo al primo principio, ha per tipo la tartaruga che fa uscire le sue membra dal guscio e ve le fa rientrare di nuovo (1). Nella vaiseschika (scuola di Kanada) si trova qual- che cosa come una combinazione della dottrina degli Atomisti e di quella di Empedocle. Come elementi materiali questa scuola ammette cinque generi di atomi, corrispondenti ai quattro elementi dei Grecia a cui, come alcuni dei Greci stessi, ne aggiunge un quinto, l'etere. Questi atomi non sono tutti solidi ne destituiti di qualità sensibili, come quelli di Demo- crito; ma, come gli elementi di Empedocle, ciascuno è dotato delle qualità che noi osserviamo nella so- stanza corrispondente. Secondo l'esposizione di Co- lebrooke si può ammettere che questi atomi sono inalterabili, e che le proprietà dei composti sono la risultante di quelle degli elementi (2). L' anima è una sostanza distinta dagli elementi materiali, come Colebrooke Saggio sulla filos, degV Indiani trad. frane, pa- gine 37.39 Cfr. pag. 17. (2) V. Saggio mila fllos, degVInd, pag. 63-83. Cfr. pag. 218.220. lo provano le sue proprietà differenti ; ed è, come essi, imperibile ed eterna. La materia è per se stessa inerte, e il movimento le viene impresso dallo spi- rito (1). La proposizione che condensa la vedanta è: L'essere supremo (Brahma) è la causa materiale così bene che la causa efficiente dell'universo. Brahma è l'e- lemento etereo dal quale tutte le cose procedono e al quale ritornano tutte (2). Ma trasformandosi negli esseri finiti, Brahma non perde la sua identità, perchè i Vedantini non comprendono che l'essere reale possa nascere o perire. Nel Bhagavad-gìta (un episodio filosofico del Mahà-Bhàrata), che è una delle grandi autorità della filosofia vedantina, vi ha questa proposizione : Quod vere non est id fieri nequit ut existat, nec ut esse desinat qiiod vere est. La con- seguenza di questo principio è che Brama è l'essenza unica in cui tutte le cose si risolvono. Già il Veda dice: Tutto ciò che esiste ò Brahma; tutto ciò che (X) Colebrooke Op. ciU pag. 56 57, 52-5J (nota di Paut'aier), 73 (nota di Pauthier), (jcc. (2) Questo panteismo è fondato, come notammo altrove, sul con- cetto della materialità doU' anima e di Dio, e della convertibilità reciproca di tutte le sostanze materiali (cfr. FU, t£olog. § 6).— Lo idee degl'Indiani sugli demeriti e «ull'ordine della loro conversione re- ciproca sono analoghe a quelle dei Greci. Secondo il codice di Manu (V. Schlegel Saggio sulla lingua e la fllos, degl'Indiani, lib. 4. II) e secondo i Vedantini (v. Calebrooke pag. 202), gli elementi, nell'or- dine con cui procedono gli uni dagli altri, sono: l'etere, l'aria, il fuoco, l'acqua e la terra. I Vedantini ora identificano Dio con l'etere (Colebr. p. 163), ora ne lo distinguono (v. Regnaud in Rev. phil. t. 5. p. 536) e in questo caso fanno dell'etere l'elemento che^ procede immediatamente da Dio o dallo Spirito (sempre concepito nel senso del semimaterialismo dell'animismo primitivo). - I noi sentiamo per l'odorato o toechiamo per il tatto è Brahma. Dio è sotto fórma di schiavi e sotto quella di fuggitivi; egli è l'animale quadrupede in un luogo, e in un altro è pieno di gloria (1). La differenza tra la causa e l'effetto non invalida, dicono i Vedantini, la identità di Brahma come causa e come effetto. Un effetto non è altro che la sua causa; Brahma è unico e senza secondo, egli non è separato da se stesso esistente nel mondo deF corpi. Brahma è come il mare, il quale non è che acqua, ma in cui si osservano modiHcazioni distinte, quali la spuma, i flutti, ecc.; in realtà da una parte niente nel mare differisce dall'acqua di cui esso è foi-mato, <;ome, dall'altra parte, niente differisce dall'anima universale, di cui il mondo intero non è che una modificazione. Come causa dell'universo Brahma è simile ad una pezza di stoffa inviluppata, ed il mondo è simile a questa stessa stoffa sviluppata, di cui si riconosce la identità con la stoffa già in' viluppata (-2). Ma tiili comparazioni — le quali suppongono che nell'essere assoluto vi siano delle modificazioni reali — non esprimono d'una maniera adequata il pensiero definitivo dei Vedantini: questo è che l'Es- sere assoluto in se stesso resta immutabile attraverso tutti i cangiamenti a cui l'universo è sottoposto. Brahma è impassibile, inaffettato dalle modificazioni del mondo, come il puro cristallo che pare colorato (1) Colebr. Op, cit, p. 285-286. (2) Colebrooke Op, cit. pag.178, Rognaud Studi di filosofia indiana m Rev, phiL t. 5. p. 166, 171. LXXYir per il fiore rosso d'un ibisco, ma che in realtà non cessa di essere trasparente. Egli è lo stesso in tutte cose: non vi ha in lui diversità né variabilità; ne^ suna moltiplicità (1). La contraddizione tra quest'u- nità e immutabilità dell'Essere che è la sostanza universale^ e i cangiamenti e la pluralità delle cose è risoluta dai Vedantini, come dagli Eleati, distin- guendo il fenomeno e la realtà: questa distinzione corrisponde a quella del costante e del transitorio. Brahma, il solo oggelito costante^ è distinto da tutto il resto che è transitorio; Brahma solo è reale, il resto non è che apparenza (2). Diverse forme illu- sorie e diversi svisamenti sono rivestiti dallo stesso spirito. «Il soleluminoso, quantunque unico, tuttavia,* riflelituto nell'acqua, diviene multiplo: tale è pure l'ani- ma divina increata, per uno svisamento sotto diversi modi » (3). « Il mondo sembra reale, sinché Brahma non è compreso; ma Vgogi\ di cui l'intelletto è per^- fetto, con l'occhio della conoscenza percepisce che o- gni cosa è Spirito; egli conosce che queste forme cor- porali delle cose sono Spirito, e che fuori dello Spi- rito non esiste niente. Di tutto ciò che è visto, di tutto ciò che è inteso, non esiste che Brahma: tutto ciò che sembra esistere fuori di lui non è che un'il- lusione, come l'apparenza dell'acqua (il miraggio) nel deserto » (4). Brahma non si trasforma dunque che in apparenza: le forme cangianti degli esseri finiti non sono che vane immagini a cui non corrisponde altro ^ (1) V. Colebrooke Op. cit, p. 183-187 e p. 272 Atma-Bodha 35). (2) Kegnaud. (Studi di filosofia indiana) in Rev. phil. t. 4. p. 598. (3) V, Colebrooke Op. cit. pag. 178, 187. (4, Atni-Iiodha ("^ono.^c. dello spirito) di S'ankara, 7, 47, 48, 65, 64.. K di reale che Brahtna, l'essere immutabile ciie appa- risce sotto queste forme diverse. Qui si presenta la stessa quistione che per gli Eleati. Quando i Vedantini chiiimano il multiplo e cangiante una semplice apparenza, intendono perciò ridurre la natura a dei fenomeni puramente subbiet- ti vi, o quest'apparenza è per loro nn! apparenza obbieU Uva? Il QB^vaii^vQ fenomenale delle cose, per i Vedan- tini come per gli Eleati, non è il risultato di ricerche sulla natura della nostra conoscenza, dimostranti il v^alore relativo e puramente subbiettivo della perce- zione, ma è la conseguenza di questa premessa, che l'essere non può cominciare né finire, che le cose non possono cangiare di natura e di proprietà, unita a quest'altra, che non vi ha una pluralità di sostanze primordiali inconvertibili l'una nell'altra, ma una so- stanza unica che prende forme differenti. Dato questo motivo della dottrina, noi dobbiamo preferire d'inter- pretarla nel senso della obbiettività piuttosto che in quello della subbiettività del fenomeno. Quest'ultimo senso sarebbe d'altronde incompatibile con altre pro- posizioni dei Vedantini, notevolmente con le altre rappresentazioni del rapporto tra Dio e il mondo. Quando paragonano Brahma a una stoffa inviluppata e il mondo a questa stoffa sviluppata; quando dicono che Brahma si trasforma nelle sostanze corporali come l'acqua in ghiaccio, e che queste sostanze sa- ranno da lui riassorbite alla consumazione di tutte le cose; quando tra Brahma e le cose particolari stabiliscono lo stesso rapporto che tra la terra e i vasi fatti di questa terra o tra Toro e gli ornamenti d'oro; ecc.; i Vedantini affermano chiaramente l'ob- biettività delle forme finite. Questi concetti potreb- bero difficilmente coesistere con quello di M/igu, (cioè della fenomenalità degli esseri finiti), non vi sarebbe tra gli uni e l'altro alcuna gradazione pos^ sibile, se i Vedantini riguardassero il multiplo e cangiante come dei fenomeni subbiettivi, e non oome l'apparenza obbiettiva dell'Essere immuta- bile (1). § 9. Nella filosofia moderna il principio della im- mutabilità della sostanza si afferma sin dal risor- gimento del pensiero filosofico. La più parte dei primi filosofi moderni o inaugurano la spiegazione meccanica della natura o proclamano un panteismo, in cui Dio è concepito come 1' essenza sempe iden- tica a se stessa degli esseri transitori e variabili. Sotto la forma unitaria e panteistica, il principio deirimmutabilità della sostanza si trova, nel modo più accentuato, in (iiordano Bruno. Nelle esistenze finite egli non vede che lo manifestazioni diverse e cangianti di un essere in se stesso unico ed im- mutabile. « Quel tutto che si vede di differenza ne li (1) Negli Upanichad (sezioni finali dei Veda) vi ha già il concetto deirimmutabilità di Brahma, non che quello di Brahma sostanza comune di tutti gli esseri; ma non ancora quello di niaffci o del ca- rattere illusorio dolio cose sensibili (v. Regnaud Rev. phil. 4. p^ 589- -5)3). La successione cronologica dei concetti corrisponde cosi alla loro successione logica— Regnaud mostra che in S'ankara (il più ce- lebre commentatore dei vedanta-soutra, che sono il testo dei filosofi vedantini) o negli stessi ttoutra si trova già il concetto di mal/ a {Rev. phil. t. 5. p. 16]-166 e t. 6. p. 598), ciò che Colebrooke avoa negato (Colebr p. 206— Per S'ankara del resto ciò risulta abbastan^sa dalla citazione precedente). Manca perciò di fondamento la suppo- sizione di Colebrooke che questo concetto sia un impiestito degli ultimi scrittori vedantini a qualche altra scuola. corpi, quanto alle formazioni, complessioni, figure, colori ed altre proprietadi e comunitadi non è altro che un diverso volto di medesima sustanza, volto la- bile, mobile, corrottibile di un immobile, perseverante et eterno essere, in cui son tutfce forme, figure e mem- bri, ma indistinti e come agglomerati, non altrimenti che nel seme », ^cc. (1). L'essere primordiale non è dunque soltanto secondo Bruno il sustrato perma- nente di tutte le cose, di cui tutto ciò che vi ha in queste di vario e di cangiante non è che un modo di essere : esso è ancora il seno fecondo di tutto ciò che nasce, in cni ogni cosa preesiste, per dir cos^, allo stato latente, in modo che tutto ciò che viene all'esistenza non viene dal niente, non comincia d'una maniera assoluta, ma si spicca dal fondo permanente dell'essere, diventa manifesto, mentre prima era occulto. Ricordiamo la stoffa in- viluppata che si sviluppa dei filosofi indiani, e la tartaruga che fa uscire le sue membra dal guscio e ve lo fa rientrare. « Ogni potenza et atto, che nel principio è come complicato, unito et uno, ne le al- tre cose è esplicato, disperso e moltiplicato » (2). Tutto ciò che vi ha di vario negli esseri si trova nell'essere primordiale, ma fuso insieme, in modo da formare un'essenza assolutamente semplice e, per dir così, una massa perfettamente omogenea. « L'u- niverso è tutto quel che può essere, secondo un modo esplicito, disperso, distinto: il principio suo è \ unitamente et indifferendemente, perchè tutto è tutto et il medesimo semplicissimamente, senza differenza e distinzione » (1). « La potestà si assoluta non è semplicemente quel che può essere il sole, ma quel ch'è ogni cosa, e quel che può essere ogni cosa^ potenza di tutte le potenze, atto di tutti gli atti,, vita di tutte le vite, anima di tutte le anime, essere di tutti gli esseri. Onde altamente è detto dal rive- latore: Quel ch'è me invia, colui ch'è dice così. Però quel che altrove è contrario et opposito, in lui è uno e medesimo, et ogni cosa in lui è medesima» (2). Noi vediamo qui come Bruno, per conciliare l'unità dell' essere primordiale con la varietà degli esseri derivati, è condotto a delle idee analoghe a quelle di Eraclito (3). Il principio dell'identità dei contrari^ in Bruno, come in Eraclito, non deriva da conside- razioni dialettiche, come nell'idealismo tedesco, ma dal jirincipio che l'essere non può venire dal niente. La differenza tra Eraclito e Bruno è che, mentre» da questo principio il primo ne conclude immedia- tamente che gli opposti sono identici nelle cose^ stesse, il secondo immediatamente non ne conclude se non che tutti gli attributi delle cose devono tro- varsi nell'Essere primordiale, e solo mediatamente che in quest'Essere per conseguenza gli opposti de- vono essere identici, senza di che gli attributi re- ciprocamente incompatibili delle cose non potreh— bero coesistere in un essere unico e semplice.. (1) De la causa^ principio et uno, ed. Wagner p. 2Bi. (2) 0/>. ciU pag. 261. (1) Ivi. (2) Op, cit. p. 263. (3) Questo rapporto con Eraclito è sto,bilito dallo stesso autore Un'altra filosofia antica con cui il sistema di Bruno Ila uno stretto rapporto è quella degli Eleati, di cui egli loda e difende le dottrine. « Tutto quello, egli -dice, che fa diversità di geni, di specie, differenze, proprietadi, tutto che consiste ne la generazione, cor- ruzione, alterazione e cangiamento, non è ente, non è essere, ma condizione e circostanza d'ente e d'es- sere, il quale è uno, infinito, immobile, soggetto, materia, vita, anima, vero e buono » (1). « Quello che fa la moltitudine ne le cose non è lo ente, non è la cosa, ma quel che appare^ che si rappresenta mI senso ^ et è ne la superficie de la cosa » (2). In :un altro luogo della stessa opera (3) 1' universo è 'Chiamato un simulacro^ un' immagine^ un' ombra del suo principio. (Eicordiamo che « quel tutto che si vede di differenza ne li corpi » non è che « nn diverso volto » di « un immobile, perseverante et eterno es- sere »). Noi vediamo qui quanto Bruno è vicino al 'Concetto della fenomenalità del mondo degli Eleati ^ dei Vedantini (ammesso che per questi filosofi questa fenomenalità debba intendersi nel senso ob- biettivo), concetto che solo potrebbe dare un sebiante di soluzione alla contraddizione che vi ha tra l'immutabilità dell'Uno tutto e i cangiamenti del- l'universo. Potrebbe forse credersi che per Bruno questa contraddizione non esiste, perchè egli non attribuisce l'immutabilità che all' Uno in se stesso, nel suo stato implicito. Ma tale osservazione non toglie la contraddizione, indica soltanto il punto preciso in cui questa si trova. L' uno e il mondo non sono, nel sistema di &. Bruno, che è un pan- teismo rigoroso, due esseri distinti e separati: l'Uno vive nel mondo, vi è contenuto, perchè esso è la sostanza stessa del mondo. Ma Bruno astrae questa sostanza del mondo dai suoi modi di essere parti- colari, e ne fa un essere sussistente per se stesso, senza però staccarlo dal mondo, di cui, anche in questo stato di astrazione, esso continua ad essere la sostanza (1). L' Uno esiste dunque simultanea- (1) Per questa facilità a realizzare delle astrazioni Bruno ci ri- vela la sua posizione storica : come quasi tutti gli altri pensatori della Rinascenza, egli non é ancora un filosofo moderno, egli non e che a met l emancipato dalla scolastica. Molti concetti fondamentali della metafisica di Bruno portauo l'impronta di questa tendenza ad elevare a realtil .sussistente per se stessa l'indeterminato, ciò che non « che un prodotto dell'astrazione. Ciò non è vero soltanto del con- cetto dell'Uno (che, come abbiamo osservato, è una sostanza senza gli accidenti, quindi un'astrazione, e al tempo stesso una realtà, a cui competono degli attributi opposti a quelli del mondo, di cui non- dimeno è la sostanza). Bruno consini era le anime degli esseri partico- lari come le individuazioni di un'Anima universale unica, la quale non è già l'insieme delle anime o delle vite particolari, ma il loro principio, che esiste per sé stesso prima di particolarizzarsi e mol- tiplicarsi (s'intende d'una priorità logica e metafisica), press' a poco come un'Idea di Platone. La stessa materia (in astratto) sembra tal- volta vagamente realizzata. Cosi quando egli dice (in un luogo che cita Lange — t. 1", 2* parte e. 3" — per provare la tendenza mate- rialista di questo filosofo) che la materia contiene nel suo seno tutte le forme, e che queste escono dall' interiore della materia per l'at- tività della materia stessa, la quale le fa uscire da sé, simile alla parturiente, che per i suoi sforzi convulsivi spinge il figlio fuori del suo seno; allora, accordando alla materia un' anteriorità metafisic sulla formia, egli sembra considerarla come esistente per se stessa mente in due stati contrari : in se stesso, cioè nel suo stato astratto, egli è il tutto, ma allo stato im- plicito; nel mondo, egli è ancora lo stesso Uno, ma allo stato esplicito, disperso, moltiplicato. Ora è e- vidente che questi due stati opposti non potrebbero appartenere simultaneamente allo stesso essere, a meno che Bruno non dica con Platone e con Hegel (i quali tra le Idee e le cose stabiliscono lo stesso rapporto che Bruno tra 1' Uno e il mondo) che di questi due stati Tuno solo è reale, e V altro non è che apparente. In Telesio il principio dell'immutabilità della so- stanza arriva ad una concezione della natura che è assai vicina alla spiegazione meccanica, ma che al tempo stesso tiene strettamente ancora, come i concetti di G. Bruno, all' ambiente intellettuale di un'epoca, in cui i prodotti dell'astrazione vengono trattati come degli esseri concreti. Gli elementi delle cose sono secondo Telesio una materia indetermi- nata, senza qualità, e il caldo e il freddo che de terminano e qualificano questa materia. Il caldo e il freddo sono delle nature sussistenti per se stesse, che si contendono il dominio della materia: la ma* teria esiste dunque per se stessa indipendentemente indipendentemente daUa forma— Il principio generale applicato in questi concetti di Bruno è che il reale, considerato nella sua essen> za, la quale si risolve in principii astratti o indoterminati, é immu- tabile, e che il cangiamento non attinge che la superficie dell'essere; di più queste stesse determinazioni particolari e cangianti, che si producono alla superficie dell'essere, sono considerate non come pro- dotte dal niente, ma come tirate dal suo fondo permanente, che le cbntiene in se stesso ad uno stato implicito • involuto. dalle sue qualità, e queste indipendentemente dalla materia. Le altre proprietà contrarie che differen- ziano la materia sono ricondotte alla contrarietà fondamentale del caldo e dèi freddo: col caldo sono congiunte la tenuità, la luce, la mobilità; col freddo la spessezza, l'oscurità, l'inerzia. Le proprietà dif- ferenti dei corpi provengono dunque dalla presenza nella materia dell'uno o l'altro dei due principi! contrari, o dalla proporzione in cui l'uno e Taltro vi coesistono. Le proprietà medie sono la risultante del concorso delle proprietà opposte, che abbiamo indicato : così i colori provengono dalla mescolanza del bianco e del nero, cioè della luce e dell' oscu- rità. Ogni cangiamento si riduce perciò alla diversa distribuzione nello spazio del caldo e del freddo e- sistenti nell'universo: questi, della stessa maniera che il loro sustrato materiale, non nascono ne pe- riscono, sono sempre gli stessi e nella stessa quan- tità, e soltanto passano da un luogo ad un altro. Così niente si produce di assolutamente nuovo e niente assolutamente si distrugge : ogni cangiamento qualitativo si riduce al cangiamento nei rapporti degli stessi elementi, sempre identici a se stessi. Anche nel suo insieme l'universo resta immutabile, perchè i cangiamenti che si producono in un punto sono compensati da cangiamenti contrari che devono prodursi in qualche altro punto. Il caldo e il freddo sono forniti di senso : infatti, dice Telesio, questo non potrebbe trovarsi negli animali, nei composti, se esso non esistesse negli elementi (1). (1) V. Fiorentino, Bernardino Telesio, Telesìo ci fornisce un esempio molto evi- dente del fatto che, tutte le volte che lo spirito umano cerca di formarsi una concezione delle cose in conformità del principio dell'immutabilità della sostanza, egli è obbligato a girare, quando non arriva sino ad essi, attorno ai concetti del meccanismo, che soli permettono di realizzare questo principio d'una maniera intelligibile. Noi abbiamo già osservato come gli stessi fisici greci che ammettevano una so- stanza unica cercavano, come i meccanisti, di ridurre al movimento tutti i cangiamenti della natura. Le stesse immagini impiegate dai filosofi monisti i cui concetti sembrano i più lontani da quelli del mec* canismo — la stoffa inviluppata che si sviluppa, la tartaruga che spinge fuori le sue membra e poi le ritira, l'unione e complicazione delle cose nell'Uno e la loro dispersione ed esplicazione nel mondo, ecc. — ci mostrano che tutto ciò che vi ha di rappresen- tabile nelle loro oscure concezioni, perchè è la sola base sensoriale o empirica su cui esse si sono svi- luppate, si riduce a quelle stesse esperienze che, generalizzate d'una maniera coerente, danno ori- gine alla concezione meccanista, cioè a quelle e- sperienze che ci offrono come fenomeno il più fa- miliare la persistenza delle cose nelle loro proprietà e il movimento per cangiamento unico. Così niente dì più naturale che il ritorno della concezione mec» canica insieme a quello della chiarezza del pen- siero (1), e la pronta prevalenza di questa conce- (1) Per meccanica noi qui intendiamo una concezione deUii na- tura che consiste ad ammettere che tutti i fenomeni del mond» ob- zione nella filosofia moderna. Già Gralileo dice contro il concetto peripatetico della generazione e corru- zione : « Io non ^on mai restato ben capace di questa trasmutazione sustanziale, per la quale una materia A^enga talmente trasformata, che si deva per neces- sità dire quella essersi del tutto destrutta, sì che nulla del suo primo essere vi rimanga, e che un altra corpo, diversissimo da quella, se ne sia prodotto; ed il rappresentarmisi un corpo sotto un aspetto, e di lì a poco sotto un altro differente assai, non ho per impossibile che possa seguire per una semplice tra- sposizione di parti, senza corrompere o generar nulla di nuovo » (1). Ma è a dei filosofi un poco po- steriori, a Cartesio e agli altri celebri pensatori suoi contemporanei, fra cui bisogna mettere in prima linea Gassendi, il rinnovatore dell'atomistica, che si deve l'espressione rigorosa di questo principio, di- venuto quasi un assioma nella scienza moderna, che tutti i cangiamenti del mondo fisico si riducono allo spostamento di parti materiali in se stesse inalterabili. Fra le due dottrine sull' essenza della materia che possono servire di base a una concezione mec- biettivo sono dei fenomeni meccanici. Per conseguenza il significato^ in cui usiamo questo termine in questo paragrafo e nei due seguenti deve essere distinto da quello in cui l'abbiamo usato nel capitolo III, in cui filosofia meccanica è stato por noi Tequivalente di filosofia im- jmlsionista (cioè di una spiegazione della natura in cui non solo tutti i fenomeni del mondo fisico si riducono a processi meccanici, ma anche tutti i fenomeni meccanici al movimento prodotto per im- pulsione). Allora, conlormandoci all'uso di molti sostenitori di que- sto sistema, conia parola meccanica abbiamo designato utia specie j. di cui ora con la stessa parola designiamo il genere. (1) Dialoghi dei massimi sistemi Giornata l*". -r— j—I' canica soddisfacente alle esigenze della scienza mo- derna — quella di una materia continua e perfet- tamente omogenea in tutte le sue parti, e quella di molecole separate dal vuoto, omogènee qualitativa- mente e inalterabili, e solo suscettibili di differire per la forma o per la grandezza— è l'ultima senza dubbio che noi possiamo rappresentarci d'una ma- niera più netta. Quantunque, al punto di vista della possibilità di formarsene una rappresentazione, il concetto di molecole non aventi altra qualità che l'estensione e l'impenetrabilità non manchi anche esso di gravi difficoltà (che noi svilupperemo nella 2. parte di questo Saggio), tuttavia queste non sono «osi evidenti come quelle inerenti al concetto di una materia continua ed omogenea, quella sovra- tutto a cui si va incontro quando si cerca di rap- presentarsi il movimento e delle forme distinte al seno d'una massa continua ed assolutamente indifferente(l). Sarebbe interessante, ma molto al di sopra della nostra competenza, di -cercare se sia stato questo vantaggio della dottrina della discontinuità, cioè, nel fatto, dell'atomistica, che ha determinato la sua vittoria definitiva sulla dottrina della continuità, procedente da Cartesio. Ma, comunque sia di ciò, non vi ha dubbio che l'atomistica non sia stata al- l'origine, come la dottrina rivale di Cartesio, una speculazione a priori, cioè derivata dalle tendenze spontanee dello spirito, e non un'induzione logica tirata dai fatti. Gassendi, a cui si deve l' introdu- (1) V. il mio studio sulla dottrina della materia in Rosmini, fa- scicolo 1" la nota a pag. 15. il zione degli atomi nella scienza moderna, non in- tende che risuscitare la dottrina di Epicuro : così l'atomistica di Gassendi e dei fisici che lo segui- rono, non è ancora essenzialmente che quella di E- picuro e di Democrito. « Gli atomi di Boyle (che introdusse l'atomistica nella chimica) sono quasi gli stessi, dice Lange (1), che quelli di Epicuro, quali Gassendi li ha fatto rientrare nella scienza. Essi hanno ancora delle forme differenti, che influiscono sulla stabilità e l'inconsistenza delle combinazioni. Un movimento violento ora rompe la coesione di certi atomi, ora ne riunisce altri, i quali, come nel- l'atomistica antica, si appiccano gli uni agli altri con le loro facce piene di scabrosità, per mezzo di sporgenze, di dentelli, ecc. Quando avviene un can- giamento nella combinazione chimica, le più piccole molecole d' un terzo corpo s' introducono nei pori che separano due corpi combinati. Esse possono allora combinarsi con l'uno di loro, grazie alla con- formazione delle loro facce, meglio che questo non era combinato prima col secondo corpo; e il movi- mento precipitato degli atomi porterà via le mole- cole di quest'ultimo ». Naturalmente, come osserva Lange, questa forma dell'atomistica (che assimilava l'azione reciproca tra le molecole alle più familiari tra quelle che noi vediamo fra le masse sensibili) dovette soccombere allorché fu accettata la legge di Newton sull'attrazione : allora s' introdussero le attrazioni e le repulsioni tra le molecole, e le forme svariate di prima non furono più necessarie per (1) Stor, del mater, IV parte 2* e. 2'*. \ xc ispiegare la loro unione. Ma questa modificazione non spostava la base logica dell'atomismo: non si po- trebbe vedere, sotto il apporto del loro valore scien- tifico, una differenza essenziale tra l'atomistica del secolo 17^ e 18*^ e quella di Democrito e di Epicuro, perchè nessuna delle prove, in cui la scienza at- tuale riconosce il fondamento della teoria atomica, era conosciuta prima di Dalton. Dalton mostrando che nell'ipotesi, generalmente ammessa, degli atomi si poteva spiegare la regolarità dei rapporti di peso nelle combinazioni delle sostanze (la legge delle proporzioni fisse e quella delle proporzioni multiple) supponendo che gli atomi di ciascuna sostanza han- no un peso definito, e che ciascun atomo di una so- stanza si combina con uno o con due, ecc., atomi di un' altra sostanza, diede alla teoria atomica la base che essa ha attualmente nella chimica. Così gli atomisti contemporanei ammettono che è Dalton che fece entrare la teoria atomica nella sua fase sperimentale: nessuno, dice Naumann, ha dimostrato coi fatti, prima di Dalton, i dritti e l'utilità dell'a- tomistica (1). Noi possiamo dunque, senza esitazione, classare Tatomistica moderna, prima di Dalton, non meno che quella di Democrito e di Epicuro, tra i prodotti di questa tendenza spontanea che ha il no- stro spirito ad ammettere che 1' universo è sostan- zialmente immutabile^ o, come dicevano i fisici greci, che l'essere non può venire dal non essere, né ri- dursi al non essere. Così 1' assioma dei fisici greci noi lo ritroviamo negli atomisti moderni, in termini che ricordano, della maniera più precisa, Anassagora^ Empedocle e Democrito. D'Holbach, p. e., dice : « A parlar esattamente, niente nasce e muore nella na- tura; vi ha solamente una combinazione ed una se- parazione di ciò che era combinato » (1). Sembrerà una coincidenza singolare che la scienza sia venuta a confermare ciò che non era che una semplice veduta a priori dello spirito, la quale, co- me tutte le altre ipotesi che si sono immaginate sui così detti principi i ultimi delle cose, non aveva la sua sorgente che nella sofistica naturale dello spi- rito umano. Potrà anche sembrare più sorprendente che la conferma del principio degli antichi fisici che non vi ha né generazione né corruzione, cioè che le cose non 'possono cangiare di natura e di proprietà, sia venuta appunto dalla chimica, la quale, se dobbiamo stare ai risultati immediati del- l'osservazione, ci mostra invece che tutto cangia continuamente e della maniera più radicale di na- tura e di proprietà, poiché il carattere proprio della combinazione chimica, che la distingue da una sem- plice mescolanza^ é di far disparire completamente le qualità fisiche delle sostanze che si combinano, dando luogo ad una nuova sostanza, le cui proprietà, ad eccezione del peso, non possono dedursi dalle proprietà degli elementi da cui essa risulta. Qui il progresso delle acquisizioni positive della scienza si fa in una direzione opposta a quella seguita dalle (1) Eleni, di termo chimica, citato da Lange St, del vint. voi. l" nota 2 alla S'* partj. (1) SisU della rutt, 2. p. e. V. h XCII sue ipotesi. Mentre i primi chimici supponevano, conformemente alle tendenze spontanee della cre- denza, che il composto doveva avere delle proprietà identiche o simili a quelle degli elementi — a prio- ri, noi ci attenderemmo infatti che le proprietà del composto dovrebbero essere la somma o la media di quelle dei componenti, ciò che è la suggestione delle nostre esperienze più familiari —, la chimica, moderna invece, mostrando il contrario, si è for- mata in opposizione a queste tendenze spontanee — è perciò che il risultato di una combinazione chi- mica sembra un fenomeno sorprendente e misterioso: ma la teoria atomica procede assolutamente nel senso di queste tendenze stesse, riducendo ad una semplice congiunzione e separazione di ele- menti, senza cangiamento qualitativo, ciò che la semplice osservazione immediatamente dà come una conversione dì più sostanze in una nuova sostanza unica, e una riconversione di questa sostanza nelle sostanze primitive. Ciò che si deve osservare è que- sto carattere comune che la teoria atomica ha con le dottrine metafìsiche, cioè di ricondurre dei fatti che ci sembrano sorprendenti, perchè relativamente poco familiari — e si noti, dei fatti generali, delle uniformità della natura, che potrebbero ben essere dei fatti ultimi che non ammettono spiegazione — ad altri fatti che ci sembrano naturali ed evi- denti per se stessi, perchè estremamente familiari. Noi abbiamo osservato che, quando Democrito ri- conduceva i fenomeni del cangiamento nello stato fisico dei corpi ai diversi rapporti di elementi co- stitutivi invariabilmente solidi, egli da\ a una spxeni gazione di questi fenomeni, nel senso popolare o metafisico della parola spiegazione, cioè riducendo ciò che è meno famliare a ciò che è più familiare : questa osservazione si applica pure naturalmente alla odierna ipotesi della costituzione molecolare della materia, poiché, qualunque sia la differenza del modo in cui Democrito e di quello in cui il fisico moderno si rappresentano i rapporti tra le molecole per costituire i differenti stati fisici della materia, e quali si siano i motivi che il fisico mo- derno può avere, in più di Democrito, per ammet- tere che un fluido non è fluido in tutte le sue mi- nime parti, come si presenta all'osservazione, ma è un aggregato di particole solide ; malgrado queste differenze, vi ha l'uguale risultato di ricondurre dei. fenomeni relativamente poco familiari a un feno- meno estremamente familiare, qual è quello., cnoi vediamo a ciascun istante, di corpi che, restando gli stessi, cangiano unicamente le loro posizioni reciproche. Questa riduzione di ciò che è relativa- mente strano e non familiare a ciò che per la sua familiarità sembra assolutamente naturale e non avente bisogno di alcuna spiegazione, è più evi- dente ancora nella spiegazione del chimico che ri- conduce ciò che per la semplice osservazione non è che una conversione reciproca di sostanze — le combinazioni e decomposizioni chimiche — alla con- giunzione e separazione di particole inalterabili. Non è meno evidente infine che quando il fatto della regolarità dei pesi secondo cui si combinano le sostanze, viene spiegato, supponendo che ciascuna, sostaiza semplice è costituita di particole eguali indivisibili, e che le particole pure eguali in cui si divide la sostanza composta si formano per l'u- nione di queste particole ultime delle sostanze ele- mentari, di cui ciascuna conserva la propria inte- grità; allora il fenomeno che serve di intermediario esplicativo è, come nelle spiegazioni metafìsiche, un fatto che sembra più comprensibile in se stesso, perchè è più familiare, del fatto che si tratta di spie- gare. La regolarità dei rapporti di peso nelle combi- nazioni chimiche sembra, per una necessità psicolo- gica, al chimico stesso, un fenomeno sorprendente e misterioso, perchè non è un dato della sua esperienza di tutti gl'istanti (come, p. e. l'urto o il movimento volontario), ma non si rivela a lui che nelle ricer- che ch'egli fa nel suo laboratorio; al contrario, noi siamo perfettamente abituati (non meno che alle espe- rienze dell'urto o del movìmentc volontario) a ve- dere gli oggetti più familiari che ci circondano con- servare In. loro integrità, e non cangiare che di posto; e un'esperienza egualmente familiare mo- strandoci che questa facoltà che hanno gli oggetti materiali di conservare la propria integrità è in rapporto con la loro durezza, noi troviamo affatto naturale che dei corpi infinitamente duri, come si suppongono gli atomi, siano anche assolutamente indivisibili (l). A questo tratto comune che l'ipotesi (1) L'Ipotesi di alcuni fisici moderni della elasticità degjli atomi è evidentemente una deviazione dal tipo, per dir cosi, naturale dei <;oncetto dell'atomo. L'elasticità de^li atomi si ritiene indtspenfiiabile per la teoria cinetica dei gas, secondo la quale un gaz è costituito da tlarticole solide che si muovuono continuamente In tutte le dlrezlonj xcv della costituzione molecolare e atomica della mate- ria ha con le ipotesi metafìsiche bisogna aggiungerne un altro: è che le molecole— intendendo per questa parola i corpuscoli distinti e separati in cui la ma- teria si suppone in atto divisa, ma senza includervi possibili. Affinehò dopo jjli urti delle particole 11 movimento non sia perduto, ed esso possa essere perpetuo, le particole devono essere per- fettamente elastiche; se fossero ine'astiche o imperfettamente elasti- che, vi snrebbe perdita di movimento ad ogni incontro. Si ritiene pure che relasticità assoluta dej^M atomi sia reclamata dal principio della «conservazione dell'energia; poiché la perdita di movimento nell'urto dei corpi duri e inelastici si concilia con questo principio ammettendo che 1! movimento della masse diviene un movimento Interiore delle loro molecole; spiegazione naturalmente Inapplicabile nell'urto delle particole ultime della materia, che non sono esse stesse costituite di particole più piccole. Ma è evidente che l'atomistica non può ammettere il concetto dell'elasticità degli elementi ultimi della materia, che fa- cendo violenza a!le sue esigente più naturali: sia pò. che 1' indivisi- bilità dell'atomo non si spiega e non sì concepisce che nell' ipotesi della sua durezza e rigidità assoluta; sia perchè la contrazione e la dilatazione del corpi è, ualla teoria atomica, Teffetto della dimi- nuzione o dell'aumento del vuoto compreso tra le parti materiali. — TTn'idea notevole, perchè mostra di una maniera palpabile la contra- dizionl tra il con ;etto dell'elasticità dell'atomo e l presupposti ge- nerali dell'atomismo, è (luella emessa dal Lange [St, del mater v. 2^ parte 2* e. 2") secondo la quale l'atomo (elastico) si comporrebbe di sotto atomi, e <iuesti ancora di sottoatomi inferiori, e così all'infinito. E evidente che di questa maniera 11 concetto stesso dell'atomo sparirebbe, perchè ogni minima porzione di materia sarebbe, non solo divisibile, ma divisa già In atto. DI più noi abbiamo in quest'idea di Lange la inconcepibilità latente della divisibilità della materia all'infinito resa evidente, e, per dir così, sensibile, per questa sostituzione al concetto della divlslbUità «lei concetto di una divisione attuale, e in parti se- parate dal vuoto.— Un'altra deviazione dall'atomismo naturale, desti- nata a risolvere le accennate ed altre difficoltà della teoria, è l'ipo- tesi di Thomson, secondo cui gli atomi sarebbero del turbini formati da movimenti rotatori in un fluido continuo e assolutamente omo- geneo. In un tal fluido questi turbini sarebbero permanenti. E una ipotesi fondata sulle ricei'che che Helmholtz avea fatte sugli anelli - l'idea deir indivisibilità di questi corpuscoli — (1) e tanto più gli atomi, non sono, come gli esseri tra- scendenti della metafìsica, delle vere cause, nel senso che questi termini hanno nella celebre regola di Newton; vale a dire si tratta di esseri ipotetici di una natura affatto particolare, tale che l'esperienza turbini — un Mottil© anello di ]i<iuIdo di cui clascunH molecola è ani- mata da un movimento di rotazione attorno dell'aneUo In un piano per- pendicolare a quello di quest'anello— .Helmoitz mostrò che, se non esi- stono attriti esteriori, un tale sistemasi manterrà indefinitamente in e- quilibrio ( V.Henrlot Ipotesi attuali sulla costituzione della materia p.9). L'ipotesi di Thomson è, come si vede una fusione dell'atomistica con la dottrina cartesiana d*una materia continua e assolutamente omoo:ea, ed essa si conforma alla condizione jrenerale della teoria meccanica, di ammett3re cioè 1' inalterabilità della materia e di ridurre tutti i canj?lnmenti al movimento. Se non che ciò che nella concezione di Thomson fa la funzione di materia b una materia, per dir così, tra- scendentale, non è la nostra materia: la nostra materia consiste, nel- l'ipotesi di Thomson, nel turbini, cioè In certi movimenti, che hanno luogo in questa materia trascendentale. Ciò sujarj?erisce una riflessione sulla natura di (juesta ipotesi, la (juale dimostrerebbe forse che essa non ha che /// apparenza una base sperimentale. Thomson dota di certe proprletrX il suo fluido ipotetico per anaioj;ia al nostri fluidi, al fluidi dell'esparienza, e da questa proprietà deduce la sua ipotesi. Ma la inferenza dai nostri fluidi al suo fluido ipotetico è leggittimat Io credo che Thomson non sia autorizzato a trasportare al suo fluido Ipotetico né le proprietà del nostri fluidi né qualsiasi altra leg^e del mondo materiale. Le legaci della natura fisica, cioè della materia, non possono essere, secondo Tomson, che l'espressione generale del modo di comportarsi del suoi atomi— turbini nei loro reciproci rap- porti In condizioni determinate. Un' inferenza sperimentale è dun- que un'inferenza dal modo In cui questi turbini si sono comportati in date condizioni al modo In cai gli stessi turbini o altri turbini analoghi si comporteranno nelle identiche condizioni. Dalle proprietà (1) Avendo bisogno di un termine por indicare il concetto ge- nerale che tutti i corpi, qualunque sia il loro stato fisico, sono co- stituiti di particole solide, facendo astrazione della forma particolai e di questo concetto che vede nelle particole costitutive degli atomi, cioè delle piccole masse indivisibili, ci serviamo a quest'oggetto della parola molecola, impiegandola non nel senso che essa ha nella scien- za moderna, ma in un senso più conforme aliti sua etimologia. XCVII non ci fornisce alcun esempio degli attributi di cui questi esseri si suppongono dotati. La solidità asso- luta che si suppone nelle molecole, questa potenza < infìnita, come dicova Bernouilli, di resistenza alla, compressione e alla deformazione, ò un'attributo sco- nosciuto all'esperienza. Lo stesso deve dirsi natural- mente di questa potenza infinita che si suppone nell'atomo, di resistenza a qualsiasi forza tendente a dividerlo. Tra le parti della molecola o dell'atomo si suppone una forza di coesione di una natura affatto speciale, una forza la cui esistenza non è stata mai costatata nel mondo dell'esperienza (1). della nostra materia — fluida o altra — che è un aggregato di tur- bini, non può niente inferirsi sulle proprietà di un'altra materia Ipo"* tetica, che sarebbe altra cosa che un aggregato di turbini. Tra la nastra materia e la materia trascen lentale, che, secondo Thomson,, serve ad essa di sustrato come la nostra materia serve di sustrato al suo proprio movimento, non vi ha identità e perciò, mi sembra,, nessuna Inferenza legittima. — Le deviazioni dal tipo normale dell'a- tomistica di un carattere assolutamente metafisico, quale la dottrina che riduce gli atomi a punti matematici, o^ come si dice per il so- lito, a centri di forze, si rapportano alla qulstione del mondo esteriore e noi ne parleremo nella 2* parte. Notiamo per ora che il nome di dinamiche date a queste dottrine non toglie che anch'esse — partcolarmente quella sunnominata degli atomi — punti o centri di for- ze — siano. In un senso, meccaniche, conformandosi anch'esse al prin-- cipio generale della concezione meccanica, cioè la spiegazione dei cangiamenti del mondo fisico per il cangiamento dei rapporti di ele-- mentl in se stessi inalterabili. Naturalmente é qui che si è sempre vista la grande difficoltà della teoria. Cosi Thomson chiama « supposizioni mostruose » quelle di « frammenti di materia infinitamente duri e infinitamente rigidi, frammenti di materia di cui alcuni dei chimici più eminenti non temono d'affermare temerariamente l'esistenza come un'ipotesi pro- babile » (citato da Henriot Ipot, alt, sulla contit, d£lla mat, p. 10) • Secondo Du Bois-Reymond 1' atomo indivisibile, inattivo e, sede di Un'ipotesi che ricorre a cause non vere, cioè a forze di cui non si è costatata l'esistenza nella natura, è necessariamente un'ipotesi illegittima, come vuole la regola di Newton, o questa circostanza costituisce semplicemente un grado d'improbabilità intrinseca dell'ipotesi che, per compenso, deve rendere più esigenti sul numero e la qualità delle sue prove? È una delle più ardue quistioni della logica, a cui non ci attenteremo di dare una risposta : ma la so- mit'lianza clie abbiamo notata tra la dottrina mole- colare o atomica e le dottrine dei metafìsici sugge- risce inevitabilmente una riflessione, che io sotto- metterò al lettore non senza un'esitazione assai na- turale in chi non ha alcuna competenza né in fìsica ne in chimica. La teoria molecolare e atomica è, come si con- viene dai suoi stessi fautori, una semplice ipotesi, •^ un'ipotesi che non sembra suscettibile di essere moi provata (1). Misurare il grado di probabilità forze che agiscono attraverso il vuoto, é un controsenso e una chi- mera (/ limiH della filos, naturale in Rev. scieni, 2^ ser. v. 7). Un'idea che meriterebbe forse d'essere sviluppata, è che ordi- nariamente le cause non vere supposte dai fisici, quali gli atomi, le molecole, 1' etere, i fluidi imponderabili che si ammettevano pri- ma, ecc. hanno la funzione di spiegare i fenomeni nel senso metafì- sico della parola spiegazione, cioè assimilandoli ai fenomeni più fa- miliari, p. e. a quelli della trasmissione del movimento per l' im- pulsione (come l'etere), o a quelli, più generali, del mutam.3nto dei rapporti di spazio senza cangiamento qualitativo (Cfr. ciò che di remo più giù sui fluidi imponderabili). (1) « Nessuno oggi, dice Bain, vede più in questa teoria (l'atomica) che una finzione rappresentativa, che non é suscettibile di alcuna prova, e che non ha altro valore che di esprimere facilmente i fatti » <(Log. 1 5 e. 3., 12 — Bain chiama finzioni rappresentativo le ipotesi di un'ipotesi — quando si conviene d'altronde sul punto più importante, cioè che quest'ipotesi non è rigorosamente provata — è un'operazione estrema- mente ardua e delicata del giudizio, che, per essere ben compiuta, esigerebbe il concorso delle più pro- fonde conoscenze nelle scienze speciali relative, e dell'abitudine, unita a una preparazione conveniente, di considerare le quistioni al punto di vista della logica e della teoria della conoscenza; concorso che è sventuratamente molto raro a trovarsi in un fisico o in un chimico^ e più ancora in un filosofo. Nel caso dell'ipotesi molecotare o atomica, la quistione che non possono essere stabilite come fatti reali, cioè provate, e la cui importanza òche servono a rappresentarsi i fenomeni d'una ma- niera sistematica: fra queste finzioni rappresentative egli enumera oltre la teoria degli atomi, quella della costituzione molecolare della materia, quella delle ondulazioni eteree per ispiegare i fenomoni della luce, la spiegazione dello stato solido, liquido e gazoso per le attrazioni molecolari e la repulsione dovuta al calore, ecc. Log, 1. 3 e. Ib, 5). Per dimostrare la proposizione di Bain che 1' ipotesi de gli atomi e ìMttQÌeRitve flnzio ai rappresentative non nono suscettibil- di diventare delle verità provate, basta torse la considerazione sei guente. Per provare la realtà d'un ipotesi sarebbe necessario di sod- disfare a queste due condizioni : di stabilire, in primo luogo, che un'ipotesi è indispensabile, cioè che il fatto che si tratta di spiegare reclama assolutamente una spiegazione; e in secondo luogo che l'i potesi che si ammette è la sola ammissibile, cioè la sola che possa spiegare il fatto. Ma sembra che le ipotesi scientifiche che il Bain chiama finzioni rappresentative (e che sono, su per giù, quelle che suppongono delle cause non vere), quand'anche potessero soddisfare alla seconda condizione, non potrebbero mai soddisfare alla prima. Ciò è perchè esse non hanno per iscopo di spiegare dei fatti isolati e particolari, ma dei fatti costanti e generali, delle uniformità della na tura. Nel primo caso un'ipotesi è indispensabile, perché è neces- sario che il fatto sia spiegato, nel senso scientifico, cioè che sia sot- t oposto alle leggi generali dei fenomeni : nel secondo caso (se si ha " n e CI della misura del suo grado di probabilità si com- plica per questa sua conformità, che noi abbiamo notata, alle tendenze spontanee del nostao pensiero, conformità che per se stessa non costituisce la mi- nima prova in favore di una teoria. Allora si ren- derebbe indispensabile una specie di equazione per- sonale, per la quale nella forza con cui l'ipotesi ci s'impone, bisognerebbe fare la parte di ciò che vi ha in essa di obbiettivo, cioè di dipendente dal va- lore delle prove sperimentali, e di ciò che vi ha di subbiettivo, cioè di derivante dalla tendenza spon- tànea del nostro pensiero, che, in virtù della con- formazione stessa del nostro spirito e delle sue abi- tudini prescientifìche, ci spinge ad acc^ettare Tipo- tesi, indipendentemente dal valore dello suo prove» n questo stato della questione sembra naturale di demandarsi : il credito di cui l'ipotesi molecolare e atomica gode nella scienza moderna è assolutamente commisurato alla forza delle sue prove, o non vi ha un eccesso, di cui bisogna rendersi conto per la forza addizionale di questo sofisma naturale del nostro spirito, che gli rappresenta il fondo dell'essere come immutabile, e il cangiamento come superfi- ciale e limitato ai rapporti delle cose, senza toccare le cose stesse ? Tra queste due supposizioni, il fatto ragione di riguardare il fatto come una vera uniformità, una leggo rigorosamente generale, dei fenomeni) l'esigenza di una spiegazione potrebbe essere illusoria e fondata sul concetto metafisico corrispon- dente a questo termine, poiché la supposizione che il fatto è senza spiegazione (cioè che si tratta di uua leggo primitiva della natura) non è in contraddizione con l'assioma dell'uniformità di legge, che è quello ehe nel primo caso ci obbliga a cercare una spiegazione. incontestabile che la teoria era generalmente am- messa prima che si trovassero le prove che at- tualmente costituiscono la sua base logica; la con- tinuità tra la forma più antica e la forma più mo- derna dell'atomistica (1); non è un'indizio ohe la ve- rità sta nella seconda ? Qaeste domande non sem- breranno troppp audaci a quelli che sono abituati a considerare i concetti dal punto di vista storico. « Quegli, dice il Lange, clie vede nella storia Fin- dissolubile mescolanza di errore e di verità; quegli che comprende che per avvicinarsi di più in più allo scopo inliniiamente lontano, cioè la coxioscenza perfetta, bisogna oltrepassare innumerevoli gradi intermediari; quegli che vede come l'errore stesso diviene un agente di progresso variato e durevole; quegli non concluderà facilmente, dall'incontestabile progresso del presente, al valore '^definitivo delle nostre ipotesi » (2). Noi aggiungeremo infine un' altra osservazione sul principio generale della concezione meccanico, cioè che tutti i cangiamenti della materia si ridu- cono al movimento delle sue parti. Il presupposto su cui questo principio è fondato è la distinzione, comunemente ammessa, tra le proprietà primarie e le proprietà secondarie dei corpi : le prime, che, secondo Cartesio, si riducono alla semplice esten- sione, e, secondo l'opinione più accettata, all'esten- sione e alla resistenza o impenetrabilità, sono ob- (1) V. Lange Storia del materialismo, (2) Ihid, V. 2« parte 2* e. 1°. cu biettive ; le seconde, cioè il colore e tutte le altre, non sono che subbiettive. Ma questa distinzione sol- leva delle difficoltà insolubili, che hanno dato luogo a tutte le dottrine trascendenti sulla cosa in sé : qui dobbiamo limitarci ad indicarne sommariamente al- cune, riserbandoci di svilupparle nella 2* parte. Se il solo attributo obbiettivo della materia è la estensione, come pretende Cartesio, allora è impos- sibile di distinguere la materia dallo spazio vuoto, e il mondo corporale si ridurrà a una massa con- tinua e perfettamente omogenea. Ora non solo ò im- possibile di concepire V estensione come esistente per se stessa — non potendo noi pensarla che come un attributo del reale e non come lo stesso reale, come un astratto e non come un concreto — ma è di di più impossibile, come abbiamo già accennato, di concepire, al se'no di una massa continua e senza alcuna differenza fra le sue parti, delle forme di- stinte e del movimento, perchè queste cose suppon- gono delle differenze. Concepire il movimento in una massa continua sarebbe concepire, in questa massa, delle parti tra loro discernibili, che si scam- biano il posto l'una con V altra; se queste parti di cui si afferma che l'una ha preso il posto dell'altra non sono discernibili, questo cangiamento, che si afferma a parole, non è né percettibile né pen- sabile. In realtà alcun cangiamento non è possibile in una massa concepita alla maniera cartesiana, poi- ché tutti gli stati successivi, in cui essa si trova in tutti gl'istanti della durata, sono assolutamente iden- tici fra di loro. Queste difficoltà /// apparenza spa- riscono nella dottrina della discontinuità della ma- . ) CHI teria, perchè allora il pieno e il vuoto ci danno questa differenza indispensabile per concepire la distinzione delle cose e il movimento ; di più, di- stinguendo la materia dal puro spazio, si ammette in questa dottrina che vi sia nella materia un at- tributo diverso dall' estensione, che si aggiunge a questa, e fa della materia un concreto, e non un semplice astratto qual è la sola estensione. Ma la difficoltà è appunto di dire in che consista questo attributo, distinto dall'estensione e dai suoi modi, che concretista, s'è lecito dir cosi, la materia, e la dif- ferenzia dalla semplice estensione, cioè dal puro spazio. Quest'attributo é, si dice, la resistenza o la impenetrabilità : ma ciò che non si dice né potrebbe dirsi è che cosa esprimano queste parole resistenza e impenetrabilità di più che dei semplici rapporti tra gli estesi — se se ne toglie le sensazione che noi pro- viamo nelle dita quando tocchiamo, la quale natu- ralmente non possiamo trasportare nella materia e farne una qualità obbiettiva delle cose stesse — . La resistenza della materia non è altra cosa che la dif- ficoltà che vi ha a spostare le sue parti : essa in- dica dunque semplicemente che certi cangiamenti nei rapporti spaziali tra gli estesi non sono possi- bili. L'impenetrabilità è l'impossibilità che un esteso occupi la posizione d' un altro, in altri termini che due estesi si confondano in un'estensione unica, che cessino di essere due estesi e -diventino uno solo. Ma ciò non indica altra cosa che la persistenza di ciascun esteso a conservare la sua propria esten- sione; non ci dice qual'è l'attributo che quest'esteso ha in più dell'estensione stessa. Tutti gli attributi CIV cv della materia — nella supposizione della non realtà del colore e delle altre proprietà secondarie — non indicano che l'estensione, i suoi modi (forma, gran- dezza, ecc.), i rapporti di posizione, e il cangia- mento di questi rapporti; ma noi non possiamo dire che cosa sia ciò che si estende, ciò che è il soggetto a cui si attribuiscono questi rapporti di posizione. Xia materia, si dice, si distingue dal puro spazio, perchè essa è impenetrabile, divisibile, mobile, ecc., attributi che non possono convenire allo spazio: senza dubbio; ma siccome questi e tutti gli altri attributi che si predicano della materia, non si riducono infine che all'estensione e alla posizione, attributi che conven- gono pure allo spazio, o bisognerà rassegnarsi ad identificare la materia e lo spazio, come fu costretto a fare Cartesio^ o bisognerà ammettere, come carat- tere che differenzia la materia dallo spazio, non la mobilità, l'impenetrabilità, ecc., ma qualche cosa di più primitivo che, aggiungendosi all'estensione, co- stituisce questo concreto materia, la quale, senza questa qualche cosa, non potrebbe essere né im- penetrabile, né mobile, ecc., perché non sarebbe che un semplice esteso, in altri termini una pura esten- sione, che niente distinguerebbe dallo spazio vuoto. Questa qualche cosa che, diffusa, per dir così, qua »e là nella pura estensione senza forme né limiti, ne differenzia le parti, costituisce il concreto materia, e distingue il reale dallo spazio, cioè dal niente; non è che il colore, o, in generale, le proprietà se- condarie. Quando si è analizzato sufficientemente il concetto di materia, si vede che lo spirito umano, se vuole formarsi una concezione netta e coerente del mondo esteriore, e al tempo stesso restare sul terreno dell'esperienza e dell'intuizione sensibile — condizione che è superfluo di aggiungere, perchè al di fuori di questo terreno non vi hanno concezioni netto né coerenti — è costretto in quest' alternativa : o il fenominismo di Mill e Bain, che riduce la realtà esteriore a sensazioni e possibilità di sensa- zioni; o il realismo naturale — non quello di Eeid — che non spoglia la materia delle sue proprietà sen- sibili, ma accorda l'obbiettività al colore e alle altre, e non alla sola estensione, la quale senza le pro- prietà sensibili non è che il niente realizzato (1). Ora à evidente che chi accetterà l'una o l'altra di queste due soluzioni, non ammetterà la pretesa della filosofia corpuscolare o di qualsiasi altra forma pos- sibile della concezione meccanica, di ridurre tutti i cangiamenti dell'universo al solo movimento. § 11. Ad una concezione meccanica coerente, se essa vuol realizzare completamente il principio che niente nasce e muore nella natura, non basta di riddurre al movimento tutti i cangiamenti del mondo materiale; bisogna ancora che la materia mantenga invariabilmente le stesse facoltà relativamente al movimento ; cioè o che l' inerzia sia lo stato inva- riabile della materia, o, se essa è attiva, che que- st' attività, e la forma sotto cui essa si manifesta, siano egualmente invariabili. Su questo punto Ba- cone può essere riguardato come il precursore. « È evidente, egli dice, che ogni uomo che cono- (1) V., il mio stu Ho sulla dottrina di Rosmini sulla materia 1. e. e il Saggio 1. e. 9. § 8. pag. 524-526. evi e VII scesse le passioni, gli appetiti e i processi primi- tivi della materia, avrebbe per ciò solo una cono- scenza generale e sommaria dei fatti passati, pre- senti e futuri » (1). « Si deve affermare che la ma- leria è munita, provvista e formata di tal maniera, che ogni virtù, ogni essenza, ogni atto e ogni mo- vimento possono esserne delle conseguenze o delle emanazioni naturali » (2). L' idea di Bacone è che tutti i fenomeni possono dedursi da un fenomeno primordiale, che è il movimento naturale della ma- teria. Così egli paragona la scienza ad una pira- mide o ad un cono, alla cui sommità sta « la legge sommaria della natura », « V opera che Dio opera dal cominciamene sino alla line » (3). « Tutte le cose si elevano per una sorta dì scala all'unità ». Que- sto fenomeno universale, collocato alla sommità della piramide scientifica, in cui « la natura sembra riu- nirsi in un sol punto » (4), questa « causa di tutte le cause », è « l'appetito o lo stitmilus (la tendenza primitiva o la forza primordiale) della materia, o, per sviluppare un po' più il nostro pensiero, il mo- vimento naturale dell'atomo. È questa forza unica, che agendo sulla materia, forma e costituisce tutti i composti » (5). Ma il meccanismo di Bacone (che d'altronde que- sto filosofo non sviluppò d'una maniera sistematica), (1) Della myyezza de<ili antichi XI. (2) De Fri ne. atque Oria. (3) Dignit, et anffm. scienf. 1. a. e. 4. (4) Da diijnit, et anym acient. 1. 2. e. IB '5) Sa(/(jezsa degli antichi Cnpidon. fondato sull'idea fantastica di una materia attiva e vivente, doveva cedere il passo all' altro mecca- nismo, inaugurato da Cartesio, fondato sul concetto più positivo d' una materia inerte, che non fa che ricevere e comunicare il movimento per l'impul- sione. Nel capitolo S"" abbiamo considerato questa dottrina alla quale esclusivamente abbiamo dato allora il nome di meccanica — sotto un altro punto di vista, cioè come una realizznzione del principio delle cause efficienti: ma è evidente che essa è al tempo stesso una realizzazione del principio del- l'immutabilità essenziale dell' essere almeno del- l'essere materiale poiché non attribuisce ai corpi che la proprietà, sempre e da per tutto identica, di conservare il movimento ricevuto e di comunicar- selo reciprocamente per l'urto, riducendo ad una sola e sempre la stessa le forme apparentemente differenti e variabili dell'energia. Oltre questa for- ma del meccanismo, fondata sul concetto dell'iner- zia o passività assoluta della materia, non ne è è possibile che un'altra, che realizzi il principio dell'immutabilità essenziale dell'essere, ma che al tempo stesso faccia della materia qualche cosa di attivo— sia che quest'attività si attribuisca alla ma- teria per se stessa, sia che si faccia provenire dalle for^e di cui si suppone che la materia è- la sede—: è la dottrina che spiega anch'essa tutti i fenomeni del mondo fisico per le leggi dell'equilibrio e del movimento, ma come cause motrici riconosce le forze, attrattive e repulsive, inseparabili dagli ele- menti della materia — sia che si supponga che que- ste forze sono ad essi essenziali, sia che si sup- CVIII CIX ponga che sono con essi costantemente associate — . Queste due forme della teoria meccanica, che sono le concezioni della natura prevalenti nella scienza moderna, possono far pensare che questa ha com- pletamente realizzato l'assioma dei fisici greci che l'essere non può venire dal non essere né ridursi al non essere y che non vi ha generazione ne cor- ruzione ; poiché secondo la teoria meccanica, nel- l'una e l'altra delle due forme, il reale, considerato nei suoi elementi ultimi, si mantiene sempre iden- tico a se stesso, e non vi ha mai nelle cose un can- giamento essenziale, questi elementi, in tutti gli aggregati che essi formano successivamente — nei quali non si manifestano altre proprietà che quello degli elementi stessi — essendo invariabili tanto nella loro sostanza e qualità quanto nel loro modo di agire e di patire. Ma è evidente che la teoria meccanica, se essa vuol applicare rigorosamente il principio che la materia non può mai manifestare delle proprietà essenzialmente nuove, e che perciò le proprietà di un tutto non possono essere che la somma delle proprietà degli elementi materiali che lo hanno co- stituito, deve estendersi anche ai fenomeni della co- scienza, facendo dell'attività psichica una risultante delle attività proprie agli elementi della materia. Senza dubbio il problema di ricondurre i fenomeni della coscienza alle proprietà degli elementi della ma- teria non nasce esclusivame:ite al punto di vista del meccanismo, essendo esso una conseguenza imme- diata del principio generale che il meccanismo rea- lizza sotto una forma speciale, cioè che l'essenza delle cose non può cangiare : ma al punto di vista del meccanismo il problema s' impone con una forza particolare, appunto perchè il meccanismo è l'ap- plicazione più coerente di questo principio. Applicando il principio dell'immutabilità dell'es- senza delle cose alla quisfcione della coscienza, lo spirito umano incontra naturalmente due soluzioni opposte, ma che sono non pertanto 1' una e l'altra delle conseguenze dello stesso principio. Dal fatto che i fenomeni della coscienza, di cui certi as^o^re- gati degli elementi della materia sono temporanea- mente la sede, differiscono essenzialmente dalle proprietà di questi elementi isolatamente conside- rati, in virtù del principio che le cose non possono cangiare nella loro natura, lo spiritualista conclche è necessario che un altro elemento, differente essenzialmenta dalla niat3ria, e di cui la coscienza è la proprietà immutabile, si sovraggiunga all' ag- gregato materiale, e sia con questo temporanea- mente associato. Dal fatto che ciò che è la sede dei fenomeni della coscienza è un aggregato di elementi materiali, il materialista conclude invece, in virtù dello stesso principio, che questi fenomeni non pos- sono essenzialmente differire dai fenomeni che sono propri agli elementi materiali isolatamente consi- derati (1). Ma se la soluzione spiritualista è sem- el) È evìdonto che il purodosso cartesiano che gli animali sono dogli automi è nna conseguenza rigorosa dello stesso principio, nel- l'ipotesi spiritualista; un aggregato non potendo avere delie pro- prietà essenzialmente differenti da quelle degli elementi, la coscien- za non può trovarsi ne/;li animali, m cui non vi ha, conio nell'uo- mo, un elemento essenzialmente differente digli elementi materiali, c'io viene ad aggiungersi all'aggregato. f ex plice, la soluzione materialista è doppia, potendo farsi due ipotesi : 1*^ che i fattti della coscienza non siano dei fenomeni assolutamente nuovi, che si pro- ducono la prima volta negli aggregati che noi chia- miamo esseri animati, ma dei fenomeni preesistenti negli elementi che hanno costituito questi aggregati (e persistenti in essi dopo la dissoluzione degli ag- gregati stessi); e 2^ che questi fatti non siano asso- lutamente distinti dai fenomeni fisici, propri agli elementi che hanno costituito gli aggregati, ma sostanzialmente identici con essi. La prima delle duo soluzioni materialiste — le sole che siano in armonia con una concezione rigorosamente mecca- nica dell'universo — si trova, oltre che nel sistemi ilozoisti in generalie, in quei sistemi panpsichisti, in cui, come in quelli di Clifford. Wundt, Taine, ecc., la psiche dell'uomo e degli animali è riguar- data come una risultante degli elementi psichici corrisponrleati a ciò che noi chiamiamo elementi della materia, o in cui, come in quello di Leibnitz ( il quale, a parlar propriamente, è una conci- liazione della soluzione materialista con la spiri- tualista), essa è riguardata come una delle unità psichiche, delle monadi, che costituiscono il compo- sto che noi percepiamo come materia. L'altra solu- zione — la quale consiste nell'affermaie un'identità sostanziale tra i fenomeni fisici (processi nervosi) che sono le condizioni dei fenomeni della sensa- zione e del pensiero e questi fenomeni stessi — è stata ammessa sotto due forme : 1** estendendo ai fe- nomeni mentali la dottrina che vede nelle diverse forze fìsiche gli aspetti differenti di una forza unica CXI che, identica al fondo, apparisce successivameirte sotto forme diverse, si è ammesso che la sensazione e il pensiero è un altro aspetto o un'altra forma di questa forza medesima, il movimento che è l'ante- cedente della sensazione e del pensiero divenendo sensazione e pensiero, come il calore suono o l'elet- tricità luce. 2^ -è la forma che ha incontrato più favore — si è ammesso che il fenomeno fisico che è la condizione del fenomeno mentale e lo stesso fenomeno mentale sono, non due fatti distinti e successivi, ma un solo e stesso fatto, che presenta due facce differenti, l'interna e l'esterna, la sub- biettiva e l'obbiettiva, la distinzione non essendo, come dice Lewes, che nel modo di apprensione, vale a dire, quello che i sensi apprendono come fisico, come movimento, essendo appreso dalla co- scienza come mentale, come sensazione e pensiero. Questa identità del fisico e del mentale — l'iden- tità nel senso più stretto, cioè nella seconda for- ma—è stata affermata a tre punti di vista diffe- renti : del materialismo, cioè subordinando e ri- conducendo lo spirito alla materia, come nelle dot- trine di Hobbes (1), Erasmo Darwin (2), d' Hol- (1) V. De Corpore pars IV. cai). 25 art. 2. La sensazione non è «ho il movimento degli organi del senso, e precisamente quella par- te di questo movimento immaginata da Hobbes, che sarebbe un ri- torno dall'organo centrale verso Testerno, cioè verso i punti della periferia da cui è partita l'eccitazione (ipotesi destinata a spiegare la localizzazione alla periferia e la proiezione al di fuori delle sen- sazioni). (2) Nella sua Zoonomta definisce l'idea : « una contrazione, un movimento o una configurazione delle fibre che costituiscono l'or- bano immediato del senso. » « Le nostre idee, dice egli ancora, sono ateB=c 3s: bach (1), Molesohott (2), Sfcrauss (3), Spencer (4), dei movimenti animali dell'organo sensitivo». Questa confusione tra il fatto psichico e la sua condizione fisica regna, dice Mill, dal principio alla fine nei quattro volumi della Zoonomia (Mill. Log. Uh, V. cap. 3., § 8). (1) Le sensazioni, le percezioni, le idee tutte lo operazioni del- l'anima, sono dei movimenti degli organi dei sensi e del cervella V. SìhL della natura 1. p. e. VII e VIII-D'Holbach ammette pu- re la possibilità della soluzione ilozoista. (2) «Il pensiero è un movimento della materia» Circolnz, della vit4ij lettera 18. (8) V. Vecchia e nuova fede, § 65. (4) Ciò che, sotto l'aspetto obbiettivo o dal lalo esterno, è un cangiamento nervoso (un movimento molecolare), è, sotto il suo a- spet'to subbiettivo ó dal suo lato interno, uno stato di coscienza V. Frinc, di PsicoL t. 1. 1. p. e. 6. e altrove); lo spirito e l'azione nervosa sono i due lati, subbiettivo e obbiettivo, d'una sola e stessa cDsa (e. 7. § 06 e altrove). L'aver classato la dottrina di Spencer fra (luelle che ricondu- cono lo spirito alla materia richiede una giustificazione. In eflFetto questo filosofo si difende d'essere materialista e dichiara illusoria il tentativo di tradurre sia lo spirito in termini di materia sia la materia in termini di spirito (§ 63 e altr.) I fenomeni dello spirito e quelli della materia sono le due facce, subbiettiva ed obbiettiva, sotto cui si manifesta una sola e stessa realtà, ma questa realtà ul- tima non può essere chiamata né spirito né materia, lo spirito e la materia non essendo che le sue manifestazioni fenomenali ed essa stessa restando inconoscibile nella sua essenza (§ 272. 273 e altr.) Che ragione può aversi allora di chiamare la dottrina di Spen- cer una dottrina materialista, che riconduce lo spirito alla mate- ria? Questa ragione è secondo me, che dei due aspetti sotto cui si manifesta l'inconoscibile, l'uno, il fisico, è costante, e l'altro, il psi- chico, non è che transitorio : esso non apparisce che là dove esiste una struttura fisica appropriata (lo spirito non è diffuso da per tutto neir universo, come nelle dottrine panpsichiste o in quella dell' i- dentità del reale e deWideale,. Ne segue che, l'essenza d'una cosa es- sendo per noi determinata dai suoi attributi costanti e non dai suoi attributi transitori, e qualsiasi nozione che noi possiamo formarci dell'Inconoscibile dovendo tirarla dal conoscibile, quest'essènza sco- nosciuta che si manifesta come spirito e come materia noi dobbiamo necessariamente rappresentarcela in termini di materia. Ma contro ciò potrà dirsi che questa distinzione tra i fenomeni della matoria» che sarebbero costanti, e quelli dello spirito, che sarebbero transitori,, non ha al fondo niente di reale, le manifestazioni fenomenali dell'In- conoscibile essendo per Spencer tutte egualmente subbiettive e psi- chiche, poicltè il conoscibile, il fenomeno, non consiste, in ultima ana- lisi, che negli stati della nostra coscienza. Niente di più giusto che quest'osservazione; ma essa dimostra d'una maniera anche più diretta che la dottrina di Spencer riconduce lo spirito alla materia. Se si va al fondo delle cose, la vera dottrina di Spencer è, non che vi sia una realtà a due facce, l'una subbiettiva e l'altra obbiettiva, ma che vi ha una realtà, l'Inconoscibile, e un fenomeno o un'apparenza di questa realtà, lo spirito o^gli stati di coscienza. Lo spirito non è dunque che unfenomeno; la realtà appartiene all'opposto dello spirito, al fuori di me, a ciò che non ha coscienza. L'Inconoscibile non è per Spencer che la materia e la forza : l'affermazione d'una realtà assoluta in- ^ conoscibile equivale nei Primi principii all'affermazione della persi- stenza della forza, e quantunque l'Inconoscibile non abbia in realtà degli attributi spaziali, vi ha nondimeno in lui un nexus che noi dobbiamo rappresentarci come spazio o estensione, e Spencer sente cosi fortemente questa necessità di dare un fondamento obbiettivo, nell'Inconoscibile, ai rapporti di spazio, che talvolia sembra consi^ dorare questi rapporti come reali, come obbiettivi (p. e. nei Pr, Princ, par. 20 sulla fine). La verità di questa proposizione, che Spencer riconduce lo spirito alla materia, si mostra della maniera più evidente nelle sue affermazioni relative alla sostanza dello spirito. La sostanza dello spirito è naturalmente l' Inconoscibile : ma ciò che bisogna notare è il rapporto che Spencer stabilisce tra lo spirito qual è da noi conosciuto, cioè l' insieme dei nostri- stati di coscienza, e la sostanza dello spirito. Qaesto rapporto» è quello del fenomeno alla realtà. L'esistenza, nel vero senso della parola, appartiene nello spirito a ciò che persiste, alla sua sostanza; i fenomeni dello spirito, come quelli della materia, non sono che* delle apparenze cangianti della realtà permanente inconoscibile, (v.. Princ. di Psic, paragr. 59, 473, 475). Ora se noi domandiamo che co- sa sia questa realtà persistente di cui i fenomeni dello spirito sono- delle apparenze, la risposta è che la sostanza dello spirito, il m€ tra- ascendente non é altra cosa che l'organismo « Dire che il me è qual- che cosa di più che la serie delle sensazioni o delle idee che sono, date come presenti, è vero o falso secondo il grado di comprensio- ne che si dà alla parola. É vero se noi vi comprendiamo il corpo, con tutte le sue strutture e le suo funzioni ; ma è falso se noi limitiamo la nostra asserzione al me cosciente ». «Il me sostanziale, inconoscibile nella sua natura ultima, ci è fenomenalmente cono- sciuto, sotto la sua forma statica, come l'organismo; sotto la sua forma dinamica, come una forza che si diffonde nell'organismo». « Il me che sopravvive continuamente come soggetto di questi stati \ ' CXIY Lewes (1), Sergi (2), ecc.; del panpsichismo, cioè ri- cangianti (di quest'aggregato di stati subbiettivi che fiostituisceno il me mentale) è questa porzione dell'Inconoscibile, che è condizio- nata staticamente in certe strutture nervose, le quali sono penetrato da questa porzione dell'Inconoscibile, dinamicamente condizionata, che noi chiamiamo energia» (Addizione al paragr. 220 in fine del 2. voi. dei Princ. di PsicoL trad. frane.) L'identificazione del mentale e del fisico, in un sistema che non riconosce altri fatti mentali che quelli che accompagnano le funzio- ni del sistema nervoso, e necessariamente una riduzione del men- tale al fisico, perchè, ripetiamolo, l'essenza di una cosa è per noi determinata, non dai suoi attributi transitori, ma dai suoi attributi permanenti, e perciò questa realtà a due facce, che si manifesta come spirito e come materia, so» lo spirito non è riguardato che co- me un fenomeno transitorio, noi dobbiamo necessariamente rappre- sentarcela, nella sua essenza, come materia. Noi dobbiamo aggiungere che talvolta Spencer, invece della dot- trina dell'identità dei fenomeni mentali e delle loro condizioni fi- siche, sembra ammettere la dottrina affine della trasformazione del- le energie fisiche nelle energie mentali (Primi principi par. 71). (1) Lo stato psichico e lo stato corporale, che ne è la condizione, non sono due fatti, ma un sol fatto In cui si distinguono 1 due aspetti, •come si può dlstlnu:uere In una stessa linea curva 11 lato conversa e 11 lato concavo. Per comprendere questa dottrina di Lewes nel suo v9ro significato, clof^ come una riduzione del mentale al fisico, bisogna notare che essa non è che un'applicazione del suo principio dell'iden- tità della causi e dell'effetto : un fatto è identico all'insieme delle sue condizioni, non è qualche CDsa che si sovrag^lunge ad ess?. Per Lewes vale la stessa osservazione che abbiamo fatta per Spencer: Il fisico è il costante, e 11 mentale non è ehe 11 transilorlo ; perciò questa real- tà a due facce, che si mostra come Hpirlto e come materia, non può essere al fondo, nella sua essenza, che materia. É vero che la dottrina di Lewes che le cose hanno sampre una doppia faccia, l'una obbiet- tiva e l'altra subblettlva, 11 mondo matarlale, per quanto ne cono- sclamo, risolvendosi In sensazioni nostre, non potrebbe essere censi- slderata come una dottrina materialista. Ma se noi non facciamo, sino ad un certo punto, astrazione dalle qulstionl gnoseologiche sul mondo esteriore, diffìcilmente troveremo tra l filosofi moderni un materialista, per la semplice ragione che difficilmente vi troveremo un realista naturale, cioè questa fede Ingenua nella i-ealtà obbiettiva del dati dei sensi che 11 materialismo classico accetta dal'.a credenza naturale. (2) Il fatto psichico o cosciente è composto di elementi fiMci o CXV solvendo la materia in spirito, come nella dottrina di incoscienti (negli Elementi di Psicologia e In altre opere) ; proposi- zione che evidentemente contiene l'identificazione del fatto della co- scienza con le sue ccnlizionl somatiche. Tuttavia 11 Sergi afferma pure che 11 processo fisico è V antecedente àe\ fenomeno della coscienza (ciò che è Impossibile se sono un solo e stesso fatto), e va anche sino a parlare di una trasformazione dei due fenomeni l'uno nell' altro, sembrando così passare dalla teoria dell' ldentlti\ del fisico e del men- tale — uel senso plìi stretto — alla teoria vicina della trasformazione reciproca fra le energie fìsiche e le mentali (V. Origine dei fenomeni psichici e loro significazione biologica cap. 8. É notevole nna coinpideuza— senza dubbio fortuita- -tra la dottrina di Hobbes e lineila del prof. Sergi, 11 quale, slmilmente al primo, spiega la localizzazione delle sensazioni negli organi periferici e nello spazio esteriore, per l'ipotesi di un'onda nervea ri/lessa, cioè ammet- tendo che * le onde nervee che partono dalla periferia, giungendo ai ce.itrl, si riflettono per la stessa via, e si fermano al luogo d' ec^cita- zlone. » Il Sergi, come Hobbes, chiama questa riflessione della cor- rente nervosa « una tendenza alla causa esterna. » K evidente che questa non è una spiegazione nel senso scientifico della parola; polche ammesso anche il fatto dell'onda riflessa, siccome la cosclensa non sa niente dell'esistenza di questo fatto, esso uon potrebbe essere un motivo di localizzare la percezione al posto In cui arriva l'onda ri- flessa, che l'esperienza non ha mal trovato in connessione con la sen- sazione. Ma è si familiare questo fatto, che la sen=?azlone viene Istin- tivamente localizzata al posto dove si osserva la causa materiale della sensazione, che non si vede, o si dimentica, che ciuesto fatto, appa- rentemente Istintivo, sarebbe Incomprensibile, se noi non sapessimo che è l'esperienza che ha formato n3l nostro spirito le connessioni mentali corrispondenti. Il proprio del fenomeni molto familiari è, noi lo sappiamo, che essi sembrano non aver bisogno di spiegazione, e poter servire anche di spiegazione agli altri fenomeni. Così l'identità del luogo i;i cui si produce la causa fìsica della sensazione, e di quello In culla sensazione viene spontaneamente localizzata, sembra un fatto perfettameute naturale e che si spiega da se stesso: 1' onda nervea, partita da un certo punto, ritorna a questo stesso punto; è evidente dunque che è là che dobbiamo localizzare la sensazione. Inoltre, In una concezione materialista — nel senso più stretto della parola — in cui il fatto psichico è concepito come un fenomeno dinamico della materia nervosa, non è sorprendente che si applichino al fatti della coscienza 1 rapporti di spazio propri alle loro condizioni fìsiche, e ehe si trovi quindi una connessslone naturale tra il trasporto dell* *• \ ex VI I Taine (1) e di altri panpsichisti (è sotto un altro aspet- to la dottrina stessa che già abbiamo considerato co- me una forma della prima soluzione materialista); e infine del sistema della identità del reale e dell' ideale (Fechner), che non subordina ne lo spirito alla ma- teria ne la materia allo spirito, ma fa del fisico e del mentale i due aspetti paralleli, e costantemente uniti, dell'essere assoluto. Ma, all'uno o all'altro di questi punti di vista, il risultato della teoria è sem- pre lo stesso: identificare i due ordini di fenomeni, che sembrano i più essenzialmente differenti, quelli nervea dal centro nervo>*o all' organo pei-ifei-lco e 11 trasferimento cella sensazione dal primo al secondo punto. Ma ([uando la sensazione st locai izza,^'non nolPorganlsrao stesso, ma al di fuori, come uella perenzione visuale -ciò che ordinar lame. ito si chiama pi'olezlona dell'Immagine sensoriale— quale spiegazione del fatto può dare la teoria dell'onda riflessa? Chi ha meditato abbastanza sulla storia del concetti metafisici, o sa che le analogie pia vaghe e imprendibili spesso hanno tenuto il luogo di spiegazioni-si forte a 11 bisogno che ha lo spirito umano di una spiegazione del fenomeni (nel senso metafìsico delia parola;— «inesti non troverà umoristica, mn perfettamente seria, la riflessione che, nel pensiero degli autori della teoria, vi ha forse qualche cosa come l'idea vaga di uni continua- zione ideale del movimento percezlonale, (^uasl che la percezione aves- se qualche analogia con un proiettile, il cui movimento, impressogli dalla mano, si continua nella stessa direzione, anche dopo che la mano si è staccata da esso. Queste osservazioni, naturalmente, non tolgono niente al valore reale delle opere del prof. Sergi, come non tolgono niente alla gloria dei suo predecessore Hobbes. Un'Idea originale e ingegnosamente espres- sa, anche quando è un'idea metafisica, è sempre una pmva di forza Intellettuale: è ciò che alcuni positivisti contemporanei sembrano non comprendere, perchè essi non comprendono che la metafisica è un fatto naturale dello spirito umano — come lo prova anche un certo numero delle loro dottrlue-e non un fatto arbitrarlo o inerente sol- tanto a un certo grado della cultura. (1) V. Jj'IntellUi, parte l. 1. 4. e. 2. della natura fìsica e quelli della coscienza, in modo che il più grande saltiis della natura, il passaggio dall'inanimato all' animato, dall' incosciente al co- sciente, e viceversa, si concilii in qualche modo col principio evidente per se stesso che l'essenza delle cose resta sempre la stessa e che le proprietà di un tutto non possono essenzialmente differire dalle pro- prietà degli elementi. Non vi ha dubbio che, fra le diverse applicazioni di questo principio alla qui- stione dell' origine della coscienza, non sia questa la più conforme alle idee della concezione meccanica, sovratutto quando si considera — ciò che è certa- mente il pensiero intimo di molti sostenitori della teoria — il fisico, cioè il movimento, come la realtà, e il mentale, cioè la sensazione e il pensiero, come una specie di apparenza di questa realtà (1). Qui ci troviamo in presenza della seconda delle due difficoltà insolubili delle teoria meccanica (ri- guardando come la prima l' impossibilità indicata (1) Un autore tedesco, Langwieser, in una polemica contro la conferenza di Du-Bois-Reymond al congresso di Lipsia, che ricono- sceva l'irriduttibilita dei fenomeni della coscienza ai fenomeni fisici, e quindi l'impossibilità di applicare ad essi la spiegazione meccanica, dice: «La nostra coscienza non può farci conoscere l'anatomia del nostro corpo o almeno le fibre del nostro cervello : cosi essa non è una coscienza nel senso obbiettivo della parola; perciò noi non possiamo riconoscere sub])iettivamente le nostre sensazioni per quel- lo che sono » Il Lange che riferisce queste parole, le fa precedere da questo commento : Il materialismo si afferra si forte alla realtà e ai movimenti della sua materia, che un partigiano sincero di que- sta dottrina noa esita lungamente a sostenere che il movimento dej cervello è il reale e l'obbiettivo, mentre la sensazione non è che u- na specie di apparenza o di riflesso ingannatore dell'obbiettività». Lange Stor, del mater, t. 2. parte 2. e. 1. (li rappresentarci la materia destituita delle pro- prietà sensibili). La logica forza la teoria meccanica ad ammettere l'una o l'altra delle due soluzioni ma- terialiste della quistione dell'origine della coscienza — l'ilozoismo o l'identità del fisico e del mentale—: ma è impossibile di ammettere l'una o l'altra di queste soluzioni senza contraddire ad altre esigenze non meno imperiose della teoria. Si ammetterrà la soluzione materialista propriamente detta, che iden- tifica il pensiero al movimento ? non lo si può, sen- z'abbandonare quella chiarezza delle idee, quella quella intelligibilità, che distingue la concezione meccanica da tutto le altre concezioni che realiz- zano il principio comune della immutabilità dell'es- senza delle cose. Si ammetterà, invece, la soluzione ilozoista? ma allora la meccanica degli atomi di- viene il romanzo degli atomi; la concezione mecca- nica perde quel carattere di rigoi-e scientifico che costituisce la sua superiorità sulle concezioni rivali del mondo. Sembrerà forse che la soluzione ilozoi- sta — a differenza della soluzione materialista pro- priamente detta, cioè della identità del fisico e del mentale — ci offra almeno delle nozioni perfetta- mente intellegibili : ma se ciò può ammettersi per l'ilozoismo, considerato in se stesso, non si può am- mettere per l'ilozoismo applicato alla soluzione del problema deirorigine della coscienza. La nozione di un atomo animato e cosciente è senza dubbio una rappresentazione perfettamente realizzabile; ma è impossibile di rappresentarsi che dalla riunione delle coscienze distinte degli atomi risulti la co- scienza unica che appartiene all'aggregato degli atomi; un me, una coscienza unica, non può essere ccncepito come la somma di Uiia moltitudine di me odi coscienze distinte. L'una e l'altra delle due so- luzioni materialiste della quistione dell'origine della coscienza mostrano così il tratto distintivo delle concezioni metafìsiche propriamente dette; cioè, ol- tre all'assenza completa di prove, l'impossibilità dì essere rappresentate, il racchiudere delle impossibi- lità intrinseche, delle contraddizioni. Vi hanno dun- que due punti in cui viene a mancare l' intellegi- bilità della teoria meccanica : l'uno è la distinzione delle proprietà primarie e secondarie della mate- ria, che è il fondamento della teoria, e l'altro l'ap- plicazione della teoria ai fenomeni della coscienza. §. 12. Le considerazioni precedenti spiegano per- chè la maggior parte dei fautori della teoria mec- canica si sottraggano alla necessità, per quanto im- periosa, di sottomettere alla teoria i fenomeni delle coscienza. Il valore assoluto della teoria meccanica non viene ordinariamente reclamato che nel domi- nio del mondo fisico; ma in questo dominio si am- mette che l'applicazione della teoria è illimitata, e che non vi ha altra maniera possibile di compren^ dere i fenomeni. Noi possiamo considerare DuBois- Reymond come il fedele rappresentante di questa tendenza filosofica, nella forma in cui essa ha l'a- desione della maggior parte dei pensatori che sono alla testa del movimento scientifico contemporaneo. «La filosofia naturale, egli dice, ha per isc3po di comprendere il mondo materiale, e a questo fine tende a ricondurne i cangiamenti a dei movimenti d'atomi causati dalle loro forze centrali costanti, o cxx in altri termini, a risolvere i fenomeni della natura in meccanica degli atomi. È un fatto d'esperienza psicologica che, tutte le volte, che una tale riduzione è effettuata con successo, il nostro bisogno di cau- salità è, per il momento, completamente soddi- sfatto » (1). L'autore non ammette che un limite a questa spiegazione meccanica di tutti 1 fenomeni della natura: questo limite. è il limite stesso, o più propriamente l'uno dei due limiti, della nostra co- noscenza (l'altro essendo l'incomprensibilità della essenza della materia e della forza), e consiste nel- l'impossibilità di ricondurre il pensiero o la sensa- zione al movimento degli atomi. « Con la prima sensazione di piacere e di dolore che provò l'essere più semplice, all'inizio della vista animale sulla terra, s'aprì quest'abisso insuparabile; d'allora il mondo divenne doppiamente incomprensibile ». Ma nella quistione dell'origine della vita l'autore non trova un limite della nostra conoscenza, e perciò nemmeno della teoria meccanica: la quistione non è, egli dice, che un problema di meccamica estre- mamente arduo. Quantunque la meccanica mo- lecolare che presiede alla costituzione degli esseri organizzati, come quella che presiede alla cristal- lizzazione e alle reazioni chimiche, non ci siano, al- meno per ora, accessibili ; tuttavia la realizzazione -del nostro ideale della conoscenza suppone che que- sti fenomeni siano spiegati meccanicamente. Non •(1) / Limiti della Filos, natnr. in Ber. scient. 2« ser voi. 7 ^2) lòid. CXXi vi ha per noi altra conoscenza che quella dei fatti meccanici : solo le leggi fisico — matematiche sono delle vere leggi, che s'impongono por una neces- sità logica (1). Il lato particolarmente paradossastico della teoria meccanica, come concezione generale del mondo fi- sico, è la sua applicazione ai fenomeni della vita. Qualunque sia il successo della teoria meccanica nel dominio della natura inorganica, vi sarà sempre, per questa teoria, la grande difficoltà di identificare due ordini di fenomeni, la cui distinzione essenziale sembra così evidente, quelli della materia bruta e quelli della materia vivente. Senza dubbio, la dif- ficoltà che incontra la teoria meccanica nella qui- stione dell'essenza della vita, è dovuta in parte a dei pregiudizii tradizionali e naturali al nostro spi- rito, di cui la scienza moderna ha fatto giustizia. L'uno è questa spontaneità del movimento, questa attività caratteristica dell' essere vivente, per cui egli sembra avere in se stesso la causa dei propri cangiamenti; e l'altro questa teleologia, queste tracce di disegno, che si sono sempre viste specialmente nella struttura e nelle funzioni degli esseri orga- nizzati. È conformemente a questi concetti che A- ristotile definisce gli esseri che sono per natura — con una definizione che è evidentemente una gene- ralizzazione tirata dalla natura degli esseri viventi: — le cose il cui movimento procede da un principio interno ed è indirizzato ad un fine (1). Ma la dot- (1) DuriL'in contro GalianL (2) V. Pìiys. 1. II. Vili. trina della coaservazione dell' energia mostra che questa spontaneità del movimento è una pura illu- sione, tutte le forze che si manifestano negli esseri viventi non potendo essere che l'equivalente di altre forze fisiche disparse dando loro origine. In quanto alla finalità degli organismi, Darwin ha dato una spiegazione, che la teoria meccanica può conside- rare come un gran passo verso la sua completa realizzazione. Ma con .tutto ciò, deduzione fatta di queste due difficoltà su cui i metafisici hanno so- vratutto insistito, resta sempre nei corpi viventi un carattere essenzialmente differenziale, col quale non si trova alcuna analogìa nei fenomeni della mate- ria bruta: è questa persistenza del tipo generico nella successione delle generazioni e del tipo indi- viduale attraverso gli scambi incessanti della ma- teria—carattere per cui la scienza moderna definisce la vita, con Treviranus : « la vita è l'uniformità -co- stante dei fenomeni nella diversità delle influenze esteriori >>; con Flourens : « la vita è una forma ser- vita dalla materia » ; e meglio ancora con Cuvier: « l'essere vivente è un turbine a direzione costante, nel quale la materia è meno essenziale che la forma ». Vi hanno nell'essere vivente, dice Ber- nard, due ordini di fenomeni : 1. i fenomeni di creazione vitale o di sintesi organissatrice; 2. i feno- meni di morte o di distruzione organica. « Se al punto di vista della, materia e della forza, nel mondo vivente come nel mondo bruto, niente si perde e niente si crea, non è cosi al punto di vista della forma. Nell'essere vivente tutto si crea, s'organizza morfologicamente. Nell'uovo in isviluppo, i muscoli^ f le ossa, i nervi appariscono, e prendono il loro po- sto, ripetendo una forma anteriore da cui l'uovo è uscito ». « Di questi due ordini di fenomeni, il primo solo è senza analogo diretto, particolare, speciale all' essere vivente, È una sintesi evolutiva. È ciò che vi ha di veramente vitale. È la vita ». L'altro al contrario è puramejite fisico-chimico. « Sono dei fenomeni di morte vera, quando si producono in un organismo». «Ora, ed è ciò i^he vi ha di più ri- marchevole, noi siamo vittime d' un' illusione abi- tuale, e quando vogliamo caratterizzare la vita, noi indichiamo un fenomeno di morte. Noi non vedia- mo i fenomeni della vita. La sintesi organizzatrice resta interiore, silenziosa, nascosta, raccogliendo senza rumore i materiali che saranno spesi nell'e- spressione fenomenale. Noi non vediamo dunque di- rettamente i fenomeni di creazione vitale. Solo lo istologo, l'embriogenista^ seguendo lo sviluppo del- Telemento o dell'essere vivente, prende dei cangia- menti^ delle fasi che gli rivelano questo lavoro sordo : qui un deposito di materia, là una forma- zione d' inviluppo o di nucleo, là una divisione o una moltiplicazione, una rinnovazione. Al contrario i fenomeni di distruzione vitale o di morte sono quelli che ci saltano agli occhi, e per i quali siamo tentati di caratterizzare la vita. I segni ne sono e- videnti, eclatanti : quando il movimento si produce, quando un muscolo si contrae, quando la sensibi- lità e la volontà si manifestano, quando il pensiero si esercita, quando la gianduia secerne, la sostanza dei muscoli, dei nervi, del cervello, del tessuto glan- dulare si disorganizza, si distrugge e si consuma. /^ Di sorta che ogni manifestazione di un fenomeno, nell'essere vivente, è necessariamente legata a una distruzione organica, e sotto una forma paradossale si può enunciare questa verità che io ho espressa altrove : la vita è la morte » (1). L'opposizione che la concezione meccanica della vita incontra nella scienza moderna non è dunque dal punto di vista metafisico della teleologia, né dal punto di vista, prescientifico che riguarda quest'at- ti vita esteriore dell'essere vivente-in cui Claudio Bernard non vede che dei fenomeni di morte e che egli riconduce ai fenomeni generali della materia —come il carattere distintivo per cui i corpi viventi sono separati come da un abisso dalla materia bruta. La quistione tra i meocanisti e quelli che non am- mettono la loro teoria è : il fenomeno dell'eredità e quest'altro fenomeno analogo della continua restau- razione che fa di se stesso l'individuo vivente se- W U defluizioni della vita, nella Sev 8cieut. 2. ser. t. 13. .cient :.rTTly ''r'^'r "'^*-'-'- -«""'ti. nella Ifev scent. HOT 3. t. 12. Ivi l'autore, oltre alle opinioni analoghe di al tr. naturalisti riferisce queste parole di C'hevreul : . Un oorpo o^-' ^Trrnena'"*;' "^ r,r "*' ""'-' «>- -» costaniaal ^dlvilniohè . * 'P""'"' " '* ""'°^'" di dar nascita ad ndlyidui che riproducono alla loro volta questa stes.sa forma È le fi/a *'•" ""'' ^'** « non nella natura deU le forze a cui si possono rapportare immediatamente i fenomeni .. Ricordo pure delle proposizioni simili di Matteucci : (dopo aver det- to che 1 fenomeni della vita devono ridursi a fatti fisico-chimici, vi ha. nell organismo vivente, qualche cosa che pare inviluppata dal- chimici Io voglio parlare di questa grande incognita che si nascon- de in un grano, producent* sempre la stessa pianta dal comincia- mento sino alla fine.. (V. Pev. scie„t. 1. ser. t. 2, p. *«u ^ cxxv • condo la forma determinata che gli è propria— re- staurazione che dal fatto più ordinario della rein- tegrazione degli elementi per la nutrizione va salla rigenerazione, in certi organismi, degli organi più complessi— questi fenomeni essenziali della vita sono riduttibili alle leggi generali della materia e del moto? La teoria della conservazione dell'eneraia non decide la quistione in favore del meccanismo; essa prova semplicemente che le forze vitali — in- tendendo con questa parola non degli agenti miste- riosi, delle ipostasi, ma un asemplice espressione a- stratta dei fenomeni della vita— non possono creare energia, ma solo trasformarla. La teoria dell' evo- luzione fa intravedere la possibilità di ricondurre tutti i fenomeni svariati del mondo vivente a un piccolo numero di leggi comuni, ma i fenomeni es- senziali della vita, cioè l'eredità e. generalmente, la persistenz^i della forma nella continua rinnovazione della materia, lungi di dedurli, essa li suppone come le premesse ultime delle sue deduzioni. Questi fenomeni sin qui inesplicabili — e che non vi ha alcuna difficoltà intrinseca a considerare come dei fatti ultimi che non ammettono spiegazione ulteriore, ma solo un'espressione più rigorosa sotto forma di leggi precise — avranno mai il loro Newton, che li riconduca alla meccanica degli elementi della ma- teria? Quello che sembra evidente — tanto evidente che r autorità degli eminenti fisiologi che propu- gnano la teoria meccanica non è una ragione che deve impedire di dirlo— è che sinché questo Newton non sarà venuto — ciò che Kant trovava assurdo di sperare — la teoria meccanica della vita non sarà che un'ipotesi, meno ancora che un'ipotesi, una sem- plice congettura sulla scienza avvenire, poiché essa m riduce all'affermazione che questo Newton verrà o potrebbe venire (cioè verrebbe, se l'ideale della conoscenza umana fosse conseguibile). L'autorità dei sommi maestri della scienza che emettono quest'af- fermazione dà certamente ad essa un gran peso: ma dei lisiologi non meno autorevoli dichiarano che quest'affermazione è affatto gratuita e senza fonda- mento nella scienza, e classano la teoria meccanica (1) « Egli è in effetto assolutamente certo ohe noi non possiamo iip- pieudere a 'conoscere d'una maniera sufficiente, e a più forte ra^io* ne a spiegarci, gli esseri organizzati e la loro possihilitt\ interiore per dei prlnclpli puramente meccanici della natura; e si può soste- nere arditamente con un'i?guale certezza ch'egli ò assurdo per degli uomini di tentare qualche cosa di slmile, e di sperare che qualche nuo- vo Newton verrà un giorno a spiegare la produzione d'un filo d'erba per leggi naturali a cui alcun disegno non ha presieduto». {Critica dei (/indizio paragr. LXXVI). Come si vede da (jueste parole, l'ap- prezzamtnto di Kant è sovratutto fondato su considerazioni d'ordine teleologico. Del resto, come si sa, lo stesso punto di vista teleologi- co njn ha per Kant alcun valore obbiettivo, ma non ^ fondato che sopra una necessità subbiettiva della nostra Intelligenza. Nella qui- «tiene della spiegazione degli esseri organizzati, li nostro pensiero si avvolge necessariamente, secondo Kant, in un antinomia insolubi- le; perchè da una parte noi non concepiamo che alcuna produzione di «OOS3 materiali sia possibile se non secondo leggi puramente meecn- niche; ma dall'altra parte, la spiegazione meccanica applicata a certe produzioni della natura (gli esseri organizzati) sarà sempre insuffi- ciente e d'un'estanslone limitata (quantunque non possiamo sapere sin dove questa spiegazione possa estendersi), e noi dobbiamo neces- sariamente giudicare della natura e della possibilità di queste pro- duzioni secondo il concetto delte cause finali, senza vedere alcun mo- do possibile di conciliare questi due punti di vista antitetici, ma h- gualmente necessari, il teleologico e il meccanico.— L'alternativa Ine- vitabile che Kant suppone tra il meccanismo e la teleologia nella tra le ipotesi relative alla « ricerca delle cause pri- me, che la scienza non potrebbe attingere » (1). qulstione della vita, s'Incontra pure negli autori contemporanei, p. e. in Wundt Trattato di Fisiologia nmana, Introduzione, dove sta- bilisce che l'antico concetto della vita era fondato sul punto di vista deUe causa finali, mentre * la maniera di vedere oggi dominante e che si chiama ordinariamente l'ipotesi fìsica o meccanica, ha la sua ori- gine nella concezione causale della natura, 1p quale è da lungo tem- po prevalsa nelle branche affini della scienza naturale, e secondo la quale la natura è una semplice catena di cause e d'effetti, le leggi ultime dell'azione causale essendo le leggi della meccanica ».— Notia- mo quest'affermazione di Wundt che la teoria fish^a o meccanica è la sola che realizzi l'incatonamenlo causale tra 1 fenomeni : la stessa affermazione si trova in altri fisiologi meccanlsti, p.e. in Du Bois— Reymond (parole citate) e in Haeckel Libera scienza e libero inse- fjnnniento, pag. 9, 10, 11. (1> Bernard Dcflniz. della vita. Sinché il Newton non sarà venuto, noi non possiamo sapere se la dottrina meccanica (o, In generale, fisico-chlmlca) della vita ha ef- fettivamente un senso o è una di quelle che Spencer chiama pseudo- idee (e quindi nn concetto metafisico nel senso più stretto del termi- ne). Questa dottrina infatti si riduce a questa ])roposizione : le leggi della vita sono deducibili dalle leggi generali del mondo fisico. Ora se questa deduzione, qualunque ipotesi possa immaginarsi, è impos- sibile (non per i limiti della nostra conoscenza, ma per la natura stessa delle cose); se le leggi della vita non i^ssono essere una con- seguenza d,*lle leggi generali del mondo fisico: affermare che lo so- no" che la deduzione è possibile, è evidentamente enunciare, non un semplice errore di fatto, ma un'impossibilità logica. Questa Impossi- biuta logica o, ciò che è lo stesso, (luest'assurdità intrinseca, che po- trebbe essere contenuta nella concezione meccanica, attualmente deve per necessità sfuggirci, perchè la proposlztoue astratta: le leggi del- Ja vita sono deducibili dalle leggi generali della materia, è, come o- gnl proposizioni astratta, un puro simbolo. Il cui significato consiste nelle rappresentazioni concrete corrispondenti. Se una rappresenta- zione concreta corrispondente al simbolo (al cosi detto concetto a- stratto) è possibile. Il simbolo ha un senso, è intelligibile; se non vi ha una rappresentazione (concreta) possibile che gli corrisponda, U simbolo non ha senso, vi ha un non senso, un'impossibilità logica. La rappresentazione concreta corrispondente alla proposizione astrat- ta • le leggi della vita sono deducibili dalle leggi generali della ma- Il fondamento della concezione fisica o meccanica della vita è semplicemente in un' induzione tirata dall' osservazione che i progressi della scienza si sono fatti nel senso della spiegazione fisica dei fe- nomeni, o si deve ammettere l'influenza di qualche principio considerato come evidente per se stesso? Se si riflette all'influenza che il principio che l'es- sere non può venire dal non essere, cioè che il reale non può cangiare di natura e di proprietii, ha sempre avuto nella storia del pensiero umano; alla forza con cui quest'altro principio, che ne è una conseguenza, cioè l'impossibilità che un tutto abbia delle proprietà essenzialmente distinte da quelle, riunite, degli elementi fuori del tutto, s' impone al nostro spirito; infine al carattere assiomatico delle affermazioni dei meccanisti — che la spiegazione mec- canica è la sola maniera possibile di comprendere i fenomeni, eh' essa è la sola che possa realizzare tra questi l'incatenamento causale, che le leggi della meccanica sono le sole vere leggi, perchè s'impon- gono con una necessità logica — si troverà verisimile che delle considerazioni a priori non siano estranee ai motivi che fanno abbracciare questa teoria. Ben teria^ «crebbe la deduzione effettuata. Effettuata questa deduzione, si vedrebbe al tempo stesso che la concrezione meccanica ò Intelll^ibite e che essa è vera (o almeno verisimile, se questa deduzione si ottenessa Immaginando qualche agente Ipotetico, Il cui modo d'azione però fos- se conforme alle leggi generali della materia e del moto). Ma sinché questa deduzione non sarà effettuata, o non sarà provato che una ta- le deduzione è Impossibile, noi n^n possiamo sripere, non solo se la concezione meccanica è vera o falsa, ma nemmeno se ossa ha un sen- so o è un non senso, se è un'idea vera, noi sen-io leibuitziano, o una Idea falsa, cioè unMmposslbilltà logici. più, noi troviamo nei suoi fautori delle affermazioni più esplicite e precise. « Se nei corpi viventi, dice Preyr, la materia possedesse altre forze fìsiche o di qualsiasi natura che nei corpi non viventi al- lora gli elementi costituenti la materia dovrebbero possedere ora tali forze, cioè a dire tali proprietà ora tali altre; perciò gli elementi non sarebbero più invariabili e immutabili, essi non sarebbero più delle sostanze elementari, ciò che implica con- traddizione » (1). Lo stesso presupposto, cioè che gli elementi devono essere invariabili, e che perciò un composto non può avere delle proprietà che non siano la risultante di quelle dei suoi componenti, vediamo nel seguente ragionamento di Huxley. Do- po aver parlato delle proprietà fìsiche e chimiche dell'acqua e del ghiaccio, tra le quali e quelle del- l'idrogeno e dell'ossigeno non esiste la più leggiera rassomiglianza, egli continua : « Questi fenomeni e (1) Rev, scient, 3^ ser. t. 7. Le forze dei corpi viventi. In verità Preyer crede « che airinfuorl delle loro affinità, qualche» cosa d'essenzialmente differente da tutte le forze fisiche e chimiquali si considerano oggi, l'eredità, deve determinare il modo secondo cui reagiscono le une sulle altre le combinazioni chimiche esistenti nell'uovo, come anche l'ordine e la disposizione delle loro molecole, In maniera che un embrione di un essere vivente che ra«somlglla, ai generatori dell'uovo, se ne sviluppi, e che, anche con una composi- zione degli uovi qualitativamente e quantitativamente slmile, degl'lur dlvidui differenti' possano risultarne». Ma l'eredità si spiega per la memoria Inconsclente della materia vivente, e per mettere d'accordo questa spiegazione coi fatti della fisica e della chimica, bisogna attri- buire la stessa facoltà a tutta la materia (V.cap. 2" paragr. 9, in fine). Io non so se questa possa dirsi una spiegazione fisica della vita : ad ogni modo essa si conforma al principio generale della spiegazione fisica, Cloe che le proprietà del corpi viventi non differiscono essen- zialmente dalle proprietà della materia in generale. / -* cxxx molti »ltri cosi curiosi costituiscono ciò che noi «hiamiamo le proprietà dell' acqua, e noi non esi- iiamo a credere che, d' una maniera o d' un'altra, queste proprietà risultano da quelle dei suoi ele- menti componenti. Noi non supponiamo una forza misteriosa, chiamata acquosità, che entra in scena e prende possesso delFossido d'idrogeno tosto ch'esso è formato, e guida in seguito le particole acquose verso i posti eh' esse devono occupare sulle fac- cette del cristallo o nel mezzo delle foglioline della trina. Noi viviamo al contrario colla speranza e la confidenza (^he un giorno, grazie ai progressi della fisica molecolare, noi potremo passare dai costituenti dell' acqua alle preprietà deir acqua stessa, cosi facilmente che oggi possiamo dedurre il movimento di un orologio dalla forma delle sue parti e dalla maniera in cui esse sono disposte (1). Vi ha altra cosa allorché dell'acido carbonico, l' acqua e dell' ammoniaca dispariscono, e al loro posto nasce, sotto l'influenza del protoplasma già esi- stente, un peso equivalente di materia vivente? » (2). Ciò che dobbiamo pure notare nelle parole citate di (1> La confidenza di Huxley non è divisa dal due più eminenti logici suol connazionali. Nell'azione chimica, dice Baln. non si può predire U carattere del composto dal caratteri degli elementi La tjomposlzlone delie chiuse è la legge, considerando la causa come un patere motore, una forza: ma nelle azioni chimiche non si tratta di una composizione di forze, ma di sostanze (Logica l. 3" e. 4" 20-21; E Stuart. Mlll : È Impossibile di dedurre tutte le verità della chi- mica e della fisiologia dalle leggi o proprietà delle sostanze semplici o agenti elementari {Logica t. 1" l*br. 3" e. 6" § 2"). E Interessante di ttotare di l'attitudine del rappresentanti della filosofia dell'enperlenza verso la teoria meccanica come conoezion© generale della natura. (2) La base fisica della vita, nella Rev. seient, ser. 1* t. 6".Huxley è Talternativa che esse propongono tra Tipo- tesi AaW acquosi fa e quella che le proprietà dell'acqua sono deducibili dalle proprietà dei suoi componenti, cioè, facendo Tapplicazione della similitudine, tra l'ipotesi della forsa vitale e quella che le proprietà degli esseri viventi sono deducibili dalle proprietà degli elementi materiali. Abbiamo osservato che le ipotesi contrarie dello spiritualista e del materialista, per rendere conto dell'origine della coscienza, par- tono egualmente dallo stesso principio, cioè che le cose non poscono cangiare nella loro natura : di là lo spiritualista concludo che la coscienza, non tro- mbandosi negli elementi materiali, deve essere ap- portata (la un' altro principio distinto da questi e di cui essa sia la proprietà immutabile; il materia- lista ne conclude invece che la coscienza che ap- parisce nel tutto non può essere essenzialmente di- stinta dalle proprieià degli elementi costitutivi. Dalle diliicoltà delle ipotesi materialiste lo spiritualista argomenta la necessità della sua propria ipotesi, e viceversa dalle difficoltà dell'ipotesi spiritualista il materialista la necessità della sua. Così ora possiamo osservare che Tipotesi fìsica o meccanica e l'ipotesi vitalista sono l'applicazione di un principio comune alla quistione dell'origine e dell'essenza della vita, cioè dello stesso principio che la natura delle cose non può cangiare. Dall'osservazione che i fenomeni dell'essere vivente sono essenzialmente distinti dai fenomeni degli elementi materiali che l'hanno co- stituito, il vitalista conclude, in virtù di questo principio ammesso come evidente per sé stesso, che la vita è apportata da un'altro elemento distinto dagli elementi materiali che viene ad aggiungersi al composto (diciamo : un elemento distinto dagli elementi materiali, quantunque il principio vitale sia stato spesso concepito come una specie di fluido^ p. es. la matiera ritae diffusa di Hunter, di cui un autore quasi contemporaneo ha potuto dire che in Inghilterra essa è una parte della reìigio medici (1). ma è evidente che in questo caso, come in quello dell'animismo primitivo, a una sostanza materiale particolare si attribuiscono delle proprietà essen- zialmente differenti da quelle della materia comune). Dairosservazione che i corpi che manifestano i fe- nomeni della vita non sono che aggregati degli ele- menti della materia bruta, e finiscono per risolversi in questa materia bruta, il meccanista conclude in- vece, in virtù dello stesso principio, che le proprietà degli esseri viventi non possono differire essenzial- mente dalle proprietà della materia bruta. Dall'as- surdità di un principio vitale sostantificato si ar- gomenta da una parte la necessità della spiega- zione fisico - chimica o meccanica della vita, come pall'altra parte dall'impossibilità di questa spiega- zione, che distrugge la differenza essenziale tra la materia vivente e la materia morta, si argomenta la necessità di una sostanza speciale, che si associ agli elementi materiali, e aggiunga ad essi, finché dura 1' ossociazione, le nuove proprietà della vita. Dall'una e dall'altra parte la terza ipotesi che rompe la pretesa necessità dell'alternativa, ipotesi che non (1) Bence Jones V. Materia e forza In Rei\ scirnf. ser l" anno pag. 62 e 98. suppone niente ma si limita a costatare il fatto, <;ioè che la stessa materia in condizioni differenti possiede delle proprietà essenzialmente differenti^ viene respinta a priori: ciò che è perfettamente na- turale, perchè essa è contraria alla tendenza spon- tanea del nostro spirito a ricondurre il meno fa- miliare al più familiare, e per conseguenza a spie- gare i fatti per la supposizione che il reale persiste nelle stesse proprietà, questa persistenza essendd per noi un fenomeno assai più familiare che il cangiamento delle proprietà (1). (1) Evidentemente ciò che abbiamo detto In questo paragrafo e nel precedente, non si applica soltanto alla concezione ìiieccanica del mondo, ma a tutte le forme della coacezlone flslco-chiinica. Noi non ci siamo limitati a pnrlare della prima che perchè ne è la forma più <»omunemente ammessa, e quella che sembra la conseguenza più na- turale del principio della fisica moderna che tutti 1 cangiamenti del mondo fisico si riducono ai movimento degli elementi di una materia che noa ha altre qualità che l'estensione e l'Impenetrabilità: ma è e- vidente che la identificazione del fenomeni della materia vivente e cosciente a quelli della materia bruta è una conseguenza del concetto generale che riduce tutti 1 fenomeni a quelli fisico-chimici, e non della forma particolare di questo concetto che riduce inoltre tutti 1 fenomeni fisico-chimici a quelli meccanici. Questo elemento specifico, differenziale, della concezione meccanica (la riduzione di tutti 1 fe- nomeni fisico-chimici al fenomeni meccanici) non ha avuto nel testo alcuna spiegazione. E In effetto esso non potrebbe riguardarsi come una semplice applicazione del principio che noi abbiamo formulato con le parole tiichil oritar^ nichil interit. Così, se vogliamo spiegare anch'esso per questo processo d'inferenza incosciente da cui derivano 1 concetti metafisici, e quelli in generale che si ammettono d'una ma- niera assiomatica ma che 1' osservazione non potrebbe giustificare, noi dobbiamo cercarne l'origine pire in uni suggestione deli' espe- rienza più familiare, ma indipendente da quella a cui si devono i -concetti di cui parliamo In quest'Appendice. É evidente che il principio su cui è fondata la teoria che tutti I fe- nomeni del mondo fisico, anche (luelli della chimica, non possono essere -*/ . x" J. §. 13. La metafisica dei metafisici — non quella che i fisici fanno senza saperlo, come il borghese gen- tiluomo faceva della prosa senza saperlo— ci mostra altre applicazioni del principio dell' immutabilità dell'essenza delle cose, che unite alle precedenti, ci possono far concludere che F influenza di questo principio, nella storia del pensiero umano, non è stata quasi meno universale che quella del principio di causalità efficiente. Noi indicheremo, d' una ma- niera generale, i seguenti gruppi di sistemi: 1. I sistemi di atomisìno metafisico^ in cui agli ato- mi, cioè masse indivisibili ma estese, dei fisici, co- ^~ che l'effetto delle leg-gl della meccanica, (almeno quando non si sup- pone che II movimento deve spiegarsi unicamente per 1* impulsione) è che tutta la materia, al fondo, deve avere un'essenza e delle pro- prietìi identiche. É facile di vedere in quesio pr/nr^lplo una sugge- stione delle esperienze più fauiillarl, se si tien conto di questo fatto, die la scienza moderna, negando 1' obbiettività delle qualità sensi- bili (le secondarle), e componendo tutti I corpi di elementi di una solidità e di una durezza assolute, sopprime, in definitiva,, ogni ca- rattere differenziale tra materia e materia. Un elemento materiale n^n potrebbe differire da un altro che per la grandezza e la figura. Noi possiamo supporre, è vero, che essi slan^ dotati di energie par- ticolari, che l'nno abbia un modo d'agire e di patire x?he gli ò asso- lutamente proprio e pe/ cui si distingue essdnzialmente dall'altro— ed è in ciò che dovrebbe consisterà la differenza frn gli elementi chimici, supponendo che e^sa sia primordiale e irrlduttlbile— . Ma ciò che ap. punto è conti'ario alla suggestione delle nostre esperienze più familiari, è che dei frammenti di una materia qualitativamente omogenea — sol potremmo dire: della stessa materia— 1 quali non differiscono che per la grandezza e la figura in cui, per dir così, sono stati tagliati, pos- sano avere dei modi di agire e di patire radicalmente differenti. Noi abbiamo osservato tante volte che le diverse porzioni di una stessa specie di stoffa o di legno o d'un'altra materia qualsiasi, se differiscono per la grandezza e per la figura, non hanno perciò una natura e delle proprietà differenti, salvo ((uelle proprietà che sono una conseguenza della figura e della gi'andezza stesse. Se noi chiamiamo staticìie lo- me unità costanti o elementi del reale, vengono so-* stituiti degli esseri semplici o inestesi— monadi, sia nel senso panpsichista sia nel senso dinamista, forze o centri di forze, atomi semplici o punti materiali,, ecc. i cangiamenti del mondo fenomenale essendo spiegati, come nell'atomismo, pei cangiamenti dei rap- porti tra le unità elementari. I sistemi di atomismo metafìsico non sono al fondo che delle forme tra- scendenti della concezione meccanica, tutti i can- giamenti del mondo materiale essendo ridotti, in questi sistemi, al cangiamento nelle relazioni di spazio, sia che in queste relazioni si veda un at- tributo reale degli esseri semplici — ciò che è certa- mente una contraddizione nei termini, poiché un es- sere semplice, cioè inesteso, non occupando uno spazio, non potrebbe essere nello spazio — sia che non si veda in esse che delle manifestazioni feno- menali d'un ordine reale «intelligibile». In questo gruppo è a segnalare il sottogruppo dei sistemi pan» psichisti, nei quali, col dualismo dello spirito e della materia, viene soppresso il più profondo dei cangia- proprlelà per cui sogliamo distinguere le diverse sostanze secondo 11 giudizio immediato dei sensi, e dinamiche quelle che esse manifestano. In circostanze determinate, noi possiamo formulare li risultato delle nostre esperienze più familiari cosi; delle sostanze identiche nelle loro proprietà statiche non possono differire nelle proprietà dinamiche (tranne in qnelle che non potrebbero riguardarsi come caratteri dif- ferenziali nelle sostanze, quali sono quelle che sono uni conseguenza della grandezza, della figura, della posizione ecc. ) Il concetto fonda- mentale della spiegazione meccanica, per cui essa si distingue dalla semplice spiegazione fisico-chimica, cioè l'identità essenziale di tutta la materia, sarebbe l'estensione di questa conclusione agli elementi della materia, dato il concetto moderno della materia, che sopprime; tra le sostanze, miteriali ogni differenza nelle (lualltà statiche. i menti della natura, e perciò la più evidente con- traddizione che il principio che l'essere non può venire dal non essere incontra neiresperienza. 2. I sistemi monisti che risolvono tutte le cose in una sostanza unica, sempre identica a se stessa, sia che di questa sostanza facciano un che di spiri- tuale, come Dio, r Idea (Hegel), la Volontà (Scho- penauer), Flncosciente in cui sono associate la vo- lontà e Tidea (Hartmann), ecc.; sia che ne faccia-io un che di differente dallo spirito e dalla materia (vale a dire da tutto ciò che conosciamo), come la Forza inconoscibile di Spencer, ehe egli si rap- presenta come qualche cosa di cui le forme can- giano, mentre la sostanza resta sempre la stessa (1). Come si vede, noi impieghiamo qui il termine monismo in un senso più stretto di quello che esso ha il più abitualmente nel linguaggio filosofico con- temporaneo, secondo il quale indica tutti quei si- stemi che non ammettono la dualità dello spirito e della materia. In questo senso il monismo equi- vale il più spesso sia alFilozoismo sia alla dottrina deir identità del fisico e del mentale : noi abbiamo già parlato di queste applicazioni del principio del- l'immutabilità. (1) « La scienza obbiettiva non può spiegare ciò che noi chiamiamo il mondo esteriore senza riguardare i suoi cangiamenti di forma «ome delle manifestazioni di qualche cosa che rimane costante sotto tutte le forme » Primi principii paragr. 191. Qui Spencer non parla che dei cangiamenti del mondo esteriore: in quanto ai cangiamenti del mondo interiore, noi abbiamo visto che questi si distinguono fenomenalmente da quelli del mondo esteriore, ma realmente sono identici con essi (cioè con quella parte di essi che costituiscono le condizioni fisiche dei fenomeni psichici)* 3. Il Realismo^ che risolve le cose in un sistema di concetti realizzati, cioè di entità astratte e ge- nerali (Platone, Spinoza, Schelling, Hegel, Taine, ecc.) Queste entità astratte e generali essendo ciò che vi ha di permanente e d'immutabile nella na- tura— le leggi eterne e le forme eterne degli es- seri— e il cangiante, il particolare, essendo riguar- dato come Vapparenm obbiettiva di quest'Essere im- mutabile, la conseguenza del Realismo è che l'es- sere non nasce né perisce e che non vi ha nel reale alcun cangiamento (1). 4. Il Criticismo. Vi ha, secondo questo sistema, nella varietà delle nostre conoscenze, un elemento invariabile : è la forma stessa della nostra cono- scenza, che, nella sua applicazione agli oggetti co- nosciuti^ si manifesta come legge generale del mondo dei fenomeni. Quest'elemento invariabile della no- stra conoscenza, che è ciò che vi ha di permanente nella scena perpetuamente cangiante delle appari- zioni, è la forma inerente al soggetto stesso cono- scente, la funzione invariabile per cui egli coor- dina la varietà delle impressioni sensibili. È evi- dente che, secondo il criticismo, se la forma della nostra conoscenza fosse variabile, se le funzioni e la natura del soggetto conoscente cangiassero, For- dine della natura conosciuta sarebbe alterato, non vi sarebbe più in essa un corso uniforme. Così a questa quistione : perchè vi ha un ordine uniforme o delle leggi costanti nei fenomeni ? il criticismo risponde : perchè la forma di cui il soggetto conoscente impronta gli oggetti conosciuti è sempre la stessa, perchè la natura di questo soggetto cono- scente è costante. Facendo questa risposta, il cri- ticismo applica — non in verità il principio che l' essenza delle cose è immutabile — ma un altro principio più fondamentale di cui questo è la con- seguenza, cioè che la persistenza degli oggetti nella stessa essenza o nelle stesse proprietà è una cosa naturale e che si comprende da sé stessa, e che quindi può servire di base alla spiegazione dei fe- nomeni. Spiegando l'ordine uniforme o le leggi co- stanti dei fenomeni per la invariabilità della for- ma della conoscenza, e quindi per la costanza della natura del soggetto conoscente, esso suppone infatti che questa costanza, come, in generale, la persi- stenza di una cosa nella stessa natura e nelle stesse proprietà, è un fatto che si comprende senza bi- sogno di spiegazione, e che perciò può servire d'in- termediario esplicativo del fatto che ha bisogno di essere spiegato, cioè 1' esistenza di leggi costanti^ di un ordine uniforme, nel mondo dei fenomeni, o delle apparizioni. A ciò che abbiamo detto potrebbe farsi un'ob- biezione : il principio che la persistenza delle coso nelle stesse proprietà è comprensibile (mentre il cangiamento delle proprietà non lo è), non può ap- plicarsi alle cose se non in quanto si concepiscono nel tempo (questa persistenza non essendo che una permanenza nel tempo). Ma, nel criticismo, il tempo essendo una forma subbiettiva della nostra cono- scenza, questo principio perciò non può applicarsi al soggetto conoscente, considerato come soggetto e non come oggetto della conoscenza, cioè come semplice apparizione — perchè questo soggetto, con- siderato in sé stesso, non è sottomesso alla condizione del tempo. La stessa obbiezione può farsi riguardo al gruppo antecedente cioè ai sistemi realisti^ le Idee di Platone e di Hegel e le altre astrazioni realizzate congeneri essendo anch'esse al di fuori del tempo. La risposta a quest'obbiezione è che per la costi- tuzione stessa della nostra intelligenza, è impossi- bile di formarci, come abbiamo spiegato nel Saggio 1*^, una rappresentazione reale del sovrasensibile, del non fenomenale. Ne segue che, mentre il me- tafìsico parla di cose non sottoposte al tempo e alle altre condizioni del sensibile e del fenomeno, è sotto queste condizioni nondimeno che egli è costretto in realtà a rappresentarsele. L' analogia dalle sue rappresentazioni reali con le esperienze che sono le premesse della sua inferenza incosciente, basta a quest' assimilazione che costituisce la base e il valore esplicativo dei concetti metafisici. La nostra osservazione sul criticismo, che esso spiega l'uni- formità dell' ordine della natura per la costanza delle proprietà del soggetto conoscente, si applica^ meglio ancora che a Kant, ai sistemi posteriori di criticismo, nei quali l'elemento propriamente idealista del Kantismo — cioè l'attività, l'efficienza causale, dell' intendimento e dei concetti puri nella forma- zione del mondo dell'esperienza — è lasciato nell'om- bra o è anche sparito, come in Renouvier, in Lange e in altri filosofi (p. e. Ferrier) che si riattaccano più o meno da vicino a Kant. In questi sistemi non resta del criticismo originale che la dottrina. del doppio elemento della conoscenza, l'uno inva- riabile ed essenziale al soggetto conoscente, la for- ma cioè la legge, l'altro variabile ed avventizio; la materia cioè le sensazioni; e questa dottrina, de- stinata evidentemente alla spiegazione dei fenomeni, non potrebbe spiegare, come il criticismo originale, che perchè i fenomeni non si succedono all'azzardo, ma vi ha in essi un ordine stabile ed uniforme. § 14. Fra i sistemi a cui abbiamo accennato, ve ne ha alcuno nel 1*" gruppo (atomismo metafisico) che merita un' attenzione particolare. Tale è sovra- tutti quello di Herbart. Non vi ha forse nella filo- sofia moderna un altro sistema che porti così spie- catamente l'impronta del sofisma a priori che stu- diamo in quest'Appendice. Gli elementi ultimi delle cose non sono per Herbart degli atomi fisici — la materia della fìsica non essendo per lui che un'ap- parenza, un fenomeno subiettivo — ma essi sono calcati della maniera più evidente sul concetto del- l'atomo fìsico. Herbart chiama il suo sistema un atomismo qualitativo, perchè le qualità semplici che costituiscono gli esseri. — i quali sono qualitativa- mente differenti e non omogenei come gli atomi— vi tengono il posto dei frammenti indivisibili di ma- teria dell'atomismo. L'essere di Herbart è assoluta- mente semplice : non solo esso è senza estensione ed indivisibile, ma non vi ha in esso una pluralità di proprietà; un reale non ha che una qualità, o, a parlar propriamente, non è che una qualità unica e semplice. (1) Le sostanze — qualità di Herbart (1) La sostanza -vale a dire ciò che vi lia di permanente neUe sono, come le sostanze materiali degli atomisti, as- solutamente immutabili : non vi ha nel reale alcun cangiamento interiore, in altri termini niente can- gia negli elementi considerati in se stessi; il can- giamento, ciò che accade, non è che un cangiamento nei rapporti degli elementi, nella loro disposizione, o, come dicono gli horbartiani, nel loro collega^ mento. Quando il meccanismo vuol ridurre tutti i can- giamenti al cangiamento dei rapporti nello spazio, la più grave difficoltà è per esso di rendere conto dei cangiamenti interni che deve riconoscere iu al- cuni esseri, cioè i fenomeni psichica: un meccani- smo rigoroso non indietreggia innanzi alla conse- guenza che questi fenomeni sono anch' èssi movi- mento, per quanto questa proposizione sia eviden- temente inintelligibile. La stessa difficoltà si presenta nel sistema di Herbart, ma d'una maniera più ge- cose— non è, nel concetto comune, che l'esteso, ciò che persiste nello spazio : Herbart toglie al reale l'estensione, ma fa delle sue qualità delle soHtanze, vale a diro attribuisce loro (juella permanenza asso- luta elio ordinariamente non si attribuisce che a ciò che occupa lo spazio (e in quanto occupa lo spazio). Una conseguenza di ({uesta trasformazione di qualilà inestese in nontanze è che la coesistenza di pili qualità in un essere é impossibile. Una (lualità, riguardata come un che di assolutamente permanente, è già — supposto d'al- tronde che essa possa concepirsi per se stessa— una sostanza: di più noi non possiamo concepire che una di questo qualità inerisca in un'altra o tutte e due ineriscano in un soggetto comune, poiché noi non possiamo rappresentarci altrimenti la coesistenza di più qua- lità (p. e. odore, sapore, calore — non sono le qualità di Herbart, ma il sovrasensibile non può modellarsi che sul sensibile) in uno stesso soggetto, se non rappresentandocele come inerenti tutte egual- mente in une stesso esteao. nerale. Non solo egli ammette — ciò di cui non potrebbe fare a meno — degli stati interni nella monade anima, ma tutte le monadi, tutti i reali, hanno secondo lui degli stati interni, i quali ci sono sconosciuti nella loro natura, ma che, come osserva Lotze (1), non bisogna credere molto dissimili da quelli dell'anima. È da questi stati interni, da que- sta attività interiore delle monadi, che deriv^ano i cangiamenti delle cose nello spazio. Questo concetto non deve sorprenderei in un sistema dinamista quale quello di Herbart : noi vediamo in esso un altro e- sempio di questo vago antropomorfismo che abbia- mo più volte segnalato in certi concetti metafìsici, e il cui germe si trova già nell'idea comune della forza (nel senso trascendente di questo termine). Supponendo degli atti interni anche negli elementi della materia, di cui egli ammette uon pertanto l'as- soluta immutabilità, Herbart non introduce una contraddizione nuova nel suo sistema — questa esi- ste dacché la coscienza ci obbliga a riconoscere in noi stessi dei cangiamenti interiori — ma non fa che generalizzarla. Herbart pretende che gli stessi cangiamenti negli stati interni delle monadi non sono che semplici cangiamenti nei rapporti fra di esse, nel loro collegamento, come il meccanista con- seguente pretende che la sensazione e il pensiero non sono che movimenti degli atomi. La conseguenza rigorosa del principio di Herbart che non vi ha, nell'essere reale considerato in se (1) PsicoL fisioh trad. frane, stesso, alcun cangiamento possibile, sarebbe di non accordare al cangiamento, almeno al cangiamento interno, che un valore puramente fenomenale^ di non vedervi, come gli Eleati, che una semplice appai*enza — della stessa maniera che il principio del meccanismo che ogni cangiamento, e quindi anche il pensiero, si riduce al movimento di elementi immutabili in se stessi, condurrebbe a nen vedere nel pensiero che un'apparenza illusoria del movimento. È cosi che talvotta è stata interpretata la dottrina di Herbart (1); ma tale non è veramente il suo pensiero. Egli non nega che i cangiamenti interni siano reaU., ma afferma al tempo stesso — ciò che contraddice a questa proposizione — che tutti i cangiamenti si ri- ducono a quello della relazione tra gli esseri. Una cosa, egli dice, può cangiare, per la sua relazione con altre cose^ senza cangiare in se stessa : così una stessa nota musicale può essere giusta o falsa, se- condo i rapporti in cui si trova con altre note ; una stessa retta ò una tangente relativamente ad un cer- chio, e diviene una secante relativamente ad un altro cerchio. A questo concetto inintelligibile, che gli stati in terni delle cose non esistono assolutamente, ma non sono che semplici relazioni fra queste cose, si riat- tacca pure la dottrina delle perturbazioni e degli atti di conservazione di se, per cui Herbart pretende di ri' sotvere il problema della possibilità del cangiamen- to. Gli stati interni delle monadi, come le rappre- (1) V. Dwf. liloè. di A. Frank, arfcic. Herbart. sentazioni deiranima, sono degli atti di conserva- zione di se di questi monadi, per cui esse reagi- scono contro le pertubazioni prodotte da altre mo- nadi. Quando due monadi, aventi qualità contrarie, s'incontrano a uno stesso punto, nasce fra di loro un'opposizione, una lotta, essendo impossibile la coesistenza di qualità contrarie: ciascuna monade resiste all'invasione dell'altra, fa uno sforzo per conservarsi quale essa è, cioè nella sua propria qualità. Questa mutua opposizione importa in cia- scuna delle due monadi una passione — è la pertur- bazione — e un'azione — è Fatto di conservazione di se. — La periiurbazione può paragonarsi a una pressione, la conservazione di sé a una resistenza. Pressandosi o turbandosi reciprocamente, ciascuna delle due monadi eccita l' altra alla resistenza, a uno sforzo di conservazioiie di se: ma le due so- stanze, con tutto ciò, non provano alcun mutamento; come, pressando l'uno contro Taltro due atomi, cia- scuno si opporrebbe alFinvasione dell'altro, mani- festando la sua forza di resistenza, ciò che sarebbe uno sforzo contro lo sforzo contrario tendente a comprimerlo, ma senza che perciò i due atomi ces- sassero un istante di restare nel loro stato inva- riabile. Come dal rapporto particolare in cui gli a- tomi sono posti, nasce questo sforzo di resistenza di ciascun atomo, che è un avvenimento ma che non importa alcun cangiamento reale nell'atomo stesso, non essendovi stato in realtà altro cangia- mento che nella posizione reciproca dei due atomi, cioè in una loro relazione; così dal rapporto partico- lare in cui le monadisono poste, nasce l'atto di conser- vazione di sé di ciascuna monade, che è un avveni- mento ma che non importa alcun cangiamento reale nella monade stessa, non essendovi stato in realtà altro cangiamento che nelle relazioni, nel collega- mento, delle monadi. Ciò che vi ha di particolare nel sistema di Her— bart, ciò che mette questo sistema in contrasto con la concezione meccanica, e che diffonde su di essa un'oscurità a cui non è comparabile quella che può trovarsi in alcuni punti della concezione meccanica,, è l'unione di questi due punti di vista incompati-^ bili, quello dell' assolufa immutabilità della so- stanza e quello della sua attività interiore, in altri termini, di un concetto dinamico e di un concetto meccanico che riduce tutti i cangiamenti del reale ài cangiamento nelle relazioni tra le unità costitu- tive. La stessa unione di questi due concetti si trova nel sistema del filosofo siciliano prof. Corleo, che fu senza dubbio un pensatore distinto, e merita anch'egli di essere ricordato. Il concetto fondamen- tale del prof. Corleo è ciò che egli chiama la « ret- tificazione dell'idea di sostanza ». Bisogna rigettare l'idea conmune che vede nella sostanza qualche «cosa di uno e al tempo stesso di multiplo : la so- stanza reale non è il soggetto d' inerenza di una pluralità di fenomeni (accidenti), non è qualche cosa che ha la potenza di fare successivamente degli attii differenti, di ricevere successivamente delle modi- ficazioni diverse. Una sostanza semplice non rac- chiude alcuna potenza : la sostanza non è che atto,, sempre lo stesso atto, un atto identico ed invariabile; La rettificazione dell' idea della sostanza consiste dunque nel togliere alle sostanze reali, agli ele- menti ultimi delle cose, qualsiasi mutamento, qual- siasi successione di stati, qualsiasi moltiplicità. Ma la sostanza, quantunque immutabile come Fa- tomo, non bisogna perciò concepirla come 1' atomo dei fisici. Prima di tutto la sostanza è assolutamente indivisibile, senza parti, senza estensione (la divisi- bilità all'infinito della materia essendo un'idea con- traddittoria) : inoltre essa differisce ancora dall'ato- mo, quale lo concepiscono i fisici, perchè mentre que- sto è un che di passivo e d'inerte, il cui attribuito non è che la sua proprietà di occupare uno spazio, le la cui realtà non è che la sua presenza nello spazio; al contrario la sostanza reale è essenzialmente at- tiva, l'attività essendo 1' essenza stessa dell' essere reale. A parlar propriamente, non vi hanno due cose, la s(>stam'<a e la sua azione : 1' azione non si distingue dalla sostanza, sostanza ed azione sono due termini equipollenti; l'essere reale è un^uzione sostantiva o una sosfan^a^a^ione. Ij'' azione non biso- gna concepirla come una modificazione della so- stanza — non vi hanno modificazioni nella sostanza —, come una seccessione di stati ; ma come lo Btato immanente, sempre lo stesso, della sostanza. La contraddizione tra il concetto dinamico, e il con- cetto/«^C6*««/if;o dell'assoluta immutabilità dell'essere — che nel sistema di Herbart si manifesta come con- traddizione tra il concetto di un essere senz' alcun cangiamento interiore e quello di una moltiplicità di stati di cui quest'essere è successivamente il sog- getto — qui prende un'altra forma : l'azione, che noi non possiamo rappresentarci altrimenti che come un cangiamento, una successione, è concepita come uno stato permanente, immutabile. L'idea della sem- plicità assoluta della sostanza (assenza di ogni mol- tiplicità interiore), che Corleo ha in comune con Herbart, deriva, per il primo, come per il secondo, dai due concetti riuniti dell' assoluta immutabilità della sostanza — che esclude il moltiplice come suc- cessivo — e della sua inestensione e indivisibilità — €he lo esclude come coesistente — . La sostanza essendo assolutamente invariabile, come si deve comprendere dunque 1' esistenza del fenomeno, cioè del variabile, nella natura ? È la concezione meccanica naturalmente che offre il tipo su cui il Corleo modella la spiegazione del cangia- mento. Ogni cangiamento non è ('he un cangiamento nelle relazioni, nella posizione reciproca degli ele- mcmti, ciascuno di questi in se stesso restando inva- riabile. Non bisogna credere che gli elementi per il loro concorso possano mai produrre qualche fenome- no nuovo, che sia qualche cosa di più o di diverso che la somma delle proprietà degli elementi stessi: il rapporto tra il fenomeno, A^ale a dire ciò che esi- ste d'una maniera transitoria, e la sostanza, vale a dire ciò che esiste d'una maniera permanente, è il rapporto tra il composto e il semplice, tra ìlpiìi e Vano, La sostanza è un'azione semplice, un'azione sostanti- va; il fenomeno è un'azione composta, un insieme di azioni sostantivo o di sostanze — azioni. « È la com- posizione che muta e passa, non i singoli atti so- stantivi che sono sempre gli stessi ». Ciò si applica al pensiero : esso non è una serie di modificazioni di una sola sostanza — ciò che sarebbe incompatibile, con l'immutabilità della sostanza — ma è una azione composta di quest'azione sostantiva che noi chiamiamo anima, e delle azioni sostantive che noi chiamiamo elementi materiali; esso cangia e si muta, perchè il composto cangia e si muta^ per l'addizione^ sottrazione, o trasposizione degli elementi. La sostanza, lo sappiamo, non è per Corico come un atomo, inattivo in se stesso, e che può, sotto l'azione di forze a lui straniere, manifestare suc- cessivamente forme differenti di attività : al contra- rio, la sostanza è per essenza attiva, e quest'attività è immutabile, costituendo l'essenza stessa della so- stanza. Ne segue che il contingente, per dir così, di a»ione, che esiste nel mondo, è quantitativamente e qualitativamente invariabile : le azioni possono comporsi, decomporsi, ricomporsi in aggregati dif- ferenti, ma ciascuna delle azioni elementari, così bene che il loro totale esistente nel mondo, restano sempre invariabili. La natura, considerata nei suoi stati successivi, è sempre, al fondo, identica; non soltanto identica come il mondo degli atomisti, com- posto sempre degli stessi atomi, ma identica ancora in quanto le azioni elementari, e quindi anche le azioni composte, cioè i fenomeni, dello stato ante- cedente, sono sempre identiche, al fondo, a quelle dello stato susseguente. In altri termini, vi ha iden- tità tra i fenomeni antecedenti e i fenomeni conse- guenti, tra le cause e gli effetti: l'effetto, il conse- guente, non è che la somma delle sue cause, dei suoi antecedenti, ed è identico con esse. Se la causa e r effetto ci sembrano due cose differenti, è che noi, per una sorta di sezione arbitraria, stacchiamo- dall' insieme una delle condizioni del fenomeno, e la consideriamo come causa del fenomeno, senza tener conto delle altre concause che con essa con- tribuiscono al risultato : ma « se tutte le cercassimo e le ponessimo sott'occhio, l'identità dell'effetto to- tale con tutte le concause che lo producono e lo .fanno essere quel che è, risulterebbe evidente- mente ». Vi ha tra il sistema del Corleo e quello di Herbart una somiglianza si colpente, che si è creduto di vedere nel primo un plagiario del secondo: la supposi- zione di un legame tradizionale, per ispiegare i punti di contatto tra i sistemi, s'impone, quando si vede nei concetti metafisici qualche cosa di fortuito e di arbitrario. Ma noi sappiamo che la metafisica è un tatto naturale dell'intelligenza umana, e che il me- tafisico, anche nei suoi concetti i più apparentementi lontani dal pensare comune, non fa che sviluppare certi germi che tutti gli spiriti naturalmente porta- no in se stessi. I tratti comuni tra Heybart e il prof. Corleo si spiegano, io credo, sufficientemente, senza bisogno di supporre che questi li abbia im- prestati da quello. La dottrina della semplicità as- soluta della sostanza risulta, come abbiamo notato, dai concetti della sua immutabilità e della sua ine- stensione e indivisibilità: questi costituiscono il ca- rattere comune dell'atomismo metafisico — che, come vedremo nella 2^ parte, è una delle forme naturali che prende il realismo nella sua inevitabile evolu- z ione — ; quello è, come abbiamo visto, un prodotto di questa tendenza naturale del nostro spirito — che costituisce la base ultima della metafisica — a ricon- ta CL durre tutti ì fenomeni a quelli che ci sono i più familiari. Questa tendenza spiega, nel tempo stesso che il concetto dell'immutabilità della sostanza, quello di ridurje il fenomeno, il variabile, al cangiamento dei rapporti tra le sostanze : il tipo per questi concetti era per altro esibito dalla teoria meccanica. § 15. La dottrina dell'identità della causa dell'ef- fetto—che noi abbiamo già incontrato nel prof. Cor- leo — ci fornirà l'ultimo esempio del sofisma a priori, che studiamo in quest'appendice, applicato a una concezione generale dei fenomeni. Questa dottrina non bisogna confonderla né col principio di alcuni filosofi greci, che il simile non può agire che sul simile, né con l'altro, più analogo, che la causa dove essere simile all'effetto. Questi due principii sono delle generalizzazioni eccessive dell'esperienza, assai comprensibili in uno stadio primitivo della ricerca scientifica; ma non potrebbero riguardarsi come con- cezioni metafisiche, se si vuol dare a questa parola, un senso definito. Mancano ad essi l'uno e l'altro dei tratti generali che caratterizzano le concezioni me- tafìsiche ; essi non sono, come la dottrina stessa del- l'identità della causa e dell'effetto, delle nozioni ir- rappresentabili o implicanti delle impossibilità in- trinseche; e, quel ch'é più, non sono nemmeno il prodotto di alcuna di queste tendenze spontanee, e quasi fatali, dello spirito umano, che noi chiamiamo con Mill sofismi a priori. Al contrario, la dottrina del- l'identità della causa e dell' effetto si riattacca della maniera più evidente a queste tendenze spontanee dello spirito - di cui la principale é quella che ci spinge a ricondurre tutti i fenomeni a quelli che ci GLI sono i più familiari —, non essendo che uno degli sviluppi più estremi del principio che il reale é nella sua essenza invariabile, o, come dicevano gli antichi fisici, che l'essere non può venire dal non essere né ridursi al non essere. Ascoltiamo Hamilton: <^ Quando noi apprendiamo, egli dice, che una cosa comincia ad esistere, noi siamo costret-ti dalle leggi della nostra intelligenza a credere ch'essa ha una causa. Ma che vuol dire quest'espressione: avere una causa? Se analizziamo il nostro pensiero, troveremo che ciò significa sem- plicemente che, poiché noi non possiamo concepire il cominciamento d' una nuova esistenza, bisogna che tutto ciò che si vede apparire sia esistito prima sotto un'altra forma. Noi siamo affatto incapaci di concepire che il contingente d'esistenza possa au- mentare o diminuire. Da una parte noi siamo inca- paci di concepire che niente divenga qualche cosa, e d'altra parte che qualche cosa divenga niente. L'a- forisma : ex niìiilo nihil, in nihilum nil posse reverti, esprime nella sua forma più netta il fenomeno intel- letuale della causalità. — Si concepisce dunque che un effetto e le sue cause sono una sola e stessa cosa. Noi crediamo che le cause contengono tutto ciò che è nell'effetto, e che l'effetto non racchiude niente di più che ciò che era contenuto nelle cause. Omnia mu- tanturj nihil interit, è questo quello che noi pensiamo, che noi dobbiamo pensare. È là il fenomeno mentale della causalità: noi neghiamo necessariamente che la cosa che sembra cominciare ad assere cominci in realtà; e identifichiamo necessariamente la sua esi- stenze! presente con la sua esistenza passata ». Questa 'r -r:^. Idenitfìcazione dell'esistenza poesente della cosa che sembra cominciare ad essere con la sua esistenza pas- sata consiste ad ammettere che, come dice l'autore^ « le cause continuano sempre ad esistere attualmente nei loro effetti », e che « un effetto non è niente di più che la somma o totalità di tutte le cause parziali di cui il concorso costituisce la sua esistenza (1). Xia dottrina della causalità di Hamilton ha la :adesione di Spencer. « Io penso, egli dice, d'accordo in ciò con Hamilton, che la nostra credenza alla necessità delle cause viene dalla nostra impotenza a concepire un accrescimento o una diminuzione (l) La dottrina di Hamilton contiene due proposizioni che biso- gna distinguere: Tuna ha una portata ontologica, o afferma l'iden- tità della causa e dell'effetto; L'altra ha una portata psicologica, e ;afferma che il principio di causalità — che Hamilton riguarda, non <«ooine un'acquisizione dell'esperienza, ma oome nna legge o una ne- cessità del pensiero — si deduce da un principio o da una necessità del pensiero più primordiale, cioè l'impossibilità di concepire che rl'essese venga dal non essere. Di queste due proposizioni, la prima h una concezione metafisica, nel senso più rigoroso della parola — •essa è un prodotto di una tendenza spontanea e generale . di un ^sofisma a pintori, dello spirito umano — ; la seconda non potre))be ri- guardarsi, seirondo me, come nna concezione metafìsica propriamente •<letta, n<il senso vho non può riattaccarsi alle tendenze generali sofistiche a priori del nostro spirito, quantunque il suo punto di par- itenza, l'apriorità del principio di causalità; sia un prodotto del «o- rflsma a priori XOCt' èc,OY,T\y della psicologia, di cui diremo nella 3* parte di questo Saggio, e perciò una vera dottrina metafìsica. La pretesa deducibilità del principio di cjiusalitA dall' inconcepibilità di un cominciamento assoluto dell'essere ha lo scopo di ricondurre la legge (mentale) della causalità a una legge più generale, quella del condizionato, che è secondo Hamilton la legge fondamentale deirintelligenza, e consiste a stabilire che il solo concepibile è il «ondizionato, e questo sta fra due incondizionati egualmente incon- >icepibili, che sono 1' uno l'illimitato e l'altro l' incondizionalmente CLIII dell'essere considerato nella sua totalità ». (1) Cosi nei Primi principii (2) egli deduce il principio di causalità da quello della persistenza della forza (cioè dell'immutabilità della quantità del reale» (3), dedotto, alla sua volta, dall'impossibilità di concepire che il niente diventi qualche cosa o qualche cosa niente. Ricordiamo infine la dottrina di Lewes. L'effetto e la causa non si distinguono che logicamente. Un fatto è identico alle sue condizioni^ e non è niente di sovraìrijiunto ad esse. Non vi hanno due cose — ora da una parte un gruppo di condizioni (cause) e d'al- tra parte un risultato leffetto) — ma una sola e stessa cosa vista differentemente. Ciò che noi chiamiamo le condizioni di un fatto sono i fattori analitici che noi abbiamo scoverti nel fatto : questi fattori, con- siderati analiticamente, si chiamano cause ; la loro limitato (l'incondizionalmente limitato sarebbe un tutto assoluto, limitato, che non fosse una parte di uu tutto più grande — come dovremmo cojicepire l'essere, se potessimo concDpire un comincia- mento assoluto—, ovvero una parte assoluta^ che non fosse divi- sibile in parti minori V. nei Frammenti tradotti da Peisse Filosofia dell' assoluto). La legge del condizionato è, come si sa, la dottrina che dà un carattere personale alla filosofìa di Hamilton. Cos'i la sua deduzione del principio di causalità dalla legge ael condizionato é un esempio utile a mostrare che sopxma a priori e sofisma naturale non sono due termini perfettamente equivalenti. Facendo questa deduzione, Hamilton fa un' applicazione troppo estesa d' una sua idea favorita: questo ó un sofisma naturale, ma non è un sofisma a priori (come quelli su cui è fondata la metafisica), perchè non dà luogo a delle conclusioni che s' impongono al nostro spirito cerne verità evidenti per se tiesse. (1) Saggi scientifici, Obbie^. e risp. sui primi principii, Conclas. (2) // conoscibile cap. VIL (3) Obbies* e risp. sui pr, princ. Conclns. i '. somma, considerata sinteticamente, sì chiama ef- fetto. La teoria dell'identità della causa e dell'effetto fa riscontro alla teoria d'Eraclito dell'identità dei contrari. Se noi facciamo astrazione del modo in cui viene concepita la legge del divenire — che il fi- losofo antico si rappresenta come un passaggio con- tinuo da uno stato al suo stato opposto, mentre i filosofi moderni se la rappresentano per l'idea più scientifica di un rapporto definito tra ciascun can- giamento e dei cangiamenti antecedenti determi- nati (legge della causalità) — le due dottrine si ri- ducono egualmente a questa proposizione, che il reale divenendo incessantemente altro^ resta nondi- meno costantemente lo stesso^ cioè che il diverso è Identico, che il cangiamento non è un cangiamento. È per altro a questa formula, a questa contraddi- zione nei termini, che arrivano egualmente tutti gli sviluppi più estremi del sofisma «r^r/o/v che fa l'argomento di quest'appendice, la dottrina degli E- leati, dei Vedantini. di G. Bruno, dei fiiosofi ren^ listi (nel senso tlegli scolastici), che riduce il cangia- mento ad un'apparenza, non meno che la dottrina dell'identità degli opposti o quella dell'identità della causa e dell'effetto (se il cangiamento è un'p-ppa- renza, l'apparenza di una realtà immutabile, il can- giamento è dunque in realtà un non cangiamento, il diverso l' identico). Ciò che diciamo della dottrina dell'identità della causa e dell'effetto può pure na- turalmente riferirsi airapplicazione particolare di questa dottrina ai fenomeni psichici — l'identità del fisico e del mentale — ; anche qui pretendendosi CLY identificare dei termini che non possiamo rappre- sentarci che come essenzialmente ed assolutamente differenti. Porse si dirà che se la dottrina dell'identità della causa e dell'effetto, presa alla lettera, non è che una flagrande contraddizione, ciò prova semplicemente che questa dottrina non deve intendersi nel senso rigorosamente letterale. Ma se noi non cerchiamo in questa proposizione che dei concetti perfetta- tamente intellegibili, non tardiamo ad avvederci che la proposizione non è, in questo caso, suscet- tibile di un senso qualsiasi. Quando si dice che la causa e l'effetto sono la stessa cosa, che la causa continua ad esistere nell'effetio, noi dobbiamo in- tendere per le parole cause ed effetti i cangiamenti del reale — poiché la legge della causalità non è che la legge dei cangiamenti. — Ora è assurdo di attribuire la persistenza a dei cangiamenti, di dire con Hamilton <^-he la « cosa » che noi vediamo esi- stere attualmente come effetto non comincia ora ad esistere, ma è già esistita prima come causa di quest'effetto. Se questa persistenza, che la dottrina dell'identità della causa e dell'effetto attribuisce alle cause e agli effetti^ noi vogliamo limitarla a que- sto elemento del reale che noi possiamo effettiva- mente rappresentarci come persistente, allora noi non ammettiamo più in alcun modo un'identità tra le cause e gli effetti, poiché la legge della causa- lità non si applica all'elemento persistente, ma al- Telemento cangiante del reale. E' l'obbiezione di Mill contro Hamilton. Hamilton, dice Mill, scam- bia l'uno per l'altro due dei quattro sensi distinti che la parola causa ha nella filosofia peripatetica-- la causa materiale e la causa efficiente — : nei suoi esempi egli mostra che un composto è identico ai suoi elementi materiali ; ma gii elementi non sono le cause del composto, perchè la legge della cau- salità non si applica alla materia, ma ai suoi can- giamenti, e perciò le cause sono le azioni che han- no determinato una nuova posizione degli elementi, e l'effetto la nuova posizione di questi elementi. (1) In favore della dottrina dell'Identità della causa e dell'effetto potrà Invocarsi la teoria della persi- stenza e trasformazione dell'energia. È press'a poco In questo senso che il Baln dice che « Hamilton ha dato, per la legge di causalità, una formula che equivale esattamente al principio di conservazione » (dell'energia). « SI può dire, continua il Baln, che egli ne ha scoverto il primo l'espressione » (2) E In- (1) Se Hi ammette la teoria rtfoy« ira o almeno woiero^a re deUa ma- teria, l'elemento persistente del roale, che resta fuori del dominio della legge di causalità, sarà un che di qualitativamente invariabile di cui non cangiano che i rapporti spaziali tra le sue parti; e, con- siderando il mondo dal punto di vista obbiettivo, tanto gli effetti quanto le cause non saranno che dei cangiamenti di posizione. Se invece si respingesse questa sostanza qualitativamente invariabile come un prodotto dei sofismi a priori del nostro suirito, allora l'e- lemento persistente del reale (si parla naturalmente deUa realtà fi- sica) non avrebbe altro d'invariabile che li marni, cioè, al foudo, la costanza, con cui la stessa materia riceve la stossa velocità dall' izione di forze eguali. Ma che vi siano nella materia dei car.giamenti qua- litativi o Interiori, corno in quest'ipotesi, o che tutti i cangiamenti della materia siano puramente esteriori e si riducano al cangiamento di posizione, resta sempre che è ai cangiamenti, e non a ciò che permane durante i cangiamenti, che si applica la logge della cau- salità, e quindi i termini di causai e d'effetto. (2) Log, l. 3" e. l** n. 17. fatti, tutti i cangiamenti della materia ridrcendosi a delle forme dell'energia, e l'energia non creandosi né annichilandosi mai, sembra che cosi potrebbe darsi un soxiso intelligibile all'affermazione che la causa continua ad esistere neireffetto, ed è identica all'effetto. Non vi ha dubbio che questo concetta non sia uno dei fondamenti della dottrina, se non nel pensiero di Hamilton, in quello degli autori posteriori. Ma per Istablllre la dottrina sul principio della conservazione e trasformazione dell'energia, è necessario di comprendere questo principio in un senso trascendente, metaemplrlco. Al punto di vista empirico, questo principio non fa che stabilire dei rapporti quantitativi definiti tra l fenomeni: per la costatazione di questi rapporti questi fenomeni non hanno cessato di essere distinti e differenti gli uni dagli altri. Quand' anche si ammetta la teoria dell' unità delle forze fisiche — nel senso non tra- scendente, cioè quello secondo cui tutte le azioni fìsiche vengono ridotte alla trasmissione del movi-mento per r impulsione —, siccome 11 movimento, nella sua circolazione incessante nella materia, can- gia continuamente, non solo per questo mutamento del suo sustrato meterlale, ma nella velocità, nella direzione, in tutte le qualità per cui un movimento può differire da un altro movimento; così non si potrebbe dire, anche In quest' ipotesi, che i movi- menti antecedenti (le cause) sono una sola e stessa cosa col movimenti conseguenti (gli effetti). Per af- fermare che, nella trasmissione e trasformazione dell'energia, vi ha quahihe cosa che persiste sempre la stessa, bisognerà fare della forza un quid di so- stanziale, di cui non cangia che la forma — pren- dendo alla lettera la parola trasformazione, come se si trattasse d'un oggetto materiale — e Passocia- zìone con una porzione determinata della meteria. Ma in questo caso si abbandonerà il dominio del sensibile e del rappresentabile — al di fuori del quale sarebbe evidente per tutti che non vi ha niente d'intelligibile, se non fosse questa tendenza fatale che spinge lo spirito umano ad oltrepassare l'esperienza (tendenza di cui noi cerchiamo l'espres- sione generale e la spiegazione psicologica) — .Di più, se noi ammettiamo questa sostanza — forza, che migra di corpo in corpo, e prende successivamente delle forme differenti, la forza entrerà, con la materia, a far parte di questo elemento persistente del reale, a cui non si applica la legge di causalità; la legge di causalità, e i termini cause ed effetti, non sareb- bero applicabili a ciò che della forza è sempre iden- tico, alla sostanza, ma a ciò che di essa passa e si muta, ai cangiamenti della sostanza (trasmigrazioni, trasformazioni, ecc.) ; sicché né anche allora si riu- scirebbe a dare un senso alla proposizione che le cause sono una sola e stessa cosa coi loro effetti, ohe vi ha identità fra questi e quelle. Sembra dunque vano ogni sforzo per rendere in- telligibile la proposizione. Noi non possiamo, rela- tivamente a questa dottrina, che ripetere press' a poco un' osservazione che abbiamo fatto relativa- mente alla dottrina dell'identità degli opposti di Eraclito. Essa non contiene la soluzione di una quistione, ma il postulato che la quistione è solu- bile, il postulato, cioè, che, quantunque il principio a priori — vale a dire ammesso in virtù delle tendenze spontanee della credenza — che il reale è in sostanza invariabile, che non vi ha mai nelle <30se un cangiamento assoluto, essenziale, sembri — e «ia effettivamente, per noi — in contradizione coi can- giamenti dati dall' osservazione ; nondimeno i fatti dell'osservazione devono necessasiamente conciliarsi €ol principio, che è evidente per sé stesso; e che questa conciliazione sappone la possibilità d'identificare i cangiamenti successivi della natura coi cangiamenti con cui hanno ima relazione costante. Ma la dottrina non ci mostra come la conciliazione sia possibile: questa identificazione, che si suppone come una con- dizione per ottenerla, é irrealizzabile nel pensiero. Se noi la prendiamo alla lettera, lungi di risolvere la contraddizione, essa non fa che darle una forma più palpabile; se ci rifiutiamo a prenderla alla lettera, noi cerchiamo inutilmente quale possa essere il senso definito che si debba annettere alla propo- sizione. Il concetto dell’anima. § 1. Parlando dell' animismo primitivo, abbiamo visto che in esso, col concetto dell'animazione della natura, o, più generalmente, con l'assimilazione delle forze della natura alla nostra attività umana, è ini- plicato il concetto della dualità, della distinzione di duo sostanze, nell' uomo e nell' essere animato. Questo secondo elemento della metafisica dell'uomo primitivo restò allora senza spiegazione : ma ora siamo in grado di ricercare quale sia il suo rapporto con le tendenze naturali dello spirito umano da cui derivano generalmente i concetti della metafisica. È evidente che se vi ha una dottrina a cui con- venga il nome di metafisica — nel senso definito in cui noi intendiamo la parola, comprendente il con- cetto che la dottrina ha la sua base nella costitu- zione stessa della intelligenza umana — questa è senza dubbio la dottrina animista (come ipotesi sulla natura degli esseri animati), che noi \ncontriamo in tutti i luoghi, in tutte le epoche, in tutte le razze, in tutti i gradi dello sviluppo della cultura. Questa considerazione deve farci rigettare quelle spiega- zioni dell'idea à^Wanima che ne cercano l'origine, non in un lato permanente dello spirito umano, ma I' I v li I 1' ' Il : in un certo stato intellettuale dell'umaiiitti preisto- rica, che per noi, uomini attuali, è un mondo inte- ramente scomparso, e che noi difficilmente potrem- mo oggi riprodurre in noi stessi, anche in imma- ginazione. Tale è la spiegazione di Spencer, secondo la quale l'idea dell' anima è nata dalla interpreta- zione, grossolana e infantile, che Tuomo primitivo dava di certi fenomeni, sovratutto le ombre e le immagini viste, per esempio, nell'acqua e le rappre- sentazioni del sogno. Lo Spencer, partendo dal fatto <3he alcune popolazioni selvagge identificano l'ani- ma con l'ombra del corpo umano o con la sua im- magine, ammette che l'uomo primitivo, scambiando questi fenomeni per oggetti reali, ne concludeva che ciascun essere ha un duplicato. I fenomeni del sogno confermavano e davano una forma più defi- nita a questa concezione di un doppio, di un altro ^è dell'uomo; l'uomo primitivo è incapace di distin- guere il subbiettivo e l'obbiettivo; non avendo an- cora l'idea di un mondo interiore, egli realizza ne- cessariamente i suoi sogni. Così, non solo le inima- gini viste nel sogno sono per lui i duplicati degli esseri reali conosciuti nella veglia, ma egli suppone che, mentre 1' uomo è immerso nell' immobilità del sonno, l'anima, il duplicato - che è la stessa cosa che, l'ombra o l'immagine — va vagando qua e là, facendo le az/oni e visitando i luoghi che gli ap- pariscono nel sogno. Per conseguenza, quando l'in- dividuo è in uno stato momentaneo d'insensibilità — di sincope, di apoplessia, di catalessi — l'uomo primitivo crede che l' altro se siasi momentanea- mente assentato : questa stessa assenza dell'altro se, CLXni prima creduta temporanea — perchè l'uomo primi- tivo, secondo Spencer, comincia per isperare nella resurrezione — poi definitiva, spiega l'insensibilità della morte (1). Ora, ammettendo che questo sia il processo psi- chico da cui è risultata primitivamente l'idea del- l'anima -— processo che non potrebbe concepirsi se non nello stato selvaggio il più estremo — come spiegare la persistenza dell'animismo, quando non si tratta, più delle razze inferiori e del grado infimo dello sviluppo della civiltà ? Secondo l' ipotesi di Spencer e le altre analoghe sull'origine della teoria animista, questa non potrebbe essere, nelle razze pervenute a un certo grado di sviluppo intellet- tuale — io non dico semplicemente negli attuali popoli inciviliti — che la sopravvivenza, dovuta a una cieca tradizione, di una vecchia idea non più adattata al nuovo ambiente intellettuale; una super- stizione nel senso dell' etimologia che alcuni, al punto di vista dei concetti moderni, assegnano a questo termine — ciò che persiste delle antiche eia — ; in una parola, una specie di organo rudimentario neir organismo sociale. Ma noi non possiamo con- siderare la dottrina animista, nei popoli inciviliti, ed anche nei popoli barbari, come un semplice or- gano rudimentario : l'energia vitale di questa dot- trina, la sua influenza, dimostrano che la sua forza deriva da un' impulsione attuale, e non da un' im- pulsione già una volta ricevuta, e il cui effetto per- / _ (1) Principii di sociol» voi. I. e. 8-13 e 26. Il siste per un'inesplicabile inerzia dello spirito umano* Forse si dirà che nei popoli pervenuti a una certa maturità, o piuttosto che hanno sorpassato il cer- chio d'idee della prima infanzia, la base dell'ani- mismo non è più nell'intelligenza, ma nel senti- mento soltanto : ma allora sarebbe stato più coerente di assegnare lo stesso fondamento anche all' ani- mismo primitivo. Lo Spencer e gli altri pensatori che studiano le idee di quest'ordine al punto di vi- sta antropologico^ hanno ragione, io credo, di con- siderare l'animismo come una vera teoria filosofica, cioè come un'ipotesi destinata sovratutto a rendere conto dei fenomeni : quantunque 1' uomo sia certa- ^ mente portato a realizzare le sue speranze e i suoi timori, questa tendenza del nostro spirito non ba- sterebbe per sé sola a spiegare l'origine delle cre- denze umane, la speranza e il timore stessi suppo- nendo che l'intelligenza ha qualche motivo per am- mettere r esistenza o la verisimiglianza di ciò che si spera o si teme. Ma se si ammette che l'idea del- l'anima è un concetto filosofico — allo stesso titolo che l'altro elemento della teoria animista, cioè la concezione antropomorfistica della natura—, non si può considerare l'animismo dei popoli pervenuti a un certo grado di cultura come una semplice su- per stisione; e allora si deve ammettere che i motivi e il fondamento dell' animismo primitivo non pos- sono essere essenzialmente differenti da quelli dello spiritualismo moderno, e che l' idea dell' anima è, sin dalle prime origini della civiltà, il prodotto di una tendenza naturale ed essenziale dello spirito umano — come abbiamo visto che l'autropomortismo del filosofo selvaggio è il prodotto di quella stessa tendenza, naturale ed essenziale al nostro spirito, €he spinge il filosofo incivilito alla più parte delle sue concezioni metafisiche—. § 2. Se noi cerchiamo i motivi della filosofia spi- ritualista, quali essi possono desumersi dallo studio storico della quistione, noi possiamo, con Lotze (1), riassumerli insomma nei tre seguenti : 1^ La sen- sazione, il pensiero, il desiderio, in una parola i fatti della coscienza, sono dei fenomeni essenzial- mente differenti dai fenomeni della materia (dal mo- vimento e dagli altji cangiamenti di cui i corpi inanimati sono suscettibili). Per rendere conto dun- que dell'apparizione di questi fenomeni (e della loro scomparsa dopo la morte), è necessario di ammettere l'intervento (e la separazione) d'un principio di- stinto dalle sostanze che costituiscono il corpo, e la cui natura possa spiegare la natura speciale di que- sti fenomeni. Osserviamo che quest'argomento non è semplicemente impiegato dagli spiritualisti mo- derni — per cui r anima è una sostanza spirituale nel senso stretto della parola — : noi lo incontriamo pure presso gli animisti antichi— che, come vedre- mo, riguardavano l' anima come qualche cosa di semi-materiale—. Così Cicerone dice: Non è pos- sibile di trovare sulla terra un'origine per l'anima: essa non può essere formata da alcuno degli ele- menti che noi conosciamo, perchè in questi non si trova il pensiero (2). E i filosofi ortodossi indiani M (1) Priuc, di paic, fisiol. e. 1. (2) Tiisrulane r opponevano ai materialisti che il sentimento e il pensiero non appartengono ai corpi, agli elementi materiali (1). 2° La materia (inanimata) è inerte, passiva: nel suo movimento obbedisce alle leggi del meccanismo, ed è necessariamente determinata da t;ause esteriori. Ma gli esseri animati hanno in se stessi il principio del movimento: essi possiedono un'attività spontanea, possono da se stessi dar comin- ciamento a una nuova serie di cangiamenti nel mondo materiale, di cui essi sono la causa prima (2). Questa facoltà prova, della stessa maniera che la facoltà pre- cedente, la presenza, negli esseri animati, d'un prin- cipio distinto dagli elementi della materia. Quest'ar- gomento della necessità di un principio attivo che si sovra^o-iunira alla materia inerte, sembrava a Leib- nitz preferibile, per provare resistenza dell' anima cóme principio distinto dalla materia, all'argomento antecedente, cioè alla differenza del pensiero e della sensazione dai fenomeni materiali (3). Qui è appli- cabile la stessa osservazione del numero precedente. Questo motivo conviene tanto allo spiritualismo mo- derno quando al semi-materialismo degli antichi a- (1) Colebrooke Snijuio sulla filo-t, deuV Indiani trad. fran.p. 239. (2) In LoUe l'argomento e condotto in modo da «apporre il libero arbitrio. Io ho creduto più conforme ai dati storici di presentarla sotto una forma più generile, cioè come implicaiite semplicemente l'attività spontanea, la libertà /?^Jca, la quale esiste necessariamente se e quando esiste la cosidetta libertà morale (il libero arbitrio), men- tre al contrario l'esistenza della prima non suppone necessariamente l'esistenza della seconda. (3; Opera ed. Dutens t. II. pars I. p. 207-208. Cfr. p. 84, p. 2oO e 231, pars II p. 155 {Responsiones ad Stahlianas obaervationeHj ad XXI. 7), ecc. nimisti. L' uomo, a tutti i gradi del suo sviluppo intellettuale, ha sempre distinto 1' animato dall'ina- nimato per la sua attività spontanea, e 1' animista ha sempre trovato nella natura dell'anima la causa di quest' attività. Si sa che Platone, il gran siste- matizzatore dell'antica filosofia animista, dà come es- senza o definizione dell' anima « ciò che muove se stesso », e stabilisce die 1' anima è il principio del movimento nel mondo dei corpi, ciò che prova che essa è indipendente da questi, ed è loro non poste- riore, come pretendono i materialisti, ma anterio- re (1). Con ciò Platone non fa che compiere uno sviluppo naturale del concetto dell'anima nella filo- sofia greca : Aristotile osserva infatti che uno dei caratteri per cui gli antichi filosofi in generale a- veano distinto l'anima era di concepirla come causa di movimento nel corpo (per il suo proprio movi- mento) (2). 3^ L'unità della coscienza non permette di rapportare l'attività intellettuale a un aggregato di elementi uniti fra loro : il soggetto delle sensa- zioni e dei pensieri che costituiscono una coscienza, unica deve essere semplice, indivisibile, e quindi immateriale. Se questo soggetto fosse la materia, questa ha delle parti, e perciò le sensazioni e i pen- sieri dovrebbero dividersi tra le sue parti : ma da ciò non potrebbe risultarne l'unità della coscienza. Naturalmente io non pretendo che questa sia una enumerazione completa degli argomenti dei filosofi (1) Fedro 245, Le(j(/i X. 891 e e sqq. (2) Arist. De An, 1. 1. e. 2. spiritualisti ; ma sono questi quelli che sono stati impiegati più frcquentamente e che sembrano avere più forza probante. § 3. Tuttavia, queste tre prove della filosofia spi» ritualista non potrebbero essere riguardate tutte e- gualmente come motivi delV animismo. Distinguiamo tra animismo e spiritualismo: il primo è un genere, di cui il secondo è una specie. Il Tylor ha soddis- fatto a un'esigenza indispensabile del linguaggio fi- losofico, servendosi del primo di questi due termini per indicare la riconoscenza, in tutte le razze li- mane, dell'anima come sostanza distinta, uso a cui il secondo termine non sarebbe stato proprio, perchè legato al concetto dell'assoluta immaterialità di que- sostanza. L'anima non è una sostanza spirituale nel senso moderno della parola, cioè assolutamente immateriale, che nella fase più recente della teoria animista : è bisognato che l' intelligenza umana si fosse lungamente esercitata all'astrazione filosofica, e familiarizzata con le idee astruse del sovrasensi- bile, prima di ammettere un concetto a cui non cor- risponde niente di sensibile né d'immaginabile. Cosi la dottrina della dualità (anima e corpo) non è al- l'origine, come dice Bain (l), che un doppio materia- lismo : la sostanza spirituale è opposta alla sostanza corporale, non perchè la seconda è materiale e la prima no, ma perchè la seconda è costituita di una materia più grossolana, e la prima di una materia più sottile. Le razze inferiori, come ancora fra di noi gli uomini privi di coltura, concepiscono per il solito l'anima come qualche cosa di vaporoso o di etereo avente la forma umana, ordinariamente im- palpabile e invisibile, ma che può manifestarsi ai sensi in certe occasioni, p. e. nel sogno e nella vi- sione. A questo concetto è talvolta illogicamente as- sociato quello di una materialità più grossolana, come lo indica, p. e., il costume molto diffuso di spargere della cenere o della farina per potervi os- servare le impronte lasciate dai passi degli spiriti: quest'uso esisteva anche presso gli Ebrei, e può tut- tora incontrarsi nell'Europa incivilita. L'esistenza che l'anima conduce nell'altra vita non è che una copia dell'esistenza attuale : essa può mangiare, bere, parlare, camminare, e darsi alle occupazioni solite nella vita corporale (1). Questo stesso doppio materialismo, che caratterizza l'animismo popolare, è ammesso pure generalmente dagli antichi filosofi. Senza dubbio noi troviamo una tendenza crescente a distinguere lo spirito dalla ma- teria—tendenza la quale deve finalmente arrivare al concetto dell' immaterialità assoluta — .Aristotile osserva che uno dei caratteri per cui i suoi ante- cessori hanno definito Tanima è l'incorporeità^ cioè la composizione dalla materia più sottile (2). Fra gli elementi materiali è l'aria o il fuoco (questi due e- lementi non sono nettamente distinti presso i primi fisici) che i filosofi greci, i quali ammettono quasi -0 /- (1) Lo spirito e il corjw e. 7. # I (1) V. Tylor La civili-:zaz,priniit, e. 11, 12, 13, 15. (2) De an. 1. I. e. 2. 2ì \ tutti la distinzione dell'anima e del corpo, riguar- dano preferibilmente come sostanza dell'anima. Nel mondo antico, queste non erano delle concezioni ma- terialiste : gli stoici, che nella filosofia antica rap- presentano evidentemente la tendenza anti-materia- lista, considerano l'anima come del fuoco o come uno spirito {tz^zu^ol) caldo (1), ciò che è l'essenza del- l'elemento divino che penetra e governa tutto l'u- niverso. Similmente Cicerone dà all'anima gli attri- buti di divina, immortale, ed anche semplice; ma ciò non esclude la sua materialità : l'anima si eleva in alto sino agli astri per la sua purezza e leggerezza; noi non conosciamo la sua forma, la sua grandezza, la sua sede; noi non sappiamo se possa cadere sotto i sensi o vi sfugga per la sua sottigliezza (2); egli non sa comprendere cosa possa essere un Dio asso- lutamente incorporale (3). Quegli stessi filosofi, che stabiliscono la più recisa opposizione tra lo spirito e il mondo dei corpi, non hanno ancora la nozione di una sostanza spirituale, cioè inestesa : secondo A- nassac'ora il Nous è la più sottile di tutte le so- stanze (4), o si fraziona nei diversi esseri animati, nei quali si trova in maggiore o minor quantità (5); secondo Platone, l'anima è invisibile, a/meno per noi (6), ma ha una grandezza, e si muove continua- (1) V. Cicero. TasciiL I. X. Plut. Plac. 1. IV. e. III. ecc. (2) Tmcuì. 1. l. 17-19 o 22. (3) Nat. Deor, I. 30. »4) Muli. Ft\ 6. (5) Muli. iV. 5, 6; Arist. De An, 1. I. II. 5. (6) Leg(fi S98 d-e, Fedone 79 b. mente, comunicando ai corpi il proprio movimento, come potrebbe farlo un corpo ad altri corpi (1). In verità potrebbe credersi che il concetto della spiri- tualità si trovi già in Aristotile, perchè il Nous separato è per lui indivisibile, senza grandezza, senza materia (2): ma per poter attribuire ad Ari- stotile la nozione della sostanza spirituale, nel senso moderno, bisognerebbe che questo filosofo avesse ammesso nel Nous, al di là del pensiero, un quid co- me substratum del pensiero, ciò che non è (3), il Nous non essendo che una semplice attività intellettuale, un' intelligenza identica airintelligibile, in cui ciò che pensa e ciò che è pensato non è che il pensiero stesso (4). Noi possiamo dunque affermare che nel periodo veramente classico della filosofìa greca, la nozione di sostanza spirituale resta ancora scono- sciuta. Il doppio luaterialismo è pure la dottrina dominante }iresso i primi padri della chiesa, sino al 5^ secolo, quantunque presso i filosofi, notevolmente i neo- plutonici, si fosse già iniziata la dottrina della im- materialità. I primi padri della Chiesa avevano due motivi per ammettere che l'anima è materiale: primo, ciò che non è materiale non è una sostanza, e se- condo, se lo spirito non fosse corporale, esso non potrebbe essere affettato dalle ricompense e sovra- tutto dalle punizioni dell'altra vita. Se l'anima non (1) Plato Legai X. 894 b sqq., Timeo B4 b sqq, Aristotile De an* 1. l. e. 3, ecc. (2) Phìjs, vili. e. ult.; MeL XI. e. 6, 7, S, ecc. (3) V. De An. 1. HI. e. 4. (4j De an, 1. 3. e. 5. Mefaf, 1. XI. e. 7. e. 9. ecc. è un corpo, chi è, domanda Tertulliano, quest'essere che discende agl'inferni dopo la morte, e vi resta sino al giorno del giudizio ? L'animii ? ma ciò è im- possibile se l'anima è niente : ora ciò che non è un corpo non è che niente. D'altronde un essere incor- porale non potrebbe soffrire prigionia, e sarebbe immune da pena : se l'anima è capace di sentire il tormento e il piacere, in mezzo al fuoco dell'inferno o nel seno di Abramo, ciò dimostra la sua corpo- ralità, poiché una cosa incorporale sarebbe neces- sariamente impassibile (1). Non vi ha niente, dice S. Ilario (2), che non sia corporale nella sua sostanza; e Arnobio (3) domanda chi sarà tanto imbecille e illogico per ammettere che delle anime inestese e per loro natura incorruttibili possano essere toccate dalle fiamme e sottomesse agli altri tormenti dello inferno. L'anima, dice S. Ireneo (4), ha degli occhi, una lingua, delle dita, ed è di una forma simile in tutto a quella del corpo, ma non è un corpo. L' ultima proposizione non include la sua assoluta incorporalità; essa è incorporale comparativamente ai corpi grossolani dei mortali (5). Taziano ammette, come gli stoici, che lo spirito umano, non che quello degli animali, delle piante, degli astri, ecc., è una parte dello spirito divino, diffuso da per tutto nelle natura (6). Così lo spirito è secondo lui divisibile : (1) Tertull. Lib. de Anima e. 7. (2) S. Ilar su S. Matt. (3) Adv. Geni,, 1. 2. (4) Iren. 1. 2. e. 63. (5) L. 2. e. 34, 1. 9. e. 7. (6) V. e. 2. § 12. p. 111-112. Il 11 il I d'altronde se l'anima non avesse delle parti e non fosse divisibile, essa non potrebbe essere diffusa per il corpo (1), Alcuni padri ammettevano la materia- lità tanto di Dio quanto dell' anima, altri, come il S. Ambrogio (2), non accordavano l' immaterialità che alla sostanza divina. La dottrina dell' immate- rialità dell'onima non oominciò a prevalere che al 5^ secolo, per opera sovratutto di alcuni padri pla- tonizzanti, fra i quali bisogna assegnare il primo posto a S. Agostino. § 4. Questa rapida escursione nel dominio della steria ci mostra che un argomento che conclude alla semplicità o spiritualità dell'anima non potrebbe essere uno dei fondamenti delVanintiSììio^ considerato come la filosofia generale e spontanea del genere umano : di più, siccome il concetto della spiritualità è, come mostreremo, il risultato naturale dell'evolu- lusione della teoria animista, potenzialmente impli- cato nei presupposti stessi dell'animismo primitivo, noi non potremmo vedere nemmeno in un tale ar- gomento il motivo reale della filosofia spiritualista. Così delle tre prove indicate come motivi della dot- trina della sostanzialità dello spirito, noi non pos- siamo riguardare come veri fondamenti della dot- trina che le prime due soltanto, ed escludere la terza, quella che conclude dall'unità della coscienza alla semplicitn e indivisibilità del soggetto pen— (1) Omt. Adv, (ir. (2) Ambr. de Abrahinit, f ialite (1). Ora è evidente che le due prove non sono che due casi particolari d'un'argomento più gene- rale, nel quale perciò dobbiamo riconoscere la vera base deiraniraismo, e che potrebbe formularsi così: Certi corpi che si chiamano animati, ai fenomeni generali della materia aggiungono altri fenomeni d'una natura affatto speciale, e sono perciò netta- mente opposti ad altri corpi, che, per l'assenza di questi fenomeni speciali, si chiamano inanimati; ora siccome i corpi animati si formano dagl'inanimati, e ritornah^dopo un certo tempo allo stato inani- mato, non essendo cosi che per un tempo limitato (1) Quest'argomento è fondato suUa falsa assimilazione delle di- verse parti dell'organismo senziente a dei soggetti senzienti distinti e separati. « Se una sostanza che pensa, dice Bayle, non fosse una che come un globo é uno, essa non vedrebbe mai un albero intero, non sentiiebbe mai il dolore eccitato da un colpo di bistone. Ecco un mezzo onde convincersi di ciò. Considerate la figura delle quattro parti del mondo su di uà globo ; voi non vedrete in questo globo cosa alcuna che contenga tutta l'Asia o anche un fiume intero, il luogo che rappresenta il regno di Siam, e voi distinguete un lato dritto e un lato sinistro nel luogo che rappresenta l'Eufrate. Nasce da ciò che, se questo globo fosse capace di conoscere le figure di cui è stato adornato, non conterrebbe cosa alcuna la quale potesse dire : io conosco tutta VEuropa, tutta la Francia, tutta la città di Am- sterdam, tutta la Vistola : ciascuna partì del globo potrebbe sola- mente conoscere la parte della figura che le sarebbe caduta in sorte; e come questa parte sarebbe si piccola che non rappresenterebbe luogo alcuno per intero, sarebbe assolutamente inutile che il globo fosse capace di conoscere ; da questa capacità non risulterebbe alcun atto di conoscenza, o per lo meno sarebbero atti di cono- scenza molto diversi da quelli che noi sperimentiamo, poiché i no- stri rappresentano un albero intero, un intero cavallo. Prova evi- dente che il soggetto colpito da tutta l'immagine di questi oggetti non è divisibile in molte parti; e perciò che l'uomo, in quanto pensa^ non è corporeo o materiale o composto di molti esseri. Se egli fosse Aalc, sarebbe niente sensibile ai colpi del bastone, poiché il dolore la sede di questi fenomeni che caratterizzano lo stato animato, se ne deve concludere che, durante questo tempo limitato, al corpo, alla materia visibile e tangibile, è associata un^altra sostanza, invisibile e intangibile, che è l'agente e il soggetto reale di questi fenomeni. Le due prove particolari appli- cano l'argomento generale all'uno e all'altro dei due caratteri più salienti, che distinguono l'animato dal- l'inanimato, cioè la coscienza e l'attività spontanea : l'una e l'altra prendono per punto di partenza la differenza essenziale di questi due ordini di feno- meni, caratteristici dello stato animato, dai fenomeni si dividerebbe in tante particelle quante ve ne sono negli organi colpiti. Ora questi organi contengono un' infinità di particelle, e cosi la -porzione del dolore che converrebbe a ciascuua parte, sa- rebbe si piccola che non si sentirebbe affatto.» Diz, art. Leucippo. E Galluppi, dopo aver citato Bayle, aggiunge : « La coscienza del- l' unità sintetica della percezione comprende dunque la percezione dell' unità o della semplicità del me che sintetizza. Meditando sul paragone che noi facciamo degli oggetti che agiscono su dei nostri sensi, sui giudizi ai quali danno luogo le loro impressioni, il senti- mento dell'unità semplice, indivisibile, immateriale dell'essere pen- sante risulterà luminosamente. Quando voi vi riscaldate la mano, è sicuro che provate una sorte di piacere : se nel tempo medesimo venga avvicinato al vostro naso uu odor piacevole, sentirete un'altra specie di piacere. Se io vi domando quale di questi due piaceri maggiormente vi piaccia, voi mi risponderete quello o questo : voi dunque paragonate insieme questi due piaceri e giudicate di essi nel tempo medesimo. Se dopo esservi riscaldato e di avere odorato, io vi faccia gustare una vivanda, voi potrete certamente dire quale di questi due piaceri sia il maggiore ; bisogna dunque che ciò che in voi giudica abbia sentito tutto ciò. Questo stesso io che giudica, conosce se un piacere dei sensi sia maggiore del piacere della sco- verta di una verità, o di quoUo che reca 1' esercizio della virtù, e sceglie fra queste due cose; il medesimo soggetto, dunque, il quale prova i piaceri sensibili, prova altresì gli spirituali, e giudica e vuole : è questa una prova che la coscienza del me, che si sente af- / 11.dello stato inanimato, e dairidentità della materia, che passa alternativamente dall'uno all'altro di que- sti due stati, concludono, 1' una che ciò che fa che l'essere animato senta e pensi — o piuttosto ciò che è esso stesso il soggetto della sensazione e del pen- siero —, l'altra che ciò che fa che l'essere animato sia dotato di attività spontanea — o piuttosto ciò che è esso stesso il soggetto di quest'attività spontanea — non è il corpo, ma un quid distinto dal corpo e con questo temporareamente associato. Ma in che con- siste il legame fra tale conclusione e i dati su cui essa è fondata? come si giustifica il passaggio da « a letto da tutte questo sensazioni, e che opera in seguito, non è mica la coscienza del vostro naso che sente gli odori, né della vostra mano che sente il calore; poiché come la mano o il naso sono due cose assolutamente distinte, egli è tanto possibile che V una senta ciò che sente l'altro, quanto è possibile che noi sentiamo in questa camera il piacere che ora sentono quelli i quali sono al teatro; bi- sogna dunque che la coscienza che avete del me il qaale sente l'o- dore ed il caloie nello stesso tempo, non solo non sia la percezione del naso e della mano; ma bisogna altresì che sia la percezione di un soggetto unico, semplice e privo di parti; perchè se avesse parti, l'una sentirebbe l'odore, mentre l'altra sentirebbe il calore, e non vi sarebbe giammai il sentimento di una cosa, la quale sentisse in- sieme 1' odore ed il calore, li paragonasse, e giudicasse che l'uno è più piacevole dell'altro » {Elem, di fllos, 1. 3. e. 3). Tutta la forza dell'argomento svanisce, se noi togliamo la supposizione che la mano il naso — o, secondo la fisiologia, le diverse parti del cervello in cui sarebbe la sede dei fenomeni fisici che sono i supposti antecedenti della sensazione e del pensiero — sono, secondo il materialista, dei soggetti senzienti e pensanti distinti, come noi che siamo in questa camera e le persone che sono al teatro. Ma chi nega la sostanzialità dello spirito non é perciò obbligato a concepire le diverse cellule o molecole del cervello corre altrettante persone distinte. Ciò che sente o pansa non è la mano o il naso, né questa o quella porzione della corteccia cerebrale, ma 1' uomo, all' occasione di un contatto della mano o del nasD, o, supponiamolo, d' un movimento molecolare in questi a quella ? Se noi rivolgessimo queste do- mande ad alcuno dei filosofi spiritualisti che fanno quest' inferenza, egli risponderebbe forse che il legame fra i dati da cui s' inferisce (la differenza essenziale dei fenomeni dello stato animato da quelli dello stato inanimato, e la identità del sustrato ma- teriale che è ora nell' uno ora nell'altro di questi stati), e la conclusione che se ne inferisce, è evidente per se stesso, e non ha bisogno di una giustifica- zione ulteriore. Ma noi che sappiamo, che la evi- denza intrinseca non può essere il fondamento ul- timo di una connessione tra le nostre idee, e che qualche parte del cervello. Supponiamo queste parti isolate, fuori del concerto organico, non vi sarebbe più né sensazione né pensiero. Non bisogna, per altro, prestare gratuitamente al materialista l'as- surda immaginazione che il fatto della coscienza abbia una località, nel senso stretto della parola, come p. e. il movimento o la figura e in una parola ciò che può essere oggetto della percezione visuale. Bayle, nella sua finzione del globo che prende conoscenza delle fi- gure su di esso dipinte, supj)one tra le percezioni e le differenti parti del globo lo stesso rapporto che tra queste e le figure : cosi egli immagina la coscienza divisa in frammenti e sparsa nelle di- verse parti della materia, e anche divisibile, come la materia, all'in- finito. Quando si dice che 1' uomo, quale oggetto della percezione esteriore, è il soggetto della coscienza, si vuol dire semplicemente che tra i fenomeni materiali, cioè esistenti in un luogo, i quali hanno la loro sedo nel corpo dell' uomo, e i fenomeni spirituali, cioè non esistenti in alcun luogo, i quali costituiscono la coscienza o il me mentale dell' uomo, vi ha una corrispondenza secondo rapporti de- finiti di simultaneità o di successione. E quando si dice che le por- zioni differenti di questa coscienza o di questo me mentale — il quale non è, è vero, che una serie di stati di coscienza, ma una serie che bisogna concepire, non come un aggregato di elementi separati ed aventi ciascuno un' esistenza indipendente, ma come un tutto uno e continuo, in cui non si distinguono delle porzioni separate che per una sorta di astrazione — corrispondono a dei fenomeni fisici esistenti in porzioni differenti del me della percezione esteriore. / tutte le connessioni mentali (quelle almeno che hanno per oggetto l' esistente) derivano, in ultima analisi, dall'esperienza, dobbiamo cercare se vi sia un principio generale, fondato sull'esperienza, che il ragionamento sottintende, e che è un altro ante- cedente logico indispensabile per giustificare il pas- saggio dagli antecedenti enunciati della conclusione alla conclusione stessa. Questo principio generale supposto, questo altro antecedente logico che noi cerchiamo, non è che il principio stesso su cui sono fondati tutti gli altri concetti metafisici che noi ab- biamo percorsi in quest' Appendice, vale a dire il cioè del corpo, non si stabilisce ha i due ordini di fenomeni che un semplice rapporto esteriore, non si rompe 1' unità e continuità del me mentale, spargendone i frammenti tra le diverse parti del me fisico. Il me mentale può essere concepito come una semplice serie di stati di coscienza ? È un' altra quistione, a cui più giù avremo occasione di toccare. L' argomento che dall' unità empirica della coscienza conclude all'unità assoluta del substratum della coscienza, è talmente diffusa tra i filosofi spiritualisti, e questa scuola gli dà tanto peso, che noi non possiamo vedere in esso un semplice sofisma artificiale, ma dob- biamo vedervi l'espressiona di un sofisma a priori o naturale, I so- fismi di questa natura, che stabiliscono come intrinsecamente evi- dente l'impossibilità di una connessione obbiettiva, suppongono una inconcepibilità relativa ^ u^a difficoltà subbiettiva a formare la con- nessione ideale corrispondente, e questa difficoltà non* può essere che un risultato dell'esperienza. Ma, in questo caso, sembra difficile di spiegare in che consista e donde abbia origine l'inconcepibilità, poiché non vi ha un concetto più abituale e fondato su esperienze più familiari che quello che la coscienza ha la sua sede in un substra- tum, la cui unità non esclude la moltiplicità, e che le diverso sen- zazioni sono localizzate nelle parti differenti di questo substratum (la mano, il piede, ecc.). Noi abbiamo però la conoscenza di un fe- nomeno psicologico che può venirci in aiuto; noi sappiamo cioè che i fatti più familiari diventano incomprensibili dopo che la scienza ha mutato il modo prescientifico di coj\cepire questi fatti. L'in- principio secondo cui le cose non possono cangiare di natura, e una stessa sostanza non potrebbe, in tempi differenti, avere delle proprietà essenzialmente differenti. Ammesso questo principio, se si riconosce d'altra parte che vi ha una differenza essenziale tra le proprietà dell'essere animato e quelle della materia inanimata da cui esso procede e a cui esso ritorna, non se ne deve concludere che le proprietà differenziali dell' essere animato, il sentimento, il pensiero, l'attività spontanea, ecc. suppongano la coo- perazione col corpo di un'altra sostanza distinta dal corpo e con esso temporaneamente congiunta? non se ne deve concludere inoltre che quest'altra sostanza è il soggetto reale, il vero possessore, del sentimento, del pensiero e delle altre proprietà distintive del— concepibilità o piuttosto l' incomprensibilità, su cui è fondato l'ar- gomento degli spiritualisti, potrebbe derivare da questo, che la teo- ria corpuscolare ha sostituito al concetto naturale di un corpo uno e continuo, quale sede della coscienza, quello di una moltiplicità- di corpuscoli separati e, nella forma più ordinaria della teoria, non solo senza continuità, ma anche senza contiguità (o, nell'atomismo metafisico, di una moltiplicità di monadi). Allora, l'idea dell'unità della coscienza essendo per noi strettamente associata a quella del- l'unità del corpo, una coscienza unica che sia la proprietà di un aggrega-to di corpuscoli ci sembra cosi incomprensibile come se que- sta coscienza unica si attribuisse ad un gregge o ad un esercito. Io- credo che sia questa la difficoltà che costituisce la forza probante del sofisma, quantunque, nell' espressione dell' argomento, questo- punto possa talvolta esser perduto di vista, e, per dare all' argo- mento una portata generale, non si distingua tra una materia con- tinua, e una materia, quale si ammette effettivamente, costituita di corpuscoli separati. Si ricordi l'idea di Diderot che, per evitare la difficoltà dell'unità della coscienza, al punto di vista dell'ilozoismo» crede necessario di ammettere la continuità materiale (e non la costituzione molecolare) dell'organismo. l'essere animato, in modo che, come è essa che le ha apportato nel corpo, così è ad essa che spettano dopo avvenuta la separazione dal corpo, quando questo è ricaduto neirincoscienza e nell'inerzia della materia inanimata ? Non bisogna però dimenticare che l'inferenza del filosofo animista non è ordinariamente, come le al- tre inferenze su cui sono fondati i concetti della metafisica, che un' inferenza incosciente. Il principio dell'immutabilità dell'essenza delle cose, che la con- clusione suppone, non determina questa come un principio coscientemente invocato e riconosciuto; l'inferenza, espressa sotto la forma logica del ragio- namento cosciente, avrebbe bisogno di questo prin- cipio; ma invece di esso è la massa delle nostre esperienze passate di cui esso è la generalizzazione, che agisce d'una maniera cieca e puramente orga- nica, e la conclusione che esse determinano è o può essere la sola cosa di cui si abbia coscienza. Noi comprendiamo così come il filosofo animista può non ammettere in tutti i casi il principio generale che^ praticamente, egli ammette nel caso speciale; e comprendiamo pure come, per giustificare la con- clusione, siano spesso impiegati dei ragionamenti capziosi e puramente artificiali^ invece del ragiona- mento naturale di cui essa è il risultato. Una conferma della spiegazione data dell' o- rigine dell'animismo la troviamo nel fatto che le altre soluzioni dello stesso problema, che lo spirito umano incontra naturalmente quando respinge la soluzione animista, sono fondate sullo stesso prin- cipio su cui questa, secondo noi, è fondata. L'ilozoi- smo e la dottrina dell'identità del fisico e del men- tale—le soluzioni differenti dell'animismo del pro- blema dell'origine della coscienza— riconoscono an- ch'esse, lo abbiamo visto, con 1' animismo, il prin- cipio che l'essenza delle cose non può cangiare; ed essi non evitano la conclusione animista che ne- gando il dato di fatto che ne è la premessa, cioè la differenza essenziale, assoluta, tra il cosciente e r incosciente. Lo stesso fatto si osserva, passando dalla quistione della coscienza a quella dei caratteri puramenti fisici che distinguono i corpi animati: quando, per la spiegazione di questi caratteri, non si accetta il concetto dell'anima o altri concetti ana- lot^hi, si ammette invece la teoria meccanica, o più generalmente fisico-chimica, della vita che nega la differenza essenziale tra i fenomeni della materia « animata e vivente e quelli della materia bruta, sal- vando così il principio eh 'esso ha in comune con le dottrine rivali, dell' impossibilità di un cangia- mento neiressenza delle cose. Quest'osservazione ci conduce a una considerazione generale sui concetti diversi, e apparentemente opposti, che lo spirito u- mano si forma delle forze e della loro relazione con la materia, e sull'influenza che il principio dell'invariabilità essenziale del reale ha su questi concetti. Sarebbe una ripetizione inutile, se insistes- simo sull'analogia, da una parte, tra la teoria ani- mista e la teoria vitalista — la quale, sia detto per incidente, si presenta pure, come la prima, sotto le due forme distinte della materialità (fluido vitale e concetti simili) e dell'immaterialità (for/.a vitale pro- priamente detta)— e dall'altra parte, tra le dottrine materialiste opposte all'animismo e al vitalismo, il carattere comune delle quali è l'identificazione dei fenomeni caratteristici dell'animato e del vivente a quelli dell'inanimato e del non vivente. Ciò che ora dobbiamo notare è che, anche nei limiti del dominio della semplice materia bruta, noi troviamo, insieme all'antagonismo di una concezione materialista che unisce inseparabilmente la forza alla materia, e una concezione dualista che fa della materia e della forza due entità distinte e separabili, l'accordo, tra Icxdue concezioni antagoniste, sopra un principio comune, che è lo stesso nel quale convengono le soluzioni opposte dei problemi della coscienza e della vita, cioè l'invariabilità dell'essenza delle cose. Quando la materia presenta dei fenomeni nuovi che prima non presentava, quando viene riscaldata, illuminata, elettrizzata, ecc., e cessa poi di presentare questi fe- nomeni, è una vera concezione dualista, analoga a quella dell' anima o della forza vitale, di spiegare il fatto, ammettendo, come giù facevano i fisici, dei fluidi imponderabili speciali, la cui presenza o as- senza è la causa della presenza o assenza nella materia delle proprietà corrispondenti. Si suppo- neva che il calorico o l' elettrico entrassero nei corpi, producendovi lo stato particolare rhe si chia- ma con lo stesso nome di calore o di elettricità, e poi ne uscissero, alla cessazione dei fenomeni corrispondenti (quantunque in verità si fosse co- stretti ad ammettere che i fluidi potessero trovarsi nei corpi d'una maniera occulta o dissimulata, cioè senza manifestarvisi con dei fenomeni sensibili, co- me il calore che si diceva latente, o l'uno dei due I I . I i? fluidi elettrici che si supponeva neutralizzato dal fluido di natura contraria), come lo spirito o la forza vitale sono supposti entrare in altri corpi per pro- durvi la coscienza e la vita, e poi separarsene, alla cessazione di questi stati particolari. Dal principio che una sostanza non può cangiare di natura e di proprietà, si concludeva nell' un caso, come si con- clude nell' altro, che il cangiamento del corpo era dovuto alla presenza e all' assenza di un' altra so- stanza distinta dal corpo stesso, la sostanza supposta ritenendosi anch'essa come invariabile nella sua es- senza, donde la necessità di distinguere una plu- ralità di fluidi, ciascuno non potendo produrre che un ordine di fenomeni, senza di che si sarebbe ri- nunziato al principio dell'invariabilità dell'essenza. Questo dualismo in fisica sembra definitivamente abbandonato, almeno sotto la forma semimaterialista, perchè sotto la forma, per dir così, spiritualista, che sostituisce delle forze immateriali ai fluidi impon- derabili, esso ha ancora dei rappresentanti fra i fisici moderni, come Hirn, che partendo « dalla diversità dei fenomeni per concludere alla diversità delle cause », riconosce nel mondo fisico l'esistenza di tre elementi almeno, specificamente distinti dalla ma- teria, capaci di manifestarsi come potenze dinamiche (questi elementi sono, oltre alla forza gravifica, che non ha rapporto alla presente quistione, la forza e- lettrica e la forza calorica). Ora la fisica non ha potuto abbandonare questa concezione dualista del rapporto tra la forza e la materia, prima di iden- tificare le varie categorie di fenomeni, già attribuite ciascuna a ciascuno di questi agenti distinti, che erano supposti per rendere conto dell' apparizione, a un certo momento, di fenomeni nuovi, prima non esistenti, nella materia, e dei quali perciò non potè farsi a meno se non quando cominciò ad am- mettersi che i fenomeni non sono essenzialmente nuovi, cioè che la materia, cominciando a mani- festarli e poi cessando dal manifestarli, non can- gia perciò di proprietà — secondo la spiegazione meccanica di questi fenomeni, che riducendoli tutti al movimento che i corpi si trasmettono secondo le leggi dell'urto, non vede nella materia che la prò- prietà, sempre invariabilmente la stessa, di appro- priarsi il movimento ricevuto per impulsione e di trasmetterlo per lo stesso mezzo—. Così è salvo, nella nuova teoria, il principio dell'invariabilità dell'essenza delle cose, che già avea condotto all'ipo- tesi antica degli imponderabili come agenti speci- ficatamente distinti; e noi vediamo anche qui. come nella quistione della vita e in quella della co- scienza, da una parte una concezione materialista (cioè che non fa la forza separabile (falla materia), fondata sulla identificazione dei fenomeni differenti che la materia in condizioni differenti manifesta; dall'altra parte una concezione duaìista (per cui là forza è separabile dalla materia), che suppone degli agenti speciali per ispiegare la presenza e assenza alternativa di speciali fenomeni nella materia ; e l'una e l'altra delle due concezioni opposte fondata sul principio comune che l'essenza delle cose è in- variabile. Ciò che può servire a mostrare quanto vi sia di vero nell'osservazione di Bacone, che le opinioni più opposte (io non dirò, com'egli effettivamente dice, le illusioni più opposte) derivano il più spesso da una sorgente comune. § 6. D'una maniera generale, l'ipotesi del'anima è destinata a spiegare il passaggio della materia, sia dallo stato inanimato allo stato animato, sia dallo stato animato allo stato inanimato : ma noi non potremmo attenderei dall'intelligenza dell'uomo primitivo che egli si fosse proposto il problema della Aita sotto una forma rigorosamente generale. Probabilmente il filosofo selvaggio non si dice che la materia che costituisce l'essere vivente è la stessa materia che è già esistita allo stato di materia bruta, e che perciò la trasnaturazione di questa materia, la acquisizione delle nuove proprietà vitali, necessita riiitervento di un altro principio. Ma ciò di cui egli non può mancare di essere colpito è il feno- meno della morte, 1' opposizione fra il cadavere e Tuomo già un istante prima ancora vivente. « Egli ha visto, dice Huxley, il guerriero pieno di una feroce energia, il capo dispotico della sua tribù forse, rovesciato da un colpo inatteso. Un fanciullo può insultare impunemente 1' uomo che era, non è già che un istante, sì terribile; una mosca riposa tran- quillamente sulle sue labbra da cui uscivano degli ordini sempre ubbiditi. Pertanto l'aspetto lisico di quest' uomo sembra pressoché lo stesso che allor- quando egli dormiva, e che dormendo si immagi- nava esso stesso staccato dal suo corpo ed errare nella terra dei sogni. Non è che questa qualche cosa che è l'essenza dell'uomo, è stata costretta in effetto di partire, e d'errare al di fuori per la violenza che le si è fatta subire, e ci trova ora incapace, ovvero I l'i. 1> ^ìimentica, di ritornare nel suo inviluppo? Non con- serva alcuni dei poteri che possedeva durante la vita ? » (1) Confrontiamo questo ragionamento, che noi prestiamo, con Huxley, al filosofo selvaggio, col ragionamento di un filosofo incivilito. « L'aspetto di un cadavere, dice Schopenhauer, mi mostra che là ogni sensibilità, irritabilità, circolazione, ripro- duzione, ecc., hanno cessato. Io ne concludo con certezza che il principio, a me sconosciuto, che metteva tutto ciò in attività, ha cessato di agire; che esso se ne è dunque separato ». (2) La nostra spiegazione dell'origine dell' animismo si accorda sino ad un certo punto con quella di Tylor, di cui ecco il riassunto con le parole stesse dell'autore: «L'intelligenza umana, ad uno stato di coltura ancora poco avanzato, sembra sovratutto preoccupata di due categorie di problemi fisiologici. Cioè : primo ciò che costituisce la differenza tra un corpo A^ivente e un corpo morto, la causa della ve- glia, del sonno, della catalessia, della malattia, della morte. Poi, la natura di queste forme umane che appariscono nel sogno e nelle visioni. Meditando su questi due ordini di fenomeni, gli antichi filosofi sel- vaggi devono essere stati portati, al principio, a que- sta induzione tutta naturale che vi ha in ciascun uomo una vita e un fantasma. Questi due elementi sono in istretta connessione col corpo. La vita lo rende atto a sentire, a pensare, ad agire; il fantasma è la sua im- magine, un secondo se stesso. Tutti e due pure sono // posìt. e la se. contenip. in Reu. scient, ser. I. t. 6.<> (2) // mondo come volontà e come rappresentazione, T.2.eap. 41. nettamente separabili dal corpo, — la vita è suscet- tibile di ritirarsene, di lasciarlo insensibile o morto; il fantasma può apparire a persone lontane. Un se- condo passo ci sembra facile per questi selvaggi, se noi consideriamo l'estrema difficoltà che provano le genti incivilite a romperla con questa dottrina. Esso consiste semplicemente a combinare la vita e il fantasma. Tutti e due appartengono al corpo: per- chè non apparterrebbero pure l'uno all'altro ? Perchè non sarebbero le manifestazioni d'una sola e stessa anima? Si considerano come uniti? si ottiene per risultato questa concezione ben conosciuta, che si potrebbe chiamare la dottrina àoìVanima apparirlo' naie o AvWamìna-fantaswn. Tale, in effetto l'idea che le razzo inferiori si fanno dell'anima personale o spi- rito. È un'immagine umana, sottile, immateriale, un vapore in qualche sorta, una nebbia, un'ombra; essa è la causa della vita e del pensiero nell'individuo che anima, la padrona indipendente della coscienza e della volontà del suo possessore corporale, pre- sente o passato; essa può lasciare il corpo dietro di sé e trasportarsi rapidamente di luogo in luogo; gene- ralmente impalpabile e invisibile, ma suscettibile an- che di manifestare qualche proprietà fisica, apparisce agli uomini, nella veglia o nel sonno, come un fan- tasma separato dal corpo ma di cui conserva l'ap- parenza ; dopo la morte di questo corpo continua ad esistere e ad apparire, ed ha la facoltà di pe- netrare, di dominare e d'agire nel corpo d'altri uo- mini, d'animali, ed anche nel seno d'oggetti inani- mati. Senza dubbio, questa maniera di comprendere Tanima non potrebbe essere universalmente appli- cata; ma essa è sufficientemente generale per ben renderei V idea tipo, che non fa che modificarsi in ciascun paese con divergenze più o meno pronun- ziate. Perchè queste idee, che si ritrovano dapper- tutto sulla terra, non sono delle produzioni pura- mente arbitrarie e convenzionali dello spirito u- mano. Sono delle teorie che derivano forzatamente dalla testimonianza indubitabile dei sensi, quale la interpreta una filosofia primitiva realmente conse- guente e razionale. D'altronde, l'animismo originale rende conto così bene dei fatti, ch'esso ha conser- vato il suo posto nelle sfere più elevate della col- tura. Modificato, rimaneggiato dalla filosofia classica, da quella del medio evo, trattato con più libertà ancora dalla filosofia moderna, esso ha si chiara- mente conservato le tracce del suo carattere primi- tivo, che, nello psicologia attuale del mondo inci- vilito, le prime età potrebbero riconoscere e recla- mare il loro bene » (1). Come si vede, il Tylor — conformemente d'altronde alla maggior parte dei pensatori contemporanei che hanno considerato la quistione dal punto di vista dell'etnologia — annette un'importanza capitale, per la spiegazione dell'animismo, alla interpretazione realista del sogno. Ma, si può domandare, tale in- terpretazione è veramente il principio, o è piuttosto la conseguenza della dottrina animista? Ciò che fa pensare che uno dei punti di partenza dell'idea del- l'anima sia l'oggettivazione delle immagini viste i nel sogno, è specialmente questo tratto dell'animi- smo popolare per cui il Tylor lo chiama « la dottrina dell'anima — fantasma », vale a dire il concetto che l'anima ha la forma stessa dell'uomo, e ne è come un'immagine. È sullo stesso fatto che è fondata laidea di v^edere un altro dei punti di partenza del- l'animismo neiroggettivazione dell'ombra e dell'ima- gine riflettuta; p. e., dall'acqua. Ma se noi pensiamo alla grande importanza che il semplice principio dell'associazione delle idee — senza niente che abbia la rassomiglianza più lontana con un'inferenza lo- gica — ha avuto nella formazione delle credenze u- mane, si ammetterà forse che questo principio può dare una spiegazione soddisfacente del fatto in qui- stione, « Se si esamina, dice Mill, in che si accor- dano la più parte delle cose che in differenti tempi e da diverse nazioni e razze sono state considerate come dei presagi di qualche avA^enimento impor- tante, felice o infelice, si troverà che esse offrono generalmente questa particolarità, che fanno nascere nello spirito l'idea del fatto che sono supposte an- nunziare » (1). Il Tylor stesso estende questa spiega- zione allo arti magiche ed alle scienze occulte in generale (2). « Ciò che ci dà principalmente, egli dice, l'intelligenza delle scienze occulte è questa osservazione che esse riposano suU' associazione delle idee, facoltà che si ritrova alla base stessa della ragione umana, come a quella della sragione. (1) Logica 1. 3" o. 3". (2) C. IV. (1) Civilizzaz. primitiva voi. l* cap. 11 cxc L'uomo, benché in uno stato intellettuale ancora molto inferiore, dopo essere pervenuto ad associare nel suo pensiero delle cose che l' esperienza gli ha insegnato essere materialmente con nesso, arriva per errore a intervertire questo rapporto e a concludere, dalla loro associazione subbiettiva, un' associazione obbiettiva corrispondente. Egli ha cercato così d'indovinare, di predire e di provocare degli avvenimenti per mezzo di processi di cui noi possiamo oggi riconoscere il carattere pura- mente immaginario. Un vasti insieme di testimo- nianze preso nel mondo selvaggio barbaro e in- civilito, mostra che le arti magiche risultano da questo errore che fa prendere un'associazione ideale per un'associazione reale ». È evidente che molte idee dell'animismo popolare non hanno un'origine di- versa : sarebbe inutile, p. e., di cercare, per la cre- denza generalmente diffusa che gli spiriti frequen- tano i cimiteri, o la casa che essi abitavano quando erano congiunti col corpo, un' altra ragione che quella assai naturale che questi luoghi sono i più propri a sugrerire l'idea degli spiriti dei morti. Quando un'associazione d' idee è molto intima, noi abbiamo qualche cosa che si avvicina ad una vera necessità mentale, a un sofisma naturale o a priori — il risultato di questo Saggio sarà di mostrare che è in ciò che consiste 1' essenza di questo processo psicologico a cui sono dovuti i concetti metafìsici in generale — . L' associazione tra delle facoltà psi- chiche che noi non abbiamo sperimentate che nel- l'uomo o nell'animale e una forma esteriore d'uomo o d'animale è talmente intima, che noi potremmo vedere quasi, nell'idea di associare a un'entità che è supposta godere della personalità umana, una forma umana, il prodotto di un sofisma a priori del nostro spirito: non solo questa era un'immaginazione na- turale, ma l'intelligenza dell'uomo primitivo doveva trovare più facile a comprendere che questa ma- teria, di cui lo spirito era costituito, potesse sentire, pensare, ecc., avendo la forma umana, che se essa avesse avuto invece una forma con la quale il sen- timento, il pensiero, ecc. non erano stati mai tro- vati associati nell' esperienza. Senza dubbio l'asso- ciazione che legava l'idea dello spirito d'un indi- viduo a quella della figura di quest'individuo non era talmente forte da agire d' una maniera simile sull'intelligenza del selvaggio: ma ammesso una volta il principio che lo spirito aveva una forma umana, niente di più ovvio che di attribuirgli quella stessa forma individuale con cui era associato nel- rimmaginazione. Naturalmente il sogno alimentava l'idea, quantunque nata sopra un altro terreno, e l'allucinazione, originata dall'idea stessa, veniva a darle la riconferma più evidente. In quanto all'i- dentificazione dell'anima con l'ombra, che s'incontra in alcune popolazioni, e ad altre idee analoghe, si potrebbe vedervi delle interpretazioni posteriori, brutalmente letterali, di espressioni destinate al principio ad indicare l'incorporeità dell'anima e la sua forma umana, per un caso di quella malattia del lìiif/uaf/f/ìo, in cui M. Muller vede il processo fondamentale della formazione dei miti. § 7. Tra le idee essenziali della metafisica dei po- poli poco coltivati non si trova quella dell'immor- f cxcn talità assoluta dell' anima, non si trova almeno come credenza generale : la credenza alla soprav- vivenza al corpo — alla quale è spesso unita quella alla preesistenza — è quasi universale, ma è molto diffusa pure l' idea che V anima può subire una seconda morte (1). E' evidente tuttavia che il con- <*.etto dell' immortalità è il prodotto naturale e ne- cessario d' un animismo conseguente. In effetto il presupposto dell'animismo è, come abbiamo detto, la impossibilità che ciò che sente, pensa, agisce, ecc. divenga insensibile, incosciente, inattivo, ecc., e vi- ceversa : ora la conseguenza di questo principio è di stabilire fra queste due forme dell'esistenza un dualismo radicale, in modo che V una sia assoluta- mente inconvertibile nell' altra. Allora, non sono possibili per un animista realmente conseguente che due dottrine : s' egli non ammette la possibilità di una creazione e d'un annientamento assoluti, deve pensare che l'anima (nella sua sostanza almeno, se non nella sua esistenza individuale) è senza comin- ciamento ne fine, eterna — è la dottrina di molti fi- losofi antichi, come Platone, i Platonici, i Vedan- tini (2) e le altre celebri scuole indiane (3), filosofi che noi possiamo considerare come i rappresentanti della forma più sviluppata dell'animismo nel mondo antico — ; o s' egli ammette la possibilità della crea- ci) V. Tylor e. XII. (2) V. Colebr. trad. Panth. p. 179, 181-182, Regnaud In Jiev, phil. t. 5° p. 171-172. (3) V. Colebr. trad. Pauth. p. 22 (sankhya), 52-53 e 56-57 (nyaya), J70-71 e 73 (vaisechlka). zione e dell'annientamento assoluto, egli deve pen- sare che l'anima non può cominciare ad esistere che per creazione né potrebbe finire d'esistere che per un annientamento assoluto— è la dottrina dello spi- ritualismo moderno (1)—. Ma l'uomo primitivo natu- ralmente non è capace né di stabilire dei principii generali né di sviluppare sistematicamente un'idea sino alle sue conseguenze ultime : egli può ben im- maginare una spiegazione per un fenomeno parti- colare da cui é vivamente colpito, qual è la morte del suo simile; ma, quantunque nel caso particolare egli ammetta praticamente il principio che il cosciente e attivo non può trasformarsi nell'incosciente e inat- tivo, egli non pensa che^ per la stessa ragione, l'a- nima non deve mai morire; perciò egli dovrebbe concepire la quistione sotto una forma universale, e applicare la sua meditazione a un soggetto troppo (4) L'anima, dice S. Aj?ostlno, è la vita, e 11 principio della vita per ogni essere vivente. Essa dunque non può morire : perchè, se potesse essere senza vita, non sarebbe Panlma, ma una'-cosa animata (che non ha la vita per se stessa, ma la deve alla presenza dell'ani- ma). De immortalit, aniinae e. 9. L' argomento di Sant'Agostino — che non è al fondo che quello di Fedone fPhaedo 102 b sqq; 11 solo tra tutti quelli del dialogo che Platone dia come decisivo), svolto dalla mescolanza con la dottrina delle Idee, ed espresso sotto una forma più propria e più vibrata — è perfettamente concludente: l'al- ternativa della vita e della morte nell' anima sarebbe (n contraddi- zione con l' ipotesi dell' animismo che quest' alternativa negli esseri viventi deve spiegarsi per la presenza e la separazione del principio della vita. Secondo quest'ipotesi, l'anima stessa non potrebbe perdere la vita che perchè il principio della vita si separa da essa: ma al- lora la vera anima sarebbe questo principio della vita dell'anima, e questa sarebbe, come dice S. Agostino, non V anima, ma un che di animato. CXCIY lontano dalle sue percezioni attuali per poterla sol- lecitare. D'altra parte, l'esistenza futura dell'anima egli non l'immagina che sul tipo dell'esistenza pre- sente — conformandosi a questa tendenza naturale del nostro spirito ad assimilare il non conosciuto e il non familiare al conosciuto e al familiare—. L'a- nima nell'altro mondo mangia, beve, danza, caccia, lavora la terra, combatte, ecc.; i suoi beni e i suoi mali sono i beni e i mali stessi di questa vita (1) : spinto da questa tendenza assimilatrice, il selvaggio finisce per ammettere che l'anima può essere anne- gata, uccisa, ecc., senza accorgersi che perciò egli si mette in contraddizione col suo punto di par- tenza. • L'idea antica della materialità dell'anima sembrerà certamente ad alcuno strana ed antifìlosofìca— tale è la forza dell'abitudine—: per noi invece il proble- ma è, non di spiegare come sia nata l'idea della ma- terialità dell'anima, ma come sia nata quella della sua immaterialità. Il concetto della materialità si spiega da se stesso, poiché è evidente che noi non possia- mo concefttre se non una sostanza materiale, l'idea di sostanza— cioè di un quid permanente che sia il tìutìtrato di fenomeni cangianti — essendo per l'in- telligenza umana affatto equivalente all'idea di corpo. Ma bisogna riconoscere nondimeno nel concetto del- l'immaterialità il risultato naturale dello sviluppo della filosofìa animista. Questo sviluppo ci mostra, come dice Spencer, una dhmaterializzazione progres- <1) V. Tylop e. XUI. cxcv - ■ siva dello spirito, di cui il primo passo, inevitabile per non mettersi in una contraddizione troppo di- retta con l'esperienza, si fa già nella fase più an- tica della dottrina, concependo l'anima come un che d'impalpabile ed invisibile. Noi abbiamo visto inoltre che la conseguenza logica dell' animismo è di sta- bilire un dualismo radicale tra l'anima — l'essere co- sciente e attivo — e il corpo — l'essere incosciente e inattivo —, in modo che non sia possibile il pas- saggio dall'una all'altra di queste due forme della esistenza. È un altro passo considerevole verso l'op- posizione assoluta tra le due sostanze, il quale nella storia della filosofia greca è rappresentato dalle teorie di Anassagora e di Platone: ma questo dualismo non è ancora incompatibile con l'idea che l'anima sia una cosa estesa nello spazio, una sostanza ma- teriale particolare, distinta ed opposta a tutte le altre. L'ultimo j)asso — il più importante al punto di vista della teoria della conoscenza, perchè si tratta di varcare il confine che separa il dominio del rappresentabile da quello dell'irrappresentabile — è anch'esso un portato naturale dei presupposti generali della concezione animista : l'idea della ma- teria ordinaria è già strettamente associata nel no- stro spirito a quella della incoscienza e della inat- tività; quando lo stesso corpo vivente diviene, per usare l'espressione di un filosofo spiritualista (1) un 4^orpo di morto^ in cui la vita non risiede che come in un ricettacolo, allora il concetto di materia finisce (l) Malebranche Ricerca della verità, XI Schiarimento. CXCVI per essere V equivalente perfetto di una sostanincosciente, morta, inattiva, e insuscettibile di mai acquistare la coscienza, la vita, l'attività. Questi at- tributi non sono soltanto legati alla materia per un'associazione intima tra le idee; il legame è anche logico ; se tutti i corpi dell' esperienza sono inco- scienti e inattivi e incapaci di divenire il contra- rio, non se ne deve concludere che il corpo in ge- nerale è incapace di coscienza e di attività ? Ne se- gue che l'anima non può essere una sostanza ma- teriale, e il dualismo iniziale arriva cosi al concetto iperfisico della sostanza spirito, della stessa maniera che, nel dominio della natura inanimata, il duali- smo analogo dei corpi concepiti come assolutamente inerti e passivi e di qualche cosa che deve ad essi sopraggiungersi come principio di ogni attività ar- riva al concetto analogo di forze trascendenti, im- materiali, l'idea di forza divenendo necessariamente incompatibile con quella di materialità, dopo che a questa si è legata l'idea opposta della assoluta inat- tività. Ma ciò che dobbiamo notare è che tra le due forme successive dell'animismo — la materialista e la spiritualista — 1' opposizione non è così assoluta come pare a prima vista : tutti i vari modi di con- cepire la sostanza dell'anima, dalla grossolana ma- terialità di quelle intelligenze primitive che cer- cano le impronte dei passi degli spiriti, sino al più puro spiritualismo del filosofo moderno che nec^a che l'anima sia in un luogo, non sono che dei gradi differenti di un'evoluzione continua, in cui vediamo all' opera un processo di sottilizzazione e di astra- zione progressiva applicato al concetto della ma- teria, quale esso risulta immediatamente dai dati della percezione sensibile, cioè di uia cosa che può «ssere vista e toccata. Quando l'antico filosofo ani- mista ha soppresso, nella sostanza dell'anima, la vi- sibilità e la palpabilità, ma lasciandovi sussistere altre determinazioni della materia, quali l'esten- sione, il movimento ecc., una tale sostanza non più una materia, secondo l'idea primitiva che i sensi ci hanno dato della materia, ma, siccome, sin da Cartesio, noi siamo abituati a fare dell' esteso 1' e- quivalente esatto del corporeo, noi non esitiamo a riconoscere che la sostanza anima di un tal filosofo non è al fondo che un corpo. Ora, quando il filo- sofo spiritualista moderno, dall'antico concetto gros- solanamente materialista dello spirito, oltre la vi- sibilità e la palpabilità, toglie anche l'estensione, ma lasciando sussistere la sostanzialità, l'operazione è in questo secondo caso della stessa natura che nel primo; si tratta di una nuova astrazione ope- rante sul concetto primitivo della materia; e ilresiduo è, nel secondo caso, una determinazione della ma- teria, come nel primo, poiché la categoria di so- stanza, per dirla con Kant, non è applicabile che ««gli oggetti dell'esperienza esteriore, o a ciò che ci è dato in una intuizione nello spazio (1). Il concetto della sostane spirituale non può dunque essere mo- dellato che sul tipo delle sole sostanse che noi co- nosciamo e possiamo rappresentarci, le materiali: (1) V. Analit, trascendenU,l.2'' Scoi, gener. al sistema dei priH- eipii 2^ edlz. Cfr. Dialett, trascendent. 1. 2° Paralog, della rag. pura. In fine del capit. e Confutai, delVargom, di Mendelsolm. Telemento positivo di questo concetto— la sostanzia- lità — non è tratto che della materia ; il semplice, rinesteso e il resto che si aggiunge alla parola so- stanza, non sono che degli elementi negativi, espri- menti che si intende fare astrazione di certe deter- minazioni della materia. § 8. L'idea che lo spirito è una sostanza, cioè che oltre alle sensazioni, sentimenti, pensieri, volizio- ni, ecc., vi sia qualche cosa di permanente — mate- riale o immateriale— come sustrato di questi feno- meni, è prima di tutto una conseguenza necessaria dell'ipotesi animista, che vede nella vita il risultato della congiunzione dei due elementi di cui l'uomo e ogni essere animato si suppone composto, e nella morte il risultato della loro separazione. Non vi ha altra rappresentazione possibile di due elementi ca- paci di stare ora uniti ed ora separati che quella di due sostanze materiali, di due corpi, che possono / cangiare il loro rapporto nello spazio — ciò che ci mostra sotto un altro aspetto la verità d' un' osser- vazione antecedente, vale a dire la comunanza di origine tra l'animismo e la teoria meccanica, le e- sperienze familiari che servono di tipo all'una delle due dottrine potendo riconoscersi per le stesse, al fondo, che quelle che servono di tipo all' altra — . Così, quando il doppio materialismo primitivo è stato rigettato, questa rappresentazione non potrebbe più considerarsi come adequata alla realtà, ma resta il concetto astratto di due sostanze capaci di unirsi e di separarsi, concetto che non è più un4dea rappre- sentabile dopo che runa delle due sostanze finisce di considerarsi come un corpo e come capace di en- trare con l'altra in rapporti di spazio, ma che, come tutti i concetti trascendenti, cioè oltrepassanti il sen- sibili e l' immaginabile, non è modellato che sul sensibile e l' immaginabile, vale a dire, nel nostro caso, sulla rappresentazione primitiva di due corpi che si uniscono e si separano, e trova in questa rappresentazione — per esprimerci sotto una forma che non implichi una teoria determinata sulla na- tura dei concetti trascendenti — un'approssimazione e un simbolo indispensabili. Ma, oltre l'animismo come spiegazione della vita e della morte, l' idea che lo spirito è una sostanza ha un' altra sorgente. Per dilucidare questo punto, dobbiamo entrare in alcune considerazioni che non hanno un rapporto molto stretto col nostro presente argomento, ma che non possiamo evitare, essendo esse, oltre alla loro importanza per la quistione del valore dell' idea della sostanza spirito, indispensa- bili per comprendere certi sviluppi di quest' idea che ci presenta la storia della metafìsica. Tutte le volte che lo spirito è concepito come e- sistente per sé, separatamente dal corpo, noi abbia- mo una tendenza quasi invincibile a considerarlo come una sostanza, cioè a supporre, al di sotto della serie fluente degli stati di coscienza che costitui- scono lo spirito quale fenomeno dell'esperienza, un quid permanente come loro sustrato. Ciò può aver luogo, anche indipendentemente dalla teoria animi- sta, del che possiamo trovare un esempio in alcune proposizioni di Stuart — Mill. Stuart — Mill non è uno spiritualista, e nondimeno egli non ammette che lo spiriso sia una semplice serie di stati di coscienza. H ce CCI « Noi siamo forzati, egli dice, di riconoscere che cia- scuna parte della serie è attaccata alle altre parti mediante un legame che loro è comune a tutte, e che non è la catena dei sentimenti per se stessi: e come ciò che è lo stesso nel primo e nel secondo, nel secondo e nel terzo, nel terzo e nel quarto, e così di seguito, deve essere lo stesso nel primo e nel cinquantesimo, quest'elemento comune è un e- lemento permanente » (1). Quest'elemento permanen- te, distinto dalla catena degli stati di coscienza, non può essere altra cosa che la sostanza spirito dei fi- losofi spiritualisti, quantunque il Mill, poco prima del luogo citato, neghi di adottare « la teoria co- mune che riguarda lo spirito come una sostanza». Noi dobbiamo prima di tutto sbarazzare la qui- stione da un possibile equivoco. La proposizione che lo spirito, il me, è una collezione di sensazioni intendendo naturalmente per sensazioni tanto i dati della percezione esteriore quanto quelli del senso intimo^^non è che la semplice espressione dei fatti dell'esperienza interiore, senza mescolanza d'ipotesi o interpretazione di qualsiasi natura: ma essa non deve intendersi come se queste sensazioni che co- stituiscono la collezione, fossero altrettanti elementi aventi ciascuno un'esistenza propria e indipendente, come degli atomi, fra di cui non vi fosse che il rapporto puramente esteriore di una semplice juxta — posizione. Tra le cose esteriori non vi hanno altri rapporti che quelli di tempo e di spazio : ma tra gli (1) Ftlo8, di Hamilton Appendice ai e. 11. e 12., sulla fine. stati di coscienza che costituiscono un me, una co- scienza unica, oltre i rapporti di tempo, cioè di suc- cessione e di simultaneità— qui naturalmente non è a parlare di quelli di spazio—, vi ha un rapporto più intimo, che non ha niente di analogo nelle cose del mondo esteriore, ma che se noi vogliamo indi- i^are con un termine che nel suo senso proprio e originario non può convenire come, quasi tutti quelli che appresta il linguaggio, che alla realtà esteriore, lo possiamo fare con le parole : continuità della co-- scienza. La coscienza è un tutto uno e continuo, non un aggregato di elementi indipendenti : è que- sto un fatto evidente deir esperienza interiore, di cui lo stesso Hume sarebbe convenuto, se la qui- stione gli si fosse presentata in questi termini. Sta- bilire un rapporto tra le nostre idee, fare un ra- gionamento, avere la percezione di un tutto com- plesso, sarebbero degli atti impossibili, se fra le idee successive o simultanee da cui essi risultano, non vi fosse che un semplice rapporto di simulta- neità o di successione, come quello che esiste tra le idee di Sé, di coscienze, differenti. Se tra queste idee che appartengQno a me che stabilisco il rap- porto, ragiono, percepisco il tutto complesso, non vi fosse un legame particolare, che non esiste tra le idee di spiriti distinti, sarebbe altrettanto possibile in questo caso che questi elementi si riunissero per costituire l'atto unico del rapporto, del ragionamento, della percezione, quanto nel caso che ciascuno di essi fosse uno stato di coscienze differenti. Pren- diamo per esempio un semplice rapporto di succes- sione o di coesistenza— ai quali si riducono, in ul- Ti CCII tima analisi, al punto di vista semplicemente ob- biettivo, tutti i rapporti che noi possiamo stabilire fra le nostre idee (l)~.Noi non percepiamo le suc- cessioni e le coesistenze obbiettive che per delle suc- cessioni e coesistenze fra le nostre percezioni, e non ci rappresentiamo questi rapporti che per dei rap- porti corrispondenti tra le nostre rappresentazioni (in quanto alle coesistenze vi sarebbero delle ri- serve da fare, ma non importano alla quistione pre- sente). La conoscenza della successione e della si- multaneità è dunque la coscienza della successione e della simultaneità delle nostre idee, cioè la co- scienza delle nostre idee come successive e simul- tanee. Ora avere coscienza della successione o si- multaneità delle idee A e B, o di queste idee come successive o simultanee, importa uno sguardo u- nico della coscienza, una coscienza unica che riu- nisce la coscienza di A e quella di B. La coscienza di A e quella di B, prese ciascuna isolatamente e succedentisi l'una all'altra, non potrebbero dare la coscienza del rapporto di successione tra A e B: questa coscienza non è dunque una semplice juxta- posizione, un aggregato, delle due coscienze succes- sive di A e di B, ma è una coscienza unica, conti- nua^ in cui le due coscienze successive sono com- prese. Ma costatare l'unità della coscienza, la continuità tra i suoi stati successivi, non è costatare l'esistenza di un elemento permanente, accompagnante eia- il) V. Saggio 1 e. 2. ceni scuno di questi stati successivi, e che persiste, sem- pre lo stesso, dal primo all' ultimo di questi stati (e che esiste anche negl' intervalli in cui alcuno stato di coscienza non esiste). Sono due cose diffe- renti, di cui la prima è un fatto d' esperienza in- terna, la seconda un'ipotesi metafìsica. È evidente che quando MìU conclude dall' una delle due cose all'altra, come fanno i metafìsici, egli si allontana dai principii fondamentali della sua filosofìa, cioè di quella dell' esperienza. Il principio supremo di questa filosofìa è che non bisogna niente ammettere in virtù di una semplice evidenza intrinseca, spesso fallace, ma tutto provare — senza altra eccezione che i portulati indispensabili ad ogni operazione detta ragione, che è impossibile di stabilire col ragionamen- to, perchè ogni ragionamento, li presuppone (1) —, e provare non è che estendere a nuovi casi particolari un rapporto (di sequenza, di coesistenza, ecc.) già costata- to per l'esperienza nei casi identici, tutte le volte che quest'esperienza è tale che la generalizzazione del rapporto ne sia garentita. Nel nostro caso^ alle dif- ficoltà logiche che solleva il criterio della evidenza intrinseca, se si ammette che il Me trascendente è conosciuto a priori, per un' intuizione della ra- gione, si unisce l'impossibilità psicologica di porre nello spirito un' idea di cui non potrebbe trovarsi l'origine nell'esperienza. Ma noi non possiamo nem- meno ammettere che l'atto dello spirito, per cui il Me trascendente è conosciuto, sia un' inferenza lo- ri) V. Saggio V e. 9. cciccv I N * gioa. Questa proposizione: « la continuità della co- scienza richiede l'esistenza di un Me sostanziale, permanente », stabilisce fra le due cose un legame che — se si ammette che esso è una semplice infe- renza — r esperienza non ha mai potuto in alcun caso costatare. Questa proposizione non può essere un caso particolare di una proposizione più gene- rale già induttivamente stabilita, perchè il fatto di cui si tratta, la continuità della coscienza, è un fatto unico nel suo genere, di cui l'esperienza non presenta un analogo. Ad una sola condizione po- tremmo noi dunque inferire dalla continuità della coscienza la cosa che si pretende con essa legata, cioè il Me sostanziale, alla condizione cioè che noi conoscessimo dei casi in cui il legame tra le due cose fosse, non una verità d'inferenza, ma un dato del- l'osservazione. Non vi ha dunque che un mezzo per rendere la proposizione conciliabile coi principii del metodo sperimentale, cioè con quelli della logica: è di supporre, come fanno una gran parte dei filo- sofi spiritualisti, che il legame è effettivamente un dato dell'osservazione, che il Me sostanziale non s'inferisce, ma si esperimenta, si percepisce. Ma, per questa supposizione, l'accordo coi principii del metodo sperimentale non è che apparente. La per- cezione è uno stato di coscienza del soggetto per- cepente, che può interpretarsi sia come un feno- meno puramente subbiettivo, che non esce dal sog- getto percepente, sia come un atto che oltrepassa questo soggetto ed attinge l'oggetto percepito, che perciò si suppone presente nella coscienza. Ma per preferire questa seconda interpretazione, come fa ripotesi di cui parliamo, non vi ha che questa ra- gione da poter addurre, che la portata obbiettiva della percezione, la presenza dell'oggetto nella co-^ scienza, è una credenza naturale, irresistibile, che accompagna la percezione. E così l'ipotesi presup^ pone il principio in cui noi abbiamo riconosciuto l'antitesi di quello del metodo sperimentale, cioè che la semplice evidenza intrinseca è un criteria sufficiente, che la credenza è una prova della realtà della credenza stessa. Ben più, in questo caso, il rimedio è peggiore del male perchè l'evidenza in- trinseca della proposizione che l'unità della co- scienza suppone un Me permanente, sostanziale pò- trebbe forse ammettersi come fatto psicologico, se non come criterio logico, ma non quella della pro- posizione che questo Me è una percezione imme- diata della coscienza. Quando la teoria della per- cezione immediata si applica agli oggetti del mondo esteriore, essa si giustifica per un appello alla cre- denza naturale del genere umano; ma la teoria della percezione immediata della sostanza Me non è una credenza naturale del genere umano; non è che un'ipotesi di alcuni metafisici, immaginata per ispie- gare la possibilità della conoscenza di questa so- stanza. E un'ipotesi delle non meno strane, che pre- senta delle inconcepibilità come queste: 1^ Si ammet- te generalmente che la sostanza dello spirito è un che di sconosciuto e d'inconoscibile, e la divergenza delle opinioni dei metafìsici sulla natura di questa sostan- za è una prova che essa non può essere l'oggetto di una conoscenza immediata; come la natura di una. imme! latamente presente alla coscienza potreb COVI be restare assolutamente sconosciuta? 2^ La perce- zione suppone una dualità di termini, un soggetto percepente e un oggetto percepito, mentre qui non vi sarebbe che un termine unico che sarebbe al tem- po stesso il soggetto e I-oggetto (1). Sembra nondimeno che quando noi consideriamo il Me, il complesso dei fenomeni della coscienza, separatamente dal suo sustrato corporale, l' idea di una sostanza, d' una cosa che perniane durante la successione di questi fenomeni, sia una suggestione naturale, che noi non possiamo impedire che ci venga allo spirito, per quanto possiamo respingerne il valore obbiettivo. È un fatto d'osservazione psi- cologica, e di cui Stuart-Mill può fornirci un e- sempio, quest'idea dovendo avere in lui un mo- tivo indipendente dallo spiritualismo o, general- mente, dall'animismo, che potrebbe essere appunto OCVII (1) Stuart-Mill non si f^nda, per istabUire V esistenza del me permanente, suir unità della coscienza direttamente, ma sul fatto della memoria come implicante l'attermazione dell'unità di coscien- za, cioè, per dire la cosa con le sue stesse parole, la credenza che le sensazioni rammentate hanpo formato realmente una parte deUa stessa catena di coscienza di cui il ricordo di queste sensazioni è la parte attualmente presente. Il solo fatto, egli dice, che rende ne- cessaria la credenza a un Me, il solo fatto che la teoria psicologica (la quale risolve lo spirito, come la materia, in sentimenti e possi- bilità di sentimenti) non può spiegare, è la memoria. La nozione del Sé è perciò secondo lui un accompagnamento deUe operazioni di questa facoltà, ma egli non vuol decidere se noi ne abbiamo di- rettamente coscienza neU' atto di ricordarci, o se, non avendo co- scienza di un Sé, noi siamo forzati d' ammetterlo come una condi- zione necessaria deUa memoria; in altri termini, se noi conosciamo Al Sé por una percezione immediata o per un' inferenza {ITilos. di Hamilton e. 12 e App. ai e. 11 e 12). Non vi sarà certamente alcuno che metterà in dubbio ii fatto questo, che, negando la realtà obbiettiva della ma- teria, egli deve rappresentarsi lo spirito separata- mente da un sustrato materiale. Ora quale può es- sere la spiegazione di questo fenomeno psicologi- co ? Ciò che deve mostrarci la via in questa ricerca è il principio che le illusioni naturali, i sofismi a priori del nostro spirito, sono il risultato di coe- sioni mentali puasi inseparabili, coesioni mentali che non hanno potuto essere formate se non dal- l'esperienza : ora la sola sostanza, la sola cosa per- manente, con cui l'esperienza ci mostra associato lo spirito o la coscienza, e con la cui idea l'idea che la memoria implica la credenza che io stesso, l'io che ricorda, e non un altro, ho avute le sensazioni ricordate, né la realtà di questa credenza : ma questa credenza non é che la semplice affer- mazione di ciò che noi abbiamo chiamato unità della coscienza. Ammettere che essa contiene inoltre la nozione di un me perma- nente—a meno che per questo me permanente non s'intendala per- sona fisica^ la cui rappreseutazione in effetto è un aacompa-gnamento abituale del ricordo delle sensazioni passate (vedi il seguito del te- sto) — non è che un caso di queir errore, tante volte rimproverato al metodo introspettivo nella ricerca psicologica, di vedere nella co- scienza dei fatti che non vi sono, prendendo per fatti della coscienza le proprie interpretazioni di questi fatti. L'esistenza di un me per- manente e trascendente (cioè cha non è né i fenomeni della coscienza né la persona fisica che li accompagna) è poi cosi poco la condizione necessaria della memoria e della sua realtà, che, nella supposizione di questo me, niente vi l.a di più naturale che il dubbio di Locke, se l'identità della persona, cioè della coscienza, non possa conti- nuare, malgrado che la sostanza che pensa non sia più la stessa, e se questa sostanza rimanendo la stessa, non possano esservi nondi- meno più persone o coscienze distinte (infatti é perfettamente con- cepibile che una sostanza abbia la convinzione di aver fatte certe azioni o avute certe sensazioni che un' altra invece ha realmente fatte o avute, come anche che questa sostanza perda totalmente il sentimento deUa sua esistenza passata — ciò che non sarebbe una pura ipotesi, ma nn fatto dell' esperienza — Saggio sulVintend, um. ■ -1 • ;.- I ■*>■ ff «Il CCVIII dello spirito o della coscienza ha una coesione stret- tissima, quasi inseparabile, è il Me fisico, il su- strato materiale di questa coscienza. È vero in un senso che la concezione del Me non è sem- plicemente quella di una serie di sensazioni, pen- sieri, volizioni, ecc., ma comprende inoltre la no- zione di qualche cosa che perdura e resta sempre la stessa durante lo svolgersi di tutta la serie, e che questa cosa che perdura ce la rappresentiamo come il soggetto, in cui le sensazioni, i pensieri, le Abolizioni, ecc., ineriscono. L'io, che nel linguaggio dello psicologo non è che il nome dello spirito, della coscienza, nel linguaggio ordinario significa invece 1. 2. e. 27). Del resto lo stesso Mill conviene che il fatto della me- moria (e quello della previsione in cui egli vede pure un motivo per ammettere un me permanente, ma che egli riconduce al feno- meno della memoria) resta egualmente inesplicabile tanto se si am- mette la teoria che il Me non è che la serie dei sentimenti, quanto se si ammette la teoria che esso è altra cosa che questa serie. « La verità, egli dice, è che noi siamo in faccia all'inesplicabilità finale, alla quale, come lo fa osservare Hamilton, arriviamo inevitabil- mente quando tocchiamo ai fatti ultimi j e in generale si può dire che una maniera di formularla non pare più incomprensibile di un'altra che perchè il linguaggio intero è appropriato all'una, e si accorda si male con l'altra, che non si trovano per esprimere questa che delle parole che la negano. La vera pietra d' inciampo è forse meno in una teoria del fatto che nel fatto stesso. Ciò che vi ha di realmente incomprensibile è forsa che una cosa che ha ces- sato d' esistere, o che non ha ancora cominciato ad esistere, possa nondimeno essere, in eualche sorta, presente : che una serie di sen- timenti, di cui l'infinitamente più gran parte è passata o avvenire, possa essere raccolta, per cos'i dire, in una sensazione presente ac- compagnata dalla credenza nella sua realtà » (e. 12. sulla flne). Una proposizione di MiU ha per noi tanta importanza che non possiamo farla passare senza discuterla, quantunque il luogo possa sembrare inopportuno. Ammettiamo che il fatto della memoria, CCIX lo spirito e il corpo insieme, anzi il corpo a pre- ferenza dello spirito. È evidente infatti che il pro- nome ?ne, della stessa maniera che un nome desi- gnante un sé qualsiasi, non è la rappresentazione della serie degli stati di coscienza che richiama im- mediatamente al pensiero, ma quella della persona fisica. Di più, come nel modo abituale di concepire i fenomeni psichici, la persona fisica è il soggetto di questi fenomeni, così è mediante la rappresentazione dell'unità e identità della persona fisica, che noi concepiamo ordinariamente l'unità e identità della catena di cui questi fenomeni fanno parte. Ciò è evidente quando si tratta di altre persone: come noi non possiamo attribuire un fatto psichico a con le credenze che essa implica, sia un fatto ultimo, cioè che essa non possa ricondursi a delle leggi psicologiche più generali: ne se- gue che fsso è, come tutti i fatti ultimi, inesplicabile; ma ne se- guirà pure che esso è incomprensibile ? Ciò sarebbe contrario ali» teoria della conoscenza, i cui principii sono stati solidamente stabi- liti dallo stesso Mill. Se noi ammettiamo che il fenomeno è l'unica esistenza di cui possiamo essere certi, bisogna ammettere pure che* la parola incomprensibile, quando si applica ai fatti ultimi, costanti,^ generali, della natura o dello spirito, non ha, senso, che essa non indica niente almeno che abbia un valore obbiettivo, quantunque possa indicare un fatto psicologico reale. Un fatto particolare è in- comprensibile, se esso non è stato sin qui ricondotto alle leggi ge- nerali, ai fatti ultimi : ma i fatti ultinìi essi stessi non possono pre- sentare questa specie d'incomprensibilità, la sola che abbia un va- lore obbiettivo; per essi, incomprensibile non può significare se non che che vi ha qualche cosa che oltrepassa l'esperienza e i fenomeni, la quale, se la conoscenza umana potesse attingervi, spiegherebbe i fatti in quistione. Noi abbiamo stabilito che questa specie d'incom- prensibilità non è che un fenomeno psicologico, senz'alcuna portata obbiettiva. Ma nel caso presente può sembrare difficile di assegnare l'origine dell' incomprensibilità, perchè questa accompagna i fatti poco o niente familiari. Come un fenomeno cosi familiare qual è la 4|1 l' \ ccx CCXI nn me determinato che rappresentandocelo in con- nessione con un individuo fisico deteioninato, cosi non possiamo attribuire due fatti psichici successivi a uno stesso me determinato che rappresentandoceli -entrambi in connessione con uno stesso individuo fisico determinato. Quando si tratta di noi stessi, forse la regola non è così assoluta : ma io credo che ciascuno può osservare in se stesso che ordinaria- mente non si rappresenta come sua una situazione psicologica in cui, in un passato più o meno lon- tano, si è trovato, che rappresentandosela congiun- tamente al suo proprio individuo fisico; e che una parte almeno di questa credenza accomqagnante ogni atto della memoria, che io stesso, e non un altro, sono quello che ha fatto l'azione o provato la sen- sazione ricordata, è Taffermazione dell'identità del me fisico, che era il sogggtto di quest'azione o di memoria può dunque sembrare incomprensibile? (quando lo afferma un peraatore come Mill, noi dobbiamo ammettere che, se esso non è realmente incomprensibile, bisogna almeno che quest' apparenza d' incomprensibilità sia reale). Io credo che questa difficoltà si ri- solva, ricordando il principio che i fatti stessi più familiari diven- tano incomprensibili quando la interpretazione scientifica di questi fatti è differente dalla loro in tei pret»*zione prescientifica e, per dir 'COSI, natvirale, e riflettendo che questo principio trova la sua appli- cazione anche nel fenomeno della memoria, la quale, secondo la •credenza naturale, non è una rappresenrazione, un'immagine della cosa ricordata, come ammettiamo noi, ma attinge e involge la cosa stessa, come ammetteva Reid che pretendeva essere il restauratore delle credenze naturali. Ciò che non si vede però è come questa incomprensibilità della memoria, cosi intesa, possa servire a pro- vare l'esistenza di un me trascendente); ma, come abbiamo visto, il Mill riconosce che rincomprensibilità «nssiste egualmente tanto se si respinge quanto se si ammette questa ipotesi. questa sensazione, col me fisico che è il soggetto delle mie azioni e sensazioni attuali. Il me fisico, oltre che è concepito come il soggetto, il «ubstratum necessario, dei fatti psichici, rappresenta, nel nostro pensiero, l'unità e identità della coscienza, e dà la coesione alla collezione delle sensazioni, formando la base comune a cui tutte stanno attac- -cate : ne segue che, quando noi concepiamo lo spi- rito, la serie dei fatti della coscienza, come separato dal corpo, ci sembra che questi fatti siano quasi delle astrazioni realizzate, degli accidenti senza so- stanza, e che la collezione delle sensazioni abbia perduto ciò che ne costituiva il legame e la continui- tà. Di là lo sforzo di restitufre alla serie il suo sub- stratum e il principio della sua coesione, in altri termini, di sostituire un equivalenie al me fisico «oppresso. Il me trascendente è dunque un succe- daneo della persona fisica, che il metafisico imma- gina naturalmente, per conformarsi il più che è possibile a un'abitudine quasi irresistibile della no- stra intelligenza — abitudine che genera una corri- spondente tendenza a credere, per la legge psico- logica, segnalata da Mill, che noi tendiamo a cre- dere necessariamente legate le cose stesse le cui idee sono necessariamente legate —, dopo che quest'abi- tudine non può essere più soddisfatta nella forma primitiva e genuina, per la separazione dello spi- rito dalla sua base materiale. Noi sappiamo infatti — ciò di cui la forma secondaria della nozione di causa efficiente ci ha mostrato un esempio evidente — che il nostro spirito, tutte le volte che una cir- •costanza qualunque viene a contrariare le sue ten- CCXII (lenze naturali, e che così esso è costretto ad abban- donare le prime concezioni che si era spontanea- mente formato dei fenomeni, è inclinato a model- lare le sue concezioni ulteriori e riflesse intorno a questi fenomeni sulle spontanee e primitive. Ora il me trascendente non si concepisce che prer analogia alla persona fìsica : esso è, come questa, una so- stanza, cioè un essere che sussiste d'una maniera permanente ed è sempre lo stesso nella successione fenomeni psichici; il soggetto o snbstratum, a cui questi fenomeni ineriscono ; e ciò la cui unità e identità è la base dell'unità e identità della pei sona. È sempre il fantasma del corpo, per quanto le for- me sotto cui il filosofo moderno lo concepisce pos- sano essere lontane dall' antica teoria dell' anima- fantasma. § 9. Quando la sostanza spirito è concepita come immateriale, e al tempo stesso come un che di di- stinto dai sentimenti, "pensieri, ecc., in una parola dai fatti della coscienza, si ha necessariamente l'i- dea di una sostanza sconosciuta e misteriosa (1) di cui non ci è possibile di formarci alcuna nozione, tutte le nostre nozioni reali non avendo altri oggetti che i corpi, le presentezioni dei sensi esterni, e i fatti del senso intimo^ della coscienza: inoltre la dottri- na ha questo difetto evidente, al punto di vista della logica, di supporre una forma dell'esistenza che non ha alcuna analogia nell'esperienza. Così la dot- trina dei cartesiani e di altri filosofi^ che la sostan- ti) Il filosofo spiritualista somiglia al re Lear di Shakespeare, (|omandava : Chi sa di essi chi sono io ? COXITI za dell'anima consiste nel pensiero (ovvero nel sen- timento, nella percezione, ecc.) — quantunque essa fiia quella che si allontana di più dalla forma na- turale della teoria della sostanza anima, vale a dire dal doppio materialismo primitivo, e dalle esperienze familiari su cui la teoria in generale è modellata, e, per conseguenza, non possa dare che una soddisfa- zione meno completa alle tendenze dello spirito che l'hanno fatto immaginare — pure si spiega, non solo come uno sforzo assai naturale di penetrare 1' es- senza delle cose, ma ancora per questo vantaggio che essa ha sullo spiritualismo ordinario, di non ammettere altre forme della realtà che quelle che sono date dall'esperienza. Ma è strano che, sia che si tratti dell' essenza dello spirito sia che si tratti di quella della materia, delle due ipotosi tra cui il metafìsico può scegliere quando le concezioni, pili spontanee sono state abbandonate, e di cui l'una consiste ad ammettere una forma della realtà asso- lutamente sconosciuta ed inconoscibile, e l'altra a non riconoscere altra forma della realtà che quella che, è data nella conoscenza immediata, nella coscien- za — modo di vedere che, applicato alla materia, dà luogo al panpsichismo oppure all'idealismo, e appli- cato allo spirito, alla dottrina che la sua sostanza consiste nel pensiero o nel sentimento ecc. — è stra- no, dico, che delle due ipotesi è la più sperimen- tale che è il punto di partenza della metafìsica più astrusa e più arrischiata. La prima conseguenza che si offre allo spirito — e senza dubbio la meno allarmante — della dottrina che la sostanza dell' anima consiste nel pensiero (qui la parola pensiero deve intenders CCXIY CCXY come il sinonimo di stato di coscienza in gene- rale) è la proposizione cartesiana che l'anima pen- sa sempre. In effetto una sostanza deve esistere d'una maniera continua ; così se in questa sostan- za non vi ha altra cosa che il pensiero, o piuttosto se essa non è altra cosa che il pensiero, non può mai darsi un istante in cui essa non abbia qualche pensiero. Se l'anima cessasse un istante di pensare, la sostanza sarebbe allora annichilata, e una nuova sostanza sarebbe creata, quando l'anima ricomin- classe a pensare. Un'alra conseguenza è la teoria delle idee innate. Questa teoria è già virtualmente contenuta nella dottrina che l'anima pensa sempre. È ciò che Locke comprese perfettamente, quantunque egli sembri non aver visto che il punto essenziale a decidere tra lui e i cartesiani era precisamente se, come egli 1' assume senza provarlo, la sostanza dell'anima dovesse ri- porsi in qualche cosa di sconosciuto, ovvero in ciò che solo è attestato dalla coscienza. Se l'anima pen- sa sempre, domanda Locke, quali sono le idee che si trovano nell'anima d'un fanciullo, prima della sua unione col corpo, o al momento preciso di que- sta unione, prima d'aver ricevuto alcuna idea per la via dei sensi? Bisogna allora che lo spirito abbia delle idee che gli sono naturali, e che egli non ha ricevuto per l'intermediario del corpo (1). In verità, dalla supposizione che 1' anima pensa sempre, non ne segue, come osserva il traduttore francese Coste, che l'anima abbia avuto delle idee prima di essere stata unita al corpo, poiché essa potrebbe aver co- minciato ad esistere nel momento stesso eh' essa è stata unita al corpo : ma il Coste non dovrebbe concludere da quest'osservazione che sin dal primo, momento dell'esistenza dell'anima, i sensi possono, fornirle delle idee, comunicandole le impressioni degli oggetti esteriori. Prima che l'anima abbia una, sensazione, il corpo deve comunicarle l'impressione ricevuta dall'oggetto esteriore; la sensazione è la rea- zione dell'anima che segue all'azione del corpo su di essa (nell'ipotesi che il corpo e l'anima siano due sostanze); dunque l'anima deve esistere prima di sentire. Ma inoltre la necessità che vi sia nello spirito qualche cosa che non sia dovuta al corpo, è una conseguenza necessaria del concetto che lo spirito esiste indipendentemente dal corpo, senza di che esso non potrebbe essere una sostanza. Se tutto ciò che vi ha nello spirito di reale non è che un effetto, sia immediato, sia mediato, dell'azione del corpo, allora l'esistenza stessa dello spirito sarà una conseguenza dell' azione del corpo, lo spirito,, per esistere, dipenderà dal corpo, non esisterà per sé stesso, e per conseguenza non sarà una sostanza»^ La necessità delle idee innate derivava per Carte- sio dalla definizione stessa della sostanza (una volta che egli concepiva lo spirito come una sostanza, e come una sostanza consistente nel pensiero) : « una cosa che non ha bisogno se non che di se stessa per esistere », o, per non pregiudicare alla dipendenza ■:-*v (1) Saggi snll'intend. U 2^ e. 1" § 17 sqq. /'l'f l CCXVI CCXVII A delle cose finite da Dio, « che può esistere senza l'aiuto d' alcuna cosa creata » (1). E la definizione è perfettamente esatta: i fenomeni, cioè i cangiamenti, delle sostanze, vale a dire dei corpi, dipendono dall' azione di altre sostanze, di altri corpi; ma l'esistenza stessa dei corpi è indipendente da quella di altri corpi. Deve esservi dunque nella sostansa anima, come nei corpi, qualche cosa di pro- prio che le appartentenga per sua natura e che non sia una conseguenza dei suoi rapporti con al- tre sostanze : ma niente resterebbe all'anima di pro- prio e appartenente ad essa per sua natura — nella supposizione che tutto ciò che vi ha in essa non è ehe pensiero — se tutte le sue idee fossero nate dai sensi, e, quindi, avventizie e dipendenti dal oorpo (2). (1) Principii della filosofia, I parte, 51-52. (2) Ecco come V anonimo cartesiano, autore del Trattato della natura delV anima e dell'origine delle sue conoscenze contro il sistema di Locke e dei suoi partigiani, stabilisce che vi sono delle idee che l'uomo riceve da Dio prima che 1 sensi possano agire su di lui : * L'anima essendo essenzialmente spirituale, essendo stata creata pen- «ante, bisogna necessariamente che sin da questo primo istante vi sia qualche o";;3tto raale al quile es^ia p?n^a; perchè potrebbe dirsi che Jh questo primo momento Tanima pensa a nulla ? Pensare a nulla e non pensare affatto è la stessa cosa. Se dunque si ammette che l'a- nima pensa tosto che essa comincia ad esistere, si deve indispensabil- convenire ancora che essa ha sin d'allora un oggetto a cui •essa pensa ». Leibnitz obbietta a Locke : « Questa tavola rasa di cui tanto si parla nan è a mio avviso che una finzione Quelli oke {uirUno tanto di questa tavola rasa, dopo d'averle tolto le idee, non potreb- bero dire che cosa le resti Mi si risponderà forse che questa tavola rasa del filosofi vuol dire che l'anima non ha naturalmente «d originariamente che delle facoltà nude. Ma le facoltà senza qual- che atto, In una parola, le pure potenze della scuola, non sono ';he Il concetto delle idee innate non è così innocente al punto di vista della correttezza intrinseca come quello della continuità del pensiero nell'anima. Se, come abbiamo visto nel saggio 1^, è dell'essenza stessa del pensiero di risolversi in elementi sensoriali, un preteso pensiero che non constasse di elementi sensoriali, non sarebbe un pensiei'O — mcondo il solo concetto concepibile che noi possiamo formarci del pensiero — : la teoria delle idee innate è dunque un concetto metafìsico nel senso più stretto, non es- sendo un semplice errore di fatto, ma un'impossi- bilità logica. Ma quand'anche non fosse così, questa teoria me- finzlonl, che la natura non conosce, e che non si ottengono che facendo delle astrazioni ». (iT. S. sull'inte/id. 1. 2" e. 1" § 2). Le Idee innate In Leibnitz riposano sulla base stessa che In Carlerlo : quan- tunque talvolta egli si o:)ponga alia dotti-ina cartesiana nella sostanza dell' anima (p. e. neW Esame di Melebranclie, ed.Dutens.t. 2" p. 1" pag.214, ove dice: lo spirito non è 11 pensiero, come dicono 1 carte- siani, ma un soggetto o an concretnm che pensai tuttavia la sua pro- pria dottrina, in ottima analisi, non differisce essenzialmente da quella di Cartesio. Nelle monadi non vi ha altra cosa che percezioni ed ap- petiti ; anzi, le monadi non sono altra cosa che rappresentazioni di ienomeul col transito a nuovi fenomeni, cioè che percezioni ed ap- petiti (Cfr. e. 2" § 16 p. 15H). È In (lueste proposizioni che dobbiamo vedere l'espressione del vero pensiero pi Leibnitz, perchè la mona- dologia, come tutte ie altre'varletà del panpsichismo, suppone II principio che non si può ammettere altra forma della realtà che ^luella che è data nella es^)erlenza Immediata, nella coscienza. Citiamo infine Rosmini : « I filosofi che immaginano 1' uomo a principio pi ivo di ogni sentimento, lo fanno veramente una statua: « (luando in questa statua, che non è un soggetto sensitivo, praten- dono che al toccamento del corpi esterni nascano le sensazioni, seb- bene nella statua nulla ci sia di slmile, descrivono allora un proce- dimento Inesplicabile, un mistero contrarlo all'ordine consueto della natura. Dico un procedimento inesplicabile, perchè sì fatta origine del sentimento, che comincia di tratto a trovarsi là dove punto non c'è, oltrepassa V Intelligenza nostra quanto la creazione dal nulla. Tale Ipotesi è altresì contro l'ordine costante della natura, la quale 1CCXYIII COXTX riterebbe sempre di avere un posto nella storia dei concetti metafisici (in questo senso più stretto), in grazia almeno della dottrina della visione ideale^ di cui essa è uno dei punti di partenza. Tutte le volte che si ammettono nello spirito delle conoscenze in- dipendenti dall' esperienza, nasce il problema di spiegare la possibilità e l'origine di queste cono- scenze; e una delle soluzioni che si presenta natu- ralmente al metafìsico è che queste conoscenze ven- gono da una percezione sovrasensibile, intellettuale. Questa spiegazione si conforma perfettamenfe al tipo generale delle spiegazioni metafìsiche, che con siste a ricondurre il fatto a spiegare, vero o sup- posto, alle nozioni che ci sono più familiari. Ciò è tanto vero che la dottrina della intuizione ideale suppone che l'oggetto intuito è immediatamente pre- sente al pensiero intuente, della stessa maniera che il realismo naturale suppone che 1' oggetto percepito dai sensi è immediatamente presente nella perce- non opera per salto : e eerto vi sarebbe uu saUo, ove noi, al tocco che (U noi fa un corpo esterno, passassimo dal non sentir punto noi stessi, a sentire di repente e noi stessi. e qualche cosa fuori di noi. Contemporaneo a (luel movimento esterno, clie non ha nulla di slmile con la sensazione, si sarebbe, per così dire, acceso in noi e creato uno spirito; polche quale idea ci possiamo noi formare dello spirito privo al tutto di qualunque sentimento e di quaitn [ue pensiero? Lo spirito non ha estensione né altre qualità di corpo; togliete a lui anche le qualità dello spirito, che sono il sentire e l'Intendere, e voi l'avete annullato, o certo nella vostra mente V idea di uno spirito è al tutto svanita; purché supplendo voi a quella con un giuoco della vostra immaginazione, non v'immaginiate poi, o fingiate d'Immagi- narvi, uno spirito d'una specie quale non è data nò dall'osservazione né dalla coscienza, e noi mettiate nel luogo dello spirito vero del quale avete cancellata l'idea »,(N>S, snlVorig» delle idee, v. 2" n. 718). * zio ne sensibile, quantunque la gran maggioranza dei filosofi moderni rigetti, su questo punto, la cre- denza naturale, sostituendole la teoria, che ciò che lo spirito percepisce immediatamente è, non 1' og- getto stesso, ma una rappresentazione dell'oggetto. Ora la prevalenza, nella scienza, della teoria rap- presentativa non impedisce che la maniera più fa- miliare di concepire il fatto della percezione — in cui lo stesso filosofo rappresentazionista lo conce- pisce spontaneamente tutte le volte eh' egli ha una perceziona— sia appunto quella del realismo natu- rale. Cosi è su questa, non sulla nozione scientifica della percezione rappresentativa, che il metafisico modella la sua visione ideale: Malebranche non dubitava della dottrina generalmente ammessa dai filosofi della sua epoca, che noi non percepiamo i corpi che per l' intermediario di una rappresenta- ziene; ma se egli avesse ammesso, in conseguenza, che è di questa stessa maniera che noi vediamo le idee in Dio, la visione ideale non sarebbe stata più per lui una spiegazione delle idee innate, per- chè egli non avrebbe ricondotto, allora, il fatto da spiegare alle nozioni più familiari del nostro spi- rito (1). La dottrina che lo spirito è una cosa che dura- ci) La dottrina delle idee innate può essere così bene II principio, che la conseguenza, della dottrina dell'intuizione intellettuale. Quan- do troviamo la dottrina dell' intuizione intellettuale unita a quella che la sostanza dell'anima consiste nel pensiero, o ad un'altra ana- loga sulla sostanza dell'anima, la quale supponga che questa conten- ga in sé delle idee anteriormente all' esercizio dei sensi (come p. e. nei sistemi di Matebrauche e di Rosmini), evidentemente noi dobblama considerare come uno almeno dei punti di partenza della dottrina ■"^T ccxx CCXXI i f i i f • continuamente (che esso pensa sempre), e quella che esso esiste per se, che, per esistere, non dipende dal corpo, aA^vicinano certamente la nozione dello spirito, concepito come non contenente in se altra •cosa che il pensiero, alla nozione di una sostanza: ma perchè l'assimilazione dello spirito alla so- stanza sia la più completa possibile, bisogna anche ammettere in lui un fondo permanente, un elemento che persiste sempre lo stesso, nel mutamento con- tinuo dei fenomeni, e che sia il sustrato in cui questi fenomeni cangianti ineriscono. È questa la proprietà più caratteristica della sostanza, per cui noi r abbiamo definita. Ora, nella supposizione che nello spirito non vi sia altra cosa che pen- siero, o sentimento, ecc., in una parola che tutto il suo contenuto debba essere concepito per ana- logia ai dati della coscienza^ questo fondo perma- nente dello spirito, questo sustrato dei suoi feno- meni cangianti, non può essere altra cosa ohqualche pensiero, o sentimento, ecc., in una parola qualche cosa di analogo ai fatti reali della ooscionza. Di là il concetto che la sostanza dello spirito è un sentimento o un pensiero sostanziale, cioè imma- nente e continuo, di cui tutti i fenomeni transitori della coscienza sono dei modi di essere, come tutti i fenomeni transitori del corpo sono dei modi di essere della sostanza del corpo, che persiste al di sotto di questi cangiamenti. I Cartesiani non potevano mancare di sviluppare in questo senso la dottrina del maestro. « L'essenza dello spirito, dice Malebranche, non consiste che nel pensiero, come l'essenza della materia non con- siste che nell'estensione Per questa parola pen- siero io non intendo le modificazioni particolari dell'anima, tale o tal altro pensiero, ma il pensiero sostanziale, il pensiero capace di ogni sorta di mo- dificazioni o di pensieri, come per l'estensione non s'intende una tale o tal altra estensione^ la rotonda i^ dev'Intuito la dottrina delle idee Innate, e quella sulla sostanza del- l'anima come punto di partenza più lontano. Ma la dottrina dell'In- tuito non è stata Immaginata soltanto per Lspiegare le Ideo Innate: considerata in generale, essa ha per o;?getto di spiegare le idee e le concsi-enze che si suppongono indipendenti dall'esperienza, qualun- que sia il motivo che faccia ammette^'e delle Idee e dello conoscenze di questa specie. È evidente che ([uesto motivo non è unicamente una certa dottrina sulla sostanza dell'anima: quasi tutti 1 metafisici, qua- lunque siano le loro Idee sull'essenza dello spirito, ammettono che le verità che ci sembrano intrlnslcamente evidenti, sono Indipendenti dall'esperienza, opinione, che, come abbiamo detto nel Saggio 1", può riguardarsi come 11 risultato di un' inclinaaione naturale del nostro spirito. Alla tendenza spontanea che ci fa considerare lo verità che «ombrano intrlnslcamente evidenti come a priori, si aggiunge questa forma di speculazione metafìsica, che abbiamo studiata nei cnp. VI. e VII., il cui oggetto ò di convertire le verità (o pi^etese verità) In- duttive in verità Intrlnslcamente evidenti, e quindi a priori. Ciascuno di questi motivi della teoria delie conoscenze a priori può avere per effetto mediato la dottrini dell'intuito razionale, e quella delle idee innate che ne è la conseguenza. Un altro m<»tivo che produce la dottrina delle idee innite per la me- diazione di quella dell'intuito, può trovarci nella stessa teoria ordinarla sulla sostanza dello spirito, che considera questo come un che di di- stinto dal fenomeni della coscienzi, e di sconosciuto nella sua essenza (spiritualismo). Quando 11 filosofo spiritualista ammette la dottrina della percezione immediata degli oggetti esteriori — ciò che è la re- gola nella filosofia spiritualista dell'ultimo secolo -egli è natural- mente portato ad estendere per analogia la stessa dottrina alla so- stanza me, dò che Implica Videa innata del me come sostanza (al- meno (juan lo si «uppo»»e . come sembra 11 più naturale, che questa percezione che il me hi di se stesso, è Immauante). •^^tmma^rmtm CCXXII CCXXIII o la quadrata, ma Testensione capace di ogni sorta di modificazioni o di figure » (1). L'autore paragona altrove le differenti percezioni particolari dell'ani- ma, relativamente alla sostanza dell'anima, cioè alla percezione o pensiero sostanziale che ne costituisco l'essenza, alle differenti figure che può ricevere la cera, relativamente alla cera stessa (2). Kegis de- finisce l'anima : un pensiero che esiste in se stesso e che è il soggetto delle diverse maniere di pen- sare. Egli distingue il pensiero, che costituisce la sostanza dell' anima, e i pensieri particolari, che non ne sono se non delle modificazioni differenti: vi ha questo divario tra il pensiero, che costituisce la mia natura, e quelli i quali non sono che dei modi di essere, che il primo è un pensiero fisso e permanente, e gli altri sono cangianti e passeggieri. Ma il pensiero che costituisce la mia natura non è il pensiero in generale (una semplice astrazione) ma un pensiero fisso, singolare e determinato, che è il soggetto dei pensieri particolari (3). Arnauld dice : « I cangiamenti che avvengono nelle sostanze semplici non le fanno essere una cosa diversa da quella che erano. Ciò è appunto quello, per cui le cose o le sostanze si distinguono dai modi o maniere di essere, che si possono anche chiamare modificazioni. Ma le vere modificazioni non potendosi concepire senza concepire la sostanza di cui esse sonò modi- ficazioni; se la mia natura è di pensare, ed io posso (1) Rie, della ver, 1. 3" e. 1". (2) Rie, della ver, 1. 1" e. 1". (3) Plouiiuet Eòame del fatai, t. 2" sez. 3" e. H". pensare a diverse cose senza cangiare di natura, è necessario che questi diversi pensieri non siano se non che differenti modificazioni del pensiero che fa la mia natura. Forse vi ha in me qualche pen- siero che non cangia, e che si potrebbe prendere per l'essenza della mia anima. Io ne trovo due che potrebbero credersi tali : il pensiero dell' essere universale, e quello che 1' anima ha di se stessa; perchè sembra che 1' uno e l' altro si trovi in tutti gli altri pensieri : quello dell'essere univ^ersale, per- chè tutti i pensieri racchiudono 1' idea dell' essere, non conoscendo l'anima nostra alcuna cosa se non sotto la nozione di essere o possibile o esistente (è il germe della dottrina di Rosmini sull'essere ideale); e il pensiero che l'anima nostra ha di se stessa, per- chè di qualunque cosa io conosca, conosco che la conosco, per una certa riflessione virtuale, che ac- compagna tutti i miei pensieri » (1). L'esempio più notevole di quesf applicazione del concetto di sostanza ai fenomeni della coscienza ^i trova senza dubbio nella filosofia di Rosmini : la sua dottrina sul sentimento fondamentale e quella sull'intuizione dell'essere ideale non hanno altro scopo che di trovare tra i fenomeni del sentimento e del pensiero la sostanza dell'anima, cioè questa cosa permanente, di cui i pensieri e i sentimenti successivi non sono che dei modi di essere. Ma per l'importanza di questa dottrina nel sistema di Ro- smini, e l'importanza di questo sistema nella filo- (l) Delie vere e delle false idee, e. 2. i^" CCXXIY CCXXV sofìa nazionale, ne faremo un'esposizione particola- reggiata ih un Snpplemento alla fine elei volume: è ad esso che rimandiamo per una maggiore delu« cidazione di questa forma del concetto di sostanza anima, che cerca questa sostanza nei fatti stessi della coscienza. Qui termineremo per un' osserva- zione generale sulle diverse forme di questo con- cetto: è che i diversi modi in cui è stata concepita l'essenza della sostanza anima non sono, al fondo, che quelli stessi in cui è stata concepita l'essenza della materia. La materia è stata concepita : 1^ Come materiale (mi si permetta di esprimermi così), cioè conformemente alla nozione ordinaria e naturale che gli uomini si fanno della materia, come una cosa estesa, visibite, palpabile, ecc., ciò che è la sola rap- presentazione reale che lo spirito umano può for- marsi della materialità (questo concetto della ma- teria ha il suo riscontro nella forma primitiva della dottrina animista, che il Bain ha chiamato il doppio materialismo). 2^ Come una cosa sconosciuta e inco- noscibile, punto di vista al quale devono anche ri- condursi le dottrine così dette dinamiche, che risol- vono la materia in elementi semplici, cioè assolu- tamente indivisibili e inestesi (a questa concezione della materia corrisponde lo spiritualismo ordinario). 3^ Come consistente in percezione e appetito (mo- nadologia di Leibuitz) o volontà (Schopenauer, M. de' Biran, ecc:) o tendenza, ecc:, in una parola come analoofa alla realtà che ci è data nella coscienza (è, d'una maniera generale, la dottrina che abbiamo chiamato panpsichismo, alla quale corrisponde quella che la sostanza dell'anima consiste nel pensiero, o nel sentimento, ecc.). Che i tre soli modi possibili di concepire la materia siine pure i tre soli modi possibili di concepire la sostanza dello spirito, non è un fatto sorprendente, anzi è necessario, perchè noi non possiamo pensare che con le idee che abbiamo, e l'idea della materia e quella della sostanza, che ciò si riconosca o no, non sono due idee distinte, ma una sola e stessa idea. Ma prima di finire non sarà forse inutile di met- tere in guardia il lettore contro un possibile ma- linteso. La dottrina che non ammette che lo spirito sia una sostanza^ non sopprime l'opposizione radi- cale tra lo spirito e il corpo, anzi è una conseguenza di questa opposizione, perchè se si nega ta sostan- zialità dello spirito, è appunto per l'impossibilità di applicare allo spirito un concetto, che non con- viene se non alla materia. Da ciò che lo spirito non è una 8ostj,nza non si deve concludere che lo spi- rito è niente, o che la materia ha una realtà più grande che quella dello spirito. Al contrario, tutti coloro per cui lo sviluppo della filosofia moderna, da Cartesio sino ai nostri giorni, non è il libro chiu- so dai sette sigilli, sanno che lo spirito è un fatto mentre la materia non è che un'ipotesi, e un' ipo- tesi che presenta le più gravi difficoltà — che noi svilupperemo e discuteremo nella II parte, perchè sono esse che danno l'impulso alla evoluzione della concezione realista del mondo esteriore, determinan- do le forme metafisiche di questa concezione. r-r-- •j-.ti»--— 1SUPPLEMENTI "T»~a<*r ^ Supplemento A DOTTRINA DI ROSMINI SULLA SOSTANZA DELL'ANIMA La dottrina di Rosmini sulla sostanza dell' anima è una conseguenza dei principio fondamentale della sua filosofia — principio in se stesso rigorosamente speri- mentale — che la realtà è costituita dal sentimento. Cosi il suo concetto della sostanza dell'anima si ottiene fon- dendo insieme queste due idee incompatibili, quella di xin sentimento e quella di una sostanza. L'anima, dice Rosmini, è un sentimento originario e stabile, principio e soggetto di tutti gli altri sentimenti. L'io è un sentimento sostanz*'ale o un sentimento- sostanza: l'io d' una persona è il sentimento proprio e incomuni- cabile di questa persona (1). La facoltà di sentirò è co- stituita da un atto primitivo e permanente che è la base e la radice di tutti gli atti avventizi e mutabili di questa facoltà (2): quest'atto originario e immanente del senso Rosmini lo chiama il sentimento fondamentale, ed è in esso che fa consistere la sostanza del principio senziente, dell'anima puramente sensitiva. Le prove di cui Rosmini si vale per istabiLro 1' esi- stenza del sentimento fondamentale^ sono generalmente (1) P$ic, 53, 75, 79, 81, 82, 91, 106, 124, 129 ecc.; iV. <^. 440 e n., 528 n. 2, 626, 627, 719, 1195 e segg., ecc. (2) N, S, 1008, 1021 — 1025, Psic, \^,Teos, 5. 279, eoo. fondate sul concetto della sostanzialità dell' anima (1), non che su quello dell' unità e dell' identità del me, le quali suppongono secondo lui 1' unità e V identità del nostro sentimento nella pluralità e il cangiamento degli stati della nostra sensibilità, in modo che sia sempre lo stesso sentimento nei suoi diversi modi (2). Il sentimento fondamentale è il sentimento dell' io percettivo del proprio corpo (3): esso è unico, ma com- prende, come due poli opposti e inseparabili, un principio e un termine, cioè un soggetto che percepisce e una cosa che è percepita (4). Questa cosa che è percepita col sen- timento fondamentale è il proprio corpo: il nostro corpo (o almeno tutte le parti sensitive del nostro corpo) è da noi abitualmente e uniformemente sentito d'una maniera intima che non bisogna confondere con le percezioni dei sensi esterni, quantuLque questo sentimento, per essere coniinuo e sempre il medesimo, suole sfuggire alla no- stra osservazione. Questo sentimento intimo, per cui l'anima percepisce il proprio corpo, ò, nel suo stato nor- male, un sentimento di piacere blandamente e equabil- mente diffuso in tutta Testensione del corpo (almeno del corpo sensitivo) (o), o più propriamente l' estensione di questo corpo è una proprietà, uo modo del sentimento stesso (poiché secondo Rosmini il corpo non è se non in quanto è sentito, e non esiste se non nel sentimento (6). (1) Ps, 82-91 98-106, N, S. 717-719, eco. (2) Ps, 93 n, 97, 171-173, 2216, N. S, 887, eoo. (3) iV. S. 716, 1025, 1027 eoo. (4) Ps. 145-149, 251-254, 459, 718 n. 5, eoo. (5) y, S, sez. 5. parte 5. o. 3. e 4. (6) V. il mio studio sulla dottrina di Rosmini sull'essenza della materia Notiamo che questa dottrina e quella del fcientimento fon- damentale sono intimamente connesse, e si suppongono Tona con Il sentimento fondamentale è a noi innato, perchè esso è rio, e noi siamo innati a noi stessi (1) ; esso non ci manca mai, in alcun momento della nostra esistenza, perchè noi non possiamo mancare a noi stessi (2) ; in- fine esso persiste nel flusso continuo degli altri fenomeni avventizi dello spirito, perchè il me, la persona, persiste ed è sempre identica a sé stessa (3). Ma è evidente che questa persistenza del sentimento fondamentale, nella successione dei sentimenti avventizi e transitori, non sarebbe sufficiente per se sola a riguar- dare questo sentimento come il me o la sostanza dell'a- l'altra. Mentre, da una parte, senza la permanenza del sentimento fondamentale la permanenza, e quindi la realtà ^ del corpo sarebbe impossibile, dall'altra parte, senza l'inesistenza del corpo nel prin- cipio senziente, senza il 2)<^^ìpsi^cJilsnu) di Rosmini, la sua dottrina *sulla sostanzialità dell'anima sensitiva sarebbe senza motivo. Per- chè Rosmini cerca una sostanza, un quid permanente, che sia il sustrato dei fenomeni dell'anima sensitiva ? Perchè questo sustrato non può essere più per lui il me fisico, il corpo : infatti come i fe- nomeni dello spirito potrebbero avere per sustrato il corpo se que- sto non è esso stesso che un fenomeno dello spirito ? L'ipotesi della sostanzialità dell'anima in Rosmini non ha per oggetto, oome nel- 'animismo primitivo, di spiegare l'origine della vita e il passaggio dalla vita alla morte : la vita, per Rosmini, non sorge, né si perde, nel seno della materia bruta; tutta la materia è per lui animata, e le anime degli elementi materiali che costituiscono un individuo vivente, organizzato, sono degli elementi costitutivi dell'anima di quest'individuo. L'esempio di Rosmini ci mostra della maniera più evidente l'importanza capitale del secondo dei due motivi che noi abbiamo assegnato alla dottrina che lo spirito è una sostanza — cioè quello risultante dall'associazione intima dell'idea dello spirito con quella del corpo — per ispiegare le forme della dottrina che ripon- gono questa sostanza negli stessi fenomeni della coscienza. (1) N. S, 438 n. 2, 441, ecc. (2) N, S, 538 n. 2, Psic. 103 n., ecc. (3) Psic. 97, 171-173, Teos. 5. 42, 45, 279, eoe. — 3 — ;2c ■ »■« .» Dima : perciò è necessario àncora che questo sentimento abbia con gli altri fenomeni della sensibilità lo stesso rapporto che la sostanza ha coi suoi accidenti o modi di essere. In efiTetto se il sentimento fondamentale non fosse in tale rapporto con gli altri sentimenti, se esso non fosse il soggetto a cui questi si riferiscono, Tipotesi del sentimento fondamentale non farebbe che aggiungere un'altra sensazione a questa collezione di seuv^^aziòni, in cui fanno consistere il me quelli che non ammettono che il me sia una sostanza: mentre Rosmini cerca ciò che dà Tunità alla collpzione delle sensazioni, questa sostanza me che tutte le raccoglie ed uuizza, perchè tutte in essa ineriscono. Il sentimento fondamentale è cosi chiamato da Ro- smini, perchè è in esso, secondo lui, che sono fondate tutte le altre sensazioni (1) (e fra queste bisogna com- prendere le riproduzioni che fa V immaginazione delle sensazioni passate) (2). Il sentimento fondamentale è dunque la sede delle sensazioni avventizie, e queste ad esso si attengono come a loro sustrato (3). E in effetto l'estensione del nostro corpo da noi continuamente per- cepita col sentimento fondamentale, è la sede in cui tutte le sensazioni avventizie vengono percepite; poiché secondo Rosmini Testensione è un dato comune di tutte le sensazioni, l'estensione percepita di ogni sensazione essendo l'estensione stessa dell'organo in cui essa ha la sua sede (4). Ciò non è vero soltanto delle sensazioni interne, che noi localizziamo in punti determinati del (1) N. S, 716, 1196, Teos. 5. 32, 42, Ps. 856, eoo. (2) V. Psic, parte 1. 1. 3. o. 9. art. 2. (3) Ps, 22J6, Teos, 5. 36, eco. (4) N. S. 426, 729, 734, 837, 868-868, Ps, 774-777, Teos. 3. 376, 6. 19, 32 eoo. nostro corpo: ma le stesse sensazioni esterne, che ci danno le nozioni degli oggetti esteriori, hanno un' estensione identica a quella dell'organo percipiente, poiché tutte le percezioni dei sensi esterni si riducono secondo Rosmini al tatto, e noi non percepiamo che la superficie dei corpi esterni, in quanto essa coincide e s'identifica con la su- perficie dell' organo percipiente, sicché V estensione im- mediatamente percepita nelle sensazioni esterne non é che l'estensione stessa del sentimento fondamentale (1). Di più, siccome il sentimento fondamentale, che è na- turalmente un sentimento di piacere, ma che può variare, rendendosi più o meno piacevole o anche doloroso (se- condo i cangiamenti del corpo), sostiene e contiene tutte le sensazioni avventizie, cosi il piacere o il dolore ac- compagna, in qualche grado, tutte le sensazioni, se pure non voglia dirsi che tutte le sensazioni sono dei modi del piacere e del dolore (2). Potrebbe dirsi che il sentimento fondamentale é nella costituzione dello spirito ciò che lo scheletro o il nucleo nella costituzione dei corpi: ma Rosmini trova che queste comparazioni non sono adequate (3). Queste compara- Bioni, in effetto, non danno un' idea esatta della natura del rapporto tra il sentimento fondamentale e le sensa- zioni avventizie: questo rapporto non è di quelli che possono correre tra fenomeni distinti e separati, fra atti distinti e separati dello spìrito. Vi è al contrario una relazione d'inerenza reciproca tra il sentimento fonda- mentale e le sensazioni avventizie, perché il sentimento fondamentale é il me o la sostanza dello spirito, e perciò (1) V. N, S, sez. 6. parte 5. o. 9. (2) N. S. 726-727, 766, 837 e n. 1., 889, eoo. (8) Teos. 6. 36. ì ' » .1 -f ■■ • *■ < i f — 4 — /,1 la relazione fra esso e gli altri fenomeni dello spirito è quella che vi ha fra la sostanza e gli accidenti, fra Tente e i modi di essere deirente. Le sensazioni avventizie (e tra esse bisogna comprendere, come abbiamo detto, le rappresentazioni delPimmaginazione) sono delle modifi- cazioni del sentimento fondamentale: quando una sen- sazione nuova sopravviene nello spirito, essa non è già nuovamente creata, ma è una nuova forma che prende il sentimento fondamentate preesistente, è il sentimento fondamentale stesso eccitato e modificato, il quale di- venendo una nuova sensazione, il sentimento non mu- ta l'essere, ma il modo doir essere (1). La sostanza dello spirito, cioè del sentimento, resta la stessa, non cangia che la forma : è, per ripigliare la similitudine di Malebranche, la slessa cera che prende un'altra figura. Per conseguenza Rosmini va anche sino ad affermare che le sensazioni avventizie preesistono, quantunque in un modo diverso, nel sentimento fondamentale (cioè nel sen- timento abitnaie e primitivo deiranima per cui essa per- cepisce se stessa in unione col proprio corpo). In que- sto sentimento originario che costituisce la sostanza del- l'anima si contengono tntte queste appendici ch'essa prende poscia nel suo sviluppo (2). Perchè il senziente resti identico a se stesso, egli deve avere inerente, sin dal principio della sua esistenza, un sentito nel quale vir- tualmente si compren'ìano tutte le future sensazioni (3). (1) N. S. 701-706, 7aj-727, 735-736, 887 e segg, 1026, Ps, 279, 442 • segg-» tav. sinott. del senso, 1880, 2079, Teos, 5. 32-36 eoo. (2) Ps, 130. (8) Ps. 171, 175, 178, 184, 2079, Teos, 5. 88.66, 241, 279, .V. S. 887-888, eoo. Il principio senziente prima di sentire attualmente la nuova sensazione, la sentiva dunque virtualmente. Ma che cosa vuol dire sentirla virtualmente ? « Se per sen- tire virtualmente s' intendesse non sentire niente af- fatto, dimodoché vi avesse un passaggio tra il non sen- tire affatto e il sentire attualmente, in tal caso con la nuova sensazione sorgerebbe un principio nuovo di sen- tire, non resterebbe il precedente identico; la sensa- zione nuova non sarebbe modificazione di un senti- mento j.i ecedente, sarebbe un sentimento del tutto nuo- vo ella Si ssa Conviene dunque dire che la nuova sensazione preesiste in un altro modo, quasi nasco- sta e confusa in un sentimento maggiore, in quel sen- timento che costituisce l'energia propria del principio senziente Secondo questo concetto (della virtualità sensitiva) un principio senziente, un soggetto, contiene in sé (sentimento fondamentale) tutte le sensazioni di cui è suscettivo restando identico; ma le contiene in- distinte, fuse insieme, senza l'ultima perfezione dell'atto, in un primo grado di atto, a cui manca l'ultimazione. Laonde fé si considera quale operazione si faccia nel- l'anima nostra allorché noi ascoltiamo un concerto di musica, converrà dire che tutta quell'armonia che si sente si sveglia ed eccita nell'anima stessa, dove si trovava latenie; ella dimorava nel sentimento fondamentale e so- stanziale adunata insieme e fusa con tutte le altre pos- sibili sensazioni formanti un sentimento solo che è ap- punto il fondamentale, manchevole dell'atto ultimo e di. stinto, al quale venne provocato dall'organico eccita- mento » (i). Le sensazioni non sono dunque « create di nuovo quando cadono nella nostra coscienza, ma si estrin- (1) Teo$. 5. 35-86. Uh secano, da implicite diventano esplicite, il sentimento non cangia Tessere, ma il modo deir essere» (1). Nei luoghi citati e in più altri Rosmini si rappresenta la mutazione del sentimento, che avviene alla nascita di una sensa- zione avventizia, come un passaggio dall' implicito allo esplicito, dairinvoluto alTevoluto, dallo stato latente alla manifestazione esteriore Noi abbiamo visto che è a simili rappresentazioni che si è generalmente ricorso per mo- strare come nei cangiamenti apparenti delle cose V es- sere in se stesso resti nondimeno identico ed immuta- bile. E cosi che i Vedantini (per far comprendere come Tuniverso è identico a Brama da cui esso è uscito) usano Timmagine di una stoffa inviluppata che si sviluppa 0 della testuggine che fa uscire le membra dalla sua scaglia. Vi ha un'altra immagine usata dai filosofi vedantini che può fornirci una rappresentazione conveniente del rapporto che Rosmini stabilisce tra il sentimento fonda- mentale e le sensazioni avventizie. I Vedantini compa- ravano Brama al mare, il quale non è che acqua, ma in cui si osservano dei flutti, della spuma e altre modi- ficazioni dell'acqua. L'acqua del mare rappresentava per essi l'essere primitivo, e i flutti, la spuma, ecc.; l'uni- verso creato. Noi possiamo invece rappresentare per quella il sentimento originario e abituale dell'anima, e per que- sti le sensazioni avventizie. Come i flutti, la spuma, ecc., non sono fuori del mare, ma in esso, cosi le sensazioni avventizie non sono fuori del sentimento fondamentale, ma in esso : e come i flutti, la spuma, ecc. : non sono che l'acqua stessa modificata, cosi le sensazioni avventi- (1) Psic, 2079. \\ zie non sono che lo stesso sentimento originario e imma- nente dell'anima modificato. Rosmini spinge sino al limite estremo l'assimilazione dello spirito (i fenomeni della coscienza) ad una sostanza; egli applica al mondo interiore della coscienza l'assioma degli antichi filosofi che l'essere non può venire dal non essere, che niente nasce e muore, che il reale è, al fon- do, immutabile; principio che é una generalizzazione dei fenomeni r>iù familiari dell'e^^perienza, ma semplicemente dell'esperienza esterna ; ma una volta che Rosmini con- cepisce lo spi I ito come una sostanza, il soggetto come un oggetto, non deve trovarsi strano ch'egli applichi al mondo subbiettivo un principio che i filosofi ordinaria- mente non applicano che al mondo obbiettivo. Il sentimento fondamentale, quale T abbiamo sin qui descritto, non es'iurisce tutta la sostanza dell' anima. L'a- nima umana non è solo un principio senziente : se non fosse che questo, essa non potrebbe sopravvivere alla morte del corpo ; perchè 1' attività del senso è condizio- nata dalle funzioni degli organi e quindi dall'esistenza del corpo vivente. L' anima sensitiva non perisce del tutto secondo Rosmini alla morte dell' animale, ma essa perde la sua individualità : come essa si è formata, con la forma- zione del corpo vivente, per la composizione delle anime dpgli elementi materiali di cui il corpo è stato composto, cosi essa si discioglie in queste anime elementari, con la dissoluzione del corpo nei suoi elementi (1). 0 piuttosto, siccome la vera sostanza non è per Rosmini che 1' anima, il corpo non essendo che un sentito, e non esistendo che in e per il principio senziente (2), cosi è l'anima sola •I (1) Psic, 459, 6(«-6J2, 663-667, eoo. (2) V. il mio studio saUa dottrina dell' es^^enza della materia in Bosmini. — 6 - ì ■f ! il I in realtà che si compone e si discioglie, queste anime elementari di cui essa si compone e in cui si discio- glie, essendo al pari di essa dei sentimenti sostanziali, in ciascuno dei quali inerisce come suo termine un corpo. L' anima sensitiva è dunque in un senso immortale se- condo Rosmini : ma questa immortalità non è quella che il dogma religioso attribuisce allo spirito umano. Per salvare V immortalità individuale dello spirito umano Ro- smini unisce nell'uomo al principio senziente un princi- pio intelligente : questo sopravvive alla dissoluzione del- l' animale umano, e può avere un' esistenza st»parata dal corpo, perchè 1' attività dell' intelligenza secondo Rosmini non è condizionata necessariamente come quella del senso a degli organi corporali (1). Come il principio sensitivo è costituito da un atto ori- ginario ed immanente del senso, cosi il principio intel- lettivo è costituito da un atto originario ed immanente dell' intelligenza (2). Un atto primitivo ed essenziale dell'intelligenza, un pensiero essenziale, è dunque il su- strato di tutti i pensieri avventizi, come un atto pri- mitivo ed essenziale del senso è il sustrato di tutte le sensazioni avventizie. Questo pensiero e'^senziale, in cui tutti i p-^nsieri sono contenuti e che tutti suppongono, come tutte le sensazioni sono contenute nel sentimen- to fondamentale e lo suppongono, è la più universale e la più astratta di tutte le idee, l' idea dell' essere. L' intellezione dell' essere è la sostanza del principio in tellettivo, come il sentimento fondamentale del princi- pio sensitivo (3). L' idea deli' essere indeterminato che (1) V. N. S. 177 n, 2, 685 n. 2. (2) JV. S. 48J-484, 521, 535, 537, 545, 552, eoo. (3) Ps. 307-309, 566, 628, 657, 679, 685, 687, 688, 694, 1006, 1009, 1176, 1195, eoo. il principio intellettivo ha inerente sin dall' origine della sua esistenza, contiene virtualmente tutte le intellezioni future, come il sentimento fondamentale, tutte le future sensazioni, perchè tutte le intellezioni possibili non sono che delle determinazioni dell'idea dell'essere (1). Que- 8t* idea è perciò innata, non è un risultato dell'astrazione, non viene all' anima dal di fuori per il canale dei sensi: tutte le altre idee sono acquisite, e nascono dall' unione deir idea dell' essere con una percezione dei sensi che dà a quest' idea una determinazione particolare (2). Ro- smini paragona l' idea dell' essere, che costituisce la na- tura stessa dell'intelligenza, alla tavola rasa d' Aristotile, o ad una pagina bianca su cui le esperienze dei sensi ven- gono ad imprimere dei caratteri (S), La natura dell' in- tendimento, dice Rosmini, consiste in uno sguardo conti- nuo che mira 1' essere, e che vede tutto ciò che spetta alla ragione dell' essere, come sono le condizioni e de- terminazioni dell' essere stesso (4). « L' ente indetermi- nato che sta a noi continuamente ed immobilmente pre- sente è come la carta bianca ove il nostro spirito mira e riguarda. Ora le determinazioni di quest' oggetto non sono che un' aggiunta accidentale al medesimo, una scrit- tura sulla detta carta ». Quindi con queir atto medesimo col quale vediamo l'essere, vediamo ancora in lui, e giammai senza lui, le sue determinazioni, come guardando la carta, noi vediamo pure con lo stesso sguardo tutti i caratteri che vengono in essa tracciati (5). (1) I\\ 171, 178, 184, ecc. (2) N, S. sez. 5. parte 1. e 2. (8) N. S. 538. (4) N. S. 624. (5) y, S. 623. \\ 1 1 L'atto del principio intellettivo, considerato per se solo, consiste nella semplice apprensione dell' essere universale e indeterminato : ma 1' apprensione dell' essere rivestito delle determinazioni particolari somministrate dal seoso, non è r atto del solo principio intellettivo, come noQ è quello del solo principio sensitivo, ma e l'atto di questa unica e semplice anima dell' uomo, che è al tempo stesso intellettiva e sensitiva, perchè in essa si comprendono, unificati, tanto il principio sensitivo quanto l'intellet- tivo. Rosmini chiama 1' anima dell' uomo, questa unità del principio sensitivo e del principio intellettivo, il principio razionale, perchè egli considera la ragione come una ri- sultante dell'unione della sensibilità e dell' intelligenza (1) Gli oggetti che cadono sotto la nostra conoscenza constano secondo Rosmini di due elementi : un elemento che viene dalla pura intelligenza ; è l' essere universale, r idea del quale costituisce la forma stessa dell' intendi- mento, e deve perciò trovarsi in tutti gl'intesi — e un ele- mento che viene dal senso ; sono le determinazioni o differenziazioni dell' essere, separate dall' essere stesso. Di là la distinzione di Rosmini tra la percezione sensitiva e la percezione intellettiva (che con più proprietà egP avrebbe potuto chiamare percezione razionale) (2^ : la percezione sensitiva non coglie che il secondo elemento degli oggetti, vale a dire le determinazioni dell' essere senza l'essere slesso (per cui un sentito come puramente tale non è un essere secondo Rosmini) (3) ; la percezione (1) Psic. 187, 189, 227, 228, 264, 287, 291, 689, 719, 1012, 1013, 1121, 1122, 1186, 1195, X .S'. 480-482, eoo. (2) JV. S, 55, 56, 63, 64, 132, 326, 338, 454, 455, 458, 474-478, 480-482, 536, 538, 622-624, ecc. (3) Psk. 76-78, 291, 641, 675, 1176-1177, 1184, Teo&. 6. 37-42, ecc. 1/ . intellettiva completa la sensitiva, aggiungendo a questa il primo elemento, cioè 1' essere, e contemplando cosi ì sentiti nella forma dell' essere, cioè come esseri. La per- cezione intellettiva, questa sintesi primitiva del sentito con l'idea dell'essere, ò il talamo in cui il principio in- tellettivo si congiunge col principio sensitivo (1) : essa è r atto primitivo del principio razfonale, di questo prin- cipio unico e duplice al tempo stesso, che costituisce 1' es- senza dell'anima umana (2). Come la sostanza del principio sensitivo è costituita da un atto immanente del senso, il sentimento fondamen- tale animale, e la sostanza del principio intellettivo è costituita da un atto immanente dell' intelligenza, la apprensione dell' essere universale, cosi la sostanza del principio razionale, risultante dall'unione dell'uno con V altro, è costituita da un atto immanente, che è la sintesi dell'atto immanente del senso con l'atto im- manente dell' intelligenza. L' atto immanente del prin- cipio razionale è una percezione intellettiva, il cui og. getto è il sentimento fondamentale animale, cioè il principio senziente congiuntamente al suo termine cor- poreo : questa percezione intellettiva fondamentale si distingue dal sentimento fondamentale animale, in quanto ciò che nel sentimento animale è puramente sentito, diviene inteso nella percezione razionale, cioè viene appreso nella forma intellettuale dell' essere o come es- sere (3). Quantunque Rosmini affermi energicamente l'unità e -i; /' (1) Cfr. Ps, 264. (2) N. S. 1025-1026, Pslc. 266, ecc. (8) Ps. 75, 264, 265, 266, 286, 287, 291, 420, 641, 645, 671, 689, 719 1012, 1013, 1023, eoo. 1 I ■ \ la semplicità dello spirito nmano (1), è evidente tuttavia che la sua dottrina è al fondo un vero dualismo : il prin- cipio sensitivo e il principi* intellettivo sono associati durante la vita, ma essi si separano alla morte deiruo- mo. Alla quistione come questi due principii possano co- stituire un soggetto unico e semplice, Rosmini risponde che ciò avviene per la percezione che Tun principio ha dell'altro. Questa percezione è immediata, cioè il perce- pito si percepisce in se stesso, e non mediante una sua rappresentazione (2): per essa avviene Tunificazione dei due principii, perchè, quando un principio sente un altro principio, siccome il principio sentito non è altra cosa che un sentimento, e si tratta di una percezione immediata, cosi il principio percepiente s'identifica col principio per- cepito, e si veritìca la massima che ex percipiente et per- ceplo fit unum (3j. Questa percezione unificatrice dei due principii non è che la stessa percezione fondamentale che costituisce la sostanza dell'anima razionale : nella percezione immanente del sentimento fondamentale ani- male, Rosmini considera questo come il percepito, e il prin- cipio intellettivo (che, secondo lui, è il portatore dell'i- dentità del soggetto umano) (4) come il percipiente (5). Il principio intellettivo, che mira continuamente l'essere, vede anche in esso la sua determinazione particolare, cioè il sentimento fondamentale animale : questa perce- zione che il principio intellettivo ha del sentimento ani- ci) Ps, 125-126, 174-184, 227, 264, 430 e sgg., 686 e sgg., 716 e sgg., ecc. (2) Psic, 291 n. J, Teo&. 5. 494, eoo. (3) Ps, 264, 266, 292, 420, 578, 641, 671, 689, 719, 1012, 1023, Teos, 5. 220-221, 824, 339, 373, 450, 461, 474, 493-494, eoo. (4) Psic, 187-190, 687-688, eoo. (5) Psic, 641, 645, 671, 1176-1177, Ttfos. 5. 381-382, 450, 474, 493,- eco. male si concilia, secondo Rosmini, con la dottrina, la quale esige che, perchè un principio conservi la sua i- dentìtà, ciascuno d^i suoi atti deve essere virtualmente compreso nell'atto primo che ne costituisce l'essenza; poiché, il sentimento animale esj-endo una determinazione particolare dell'essere, esso è virtualm^'ute contenuto nel- l'essere universale, e quindi la percezione del sentimento animale è virtualmente compresa nella percezione dei- Tessere universale che costituisce la sostanza del princi- pio intellettivo (1). Noi dobbirTino agi^iungerc che, nuntr»^ da una parte, Rosmini spiega l'unificazione dei due principii mediante la percc zioiie intellettiva, dall'altra parte egli dà l'unità del soggetto umano come ragione e londamento di que- sta sintesi del sensibile e df U'intelL ttual^, che ha^uogo nella percezione intellettiva (2). Cosi la p rcezione in- tellettiva è spiegata per l'unità dello spirito umano, e que- sta alla sua volta è spieofata per ìa p^rcozione intellet- tiva: Rosmini non spiega dunque l'unita del nostro spi- rito, essa è inesplicabile nel suo s sterna, che, come ab- biamo detto, è un vero dualismo ; ( ppure la dottrina di Rosmini sulla sostanza dell'anima aveva lo scopo di dare un londamento all'unità e all'identità del me ! Cosi qui accade questo fatto strano, che non è pertanto nuovo nella storia delle dottrine metafisiche, cioè che il feno- meno stesso, che l'ipotesi è destinata a spiegare, diviene un'obbiezione invincibile contro questa ipotesi. La dottrina di Rosoiini sulla sostanza dell'arini i non si limita a dare una risposta a questa quistione partico- lare della psicologia metaempirica : al contrario essa è (1) V. Psic, J90, 264, 671, eoo. (2) N, S. 128, 338, 454, 511, 622, eoo. - 9 — il punto di partenza di una moltitudine di speculazioni tanto psicologiche, quanto ontologiche, sicché il sistema filosofico di Rosmini non è in gran parte che uno svi- luppo e una conseguenza di questa dottrina. La teorica dell'essere ideale è il fondamento, non solo di una psi- cologia arbitraria (perchè Rosmini vuol mostrare, per la analisi delle operazioni deirintelligenza umana, che esse suppongono tutte l'idea innata dell'essere), ma anche quello di una metafisica non meno arbitraria, quest'idea innata dell'essere, afiìnchè essa possa avere un valore obbiettivo, e si comprenda la sua presenza nel nostro spirito indipen- dentemente dall' esperienza, supponendo, secondo Rosmi- ni, che lo spirito umano abbia l'intuizione immediata del- l'oggetto reale corrispondenttj a quest'idea (l'essere uni- versale 0 indeterminato, che noi predichiamo di tutti gli es- seri, è un attributo divino, che viene comunicato agli esseri creati ; noi percepiamo in Dio quest'attributo, ma senza percepire la sostanza divina; questa percezione è immanente, e costituisce l'idea" deiressere continuamente presente al nostro spirito). Di là un'ontologia delle più ardue, che non è se non il contracolpo dell'ideologia ro- sminiana. La dottrina dell'essere ideale é ciò che vi ha di più caratteristico nella filosofia di Rosmini, e ne è ordma- riamente considerata come la parte fondamentale; ma chi studia i concetti metafìsici per darsi ragione sovratutto del loro perchè e della loro origine, non può vedere al- tra cosa in questa dottrina e in tutti i suoi sviluppi psi- cologici e ontologici che una conseguenza di un risultato a cui Rosmini è pervenuto nella sua ricerca della sostanza dell'anima [!)• (1) La dottrina giobertiana dell'intuito ohe sostituisce ali* es- sere ideale o astratto di Rosmini l'essere reale o concreto, cioè Dio stesso (e non uno dei suoi attributi) ha dei motivi in parte analoghi aUa dottrina rosminiana. Gioberti ammette, come Rosmini, che in tutte le facoltà del- l'anima vi hanno due stati o due modi di esercitarsi, l'uno imma- nente e continuo, l'altro successivo e discontinuo: il primo è la baso e la radice del secondo. Il sentimento fondamentale di Rosmini è lo stato immanente del senso; l'intuito di Dio è lo stato immanente del pensiero o il pensiero immanente. Il pensiero immanente non è mai assente daUo spirito umano; efciso si trova nel fanciullo, nel dormiente, ecc.; e, se si parla di questo pensiero, è vero di dire che l'anima pensa sempre. Il pensiero immanente non è un atto parti- colare del pensiero, ma la stessa attività pensante, l'essenza stessa del pensiero (analogamente, il sentimento fondamentale non è una sensazione particolare, ma la stessa facoltà sensitiva, e il simile per le altre facoltà dello spirito). Esso è dunque una potenza, ma non nel senso ordinario della parola, che fa della potenza una sempUce astrazione, ma una potenza nel senso leibnitziano, quae conatum involvit, un che di concreto e perciò includente un principio di a- zione. Il pensiero immanente essendo l'atto iniziale che costituisce la potenza di pensare, ne segue che il pensiero successivo non è che un'applicazione, un'attuazione particolare determinata, del pen- siero immanente. Il pensiero immanente ha per oggetto l'ente u- niversale, il pensiero successivo, le esistenze particolari; quello per- cepisce Dio come ente puro, questo percepisce Dio come ente in relazione con le esistenze, cioè Dio creante gli esseri finiti (V. Pro- toh t. 1., Intuiz. e rifless.). E siccome la creazione è secondò Gio- berti l'individuazione delle idee generali (v. Inlrod. Milano 1850 1. 1. 294-295, Err. filos, di A, Rosmini Brusselle 1843 1. 1. 335-344, ecc.) che tutte sono comprese nell'Idea, cioè in Dio, noi possiamo dire anche che il pensiero immanente ha per oggetto l'Idea pura, e il pensiero successivo l'Idea individuantesi o espUcantesi esteriormente. Ciò che vi ha di comune tra la dottrina di Gioberti e quella di Rosmini è il concetto di un fenomeno stabile, immanente, dell'at" tività psichica, che è il substratum dei fenomeni transitori. AppU- cato all'attivila intellettuale, questo concetto importa la necessità di ammettere un' idea o delle idee essenziali allo spirito e perciò innate. Per giustificare poi il valore obbiettivo di queste idoe innate, quindi indipendenti dall'esperienza, e spiegare la loro coincidenza con la realtà, tanto Gioberti quanto Rosmini ammettono un'intui- zione raclonale dell'oggetto intelligibile. Ma le dottrine dei due fi- losofi non si fondano sovra un principio assolutamente identico. Il principio della dottrina di Rosmini è, come abbiamo visto, che la sostanza dell'anima consiste nel sentimento (o, con un termine più generale, nel fenomeno della coscienza); ciò che è un'appUcazione . 10 - particolare del principio più genera/e ohe il reale è costituito da, sentimento. Ma non è questo principio (o un principio analogo) che può essere il fondamento della dottrina di Giobejrti. Perchè, quan- tunque la filosofia delle opere postume di Gioberti sia un panpsi- chismo che risolve ogni essere nel pensiero (e quindi anche la so- stanza dell'anima), la prima forma della sua filosofia invece riguarda le sostanze, e per conseguenza anche la sostanza anima, come delle forze sconosciute, dichiarando la loro essenza assolutamente ine- scogitabile. Ora, nella prima forma della filosofia di Gioberti, si trova già non solo la dottrina dell'intuito razionale come atto immanente dell'intelligenza (e quella del sentimento fondamentale), ma anche il concetto che quest'intuito costituisce la sostanza sta^-ia dell' in- telligenza (Il pensiero è l'intuito dell'Idea; senza questo, esso non sarebbe pensiero. Tntr. Mil. J850, t. 1. 164, 173, 249, ecc. : Il possesso intuitivo dell'Idea forma la nostra intelligenza ; la creazione della intelligenza non è altra cosa che la comunicazione, nell' intuito, dell'Intelligibile divino. Ihid, t. 1. 468, 527-528— cfr. Errori Filos, di A. Rosmini Brusselle 1843 1. 1. pag. 301-302—, t. 2. 29, 57, ecc.). Il fon- damento della dottrina giobertiana deve essere cercato in questa tesi: che la potenza non è un'astrazione, ma una cosa reale e con- creta, e consiste in uno sforzo spontaneo, in un atto incoato (v. In- trod. 2. 243, 1. 106, Proleg, del Priinato 1. ed. napoletana pag. 46-48, Protol. Napoli 186J t. 2. pag. 190, ecc.). Questa tesi è secondo Gio^ berti una conseguenza della concezione dinamica delie cose. E in- fatti questa concezione (di cui spiegheremo l'origine nella 2. parte) risolvendo il reale in forze senza materia, toglie dalle cose questo substratum permanente che fa si che noi le chiamiamo sostanze' (poiché, come abbiamo avvertito, la sola idea che noi abbiamo della sostanza si riduce alla materia). Ma per un effetto di questa incon- scia tendenza che ci spinge ad assimilare tutte le nostre idee a quelle che ci sono le lùù l^miliari, il metafisico dinamista si sforza di restituire agli esseri la loro sostanzialità, ristabilendo, sotto u- n'altra forma, questo substratum permanente ch'essi hanno perduto nella sua dottrina filosofica: in altri termini, egli cerca di rappre- sentarsi la forza, cioè l'attività, la potenza, come una sostanza. Di là risulta, primo, l'idea che la potenza non è mai inattiva (poiché la sostanzialità importa la continuità dell' esistenza); e, secondo, perchè la sostantificazione sia più completa, la supposizione di un atto continuo, immanente, quale substratum degli atti transitori della forza o potenza, substratum che è alla sostanza forza ciò che là materia alle sostanze corporee (vale a dira il fondo permanente 8U cui appariscono successivamente i fenomeni variabili). Questa I I. tesi, che ogni potenza è un atto primo e costante, da cui risultano degli atti secondi e variabili, è comune anche a Rosmini (v, N. S. 1008) : ma per Rosmini essa risulta dal principio che il concetto di realtà é sinonimo di quello di attività psichica, di coscienza ; per Gioberti invece dal principio che il concetto di realtà ^inonima, non con quello di attività psichica, ma con quello più generale di attività. Dalla fusione del concetto di attività con quello di sostanza nasce, per l'uno e per l'altro di questi filosofi, l'idea di un atto im- manente come substratum degli atti transitori di ciascuna potenza: ma l'uno si rappresenta ciascuno di questi atti immanenti come un fenomeno stabile della coscienza, perchè ogni attività è per lui at- tività psichica, coscienza; per l'aitro il concetto di atto immanenteè più esteso che quello di fenomeno stabile della coscienza, perchè il concetto di attività è più esteso che quello di coscienza. Ne segue ohe per Rosmini i fanomeni stabili della coscienza, che egli si rap- presenta come il substratum dei fenomeni variabili, esauriscono la sostanza dello spirito, qu3sto, come tutti gli altri esseri, non essen- do per lui che coscienza: por Gioberti invece questi fenomeni sta- bili della coscienza non possono costituire tutta la sostanza dell'a- nima, perché egli suppone, al di là dei fenomeni della coscienza, un principio sconosciuto, da cui essi derivano, che egli chiama 1' es- senza dell'anima. Cercando un substratum permanente ai fenomeni successivi dello spirito, affinchè sia possibile di concepire questo come una sostanza, e cercandolo in qualche atto continuo e im- manente, Gioberti, come Rosmini, non può trovare altro di rappre- sentabile che dei fenomeni della coscienza, immaginati con l'attri- buto della continuità e della stabilità; ma per Rosmini questo rap- presentabile è tutta la sostanza dell'anima; per Gioberti invece vi ha di più in questa sostanza un nucleo oscuro, una cosa che sfug- ge assolutamente alla rappresentazione, e si chiama l'essenza. Cir- coscritta nei limiti delle forze di cui possiamo formarci una rap- presentazione—cioè le potenze psichiche che sono le sole forze im- materiali di cui abbiamo l'idea- la dottrina di Gioberti che la po- tenza consiste in un atto immanente (e per conseguenza l'applica- zione di questa dottrina alle facoltà del nostro spirito) riposa dun- que sullo stosso fondamento che quella di Rosmini : la differenza tra i due filosofi è che mentre il secondo non vuole ammettere delle forze d'una natura diversa da quelle di cui può formarsi una rap- presentazione (donde il suo panpsichismo), il primo estende al di là dei limiti del rappresentabile il concetto di forza immateriale, e, con esso, quello di un atto immanente quale substratum degli atti transi tori di questa forza. Noi dobbiamo aggiungere infine, perché non si dia alle consi- — u — derazioni ohe precedono an' importanza troppo assolata, ohe, mentre la dottrina di Bosmini delle idee innate (cioè dell'idea innata del- l'essere), e quella connessa dell'intuizione intellettuale, non sono che un risultato delle sue speculazioni sulla sostanza dell'anima, noi non possiamo, al contrario, vedere in quest'ordine di specula- zioni il motivo unico delle dottrine corrispondenti di Gioberti. E- videntemente Gioberti, e gli altri filosifi che, come ^ui, ammettono un'intuizione razionale di Dio e della verità in Dio (S. Agostino, S. Bonaventura, Malebranche, Cousin, ecc.), ciò che vogliono spie- gare per questa dottrina, è, in generale, la possibilità delle cono- scenze indipendenti dall'esperienza, la loro coincidenza con la realtà. In Bosmini, l'intuizione razionale non spiega che l'idea innata del- l'essere; in questi filosofi, oltre le idee innate, spiega anche i giu- dizi a priori. Cosi essa è anzitutto in questi filosofi una conseguenza dell'apriorismo e dei sofismi naturali da cui esso deriva. La dottrina delle idee innate, come abbiamo osservato (App. e. 2 § 9.), è, in tutto o in parte, una conseguenza di questa conseguenza. f.' r • i \^ Come prova deirimmaneDza noi possiamo addurre in primo luogo i termini di cui Platone si serve per in- dicare le Idee. Questi sono : I8éa (specie, forma) (1), il suo sinonimo sISo^, y^^o? (genere), cpuoig (natura), oùoCa (es- senza) ed altri simili : p : e: T t5éa (forma o essenza) del pari (Fedone 104-105), TelSos (forma o essenza) della co- noscenza (Crat. 440 a-b), gli sTJyj (specie) del piacere (Fi- lebo 19 b, 20 a e, ecc.), il T^vo^ deirinfinito (Fil. 25 a, 52 e, ecc.), la cpóotc del bene (Fil. 60 b), roùoCa del colore (Crat. 423 e). Questi termini non si riferiscono sempre alle Idee, ma solo quando denotano Tuniversale, come negli esempi citati, indicando sia le diverse specie di es- seri (l'uomo, l'animale, il bianco, ecc.) considerati in generale, sia Tattributo o insieme di attributi comuni a (J) Rammentiamo che, nell'interpretazione del sistema platonico, bisogna guardarsi dal lasciarsi influenzare dal senso che la parola idea ha nelle lingue moderne. Come nota il Martin e tanti altri e- gpositori di Platone, furono gli Stoici i primi ohe diedero a questo termine un senso psicologico e analogo a quello che ci è familiare . I neo-platonici, conformemente alla loro interpretazione del sistema di Platone, intendevano per idee i pensieri dell'intelligenza creatrice, cause esemplari delle cose, e la parola ritenne lungamente questo siguificato neoplatonico e teologico, per tutto il periodo della sco- lastica, ed anche dopo la rinascenza. La diffusione del termine nel senso attuale si deve a Cartesio, e Locke si scusa di usarlo in questo senso, come di un nelogismo (gag. suU'int. um. Preamb. sulla fine). -M-^ ciascuna specie (V umanità, ranimalità, la bianchezza, ecc.) considerati pure in generale. Naturalmente vi ha un'infinità di luoghi in cui q'iesci termini sono impiegati con questo significato generale, e in cui è evidente chVlòéoL, l'sISo^, il ysvos, ecc., di cui si tratta, non sono delle entità trascendenti, cioè poste fuori delle cose di cui si dicono laéa, sl8og, yévog, ecc. (1) : se non che, Tin- (1) Vedi, per es., per il termine slSog : Polit. 258 e; e;262b, d, e; 263 b; 267 b; 278 e; 286 a; b; 287 e; 288 a; d; e; 289 b; 291 e; 304 e; 306 a; e; 307 d; Sof. 219 a; e; d; 220 a; e; 222 d; e; 223 e; 225 o; 226 e; e; 227 e; 228 a; 229 e; 234 b; 235 d; 236 e; d; 259 e; 260 d; 264 e; 266 d; Fil. 18 o; 19 b; 20 a; e; 23 e; d; 32 b; 33 e; 35 d; 48 e; Teet. 157 e; 178 a; 181 c-d; 187 e; 205 d; 208 b-c; Crat. 386 e; 389 b; 390 a; b; e; 411 a: 424 e; d; 440 a-b; Fedro 265 a; e; 266 a; 270 d; 271 d; 273 e; 277 b; e; Conv. 205 b; 210 b; Meno. 72 e; e: Eutiphr. 6 d; Rep. 434 d; 437 e; d; 445 e; d; 449 a; 477 e; e; 510 e; 530 e; 532 e; 544 a: 581 e; e; 585 b; o; 597 e; Tim. 53 e; 57 e; d; 58 d; 59 b; e; Leggi 864 b; 893 a; Parm. 13B b e 135 b (le Idee sono chiamate le specie degli es- seri: sT5r] Twv òvxwv); ecc. Per il termine I8éa: Fil. 16 d; 25 b; 60 d; Fedo. 104 b; d; e; 106 d; PoUt. 258 e; 262 b; 307 o; Sof. 235 d; 253 d; Fedro 265 d; 273 e; Eutiphr. 5 d; 6 e; Crat. 390 a; Conv. 204 o; Tim. 46 e; Rep. 544 d; Parm. 135 a e b (le Idee sono chiamate c5saL TWV OVTCDV V. pure perciò Ar. Met. 1. I, VI, 2 e 1. XIII, IV, 4); ecc. Per la parola yévog: Sof. 253 b-c; e; 254 d; 260 a; b; 261 a; 263 d. 264 e; 266 e; 268 a: 224 e; e; 226 a; 228 b; 235 e; Fil. 23 d; 24 a; 25 a; 26 d; e; 32 d; 44 e; 62 e; 63 b; Polit. 260 b; e; 263 a; e; 266 a; b; e; e; 267 b; 279 a; 285 b; e; Tim. 50 e; 51 d; 53 e; 54 b; e; 55 d; e; 56 e; 57 e; 58 e; d; 69 b; e; ecc. Aristotile chiama le Idee platoniche yévYj TWV OVTWV (Met. 1. Ili, III). Per la parola cp'jai^: Fil. 18 a; 24 e; 25 a; 26 e; 60 a; b; Crat. 387 a; 393 e; Teet. 174 b; 175 e; Fedro 270 b-e; Tim. 55 b.; 58 a; Polit. 278 b; Leggi 862 e; ecc. Per la parola oÒoLol: Fedo 65 e; Crat. 338 e; 423 d-e; 424 b; eco. Il termine oòoioL (nel significato di essenza) prova, d' una maniera più palpabile che gli altri, l'inerenza delle Idee nelle cose : come I terprete cho ammette la trascendenza delle Idee plaloni- che, dirà,^ in molti casi in cui questo significato imma- nenie è indiscut bile, che i termini Idèa, slSog, ecc. non veì'gono usati nel senso tecnico, e non designano le I- dee. Ma questa scappatoia dell' interprete trascendenta- lista, la quale por altro non è possibile in tutti i casi, potrà valergli ben poco anche per quelli in cui crederà di potervi ricorrere, perchè è un principio platonico che Toggetti (IL concetto e d^Ua conoscenza gene ra le è ri- do*, e quin li, tutte le volte che alcuno di questi termini indica il punto di vista generalo, noi dobbiamo presu. mere ch'esso si riferisce all'Idea. Senza dubbio, è pos- sibile che Platone abbia alcune volte usato questi ter- mini v-on un significato generale, senza pensare perciò ;i fare dell'universale a cui si riferivano, un'entità uni- rà sussìstent ter se sto?sa; è certo anzi che vi h^nno drì casi eccezionali, in cui il significato generale non potrebbe affatto implicale la snpprsizione di un'entità generale corrispondente (1); e l'interprete trascendentalista potrà anche aggiungere, a difesa della sua proposizione, che, nell'ipotesi stossa della trascendenza delle Idee, Pla- tone sarebbe stato tuttavia costretto, in un gran numero di ca««i. cioè quando egli voleva indicare il punto di vi- sta generale nella cons'derazione delle cose, ad impie- gare i termini ISéa, sI§os» ecc. in un senso immanente, perchè la lingua non gli offeriva altri termini per s'gni- infatti l'essenza potrebbe essere concapita fuori delle cose di cui è l'essenza ? Che le Idee siano per Platone le essenze delle cose, è poi confermato da Aristotile in Met. l. I. VII, 3, l. I. IX. 11, 21, 1. III. IV. 6, 7, 1. VII. XIII. 3, 1. Vili. III. 5. (1) Per es. quando l'universalità delle cose fenomenali o un ge- nere di queste cose vengono opposto alle loro Idee, come nel Tim. 48 e e 50 e e nella Repubbl. 597 b. - 13 - ficare l'universale nelle cose, che quegli stessi che nel senso tecnico particolare, proprio esclusivamente del suo sistema, significavano l'universale fuori delle cose. (Que- st'espressione : l'universale fuori d«»lle cose, è evidente- mente un controsenso; ma l'interprete trascendentalista ha bisogno di questo controsenso per definire le Idee platoniche). Ma cosi egli confesserà che, nell'ipotesi della trascendenza, Platone, oltre che si metterebbe persisten- mente in contraddizione col suo principio cbe il concetto generale si riferisce all'Id^^a, userebbe i termini I8éa, slòoq, ecc; quando essi designano le Idee : in un senso affatto diverso dal loro significato più ovvio, e che è quello stesso in cui vengono usati il più abitualmente da lui stesso. 2^ I termini designanti ciascun'Idea, cosi bene che quelli, di cui abbiamo parlato, designanti le Idee in ge- nere, provano l'immanenza. Le stesse parole che indi- cano le cose, indicano pure le loro Ideo : il movimento, lo stato, la somiglianza, la dissomiglianza, ecc., senz'al- tro, significano l'Idea del movimento, dello s*ato, della somiglianza, della dissomiglianza, ec?., (1). Qual è il criterio per distino:uere quando il nome indica l'Idea e quando le cose ? non ve ne può essere che un solo : quan- do il nome significa il concetto generale (l'uomo, il mo- vimento, ecc.,), noi dobbiamo presumere ch'esso si rife- risce all'Idea (2); quando il suo significato viene ristretto a denotare degli oggetti particolari (quest'uomo, il mo- vimento di questo corpo, ecc.,), allora non può riferirsi (1) V. Parmen, 129, 131 a, d, 136 e, 136 a-b, Fedo, 65 d, 74 a, o, d, 75 a, e, 76 d, 77 a, 100 d, e, 101 a, b, e, 103 e, 104 a, b, RepnbbL 524, Tim, 30 o, Fedro 251 a, eco. (2) V. nota III. che alle cose. Non è questa la prova più palpabile che le Idee non sono separate dalle cose, ma sono le cose stesse considerate in ciò che vi ha in esse di generale ? Gli aggiunti, quali aÙTÓ, aùxó xae'aOxó, 8 laxi, che si uni- scono al nome della cosa, quando occorre un segno per di- stinguere le Idee dalle cose particolari, non possono mutare il significato immanente del nome a cui si uniscono, per- chè essi non indicano che il punto di vista dell'astrazione: aùxò fivOpwTioc (1' uomo stesso) vuol dire l'uomo in ge- nerale, considerato negli attributi che costituiscono il concetto htes'o di uomo, astrazion facendo da tutte le differ.-nzo individuali, di nazionalità, di razza, ecc.; aùxò xè xaXóv (il bello stesso) vuol dire la beltà in generale, la stessa beltà che è l'oggetto del nostro concetto di beltà, astrazion facendo da tutti gli altri attributi che, insieme alla beltA, si trovano negli oggetti particolari a cui que- sto concetto si riferisce, cioè, che si chiamano belli (1); (1) L'aùxó, dice Aristotile Eth. Eud. (l.I.VIII,11) si aggiunge per indicare il concetto generale.— Il significato di auxó^ risulta della maniera più netta da un luogo del quinto libro della Repubbl. La sete, in quanto è sete, si dice in questo luogo, non è che l'appetito della bevanda, e non di una bevanda molta o poca, calda o fredda, ecc.t in una parola di una certa bevanda. Se per la T^apODaia della mol- titudine la sete è molta, sarà l'appetito di molta bevanda, se è poca di poca; se alla sete si aggiunge il calore, si avrà l'appetito di una bevanda fredda, se si aggiunge il freddo, l'appetito di una bevanda calda: ma la sete stessa (aùxò U<^0(Ùy n»» è cbe l'appetito deUa be- vanda stessa (aùxoO 7i(i)|iaxo€), f animo di chi ha sete, in quanto ha sete, non vuole altra cosa che bere. E in generale, per le cose relative ad altre cose, ciascuna cosa stessa (xà aùxà Ixaoxa) è relativa holtanto a ciascuna cosa stessa (aùxot) éxàaxoo), ma quel- le che sono a un certo modo determinato sono relative a cose che gono pure a un certo modo determinate : p. e. il maggiore (sem- pUoemente) è relativo al minore (sempUcemente), ma il molto mag- - 14 - 0 loxt xXCvY], 0 laxiv àyaeóv, ecc. ciò ch*^ è letto, ciò che è bene, ecc.), vuol dire ciò che è propriamente significato dal nome letto, dal nome bene, ecc., e che non è altro se non quello che ciascuno dì questi nomi propriamente significa, ciò che noi propri amen t:^. chiam'amo letto, be- ne, ecc., nelle cose particolari a cui applichiamo questi nomi, cioè quell'attributo o insieme dì attributi che i ter- mini letto, bene ecc. connotano, astrazion facendo daoH altri attributi con cui e^si .^ono congiunti nelle cose par- ticolari che questi termini denotano, cioè ancora il letto in generale, il bene in generale, ecc. (1) Il significato di giore è relativo al moJto minore. Cosi per le scienze : la scienza stesso (èniGzri\xri olòzÌ]) è scienza deUo scibilo stesso^ (|xa0%axo^ OtÙTOu), ma una certa scienza determinata d'un certo scibile determinato: p. e. essendovi una scienza di edificare le case, si di- stingue da tutte le altre scienze particolari, prendendo il nome di architettura: essendo d'una com particolare e determinata, anch'es- sa si fa particolar-^ a determinata. Cosi pure la s'»ienza dfti salubri e degl'insalubri, essendo scienza non dell'oggretto stesso di che è scienza la scienza (s^mnlicem^^ntoV ma di un certo oggetto partico- lare, cioft il salubre e rinmlubr3, anch'essa si fa determinata e parti- colare, e si chiama perciò, non sci'^nza semplicemente, ma, per l'ag- giunzione d'una determinazione particolare, scienza medica (Rep. 437 d-439 a). Non è evidente cho a'nò òi'])oq, d» ^'©te stessa), aùxò TCWjia (la bevanda sf6>S6Y'\ aOxrj iTriaxi^jiy) (la scienza sfé?ssrt. a»jxó p,OC0y3|JLa, (lo scibile stesso) non designano delle entità trascendenti (fuori delle cose>, ma quello stesso cho noi chiamiamo sete, be- vanda, scienza, scibile, considerati in astratto ? Questo significato di OLÒzó^ si troverà anche aV astanza chiaro in Toet. 175 e; Pam. i?9 b; Crat. 439 c-d; Fedone 74; 78 d; 1(^ b; Rep. 472 e; 476 a-c; 479 a, e; 525 a, e (cfr. 524), Eutifr. 6 d-e; Tpp. magg. 286 e; ecc. (1) Vedi Crat. 38q b, d. Par.n. 129 a, b, Fedone 74 d, 75 b. l?ep. 532 a, 597 a, e, eco Cfr. Meno. 74 b-e Per compi andare bene il valore di 6 Soxi, aùxóg e simili nel linguaggio platonico, è utile di tener presente aùxò xaO'aOxó è il medesimo che quello di 0 soxt e del sem- plice aùxó : il xaO'aOxó (per se stesso) si aggiunge per indicare d'una maniera più energica che. dell' oggetto, designato dal nome, non deve prendersi che quel solo la distinzione tra la detonazione e la connotazione dei nomi. Secondo questa distinzione cìie i logici peripatetici facevano nei significato del nomi (e che Stuart-Mili ha introdotto nella logica contemporanea), il no- me denota ciascuno degli oggecti concreti) appartenenti a una classe, e connota l'attributo o y;ii attributi (astratti) comuni a questa classe (se non tutti, quelli almeno che entrano nella definizione della classe). Per un vero nominalista, il vero significato del nome consisterà nella sua de- notazione; ma per un concettualista cousisterà iavece nella sua connota- zione; inl'atti, nell'ipotesi dell'esistenza di concetti generali, un nome ge- nerale è il segno d'un concetto generale, e questo è costituito dall'attributo o insieme di attributi comuni a una classe o per cui la classe si definisce. Tale è la dottrina dello stesso Stuart-MiU (il quak-, quantunque si dia per nominalista, è in realtà un concettualista (V. il Saggio J. e. I.): la significazione reale d'un nome generale non è secondo lui che la sua connotazione, questa consistendo negli attributi inclusi nel concetto (v. Log 1. 1. e. i. § 5, e. 5, § 2, § 7, e. 7. $ 1. e. S, s 1, 1. 4. e. 3. g 4. e. 4. S 1, e 0. § 5, ecc.), e una proposizione, i cui termini sono dei nom^ generali, non aflernia che una reluiione tra attributi (v. Log. 1. 3. e. 5. S 4, e. 6. S 5, Fu, di HamiUon. e 18. sulla fine, e. 22. sul principio ecc.) Oi-a se al concettualismo^ come teoria,psicologica, si aggiunge il rea- iisìno^ come dottrina ontologica, in altri termini se si ammette che ai concetti astratti e generali «corrispondono delle entità astratte e generali, allora il vero significato dei nomi si riferirà a queste entità, perchè esse non sono che i concetti, cioè le connotazioni dei nomi generali, realizzate. In efl*etto secondo l^latone i nomi sono propriamente i segni delle idee, e le cose prendono la denoruinazione di queste per la loro presenza e partecipazione (V. Fedo 102 b, 103 b, e, io4 a, Parm. I3O e-Jsi a. Meno. 74 d-75 a, 70 a, Sof. ^40 a, Lacìi. I92 a, ecc. Cft-, Arist. Etli. End, 1. I Vili. 2, Met, 1. i. VI. 2, ecc.) È questa, al fondo, la dottrina dei concet- tualisti, secondo cui i nomi sono i segni degli attributi, e vengono dati agli oggetti in vista degli attributi che essi possiedono, tradotta in lin- guaggio realista. Vi ha tuttavia tra la dottrina di Platone e la concet- tualista questa difierenza: secondo Piatone, i nomi generali sono i nom: delle Idee; il concettualista invece, quantunque egli ammetta che i riomj -15 - attributo o insieme di attributi che costituisce la nozione generale di quest'oggetto, lasciando in disparte tutte le particolarità individuali, tutti gli attributi concomitanti che differenziano i concreti, tutto ciò, in una parola, che non è incluso nel concetto generale (1). Senza dubbio© generali concreti, p. e. uomo, animale, bianco, buon), ecc. significano propriamente gli attributi— perchè la loro applicazione agli oggetti indica la presenza di certi attributi, e viene fatta in ragione di questi attribu- ti—, non dirà però che questi nomi sono i nomi degli attributi . perché gli attributi vengono denotati, non da essi, ma dai nomi astratti che ne derivano, p. e. umanità, animalità, bianchezza, bontà, eec. Sicché mentre secondo Platone le cose prendono il nome delle Idee, secondo li concet- tualista ai contrario sono gli attributi che prendono il nome delle cose» perchè animalità viene da animale, bianchezza da bianco, ecc. La ragione di questa differenza é che secondo il concettualista gli attributi sono sem- plicemente degli attributi— che non si concepiscono per sé S9 non p^r una astrazione della mente— e non allo stesso tempo delle sostan?e, cioè delle realtà sussistenti per se stesse; per conseguenza non può applicarsi ad essi un nome concreto, perchè questi nomi non denotano che le sostanze. Ma le Idee sono per Plat ne non solo attributi— delle cosa che ne parte- cipano—ma anche sostanze, potendo darsi per^definizione dell'Idea ch'essa è un attributo sostantificatc; per conseguenza egli può denotare gli at- tributi quali esistenti per sé. cioè le Idee, coi nomi concreti. Si osservi che la dottrina platonica di cui parliamo è una prova evidente della immanenza delle Idee, perchè é chiaro che ciò che i nomi propriamente significano non può essere che gli attributi delle cose nelle cose stesse, e non delle entità trascendenti /t*on delle cose. Tornando ora al significato di ò £0X1, aUTÓg, ecc. nel linguaggio platonico, noi possiamo formularlo brevemente, dicendo che questi ter- mini, aggiunti a un nome, identificano la denotazione di questo nome alla sua connotazione, indicano che ciò che il nome denota non è che quello stesso che esso connota. (1) V. Parm. 129, Meno, loo b, liep. 476 b, 524 d, ec«. Cfr. Rep, 528 b, in cui si oppone al solido in movimento che è l'oggetto dell'astro- nomia, il solido aOiò xaO'aOxó che é l'oggetto della geometria. L'aùxò xaG'aOxó le il femminile aOxYj xae'auxr^v), oltre che ai nomi delle co- loxt xXCvT), aòxó xaXóv, xaXèv aòxó xaO'aOxó ecc., non si- gnificano solamente che il letto, il bello, e ogni altra cosa di cui è quistìono, devono concepirsi d'una maniera astrat- ta, ma di più ch'essi hanno un'esistenza reale in quelito stato astratto, ch'essi sono delle sostanze nel tempo stesso che delle astrazioni — la determinazione della sostanzia- lità è chiaramente espressa sovratutto dal termine aOxò xaO'aOxó, perchè e^s'^re xaB'aOxó significa sussistere per se stesso, essere non un semplice predicato, ma un sogget- to (1): ma da ciò V inierprf te trascendentalista non deve affrettarsi a concludere che il letto, il bello, ecc., di cui si tratta, sono delle entità situate in un altro mondo, al di fuori dei letti, delle cose belle, ecc., particolari. La quistiobe non è già se Piatone abbia o no conce- pito le Idee come sostanze; ma se queste sostanze egli le abbia o no considerate al tempo stesso come inerenti nelle cose e costituenti i loro attributi. Non vi ha dub- bio che queste due nozioni, essere delle sostanze, e ine- rire nelle cose come loro attributi, sembrino al nostro punto di vista contraddittorie, ma è in questa contrad dizione che sta l'essenza della dottrina delle Idee e del realhmo in generale, e il significato di aOxò xaG'aOxó e degli altri termini equivalenti designanti le Idee riunisce appunto queste due nozioni, per noi incompatibili. Am- se, può essere aggiunto ai termini e^SoC» omioL e altri designanti le 1- dee in gen<^re, per indicare che le forme o essenze di cui si tra "ita devono essere considerate ciascuna per sé sola, astrazion facendo dalle altre tor- me o essenze con cui si trova mescolata nelle cose (come pure che, cosi considerate, esse non sono delle semplici astrazioni, ma anche delle realtà — delle astrazioni realizzate — ). La stessa osservazione per aiiXOg. (1) V. Arist. Magn, Mor. I. J. I. J2. Met, 1. XI X. 3, ecc. Cfr Mei. 1. V. XVIII. 8, Anal. Post 1. I.IV. 5. — 16 — mettere che le Idee platoniche sono iliori delle cose è ani- mettere che, quando bì p^nsa e quando si parla, i nrstri concetti e i nostri nomi generali si riferiscono a dello, en- tità poste fuori delle cose. Ma se si conviene eh*», quando si pensa e quando si parla, i nostri concetti e i nostri nomi generali si riferiscono agli attributi esistenti nelle cose stesse, bisogna anche convenire che le Idte plato- niche esistono nelle cose atesse come loro atiribut». In ef- fetto i valore dei termini aOxó, aùxò xaG'aOió, o èoii e simili è precisamente questo, di far significare ai nomi, a cui essi si aggiungono, quello stesso appunto [quello stesso, noi qualche cosa di s mile o di eguale) a cui i nostri con- cetti e i notri nomi generali, tutte le volte ch»^ pensia- mo o che parliamo, s' riferiscono, in quanto questi con- cet'i e questi nomi sono i segui e i rappresentanti, non delle cose concrete, ma degli attributi di queste cose (1). (j) Il senso immanente di questi termini è abbastanza chiaro negli esempi cne abbiamo citato nelle note, e gii altri che si potrebbero ag g.ungere, per illustrare il loro significato nella lingua filosofica di Platone. Contro alcuno di questi esempi V interprete frascendenfaiisla potrebbe fare l'obbiezione che non vi si parla delle Idee: e sia p-jre ! ma ciò non in- validerebbe la forza dell'argomento, perche se aÙTÓg e gli altri termini e* quivalenti designano, quando non sono impiegati in un senso tecnico, cioè implicante la realizzazione dei concetti, gli attributi delle cose stes- se considerati nella loro generalità e nella loro purezza astratta, essi non possono designare altra cosa, quando il loro senso è tecnico, cioè quando implica questa realizzazione dei concetti. La cosa designata nei due casi deve essere la stessa: salvo che nel primo caso non si pensa, come nel secondo, ad elevare questa cosa, cioè quest'astrazione., al grado di entità reale, sussistente per sé stessa Una prova del signifìcazo immanente dei termini platonici aÙXÓ e xaO'aÒTÓ si ha anche nell' uso che fa Aristotile di questi termini, quando se ne serve, come Platone, per indicare il punto di vista deli' a- strazione, perche e certo che i concetti che essi esprimono in Aristotile non possono rappresentare delle entità trascendenli. V. per ciò De Coe io Come può ridea, che è un^, identificarsi cm gli attri- buti dell^ cose particolari, che sono multiple ? Come può l'uno essere nei moti ? Certamente ciò è difficile a con- cepire; ma lo stesso Platone confes-a che qii' sta è la grande difficoltà del sistema dello Idee (I). I. I. IX. 2, 5, Met.l VJI. X[. 2, I. VII. JII. 4, X. l.S, 1 VI. IV, 3. 1, XI in. 8, ecc. È sovratutto notevole ii primo dei luoghi citati, in cui distingue la forma stessa per se slessa (aOxT^ xaO'aOiT^v) e questa forma mesco- lata con la materia: p. o. la forma (genei-ale e astratta) del circolo e un circolo pinicolare, quella della sfera e una sfera particolare, quella del cielo (che potrebbe ritrovarsi in una moltitudine «li cieli possibili) e que- st'unico cielo reale che noi osserviamo (La stessa distinzione un po' più innanzi^l. I. IX. 5— <> espressa con le parole: il cielo staso — aOxo) oOpav^ — e questo cielo). In altri casi Aristotile usa questi termini in un senso identico quasi assolutamente al platonico (cioè indicante, oltre aUastrazione, anche la sostanzialità): è quando essi gli servono ad esprimere dei concetti di altri filosofi che, come Platone, hanno realizzato dello astrazioni; ed anche in questi casi il significato immanente « indubitabile, perchè i filosoli di cui si tratta hanno incontestabilmente considerato !e loro astrazioni rea- lizzate come inerenti alle cose, e non come delle etitilà trascendenli. Cosi vengono chiamati aOxó l'Uno, il Finito e 1' Infinito dei Pitagorici (v. P/i!/s I. IH. V. 1-4 — cfr. Mei. I. XI. X. 2-6—, Met, 1. I, V. 13, I. Ili, I^' 22— cfr. 25—, 1. X. Il 1), dicendo che questi filosofi consideravano queste astrazioni, non come s<nnplici attributi degli esseri concreti, ma come realtà sostanziali (in F/u/s. 1. I. Vili. 2 aÙTÓ viene anche applicato al l'Essere degli Kleati. perchè anclie questo era in un certo modo la realiz- zazione del concetto astratto dell'essere): e l'Infinito degii stessi Pitagorici viene anche detto, per questa ragione, xaG'aOTÓ (V. Phys 1. II; ; / 2>, confermando la nostra osservazione antecedente che la determinazione della sostanzialità espressa da questo termine non porta come conseguenza quella della trascendenza. (1) Ad aOió, xaB'aOxó, 6 san corrispondono gli epiteti, dati alle Idee, di xaBapÓV (pure; v. Fedone 67 a-b, 79 d, 83 e, Conv. 211 e), slXtxptVSC (schietto — V. Fedone 66 a, 67 a-h, Conv. 211 e)» òcjiixxov t •< — 17 — Prima dì passare a un altro ordine di prove, segna- lerò una formula di cui Platone si serve per indicare bre- vemente la sua dottrina : il bello ( o il bello stesso o il bello stesso pei* se stesso) è qualche cosa, il buono, il giusto e ciascuna specie degli esseri è qualche cosa (1); vuol dire : si deve ammettere un' Idea del bello, del bene, della giustizia e di ogni altro attributo generale dcll-r cose. La predicazione è qualche cosa attribuisce al bello, al buono, al giusto, ecc., in astratto, la realtà, affer- ma che essi non sono puri nomi né semplici concetti, ma entità reali aventi ciascuna un' esistenza propria e distinta. Ora m queste proposizioni : f il bello, il buono, ecc. è (jualche cosa », questi astratti, di cui Platone af- feroia la sussistenza reale, sono, per lui, delle entità im- manenM o trascendenti ? sono gli attributi delle cose ndl*' cose stesse, o gli esemplari di questi attributi posti fuori delle cose V È una semplice quistione grammaticale. E evidente che la proposizione : «il bello, o il buono, ecc. (immisto — V. Conc, 211 e, FU. 59 o), jiOVOSlSé? (uniforme— v. Be- (fune 78 d, 80 b, 83 e, Conv. 211 b, e), eoe. : questi termini signifi- cano, come quelli, che noi dobbiamo rappresentarci l'Idea por un concetto rigorosamente astratto, isolando ciascun attributo gene- rale delle cose da tutte le circostanze concomitanti, non perchè esi- sta realmente isolato da esse, ma perchè, concepito astrazion facendo da esse, ha tuttavia una realtà propria, un'esistenza distinta e in- dipendente. (1) P. e. nel Fedone 66 d. " Diciamo che il giusto è qualche cosa o niente ? — Qualche cosa, per dio ! — E il bello, e il buono, sono qualche cosa? — E come no?— Hai visto mai alcuna di queste co- se ?- Giammai, disse -O forse l'hai percepito per qualche altro dei sensi corporei? io parlo di tutte, della grandezza, della sanità, della robustezza, e in una parola dell'essenza di tutte le coso, vale adiro di ciò che è ciascuna cosa. „ V. anche Fedone 74 a-b, 100 b, 102 b, Crat 431) o, Ippia uiami. 287 Q-d, Protag. 330 b, d, Rep, 476 o-d, 480, ecc. 6 qualche cosa » è un;i proposizione, non verbale e ana- litica, ma reale e sintetica, vale a dir^, in cui la nota, espressa dall'attributo, non era contenuta nel concetto del soggetto, ma gli è aggiunta nell' atto stesso che viene attribuita al soggetto. L' essere qualche cosa, cioè la realtà, la sussistenza per sé stesso, è dunque una nota che non è compresa nel significato del soggetto il bello, il buono, ecc.; il bello, il buono, ecc., quale semplice sog' getto della proposizione, designa semplicemente V astratto, ma noa ancora 1' astratto sostantificaio; la determinazione della sostanzialità è aggiunta posteiiormente air enun- ciazione del soggetto. Ma se il bello, il buono, ecc., come semplice soggetto della proposizione, non desi-na V a- stratto sostantificato, cioè r Idea platonica, cosa de- signerà? non altro che lo stesso astratto che nel lin- guaggio comune è significato dalle parole il bello, il buono, ecc. ( dacché queste parole non possono qui essere com- prese nel senso tecnico, qualunque esso .sia, particolare alla dottrina delle Idee) ; vale a dire V attributo della beltà, della bontà, ecc. nelle cose stesse, c( nsiderato d'una maniera, non solo astratta, ma «nchc generale. Per conseguenza é a questa beltà, bontà, ecc, che sono nelle cose, considerate d' una maniera astratta e ge- nerale, che, nelle proposizioni di cui parliamo, viene attribuita la sussistenza per se stesse ; e le Idee plato- niche sono gli attributi generali delle cose, sostantificati, ma nelle cose stesse, e non degli attributi simili o eguali, fuori delle cose, quali sarebbero neir interpretazio- •• tra- scendentalista (1). (1) Nel Timeo la quistione tra il realismo e il nominalismo, con- tenuta nella domanda della nota precedente, è posta in termini, per noi moderni, più netti. « Il fuoco stesso in se stesso, domanda \ • IV II - !; ■■ « il III. fcj come già accennammo, un principio platoniche il concetto e la conoscenza generale si riferiscono air Idea. Ciò risulta in primo luogo dalle prove per cui Platone dimostra resistenza delle Idee, di cui la più al- parte non sono che delle applicazioni di questo principio. Tali sono le seguenti : Il concetto si riferisce vìWukìo nei molti, a qualche cosa che si predica di tutti i singolari come uno e lo stesso in tutti, senza identificarsi con alcuno di essi : ma ciò a cui si riferisce il concetto è; vi hanno dunque, oltre ì singolari, le Idee - Il concetto non si riferisce alle cose particolari, perchè queste periscono, mentre esso permane e resta sempre lo stesso : vi ha dun- que, oltre le cose particolari e peribili, (gualche cosa che permane e resta sempre la stessa, e a cui il concetto si riferisce ; e V Idea — Non vi ha scienza dei singolari, perchè essi sono infiniti di numero e indeterminati ; la scienza invece non può avere che un oggetto finito e deter- minato; qu'^sto è ridea.-La medicina, la geometria, ecc. Timeo, e tutte le altre cose di cui diciamo ohe sono aOià xaB'a'JTd, hanno veramente un'esistenza reale, o una tale esistenza non con- viene che agli oggetti che vediamo e percepiamo con gli altri sensi, e non vi ha niente oltre di questi, ma vanamente diciamo esservi un slSo^ intelligibile di ciascuna cosa, mentre esso non è ohe una pa- ro\2.UiTiyaeo 51 b-c). È di uno stesso slSo? che qui si domanda se ha una sussistenza reale, come pretende Platone, o se è una parola, come vuole il nominalismo : dunque, l'elSo^, ol^e, secondo il nomi- nalismo, è una parola, essendo nelle cose, cioè l'universale; l'sleo^ platonico, che ha una sussistenza reale, deve essere pure nelle cose, cioè anch'esso l'universale. Se fosse fuori delle cose, l'eleo; che Pla- tone ha di mira, quando dichiara che è un'entità reale, non sarebbe queir slSo? stesso, che il nominalista ha di mira, quando dichiare che è un nome. sono la scienza, non della sanità di questo o dì quello, ma della sanità semplicemente, non di questo o di quel cerchio, di questo o quel commensurabile, ma det cerchio e del commensurabile semplicemente ; vi ha dunque la sanità stessa, il cerch^'o stesso, il commensurabile stesso, ecc.— La scienza non si riferisce ad alcun particolare, ma air universale, a ciò che è uno e lo stesso in tutti 1 par- ticolari : ma ciò a cui si riferisce la scieuza è ; vi ha dunque T Idea. (La prova antecedente è fondata suir a . strattezza della scienza, questa sulla sua universalità) — (1), La dimostrazione suppone che ciò di cui si dimostra è : ma non si dimostra di alcun particolare, ma del r uni- versale, di alcun che di uno e lo stesso che si dice di molte cose; la dimostrazione suppone dunque che vi hanno nelle cose (Guapxetv èv zoX^ orni Arìst. An. Post. l.I. XXIV. 3) delle nature universali a cui essa si riferisce (2). Non insistiamo sull'espressione aristotelica nizd^yjòi^ iv Tot^ o'joi (che, se non èia riproduzione esatta d'una formula platonica, è certamente modellata sulle formule platoniche), e nemmeno sulla designazione deiroggetto del concetto — cioè deiridea— come qualche cosa che è una e la stessa in tutti gli oggetti particolari : sono degli esempi di altre prove deir immanenza che esamineremo a suo luogo. Per ora dobbiamo limitarci a questa quistione: i nostri con- cetti e le nostre scienze — cioè le nostre conoscenze ge- nerali — si riferiscono agli attributi generali dello cose nelle cose stesse o a degli attributi simili fuori delle cose? questa sanità, p. e., che è V oggetto della medicina, è la sanità degli uomini e degli animali, o un' altra sanità (1) V. per queste prove Arist. Met. 1. I. IX. (2), l. Ili, IV. (i), ecc., e il commento di Aless. Aprod. (in phil. pr. Arist.) al primo di questi luoghi. (2) V. Arist. Anal. Post. 1. I. XI. (1), 1. I. XXIV. (3,0). ^"^r fuori degli uomini e di ogni altro estere reale? A ciò r interprete trascendentalista risponderà che i nostri con- cetti e le nostre scienze sì riferiscono agli attributi delle cose nelle cose stesse, ma che Platone parla, non dello oggetto a cui si riferiscono effettivamente i concetti umani e le scienze umane in generale, ma dell' oggetto a cui essi devono riferirsi, se si vuol salvare la loro verità, dopo che si è riconosciuto che questa verità non può fondarsi sulla loro relazione con gli oggetti sensibili. Le prove platoniche delle Idee conterrebbero dunque, se- condo questa interpretazione, una teoria della conoscenza, la quale rettificherebbe quest' illusione naturale, per cui gli uomini riferiscono spontaneamente i loro concetti e le loro conoscenze generali agli attributi delle cose nelle cose stessa, e sostituirebbe a quest' oggetto immanente un oggetto trascendente. Ma Platone non dice : i concetti e le conoscenze generali, che gli uomini erroneamente ri- feriscono agli attributi stessi delle cose, essi dovrebbero riferirli invpce agli esemplari di questi attributi fuori dello cose — quali sono le Idee nell'interpretazione trascen- dentalista, — Al contrario, egli suppone che gli oggetti a cui gli uomini riferiscono — e non : a cui dovrebbero riferire — i loro concetti e le loro conoscenze generali, sono le Idee (1) È ciò che noi vediamo, non solo negli ar- (3) Naturalmente Platone non pretende che tutti quelli che hanno una nozione generale sanno che l'oggetto di questa nozione è un'Idea: tutti riferiscono le loro nozioni generali agli attributi generali delle cose, agli astratti, e questi sono Idee; ma solo il filosofo sa che sono Idee, cioè che ciascuno di questi astratti ha un' esistenza propria e distinta; e per ciò della sola conoscenza filosofica è vero di dire, nel senso stretto, che ha per oggetto le Idee. Cosi non vi ha contraddizione tra il principio che ogni nozione generale si riferisce alle Idee, e V opposizione che Platone stabilisce tra l'opinione, che ha per oggetto i fenomeni— anche quando gomenti per V esiste nza delle Idee che ci sono perve- nuti per il tramite di altri autori, ma in una moltitudine di luoghi degli scritti stessi di Platone. Cosi egli dice che i fabbri del letto, della mensa, della spola fanno le loro opere, guardando alle Idee di queste cose, a ciò che é letto, ciò che è mensa, ciò che é spola (Rep: 596 b, Crat. 389 b) ; che il facitore dei nomi impone i nomi, guardando a ciò che è nome (Crat. 389 d); che il geometra si serve di figure visibili come di immagini, ma il suo pen- siero è diretto a quelle di cui queste sono le immagini, al quadrato stesso e alla diagonale stessa, non al quadrato e alla diagonale particolari eh' egli descrive (Rep. 510 c-e); che V aritmetico ragiona sui numeri smessi ^ e non sui numeri aventi corpi visibili e palpabili (cioè: non sulle cose concrete a cui i concetti dei numeri si applicano — Rep. 525 526 a) ; che lo spirito, distinguendo gli at- tributi contrari delle cose (l'uno, il multiplo, il grande, il piccolo, ecc.) che sono confusi nella percezione sensi- bile, e contemplandoli separatamente gli uni dagli altri, si eleva dal sensibile e dal fenomeno all' intelligibile e air essenza (Rep. 523-524). Se si afferma di due cose, essa si riferisce al generale, come p, e nel Fibbo 59 a-b e nel Timeo 69 c-d-e la scien?a, nel senso stretto cioè la dialettica, che sola ha per og- getto le Idee. Fiatone dà le Idee per oggetto alla dialettica, perché que- ste due parti del sistema platonico, la dottrina delle Idee e la dialettica, sono fatte l'una per Taltra, talmente che la realizzazione dei concetti re- sterebbe senza valore e senza scopo, se fosse scompagnata dal metodo dia- lettico. È perciò che alle proposizioni generali del filosofo stesso ^ quando esse non sono il risultato del metodo dialettico, vengono dati per oggetto, non le Idee, ira i fenomeni, come si vede nel luogo citato del Timeo. Il metodo empirico (il quale non può dare per risultato che la semplice opi- idone) studia le coesistenze e sequenze (cronologiche) tra i fenomeni, e perciò ha per oggetto i fenomeni ; il metodo dialettico (che è deduttivo, e dà quindi per risultato la scienza vera) studia le sequenze (logiche-anterio- rità e posteriorità di natura — ) tra le Idee, e perciò ha per oggetto le Idee, -20 - p. e. del moto e dello stato, che tutte e due .sono, Platone ne conclude che si pone per il pensiero una terza entità, r Essere, corno contenente le due prime (Sofista 250 a-b V. pure 243 e). Il principio è espresso poi d'una maniera generale nel Fedro, secondo il quale alcun' anima non può ven're in un corpo umano, se non ha contemplato le Idee, perchè è il proprio deir uomo di comprendere secondo la specie, raccogliendo la moltitudine dei sensi- bili in una unità razionale, ciò che è la reminiscenza delle Idee che l'anima ha contemplato (249 b-c). A questi luoghi, per non moltiplicare inutilìT.ente le citazioni, non ne aggiungerò che un altro: è nella Rep. 486 a, in cui dice che lo spirito del filosofo aspira ad abbracciare Tu- uiverso, a comprendere tutto il divino e Tumano, e ch'egli contempla tutto il tempo e tutto 1' essere, riferendosi a quello che ha detto un poco prima (485 b), cioè che il filosofo studia l'e.^senza che sempre è (le Idee), e tuiia questa essenza. Ciò prova, non solamente che la scienza si riferisce nlle Idee, ma ancora, della manier.^ più di- retta, che la scienza delle Idee è la scienza delle coso stesse. E questo d' altronde un punto su cui troviamo le informazioni più esplicite nello stesso Aristotile, il quale attribuisce ai partigiani delle Ideo il principio che avere la scienza delle cose è avere la scienza delle specie secondo cui le cose si dicono.{M^t. 1. III. III. 4, 1. Ili, VI. 6, ecc.) (1 ). (4) Per indicare il punto di vista (ìel'.a te:>ria delle Idee Platone dice nel Fedone (99 e) ch'egli ha ricorso ai concetti (sl^ TOÒ^ XÓyO'J?), guardando in essi la verità deirli esseri — è T equivalente di ci«) che ci dice Aristotile, cioè che la scienza delle cose é la scienza delle Idee secondo esse si dicono— ; e poi (loo a) oppone quello che guarda gli esseri nei concetti a quello che li guarda n«i fatti-Sono gli stessi esseri clie ven- gono guardati ora nei tatti (nell'esperienza ) ora nei concetti : il mondo intelligibile e il mondo sensibile noi sono che lo stesso m->ndo, guar dato da due punti di vista diti'erenti; ciò che all' intelligenza apparisce come un mondo di entità astratte, non è che quello stesso che ai sensi apparisce come un mondo di cose concrete. Rendiamoci ora un conto esatto della teoria della conoscenza che gl'interpreti trascendentalisti attribui- scono a Piatone, secondo la quale i concetti si riferiscono, non agli attributi stessi delle cose, ma ad altri attributi simili separati dalle cose. Ciò è tanto più importante, che gV interpreti trascendentalisti^ vedendo l'assoluta inu- tilità delle Idee trascendenti per la spiegazione delle cose, danno per iscopo alla dottrina delle Idee, non di spiegare le cose, ma di salvare la realtà della conoscenza. Ve- diamo come la teoria in quistione salva la realtà della conopc nza. I predicati dei giudizi, ci dicono i logici, sono in generale delle nozioni astratte, dei concetti; i sog- getti possono essere sia dei concetti sia delle rappresenta- zioni concrete e particolari. Il giudizio afferma che al genere o air individuo, a cui si riferisce il concetto o la rappre«:entazione particolare che fa da soggetto, inerisce V attributo a cui si riferisce il concetto che fa da predi- cato. L' interprete trascendentalisti di Platone aggiunge che, secondo Platone, gli attributi, a cui si riferiscono 1 concetti che fanno da predicati — cioè le Idee — non ineriscono nelle cose, a cui si riferiscono le rappresenta- zioni particolari che fanno da soggetti. Di più, siccome gli argomenti che provano V immanenza delle Idee nelle cose sono quegli stessi che provano l' immanenza delle Idee più generali nelle Idee più particolari, e gli argo- menti chn secondo V interprete trascendentalista prove- rebbero la separazione delle Idee dalle cose, proverebbero pure la separazione delle Idee più generali dalle Idee più partidolari ; cìsl egli aggiunge ancora che gli Attri- buti, a cui si riferiscono i concetti che fanno da predi- cati, non ineriscono nei Generi a cui si riferiscono i con- cetti che fanno da soggetti. Uomo non inerisce 9^ Socrate, Animale non inerisce ad Uomo. Ma se è cosi, come pos- siamo affermare che Socrate è uomo, che V uomo è ani- » ' i male ? La conseguenza della teoria che gì' interpreti ti^a- scendentalisfi attribuiscono a Platone — ciò è tanto evi- dente che alcuni di questi interpreti lo hanno apertamente riconosciuto (1) — è il paradosso di quegli eristici (2) di cui Platone si ride nel Sofista, e contro cui 0 diretto ciò che si dice in questo dialogo della comunione o me- scolanza dei Generi — i quali permettono che il buono Pia buono e 1' uomo sia uomo, ma non soffrono che si dica di un uomo che è buono. Lo stesso giudizio anali- tico, che né Hume credette possibile di attaccare, né Kant necessario di giustificare, sarebbe impossibile secondo Platone interpretato dagP interpreti trascendentalisti, (^ non ci resterebbero che le proposizioni puramente iden- tiche, cioè tautologiche. IV. La definizione secondo Platone si riferisce all'Idea, e solamente all'Idea. Questa dottrina non solo è implicita- mente contenuta nel principio che il concetto e la cono- scenza generale si riferiscono all'Idea, e in quello che la dialettica — di cui la definizione è un elemento essen- ziale — versa nelle Idee, ma è espressamente attribuita a Platone da Aristotile, che la dà anzi come il fon- damento del sistema delle Idee (3). Noi dobbiamo dunque ammettere che quando un dialogo platonico ha per oggetto la ricerca della de- finizione, quest-^ definizioni che Platone cerca, o che egli dà, sia comn definitive sia come semplici ten- tativi, si riferiscono alle Idre: in ofTetto, lo scopo di Platone in questi dialoghi é di illustrare con esempi la teoria della definizione, e sarebbe inconcepibile che in (1) V. p. e. Tosco Ricerche platoniche p. 35.(2) I Megarici, e secondo ropinioiic di alcuni storici—che io riten^'o erronea— anche i Cinici. (3) V. Met. 1. I. VI 1-2, 1. Xni. IV. 2-4. questi esempi egli si mettesse ih contraddizione con uno dei prlncipii fondamentali della teoria di cui essi devono fare l'applicazione. D'altronde, che l'oggetto della definizione sia r Idea, é quello che Platone dichiara esplicitamente in molti di questi dialoghi. Cosi nell'Eutifrone Socrate do- manda al suo interlocutore: cosa è il santo che é lo stesso in tutte le azioni sante (5c-d), e lo prega di spiegargli, non uno 0 due dei molti santi, ma queir aùxò xò sl6o^, queir còsa unica, per cui tutte le cose sante sono sante, aftinché po.^sa servirsene come di un paradigma nell' applica- zione del nome: santo (6 d-e). Nell'Ippia maggiore co- mincia per istabilire che tutte le cose belle sono belle per il bello, e questo è qualche cosa (287 c-d)— noi sappiamo il significato di questa formula platonica), e domanda al sofista: che è questo bello? che é il bello stesso, di cui tutti gli altri belli sono adorni; che quando è presente b. una cosa qualunque, pietra, legno, uomo, dio, ecc., a questa appartiene di esser bella V (289 d, 292d.294 a, e, ecc. —la presenza (TtapouoCa) é uno dei termini soliti di cui Platone si serve per indicare il rapporto dell'Idea con le cose). Nrl Menone la virtù, di cui si cerca ciò che essa sia, é l'sl^oc che hanno lo stesso tutte le virtù (72 e), la virtù che é una e non molte (72 a, 74 a, 77 a), l'uno in tutti (73 d), la virtù che è una e la stessa in tutte le virtù e in tutti i virtuosi (73 a, e, d, 74 a, b), ciò che corrisponde propriamente a questo nome: virtù (74 de) — tutte que- ste designazioni, per cui Platone suole indicare le Idee, provano chiaramente la loro immanenza, ma noi suppor- remo per ora ch'esse potrebbero convenire indiflerente- mente tanto alle Idee immanenti quanto alle trascendenti; lo stesso vale per la presenza dell'Ippia maggiore—; e per giustificare la possibilità della ricerca contro Tobbiezfone di Menone che sopprime ogni conoscenza^ s' invoca la dottrina che la conoscenza é una reminiscenza (81 e seg.)^ - 22 - -s ciò che suppone che la virtù, che si vuol conoscere, è quella stessa virtù, che T anima ha intuito^ vale a dire l'Idea della virtù. Nel Politico, si avverte che le dieresi, che devono condurre alla scovorta dell'arte politica e del politico, hanno per og^getto le Idee (262 b, 286 a), e nel Solista si dice che l'oggetto della ricerca ò Tldea del sofista (235 d). Ma, da un altro lato, è incontestabile che le definizioni di Platone si riferiscono alle cose stesse. Così nel Sofista, in cui si cerca la definizione del Sofista e dell'arte sofi- stica, questo sofista, di cui si vuol conoscere ciò ch'egli è, è quello stesso che successivanìente apparisce: come un cacciatore mercenario di uomini giovani e ricchi, co- me un mercante di conoscenze che si riferiscono all'ani- ma, come un rivenditore in dettaglio di queste conoscenze, come un venditore di prima mano delle stesse, come un atleta nella lotta di parole, il quale si arroga l'arte eri- stica, come un purgatore dell' anima dalle opinioni che le impediscono l'acquisto della scienza (231 de), ma so- vratutto come contraddittore e maestro agli altri di que- sto stesso (232 b) ; che ha una scienza appaiente, ma non vera (233 c;; che, quando noi affeimiamo ch'egli ha un'ar- te fantastica, e lo chiamiamo un facitore di simulacri, ci domanderà cosa sia un simulacro, e s°t noi gli risponde- remo citandogli le immagini degli specchi, dell'acqua ecc., si riderà di noi che gli parliamo come ad un uomo che vede, fingendo di tìon aver visto mai ne specchi nò ac- qua e di non sapere nemmei^o che cosa sia la vista (239 d-e), e infine ci costringerà a confessare che ciò che non è, in un certo modo é (240 e) ; che nega che si dia il falso, poiché ciò che non è non può partecipare all'es- sei^, e, dopo che si è visto che partecipa all'essere, forse dirà che alcune specie partecipano del non essere e altre no, e l'opinione e il discorso sono di quelle che non ne partecipano r260 c-d); ecc. E l'arte sofistica è quella che ha questo stesso 8( fista (221 d, 239 e, 240 e, d ecc;) l'arte che fa protVssioiìe di disputare in grazia della virtù ed esige danaro per mercede (223 a) ; la caccia ai gio- vani ricchi e nobili (223 b) ; l'arte per cui si possono in- cantare con discorsi i giovani e ancora lontani dalla ve- rità, mostrando loro delle immagini, in parole, di tutte cose, in modo da far loro credere che si dice la verità e si è il più sa p ente di tutti gli uomini in tutte le cose (234 e); un'arte n.enzognera da cui la nostia anima è tratta ad opinare il falso (240 d); ecc. Nel Politico, la scienza regale o politica, di cui si ricerca ciò che es?a è, è una scienza che non può trovarsi nella moltitudine né dei ric- chi nò di tutto il popolo, ma in uno o due o pochissimi, che si devono chiamare re, s'a ch'essi comandino o che vivano da privati, che comandino ai volenti o ai no- lenti, con leggi scritte o senza, ecc. (259 a-c, 292 d — 293 e, 297 b — e, 300 e) ; questa scienza non comporrà di buon grado lo stato di buoni e di cattivi, ma quelli che possono formarsi ai costumi saggi li rimett rà a persone capaci di educarli, essa dando degli ordini e presiedendo a tutto, gli altri li condannerà alla morte o all'esilio, o li .-ottometterà alla schiavitù, e tra i buoni naturali pren- derà i caratteii forti, simili ai fili dell'ordito, e i mode- rati, simili a quelli del ripieno, e li intreccerà gli uni con gli altri, t( rmandone il più bello di tutti i tessuti (308 d — 309 b, 311 e); ecc. E il politico che si tratta di definire è quello d e ha questa scienza (266 e, 276 e, ecc.); a cui bisogna consegnare le redini dello stato (266 e) ; che ha cura del gregge umano come un pastore (275 b); ecc. Il bello deirippia maggiore è quel bello che è bello per tutte le cose e in tutte le circostanze (idi e — 293 e), e Socrate propone di definirlo: ciò che ha la potenza di produrre qualche bene ( 296 d — 297 d) ; e : ciò che ci reca ■j. i «■■ f — 23 diletto mediante il senso della vfsta o deir udito (297 e e seggo. NeirEutifrone, Eutifrone risponde alla domanda di Socrate, che il santo è ciò che è aggredevole agli dei (6 e), e Socrate dice (7 a) che infine ha risposto com'egli desiderava (vale a dire che questa risposta definisce, bene o male, il santo stesso, la specie); e inseguito si propon- gono queste altre definizioni : il santo è la parte del giu- sto che ha per oggetto la cura degli dei (12 e) ; é la scienza delle domande e dei doni che bisogna fare agii dei (14 c-d). Nel Menone, la virtù, di cui si domanda ciò che essa sia, é la stessa virtù, di cui si domanda come essa soprav- venga agli nomini, se possa insegnarsi o no (71 ab, 86 c-d, 87 b, 100 b, ecc.); e si propongono queste definizioni : la virtù é il saper comandare agli uomini (73 d),; è il desiderare le belle cose e potersele procurare (77 b). Nello stesso dialogo Socrate, per dare dei modelli d'uoa definizione secondo la sua intenzione, deOnisce la figura : in ogni figura dico essere figura ciò in cui termfna il solido (76 a ); e il colore : un flusso di figure proporzio- nata alla vista e sensibile (77 b.) Evidentemente, questo colore, questa figura, questa virtù, questo santo, questo bello, questo politico e arte politica, questo sofista e arte sofistica, di cui si ricerca ciò che ciascona di que- ste cose è, sono le cose stesse che tutti chiamiamo con questi nomi, e non ddlle entità trascendenti: e lo stesso deve dirsi della giustizia della Repubblica (v. 1. 1, 1. 11 357-368, 1. IV 427 d e segg.), della scienza del Teeteto, della fortezza del Protagora e del Laches, deiramico del Lisis, della temperanza del Carmide, e in una parola di tutto ciò di cui Platone dà o cerca la dednizione in tutti i dialoghi che hanno per oggetto questa ricerca. Ma se le definizioni platoniche non si applicano che alle cose stesse, come può Platone aff*ermare ch'esse si riferiscono alle Idee, e solamente alle Idee? Nell'ipotesi della trascendenza delle Idee, ciò sarebbe incomprensibile; ma nell'ipotesi delT immanenza, si comprende perfetta- mente. Piatone sostiene che la definizione ha per oggetto l'Idea, e Tldea sola, perchè quello che si definisce, quello di cui si vuol sapere ciò che esso è, non è T individuo — l'individuo, considerato nella sua individualità, è indefi-* nibile, e ad ogni modo egli non è quello stesso che dice la definizione comune; Tizio ha, ma non è, questo gruppo di attributi che costituisce la nozione dell'uomo, la sua definizione; per dire ciò che egli è, bisognerebbe ag- giungere agli attributi di uomo le particolarità individuali che gli sono proprie—; quello che si definisce, quello di cui si vuol sapere ciò che esso è, è l'essenza comune de- gli individui, l'oggetto della nozione generale, e questo è, secondo Platone, l'Idea. K perchè quest'essenza, che è l'oggetto della definizione, è l'essenza comune degl'indi- vidui, e non si trova altrove che negl'individui stessi, che la definizione si applica alle cose; ma indirettamente, e in quanto, e solamente in quanto, queste partecipano alle Idee, vale a dire, in queanto si considera in esse, non l'elemento indivuale, ma l'elemento comune; Tizio si de finisce, non corno Tizio, ma come uomo; Protagora non come Protagora, ma come sofista. Quando poi la defi- nizione si applica, non a questo o quell'individuo, ma a tutti gl'individui della classe, p. e. a tutti gli uomini, a tutti i sofisti ; allora, per il fatto stesso che si emette una proposizione generale, l'elemento individuale sparisce, e non resta che l'elemento comune, quello a cui si applica direttamente la definizione, l'Idea; perchè, secondo Pla- tone la conoscenza generale si riferisce all'Idea. Per con- seguenza, cercare o dare la definizione degli uomini o dei sofisti, non è altra cosa che ccicare o dare la defini- zione dell'Idea dell'uomo o di (|uella del sofista; dire ciò che è l'uomo o il sofista considerato in generale, è dire — 24 — ciò che è l'Idea dell'uomo o quella del sofista; perchè l'uomo e il sofista, considerati in generale, non sono altra cosa che l'Idea dell'uomo e l'Idea del sofista. In verità, noi potremmo, per la stessa ragiono, rìgu'ir- dare tutte le proposizioni generali che si trovano negli * scritti platonici, qualunque sia il loro contenuto, come altrettante prove dell'immanenza delle Idee, perchè, da una parte, è evid»*nte che queste proposizioni si riferi- scono allo cose, e d'altra parte, secondo i principii pla- tonici, ogni nozione generale non può avere per ogget o che l'Idea. Ma io non ho creduto potermi avvalere di questo genere di provo, perchè non è rara nei filosofi una contraddizione tra la teoria e la prat ca : ma una tale con- traddizione sarebbe inammissibile, quando questa pratica è precisamente un esempio destinato a mettere in azione la teoria. Cosi noi non cercheremo un'altra prova analoga del- rimmanenza che nelle dieresi platoniche. La dieresi è la divisione del genere nelle sue specie; essa prende per punto di partenza uno dei generi più vasti, lo divide nei ge- neri immediatamente inferiori cioè meno est si, qursti in quelli ancora immediatamente inferiori, e co?l di Feguif^, sinché si trovino le specie infimo, che souo quelle di cui si cerca la definizione. Tutta la dialettica platonica sta nella dieresi: la definizione stessa vi è compresa, per che non ne è che il termine e il risultato. 11 metodo della dieresi è praticato nel Sofista e nel Politico, e lo dieresi di questi due dialoghi hanno appunto per iscopo, come ci avverte lo stesso Platone (1\ di dare degli esempi di questo metodo, che, come abbiamo detto, non è che la dialettica stessa. Noi dobbiamo ammettere, per conse- guenza che le dieresi del Sofista e del Politico si appli- cano alle Idee cioè che i generi divisi e le specie in cui si dividono sono delle Idee, perchè è l'Idea che è p^oggetto proprio ed unico della dialettica (1). E quello el resto che Platone dice espressamente nei luoghi di questi due dialoghi superiormente citati a proposito della definizione (come anche in uno dei luoghi del Politico che riporteremo tra poco). Intanto è evidente che le dieresi del Sofista e del Politico si riferiscono alle cose stesse, e non ad entità iperfisiche. Non per provarlo— perchè ciò non ha bisogno di essere provato— ma perchè il pensiero possa fissarsi su qualche cosa di concreto, e non si resti nel vago dell'astrazione, io darò qualche esempio. Ecco dunque la prima dieresi del Sofista ; L Osp. Eleate. Delle arti, si può dire, tutto, vi hanno due specie. Teb- TBTO : Quali? L'Osp. El.: L'rgrlcoltura, e ogni lavoro relativo a qualsiasi corpo corruttibile, e quello relativo a ogni oggetto fabbricato che noi chiamiamo suppellettile, e Tarte imitativa, lutto ciò potrebbe a buon dritto chia- marsi con un sol nome— Teet.: Cerno, e conqualnome? L'Osp. El.: Per tutto ciò che prima ugnerà e poi viene (1) Folit. 285 e— 28/ a. (l) Per la dottrina che le Idee sono l'oggetto, e l'oggetto unico, della dialettica, V. FU. 58-59, Kep. 476-480, 509-511, 532-534 Parmen 135 b-d, lini, 5J b-52 a. Fedone 99 d-loo a. Sof, 253 b-254 b, ecc. Per l'identità della dialettica e della dieresi v, oltre l'ultimo dei primi indicati, ciò che ne abbiamo detto nel cap. 7. - Aristotile dà come motivo della dottrina delle Idee, non solo la proposizione chela delìnizione non può a ere per loggetto che le Idee (e non le cose), ma anche quella più generale che a dialettica (cioè tanto la definizione quanto la dieresi) non può avere che quest'oggetto, V. Mct. 1. I, VI, 5 e il commento d'Aless. d'Afrod. a que- sto Inogo— Del resto, che le dieresi di Platone si riferiscono alle Idee, é provato abbastanza dalle prove stesse che dimostrano che le sue defini- zioni si riferiscono alle Idee ; poiché ciò a cui si applica la definizione non sono che le sezioni ultime, gl'indivisibili a cui arriva la dieresi. - 25 - portato airesistenza, noi diciamo di quello che lo porta all'esistenza, che fa, e di quello che vi è portato, che è fatto. Teet.: Giustamente—L'Osp. El.: È questo l'og- getto della potenza ch'i hanno tutte le arti che abbiamo enumerate— Teet : Si, è questo— L'Osp. El. : Noi le chia- meremo dunque in generale l'arte dì fare— Teet : Sia L'Osp. El: Poi, ogni specie di disciplina e di scienza, e il negozio e la lotta e la caccia, siccome non producono niente, ma, tra le cose che esistono e sono state prodotte, delle une s'impadroniscono per la potenza del discorso e dell'azione, le altre difendono contro quelli che vo- gliono impadronirsene, cosi tutte queste parti potreb- bero riunirsi convenientemente sotto il titolo di arte di acquistare. »— Le due ultime dieresi dello stesso dialogo : «L'Osp. El. : L'imitatore opinante è moltiplice; perchè l'uno è| uno sciocco che crede di sapere le cose che o- pina, ma la specie dell'altro, per la volubilità dei suoi discorsi, dà molto a sospettare e a temere che ignori le cose, che innanzi agli altri si dà l'aria di conoscere — Teet. : Ve ne ha certamente dell'uno e dell'altro genere che hai detto — L'Osp. El. : Chiameremo dunque l'ano imitatore semplice, e l'altro imitatore simulatole ?— Teet.: E con ragione— L'Osp. El.: E il genere del secondo;, diremo unico o doppio ?— Teet. : Vedi tu— L'Osp El : Guardo, e due me ne appariscono: vedo l'uno capace di simulare in pubblico con lunghi discorsi alla moltitu- dine, l'altro in privato, con brevi discorsi, costringendo l'interlocutore a mettersi in contraddizione con se stesso » — La prima dieresi del Politico: « L'Ospiste: Come trovare la via della scienza politica ? (vale a dire : in quale classe di scienze dobbiamo cercare questa scienza V) bisogna scoprirla, e separandola dalle altre, imprimerle un'Idea unica, e le altre direzioni segnando d'un altra Specie unica, far concepire al nostro spirito tutte le scienze come essenti due Specie .......... L'aritme- tica e altre arti consimili non sono scevre da ogni azione, e non esibiscono una semplice conoscenza?— Sociiate il giovane: Cosi è — L' Osp : Ma quelle, che spettano alla fabbricazione e ad ogni altra operazione manuale, possiedono invece una conoscenza che si rapporta na- turalmeate all' azione, e fanno gli oggetti materiali a cui danno 1' esistenza, e che prima non erano — So- crate il giovane: È chiaro — L'Osp.: Cosi dividi dunque tutte le scienze, chiamando l'uua attiva, l'altra semplicemente speculativa— Socrate il giovane : Siano questo le due specie della scienza, una essendo tutta la scienza » (1) — Nello stesso dialogo a 281 d-e : «L'Osp. : « Prima consideriamo due art», che sono circa tutte le cose che SI fanno. Socr. : il giov. : Quali ?— L'Osp. : L'una, con causa della produzione, l'altra la causa stessa— Socr. : il Giov: Come?— L'osp.:Tutte quelle, che non fabbricano la cosa stessa, ma sommin'strano ai fabbr'canti gli strumenti, nella cui assenza ciascuna arie non potrebbe compiere l'opera che le è assegnata, chiaraif mo concause, quelle che fanno la cosa stessa, cause »— E a 305 e, d'stinguendo la politica dalle arti più affini (l'oratoiia, la militare e la giudiziaria): « L'Osp.: Quella poi che presiede a tutte queste, e veglia alle leggi e a tutti gli affari dello stato, e tutte cose rettamente contesse, denotandola sua facoltà (1) Notiamo le parole in corsivo . Socrate risponde cos'i, per mostrare ch'egli ha compreso che la dieresi si riferisce alle Idee^ come l'ospite eleate ha detto al principio del luogo citato. — È per- chè la dieresi si riferisce propriamente all'ano (l'Idea) e non ai molti (le cose), che nel Politico e nel Sofsta i nomi designanti i generi che si tratta di dividere, e le specie in cui vengono divisi (cioè i nomi comuni degli oggetti appartenenti a questi generi e a queste specie), si trovano, di regola, al singolare. - 26 - còl nome comune, chiameremo giustamente, mi sembra, scienza politica. » Io devo avvertire il lettore, che non conoscesse questi due dialoghi— e un'avvertenza analoga avrei potuto fare sulle definizioni — che non è i.i questo o in quel punto isolato, ma è dal principio sino alla fine, che le dieresi del Sofista e del Politvo ci mostrano con la più grande chiarezza che esse si applicano, non ad entità iperfisiche, ma alle cose stesse (1) : ciò è tanto evidente, che nes- sun interprete trascendentalista certamente oserebbe so- stenere che in queste dieresi si tratta delle Idee trascen- dente forse però alcuno dirà che in esse non potrebbe nemmeno trattarsi delle Idee immanenti, perchè anche queste sarebbero al postutto delle entità ultrafenomenali, metaempiriche, mentre è incontestabile che le arti e le scien- ze, di cui si fa la divisione nel Sofista e nel Politico, sono le sc'enze, e le arti fenomeni^ e fenomeni egualmente, cioè oggetti d^lla nostra esperienza, sono gli oggetti su cui versano queste arti e queste scienze, e i soggetti in cui esse risiedono (ai quali si applica pure la divisione). (1) Che le dieresi di Platone si applicano alle cose nel tempo stesso che egli aiferma ohe hanno per oggetto le Idee - e quindi che le Idee per lui si identificano con le cose — non si vede solamente dai dialoghi destinati a mettere in pratica il metodo di divisione, cioè dal Sofista e dal PolilicOy ma anche da quei luoghi degli altri dialoghi, in cui, inculcando la divisione come regola generale di metodo, ne dà qualche esempio particolare; perchè in questi casi, mentre nella regola si parla di una dieresi delle Idee, negli esempi si tratta invece di una dieresi delle cose. E cosi che si fa nel Ft- lébo 14-19, dove si deduce dalla costituzione stessa degli esseri eterni (cioè le Idee), di cui ciascuno è al tempo stesso uno e molti, che bi- sogna in ogni ricerca stabilire un'Idea unica per tutto, e sforzarsi di scoprire il numero d'Idee comprese sotto di quella, e poi quello che è compreso sotto ciascuna di queste, e cosi di seguito, sinché Ma quegli che facesse quest'obbiezione, mostrerebbe ch'egli non sa porsi esattamente al punto di vista del- l'ipotesi dell'immanenza. Le Idee non sono che le cose considerate d'una maniera astratta e generale, e le cose considerate d'una maniera astratta e generale non sono che le Idee. La dieresi avendo per oggetto, non delle cose particolari, ma i generi eie specie delle cose, ha perciò per oggetto le Idee, anche quando Platone non parla esplicitamente che dì una divsione delle cose; perchè secondo Platone, ogni nozione generale direttamente non si riferisce che alle Idee. Come i concetti e i nomi, che sono i segni dei concetti, non si riferiscono direttamente che alle Idee, cioè agli Attributi, e alle cose solo indi- rettamente, in quanto partecipano dogli Attributi; cosi ogni proposizione generale, ch'essa sia una definizione, o una dieresi, o che abbia un altro contenuto qualunque, non ha per oggetto che le I«lee; essa si riferisce pure alle cose, ma indirettamente, in quanto queste possiedono gli Attributi, i cui rapporti, astrattamente considerati, costituiscono il vero significato della proposizione. Ogni proposizione generale é dunque, in certo modo, per Pla- tone, un'espressione a doppio senso : essa significa al tempo stesso le cose e le Idee; questo doppio senso non si scopra tutta la moltitudine compresa nell'unità primitiva ; e si danno come applicazioni di questo metodo la divisione delle lettere che fa la grammatica, e quella dei suoni che fa la musica— le quali certamente non trattano di suoni e di lettere trascendenti —, e si esorta ad applicarlo al piacere e alla saggezza, cioè incontestabil- mente al nostro piacere e alla nostra saggezza, perchè si tratta di quel piacere e di quella saggezza, di cui si ticerca se il bene — que- sto bene la cui possessione deve renderci felici — consista nell'uno o nell'altra - È cosi che si fa pare nel Fedro 265 a -266 b e 270 b- 273 e (cfr. quest'ultimo luogo con 277 b-c). èche il doppio significato dei nomi, la connotazione, che si riferisce all'astratto e al general»», e la denota- zione, che si riferisce al concreto e al particolare. Supponiamo, per chiarire il punto dì visto di Platone, che vi hanno rialmonte, come ammettono la più parte dei filosofi, dei concetti, cioè delle rappresentazioni astratte e generali (1). Quale sarà per un filosofo logico, che ammette la teorica dei concetti, il vero significato di una proposizione generale ? Una proposizione generale è V espressione di un giudizio generale, e un giudizio generale consta d'i- dee generali, di concetti; dunque la proposizione ge- nerale non può riferirsi che a ciò a cui i concetti si riferiscono, cioè agli attributi, agli astratti; direttamente, essa ron può riferirsi alle cose particolari e concrete, perché, quando facciamo il giudizio, non vi hanno nel nostro pensiero le rappresentazioni di queste cose parti- colari e concrete, ma i loro concetti, cioè delle rappre- sentazioni astratte, delle rappresentazioni diattrlbuti.il significato diietlo della proposiziono sarà dunque Taffor- inazione di un rapporto tra attributi : p : e : l'uomo è un animale, significherà propriamente che l'attributo ani- male fa parte del gruppo di attributi uomo (2). Ma (1) Avverto una volta per tutte che quando, per rendere conto deUe idee dei metafisici realisti, parlo delle operazioni del pensiero in termini che implicano la teoria dei concetti, io non intendo fare adesione effetti- vamente a questa teoria. Non intendo decidere se la verità stia in essa o nella teoria contraria che non ammette altre idee che rappresentazioni di cose concrete e particolari. Ma mi attengo alla teoria dei concetti, pri- mo perchè è conformemente a questa teoria che i metafisici di cui si tratta si rappresentano necessariamente le operazioni deli' intelligenza: e poiperchè questa è la dottrina stabilita e la sola, pei conseguenza, che abbia a sua disposizione un linguagjiio già fatto che permette di essere breve e di farsi facilmente comprendere. (2) Cor. Min. Log. Ir 1. o. 5. § 4, e. 6 § 5, Pil. di Hamilton, oap. 18 suUa fÌDe, 22. sul principio, ecc. Siccome il gruppo di attributi uomo non si trova altrove che negl* individui concreti e particolari, cosi la proposizione si riferirà p,ure a questi, ma, come abbiamo detto, non direttamente, perchè non é alcun individuo ne tutti d'individui che noi ci rappresentiamo, affermando che l'uomo é un animale, ma semplicemente l'uomo a- stratto, l'oggetto del concetto. Aggiungiamo ora all'ipotesi concettualista l'ipotesi realista : supponiamo, cioè, che gli oggetti dei concetti, vale a dire gli attributi, gli astratti, abbiano ciascuno un'esistenza propria e distinta, ch'essi siano, parlando il linguaggio di Piatone, delle Idee. Quale sarà il signi- ficato diretto di una proposizione generale ? sarà l'affer- mazione di un rapporto tra Idee. L'uomo è animale, af- fermerà l'inerenza dell'Animale nell Uomo. Ma siccome l'Uomo non si trova altrove che negli uomini, così la proposiziono si riferirà pur.*. agU uomini, cioè agl'indi- vidui concreti e particolari; ma questo secondo signifi- cato sarà indiretto, perchè, affermando che l'uomo è a- nimale, non è quest'uomo né quello, né la totalità degli uomini, che si trova presente al nostro pensiero, ma sem- plicemente l'Uomo, l'astratto. Cosi, che Platone affermi che delle proposizioni, ch'e- gli riferisce evidentemente alle cose— definizioni, dieresi, e in una parola tutte le proposizioni generali— si rife- riscono alle Idee di queste cose, è una conseguenza lo- gica della teoria dei concetti, unita alla realizzazione degli oggetti di questi concetti : ma quest' affermazione implica l'identificazione delle Idee con le cose, cioè con le cose considerate d'una maniere generale ed astratta. Essa sarebbe un'inconcepibilità nell'ipotesi della /rasccn- denza, che sopprime l'identità tra le Idee e le cose, e fa del sensibile e dell'intelligibile, del concreto e dell'astratto, due realtà assolutamente dififerenti e separate Tana dall'altra, e non, come vuole Platone, una sola e stessa realtà vista da due lati differenti. V. L' idea platonica essendo V oggetto del concetto, sostantificato, i caratteri dell'Idea sono i caratteri stessi del concetto, cioè V astrattezza e T universalità. Ora, di questi due caratteri, l' interpretazione trascendentalista ammette il primo, ma nega, in sostanza, il secondo. Dico in sostanza, perchè gì' interpreti trascendentalisti, trasci- nati dalla forza stessa della verità, chiamano, come noi, le Idee platoniche universali ; essi convengono del nome, se non della cosa ; ma è evidente che bisognerebbe can- giare radicalmente il significato di questo nome prima di poterlo applicare convenientemente alle Idee platoni- che quali essi se le rappresentano. Universale vuol dire: ciò che può essere attribuito a tutti gl'individui di una classe, l'attributo comune di tutti questi individui; ma l'Idea, per l'interprete trascendentalista, non è un attri- buto di questi individui, né di tutti né di alcuno, perché l'attributo inerisce nel soggetto, mentre l'Idea, secondo lui, non inerisce nelle cose, ma é fuori di esse. L'inter- prete trascendentalista parlerebbe con più proprietà, se dicesse che le Idee platoniche sono, non gli universali, ma i contenuti dei concetti universali, realizzati; perchè, secondo la sua interpretaziore, le Idee corrispondereb- bero ai concetti nella loro comprensione solamente, ma non nella loro estensione; ora l'universalità si rapporta all' estensione, e non alla comprensione. Sicché la qui- stione sull'immanenza o trascendenza delle Idee sì riduce, al fondo, a questa : l'Idea é sempì crn ente l'astratto o è anche l'universale? Ma per l'abuso che gl'interpreti tra- scendentalisti fanno della parola universale, noi dobbia- mo sostituire a questa parola una perifrasi, e formulare la quistione cosi: l'Idea platonica è o no un attributo comune delle cose, che Platone si rappresenta come uno e lo stesso (nel senso più stretto di queste parole) in tutte le cose che possiedono quest'attributo? il bianco stesso, il bello stesso, l'uomo stesso, é una bianchezza, una bellezza, una umanità fuori degli uomini, degli oggetti belli e degli oggetti belli e in tutti gli oggetti bianchi, o é questa bian- chezza, questa bellezza, quest'umanità che é 1' attributo comune degli uomini, degli oggetti belli e degli oggetti bianchi, ma concepita come qualche cosa che é una e la stessa (e non semplicemente simile o uguale) in tutti gli uomini, in tutti gli oggetti belli e in tutti gli oggetti bianchi? L'universalità— cosi definita— delle Idee platoni- che é sufficientemente dimostrata dalle prove antecedenti; ma vi hanno delle prove ancora più esplicite, che passere- mo in rassegna in questo numero. Tra queste prove io non comprenderò i luoghi numerosi, in cui Aristotile affernia ^esplicitamente o suppone che le Idee platoniche sono uni- versali, ch'esse si predicano universalmente o in comune di tutte le cose (cioè di tutte le cose appartenenti a una classe determinata), che sono i generi degli esseri, ecc., perchè l'interpetretrascendentilista potrebbe dire, e con qualche apparenza di ragione, che Aristotile fa qui del termine universale e dei suoi sinonimi Tuso improprio che abbiamo rimproverato a lui stesso; mi limiterò per conseguenza ai soli testi di Platone, « di Aristotile non aggiungerò che alcuna di quelle indicazioni il cui significato non può lasciar luogo ad alcun dubbio. V II modo in cui Platone mette in antitesi l'Idea e le cose prova che l'Idea è l'univerdale, perché le cose sono opposte ad essa come particolari : p . e : « il fabbro fa, non la Specie del letto, ma qualche letto •> (1) ; ma (1) nep, 597 a. I I ' (■«. 1 B Dio (il Bene) produce « il letto che realmente é, e non qualche letto » (1); « il vero amante della scienza aspira^ all'essere vero, e non si ferma ai molti singolari che sono creduti essere » (2) ; < invece di considerare lo Stesso stesso (cioè l'Idea dello stesso), abbiamo considerato 1 singoli stes:ji (cioè le cose particolari a cui conviene il predicato : stesso) » (3); « bisogna prendere chiaramente o il bene (cioè senz'alcun dubbio, l'Idea del bene), o qualche forma di esso » (4); ecc. Se l'Idea fosse trascen- dente^ mancherebbe la ragione dell'antitesi; al particolare deve corrispondere il suo opposto, il generale. 2^ Astrarre, generalizzare, è, secondo Platone, riunire il multiplo nell'uno, cioè le cose nell'Idea, ole Idee spe- cifiche nell'Idea generica. Cosi nel Sofista 253 d dice che il dialettico o vede acutamente un' Idea unica sparsa per una moltitudine di coso, separate le une dalle altre, e molte Idee distinte contenute sotto un' Idea unica, e un'Idea unica per molti tutti (cioè sparsa per molte spe- cie) in uno raccolta » (df oXwv tioXXwv èv évi g'jvY]|i|xésvYjv); nel Fedro 265 d, che « bisogna ricondurre ciò che è qua e là disperso, guardandolo con una veduta d'insieme, ad un'Idea unica », e chiama questa riconduzione delle cose all'Idea, o delle Idea più particolari a un'idea più gene- rale, una riunione (ouvaYwvxri 266 b); nello stesso dialogo, 273 e, rifiuta la perizia nell'arte del dire a chi non è capace di « dividere gli cs-cri per ispecie e di nuovo comprendere i singoli in un'Idea unica »; nel PoZt7 285 b, raccomanda di « racchiudere tutto ciò che è atfine den- tro una somiglianza unica (l) e rivestirlo dell' essenza d'un certo genere »; nel Filébo Socrate si sforza di « guar- dare prima il finito e l'infinito ciascuno diviso in molti e disperso, e poi di riunire (ouvcxyslv) nuovamente in uno, per vedere come l'uno e l'altro è al tempo stesso uno e molti » (2) ; ecc. Tutte queste espressioni potrebbero anche essere impiegate da un concettualista o da un no- minalista—ma è ciò precisamente che prova l'immanenza delle idee platoniche — : in quelli, non sarebbero che de'lc metafore un po' ardite, in Platone devono pren- dersi il più letteralmente possibile; l'unità, in cui si rac- chiudo, o a cui si riduce, il multiplo, non è, per quelli, ch^> un'unità mentale, trasportata, per metafora, nelle cose, ma per Platine è un'unità reale; unificare, iden- tificare, per quelli non è che «ssimilare, per Platone si tratta d' ura unificazione e d' una identificazione nel spnso più stretto di queste parole. Sui luoghi citati e gli altri che si potrebbero aggiurgere, si deve osservare ch'eFsi possono dividersi in due categorie : in tutti vi ha il concetto dell'unificazione del multiplo; ma in alcuni quest'unificazione è il riconoscere chej'attributo comune che é in molte cose (p. e. il bianco che è in questa carta, quello che è nella parete, quello che è in questo libro, ecc.) è un'entità unica, e non tante entità quante vi hanno cose che possiedono l'attributo; negli altri ciò che si tratta di unificare sono le cose stesse (o le Idee) che possiedono l'attributo comune, o, più propriamente, gli at- tributi omonimi, e non semplicemente questi attributi (1) 597 d. (2) 490 a-b. (3) Alcib. 1. 130 d. (4) Filebo 61 a. (1) Per somiglianza (ójloCoxYJs) bisogna intendere non la rela- zione tra gli Oggetti simili, ma il fondamento di questa relazione, il carattere loro- comune par cui ossi sono chiamati simili. (2) 23 e. - 30 - omonimi; vale a dire non sì dice semplicemente che l'u- manità che è in me, in voi, in quello, ecc. è un'umanità unica, che l'animale che è nell'uomo, nel cavallo, nel bue è un'Animalità unica, ma ancora che tutti gli uo- mini diventano uno neirUomo, tatti gli animali uno nel- l'Animale, ecc. (1). Questi duo aspetti della riduzione del multiplo neir uno si vedranno più chiaramente nei due numeri seguenti. 3^ La risoluzione degli attributi omonimi di tutte le cose in un' entità unica è espressa da Platone sotto due forme un po' differenti, ma equivalenti disignifìcato. A. Uno è il bello, uno il buono, uno il grande, uno è, in una parola, tutto ciò che è connotato da ciascun nome generale, e questo bello, questo buono, questo grande, ecc. è Tldea del bello, del buono, del grande, ecc. Cosi nella Rep, 475 e— 476 a : « Poiché il bello è il contrario del brutto, questi sono due; ed essendo due, ciascuno è uno. E lo stesso deve dirsi del giusto t (I) Un'altra distinzione ohe si potrebbe fare è dei luoghi che si riferiscono al rapporto tra l'Idea e le cose e quelli che si riferiscono al rapporto tra l'Idea generica e le Idee specifiche. Non ho cre- duto necessario di fare questa distinzione, sia perchè nella più parte dei casi Platone ha di mira tanto la unificazione del multiplo reale nell'Idea, quanto quello del multiplo ideale in un' Idea superiore; sia perchè un'interpretazione coerente del sistema delle Idee deve ammettere tra le Specie e le cose lo stesso rapporto, o d'immanenza o di trascendenza, che tra i Generi e la Specie (v. num. VII). La stessa osservazione vale per il num. 4. Come genelizzare è per Platone astrarre l'Idea comune a molte cose, che è riguardata come una e la stessa in tutte ; cosi ragionare per ana'ogia è per lui trasferire la stessa Idea, già costatata e deter- minata nell'oggetto da cui si tira l'analogia, nell'altro oggetto la cui natura si vuole rischiarare per quest'analogia. V. Polii, 278 e, Rep, 434 d. i e dell'ingiusto, del bene e del male e di tutti gli et^Y]: ciascuno é uno esso stesso, ma per la xotvoovCa (cioè la partecipazione ad esso) delle azioni e dei corpi e la reciproca (la partecipazione degli slSr] gli uni agli altri), da per tutto apparendo, ciascuno pare molti ». E a 479 a : « Che ci risponda dunque questo buon uomo, che non crede al bello stesso^ né ammétte che vi sia alcuna Idea del bello sempre la stessa, ma crede molti i belli ; que- st'amatore di spettacoli che non acccrderà mai che uno è il bello, uno il giusto, e cosi ogni altra cosa». E a 493 e : « Il volgo crederà mai o soffrirà che si dica che vi ha il bello stesso, ma non molti belli, e qualsiasi stesso (cioè il bene stesso, il giusto stesso, il grande stesso), e non molti qualsiansi (cioè molti beni, molti giusti, molti grandi, ecc.)?» Se le Idee del bene, del bello, del giu- sto, ecc. fossero trascendenti, come potrebbe dire Pla- tone che vi ha un solo bene, un solo bello, un solo giu- sto, ecc. ? In questo caso vi sarebbero altrettanti beni, belli, giusti, ecc., quante vi hanno cose che possiedono que- sti attributi, più il bene stosso, il bello stesso, il giusto bteFso, ecc. E a questa prima forma con cui viene espressa Tunificazfone degli attributi omonimi delle cose, che noi possiamo rapportare pure una delle prove, riferita da Alessandro d'Afrodisia (1), per cui si dimostrava resi- stenza delle Idee : Ciò che noi affermiamo come vero è; ma noi affeiniiamo come vero che vi hanno cinque con- centi, tre armonie, ecc.: dunque ciascuno di questi con- centi é realmente uno, ciascuna di queste armonie è real- mente una, ecc., e vi hanno le Idee di questi concenti, di queste armonie, ecc. Alessandro d'Afrodij^ia presenta (1) In phil. pr, Arut, 1. 1. o. 9. testo 62. — 31 - -'^^ quest'argomento un po' diversanìentc, ma che Platone lo presentasse press'a poco nella forma che abbiamo det- to, è anche confermato dal cominciamcnto del primo dei luoghi citati (1), che ne è una variante, o piuttosto una applicazione particolare. B. La grandezza che è in tutti gli oggetti grandi, la bellezza che è in tutti gli oggetti belli, è una sola e stessa grandezza, una sola e stessa bellezza, ecc., e questa gran- dezza, questa bellezza ecc., una e la stessa in tutti, è la Ide(k" della grandezza, della bellezza, ecc. Cosi nel Par- menide 132 a : « Io penso, dice a Socrate il filosofo oleate, che tu credi che ciascuna Specie è una, per questo : quan- do molte co^e ti semb-ano grandi, forse, cootemplandole, una certa Idea unica la stessa ti sembra essere in tutte, e perciò ammetti che la grandezza è una ». E poco dopo, quando Socrate, confuso dalle obbiezioni del vecchio fi- losofo, batte in ritirata, e passando dal realismo al con- cettualismo, dice che, « forse ciascuna specie è una no- zione, e non esiste altrove che nelle nostre anime », Par- menide, che in questo dialogo è il vero rappresentante della teoria delle Idee, gli domanda : « Ma che ? Ciascuna di queste nozioni, che è una, è la nozione di niente ? — Socrate : Ciò è impossibile — Parmenide : E dunque la nozione di qualche cosa ? — SocR. : Si — Parm. : Di qual- che cosa cosa esistente o non esistente ? — Socr. : Esi- stente — Parm. : Non è di qualche cosa di uno, che que- sta nozione concepisce come presente in tutti gli oggetti, ed essente una certa forma unica ? — Socr. : Si — Parm. : E non sarà un'Idea questa cosa che si concepisce essere una, essendo sempre la stessa in tutti gli oggetti ? » (2). (1) Rep, 475 e-476 a. (2) 132 b-o. Nelle Leggi 965 c-d, T Ateniese : « Si può più esatta- mente esaminare checchesia che guardando ad un'Idea unica dai molli dissimili? — Clinia. Forse — L'Atemhsk: Non forse, ma certamente non vi ha metodo più lumi- noso di questo per lo spirito umano. Ci bisognerà dun- que, sembra, obbligare i custodi della nostra divina città a vedere prima esattamente cos' è che per tutte quattro (le virtù) è lo stesso, che essendo uno nella fortezza, nella temperanza, nella giustizia e nella prudenza, giusta- mente chiamiamo con un sol nome, virtù». Nel Con- vito 210 b si chiama una demenza il non credere che uno e lo Messo è il bello in tutti i corpi ; nel Menone si cerca che cosa sia la virtù unica che è per tutte le virtù (l); che cosa sia la figura che è la stessa in tutte le figure (2) ; nel Sofista (240 a) che cosa sia il simulacro unico che è in tutti i simulacri; ecc.: Nella Metafisica 1. XIII, IV, 10 Aristotile domanda «Se la diade è una e la stessa nelle diadi corruttibili e le molte ma eterne (3), perchè non sarà pure la stessa nella diade stessa e nelle particolari? » — qui Aristotile fa a Platone Tobbiezione del terzo uomo, ma ciò che c'importa èia pro- prsizione che gli attribuisce, cioè che la diade è una e la stessa in tutte le diadi — ;nel 1. Ili, IV, J, 9 fa ap- poggiare la dottrina della realtà degli universali sull'ar- gomento che « in t«nto conosciamo tutte le cose, in quanto vi ha un che di universale, un che di uno e lo stesso», e che « non vi sarebbe scienza, se non vi fosse un che di (1) 74 a-b. (2) 76 a, 76 a. (3) I numeri matematici, che, nell'ultima forma del suo sistema, Platone faceva intermediari tra il numero ideale e i numeri sen- sibili. V. Sffpjìtem, C. — 32 - tf^ — -.u^ uno in tutti » (i) ; e in una moltitudine di luoghi afferà ma esplicitamente o indubbiamente suppone che i Pla- tonici chiamavano Tldea Vano nei molti (2). Noi sappia- mo pure da Alessandro d'Afrodisia, che certamente lo aveva attinto da Aristotile, che uno degli argomenti, e di quelli tenuti in magior conto, per dimostrare l'esistenza delle Idee, era questo: che gii ogg:etti che sono simili tra di loro (cioè che hanno questa somiglianza definita per cui si riuniscono in una stessa classe) non possono es- sere tali che perchè partecipano a qualche cosa la stessa che è propriamente quello che viene predicato in comune di questi oggetti, e questa cosa è Tldea (3). (1) Cfr. num. III. (2) Met, 1. I. IX. 1, 2, 5, 1. VII. XVI. 6, ecc. (3) In Metaph. Arist, 1. 1, e. 9. testo 59. Alessandro d'Afrodisia c'informa anche di una variante di que- st'argomento, ch'egli espone cosi: che vi ha una causa deUe cose costantemente farsi, e farsi secondo un tipo costante; e questa causa è l'Idea comune a queste cose. Anche esposto sotto questa forma* che non sappiamo se sia esattam ente quella con cui Platone lopro- poneva, quest'argomento prova l'immanenza dell'Idea, cioè che la Idea è l'Attributo che è uno e lo stesso in tutti gli esseri della stessa specie. Infatti, se l'Uomo fosse una semplice causa esemplare degli uomini, posta al di fuori di essi, essa non ci spiegherebbe perchò uno stesso tipo si riproduce costantemente in esseri distinti fra di loro; per la semplice ragione che l'Idea separata non sarebbe una causa efficiente, vale a dire una causa che a priori si riconosce ca- pace di produrre l'effetto ohe le viene attribuito— e naturalmente nemmeno una causa empirica, cioè la cui azione è stata dimostrata dall'esperienza — .Al contrario, se si ammette che l'Idea è nelle cose, la somiglianza delle cose che partecipano alla stessa Idea può essere dedotta a priori da questa partecipazione a una stessa Idea; tra la causa e l'effetto vi ha un legame necessario; e per- ciò, dato l'effetto — la somiglianza di tutti gli uomini — noi possiamo inferirne la causa — la partecipazione a una Idea comune --, perchè questa causa è una causa che noi già sappia- mo essere capace dì produrre l'effetto, ciò che è la condizione in- A questi dati non aggiungerò alcun commento. L'e- spressione più netta sotto cui può formularsi* r ipotesi daW immanenza e precisamente questa, contenuta nelle citazioni precedenti, che gli attributi omonimi di tutti gli esseri non sono in sostanza che un Attributo unico, e», questo è Tldea; che quest'Attributo inerisce, uno e lo stesso, nella moltitudine degli esseri dei quali predichiamo dispensabile di qualsiasi ipotesi, fisica o metafisica, vera o falsa, che lo spirito umano possa fare sulle cause dei fenomeni. Jj'argomento di Platone che gli oggetti simili non possono es- sere tali che per la partecipazione a qualche co>4a comune, suggeriva agli avversari della sua teoria 1' obbiezione del terzo uomo, della quale gl'interpreti trascendentalisti delle Idee platoniche fanno gran caso, perchè essa prova, secondo essi, che la teoria contro cui era diretta, era quella delle Idee trascendenti. L'obbiezione del terz'uo' tno è questa : se tutti gli uomini sono simili perchò partecipano a uno stesso, all'Uomo in sé, l'Uomo in sé e gli uomini debbono pure essere simili perchè partecipano a qualche cosa di comune ; vi ha dunque, oltre l'uomo fenomenale e l'Idea dell'uomo, un terzo uomo distinto dal fenomeno e dall'Idea; e l'obbiezione continuava preten- dendo che la somiglianza del terz'uomo con gli altri supporrebbe un quarto uomo, a cui tutti gli altri uomini partecipassero, e cosi di se- guito all' infinito (V. per quest'obblez. Plato. Parmen. 132 a-b, 132 d,- IB3 a, Arist. Met. 1. I, IX, 3, 5 e Aless, d' Afrod. commento al primo di questi due luoghi). Non vi ha dubbio che, perchè quest'obbiezione fosse logicamente inappuntabile, essa dovrebbe essere diretta contro le Idee tera scendenti - se l'Idea è nelle cose, non vi ha motivo di do- mandare la causa della somiglianza tra le Idee e le cose, perchè l'Idea non è altro che questo punto di coincidenza comune per cui tutte le cose simili si dicono simili - ma resterebbe a provare che l'obbi ozione del terzo uomo era logicamente inappuntabile. Nella dottrina delle Idee immanenti vi ha quel tanto che, se non è sufficiente perchè que- st'argomento sia perfettamente concludente, basta perchè esso abbia quella plausibilità necessaria a un argomento perchè gli avversari di una teoria ne facciano uso. In effetto, Platone ha un bell'affer- mare che le Idee, quantunque siano sostanze per se stesse, ineri- scono nondimeno nelle cose, e che, quantunque ciascuna sia una.!^Ki fvs- rattribiito. Certamente questa prova deiriminanenza — che in Terità non è una prova, ma la ripetizione, in ter- mini più chiarì, della tesi stessa che si tratta di prova- re— non sembra con tutto ciò soddisfacente agl'interpreti trascendentalisti : ma che si può fare di più ? non altro che pregare questi interpreti che cerchino di rappresen- tarsi nettamente la tesi dell'immanenza delle Idee, vnle !! si trova nondimeno simultaneamente in una moltitudine! queste determinazioni sono incompatibili, noi non possiamo rappresentar- cele insieme; noi non possiamo concepire che una sostanza inerisca in altre sostanze come un attributo, che un essere unico si trovi al tempo stesso, senza frazionarsi, in una moltitudine di esseri diffe- renti. Ne segue che delle sostanze quali Platone fìnge le Idee, non potremmo rappresentarcele che esistenti separatamente dalle cosa ; l'Uomo in sé, in quanto noi possiamo immaffbiarlo, non lo possiamo che come un uomo particolare, distinto e separato dagli altri uo- mini, questi nati e peribili, esso eterno: è questa la base dell'inter- pretazione trascendentalista delle Idee platoniche, e la chiave per comprendere tutte le vicende di questa teoria. Cosi, se l'obbiezione del terzo uomo non vale contro le Idee quali Platone le afferma- direbbe egli, quali oggetti dell'intelligenza, poiché egli a/ferma esse sono nelle cose ; vale però contro le Idee quali noi possiamo rappresentarcele, quali oggetti, direbbe Platone, d' un'immaginazione circoscritta nelle condizioni del sensibile *.*; perchè noi non pos- siamo rappresentarcele che separate dalle cose : è quanto basta alla vis probante dell'obbiezione del terz'uomo, quantunque quest'argo- mento, in sostanza, non sia che un sofìsma. *.* I metafìsici hanno un mozzo assai comodo per superare tutte le difficoltà : é di distinguere tra 'uimuijinare ed intenrìere. Se noi tro- viamo le loro teorie inconcepibili, essi rispondono che ciò è perchè " si pretende d'immaginare ciò che non si può se non intendere, come se si volessero vedere "i suoni o udire i colori „. Vedi Cartesio t. I, p. 1^, ed. Cousin, Leibnitz N,S, suìVint. ìtm, l. IV, e. III, § 6, De ipsa nat, sive de vi ins, 7, Epist, ad P, Des-Iiuss. 16 Griug. 1712 (ed. Du- tens t. 2, p, 1. I). 298), Spinoza I>e intelL emend, 84-91, ecc. Tra l'em- pirismo e la metafìsica tutta la quistione è, al fondo, se questa di- stinzione deve ammettersi o no. I a dire la dottrina che le Idee sono, delle sostanze si, ma inerenti nelle cose come loro attributi — nozioni certa- mente incompatibili, io sarò il primo a convenirne —, e di fare per un istante la supposizione che tale sia stata realmente la dottrina di Platone — ciò cho non è chiede^ poco, perchè si può essere sicuri che la più parte de- gl'interpreti trascendentalisti, per non dire tutti, non hanno fatto mai seriamente questa supposizione —, e poi di saperci dire come, in questo caso, Platone avrebbe potuto esprimere la sua dottrina d'una maniera più chiara e più C:<plidta che elicendo che intuiti gli oggetti grandi la grandezzate una e la stessa, e questa è l'Idea della grandezza, e cosi la bellezza in tutti gli rggetti belli, Pumanità in tutti gli uomini, Panimr^lità in tutti gli ani- mali, ecc. Negare che la dottrina di Platone pia realmente quello che essa suona, porche questa dottrina, cosi in- tesa, ci sembra racchiudere una impossibilità logica, prima di tutto non è conforme ai criteri di una buona ermeneutica; e poi, oltre che per assolvere Platone da una contraddizione gliesene addrssen bboro cento altre, si otterrebbe per risultato, che si ffi romberò dire a Pla- tone delle assurdità— perchè chi vorrà sostenere che la dottrina delle Idee, immanenti o trascendenti, non sia un'assurdità ?— senz'ai cun motivo né scopo, perchè il si- stema delle Idee trascendenti non spiegherebbe niente, non conterrebbe alcuna di queste vedute ardite e ge- niali, che scusano e fanno comprendere gli errori dei grandi pensatori metafisici, perchè di natura da s durre l'intelligenza con la prospettiva di una spiegazione uni- verèsale e radicale delle cose, cui la scienza positiva si dichiara incapace di attingere. D'altronde Platone ha avuto cura di togliere al- l'interprete trascendentalista qualsiasi pretesto per rifiu- targli la dottrina che le idee sono gli Attributi generali ixr delle cose, ciascuno dei quali inerisce, uno e lo stesso, in tutte le cose aventi degli attributi omonimi, fondan- dosi sulle difficoltà logiche contenute in questa dottrina: noi sappiamo infatti dallo stesso Platone che queste dif- ficoltà sono precisamente quelle stesse che gli avversari obbiettavano alla teoria delle Idee. Ecco come esse ven- gano proposte nel Parmenide : a Parmenide : Dimmi dun^ que, penai tu, come dicevi, che vi hanno certe Specie^ da cui le cose, partecipandone, prendono le loro denminazioni? che p. e. le cose sono simili per la parte- cipazione della somiglianza, grandi, belle, giuste, per quella della grandezza, della bellezza, della'giustizia ?— Io ne sono persuaso, disse Socrate— Ora ogni cosa che par- tecipa della Specie, non è necessario che partecipi o di tutta la Specie o di una parte ? o vi ha, oltre di questi, un altro modo di partecipazione? —E come ve ne po- trebbe essere un altro ?-Credi tu che la Specie sia tutta in ciascuno dei molti, una essendo, o altrimenti ?— Che cosa può impedire, o Parmenide, disse Socrate, che ine- risca tutta?— È che essendo una e la stessa, ìnv.vìrk tuUa simultaneamente in molte cose che sono separate le une dalle altre, e cosi essa stessa sarà separata da se stessa — Ma no, disse Socrate ; come il giorno, essendo uno e lo stesso, esiste simultaneamente in molti luoghi, e non è perciò separato da se stesso ; cosi niente impedisce che ciascuna Specie esista simultaneamente, una e la stessa. in tutti gli oggetti, senza separarsi da se stessa. — Be] modo è il tuo, o Socrate, di far esistere una sola e stessa cosa simultaneamente in molti oggetti! è come se co- prendo molti uomini con un velo, tu dicessi che Tuno è tutto intero nei molti. Non è vero che dici qualche cosa di simile? - Forse, disse Socrate — Ma il velo sarà tutto intero in ciascuno, o soltanto una parte in uno, e un'al- tra parte in un altro ?— Una parte soltanto — Le Specie dunque, o Socrate, saranno divisibili, e le cose che par- tecipano di esse parteciperanno di una parte, e non vi sarà più in ciascuna cosa tutta la Specie, ma una parte soltanto— Cosi pare. — Vorresti dunque, o Socrate, che la Specie sia veramente divisa ? e sarà ancora una dopo que- sta divisione ? — No, affatto — Vedi in effetto : se tu di- viderai la grandezza stessa^ ciascuno dei molti grandi sarà grande, non per la grandezza, ma per una parte della grandezza, necessariamente più piccola della grandezza stessa; ora ciò non ti sembra assurdo?— Assolutamente— ... In che modo dunque, o Socrate, le altre cose partecipe- ranno alle Specie, se non possono riceverle né in parte né in totalità? » (i). Questa stessa obbiezione del Parmenide si ritrova, in riassunto, nel Filebo 15 b, dove Socrate spiega quali siano le controversie quando si stabilisce un Uomo, un Bue, e il bello uno, e il buono uno, e al- trettali unità: «Prima di tut*o, egli dice, si contesta se si devono ammettere questa sorta d'unità come realmente esistenti ; poi si domanda come ciascuna di esse, essendo una e sempre la stessa, e non ammettendo né genera- zione né corruzione, possa tuttavia essere immutabilmente una e la stessa (2) ; e in seguito se negli esseri gene- rati e infiniti di numero deve porsi divenuta molti e fra- zionata, 0 tutta intera in ciascuno, separata essa stessa da se stessa, ed é questa che sembra la cosa più impos- sibile dol mondo, che un solo e lo stesso essere sia allo stesso tempo in uno ed in molti ». Potrebbero tali ob- biezioni dirigersi alle Idee trascendenti? se il rapporto tra ridea e le cose non fosse che quello tra l'esemplare (1) 131 a-e. (2) Che difficoltà potrebbe trovar^^ì nell'essere l'Idea ana e sem- pre la stessa, se essa fosse fuori delle cose? ".■1 *. '.y. Xn i«<t'i|i ■r *»■ ' "f e le copie, che difficoltà vi sarebbe a concepire che uno stesso esemplare potesse servire di modello a molte co- pie ? sarebbe perciò necessario di ammettere o che Tesem- plare si trova tutto intero in ciascuna delle copie, o che esso si fraziona in tante parti quante sono le copie, e che una di queste parti esiste in una delle copie, e un'altra in un'altra? Non è evidente che queste obbiezioni non possono comprendersi altrimenti che come lo sviluppo delle impossibilità logiche contenute in una dottrina, che afferma che un solo e stesso Attributo inerisce simulta- neamente in una moltitudine di soggetti? dubbio Platone doveva pensare che queste ob- biezioni non toccavano il segno, e che la sua dottrina sfuggiva al dilemma proposto nel Filebo e nel Parmenide: ma tutto ciò che possiamo concluderne è che queste dif- ficoltà con sembravano a Platone insolubili come sem- brano a noi. Quale sia la soluzione egli non lo dice né nel Parmenide (ì) né nel Filebo: ma egli ne ha imma- ginato una ; noi la troviamo in uno dei luoghi citati : Il (1) Alcuni interpreti credono che la parte dialettica del Parme- nide contiene una dottrina riposta destinata appunto a risolvere le obbiezioni del principio del dialogo: per me io non posso vedervi se non quello per cui Platone la dà nianilestamente, cioè un sem- plice esercizio dialettico di cui nel cap. VII § 2J abbiamo mostrato la relazione con la dialettica platonica. Del resto le ipotesi che tro- vano nella seconda parte del Parmenide le soluzioni delle obbiezioni contenuto nella prima, non fanno al nostro caso, perché esse sono state immaginate nella supposizione che le obbiezioni siano dirette contro lo Idee trascendenti, quantunque Ira queste obbiezioni una sola, quella del terz'uomo, possa essere interpretata a questo modo; ma basta che Platone dichiari che le Idee esistono per se stesse (cioè come sostanze), o che egli le distingua dai fenomeni, perchè 1' in- terprete trascendentalista ne concluda immediatamente che esse sono separate dalle cose. 1 f I' •Vi il H 1 II bello, il brutto, il giusto, Tingiusto e ciascun altro elSo^ è uno in se stesso, ma apparendo qua e là, nelle cose e negli altri stdyj che ne partecipano, ciascuno pare molti (1). E in effetto, la quistione, ridotta ai minimi termini, è que- sta : L'esperienza ei mostra il bello, il brutto, in una parola, ciascun attributo generale delle cose, non come uno, come suppone la teoria 4elle Idee, ma come mul- tiplo, l'attributo che è in un soggetto essendo numerica- mente distinto dallo stesso attributo che é in un altro soggetto. Come risolvere questa contraddizione tra Tcspe- rienza e la teoria delle Idee ?— se le Idee sono immanen- ti ; poiché è solo in quest'ipotesi che la moltiplicità del- Tattributo nella moltitudine dei soggetti esclude Tunità dell'Idea—. Il concetto vago che una delle due contraddit- torie, cioè il dato dell'e^^perienza, la moltiplicità dell'at- tributo, non è che un'apparenza — un'apparenza, s'in- tende, obbiettiva— dk, non una soluzione reale della con- traddizione ^ perciò bisognerebbe sopprimere realmente l'una delle due contraddittorie, dichiarando la moltipli- cità dell'attributo una vera apparenza, cioè un'apparenza subbiettiva —, ma un sembiante di soluzione, per questa vaga assimilazione del fatto^ che è in contraddizione con la teoria, ad un'illusione senza realtà, assimilazione vaga che è tutto il significato del termine apparenza, quando esso non ha il suo significato proprio di apparenza sub- biettiva o semplice illusione. Su questo concetto della dot- trina platonica dovremo ritornare in uno dei numeri seguenti. 4* L' astratto e il concreto non sono due cose dif- ferenti, ma una sola e st*^ssa cosa a gradi differenti di (1) Rep. ^6 a. - 36 ~ determinazione : l'astratto è il concreto, ma indetermi- nato; il concreto é l'astratto, determinato. Siccome poi r astratto è suscettibile di più determinazioni distinte e divergenti (l'animHle, determinandosi, diviene uomo, ca- vallo, ecc:; Tuomo, quest'uomo alto o basso, dotto o igno- rante, ecc:); cosi il movimento di concretizzazione o deter- minazione progressiva deiridea— perchè l'Idea non è, per dir cosi inerte, ma vivente, e la sua vita, il suo sviluppo, nel sistema di Platone come in quello di Hegel o di qual- siasi altro filosofo realista^ è il suo passaggio continuo da uno stato più indeterminato, più astratto, anno stato più determinato, più concreto— questo movimento è al tempo stesso una moltiplicazione progressiva, per cui ciò che è unità nel momento anteriore, nel mome.nto po- steriore diviene moltiplicità (si tratta, ben inteso, di un'an- teriorità e posteriorità, non cronologica, ma logica e me- tafisica). Di là la formula platonica che tutto (cioè tutto ciò che corrisponde a un nome generale : l'uomo, l'a- nimale, il bene, ecc .) è al tempo stesso uno e molti (un Genere e molte Specie, ovvero una Specie e molti individui) o ancora uno, molti ed infiniti (un Genere, molte Specie ed infiniti individui). Nel Filebo, in cui questa formula principalm ntc è impiegata, dopo che si è convenuto tra gl'interlocutori che vi hanno molte spe- cie del piacere e della scienza, Socrate dice : « Fermiamo ancora di più per una confessione mutua questo prin- cipio, che causa grandi imbarazzi a tutti gli uomini, ai volenti ed anche qualche volta ai nolenti. Io parlo del principio in cui ci siamo imbattuti, e che è di una na- tura ben sorprendente; è in cfiFetto una cosa strana a dire che ìaolti sono uno e che uno è molti; ed è facile di muovere controversia a chi sostiene in ciò il prò o il contro > (1). Filebo crede che Socrate alluda alla dif- (1) 14 ficoltà, divulgata presso gli eristici del tempo, come ad un soggetto unico possano inerire molti attributi; ma Socrate si spiega, soggiungendo che la diflficoltà di cui egli parla, nasce « non quando l'uno è preso tra le cose soggette alla nascita e alla morte— quando si tratta di un tale uno, si conviene che non bisogna disputare in ciò con alcuno— ma quando si cerca di stabilire un uomo, un bue, e il bello uno, e il bene uno (vale a dire quando il multiplo fenomenale si risolve nell'uno ideale)'^ è su queste unità e le altre della stessa natura che i senti- menti sono divisi e vi ha della contestazione... Io dico che lo stesso, fatto uno e molti dalle ragioni, si trova da per tutto e sempre, per il passato come oggi, in cia- scuna delle cose di cui si parla {dalle ragioni vuol dire: dalla dialettica; questa trasforma continuamente l'uno in molti, per la dieresi, e i molti in uno, per la ouvaYWYig; e Socrate intende dire che questo fatto, che la stessa cosa diviene per la dialettica ora uno e ora molti, è un fatto generale) : ciò non cesserà mai, e non è ora che inco- mincia, ma è, mi sembra, una proprietà, immortale e incapace d'invecchiare, delle ragioni stesse Gli an- tichi, che erano migliori di noi, e stavano più vicini agli dei, ci hanno tramandato quest'oracolo, che tutte le cose che si dicono esistere eternamente (le specie) constano di uno e di molti, ed hanno insite in sé la finità e l'infinità (constano di uno e di molti, non è che un'altra maniera di dire che ciascuna è uno e molti; Platone si serve di questa espressione, perchè cerca una forma che possa convenire tanto alla sua propria dottrina quanto a quella dei Pitagorici, nella quale, cioè nell'affinità dei suoi con- con quelli del platonismo, sta tutto il fondamento storico della supposizione fantastica di una dottrina, tra- mandata dagli antichi fotto la forma oscura di un ora- colo, e il cui senso riposto era la teoria delle Idee e la — 37 — i. ■f^ dialettica. Egli può attribuire ai Pitagorici la proposi- zione che tutto consta, non solo dell'uno ma anche dei molti, perché questa seconda entità faceva parte di una delle loro due serie di elomenti contrari). E che, tale essendo l'ordine di queste cose, noi dobbiamo sempre, nella ricerca di ciascun oggetto, stabilire unldea unica per tutto; e ni può ritrovarla, perchè vi esiste; scoverta questa, cercare se dopo una ve ne ha due, o, se ndue, tre o qualche altro numero; e ciascun uno di questi (cioè ciascuna di queste Idee) esaminare ancora cosi, sinché si veda, non solo che Vano primitivo è uno e molti ed infiniti^ ma anche quanti è (cioè quante Specie com- prende l'Idea da principio stabilita) ; e non si deve appli- care alla moltitudine l'Idea dell'infinito, prima di vederne ogni numero che s'interpone tra l'infinito e l'uno (cioè non si deve considerare la moltitudine infinita, vale a dire gl'individui, prima di considerare successivamente tutte le moltitudini determinate, vale a dire tutte le divisioni e suddivisioni del Genere stabilito in principio; p. e. se questo genere è l'Animale, e Platone ammettesse la clas- sificazione dei naturalisti moderni, prima di enumerare i Tipi, le Classi, gli Ordini, le Famiglie, i Generi, le Specie) ; solo allora si può lasciare ciascuno di tutti i uni andare a disperdersi nell'infinito Ciò che ho delti è chiaro nelle lettere, e puoi vederlo nelle cose che hai appreso nell'infanzia. Li voce che ci esce dalia è una e al tempo stess-ì infinita in moltitudine, per tutti e per ciascuno. Ma per nessuna delle due cose di- veniamo sapienti, né perchè conosciamo della voce l'in- finito, né perché conosciamo l'uno, ma ciascuno di noi diviene grammatico perché conosce quanti e quali essa é (cioè, come spiega a 18 bc, perché neirinfinito della voce sa discernere i diversi generi e specie di suoni). E per la stessa cosa che si diviene musico : una è la voce i anche per quest'arte; pure bisogna porne due, il grave e l'acuto, e terzo il tono medio ed è a questo modo che bisogna esaminare tutto ciò che è uno e molti » (i). Posto questo principio generale, Socrate vuol farne Tap- plicazione alla sapienza e al piacere: « Uno diciamo es- sere ciascuno di essi: ora il discorso precedente ci chiede come ciascuno è uno e molti, e come ciascuno non è su^ bito infiniti, ma V uno e V altra hanno un certo numero prima di divenire infiniti ». Filebo, comprendendo l'inter- rogazione di Socrate, dice: « Socrate sembra domandarci se il piacere ha o no delle specie, e quante e quali siano, e cosi similmente per la sapienza ». E Socrate : « È come dici : in effetto, come ha. mostrato il discorso precedente, nos-iuno di nri sarà di alcun valore in checchesia, se non è capace di rispondere a questa domanda su tutto ciò cho è uno e simile e lo stesso e il contrario (vale a * dire: su tutto ciò che è attempo stesso uno e molti, e perciò anche lo stesso e diverso, simile e dissimile) » (2). Poi, il principio viene applicato ai quattro generi, in cui Socrate divide tutti gli esseri che sono nell'universo, o piuttosto a tre di questi generi, (il finito, l'infinito e il composto dei due) : Socrate ricerca come ciascuno di essi è uno e molti (;j), riunendolo — come dice nel luogo ri- portato al num. 2«— in uno, dopo averlo guardato diviso in molti e disperso. La formula che lo stesso è uno e molti, non si trova solamente nel Filebo, Così, nelle Leggi 963 e l'Ateniese dice: « Giacché vi hanno quattro specie di virtù, ciascuna è una, poiché sono quattro: e tuttavia abbiamo chiamato (1) 15 a— 17 d. (2) 18 e — 19 b. (3) V. 23 e, 24 a, 25 a, d, 26 d. i<naM»i 'f ■^'■'i' \ij uno tutte queste; diciamo infatti la fortezza virtù, la pru- denza virtù, e cosi le due altre, come se realmente siano non molti, ma quest'uno solo, virtù». E a 964 a: « Io t'ho spiegato come la prudenza e la fortezza sono diffe- renti e due: tu spiegami come sono uno e lo stesso. Fi- gurati che tu devi dirmi come, essendo quattro, sono uno; e domandami, dopo avermi insegnato che sono uno, che io t'insegni come sono quattro» (l'Ateniese domanda insom- al suo interlocutore la definizione comune della virtù). E a 966 a : « Ma che? non diremo noi lo stesso del bello e del buono ? i nostri custodi devono sapere soltanto co- me l'uno e l'altro sono molti, o anche come sono uno ?» Nel Menane 72 a, dopo che Menpne, interrogato cosa sia la virtù, risponde quale sia la virtù dell'uomo, quale della donna, quale del fanciullo, quale del vecchio, ecc., So- ' crate dice che, cercando una virtù, ha trovato presso di lui uno sciame di virtù, e a 17 a, lo esorta a lasciare la virtù intera e sana, e a cessare di fare di uno molti. In questi luoghi il molti rappresenta le Specie rispetto al Ge- nere : ma altrove rappresenta gl'individui, le cose, ri- spetto air Idea. Così nella Rep. 507 a-b : « Diciamo che vi hanno molti belli e molti buoni e similmente ogni al- tra dosa, e li distinguiamo col discorso ; e poi il bello stesso e il buono stesso, e cosi tutti quelli che poneva- mo come molti, di nuovo ponendo secondo un'Idea unica di ciascuno, come unica, chiamiamo cÌ9SCuno ciò che è; e quelli diciamo vedersi, ma non intendersi, le Idee In-, ma non vedersi ». Ora io domando al lettore : 1® e chiaro o no che nei luoghi citati l'uno è identificato coi molli, e i molti con l'uno? che i molti sono riguardati, non come un'altra cosa dall'uno, ma come l'uno stesso, e l'uno non come un'altra cosa dai molti, ma come i molti stessi? che l'uno e i molti sono, non due cose completamente diflTerentl e separate, da una parte l'uno, da un'altra parte i molti, ma una sola e stessa cosa, che si considera sotto due a- spetti differenti, ora come uno, ora come molti ? 2^ è chiaro o no che quest'uno e questi molti sono l'Idea e le cose, ovvero l'Idea generica e le Idee specifiche ? 3<> é chiaro che, questi due punti ammessi, ne risulta un terzo, cioè che l'Idea e le cose, l'Idea generica e le Idee spe- cifiche, sono una sola e stessa realtà considerata sotto due aspetti differenti, e non due realtà completamente dif- ferenti e separate? Ora se le Idee platoniche sono im- manenti, so esse sono gli universali nel senso rigoroso della parola, cioè i concetti generici e specifici, rea- lizzati, ma nelle cose stesse; è questo appunto che deve avvenire : che V Idea generica, quantunque di- stinta dalle Idee specifiche, e sussistente per se stessa, deve identificarsi nondimeno con queste Idee specifiche, cioè con la loro totalità, e l'Idea specifica, quantunque distinta dagli indivìdui, deve non pertanto identificarsi eon la totalità degli individui; perchè, come abbiamo detto, l'universale e il particolare, l'astratto e il concreto (o, più generalmente, il più astratto e il più concreto) non possono essere, anche nel s' stema realista, che una cosa stessa a gradi differenti di determinazione — gradi diffe- renti di determinazione chp, per noi, non sono che delle vedute mentali diffcrerti Fotto cui il medesimo oggetto viene considerato, ma che il metafisico realista, con quella confusione sistematica tra l'obbiettivo e il subbiettivo che è il carattere proprio di questa forma di metafisica, tra- sporta nell'oggetto stesso, e ne fa degli stati differenti, dei momenti diversi di sviluppo (non successivi, ma simulta- nei) di un solo e stesso essere—. L'identificazione dell'uno coi molti, risultante dalla inevitabile identità fra l'astratto e il concreto (cioè fra il più astratto e il più concreto) tiene nel sistema platonico un posto più cospicuo che ne- -« 39 gli altri sistemi analoghi, per Ti u. portanza supn^ma che la dialettica platonica dà alla relazione tra i generi e le specie; ma è evidente ohe questa identificazione ha luogo in tutti i sistemi realisti. L'Idea deiressere, p. e., non si identifica, per Hegel, con tutte le altre Idre, le quali non sono che l'Essere primitivo, che riceve successivamente nuovi gradi di determinazione? e ciascuna di queste Idee, una in s=»> stessa, non apparisce in finiti nello spazio e nel tempo ? Quest'Essere è dunque, cooie V Essere di Pla- tone, uno, molti, rd infiniti allo stesso tempo. Ma questa conseguenza inevitabile del realismo non ha luogo che quando lo astrazioni obbieitivate dal realista si suppon- gono nelle cose stesse — supposizione che d'altronde fanno tutti i realisti; il proprio d^'ll'interpretazione trascenden- talista, cioè di questa forma dell'interpretazione trascen- dentalista che vede nelle Idee platoniche tutt' altra cosa che i pensieri della divinità, è di attribuire a Platone una dottrina che non trova riscontro in alcun' altra dottrina conosciuta— ; se le Idee platoniche non fossero che gli archetipi delle cose fuori delle cose, e le Idee generiche che gli archetipi delle Idee specifiche, egualmente se- parati da queste, il rapporto tra le Idee e le cose, tra le Idee generiche e le specifiche, sarebbe esclusivamen- te un rapporto di differenza, e non questo rapporto am- biguo, di differenza al tempo stesso e d'identità, che 1 filosofi realisti sono obbligati di supporre tra l'astratto e il concreto — o più propriamente tra il più astratto e il più concreto —, appunto perchè i loro astratti non sono fuori dei concreti, ma i concreti stessi guardati dal punto di vista dall'astrazione. Evidentemente, Platone trascen- dentalista avrebbe calunniata la sua dottrina, facendone uscire la conseguenza — ch'egli si contenta di chiamare strana, ma che è in verità inconcepibile e contradditto- ria — che l'uno é molti e i molti sono uno : questo corol- )| il lario del sistema platonico è cosi chiaramente connesso con l'immanenza delle Idee, che l'interprete trascenden- talista potrebbe a buon dritto farne una delle più forti obbiezioni contro Tintei pi etazione delle Idee come imma- nenti, Sii Platone ravesse dissimulato, invece di proclamar- lo arditamente, come ha fatto, sventuratamente per Tin- terpretadone trascendentalista. L'identità tra i molti e l'uno suppone l'assorbimento dei molti nell'uno, cioè delle cose nell'Idea, e delle Idee specifiche neir Idea generica. Diie che tutti gli animali sono l'Animale, e che l'Animale è tutti gli animali, è ri- solvere tutti gli esseri animati in un'essenza unica, l'A- nimale. Óra siccome tutte le Idee sono, secondo Platone, subordinate ad un' Idea suprema, la più universale di tutte, che tutte le abbraccia nella sua universalità, ed é l'elSoc di tutti gli sI5y], l'Idea di tutte le Idee, ne segue che tutte le Idee, e quindi tutte le cose, si risolvono in que- sta essenza univcrsalissima, che Platone chiama il Buono, l'Essere, l'Uno, ecc. Quest'Idea è, come dee Schelling del suo Assoluto, l'universo concentrato in un punto : il mondo delle Idee e delle cose non sono che il Buono o l'P^ssere allo stato esplicito, e il Buono o l'Essere è il mondo delle Idee e delle cose allo staio implicito, È a questa dottrina della ri- soluzione del tutto in una Unità suprema, che t^i riferisce questa indicazione d'Aristotile in Met, 1. 1, IX, 24: « E, ciò che sembra facile, dimostrareche tutto èuno, non riesce:poi- che dall'astrazione (exesaic;) non risulta che tutti sono uno, ma risulta semplicemente qualche cosa in sé (qualche Idea) una, se pure si concedono tutte le loro supposizioni: ma nemmeno ciò, se non si concede che ogni universale è genere; ora questo per alcuni universali è impossibile». Aristotile fa qui alla proposizione di Platone due obbie- zioni: una (è la seconda) che Platone non ha il dritto di htabilire un'Idea unica comune per tutto le cose di cui si 40 - predica Tessere o Timo, perchè queste cose, quaatunquo loro si applichi lo stesso nome, non costituiscono un ge- nere ; e l'altra (la prima) che, ancorché si fosse autoriz- zati a stabilire un'Idea unica comune per tutte le cose di cui si predica Tessere o l'uno - cioè per tutte le cose, perchè di tutte si predica l'essere e l'uno-, ne segui- rebbe semplicemente che vi ha un'Idea dell'essere o del- l'uno, ma non che tutte le cose si risolvono in una cosa unica, l'Essere o l'Uno. Facendo quest'ultima obbiezione, Aristotile dimentica la dottrina del Filebo, ciò che in lui non é sorprendente, perchè tutta la sua interpretazione del platonismo tende ad esagerare il rapporto di diffe- renza tra le Idee e le cose (e tra le Idee generiche e spe- cifiche) a scapito di quello ^'identità: ma, qualunque sia il valore delle obbii^zioni d'Arist'^tile, ciò che risulta in- contestabilmente dal luogo citato, è che Platone tirava dal sistema delle Idee la conseguenza che tutto è uno. Ora questo monismo sarebbe inconcepibile, se le Idee fos- sero separate d«lle coso, e le une dalle altre: in questo caso il mondo ideale sarebbe, non un'unità multipla, ma una moltiplicità senza unità; e s-, p-r un'inconseguenzasi ammettesse che le Idee, pur essmdo fuori delle cose, Pi riducono all'unità in un'Idea suprema, questa suppo- sizione non basterebbe ancora a rendere conto della pro- posizione platonica riferitaci da Aristotile, perchè ciò che é affermato da questa proposizione è che tutto è uno, e non semplicemente che tutte le Idee sono uno. Su qu'^sto concetto di una Unità suprema che contiene virtualmente il tutto, rimandiamo a ciò ch'^ abbiamo detto parlando della dialettica platonica. VI. Per indicare il rapporto tra V attributo e il sog- getto,' noi diciamo che l'attributo è nel soggetto, e che il soggetto ha l'attributo. Questi termini e i loro sinoni- mi sono in un certo modo dei traslati, come tutti quelU esprimenti delle coucez'oni astratte, i quali primitiva- ra»»nte non significano che delle idee più concrete, ma che hanno con queste concezioni astratte una certa ana- logia su cui è fondato il passaggio dall'uno all'altro dei due significati. Nel nostro caso, questo significato primi- tivo e più concreto è, per i termini che indicano il rap- porto dell'attributo al soggetto, la presenza locale, e per quelli che indicano il rapporto del soggetto all'attributo, il possesso. Nel sistema realista, in cui gli attributi ven- gono considerati come sostanze, inesistenti nei soggetti, ma avc^iti, in essi, uu'esistenza propria e distinta, que- ht'analogia tra il significato primitivo e più concreto dei termini indicanti il rapporto tra il soggetto e l'attributo, o il significato nuovo e più astratto in cui vengono ap- plicata, è naturalmente più grande. Pf r conseguenza Pla- tone, per indicare il rapporto tra le Idee e le cose, pre- ferisce, fra i termini che esprimono il rapporto tra il sog- getto e l'attributo, quelli che, anche usati in questo nuovo significato, suggeriscono più vivamente le idee dtl loro sif^nifica o primitivo, vale a dire della presenza locale e del possesso. Di pin, il possesso dell'attributo essendo, nel sistema realista, comune a molti soggetti, noi possia- mo attenderci a priori che, per indicare il rapporto delle cose alle Idee, cioè dei soggetti agli Attributi, verrà data la preferenza a quei termini che esprimono, non solo il possasso, ma la comunanza nel possesso. Di là, nel pla- tonismo, i termini tecnici presenza, esser presente {t^^^o^ò- qìol, Tiapslvat e sinonimi), per indicare la relazione delle I ieo alle cose, e partecipare, partecipazione ([isiéxe^v, {is- xaXaji^àveiv, ototvwveiv, ecc., e i nomi corrispondenti iiéOsgi?, jisTàXY]'|t€, xoivo)v{a, ecc. ) per indicare la relaz^'one delle cos^ alle Idee. Naturalmente questi termini non sono i soli che Platone impieghi per denotare il rapporto tra le Idee e le cose: degli altri, alcuni esprimono il concetto della immanenza d'una maDiera anche più energica. L'aso di tutti questi termini (parusìa, partecipazione e gli altri) è cosi naturale neiripot'^si dt^H'imnaanenza delle Idee, e diviene si imbarazzante in quella della trascendenza, che basterebbe di enunciarli per provare la prima delle due ipotesi : .ma siccome il soggetto è stato molto discusso, e le lunghe discussioni hanno per risultato di spargere dei dubbi sulle cose più chiare, così noi siamo obbligati ad un'esposizione più minuziosa, per il comodo della qua'c li divideremo in due gruppi, riunendo gli altri attorno ai due termini tipici parusia e partecipazione. Quando Platone dice che gli oggetti sono bianchi per la presenza (jiapoooCa), in issi, della bianchezza, belli per la presenza della bellezza, ecc., chi vorrà negare che l'idea che ci suggerisce immediatamente la parola presenza, sia la presenza dell'attributo nel soggetto? Noi saremmo autorizzati a cercare un altro significato, so ciò che si dice essere presente non fo9S3 la bianchezza, la bellezza, ecc., in una parola se le Idee platoniche fossero altra cosa che degli attributi realizzati. Se si trattasse p. e. delle divinità delle specie di alcuni popoli selvaggi, a cui il Tylor ed altri paragonano le Idee platoniche (1), ch'essi intendono, alla maniera tradizionale, come degli archetipi, noi dovremmo intenderò per la parola paru-ia la dimora di uno spirito feticcio in un oggetto; p. e., una cosa ò bella per la presenza dell'Idea del bello, signifi- cherebbe allora che essa e bella perchè è posseduta dallo spirito che presiede alla specie delle cose bello. Ma l'Idea del bello essendo, non uno spirito feticcio, nò una divi- nità, né una forza, ne alcun altro degli agenti iperfisiei (1) V. Tylor La civilizzai, primit. U 2, o. XV, suUa Uno, che sono stati riguardaci come cause efficienti dei feno- meni, ma l'attributo bell'azza, considerato come un'entità reale, è ragionevole cercare alla proposizione un altro si- gnificato che questo si ovvio, che la cosa è bella perchè inerisce in essa l'attributo Bellezza ? Alcun interprete tra- scendentalista non ha mai detto, per quel che io sappia,- d'una maniera precisa quale sia il significato della pa- rola parusia Fecondo questa interpretazione: mail para- irone del Tvlor ci sugr^ensce Tunica soluzione che l'in- terprete trascentaMsta possa dare al problema (problema nell'ipotesi della trascendenza) della parusia platonica. Le Idi e di Platone, potrebbe dirsi, sono presenti nelle cose come noi diciamo che Do è presente nel mondo: la parola presenza, trattandosi di un oggetto inesteso che non è nello spazio, non potrebbe avere alcuna significa- z'one precisa; essa indica semplicemente una vaga assi- milazione, che si lenta di fare, del rapporto tra due og- getti, che si suppongono tra di loro nella relazione di causa e di effetto, di agente e di paziente, a quel rap- porto locale, che solo può far comprendere la possibilità dell'azione di una cosa su di un'altra, lo spirito uma^o avendo sempre trovato inconcc|»ibile che una cosa agisca dove essa non è. Per quanto questa interpretaz'one della parusia pla- tonica s'a intrinsecamente inverisimile— e in effetto l'at- titudine di un modello, qual è l'Idea nell'interpretazione trascendentalista, a produrre delle copie, è altrettanto inconcepibile nell'ipotesi d' un' azione a contatto quanto in quella d'un'azione a distanza-, sicché Platone avrebbe senza alcun profitto complicato il suo sistema' d'uù'ipo- tesi tanto onerosa che introduce nel sistema delle Idee trascendenti quella stessa esistenza simultanea dell'uno nei molti, che è la più grave difficolta del sistema delle Idee immanenti— pure è tutto quello, io credo, che IMn- — 42 terprete trascendentalista può dire per rendere conto dei- Fuso che Platone fa del termine parusia e degli altri dello stesso ordine. Per conseguenza, è in questi ter- mini che io proporrò la questione delT interpretazione della parusia platonica : la presenza delle Idee nelle cose è la presenza dell'attributo nel soggetto, o è una presenza quasi locale, per cui le Idee, separate dalle cose, quantunque non siano in alcun luogo, pure si trovano in un certo tnodo dove sono le cose {non in loco sed ubi, come dicevano gli scolastici dell'ani ma), d' una maniera che, del resto, è impossibile di dire con più precisione ? Tra le due interpretaziooi il lettore potrà giudicare dagli esempi seguenti., Ipp. Magy. 289 d: ** Il bello atesso, di cui tutti gli altri belli (le cose belle) sono orna/i (xoojxerxat.), e appaiono belli, tulle le volte che è pre/jen/e (irpooYévrjxai) quella spe- cie » (Le cose belle potrebbero essere ornate di un bello, che non è una loro proprietà? Intanto questo bello di cui si cerca la definizione è certamente Tldea del bello. Cfr. n. IV.) Ib. 294 a : « Il convenicnle (per cui si è propo-ito di definire il bello), diremo che è ciò che, essendo presente (uapaYsvójisvov), fa parer bello ciascuno degli oggetti a cui è presente (^lap^), o ciò che lo ia es- sere bello ? Se il conveniente fa parere le cose più belle di quel che sono, il conveniente è una sorta d' in- ganno intorno al bello, è non è ciò che noi cerchiamo (1). Poiché noi cerchiamo ciò per cui tuttci le cose belle sono belle, come è per Teccesso che tutte le erse grandi sono grandi : per esso infatti tutte sono grandi, e, quan- d'anche non sembrino tali, purché eccedano, é necessario che siano grandi » (1) Ippia dice (294 e.) « Ma il con- conveniente, o Socrate, fa le cose ed essere e parer belle, quando è presente (iiapóv) »; a cui Socrate : « E dunque impossibile che le cose realmente belle non sembrino belle, essendo presente (Trapóvxog) ciò che le fa parere tali » (2j. Parmen : 149 e : ♦ Se o TUno avesse piccolezza e le altre cose grandezza, o TUno grandezza e le altre cose piccolezza, quella delle due specie a cui fosse presente (irpoaefY]) la grandezza non sarebbe maggiore, quella, a cui la piccolezza, minore ? -Necessariamente— Sono dun- que queste due specie, la grandezza e la piccolezza ? se infatti non fossero, non sarebbero contrarie fra di loro, e non inerir ehhei o (lYYtY^o£o0'r]v) negli esseri. » (Il seguita mostra più chiaramente ancora che la grandezza e la piccolezza di cui si tratta sono delle Idee, delle astra-^ zlonì realizzate). Filebo 60 e. t La «yùat^ del bene in ciò. d fferisce dalle altre, che chiunque dei viventi a cui è presente (Tiaps^Yj) sempre, in tutto ed assolutamente, non ha più bisogno di niente altro, ed ha tutto ciò che gli (1) QujBsto oonYeniente è pure uà' entità trascendente ? ma chia- mandolo un inganno, Socrate suppone evidentemente eh' es-io en- tra nella sfera delle nostre percezioni. (1) Quest'eccesso è anch'esso un'entità trascendente? dovrebbe esserlo se il bello lo è, poiché Socrate dice che le cose grandi sono grandi per l'eccesso, come le cosa belle sono belle per il bello. In- tanto qui è evidente che la proposizione: le cose grandi sono grandi per l'eccesso, significa puramente e semplicemente ch'esse souq tali perchè eccedono. (2) Ippia, ch3 non sa niente dalla teoria delie Idee, può iiit^ix- dere altro per la presenta del conveniente che la presenza di un attributo nel soggetto? anche Socrate quindi deve intendere la stes- sa cosa, se tra i due interlocutori non vi ha un equivoco. — 43 basta perfettamente » (1) Rep. 437 d-e : « Socr. : La séte, in quanto è sete, non è Tappetito, neiranima, di qual- che cosa di più che ciò che noi diciamo (cioè la bevanda); non è, p. e., l'appetito di una bevanda calda o fredda, molta o poca, in una parola di qualche bevanda deter- minata; ma se alla sete si aggiunge (npooi) il calore, apporterà di più l'appetito del freddo, se si aggiunge il freddo, del caldo; e se per la presenza (jiapotiaCav) del molto la sete è molta, apporf^rà l'appetito del molto, se è< poca, del poco ; ma la sete stessa non é Tappetito di altro che di ciò di cui lo è per sua natura, vale a dire della bevanda stessa ; e cosi la fame del cibo. — Cosi è, disse Glaucone; ciascun appetito in se stesso é V appe- tito solamente dell' oggetto per se stesso a cui esso si riferisce per sua natura; Tesserlo di un tal oggetto o tal altro oggetto determinato sono dell.3 cose che si ag- giungono. » (2) Carmide 159 a : « É, chiaro che se in te è presente (napsoit) la temperanza, tu hai di che formarti un'opinione intorno ad essa. È necessario infatti che ine- rendo (IvoOaav) essa apporterà, s'è vero che inerisce (Iveotiv), qualche sentimento di se stessa, da cu! ti verrà un'o- (3) Il bene, di cui si tralt» nel Fileho, è incontestabilmente una Idea, un concetto realizzato, come si vede, p. e., a 66 a, in cui è chiamato il primo bene (denominazione per cui si designa l'Idea- V. Arist. fra gli altri, Klh. End. 1. I, VIII), e gli è assegnata una na- tura eterna (ciò che è il carattere distintivo delle Idee). Si negherà che la cptiatg del bene, di cui si parla a 60 e, sia la stessa cosa che n primo bene, di cui si parla a 66 a ? Ma perchè ? Il primo bene, l'Idea, non può essere che ciò che corrisponde al concetto, cioè ap- punto la cpóoi^ del bene. (2) Questo molto di cui vi ha la parasia nella sete è dunque una nuova circostanza, come il caldo e il freddo, non compresa nel con- cetto di sete, e che si aggiunge alla sete considerata secondo il con- oetto, cioè in astratto, come una differenza. pinione su ctó che sia e quale sia la temperanza. Non lo credi ? -Lo credo— E avendone un' opinione, polche «ai parlare greco, potrai dire ciò che essa ti sembra. - Forse-Dieci dunque che cosa sia, secondo la tua opi- nione, la temperanza, affinchè possiamo congetturarne se essa inerisce (Ivsaxiv) in te o no.» (Questa temperanza è l'oggetto a cui si riferisce la definizione, per conseguenza l'Idea della temperanza). Usis 217 c-e : « Alcune cese dico essere tali quale è ciò che è ad esse presente (tò Tiapóv), alcune altre no. Così fc un oggetio si tinge d' un certo colore, é presente (««psoxO, mi sembra, a ciò che si è tinto ciò con cai s. è tinto.-È present«-Ma ciò che si ò tinto è al ora dello stesso colore di cui è ciò che gl'inerisce (tò itióv) ì - Non comprendo- Co.ì forse comprenderai. Se i tuoi capelli, che sono biondi, si tingessero con la biacca, sarebbero bianchi, o piuttosto lo sembrerebbero ?- Lo sembrereb- bero-Eppure sarebbe presente (uapsCv)) in essi la bian- chezza --Sì - Con tutto ciò non sarebbero più bianchi di prima, presente (^«poùarif) la bianchezza non sarebbero L bianchi nò ner.-È vero - Ma quando, o amico, la wcdlia apporterà questo .tesso colore, allora saranno tali quale è, ciò che sarà presente (.6 u«p6v), bianchi per la presenza (^apouo(«) del bianco. -E come «oj-^^» questo io ti domando : ciò a cuiépre«en/e(u«p,) qualche 2oHa ^ sempre tale ..naie è la cosa che e presente {^o r.apó'v) ? ovvero lo è, se questa cosa è presente (««p,) in „n certo modo, se no, no ?-Così P-"-^«' f--,^^^^' Platone distingue la parusia in due specie, d. cu luna,a più intima, è evidentemente l' inerenza del at ri buto nel soggetto. Ora è questa sola specie d. paru sUche readrciò a cui una cosa è presente tale quale èquesta cosa : così è questa la specie di parusia che compete all' Idea, perchè la parusia dell'Idea rende le cose tali quale è l'Idea). -44- Naturalmente V interprete trascendentalista dirà al suo solito che in alcuni dei luoghi precedenti o forse anche in tutti Platone non parla delle Idee. Ma per- chè, se è un principio platonico che il concetto gene- rale si riferisce all' Idea ? A questo perchè egli non potrebbe dare che una «ola risposta : che nei casi in cui evidentemente si tratta d'nna realtà immanente, noi non possiamo ammettere che Platone parli delle Idee, perchè un'Idea platonica non pnò essere che un'en- tità trascendente. Ma non è questo un mettersi al di fuori di ogni discussione, e sostituire alle prove il pro- prio capriccio ? Sì può sfidare V interprete trascenden- talista a separare nettamente i casi in cui Platone parla delle Idee e quelli in cui no -tutte le volte, s'intende, in cui si tratta d'un concetto generale — ; a dirci, limitan- doci alla quistione presente, per esempio, come noi pos- siamo distinguere i casi, in cui la parusia significa l'i- nerenza deirattributo nel soggetto, da quelli, in cui si- gnifica non si sa qual rapporto misterioso tra un'entità trascendente e un oggetto della natura. L' impossibilità di fare questa distinzione dovrebbe renderlo accorto che il significato di questo tei mine non può in un caso dif- ferire sostanzialmente da quello che chiaramente ha in un altro. Gli esempi seguenti — come anche in parte alcuno del precedenti, segnatamente il penultimo — si riferiscono, nott ai termini 7iapo'jo(a, uapsivai ed equivalenti, ma ad altri analoghi, che esprimono l'inerenza delle Idee nelle cose d'una maniera anche più ch'ara. Cratilo 389 b (subito dopo aver detto che, se si rompe la spola, il fabbro guarderà, per farne un'altra, non alla spola rotta, ma all'sISo?, a ciò che è spola): '* Quando si tratta di fabbricare delle spole per delle stoffe fine o grossolane di filo o di lana o di qualaiasi altro genere, non è necessario che tutte abbiano (l/s^v) V si8o^ della spola? „ Eutrif. 5 d : '* Che cosa dici essere il santo e l'em- pio nell'omicidio e in ogni altra azione? non è lo stesso il santo in tutte le azioni ? e V empio, il contrario del santo ? non è lo stesso e simile e avente (Ixov) un'Idea unica, secondo l'empietà, tutto ciò che è empio? „ Menone 12 e: ** Le virtù, quantunque molte e dì- verse, hanno {Ix^'^^^) tutte un certo elòoq, lo stesso per cui sono virtù, al quale bisogna guardare per rispondere alla domanda : che cosa è la virtù?,,(!). Filebo 65 : ** Non potendo prendere il bene in un'Idea unica, prendiamolo in tre Idee, la beltà, la proporzione e la verità (qui tutti gl'interpreti convengono che si tratta del bene Idea).... Compariamo ciascuna di queste trcol piacere e l'intelligenza, e vediamo se l'uno o Taltra ha più affinità con esse-Parli della beltà, della verità e della scienza? — Si.... Dopo la verià, considera la mi- sura, se il piacere Ia possegga (xéxTYjtai) più della sapienza o la sapienza più del piacere — Anche questa quistione è facile a risolvere Io penso che non vi ha niente di più smisurato che il piacere e la gioia, né di più misurato che l'intelligenza e la scienza — Ottimamente. Rispondimi an- cora sulla terza cosa; l'intelligenza partecipa della beltà più che il piacere, in modo che l'intelligenza sia più bella del piacere, o al contrario? (2)... Il piacere non è dun- (1) Qui vi ha la parusia dell'Idea generica nelle Idee specifi- che : ma come l'abbiamo tante volte osservato, il rapporto tra la Idea generica e le specifiche non può essere diverso di quello tra l'Idea specifica e le cose particolari. (2) Esser più bella è l' effetto, partecipare di più alla beltà è la causa; ciò prova che questa è una partecipazione nel senso tee nico, cioè quella delle cose alle Idee. — 45 - ■ que né il primo né il secondo bene : ma il primo bene é circa la misura e il misurato e Topportuno e quant^altre cose tali devono credersi aver sortito una natura eter- na....,, (Non è chiaro che questa misura e questa beltà cheVhiteWigenzsL possiede o a cui partecipa più del piacere, sono delle Idee?). Fedone 103 b : " Allora (nella prima prova dell' im- mortalità) si diceva che dalla cosa contraila viene la con- traria, ora si dice invece che il contrario stesso non può mai divenire contrario a se stesso, né quello in noi (p. e. la mia 0 la vostra piccolezza, la mia o la vostra grandezza) né quello nella natura (la piccolezza e la grandezza in generale, cioè le Idee del piccolo e del grande). Allora, o amico, si parlava delle cose che hanno (sxóvxwv) i con- trari e che chiamiamo cel nome di questi (1), ora di que- sti stessi, dei quali inerenti (Ivóvtwv) le cose prendono il nome con cui le chiamiamo : è di questi stessi che dicia- mo che l'uno non può mai divenire l'altro,, (2) Ibid, 103esegg. : *'Vi ha qualche cosa che chiami Caldo e qualche cosa che chiami Freddo ?-C<'rtamente-E forse un caldo quale il fuoco e un freddo quale la neve?— No, per dio ! — Ma un Caldo che é altra cosa che il fuoco e un Freddo che è altra cosa che la neve? — Si (3)— Ora tu ammetterai, io credo, che giammai la neve, ricevuto (5ega|jiévY]v) il Caldo, resterà quale era prima, ma, venuto 0) Cfr. num. IT. caria lo, nota. (2) Cosi tanto il contrario in noi quanto quello nella natura sono inerenti nelle cose, e il contrario nella natura non può ine- rire in essa che nel senso stesso in cui v' inerisce il contrario in noi, cioè come un attributo nel soggetto. (3) Distingue il Caldo e il Freddo Idee, che sono propriamente oggetti a cui si riferiscono questi nomi, dalle cose fredde e calde, dai partecipanti. (Tipootóvxoc) ad essa il Caldo, è necessario che si sottragga o che perisca — Senza dubbio — E similmente il fuoco, ve- nuto ad esso il Freddo, deve o sottrarsi o perire, ma giam- mai potrà, ricevuto il Freddo, restare ciò che era prima — È ve.o — Tale è dunque la natura di certe cose come queste, che non solo l'eleoc stesso deve essere chiamato sempre dello stesso nome, ma anche qualche altra cosa, che non è quello, ma ha sempre, sinché é, la forma di quello. Ciò che io dico sarà forse più chiaro con questo esempio: l'Impari (l'elSo^ stesso) non é necessario che ««bbia sempre lo stesso nome ? — È necessario — Ora io ti domando : è la sola cosa che abbia sempre questo nome, o vi ha anche qualche altra cosa, che senza essere ciò che è r Impari, tuttavia deve sempre chiamarci, non solo col suo proprio nome, ma anche con quello d'impari, per- ché tale é la sua natura che non può mai essere abban- donata (àTioXeiTisaeat) dall'Impari ? (Se la parus^a dell'im- pari non fosse quella dell'attributo nel soggetto, il non essere mai abbandonata dall'Impari sarebbe una ragione per chiamare sempre una cosa col nome dell'Impari ?) Per esempio, la triade non deve sempre chiamarsi e col suo proprio nome e cen quello dell'Impari, quantunque que- sto non sia la stessa cosa che la triade? ma tale é tut- tavia la natura e della trirde e della pentaic e della metà di tutti i numeri, che ciascuno, quantunque non s'a ciò cheè l'Impari, é nondimeno sempre impari U).-. Ecco dun- que c^ò che io voglio dimostrare : che non solo i contrari non si ricevono (où dsxóiisva) fra di loro, ma ancora tutte quelle erse che, senza essere reciprocamente contrarie, (6) Queste ultime parole spiegano ciò che vuol dire non easere fnai abbandonata dall'Impari, hanno (Ixsi) sempre i contrari, non ricevono mai quella Idea che è contraria a quella che è in esse (èv aùxor; o5oib); ma venendo (èTrioùoYj^) questa, o periscono o si sottrag- gono. I tre, per esempio, non diremo noi che periranno 0 accadrà loro checchesia, avanti di divenire pari, men- tre sono tre? (L'esempio spiega che una cosa ricevere ridea contraria a quella che è in essa, significa : questa cosa acquistare V attributo contrario a quello che ha). Non solo dunque le Specie contrarie non soffrono Vac- cesso reciproco {oùx ÙTioiiévst èmóvx'àXXyjXa), ma anche certe altre cose (sia Specie sia cose particolari) non sof- soffrono Vaccesso dei contrari (cicè delle Specie contrarle) Queste cose sono quelle, le quali forzano ciò che occupano (xaxàax^) ad avere (toxsiv), non solo la propria Id-^ii, ma anche quelladi qualche contrario.— Come dici ?— Como di- cevamo poco fa : sai infatti che ciò che occiijm l'Idea del tre, è necessario, non solo che sia tre, ma anche dìspari (L'esempio, al solito, prova che la p«rasia dell'Idea non è che il possesso dell'attributo) -Certamente— Ora io dico che in una tal cosa (nell'Idea del tre) non enirenì (sXeoimai l'Idea contraria alla forma che è la causa di ciò — Giammai — Questa forma è la dispari — Si — La contraria ad essa è quella del pari — Sì — Nel Tre dunque non en- trerà (^gsO mai l'Idea del pari — Giammai — Cofì il Tre é privo (àjjLoipa) del Pari — Privo — Dunque e im- pari — Si — Vediamo dunque come possiamo deter- minare quali siano quolle cose, che, quantunciue non siano contrarie a una certa cosa, pure non ricevono («é- Xsxai) mai questa; come la Triade, che, pur non essendo contraria al Pari, non ricette mai il Pari, perchè sempre apporta (sTii^épsi) il contrario di questo; e la Diade il contrario deHImpari, e il fuoco quello del Freddo, e cosi via via. Vedi se possiamo determinarle cosi: non soKo il contrario non può ricevere il contrario, ma ancora quello che apporta qualche contrario alle cose in cui va {IrJ) non può ricevere il contrario di quello che apportai!) Io rlco mincerò a farli delle domande, e tu rispondimi, non quello stesso che io ti domando, ma un'altra crsa, seguendo lo esempio che io ti darò : io voglio dire che . oltre quella risposta sicura che abbiamo stabilito in principio (cioè che le c^se belle sono belle per il Bello, le cose grandi grandi per la Grandezza, ecc. :—v. 100-101), ne vedo una altra che nasce dalle cose che abbiamo detto ora. Per esem- pio, se tu mi domandassi cosa è che trovandosi in uno oggetto (q) àv zi lYYsvr]xat) questo diviene c^ldo, io non ti darei quella risposta sicura ed ignorante che è il Caldo, ma un'altra più dotta, che segue da quello che abbiamo detto ora, cioè che è il fuoco. Similmente se mi doman- dassi cosa è che trovandosi nel corpo, questo diviene ma- lato, non ti risponderci che è la Malattia, ma che è la febbre; e se mi domandassi cosa è che trovandosi nel nu- mero, questo è impari, non ti risponderei che è l'Impari, ma che è 1' unità ; e cosi per le altre cose (2). Intendi (6) Ciò che l'Idea apporto alle cose in cui ra, è evidentemente un attribnto di queste cose; ma è anche un'Idea, perchè i conlrari in tutto questo ragionamento sono considerati come delle Idee; per conseguenza noi dobbiamo intendere questo apportare (éTll^épeLv) noi senso più letterale,.o meglio più etimologico, possibile, cioè come se l'Idea portasse nelle cose in cui va il suo proprio attri- buto— quella delle Idee contrarie a cui essa partecipa - della stessa maniera che noi, entrando in un luogo, vi portiamo con noi ciò che teniamo addosso. Questo senso realista della parola è perfet- tamente conforme al carattere delle altre espressioni di cui Pla- tone si serve in tutto questo luogo, e prova l'identità. - numerica - dell'attributo nell'Idea che ajrporta il contrario e nelle cose in cui lo apporta, (2) Questo caldo, questa malattia, questo impari sono le Idee; se no, rispondere che un oggetto è caldo per il caldo, ecc. non sarebbe quella risposta ignorante o sicura stabilita nel principio, perchè questa consisteva a spiegare l'essere e il divenire delie cose - 47 - I - ciò che voglio dire ? - Perfettamente - Rispondimi dun- que cosa "è che trovandosi (in^v^xo. e. «.) in «n corpo, lesto è vivente? - L'anima -E sempre cos ? - Sem- iJe- L'anima apporta dunque sempre m c.o che oc- ^ t „vv^ la Vita ' - Senza dubbio - Vi ha un con- cupa (xataoxiQ), la vita . ocu trario della Vita, o non ve ne ha ? - Vi ha - Qual è . La Morte -Dunque l'anima non nc«,«.rà mai il contrario dTò che eei apporta sempre, secondo il pnnc.p.o d, cui sopra siamo convenuti - Senza 'l'ib^'«-^** ^f™; abliamo chiamato poco fa ciò che non può '•'<^7; > 1^«» del nari •> - Impari - E ciò che non può ricevere la Morte, come lo chiameremo V-Immortale - Ma l'anima non può I" ere la Morto - No - L'anima 6 dunque immortale > — Immortale. » . .• e,, fnHn \\ poh- Bisogna ora fare alcuno osservazoni su tutto U con tPsto La prima è che non potrebbe esservi alcun dub- K .hH nomi cho io ho scritti con la maiuscola o che lo Ire e"u" d ila parola Idea, non designino realmente r:,^::rr,n":,cu„e den» -o^ 0 Ohe H,e.»r„ h. nello stesso senso in cui it si ^'^^ Platone, secondo la quale giusta 1. ^^^^^^-^ZTIZT^^^^^^^^'^^ ^— ^"'^ quella di una parte nel tutto. potuto notare da se stesso; ma è dichiarato esplicitamente dallo stesso Platone. E in effetto egli fa precedere questa prova dell'immortalità, che ritiene la più rigorosa, da una esposizione della teoria delle Idee, perchè per ottenere una tal prova è necessario, egli dice, di es-iminare a fondo la causa della generazione e della corruzione (95 e-9G a), 0 questa causa è la presenza o partecipazione delle Idcn e la loro sottraziono (99 d e ^^g^») ; e a 100 b Socrate dice a Cobete che, se questi gli accorda Trsìstenza delle Idee, egli gli dimostrerà che Tanima è immortale. Qual è il legame tra qu'^sta dimostrazione dell'immortalità del- Tanima e la teoria delle Idee? E che questa teoria ap- presta la base, per dir cosi, induttiva al principio che è il cardine deirargomento, cioè che una cosa che confe- risce sempre un certo attributo alle co^e che essa occu- pa, non può mai avere l'attributo contrario. Platone fa vedere prima che questo principio si verifica nel rapporto tra le Idee e le cose, che il Tre, p. e., che rende sem- pre impari tutto ciò che occupa, non può mai essere pnri ; e ne conclude per analogia che il principio deve pure verificarsi nel rapporto tra Tanima e il corpo, per con- seguenza che Tanima, la (juale rende sempre vivente tutto ciò che occupa, non può m«i morire. Cosii tutta la forza dall'argomento sta nell'analogia tra la parusia dell'Idea nelle cose e qaella dell'anima nelT ess»»re vivente (se- condo la dottrina aiiimìsta) : se l'astratto non fosse nel concreto come l'anima è nell'essere animato, vale a dire come una realtà avente un'esistenza propria e distinta; se il Tre, p. e., fosse un semplice attributo delle cose che Hi dicono tre, e non un attributo elevato al grado di realsostanziale; 1' aoa'ogia non esisterebbe, e mancherebbe all'argomento ogni forza probante. L'argomento suppone dunque la dottrina delle Idee — la realizzazione delle - 48 — »»i-i astrazioni —, e al t^mpo stesso che le Idee siano presenti nelle rose, come ranima è presente neiressere animato. Qualche dubbio potrebbe forse sorgere relativamente allo Idee dei contrarli: caldo, freddo, pari, impali, ecc. Siccome Platone ha distinto un po' sopra il contrarlo in noi e il contrario iiella natura, l 'interprete trascendenta- lista potrebbe obbiettare che nel nostro contesto il caldo, il freddo, il pari, V impari, ecc. corriFpondono forse al contrario in noi, e non al contrario nella natura, e che non è necespario che siano il caldo, il freddo, il pari, lo impari, ecc. Idee. Ma quest'obbiezione non varrebbe nien- te, perchè per il contrario in 7wi Platone intendeva l'at- tributo considerato, non nel suo concetto generale, ma come proprit tà di una cosa particolare, fenomenalmente, quantunque non realmente, distinta dalle proprietà omo- nime delle altre cose particolari (1) ; e Pattributo consi- derato cosi, cioè individualizzato, fenomenalizzato, Pla- tone non lo considera come avente una realtà propria e distinta ; questa non compete che all'attributo conside- rato secondo il concetto generale, all'Idea Ora nel nostro luogo il caldo, il freddo, il pari, Pimpari ecc., designano i^conte^tabihnente ciò che corrisponde al concetto gene- rale, e delle entità reali: quindi non può trattarsi che del Caldo e del Freddo, del Pari e dell'Impari, ecc. nella natura, vale a dire delle Idee. In secondo luogo si deve osservare che tale è l'energia dei termini designanti la parusia dtllo Idee (venire, andare, entrare, occupare, es- sere in, ecc. da parte delle Idee, e da parte delle cose o delle Idee inferiori overe, ricevere, ecc.), e la compara- zione con la presenza dell'anima nell'essere vivente è tal- (1) V. 11. vin. mento indispensabile all' argomento di Platone, che se per questa parusia non si deve intendere la presenza del- l'attributo nel soggetto, non ci resta che di ammettere che Platone paragona la presenza delle Idee nelle cose a quella dell'anima, non nell'essere animato, ma nel corpo, o, prendendo quest'analogia nel senso più stretto, che le Idee sono presenti nelle cose d'una presenza locale, come l'anima nel corpo, e che esse sono la causa della gene- razione e della corruzione entrando nelle cose ed uscen- done, precisamente come la teoria animista suppone che l'anima è la causa della vita e della morte entrando nel corpo ed uscendone— la presenza di Dio nel mondo a cui abbiamo paragonato la parusia delle Idee secondo l'interpretazione trasccndentali^^t*», è una comparazione troppo inadequata alla energia delle espress'oni di cui 8i serve Platone e al parallelo eoa la presenza dell'ani- ma nel corpo — Io credo che non vi sìa alcun interprete che voglia dare questo significato alla parusia platonic*», prestando a Platone un concetto, che oltre a dotare le Idee della prodigiosa facoltà, attribuita a certi santi del cattol'cismo e di ultre rcli>:ioni, dì trovarsi al tempo st*»>so in molti luoghi, sarebbe in contraddizione con le affer- mazioni dell'autore, il quale diithiara che le Idee non sono in alcun lu'^go (l) — naturalmente noi non possia- mo dare alcuna importanza alla frivola distinzione degli scolastici non in loco, sed ubi, perchè queste parole si- gnificano semplicemente che l'anima è in luogo e non lo è —; ma Fé ve ne fosse qualcuno, bisognerebbe fargli riflettere che quest'inconseguenza di dare una posizione "nello spazio a ciò che è immateriale, se si comprende (J) Tim, 52 b-c. Lg Idee non sono in alcun luogo, quantunque le co^, di cui sono gii attributi, sono in un luogo, perciiè l'essere in un luogo non compete che a ciò che è esteso. — 49 — If- quando l'essere immateriale di cui si tratta è uno spirito, sarebbe inanimissi jilc trattandosi di eat'tà come le Idee platoniche. Ciò è perchè questo quid, questo substratum sconosciuto, che si chiama sostanza nello spirito, noi non lo concepiamo che sul tipo di ciò che si chiama sostanza nel covpo, vale a dire di questa cosa che persiste nello hpazio, della materia; e tutto ciò che ci sugjferisce di rap- presentabile la parola sostanza -nel senso della parola In cui si dice che l'anima è una sostanza (l)-,nori è che la sos'anza materia, ciò che riempie lo spaz'o; non è dun- que strano che, anche dopo che la concezione, affatto materialista, dell'animismo primitivo è stata sost.tu-t i da concezioni più raffinate, si continui ad attribuire allo sparito, considerato come una sostanza, delle determnia- zioni che non competono se non alla materia. Ma Pla- tone non potrebbe rappresentarsi le Idee come aventi una posizione nello spazio, p-.rchè egli non immagina in esse niente di analogo a questo substratum, concepito, corno abbiamo detto, sul tipo della materia, che lo spirituali- sta immagina nello spirito ; poiché l'Idea platonica non è che il contenuto del concetto realizzato, l'attributo con- siderato, nella sua astrazione, come avente un'esistenza propria e distinta, e niente altro di pivi. Si osservi, in terzo luogo, che, se la p=»ru>ia dell'Idea non è l'inerenza dell'attributo nel foggctto, il ragiona- namento di Platone non può avere alcuna pretesa a quel- l'evidenza dimostrativa eh» l'autore si propone. I.-i pro- posizioni che Platone stabilisce come evidenti per se stesse non sono tali che nell'ipotesi dell'immanenza delle Idee. Per esempio, egli stabilisce il principio che le cose che hanno sempre l'uno di due attributi contrari non poFsono (1) V. App. al'a parte prima. mai ricevere Tldea contraria a quella che emesse: che p. e. il fuoco, essendo essenzialmente caldo, non può ri- cevere l'Idea del freddo, il Tre, essendo dispari, quella del Pari, ecc. : neiripotesì àaW immanenza, nient^. di più evidente di questo principio, perchè esso non è che l'enun- ciato, in termini realisti, del principio di contraddizione. Ma se l'Idea è trascendente, quale inconseguenza— io parlo d'un'inconseguenza assoluta, d'un'impossibilità logica- vi sarebbe a supporre che in una cosa possa esservi la parusia dell'Idea corrispondente all'attributo contrario a quello posseduto da questa cosa? e perche la parusia di un'Idea sarebbe incompatibile con quella simultanea del- l'Idea contraria, se queste Idee fossero separate T una dall'altra e tutte e due dalle cose a cui si dicono essere presenti? Similmente, quando Socrate dice: '* È neces- trario che le cose che occupa l'Idea del tre siano, non solo tre, ma anche impari,„ si potrebbe rispondergli : Ma per- chè? Perchè le cose a cui è presente l'Idea del tre — se questa presenza deve intendersi nel senso trascendenta- lista—non sarebbero invece quattro e pari? In effetto, neir ipotesi della trascendenza, non vi sarebbe alcuna connessione necessaria, visibile a priori, tra la parus'a dell'Idea e l'iaeronza dell'attributo corrispondente a que- st'Idea. E della stessa maniera che, in quest'ipotesi, si perderebbe 1' evidenza delle proposizioni che servono di premesse al ragionamento, si perderebbe egualmente quel- la della crnnessione tra una proposizione ed un' altra, perchè questa connessione è il più delle volte fondata sulla sostituibilità reciproca tra la inerenza dell'attributo e la parupia dell'Idea corrispondente. Dalla proposizione che in un numero non vi può essere la parusia del Pari non si potrebbe concludere coìi necessità che questo nu- mero è dispari ; dalla proposizione che nell' anima non vi può essere la parusia della Morte non si potrebbe con- cludere con necessità che l'anima è immortale, perchè, come abbiamo detto, non vi sarebbe alcuna contraddi- zione a supporre simultaneamente in una cosa la paru- sia deiridea e l'inerenza dell' attributo di nome coiit-a- rio. Ma per vedere la giustezza della nostra osservazioup, basterà di restringersi alla proposizione fru cui s'incar- dina tutto il ragionamento di Platone e che noi abbiamo chiamato la b?se induttiva di questo ragionamento, cioè che un'Idea non può avere l'attributo contrario a quello che essa conferisce alle cose con la sua parusia. E indu- bitabile che Platone riguarda questa proposizione come evidente per se stessa, e non avente bisogno per essere ammessa che di essere enunciata e ccmpresa — si rilegga la pai te del luogo citato in cui questa proposizione viene staliliia — ; e tale è in effetto ueiripotesi dell'immanenza delle Idee: ma iicU'ipotesi della trascendenza, in cui la coincidenza tra la parusia dell'Idea in una cosa e la par- tecipazi(»ne. di questa cosa all'attributo omonimo (e quindi a ciascuno degli attributi più astratti ; acchiusi in que- st' attributo) è, non e uni conrcssione necessaiia ed a |TÌori, ma un mistero inesplicabile, la proposizione diviene una pura affermazione dommatica. Senza dubbio, purché si ammetta il principio che la parusia doU'Idea e la causa per cui le cose possiedono l'attributo dello stesso rome, il rrgionamento di Platone corre, anche neiripot**si della trascendenza : uìa siccome (luesto principio è, in questa ipotesi, non un assioma, ma un postulato — nel senso aristotelico della parola postulato — e questo postulato è sottinteso a ciascun passo del ragionamento, questo per- de ogni chiarezza, e non può più aspirare ad essere una dimostrazione^ come Platone evidentemente pretende (1). (i) Aggiungiamo che, secondo gl'interpreti trascendentalisti, questo postulato non ha per Platone, almeno nel Fedone, che il valore di una semplice ipotesi. In efletto il luogo del Fedone (loo d) in cui Platone Se le Idee sono gli attributi generali delle cose nelle cose stesse, ma considerati come entità reali, di cui cia- scuna ò una e la stessa in tutte le cose di cui l'attributo viene predicato, l' impiego della parola partecipazione (|ié0sEi;) e sinonimi, per indicare il rapporto delle cose alle Idee, uon è meno naturale che quello della parola presenza e sinonimi per indicare il rapporto delle Idee alle cose. Partecipare ad una cosa letteralmente significa averne una parte, o avere il tutto, ma in comune con altri; e ciò, quando questa cosa è un Attributo, qual è l'Idea anche secondo l'interpretazione trascendentalista, non può voler dire altro se non che essere uno dei sog- getti ai quali quest'Attributo è comune. Di più questo significato adempie all'altra condizione, a cui deve con- formarsi il (lignificato di questo termine, che è di asse- gnare, nel tempo stesso che indica il rapporto tra le cose e le Idee, la ragione per cui le cose sono ciò che sono : in effetto, la causa per cui una cosa è buona, è bella, è grande, ecc., è, secondo Platone, perchè essa partecipa all'Idea del buono, del bello, del grande, ecc. La par- tecipazione delle Idee — e la stessa osservazione vale an- che per la parusia — è una causa che spiega^ nel senso metafisico della parola spiegazione, perchè le cose hanno i loro attributi ; tra la causa— la partecipazione o paru- Rupponc la parusia delle Idee come causa alle cose dei loro attributi, Sembra ri^^uardare la parusi;i e 'a partecipazione come due ipotesi distinte, di cui si può ammettere luna o l'altra, per ispiegare l'assimilazione delle cose alle Idee. Noi vedremo più giù che il vero senso del luogo non è questo, perchè la parusia e la partecipazione non sono due cose divei'se, ma due espressioni che significano una sola e stessa cosa : ma V in erprete trascendentalista deve necessariamonte intenderlo cosi, perchA, per dare di questi due termini un'interpretazione conlorme all'ipotesi della trascen- denza, egli è obbligato ad attribuire ad essi due signifirati ditterentl. — 51 — i< r. 1 * •f: sia dellldea - e l'effetto - la possessione dell' attributo corrispondente - essendovi un legame necessario e visi- bile a priori, e senza questa coudizione la ragione che si assegna di un fatto non potendo essere, per un meto- fisico, una spiegazione di questo fatto (1). Ma non solo questo significato del termine partecipa- zione - cioè la possessione di un Attributo che si ha m comune con altri soggetti - è quello che è il più natu- rale ma è anche il solo che dia alla parola un senso reale, vale a dire che le faccia esprimere un concetta determi- nato. Neil' ipotesi della trascendenza delle Idee, non vi ha tra le cose e le Idee altro rapporto immaginabile che la somiglianza: dicendo che le cose partecipano alle Idee, Platone vuol dire, fecondo l'interpretazione trascenden- talista, che le Idve, separate dalle cofc . comunicano a queste degli attributi simili ad esse ; che le cofc diven- gono somiglianti alle Idee, per un'influenza delle Idee sulle cose. Ma quale è il modo di questa comunicazione? in che consiste questa influenza ? Il come dell efficienza delle Idee trascendenti è inconcepibile ; noi non possia- mo formarci alcun' idea di quest'azione per cui esse ren- (1) t evidente che, .,uan,1o Platone .lice cl.e una cosa P»^««'P'' « '^•""• al buono ecc., ..el significato di queste proposiziom è contenuta 1 a^lenna zione che la cosa è bella. <> buona ecc.. Ma non i n.eno «vWente che le stesse proposizioni assegnano al tempo stesso la causa per '^•" '^"^ « bella, /buona, ecc.: se no come potrebbe egl, dire che '- J- j ^"^J", la partecipazione del bello, buona per la partec.p.7..one del bnono. ecc. 1,1 termine partecipu.iou. signiHca -A tempo stesso ""/f "° "j '» P^'^^^,': sessione di un certo attributo -, e la causa .1. .,ues o latto C è perche qui il fatto e la sua causa non so..o due '"""J'""" ' X'"' '" f",^ del fatto -vale a dire la partecipazione o p.rusta dell f > - "°° '^."^^^ il fatto stesso -la possessione dell'attributo corrispondente - .nten.reta^o secondo una teoria particolare, tradotto, dal linguaggio comune, nel Un- guaggio della dottrina recluta^ derebbero le cose simili a se stesse. Platone, con la pa- rola partecipazione, intende indicare nn rapporto tra le erse e le Idee, che contenga una ragione dell'essere delle cose e dei loro attributi. Ma supposta la trascendenza ^qWq Idee, non può tra le cosce le Idee immaginarsi alcun rap- porto che spieghi perchè le cose sono ed hanno i loro attri- buti; tanto meno quindi potrebbe immaginarsene qualcuno che aggiungesse a questa condizione quella di poter essere denominato con la parola partecipazione : ne segue che, nella supposizione della trascendenza, non vi ha alcun concetto determinato che possa corrispondere a questa parola. Ciò è tanto vero che ^V int< rpreti trascendeur talisti sono obbligati a convenirne : Platone, dicono que- st'interpreti, non ha determinato la vera naUira del rap- porto tra lo Idee e le cose, egli non ha detto che cosa è la metessi, la paiusia, ecc. (1); e in prova della loro tesi citano certi luoghi d'Aristotile, che io devo mettere sotto gli occhi del lettore, per fissar bene lo stato della quistione sull'interpretazione della metessi platonica. Ecco dunque questi luoghi. Mei, l.I. VI. 2: « I Pitagorici di- cono che gli esseri sono per l'imitazione dei numeri; Pla- tone, mutando il nome, p( r la partecipazione delle Spe- cie; ma che cosa sia questa imitazione o questa parte- cipazione, vattel'a pesca (àcpsiaav sv xotvqj ^rjxsrv) v . Ibid 1. I. IX. 21 : ** Volendo dire la sostanza delle cose sensibili, po- niamo (noi platonici) altre sostanze; ma come queste siano sostanze di quelle, lo diciamo vanamente (5ià xsv^^), poiché la partecipazione, come abbiamo già detto, è nien- (1) V. Chiappelli. V interpretai, panteist. di Piatone, pzg. 104, 149, 166, ecc. ^ 52 - \ te » (1) Ibid. 1. 1. IX. 8 : € Dire chele Specie sono degli esemplari e che le altre cose ne partecipano, è pronun- ziare delle parole vuote di senso (xsvoXoystv) e fare delle metafore poetiche». Sui due primi di questi luoghi dobbiamo osservare che la critica che essi contf»ngono non ha necessaria- mente il senso che le danno gì' interpreti trascendenta- listi, vale a dire che Platone non attaccava alla parola partecipazione alcun concetto preciso. Forse gl'interpreti trascendentalisti hanno ragione d' intenderla così e di ammettere ch'essa suppone (nel concetto d'Aristotile) la trascendenza delle Idee : ma questa critica Aristotile avrebbe potuto farla, anche supponendo l' immanenza delle Idee; in questo caso esfa vorrebbe dire, non che la parola partecipazione non significa alcun concetto determinato, ma che la partecipazione — la cosa corri- spondente al concetto significato da questa parola — è un che d' inintelligibile- ciò che è perfettamente vero -, perchè non si comprende, e Platone non ha fatto niente per fare comprendere, come una sostanza può inerire in altre sostanze quale attributo, come l'uno può esistere si- multaneamente nei molti, e tutte le altre impossibilità della dottrina delle Idee. Che il senso della critica sia questo o sia piuttosto quello che vogliono gl'interpreti trascendebta- lisli, è ciò che io non oserei affermare ; perchè, come vedremo a suo luogo, le testimonianze d'Ai istotile sulla (1) Notiamo che V indicazione contenuta in questo luogo, cioè che per la partecipazione i platonici intendevano spit-gare come le Idee fossero le sostanze delle cose, è una prova che il signitì'-ato della parola partecipa- zione è quello che noi diciamo: se intatti la partecipazione non sigiiili- casse r inerenza del partecipato nel partecipante, come Platone avrchbe potuto pretendere di spiegare [)er la partecipazione come le Idee, cioè i partecipati, fossero la sostanza delle cose, cioè dei parteciiianti i quistione del^immanénza o trascendenJid delle Idee soùó incerte e discordi; e per conseguenza, per alcune dello sue critiche, è difficile decidere se esse sono fatte nella suppos'Z'one dell'immanenza o In quella della trascen- denza 0 abbracciano l'una e l'altra supposizione (com'è probabilmente il caso per quella di cui parliamo) In quanto all'ultimo dei luoghi citati, il rimprovero ch'esso contiene è diretto senza dubbio alle Idee t'ascendenti; perchè Aristotile suppone che il rapporto tra le Idee e le cose non sia che quello tra il modello e le copie (vedi tutto il contesto Mei. 1. I. IX. 8-10); e ci dice nettamente ciò che, con o senza la confessione degl' interpreti tra- scendentalisti, sarebbero, nella loro interpretazione, la partecipazione e tutti gli altri termini indicanti il rap- porto tra le Idee e le cose : delle metafore poetiche e delle parole vuote di senso (1)., Forse il lettore dirà ch'egli non comprende quale sia la d^flPercnza tra una parola vuota di senso e una cosa inintelligibile; e che, se è vero, come io lo confesso, che la partecipazione, nel senso che io attribuisco a que- sto termine, è un che d'inintelligibile e racchiude delle impossibilità logiche, non si vede qual vantaggio abbia l'interpretazione che io ammetto, tu quella degl' luter- ei) Ai Inoghl citati d'Aristotile possiamo aggiunja^erne un altro che é in Met, 1. vili. VI. 6, in cui dice che i platonici sono incerti nel deter- minare che cosa sia la partecipazione e quale sia la sua causa. Ma dob- biamo noi realmente ammettere nei platonici quest' incertezza che loro at- tribuisce Aristotile^ o dobbiamo supporre piuttostd che Aristotile, esitante sul significato della dottrina platonica, attribuisce alla dot^rina stessa quell'incertezza che ò nel suo proprio spirito- Cioè tanto più verisimile che questa dottrina, oltre di riunire degli elementi fra di loro incompati- bili, è vestita talvolta, come nel Timeo, di certe rappresentazioni che, sel'ossero prese alla lettera, sarebbero in contraddizione coi ccncelti filoso- fici di cui esse non sono che un'espressione simbolica. — 63 — l>-t III preti trascendentalisH, che confessano che a questo ter- mine non cosrisponde alcun concetto determinato. Non ò qui il luogo di determinare d'una maniera rigorosa la differenza tra una parola vuota di senso (cioè a cui non corrisponde alcun concetto determinato) e una cosa inin- telligibile : ma, all'ingrosso, possiamo dire che vi ha questa differenza che, mentre delle parole vuote di senso non indicano alcun" idea, almeno alcun'idea precisa, delle parole che significano xina cosa inintelligibile, indicano delle idee determinate, precise, ma queste idee sono tra di loro incompatibili, non possono fondersi in una rap- presentazione unica. Per me, e per tutti quelli che am- mettono 1 princlpii della filosofia dell' esperienza, ogni ipotesi metafìsica o, più generalmente, metaempirica — l'Idea di Hegel o la Sostanz.-\ di Spinoza o 1' Assoluto della metafisica ordinaria, ecc., della stessa maniera che lo spazio pseudosferico o a n dimensioni degli odierni me- ta<rcometri-è una cosa inintelligibile, in questo senso della parola inintelligibile; e il perchè è facile a dirsi : è che rappresentarsi per noi equivale ad immaginare, e noi non possiamo immaginare se non ciò che può es- sere l'oggetto dei nostri sensi o della nostra coscienza, 0 che ha con gli oggetti dei nostri sensi o della nostra coscienza una somiglianza definita. Per tutte le idee che i mrtaempirici pretendono di farci concepire, essi ne prendono gli elementi nel mondo dell' esperienza, cioè dei sensi e della coscienza; ciascuno di questi elementi è un predicato generale che conviene a una classe di og- getti sperimentabili o almeno immaginabili ; ma non vi ha alcun oggetto, né sperimentabile né immaginabile, a cui tutti questi predicati generali, presi insieme, possano convenire (1) . Macon tutto ciò nessuno pretendi-.rà seriamen- te che Spinoza, Hegel e tutti i metafisici e i metaempinci in generale non sanno quello che si dicano : ora quando io dico che la partecipazione è una cosa inintelligibile, io affermo semplicemente che Platone, come tutti i metafi- sici e roetaempirici, ha detto delle cose che non possia- mo immaginare; ma quando l'interprete trascendentalista afferma, sulla testimonianza o pretesa testimonianza d A- ristotile, che la partecipazione è una parola a cui non corrisponde alcun concetto determinato, che Platone non ha detto che cosa sia la partecipazione, la parusa, ecc., ciò che questo significa, in lingua povera, è appunto che Platone, il divino Platone (come lo chiamano quest In- ter petri), non sa quello che si dica. Premesso ciò, diamo degli esempi dell' uso che Pla- tone fa del termine metessi e sinonimi : da essi il let- ture potrà vedere che il senso di questi termini e chia- rissimo-quantunque implichi delle impossibilità logiche- e che noi non siamo ridotti alla necessitàdi ammettere che essi sono delle parole vuote di senso come vogliono gli interpreti trascendentalisti. Naturalmente il solo impiego di questi termini che ci interessa, e a cui si limiteranno i nostri esempi, è quando la cosa a cui si partecipa e un astratto, e la cosa che partecipa riceve, per questa jiarte- cipazione, il predicato corrispondente a quesf astratto. Neil' immensa maggioranza dei casi - di quelli, s'intende, in cui l'uso dei termini è questo che ho d. tto - 1 imma- nenza del partecipato nel partecipante è evidente; ma, il p ù spesso, non lo è altrettanto che il partocipato sia un Idea, cioè che esso sia considerato da Platone come un'entità sus- sistente per se stessa - quantunque ciò possa presumers', in viriù del principio platonico che l'oggetto del concetto (1) V. Saggio I p. 421 e 425, 629, KJ3. — 54- generale è l*Idea (1). Ma anche allora il luògo non é senì^a importanza come prova del significato della metcssi : per- ciò alcuni dei nostri esempi saranno presi da questa nu- merosa classe di luoghi, in cui il senso immanente è in- contestabile, ma si può dubitare che Platone consideri come un'Idea V astratto a cui si partecipa ; e comince- lemo da essi: Leggi 902 b: (per provare che gli dei hanno cura de- gli affari umani). « Gli affari umani non partecipano (^is- Téx^O della 9001^ animata, e di tutti gli animali non è l'uomo che venera massimamente gli Dei ?— Certamente — Ora tutti gli animali mort^ili appartengono agli Dei, a cui appartiene tutto l'universo ». Ibid. 963 e : (spiegando la distinzione tra la fortezza e la prudenza) « Tuna (la fortezza) si riferisce al ti- more, e ne partecipano (iisiéxeo anche le bestie e i co- stumi dei piccoli fanciulli; infatti per natura e senza ra- gione Tanimo diviene forte; al contrario senza ragione Tanirno non fu né è né diverrà mai prudente e dotato d'intelligenza, ciò essenlo un'altra cosa.» (1) In qualche caso vi hanno anzi delle circostanze che sembrano eslu* dere che Platone pensi a realizzare l'astratto a cui egli dice che una cosa partecipa, P. e. nel Politico 273 b, dove dice che la natura corporea par- tecipava di molto disordine prima di essere ridotta all'ordine presente; o nel Filebo 18 e, dove parla della specie di lettere che partecipano, non della voce, ma di qualche suono (in questi esempi, le parole molto e qual- che^ particolarizzando il concetto, indicano che il discrdine e il suono a cui si partecipa, non devono essere prosi nella loro generalità, e non pos- sono, per conseguenza, essere delle Idee) — Nel Par#/i<rw. 133 e — 13 i h, in cui, distinguendosi gli attributi fenomeni dalle Idee, si dice che le coso partecipano ai primi ma non alle seconde, la parola partecipare (|A£TéX£«v) ha un siguidcato did'erente dall'ordinario e affatto speciale a questo luogo isolato. |l TYm. 51 e : (per provare che rintelligenza e l'opinione vera sono due generi diiferenti) « Tuna nasce in noi per ristruzione, Taltra per la persuasione; Tuna è sem- pre accompagnata dalla vera ragione, l'altra è senza ra- gione; runa non può esser mutata per alcuna persuasione, l'altra è soggetta a questo mutamento; dell'opinione vera partecipa ({jLsxéxsO ^g'^l uomo, dell'intelligenza gli dei e solo un piccolo numero degli uomini ». Sof. 24^^ c-d; « Noi abbiamo stab'l ta come sufficient<5 questa definizione dell'essere, cioè quando in qualche cosa è presente (Tiap^) la potenza di patire o di agire rapportò a qualche altra cosa, anche la minima — Si — Ma a ciò rispondono Tgli amici delle Idee) che il divenire è partecipe (ysvéasi iiéxsoxi) della potenza di agire e di patire, ma questa potenza non conviene all'essere — Ed hanno ragione? — A ciò noi diremo che li preghiamo di dichiararci più nettamente se consentono che l'anima co- nosce e Tessere è conosciuto. — Essi lo confessano — Ma che? il conoscere o l'esser conosciuto chiamate voi azione o passione o l'una e l'altra cosa? o l'uno passione e l'al- tro azione? o dite che nò l'uno nò l'altro partecipano (•isxaXaii^avsiv) ad alcnna di queste due cose? » liep, M2 b-c: ♦ Se traveremo quale sia la giustizia, esigeremo forse che l'uomo giusto non debba niente dif- ferire da c<?sa, ma esigere assolutamente quale ò la giu- stizia? o basterà se si approssima ad essa e ne partecipa (jisxéxiù) più di ogni altro ? » Itep. 178 de : « Non abbiamo detto sopra (1) che fc qualche cosa ci apparisse tale che fosse e non fosse al tempo stesso, questa sarebbe media tra il puro essere e U) V. iT7 a-b. — 55 - il non essere assoluto, e non le spetterebbe né la scienza DÒ rignoranza, ma ciò che apparirebbe medio tra la scien- za e l'ignoranza?— Si — Ora media tra di queste ci ap- parve ciò che chiamiamo opinione (1) — Si — Quello che ci resta dunque a trovare è ciò che partecipa (iisxéxov) dell'uno e dciraltro, cioè deir essere e del non essere, e che non può rettamente chiamarsi ne essere puro nò puro non essere, affine di chiamarlo a buon dritto, se noi lo troveremo, opinabile, attribuendo il med'o al me- dio e gli estremi agli estremi > (In seguito mostra che questo medio tra 1' essere e il non essere sono le cose sensibili, perchè di esse può dirsi al tempo stesso che sono e che non sono. V. 479 a-d.) Rep. 585 b-d: (per provare ehe i p'acerì dello spirito sono più veri che quelli del corpo). « Qual riempimento è più vero, quello che si fa per le cose che sono più (cioè, come spiega in seguito, che hanno più essere), o quello che si fa per le cose che sono meno (cioè che hanno meno essere) ? — Senza dubbio quello che si fa per le cose che sono più.— Ora quali generi credi che partecipino (|xsxéxe'->') più al puro essere, quelU del cibo e della bevanda e di tutto ciò di cui il corpo si nutrisce, o l'elSo; deiropinioae vera, della scienza, dell'intelligenza e in una parola di tutte le virtù? É cosi che devi giudicarne: ciò che è con- giunto al sempre simile e immortale e alla verità, e tal è esso stesso, e in un tale nasce, ti sembra essere più, che ciò che è congiunto al mortale e non mai simile, e tale è esso stesso, e in tale nasce? -Di gran lunga è superiore ciò che è congiunto al sempre simile — E l'es- senza dei sempre simile partecipa (fiexéxeO più all'essere (1) V. 477 b - 478 d. che alla scienza?— No— O che alla verità?— Nemmeno (1) — Se partecipasse meno alla verità, non parteciperebbe meno all'essere? — Necessariamente — In generale dunque i ge- neri che spettarne alla cura del corpo partecipano diexéxsO alla verità e all'essere meno di quelli che spettano alla cura dell'anima? — Molto meno — E il corpo stesso meno dell'anima? — Si — Dunque ciò che si riempie di cose che p'ù sono ed esso stesso più è, si riempie più real- mente che ciò che si riempie di cose che sono meno e meno è esso stesso ? — E come no?»Leggi 859 e-860 a : (per mostrare che, chiamando turpi le pene inflitte ai delitti, ci mettiamo in contraddi- zione con la massima che ciò che è giusto è bello) « .... se tutte le cose che si attengono alla giustizia sono belle, nel numero di tutte sono anche le passioni che subiamo, le quii li sono pressoché uguali alle azioni che facciamo — E che perciò? — Ogni azione che è giusta, quanto par- tecipa (xoivwv^) del giusto, altrettanto è partecide (jisxéxov) (1) L'essenza del sempre simile partecipa alla scienza, perchè l'esser sempre smii'e è un attributo della scienza. In questo caso la metessi ha dunque un senso digerente dall' ordinario. Ordinariamente è l' individuo che si dice partecipare della specie, e la specie del genere : ma in questo caso è il genere che si dice partecipare della specie, il concetto di sempre simile essendo più esteso che quello di scienza, e comprendendolo nella sua estensione. Tuttavia quest'altro senso della partecipazione potrebbe ricondursi al senso ordinario, in quanto il genere, so non partecipa— nel senso ordinario della parola — alla specie nella sua totalità, vi partecipa in parte, cioè in alcuni degl' individui che esso comprende. Si noti che se il genere fosse separato dagl' individui, come sarebbe nell' interpretazione trascendentalista del sistema delle Idee, e non immanente in essi, e iden tico in certo modo con essi— perchè, come abbiamo visto, l'uno è i molti e i molti sono l'uno—; Platone non potrebbe atti ibuire ad esso uu rapporto di partecipazione che in senso rigoroso non conviene che ai suoi individui. — 56 - del bello— E come no ?— Dunque anche ogni passione che partecipa (xoivwv^) del giusto, se converremo che, quanto e partecipe del giusto, altrettanto è bella, il nostro di- scorso non sarà discordante È vero Ma se afferme- remo che vi sia alcuna passione giusta ma turpe, il giu- sto e il bello discorderanno, perchè le cose giuste si di- ranno turpissime ». Nessuno negherà, io credo, che nei lunghi citati e in un'infinità d'altri in cui la parola partecipare — cioè le parole che noi traduciamu cosi — viene impiegata d'una maniera simile, la cosa a cui si partecipa sia un attri- buto della cosa che ne partecipa, e partecipare non si- gnifichi altro che possedere l'attributo. Ciò è, sia perchè, come nei primi cinque esempi, vi hanno delle ragioni che mostrano che la cosa a cui si partecipa è una proprietà degli oggetti delTesperienza, e non un'entità trascenden- te ; sia perchè, come negli ultimi tre, se la partecipa- zione s' intendesse nel senso dell' interpretazione tra- scendentalista, verrebbe inopportunamente interrotta la connessione dtlle idee, la quale richiede semplicemente che alla cosa che è detta partecipare, venga attribuito un certo predicato; f^ia per altri motivi. Certamente l' in- terprete trascendentalista dirà, in questi casi, che la cosa a cui si partecipa non è un'Idea; e noi confessiamo che non si potrebbe^ il più delle volte, né affermare recisa- mente, né negare, ehe l'autore pensasse ai elevare lo astratto di cui parlava al rango di entità reale, benché egli avrebbe dovuto farlo per essere strettamente coe- rente alle proposizioni cardinali della sua dottrina. Ma questo dnbbio non annulla il valore dei luoghi di cui si tratta come prove del senso immanente della metessi pla- tonica : in effetti, se nella più parte dei casi partecipare a un astratto significa per Platone possederlo come un proprio attributo, non si vede perchè gli si debba dare ferenti dai primi p?r la circostanza che Platone fa un'applicazione esplicita del suo principio che un astratto è un'entità reale; tanto più che è impossibile, come ab- biamo osservato aiira volta, di tracciare una linea di se- parazione tra i casi in cui Platone pensa a realizzare le astrazioni di cui egli parla, e quelli in cui non vi pensa. Nei luoghi seguenti le cose a cui si partecipa sono incontestabilmente delle Idee. Tc/rm. 132 e (per confutale la supposizione che le Idee, s^nn d'-i pensieri) : « Ma che ? non è nece?rario, poiché dici che le altre cose partecipano (jisxsxs'-v) alle Idee, di ammeHerc o che ogni cosa costa di pensieri (ex voYjjidxov slvai) e tutto pon-^a, o che le cose non pensano, mentre sono p'^nsieri? » ^Lc Idee sono dunque elementi costitutivi delle cose che ne partecipano). Ibid, 142 e : « Quando si dice compendiosamente : l'uno è; ciò non s'gnifica lo stesso che : Tuno partecipa all'es- sere?» (1). (Potrebbe Platone>ffermare d'una maniera più esplicita che partecipare a un'Idea non significa altra (1) L'uno e l'essere nel l'annenidc ^ono seuz'alcun dubbio delle Idee. Infatti resercizio dialettico sull'uno rarmenide lo dà come un esempio del metodo di cuj e^H prima ha parlato in generale, il quale, a diiferenza della dialettica di Zenone, che volgeva sul sensibile, doveva avere per o;?,;etto le Idee. In quanto all'ess-^re, Platone lo tratta evidentemente, non come una semplice astrazione, ma come un'entità reale (v. specialmente 142 b-l'i4 e); e ingenerale qucscarealizzazionesembraaver luogo per tutti gli attributi, a cui l'uno e le altre cose sono detti partecipare (v. p. e. sulla grandezza e la piccolezza 149 e- 150 d). Alcuni dei luoghi citati si rifeii- scono. non alla partecipazione dello cos- alle Idee, ma a quella delle Idee ad altre Idee : ma ciò non può impedirci di presentarli come prove della immanenza delle Idee nelle ccse, perchè ò chiaro che la metessi non può avere che lo stesso signilicato, sia che si tratti di quella d'una cosa ad una Idea, sia che si tratti di ([nella d'un Idea ad un'altra Idea. - 57 - y cosa che la possessione deirattributo ? La stessa afferma- zione sì trova a 152 a : « Essere è altra cosa che la par- tecipazione (|Jié0£gtg) dell'essere col tempo presente? Ed era e sarà sono altra cosa che la partecipazione (xotvwvta) dell'essere col tempo passato e col futuro) ? ». Ibid. i44 ab : « Se V uno è . è necessario che anche il numero sia — Senza dubbio — Ma, se il numero è, vi saranno più cose e una moltitudine infinita di esseri : o il numero infinito in moltitudine non ò anche partecipe (fisxéxwv) deiref-scre? (Come nel luo^^o prccrden'.e, parte- cipare all'essere è riguardato come l'equivalente di avere l'attributo essere). E se tutto il numero panccpa (iJtexéxsO dell'essere, ciascuna delle sue parti non no parteciperà (liexéxoi) pure ? — Si — L' essere è dunque distribuito (vsvé- lirjxaO per tutti i molti esseri, e non è assente (ànooxaxst) da alcuna delle cose che sono, sa la più grande, sia la più piccola. O è assurdo di fare una simile domanda? in effetti, come l'essere potrebbe essere assente ( àTiooxaxoir]) da una cosa che è? — In nessun modo — L'essere ò dun- que diviso, per quanto è possibile, in parti grandissime e piccolissime, e di ogni sorta di maniere ; esso è ciò che ha ài più frazionato, e le sue parti sono infinite s> (l). Parm. 149 e: « Di Marno che le altro cose dall'uno nò 0) Quello luogo, come tanti aUri dei seguenti e queUo del Par- menide stesso 131 a — e che abbiamo già citato (v. IV. 3° B>, mo- strano chiaramente che la partecipazione d'una cosa a un'I lea non significa altro che la parusia dell'Idea nella cosa. Una cosa parteci- pare al Bello, non vuol dire, come ammettono gì' interpreti trascen- dentalisti, che r Ideadel bello comunica alla cosa un attributo simile a se stessa, ma vuol dire semplicemente che la cosa ricave (dé^exat), ha in sé (sxsO 1' Idea del bello. È esattamente lo stesso rapporto ohe si chiama parusia, quando si prende come soggetto di esso la Idea (o piuttosto, In generale, il partecipato), e partecipazione, quando si prende come soggetto la cosa (o, in generale, il parteci- pante). Dopo ciò che abbiamo detto sulla parusia, è inutile d'insistere ancora su questo fatto evidente, che la presenza o ine>3Ìstenza dell'Es- sere, del Bello, del Grande ecc. (o dell'Essanza, della Beltà, della Grandezza, ecc., perchè le Idee sono pura dasignate da Platone coi nomi astratti) negli esseri, nelle cose belle, nelle cose grandi, ecc. non jaiè signiticara altra cosa che la presenza o inesistenza dell'attributo nel soggetto. Tuttavia l'uso che Platone fa-dei ter- mine che noi traduciamo por la parola partecipazione, ci fornisce un'altra prova che non dobbiamo negligere. La partecipazione, ab- biamo detto, non significa altro che la parusia nella cosa o Idea' che si dice partecipare, dell'Idea a cui si dice partecipare. Ma d'al- tra parte, è incontestabile che la partecipazione significa la posses" sione dell'attributo corrispondente all'Idea a cui si partcipa. È ciò che si può vedere, non solo da questo luogo e dai due precedenti, ma da tutti i luoghi che abbiamo citati sulla partecipazione; per- chè, quand'anche in alcuno di questi luoghi per la cosa partecipata si volesse intendere un'Idea I rosile )i(ìentc% ciò che sarebbe assoluta- mente impossibile di negare è che, quando Platone dice, p. e., che le cose sensibibili partecipano dell'essere e del non essere (/?t?jt) 478 d-e, 1. e), che lo azioni partecipano dol bello altrettanto che del giu- sto (Lefl. 859 e, l. e.) eoe, ciò che egli vuole esprimere è che le cose sensibili sono al tempo stesso e non sono, che lo azioni sono altret- tanto belle ([uanto giuste, occ. Ma un'espressione il cui significato e la parusia dell' Idaa, non potrebbe significare la possessione dell'at- tributo, se la parusia dell'Idea e la possessione dell'attributo non fos- sero la stessa cosa. Per infirmare questa conclusione si dirà forse che non è necessario cha la parusia dell'Idea fosse per Platone l'equiva- lento dalla possessione dell'attributo, ma basta che per lui il secondo dei «lue fatti, pur es-jando distinto dal primo, fosse legato al primo co- me l'affetto alla causa, perchè un'espros-jione, che direttamente si- gnificava l'uno dai due fatti— la parusia dall'Idea (quand'anche que- sta s'intendessa nel senso trascendentalista, cioè come una semplice presenza locale o quasi locala)— suggerisse pure l'altro fatto che ne era la conseguenza — la po:sessiono dell'attributo — E ciò è vero: ma la possessione dell'attribito non è semplicemente un'associa- zione dell'idea direttamente espressa dalle parole partecipare alVes' serCf al non essere, al bello, d (jinslo^ occ. ; ma è, come si può ve-^ 58 - sono l'uno né partecipano ([istsxsO all'uno, se pure sono derlo dai luoghi citali, l'idoa slessa che questo parole esprimono di- rettamente, il loro sujniflcatOt ciò che è ben altra cosa che una sem- plice suggestione. una parte almeno — ed ò quanto basta all'argomento pro- cedente — del significato delle parole che noi traduciamo per par- tecipare e partecipazione, sia la possessione dell'attributo omonimo all' Idea a cui si partecipa, è talmente evidente che è anche am- messo dagl'interpreti trascendenralisti: perciò possiamo dispensarci di provare più abbondantemente questo punto con luoghi scolti a questo scopo; basteranno quelli che ci è accaduto e ci accadrà di ci- tare, quantunque con un altro scopo, cioè di provare immediata- mente il senso immanente della metessi. La differenza tra noi e gl'interpreti trascendentalisti è che per questi la po-:sessione dello attributo omonimo all'Idea partecipata ò foIo una parte del signi- ficalo della partecii)Uzione — l'altra parte essendo che quest'attri- buto è comunicato, non si sa come, dall'Idea—; per noi invece è tutto il significato. Ciò non vuol dire che esser bello, buono, ecc. e par- tecipare al Bello, al Buono, ecc., sono delle proposizioni perfetta- mente identiche: se cosi ibsse, Platone non potrebbe dire, senza avvolgersi in una vana tautologia, che la causa a una cosa di es- sere balla è la sua partecipaztune al Bello, né, com'egli spesso fa, inferire, dalla t)artecipazions di una cosa all'Idea, che questa cosa possiede l'attributo corrispondente, e viceversa, dalla posses ùone dell'attributo, che la cosa che lo possiede partecipa all'Idea corri- spondente. Platone può farlo senza rimprovero di frivolezza, per- chè, quantunque le due proposizioni: esser bello o buono, ecc., e: partecipare al Bello o al Buono, ecc., indicano lo stesso fatto, que- sto fatto però è considerato a due punti di vista diflfjrenti: una proposizione lo considera al punto di vista comune, che non im- plica alcuna teoria particolare, e l'altra al punto di vista del rra- lismo, che considera gli attributi, non come semplici attributi, ma come attributi-sostanze. Prendiamo qui l'occasione di ripetere sulla part »cipaziene due osservazioni che abbiamo già fatto sulla parusia. (Quando Platone dice che una cosa è bella' è buona, ecc. per la sua partecipazione al Bello, al Buono, ecc., è altrentanto naturale d'intendere ch'ossa lo è perchè possiede l'attributo B*)ntà, Beltà, ecc. (considerate come entità reali), che quando egli dice che la cosa è bolla per la parusia altre da esso — Certamente — Dunque nelle altre non ine- del Bello, buona per la parusia del Buono, ecc. Ciò è perchè, come abbiamo tante volte notato, se le Idee non fossero gli attributi delle cose, non vi sarebbe per le parole metessi e parusia alcun senso pos- sibile che facesse comprendere come Platone possa dare la metessi o parusia delle Idee come la ragione degli attributi delle cose: è sol- tanto quando per le Ideo s'intendono gli attributi delle cose— sostan- tificati— che vi ha tra la metessi o parusia dell'Idea e l'inerenza nella cosa dell'attributo corrispondente questo legame necessario ed evi- dente per se stesso che deve esservi tra la ragione che si adduce per ispiegare un fatto e questo fatto. È per lo stesso motivo che noi dob- biamo vedere una prova dell'immanenza delle Idee nei luoghi nu- merosi — di cui ci asteniamo di d?ire degli esampi, perchè sa que- sto soggetto basta ciò cha è stato detto parlando della parasià — nei quali Platone concludo immediatamente dalla partecipaziona all'Idea alla possessione dell'attributo omonimo, e viceversa dalla possessione di un attributo alla partecipazione all'Idea omonima; come una prova simile abbiamo già vista nei luoghi in cui Platone procede della stessa maniera riguardo alle parusia. Platone non po- trebbe passare immediatamente dalla premessa alla conseguenza, considerando quest'inferenza come una cosa che va da sé, se non fosse d'un' evidenza immediata che la metessi o parusia dell' Idea importa, nelle cose, la poss3-:sione dell'attributo omonimo, e que- sta — data la ipotesi dell'esistenza delle Idee — la metessi o parusia dell'Idea omonima: ma questa evidenza non esiste che dando alla metessi e alla parusia un senso immanente. Bisogna convenire, è vero, che, quando si tratta della partecipazione, anche l'interprete trascendentalista può rendere conto di quest'inferenza immediata, nel caso almeno in cui la premossa è la partecipazione all'Idea e la conseguenza la possessione dell attributo : ma ciò avviene per- chè egli non ammette, contro l'evidenza dei testi, che ciò che la . metessi di una cosa a un'Idea significa, è la parusia dell'Idea nella cosa. Per gl'interprexi trascendentalisti, come per noi, la metessi air Idea include nel suo significato la possessione dell'attributo omo- nimo : ma questa inclusione, nell'ipotesi della trascendenza, è inam- missibile, se si fa, com'è necessario, della metessi l'equivalente per- fetto della parusia. Una sola è V interpretazione Imscendentalhta possibile, che permettano i testi evidenti che provano che i termini che noi traduciamo per partecipare (|ji£TéX£t.v, |i£xaXaiigàvsiv, ecc.) ^59 - risce (svsoTtv) il nnmerr, non inerendo ([iyj è'^óvzo^) in esse 1 uno (1). — Come potrebbe inerirvi ? — Le altro cose dun- que non sono nò uno uè due nò designate per il nome di alcun altro numero ». (L'inerenza dell'uno e del numero nelle altre cose è co^i l'inerenza dell'attributo nel sog- getto). Ibid. 157 b-e : « Diciamo ciò che accadrà alle altre co- se, se Tuno ò V — D.'ciamolo — Poche sono altre dall'uno^ rsse i.on sono l'uno, poichò in questo caso non s'ireb- bero altre dall'uno — È giusto — Tuttavia le altre coso non sono prive (axspsxa'.) affatto dell' uno, ma ne par- tecipano ({jtsTsysi) in qualche modo (2) — Perchò ? — Per- chè le altre co-^e dall'uno sono altre da esso, perchò hanno delle parli; se non avessero parti, sart'bbero assoluta- mente uno — E giusto — Ma Ij parti non sono parti che di ciò che ò un tutto .... (3). Re dunque le altre coso sono per Platone i sinonimi di avjra (sx^'-v), ricavere (^SX^^^^O e altri simili, con cui egli dasigna quello stesso rapporto tra le cose e le Ilea ch'egli indica coi lei-mini esser presente (Tiapstvat), ine- sistere (èvsrvai), ecc., qiianio consi lera come soggetto di questo rapporto, non le cose, ma le Idee: è di ammettere che la metessi, come la parusia, significa che le Idee s:ono nallo cose press' a peco come Torricelli diceva ch3 la l'orza è nella materia, cioè come in un vaso. Ma è vero yevò che sa l'interprete trascendentalista ac- cettasse questo senso della metessi, egli rfi metterebbe in contrad- dizione coi testi non meno evidenti che provano che il senso di questo termine deve includere la posses-;ione dell'attributo omonimo all'Idea a cui la cosa è detta partecipare. (1) Cosi la partocipazioTìtì di una co^a all'uno è equivalente all'i- nerenza dell'uno in questa cosa. (2) Quest' antitesi tra esser privo e p.xrtecipare indica che la partecipazione all'uno «ignitica la pariisia dell'uno. (3) Nelle i)aro!e che mancano mostra che la parte non si dice hanno delle part», partecipano (fisxéxe'O anche al tutto e all'uno » (i). Ibid, 158 b-c: « Le altre cose dall'uno partecipano (jis- xaXafipòtvei) all'uno, quando non sono nò l'uno nò parte- C'pi (|iex£xovxa) dell'uno — Dunque quando sono moltitu- dini, in cui non ine?7,<?ce (ivi) l'uno ». (La partecipazione all'uno equivale cosi all' l'inerenza dell'uno). Ibid. 159 b-160 a: « Diciamo da capo, se l'uno ò, ciò che ò necepsario che accada alle altre cose dall'uno — Diciamolo — L' uno noi ò separato (x^pC^) dalle altre cose, eie alr.re così separata IX^*^?^?) dall'uno?.... Inoltre diciamo che il vero uno non lia parti. — Com3 potrebbe averne? — Dunque nò l'uno intf>ro sarà nelle altre coso (etrj év xor^ àXXot^j nò de'lc parti di es^r>, se l'uno ò se- parato (xwpi?) dalle altre cose, e non ha parti — Cosi ò — Le altre cose non parteciperanno ({xsxsxo'-) dunque in niun modo dell'uno, non partecipando (jisxéxovxa) nò del- l'ano intero nò dì alcuna parte di esso (2)— Io niun modo, a quanto pare — Le altre cose dunque non saranno in niun modo uuo, nò avranno in fò alcun che di uno (8). parte dei molti che costituiscono un tutto, ma di un certo uno, che è ciò che si chiama tutto; e dopo ciò conclude immediatamente con la proposizione seguente. (1) Questa conclusione ci prova che partecipare al tutto e al- l'uno significa essere un tutto e un uno, perchè il ragionamento da cui essa è tirata non stabilisce altro sa non che ciò che ha delle parti — vome le altre cose, di cui si è convenuto che ne hanno — deve es- sere un tutto e un uno. (2) Le altre cose jìaì'tccipare alVuìio è equivalente a: Vtino essere nello (dire cose, ed è in antitesi con : l'uno essere separalo dalle al- tre cose. Potrebbe provarsi più chiaramente che. la partecipazione a un'Idea non significa altro che la parusia o inerenza di quest'Idea? (3) Conseguenza immediata dalla non partecipazione all' Idea alla non possessione dell' attributo corrispondente. V. la nota 1 a carta 57 p. 2« ^fo certamente— Né per conseguenza saranno molte: se fossero molt^, ciascuna di e<5se, quale parte del tutto, sarebbe una; ma al presente le altre c^se dall'uno non sonò né una nò molte né parti né tutto, poiché non par- tfcipano (iisxéxsO in alcun modo dell' uno — E giusto — Le altre cose non sono dunque né due né tre, né vi ha in esse alcun che di tale, se sono prive (oxspsxai) affatto dell'uno (l)— Così é— Dunque né sono Q^se stesse simili o dissimili, né vi ha in esse alcuna somiglianza o dissomi- glianza. In effetto se fossero simili e dissimili, o vi fosse in esse qualche somiglianza e disomiglianza, lo altre cose dair uno avrebbero in sé (s^ot av év éauxor?) due spe- cie contrarie fra di hro — Co>ì pare — Ma é impossibile che partecipi (jisxéxs'-v) a duo ciò che non può partecipare ([iExéxo'O a nessuno (2) — E impossibile —Lo altre cose non sono dunque né simili né d ssimili né simili e dis- simili al tempo htc^so : poiché se fossero simili e dissi- mili, partecipe! cbbrro ({isxé/oi) ad una una delle due spe- cie ; se fossero simili e dissimili al tempo stesso, parte- ciperebbero alle due specie contrarie (3); ovi\ c'ò è parso impossibile — E vero — Le attre cose dall' u'io non sono dunqu^- né le stesse né diverse, né in movimento né in riposo ; non divengono i é periscono ; non sono né più grandi né più picc<^le né eguali; né hanno alcun altro di tali attributi; pciclié se avessero alcuno di tili at- ei) Eascr prive dvIV uno equivale a non p(n'lrrij)(fre all'nuo^ ciò che prova, coma gìt\ os-jorvammo, l'identità di >:igniticato Ira la partecipazione e la parusia. (2) Sinonimia tra iMìt^riporc a un'Ideo e averla in sé la «o- miglianza e la di-isomiglianza essondo qui evidentemente consida- rate come Idee —, e conseguenza immediata dalla possessione dell'at- tributo alla partecipazione dell'Idea omonima. (3) Conseguenza immediata, come sopra. tributi, parteciperebbero (ixsGégst) ad uno e a due e à tre, e al numero pari e all'impari, a cui abbiamo visto es- sere impossibile partecipare (iisxéxe'-v), e;sendoprive (axs- pojiévoi^) interamente dell'uno (1). » Parm. 163 c-d: « Non cerchiamo noi ciò che deve ac- cadere all'uno se esso non é ? — Si — Quando diciamo non é, ciò significa altro che l'assenza (àTcouaCav) dell'es- sere da ciò che diciamo che non è V — Niente altro (2j— (1) .\nti'.esi tra esser prive d'un'Idea e parievifìarc a quest'Idea, e conclusione immediata dalla possessione di certi attributi alla partecipa- zione delle Idee corrispondenti e delle Idee dei numeri a cui ({uestc Idee partecipano. Notiamo che se la partecip 'zione avesse il significato che le danno pl'interjTeti trascendentalisti, il ragionam-nto di Platon 3 sarebbe impos- sibile. Platone ragiona cosi : ciò che non partecipa all'Idea dell'uno ne a quella di alcun altro numero non può essere ec snnile né dissimile né avere alcun altro attributo, perchè non può partecipare alle Idee corrispondenti a questi attributi, e la ragione per cui non [mh parteciparvi è che, ciascuna di queste Idee essendo una, partecipa all'Idea dell'uno, e più di loro prese insieme formando un certo numero, partecipano all'Idea di questo numero, e per conscRuenza ciò che parteciperebbe ad uua o più di queste Idee parteciperebbe all'Idea dell'Uno o all'Idea di questo numero. 11 ragiona- mento corre, se per partecipazione s'intende la parusia . perche e chiaro che in una cosa, in cui ù presente un'Idea, deve cssefc anche presente ogni altra Idea che è presente in quest' Idea. Ma se la partecipazione d'una cosa a un'Idea significasse, come vo-liono gì' interpreti trascendentalisti, che la cosa e latta sull' esemplare di quest' Idea, non sarebbe sempro vero che la cosa che partecipa a un'Idea, partecipa anche alle altre Idee a cui quest'Idea partecii)a ; nel caso particolare sarebbe falso, poiché l'a- vere o uno o due o tre, ecc. esemplari non porta per conseguenza l'avere per esemplare l'Idea dell'uno, del due, del tre, ecc., della slessa maniera che, per impiegare un esempio d'Aristotile ^Met. I. I. IX, 4) 1 avere per esemplare una cosa eterna, qual e 1' Idea, non porta per conseguenza di avere per esemplare l'Idea dell'eterno. (2) Se l'assenza dell'Idea significa la stessa cosa che la pi ivazione del- l'attributo, la presenza dell'Idea significherà dunque la stessa cosa che la possessione dell'attributo. Quando diciamo che una cosa hon è, intendiamo dire che essa in qualche modo è e in qualche modo no; o dire non è significa semplicemente ch'essa non è affat'>o, e non es- sendo, non partecipa ({isTéxsO in niun modo all'essere? — Questo semplicemente — Dunque ciò che non è, né potrà essere ne potrà partecipare Oisxéxsiv) in alcun al- tro modo all'essere — Non lo potrà — Ora divenire e pe- rire sono altra cosa se non l'uno ricevere (jisxaXaixPavsiv) Tessere, e l'altro perderlo ? (àTioXXóvai) ?— Niente altro — Ma ciò che non partecipa (q)... iiìtsotiv) per niente di esso, non potrà nò riceverlo (o5x'àv Xaixgavoi) nò perderlo (o5x'à- TioXXóoi) — Come lo potrebbe V — All'uno dunque, poiché as- solutamente non ò, non conviene nò dì possedere (o56'éx- TSGv) nò di perdere ((o5x dcTiaXXsxxéov) nò di ricevere (oSxs jjisxaXyjTCxéov) 1' essere in alcuna maniera — Pare — Dun- que l'uno che non ò non perisce nò diviene^ poiché non partecipa ([isxéxsO in alcun modo all'essere (1). » Sof. 251 a-2G0 b : « Diciamo eome diamo ad una stessa cosa più nomi — Apporta un esempio di ciò — L'uomo 251 B chiamiamo con molti nomi^ attribuendogli dei colori, delle forme, delle dimensioni, delle virtù e dei vizi, pei quali attributi e molti altri non solo lo diciamo uomo, ma anche buono, e altre cose innumerevoli; e lo stesso fac-ciamo per gli altri oggetti, ponendo ciascuno come uno, e »1 tempo stesso come molti per i molti nomi con cui lo chiamiamo — È vero — Così abbiamo, io penso, prepa- rato un festino ai nostri giovani e ai nostri vecchi tardi L'essere che ricevono le cose che divengono, e che perdono le cose che periscono, é certamente un essere immanente in queste cose; ora quest'essere evidentemente è quello stesso a cui ciò che e partecipa e a cui l'uno che non è non può partecipare; dunque la partecipazione è di un'Idea, non trascendente, ma immanente nelle cose che ne partecipano. € D istruiti ; ai quali Farà facile di obbiettarci che ò impos- sibile che uno sia molti e molti uno, e che sono al colmo della gioia quando non permettono che l'uomo si dica buono, ma soltanto che il buono si dica buono, e l'uomo uomo Senza dubbio tu incontri spesso delle persone, che s'applicano a simili arguzie, e qualche volta anche dei vecchi che, per povcnà di spirito, ammirano queste cose, e credono di avervi trovato il colmo della sapienza— È vero. Affinché il nostro discorso abbracci tutti quelli che PI sono rccupati d' una maniera qualunque dell' essere, le ntstrc domande devono intendere come dirette tanto a questi quanto ngii altri con cui abbiamo precedente- mento disputato (cioè i fisici e gli amici delle Idee)— Quali sono queste domande?— Se non congiungeremo nò l'essere col movimento e col riposo, nò alcun'altr.x cosa con al- cun' altra, ma le ammetteremo nei nostri discjorsi come immiste (àjitxxa) e incapaci di partecipare (iisxaXaiJipdvsiv) l'una dell'altra; o le identificheremo tutte, ammettendo che sono tutte capaci di una comunione reciproca; o per al- cune lo i^minetteremo e per altre no? quali di questi tre partiti diremmo che essi sceglieranno?— Io non saprei che cosa rispondere per loro : perché non fai tu ciascuna dello tre risposte possibili, cercando quali conseguonzo risultano da ciascuna?— Tu dici bene; e supponiamo, se vuoi, ch'fssi rispondano prima che non vi hi ^Icnua comunione possibile di alcuna cosa con un' altra; p r conseguenza il moto e il riposo non parteciperanno f'is- \ì;)2 A OégsTov) in alcun modo all'essere ? -Non parLeeipcraniio — Ma che ? sarà l'uno o l'altro di essi, non partecipindo ((7:po$- xotvwvouv) dell'essere? — Non sarà — Questa confe sione, a quanto pare, ha subito tutto rovesciato, e idommi dì quelli che mettano tutto in movimento, e di quelli che lo lasciano in riposo come uno, e di quegli altri che ammettmio che, sotto il rapporto delle loro Idee, gli esseri sono sempre inva- E - G2 - e B riabili e nello stesso stato: tutti infatti aggiungono Tes- sere, dicendo gli uni che le cose sono realmente in mo- vimento, e gli altri che sono realmente in riposo — Cosi è — E quelli che ora compongono e ora decompongono il tutto, sia riducendo tutto ad uno, e facendo uscire dal- l'uno una varietà infinita, sia decomponendo il tutto ili un numero finito di elementi, e componendolo da questi stessi elementi, sia supponendo che ciò si faccia a vicen- da, sia continuamente, in tutti i casi non potrebbero dire niente di vero, se non vi ha alcuna mescolanza (gó|i|i'.£t^)— È giusto— Ciò che vi ha di più piacevole è che essi stessi hanno bisogno del discorso questi che non permet- tono che di una cosa se ne dica un'altra per la parteci- pazione di quest' altra (xotvcDvta TcaGr^jiaxog izipo^ò) (1) — Come?— Essi sono costretti di servirsi a ogni momento delle parole essere^ separatamente^dagli altri, per sé e di mille altre che nou possono astenersi di adoperare e di con- nettere nei loro discorsi; dimodoché ossi non hanno bi- sogno di un altro che li confuti, ma, come suol dirsi, hanno il nemico in casa, e portano da per tutto con se st« ssi il loro contradittore, che mormora dentro di loro, come quel pazzo di Euricle (un ventriloquo che preten- deva di avere nel ventre un demone profetico)— Gli so- migJ.ano in effetto, e tu dici la verità— Ma cbcV se la- sciamo a tutte cose la facoltà di una comunione recì- pioca V— Questa supposizione posso confutarla anch'io— (1) Avere il 7ià0Y]jJia d' nn* Idea significa partecipare a questa Idea. V. Suflsla stesso 245 a-c. Per conseguenza la X0lV(i)v(a del :T:aOyj|Jia (ji un'altra cosa— cioè di un altro Genere, perchè le cose di cui yi tratta qui, sono, come si dice in seguito, dei Generi— si- gnifica aver parte a questo raprorto delle cose col Genere, ohe PiaioDe chiama ordinariamente partecipazione. f B Come? — È ehe il movimento sarebbe in riposo, e il ri- poso in movimento, se si mescolassero V uuo colV altro (èTttyLYvoCaOyjv èn'iXXi^Xwv) — Ma è assolutamente impossì- bile che il movimento sia in riposo e il riposo in mo- vimento — P] come no? — Resta dunque Foltanto la terza supposizione— Si— Infatti è necessario che sia vera una di queste tre supposizioni, o tutto mescolarsi (a'j|ji}iLYv^a0at), 0 niente, o alcune cose si e alcune no. — È necessario — Ma le prime due abbiamo visto che sono impossibili— Si — Dunque chi vuol rispondere giustamente deve ammettere la terza supposizione— Certamente— Poiché alcune cose 153 A possono mescolarsi e altre no, esse sono press' a poco comti le lettere, delle quali alcune possono congiungersì fra di loro, altre non lo possono. Ma tutti conoscono quali lettere possono associarsi fra di loro, o vi ha bisogno dì un'arlc per chi vuol fare ciò d'una maniera conveniente?— D'uu'aite-Quale?— La gratnmatìca— E non è lo stesso pei suoni gravi ed acuti? Chi ha l'arte di conoscere quali si accordano e quali no, ò mu^iico; chi l'ignora, è straniero alla musica... Ebbene! poiché siamo convenuti che i ge- neri si mescolano (|ii£sa)c sx^^"^) similmente tra dì loro, non ha bisogno dì procelcre nei suoi ragionamenti con una certa scienza chi vuol mostrare quali generi si accordano (o'j}icf(!)V£l)equali non sì ammettono (oO §éx£Tai) fra dì loro?... E come chiameremo questa scienza? Dividereper generi. e non prendere la stessa specie per un'altra né un'altra per la ste-sn, non é questo l'ufficio della scienza dialet- tica?—Sì— Chi éeapf.co di far ciò, vede acutamente un'Idea unica diffusa per meltc cose (dia tto^.Xwv... TràvxY] S'.axsxaiié vy]v) che esistono separatamente l'una daU'altra, e molte Idee diverse compresa so!to un'Idea unica, ed un'Idea unica per molti intii in uno raccolta, e molte Idee di- stinto e separate Ira di loro: (lucsto é saper discernere, per mezzo della divisione per geneii, quali sono in co- munione fra di loro, e quali no - 63 — D 254 B Poiché siiino convenuti che dei generi alcuni souo in co- munione recìproca e alcuni no, alcuni con pochi, alcuni con C molti, e di altri niente impedire la loro comunione con tutti intuiti*, cose, continuiamo la nostra discusslcn'*, non f si- minando tutte le Specie, per non restare confusi dalla loro moliitudino, ma scogl eadonc alcune di quelle che hanno una più grande estensione, e vedendo prima quale sia ciascuna di esse, e poi quale comunione abbia con ]> le altre I generi più (stesi, tra quelli di cui abbiamo parlato, sono l'essere, lo ttato e il movimento— I più e- steM di gran lunga— E due di essi diciamo die non si meacclano (àiiixKo) l'uno con l'altro — Certamenlo — Ma l'essere si mescola (jjlixxóvj a tutti e due : lutti e due in effetto sono-Senza dubbio— Essi sono tre— Certamente — Dunque ciascuno è altro dagli altri due, e lo stesso con E se stesso?— Si— Ma che sono questi lo stesso e altro che abbiamo nominat ? sono due generi diversi dai tre supe- riori, necessariamente sempre mescolali (£'J|i|uyv'J|jiìv(o) con essi, e cosi bisogna esaminare cinque generi in luogo di 255 A tre; o senz'accorgercene, abbiamo chiamato qualcuno dei tre generi superiori lo stesso e1 altro? — Forse— Ma il moto e lo stato mai seno nò lo stesso rè l'altro B Tuttavia tutti e due partecipano (iisiéx^'cov) dello stesso e dell'altro. ..Poniamo dunque lo stesso come una quarta € specieoltre le tre specie superiori? -Poniamolo— ....Quinta B deve dirsi la naiura deh' altro che é nelle- spece(£v zoi. E stSsaiv o'jaav) che noi abbiamo scelte— SI— E diremo ch'essa é diffusa per tut'.e queste (òca rcocvicov slvai òisXr^XoO'jrav ), poiché ciascuna è aUvn ('alle altre, non per U natura di 8e stessa, ma per il partecipare (|x£TÌxe-v) all'Idea del- l'altro — Certamente. Cosi diremo adunque dei cimine generi riprenden- doli ad uno ad uno — Com-? — Primo che il nìovimento è affatto altro dallo stato; o ncn diremo così? — Cosi — Dunque non e lo stato — Giammai — Ma è per il par- 256Atecipare Oistéxsw) all' essere— È— Ancora il movimento è altro che lo Stesso- Si— Non è dunque lo Stesso— No— Tut- tavia si é convenuto tra noi, che è lo stesso per il par- tecipare (jjtsTÉxs'.v) allo Stesso— Si- Bisogna dunque rico- scere senza difficoltà che il movimento è lo stesso e non è lo stesso; non è infatti nello stesso senso che noi di- ciamo che è lo stesso e che non è lo stesso; ma quando diciamo che è lo stesso, è per la partecipazione ((jisGeÈiv) dello stesso relativamente a se stesso (cioè in quanto osso è lo stesso con se stesso); quando diciamo che non è lo stesso, è per la partecipazione (xoivcoviav) dell'Altro, per cni, distinguendosi dallo Stesso, è, non questo, ma un altro, sicché giustamente si dice che non è lo Stesso— Spnza dubbio— Cosi se il movimento partecipasse fjiexa- Xaix^avev) dello stato, non sarebbe assurdo di chiamarlo stabile — Sarebbe con ragione, poiihè siamo convenuti che dei generi alcuni si mescolano (jjttYvuaGat) fra di loro e altri no— Sosterremo senza timore che il movimento è altro che l'essere ? — Senza il miinmo timore — Dunque è evidente che il movimento è non essere, ed è essere, poi- ché partecipa ([isxsxsO delT Essere? — È evidente — Ne segue che il Non e?sere è nel movimento (ìkì ts xivr/- 050)^ slvat) e in tutti i generi ; polche in tutti la natura dell'Altro, rendendo ciascuno altro dall'Essere, ne fa un non essere; e perciò tutti diremo con ragione non ent', e ancora, perchè partecipano (lasxéxsO dell'Essere, essere ed enti A I generi sono mescolati (a»j|i|itYV'jxaO fra di loro, e l'Es- sere e l'Altro sono d-ffusi per tutti e l'uno nell'altro ($'.à Tcavxwv xat Si'àXXi^Xcov SisXyjX'jBóxa) ; l'Altro, partecipando («jLsxaaxóvj dell'Essere, per questa partecipazione (laéOsgiv) è, ma non è quello di cui partecipa (iisxéaxsv), ma altro; ed essendo altro dall'Eiesere, è evidentemente necessario D 259 i' che sia non esfere; l'Essere poi, essendo partecipe (|ie TsiXYjcpós) dell'Altro, è altro dagli altri generi, ed essendo altro da essi tutt*, non è ciascuno di e-si nò tutu gli altri insieme fuori di se s'esso, sicché l'Essere senza dubbio in maniero innumerevoli non è, e gli altri generi, ciascuno proso a parte e tutti insieme, sono in molte maniere e in molte maniere non sono Voler separare (àTioxwp^^s'-v) ogni cosa da rgni al ira manca di grazia, ed annunzia nno spirito straniero alle Muse e alla fiksofla— Perchè? — Il separare (ÒtaXuetv) eia- Fcuna cosa da tutte le altre è la distruzione ccmplea di ogni discorso: in effetto noi abbiamo il discorso per l'in- treccio (oufiTiXoxT^v) delle specie fra di loro. — E vero — 2G0 A Vedi con quale opportunità abbiamo combattuto costoro, e li abbiamo costretti a lasciare che .si mene olino Oi^yv-jaGat) runa con l'altra — Perchè? — Perchè il discorso sia anche esso uno dei generi che esistono. SI sopprimerebbe, se B si concedesse non esservi alcuna mescolanza TjAtgiv) di niente con niente. » Facciamo alcune osservazioni su questo luogo del Sofista . 1*^ Siccome gl'interpreti generalmente cenvengoro cin questo luogo si tratta dei rapporti di partccipfìzirne tra le Idee, ci limiteremo alla quistione se questi rapporti implichino o no l'inerenza dell Idea partecipata nell'Idea partecipante— nel senso speciale che questa parola ine- renza ha nella nostra interpretazione del sistema delle Idee—. Se noi vedremo che la implicano, ciò sarà una prova dell'immanenza delle Idee, es ondo evidente che se, quan- do si tratta della partecipazione d'un'Idea ad un'altra, partecipazione significa l' inerenza del partecipato nel partecipante, essa non può significare il contrario, quan- do si tratta della partecipazione d'una cosa ad un'Idea. Come prove deiriuerenza, notiamo prima di tutto le espressioni mescolarsi (ixCyvDaO-at, auiijx^Yvya^at) e Twe^co/arzza (jA^Etc» Sw^S^O e quelle che ìd dicano la diffusione d'una cosa in una moltitudine di altre cose (Ij— tralascio altre espressioni non meno probanti, perchè identiche o simili ad alcune di quelle che abbiamo già incentrate nei luoghi precedentemente citati (2) — Il termine mescolanza signi- fica, è appena bisogno di dirlo, la parusia. Esso esprime l'immanenza d'una maniera anche più energica, a un certo punto di vista, che il termine parusia : per questo potrebbe intendersi, come si è detto sopra, che il parteci- pato è presente nel partecipante d'una semplice presenza loca'e 0 quasi locale; la parola parusia non esprime que- sta unione di due sostanze in una sola, indicata dalla pa- rola mescolanza — si pensi al significato di questa parola (jiigig) nella fisica d'Aristotile —, Aggiungiamo che, sic- come Platone considera senza alcun dubbio la mescolanza di due Idee come un'espressione affatto equivalente nel lignificato alla partecipazione dell'una delle due Idee al- P altra, noi abbiamo qui la prova più evidente della verità di un' osservazione precedente, cioè che il senso della parola partecipazione è la parusia dell'Idea parte- cipata nella cosa o nell'Idea partecipante, e che, per conseguenza, sapendo anche che questa parola significa per Platone la possessione dell'attributo omonimo all'I- dea a cui si partecipa, noi possiamo concluderne che la parusia dell'Idea non è altro che la possessione dell'at- tributo omonimo, e quindi che l'Idea e l'attributo sono la stessa cosa. Senza dubbio, la parola mescolanza è un'espressione (1) V. 253 d, 255 e, 259 a. E biscia aggiungere 260 b, in cui dice che il Non essere è di*4seminato (SieaTcapp-évov) in tutti gli esseri. (2) V. 252 d, 253 e, 255 e, 256 d. <t - I I, r V li inadequata al concetto che essa significa, come più o meno lo sono necessariamente tntte le altre di cui Pla- tone si serve per indicare i rapporti tra le Idee o, tra queste e le cose, per la semplice ragione che questi rap- porti differiscono iolo coeio da tutto ciò che le parole di ogni linguaggio umano sono destinate a significare. La parola mescolanza esprime con proprietà questo cant- iere del rapporto tra le due Idee, che e^^se sono delle so- stanze di cui runa si trova contenuta ncll'alrra, [ur es- sendo due sostanze distinte luna dalPaltra — l'Idea del- l'Uomo e quella dell' Animale, quantunque la seconda sia compresa nella prima come una parte di essa, sono nondimeno due sostanze distinte, poiché l'Idea dell'ani- male si trova anche fuori dell'Idea dell'uomo, fn quella del leone, del cavallo ecc. — Ma ess:ì è inesatta, percbé le sostanze che si mescolano sono completan.en te distinto runa dall'altra : Tura non fa parto dell'altra, come l'I- dea partecipata della partecipante. Per conseguenza lo interprete trascendentalista può dire che la mescolanza dei generi del Sofista indica bensì un'intima congiun- zione tra le Idee, ma non Viwwarìenza dell'Idea parte- cipata nell'Idea partecipante, poiché per immanenza noi intendiamo piecisamente questo inrsistere del partecipato nel partecipante come una parte di e^so, che la parola mescolanza non esprime. Ma quale sarà allora, secondo l'interprete trascendentalista, qursta intima congiunzone tra le Idee che Platone chiama mescolanza ? e che ra- gione egli ha potuto avete per ammetterla ? Nell'ipotesi à^W immanenza la parola mescolanza ha un significato perfettamente determinato (quantunque non sia porf*<i- bile una rappresentazione corrispondente, ciò che, come abbiamo notato, é un difetto comune a tutte le dottrine metafisiche) e di cui si trova facilmente la ragione nel realismo dell' autore : cioè che, siccome le Idee sono i concetti realizzati, cosi vi hanno tra di esse gli stessi rapporti di contenenza reciproca, in comprensione e in estensione, che si ammettono tra i concetti. Ma che significherà la mescolanza nell'ipotesi della trascendenza'^ qual è il senso, il concetto determinato, che può corri- sponde: e a questa parola, applicata a delle sostanze im- matc riali ed esenti dai rapporti di posizione? Questo stesso vago conato di assimilazione — dei rapporti tra le Idee a questo rapporto tra le sostanze materiali che chiamia- mo moFcolanza — a cui si ridurrebbe tutto il significato della parola, sarebbe inoltre senza motivo e senza scopo; poiché quest'assimilazione, né avrebbe alcun legame lo- gico con l'ipotesi delle Idee, né gioverebbe a rendere que- st'ipotesi più coerente o più verisimile o più propria a spiegare i fenomeni, né darebbe alcun soccorso per ri- spondere alla quistione, cosi imbarazzante nell'ipotesi del- la trascendenza, della possibilità di predicare un concetto di un altro, alla cui soluzione è destinato da Platone ciò che dice su (juesto rapporto tra le Idee a cui dà il no- me di mescolanza. Delle considerazioni simili valgono per i termini che esprimono la diffusione di un'Idea in una moltitudine di altre Idee: questa parusia dell'uno nei molti, che, nel- l'ipotesi dell'immanenza, ha un senso preciso e di cui si comprende perfettamente il legame con la realizzazidegli Universali, non avrebbe, nell'ipotesi della trascen- denza, né significato né ragione alcuna, e inoltre intro- durrebbe gratuitamente, come abbiamo già detto, nel si- stema delle Idee trascendenti quella stessa inconcepibilità che é la difiicoltà più grande del sistema delle Idee im- manenti. 2^ La quistione a cui Platone risponde con la teoria della partecipazione, é: come noi diamo ad una cosa più nomt^ vale a dire, in ultima analisi, come possiamo congiun- — 66 — gere un soggetto e un predicato. Si sa, in effi tto, che gli altri nomi che si aggiungono al nome soggetto per d - terminarlo, possono considerarsi come equivalenti al al- trettante proposizioni incidenti di cui essi sono i predi- cati: e d'altronde la parteclpnzione, ch'esca s'intenda nel senso dell'immanenza o in quello della trascendenza, non potrebbe render conto della congiunzione, nel discors'^, di altre parole che del soggetto e d^'l predicato, perchè Platone dice che una cosa partpcipa a un'Idea— o un'I- dea ad un'altra Idea—,quando della rosa può predicarsi l'attributo corrispondente all'Idea— o della prima Idea quello corrispondente alla Feconda—. La quistione della possibilità di unire un nome ad un altro è presentata da Platone in termini generali : es^a comprende tanto il caso in cui il nome sog^'et o è preso universalmente— -p. e. l'uomo o tutti gli uomini— quando il caso in cui è preso particolarmente— p. e. un uomo o alcuni uomini— Tuttavia è evidente che la partecipa- zione tra le Idee (se almeno noi vogliamo intendere la partecipazione nel senso ordinario che qu» sia parola ha in Platone) non potrebbe rendei e conto che della possi- bilità delle proposizioni universali : l'Idea dell'uomo non può parteciparvi a U!i'»ltra Idea, il cui attributo omoni- mo non appartiene che ad un uomo o ad a'cuni uomini; quantunque in questo caso potrebbe dirsi che la specie umana— intesa come la collettività degl'individui uomini — partecipa a quest'Idea, non potrt»bbe dirsi che vi parte- cipa l'Idea dell'LTomo, perchè l'Idea non rappresenta la specie come collettività degl'individui, ma l'insieme degli attributi comuni a questa collettività. Platone ha dun- que dimenticato di rispondere alla quistione propostasi, per il caso in cui il nome soggetto è preso particolar- mente ? o se egli nella sua risposta ha contemplato an- che questo caso, come si applica ad esso ciò che egli dice salla co-nunione dei generi ? Sono delle quistioni che noi tralasceremo, perchè non hanno una relazione molto stretta col nostro soggetto, e ci limiteremo al caso che Platone ha, se non esclusivamente, almeno specialmente, di mira, cioè alle proposizioni universali e alla partecipa- zione tra le Idee come fondamento della possibilità di queste proposizioni. Noi abbiamo già notato che, nell'ipotesi della trascen- don/,a delle Idee, la congiunzione del soggetto e del piedicaio sarebbe impossibile, perchè, gli oggetti dei con- cetti es>endo le Idee, e il rapporto del predicato col sog- getto essendo quello dell'inerenza dell'ano nell'altro, que- sta congiunzione suppone l'inerenza delle Idee nelle cose e nelle altre Idee subordinate; e che perciò la conse- guenza logica della dottrina della trascendenza sarebbe la tesi erisiea che non si può affermare che l'uomo è buono, ma solo che l'uomo è uomo, e il buono è buono (1); tesi alla cui confutazione è appunto destinata la teoria della partecipazione dei generi gli uni agli altri. Cosi se la partecipazione dovesse intendersi nel senso degli interpreti trascendentalisti, lungi di poter fornire una risposta alla quistione : com'è possibile la congiunzione di un soggetto e di un predicato? essa renderebbe la quistione insolubile, questa congiuazione essendo impos- (1) Platone stesso dichiara che il sr'^jr/rcrrf ogni cosa da ogni al- tra renderebbe impossibile il discorso (v. 259 e); ciò che implica la condanna della dottrina che gli attribuiscono gl'interpreti trascen- dentalisti—dico implira, perchè sarebbe impossibile di trovare in Platone un rifiuto espi ir ito della dottrina dell3 Idee separate, per la semplice ragione ch'essa gli è affatto sconosciuta—. La proposi- zione citata coQterrebbe questo rifiuto e^pìicitn^ se i Megarici, co- me credono, secondo me erroneamente, alcuni critici, avessero am- messa questa dottrina. sibile in qualsiasi rapporto tra le Ide e tra le Idee e le cose che non sia quello d'immanenza; e sarebbe singolare che Platone, per confutare la tesi dei Megarici— dell'impos- sibilità di ogni giudizio non tautologico— mettesse in- nanzi la teoria delle Idee e dei loro rapporti tra di loro e con le cose, che, nell'ipotesi della trascendenza, sa- rebbe precisamente rappoggio più forte della tesi con- futata. Ma ciò che dobbiamo ancora osservare è che Pla- tone, nel luogo citato- del Sofista, non solo dà la teoria della partecipazione per il fondamento e la giustifica- zione della sintesi tra il soggetto e il predicato, ma, quel ch'è più, identifica il rapporto di partecipazione delle Idee le une alle altre al rapporto che noi —cioè tutti quelli che pensano e che parlano, anche quelli che non ammettono la teoria delle Idee— stabiliamo tra il sog- getto e il predicato, quando formiamo un giudizio o e- nunciamo una proposizione. Per es-mp*o, quando Pla- tone domanda se noi dobbiamo non congiungere lo stato e il movimento con l'essere, né alcun altro genere con un altro, ma ammetterli nei nostri discorsi come immìsti e incapaci di partec'pire gli uni agii altri, evidentemeale egli considera la partecipazione deiridea del movimento e dello stato a quella dell'essere come equivalente al rapporto che noi stabiliamo tra il soggetto movimento o stato e il predicato essere, quando congiungiamo lo stato e il movimento con l'essere, cioè diciamo che il movimento o lo stato è. Similmente quando egli paragona la mutua mescolanza delle Idee, cioè la partecipazione delle une alle altre, alla capacità che hanno lo lettere di essere unite e all'accordo dei suoni musicali, e dice che, poiché i geoeri alcuni b\ mescolano fra di loro e altri no, vi ha bisogno per essi, come per le lettore e i suoni musicali, di una scienza che mostri quali si accordano e quali non sì ammettono fra di loro; quest'accordo o associa- bilita dei generi— per cui naturalmente dobbiamo inten- dere la possibilità della loro sintesi quali soggetti e pre- dicati nelle proposizioni— non ha uà significato differente che la loro mescolanza o partecipazione degli uni agii altri. Ma se le Idee fossero separate dalle cose e cia- scun'Idea da ciascun'altra, come vogliono gl'interpreti trascendentalisti, le Idee non potrebbero essere gli attri- buti delle cose, ma solo gli esemplari di questi attributi, e parimenti un'Idea non potrebbe essere V attributo di un'altra Idea, ma solo l'esemplare di quest'attributo. Quando noi congiungiamo l'essere al movimento— cioè quando aft'ermiamo : il movimento è -quest'essere che noi congiungiamo al movimento è, secondo l'interprete tra- scendentalista, un'imitazione o un simulacro dell'Essere a cui il movimento partecipa, mentre è evidente che per Platone è qu ^st'Essere stesso : in efi'etto egli direbbe in- differentemente, per esprimere lo stesso fatto, sia che i due generi possono congiungersi tra loro e si accorda- no—considerando il fatto sotto il suo aspetto logico— sia che essi partecipano l'uno dell'altro o si mescolano l'uno con l'altro— considerando il fatto sotto il suo aspetto on- logico— .Ma questa stessa distinzione di un aspetto lo- gico e di un aspetto ontologico, sotto di cui le due dif- ferenti sorta di espressioni di cui si serve Platojie, con- sìderebbero il rapporto tra i generi, abbiamo avuto forse torto di farla; poiché il sistemi platonico è essenzialmente una realizzazione dei rapporti logici, per conseguenza il logico e l'ontologico per Platone s'identificano; e cosi, nel caso presente, il rapporto ontologico tra i generi, cioè la partecipazione di un'Idea ad un'altra, non è al- tro—nell'ipotesi, ben inteso, dell'immanenza delle Idee- che )1 loro rapporto logico, cioè l'inerenza dell'attributo nel soggetto, obicttivato. E i a effetto, per V immanenza V "T'i- deile Idee, noi noa iatendiamo altra cosa se non che le Idee ineriscono nelle cose e le Idee più generali nelle più particolari— in una parola i partecipati nei parteci- panti— della maniera in cui l'attributo inerisce nel so^-- getto. Che Platone consideri il rapporto tra il partecipante e il partecipato come identico al rapporto tra il soggetto e il predicato, è dimostrato pure da questa circostanza, che egli fa della quistione della partecipazione una qui- stione comune a tutti i filosofi, anche a quelli che non ammettono la teoria delle Idee. Quando egli domanda ai Fisici se essi ammetteranno che né il movimento e lo stato partecipano all'essere né alcun'altr^ cosa ad un'altra, ov- vero che ciascuna cosa partecipa di ciascun' altra cosa, ovvero infine che vi hanno delle rose che partecipano l'una dell'altra e altre che non partecipano; e mostra che se non vi ha alcuna mescolanza, fioé partecipazione, i Fisici non potrebbero dire né che vi ha il movimento né rhc vi ha lo stato, e che tutte le altre proposizioni dei Fisici Farebbero ugualmente f<ilse; che si deve intendere por queste cose, di cui si domandano i rapporti di p^irtecipa- zione, e la cui mescolanza sarebbe indispensabile per la verità delle teorie dei Fisici ? (1) Senza dubbio, queste cose sono nel sistema di Platone le Idee: ma egli non pò trebbe domandare ai Fisici quali siano i rapporti tra le Idee, né potrebbe dire che le proposizioni dei Fisici — in cui si afferma un termine generale d'un altro termine (1) Per iadicara qaO'Sli ogg<^1ti, di cai e^jli domanda ai fi«jici quali »4Ìano i rappoi-ti dì partecipazione, Platone non dice né Idee né specie né generi né niente altro di simile, ma si serve sempli- cemente dell'aggettivo al neutro: cosi io ho tradotto aggiungendo all'aggettivo il termine vago cosa. gf»nerale — suppongono la partecipazione d'un' Idea ad un'altra, poiché i Fisici non sanno niente delle Idee, e non conoscono che la realtà fenomenale. Per queste cose di cui hi domanda quali siano i rar porti di partecipazione, si deve durcjue intendere alcun che che possa essere co- mune tanto a Platone, che fa la domanda, quanto ai Fi- sici, a cui la domanda è fatta: ciò non può essere altro che gli oggetti dei concetti generali, considerati senza determinare se essi siano delle entità iperfisiche, confor- memente al sistema realista, ovvero semplicemente le classi degli oggetti fenomenali e i loro attributi, confor- memenie all'opinione volgare che é il puntò di vista dei Fisici. Per coneguenza il rapporto di partecipazione di cui é quistione tra Piatone e i Fisici, deve essere un rap- porto che può correre egualmente tanto tra le entità iper- fi-jìche del primo quanto tra le classi e gli attributi fe- nomenali dei secondi. Ma queste classi e attributi dei Fi siei sono, non delle cose trascendenti, ma immanenti; e perciò il solo rapporto di partecipazione che può esistere fra di loro, è quello deirinerenza del predicato nel sog- getto. Dunque anche il rapporto di partecipazione tra le entità iperfisiche di Platone deve essere il rapporto d'ine- renza del predicato nel soggetto. Allo stesso risultato si perverrà, esaminando la po- lemica con gli erist'cì che nes^ano la validità di qual- siasi giudizio non identico. Platone attribuisce a questi filosofi di negare la partecipazione di qualsiasi cosa ad un'altra; cosi egli dice che essi non permettono che una cosa sia detta di un'altra per la partecipazione di que- st'altra (1); che essi separano ogni cosa da ogni altra (2); che egli li ha combattuti e forzati a permettere che (1) 2oi b-c. (2) 239 e. — 69 — una cosa sì iLescolì con un'altra (1). Le cose dì cui essi negano, secondo Platone, la partecipazione dell'una al- l'altra, per loro, come per i Fisici, non possono essere le Idee (2 ), ma semplicemente le classi degli oggetti feno- menali e i loro attributi; e la so'a partecipazione cln essi nrghino è quella del soggetto al predicato, vale a dire la possibilità di attribuire questo a quello. Dunque per la partecipazione di una cosa ad un'altra, che que- ste cose siano delle Idee ovvero semplicemonte delle classi e degli attributi di queste classi, Platone intende che la seconda, la partecipata, inerisce nella prima, la parteci- pantp, come il predicato nel soggetto. L'ossprvazìone precedente ne suggeriscp, o piuttosto ne implica, un'altra, a cui non sarà forse inutile di dare un posto a sé, quantunque essa non abbia un'attinenza diritta con la qaisiione della parteeipazion- . Le cose, sui cui rapporti di partecipazione Plato'io, interroga i Fis'ci, e di cui attribuisce agli eristici che non ani- m ttono se non i giudizi identici, di negarci questi rapporti, sono, come abbiamo detto, degli oggetti che prssono ess'^re considerati di due maniere dift'erent', cioè come astrazioni realizzate, come Idee — da Platone—, e come sempl ci classi degli oggetti d'esperienza e loro attributi (non realizzati)— dai Fisici e gli eristici — Ma lo classi e i loro attributi di questi filosofi non sono cer- tamente delle cose trascendenti : dunque anche le Idee platoniche devono essere immanenti. E in elfeiti è e vi- ci) 260 a. (2) Che i Megarici abbiano ammesso la teoria deUe Idee, è una supposizione d'alcuni autori moderni che non ha né verosimiglianza intrinseca né alcun fonlamento storico. Confr. (jaesto Supplemento parte I, n. X. dente che quando Platone domanda ai Fisici se essi am- mettono o no che il movimento e lo stato partecipano, egli non può parlare di un movimento, di uno stato e di uà essere fuori delle cose, ma di questo movimento, stato ed essere che sono degli attributi delle cose— da Piatone riguardati come Idee, cioè come at- tributi—sostanze e dai Fisici come semplici attributi --. Similmente quando agli eristici, che non vogliono che si dica che l'uomo è buono né che un altro predicato qualunque si predichi di un soggetto differente da esso, Platone attribuisce di separare il buono dall'uomo e ogni cosa da ogni altra v. di non permettere la loro me- scolanza, q leste cose che essi separano e di cui non per- mettono la mescolanza, non possono essere certamente gli esemplari trascendenti dell'uomo, della bontà e di ogni altra cosa espressa dai nomi generali, che questi filosofi ci proibiscono di affermare l'uno dell'altro; per- chè l'uomo è buono e tutte le altre proposizioni che questi filosofi c'inibiscono, noi non le riferiamo ad esemplari trascendenti delle cose, ma alle così stesse. E in una parola quando Platone dice che il discorso nasce dalla mutua complicazione (aD|i7iXoxr^) delle specie, per queste specie— che sono evidentemente le Idee— noi non pos- siamo intendere delle entità trascendenti, perchè i nomi generali di cui i discorsi umani si compongono, e i con- cetti che ad essi corrispondono, non si riferiscono ad oggetti trascendenti, ma immanenti. Ma questo è un punto che escp, come abbiamo detto, dall'argomento del presente numero, ed eutra in quello del numero III (1). (1) ITn'aUra prova evidente che i generi, di cui Platone discute nel Solista l rapporti di partecipazione, soao delle realtà immanentiy l'abbiamo in ciò che Platone dice del discorso sulla fine del luogo — 70 — Nella mescolanza del Sofista vi ha il germe d'un'im- mag'inp, a cui alcuni platonici ricorrevano per nippre- sentarsi il rapporto tra le Idea e le cose. Alcuno, dice Aristotile {Mei, 1. 1. IX. 1), potrà credere che le Idee sono causa alle cose dclTcssere ciò che sono, come il bianco, mescolato, è cau«»a a un oggetto di essere bianco. Egli attribuisce questa proposizione ad Eudossìo e a molti altri (1), e la paragona alla dottrina delle omeo- merie di Ana'asagora. Questa comparazione del rapporto tra le cose e le Idee a cui e sse devono i loro attributi, a quello tra Toggettì coloralo e la sostanza colorante, mostra d'una maniera cosi evidente Vimmanenza del'e Idee nelle cose, che Tinterprete trascendentalista, per citato (260 a) e nel seguito (260 b-264 b): e^rM classa il discorso tra i generi di cai ha discusso qa3sti rapporti di parteoi;)a.«ian<», a do- manda se il non essere si mescoli a qa3sta specie come ha visto ohe si mescola alle altre (v. 260 a-a). Ora il discorso di cui Platone parla, è incontestabilmente il xo.s/ro discorso, non l'archetipo di esso: ma se questo genere è una realtà immanente, gli altri, con cui esso è classato, non possono essere delle entità trascendenti. Aggiungiamo che il Non essere, che è uno dei generi di cui si cercano i rapporti di partecipazione con gli altri, e che ù anzi l'og- getto precipuo di tutta la digressione di cui fa parte questa discus- sione sui rapporti di partecipazione tra i generi, è riguardato co- me l'oggetto dell'opinione falsa (della reale, della nostra) —v. 236- 264. — Ma l'oggetto dell'opinione falsa sono i non esseri — cioè la cose che non sono e che noi crediamo falsamente che siano — : dunque Platone concepisce il Noti css<'re, non come un archetipo dei non esseri, separato da essi, ma come la loro forma generale, in essi immanente. È certamente una stranezza di realizzare, come fa Platone, anche il concetto di ciò cha non ò; ma, facendolo, egli non può considerare il rapporto tra questo concetto realizzato e lo cose particolari comprese sotto il concetto di cui è la realizzazione, come differente da quello fra gli altri concetti realizzati e le cose particolari subordinate. (1) Cfr. il oomm. d'Aless. Afrod. conciliare quest'indicazione d'Aristotile con la sua in- terpretazione, non potrebbe dire altro se non che la propos zone appartieu'*, non a tutti i platonici, ma ad una fraz'one, e questa poteva ben essere una scuola di d'ssident*. Ed è vero che Aristoti'e sembra riguardare questa proposizione come una doitrii a particolare: in- certo, com'egli era, sulla qaistione se il rapporto tra le Idee e le cose fosse un rapporto d'immanenza o di tra- scendenza, non è diftìcile di comprendere com'egli po- tasse vedere delle differenze reali nella maniera di con- cepire que-to rapporto là dove non si trattava che di una spmpl ce differenza nell'ecpress'one dello stfFso con- cetto. Co^ì nel 1. 3" e. 2« e 1. 13« e. V\ 2» e 3^>egli distingue quelli che ammettono le entità matematiclìe {\ Numeri e le Figure geometriche) nelle cose e quelli che le ammet- tono separate dalle cose: verosiml spente non vi era tra gli gli uni e gli altri una differenza di dofirina, come afferma Aristotile, ma semplicemente gli uni esp-imevano V imma- nenza di queste entità di uaa maniera più energica che gli altri. La quistinn**. del rapporto tra le Idee e le co-^e era di troppo momento pel significato e lo scopo deH'ipotesi stessa delle I^lep, perchè potes«-x^ essere To^-getto di una divergenza reale tra i partigiani di qufst' ipotesi. Nella proposizione d' Eudossfo non bisogna vedere che una rappresentazione materiale della dottrina ordinaria della partecipazione : anche Platonf^ si f^erviva Hi rappre-en- tR'/ioni sirn 1', p. e. n'I Fé Jone, in cui le luf>e «i fanno venire nelle cose e ritirarsene (1), determinando in VI (1 ) La grandezza che è in noi, dice a 102 e, quando viono il suo contrario, si deve credere o che fugge o si ritira, o che perisce. Vedi pure 10B a e 104 e. Platone non fa due ipotesi, non intende dire, cioè, che alla grandezza che è in noi deve avvenire e l'una o l'ai- 'H esse, per questa venuta e questo ritiro, V apparizione e la disparizione degli attributi corrispondenii. Queste proposizioni evidentemente ncn potrebbero essere prese alla lettera, perchè cosi le Idee si sottoporrebbero alle condizioni dell'esistenza nello spazio, del mutamento, ree, condizioni che, secondo Platone, non competono che al lenomeno : esse non sono che 1' espressione, sotto una forma sensibile, del concetto scvrasensibile della parteci- pazione e della panisia, cioè della dottrina che gli attri- buti omonimi di tut i gli esseri non sono io sostanza che una ì"0la entità, un solo Attributo, uno e lo stesso in tutt'. A queste rappresentazioni mj^ter'ali (^el rapporto tra le cose e le Idee dobbiamo Aggiungere la descrizione simbolica della formazione delF anima nel Timeo, Ivi Platone racconta che il Demiurgo compose l'anima— no-, l'anima cosa, non l'anima Idea—, mescolando in una caldaia Vessenza indivisibile e sempre la stessa con V essenza che diviene divisibile circa i corpi, e facendo tra di ilUQ^te dna cose, perchè ciò non avrebbe alcun senso: ma vuol dire che, quando una cosa cessa di essere grande, questa per- dita della grandezza può considerarsi sotto due punti di vista, cioè sia com3 una cessazione del^esiJ^tenza di quest'attributo, sia come la cassazione deUa parusia dell'Idea oorrisi)ondente a quest' attri- buto. In quanto la grandezza che è in una cosa si considera co- me f'»'H)metiOy cioti come individualizzata e distinta dalla grandez- za che è nelle altre cose, essa perisce : ma in quanto si considera nella sua essenza reale, cioè came la grandezza una e la stessa che è in tutte le coso grandi, essa non perisce, ma cessa soltanto la sua parusia nella cosa, (iue-^t'interpretaziono è confermata dall'auto- rità d'Aristotile, il quale dice {De ficncrat. 1. II, IX, 5) che nel iV- donn le Idee si considerano come cause ettìcienti, perchè le cose si fanno nascerò per la receziona (»i£TàXTj'>j;tv) delle Idee e perire per la loro sottrazione . àTio^oXr^v) : quest'ultima indicazione non può alludere che ai luoghi citati. anche entrare nella mescolanza la natura dello stesso e quella del diverso {Tim, 35 a-b, 41 d). Che cosa si debba intendere precisamente per queste entità di cui il Demiurgo compose l'anima, ò controverso. Io intendo: per V essenza indivisibile e sempre la sfessa l'Idea dell'anima; per r essenza che diviene divisibile circa i corpi la mate- teria, di cui Pia' one -nell'ultima forma del suo sistema —fa un elemento delle cose distinto dalle Idee; per lo stesso e il diverso le due entità che egli- sempre nell'ul- tima forma del suo sistema, in cui J^i avvicina ai Pita- gorici—riguarda, runa come la forma comune di tutte le Idee, e per conseguenza anche delle cose, l'altra come la materia tanto delle Idee qua»ito delle cose, e che chiama pure fluita e infinito, essere e non essere, bene e male, uno e dualità indefinita, eguale e ineguale, ecc. (l). Ma che si ammetta questa interpretazione o un'altra, è, per la qaistionc presente, un punto d'un'importanza secondaria; perchè le diverse interpretazioni si accordano sul pun'o più importante, cioè che alcuni degli elementi, di cui Platone compone l'anima, sono Idee. Ora l'anima della cui composizione egli p-^rla, è una cosa : dunque bisogna anche ammettere che il rapporto tra le Idee e le cose è quello che vi ha tra gli elementi e illorocon- posto, ciò che è l'affermazione più energ ca dell'imma- nenza delle Lice. La più parte degl' iater preti tra cen- deritalisti, se non tutti, non accorderebbero, è vero, che l'anima è per i^Jatone una cosa, cioè una semplice realtà fenomenale: essi ammettono invece che l'anima fa parte della classe delle entità matematiche, che Platone di- ci) V. por quest'interpretaziune Suppt. C, IV, A. — 12 — rlf T^ fT^ '^-^»'^~ stingueva, nel periodo pìtagoreggìante, dalle Idee prò- priamente dette o numeri ideali, e che venivano chia- mate entità intermediarie (tra le Idee e le cose); e danno della composzione dell'aaima nel Timeo questa interpre- tazione, che Platone la compone delle Idee e delPele- mento sensibile o della materia, perchè essa è per lui d'una natura intermediaria fra le Idee e le cose. None qui il luogo di discutere questa identificazione deiranima ad un'entità matematica : qui basterà di osservare che essa lascia intatta la contraddizione che vi ha tra la interpretazione trascendentalista delle Idee e la compo- sizione dell'anima nel Timeo. In effetto, secondo l'inter- prete trascendentalista, le Idee devono essere t-asccn- dents tanto di fronte alle cose, quan o di fronte aUe en- tità matematiche o intermediari^». Tutte le determina- zioni chH Piatone o Aristotile attribuiscono alle Ide-, di essere delle sostanze, di essere ciascuna aOxò xaG'aOxó, di essere jìsì^/,z\± o xsxwpiojisva (separabili o separate), ecc., che provano, secondo l'interprete trascendentalista, che le Idee sono fuori delle cose, prov.rvibbero ugual- mente che e^^se sono fuo.i delle entità intermeiiarie. Per cons'^guenza 1 interprete trascendentalista è costretto in quest'iilternativa : o di ammettere che U Idee sono im- ma'ienti nelle entità intermedia ie, e allora si avrà l'in- congruenza che le stesse determinazioni significheranno ora la trascendenza delle Idee e ora la loro immanenza; o di ammettere che le Idee sono fuori delle entità Inter- mediarle, e allora gli elementi di cui l'anima è compo- sta saranno fuori dell'anima. L' identificazione, che noi abbiamo fatto, tra la me- tessi e la ])arusia sembra contraria a un luogo del Fe- done (100 d), di cui noi dobbiamo tralasciare di occu- parci, tanto più che gl'interpreti trascendentalisti vi ve- dono una prova della 'loro interpretazione. Ivi Socrate, dopo avere stabilito che vi ha un bello, un buono, un grande ecc., per se stesso, e che una cosa è bella per- chè partecipa ([isxsxst) di quel bello, dice : « Dunque io non comprendo più né potrei comprendere queste spie- gazioni sapienti (acxiac; ao^a?) che ci si danno : ma se alcuno mi dice che una cosa è bella a causa dei suoi colori vivi 0 della sua forma o di altre proprietà simili, io lascio andare tutte queste ragioni che non fanno che turbarmi, e dico a me stesso semplicemente e senz'arte, fors'anche troppo semplicemente (Taco^ sOVjGws) che non altro fa bella una cosa se non il bello, per la sua pre- senza (Tiapouofa) 0 per la sua partecipazione (xoivwvCa) o in qualunque modo esso sopravvenga (TrpoaytYvsxai); che su questo non voglio affermare niente, ma ciò che so- stengo è che tutte le cose belle sono belle per il bello. Questa mi pare la risposta più sicura per me e per ogni altro, e appoggiandomi su questa base, penso di non c-ider mai, ma di poter rispondere sicuramente, io e chiunque altro, che le cose belle sono belle perii bello ». Gl'interpreti trascendentalisti vedono in queste parole la prova che Platone non determinò mai esattamente il rappor- to tra le cose e le Idee, perchè essi le intendono come se la Tiapo'jaia, la xoivovfa e le altre espressioni di cui egli suole 8**rvirsi per indicare questo rapporto, significassero delle ip »tesi differenti che possono farsi su di esso, e l'autore confessasse che egli era incerto a quale di queste ipotesi si dovesse dare la preferenza. Ma contro questa inter- pretazione sta il fatto evidente che tutte le volte che Platone allude alla metessi o alla parusia, egli non ne parla come di semplici ipotesi, ma il suo linguaggio è intcamente affermativo. E per vederlo, non è necessario di u-^cire dallo stesso Fedone. Nella dimostrazione del- l'immortalità dell'anima che noi abbiamo citato— vale a dire un po' più giù del luogo di cui si tratta— la parusia - 73 - è espressa della maniera più energica, e, certo, non in un modo dubitativo; e nel luogo stesso di cui sì tr<atta la parola TipooYiYvsxat, la quale esprime evidentemente la parusia, deve valere per tutti i casi, qualunque sia nome che si debba dare al rapporto delle Idee con le cose. Della metessì si parla immediatamente piimaeun poco dopo di questo luogo stesso (100 e, 101 e)— due luo- ghi strettamente connessi con esso —, e se no parla d'u- na maniera egualmente categorica. In quanto allaxoivojvia, essa è per Platone, come si vede abbflstapza da alcuni dei luoghi citati, un perfetto sinonitno della iiiOs^t?. Ma se la Tiapo'joCa, la xoivwvia, la ixéGsJig non sono delle ipotesi differenti sul rapporto delle Idee i on le cose, qual è allora il senso del luogo di cui parliamo? Queste parole e tutte le altre fspress'onl di cui Platon^^ si srve per indicare il rapporto tra le cose e le Ideo, i-ignificano lo stesso concetto, ma nessuna di esfe lo esprima d'uua maniera adequata. È che questo rapporto essendo una cosa unica nel suo genere, non vi ha, come abbamo già detto, alcuna parola che possa esprimerlo. Ciò che vi ha sovratutto d'inesprimibile ò naturalmente il carattere di questo rapporto che è la cftusa principale delT oscunt\ del sistema delle Idee, vale a dire l'cs-stenza simultanea deir uno nei molti. Questo carattere essendo necessa- riamente assente da tutti i fatti osservabili o semplice- mente rappresentabili, che le parole jiapoDoCa, iisBegi^, xoi- v(ov(d, ecc. potevano evocare all'in maginaziore, ciò ba stava perchè queste parole fosseio giudicate impossenti ad esprimere la relazione ti a le toso e le Id(e. La pa- rusia ha il vantaggio di esprimere della maniera più e- nergica Tinesistenza delle Idee nelle cose ; ma non im- plica, anzi esclude, l'esistenza simultanea di una stessa Idea in molte cose, perchè la presenza di una cosa in un luogo — che è il fatto rappresentabile corrispondente II alla parola parusia — circoscrive l'esistenza di questa cosa nei limiti di questo luogo particolare. La [ié0sgtg e la xoiv(!)v(a hanno sulla Tiapooota il vantaggio di esprimere che una stessa Idea è comune a molte cose : ma i fatti rappresentabili significati da queste parole si distinguono dal rapporto delle cose con le Idee, perchè, quando più erse partecipano r.d una sola, è necessario che questa si divida in più parti, o, se resta indivisa, è impossibile che la cosa partecipata entri a far parte della sostanza delle cose partecipanti, come l'Idea delle cose. Platone non dice dunque, nel luogo di cui parliamo, che la Tiapouafa, la xoiv(i)v{a, ecc. sono delle ipotesi diverse che possono farsi sul rapporto tra le Idee e le cose, e che egli non intende affermare categoricamente nessuna di queste ipo- tesi ; ma che il rapporto fra le cose e le Idee potrebbe in certo modo classarsi tra gii uni o gli altri di quelli che i Greci indicano con le parole TcapouaCa, xotvtovCa, ecc., ma egli non intende affermare che esso debba classarsi tja gli uni 0 gii altri, per la semplice ragione che que- ste classazioni sono tutte inesatte. Che questo rapporto, qualunque sia il nome con cui si debba chiamarlo, sia un rapporto d'immanenza, è del resto ciò di che il no- stro luogo porta in se stesso delle prove sufficienti. Il Bello deve essere causa della beltà delle cose belle nel senso stesso in cui lo sono le altre cause sapienti che Platone non approva e a cui viene messo in opposizione, vale a dire i colori vivaci, la forma, ecc. ; ma queste non sono delle cause esteriori, ma delle proprietà delle cose che fauno si che si dia ad esse il predicato hello: dun- que il Bello, dovendo essere una causa della stessa na- tura, non può essere una causa esteriore alle cose belle, ma una proprietà di queste cosUn'altra prova evidente dell'immanenza é l'opposizione che Plalone stabilisce tra le spiegazioni che egli non approva e quelJa che egU propone: le prime sono delle spie- gazioni sapienti; la sua è una spiegazione sicura, c<^n cui non si rischia di ingannarsi, ma semplice, senz'arto e quasi quasi un'ingenuità. La stessa opposizione è ri- petuta un po' più giù, 101 e, dove dice: « Ma che? he si aggiunge uno ad uno, non avrai timore di dire che è l'addizione la causa di divenire due, o che questa cau a è la divisione se l'uno si divide in due? e ron d chia- rerai altamente che tu non conosci altro modo con cui una cosa si produca che partecipando (jieTaoxóv) al'a es- senza a lei propria, della quale partecipa (fiexaoxr^), e che per conseguenza tu non sai altra cansa di dive- nire due, che la partecipazione (lisiaoxsaiv) della dua- lità, e che è necessario che partecipi (fjLsxaoxsìv) di essa tutto ciò che diviene due, come dell'unità tut o ciò che diviene uno? non abbandrnerai le addizion', le divisioni e le altre sottigliezze di questo genera, lasciandole a dei più sapienti di te? per te, temendo, come suol dirsi, la tua 'ombra e la tua ignoranza, non risponderai co^i, con- tentandoti della ipotesi sicura che abbiamo stabilita ? * Sulla stessa idea si ritorna a 105 b-c : ivi Socrate, do mandando a Cebet^ qual è la cosa, che quando sovrag- giunge a un oggetto, qutsto si liscalda, dice a costui che non deve rispon(^ergli con quello stesso che egli do- manda, non deve dargli quella risposta sicura, ma ij:nn- rante, stabilita al princip o, cioè che questa cosa ò il caldo, ma una risposta più dotta, cioè che è il fuoco. Ora Platone non potrebbe pai lare cosi, se /e cose belle sono belle per il bello volesse dire ehe esso sono tali pe:chò sono state fatto ad imitazione dell'Idea trascendente; del bello, perchè questa spiegazione sarebbe più ric^rcat», o come dice Platone, più sapiente di qualsiasi altra : le parole di Platone al contrario sono naturalissime, se la Idea è un attributo delle cose, perchè in questo caso la spiegazione ha tutta l'aria di essere una mera tautolo- gia, somigliando, come abbiamo detto, a quella del me- dico di Molière che l'oppio fa dormire perchè ha la virtù dormiti va. E qui il luogo di parlare di un epiteto che Aristotile dà alle Idee platoniche, e in cui gl'interpreti trascen- dentalisti vedono una delle prove più forti della loro in- terpetazi «ne. Qu*>st' epiteto è x^ptatóg (separabile o se- parato), e Aristotile Io dà alle Idee per indicare il loro rapporto sia con le cose sìa tra di loro. Quantunque noi non troviamo questa parola negli scritti platonici, tutta- via l'uso frequente che ne fa Aristotile, quando parla delie Idee, non lascia pressocchè alcun dubbio che sì tratti di un'espressione platonica, tanto più che in certi casi in cui egli Tusa TI), ha tutta l'aria di riprodurre le proposizioni di Platone o dei platonici con le loro pro- prie espressioni. Gl'interpreti trascendentalisti intendono per questa parola che le Idee sono separate dalle cose e ciascuna da ciascun'altra : ma noi dobbiamo cercare per essa un significato che non sia in contraddizione coi risultati evidenti a cui conduce sulla quistione dell' im- manenza o trascendenza delle Idee l'esame imparziale degli scritti platonici. Noi cerchiamo, ben inteso, non il significato che Aristotile dà alla parola — ciò riguarda direttamente, non la dottrina di Platone, ma l'interpre- tazione aristotelica di questa dottrina —, ma quello che esso ha potuto avere per lo strs^o Platone, Un primo dato che può metterci sulla via per trovare qupsto significato, noi lo abbiamo nel luogo della Repub- blica, 523-524, in cui Piatone distingue le percezioni dei sensi che eccitano l'intelligenza alla ricerca e quelle che <1) V. p. e. EtJi. End. 1. 1, VITI. non lo fanno. Le seconde sono quelle che non inviluppano una contrarietà : p. e. alla vista di tre dita, rintelligen7a non è obbligata a ricercare cosa sia il dito; il sersolo giudica sufficientemeDtP, perchè ciò che apparisce come dito non apparisce al tempo stesso come il contrario del dito. Le prime invece inviluppano qualche contrarietà : p. e. noi non possiamo percepire una cosa molle che non ci sembra al tempo stesso dura, una cosa grande che uon ci sembri al tempo stesso piccola, e viceversa. Il senso non dichiara che la cosa sia ciò piuttosto che il suo con- trario, e la stessa percezione viene annunziata all'anima come percezione al tempo stesso del molle e del duro, del grande e del piccolo, ecc. « In tali cose, continua Socrate, l'anima eccita la ragione e l'intell'genza a ri- cercare se ciò che le viene annunziato sia una sola cosa ovvero due — Glaucome : E come no ? — Sock. E se ap- paiono due, ciascuna delle dne non apparirà differente ed una ? — Glauc. : Si — Socr. : Se dunque ciascuna ap- pare una e amendue due, queste due penserà separate (xsxwptojiéva) : se le pensasse non separate (àxwptoTa), non penserebbe due cose, ma una soia — Gl. : È giusto — Socr. : La vista, noi diciamo, vedeva il grande e il pic- colo; ma non come un che di separato (xsxwpiojxévov), ma come un che di confuso (a'jY>tsxufisvov). Non è vero? — Glauc. : Si— Socr. : Ma per rischiarare ciò, l'intelligenza è costretta a vedere il grande e il piccolo, non confusi (ooYxsxoiJiéva), ma distinti (aiwpiaixiva), al contrario del senso— Glauc. : È vero— Sccr. : E non siamo così eccitati a ricercare cosa sia il grande e cosa sia il piccolo ?— Gl. : Certo— Socr. : Ed è pure cosi che abbiamo distinto Tin- t^lligibile dal sens bile— Gl. : Giustamente. » Qui cviden- temetite la parola x£xo3pia}iévov non significa che il grande e il piccolo esistono isolatamcnle l'uno dall'altro e dalle cos'^, m> la parola àxwptaiov il co erario di questo isola- mento : qui non sì tratta di altra separazione che di quella che r intelligenza opera nella formazione dei concetti; separato (yw£xo)pia|X£vov) vuol dire semplicemente astratto, e vedere il grande e il piccolo separati (x£xo)pia|xéva) vuol dire considerarli in astratto, cioè nei loro concetti^ del resto questo grande e questo piccolo che T intelli- genza, cioè l'astrazione, vede distinti e separati, lungi di essere de^li oggetti trascendenti, sono quello stesso grande e quello stesso piccolo che il senso vedeva in- separati e confusi nella percezione degli oggetti concreti. Aristotile usa pure spesso le parole x'^P^^'^óg e xexw- piojiévog nel senso di astratto^ e x^P^S^^v nel senso di a- Htrarre, Cosi egli dice che gli oggetti della matematica, vale a dire i numeri e le grandezze, sono per il pensiero Xwp'.oxa dal movimento (1); che il matematico x^pC^Et que- 81 i oggetti (2); che li pone come x£xwpio}x£va dagli acci- denti (cioè dagli attributi concomitanti con cui esistono nelle cose) (3); o Femplicemente che li apprende o li con- templa come x£xwpta}iéva (4) o come x^ptoioc (5). Simil- mente la forma (£l5oo) è per Aristotile x^P^^'cóv secondo il concetto (6), quantunque non lo sia nella realtà; e cosi pure la materia (7). Il senso della parola yjiiip^(Z'zò(;, per Platone, per metterlo d'accordo coi concetti di questo fi- losofo che noi conosciamo dalle sue proprie opere, deve essere determinato in conformità di questi dati; e allnoi otteniamo per questa parola un significato presso- (1) Phh. 1. IT, II, 3. (2) Jbid. (3) Mei. 1. XIII, UT, 8, 0. (4) De aii, 1. UT, VII, 7. (:>) MH. 1. VI, I, 5. (0) Pln/s. 1. II, I, 12, Met. l. V, VITI, 5, l. VITI, I, 6, ecc. (7) JJe Qetu 1. I, V. 0. — 76 — che identico a quello deir espressione aòxò xaG'aOxó. Xw- pioTÓg— che noi dobbiamo tradurre non per separato, ma per separaò/Ze—significa che ciascuna Idea, c':oè ciascun attributo, a cui questo nome viene applicato, può isolarsi, per il pensiero, da tutti gli altri attributi con cui esso coesiste nelle cose, e che, concepito in questo isolamento, è ancora una realtà, perchè, essendo una sostanza e non semplicemente un attributo, la sua esistenza è indipen- dente dall'esistenza degli altri e da quella delle cose in cui coesiste con gli altri. L'Idea è deìtsi separabile dalle cose e dalle altre Idee— e dalla materia, che, nell'ultima forma del sistema platonico, è un olementj delle cose distinto dalle Idee (l) — come in un oggetto materiale una parte si dice separabile dal tutto e dalle altre parti con cui forma questo tutto ; cioè perchè avendo un'esi- stenza propria e distinta, il pensiero può rappresentar- sela come separata, quantunque in fatto non lo sia. An- che secondo il concettualista noi possiamo rappresen- tarci ciascun attributo separatamente dagli altri, suc- candolo per il pensiero dai tutti concreti nei quali coe- siste con essi: ma il concettualsmo non ammette che gli attributi esistano nel tutto concreto di cui sono le parti concettuali, di un'esistenza propria e distinta come vi esistono le parti materiali. Per conseguenza il con- cettualista Aristotile non può attribuire all'sleo? il nomo XwpLoxGv senza fare delle riserve : è che questo nome non gli conviene propriamente che nel sistema realista di Platone, perchè dire una cosa separabile importa, non solo che essa può essere concepita separatamente, ma che può essere concepita separatamente come reale. Delredto, quantunqae il termine vopiacó^, applicato alle (1) V. Supplem. C. entità platoniche, implichi spesso, nell'uso che ne fa Aristotile, la scparaz'one di queste entità nel senso del Tinterpretazione trascendentalista — per la ragione che egli nn può concepire che ciò cli^*. è una sostanza sia al tempo stesso un attributo e un attributo comune a molte cose—, pure non mancano nello stesso Aristotile degli esempi che confermano che il senso del termine Platone è quello che noi abbiamo detto. Cosi egli chiama xwpioxóv lo spazio che secondo i Platonici costi- tuisce la materia dei corpi e non esiste altrove che nei corpi stessi (1), e dice (2' che Platone nel rimeo non ha spiegato se ciò che riceve tutto (tò Tiav^s^s^) si separi (xctìpi?:£Tai) dagli elementi (il r.avasxé? a cui allude Ari- stoiile è la materia quale viene rappresentata nel Timeo 50 a-c, in cui Platone la det'^rmina d'una maniera che l'avvicina al'a materia aristotelica, e sembra per conse- guenza farne un principio distinto dallo spazio). Siccome la materia platonica è certamente un principio imma- nente, cosi in questi casi non può trattarsi di una sepa- razione rea'e, nel senso trascendentalista, ma di questa Feparabiliià ideale che nel sistema realista compete al- l'astratto, quantunque questo sistema non lo consideri che come un elemento del concreto. Xo^piaxóv è chiamato pure da Aristotile Vinfinito che secondo Platone è la materia tanto delle cose quanto delle Idee (p. e. : in Mei, 1. XI. X. 2) ; ed anche questa è senza dubbio una entiià immanente, come lo stesso Aristotile attesta nei termini più chiari nella Phys, 1. III. IV. 2, in cui dice che per Piatone Tinfinito è nelle cos3 sensibili e nelle Idee (3). (1) Phys. 1. rV, VII, 3. (2) De general. 1. II, I, 3. (8) V. pure U numero seguente. -77- Il senso che noi diamo alla parola y^opio^òq, risulta anche netlameute dalla Mei. 1. XIV. V. 3: ivi Aristo- t'ie domanda come il numero venga dagli elementi (l'Uno e la Dualità indermira); sesia per la mescolanza \\dli<;) o per la compcsizioue (aùvOsais) di questi elementi. Nel primo caso, egli obbietta, l'uno non sarebbe x^P'-aióv. Qui /wpiaTÓv non deve intendersi nel senso trascenden- talista, perchè allora robbiezìoue sussisterebbe anche nel- l'ipotesi che il numero venisse dagli elementi per com- pos'zione; mentre per Aristotile essa non sussiste che nell'ipotesi in cui esso ne viene per mescolanza. Il senso dell'obbiezione d'Aristotile è che nella mescolanza gli elementi non conservano un'esistenza propria e distinta come nella composizione, perchè il proprio della mesco- lanza {\iiliz) è l'annullamento delle sostanze mescolata come sostanze distinte e la sostituzione ad » s^e di una nuova sostanza; per conseguenza se il numero venisse dalla mescolanza delTUno e della Dualità indefinita, que- sti lamenti non potrebbero esistere nel numero di una esist»^nza propria e di&tinta come vuole Platone. Aggiun- gerò infine che in Mei, 1. VII. XIV. 2, facendo due ipo- tesi sul rapporto tra le Idee generiche e le specifiche, di cui l'una è che l'Idea generi^^a esista, numerica nente una e la stessa, in ciascuna delle Idee specifiche, applica a quella il termine xopiaxó; (tanto riguardo a (jueste quanto riguardo agF individui) in quest'ipotesi stessa, che è evidentemente quella dell' immanenza. L'uso che Aristotile e Platone stesso nel luogo citato della Repubblica fanno del verbo x^pi^siv e dei suoi derivati, ci autorizza a supporre che questo verbo era un termine tecnico di cui Platone si serviva per denotare quest'ope- razione del pensiero che noi chiamiamo astrarre, con que- sta differenza, ben inteso, che, mentre per noi l'astrazione è un artifizio puramente subbiettivo che non ha alcun riscontro nella realtà, al contrario per Platone, come per tutti i filosofi rpii listi, essa è l'organo per cui lo spirito apprende la realtà vera, e quindi l'operaziore doveva in- cluderò, per Platone un momento di più che per noi, vale a dire l'afft^rmaz'one dell'esist'^nza indipendente dell'og- getto che ne era il risultato. E certo almeno che Pla- tone usa in questo senso delle espressioni analoghe, p. e. àcpatpstv (Pldeadel bene da tutte le altre) (1), àcpopit^siv (2), ecc. Qu<*st'uso della parola x''>P^bS'-v spiegherebbe perfet- tamente quello di y^opiozó^^ che significherebbe, secondo la sua etimologia, astraibile o astratto, implicando natu- ra'mente nel senso di ques'e parole l'idea dell'esistenza per sé, che secondo noi è agli antipodi dell' astrazione, ma secondo Platone ne era inseparabile. Oltre all'epiteto di x^piaxó^, Aristotile dà alle entità platoniche quello di xexwp'-afiévo; (che però non usa cosi spesso come il primo). Sul senso di questa parola biso- gna fare una distinzione: l'sl^oc: può es<»ere detto o xsxw- pia|jL£vov semplicemente, o xsxwptajjiévov dalle cose sensibili, dagli esseri, ecc. Il primo di questi due casi non presenta alcuna difficoltà: nell'ipotesi dell'immanenza, cosi bene che in quella della trascendenza, ciascuna Idea è sepa- rata dalle altre (cioè non da tutte, ma da tutte quelle di cui non è né un genere né una specie) e dalla materia, quantunque unita con esse negli oggetti concreti in cui essa è presente; perchè l'Iblea è una sostanza, e una so- stanza es^'ste in se stessa e al di fuori delle altre. In quanto al secondo caso, xsxo)pto[iévog dalle cose potrebbe signifi- care: che é stato separato p^r il pensiero dalle cose; e in (1) Rep, 534 b. L'Idea del bene è l'sI^O^ degli £t5r^ > e perciò si trova in tutte le Idee. (2) Pnrmen, 133 b. ^78 — questo senso l'espressione si applicherebbe alle Idee consi- derate, non assolutamente, ma in relazione all'operazione dello spirito che noi chiamiamo astrarre, e che Platone avrebbe chiamato x^p^^isiv. Il bello, il buono, il grande, ecc. xsytopiaiiéva dalle cose vorrebbe dire il bello, il buono, il grande, ecc. coacepiti in se stessi, cioè quali appariscono al pensiero dopo che questo ha isolato ciascuno dì essi dagli altri attributi e da tutte le circostanze particolari che lo accompagnano negli oggetti concreti. Ma Ari<»to- tile applica questa e simili espressioni alle Idee, consi- derandole evidentemente, non in relazione all'operazione dello spirito per cui l'Idea viene appresa in se stessa, ma assolutamente: p. e. egli dice: secondo alcuni le entità matematiche sono xsxwp'.ajjisva dai sensibili, secondo al- tri nei sensibili stessi (1). Quest'uso della parola xsy/opi- o|isvo; sembra implicare la trascendenza de'le I loe, ed af- fettivamente Aristotile la impiega in questo senso. Ma siccome non vi ha alcuna ragione per ammettere che lo espressioni d'Aristotile siano la riproduzione fedele di quelle di Platone, cosi non può farsi di quest'uso deMa parola xsxopiaiiévo;; un argomento diretto a favore della trascendenza, a parte quello, certamente grave, ma in- diretto, che può tirarsi dall'autorità d'Aristotile come in- terprete del sistema platonico. VII. Il rapporto tra le Idea generiche e le Idee spe- cìfiche non può essere che identico a quello tra le Idee e le cose: se il primo rapporto è d'immanenza, il secondo non può essere di trascendenza. Ciò risulta prima di tutto dall'indole stessa della teoria delle Idee. Gli stessi mo- tivi che Platone aveva per ammettere l'immanenza dei (1) V. Met. l. Ili, I, 15, 1. Xni, I. 4, 1. XIII, II. Generi nelle Specie, dovevano anche fargli ammettere la immanenza delle Specie negl'individui : s'egli riguardava i Generi come inerenti nelle Specie, ciò non jìoteva es- sere che per questa ragione assai semplice, che il gene- rale non si trova altrove che nel particolare ; ma per la stessa ragione egli doveva riguardare le Specie come ine- renti negl'individui. DaiU'altra parte, tutte le inconcepi- bilità legate, nella dottrina dell'immanenza, al'a sostan- tificazione degli universali, esistevano egualmente, tanto nel rapporto tra le Idee e le cose quanto in quello tra le Idee generiche e le Idee specìfiche. Se Platone avesse ammesso la trascendenza delle Idee rispetto alle cose prr evitare l'assurdità che una sostanza inerisca in altre so- stanze come attributo, che l'uno si trovi simultaneam«mte in ciascuno dei molti, ecc. ; per gli stessi motivi egli a- vrebbe dovuto ammettere la trascendenza delle Idee dei generi rispetto alle Idee delle specie. Per conseguenza tutte le determinazioni delle Idee, che alTinterprete tra- scendentalista sembrano una prova della separazione delle Idee dalle cose, proverebbe! o pure la separazione delle Idee generali dalle Idee più particolari. S'*. i termini ov, oOata, aOxó xaO'aOxó, e gli altri attribuiti alle Idee per in- dicare la loro sussistenza per s^ stesse, significano, non solo che l'Idea è una sostanza, ma che è una sostanza che esiste separatamente da ogni altra; l'Idea sarà sepa- rata tanto dalle cose quanto da tutte le altre Idee. Se il yjùpi.Gz6^ (» il x£y/'>P-<5|A*vo; d' Aristotile provano la tra- scendenza dell'Idea di fronte all'oggetto riguardo a cui questi termini le vengono attribuiti, essi proveranno la trascendenza delle Idee gen'^riche di fronte alle Idee spe -ifiche, \ ciche Aristotile li attribuisce alle prime a riguardo delle seconde (1). Se quando le Idee si dicono 0) V. JÙh. EuiL 1. I, Vili, 0-10, Mei. 1. HI, UT, ij, 1. VU, XIV, 2, XV, 6, 1. X, II, 2, 1. XIII, X, 6, t^oc. - 79 -~ > I .• »' » ^— 1 ' essere Tcapa i sensibili, noi dobbiamo intendere, non solo che esse sono delle sostanze distinte dalle sensi- bili, ma ancora che esistono al di fuori di queste; bi- sognerà ammettere pure che le Idee dei generi sono al di fuori delle Idee delle Specie, perchè le prime soro dette essere r^apa le seconde (1). E in una parola, tutte le prove che secondo grinterpreti trascendentalisti dimostrano la trascendenza dille Idee di fronte ali»», cose, dimostrereb- bero egualmente quella delle Idee più generali di fronte alle Idee più part colari, perchè queste prove si riducono, in uliima aaalisi, alla sostantificazione delle Idee e alla loro dist'nzione dalle cose. Aggiungiamo che gli stessi termini e le stessi formule di cui Piatone si serve per indicare il rapporto tra le Idee e le cose, gii servono u^u^l- meute per indicare il rapporto tra le Idee più generali e le Idee più particolari. Cosi, quando Platone chiama la gene- ralizzazione una oDvaYWYYi, ciré una riduzione del multiplo «H'unità; quando chiama l'Idea l'uno nei molti ; quando dice che l'uno è molti e i molti sono uno ; quest'uno di cui ej>li parla è tanto l'Idea rispetto alle cose, quanto la Idea generica rispetto alle Idee specifiche, e i molti, tanto le cose rispetto all'Id'^a quanto le Idee specifiche rispetto all'Idea generica (2j : ora, la relazione che Platone sta- bilisce tra l'uno e i molti, non può nei due casi essere differenie. Cosi pure la parola partecipare — cioè le pa- role grc.he che le corrispondono — non può avere due sensi differenti, quando Piatone dice delle cose che parte- cipano alle Idee, e quan io dice delle Idee che parteci- pano ad a'tre Idee più geuerali (3). (1) V. Aii^t. M,-ì, I. TU, ITI, jl, 1. VII,XIU, 6, XV, 7,1. XIII, X, e, Elh, End. 1. I, VITI, 9, Plato. Sof. 250 b, tìcc. <2) V. num. V. (3) V. num. precedente. Segue da ciò che abbiamo detto che ciò che prova immediatamente l'immanenza delle Idee più generali nelle Idee più particolari, prova anche mediatamente l'imma- nenza delle Idee nelle cose. È a questa classe di prove che appartengono, almene in parte, alcune di quelle espo- ste nei numeri precedenti — notevolmente la comunione dei generi del Sofista^ l'identità tra l'uno e i molti del Fllebo, la generalizzazione considerati come una ridu- zione del multiplo all'uno--: le prove che esporremo nel presente numero appartengono pure alla stessa classe. Il rapporto fra le Idee generali e le Idee particolari è considerato da Platone a un doppio punto di vist^, corrispondente al doppio punto di vista sotto cui possono considerarsi i concetti, quello dell' eslensione e quello dell' intensione, A Considerando i concetM, e (luindi le Idee, che non sono se non i concetti realizzati, al punto di vista del- l'estensione, le Idee specifiche sono contenute nelle Idee generiche. Questo punto di vista è n^itural mente quello della dialettica, poiché la dialettica platonica è la divi- sione del genere nelle specie, e considera quindi il ge- nere nella sua estensione. S'ccome nella divisione (diatpsoi;) le specie sono ri- guardate come parti del gen^TC, e l'o^'getto proprio dì c|uesto metodo sono esclusivamente 1^, Id e, cosi la dia- lettica — vale a dire 1' uno dei due elementi costitutivi d*lla teoria delle Idee — ha p.'r bas«, il concetto che le Idee specifiche fono />a?'// dell'Idea generica. Per la prova della proposizione che l'oggetto proprio ed esclusivo della divisione so:io le Idee, rimando -A num. IV: in quanto alla propos zione che n^lla divisione le spec'e sono ri- guardate come parti del genere, sembrerà una puerilità di credere che sia necessario di provai ria. Tuttavia scome può esservi qualche lettore che noj abbia alcuna 80 - nozioDC della dieresi p'atoDÌca, e questi potrebbe iram^- ginare che Platone nelle sue dieresi noQ riguarda le spe- cie iu cui il genere viene diviso come parti di esso — ciò che infatti sarebbe la conseguenza inevitabile dell' ipo- tesi della trascendenza —, così non sacà forse inutile di provare coi testi anche questa proposizione. Perciò ba- «teranno i due luoghi seguenti : Polii, 2G2 a 26o b : Lo straniero (riprovando una di- visione di Socrate) : « Non separiamo una pi«*cola parte per opporla ad altre grandi e numerose, né prendiauna parte soiza la specie, ma la parte abbia al tempo stesso specie. È bello di separare subito da tutto il resto ciò che si cerca ma vale di più andare dividendo per metà, e meglio cosi scopriremo le Id*'e ; ora è ciò che importa sovratutto in ogni ricerca — SocR. : Ma come si può il tendere più chiaramente che la parte e la sp^v eie non sono la stessa cosa, ma due cos'*^ differemiV — Lo STRAN.: Ottimo fra gli uomifii, non è lieve ciò che mi domandi Guardati bene però di pensare dì aver udito da me alcuna cosa determiaata intorno a que- sto — SocF. : Intorno a che? — Lo stran. : Che la part^ e la specie siano due cose differenti — Socr. : Perchè? — Lo STRAN. : La specie è necessariamente una parte di ciò di cui si dice clfe è una specie, ira non è necessario che una parte sia al tempo stesso una specie. Non dimenti- care mai, o Socrate, che io cerco di dividere di questa maniiM-a (cioè p^r parti che sono specie) anziché delPal- ira (ciaè per semplici pani) >. Fedro 265 c-26(; b : « Vi hanno due cose che sarebbe interessante che un uomo ab'le potesse trattare con arte. Prima, di ricondurre ad un'Idea unica, guardandolo con una veduta comprensiva, tutto ciò che e sparso da una parte e dall'altra e poi di sapere di nuovo dividere per ispecie come per altrettante articolazioni naturali, cer- cando di non mutilare alcuna parte come farebbe un eat- tivo scalco. Così poco fa i nostri due discorsi (fatti Pano in lode, ePaltroin biasimo dell'amore) hanno cominciato per prendere la specie generale del delirio, e come un sol corpo si compone di membra doppie, chiamate con lo stesso nome, cioè le destre e le sinistre, similmente essi hanno conside- rato il delirio come una specie unica, e Puno, dividendo la parte sinistra e suddividendola, non si è fermato che dopo aver trovato un certo sinistro amore, ch'esso ha colmato di rimproveri ben meritati ; Paltro, avendo preso la destra del delirio, vi ha trovato un altro amore, simile ai pri- mo di nome, ma divino, che ha colmato di lodi, vantan- dolo come l'autore dei più grandi beni. Per me, o Fe- dro, io sono amante di queste divisioni e riunioni (ao- vaYo>Ywv), per essere più in grado di ben pensare e di ben parlare; e se credo di scorgere in alcuno la capacità di guardare all'uno e ai molti, io seguo le sue orme come quelle d'un dio. Quelli che hanno questa capacità, dio sa se a torto o a ragione, io li chiamo sin qui dialettici ». In questi luoghi non potrebbe supporsi che Platone, mentre riguarda le specie come parti del genere diviso, dimentica il suo principio che l'oggetto a cui si applica la dieresi sono le Idee — ciò che è la sola risorsa a cui potrebbe ricorrere P interprete trascendentalista per ne- gare che le Idee specifiche siano considerate come parti dell' Idea generica — Infatti in essi è affermato esplicita- mente che il vero oggetto della dieresi sono le Idee : e oltre di ciò la supposizione i)otrebbe al più essere am- missibile nei casi in cui questo metodo non '> che praticato; la pratica, potrebbe dirsi in questi casi, non corrisponde alla teoria; ma nei due luoghi citati Platone si mette al punto di vista teorico, dandone nell'uno delle regole, e nell'altro inculcandolo come metodo generale, e ciò con un'enfasi che basterebbe essa sola a provare che egli lo - 81 - considera nella sua applicazione alle Idee, poiché è in quest'applicazione che esso d' viene una soluzione del pro- blema delle cause, efficienti, e acquista perciò il pregio inestimabile in cui è tenuto da Platone. Del resto, oltre alle dieresi e ai luoghi relativi a que- sto metodo, che Platone riguardi le Idee specifiche come parti dell' Idea generica, risulta anche da altri luoghi, nei quali non vi ha alcun dubbio che le specie e i generi di cui si tratta .«ono le Idee. Così nel Sofista 257 c-2r)8 d : « La cpuat? del diverso mi pare essere frazionata (xa-ca/.s- xspixaxfoO-ai) come la scienza. Questat^ò pure una; ma cia- scuna parte di e«^sa, riferendosi a un soggetto particolare, prende un nome particolare; e perciò vi hanno molte arti e molte scienze — Senz^ dubbio — Non vale la stessa cosa per le parti Oiópia) della cpOai? del diverso, una in fò stessa V — Forse, ma spiega in che modo — Vi ha una parte (jiópiov) del Diverso, che si oppone al Bello V — Sì — Ha qualche nome o non ne ha? — Lo ha ; perchè ciò che chiamiamo non bello non è che ciò che è diverso dalla cpóotc; del bello- Bisogna porre nel numero degli esseri il Non bello non meno che il Bello? - Non meno — K bisogna pure dire che il Non grande è similmente che il Grande? — Similmente— Dunque anche il Non giusto porremo di fronte al (Husto, come se il primo non esis a meno che il secondo ? — Certamente — E lo stesso vale per le altre cose, poiché noi abbiamoo visto che la ^ioi? del diverso è nel numero d<»gli esseri; e ammettendo che essa è, bisogna anche ammettere che le sue parti (iiópia) sono — K come no? — Ter conseguenza l'opposizione di una parto ( jiópiou) della cfOc-s del diverso a quella dell'esere non è meno un essere che l'Essere stesso; e signi- fica, non il contrario di questo, ma solamente il diverso — Evidentemente — Come la chinmercmo? — E chiaro che è il Non essere, che noi cercavamo per cause del sofi- sta Noi abbiamo non solo dimostrato che i non es- seri sono, ma spiegato ancora che cosa sia la specie del non essere; poiché avendo provato che esiste la (^ óot^ del diverso, e che si trova divìsa (xaxaxsxspiaaxtaiiévyjv) in tutti gli esseri, nella loro relaz^'one reciproca, abbiamo osato di dire che la parte i «lópiov) di essa, opposta a ciascun es- sere, ò realmente il Non essere. » Nel 7im€o 30 c-d si cerca quale sia Tanimale — l'ani- male Idea, non l'animale cosa — a somiglianza del quale il mondo è stato fatto. Quest' animale, dice Timeo, non può essere uno di quelli che sono nel genere della parte (|i£po% — cioè che sono delle parti), perchè ciò che è fatto a somiglianza dell' imperfetto non può essere bello; ma è l'animale « di cui tutti gli altri animali, presi per ge- neri e per individui (cioè ppr ispecie, perchè gì' individui di cui (jui si tratta sono Idee), sono delle parti (fiópia). Es80 contiene in sé (èv éauTtp nspiXa^òv sxsi) tutti gli ani- mali intelligibili, come questo mondo contiene noi e tutti gli animali visibili». Por conseguenza (31 ab) essendo fatto sopra un tale esemplare, il mondo è unico : « poiché (|Up1Io che contiene (xòTispisxov) tutti gli animali iutelligibili non può essere un secondo con un altro; perché allora esi- sterebbe necessaria mente un altro ancora, di cui ciascuno dei due sarebbe una parie (jiépo;), e il mondo sarebbe stato fatto a somiglianza, non di questi due, ma di quest'altro che conterrebbe (Tispisxov) tutti e due. Afhoché dunque que- sto mondo fosse .imile per la sua unità all' animale as- soluto (;:avTcÀ£t), il suo autore non ne ha fatto né due né un' infinità, ma non ha prodotto che questo solo cielo, che è e sarà unico». A 39 e poi, cominciando a narrare la produzione degli animali, Timeo dice che il mondo, in quanto al resto, somigliava al modello alla cui imita- zione è stato fatto, e ma non racchiudendo tutti gli ani- mali che sono nati nel suo seno, per questa ragione era — 82 - ancor<a dissimili ; perciò il Demiurgo aggiungeva ciò che gli mancava, riproducendo la natura del suo modello. Per conseguenza, (filali e quante specie l' intelligenza vede inesistenti (évoóoa;) in ciò che è animale (xiT) 'i Izv, ^tpov), tali e tante stabili che questo mondo dovesse ri- ceverne». Quest'animale assoluto o intero, che contiene tutti gli altri animali intelligibili come delle parti, non può essere che l'Idea generale deiran^'male. In etTetti, quando un nome si riferisce alle Idee, non può signifi- care nel linguaggio di Platone che l'Idea delle (ose a cui questo nome appartiene. Ciò ò con fermato inoltre dall'argomento con cui Platone' dimostra che (luest'aiìi- male e unico, cioè che se ve ne fossero due, ve ne sa- rebbe anche necessariamente un altro, che li conterrebbe amendue, e sarebbe questo l'animale assoluto. Lo stej^so argomento si trova nel'a Rep, 597 c-d per dimostrare che non |,uò esistei e che una sola Idea del letto; e sotto una forma generai' può svilupparsi cesi : per tutti i molti compresi sotto un concetto comune vi ha un* Idea (ciò che è dimostrato dalla prova per l'esistenza delle Idee), e non può esser vene che una sola, poiché, se ve ne fos- sero di più, queste farebbero parte dei molti compresi sotto il concetto comune, perciò al di sopra di questa mol- liplicità bisognerebbe cercare ancora un'unità, e sarebbe quella, e non le precedenti, l' Idea dei molti compresi sotto il concetto comune. Infine ciò che toglie ogni dubbio è la denominazione di ò sari ^coov, perchè o soxi equivale, come abbiamo visto (n. II), ad ano, e significa che il nome a cui si aggiunge viene applicato all' Idea delle cose de- notate da questo nome Pla:ore può riguardare l'Idea dell'animale come l'esemplare del mondo, perchè, siccome egli amiìiette l'animazione delle piante, della terra e degli astri, cosi ogni sostanza è per lui un essere animato o almeno una parte dì un essere animato ; e per conse- guenza, tutti gli oggetti dei no^ri concetti essendo con. tenuti nelle sostanze, le Idee degli esseri animati, cioè le parti dell' Idea dell'animale, esauriscono in un certo modo tutto il contenuto del mondo idealLa relazione di tutto e parti stabilita tra l'Idea ge- nerale e le Idee particolari subordinate ])reseuta una dif- ficoltà. La specie è certamente una parte del genere, se per genere e per ispecie s intende la collettività degl' in- dividui ; ma l'Idea non •' la collettività degl'individui, ma solamente l'attributo o insieme d'attributi comune a questa collettività. Ora l'insieme degli attributi specifici non è contenuto come una parte nell'insieme degli at- tributi generici. Sembra dunque che il concetto che l'I- dea specifica abbia con l'Idea generica la relazione della parte col tutto, sia incompatibile, tanto con l'ipotesi della trascendenza delle Idee, quanto con quella della loro im- manenza. Per risolvere questa difficoltà bisogna ricor- darsi della formula platonica che l'uno è i molti e i molti sono l'uno, e della sp'egazione che ne abbiano data (V, 4*^). Tra l'uno e i molti — cioè tra il (Jenere e le Specie, tra la Specie e gl'individui — vi ha una relazione che è al tempo stesso di differenza e d'identità. L'uno e i molti, neir ipotesi dell'immanenza, s'identificano necessariamen- te, perchè sono la stessa cosa, il primo in astratto, i se- condi in concreto; quantuaciue al tempo stesso si distin- guano, perchè l'astratto e il concreto non sono solamente dne punti di vista subbiettivi sottc^ cui la stessa cosa viene considerata, ma due gradi o momenti successivi (logicamente) dello sviluppo dell'essere, che, pur con- servandosi identico a se stesso, pissa continuamente — questa è la vita dell'Idea — da uno stato più astratto o più indeterminato a uqo stalo più concreto o più deter- minato. Questa determinazione o concretizzazione pro- gressiva dello ste^^so essere, ammessa necessariamente in tutti i sistemi che realizzano gli universali, nel sistema ^83 — (li Platone, per la maniera in cui egli concejn'sce la fl'a- Icttica, cioè il metodo di dedurre le Idee — metodo che non è altra cosa, in Platone come negli altri metafisici realisti, che la riproduzione subbiettiva di questo stesso processo per cui Tessere si sviluppa per una concretiz- zazione progressiva — è al tempo stes-^o una divisione progressiva, ciò che nel momento anteriore, più inde- terminato, è uno^ nel momento posteriore, più determi- nato, trovandosi molti, Platone chiama dunque ciascuno dei ììiolti una parte dell' «no, poiché i molti non sono che Vuno stesso che, det'^rminandosi, si divide. Certa- mente questo concetto non è facile a comprendere, «nzi, per dire la cosa com'è, é assolutamente inintelligibile; ma è la conseguenza inevitabile de' la reaMzzazione de- gli universali. Questa conseguenza però non ha lungo che quando dell'universale si fa un'entità immanente, vale a dire quando, reaiizzanlos', esso non cessa di es- sere veramente uq universale, cioè la proprietà coni me dei particolari. Ma se l'Idea è trascendente, essa non è più, a parlar propriamente, Tunivers^ile, non è più le c^se stesse considerate dal punto di vista dell'astrazione: al- lora l'astratto e il concreto, l'uno e i molti, sono sola- mente distìnti, e noa al t^>mpa stesso distinti e iden- tificati. Il rapporto di tutto e parti stabilito tra l'Idea geae- rlca e le Idee specifiche ci fa comprendere certe locu- zioni che al punto di vista ordinario sarebbero strane. Platone chiama le specie di un genere parti fjispyj, ii6- P'.a, xjiTQjjiaxa, ecc. ) dall'oggetto deaoaco dal nome gene- rico, e questo tutto (oXoc, r.à;, eccì- rel?',tivamente alle specie del genere. Co3Ì, oltro agli esempi di queste locu- zioni nelle dieresi delle arti e delle scienze del Sofista e del Politico, dice: le parti del delirio [Fedro 265 b, 266 a), dell'imprudenza {Alcib. 1^" 140 e), dell' ignoranza {Sof. 221) b-c), del piacere (FU. 55 e, 61 e, 62 d), della figura (FiL 12 e), ecc., intendendo le loro specc; neM'Eutifr. 12 d-e dice che il santo è una parte del giusto ; nel Po- lit, 266 a, ch'egli ha diviso tutto ((uanto l'animale do- mestico e vivente in gregge; nel Conc. 205 b-d, che un st5o; particolare dell'amore é chiamato col nome del tutto, amore; ecc. (1). Il delirio, il piacere, la figura, ecc., non significano la collettivi!;'! delle cose o dei fenomeni chia- mati con questi nomi, ma il concetto della cosa o del fe- nomeno in generale: così le loro specie non potrebbero, al punto di vista comune, esserne ch'amate delle parti. Se Platone lo fa, è perchè, secondo luì, il concetto si ri- ferisce all'Idea, e le Idee specifiche sono parti dell'Idea generica. Per conseguenza, per questo delirio, per que- sto piacere, per questa figura, ecc., bisogna intendere la Idea del delirio, del placare, della figura, ecc. : e sicco- me nella più parte*di questi casi, se non in tutti, è evi- dente che Platone non parla di entità trascendenti, ma del delirio, del piacere, della figura, ecc. in noi e nelle cose, cosi noi dobbiamo vedervi un'altra prova — imme- diata - dell'immanenza delle Idee. Un'altra maniera di formulare il rapporto tra l'Idea più generale e le Idee più particolari ad essa subordi- nate, è di riguardare la prima come contenente e le se- conde come contenute. È ciò che si vede nei luoghi ci- tati del Timeo e in tanti altri, tra cui basterà d'indicare Sof. 250 b (luogo citato al num. III carta 20) e Sof. 253 d, Pedro 273 e, l'olit. 2S5 b (luoghi citati al n. V. 2«). Evidentemente Platone non può dire che l'Idea generale contiene le Idee particolari che nello stesso senso in cui noi (1) Cfr. Menoyie 77 a, luogo citato a carta 38 (u. V, 4»), e 79 a. diciamo che il concetto generale contiene i concetti par- ticolari ; vale a dire in quanto le sfere, in estensione, delle seconde cadono dentro la sfera, in estensione, della prima. Ora l'estensione non è una proprietà che appar- tiene agli oggetti dei nostri concetti, agli astrati), con- siderati in se stessi, cioè nel loro contenuto intrinseco; ma appartiene ad essi in ragione degli oggetti, i con- creti, di cui essi sono gli attributi. Noi diciamo che ani- male è più esteso di iioviOy e io contiene, in quanto gli oggetti di cui si predica animale^ sono più numerosi di quelli di cui si predica uovio, e la totalità dei secondi è una parte della totalità dei primi. In assenza di og- getti, di cui uomo e animale siano gli attributi, non po- trebbe parlarsi, per essi, di estension-^, non potrebbe dirsi che il secondo è più esteso del primo e lo contiene. Ora, secondo gl'interpreti trascendentalisti, non vi hanno, per Platone, oggetti, di cui tiomo e animale, considerati co- me Idee, siano gli attributi : l'Idea dell'uomo non t> un attributo degli uomini, l'Idea dell' animale non è un at- tributo degli animali, né degli animali cose, nò degli ani- mali Idee. Per conseguenza, Platone non potrebbe dire dell'Idea dell'animale ch'essa contiene l'Idea dell' uomo e degli altri animali : le Idee, separate dalle cose e le une dalle altre, avrebbero semplicemente intensione, non avrebbero esten^^ione (1). Io ho creduto di dover distin- (1) Noi dobbiamo vedere perciò una prova dell'immanenza delle Idee in tutti i casi in generale in cui Platone attribuisce ad esso un' estensione. P. e. nel Sof. 254 c-d (luogo citato nel numero pre- cedente), dove chiama le Idee dell'essere, dello stato e del movi- mento i generi pia grandi (jiSYiaxa) tra quelli di cui egli ha par- lato : non potrebbe chiamarli cosi, se non li riguardasse come con- tenenti, nella loro estensione, un più gran numero di oggetti che •ili altri. guere la proposizione che l'Idea generica contiene le Idee specifiche da quella che le Idee specifiche sono parti del- l'Idea generica, quantunque in certi casi, come nei luo- ghi cH<itì del Timeo, le due proposizioni siano evìden-r temente equivalenti, perche la prima non include neces- sariamente nel suo significato questa identificazione del- l'uno coi molti inclusa nel significato della seconda. Per rappresentarsi un'Idea come inviluppante, nella sfera del- la sua estensione, un'altra Idea, Platone non ha bisogno di riguardare la seconda come una parte della prima, ma solo di riguardare la totalità degli oggetti in cui si trova la seconda come una parte della totalità degli oggetti in cui si trova la prima. B. Considerando le Idee al punto di vista dell'inten- sione, le Idee genf rali sono contenute nelle Idee parti- colari. Una delle prove più palpabili di questa proposi- zione ci è fornita dallo stesso Aristotile, malgrado la sua innegabile inclinazione verso l'interpretazione trascen- dentalista : ù la dottrina dei due elementi delle Idee e delle cose— dottrina appartenente alle ultime speculazioni di Platone, e per la cui conoscenza noi siamo ridotti quasi unicamente all'autorità d'Aristotile— Secondo que- sta dottrina, tutte le Idee sono costituite da due elementi (oTotxeta) che corrispondono al Fine e Infinito dei Pita- gorici, e che Aristotile chiama talvolta con questi stessi nomi, ma il più ordinariamente con quelli di Essere e Non essere o (al punto di vista della teoria dei numeri, ai quali le Idee venivano identificate) di Uno e Dualità indefinita (o Grande e Piccolo). L' uno o essere era la essenza (oOoia) o forma o specie (sl^o;) di tutte le Idee; la dualità indefinita o non essere ne era la materia (2). (2) Met. 1. I, VI, 3-8, 1. Ili, III, 5, IV, 21-30, l. IV, II, 14,1. XIV, I, II, IV, eco. — 85 — Il nome di elementi dato ai due principi! ultimi delle cose non deve farci illusione sul vero siouificato di questa dottrina : queste due entità non sono al fondo che due Idee generiche, a cui tutte le altre sono subor- dinate come loro specie, vale a diro d^ì predicali uni- versali, comuni a tutti gli esseri ^^1), considerati come delle sostanze (per cui vengono loro applicati i termini aùxó, xatì'a?iTÓ, /opiaTiv, indicanti l'astrattezza dell'Idea e insieme la sua sostanzialità) (2), e ciascuno come uno nei molti (3). In verità Piatone non considera come Idea di genere nel senso stretto che quello dei due elementi che fa da slSog, e che non è altra cosa che l'Idea del bene (4), che nel 6"^ e 7^ libro della /^ep, è data come il principio dell' essere e della conoscenza — è questo, come vedremo a suo luogo, un artifizio destinato a con- ciliare la dottrina, dovuta ai Pitagorici, di una dualità di principii con l'esigenza della dialettica, cioè della die- resi, la quale richiedeva al vertice della piramide che costituiva il mondo ideale, non due Idee, ma una Idea u- nica come genere supremo—: ma la denominazione stessa di materia delle Idee data all'altro elemento, per distin- guerlo da un'Idea di genere propriamente detta, ci dica (1) Met. l. I. VI. 4-7, IX. 24, 1. III. III. 5, 7-8, 13, IV. 24, 1. V. III. 4, 1. X. II. 1-2, 1. XI. I. 11, 1. XIII. Vlir. 25-28, 1. XIV. I. 13, IV. 5-6, ecc. V. a. pel Non essere Plato. Sof. 256 d-259 b. (2) Phys. 1. III. IV. 2, V. 1-3, 3/W. 1. I. VJ. 4, IX. 17, 1. III. I. 12, IV. 21-30, l. VII. XVr. 3-6, 1. X. li, 1. XI. II. 6-7, X. 2-5, 1. XIV. V. 3, eoo. (3) McH, 1. I. VI. 6, IX. 24, 1. III. I. 11, IV. 9, 26, VI. 1-8, 1. V. HI. 4, 1. VII. XVI. 5-6, 1. X. II. 1, 1. XI. II. 11, 1. XIII, X» 1-6, 1.XIV. II. 4, 11, 12, IV. 7, eoo. (4) Met. 1. I. VI. 8, VII. 5, IX. 21, 1. XII. X. 1, 4, 1. XIV, IV. 2-7, V, 1, Etn. Eitd. 1. I. VIII. 14, eoo. abbastanza che anch'esso è al fondo un predicato gene- rale, comune a tutte lecose— meno, s'intende, l'elemento opposto— poiché il nome d'una materia (il legno, l'oro, ecc.): è un nome generico applicabile alle cose che sono fatte interamente) di questa materia. Per conseguenza tra i due elementi e le Idee dev^e esservi lo stesso rapporto, d' immanenza o di trascendenza, che vi ha tra le Idee dei generi e «luelle delle specie, e questo non può, come abbiamo detto, differire da quello che vi ha tra le Idee (ielle specie e le cose individuali. Tanto più che il rap- I orto tra i due elementi e le Idee è designato dagli stessi termini che designano quello tra le Idee generi- che e le specifiche o Ira le Idee e le cose : p. e. le Idee sono dette partecipare (jisxsxs'.v) (l) agli elementi, e que- sti sono chiamati separabili o separati (xwp'.aia o xsxco- pia'iéva) (2). Gli stessi termini, come abbiamo più volte o^^servato, non potrebbero indicare, in un caso, un rap- porto d'immanenza, e in un altro, un rapporto di tra- scendenza. Ora non vi ha dubbio che il rapporto dei d'ie principii con le Idee sia quello dell'immanenza: se non fosse così, non potrebbero essere chiamati elementi, v' l'uno materia, l'altro forma o essenza, delle Idee.. E si noti che Aristotile prende la parola elemento nel senso stretto: cosi egli fa inerire {'my.y/t\^^ svjTiapxs^^? ^'^^oct Iv) i due principii negli esseri derivati (3); chiama que- sti, rapporto ad ess', dei composti (a'JvB-sia) (4); paragona (1) M^'l. 1. I. VI. 4, 1. XII. X. 4, 1. XIV. IV. 7, ecc. (2> Ml'L i. IV. II. 16, 1. XF. II. 6, X. 2, l. XII. X. 1, 1. XIV. I. 2, II. 13, V. 3, ooc. (3) McL 1. V. ai. 4-5, l. XII. IV. 3, l. XIV. II. 2, Phy^. l. III. IV. 2, eoe. (4) Met. U XU. IV. 3, 1. XIV. il. 1. il — 8G — ì il modo ìu cui essi formaiia gli esseri a quello in cui le lettere formano le sillabe (1); li considera entrambi co- me materia dei composti (2) ; e fa l'obbiezione che, se ciascun elemento è uno di numero (come dice Platone), e non semplicemente di specie, non vi saranno altri es- seri che gli elementi stessi (3). Un'osservazione analoga vale per il nome di materia dato all'uno dei duo priiici- pii: questo principio è per Aristotile il sustrato (Ortoxsi- lisvov), nelle Idee, al quale la forma inerisce (4); para- gona il rapporto delle Ilee con esso a quello della meusa col legno di cui è fatta (5); considera la sua funzione nel sistema platoaico come identica a quella che ha la materia nel suo proprio sistema (6), tranne che l^latono confonde la materia con la privazione, mentre egli le stingue (7) ; e lo riguarda come la potenzialità di tutte le cose, come il tutto allo stato indeterminato, prima di determinarsi per la partecipazione delle far.mfHK La pi'oposizione che il principio materiale è gli esseri stessi in potenza è attribuita anche a Platone stesso (i)) ; e ve- diamo una singolare applicazione di questo concetto nella formazione dei numeri, le u'iità del prlni') n'inoro che viene formato, cioè della dualità definita, essen ;0 riguar- (1) Met, 1. I. IX. 29-aO, 1. XU, IV. 3, l. XML X. 2^, r,, eoe. (2) Met. 1. XUl. Vni. 23-28, 1. XIV. U. 1-5. (3) Met, l. ni. IV. D, 1. Xl. U. Il, 1. XIU. X. 2-3, 6. (4) Met. 1. 1. VI. 7, 1. 1. IX. 22, eco. L'clemaato mal orlala ì- an- che detto luogo (xwpa) derelemento fonuale {\fel. 1. XIV. IV. 7), ciò ohe prova rimmanenza dell'ano e dell'altro. (5) Met, 1. 1. VI. 6. (6) Phys. 1. 1. IX. 1-8, Met, 1. XlV, 1. 12, 11. 13, IV. 7, eco. (7) Phys. 1. 1. IX. 1-3. (8) Met. 1. 1. Vm. 9-11. C») Mei. L XlV. U. 12. date da Platone come le unità steFse della dualità in- definita (il Grande e il Piccolo), eguagliate (1). In quanto a'Telemento che serve di forma, la cnnseguenza naturale delia teoria dei numeri v di fargli qualche volta rappresentare una parte ch"5 conviene alla ma- teria piuttosto che alla forma; la qnal cosa, se dissi- mula la funziono e il significato reale di questo princi- pio, è però la prova più palpabile del'a sua immanenza. Aristotile osserva che i platonici corsiderano l'uno al tem- po Ptesuo come f( mia e specie dei numeri — perchè cia- scun numero è uno — e come parte e materia di essi— ]erch(' i numeri sono composti di unUà — (2). E a (|ue- sta funzione dell'uno come materia dei Dumeri che può riferirsi pure l'obbiezione che le unità che compongono i diversi numeri non possono diflfeiire, come vogliono i platonici, perchè essi parlano dell'uno in sé, da cui tutte le unità sono costituite, come se questo fosse un elemento di parti similari (ijioioiispé^) come il fuoco o l'acqua (3) ; e riodicazione che nella formazione dei numeri (dall'uno in fò e d.illa dualità indefinita) l'Uno in se era riguar- dato come l'unità media nei numeri impari (4) — i nu- meri di cui si t»atta in tutti questi cas', non bisogna obliarlo, non sono altra cosa che le Id'^e — . Infine, come prova del r immanenza dell'uno o essere, citerò rargomci to con cui Platone dimostra l'esistenza (,, V. M t. 1. Xill. Vn. -t, Vili. 12-lB, l. XlV. IV. 1. La dualità indefinita f^ra anche chiainata l'ineguale, e l'uno, aHa cui parleci- pazi« le era dovuta la formazione dei numeri, l'eguale. Ci) Met. i. XIU. Vili. 23-28. (3) Met, ì. I. IX. 17. (4) Met. 1. XUl. VII. 13. 4 - *fi — 87 - del non essere (FaUro elemento); cioè che se non esistesse il non essere, non potrebbe darsi ima moltiplicità di esseri, poiché allora tutti gli esseri sarebbero un solo essere, Tes- sere slcsso (lì. Platone non potrebbe dire : tutti gli esseri sarebbero l'essere stesso, se l'essere fosse fuori d^gli es- seri. Il senso dell'argomento è che, se insieme allVss^'re (cioè all'attributo connotato da questo nome) non vi fosse negli esseri ciò che non è l'essere, vale a dire il non es- sere, tutti gli esseri non sarebbero altra cosa che Tessere; e TargomeDto suppone, per conseguenza, che tanto Tes- sere stesso quanto l'elemento opposto siano negli esseri. Negli scritti platonici, l'immanenza dell'Idea del beoe — che, come abbiamo detto, corrisponde al principio che Aristotile chiama Tuno o Tessere—nelle altre Idee n^ n è meno evidente : cosi nel VII della Republica si dice ( h'ì non ha alcuna conoscenza del bene chi non sa detinirne 1 Idea, attraendola da tutte le altre (534 b-o; e quest'Idea é chiamata Voi timo negli esseri (.*)32 e), il jnh chiaro (518 c; e il piti felice (52ò e) delVesaere il'^^ssere signitica gb* es- seri, vale a dire le Idee, considerato generahnent % cioè nel loro concetto comune, e per conseguenza, /^ più chiaro e il pia felice dell'essere vuol dire : ciò che vi ha di più chiaro e di più felice negli esseri, cioè nelle Idee). Aggiungiamo che, se al punto di vista dell' intensione, i due Generi supremi sono nelle Specie, al punto di vi- sta dell'estensione invece queste sono in (juelli : e in effe to Platone dice tanto dell'Uno quando della Dualità indefinita che esrji contengono (r.ep'.sxsiv) tutti gli esseri (2). Platone non considera solamente come clementi delle (1) V. Met, 1. XIV. II. L 02) V. Mei. I. XI. I. 11, P'/s. I. m. vi. 11. Idee i due Universali supremi, ma tntti i Generi sono da lui riguardati come elementi e parti delle loro Specie. Infatii Aristotile agita la quistione se bisogna riguar- dare come elementi (oxotxsìa) degli esseri gl'ingredienti materiali di cui le cose si compongono, ovvero i ge- neri (1), considerando la seconda opinione come legata alla realizzazione degli universali (2) e alle proposiz'oni— proprie della scuola platonica— che ciascuna cosa si co- nosce per la definizione, e che avere la scienza degli es- seri non è che avere quella della specie (3). E nel l. V della Metafisica, in cui spiega i significali dei teimini filosofici, dice che alcuni chiamano elementi (aioixsta) i generi (e. III. 5— aggiungendo subito che, in tutti i si- gnificati dati alla parola, l'elemento è riguardato come inerente (svjTiàpxov) nelle cose di cui si dice elemento); e che, mentre a un punto di vista la specie è chiamata parte (liépog) del geaere, a un altro punto di vista è ii ge- nere che è chiamato parts ijiépo;.) della specie (e. XXV. 5). I filosofi che fanno quest'uso delle parole parte ed eie- metito non possono essere che i platonici, perchè evi- dentemente esso implica la realizzazione dei concetti : il gen«re, considerato come la collettività degl'indivi- dui, non potrebbe efsere chiau.ato parte ed elemento della specie, perchè, in questo senso, il genere non è contenuto nella sp^-ie; e considerato come una semplice astrazione (come il complesso degli attributi che costituiscono il concetto generico), non lo potn bbe nemmeno, perchè le parole parte ed elemento implica». o la re(dtà della cosa a cui vengono applicate. Altrove iMtt. l. Vii. XIII. 10), dopo aver obbiettato ai platonici che, sd hi ammettesse la realtà degli universali, in una sost*inza individuale vi (1) V. si»eciaImento Mct. 1. IH. HI. (2) ma. 13. - 'ti| sarebbero più sostanze, mentre è impossibile che una so- stanza consti di più sostanze che le ineriscano in atto; Aristotile si propone questa ditficoltà : ma « so alcuna so- stanza non può risultare da universali, nò comporsi di più sostanze attualmente esistenti^ la sostanza sarà al- lora «gualche cosa di non composto, e non sarà possibile di darne la definizione. » Ciò suppone che alcuni filosofi riguardavano la definizione come una decomposizione del definito nei suoi elementi costitutivi (il genere e la differenza), e che (laesti elementi erano, secondo essi, de- gli universali e delle sostanze. Questo concetto era in- fatti naturalissimo al punto di v'sta delia teoria delle Idee : poiché, quantunque Platone non elevasse al grado d'Idea che il genere solo, e non la differenza— perche il multiplo, per lui, deve sempre poter ricondursi alTuno—, pure, se si ammette che il Grenere esistei nella Specie d'un'esi- stenza propria e distinta, la conseguenza inevitabile sarà che anche la differenza vi esisterà d' un* esistenza propria e distinta (t). Infine, che Platone chiamasse i (1) Siccome Piatene stabilisce tra le Idee piii generali e le più pariicolari ad esse subordinate un rapporto di priorità e posteriorità (perchè la dialettica platonica è t'ondata sul principio che 11 più particolare deriva, logicamente e ontologicamente, dal più generale), cosi egli ammette che la sostanza consta di elementi di cui gli uni sono anteriori e gli altri posteriori. È a questo concetto platonico che allude evidentemente Aristotile in Mei.- 1. Vii. XII. 9, dove dice : « Nella sostanza non vi lia alcun ordine : infatti che senso ha il dire che in essa una parte è anteriore e un'altra è posteriore t » Ciò prova almeno ohe Platone riguarda le Idee più generali come ele- menti costitutivi delle Idee più particolari (ammettendo che qui per sO' stanze Aristotile intenda, non le cose stesse, ma le loro essenze, i>oich<' egli parla della sostanza quale oggetto della definizione). Intatti, se le Idee, a cui una sostanza (ld«^a o cosa) partecipa, tbssero separate da essa, non vi avrebbe ragione di comporre questa sostanza di parti distinte, corri- spondenti alle Idee a cui partecipa. Inoltre il rapporto di priontà e p'h- stefioriln deve essere esclusivamente proprio alle Idee, i»erchè esso si- gnifica, come abbiamo accennato, un processo, logieo e al temi>o stesso entolegico, di filiazione, che non ha luogo che nelle Idee. Generi elementi, e confermato da un luogo del Politico ^ ^1 d-278 d, in cui spiega rerchè si deve ricorrere ad esempi per illustrare i soggetti difficili. « Noi sappiamo, egli d'c^, che i fanciulli, mentre imparano a leggere, riconoscono assai bene ciascuna delle lettere (axotxera) nelle sillabe più corte e più facili, e sono capaci di par- larne con giustezza. Ma se essi incontrano queste stesse lettere in altre sillabe, restano incerti, e ne giudicano e parlano falsamente. Ora la maniera ])iù facile o più bella dì condurli a ciò che non sanno ancora, non sa- rebbe questa? Bi.-ognprebbe prima ricondurli alle silla- be in cui hanno opinato rettamente su queste stesse lettere, e, rieonducendoveli, porre a lato le sillabe che ancora non sanno, e mostrare, conia comparazione, che in entrambi i composti vi ha una stessa somiglianza (1) e una stessa natura, sinché le sillabe in cui hanno o- pinato rettamente, essendo state comparate con tutte quelle non sapute ed essendo divenute degli esempi, loro apprendano, per ciascuna di queste lettere, in tutte le sillabi», in cui si trovano, a des^'gnarc come diversa quella che e diverga dalle nllre, v. come sempre la stessa « identBÉa a se s^efsa quella che è realmente la stessa. Non è abbastanza chiaro ora por noi che vi ha esempio, quando ciò che è lo stesso è appunto riconosciuto come t'ìle in due cose separate, e quando ben inteso e consi- derato come uno in questi due casi distinti, ma analoghi, diviene l'oggetto d'una sola e stessa opinione vera? Dobbiamo dun(iue sorprenderci se la nostra anima, che ò naturalmente nello stesso stato per gli elementi (ai(1) Sulla parola somiglianza (òjxoiÓTYjg) cfr. la nota 1 a carta 30 pag. I. — 89 X«a) di tutte cose, trova qualche volta la verità su cia- scun elemento particolare in ceni composti e vi si at- t-cne, e poi cade nell'errore su tutti questi elementi con- siderati m altri soggetti; se essa si torma un' opinione giusta su certi elementi quando li incontra in certi tutti, e li misconosje interamente trasportati nelle sillabe lun- ghe e difficili dello cose?» Questa realizzazione degli at- tribuii generali delle cose, implicata dal nome, che viene loro dato, di elementi, e dalla comparazione con le let- tere, in un altro autore sarebbe una semplice metafora- ma in un realista come Platone deve prendersi al senso proprio. Vi ha appena bisogno di osservare che questo luogo prova l'immanenza dei Generi, non solo nelle Specie, ma anche nelle cose ste-se. Vili. Gli elementi delle Idee sono anche per Platone gli elementi delle cose (1): l'Uno o Essere è l'essenza di tutte le cose cosi bene che di tutte le Idee (2), la Dua- lità indcfluita o Non essere, la materia (3). Io non ag- (1) V. Arisi. Mei. 1. I. VI. 3-4, 1. I. IX. 26-30, I. HI. UT. 5, I. XIII. IX. 17, 1. XIV. I, II. eoe. (2) V. Mei. 1. I. VI. 3-4, 1. Ili, J. 12, IV. 21, 1. VII, XVI 3 I. XIII, VI. 5, ecc:. i. -vvi, a, (3) V, Mei. l. I. VI. 3-4, I. XII. X. 3-4, 1. XIV. I. Is», 9-12, TV. 6-7, ecc : Bisogna distingaere in Platone due prinoipii differenti, ai quali viene dato egualmente il nome di materia: cioè la materia delle cose e la materia comune tanto alle cose quanto alle Idea. La prima è lo spazio, al quale Platone riconduce l'estensione dai corpi, e corrisponde a ciò che noi chiamiamo propriamonto materia; è una determinazione che si trova esclusivamente nella cose, e munca nelle Idee, le quali rappresentano solamente la forma, le cose ri- sultando cosi dalla sintesi delle Idea (forma) e dello spazio (ma- teria^. La materia comune alle Idea e allo co^e rapprasenta una serie di determinazioni generali degli esseri - p. e. il non essere g'iungerò niente per provare che questi termini dementi, essenza, raateria, devono intendersi nel loro significato naturale, che iniphca Tiramanenza : sarebbe fare delle ripetizioni inutili, perchè la più parte dei luoghi d'Ari- stotile, citati nel numero precedente come prove del- l'mfinito, la moltiplicità, il male, la diversità, il movimento, ecc - opposte a quelle di un'altra serie-p. e. l'essere, il finito, l'unità Il bene, l'identità, lo stato, ecc. -che vengono riunite nel principio' opposto a questa materia, vale a dire nell'elemento formale. I due elementi vengono il più abitualmente chiamati Essere e Non essere perchè Platone riguarda le determinazioni della serie dell'elemento formale come positive, e le determinazioni corrispondenti della sene opposta come negative; e Uno e Dualità indefinita al punto di vista della teoria dei numeri (V. per questa dottrina Supple- mento C.) La materia propria delle cose e la materia comune alle cose e alle Idee vengono ricondotte a un principio unico, la Dua- lità indefinita, uno dei caratteri del pitagorismo platonico, come del pitagorismo genuino, essendo questa riduzione illogica a uno stesso numero o a uno stesso principio di concetti essenzialmente differenti; ma ciò non toglie che le due materie siano due entità di- stinte l'una dall'altra Qu andò Aristotiledice che secondoPlatonegli elementi delle Idee sono pure gli olomenti delle cose, senza dubbio egli comprende nell'elemento matonaie anche lo spazio, quantunque questo non sia un elemento delle Idee : ciò è perchè, come abbiamo detto, lo spazio, quantunque sia un'entità distinta dalla materia delle Idee, viene ricondotto con essa a uno stesso principio. Sa- rebbe però un errore di credere ohe, anche ammettendo che nelle cose non vi sia altra materia che lo spazio, basi crebbe questa ridu- zione dello spazio a uno stesso principio insieme con la materia delle Idee, perchè questa potesse eisere identificata con la materia delle cose; e che la proposizion3 d'Aristotile che gli elementi delle Idee sono gli elementi delle co^e non importa quindi necessaria- mante, come noi ammettiamo, che la materia delle Idee si ritrova realmente nelle cose. Certamente tra gli elementi delle cose e gli elementi delle Idee non potrebbe essarvi un' identità completa • l'elemento materiale delle cose deve differire in ogni caso dall' e- lemento materiale delle Idee, perchè questo non comprende lo - 90 — rimrnancnza dei due priiicipii nelle Idee, provano egual- mente la loro immanenza nelle cose. In effetto le indica- zioni o allusioni d'Aristotile reUtivc alia dottrina dei due elementi, 'si riferiscono il pui spesso, non alla pro- posizione che questi due principii sono gii elementi delle spazio. Ma l'impos^ilnlità di proadero ima proposiziono in un senso perfettamento rigoroso non è una ragione per proferire il mono rigoroso dei sensi di cui ossa sarebbe suscettibile. Ora ò questo che noi faremmo per la jìi-oposizione d'Ari .totilo in «juestione o a dir meglio per la dottrina di Platone che questa proposizione ci rife- risce, se per l'elemento materiale nelle co jo non intendessimo cho lo spazio; perchè allora la materia delle cose e quella delle Idee sarebbero due entità completamente distinte, non vi sarebbe fra di esse alcuna reale identità, né totale né parziale. D'altronde l'o- lemento materiale delle Idee deve essere identico all'elemento cor- rispondente delle cose nello stesso senso in cui lo è l'elemento for- male : l'Uno non rappresenta due concetti distinti come la Dualità indetìnita; noi non potremmo assegnargliene uno come forma delle Idee, e un altro differente come forma delle cose; per conseguenza anche l'elemento materiale deve rappresentare uno stosso concetto nelle Idee e nelle cose. Che sia cosi, è confermato dalle determi- nazioni che Aristotile attribuisce alla materia platonica, in luoghi in cui egli la considera come elemento della cose cosi bene che delle Idee : cioè che essa è un genere (v. 1. III. III. SS), che è l'uno nei molti (p. e. quando fa l'obbiezione che se gli elementi degli es- seri fossero ciascuno uno di numero, e non solamente di specie, non vi sarebbero che isoli elementi— v. 1. III. IV. 0-10,1. XI. II. 11, l. XIII. X. 2-3), che rappresenta al tempo stesso la parte di ma- teria e di steresi (v. Phijs 1. I. IX. 1-3), che è il lutto allo stato d'indeterminazione (v. Met, 1. I. Vili. 9-11), che è la natura del male (v, 1. XII. X. 3-4, 1. XIV. IV. 6-7), che è il non essere (cioè l'opposto dell'attributo essere— v. Met 1. XIV. II. 4 e seg.), che è il contrario dell'altro elemento (v. Phys 1. I. IX,'A, Met.ì. IV. 11.14, 1. XII. X. 2-3, l. XIV. I. 1-3, «, IV. G-8), eoe: Queste determinazioni non potrebbero convenire al semplice spazio, ma convengono per- fettamente sia alla materia dello Idee per se sola, sia ad es^a in unione con lo spazio. tdee, e a quella che sono gli elementi delle cose, consi- derate luna a parte dell'altra, ma alla proposizione che sono gli elomenti di tutti gli esseri, cioè delle co3e cosi bene che delle Idee (1). Ciò che si deve notare ò la connessione logica che viene affermato esistere tra la proposizione che i due principii sono gli elementi delle Idee e quella che sono gli elementi delle cose, « E perchè, dice Aristotile (2), le Specie sono le cause delle altre cose, gli elementi di quelle credè (Platone) che fossero gli dementi di tutti gli esseri» (3). Ora questa connessione non esiste, e- videntemente, che mir ipotesi dell' immanenza de'lc Idee. S,5 le Idee sono clementi delle cos% necessariamente anche i loro elementi saranno elementi delle cose: ma se le Idee non sono che dogli archetipi di cui le cose sono le copie, tutto ciò che potrà seguirne sarà che le cose hanno degli elementi che sono le copie degli elementi delle Idee, ma non mai che gli clementi delle cose sono una sola e stessa cosa con gli elementi delle Idee. L' i- dentità tra questi e quelli non si spiega dunque d'una (1) indicherò nondimeno un certo numero di luoghi, la più parte citati nel numero precedente. V. dunque, per tutti e due gli elementi: Met. 1. I. IX. 29-BO, 1. III. IV. 0-10, 1, IV. IL 14, 1. XI. II. 11, 1. XII. IV. 3, 1. XIII. X. 2-3, 1. XIV. IV. 7, ecc. Per l'ele- mento materiale: PJnj^, l. I. IX. 1-3, 1. III. IV. 2, VI, 11, Met. 1. I. Vili. 9-11), IX. 22, l. XIV. II. 8, 12-13, ecc. Per l'elemento formale : Met, 1. I. IX. 24, 1. V. III. 4-5, 1. XI. I. 11, 1. XIII. VIII. 27, 1. XIV. II. 4, ecc. (2) Met. 1. I. VI. 3. (3) Notiamo che Aristotile distingue quattro specie di cause, di cui una è la causa essenziale, l'essenza; e che questa è delle quattro specie di causalità la sola che conviene secondo lui alle Idee pla- toniche. V. Met. lo stesso cap., g 7. — 91 — taaiiiera naturale che neiripotesi dell* imnianenza delie Idee. Ma non teniamo conto di questa considerazione : ammettiamo, ciò che non è, eh'*, anclie nell'ipotesi della trascendenza delle Idee possa darsene una spiega^jione plausibile. Resterà sempre T incoerenza di riguardare alcune entità come immanente e alcune altre come tra- scendenti, mentre queste entità appartengono tutte allo stesso tipo : concetti realizzati. I due elementi hanno, come abbiamo detto, tutti i caratteri delle Idee : ciascuno è un predicato universale degli esseri di cui si dice elemento, riguardato come sussistente per se stesso e come uno e lo stesso in tutti; uno di essi è anche certamente da Platone chiamato un'Idea, nello stesso senso che tutte le altre, perchè ciò che neiresposizione d'Aristotile è detto TUno o TEiscre non è che la slessa entità che negli scritti platonici è detta l'Idea del bene. Le stesse inconcepibilità che, nel sist Mna deirimmanenza, sono lega*;e alla realizzaz'one degli altri concetti — r impossibilità di comprendere come una so- stanza sia al tempo stesso un attributo di elitre sostanze, come r uno sì trovi simultaneamente nei molti, f ce— esi- stono egualmente ])er la realizzazione dei concetti ra|)pre- sentati dai due elementi, (ili stessi termini che indicano i rapporti tra le altre Idee e le cose indicano il rapporto tra i due elementi e le cose, tanto quelli che possono addursi come prove dell'immanenza, quanto quelli in cui gì' inter- preti trascendentalisti vedono una prova della trascen- denza : così la relazione degli elementi alle cose è chiamata pai'usia (1), e quella dello cose agli elome.iti metessi (2); gli elementi sono detti essere Tiapa le cose (3), e sono chiamati x^ptatoc e xsxwpio|X£va (sémplicemente o daììtì cos**) (1) ; ecc. Se ammettiamo la trascendenza dello Idee, dovremmo dunque aannettere necessariamente an- che la trascendenza degli elementi; se ammettiamo, co- me siamo forzati di farlo, l'immanenza di questi, dob- biamo anche ammettere, non meno necessariamente la immanenza di quelle. ' Per l'immanenza di uno dei due elementi noi non abbiamo alcuna prova diretta negli scritti di Platone perchè in questi scritti non si trova la dottrina dei due elemenii (tranne, come vedremo, d'una maniera simbo- lica nel Timeo) : ma l'immanenza dell'altro, cioè dell'I- dea del ben^, è naturalmente in Platone più evidente che nello stesso Aristotile. Cobi mi Timeo (46 e d) dice che le cause materiali (quelle che riscaldano e raffred- dano, condensano e dilatano, e producono altri effetti simili) sono doi mezzi di cui Dio si serve per compiere (àTToxeXwv) l'Idea dell'ottimo. Nel J^edone, dopo avere spie- gato che per ogni cosa la causa di essere<c di essere nel modo in cui è e non altrimenti, è il bene di cia- scuna cosa in particolare e di tutte in generale, e che questa soluzione del problema delle cause è la 'conse- guenza logica della dottrina di Anassagora (97 c-99 b), rimprovera a costui e agli «Uri fisici che non si servono, nella spiegazione dei fenomeni, che di semplici cause meccaniche, « e la potenza prr cui le cose sono disposte nel miglior modo in cui potevano esserlo, né ricercano né stimano che vi sia in essa qualche forza divina, ma credono di aver trovato un Atlante più forte di questo, (1) V. p. e. Et/i. Eud, 1. I. vili. 1, 2. (2) Kth, End. 1. I. Vili. 2, 3, Met. 1. XII. X. 4, 1. XIV^ IV. 7, ecc. (3) Met. 1. I. VI. 5, 1. III. IJJ. 13, 1. X. II. 1, ecc. 0) Met. 1. IV. ri. 16, I. XI. II. fi, X, 2, 1. XII. X. 1, 1. XIV. II. 3 Pli!/^, I. III. V. 1, Eth, Sic. 1. I. VI, 13. ecc. y — 92 — più immortale e più capace di contenere fjjidtXXov guvlxovxa) Tuniverao, e non ammettono che ò il buono (làYaO^óvj e conveniente che collega (g'jv$£tv) e contiene (£?>véxs'-v) tutte le cose (99 b— e— -lo stesso verbo guvéxetv attribuito prima air^//an/^ più forte ecc., e poi al buono e con- veniente^ prova che il buono e conveniente é la stessa cosa c\ì^\2L potenza per cui tutte le cose sono disposte ecc, che è roggetto con cui VAtlante più forte ecc. viene con- frontato). In queste parole vi ha evidentemente la rea- lizzazione dell'astrazione il bene (Tàya^dv) : ma questo bene non può essere che quello stesso di cui sopra ha parlato, e d'altronde, se fosse un bene trascaidente, non si potrebbe dire di esso che contiene e collega tutte le cose. Ma la prova più forte dell' immanenza dell'Idea del bene, in Platone, è l' identificazione di quest'Idea con la fe- licità degli uomini (o generalmente degli esseri viventi). Quest'identificazione si vede della maniera più sensi- bile nel Filebo, In questo dialogo si cerca che sia il bene (Tàya^-óv) : so sia il piacere (come ritengono i più), 0 la sapienza (come ritengono altri, p. e. i Megarici), 0 qualche altra cosa (11-14 b). Fjlebo sostiene che é il piacere; Socrate comincia per ammettere che è la sa- pienza; ma poi muta d'avviso, e dice che il bene non ò né runa né l'altra cosa, ma una terza, diversa da esse e migliore di amendue (20 b). In effetti, egli domanda, « la condizione del bene non è necessario che sia il p?r- fetto, o deve essere il non perfetto ?— Protarco : Ciò che vi ha di più perfetto, o Socrate — Socr. : Ma che? il bene non è sufficiente per se st*»sso ? Prot. : Senza' dubbio, ed e in ciò che differisce da tutt'? le altre cose— Socr. Questo ancora mi sembra sovratutlo necessario di affermare di esso, che lutto ciò che lo conosce lo ricerca e lo desidera, sforzandosi di attingerlo e di possederlo, e niente si cura delle altre cose, fuori di quelle che si e ffettuano insieme ai beni Prot. : A questo i;on si può contrastare— Socr. : Esaminiamo dunque e giudi- chiamo la vita di piacere e la vita d'intelligenza, pren- dondolc ciascuna a parte — Prot. : In che modo ? — SoLR. : In moJo che l'intelligenza non entri assoluta- mente nella vita di piacere, e il piacere nella vita d'in- telligenza : infatti, se 1' uoo o 1' altra fossero il bene, non avrebbero più bisogno di altra cosa ; ma se 1' uno o l'altra sembreranno aver bisogno di qualche altra cosa, non potranno essere per noi il vero bpne;> (20 d— e). Risulta, dall'esame del'e due ♦ite, che nessuno vorrebbe vita con tuitì i piaceri, ma senz'alcun'intclligenza, nò con tutta l'intelligenza ma senz'alena piacere; e ch^ la vita che tutti vorrebbero sarebbe quella in cui il pia- cere fosse uì'^scolato con TintpHigenza. « E dunque evi- dente che ne V una nò 1' altra delle due vite (quella di piacere e quella d' intelligenza) ha il bene : poiché essa sarebbe sufficiente, perfetta, e degna della scelta di tutti gli esseri, che potessero vivere per sempre cosi. Qui nasce un' altra quistionc : quantunqu'^ né il piacere né la sapienza sia il bene, pure 1' uno o l'al- tra potrebbe credersene la causa : ora Socrate sostiene che, checchesia ciò che ricevuto dalla vita mista (di piacere e d' intelligenza) questa si fa desiilerabile e buona, l' intelligenza gli somiglia e gli é affine più che il piacere, e perciò questo non otterrà né il primo né il secondo posto (22 d). Seguono delle digrcs-^ioni che non c'int'-ressano, e sulla fine ì\q\ dialogo viene ripi- gliata la quis'.ione sulla natura del bene e se esso sia più affine al piacere o all'intelligenza; ma prima Socrate, riassumcnio il cominciamcnto della discussione, dice: « Filebo affermava che il piacere é il fine legittimo di tutti i viventi, lo scopo a cui tutti devono tendere; che esso é il bene per tutti, e che questi due nomi, bene e - 93 - piacere, competono alla stessa có8à e ad una ^ùok; unica. Socrate lo negava, e affermava che, come vi hanno due nomi differenti, coj*l il bene e il piacere hanno nna cpOaig differente l'uno dall'altro, e che la sapienza è più che il piacere partecipe della condizione del bene (60 a-b) La ^'jot^ del bene in ciò differisce dalle altre cose, che qualunque dei viventi a cui è presente (Tiapsir]) sempre ed assolutamente, non ha più bisogno di altro, ma ha quanto gli basta perfettamente (60 b-c) .... Ma abbiamo visto che né il piacere né la sapienza è sufficiente Né Tuno né l'altra é dunque il perfetto, il desiderabile per tutti, il bene assoluto Bisogna per conseguenza o scoprire il bene chiaramente o qualche forma (v'moy) di esso, per vedere, come abbiamo detto, a chi dobbia- mo assegnare il secondo posto (60 a-6l a) t. Ora, soggiunge Socrate, «non abbiamo noi incon- trata una via che conduce al bene?— Prot. : Quale via?— SocR. : Se alcuno, cercando un uomo, apprendesse la casa dove egli abita, non avrebbe un grande aiuto per trovarlo ?-Prot. : Certo-SocR. : Cosi il presente e il precedente discorso ci avvertono che non dobb'amo cer- care il bene nella vita semplice, ma nella vita mescolata (di piacere e d'intelligenza) Prot. È vero SocrI : E abbiamo più speranza di trovarlo in quella che é ben mescolata che neTopposta.— Prot. : Molto più— Socr. : Facciamo dunque la mescolanza » (61 a-b). Questa si fa unendo i piaceri veri e quelli che accompagnano la sa- lute e la virtù, con le scienze, e facendovi anche en- trare la verità, perché ciò a cui non si mescola la verità (w |iyj [i{£o|x£v àXì^O-siav) non potrebbe esistere {CA b); e compiuta cosi la mescolanza, Socrate dice : « Se noi di- cessimo di essere pervenuti al vestibolo del bene e della sua abitazione, non avremmo in certo modo ragione ? Prot. : Cosi mi pare Socr. : Che vi ha dunque in que- lì sta mescolanza dì più prezioso e che sembri specialmente la causa dell'essere una tal condiziono desiderabile per tutti ? (6i e.) In ogni mescolanza non é difficile di vedere quale sia la causa che la rende pregevole o di ncbsun pregio Ogni mescolanza che non partecipi della misura e della c^Oot? del proporzionato rovina ne- cessariamente le cose mescolate e se stessa la prima. Cosi la natura del bene se n' é fuggita in quella del bello, perché la misura e la proporzione sono da per tutto beiti e virtù Ma noi abbiamo detto che la verità entra con esse nella mescolanza (aOioCg sv x^ xpaasi lxsnlxeai-64 e) Por confegmnza, se non possiamo prendere il bene in una forma (cSéa) unica, prendiamolo in tre forme, beltà, mi.ura e verità, e diciamo che tutto ciò come uno é la causa di ciò che vi ha di pregevole nella mescolanza, e perché é bene, perciò la mescolanza è pure un bene » (65 a). Ora é facile di giudicare se il piacere o la sapienza sia più affine al bene (xoD àptaxo-j) : perciò bisogna comparare l'uno e l'altra con le tre for- me in cui il bene é apparso. Fatta ciuesta comparazione, risulta che l'intelligenza è più che il piacere affine alla verità (65 c-d), ch'essa possiede (xsxTrixai) di più la mi- sura (65 d), e che partecipa (fisxsayjcps) di più alla bclrà (65 e). Cosi la conclusione di questo paragone e di tutto il dialogo é che « il piacere non é il primo bene (xxy^jia) né il fecondo; ma il primo é circa la mi>ura, il mode- rato, l'opportuno e quant'altre cose tali si deve credere aver sortilo la natura eterna (cité il primo bene é ripo- sto nella misura, nel moderato, ecc., ma nella misura, nel moderato, ecc. che hanno sortito la natura eterna, vale a dire gl'ideali, non 1 fenomenali) il secondo é circa il misurato, il bello, il perfetto, il sufficiente e tutte le altre co -e di questo genere » (questa seconda seriu é identica alla prima, ma ciascuno dei termini nella pri- ma significa l'astratto, l'attributo aÙTÒ xaB'aOxó, nella tributo); e nella scala dei beni (xx-^fiaxa) il piacere è inferiore alla sapienza, e cccupa l'ultimo grado. Ma prima di finire, Socrate, riassumendo un'altra volta la discussione, dice : Filebo afferma che il bene (xàya- 0óv) è per noi il piacere tutto intero io indignato dell'opinione di Filebo, che è pure quella di moltissimi altri, ho detto che l'intelligenza è di gran lunga migliore e più vantaggiosa alla vita umana che il piacere (66 d-e) Noi abbiamo visto in seguito della maniera più chiara che né l'uno né l'altra è sufficiente Perciò tanto il piacere quanto l'intelligenza essendo apparsi in questo discorso privi della sufficienza e della perfezione, né l'uno né l'altra potè essere il bene sfesso (aùxó) Ma essendo apparso un altro terzo, superiore ad amen due, l'intelligenza di gran lunga più che il piacere e apparve affine alla essenza llòéo^) del vincente. Facciamo ora qualche osservazione. Che il primo he n€j di cui si parla a G6 a, sia l'Idea del bene, non pò trebbe esservi alcun dubbio. Ciò è, non solo perché alla misura, il moderato, l'opportuno e simili, che sono come tanti aspetti del bene, viene attribuita la natura eterna, ma anche perché noi sappiamo che il primo bene vuol dire per Platone l'Idea del bene (1), conformemente al- l'uso ch'egli fa dei termini significanti l'anteriorità e la posteriorità, di cui abbiamo detto nel capitolo VII. Ma non bisogna credere che questo primo bene sia qualche cosa di differente dal bene di cui si tratta nel resto del dialogo. Che il bene sulla cui natura si discute tra So- crate »c i suol interlocutori sia riguardato come un'Idea è ciò che sarebbe già sufficientemente provato dal prin- cipio platonico che il concetto generale e la ricerca del- l'essenza Fi r feriscono all'Idea, non che dall'uso dei ter- mini chti nel linguaggio platonico significano le Idee — il bene stesso (aOxó-67 a), la q^Oai^ del bene (60 b), del pro- porzionato (61 d), d«l bello (64 e), l'cdéa (67 a)— e il rap- porto tra le Idee e le cose— esser presente (7iap£tvai-60 e), partecipare (jxsxaXajifidv £iv-65 e)—. Ma la prova più forte l'abbiamo in una moltitudine di circostanza^ che dimostrano che Vii<ivH'/Àom\bene e elevata al rango di realtà sussistente per se stessa. E a (fu^sta realizzazione che si pensa natu- ralmente, quando Platone dice che né la vita di piacere uè la vita d'intelligenza ha (slxs) il bene (22 b); che è rice- vendo (Xa^civ) il ben^*, che la vita mista si fa buona f22 d); che ogni vivente a cui é presente la cpóoi; del bene urn ha bisogno di a'tro ((ìO e); che il bene è ciò che vi ha di più prezioso nella mesco'anza (64 e, d, 65 a); ecc.. Ma questa rf alizzaz'tne si vede della maniera più evidente quando Platone dice che la verità (64 b, e) e le altre forme del bene fanno parte della mes:o- lanza, e sovratutto quando paragona il rapporto tra il bene e la vita mista a quello di una persona e la sua abitazione ((U a-b), e chiama questa stessa vita l'abita- zione d*»l Bene (64 e). Il bene, di cui si discute tra So- crat«^, Filebo e Protarco, é dunque incontestabilmente l'Idea del bene (noi sappiamo come le premesse per cui Piatone prova l'esìstenzi delle Idee giustificano la stra- nezza che Filebo o Protarco, i quali non sanno niente diìlla teoria delle Idee, discutano nondimeno sopra un'I- dea) : ma questo bene è quello che alcuni fanno consi- Hlcre nel piacere, e altri nella sapienza; che chi lo co- nosce cerca e appetisce, sforzandosi di attingerlo e di possederlo; che quando si ha, non si ha più bisogno di 11 < .^ il (1) V. Arist. Ehi. Kud. 1. I. VIIL - 95 — altro; ecc.; in una parola lo stato dell'anima in cui Pia- tone fa consistere la felicità. Aggiungiamo che Timma- ncnza deirid^a è provata inoltre dalle espressonì signi- ficanti la parusia, che noi abbiamo già segnalate in parte come prove della realizzazione del concetto ; p. e. che la vita mista non potrebbe esistere veramente, se non vi fosse mescolata la verità— che è una forma del Bene— (64 b); che con la verità si mescolano in questa vita le altre forme del Bene (64 e); che essa é T abitazione del Bene (61 ab, 64 e); che questo è ciò che vi ha di più prezioso r?e//a mescolanza (sv x^ £'j|i|jiig«'. — 64 e); ecc. Infine, il nome y.i%\ì'x Tposscpso) con cui è chiamato il primo bene, e la classazione di esso insi^^me agli altri xxf^ixaxa, cioè la sapienza, il piacere, ecc. (a ^G a-c, do- ve si fa la granduflzione dei beni), ci dicono abb istanza che qnesto bene ò anch'esso, come il piacere, la sa- pienza e gli al'iri, un bena nostro, un bene che noi pos- sediamo o [K)treramo possedere. La stessa identificazione tra il bene obbiettivo— l'Idea— e il bene subiettivo -la felicità degli uomini— ha luo^'-o nella Repubblica, con questa differenza che, mentre nel Filebo prevale l'a^^pett ) subbiettivo, per cui alcuni in- terpreti hanno potuto negare -erme abbiamo vsto, con- tro Tevidenza — che il bene di cui si tratti in questo dialogo, sia l'Idea, invecs nella Itepubblica prevale l'a- spetto obbiettivo. Ivi (I. V^I. e VII.) il bene è presentato come la più alta del'e Idee, sovrana del mondo intelli- gibile, e principio al tempo stesso dell'essere e del co- noscere. Ma questo stesso bene 6 il bene nostro, un pos- sesso del nostro rj)irit'>. tfj ciò ch(5 si vede chiaramente dal luogo Fegueute (503 a-506 a): «Socrate: La mas- sima disciplina è l'Idea del bene (cioè quella che ha per oggetto quest'Idra), della quale (Idea) le cofc giuste e le altre avvalendosi (::pooxpr^aa|i£va) divengono vantag- giose e convenienti (cioè le cose giuste e le altre sono vantaggiose per la presenza dell'Idea del bene) Noi non conosciamo suffìeientem-nte quest'Idea; ma, igno- randola, non ci sarebbe di alcuna utilità di conos'care le altre cose senza di essa, come non ci gioverebbe di possedere qualche cosa senza il bene. 0 credi tu che sia utile di avere qualsiasi possesso, ma non buono V o di conoscere tutte le altre ccse senza il bene, e niente co- nosci re di buono e di bello ? U)— Adimante : Non lo credo, per Giovo !-SocR. : Tu sai che i più credono che il bene sia il piacere, e altri, più eleganti, l'intelligenza— Ad. : Si— SocR. : K che questi ultimi non sanno spiegare che cosa sia quest'intelligenza, ma infine sono ridotti a dire che ò l'intelligenza del bene Ma che? quelli che definiscono il bene il piacere, non sono nell' errore non meno eh*, gli altri? non sono essi costretti a con- fessare che vi hqnno dei piaceri cattivi ?— Ad. : Senza dubbio— SocR. : Accade dunque ad essi di ammettere che le stesse cose sono al tempo stesso buone e cattive E non è chiaro che mentre molti sarebbero contenti di agire e di possedere le co-»e giuste e belle apparenti ma non reali, a nessuno però basterebbe di possedere dei beni apparenti, ma tutri cercano i reali, e dispregiano in c:ò l'apparenza? — Ad. Certamente— Socr. : Ora su questo bene, che ogni anima ricerca, e tutto fa in grazia (1) Notiamo che quando Platone dice : « cono-jcere tutte le altre coso senza il bene ^ la parola 'x'^jt- significa evidantemonto rJ<lea; dunque ancho <iuaudo ha dotto: - possedere qualche cosa senza il bjne ^, questo bene, della cui possessione si tratta, deve essere l'I- dea. Aj^giunjrìjimo che " poss.3do.-e qualche cosa senza il bene cioè «anza l'Idea, equivale, non meno evidentemente, ad avere qualsiasi possesso ma non buono; per conseguenza il bene non è che il bene attributo delle cose buone. — 96 — di esso, in«iovìnanlo che è qualche cosa, ma dubitando e non comprendendo sufficientemente che cosa sia, ne «vendo i atomo ad esso una stabile credenza, quale ha intorno alle altre cose, per cui perde anche le altre cos^ se vi ha alcun che di utile; su tale e tanto ogg;ctto di- remo noi che dovranno essere ciechi i migliori, a cui dobbiamo affidare la somma delle cose?» Socrate vuol mostrare con queste parole la necessità che i magistrati siano istruiti nella disciplina ch<^ ha per oggetto il bene. Convenutesi di ciò, Adimante gli domanda : « Ma tu, o Socrate, credi che il bene sia la scienza, o il piacere, o qualche altra cosa differente? » (506 b). Socrate risponde che non ha la scienza del bene, e non vuol parlarne se- condo una semplice opinione; perciò invece di dire che cosa sia il bene, parlerà piuttosto del figlio di esso, so- migliantissimo al padre (506 ce). Questo è il sole, ehe il bene generò analogo a se stesso : ciò che esso è nel luogo intelligibile rapporto airintelligenza e agrintellì- gibili (le Idee), il sole e nel luogo visibile rapporto alla vista e alle cose visibili. L'uno regna nel mondo intel- ligibile, Taltro nel mondo visibile; come il sole dà agli oggetti visibili la possibilità di efser visti e insieme la genesi e raccresciraenlo, cosi il bene dà agrintelligibili la possibilità di essere intesi e insieme V essere e IVs- senza (507-509 d) (I). dottrina dei due elementi ha molta analogia, senza esserle identica, con una dottrina esposta nel Fileho^ che è anch'essa una dcl'e prove più evidenti dell'immanenza (1) Per il san-^o di que4a identificazione del bene etico (la fe- licità) col bene ontologico (la forma generale di tutti gli esseri) V. Gap. VII. § 16. delle Idee. Io porrò sotto gli occhi del lettore la parte del Filebo che si riferisce a questa dottrina. € SoCR. : Dividiamo in due, o piuttosto in te, tutti gli esseri che sono neirunivers^ Noi dicevamo che Dio ha insegnato che degli esseri l' uno è illimitato (^Tisipov) e l'altro limite (Tuspac;). Contiamo dunque questi per due specie e mettiamo per terza ciò che risulta dalla mescolanza di amendue.... Per due di questi generi cer- chiamo di vedere come ciascuno di essi ò uno e molti, guardandolo prima diviso in molti e disperso, e poi ri- ducondolo nuovamente ad uno. I due generi di cui parlo sono qm^lii ohe ho posti dapprima, cioè il limitato fTiépac; exov) e Tillimitato. (I) Cercherò di mostrare come Tilli- mitato è in certo modo m^lti : il limitato ci aspetti Considera in primo kugo il più caldo e il piiì freddo, se scopri in essi qualche limite, o se piuttosto il più e il meno che si trovano in ques e specie, finche visi tro- vano, impediscano loro di avere un fine : infatti soprav- venendo il fine, anch'essi finiscono e non sono più — Prot. : È vero— Socu. : Del più caldo e il più freddo diciamo dunque che vi ha Fcmpre in essi il più e il meno— Prot. : Senza dubb'o — Socr. : Questa ragione ci mostra che queste due co.^c non hanno fine : e non a- vendo fine, esse sono necessariamente infinite (àTisfpoj) Il forte e il piano hanno la stes-a natura che (1) Come si vede, Platone chiama l'uno dei tre generi— l'opposto dell'illimitato— ora limite e ora limitato. Anche questa è un' imi- tazione dei Pitagorici: intatti questi chiamano pure l'uno del due el3menti dei numeri e delle cose ora limite o limitante (Tcépa^, 7l£- patvov) ora limitato (TiSTiepaajxévov) V. perciò Fr. di Filolao ap. Stob. I. 454, I. 4.56, I, 458, Plato. Filebo 1% e, Arisi. Met. 1. I. V. 5-6, 13, 1. I. Vili. 15, l. XIV. 111. 14, ecc. il più e il meno; perchè dovunque si trovino, fnnno che la cosa noM abb'a una quanttà drterminata, ma sia sempre più forte che un'ahra più piana e p'ù piana che un'altra più fort% introduccrdo in tu'te 1(5 azioni il maggiore e il minore e facendone sparire il quanto. In- fatti, come si è detto, se non facessero sparire il quanto, ma lasciassero qi;esto e la misura entriire n( I luogo del più e del meno, del forte e del i)iano, questi s'irebbero respinti dal luogo che occupavano. Né il più c^ildo e il più freddo resterebbero, se ricevessero il quanto; poic'nè il più caldo e il più freddo progrediscono sempri» senza mai fermarsi; il quanto invece si v fermato, e ha ces- sato di progredire. Il più callo e il p*ù freddo sodo. per conseguenza, illimitaii Vedi ora se aTr.mettc- remo questo canitrere distintivo della natura deirilliml- tato, p< r non e?tenderoi troppo percorrenioli tutti -Prot.: Quale carattere?— Soc.?. : Tutto ciò che ammette il più e il meno, il forte e il piano, il troppo e tutte le qua- lità simili, bisogna pori?, com^ in una unità iw; sic; §v) n^l genere dell'illimitato, conformemente a ciò che si è detto sopra, ciré che bisogna, per quanto è possibile, riunendo (a'jvayaYÓvTa;) ciò che è diviso e disperèo, im- primergli il contrassegno di una natura unica Così tutte le cose che non ammettono queste qualità ma le contrarie, in primo luogo T eguale e T eguaglianza, poi il doppio e tutto ciò che è come un numero è a un altro numero o una misura a un'altra misura, pare che faremo bene riterenlole al limite.... Quale Idea poi di- remo avere il terzo, cioè quello che risulta dalla me- scolanza di questi due? Nt)ì parlavamo poco fa del più caldo e del più freddo — Prot. : Si— Sock.. : Aggiungi il più secco e il p ù umiJo, il più e il meno numeroso, il più veloce e il più tard^, il più grande e il più pic- colo, e tutto ciò che sopra abbiamo posto nelPunità della natura che ammette il piùe il meno Prof.: Parli della na- tura deirillimitato?— Soc '. : Sì. Mescola (a'j}jL{iiYvo) ora con essa la progenie del limite — Phot.: Quale progenie?— Quella che avriunmo dovuto raccoglie e in uno (a'JvayaYslv sìg sv), come abbiamo fatto per quella dell'illimitato, ma non abbiamo ancora raccolta li proge lie dell'eguale, del doppio e di tutto ciò che fa cessare la dissensione tra i duo contrari, e v'introduce la misura e l'accordo per mezzo d^'l numero— Prot. Comprendo : mi pare che tu dica che, se si mesv:olano insieme queste due specie, ri- sulteranno da cias '.una mesco'anza certe produzioni — SoCR. : E ti pare giustamente Prot. : Di' adunque — Soc'R.: Non e vero che nelle malattie la giusta mesco- lanza di queste due specie produce la sanità?— Prot. : Senza dubbio— Socu: Che nell'aouto e il grave, il ve- loce e il tardo, che sino illimitati, la stessa mescolanza introduce il limite, e dà la p'ù grande ])erfezione a tutta la musica ? Prot. : Beuissìmo- Socr. : Similmente, nel caldo e il freddo, essa fa ce.-sare il troppo e l'illimitato, e vi sostituisce la misura e la proporzione? — Prot.: Certamente— SocR. : Le stagioni, e tutto ciò che vi ha di bello nella natura, nasce dunque da questa mesco- lanza del limitato e dell' illimitato? Prot. : Senza dub- bio—Socr. : Lascio da parte un' infinità d' altre cose, quali la bellezza e la forza con la sanità, e nell'anima altre qualità bellissime e in gran numero. In effetto la t'ia dea stessa (la dea del piacere, cioè Venere), o bel Filebo, considerando la depravazione degli uomini e i loro eccessi d' ogoi genere, e vedendo che non vi ha alcun limite nei piaceri e nella soddisfazione della con- cupiscenza, vi ha stabilito la legge e l'ordine che sono del genere del limitato—.. . Prot.: Tu metti, mi sem- bra, nella natura delle cose, primo V illimitato; secondo il limite ; in quanto al terzo, non comprendo ancora sufficientemente quello che vuoi dire— Socr. : Ciò è per- chè la moltitudine dei generi di questo terzo ti ha stor- dito. Tuttavia anche l' illimitato presentava molti ge- neri (ysvtj), ma segnati della nota comune (xo) ysvsi) del più fì del meno, apparvero una cosa unica (iv ècpotvY]) — Prot. : E vero— Socr. : Il limite non ne presentava uà gran numero, e non abbiamo avuto difficoltà ad am- mettere che fosse uno di sua natura— Prot. : Che diffi- coltà poteva esservi V— Socr. : Nessuna. Di' dunque che io metto per terzo quest'uno : tutto ciò che é prodotto dalla mescolanza degli aliri due, tutto ciò che viene al- l'esistenza per le misure stabilite col limite. » L'interpretazione della dottrina contenuta nel luogo citato p'-esenta agl'interpreti delle difficoltà, sovratuto perché essi si ostinano a identificare il limite (Tcépa^) e l'illimitato (Sps'.pov) del Filiho con altri concetti plato- nici, conosciuti indipendentemente da questo dialogo. Alcuni vedono nel Tispa; le Idee, altri le entità mate- matiche : l'àTisipov equivarrebbe alla materia, che nel- Tespos'zione aristotelica del sistema platonico viene ch'a- mata Non essere o Grande e Piccolo. Siccome 1* imma- nenza del :iépac; e delT 'iTisipov del Fdebo nelle cose è iacoot^>3iabile, e gli stessi interpreti trascendentalisti sono obbligati ad ammetterla, dall' identificazione del Tiépag con le Ideo segU3 necessariamente Timmanenza di queste. Quindi gl'interpreti trascendentalisti preferiscono di ve- dere nel Tcépac;, piuttosto che le Idee, le entità mate- matiche. Ma l'ipotesi della trascendenza delle Idee non vi fa un gran guadagno. Infatti le entità matematiche, quantunque Platone le distingua dalle Idee propriamente dette, hanno nondimeno tutti i caratteri delle Idee : vale a dire sono degli attributi generali delle cose, conside- rati come sostanze, e ciascuno come uno e lo stesso in tutte le cose di cui ò l'attributo (l'uno nei molti) La distinzione delle entità matematiche dalle Idee, come vedremo a suo luogo (1), è stata fatta al punto di vista della teoria dei numeri ideali, ed e una dottrina del- l'ultimo periodo della speculazione platonica : cosi negli scritti di Platone noi non troviamo mai questa distin- zione, e in alcuni luoghi anzi, come nel Fedone 101 e e 104 d, queste entità sono po?te chiaramente allo stesso rango che tntte le altre Idee. Aggiungiamo che gli stessi argomenti che, secondo gl'interpreti trascendentalist', provano la trascendenza delle Idee propriamente dette, proverebbero egualmente quella delle entità matematiche: p. e. anche le entità matematiche sono dette essere Tiapoc le cose (2), e chiamate x^piozd e xs^copiaiiéva da esse (3). Se le entità matematiche sono immanenti, le Idee non possono dunque essere trascendenti : ne segue che se il Tiépag del Filebo equivale alle entità matematiche, sic- come esso è immanente, anche le Idee devono essere immanenti. Ma io non posso ammettere l'equivalenza del Tiipag né con le Idee nò con le entità matematiche. Del siffni- ficato di questa dottrina del FUeòo ci occuperemo in seguito: ivi vedremo che il Tiépa^ e Tàpetpov del Filebo sono speciali a (jucsto dialogo, e non hanno un equivalente perfetto in altri concetti platonici; e che questa dottrina rappresenta una fase transitoria nell' e- voluzione di Platone verso il pitagorismo, il cui risuN tato definitivo fu la teoria dei numeri ideali e dei due (1) Supplem. C, III. (2) V. Arist. Met. 1. III. I. (5, II. 15, 17, 18, 22, I. XIII. I. 1-2, II. 3, 5-8 ecc. Arist. Met. I. XI. II. 7, 1. XII. I. 3, I. XIII. VI. 6, 1. XIV. 1.1 3,^ 4, 7. ecc. I li elementi delle tclee e delle cose, che noi conosciamo per mezzo di Aristotile. Quello che c'importa per ora è di costatare un fatto che è al di sopra di tutto le conte- stazioni a cui ha dato luogo l'interpretazione della dot- trina del Filebo, È che tanto le entità che Platone r.u- Disce sotto il termine comune di Tiépa^, quanto le entità che egli riunisce sotto quello di ocTisipov, sono evidentemente delle astrazioni realizzate della stessa natura che tutte le altre che noi troviamo nella filosofia platonica. Il più freddo e il più caldo, il più veloce e il più tardo, ecc. da uoa parte, e l'eguale, il doppio, ecc. dall'altra, sono degli attributi delle cose elevati, non potrebbe es- servi alcun dubbio, al gra lo di eniitf\ sussistenti per se stesse. Di più que4ì attributi sono, mn solo sostantifi- cati, ma considerati ciascuno com'3 una sostanza nume- ricamente unica, della j-tes^a maniera che tutti gli altri attributi delle cose che PUtonc eleva al grado di so- stanze. È ciò che risulta chiaramente dalle proposizioni in cui Platone riguarda il r^spa; e l'ccTisipov ciascuno co- me uno e al tempo stesso molti (23 e, 24 a, 25 a, 2od, 26 d). Iq effetto quest'unità a cui il muliiplo viene ricon- dotto, non è per Platone uu' unità semplieementa con- cettuale, ma un' unità reale (l). Il r.épa?, e cosi pure 1' àTis'.pov, non è uno semplicemente nel senso che le entità a cui il termine viene applicato s no comprese in un genere unico; ma quest'unità importa dì più che questo genere ò riguardato come una sostanza unica, co- me un'Idea. Per conseguenza, anche calcano dei molti compresi nell'unità del Tispa? e dell' scTis'.pov-rrguale, il doppio, ecc da una parte, e il più caldo e il più freddo, (1) V. n. v, 4.0 il più veloce e il più tardo, ecc. dall'altra— e uno nello stesso senso in cui il Tiépa; e l'àr-sipov ò uno : vale a dire ciascuna delle specie del r^épa^ e dcll'àTistpov è ri- guardata egualmente com-^ una sostanza unica, come un'idea. ÌMa gl'interpreii tiascendentalistì sono, come abbiamo detto, obbHgati a convenire che il Tiépa^ e l'à- Tieipov del Filebo sono inmanenti nelle cose : dunque es- si devono anche convenire che le Ideo platoniche sono immanenti nelle cose (l). IX. Tutto il reale per Telatone sì ridme alle Idee. Cosi egli chiama le Idee gli ess-ri (xà òvia) (2) o l'essere ( Tó ov (3), y^ oOatx (4 j ), e, considerate in relazione al sog- (1) Un'alt i-a prova (lell'iminanenzx dolio Ido3 è cho Platone ri- guarda la propo!^izion3 elio il izipoLC, e l'àpsipov sono gli olomenti dalle COS3— cio> la dottrina contenuta noi luogo citato— coma equi- valente alla propo-;iziono che il tzì^jOLC, o l'àpeLpov sono gli eie-, monti dello Idtee. In etfotto, sul principio del luogo citato, dica: " Noi abbiamo dotto ch3 Dio ha infognato elio degli o-sseri l'uno è aTiS'.pov e 1' altro TzipoLC, n (soggiungendo cho, oltre a questi due, vi ha un terzo genero, cioè qu(?llo che risulta dalla loro mescolanza, e che poi definisce: ciò cho Tiene all'esistenza por le misure sta- bilito col limite). Ora quosto è un richiamo che si riferisce a 16 e, dove ha detto cho « gli antichi che furono migliori di noi e più vicini alla divinità ci hanno trasmesso quest'oracolo, che lo cose cho si dicono essere et ornamento sono di uno e di molti, e com- prendono in se il limite e l'illimit azione. » (Le cose che si dicono es- sere eternamonto sono naturalmont e lo Idee). Platone non potrebbe considerare le duo proposizioni come equivalenti, se le Idee per lui non si identificassero in un corto modo con le cose, ciò che sarebbe impossibile nell'ipotesi della trascendenza. (2) r,'(lro 249 e, Crai. 439 e- 1, 440 b, Fedoiw G6 a, 65 e, 82 e, 83 b, 101 e, Jirp, 590 b, 532 e, ecc. (3) Fedro 248 b, 247 d, Ti.n. 52 d, F,'d>iie (55 e, 60 a-c, FU. 58 a, lieih 477 a, b, 478 a, b, e, 480 a, 484 e, d, 48o e, 490 a, 501 d, 511 e, 518 e, 521 e, d, 525 a, 526 e, 529 b, 533 b, e, 537 d, ecc. (4) Sof. 246 b, e, lirj). 486 a, 523 a, 524 e, 525 b, e, 526 e, 534 a. Il reale risolvendosi nelle Idee, cìascmìa cosa (Ixaaxov) signi- — 100 4 getto conoscente, i veri (xiXr^^^ (1) o il vero ( xàXr^a-é; (2), ri aXr^B-s'.a (3)) Ciò non si comprende che neiripotesì del- r immanenza. Se le Idee fissero trascendenti, le Idee e le cose sarebbero due realtà distinte o separato, e Platone non potrebbe dire che tutto il reale con8Ìste nelle Idee. Ma se le Idee sono gli attributi delle cose, siccome tutto Tessere sì risolve nei loro attributi, cosi le cose si risolvono nelle Idee, e queste costituiscono tutta la rei Uà. NelTipotesi dell'immanenza, il mondo delle Idee e il mondo delle cose. Vintdligibile e il sensibile^ non sono due mondi differenti, m^, come abbiamo detto, un solo e stesso mondo visto da due lati differenti : ciò che Tintelligeuza vede come un complesso di astratti cioè d'Idee, è quello stesso che i sensi vedono come un complesso di concreti c:oè di cose. Tra V intelligibile e il sensìbile vi ha in certo modo il rapporto che vi ha tra il semplice e il composto : Tintelligenza decompone i con- creti in astratti, le cose in Idee (4). Platone non può ne- gare che il mondo sensibile differisce dal mondo iniei- ligibile. Se la realtà consiste nel mondo intelligibile, cioè nelle Idee, ne segue che il mondo sensibile, cioè delle cose, in quanto differisce dal mondo delle Ic^e^^ non ha fica talvolta in Platone : ciascuna Idea. V. Fedone 65 e. Ihid, 66d-e le Idee sono anche chiamate le rose stesse (aOxà xà TtpaYtiaia). Noi abbiamo viste (al n. II) che per dire : 1' Idea «lei movimento, dello stato, dell'essere, ecc., Platone si serve semplicemente delie parole : il tiiovimcnto, lo stato, {'essere, ecc. : ciò suppone evidente- mente che le cose per lui si ri«-{olvoiio nelle Idae. (1) Fedro 248 e, 247 d, A'ejj. 519 b, 520 e. (2) Fedone 66 d, 67 b, 84 a. (3) Fedro 249 b, A'èp. 475 e, Jx^ep. 525 e, b, 523 b, ecc. (4) Coìifr. Taine Posit, in(jL § JI. JI. VII, L'InteUUjA. 1. l. 1. e. 2. IV, t. II. p. II, l. 4. e. 2. Ili, ecc.. 1 realtà. E tale è in effetto la dottrina di Platone. In altri casi, in cui per verità si deve inteniere la conoscenza vera, e non l'oggetto di questa conoscenza, la /;en7à si- gnifica la conoscenza delle Idee (l). Altrove la verità vuol dire la condizione degli oggetti veri, la proprietà che e^si hanno di esser veri, e questa condizione o pro- prietà è atiribuiia unicamente alle Idee (2). Cosi l'Idea è chiamata il vero essere (6v oviwc; (3), TiavisXtog 5v (4), zikim^ ov (5), elX'.xptvto- ov, ©Oata ovito^ o'jaa (7), àXyj^wc; cp'jai^ OTiapxouaa (8), ecc.), ciò che implica che l'indi- viduo non è tale; e questo vero ess3re ò opposto alle co^e che son credute essere (9), cioè le cose particolari. Il divenire (Ysvsai;) o ciò che diviene (yt^vófisvov) — è per quest'attributo che Platoae caratterizz i il sensibile — è opposto all'essere (10) e al vero (11), e s! dice di esso che mn ò mai realmente (12), che non è un essere (13). (1) V. Fedro 248 b. Fedone G5 b, 63 a, b, eo3. (2) Rep, 508 d, 597 b, e, eoo. (3) Fedro 247 e, 249 e, Tim, 52 e, FiL 59 d, R'p. 400 b. (4) Sof, 249 a, AVp. 477 a. (5) liep. (6) Rej), ili a, 478 d, 479 d. (7) Fedro 247 e. (8) Tim. 52 b. (9) Rep, 490 a-b, Fedro 249 e, 247 e. (10) Ti.rt. 29 e, 52 d, Rep. 508 d, 518 e, 521 d, 525 b, 525 e, 525 e, 534 a, ecc. (11) Rep. 508 d, 525 e, ecc. (12) Tini. 28 a, Crat. 439 e. (13) Tim, 50 b. Nel Sof. 246 b dioc : i partigiani deUe Specie pongono in queste la vera oùota; in quanto a ciò che i Fisici chia- mano verità, essi lo chiamano non oOata, ma una certa genesi fluente. V ti -• Il 101 — ^ ' 1^ «' y' ' ', Il Iettò reale (y.Xivr^ ovxo)^ o»joa) (1) significa l'Idea del letto; la bellezza vera (xò àXrjB'ès xaXXXo;) (2) l'Idea della bellezza; il vero nuoiero (ò àXyjBtvò; àp'.Ojjtó^) e le ver.) figure (xà àXyjB-^ oxigiiaxa) (3) le Idee dei numeri e deUe figure (cioè, propriamente, le entità matematiche). L'in- dividuale non è un essere, ma qualche cosa di simile aires3ere (4); non è né essere nò non es^^ere ma parte- cipa dell'uno e dell'altro, è un che di medio tra il puro essere e l'assoluto non essere (5). I sensi non ci fanno conoscere il vero (6;; il sensibile è creduti vero, ma non lo è (7), almeno non ha una verità assoluta (8); questi non si trova che nelle Idee (9). Tra gli argomenti per dimostrare Resistenza delle Idee vi hanno que^ì: se vi ha qualche cosa di vero, esistono le Idee, perchè niente delle cose presso di noi è vero; il numero è degli esperi, ma le cose presso di noi non sono esseri, dunque il nu- mero è delle Idee, e queste esistono; le definizioni sono degli esseri, ma nessuna di queste cose è, Fono dunque le Idee (IO). Le forn.e che riveste sucerssivament *. la materia sono apparenze (^avxotojiaxa) degli esperi veri, cioè de(1) Rep, 597 ti. (2) Fedro 24^) d. (3) Ii*ep. 529 d.. (4) Rep. 597 a. (5) liep, 477-479. (6) Fedone 66 a, d, 83 a-b, ecc. Fedo, 83 b, 83 d, liep, 597 b, e, 516 a, ecc. (8) Fedo. 83 e, FiL 59 b. Rep, 511 e (ctr. 534 a), occ. (9) FedOy 65 e, FiL 58 e— 59 e, Fep, 484 e, 511 e, ecc. L'Idea è, come il solo essere vero, cosi pure il solo e^isere certo (Pépaiov— V. Tim. 29 b, 51 d-e). 11 sensibile noa è certo, perchè ò qualche cosa di ambiguo, di cui non può diiNi nò che ò nò che non ò* (10) Aless. Afrod. in phil pr. I. t. 56. Hi Idee (1); ciascun sISo; è uno in se stesso, ma per là parteci- pazione ad es«o dei corpi e delle azioni, da per tutto appa- rendo (cfavxa^ó|i£vov), pare (cpatvsxai) molti, L'acqua, il fuoco, Tari-i, la terra non sono, ma appariscono (cpav- xal^exai) (.1); la materia pare (^atvexai) acqua, fuoco, ecc. secondo che riceve le immagini di questi (4), (cioè delle Idee dell'acqua, del fuoco, ecc. Platone si esprime cosi, perchè V acqua reale, il fu^co reale, ecc. sono le Idee dell'acqua, del fuoco, ecc.) Le cose non sono che im- magini de-le Idee; e chiamandole immagini (slxóvs^ (5), stSwXa (6), ecc.), Platone non vuoi dire semplicemente ch'esse sono fatte ad imitazione delle Idee, ma ancora ch'esse non hanno una vera realtà ; infatti queste sl- xóvec, st8(i)Xa, ecc. vengono opposti agli esseri veri (le I Ice). Il volgare, che non ammette la teoria delle Idee, vive come in un sogno (7), perchè, come colui che Fogna, prende delle semplici immagini per esseri reali. Ciò che vi ha di reale negli oggetti che ci mostrano i sen-i, so- no le Idee : della grandezza, della sinità, della robu- stezza e, in una parola, dell'essenza di tutte le cose, il verissimo non è ciò che ne percepiscono i sensi, ma ciò che ne percepisce la ragione, vale a dire le Idee (8); i sensi c'ingannano, e per conoscere la Vi,*rità delle cose, dobbiamo rinunziare, per quanto è possibile, all'uso de- gli organi del corpo, e contemplare con la mente stesa Tim, 52 e. Rep, 476 a. Tim, 49 d-50 b. Tlm. 50 e, 51 b, 52 e. (5) Fjdì'o 2:il) b, Tim, 2,è b, e, 52 e, eco. («) Fedro 250 d, Rep. 520 e, 532 e, 534 e, Cjnmlo 212 a, eC3. (7) Rep, 476 e, Rep, 534 e, Tiìn, 52 b, ecc, (8) Fedone 65 e. I ti per se stessa gli esseri stessi per se stessi, cioè rintelli- gibile ed invisibile (1); a traverso il corpo, noi vediamo gli essrri (le Ide?), come a traverso un carcere^ (2). Da tutte queste proposizioni risulta con la più grandrì evidenza, quantunque Platon", bisogna confessarlo, non lo formuli mai nettamente, il conct^tto che le cose sono alle Idee ciò che l'apparenza è alla realtà: ciò che è in realtà un mondo d'Idee apparisce come un mondo di cose, d'individui concreti. In effetto, se le cose non sono una realtà, saranno un' apparen7a : ma un'apparenza suppone una realtà che apparisce diver-a da quello che è; per conseguenza, non essendovi altro di reale che le Idee, la realtà, di cui il mondo sensibile è l'apparenza, non può essere che il mondo ideal»*. Se le Ideo fossero separate dal'e cose, noi non comprenderemmo come possa negare la realtà del sensibile, e ridurre tutto il reale alle Idee : uà se le Idee sono comprese nelle cose, e costi- tuiscono la sola realtà, ciò che vi hi di reale nel mondo sensibile non sarà ch'3 il mondo d'elle Idee, e allora il mondo sensibile, come tale, sarà l'apparenza del mondo delle Idee. Considerando il mondo sensibile come un'appa- renza, Platone non intende negare la sua obbiettività, per- chè egli non ammette che ciò che i sensi percepi>cono sia un semplice fenomeno subbiettivo. Per Platone, come per Hegel, il mondo che noi chiamiamo reale è un' appa- renza delle Idee, ma un'apparenza obbiettiva. Senza dub- bio wn' apparenza obbiettiva è una contraddizione nei ter- mini; perchè una cosa non reale, un'apparenza, signi- fica un fenomeno subbiettivo che si prende a torto per Fedo 05 e-G() a, 66 d-e, 83 a-b. (2) Fedo 82 e. una cn.ca obbiettiva. Una cosa, di cui si riconosce l'ob- biettività, non può, d'una maniera intelligibile, clas^^arsi tra le cose il cui carattere essenziale è la mancanza di ob- biettività; ma questa classazione inintelligibile era il solo mezzo che Platon'^, potesse tentare [er conc:liare l'esi- stenza di un mondo di cose col principio che ogni realtà consiste ne'le Idee. Questa ridnzione del sensibile a una app^-enza dell'intelligibile spiega perchè, tra tutte le filosofie preced^'nts P eleatica fo?se, dopo la pitagorica, quella di cui Platone riconoscesse il legame più intimo con la sua propria filosofia : e che per Platone, come per gli Eleati (1), il mondo mutabi'e, percepito dai sensi, è l'apparenza obbiettivi d'una realtà immutabile. Il concetto che le cose sono l'apparenza delle Idee sarebbe evidentemente incompatibile con la dottrina della trascen lenza. Primo, perché, come abbiamo notato, se le Idee fissero separate ddle cose, Platone non potrebbe ridurre tuito il reale alle Id-e, e non avrebbe alcuna ragione per negare la realtà del sensibile. Secondo, per- chè questo concetto suppone che il mondo delle Idee e il mondo degl'individui, Pintelligibile e il sensibile, siano, non due cose differenti, ma due aspetti differenti di una sola e stessa cosa. Noi abbiamo confessato, è vero, che questo concetto non si trova in Platone nettamente for- mulato. iMa l'identità tra le cose e le Idee, che esso suppone, è ammessa della maniera più netta in molte delle proposizioni da cui lo abbiamo ricavato : p. e. quando dice che ciò che vi ha di verissimo nelle cose è quello che ne percepisce 1' intelligenza, vale a di- re le Idee; che a traverso gli organi del corpo (J) V. Append. alla parte pnma, e. jo, § 6.°Fedone 65 e, luogo citato. — 103 - noi vedi*iino gli esseri, ci^è le Idee, come a traver- so un carcerii (Ij ; quand) chiama le Idee gli ea- seri ; quando dice : ciascuna cosa ( gxaoxov), per signi- ficare : ciascuna Idea (2j ; ecc:. Questa iJonti h tra le Idee e le erse, iaconcepibileneiripotesi d^lla trasceii lenz;ì, è una cons(»gucn7a logica di quella deirimmanenza. lu effetti, come abbiamo più volte osservato, l'astratto e il concreto, o, più generalmente, il più astratto e il più concreto, non sono degli oggetti differenti, ma uno stesso oggetto a gradi differenti di determiuazione : questi gradi differenti di determinazione, che al puuto di vista ordi- nario non esistono ch'i nella nostra intelligenza, sono elevati dalla mi-tafì-ica realista a realtà obiettive; ma questa stessa metafisica non può non riconoscere l'iJen- tità dell'oggetto, di cui essi sono i gradi differenti di determinazione; e perciò uè fa degli aspetti o d^gli stati diff.^renti di uno stfsso essere, che nei gradi successivi di determinazione che c^'so percorre, si conserva nondi- meno sempre identico a se stesso. Ci resta a spiegare perchè quest'ultimo grado della de'erminaz'one. dell'es- sere, che è l'individuo, non abbia per Platone (e in ge- nerale per tutti i filosofi che uniscono al realismo il metodo dialettico) che il valore di una semplice appa- renza. La ragione più ovvia per riguardare il sensibile come un'apparenza è ch'esso è in contraddizione con l'altro aspetto dell'essere, la cui realtà deve stare più a cuore a Platone, cioè con l'Idea. Ciasc\in slto^ è uno, ma noi lo vediamo come molli, disseminato nello spazio e nel tempo : di questi due aspetti contraddittori dell' essere, h Pintelligibile e il Svinsibile, Platone, sacrificando, come lutti i metafisici, il dato dell'esperienza al risultato della speculazione, dichiara che il reale è il primo e il secondo è un'apparenza, che l'sleoc; è uno in se stesso, ma, pare molti. Tuttavia una considerazione più attenti mostra che questa ragione non basterebbe per se sola a negare lei realtà del sensibile. In effetto questa centra Idizione tra l'uno e i molti sì trova a ciascun passo della determinazione progressiva d^iridcìa : come l'Idea specifica diviene molti negl'indi- vidui che ne partecipano, co>i l'Idea generica diviene molti nelle Idee specifiche che ne partecipano. Questa moliiplicazione dell' Idea nelle Idee più particolari ad essa subordinate è per Platone anch'e>!sa una semplice apparenza: ciascun slSog pare molti, tanto per la parte- cipazione delle azioni e dei corpi, quanto per la partecipa- zione degli altri elòri (1). Ma Platone non dichiara perciò che le Idee particolari sono delle semplici apparenze del- l'Idea generale : è che vi ha in esse, oltre l'elemento ^e. nerico, che, come molti e diverso nelle diverse Idee, è un'apparenza dell'Idea generica, un elemento differen- ziale; e questo è irrìduttibile all'Idea generica, e reale come essa. Ora anche nell'individuo vi ha un elemento differenziale, che si aggiunge all' elemento specifico : sembra perciò che Platone dovrebbe conservare la realtà degl'individui in grazia delle differenze individuali, come conserva quella della Specie in grazia delle differenze specifiche. Al cominciamento di questo numero, per ispiegare la dottrina di Platone che tutto il reale consiste nelle (1) Fedone 82 e, loogo citato. Fedone 65 e, luogo citato. (J) V. liej), 476 a. \^ 1 •' Idee, noi abbiamo detto che gli esseri si decompongono nei loro attributi, i quali, considerati gen'-ralmeate, sono d^lle Idep. Infittì questa è la sola ragione plausib'le, che Platone e ogni altro metafisico che professa lastessa dottrina, potrebbe addurre per giustificarla; ed io ho ci- tato il Taine, il quale ammette effett'vamento che il rap- porto tra le entità generali — corri-^pondonti alle Idee platoniche — e le cose è quello che vi ha tra le parti e 1 tutti, i componenti e i composti. A questo punto di vista» relemento differenziale, che si aggiunge alla Specie per costituire Tindividuo, sarebbe un complesso di caratteri, di cui ciascuno e generale e corrisponde a un'Idea, e che ba- sta a determinare T individuo, perchè il concorso di tutti non ha luogo che in un singolo individuo. Va questo punto di vista è, rigorosamente parlando, iuammissibile. Vi ha necessariamente nell' individuo un elemento, chi*, è irridut- tibile al generale, allldea. Prima di tutto, la posizione in un punto determinato dello spazio e del tempo. Poi, un cumulo di caratteri generali, per quanto si moltiplichino, non potrebbe fornire una rappresentazione adequata, pre- cisa, dell' individuale. È perciò che i realisti del medio evo ammettevano un principio particolare, V ecceifà, che si aggiungeva agli Universali per formare V individuo. Il vero motivo per cui Platone e gli altri filosofi, i cui si- stemi sono costruiti sullo stesso tipo del sistema plato- nico, non fanno come i realisti del medio evo, ma risol- vono tutto il reale in entità generali, bisogna cercarlo, non nel realismo per se stesso, ma nella dialettica. Io chiamo dialettica ogni metodo in generale di de- durre i concetti realizzati (che Platone chiama Idee) gli uni dagli altri, allo scopo di assimilare il rapporto tra il principio e la conseguenza a quello tra la causa e lo effetto. La dialettica non ò un semplice processo sub- biettivo per dimostrare le cose, ma è il processo stesso per cui le cose si producono, la bgge della loro causazione reale. Questa legge non determina le successioni cronolo- giche dei fenomeni, ma le succe-isioni logiche delle entità in cui la metafìs'ca realista risolve il reale. Queste en- tità si deducono le une dallo altre secondo un metodo costante (che, p. e, per Platone è la divisione del genere nelle sue specie, per Hegel il passaggio dalla tesi all'an- titesi e poi alla shitesi); e il proprio di questa deduzione è che fra lo entità che si deducono e quelle da cui sì deducono, non vi ha semplicemente il rapporto logico di conseguenze e di principii, ma anche il rapporto on- tologico di effetti e di cause, poiché l'essenza della me- tafisica di cui parliamo consiste nella identificazione di questi due rapporti. Il metcdo per cui procede questa deduzione essendo, come abbiamo detto, la legge di causazione delle entità eh*', secondo la metafisica rea- lista, costituiscono il reale, Kon può esservi niente nel reale che non si uniformi a que-ta legge, cioè che non possa dedursi secondo questo metodo; della stessa ma- niera che tra i fenomeni non può esservene alcuno che non si uniformi alle legji di causazione dei fenomeni. Ora nessun metafisico potrebbe pretendere di dedurre l'individuale; poiché la scienza non aspira a conoscere l'individuale, ma solo il generale. L'individuale non può dunque uniformarsi alla legge dialettica che governa il reale : la sua esistenza è in contraddizione con questa legge; quando, nella determinazione progressiva dell'es- sere, arriva il momento finale (finale almeno nel siste- ma platonico), in cui si passa dall'astratto al concreto, dal generale all' individuale, accade tin avvenimento senza causa. Ecco perchè il metafisico realista non conta quest'avvenimento fra i gradi 7*eali dello sviluppo del- l'essere, e dichiara il sensibile una semplice apparenza. Il metafisico realista non fa che quello che noi stessi faremmo innanzi ad un avvenimento, di cui saremmo certi che non vi hanno nel mondo esteriore degli antecedenti capaci di determinarlo : noi lo dichiareremmo un sogno o un'illusione, il criterio principale, se non Tuiiico, per- distinguere il sogno o V illusione dalla realtà, essendo la possibilità o meno di mettere un fenomeno in connes- sione causale cogli altri fenomeni che costituiscono la serie che noi chiamiamo il mondo reale. Tutti i metafisici che. come Platone, realizzano i concetti, e am- mettono che questi concetti realizzati possono deduisi gli uni dagli al-, tri secondo un metodo costante (che noi chiamiamo dialettico, perchè cosi è stato chiamato dai più celebri rappresentanti di questa forma di metafisica, Platone ed Hegel), riguardano il sensibile, l'individuo, come non reale, ma soltanto apparente. Schelling dice: Non vi ha passaggio continuo dall'assoluto (l'entità suprema da cui tutte le altre procedono, la più astratta di tutte) al mondo Fensibile; non si può concepire l'ori- gine del mondo fenomenale che per un salto, per una discontinuazione perfetta dell'azione dell'assoluto. Perchè fosse possibile di dedurre dall'as- soluto la nascita delle cose reali (cioè che noi chiamiamo tali), biso- gnerebbe che esse avessero in lui la loro ragione positiva : ora n^n vi ha in Dio (cioè nell'assoluto) che la ragione delle Idee, e le Idee alla loro volta non producono che delle Idee, e niuna azione positiva procedente da esse o dall'assoluto può formare un passaprgio dall' infinito (il mondo delle Idee) al finito (il mondo dei fenomeni). Ln filosofia non ha alle cose fenomenali che una relazione negativa : essa ha meno per o«rgetto di provare che esse sono, che di mostrare che esse non sono (Stor, della fiL alem, da Kant sino ad Hegel) Hegel nella Logica paragr. : k L'idea è il vero; perchè il vero consiste nella conformità tra la nozione e il suo oggetto.... Ogni essere reale tira la sua realtà dall'Idea, e non è che per l'Idea che è un essere reale... L'in- dividuo non corrisponde alla sua nozione (e per conseguenza manca di verità). » Nell'Introduzione all'Enciclopedia parag. VI : « Un'osservazione attenta del mondo distingue ciò che, nel vasto dominio dell' esistenza interna ed esterna, non è che un'apparenza fuggitiva ed insignificante da ciò che ba una vera realtà. .. Dio (cioè l'Idea) é la realtà più alta e la sola realtà, e, relativamente alla forma, l'esistenza è in parte apparenza 'f, Il Zeller, quantunque sia l'uno dei principali rap- pres-entanti dell'interpretazioue trascendentalista, rico- nosce che dalle proposizioni di Platone sulla realtà delle sole Idee e la non rca'tà del sensibile, ne segue il con- cetto che il mondo sensibile non è che un fenomeno del mondo ideale. Egli ammette che questo lato della dot- trina platonica è in contraddizione con l'altro lato che rgli le attribuisce, cioè la separazione tra le Idee e le cose; ma secondo lui esso imj-orta, non l'immanenza delle Idee nelle cose, ma l'imuìanenza deUe cose nelle Idee (1). E in verità si deve convenire che sarebbe più e in parte realtà. Nella vita ordinai ia, tutti gli avvenimenti, l'errore, i] male e tutto ciò che appartiene a quest'ordine di cose, come anche ogni esistcilza passeggiera e peribile, sono accidentalmente chiamati delle real- tà ». Nota di Vera; « Vi ha nel'e cose un elemento apparente, accidentale» esteriore, e un elemento reale, necessario ed interiore. È quest'elemento che è l'oggetto della filosofia». Vera nell'Introduzione alla Filosofia della natura di He^el, e. IX : « Il tempo e lo spazio costituiscono il sustrato e come i due fattori dcl'a natura; di tal sorta che ciò che è uno vi ipparìsce come molti, e ciò che è simultaneo vi apparisce come successivo. E questo apparire non è un fatto o uno stato puramente subbiettivo ed esteriore alla na- tura, ma costituisce la condizione e la forma stessa della sua esistenza. » Taine nel Po^iU, imjl. ; Questo magnifico mondo in movimento, questo caos tumultuoso d'avvenimenti che s'incrociano, questa vita in" cessante infinitamente variata e multipla, si riducono ad alcuui elementi e ai loro rapporti. Tutto il nostro sforzo consiste a passare... dal complesso al semplice, dai fatt alle leggi, dalle esperienze alle formule. Sinché non guardiamo la natura che per l'osservazione sola, noi non la vediamo quale è ; noi non abbiamo di essa che un'idea provvisoria e illusoria. Essa ù propriamente una tappezzeria che noi non vediamo che dal rovescio. Ecto perchè cerchiamo di voltarla. Noi ci sforziamo di distinguere delle leggi.., noi scopriamo delle coppie (di entità astratte)... noi passiamo dall'accidentale al necessario, dal relativo all'assoluto, dall'apparenza alla verità ». (1) Filos. dei Greci II, I, pag. 625. - 106 — 3. afci I iftj>i I iti esatto di rinsaldare il fenomeno come inerente nella so- stanza, che la sostanza come inerente nel fenomeno. E qui dunque il luogo di domandarci se 8*a più giusto di formulare il rapporto tra le Idee e le cose nel sistema platonico, dicendo che le Idee sono immanenti nelle co- se, 0 dicendo piuttosto che le cose sono immanenti nelle Idee. Effettivamente il rapporto tra lo Idee e le cose, o, più generalmente, tra il generale e il particolare, è con- cepito da Platone dell'una e dell'altra maniera. Queste due concezioni corrispondono alle due formule, Vuno nei molti e Vuno è molti. Secondo la prima, l'Idra ge- nerica è contenuta nell'Idea specifica, e questa negl'in- dividui. Secondo l'altra, l'Idea genrrica è la stessa cosa che la totalità delle Idre specifiche, e contiene quinii le Idee specifiche; e s-milmente l'Idea specifica è la 6,tessa cosa che la totalità degl'iudìvidui, e contiene quindi grindividui. Vi ha però una differenza tra il rapporto dell'Idea generale con le Ideo più particolari ad « ssa subordinate e quello dell'Idea con le erse; ed è che nel primo caso l'uno e i molti— cioè Tldea generale e le Ide:^> particolari subordinate— sono riguardati da Platone come due. aspetti o due" stati egualmciite n'ali che Tes- sere attraversa successivamente neUa sua progressiva determinazione; invece, quando Tuno rappresenta l'Idea e i molti le erse, di questi due appetti dell' essere uno solo, Vano, è riguardato come reale, e l'altro, i molli^ è riguardato come una semplice apparenza. Questi rapporti contrari di contenenza reciproca tra il generale e i particolari non sono al IVndoche la dop- pia relazione che può stabilirsi tra i concetti, secondo che si guardano nella loro estensione o n»lla loro inten- sione: guardati neir intensione, il particolare contiene il generale; guardati nell'estensione, il generale contiene il particolare. Tuttavia bisogna riconoscere che queste due maniere di concepire la relazione tra le Idee generali e le Idee psrt'colari e tra le Idee e le cose non sono perfetta- mente congruenti : ciò non è solo p.^r la contraddizione che vi ha a rappresentarsi una cosa come parte di un'altra, e al tempo stesso quest'altra come parte della prima (secondo la formula dell'immanenza delle Idee nelle cose e delle Idee generiche nel'e Idee specifiche, l'Idea sarpbbe nella cosa e l'Idea generica nell'Idea specifica come una parte nel tutto; se.'.ondo la formula contraria invece le Specie sarebbero parti del Genere e gl'individui della Specie); ma aiicora perchè le due concezioni suppongono in so- stanza due concezioni differenti dell'Idea. II concetto può considerarsi a due punti di vista differenti : come rappresentante l'oggetto, a cui si riferisce, considerato d'una maniera astratta e generale; e come rappresen- tante l'attributo, per la possessione del quale a que- st'oggetto viene dato il nome corrispondente al concetto. Questi due punti di vista corrispondono al nome con- creto e al nome astratto; p. e. animale ed animalità. Di questi due aspetti o, se si ama meglio, di queste due forme del concetto, qual è che realizza Platone ? è la rappresentazione astratta del soggetto aiiimale, o quella d'^H'attributo animalità ? L'una e l'altra; e quantunque la realizzazione dell'una non sia perfettamente identica a quella dell'altra, egli non vi fa alcuna differenza. Infatti egli chiama indifferentemente l'Idea sia col nome con- creto : p. e. il grande (1). il piccolo (2), il padrone (3), (1) redo 100 b, VELIA (vedasi) d. l'I il servo (1), Tuomo (2), il bue (3); sia col nome astratto : p. e. la grandezza (4), la piccolezza (5), la padronanza (6), la servitù (7), ìa mensaliià (z^oLTieì^ózYiióazpdizeZoL mensa) (8). Evidentement»^, per riguardare Tldea come contenuta nelle cose e l'Idea generica come contenuta nelle liee specific:he, Tldea deve essere la realizzazione dell'attributo, p. e. dell'animalità; ma per riguardare le Idee generiche come contenenti le Idee specifiche e queste come contenenti le cose, l' Idea devo essere la realizzazione del soggetto, p. e. dell'animale, astratta- mente considerato. Di queste duo concezioni dell'Idea è la prima che prevale, come apparisce da tutte le e- spressioni del rapporto Ira le Ideo e le cose significanti o implicanti la parusia : è che è cosi che noi possiamo rappresentarci della maniera possibilmente più netta le Idee e la loro relazione con le cose e tra di loro; per conseguenza qurl'i che rj*gftta)io la sepai anione tra le IJee e le cose preferiranìio sempre la formula dell'im- manenza delle Idee nelle co^^e. Ma quando Platone si mette più specialmente al punto di vista della dialettica, egli deve abbandonare questa concezione per l'altra ; poiché è evidente che non è p. e. la sostanzialità (l'at- tributo) che si divide in corporeità e spiritualità, ma è la sostanza (il soggetto) che si divide in spirito e corpo; (1) Parm, 133 d-e, (2) FU, 15 a. (3) Ibid. (4) redo, 100 e, 101 a, Parm. 131 e, d, 132 a. (5) Fedo. 100 e, 101 a. (6) Parm. 133 e. Parm. 133 e. Diog. Laert. VI. 53. e che non è Tanimalità che si divide in umanità e bru- talità, ma è l'animale che si divide in uomo e bruto. A questo punto di vista la formula più giusta del rapporto tra il generale e il particolare è l'immanenza del secondo nel primo, cioè delle Idee specifiche nel'c Idee generiche conformemente al Timeo 39 e, in cui Platone dice che r intelligenza vede le Specie degli animali inesistenti (èvouoag) nell'Animale in gè— e per coDseguenza anche delle cose nelle Idee. Bisogna dunque riconoscere que- st'oscillazione di Platone nel concepire l'Idea : ma non si deve dimenticare che Je due co)icezioni differenti sono l'una e l'altra esclusive della trascendenza delie Idee; che l'Animale in se stesso, cioè l'astratto, non è sepa- rato dall'animale concreto, ma è identico con esso, per- chè Vuno è i molH^ e i molti sono Vuno-^ e l'Animalità in se stessa non è separata dall'animalità che è l'attri- buto dell'animale concreto, ma è questa stessa animalità, perchè Vuno non è fuori dei molti, ma nei molti, X, La dottrina della non realtà delle cose sensibili è legata in Platone con quella dil loro continuo divenire. Egli ammette la tesi di Eraclito, con gli sviluppi che le aveano dato gli eraclitizzanti più recenti. Il presup- posto su cui erano fondate le conseguenze che questi tiravano dalla dottrina del maestro era che ciò che can- gia di un cangiamento continuo non è mai, nel tem- po in cui cangia, in uno stato detcrminato: essi ne concludevano che delle cose, che sono in un continuo divenire, non vi ha alcuna conoscenza possibile, poiché niente potrebbe dirsi di vero di ciò che non è d'una (1) V. per questa proposizione Append. alla 1 . parte cap. 1. § 5, e parte 2. Le antinomie della ragione. maniera determinata. A questa coiiseguenza della tesi eraclitiea, che Platone restringe naturalmente al sensibile, egli ne aggiunge un'altra, cioè checiòche diviene non è, proposizione che senza dubbio viene an- ch'essa dedotta dal medesimo presupposto (3). Per l'e- satta comprensione del legame tra la dottrina del con- tinuo divenire delle cose o le conseguenze che gli Era- cìitizzauti e Platone ne deducevano, io rinvio perciò ai luoghi di qu'^sto scritto sopra indicati. La quistione che per ora c'interessa è un'altra, cioè : quando Platone op- pone l'Idea eterna e sempre la stessa alle cose che na- scono e periscono e sono in un divenire continuo, parla egli, come intendono gì' interpreti trascendentalisti, di due mondi separati e contrari, 1 uno sottoposto a un perpetuo cangiamento, e l'altro csentf^ da qualsiasi can giamento; o di un mondo so'.o, che può consiaevarsi a due punti di vista oppo=^ti, come in un divenire continuo, guar- dato in ciò che ej-so ha di fenomenale, d' individuale, di contingente, e come immutabile, guardato in ciò che ha di rea^e, di generale, di necessario? Prima di tutto si deve osservare che questi stessi ca- ratteri di eternila (4) e d'immutabilità (5), attribuiii allo Idee, non si comprendono perfeltamente che nell'ipotesi dell'immanenza. Le Idee sono eterne e sempre le stesse non ò (1) V. Arì^t. Mei. 1. I. Vl,l, l. IV. V. 12-16, U XI. VI. 612, 1. XUI. IV. 2. . (2) V. Met. 1. I. VI. 1, 1. XIII. IV. 2, IX. 19. (3) V. Arist. Mei. 1. IV. V. 12-13. (4) V. Fedone 79 d, Com\ £11 a, FU, 15 b, 59 a, Ti»*?. 22 d, 29 a 37 a, 37 c-38 e, 50 e, 51 a, 62 a, 59 e, ecc. VELIA (vedasi), Con%\ 211 b, PoUt. 269 d, FU, 15 b, 59 o, Fe- do. 78 c-d, 79 a, d, e, 80 b, Tim. 28 a, 29 a, 38 a, 52 a, ecc. che la traduzione in linguaggio reali&ta di questo risultato, dell'ossei vazione più volgare : che nei cangiamenti inces- santi che avvengono nel mondo, le forme generiche e Sfccifiche d^'gli esseri non cangiano; che gl'individui periscono, ma le specie sono stabili. Per l'eternità delle Idee, Platone esprime lo stesso concetto, espresso da A- ristotile quando egli dice che le forme non nascono né perscono (1) : l'uno e l'altro aTa dottrina ai teriore dei F.sìci di un'origine e di una fine del cosmos attuale so- s'iiuiscono la dottrina— più conforme alla tendenza innata del nostro h pirite di generalizzare, quanto più e pos- sibile, la nostra esperienza— dell'eiernità dell'ordine pre- sente del mondo (2). Ma se le Idee non sono le forme generiche e specifiche degli esseri, l'eternila, di cui ven- gono dotate, e arbi.raria come tutti gli altri caratteri, che ad e se si attribuiscono : in effdt^, il male radicale e incurabile del sistema delle Idee trascendenti è la loro assoluta incapacità di esercitare sulle cnse un'efficienza qualsiasi; sicché qualunque ipotesi secondaria di cui venga circondata l'ipotesi della loro esistenza, è, come questa, gratuita e priva di scopo, la loro causalità re- stando, in tutti i casi, egualmente misteriosa. Un'altra prova dell'immaTienza delle Idee è V argo- (1) V. Met. 1. IX. X. 4, l. VII. Vili. 1-4, IX. 7, XV. 1, eoo. (2) Se non che rer Aristotile la l'orma non può considerarci co- me identica negl'individui differenti che per metafora; per Platone invece que^it 'identità è reale. Nel Parm 135 b, per significare riget- tando la dottrina delle Idee^ dice : non lasciando che la forma (lòécf.) di ciascuno de(;li esseri (cioè di ciascuna specie di esseri) sia sem- pre la stes&a. Ciò prova che l'Idea non è che la forma di ciascuna specie di esseri riguardata come sempre la stesso, cioè come nume- ricamente identica in tutti gl'individui che rivestono questa forma. - 109 - mento per cai Platone dimostra la loro esistenza dal divenire continuo delle cose. Conformemente alla tesi degli Eraclitizzanti, è impossibile di avere la conoscenza di ciò che diviene : Platone ne conclude che bisogna ammettere un essere permanente, che sia il vero og- getto della conoscenza ; questo è l' Idea (1). Quest' ar- gomento che Aristotile dà come il vero motivo del si- stema delle Idee — apprezzamento su cui dobbiamo fare le nostre riserve, perchè i sistemi metafisici, secondo noi, non hanno per motivi dei sofismi artificiali come questo, ma i sofismi naturali dello spirito umano (2) — era fondato, come la più parte degli altri argomenti (1) V. Met. l. I. VI, 1-2, 1. XIII. IV. 2, IX. 18-20. (2) Io credo anzi che si debba prendere al rovescio il rapporto che Aristotile — in un'epoca in cui non potremmo attenderci che lo spirito umano avesse già acquistato la coscienza delle sue tendenze metafìsiche e dei processi per cui esse si realizzano — stabilisce fra la tesi degli era- clitizzanti e la dottrina delle Idee. La dottrina delle Idee non è una con- seguenza della tesi degli eraclitizzanti, ma è questa che è, in Platone, una conseguenza di quella. Io non pretendo che Platone ammettesse U dottrina del continuo divenire delle cose in conseguenza della sua dot- trina delle Idee, perchè non vi ha tra le due dottrine una oonnessione naturale. Si deve dunque ritenere che Platone adottasse la tesi di Era- clito—che al punto di vista moderno è l'espressione esatta della verità, che anche al punto di vis';a antico era un' interpretazione plausibile dei dati dell'osservazione — per dei motivi indipendenti dal sistema delle Idee. Ma le conseguenze esorbitanti, che gli Eracletiszanti come Cratilo dedu- cevano da questa tesi, cioè l'indeterminatezza delle cose, che continua- mente divengono, e la loro inconoscibilità, non dovettero essere accolte da Platone, che perchè egli vi trovava delle prove per dimostrare l'esi- stenza delle Idee. Similmente, quando Platone aggiunge, come conse- guenza deirindeterminatezza di ciò che diviene, che ciò che diviene non è, egli ammette la legittimità di quest'inferenza, perchè vi vede una con- ferma della dottrina della non realtà del sensibile, ch'egli ha dedotta dal sistema delle Idee. deiresistenza delle Idee tirati dalla scienza e dal con- cetto, sul presupposto che tra le nostre nozioni e i loro oggetti deve esservi una conformità assoluta. Per la dottrina delFindeterminatezza dì ciò che continuamente diviene, non potrebbe esservi una rappresentazione assolu- tamente conformo, e quindi nemmeno una conoscenza, deirindividuUe, perchè questa lo rappresenterebbe d'una maniera determinata, mentre ciò che diviene non è mai d'una maniera determinata. A questo noi obbietteremmo-ed è in effetto l'obbie- zione che Aristotile faceva alla tesi degli Eraclitizzanti —che, per conoscere le cos-», non è necessario di for- marsi una rappresentazione esatta, precisa, dello stato o degli stati successivi in cui si trova l'individuo, ma basta avere la conoscenza della forma specifica, dell'eidos comune degl'individui; ora questa forma non è attinta dal divenire, perchè i cangiamenti dell'individuo, qua- lunque sia la loro natura, sono sempre contenuti dentro i limiti di essa, e per conseguenza la sui conoscenza, e quindi quella delh crs\ è possibile.. Ma di questa maniera noi non faremmo la confutaz'one dell'argomento platonico, invece lo continueremmo : in effetto Platone soggiungerà che l'oggetto di questa conoscenza dell'sldog comune degl'individui non sono gl'individui — la cono- scenza che ha per oggetto l'individuo sarebbe la rap- prosentaz'one esatta e completa dello stato in cui esso si trova, e questa si è dimostrata impossibile ma è TsISo^ in se st?ss'>, perchè deve esservi una conformità assoluta tra la nozione e il suo oggetto, e perciò una nozione astratta e generale, qual è la conoscenza del- ti; Met. 1. IV. V. 14; cfr. 1. XI. VI. 9, — 110 Vetòo(; comune, non può riferirsi che ad un oggetto e- gualmente astratto e generale. Ciò che prova che Tar- gomento di Platone mira a dimostrare un el5og che è Degl'individui, quantunque separabili (xwpvoxóv) — nel senso che abbiamo spiegato da essi, e non un dòoz che è fuori di essi, è che nel primo caso si attribuisce a Platone una proposizione incontestabile, cioè che Tog- getto della scienza non è ciò che vi ha nelle cose d'in- dividuale, ma ciò che vi ha in e so di generale; nel se- condo caso invece gli si attribuirebbe questa proposi- zione stran», che la scienza sì riferisce, non al mondo reale, ma ad un mondo fantastico, posto, non si sa dove, al di fuori del mondo reale. Forse V interprete trascen- dentalista dirà che Platone non vuole dimostrare quale sia l'oggetto a cui si riferisce, nel fatto, la scienza, ma quale sia quello a cui essa deve riferirsi. E sia pure. Ma si può attribuire a Piatone V idea che la scienza deve riferirsi a un altro mondo, e non a questo che ò il solo che cMntercssa di conoscere? Passiamo alle prove dirette, contenute negli scritti di Platone, che ci mostrano che l'essere, T immutabile, non è fuori del divenire, ma nel divenire stesso. La prima è l'attitudine ambigua di Platone verso la tesi eraclitica. Aristotile dice (Mei, 1. I. VI. 1) : « Conversato (Platone) da giovane con Cratilo, e familiarizzatosi con le opinioni eraclitee che tutti i sensibili continuamente fluiscono e non vi ha di essi sc'enza, mantenne anche in appresso le stesse opinioni. » E infatti la dottrina del continuo divenire, delle cose noi la troviamo nel Fedone 78 e-80 b, nel Filelo 59 a-b, nel Sofista 246 b-c, nTimeo 2y a, 52 a, ecc. Ma intanto vi hanno altri luo- ghi in cui Platone si mostra avversario risoluto di questa dottrina. È ciò che fa specialmente nel Teeieto. In questo dialogo la presenta come conducente logicamente alla tesi di Protagora che le cose non hanno in se stesse una natura determinata, ma sono quello che sembrano a ciascuno (152-157, 160 d, ecc.), ciò che deve riguardar- sene come una sorta di confutazione per l'assurdo (1); e la combatte apertamente a 179 d-183 e, luogo di cui basterà di citrreil tratto seguente, che è il più impor- tante : « SocR. ; Tutto si muove, voi dite, tutto fluiscp. Non è così ? — Teodoro : Si — Socr. : Senza dubbio del doppio movimento che noi abbiamo dìst'nto, di trasla- (1) Alcuni vedono nel Teeteto una testimonianza storica sul rap- porto tra Protagora ed Eraclito, e ammettono, fondandosi su di essa, che la tesi di Protagora deriva realmente dalla dottrina era- clitica del divenire. Ma che il legame tra le due dottrine sia una semplice speculazione di Platone, è ciò che egli stesso confessa chiaramente, quando dice che espone, non ciò che Protagora e i suoi partigiani dicono apertamente, ma il loro secreto (152 c-d» 155 d-e, 156 a). D'altronde che la deduzione del Teeteto non abbia alcun valore storico, risulta sufficientemente dalla mancanza di una connessione naturala tra le due dottrine, poiché è evidente che la tesi di Protagora è dedotta dal valore puramente subbiettivo delle sensazioni, e questo dalla loro relatività; ora non vi ha alcun rap- porto logico tra questi principii e la dottrina del divenire continuo delle cose. Aggiungiamo che fra la tesi di Protagora e quella di Eraclito, non solo non vi ha un legame logico, ma vi ha anzi una aperta contraddizione; perchè la prima distrugge l'obbiettività delle cose, ed è incompatibile con qualsiasi sistema dommatico. Il Zel- ler dice, è vero, che Protagora « ha incontestabilmente attribuito alle cose un' esistenza obbiettiva» (I. paite t. 2. e. 3. § 4. 980); ma quest'affermazione non ha altra base che l'esposizione del Teeteto^ poiché Sesto Empirico (Pìjrrh.) che è 1' altra autorità su cui si appoggia Zeller, non è un testimonio diretto, e si fonda an- ch'egli evidentemfcte sul Teeteto. L'antecedente storico della tesi di Protagora deve cercarsi, come ben nota il Lange (Stor. del ma- ter, t. I. n. 31 alla I parte), piuttosto che nella dottrina di Eraclito, nell'atomismo (di Leucippo), perchè questo era il primo passo verso la negazione assoluta del valore obbiettivo della sensazione. - Ili — ^^ zione e di alterazione ? — Teod. : E come do, se si vuole che tutto si muova perft^ttamente ?— Sccr. : Se le cose can- giassero semplicemente di luogo, e non si alterassero, potremmo dire quale sia la natura di ciò che flui^ce can- giando di luogo. Non è vero ? — Teod. : Certamente — SocR. : Ma siccome nemmeno è una cosa f-tabile che ciò che fluisce fluisca bianco, ma anche in questo vi ha can- giamento, in modo che la bianchezza stessa fluisce e si muta in un altro colore, affinchè non si sorprenda in uno stato fisso; è mai possibile di dare a un colore un nome, in modo che questa denominazione sia giusta? — Teod. : Come sarebbe ciò possibile, o Socrate, sia per il colore, sia per un'altra di tale cose, se, mentre par- liamo, esse fuggono, poiché fluiscono continuamente ? — SocR. : E che diremo delle sensazioni, p. e. di quelle della vista e dell'udito ? che esse permangono nello stato di visione o di audizione ?— Teod. : No, s'è vero che tutto si muove— SocR. : Non si deve dunque dire che si vede qualche cosa anziché che non si vede, né che si ha qualche altra sensazione anziché che non si ha, se tutto é assoluta- mente in movimento— Teod. : No, senza dubbio— Socr. : Ora la sensazione é la scienza, abbiamo detto io e Tce- teto— Teod. : Si— Socr. : Interrogati dunque che cosa f«ia la scienza, abbiamo risposto qualche cosa che non é scienza piuttosto che non scienza— Teod. : Cosi p«re — Socr. : Abbiamo giustificato la nostra risposta d'una bella ma- niera, noi che ci siamo sforzati di mostrare che tutto si muove per far ved'^re la giustezza di questa risposta (1) : quello che sì é visto è, mi sembra, che se tutto si muove, qualsiasi risposta, su qualunque c'>sa si risponda, è egual- mente giusta, sia che si risponda che la cosa è coi-i, sia che non é co>i, o, se ti piace meglio, che diviene cosi, o che non divien'5 cosi, affinchè le nostre parole non attri- bu'scaao ad essi (ai partigiani della dottrina del divenire) alcuna permanenza— Teod. : Dici bene -Socr. : Tranne in questo, Teodoro, che ho detto così e non così : queste pa- role non devono essere usate, poiché, essendo così o non così, le cose non sarebbero più in movimento; infatti né così né 7ion così è movimento. I partigiani di questo si- stema dovrebbero inventare qualche altra parola, poiché sin qui non hanno termini adattati alla loro ipotesi, tranne forse quvjsto : in nessun modo. Questa espressione, ripe- tuta all'infinito, è la più conveniente per essi. È ev:d(».nte che qni Plotone non accoglie, ma rigetta come assurda, la tesi di Cratilo che non vi ha a'cuna proposizione vera sulle cose ch*^ continuamente diviu- gono ; e che egli la presenta come una conseguenza inevitabile della dottrina del continuo divenire, per mo- strare che questa conduce ad una conse2:uenza assurda. Ora come conciliare quest'attitudine ostile coi luoghi dei suoi aeriti in cui si mostra un propugnatore di questa dottrina, e con la testimonianza d'Aristotile ? La cosa si spiega perfettamente, se si ammetie che l'immutabile e ciò che continuamente divien'ì non sono per Platone due L'argomento del Teelelo è la definizione della scienza. Tee- teto, interrogato da Socrate, risponde che la scienza è la sensa- zione. Qaesta defi.nizione, secondo Socrate, equivale all'opinione di Protagora, la quale alla sua volta equivale alla dottrina di Era- olito e degli altri sapienti del divenire continuo di tutte le cose. Di là l'esame di questa dottrina, allo scopo di confermare o d'in- firmare la definizione di Teeteto. -112- t^mmmmmm mondi separati ed opposti, ma un solo e stesso mondo che può considerarsi a due punti di vista opposti : co- me in un divenire continuo, nel suo elemento Apparenti^, individuale, e come immutabile, nel suo elemento reale, generale. Quando si mette al primo punto di vista, Pla- tone è un partigiano di Eraclito; quando si mette al se- condo punto di vista, è un avvcsario di Eracli'o, e un amico degli Eleati (1) Se il mondo non presentflssp» a Platone quest' due aspetti opposti, le due attitudini op- poste verso la dottrina del divenire sarebbero incompr(>n- sibili. Del resto, non bisogna credere che quando Pla- tone parla, nelle sue prove per dimostrare l'esistenza delle Idee, della inconoscibilità dei sensibili, che continuamente divengono, egli ammetta tale quale la tesi di Cratilo che non può enunciarsi di essi alcuna proposiziore vera: la inconoscibilità dei sensibili è una sott:glie7za di cui Pla- tone si serve per il comodo della tua argomentazione, ed essa non importa che non possiamo assegnare con verità ad una cosa alcun attributo, come pretendeva Cratilo, ma semplii'emente che non è possibile, come ab- biamo spiegato, alcuna nozione adequata e completa dell'individue, che lo rappresenti esattamente nella sua fisonomia individuale e, per dir cosi, nel suo colorito preciso, perchè questa fisonomia e questo colorito can- gia continuamente, e non si trova mai perciò in uno stato determinato. È questa rappresentazione solamente ch'egli chiamerebbe una conoscenza dell'individuo, per- chè egli suppone, come abbiamo detto, che tra la crno- (1) Nel Teeieto, in cui combatte tutti i filogoti precedenti, ai quali tutti attribuisce l'opinione di Eraclito, non parla in tono a- michevole che di Parmenide e degli altri Eleati (V. 183 e). scenza e il suo oggetto deve esservi una coutbrniità as- soluta. La tesi di Cratilo che non può enunciarsi di una cosa alcuna proposizione vrra, sarebbe in contraddizione con la dottrina che le cose partecipano alle Idee, perchè che una cosa pariecipa a un'Idea vuol dire per Platone che della cosa può predicarsi V attributo corrÌ8])ondente all'Idea. La presenza dell'Idea nel sensibile mette ne- cessariamente un limite al suo divenire continuo, e alla indeterminatezza che ne è la conseguenza : le cose can- giano continuamente, ina questi cangiamenti non oltre- passano mai i Miniti necessari perchè esse abbiano una essenza determinata e partecipino ad attributi determinati. Noi abbiamo già visto (num. IV.) che, quantunque la de- finizione non abbia propriamente per oggetto che l'Idea, tuttavia essa si applica agl'individui, perchè l'Idea è l'es- senza comune degl' individui. Secondo gl'interpreti trascendentalisti vi ha per Pla- tone, non un mondo solo, immutabile sotto un aspetto e sotto un altro in continuo divenire, ma due mondi, di cui nell'uno domina un' assoluta immutabilità e nell'al- tro un divenire assoluto. In questa interpretazione Pla- tone ammetterebbe pcrt'< ttamente la tesi di Eraclito, li- mitandola al mondo reale— c'oè che noi chiamiamo co- si—, e non respingerebbe che un'applicazione universale di questa tesi per cui essa si estenderebbe anche al inondo trascendente delle Idee. Ma è incontestabile che nel Tee- tefo non è rigettata la tesi del divenire assoluto, inquanto essa si applicherebbe al inondo ideale, ma quella del di- venire assoluto nel'o stesso mondo sensibile: è questa che Platone combatte, perchè i partigiani della dottrina del divenire non avevano parhato di altro mondo che del sensibile, ed egli stesso, nell'esposiz'one che fa di «luesta dottrina (152 d-157 bì, non ha evidentemente in vista che il mondo sensibile. Quando poi comincia a di- - 113 scuterla, egli dichiara (179 d) chfi va ad esaminano, quest'essenza sempre in movimento di cui sopra ha par- lato : quesVessenzi sempre in movimento non può signi- ficare che il mondo sensibile concepito secondo il siste- ma di Eraclito e dei suoi partigiarji; e del resto nel trat- to di questa discussione che e stato citato, si vede chia- ramente che Platone non esamina quali siano le conse- guenze dell'ipotesi che tut^o Tessere, vale a dire tanto il mondo delle cose quando il mondo delle Ide'^, sia sot- toposto al un flusso continuo, ma quali siano le conse- guenze dell'ipote-i che le cose— cioè le cose particolari, sensibili— fluiscano e si muovano continuamente, tanto di un movimento di traslav.ioue quanto di un movimento dì alterazione perchè la tesi eraclitica include necessa- riamente l'uno e l'altro di questi due movimenti— .Ag- giungiamo che la limitazione ciie la dottrina dr-lle Ide apporta a quella del divenire continuo, non può salvare questa, se le Idee sono tvasiendentl, dafle conseguenze assurde che Platone ne fa derivare: la presenza delle Idee nel mondo sarebbe incompa^iibile con l' indetermi- natezza che la tesi di Prota:zora e qu^dla di Cratilo at- tribuiscono alle cos"; ma Te^istenz^i del li». Id»-e trascen- denti sarebbe perfettamente, conciliabihi con quella di un m(»ndo, in cui non vi fo se che un Unire continuo 8enza niont-ì di lisso e di deterniinal)i!e, come [)retende Cratilo, o delle sem[)lici apparenze senz'alcuna realtà, come pretende Protagora a parte naturalm^ìnte la con- traddizione intrinseca inerontt^ nel concetto di un mondo simile, considerato i)er se stesso — . 1/opposizionc del Tecteto alla dottrina del divenire è così evidente, e la contrad l zione che ne risulta ndla filosofìa platonica è cosi insolnbi'e nell'interpretazione tradizionali di questa fl osoila, che si potrebbe essere tentati ad ammettere che Platone non adottò la dottrina del divenire che in un'epoca posteriore a quella in cui scrisse il Teeteto. Ma la testimonianza d'Ar'stotile (il/e/. 1. I. VI. 1, 1. e ) ò troppo esplicitamente contraria a quest'ipotesi: e d'altronde noi vedianrìo Piatone, in uno stesso dialogo, mostrarci in un luogo un propugnatore di questa dottrina, e in un altro un avversario. Così nel Fedone a 78 e 80 b oppone alle Idee che sono sempre nello sfesso stato le cose che non sono mai nello stesso stato, e a 90 e esorta a guardarsi dall'opinione di quei sedicenti saggi che non ammettono che niente nò nelle cose (twv TipayiiaTcov) nò nelle r»»gioni sia costante, ma che tutto sia in un flusso e riflusso continuo come l'Euripo, e alcuna cosa non resti 7?er alcun tempo nello stes o stato; nel Ftìebo 4.] a parla con ironia evidente della bontà della dottrina che tutto si muove continua- mente in ogni senso (si tratta dell'applicazione di que- sta dottrina ai cangiamenti del nostro corpo, non della sua estensione a un mondo trascendente), e a 59 ab nrga che possa darsi una scienza assolutamente vera delle cose sensibili, perchè esse non sono, non furono, e non saranno mai nello stesso stato. Queste contraddi- zioni non hanno niente di stiano, perchè corrispondono, come abbiamo detto, ai due punti dì visti opposti, da cui le coie, nel sistnna platonico, possono considerarsi. Nel Cratilo, mostrando che una moltitudine di nomi implicano per la loro etimologia la dottrina del divenire continuo, Socrate dice: «Si, per il Cane, io credo df non aver male indovinata», osservando poco fa che gli antichissimi autori dei nomi, come la più parte dei sa- pienti dei nostri giorni, a forza di rivolgersi in ogni senso ricercando la natura del'e cose, sono stali presi da vertigine; perciò è avvenuto di parer loro che le cose stesse si volgono e si muovono assolutamente. E la cadi quest'apparenza essi non l'attribuiscono aUa maniera - lU in cui sono interiormente affetti, ma stimano che le cose stesse abbiano una tal natura che niente vi sia in esse di stabile e di fermo, ma fluiscano tutte e si muovano, e si agitino in ogni senso, e sempre divengano. Que- ste parole condannano rapplicaziono della dottrina del di- venire al mondo stesso dei nostri sensi, e non semplicemente la sua estensione a un mondo iperfisico : e ciò di cui si vede la conferma a 436-437 dove, per mostrare a Cratilo che la conformità dei nomi a questa dottrina non prova la sua ve- rità, Socrate gli fa vedere che molti nomi non vi si confor- mano, ma indicano invece la permanenza; perchè questi nomi indicano la permanenza (supponendo Tesattezza delle etimologie fantastiche del Cratilo) nelle cose stesse, non in un mondo trascendente. Nel luogo citato non vi ha niente di più che nel Teeteio : ma sulla fine del diaPlatone spiega chiaramente che,, se eg'i rigetta il dive- nire assoluto delle cose, è per la presenza, in esse, di un elemento immutabile, cioè dell'Idea. «Socii.: Gli au- tori dei nomi li hanno stabiliti secondo il sistema che tutto è in un movimento e in un flusso continuo —tale sembra essere stata la loro opinione— ma quest'opinione, se realmente essi l'hanno avnta, non è vera, ma sono caduti in un turbine, in cui sono stati presi da verti- gine e in cui trascinano e precipitano noi stess'. E^a- mina, o ammirabile Cratilo, ciò che io spesse volt^ sogno. Diremo noi che il bello stesso e il buono e cia- scuno degli esseri sono qualche cosa? (si sa che nel linguaggio platonico ciò vuol dire : esiste l'Idea del bello, del buono, e di ciascun'altra cosa?) o lo negheremo? Cratilo : Per me, o Socrate, io credo che sono (lualche cosa SocR.: Noi non cerchiamo se quak-hs viso o qual- che altro oggetto di qu sta sorta è bello, e tutto ciò sembra fluire; ma domandiamo : il bello stesso 0 i^^a) è sempre tale qual è?-CR.vr.: Necessariamente— SocR.: Sarebbe forse possibile di rettamente denominarlo, se sem- pre fugge, e di dire che esso è e che è ta'e ; o sa- rebbe necessario che, mentre noi parliamo, esso divenga subito un altro, e fugga, e non sia più tale? Crat. : Sarebbe necessario- Sorc: Come potrebbe essere qual- che cosa ciò che non è mai nello stesso stato ? se infatti vi ha un tempo in cui è neMo stesso stato, è chiaro che per quel tempo non vi ha in esso il minimo cangiamento; ma se è sempre nello stesso stato e sempre lo stesso, come potrebbe cangiare e muoversi, poiché non lascia mai la sua forma (ì^sa) ?-Crat.: Inniun modo-SocR.: Inoltre non potrebbe essere conosciuto da alcuno: poiché mentre la potenza conoscitiva tenterebbe di attingerlo, esso diverrebbe altro, in modo che sarebbe impossibile di sapere che e come sia, e perciò non potrebbe esservi alcuna conoscenza di ciò che non è in alcun modo deter- minato Crat. : È come tu dici— SocR.: Ma nemmeno si deve affermare, o Cratilo, che esiste la conoscenza, se tutte le erse sì mutano e niente pecmane. Se infatti questo stesso, la conoscenza, non si muta dal l'esser conoscenza, permarrà sempre la conoscenza, e sarà conoscenza : ma se 1' sldog stesso della conoscenza sì muta, e si cangia in un altro sl5o; di conoscenza, non sarà neppure conoscenza; se perpetuamente si muta, perpetuamente non sarà conoscenza. E secondo questo ragionamento non vi sarà né È evidente che 1' sl5o^ della conoscenza di cui qui si tratta è la f^pecie o la forma stessa della conoscenza reale, di questo mondo, non un suo archetipo trascendente; ma non lo è meno che quest' sXÒO^ è l'Idea, il concetto realizzato, perchè tutto questo luogo ha per iscopo di mostrare che il divenire continuo delle cose non attinge le Idee.— il conoscente (yvcooójisvov) né il conoscibile (rvwoer.oóixsvov)- che non vi sarà, neiripotr sì del divcDire assoluto, il co- noscente, lo ha provato nel tratto ch>, immediatamente precede; che non vi sarà il conoscibile, lo ha provato sopra, mostrando che, in quest'ipotesi, niente potrebbe essere conosciuto). Ma se sempre é il conoscente (t^- Yvwaxov) 0 il couoscibile (Y'-Yv^avcóiisvov) e il bello e il buono e ciascuno degli esseri, le cose che ora diciamo non sembrano in niun modo sim-li al flusso e al movimento. Che questo sia il vero o quello che vogliono i partigiani di Eraclito e molti altri, non è forse tacile di decidere; ma non e di un uomo saggio sottomettere se stesso e la sua aoima all'impero delle parole, e ti- dando in esse e nei loro autori, affermare, come uno che sa, e avere di se stesso e delle co^e la cattiva opi- nione, che niente vi ha di slabile, ma tutto cangia come raroùlla, e credere che le cose (xà r.pdYiiaxa) abbiano la stessa disposizione che gli uomini malati di flussione, cioè che tutto (zavxa y/A\^oLz^) ^"^ ^« " scorrimento e in tiu«so continuo » (Lo parole TipdY^iaxa e XP'^iV-^'^^ e sovratutto le parole sottolineate cìl se sfesso provano che // brJìo, iì buono e ciascuno dcf.U esseri «ono ovidentemente il Mio .lesso, il buo.o e ciascuna rlenli esseri, di cai .opra ha do- mandato se deve dirsi o no che sono qualche co.a. vale a dire e Wee Dunque il conoscente e il conoscibile, che appartengono alla .te..a s.rie, sono puro della Idee. Ma a^xe^io conosc.nW ^ conosabUe non possono essere qualche cosa di diverso dal conoscnte e co n ose. b le di cuiè quistione nella proposizione immediatamente precedente. Ora in questa proposizione si tratta certamonte del conoscente e eZZZTÌilJio..on^o reale, non di qu3lli di un mondo trasclndeute. Notiamo che questo conoscente è la stessa cosa ce la conoscenza e l'sldo; della conoscenza di cui sopra: si .a inta ti che Platone d.'i allo Idee ora il nome astratto e ora il nome concreto. la dottrina del divenire contìnuo, che Platone respinge, è quella del divenire continuo delle cose sensibih*). L'immanenza dell'essere, cioè delle Idee, nel dive- nire è confermata dal Sofista 248 e-249 d. Ma prima dì mettere questo luogo sotto gli occhi del lettore, occor- rono dello spiegazioni sulla dottrina dell' immutabilità dell' Idea, che, quantunque non abb'aiio il legame più intimo con rargomeiito del presente numero, pure non saranno una digressione inutile, perchè il nostro Fcopo non è solo di provare l'immanenza delle Idee platoni- che, ma anche di elucidare, per quanto ci è possibile, la loro nozione. L'Idea ò il concetto realizzato, e riguardato come uno nei molti. Così le determinazioni dell'Idea non sono che le deteniiinazioni stesse delle cose subordinate al- l'Idea, cioè quelle che sono comuni a tutti gì' indi- vidui della specie. Bisogna dunque, rappresentarsi l'I- dea come un individuo astratto, vale a dire spogliato di quegli attributi cLe non sono comuni a tutta la spe- cie : quest'individuo astratto à presente in tutti gì' indi- vidui concreti, uno e lo stesso in tutt'. Sarebbe per con- seguenza in contradòizione con la nozione stessa del- l'Idea platonica il supporre che degli attributi, che ap- partengono a tutti gl'individui della specie, non appar- tengano all'Idea, ovvero che eappaitengano all'Idea degli attributi che non appartengono agl'individui della specie. Dra ò un attributo comune a tutti gl'individui p. e. della specie umana di vivere, di nascere, di morire, di svilupparsi, di pensare, di camminare, ecc. Bisogna dunque ammettere nell'uomo in se, neiridea, questi at- tributi e tutti gli altri simili denotanti un cangiamento, e quindi una successione. Senza dubbio il cangiamento e la successione che questi attributi denotano nell'uomo in se, devono distinguersi da (quelli che essi denotano 1-4' negli uomini individuali : in questi si tratta di un can- giamento e di una successione che occupano una por- zione determinata di (juesta Ferie che noi chiamiamo il tempo; invece il cangiamento e la sucessione che esi- stono neir uomo in se, non possono occupare una por- zione determinata di questa serie, perche T esistere in un tempo o in un altro tempo determinato è un attri- buto che compete a questo o a quell'altro individuo de- termioato, e non all'uomo coDsiderato in astratto, cioè nel concetto comune (1). Una successione che non ha luogo in alcun tempo detcrminato non ò né ])iii né meno inconcepibile di una grandezza che non ha alcuna quan- tità determinata o di un animale che non è di alcuna specie determinata : questa concezione non implica altre L'Idea, come Platone dice nel Tihico 37 e-38 b, è fuori del tempo, La Biia eternità non significa che ossa esiste per tutto il tempo, perchè, se cosUosse, l'esistenza per tutto il tempo sarebbe un attributo connina a tutti grindividui. L'esistenza per tutto il tempo compete alla specie come collottività dv^gl'individui, ma l'Idea non è la collettività degl'individui, ma il loro concetto comune, obl)iet- tivato. All'Idea in se stessa non bi«-:ogna quindi attribuire nò l'esi- stenza in un temi)o determinato, perchè questa non compete che a un individuo determinato; né l'esistenza per tutto il tempo, per- chè questa non compete che alla collettività degl'individui. Per concepire l'Idea bisogna dunque l'are astrazione del tempo— consi- derato come una porzione o come la totalità della serio infinita dei momenti succes«.ivi— come bisogna tare astrazione di tutte le alt ro determinazioni che non competono al concetto comune. Cosi per l'eternità dell'Idea bisogna intendere semplicemente ch'essa r pre- sente, una e la stessa, in tutti gl'indi vi«lui, che prosi n(dla loro col- lettività occupano tutto il tempo. Ma occupare tutto il tempo è una proprietà, non dell'Idea in sé stessa, ma degl'individui in cui essa è preaentr: in altri termini non dell'essere vero, ma delle sue manifestazioni fenomenali. impossibihtà logiche che quelle inerenti in generale alla ralizzazione degli astratti. É vero però che essa ha questo di speciale, di presentare una insuperabile difficoltà verbale. Si dirà che l'uomo in sé nasce, muore, cresce, cammina, ecc. ? Queste espressioni sono impro- prie, perche esse suggeriscono necessariamente l'idea che questi avvenimenti hanno luogo nel tempo. Si dirà invece che non nasce, non muore, non cresce, non cam- mina, ecc. ? L'improprietà non sarà minore, perchè ij significato di queste pnrole esc'udc che questi attributi : nasccic, n.orire, crescere, camminare, ecc. siano rappre- sentati nel mondo ideal^^. Siamo in una regione inacces- sibile all'immaginazione, e per conseguenza anche al linguaggio, poiché un pensiero che può essere espresso nettamente suppone una consistenza logica, che cessa nece«siriamant<ì là dove finisce il dominio dcirintuizionsensibile. Quando Platone dice che l'Idea ò sempre la stessa (àsi ;^ %ùz7i) (1 ), sempre uniforme 0iovo£t5sg àsc ov— il bello in sé e ciascun essere in sé) (2), sempre allo stesso modo (ist (oaa'jKoc;) (.*]) e nello stesso stato (àsl xaxà TaOxa), che é immobile (àst xaxà xaOià sy^ov àxivr^xo;), che non vi ha in rs a cangìamrnto o al'er,;zione alcuna (6), (1) FU. 15 b, PorHif'n, 135 h, Polit, 2m) d ro)iV,20H a-b, rVrt/. 439 e, ecc. (2) Conv, 211 b, F,'(ìo,ìe 78 d. f3) /••//. 59 a-c, Pi,/it. 260 d, CralAm e, Ti,u, 2'^ a, r.'done 2S c-d, 79 d, e, SO b, /»V;>. 479 a, e, ecc. Fi', 59 a-c, 58 a, ]»o/U. , Fedone 78 c-d, 79 a, 80 b, Tim. 28 a, 29 a, 35 a, 37 b, 52 a, Fep, 479 a, e, 500 e, ecc. Tini, 38 a. Fedone 78 d. — 117 - che non nasce né perisce (1), non cresce ne decresce (2), non diviene più vecchia nò più giovane, ecc. ; T in- tenzione dì queste e simili espressiorii ò sia di escludere dall'Idea i cangiamenti che avvengono nel tempo, sia di affermare che l'Idea si ritrova, una e sempre U stessa, senza cangiamento o differenza alcuna, in tutti gì' iadi- vidui successivi che riempiono il tempo. Ma questa ma- niera di esprimersi, d'altronde inevitabile, si presta fa- cilmente ad un'interpretazione inesatta dell'Idea plato- nica, come una forma assolutamente immobile e priva di qualsiasi attività; anzi, se dovesse prendersi rigoro- samente alla lettera, la giustificherebbe. Per dare forza a questa interpretazione, agli equivoci occasionati dalle espressioni platoniche, si aggiungerebbero le fs'genze della nostra facoltà rappresentativa, poiché è evidente che l'immaginazione può rappresentarsi più facilmente una sostanza immobile e inattiva che esiste sempre la stessa per tutta la durata del tempo, anziché un' entità assolutn mente astratta, posta fuori dv\ tempo, e in cui vi ha del cangiamento e della siu*c< s>ioDe, ma un can- giamento e una successione che non avvengono nel tempo. Questa interpretazione delle Idee platoniche ha avuto effettivamente luogo. È cosi infatti che se le rappresenta Aristotile : in un gran numero di luoghi egli cittribuisce ad esse l'immobil'tà, evidentemente in un senso as- ci) FiL 15 b, Tim. 52 a, Couv, 211 a, Fcdo.ìt: 79 d, 80 b, 7vV^>. 485 b, 527 b, 585 e, ecc. (2) ConrUu 21J a . . Tim, 38 a. Mt't. l. I. VI. 3, l. I. VII. 3, 1. 1. IX. 23, l. III. IL 22, l. III. IV. 4, 1. VI. 1. 15, 1. XI. 11.6,1. Xlf. 1.3, l. XIII. I. 1-2, 1. XIII. II. 5. 7, Top. ì. 11. VII. 3,1. VI. X. 2, Phys. l. II. II. 3-4, PJtli, Kitd. 1. I. Vili. 19, ecc. \ soluto che esclude pure questo mutamento estratempo- raneo di cui sopra abbiamo parlato, e le chiama anche lo sostanze immobili (1); ed ò notevole— è un'osservazione che potrà giovarci in seguito— che esclude esplicitamente da esse ogni attributo esprìmente una facoltà di agire o di patire (TiotyjTtxòv r\ TiaOyjxixóv) (2). Sembra anche che questo fosse, presso i contemporanei, il concetto che vo'garmente si aveva delle Idee : ecco p. e. un argo- mento, che Alessandro d Afrodisia dice impiegato dai so- ft t', per concludere il terzo uomo (il terzo uomo era una obbiez one che i contemporanei facevano al sistema delle Idee, e che consisteva a dedurre dai principii stessi di Platone la necess'tà di ammettere una terza specie di entità, distinte dalle Idee e dagl' individui) : « Quando diciamo l'uomo cammina, non lo diciamo dell'Idea, che è immobile, né di alcuno dei singolari, che sono incono- scibili; lo diciamo dunque di un terzo uomo. Que- sta interpretazione delle Idee ò evidentemente incompa- tibile con le esigenze più indispensabili del sistema: il mondo ideale, co^i concepii o, rappresenterebbe una na- tura, per dir così, morta, non la natura reale; l'uomo in • 8Ò, senza movimento, s^nza attivila, senza sviluppo, sa- rebbe, non la realizzazione del concetto dell' uomo, ma un'immagine del cadavere umano. Nel Sofista 248 249 Platone respinge questa nozione delle Idee che ne fa delle sostanze immobili e inattive. Lo straniero elea*e (che è il personaggio che in que- sto dialogo rappresenta 1 concetti dell'autore), dopo aver distinto du^ classi di filosofi, di cui gli uni riducono Mi'l. ì. XIV. I. 1, 1. XIV. IV. 4, ecc. Top. l. VI. X. 2. (3) Ab3X. Ai)hr. in pJtit, ^j>*. l. I, tutto il reale al tangibile e alla iDciteria, mentre gli al- tri « sostengono che il vero essere Fono certe specie in- telligibili e incorporali, e i corpi di quelli e la loro pre- tesa realtà riducono in polvere, chiamandola, non essrre, ma una certa genesi fluente »; propone questa defini- zione dell'essere, che deve convenire tanto al corporeo, quanto allMncorporoo : ciò che ha una facolià qualsiasi di agire o di patire. I materialisti non avranno difficoltà ad accettare questa definizione; ma come raccoglieranno gli amici delle Specie ? Essi ci obbietteranno, dice lo stra- niero eleate, che «la facoltà di patire e di agire (xoO:iot- ax£'-v xat Tioisiv) compete alla genesi, ma all' essere non compete né l'una nò l'altra. » L'eleate combatte questo concetto, dimostrando che anche le Specie ag'scono e patiscono, e che sarebbe un'assurdità di credere ch'esse siano immobili, o, ciò che vale lo stesso, di non ammettere un'Idea del movimento e delle cose mosse in quanto mosse. Chi sono gli amici delle Specie ? Alcuni interpreti mo- derni credono che si tratti di qualcuna delle scuole filo- sofiche contemporanfe o anteriori a Platone ; chi vede in essi gli Elcati, chi i Pitagorici, chi i Megarici, chi qualche altra scuola di socratici distinta da quelle dì cui conosciamo le dottrine. Di tutte queste supposizioni è r ultima che sarebbe la più logica; perchè la teoria delle Idee, non solo non si ha alcuna ragione di attri- buirla ad alcuna di quelle scuole di cui si conoscono le dottrine, ma sarebbe anzi assolutamente incompatibile con queste dottrine che se ne conoscono Ma anche que- sta supposizione cade innanzi alla testimonianza d'Ari- stotile, che dà Platone come l'introduttore del sistema del'c Idee (1); obbiezione insupcrabi'c che è comune a (I) V. Met 1. I VI. 1-5, 1. XIII. IV, Eth. Nicom. l. I. VI, eco. tutte, e alla quale bisogna aggiungerne un' altra, cioè che la teoria delle Idee, vale a dire la realizzazione dei concetti, suppone la dialettica, vale a dire un metodo che produce la scienza a priori, deducendo questi con- cetti realizzati gli uni dagli altri, e non possiamo, attri- buire un simile metodo a nessuna delle scuole filosofiche anteriori o contemporanee a Platone. La dottrina delle Idee essendo csclusivaniontc platonica, gli amici delle Spece non possono essere altri, per conseguenza, che Platone e i suoi. Noi abbiamo visto che correva un'ine- satta interpretazione del sistema delle Idee, secondo cui queste si concepivano come delle sostanze immobili e prive di qual^iasi facoltà di agire e di patire. Il Sofista, attribuendo questa concezione agli amici delle Specie, ci prova che queòt'interpretazione trovava anche credito nella scuola platonica. Tuttavia noi non dobbiamo am- mettere che Platone, combattendo nel Sofista l'immobi- lità delle Idee e la mancanza in (sse della facoltà di agire e di patire, intenda solamente respingere quesfalsa interpretazione della sua dottrina : se cosi fosse, non si comprenderebbe come egli polesine attribuire que- sta falsa concezione delle Idee agli amici delle Specie in generale. Senza dubbio, il su(» intendimento finale é di rigettare la falsa interpretazione che veniva data ai suoi concetti; ma subordinatamente a questo, ne ha anche un altro, ciiè di condannare quelle espiessioni di que- sti concetti, che noi troviamo nei suoi scritti o di cui aveva fatto uso nel suo insegnamento orale, le quali avevano dato luogo a questa falsa interpretazione, e an- che, come abbiamo detto, se dovessero prendersi in un senso sirettameut(5 letterale, la giustificherebbero. Le proposizioni che egli condanna (che le Idee sono immo- bili e sempre nello stesso stato, che non hanno la facoldi agire e di patire, che l'essere vero non vive, non pensa, non si muove, ecc.) possono prendersi in due sensi : come delle espressioni improprie del concetto che le Idee non sono soggette ai cangiamenti mi tempo, e in questo senso appartengono o potrebbero apparcenero a Platone stesso; e come Talfermaziono che le Idee non sono soggette assolutamente ad alcun cangiamento (ci<»ò né temporaneo nò estratemporanco), e in qm sto senso non potrebbero appartenere che ad alcuni d^'gli amici delle Idee, perche certamente Platone stesso non ha mai potuto pensare cosi. Platone coudanna queste proposizio- ni, tanto se si considerino come semplici improprieià di lin- guaggio, quanto se si con=JÌdcrÌQO come afTermazioni di un concetto erroneo; ed è perciò che può attribuire le propo- sizioni condannate agli amici delle Idee in genera'e (1). Premesso ciò, veniamo ora al luogo d^l Sofista che ci ha portati a questa dlsgressione. Esso fa parte della discussione contro le Idee immobili, ed è il seguente : « Straniero elbate : Ma che ? per Giove ! crederemo veramente che il movimento, la vita, l'anima, V intelli- (1) Tanto è vero che Platone condanna, nei parlif;iani deU' i- nattivilà o impassibilità delle Idee, le sue proprie osprassioni che hanno dato luogo a una falsa interpretazione della sua dottrina* che, per indicare gli stessi filosofi, egli si serve pure delle parole: « quelli che dicono che gli esseri quanto alle Idee sono sempre nello stesso stato e allo stesso modo Cxaià TaOià tbaa'JKO^) », riguardando indubbiamente queste determinazioni come equivalenti a quella dell' immobilità (252 a). Le espressioni essere sempre xaxGC xa'jxa e tboa'Ji03c;, applicate alle Idee, s'incontrano ad ogni momento nei dialoghi platonici— Questa contraddizione tra il So- fista che afferma il movimento e l'azione delle Idee, e gli altri dialoghi che li negano contraddizione, badiamo, meramente ver- sele—spiega l'indicazione di Diogeno Laerzio, che Platone applica alle Idee dei termini contrari, chiamandole non mohUi o )ion in quiete (Diog, Laort. III. 64). g^enza smio assenti da quello che realmente è (TcavxsXwG 6v), e che esso ne vive né pensa, ma se ne sta immobile, senza possedere l'au rus^a e santa iotelligcnza?— TeetetSare])bc, o ospite, concedere una proposizione troppo strana-STUAN. : Ma diremo che prssede rintelligenza, e non la vira ?-Teet.: E cerne dirlo !— Stran. : Ma ac- cordandogli runa e l'altra, negheremo ch'egli Jc abbia neiranima?-TEET : E in (lual altra pearte potrebbe a- verle?-STRAN.: Ma si può ammettere che a»>bia l'intel- ligenza, la vita e l'anima, ma che essendo animato sia noiidiiupno immobile ?-Tebn.: Tutto ciò mi sembra assur- do (I)-Stran. : Bisogna dunque ammett-re che il moFso e il movimento sono—TcET.: K come no?— Stran.: Da ciò risulta, o Treteto, che se gli esseri fossero immobili, in nessuno, su nessuno oggetto e in nessun luogo po- trebbe esservi intelligenza Tbet.: Evidentemente (V Questo non vuol dire, come intendono alcuni, che si dove attribuire l'intelligenza, la vita, l'anima e il movimento alle Idee in generale— perchè l'Idea d'una cosa non può avere che gli at- tributi stessi che faniio parte del concetto di questa cosa— ma solo a quelle di cui può essere quistione se l'abbiano o no, vale a dire alle Ideo dagli esseri intelligenti, animati, viventi o mobili— Sin qui Platone parla evidentemente del movimanto, della vita, dell'a- nima e dell'intelligenza nelle Idee, vale a dire, idoali. L'intelligenza e, per conseguenza, anche il movimento, di oui si parla qui, sono l'intelligenza eil movimento reali, cioè nelle cose, e non più come sopra, l'intelligenza e il movimento ideali, cioè nell» Idee : questo diverrà più chiaro dal seguito. Intanto ciò che risulta dal ragionamento precedente ò, non che l'intelligenza reale «juppone il movimanto reale, ma che l'intelligenza ideale -cappone il movimento ideale. Per consegusnza Platone, conside- rando la prima di qu wt e due pL-oposizioni coma il risultalo del ragionamento i>rec3dv):ite, la riguarda coma equivalente alla se- conda; ciò che egli non poti-ebbj fare, se il movimento e l'intel- ligenza ideali tessero par lui separati dall'intelligenza o dal mo- vimento reali, e non invece identici con essi. Stran.: Ma se ammettessimo che tutto ò in movimento e in agitazione, anche coi qae^ta proposizione leverem- mo l'intelligeaza dagli esperi— Test. : Come ?-Stra.n. : Pare a te che senza il riposo possa mai esistere ciò che è nello stesso stato, della stessa maniera e nello stesso rapporto ? Teet. : Giammai 3tran. : E senza di ciò credi tu che vi sia o vi sia stata m^i in «pialche luogo intelligenza V Teet. : No Stran. . Ma si deve com- battere con tutte le ragioni quello che, distruggendo la scienza, il pensiero e rintelligenza, affermi checchesia su qualche cosa Teet. : ti combatterlo con forza Stran. : E dunque necessario che il filosofo e quegli che tiene in pregio queste cose né approvi quelli che dicono il tutto immobile, sia come uno (gli Eleati) sia come molte Specie, nò dia ascolto a qu'*lli che mettono l'essere in un movimento universale (gli Eraclitici), ma voglia, imitando i fanciulli nei loro desiderii, che l'es- sere (il mondo ideale) e il tutto comprendano tanto le co«e immobili quanto quelle che sono in movimento » (248 e-249 d). Questo luogo non esclude solamente 1" immobilità as- soluta delle idee, ma, come il luogo citato del Teefefo e quelli degli altri dialoghi che hanno la stessa portata, esclude anche il divenire assoluto delle cose sensibili. Di più, esso esprime nettamente il concetto dell'imma- nenza delle Idee nel divenire. Noi abbiamo g à notato che il movimento e l'intelligenza ideali vengono riguar- dati come equivalenti al movimento e all' intelligenza reali. Notiamo ancora l'identificazione tra il mondo idea'e e il tutto contenuta nelle parole sugli amici delle Idee : « quelli che dicono il tutto, come molto Specie, immo- bile»; e aggiungiamo infine che la stessa identificazione ha luogo a 252 a, dove è detto di essi : « quelli che di- cono che gli esseri, secondo le Idee (xax'sidrj) sono sempre nello stesso stato e ('ella stessa miniera ». Platone non potrebbe esprimersi cosi, se per gli amici delle Spe- cie~vale a dire per lui e pei suoi -il mondo immu abile delle Idee e quel'o continuamente cangiante delle cose fossero due mondi separati, anziché, come abbiamo detto, due aspe ti d'un solo e sesso mondo, che nel suo aspetto vero, cioè come un complesso d'Idee, è immutabile— con le restrizioni, por Plafone, che sopra abbiamo fatte-e nel suo aspetto apparente, ciré come un complesso d'in- dividui, è sottoposto a un cangiamento continuo. II. Noi abbirmo percorso le prove più importanti della immanenza drlle Idee platoniche : ma la nostra dimostra- zione sarebbe incompleta, se non esaminassimo pure le ragioni dell' interpretazione contraria. Queste possono rì- dur-ii alle seguenti : I. Il motivo principale dell' int rpre'azìoiie trascen- dentalista è nella natura stessa del sistema delle Idre. Quando Platone chiama l'Idea xó ov, oOaia, aOxò xaO-'auxó, Xctìpoaxóv, ecc.; in una paro'a quando mo^ra chiaramente ch'egli fa delle Idee altrettante ipostasi, cioè che le ri- guarda come sostanze, di cui ve ne ha una, e una sola, per tutti gli oggetti che si raccolgono sotto un nom'*. ge- nerale; l'interprete trascendentalista ne conclude imme- diatam^.nte che le Idee per Platone srno separate dalle cos-^». Que.ta conclusione è fondata sopra un principio perfettame ite g'usto, c^oè che uaa sostanza non può ess'ìre al toni pò stessi iv\ attributo, e non può, se essa è unca, inerire simultaneamente in una moltitudine di Fo .sgotti. Ma la dottrina di Platone consisre precisamen- te in qtiesto, che gli attributi generali delle cose sono elevati al grado di sostanze, senza cessare perciò d'ine- 7^f^^- rlre Delle cose come loro attributi, e che ciascuna d/ queste sostanze è riguardata come Tuno nei molti, cioè come presente al tempo stesso, una numericamente eia stessa, in tutti i soggetti a cui V attiibuto è comune- Senza dubbio questa dottrina è inconcepibile e contrada dittoria : de\U ipostasi come le Idee platonich % noi lo abbiamo più volte confessato, non potrebbero c•oncepi^^i, per quanto la loro concezione è possibile, che come se- parate dalle erse. Altre inconcepibilità noi trov'amo noi sistema delTimmanenza, se dalla formula Vuno nei molti passiamo a'ia formula runo émolii: è un non senso di affermare, come f-i Platone e come è una cons»»gucnza necessaria della realizzazione degli astratti, che il più astratto e il più concreto, il Genere e le Specie, sono al temjo stesso diflFerenti ed identici; nò rmconcepibilità è evitata perchè l'uno e i molti si riguardano com»^ duo stati sufcf*ssivi n Ho sviluppo deiressen^ (anteriorità e e posteriorità); perciò la t-uccessìone dovrebbe essere cronologica e non logica soltanto. L'interpretnz'one tra- scendent «lista ha dunque il vantaggio, bisogna ricono- scerlo, di evitare una gran parte delle inco-copib'lità inerenti al sistema del'e Idee: ciò spiega la prevalenza di quost*ÌQterpretazioae, se si riflette alle d ftì -oltà di un esame accurato dei testi e di una su'fi^iento intelli- genza dei mo;ivi del sistema. Ma vediamo ora gì' inconvenienti, per dir cosi, intrin- seci della trascendenza delle Idee. Prima di tutt^, quan- tunque elevare le astrazioni al grado di reahà esintonti per se stesse sia in tutti i casi un' impos>ib lità man4esta, è tuttavia una conseguenza necessaria del e leggi della credenza che di queste due ipotesi, l'una che ammette che queste astrazioni siano parti integranti delle cose concrete, e l'altra che ne fa delle ipostasi solitarie col- locate al di fuori delle cose concrete, è la seconda che ci sembra più strana e p'ù evidentemente impossibile. La rag'ono è ovvia : è che ossa è in una opposizione più aperta con le nostre abitudini mentali : la prima ipotesi si conforma a queste abitudini in due punti importanti, cioè non ammettendo altri esperi che gli esseri concreti, quantunque questi siano da os^a decomposti in elementi astratt', e facendo dell'astratto, non unVntiià isolata, ma un che d' inesist mte nel concreto stesso. Ma V inconve- niente-più grava dell' interpretazione trascendentalista è che r ipotesi delle Idee diviene in qu'^st' interpretazione senza motivo e senza scopo. Lo scopo di un' ipot »si qua- lunque, legittima o illegittima, è di spiegare i fenomeni : ma l'ipofisi delle Idee trascendenti non fa niente per la spiegazione^ dei fenomeni, perchè non vi ha tra le Idee e le cose ahuna relaz'oae immaginabile di causa e di effetto. La capacità delle l'iee a produrre le cose o i loro fenomeni non è uè una verità o pretesi verità evidente per se stossa, come deve ossero pertanto una connessione causale propria a fornire una spiegaz'one metafisica— poiché nessuno pretenderà che vi ha tra l'esistenza delle Id^e e resistenza delle cose una di quelle connessioni visibili a priori, in cui i metafisici fanno consistere la efficenza causale—; e non è nemnneno un'induzione del- l'esperienza, perchè l'esperienza non ci mostra alcun caso, in cui doi raode'li, quaU gl'interpreti trascendentalisti si rappresentano le Idee, producono le loro cjpie. Non vi ha intanto alcun'ipotesi possibile— vale a dire «Icun'ipo- tesi che lo spiriti umano possa ammettere, vera o falsa, probabile o improbablH— che non si conformi a questa condiziono, cioè la capacità conosciuta della causa sup- posta a produrre l'effetto, sia che questa capacità si am' metta come una verità a priori, sia che si ammetta come un risultato della esperienza. Le Idee trascendenti non hanno dunque alcuu'attitudine a spiegare le cose : è questo del resto un fat^o evidente di cui convengono ^li stessi interpreti trascendentalisti. (1). Tuttavia Tinterpre- te trasceud-ntali ta potrà diro che questa inettitudine alla spiegazione d<^i fenomeni è anche comune «Ile Idee immanenti. Senza dubbio, la presenza dello Ideo nelle cose sp'ega, come abbiamo altra volta osservata, porr he le cose possiedonì gli attributi corrispondenti nlle Lioe, e lo spiega nel senso metafisico della parola spi»'gaz?one, cioè in quanto vi ha tra la presenza d^'Il 'Idei e°Ia pos- sessione dell'attributo una connessione necessaria e vi- sibile a priori. Ma qu sta è, come abbiamo osservato nel cap. VII, una di quelle spiegazioni Apparenti o illu- sorie che consistono a ripetere in altri termini il fatto stesso che sì tratta di spiegare; e quan ramhe non fo se tale, siccome la possessione dell'attributo è un fntto in- telligibile e la presenza dell'Idea un fatto as-olut/im-nte IninteMigibile, cosi non vi avrebbe alcun profitto a intro- durre l'ipoteni delle Idee, porche non si farebbe che spiegare il chiaro per l'oscuro. Sembra dunque, a que- sto punto di vista, vale a dire coDs^derando le Idee co- me cause e le cose come effetti, che le Idee immanciui Questa evidente inefficacia delle Idee neU' interpretazione trascendentalista, qunl è ammessa dalla più parte dai critici mo- derni, vale a dire quella ohe fa delle Idee altrettante sostanze se. parate, è il fondamento precipuo dell' interpretazione teistica, cioè di quell'altra forma dell'interpretazione trascendentalista che vede nelle Idee i pensieri dell' intelligenza creatrice. Quest'interpretazione dà almeno al sistema delle Idee un motivo, e un motivo assai facile a comprendere: se non che essa è interamente arbitraria. L'inter- pretazione che fa dalle Ide3 delle sostanze separate da Dio e dalle cose è anch' essa in contraddizione coi testi, ma non lo è d'una maniera cosi evidente, oltre che può appoggiarsi, almeno sino ad un certo punto, suU' autorità d' Aristotile. non siano pù che le Idee trascendenti capaci di fornire una spiegazione della natura: ma per comprendere la vera causalità delb Idee e come esse diano una spiega- zione della natura, noi dobbiamo metterci a un altro punto di vi.ta. e da questo vedremo che lo scopo del sistema delle Idee suppone come condizione necessaria la loro immanenza. Il sistema delle Idee è un realismo dialettico, vale a dire esso ammette, come un complemento necessario della realizzazione dei concetti, un metodo per iscoprirc a priori questi co icetti realizziti, deducendoli proores- sivamente gli uni d«gli altri, allo scopo di identifìcrre il rapporto logico Ira il prìiicip'o e la conseguenza in qusta deduzione al rapporto ontologico tra la causa e l%ffi4^o. Piat-ne ha dunque realizzato i concetti, affla- che rincatenameuto logico, ch'egli stabili.>ce fra di essi, possa av. re l'aria di un incatenamcnto caus»le. Infatti se il principio e la conseguenza fossero delle semplici nozioni e noi delle nozioni realizzate, il principio non potrebbe considerarsi come la causa e la consegupnza come l'efifetto, la causa e refifetto essendo delle cose o dei fa^ti reali e realmente distinti, e non d»^lle semplici astrazioni montali. Ma il principio e la conseguenza essendo delie ( iitità reali, avviene che la loro sequenza logica somiglia a una sequenza causale, poiché V esi- stenza dell'entità principio trascina necessariamente la esiv,tenza dell'entità conseguenza, questa esìste perchè esisto quella. I) principio e la conseguenza essendo, non delle semplici proposizioni general?, ma le verità obbiet- tive corrisponienti a qu ste proposizioni, ne risulta che il pr.ncipi^) non é sempliceote una premessa per dimo- strare la cons'^guenza, ma é la condizione reale dalla cui esistenza dip^^nde resistenza della conseguenza : in una parola il principio non è semplicemente il princi- s '^l 'il' iptum cognoscendi, ma é anche il principiutn essendu Qaest'lncateaamonto causale tra le nozioni realizzate è una causazione efficiente, perchè il h»gam 5 tra la causa e Tefifetto (cioè tra il principio e la conseguenza) è ne cessario e visibile a priori. Cosi lo scopo dell'ipotesi delle Idee é d'introdurre nella natura una causalità, che sia, non un semplice rapporto di sequenza invariabile, ma una causalità efficiente, cioè tale che tra la causa e l 'ef- fetto esista un legame intrinsecamente evidente e ne- cessario. Ecco perciò come lo scopo dell'ipotesi delle Idee sap- pone necessariamente la loro immanenza. Se le Idee sono gli elementi costitutivi delle cose, il loro incatenamento logico sarà lo sviluppo reale delle cose, il modo in cui le cose si producono; e la dialettica, cioè la deduzione delle Idee, sarà la spiegazione della natura. Ma se le Idee sono fuori delle cose, la filiazione delle Idee non sarà più la produzione, l'incatenamento causale, delle cose stesse; e la dialettica non sarà più una spiegazione della natura, poiché essa avrà per oggetto, non il mondo reale, ma un altro mondo, che non ha sul mondo reale alcun'influenza immaginabile. Aggiungiamo ch^, nella ipotesi della trascendenza, la stessa filiazione logica delle Idee sarebbe impossibile, perchè questa suppone l'identità (e non semplicem-^nte la differenzi) t a l'Idea da cui altre Idee si deducono, e queste altre Idee che se ne deducono. In effetto, le conseguenze sono le con- seguenze del principio, perchè sono contenuto implicita- mente nel principio, vale a dire perchè il principio è le conseguenze stesse allo stato implicito. Senza quest'iden- tità tra il principio e le conseguenze (cioè tra le verità obbiettive che corrispondono ale proposizioni che si chia- mano, al punto di vista ordinario, principio e conse- guenze) non vi sarebbe dedazione possibile. Nella dia- letttfca platonica il principio è l' Idea generica, e le conseguenze sono le Idee specifiche: cosi questa dialet- tica suppone che tra Tldea generica e le Idee specifiche vi sia identità, e non semplicemente differenza; in altri termini suppone che Vuno sia molti e t molti siano uno. Ora nell'ipotesi dell'immanenza, in cui le Idee generiche e le Idee specifiche sono i generi stess' e le specie delle cose (quantunque considerati in a tratto, l'Idea generè necessariamente identica con le Idee specifiche (1). Ma nell'ipotesi drl'a trascendenza, in cui le Idee sono se- parate da le cose e le une da'le altre, t-a l'Idea generica e le Idee specifiche non vi ha più identità, ma sempli- cemente differenza; l'Ilea generica non è più le Idee specifiche allo stato implicito, e le Id< e specifiche non sono più l'Idea generica allo stato esplicito'^ e per con- seguenza non vi ha più tra le Idee rapporto di filiazione, perde la filiazione delle Idee è precisamente qu sta e- splicaz'Oiie progr«'ssiv^a delTimplicito primit'vo. II. Tra i molivi dell' interpr* tazione trascendentali ta, dopo la sostanzialità delle Idee e le inconcrp bilità che ne r sultano nel sistema dclTimmanerza, dobb'amo ass»»- gnare il secondo posto a un malinteso a cui si prestano facilmente mrlte proposizioni di Platon'», in cui egli non fa in naltà che distinguere le Idee dalle cose Quasi tutti i luoghi degli scritti platonica*, in cui si pretendo ved'»ie una prova diretta della soparazone delle Idee dalle cos'% appartengono a que ta casse : là dove Pla- tone non parU che di disfinzloììe, l'iiiterpicte trascen- dentalista int( nde : separazione. In alcuni di qresti luoghi Piatire distingue le L'ee N (1) V. n. V. 4.0 delle cose stesse, cioè dalle sostanze, in altri dai loro attributi. Il primo caso non prrsen'^a alcuna difficoltà : le Idee essendo delle sostanze, è naturale che Platone parli delle Idee e delle cose come di sostanze diÉ-tinte— distinte, badiamo, non sejDara^e— .Quando Platone distin- gue questo mondo e il Vivente in sé di cui esso è Tim- magine (1); questi belli e il Bello in se stesso (2) ; que- sti cerchi e questa sfera umana e il Cerchio e la Sfera stessa divina (3); quando rppone IVggetto della dialet- tica, che si riferisce alle cose che sono semp e le stesse, alFoggetto delle altre arti che si riferiscono a questo mondo e a queste cose che continuamente divengono (4); quando dice che vi hanno tre cose, Tessere (Tldea) il luogo e il divenire (ciò che diviene) (5); che vi hanno due speoie di esseri, grintclligibili e i sensibili (6); che gli oggetti eguali non sono gli stessi che l'Eguaglianza, ma questa è un essere altro da essi (7); che oltre (uapi) le cose sensibili (e le intelligibili che cadono sotto un concetto comune) si deve ammettere un' Idra di queste cose (8); ecc. (9): se gl'interpreti trascendentalisti vedono (J) Tim. 30 c-(i. Cfr. 39 e. (2) Conv, 211 . FU, 62 a FU, 59 a-c. Tim. 62 d, 52 a-b, 50 c-d. (6) Fedone 78 b-80 b (7) Fedone 74 (8) Fedone 74 a, Tim. 51 e, Sof. 250 b, ecc. (9) Anche Aristotile chiama l'universale « Vuno Tiapoc i molli, che è uno e lo stesso in tutti questi „ (Anal. Poster. 1. II. XV. 5. Talvolta, per indicare la distinzione tra le Idee e le cose, Plu- tone si serve anche deUa parola x^P^C (separatamente). È ciò che fa nel Parmenide, dove il filosofo eleate domanda a Socrate s'egli in questi e negli altri lunghi analoghi a questi degli ar- gomenti contro l'immanenza delle l 'e-, é perchè quelli che aomiottono questa seconda interpretazione non hanno spiegato abbastanza chiaramente che le Idee platoniche, qnantunquenon esistano fuori delle cose, s^no nondimeno delle sostanze, cioè delle realtà sussistenti per se stesse, e non delle semplici astrazioni mentali. Il pronome que- sto, questi (Sds, o'jxog), indicante il mondo e gli oggetti s.'usibilt, in opposizione alle Idee, non significa che que- ste sono in un altro mondo, ma che gli oggetti, a cui esso si rifVrisce, seno quelli che stanno presenti alla no- stra vista (1) e ch^ noi possiamo mostrare col dito o con veramonte dislingaa ^ X^?k (da un lato) certe specie stessa (sISy] aùxà àxTa) e X^P^C (da un altro lato) i partecipi di esse; s'egli ere le che vi sia una somiglianza stessa « X^P^S (a parte) di quella che noi abbiamo „ (130 b); un elSo^ dell'uomo « xcopi? di noi e di quanti altri sono come noi » (130 e); un eidos del pelo, del fango, della macchia, ecc., ^cop^s, altri dal pelo, dal fango, dalla macchia, che noi possiamo toccare (130 c-d). Nel Sofista 248 a 1' o- spite eleate chiede agli amici delle Idee se essi «^ dicono la genesi e r essenza x^P^C distinguendole „ La parola xwpi^, bisogna con- fessarlo, presa in tutto il suo rigore, significherebbe la trascendenza; e certamente Platone si sarebbe guardato bene di servirsene, se egli avesse potuto prevedere che del suo sistema si sarebbe dauna falsa interpretazione che questo termine e i suoi deterivati, coi loro corrispondenti nelle lingue moderne, sono appunto i pia propri a formulare con ccncisione. Ma possiamo noi, foadan loci su delle espressioni isolate ed eccezionali, interpretare il sistema pla- tonico in un se.i-i> cha ò ia coutraddizioaa con tutti i suoi concetti fondamentiili, attermuti costantemente in quasi tutti i luoghi dei suoi scritti in cui si parla delle Idee, quando d'altronde queste espres- sioni sono, al postutto, suscettibili di un significato che le metta d' accordo eoa questi concetti ? Fedone 74 c-d, Tim. 51 e, ecc. tin altro segno simile, non quelli clie si pòFSótlò, cottlé dice Platone, contemplare soltanto con TintelUgenza (1). Non dobbiamo per altro dimenticare che la distinzione tra le Idee e le cofc non è che uno dei due lati di que- sto rapporto ambigno, al tempo «tesso d* identità e di differenza, che il sistema platonico e gli altri costruiti sullo stesso tipo stabiliscono tra l'astratto e il concreto, 0, generalmente, tra il più astratto e il più concreto. Talvolta Platone sembra negare V identità, come nella Repubblica 476 c-d, in cui dice che quelli che non am- mettono il Bello in sé vivono come in un sogno, perchè credono che gli oggetti che somigliano al Bello, cioè che ne partecipano, siano, non semplicemente simili ad Cfso, (1) Una delle maniere più abituali a Platone di esprimere la distinzione tra le Idee e le cose per le loro determinazioni contra- rie, è V opposizione tra l'intelligibile e il sensibile : essa impliohe le Idee non sono oggetti dei sensi, ciò che del resto è affermato esplicitamente nel Fedone 65 d, 79 a, 83 b, Tim, 51 d, 52 a, Rep, 507 b-c, eco. Qaest' opposizione evidentemente è naturalissima anche nel sistema dell'immanenza: tuttavia anch'essa si presta all'equi- voco, e può essere interpretata come una prova della trascendenza. Se si ammette che le Idee sono in noi, dice Aristotile ( Top, 1. II. VII. 3), bisogna attribuire ad esse delle derminazioni contrarie : perchè, essendo in noi, esse cadrebbero necessariamente sotto i no- stri sensi, poiché per il senso della vista conosciamo la forma di ciascuna cosa ; mentre i partigiani delle Idee affermano che pos- sono percepirsi per la sola intelligenza. Qui Aristotile dimentica che, quantunque l' Idea, essendo la forma delle cose, sia per con- seguenza, in un certo senso, un oggetto della percezione sensibile, pure questa non la percepisce come Idea, cioè come sostanza separa- bile (j^topt^TTQ^, e perciò, in un altro senso, l'Idea non è un og- getto della percezione sensibile. Peraltro l'identità tra 1' Idea e il percepito dai sensi è chiaramente affermata nella Repubblica 523-524i nel Fedone 65 e, 82 e, luogM già citati (an. VI sulla fine e n. IX), ai quali aggiungiamo il Fedro 850 d, che citeremo in appresso (n. IV). ma la stessa còsa con rgso, mentre bisogna distinguente l'uno dagli altri. Ma queste parole non sono dirette che contro la confusione che Topinione op^o.-ta a quella di Platone, cioè il nominalismo, fa tra le Idee e le cose. Il nominalista confonde le cose con le Idee, sia perchè prende le immwgin?, cioè le cose, per esseri reali, men- tre gli es«*eri reali non sono che le Idee; sia ancora per- chè il nominal'smo, an m( ttendo che il nome generale non s'gnifica altra cosa che gli oggetti concreti e indi- v'duali, prrnde erroneamente questi oggetti per IV ggetto a cui A r.feri-ce realmente il nome e il concetto gene- rale, cioè ridea. La distinzione tra la sostanza Idea e le sostanze cose ha pure per effetto di stabilire tra V una e le altre dei rapporti che nrir cf^perienza non esistono che tra oggetti separat\ Quando le Idre sono chiamate cause delle cose (come n«l Fedone 95 e-101 e), anche in questo può ve- dersi una prc va della trascendenza, perchè infatti le cause e gli effetti empirici soi o, non solo distinti, ma anche separati. Ma ciò mostra srmplc m^nte che il rapporto tra le Idee e le cose non somiglia ad alcuno dei rap- porti che cadono sotto Ih nostra esperienza. Le Idee non sono cause delle c<'Se come cause efficienti propriamente dette, come cause motrci (per usare V espressione d' Ari- stotile), ma sfno cause nel senso che la ragione dell' e- sintere e del modo di esistere delh-ì cose è i\q\U Idee. Smiltneii'c qu^nio le I^ee sono chiamale n oielli (;:apa- isCyriaxa) e le c« s^ immagini (etxóvsg, etdwXa, 6[ioio3fjLaTa) (1), (1) V. Tim, 29 a-c, 39 e, 50 e, 61 a, b, 52 e, Fedro 250, Proclo in Parm, v. 133, Alcinoo Intr. in PI, Vili, ecc.— D' altronde anche Aristotile chiama la forma 7iapòc5s'.YlAa (V. Mdt. 1. v. II. 1, Phys. 1. II. Ili. 2.). "tin altro segno simile, non quelli cte si pòFSótiò, cottié dice Platone, contemplare soltanto con Tìnteingenza (1). Non dobbiamo per altro dimenticare che la distinzione tra le Idee e le cofc non è che uno dei due lati di que- sto rapporto «mbigno, al tempo «tesso d' identità e di differenza, che il sistema platonico e gli altri costruiti sullo stesso tipo stabiliscono tra Tastratto e il concreto, 0, generalmente, tra il più astratto e il più concreto. Talvolta Platone sembra negare V identità, come nella Repubblica 476 c-d, in cui dice che quelli che non am- mettono il Bello in sé vivono come in un sogno, perchè credono che gli oggetti che somigliano al Bello, cioè che ne partecipano, siano, non semplicemente simili ad cfso, (1) Una delle maniere più abituali a Platone di esprimere la diì^tinzione tra le Idee e le cose per le loro determinazioai contra- rie, è r opposizione tra l'intelligibile e il sensibile : essa implica ohe le Idee non sono oggetti dei sensi, ciò che del resto è affermato esplicitamente nel Fedone 65 d, 79 a, 83 b, Tim, 51 d, 52 a, Rep» 507 b-c, eoo. Qaest' opposizione evidentemente è naturalissima anche nel sistema dell'immanenza: tuttavia anch'essa si presta all'equi- voco, e può essere interpretata come una prova della trascendenza. Se si ammette che le Idee sono in noi, dice Aristotile ( Top. 1. II. VII. 3), bisogna attribuire ad esse delle derminazioni contrarie : perehè, essendo in noi, esse cadrebbero necessariamente sotto i no- stri sensi, poiché per il senso della vista conosciamo la forma di ciascuna cosa ; mentre i partigiani delle Idee affermano che pos- sono percepirsi per la sola intelligenza. Qui Aristotile dimentica che, quantunque l' Idea, essendo la forma delle cose, sia per con- seguenza, in un certo senso, un oggetto della percezione sensibile, pure questa non la percepisce come Idea, cioè come sostanza separa- bile (/(tìpiS'CTQ S © perciò, in un altro senso, l'Idea non è un og- getto della percezione sensibile. Per altro l'identità tra 1' Idea e il percepito dai sensi è chiaramente affermata nella Repubblica 523-524f nel Fedone 65 e, 82 e, luoghi già citati (an. VI sulla fine en. IX), ai quali aggiungiamo il Fedro 850 d, che citeremo in appresso . ma la stessa còsa coti esso, mentre bisogna distinguere Tuno dflgli altri. Ma queste parole non sono dirette che contro la confusione che Topinione op^o.-ta a quella di Platone, ciré il nominalismo, fa tra le Idee e le cose. Il nominalista confonde le cose con le Idee, sia perchè prende le immpgin?, cioè le cose, per essrrl reali, men- tre gli es-^eri reali non sono che le Idee; sia ancora per- chè il nominalismo, anradtendo che il nome generale non significa altra cosa che gli oggetti concreti e indi- vdualf, prrnde erroneamente questi oggetti per IVggetto a cui A r.feri-ce realmente il nome e il concetto gene- rale, cioè ridea. La distinzione tra la sostanza Idea e le sostanze cose ha pure per effetto di stabilire tra V una e le altre dei rapporti che nr ir esperienza non esistono che tra oggetti separat*. Quando le Idre sono chiamate cause delle cose (come \\*\ Fedone 95 e-101 e), anche in questo può ve- dersi una prc va della trascendenza, perchè infatti le cause e gli effetti empirici soio, non solo distinti, ma anche separati. Ma ciò mostra srmpl'c m^^nte che il rapporto tra le Idee e le cose non somiglia ad alcuno dei rap- porti che cadono sotto Ih nostra esperienza. Le Idee non sono cause delle cose come cause efficienti propriamente dette, come cause motr'ci (per usare V espressione d* Ari- stotile), ma srno cause nel senso che la ragione dell' e- siHtere e del modo di esistere dello cose è nell^*. Idee. Si- milmente qunnio le I^lee sono chiamale u oielli (Tiapa- «s^YliaTa) e le c< s<^ immagini (etxóvs^, stSwXa, ò\i.om\iOLioL) (1), (1) V. Tim, 29 a-c, 39 e, 50 e, 51 a, b, 52 e, Fedro 250, Proclo in Parm, v. 133, Alcinoo Intr. in PI, Vili, ecc. D' altronde anche Aristotile chiama la forma n(X.p<iòtiy[i7.(V, Mdt, 1. v. 11.1, Phys. 1. II. III. 2.). iS«i ^^ clÀ suggerisce naturalhiente Tidea della separazione, perchè tutti i modelli e le immagini che abbìanoo visto o che possiamo rappresentarci, sono separati, e non sem- plicemente distinti, gli uni dalle altre. Il nome d'imma- gini dato alle cose, in m^^lii casi, ha evidentemente lo scopo, come abbiamo detto (n. IX), d'indicare la loro mancanza di una vera realtà: ma facendo anche astra- zione da questa circostanza, le Idee possono a buon dritto riguardarsi come esemplari delle cose anche nelT ipotesi deir immanenza, po*chè, immanenti o trascendenti, Tuomo in f^è e il cavallo in sé, che Piatone ha creati, sono sempre cecile immagini degli u< miui e dei cavalli reali, imma- gini che, rovesciando il ra^iporto rrale,egli chiama natu- ralmente esemplari, perchè il nome di esemplare conviene a ciò che è anteriore, e il nome d' immagino a ciò che è posteriore, e le Idee sono anteriori alle cose, non di un' anteriorità cronologica, ma di un' anteriorità di na- tura, cioè logica e metafisica. Le Idee sono chiamate paradigmi, non solo delle cose, ma anche dei loro attributi E che Platone distingne le Idee, non solo dalle prime, ma anche dai srcordi. È ciò che egli fa, per esempio, nel Fedro 249 d, in cui la bel- lezza sensibile viene opposta alla bellezza vera, cioè all'Idea della bellezza. Questo richiede delle spiegazioni, perchè sembra in contraddizione col concotto stesso del- Pimmanonza, la quale consiste essenzialmente, come ab- biamo detto, neir identità delle Idee con gli attributi generali delle cose. L' Idea è il concetto astratto e generale, realizzato. Per conseguenza gli attribuii dt Ile cose sono identici alle Ideo, ma in quanto vengono conside-rati nel loro con- cetto generalo, in astratto. Ora perciò essi devono conce- pirai astrazion facendo dai soggetti in cui ineriscono : la bellezza di questo fanciullo, la grandezza di que&ta superficie, la bianchezza di questa carta, ecc. differiscono dalla Bellezza, dalla Grandezza, dalla Bianchezza, ecc. in se s^e<^e, pcchè contengono delle determinazioni che none^iistono nel concotto astratto e generale della bellezza, della grandezza, della bianchezza, ec(^. Prima di tutto la bellezza, la bianchezza, la grandezza, occ, quali at- tribuii di questi soggetti determinati, non sono rigorosa- mente conformi agli attributi omon'mi che Si trovano in altri soggetta ma ne difl\3riscono per il grado, per la quanti A e per tante altre circostanze : cosi esse devono essere distinte dalla bellezza, bianchezza, grandezza, ecc. quali oggetti dei concetti generali, perchè ciascuno di questi è uno e lo stesso in tutti i soggetti che ne par- tecipano. Ma anche considerando la bellezza, la bian- chezza, la grandezza in questi soggetti determinati astra- zion facendo dal grado, la quantità e le altre circostanze in cui e se d feriscono ^a gli attributi omonimi in altri sogge* ti, basta questa determinaz'one, di essere l'attributo di tal soggefo determin«ito, perché esse non corrispon^ dano rigorosamente agli oggetti dei concetti generali, poiché questa d«tinmi nazione n(»n è una nota che fa parte del concetto generale. Ne segue che tutte le op- posizioni, che Platone stabilisce tra le Idee e le cose, hanno pure luogo tra le Idee e gli attributi considerati come proprietà d' individui determinati. La Bellezza in sé è eterna, cioè fuori del tempo, ed esonte dal cangia- mento ; la bellezza proprietà di un oggetto determinato nasr'e, per sce, cresce, ecc. ; la prima e solo intelligibile, perchè il senso non percepisce la b Mezza come sostanza,' ma .^-'olo come ui attributo; la bellezza individualizzata^ che è un semplice attributo, è sensibile, perchè il senso la percepisce quale essi è; quella è una, perchè ii con- cetto della bellezza è unico; la bellezza che è in un in- dividuo determinato è altra, per la percezione sensibile, - 127 - >fm .^ f dalla bellezza che é io uq altro individuo determinato, per CU', mentre per V int'^lligrenza vi ha una sola bellezza, una sola grandezza, una sola bianchezza, ecc., per la percezione sensibile vi hanno molte bellezza», m^^lte gran- dt^zze, molte bianch'^zze, ecc. Queste oppo-^izioni met- tono cipo iofìne air opposizione suprema dell'essere reale e del fenomeno: queste molte bellezze che i sensi percepiscono non sono in sostanza che la Bel- lezza in realtà unica, ma ch'^, apparendo qua e là, per la partecipazione ad essa dolle azioni e dei corpi, pare molti. Ma perchè V intelligenza risolva queste molte bellezze fenomenali nella Bellezza reale unica, essa deve fare astrazione da tutte le determinazioni che non entrano nel concetto comune come i moHi uomini si risolvono neirUomo uno, facendo a^^t^azlone dallo differenze individuali; come i mo'ti Animali si risolvono nell'Animale uno, facendo astraz'on^ dalle difiT ronze spe- cifiche; co-l perche le molte bellezze si risolvano nella Bellezza unica, per la cui parusia i molti belli sono beili, bisogna spogliarle dall'inerenza in t«le o tal altro individuo determinato e da tutte le altre c'rcostanzeche le differenziano le une dalle altre. In riasnunto, V attri- buto Idea e l'attributo proprietà di un tal soggetto par- ticolare si distinguono a due punti di vista : il primo è più indeterminato, il secondo è più determinato, per- chè contiene delle determinazioni che non sono conte- nute nel concetto comune, se non altre, quella d'inerire in un tal soggetto particolare; il pr'mo è Tessere reale, il secondo è il fenomeno, cioè l' apparenza (obbiettiva) di quest'essere reale. 1Questa distinzione tra l'Idea e l'attributo individua- lizzato ha per effetto naturale che, per indicare questa distinzione, Platone sì serve talvolta di certe espressioni che sembrano negare la parusia delle Idee nelle cose. Cosi nel Fedro e distingue la scienza che è nell'es- sere vero da qaella in cui vi ha cangiamento e che e- 8i»<te differente nei differenti oggetti che ora (cioè nella vita terrestre in cui l'anima non percepisce che delle apparenze) chiamiamo esseri. Qui la distinzione è fatta sopratutto al pun^o di vista dell'opposizione tra la realtà e il fono neno. La scienza che è nell'essere vero è l'Idea della scienza, la quale, quantunque s'a aùir] xaG'aux^v, pure é latta inerire in un soggetto, perchè, il mondo delle l'iee essendo una rappresentazione astratta del mondo sensibile, ciò che, come la scienza, nel mondo sens b'1'5 inoriseli in un soggetto, deve inerire inunsog- geito anche nel mondo delle Idee. Nel Convito, dopo aver descritto il progresso del ret^o amante della bellezza, che dall'amore di un bel corpo passa a quello di tutti i bei corpi, e poi all'amore e alla contemplazione della bellezza delle anime, dei costu-ni, delle leggi, delle scienz*^, per fervenire infine alla contemplazione del bello io se stesso, determina questo bello di natura me- ravigliosa, la cui contemplazione è il termine di tutto il progresso anteriore. Esso « in primo luogo sempre è, non nasce né perisce, non cresce né decresce, poi non è bello in una parte, brutto in un'altra, né ora bello ora no, né bello a quc^to fine, brutto a quell'altro, né bello in un luogo, brutto in un aUro, o bello per alcuni, brutto per altri. Né si deve immaginare que- (1) Rep. 476 a. (1) Cfr. Senof. Memorab, 1. 3. o. 8. -X28- /, 11 sto bello come un bel viso o delle belle mani o qualche altra cosa di cui il corpo è partecipe, nò come un bel discorso o una bilia scienza, né come essente in qualche altra cosa, p. e. un^animale, la terra^ il cielo o un altro oggetto qualunque^ ma esso stesso p^r se stesso eoa se stosso, uniforme, sempre essente, e tutte le altre cose belle partecipi in certo modo di ess^% in modo c»oè che nascendo queste e perendo, niente gli si aggiunga o si sottragga, e niente patisca. Si è affermato che basterebbe questo luogo per provare la trascendenza delle Idee ! Ma esso non contiene che le solite determi- nazioni delle Idee, come sostanze, come astrale, come immutabili, ecc. Si dice che il Bello è « esso stesso per se stesso con se stesso », per significare che nella sua astrattezza è una Fostanza. e, conne tale, esiste indipen- dentemente da ogni altra sostan a: si aggiung, è vero, che non deve immaginarsi come essente in qnjihhe altra cosa, p. e. in un an'ma^e, nel'a t rra, rei ci^lo, ecc., ma queste parole non fanno che distinguere il Bello, oggetlo del concètto comune, dal b 11 >, proprietà di una cosa particolare. Nel Fedone 102 d si dice che «non solo la grandezza stessa non può essere al tempo stesso grande e piccola, ma anche la granJezza in noi non può mai ricevere la piccolezza », e poi a lo3 b, espri- mendo lo stesso concetto (che non è altro al fondo che il principio di contraddizione) in uia forma generale, che « il contrario non può mai essere il suo contrario, né quello in noi nò quello nella natura (èv x^ cpóget)». Che l'opposizione tra la grandezza stessa e la grandezza in noi significhi semplicemente la distinzione tra T at- tributo nel suo C'incetto generale e lo scasso attributo individualizzato, e non implichi che la grandezza stessa sia fuori delle cose, ti vede della m'^niera p'ù chiara da ciò che si è detto un po' prima (102 b), cioè che, dopo che fi fu convenuto che vi hanno le Specie e che le altre cose ricevono la loro denominazione partecipandone, So- crate soggiunse che, poiché é così, quando diciamo che Simmia è più grande di Socrate e più p'ccolo di Fedone, veniamo ad affermare che vi ha in Simmia tanto la grandezza quanto la piccolezza (cioè le Specie, perchè altrimenti quest'affermazione non sarebbe più una con- soguenza di ciò di cui si è prima convenuto). Similmente che la distinzione tra il contrario (cioè l'uno qualunque di due attributi contrari) in noi e il contrario nella na- tura non implica la trascendenza di questo, si rileva dalle parole che seguono immediatamente, cioè che So- crate intende parlare, non delle cose che hanno i con- trari, ma di questi stessi contrari, per la cui inerenza (u)v èvóvxwv) le cose ricevono la loro denominazione ; e basta del resto a provarlo la stessa espressione « il con- trario nella natura», la quale indica nel modo più e- vidente che l'opposizione tra l'attributo m note lo stesso attributo ne/la natura non è che quella tra il particolare e l'universsle (1). Infine, nel Parmenide si distingue la (1) Ma, dice 1' interpetre trascendentalista, il contrario év T'jj ^Ooct vuol dire, non il contrario nt'/Za >i a /wra, ma il contrario nella iua ìiatura, Non è vero ; e se ne ha una prova nella Bep. 497 b, e, 498 a, in cui la stessa espressione sv x^ ^óoet si ritrova impie- gata in un modo che non permette alcun dubbio sul suo significato. Ivi 1' Idea del letto, in opposizione al letto particolare, o^e costruisce il fabbro, è chiamata, non solo «il letto nella natura * (.497 e), ma anche più chiaramente « il letto che è nella natura » (VcXtvY] Iv T'5 qjuasi ouaa — 497 b). (Queste parole potrebbero mai significare : il letto nella sua natura V Del resto la quistione sembra oziosa, perchè anche il ìetto^ o un' altra cosa qualunque, nello sua natura, non pmò affatto significare un' entità trascendente. j somiglianza stessa da quella che abbiamo noi (130 b), e poi (133 c-134 e) la scienza stessa dalla scienza presso noi (noLpruiiy) o nostra, la verità stessa dalla verità presso fioi, il dominio e la servitù stessi dai dominio e la servitù presso noi, e in generale le Specie dalle cose presso noi, Queste distinzioni, è «ppena necessario di dirlo, hanno lo stesso significato che quelle analoghe del Fedone: vi ha tuttavia questa differenza che, mentre nei luoghi ci- tati del Fedone la distinzione é fatta al punto di vista dell'opposizione tra il generale e Tindividuale, in quelli del Parmenide, almeno nel secondo, sembra fatta spe- cialmente al punto di vista deiropposizione tra il reale e il fenomenale. Ma questo luogo del Parmenide merita che ce ne occupiamo più particolarmente, essendo il più favore- vole air interpretazione trascendentalista che io ricordi negli scritti di Platonp, poiché esso contiene, olire alle espressioni indicate, delle proposizioni che hanno l'aria di negare esplicitamente la presenza delle Idee nelle cose. Ecco dunque la parte di questo luogo che e' interessa a questo riguardo : Tra le difficoltà che presenta la teoria Si compreude dall'insieme del luogo del Fedone ài cui si è par- lato che, distinguendo la grandezza e, in generale, il contrario in noi e la grandezza stessa e il contrario nella natura, 1' intendi- mento di Platone è di esprimere, quantunque forse non lo faccia d' una maniera sutficientemente esatta, la distinzione tra due forme di negare il principio di contraddizione : 1' una, quella che ammet- terebbe che il contrario nella natura possa essere il suo contrario, sarebbe l' identità dei contrari; 1* altra, quella che ammetterebbe ohe il contrario in noi, p. e. la {grandezza, possa ricevere il suo contrario, p. e. la piccolezza, sarebbe la contraddizione propria- mente detta, cioè una proposiziono che affermerebbe di uno stesso soggetto due attributi contrari. delle Idee, la più grave è, dice Parmenide, che sarebbe molto difficile dimostrare il suo errore a colui che pre- tendesse che le Specie, se esse esistessero, sarebbero inco- noscibili per noi. Perchè ? domanda Socrate Parai. : È che io penso, o Socrate, che tu e chiunque altro am- mette che vi ha un' essenza stessa per se stessa di cia- scuna cosa, dovete da prima convenire che nessuna t?e me è in noi. -E come infatti potrebbe essere allora per se stessi? disse Socrate-PARM. : Dici bene. Per conseguenza quelle delle Idee che sono ciò che sono relativamente le une alle altre, sono relative alle Idee stesse, e non alle cose presso noi, delle quali noi partecipando riceviamo cia- scuna denominazione, sia che queste coso, debbano con- siderarsi come simulacri, sia d' un' altra maniera qua- lunque. Similmente le cose presso di noi che sono omo- nime a quelle, sono relative ad altre cose presso di noi, e non alle Idee che hanno la stessa denominazione. Come di' tu? domandò Socrate-PARM. : Per esempio, se alcuno di noi è servo o padrone, non è servo del pa- drone stesso, o padrone del servo stesso ; ma essendo un uomo, lo è di un altro uomo. Ma Ja padronanza stessa éciò che è della servitù stessa, e allo stesso modo la ser- vitù steesa è servitù della padronanza stessa. Mane le cose in noi si riferiscono a quelle, né quelle si riferiscono a noi, ma, come dissi, quelle sono relative fra di loro, e le cose presso noi relative similmente fra di loro. Com- prendi ora ciò che dico? Comprendo perfettamente, ripose Socrate-PARM. : La scienza stessa dunque sarà scien- za della verità stessa ?— Socr. : Sì-Parm. : E ciascuna delle scienze in se stessa sarà scienza di ciascuno de^-li esseri in se stesso?— Soca. : Sì— Parm. : Ma la scienza presso di noi lo sarà della verità presso di noi? e ciascuna delle scienze presso di noi, di ciascuo degli esseri presso di noi?— SocK. : Necessariamente — Parm. : Ma, come tu confessi, noi non abbiamo le specie stesse, ed esse non pos sono essere presso di noi - SocR. : No - Parm. : Ciascuno dei generi siessi non è conosciuto dalla specie stessa della scienza? Socr. .- Si. - Parm. : Specie che non ab- biamo - Socr. : No - Parm. : Nessuna specie dunque si conosce da noi, poiché noi non partecipiamo della scienza stessa -Socr.: No, a quanto pare - Parm. : Sicché non sappiamo cosa sia il bollo stesso e il bene stesso e tutte le cose che noi riguardiamo come Idee -Socr.: Ne corriamo il rischio. Cosi, secondo questo luogo, le Idee non sono nette cose, e queste non le hanno e non ne partecipano. Ma queste proposizioni, se dovessero prendersi in tutta l'e- stensione dei termini, sarebbero nella contraddizione più aperta con le proposizioni più abituali di Platone, perchè egli afferma costantemente che le cose parte- cipano alle Idee, che le hanno, e che le Idee sono nelle cose. Ne segue che. se non vogliamo met- tere Platone in contraddizione con se stesso, noi non dobbiamo prendere le prime in tutta lestensioue dei termini; perchè per evitare la contraddizione tra due proposizioni di cui l'una afferma ciò che l'altra nega, è la negativa che si deve intendere necessariamente in un senso restrittivo. Al fondo le proposizioni del Parmenide di cui si tratta non dicono niente di più che quelle già citate del Fedone e le altre analoghe; se le Idee si di- stinguono dalle cose che sono in noi, vuol dire che esse non sono in noi. Vi ha tuttavia questa differenza, che nelle proposizioni del Fedone la negazione della parusia è contenuta d'una maniera implicita, mentre in quelle del Parmenide lo è d'una maniera esplicita (ben Inteso ^ qneste proposizioni si prendono nel senso più ass^ uto)C,o mostra che la distinzione tra le Idee e gli al tributi del e cose, nel Parmenide, è fatta dal punt dì ZlnL^nt T""" 'f ' Wee-interpretate come cose «n^! " '"'' '" ^^"^ « ^" ««ributi delle cose «ppansce più grande. Questo punto di vista è quello che cons-dcra,1 mondo sensibile come l'apparenza e i^ mondo delle Idee come la realtà. I, Bello iS sé i, Buono m sé, ecc. non esistono nel mondo dell'apparenza-cioè ne 'aspetto apparente dell'essere-, ma nel mondo dell realtà-cioè nel suo aspetto reale-; nel mondo dell'an- parenza non esistono che le molte bellezze, le molte bontà ecc., che sono ne. molli belli, nei molti buoni, ecc., peri «oln Irn'"*!!? P^''' '•^^ moltiplicità, l'unità è solo intelligibile, e apprendendola. l'int.lligenza si mette a"!, . f T "" P^'-cezione del senso. Cosi Platone può dire che le Idee non sono in noi o presso di noi, che noi non le abb'arno e non ne partecipiamo, in questo senso, che esse non fanno parte del mondo dei fenomeni : queste proposizioni negano la presenza fenomenale, sensibile delle Idee nelle ccse -perchè le Idee non sono nello cose sensi oilmente, come una cosa fenomenale è in un'altra cosa fenomenale-, ma non la presenza sovra- sensibile che nel sistema platonico è indicata dal termine tecnico parusia. Certo e. li non dice esplicitamente nel luogo citato, che considera le. cose come delle Ippa- renze delle Idee il)- Ma l'abitudine di Platone non è di J i. (1) Y. n. VI. (1) Tuttavia potrebbe trovarsene un accenno là dovj dice che 1 e cose possono riguardarsi come simulacri (i.aoitónaxa) delle Idee (133 d, e più ancora dove chiama le scienze in se stesse e gli es- »«ri in se stessi (cioè le Idee i « ciascuna delle scienze che è (^ sanv) e ciascuno degli esseri dia <• (S soT'.v) (131 a). — descriverci minutamente tutti i gradi del processo mentale di cui le sue proposizioni sono il risultato : di tutte le sue speculazioni (sulle Idee, sull'anima, ecc.) egli non ci presenta che i risultati, saltando sulle idee interme- diarie (quando dà le prove delle sue dottrine, ai veri motivi di esse, cioè ai gradi reali del processo mentale che lo hanno condotto a questi risultati, sostituisce dei sofismi puramente artificiali, che non potrebbero sembrare concludenti se non a chi è già, per altri motivi, convinto della verità della conclusione). Non si deve del resto dimenticare la difficoltà che vi ha, nel sistema deirimma- nenza, ad esprimere il rapporto tra le Idee e le cose : tutte le espressioni per cui noi possiamo indicare una di- stinzione tra sostanze, implicano pure necessariamente la separazione tra queste sostanze, perchè tutte le sostanze distinte che noi possiamo percepire o immaginare sono anche delle sostanze separate; per conseguenza Platone, quando vuole esprimere con concisione la distinzione tra le Idee e le cose, è facilmente condotto a servirsi di pro- posizioni che, se non s'interpretano in confronto con le altre parti dei suoi scritti, danno ragione all' interprete trascendentalista. Una considerazione che bisogna sempre tener presente in questa quistione dell'immanenza o tscendenza delle Idee platoniche è che, nell' ipotesi del- l'immanenza, si può perfettamente rendersi conto delle proposizioni, per altro isolate, che sembrano contrarie, por questa difficoltà di esprimere il rapporto tra le I- dee e le cose— difficoltà che certamente.dcriva dall'incon- cepibilità di questo sistema, perchè le Idee, per quaè possibile d'immaginarle, non possiamo immaginarle, bisogna convenirne, che come separate dalle cose-; mentre, nell'ipotesi della trascendenza, sarebbe impossi- bile di rendersi conto di tutti i concetti platonici esposti nella prima parte di questo Supplemento, che esprimono 0 implicano la presenza delle Idee nelle cose o l'identità tra le Idee e le cose, e costituiscono, non delle proposi- zioni isolate, ma la dottrina costante dell'autore. In altre proposizioni, in cui Platone sembra negare la parusia, egli non nega in realtà che una parusia lo- cale, l'esistenza delle Idee in un luogo determinato. È ciò che fa nel tratto seguente del 2Ymeo, che è anch'esso dagl'interpreti trascendentalisti citato come una delle prove più chiare della loro interpretazione : « Poiché è cosi (cioè poiché l'intelligenza e l'opinione sono due cose differenti), bisogna convenire che esiste un'Idea, che è sempre la stessa, non nasce e non perisce, non riceve in se stessa altro d'altronde e non va essa stessa in altro ad alcun luogo {oxìiz aùxò — l'slaos — et^ ^Xko noi cóv), non può percepirsi né per la vista né per alcun altro senso, e non può essere contemplata che dall'intelligenza ; e un'altra cosa, omonima e simile ad essa, sensibile, ge- nerata, sempre in movimento, esistente in un luogo de- terminato dal quale disparisce pprendo, e che può es- sere appresa dall' opinione congiunta alla sensazione; e una terza cosa, il genere eterno del luogo che non pe- risce, dà un posto a tutto ciò che nasce, percettibile senza i sensi per un certo concetto spurio, appena credibile; Platone chiama la nozione dillo spazio un concetto spurio, perchè effettivamente essa non è un vero concetto : un concet- to, nel senso rigoroso della parola, è la rappresentazione di ciò che vi ha di comune in molti oggetti, ma la nozione dello spazio si riferisce a un oggetto unico, perchè lo spazio è uno solo. (Il luogo, di cui Platone nel Timeo fa un principio e un elemento delle cose distinto dalle Idee, non è né uno spazio particolare né l'Idea ge- nerale degli spazi particolari, ma lo spazio infinito, l'insieme di tutti gli spazi particolari) Cfr. Kant Kslel. trasccndf-nt, § 2 n. 3 e 4 e g 4 n. 4 e ò. ài quale riguardando, sogniamo e diciamo che è neces- sario che tutto ciò che esiste sia in qualche luogo e oc- cupi uno spazio determinato, e che ciò che non è né in terra né in cielo non ha alcuna esistenza» (52 a-b) (1). -^è in terra né in cielo— ciò che, come mostrano le pa- role seguenti, si riferisce alle Idee— vuol dire evidente- mente: in nessun luogo. L'Idea è fuori dello spazio nello stesso senso in cui è fuori del tempo; cioè in quanto l'e- sistere in un luogo determinato, come V esistere in un tempo determinato, sono delle determinazioni che com- petono a tal individuo particolare, ma non entrano nel concetto generale. Com'è possibile ciò? A questa do- manda non vi ha che una risposta : è che V Idea non è che il concetto generale realizzato ; e V apparire e il disparire degl'individui sono delle circostanze che non (1) Seguono le parole: « Tali determinazioni e altre simili at- tribaiamo pare all'essere che esiste veramente e che non vediamo in un sogno; e perchè noi sogniamo, siamo incapaci di distinguere » come uomini svegliati, e di dire la verità, cioè ohe l' immagine, poiché ciò in cui è nata non le appartiene, ed è il fantasma sem- pre agitato d'un altro essere, deve per conseguenza esistere in qualche altra cosa, attaccandosi in qualche maniera all'esistenza, o non essere assolutamente niente (Platone dà qui lo spazio, iden- tico per lui alla materia, come un altro elemento che deve aggiun- gersi necessariamente all' elemento generale, cioè all' Idea, perchè sia possibile l'esistenza del particolare; in altri termini fa dello spa- zio ode\ìa,iriAteTÌSLÌ\ pi incipiurn individ natio )iis, Cfr. ii^upplem. C, il, sulla fine); ma l'essere che veramente è, è difeso da questa ragione vera ed esatta che, sinché due cose saranno differenti, esse non po- tranno mai essere l'una nell'altra in modo da essere al tempo stesso due cose e una sola, „ Per queste due cose che non possono essere l'una nell'altra Platone non intende, come gli fa dire Cousin nella sua traduzione, l'essere vero e l'immagine, ma l'essere vero e lo spa- zio ; perohè l' intenzione di tutto questo luogo ò di escludere dal- l' essere vero l' esistenza nello spazio. concernono il concetto generale. Dicendo poi che T I- dea non va in altro, Platone non esclude la presenza delle Idee n^lle cose, ma ci avverte che noi non dobbia- mo immaginare che, quando una nuova forma apparisce in qualche parte della materia, cioè dello spazio, l'Idea corrispondente a questa forma si muova, per dir cosi, e vada ad occupare questa parte della materia, ma il na- scere e il perire delle cose non importa nelle Idee nes- sun cangiamento. È un concetto analogo a quello che e- sprime nel luogo citato del Convito, quando dice che le cose belle partecipano al Bello, ma « in modo che na- scendo esse 0 parendo, niente gli si aggiunga o gli si sottragga, e niente patisca ». III. Vi ha una classe d'Idee, a cui Platone dà un contenuto che sembra, ed è in realtà, a prendere la cosa a rigor di logica, incompatibile con la loro immanenza. Alcuni concetti non si applicano rigorosamente alle co- se, non corrispondendo esattamente ai loro attributi, ma sono piuttosto come degl' ideali a cui questi non si con- formano che d'una maniera più o meno approssimativa. Tali sono i concetti che ci servono di norma per giudi- care le azioni morali — la giustizia assoluta, il dritto as- soluto non si realizzano mai perfettamente negli uomi- ni—; tali sono pure quelli delle figure geometriche — nel- la natura nrn vi hanno delle rette, dei cerchi, delle hfere, rigorosamente conformi alla definizione geometri- ca—. In questi casi noi ci serviamo ordinariamente dello stesso nome per significare tanto l'attributo cousiderato nel suo conc< tto assoluto, quanto l'attributo delle cose reali cniTÌ>pondenti, ma inadequatamente, a questo con- cetto : ma questo nome è in un certo modo equivoco, poiché è evidente che giusto, retto, sferico e i sostanti- vi corrispondenti, quando significano la giustizia afso- luta e la rettitudine e la sfericità assolute esattamente - conformi allo definizioni geometriche, hanno un senso differente che quando significano la giustizia relativa degli uomini e la rettitudine e la sfericità relative delle linee e dei solidi reali. Ora alle Idee corrispondenti a questi nomi Platone dà per contenuto V attributo con- siderato nel suo concetto assoluto — p. e. V Idea del giusto rappresenta la giustizia assoluta, Tldea della retta e della sfera la retta e la sfera geometriche— e ammet- te al tempo stesso che queste Idee sono le Idee delle co- se reali a cui i nomi non convengono che in un penso relativo— p. e. che gli uomini giusti, le rette e le sfe- re imperfette della realtà sono tali per la partecipaziodeiridea del giusto, della retta e della sfera, cioè della giustizia assoluta e della rettitudine e sfericità assolute rigorosamente conformi alle definizioni geometriche—. Il luogo più importante per questa parte della dot trina delle Idee è il seguente del Fed&ne: « Diciamo noi che l'eguale è qualche cosa V io non parlo di un le- gno uguale a un legno né di una pietra uguale a una pietra né di altre cose simili, ma di qualche altra cosa oltre di queste, dell'eguale stesso : diciamo noi che esso è qualche cosa o no? — Lo diciamo, per Giove!, disse Simmla, e meravigliosamente — E sappiamo che cosa già ?— Senza dubbio— Donde abbiamo attinta questa co- noscenza V non è da questi oggetti di cui abbiamo par- lato ? vale a dire non è vedendo dei legni, dei sassi o altri oggetti eguali, che abbiamo concepito l'eguale, che è diverso da essi? 0 non ti sembra diverso? Considera la cosa in questo modo : i legni e i sassi eguali non ci sembrano, senz'aver cangiato, ora eguali ora ineguali ? — Si — Ma l'eguale stesso ti è mai sembrato ineguale, o l'eguaglianza ineguaglianza ?— Giammai, o Socrate- Dunque non sono la stessa cosa questi eguali e l'eguale stesso— Non mi pare affatto che siano le stessa cosa, o Socrate—Nondimeno è da questi eguali, quantunque di* versi dall' eguale stesso, che hai attinto col pensiero la conoscenza di esso. — È vero — Sia che esso somigli loro sia che non somigli ? — Certamente — Ciò infatti non ha alcuna importanza ; perchè dacché la vista d' una cosa ci fa pensare a un' altra cosa, sia che questa le somigli sia che non le somigli, vi ha ne- cessariamente reminiscenza— Senza dubbio— Ma, ripigliò Socrate, quando vediamo dei legni, o altri oggetti di quelli di cui abbiamo parlato, eguali, ci sembrano essi eguali come r eguale stesso, o piuttosto vi manca qualche cosa perchè siano tali qual è l'eguale stesso?— Vi manca mo'to— Conveniamo dunque che quando alcuno, vedendo una cosa, pensa che questa tende ad essere tale quale è un'altra cosa, ma senza poter esserlo perf» ttamente, e restandole inferiore ; è necessario che quegli che ha questo pensiero preconosca già quell' altra cosa a cui egli dice che la prima rassomiglia d'una maniera imperfetta ?— È neces- sario—Che dunque ? non è questo che ci accade per gli oggetti eguali e l'eguale stesso ?— Certamente— Dunque necessariamente noi abbiamo avuto Ja conoscenza del- l'eguale prima di quel tempo, in cui vedendo per la prima volta degli oggetti eguali, pensammo che questi tendono ad essere quale è 1' eguale, ma non sono per- fettamente tali Così è v>. Questo luogo, benché il suo scopo diretto s-a di di- mostrare la preconosceuza dell' Idea e la sua reminiscenza all' occasione della percezione sensibile, pu'e contiene, come abbiano visto, una prova della sua esistenza: è un caso particolare di quella a cui allude Aristotile in Mei. I. IX. 3, rimproverandole di condurre ad ammet- tere Idee di i relativi, e che è esposta, quantunque d'una maniera alquanto confusa, nel commento d’Alessandro d’Afrodisia. D'una maniera generale possiamo fb/» mulare questa prova cosi : Al concetto deve corrispon- dere un oggetto reale ; ma vi hanno dei concetti, ai quali niente corrisponde rigorosamente tra gli oggetti sensibili ; per conseguenza a questi concetti devono cor- rispondere degli oggetti distinti dai sensibili ; sono le Idee. Le Idee che Platone riguarda come degli esemplari che nelle cose non si realizzano se non d' una maniera imperfetta, appartengono costantemente alla classe che noi abbiamo detta; vale a dire corrispondono sempre a nomi significanti degli attributi, che sono suscettibili di diversi gradi, e che hanno un grado massimo al di là di cui alcun altro non potrebbe esserne concepito ; grado massimo il quale, quantunque non sia che un semplice ideale del nostro spirito, può tuttavia considerarsi come il vero significato del nome preso nel senso assolutamente rigoroso. Cosi nel Fileho 62 a-b il circolo e la sfera stessa divina sono riguardati come regolari, e opposti, come tali, a questi cerchi e a questa sfera umana riguar- dati come irregolari. In VELIA (vedasi) e si sup- pone che il genere stesso della scienza sia molto più (1) L'argomento, nella forma in cui l'e<4pone Ales<9andro d' A- frodisia, può rias;4umersi, io credo, cosi: I predicati convengono al- le cose sia esattamente sia come ad immagini : p. e. uomo può designare sia gli uomini reali sia degli uomini dipinti. Cosi un predicato, p. e. eguale y che non conviene alle cose 'sensibili esat- tamente—perchè queste non sono mai tra loro perfettamente e- guali deve convenire ad esse come ad immagini ; e per conse- guenza deve ammettersi l'esistenza d'un esemplare, di cui le cose sensibili sono delle immagini, e a cui il predicato conviene esat- tamente. Cfr. Arist. Met. 1. III. II. 19-20. ?! esatto (àxpi^éoxspov) della scienza presso di noi, e cosi pure la bellezza e ogni altra cosa (vale a dire ogni altra cosa suscettibile di diversi gradi di esattezza sino all'esattezza assoluta); e poi, in conformità di questa supposizione, T Idea della scienza e della pa- dronanza vengono chiamate la scienza e la padronanza assoluta (àxpipsoxdxy]). Nella Bep, il2 b-c Socrate dice ch'egli ha ricercato cosa sia la giustizia stessa a scopo di paradigma, poiché è impossibile che T uomo giusto sia perfettamente tale quale è la giustizia ; e nelle di- verse Etiche d'Aristotile o che portano il suo nome (Eth. Nic. 1. I. VI. 5-6, Magri. Mar. 1. I. I. 22, Eth. Eud. 1. I. Vm. 1-2, H, 18) ai filosofi che ammettono un!I- dea del bene è attribuita la dottrina .^he quest' Idea è Il massimo di tutti i beni. Dai luoghi aristotelici indi-, cati si vede anche che la parola stesso (aùxó^ aggiunta al nome per denotare l'Idea, nel tempo stesso che indi- cava che l'attributo di cui trattavasi era V oggetto del concetto astratto e generale, significava pure che que- st'attributo doveva prendersi in un senso assoluto (cioè nella sua purezza, nel massimo dei gradi di cui esso è suscettibile). Questa dottrina di Platone che V Idea rappresenta l'attributo nel suo grado assoluto, è espressa anche sotto un'altra forma, cioè che l'attributo Idea non partecipa dell'attributo contrario, mentre le cose sensibili, subordi- nate all'Idea, partecipano sempre di tutti e due gli at- tributi contrari. Si è gi^ visto nel luogo citato del J^e- done che le cose eguali sembrano ora eguali ora ineguali (cioè possono riguardarsi tanto dell'una quanto dell'al- tra maniera), mentre l'eguale stesso non può mai sem- brare ineguale, o l'eguaglianza ineguaglianza. Similmente nel Convito il Bello in se stesso, che è uniforme, sincero, puro, immisto, si oppone alle cose belle, che - 135 - sono belle iu una parte, brutte in un'altra, belle per un rispetto, brutte per un altro, belle per alcuni, brutte per altri, ecc. Neir Ippia maggiore, avendo il sofista risposto che il bello in se stesso è una bella vergine, So- crate gli fa osservare che una bella vergine è brutta in com- para/àone di una dea, e conclude che, interrogato che cosa sia il bello stesso, egli ha risposto una cosa che é bella quanto brutta. Nella Rep. 523 a-52(> a si di- ce che il senso vede l'uno e il multiplo, il molle e il duro, ecc. confusi Tuno con l'altro, perchè la stessa co- sa apparisce al tempo stesso una e multipla, molle e du- ra, ecc., ma l'intelligenza li distingue, vedendoli cia- scuno per se stesso e separato dal suo contrario; e si op- pone l'unità ideale, che è l'oggetto della matematica, al- le unità corporee, che sono l'oggetto dei sensi, in quan- to queste contengono sempre una moltiplicità, mentre quella è senza moltiplicità alcuna (1). Questo luogo ha qualche analogia con quello citato del Fedoney perchè vi si attribuisce ai dati della percezione sensibile che im" plicano degli attributi contrari, la proprietà di sollevare l'intelligenza alla contemplazione delle Idee, eccitandola a separare ciò che è confuso nella sensazione. Infine, nel- la stessa opera, 479, si prova che il solo essere vero è l'Idea e che le cose sono un misto di essere e di non essere, mostran- do che una cosa è e non è al tempo stesso ciò che si dice essere, perchè non vi ha alcuno dei molti belli che non sembri anche brutto, dei molti giusti che non sembri in- giusto, dei molti santi che non sembri profano, ecc. In questi due luoghi della Repubblica agli attributi contra- ri, suscettibili di gradi diversi, ma che hanno pure un (1) Cfr Sof. 245 a-b, VELIA (vedasi) b-e. maximum che può riguardarsi come il significato del nome inteso in tutto il suo rigore, si aggiungono quelli in cui vi ha una diversità di gradi, ma non un grado assoluto al di là del quale non possa concepirsene un altro, quali grande^ piccolo, grave, leggiero, ecc. Queste due classi di attributi hanno il carattere comune di non convenire alle cose che d'una maniera relativa e in com- parazione con altre cose : un uomo si dice giusto in quanto è più giusto di altri uomini— perchè, come dice Platone, nessun uomo giusto é tale quale è lagiustiz'a ste-sa —,una linea (sensibile) si dice retta in quanto è meno flessuosa di altre linee, ecc., della stessa maniera che un oggetto si dice grande, piccolo, grave, leggiero, eec. in quanto è più grande, più piccolo, più grave, più leggiero, di altri oggetti. La proposizione che la bontà, la giustizia, la rettitu- dine, la rotondità, ecc. Idee rappresentano questi attri- buti ad un grado assoluto, mentre essi nelle cose non si trovano che ad un g'-ado relativo e comparativo, è in- compatibile, come abbiamo detto, con la proposizione che queste Idee sono nelle cose. La contraddizione sta in ciò, che Timmanenza delle Idee nelle cos-d significa la loro identità con gli attributi delle cose concepiti d'una maniera generale, ma la bontà, la giustizia, la rettitu- dine, la rotondità, ecc. assolute nen possono identificarsi con gli attributi delle cose, perchè Platone ammette che la bontà, la giustizia, la rettitudine, la rotondità, ecc. delle caie sono relative. Noi dobbiamo dunque costatare questa contraddizione in Platone: ma vi hanno delle considerazioni che la spiegano, e ch^ mostrano che la dottrina di cui parliamo, quantunque contradditoria al punto di vista dell' i«iimaneu/.a, è nondimeno a questo punto di vista che é nata, e non a quello della trascendenza. Noi sappiamo che uno dei principii del sistema delle - 136 - Idee è che il concetto e la scienza s! riferiscono all'Idea : da questo principio segue che per ogni concetto e per ogni conoscenza scientifica si deve ammettere nn* Idea che ne sia Toggetto. Ora lo spirito umano si forma necessariamente il concetto del buono, del giusto, della retta, del cerchio, della sfera, ecc. assoluti : di più la scienza che tratta del buono, del giusto, della retta, del cerchio, della sfera, ecc. si riferisce a questi concetti as- soluti, poiché l'etica non ha per oggetto le nozioni mo- rali in quanto si realizzano d'una maniera relativa nella condotta degli uomini, ma come norme di questa con- dotta, cioè come assolute, e cosi la geometria non ha per oggetto le figure approssimativamente regolari degli og- getti reali, ma le figure perfettamente reg:olari che non esi- stono se non nella definiziooe. Platone non poteva dunque rifiutare l'esistenza delle Idee corrispondenti ai nostri con- cetti assoluti^ senza mettersi in contraddizione con uno dei priDcipii fondamentali del sistema delle Idee; e si noti che questi concetti si trovano specialmente nella sfera dentro cui si muovono le ricerche più abituali di Pitone, cioè Tetica e la matematica. L'ammis^jione di que- sta classe d'Idee è inconciliabile col principio che le I- dee sono gli attributi stessi delle cose : per essere coe- rente in un punto, Platone diviene dunque incoerente in un altro; ma la premessa che lo conduce ad ammettere Idee che non potrebbero, in buona logica, identificarsi con gli attributi delle cose, quantunque lo forzi ad una conseguenza inconciliabile col principio dell'immanenza delle Idee, suppone nondimeno, considerata per se stessa, questo principio, la dottrina platonica che il concetto e la scienza si riferiscono alle Idee essendo, come abbia- mo visto, una delle prove più evidenti della loro imma- nenza. Ma ciò ehe si deve sovratutto notare è che la con- traddizione che vi ha tra rasssolutezza della bontà, giu- stizia, l'ettitudine, rotondità, ecc. Idee e l'immanenza di queste Idee nelle cose, non esiste che al nostro punto di vista, secondo cui bontà, giustizia, rettitudine, ro- tondilà^ ecc. sono dei nomi equivoci, che hanno un senso quando indicano questi attributi nel loro grado as- soluto, e un altro quando indicano gii stessi attributi quali si trovano nelle cose, cioè in un grado relativo, e per conseguenza la bontà, giustìzia, rettitudine, roton- dità, ecc. assoluto non possono identificarsi con quelle che sono attributi delle cose. Questo punto di vista è il vero, ma non è quello di Platone. La bontà, la giusti- zia, la rettitudine, la rotondità, ecc. in se stesse, cioè astrattamente considerate, sono, per Platone, come ab- biamo visto, la bontà, la giustizia, la rettitudine, la ro- tondità, ecc. assolute. Ciò non è logico, perchè il con- cetto astratto di ciascuno di questi attributi dovrebbformarsi facendo astrazione da tutti i gradi di cui essi sono suscettibili, tanto dai relativi quanto dall'assoluto. Se noi ci domandiamo il perchè di questo difetto di lo- gica in Platone, la risposta è facile : è che dopo aver fatto delle Idee della bontà, della giustizia, della retti- tudine, della rotondità, ecc. assolute, Platone non ha al- tro mezzo per conciliare l'esi^^tenza di queste Idee con la loro immanenza nelle cose, che quello di ammettere che la bontà, giustizia, rettitudine, rotondità, ecc. attri- buti delle cose, considerate in astratto, sono la stessa cosa che questi stessi attributi elevati ad un grado assolu- to. Come può Plalooe identificare T attributo considerato in astratto con l'attributo elevato ad un grado assoluto? Anche qui la risposta è facile, perchè essa si desume naturalmente dall'opposizione che Platone stabilisce tra |e Idee di ciascuno di questi attributi, nelle quali l'at- tributo esiste nella sua purezza, e le cose subordinate a queste Idee, nelle quali l'attributo esiste mescolato col suo contrario. Platone pensa che, per concepire la c^iu. stizia, la rettitudine, ecc. in se stesse, bisogna separare —nel senso della parola separare (xwpi^e.v) che abbiamo spiegato sulla fine del n. Vl-ciascuno di questi attri- buti da tutti gli altri che coesistono con esso nelle cose, per conseguenza anche dall'attributo contrario; la giù' stizia in se stessa sarà dunque una giustìzia pura, sen- z'alcuna mescolanza d* ingiustizia, vale a dire la giù- stizia assoluta; la rettitudine in se stessa, una rettitudine senz'alcuna mescolanza di flessuosità, vale a dire la ret- titudine assoluta, conforme rigorosamente alla defìnizio- ne geometrica; e il simile per tutti gli altri attributi di questo genere. Gli uomini giusti, le linee rette (delPe- sperienza), ecc. sono tali dunque per la partecipazione della giustizia, della rettitudine, ecc. assolute; se con tutto ciò la loro giustizia, la loro rettitudine, ecc. non è assoluta, è perchè partecipano anche airingiustizia, al- la flessuosità, ecc. Dalla mescolanza delle due Idee*op- poste, quantunque Tuna e Taltra assolute, nascono crii attributi relativi delle cose, che sono intermediari Tra i due assoluti opposti, e, possiamo anche ammettere, dalla diversa proporzione in cui le due Idee opposte sono me- scolate-perche Platone pensa che si può partecipare a unldea a gradi diff'erenti (l)-i gradi differenti di que- sti attributi; come le diverse gradazioni del grigio -e tutti i colori, come ammette Platone nel Protagora^ nascono dalla mescolanza dei bianco e del nero della luce e dell'oscurità. VELIA (vedasi) a: le coso sono slmili a misura che partecipano della Somiglianza, dissimili, della Dibsomigl] tianza. Alcuni ammettono che la dottrina di cui parliamo ha un valore generale per tutte le Idee, cioè che Plalooe concepisce ognliea come un tipo di perfez one a cui gl'individui non si conformano che d'una maniera ap- prossimativa. È un punto di vista che potrebbe sem- brare giustificato da questa riflessione, che l'individuo non corrisponde mai esattamente al tipo normale della sua specie, che è come il piano che la natura sembra prendere per regola di tutte le sue produzioni in questa specie, e al quale, come dice Kant, « la specie tutta in- tera è solo adeguata, e non questo o quell'individuo par- ticolare» \\), In ogni indiviauo, anatomicamente, vi hA sempre qualche anomalia (2), e le sue funzioni vitili^on si compiono forse mai tutte d'una maniera perfettiMPente regolare. Ma l'Idea deve essere concepita, mettendo da parte tutto ciò che vi ha ne;> l'individui di eccezionale, e non tenendo conto che di ciò che è regolare, perchè una rappresentazione qualsiasi dell'Idea sarebbe impossibile, se volessimo farvi entrare solamente gli attributi degli individui della specie che sono rigorosamente generala escludendone quelii che sono semplicemente la regola, ma con qualche eccezione. Cosi l'Idea sarebbe come una media di tutti gl'individui, come Kant dice della sua idea normale estetica (3); e potrebbe paragonarsi ai rt- tratti generici o tipici di Galton, ottenuti per la sovrap- posizione di diverse immagini, ritratti che sono più belli, a quanto si dice, di quelli particolari di cui sono la me- (V) Crit, del qiudizio, % XVII. (2) V) Darwin Origine delVvoYAO e. 4. (3) Critica del giudizio» ibid. — 138 - dia, e ai quali i concetti generali sono stati effettiva- mente paragonati (1). Qualunque sia il valore intrinseco di questo punto di vista, non si ha alcuna ragione di affermare che esso sia stato quello di Platone. 8e Platone avesse determi- nato così l'Idea, egli si sarebbe posto in contraddizione coi principii generali del sistema, secondo cui l'Idea è ciò che vi ha di uno e lo stesso in tutti gl'individui della specie : ora noi non possiamo ammettere altre contrad- aizioni a questi principii generali che quelle che risul- tano esplicitamente dai testi. Ma questi ci autorizzano ad affermare aolamenie che Platone ha riguardato come esemplari a cui le cose sono inadequate, le Idee corri- spondenti ai concetti che non trovano un'applicazione rigorosa nel mondo reale. L' argomento del Fedone 74 per dimostrare che l'Idea è qualche cosa di distinto da- gli oggetti sensibili, e quello analogo esposto da Ales- sandro d'Afrodisia, non potrebbero applicarsi al di fuori di questi concetti : non potrebbe dirsi degli uomini o dei cavalli che l'attributo uomo o cavallo non conviene ad essi rigorosamente, comesi dice doll'attr bufo eguale [)er gli oggetti eguali; e meno ancora ch'essi sono anche non uomini 0 non cavalli, come Platone dice che g'i oggetti eguali sono anche ineguali, i belli brutti, i giusti ingiusti, i santi profani, ecc. Per conseguenza, a difetto di prove che permettano di attribuire a Platone questa dottrina < 2), noi (1) V. Pelboeuf // hohììo p i sortni pag. 198. (2) Una prova di questa dottrina potrebbe vedersi nel luogo seguente della Repubblica : « Gli ornamenti di cui la volta dei » ieli è decorata, poiché appartengono all'ordine delle cose visibili, devono certamente ri- guardarsi come ciò che vi ha di più bello e di piu perfetto nel loro or- possiamo dispensarci di esaminare se e come essa sia com- patibile con quella dell'immanenza delle Idee. IV. Vi hanno dei luoghi in Piatone ch^, intesi alla lettera, significherebbero certamente la trascendenza : ma in essi i concetti platonici non sono esposti d' una maniera puramente scientifica, ma intimamente congiun- ti, o, a dir meglio, fusi, in modo da perdere il loro a- spetto genuino, con elementi evidentemente fantastici, dine, ma sono molto delicienti se si paragonano ai veri (alla vera ma frnilioenza, come traduce Cousin), cioè ai movimenti con cui quella che è velocità e quella che è lentezza {zò òv Ta^OC ^aì ri O'JOa ^pOL^ùir)^ cioè la velocità e la lentezza in se stesse, in astratto, perchè queste e- spressioni equivalgono a 5 lOTl xa^Ote» 0 lav. ^paSÓTYj^) nel vero (àXr^8lV(j)) numero e in tulle le vere (àXY]Béa'.) figure si muovono runa rapporto aWaltra e phuovovo ciò che ai esse inerisce (xà èvóvxa) : le quali cose possono apprendersi solamente col pensiero e con la ragione ma non con la vista. O pensi tu che possano apprendersi con la vista? — No, diss'egli — Adunque delia varietà che è nel cielo bisogna ser- virsi come di un esemplare per l'insegnamento di quelle cose, non altri- menti che se alcuno vedesse delle figure fatte da Dedalo o da un altro eccellente artefice o pittore. Se (}uello che le vedesse fosse un abile geo- metra, le stimerebbe certamente delle belle opere ; ma gli sembrerebbe ridicolo di considerarle attentamente per iscoprirvi la verità degli eguali, dei doppi o di qualsiasi altr> rapporto di misura — K sarebbe veramente ridicolo, disse Glaucone — Non far;» lo stesso il vero astronomo, guardan- do i movimenti degli astri ? egli crederà che dall'autore del cielo esso e le co<?e che sono in esso furono t:ost imiti della maniera più bella che è possibile ih tali opere : ma il rapporto della notte col giorno, e di essi col mese, e del mese mn l'anno, e dei periodi degli astri con questi e fra di loro, riterrebbe assurdo di credere che siano sempre della stessa maniera e non cangino mai, quando sono aventi corpo e visibili, e di cercare con ogni studio in queste cose delle verità rigorose —Certamente ora clie ti ascolto paie lo .>.tes>>o uncho a me, disse Glaucone — Trattiamo dunque l'astronomia come la geometria, servendoci dei problemi, e la- i sceverarli dai quali non vi ha altro mezzo die il confronto con le dottrine dell'autore per cui non vi ha alcun .dubbio che egli deve essere inteso alla lettera, prendendo per una dottrina reale ciò che è ad esse conforme, e tutto il resto per un semplice rivestimento poetico o un'alle- goria. Queste rappresentazioni fantastiche dei concetti di Platone che, prese letteralmente, proverebbero la tra- scendenza delle Idee, si riducono ai due miti del rimeo sciamo là i lenomeni del cielo (là sv xcji oOpavco), se vogimmo, per lo studio dell'astronomi», d'inutile rendere utile quest'organo del nostro spirito Cile la natura ha destinato all'i nteKigenza ^ (Rcp, 1. VII. 529 cójo e) Potrebbe credersi che i movimenti con cui xò dv lOtYCC e ti 0?>aa ppadÙTY]^ nel vero numero e in tutte le vere figure si muovono, ecc. significhi le Idee dei movimenti dei corpi celesti; e che il senso di questo luogo sia che i movimenti dei corpi celesti non si fanno con pe- riodi costanti e, in una parola . con regolarità, ma questa regolarità che manca nei movimenti reali, esiste nelle Idee di questi movimenti. Ma Platone non dice tutto questo: di queste due proposizioni egli arierma la prima, ma non la seconda. Tò òv -ò.yo^ e r^ oooa ^paÒÙTY)^ sono la velocità e la lentezza astrattamente considerate; il vero numero e le vere figure sono quelli che formano l'oggetto della matenjatica, vale .a dire dei numeri asti atti e al tempo stesso precisi e delle figure astratte e al tempo stesso regolari. Per ccnseguenza « i movimenti con cui xó Òv TOtxo^ e fj où^a Ppaò'JTY)^ nel vero numero e in tutte le vere fi- gure si muovono > ecc. ^^ol dire : dei movimenti astratti, cioè per con cepire i quali deve farsi astrazione da qualsiasi corpo determinato e da ogni altra circostanza in cui essi possono aver luogo, e non determinale altra cosa che le loro velocità relative e la natura delle linee che essi seguono; di più questi movimenti astratti dexono pensarsi avvenire se- condo rapporti numerici precisi e in linee perfettamente regolari (« I movimenti con cui xò òv xa/o? e y^ ouoa 3pa5'Jxr^? si muovono luno rapporto all'altra significa: dei movimenti più veloci e dei movimenti più lenti considerati nel loro rapporto: « muovono xà svóvxa: questi è dèi Pedro—\\ chiamo miti per conformarmi all'uso, ma sarebbe forse più proprio di chiamarli simboli o allegorie — . Nel Timeo Platone ci racconta che il mondo è stato fabbricato da un demiurgo^ il quale si serviva d' una materia preesistente, informe e in un movimento disordi- nato, e compiva la sua opera contemplando le Idee stessi movimenti considerati assolutamente). Ma Platone non dice che questi movimenti astratti siano le Idee dei movimenti dei còrpi celesti: ciò è anche escluso dalle parole « in tutte le vere figure », poiché i movimenti dei corpi celesti non si fanno in « tutte le vere figure », ma soltanto, secondo i contemporanei di Platone, nella figura circolare. In questo luogo Platone raccomanda di studiare il movimento d'una maniera puramente ipotetica, come la geometria studia le figure, supponendo, come il pift conveniente per lo studio, che i movimenti si facciano secondo rapporti numerici precisi e in 'inee perfettamente regolari, perchè questa supposizione è necessaria per sottometterli a un calcolo rigoroso ; senza curarsi se i movimenti reali della natura corrispondano o no ai movimenti ipotetici della teoria (anzi essendo sicuri che non vi corrispon- dono mai esattamente), come il geometra non si cura se nel mondo reale esistano 0 no delle figure conformi alle definizioni geometriche. Platone vuole che V astronomia si consideri sovratutto come una occa- sione per questo studio ipotetico del movimento: è che lo studio di que- sta scienza ha sovratutto per lui il valore d'un esercizio matematico; la sua utilità non è tanto per la conoscenza dei movimenti reali degli astri quanto per i problemi matematici a cui dà luogo la considerazione di questi movimenti (« studiano l' astronomia, come la geometria, in grazia dei problemi, e lasci;imo là le cose del cielo »). Le scienze ohe nell'e- ducazione platonica di cui nel VII della Repubblica, formano la propedeutica della dialettica, hanno lo scopo di svegliare il bisogno e di fornire pre- ventivamente un tipo approssimativo della conoscenza assoluta^ cioè di una scienza puramente deduttiva che lo spirito sviluppa dal suo proprio fondo. Ora a questo scopo non pos.sono servire che le matematiche (scienza dei numeri e geometria): ne segue che le scienze affini, come l'astrono- mia, che Platone riunisce con le matematiche sotto il nome comune di Siocvota, non hanno per lui del valore, quasi esclusivamente, che come applicazioni delle matematiche. BE»«« ^«*i r éoine raodelll; ciò ohe, se dovesse prendersi sul serio, implicherebbe certamente la separazione tra il modello e la copia, le Idee e le cose. Il carattere mitico del rac- conto del Timeo è generalmente riconosciuto dagl' inter- preti modp-rni : ma i più ammettono che questo e gli altri miti filosofici che si trovano in Platone siano, non già il rivestimento fantastico di coccetti che 1' autore è pure in grado di determinare d'una maniera scientifica, vale a dire dei simboli, ma dei convincimenti reali d- Platone, il quale là dove i>li mancava il concetto tìlosoi fico, vi avrebbe supplito con descrizioni fantastiche e poe- tiche. Noi non possiamo trattare qui questa quistione della natura del mito del Timeo, non avendo ancora stabilito i dati necessari per risolverla: perciò devo rinviare al Siipplemenio C, n. IV. Ivi vedremo che la cosmogonia del TiTìuoè un senrplice simbolo, qual è la dottrina che questo simbolo rappresenta, e perchò Piatene ha pre- ferito la forma simbolica a un' esposizione puramente scientifica. Sono dei punti che ci sarebbe impossibile di dimostrare prima di avere esposto la dottrina simboleg- giata nella descrizione mitica del Timeo e i rapporti di Platone col pitagorismo. Dimostrata la natura simbolica della narrazione del Timeo, sarà per conseguenza dimostrato il niun valore della prova che se ne può tirare per la trascendenza deHe Idee. Per ora mi contenterò di ricordare un epi- sodio di questa narrazione, di cui abbiamo già parlato al n. VI, cioè la frrmazione dell'anima, da cui si vede che Platone riguarda le Idee come un elemento costitu- tivo delle cose; e di aggiungere che l'immanenza è evi- dente nei luoghi di questo dialogo in cui l'autore parla, non più da mitologo, ma da filosofo, per esempio in quelli in cui chiama le Idee Vessere, o dice che la V. n. TX. materia contiene tutto (1), per conseguenza anche le fdeé. Quantunque la narrazione del Tim^o porti in se stessa delle prove chiarissime dimostranti che non deve essere intesa letteralmente, tuttavia non è difficile di capire come essa abbia potuto essere presa sul serio : è che, intesa letteralmente, contiene una spiegazione del mondo— l'an- iropomorfistica-più conforme alle tendenze spontanee del nostso spirito, e per conseguenza d'un valore più facile a comprendere, che la dottrina reale che essa sim- boleggia (la quale dt l resto, per essere compresa, ha bi- sogno di una conoscenza profonda del sistema). Ma il carattere puramente fantastico e poetico della narrazione del Fedro (24f> e-248 e) è talmente evidente, che nessuno potrebbe essore tentato di prendere questo mito in un senso letterale. Il soggetto del racconto è l'intuizione delle Idee che l'anima ha a\uto in una vita anteriore. Platone comincia con una semplice comparazione : l'a- nima è simile a un cocchio alato con un auriga e duo cavalli; i cavalli dell'anima divina solo tutti e due buoni e di buoni, di quelli dell'anima umana Funo è buono e l'altro cattivo. La virtù delle ali è di portare il grave A 50 e: eéxsTat toc TiàvTa A 51 a la chiama Tcav^sxsg, e a 50 e lò xà ::àvxa sxdsfójisvov sv a'jxw y^vY]. In quanto la materia contiene le Idee, cioè è il loro sustrato, si dice «he partecipa di esse. V. Tim. ">! a e Arist. Phys, 1. IV. II 5, Met. 1. I. vili. IJ, ecc. Questo senso della parola parteciparti cioè dei suoi equivalenti greci, è alquanto differente da quello in cui la troviamo usata negli altri scritti di Platone, nei quali sono le cose ohe partecipano alle Idee: ma anche in questo senso la pa- rola prova la presenza delle Idee nelle cose, e di una maniera forse ancora più evidente. L'anima secondo Platone consta di tre parti : l'auriga rap- presenta la parte superiore, cioè la razionale; i cavaUi le due parti inferiori; il buono quella dove è il coraggio, il cattivo queUa dove sono i d»i»ideri sensuali. l. lì ' nell'alto, dove abitano gli dei : Tanima a cui le ali sono cadute, tende al basso e si unisce ad un corpo terreno. Le ali dell'anima si nutriscono del bello, del buono, del saggio e di tutto ciò che è di questo genere. « Quando (gli dei accompagnati dalle anime che possono e vo- gliono seguirli) vanno al convito e alle vivande, salgo- no alla sommità più elevata della volta celeste. I carri degl'immortali, sempre in equilibrio, si avanzano con leggierezza; gli altri saliscono con pena, perchè il cat- tivo corsiero s'aggrava, s'inclina e precipita verso la terra, se non è stato ben allevato dal suo cocchiere. E rultima e la più grande prova che Tanima abbia a so- stenere. Le anime di quelli che chiamiamo immortali, dopo essersi elevate sino al più alto del cielo, uscite fuori, si mettono sulla parte convessa della sua volta; e mentre vi stanno, il movimento circolare le porta in gi- ro, ed esse contemplano ciò che è fuori del cielo. Il luo- go sovraceleste (OuepoopavioO no» ^ s^^to ancora cele- brato da alcuno dei nostri poeti, e non lo sarà mai de- gnamente. Ecco tuttavia com'è, poiché non bisogna te- mere di dire la verità, sovratutto quando si parla sulla verità. L'es,<jenza realmente esistente, senza colore, Fen- za figura (1), impalpabile non può essere vista che dalla guida dell'anima, l'intelligenza. Intorno ad essa è il luogo della vera scienza. Come il pensiero degli dei che si nutrisce d' intelligenza e di scienza senza mesco- Platone nega alle Idee la figura eli colore nello stesso senso in cui nega ad esse il cangiamento: egli non esclude da esse la fi- gura, il colore, il cangiamento eVea/i-vale a dire non nega che queste cose siano anch'esse rappresentate nel mondo ideale-ma solo la figura, il colore, il cangiamento feuomeni. ianza, anche quello di ogni anima che deve raggiutì- gero il suo destino, vedendo 1' essere, da cui era da lungo tempo separato, contento della contemplazione dell a verità, se ne nutrisce e gode, sinché il movimento circolare riconduca al punto di partenza. In questo giro vede la giustizia stessa, vede la temperanza, vede la Fcienza, ncn quella in cui vi ha cangiamento e che è difl'ereute nei differenti oggetti che ora chiamiamo es- seri, ma la scienza che è in quello che è veramente es- sere; e dopo aver contemplato allo stesso modo gli al- tri esseri veri ed essersene abbondantemente nutrita, Ta- iiiina rientra neiriuterno del cielo, e se ne ritorna a casa. Subito che arriva, l'ain'iga conducendo i corsieri alla stalla, sparge d'innanzi ad essi l'ambrosia e versa il nettare. Tale è la vita degli dei. Fra le altre anime, quella che segue il meglio le anime divine e che loro rassomiglia il più, innalza la testa del suo cocchiere nel luogo sovraceleste, e va cosi, portata dal movimento cir- colare; ma è turbata dai suoi corsieri, e vede a stento gli esseri. Un'altra ora s'innalza ed ora si abbassa; per la inobbedieuza dei suoi corsieri, vede alcuni esseri ed altri no. Le alt'-e vengono dietro, bruciando dal de- siderio di contemplare la regione superiore, ma non po- tendolo : sommerse, sono portate intorno, pigiandosi e gettandosi i'una sull'altra per cercare di oltrepasaars'. Ne nasce un tumulto, una lotta e un sudore estremo. Molte sono storpiate per colpa dei cocchieri, molte per- dono una gran parte delle penne delle loro ali; e tutte, dopo penosi e inutili scorzi, se ne vanno prive della vista dell'essere, e si pascono d' un alimento opinabile. La causa dei loro sforzi per vedere il cnmpo della verità è che l'alimento conveniente alla parte migliore dell'ani- ma si trova in questo prato, e la natura delle ali, che innalzano Tanima, se ne nutrisce; ed è una legge d'A- u^^-^ .i-iiau> wtom drastia che qualunque anima, seguendo gli dei, ha ve- duto alcuno dei veri, resti immune sino all'altro circuito, e se può far questo sempre, sia sempre illesa » (il dunno da cui quest'anima sarà preservata è l'incarnazione) (1). Tutti i particolari di questa descrizione sono eviden- temente poetici e allegorici. Il luogo sovraceleste dove le Idee sono collocate, non lo è meno del cocchio alato con Tauriga e i due cavalli o la nutrizione delle ali del- l'anima con la contemplazione delFessere : noi sappia- mo infatti che la dottrina di Platone è che le Idee non sono in alcun luogo (2). Che dritto si avrebbe dunque di ammettere che la trascendenza delle Idee non sia an- ch'essa una circostanza poetica, quando essa non ci è data che nell'immagine della loro collocazione in un luoo*o fuori del cielo? È certamente un problema di de- terminare sin dove si estenda, nel mito del Fedro, Tele- mento fantastico, e quale sia il concetto filosofico che vi è racchiuso. Io non posso seguire qnegl' interpreti che vedono una circostanza poetica e allegorica nella ste-^sa intuizione delle Idee. Questa è ammessa, oltre che nel J^edro, nel T\meo (41 e) e in tutti quei luoghi in cui Platone parla della sua dottrina che la scienza è una reminiscenza, poiché questa dottrina ha appunto per fondamento rintuizioue delle Idee in una vita anteriore. In alcuni di questi luoghi (3) la dottrina della remini- scenza è esposta nella forma più scientifica che possa trovarsi in Platone, mancando, per conseguenza, qualsiasi ragione di supporre che si tratti d'una semplice allego- (1) Fedro 247 b-248 o. (2) V. rim. 52 b-c, Arisi. Phys. l. IV. IT. 5, l. III. IV. 2, ecc, (3) Men. 80 d-86 a, Fedo, 72 e-77 d, ofr. 91 6-92. ria (a meno di escludere a priori la possibilità che Pla- tone abbia ammesso seriamente questa dottrina e le al- tre che vi sono connesse), ed è data come una delle prove più forti deirimmortalità dell'anima. I più conse- guenti tra gl'interpreti che negano che la reminiscenza sia stata una dottrina seria di Platone, ammettono, è vero, che non solo la reminiscenza, l'intuizione delle Idee, la preesistenza, ecc., ma anche la stessa immorta- litcà dell'anima sia in Platone un mito e un semplice simbolo. La dottrina rappresentata da questi simboli sa- rebbe l'identità tra l'essenza dell'anima e il mondo i- deale, cioè tra l'intelligenza e l'intelligibile, il pensiero e Tessere. Non è qui il luogo di discutere quest'opinione : osserverò semplicemente che sarebbe impossibile a que- sti interpreti di assegnare un sol luogo negli scritti di Platonp, in cui la dottrina che l'autore avrebbe simbo- leggiata con l'intuizione delle Idee, l'immortalità del- l'anima, ecc., cioè quella dell'identità dell'essere e del pen8i( ro, sia chiaramente esposta, in una forma, non al- legorica, ma puramente scientifica. L'Idea di Platone è appunto in ciò che differisce da quella di Hegel : questa è al tempo stesso un'entità generale e un concento ge- nerale, mentre 1' Idea di Platone è solo un'entUà ge- nerale, f'he non è identica al concetto generale, ma è solo r oggetto a cui questo si riferisce. Non vi ha d'altronde alcuna ragione, fondata sull'indole stes- sa di queste dottrine, che impedisca di ammettere che Platone abbia realmente creduto alla reminiscen- za e all'intuizione delle Idee in una vita anteriore. Il problema di cui Platone cercava la soluzionp, era la poss b lità della coincidenza tra il pensiero e la realtà ni Ila crnoscenza a priori, problema che diviene d'un'ur- genza speciale nei s stemi costruiti sullo stesso tipo che il sistema platonico, perché secondo essi tutta la scienza è a priori, e inoltre vi ha la più perfetta corrispondenza tra il pensiero e l'essere, questo essendo astratto e gè nerale come quello, e l'ordine ontologico essendo iden- tificato con l'ordine logico. Ora se noi esaminiamo le risposte che si sono date a questa quistione, vale a dire di spiegare questa coincidenza tra la conoscenza (a priori) e l'oggetto conosciuto, troviamo che la più parte di esse, compresa la dottrina dell'identità tra Tessere e il pen- siero, consistono ad assimilare il fatto al fenomeno fa- miliare in cui questa coincidenza ci pare naturalissima appunto perchè il fenomeno è familiare (senza di che rassimilazione ad esso non potrebbe costituire una spie- gazione per un metafisico), vale a dire alla percezione sensibile (nella quale, secondo la credenza naturale, vi ha la presenzaimmediata dell'oggetto percepito. He- gel assimila il rapporto tra il pensiero e il suo oggetto alla percezione sensibile solo in quanto ammette la pre-senza del secondo nel primo, come la credenza naturale ammette la presenza del sentito nella sensazione: l' assi- milazione che fa Platone è più completai, perchè il rapporto immediato del pensiero con le Idee è per lui una vera intuizione, che non si distingue dalla sensibile (quale . questa è secondo la credenza naturale) se non in quanto la facoltà intuitiva non ò il senso ma T intelligenza. Cer- tamente vi ha nell'intuizione platonica una circostanza, per cui essa si distingue dalle ipotesi analoghe di altri metafisici, e sembra avvicinarsi a un semplice mito : e che quest'intuizione ha avuto luogo in una vita anteriore. Ma un'intuizione attuale delle Idee sarebbe sembrata a Platone in contraddizione coi fatti: in eifetto, si deve (i) Cfr. Append. e. 2 § 9 e Saggio I. e. 3 ^ 7. supporre che quest'intuizione è permanente nello spirito ? ma in questo caso la scienza sarebbe innata e continua- mente presente al pensiero. Si deve supporre invece che lo spirito intuisce un'Idea solo quando ha coscientemente il pensiero corrispondente a quest'Idea? (dico cosciente- monte^ perchè Tipotegi di un'intuizione permanente implica quella di un pensiero permanente, ma inco- sciente, di tutte le Idee) ma in questo caso non si com- prenderebbe perchè Tldea viene, per dir cosi, a porsi dinnanzi allo spirito intuente precisamente nel momento richiesto dalla connessione logica o psicologica dei con- cetti. Io credo dunque che non si ha alcuna ragione di negare che Platone abbia realmente ammesso che l'a- nima ha intuito le Idee in un'altra vita, e che la cono- scenza che ne acquista nella vita attuale è una remini- scenza. L'ipotesi della reminiscenza poteva essere un complemento di quella dell'intuizione, perchè anche la prima consiste, come la seconda, nell'assimilazione del f tto che si trattava di spiegare a un fenomeno familia- rissimo, uniformandosi cosi anch'essa alla condizione necessaria di ogni spiegazione metafisica. Ma quali sono le condizioni di questa intuizione delle Idee in una vita anteriore? come comprenderne la pos- sibilità ? perchè in una vita anteriore è possibile ciò che non lo è in questa ? Sono delle quistioni a cui non éi potrebbe pretendere da Platone una risposta. È qui che si origina il mito del Fedro. Platone, volendo rappresen- tare un fatto le cui circostanze sono irrappresentabili, non poteva darne che una rappresentazione poetica : ma questa, quantunque non fosse che una finzione, doveva avere tutta quella verosimiglianza che è necessaria in una finzione poetica. Ora la circostanza più naturale che si presentasse all'immaginazione di Platone, e la quale spiegasse d'una maniera poeticamente verosimile come Hi l'intuizione delle Idee, non possibile nella vita attuale, lo è in una vita anteriore, era la situazione delle Idee in un luog:o, allora accessibile airanima, ma ora inac- cessibile. Tutte le altre circostanze del mito, il cocchio alato, la nutrizione delle ali dell'anima, ecc. non sono che degli accessori di quest'idea, cioè di quest'immagine, fondamentale. L'esistenza delle Idee in un luogo fuori del cielo si prestava, come le altre circostanze del mito, ad un senso allegorico : essa significa che le Idee non fanno parte del mondo sensibile, del mondo dei fenome- ni, il cielo rappresentando la totalità delle cose sen- sibili. Del resto Timmanenza, nel mito del Fedro, oltre che dalla dottrina stessa della reminiscenza— la quale sup- pone che il concetto generale ha per oggetto Tldea, poi- ché é questo che viene riguardato come la reminiscenza deiridea intuita in una vita anteriore r249b-cì— e dalla designazione delle Idee per i nomi Vessere, il vero, ecc., è chiaramente dimostrata dal luogo seguente: Ma la beltà (xdXXo^ì, come dicevamo, brillava allora tra quelli (cioè tra le Idee intuite dall'anima), e venuti in questo mondo, l'abbiamo percepita (xaTetXT^cpajjiev aù-có), risplen- dente della luce più chiara, per il più acuto dei nostri sensi. La vista è in effetto il più sottile degli organi del corpo; tuttavia essa non percepisce la saggezza... mala sola beltà ha avuto questa sorte, di essere più di ogni altra cosa manifesta ed amabile » (1). La beltà Idea, che l'anima ha intuito, 6 qui identificata con la beltà che i sensi percepiscono, La bellezza che vediamo qui (in que- sta vita) è pare distinta, è vero, da quella che intui- 250 d, yanio allora (quando eravamo in compagnia degli dei) (1) : ma noi abbiamo già osservato che il rapporto tra le Idee e il sensibile è al tempo stesso d'identità e di differenza, e che se la trascendenza delle Idee spiega la differenza, non può spiegare l'identità, mentre l'immaneuza spiega tanto Tuno quanto i'altra. V. V'eniamo infine alla prova più forte dell' interpre- tazione trascendentalista, la testimonianza d' Aristotile. Io non mi dissimulo la forza di questa prova, e riconosco che essa costituirà sempre l'ostacolo più grave che in- contrerà r interpretazione contraria. P] certaix.jnte que- st'ostacolo sarebbe insormontabile, se la testimonianza d'Aristotilt^ fosse così chiara e certa, come suppongono gl'inteppreti trascendentalisti. Ma essa è ben lungi dal- l'essere tale. Osserviamo in primo luogo che l'interpre- tazione d'Aristotile ha bisogno alla sua volta di essere interpretata, e gli stessi equivoci a cui dà luogo l'inter- pretazione di Platone, s' incontrano naturalmente in quella dell'esposizione che Aristotile fa di Platone. Ne segue che le prove contro l'immanenza delle Idee con- tenute in questa esposizione sono assai minori in realtà di quante ve ne trovano gl'interpreti trascendentalisti. Noi abbiamo già visto che molte espressioni per desi- gnare le Idee e i loro rapporti con le cose in cui si pretende Ci ve«l?re gli argomenti più forti della loro tra- scendenza p. e. il xwptoxó^, l'sv Txapà xà :ioXXà, ecc. non hanno ne< ^ssar-aniente la portata che loro si attribuisce. La stessa osservazione vale per certe obbiezioni ài A- ristotile contro la dottrina delle Idee, che secondo gl'in- terpreti trascendentalisti non san^bbero possibili cli3 uel- (1) 2Ì9-250. ripotcsi della trascendenza; p. e. quella del terz'uomo. Noi abbiamo visto (nel numero V, 3* B) che questa obbiezio- ne si comprende facilmente anche nell'i potesi dell'imma- nenza, ciò che è anche provato dal fatto che Platone, nel Parmenide, la rivolge contro la propria dottrina im- mediatamente dopo quella che mostra la ditticoltà di con- cepire come l'uno inerisca simultaneamente nei molti. Una prova simile si ha per il rimprovero che Aristotile fa ripetutamente a Platone di avere raddoppiato inutil- mente gli esseri (1): questo raddoppiamento degli esseri, obbiettato alla dottrina delle Idee, dimostra cosi poco la loro trascendenza^ che noi troviamo la stessa obbie- zione rivolta contro la dottrina che ammette le entità matematiche, non separate dalle cose (xs/optaiiéva tc5v ala^Y^TCtìv), ma nelle cose stesse (sv loìq, ala^Yjxots). Si deve notare inoltre che molti luoghi, in cui Ari- stotile si rappresenta certamente le Idee come separate dalle cose, non importano pertanto necessariamente che egli attribuisca a Platone questa dottrina. L'Idea plato- nica, come abbiamo più volte osservato, per quanto può essere un oggetto di rappresentazione, non può essere rappresentata che come separata dalle cose, perché è im- sibile di concepire come una sostanza sia al tempo stesso un attributo, e inerisca simultaneamente in una molti- tudine di soggetti. Per conseguenza Aristotile poteva am- mettere la separazione delle Idee dalle cose e ragionare su questa premessa, anche riconoscendo che 1 Platonici affermavano a parole il contrario— a parole, perchè nes- suna rappresentazione reale poteva corrispondere alle loro affermazioni— in quanto egli pensava che le Idee, Met. 1. 1. IX. 1, l. XI. 11-2. ecc. se esse esistessero, non potrebbero esistere che separate dalle cose. É chiaro in alcuni casi che è cosi che »i de- vono intendere effettivamente certe proposizioni in cui Aristotile nega l'inerenza delle Idee nelle cose. Cosi ia Met. 1. I. IX. 7 dice; € Né (le Idee) giovano alla sdeate delle altre cose— perchè non sono sostanze di queste, poiché sarebbero in esse— né all'essere, non inerendo nei par- tecipant?: infatti potrebbe credersi ch'esse sono cause deircstcre delle cose come il bianco, mescolato, é causa a una cosa di esser bianca; ma é facile di confutare questo concetto, che Eudossio ed alcuni altri hanno pro- posto, seguendo Anassagora Qui Aristotile mantiene la sua proposizione, che nega l'inerenza delle Mee nelle^ cose, anche di fronte alla proposizione di Eu^Qssip e de- gli altri, che l'affermano della maniera più energica: é che egli distingue tra l'ipotesi delle Idee considerata in se stessa, vale a dire nelle sue condizioni necessarie, e le affermazioni verbali dei platonici. Similmente in Met. 1. VII. XVI. 4-6 dice: « L'Uno non può essere una so- stanza, per la stessa ragione per cui nessun altro Ateiuoe può essere una sostanza. La sostanza, in effetto, Qon i- nerisce che a se stessa e a ciò di cui é sostanza. Di più rUno non sarà simultaneamente in molte cose, ma il comune esiste simultaneamente in molte cose. Per cui é chiaro che nessuno degli universali è oltre (iiapa) i singolari separatamente. Ma quelli che ammettono le Idee in parte dicono bene, cioè quando le separano (x<«>P^Covx6g), s'è vero che sono sostanze; in parte dicono mal»^, cioè quando chiamano lldea l'uno nei molti», KWdentemente -•-( ' (1) Off. n. VI. TOMO la ftns. -146- qui la propcsizione <^ l'Uno non sarà simultaneamente in molte coso . non è nini testiinoniair/a sulla dottrina platonica^perchè anzi Aristotile rimprovera ai platonu-i di asserire che Fldea è Tuno nei molti -, ma una dedu- zione dello stesso Aristotile, che nega l'inerenza deiridea nelle cose come logicamente impossibile per le stesati ragioni che nói abbiamo dette, cioè perchè una sostanza non può inerire in un altro so^rgetto, e meno ancora m una moltitudine di soggetti allo stesso tempo (1). Tuttavia vi hanno dei casi in cui questa spiegazione è inapplicabih', e nei quali bisogna riconoscere che, par landò della separazione dolle Idee dallo cose, Aristotile non emetta un appre^zamenlo proprio sulle conseguenze logiche dellMpotesi delVesistenza delle Idee e le condi- zioni della loro rappresentablità, ma attribuisce ai pia- Gir. .V. Mn,. l. T. 1. 12: « Bisogaa parlare dellLÌpa ^ol bene o no ma piuUoslo di quel bene coiìiuuo che inornce iu lutti i boDi parlicola.iVquB.tobeae. iuetfHUo, p^irrà giu^nunento es^er». di- vergo dall'Idea. I.'ldoaiafatti è separabile iyj'K^iZ'i^' ede.i.teper se stes-a ( a'KÒ xaO'a'JTÓj, ma il romune iuBri,.-- i. lotti i p:*r. licola.i. Xon ^ dunque lo stesso (it comune) o..l c..par«*hilo, poioh^ è impossibile cb« oi^ nhe ò separRbilo e capare di esi.ten'^ \9r .e. stesso inpri-jca in tutti i particoli.ri,. Nell'Aia Ev^X l. Vili. ladisHn/ione dtd'ldea dol bone dal bene comune, cìtre olu> da que,t'impo.^:biV.-. .l'inerire «l temp) stesso in molte co.e {l. 1. Vili. 11;. è dedottn nuche da un'alt ra ra- gione . cioè da ciò che il bene cornane - inerisce »nohe ad un bene mediocre „ (1. l. Vili. 18-L'liea del bene era riguardata come il bone assoluto, Honz'alcuna mescolanza di mal M. gui la uocessila della ira^cmiden/a .(«oU'ldea .i ia derivare dalla dnterminaxione eh. Flatrme attribuisce ad alcune Idee, dj rappresentare l'attributo ad un grado assoluto, mentre e«so nelle cose non ^i trova ohe ad un l^rado relativo (v. n. ìli.) III tonici di professare in effetto la dottrina che le Idee sono separate dalle cose. Nelle Top. 1. II. VII. 3 dice : « Si devo considerare se si faccia qualche att'ermazione su qualche soggetto, dalla quale ne seguirebbe che in questo soggetto inerirebbero delle proprietà contrariei come se si aflermi che le Idee siano in noi »,E continua mosti-ando le coatraddizioni che risulterebbero da questa affermazione, cioè che le Idee sarebbero al tempo stesso immobili e mosse (perchè noi ci moviamo;, intelligibili e sensibili (perchè le forme delle cose si percepiscono coi sensi). Qui Aristotile sembra supporre almeno che l'opi- nione più abituale di quelli che ammettono le Idee, o la più autorevole, sia, non rimmanenza, ma la trascen- denza. Forse però questo luogo potrebbe significare so- lamente, come altri di cui ci occuperemo iu s'-guito, che Aristotile ammette la possibilità delle due interpretazioni contrarie del sistema delle Idee Ma in alcuni luoghi non può esservi dubbio che Aristotile non attribuisca recisa- mente ai partigiani dello Idee la dottrina della trascen- denza. Fra di essi segnalerò: 1 ^ Quelli in cui le entità am- messe da Platone e dai platonici Idee ed entità mate matichel vengono designate come separate dalle cose (x£xo)?'.afi£va xcov cvtwv, xolv atc»ir.:o)v. ecc.) 2" Quelli in cui la dottrina platonica sui numeri viene distinta dalia pitagorica, perchè i numeri pitagorici sono nelle cose o. queste constano di fssi, ma i numeri platonici sono separati ix<'>pt7ToJ o /.cxfop.ajiivo.} (2) 3^ Quelli in cui si distinguono due frazioni nella scuola platonica, di cui runa ammetterebbe le entità matematiche nelle cose V. j;w. 1. III. IV. 25, i. ni. li. lò, I. xm. i. 4, n. 9, ni. a, 6. (2) V. Mei, l. Xni. VI. 4, 7, 1 XIV. Ili, 2. — 147 - si- . \ .A. e Taltra separate (i). Si noti che Aristotile obbietta al- ropinione che queste entità sono nelle cose, che in que- sto caso anche le altre entità, le Idee, dovrebbero essere nelle cose (2). È dunque incontestabile che vi hanno in Aristotile un certo numero di luoghi in cui le Idee sono chiara- mente interpretate come separate dalle cose. Non, ne se- gue però che la sua testimonianza sifi assolutamente favorevole alla interpretazione trascencjent^ista, perchè, a lato di questi l^OghÀ,.^ l'esposizione aristotelica delle dottrine platoniche contiene delle prove cosi forti d^la immanenza delle l4ee, che basterebbero, anche nel caso che noi non po8sed€|8simo gU scritti di Platon^ P^: rp- vesciare rinterpr^tazione tascendentalista, e restituire a queste dottrine Jl^ loro signi^cato reale,^, Nel -corso 4i questo Supplem^ip^to abbiaiijip già. utilizato alcione d^i^q^i^- ste prove; ma l^9p abbiamo tenuto i^onto che di qnc^^M^Ja cui evidenza ci sembrava al di fuori d'ogni dubb|Oj>„,e ci siamo astenuti di servirci di un gran numero di iw- ghi che, quantunque probanti per se atessi, potevano ;ian- dimeno far nascere qualche esitazione, per la contraddi- zione con gli altri, in cui Aristotile sembra ammettere, o am- mette effettivamente, Tinterpretazione trascendentalista. Ma cosi facendo, ci siamo privati di molte prove deirimma- nenza delle Idee, che sarebbe tanto meno giusto di ue^ gligere, che alcuni tratti della dottrina platonica, i quali dimostrano chiaramente quest'immanenza, risultano più nettamente ancora dall'esposizione di Aristotile che da- (1) Mot. I. Ul. l. 16, a. Ì7-22, l. XIU. l. 4, II, HI. V. su que»ta di- stinzione il n. VI, verso la fine. (2) V. Met. 1. Ili- li. 21, 1. XIU. 11. 1. gli scritti stessi di Platone, o anche non si trovano che nel solo Aristotile, perchè appartengono alla parte non scritta del platonismo (àrpa^a dÓYtiaxa). Tali sono: 1. L'universalità delle Idee. L'Idea è, secondo Ari- stotile, ciò che si attribuisce a tutti gl'individui d' una specie o di un genere fi), il comune (xo'.vóv) nelle cose particolari, l'universale (xaOóXoj) (3), il predicato in co- mune (xotvfj xaxTjYopoójisvov) o universalmente (xaGóXcu xax.) Si dirà che queste determinazioni non devono prendersi in un senso strettamente rigoroso, e che tutto ciò significa, non che le Idee siano realmente gli attri- tributi generali delle cose, ma che Platone ha trasformato i predicati generali in altrettante sostanze, in modo che queste sostanze astratte abbiano lo stesso contenuto che gli attributi generali delle cose, ma senza identificarsi con essi (6j. K certamente bisogna ammettere che le espressioni designanti Tldea come l'universale non aveano per Aristotile che un significato vago ed incerto. Ma si deve notare che Aristotile non dice solamente dell' Idea che casa è l'universale, il comune, il predicato univer- (1) MeU l. III. I. 9, l. III. HI. 7, 10, 12. 13. (2) Eth. Nic, 1. 1. VI. 2, 3, 11, Eth, End. l. I. Vili. 9, 10, 11 Met. 1. I. IX. 5, l. ili. III. 1, I. VII. XVI. 4, 1. XIII. IV. 10, l. XIV. III. 12. (3) Met. 1. III. III. 7, IH, IV. 1, VI. 5, 6, 1. VII, XIU. 2, 4, 7, XVI. 5, l. X. II. 1, 1. XI. I. 11, l. Xlll. IV. 4, IX. 17-20, Eth, Nic, 1. I. VI. 3. Àn, Post, 1. I, XXIV. 3, eoe. (4) Eth, End. 1. I. Vili. 10, Mei. 1. III. VI, 5, 1. VII. XTII. 7. Met, 1. III. III. 13, VI. 6, 1, VII. XIII. 2, 1. X. II. 1. Cfr. n. V in principio. almcnte, ma ancora ch'essa è universale (I ), che è co mune (2) e che si predica universalmente di tutti (3). Le ultime forme non sembrano suscettibili, come le prime del senso improprio che abbiamo detto. Più importante è ancora di segnalare certe obbiezioni contro la sostan- tifìcazione degli universali: p. e. Aristotile dice (contro Platone): l'universale, o il comune, ecc. non può essere una sostanza, perchè è un attributo (4ì, o perchè ine- risce in molti (5). Queste obbiezioni suppongono che i termini Vuninersale, il comune, ecc. si applicano all'I- dea in un senso rigoroso, perchè esse non valgono che in questo caso. Aggiungiamo infine che T individuo è chiamato, relativamente allldea, il soggetto (6). 2. Le Idee essenze o sostanze (oOoìaO delle cose. E una determinazione che Aristotile attribuisce a ogni momento alle Idee (7) ^«rciò noi potremmo rivolgere a lui stesso la domanda che egli fa ai platonici: Se le Idee sono le sostanze delle cose, come sarebbero sepa- rate? i>M. 1. I. IX. 11). Questa domanda, s'intende, si rivolgerebbe ad Aristotile come interprete trascendeva^ listarma vi hanno delle ragioni per dubitare almeno ohe tutte le volte ch'egli afferma o suppone che le Idee sono le essenze delle cose, egli si tenga fermamente al punto (1) FAh. Mr. l. I. VI. 3, 3M. 1. III. VI. 5. f>. l XIII. IX. 17. 20. Kth, Sic. 1. 1. VI. 2. B, 11. t:th. Fuii, l. i. VUL 9, M^i- L I rx. 5, i. XI n. rv' io. Mtt. l. III. UT. 13, VI. 6, 1. X. II. 1. <4) Mei, 1. VII. Kill- 4, 1, VII. XVl. 4. eoo. (5-, Mei. l. VII. XIIJ. 2, l. VII. XVI. 5, l. X. II, 1. E Met. l. VII. VI. 7. (7. Met. l. I. VI. 7, l. 1. IX. 11. 21, l.m. IV. 6, 7, l. VII. VI. 4-8, xm. 3, 4, i. vm. ni- o, i. xi. n. io, i. xm. i. 2, 3, x. 2, 1. xiv. v, 7-b, ©oc. di vista di quest'interpretazione. La prima è eh' egli i- dentiiìoa continuamente Vcifsenza della filosofia platonica con Vessenza della saa propria filosofia (1) (.«^alvo, be- ninttso, che nel suo proprio sistema T essenza non ha che un' esistenza concettuale, e si distingue dalla ma- (1) Cosi p. e. ìa Sifl, 1. Ili. IV. 6: " Ancora, se la materia è, perchè è ingenita, iriollo più ragionevole è che sia l'essenza, vale a dire ciò ohe la materia diviene. Infatti se non è né questa né quella, non sarà assolatamente niente. Che se ciò è impossibile, è necessario che vi sia oltre il composto (Tcapà TÒ aóvoXov) la forma f'iopcpYj) e la tpeo.io (£i5o^). Ma se si ammette questa, è dubbio di quali cose si debba ammettere, o <li quali no. E chiaro che non è possibile di tuUe: non ani inet {.eremo infatti che vi sia una casa oltre [noLpd] le <^ase particolari {ì platonici, secondo Aristotile, non anfiàUottevano Idee delle cose artiliciali). In ^fet.ì.yil. II. 10: «An- cora vi ha qual< ho cosa olire il composto (Twapà XÒ aÓvoXov) o no ? chiamo cosi la miitorìa g ciò che e con essa (la forma). Se non vi ha, tuUo ciò che è nelh» iiiateria è corruttibile. Ma se vi ha, sarà oertamMnt.i la specie v=lòo;i e la forma (liOpcpV^) Qnesla in quali ^ose vi sia e in <iuali no, è di;ììcile determinale. In al- cune cose è chiaro intalti ch<> laspécio none separabile /(iJp'.OTÓv), p. e. nella ca«,a., ];i Mrf. Vii!, l i f . '> ùneutce parla ttella dottrina della dotìnizione, e dell'essen/a che ne è l'oggoUo): - Se poi le e^sonze delle cose corruttiìnli siano separabili (/(Mp'.oxat* non 'è ancora manifesto-., In Met. VII. VI spiegan lo ch.^ vi ha identità tra una cosa e la sue essenzji, dico •:4-8t che co^l è anche nocessariamente nel sU sterna delle Ideo, poiché è necessario che il bene in sé, l'animale in st-, ecc, siano iileutici con l'essenza del b«me, dell'animale, ecc. L'essenza u'una co-a, iuamu> Aristolile tu l'Hi)plicazione del prin- cipio nel sistemn delle Ideo, non potrebbe avere un altro senso che quando la la nel suo proprio sistf^ma. Dunque anche nel sistema delh* l<lee l'essenza è, come nel «uo proprio sistema, un principio intrinseco alla cosa di cui si dico l'essenza. - 149 - li lì teria solo logicamente, mentre nel sistema platonico se ne distingue realmente, ed ha come entità distìnta un'fsistenza reale). Questa identificazione esige che V e- spressiene essenza delle cose, applicata alle Idee, sia presa nel suo significato proprio, f, per conseguenza, che le Idee siano immanenti. Lo stesso deve dirsi, e a più forte ragione, dell* obbiezione che Aristotile fa ai platonici, che se;una è la sostanza di tutte le cose— cioè di tutte le cose subordinate a un'Idea— tutte queste cose saranno una cosa sola, perchè ciò la cui sostanza è una è necessariamente uno (l). Qui è applicabile la stessa osservazione fatta al numero precedente — che vale per tutte le formule platoniche neiresposizione aristotelica, cioè che non deve ammettersi che Aristotile dia costan temente alla proposizione le Idee sono le essenze delle cose il suo significato strettamente letterale, e neanche un senso determinato qualsiasi, perchè il prenderla nel senso letterale, come Aristotile sembra fare nei casi di cui abbiamo parlato implica, necessariamente V ammis- sione dell'immanenza delle Idee, e sarebbero quindi ine- splicabili i luoghi in cui egli mostra di ammettere V in- terpretazione trascendentalista ; e d'altra parte, escluso il suo significato letterale, non ve ne ha alcun altro di cui la proposizione sia suscettibile. 3. La materia il soggetto delle Idee. In Mei. 1. I. VI. 7, facendo l'esposizione della filosofia di Platone, dice : « La materia soggiacente ( OTioxsiiiévYj) a cui si at- tribuiscono l'Uno nelle Specie e le Specie nei sensibili, (1) V. Met, 1. Ul. IV. 7, 1. VII. XIU. 3, 1. XlII. X. 2. é la dualità del Gkande e Piccolo Conformemente a questa proposizione—presa in un senso strettamente rigoroso— Aristotile in diversi luoghi riguarda Tindividuo) nel sistema platonico, come il composto dell'Idea e della materia. É cosi che egli fa nei due primi della terz'ul- tima nota ; e a questi aggiungeremo i seguenti : Mei. 1. III. IV. 8: < E come la materia (se vi hanno delle essenze oltre i singolari, tanto nell'ipotesi che l'essenza di tutti gl'individui sia una, come vuole Platone, quanto in quella che sjano molte e diverse) diviene ciascuna di esse, ed il tutto TaóvoXov) è l'una e l'altra (l'essenza e la materia)?» Mei. 1. XII. X. 13: « Nessuno ha spiegato come il numero sia uno, o come siano uno l'apii^a, e il,<^prpo ^ in generale l'sl??^ ® '* (evidentemente questo rimprovero non potrebbe essere rivolto che ai platonici). Mei. 1. XlJirV^.,^ : « In atto è l'elSo^, se è separabile (X<oDt9xóv), e cig; che è da amendue (dall'^ISo^ e dalla materifi^ y^le^ a, ^ìre l'individuo); la steresi (la privazione deir^clsW), com^^ l'oscurità o la malattia : ma la materia è in potenza. Es^a infatti è ciò che può divenire amen- ne (cioè \ tlooc e la bteresi]» Io non vedo come questi luoghi, SI potrebbero acc^ijdareco^.rj^terpretazione tra- scendentalista. . . . r. '.^.- ?lff' (1) Osserviamo ohe il rapporto delle Idee con le cose e la ma- teria delle cose non può essere differente da quello dell'Uno oon Le Idee e la materia delle Idee. Le Idee devono essere dette e essenze o le forme delle cose e ciò ohe kì attribuisce alla materia delle oose, nello stesso senso in cui l'Uno è detto V essenza o la forma delle Idee e oiò ohe si attribuisce alla materia delle Idee. Per conseguenza, l'immanenza deirUno nelle Idee e nella loro materia essendo incontestabile (v. n. YII), anche le Idee devono essere immanenti nelle cose e nella loro materia. -160- 4. Il rapporto dei numeri (ideali) con le cose. V'\m- manenza dei numeri anzitutto è supposta dal mot'vo che Aristotile assegna alla dottrina che essi sono sostanze e principi! delle cose. In Mei. V III. V. 3-4 dice (metten- dosi al punto di vista dei platonici) : « Ma il corpo è mo- no sostanza che la superficie, e la superficie che la linea, e la linea che Tunità e il punto : da queste cose infatti il corpo é determinato (wptoxai) (1). E queste cose sem- brano poter essere senza il corpo, ma non il corpo senza di esse (in altri termini, secondo il modo di esprimersi che Aristotile attribuisce il più abitualmente a Platone : soppressa la superficie, ola linea, o il punto o unitj\, sa- rebbe soppresso necessariamente il corpo: ma s-»ppresso il corpo, non sarebbe soppressa necessariamente la su- perficie, la linea, l'unità o punto). Perciò, mentre i più antichi credono che la sostanza e Tessere pia il corpo, e le altr.5 cose affezioni di esso, in modo che 1 principi! dei corpi siano i principii di tutti gli esseri ; invece i più moderni e riputati più sapienti ammettono che questi principii siano i numeri » (2). E in Met. l, V. VIII. 3 : « Inoltre sono chiamate sostanze le parti che ineriscono (•jiópta ivoTcapxovia) in tali erse (nel fuoco, la terra, gli animali, ecc.\ che le terminano (òpJ^^ovia), e le quali soppresse, è soppresso anche il tutto: com(? p. e. soppressa la superficie, è soppresso, come dicono alcuni, anche il corpo, e soppressa la lìnea, anche la superfice : ed asso- ci) Nella costruzione dell'esteso per i saoitormiuie l'iatemillo compretjo tra di essi, immaginata allo scopo di ridurre la gran- dezza al numero, i platonici riguardavano il punto coma una unità, V. Supplemento C, IL (2) Cfr., per comprendere questa conseguenza, la nota seguente. lutamente è il numero che sembra essere tale ad alcuni; niente essere infatti, soppresso questo, e questo termi- nare (ópiJcLv) tutte le cose » (questo numero./riguardato come sostanza non può essere che il numero- Idea, per- chè i platonici non sostantificano che l'Idra, T univeFale) -1). L'immanenza dei numeri è ug'ualmente supposta (a mono che non si vogliano intendere le parole d'Aristotile in un K'nso molto lontano dal letterale) in questa ob- biezione che eji^li fa alla dottrina dei numeri : « Non si è poi per niente deti*rniinato come i numeri (ideali) sia- n<» cause defilo essenze e dell'essere: forse come termini, 0) Koco come Aless. Afrcd. (Comr.u in Met, l. I. VI. 5, t. ^) ci- spiega, certamente secondo Aristotile, perchè i platonici ammet-^ (evano cho i numeri sono i principii delle cose, e identificavano le ld«^n con essi : Secondo loro il principio era il più anteriore e il pia semplice, e dei corpi erano più anteriori e più semplici i piani, dei piani le linee, e di quasle i punti che essi chiamavano unità.... dellj unità non vi era niente di anteriore e di più semplice. Ora le uniià sono numeri: dunque i numeri erano i prinripii di tutti, gli esserf. E poiché per loro i principii di tutto lo cose eraiio le Idea, non potendo esservi un principio anteriore ai numeri, non restava, seconde loro, che di ammettere che le Idee sono numeri rlMatourt chiamava una cosa anteriore ad un' altra, quando il oncetto della se'^onda racchiu'ieva quello della prima; vale a dire il più astratto era d'atto da lui anteriore al più <!ioncreto. Questo rupport ) di anteriorità importava por lui una sorta di causalità dolla cosa -cioè dell' entità anteriore verso la posteriore; poiché il principio della dialettica platonica è che il più astratto e pii generalo è in Cf^rto modoÌA causa del più concreto e più particolare. \\ sMgno dell'anteriorità d'una casa su di un'altra era che soppressa la prima si sopprimerebbe anche la soconda, mentre soppressa questa, non si sopprimerebbe quella : p. e. soppresso l'Animale, f-arebbe soppresso perciò anche l'Uomo, ma so|ppresso l' Uomo, non sarebbe soppresso perciò l'Animale). quali i punti delle grandezze?... o come Tarmonia è una proporzione di numeri, cosi pure V uomo e ogni altra cosa?... Ma è chiaro che (nel secondo caso) i numeri non sarebbero le essenze ne le cause della forma. L'essenza infatti sarebbe la proporzione; il numero sarebbe la ma- teria» (l). In diversi luoghi poi Aristotile sembra rap- presentarsi i numeri (ideali) come gli elementi costitutivi delle grandezze. In Met. 1. XIV. III. 9, dico che quelli che ammettono le Idee « fanno le grandezze dalla materia e dal numero (ideale)». S'egli non si rappresentasse efTettiva" mente i nùmeri come elementi costitutivi della grandezza, non si comprenderebbero delle obbiezioni come le se- guenti : Met. 1. III. rV. 29 (dopo aver detto che secondo i Pitagorici e Platone V Uno è sostanza per se stesso, cioè nel suo concetto astratto, e non è qualche altra cosa, p. e. qualcuno degli elementi dei Fisici) : «Ma come da un tal Uno o da più sarà la grandezza? Sarebbe come se si dicesse che la linea è composta di punti » . Ibid. 30 : (dopo aver detto che per produrre i numeri, cioè grideali, e le grandezze, alcuni aggiungono all'Uno in sé un altro ele- mento, rineguaglianza) « Né si vede come dall'Uno e que- sta né come da un altro numero e questa possano farsi le grandezze » Met,, 1. XII. X. 11 : « Se vi hanno le Idee o i numeri, non saranno causa di niente : certo almeno non del movimento. E poi come da cose senza grandezza sarà la grandezza e il continuo ? ». In alcuni di questi luoghi, a dir vero, non si parla delle grandezze sensi- bili, ma delle grandezze matemaiichey che erano inter- mediarie tra le grandezze sensibili e i numeri ideali : ma questa differenza importa poco, perchè, se le Idee fossero (1) Met. l. XrV- V. 6-7. trascendenti riguardo alle cose, dovrebbero essere anche trascendenti, come abbiamo altra volta osservato, ri- guardo alle entità matematiche. Infatti, come abbiamo detto, le stPs-e determinazjoni che sembrano esigere la trascendenza delle Idee riguardo alle cose (aÙTò xaO'aOTÓ^ ytoptaxóv, ecc.) esigerebbero pure la loro trascendenza ri- guardo alle entità matematiche; e l'immanenza delle Idee nelle entità matematiche dà luogo alle stesse inconce- pibilità che la loro immanenza nelle cose, non esclusa la più grave che è quella dell'inerenza simultanea del- l'uno nei molti, poiché anche delle entità matematiche ve ne erano molte, come attesta Aristotile (1), della stessa specie, vale a dire partecipanti a un'Idea (a un numero ideale) unica. Si dirà che tutti i luoghi d'Aristotile precedentemente citati, se possono provare che le Idee platoniche sono immanenti, non possono provare però che l'autore se le rappresentasse come tali, perchè bisogna evitare un'a- perta contraddizione tra questi luoghi e quelli in cui e- gli è chiaramente favorevole all'interpretazione trascen- dentalista; e per conseguenza si deve ammettere cheA- ristrtile riproduce le formule e le locuzioni platoniche, che in se stesse implicano l'immanenza, ma senza dar»? ad esso alcun significato preciso, anzi riguardandole 'co- me non suscettibili di un significato preciso. Ed io ri- conosco che quest'osservaziene è in gran parte giusta: essa però non mi sembra applicabile a tutti i luoghi citati, notevolmente a quelli in cui Aristotile fa delle obbioz*oni che non hanno valore se non nel caso che le Met, 1. 1. VI. 3, 1. TU. VI. 1-2, ooo. formule platoniche si prendano nel loro signilìcnto pro- prio, implicante T immanenza. Ma vi hanno anche altri luoghi, in cui r immanenza delle Idee, nel concetto d'Aristotile, è più evidente ancora. Di essi alcuni con- cernono il rapporto tra le Idee e lo cose, altri solamente quello tra le Idee più generali e le più particolari ; ma questa differenza per noi ha poca importanza, perchè Aristotile non poteva non comprendere le ragioni di coe- renza che esigevano cheTuno dei due rapporti fosse iden- tico all'altro, e d'altronde le ragioni prò o contro V im- manenza delle Idee più generali nelle più particolari erano quelle stesse che valevano prò o contro l'immanenza delle Idee nelle cose. Dei luoghi che concernono il rapporto delle Idee ge- nerali con le Idee particolari, la parte più considerevole sono certamente quelli che dimostrano l'immanenza (nel concetto stesso d'Aristotile) dei due elementi, cioè dell'U- no o Essere e della Diade indefinita o Non essere, in tutte le altre Idee (questi stessi luoghi, la più parte al- meno, provano pure l'immanenza di queste due Idee le più universali, che Platone chiamava gli elementi, nelle cose stesse). Xoi ne abbiamo parlato ai n. VII e Vili, e non occorre ritornarvi. Ma vi hanno anche parecchi luoghi, in cui sono le Idee generali indistintamente che vengono riguardate come immanenti nelle Idee partico- lari. Così in Met. 1. VII. XV. 6-7 V Idea del genere e quella della differenza sì rousiderano come parti, e l'I- dea della specie come il tutto composto di queste parti (!)• (1) Altrovf3 invece le Idoo spef^iiiohesoao consklorato oome parti doiridea generica. V. Met. 1. IH. ili. IO, 1. XI. l. 12. Noi abbiaiuo vi^to ohe nel sistema dello Ideo (iramanenli) tì hanno necessaria- mente al tempo stesso fra i Generi e le Specie questi due rapporti opposti. Ibid. 1. XIII. X. 6, dopo aver obbiettaito alla dottriila dei due elencanti che, se ciascuno di essi è uno di nu- mero (come vuole Platone) e non semplicemente di spe- eie, non vi saranno altri esseri che gli elementi stessi, aggiunge che la stessa obbiezione ha luogo quando, ol- tre (Tcapd) le Idee aventi lo stesso eldo^, si ammette al- cun che di separato (xexo>pio{iévov— vale ^i dire quando si ammette un'Idea generale oltre le Idee particolari su- bordinate a un concetto comune: l'obbiezione vale anche allora, perchè nel sistema dell'immanenza è inconcepibile p. e. come, rAnimtfle essendo unico, possano esservi non- dimeno molti animali, l'Uomo, il Bue, ecc.). Ibid. 1. XIV. III. 12, dice che se il principio del numero matematico fosse qualche uno, diverso daiVuiio che è il principio del numero ideale, VUno in se stesso sarebbe ciò che vi a- vrebbe di comune in questi due, e inoltre si dovrebbe ricercare come VUno potesse essere questi molti. Ifnd, I. XIII. Vili, 14 obbietta alla dottrina dei numeri ideali che l'unità che é nella Dualità è anteriore a questa, poiché, soppressa essa, si sopprimerebbe anche questa; e per conseguenza tale unità dovrebbe essere un'Idea d'I- dea, essendo anteriore a un'Idea (Un'Idea d'Idea signi- fica evidentemente uu'Idea più generale, ossia anteriore, a cui partecipa un'altra Idea più particolare, os^ia po- steriore. Ora quest' unità che dovrebbe essere un' Idea dell'Idea della Dualità, è in questa; perciò Aristotile si rappresenta l'Idea anteriore, cioè la più generale, come inerente nell'Idea posteriore, cioè nella più particolare). E in diversi luoghi (l)le parole èvipdpxetv (inerire), 5Tcdpx«tv év (essere in) vengono impiegate per denotare sia la re- Met. 1. VII. XIII. 4, 8._I. XIII. V.'l2, An. Posi. 1. 1. XXIV.3. - làtioDe delle Idee generiche con le Idee specifiche da quella delle Idee con le cose. L'immanenza delle Idee nelle cose é poi supposta della maniera più evidente dalFobbiezione che Aristotile fa ripetutamente alla sostantìficazione degll^ universali, di condurre all'assurdità che una sostanza unica sia molte sostanze. « Se si astrarrà il predicato in comune e se ne farà una sostanza, Socrate sarà molti animali, egli stesso, l'Uomo e l'Animale, s'è vero che ciascuna di queste cose significa una sostanza e un che di unico (1). » « Ciò (che nessuno degli universali è sostanza) è chiamo anche per questa ragione, che è impossibile che una sostanza risulti da sostanze che le ineriscano in atto. In- fatti le cose che in atto sono due è impossibile che siano uno in atto : potrà essere uno ciò che è due solo in po- tenza, come il doppio, in cui vi hanno in potenza le due metà; è l'atto che separa. Per cui, se la sostanza è qualche cosà di unico, essa non potrà risultare da sostanze ine- renti; e in questo senso Democrito ha ragione di am- mettere che è impossibile che di due cose se ne faccia una sola o di una due : le sostanze infatti sono se- condo lui le grandezze indivisibili Tuttavia la no- stra conclusione presenta una difficoltà : se è impos- sibile che una sostanza risulti da universali, perchè essi significano delle qualità e non delle sostanze (è un' altra obbiezione che precedentemente ha fatto alla sostantìfi- cazione degli universali), e se un^ sostanza non può es- sere composta di più sostanze in atto, la sostanza sarà qualche cosa d'indecomponibile^ e non vi potrà essere de tt) ^ci, l Wt VI, 6, finizione della sostanza (perchè i platonici riguardano la definizione come una decomposizione del definito nei suoi elementi— V. n. VII B) (1). La stessa obbiezione è an- che presentata sotto un'altra forma : « La definizione non è UB discorso unico per la congiunzione delle parti, cpme l'Iliade, ma perchè si riferisce ad un oggetto unico. Co- s'è dunque che fa che l'uomo sia uno, e perchè esso è uno e non più, p. e. l'animale e il bipede, specialmente se vi ha, come alcuni dicono, un animale in sé e un bìpede in sé? perché l'uomo non è questi, e perchè gli uomini non sono per la partecipazione, non di uno, l'Uo- mo, ma di due, l'Animale e il Bipede? allora 1' uomo (l'individuo, sembra) non sarebbe uno, ma più, l'animale e il bipede » (2j t Perchè ciò che diciamo essere l'og- getto della definizione, è uno, p. e. l'animale bipede, a'è questa la definizione dell'uomo ? Perchè ciò è uno e non più, r animale e il bipede? Infatti 1' uomo e il liàapco sono più, quando l'uno non inerisce all'altro; sono uuo, quando l'uno inerisce all'altro, e 11 soggetto (l'uQmo) ha un' affezione (la bianchezza). È allora che ciò diviene ed è uno, l'uomo bianco. Ma nel nostro caso una cosa non partecipa dell'altra : il genere infatti non sembra par^te- ciparc delle difibrenze; poiché lo stesso parteciperebbe, dei contrari, le dififerenze per cui il genere differisce essendo e-' Met 1. VII, Xlir. 8-10. L'obbiezione che la realizzazione degli universali ha per conseguenza che una sostanza sia composta di più sostanze, è pure accennata a 1. VII. XVI. Seal. vii. XIII. 5. McU 1. VUI, VI. 8. -lU- contrarie. E quand'anche ne partecipasse, vi sarebbe sempre la stessa difficoltà, se le differenze sono più, p. e. pedestre, bipede, implume. Perchè tutto ciò à uno e non molti ? che esse ineriscano non è una ragione sufficiente, poiché a questo patto da tutte ne risulterà una cosa sola » (da tutte vuol dire : da tutte insieme le differenze con- trarYe che si producono nella divisione, cioè da pedestre e volatile, bipede e quadrupede, implume e piumato, ecc., perchè tutte queste differenze ineriscono egualmente nel genere. Forse si troverà che questi due luoghi sup- pongono Timmanenza del Genere e della Differenza nella Specie, ma non neirindividao. E sia pure ! ma come ab- biamo osservato, il rapporto tra le Idee generali e le I- dee particolari non potrebbe differire da quello tra le Idee e le cose. Un'altra obbiezione che suppone V immanenza delle Idee nelle cose, è quella df l^a Metafisica 1. IX. Vili. 15, ciré che, se vi hanno le Idee, avranno molto più essere le cose (p. e. lo sciente o il mosso) che le Idee (p. e. la scienza o il movimento In sé), perché le cose hanno più at- tualità, mentre le Idee sono le loro potenze. Neiripotesi dell'immanenza le Idee sarebbero effettivamente le cose in potenza, ma solo in quest'ipotesi, prrché il potenziale e l'at- tuale sono, non due cose separate, ma due stati d'una sola e stessa cosa, stati che possono succedersi nel tempo, come Nel metodo platonico, in cai la definizione è il risaltato della divisione per dicotomia— Aristotile trova impossibile che lo stesso, cioè il genere, partecipi dei oontrarii, perchè egli ragiona sall'ipo- tesi che il geneire sia una sostanza, cioè un'Idea: in qaest' ipotesi, il genere partecipando di due differenze contrarie, si ha l'assurdo che ad una stessa cosa ineriscono due contrari. (2) Mev u yn. XU, 1-2, il fanciullo 6 in potenza Tuomo, o solo logicamente, còme, secondo Aristotile, la materia è tutte le cose in potenza. . Nel secondo caso, il potenziale è l'attuale stosso consi- derato in uno f^tato d'indeterminazione: rra le Idee, se sono immanenti, sono precisamente le cose stesse allo stato indeterminato, cioè astratto. Infine citerò qu«.st'al- tra obbiezione della Phys. 1 IV. II. 5 : Platone avrebbe dovuto dire com'è che le Idee e i numeri non sono nello spazio, se ciò che ne partecipa è lo spazio (come egli afferma) ». L'obbiezione é giusta supponendo che il par- tecipato sia, secondo Platone, nel partecipante (l). Ma che significato potrebbe avere nell' interpretazione trascen- dentalista, per cui il partecipato è fuori del partecipante ? Basterebbe questo luogo per mostrare che Aristotile non si rappresenta costantemente le Idee come trascendenti, e che la sua testimonianza sul rapporto tra le Idee e le cose è contradittoria ed incerta. D'altronde lo stesso Aristotile confessa la sua incer- tezza. Cosi in Met. 1. XIII. IX. 5 dice : « A tutte queste cose (cioè ai numeri e alle grandezze) è comune il dub- bio che vi ha sul rapporto del Genere con le sue Specie, quando si ammettono gli universali ; cioè se 1' animale che è in un animale sia l'animale stesso o un altro di- verso dall'animale stesso (vale a dire se l'attributo ani- ci) Tuttavia, malgrado la giustezza dell' ossesvazione d'Aristotile, Platone può affermare al tempo stesso che lo spazio partecipa alle Idee e che queste non sono nello spazio, perchè lo spazio riunisce nel suo sistema due funzioni e due concetti differenti, quello di materia— e a quesio punto di vista lo spazio è riguardato come l'e- stensione pura— e quello di luogo. Lo spazio partecipa alle Idee come materia; ma le Idee non sono nello spazio, perchò lo spazio è an- che il luogo, e le Idee non sono in un luogo. -166- inàlità che è neiruomo o nei leone ecc. sia l^Idea del- l'animale— ipotesi deirimmanenza— 0 qualche cosa di di- verso da qnestldea— ipotesi della trascendenza—). Non vi ha alcuna cagione dì dubitare, se questo non è separato (o separabile: xwpwcóv): ma se, come dicono quelli che am- mettono tali dottrine, l'Uno e i numeri (idealij sono «e- pa^at{t(> separabili), non è facile di risolvere questa qui- stiOne, se si può'dire che non è facile ciò che è affatto impossibile. Quando sì concepisce Tuno nella diade oin un altro numero qualunque, é l'uno stesso che si conce- pisce o un altro uno ? » (1). E in Met. 1. VII. XIV: « Se esistono realmente le Idee, e V animale è nell' uomo e nel cavallo, deve ammettersi che sia nell'uno e nell'altro, o numericamente uno e lo stesso (ipotesi dell'immanenza), o diverso (ipotesi della trascendenza). Dalla nozione si vede che è uno; poiché esprime la stessa nozione chi lo atribuisce all'uno e all'altro. Ora se vi ha un uomo in sé, sostanza e separato, è necessario che an- che le cose da cui risulta, quali sono l'animale e il bipe- de, siano sostanze e separate ; sicché anche 1' animale. (1) Come si vede, rincertezza d'Aristotile sul rapporto tra le I- dee più generali e le Idee più particolari si estende anche, com'è naturale, a quello tra i due elementi e tutte le Idee, poiché i due elementi non sono che le Idee più generali di tutte. Ciò, malgrado che in altri luoghi sembri indubitabile ch'egli ammetta l'inerenza dei duo elementi nelle Idee e nelle cose (v. n. VII e Vili). Lo stesso dubbio sulla quistione dell'immanenza o trascandenza dei due ele^ menti è espresso in Met. l. XIV. V. 4 : (dopo aver detto che quellj ohe ammettono che i numeri e gli esseri in generale risultano da- gli elementi, non hanno determinato in qual modo il numero ri- sulti da essi, se per la loro mescolanza o per la loro composizione o altrimenti) " E poiché, quando una cosa rÌ!»ulta da altre, può ri- saltarne sia come da cose che le ineriscono, sia come da cose ohe -• .^ .-. Se dunque questo è uno e lo stesso néÙ- nomo e nel cavallo, della steissa maniera che tu sei uno e lo stesso con te stesso, come potrà esFere lo stesso in esseri separati ? e come non Farà arche separato da Fé ste?so ? (l) E se parteciperà del bipede e del multìpede, ne seguirà una cosa impossibile ; poiché i contrari ine- riranno simultaneamente in uno stesso soggetto. Se no (cioè se il Genere non partecipa delle DiflTerenze), com'è che potrà dirsi dell'animale che è bipede o che è pedestre ? 0 forse queste cose (il Genere e le Diflerenze) si compon*- gonc» e si congiuogono o si mescolano ? ma tutto ciò è as- surdo (sin qui contro l'ipotesi dell'immanenza). Si ammet- terà invece che l'animale è diverso in ciascun animale par- ticolare? (ipotesi della trascendenza). Mavì saranno al- lora un'infinità di esseri, di cui l'essenza sarà l'animale..» E di più l'animale in sé sarà molti (cioè vi saranno molti animali in sé), poiché l'animale che è in ciascun animale particolare è sostanza... Sicché ciascuno degli non le ineriscono, in quale di questi due modi il numero viene da- gli elementi ? Da cose che ineriscono non vengono se non le cose che sono fatte. Viene forse dagli elementi come da un germe ? ma niente può uscire dall'indivir^ibile. O forse ne viene come da un contrario non permanente (cioè come una cosa viene dalla sua contraria, quando questa ha cessato di esistere) ? ma le cose che risultano da altre a questo modo, risultano anche da qualche altra cosa permanente (cioè da una materia, che è il sustrato dei duecontrari) », Aristotile cerca una rappresentazione (voglio dire una immagine) di ciò che è irrappresentabile. (Cfr. Met, l. XIII. IX. 7: quelli che ammettono che il numero viene dall'uno e dalla plura- lità— Speusippo— non hanno determinato il come, e vanno incontro alle stesse difficoltà a cai quelli ohe ammettono che esso viene dal — l'uno e dalla dualità indefinita, sia che si tratti di generazione, sia di mescolanza, ecc.) (1) Cfr. Plat. Parmen. 131 b. -166-, t 1 il ailioiaU che sono negli animali particolari è un animale in sé. E questo donde verrà, e come potrà venire dal- l'Idea deiranimale ? o in che modo sarà possibile que* st'animale in sèj oltre Tldea deiranimale? Queste stesse difficoltà accadono per le cose sensibili, ed anche mag- giori » Le ultime parole ci mostrano che Aristotile era altrettanto incerto sul rapporto tra le Idee e le cose che su quello tra le Idee generali e le Idee particolari. Quest'incertezza d'Aristotile sui concetti fondamentali del suo maestro sembrerà strana : ma non bisogna di- menticare che il sistema platonico appartiene alla stessa classe che quello al cui autore si è attribuito di aver detto che nessuno dei suoi discepoli lo aveva compreso. Qaest'inoerteMa sul rapporto fra le Idee generali e le par- tioolari si Tede an^he in Met. 1. VII. XII. 4 : Se non vi ha affatto Genere oltre (napot) quelle ohe sono come le specie d*un genere, o yì ha, ma come materia di esse, è chiaro ohe la definlsione è la nozione che risulta dalle differenze „. Qui si fanno due ipotesi, d^ cui la prima è che non vi siano assolutamente Idee dei generi, e la seconda che queste Idee siano immanenti nelle Idee delle specie, Aristotile ammette perciò tanto la possibilità dell'immanenza quanto queUa della trascendenza. Non è per altro necessario a un metafisico di essere un He- gel o un Platone o uno Spinoza per essere non compreso o frain- teso da quegli stessi che sembrano nelle condizioni più favorevoU per intenderlo perfettamente. È una sventura che può accadere anche ai metafisici meno lontani dal senso comune, e che è infatti accaduta ai filosofi stessi della scuola del senso comune. La dot- trina fondamentale di Reid, che nella percezione noi abbiamo una conoscenza intuitiva degli oggetti esteriori (cioè una conoscenza in cui è presente l'oggetto stesso, e non una sua immagine men- tale) è stata intesa al rovescio da un altro dei piii illustri filosofi della scuola scozzese, cioè da Brown, il quale attribuiva invece ft Beid la dottrina ordinaria che neUa percezione noi abbiamo della * 'li* Del resto le ragioni dell* incertezza d'Aristotile sonò ab- bastanza ovvie. Egli vede da una parte che delle entità come le Idee platODiche non potrebbero concepirsi che separate dalle cose, e che Tipotesi delTimmanenzaèuna impossibilità logica e una contraddizione ; ma vede an- che dairaltra porte gli sforzi, benché vani, di Platone per collocare le Idee nelle cose, identificandole coi loro attributi. Per risolvere i dubbi di Aristotile sarebbe bi- sognato un' esame sufficiente sui motivi e lo scopo del sistema delle Idee e le condizioni indispensabili per rea- lizzare questo scopo: ma un tale esame avrebbe sup- posto un grado di riflessione psicologica, che sarebbe vano di attendersi, anche da un Aristotile, in un'epoca in cai lo spirito comincia appena a prendere se stesso per oggetto. realtà esteriore una semplice rapprci^entazione. Vi ha qualche ana- logia tra il caso di Brown e quello di Aristotile, perchè Brown, oltre d'essere un discepolo della scuola stessa di cui Reid fu il capo era in relazioni personali intime con Stewart, il propagatore delle dottrine di Reid (Stuart-Mill crede che l'interpretazione di Brown sia la vera, e sostiene contro Hamilton che la percezione per Reid non è immediata : ma i luoghi di Reid che egli cita per dimostrare il suo assunto V. FU. di Hamilton e. X mostrano solamente che secondo Reid la concezione dell'oggetto esteriore, nella percezione è suggerita dalla sensazione, che è il segno naturale della presenza dell'oggetto percepito. Senza dubbio, se chiamando la percezione immediata, si vuel dire ch'essa è un atto dello spirito che non è preceduto e occasionato da un altro, la percezione per Reid non è immediata. Ma la quistione non era se sia o no immediata in questo senso, ma se per Reid sia immediatamente presente nellospirito che percepisce lo stesso oggetto percepito, o solamente la rappresentazione di quest' oggetto, come ammettono la più parte degli altri filosofi. É su questo punto che Hamilton aveva rimpro- verato con ragione a Brown di aver frainteso Reid). Alcune dottrine di Platone, per cui la nostra sorgente unica o principale è negli scritti di Aristotile, sarebbero inesplicabili al semplice punto di vista della teoria delle Idee, quantunque mescolate e fuse con le proposizioni di questa teoria; e noi non possiamo spiegarle, che per un sincretismo dei concetti propri di Platone con quelli del pitagorismo. Queste dottrine sono assolutamente prive di qualsiasi valore filosofico, e sarebbe impossibile di as- segnare ad esse l'origine da cui derivano generalmente i concetti metafisici, vale a dire di dedurle dalle illu- sioni naturali o sofismi a priori del nostro spirito. In- vece esse appariscono il risultato di speculazioni arbi- trarie e di sofismi puramente artificiali ; e, sotto questo rapporto, escono dall'argomento di questo scritto, che è di mostrare, nei sistemi che ci presenta la storia della filosofia, lo sviluppo della metafisica naturale dello spi- rito umano. Tuttavia è per noi indispensabile di occu- parci anche di queste dottrine : senza di ciò, la nostra interpretazione del sistema platonico lascerebbe dei punti oscuri, che è necessario di chiarire, perchè potrebbero ri- torcersi contro di essa. Premettiamo alcuni cenni sulla filosofia pitagorica. Le hi dottrine principali e più caratteristiche dei Pitagorici consistono in queste due proposizioni : la prima che le cose sono fatte ad imitazione dei numeri e sono esse stesse numeri ; la seconda che tutto consta di due elementi contrari, che sone delle astrazioni riguardate come entità sussistenti per se stesse, cioè il Limite {né- pa^, Tisparvov) o Limitato (usTispaoiiévov), che era idenfì- cato con V Impari, e rillimitato ((JcTistpov), ehe era iden- tificato col Pari. Sulla dottrina che le cose sono numeri Hegel dice- ^ Ammiriamo quest'arditezza a distruggere d' un colpo tutto il mondo sensibile, e a considerare il pensiero corno l'essenza dell'universo. » Per m**, io devo confessare che non posso ammirare altra cosa ehe la grandezza di questo non senso; in quanto al pensiero essenza dell'u- niverso, è uno di quei concetti che Hegel presta gratui- tamente agli altri filosofi, per fare entrare i loro sistemi nel quadro artificiale, in cui egli presenta la storia della filosofia. SU'le dottrine dei Pitagorici devo ripetere Toa- servazione fatta sulle dottrine pitagoreggianti di Platone cioè che io non credo che es^e possano essere derivate dai sofismi naturali del nostro spirito. Io non vedo ehe un mezzo per comprendere in qualche modo la possibi- lità di dottrine come quelle della filosofia pitagorica : è di ammettere nella formazione di queste dottrine l'azione di un processo simile a quello a cui sì attribriisce la Aristotile Met, I. I. VI. 2, Arlstossene ap. Stob. I XVI, ecc. (2) Arist. Met. 1. I. V, I. I. VI 4, I. XIII, VI. 7. Vili. 9-iO, I. XIV. 111. 2-4, eoe; Plut. Plac, I, 1. 111. 14-241 ecc. C6) Arist. Met, 1. I. V. ~u» formazione dei miti, ò almeno di una gran parte di essi, cioè r interpretazione in un senso strettamente realista di proposizioni che airorigine non avevano che nn senso figurato. Le dottrine religiose potrebbero fornirci parecchi esempi di credenze che hanno avuto evidentemente que- st'origine; e certo le condizioni del miluogo in cui si formò la filosofia pitagorica si prestavano facilmente all'azione di un tale processo. Questo, oltre che dal legame tra i discepoli di questa filosofia, che erano i membri della so- cietà pitagorica^ e il carattere semi-religioso di questa pocietà, e dall'ossequio illimitato, che ne seguiva, all'au- torità del fondatore personaggio a metà mitologico, chn i proseliti riguardavano come un semidio —, era favorito anche dalla circostanza che la dottrina non si tramandava che oralmente. (1) Noi possiamo dunque supporre che Pi- tagora si era limitato ad ammettere resistenza di grandi analogie tra le cose i numeri, concetto oscuro e non su- scettibile di un significato preciso, ma che non era un non senso cosi evidente come la proposizione che le cose sono numeri; e che questa proposizione non era per lui che un'e- spressione iperbolica per denotare d'una maniera energica e concisa queste pretese analogie delle cose coi numeri, non chft il concetto più giusto, che le ricerche scientifiche della scuola ci danno il dritto di attribuirgli, della pre- senza in tutti i fenomeni di rapporti numerici regolari, e dell'importanza di questi rapporti per determinare la Filolao fu il primo che mise in iscritto la dottrina pitagorica (un secolo e forse più dopo la fondazione della scuola) V. Zeller p. 260-261 e p. 309. natura delle cose. Ma in seguito, per un effetto della tendenza naturale apprendere in uu senso strettamente proprio le proposizioni ricevute da un'autorità in cui si ha una f-^de cieca, si venne insensibilmente nella scuola a dare alla proposizione il suo significato letterale di u- n'ìdentità assoluta tra i numeri e le cose; quantunque a lato di questa dottrina, per una di quelle incoerenze, di cui i s's'^emi tradizionalisti, com'era eminentemente il pi- tagorica, ci presentano frequenti esempi, coesistesse pure r altra, più conforme al pensiero del fondatore della scuola, che le cose sono fatte ad imitazione dei numeri. Questa spiegazione deve applicarsi naturalmente, non solo alla formula generale che tutto è numero, ma anche alle proposisioni parti- colari che facevano l'applicazione di questa formula. P. e. le proposizioni il numero due è l’opinione, il numero quattro è la giustizia, all'o- rìgine non significavano, come vennero intese in seguito, Tidentità asso- luta del numejo due con l'opinione e del numero quattro con la giustizia, ma volevano dire semplicemente : il numero due rappresenta o simbo- leggia l'opinione, e il numero quattro la giustizia; vale a dire atferraavano soltanto l'esistenza di un'analogia tra questi numeri e queste cose. Aristotile dà pure per motivo alla dottrina dei Pitagorici le ana- logie ch'essi credevano di vedere tra le cose e i numeri (v. Met, 1. I. V. 2) e i rapporti numerici regolari che osservavano nei fenomeni (J/e/. 1. XIV. III. 2 ) Tuttavia (nel primo di questi due luoghi) egli parla anche di un altro motivo, cioè che i numeri sono i primi di tutti gli esseri, sembrando attribuire questo concetto ai Pitagorici stessi. Ma verisimilmente, cosi fa- cendo, egli presta al pitagorismo genuino un concetto che non appartiene che al pitagorismo di Flacone e dei Platonici: infatti, che i numeri siano primi degli esseri, è evidentemente una conseguenza del principio pla- tonico che una cosa, cioè un' entità, è anteriore ad un' altra, quando, soppressa la prima, si sopprime anche la seconda : ora non vi ha alcuna ra- gione per attribuire questo principio mi Pitagorici. I Pitagorici non dicevano solamente che tulio è numero^ ma ancora I numeri dei Pitagorici sono evidentemente delle astra- zioni reaVzzat '. Tuttavia non lo sono d' una maniera cosi assoluta come p. e. le Idee di Platone o quelle di R^- gel. In effetto la prc posizione che le cose sono num'^ri può considerassi a due punti di vista opposti : in quanto ri- guarda come cose reali delle semplici astrazioni quali sono i numeri, questa proposizione è una realizzazione di astrazioni; in quanto non accorda ai numeri un'esi- stenza distinta da quella delle cose, e non pone per con- seguenza altro di reale che le cos'^ stesse, cioè gli og- getti concreti, essa non lo è. In una parola, questi nu- meri—cose dei Pitagorici sono al tempo stesso astratti e concreti — questa contraddizione è uno degli aspetti in cui si manifesta la contraddizione originaria contenuta nel loro concetto : com^ numeri, sono astratti ; come cose, sono concreti. Ma là dove il realismo dei Pitagorici si mostra sen- z'alcuna ambiguità, è nella dottrina del due elementi. Il Limitato e llUimitato, come osserva più volte Ari- Btot'le (!), non designano delle sostanze (p. e. aria, ac- che iuiio è armonia (Arist. Mei.); e in questa proposizione la parola armonia aveva un significato musicale, e designava l'ottava (vedi Zeller 329) All' origine di questa seconda proposizione può applicarsi la stessa spiegazione cha abbiamo proposto per la prima; vale a dire il fon- datore della dottrina, dicendo che tutto è armonia, intendeva solamente affermare l'esistenza di analogie profonde tra la costituzione delle cose e i rapporti dei suoni musicali; l'identificazione assoluta tra le cose e 1' ar- monia non avvenne che in seguito, per un effetto della tendenza segna- lata nel testo, a prendere in un senso strettamente letterale le proposi- zioni venute da un'autorità ciecamente rispettata. (1) M9t, 1. I, V. 13, Phyn, 1. JU. IV, 2, V. 1-4, qua 0 fuoco), a cui questi termini vengono attribuiti come predicati, ma sono gli stessi attributi limitato e il- limitato che vengono riguardati come sostanze. La stessa oFservazione vale per l'Impari e il Pari : questi termini non designavano i numeri impari e i numeri pari, ma delle entità corrispondenti ai concetti astratti dell'impari e del pari; erano, come il Limitato e V Illimitato, non degli attributi, ma dei soggetti. Per questa sostantifica- zione di semplici astrazioni, la filosofia dei Pitagorici ha una certa aria di somiglianza con quella di Platone. Vi ha però una differenza essenziale tra il realismo di Pla- tone e quello dei Pitagorici. In Platone, come in Spi- noza 0 in Hegel, il realismo deriva dai sofismi a priori dello spirito umano, ed è destinato, con la dialettica che ne è il complemento indispensabile, a dare una soluzione al problema delle cause efficienti. Invece nel sistema pitagorico— come in altri sistemi che si sono formati in condizioni analoghe, vale a dire che sono V opera, non del libero esame individuale, ma della tradizione e di un dommatismo cieco, per esempio nella filosofia degl' In- diani o nella scolastica — il realismo è senz'alcuna utilità per la spiegaeione dei fenomeni; e la migliore ipotesi che si possa lare per rendersene conto è, io credo, di ricor- rere a un processo simile a quello a cui abbiamo attri- buito la dottrina che le cose sono numeri, cioè di am- mettere che la realizzazione delle astrazioni limitato^ il- limitato^ impari^ pari sia stata leffetto di malintesi sul significato di formule antiche, ricevute con uno spirito ciecamente autoritario, e, come avviene in tal caso, in- tese d'una maniera troppo rigidamente letterale (1). (1) Gir. ctp. Vn. s 1. et Alla dotttfna dei due elementi era legata quella delle dieci opposizioni, che però non era ammessa che da una parte della scuola. Queste opposizioni erano : il li- mito o limitato e Tillimitato, l'impari e il pari, Tuno e il multiplo, il destro e il sinistro, il mascolino e il femmi- nino, il riposo e il movimento, il retto e il curvo, la luce e Toscurità, il bene e il mate, il quadrato e il rettan- golo. Queste d'eci coppie di opposti erano riguardate dai Pitagorici come t principii degli esseri (1). Aristo- tile osserva eh' essi non determinavano chiaramente a quale delle quattro cause — materia, forma, cau'ia effi- ciente, causa finale — questi principii dovessero ricon- dursi (2) : ma risulta dai frammenti di Filolao (3) che li riguardavano come elementi costitutivi del reale. Evi- dentemente, il concetto racchiuso nella tavola dt-lle dieci opposizioni è la coesistenza da per tutto di cose o di de- terminazioni contrarie : ma questo concetto è rivestito d*una forma assolutamente arbitraria Perchè fra tutte le opposizioni delle cose si scelgono queste dieci, e si elevano al grado di principii ed ehmentì degli esseri ? Forse questa dottrina è anch' essa, come la più parte delle altre proposizioni metafisiche dei Pitagorici, TaUc- razione d'una dottrina primitiva più ragionevole, e nel pensiero del primo autore della proposizione, che è poi divenuta la dottrina delle dieci opposizioni quale noi la conosciamo, qu ste opposizioni determinate non erano che degli esempi particolari del principio generale della coesistenza universale degli opposti. In ciascuna de\U (1) Met. 1. I, V. 6, 8, (2) Mei. 1. I- V. 8. (3) Ap. Stob, I. 458, I. * •^'^ dieci opposizioni, l'uno dei membri era ricondotto al Li- mitato e l'altro airiJliniitato (I). Spesso, in effetto, Tuno dei due concetti opposti— 1' uno, il bene, il riposo, il retto, il quadrato rappresenta qualche cosa di definito, l'oggetto corrispondente al concetto non potendo essere che in un sol modr; e l'altro il multiplo, il male, il movimento, il curvo, il rettangolo qualche cosa d'in- definito, l'oggetto corrispondente al concetto potendo es- sere in un'infinità di modi. Questa riflessione però non potrebbe applicarsi a tutte le opposizioni; e nella ridu- zione di queste alla opposiz'one fondamentale del Limi- tato e dell'Illimitato, i Pitagorici sono inoltre guidati dal concetto che il perfetto deve mettersi dalla parte del Limi- tato (0 Finito), e l'imperfetto dalla parte dell'Illimitato (per r analogia che vi ha tra V idea di perfetto e quella di V. Arist. Eth. Nic, 1. II. VI. 14 (il male è, secondo i Pitago- rici, dell'illimitato, il bene del limitato. Cfr. Kth, Nic. 1. I. VI. 7 e Met, 1. XIV. VI. 7, in cui l'una delle due serie degli opposti, quella in cui è compreso l'uno, l'impari, il retto, è chiamata la serie dei beni e ìa serie del hello) ; Eudemo ap. Simpl. Phys. (i Pita- gorici e Platone portano nel movimento i' infinito'; Aless. Afrod. in MeL I. V. t. 32, Plutarco Quaest. rom. 102, ecc. (per i Pitagorici l'impari è mascolino, il pari femminino); Eudoro ap. Simpl. Phys 39 a (i Pitagorici chiamano l'uno dei due elementi impari, masco- lino, destro, luce, l'altro pari, femminino, sinistro, oscurità); ecc. Filolao (nei Fr. ap. Stob. I. 456 e I. 458) parla, come di elementi costitutivi delle cose, di /imt^a/i (cioè, propriamente /imeìrtnft.— 7i£pa{- vovxa— ) ed i/limitati, al plurale: è ciò che egli non farebbe, se oltre al Limitato e all'Illimitato unico non ammettesse molte forme di li- mitato e d'illimitato. Aristotile (Kth. xWic, l. II. VI. 14) dice : si può essere cattivi in mille forme, ma non si può essere buoni che in un sol modo; e appoggia questa proposizione sull'autorità dei Pitagorici, che pone- vano il bene nella classe del finito e il male in quella dell'infinito. - 161 ^ finito). Infatti la serie del Limitato è cbiamata la serie (ouaxoix^a) del bene e d< 1 bello (1). Un'altra proposiz'onc in^ portante dei Pitagorici, sia per il loro stesso sistema, Ma per l'intelligenza dei rapporti di esso con quello di PUtone, è che i numeri vengono dall'Uno. Questa prr posizione è troppo naturale, per- chè occorrano delle spiegazioni: solo bisogna avvertire che Aristotile applica all'Uno (3) la stessa osservazione eh' egli fa sul limitato e V Illimitato, vale a dire che rUno non significa per i Pitagorici una sostanza che ha per attributo l'unità, ma ò lo stesso attributo unità che è riguardato da essi come una sostanza. Questa sostan- tificazione dell'uno è ura conseguenza naturale della so- sta nti fica zi< ne dei nunneri : ma nell'uno il carattere di ast' azione realizzata apparisce più netto che nei numeri. In questi è, come notammo, alquanto incerto, perchè essi vengono identificati con le cose stesse : ma V uno, come prinrip'o ed elemento dei numeri, non può iden- tificarsi con ah una cosa particolare. Arisi. Fth. yic. 1. 1. VI. 7, l. XIV. VI. 7. Cfr. Eth, Nic. 1. II. VI. 14. Arisi. Met. 1. I. V. 5, 1. XIII. VI. 4-6, 9. (3) Met, 1. I. V. 13, 1. 1. VI. 4, 1. III. 1. 12, l. III. IV. 21-22. 1. X. 11. 1. I Pitagori, è vero, assegnano l'uno all'intelligenza, airanima, ecc.: ma il concetto dell'ano ha per loro evidentemente pii esten- sione che le cosa particolari ch'essi riconducono a questo numero, e non è in quanto principio ed elemento dei numeri ohe 1' uno viene identificato con queste cose. Come nota giustamente Zeller Cpag.), un concetto generalo, nella filosofia dei Pitagorici, riceve in un caso particolare una determinazione speciale, senza che perciò questa determinazione appartenga al concetto generale essenzialmente e in tutti i oasi. Questa realizzazione di astrazioni è il punto di con- tatto più nftevole tra il sistema dei Pitagorici e quello di Platone. Ma si deve anche notare un'altra analogia. I priHcipii degli altri filosofi anteriori a Platone sono gli elementi materiali di cui le cose sono fatte — l'acqua, l'aria, il fuoco, i quattro eh nienti di Empedocle, gli atomi di Democrito, ecc. — o le forze motrici generali della natura — il Nous d'Anassagora, TAmore e 1' Odio di Empedocle, ecc — : questa osservazione si applica an- che agli Eleati, perchè l'Uno o Essere di questi filosofi non è che la materia universale delle cose, con questa differenza che le forme diverse, rivestite da questa ma- teria, sono dichiarate delle semplici apparenze. I prin- cipii di Platone invece sono !e essenze delle cose, i loro concetti generici e specifici (cioè gli oggetti corrispon- denti a questi concetti). Ora i numeri pitagorici corri- spondono anch'essi ai concetti generali delle cose, e rap- presentano le loro essenze. I Pitagorici dicono : la giu- stizia è il numero quattro, il matrimonio è il numero cinque, l'opportunità é il numero sette, V opinione è il numero due (1), ecc ; un tal numero è quello dell'itorao, un tal altro quello del cavallo (2), ecc. Aristotile, è vero,' liconduce i numeri dei Pitagorici tanto al principio es- senziale (3) quanto al principio materiale: ma ciò vuol dire semplicemente che, a differenza dei numeri ideali di Platone, che rappresentano le sole forme delle (1) Arisi. Met, 1. I. V. 2, 1. 1. Vili. 7, l. XIII. IV. 3, e Aless. Afrod. in Mot. i. t. 32. Arisi Met, 1. XIV. V. 6, Teofrasto Mei 11. (3) Met, 1. 1. V. 13, 1. I. Vi. 4, ecc. Met. l. I. V. 5. •il II cose, i numeri pitagorici rappresentano le cose stesse, in entrambe le parti che crstitu^scono il loro concetto, cioè, per esprimerci nel linguaggio di Platone e d'Aristotile, il composto della forma e della materia. L'ultima forma della filosofìa p'atonica risulta da una fusione dei concetti propri del sistema delle Idee coi con- cetti fondamentali del pitagorismo, di cui abbiamo par- lato. Le dottrine pf^r cui questa seconda forma del si- stema differisce dalla prima, sono conosciute col nome di àypacpa 5ÓY|xaxa (dottrine non scritte), perchè, quan- tunque alcune si trovino già nel Timeo, nel loro insieme non sono state esposte da Platone che oralmente, nelle sue conft^nnze stùl Bene, Queste dottrine si riducono ai punti seguenti : 1^ Le Idee, e per conseguenza le cose, sono numeri. 2^ Le Idee e le cose constano di due elementi, corrispon- denti al L mite e Illimitato dei Pitagorici. 3° Le Idee rappresentano la sola forma delle cose. Cosi, prr costituire l^* ce se, concorre con le Idee un al- tro fattore, la materia : questa è identica allo spazio. 4*^ Le entità matematichp, cioè i numeri che sono l'og- getto dell'aritmetica e le grandezze geometriche, quan- tunque s^ano, come le Idee, d^gli universali realizzati, fli distinguono nondimeno dalle Idee propriamente dette, e costituiscono un t<^rzo genere di esseri, dift'erenti al tempo stesso dalle Idee o dalle cose, e intermediari fra le une e le altre. Noi esamineremo success'vamente queste quattro dot- trine. > I. I numeri ideali La proposizione che le Idre, e quindi le cose, sono numeri non ha alcun legame natu-ale col sistema delle Idee — essa non p tribbe dedursi nò dalla realiz- zazione degli universali né dalla dialetcica, i due punti a cui il sistema si riduce—; ed è d'altronde evidente che Pla- tone non sarebbe arrivato a questa dottrina senza l'in- fluenza della filosofia pitagorica. La teoria delle Idee — numeri ci apparisce dunque chiaramente come il risul- tato di un sincretismo tra la teoria propriamente pla- tonica delle Idee e quella pitagorica dei numeri. Ciò è confermato dalla testimonianza d' Aristotile. Questi comincia P esposizione della filosofia platonica, osser- vando che in molte cose Platone m un seguace dei Pitagorici, ma ne ebbe anche alcune che gli furono pro- prie; e poi, facendo la disrjnzione tra ciò che è proprio a Platone e ciò ch'egli deve ai Pitagorici, la parte che gli attribuisce come propria nella dottrina dei numeri è l'aver posto questi al di là delle cose (Tiapàxà alaeyjxa), mentre i numeri pitagorici erano le cose stesse. Que- sta difterenza significa che per i Pitagorici i numeri s' identiOcano immediatamente con le cose particolari, per Platone invece sono delle entità universali, che non s'identificano immediatamente che con le Idee, e con le cose solo mediatamente, in quanto 1' essenza di queste consiste nelle Idee. Aristotile ci attesta inoltre che nella forma primitiva del sistema platonico la dottrina delle Idee non era le- gata a quella dei numeri, e che la identificazione delle V. per questa dottrina Arist. Mei. I. I. VI, I. I. Vili. I7-I8, 1. I. IX. I3 sqq. 1. XIII. VI-IX, «ce, (2) Mei. I. I. VI. 4. Idee coi numeri avvenne in un periodo posteriore. Ciò risulta anche, indipendentemente dalla tfstimrnianza di Aristotile, dall'esame delle Fcritture platoniche. Se t-ì eccettui 1' Epinomide (che del resto è di un' autf nticità incerta) e il Timeo, nel quale la costruzione dei corpi per le superficie (2) suppone certamente la dottrina che il reale consiste rei numeri, non vi ha negli scritti pla- tonici alcuna traccia di questa dcttrina. Vi hanno anzi dei luoghi, in vari dialoghi, che escludono l'identità tra le Idee e i numeri. In tutti i casi in cui è quistione di numeri come entità (tranne ueW Epinomide) y come nella Bepublica 522-526, nel Fedone 101 e 104-105, nel Eiiebo 56-57, nel Parmenide 143-144, Platone non intende per essi che le determinazioni particolari che costituiscono l'oggetto deir aritmetica, e non la sostanza stessa delle cose, com'e- gli farebbe se ammettesse già la teoria delle Idee — nu- meri. Aggiungiamo che in parecchi dei luoghi indicati è attribuita ai numeri la comhinabiliià, cioè si fanno con- stare tutti da unità della stessa natura (3), mentre, come diremo in seguito, il carattere dei numeri-Idee vale a dire dei numeri con cui tutte le Idee sono identifi- cate—è V incombinabilità, cioè la composizione di ciascun numero da unità che non sono della stessa natura che quelle di un altro. Né potrebbe dirsi che i numeri di cui è quistione in questi luoghi sono quelli che nell'e- sposfzione aristotelica vengono distinti dai numeri— Idee col nome di numeri matematici, e dati come interme- diari fra essi e i sensibili ; e che 1' autore, oltre questi numeri, potrebbe anche ammt timore un altro genere di (1) MeL 1. Xlir. IV. I. (2) V. questo Supplem. n. II. H. (3) V. Fileòo 56 d~e, Hgp. 526 a, Parm, I43 e. numeri (gV ideali), rappresentanti, non 1*^ sem;)lìci de terminazioni aritmetiche, ma Te-senzi stf^s^a delle cose J è evidente infatti che egli ron conosco altri numeriche quelli di cui parla. Ciò risulta arzifUto da l'impiego in tutti questi luoghi del nome numero e di qielli che de- signano i diversi numeri, come esprimenti, il primo la specie in generale, i seconli la specie riguardata come entità individuale alla maniera di Platone. Se l'autore ammettesse già due numeri, l'ideale e il matematico, l'e- spressiono generica il numero non potrebbe significare per lui il solo numero matematico; impiegata per deno- tare una sola delle due specie del numero, essa designe- rebbe piuttosto l'ideale, perchè i numeri Ideali erano ri- guardati come r essenza tanto dei numeri matematici quanto dei sensibili, e il nome secondo Platone é pro- prio delPessenza : similmente l'Unità, la Diade o la Triade non potrebbero significare che PUnità, la Diade e la Triade ideali, tanto per la stessa ragione, quanto * perchè dei numeri matematici — dopo la loro distinzione dagli ideali— ve ne erano molti della stessa specie (si ammet- tevano molte unità, diadi, triadi, ecc. matematiche) (1). Di più : nei luoghi del Fedone i numeri di cui vi si parla sono chiamati lde3, e posti allo stesso rango delle altre Idee — mentre se l'autore ammettesse inoltre i numeri ideali, ai numeri matematici, cioè rappresentanti le semplici determinazioni aritmetiche degli esseri, non assegnerebbe che la qualità d'intermediari tra le Idee e le cose— . In quello della Repubblica questi stessi numeri che rappresentano i soli attributi aritmetici sono chiamati l'essenza (oOa(a) e la natura (cpóat;) dei numeri; ricevono, V. num. ITI. per determinare di quali numeri si tratta, V attributo auTÓs, che, come sappiamo, sig^nifica r Idea, e che Ari- stotile, nelle sue allusioni *lle dottrine platoniche, im- piega per indicare che il nome a cui si riferisce denota, non le cose né le entità intermediarie, ma la loro Idea; e vengono opposti ai numeri sensibili in un modo che esclude la possibilità di una terza specie di numeri (2). In quello del Fìlebo infine si distinguono due sole scienze sui numeri, quella del volgare, che addiziona unità di natura differente, e quella del filosofo, che non ammette che unità tutte della stessa natura (il numero mate- matico); non vi ha luogo per una terza scienza, che am- mette, come quella del volgare, unità che non sono della stessa natura, ma senza addizionarle (il numero ideale). Aristotile fa menzione di cinqiie caratteri che distin- guono i numeri ideali, s'a dai numeri matematici sia dai numeri dei Pitagorici: 1« Innumeri di Platone sono xo3pwxoC dalle cose, men- tre i numeri dei Pitagorici sono le cose stesse (3). 2^ I numeri di Platone sono monadici, vale a dire costituiti di vere naità, semplxi e incorporee, mentre i numeri dei Pitagorici hanno grandezza. 3° Dai numeri mateaiatici ve ne hanno milti della stessa specie (vi hanno molte uuità, diadi, triad», ecc. matematiche.), ma dei numeri ideali ciascuno è uno solo 0) V. Mei. 1. I. IX. 5, I. I. IX. 16, 1. Ifl. II. IT-lg. 1. XI. 1. 7, ecc. A. 525 d: i numeri stessi, non i numeri aventi corpi visibili e palpabili; a 526 a : quei numeri che possono pensarsi, ma non mai toc- carsi altrimenti. (3) Pàys. I. 111. IV. 2, Mei. 1. XIIL VI. 6-7, 1. Xlll. Vili, y, I. XIV ai. 2, ecc. (4) Mei. 1. Xlll. VI. 7, 9. (vi ha una sola unità, diade, triade, ecc. ideale. I numeri matematici sono combinabili, cioè com^ posti di unità omogenee, e quindi capaci di addizionarsi fra di loro, ma i numeri ideali sono incombinabili, cioè le unità che compongono uno di questi numeri non sono omogenee con quelle che ne compongono un altro, e non possono, per conseguenza, addizionarsi con esse (2). 5^ I numeri ideali hanno fra di loro anteriorità e po- stenorità; ì numeri matematici no. Di questi caratteri il P non ha bisogno di ulteriori spiegazioni : esso vuol dire semplicemente che 1 numeri di Platone sono degli universali realizzati, al contrario di quelli dei Pitagorici, che sono le cose stesse partico- lari. Il 2« è legato alla dottrina che le Idee rap- prescutano la sola forma delle cose (senza la materia), e il 3^ e il 40 a quella che le entità matematiche si di- stinguono dalle Idee e sono intermediarie tra di esse e le cose: per conseguenza noi potremo occupirceiQ che quando parleremo di queste due dottrine. Per ora ci oc- cuperemo solamente del 5^ cioè dììVanteriorlt^i e poste- riorità dei numeri ideali. Quest' anteriorità e posteriorità consiste in ciò, che i numeri ideali si generano progressivamente gli uni dagli altri. Per fare questa generazione, Platone riguarda (1) iMef. 1. 1. vi 3, I. 1. IX. 5, 1. 111. VI. 1, ecc. (2) Mei. Xlll. vi. 6-8. (?) Me/. 1. I. Xlll. VI. 6. J/anterlorità e pDsteriorità non è propria esclusivamente dei numeri ideali che nel senso che spieghiamo in seguito, e cho è quello ordinario e tecnico che ({u«sti t«3rmini hanno nella filosofia platonica. L'aoteriorità e posteriorità di cui in Mei. I. IH. IH. il, Eih. Nic. 1. 1. VI. 2 e 1 Edi., End. I. 1. Vili. 9-10, è tutt'altracosuV. questo Siippi.n. Ili); e in quest'al- tro senso essa conviene certamsute anche ai numeri matemitici. N ciàscTiQ numero come una combinazione particolare del- l'Uno e della Dualità indefinita — è con questi nomi che vengono designati i due elementi delle Idee e delle cose, al punto di vista della dottrina dei numeri Il numero Due nasce dalla moltiplicazione deirUno per la Dualità indefinita, e il numero Tre dall'aggiunzione dell'Uno «1 prodotto deir Uno per U Dualità indefinita ; il numero Quattro dalla moltiplicazione del Due per la Dualità in- definita, e il numero Cinque dall' aggiunzione delT Uno al prodotto del Due per la Dualità indefinita; e co^i di seguito, sempre con questa regola : che il numero pari nasce dal numero equivalente alla sua metà moltiplicato per la Dualità indefinita, e il numero impari dall' ag- giunzione dell'Uno al prodotto del numero, equivalente alla metà del numero pari immediatamente inferiore, per la Dualità indefinita. Ogni numero dunque— cioò, se il numero ideale è finito, ogni numero, tranne quelli che sono generati gli ultimi— ne produce altri due : uno pari, che nasce dal suo raddoppiamento, e uno dispari, che nasce dal suo raddoppiamento e dairaggìunzìonc dell'u- nità (1). Il numero che produce è detto aw/enore, e i nu- meri che sono prodotti, posteriori, . Nella formazione dei numeri posteriori dal numero anteriore, concorrono con esso l'Uno e la Dualità indefinita : ma questi non Sono qualche cosa di esteriore che viene ad aggiungersi a questo numero, ma fono gli elementi stessi di questo nu- mero, sicché in realtà i numeri posteriori non vengono prodotti che dal numero anteriore. La Dualità indefinita è chiamata bisectiva, perche si suppone che, nella for- mazione dei numeri, essa raddoppia le unità del numero anteriore, dividendo in due ciascuna di queste unità (1): ciò è per mostrare che le unità che costituiscono i numeri posteriori non vengono d'altronde che dal numero ante- riore. Per rendere conto dell' unità soverchia dei numeri dispari si dice che in qnes:i numeri l’unità media è lo stesso Uno in se. Qual è era il significato di questa generazione suc- cessiva dei numeri ideali ? Noi sappiamo che 1' anterio- rità e posteriorità delle Idee; è il movimento dialettico per cui le conseguenze si sviluppano dai principi!, cioè —il rapporto tra il principio e la conseguenza essendo iden- tificato a quella tra la causa e 1' efi'etto gli effetti dalle cause ; e che l'idea anteriore è il Genere, e le Idee po- steriori le Specie m cui esso si divide. Ora l'anteriorità e posteriorità dei numeri non può essere altra cosa che r anteriorità e posteriorità delle Idee corrispondenti a questi numeri. I rapporti di filiazione tra i numeri Vedi per questa formazione dei numeri ideali Arisi. Met, 1. XIII. VII. 4, 10-11, 16, 19-20, 1. XIII. Vili. 12-13, IG, ecc. (2) Platone non riguarda un numero impari goto^q posteriore al numero pari imm3diat amente inferiore, ma considera i due numeri come nati simultaneamente dal numero equivalente alla motti del pari ; p. e. il Due e il Tre nascono simultaneamente dall' Uno, il Quattro e il Cinque dal Due, eco. Così tanto le unità che oompon gono il Due quanto quelle che compongono il Tre vengono riguar- date come immediatamente consecutive all'Uno in sé (Met, l. XIII IX. 1 al contrario di quelle che cqmpongono gli altri numeri, le quali non gli succedono che mediatamente); e Aristotile rimpro- yera a Platone di far produrre a un numero, da una stessa ma- teria (cioè dalla Dualità indefinita), più numeri, facendolo gene- rare una volta sola, mentre in tutti gli oggetti che si producono, la materia dell' uno non può mai essere la stessa che quella di un altro, e chi introduce nella materia l' el5o^ deve agire tante volte quanti sono gli oggetti prodotti (Met. 1. I. VI. 6). (1) Alex. Aphrod. ad Arist, Met. l. I. VI. 5. (t. 43). Arist. Met, 1. XIII. Vili. 13. fappresentano dunque i rapporti di filiazione tra le Idee secondo il loro nesso dialettico. Questa corrispondenza tra la formazione progressiva dei numeri e lo sviluppo dia- lettico delle Idee si vedrà subito, gettando uno sguardo sulla tavola seguente, che noi possiamo chiamare l'al- bero genealogico dei numeri : 1 2. 3. 4. 5. 6. 7. «. d. 10. 11. 12. 13. 14. 15. La serie naturale dei numeri, cosi disposti secondo i loro rapporti di filiazione, rappresenta 1' ordine con cui le Idee corrispondenti si seguirebbero, se si fajcese una divislowe completa, procedendo dal Genere supremo (l'Es- sere o il Bene) alle Specie infime per tutti i Generi in- termediari. La produzione d^\ numeri inferiori dal nu- mero superiore rappresenta la produzione delle Idee par- ticolari dall'Idea generale : il numero anteriore ha sotto di sé due numeri posteriori, parche la divisione plato- nica è una dicotomia (1). (1) Non bisogna credere però ohe Platone, oell'assegnare i nu- meri alle Idee, si tenga scrupolosamente ai concetti su cui ò fondata la dottrina della generazione progressiva dei numeri. Egli fa tal- volta rappresentare a dei numeri che sono fra di loro nei rapporto di anteriorità e posteriorità, delle Idee che non sono fra di loro nel rapporto di genare e specie. Cosi egli assegna all' intelligonza Il numero uno, alla scienza il numero due, all'opinione il numero tre e alla sensazione il numero quattro (Arist. De an, l. I. II 7 e Met. 1. XIV. HI. 9. Cfr. Ps. Alex, tu Met.^U, IX.). Naturalmente ciascuno di questi numeri riceve diversi impieghi (e in effetti noi •y?s^ In questa formazione dei numeri è accolto il concetto pitagorico che i numeri procedono dall'uno. Come os- s' rva Aristotile, l'altro elemento (1' Infinito dei Pitago- liei) fu ricondotto a una dualità, per rendere possibile questa generazione progressiva dei numeri, senza di cui la fusione tra il Fistcma dei numeri e il sistema delle Idee non sarebbe stata completa, poiché la dialettica, altrettanto importante per questo sistema che la realiz- zazione degli universali, non sarebbe stata rappresentata. « Fece (Platone) dell'altra natura una diade, affinchè i numeri, dai primi in fuori, se ne generas-sero, come da sappiamo che il due è anche il numero della linea, il tre della su- perfìcie, il quattro del solido De an. e Met, 1. c.-e, secondo Xenocrate, l'uno della linea indivisibile — v. n.V.— L'uno rappresenta anchel' Idea più universale,cioè l'Essere o il Bene, che è quella che gli compete con- formemente alla regola che la filiazione dei numeri corrisponde al nesso dialettico delle Idee; e cosi il due, il tre e il quattro devono anche rappresentare delle Idee subordinate a quelle rappresentate dai numeri anteriori e superordinate a quelle rappresentate dai numeri posteriori. Nell'applicazione della dottrina dei numeri, Platone non può evitare lo stesso inconveniente che era accaduto ai Pitagorici (v. Arist, Met. l. I. V. U, 1, I. VIII. 17, 1. VII. XI. 5, 1. XIV. VI. 3), cioè di assegnare a uno stesso numero dei con- cetti affatto differenti: e in effetto, per quanto quest'attribuzione di un dato numero a un dato concetto fosse arbitraria, essa doveva essere pure fondala su qualche analogia, e accadeva facilmente che in concetti differenti si trovasse un'analogia con uno stesso numero. Questa pluralità di significati data a uno stesso numero, oltre alla identificazione di cose differenti, portava necessariamente nel sistema platonico l'altra iuconseguenza che la filiazione dei nume- ri non corrispondeva esattamente alla filiazione delle Idee: per l'e- sattezza di questa corrispomlenza, sarebbe stato necessario che cia- scun numero rappresentasse una sola Idea, quella che nell'albero genealogico delle Idee occupava lo stesso posto che il numero nel- l'albero genealogico dei numeri. , \ 1 un'effìgie, comodamente » (1). Per i numeri primi di cui parla qui Aristotile, bisogna intendere, conformemente all'interpretazione d'Alessandro d'Afrodisia, i numeri di- spari—/)r/wi vuol dire: primi con due—; e il senso delh^ par(»le dai primi in fuori è che i numeri dispari non si generano, per mezzo della Dualità indefinita, cosi comodomente come i numeri pari (2). II. I due elementi I due elemcDti hono chiamati il Fine (Tiépag) e V In- fii ito (àr.sipov) come quelli dei Pitagorici (3j, e identi- ficati, come questi, coi Dispari e il Pari (4). Per questa come \eY altre circostanze di cui diremo in seguito, la dotti ina platonica mostra un rapporto evidente di pa- ) Olitela con quella d(i Pitagorici : ma essa presenta pure delle differenze essenziali corrispondenti al punto di vista proorio del sistema delle Idee. Anzitutto i due elementi di Platone sono dei predicati generali comuni a tutti gli esseri (5) : in efft-tlo essi si trovano presenti in tutti gli esseri, e secondo il sistema delle Idee ìr preseiiza di una entità in molte cose ò la partecipazione in comune di queste cose all'attributo corrispondente all'entità. A que- UH (1) Arist. Met, 1. I. VI. 5. (2) Cfr. Met, l. XIII. Vili. 13 e l. XIV. III. 13. (3) Arist. Mrt, 1. IV. II. U (cfr. il comm. di Aless. Afrod), P/ji/s. l. Ili IV. 2-3, 1. III. V. 1-3, Simpl. m Arise. P/ii/s.fol. 117, Aristoss. Harmonic. elem. l. II. sul princ, eoe. Noi sappiamo almeno che quest'identificazione era fatta da Senocrato. V. Stol>. Ed. Phys. 1. I. IT. 29 e Arist. Metaph. 1. XIII. Vili. 21 (per il rilerimunto del secondo di questi due luoghi a Se- nocrate cfr. ciò che diremo di lui al num. V.). (5) V Supplem. B, num. VII, B. Sta particolarità, che ha la sua ragione nella dottrina dcUe Idee, se ne può aggiungere un'altra, che ha la sua ragione nella dialettica, ed è che, chiamandole due en- tità elementi, Platone non vuol dire solamente che sono gli elementi costitutivi di tutti gli esseri, ma ancora, per quest'identificazione costante del logico e dell'ontologico su cui è fondata la sua metafisica, che sono gli elementi costitutivi della conoscenza di tutti glies=»eri, vale a dire i principii da cui questa conoscenza si deduce (1). Ma la particolarità più caratteristica della dottrina di Platone è che i due elementi sono riguardati, l'uno come la forma o la specie olaog) di tutte le Idee e di tutte le cose, e l'itltro come la loro materia. (oxotxsta). Come osservammo altra volta (3), il concetto di ma- teria ha in Platone due applicazioni essenzialmente dif- ferenti : da una parte le Idee sono le forme delle cose, e per costituire le cose, si aggiunge a queste forme una materia (lo spazio); dall'altra parte queste forme che sono le Idfc vengono da due elementi, una /orma e una materia. Così quest'ultima materia che si trova nelle Idee si trova naturalmente anche nelle cose, perchè le Idee non sono che nelle cose; ma la prima, cioè lo spazio, è fuori delle Idee, ed è propria solamente delle cose. L'una di queste materie è evidentemente distinta dall'altra: tut- tavia, per una di quelle incongruenze di cui è piena que- sta dottrina dei due elementi, Platone non parla di due materie, mi di una sola — l'Infinito, il Grande e Piccolo, (1) V. Mvl. 1. I. IX. 27-.?0. Cfr. Mei, 1. V. III. 3 e 1. III. III. 1, in cui si Irov.'i la spir^gaziono di quest'uso dolla parola elementi (axo'.xeta). Cfr- Supplem. B. VII. B. (3) Supplem. B. num. VIII. - \m - I il Non essere, ecc. significano tanto la materia comune alle Idee e alle cose qnanto la materia proprie delle cose— riconducendo, secondo il metodo incoerente dei Pita- gorici, a una stfssa entità dei concetti assolutamente distinti. L'elemento formale non è altra cosa che V Idea del Bene (1). Cosi la modificazione, che la dottrina dei due elementi apporta nella forma primitiva del sistema, con- siste neirintroduzione di questa nuova entità, che con un term ne che, per quanto concerne il rapporto di que- st'entità con le Idee, non potrebbe intendersi che in un significato analogico, è chiamata materia, perchè Platone riguarda aucora l'Idea del bene come il genere supremo di cui tutte le altre Idee sono le specie, e per conse- guenza dei due elementi non considera come slSog che quello corrispondente a quest'Idea, e si rappresenta la relazione di quest'elemento con Taltro come analoga a quella della forma con la materia. Platone dà ai dne elementi diversi nomi, corrispon- denti ai diversi punti di vista della dottrina. L'elemento formale, oltre che il népag e il Bene, è chiamato anche l'Es.^ere (2), perchè è l'Idea generale di tutti gli esseri, e, al punto di vista deila teoria dei numeri,' l'Uno (3j, perchè è i! principio da cui derivano le Idee- numeri, e i numeri, secondo i Pitagorici, derivano dall'uno. Per giustificare la riduzione dell'elemento formale all'Uno, si dice che ciascuna cosa, in quanto è, è una — la dissoluzione in molti ne è la morte, e la sua calvezza consste nella persistenza in una stessa (1) V. Su|)plem. B. iium. VII. B o Gap. VII i.aragr. 13 (2) V. Arist. Mei. 1. I. VII. 5, 1. III. IIL5, 1. XIV. II. 4-12, eco. (3) V. AA'i. 1. I. VI. 3-7. forma, e perciò l'Uno è causa alle cose dell'essere e del- l'esser bene (1). Dì quest'identificazione dell'Idea suprè- ma con l'Uno ha potuto anche darsi un' altra ragione, cioè che quest'Idea è l'uno —tatto, vale a dire è il punto di partenza dell'evoluzione dell'essere, in cui il tutto esi- ste come uno (2). L'Uno è riguardato come elemento dei numeri a un doppio punto di vista, cioè tanto perchè ciascun numero è un tutto unico — ciò che è conforme alla funzione di elfio? che viene assegnata all' Uno, quanto perchè i numeri sono composti di unità— ciò che dà occasione al rimprovero d'Aristotile che l'Uno funge anche da materia. L'Infinito, al punto di vista della dottrina dei numeri, è chiamato la Dualità indefinita (8óag àóptoxoc) (4), per rendere possibile la formazione progressiva dei numeri di cui abbiamo parlato (5); e il Grande e Piccolo, per mostrare che esso è una dualità, e stabilire cosi un passaggio dal concetto d'infinito a quello di dualità indefinita (6). Per giustificare questa riduzione dell' Infinito al Grande e Piccolo, si dice che l' infinito si trova tanto nella gran- dezza quanto nella piccolezza, perchè la quantità pro- li) V. Alex. Aphr. ad Met. 1. 1. IX. 24. (2) Cfr. Met, 1. I. IX. 24. (3) Arist. MeL 1. Xlll. Vili. 25-28, Alex. Aphr. ap. Simpl. ad Phys. fol. I04. (4) Arist. M^t. 1. Xlll. VII. 3, 4, 11, I3, 16, 25, IX. 7, L XIV. 1. 9, li. 3, 9, in. 12, Al. Aphr. ad Mei, /. /. K/. 5, Simpl. af Phys, fol. 3j, fol. 104, tee. (5) La riduzione dtiriUimitato alla Dualità indefinita si deduceva per altro naturalmente dalla sua identità, nella dottrina pitagorica, col Pari, n Pari infatti, come concetto generale, è in certo modo una dualità itì- determinata; vale a dire una dualità alle cui unità non si attribuisce un valore determinato, potendo essere dei numeri qualunque. Arist. Mfi. I. I. VI. 3-7. ( 'I cede airinfinito tanto neir aumento quanto nella diminuzione. Naturalmente il Grande e Piccolo non pos- sono essere considerati come elemento se non in quanto si riguardano come predicati attribuiti |^a tutti gli esperi: tuttavia, quantunque la grandezza e la piccolezza che si attribuiscono alle cose particolari siano necessaria- mente una grandezza e una piccolezza finite, Platone riguarda il grande e il piccolo in sé stessi come infìniti, perchè non vi ha alcun limite uè nei gradi della gran- dezza né in quelli della piccolezza. Per indicare il^Grando e Piccolo nella sua funzione speciale di elemento dei numeri — poiché il Grande e Piccolo è una decomina- zione generica che designa tanto V elemento materiale dei numeri quanto quello delle grandezze (v. n. III1 — 8*impiega la denominazione più particolare di^Molto e Poco. Sul Molto e Poco vale naturalmente la stc^t^a ossei*vazione che abbiamo fatta sul Grande e Piccolo; vale a dire essi non sono che dei predicati generali dei numeri, ma quantunque il molto e il poco che sono nei numeri siano necessariamente fìuiti, pure Platone riguarda il molto e il poco in se stessi come infinii, perchè tanto Tuno quanto Taltro progrediscono all'infinito. Per indicare che si tratta, non di due entità, ma di una sola, il Grande e Piccolo è chiamato rineguale: infatti Tineguaglianza consiste nel più e nel meno, e il grande e il piccolo sono delle nozioni comparative^ una cosa dicendosi grande o piccola^in quanto è maggiore o minore di un'altra. (1) Arist, Phys 1. 111. VI. 6, Alex. Aphr. ap. Sirapl. ad Fhys, fol. I04. Arist. Met. 1. I. IX. 19, 1. XIV. 1. 4, 9, 13-14, 11. 11. Alex. Aphr. ad Met. 1. I. VI. 5. (3) Arist. Met. 1. III. IV. 30, 1. X. V. 1, 4, 1. XU. X. 3, l. XIV. 1. 3, 9, 11. 3, lo, 11, IV. 1, 6, V. 4, 5, Alex. Aphr. ad Mei, 1. 1.Vl. 5, ecc. Uno dei punti fondamentali della dottrina è che i due elementi sono contrari (l), e TeleiAenlo materiale rappre- senta al tempo stesso la materia e la steresi (cioè la privazione dell' slSog) (2). Per indicare la seconda fun- zione, quest'elemento è chiamato il Non essere (3); e in generale a un nome impiegato per designare V uno de- gli elementi corriponde il suo contrario come designa- zione deir altro elemento. Cosi, 1* elemento materiale essendo chiamato V Ineguale, P elemento formale ri- ceve il nomo di Eguale (4). Secondo questo principio, all'uno, nome delPelemento formale, dovrebbe corri* spondere, come nome dell' elemento materiale, il mu2- tiplo : tuttavia Platone oppone all'Uno il Grande e Pic- colo (5) e non il Multiplo, ma considera il Grande e Pic- colo come equivalente al Multiplo. In effetto il Grande e Piccolo, come elemento dei numeri, cioè delle Idee, è il Molto e Poco ; e il Molto e Poco non è che 1' espres- sione del concetto della moltiplicità sotto una forma che (1) Met. 1. IV. 11. 14, 1. Xll. X. 2-3. 1. XIV. 1. 1-3. 0, IV. 6-8, ecc. Arist. Phys. 1. l. IX. 1 3, 1. 111. 11. 1-2, M9t. 1. XI. IX. 6-7. Met. l. XIV. 11. 4-I4, Phyi, 1. 1. IX. 1-3, PhysA. IH. 11. i-2, ecc. V. Arist. MeU 1. Xll. X. 3, L XIV. i. 3, Alex. Aphr. ad Met. I. I. VI. 5. (5) ;»/*/. I. I. VI. 4-7, l. XIV. 1. 3-6, 1. XIV. 11. la (cfr. 1. XIV. 1. lo), 1 . XIV. IV. 5-6, ecc (6) Arist. Met. 1. XIV. 1. 3: i platonici oppongono all'uno T ine- guale, riguardando questo come la natura della moltiplicità.— L* equiva- lenza tra il Grande e Piccolo e il Multiplo risulta anche dalla dottrina che la Dualità indefinita è la causa della moltiplicità degli esseri (v. A- rist. Mei. I. Xlll. Vili. 3. 1. XIV. ll.)-perchè secondo il sistema delie Idee la causa di un attributo delle «:ose è la partecipazione all'entità corri- s ondente a quest'attributo —, e dalla proposizione che il numero parte- cipa all'Uno in quanto e alcun che di unico, e alla Dualità indefinita in quanto è una moltitudine (v. Alex. Aphr. ap. Simpl. ad Phyi. fol. lo4).y permette di ricondurre questo concetto a quello della Dualità indefinita. Nel Timeo (35a-b, 37a) i due elementi vengono chia- mati lo stesso. e il Diverso, e Aristotile indica più volte il Diverso ola Diversità come denominazione deM' ele- mento; materiale (1). Evidentemente l'elemento formale è ricondotto al ^concetto dello,s/f,wo, perchè il bene cònsl- ate-^nella regolarità, nella permanenza deiressere nel suo stata normale, e, potremmo anche aggiungere, nella con- vergenza di una pluralità d< mezzi verso uno stesso ri- sultato, (come si vede negli esseri organizzati che sono ressmpio. più ^spiccato della fìnitalità). Sembra anche ri- iuUare da un'indicazione d'Eudemo che T elemento materiale era chiamato ràvwjiaXov (che potremmo tra- durre: llrcrtgolare), ciò che supporrebbe che l'elemento opposto fosse TófiaXóv (il Regolare). Questa riunione delle due funzioni di materia e di stéreai in uno stesso elemento è certamente uno dei lati più nebulosi di questa dottrina di Piatene. Quando si tratta dell' opposizione dello Stesso e del Diverso o di qqeUa deirUno e del Multiplo, si può compren.lere come Tuno degli opposti sia riguardato come la materia e l'al- tro come la Jorma ; perchè, non essendovi uniià st nza molt'plicità^ né identità senza diverbità, noi possi amo dire: il rmdtiplo è uno, o il diverso è identico] riguar- dando la moltiplicità e la diversità come il soggetto del- l'unità e deiridentiià. Ma come il Non essere o V Ine- guale potranno considerarsi come la materia, di cui l'Es- sere e l'Eguale sono la forma ? Sembra che perciò il Non essere, l'Ineguale (àvtoov), ecc.. deve significare per Pia- li ( Phys. 1. in. 11. 1, Afet. I. XI. IX. 6, 1. XIV. 1. 6. (2) Ap. Simpi: ad ArUi, Phys. fol.* 98 b. tone, non il contrario dell'Essere, delF Eguale; ecc.^ ini ciò che non è l'Essere né partecipa, con«^iderfcto in> se stesso, all'Essere, ciò che non. è l' Eguale uè par- tecipa, in se stesso, ^W Eguale, ecc. In altri termini^ se dalle cose si sopprime per il pensiero l'Idea dell' e*, sere, dell'eguale, ecc., ciò che resterà,. considerato nel suo concetto generale, si chiamerà Non,e.^ere, Inc^ua^ 1^ ecc., e si rtguarderà come il sustrato a cui VMpr dell'essere, dell'eguale, ecc. inerisce come u nrt' forma. Ciò non esclude però che il Non essere lignifichi anche, a un altro punto di vista, il contr^irio dell'Essere, l'Ine- guale il contrario dell'Eguale, ecc.: in eff'etto l'elemento materiale non funge solamente da materia, ma anche da< stcresi.Il rapporto di contrarietà stabilUo tra idueelemi nti spiega perchè, nel periodo pitagoreggiante, Platone prefe- risca, per designai-e l'Idea suprema, la denominazione dì unoo essere a quella di òene : è che, chiamando Pefementò formale il Bene, l' elemento materiale dovrebbe essere chiamfvto il xMale; ma. il Male non potrebbe affatto rf- guardarsi come la materia degli esseri.:; : ? i v ^ L'incompatibilità delle due funzioni assegnate -ali 'ele- mento materiale c'indica chiaramente che la dottrina 'dèi' (1) Questa supposizione é confermata dairargomérfto con é«i^l^l'atoné prova l'esistenza del Non essere, cioè che se non esistesse ril Nan:esier*, tutti gli esseri si ridurrebbero a un solo, l'Essere .(A/^/.L XJy. H. J Infatti il senso di quest'argomento è che, se neglV.esseri non vi Ibssero insieme all'attributo essere, delle detenninaiiòAi%istinte "da'qiiest'attri- butu, non esisterebbe che l'attributo essere; sicché- la moltiplicità* ' de^H- esseri è resa possibile dairesisten?a nelle cose di ^t^rHiroasJioftì distinte " dall'attributo essere. Queste determinazioni di^tipte (J^ir,l!;-sserf9 chf si trovano nefe'li esseri, guardate in astratto, doè nel loro ^concetto generale, si chiamano Non essere. Anche nel So^sla (256 a-2^9b) fatine dice'ihe'il Non essere non è il cantrario dell' Essere, ma semplicemente ciò che ò altro che l'Essere. (2) Cfr. Arist. Afef. I. XIV. IV. 4-8. -HI — ^ne elementi è un éoiicetfo straniero, che Platone si sforza di adattare alla meglio ai concetti propri del suo siste- ma. La contrarietà dei due elementi è data a Platone dalla dottrina dei Pitagorici. La riduzione dei due ele- menti air tlòoc e alla materia ha per oggetto di conci- liare il dualismo della nuova dottrina con le esigenze della dialettica, cioè della dieresi. Questa suppone, al vertice della piramide ideale, unldea unica come genere supremo di tutte le Idee: la nuova dottrina invece am- mette, non uno, ma due universali supremi. Per conci- liare questi due punti di vista, Platone non riconosce il carattere di genere sommo di tutti gli esseri che all'uno dei due universali supremi ; per conseguenza, siccome egli ammette già, nel nuovo assetto che dà al suo si- stema, che Je cose sono composte di sl8o; e di materia, e che il concetto generale delle cose è rappresentato dal- )'«I«o?, cosi trasporta dalle cose alle Idee stesse questa distzione di eUo€ e di materia, e riconduce V elemento che deve fungere da genere airelòo^, e l'altro alla materia. Questa identificazione dei due elementi dei Pitagorici con l'elSog e la materia è d'altronde suggerita dai nomi stessi con cui vengono designati. Se si prende la parola 8l8o€ nel senso meno>stratto, cioè come indicante la forma visibile degli oggetti materiali, nipctt; (termine) ed .elSoc sono pressoché equivalenti. Come per un'estensione del loro significato più concreto la parola tlòot; e il suo sinonimo jiopcp^ acquistarono il senso lato che esse hanno nella filosofia di Platone e d' Aristotile, cosi un'estensione analoga poteva essere data alla parola iiépag, in modo che i significati filosofici di questi termini ve- nissero a coincidere. Quando l'sISoc di cui si tratta non è più la forma visibile degli oggetti, la parola Tiépa^, impiegata come sinonimo di tldo?, riceve certamente un significato assai lontano dall'originario : tuttavia, VbÌòo^ essendo ciò che definisce o determina gli esseri, 1' ana- logia tra il concetto di definizioìie o determinazione e quello di /ine o termine bastava per giustificare il pas- saggio al nuovo significato. Cosi irépag veniva a signi- ficare, in un senso generico, l'elSog in generale; in un senso speciale, 1' glSog comune di tutti gli esseri; e ciò, non solo p^r nna specializzazione convenzionale del ter- mine, ma anche perchè so Tiépag, nome comune, significa forma, il uépag, nome proprio d' un' entità unica, deve significare la forma nel suo concetto generale, cioè il fienere dì tutte le forme, V slòo^ degli sTÒy]. Il termine ixépa; volendo dire la form^r^ il termine àiistpov vorrà dire co che è senza forma ^ cioè la materia (1). Aggiungiamo che l'identificazione del :iépag con Tel^og comune di tutti gli esseri, vale a dire con l' Idea del bene, corrisponde anche a un altro significato di cui il termine iiépa^ è suscettibile, quello di fine o scopo. * Ciò che è stato dett<> trova la sua conferma in Ari- stotile. Egli (in Met. 1. V. XVII) assegna al termine nipoL^ questi significati : la forma della grandezza o dell' og- getto avente grandezza; il fine o o^ Ivexa (la causa fi- Con questo senso qualitativo del termine àiistpov coesiste però il senso guaniilaiivo, come si vede nella riduzione dell'^TCSipOV al Gran- de e Piccolo. Il termine ha anche altre applicazioni, più conformi al suo significato volgare, quello di grandezza superiore a qualsiasi grandezza finita : è ciò che avviene, quando esso designa la materia delle cose, vale a dire lo spazio (v. B.)* o quando si afferma che i sensibili sono infiniti per la materia, cioè per l'àTlStpOV (v. Arist. ap Simpl. m Artsl. Phys.^ Ibi. in —Porfirio, ap. Simpl.PAvJ. fol. lo4, indica un'altra applicazione dello aTieipOV in un senso quantitativo, e oè che la divisibilità airinfinito della grandezza dimostra che in ogni grandezza è racchiusa una certa natura d'infinito). m — naie) ; V essenza (la causa formale). Naturalmente Ari- stotile trova questi significati nel linguaggio filosofico deirepoca, e, tra i suoi predecessori, noi non possiam^ attribuire i concetti, che essi suppongono, che a Platone e ai platonici. Lo stesso Aristotile dalla sua parte iden- tifica talvolta il nipoLQ con TelJo; e Tàiistpov con la ma- teria (2), e chiama anche Tiépag la caasa finale (Mef. 1. IIL IV; 5, luogo in cui sembra alludere a un ragionamento dei platonici). La dottrina platonica dei due elementi, malgrado lo espediente a cui si ricorre, di non riguardare come elòog che un solo dei due universali supremi, resta sempre evidentemente in contraddizione coi principii della dia- lettica (dieresi), perchè questi richiedono, alla sommità del mondo ideale, non due universali supremi, ma uno solo. La contradizione^ è vero, potrebbe essere attenuata ancora da questa rifiessione, che i due universali su- premi essendo ricondotti alla forma e alla materia di tutti gli esseri, la dualità è piuttosto apparente che reale, e non vi ha al fondo che un universale supremo unico, TEssere uni ver mie, di cui i due elementi sono la forma e la materia. Ma non cesserebbe con tutto ciò Tincoerenza di ammettere dae principii primi, mentre la dialettica esige un solo princip io primo, la legge del mondo ideale essendo che ogni plur» lità si riduca costantemente ad una unità su- periore. La »5ontraddizione è dunque insolubile, ed essa ci indica che la dottrina dei due elementi è una modi- ficazione posteriore del sistema delle Idee, dovuta a una nuova influenza, indipendentemente dalla quale questo sistema si era formato. E noi abbiamo in effetto delle (1) D£ Coélo 1. 11. Xin. 3, Pàys. 1. IV. 11. 1-2, e cfr. Degenerata 1. 11 Vili. 4-5. (2) Phyi. 1. IIL VI. 10, VII. 6; cfr. Atei, 1. I. V. lo. prove che non lasciano alcun dilbbjo in qtlésfti due putiti: cioè, primo, che Platone deve la dottrina dei due eie' menti ai Pitagorici, e, secondo, che questa dottrina è as- sente dal Fistema di Plutone nella sua forma primitiva,' e segT^a, insieme alla dottrina dei numeri ideali, un nuovo periodo nella speculazione di questo filosofo. Nei e. 6<^ del 1. I. della Metafisica^ in cui fa V espo- sizione della filosofìa platonica, Aristotile dice: «Dopo le dette filosofie venne quella di Platone, che in molti punti segui questi (i Pitagorici, di cui prima ha parlato), ma alcuni altri ne ebbe propri, in fuori della filosofia degritalici :< . E, accennato alle dottrine principali di Platone, cioè la dottrina delle Idee, delle entità interme^ diarif», dei due elementi, e la identificaz'Oùe delle Idee ai numeri, continua con questo confronto tra la filosofia di Platone e la pitagorica, in cui indicai punti comuni lille due filosofie e quelli propri al solo Platone : «L'Uno stesso essere sostanza, e non qualche altra cosa a cui si attribuisca V unità, questo diceva come i Pitagorici ; e ancora come essi, che i numeri siano cause alle altre cose della loro essenza. Ma invece deirinfinito come uno porre una dualità, perchè egli fa V Infinito del Grande e Piccolo, ciò gli è proprio: inoltre egli pone i numeri oltre i sensibili, ma quelli dicono i nftìmeri le cose stesso, e non pongono Pentita matematiche intermediUrie tra i numeri e le cose. L'aver posto V Uno e i numeri oltre le cose, e non come i Pitagorici, e l'introduzione delle Specie fu per lo studio della dialettica (della quale gli antichi non erano partecipi); 1' aver fatto poi delTaltra natura una dualità fu affinchè i numeri, eccettoi primi, se ne generassero comodamente, come da un sigillo. » Risulta dunque dalla testimoniania d' Ariìstotile che Platone ha imprestato il suo elemento materiale dai. Pita- — 118- |lS^ -^^ ^--~ -^ *i * ' I » ^'Ti -' > »j:~^ 3E=,ià»mmm^^ ^f^^y ! górici, ma apportandovi una modificazione, quella di ri- condurre quest'elemento alla dualità del Grande e Pic- colo. Senza dubbio;, questa non è la sola modificazione importantercbe Platone ba apportato alla dottrina pi^>a- gorica; Ari^stotile ne passa sotto silenzio un'altra cbenon ha unMmportanza minore (forse perchè la riguarda come una conseguenza del sistema delle Idee) : è la riduzione dei due elementi alla forma e alla materia universali. Il cangiamento risultante da queste e le altre modifica- zioni, necessitate dall'adattamento della dottrina pitago- rica al sistema platonico, è cobl profondo, che nasconde r identità fondamentale della dottrina di Platone con quella dei Pitagorici, e fra le due dottrine sembra non esistere un rapporto più intimo che quello di una sem- plice analogia. Ma vi ha un punto che non bisogna per- dere di vista. Qualunque sia stato il senso originario della proposizione dei Pitagorici che le cose constano di fine e d'infinito, dopo che queste astrazioni fine, e infinito cominciarono a riguardarsi come delle sostanze di cui le cose sono composte, la proposizione divenne un enigma incomprensibile, o a dir meglio una formula vuota a cui non era possibile di attaccare alcun senso determinato : per conseguenza Platone poteva riempire questa formula vuo^a dei suoi propri concetti, e, usando di quella libertà ch'egli si prende abitualmente coi dati della storia, dare questi concetti per il senso riposto della dottrina pitagorica, taciuto o forse anche smarrito dai più recenti filosofi di questa scuola che ne avevano di- vulgato le dottrine. In effetto, il pitagorismo di Platone, come vedremo in seguito, non consiste solamente ad appropriarsi i concetti dei Pitagorici, ma anche ad attri- buire a questi i suoi propri concetti. Per altro vi erano nella dottrina pitagorica dei due elementi certi laU a \\ cui Platone poteva riattaccare il nuovo senso in cui egli prendeva questa dottrina. L'identificazione del Tcépa^ alla forma generale degli esseri e dell' ànstpov'alla materia, che è il carattere più essenziale per^cui siMistingueMa dottrina di Platone, trovava certamente un addentellato in alcuni concetti dei Pitagorici. Cosi, quantunque Ari- stotile riconduca tanto l'uno quanto l'altro dei due ele- menti dei Pitagorici alla materia ciò che egli fa tal- volta anche per i due elementi di Platone, prendendo strettamente pila lettera la parola elemento tuttavia è r^Tieipov che egli considera specialmente come il prin- cipio materiale (^); e benché l'interpretazione degli au- tori posteriori che riguardano il népa^ e l'àTieipov come cor- rispondenti aTa forma e alla materia, sia senza dubbio dovuta a una confusione con la dottrina di Platone, tra le proposizioni conservateci dei Pitagorici ve ne hanno talune che darebbero a questa interpretazione una certa speciosità. Tali sono sovratutto quelle in cui essi si rap- presentano r illimitato (àTietpov) che è nelle cose come compreso ientro il limite (,7tépa^) e limitato da questo: in questa rappresentazione del rapporto tra il Limite e rillimitato questi due concetti sono assai vicini a quelli della forma e della materia. Ma il vero punto di par- tenza per passare dalla dottrina pitagorica alla pro- pria Platone lo trovava, come abbiamo notato, nell'a- nalogia del concetto stesso di limite (^tépa^) con quf'llo di forma, e, po:?siamo anche ag^giungere, del concetto d' infinito (àneipov) con quello d' indefinito o indeter- minato—che prr Platone, come per Aristotile, è il (1; V. Mei, 1. XiV. 11. 1-2. (2) V. M9t, 1. I. VII. 2 Arist. Phys. 1. lU. IV. 3 • Mei, 1. XIV* 111. 14, -114- t eàrattere distintivo della materia.— E^]i jx^và irioU tre fondarsi, per la riduzione del icépa^ al bène, sul dato che i Pitagorici chiamavano la perie (aDoxoixCa) del finito la serie dei beni (e si noti che non solo il Finito era and dei principii compresi in questa serie, ma era anche ad esso che tutti gli altri venivano ricondotti). In quatto alle denominazioni di Grande e Piccolo e Dualità inde- terminata date all*elemento materiale, noi abbiamo vi- sto com'essa si riattaccavano a qnel*e pitagoriche d'In- finito e di Pari. Sulle altre modificazioni della dottrina pitagorica osserveremo : che V identificazione dell' Uno con uno dei due elementi, mentre i: Pitagorici lo face- vano risaltare da amendue (e lo chiamavano perciò pari- dispari), poteva riattaccarsi alla sua classazfone ncMa oooxoix^a del limitato ; e la riduzione dei due elementi airEssere e al Non essere, al concetto, emergente dalla tavola delle dieci opposizioni/ che tutto consta di con- trarietà, e che queste si riducono tutte a quella del li- mitato e deirillimitato (infatti in ogni contrarietà Tuno dei termini può considerarsi come positivo e subordinarsi air essere, l’altro come negativo e subordinarsi al non essere; e nelle opposizioni dei Pitagorici i termini che potevano preferibilmente considerarsi come positivi erano quelli che venivano posti dalla parte del limHato). V. Arist. Afet. 1. I. Vili. 9-Jl. Phys.l III. VI. 11, Alex. Aphr. arf Afei, 1. I. t. 43, ecc., Cosi Eudemo attribuisca al non essere, nella dottrina pitagorica, un posto pressoché equivalente a quello che esso ha nella platonica: « Bene i Pitagorici e Platone portano nel movimento l'indefinito.... e lo imperfetto e il non essere » (ap. Simpl. ad Arisi. Phys. I. III. 11.). Qui evidentemente il non essere, come Tìmpcrfetto e l'indefinito, è, per quanto concerne i Pitagorici, una generalizzazione dei principii della OUGTOix^K deirilliiaitato. Ve liauio ora alle prov^ della posteriorità della dot trina. Questa risulta prima di tutti dagli scritti stessi di Platone. È certo,ehp, quando scriveva \a, Repubblica, Pla- tine, non ammetteva ancora la dottrina di una dualità di principii. Nel 6« e 7<> della Beptkbblica non vi ha, alla sommità del mondo ideale, che un'entità unica : è l'Idea del Bene, sovrana del mondo intelligibile, in cui essa è ciò che il sole è nel mondo visibile, e principio unico dell'essere e del conoscere (1). Inoltre la dottnna dei due «lemnnti, quale la conosciamo dall'esposizione d'Aristo- tile, suppone quella dei numeri ideali, perchè Aristotile riguarda come il tratto essenziale e caratteristico del principio materiale di Platone che esso è fatto consist«»re (1) V. 50^-5c9 d, 5io b— 5II b, 516—557 e, 532533 d. Nello stesso dialogo, 478, si dà come un carattere delle cose sensi- bili, per cui esse sono opposte alle Idee, quello di partecipare al tempo stesso dell'essere e del non essere. Certamente questo non significa che l'essere e il n^n essere sono due e!emenci di cui le cose sensibili sola- mente, e non le Idee, sono composte; Platone vuol dire semplicemente che la realtà del sensibile non è una realtà piena, assoluta: ma è evidente che egli non si espr imerebbe cosi, s'egli conoscesse già la dottrina che l'Es sere e il Non essere sono i due elementi delle Idee e delle cose. A 479, spiegando perchè le cose sensibili partecipano dell' essere e del non es- ser*», dà un altro carattere per cui esse si distinguono dalle Idee, cioè che in esse si trovano al tempo stesso degli attributi contrari. Anche nel VELIA (vedasi) le cose vengono opposte alle Idee, perchè quelle partecipano simultaneamente di attributi contrari, e queste no; e nel Fedone (v 103 d-lo5a) si stabilisce il principio che un'Idei non può mai partecipare a due Idee contrarie (infatti è impossibile, nel metodo di divisione, di subordinare un'Idea a due Idee contrarie). Noi dobbiamo perciò ammettere che quesU dialoghi sono anteriori alla dottrina del due elementi, perchè secondo questa dottrina ciascuna Idea partecipa delle Idee contrarie dell'Essere e del Non essere, dello Stesso e del Diverso» del Finito e dell'Infinito, ecc. (vedi ciò che diremo appresso sulle due atiaxoixCai di principi! opposti). " H 'il ::i -176- nel Grande e Piccolo (i) : ora, come osserva lo stesso Aristotile, Platone sostituì all'Infioito uno dei Pitagorici la dualità del Grande e Piccolo, per far servire questo princìpio alla generazione dei numeri ideali {2\ Noi sappiamo del resto che la dottrina dei due elementS di cui è quistione in ArÌ8totile,fu esposta da Platone nei suoi discorsi utU Bene, in cui egli diede i risultati delle sue ultime speculazioni. Si potrebbe dire che ciò non esclude la possibilità di una forma anteriore della dot- trina, in cui il principio materiale non sarebbe stato ancora considerato come il Grande e Piccolo, e che Platone in seguito avr«ibbe modificata, mettendola in armonia con le sue nuove dottrine pitagoreggianti. Ma si leggano i luoghi d'Aristotile relativi a questa dottrina, e si vedrà chiaramente che Platone non si è mai servito dei due elementi che come di principii dei numeri (4), e che Ari- stotile non conosce altra forma di essa che quella in cui il principio materiale si fa consistere nel Grande e Piccolo (5). Aggiungiamo che in Met. 1. XIV. IL 4 le speculazioni platoniche sulla materia delle Idee vengono date come una deviazione {èy.zpon-fi) dall'indirizzo primitivo. Alla dottrina dei due elementi è legati in Platone, come nei Pitagorici, quella di due serie (orioxotx^aO di prio- cipii opposti. Ad essa allude Aristotile in Phys. 1. III. (1) V. i l. indicati nelle due note dopo la seguente. (2) V. n. I. sulla fine. (3) V. Arist. Phys. 1. IV. U. 2, 5. Siinpllc. in Phys. fol. 32, lo4,ll7, 127, Alcss. Afrod. in Mèi. 1. I. t. 43 e t. 60. ecc. (4) V. Mei. l. I. VI. 3-6. 1. Xlll. VII. 3. I. XIV. V. 1-14, l. XIV. V. 3" 5 ecc '(5) Mei. 1. I. VI. 3-', I. I. VII. £-3, 1. I. IX. 22-23, 1. IH. 111. .s. 1. XU. X. 3, l. XIV. l. 3 sqq., l. XIV. 11. 3-I4, ^Ajv*. 1. l. IX 1-2, ecc. IL 1-2 e Met. 1. XI. IX. 6-7. Nel primo di questi luoghi d ce: Alcuni dicono che il movimento è la diversità e rineguagllanza e il non essere, mentre non vi ha alcuna necessità che gli oggetti si muovano, se sono diversi né se ineguali né s^^ non esseri. Il mutamento non é né queèt ». cose (là diversità, Tin^guaglianza, il non essere) né da esse piuttosto che dalle opposte. La ragione per cui hanno ricondotto il movimento a queste cose é per- ihè sembra che il movimento sia qualche cosa d'indefi- nito, e i princ'pii dell'altra serio fa'jaxotx^a) sono iudefi- niti perché privativi; nessuno di essi é infatti un'e senza determinata né una qualità né alcuna delie altre categorie.» Lo stesso quasi parola per parola nel luogo della Meta- fisica. Questi luoghi si riferiscono a Platone, perché sap- piamo che Platone riconduce il movimento all'elemento materiale (1), e che la divers'tà, rioeguaglianza e il non CFScre sono delle denominazioni di quest'elemento. Inol- tre vi ha un luogo d'Eudemo, in cui é certamente qui- stione della stessa dottrina a cui alludono i due luoghi citati d'Aristotile, e questa dottrina é attribuita esplici- t«imente a Platone (2). Ora, quali sono i principii dell' altra ariaxoix^a di cui parla Aristotile ? e — poiché V altra atioxotx^a suppone una oooxoix^a opposta —; quali sono i principii della ouoxotx^a opposta ? Senza dubbio trai principii dell' «altra auoxotx^a» (1) V. Met. 1. I. IX. 23 e 1. Xlll. Vili. 21. (2) Eudemo ap. SiinpI. ad Arist. Phys. 1. 111. Il: «Platone dice che il movimento è il grande e piccolo e il non essere e l'anomalo e quanti al- tri riduce alla stessa cosa : ma sembra assurdo di dire^che il movimento sia questo; infatti l'oggetto in cui è presente il movimento si muove, ma è ridicolo che, un oggetto essendo ineguale o anomalo,]^ sia2[necessario che esso si muova». Questo luogo ^ quello che abbiamo indicato sopia per dimostrare che Telemento materiale veniva anche c|iiamato l'anomalo -176 — I sono la Dytìrsit^, riae^aaglianza e il Non essere; poi- ché, quando Aristotile dice: «perchè sembra che il mo- vimento sia qualche cosa d'indefinito, e i principii del- l'altra ouoxoixCa sono indefiniti », evidentemente e^jli in- tende assegnare ^ome ragione dell'aver ricondotto il mo- vimento alla diversità, airineguaglianza e al non essere, r indieterminatezza per cui il movimento somiglia alla diversità, airineguaglianza e al non essere. Di più il mo- vimento fa parte anch' esso dqi principii dell' « altra oti- oxoixta»: infatti, se per ragione della riduzione del movi- mento al non essere, alla diversità e all' ineguaglianza Aristotile 4à la somigliflinza che il movimento ha, non coi soli noijesser'^, diversità e inegualianza, ma coi prin- cipii dell' « altra oaoToix^a » In generale, ciò è perchè la riduzione di una cosa al non essere, la diversità e l'ine- gaaglianza equivale per Aristotile alla sua classazione tra i principii dell' « altra o'joxotxta». Tra i principii del- l' f altra ooaxoixCa » trovandosi dunque il Movimento, la Diversità, TlneguagHanza, il Non e*?sere, tra i principii della oDoxoix^a opposta devono trovarsi gli opposti, cioè lo Stato, l'Identità (lo Stesso), l' Eguaglianza, 1'Essere. E siccome Vessere^ V eguaglianza, Videniità {lo stesso) sono dei nomi con cui viene designato l'elemento formale, e il non essere, V ineguaglianza, la diversità del nomi con cui viene designato l'elemento materiale, noi dobbiamo ammettere che i nomi dell'uno dei due elementi figurano anche come principii dell' una delle due ouoxotxtai, e i nomi dell' altro come principii dell'altra. Ma di là non ne segue che tutti i principii di una delle due ouoxotx^at figurino anche come nomi dell'elemento corrispondente : infatti il movimento non è un nome dell' elemento ma- teriale. Però il movimento, quantunque questo nome non venga applicato a designare l'elemento materiale, è ricondotto, come abbiamo visto, da Platone all' elemento materiale : cosi devono anche classarsi tra i principii dell' una o dell' altra delle due auaxoixtai quelle entità che, senza che i loro nomi vengano impiegati per desi- gnare Tuno o l'altro dei due elementi, sono nondimeno ricondotti alcuno o all'altro dei due elementi. A queste entità accenna Ari'^totile in generale in Me^ 1. XIII. Vili. 2i, con queste parole: Alcune cose assegnano (i Platonici) ai principii, come il bene e il male, lo stato e il moto; le altre ai numeri. » Il male non è un nome dell'elemento materiale, ma è, come il movimento, ricondotto all'ele- mento materiale (1). Che Platone riguardi i diversi nomi ch'egli dà all'uno e all'altro dei due elementi come corrispondenti a dei principii distinti, è una proposizione che non deve sor- prenderci : è questa anzi la sola interpretazione che sia conforme aUo spirito del sistema delle Idee e alle abitu- dini del linguaggio platonico. Un nome, nella sua appli- cazione meta'fisica, non designa altra cosa per Platone che il concetto che essi comunemente significa, realiz- zato : cosi l'essere e il non essere, l'eguale e l'ineguale, lo stesso e il diverso, ecc. non possono designare per lui che i concetti dell' essere e del non essere, del- l'eguale e dell'ineguale, dello stesso e del diverso, ecc. realizzati. Ma i concetti dell' essere, dell'eguale, dello stesso, ecc., cosi bene che quelli del non essere, dell'ine- guale, drl diverso, ecc. essendo distinti, ne segue che le entità Essere, P]guale, Lo stesso, ecc. cosi bene che Non essere. Ineguale, Diverso, ecc. devono anche essere delle entità distiate. Noi non possiamo dunque ammet- tere che tra 1' Essere, l' Eguale, lo Stesso, ecc. da una V. oltre il 1. e. Mei. 1. I. Vi. 8, 1. Xll. X. 4. 1- XIV. IV. parte, e dairaltra, tra il Non essere, V Ineguale, il Diverso, ecc. vi sia una distinzione, non reale, ma som- plicemente nominale, a meno di supporre che Plaone abbia creduto che ciascuna di queste due serie di nomi significhi uno stesso concetto. La stessa osservazione vale, a più forte ragione, per il movimento, il male e le altre cose che Platone riconduce all'uno o all'altro dei due elementi, ma senza dare a questi i nomi corrispondenti: i concetti del male e del movimento essendo distinti tra di loro e dai concetti del non essere, deirinegua'e, del diverso, ecc., il Male e il Movimento devono essere delle entitA distinte fra di loro e dalle entità Non essere. Ine- guale, Diverso, ecc. Tuttavia la distinzione che Platone stabilisce tra tutte queste entità non gì' impedisce di riguardarle al tempo stesso come identiche. Per le entità i cui nomi servono a designare uno dei due elementi, qucst' identificazione risulta sufficientemente da questa stessa applicazione che viene fatta dei loro nomi. Ma essa non è meno evidente per le altre: roi abbiamo già visto nel luogo citato di Aristotile (1) e in quello d'Eudemo che il movimento è la Diversità, l'Ineguaglianza, il Non essere, il Grande e Piccolo, ecc. Di quest'identità degli altri principii d'una o'iOToix^a con quelli che figurano come nomi delleh mento corrispondente si hanno le prove nella più parte dei luoghi d'Aristotile in cui è qui^tione della relaziono di 1 movimento o del male con l'elemento materiale. In Mef. 1. I. IX. 23 dice : f In quanto al movimento, se esso é il grande e piccolo, si muoveranno anche le Idee^. Tutte le cose partecipeiauno al (1) Phys. l. III. II. Ap. Simpl. ad Arisi. Phys. 1. III. II, male, salvo l'Uno, poiché il male in sé è l'altro elemento.^* Ibid. 1. XIV. IV. 6-7: e Alcuni (dei Platonici vale a dire, per quanto possiamo giudicarne, tutti gli altri tranne Speusippo e i suoi) dicono l'Ineguale la natura del male. Ne segue che tutti gli esseri, salvo uno cioè l'Uno stesso, parteciperanno al male», ecc. Come si può intendere che delle entità distinte siano al tempo stesso identichePNoi ritroviamo qui, mutatis mutandis, quello stesso rapporto ambiguo che abbiamo già incontrato tra Tuno e i molti (i molti fcono 1' uno e Tuno è i molti). Bisogna rinun- ziare su questo soggetto a qualsiasi concetto intelligi- bile. Tutto ciò che possiamo dire di più chiaro è che i diversi principii di ciascuna delle due ooaxoixiat sono ri- guardati da Platone come degli aspetti diversi— eguid- mente obbiettivi dell'elemento corrispondente. L'espres- sione degli aspetti diversi egualmente obbiettivi è certa- mente un non senso — fra i diversi aspetti di un oggetto è uno solo che noi possiamo riguardare come obbiettivo— ma essa è forse la più appropriata per rendere l'oscuro concetto racchiuso in questa dottrina. Ciascuno dei principii dell'una e dell'altra ouoxotxCa è certamente consideralo come un attributo d'una uni- versalità assoluta, pres'^nte in tutti gli esseri. In effetto Ih più parte di questi principii, per quanto possiamo giudicarne, figurano come nomi dell' uno o l'altro dei due elementi ; ed è evidente che Platone non potrebbe dire che l'Essere o l'Eguale o lo Stesso ecc. ò la forma di tutte le Idee, e il Non essere o l'Ineguale o 11 Diverso ecc. la materia, se l'Essere, il Non essere, l'Eguale, lo Ineguale, lo Stesso, il Divers'^, ecc. non fossero per lui delle determinazioni comuni a tutti gli esseri. In quanto ai principii che, come lo Stato e il Moto, non figurailo come nomi degli elementi, la loro universalità assoluta - Un è provata, oltre che dal'a coerenza della dotlrìna, dal fatto che gli attributi corrispondenti a questi principii Vengono riguardati come determinazioni inerenti alla forona o alla materia universali. È ciò che vediamo [«er Il Movimento. Nel Timeo la materia di tutti gli ess ri ò simboleggiata da una massa in un movimento conti- tiuo, e Xcnrcrate chiamava la materia di cui tutte le cose sono fatte àévaov (continuamente fluente) Questo stesso concetto èespresso da Xeiiocrato Sfato forma simbolica, quando chiamava V Unità V intelligenza e la Dualità indefinita Tanima del tutto: lelemento ma- teriale è simboleggiato dalPanima, perchè questa e, s«»- condo Platone, perpetuamente in movimento, e comunica il suo movimento a tutte le altre cose (l'elemento tv r- maleo il Bene dairinteHigenza, erme rei Tiineo, peichò questa è la sola attività «mpirica che operi secondo il principi» delle cnuse finali. Per altro V univer-alità -assoluta di tutte quelite entità è inerente alla 1« ro qua- lità di principii, perchè, con forn emonte alla dialet ica platonica, ciò che è di una universalità solo relativa, ciò che è contenuto sotto un'Idea più generale, non po- trebbe essere riguardato come principio. Cosi la dottrina V. 30 a, 62 e-53 a, 88 d. (2) V. MaUaoh Fr, 78. Stob. Ed. Phys. (Muli. Xenocr. Fr. I). Che il movimento sia un attributo universale comune a tutto ie cose, risulta del resto dalla dottrina del divenire continuo dei ÉensibiU. Per altro non bisogna dimenticare che il moi'imento (^f- VtJOlg) ha nel linguaggio dei filosofi greci un significato molto lato, essendo press'a poco un sinonimo di cangiamento. Platone chiama anche movimento una relazione transitoria d' una cosa con altre, anche che non importi in essa un cangiamento reale; p. e. l'esser eonosciata è un movimento della cosa conosoiata {Sof. 248), delle due ouoxotxfat di principii opposti dà una risposta alla quistione quali S'ano .propriamente le determina- zioni delle cose che i due universali supremi, cioè la forma e la materia delle Idee, rappresentano; la riunione degli attributi corrispondenti ai principii dell'una o del- l' altra a4>oxoixta ci dà il significato complelo dell' ele- mento rispettivo. Qu^8ta dottrina dì due serie di principii opposti è evidentemente un'im ta/ione di qu( Ila coni-^pondente dei Pitagorici. Cosi noi dobbiamo ammettere che questi op- posti non rappresentano solamente le determinazioni universali dell'essere, ma ancora, come quelli dei Pita- gorici, le opposizioni fondamentali delle cose. È a ciò che deve riferrsi l'indicazione d'Alessandro d'Afrodisia (2) che Platone vedeva nell'Eguale e l'Ineguale o 1' Uno e la Diade indefinita € i principii degli esseri per se stessi e degli opposti ». I « principii degli opposti » è certamente Fra quasti principii opposti, riguardati come attributi co- muni a tutti gli esseri, sono, coAie abbiamo visto, il bene e il male. Elevando il male a principio e attributo universale delle cose, FU- tone si mette certamente in opposizione con la forma primitiva del suo sistema: tuttavia quest'opposizione non è cosi grande co- me potrebbe sembrare a prima vista. Potrebbe credersi infatti ohe egli dia al male una parte e^juale a quella del bene. Ma non è cosi. La t'orma e l'essenza degli esseri è il bene: ne segue che il male non è che un accidente; se no, perchè l'essenza delle cose sarebbe il bene piuttosto che il male ? Noi abbiamo già osservato che il male non è nemmeno riguardato da Platone come la materia. E- videntemente il concetto di Platone è ohe il bene è il tipo che tutti gli esseri tendono a realizzare, ma che nessuno realizza se non d'una maniera approssimativa. Nel Timeo Dio realizza da per tutto l'Idea del bene, ma per quanto è possibile (v. 29 e 30 a, 46 c-d, 4S a, 53 b, 56 e, 68 e— 69 b). Cosi in tutti gli esseri vi ha alato del bene il male : ma la regola è il bene, e il male non è ohe l'eccesione. Ad Met, l. I. t. 43. • *' I -V 179 Il 1 M * ùti' espressione inesatta, almeno in un ponto, cioè che Platone non poteva rguardare gli altri principii delle du(B a\} azoix^oLi come derivati dall'Eguale e T Ineguale o rUno e la Diade poiché in questo caso non sarebbero stati anch'essi dei prindpii—; ma gli altri dati che ab- biamo su questa dottrina ci autorizzano ad int^derc la indicazione d' Alessandro in questo senso, che Platone riconduceva le opposizioni fondamentali delle cose ai due elementi delle Idee. Questo concetto dà anche la spiegazione di una dottrina d'Aristotile, che, come tante altte di questo filosofo (p. e. la distinzione de'la forma e della materia), non si comprende che per il rapporto della sua filosofia con quella di Platone. È la proposi- zione che tutte le contrarietà si riducono a quella del- l'unità e della pluralità (p. e. lo stato, l'eguale, lo stesso si riconducono all'onità; il moto, l'ineguale, il diverso, alla pluralità) (1). Questa proposizione, di cui non pò- trebbe vedersi «Icun legame coi concetti della filosofia d'Aristotile, si riattacca invece della maniera più natu- rale a quelli d'una filosofia che, come quella di Platone, fa consistere l'essenza delle cose nei numeri. E in effetto essa è contenuta in germe nella dottrina delle due ouoxoi- xCat di principii opposti. Questi principii opposti, al punto di vista della teoria dei numeri, erano ricon- dotti da Platone all' Uno e al Grande e Piccolo, e il Grande e Piccolo, specialmente come elemento dei nu- meri, cioè come Molto e Poco, equivaleva alla Pluralità: cosi, siccome le due serie di principii opposti rappresen- tavano, come abbiamo detto, le opposizioni fondamentali degli esseri, cioè le più generali e a cui la più parte delle altre, se non tutte, si riconducono ; di là si ginn- geva facilmente alla generalizzazione d» Aristotile — i^ Pautore di questa generalizzazione è stato Aristotile, e non Platone stesso — che tutti i contrarii si riconducono all'unità e alla pluralità. Una conferma del rapporto di questa dotti ina d'Aristotile con la filosofia platonica po- trebbe vedersi in questa circostanza, che Aristotile trat- tava di essa nel libro sul bene (1), nel qua!e esponeva gli S.ypcLcpcf. SÓYjiaxa di Platone. Probabilmente le due ouaxotxfat di Platone compren- devano, come quelle d- i Pitagorici, dieci opposizfoni (pi rchè dieci era il numero perfetto) , e noi possiamo supporre con qualche verosimiglianza che fossero le se- jiuenti: V Fine o Finito ~ Infinito (4). 2« Unità -Mol- t plicità. 3^ Dispari- Pari. 4^ Bene-Male. 5^ Stato-Moto. 6^ Essere- Non Essere (5). 7» Lo Stesso-- Diverso. 8^E- gua!e -Ineguale. 9- Regolare -Ir regola re (ójxaXóv-àvwixaXov) 10° Ordinato—Inordinato (xaxTÓv-aciaxTov). Di queste Met. l. IV. II. 5-8, 14-15, l. X. III. 3, IV. 11, 1. XI. III. 4. (1) V. Alex. Aphrod. in 3fet. 1. IV. t. 9 e 19, 1. X. t. 9, 1. XI. V. Slmpl in Pht/s. fol. 32 e fol 104, in De Anima l. I. o. II, Ales.}. in Met, 1. I. VI. t. 43, 1. I. IX. t. 60, Filopono in Phys. 1. IV. II, ecc. (3) V. Arist. Met. 1. I. V. 3. Platone, cerne vediamo nel Filebo (v. 16 e, 23 e, 24 a, 25 b, d, 26 b, ecc.\ doveva riguardare, aU'esempio dei Pitagorici, il Pine e il Finito come equivalenti. Naturalmente in quest'opposizione Non essere non significa fio che non esiste, ma la negazione (p. e. non uomo, non bello, non grande) e la privazione (p. e. tenebre, sHenzio, cecità), Senaa dubbio, Platone preferisce per l'elemento materiale la denominazione di Non essere, perchè, come dice Aristotile, i principii dell* altra ouoxoixfa sono privativi, e l'elemento materiale equivale al com- plesso di questi principii. (6) Teofrasto Metaf. 33 : Platone e i Pitagorici pongono l'oppo- sizioue dell'uno e della dualità indefinita: in questa è l'infinito, .."» t. i ; Opposizioni la prima metà sono comuni coi Pitagorici. Comparando nel loro insieme la tavola di Platoae e quella dn Pitagorici, la prima si distingue per un carattere più astratto; e le opposizioni particolari a Platone pos- sono riguardarsi, per la più parte, come delle genera- lizzazioni di quelle dei Pit«g orici. Per giustificare il can- giamento ch'egli apportava nella dottrina dei Pitagorici, Platone poteva dire che, tra le opposiz'oni delle cose, quelle che meritavano di essere elevate al grado di prin- cipii ed elementi, erano le più generali. Il tratto essenziale, per cui la tavola delle opposizioni di Platone si distingue da quella dei Pitagorici, è che i princi- pii opposti di Platone sono degli attributi universalissimi comuni a tutti gli esseri, e che i principii di ciascuna Ferie, riuniti, costituiscono uno dei due elementi di tutte le Idee : le altre differenze dipendono da questa diffe- renza fondamentale. Essa al'a sua volta è una conse- guenza della dialettica platonica. Le dieci coppie dì op- posti erano per i Pitagorici i principii delle cose : ora un principio è, secondo Platone, ciò che occupa il grado più elevato m*lla scala (^el'a generalità, e che, corno tale, si trova al punto di partenza della dialettica, conside- rando questa nella sua marcia d'scensiva, che è quella che corrisponde al progresso real»^ deiressore. Per con- seguenza, delle entità distinte dagli Universali suprem', cioè dalla forma e dalla materia di tutte le Idee, non potrebbero avere, nel sistema di Platine, il carattere di Vinordinato (àxaXTOv) e, per cosi dire, ogn'informità per se stessa — Nel Timeo l'elemento materiale è rappresentato da una massa che si muove disordinatamente (àiaxxcD^) e che il Demiurgo, che rap- presenta r Idea del bene, fa passare dal disordine all' ordine (sic Totgtv f^^oL-^vi ex x^c dxagiag). . principii y perche sarebbero loro subordinate in genera- lità, e deriverebbero da loro : cosi le due auoxoix^at di principii opposti non potevano essere, in questo sistema, che la decomposizione dei due Universali supremi in due serie di attributi egualmente universali e aventi ciascuno una parte della loro comprensione. Questa modificazione aveva anche V effetto di ren- dere la dottrina pitagorica delle opposizioni meno arbi- traria. I Pitagorici prendevano all'azzardo certe opposi- zioni, e dichiaravano che esse erano gli elementi costi- tutivi delle cose : ma come queste oppjsizioni pot*^ssero essere gli elementi costitutivi delle cos^, e perchè que- ste precisamente e non altre, erano delle quistioni che, nella dottrina dei Pitagorici, restavano senza risposta. A questa quistione Platone rispondeva con Tequivalenza tra le due serie di principii opposti (presa ciascuna nel suo complesso) e i due elementi delle Idee— Il concetto più nebuloso di questa dottrina di Platone, cioè Tiden- tifìcazione dei diversi principii di ciascuna delle due auoxotxiat, aveva per lo meno un addentellato nella dot- trina corrispondente dei Pitagorici. Quando questi chia- mano rimpari mascolino e il paii femminino, e riguar- dano la ouoxoiyja del Finito come quella dei beni e la ouoxoix^a deir infinito come quella dei mali, essi s^'inb: ano considerare il bene e il mascolino erme equivaler. ti al- l'impari e al finito, e il male e il femminino come rqui- vaicnti al pari e all' infinito. L' identifica/ione, nel si- stema pitagorico, di c'ascnno dei principi dell'una delle due GDozoiyioLi al Fini'o e di qiulli dell'altra all'Infinito risulterebbe anr^he dallindlcazioue di alcuni autori che i Pitagorici ch'amavano l'uno dei due elementi impari, ma- schio, luce, destro, retto, stabile, ecc., e l'altro coi nomi 1«1"> tl T^ contrari. Per Platone quest'identificazione era neies- Haria, s'egli voleva, ad imitazione dei Pitagorici, ricon- durre questi principi! al Fine e all' Infinito, e ftl tempo st< sso conservare ad essi la loro qualità di principiL In effeito, oltre questMdentificazione, egli non avrebbe avuto che un mezzo per ricondurre ai due elementi, cioè al Fine e all'Infinito, le altre entità facienti parte delle due serie di op|:osti : quello di riguardare il Fine e l'Infinito come generi, e queste altre entità come specie. Ma allora queste entità non sarebbero htate più dei principii; poi- ché, come abbiamo più volte osservato, ni lU dialettica platonica, ciò che è subordinato a quah he cosa di più generale, non è un principio, ma un essere derivato. Inoltre esse non avrebbero avuto più coi due elementi il rapporto speciale che ammetteva la filosofia pHagorica, ma semplicemente il rapporto comune che hanno con questi tutte le entità platoniche, tutte le Idee essendo con gli elementi nella relazione di specie a grenere. Del resto, senza V identificazione dei priacip'i di ciascuna ouoToix^a, non si vede come Platone avrebbe potuto fare coesistere la dottrina di una moltiplicità di principii con quella dell'unità, almeno con quella dell'unità del prin- cipio formalf*, indispensabile alla dialettica platonica, perchè VelZo^ supremo i on potrva ( ssere che un solo. La dottrina delle due a'jaxoixtai di princif»ii opposti sup- pone evidcnu mei to qu* ll;i dei du<> olcmenti : per conse- guenza le prove che d mostrano cht^ la seconda delle due dottrine è nata posti r'ormeiite al sistema delle Id< o e della dialettica, dimostrano questa s'essa posteriorità anche per la prima. Sar bbe suferflua qualsiasi osser- Eudoro ap. Simi>l. Jhijs, 30a, 1, e. e Poriirio Vita Pytha- gorae, §. 38. vazìone sulla contraddizione di questa dottrina coi prin- cipii della dialettica platonica, e la necessità, che ne se- gue, di spiegarne Forigine per una fusione dei concetti primitivi di Platone con un elemento straniero, indipenden- temente dal quale questi concetti si erano formati. Ma un'osservazione che non possiamo tralasciare è la rela- zione di questa dottrina con un luogo del Sofista, che senza questa relazione sarebbe incomprensibile. In questo dialogo 6 e, 2rj8 d, 259 a, 260 b) l'Essere e il Non esse e e lo Stesso e il Diverso vengono date come delle Idee d'un'universalirà assoluta, a cui tutte le altre Idee partecipano. Ora, conformemente ai principii della dialettica p^aton'ca, non potrebbe esservi che una sola Idea d' una universalità assoluta e a cui tutte le altre paitecipino. Questa incoerenza ci indica dunque che il Sofista è stato scritto nel perìodo pitagoreggiante, e quando Platone ammetteva già la dottrina delle due oDOTotx^ai di principii opposti. E in eft'etto l'Essere e il Non essere e lo Stesso e il Diverso fanno certamente parte di queste oDOToix^ai. Noi abbiamo del resto altre prove che dimostrano che, quando Platone Fcrivevail So- Jista, egli aveva già immaginato la dottrina dei due ele- menti. Così la più parte degl'interpreti hanno compreso, indipendentemente dalla nuova prova che noi apportiamo, che l'Essere e il Non essere di cui si tratta nel Sofista sono quegli stessi di cui è quistione nella Metafisita di Aristotile, vale a dire, i due ik menti d^^Ilc Idfe. Ciò ri- sulta prima di tutto da un'allusione della Met. 1. XIV. II. 7-8, cioè che Platone ha identificato il Non e sere, vale a dire la matria, con la natura del falso: questa allusione convirne perfettamente al Sofista, perchè in questo dialogo Platone sostiene che il discorso e l'opi- nione falsa hanno per oggetto il Non essere, e sono -i ;-> •W4. •> A^^' }t%j »?!« . . ' ^ I TV I falsi ppr la partecipazione del Non essere. inoltre la lunga di^ress'one per dimostrare Te-iistenza del Non es- sere prova che ques'/ ent tà occupa n*^l si-^ stema un posto d'un'importanza speciale: Platone, è vero, dà per iscopo a questa digressione di stabilire Tes^'stenza del falso, difendendola dalle obbiezioni capziose dei con- temporanei; ma è evidente che questo non è ch»^ un pre- testo per riattaccare le sue specul«zioni alle quistioni del giorno (2). Aggiungiamo che alU sommità del mondo ideale sta, nel Sofista, non l'Idea del Bene, ma quella deirEssere (3). B. Il puntodi partenza della dottrina suUa materia delle cose cìoii sulla materia esteriore alle Idee e che si ag- ffiunire ad esse per costituire le cose è la cns^ru/.icme del corporale II corpo si compone delle superficie e dello Contro l'equivaler za del Non essere del Sopsla col Non essere de\ÌQ> Mt-ta fi sica vi sarebbe l'obbiezione che nel Sofista il Non essere non potrebbe riguardarsi come un principio primilivo,pBrchè vi si dice che quest'Idea è contenuta sotto quella del Diverso (257d-258d). Ma quest'obbiezione non ha un gran valore; perchè, siccome tanto il Di- verso quanto il Non essere si trovano in tutte le altre Idee, e per consej^uenza anche l'una nell'altra, cosi il rapporto di contenenza tra le due Idee è reciproco, cioè è allroltanto vero di diro ch^ l'I- dea del non essere è contenuta -joltoqualladel diverso — perchè d^l non essere può predicarsi il diverso- quanto di diro chs l'Idea del diverso è contenuta sotto quella del non essere-perche, reciproca- mente,del diverso può predicarsi il non essere—. Se l'Idea contenente dovesse riguardarsi, in questo caso, come anteriore all'Idea conte- nuta, vi sarebbe per conseguenza altrettanta ragione di riguardare il Diverso come anteriore al Non essere che di riguardare il Non essere come anteriore al Diverso : cosi il rapporto logico di conte- nente e contenuto non può importare, in questo raso, il rapporto ontologico di anteriore e posteriore, (3; V. 243 e— d e 253 e— 254 b. J spaz'o che es -e racchiudono; le superfìcie similmente delle linee che le limitano e dello spazio compreso fra queste lince; e le linee dei punti che le limitano e dello spazio compreso tra questi "punti. Il punto viene identificato con r unità. Un' esposizione completa di questa costruzione deire^teso non la troviamo, a dir vero, né in Platone né in Aristotile. Nel Timeo vi ha solamente la composizione del corpo dalle superficie. Ma Aristotile parla spesso dell'opinione che le superficie, le linee e i punti o unità sono so>tanze, e che il punto o unità é più sostanza della linea, la linea più della superficie, e . la superficie più del corpo (2), opinione che si deve attribuire a Platone e ai suoi, perché essa é leg«ta alla dottrina delle Idee, e fondata sul motivo che soppresso il punto si sopprime- rebbe anche la linea, soppressa questa, la superficie, esop- pressa la superficie, il corpo (4). E evidentemente alla stessa opinione che allude Aristotile, quando respinge la proposi- zione che i punti e le linee sono la materia dei corpi (5). In- fine Alessandro d'Afrodisia afferma, come abbiamo visto altrove, che Platone fa venire i corpi dalle superficie, le superficie dalle linee, e queste dai punti, che consiglerà come unità; e che é questa la ragione per cui (1) V. 53 c-57 d. Cff. Arist. De gen, 1. I. II. 8-9, 1. I. Vili. 8-9, 1. II. I. 4. De ('oeìo 1. III. I. 3 14, 1. III. VII. 1,5-10, 1. III. Vili. IsJ, l. IV. IT. U\, 13. (2) .1/7. l. III. V, l. V. VITI. 3, 1. VII. IL 25, l. XI. II. 7-8, l. XTV. III. 6-7, l'hi/s. l. V. ITI. 9. (3) V. Met, 1. VIT. IL 5 e 1. XIV. IIL 6-7. (4) V. Met. 1. ITI. V. 3 e 1. V. VITI. 3-questo è, come sappiamo, il criterio di cui si serve Piatone per stabilire che una cosa è anterlore al un'altra. Anche Alessandro Afrod. riferisce l'allusione a Platone (ad Met^ l. VII. t. 3). (5) De yen, 1. I. V. 6. . à i'i n ' \ » \ I - 1 - 183 - f egli ammette che i numeri sono i princìpi degli esseri {ad Mei. l. I. t. 43) (1). Com'è che le superficie ven- gono dalle linee e le linee dai punti? Della stessi ma- niera certamente con cui, nel Timeo, i corpi vengono dalle superficie. La costruzione del corpo nel Tiaieo, in efl^elto, sarebbe da se sola incomprensibile : essa non si comprende che come parte di un processo, che ha per risultato di comporre il corpo dello spazio e delle unità che lo definiscono, cioè del numero (2). Per le superficie di cui si compongono i corpi biso- gna intendere dei piani, e per le linee di cui si com- pongono le superficie, delle rette. La costruzione del corpo, di cui abbiamo parlato, si applica particolarmente ai corpuscoli elementari; poiché Platone nel periodo pi- tagoreggiante ammette la fisica corpuscoUre, e ciascuno di^uesii corpuscoli e un poliedro regolare. Vi hanno cinque elementi corrispondenti ai cinque poliedri rego- (1) Quest'indicazione d'Alessandro d'Afrodisia, al fondo, non ci apprende niente di nuovo; perchè la formula d'Aristotile, che il punto o unità h più soManza della linea, la linea dellasaperhcie e la superficie del corpo, significa precisamente che il punto o unità ò il principio da cui deriva la linea, la linea il principio da cui deriva la superficie, e questa il principio da cui deriva il corpo. L'rn.fcv.or., secondo Platone, ha più essere che il i^osteWar^. Così Aristotile men- ziona pure la proposizione (evidentemente dei Platonici) che i go- neri sono più sostanze delle specie (v. 3/c'M. Vili. I. 3)- In alcuni dei luoghi citati iMet. 1. III. V. 3-4, 1. V. VIII, 3; Aristotile dà anch'egli la dottrina che i principii deUe cose sono i numeri come una deduzione dall'opinione che le unità e, in generale, i termini del corpo sono sostanze e più sostanze del corpo stesso. (2) Bisogna anche vedere un'allusione a questa costruzione del corpo per lo spazio e le unità nella domanda che Aristotile rivolge ai Platonici : com'è che i numeri sono cause dell'essere e dell es- senza delle cose ? forse quali termini, come i punti delle grandezze r* Met.lari: il corpuscolo della terra che e un cubo, quello del fuoco che ò UQ tetraedro, quello dell'aria che è un ot- taedro, quello deir acqua che è un icosaedro, e quello dell'etere che è un dodecaedro (i). Nel Timeo yerò Pla- tone non ammette ancora che quattro elementi, ed esclude esplicitamente il quinto, cioè il dodecaedro (l'e- tere). La stessa costruzione dei corpi per le superficie, per le linee e per i punti che li limitano è attribuita dagli storici della filosofia (2j anche ai Pitagorici. E in effetto Alessandro d'Afrodisia — per non parlare d'altri autori meno degni di fede, p. e. Diog. Laerz., i quali confondono sistematica mori te le dottrine dei Pitagorici con quelle di Platone- dice tanto dei Pitagorici quanto di Platone eh' essi derivano i corpi dalle superficie, le superficie dalie linee, e le linee dai punti riguardati come unità, e che è perciò che ammettono che i principii delle cose sono 1 numr,ri. Inoltre, come nota giustamente il Zeller, è a una costruzione pitagorica del corpo simile a quella del Tmeo che sembra alludere Aristotile," quando egli dice (Met. 1. XIV. III. 14) che i Pitagorici non hanno determinato se è dalle superficie o in qualche altro modo che «i è formato il primo corpo (l'uno). È dunque pro- babile che nella sua costruzione del'a grandezza estesa Platone Jia seguito i Pitagorici : ma per attribuire que- sta drttrina ai secondi non si hanno altrettante prove che p«T att!Ìl)uirÌH al primo. la quanto alla dottrina che gli t Ih. enti sono i poliedri regolari, essa e dovuta cer- tamente ai Pitagorici. Tim, 53 e -57 e, /i> ino m. 981, Senocrate i^r. TOMulIach, ecc. Zeller rUos, dei Greci, Ritter Xtor. della fUos, ani.. trad. frano.,ecc. (3) Ad Mei, 1. I. t. 43, 1. e. - 184 - ;i ' j i «,1 VÌI ^ I lì a 't'i Dftducendo il corpo dallo spazio liuiitito dalie unità, Platone ha evidentemente per iscopo di ridurre la ma- teria al semplice spaz o e di risolvere il reale nei numeri (l). A questa deduzione del corpo si riattacca la di4inzione della forma e d-Ha materia, e la riduzione delle Idee alle sole forme delle cose, separan iole dalla materia. NelU nuova dottrina di Platon ^ le cose constano dunque di due elementi : l'Idea, che rappre-ienta la forma, e lo spazio. (1) Qaesto concetto, sviluppato con conseguenza, condurrebbe a spiegare con lo stesso processo con cui si spiega la grandezza estesa, o con dei processi analoghi, tutte le altre determinazioni del reale. Che Platone abbia fatto effettivamente cosi, sarebbe ar- rischiato di affermarlo. Tuttavia alcune proposizioni platoniche potrebbero essere interpretate in questo senso. Nel Timeo (61c-68d) tutte le proprietà sensibili dei corpi - salvo, s'intende, la grandezza e la figura — sembrano riguardarsi come dei fenomeni subbiettivi (Però io non oserei attribuire recisamente a Platone quest'opinione; perchè Teofrasto dice che per le proposizioni del Timeo ohe ricon- ducono le proprietà sensibili dei corpi alle impressioni dei nostri sensi, Platone si è messo in contraddizione con la sua propria dot- trina, che conservava a que4e proprietà la loro natura obbiettiva: V. De sensH ef sms. 60-61). Nel Timeo siesho poi e nelle /<f/f/i i fatti mentali pare ohe vengano identificati col movimento. V. Lepyi 896e- 898b (il pensiero e tutti gli atti dello spirito sono dei movimenti delPanima); Tim. 37 a-c, 47b-c,89a, 90 d, ecc., Arist. De Aniyna 1. I. III. U-17 (1' intelligenza è un movimento circolare); Tim, 43 c-d, 67 b (le sensazioni sono movimenti). É l'opinione dei più risoluti tra i materialisti moderni di cui non mancavano gl’antecedenti nelle dottrine dei Fisici (v. Arist. Met. 1. IV. V. 7-8) salvo che il movimento, con cui vengono identificati i fenomeni psichici, è at- tribuito da Platone alla sostanza anima: ma questa differenza non ha per noi alcuna importanza, perchè Platone riguarda la sostanza anima come una grandezza estesa. Se noi congiungiamo queste due dottrine, vale a dire la subbiettività delle qualità sensibili dei corpi e l'identità delle operazioni dello spirito col movimento, noi otte- ^i amo — supposto che queste dottrine siano appartenute real- che rappresenta la materia (1). Ciò che importa sopra- tutto di notare per V intelligenza dei motivi di questa dottrina è che sono propriament(^ le Idee che, in un senso stretto, vengono identifica "^e ai numeri — quantunque Pla- toae dica anche, in un senso meno rigoroso, che le cose sono numeri, perchè l\lemento che si aggiunge alle Idei per costituire le co>e essendo lo spazio, cioè il vuoto, tutto il realti si risolve nelle Ide^, e per cons«^guenza noi numeri. Ciò é tanto vero che Ari- stotile dà come carattere distintivo tra H dottrina dei numeri di Piatone e quella dei Pitagorici che per questi le cose constano di numeri e sono es^e stesse numeri, ma per quello i numeri sono oltre (napoc) le cose o separati (XtóptoToC o Kcx«)pio|iivot) dalle cose A questa distinzoone ne è legata uo' altra, la quale implica anch* easa che i nunieri sono per Platone le Idee; cioè che i nu- meri platonici sono monadici, vale a dire composti di vere unità, mentre le unità che cornpongono i numeri pitagorici hanno grandezza. I numeri platonici sono monadici, cioè composti di unità incorporee e indi visibili, perchè le Idee costituiscono la sola forma delle cose, e restensione viene a queste dalfaltro elemento, cioè dallo spazio : le unità che compongono i numeri pitagorici hanno grandezza, p *rchè qu ;sti numeri sono le cose mente a Platone — una di que-jte audaci concezioni, dinnanzi acni questo filosofo non era solito d' indietreggiare : cioè tutto il reale ridotto all'estensione e al movimento, e per conseguenza, mediante la costruzione della grandezza estesa per lo spazio limitato dalle unità, risoluto nel numero e lo spazio. V. Tim. 48-52, Arist. Af'it, 1. I. VI 7, Phys, l. IV. II. 2, 5, eoo. V. Met. l. I. VIII. 18. (8) Met. l. I. VI. 4-6, l. XIII. VI. 4, 6-7, l. XIU. VUUMO, UXIV. III., De Coelo 1. III. I. 16. (4) Met. l. XIU. VI. 7v9. V .li stesse, i t^omposti di forma e materia, e da ciò Aristo- tile ne conclude che le loro unità sono gli elementi di cui i corpi si compongono, e devono essere anche esse per conseguenza estese e corporee. Questa differenza fra i numeri di Piatone, e queUi dei Pitagorici, cioè che i primi sono le pole forme delle cose e i secondi i com- posti di forma e di materia, spiega anche perchè Ari- ' stotile non estende a Platone Tobbiezione, ch'egli fa ri- petutamente ai Pitagorici, che è impossibile che la gran- dezza estesa si componga di unità (1). Al numero se- guente vedremo un'altra prova di questa proposizione, - che sono le Idee, cioè le forme, che vengono riguardate propriamente come numeri : è la distinzione tra le Idee delle grandezze o grandezze ideali e le grandezze ma- tematiche. Di questi due ordini di grandezze le prime sono numeri, perchè rappresentano delle semplici forme, le seconde no, perchè sono cobtituite dalle forme e dalla materia : per conseguenza le prime sono riguardate come Idee, ma le seconde (quantunque siano anch'esse degli Universali) come entità intermediarie tra le Idee e le cose. La dottrina che le Idee rappresentano le sole forme delle cose è evidentemente in contradd'zione coi princi- . pii del sistema delle Idee. I termini di cui Platone si serve per d^^signare Tldea specie^ genere^ essenza, natura delle cose particolari— o chVgli aggiunge al nome por indi- care che questo si riferisce alTIdea — aOxó, aùxò xaO'aOxó, 6 Ioti—; le prove con cui ne dimostra resistenza che qiuasi tutte si riassumono in questa proposizione: V og- getto a cui si riferisce il concetto e la conoscenza gene- rale è ridea ; la relazione ch'egli stabilisce tra lo Ideo e le cose che l'Idea è l'uno nei molti, il comune, l'u- niversale, l'astratto (xtópiaxóv) ; tutti gli appetti, in una parola, sotto cui può considerarsi la dottrina delle Idee, non sono che degli sviluppi diversi di questo principio fondamentale: l' Idea è il concetto generale realizzato. Ora il concetto di una cosa non rappresenta la sola for- ma, ma la cosa stessa, il composto di forma e materia, concepita d'una maniera astratta e generale. Se a questa considerazione ne aggiungiamo un' altra, cioè che la dottrina di una materia che deve aggiungersi alle Idee per costituire le cose non si trova che nel Timeo, e che questa dottrina, pell’identificazione della materia con lo spazio, suppone certamente la dottrina dei numeri, — perché questa identificazione non si concepirebbe senza la costruzione del corporale per lo spazio e le u lità che lo limitano —, noi veniamo naturalmente a questa con- clusione che, sinché Platon? non ha oltrepassato il sem- plice punto di vista del sistema delle Idee, l'Idea ha do- vuto rappresentare tanto la forma quanto la materia, cioè, per servirci dell'espressione d'Aristotile, il sinolo, 9 che la separazione delle Idee dalla materia e la loro ri- duzione a delle semplici forme è una modificazione po- steriore del sistema delle Idee, sotto l'influenza d'un mo- tivo straniero all'origine di questo sistema e legato alle De Coelo l. III. L 16-17, Met. l. XUL YUl. 9-10, AQUINO (vedasi), Summa, Quaesi, Alcuni hanno credu- to che la specie d'un essere naturale è solamente la forma, e che la materia non fa parte della specie. Ma se fosse c«sl, nelle definizioni degli esseri natu- rali non dovrebbe entrare la materia. Per conseguenza bisogna dire invece che la materia è doppia, cioè la comune e la segnata o individuale: la comune come la carne e Tosso, l'individuale come questo, carne e queste ossa. L'intelletto astrae dunque la specie dell'essere naturale dalla materia in- dividuale, ma non dalla materia comune. Cosi astrae la specie dell'uomo da queste carni e queste ossa, che non riguardano la specie, ma sono part dell'individuo; ma non può astrarla dalle carni e dalle ossa». ^1 s nuove dottrine pitagoreggiantì. Quale ha potato essere questo motivo ? La risposta ci è suggerita dal fatto che Platone riconduce ai numeri, non le cose stesse, imme- diatamente, ma le loro Idee. Platone crede che vi ha qualche cosa negli esseri che è irriduttibile al numero, e gli sembra più facile d'identificare ai numeri le forme astratte dalla materia, che gli esseri stessi, i composti di forma e di materia. Nel Filebo, che è il primo passo di Platone verso il pitagorismo, e in cui si trova il germe di tutte le dot- trine pitagoieggianti posteriori, si distinguono nelle cose due elementi costitutivi, che corrispondono in certo modo ai numeri ideali e alla materia voglio dire, alla materia delle cose. Il Tiépag del Filebo non sono i numeri, ma d'5i rapporti numerici : numero rapporto a numero e misura rappoi^to a misura (25 a-b). Noi vediamo dunque che Platone non arriva alla dottrina pitagorica che gli esseri sono numeri che a traverso IMdea che la natura degli esseri è costituita da rapporti numerici. Nel Filebo, il Tiépa^ e TàTistpov non sono ancora identifi- cati alla forma e alla materia : tuttavia il grave e Tacuto, il caldo e il freddo, ecc., che determinati da certi rap' porti numerici, costituiscono Tarmonia, le stagioni, ecc., rappresentano qualche cosa come la materia, e i rap- porii numerici che li determinano, qualche cosa come la forma. La mate ria- spazio del Timeo e degli àypacpa eóy- liaxa discende direttamente dall'àTisipov del Filebo: è, come questo, relemento delle cose irriduttibile al numero. So- lamente, nel Filebo quest'elemento è più comprensivo, rappresenta un più gran numero di determinazioni delle (1) V. questo Supplem. n. IV. V. Supplem. B parte I. n. Vili, carte 97-loo. cose; nel Timeo e negli «ypa^a 8<5Y[iaTa è ridotto a un minimum: la differenza tra i due concetti misura il pro- gresso di Platone verso la dottrina pitagorica dei nu- meri; ma Platone non fece mai l'ultimo passo, quello d'identificare puramente e semplicemente*, come i Pita- gorici, le cose coi num 'ri. Sembra dalle obbiezioni di Aristotile che ciò che si trovava di più strano nella dottrina dei Pitagorici era i-he l'estensione e la corporeità si facessero cons stere nel numero (1). Platone, da un lato, evitava in parte questa difficoltà, facendo d^^lla materia un elemento delle cose distinto dai numeri; e dall'altro lato, riconducendo la materia allo spazio, risolveva, come i Pitagorici, tutto il reale nei numeri. Separando la materia dai numeri, questi non venivano a rappresentare che le semplici forme. Ma ciò che ha dovuto essere il motivo preponde- rante per ricondurre ai numeri le forme delle cose piut- tosto che le cose stesse, è che la forma sembra potersi ridurre ai rapporti numerici tra i sustrati materiali. Aristotile infatti, nella sua polemica contro la dottrina delle Idee, confuta il concetto che le Idee sono numeri per- ch''^ lo forme delle c^s^. consistono nei rapporti nu- merici delle parti componenti (2); e noi possiamo, per conseguenza, fare rimont ire questo concetto allo stesso Platone. Cerramente dire che le forme delle cose consi- stono in rapporti numerici non equivale a dire che que- ste forme sono numeri, cioè che tal forma è il numero due, tal altra il numero tre, ecc.: ma Platone trovava nella prima di queste due proposizioni un' idea media (i) V. Arist. De Coelo 1. HI. 1. 16-17, Met. 1. l. Vili. 16, 1. m. IV. 29, 1. Xlll. Vili. 9-lo. 1. XIV. 111. 4. (2) Met. L L IX. 13-14, 1. XIV. V. 6-7. (, /!ì per passare aJla seconda. Questo passaggio, fondato sulla sostituzione tra due termini non equivalenti ma sempli- cemente analoghi, cioè i due concetti di rapporti nu- merici e di numeri, era senza dubbio un sofisma assai evidente : ma non era che con dei processi cosi poco legittimi che poteva arrivarsi al risultato che le cose sono numeri. Le considerazioni precedenti spfegano perchè non sono le cose stesse, ma le semplici forme delle cose, che vengono ridotte ai numeri : ma perchè le Idee vengono ridotte alle semplici forme delle cose? Evidentemente per identificarle ai numeri. Come spiegheremo in seguito, il risultato a cui tendono le speculazioni pitagoreggianti di Platone è Tidentificazione delle sue proprie dottrine con quelle della filosofia pitagorica. Per ottenere questo ri- sultato si mettono in opera al tempo stesso due processi: Tuno è Tìntroduzione nel proprio sistema dei concetti più caratteristici del sistema pitagorico, e Taltro un'in- terpretazione forzata delle formule del sistema pitagorico per ritrovarvi i concetti più caratteriFtici del proprio si- stema. Ora, da una parte, la proposizione generale della filosofia pitagorica che gli esperi Fono numeri, e le pro- posizioni particolari che ne fanno l'applicazione, cioè che Tuomo ò un tal numero, un tal altro numero il cavallo, ecc., erano troppo caratteristiche, perchè Platone potesse non accogliere nel suo proprio sistema la stessa proposizione generale e delle proposizioni particolari, se non identi- che, analoghe. Queste proposiz oni, riferite agli esseri sensibili, non sono per Platone rigorosamente vere, per- chè egli vede propriamente nei numeri, non le cose stesse, ma le forme delle cose. Ma nel sistema platonico esse non devono riferirsi agli esseri sensibili, ma alle Idee; perchè gli esseri sono per Platone le Idee, e una proposizione che parla dell'uomo, del cavallo, ecc. inge- neltile, ha per oggetto Tldea deiruòmo, del cavallo – Grice, ‘horseness’, ecc. ' Cosi, riducendole Idee a delle semplici forme — che ' sono del resto il solo reale, perchè la materia non è che lo spazio — Platone ottiene, da una parte, di far entrare ' nel suo proprio sistema le proposizioni pitagoriche rela- tive alla identificazione delle cose coi numeri. Dall'altra parte, Tidentificazione tra le Idee e i numeri è un mezzo indispensabile per ricondurre le formule pitagoriche ai concetti proprii del sistema delle Idee. Attribuendo, co- m'egli fa — è un punto che dimostreremo in seguito — - agli antichi filosofi ptagoricì la dottrina delle Idee, Pla- tone si fonda naturalmente sull'analogia tra questa dot- trina e le dottrine pitagoriche. Quest'analogia, come ab- biamo osservato, è doppia : primo, i numeri e le altre entità dei Pitagorici sono delle astrazioni realizzate come le Idee p'atoniche; secondo, i numeri piragoriqi rappre- sentano, non la causa materiale, o la motrice, come i principii. degli altri filosofi anteriori a Platone, ma, come e Idee platoniche, la specie e il concetto. È dunque nella dottrina d^^i numeri che Platone crede di scoprire la dottrina delle Idee : ma se le Idee non fossero anche per lui identiche ai numeri, questa pretesa scoverta non raggiungerebbe il suo scopo, che è d'identificare la sua propria filosofia con quella dei Pitagorici, ©piuttosto dei loro antichi predecessori. Il legame della dottrina della materia, come un se- condo elemento delle cose distinto e separato dalle Idee, con la dottrina dei numeri è dimostrato, conie ab- biamo detto, dalla identificazione della materia con lo spazio, perchè questa suppone la costruzione del corpo per lo spazio e i punti che lo limitano, concetto che evi- dentemente non poteva nascere che al punto di vista della diottrlae pitagoriche sui nnmeFi (l). A ciò^ si potrà' obbiettare che Platone ha potuto, nel periodo aaleriore a quello in cui seguiva le dottrine pitagoriche sui nu- meri, atnnaettere la si'parazione delle Idee dalla materia e questa come un principio distinto, senza ancora ricon- durla allo spazio. Ma noi non troviamo né negli scritti di Platone né in quelli d'Aristotile alcuna traccia di una dottrina della materia come principio distinto diversa da quella del Timeo. Dalla lettura d' Aristotile risulta ansi chiaramente l'impressione eh' egli non conosceva altra U) Per altro, che la costruzione della grandezza per i limiti e lo spa* zìo racchiuso appartenga alle ultime speculazioni di Platone, é provato dalle contraddizioni di questa dotttrina coi princìpii della sua fisica. La costruzione piato nica non potrebbe applicarsi ad altre superficie che t dei piani né ad altre linee che a delle rette, e per conseguenza essa sup-- pone la dottrina dei corpuscoli poliedrici. Ha questa dottrina richiede necessariamente Tainroissione del vuoto, perchè, come osserva Aristotile {De Coelo) 1. 111. Vili. 1), due solidi solamente, oioè il cul>o e la piramide, potrebbero riempire ccmpletamente lo spazio. Intanto Platone nega l'esi- stenza del vuoto (v. 7im, sSa-c, 6ob-c. 79b-80c, Arist. Degen, 1.1. Vili. 0, De Coelo 1. IH. Vili. ; e questo é uno dei punti fondamentali della sua fisica, come lo mostra sovratutto la teoria dell' impulsione circolare v, 7im. 60b- e e ì9b-$oc), che ha in questa fisica un'importanza capi- (tale, e che Platone (come gli altri filosofi antichi che negano il vuoto) ammettere per ispiegare la possibilità del movimento senza il vuoto. Questa incoerenza dimostra che Platone non cominciò ad ammettere la dottrina dei corpi geometrici, e, per con8eguen?a, la costruzione del cor- porale con cui essa è legata, che dopo che le sue idee generali sulla fisica si erano già fissate. Un'altra incoerenza non meno grave è la coesistenza nel Timeo della teoria dei quattro elementi con quella dei corpuscoli geometrici (la qnaie aup- pone che vi siano altrettanti elementi che poliedri regolari) Più tardi Platone è più conseguente, e ammette coi Pitagorici un quinto elemento. Il carattere provvisorio della dottrina del Timeo prova che la costruzione del corpo dallo spazio e i plani e, quindi, la dottrina della materia-spazia non possono datare da un'epoca molto anteriore a quella in cui fu scritto questo dialogo, nel quale tutti i critici si accordano a vedere una delle uUrme composizioni di Platone. t » ti», forma d€llia^ doétvina ptatoaioa della materia -^beiv intesa della^ materia come entità sussistente per se stessa e distinta realmente dalla forma che quella che é stata espo- sta nel Timeo e in cui essa viene id( ntiflcata allo spa- zio (i). Inoltre una vera materia— cioè una materia cor- In De gen, et corr, 1. Ili e. I, stabilendo il principio che la ma- teria è inseparabile dalle contrarietà (il caldo e il freddo, il secco e l'u- mido) e non vi ha una materia X^P dagli elementi, parla delle dot- trine opposte a questo principio, e tutto ciò che dice di Platone si rife- risce alla descrizione che vi ha nel Timeo della materia come massa infbrme, prima che essa venga ricondotta allo spasio Ciò poi che è scritto nel Timeo non ha niente di definito; poiché, né si dice chiara- ramente se quello che riceve tutto X^P^!d^^^ dagli elementi, né si la alcun uso di alcun principio tale, quantunque prima si sia detto che vi ha qualche cosa che serve di sustrato agli elementi come Toro agli og- getti aurei »). Siccome questa rappresentazione della materia é in con- raddiiione con la sna identificaaione allo spazio, Aristotile crede di ve- dervi un accenno a un concetto distinto della materia, in cui essa ver- rebbe riguardata come un sustrato reale e non come un semplice spazio vuoto (sustrato che, conformemente alle dottrine esposte nel Timeo, do- vrebbe essere yjtùp^Qià^è dagli elementi, ma che Platone non determina come tale, poiché egli invece non riconosce altra materia X^P*-^*^^ che lo spazio). Questo vago acct-ndo del Timeo é tutto ciò che Aristotile trova nei concetti platonici di relativo a una materia X^^^Q'^'h hen inteso, a una materia y(tùp\.Q'ZÌ\ concepita come alcun che di reale e non come spazio vuoto. In Phys. 1. IV. II. 2 dice: Perciò (perché Io spazio pare l' intervallo della grandezza) Platone dice nel Timeo che la materia e lo spazio sono lo stesso : infatti il partecipante e lo spazio sono una sola e stessa cosa. Quantunque ivi e in quelli che si dicono dogmi non scritti chiami il partecipante diversamente, pure egli stabiU che esso è il Fuogo e lo spàzio ». E poi: Platone avrebbe dovuto dire perchè le Idee e i numeri non sono nello spazio, se il partecipante é lo spazio, sia che il partecipante sia il grande e piccolo, sia che esso sia la materia- come scrisse nel Timeo. Aristotile non conosce dunque altre dottrine di Platone sulla materia, quale principio distinto dalle Idee e partecipante ad esse, che quella del Timeo ìì quella dei»li (X^Pa^a 5ÓY|xaxa (la quale f. i; rispondente ai coneetto ordinario della corporeità e^ • parata dalle Idee sarebbe inconcepibile nel sistema pla- tonico. L'essere per Platone sono le Idee ; quindi egli non avrebbe potuto ammettere alcnn che di reale che non si risolvesse in Idee. Nel Timeo può ancora chia- mare le Idee l'essere, quantunque con esse coesista nelle cose un altro elemento, perchè quest'altro elemento non è che lo spazio vuoto. Tutto nel sistema di Platone deve essere ricondotto a dei concetti realizzati : nel mondo delle entità platoniche un principio che non fosse un concetto realizzato sarebbe cosi strano, come lo sarebbe un concetto realizzato in mezzo agli esseri del nostro mondo, di noi che non am- mettiamo che delle esistenze concrete. La materia spazio era conciliabile col sistema dei concetti realizzati, non solo perchè lo spazio non è niente di reale, ma an- che per un altra ragione: è che lo Spazio può riguar- darsi anch'esso come un concetto realizzato. Trattandosi dello Spaz'o, l' Idea, cioè il concetto realizzato, non ai, distingue dalla cosa stessa. L' Idea è l' uno nei molti, vale a dire è ciò che vi ha di comune in tutti i parti- colari che cadono sotto uno stesso concetto generale. Per conseguenza là dove non vi hanno molti, là dove un concetto non si riferisce che ad un solo particolare, la cosa e l'Idea, l'individuo e la specie, si confondono. Ciò non vuol dire che, se vi fossero Idee d^gli oggetti concreti unici nella loro specie, quali il sole o la t rra- «. dovrebbero esservene, secondo la definizione dell'Idea: la causa esemplare di ciò che vi ha di costante nella natura le Idee di questi oggetti non si distmgue- non si distingue dalla prima, clie perchè nel Timeo la materia non è ri- condotta al Grande e Piccolo). V. Proclo in Parm. V. 133- il' rebbero dagli oggetti stessi. Questi essendo sottopósti' alla BUccessìoDe e al cangiamento, il molti è in essi rap- preFentato dalla moltiplicità dei loro stati successivi; e Tuno nei molti, cioè Tldea, sarebbe per essi ciò che vi ha d'identico in questi stati successivi. Ma nello Spazio non vi ha né successione né cangiamento : per con- seguenza siccome non vi ha che un oggetto unico che corrisponda al concetto dello Spazio —vale a d're dello spazio infinito, di cui tutti quelli che in un altro senso del termine chiamiamo spazi sono delle parti— cosi la Idea dello Spi zio e lo Spazio non fanno che una coda sola (1). Perciò Platone, quantunque dica dello Spazio ch'esso è l* oggetto di uà concetto spurio perchè un concetto, nel senso stretto del termine, è la rappresenta- zione deir uno nei molti pare lo chiama elòoQ e Yévo^. Ma trattandosi della matera voglio dire della vera materia, Tldea, ci'^è il concetto realizzato, e la cosa sarebbero nrcessaiìamento distinte. Ora quale sh- rebbe, neiriprtosi di una dottrina della materia diversa dallo spazio, la materia che Platone avrebbe riguardato come un principio distinto dalle Idee e ch^ bisogna ag- giungere ad esse per costituire le c^se? La materia reale Si potrebbe dire che l'Idea dello spazio e lo spazio differirebbero in quanto la prima sai ebbe, come le altre Idee, al di fuori del ttiiipo. Ma se si fa dell'astrazione spazio un'entità, non si è obbligati quando si pensa che vi hanno delle cose fuori del tt-mpo-ad ammettere che qu«st*entilà è nel tempo; né Platone dice mai che lo spazio di cui egli parla nel 2i- meo, considerato in se stesso (aùxò xaG'aOxÓ), sia sottoposto alla con- dizione del tempo, anzi implicitamente lo esclude, quando fa del tempo una cosa generata e dice che Vera e il satà non devono attribuirsi ch« alla genesi e al sensibile (v. Tim, 37 d-38 b). 7im, 49 a, 5I a. 48 e, 5O e, 52 a. V,' il t ; ' t i f 1, n 0 rldea deUa maieria? Non avrebbe potuto essere la malfria reale, perchè tutto nel sistema piato qìco deve ridursi ad Idee, a concetti realizzati, e per conseguenza egli avrebbe dovuto ammettere un Idea, un concetto rea- lizzato, anche per questa materia, e allora il principio da cui e dalle Idee le cose verrebbero, sarebbe, non la materia reale, ma Tldea della materia. Ma questo prin- cipio non ha potuto essere nemmeno Tldea della materia, perchè è evidente che il principio materiale è per Platone un'entità astratta si, ma non generale (1). Se tosse un'entità generale, non si identificherebbe con lo spazio. Platone riguarda lo spazio come identico, non al concetto generale deirestens'one corporea realizzato, ma airestensione reale dei còrpi individuali. Questo carattere che distingue la materia delle cose dalle altre astrazioni realizzate del platonismo, di non essere cioè un'entità generale, fa che essa rappresenta, in questo sistema^ il principium individuationis. Non vi ha per noi niente di più vano che le discussioni de- gli scolastici sul principio d' individuazione. È che noi siamo nominalisti, e la ricerca del principio, cioè della causa, deirindividuazione sapponf*^ se essa ha un senso, che Tessere sia dapprima generale, e poi s'individualizzi in virtù di questo principio. La quist'one tanto agitata dagli scolastici era un legato del platonismo. La cosa individuale è costituita sf condo Platone da un elemento che essa ha in comune con altre cos^, cioè l'Idea, e da (1) V. 7im. 48-52 e Arist. Afei. 1. 1. VI. 7; e cfr. i luoghi d'Arist. (Mei l 111. IV. 6, 8, 1. XI. 11. lo, 1. Xll. V. 3, ecc.) in cui egli riguarda, nel sistema platonico, la forma come equivalente al generale, e il sinolo^ cioè il composto della forma e della materia, come equivalente all'indi- viduale— ciò che non farebbe, se la materia fosse anch'essa un'entità ge« nerale come U forma. un elemento che le è proprio e incomunicabile con altre co^e, cioè la materia perchè la materia di un corpo, vale a dire lo spazio che esso occupa, è necessariamente dist nta dalla materia di tutti gli altri corp% e per tutte queste materie individuali, cioè per tutte queste porzioni di materia o di spwz'o, non vi ha un che di comune a cui rsse si riducano, lo spazio o la materia non risolvendosi per Platone, come le altre cose, in un' entità universale: ne segue che la materia spazio è nel si- stema platouico il principio alle cose dell' essere, come dicevano gli scolastici, incomunicabili, cioè dell'essere degl'iDdividui e non delle ent tà comuni. Non è dunque da mettere in quistione ch'^ la mat^ ria funga, nel si stema platonico, da principium individìmtionis : la qui- stione che potrebbe farsi sarebbe al più se Platone l'ha e.-5plieitameute riguardata come tale, cioè ^e egli si è proposto effettivamente il problema della causa dell' in- dividualità, dando a questo problema l' unica soluzione per lui possibile, e che era contenuta implicitamente nella dottrina dei due « lementi, l'uno generale e l'altro iudi- \iduale, di cui egli componeva le cose. Ora a questa quintioue dobbiamo rispondere affermativamente. Noi ab- biamo visto infatti che, nel Timeo, la ragione per cui l'immagine dell'Idea esiste nello spazio è che essa « deve esistere in qualche altra cosa, attaccandosi in qua'che maniera all'tsistenza, o non essere assolutamente nieu" t^»; e che, nel 'i spc sizioue d'Aristotile, la materia è la chusa deila moltipLcità degli esseri. Si noti che Aristotile dà anche la materia come la causa della mol- Supplem. B. parte 11. n. 11. sulla fine. V. questo stesso Supplemento, carta j I II li tiplicità delle unUà, e che, discutendo il sistema di Speusippo, suppone che sia una necessità per questo filosofo di spiegare, per il principio materiale, la molti- tiplicità, tanto delle unità quanto dei punti (ohe per Speusippo differiscono dalle unità): ciò prova che la ma- teria non é solamente la causa per cui Tessere primitivo si scinde In una moltitudine di essenze generali, ma an- che per cui ciascun' essenza generale si scinde in una moltitudine di esistenze particolari. La soluzione che Platone dava al problema dell' in- dividuazione era la stessa che poi si presentava imme- diatamente agli scolastici, quando si proposero la prima volta lo stesso problema. Il fatto non è casuale, perchè il realismo e il semi-realismo del medio evo si riattac- cano al platonismo, sia direttamente sia per i vestigi dei concetti platonici che si trovano in Aristotile. La dot- trina tomista sul principio d' individuazione era una ri produzione della platonica, perchè essa si trovava in germe in Aristotile, e questo germe era uscito da Platone. Aristotile adottò, come si sa, la dottrina platonica che le cose constano di due elementi, la forma e la materia, salvo che questi due elementi sono per Platone degli esseri reali e realmente distinti, mentre per Aristotile non sono che delle astrazioni mentali e non si distin- guono che logicamente. Aristotile riguarda anch' egli, all'esempio di Platone, la forma (sl5oc) come l'oggetto del concetto generale della cosa, e perciò come l'elemento co- mune a tiltta la specie, e la materia come l'elemento proprio 0 differenziale dell'individuo - in altri termini qur sta ma- (1) Mei. 1. XIV. 11. 11. (2) AUt. 1. XUl. IX. 6-12. Cfr, e. vn. pag. 46-53. •Ni ter'a, che è l'uno dei due elementi in cui lo spirito de- co'nponelacosa, none per lui lamateria comune, come l'al- t'O elemento, la forma, è la forma comune, ma è la materia, come dice S. Tommaso, segnata o individuale: per conseguenza l'opposizione tra l'slSog in se stesso e il si- nodo, cioè il composto dell'elSo^ e della materia, equivale per Aristotile all'opposizione tra il generale e l'individuale. La distinzione della forma e della materia, per Aristotile, non è, come abbiamo detto, che logica : tuttavia (come può vedersi in moiri dei luoghi indicati nella nota precedente) egli esprime spesso questa distin- zione in termini più appropriati al realismo platonico che al proprio concettufllismo, e, a prendere certi luo- ghi isolatamente, sì direbbe che le sostanze seconde è cosi che vengono chiamate la forma e la materia— siano per Aristotile delle sostanze nel senso stretto della pa- rola, come la forme e la materia platoniche (1). Eviden- temente Aristotile deve a Platone, non solo la distinzione tra tltoQ e materia, con le due funzioni diverse di ele- mento jsenerale e di elemento individuale assegnate al- l'uno e all'alira, ma anche la forma troppo realista in cui egli prebenia questa distinzione. È alla scuola di Platone che Aristotile ha appreso a trattare delle sem- plici astrazioni come degli esseri reali : inoltre i suoi scritti sono indirizzati a uu pubblico che è stato anche V. AU/. l. ili 1. lo, IV. 3, 6, I. V. VI. l5, I. VII. Vili. I-4, 8, XV. 1-2, i. Vili. i. 6, i. X. lil. 3, 5. IX. 2-3, I. Xi. II. lo, i. Xil. ili. 8-4, i. XII. vili. 12, Ve Coeio I. l. IX. 2-5, ecc. Souo notevoli sovratutto i <hie ul imi luoghi : l'ultimo in T occasione della quistione sul principio d'individuazione; il penultimo è più vicino ancora di questo e di qualsiasi altro luogo che io ricordi in Aristotile, alla dottrina di S. Tommaso. Clr. e. VII. pag. 47 e seg. -192 - :i esso alla scuola di Platone, ed egli deve presentare i suoi concetti nella forma più prontamente intelligibile e più accettabile per il pubblico per cui scrive (I). Gli scola- «tici, anche quelli che non sono francamente realisti, rin- cariscono su questa tendenza d'Aristotile a trattare dei meri concetti come realtà : di là le discussioni sul prin- cipio d' individuazione. Ora, la forma rappresentando, come abbiamo detto, per Aristotile l’elemento generico, e la materia Telemento proprio e differenziale dell' indi- viduo, gl'interpreti più fedeli d'Aristotile non potevano Érovare il principio d'individuazione che nella materia. Può parere singolare che i veri realisti, cioè Duns Scoto e i suoi, respingessero questa soluzione, quantunque la più vicina a quella di Platone, al quale essi erano i più vicini. Ma non vi ha in ciò niente di sorprendente, per- chè una materia che non venga ricondotta a un' entità universale, è, come osservammo, in contradizione coi postulati fondamentali del sistema realista. Ora se si fa anche della materia un'entità universale, essa finisce di essere l'elemento proprio e incomunicabile dell'individuo, e diviene invece, come la riguardavano gli scotisti, ciò che vi ha di più elevato nella scala della generalità. Prima di passare all'argomento del numero succes- sivo, aggiungiamo qualche osservazione sui rapporti della dottrina della materia delle cose con le dottrine dei Pi- tagorici. Questa dottrina, a parte la costruzione della grandezza estesa per lo spazio e i limiti, che non po- tremmo attribuire con sicurezza ai Pitagorici, poteva riattaccarsi ai loro concetti sovrututto nei punti seguenti: Primo, tanto Platone quanto i Pitagorici riconducono ; f 4 lo spazio air «jieipov. Secondo, la costruzione del corpo pf>r lo spazio e i limiti, e anch^, com« abb'a no osser- vato, la decomposizione dellp. cose nei due elementi for- ma e materia potevano mettersi in rapporto con la dot- trina pitagorica che le cose constano del Tispas e dello «Tistpov. In fine, in certe proposizioni dei Pitagorici il concetto della materia sembra confuso con quello dello spazio (1). IH. Le enti tu mateniatìehe Le entità matematiche sono <^li oggetti delle scienze matematiche (2), in altri termini i concetti, su cui vol- gono queste scienze, realizzati. Per sci^^nze ipatematiche bisogna intendere le matematiche pure, cioè l'aritmetica e la geometria, e per entità matematiche quindi i nu- meri e le grandezze geometriche (le figure) (3). In ef- fetto Aristotile non parla mai di altre entità matemati- che (4): di più egli escludo che Platone ne abbia am- messo delle altre, quando gli rimprovera come un' in- conseguenza di non aver supposto delle entità simili, come per Taritmctica e la geometria, anche per l'astro- (1) Gfr. oap. Vn. pag. 52. a) V. Arist. Phys. U IV. VI. 7, (ofr. l. Ul. IV, 2) e Stob. 1. WO. (1) V. i l. indicati nella nota precedente e Zeller FU. dfd Greci pag. 353, 382, 404-406. (2) V. Met. 1. I. IX. 16, 1. IH. II. 15, l. VI, I. 5, l. XI. I. 8. 1. XIII. II. 5-9, 1. XIII. Ili, I. XIII. VI. 3, 1. XIV. III. 3-4. ecc. (3) V. Met, 1. III. I. 15 (ofr. 1. XIII. I. 4 e II), 1. III. II. 20 l. III. III. 11, eoo. (4) V. MeL I. III. I. 15, 1. XIII. I. 2, 1. XIII. II, ITI, VI. 6-8, IX. 2-14, 1. XIV. II. 9, III, 4, 8-12, eoo. I "^1 '41 nomia, la prospettiva, V armonia, in nna parola per le matematiche applicate (1). Le entità matematiche non sono che degli universali sostantificati come tntto le altre entità della metafisica pla- tonica (2) : ma Platone le distingue dalle Idee, perchè le Idee, nel periodo pitagoreggiante, sono i numeri ideali, ed egli non riconduce i concetti matematici a dei numeri ideali. Il carattere generale per cui le entità matematiche si distinguono dalle Idee, è che ve ne sono molte della stessa specie GO- L'Unità, li Diade, la Triade, ecc. idea- le è una sola; ma vi ha un* infinità di unità, di diadi, di triadi, ecc. matematiche Ciò vuol dire evidente- mente che nei numeri in cui 1' uno, il due, il tre, ecc. sono contenuti più volte, vi hanno altrettante unità, diadi, triadi, ecc. quante volte bisogna ripetere l'uno, il due, il tre, ecc. per formare questi numeri, e che Platone ha riguardato tutte queste unità, diadi, triadi, ecc. come akrettante entità distinte. Cosi vi ha dapprima il numero due, poi 1' altro due che bisogna aggiungere a questo numero per avere il numero quattro, poi l'altro che bisogna aggiungere ancora per avere il numero sei, e cosi di seguito. Ciascuno di questi cZwe è un'entità ma- tematica : essi sono infiniti, perchè il numero aumenta sino all'infinito; sono della stessa specie, perchè un due non differisce da un altro Ma questa moltitudine dì due (1) V. Met. Arisi. Met. l. I. VI. 3, 1. Ul. II. 15 sqq., 1. lU. ULU, l. XI. I. 6-8, 1. Xm. I-m, VI, An. Post. 1. I. XXIV. 3, eoo. Cfr. Piai. Bep. 509 d-511, 521-527, 533 b-534 a. Fedone JOJ e, 104 d, ecc. V. Mrt. 1. I. VI. 3, 1. Ul. VI. 1-2, ecc. Met. ecc. (5) Cfr. Arisi. Mei. 1. Xlll. VII. 2, 7, 8, 11, 12, 14,16,19,21,24-25, Vili. 5-7, 18. tn il 11 11 non possono essere tutti dei due che per la partecipa- zione comune ad un' essenza unica : questa è l'Idea del due, che non è altra cosa che il numero ideale Due. Della stessa maniera le molte unità matematiche non sono tali che per la partecipazione dell'unica Unità ideale; le molte triadi, tetradi, ecc. matematiche, per la parte- cipazione dell'unica Triade, Tetrade, ecc. ideali (1). La Unità, la Diade, la Triade, ecc. ideali, in quanto sono le essenze comuni di tutte le unità, le, diadi, le triadi, ecc. particolari, sono chiamate l'Unità stessa (aùxì^), la Diade stessa, la Triade stessa (2); e perchè è da esse che prò- cedono le molte unità, diadi, triadi, ecc. particolari- per la relazione di anteriorità e posteriorità che vi ha tra il generale e il particolare — sono anche chiamate ÌSiprima unità, la prima diade, la prima triade, ecc. (3). Tra i numeri ideali e i numeri matematici non vi ha dunque, al fondo, che il rapporto che corre tra le idee generiche e le Idee specifiche : ma Platone nega ai numeri mate- matici il nome d' Idee e di Specie, perchè questi nomi, nel periodo pitagoreggiante, non vengono attribuiti che ai numeri ideali. Per impiegare come nei numeri ideali non ve ne hanno molti della stessa specie, egualmente che nei numeri ma- tematici, Platone mette innanzi un'altra diiferenza fra le due specie di numeri : è che i numeri matematici s-^-no combinahiliy cioè si addizionano fra di loro, mai numeri (1) V. Met. ecc. (2) V. Met. 1. I. IX. 5, 1. I. IX. 16, 1. Xlll. VI. 2, 1. Xlll. VII. 1, 9, 12, 14, 15, 21, 22, 24, 1. XUl. Vili. 13, 19, eoo. V. Met. 1. Xlll. VI. 2, 1. Xlll. VII. 1, 4, 7, 8, 11,12, 19, 20, 24, i. XUl. Via. 5-7, eoo. w . I li i ». ideali sono incombinabiU, cioè non si addizionano fra di loro. Cosi un numero ideale non può riguardarsi, del pari che un numero matematico, come composto dei nu- meri più piccoli in cui può decomporsi (2) ; e per con- seguenza, nei numeri ideali in cui il due, il tre, ecc. sono contenuti più volte, non possono distinguersi al- trettante Diadi, Triadi, ecc., e considerarsi quali entità per sé come avviene nei numeri matematici. Al'a quistione perchè i numeri ideali siano incombinabili Pla- tone risponde che l'addizione suppone l'omogeneità del'e unità che si addizionano, ma dei numeri ideali distinti costituiscono delle specie differenti, e per conseguenza le unità di un numero non sono omogenee con quelle di un altro. V. MrL 1. Xm. VI. 2-5, Vii, VUl. 1-7, 26, eco. Intatti, se il numero minore tosse una parte del numero maggiore, l'Idea rappresentata daU'uno sarebbe una i»arte dell'I- dea rappresentata dall'altro. P. e. se il Tre fosse una parie del Quattro, e il primo rappresentasse l' Idea dell' uomo e il secondo quella del cavallo, PIdea dell'uomo sarebbe una parte di quella del oavallo (V. Arist. Met. 1. Xlll. VII'. 25, Vili. 19, ecc. L' obbiezione contenuta nel secondo di questi luogbi è diretta contro la dottrina di Xenocrate, che identificando il numero ideale col matematico, ogUeva necessariamente a quello il carattere per cui Platone lo aveva distinto da questo, e lo faceva combinabile). Aristotile (.^fetA. XIU. VII. 9-11 e 25-26) accenna anche ad un'al- tra ragione, per cui, nei numeri ideali, il minore non potrebbe riguardarsi come una parte del maggiore. È che in questo caso sa - rebbe impossibile la generazione dei numeri quale l'ammette Pla- tone. Se p. e. il Due (ideale) fosse una parta del Quattro, questo nascerebbe per l'aggiunzione di due altre unità a quelle del Due : ma allora, per generare il Quattro, non dovrebbe rendersi conto ohe dell'origine delle due nuove unità soltanto, e per conseguenza esso non potrebbe generarsi dalla moltiplicazione del Due per la Dualità indefinita. V. i l. indicati nella nota penultima, e inoltre Mei. l. I. IX. lo- 17, 1. XIV. VI. 9, ecc. Le entità geometriche sono pure molte ed infinite quelle della stess^a specie, come i numeri matematici. Platone ammette due classi di entità pei concetti delle grandezze, come per quelli dei numeri : le grandezze matematiche e le Idee di queste grandezze. Le grandezze matematiche— che sono anch'esse, come abbiamo detto, degli universali sostantificati - non sono delle semplici forme come le Idee, ma contengono una materia iden- tica, al fondo, alla rnaferla delle cose, cioè allo spazio, poiché non è altro che le dimensioni dello spazio gene- ralmente considerate; per conseguenza, siccome il nu- mero non rappresenta che delle pure forme, esse non vengono identificate a dei numeri. La materia delle linee si chiama il Lungo e Corto-, quella dei piani il Lari/o e Stretto-, quella dei sobdi VAlto e Basso: queste sono delle forme del Grande e Piccolo (2) (Dualità indefinita). Cosi nella Dualità indefinita Platone confonde tre con- cetti differenti, facendola servire al tempo stesso da ma- teria delie Idee, da materia delle cose e da materia delle grandezz- matematiche. Questo per l'elemento materiale: in quanto all'elemento formale (l'eleo^), le grandezze ma- tematiche lo ricevono dai numeri ideali. Le linee ven- (1) Met. 1. 1. IX 18-19, l. 111. IV. 30, l. Xlll. IX. 2-é, 1. XIV. 11.9. 11, 1. XIV. 111. 8-10, ecc. V. Met. ecc. V., oltre i 1. indicati nella nota seguente, quelli (che indi- cheremo in seguito) in cui le entità matematiche vengono date come intermediarie tra le Idee e i sensibili ; ai quali aggiungeremo anche quegli altri in cui Aristotile riguarda le grandezze come po- steriori ai numeri ideali o, ciò che è lo stesso, come procedenti da oasi (Met. 1. Xlll. IX. 2-4, 1. 1. IX. 19. 1. 111. IV. 30, ecc.); e in cui dà le Idee come specie, non solo dei sensibili, ma anche delle entità matematiche {Met. 1. 111. VI. 1-2, 1. AHI. Vili. 17, ecc.), e come cause tanto dei primi quanto delle seconde {Met, 1. 1. VI. 3, 4 7 1. XIV. U. 16, eco.). gono dal numero ideale Due (e dal Lungo e Corto); i piani dal Tre (e dal Largo e Stretto); i solidi dal Qua^ tro (e dall'Alto e Basso) (l) (a questi numeri Platone ad un'altra epoca o alcuni dei suoi discepoli sembrano averne sostituiti degli altri; ma ciò non ha per noi alcun'im- portanza). 11 Due ideale dà dunque V elSog alle linee, il Tre ai piani, il Quattro ai solidi; o, ciò che vale lo stesso, il Due ideale è Vslòot; generale delle linee, il Tre dei piani, il Quattro de! solidi (4). Ma quantunque Pia- tone chiami questi numeri 1' elSo^ della linea, del piano e del solido, egli non vuole che si dicano la linea stessa, il piano stesso e il solido stesso: ciò è evidentemente Arisi. Met. 1. XIV. HI. 8-10, l. VII. IL 3-4, De an. 1. 1. U. 7, Ps. Aless. in Mct. 1. Xll. IX, eoo (2) V. Met. 1. XIV. m. 9, l. Xlll. IX. 3. L' autore dell' PJpino r, sembra riguardare l' olio come il numero del solido (e conseguentemente il quattro come quello del piano). Ps. Aless. in Met, 1. Xll. IX. (4) V. Arisi. Met. 1. VII. XI. 3-4, De an, l. I. U. 7, ecc. V. Met, l. VII. XI. 3-5. In questo luogo Aristotile distingue due scuole platoniche: l'una riconduce tutti 1 concetti, anche quelli delle grandezze, alle semplici forme, e per questa il Due è la linea stessa la scuola di Xenocraie, che sopprimeva la distinzione delle entità matematiche dalle Idee, e risolveva per conseguenza in numeri ideali anche le grandezze (v. questo Supplem. n. V)-; l'altra — sono i platonici strettamente ortodossi — non ammette ohe i numeri ideali rappresentino le grandezze stesse, ma solamente il loro elemento formale, e per questa l'elSo^ della linea, cioè il Due, diiferisce, per conseguenza, dalla linea stessa - K certamente per questa distinzione tra i numeri della linea, del piano e del solido e la linea, il piano e il solido jj/c-ss/, che Aristotile domanda se si deve ammettere o no che questi numeri siano delle Idee (Met, \, XIV. in. 10). Ma non può esservi alcun dubbio che i Platonici non li considerassero effettivamente come tali : ciò risulta chiaramente dai l. indicati nelle noto precedenti, el è incluso nella proposizione, di cui in seguito, che le entità matematiche sono intermediarie perchè essi rappresentano la sola forma della linea, del piano e del solido, e non le cose stesse, vale a dire la forma congiunta alla materia. Il numero della linea, del piano e del solido erano i soli numeri ideali, e per cons(»,^uenza, le sole Idee, che Platone ammettesse per le grandezze (1): e in effetto, queste Idee erano riguardate come le specie, nel senso moderno del termina, delle grandezze matematiche; quantunque tra le une e le altre, piuttosto che il rap- porto tra specie ed individui, vi fosse in realtà quello tra generi e specie. Oltre alle grandezze matematiche, ci si parla anche di un altro genere di grandezze, che Aristotile distingue con la designazione di posteriori ai numeri (jisxà xoòg àpt0[iouc Me/. 1. I. IX. 25-)o posteriori alle Idee ([isTà xà€ t8éag--XIII. VI. 8-). Alessandro d'Afrodisia (ad Met.) ci spiega che queste grandezze erano la Linea stessa, il Piano stesso e il Solido stesso, che Pla- tone riguardava come i prineipii da cui procedono le linee, i piani e i solidi matematici, e che, come questi. ira le Idee e le cose, le Idee, tra cui e le grandezze reali tramez- zano le grandezze matematiche, non potendo essere ehe i numeri da cui queste procedono e che ne rappresentano l'sISo^. Del resto questi numeri sono chiamati Idee dallo stesso Aristotile nelle pa- role che seguono immediatamente al luogo indicato : questi ohe a questo modo riattaccano le entità matematiche alle Idee „; qui la parola t5éat riferendosi evidentemente ai numeri da cui de- rivano le grandezze matematiche, dei quali sopra ha parlato. Arisi. Met, 1. XUl. 111. 8-10, Ps. Aless in Met. 1. XII. IX. eco. Arist. Met. 1. VII. XI. 4-5. Se Platone dice che delle gran- dezze matematiche ve ne hanno molte della stessa specie, è ap- punto perchè considera l'sISo^ della linea, del piano, del solido come la specie, nel senso stretto, delle linee, dei piani, dei solidi matematici. i i egli distingueva dai numeri ideali. Naturalmente la Linea, il Piano e il Solido stessi differivano dalle Idee (numeri ideali) della linea, del piano e del solido, in ciò, che queste erano le semplici forme, mentre essi compren- devano anche la materia (2). La Linea stessa era l'eleo? della linea (il numero ideale Dueì congiunto col Lungo e Corto; il Piano stesso V sISo^ del piano (il Tre) con- giunto col Largo e Stretto; il Solido,s/c/f.<?o Tsl^oc del solido (il Quattro) congiunto con TAlto e Ba«so. Per con- ci) Questa spiegazione presenta, a dir vero, una difficoltà, ed è che Aristotile parla {Mei.), non di una linea, un piano e un solido, al singolare, ma di linee, piani e solidi, al plurale. Tuttavia noi dobbiamo accettarla, perchè essa ci permette di coordinare d'una maniera coerente la dottrina a cui allude Aristotile, all'insieme delle dottrine platoniche sulle entità matematiche. Per conciliare la spiegazione d' Alessandro col testo d' Aristotile, non abbiamo bisogno di supporre un’innovazioae di alcuni discepoli, che avrebbero aggiunto alla Linea, Piano e Solido in sé di Pla- tone altre entità dello stesso ordine, alle quali le parole d'Aristotile avrebbero potuto egualmente applicarsi : basta di ammettere che questi intende discutere la dottrina, a cui allude, nel suo con- cetto essenziale, cioè la distinzione tra le grandezze fiexà TOÒg àpiGfiOÓ^ e le matematiche, anziché nella forma accidentale ohe Platone ha dato a questo concetto Non è senza ragione se di gran dezze fiexà toÒ^ àpt9|ioóc Platone ne ammette queste tre sole : è ohe di esse non potrebbe esservene che una ver ciascun'Idea delle grandezze e per ciascuna forma del Grande e Piccolo quale mate- ria delle grandezze; ognuna di esse non essendo, come diciamo in seguito, che un'Idea di grandezza e la forma corrispondente del Grande e Piccolo, pensate, non s3parfltamente, ma insieme. Ma Aristotile pare non comprendere ciò, perchè inclinato, com'egli è, al- l'interpretazione trascendoit alista del sistema delle Idee, sembra supporre ohe queste entit à siano separate dalle loro ldee;e perciò crede arbitrario che se ne ammettano di più o di meno. Quando Aristotile parla della provenienza delle grandezze dalla materia (il Lungo e Corto, ecc.), egli usale espressioni gene- seguenza, ammettendo una linea, un piano e un solido in se stessi, distinti dagli eldy] della linea, del piano e del solilo, Platone non introduce delle nuove entità oltre questi e!5Y3 e la materia : la Linea stessa non è una terza cosa che si ag;^iuno:e all'sldog della linea e alla sua ma- teria; ma non è altro che queste due cose, pensate, non a parte, ma congiuntameiìte. Questo ci fa comprendere perché, quantunque la linea, il piano e il solido in sé si distinguano dalle Idee e dalle grandezze matematiche, pure Platone non riconosce che due generi di entità, le Idee e le entità matematiche ; e infatti quando Aristo- tile parla dei geneii di rntiià ammes-^e dalla scuola platonica e spe&so certamente dà la sua enumerazione come completa egli non fa menzione che di questi due soli. l!i yiet. 1. I. IX. 25 f.i r obbiezione che nella classa/ ion* } la tonica degli ess'*ri non vi ha alcun posto p r le grandezze «isTà xo'Jc; 6Lpi^[ioò(;y non. potendo esse collocarsi né tra le Idee, uè tr i le entità matematiche o intermediario, né tra i sensibili (le tre sole classi am- messe da Piattaie). In questo stesso luogo obbietta pure a Platone che egli non ha spi rigato l'origine di queste grandezze: questi non l'ha fatto, perché la loro esistenza non segna un nuovo passo nello sviluppo degli esseri, riche : le grandezze, le linee, le su;)3rftcie, i solidi, o anche: la grandezza, la linea, la superficie, il solido, al singolare (v. Met, I. 1. IX. 18-19, l. ni. IV. 30, l. Xlll. IX. 2-4, 1. XIV. II. 11); per con- seguenza ciò <?he egli dice deve applicarsi a tutte le grandezze e non alle sole maternhliche, quindi anche alla Linea, alla Superfi- cie e al Solido stessi. Del resto Alessandro d' Afrodisia nel luogo indicato dà esplicitamente come pdncipio di questi il Lungo e Corto, il Largo e Stretto e l'Alto e Basso. (1) V. Mei. ecc. 4 non essendo esse altra cosa, come abbiamo detto, che le loro Idee e la materia; ma Aristot le, per la sua pro- pensiohe air interpretazione trascendentalista, suppone che siano qualche cosa di nuovo, e rimprovera quindi a Platone di non avere indicato per queste entità, come per le altre, il processo secondo cui si producono. L'e- sistenza equivoca dell. ^ grandezze [isxà loùg àptefioóc quali entità distinte ci fa pure comprender**, il fatto che Ari- stotile non ne parla che in qualche luogo isolato (oltre i due indicati, in Dean, l. I. IL 7, in cui la pnma lun- ghezza, larghezza e profondità pare che denotino la li- nea, la superfìcie e il solido in sé), e che e^li anche talvolta per le espressioni generiche /e ^randez^e, le lun- ghezze, le superficie, i solidi, non intende senza dubbio designare che le grandezze matematiche (I). Li linea, il piano e il solido in sé non sono compres: tra le gran- dezze matematiche propriamente dette (cioè tra qu'^lle che, come diremo in seguito, Platone fa intermediarie tra le Idee e le cose), perchè queste non sono che le spe- cie ultime dei generi linea, piano e solido. Platone non nmmettt^ dello e itità per i concetti gene- rici del'e figure (p. e. <lel poligono o d"l poliedro), ma solo per quelli delle figure particolari (p. e. del triangolo, del quadrato, del cubo, d'^lT ottaedro) (2). Co è senza (1) V. M^t. i. iir. I. 15 (ofr. i. xni. i-m.) e i. XIV. ni. s-ii. (2) Come rkulta da MeL l. Ul. Ul. 11, in cai ^'attribawce ai par- ti<riaai deUe l lea l'onimoQ3 obe noa vi ha al'san numero (generi- co) oltre (Ttxpx) la specie dei numeri né alcuna figura (generica) oltre le spBoia delle figure. Lo stesso può de^umer-^i da un altro luogo, in cui alla dottrina dell' esistenza delle Idee oltr'e le entità matematiche e i sensibili si dà per ragione che, se esistessero la sola entità matematiche, i loro principii non sareb- bero finiti di numero, ma solo di specie. (Se tra le entità matema- tiche vi fossero anche i concetti generici e non solamente gli spe- dubbìo perchè, se tra le entità geometriche fossero anche rappresentati i concetti generici, egli non potrebbe ri- guardare Velòoq, della linea, del piano e del solido come le specie nel senso stretto, cioè come le specie infime— delle lineej dei piani e dei solidi matematici, e dire che queste linee, questi piani e questi solidi sono tutti della stessa specie. Queste proposizioni suppongono che tra le grandezze matematiche e le loro Idee corra lo stesso rapporto che tra gì' individui e le loro Idee specifiche : perciò le grandezze matematiche devono essere tra di loro, non subordinate nel grado di generalità, ma tutte eifioi, i principii di queste entità, anche se non si ammettessero ohe esse sole, sarebbero finiti di numero, non semplicemente di specie perchè è il generale, nel sistema platonico, che è il principio). Quest'esclusione dei concetti generici dei numeri e delle figvre dal rango di entità sussistenti per se stesse è fondata su quest'ar- gomento capzioso: che nelle cose in cui vi ha anteriorità e poste- riorità— cioè che formano una serie i cui termini si seguono con un ordine determinato il comune non è separabile (X.'^P^'^ìj l>erchè, se lo fosse, esso sarebbe anteriore a tutti i termini della serie, anche al primo, e per conseguenza vi sarebbe qualche cosa prima della prima (v. Klh. Eud, 1. 1. Vili. 9-10; cfr. Met, 1. Ul. HI. 11 ed Klh, Aie, I. 1. VI. 2). II sofisma volge sul doppio senso dei termini anteriore e posteriore, i quali ora significano la successione dei termini coordinati di una serie (p. e. quella dei numeri o dei po- ligoni), ora la subordinazione dei concetti secondo il grado della generalità (con lo altre idee che nelln filosofia platonica sono asso- ciate a questa subordinazione). 11 motivo reale per cui Platone njn ha obbiettivato i concetti generici delle figure, è quello che diciamo in seguito. In quanto a quelli dei numeri, il motivo è ugualmente chiaro : è che facendo un'entità del concetto generale di numaro e di ogni altro dei concetti a cui i numeri particolari sono subordinati, queste entità o dovreb- bero illogicamanle identificarsi con certi numeri particolari, o do- vrebbero porsi anteriori ai numeri particolari, che cesserebbero cosi di essere i primi di tutti yìi esseri, co .ne esige necessariamente la loro identificazione con le Idee. - 198 — coordinate, come grindividui, e tra di esse e le loro Idee non deve esservi alcuna entità di una generalità media, come non ve ne ha tra gV individui e loro Idee spe- cifiche. In conclusione, ciò che vi ha di particolare nella dottrina delle entità matematiche si riduce in sostanza, per quel che concerne le grandezze geometriche, a non elevare al rango d'Idee, vale a dire di numeri ideali, che le forme dei generi supremi di queste grandezze, cioè della linea, del piano e del solido in generale : in quanto al piani, ai solidi e alle linee particolari, i loro concetti vengono bensì realizzati, ma non sono ridotti a delle semplici forme, e per conseguenza non si fanno rappresentare da numeri ideali, e se ne fa una classe di entità distinte dalle Idee, che insieme ai numeri ma- tematici vengouo «'c^ignate col nome di entità matema- tiche. Cosi quando Platone dico che delle entità che sono l'oggetto della gec metriii ve n«- hanno molte della stessa specie, tutto ciò che vi ha di chiaro nel significato di questa propcsizione è che non vi ha che una Specie, cioè un'Idea unica, per tutte le linee, una per tutti i piani, una per tutti i solidi, l'Idea della linea, del piano del solido ; e che le linee, i piani, i solidi particolari, studiati dalla giometria, non sono riguardati come Idee. E evidentemente un'inconsegaenza, come gli rimprovera Aristotile, di non riconoscere nelle diverse figure geo- metriche altrettante specie distinte : ma siccome le Idee non sono, ne; periodo pitngoroggiante, che i numeri ideali, e queste figure non vengono ricondotte a dei nu- meri, cosi Pl7tone non può vedere in osse delle Idee, e quindi nemmeno delle specie. Le entità matematiche erano dette dai Platonici in- termediarie fra le Idee i sensibili. Ciò si spiega per- fettamente per quello che abbiamo detto. Le grandezze matematiche sono intermediarie tra le Idee delle gran- dezze e le grandezze sensibili, perchè tramezzano, per il loro grado di generalità, tra le une e le altre : sono Huperordinate alle sensibili, che sono particolari, mentre esse sene generali; e subordinate alle Idee, che sono più generali ancora di esse. Della stessa maniera i numeri matematici tramezzano tra i numeri Idee e i numeri fe- nomeni. Di più, siccome tra il generale e il particolare vi ha, nella metafisica platonica, il rapporto di principio e cosa derivata (anteriorità e posteriorità), cosi le entità matematiche tramezzano tra le Idee e i sensibili anche sotto un altro rapporto : le grandezze e i numeri mate- matici essendo subordinati in generalità alle Idee delle grandezze e dei numeri, essi procedono da quelle (sono posteriori alle Idee delle grandezze e ai numeri ideali); ed essendo superordinati in generalità alle grandezze e i numeri fenomeni, sono i principii da cui questi prò cedono (sono anteriori alle grandezze e i numeri feno- meni). Gl'interpreti trascendentalisti danno un' altra spie- gazione del posto d'intermediarie tra le Idee e i sensi- bili, che Platone assegnava a queste entità. Secondo questi interpreti, le entità intermediarie sarebbero, per Platone, le Idee nel loro rapporto con la materia, cioè come leggi del mondo sensibile. Platone avrebbe cer- cati questi intermediari fra le Idee e le cose, perchè, le Idee trascendenti essendo incapaci di esercitare diretta- mente un'elficicnza causale sui fenomeni, vi era bisogno. Mei. 1. Vii. XI. 6. (2) V. Mei, ecc. t I nel suo sistema, di mediatori, per cui la loro influenza si comunicasse al mondo fenomenico, e li avrebbe tro- vati nelle entità matematiche, perchè le leggi del mondo fenomenico si ri ducevano per lui a dei rapporti mate- matici. Sarebbe superfluo per noi di discutere quest'in- terpretazione, dopo che abbiamo mostrato Tinsussistenza 4ella base su cui essa è fondata, che è la trascendenza delle Idee. Ma essa solleva una quistione, «;he non pos- siamo lasciare senza risposta, cioè: Le entità matema- tiche sono semplicemente la realizzazione dei concetti matematici, e non rappresentano che le determinazioni delle cose studiate dairaritm<*tica e dalla g'sometria; ov- vero il pitagorismo di Platone si manife-ita anche di- rettamente in questa parte delle sue dottrine, e tutte le determinazioni delle cose, o, come dicono gì* interpreti di cui abbiamo parlato, le leggi del mondo fenomenico, sono state da lui ricondotte agli oggetti matematici ? in modo che tutti gli attributi degli e -se ri vengano nel suo sistema rappresentati tre volte : nel mondo delle Idee, nel mondo delle cose e iu quello delle entità interme- diarie? In altri termini, le 'entità intermediarie tramez- zano soltanto tra gli attributi matematici delle cose e le Idee di questi attributi, ovvero tra il mondo delle cose e il mondo delle Idee nella loro totalità? Per discutere d*una maniera completa questa quistione dovremmo oc- cuparci del Tiépas del Fdebo^ perchè è sulla pretesa iden- tità di esso con le entità matematiche che è fondata so- vratutto l'opinione che vede in queste entità le leggi del mondo sensibile : ma noi non lo potremmo qui senza fare altrove delle ripetizioni inutili, perchè questo è un ar- gomento che in seguito dovremo trattare. Per ora ba- sterà di esaminare la testimonianz\ d'Aristotile : quando verremo all'interpretazione del Jiépa^ del Filebo, vedremo che non vi sarà luogo a modificare il risultato a cui quef^t'esame ci avrà condotto. Ora dalla testimonianza d' Aristotile risulta chiara- mente che le entità matematiche rappresentano, non tutte le determinazioni degli esseri come sarebbe, se esse fossero le Id»'o stesse nel loro rapporto con la materia, ma semplicemente le determinazioni matematiche (cioè quelle che sono 1' oggetto dello matematiche pure). La dottrina delle entità matematiche consiste unicamente secondo Aristotile nella realizzazione dei concetti mate- matici. Cosi, quando egli si propone di esaminare questa dottrina platonica, la quistione è da lui formulata in questi termini: i numeri e le grandezze geometriche sono delle sostanze o no ? e se sono delle sostanze, esistono negli stessi esseri sensibili o fuori di essi ?. La ne- gativa della dottrina è per lui questa proposizione : le cose matematiche (xà fiaOrj^axtxa) non sono separate (xwptaxa o xEXtópwfiéva) (2;. E sul principio del 1. XIII., in cui la discute il più largamente, si limita a combattere la proposizione, attribuita ai platonici ortodossi, che i numeri e le grandezze geometriche e per numero evi- dentemente egli non intende in questa proposizione che r attributo comune di una collezione qualunque di oggetti — sono separati dalle cose, e quella, attribuita ad alcuni dissidenti, che sono delle sostanze inesistenti nelle cose stesse, e a mostrare che i concetti matematici non rappresentano degli esseri sus- sistenti per se stessi, ma delle proprietà degli oggetti sensibili, che il matem Uici astrae (xa)p(Cei) per la como- dità del suo studio. Non vi ha mai in tutte le allusioni (1)V. Mei. ecc. d' Aristotile a questa parte del sistema platonico una parola che supponga che le altre determinazioni degli esseri siano state ricondotte dai Platonici ai concetti matematici, e che le entità matematiche rappresentino, come i numeri ideali, le forme stesse e le leggi del mondo delle cose. Il contrario è anzi supposto nel modo più evidente in parecchi luoghi, in cui la dottrina del nu- meri matematici è posta in confronto con quella dei nu- meri ideali e con la dottrina pitagorica. Nel 1. 13^ e. 1®, enunziando l'argomento di questo libro, dice che prima tratterà « delle cose matematiche, senza aggiungere ad esse un'altra natura, per esempio se siano Idee o no, e se siano principii e sostanze degli esseri o.no, ma dell»», cose matematiche semplicemente s^ esistano o non esi- stano e in qual molo esistano»; poi delle Idee a parto (cioè a partì d«lla tosi che le identifica coi numeri); o in terzo luogo dei numeri ideal . Il senso d-lle parole tra virgolette è coriamente— come si vede dalle materie trat- tate nel libro e dall'ordino ni cui si seguono che pri- ma discuterà la dottrina dello entità matematiche, cioè quella che attribuisce bensì aHe cose matematiche una esistenza reale (ne fa delle sostanze), ma non aggiunge ad esse un'altra natura (non fa loro rappresentare d'elle determinazioni dogli esseri differenti dalle matematiche) come fa la 'dottrina dei numeri ideali (la quale ricon- duce a delle cose matematiche, cioè ai numeri, le Idee e la sostanza d^llc cose). Nel e. 6^ dell'» stesso libro, parlando delle diverso ipotesi metafisiche sui numeri, dice: «Ancora questi numeri possono essere o separati (XwpioToùs) dalle cose(l'ip>t -si platonica), o non separati, ma negli stessi sensibili (l'ipot'vsi pitagorica), no ì però della maniera che abbiamo visto precedentement-ì (cioè non secondo l'ipotesi, attribuita a dei platonici dissidenti, che i numeri matematici sono sostanze, ma inesistenti nelle cose stesse), ma in modo che gli esseri sensibili risultino dai numeri in essi inerenti». Qui la dottrina pitagorica sui numeri è distinta da quella dei platonici che ammettoao i numeri matematici nelle cose stesse, perche secondo qu-lla le cose risultano dai numeri (cioè i numeri costituiscono l'essenza delle cose), secondo que- sta no: ma se i numeri matematici non rappresentas- sero unìcament3 le determinazioni aritmetiche degli es- seri, ma fossero le Idee nel loro rapporto con la^'mate- ria o le leggi e le forme del mondo fenomenico, questa distinzione non potrebbe farsi, perchè, in tal caso, an- che pei platonici che ammettono i numeri matematici nelle cose stesse, queste risulterebbero dai numeri ma- tematici. Nel 1. XIV, sulla fine d'-l e. 2» e il principio del 3« : « Si potrebbe pure intorno ai numeri insistere sulla quistione perché si debba credere alla loro esi- stenza. Pt r chi ammette le Idee, forniscono qu«lche causa agli esperi, h' è vero che ciascun numero è un' Idea, e che le Idee sono cause in qualsiasi modo agli altri es- seri della loro esistenza; teoria che noi lasciamo ai suoi partigiani. Ma per chi non è di quest'opinione, perchè vede le dìffi>zo\tk intorno alle Idee, e perciò non fa que- ste numeri, ma fa il numero matematico, perchè credere a l'esistenza di questo numero, e in che esso è utile alle altre cose? Né quelli infatti che lo ammettono dicono che questo numero sia causa di alcuna cosa solamente ne fanno una certa natura esistente per se stessa (in altri termini non fanno altro che realizzare l'astrazione numero) né si vede di che sia cnu^a; in effetto, tutti i teoremi dell'aritmetica si riferiscono, come si è detto, ai sensibili (vale a dire : tutta l'utilità che si attribuisce a questo numero è di spiegare la conoscenza, poiché si pretende che le matematiche devono avere per oggetto delle entità generali; ma questa pretesa é vana, perchè queste scienze si riferiscono invece agli oggetti particolari) Quelli che ammettono le Idee e dicono che esse sono numeri, astraendo tutto ciò che è uno nei molti, s^ sforzano di mostrare come e perchè ciascuno di que- sti uni esista I Pitagorici, perchè loro sembrava che molte affezioni dei numeri ineriscono nei sensibili, ammisero che le cose seno numeri, non però separati, ma che le cose stesse constano di numeri. E perchè ciò ? perchè le affezioni dei nunaeri si trovano neir armonia, nel cielo e in molte altre cose. Ma quelli che ammettono solamente V esistenza del numero matematico non pos- sono dire niente di simile, secondo le loro ipotesi; ma si pretende cjie, senza quest i condizione, la scienza dei numeri non sarebbe possibile». Questo luogo afferma co>i esplicitameute che i numeri matematici sono la sem- plice sostantificazione degli attributi matematici, e non costituiscono le leggi e le forme del reale né come inerenti nelle coso stesse, quali i numeri dei Pitagorici e i numeri ideali di Platone nella nostra interpretazione, né come cause esemplari, quali questi numeri neir in- terpretazione trascendentalista, preferita da Aristotile che gl'interpreti i quali vedono nelle entità matematiche le Idee nel loro rapporto con la materia, non potrebbero che cercare di attenuarne la portata, osservando che qui Aristotile parla, non della dottrina stessa di Platone, ma di quella di un platonico dissidente a cui egli attribuisce di non ammettere altre entità che le matematiche, cioè di Speusippo. Ma anche quest'osservazione non potrebbe giovare molto alla loro tesi, poiché Aristotile riguarda evidentemente le entità matematiche di Speusippo come equivalenti a quelle di Platone; salvo che Speusippo non fa queste entità intermediarie fra le Idee e le cose e vede nei numeri matematici i primi di tutti gli esseri. Ma da qmsta differenza non potrebbe seguirne un di- vario nel significato delle entità matematiche tale da impedirci di applicare alla dottrina dei platonici in ge- nerale sui numeri matematici ciò che risulta, dal luogo citato, su quella di Speusippo. Anzi, i numeri matema- tici occupando nel sistema di Speusippo il posto che i numeri ideali occupavano in quello di Platone, Speu- sippo avrebbe avuto più motivi che Platone di dare ad essi un significato pitagorico, facendo loro rappresentare le leggi e le forme del mondo reale, e non le semplici determinazioni aritmetiche. E del resto questa stessa inu- tilità delle entità matematiche alle cose, che Aristotile, nel luogo citato e altrove, rimprovera a Speusippo, è da lui rimproverata anche ai platonici ortodossi, che fanno quest » entità >utermediarie tra le Idee e le cose; mentre, se le entità intermediarie fossero le Idee nel loro rapporto con la materia, esse avrebbero un'efficacia più reale delle Idee stesse (trascendenti), e più utilità, per conseguenza, per la spiegazione delle cose. Questa differenza tra la dottrina dei numeri ideali e quella dei numeri matematici, e in generale, delle en- tità matematiche, cioè che la prima implica una teoria del reale alla pitagorica, riducendo ai numeri le forme e le le^gl delle cose, mentre la seconda non è che la sostantificazione delle proprietà studiate dall' aritmetica iV^/. 1. XII. 1. 3, 1. Xlll. 1-111, Vi, IX. 2-6, 13-14, 1. XIV. 111. 4-I2, ecc, Vedi questo Supplem. n. V. (B) Afei. 1. XU. X. 14. 1. XIV. IH. 8. (4) V. MeL 1. XIV. IH. lo. — 202 - e dalla geometria, risulta anche chiaramente dal rap- porto che si stabilisce tra queste entità e le scienze ma- tematiche. Noi abbiamo visto che le entità matematiche sono gli oggetti a cui si riferiscono la scienza dei numeri e delle grandezze; e Aristotile assegna questo motivo alla dottrina, che la possibilità delle matematiche (cioè del- l'aritmetica e della geometria) suppone i numeri (mate- matici) e le grandezze come separabili (xoptaxot), cioè co- me sostanze. « Quelli che ammettono il numero (matema- tico) come separato (xwptaxóv), è perchè le proposizioni non si riferiscono ai sensibili, ma intanto ciò che dicono è vero e persuade lo spirito, che credono che il numero sia, e sia separato (xwptaxóv), e similmente le grandezze matematiche ». È un' applicazione della prova delle Idee dalle scienze. Evidentemente su questo fondamento non potrebbe stabilirsi una teoria secondo cui i numeri e le grandezze costituirebbero le leggi del mondo reale, n^ semplicemente la realizzazione dei concetti dei nu- nferi e delle gran.iezze. Ciò poi che si deve notare è che la funzione di essere gli oggetti a cui si riferiscono le scienze matematiche, viene assegnata alle entità mate- matiche in contrapposto ai numeri ideali Cosi nel 1. Ili II. 15 ArÌNtotile domanda se « bisogni ammettere altre sostanze oltre le sensibili, e se un solo genere o più di queste sostanza come quelli che ammettono le Idee e le entità intermediarie, alle quali dicono riferirsi le scienze matematiche ». E nel 1. I. IX. 16 osserva che, se le Idee sono numeri, « è necessario di stabilire un altro genere di numero, a cui si riferisca l'aritmetica, e tutte quelle entità che alcuni chiamano intermediarie ». L'aritmetica non può riferirsi al nimero ideale, perchè esso rappre- (1) Mei. 1, XIV. 111. 4. senta, non le semplici proprietà aritmetiche delle coma le leggi e le forme del mondo real ; e si riferisce al numero matematico, appunto perchè questo rappresenta non le leggi e le forme del mondo reale, ma le semplici proprietà aritmetiche delle cose. Per conseguenza Ari- stotile dice dei filosofi che ammettono il solo numero' matematico - per i quali questo numero non è, come per Platone, che la semplice sostantificazioue degli attri- buti matematici - ch'essi parlano delle cose matematiche matematicamente; mentre rimprovera a quelli che iden- tificano il numero matematico con l'ideale -e perciò gli fanno rappresentare dei concetti che oltrepassano la scienza dei numeri - di parlare delle cose matematiche non matematicamente (1), e di sopprimere in realtà il numero matematico, perchè fanno delle supposizioni loro proprie e non matematiche (2). Un'altra prova delMequivalenza dei numeri matema- tici di Platone coi numeri dì cui parla 1' aritmetica, si ha nei caratteri per cui egli distingue i numeri mate- matici e gl'ideali. Questi sono, còme sappiamo, la com- binabilìtà e V incombinabilità. Attribuendo T una ai nu- meri matematici e l'altra ai numeri ideali, Platone evi- dentemente vuol significare ch3 i primi sono i numeri' stessi di cui sì tratta nell'aritmetica, mentre i secondi ne differiscono. È ciò che Aristotile ci indica in vari luoghi, p. e. in Met. 1. XIII. VI. 2-3, in cui parla delle diverse ipotesi possibili sulle entità numeri, cosi : o i numeri sono differenti di specie, e qualsiasi unità è incombinabile con qualsiasi altra; o tutte le unità sono combinabili ru- na qualunque con un' altra qualunque, come dicono (1) Met. 1. Xlll. Vi. 8. L. Xlll, IX. l3 e Vni. 8. (i Platonici) essere il numero matematico — nel numero matematico infatti nessuna unità differisce da un'altra» (è evidente che qui il numero matematico vuol dire, non le entità che Platone designa con questo nome, ma i numeri nel senso ord'nario, di cui tratta la matematica); o le unità di ciascun numero sono combinabili tra loro, ma incombinabili con quelle di c'ascua altro (è l'ipotesi platonica sui numeri ideali); ovvero infine un numero è quale abbiamo detto il primo, un altro quale l'ultimo, e un altro quale dicono i matematici. Altrove i^Met.) dice: «Se le unità sono incombinabili, e incombinabili l'una qualunque con un'altra qualunque, non è possibile che questo numero s*a il matematico; poiché il numero matematico è costituito di unità senza differenza, e tutto ciò che si dimostra di es-^o (senza dubbio dai matematici) gli conviene come tale». Non è sorprendente che Platone abbia visto neirincombinabilità il carattere distintivo per eccellenza del numero ideale da quello a cui si riferisce l'aritmetica, la combinabilità dei numeri a cui essa si riferisce essendo il postulato fondamentale di questa scienza, che ha appunto p'^r og- getto la combinazione di questi numeri. Ma se i numeri matematici fossero le leggi dt^l mondo sensibile e le Idee nel loro rapporto con la materia, essi dovrebbero essere incombinabili come gì' ideali : noi abbiamo visto infatti che questi sono incombinabili, perchè un'Idea non è una parte delle altre Idee; ora anche una legge della natura (salvo l'inerenza del generale nel particolare, che esiste pure nelle Idee) non è una parte delle altre leggi della natura. Infine, il valore puramente aritmetico e geometrico delle entità matematiche è dimostrato da un'obbiezione che Aristot'le fa ripetutamentealladottrina.Per le stesse ragioni, egli dice, per cui vi hanno delle grandezze e dei numeri, intermediari tra gl'ideali e i sensibili, do- vrebbero anche esservi un alro cielo ed altri astri oltre i sensibili e le loro Idee; e sin^lmento delle entità in- termediarie tra le Idee e i sensibili per gli oggetti del- l'ottica e dell'armonia; e sensi ei oggetti dei sensi ed animali intermediari tra grideali e i corruttibili; e una sanità intermediaria tra la sanità in sé e la sanità reale; e un terzo uomo intermediario tra V uomo in sé e gli uomini particolari; e in generale per tutte le cose di cui vi hanno Idee dovrebbero esservi delle entità interme- diarie tra le cose stesse e le loro Idee (i). È chiaro che quest'obbiezione suppone che le entità matematiche rap- presentano, non tutte le determinazioni del reale, ma solo le matematiche (cioè quelle studiate dairaritmetica e la geometria), e che il loro titolo d' intermediarie significa che esse tramezzano, non tra le cose e le Idee nella loro totalità, ma tra gli attributi aritmetici e geometrici delle cose e le Idee di questi attributi. Se esse tramezzassero tra le cose e le Idee nella loro totalità, e fossero le Idee stesse come leggi del mondo sensibile, Aristotile non potrebbe rimproverare alla dottrina di non ammettere per le altre cose, come per le grandezze e i numeri, un che d'intermediario tra l' Idea e il fenomeno, poiché il mondo delle entità iijitermediarie sarebbe già, in quest'i- potesi, un'altra ripetizione del mondo delle cose, come quello delle Idee. Stabilito il significato puramente matematico delle en- tità intermediarie, possiamo passare ai motivi della dot- trina. Il concetto che deve servirci di guida é la dipen- denza di questa dottrina da quella dei numeri ideali. (1) Met, — Questa dipendeuasa ci è att^^stata da Aristotile, Ricor- diamo il lungo citato di Mi. 1. I. Se le Idee SODO numeri, sarà necessario di apparecchiare un altro genere di numero circa cui V aritmetica, e tutte quelle entità che alenai ch'amano intermediarie ». La quistione si riduce dunque per noi a comprendere : perchè Pla- tone ha distinto i numeri matematici— cioè quelli che sono Tog^etto deirartmetica — dai numeri ideali — cioè da quelli con cui venivano identificate le Idee—, e li ha loro subordinati come più particolari; e perchè non ha riso- luto in numeri anche le grandezze geometriche — come avrebbe dovuto seguire dal principio generale che gli esseri sono numeri—, ma solo le forme dei generi su- premi di queste grandezze. La dottrina pitagorica dei numeri, rìgidamente inter- pretata, avrebbe certamente condotto a fare una cosa sola delle Idee - numeri coi numeri aritmetici : è 11 in effetto che arrivò Xenocrate, il filosofo che, tra i plato- nici pitagoreggianti, è il più vicino al pitagorismo ge- nuino. Tuttavia non è sorprendente che Platone abbia indietreggiato dinnanzi a questa conseguenza logica della fusione del sistema deUe Idee coi concetti pitagorici. Anche tra i veri Pitagorici, pochi verisimilmente avreb- bero acconsentito a prendere la formula che le cose sono numeri nel senso che gli esseri non sono altra cosa che i loro attributi aritmetici, che, per esempio, quando si diceva che la giustizia è il numero quattro, il matrimo- nio il numero cinque, Tanima il numero sei, ciò voleva dire precisamente che la giustizia è identica perfetta- mente all'attributo comune a una coUezione qualunque di quattro oggetti, il matrimonio di cinque, l'anima di sei. La sastantificazione platonica degli universali ve- niva poi al accrescere le assurdità di una tale interpre- tazione. Sp, p. e., l'Idea dell'uomo è il numero tre, biso- gnerà intendere per ciò che il complesso degli attributi comuni a tutti gli uomini, considerato come uno e Io stesso in tutti, è l'attributo comune a tutti i gruppi di tre oggetti, considerato anch'esso come uno e lo stesso in tutti? o semplicemente che 1' entità chiamata il Tre in sé rappresenta al tempo stesso l'Idea dell'uomo e l’essenza comune di tutti i gruppi di tre oggetti, quan- tunque queste s'ano due cose per se stesse distinte? Ma in questo secondo caso, per la stessa ragione per cui si fa un'entità distinta dell'Idea dell'uomo, dovrebbe anche farsi un'enttà distinta dell'essenza comune di tutti i gruppi di tre oggetti, cioè del tre matematico, l'esigenza necessaria del sistema delle Idee essendo che ciascun universale venga separato, e se ne faccia un'entità esi- stente per se stessa. Noi comprendiamo dunque perfettamente la necessità^ in cui Platone si è trovato, di ricorrere all'ipotesi poco naturale di un altro numero distinto da quello che è l'og- getto dell'aritmetica. Senza dubbio, quando, dopo aver affermato che le cose sono numeri, si soggiunge che que- sti numeri non sono quelli con cui ha da fare l'aritme- tica, la scconia proposizione ha tutta 1' aria di essere una sconfessione d^lla prima; dei numeri differenti dalle determinazioni delle cose che studia l' aritmetica, non essendo, a parlar propriamente, dei numeri. Cosi la di- stinzione tra i numeri ideali e i numeri matematici ci dà un' altra prova di un fatto, che noi abbiamo notato a proposito della riduzione ai numeri della sola forma delle cose, cioè che il pitagorismo di Platone non è andato sino ad accettare l'identificazione pura e semplice delle cose coi numeri che egli trovava nelle formule pitago- riche. Ma Tallontanamento di Platone dai Pitagorici non poteva esser tale da metterlo in aperta contraddizione con le loro proposizioni. È ciò le sarebbe avvenuto, se la distinzione del numero ideale dal matematico fosse assoluta. Quando i Pitagorici rappresentavano le cose per dei numeri, identificavano, almeno verbalmente, i concetti delle cose con quelli dei numeri : essi dicevano, p. e., il numero quattro è la giustìzia, il sette il tempo opportuno, l’uno la mente, il due l’opinione; e questi concetti dei numeri, con cui quelli delle cose venivano identificati, non erano evidentemente per loro che i con- cetti stessi che i nomi dei numeri esprimevano, quando designavano le semplici determinazioni aritmetiche. Il quattro, il sette, il due non erano per loro dei termini equivoci, quando indicavano i numeri della giustizia, del tempo opportuno e deiropinione, e quando venivano im- piegati semplicemente per denotare i gruppi di quattro, di sette e di due oggetti. Per conseguenza i numeri ideali di Platone dovevano rappresentare i concetti (astratti e generali) dei numeri, a cui le stesse determinazioni arit- metiche erano subordinate; dovevano essere, in altri ter- mini, i numeri in sé, le essenze dei numeri, per la cui partecipazione gli stessi numeri matematici sono chia- mati uno, due, tre, ecc. Cosi Platone identificava in un certo modo, nel tempo stesso che li distingueva, ì numeri ideali e i numeri matematici. In effetto il rapporto che vi ha fra i due numeri, è quello di anteriorità e poste- riorità i numeri ideali, cioè quelli con cui egli iden- tificava i concetti obbiettivati delle cose, sono i primi numeri, perdio il primo è V in sé (aOxó); i numeri ma- tematici sono loro posteriori, perchè il partecipante è po- steriore al partecipato: ora il posteriore nonèchel'an- V. Al. Afrod. in Arisi. Mtt, 1. 1. V. t. 32. tori<re stesso, a un grado ulteriore di determinazione o di coDcretizzazione. Da questa relazione che Platone stabilisce tra i nu- meri matematici e i numeri idt»ali segue V altro punto capitale della dottrina. Secondo i principii della dialettica platonica, V anteriore e il partecipato è l'uno, il poste- riore e il partecipante, il multiplo. Il separàbile (xwptaxóv) è il comune, Vuno nei molti: ora Platoae dai numeri matematici separa (xwpC^sO le essenze stesse dei numeri i numeri ideali, per la cui partecipazione il due, il tre, il quattro, ecc. matematici souo chiamati due, tre, quattro, ree. : per consegut^nza il dup, il tre, il quattro, ecc. ideali, in relazione al due, al tre, al quattro, ecc. matematica, da cui si separano^ devono essere ciascuno Vuno nei molti. Di là la proposzione che dei numeri ma- tcmat'ci ve uè hanno molti della stessa specie, cioè che vi ha una moltitudine di unità, di dualità, di trinità, ecc. matematiche, altrettante quante volte V uno, il due, il tre, ecc. si ripetono nel numero infinito. Non bisogna credere tuttavia che il numero ideale sia ciò che vi ha di comune nei molti numeri matematici ad esso subordinati; che TUnità ola Dualità ideali siano alle unità o dualità matemitiche ciò che la specie è agli individui o il genere alle specie. Se il numero ideale racchiudesse nella sua comprensione tutto ciò che vi ha di comune nei numeri matematici di cui esso è T uno nei molti, la distinzione tra le due sorta di numeri non avrebbe più alcun significato ; perchè in questo caso i numeri ideali non sarebbero che le essenze o i concetti generali dei numeri matematici. Il numero ideale comprende dunque, non la totalità delle note comuni ai numeri ma- tematici subordinati, ma una parte solamente di queste note; non è il concetto comune dei numeri matematici, ma qualche cosa di più indeterminato. È ciò che Platone ci indica, quando fa déìVincombinabilità il carattere di- stintivo dei numeri matematici dai numeri ideali. Se i numeri ideali fossero i concetti comuni, nel senso stretto, dei numeri matematici, essi dovrebbero essere combinabili come questi. Per Tincombinabilìtà dei numeri ideali non bisogna iotendere la presenza in questi numeri d'un attributo positivo contrario a quello dei numeri mate- matici, cioè alla combinabilità, ma solo l'assenza di que- sto carattere dei numeri matematici. Essa significa duu-' que che, tra le note del numero matematico di cui deve farsi astrazione per concepire il numero ideale, vi ha la combinabilità; che questa è una determinazione nuova, che, nella concro.tizzazione progressiva dell' essere, si aggiunge al numero ideale, per formare il numero ma- tematico. Il pensiero di Platone è, al fondo, che il Secóndo Aristotile, Platone avrebbe ammesso che le unità dei di- versi numeri ideali sono differenti fra di loro e non semplicemente non identiche; e, per conseguenza, che questi numeri sono gli wnX fuori degli altri, e non semplicemente che non sono contenuti gli uni negli altri come i matematici (vedi i 1. indicati nelle note 1 e 3 a carta) Ma, malgrado l'autorità di Aristotile, io non posso ammettere che Platone sia caduto in una contraddizione si evidente, qual è di fare dei numeri ideali delle essenze di cui i numeri matematici partecipano, ed attribuire al tempo stesso ad essi dei caratteri positivi opposti a quelli dei numeri matematici. Il partecipato può, anzi deve, mancare di certi attributi del partecipante, perché esso è più astratto e questo più concreto; ma è im- possibile che abbia de^li attributi positivi contrarli, perchè non è che una parte della sua comprensione. Nel sistema delle Idee, la negazione deir identità non importa necessariamente l'atfermazioue della differenza, né la negazione della contenenza di una cosa in un' altra 1' alfcrmazione dell' esteriorità dell' una cosa all' altra. Per formarsi un concetto più astratto, bisogna escludere certe note dei concetti più concreti in cui esso è compreso, ma questa esclusione non importa V inclusione di note positive contrarie. Ora le entità platoniche non sono che i concetti realizzati; Platone può dunque negare di un'entità più astratta certe de- numero su cui volge V aritmetica vale a dire ciò che noi chiamiamo numero non è che un caso particolare del numero; che i numeri in se stessi, essenze comuni delle Idee e dei numeri matematici, sono alcun che di uno e lo stesso nelle une e negli altri, e di più gene- rale che le une e che gli altri; che vi ha, al di sotto delle differenze, un'identità fondamentale tra le determi- nazioni aritmetiche e le forme degli esseri, e il punto di coincidenza in cui queste e quelle convergono e sM- dentificHUo, sono i numeri ideali. Semplicemente Platone non può dare espressamente le Idre (cioè le forme degli esseri) come V altro caso particolare del numero: la fu- sione del s stema delle Idee con la dottrina pitagorica dei numeri esige che le Idee siano identificate coi nu- meri in se stessi, non con un numero particolare; nel secondo caso i concetti delle cose non s'identificherebbero. terminazioni di un'altra entità più concreta in cui quella è compresa, senza intendere perciò affermare di essa delle determinazioni contrarie. Egli può, p. e., n^ìgare dell animale in sé le note proprie dell'uomo, senza affermarne perciò juelle del bruto; negare dell'esseie in sé le note pro- prie del mosso, senza atferrcarne perciò quelle del quieto. Senza dubbio è impossibile di concepire un animale che non è né uomo né bruto, un essere che non è Jié mosso né quieto, delle cose che non sono né iden- tiche né differenti, né contenute l'una nell'altra né l'una fuori dell'altra: ma io non pretendo che le entità platoniche siano concepibili. Il difetto dell'interpretazione d'Aristotile del sistema platonico é la sua tendenza a rajipresentarj^i, più che é possibile, le entità astratte del maestro sul modello delle cose sensibili e immaginabili: le Idee non sono^ secondo lui, che dei sensibili eterni, come gli dei del volgare non sono che degli uomini eterni (A/e/, l. 111. 11. 16). Di là la sua propensione al- l'interpretazione trascendentalista; di là il concepire, eh* egli fa, le Ide<i come delle forme immobili e inattive. Per un effetto della stessa tendenza, degli attributi indicanti la semplice assenza di certe determinazioni, sono intesi da lui come se significassero la presenza delle determinazioni con*^ trarlo. j:__j y. come nelle formule pitagoriche, coi concetti dei numeri, e inoltre i numeri -Idee e i numeri aritmetici sareb- bero due cose assoluf amente distinte, ciò che la subor- dinazione dei numeri matematici agi* ideali ha appunto per r gge tto di evitare. In quanto all'altra parte della nostra quist'one, cioè perchè Platone non risolvesse in numeri nuche le gran- dezze geometriche, noi vi abbiamo già dato una rispo- sta assai ovvia : è che il numero ideale rappresentava la sola forma delle cose, mentre le grandezze matema- tiche rappresentavano tanto la forma qnanto la materia delle grandezze reali. Noi abbiamo visto infatti ch*^ le grandezze matematiche si compongono d' un elìo^ che esse ricevono dai numeri ideali, e d' una materia che non è altra cosa che l'estensione (in lunghezza, in Rir^r- ficie e in volume). Dall' altra parte abbiamo visto pure che il num'^ro 'Matooico si distingue dal numero pitago- rico perchè mn; idico, e che questa distinzione significa che il numero pitagorico ha grandezza, vale a dire delle cose rappresenta anche V estensione, mentre il numero platonico è senza grand zza, cioè rappresenta la forma separata dalla materia o dair est'^nsione (termini equi- pollenti, perchè la materia delie cose è per Platone lo spazio). Ma questa risposta che abbiamo data provoca naturalmente un'altra quistione : perchè Platone non ha ridotto le grandezze matematiche a delle semplici forme come gli altri concetti obbi^t ivati della sua metafisica ? Evidentemente Platone ritiene V elemento materia indi- spensabile a costituire il concetto della grandezza. L'Idea platonica rappresenta, è vero, la sola forma : ma di questa forma egli ne fa l'essenza stessa, il concetto com- pleto della cosa. È ciò che risulta dai termini per cui egli designa le Idee, dalle prove con cui ne dimostrala '»! t esistenza, e in una parola da tutti i dati che abbiamo per determinare la natura dell'Idea platonica. Se questa non rappresentasse il concetto nella sua integrità, Pla- tone non le darebbj il nome stesso d'ella cosa, con l'ag- giunzione delle parole aÙTÓ, 5 Ioti, ecc., che indicano ap- punto che l'Idea è l'attributo o Tinsieme di attributi con- notato dal nome; non la chiamerebbe il genere e la spe- cie, Tessenza e la natura ; non la riguarderebbe come l'oggetto a cui si riferisce il concetto e la definizione; non direbbe che è l'universale, l'uno nei molti, ecc. An- che per Aristotile, la cui dottrina sulla forma e la ma- teria non è che la riproduzione di quella di Platone, salvo la differenza tra il concettualismo dell'uno e il realismo dell'altro, TelSog (la forma) equivale all' oòoiot, o xò zi y)v rivai (l'essenza) e al lógos, il concetto. Se dunque l'^en- t'tà corrispondenti alle grandezze geometriche ne rap- presentassero la sola forma, Platone dovrebbe ammettere che la forma, per se sola, esaurisce il concetto o l'es- senza di queste grandezze. Ma sarebbe strano che l'es- senza della grandezza (nel senso che i logici danno alla parola essenza) non fosse grandezza essa stessa— poiché, non bisogna dimenticarlo, la differenza tra il numero platonico e il numero pitagorico è che questo ha gran- dezza e quello no ; che l'attributo estensione (sinonimo, per Platone, di materia) non entrasse nel concetto della forma geometrica, la cui definizione è : un' estensione circoscritta. Senza dubbio, è anche strano che l'estensione non faccia parte del concetto dell'uomo, del dente, del- l' albero, e in una parola di tutti gli oggetti estesi. Vi ha tuttavia tra gli oggetti che hanno grandezza e le grandezze in se stesse una dìflerenza importante. Quando Platone sopprime l'attributo estensione dal concetto dei- Tuomo, del dente o dell'albero, egli può credere che ne C M 208 ( r, l'I !' I »J •m'.'' ^ resti ancora qualche cosa, e chiamare questo resto Tes- senza deiruomo, del dente, deiralbero, perchè, oltre l'e- stensione, la nozione di un oggetto esteso comprende tanti altri attributi : le altre qualità sensibili, le energie di cui è dotato, la funzione o lo scopo *a cui è destinato è sovratutto per quest 'ultimo attributo chePlatone defi- nisce le cose; ma se si toglie IVstensione dal con- cetto della grandezza geometrica, è evidente che non re- sta assolutamente niente, perchè una grandezza geome- trica non é che una porzione limitata dell' estensione. Quest'impossibilità assoluta di dare per oggetto ai con- cetti delle grandezza geometriche delle entità in cui Tat- tributo estensione non sia rappresentato, era un fatto di cui Platone aveva un' esperienza continua : la geometria che era una delle scienze di cui egli si occupava con specialità essendo lo studio dei rapporti di misura delle grandezze estese, come potrebbe questa scienza ri- ferire ad oggetti senza estensione, e non suscettibili, per conseguenza, di rapporti di misura ? La dottrina sulle grandezze, come quella sui numeri matematici, è dunque un effetto dell' adesione incompleta che Platone fa alla dottrina pitagorica dei numeri : l' incoerenza di distinguere le grandezze matematiche, quantunque en- tità universali anch'esse, dalle Idee non è che un aspetto della contraddizione insolubile in cui egli necessariamente s'inviluppa, riducendo al numero la sola forma delle cose, mentre è in esso che ne fa consistere l'essenza. Ma quantunque Platone si rifiutasse a ris« Ivere le grandt'zze in numeri, egli non poteva tuttavia sottrarsi all'esigenza imperiosa della logica, che gl'imponeva, s'è vero che il reale consiste nel numero, a ricondurre tutto (1) V. Arist. De An. 1. I. I. n. ai numeri ideali. Per conseguenza fgli fa risultare le grandezze dai numeri ideali che ne costituiscono le for- me (el^Yj) e dalla materia (Dualiià indefinita). Ora se- condo i principii drl sistema delle Idee, queste forme (et^rj) delle grand«5zze, ch(3 Platone rappresenta per dei numeri, devono essere necessariamente più elevate i)i generartà delle grandezze stes e, cioè delle entità com- poste di forma e di materia e che egli chiama matema- tiche. Platone non può ad un concetto di grandezza far corrispondere al tempo stesso due ent'tà : un'entità ma- tematica, composta di forma e di materia, e una forma pura, rappresentata da un numero i^ieale. Ciò è perchè, nel sistema delle Idee, tra il più astratto e il più con- creto, in altre parole, tra ciò che si separa (xcoptl^sxaij e ciò da cui si separa, vi ha la relazione dell'universale al particolare, dell'uno ai molti. Così, le entità rappre- sentanti le forme pure essendo più astratte delle entità rappresentanti i composti di forma e di mat^Tia, quelle devono essere più universali e queste più particolari; in nitri termini i concetti a cui si fanno corrispondere delle Idee-numeri devono essere, non gli stessi concetti a cui si fanno corrispondere delle entità matematiche, cioè composte di forma e di materia, ma altri, a cui questi siano subordinati in generalità. E siccotne i concetti, corrispondenti alle entità matematiche, sono alla loro volta più geìierali che le cose di cui essi sono i concetti, noi possiamo pure esprimere lo stesso fatto dicendo: che le grandezz'ì matematiche devono essere intermediarie c'oè devono tramezzare in generalità, e perciò anche occupare un po^^to medio nella sequenza logica degli esseri (anteriorità e posteriorità) tra le idee delle grandezze e le grand'^zze sensibili. Platone divìde dunque i concetti delle grandezze in - 1 »l f due classi, a cui fa corrispondere due differenti sorta di entità: ai più particolari assegna le entità matematiche, composte di forma e di materia, e ai più generali le Idee -numeri, che sono delle semplici forme. Ma cosi facendo, va naturalmente incontro ad un'evidente in- coerenza, cioè di obbiettivi! re di alcuni concetti il smo/o, il composto di forma e di materia, e di altri la sola forma. Perciò egli non ammette che altrettanti numeri ideali per le grandezze quante sono le specie del Grande e Piccolo che servono loro di materia: è che cosi l'in- coerenza viene in un certo modo evitata, poiché, unen- do ciascuno di questi numeri alla specie corrispondenbe del Grande e Piccolo, si ha il concetto obbiettivato nella sua integrità (forma e materia)— ciò che Platone chiama la linea stessa, il piano sfesso, il solido stesso, mentre, se si aggiun- gessero aldi lìumeri, si avrebbero necessariamente delle forme senza materia. Questo ci spiega perchè vi hanno delle Idee-numeri pei generi supremi delle grandezze, ma non ve ne hanno pei generi intermedi fra di essi e le specie ulti- me. In quanto airesclusione di questi generi intermedi an- che dal rango di entità matematiche, noi ne abbiamo già notato il perchè : è V assimilazione del rapporto tra le grandezze matematiche e le loro Idee al rapporto tra gli individui e le loro Idee specifiche ; assimilazione che è, alla sua volta, un a crnsegucnza della distinzione delle entità matematiche dalle Idee, Platone non potendo am- mettere questa distinzione senza negare a queste entità la qualità di specie, e riguardare come loro specie le Idee infime a cui le subordinava. Nella dottrina delle entità matematiche bisogna di- stinguere evidentemente due parti, che si sono formate in due periodi distinti della speculazione platonica. L'una è robbiettirazione dei concetti dei numeri e delle gran- dezze geometriche : essa è nata dal punto di vista pu- ramente platonico, essendo una semplice applicazione della teoria delle Idee, ed è per conseguenza anteriore all'epoca del sincretismo con le dottrine pitagoriche. L'altra è la distinzione di questi concetti obbiettivati da quelli a cui si riserba il nome d'Idee, e il posto loro as- segnato d'intermediari fra queste e le cose : essa sup- pone la teoria dei numeri id^a'i, e non può esser nata perciò che nel periodo p'tagopeggiante. Ciò è provato, oltre che dalla natura stessa di questa parte della dot- trina, dal luogo citato della Metafisica, in cui Aristotile dà la teoria delle entità intermediarie come una conseguenza della identificazione delle Idee coi nu- meri; e se ne ha la conferma negli stessi dialoghi di Platone. È evidente in effetto che nella classe delle Idee o delle Specie l'autore comprende, pressoché dapertutto ov'è quisr.ione della dottrina delle Idee, non una parte solamente ma la totalità dei suoi concetti obbiettivati fi), e talvolta anche e^^plicitamente, come nei luoghi del Fedone (101 e 104-105) indicati al n. I, quelli che in Ari- stotile i-ono classati tra le entità matematiche. J^e modificazioni apportate alla dottrina primitiva su- gli oggetti matematici, per distinguerli dalle Idee-nu- meri e loro subordinarli, si riducono in* sostanza, oltre alla restrizione arbitraria delTuso del termine Idea e si- nonimi, a tre punti : per quel che riguarda i numeri, la moltiplicità delle unità, diadi, triadi, ecc. matematiche, e la derivazione di queste dall'unica unità, diade, triade, ecc. ideali; per quel che riguarda le grandezze, la Parmen. VELIA (vedasi), Fedone 99 d-1or>, FìUbo 14 e- 19 b, Rep, 476 a sq^, 484-486, 5o7 b-c, 596 a-b, Sof. 246-249, 251-26o, Tim., ecc. 210 - V I ti, riduzione degli steyj della lìnra, del piano e del solido, e di essi soli, a numeri ideali. In quanto al primo punto, ch'esso sia stato una modificazione posteriore della dot- trina primitiva di Platone, risulta da parecchi luoghi, in cui, parlando chiaramente del numero matematico, cioè di quello che è Tog^etto deir aritmetica, egli non ammette senza dubbio che una sola unità, una sola dualità ecc. In quanto agli altri due punti, per istabi- lire la loro posteriorità, non occorrono altre prove che quelle esposta al n. I, che dimostrano la posteriorità della teoria dei numeri ideali. Qui noteremo soltanto che ciò che i luoghi di Platone, di cni ivi si tratta, provano d'una maniera immediata, é sovratuttola posteriorità della dot- trina delle entità intermediarie. Infatti, se essi dimostrano che r autore non conosceva ancora quella dei numeri i leali, è spocialmente perchè le entità numeri, rappre- sentanti i semplici attributi aritmetici delle cose, e corri- spondenti quindi ai numeri niatematici dell' esposizione aristot WC'i, sono in questi luoghi riguardate come le Idee e le essenze dei numeri, e per conseguenza come i primi numeri, escUvlcndosi così V esistenza di altri nu- meri anteriori (Cfr. n. I, carte V. frd'nff lol e, I04, R^P- 522-525, ecc. (2) Si è ere lato di ritrovare la distinzione delle entità matematiche dalle Idee sulla line del 1. VI della /e.'pubWica. Ivi Platone divide l'intelligibile ed i\ visibile in due parti, che stanno fra di loro, per l'evidenza e la verità, com« tutto l'inteUigibile sta » tutto il visibile. Alle due parti del visibile corrispondono le due forme inferiori della conoscenza, a cui Platone dà il nome comune di opi- nione : alle due parti dell'intelligibile le due forme superiori, che egli chiama intelligenza. Le due parti del visibile sono le cose reali e le loro immagini : alla prima corrisponde la fede, ali» seconda l'immaginazioue (slvcaaia). Delle due parti dell' intelligibile l'una è quella Tho s'investiga per la dialettica; l'altra è quella che s'investiga I IV. Il pitaKoriflimo nel Tiiiieu e nel Fllebo Risulta dall'esposizione pr ce lente che le altre dot- trine di Platone oltre quel'e di cui abbiami parlato al per le scienze matematiche, che, oltra la scienza dei numeri e la geo- metria, comprendono l'astronomia e l'armonia. (Queste due parti del- l'intelligibile sono determinate da Platone, non per se stesse, ma per il metodo con cui si procede nel loro studio; così i loro carat- teri distintivi sono : 1. Nello studio della seconda parte (quella che è l'oggetto delle scienze matematiche) lo spirito procede bensì col metodo deduttivo, come in quello della prima, ma la dimostrazione è incompleta, perchè il punto di partenza delle sue deduzioni sono delle semplici ipotesi: nello studio della prima parte (quella che è l'oggetto della dialettica), al contrario, il metodo è assolutamente dimostrativo, perchè il principio è, non una samplice ipotesi come in quello della seconda, ma una verità d'una certezza assoluta. 2. Nello studio della seconda parte, quantunque il vero oggetto del pensiero sia l'universale in se stesso (il quadrato classo ^ la diago- nale stesm^ i numeri .s/^ssi), pure ciò che esso prende immediata- mente per oggetto sono delle ooie particolari e sensibili; nello stu- dio della prima parte invece, il pensiero non ha altro oggetto che l'universale, le Specie essendo il principio, il mezzo e il termine di tutta la dimostrazione (per queste differenze tra il metodo dia- lettico e quello delle matematiche, cfr. il cap. Vii). Alla prima parte dell'intelligibile, tra le forme dalla conosaanza, corrispoaia la scienza, alla seconda la raz loci nazione (5idvoia). Le quattro forme della conoscenza, corrispondenti alle parti dell'intelligibile e del sensibile, partecipano dell' evid.mza nella stessa misura in cui gli oggetti, a cui corrispondono, partecipano della verità. La prima parte dell'intelligibile sono, non potrebbe esservi al- cun dubbio, le Idee : la seconda parte é stata identificata con le entità matematiche; ma questa identificazione presenta delle dif- ficoltà insormontabili, quali sono le seguenti : 1. Le entità matematiche non sono che i numeri e le gran- dezze geometriche; mentre la seconda parte dell'intelligibile com- prende anche, oltre gli oggetti della scienza dai numeri e della e che consistono in sostanza in questi tre con- cetti : la realizzazione degli universali, la dialettica, e il bene genere supremo o forma comune di tutti gli esseri— sono il prodotto di una fusione, avvenuta in un periodo ulteriore della sua specuUzfone, dei concetti propri a Platone stesso quelli che abbiamo indicati con quelli geometria, quelli dell'astronomia e dell'armonia. Dirà l'interprete trascendentalista, per risolvere questa difficoltà, che le entità ma- tBmatiohe rappresentano le leggi del mondo fenomenico, e per conseguenza costituiscono anche l'oggetto dell'astronomia e del- Pftrmonia? Ma allora Platone dovrebbe dare la seconda parte del- l'intelligibile per oggetto, non, com'egli fa, a certe scienze speciali, ma a tutte le scienze del reale, perchè tutte hanno per oggetto le leggi del mondo fenomenico. E in questo caso, siccome le stesse icienze avrebbero anche per oggetto le Idee per il principio ge- nerale che la scienza si riferisce all'Idea, le due parti dell'intelligi- bile non potrebbero venire distinte per le scienze di cui sono l'oggetto. 2. il carattere per cui le entità matematiche si distinguono dalle Idee è ohe ve ne hanno molte della stessa specie. Nella sua applicazione ai numeri, questa proposizione significa, come abbiamo spiegato, che vi ha un'infinità di unità, di diadi, di triadi, ecc. ma- tematiche. Ma nella Repubblica Platone non ammette, come concetto realizzato, che una sola unità, l'Uno stesso; e per conseguenza pure una sola Diade, una sola Triade, ecc. Ciò risulta anche da tutto il contesto in cui l'Uno e gli altri numeri sono classati tra gli oggetti, che il senso vede confusi coi loro contrari, ma che l'intelligenza separa, vedendo ciascuno dei contrari come uno. L'uno e i numeri di cai è quistione nei luo- ghi indicati, siccome sono dati come l'oggetto dell'aritmetica, sa- rebbero quelli formanti, con gli altri concetti matematici, la se- conda parte dell'intelligibile (se questa equivalesse alle entità matematiche) : per conseguenza dovrebbero essese identici ai numeri matematici dell'esposizione aristotelica. Ma questa identità, come si è visto, non esiste; e la differenza è d' un'importanza capitale, trattandosi del carattere delie entità matematiche per cui esse ve- nivano distinte dalle Idee. 3. La distinzione degli oggetti matematici dalle Idee importa la loro subordinazione ad esse come intermediari fra esse e le cose, e questa suppone, come risulta da tutta la nostra esposi- zione di questa parte della filosofia platonica, la dottrina dei nu- meri ideali. Ma noi mostrammo al n. I (carte) ohe, quando t' Platone scriveva la Ropubblica, egli non conosceva ancora questa dot- trina. E si noti che gli argomenti con cui l'abbiamo provato acqui- stano una forza particolare contro quelli che nella seconda parte dell'intelligibile vedono le entità matematiche. In effetto essi non potrebbero revocare in dubbio la premossa da cui ' partono questi argomenti, cioè che i numeri, di cai è quistione nel VII della i^o pubblica^ sono i matematici, vale a dire quelli rappresentanti i sempli- ci attributi aritmetici; questi numeri essendo, s3condo la loro tesi, di- stinti dalle Idee e ad esse opposti come appartenenti a un'altra se- zione del mondo intelligibile. Ma se si conviene che questi numeri sono i matematici, si de^e pure convenire che 1’autore non am- metteva ancora i numeri ideali, poiché, se li avesse già ammessi, egli non avrebbe potuto riguardare i numeri matematici come i numeri stessi e le essenze dei numeri (v. carte). 4. Le due parti dell'intelligibile si distinguono in quanto l'una è l'oggetto della scienza dialettica, e l'altra di un'altra scienza, egualmente deduttiva, ma d'un'evidanz i inferiore. Ora quest'e-jclu- sione dal dominio della dialettica non potrebbe convenire agli og- getti delle matematiche, considerati come entità. Es^i sono dei concetti obbiettivati simili a tutti gli altri della metafisica i)lato- nica. Questi concetti hanno dei gradi differenti di generalità, e per conseguenza il metodo di divisii»ne deve applicarsi anche ad ossi- Platone, è vero, dei numeri e delle grandezze, dopo che ne tu delle entità intermediarie, non realizza che i concetti specifici; ma ciò non esclude l'applicazione del metodo dialettico, i concetti gene- rici occorrenti, che non si trovano tra le stesse entità intermedia- rie, trovandosi nelle Idee a cui esse sono subordinate. Infine l'u- nità di metodo, che è uno dei caratteri essenziali a questa forma di metafisica, esige che anche questi concetti entrino, con tutti gli altri, nel sistema universale, e si deducano, con lo stesso processo, dall'Idea suprema. E nel fatto Platone, tra gli oggettiva cui volge la dialettica, comprende, in diversi luoghi, i concetti matematici. Nel Filebo 61 d-62 a, riferendosi a 68-59, in cui oppone la scienza dialettic*, che ha per oggetto ciò che esiste sempre ed è sempre allo stesso modo, a quella che ha per oggetto ciò che è generato, — 212 - dei Pitagorici. Di queste dottrine alcune — quelle dei numeri ideali e dei due elementi del'e Idee — non sono che le dottrine principali dei Pitagorici con le modifica- dìoe dì aver distinto due soiense, Tana circa le cose che Dascono e periscono, l'altra circa quelle che non nascono né periscono e sono sempre allo stesso modo, e pone tra gli oggetti della seconda, cioè della dialettica, il cerchio stesso e la sfera stessa, Neil' Entidemo: I geometri, gli astronomi, gli aritmetici sono pure dei cacciatori, perchè non fanno le fìgare, ma vanno alla ricerca di qaelle che esistono; e siccome non sanno usarne, ma solamente scoprirle, quelli tra di loro ohe non sono insensati abbandonano le loro scoverte ai dialettici, perchè se ne servano „. Neil' Epinomide (ohe, se non è di Platone, è certamente di un discepolo dell' an- tica accademia) 991 e-992 a : "Bisogna che 11 consenso, <?he è uno, di tutte cose, d'ogni figura, ogni costituzione di numero, ogni ra- giono d'armonia e di rivoluzione degli astri, si manifesti a quello che imparerà secondo il vero metodo; e si manifesterà, se chi im- para guarda all'unità; perchè la riflessione gli scoprirà che un sol legame unisce naturalmente tutte cose „ (questo legame unico di tutte le cose non è che il legame dialettico, che riconduce ogni moltiplicità all'unità, e per cui tutte le Idee formano un sistema, Cfr Jiep. Nella Repubblica poi non può esservi dubbio che i numeri (oggetto dell'aritmetica) e le grandezze geometriche non siano inclusi nella parte dell'intelligibile che s'investiga per la dialettica. Da una parte in effetto ci si dice che l'oggetto della dialettica è l'es- senza di ciascuna cosa (534 b, ^3 b, ecc.) ; ciascuna cosa stessa (aÙTÒ SxaOTOV; l'essere (ov, oOoia— vedi 532 e. 537 d, e quei luoghi in cui, come a 518 e, 521 e, 525 b, 525 e, alle discipline, la cui destinazione ne[l' educazione platonica è di pre- parare alla dialettica, si dà per iscopo di operare l'evoluzione dello spirito all'essere); il vero. Dall' altra parte si prescrive a quelli che devono occupare le prime cariche dello stato, di studiare il calcolo per contemplare l'essenza dei numeri (v. 523 a-525 e); e le entità a cui si riferiscono l'aritmetica e la geo- metria ricevono anch'else l'attributo stesso (aOxÓ^— a 510 d il quadrato stesso e la diagonale slessM^ a 525 a, d, e 1' uno stesso e i numeri stessijt e sono anch'esse chiamate essere (^v a 521 d, 525 &t 533 b-c, 537 e; OÒoioL a 523 a, 524 e, 5*^5 b, o, 526 e) e verità (525 b, e, zioni necessitate dal loro aggiustamento al sistema pla- tonico; le altre quelle della mat'»ria delle cose e delle entità intermediarle — sono un effetto dell' adesione in- Aggiungiamo che l'ufficio assegnato alla dialettica è la definizione di ciascuna cosa (v. 531 e, 533 b, 534 b), e i numeri e le fìgare non potrebbero non essere compresi tra le cose a definire. Questa inclusione degli oggetti a cui si riferiscono le matematiche tra quelli in cui versa la dialettica, si vede pure chiaramente a 537 e, dove si raccomanda che le discipline l' aritmetica, la geometria, l'astronomia, l'armonia che sono state studiate isolatamente nella faneiullezza, siano più tardi presentate nell' insieme, " per dare una veduta d'insieme (etg ouvo^/iv) dell'affinità e delle discipline fra di loro e della natura dell'essere „. L't^s.s<??Y^ sono i concetti rea- lizzati; e questa O'JVOcJ^tg dell' affinità della natura dell'essere non è che la considerazione dialettica di questi concetti, come lo pro- vano anche le parole che seguono immediatamente Con ciò si sperimenta massimamente l'ingegno dialettico o no; chi è 0*)yOTZ- Tixóg è dialettico, chi non lo è no „. Notiamo che i luoghi citati sono tutti nel libro VII, che è una continuazione della digressione che comincia sulla fine del VI con la bipartizione del visibile e del- l'intelligibil3. Che cosa bisogna dunque intendere per la parte dell'intelligibiie ohe s'investiga per le scienze matematiche ? Non altro che le ve- rità studiate da queste scienze. Quantunque Platone non faccia di queste verità delle entità sussistenti per se stesse come le Idee, pure, siccome le consilera d'una maaiera obbiettiva, «gli può op- porle alle Idee come un'altra specie dell'intelligibile. Dall'altro canto le Idee possono e-jsare opposte alle verità delle matematiche, perchè esse non sono che le verità della dialettica obbiettivamente considerate : la dialettica infatti non è che un seguito di proposi- zioni esistenziali, logicamenta legate tra di loro, di cui ciascuna X)one, cioè aff"erma, un'Idea, e il cui legame logico non è altra cosa che il legame ontologico fra le Idee stesse affermate. Questa distinzione delle verità scientifiche in dialettiche e ma- tematiche si rapporta della maniera più naturale all'oggetto dalla fine dal VI della llòp ubbllca ^ che è di dare una nozione generale del metodo dialettico, indicando le so niglianza e la differenza tra le scienze matematiche e la scienza dialettica— ben inteso, considerato completa che Platone fa alla doitrina pitagorica dei nu- meri. Ci resta a parlare dei motivi di questa evoluzione verso il pitagorismo. nella loro forma, non nella loro maceria-: ohe avrebbe da fare con quest' oggetto la distinzione delle entità, platoniche in Idee ed entità matematiche? Se le dae parti dell' iatellì gii e fossero queste, né si comprenderebbe perchè Platone, parlando dei rapporti tra il metodo dialettico e il metodo matematico, abbia messo innanzi que- sta distinzione; né perchè, avendola messo innanzi, quando poi si tratta di determinare che cosa «ano le due parti distinte dell'in- telligibile, non parli che delle difterenze tra le matematiche e la. dialettica. Le stesse differenze obbiettive assegnate tra le due parti dell'intelligibile non sono ohe quelle fra i due metodi scientifici, considerate obbiettivamente: per conseguenza essa convengono perfettamente come differenze tra le Idee (le verità della dialettica) e le verità delle scienze matematiche, ma niente affatto tra le Idee e le entità matematiche. Quando Platone dica che la parta del- l'intelligibile che s'investiga per la dialettica ha un'evidenza su- periore che quella che s'investiga per la geometria e scienze affini, egli non fa che ripetere, in un'altra forma, che 1' evidenza della dialettica supera quella di queste scienze : ciò è tanto vero che dopo che Socrate ha spiegato le differenze del meto lo dialettico dal metematico, tra cui la pia saliente che quello non ha, come questo, per principii delle ipotesi (e per conseguenza ha un grado superiore di certezza), Glaucone risponde: Comprendo : mi sembri volere stabilire che la parte dell'essere e dell'intelligibile che con- templiamo per la dialettica è più evidente di quella che per le chiamate arti, a cui sono principii le ipotesi, e quelli che contem- plano queste cose (vale adire ciò di cui trattano queste r/rfi), quan- tunque contemplino, con coi sensi, ma col pensiero, pure non ti paiono avere intelligenza intorno ad esse, perchè le loro ricerche partono da ipotesi, non risalendo al principio. Lo stesso si- gnificato al fondo ha l'altra differenza che Platone stabilisce frale due parti dell'intelligibile, cioè che quella che s' investiga per la dialettica partecipa della verità più di quella che s'investiga per le matematiche: ciò vuol dire semplicemente che le verità della dialettica sono più certe ohe le verità delle matematiche. Alle en- tità matematiche Platone non avrebbe assegnato meno verità che alle Idee : ferità in questo caso non avrebbe potuto significare che Noi dobbiamo prima di tutto stabilire un punto di fatto, che può gettare la più gran luce su questi motivi, e senza tener conto del quale non si avrebbe del pita- realtà-^noì sappiamo che Platone ammette, quantunque questo sia per noi un non senso, dei gradi differenti di realtà; ma alle entità matematiche, che esse siano la semplice sostantificazione de- gli attributi matematici, o che rappresentino le leggi dei fenomeni, non potrebbe assegnarsi un grado relativo di realtà, ma solo la realtà assolata come alle Idee, perchè eterne e immutabili (v. Arist. Met, ecc.) come* qneste. E del resto Platone non chiamerebbe, come abbiamo visto ch'egli fa, i concetti realizzati dei numeri e delle grandezze essere e verità, s'egli non assegnasse ad essi che una realtà relativa. Platone stabilisce anche tra le due specie d'intelligibili un'altra relazione : quelli che s'investigano per le matematiche sono da lui riguardati come immagini di quelli che s'investigano per la dialettica. Ciò risulta già dalla divisione del visibile in cose ed im- magini; tanto più se si riflette che tra le due parti del visibile e dell'in- telligibile, considerate luna rispetto all'altra, deve esservi lo stesso rap- porto che vi ha tra il visibile e 1' intelli-ibile, e che il primo è, secondo Platone, un' immagine del secondo. Ma la prova più esplicita se ne ha dove descrive rascensione nella regione superiore, e spiega il significato di questo simbolo, il rapporto tra le scienze matematiche e la dialettica essenio ivi comparato a quello tra Tintuizione delle immagini e l'intuizione delie cose stesse. Questa relazione con le Idee, bisogna confessarlo, converrebbe assai bene alle entità inter- mediarie, specialmente nell'interpretazione trascendentalista, secondo cui esse tramezzano, non tra i soli attributi matematici delle cose e le loro Idee, ma tra tutto il mondo sensibile e tutto il mondo ideale. Ma essa conviene egualmente alle verità matematiche. Ciò è per le stesse ragioni per cui Platone fa delle matematiche la propedeutica della dialettica. I caratteri della scienza per Platone sono : l'astrattezza e universalità del- l'oggetto, e l'incatenamento deduttivo. Tra le scienze finite, egli non trova realizzati questi due caratteri, quantunque duna maniera imperfetta, che nelle matematiche d'una maniera imperfetta, perchè le verità matematiche, benché astratte e universali come le Idee, non sono, come qneste, degli oggetti sussistenti per se stessi; e perchè la catena delle loro dedu- zioni, oltre che non ha un valore ontologico, ma semplicemente logico, non parte dal principio, ma da ipotesi Per conseguenza Platone vede gorisino platonico che ua'idea iacompleta. È che, come abbiamo accennato, il pitagorismo di Platone non con- siste solamente ad appropriarsi 1 concetti dei Pitagorici, ma anche ad attribuire a questi i suoi propri concetti. È ciò che vediamo nel Filebo 16 c-e: ivi attribuisce loro nelle matematiche un tipo, quantunque imperfetto, su cui lo spirito può formarsi 1' ideale della scienza assoluta, cioè della dialettica, e nelle loro verità (considerate tanto ciascuna in se stessa quanto nella loro connessione) un simulacro delie verità di questa scienza, vale a dire del mondo delle Idee. Nell'allegoria della caverna, in cui sono rappresentate le diverse parti del visibile e deirintelligibile e le forme corrispondenti della cono- scenza, il rapporto d'immagine a realtà ha tre si^nifìcati distinti, perchè negli oggetti rappresentati questo rapporto è triplice. Esso esiste: 1. tra le due parti del visibile, 2. tra il visibile e rintelligibile, 3. tra Tintelli- gibile matematico e Tintelligibile dialettico. Le ombre della caverna cor- lispondono alla parte più oscura del visibile, cioè alle immagini propria- mente dette : esse simboleggiano, non le cose stesse che noi chiamiamo reali, ma le loro apparenze sensibili, Flacone non accordan lo cosi alla percezione sensibile che è rappresentata dallo stato di prigionia nella caverna che un valore subbiettivo. Le cose che n«i chiamiamo reali sono simboleggiate dagli oggetti che portano i passanti lungo il muro tra il fuoco e i prigionieri, e di cui le ombre si proiettano nella caverna: cosi (]ues(.i oggetti sono anch'essi delle immagini, perchè le cose reali sono iuimagini delle Idee. V, 532 b-c, in cui essi sono chiamati £t5(i)Xa, eie ombre di questi eI5(i)Xa, percepite dai prigionieri nella caverna, sono contrapposte alle ombre degli esseri, guardate dopo l'uscita dalla caverna, prima di poter guardare gli esseri stessi; e cfr. 5l7d: « le ombre del giu- sto o i simulacri (àYaXjJiaxa) di cui sono le ombre». Uopo la li- berazione, il progresso del prigioniero nella conoscenza delle cose comprendo due stadi: nel primo si volge verso il fuoco, e ^'uarda gli oggetti di cui prima vedeva le ombre (quelli che a 532 b-c sono chia- mati Si^wXa^e il fuoco stesso (simbolo del sole): nel secondo esce dalla caverna, e ascende nella regione superiore, e questo stadio comprende alla sua volta due gradi, perchè prima guarda le ombre e le immagini la dottrina delle Idee e la dialettica. ' Questo metodo (il dialettico) è, dice Socrate, un dono degli dei agli uomini, inviato per mezzo di qualche Prometeo con una sorta di splendidissimo furco. Gli antichi, che erano migliori di noi e più vicini agli dei, ci hanno tramandato come un oracolo che le cose che si dicono essere eternamente, con- stando dell'unità e della pluralità, e avendo in sé per natura il fine e Pinfinito; bisogna perciò, nella ricerca di ciascun oggetto, stabilire sempre un'Idea unica per tutto — e si può ritrovarla perchè vi esiste—; scoverta questa, cercare se dopo Tuna ve ne ha due 0, se non due, qualche altro numero; e ciascun uno di questi e- saminare ancora così, sinché si veda, non solo che l'u- no primitivo è uno e molti ed infiniti, ma anche quanti è; e non applicare alla moltitudine l'Idea dell'infinito, prima di vedere in ossa ogni numero che s'interpone tra l'infinito e l'uno; allora solamente lasciare ciascuno di tutti gli uni andare a disperdersi m H'infinito. Gli dei, come ho detto, ci hanno trasmesso questo metodo di (saminare, d'imparare e di scambievolmente istruirci.. Questi antichi, i quali ci hanno tramandato degli esseri reali, poi questi esseri stessi (v. 5I5 C-5I6 b e 532 a-c). Que- ste ombre ed immagini degli esseri reali simboleggiano gì' intelligibili delle matematiche, e gli esseri reali le Idee, Nella liberazione dello spi- rito e la sua marcia ascendente nella verità, le scienze matematiche hanno due funzioni, coi rispondenti, l'una al primo stadio del pro- gresso del prigioniero dopo la sua liberazione (la conversione dalle om- bre verso il fuoco e ^li et5(oXa), e l'altro al primo grado del secondo stadio (l'intuizione delle ombre ed immagini degli esseri reali nell'ascen- sione nella regione superiore), Platone attribuisce a queste scienze anche la prima funzione, ciot.^ di convertire Io spirito dall'apparenza (le ombre) alla realtA sensibile ({2li £l5(oXa}, perchè esse danno un'idea più giusta del mondo esteriore, rettificando le illusioni «Iella percezione, cotuc i'-x la astronomia, che al cielo apparente sostituisce il cielo reale. Cfr. Supplem. B, n. V, carta che le cose constano dell'unità e della pluralità, ed han- no in sé per natura il fine e Tinfinito, sono evidente- mente i Pitagorici, o piuttosto gli antecessori di questi filosofi —perchè naturalmente Platone non potrebbe at- tribuire le Idee e la dialettica ai Pitagorici contempo- ranei, di cui si leggevanogliscritti—. Altrove nel 2^/Zi6eo steeso. Platone appoggia su questa tradizione di origine divina, di cui ha parlato nel luogo citato, la sua dottrina sul ^lépas e TàTisipov, quale egli l'espone in questo dialogo. Noi siamo dunque fondati ad ammettere che Platone dà la sua propria filosofia, qual essa è di- venuta dopo il sincretismo coi concetti pitagorici, per una restaurazione deirantico pitagorismo, o di una sa- pienza prepitagorica di cui i Pitagorici non conservavano che delle tracce alterate. Attribuendo agli antecessori dei Pitagorici la dottriaa delle Idee, egli attribuisce loro implicitamente quella dei numeri separati (xwptaxoQ. l^i più nel Timeo egli mette in bocca a un pitagorico, ol- tre alla dottrina delle Idee, quella dei due elementi con le modificazioni ch'essa subisce nel suo proprio sistema (nell'epoca in cui il sincretismo coi concetti pitagorici, verso cui nel Filibeo non ha fatto aacora che il primo passo, è già compiuto), e la distinzione di forma (Idea) e maceria con la riduzione di questa allo spazio. In quan- to alle altre modificazioni ch'egli ha apportato alle dot- trine pitagoriche (la formazione progressiva dei numeri, la distinzione del numero che rappresenta le essenze delle cose dal matematico, ecc.), noi non abbiamo in verità la prova specifica che Platone le abbia attribuite al pitagorismo originarlo. Ma sappiamo che un filosofo della sua scuola, Speusippo, intitola « dei numeri pita- gorici » un libro in cui egli espone la sua propria dot- trina sui numeri, dando, per conseguenza, questa per la dottrina pitagorica. La pretesa di Phtone e dèi Platonici che il loro si- stema fosse la riproduzione dell'antico pitagorismo, spie- ga come, nel concetto degli autori posteriori, le due fi- losofie finiscono per confondersi: la più parte di questi in effetto attribuiscono ai Pitagorici le dottrine proprie di Platone e per cui la sua filosofia si distingueva dalla loro, le Idee, i numeri separati (concepiti come dei pa- radigrnì, comform*,ment*^ all'interpretazione trascenien- talista delle Idee platoniche), e Toppo^izione dell'Uno e della Dualità indefinita con la funzione assegnata a quello di principio formale e a questa di materiale (2). È notevole che questa confusione tra le dottrine pla- toniche e pitasroriche comincia ^ià negli stessi discepoli immediati d'Aristotile: cosi l'opposizione dell'Unità e della Dualità indeterminata (con le proprietà più ca- ratteristiche che Platone assegna a quest' ultima) è at- tribuita ai Pitagorici anche da Teofrasto (Mei, 33) Quest'avvicinamento ai Pitagorici non è, nella vita speculativa di Platone, un fatto isolato. Si sa che nei suoi scritti egli non espone mai le sue dottrine nel suo proprio nome: egli le mette in bocca a Socrate (8), a Parmende (4) e alla scuola di VELIA (vedasi), a un pitagorico (6). Non bisogna credere che questa non sia che una finzione poe- tica: senza dubbio, quando gli autori antichi trattano i (1) V. lamblico Theol. arithm. p. 61 ed. Ast. (2) V. Zeller 317-320, 33o-335. Nella più parte dei dialoghi. (4) Nel Parmenide. (5) Nel Sofista e nel Politico, (6) Nel Timeo. --r -1 r.if.i dialoghi di Platoce coire documenti ^toiici, e, fondfiu- dosi sulla sua testimoDianza, attribuiscono il sistema delle Idre a Socrate, a Parmenide, ai Pitagorici, e,s8Ì rivelano il difetto di senso critico proprio della loro epoca; ma non è meno evidente perciò che la maniera naturala di comprendere Platone è quella di questi autori, e che è ersi, vale a dire come un testimonio attendibile sulle opinioni attribuite ai pprsonag^i dei suoi dialoghi, che egli vuole essere compreso. Una prova di ciò è la cura che ha, in parecchi dialoghi, d'indicare le fonti da cui ha attinto. Queste in certi casi sono immaginate con Pintenzìone evidente di spiegare come dei fatti gene- ralmente ignorati siano potuti V(»nire a conoscenza del- Pautore. Cosi nel Parmenide il colloquio tra Socrate e Parmenide (a cui si mette ia bocca, della maniera più esplicita, la dottrina delle Idee), è narrato da un fra- tello uterino di Platone, Antifonte, il quale l'avrebbe ap- preso da un suo amico, testimonio auricolare e amico di Zenone (1). Per questo dialogo — cosi importante per comprendere il rapporto che Platone intenda stabilire tra la propria filosofìa e quella della scuola di VELIA (vedasi) che Pautorrt voglia che si dia ad e.^so un valore storico è anche di- mostrato dalla menzione che fa in altri dialoghi della conversazione di Socrate con i^armenide (2;. L'incom- patibilità tra le opinioni conosciute degli Eleati e il si- stema delle Idee non è per la fantasia di Platone un ostacolo insormontabile: le dottrino esj o^te nei poemi di Senofane e di Parmenide non sono, secondo Platone, che dei miti (3), e per compren-lere il vrro pensiero di qn sii filosofi, non <S alla lettera che dobbiamo fermarci, ma cercare, più oltre, ciò che es^i noa esprimono, ma sottintendono, Da questi fatti emerge con evidenza un fatto gene- rale: ò lo sforzo dì Platone di riattaccare il proprio si- ste:na alle t-adizoni filosofiche del popolo greco, la sui pretesa dì dare la propria filosofia, non come una ri- vo'uzione, ma come una rcstaur.'iziono. È lo stesso pro- ccdìmentn di cui ^gli si s?rvc per accreditare le dottrine politiche e socìhIì insegnate nella Repubblica, Le istitu- zioni inculcate in quc4' opera non sono, pretende Pla- tone, che quelle stesse che all'origine ha a/uto il popolo ateniese: ciò si r 1 *va da una storia (una guerra an- ticamente combattuta tra gli A*e lesi e i popoli della V. il princìpio del Parmniide. Teeleto \^$ e, S sfatta 217 e. V. Sof, 2i2 d. (l) V. Teet. 1S3 C-IS4 a. Su che ha p ituto {andarsi Platone per attribuirò le Idee agli Eleati ? Sovratutto, senza dubbio, sulla loro dottrina che l'essere vero è eterno ed immutabile. Aristotile (/>tJ Coelj 1. IH. I. 2), dopo aver parlato di que- ht*o|ji'iione di Parmenide e di Melisso, osserva che « se anche per il re- st»> dicono bene, si deve croJere però che essi non parlano da fisici. In etlw-tto esservi delle cose non generate e assolutaniante immobili spetta ad una considerazione diversa e anteriore che la fisica: ma c^si, perchè nii'U'.e altro credevano esservi che la sostanzi de'.le cose sensibili, avendo comjircsa per i primi che esistono certe nature ta'i (cioè non generato e assolutamtjnte immobili), se vi ha qualche scienza o intelligenza, le prò )Osizioui a lattate a queste nature tras-)Drt:uo.io alle cose di qui». V«ii;imilmeute noi abbiamo in ques'io luogo un pensiero di Platone ri- vediito e corretto da Aristotile (sì notino le parole «se vi ha qualche s lenza 0 intelligenza», che ricordano le prove per dimostrare l'esistenza ilelle Idee). Platone non avrebbe detto della filosofia degli Eleati di non ammettere che la realtà sensibile, e trasportare a questa ciò che non ó vero che di una realtà so vrascn cibile, ma solamente dei loro fn'Ui, Per il rap- porco che Platone ha po.uto stabilire tra ie proposizioni degli Eleati e il siste- ma delle Idee, è anche notevole l'argomentazione di Parmenide per provare; l'unità dell'essere, che Teafrasto (ap. Simp. i/i Ph>/s, 25 a) riassume cosi: oltre all'essere non vi sarebbe che il non essere; mail non essere è niente favolosa Atlantide) scritta nei libri sacri degli Egi- ziani e che quei preti raccontarono a Solone (l). Platone ci presenta dappertutto, in filosofìa come in politica e in religione, la strana alleanza di un ge- nio eminentemente innovatore con delle tendenze che noi non siamo abituati a trovare che a<;sociate ad uno stretto conservatorismo. Rispattoso delle antiche tradizioni (2); convinto che ogn' innovazione nelle idee e nei costumi è il pericolo p ù grive da cui la società deve guardarsi; non conoscendo il dogma moderno del progresso, e vedendo nella libertà e neiroriginalità dell'individuo piuttosto un agente di corruzione che di miglioramento sociale (4); e sotto Timpero dciriliusiono del mondo antico che il bene ò, no a nelTavvenire, ma nel passato (5); non e sorprendente ch'egli abbia fatto dunque l'essere i" uno. Su quest'argomentazione Aristotile nota (in Phys, 1. I. Ul. 4-5) clie,per f)Oter concludere, si dovrebbe intendere in essa per essere V essere separabiUf ciò che corrisponde al concetto astratto diesssre considerato in se stesso (in altri termini l'Idea platonica dell'essere). (1) V. Timeo 17 c-27 b e Crizia loS d- II3 b. Gran tore, discepolo di Platone, afferma che il racconto sugli Atlantini e sulla identità della isti- tuzioni della Repubblica con le istituzioni antiche di Atene ò una pura storia; e racconta che, per vincere Tincredulità dei contemporanei, Pla- tone mandò la sua narrazione agli Egiziani, i ({uali attestavano la verità dei fatti, atfermando che essi si trovavano inscritti in colonne tuttora esistenti (V. Proclo (fomm. in Plotoni^ Timaeum pag. 24 ed. Basii, in Mullach Crantoris Fragmenta Fragm. 1—). (2) V. FU. 16 e, Fedro 274 e, 7im, 40 d-41 a, Leg^i 853 e, 872 e- 87 3 a, 881 a, 887 d, 93I b, 948 b, ecc. V. Rep, 424, Leg0 653-65;, 659-6(>0, 738 b-d, 741 a-b, 772 c-d, 797-799 b, 816 e, 8i3 e, 949 c-95o a, 95o d, 952 e, 9">7 b, ecc. (4) V. Rep. 397 d-398 b, 401 b, 424, 547 a, 562 c-553 d, Lc/r^i G56- 657, 659-660, 700-70I, 739 b-d, 7.SO a, 78o d, 788 b, 797-799 b, 801 c-d* S02 a-c, 8I7 b-d, 942 a-d, 952 c-d, ecc. Le altre forme dello stato sono, secondo Platone, una degenera- zione progressiva della forma perfetta (cioè quella di cui traccia il dise- gno nella Repubblica). V. Rep. 1. Vili, e cfr. Arist. Politica 1. V e. XII. i' ì r ^ 1^ ? 1^ o;;ni sforzo per conciliare con la tradizione le sue idee audacemente rivoluz'onarie. Questo sforzo di Platone di riattaccarsi b1 passato non è per altro un fatto un'co nella storia della metafisica. E in questo senso che spinge naturalmente il metafisico la solitudine intellettuale in cui lo lascia il carattere pnrado sastìco delle sue dottrine. Nelle scienze speciali, il pensatore più originale non può aspirare che ad ac- crescere, più o meno, il patrimonio comune delle cono- scenze: di più, per quanto egli voglia rinnovare radical- mente le nostre nozioni sulle cose, egli divide con gli nitri uomini cert^ nozioni fondamentali ch'i costituiscono ciò che si chiama il senso comune. Ma il metafisico pre- tende di rifare di fondo in colmo, con un piano intera- mente nuovo, tutto il sistema delle conoscenze umane; lo sue dottrin » s'alio, in un punto o in un altro, in aperta contraddi/ione con le credenze naturali: il suo mondo r»*alp non é il mondo reale degli altri uomini; ciò che questi chiamano realtà, per lui è un'apparenza, un /e- 7ìome?ìo; la vera realtà non e conosciuta che da lui solo. A lui (supposto che il suo sistema fosse vero) potrebbe applicare con più ragione ciò che Omero dice di Tir si i agrinterni, e che Platone (2) applica al vero unmo di stato: « egli solo pensa, gli altri non sono che d< Ile ombre erranti. Non è naturale ch'egli cerchi Odiss. X v. 495. Menane loo a. Una condizione della possessione della conoscenza filosofica è, dic-3 Schelling {Lezioni sul melodj degli òludi accademici Lez. 4), una chiara e viva concezione della nullità di ogni conoscenza semplicemente finita (la conoscenza finita è la conoscenza non filosofica, e la filosofia è, s'intende, quella di Schelling). E Sihrove (D^i modo assol'trto di conoscere negli Scritti /lloso/lci tradotti da Henard pag. 3IS): Bisogna aprirsi vi- gorosamente un accesso sino ad essa (alla iniuizione intelleituale o co- ! dei compagni e degli antecessori negli altri filosofi, sfor- zandosi di diminuire il suo isolamento e di accorciare in qualche modo la distanza che lo separa dagli altri uomini ? Ed è notevole che è nei metafisici che si al- lontanano il più dal punto di vista comune che questo sforzo di riattaccare il proprio sistema alle tradizioni filo- sofiche apparisce più ener;;ico; p. o., tra i moderni, in Leibnitz e in Hegel. Si sa che l'autore delle monadi e dell' armonia prestabilita si dava per un eclettico. 4f Io ho lungamente riflettuto, egli dice, sugli antichi « sui moderni, e ho trovato che pressoché tutte le opinioni adottate sono suscettibili di un buon senso. Nel suo sistema si trovano i iunit-^ « la poca realtà sostanziale delle cose sensibili degli scettici; la riduzione di tutto alle armonio o numeri, idee e | ercezioni dei Pitagorici e di Platone; 1' uno e anche uno tutto di Parmenide e di Plotino, senza spinozismo; la connessione stoica, com- patibile con la sponuaieità degli altri; la filosofia vitsle dei Cabalisti ed Ermeti 1 che mettono del sentimento da per tutto; le ì\ rnie ed entelechie d'Aristotile e degli Scolastici; e con tutto ciò la .«spiegazione meccanica di tutti i fenomeni particolari j-econdo Democratico e i noscenza lìioso/ica), ed isolarsi da tutti i lati dal sapere co mine, a tal punto che alcuna va, alcun sentiero, non possa conihin\ì di questo ad essa. Qui comincia la filosofia VERA (vedasi) (Seconda introduzÌLne alla /-t/os. dello spirito, pag. CU), rispondendo alle obbiezioni contro il sistema di IIckcI, assimila (fuesto obbiezioni tessendo latte da un punto di vista che non è l'hegeliano) a quelle che sarebbero ratte da un essere che non pen>;a. per- chè, egli dice, il pensiero non tìlosotico («ioc non hegeliano) non ò un pensiero, Citato da Schelling ììcHa success, dei sUt, fìfos. e della ma^ niera di traUare la storia dt-lfo fllus. (negli Ucrilti flosoflci tradotti da Benard). ir ì ^ moderni; ecc.: si è mancato odagli altri filosofi) per uno spìrito di Fetta, limitandosi per la reiezione degli rtltri. Si sanno egualmente le idee di Hegel sulla storia della filosofìa: « La ston'a della filosofia mostra nei diversi sistemi che sono apparsi una sola e stessa filosofia che ha percorso differenti gradi, ed essa prova che i principii particolari di ciascun sistema non sono che dell'* parti d'un solo e stesso tutto iche è il sistema di Hegel). L'ultima filosofia n<irord'ne del tempo è il risultato di tutte lo filosofie precedenti, e deve per con- seguenza contenerne i principii Senza dubbio il tradlzionaliumo di Hegel con cui, tra i filosofi moderni, la compara7!Ìono ò la più ovvia— resta ben al di sotto di quello di Platone. Hrgel si limita ad int-rpretare arbitrariamente le filosofie del passato e a falsarne il carattere, per mostrare che cia^^cuna di esse è un mo- mento della propria filosofìa (e che è perciò al tempo 8tt»sso vera, perchè ò una parte della vera, e falsa, per- chè, essendo una parto, pretende di e-s?re il tatto); ma non va sino ad attribuire ag!i «intichi filosofi il suo proprio sistema, e, quel che è nin, non adotta le loro dottrine. Ma V isolament'^ di Hegel non è cosi com- pleto come quello di Platone: i suoi contemporanei era- no già abituati a una fìlo-iofia che aspirava e a ripro- durre nelle sue concezioni Tordine stesso delle cose; egli aveva avuto prima di sé Schelling e Fichte (per non parlare di aUri minori, come Novali?, Bardili, ecc.), e, prima di questi, Sp'noza, Cartesio con la più parte Op, omn. Dutens hitrod. aWKncicL Cfr. oap. VI, paragr. 12. degli altri filosofi che gli sono succeduti (coi quali aveva comune T apr'orismo, lo stesso Piatone, i neoplatonici (i quali avevano proclamato il principio dell' identità dell'essere e del pensiero), i reali «iti del medioevo, ecc.; nei limiti stessi della verità storica, Hegel poteva tro- vare molti precursori. Invece, se vi ha un filosofo di cui possa dirsi ciò che Gioberti (I) dice in generslc del genio speculativo, di ess u'e quasi proles sin", maire creata^ questo è prima d'ogni altro Platone. Ln sua filosofia è nel contrasto più spiccato con quella dì tutti i suoi pre- decessori: egli ha abordato il problema delle cause ef- ficienti da un lato interamente nuov«">, che nessuno pri- ma di lui aveva mai intravisto; e se anch'agli ha cer- cato, come i suoi predecessori, l'elemento permanente delle cose, non è come cfsì nella materia che lo ha tro- vato, ma nella forma. Certo anche Platone è figlio del passato, e ne riceve l'eredità: da Eraclito prende il prin- cipio del divenire ; da Socrate la definizione ; ai mate- matici deve r idea del metodo dimostrativo; prima di lui gli Eleati aveano visto nel mondo dei sensi l'ap- parenza cangiante di una realtà immutabile; il concetto teleologico era stato adombrato da Socrate e da Ippncrate, ed era contenuto virtualmente nelle dottrine di Anas- sagora, di Eraclito e di altri fisici; la sua dottrina sul- l'anima è una sistematizzazione dell'antico animii-mr»; la sua etica uno sviluppo dell'etica di Socrate; la sua fisi- ca una continuazione della fisica anteriore. Ma nessuno degli elementi del sistema delle Idee, nò la real'zzaziono degli unirversali, né il metodo a priori, come metodo scientifico universale e tanto meno perciò la diaKttica, Introd, allo stud. dtUa filoi, Milano] quale metodo di dedurre i concetti— non trova alcun ri- scontro nelle filosofie del passat). Bisogna pure tener conto, se si vuol paragonare Platone con Hegel, della diffvirenza tra 1’epoca del secondo e quella del primo, scar^a necessariamente di senso storico, e in cui i docu- menti sul pensiero dei filosofi che si trattava d'interpre- tare, o mancavano affato (come pei primi pitagorici), o non potevano avere quella precisione di linguaggio e quell'abbondanza di sviluppi, che sono il prodotto della maturità della coltura. Ciò che dobbiamo infin»», notare è che questo bisogno dì ritrovare nelle filosofie precedenti i principii della pro- pria filosofia e in questa quelli delle filosofie precedenti è, in Platone come in He;^el e negli altri filosofi che hanno seguito la stessa forma di metafisica, una conseguenza logica delle loro teorie sulla conoscenza. La forma di metafisica di cui parliamo consiste nella ob- biettivazionc df i concetti, e nella ricostruzione a priori del n ale, deduce ndo progressivamente questi concetti obbiettivati gli uni dagli altri con un metodo regolare de- terminato, che non è ch«, la legge stessa secondo cui le cose si sviluppano. E^sa ammette cosi tra il pensiero cono- scente e l'oggetto conosciuto una corrispondenza tale, che, oltrepassando di gran lunga quella che noi siamo abi- tuati a vedere tra il pensiero e le cose, esige, come tutti i fatti con cui non siamo familiari, una spiegazione; e le ipotesi a cui si ricorre per dare questa spiegazione, sono tali generalmente che c-\se rendono più completo an- cora, dopo la loro adozione, in questa metafisica, questo parallelismo primitivo fra il pensiero e le cose, che si trattava di spiegare. Queste ipotesi, limitandoci a par- lare di Platone e di Hegel, sono, come si sa, pel secondo l'identità deiressere e del pensiero (cioè del pensiero generale e dell' essere genoraltO» ^' P^' primo, rintui- zione delle Idee in una vita anteriori^ e la con-seoMiPn^e reminiscenza. Conoscere, yier Pl?ìtone, ò ricordarsi; p r Hegel, e Tevoluzioue dfìl pensiero per una forza iiiierna e secondo una legge di sviluppo che gli è propria. Nel- l'una e nell'altra ipotesi, la seienya ci ò in qua'clie modo innata; eFsa prfes'ste nell'anima, per dir cosi, allo stato latente, e non ha ch«> td estrirsecars*. Con queste premesse, come Platone o Hegel potrebbero ammettere che il proprio sistema, cioè la scienza stessa— poche tutta la scienza, la vera scienza, per e^sì, è il si-tenua delle Idee- sia esclusivamente la loro t-nazione indivi- duah'V che gli altri uomini non l'hanno mai connsciuto, . ne in tutto ne in parte ? ch'i tutta la filosofia anterio* e non è che una continua a» errazioi e? che la vrritA è n i privilegio proprio, e che al di fuori d- Ila loro filosofi i personale non vi ha che l'errore? Cnn questa premesso anzi re.-irftf*nza dell'errore e dell' ignoranva divi^^re in- comprensibile; la verità dovrebbe Chsere il jatrimonio comune di tutti gli uomini. E qui pOvSMamo osservare, per incidente, come le ipotesi metafisich«^ vallano stn- namente al di là del loro scopo. Un'ipotesi <he vuole spiegare perchè esiste il brne (la concezione teh elogila del mondo) dà luogo alla ins^lub=le difficoltà: qn>«l M'o- rigine del male V Un'ipotesi che vuole spiegare e »ni.'. possa esistere la verità e la scienza, mette i suoi autori in faccia a un'altra quistione più imbaraz/ant* : come può esistere l'errore e 1' ignoranza? La nuova (luistione in cui s'imbatte il realista dialettico (nella sua sp'cga- zione della coincidenza tra il pensiero e la realià) èiosl poco suscettibile di una soluzione radicalo (he quella in cui s' imbatte il teleologista : ma come questi cerca almeno di attenuare la sua difficoltà, falsando il bilan- cio dei beni e dei mali nel moa lo, cosi quegli cerca di « ttenuare la sua, falsan^^o q")ello d<l|a verirà e dell'er- rore, della scienza e dell'^gnor-nza. Di là lo sforzo d ir uu'^ di gi'issificare il passato dei suoi errori e delle sue ignoranze, corrispondente a quello dell'altro di giu- stificane, la natura dei suoi mali e d-lle sue imperfezioni; e per consegu'^nza, l'accosta'nento alle filosofie del pas- sato, attribuendo ad e^se i corcelti drlla propria filosofia o anche accoglieirdo in questa i concetti di esse. Gl'impulsi che spingevano Platone a riattaccarsi alle tradizioni filosofiche era naturale che si dirio^ssero di CD preferenza verso il pitagorismo. Vi erano vari m'itivi che agivano in questo senso. Primo, Talta riputazione di sapienza, di eui g.idr^va necessariamente U'ia vasta associazione dedita ai lavori scientitici, co ne quella a cui appirtcinevaru» i filos fi pìi adorici; poi, l'analogia dr Ile idee ni punto di vista politico, s^cah», morale, H'I'gioso, a cui porsi^mo ;inche agg ungere la comunità degli studi »i»atematiei e, l'.m portanza pres-^ochè eguale che entrambe le filosofie attribuivnno a questa scieiizn. Ma il motivo preponderante, s^n/.a dubbio, deve cer- carsi nell'affinità de!le due filosofie, maggiore di quella che la r»latoiiica ha e ìu qualsiasi altra delle ant che. Que-t'^ffiniià, come abbiamo notato, consiste special- mente in qu\sti due punti: 1^ I piincipii di Pitagorici (i numeii, gli elementi e, sino ad un c<Tto punto, le due ouoTG'./Ja'. di crntrari) sono delle astrazioni realizzarle, come quelli di Platone. 2" Essi rappresentano sovratutto, no?i la causa materiale o motrice, come quelli degli altri filosofi anteriori a Platone, ma la specie o il concetto, comi» le entità platoniche. Aggiungiamo infine la man- canza, s'no ad un'epoca recente, di documenti scritti sulla filosofia dei Pitagorici; la loro predilezione per il -A ^'J •1 V linguaggio simbolico; il secreto che mantenevano su certe proposizioni qu^st'^ simbolismo o questo secreto concernevano altri punti che le loro dottrine filosofiche (1); ma ciò bastava per dare qualche credito all' opinione che tutta la filosofia dei Pitagorici non stava in ciò che essi ne pubblicavano, e che questo stesso non doveva essere prc^o alla lettera Era quanto occorreva perdio Piatone potesse applicare a tutto suo ngio il suo metodo fantastico d'interpretazione. Il pitagorismo nel Timeo, Nel Timeo, alcune delle dottrine del periodo pitagoreggiante sono esposte aper- tamente, altre involte in una forma simbolica. Delle prime (la separazione della materia daUe Idee e la sua riduj zione allo spazio, e la composizione dei corpuscoli elemen- tari) ci siamo occupati nel numero precedente: qui parlere- mo delle seconde. L' argomento del Timeo è la narrazione dell' origine del mondo, e il supposto narratore è un filosofo pita- gorico, da cui il dialogo prende il nome. Il mondo ha avuto un'origine nel tempo: esso è stato formato da un artefice (demiurgo) che contemplava le Idee come modelli e si serviva di una materia preesistente. Al prin- cipio la materia era agitata da un movimento confuso e disordinato; non vi erano in alcuna parte delie forme regolari e costanti; Dio (il demiurgo) fece passare le cose dal disordine airordine, effettuando da p^r tutto ciò che era il migliore. Egli stesso formò Tanirna, gli elementi, il cielo, il tempo, gli astri e la terra; poi co- Zeller] mandò agli altri dei, ch'egli aveva prodotti, di produrre alla loro volta gli animali mortali, Qu sti, ricevuta da lui la parte immortale dell'anima, che egli compose a somiglianza dell'anima del mondo, ne eseguirono il co- mando, imitando l'azione creatrice del loro demiurgo e padre, e formarono i corpi degli animali propriamente detti e delle piante che sono anch'esse una soita di ani- mali, e la parte mortale dell'anima. Timeo mostra, in ogni opera particolare degli autori del mondo, le ragioni provvidenziali che vi hanno presieduto, e l'aggiustamento dei mezzi ad uno scopo determinato: gli dei, in effetto, sono stati obbligati di servirsi delle cause materiali, fa- tali nella loro azione e ribelli, sino ad un certo punto, all'azione ordinatrice, ma hanno realizzato, per quanto è stato pos-iibile, il bene in tutto ciò che hanno prodotto. Se si ammette limmanenza delle Idee, è evidente che il racconto di Timeo non può essere prrso alla lettera. Dio non avrebbe potuto creare il mondo senza creare allo stesso tempo le Idre, perchè queste non <^ono altrove che nej monio stesso, di cui costituiscono rclcracnto formale: se il mondo attuale ordinato è stato preceduto da un inondo disordinato, il Demiurgo ha annientato le Idee a cui prima la materia partecipava, e ne ha prodotto, al loro posto, delle altre. Perchè la cosmogonia del Timeo potes^^e essere presa alla lettera, bisognerebbe ammetta* re dunque che le Idee, che Piatone dà costantemcnte come eterne e se si comprendono bene i priiicipii della sua dialettica come necessarie, possano c-JHfre prodotte ed annientate. Ma indipendentemente da quest'ordine di considerazioni, che il racconto cositogo- nico del Timeo non sia che un semplice mito e che esso non debba essere inteso letteralmente, noi ne abbiamo delle prove abbondanti, sia nel Timeo stesso, sia pel A" \ ì, t ' I : ? comples-0 doìropera di Platone e nelle testimonianze dei suoi diseeprli. Ecco le più importantf: P L*antropomorfismo grossolano' che rejrna in tutto il racconto. Le operazioni del Deniiurg^o e delle jiltre divin'tà che hanno concorso con lui alla pvoiuzion^' d»*l mondo, sono rappresentate come perfettamente simili a quelle di un fabbro. P. e. ecco come Dio ha prodotto le ossa: « Dopo aver vagliato della terra pura e molle, e^li )a impastò, inz'ippandola di midolla; in seguito mise questa mescolanza nel fuoco, poi la immersa nell'acqua; poi nuovamente nel fuoco e nuovamente nell'acq'ia; e facmdola passare più volte dall'uno all'altro di questi due elementi, fece si che es*<a non potesse es jore di^ciol'a nò dall'uno nò dall'altro. L'impessib lità di pren- dere sul serio simili rappresentazioni ò de l'ultima evi- denza, quando questo processo tutto meccanico attri- buito al creatore si applica ad oggetti assoliit unente insurcettibili come sono le entità astratte della metafi- sica platonica. E ciò che avviene nella composizione del- Tanima, che il Demiiirgo formò, mese -lamio dt»ntr.ì un vaso l'essenza indivisibile (riiea) con la divisibile (la materia) e con lo Stesso e il Diverso, 2^ L'intervc'ito miracoloso del D 'iniurg.i, che é un vero DcH'< ex machina. Egli non spiega la sua azione nel mondo t.-he all'origine; in seguito questo b?sta a se stesso, e nrn hi l.is-ìgno d H'iiitervento di alcun agente straniero (33 d, 34 b, 68 e). Il carattere dei princip'i filolofici è la generalità e la costanza della loro azione: al racconto mosaico della crraz-one in sei giorni i filo- sofi creazionsti sostituirono la dottrina della creazione continua. Il mito concentra tutto in un punto del tempo: una legge generale diviene, in essr>, un fatto particolife. Bisogna anche notare ciò che si dice del Demiurgo, qifando questi ha già rappresentata la parte che g^li é sp'^t^ata nella creazione: « E quello che aveva ordinate tutto, queste cose restava nel suo stato, secondo la sua abitndioe » (42 e ciò vuol dire che il Demiurgo aveva cessato di operare, rientrando nella sua quiete abituale). L'azione del Demiurgo apparisce dunque come un fatto isolato ed eccezionale, non solo rapporto al mondo in cui si è esercitata, ma rapporto al soggetto stesso che Tha esercitata. 30 L'i incoerenze evidenti nelle circostanze principali del racconto. La più sal'ente ò il movimento della ma- teria, prima della nascita del tempo. Per risolvere questa contraddizione si è preteso che il Demiurgo ha creato, non il trmpo, ma il tfmpo ordinato: ma Platone dice chiaramente che il presente, il passato e il futuro sono forme del tempo creato dal Demiurgo (1). Il n»ovimeLto disordinato anteriore alla formazione del toFmos, p, per conseguenza, dell'anima, è anche in con- traddizione col principio platonico, ammesso nel Timeo stesso (2j, che l'anima ò il principio del movimento. Inoltre, so come si stabil'sce a 50 e52 d, e come ri- sulta necessariamente dai principii del sistema delle Idee, il divenire (Ysvsatc) n«sce dal concorso delle Idee e della materia, come sar^ esso possibile prima delTazione del Demurgo, che ha fatto partecipare la materia aUe Idee?— Da questa contraddiz one ne viene un' altra p'ù espli- cita ancora. Gii elementi ora si fanno creati (o3 l»-c, r^} bc, 57 C-I, ora increati. Da una parte :iì fatti ersi devono esseie creati, primo perchè racdiiudcno il principio ideale, e, come 0) Cfr. Proclo in Tim. p. 250 B. (2) V. 37 b e 46 d-e. abbiamo detto, la partecipazione alle Idee è, secondo il Timeo^ Topcra del croatoro; o poi pr^rchè la spiegazione teleologica si estende anche ad essi, e anch'essi devono per conseguenza cs^^ere il prodotto dcirintelligenza (1). Ma da un'altra [arte devono e«jistere g à nella Y^veot^ anteriore alla creazione, poiché 1 movimento disordinato prima della formazione del csmos non può avere per sastrato la materia indet'^rminata— questa per Platone non è che il semplice spazio— mi la materia divenuta dei corpi particolari per la sua circoscrizione — cioè per la circoscrizione dello spazio — dentro superfìcie deter- minate. Aggiunsiamo infine, per limitarci alle incoerenze più notevoli, che U r^upposizione di un essere intelligente» distinto dairanima (il Demiurgo) è in contradd zione col principio, ammesso nel Timeo (30 b, 46 d) e ripetuta nel Sofista (249 a) e nel Filebo (30 e), che non può esservi intelligenza senz'anima. 4P I punti capitali delli co^m^gonia del Timeo sono questi duo: T origine del mondo nel tempo, e un prìn cipi*^ iotdiigerite, separato da esso e distinto dalPanima (il Demiurgo), che Tha prodotto: ora nell'uno e nell'al- tro punto il Timeo h in contraddi /Jone col complesso del- l'opera platonica. In quanto al Dem urgo, esso non si trova che nel solo II Cosi nel Sofiiita (265 e, 266 b) e neUe Laggi gli elementi sono prodotti duU'anima. (2) Quando verremo alla spiegazione del significato del mito, si vedrà perchè è al fioggetto dagli elamenti che si manic'esta so- vratatto la contraddizione inerente al concetto i una yévsat^ an- teriore alla formazione del mondo e, per conseguenza, aUa parte- cipazione della materia alle Idee. Timeo : di più le dottrine esposte negli altri scritti di Pistone non lisciano alcua posto per un Dio tsascen- d*^nte come il Demiurgo del Timeo, Certamente la dot- trina costante di Platone è che la divinità è la causa prima di tutto— ben inteso, considerando il tutto come un complesso di fenomeni, e la causazione come un rap- porto tra questi fenomeni;— ma la divinità none, per lui, che l'anima cosmica. Secondo il X delle Lzggi (888-899) ciò che prova l' esistenza della divinità è che il movi- mento di ciò che muove se stesso —cioè dell'anima — è il principio di tutti i movimenti; e che, per conseguenza, le cose che appartengono airanima, come l'intelligenza, la preveggenza, l'art**, ecc., sono anteriori a quelle che appartengono ai corpi (892 a-b, 896 c-d), e l'anima è la causa primi dei beni e dei mali, delle cose bello e brutte, giuste ed ingiuste, e, in una parola, di tutt^ le cosn (891 e, 896 a, 896 d, 897 a, 899 b.). Nel Filebo (26 e-3l a), l'intelligenza è l'uno dei quattro generi in cui gli esseri sono stati divisi (30), quello che è la causa di tutti gli altri (26 c-27 b, 30 b, 30 e, 31 a): ma o-'sa non è che una facoltà dell' anima cosmica, perchè la mente e la sapienza non possono esistere al- trove che nell'anima (30 e, I. e.). Nel Fedro ^\ àxmo^tvn, che l'anima non può avere un'origine perchè essa è il principio di tutte le cose : infatti se il principio veiiis-e da qualche cosi, non verrebbe dal principio, e allo a non sarebbe vero che tutte le cose vengono dal princi- pio. Nel Sofista Dio è detto Pan- t'^re degli animili, le piante, Tacqua, il fuoci, in una parola, di tutt:5 le cos». che si dicono prodotte dalla natu- ra; ma per qu*»sto Dio si deve intendere l' anima del mondo, con torni e mente p1 principio precedentemenie stabiliio, che rintelligenza non può trovarsi che in Un'anima. Nel mito del Politico (269-274) si parla pure di un demiurgo del mondo; ma quosto demiurgo i»ppartieue al genere ciò che muove se sfesso (1), va'e a dire al genere iìuìmfi. ìicW Epino mide^ infine, il mondo è prodotto come u^^l Timeo; ma quello che l'ha prodotti non è un do trascendente, ma l'anima, quella stessa che anima il cielo e gli astri e li muove (97(i e-l)78 d, 1)83 b, 984 b-c) : l'anima è la causa di tutte lo cose, la buona delle buone, la cattiva dell*^ cattive (9 <6 e-977 a, 981 b, 983 d, 988 d-e). L'ancore ùtW Epinomide (è per noi, siad un certo punto, indifferente che esso sia Platone o uno dei suoi discepoli) afferma espressamente che non vi ha alcun altro essere incorporeo che l'anima, e non riconosce altre divinità a part^ le siipersizioui relative ai demoni aerei, acquei ed eterei che il rie lo e ffli astri, cioè le loro anime — in effetto, dopo aver detti che andrà ad esporre le sue dot"rine s'igli dei, egli non parla che di questi -; il Dio supremo, il Dio por O'- cellenzf», è il ci^ lo o il mondo, che noi dobbiamo specialmente onoraiv e adorare, eom»». fanno fitti gì; altri d'-i e demoni. Ma vi ha di più: il Demiurgo del Timeo non è sola- mente in contr.\dlizione con le «lottriue sulla m Mite e la divinità, ma con la stessi dottrina fondamentale dì Pla- tone, vale a dire il si tema delle Idee. Questo esige che tutto ciò che esiste sia ricondotto alle Idee; ma non può esservi Idea del Demiurgo. Inf'attì, ammetteremo che eaii, creando il mondo, ha creato anche IMeinento ideal»* del mondo? "!a allora è un principio sup^n-cn-e alle Idee. Ammetteremo solamente ch'egli è stato la causa della individuazione delle Idee? Ma so, perchè le Idee s'indi- viduassero, è stata necessaria 1' azione del Demiurgo, come avrebbe potuto l'Idea del Demiurgo individuarsi? Quest’osservazione, sia detto di passaggio, può servire a mostrare la poca consistenza delTopinione di quei cri- tici, i quali ammettono che il mito del Tm^oha per oggetto di supplire all'insufficienza del sistema, rappresen- tando d'una maniera fantastica il passaggio dall' ideale al fenomenico, che Platone non poteva, per i presupposti stessi della sua metafisica, spiegare scientificamente. P]ssi obbliano che quando si è introdotto un creatore perso- nale del mondo e una materia in movimento preesistente che non sono certamente delle entità generali si ò già fatto questo difficile passaggio dall'Idea al fenomeno — cioè all'individuale che si sarebbe trattato di spiegare. Aggiungiamo che, se il Deminurgo del Timeo fosse un convincimento reale di Platone, esso occuperebbe evi- dentemente nel sistema, essendo irriduttibile alle Idee, il posto di un primo principio: intanto Platone non am- mette altri primi principii, prima del sincretismo con le dottrine pitagoriche, che l' Idea del Bene, e dopo, che quest'Idea stessa, cioè l'Uno, e la materia o Dualità indefinita. In quanto alP origine del mondo nel tempo, la con- traddÌ7.ione del Timeo con gli altri scritti di Platone è Bovratutto manifesta al soggetto dell'anima. La dottrina costante di Platone è che l'anima è, non solo immortale, ma eterna, ch'essa non avrà mai fine e non ha avuto mai cominciamento - P<^i" il mondo stesso, cioè per il V. Fedro 245 c-246 a, Ucp. 611 a-b, Meno, 86 a-b, Fèdo, eoo. corpo, la contraddizione non è cosi aperta, perchè in al- tri scritti del periodo pitagoreggiante, come nel IHmeo e per motivi analoghi, la relazione tra T universo visibile e i principii da cui esso deriva è, come vedremo in se- guito, rappresentata simbolicamente come un'efficienza nel tempo. Cosi il motivo principale, se non Tunico, per attribuire a Platone la dottrina dell'eternità del mondo è che essa è una conseguenza necessaria dell' eternità delle Idee. Tuttavia questa dottrina si trova d'una ma- niera abbastanza espilata in più luoghi dei dialoghi, come nel Filebo 16 c-e , nel Convito e, nelle i.f'^^i 721 e , ed è presupposta nella definizione dell'Idea conserva- taci da Proclo {in Parmen. VELIA (vedasi), ): la causa esemplare di ciò che vi ha di perpetuo nella natura. 5^ I discepoli immediati di Platone intendono la co smogonia del Timeo in un senso allegorico. Platone, essi dicono, non ignorava che il mondo è eterno e non ha avuto cominciamento; la genesi descritta nel Timeo non è che un artifizio di metodo a cui egli ha ricorso per far comprendere più chiaramente i suoi concetti; la pro- duzione nel tempo simboleggia 1' ordine logico tra ciò che vi ha nell'essere di primitivo e ciò che di derivato. Que- st'interpretazione è attribuita a Crantore, a Senocrate, a Le cose che si dicono («ssere eternamente constano di uno e di molti e hanno in sé per natura la finità e l' infinità „ (l. e. a carte). Queste cose a cui si attribuisce l'eternità non sono le Idee pure, ma le Idee già individuale, perchè qui 1'" infinità „ desi- gna la moltitudine infinita degl'individui. La generazione è un ohe di sempiterno e d'immortale nel genere mortale Il genere umano è esistito ed esisterà in ogni tempo. Speusippo, e ai discepoli dì Platone in generale (1). Ari- stotile la rigetta, e vuole che Torigine nel tempo sia in- tera letteralmente : ma è evidente che, in questo caso, r opinione dei discepoli fedeli d' Platone, rimasti sino all'ultimo in intimità intellettuale col maestro, e che ne dividono il punto di vista, deve avere per noi* più peso che quella di un discepolo che ha abbandonato la scuola (circostanza importante, perchè Platone ha certamente scritto il Timeo negli ultimi anni della sua vita) ed è divenuto un acre avversario, e che del resto mostra abbastanza, per le sue esitazioui e i suoi equìvoci nell'in- terpretazione dA sistema delle Idee, di non essersi mai posto sufficientemente al punto di vista del maestro. An- che Teofrasto, discepolo d'Aristotile, pensa che forse la cosmogonia del Timeo deve intendersi nel senso allego- rico voluto dai discepoli di Platone. Una circo- stanza che dà più autorità alla loro interpretazione è che anch'essi facevano uso del metodo simbolico del maestro, rappresentando la dipendenza logica del derivato dal primitivo come un' origine del mondo nel tempo. Questo per 1' origine nel tempo. In quanto al- l' altro punto fondamentale della cosmogonia del Timeo, cioè il creatore personale, noi non abbiamo con- ci) V. Arist. Da Conio 1. I. X. 4-6; Simpl. ad ArisU De Coolo comm. a questo luogo; SchoL cod. Reg. 1853 pag. 489 ed. Brandis; Schol. cod, Coisl.ed. Brandis; Proclo in Tim. pag. 85 A. ed. Basii.; Plutarco Psicogoti ia. Teofrasto Fr, 28 e 29 (ed. Didot). (3) Il luogo indicato d'Aristotile relativo a quest'interpretazione (De Coelo) comincia con queste parole: Il sussidio che cercano di darsi alcuni di quelli che fanno il mondo incorruttibile ma generato, non è vero. Essi dicono di aver i)arlato della gene- razione del mondo come i geom.etri che descrivono le figure » eco. tro di esso drlle testimonianze cosi esplicite dai disce- poli foieli di Platone. Ma in compenso Aristotile, n'>n solo non conta il Demiargo del Timeo tra i principii della filosofia platonica, ma non dice mai una parola che gli si riferisca: anzi le sue parole implicitamente escludono V esistenza di quo.-»ta dottrina o aUra simile tra quelle del suo maestro (1). Se Platone e la sua scuola avessero preso il Demiurgo sul serio, sarebbe un obblio in molli casi assolutamente inesplicabile, per esempio quando è quisti^ne della canna efficiente in Platone o del perchè della partecipazione allo Idee, come in De. general, et corr. l. II. IX. 5 6, Met. ecc. Il silenzio d'Aristotile è tanto più significante chp, se il De- miurgo dovesse riguardarsi come una dottrina reale di Platone, esso non costituirebbe un semplice accessorio, CHIAPPELLI (vedasi) crede ohe Aristotile allude al Demiurgo del Timeo in Met. l. I. IX. 8, con le parole : Tt yccp éoxt xò IpY»- t^ójjisvov npòz xàg ISéag ànopXéTiov ; che egli traduce con que- ste : •* Che cosa è quest'artefice che contempla le Idee ? », e parafrasa con queste altre : " che vale il dire ohe vi ha un demiurgo il quale opera secondo gli eterni paradimmi ohe gli stanno dinnanzi ? « Ma bisogna tradurre invece : ** ohi è che opera guardando le Idee?„; e il senso è, non, come vuole il Chiappelli, che l'artefice che con- templa le Idee non vale niente, ma che vi ha bisogno di un'arte- fice che contemplasse le Idee. È ciò ohe prova tutto il contesto. Aristotile vi dice: Dire che le Idee sono degli esemplari non spiega come le cose ne vengano, e non è che un vaniloquio e una meta- fora poetica, poiché bisognerebbe (per ispiegare come la cose ven- gano dalle Idee) qualcuno che guardasse le Idee e facesse le cose a loro imitazione. In effetto, continua Aristotile, la semplice esi- stenza di un esemplare non può essere la causa di una cosa essere o divenire simile a quest'esemplare, una cosa potendo egualmente essere o divenire simile ad un'altra tanto se questa esiste quanto se non esiste. ma una parte principale del sistema, speci ilmente nel- Tinterpretazione trascendentalista, in cui sarebbe la sola soluzione che questi avrebbe tentata del problema della partecipazione (cioè della somiglianza delle cose alle Idee). 6® Infine, che la co!*mogonia del Timea non sia che una semplice allegoria, è ciò che T autore stesso ci fa comprendere assai chiaramente. Cosi Timeo fa precedere il suo racconto da questo proemio : « In o^ui cosa il punto principale ò di comi iciare con un comiucianif^uto conforme alla natura. Bisogna, rispetto air immagine (cioè al mondo sensibile) e al modello (le Ideo), fare una distinzione, cioè che i di^cìrsi devono avere deiraffinità con gli oggetti di cui trattano; co-<i quanlo si pa-la di un oggetto stabile, solido ed evid**nte (le I lee), occor- rono dei discorsi stabili ed inconcussi, che, per quando è possibile, non pos-^ano essere scossi né confutati, e non lascino nit^nte a desiderare socto questo r ipporfco ; ma quando si parla invece di ciò che è fatto a somiglianza di quello e non é che un'immagine, bastano dei discorsi verisimili e proporzionati a quelli (cioè che siano a quelli nella stessa proporzione in cui Timmagine è al modello). Come il divenire è all'essere, cosila fede è alla verità (vale a dire, come il fenomeno il divenire è un'immagine dell'Idea deU'e-'sere, cosi la fede — cioè, evidentemente, la credenza che ha per oggetto un discorso verisimile, come quello ch'egli farà sull'origine del mondo è un'immagine della verità). Se dunque, o Socrat-*, dopo che tanti hanno detto tante cose sugli dei e sull'origine dell' universo, io non posso proferii^e un discorso rigoroso e del tutto coerente con se stesso, tu non devi esserne sorpreso; se non è meno verisimile che alcun altro, si deve esserne contenti, ricordando che io che parlo e voi che giudicate siamo degli uomini, sicché Il r ) SU queste cose conviene appagarsi della verisimiglianza del rmlo (jiuOog), e non richiedere di più» (29 b-d). Questo carattere allegorico del racconto cosmogonico di Timeo Platone lo fa intravedere tanto sulTuno quanto sull'altro dei due punti capitali di questo racconto — il Demiurgo e V origine nel tempo .A 28 e Timeo dice: «È diffìcile di scoprire l'autore e il padre di quest'u- niverso, e scopertolo, è impossibile di parlarne a tutti ». Le ultime parole sono un'allusione evidente alla mas- sima pitagorica che tutto non è da dirsi a tutti, e significano che ciò che Timeo dice del padre e dell'au- tore dell'universo questi appellattivi, nel Timeo, desi- gnano naturalmente il Demiurgo non è che exoterico, cioè non è che un'espressione; popolare di una dottrina recondita, su cui Timeo intende mantenere il secreto verso i non iniziati. Il luogo c'tato : « E quello che aveva ordinato tutte queste cose restava nel suo stato, secondo la sua abitudine, indica pure che la rappresen- tazione antropomorfìstiea del Timeo del principio crea- tore e della sua azione creatrice non è che un simbolo. Esso significa infatti che un' azione che si svolge nel tempo, o poiché il tempo si dice creato dal Demiurgo che implica la successione e il cangiamento, ò in con- traddizione con la natura di questo principio, a cui com- pete, invece di una tale attività, la permanenza nello stesso stato, l'immutabilità, che è l'attributo delle entità della metafisica platonica. Un'altra indicazione che V. Aristogsene ap Diog. Vili. i5. (2) Notiamo col Martin ohe la frase greoa è ambigua : essa può significare o che il creatore restava nello stesso stato mentre prò. duceva il mondo, o che vi ritornava dopo aver agito nella proda- zione del mondo (v. Martin Timeo). Qaesl'ambigaità potrebbe essere volata : il secondo senso corrisponderebbe al &igni- fìcato apparente del mito, il primo al reoondito. il Demiurgo non deve essere preso alla lettera, è la sua scomparsa là dove Platone parla, non piìi da mito- logo, ma da filosofo (48 e-o2 d). Ivi egli non ammette che tre cose, V essere (le Idee), il luogo e la genesi: il Demiurgo è assente da questa classificazione generale degli esseri, e non può trovarvi alcun posto. Anzi la restrizione del significato della parola e.ssere alle Idee esclude nettamente la possibilità di un' esistenza qualsiasi irriduttibile alle Idee, come sarebbe il Demiurgo. Di più nel primo dei due luoghi indicati l'Idea è riguar- data come la causa efficiente e il padre dell' universo sensibile, prendendo cosi il posto del creatore personale. Aggiungiamo, infine, l'avvertenza di Timeo ch'egli non parlerà del principio o dei principii di tutte le cose, per- chè ciò non gli è permesso dal metodo seguito nel suo discorso: è evidente, come abbiamo osservato, che, se il Demiurgo fosse una dottrina reale, sarebbe il principio, o uno dei principii, di tutte le cose . Il carattere simbolico delT origine del mondo, nel tempo, poi, è indicato della maniera più chiara a 37 d, in cui il tempo, creato dal Demiurgo, è chiamato « im- magine eterna dell'eternità il tempo è la condizione di ciò che cangia, l'eternità di ciò che è esente dal cangiamento. Questo luogo deve mettersi in con- nessione con quello che viene un po' dopo (38 b-c), in cui si dice che « il tempo è nato insieme col mondo», e che «il modello (cioè le Idee) è per tutta la eternità, e il mondo è esistito, esiste ed esisterà per tutto il 'ti Notiamo però che Timeo non vuol dire ch'egli non parlerà affatto dei principii delle cose; infatti soggiunge che si limiterà, eome disse al principio, al discorso verisimile, indicando cosi che è secondo la loro natura reale ch'egli non ne parlerà, ma che, benché non ne dirà il vero, ne dirà il verisimile. tempo 0. Dicendo che il tempo e, per coasegnenza, il mondo sono eterni e non per tanto creiti, Plato le significa anche il sen-jo reale del simbolo, cioè una pro- ce'ssione ah aeterno, ia cui tra le erse procedente e il principio da cui procedono l'anteriorità e posteriorità non è che logica. Si é creduto che Telemento rappreseatativo della co- smogonia del Timeo consista unicamente nella produ- zione nel tempo, e che il contenuto filosofico del mito sia, per conseguenza, che il mondo procede eternamente da Dio, cioè da un'intelligenza creatrice. Ma questa in- terpretazione prima di tutto lascia intatta la difficoltà prin- cipale. Se il mondo fosse creato da Dio,;questi creerebbe anche le Idee, perchè esse non sono che l'elemento permanente e sostanziale del motid^. Ma noi non possiamo ammettere che le Idee sono create: primo perchè, secondo il Timeo, fsse preesistono, come paradijimi, alla creazione eronologicam«»nte se la creazione nel tempo deve, prendersi alla lettera, logicamente se essa è il sim- bolo di una processione ab aeterno-; poi perchè le Idee sono p T Piatone le cause uUime, e i loro elementi i principii ultimi, delle cose; e infine perché ciò che è necessario non può essere creato, e l'Idea è necessaria, di questa necessità assoluta che consiste in ciò che la sua non esistfuza è logicamente impossibile e implica Il luogo del Timeo in cui si stabilisce che il mondo è un'im- macrine (29 b) è tradotto cosi da Cicerone: "ex quo efHcitur ut ait necesse huuc, quem cernimus, mundum, simulacruni aetcrnu.a esse alicuius a,'lernir,. (Oicer. De unh^ers^ Le parole aeternum ed aeterni non hanno le loro corrispondenti nel testo greco, almeno in quello che noi possediamo. Noi non sappiamo se Cicerone le leggesse nel sno testo; ma ad ogni modo il pensiero espresso nella sua tradazione di questo luogo non ò ohe quello implioitameate contenuto a 37 d-38 e. contraddizione. In questa interpretazione inoltre re- stano ancora tutte le difficoltà relative al Demiurgo: la impossibilità di un essere che non si risolva in Idee; il silenzio d'Aristotile; le opinioni di Platone sulla divinità; il principio che l'intelligenza non può trovarsi che nel- Panima; ecc. Ma oltre alle difficoltà che la creazione ab aeterno (con un creatore personale) ha in comune con quella nel tempo, essa ne ha un'altra che le è particolare. Platone non conosce altra causazione — a parte l'anteriorità e posteriorità tra le Ide^% che non potrebbe chiamarsi una causazione che in un senso analogico — che quella che avviene nel tempo ed è una successione (2). Per lui, come per Aristotile, causa efficiente vuol dire causa mo- trice; e la causa prima, il primo motore. L' anima è la causa prima di tutte le cose, perchè essa produce il mo- vimento primitivo, da cui vengono tutti gli altri, e tutti i cangiamenti dipendono dal movimento. La dottrina sulla causalità dell'anima, che è la sola causa iperfisica nel senso proprio della parola causa—che noi possiamo con prove attribuire a Platone, ci mostra anche che egli concepisce le cause al di là dell' esperienza, più che è possibile, sul tipo di quelle dell' esperienza ; la maniera in cui l'anima produce il movimento essendo assimilata ai casi più familiari di produzione del movimento che Platone, ò vero, fa produrre le Idee le une dalle altre, e tutte, in definitiva, dall'Idea del Bene; ma ciò non toglie che ogni Idea sia senza causa esterna ed esista per se stessa, perchè l'Idea producente ò immanente nelle Idee prodotte, e per conseguenza queste hanno in se stesse la ragione della loro esisteaza. V. Filebo 26 e-27 b e Sof. 265 b-e. V. Leggi ci presenta Tosservazione, poiché essa non mette in movimento i corpi che per la comunicazione del proprio movimento. Interpretando la cosmogonia del Timeo come una creazione ab aeterno, noi attribuiremmo dun- que a Platone dei concetti sulla causalità che gli sono assolutamente stranieri e che del resto noi non po- tremmo attribuire ad alcun filosofo della sua epoca o di un'epoca vicina, non comparendo essi nella storia della fi- losofia greca che coi neopitagorici e i neoplatonici. Un grave inconveniente di qu^^sta interpretazione è poi di attribuire a Platone una dottrina ch'egli non ha mai esposta apertamente, cioè svestita dalla sua forma simbolica. Evidentemente noi dobbiamo cercare nel contenuto filosofico del mito dA Timeo una dottrina che noi sappiamo già essere appartenuta certamontf^ a Platone: un'interpretazione che non soddisfa a qu*»sta condizione, non solo ò poco sicura, ma è intrinsecamente inverosi- mile, non essendo ammissibile ch'egli abbia esposto solamente sotto la forma enigmatica del simbolo una dottrina tanto importante quanto è quella contenuta nel mito del Timeo, che ha senza dubbio per oggetto le cause ultime dell'universo. I risultati a cui siamo già pervenuti ci indicano in qual direzione bisogna cercare. Non potendo trovarsi nel Timeo né la dottrina di una creazione nel tempo, né quella di una creazione ab aeterno, ne segue che non può in alcun modo trovarvlsi la dottrina di un creatore- vaie a dire di un creatore personale e che, per conse- guenza, il Demiurgo del Timeo non può essere che la personificazione di un principio astratto. Di più l'azione del Demiurgo per la produzione del mondo non potendo realmente intender»?! come un'efficienza nel tempo, e non potendo nemmeno rappresentare un'efficienza senza idea di successione— che è, come abbiamo detto, un concetto straniero a Platone e alla sua epoca-; ne segue che noi non possiamo vedervi in alcun modo un'efficienza cau- sale nel senso proprio del termine, e che essa perciò non può essere che il simbolo di questa efficienza causale in un senso analogico, che nel sistema delle Idee é deno- tata coi termini tecnici anteriorità e posteriorità. Ora non vi hanno che due ipotesi che corrispondano a queste condizioni: o il Demiurgo rappresenta le Idee nel loro complesso, e la massa in movimento disordinato anteriore alia creazione )a materia (delle cose) priva della partecipazione delle Id^e ; ovvero essi rappresentano i due principii o elementi delle Idee e delle cose, cioè il primo il Bene o Uno, e l'altra la materia (delle Idee e delle cos') o Dualità indefinita. Ma di queste due ipotesi la prima deve escludersi, perchè il Demiurgo non sarebbe una rappresentazione convenien^^e del mondo ideale. Esso non lo potrebbe essere che se le Idee fos- sero pensieri, ciò, che data la loro immanenza, non po- trebbe avere altro senso che l'identità dell' essere e del pensiero : ma questa è una dottrina, come spiegheremo altrove, che non possiamo attribuire a Platone. Re- sta dunque la seconda ipotesi. Platone ci dà nel Timeo una spiegazione teleologica del mondo. La teleologia di Platone è una teleologia immanente la causa della finalità delle cof='e essendo un principio astratto risiedente nel'e cose stesse : ma questa teleologia diviene nel Timeo una teleologia trascendente, nella quale, cioè, la fi»^ alita interiore delle cose appari- Fce l'efi'ettuazione del piano d'un agente personale. L'al- Supplem. '•I ti -^F^ legoria del Timeo consiste dnnqtie essenzialmente in ciò che la causa impersonai e astratta del bene, cioè Tldea stessa del Bene, è rappresentata come una causa concreta e personale. Questa personificazione delT Idea del Bene non è un semplice giuoco d.-.irimmaginazion«, ma ha per Platone un alto valore didattico— e infatti Aristotile e i suoi commentatori ci rapportano che, secondo i di- scepoli di Platone, questi ha rappresentato il mondo come creato in grazia dall'insegnamento, 5LSao>taXfag xaptv. Per dilucidare Tldea del Bene, cioè il concetto teleo- logico, ch'egli pone alla base della sp'egazioiie del mondo, Platone ricorre ad una similitudine. Egli dice: l'universo non ha la ragione dplla sua esistenza che in sft stesso, nella sua necessità interiore; ma, considerato nel tutto così bene che nelle parti, esso é costituito rome se fosse l'attuazione di un disegno intelligente; per conseguenza, siccome la causa dell' esistenza di ciascuna cosa e di tutte le sue proprietà é come è detto nel Fedone che il meglio è che essa sia e sia tal**, noi dobbiamo, per comprendere il perchè di una cosa e della sua maniera di essere, immaginare che questa cosa è r opera d'un autore intelligente, e spiegare il disegno sapiente secondo cui è stata formata. Il carattere del- l'allegoria essendo di trasformare l'astratto in concreto, anche l'altro principio diviene nel TVmeo, da un' entità astratta, una realtà concreta, ed è rappresentato perciò come una materia determinata preesistente a cui si ap- plica l'attività del Demiurgo La materia premondana del TinifOy priva delle Idee e in un movimento confuso (1) V. Arist. De Co^lo, Simplic, Schol, cod. Reg, e Sehoì, roà, CoiM., i l. indicati nella nota a carta. V. pure il l. di Plutarco Paicog, e disordinato, è una rappresentazione assai chiara del- l'elemento materiale— nella sua doppia funzione di mate- ria dell»^ cose, quella ch« Platone ident'fica allo spazio, e di materia delle Idee (e, per conseguf»iiza, anche delle cose stesse) —perchè questo è, come dee Teofrasto {Mei. 33) l'informe e il disordinato : questa m«teria è rappresen- tata come agitata da un continuo movimento, perchè uno dei concetti che entrano nella significazione del princi- pio materiale è il movimento, per cui Xenocrate chia- mava, come abbiamo detto (l), questo principio àsvaov (sempre fluente), e lo simboleggiava per l'anima. Nella genesi premondana del Timeo possiamo pure trovare rap- presentati tutti gli altri concetti della oooxotx^a dell'infinito: essa è l'ànsipov, sia nel senso qualitativo, cioè d' indefi- nifo^perhè non vi era in essa alcuna forma definita — sia nel senso proprio e quantitativo— perchè la variabi- lità in essa era illimitata (oltre alla divisibilità all'in- finito della materia e del movimentoj; è l' Ineguale, il Diverso e l'Anomalo, perchè allora non vi era la ri- petizione costante delle stesse forme, come nel!' attuale 0) V, questo Supplem. n. II. carta 178. (2) Cfr. nel mito del Politico — che a 269 e- 270 a e più an- cora a 273 b-d ricorda evidentemente il mito del Timeo~^Ì9 parole: Il dio che 1' ha formato non volendo che il mondo (per la degenerazione progressiva dalla primitiva imitazione piìi esatta del governo del suo demiurgo e padre) si dissolva e s'im- merga nel luogo della dissomiglianza die è infinilOt ritornato al go- verno di essow, ecc. Il luogo infinito della dissomiglianza in. cui il mondo s'immergerebbe per la sua dissoluzione, è quello stesso in cui era immerso anteriormente alla sua formazione (cioè alla formazione del cosmos). mondo ordinato (1); è il principio del male, perchè il male, nel mondo attuale, è una sopravvivenza del di- sordine primitivo, che il Demiurgo non ha potuto che incompletamente ricondurre all'ordine; è il Non essere, perchè que^o equivale alla steresi, cioè alla pri- vazione della forma; infine è la MoUiplicità senza unità, perchè Tunità, Tindividualità, è costituita dalla forma. Se Tuno dei due principii del mondo che compariscono nel Thneoj cioè il Demiurgo, rappresentasse le Idee, l'al- tro dovrebbe rappresentare, come abbiamo detto, la ma- teria delle cose-ciò che si aggiunge alle Idee per co- stituire le cose, cioè, come si ammette già in questo dialogo, la semplice estensione : ma in questo caso esso non comprenderebbe tante altre determinazioni oltre al- Testensione, e non sarebbe la genesi precosmica che ci descrive Timeo. Questa interpretazione, indicataci dalle considerazioni generali precedenti, è confermata da un esame partico- lareggiato del tfsto. Il significato del simbolo traspare abbastanza chiaramente dal cominciamento del racconto di Timeo. « Diciamo per qual causa il costruttore della genesi e di quest'universo li ha costruiti. Esso era buono, e nel buono non vi ha mai invidia di alcuna cosa; straniero a questo sentimento, volle che tutto fosse, per quanto era possibile, simile a se stesso (3). Quegli che da uomini sapienti accetterà questo principio potissimo della genesi e del mondo, lo accetterà giustamente. In Cfr. il l. del Politico citato nella nota precedente.; V. Tim, 29 e, 30 a, 40 b, 46 d, 48 a, 53 b, 56 e, 69 b, e cfr. l'olit. 273 b-o. 3) L'efficienza dell'Idea del Buono è di rendere le cose simili a se stessa, questa essendo in generale la causalità dell'Idea. effetto, volendo Dio che fosse tutto buono e niente vi fosse di cattivo, per quanto era possibile ; trovato tutto ciò che era visibile, non quieto, ma agitato da un mo- vimento confuso e disordinato, dal disordine lo ridusse all'ordine, stimando che questo era meglio. Ora non era né è possibile aìVottimo fare altro che il più belio » (29 e-30 a). A idsL T autore dell’universo (cioè il De- miurgo) è chiamato « V ottima delle cause»; e a 37 a €lottimo degli esseri eterni (desi ovxwv) e intelligibili». Quest'ultimo luogo è decisivo, perchè da una parte gli € esseri eterni» (dsl òvTa)(i)egli t esseri intelligibili » (2) significano, nel linguaggio abituale di Platone, le Idee; o da un'altra parte, il massimamente buono è per lui l'Idea del buono (3), il supremo grado di un attributo spettando all'Idea stessa corrispondente all'attributo (4j. In tutto il racconto poi l'aspetto del Demiurgo che Ti- meo mette in rilievo, è che esso è la causa del bene, cioè della finalità delle cose (5) : esso è essenzialmente, com'è chiamato a 68 e, < il demiurgo deir ottimo e del più bello», perchè questo è il punto di coincidenza con l'Idea del Bene, su cui l'allegoria è fondata. Le immagini con cui Tldea del Bene è rappresentata nel Timeo non sono senza esempi negli altri scritti di Platone. Nella Bep. b97 Dio ha generato l'Idea del letto, e per questo Dio non possiamo intendere che l'Idea del Bene, perchè è essa che dà alle altre Idee l'essere e la (1) V. Tim. 27 d, 50 e, 5t a, 59 e, Fedone 79 d, ecc- (2) V. Tim. 30 e, 30 d, 31 a, 51 b, 51 e, 51 d, 52 a, 92 e, Kcp. 507 b-o, 508 e, 524 o, 532 b, Fedone 79 a, 80 b, 83 b, ecc. V. Arist. FAÌK Xic. 1. I. VI. 6, Eth. End. 1. I. Vili. 1-2, 11, IH, M, Mor, 1. I. I. 22. Cfr. Supplemen. B parte II n. III. V. Tihieo 29 e- 30 b, 30 c-d, 31 c-33 a, 33 b- 34 b, 37 a, 39 b-c, 40 a-b, 46 o-e, 48 a, 53 b, 53 e, 54 a, 56 e, 68 e, 69 b, ecc. - essenza {Rep. 509), e le Ideo non hanno potuto essere prodotte da un dio propriamente detto, cioè da uaa causa personale. A 506 508 il Bene è detto il padre del sole, e implicitamente perciò di tutto l' universo visibile. Nel Teeteto 176-177 «vi hanno Avi*\ paradigmi neir essere, l'uno divino e felicissimo, l'altro senza Dio e miserrimo ». Questi due paradigmi sono senza dubbio le due Idee universalissime, cioè i due elementi, perchè Platone ri- guarda l'universale come un paradigma rapporto ai par- ticolari che gli sono subordinati (1). Anche Xeno crate (2) rappresentava T Uno o il Bene per l'intel- ligenza, e lo chiamava Giove, il primo dio e padre degli dei (padre degli dei è detto il Dt*miargo nel Timeo 41 a e 42 e). Non bisogna dimenticare che il no- me di Dio dato all'Idea del Bene none che una semplice metafora— una metafora è il germe d'un'allegoria—, per- chè, quest^Idea essendo l'essenza o la forma comune di tutti gli esseri, essa non potrebbe identificarsi con l'in- telligenza senza ammettere questa proposizione priva di senso, che la forma o l'ess nza comune di tutti gli es- seri è l'intelligenza; e quand'anche nelle Idee platoniche si vedessero i pensieri della divinità, l'Idea del Bene sa- rebbe uno dei pensieri divini, ma non la divinità stessa che è il soggetto di questi pensieri. Ma ciò che non liscia alcun dubbio sulla nostra inter- Prima ha detto: è necessario ohe vi sia sempre qualche cosa contraria al Bene^; ciò ohe è un'alt ja prova che, all'epoca in cui scriveva il Teeteto, Platone ammetteva già la dottrina dei due prin- oipii opposti— La qualitica senza Dio data al principio materiale e privativo ha un equivalente nel Timeo 53 b, in cui della genesi anteriore alla formazione del cosmos si dice che essa si trovava nello stato in cui deve trovarsi ciò da cui Dio è assente. (2) V. Stobeo EcL PUys, libro I, o. 2, 29. à -L- rrrtaz'ore è che epsa è quella dei discepoli immediati dì Piatene. Scendo Simjlicio (fd Ariti. De Cceìoì. J. X) Xenocrete e i pl«trnici in generale dicono che per Ja produzione delTuniverso, nel 7m«eo, non deve intendrrsi una produzione nel tempo, ma che essa \i\ per oggett> d'indicare «l'ordine d^^lle cose che in esso (nell'universo) sono più prime e più composte». Le cose pia prime vuoi dire i primi priacìpii; in esso, che questi prin^.ipii non sono delle cause estt*.riori, mairieriscmo uìl m ini -> smesso- infirie rop,)o*i«ioie tra le cos*, più prime e le più com- poste ò la prova più chiara che essi s^no gli elemvUi A{ tatto le cos*^, cioè TUno e la Daalità inlefii ta. Questa interpretazione ó attribiiti a Xe locrate anche n*llì Si;o- lio cod. Coisl.: Platone, facendo il mondo prodotto, non ha inteso parlarti d'un.i prò luzone reale», ma « in gra^/'a dell'insegnamento ha detto che il moad ) è stato prodotto dalla materia proe^^istente e dall' slao^». Qui i princ p i del mondo di cui si tratta nel Timeo, sono id^^ntifìcati con r eleog e la materia : 1' sldoc; e la materia sono, lo sappiamo, 1' Uno e la Dualità indefinita. Più esplicita ancora è la testimnnian'/a di Teofrasto (snll'i lentità d^-l Demiurgo con l'Idea del bene): Platone dopo che alla filosofia prima si diede alla storia della natura, e ammise due principi!, 1' uno come materia (il 7iav5sx£c;), 1' altro come cau^a e movente, e a questo dà la natura dì dio e del tiene {Fr. 48). Teofrasto sa che il Demiurgo deve identificarsi con l'Idea d'^l bene, maprenie sul s»rio il simbolisfno del Timeo. Altrove {Met. 33) Teofrasto stesso sembra identificare la genesi anteriore al mondo con la Dualità indefinita, perchè, dopo aver d'Hto che Platone ha ammasso due principii contrarli, TUno e la Dualità indefinita, e che questa è Tinfinito, l'inform**, il disordinato, soggiunge : « per cui Dio non potrebbe tutto ricondurre - airottì mo, ma solo per qnanto gli è possìbile». Queste parole alludono evidentemente al concetto, tante volte ripetuto nel Tìmeo^ che il Demiurgo non ha potuto, per la resistenza della materia — cioè della massa in movi mento disordinato che gli è servita di materiale nella co- struzione del mondo— attuare il bene che d'una maniera incompleta (l). Quest'identificazione della genesi pre- mondana del Timeo con la Dualità indefinita spiega pure il fatto che questa in un preteso scritto di Pitagora è chiamata anche Chaos (2), p3rchè le proposizioni attri- buite a Pitagora sulla Daalità indt^.finita non sono che quelle di Platone e i platonici. Nella creazione del mondo nel Timeo, col Demiur 'o concorrono gli dei generati. Biso^jna perciò distinguere nel mito due parti, quella che si riferisce al primo, e quella che si riferisce ai secondi. Neil' una V allegorìa consiste tanto nella creazione nel tempo quanto nella na- tura personale attribuita all'uno dei principiì delle cose. Nell'altra invece la concezione delle forze creatrici come persone non è una semplice allegoria, e questa si riduce in sostanza a rappresentare come avvenuta in un punto del tempo, all'origine delle cose, l'azione contìnua della divinità nel governo d^el mondo. Il significato reale .di questa parte del mito non è dunque che la dottrina co- nosciuta di Platone, che la divinità, cioè 1' anima del mondo, é la causa prima di tutti i fenomeni. La parte che nella creazione spetta al Demiurgo e quella che spetta agli dei generati sono nettamente delimitate: que- sti creano ciò che nasce e perisce, quello ciò che è im- (1) V. i 1. indicati a carta 231, pag. 2, n. 2. (2) V. Siriano citato in Zeller Filos, dei Greci voi. 1. ed. 4. pag. 333. peribìle e, per conseguenza, eterno*(questa distinzione è formulata a spai chiaramente nell'allocuzione del Demiurgo agli deijgenerati, a 41 e). L'oggetto principale della cosmogx n'a del Timeo è, come abbiamo detto, di dilucidare la crncfzione teleo' logica del mondo. In Plafone vi hanno, come nota giù- stamente il Janet, due teorie della finalità: l'nna im- manente, che suppone una causa impersonale (la parte- cipazione dell'Idea del bene), l'altra trascendente, che suppone una causa personale. La prima abbraccia nella sua spiegazione tutto ciò che es'ste; la seconda non si applica che a ciò che ha un' origine nel tempo, perchè la causa personale ch'essa suppone è 1' anima, e l'efficienza di questa si svolge nel tempo, Platone noi avendo ancora, come abb'amo osservato, l'idea di una cau«a ef- fic ente o produttrce, nel senso proprio dei termini, che non preceda nel tempo la coFa prodotta. Siccome il con- cetto di una finalità trascendente è più chiaro che quello dì una finalità immanente, cosi Platone si serve del primo per rischiarare il s' condo. Di là la finzione del Demiurgo. Ma questa cau^^a personale fittizia non viene adibita che per ciò che l'anima non può produrre : prodotte le cose eterne, e tra esse l'anima, l'opera del Demiurgo è ter- minata, perchè coll'anima si ha già, all'oggetto di rischiarare il concetto teleologico per l' intnduzione di cause personali, una causa reale, e non si ha fiù quindi bisogno di una causa fifizia. l\r Io scopo di Platone una causa reale vai meglio di una fittizia, perchè con essa la spiegazione teleologica delle cose viene, non solo resa più chiara, ma anche confermata, il principio che le cose procedono da una causa intelligente avendo, secondo Platoce, ccirìe roi vediamo nel /^^efor?^ 9*7-99, per conseguenza Eecessaria qnePo delle cause finali. I motivi fer cui Platone rei limeo preferiFce di esporre le sue dottrine setto una forma simbolica, fodo di due ordini : gli uni tcngoro alla finzione che l'espo- sitore è un filosofo pitagorico, gli altri alla natura stt*.Fsa di queste dottrine. Timeo, facendo il mondo generato, parla da pitago- rico. I pitagorici, e in generale tutti i filosofie i teologi prima di Platone, parlano dtl mondo come originato nel tempo, e ne descrivono la formazione II modo di espo- sizione del Timeo é dunque richiesto anzitutto dalla ve- risimiglianza della finzione di questo dialogo : Platone espone i suoi concetti sui principii delle cose sotto la forma tradizionale del racconto cosmogonico, sia per confor- marsi alle dottrine della scuola a cui appartiene il personaggio da cui fa esporre quc^^ti concetti, sia perchè questa forma ò come una marca della veneranda anti- chità, e le dottrine, ch'egli attribuisce a Timeo, proven- gono, a quanto pretende Platone (I), da una tradizione antichissima. Ma lo scopo di Platone non è semplice- mente di dare alla sua finzione una più grande verisi- migiianza storica: facendo trasparire chiaramente il ca- rattere puramente exoterioo ed allegorico del racconto cosmogonico dì Timeo, Platone iii<^ende al tempo itesso indicare che la cosmogonia dei Pitagorici non è che un' espressione exoterica di una dottrina più filosofica; che essi hanno re il mente ammessa, c"»me lui, Tetemità V. Fiìebo 16 c-e Non bisogna dimanticare che le finzioni drammatiche dei dialoghi platonici non sono delle semplici finzioni poetiche, ma l'autore intende attribuire realmente ai personaggi di questi dia- loghi le dottrine ch'egli mette loro in bocca. del mondo- noi sappiamo ch'egli pretende stabili re Tì- dentità delle dottrine degli antichi pitagorici con le sue proprie; e che l'origine dell'universo nel tempo è per essi, come p^.r lui, un simbolo significante la processione ah aeterno delle cose dai loro principii fi). L'ogg-^-tto principale d»lla cosnogonia del Timeo è, come abbianao visto, di dare una spiegazione teleologica del monlo. Il concetto teloo'ogico era sconosciuto ai Pi- tagorici; ma data l'importanza di qiesto concetto nella sua filosofia, egli noi può rinunziare a ritrovarlo anche in quella degli antichi Pitagorici, di cui vaile stabilire l'id-^^ntità con la propria. I Pitagorici insegnavano che tutto è stato prodotto da Dio. Platone prenda per punto di p\rtmzi qae^t'id^a a».c.MSKÌa delU loro co- smogonia, ne fa rid^>a prue pale, la sviluppa facendola servire di base a una concezione finalistica dell'universo, e trasfigurata cosi li cosmogo lia reale dei Pitagorici, Tattribuisce ai discepoli fedeli dei prelecjìssori di questi Seaondo Stobao (LrìD, Pitagora dica il mondo genarat o par un artificio logico (xax'èJiiVOiav), ma non cronologicamente (xaxà ipò^o^). Ciò vaol dira, com3 b3n3 spiaga il Zellar, che i Pitagorici, parlaad> dolla t'ormizion^ dal mo^lo, noa hanno vo- lato insvraara cha la dipeaianzi logici del derivato rigaardo al primitivo, e non un'origine nel tempo. Stoboo (1.420) riporta anche un frammanto. cartamanta apocrifo, di Filolao, che affarma che il mond3 è esistito S3.npra, e milti aitori antichi attrlbiisoD vo a Pi- tagora questa dottrina (V. Zollar Filo^, rft^i G/vci). Che l'o- piaiona. sacoalo cii l'origin3 dal m)ado nal tanpi, di cai hxna .. parlato i Pitagorici, non ò una dottrina ralla di qaasti fil.sofi, esi- sta gi^ all'epoca di Aristotila, risalta d:il laogo dalla MjI. 1. XIV . III. U.15: -Nà vi hi la>.^ì a d l'ntara sa i Pitag>rici ta33iaao o no la gaaarazion3; dicono intatti chiaraneate, ecc. Filolao dica ohe Dio ha fatto il limite e l'illimitato. V. Si- riano in Mei. SchoL 925, b, 23. filosofi, interpretandola come nn semplice simbolo di una specalazione superiore, il cui contenuto coincide con le sue proprie dottrine sui principii delle cose. Fors'anche Ttmto non è, nell'intendimento di Platone, il rappre- sentante soltanto del pitagorismo, ma di tutti gli anti- chi filosofi e teologi, che avevano attribuito alla divinità 0 alla mente o ad uà altro principio analogo la prima origine dell'universo; e il Demiurgo del Timeo no . cor- rnponde solamente al dio creatore dei Pitagorici, ma a tatto co che Platone trova nelle tradizioni dei G.eci e dei barbari sa3C3ttibile di essere interpretato -secondo il metodo arbitrario d'interpretazione che gli è proprio - come un'allegoria dell'Idea del bene (1). È a ciò che fa pen- sare Aristotile, quando dice che, se si tien dietro al pen- siero d'Anassagora, nella sua conseguenza logie», piut- tosto che a quello ch'egli ha espressammte detto, si rie- sce a fargli ammettere per principii I' Uno (corrspon- dente al Nous)e la materia indeluita, come i platonici (2)- qumdo ansimila lo stesso Anassigora ed EmpeJ)cle' (questi perchè ha po^ti l'Amicizia tra gli elem<mti) e Ferecide con altri teologi e i Magi ai platonici che am- mettono il Bene come principio (3j; quando attribuisco non solo ad Anassagora, ma ad Ermotimo, a Parmenide ed Esiodo (perchè entrambi pongono, egli dice, co;ne principio l'Amore) e ad Empeiocle di ammìttirj pìr princ.pio la causa del bene ed anche, in un certo senso, Si notino le parole del Tìmto dopo avere spiegato il motivo per CUI Dio ha creato il m>ndo (oioi la parte 3ipizija3 della su» bontà) : Qaegli che da uomioi sapienti accetterà questo principio potissimo della genesi e del mondo, lo accetterà giusta n ente, (29 e, 1. e). (2) Mei. 1. I. Vili. 9-11. M^t. 1. XIV. IV. 2-4. N. il bene in se stesso (i). Visto lo sformo di Platone di ri- trovare i suoi concetti nelle tradizioni deirantica sapienza, que-iti ravvic namenti delle dottrina dei suoi predecessori con le sue proprie si troveranno certamente più natu- rali in lui che in Aristotile. Il principio del bene non potendo e-^sere, S'3condo le sue idee sui rapporti della propria filosofia col passato, affatto ignorato dall' anti- chità, eorli ve lo trova involto in oscuri simboli. Dire che Dio 0 rintelligeaza o qualche altra cosa di simile è il princpio de'le cose è, al suo punto di vista, affermare implicicamente la d>ttrina della fiualità; di più, le co- smogonie degli antichi non fot^^.ndo essere intese lette- ralmente, per il loro carattere evidentemente mitico e per r asniriità di un'origiu». del mondo nel t^mpo, e quest'origine, per conseg-nenza, non potendo significare che il raj)porto logico tra i prin(!Ìpii e le cose derivate, le cans», p'»rs inali o semìper5,onali, a cui i Pitagorici e gli aliri antichi sapienti hanno attribuito la formazione dell'universo, non p:)ssono essere, egli pensa, che delle personificazioni, più o meno coscienti, di un principio astratto, e questo, non altro che l'Idea del bene. Attiri ungiamo infine che, per la forma simbolica ed exoterica del Timeo, Platone vuol mostrare eh' egli si accorla con gli antichi Pitagorici, non meno per il fondo dell 5 dottrine, che per la f)rma esteriore della loro espo- sizione. Il carattere estremamente paradoss astice ddla filosofia pitagorica, unito alle altre ragioni a cui abbiamo a.3cennato al princiipìo di questo numero (2), hanno do- vuto far nascere bei presto T.dei che le dottrine cono- sciate dei Pitigorlei noa era io che dei simboli di spe- UeU 1. I. III. 12-lV. 3 . Carta ^ culazìoni più alte : Platone doveva farsi prormtore dì quest'opinione, s'egli voleva giustificare la sua interpre- tazione del pitagorismo, tendente a inientifieare questa filosofia con la propria. Esponendo le proprie teorie sotto il velo deirallegoria, egli usava dunque un processo, che faceva parte del concetto che si aveva e che egli voleva che si avesse del pitagorismo, e si dava cosi anch'esso l'aria di un pitagorico. In quanto ai motivi dipendenti dalla natura stessa delle dottrine, noi vi abbiamo in parte accennato, attri- buendo il modo di esposizione del Timeo, sulT autorità di Aristotile e dei suoi commentatori, a un artifizio me- todi c;o in graz'a dell'insegnamento (5i5aaxaXCasxap-v) ^^1'*teoria della finalità. Ma questo motivo cosi enunciato perde gran parte della sua forzi. Il vero sì è eh'». Pla- tone nel Timeo esprime la teoria della fiaalità antropo- morfisticamente, pv^rcbè Tespressione naturale del punto dì vista teleologico è 1' antropomorfismo. I concetti che (1) Alla finzione del Timeo ^ di attribuire le dottrine esposte nel dialogo a un filosofo pitagorico, è legato anche l'aspetto sotto cui vi è presentato di preferenza il rapporto tra le Idee eleco^3. Qu3- st'aspetto è l'esemplarità delle Idee: siccome la formula più iu uso presso i Pitagorici, per indicare la relazione tra i numuri eie cose, è ohe queste sono fatte ad imitazione di quelli (Arist. Met. 1, I. VI. 2), e le Idee platoniche corrispondono ai numeri pitagorici, Platone deve rappresentare le Idee sovratutto come modelli, per avere più facile la transizione dal sistema pitagorico dei numari a quello delle Idee. Egli ha tanto più interessa a mettere in ri- lievo questo carattere comune tra i numeri pitagorici e le Idee, cioè l'esemplarità, che dalla formula pitagorica che le cosa sono fatte ad imitazione dei numeri può dedursi il carattere precipuo per cui i numeri di Platone, cioè le Idee, si distinguono da quelli del pitagorismo storico, vale a dire la loro distiazioae dalle coia, l'essere )C<«>p'.oxo{ dai sensibiU. ' .i Platone deve esporre sono tali, che è impossibile di esprimerli altrimenti che sotto forma analogica. Il con- cetto teleologico ò uà concetto essenzialmente antropo- raorfista, un'assimilazione, più o meno cosciente, delle operazioni della natura a quelle dell'uomo: spiegare i fenomeni per le loro cause finali è necessariamente at- tribuire alla natura un disegno e delle intenzioni come all'uomo. Il metafisico teologo, che ammette una fina- lità trascendente, trasporta seriamente nelle forze della natura questo disegno e queste iateuzioui : ma quando si ammette invece uaa finalità immanente, cioè quando la spiegazione teleologica non è al tempo stesso una spiegazione teologica, noi abbiamo allora un concetto puramente aaalogico, che ci dice che la natura, quan- tunque non abb'a realmente nò dsegno nò intenzione, tuttavii si comporta nelle sue operazioni come se avesse un disegno e delle inteazioni. Sarebbe dunque impossibile di far comprendere il punto di vista teleologico, senza que- st'analogia delle azioni a cui presiede un disegno cosciente: noi potremmo anche dire che se questa finalità incosciente o immanente dei metafisici non teòlogi costituisce una spie- gazione delle cose, ciò avviene appunto — spiegare non essenlo alerò per la metafisica che assimilare ai fenomeni più familiari— per questi vaga persooificazioae delle forze della natura ch'essa suggerisce airimmiginazione, qumtunqie si rifiuti di ammetterla apertamente come tesi filolofica. Cosi sì avrebbj forse ragione di doman- darsi se la trasformiz'one fantastica del Torneo dell'Idea del bjiie in un Demiurgo ch3 produce il bene con in- telligenzi, sia s^mpli^enent^ p3r Plato ac un artifizio metodico dovuto alla neees-jità di ricorrere a delle ana- logie di questa natura p3r far c^nprende.'e il punto di «Il "4 - vista teleoìogicD, o se di più Platone, pur vedendo nella personfìcazione dell'Idea del bene una semplice allegoria, si compiaccia di qu<5sto rivestimento fantastico dei suoi concetti astratti, perchè vi trova una soddisfazione più completa a questo bìs'^gno dello spirito, sa cui è fondata la spiegazione teleologica, di assimilare le opere della natura alle azioni delKao no. Non vi ha dubb o infatti che il punto di vista tele^bgieo in Platone sia strerta- mente legato al punto di vista teologico, eie verisimile che la deduzione del Fedone^ in cui la teoria delle cause finali è presentata come una conseguenza della causalità universale dell'intelligenza, rappresenti il processo reale del punsero platonico, che è and>ito, come sembra più naturale, dal punto di vista teologico al teleologico, an- ziché da questo a quello. Ma quando i discepoli di Platone dicevano ohe la ge- nerazione del mondo nel Timeo era sta^a fatta 5'.5ajxaX(ocXapiv, verisimilmente essi non avevano 8oltan*^o in vis'-a la dilucidazione del concetto della finalità per la p u*so- nificazione delTIdea del beie. Per la concezione dilTal- tro principio, det-^rminato d'una manieri parammte scientifica, n-^n vi ha meno difficoltà che p»r quella dil Bene. Uno dei lati più n^b ilo^i del concetto deirelemerito materiale è, come abbiamo osservato, ch'esso è consì !e- rato al tempo smesso cooae la materia e come la 8ter»^s'. In quanto è la steresi, es^o è il contrario dell'elemento formale: non è senza forma, ma ha la forma opp^^s a; è Tineguale, il disordnato, il male, ec;. C>m*, cìj pu) essere la materia di cui gli esseri sono fatti, se per mi- terin s'intende quello che resta della cosa a r ragion fa- cendo della forma, e non un materiale preesiste it^ coni quello di cui si servono gli artefici per prolurre le loro opere? Evidentemente, di queste due maniere di rappre- sentarsi la materia, è solo la prima che |corrisponde al concetto di materia, filosoficamente determinato; ma per far entrare in questo concetto anche la steresi, Platone è obbligato a sostituirle la seconda, e a rappresentare per conseguenza, l'unione dei due elementi come un fatto avvenuto nel tempo. Sembra che non fosse solamente nel Timeo che Platone si servisse di questa rappresen- tazione. Almeno, Aristotile gli attribuisce la proposizione che il Due, il primo numero generato, viene dall' Ine- guale eguagliato, rimproverandogli che Tessere ineguale e Tessere eguagliato sono dunque due stati successivi del- Tlneguale, e che per conseguenza non è semplicemente co- m'essi dicono, in grazia della contemplazione (xoò eswp^aat gvexsv -questa espressione corrisponde evidentemente al 8t5aaxaX(as X^P'.v del De Godo 1. I. X.) che i platonici fanno la generazioae dei numeri {M^t. 1. XIV. IV. 1). Può arguirsi da ciò che, anche nella generazione dei numeri, Platone Irappreseatava talvolta T anteriorità e posteriorità fra i prineipiì e le co^e derivate quasi come un'anteriorità e posteriorità cronologica. È forse a tali rappresentazioni che allude la proposizione, attribuitagli pare da Aristotile {MeU 1. XIV. II. 7), che « bisogna partire da un'ipotesi f^lsa, come i geometri che suppongono d'un piede una linea che realmente none d'un piede »: questa proposizione, in efi-etto, si riferisce senza dubbio a una certa rappresentazione della materia, poiché Aristotile ladà come ui'illazioae d3l principio, ara nesm nel Sofista, che la materia (il Non essere) è la natura del falso. Il Timeo non è la sola opara di Platoaa la cai il mando si faooia generato. Nel mito del Politico si parla pure d'aa demiurgo e padre dell'uaiverao come nel Timeo {Polii. Un'altra delle dottrine legate al pitagorismo plato- nico, indicata oscuramente nel Timeo ^ ed espressa an- ch'essa sotto forma mitica e simbolica, è quella della il mondo deve tutti i beni a qaaUo che Tha formato, e tutti i mali alla deformità, anteriore, o piuttosto al principio materiale, che era partecipe di molto disordine prima di essere ricondotto (dal de- miurgo e padre del mondo) a'I'ordine presente (i6. b-c —cfr. an- che la n. 2 a carta La coincidenza di queste proposizioni col mito del Timeo è troppo colpente, par non vedervi un'allusione a questo: che il Polii tro sia degli ultimi scritti di Platone ò provato d'altronde dalla sua posteriorità al Sofista, che contiene già la dot- trina del Non essere. Ancha neW ICpinomide (se questo dialogo è di Platone) il mondo è generato (v. 978 d, 981 b, 983 b, 984 b-c, ecc.), ma il suo autore, come abbiamo già notato, è l'anima del mondo stesso, e non un dio trascendente (v. carta 224). Nelle Lc(j(Jh infine, l'anima è la pia antic i di tutte le cosa generate: essa è nata innanzi a tutti i corpi, e le co-ie che appartengono all'anima, come la preveggenza, l'intelligenza, l'arte, la volontà, i ragiona- menti, le opinioni vere, sono nate prima di quelle che apparten- gono al corpo, come la lunghezza, la larghezza e la profondità, il molle e il duro, il grave e il leggiero, e in una parolaia forza dei corpi, perchè l'anima è la causa prim-* di tutte le cos3. Siccome questi scritti appartengono indubbia- mente, come il Tim'o, al periodo pitag^reg^iante, noi po^^iam) concluderne cho Platone, a quest'epoca, per conformarci alle dot- trine pitagoriche -o piuttosto a ciò che egli riteneva un'espres- sione exoterica e allegorica delle dottrine reali dell'antico pitago- rismo—rappresentava l'universo come originato nel tempo, non ve- dendo naturalmente in quest'origine nel tempo che un semplice simbolo. ^eìVEpinohìide e nelle L>'{i(ii l'anima apparisce come an- teriore anche ai corpi che, secondo la dottrina reale di P.atone, non hanno avuto mai comiaciamanto (il mondo come un tutto, la terra e gli astri), e come la loro causa eftìciente, perchè la conservazioue del cielo e dei grandi corpi che sono in esso, la loro persiste iza nella forma attuale e il legame che tiene unite le l«jro pirti, S3n3 dovuti, secondo Platon^, all'anima; rappre-iontandosi osi mitica- mento l'aziuiie continua di questa com3 un fatto a^rvenito in ui punto del tempo. Aristotile infatti allude alla dottrina che il cielo si conserva e permane eternamente per l'azione dell'anima (quel- fomiazìone delfanima. NeirinterpretazV re dì questa dot trina, Timportante e per noi di determinare il s^'gnificato delle entità, che miticamente vengono rappre sertflte come gringredif'nti di cui il Demiurgo compone l'anima. Ecco quali sono questi ingredierti: OflTessenza in- divisibile e sempre la stessa e di quella cho diviene di- visibile nei corpi compose (il Demiurgo} una terza specie di essenza intermedia, la quale, anche lispetto fila na- tura dello stesso e a quella del divrrsr, compose inter- media tra r indivibibile di essi e il divisibile per i corpi; e prese queste tre cose (ciré, come rit^ulta chiaramente da ciò che segue, lo Stesso, il Diverso e l'essenza int*^r- media, composta dall'esFcnza ind. visibile e dalla divisi- bile), le mescolò tutte in una specie unica, adattando per forza allo Stesso la natura del Diverso refrattaria alla mescolanza. E avendo mescolato inscme con V es- senza (cioè, evidentemente, l'esseiiza intermedia), e delle tre cose fattane una sola, questo tutto nuovamente divise in tante parti quante bisognava, tutte composte dello Stesso, del Diverso e deirossenza. Le difficoltà dell' interpietazione di questo luogo si l'anima a cui è dovuto il suo movimento —De Coelo); e noi non possiamo attribuire questa dottrina che a Platone, per- chè egli solo, prima di Aristotile, ha ammesso un'anima cosmica, forza motrice del cielo, e la perpetuità dell'universo. Ciò è confer- mato dal Timeo 38 e e 58 a-b. Nel primo di questi luoghi si dice ohe i corpi degli astri vennero legati con legami animati; e nel- l'altro si paria d'uno sforzo del contorno del mondo per congiungersi con se stesso, che preme tutti i corpi che esso contiene, e non la- soia alcun vuoto tra di loro : evidentemente Piatone ha immagi- nato questo sforzo per ispiegare la coesione tra le parti materiali dell'universo, e, secondo i suoi principii, egli non ha potuto attri- buirlo che all'azione dell'anima. Timeo riducono in sostanza a sapere: che cosa sì debba inten- dere per Vessenza indivisibile e per Vessenza divisibile', e che per la natura dello stesso e quella dd diverso. In quanto alla prima quist'one, é evidente che Ves- senza indivisibile e sempre la stessa nel linguaggio pla- tonico è ridea: non lo è meno che per il sui "contrap- posto, r essenza divisibile, deve intendersi la materia- spazio (Platone dice : V essenza che diviene divisibile nei corpi, perchè lo spazio per se stesso non è fisi- camente divisibile; non lo diviene che in quanto costituisce la materia delle cose). xMa l'Idea, designata dalle parole essenza indivisibile e sempre la stessa, è tutto il mondo ideale, o é Femplicemente r Idea specifica, la forma eterna e generale, dell'anima? Se ni comprende il senso della partecipazione platonica, l'anima non pò- trebbe partecipare a tutte le Idee se non alia condizione che essa fos^e tutte le cos^ ident ficandnsi col tutto. Ma la dottrina che l'anima è identica al tutto - dottrina a cui non si potrebbe dare altro sens) int-lligibile che quello di Hegel e dell' interpretazione del Teichmuller, cioè l'identità del soggetto e dell' oggetto, d-1 pensiero e dell'essere -non si trova mai apertamente in Platone: ben più, noi mostreremo eh' essa sarebbe inconciliabile con la sua dialettica. Per lessema indivisibile noi dob- biamo dunque intendere l'Idea o la forma dell'anima; e la composizione dell'anima dalla mescolanza dell' essenza indivisibile e della divis bile non rappresenta se non il concetto che essa risulta, come tutte le altre cose, dal- lldea o forma e dalla materia. Perchè intendere infatti il luogo in quistione in un senso che attribuirebbe a Platone una dottrina che noi non sappiamo se gli sia V. Supplem. D, appartenuta, quando si può indendeila in uno che non gli attribuisce altre dottrine so non quelle che noi sappiamo certamente essergli appartenute? In quanto «Ilo Stesso e al Diverso, noi abbiamo visto altrove i motivi che si hanno, indipententemente dalla interpri't^izione dJ questo luogo del Timeo, per ammet- tere che essi erano dei principii compresi nelle due auoxoi- XCat^di contrari, che Platone idenlificava ai due elementi, e delle denominazioni di questi elementi stessi, come l'Uno e la Dualità indeterminata, l'Essere e il Non essere, l'Eguale e l'Ineguale, ecc. Ma ciò che prova d'una maniera indubitabile che la cosa è cosi, é l'au- torità d'Aristotile, il quale afferma (2) che Platone nel Timeo compose l'anima dagli elementi (e per elementi Aristotile intende costantemente l'Uno o Essere e la ma- teria) a fine di spiegare la conoscenza conformemente al principio dei fisici che il simile si conosce dal simile (3). All'autorità d'Aristotile possiamo ajrgiungere anche quella di Xenocrate, il quale, secondo Pluarco, interpretando la composizione dell'anima nel Timeo, vede negli ele- menti di cui essa è stata comporta i due elementi dei numeri, cioè V Uno e la Dualità indeterminata. V, questo Supplem. carte 170, 176, 179, 182. (2) De Anima I. I. II. 7. (S) V. per questa spiegazione Tim. Plutarco Psicogonia Secondo Plutarco, Xenocrate ag- giungeva all'Uno e alla Dualità indeterminata lo Stesso e il Diverso come principii della quiete e del movimento: cosi egli avrebbe ri- guardato lo Stesso e il Diverso come due altri principii dell'anima distinti dall'Uno e dalla Dualità indeterminata. Ma vihaqui«enza dubbio un'inesattezza di Plutarco o dell'autore secondo cui egli ri- ferisce l'opinione di Xenocrate (Eudoro), come basta a provarlo il fatto cUe Platone e i platonici ident incavano -zrr i Platone, chiamando lo Stesso indivisibile e il Diverso divisibile, non intende identificarli con Vessoiza iTìdivi" sibile e V essenza divisibile di cui prima ha parlato: egli vuol dire che Tainma è per la sua composi/ione inter- media tra il divisibile e l'indivisibile, non solo «avuto riguardo ai fattori immediati da cui essa risulta (l'Idea (v. questo Supplem. carta 176), la quiele e il movimento, e per con- seguenza anche i loro principi!— il principio d'una cosa essendo nel sistema delle Idee il concetto universale, obWettivato, a cui la cosa è subordinata ai due elementi delle Idee-numeri Xenocrate, sempre secondo Plutarco, avrebbe inteso per l'essenza indivisibile rUno e per l'essenza divisibile la Dualità indeterminata: con tutto ciò la sua interpretazione concorderebbe, nel punto es^dnziale, con la nostra, perchè l'importante è di riconoscere che gli elementi, di cui è composta l'anima, non sono altra cosa che quelli di cui qual- siasi altro essere è composto. Semplicemente, mentre secondo la nostra interpretazione Platone avrebbe considerato nell'anima, come in tutti gli altri esseri, una doppia composizione, quella dall' Uno e la Dualità indeterminata, e quella dall'Idea e la materia, secondo l'interpretazione ohe Plutarco attribuisce a Xenocrate, esrli non ne avrebbe considerato che una sola, la primi. Plutarco riferisce anche, secondo Eu^Ioro, un'altra interpreta- zione, che rimonterebbe a Crantore. Secondo questa, Platone ha composto l'anima dalla natura intelligibile, dalla materia, e dal- l'identità e la diversità, di cui tutte le cose partecipano; e ciò, con- formemente a quello che dice Ari-jtotile (v. De an, l. I. IL 7 e 1. 1. V. 5 sqq.), perchè l'anima, per poter conosoare tutto, deve essere composta di tutte cose. In questa interpretazione la natura intel- ligibile non è, come in quella di alcuni critici moderni, tutto il mondo ideale, ma la sola Idea o forma de l' anima : è cosi che la comprende certamente Plutarco, perchè egli dice ohe questa in- terpretazione si riduce a comporre l'anima, come tutte le altre cose, dalla specie o forma e la materia (v. Psicoff, III). L'interpreta- zione di Crantore è identica in sostanza alla nostra, purché per la Identità e la Diversità s'intendano i due elementi delle Idee e delle cose, ciò che è necessario di tare, perchè le interpretazioni di Xe- nocrate e di Aristotile dovevano pure avere qualche fondamento. e la materia), ma anche ai fattori più remoti (i due ele- menti). L'uno dei' due elementi è chiamato iadivisibiie, perchè è rUnità; l'altro, divisibile per i corpi, perchè uoa delle sue funzioni è dì essere la materia delle cose — quantunque questa denominazione gli convenga sotto questo rispetto soltanto, e non sotto Paltro, cioè come materia delle Idee - È ioutile di discutere l'opinione di quel critici che per lo Stesso e il Diverso intendono le Idee e la materia: contro di e^^sa vale, oltre a ciò che è stato detto ora, quello che si disse sopra a proposito deirin- terpretazione dell'essenza indivisibi'e e l'essenza divisibile. Contro quest' interpretazione dell'essenza indivisibile e l'essenza divisibile (eoe quella che vede nell'una il mondo ideale e nell'altra la materia) ora possiamo ag- giungere che, se Tanima venisse composta di tutte le Idee, sarcbb'» superfluo, per ispiegaro la conoscenza, dì comporla anche dei due elementi. Componendo l'anima dello Stesso e del Diverso e della terza essenza intermedia, ch'egli ha *^ik composto dell'Idea e della materia, Platone sembra riguardare quest'essenza come distinta dall'essenza dell'anima, e come un semplice ingredient'j nella composizione di essa, e lo Stesso e il Diverso come degli elementi estranei all'essenza intermedia, che bisogna aggiungere a questa per avere l'essenza dell'anima. Ma in realtà l'essenza in- termedia, composta dalla indivisibile e dalla divisibile, non è altra cosa che l'essenza stessa deiranima — ed è perciò che Platone la ch'ama semplicemente Vessenza-^ e lo Stesso e il Diverso non sono fuori dell'essenza inter- media, ma ne sono gli elementi. Sf^mplicemente la forma fimbolica scelta da Platone (di una mescolanza in una caldaia^ non può rappresentare d'una maniera adequata j) concetto della partecipazione. Lo Stesso e i! Diverso, ^241 ^ cioè le due Idee più uoiverjali a cui tutte le altre par- tecipano, sono le determinazioni generali che 1 anima ha in comune con tutti gli altri esseri: a queste deter- minazioni comuni bisogna aggiungere il proprio, il 'dif- ferenziale, deiranima, che ne fa un'essenza particolare distinta dalle altre. Ma questo proprio, questo dififeren- tJale, non può considerarsi coipe separato dall 'essenza deiranima ed esistente per sé senza le determinazioni comuni che esso differenzia, perche nel sistema delle Idee ciò che si separa^ facendosene un'entità per se, è la spe- cie e il genere, ma non la differenza: ne segue che Pla- tone non può rappresentare la partecipazione dell'anima agli Universali supremi che per Timmagine della loro mescolanza con esf»a. Anche pel Sofista la partecipa- zione d'unldea alle altre sotto cui essa è contenuta è chia- mata una mescolanza (di quest'Idea con queste altre. Platone dà allVsscnza dell'anima un posto intermedio fra 1 suoi ingredienti, perchè egli assegna alle cose una natura intermedia tra le entità da cui esse risultaoo (2): ma evidentemente con ciò egli intende indicare inoltre che, in virtù della sua stessa composizione, l'anima ha un carattere medio tra l'indivisibile e il divisibile; non è assolutamente indivisibile com^ l'Idea e l'Uno, perchè estesa e quindi composta di parti, né assolutamente divi- sibile come la materia, perchè indissolubile e incorruttibile. Alla nostra interpretazione della coropcsizione del- l'anima nel Timeo può farsi l'obbiezione che Plutarco fa a quella di Crantore, cioè che l'anima esseado com- posta allo stesso modo che tutte le altre cose, non si V, Sof. 261 d, 252 b, e, 253 b, e, 254 d, e, 256 b, 259 a, 260 a, «oc. (2) V. il Timeo «tesso 50 d. <3) Psicog, III. vede come questa composizione convenga ad essa più che alle altre. La risposta è che, esponendo] particolar- mente la composizione dell'anima, Platone non ha per iscopo d' indicare ch'essa ha un' origine e dei principia speciali: il suo scopo è invece, primo, come osserva Ari- stotile, di fare un'applicazione del principio che il simile sf conosce dal simile; e poi, siccome le rappresentazioni ordinarie del Timeo, intese letteralnienle, implicherebbero la trascendenza, di contrapporre ad esse un' altra rap- presentazione, in cui il concetto dell'immanenza sia ener- gicamente espresso, qual è quella della mescolanza. B. Il pitagorismo nel FUebo, Il pitagorismo del JFi- Idx) consiste in sostanza nella dottrina sul limite (népocO e l'illimitato (ineipov). (1). In questo dialogo Platone di- vide tutto ciò che esiste in tre generi: il limite o limi- tato (2), r illimitato e il composto dell' uno e dell'altro. Il genere dell' illimitato comprende tutte le qualità che (1) Platone non prende solamente dai Pitagorici la formula ohe le fìOHe sono composte di limite e d'illimitato, ma anche quella cha esse constano di uno e di molti (v. FU, 16 e e sqq., e cfr.'Supplemento B, V, 4.). Ma qui il pitagorismo di Platone è nella forma anziché nella sostanza: egli non vuol dire, com3 i Pitagorici e come egli stesio in un perio lo ulteriore dilla sua speculazione, che l'unità e la pluralità sono degli elementi di cui le co-ie sono composte, ma che tutto è al tempo stesso uno e malti, cioè che ciascuna Idea generale contiene una moltiplicità d'Idee particolari. Con questa formula dunque egli non innova niente nelle sue dottrine primitive; semplicemente le esprime in una forma che dà ad esse un sembiante di atHnità con quelle dei Pitagorici— Un'altra evidente affettazione di pitagorismo vi ha nel Flleho^ quando il metodo dialettico, cioè la divisione per gè nari e per ispecie, è presentato come una ricerca di numeri (v. 16 d, H 0, e, 18 a— b, e, 19 a): an- che qui il pitagorismo è puramente verbale, e non importa alcun avvicinamento realo alle dottrine dei Pitagorici, (2) Cfr. la nota a carta 97. -24? - if* onos suscettibili di una variabilità airinfinito, tanto nel' r aumento quanto nella diminuzione : tali sono il caldo e il freddo, il forte e il piano, il secco e Tumido, il ve- loce e il lardo, il molto e il poco, il grande e il pic- colo, ecc. Siccome queste qualità non vengono attribuite che in un senso comparativo — chiamando un corpo caldo o freddo, noi vogliamo dire che epso è più caldo o più freddo di altri corpi ; ch'amando un movimento veloce o tardo, che esso è più veloce o più tardo di altri moviment'; ecc. — cosi Platone si serve, per deno- tare queste qualità, di termini comparativi : più caldo e più freddo, più veloce e più tardo, mairgiore e minora, più o meno numeroso, ecc., e dà come carattere ge- nerale dell'illimitato Tammettere il più e il meno. Dalla natura comparativa dello qualità del genere deirillimi- tato segue che esse si esprimono per una coppia di termini oppost», uno positivo, che indica il comparativo di maggioranza, e uno negativo, che indica il coìiipà- rativo dì minoranza : il termine caldo, attribuito a un corpo, signilica che esso è più caMo di altri corpi, che in relazione ad esso si chiamano freddi; il termine veloc**, «attribuito a un movimento, significa che esso è più veloce di altri movimenti, ch^ in relaziono ad esso si chiamano tardi; ecc. Verisiniilmente questo concetto, che gli attributi, appartenenti alla classe deirillimitato, da cui risultano gli esseri, racchiudono in so una dua- lità di termini contrari, è anche un'imitazione della dot- trina pitagorica che tutto consta di contrarietà. Al ge- nere del limite appartengono i rapporti numeiici o, più generalmente, metrici: l'eguale, il doppio, il triplo, ecc. Dall'applicazione dei rapporti numerici o metrici, cioè del limite, alle qualità dell' illimitato nasce il terzo genere (il composto del limite e 4eirillimitato ); p, e. t:':- 6erii rapporti metric?, applicati al caldo e al freddo, da- ranno luogo alla temperatura particolare delle varie di- visioni del tempo; altri rapporti metrici, applicati all'acuto e al grave, daranno luogo agli accordi musicali; ecc. Qiiesta temperatura e questi accordi appartengono, per conseguenza, al terzo genere (I). Il pensiero di Platone è evidentemento che nelle cose, o, più propriamente, noi loro attributi, bisogna distin' guere due elementi -due elementi concettuali, ma che, secondo le abitudini della speculazione platonica, ven- gono elevati ad entità sussistenti p-r sò~: una qualità astratta, il cui concetto t^i ottiene per la soppressione di qualsiasi grado determinato, e che è suscettibile di ri- cevere un' infinita varietà di gradi, che crescono e de- crescono sino all'infinito; e il grado che questa qualità riceve in un caso determinato, e la cui espressione e, per conseguenza, il cui concetto, sono dati da un rapporto metrico (cioè riferendosi a una certa unità di misura). Sic- come non è possibile di determinare il grado che per mezzo del rapporto metrico, così questo secondo elemento, genericamente considerato, si riduce a una relazione fra quantità: l'eguale, il doppio, ecc., e in una parola, come dice Platone, tutto ciò che ò numero rapporto a numero e misura rapporto a mfsura (vale a diro ogni rapporto di un numero con un altro numero o di una mfsura con un'altra misura). Certamente le qualità che Platone comprende nel genere dell'illimitato, non assumono mai, nella realtà, che un grado finito ; e, considerate in se stesse, non bisogna concepirle come elevate a un grado infinito— ciò che non potrebbe accordarsi con la loro fun- zione di elementi delle cose reali, e che per altro sarebbe V. Ftt, 2s e 26 d, luogo citato a carte una contraddteione nei termini-nè come .1 complesso d. Li i gradi finiti, crescenti e decrescenti ali infinito, con cui éssf si trovano negU oggetti pariicolan; ma devono rnrsi facendo astrazione da qualsiasi grado e m.sura pensarsi i misura è un altro Tnenrl; sf ggiu gè ad esse per formare gli attri- butT^ Ltar a: e d'altronde un'entità platonica ion n complesso degli attributi omonimi degli oggett, Ttico lari, ma l'attributo in se stesso, cioè ne suo concetto Sto e generale. Tuttavia queste qualità vengono n- ^Ìnditte all' illimitato, perchè non vi ha alcun limite nellWen e nella diminuzione dei gradi di cui sono suLSi : è un'osservazione analoga a quella che «b- ^^ fatta sul Grande e Piccolo e il Molto e Poco de- "" pTcTm^eUrTn concetto de, lìmite, dobbiamo ag- .lnn*ereThe, applicandosi alle qualità della categoria Slimitato esso non dà a queste semplicemente un aeu iinmiKii, orado c una misura con- grado e una misura, ma un S' venienti : in effetto la misura, nel FUebo (1), è uno de u IZ^ in cui si mostra l'Idea del bene. I rapporti nu- S che costituiscono il limite, non fissano colamene il grado, in cui gli attributi del genere dc'l '»""'*«»;' considerati d' una maniera assoluta, devono attuar^ nelle cose particolari; ma determinano anche le reia :^ni qTItLive .ra gli elementi di cui queste sono composte, introducendovi della proporzione e dell a mo «r In questo senso, essi si applicano specialmen e a, termini opposti dell'illimitato, ^''^uLt tro : perciò si dice che il limite fa cessare la dissensione tra i due contrari, e li rende proporzionati e accordati (oujiqjtóva) per mezzo del numero. Cosi tutto ci6 che vi ha di bello nella natura— e per conseguenza tutti gli esseri conformi al loro tipo, perchè il buono e il bello è, per Platone, la forma delle forme —risultano da una contemperazione armonica di contrari : p. e. le divisioni dell* anno da quella del caldo e del freido ; l’armonia musicale da quella delT acuto e del grave; ecc. (26 a). Questo concett j non è forse senza legame con la dottrina pitagorica che tutto è armonia. Ài tre generi di cui abbiamo parlato sin qui Platone ne aggiunge un quarto: è la causa efficiente degli altri e della mescolanza del limite e dell* illimitato. Questo quarto gen'ire ^costituiti) come dimostreremo in seguito, dair ìntf-lligenza e dall' anima. Platone comincia per divi- dere tatti gli esseri che Fono neir universo in tre generi, benché poi parli anche di un quatto, perchè questo rientra in uno dei tre primi: in effetto Tanima e Tintelligenza de- vono essere composte, come tutte le altre cose, di limite e di illimitato. La difficoltà deir interpretazione di questa dottrina del Filebo è che il limite e Tillimitato, di cui è quistione in questo dialogo, non potrebbero identificarsi con nes- suno dei concetti della filosofia platonica, sia tra quelli che troviamo negli altri scritti di Platone, sia tra quelli che conosciamo per T esposizione d'Aristotile. Molti in- terpreti, è vero, identificano l'illimitato con la materia; in quanto al limite, alcuni vedono in esso le Idee, altri le entità matematiche o intermediarie. Ma tutte queste opinioni presentano delle impossibilità evidenti, che noi indicheremo, cominciando dalTillimitato. L'illimitato del J'ìlebo ha senza dubbio una grande analogia con la materia degli aypacpa SóYfjia'ca : anche questa è chiamata TSiisipov; inoltre essa è ricondotta al :^'' (1) V. «4 0-65 ». grande e piccolo, e IMlimitato del Fileho é definito « la natura che riceve il più e il meno. Ma a lato a queste somiglianze vi ha una differenza importante*, ed essen- ziale: il Grande e Piccolo degli à^pacpa JÓYjiaxa è un concetto semplice, un'entità unica; l'illimitato del Filebo è un'unità articolata, cioè in esso sotto l'unità generica (il più e il meno) è compresa una moltitudine di specie (il più caldo e il più IVedio, il più veloce e il più tardo, il più acuto e il più gravo, ecc.). Ciò che corrisponde al Grande e Piccolo è il concetto generico dell' illimitato (del Filebo) : ma quello non si divide, come questo, In più specie particolari; dalla determinazione o concretiz- zazione del Grande e Piccolo risultano immediatamente le Idee, cioè le essenze (sreneriehe e specifiche) delle cose, non delle specie particolari di grande e piccolo. Al Grande e Piccolo, è vero, è anche ricondotta una pluralità di concetti distinti, ciascuno dei quali si considera come un'entità per se, cioè l'una deUe due o'joxotxfai di con- trarli: ma questi concetti sono, per quanto poFs'amo giudicarne, affatto diversi da quelli che costituiscono le specie dell'illimitato nel Filebo ; ben più, il carattere delle due dottrine differisce nei punti più essenziali. Primo, i concetti delle due oi>axotx^at di contrari sono dei prin- cipiit cioè non sono subordinati ad alcun concetto su- periore; le specie dell'illimitato nel Filebo, invee**, sono necessariamente delle rose derivate (dall'illimitato in se stesso, cioè nel suo c'incetto generico), il rapporto tra il principio e la cosa derivata equivajendo, nella dialettica platonica, a quello tra il generale e il particolare. Se- condo, quelli (il Non essere, il Diverso, il Multiplo, ecc.) sono lutti di una universalità assoluta ; queste (il più caldo e il più freddo, il più secco e il più umido, il più acuto e il più grave, ecc.) non valgono ciascuna che per una categoria particolare di fenomeni. In quelli, infine, un concetto della classe dell'illimitato ha il suo contra- r*o nel concetto corrispondente di quella del limitato; le spese dell'illimitato del Filebo racchiudono invece la con- trarietà in se stesse, esprìmendosi ciascuna per una cop- (>ia di termini opposti. Tassando ora al limite, ecco le diliicoltà principali che si oppongono alla sua identificazone con le Idee: 1« Il mondo ideale è Tinsieme di tutti i concetti delle cose, obbiettivati; il limite del i^7Zf 60 non comprende che una certa classe di determinazioni matematiche. Tuttavia, ^iccome le Idre, rell'ulrimo periodo della speculazione platonica. Fono state ricondotte a dei numeri, si è cre- duto che il Iniite del Filebo equivalga a questi numeri, e oè agl'idea'i. Ma Platone non ha ricondotto le Idee a dei rapporti numerici, quali sono quelli che nel Filebo vengono chiamati limite, ma semplicemente a dei numeri: anche il limile del File\o consiste, se si vuole, in numeri, ma questi numeri sono proporzionali, non cardinali come i numeri ideali. Come dice Aristotile (Met.), da ciò che la dualità è la prima cosa a cui può attribuirsi jl dorpio, non ne segue che il doppio Ma la stessa cosa che la dualità. Lungi che le Idee-numeri possano equivalere a dei relativi, come quelli che costituiscano il lin.ite del Filebo, Platone anzi, nell'ultimo per'odo d Ila sua speculazion^ escludeva i velatili dal mondo dello Idee [ì), e qu'iidi anche i concttti d 1 limite del Filebo. 2" Le idee fono le essenze delle cose: ma l'essenza d'una cesa evidentemente non è esaurita dai rapporti numerici, che corrono tra gli elementi di cui questa è (1) V. Arist. Mei. composta. Non Io é almeno, se questi rapporti si con- siderano d' una maniera astratta, come vengono consi- derati nel Fdebo : per avere l'essenza della cosa, si dovrebbero fare entrare nel concetto del rapporto numerico gli elementi stessi, i sustrati, tra cui esso sussiste. Per esempio, se l'armonia è un rapporto numerico tra i suoni, l'essenza dell'armonia sarà i suoni con questo rapporto numerico, non il solo rapporto numerico astratto. Pla- tone, è vero, nell'ultima forma della sua filosofìa, toglie dairidea o essenza la materia, e la riduce alla sola for- ma : ma questa materia non è che lo spazio, o Testen- sione. Ora V illimitato del Filébo comprende assai più determinazioni che la semplice estensione : esso ne com- prende anche assai più che la materia nel senso più lato, cioè quale uno dei due elementi delle Idee e delle cose. 30 II limite e rillimitato, nel Filébo, sono dati, non solo come elementi delle cose, ma anche come elementi delle Idee (1). Come potrebbe dunque il limite identifi- carsi con le Idee, di cui non è che un elemento? 4<> Nel Filébo, Tillimitato (àKstpov) non fa parte del li- mite, gli è anzi opposto come un altro elemento degli esseri. Dunque il limite non può equivalere alle Idee, perche queste, secondo T esposizione aristotelica, con- stano anche dall' insipov. Siccome il limite del Filébo consiste in determinazioni matematiche, la sua identificazione con le entità mate- matiche ha più plausibilità; ma anch'essa incontra dello difficoltà insuperabili : 1^ Anche contro di essa vale la prima obbiezione che abbiamo fatto alla identificazione con le Idee ; vale a {V) V. 16 e e 23 e, Cfr. f»applem. B, VITI, nota Anale (carta 100). dire che i concetti del Filébo sono dei rapporti numerici, mentre i numeri matematici (che sono le sole entità ma- tematiche a cui questi concetti possono assimilarsi) sono dei numeri nel senso stretto, cioè cardinali. 2<> I numeri matematici non sono che i nostri con- cetti dei numeri, sostantificati, cioè questi attributi co- muni delle diversf^ collezioni di oggetti, che noi chia- miamo numeri, considerati, nella loro astrattezza, come 8i«»s*stf»nti per se stessi. Il valore di questi numeri è, in un certo senso, assoluto, vale a dire, lo stesso numero può valere, qualunque sia la natura degli ogrgetti nu- merabili: non vi ha dunque per ciascuno di essi qualche cosa che sia il suo correlativo necessario, come per i rapporti numerici e metrici che costituiscono il limite del Fileho. Ciascuno dì questi ha un valore relativo a una specie determinata deir illimitato, che è quindi il 8U0 contrapposto e il suo complemento neee?«sario. Se tale rapporto numerico vale, per esempio, per l'armonia, ed ha perciò come relativo il grave e 1' acuto, per le stagioni varrft, non lo stesso rapporto, ma un altro, che^vrà per correlativo il caldo e il freddo. In una pa- rola il limite e l'illimitato, e le specie determinate del- l'uno e dell'altro, sono dei concetti che si suppongono reciprocamente. Se i numeri matematici foc»s-ro, non semplicemente, come noi ammettiamo, i nostri .«onc.etti dei numeri sostantificati, ma le leggi del mondo teno- menico e le Idee nel loro rapporto con la materia, se- condo unlnterprctazionc che noi abbiamo già discussa (l), anch'essi supporrebbero, è vero, un opposto come cor- relativo necessario: quest'opposto sarebbe la materia, perchè essi non potrebbero rappresentare, come le Idee (1) V. questo Su|.p. n. ITI. stesse, che la semplice foiina. Ma allora, perchè il limite del Fllebo corrispondesse ai numeri matematici, l'illimi- tato dovrebbe corrispondere al semplice spazio, poiché le entità intermediarie, essendo posteriori alle Idee (supposto, come vu'ìle quest'interpretazione, ch'esse tramezzassero tra la totalità del mondo ideale e la totalità del mondo reale) non potrebbero essere meno comprensive di queste. 3® Il limite, nel M/ebo, è, come abbiamo detto, un elemento delle Idee. Ma le entità matematiche non ci sono mai date per elementi delle Idee: ciò sarebbe anzi in antitesi colla loro qualità di eatità intermediarie tra le Idee e le cose. L'elemento infatti è anteriore alla cosa di cui è elemento, mentre le entità intermediarie sono invece posteriori alle Idee. 4^ Perchè Platone potesse rio^uardare le entità mate- matiche come uno dei quattro generi in cui vengono divisi tutti gli esseri, e?se dovrebbero costituire per lui una classe di entità distinta dagli altri concetti obbiet- tivati, in altri termini, egli dovrebbe ammettere già la distinzione tra le Idee e le entità matematiche. Ma quando scriveva il Filebo, Platone non conosceva ancora questa distinzione: in questo dialogo in effetti (l) tutci i con- cetti obbiettivati in generale sono chiamati Idee e riguar- dati come oggetti della dialettica (mentre dopo la distin- zione tra entità matematiche e Idee, il metodo dialet- tico non si applica che a queste, perchè dei numeri e delle figure vengono realizzati i concetti specifici soltanto e non i genenci— v. questo Supplem. Ili carte 197-198) (2). (1) V. 14 C-J9 b, e cfr. q[aesto Supplem.» Ili, oarta 210. (2) Che nel Filebo anche i concetti matematici siano oom« presi nella sfera della dialettica, si vede pure da 58 a, in cai dopo aver distinto le matematiche dalle altre arti e 1' aritmetica pi più, U distinzione delle entità matematiche dalle Idee importa j1 posto, assegnato a quelle, di intermediarie tra queste e le cose, ciò che suppone la dottrina dei numeri ideali: ma Platone, nel Filebo, parla come se egli non conoscesse ancora questa dottrina (2) Delle entità inter- mediarie, inoltre, ve ne sono molte della stessa specie: vi ha una specie, cioè un'Idea, unica della diade, della triade, ecc., ma molt«. diadi, triadi, ecc. matematiche. Ma, nel Filebo, ciascuno dei concetti compresi nella cate- goria del limite, cioè V eguale, il doppio, ecc., è eviden- temente riguardato come un'entità unica, perche Platone dà questi concetti come i molti in cui si divide il Li. mite (dopo aver detto che mostrerà come tanto il limite quanto T illimitato sono al tempo stesso uno e molti — cfp. Supplem. B. n. Vili sulla fine. Aggiungiamo ipfine che nei concetti del limite del Filebo la moltiplicità viene ricondotta ad una unità superiore, ciò che, come abbiamo osservato, non avviene nei numeri matematici. e la geometria dei lilosoti da quelle del volgare, dice che la dialet- tica è la scienza che conosce tutte le scienze di cui ha parlato. La dialettica per Platone comprende in un certo senso tutte le altre scienze, perchè ogni scienza è virtualmente compresa nella cono- scenza delle essenza delle cose, che è 1' oggetto della dialettica. (i) V. questo Supplem. n. III. V. questo Supplem. n. I carte Le specie si del limite che dell' illimitato sono insomma delle Idee, benché Platone, quando dice che le cose che si dicono essere eternamenie (cioè le Idee) constano di limite e d'illimitato, non riguardi propriamente come Idee che i concetti del terzo ge- nere, vale a dire di quello che risulta dalla mescolanza del limite con r illimitato. Ciò è perchè lo scopo della dottrina del Filvhi) è di comporre gli esseri di questi due elementi, ad imitazione dei Pitagorici, e perciò Platone non può riguardare propriamente come ewer) che i composti, e non gli elomenti stessi. 5° Se Platone contasse tra i fattori del reale lo en- tità matematiche, sarebbe inespl'cabile com'egli pas^i invece sotto silenzio le Idee. Per evitare questa difficoltà, gl'interpreti che v^ìdono nel limite le entità matematiche, ammettono che le Idee sono comprese nel quarto genero, quello che Platone chiama causa della mescolanza (del limite e deirillimitato) o della generazione, ed anche causa di tutte le cose (cioè d^gli altri tre gen^^ri), e semplicemente causa. E in effetto le Idee sono per Pla- tone delle cause, e nel Fedone {9b e-iOl e) vengono an- che chiamate cause della generazione o della corruzione; e nel Filebo stesso lldea del bene è detta la causa per cui la vita mescolata (di piacere e di saggezza) è gradevolissima, pregevole e buona, ed anche la causa di tutto ciò che vi ha nella mescolanza (del piacere con la saggezza). Ma il termine cau<»a, attribuito alle Idee, non ha lo stesso senso che quando Platone l'applica al quarto genere del Filebo. Questo termine non conviene alle Idee che in un senso lato, come sinonimo di principio: le Idee sono cause delle cose, in quanto queste sono ciò che sono per la partecipazione di quelle. Invece, quando si tratta del quarto genere del Filebo, la causa deve intendersi nel senso stretto; essa vuol dire: un fe- nomeno—cioè un'.'sistenza spttoposta al tempo e a tutto le altre condizioni d-ll'individuaUtà-che è la condizione di un altro f^'nomeno e lo spiega. Così Platone deduce l'esistenza del quarto genere del Filebo dal principio che ciò che diviene deve divenire per una causa: ora l'ipotesi delle Idee non è dedotta da questo prin- cipio, ne se si guarda ai motivi reali della teoria, né se si guarda alle prove su cui Platone la stabilisce. Quando poi ci si dice (26 e-27 a) che la causa equivale a ciò che fa (iioioOv) e l' effetto a ciò che è fatto (noiouiis- vov), è chiaro che per questa causa dobbiamo intendere una causa attiva, un agente: quest'agente di più deve essere personale, perchè ciò che è classato nel quarto genere è chiamato Topifice (5y)|itoripYo5v) delle cose clas- sato negli altri tre (27 b). Il genere della causa, nel Fi/ebOy corrisponde a ciò che Platone altrove chiama la causa prima, e talvoltaanche semplicemente la causa (1), di tutte le cose, vale a dire l'anima del mondo. Che il quarto genero del Filebo consista unicamente nell'anima e nell'intelligenza— la quale non esiste altrove che nel- l'anima -si rileva della maniera più evidente dall'esa- me particolareggiato che Piatone fa di questo genere, perchè, dopo aver detto che r» a4 esaminarlo più lun- gamente, non parla poi che di esse: dimo- stra che la mente governa il tutto, perchè questa pro- posizione è àegntL dell'aspetto del mondo, del sole, della luna, delle stelle e di tutte le rivoluzioni celesti, e perchè, come noi prendiamo gli elementi del nostro corpo dal corpo dell'universo, cosi l'anima non jmó venirci d'altronde che da un'anima cosmica; e conclude che del quarto genere, che è in tutte le cose, questa parte che ci dà Tanma, che ripara la salute nelle malattie, ecc. non deve Estimarsi la sapienza tutta quanta e di tutte le forme, e che nell'universo vi ha molto illimitato, sufficiente limite, e una causa che presiede ad essi, la quale orna e dispone gli anni, el stagioni, i mesi, ed è chiamata a buon dritto mente e sapienza. Per fare rientrare, malgrado ciò.,- V. Leggi, Kpinomidc 976 e 977 a, 98J b, 983 d, 988 d-e . (2) V- 30 e. In senguito Platon© dice che l'intelligenza è del genere della causa di tutte cose, ed anche cUe essa è •* affine alla *iì - 248 - -mt-' nel quarto gener»^ anche le Id^e, alcuii d^^l'interpre ti che identificano il limite con le entità matematiche, af- fermano che per Platone le Idee e il Nona in fondo coincidono: ma questa proposizione, come abbiamo os- serviate altrove, non sarebbe intelligibile che nella dot trina dell'identità dell'essere e del pensiero, dottrina che non possiamo attribuire a Platone. Aggiungiamo che la classe delle entità matematiche contiene, oltre i numeri matematici, anche le grandezze (le quali non procedono da questi numeri, come ha cre- duto qualche interprete, ma immediatamente dagl' idea- li) (1); cosi se il limite del Fileboaì fa identico ai pri- mi, non si comprende nemmeno perchè Platone non conti fra gli elementi costitutivi del reale anche le se- conde. 6^* Quelli che identificano il limite con le entità ma- tematiche sono i sostenitori deirinterprctazione trascen- dentalista del sistema delle Idee. Ciò 6 naturale, perchè lo scopo di quest'identificazione è di appoggiare la tesi che le entità matematiche sono le leggi e le forme del mondo fenomenico, e questa tesi suppone che questo entità siano intermediarie nel senso che esso tramezzino, causai e pressoché dello sto-»4o genere, donde potrebbe in- ferirsi che l'intelligenza e V anima non sono isoli oggetti compre.^r nel quarto genere, e che anzi esse non sono aggregate a questo genere che d' una maniera un po' forzata ed impropria. Ma in que- sti luoghi Platona parla dell' intelligenza umana, perchè risponde alla quistione a qual genere appartenga la saggezza che è uno dei due ingredienti della vita mescolata (cioè della vita felice); ed esita sd possa classarla rigorosamente nel genere della causa del tutto, per- chè questo è propriamente costituito dall' intelligenza e l' anima cosmiche. V questo Sapplem. n. III. carte non tra le Idee di certi attributi e questi attributi stessi nelle cose sensibili, ma tra la totalità del mondo ideale e la totalità del mondo sensibile (1). Ora questa inter-pretazione delle entità intermediarie suppone alla sua volta la trascendenza delle Idee; perchè è, ci si dice, per l'impotenza delle Idee trascendenti a esercitare una causalità reale sulle cose, che Platone è stato condotto ad immaginare queste entità, affinchè esse servissero da mediatori, in modo che Tinfiuenza delle Idee potesse comunicarsi per il loro mezzo al mondo sensibile. Ma se le Idee sono trascendenti, anche le entità matemati- che devono essere trascendenti. Le entità matematiche sono dei predicati universali sostantifìcati della stessa maniera che le Idee; per conseguenza le stesse in- concepibilità che risultano dall'immanenza delle Idee ri- saltano egualmente dall' immanenza delle entità mate- matiche; le stesse espressioni indicanti la relazione tra le cose e le Idee, in cui si vedono le prove più forti della trascendenza di queste, servono pure ad indicare la relazione tra le cose e le entità matematiche (3); i concetti realizzati dei numeri e delle figure, della stessa maniera che le Idee del bello, del buono, del giusto, ecc., vengono riguardati come degl' ideali a cui le cose non si conformano che d' una maniera approssimativa (4); se è evidente in certi luoghi d'Aristotile ch'egli si rap- presenta le Idee come poste fuori delle cose, non è meno evidente, negli stessi o in altri luoghi, ch'egli si rap- V. questo Supplem. n. III. carta 199. V. Hap. 509 d- 613, 521-527, 533 b-534 a, Fedone 101 o, 104 d, Met, 1. I. VI. 3, l. III. II. 15 sqq., 1. XIII. I-III, VI, eco. V- Supplem. B. n. Vili, carta 99. (4) V. Flteho 62 a, Rep, 525 d-526 a, Arist. Met. 1. III. Il- 19-20 1. XL X. S, eoo. f - J4f T^ / J presenta così anche le entità matematiche (0; e in una parola, tutte le ragioni che si avrebbero per ammet- tere la trascendenza delle une, varrebbero egualmente per ammettere la trascendenza delle altre. Intanto il li- mite del FilebOy come convengono gli stessi interpreti trascendentalisti, è immanente, è un elemento delle cosiì stesse. È impossibile dunque che esso sia identico a' le entità matematiche. 7^ Per dotare le entità matematiche d«»irefìi(ienza cau- sale che, nella loro in erpretazione, manca ali* LU-»», e farle supplire co-I a que-^to difetto del sistema, che, se- condo loro, è il motivo della dttrini d^lle entità inter- meiiarie, grinterprcii trascendentalisti sono ob'»iigari a misconoscere la loro natura di semplici predicati t?ene- rall sostantiticati, e le i-ientificano con Taoima del mondo Co-l quelli che vedono u»l limile d^l /;/c6 > lo entità ma- tematiche, è necessario che facciano del limite e della causa (che, come abbiamo mostrato, non è che lanima del mondo) una sola e slessa cosa, mentre Platone ne fi due peneri distinti -e d'altronde la causa non potrebbe non essere distinta da'le cose di cui è la causa— . E biso- ffoa notare che Platone stibilisce espressament**. e dimo- stra che il 8Yj|itovYpoDv, vale la dire il quarto genero, è altro necessariamente dagli oggetti compresi nei tre p^imi generi. V. Met., ecc. NeUa più parte di questi laoghii è vero, Aristotile distingue due frazioni nella scuola platonica, di cui r una avrebbe ammesso le eÀtità intermediarie o matematiche fuori delle vo**®» 6 t' altra nelle cose stesse. Ma una divergenza ana" Ioga di opinioni è da lui attribuita ai platonici anche intorno alle Idee, quando oppone al resto della scuola quelli che, come Eudossio, a ssimilavano la parusia delle Idee nelle cose a quella di una sostanza colorante nell'oggetto colorato (v. Supplemento B carte) Il limite del Filebo non può dunque identificarsi né con le le Idee né con le entità matematiche: noi abbiamo visto inoltre che nemmeno rillimitato equivale alla materia degli àypaqjaJÓYfiaxa, Siccome questi concetti non trovano il loro equivalente in alcun altro delle opere stesse di Pla- tone o dell'esposizione aristotelica, ed è d'altronde evidente la loro affinità con quelli della scuola pitagorica, noi siamo fondati perciò a vedere in questa dottrina del Filebo un primo tentativo dell'autore di avvicinare la propria filosofia a quella dei Pitagorici. Sappiamo infat- ti che il pitagorismo di Platone, anziché essere dovuto a un'influenza che questo filosofo abbia passivamente subita, é stato piuttosto qualche cosa di voluto, di cer- cato: non é quindi sorprendente che la sua forma defi- nitiva sia stata preceduta da un primo passo, in cui l'avvicinamento tra le due filosofie non é cosi stretto co- me diverrà in seguito. Non é dabbia, da uu'altra parte, l'anteriorità del Filebo al periodo del sincretismo con le dottrine pita;>oriche, che noi conosciamo dall'esposizione d'Aristotile: all'epoca del Filebo Platone non conosce ancora la dottrina dei numeri ideali, e nemmeno della materia, sia perchè questa suppone quella, sia perchè il limite e l'illimitato del Filebo differiscono da quelli dell' esposizione d' Aristotile (.3), e se Platone co- noscesse già la dottrina dei due elementi degli àypacpa SÓYjiaxa, Cj^li non darebbe ai due elementi del Filebo gli stessi nomi. Che il pitagorismo del Filebo non sia stato che un primo passo, risulta poi abbastanza dal confronto dei concetti di questo dialogo con quelli degli àypa'^a SÓYfiaxa. Limitandoci alla dottrina dei due eie- "tj (1) V. questo Supplem., II, carte 163-164. (2) V. questo Supplem, T, carte V. sopra, carta menti -perchè sareb supe ifluo di notare che la propo- sizione che la natara degli esseri è dominata e deter- minata da rapporti numerici, è meno pitagorica della proposizione che gli esseri sono numeri—, osserviamo: che negli diypoL^xx, SÓYfxaxa il limite e Tillimitato sono ciascuno un'entità unica, come nella filosofia pitagorica, mentre nel Filebo sono due generi divisi in una moltitudine di specie; che le coppie dei concetti opposti della classe del- Tillimitato. corrispondenti alle due oooxoix^ai di prin- cipii contrarli dei Pitagorici, hanno con quesii poca ana- logia, mentre le due oDaxoix^at degli àypa^a SÓYjiaxa sono identiche in parte a quell*. di Pitagorici, e per il resto possono, per quanto ne sappiamo, riguardarseae come una generalizzazione ; che i concetti delle due ouoTOix^ai degli àypaq^a SÓYjiaxa sono dei principii^ come quelli delle due ouaxoix^ai dei Pitagorici, mentre le coppie di opposti del Filebo sono subordinate airillimitato in se stesso; infine, che nel Filebo Topposizione è nel seno stesso dell'illimitato, mentre negli àypacpa SÓYfxaxa è invece, come nella dottrina pitagorica, tra un principio della classe del li- mite e un altro di quella dell'illimitato (1). Ma malgrado le dififerenze profonde tra le dottrine pitagoreggiauti degli (ÌYpa^a 5ÓY[xaxae quelle del Fdebo, tuttavia la pii!i parte delle prime hanno evideatemenie un antecedente e un addentel- lato nelle seconde. Indipendentemente dall'idea generale che le cose constano di liuìite e d'illimitato, è da notare: che il grande e piccolo, a cui negli àYpacpa 5ÓY|Jtaxa e ri- condotto il secondo dei due elementi, procedo in linea retta dal più e meno, che nel Filebo è il carattere gene- rale e aistintivo della natura dell'illimitato; e che la distinzione del limite e dell'illimitato del Filebo, con la (1) Gfr. oarta 244. riduzione del primo a dei rapporti numerici, è assai vicina alla distinzione di forma e di materia del Timeo e del- l'esposizione aristotelica, e la riduzione della prima a dei numeri. Se ricordiamo l’osservazione già fatta, che il concetto che le forme sono numeri sembra sup- porre quello che esse possono ridursi a rapporti nume- rici tra i sustrati materiali (2), vedremo più chiaramente il legame tra la dottrina dei numeri ideali e il limite del Filebo f3). Il pitagorismo nei ilisteepoli di Platone Quest'argomento ha per noi tanto più interesse, che le innovazioni dei platonici dissidenti riguardano, non il sistema delle Idee in se stesso, ma la fusione di que- sto sistema coi concetti pitagorici. Di queste innovazioni le più importanti, anzi le sole importanti, per quanto possiamo giudicarne dalle indicazioni d'Aristotile, sono quelle di Speusippo e di Xenocrate, e concernono sovra- tutto la dottrina sui numeri matematici, fa loro relazione con le Idee e le cose. Aristotile in effetto parla spesso di tre dottrine dei platonici sui numeri: alcuni distin- guono il numero ideale e il numero matematico— èia dottrina dello stesso Platone—; altri ammettono che il numero ideale è lo stesso che il matematico; altri infine non ammettono che il numero matematico (i). Delle due (1) Cfr. questo Supplem., II, carta 1S6. (2) V. questo Supplem., II, carta V. sopra, carta 243. (4) Queste dottrine sono le sole di cui paria Aristotile : di più in parecchi luoghi in cui egli enumera queste tre opinioni sui numer- {Met.0-. :1 ultime dottrine a cui allude Aristotile, la prima è quella di Xenocrate, e la seconda quella di Spensi ppo. Malgrado la cronologia, noi cominceremo per esporre le idee del primo, che si è meno allontanato dal platonismo ortodosso. Xenocrate, La dottrina dell'identità del numero ideale col matematico (1) equivale al fondo, come osserva Ari- stotile (2), alla soppressione del numero matematico di Platone. In questa dottrina in efletto non vi ha più posto per le molte diadi, triadi, ecc. matematiche, che Platone subordinava alla Diade, Triade, ecc. ideali. La Diade, Triade, ecc. ideali sono dette anche matematiche, perchè esse rappresentano al tempo stesso le Idee degli esseri (p. e. dell'uomo, delTanimale, ecc.) e gli attributi arit- si vede eh' egli intende fare una enumerazione completa delle opinioni dei platonici, e ch<) non conosce una quarta opinione. Tuttavia alcuni storici hanno veduto un'allusione ad una quarta opinione in queste pa- role della Afei, 1. XIII. VI, 7 : « A/irt crede il primo numero, quello della Specie, uno e.^sere: alcuni invece, che questo stesso sia il mate- matico Le parole indicherebbero, secondo questi storici, un'altra dottrina dei platonici sui numeri la quale non ammetterebbe che il solo numero ideale. Ma esse non indicano in realtà che la dottrina stessa di l'iatone, nella quale il primo numero, cioè l'ideale, é solamente ideale, e perciò uno, e non in un certo modo doppio, come nella dottrina in cui il primo numero ù al tempo stesso ideale e matematico. Oltre che questo è il solo senso grammaticalmente possibile, l'ipotesi di una dot- trina dei platonici sui numeri, la quale non ammetterebbe che il numero ideale, e rigetterebbe assolutamente il matematico, è per se stessa in- concep ibile, sia perchè anche i concetti matematici devono essere, ne sistema delle Idee, realizzati, sia perchè 11 numero ideale non potrebbe affatto riguardarsi come numero, se esso non rappresentasse pure ini certo modo le determinazioni aritmetiche delle cose (come la nella dot- trina di Platone, in cui i numeri i leali sono anche le Idee dei numeri matematici'. V. per questa dottrina Arist. Mei. l. XIX. I. 3i 1. XIII. I. 2, 1. Xlll. Vi. 7, 1. Xlll. vili. 8, 1. Xlll. IX. 13. (2) Met, l. XIII. Vili. 8, 1. Xlll. IX- 13. nietlci. Ma anche quelle di Platone rappresentavano gli attributi aritmetici, perchè i numeii ideali, per lui, erano le Idee e le essenze dei numeri matematici. La differenza dei numeri di Xenocrate dai numeri ideali di Platone è che questi sono incombinabiii, mentre Xenocrate, sop- primead") la distinzione tra il numero ideale e il mate- matico, sopprime anche necessariamente il carattere di- stintivo per eccellenza fra i due numeri, e fa perciò il immero ideale combinabile, Aristotile infatti (1) parla d»lla dottrina di alcuni platonici sui numeri ideali, in cui le unità di un numero sono simili e combinabili con quelle di un altro (2), il numero minore fa parto del nu- mero maggiore (3), e tutti i numeri s'uo a dieci equi- valgono alla Decade in se stessa — le due ultime pro- posizioni evidentemente non sono che altre espressioni della prima, cioè della combinabilità —Ora qu'^sta dottrina è certamente quella che noi attribuiamo a Xenocrate, sia perchè la combinabilità d^i numeri ideali suppone il ri- getto della distinz^'one tra questi numeri e i matematici, sia perchè Aristotile attribuisce ai filosofi a cui egli al- lude la dottrina d»*lle linee indivisibili, eh'», secondo la testimonianza concorde delle antiche autorità (6), ap- parsene a Xenocrate (7). \ .'/•' 0) Met. 1. XIII. Vili 18-22, V. 18 e I9. (i/ V, 19. (4) V. 21. (5) V. 22. Mullach. Fragm. pkilos. graec, v. Ili pag. lÌ8-12o. Anche Platone aveva parlato della linea indivisibile (v. Arist. Mei, \, 1. IX. 2o): ma nella dottrina di cui è quistione in Met. 1. XIII.' Vili. 22 la linea indivisibile viene rappresentata per un numero particolare (l'unità cfr. il commento del pseudo— Alessandro e di Siriano in Xr'v&ty Met\ Xlll. IX. 3), mentre per Platone non vi ha certamente che un sol Soppressi i uumerì miermediari, la coerenza del sì- stema esigeva la soppressione delle entità intermediarie in generale, cioè anche delle grandezze matematiche. E la effetto ai partigiani dell'identità tra il numero ideale e il matematico Aristotile attribuisce pure la riduzione delle grandezze a dei numeri ideali. Cosi in Mei, 1. XII. I. 3, per indicare le tre scuole in cui si dividono i pla- tonici, platonici ortodossi, scuola di Xenocrate e scuola di Speusippo, dice : alcuni dividono le sostanze separa- bili (cioè le entità della filosofia platonica) in due generi; altri pongono in una sola natura le Specie e le entità matematiche (non semplicemente i numeri matematici); e altri non ammettono che le sole entità matematiche. E nel 1. XIII. Vili. 18-22, rimproverando ai platonici che ammettono la combinabilità dei numeri ideali, di restrin- gere il numero alla decade, rappresentando tutte le loro entità per i soli primi dieci numeri, dice che per loro anche le grandezze vanno sino ad un certo numero, « prima la linea indivisibile, poi la diade e poi ancora queste (cioè ancora grandezze) sino alla decade ». E evi- dentemente a questa dottrina che noi attribuiamo a Xe- nocrate, che allude pure ne\ l. VII. XI. 3-4, in cui riferisce l'opinione di alcuni filosofi che nei concotti delle grandezze non fanno entrare che la sola forma, esclu- dendone la materia, e riducono per conseguenza le gran- dezze a dei numeri questi filosofi non possono essere che dei platonici, perchè i pitagorici non conoscono la distinzione di forma e materia, e divide i partigiani delle Idee in due scuole, di cui 1' una ammette che il numero per tutte le linee (la diade), perché il suo sistema non ammette, e non potrebb > ammettere, che tre Idee di grandezze, della Linea, del Piano e del Solido. Due è la linea stessa ^ e l'altra che è, non la linea stessa, ma l'Idea della linea. Platone distingue le Idee-numeri delle grandezze (cioè della linea, del piano e del solido) dalle grindezze stesse, perchè le prime non rappresentano che la sola forma, mentre le seconde, per lui, compren- dono anche la materia : Xenocrate invece, sopprimendo le grandezz i matematiche, non ammette, per le gran dezze come per tutte le altre cose, altri concetti realiz . zatì che quelli che rappresentano le semplici forme, e possono per cosegaenza ridursi a dei numeri ; cosi non essemdovi più nel sao sistema dei concetti realizzati di grindez/-e che includano anche la materia, le Idee (inu- mori ideali) delle grandezze non si distinguono più per lui dalle grandezze stesse (1). Per attribuire a Xenocrate la dottrina dell'identità del numero ideale col matematico (e quindi anche la ridu- zione delle grandezze ai numeri) più che sulle testimo- nianze incerte dei commentatori di Aristotile di cui al- cuni, come Siriano e Filopono ad Met., attribuiscono effettivamente questa dottrina a Xenocrate, ma l'attribuiscono anche a Speusippo— noi ci fondiamo sul legame che essa ha, nell'esposizione d'Aristotile, con quella delle linee e, più generalmente, delle grandezze, indivisibili (2). È ciò che abbiamo visto nel luogo indicato Gfr. questo Supplem, n. Ili, e. 1 95-196. (2) Met. 1, XIII. Vili. 8. Xenocrate non ammette soltanto delle linee indivisibili, ma delle grandezze indivisìbili in generale (V. Stob. Ed, Phys. I. 1 e. I4, Simpl. in ArhL Phys. pag. 30 A, ecc.)— L'ipotesi delle linee indivisibili, come abbiamo notato, era stata già emessa da Platone: Xe- nocrate sembra non aver fatto altro che riprendere quest' ipotesi d'una maniera definitiva, appoggiarla su delle prove numerose (v. Arist. De Un, insecaòilib,, Phys l. 1. Ili, 9, l)e general, 1. I. II. II-I9, Simpl. tu Arist, Phys, pag. 3o A, Philop. in Arist. Phys, lib. I, fol. B, 16 e C, 1, The- mist. Paraphras, Phys, Arist. 1. 1, fol. 18. A, ecc.), e legandola c.^ V. VI 'À - 351 lì I, »1 Mei, L XIII. Vllt. 18-22', e lo «le^^o sì rileva pure da 1. XIII. VI. 8, In cui, dopo aver distinti le diverse dot- trine dei platonici sui numeri — quella che ammette un numero ideale e un numero matematico, quella che iden- tifica i due numeri, e quella che amm'ìtteìl solo numero matematico continua: -Similmente sulle lunghezz*^, i piani e i solidi. Alcuni distinguono i mattinatici e quelli jisxà xàs lÒéa.<; (1); di coloro che dicono altrimenti, ^U uni parlano dea:li oggetti matematici matematicamente, quelli che non fanno le LI »« num(^TÌ né dicono esservi le Idee, (2); gli altri parlano pure degli og^^etii matematici, ma non matematicamente, poiché per loro né ogni gran- dezza può dividersi in grandezze, ne qualsWogliano unità possono formare una dualità)». I filosoft a cui Aristotile rimprovera di non parlare degli ogs?'tti matematici ma- tematicamente, perchè ammettono delle grandezze indi- visibili, sono senza dubbio quegli stessi, che, sopprimendo le entità intermediarie, riducono le g andezze a d-i nu- meri : in effetto anche qu^sr/altra opinione sulle gran- dezze deve essere menzionata a lato di quelle di Platone l'altra ipotesi platonica dei coipuscoli elementari, comporne una teoria completa delle grandezze indivisibili-Platone aveva immaginato la linea indivisibile per sostituirla al punto, ch'egli non potava ammettere come entità, perchè, come osserva Aristotile {Met.\.l.l\.20-v. il commento d'Aless. d'Afrod.— ^, non gli sarebbe stato possibile di dedurlo da (jualclie forma ìu\ Grande e Piccolo (quale materia delle entità geometriche). Per Xenocrate il motivo di sostituire la linea indivisibile al punto non può essere precisamente lo stesso, perchè le sue entità matematiche, chenonsouj che dei numeri, non racchiudono la materia: ma per non fare del punto un'en- tità ha potuto bastargli questa considerazione, che esso non potrebbe comp-ìrsi, ome le grandezze e ogni altro reale nel suo sistema, d'Idea forma) e di materia. (1) Platone. V. questo Supplem. n. 111. e, I96. (2) Speusippo, secondo l'interpretaiionì aristotelica del suo si-itema. (' e di Speusippo; e d'altronde le parole « similmente sulle lunghezze, i piani e i solidi » ci indicano chiaramente che le tre opinioni, di cui é quistione in questo luogo, dei platonici sulle grandezze corrispondono alle tre, di cui sopra, sui numeri. Aggiungiamo che Tobbiezione che qualsivogliano unità non formano una dualità, ha di mira certamente i numeri-Idee (1) : ma qui serve ad appog- giare la proposizione che i filosofi contro cui essa è di- retta, parlano degli oggetti matematici non matemati- camente; dunque per questi i numeri ideali s'identificano coi matematici. La teoria di Xenocrate, eh ì i numeri a cui si riducono gii esseri sono gli stessi che i matematici, è evidente- mente più pitagorica che l'ipotesi platonica di un numero ideale differente dal matematico, perchè i numeri di cui parlano i Pitagorici sono, come ossserva Aristotile, i numeri matematici. La riduzione delle grandezze a sem- plici numeri è anch'esca un nuovo passo verso i Pitago- rici, perchè questi non ammettono, come Platone, che le grandezze siano subordinate ai numeri, ma le identificano, come ogni altra cos», ai numeri stessi. Un' altra imita- zione evidente del pitagorismo è la restrizione del nu- mero alla decade, perchè i Pitagorici consideravano i numeri seguenti come una semplice ripetizione dei primi dieci (3) Già Platone, come c'informa Aristotile, non aveva fatto il numero ideale che sino a dieci : ma noi non dobbiamo intendere perciò che egli non ammet- tesse che i soli primi dieci numeri, perchè lo stesso Ari- •MI » Vi V. Afet. 1. Xlll. Vii. 22-23. (2) Meé. I. Xlll. VI. /. V Hierocl. In carm. aur, XX. 45-48, Arist. MetA, \. V. 3, Philop. De art,, C, 2, al basso. Phys. 1. Ili VI. 6. r- I ì I' 1$ stotìle dà questa dottrina come particolare, fra tutti i partigiani dei numeri ideali, a quelli per cui questi nu- meri erano combinabili, e, per conseguenza, identici ai matematici (cioè alla scuola di Xenocrate. Il senso dell'indicazione d'Aristotile (nel luogo della Fisica) sembra dunque piuttosto che nella formazione dei numeri ideali Platone si è fermato alla decade, ma senza deci- dere se dovessero ammettersi o no anche i numeri seguenti. L'incertezza di Platone e dei suoi su questo punto ci è attestato in quest' altro luogo della Met. \\. XII. Vili. 1) Quelli che ammettono le Idee dicono che le Idee sono numeri : m^ dei numeri parlano, ora coi i^ se fossero infiniti, ora come se terminassero alla decade ». Qaest'incerteza si spiega per due esigenze contrarie del sistema. Da una parte, lo sforzo di Platone di accostarsi ai Pitagorici avrebbe dovuto avere per conseguenza di limitare il numero alla decade : ma d'altra p?irte, la fu- sione della dottrina dei numeri coi principii della dialet- tica, manifestantesi sovratutto nella loro generazione pro- gressiva gli uni dagli altri (che, come sappiamo, rappre- senta la dieresi delle Idee), richiedeva che a ciascun' Idea corrispondesse un numero distinto, e, quindi, che i nu- meri ideali fossero altrettanti quante le Idee. Xenocrate, sacrificando il bisogno di accordare la teo- ria dei numeri con la dialettica a quello dell'imitazione pitagorica, ci mostra la stessa tendenza che nelle altre dottrine che gli sono particolari. Cosi l'impressione d'in- sieme che risulta dalle innovazioni di Xenocrate è in- somma ch'egli si è avvicinato ancora di più ai Pitagorici. Un'altra prova del pitagorismo più accentuato di questo V. Mei, 1. Xlll. Vili. 18-22, luogo già indicato. filosofo è che egli, come c'informa Teofrasto fi), ha fatto degli sforzi più d'ogni altro platonico nell' applicazione della teoria dei numeri alle cose. Fra questi possiamo contare la celebre definizione dell'anima «un numero che muove se stesso, quantunque essa non sia al- tra cosa che la definizione di Platone (ciò che muove se stesso) unita al concetto generale dello stesso Platone, che gli esseri sono numeri. Speusippo, Fra le dottrine dei platonici, enumerate da Aristotile, sui numeri e gli oggetti della matematica, una ò quella secondo cui non vi sarebbero altre entità che le matematiche (3). Confrontando fra di loro i luo- ghi in cui si allude a questa dottrina, e segnatamente quelli che riportiamo nella nota (4), si vede che è qui- stione del sistema di Speusippo. I concetti principali che caratterizzano (questo sistema, secondo Aristotile, sono: 1® Non vi hanno, come abbiamo detto, altre entità che le matematiche; vale a dire Speusippo non ammette le Idee, e non realizza altri concetti che quelli dei nu- meri (matematici) e delle grandezze geometriche. Mei. Fr. 12. Mullach Fragm phil. graec. v. 111. p. 12o-l25- V. per questa dottrina Arist. Metaph. ecc. (4) Met.: Ancora, oltre i sensibili, alcuni credono che non vi sia alcuna sostanza; altri pi6, e massimamente le eterne, come Pla- tone le Specie e le entità matematiche, due sostanze, e terza la sostanza dei corpi sensibili. Speusippo ammette pure più sostanze, a cominciare dall'Uno; e principii di ciascuna sostanza altro dei numeri e altro delle grandezze; poi dell'anima; e cosi moltiplica le sostanze. (Non attribuisce a Speusippo, come a Piatone, le Specie. La sola sostanza iperflca che gli attribuisce, oltre ai numeri e alle grandezze, è Tanima, o piuttosto il prin- cipio delfanima : questo è menzionato a lato dei numeri e delle grandezze e dei loro principii, j^on perchè sia un Universale, un concetto realizzato, come questi, ma perchè è anch'esso una sostanza sovrasensibile). Alcuni -A — I,» N 1:/ 2^ I numeri (matematici) sono i primi degli esseri; poi vengono, nelPordine di anteriorità e posteriorità (nel senso platonico), le grandezze geometriche; infine gli es- seri fisici, le cose (1). 3<^ L'Uno è il primo principio, come per Platone, ma non è identico al Bene, che gli è posteriore. Come, negli animali e nelle piante, il bello e il perfetto non si tro- vano nel germe, ma appariscono in ciò che ne deriva; poi dicono che le Specie e i numeri hanno la stessa natura, e che le altre cose ne derivano, cioè le linee e le superficie sino alla sostanza del cielo e ai sensibili, (Qui si tratf^a evidentemente della dottrina di Xenociate; cosi numeri vuol dire i numeri matematici; per conseguenza sopra, parlando di Speusippo, questa parola ha pure lo stesso senso) ». Met, 1. Xll. X. i4: «Quelli che ammettono per primo numero il ma- tematico, e cosi sempre un'altra contigua sostanza, e principii diversi di ciascuna, fanno la sostanza del tuUo senza legame (è7lSV005ltt)5Y);— una sostanza intatti niente giova ad un' altra, sia che esista sia clie non esista— e molti principii ; ma gli esseri non vogliono essere mal gover- nati. «Non é un bene il principato di molti; uno solo sia il principe. (Quelli che ammettono per primo numero il matematico, non possono es- sere che quelli per cui non vi hanno, secondo Aristotile, altre entità che le matematiche. In effetto, oltre a questa, Aristotile non conta che altre due dottrine sui numeri e gii oggetti della matematica: quella di Pla- tone, per cui il primo numero è T ideale: e quella di Xenocrate, che am- mette un solo numero, al tempo stesso ideale e matematico. V. Atei. 1. Xlll. VI, 6—8, l. Xlll. Vili. 5-8, 11, l. Xlll. IX. 13-14). Met. 1. XIV. 111. 8-9: « Si potrà inoltre domandare da chi non sia troppo facile a credere, perchè in tutto il numero e, in generale, negli esseri matematici niente giovino l'uno ali altro l'anteriore e il posteriore. Infatti, anche non esistendo il numero, esisterebbero nondimeno le gran- dezze, per quelli che ammettono le sole entità matematiche, e queste non esistendo, esisterebbero l'anima e i corpi sensibili. Ma. da quel che si vede, la natura non sembra sconnessa (è7l8too8ta)8Yjg) come una cat- tiva tragedia. Ciò non accade a quelli che ammettono le Idee » ecc. (1) Met. cosi, nel tutto, il buono e il bello non sono nel principio, ma nascono nel progresso dell'essere. Questo 8i svi- luppa, come un organismo, procedendo da uno t-tato più indet rminato e più imperfetto a uno stato sempre più determiuato e yìù perfetto (1). 4<* Delle tre classi di esseri ammesse da Speusippo (numeri, grandezze geometriche e erse), Yanteriore non giova niente alla posteriore. I numeri non sono le cause degli altri esseri : anche non esistendo i numeri, esiste- rebbero le grande/.ze geometriche, e non esistendo i nu- meri e le grandezze geometriche, esi^-terebbero le cose. L»* entità matematiche non hanno, pi r Speusippo come per Platone, che un significato puramente matematico; in altri termiui, i numeri non rappresentano che le de- termiuazioni aritmetiche delle cose, e le grandezze le grometriche. In effetto : P Aristotile fa consistere essen- zialmente la dottrina delle entità matematiche di Speu; sippo, corre quella di Platone, nella sostaniificazione degli attributi matematici (aritmetici e geometrici), nel- r osere questi considerati coooe separabili 0 separati dalh». cose (x^ptaxa o x£xo)pto|jLéva). 2^ Speusippo dà, com«i Platone, le Ciiiità matematiche p^r gli oggetti delle scìen^A» matematiche (aritaaetica e geometria: per con- ci) V. Met.; e cfr. questo Sup- plem. II. 111. carte 200-202. «li altri luoghi d'Aristotile ivi citati, meno Mei, 1. Xlll. VI. 4, si riferiscono certamente anche alla dottrina di Speusippo, perchè, come abbiamo osservato (v. e. 20J -202), Aristotile riguarda le entità inatemaliche di questo filosofo come equivalenti a quelle degli altri platonici (4) V. Met. 1. XIV. in. 3-4, e cfr. gli altri luoghi d'Aristotilr ci- tati a e. 193 p. 1 n. 2, i quali devono riferirsi anche alla dottrina di Speusippo, meno Met. l. I. IX. 16 e l. 111. II. 15, ohe non le si pos- / • seguenza esse nou sono che la realizzazione dei concetti di queste scienze, la sostantificazione delle proprietà delle cose che queste scienze studiano. La prova che stabili- sce l'esistenza di tali entità è che le matematiche non devono riferirsi agli oggetti sensibili, ma a delle realtà astratte, universali ed eterne; ed Aristotile riguarda an- che questa prova come il motivo reale della dottrina (1). È evidente, come abbiamo osservato (2), che su questa base non potrebbe fondarsi una teoria che vede nei nu- meri le essenze o le leggi delle cose, ma solo la realiz- zazione delle astrazioni numeri. 3^ Aristotile oppone Speu- sippo a Xenocrate, in quanto quegli parla delle cosa ma- tematiche matematicamente (e il suo numero é veramente matematico), mentre questi ne parla non mate- maticamente, e sopprime in realtà il numero matematico. La ragione precipua di quest' opposizione è, come ab biamo°già detto, che i numeri matematici di Xenocrate sono gli stessi che gì' ideali, e non si limitano quindi, come quelli di Speusippo, a'ia rappresentazione dei sem- plici attributi aritmetici. 4« Il luogo citato a car- ta 201 prova chiaramente che i numeri di Speu- sippo non costituiscono 1' essenza delle cose (come po- trebbe credersi che sia in una dottrina, che non ammette, secondo Aristotile-, altre entità che le matematiche), né come paradigmi, quali le Idee neirinteipretazione tra- sono riferire, perchè parlano delle entità matematiche come in- termediarie. V. ^feL l. XI V. 11. 16. l. XIV. 111. 3, 111. 4, ecc. Cfr. n. lU. e. 202. (2) Carta Cfr. e. 2m. {^) Met. l. XIV. n. 15-111. 3. scendentalista, né come inerenti nelle cose stesse, quali le Idee nella nostra interpretazione o i numeri pitagorici. E lo stesso risulta dai luoghi, nnch'es-i già citati. in cui ci si dice che, delle diverse classi di sostanze am- messe da Speusippo, le anteriori non giovano per niente alle posteriori, e che le cose esisterebbero anche non esi- stendo i numeri e le grandezze, o* Infine, Ari totile ri- guarda, come già abbiamo detto, le entità matematiche di Speusippo come equivalenti a quelle dt».gli altri plato- nici : per conseguenza anche le a' tre prove per cui ab- biamo stabilito il siguificato puramente matematico delle entità matematiche di Platoae, valgono pure in- direttamente per quelle di Speusippo. L'anteriorità dei numeri sulle grandezza, e delle en- tità matematiche sulle così significx, secondo le abitudini della filosofia platonica : 1^ che i concetti delle gran- dezze contengono, nella loro comprensione, quelli dei nu- meri, e i concetti del'e cose quelli dei numeri e delle grandezze; e 2^ che le grandezze procedono dai numeri, e le cose dai numeri e dalle grandezze. Ma in Platone il rapporto di anteriorità e posteriorità implica che il po- steriore si deduce dall'anteriore, ciò che importa, come sappiamo, che questo é in un certo modo la cau'^a di quello, perchè l'essenza della dialettica platonica consi- ste nella identificazione del rapporto logico fra il prin- cipio e la consegueoza col rapporto ontologico tra la causa e l'effetto. In Speusippo invece le tre classi di so- stanze da lui ammesse non si deducono l'una dall'altra: le grandezze non si deducono dai numeri, né le cose dai numeri e dalle grandezze. E cosi che dobbiamo com* Met. 1. XU. X. U, l. XIV. lU. 8-9 cfr. n. 4 a e. 255. (2) A 0. 200-204. \zt - Wy I prendere la proposizione citata d'Aristotile, secondo cui la classe posteriore esisterebbe, anche non esistendo la classe anteriore. Ciò basta perchè Aristotile possa dire che le sostanze di una classe non sono la caasa di quelle delle altre, benché la loro anteriorità e posteriorità ira- plichi necessariamente, come abbiamo detto, che le po- steriori procedano, come di regola, dalle anteriori (1). Il principio di Speusippo che V essere si sviluppa an- dando da uno stato più indeterminato e più imperfetto a uno stato più determinato e più perfetto è inutile di osservare che questo sviluppo non è un progresso nel tempo, ma una successione puramente logica non è in sostanza che quello della diale tt'ca platonica che la legge dell'essere è di arricchirsi progressivamente di nuov». determinazioni, di passare continuamente da uno stato più astratto a uno stato più concreto. Ma f^enza dabbio Speusippo applica particolarmente questo principio alle sue tre classi di sostanz*», per indicare ch'esse formano una serie logica al tempo stesso ed ontologica, in modo che il pass^,ggio da un termine all'altro importa un pro- gresso nella determinazione dei concetti e de^li esseri corrispondenti a questi concetti, e nel tempo stesso una processione del più determinato dal più in ietermiaato. L'altra applicazione particolare che fa Speusippo del principio, cioè la non identità dell' Uno col Bene e \k possteriorità di qu'^sto, non è che un corollario del si- gnificato puramente matematico del numero e della sua anteriorità sugli altri esseri ; l' identificazione platonica del Bene con V Uno supponendo evidentemente che gli altri attributi delle cose siano ricondotti ai numero. Ma vi ha, nella filosofia di Speusippo, un punto d'un'ira- portanza capitale — è il preteso abbandono della teoria delle Idee— su cui alla testimonianza d'Aristotile pos- sono opporsi delle prove contrarie, che mi sembrano prevalenti. La prova più forte, e che anche da sé sola sarebbe decisiva, sta nell'inverosimiglianza intrinseca delle stesse affermazioni d' Aristotile. Se noi ammettiamo che questi ci espone esattamente le dottrine di Speusippo, il sistema di questo filosofo sarebbe il più insolubile dei problemi che ci presenti la storia della filosofia. Perchè Speusippo avrebbe rigettato le Idee? Per le difficoltà, dice Aristo- tile (1), che si oppongono al sistema. Ma queste diffi- coltà consistono nelle inconcepibilità inerenti alla rea- lizzazione degli universali. Allora, perchè avrebbe am- messo le entità matematiche? queste non sono anch'esse degli universali realizzati? L' ammissione delle entità mate- matiche non suppone il principio che 1' astratto èVealmente separabile (xwpwxóv), che la vera realtà è, non il particolare, ma l'universale? Se si ammette che ai concetti dei numeri e delle figure corrispoadono dei Numeri e delle Figure astratte e generali, che coerenza vi sarebbe poi a non ammettere che anche ai concetti degli altri attributi delle cose corrispon- dono altre entità egualmente astratte e generali? Se le en- tità matematiche di Speusippo rappresentassero l'essenza stessa delle cose, si potrebbe rispondere che esse bastavano alla realizzazione del principio che 1' essere si risolve in en- tità universali : ma poiché, come abbiamo dimostralo, esse non rappresentano che le determinazioni aritmetiche e geometriche, per lo stesso motivo per cui di queste de- terminazioni si fanno degli esseri reali sussistenti per se stessi, anche lo altre determinazioni delle cose devono Gfr. «io ohe diremo sulla iine di qaesto nomer». Met. w h essere elevate ad esseri reali e sussistenti per se stessi. Ma vi ha di più: la realizzazione dei concetti non ha un motivo e uno scopo, che unita al metodo dialettico, cioè ai metodo deduttivo applicato alla scoverta di questi concetti realizzati. È per quest^ unione, come sappiamo, che il realismo diviene una soluzione del problema delle cause efficienti, perchè il rapporto tra principio e con- seguenza, dopo che questo principio e questa conse- guenza da semplici nozioni mentali sono stati trasfor- mati in entità sussistenti per se stesse, diviene un rap- porto tra causa ed effetto. Ora quale è stata, neir ipotesi della verità dell* esposizione aristotelica, V attitudine di Speusippo verso il metodo dialettico ? Ha egli rinunziato a questo metodo ? Ma, in questo caso, perchè avrebbe ammesso delle realtà universali? Lo ha applicato ai soli concetti dei numeri e delle grandezze geometriche? Ma il metodo dialettico, come ogni altro sisteoia dei meta- fisici sulle cause efficient', potrebbe avere altro oggetto che una spiegazione radicale e universale del mondo reale ? e d'altronde, ammesso il metodo della dieresi, avrebbe potuto esso ricevere soltaoto un* applicazione parziale, e non abbracciare la totalità dei concetti ge- nerici e specifici ? o avere in una parte solamente della sfera della sua applicazione il valore obbieltivo ch'esso ha nella metafisica platonica, e nel resto un valore pura- mente logico ? Da un altro canto, noi abbiamo dei mo- tivi di credere che Speusippo, lungi di aver abbandonato la dialettica platonica, come metodo scientifico uni- versale, è anzi verso questa parte che ha rivolto a pre- ferenza le sue speculazioni. In effetto, egli è stato il primo, come dice Diodoro, che ha contemplato nelle scienze ciò che vi ha di comune, e insieme le ha con- giunte, per quanto è stato possibile, Tuna con Taltra » (1); e nei suoi Dialoghi sui simili ha cercato le affinità degli esseri della natura a lui conosciuti, applicando partico- larmente la dieresi platonica a quella parte del reale che più ne sembra suscettibile, cioè il mondo vivente. E che la dieresi fosse anche per Speusippo un metodo de- duttivo, noi dobbiamo inferirlo dal suo apriorismo, an- ch'egli ammettendo, come Platone, che la ragione deve sforzarsi di ritrovare tutte le verità, partendo da quelle che sono evidenti per se stesse, e ricavandone gradata- mente le altre come conseguenze. Se dunque Speu- :f, (1) Ap. Diog. Laert. IV. 2. Cfr. per la portata di qaest'indìcazione Platone Ifep, 531 d e 537 e, 1. oit. a pag. 155 e 156. Cfr. o. VII. 1$ 19 nota finale. (8) V. Proclo Comment, in prim^ Kuclìd. elementor, 1. 111. 1 ed. graeo. in Mullaoh 2^. 230. Filopono, commentando un l. deWAnal. Post, (1. U.c. XU. 13), in cui Aristotile parla dell' opinione che Eudemo attribuisce a Speusippo che per definire una cosa bisogna anche o(moscere tutte le altre, dice che Speusippo rigettava la definizione e la divisione. Ma è questa senza dubbio un' erronea inferenza di Filopono dal luogo stesso commentato. L'opinione di Speusippo non è, come ha ben avvertito il Bitter (v. 2. pag. 393 trad. frane), che un princi- pio dello stesso Platone. La conoscenza ^&r/V;tfa d'un' Idea sapponsecondo i principii della dialettica platonica, la conoscenza di tutto il mondo ideale. Infatti quest' Idea deve essere dedotta dall' Idea suprema, passando gradatamente per tutte le Idee intermediarie. Di piii questo processo discensivo del metodo dialettico ha bisogno di essere preceduto da un altro processo ascensivOf per la sooverta delle Idee di pid in piìi generali, a cui l'Idea di cui si tratta è su- bordinata. (V. Plat. Rep. 1. VI. 510 b-511 e, e cfr. e. VII. § 12, 19 e 20). Cosi, siccome questa scoverta d'un' Idea generale è tirata dalla conoscenza di tutte le Idee particolari che le sono subordinate» perchè non è che la generalizzazione di tutte queste Idee, ne se- gue che l'ascensione all'Idea pid generale, e per oonseguenza an- — sìppo ha ammesso il metodo dialettico, s'egli ha t-ìcono- sciuto inoltre Tesisteoza dì entità universali; come cre- dere che, dopo aver accettato tutti i presupposti del- l'idealismo platonico, dopo essersi addossate tutte le gravi difficoltà del sistema, che sono le inconcepibilità della realtà dpgli universali e Timpossibilità di applicare ef- fettivamente il metodo dialettico come metodo dimostra- tivo, abbia rinunziato a fare un'applicazione coerente dei principii, che sola poteva dare al sistema un valore fi- losofico ? A ciò dobbiamo aggiungere che, senza la supposizione che Spensippo ammetteva anche le Idee, non si com- prenderebbe una particolarità del suo sistema, su cui tanto insiste Aristotile, cioè Tinutilità dei numeri e, in generale, delle entità matematiche, alle cose. Questa inu- tilità non è un semplice apprezzamento d'Aristotile, come p. e. quella delle Idee di Platone vale a dire le en- tità matematiche di Spensippo non sono inutili nel senso che il valore loro assegnato nella spiegazione delle cose è chimerico; ma essa risulta evidentemente dalle pro- posizioni stesse dell'autore (sì notino sovratutto le parole della Mei. 1. XIV. II. 16, 1. e: Né quegli stesso che lo ammette dice che esso, cioè il numero matematico, sia causa di alcuna cosa). Se Spensippo ammette le Idee, noi comprendiamo perfettamente come il suo numero non ohe la diaoensione da essa a un'altra Idea qualunque, cioè una definizione di quest'Idea, ottenuta col metodo di divisione prati- cato in tutto il suo rigore, richiede necessariamente ohe tutte le altre Idee siano conosciute. Se Spensippo avesse rigettato la defi- nizione, certamente egli non avrebbe fatta la collezione di quelle di Platone; e del resto essa è implicitamente ammessa nella sua proposizione riferita da Simplicio a ì Ariat, Categ. oA, fol. 2 (Mul- laoh Fr, Speus.) : si dicono omonime le cose di oui il nome è eomune, ma la definizione è diversa. sia causa di niente, come, in generale, le sue entità matematiche non giovino in niente alle cose, e perchè queste esisterebbero, anche se esse non esistessero: è che ammesse le Idee, cioè le Idee degli esseri reali, questi si trovano completamente spiegati, e ogni altra entità è superflua (se i platonici ammettevano anche le entità matematiche, era perchè la coerenza del sistema delle Idee esigeva che tutti gli universali fossero sostan- tificati). Ma se 1« sole entità ammesse da Spensippo sono le matematiche — sia qhe faccia loro rappresentare le sole determinazioni matematiche, sia che vi riconduca anche le altre determinazioni delle cose — che scopo e che motivo potrebbe avere per lui tale ipotesi, poiché essa non è fatta servire alla spiegazione del reale? Queste prove intrinseche sono fiancheggiate da altre prove estrinseche. Vi ha prima di tutto l'inverosimiglianza che quello tra i discepoli di Platone, a cui doveva pre- mere più che ad ogni altro la gloria del maestro, desi- gnato senza dubbio dallo stesso Platone a succedergli nell'insegnamento, ed egli stesso designante a suo successore un altro partigiano delle Idee (Xenocrate), abbia rigettato la dottrina fondamentale della filosofìa platonica, e che costituisce il carattere e il punto di connessione della scuola. Poi, la testimonianza di Dio- Met. 1. XIV. lì. 16. (2) Met. 1, Xn. X. U e 1. XIV. lU. 8. Met. 1. XIV. m. 8. (4) Bitter. Storia della fllos, ant. t. 2. trad. frano, pag. 391-392: • Noi siamo ora in un tempo in cui la carica del professorato sembra essere stata trasmessa dai primi maestri ai seguenti (Diog. L. IV. 8); e la continuazione della scuola accademica tiene verisi- milmente alla poisesiione del giardino deU' acca lemia che aveva già posieduto Platone (Plut. De e.cil. 10),, - J60 - jprene Laerzio (ì) e di Cicerone (2), che affermano che Speusippo è rimasto fedele alle dottrine del maestro ; Tindicazione di Stobeo (3) ch'egli ha posto la natura dell'anima èv lòéq. xoO ttocvcyj JiaaxaxoQ (potrebbe obbiettarsi che qui il termine lòéoL non va preso necessariamente nel senso tecnico della filosofìa platonica; ma è questo il senso che esso ha nella definizione dell'anima di Posi- donio (4), la quale, nella parte che c'interessa, è certa- mente imprestata a Speusippo); l'informazione di Ascle- pio ch'egli ha ammesso una sostanza distinta per tutti i s'mili (5) (ciò vuol dire che di tutto ciò che é uno nei molti ha fatto im'entità distinta); quella stessa inesatta d' al- cuni commentatori d'Aristotile (6) che gli attribuiscono come a Xenocrate la dottrina d'un solo numero, al tempo stesso ideale e matematico (essa si spiega per Taffìnità di questa dottrina con quella reale di Speusippo, perchè, come diremo in seguito, i Numeri matemateci contene- vano le Idee delle cose, come i generi le specie). Ag- giungiamo infine che le affermazioni d'Aristotile si mo- strano incerte ei anche contraddittorie, poiché al tempo stesso che attribuisce a Speusippo di rigettare le Idee, gli attribuisce pure di ammettere che le Idee non sono (1) IV, 2. (2) Aca-f. 1. 9. (B) Ad l. I. o. 52. (4> V. Plut. Psicog. XXII. Anche Speusippo disse esservi molte sostanze : altra disse essere delle grandezze, e altra dei nameri, e in tutti i simili, e an- cora altra la sostanza della mente, e altra dell'anima, e altra del punto, e altra della linea, e altra della superfìcie «. Schei. Arist. pag. 740. a. ed. Brandis. (6) V. Siriano ad Met. 1. XIU. Vili. 8, Filopono allo stesso luogo, Scholia in Aristotelem pag. 820 A ed. Brandis (in MuUach Fragm^ phil. graee.). nùmeri, proposizione che implica evidentemente ch'egli ammettesse le Idee. Un error», d'Aristotile nell'i Qtepretaziooe di questo punto del sistema di Speusippo non sembriirà tanto strano, se si riflette alla d ftìcoltà che vi ha, tutte le volte in cui è quistione degli univ^ersali o altre astrazioni dei me- tafisici, a comprendere se un filosofo dà loro un'esistenza reale o semplicemente logica. È un fatto di cui lo stesso Aristotile può fornirci un esempio. Certamente, per lui, la forma e la materia non sono distinte che logicamente; eppure quant», senza contare gli oppositori del Rinasci- mento, che rendevano Aristotile responsabile dpgli errori degli scolastici, non l'hanno inteso come se egli ammet- tesse tra di esse una distinzione reale, e le riguardasse come vere sostanze, nel senso che noi diamo a questo termine? (2). Viceversa alcuni fra i p*ù francamente rea- listi degli scolastici sono stati compresi talvolta come se il loro realismo si riducesse, in sostanza^ a questa pro- posizione, a cui niun nominalista contradirebbe, che i generi e le specie non sono semplici concezioni del no- stro spirito, ma hanno un fondamento nella natura, coft nelle affinità reali degli esseri (3). E passando ai filosofi (1) Met, 1. Xlll. VI. 8: • Quelli che non fanno le Idee numeri, né esservi dicono le Idee,. Met, 1. Xlll. Vili. 5: • Quelli che non credono esservile Idee, né assolutamente né come essenti certi nu- meri ». Met. 1. XIV. II. 16 : •* Per quello che cosi non crede, perchè vede le difficoltà circa le Idee, sicché perciò non le fa numeri, ma fa il numero matematico „. (2) V. e. VII. pag. é6. V. p. e. su Duns -Scoto Jourdiin Filos. di S. Tomm. 1. 11. e. 11. Dum. HI. (cfr., per il senso che quest'autore dà alla parola realismo, principalmente 1. 1. sez. 3. e. 111. in principio e num. 1, e 1. III. e. IV, num. 1), e Conti Storia della fllos, voi. 2. pag. 127 (cfr. p. 50-63 e 90) — Alcuni anche (come il Weber, Stor, della fdos. europ. - 261 - .{ 1 il moderni, uno dei migliori storici della filosofia, il Rit- ter (1), non dà espressamente Spinoza per un nominali- sta? E quanti tra i lettori di Taine hanno compreso che questi è un filosofo realista (alla scolastica)? Il malin- teso d'Aristotile si spiegherebbe, in ultima analisi, per le stesse ragioni che la sua preferenza per l'interpreta- zione trascendentalista delle Idee di Platone. È impossi- bile, come abbiamo osservato, di formarsi una rappresen- tazione qualsiasi di entità sussistenti per sé stesse quali le Idee platoniche, altrimenti che come separate dagli oggetti reali. Per conseguenza, se noi ammettiamo che Speusippo, ammaestrato dairesperienza della falsa inter- pretazione che si dava, da Aristotile e da altri, del si- stema del maestro, abbia energicamente insistito suirim- manenza delle specie nelle cose; noi comprenderemo fa- cilmente come Aristotile, per la stessa ragione per cui, dalla evidente sussistenza per se stesse delle specie d'i Platone, concludeva che esse erano trascendenti, abbia potuto concludere, dall'evidente immanenza delle specie di Speusippo, che esse non erano sussistenti per se stesse. Ciò che parrà più difficile a comprendere è l'interpreta- zione, malgrado ciò, degli oggetti matematici come en- tità reali (separate, naturalmente, dalle cose) : ma, per la novità della dottrina, Speusippo doveva insìstere sul- VanterioHtà di questi oggetti sulle cose reali, non meno che sull'immanenza delle specie. Ora V anteriorità, nel senso platonico, importa evidentemente un'esistenza del- l'anteriore distinta e indipende ite da quella del poste- riore. §. 40 e 41) daano Dans-Sooto per un oonoettuaUita o un semi-no- minaiiflta. (1) V. Stor, della fidos. mod, t. 1. trad. frano, pag. 207. Vi ha un altf-0 punto, nella filosofia di Speusippo, su cui l'impressione che risulta dall'esposizione d'Aristo- tile, ha bisogno di essere rettificata, o almeno comple- tata : è la relazione tra i numeri e lo cose. Noi abbiamo dimostrato, fondandoci su Aristotile, che i numeri di Speusippo non sono, come i numeri matematici di Pla- tone, che i concetti— i nostri concetti— dei numeri, rea- lizzati : ma ciò non toglie che la teoria dei numeri abbia in Speusippo, come negli altri platonici, un carattere pitagorico. In questi concetti realizzati, come in tutgli altri della metafisica platonica e come nei semplici concetti di cui parlano i logici, bisogna distinguere la comprensione e Vesiensione : ì numeri di Speusippo rap- presentano le semplici determinazioni aritmetiche delle co«e, consid. rati nella loro compren.v/one; ma considerati nella loro estensione, rappresentano le cose stesse, perchè sono gli Universali supremi, in cui queste sono conte- nute. Ciò risulta già dair anteriorità dei numeri sulle grandezze e le cose. In effetto V anteriorità e posteriorità, nel senso platonico, non importa solamente che il con- cetto deiranteriore è una parte di quello del posteriore, ma ancora che il posteriore è contenuto nell' anteriore come in un genere. E che anche in Speusippo il rapporto di anteriorità e posteriorità debba essere inteso nello stesso senso, è confermato da un'obbiezione che Aristotile fa alla sua dottrina sulla materia delle grandezze, eoe che se vi ha una materia distinta per ciascuna classe di grandezze -- linee, superficie e solidi— e queste materie si se- guono, vale a dire stanno fra di loro nel rapporto di an- teriorità e posteriorità, allora la superficie sarà una linea e il solido una superficie (i). Lo stesso risulta pure dalle (1) M9L 1. xui. IX. 6. — 262 ^ indicazioni che attribuiscono ai nùmeri Una causalità sulle cose. Aristotile dice di Speusippo, come degli altri plato- nici, ch'egli fa dei numeri le carne prime degli esseri i2); e noi sappiamo da Jamblico (3) ch'egli ha chiamato la de- cade il più efficace e perfezioninte (^ooixwxdxriv xal xsXe- oxixoDTocxrjv) degli esseri, e una forma per se stessa autrice degli effetti del inori Jo (x(3v y,oa\iM(.&^ ànoxsXsoiiocxwv xsxvtxóv). La causalità d^lle entità platoniche sta nella derivazione dei particolari dal generale a cui sono subordinati : le Idee sono le caus»^ delle cose, e le Idee generiche delle Idee specifiche; è nello stesso senso che i numeri possono essere cause. Infine, questa superordinazione dei numeri alle cose come generi in cui queste sono contenute, è U'ia conseguenza della loro esemplarità. Secondo Jam- blico, Speusippo ha anche chiamato la decade il pa- radigma più perfetto (xq) xoO navxò? itotrjx^ 06(5 è evi- dentemente un'addizione di Jamblico); e secondo Aristo- tile (5), il punto, per lui, non è V unità stessa, ma è quale Tunità, e la materia delle grandezze (cioè lo spazio) non è la pluralità stessa (la materia dei numeri), ma è quale la pluralità. Ciò che nel platonismo è riguardato come paradigma, è il generale nel suo rapporto al par- ticolare : le Specie sono i paradigmi delle cose, e i Ge- (1) Mei. 1. Xm. VI. Questo luogo sembra in contraddizione con gli altri già ci- tati, in cui si nega ohe i numeri di Speusippo siano cause degU Altri esseri. Essi si conciliano, ammettendo, come abbiamo fatto, cke quando nega ai numeri di Speusippo la causalità sulle altre cote, Aristotile vuol dire che nel suo sistema le altre cose non si deducono dai numeri, come avviene in quello di Platone. Ofr. ciò che diremo sulla fine di q mesto numero. V. TheoU arithm. pag. 61 ed. Ast. Mei, 1. XUl. IX. S. neri delle Specie; cosi è in questo rapporto che i numeri di Speusippo devono essere con le graniezzo e con le cose. Ma, i numeri essendo, per Speusippo, i generi delle cose, ne segue che anche per lui le cose sono, in un certo modo, dei numeri. Questa deduzione, infatti, è confermata da un luogo di Teofrasto (1), in cui Speu- sippo è compreso tra i platonici che fanno risultare le cose dai numeri e dai loro elementi. E una conferma ancora più esplicita si trova in Jamblico (2). Questi c'in- forma che Speusippo assegnava alle cose particolari dei numeri distinti, come i Pitagorici e Platone: Tuno era il punto, il due la linea, il tre il triangolo e il numero della superficie, il quattro la piramide e il numero del solido. Evidentemente noi dobbiamo distinguere tra questi numeri - cose e i numeri matematici. I numeri matematici sono i numeri in se stessi, le cose sono nu- meri per la partecipazione dei numeri in se stessi, poi- ché, secondo i principii della filosofìa platonica, le cose ricevono la loro essenza e la loro denominazione dalle Idee, cioè dalle entità universali, a cui partecipano. Questa distinzione tra i numeri matematici e i nu- meri-cose corrisponde in certo modo alla distinzione abituale tra i numeri astratti e i numeri concreti : n o potremmo per conseguenza servirci di questi stessi ter- mini per indicare le due sorta di numeri di Speusippo. I numeri astratti sono i numeri matematici; le cose sono questi numeri, concretizzati, h'esst^jte ai sviluppa secondo Speusippo, noi lo sappiamo, procedendo dall'astratto al concreto : esso è prima numero, poi diviene grandezza, i . '1 (1) Met. Fy, 12. (2) Theol, arithm,, ibid. S6S - i 1 ir lì- infine cosa. Sicché gli esseri particolari possono consi- derarsi sotto tre aspetti, secondo il grado di determina- tezza dei loro concetti. Ciascun essere, a nn primo grado del suo sviluppo logico, è un numero matematico, e per con'^eguenza, considerato a questo grado di determina- tezza del suo concetto, è un numero; al secondo grado del suo sviluppo logico é una grandezza geometrica, e per conseguenza, considerato al grado corrispondente dì determina te ijza del suo concetto, è una grandezza ; al- Tuliimo grado del suo sviluppo logico e considerato nel suo concetto completamente determinato,è, infine, una cosa. Le grandezze geometriche sono i numeri a un primo grado di concretizzazione, cioè con nuove determinazioni che man- cano ai nameri astraiti; questi stessi numeri, a un grado ulteriore di concretizzazione j cioè arricchiti ancora di altre determinazioni, sono le cose. Il rapporto tra i numeri—cose e i numeri astratti, cioè matematici, è dun- que identico, in sostanza, a quello tra i Generi e le Specie, p. e. tra l’Animale e l’Uomo: le cose non sono i numeri in se stessi, come.Tuomo non è Tanimaìe in se stesso, r animale astratto ; ma esse sono numeri, come l'uomo è animale. Evidentem'^nte secondo Speusippo, come le cose, an- che le Idee delle cose devono essere numeri (Ij . In ef- fetto, assegnando le cose ai diversi numeri, egli deve prenderle per classi; vale a dire tutte le cose d'una stessa classe devono essere per lui rappresentato danno stesso numero (cosi l'uno non è solamente questo punto, ma il I X punto in generale; il due, solamente qu» sia linea, ma la iìoea in generale. Ora siccome le proposizioni che hanno per soggetto tutta una classe, secondo i principii della filosofia platonica, si riferiscono propriamente all' Idea, ne segue che il numero assegnato ad una classe non è che il numero dell'Idea corrispondente a questa classe. Ne segue ancora che i numeri matematci devono essere anteriori, non solo alle cose stess*», ma anche alle Idee delle cose. Se infatti si dice d'una certa classe, p. e. l'uo- mo, l'animale, ecc., ch'essa è no certo numero, p e. il quattro, ciò vuol dire che il numero matematico corri- spondente è un elemento astratto comune a tutti gì' in- dividui della classe. Ma tutto ciò che è comune a tutti gl'individui della classe è compreso nell'Idea del'a classe (p. e. l'Uomo o l'Animale in sé comprende tutte le note comuni a tutti gli uomini o a tutti gli animali); per conseguenza questo numero matematico o deve essere la stessa cosa che quest'Idea— ciò che è impossibile, perchè i numeri in sé di Speusippo diflPeriscono da quelli di Pla- tone in quanto non s' identificano con le Idee o deve essere un che di più astratto che quest'Idea e contenuto in essa, cioè nella sua comprensione. Quest'anteriorità dei numeri matematici sulle Idee, o meglio sulle Idee delle co5e— poiché i Numeri e le Grandezze in sé sono anch'^ essi in sostanza delle Idee— è del resto compresa impli- citamente nelle proposizioni di Speusippo che i numeri sono i primi di tutti gli esseri (1), ch'essi sono le cause prime degli esseri (2), e che il primo numero è il mate- > (1) Nella proposizione, venente probabilmente dallo stesso Speu- sippo, ohe le Idee non sono numeri (in Arist. Met. 1. XUl. Vi. 8, 1. XUl. Vili. 5, 1. XIV. 11. 16, 1. e), per numeri deve intendersi i numeri in se stessi, cioè i matematici. (1) Arist. Mit, 1. Xlll. VI. C, 1. Xm. ViU. 5, l. XIV. V. 3. (2) Met. 1. xm. VI. 1. k5 matico. Inoltre essa può desumersi dairanalogìa del rapporto tra i numeri, matematici e le grandezze in se stesse, cioè le Idee delle grandezza; essendo evidente, quando Ari totile parla deiranteriorità dei numeri sulle grandezze, che per queste grandezze intende, non le particolari, i fenomeni, ma le generali, le entità. Il s^'stema di Speusippo consiste essenzialmente in una nuova relazione stabilita fra i numeri ideali — cioè con cui le Idee e le cose sMdentificano— e i numeri ma- tematici. Per distinguere i numeri-cose dai numeri del- l'aritmetica Platone aveva ricorso al concotto arbitrario che il numero in se stesso differisce dal numero di cui parlano i matematici, e a quello non meno arbitrario che le entità matematiche sono intermediarie fra le Idee e i sensibili. Xenocrate, per evitare questi due inconve- nienti, i^bolisce la distinzione tra i due numeri, lasciando cosi intatto il paradosso pitagorico che identificava i concetti del'e cose coi concetti stessi dei numeri, quelli di cui è quistione neiraritmetica. Speusippo distingue, come Platone, i numeri cose, i numeri ideali, da quelli deir aritmetica ; ma facendo il contrario di quello che aveva fatto Platone, dichiara anteriore il numero mate- matico, e r ideale posteriore. La dottrina di Speusippo ha due vantaggi su quella di Platone : il primo di rico- noscere che il numero in se stesso, cioè nel suo concetto, non può essere che quello dei matematici; e l'altro di dare Tanteriorità tra i due numeri a quello che è real- mente più astratto, essendo deirultima evidenza che gli attributi aritmetici delle cose sono meno comprensivi, hanno meno determinazioni, che le loro essenze stesse, cioè le totalità dei loro attributi. Del resto, per^questa modificazione apportata al pitagorismo platonico, Speu- sippo trovava un addentellato nella dottrina stessa del suo maestro. Come infatti, nel sistema di Platone, uno stesso numero poteva essere al tempo stesso più entità distinte? (inconveniente che Aristotile rimprovera pure alla dottrina dei pitagorici). Se il numero era comune a tutte, non doveva essere, per conseguenza, separabile da loro e loro anteriore? Ben più, Speusippo non faceva altro che spingersi più avanti nella stessa via per cui si era messo Platone. Questi si era allontanato dalla pura dottrina pitagorica, vedendo nei numeri, non le cose slesse, ma le sole forme delle cose; Speusippo, non le forme, ma alcun che di più astratto ancora, di meno comprensivo. • Vediamo ora le altre modificazioni che Speusippo ap- portava al pitagorismo platonico, in conseguenza della nuova relazione, da lui stabilita, dei numeri con le Idee e le cose. Cominciamo dai caratteri dei numeri in sé. Primo, i numeri in sé di Speusippo sono combinabili (4), perchè questo è il carattere dei numeri matematici. Se- condo, Speusippo abbandona la generazione progressiva dei numeri gli uni dagli altri (2j, perchè questa rappre- Met. 1. Xll. X. 14 —Il numero matem fttico è chiamato il pri- mo numero, in rapporto ai numeri o»n cui s' identificano le Idee e le cose, ai numeri contréti. V. Arist. Met. 1. Xlll. VUl. 6-7. (2) V. VI Met, ì. XIV. III. 8, in cui Aristotile rimprovera a quelli ohe ammettono le sole entità matematiche, ohe per loro, non solo fra le diverse classi di esseri da loro ammessi, ma anche fra gli stessi numeri matematici (^6pi ToO àpL0|ioO Tcavióg), V anteriore non giova per niente al posteriore (contrariamente a quello che av- veniva nel sistema di Platone). Qui le parole anteriore e poste- riore hanno al tempo stesso un doppio significato come nel- VEtlu Eud. l. l. Vili. 9-10, secondo che si applicano a Speusippo o - r I*'' h seutava il movimento dialettico delle Idee, la derivazione delle più particolari dalle più generali, e i numeri in sé per Speusippo non s'identificano più coi Generi e le Spe- cie df He cose. Terzo iotìne, nei numeri matematici di Speusippo non ve ne hanno molti della stessa specie, come in quelli di Platone (1), perchè questa particolarità della dottrina platonica era legata al posto, assegnato alle entità matematiche, d'intermediarie tra le Specie e le cose. I due elementi di Speusippo sono TUnità e la Plura- lità (2). Egli non riduce più l'elemento contrario all'Uno alla Duatità indefinita, perchè lo scopo di questa dottrina di Platone era sovratutto di effettuare la generazione a Platone (alla cui {lottrina sai numeri viene implicitamente <»p- poata quella di Speusippo). Applicate a Platone' hanno il signifi- cato tecnico che loro si dà nella dialettica platonica; applicale a Speusippo, non possono significare che l'ordine dei termini di una serie progressiva qualunque, qual è quella dei numeri matematici. Arist. (Atet. 1. XIU. Vili. 5-7) rimprovera a Speusippo di non distinguere, come Platone, una prima diade, una prima triade, ecc. danna parte, e dall'altra molte diadi, molte triadi, eco. Dunque Speusippo o ha ammesso solamente una diade unica, una triade unica, occ, o solamente molte diadi, molte triadi, ecc. (senza su- bordinarle a un'altra diade, a un'altra triade, ecc. anteriori) Ora la seconda ipotesi è inammissibile, perchè, secondo i principii di tutta la scuola platonica, ogni inoltiplicità suppone un' unità su- periore, a cui deve essere ricondotta* (2) V. Metaf. 1. XIV. IV, in cui non si fa il nome di Speusippo, ma si parla di quei iìl )soti che non identificano l'uno col bene e fanno questo posteriore a quello, opinione che, come sappiamo dal 1. Xll. VII. 9, è quella di Speusippo (e che del resto, nello stesso 1. XIV. IV— V, paragr. 5 è legata all' altra, certamente pure di Speusippo, che le prime sostanze sono i numeri matematici). V. an- che per la dottrina che stabilisce come elementi l'Unità e la Plu- ralità Met. l. Xll. X. 2-3, 7, l. XIU. VI. 5, 9, l. XIU. IX. 7-10, 1. XIV. 1. 1-0, 1. XIV. IV. 2^, 1, XIV. V. 3-5, ecc. progressiva del numeri (1) che Speusippo ha abbando- nata. L'Unità naturalmente è l'essenza (ossia la forma), la Pluralità la materia (2). Speusippo identifica senza dubbio, ad imitazione di Platone, la prima ai limite o /imitato e la seconda ^Willimiiato, Aristotile riguarda PUnità e la Pluralità ora con^e principii dei soli numeri matematici (3), ora come principii di tutti gli esseri (4). Di queste due versioni noi dobbiamo ammf'ttere la se- conda, tanto perchè la dottrina dei due elementi, nella scuola platonica, ha per ìscopo di fondere 11 sistema delle Idee con le dottrime pitagoriche, e i due elementi dei pi- tagorici erano gli elementi di tutte le cose; quanto per- chè l'unità di sistema, che è una delle coudizioni delle dottrine metafisiche fondate sulla realizzazione dei con- cetti e sulla dialettica (cioè sulla deduzione progressiva di questi concetti realizzati gli uni dagli jltri), esigeva che Speusippo deducesse tutte le sue entità da un prin- cipio unico come sldog comune di tutte (il principio con- trario essendo considerato come la materia). Le propo- sizioni d'Aristotile che si trovano in contraddizione con la versione che noi accettiamo tra cui la principale è quella che Speusippo stabiliva dei principii distinti per cia- scuna delle diverse classi di sostanze da lui ammesse (5) — non sono difficili a spiegarsi. Evidentemente 1' Unità e la Pluralità, quantunque loro venga data la funzione di elementi comuni di tutti gli esseri, sono particolar- (1) V. questo Supplem. carta 167. (2) V. Mei, 1. Xll. X. 3, 1. Xlll. VI. 5, 1. XIV. l. 3. (3) V. Mei, 1. VII. 11. 4, 1. XU. X. le, 1. XIU. Vili. 5, 1. Xlll. IX. 6-12, eco. (4) V. Met. l. Xll. X. 2-3, 7, 1. XU. VH. 9, l. XUl. VI. 5, 9, l. XIV. V. 1, evo. (5; V. .V«f. 1. va. U. 4, e l. XU. X. 14, 1. e. a carta 255. mente adattate a quella di elementi dei numeri; e in ef- fetto, gli elementi di tutti gli esseri essendo delle entità d' una universalità assoluta, e i numeri matematici es- sendo, tra gli esseri, i più astratti e che abbracciano tutti gli altri nella loro estensione, ne seguiva che questi ele- menti non potevano essere altra cosa che gli Universali supremi dei numeri matematici. Ma Aristotile considera i numeri matematici di Speusippo come trascendenti, cioè come separati (1); per conseguenza la parusia del- rUnità e della Pluralità in questi numeri non importa, per Ini, come per Speu'^ippo, la loro parusia in tutti gli altri esseri. Cohi egli nr n può riconoscere la loro fun- zione di elementi costitutivi, cioè d'ingredienti, degli es- seri, che nella sfera dei numeri matematici. Da un altro canto egli non tiene alcun conto della loro causalità sugl’altri esseri, perchè questa, che non è altra cosa che il legame dialettico tra il principio e le cose dedotte dal principio, è una sorta di causalità che non può ricon- dursi ad aicuna delle quattro specie di cause riconosciute da Aristotile. Così egli non può vedere nell' Unità e la Pluralità, rispetto agli altri esseri oltre i numeri matematici, il carattere di principii, in nessuno dei sensi di questo termine. Potrebbe credersi che per ragioni ana- loghe Aristotile dovrebbe vedere nell' Uno e la Dualità indefinita di Platone i principii dei soli numeri ideali e non dogli altri esseri. Ma vi ha fra i primi numeri di Platone e quelli di Speusippo una differenza importante. I primi numeri di Platone sono identici alle Idee, e la dottrina che le Idee sono le cause di tutti gli esseri tiene troppo posto nella filosofia platonica, perchè Ari- stotile potesse non tenerne conto, non considerando i Ili H il principii di queste cause come principii ancora dei loro effetti. Al contrario i numeri di Speusippo appariscono cosi poco le cause delle entità posteriori, che queste, co- me dice Aristotile (1), esisterebbero, anche se quelli non esistessero (proposizione che esprime esattamente la dot- trina di Speusippo, come vedremo sulla fine di questo numero). Un'altra differenza che, quantunque abbia in se stessa poca importanza, ne acquista molta agli occhi d'Aristotile, è il modo in cui nel sistema platonico le grandezze vengono dedotte, facendole risultare dai nu- meri e dalla materia. Aristotile (2) mette in antitesi que- sta dottrina con quella di Speusippo, che fa la natura sconnessa come una cattiva tragedia (perchè, come ha detto nel numero precedente, le cose esisterebbero non esistendo le entità matematiche, e non esistendo i nu- meri esiterebbero le grandezze). La derivazione logica del realismo dialettico non ha per Aristotile alcun va- lore come derivazione reale : egli dà quindi più impor- tanza al suo simbolo materiale, che la esprime come la produzione di un tutto p^T i suoi elementi, e vi vede il nesso ontologico fra le divierse classi di entità, che non trova nel sistema di Speusippo. Non vi ha dubbio d' altronde che, quando Aristotile parla di principii distinti per le diverso classi di sostanze ammesse da Speusippo, questa p a rol a prmctpu non abbia un significato differente da quello tecnico che essa e il suo sinonimo elementi hanno nella filosofia platonica, vale a dire di concetti (realizzati) della generalità più elevata, da cui tutti prli altri, più particolari e compresi sotto di essi, sono dedotti. Cosi per i principii delle gran- ii) V. Met. 1. Xm. VI. 6 e 1. XIV. HI. 3-6. (1) L. XIV. 111. 8, (2) Met. 1. XIV. Ul. 9. — 267 - dezze Aristotile intende certamente il punto e lo spazio con cui, come vedremo in seguito, Spensi ppò costruiva Ja grandezza estesa—: è ciò che risulta dalla Meia fisica I. XIII. IX. 6-12, dove il modo in cui le grandezze ven- gono dal punto e dallo spazio è assimilato a quello in cui i numeri vengono dall'unità e dalla pluralità.' Ora evidentemente il punto non può essere considerato come r siSog generale delle grandezze- Aristotile ne riguarda lo spazio come la materia. In quanto poi al principio distinto dell'anima, di cui si parla nel 1. VII. 11. 4, per esso non può intendersi che il sustrato iperfisico dei fe- nomeni psichici ammesso da tutti i filosofi animisti, la parola anima designando il complesso di questi fenomeni secondo il senso, affatto naturalista, che questa parola ha nella filosofia dello stesso Aristotile— e non la sostanza anima. Sarebbe infatti incomprensibile che Speusippo Avess*^. separato Tanirna dal sistema universale degli es- seri, rinunziando, per un'inconcepibile eccezione, a coor- dinarne l'Idea con quelle delle altre cose sotto un' Idea più generale : è ciò intanto che significherebbero le pa- role : un principio distinto dell'anima, se il termine prm- cipio dovesse prendersi nel senso tecnico della filosofia platonica che sopra abbiamo spiegato. Del resto, si vede ehiaramonte dalle allusioni di Aristotile, che fra tutti i principli in generale, attribuiti a Speusippo (nel senso vago in cui il termine è impiegato dallo stesso Aristotile), il carattere di eleraenti (nel significato platonico) nen ap- partiene che all'Unità e alla Pluralità (1). Potrà sembrare strano cho Platone chiami i due Uni- versali supremi elementi, e l' uno l'essenza o la forma, l'altro la materia, delle Idee e delle cose. Questi nomi ili' • li' implicherebbero che queste due astrazioni, le più povere di contenuto di tutte le astrazioni realizzate della meta- fisica platonica, esauriscano, nella sua totalità, la sostanza di tutte le cose, che basti il loro concorso a costituire, integralmente, gli esseri, e che i concetti delle cose non constino che dei loro concetti. Ma noi comprendiamo quest'apparente paradosso, mettendoci al punto di vista della dialettica platonica: siccome tutte le Idee si de- ducono dalle due Idee più jrenerali o meglio, dall'Idea più generale, perchè l'elemento materiale non è, nella dialettica platonica, che un vero principio, per dir cosi, inerte come la nostra materia, e il principio attivo, veramente produttore, non è che V dòoc, ; così tutto è implicitamente contenuto in queste due Idee, e l'univer- salità d'agli esseri, con tutti gli attributi che li costitui- scono, risulta realmente, in un certo modo, dalla loro unione. Naturalmente quest'osservazione deve applicarsi anche alla dottrina di Speusippo : quando Speusippo chiama l'Unità e la Pluralità gli elementi, e la prima Yessenza, l'altra la materia (2), degli esseri, ciò suppone che l'Unità e la Pluralità costituiscono, per lui, la so- stanza desrli esseri, che questi sono implicitamente con- tenuti in quelle, e, per conseguenza, che tut^^^e le Idee de^li esseri (Numeri, Grandezze e Idee delle cose) si deducono dall'Unità e la Pluralità o piuttosto dalla sola Unità, perchè la Pluralità è la materia, e il vero prin- cipio dialettico, come abbiamo osservato, non è che l'el- 8oG— .Lo stesso risulta dall'appellativo dì principii. Ari- (1) V. J/e.M.xm.vn. 9, X. 2-3,1. xiv. i.i-6,iv.2-6,v.i, v.3-5 (1) V. per il nome di elementi dato all'Unità o alla Pluralità, i 1. indicati nella nota 2 a carta 265 pag. 2. (meno quello del 1. Xll. X, in cui questo nome non è impiegato). Per queliti nomi v. i l. indie, nella nota 2 a carta 266 p. 1. k stotile, è vero, usa questo termine in un senso vagò, ma che, trattandosi di entità platoniche», non potrebbe uscire, in sostanza, da questi due significati, cioè, Tuno, di ele- menti costitutivi, d'ingredienti, per dir cosi, delle cose, e Taltro (che è propriamente quello della dialettica pla- tonica) di cause prime, di esseri primitivi, da cui gli altri procedono. Tuttavia non vi ha dubbio che in alcuni casi egli non chiami gli elementi di S pensi ppo princt/>u in questo secondo senso : è così che fa quando attribui- sce ad essi al tempo stesso la doppia qualità di elementi e di prìncipii (p. e. nel 1. Xlll. VI. 5: «quelli che di- cono r uno principio, essenza ea elemento di tutte le cose»; e sulla fine dello stesso capitolo: «tutti quelli che dicono T uno elemento e principio degli esseri»), e più chiaramente ancora, quando allude alla dottrina di Speusippo che il bene e V essere non sono identici al princip'o, ma gli sono posteriori (1), tanto più che egli oppone questa dottrina alla sua propria e a quelle dei teologri e di altri filosofi che fanno della divinità o di un essrre analogo la causa prima delle cose (nel senso dialettico, V appellativo di principio non conviene pro- priamente che airUno; e infatti è a quest'elemento che lo dà a preferenza Aristotile, nei luoghi indicati e al- tro vf) Dall'ari t«-r!orità dei numeri matematici sugli altri es- seri, e dalli loro non identità con le Idee e le cose, ne segu*^ che i due elementi -i qaal', come abbiamo notato, non possono essere che gli attributi universali della classe più astratti di esseri, per conseguenza dei numeri ma- tematici — non hanno in Speusippo che un significato •ìì matematico. Così TUno non è il bene (1) né Tessere (2) —probabilmente il bene e il male (3) e Tessere e il non essere facevano parte delle due ouoxotxfat' di contrari, di cui stiamo per parlare, e che Speusippo non identi- ficava, come Plalone, ai due elementi, ma loro subordi- nava—né può identificarsi con alcun altro dei principi i che esso rappresentava nella dottrina di Platone (cioè lo stato, Teguale, lo stesso, ecc, tranne, naturalmente, il Tiépag). Il simile potremmo dire della Pluralità. Noi sappiamo da un luogo deWEth. Me. (1. I. VI. 7) che Speusippo ammetteva, come i Pitagorici (e come Platone), la dottrina delle due ouoxoix^ai di contrarli; ma questo luogo non ci apprende niente sul carattere della dottrina propria di Speusippo, tranne che chiamava (1) Met. In effetto, quantunque Speusippo facesse scendere l'Idea del bene dal grado di primo principio, e mettesse al suo posto, al ver- tice della piramide ideale, l'Unità matematica, egli non poteva ri- nunziare però interamente al concetto platonico della supremazia del bene nella natura, cioè, in sostanza, al concetto teleologico. ^ Che egli non l' abbia fatto noi possiamo desumerlo infatU dagli stessi luoghi indicati d'Aristotile sulla non identità del bene col primo principio (Met.), Siccome le due GUGTOix^ai erano formate di concetti della generalità più ele- vata, aggregandovi il bene, egli avrebbe conservato almeno all'an- tico principio platonico, per quanto era possibile nella sua propria dialettica, una specie d' universalità. — Che il bene non abbia più nella dialettica di Speusippo la funzione di principio, nemmeno delle sole Idee delle cose*, si desume anche da uno dei motivi, attri- buitogli da Aristotile {Met.), per allontanarsi dalla dottrina di Platone : è che se il bene fosse identico all' uno, le specie essendo numeri, tutte le specie, tutti gli animali e le piante, sarebbero dei beni. Inconveniente che resterebbe anche se le spe- cie non fossero numeri e il bene, senza identificarsi con l'ano, fosie tuttavia il priacipio delle specie (delle Idee delle cose). I l'una delle due serie, pure come i Pitagorici, la serie dei beni, e vi comprendeva l'Unità (e, per conseguenza, neiraltra la Pluralità). Evidentemente, dalla funzione deirUnità e la Pluralità di princip'i di tutti gli esseri, ne seguiva che tutte le altre opposizioni delle due ouoxot- X^ai dovessero ricondursi a quest' opposizione primitiva, subordinando, in ciascuna, V uno dei termini air unità, identica al limitato, e l'altro alla pluralità, identica al- l'illimitato. Questa riduzione delle altre coppie di oppo- sti alla primitiva era in Platone, come sappiamo, una vera identificazione; ma in Speusippo non poteva essere che una semplice subordinazione identica, al fondo, a quella delle specie al genere. Queste coppie, in effetto, che dovevano rappresentare le opposizioni fondamentali del reale, cioè le più universali e a cui tutte le altre o la più parte possono subordinarsi, non avrebbero potuto, evidentemente, ridursi ai due semplici concetti dell'unità e della pluralità, nel significato puramente matematico. Verisimilmente Speusippo imprestava le opposizioni delle sue auaxoixCat una parte da Platone, e il resto dai Pi- tagorici : è almeno ciò che potrebbe inferirsi da un luogo della Met. in cui si attribuisce ad alcuni filosofi che vedono nei numeri e, in generale, nelle en- tità matematiche, le cause della natura, di contare nella auaxotx^a dei beni l' impari, il retto, 1' eguale, il quadrato. Questa indicazione sembra doversi riferire a (J) •* Ciò solo mettono in chiaro, che il bene esiste, e ohe della ouaxoixCa del bello sono V impari, il retto, l' eguale, le potenze (à.1 òuva^si^, cioè i quadrati) di certi numeri „, Se, come conget- turiamo da questo luogo, Speusippo comprendeva in una delle due OUOTOlX^at il quadrato (naturalmente in quella del limitato), esso e il suQ opposto l'oblungo (éxspófirjxs^) dovrebbero evidentemente 11 il Speusippo, perchè ne i Pitagorici, né Platone, né, per quanto pappiamo, altri platonici, tranne Speusippo, ri- guardavano come cause delle cose le entità matematiche in generale, cioè, non solamente i numeri, ma anche le grandezze gex)metriche (i). Alla dottrina che gli olementi sono l'Unità e la Plu- ralità (e non la Dualità indefinita) è legata, in Aristo- tile (2), quella che le grandezze vengono dal punto e dallo spaz'o, la quale, per conseguenza, noi dobbiamo attribuire anch'essa a Speusippo. Non si tratta, eviden- temente, che di una leggiera variante della costruzione platonica della grandezza estesa : i solidi risultano dallo spazio racchiuso e dalle superficie che lo racchiudono; le superficie dallo spazio e dalle linee che lo circoscri- vono ; le linee dallo spazio, cioè dall'intervallo, e dai punti da cui sono limitate. Solamente, mentre Platone non aveva applicata questa costruzione che alle gran. prendersi, in questa sua dottrina, non nel significato puramente geometrico, ma in uno più largo, in cui quest'opposizione potesse applicarsi anche ai numeri (forse della stessa maniera che nel JW- teto 147 e- 148 a). (1) Del resto io credo che tutta la prima parte del cap. VI. del l. XIV, della ^fet.^ sino al parag. 8, alluda alle dottrine di Speusippo Vi si parla infatti d'una teoria dei numeri, alla pitagorica, e non potrebbe essere quistione degli stessi pitagorici, perchè, in questa teoria, il rapporto tra i numeri e le cose è la partecipazione (xot- vwvCa — V. parag. 3), e la conclusione di tutto il capitolo è che gì oggetti matematici non sono i principii e non sono X^P^ dai sensibili. Di più, la dottrina di cui si parla dal paragrafo 1 alI'S viene distinta da quella dei numeri ideali (v. paragr. 9): non po- trebbe dunque essere che la dottrina dei numeri matematici, come cause delle cose, !a quale non avremmo alcun motivo di attribuire ad altra scuola platonica che a quella di Speusippo (2) Met, l. Xlll. IX. 6-12. - 270 — dezze concrete e particolari, cioè ai corpi, Speiisippo invece Tapplica immediatamente^ alle grandezze astratte e generali, cioè alle geometriche (1) Vi ha però tra la dottrina di Platone e quella di Spcusippo una differenza, dipendente dalla modificazione che questi apportava alla teoria dei numeri. Platone non faceva risultare propria- mente le linee dallo spazio e dai punti -poiché egli non ammetteva il punto come entità reale (2)-ma dallo spazio e dalle monadi, benché in questa costruzione le monadi fungessero in sostanza da veri punti ; Speusippo invece non poteva identificare più il punto con V unità, perchè gli esseri, p r lui, non erano più identici ai numeri in se stessi. Ma questa differenza era ben srttile, le unità di Platone, danna parte, in quanto servivano alla formazione delle grandezze estese, non potendo riguardarsi come vere unità (aè ideali nò matematiche), e dal! 'altra parte, il punto di Speusippo, come abbiamo visto, venendo dal- rUnità, ed essendo, per consegU'»nza, non in verità una unità astratta, ma una unità concreta. Quanto Aristotile (1) Per conseguenza la parola spazio, trattandosi della dottrina di Speusippo, deve prendersi in un senso un po' differente da quello ch'esso ha nella dottrina di Platone. Lo spazio del Timeo, dovendo servire alla produzione di oggetti individuali, è anch' esso un oggetto individuale, cioè il tutto di cui gli spazi particolari, finiti sono delle parti. Lo spazio di Speusippo invece, in quanto almeno' serve alla produzione di entità generali, deve essere un'entità ge- nerale anch'esso, quella di cui tutto ciò a cui diamo il nome di spazio, sia lo spazio totale, infinito, sia uno spazio finito, è una particolarizzazione (nel senso in cui le cose lo sono delle Idee). Quale materia dell'esteso, lo spazio non è chiamato da Speusippo TÓTlo^, come da Platone, ma 8iocaTy]|jia (v. 3/*?M, XUI. lX.]n-12 e ofr. 1. XIV. V. 2), forse perchè esso non è lo spazio esteso in tutte e tre le di' mensioni ohe in una sola delle tre classi di entità - linee, superfi- cie e solidi— che egli costruisce. (1) V. Arist. Met. 1. I. IX. 20, parla della dottrina che la superficie, la linea, il punto e r unità, o st^mplicemente la superficie, la linea e il punto, sono sostanze e più sostanze del corpo stesso; certamente egli non allude alla sola costruzione dell'e- steso che noi attribuiamo a Speusippo, ma a quella, in generale, d^lla scucia platonica. Tuttavia, se l'entità, da cui (e dallo spazio) procedevano le linee, è da lui chia- mata un punto, ciò sembra supporre che alcuno dei fi- losofi che ammettevano questa costruz'one avesse già dato questa entità esplicitamente come punto — Senza dubbio Speusippo vedeva anche in questa costruzione dell'esteso, come aveva dovuto fare pure Platone — il punto essendo ricondotto all'unità o limite, e lo spazio alla pluralità o illimitato— ìirì'sippUcsLzìanQ del principio pitagorico che le cose constano del limite e deW illimitato. Non ci resta, infine, che ad esaminare quali modifica- zioni ha potuto apportare nella dialettica platonica la nuova relazione che Speusippo stabiliva tra i numeri, da una parte, e le Idee e le cose, dall'altra (oltre alla detronizzazione dell'Idea del bene, di cui abbiamo già parlato). Dalla dottrina che 1' Uno e la Pluralità sono gli elementi di tutti gli esseri, non che dal bisogno del- l'unità sistematica, necessaria al tipo di metafisica a cui appartiene il sistema di Speusippo, segue che, come ab- biamo detto, tutt« le entità di questo filosofo devono secondo lui, dedursì dall'Uno e la Pluralità, o, più propria- mente, dall' Uno, perchè nella dialettica platonica (mo- dificata per la fusione del sistema delle Idee coi con- cetti pitagoricij il vero principio, in sostanza, è quello dei due elementi che funge da elSo^. In altri termini, tutte le Idee, secondo Speusippo, quelle dei numeri, (1) Ofr. questo Supplem. carta quelle delle grandezze geometriche e quelle delle cose, devono nascere dalla dieresi progressiva dell’uno. A quest'oggetto, Speusippo non avrebbe potuto servirsi che dell' uno o dell' altro di questi due processi. Cioè o di dedurre s'intenda, col metodo di divisione - prima dal- l'Uno i Numeri, e poi da ciascun Numero le Grandezze e le Idee delle cose ad esso subordinate. Ovvero-siccome tutto ciò che esiste è al tempo stesso un numero, una grandezza e una cosa- di dividere gli esseri, nella loro universalità, tre volte, ciascuna ad uno di questi tre di- versi punti di vihta, cioè come numeri, come grandezze e come cose, partendo in ciascuna di queste tre divisio- dairUno come eiòo^ generale di tutti gli esseri, sia ri- guardati quali numeri, sia quali grandezze, sia quali cose. A questo modo si avrebbero tre scale dialettiche distinte, ma convergenti alla loro sommità nell' Uno, rappresentanti ciascuna la totalità degli esseri : quella delle Idee dei numeri, quella delle Idee delle grandezze e quella delle Idee delle cose. Dì questi due processi Speusippo non ha potuto s'^guire il primo, perchè, se nel suo sistema le grandezze si deducessero dai numeri e le cose dai numeri e dalle grandezze, Aristotile non potrebbe dire che le cose esìsterebbero anche non esi- stendo le entità matematiche, e le grandezze anche non esistendo i [numeri. D' altronde è solo il secondo di questi due processi che permetteva di nou violentare troppo apertamente le affinità reali delle cose. Noi dob- biamo dunque ammettere che secondo Speusippo le Idee di cose cioè delie cose concrete, dei numeri air ultimo grad ) di concrotlz '.azione si deducevano progressivamente, alla maniera di Platone, dalle Idee di cose più generali, a partire dall'Uno, da cui cosi queste Idee provenivano direttamente, e non a traverso quelle dei numeri e delle grandezze. Cosi Aristotile ha ragione di dire che ciascuna delle tre classi di entità esistereb- be anche se le altre non esistessero» Tuttavia, se le tre classi di entità non si deducevano l'una dall'altra, ciò non impediva che vi fosse tra di loro quella derivazione logica e, per conseguenza, anche ontologica, necessaria per chiamarle anteriori e posteriori. Questa derivazione, nel sistema di Speusippo, era un risultato non cercato del principio platonico che tutto ciò che esiste è logica- mente impossibile che non esista, e tutto ciò che non esiste logicamente impossibile che esista. I numeri sono, come abbiamo detto, una sorta di generi relativamente alle cose e alle grandezze, che ne sarebbero come delle specie. Ora, in conseguenza di questo principio, ciascuno di questi generi si concretizza necessariamente nelle sue specie esistenti e in queste sole specie. E questo carat- tere che, unito all'esistenza pure necessaria del genere- che, in virtù dello stesso principio, compete anche ai numeri di Speusippo e all' essere questa data anterior- mente a quella delle specie, fa della dieresi platonica una derivazione logica e, mediante la realizzazione dei concetti, anche ootologica. Speusippo può dunque, per le stesse ragioni, considerare come una derivazione lo- gica ed ontologica benché in questo caso non si ap- plichi il metodo di divisione— anche il passaggio dai nu- meri alle grandezze e alle cose. Per le grandezze rela- tivamente alle cose vale lo stesso che abbiamo detto per i numeri relativamente alle grandezze e alle cose. E cosi che Speusippo può stabilire, tra le sue tre classi di so- stanze, un'anteriorità e posteriorità conforme al signifi- cato che questi termini hanno nella tìlosofia platonica. Quest'anteriorità e posteriorità, esistente tra le tre sfere in cui egli divide il reale, esiste, a più forte ragione. - neirinterno di ciascuna sfera; e ciò che riassume il si- stema di Speusippo, come del resto anche quello di Platone, è Tidea di uno sviluppo estratemporale, che va sempre da uno stato più indeterminato a uno stato più determinato, e di cui egli vede l'immagine nello sviluppo delle piante e degli animali Arist. Met. L’aniuia e suo rapporto con le Idee e coi ieuoiucni Quantunque nel corèo di questo scritto abbiamo toccato parecchi punti delle dottrine di Platone sulT anima, gio- verà forse di prcFcntare queste dottrine nel loro insieme, malgrado che c*ò debba co -torci delle ripetizioni inevi- tabili. Il nostro sc/^po naturalmente non sarà di fare un'e- sposizione di questa parte della filosofia di Platone: ci basterà d' indicare i punti più rilevanti per mettere in luce il significato reale delle dottrine platoniche, contro Jc interpretazioni erronee, e più o meno arbitrarie, che se ne sono date. Il sfstema di Platone suM'anima è Tanimismo antico, sviluppato con più conseguenza che in alcun altro filo- sofo, e trasportato cosi, dalPuomo e gli altri esseri ani- mati deiresperienza, alTuniverso, considerato anch'esso come un essere animato. Il carattere dell' animismo an- tico è che l'anima è riguardata, non solo come una so- stanza, ma come una sostanza ana'oga a quelle dell'os- servazione, cioè materiale o semi-materiale. Questo concetto deir anima si trova, quasi senza eccezione, in tutti i filosofi greci prima d'Aristotile. Quelli fra di essi che noi possiamo considerare come i rappresei^tanti dolio spiritua- lismo antico, come, oltre a Platone, Anassagora, non sono spiritualisti nel nostro senso, perchè non hanno idea d'una sostanza assolutamente immateriale, cioè che non occupa uno spazio. Da un'altra parte i rappresentanti più genuini del materialismo, come Democrito, non sono ma- terialisti nel senso moderno, perchè anch' essi riguardano l'anima come una sostanza distinta dal corpo, benché ma- teriale come questo. Un materialismo rigoroso, cioè che non ammette il dualismo d'anima e di corpo, non si trova, prima d'Aristotile, che in alcuni pensatori isolati e d'una importanza secondaria : Ippoui- (secondo cui l'anima era acqua e il seme era la prima anima), Crizia (che identificava l'anima col sangue) (2), e gli autori scono- sciuti della dottrina che l'anima è l'armonia del corpo (3), sono forse i soli, tra i filosofi ricordati da Aristotile, che noi possiamo riguardare come materialisti, nel senso mo- derno e rigoroso del termine. Anche dopo Aristotile, in cui (a parte la sua dottrina sul Nous) apparisce per la prima volta il concetto scientifico dell'anima (poiché per lui la distinzione dell' anima e del corpo si riduce a quella della forma e della materia), il concetto dominante continua ad essere quello della sostanzialità, e noi lo ritroviamo anche in Lucrezio, che si rappresenta l'anima come una sostanza sottile, che è diifusa in tutto il corpo, e di cui la parte dominante, cioè 1' animo o la mente, abita nel cuore (4). (1) Arist. De An. 1. l. e. 2, 18. (2) Ibid 19. (3)' Arist. De An. 1 1. o. 4. 1^; ofr. Plat. Fedo 85 e- 86 d e 91 d- 95 a. (i) De rer. nat, 1. iU., . ' Le dottrine platoniche sull'anima entrano dunque per- fv ttamente nell'ordine di idee dell' epoca, anzi general- mente del mondo antico. Cosi Platone non sente il hi- sogno di provare, ma afferma come un principio che nes uno potrebbe contestargli, questo presupposto fonda- mentale di tutta la teoria : che Tessere animato è com- posto di due sostanze, un'anima e un corpo; che la vita risulta dall' unione di queste due sostanze, e la morte dalla loro separazione (l). Tuttavia sulla base di questo dualismo egli fonda una dottrina che, tra quelle del doppio materialismo antico, è la più conforme ai con- cetti del moderno spiritualismo, riguardando 1' anima e la materia (cioè il substratum di tutti i corpi) come due sostanze diverse e radicalmente opposte. Ma con ciò Pla- tone non fa che sviluppare logicamente il concetto fon- damentale d'ogni animismo. Questo è che il principio della vita e delia coscienza deve essere qualche cosa di distinto dalle sostanze che costituiscono il corpo, poiché è impossìbile di comprendere che una stessa sostanza passi dallo stato di vivente e di cosciente a quello di non vivente e di non cosciente, e viceversa (2). Ora, se è cosi, sarà pure incomprensibile una conversione reci- proca tra la sostanza anima e una sostanza materiale qualsiasi : per conseguenza, tutte le sostanze materiali essendo, secondo Platone, convertibili l' una nell' altra, non vi sarà nell'universo che una sola dualità irridutti- bile e veramenie fondamentale, quella dello spirito e della materia. Nondimeno sarebbe un errore fare di Pla- tone un campione dello spiritualismo nel senso moderno. Egli resta ancora, in sostanza, sul terreno del doppio (1) V. Fedo. 64 e, 67 d, 105 d, Gorfjla 524 b, Ejnnom. 981 a, eco App. e. 2. § i-6. 274 - materialismo primitivo : ranima, secondo lui, è estesa (!) e si muove, e non afferma senza restrizione che non pnò essere oggetto dei sensi esterni. Il moviinrnto dell' anima é una conseguenza logica della sua semi- materialità : r anima infatti è il principio motore dei corpi (perchè il movimento spontaneo è il carattere di- stintivo dell' essere animato), e non si comprende come una sostanza materiale o quasi materiale possa muovere se non comuDicando il proprio movimento. Cosi Platone applica all'anima stessa la definizione che con- verrebbe all'essere animato, « ciò che muove se slesso « (5), vedendo nell' attributo della spontaneità del movimento un'espressione più completa dell'essenza dell'anima che in quello della coscienza, forse pt»,rchò gli sembra che il movimento spontaneo implica necessariamente la co- scienza, mentre questa non implica quello. Il movimento spontaneo non solo è 1' attributo essenziale dell' anima, ma si trova in essa continuamente (6), perchè da una parte la vita, negli esseri animati che noi osserviamo sulla terra, consiste ìq un movimento incessante, la cui sorgente secondo Platone non può trovarsi che neli' a- nima, e da un' altra parte gli astri (il cui movimento spontaneo prova che sono anch'essi degli esseri animati) non cessano mai nemmeno essi di muoversi. Il doppio materialismo in Platone dà luogo ad una dottrina, che non è senza analogia, almeno se si prende strettameate (1) V. Tim. 34 b, 36 e, 35 a, 41 d, eco» (2) V. le note seguenti. V, Append, e. 2. (4) V. e. 2 S 2 pag. 57-60. (5) V. Leggi 896 a e Fedro 245 e. (6) V. Tim, 36 c-37 e, 42 e, 43 a, 43 d 44 d, 47o-d,85 a, 90 d, 91 e 92 a, Fedro 245 e, ecc. alla lettera, con quella dei moderni materialisti estremi dell'identità dei fatti psichici e uei movimenti organici che ne sono la causa : il pensiero e tutti i fatti psichici in generale sono per Platone dei movimenti dell' ani- ma (1), proposizione che, intesa in un senso rigoroso, risolverebbe il subbiettivo nell'obbiettivo, e potrebbe avere per iscopo di far consistere tutiio il reale nell'estensione e le sue modificazioni, per poi ridarlo più facilmente allo spazio limitato dalle uuità, per conseguenza al numero. Tuttavia la proposizione non deve forse prendersi nel suo senso rigoroso : essa potrebbe significare semplice- mente che i movimenti deiranima sono la causa del pen- siero e degli altri fatti psichici. Ma anche in questo caso si avrebbe evidentemente una sorta di dottrina seoiima- terialista, che spiegherebbe anch' essa i fenomeni della coscienza per quelli del mondo obbiettivo, e non diffe- rirebbe dal materialismo propriamente detto, che perchè ai movimenti dell'organismo verrebbero sostituiti quelli di questa specie di maieria imponderabile, invisibile e impalpabile, che è, secondo Platon-'^, l'anima. Il concetto che l'anima muove gli organi per impulsione, cioè co- mu.nicando loro il proprio movimento (2), ci fa compren- dere quello della sua tripartizione. Platone crede eviden- temente che i movimenti vitali si propagano a partire da certi centri indipendenti fra di loro. Questi sono, almeno sovratutto, il cervello, il cuore e il fegato. Cosi egli divide l'anima in tre parti separate, dando loro per sedi le tre cavità del corpo in cui sono contenuti ^questi - i carta J84, in nota. (2) V. Leggi 894 e-896 b, Fedro 245 C-24C a, Arisi. 2-4, ni. 9-11, V. 1-2. Dean, organi— dottrina ammessi puce da Ippocrate, e che poi fu adottata da Galeno (1)—. La parte dell'anima che è il substratum dell'intelligenza (il XoYiaxtxóv) abita nella cavità cranica; quella in cui risiedono la collera e il co- raggio (il O'jjjLÓ^) è alloggiata nella cavità toracica ; la terza a cui appartengono gli appetiti sensuali, la più parte dei quali sono in rapporto eoa le funzioni della nutri- zione (r èixie'j[iY]itxóv) è alloggiata nella cavità addomi- nale, nella regione posta tra il diaframma e Tombelico (2). L'esame psicologico viene a confermare questa triparti- zone dell'anima, fondata senza dubbio su una base fi- siologica; poiché le attività psìchiche corrispondenti alle tre partì manifestano, per la contrarietà delle loro ten- denze, ch'esse appartengono a dei soggetti distinti (3). Al concetto della sostanzialità dell'anima è unita ge- neralmente la dottrina della sua sopravvivenza, e spesso anche quella della sua preesistenza. Tanto la soprav- vivenza quanto la preesistenza sono per Platone illimi- tate : Tanima, secondo luì, non è solamente immortale, ma eterna. Questa dottrina del nostro filosofo è, come quella dell' opposizione radicale tra lo spirito e la ma. teria. uno sviluppo perfettamente logico del principio dell'animismo. L'ipotesi della sostanza anima, come sap- piamo, è destinata a spiegare il passaggio della materia dallo stato di vita e di ciscienza allo stato contrario, e viceversa : siccome ci sembra incomprensibile che una stessa sostanza si trovi alternativamente in questi due stati contrari (per l'induzione istintiva, tirata dalle no- stre esperienze più familiari, che l'essenza delle cose non (1) V. Galeno De plaritis Ilippocratis et Platonis, (2) Tineo 69 o e sqq. (8) V. Rep. 1. IV. 431 e sqq. può cangiare), ne concludiamo che questo passaggio è dovuto a un'altra sostanza distinta, che è il substratum della vita e della coscienza, e che ora si unisce alla ma- teria, ora se ne separa. Ma se si ammette che questa sostanza supposta, cioè la sostanza anima, è soggetta essa stessa alla nascita e alla morte, si va incontro alla stessa difficoltà che si è voluto evitare con la sua sup- posizione, cioè rincomprensibilitàche una stessa sostanza da vivente e cosciente diventi non vivente e non co- sciente, e viceversa : infatti, una creazione e un annien- tamento assoluti essendo inconcepibili, l'incominciare ad esistere, per l'anima, non potrebbe essere che una tra- sformazione di qualche sostanza preesistente, che acqui- sterebbe le nuove proprietà della vita e della coscienza (che sono quelle che caratterizzano l'animaj, e il cessare di esistere un'altra trasformazione della stessa sostanza, che perderebbe le nuove proprietà acquistate. L3 ragioni stesse per cui si suppone una sostanza anima, condu- cono dunque ad ammettere che questa sostanza non può cominciare ad esistere né cessare di esistere. Queste ra- gioni, a dir vero, non proverebbero rigorosamente l'e- ternità dell'anima individuale, ma quella della sostanza deiranima, dì cui una certa individualità determinata potrebbe essere uno stato transitorio. Ma la forma più naturale, anzi la sola naturale, che possa rivestire il con- cetto della preesistenza e sopravvivenza della sostanza dell'anima, è evidentemente ia preesistenza e la soprav- vivenza deli; anima individuale. L' identità dell' anima, infatti, suppone l'identità della coscienza; per conseguenza alla persistenza dell' anima deve corrispondere la persi- stanza della coscienza; ora noi non possiamo concepire che la coscienza persista (cioè che la stessa coscienza continui ad esistere) se non conservando la sua indivi- — 276 - dualità. La dottrina platonica dell'immortalità, anzi del- Teternità, delTanima ha dunque una bas3 logica perfet- tamente naturale (quantunque d' un* evidenza illusoria, come lutti i sofismi a priori del nostro spirito): ma Pla- tone, per dimostrare qu'^st'immortalità, si serve di sofi'iini artificiali, che evidentemente non possono essere dei mo- tivi reali della dottrina. Ciò si spiega per la natura in- cosciente del processo logico di cui questa dottrina è la conclusione. Il concetto della sostanza anima non sup- pone necessariamente una deduzione dal principio ge- nerale che le sostanze non possono cangiare nelle loro proprietà essenziali, e meno ancora un'induzione coide^i^e dalle nostre esperienze più familiari che ci suggeriscono questo principio generale. La spiegazione della vita e della morte per la unione e la separazione della sostanza anima sembra evidenti perchè permette di assimilare questi fenomeni alle esperienze fiù familiari, che mo- strano che le cose non cangiano nella loro natura, ma solo nei loro rapporti reciproci di posizione: ma si può non aver coscienza del processo di assimilazione, ma solo del suo risaltato, cioè dell' evidenza della spiega- zione, la quale sembra perciò un' evidenza intrinseca. Cosi pure Tipotesi che la sostanza anima non muore né nasce sembra evidente, perchè permette un'assimiliazione più completa, che l' ipotesi contraria, alle stesse esperienze più familiari da cui si è conclusa 1' esistenza di questa sostanza; ma si può anche in questo caso aver coscienza solamente deirevidenz\ dell'ipotesi, e non del processo d'assimilazoue di cui quest'evidenza è il risul- tato. Non è du ique sorpren leut che Piatone, per di- mo.strare 1 iiimortalltà delTanima, invece che delle prove .•••al', cioè d»^' sofismi naturali^ su cui questa dottrina è loniati, si serva di sofismi puramente artificiali y inca- paci per se stessi di determinare una convinzione : egli non ammette la dottrina che in virtù della sua evidenza intrinseca (cioè per un'inferenza incosciente); cosi si comprenie com% e rcaudo di dimostrarla agli altri, al passaggio reale per cui é pervenuto alla sua conclusione, del quale non ha coscienza, egli sostituisca dei passaggi fittizi. Tuttavia si sarebbe ingiusti verso alcuni degli argomenti di Platone, riguardandoli come semplici sofi- smi artificiali : essi sono (oltre quello della reminiscenza, di cui parleremo io seguito) quello del Fedro e l'ultimo del Fedone, il solo, come no- tammo altrove, che Platone dia come decisivo (3). Il primo di questi due argomenti conclude l'eternità del- l'anima da ciò che essa è il principio motore. Alla Qaast'argomento è riportato, neUa saa parte essenziale, nel Supplem. B, a carte 45-47. Appena, p. CXCIII. (3) V. Fedone 95 d-96 a, 100 b, 107 b. •* Ogni anima è immortale, poiché ciò che sempre si muove è immortale, ma ciò che muove altro ed è mosso da altro, avendo un termine del movimento, ha un termine della vita. Solo dunque ciò che muova sa stesso, poiché mai non manca a sa stesso, non ca^sa mai di miovar^i, anzi a quante altre cosa sono mosse è la sorgente e il principio del movimento. Ora il principio è non ge- nerato, poiché è necas-iario che tutto ciò che si genera sia gene- rato dal principio, ma quasto da nessuna cosa : se infatti il prin- cipio fos^e generato da qualche cosa, tutte le cose non sarebbero generate dal principio. Ma poiché non é generato, é anche neces- sario che esso sia incorruttibile, poiché, se il principio venisse a mancare, né esso potrebbe nascere da (lualche cosa, né altra cosa da esso.... Cosi dunque il principio del movimento é ciò cha muove sa stesso: questo poi non può né nascere né morire; altrim.enti tutto il cielo e ogni genervizione si fermerebbero necessariamente, né si avrebbe mai donde, ricuperato il moto, potessero rinascere. Ciò che é mosso da se stesso apparandoci essare immortale, se alcuno conclusione si giunge per dei passaggi che, quantunque non staio perfettanionte logici, non^sono però arbitrari: dal concetto che Tanima è il principio motore (suggerito dalla esperienza più familiare, che ci dà come carattere distintivo deir essere animato la spontaneità dei movi- mento), se si suppone la necessità d* una causa prima (per rinconcepibilità di un regresso all'infinito nella ri- cerca delle cause), è naturale d'inferirne che questa causa prima è Tanima cosmica. Dì là nes3gie rigorosamente che quert'auima non ha avuto cominsiamento : inoltre il più logico é di supporre che e^sa non avrà nemmeno fine (perchè nella supposizione contraria bisognerebbe ammettere o che, estìnto il principio del movimento, Tu- fl iverso cada nell' immobilità, o che air anima cosmica estinta succedi, nel goverao del mondo, ua'altra animi cosmica, la quale avendo avuto comincìamento, si avrabb e Tincoerenza di faredell'anìma cosmica ora una coia sen^a cominciamento e una causa prima, e ora una cosa di-i venuta e avente una causa). Concluso che V anima co- mica è senza cominciamento e senza fine, è naturalo d estendere questa conclusione alle anime individuali, che ^ne differiscono di grado, ma non di natura. L' ultimo argom^ento del Fedone s'impernia nella prop dizione che ciò che apporta la vita dovunque si trova non può ri- cevere la morte : essa è 1' e^pra^ìone del motivo reale della dottrina dell' immortalità, che è il legame logico dirà che qaesta è l'e?^enza e la defiaizione dall' aaimi, noa se ne pentirà. Infatti ogni corpo, a cai il movimanto viene dal di faori, è inanimato; ma quello che lo ha da se ste«o, è animato, com3 se qaesta sia la natura dell'anima. Ma se è cosi, non esservi altro ohe muova se stesso S3 non V animi, per nasajsità l'anima è non generata e immortale „. Fddro che vi ha tra la spiegazione animista cicè che la vita e la morte sono dovute alla unione e alla separazione d'una sostanza distinta che è il substratum della vita e della co- scienza—e il concetto che la vita e la coscienza devono essere inseparabili da una tale sostanza (1). Se Platone prendesse la proposizione (o meglio il concetto eh' essa indica, senza esprimerlo sufficientemente) come principio, r argomento sarebbe naturale : la parte artificiale del sofisma è la pretesa dimostrazione di ciò cho egli do- vrebbe invece dare, e che èfi'ettivamente ammette, come una verità intuitiva. Le sorti dell'anima dopo la morte formano il soggetto della più parte dei miti di Platone (che bisogna distinguere dai simboli, quali il Demiurgo e la cosmogonia del Timeo, o la contemplaz'one delle Idee nel luogo i- peruranio del F^dro): in questi miti ò difficile di fare le parti tra ciò che è un convincimento serio dall' autore e ciò che per lui stesso è una congettura più o meno verisimile o anche una semplice finzione; ma e certo ch'egli ha fede nel concetto generale che vi campeggia, cioè i premi e le pene in un'edstenza futura. Platone accoglie la dottrina, insegnata nei misteri, della tra- smigrazione delle anime; e generalizzando qu?sto dato tradizionale quantunque, oltre al ritorno in questo mondo, reincarnandosi in corpi d' uomini o d' animali, parli anche del soggiorno delle anime in altri luoghi di premio o di punizione -giun^-e al concento che l'anima è sempre congiunta ad un corpo, animando suecessiva- Fedo.-ìié: d-e, 63 o, 64 a, 72 d-a, Jtep. 608 e, 612 b-c, 6J3a, 614 a, 621 e, Gorg, 622 e-523 a, 524 b, 523 d, 527 a, 527 o, Lag., eco. mente e ir pi differenti secondo lo stati di perfezione o d' imperfezione a cui è per\rcauta {Leggi ma al- trove, in dialoghi verisimilmente anteriori, parla d'uno btato dell'anima in cui e libera da qualsiasi corpo, p. e. nel Fedone 114 e, in cui una tale esistenza è promessa durante Tcteruità a qu-illl che si sono purificati suffi- cientemente per la filosofia;. E inn'^gabile che la dottrina della metempsicosi, sovr.atutto in questa forma, per quanto possa sembrare strana a u*i filosofo moderno, ha un va- lore filojofi:o superiora che quella d-ell' esistenza eterna dell'anima dopo la morte in ui mondo assoluta me a te immateriale, poiché ossa lega par sempre il principio spirituale alla natura, contìnuanio ad assegnargli, in tutte le epoche della saa esigenza, la sua fuizione pro- pria, senza di cui è un'ipotesi senza motivo e senza scopo, di forza animatrice e vivificatrice della materia. La dottrina dell'immortalità dell'anima in rapporto a quella della sua tripartizione solleva un problema, a cui Platone dà delle soluzioni difi'erenti : sono immortali tutte e tre le parti, ovvero una sola, che sarebbe come il sub- stratum della personalità ? Nel Fedro (1) è ammessa la primi delle due soluzioni ; ma la dottrina definitiva di Platone, che troviamo nella Repubblica e nel Timeo, è l'immortalità del solo Xoy'-aiixóv (nel Fedone (4) sembra V. 1. X. 611 b-612 a. (3) V. 41 c-43 a, 69 c-72 d, 73 d, 89 e-90 d, ecc. Il Timeo è cer- tamente una deUe ultime opere di Platone, perchè appartiene al periodo dal sincretismo con le dottrine pitagoriche. Anche nel Po- liticOj che po3>3Ìamo pure rigaardara come ano degli ultimi dialoghi (cfr. Sappi. C, carta 238, in nota) si diàtingaono la parte immor- tale dell'anima (cioè la razionale) e la mortale (y. 309 o/. (4) V. 78 b-80 e. ohe Platoce non ammetta la dottrina della tripartizione). La soluzione del Fedro é quella che esiggono i motivi filosofici della dottrina dell'immortalità, poiché 1' anima è immortale perchè è la sostanza che è il principio della vita, e sostanze e principii della vita sono anche le parti inferiori. I motivi etici e Fontimentali della dotlrina del- l'immortalità esiggono invrcc l'^iltra soluzione, poche le speranze dell'altra vita lichiedono uno j-tito dall'anima in cui sia esente dalle passioni e dai b'sogni del coi pò, e in cui per conseguenza le parti inferiori resterebbero senza funzione. Forse Platone, negando 1' immortalità delle parti iDferioii, intend». rifiutare solamente ad esse la persistenza dell'esistenza individuale, non quella della sostanza. (Questa è una conseguenza inevitabile dei pre- supposti di tutta la dottrina; e infatti i discepoli imme- diati di Plotone insegnano l'immortalità, non del solo (XoYtaxixóv), ma dì tut*:a l'auma (l). L' immoitilità e preesistmza dell' anima si lega col sistema delle Id^c per la dottrina della intuizione delle Idee in ua'a't* a vita e della reminscenza (2). Noi abbiamo notato come il problema di spiegare la coincidenza tra il p3nsi«»rj e la realtà nelli conoscenza a priori divenga più urgenti nel realismo di^lottieo (3): e infatti in quasi tutti i sistemi appart nenti a questo tipo (oltre il sistema a di Platone, in quelli dì H^gel, di Schelling, di Spinoza (4 noi troviamo delle ipotesi destinate alla soluzione di questo problema. Fra le tre ipotesi pò sibili, cioè o che l'oggetto determina il pensiero, o che il pensiero dc^erm'na l'oggetto, Olimpiodori Gommoni . in Platon. Phaedo. ap. Cousin in Jouniol dcs savants 1835 p. 145. (2) V. e. VII p. U4 e Sappi. B varte 142-U4. (3) V. e. 143. (4) V. o. VU. p. 431-442, in nota. 0 che vi ha identità tra Toggetto e il pensiero (1), sola- mente la prima e l'ultima sono compatibiU col realismo dialettico: col sistema platonico non è compatibile che la prima, cioè qiieUa. deWintinzione i^azicnale, perchè le Idee di Platone non sono d'^i pensieri, come qiiel'e di Hegel, ma delle realtà puramente obbiettive (2). Noi abbiamo pure indicato perchè alla dottrina meno mistica di un' intui- zione in questa vita Platone preferisca quella dell'intui- zione in una vita anteriore e della reminiscenza di que- sta intuizione (3). Non ci resta da aggiungere che un'os- servazione, cioè che, quantunque il pro^^resso reale del pensiero di Platone sia stato evidentemente dalla dot-, trina dell' immortalità e preesistenza a quella della re- miniscenza, e non al contrario, non è strano ch'egli ri- guardi la reminiscenza come una prova della preesi- stenza ed immortalità (4) : quest'argomento, al suo punto di vista, è un ragionamento perfettamente naturale — è il solo di quelli del Fedone, oltre l'ultimo, ch'egli crede rigoroso, almeno come prova della preesistenza, perche egli vede nella reminiscenza, e quindi nella pree- sistenza che essa suppone, l'unica spiegazione possibile della conoscenza a priori. Passando all'anima cosmica, cominceremo ricordando che essa è l' unica divinità ammessa da PUtone (6). Il Demiurgo del Timeo ò un s'mbolo che rappresenta l'I- (1) V. Saggio 1 o. 3 § 7. (2) V. questo Sappi, n. HI. (3) V. Sappi. C carte Fedo, 71 e-77 a e Meno. 85 0-86 b. (5) V. Fedo. 91 e-92 e. (6) V. Sappi. C, carta 224. dea del Bene. Il nome di dio dato al Bene e ad al- tre Idee— e da Xenocrate cnche al principio materiale—, e quello di divino dato a tutte le Idee in generale, è evidente che non devono prendersi nel senso proprio, perchè Platone non può avere Tinte nzione di peisoni'fi- care le sue astrazioni realizzate, che non sono che gli attributi generali delle cose, considerati ce me sussistenti per Fé stess'. La parola divino, in questo come in tanti altri casi non significa che l'eccellenza dell'oggetto a cui si applica: quando insieme all'idea della supe- riorità, viei e evocata vagamente quella della personalità, dair aggettivo dhi'vo Platoce p?sea al gostan- V. Supplem. e, carte 2^2-237. V* il num. seg. (3) Que.ito pare essere genernlmente il caso in tutti i luoghi in cui Platone chiama dei delle Idee altre che quella del Bene. Nel Parmenide 134 c-e si chiamano dei gli esseri ideali in cui risiedono come attributi la scienza in sé e la padronanza in sé (la scienza e la padronanza devono essere attributi e devono inerire in qual- che sostanza nel mondo delle Idea come in quello dei fenomeni). Sulla fine del Timeo, dove il mondo è chiamato dio sensibile immagine del dio intelligibile, questo dio intelligibile è certamente l'animale che contiene tutti gli animali intelligibili, di cui a 30 c-d, cioè l'Idea dell'animale, parche è a sua somiglianza che il mondo è stato fatto. Nel principio dell'allocuzione del Demiurgo alle divinità generate, dei di del (cioè figli di dei), opere di cui lo sono l'artefice e il padre (Tim.), la parola dei, la seconda volta, deve denotare altre Idee oltre, quella del Bene (rappresentata dal Demiurgo): noi pensiamo naturalmente all' Idea dell' animale (il dio intelligibile di cui sopra^ e alle altre Idee meno estere a cui gli dei individui sono subordinati. Anche a 37 e, in cui il mondo semovente e animato, prodotto dal Demiurgo, è chiamato un simulacro degli dei eterni „, è naturale d'intendere per questi " dei eterni „ delle Idee, più o meno g3nerali, di esseri animati, di cui il mondo è la realizzazione. tivo dio, senza che iotenda perciò assegnare alle astra- zioni che decora di questo nome, una funzione analoga, anche lontanamente, a quella degli esseri personali d'uua forma qualsiasi della fìlosotìa teologica. In quanto all'I- dea del Bene, abbiamo osservato che Platone non può chiamarla dio che perchè vede in essa il primo principio delle cose (1)~ la stessa ragione spiega naturalmente per- chè Xcnocrate possa estendere qu«>sto nome anche al principio materiale-. Al nostro punto di vista moderno sembrerà strano che la divinila, nel senso proprio, non sìa per Platone che un principio derivato. Per un filo- sofo moderno Dio e Vassoliifo, e perciò egli trove- rebbe assurdo di supporre un principio superiore a Dio stesso: ma questo concetto deirassoluto, come carattere essenziale della divinità, manca ancora, come vedremo in seguito, in Platone, e in generale nella filosofia teo- lo^nca antica non si sviluppa che d'una maniera incora- pietà. Il teismo in Platone è ass'so sulle sue basi naturali. Vi hanno secon lo lui due prove della divinità: la prova teleologica (tirata sovratutto dalla regolari à dei movi- menti dcgU astr) e quella foti-lata sul concetto cho l'a- nima è ì\ principio del movimento. Cfsi Dio ò per Platone il principio motore {i) e ordinatore dell'uni- verso-la doppia fuu//iono che U divinità, come prinei- (1) V. cap. Vn. p. 1D4. (2) V. e. II § 5. V. voi. I e. 2 § 2 pag. 53-54 e § 3. p. 83. V. Fedro 245 c-e, Leoai 894 e- 898 b, Epinom. 988 d-e, eco. (5) V. FUeho 26 e- 27 e, 28 d-a, 30 ed, iioilsla 263 c-e, 266 b-d. Fedone 97 e- 99 e, Timeo 4> e e seg. (cfr. Sappi. C, carte 233-234), Leitai 892 a-800 b, 9u3 d-o, 9o7 d, Kpinjmtde 981 b, 982 a- 983 e, 991 c-d, ecc. cipio esplicativo dei fenomeni, ha nella filosofia teologica antica, e possiamo cnche aggiungere, nella teologia naturale. Vi hanno iniziatone due dottrine della finalità, 1' una imma- nenie e 1' altra frascendenfe. La prima consiste ad am- mettere che il Rene è l' Idea delle Idee, il tipo uni- versale su cui tutti gli esseri sono costruiti, e che esso esiste per una necessità primitiva, tale che la sua non e-^istenza sarebbe inconcepibile e contradittoria. La se- conda spiega la finalità dfgli og-etti materiali e che hanno avuto un comiuciamento — vedendo in essi deo-li effetti d'una causa perdonalo, agente con un piano e per uno scopo. Queste due dottrine non sono incompa- tibili, perchè non vi ha contraddizione ad ammettere al tempi stesso che è una neces.^ità logica che i fenomeni si prò lucano in grazia d'uno scopo, e che tra gli ante- cedeni' dei fenomeni che si producono cosi ve ne hanno alcuni iuacc ssibili airespcrieuz^; e se sì ammette que- sta seconda ipotesi, non solo non è contradditorio, ma ò naturale di supporre che gli antecedenti di cui si tratta devono essere tali da spiegare la natura dei loro conse- guenti. E vero però che una volta che la finalità viene spiegata per la sua necessità logica, un'altra spiegazione non potrà più rigaardarsi come iiKli«pensabile. Ma ciò non toglie che l'analogia suggerisca, anche in questo caso, delle cause personali: seni pile traente non si potrà più pretendere che il ricorso a queste cause sia neces- sario, e l'argomento teleologico, per conseguenza, non potrà più aspirare al valore di una prova completa (3). (1) V. voi. 1 e. 2 s 2-0. sui. pi. C. V carta 2i34, Il concetto che l’anima è la forza motrice si sviluppa in Platone nella dottrina che essa è la causa prima di tutti i fenomeni, e in lui troviamo già, quantunque in una forma meno precisa che in Aristotile, l'argomento della causa prima per provare la divinità (2). La dottrina che l'anima è la causa prima implica quella dt3lla sua du- rata infinita, almeno nel passato. Tuttavia nel Timeo le si dà un' origine nel tempo, come all'universo in generale; ma noi abbiamo visto che la cosmogonia del Tu meo è un semplice simbolo, che rappresmta la deriva- zione logica di tutte le cose dai due primi principii (1 Bene e la Materia) (3). Nelle Leggi si parla pure dell'a- nima come generata (anteriormente a tutte le altre coso, di cui è la causa prima): è che, come abbiamo osservato, Platone nei suoi ult'mi scritti, dandosi per un pitagorico, vuol conformarsi alla dottrina, secondo lui exoterica, dei Pitagorici, che attribuiva al mondf) un'origine nel tempo (benché la loro dottrina reale fosFe che esso è eterno. L'insieme della teoria psicologica di Platone e il sistema delle Idee (che suppone l'etirnità e la necessità dell'or- dine attuale del mondo) esiggono indispensabilmente la dottrina dell'eternità dell'anima, insegnata, del resto, nel Fedro e in altri dialoghi (5). Ai motivi filosofici della credenza nella divinità e alle sue funzioni corrispondenti si aggiungono (come per la credenza jiell' immortalità dell' anima individuale) i motivi etici è sentimentali e le funzioni che corrispon- (1) V. Sappi, e, carta 224. (2) Sappi. C, carte (U V. Sappi. C, carte 235 e 238. (5) V. Sappi. C, carta 225, dono a questi. Platone si diffonde a dimostrare che gli dei hanno cura delle cose umane, non meno delle piccole che delle grandi. Che i nostri affari siano piccoli 0 grandi agli occhi degli dei, non può con- venire ad essi di negligerli, perchè la negligenza, l'inerzia, la mollezza non possono appartenere a dio, a cui bisogna attribuire l'eminenza in ogni virtù. D'al- tronde le cose piccole sono più facili a curare che le grandi riflessione notevole, perchè ci mostra quanto Platone è lontano dal concetto deir onnipotenza . La provvidenza divina ha sovratotto per oggetto che cia- scuno abbia la sorte che merita, mettendo V anima che è divenuta migliore in un posto migliore, e la peggiore in uno peggiore: del divenire poi ciascuno di noi mi- gliore o peggiore ne ha lasciato le cause alla nostra vo- lontà; ordinariamente infatti ciascuno diviene di animo quale desidera di essere (4). Non bisogna credere però, come dicono i più, che Dio è causa di tutte le cose: egli è buono, e per conseguenza può essere causa dei sol! beni, ma non dei mali (5). Vi hanno due sorta di anime, l'una buona e l'altra cattiva : i movimenti tendenti al bene sono prodotti dall'anima buona, quelli teadenti al male dalla cattiva (6). Quella che governa l'universo è l'anima buona: tuttavia Platone afferma che la somma dei mali sorpassa quella dei beni (7), ciò che, tenuto conto delle proposizioni precedenti, non permette di at- (1) Leggi 899 d- 905 d. (2) Leggi 902 o- 903 a. (3) Leggi 9(» d- 904 e. (4) Leggi 904 e. Questo coocetto è espresso simbolicamente nella scelta delle anime nel mito salla fine della Jiepubblica, 72#p. 379 a-380 e. Leggi, Eptnom, 088 e. (7) Leggi 906 a, Rsìk 379 o. — 2HÌ — tribuirc a Dio che una potenza molto limitata. Platone combatte le idee della religione popolare che e^W erede indegne della divinità, p. e. che gli dei si svìFano sotto forme diverse ingannando gli u'-mini, che vi hanno ira di essi delle ingiurie e delle inimicizie reciproche (2), che i cattivi possono propiziarseli con doni ed adula- zioni IO), ecc. Naturalmente sarebbe vano di cercare in Platone i concetti della spirituali;! e della semplicità di Dio. La divinità, cioè ranfnia cosmica, è una specie del genere anima: essa ha dunque la stessa natura semi- materiale deiranima dell'uomo e degli altri esseri ani- mati, vale a dire ò estesa (4), si muove continuamente u")), e muove i corpi comunicando loro il proprio movimen- to (6). Da ciò che precede si vede anche che mancano nella teologia platonica i concetti di quella che abbiamo chiamato teologia ircmcendenlale (7), cioè le dottrine che Dio è immutabile e fuori del tempo, e che e V infinito o P assoluto (cioè che tutti i suoi attributi si elevano a un grado infinito o assolutoi. Il Dio di Platone, lungi di essere immutabile, è, come abbiamo detto, in un mo- vimento continuo: inoltre egli ragiona, prevede, si ri- corda, ecc. 8); d' altronde Platone non avrebbe potuto immaginare una coscienza che non consìste in muta- ti) h'ep. 380 d .e siiq. (2) Jtejì. 377 d- 378 e. (3) Lemii 905 d- 007 b. (4) V. Tim, 34 b, 35 a, 36 e, Ar. Ih' an. 1. 1. Ul. 12, ecc. (5) V. Thn, 36 e- 37 e, 47 b-c, 1)0 d, Fedro 245 e, Ar. De ci. I. 1 HI. 15, ecc. (6) V. Ufffi'i 894 e- 896 b, Fcffnf 245 e- 246 a, Arisi. I>c >tn,\, 1. II. 4, Hi. 11. O) V. e. 2 ?% 5. (8) V. e. 2 s h p. l-u. menti, perchè per lui i fatti della coscienza non sono che movimenti dell'anima. Il concetto che Dio è Pas- soluto o l'infinito implica quelli della sua potenza e cau- salità infinite (2). Ma la causalità e la potenza del Dio di Platone trovano un limite nella materia e negli altri esseri spirituali (tra cui l'anima cattiva, che sono egual- mente primitivi che lui : di piti la sua efficienza si ri- duce unicamente all' azione motrice, e questa non può esercitarla, come l'uomo o qualsiasi altro essere corpo- reo, cbe a contatto e per impulsione (3). Risulta pure dall'esposizione precedente che la teologia di Platone è un dualismo radicale, in cui Dìo e la materia- o, me- glio, la sostanza del mondo— sono, non solo due sostanze distinte, come in quasi tutti i sistemi della filosofia teo- logica antica, ma due sostanze egualmente primitive, coeterne e inconvertibili l* una nell' altra. Non è foifc inutile di osservare che, siccome Dio e le Idee sono due cose interamente differenti, questo dualismo non ha niente di contrario alla immanenza delle Idee nel mondo, né al monismo della prima forma del sistema platonico, in cui l'Idea del Bene è il tutto allo stato implicito. Per la stessa ragione esso non ha nie te di comune col dualismo della forma posteriore, in cui al Bene sì aggiunge, come altro (1) V. e. 184 in noia. I luoghi ivi citati sall'id3ntità del pensiero al movimento si riferiscono o esclusi vani 3nte o anche all' anima dei mondo. (2) V. e. 2 § 5 p. 135. V. Suppl. C, IV. e. 229 e la p. prec. n. 6. Oltre alla sua azione motrio3 per impulsione, Platone sembra ali ribaii-.^ all' anima cosmica uno sforzo per mantenere la coesione dell'universo e dei corpi celesti e la pergistenza della loro forma. Questo sforzo non è in verità un'azione motrice, ma è eviden. temente immaginato, come questa, sul tipo della nostra azione muscolare. — 2.s:ì — princìpio primo, la Materia, né vi ha fra questi due dua- lismi alcuna relazione logica. L'influenza recìproca tra la psicologia platonica e la sua teologia è evidente. Al dualismo antropologico tra Tanima e il corpo corrisponde il dualismo cosmologico tra Dio e il mondo materiale : alla indipendenza deli' anima cosmica dalla materia e alla sua primordialità e inconvertibilità con essa, richieste dalla sua funzione di causa prima, corrispondono Tindì- pendenza della psiche umana dalle condizioni somatiche e la sua esenzione dalla nascita e dalla morte. Ciò che vi ha di più oscuro nelle idee di Platone sul- ranimaèil carattere vago del suo concetto deTindividua- lità psichica. Noi abbiamo visto che Tanima individuale è composta secondo lui di tre parti, ciascuna delle quali costituisce in realtà un'anima distinta. Qualche eosa di simile si ha nella sua dottrina dell' anima cosmica. Ri- guardando il mondo come un grande individuo animato, egli concepisce Tanima che lo vivifica come unica, come quella di qualsiasi altro individuo animato (l). QuestV nima è per lui, come abbiamo detto, la divinità : ma la sua unità non importa, per lui come per gli altri filo- sofi greci che ammettono un'anima del mondo, il mono- teismo, almeno rigoroso. Egli riijuarda pure come indi- vidui animati la terra e tutti gli astri, sì i pianeti che le stelle fisse, e attribuisce quindi un'anima a ciascuno di questi corpi (2). Ognuna di queste anime è conside- rata naturalmente come una divinità particolare (3), (1) V. Filebo 30 a, Tim, 30 h-c, 34 b-c, 36 d-37 e, eoo. (2) V. Tim. 38 c-e, 39 e- 40 d, Leggi 898 d- 899 b, Epinom. 981 e- 983 e, 984 e, 985 d- 988 d, ecc. V. i 1. ìnd. nella nota precedente. Platone chiama dei non solo l' anima del mondo e quelle del Inolti'vi egli ammette dei demoni, esseri d' una divinità imperfetta (tra cui ve ne hanno anche dei malefici. Ora per !e anime della tv*rra e degli «stii, è evidente che, secondo Platone, esse non esistono al di fin ri dol- Tamica cosmica, • di cui soho come dolio parti. Inlatti nel Timeo il Demiurgo non costruisce che V anima del mondo e quelle degli animali mortali: degli astri non costruisce che i corpi (3), quantunque V autore li dia espressamente come esseri animati; e che vi s'ano altro anime oltre quelle che il Demiurgo ha costruite, è escluso dal luogo in <!Ui si dice (dopo che si è narrata la for- mazione degli animali divini, cioè degli astri) che egli ha composto V anima degli animali mortali coi resìdui degr ingredienti con cui aveva composto l' anima del mondo. Un'aUra prova, anche più decisiva, è la di- visione dell'anima cosmica nel cerchio della natura dello stesso (che rappresenta il movimento diurno del cieloì e i cerchi della natura del diverso (che rappresentano le orbite dei pianeti: se i movimenti planetari sono at- corpi celesti, ma anche il mondo stesso e gli stessi corpi celesti. Questa estensione dell' attributo della divinità dall' anima, a cui propriamente appartiene, all' essera animato (cfr. e. 2 § 1 p. 47 e § d pag. 167) è troppo ovvia, per poter farsene un argomento con- tro il dualismo di Platone, che risulta nettamente dalia sostantifi- cazione del principio spirituale e dalla opposizione radicale tra esso e la materia. V. Platone Fedro 246 e, Conv, 202 e- 2(»a, Leggi UT h, 906 a, Epinom. 984 b- 985 b, Plutarco de Is. ut Osir, 25-26 e de oracul. de- fectu 17, ecc. (2) Tim, 34 e- 36 d e 41 d- 42 e. (3) V. 38 c-e e 40 a. (4) Tim, 41 d . (5) Tim. 36 c-d. Cfr. 37 a-c. - tribuiti airanima cosmica, siccome il principio del mo- vimento iW ciftsciin pianeta deve essere la sua anima particolare, Jc anime particolari dei pianeti non possono essere che delle parti dell'anima cosmica, ^)ues^a ù dun- que per Platone un individuo superiore che contime n 1 suo seno altri individui inferiori. Noi non troviamo al- cuna difficoltà ad ammettere, n-l mondo fisico, delle in- dividualità di ordine diverso, in modo che un individuo di grado superiore contenga in se stesso degP individui di grado inferiore (p. e. l'organismo e le cellule che lo costituiscono). Platone suppona che qualche cosa di ana- logo si dia anche nel mondo psichico: egli non trove- rebbe niente di strano nel concetto di Haeek<^l e di altri filosofi contemporanei, che riguardano l' anima di un organismo vivente come la risultante delle anime delle sue cellule. A dir vero Platone non può riguardare l’anima cosmica come una risultante delle anime degli astri: queste, rapporto alla prima, piuttosto che agli elementi che compongono un tutto, potrebbero paragonarsi a dei rami divergenti da un tronco comune, o a dei punti cmer;?enti in una superfìcie, ciascuno dei quali costituisce un'unità distinta, quantunque sia al tempo stesso una parte di un' UTiità più comprensiva. Que- sto concetto d' u^ individuo psichico che contiene altri individui ps'chici, in Platone come negli altri filo^^ofi antichi in cui io troviamo, per quanto poco naturale in se stesso, è una conseguenza logica d' un' idea natura- lissima al punto di vista della concezione animista della natura, cioè che in questo granie individuo vivente che è Puaivers-», vi hanno delle parti, vale a dire i grandi corpi che si muovono in esso, che manifestando una vita sino ai un certo punto indipondente, devono riguardarsi anch'essi come individii viventi. Se si suppone che la vita e i movimenti dì un es=?ere animato sono prodotti dall'anima che lo vivifica, siccome le vite e i movimonti degl'individui inferiori fanno parte della vita e dei mo- vimenti deiriniividuo più vasto che li contiene, sarà lo- gico di concluderne che le anime dei primi fanno parte dell'anima del secondo, estendendo al concetto dell' in- dividualità psichica la relatività che vi ha in quello del- Pindividualità fisica. A questo punto di vista le anime stesse degli animali propriamente detti noni>otranuo ri- guardarsi come assolutamente distinte dalla grande anima del tutto : cosi secondo il FUeboìa. nostra anima ci viene da quella dell'universo (1), come se ne fosse una parte, che le condiz'oni della vita terrestre hanno isolata, ma che prima era congiunta al tutto con legami più in- timi, benché avesse già un'esistenza individuale, perchè Peternità d^^lPanima importa, come abbiamo detto, la persistenza dell'individuo, e non semplicemente della so- stanza. Vi hanno in Platone, come abbiamo già osservato (3)* due spiegazioni del mondo, corrispondenti a due concetti differenti della causa efficiente. L'una è la dottrina del- l'anima cosmica: essa é una varietà della filosofia z\<?^m- Uva dello spirito umano, e corrisponde al concetto spon- taneo della causalità, che ci fa considerare come causa- zioni efficienti le sequenze tra fenomeni che ci sono le più familiari. L'altra è il realismo dialettico, che intro- duce fra i concetti un nivsso logico continuo, e, mediante 0) Fllebo 28-20. C^ì Ti'animadeU'uomo. oa^ofli nK ri animali ba abitato negli astri, partecipando al governo d^l mondo, e, puriHcata, ritornerà ad a- bitarvi. V. Tini. 41 d- 42 d e 90 a e Fedro la loro realizzazione, dà a questo nesso logico il valore di un nesso ontologico, cfoè trasforma il rapporto tra princìpio e conseguenza in un rapporto tra causa ed ef- fetto. L' uno di questi due generi di spiegazione non esclude l'altro, perchè non vi ha alcuna incompatibilità tra i due concetti della causalità su cui sono fondati. Il realista dialettico non può non ammettere anch'egli, ol- tre alla nuova specie di cau-^azione che egli introduce, cioè la filiazione tra i concetti realizzati, quest'altra spe- cie di causazione che tutti ammettiamo, e che si riduce a una successione costante tra fenomeni. Le tendenze istintive del nostro spirito lo spingeranno a immaginare, in queste sucessioni costanti tra i fenomeni che egli non può non ammettere, degli antecedenti tali che possano spiegare i loro conseguenti, cioè che ne siano delle cause produttrici o efficienti : questo processo di efficienza cau- sale può coesistere con quello del realismo dialettico, perchè Tuno produce dei fenomeni concreti e individuali, mentre Taltro non produce che delle entità astratte, cioè le forme e le leggi generali di questi fenomeni. Il rea- lista dialettico considera, è vero, le sue entità astratte come le cause dei fenomeni di cui sono le forme e le leggi generali : ma questa causazione non sarebbe incompatibile con quella dei loro antecedenti fenomenali (cioè che sono dei fatti o degli esseri individuali e con- creti) che neir ipotesi, sconosciuta a qualsiasi realista dialettico, che le entità astratte fossero fuori dei feno- meni (come neir interpretazione trascendentalista delle Idee platoniche). Le entità astratte, secondo il realista dialettico, sono cause dei fenomeni, non in quanto li producono, ma in quanto sono delle condizioni senza di cui essi non potrebbero esistere, costituendo la loro essenza la loro vera realtà. Ma se fossero fuori dei fenomeni, non potrebbero esserne le cause che produoendoli : in questo caso la loro causalità e quella degli antecedenti fenomenali (ammessi a titolo di cause efficienti,"'{com'è evidentemente Tanima del mondo di Platone) si esclu- derebbero a vicenda, e bisognerebbe scegliere tra Tuna e Taltra ipotesi (l). Potrà sembrare tuttavia che, se la spiegazione del realismo dialettico e quella della filosofia istintiva non sono incompatibili in quanto Tuna esclu- de Taltra, lo sono però in quanto l'una rende Taltra su- perflua. Le due spiegazioni, in effetto, si applicano agli stessi fatti (tutti i fenomeni in generale); ma quando un fatto si è già spiegato, è perfettamente inutile di cer- carne un'altra spiegazione. Questo ragionamento sarebbe valevole, se l'una o l'altra delle due spiegazioni potesse sembrare soddisfacente, anche ad un metafisico; ma esse non lo possono né l'una né l'altra. Limitandoci a Pla- tone, è facile di mostrare che la sua dottrina dell'anima del mondo— anche senza tener conto delle difficoltà ine- renti a quest'ipotesi non può dare che una soddisfazione incompleta a questo bisogno di conoscere le cause per cui tali ipotesi sono immaginate. Prima di tutto un'ipo- tesi sulle cause, per essere una spiegazione completa- mente soddisfacente dei fenomeni, dovrebbe essere tale da poterne dedurre la natura degli effetti, cioè da poter concludere, come conseguenza dell'ipotesi, che i fenomeni devono essere cosi come sono in realtà, e non altrimenti. Ma r anima del mondo può spiegare solamente perchè esiste il movimento e perchè vi ha un ordine nella na- tura (ciò che il metafisico chiama finalità) : essa non spiega perchè hanno luogo precisameute questi movici) V. o. 3 S 6 saUa fine. meati e pciclH* esiste precisamente quest'ordine, che noi osserviamo nel mondo reale (noi non sappiamo, p. E., perchè l'anima dtl mondo, da cui, t^econdo Platone (1), sono prodotti gli animali, le piante e tutti i corpi che vediamo sulia terr». produce queste specie piuttosto che altre, pure dotate di tinalità, ma più o meno dift'erenti). Di più, nei limiti stes-^i dentro cui si restrino^e questa spiegazione, per il fatto stesso che è desunta dall'ipotesi di agenti traseon^lentì, a cui non si può attribuire che un modo d'azione in gran parte diverso da ((ùello degli agenti deiresperienza, ossa non può assimilare comple- tamente il modo dì produzione dei fenomeni alle cau- sazioni che ci sono le più familiari, ciò .^he sarebbe ne- cessario perchè la spiegazione fosse completamente sod- disfacente (p. e. Platone attribuisce all'anima del mondo la percezione degli oggetti (2), ma senza i nostri organi dei sensi : è quanto basta per rendere il suo modo d'a- zione incomprensibile). Un'altra oscurità viene alla spie- gazione animista dalla sostantificazione dell' anima. La conseguenza di questa è, come abbiamo visto, che Ta- nima muove il corpo per il proprio movimento, ciò che, importando che il movimen*;o che essa produce imme- diatamente non è quello voluto, ma un altro non voluto né saputo, allontana l'ipotesi animista dal tipo su cui ò modellata, cioè la nostra azione volontaria secondo il modo più familiare di rappresentarcela, e ne diminuisce quindi il valore esplicativo. Dall'altra parte, il realismo dialettico piuttosto che una spiegazione è, come abbiamo detto, un sembiante di spiegazione : quand' anche il si- li) V. Sof, 2(»5 e- 266 b. (2) V. Tim. in b, Ugai 901 d, ecc. Stema fosse vero, esso non darebbe una soddisfazione reale al nostro bisogno di cono scere le cause efficienti, ma a queste cause che aspiriamo a cmoscere, sostitui- rebbe un succedaneo. L'insufficienza delle due spigazioni, ((uella dA realismo dialett'co e ([uella della filo- sofia istintiva, ci dà ragione del fatto che non vi ha un sist ma, in cui la prima di queste spiegazioni non sia accompagnata dall'altra. 1>a le varie forane della filosofia istintiva, (|uella ebe ora ])iù in armonia col si- stema delle Me3 pUtonichr*, era la t'^ologiea. Il sustrato della filosofia di Platone ò una concezione del mondo che abbiamo chiamato orga n teista cioè domiuata dai concetti desunti dall'osservazione degli esseri viventi, e in cui Tessere vivente stesso è elevato a tipo di tutti gli esseri in gcceralc. L'influenza di questa concezione organicista del mondo sul sistema delle Idee sì osserva nell'ipotesi dello Idee stesse e sovratutto nei due tratti ea- ratteristfci della dialettica platonica, cioè la dieresi, e TI. dea del Bene elevata a forma universale e principio primo di tutti gli esseri. Questa stessa concezione conduco per una doppia via alla dottrina dell' anima cosmù^a : Cloe assimilando il mondo e i corpi celesti agli esseri vi' venti, e suggerendo una spiegazione teleologica dell' u- niverso, che, se consiste in concetti chiari e non in una vaga e incosciente personificazione di ciò che si sa es- sere impersonale, non può non essere al tempo stesso Cfr. voi. 2. p. 405. (•;?) V. voi. 2. p. 461-465. (3) V. nota 3 a pag. 2G3, voi. 2. (4) V. la stes-^a nota 3 a p. 26.^, voi. 2. (V V- «uppl. C, IV, (.-aria 2:?7. 1 una spiegazione teologica. Naturalmente questa spie- gazione teleologica delle cose per un agente perso- nale è suggerita più immediatamente dal posto e la funzione dell' Idea del Bene nella dialettica se non è essa piuttosto che li ha suggeriti (1)—. Cosi le due parti della metafìsica di Platone, cioè la teoria delle Idee e quella deiranima, lungi di essere in contraddizione, si completano e si chiamano Tuna con Taltra. Noi abbia- mo visto pure la dipendenza reciproca tra le dottrine di Platone suir anima cosmica e quelle suir anima indivi- duale (2), Quantunque l'anima sia un essere metaempirico e la causa prima deh' universo fenomenale, è evidente che nella grande divisione degli esseri di cui è quistione nella filosofia platonica, essa deve classarsi insieme coi fenomeni. Al punto di vista del sistema delle Idee, la distinzione più profonda è quella tra l'astratto e il con- creto, tra l'universale e l'individuale. Cosi vi hanno da una parte le entità astratte e universali— che nella prima forma della filosofia platonica sono considerate tutte come Idee, e nella seconda forma si distinguono in Idee ed entità matematiche e da un'altra parie le cose con- crete e individuali. Le prime sono riguardate come la vera realtà, le seconde come fenomeni. Non vi ha fra queste due classi alcun termine medio, e 1' anima, non essendo un'entità astratta ma una sostanzi concreta, deve far parte evidentemente della seconda. Ne segue che il rapporto dell' anima con le Idee non può essere (1) Cfr. Sappi. C, IV, o. 237. (2) V. sopra, carta 283, p. 2*. (3> V. Sappi, C, 111, e. 210. (4) Sappi. B, parte I n. IX. diverso da quello che le altre coss fenomenali hanno con esse. Questo è, come sappiamo, che in tutte le cose appartenenti a una stessa classe è presente un'Idea unica, che non è che la sostantificazione dell'attributo o somma d'attributi comune a tutta la classe. Per conseguenza in tutte le sostanze che si chiamano anima è presente una Idea unica, V Idea dell' anima, come in tutti gli esseri che si chiamano uomo, animale, albero, ecc. è presente l'Idea un?ca dell' uomo, dell' animale, dell' albero, ecc. Naturalmente l'Idea dell'anima, come tutte le altre, ha i suo posto determinato nella gerarchia del mondo ideale! vale a dire ossa è contenuta in un'Idea più generale, questa in un'altra ancora più generale, e cosi di seguito, sicché si giunga al contenente universale, che è l'Idea del Bene : l'Idea dell' anima dunque, e quindi 1' anima stessa, parteciperà a tutte queste Idee di più in più ge- nerali a cui è subordinata. Se la classe generale anima cuotiene altre classi inferiori, che bisogna distinguere per dififerenze essenziali, l'Idea generale dell'anima con- terrà altre Idee meno generali, corrispondenti ciascun a a ciascuna di queste classi inferiori. Ma tutte le anime individuali (compresa l'anima cosmica, che è anch'essa un essere individuale e concreto, e non un'entità astratta e generale) non potranno partecipare che all'Idea che è l'obbiettivazione del loro concetto comune, e alle Idee più generali che sono 1' obbiettivazione dei concetti più estesi in cui esso è contenuto : 1' anima avendo un' es- senza particolare e distinta da tutte le altre cose, a que- st'essenza deve corrispondere un'Idea pariicolare e di- stinta da tutte le altre Idee. Vi hanno tuttavia degl'in- terpreti che pretendono che l'anima non partecipa a u- n'Idea unica, cioè l'Idea speciale dell'anima, ma a tutto il mondo ideale. Questa interpretazione misconosce il "fXffT coucettu loudamciitale della dottrina dì Platone sulT a- nima, cioè che qiiesla è una sostanza distinta, e non, p. e., la forma del corpo, come per Aristotile. Essa po- trebbe avere un senso, se Tanima cosmica fosse per Pla- tone la forma deiruoiverso; ma con una tale ipotesi ^11 si presterebbe gratuitamente un concetto, che non tro- viamo tè in lui né in alcun altro dei filosofi antichi, compresi i panteisti, che hanno ammesso un' anima del mondo (perchè tutti presuppongono Tanlmismo, cioè la teoria della sostanza anima, quantunque questa secondo alcuni sa convertibile con le sostanze materiali, secon- do altri, ^vMnc Platon^, inconvertibile. L'interpreta- zione in verità può anche avere un altro senso, indipen- dente da ([uest'ipotesi; sarebbe la dottrina doir identità dell'essere e del pensiero; ma anche questa, come vedremo nel n. Ili, non può prestarsi a Platone che gratuitamente. Il concetto che l'anima partecipa a tutto il mondo ideale si fonda su un' interpretazione arbitraria della composizione dell'anima cosmica nel Timeo, che abbiamo discusso nel Supplcm. C, n. IV" A (sulla ììnG). Ivi abbiamo visto che la composizione dell' anima non ditferisee da quf*lla delle a' tre erse nel perioio pita?o- reggiante della filosofia platonica. Oltre che d^lla sua Idea speciale e della materia, essisi compone anche dei due elementi (l'Uno e la Daal tà indefinita, ch*^ nel Ti- meo sono chiamati lo Stesso e il Diverso). Ma anche questa seconda composizione non è particolare all'ani- ma; perchè tutte le Idee e tutte le cose, nel periodo pì- tagorcggiaute, sono compost» dei due elementi: ciò che è particolare all'anima non è che la sua applicazione gnoseologica, cioè la spiegazione della possibilità della conoscenza per l'identità degli elementi del soggetto conoscente e degli oggetti conoscibili. Secondo alcuni interpreti V anima sarebbe per Pla- tone un' entità intermediaria e, siccome le entità inter- mediarie sono le entità matematiche, anche un' entità matematica. Questo concetto, che rimonta ai neoplatonici, è fondato sull'interpretazione trascendentalista delle Idee platoniche, quantunque, come suole avvenire quando si tratta delle opinioni stabilite, esso si dia spesso come una prova di quest'interpretazione stessa di cui è una con- seguenza. Nell'interpretazione trascendentalista, come abbiamo osservato, la cauFalità universale delle Idee verso i fenomeni è incompatibile con quella dell'anima: pir risolvere questa contraddizione si suppone che le Idee non siano che le cause remote dei fenomeni, ed agiscano sul mondo sensibile per l'intermediario dell'a- nima, che sarebbe la causa prossima. Questa funzione dell'auima di intermediaria fra le Idee e le cose sembra più necessaria nella forma dell'interpretazione trascen- dentalista preferita dai critici moderni, secondo cui le Idee sarebbero, non dei pensieri dell'intelligenza crea- trice, ma delle sostanze obbiettive separate dalle cose : in questo caso infatti ogni efficienza diretta delle Idee diviene incomprensibile, e si crede perciò indispensabile l'intervento di un principio attivo come l' anima, per mezzo di cui possa esercitarsi la loro influenza sui fe- nomeni. Ora, se l'anima è una sostanza intermediaria fr^ le Idee e le cose, essa deve essere anche, come ab- (1) V. e. '2 j^ 0. i'I) V. Siippl. 0, 11. II. 0) V. Sappi. 0, IV, e. no e 2é2. biamo osservato, un'entità matematica, perchè nel si- stema platonico, come sappiamo da Aristotile, il posto d'intermediari fra le Idee e le cose non è assegnato che alle entità matematiche. Per unire poi dei concetti cosi disparati quali sono quelli delFanima e delle entità ma- temati'^.he, si ricorre come termine medio a quest' altro concetto che le entità matematiche sono le Idee nel loro rapporto con la materia, cioè come leggi del mondo sensibile perchè, Platone riguardando il mondo come un essere vivente, si crede di poter identificare le leggi dei fenomeni alle funzioni di un essere vivente, e queste al- Taniroa che lo vivifica— .Che le entità matematiche, in- fine, siano le Idee nel loro rapporto con la materia o le leggi del mondo sensibile, sarebbe provato dal i^7«6{?, il népoLz di cui si tratta in questo dialogo, equivalendo, se- condo questi interpreti, ai Numeri matematici deirespo- siz^one aristotelica. Cosi questa costruzione è fondata sui presupposti seguenti : ì^ Che le Idee siano fuori delle cose. Noi l'abbiamo confutato nel Suppl. B. 2^ Che le entità matematiche rappresentano tutti gli attributi delle cose, e sono intermediarie in quanto tra- mezzano tra le Idee e le cose considerate nell* insieme dei loro attributi. Noi abbiamo visto invece (nel Sup- plem. C, n. Ili) che esse non rappresentano che i soli attributi aritmetici e geometrici delle cose, e che non tramezzano che tra i numeri ideali, in quanto costitui- scono le Idee (cioè i concetti obbiettivati più generali) di questi attributi, e questi attributi nelle cose stesse, cioè individualizzati. Questo 2^ presupposto è il punto di partenza per identificare Tanirna, come principio me- diatore, alle entità matematiche, ed è contenuto impli- citamente nella supposizione che le entità matematiche sono le Idee nel loro rapporto con la materia o le leggi del mondo sensibile. 3« Che il Tiépa; del Filebo equivalga ai Numeri ma- tematici, ciò che proverebbe (vista l'evidente immanenza del nipoLz) che questi numeri sono nelle cose stesse altro presupposto implicato nella supposizione che le entità matematiche sono le Idee nel loro rapporto con la materia o le leggi del mondo sensibile Noi abbiamo visto che questa equivalenza tra il iiépa; del J^ilebo e i Numeri matematici è inammissibile, e che la supposizione che i Numeri matematici e in genrrale le Entità matematiche sono nelle cose, è in contraddizione col l*' presupposto che è il fondamento ultimo di tutta la costruzione, cioè che le Idee sono fuori delle cose. Che le leggi del mondo sensibile possano identi- ficarsi con Tanirna cosmica. Questa identificazione è una assurdità, perchè l’anima per Platone è una sostanza di- stinta : essa sarebbe tutto al più possibile se V anima fosse per lui, come p. e. per Aristotile, una semplice a- strazione, designante l'insieme delle funzioni della vita. Inoltre essa implica Tidentità del uépa; del Filebo e del- Tanima, mentre Platone ne fa due generi assolutamente distinti. Evidenfemenle gl'interpreti trascendentalisti delle Idee platoniche devono avere una ben misera idea di Platone come pensatore, per potergli attribuire il cumulo di non sensi espresso in questa proposizione che l'anima è identica agli oggetti matematici e ai rapporti numerici Suppl. C, IV. e. 246-249 21» - e metrici del nàpx(; del FUebo. L'anima per Platone è, lo sappiamo, una sostanza particolare, invisibile, almeno per gli ivomini^ ma estesa, in un movimento continuo, muovente la materia per la comunicazione del proprio movimento, e avente col corpo ch'essa anima determi- nati rapporti di posizione reciproca («). Il iispa? e leen* tità matematiche non sono che certi attribuii delle cose, considerati come esistenti per se stessi, come tutte, le al- tre entità della metafisica platonica. L'anima del mondo dunque e il mondo stesso sono due sostanze distinte ed esteriori Tuna all'altra; il itépag, al contrario, come sono costretti ad ammetterlo 'gli stessi interpreti trascenden- talisti, e quindi anche le entità matematiche, poiché gli equivalgono, esistono negli oggetti stessi che com- pongono il mondo, non sono un'altra cosa che viene ad aggiungersi a questi oggett», ma un loro elemento con- cettuale, distinto realmente dagli altri, ma come in un tutto una parte si distingue dalle altre. Il Tiépac e le entità matematiche sono degli astratti, l'anima del mondo è una realtà concreta; quelli sono degli universali, que- sta è un essere individuale; i primi sono esenti dal can- giamento, come tutte le astrazioni realizzate di Platone e di qualsiasi altro realista dialettico, la seconda è il tipo più completo del divenire eraclitico. L' identificazione di concetti cosi disparati Farebbe cosi poco vero. Noi abbiamo visto ohe le tre parti dell'opima umana sono alloggiate nelle tre cavità del corpo. Sull'anima del sole Platone fra tre ipotesi {Leggi) : o sta dentro il sole come la nostra anima dentro il nostro corpo, o lo spinge dal di fuori stando in un altro corpo, ovvero lo conduce essendo essa stessa s«nza corpo (ciò che, secondo i prinoipii di Platone, implica pure la supposizione ohe lo spinge dal di fuori). simile— non solo nel divino Platone, come lo chiamano, certamente per un omaggio puramente convenzionale, gl'interpreti trascendentalisti, ma in qualsiasi filosofo a cui possa farsi la modesta lode che sa quello che dice che quand'anche essa fosse l' interpretazione più natu- rale dei testi, noi dovremmo rigettarla, e preferirne qua- lunque altra possibile, purché avesse un senso qualsiasi, anche il meno ovvio. Ma questa identificazione, lungi di essere l'interpre- tazione più naturale dei testi, è interamente gratuita ed arbitraria. L'Identità dell'anima con Tiépag non potrebbe essere provata che dal Filtho, perchè il concetto del Tiépa^ è particolare al solo Filébor^ ma noi abbiamo visto che in questo dialogo gli esseri sino divisi in quattro generi, e che del népag e dell'anima si fanno due generi distinti. Né Aristotile né alcun altro autore^ che possa considerarsi come una fonte storica per la filosofia pla- tonica, parla dell'identità dell'anima con gli oggetti ma- tematici o di alcun altro concetto simile. Le proposizioni in cui l'anima o la sua attività é messa in rapporto coi numeri, non possono prosrare l'identità, o anche un le- game speciale, tra essa e i numeri matematici, perché non sono evidentemente che delle applicazioni della dot- trina generale del plcagorismo e del platonismo pitago- reggiante che l'essanza di tutte le cose consiste nei nu- meri. Xenocrate definisce l'anima: un numero che muove se stesso; ma questa definizione non è che la fusione di due concetti che noi conosciamo sull' essenza dell' ani- ma, l'uno che essa é un numero, come quella di tutte le altre cose nel periodo pitagoreggiante, e l'altro che é ciò che muove se stesio. Vi ha d'altronde un'altra ra- (1) V. Suppl. B carte 97-100 e Suppl. C, IV, o. 2t7-2é9. gione per cui il numero, con cui Xenocrate identifica Ta- nima, non potrebbe essere il numero matematico, quale entità d'stinta dal numero ideale e intermediaria : è che egli non distingue più il numero ideale e il matema- tico, e non ammette più, quindi, le entità matema- tiche come intermediarie. Platone, come ci rife. risce Aristotile fin De art, l. 1" e. 2^ 7), ha ammesso che r intelligenza è il numero uno, la scienza il nu- mero due, r opinione il numero della superficie, e il senso il numero del solido : ma si vede da questo luogo stesso che questi numeri non sono che dei numeri ideali, perchè i numeri della superficie e del solido rappresentano le Idee a cui sono subordinati tutte le superficie e tutti 1 solidi matematici, e Asistotile afferma inoltre esplìcitamente che i numeri di cui si tratta sono la stessa cosa che le Idee. La costruzione deiranima nel Timeo, su cui si fonda sovratutto 1' interpretazione che discu- tiamo, non è più probante, in sostanza, delle proposi- zioni precedenti. Le prove che vi si vedono sono : 1^ L'anima, si dice, è composta del mondo ideale e della materia : se ne conclude che essa deve equivalere agli oggetti matemat'ci, poiché questi sono Idee ranno- date con la materia, cioè come leggi del mondo sensibile Noi abbiamo visto che non vi ha alcuna ragione per ammettere che Tanima è composta del mondo ideale, poiché, dovendo essa avere un' Idea propria, il piii na- turale è d'intendere per Vessenza indivisibile non tutte le Idee, ma l'Idea dell'anim», e in quanto allo Stesso, questo non può essere che l'uno dei due elementi. Ma^uand' anche V anima fosse composta di tutte le Idee, non se ne potrebbe concludere la sua equivalenza con le entità matematiche. Questa conclusione suppone che queste entità partecipano a tutte le Idee, tramez- zando tra esse e le cose considerate nell'insieme dei loro attributi. Noi sappiamo invece (i) che le entità mate- matiche, non avendo per contenuto che gli attributi ma- tematici delle cose, partecipano ai numeri ideali solo in quanto essi rappresentano le Idee di questi attributi, e non tramezzano che tra queste Idee e questi attributi nelle cose, cioè individualizzati. L'anima ha una natura media tra T essenza indivisibile, cioè le Idee, e l'essenza divisibile, cioè la materia: ciò confermerebbe che essa equivale alle en- tità matematiche, poiché le entità intermediarie non sono che le matematiche— Questa prova è fondata, come la precedente, sui due presupposti erronei che 1' anima è composta di tutte le Idee, e che le entità matematiche tramezzano tra la totalità delle Idee e le cose conside- rate nella totalità dei loro attributi. Inoltre essa con- clude affrettatamente dalla somiglianza dei termini alla identità dei concetti, supponendo come una cosa che va da sé che l'anima deve essere media nello stesso senso in cui lo sono le entità intermediarie che conosciamo da Aristotile, e trascurando come di nessun rilievo la dif- ferenza che queste sono medie tra le Idee e le cose sen- sibili, mentre l'anima non sarebbe media che tra le Idee e la materia (cioè uno dei principii da cui risultano le cose sensibili). Questa differenza è invece d' un' impor- V. Sappi. C, n. V. V. Suppl. C, n. m. e. 195-198. V. Sappi. C, IV, e. 239-242, e ofr. questo Sappi, o. 288. (1) V. Sappi. C, n. III. (2) V. Sappi, C, IV, o. 239. 11 tanza capitale, perchè le entità intermediarie che ci fa conoscere Aristotile sono dette tali, in quanto sono po- steriori jMe^Idee e anteriori alle cose sensibili, o (a un punto di vista semplicemente logico) in quanto hanno un grado di generalità medio fra le Idee e le cose sen- sibili, essendo comprese sotto le une come più partico- lari, e comprendendo le altre come più generali. Ma è evidente che Platone non può voler dire che T anima è posteriore alle Idee e anteriore alla materia, o che è compresa sotto le Idee, essendone più particolare, e com- prende la materia, essendone più generale. In qual sen- so Tanima sia media tra il principio ideale e la materia ci è indicato dal Timeo stesso 50 d, dove ciò che nasce (il fenomeno) è chiamato la natura media tra co in cui nasce (la materia) e ciò a somiglianza di cui nasce (ri- dea). L'anima, come le altre cose individuai», ha una na- tura media tra ridea e la materia, perchè tutte le cose individuali sono composte dell' Idea e della materia, e un composto deve avere delle qualità medie tra quelle degli elementi che lo compongono. L' anima cosmica deve equivalere agli oggetti matematici, perchè essa comprende in sé i rapporti ar- monici «matematici del sistema astronomico— infatti e.^sa è divisa in pani proporz onali ai numeri del diagramma musicale, e poi in cerchi rappresentanti le rivoluzioni degli astri, e di cui quelli che rappresentano le orbite dei pianeti sono proporzionali ai numeri fondamentali del diagramma stesso {Tirn. 35b-36d)— Ma che lanima comprenda in sé dei rapporti armonici e matematici non è una ragione per identificarla con le entità matema- U) Cfr. Sappi. C, IV. carta 241. tiche. Si avrebbe lo stesso dritto di identificare con esse gli elementi materiali, perchè formano una proporzione geometrIca"(l) e sono distinti ppr mezzo di figure e di numeri (2). Non vi ha, nell'uno e nell' altro caso, che un' applicazione dei principii generali del pitagorismo. S[ dirà che ciò che prova che V anima cosmica equivale alle entità matematiche, non ò solamente che essa com- prende in sé dei rapporti armonici e matematici, ma che questi sono quelli del sistema astronomico. Ma la corri- spondenza di questi rapporti nell'anima e nell'universo, quand'anche fosse complt ta, non potrebbe significare la loro identità, nel senso stretto d^lla parola; e d'altronde questa corrispondenza si spiega sufficientemente al punto di vista dell'animismo, l'anima di un essere, in tutte le forme di questa dottrina, essendo, con più o meno e- sattezza, un duplicato dell'essere stesso. II I«' Interpretazione teistica del sistema delle Idee Secondo alcuni Dio equivale per Platone al Bene, o all'insieme di tutte le Idee, o all'uno e all'altro, perchè il Bene comprenderebbe in sé Tinsìeme di tutte le Idee. Queste opinioni si fondano suirinterpretazione delle Idee platoniche — anche oggi la più diffusa tra le persone colte, quantunque abbandonala dalla più parte dei critici— che vede in esse i pensieri eterni della divinità creatrice, di Tim. 31c-32c. (2) Tim. cui r universo sarebbe la realizzazione. Questa interpre- tazione della dottrina delle Idee è stata da noi implìcitamente confutata nel Supplemento B^ dove abbiamo sta- bilito invece che le Id>je non sono che gli attributi ge- nerali delle cose, considerati come delle realtà sussistenti per se stesse, e di cui ciascuno, uno in se stesso, esiste simultaneamente, senza moltiplicarsi e senza dividersi, in tutti gli oggetti a cui viene attribuito. Tuttavia, siccome nella 2* parte del Supplemento stesso, in cui abbiamo" esaminato i motivi dell'interpretazione trascendentalista, abbiamo tenuto conto sovratutto di quelli su cui è fon- data la forma di quest'interpretazione che considera le Idee come delle forme puramente obbiettive, gioverà forse di esaminare a parte quelli su cui si basa Taltra forma, cioè la teistica, ciò che potrà servire di complemento alla dimostrazione della nostra interpretazione. Dopo ciò che abbiamo detto nel Supplemento B si spiega facilmente perchè airinterpretazione teistica sia stata dai critici moderni preferita V altra forma dellMn- terpretazione trascendentalista. Questa comprende almeno il tratto più caratteristico e più evidente della dottrina delle Idee, cioè che esse sono delle entità astratte, gli attributi generali delle cose considerati come sostanze, quantunque fraintenda la dottrina in un altro punto im- portante, cioè ammettendo che questi attributi generali delle cose non sono quelli delle cose stesse, ma un loro duplicato. Mar Interpretazione teistica la fraintende anche nel primo punto, e per conseguenza non vi ha un luogo di Platone con cui non sia nella contraddizione più aperta. Una delle determinazioni più importanti delle Idee, ol- tre quelle che dimostrano immediatamente che sono gli attributi delle cose Hostantificati, è che vengono riguar- date come il solo essere vero, e le cose individuali come un semplice fenomeno. Anch'essa è più manifestamente incompatibile con Tinterpretazione teistica che con l'al- tra forma dell'interpretazione trascendentalista : alla dif- ficoltà che ha in comune con la seconda, cioè dì am- mettere un'altra realtà distinta e separata dall'essere t;«ro, Ja prima ne aggiunge un'altra più evidente, cioè che le Idee, che non sarebbero che dei possibili concepiti dal- l'intelligenza creatrice, verrebbero riguardate come più reali delle cose, che ne sarebbero la realizzazione. Si aggiunga che Tinterpretazìone teistica ha contro di sé, non solo le prove dell'immanenza delle Idee, ma anche le più importanti delle prove contro di questa, quali so- no la sostanzialità delle Idee (che, come abbiamo osser- vato, è il motivo principale dell' Inter pretaztone trascen- dentalista, la testimonianza d'Aristotile, e i miti del Timeo e del Fedro, in cui le Idee sono rappresentate come degli oggetti separati dal mondo, ma distinti pure dal pensiero che li contempla. Lo stesso vantaggio del- rinterpretazìone teistica, di dare all' ipotesi delle Idee uno scopo, che le manca assolutamente nell' interpreta- lione più ricevuta, costituisce, in ultima analisi, un al- tro argomento contro di essa, perchè, se le Idee fossero i pensieri dell'intelligenza creatrice, sarebbero le cause efficienti delle cose, nel significato proprio e naturale della causa efficiente (il sistema delle Idee, secondo la interpretazione teistica, non essendo che un caso della filosofia istintiva del nostro spirito). Ora ciò è escluso dalla testimonianza d'Aristotile, che nega alle Idee ogni causalità nel senso proprio, e afferma che Platone non ha ricercato che la causa formale e la causa mate- Sappi, B carta 121. rìale — Aristotile, nella sua esposizione della filosofìa platonica, non fa parola dell'anima del mondo, e tiene conto unicamente del sistema delle Idee .La testimo- nianza d'Aristotile è confermata, in sostanza, da un e- same attento della dialettica platonica, che ci mostra che le Idee sono cause, ma in un senso analogico e molto lontano dalla nozione spontanea che ci formiamo della causalità; e d'altronde, in questo senso stesso, esse sono cause le une delle altre, ma non dei fenomeni. Alle prove contro l'interpretazione teistica fondate sulla dot- trina stessa delle Idee, fc ne «ggiungono altre fondate ^u altri concetti della filosofia platonica, cioè che Pla- tone non ammette altra divinità che l'anima cosmica, che l'intelligenza secondo lui non si trova altrove che neiranìma, che egli non conosce altra causazione, nel senso proprio, che quella che consiste in una successio- ne (4), ecc. Le due forme dell' interpretazione trascen- dentalista delle Idee platoniche ci danno gli esempi più colpenti delle due maniere più abituali di trattare la storia della filosofia : l'una che pretende fondarsi su un esame scrupoloso dei testi, ma per difetto di sintesi e di un concetto esatto dei motivi e della genesi della spe- culazione metafis'ca, non riesce a dare ai sistemi un significato intelligibile; l'altra che pretende costruire i sistemi, ed è interamente arbitraria. Naturalmente V e- sempio della seconda maniera è l' interpretazione tei- stica. L'oggetto di questa seconda parte di questo Sap- 0) Met. 1. I. IX. 6, 8, 11-12, 13, 21, VI. 7, ecc. (Sappi. C, IV, e. 223 pag. 2«. (4) V. Sappi. C, IV, e. 229. T plemento non è^ un esame completo dell' interpretazione teistica. Esso importerebbe delle ripetizioni inutili, per- chè bisognerebbe ritornare sulle prove dell' immanenza delle Idee che abbiamo date nel Supplemento B. Qui ci limiteremo dunque a discutere le prove su cui è fondata quest'interpretazione. Siccome l'immanenza delle Idee ci sembra sufficientemente stabilita, se queste prove fossero coacludenti, dovremmo confessare che vi ha in Platone una contraddizione insolubile. Noi mostreremo che questa contraddizione non esiste, e. che le proposizioni di Pla- tone su cui si basa V interpretazione teistica, si spie- gano anche, e d'una miniera più sod lisfac^nte, nella nostra interpretazione. I motivi precipui, se non unici, di-ll'interprctazione teistica possono ridursi ai seguenti : !• Il significato che U parola idea ha nelle lingue moderne. Noi abbiamo osservata, dopo tanti altri, che in greco idèa non ha questo significato. Se si riflette che gli errori del volgare influiscono spesso anche sulle menti dei pensatori, non si troverà strano che questo equivoco sul significato della parola ecfea figuri anch'esso tra i motivi dell'interpretazione teistica. Esso, a dir vero, non ha potuto contribuire che alla sua diffusione, ma non alla sua ergine, essendo anzi quest'interpretazione che ha determinato il passaggio dal significato antico del termine al suo significato moderno. Certamente l'in- terprete teistico non ignora che t5éa non significa pen- siei^o\ ma quando egli dice che le Idee platoniche sono i pensieri dell i divinità, uua gran parte del pubblico a cui si rivolge trova naturalissimo che xin'id.a deve esci) V. Sappi. B, cada 12 nota 1. ''i^i*MUia__A»^b>^-_^^hàl^i>i sere il pensiero di qualcuno, e si sa che, nelle quìstloni filosofiche, il successo delle opinioni non dipende sola- mente dal suffragio dei dotti. 2^ Il teismo di Platone e la sua dottrina de la di- vinità è la causa prima di tutti i fenomeni. Siccome pelr Platone le cause delle cose sono le Idee e la causa di tutto é l'Idea del Bene, se ne conclude che Dio deve essere identico a tutte le Idee o all'Idea del Bene Noi abbiamo osservato che vi hanno nella filosofìa platonica due sensi della parola causa, corrispondenti a due spie- gazioni del mondo, simultanee ma assolutamente di- stinte. In un senso, la causa vuol dire la causa effi- ciente, nel significato proprio del termine (quello che esso ha nella filosofìa istintiva dello spirito umano). E in questo senso che la causa prima è la divinità. Il se- condo senso della parola causa è quello che essa ha nel realismo dialettico, e non è che l’obbiettivazlone del rapporto logico fra i concetti realizzati. E in questo sen- so che la causa di tutto è l'Idea del Bene. Le Idee, a parlar propriamente, non sono cause delle cose in questo secondo senso, ma nemmeno nel primo. La causa, nel primo senso, è esteriore all'efl'etto, mentre le Iden sono nelle cose, ne sono l'elemento costante e veramente reale, da cui dipende il loro essere e la loro essenza. Il senso in cui le Idee sono cause delle cose, se non è precisa- mente identico al secondo senMo(cioèa qu*^)lo che è Tob- biettivazione del rapporto tra il principio e la conse guenza), può però rieondurbi con esso a un concetto comune, perchè in entrambi i casi è il generale che viene riguardato come causa, e i particolari subordinati come effetti. L'interprete teistico confonde questi sensi evidentemente distinti della causa in Platone, perchè non comprende né Timmanonza delle Idee uè il vero signi- ficato della dialettica. y II nome di dio che Platone dà al Bene e ad altre Idee, e quello di divino che dà a tutte le Idee in generale. Il Bene è chiamato dio nel X libro della Repubblica, dove dice che Dio ha prodotto l'Idea del letto e ogni altra Idea. Ma qualunque sia la maniera d'in- terpretare le Idee platoniche, non può vedersi in questa deificazione del Bene che una semplice metafora, poiché il Bene è evidentemente un'Idea come tutte le altre, e non differisce dalle altre che perché occupa il primo po- sto nella gerarchia del mondo ideale (cioè perché é la più universale di tutte, e per conseguenza, secondo i principii della dialettica platonica, quella da cui tutte le altre si deducono). L'Idea del Bene, in qualsiasi in- terpretazione delle Idee, non può essere che l'astrazione bene (cioè l'attributo comune a tutte le cose che si di- cono buone) esistente sotto una forma o sotto un'altra : se si ammette che queste astrazioni che Platone chiama Idee non hanno che un'esistenza mentale, e sono 1 pen- sieri dell'intelligenza divina, l' Idea del Bene sarà un pensiero dell'intelligenza divina, ma non l' intelligenza divina stessa che è il substratum o il complesso di questi pensieri. Si dirà che l'Idea del Bene comprende in sé l'insieme di tutte le Idee, e che é perciò che Platone può identificarla con l'intelligenza divina. Ma l'Idea del Bene non può contenere le altre Idee che come un con- cetto generale contiene i concetti più particolari subor- dinati, cioè in estensione, e non in comprensione (ciò che sarebbe necessario perché potesse riguardarsi come equivalente a tutto il mondo ideale). Nel secondo caso Cfr. Sappi. il conteouto dell'Idea del Bene sarebbe tutt' altro cbe quello del concetto astratto di bene\ mentre è evidente cbe le Idee platonicbe, cbe esse esistano nelle cose o fuori delle cose, cbe siano delle realtà obbiettive o dei semplici pensieri, non potrebbero avere, in ogni caso, altro contenuto cbe quello dei concetti astratti cbe loro corrispondono. Delle Idee altre cbe il Bt^oe sono cbia- mate dio nel Timeo e nel VELIA (vedasi). Nel primo di questi luogbi II mondo è detto dio sensibile immagine del dio intelligibile», e l'interprete teistico ne conclude cbe, questo dio intelligibile essendo il modello del mondo, Dio è per Platone la stessa cosa cbe Tinsieme delle Idee. Ma Taltro luogo del Timeo stesso, 37c, in cui il mondo è cbiamato « simulacro degli dei eterni », mostra cbe questa conclusione è affrettata, e che Platone cbiama dio ancbe delle Idee particolari, la cui personìfìcaz'one nelPinterpretazione teistica è altrettanto impossibile cbe nella nostra, percbè non sarebbero se- condo essa cbe dei pensieri particolari della divinità. Un'osservazione analoga vale pel laogo del Parmenide. Ivi è cbiamato dio il soggetto in cui risiedono la scienza in sé e la padronanza in 8è (donde potrebbe conclu- dersi che le Idee secondo Platone risiedono in Dio) Ma in seguito (134 d-e), invece di un sogj^etto unico, si parla di più soggetti, cioè di dei al plurale, c'ò cbe e- scinde cbe la scienza e la padronanza in sé risiedano nel Dio di cui é quistiooe n^lT interpretazione teistica, che é natura'mente uno solo. In quanto all' epiteto divino dato alle Idee in genera'e, esso non é per Platone (e quest'uso del termino nou gli é particolare) che Cfr. questo suppl. o. e oap. VII pag. JSU, un sinonimo di eccellente, É ciò che si vede chiaramente nel Fedone 85e-86 a (l'armonia è divina, la lira e le corde sono terrestri e affini al mortale), 86c (1' anima è divinissima—nell'ipotesì che sia Tarmonia del corpo), dì d (è più divina del corpo nella stessa ipotesi), Fedro e (il divino é il bello, il saggio, il buono e tutto ciò cbe è tale), Bep, 500 d (sono chiamati divini tanto le Idee quanto il filosofo che le contempla), e in tanti altri luoghi, in cui nessuno potrebbe essere tentato d'intendere per divino un attributo o un' appartenenza della divinità. 4® Il Demiurgo del Timeo. Il racconto del TimeOj se si prende alla lettera, é una prova dell' altra forma deirinterpretazione trascendentalista, perché ci si parla di un demiurgo cbe ha costruito il mondo contemplando le Idee come modelli. Ma l'interprete teistico osserva con ragione che questa non é filosofia, ma mitologia : egli ne conclude che la distinzione tra il demiurgo che con- templa e il modello che é contemplato é una semplice immagine che non deve prendersi alla lettera, e cbe in realtà il demiurgo contempla il modello in se stesso, in altri termini che le Idee sono i pensieri del demiurgo, cioè dell'intelligenza creatrice. Ma se, non contenti dei significato apparente del racconto del Timeo, si crede necessario di cercargliene uno riposto, non bisogna pre- ferire quello che sembra all'interprete stesso più soddi- sfacente come dottrina filosofica, ma quello che è indi- cato dalle proposizioni del Tim^o stesso, dall' insieme delle dottrine di Platone e dalla testimonianza dei suo^ discepoli immediati e dei loro contemporanei. Ora noi abbiamo visto cbe queste indicazioni concordano nel mostrarci che il Demiurgo non é un essere realmente personale, ma la personificazione di un' entità astratta, cioè un simbolo dell'Idea del Bene, e che la cosmogonìa del Timeo è un'allegoria della derivazione delle cose dai due primi principii. L'opinione dell'interprete teistico è senza dubbio più filosofica e più intelligibile che quelle del sostenitori dell'altra forma dell' interpretazione tra- scendentalista, che prendono il Demiurgo alla lettera, considerandolo sia come un elemento filosofico dei si- stema platonico sia come un semplice elemento rappre- sentativo (cioè privo, per l'autore stesso, che lo ammette, di qualsiasi valore filosofico -situazione psicologica che non è certametite facile a concepire) : ma questo van- taggio relativo non può bastare a provarla, quantunque basti ppr vedere nella cosmogonia del Timeo uno dei motivi precipui dall'interpretazione teistica. 5^ L'arduità del sistema delle Idee e la familiarità del concettualismo e della filosofia teologica. Ciò fa che, sfuggendo il significato reale del primo, si cerca di dar- gliene uno riconducendolo ai secondi. Quantunque, come abbiamo mostrato nel 1^ capitolo del Saggio !, un pensiero astratto e generale è altrettanto inconcepibile che un essere astratto e generale, vi ha però tra le due ipotesi questa differenza, che la prima è ammessa da quasi tutti i filosofi e tutte le persone colte, ed è un prodotto spon- taneo dei sofismi a priori del nostro spirito, mentre la seconda non ha avuto, almeno nella filosofia moderna, che un numero molto esiguo di partigiani, ed èia meno naturale delle spiegazioni del mondo escogitate dai me- tafisici. All'epoca di Platone l'equivoco dell'interprete teistico di prendere un' entità astratta per un pensiero astratto non sarebbe stato cosi facile come ora, non solo perchè la teoria dei concetti verisimilmente non era ancora stabilita, ma anche perchè Aristotile, a quanto sappiamo, è il primo che abbia ammesso la dottrina dell'immuta- bilità di Dìo, e per conseguenza quella dell'eternità dei pensieri divini, che dà al Dio della filosofia teologica mo- derna (tanto più se si riguarda come una pura intelligenza) una certa aria di somiglianza col mondo ideale di Platone, specialmente interpretato alla maniera trascendentalista. L'altrq elemento della dottrina delle Idee, cioè la dialettica, non è meno arduo che l'ipotesi delle Idee stesse. Que- st'arduità della dialettica è dovuta, oltre che alla diffor- mità del concetto di causalità su cui essa è fondata, dal- l'idea spontanea della causalità, alla maniera imperfetta in cui applica questo concetto. Aggiungiamo che nella supposizione della trascendenza delle Idee (ammessa da quasi tutti gl'interpreti) essa diviene necesssariamenle incomprensibile. Da queste difficoltà di comprendere la dialettica, senza di cui la dottrina delle Idee è una ipotesi senza motivo e senza scopo, nasce naturalmente il tentativo di trasformarla in una varietà della filosofia istintiva (cioè fondata sul concetto spontaneo della causa- lità), come dalle inconcepibilità del realismo nasce quello di tr;isformarla in un sistema concettualista. Questi due tentativi riuniti costituiscono il motivo principale dell'in- terpretazione teistica. Ma per mostrare su quali deboli basi si fondi questa interpretazione, sarà meglio di esaminare le prove che ne dà uno dei suoi principali sostenitori, c:oè Fouillée, La Filosofia di Platone. Fouillée, a dir vero non ammette che le idee non sono altra cosa :l Sappi. C, n. IV. Gfr. Sappi. B carte ' .- 29>f che i peDsieri deiriutelllgecza divina; egli conviene che in quest'ipotesi non sarebbero che dei semplici possibili concepiti da Dio, e Platone non potrebbe chiamarle delle realtà: ovtco; Svta. Secondo lui le Idee sono primitiva- mente le perfezioni divine (rimedio peggiore del male, perchè che cosa può significare che il leone, p. e, o l'albero in se stessi, cioè come semplici complef-si degli at- tributi generali che costituiscono queste specie, sono delle perfezioni di Dio?); ma per conseguenza sono anche i pensieri divini, perchè Dio ha coscienza di se stesso e delle determinazioni che inviluppa il suo essere. Ma questo concetto di Fcuillèe non può impedirci di dare la sua arg( mentazione come esemp'o deirargomentazione degl'interpreti teistici in generale, perchè è evidente che egli si serve di tutti gli argomenti che crede i più propri a dimostrare l'interpretazione teistica, sia che provino che le Idee sono le perfezioni divine, sia che provino che sono i pensieri divini. L'argomentazione del Fouillèe può di- vidersi in due parti: gl’argomenti della prima parte sono dei luoghi del TìmeOj con cui egli cerca di provare che le Idee non sono separate dal Demiurgo, ma sono nel Demiurgo stesso, cioè in Dio; quelli della seconda parte sono dei luoghi raccolti dagli altri dialoghi. Noi esamineremo questi^argomenti a uno per uno, cominciando dalla prima parte. 1» Il modello, dice Fouìllée, è ciò che vi ha di più perfetto, è uno ed è vivente, cioè è un animale intelligibile. Egli ne conclude che non vi ha alcuna differenza tra esso e Dio JZ modello è ciò che vi ha di più perfetto. Ma Platone definisce forse Dio, come Cartesio: l'essere perfet- tissimo? Noi abbiamo osservato che l'idea della filosofia teologica moderna che Dio è l'infinito o l'assoluto, cioè che possiede tutti gli attributi che giudichiamo delle per- fezioni a un grado infinito o assoluto, è un concetto che non si trova in Platone quantunque le sue dottrine sulla divinità occupino un posto elevato nei gradi dello svi- luppo di cui questo concetto è il termine ultimo né in generale nella filosofia teologica antica. Nei luoghi del IHineo a cui allude Fouillèe per perfetto bisogna intendere completo. Platone dice che il mondo è stato fatto a somiglianza dell'Idea uai versale di animale, com- prendente in sé tutte le Idee generiche e specifiche degli animali. Per conseguenza egli chiama il modello del mondo l'animale intelligibile perfetto o completo, perchè comprende tutti gli animali intelligibili (cioè tutte le Idee degli animali) Egli sembra chiamarlo pure il più perfetto degli esseri intelligibili (e non semplicemente degli animali Intelligibili): ciò è perchè l'Idea universale di a- nimale con tutte le Ide3 generiche e specifiche degl’animali contengono in sé, in qualche modo, tutto il mondo ideale— senza di che Platone non potrebbe riguardarle come il modello del mondo. Questi concetti non hanno niente di comune con V essei^e perfettissimo dei moderni filosofi spiritualisti Il modello è uno. Questo argomento potrebbe valere contro l'altra forma dell'in- terpretazione trascendentalista, che ammette, o dovrebbe ammettere, che le Idee sono separate le une dalle altre, come dalle cose. Nella nostra interpretazione il mondo ideale non è una moltiplicità senza unità, ma un'unità multipla, perchè l'Idea generale risiede nelle Idee parti- ci) TiìA, 30o.31b, 39 d-e. Cfr. 41b-c, 69c, 92c. Tim. 39 d. Cfr. Sappi. B carta m ^ y\' r. .,.^ 'Ij. colari, ed è, implicitamente, queste Idee stesse Infine il modello i vivente. Ma Platone dice solamente che è ridea universale dell'animale con le altre Idee de^-li animali che essa comprende. Questo potrebbe prendersi in tre sensi, corrispondenti alle tre interpretazioni delle Idee in generale. Queste Idee, nella nostra interpretazione, sono gl'insiemi degli attributi comuni a tutti gli animalj e a ciascun genere e ciascuna specie particolare d’animali, esistenti negli stessi animali reali. Nell'interpre- tazione trascendentalista seguita dalla più parte dei critici moderni, sarebbero questi stessi insiemi di attributi, ma fuori degli animali r^ali. Nell'interpretazione teistica, in- fine, i pensieri divini degli animali, e, secondo il Fouillèe, anche le perfezioni divine corrispondenti. Di questi tre sensi Fou'llèe non potrebbe ammettere 1' ultimo che arbitriariamente; e del resto non è quello ch'egli attri- buisce alle parole di Platone. Il testo stesso del Timeo identifica il Demiurgo e il modello. Infatti Pitone dice :« Esente da invidia, Dio volle che tutte le cose fossero, per quanto era po-sibile, simili a se stesso. Ma Platone dice ancora: Simili alle Idee, al Vivente intelligibile. Dunque Dio è egli stesso questo Vivente che abbraccia in sé le Idee Ma, come si vede da tutto il contesto, il Demiurgo volle che tuttj le cose fossero simili a se stesso, in quanto egli era buono, e volle che tutte le cose fossero buone. Que3ta proposi- zione presenterebbe un senso soddisfacente, anche pren- dendo il Demiurgo e i paradigmi alla lettera, e consi- derandoli come due cose distinte. Non si è contenti del senso letterale? ma. allora questo luogo ci permette-d'i- dentificare il Demiurgo, non all'insieme delle Idee, ma all'Idea del Bene, perchè ciò che rende le cose buone. renàeadole simili « se stèsso, non è l'insieme delle Idee, ma l'Idea del Bene. Fouillèe, a dir vero, crede che questo luogo identifichi il Demiurgo tanto all'insieme delle Idee quanto all'Idea del Bene, perchè queste due cose per lui si equivalgono. Ma noi abbiamo osservato che quest'equivalenza è impossibile anche nei presupposti dell'interpretazione teistica, perchè il conte- nuto dell'Idea del Bene, come di tutte le altre, non può essere, in qualsiasi interpretazone, che quello stesso del concetto corrispondente. Per confermare l'identità tra il Demiurgo e l' Idea del Bene, il Fouillèe aggiunge che, se Platone chiama Dio buono, e perchè è il Bene stesso ; infatti « si oserà sostenere che Dio è buono per la sua partecipazione a qualche cosa di superiore (cioè all' Idea del Bene distinta da Dio stesso) ? » Senza dubbio : Platone osava sostenere ciò e tante altre dottrine egualmente incompatibili col concetto moderno che D:o é l'assoluto, p. e. che vi hanno molti dei, che la divinità non ha creato la materia, che la sua potenza è limitata, ecc., e tutti i filosofi antichi osavano sostenere come lui tali dottrine ed altre, secon- do il teismo moderno, non meno indegne della divinità. 3» Fouillèe cita il Timeo (luogo che abbia- mo riportato e spiegato nel Supplemento, carta), e lo commenta cosi: Non sembra che Platone abbia voluto confutare anticipatamente quelli che moltiplicano gli esseri senza necessità, obbliando che l'unità è il ter- mine della dialettica ? Due dei che non differissero che V. Sappi. C, IV, carte (2» V. sopra, oarta qttOito Sappi., I, carte , SOO r ; I' » per la loro funzione di modello o di artigiano, suppor- rebbero al di sopra di loro un dio unico, cbe lì abbrac- cerebbe Tuno e l'altro nella sua comprensione. Ma Platone in questo luogo non parla di due dei, ma so- lamente di due Idee dell'animale : egli dice che due Idee dell'animale sarebbero impossibili, perchè supporrebbero al di sopra di loro un' Idea unica dell' animale che le conterrebbe tutte e due. Del resto né è una conseguenza dei principii della dialettica platonica che due dei sup; porrebbero al di sopra di loro un dio unic3 che li ab- braccerebbe Tuno e l'altro, né j Platone, nella supposi zione che combatte il Fouillée, potrebbe riguardare il modello come un dio altrimenti che per metafora. 4« Platone, enumerando le cose che egli ammetta, non parla che di tre, le Idee, lo spazio e la genesi^ e non di una quarta, che dovrebbe essere il Demiurgo. É cosi che fa a 48e.49a, ÒOc-d, 52d. Fouillée cita questi luoghi, e ne conclude che, poiché il demiurgo manca nella enumerazione, esso deve essere identico a una delle tre cose enumerate, cioè alle Idee. Questo é senza dubbio il migliore degli argomeatì ch'egli impiega per dimostrare l'identità tra il modello e il Demiurgo. Ma esso non è probante che nella sua parte negativa, cioè contro quegl'interpreti che, come il Martin,^ pren- dono il Timeo alla lettera e ammettono che Plat )ne ha pensato realmente che il mondo è stato costruito da un artefice che ha copiato un modello. Contro la sua parte positiva, cioè che il senso riposto del Timeo è che le I- dee esistono in Dio, valgono le osservazioni che abbiamo fatto sopra, sul 4« motivo dell'interpretazione teistica, e sarebbe inutile di ripeterle. Cfr. Sappi, e, carta 228. fc -. Fouillée osserva pure sul secondo dei luoghi in- dicati che il modello deve essere identico al Demiurgo, perchè in questo luogo le Idee vengono riguardate come le cause delle cose, e paragonate al padre (lo spazio essendo paragonato alla madre, e la genesi al figlio. Quest'argomento non può valere anch' esso che contro l'altra forma dell'interpretazione trascendentalista, se- condo cui le Idee non potrebbero essere che dei sem- plici esemplari, e la loro causalità sulle cose è assolu- tamente incomprensibile. 6*» Nel Timeo Platone dice : Dio impiegava tuttp queste cause per ausiliarie, ma mise egli stesso il bene in tutte le cose generate. É per ciò che bisogna distinguere du^ sorta di cause, Tuna necessaria e l'altra diviaa, e noi dobbiamo cercare in ogni cosa la causa divina». Il Fouillée commenta: Platone nondistingue due cause divine, l' una efficiente (cioè il demiurgo), l'altra esemplare o finale (cioè il modello); egli non ne pone che una, l'Idea» Ma in questo luogo non è qui- stione della causalità delle Idee. Le cause che si distin- guono in due generi sono le cause fenomenali, cioè fa- cienti parte dell'universo come complesso di tutte le esi- stenze individuali. Confrontando questo luogo con due altri del Timeo stesso, cioè 46c-e e 48a, in cui è espresso evidentemente lo stesso concetto, si vede che per le cause divine bisogna inteudere quelle « che producono con in- telligenza il buono e il bello » ; le eausjB necessarie sono, naturalmente gli agenti materiali. In questa bipartizione delle cause le Idee non vanno né nell'una ne nell'altra J Cfr. Sappi. C, carta arte, benché la parusia ielle Idee vi sia necessaria- mente tanto nelle cause dell' una quanto in quelle del- l'altra, poiché tanto gli agenti materiali quanto gli a- genti spiritaali sono la realizzazione delle Idee e agi- scono secondo le necessità ideali. Fra le cause di- vine é compreso il Demiurgo, che, se si prende alla lettera, è anch' esso una causa, come abbiamo detto, fenomenale, essendo evidentemente un individuo, e non un' entità astratta. Secondo noi il Demiurgo non deve prendersi alla lettera, e simboleggia 1'idea del bene: per conseguenza le cause divine, oltre le cause intelligenti (cioè le divinità generate), significano anche, al- legoricamente, la causalità del Bene. Questo però non ci costringe ad oltrepassare 1' ordine causale nei feno- meni, perchè la causalità del Bene non è in sostanza che la teleologia immanente nella natura. Siccome anche le cause intelligenti, nel senso proprio, agiscono teleolo- gicamente, le cause divine equivalgono alle cause finali, come le cause necessarie alle cause meccaniche. Questa divisione delle cause in due generi non è dunque che quella abituale a tutti i teleologisti, e non giust' fica per niente la conclusione di Fouillèe. L'ultimo degli argomenti di Fouillèe tratti dal 7Y- meoè che non vi ha per Platone, egli dice, che « un solo Dio intelligibile, padre e modello del dio sensibile » (cioè del mondo mentre, se il Demiurgo e il mondo ideale fossero distinti, ve ne sarebbero due). Per provare ciò egli cita il Timeo: É cosi che il Dio che esiste da ogni tempo -, avea concepito il Dio che doveva Cfr. o»p. 2. 8 3 e Sappi, C, !IV, e. 282 p. 1* n. 5. hascere », e la conclusione del dialogo, in cui il mon- do è chiamato €dio sensibile, immagine del dio in- telligibile ». Il primo di questi luoghi proverebbe che vi ha un solo dio che esiste sempre (e non due, cioè il Demiurgo e il modello); il secondo proverebbe al tempo stesso che vi ha un sol dio inteUigibUe (ciò che è la stessa cosa che un sol dio che esiste sempre), e che questo dio non è altra cosa che il modello. Dunque il Demiurgo e l'insieme delle Idee sono una sola e stessa cosa Su questo ragionamento si può osservare prima di tutto che nel secondo luogo il significato del dio intelligibile è cir- coscritto per designare unicamente il modello, si dalla parola immagine che dalla parola stessa intelligibile (che nel linguaggio di Platone non significa che l'Idea); per conseguenza da questo luogo non potrebbe concludersi che, oltre questo dio intelligibile, Platone non ha potuto ammettere un altro dio, anch'esso distinto dal dio sen- sibile, cioè il Demiurgo. Ma ciò che rovescia tutto il ragionamento è l'osservazione che qui Piatone non può deificare il modello, considerato come uno (cioè V ani-male intelligibile che comprende tutti gli animali intel- ligibili), che nello stesso senso in cui altrove (i) deificai modelli, considerati come più, cioè per semplice meta- fora (2). i Passiamo agli argomenti tratti dagli altri dialoghi :Nel 6<» della repubblica il Bene ci è rappresentato come principio sostanziale delle Idee e come causa efficiente degli oggetti sensibili. Naturalmente Fouillèe ne conclude che il Bene per Platone non è altra cosa che Dio— Vi ha appena bisogno di osservare che que- e. Cfr. questo Sappi, n. I e. 280 e n. Il o. 296. /i 30'i st'ar^'omcato non è che un caso deirequivoco già indi- cato deirin!^erprete teistico, di scambiare la causa nel senso del realismo dialettico con la causa nel senso che gli è più familiare, cioè rantropomorfìstico. 2^ Nel 10^ della stessa Repubblica si dice che Dio ha prodotto V Idea del letto e tutte le altre Idee Ma neirinterpretazione del Fouillèe com'è che Dio potrebbe produrre le Idee? se Dio non è secondo lui che l'insieme delle Idee stesse? La proposizione che Dio ha prodotto le Idee potrebbe avere un senso nella forma dell* Inter* pretazione teistica (che non è quella ammessa dal Fouil- lèe), secondo cui Dio sarebbe il substratum e la sorgente delle Idee, cioè dei suoi pensieri eterni, press' a poco come, secondo lo psicologo spiritualista, la sostanza me è il substratum e la sorgente dei fenomeni della nostra coscienza. Ma in questo senso o in qualsiasi altro è as- solutamente incompatibile con le dottrine di Platone, che considera evidentemente le Idee come i prìncipii ul- timi (sia che dobbiamo intendere per esse delle entità astratte sia dei semplici pensieri. L'interprete teistico dirà che Platone riguarda Tldea del Bene come la causa di tutte le altre, e che Dio è appunto per lui Tldea del Bene. Noi conveniamo con V interprete teistico che il Dio del 10*^ della Repubblica, che produce V Idea del letto e le altre Idee, non può essere cheTIdea del Bene. Ma aggiungiamo che questa deificazione dell* Idea del Bene non può essere che una metafora tanto nella nostra interpretazione quanto nella sua, poiché secondo questa essa non potrebbe essere che uno dei pensieri della di- Cfr, Sappi. C. IV, e. 228-229. vinità, e la personificazione di un pensiero è altrettanto inconcepibile che quella di un*entità astratta. Fouillèe ammette anch*egli che questo Dio che produce Tldea del letto e le altre Idee è la stessa cosa che il Bene, e ne dà come prova che esso è chiamato in seguito il re, espressione che si applica pure al Bene. Su questa prova basterà di ripetere Tosservazione precedente e T altra dell* incongruenza di Fouillèe di ammettere che 1* insieme delle Idee (equivalente per lui al Bene) sia la causa delle Idee stesse. 3^ Nel Fedro si dice che dio è divino perché è con le Idee— Ma dio é con le Idee in quanto le con- templa (nel luogo iperuranio) (3). Anche le anime che sono al seguito degli dei le contemplano, senza che siano perciò i loro pensieri., i^ Nel Convito l' Idea del Bello è chia- mata il bello stesso divino^ e si dice che chi la contem- pli^ diviene amico di Dio. Fouillèe intende che que- st'Idea è « la beltà di Dio »; e che chi la contempla di- viene amico di Dio perché il Bello è identico al Bene e per conseguenza a Dio— Ma é evidente che V Idea del bello non può essere chiamata divina che nello stesso senso in cui sono chiamate divine le altre Idee. Quando nel Filebo le Idee del cerchio e della sfera sono chia- mate il cerchio e la sfera stessa divina, dovremo in- tendere che queste Idee sono degli attributi di Dio? Se- condo grinterpreti teistici in generale, queste Idee sa- rebbero dei pensieri particolari della divinità : ma pare Cfr. carta 296. (2) 697 e. Cfr. Supplom. B cario 141-1 U. (4) 62 a. •I I < ' ' T' I i i \' ad essi naturale ohe i pensieri che Dio ha del cerchio e della sfera siano chiamati il cerchio divino e la sfera divina ? Inoltre un pensiero di Dio è tutt'altra cosa che un attributo di Dio. Il Fouillèe dirà che le Idee del cerchio e della sfera sono anche delle perfezioni divine e non semplicemente dei pensieri divini. Noi potremo discutere questa proposizione, quando il Fouillèe o altri ci farà comprendere che cosa significa Aggiungiamo, suir altra parte dell' argomento, che Platone stesso ci spiega sufficientemente^ e senza che resti alcun bisogno della spiegaeìone del Fouillèe, perchè cl^l contempla ri- dea del Bello diviene amico di Dio (o piuttosto amato da DiOj Bso^iXi^c) : è perchè partorisce e nutrisce la vera virtù j e non delle immagini di virtu^ avendo visto il vero (cioè il Bello in se stesso, tipo della virtù e di tutto ciò che è bello), e non un'immagine. h^ Nel Teeteto la virtù, che è Timitaz'one del B^ne, è definita la somiglianza con Dio^Dunque, secondo il Fouillèe, se non ammettesse che il Bene è identico a Dio, Platone non potrebbe dire, come qualsiasi altro teista, filosofo o non filosofo, che il virtuoso è amato da Dio, e che gli somiglia? Notiamo che nel luogo del Teeteto a cui allude il Fouillèe (2) Platone non dice che la virtù si definisce la somiglianza con Dio, ma semplicemente che divenire giusto, santo e prudente è rendersi simile a Dio. 6« Nelle Leggi Dio è chiamato il il principio, il fine e il mezzo di tutte le cose. Dunque egli è il Bene, poiché è il Bene il principio primo e il fine ultimo— Ma la proposizione citata dal Fouillèe (che d'al- tronde lo steiso autore afierma ricevere da un' antica tradizione) potrebbe provare tutto al più che il sistema teologico di Platone è il panteismo. Da ciò non potrebbe concludersi niente sulla dottrina delle Idee, perchè que- ste due parti della filosofia platonica sono, come abbiamo osservato, assolutamente distinte. Del resto Platone non dice < Dio é » ma « Dio tietie (ixet) it principio, il fine e il mezzo di tutte le cose », proposizione naturalissima in qualsiasi forma, alquanto evoluta, della filosofìa teo- logica. 7^ € La tua intelligenza non è il bene, dice Fikbo a Socrate — Si, la mia forse, o Filebo, ma per T intelli- genza vera e divina, io non penso che sia cosi — È il migliore argomento che Tinterprete teistico possa im- piegare per provare che V Idea del Bene è identica a Dio. Infatti in questo luogo Socrate sembra affermare che Tintelligenza divina è i! Bene stesso. Ma la propozione potrebbe anche avere nn altro senso, cioè che la semplice intelligenza è insufficiente alla felicità nostra, ma è sufficiente a quella di Dio. Infatti il bene nel Fi- lebe è considerato sovratutto nel suo aspetto subbietti- vo, cioè come felicità degli esseri viventi, V argomento del dialogo essendo appunto di ricercare in che consiste la felicità. Lo stesso luogo citato fa parte della conclu- sione di una discussione per cui si mostra che né una vita di pura intelligenza né una vita di puro piacere basta a costituire la felicità, ma per ciò è necessaria una vita mescolata di piacere e d' intelligenza. La ri- Conv, 212». I76b. 715 e. (1) Filtro 22 0. - ao4 — :l -rrr -rr -i-TT I !» 111 Il ' spòsta di Socrate a Filebo avrebbe dunque questo si- gnificato naturalissimo, di una riserva fatta in favore dell'intelligenza divina, cioè che Dio è felice, quantunque non viva che una vita di pura intelligenza. Questo significato è confermato da ciò che si dice in se- guito (1), che non solo non è verisimile, ma è anche sconveniente, di ammettere che la divinità provi del piacere e del dolore. Ora l'insieme del dialogo non per- mette di dubitare che il senso delle parole di Socrate non sia cflTettivamente questo. Quello preferito dair in- terprete teistico è incompatibile col contenuto dell' Idea del bene — che è evidentemente un attributo delle cose, di cui la felicità degli esseri viventi possa essere un caso particolare e con la sua immanenza, così chiara in questo dialogo, che noi vi abbiamo visto a buon dritto una delle prove più forti dell'immanenza delle Idee in generale. Aggiungiamo che esso è anche incompati- bile coi presupposti dell'interpretazione teistica, perchè secondo questi, come abbiamo tante volte osservato, l'Idea del Bene non potrebbe essere che uno dei pensieri della divinità, ma non l'intelligenza divina, che è il sog- getto o r insieme di questi pensieri. (ij 33 b. Gfr. Sappi. B carie 92-95. Alouni interpreti ehe seguono l'altra forma dell'interpreta- sione trascendentalista, credono, fondandosi su questo luogo del Filebo, che il Bene per Platone non sia Dio, ma la ragione imma- nente nel mondo, a coi egli non intende attribuire propriamente la personalità. Questo senso è anche, se si pnò dir cosi, più im- possibile ohe quello dell'interprete teistico. Questi almeno, identi- ficando il Bene con l'intelligenza divina, è coerente allo spirito della sqa interpretazione, ohe vede nelle Idee platoniche delle con- 8<^ Dopo aver posto nel Filebo l'indeterminato, la determinazione o le Idee, e il genere misto, Platone dice che bisogna porre la causa di tutte queste cose. Dio sarebbe dunque la causa delle Idee e della materia La base di quest'argomento (che del resto Fouillòe non propone senza esitazione) è il concetto, di cui abbiamo visto Tinammissibilità (1), che il Tispag del Filtbo, che egli chiama la determinazione, sia identico alle Idee, e Tdcneipov alia materia. Tuttavia, siccome il TzipoL^ e l'dc- Tieipov sono anche, come abbiamo mostrato, gli elementi delle Idee, alcuno potrebbe giungere per questa via, con qualche apparenza di ragione, alla stessa conclu- sione del Fouillèe, cioè che la causa^ vale a dire Dio, è causa anche delle Idee. Ma questi non potrebbe essere l'interprete teistico, perchè il Tiépag e T àjcsipov sono e- \identemente gli elementi delle cose reali, e non cezioni dello spirito. Ma per l'interprete trascendentalista che con- sidera le Idee come delle forme obbiettive, quantunque esistenti in un altro mo)ido, come l'Idea del Bene può essere la stessa cosa che la Ragione ? Per lui come per noi le Idee non sono che gli attributi omonimi dello cose sostantificati, per noi nelle cose stesse, per lui fuori delle cose. La ragione è dunque un attributo di tutti gli oggetti che chiamiamo buoni? e siccome per Platone tutto ciò che esiste è buono (perchè egli vede nell'Idea del Bene la forma universale e la identifica a quella dell'Essere), tutto ciò che esiste per Platone (che non è un ilozoista), partecipa dunque alla ra- gione ? È evidente che l'interprete trascendentalista non attribui- rebhe a un filosofo moderno un non senso simile; ma a Platone gli è lecito di attribuire tutti i non sensi, perchè effettivamente, secondo la sua interpretazione, la filosofia platonica non potrebbe spiegarsi che per una tendenza irresistibile verso le i)roposizioni prive di senso. (1) V. Suppl. C, IV, carte 244-245. (2) V. Suppl. B, vili, carta 100. '3) V, Suppl. B carta- •i-*- pofsono riguardarsi come flf menti anche delle Idee che nella nostra interpretazione, che identifica in qualche modo le Idee con le cose, ma non in un'interpretazione che ne fa dei pensieri o delle perfezioni della divinità. Per altro, noi torniamo a domandare al Fouillèe com'è possibile che Dio sia causa delle Idee, mentre non è che le Idee stesse. Aggiungiamo (tralasciando per amore di brevità tante altre osservazioni non meno ovvie) che la causa non potrebbe essere cau^a anche delle Idee perchè non lo è che delle cose divenute (1) (mentre le Idee sono eterne), perchè la sua efficienza è assimilata alla nostra attività sul mondo esterno (2), e perchè essa non é evidentemente che l'anima del mondo, che non può produrre che del movimento, e per la comunicazione del movimento proprio. L'anima, nel suo viaggio al seguito di Dio, con- templa la scienza in sé, non questa scienza soggetta al cangiamento, ma quella che si trova nell' essere vero (5). L'Idea della scienza è dunque compresa in Dio. E d'altra parte il Parmenide c'insegna che la scienza in sé ha per oggetto le Ide ch'essa racchiude. Le Idee divengono così dei pensieri divini— Ma che cosa prova al Fouillèe che l'essere vero in cui si trova la scienza in sé, è Dio ? L'essere vero (6 èo-civ ov ovxwg) in lin- ci) FU. 26e-27a. Cfr. Sappi. C. IV, o. 247, p. 2«. (2) La causa è ciò che fa, e gli eifetti le cose ohe sono fatte iFilebo ). La causa è anche chiamata.ropifice(gr^|jLioi)pYoOv) degli altri tre generi {FU. 27b). Dio, per conseguenza, seconao l'in- terprete teistico, farebb**, anzi fabbricherebbe, i propri pensieri. V. Supph C, IV, e. 247-248. Cfr. e. 224. (4) V. questo Sitppl. n. I, e. 280, 2«3 e 283. (5) Fedro 247d-e. guaggio platonico des^'gna l'Idea, e per conseguenza qui non può significare che l'Idea di sostanza di cui la scienza in sé è l'attributo, perché ciò che è sostanza nel mondo d» Ile cose deve essere sostanza anche nel mondo delle Ideo, e ciò che è attributo in quello deve e-sero attributo anche in questo. Quando poi il Fouillèe afferma che « il Parmenide c'insegna che la scienza in sé ha per oggetto le Idee», la sua proposizione é incontesta- bile (1), ma quando aggiunge e che essa racchiude », non fa che un'asserzione interamente gratuita, perché Platone non lo dice né nel Parmenide né altrove. 10^ E dio e non l'uomo che è la misura di tutte 1'^ cose {Ijeggi IV, 'il6c). Così per Platone il principio e il fondamento della verità è Dio— Ma le parole precise di Platone sono : « Dio è la misura di tutte le cose molto più che alcun uomo. » Dunque secondo il Fouillèe anche l'uomo sarebbe per Platone principio e fondamento della verità, quantunque meno che Die, proposizione che è un non se nso tanto se si ammette che la verità è og- gettiva quanto se si ammette che è soggettiva come pre- tendeva Protagora; perchè, se é oggettiva, come l'uo- mo potrebbe esserne principio e fondamento? e se è soggettiva, come Dio potrebbe esserlo più che l'uomo? La proposizione che Dio è la misura di tutte le cose, in quanto essa ha una portata gnoselogica, può significare, in Platone, non che il vero e il falso dipendono da Dio, ma semplicemente che in Dio vi ha un criterio infalli- bile del vero e del falso, perchè noi dobbiamo interpre- tare questa proposizione conformemente alle sue dottrine conosciute, e secondo queste è il pensiero che é deter- (1> V. Parmeìu 133o-134d. - 306 — minato dalle cfse (tforia dell'intuizione e della remini- scenza), non s<no le cose che sono determina te dal pen- siero • \\^ Aristotile parla di alcuni che hanno detto che y anima è il luogo delle specie (xóTiog sl8(Bv) (1), Il Fouil- lèe ne conclude che Platone ha chiamato T intelligenza divina il luogo de'le Idee, perché quest'espressione che troviamo in Aristotele è, egli dice, evidentemente pla- tonica. Noi diciamo invece che è evidentemente anti- platonica-é una conseguenza delle prove dell' imma- nenza delle Idee date nel Supplem. B-, e appartiene pro- babilmente ai Cinici, che contrapponevano al realismo di Platone il concettualismo, affermando che gli univer- saM non esistono che nel pensiero (2). Ili liC Idee e 11 pensiero Secondo un'interpretazione di Platone, che rimonta ad Hegel, ed è stata ripresa e sviluppata da un critico contemporaneo, il Teichmiiller, la reminiscenza, Tin- tuizione delle Idee in una vita anteriore, V immortalità dell'anima e le altre dottrine connesse non devono in- tendersi nel senso letterale, ma sono dei simboli d' una teoria gnoseologica ed ontologica, in cui Platone avrebbe preceduto Hegel. Questa è che, nel pensiero filosofico, il soggetto conoscente s'identifica con V oggetto cono- sciuto, cioè con le Idee; che questo pensiero costituisce l'essenza intima dell'anima, ed è, per conseguenza, u- niversale, e quindi eterno, co ne il suo oggetto; infine che esso ò il momento ultimo dello sviluppo eterno dei- Tessere, l'Assoluto, che comprende ogni cosa, e in cui tutti i contrari si unificano. L'immortalità dell'anima simboleggerebbe Tetoroarsi dello spirito, quando rientra nella sua vera essenza, identica al mondo ideale, e ha luogo cosi la conoscenza filosofica. 1/ intuizione delle Idee in una vita anteriore significherebbe la presenza delle Idee nel pensiero: essa é rappresentata come la percez-one di un oggetto esteriore, perchè è il solo caso, nell'esperienza, in cui Toggetto sia presente immediata- mente al soggetto, e trasportata in una vita anteriore, per- chè Tessenza universale dell'anima, da cui deriva V a- nima individuale, si rappresenta come V antica natura (àpxaCa (;p'Jat;) di questa. La reminiscenza, infine, significa che la conoscenza è a priori, e che lo spi- rito la ritrae dalla sua antica natura, identica alleldee conosciute. Ma perchè Platone, come dice uno di que- 8t' interpreti, * ha insegnato il vero mediante il fal- so?» (i). Perchè, invece di esporre la sua dottrina aper- tamente, ha preferito d'invilupparla in oscuri simboli ? Ciò é stato, ci si dice, per due ragioni. Prim-), la verità nella sua forma pura è inaccessibile ai molti; a questi, aftinché ne partecipino in qualche modo, è neeessario di presentarla sotto un involucro fantastico, in forma di miti e di allegorie. Secondo, Platone era convinto che la religione é il vincolo più forte dell' ordinamento so- ci) De an, l. IH. TV. 4. Ci) V. ZoUor Fifo&. ffei (h'cci trad. frauo. Vera Philom* e Vimmorlalilà dclVaninvi pjig. i8. ti .-.}.V< li ì i cìale; perciò ha cercato di mettere d'accordo, almeno in apparenza, il pensiero filosofico con le credenze religiose, e tra le altre naturalmente con la più efficace di tutte, cioè quella deirimmortalità. L'obbiezione più ovvia che si presenta prima facie contro quest'interpretazione è V inverosimiglianza della situazione psicologica ch'essa suppone in Platone. Qup- st'arte di dire una cosa e intenderne un' altra, qualun- que siano le frasi di cui si rivesta per darle un' appa- renza speciosa, è sempre una maschera che si mette al pensiero, una diplomazia che il filosofo usa verso gli altri 0 verso se stesso. Noi comprendiamo questo stato di spirito in un professore moderno, che nrn vuole a- lienarsi il favore di chi sta in alto urtando troppo ru- demente delle idee che fanno parte di un ordine stabi- lito o in un dottore protestante, che deve fare il sermone della festa di pasqua, ma non ammette la venta storica del racconto degli evangeli sulla resurrezione. Anche quel nobile carattere di filosofo che fu Spinoza parla, nel senso in cui questo linguaggio pretende attribuirsi a Platone, oltre che dell'immortalità dell' anima, di Dio, del figlio di Dio, dell' amore di Dio, ecc., parole che nel suo sistema non sono che una decorazione: ma dobbiamo noi maravigliarci di ciò quando, malgrado questo velo prudente di cui ricopre le sue dottrine, che un teista ha tutta la ragione di riguardare come atee, lo vediamo diventare V oggetto della riprovazione universale ? Ma in Platone, e al sog- getto dell'immortalità dell'anima, questa diplomazia sa- rebbe stata senza motivo. Oltre che la mitologia dei Greci non accordava all'anima, dopo la morte, che un'ombra d'esistenza, oggetto piuttosto di timore che di speranza, e a cui non era legato alcun interesse e- i tico (1), la credenza all' immortalità, o semplicemente alla sopravvivenza, non sarebbe stata riguardata, almeno all'epoca di Platone, come una condizione di ortodossia. Come sappiamo da Platone stesso, i suoi contemporanei che consideravano come un dovere il culto deoli dei dello stato— erano generalmente scettici riguardo alle antiche tradizioni sui premi e le pene dell'altra vita; i più pensavano che l'anima, appena uscita dal corpo, si dissipa e si annienta ; e Socrate (nella Repubblica di Platone) eccita la sorpresa del suo interlocutore, quando afferma che è immortale. Platone non si sarebbe dunque trovato in urto con la coscienza popolare, s'egli non avesse accolto tra le sue dottrine, o avesse anche rigettato, implicitamente o esplicitamente, la credenza in un'altra vita : tanto meno, per fare atto di ossequio alla fede dei suoi connazionali, avrebbe potuto credersi in obbligo d' insegnare e di dimostrare V immortalità dell' anima, nel senso rigoroso, e la sua eternità. Ma supponiamo che 1' epoca di Platone fosse tale da im- porre a un filosofo un ossequio apparente a queste dot- trine : che cosa dovremmo aspettarci da lui, supposto ciò ? ch'egli mettesse in luce i soli punti in cui i suoi concetti filosofici si accordassero coi concetti popolari, lasciando nell'ombra quelli in cui ne diff*erissero. Pla- tone dovrebbe dunque limitarsi in questo caso, come ^1) V, Zeller Filos, dei Greci, Introd, gener, o. 2 § 5 L'antro" poloifui, V, anohe, sul timore dell'altra vita, Guyau La morale d'E- picuro, l. II, o. Ili, I (pel paganesimo Ingenerale), e ofr. Platone stesso Hep. 386b-387o. (2) Jiep. 330 d-e. (3) Fedo. Cfr. 70a e 77b. V. 608d, -. 308 — li I ) ì J Spinoza e come Hegel nei casi analoghi, a cercare delle formule ambigue, che, quand' anche più adattate alle credenze popolari, potessero pure applicarsi, anche for- zandolo alquanto, ai concotti liiosoiici. Egli non insiste- rebbe quindi sul lato etico e sentimentale della credenza all'immortalità : non parlerebbe dei premi e delle peno neiresistenza futura (1); non farebbe esprimere conti- nuamente ai suoi personaggi le t^peranze della felicità che attende nell'altro mondo il saggio che si è purifi- cato dalle passioni, e il timore della morte da cui la sicurezza di un'altra vita deve liberarli; sovratutto non metterebbe in bocca queste speranze a un caro mo- rente, col pensiero sottinteso che sono delle illusioni quasi per una irrisione a ciò che vi ha di più umano nel sentimento religioso, nelle persone e nella circo- stanza in cui è il più umano di rispettarlo Tutto ciò che vi ha nelle idee sull'altra vita di mitico e di super- stizioso, nel senso stretto di questi termini, non sarebbe meno fuori di luogo; p. e., nel Fedone^ i fantasmi che vagano attorno ai sepolcri, e la descrizione del sog- giorno futuro dei buoni nell'alta superficie della terra (di cui noi abitiamo una cavità) e dei cattivi negli a- bissi che sono nel suo interno (5); perchè qual sigoifi- [Fedo. Tim, Meno. Teet., Fedro LEONZIO (vedasi), Rep. Legiji ecc. (2) V. il Fedone 63b-c, 63e-64a, 67b-o, 68a, 69c-e, 70b, 82 c-84b, 84e-85b, 95c, 114o-115a, 115 d, J17 b-c, (3) V. pure il Fedone cato potrebbe darsi a queste circostanze come simboli della dottrina filosofica ? Infine Platone non darebbe delle dimostrazioni dell'immortalità- ed è stato il primo a farlo—, o almeno queste dimostrazioni dovrebbero es- sere ambigue come l'immortalità stessa, cioè, mentre apparentf»inentc proverebbero V immortalità personale, dovrebbero essere suscettibili di essere interpretate, nel loro senso reale, come prove delle dottrine che essa simboleggia; mentre è evidente che le dimostrazioni pla- toniche concludono univocamente, cioè alla sola immor- talità personale, e, per quanto si torturino, non si riu- scirà mai a far loro dimostrare l'eternità dell'essenza uni- versale dell'anima o 1' identità del soggetto e dell' og- getto (0. Ora possiamo noi concepire un filosofo della sini- stra hegeliana, che cerchi di dimostrare, senza equivoco, la verità (la verità storica^ come sopra) dei racconti de- gli evangeli ? Un'altra testimonianza in favore della sin- cerità di Platone nella dottrina dell'immorlalità dell' a- n'ma è il suo atteggiamento in faccia alla religione in generale (che, conformemente all' interpretazione hege- liana dell'immortalità, non potrebbe essere per lui che un sistema di miti, a cui bisogna tributare un ossequio esteriore e cercare di farne dei simboli di verità filoso- fiche). Platone non si contenta di fare atto di adesione, reale o apparente, alle idee religiose dei suoi connazio- nali, ma cerca di migliorarle, di correggerle, e di assi- Vedi queste prove nel Fedone l^Q-llà, 78b-80c, 9Je-94e, I02b- 107a, Menone 85c-88b, Fedro 245c-246a, Repubblica 608d-611a. Un' a- nalisi di questi luoghi ingrosserebbe inutilmente questo volume, e d'altronde niente potrebbe sostituire l'impressione di evidenza che risulta dalla loro lettura. — 309 — I .1 ri .Jf. i ^ I ^, * ierie su una base filosofica. É ciò che fa per le idee sulla diviaità, che egli fonda sulla dottrina dell' anima cosmica, ed eleva si al punto di vista morale che me- tafisico, combattendo le superstizioni popolari incompa- tibili coi nuovi concetti da lui insegnati (i). Lo stesso fa pure per le idee sulla vita futura, sovratutto in due punti: elevando la credenza popolare nella sopravvi- venza e la preesistenza al concetto rigoroso (conseguenza logica deiranimismo) (2) di una durata senza comin- ciamento e senza fine, che cerca, oltre che di fondare su prove razionali, di legare alle altre parti del suo si- stema filosofico, cioè alla dottrina delle Idee e a quella dell'anima cosmica; e basando la metempsi- cosi e le altre credenze sul destino futuro dell' anima sul concetto di una ricompensa morale (5), che mancava nei dati tradizionali , benché egli non facesse in ciò che aiutare un movimento cominciato prima di lui, e a cui doveano cooperare tutti gli spiriti religiosamente V. questo Sappi, n. I, o. 282. (2) V. n. 1, o. 275-276. V- n. I, e. Tra gli argomenti dell' immortalità dell* a- nima, oltre quello per la reminiscenza, sono fondati pure sulla dottrina delle Idee 1' ultimo del Fedone (riportato in parte nel Suppl, B, carte 45-47) e quello per l'affìnità dell'anima con le Idee (cfr. carta 330 p. 1* note 1 e 2). (4; V. n. I, e. 277 e 283. (5] V. n. I, e. 278 e 282. (6) Cfr. o.307p. 2«-308 p. KSeoondoi primi Pitagorici le migra- KÌoni delle anime non erano regolate da ragioni di giustizia, ma era l'azzardo che determinava un'anima ad entrare in un corpo piut- tosto che in un altro (V. Martin Studi sul Timeo ). diù avanzati della sua epoca. Ma àa un filosofo incre- dulo, quand'anche non prenda apertamente, in faccia alla religione, la posizione d'avversario, non potremmo aspettarci che l'indiffereoza religiosa, o al più un' ade- sione passiva (naturalmente esteriore) alle credenze sta- bilite: ma eoli non opporrà, come faceva Platone, a queste credenze delle idee religiose più elevate, non sarà un riformatore, perchè questi non si trovano che tra i credenti più fervidi. Ci si dice, è vero, che Platone non si limitava a ve- lare prudentemente la sua irreligiosità, ma si giovava della religione come strumento politico, credendo utile e necessario che il Demo fosse ingannato. Con questa supposizione il seguace dell' interpretazione hegeliana può credere di evitare le inverosimiglianze precedenti, ma andando incontro in compenso ad altre non minori. La più colossale è naturalmente che un filosofo, prima, creda le proprie idee dannose e le contrarie utili, e poi di buona voglia (e non per prudenza come nella sup- posizione precedenle) si metta il bavaglio sulle proprie dottrino, non solo, ma predichi invece di esse -noi non parliamo di un filosofo salariato ìe dottrine contrarie. Ammettiamo tuttavia che questo prodigio sia possibile: è certo che potremmo attendercelo da chiunque altro piuttosto che da Platone. Non vi ha sistema in cui do- vrebbe esservi meno bisogno di un codice religioso, co- me strumento di polizia e di moralità, che in quello di Platone e, in generale, dei moralisti usciti da Socrate. In questo sistema, che stabilisce come principio fonda- mentale dell'etica che la virtù e la felicità sono identiche, dovrebbe bastare, per la polizia e la moralità, la filo- sofia sola—se per moralizzare è necessario di far credere che si può eJ^sere al tempo stesso santi e pr^rfetti egoisti. Ma si dirà che la filosofia non può penetrare nella mol- titudine, ed è a questa che sono destinati T immortalità deiranima e gli altri miti. Ma è per la moltitudine che ha scritto Platone? È ad essa che sono indirizzati gli argomenti dell'immortalità delPanima, di cui alcuni, e i soli che l'autore creda decisivi, fondati sulla dottrina delle Idee, cioè la più astrusa che si trovi in tutta la storia della metafisica V Ó si deve ammettere che Pla- tone mascherava il suo pensiero anche innanzi agl'ini- ziati, per paura che trapelasse ai profani? Ma ciò si- gnifica eh' egli ha voluto soffocare, per una specie di infanticidio intellettuale, la verta appena nata nel suo spirito a meno che si chiami verità quella che insegna mediante il falso, ma con l'intenzione che nes- suno potesse apprenderla- Noi non diremo che questo sarebbe un fatto senza esempio nella storia della filosofia e della letteratura in generale, perchè, ammessa la sua possibilità, con qual dritto potremmo aflTermare che tutto ciò che un filosofo teista qualunque ha scritto o detto su Dio e sull'anima non è stata una finzione, prudente o filantropica, e un'allegoria simboleggiante, per esem- pio, per quanto riguarda Dio, la Realtà inconoscibile, o la finalità immanente nella natura, o l'ordine morale del mondo dovuto a cause naturali (come nella dottrina buddista del karma, che, per quanto strana, non è almeno un non senso come l'identità del soggetto e del- l'oggetto), e per quanto riguarda l'immortalità dell'a- nima, oltre all'identità del soggetto e dell'oggetto e al- l'immortalità della specie, l'indistruttibilità della forza di cui la psiche è una forma transitoria, o la persistenza della sensibilità negli atomi che compongono il nostro corpo e tutta la materia ? Del resto, che sì ammetta come motivo di Platone una diplomazia prudente o una santa impostura, questo motivo non potrebbe spiegare che l'immortalità dell'anima, la metempsicosi e gli altri miti ch'egli ha in comune con la religione : ma come spiegare la reminiscenza e l'intuizione delle Idee in una vita anteriore? Esse suppongono l'immortalità dell'a- nima, ma questa non le suppone, né è incompatibile con la dottrina che tutte e tre rappresentano : questa iden- tificazione del pers^ero col suo oggetto, possibile in uno spirito d'una durata limitata, perchè infatti diverrebbe impossibile, se questa durata si prolungasse indefinita- mente? Una conseguenza necessaria di quest' interpreta- zione dell' immortalità è di sopprimere completamente la dottrina di Platone suU' anima, cioè metà della sua metafis'ca. Il concetto fondamentale della parte di questa dottrina che si riferisce all' anima individuale, è il dualismo tra anima e corpo, in altri termini l'anima considerata come sostanza distinta : ora questo concetto è incompatibile crn l' interpretazione dell' immortalità come simbolo dell' ternarsi del pensiero nella conoscenza filos(fica. L'immortalità dell'anima non potrebbe s'm- boleggiare l'eternifà del pensiero (cioè del pensiero spe- culativo) che se questo fosse, come è infatti per Hegel e per Spinoza, l'essenza dell'anima: ma per Platone il pensiero non è che un attributo dell'anima; la sua es- senza, cioè la sua sostanza, è un che di esteso, che è il substratum dei suoi movimenti, compresi quelli che si chiamano sentire, pensare, ecc., come le sostanze mate- riali sono il substratum dei loro movimenti e di tutti gli altri fenomeni del mondo estcrfore. Il dualismo tra anima 1 'i iSSSi ìtS^t e corpo, 0 la sostanzialità deir anima, non pnò essere dunque in quest'interpretazione che uq semplice mito (che cosa simbolegge?) come l’immortalità, la metempsicosi, la reminiscenza, ecc. Se è un mito la so- stanzialità dell'anima, sarà anche un mito la sua gran- dezza spaziale, il suo movimento (e per conseguenza la definizione che è ciò che muove se stesso), la dottrina che muove il corpo comunicandogli il proprio movimento, quella che occupa nel corpo un posto determi- nato, quella della sua tripartizione, e, in breve, di tutto ciò che Platone ha detto dell' anima non resterà una parola che abbia detto sul serio (e se questi miti sono dei simboli, e noi vogliamo interpretarli, il nostro im- barazzo non sarà minore di quello di Platone stesso, quando, dopo avere spiegato allegoricamente il mito di Borea che rapisce Oritia, si vede nella necessità di spie- gare della stessa maniera gl'Ippocentauri, la Chimera, i Pegasi, le Gorgoni e una moltitudine d'altri mostri, che per essere spiegati allegoricamente, esiggono una certa sapienza rustica e una gran perdita di tempo). Le dottrine sull' anima cosmica (cioè sulla divinità) non dovranno essere prese sul serio più che quelle sull'ani- ma individuale. Se infatti Platone parlava dell' immortalità per nn ossequio apparente alle credenze popolari, o perchè la credeva una favola necessaria all'ordine sociale, come non ammettere che era per lo stesso motivo che parlava di dio e della provvidenza? Di più la dot- trina suir anima cosmica suppone lo stesso dualismo (incompatibile, come abbiamo detto, con 1’intrerpretazione hegeliana dell'immortalità) su cui è fondata quella sull'anima individuale: la prima è descritta, come la seconda, come una sostanza distinta dalla materia, e- stesa, in movimento, causa del movimento della materia per la comunicazione del proprio movimento, ecc. Si dirà che qui il mitico sta nel dualismo e negli altri con- cetti che ne dipendono, mentre la vera dottrina di Pla- tone era un pantei'^mo ilozoista, in cui Dio è concepito come l'anima del mondo, ma senza che questa fos- se sostantificata e separata dalla materia. Ma oltre che questa forma di panteismo è quasi totalmente scono- sciuta all'antichità (perchè quasi tutti i panteisti antichi pensano, come i dualisti, che l'anima del mondo è una sostanza distinta dal corpo del mondo) con qual dritto potremmo ammettere che la dottrina di Platone era il panteismo, quando egli insegna invece il dualismo? Coerentemente all' interpre- tazione hegeliana dell'immortalità, tutto ciò che Pla- tone ha detto della divinità, o dell'anima del mondo, noi non dobbiamo intenderlo che come un simbolo, e non possiamo attribuirgli altro Dio che la sfera totale delle Idee (che, secondo quest'interpretazione sarebbero anche dei pensieri), o il pensiero assoluto, che sarebbe l'ultimo momento dell'evoluzione del mondo ideale. In- tanto tutti questi concetti di Platone sull'anima, sia cosmica sia individuale, hanno tutti i caratteri di una seria dottrina filosofica, e noi non potremmo aspettarci di trovarli in una semplice finzione. Noi noteremo : 1"* La naturalezza di questi concetti, cioè il fondamento che Fedro essi hanno, cerne tulli i concetti metafis'ci, nei sofismi naturali o a priori del nostro spirito. Platone ha anche stabilito il teismo sulle sue vere basi, che sono la spie- gazione teleologica del mondo (per ULa teleologia ro- scienté) e quella del movimento per Tanima (l). Il con- cetto della sostanziai tà dell' anima, o del dualismo tra anima e corpo, fa parte anch'esso, come i precedenti, della metafisica naturale del nostro spirito, e la dottrina dell'eternità delTanima e della sua dìst'nzione radicale dalla materia, che Platone ne ha dedotto, è la forma più conseguente di questo concetto (2). Le dimostrazioni dell’immortalità sono, é vero, sofistiche; ma quelle dell'esi- stenza delle Idee non lo sono altrettanto? e d'altrondl'argomento del JFetìro e quello fondato sulla reminiscenza non sono dei semplici sofismi artificiali, e V ultimo del Fedone accenna al processo logico (quantunque il più delle volte incosciente) per cui si passa dal dualismo all'idea dell'immortalità. Il carattere rigoroso di certi concetti che Platone sembra essere stato il primo ad ammettere. Tale é, oltre quello dell' eternità dell'anima, quello di Dio come causa pi ima, che è uno svi- luppo flell'idca che V'anin a è il p-ncipio motore, al- trettanto rigoroso che Taltro dt-l dualismo tra anima e corpo. 3^ La coerenza fra tutte le parti della dottrina. Questa non consiste so'amente nell'assenza d' incompa- tibilità delle une con le alt e, ma nella loro solidarietà, Cfr. n. T. e. 280 p. 2„ e cap. II. § 2-4. (2) Cfr. n. I, e. 274-276. (3) Cfr. n. I, e. 277-278 p. 1" e 270. Oi'r. u. I, e. 281. a nella conseguenza con cui tutte si sviluppano a partire da un primo principio. Data la sostanzialità de'l' anima, ne vengono naturalmente, se non tutte con neces-'ità logica, ques'e conseguenze : che essa è estesa, che si muove e muove il corpo per il proprio movimento (am- messo che essa è la forza motrice), che questo proprio movimento è continuo, che occupa nel corpo una posi- zione determinata, che è divisa in più parti separate (data una certa ipotesi fisiologica), che è immortale ed è eterna, che è radicalmente distinta dalla materia, ecc. La metempsicosi, quantunque non sia una con- seguenza dell'eternità dell'anima, è la maniera più na- turale di concepire la sua sopravvivenza e preesistenza, perchè assegna all'anima per tutta la sua durata la fun- zione di principio di vita, j er cui essa è stata imma- ginata (2). In quanto all'intuizione delle Idee in un'e- sistenza anteriore e alla reminiscenza, abbiamo osser- vato che, tra le ipotesi per ispiegare la coincidenza tra il pensici o e la realtà, l'unica compatibile con le Idee platoniche era l'intuizione razionale, e che vi erano dei motivi per pi eferire all'intuizione in questa vita stessa quella in una vita anteriore (3). Il dualismo tra anima e corpo si riflette in quello tra Dio e il mondo. Di più con la stessa conseguenza con cui sviluppa il dualismo antropologico, spingendolo alla dottrina dell'immortalità, Platone sviluppa anche il dualismo teologico, che in lui è radicale (cioè è un dualismo nel senso stretto), la con- ci) V. n. I, e. V. agosto Supplem. n. I, e. 279, o Sappi. C. i »i vertibilità reciproca tra la sostanza deiranima cosmica e le sostanze materiali, che troviamo nfi panteisti an- tichi, essendo altrettanto incompatibile, che la mortalità deiranima individuale, col principio stesso del dualismo, cioè r impossibilità che il cosciente venga dall' inco- sciente e, viceversa, questo da quello. Una conseguenza di questo dualismo teologico radicale è pure il concetto di Dio come causa prima, V idea di causa prima non potendo aver luogo nella forma antica del pantei- smo (i). 4^ L'assiomaticità che il principio fondamentale di tutta la dottrina, cioè il di alisnro tra T anima e il corpo, doveva avere agli occhi di un contemporaneo di Platone. Non solo esso è un risultato immediato dei sofismi a priori del noatio spirito, ma è ammesso quasi senza recezione (oltre che dalla credenza popolare) da tutti i fitosofi anteriori e da tutti i pensatori antichi in generale (2Ì Tutti questi caratteri delle dottrine pla- toniche suiranima (a cui dobbiamo aggiungere la co- stanza con cui sono insegnate dall'autore) costituiscono altrettante prove intrinseche della loro veridicità: vedendovi delle finzioni, ci metteremmo in contraddizione coi più semplici canoni della logica dell'ipotesi, perchè invocheremmo una causa ipotetica per ispiegare un fatto che si spiega abbastanza per le cause che sappiamo cer- tamente efsere esistite (cioè i sofismi naturali del nostro spirito e il genio eminentemente metafisico di Platone), e di più questa causa ipotetica sarebbe insufficiente a spiegare l'effetto, pcichè una semplice finzione non da- rebbe luogo a un sistema di concetti, in cui troviamo tutta quella solidità che può trovarsi in una costruzione metafisica. Ma si pretende che l'immortalità dell'anima è incompatibile con la dottrina fondamentale di Platone, cioè quella delle Idee. Platone, si dice, non avrebbe potuto ammettere l'eternità delle anime individuai', che facendo di esse altrettante Idee: per lui infatti l'eterno non è che l'universale; i su'^i principii non sono individuali, come nell'atomismo o nel sistema delle monadi; nel suo sistema l'elemento essenziale del mondo è 1' universale, e rindividuo è l'elemento accidentale, e non può avere, per conseguenza, che un'esistenza transitoria. E il solo argomento contro l'immortalità platonica che abbia qualche speciosità, perchè Platone in effetto mette più volte in opposizionfì ciò che è sempre^ cioè le Idei», e ciò che nasce e perisce^ cioè le cose individuali, donde è facile di concludere che ogni cosa individuale per lui deve essere soggetta alla nascita e alla morte. Non bisogna però accordare al Teichmùller, come hanno fatto alcuni critici, pur non accettando la sua conclusione contro l'immortalità, che questa è in contraddizione coi principii stessi del sistema delle Idee : la contraddizione non è che con certe formule di cui Platone si serve per mettere in contrasto le Idee e le cose per uoa delle loro diflerenze più ovvie ben inteso, se queste formule si j rendono in un senso assolutamcMte rigoroso L'eternità delle Idee e la peribilità degl' individui non sono per Platone una conseguenza del principio che ciò che vi ha di sostanziale nel mondo deve essere eterno e ciò che F^« vi ha di accidentale peribile. Tanto Tuna quanto Taltra non sono per lui che un risultato deiresperienza : questa ci mostra che le specie sono stabili, mentre grindividui nascono e periscono; per questa tendenza innata del no- stro spirito alle generalizzazioni eccessive, che è secondo Bain una conseguenza deirattività inerente air organismo, egli ne conclude, come sembra il più naturale prima delle scoverte della scienza moderna, che questa stabilità è assoluta, cioè che i-sse sono eterne ed immu- tabili, proposizione la cui traduzione in linguaggio reali- sta è che le Idee esistono sempre e sono sempre le stesse. Questa deduzione dairesperienza non può escludere che egli concluda, per altre deduzioni, che vi hanno, oltre alle Idee, altre cose eterne (benché non potrebbe dire aache di queste che .sono sempre, perchè ogni esistenza individuale non sì classa per lui neiressere, msmeìdiveìiire). Ma che le stesse formule che sembrano in contraddizione con l'eternità dell' anima non devono prendersi in un senso a^^solutamente rigoroso, si vede da ciò, che in que- sto caso esse sarebbero anche in contraddizione con se stesse, perchè negherebbero implicitamente 1' eternità delle stesse Idee : se intatti ogni esistenza individuale, senza eccezione, è soggetta alla nascita e alla morte, anche la terra, gli astri e il cielo, che Platone considera come un individuo vivente, saranno soggetti alla nascita e alla morte, ciò che è la negazione dell' eternità del- l'ordine attuale del mondo, di cui l'eternità delle Idee è l'espressione metatisica. In molti casi, per altro, in cui Platone sembra opporre le Idee eterne e gl'individui che Bain Logico nascono e periscono, non abbiamo a'cuna ragione di vedere altra cosa che l'opposizione solita tra V essei^e e il divenire dfi cui non si potrebbe niente concludere contro l'immortalità dell'anima, poiché il divenire con- tinuo delle cose non è più incompatibile con epsa che con la persistenza, anche per un sol giorno, di qualsiasi oggetto individuale— L'espressione xò ov àsf (ciò che è sem- pre) Olà ovxa dsC (le cose che sono sempre), per designare le Idee, non implicano necessariamente che le cose opposte alle Idee, cioè le individuali, hanno tutte una durata limitata, perchè di quelle aventi una durata illimitata Platone non direbbe che sono sempre, ma che sempre divengono. Nella più jrarte dei casi (p. e. quando è opposto a 6v l'essere, ily-Tvófievov equivale evidentemente alla Yévsais (il divenire — che indica in Platone il complesso delle cofc fenomeniche, perchè sog- gette a un divenire continuo) (3), e nei dobbiamo tra- durre, non ciò che nasce, ma semplicemente cib che di- viene (cioè con un' espressione più vaga, non signifl- cante che il cangiamento continuo a cui, secondo Era- clito e secondo Platone, le cose sono sottoposte). Quando a '^^•^^ò\iVio^ Platone aggiunge xat àTioXXOjisvov (e che peri- sce), non è necessario ch'egli pensi perciò ad altro che alla dottrina stessa del divenire, perchè, se è vero, come dice Eraclito, che tutto scorre, come un fiume, e niente permane, sarà vero, non solo che tutto continua- ci) V. Tim. 27 d, 37a, 50c, 51a,59c, Fedo., Conr, 211a, FU. 59a, Rep. . Come nel Tim. 28a e neUa Rcp, 518c e 521 d. V- Sof. e, Rep. Tim. 38a, 52d, ecc. Tim. 28a, 52a, Rep. FU. 15a, Conv. V. anche Rep. 485b, Coar. 211a, FU. 15b. % > I mente diviene, ma anche che tutto continnamente peri- sce, resistenza degli oggetti che noi chiamiamo durevoli, risolvendosi in una successione di stati differenti, di cui cia- scuno sparisce appena che è apparso, cerne le onde del fiume, a cui le cose si paragonano (1). Ma in quei casi stessi in cui per ciò che é sempre dobbiamo intendere semplicemente quello che ha una durata illimitata (fa- cendo astrazione dall' esenzione da qualsiasi divenire implicata nella parola è), e per c^ò che diviene e ciò che perisce quello che, pur avendo una certa permanenza, incomincia ad esistere e finisce di es'stero (2), basta, per ispiegare come questa opposi/Jone possa rappresen- tare per Piattine quella tra le Idee eie crseiudiviluali, che la nascita e la morte sia in queste la regola, e Te- senzione dall'una e dall'altra l'eccezione. Anche Aristo- tile, quando parla delle dottrine platoniche, chiama le cose individuali i corruttibiU (cpOapid), e 1^ oppone, come tali, alle cose eterne, cioè alle Idee; ma ciò non gli [ È a questa decomposizione delle cose in una saccessione di fenomeni fuggitivi, che Platone sembra alludere, quando dice (nel Sofista 246bc) che gli amici delle Idee dividono gli esseri, am- messi dai Fisici, in minime parli (xaià Ojiixpà StaGpa'JOVTS^), chiamandoli non essenza ma una certa genesi fluente n* Come si Vide dall'opposizione tra l'essere e il divenire^ Plalone si serve della dottrina di Eraclito per negare alle cose individuali una vera realtà. Per conseguenza egli deve preferire di presentarle sotto un aspetto in cui sembrino prive di qualsiasi sostanzialità, e quindi di qualsiasi permanenza, la sostanza nelle cose essendo appunto il permanente. Come, p. e., nel Conv, 211a-b e nel FU, 15a-b e J6c. ^3) V. Mei, ecc. impedisce di domandare ai platonici in che le Idee gio- vino sia ai sensibili eterni bia a quelli che nascono e periscono, e di affermare, al comìnciamento della sua esposizione del sistema di Platone, che questi ha fatto unldea di tutto ciò che vi ha di uno nei molti tanto nelle cose di qui (cioè le terrestri) quanto nelle eterne (cioè le celesti) (2). Con lo stesso dritto con cui il se- g'uace delTinterpretazione hegeliana può, con una certa apparenza di rigore logico, fondandosi su certe locu- zioni di Platone, concludere che l'anima per lui è mor- tale, altri potrebbe concludere, fondandosi su altre lo- cuzioni, che essa si vede o si tocca o si percepisce per qualche altro dei nostrt sensi. Infatti allo stesso modo che do che é sempre e ciò che nasce e perisce^ egli op- pone anche, e non meno frequentemente, Y intelligibile, e il sensibile: ora in quest'opposizione VinteUigibile non è evidentemente che l'Idea; dunque, si concluderà, l'a- nima, non essendo un'Idea, non può essere per Platone che qualche cosa di sensibile. Il vero motivo per cui si nega la sincerità della dot- trina di Platone dell'immortalità dell' anima, è che si 'i Met, i. I. IX. 6. Met. 1. I. IX. 1. (3) V, Ttm, 28a, 37b-c, 38a, 48e-49a, 51a-b,c, d, 52a, Sof, 248a, Fedro 249b-c, Fedo, 75e-76e, 79a-c, 83a-b, 99e, Rep, 507b, ecc. V. anche Arist. Met., eco. Per l'accordo e il legame della dottrina dell' anima in ge- nerale con quella delle Idee rimandiamo a ciò che abbiamo detto nel n. I, carte 285-287, Ivi noi parliamo della dottrina dell' anima cosmica; ma questa è legata strettamente con quella dell'anima individuale. vuol trovare nel ncstro filosofo quella di Hegel dellM- dentità del pensiero col suo oggetto. Questa dottrina sa- rebbe incompatibile con quelle della reminiscenza e del- rintuizione delle Idee in una vita anteriore, ed <ssesu]>- pongono l'immorialità dell'anioìa: inoltre, non riuscendosi a trovarla, nelle opere platoniche, esposta in una forma puramente filosofica, si cerca di vedervela involta in niUi e in allegorie, quali sarebbero Timmortalità delT anima e quelle due altre dottrine che la suppongono. Ma non solo la dottrina hegeliana non si trova, in Platone, e- sposta in una forma filosofica, ma vi t^ì trova invece la dottrina contraria, cioè il punto di vÌKta ordinario, se- condo cui il pensiero e le cose crstituiscono una dua- lità irriduttibile di termini radicalmente differenti e ir- reconciliabilmente opposti. La dottrina che il pet siero, nella cono3cenza filoso- fica, s'ident'fica col suo oggetto, implica quella che le Idee sono pensieri. Se le Idee non foFsero pensieri per se stesse, esse non potrebbero divenire pensieri nostri, quan- do entrano nella sft^ra della nostra conoscenza. Ma le Idee dì Platone, a diflereLza di quelle di Hegel, sono delle entità puramtnte obbiettive. Esse non sono che le cose stesse, considerate nel loro elemento sostanz'ale, cioè spogliate di tutto ciò che Platone riguarda, nell'es- sere, come accidentale L'Idea d'una cosa è Vessevza di questa cosa (t), e le Idee in generale sono anche chia- mate gli esseri e le cose (2). Il movimento, lo stato, l'es- sere, ecc. significa l'Idea del movimento, dello stato, deirc«sere, ecc.; le entità d^^l Tispa? e dell'àTtstpov del FiYefto— elementi delle Idee euniversali sostantificati come le Idee stesse sono le une il più caldo e il più freddo, il più secco e il più umido, il forte e il piano, il (/rate e Vacuto, ecc., le altre Veguale, il doppio, ecc., e le cose risultano dalla loro mescolanza; la Beltà che l'anima ha intuito, quando era in compagnia degli Dei, è questa stessa beltà che ora percepiamo con la vista; ridea del bene è identificata con la felicità de- pli esseri viventi (4), e chiamata V ottimo negli esseri e il più felice dell'essere (5). Certamente le Idee non sono )e cose che trasfigurate; ma i processi per trasformare le cose in Idee le lasciano, quali erano, dei semplici og- getti, non ne fanno dei pensieri. Il primo di que- sti processi è l'astrazione. L'Idea dell'uomo è un uomo astratto o indeterminato, cioè avente gli attri- buti comuni a tutta la specie, ma senza le parti- colarità proprie di uno o di alcuni individui. Per attenere quest' Idea basta perciò di separare (xw- pCCetv) (6) in un uomo ciò che è comune con tutti gli altri uomini da ciò che non lo è : il risultato di questa separazione si chiamerà V ì/owo, senz' altro, o, per far comprendere che ron si tratta di un uomo determinato, ma dell' uomo indeterminato o astratto, l'uomo stesso (aOic^), l'uomo st(^so p(r se stesso (aOxòg xaG'auTÓv), ciò che è (ò san) uomo, l'uomo separabile (xw- ptoTÓ?), ecc. Il nome uomo (o ‘shaggy’) designa propriamente quest'uomo astratto, ed è esso il vero oggetto della defini- [V. carte 12 o U8149. (2) V. e. 100. (1) V. o. 13 e 100. (2) V. e. 97-100. (3) V. e. 144. (4) V, e. 91-96. (5) V. o. 87, p. 2.* (C) V. carte 75-78. :i! zione deiruomo; il nome e la definizione non s’applicano acrll nomini individui, che perchè sono delle parti- colarizzazioni o delle determinazioni dell'uomo indeter- minato. L'Idra non è dunque che un astratto (cioè, come dice il Taine, un estratto, una porzione, di un oo-get^o concreto), considerato come esistente per se stesso : essa non è propriamente, come suo! dirsi, il concetto, ma l'oggetto del concetto, realizzato; il suo contenuto è quello stesso del concetto, ma questo contenuto che nel concetto esiste sotto la forma del pensiero, in essa esiste sotto quella della realtà, dell'obbiettività. É perchè le Idee platoniche sono l'obbiettivazione dell’astrazioni, cioè dei contenuti dei concetti, e niente di più, che Pla- tone 4)uò esprimere compendiosamente la sua dottrina, affermando che l'astratto è reale (p. e., come dice nel Fedone, che il giusto, il buono, il bello è qualche cosa, o, come dice nel Tmeo, che gli sI5r^ intelligibili delle cose esistono realmente e non sono dei semplici nomi) (1). L'altro processo per trasformare le cose in Idee è la ge- neralizzazione. L'Idea dell'uomo non è solamente 1' uo- mo astratto, ma è anche l'uomo universale, e la sua antitesi è qualche VLomo,e^\ molti uomini singolari. Per noi d’universale, come d’astratto, non vi hanno che dei nomi, e per il concettualista, che dei pensieri; ma gl’universali di Platone sono degl’universali in re, e semplicemente in re. Sono le specie e i generi, ciò a cui si applica la dieresi; e il contrario e il letto Idee, in opposizione ai contrari e ai letti particolari, V. Supph B parte I n. II, e ofr. n. III. e IV. (2) V. o. 148. (3) V, e. 29. (4) V. Sappi. B n. I e VII. (.5) V. n, IV (parte I). I i vengono chiamati il contrarioeil letto nella natura (1). Cia- scuno di questi universali essendo, non la totalità degli individui d'una classa, ma una sostanza unica che rap- presenta questa totalità, il processo di generalizzazione per cui dalle cose si giunge alle Idee, è un processo di unificazione. 'Esso si chiama o'jvaYWYi^, cioè riunione, riduzione del multiplo all'uno ('i); e consiste a sostituire, per eia -cuoa classe, un individuo unico alla moltitudine degl'individui offerti dall'esperienza, riguardandolo come la vera realtà, di cui questi sono il fenomeno, É quanto basta per ottenere l'Idea platonica ben inteso che que- sto proces-o di unificazione suppone già quello di astraz'one, cioè la elim'na zione di tutte le particolarità che difft*renziano il multiplo : cosi, per esprimere la dottrinai delle Idee, Platone dice : uno è il bello, uno é il giusto, ecc. (3); o dopo aver detto che vi hanno molti belli, molli buoni, ecc. che ciò che si è posto come molti sì deve porre nuovamente come uno (il bello stesso, il buono stesso, ecc. Questo è dunque Tldea plato- nica, considerata in se stessa : un individuo astratto, a cui si riduce la moltitudine degl'individui di ciascuna class**, e per rappresentarsi il quale si fa astrazione da tutto ciò che non è comune a tutti gl'individui. Per completare la dottrina, non si ha che ad aggiungere la relazione tra quest'individuo astratto e grindividui con- creti (cioè ad aggiungerla espressament-?, perchè essa è data. implicitamente nella a'jvaYWYvi). Questa relazione \ ; (1) V. carte Il *n- ;3io ^ è espressa coni pendi osaraen te nella formula /* uno nei molti (I), e de3ignata dai termini temici Tiapojjia e ni- Osgt^ . L'Idea è il comune (3), ciò eh», si p-edica di tutti i singohnri ( ome uno e io stesso in lutti, ciò per la cui presfTìca o parfecipazione le erse sono ciò che si dicono essrre (belli per la presenza o partecipazione dell'Idea del bello, uomini, dell'Idea dell'uomo, ecc.) (5), e che (per questa sua presenza o partecipazione in co. mune) ò la causa agli oggetti simili dell'esser simili (G). La grandezza che è in tutti gli oggetti grandi, la bellezza che è in tutti gli oggetti belli, ecc., è una sola e stessa grandezza, una sola e stessa bellezza, ecc., e qufste sono le Idee del grande, del bePo, ecc.; l'Idea della fi- gura è la figura che é la stesf^a in tutte le figure; 1' I' dea del simulacro è il simulacro unico che è in tutti i simulacri; ecc. Tutte queste proposizioni e le altre simili non dicono in sostanza se non che l' astratto 6 uno di numero; che gli astratti, che si possono isolare nei diversi individui d'una classe, per la soppressione dei caratteri particolari e la conservazione dei soli at- tributi generali, non sono semplicemente eguali, ma identici; che non sono molti e d'stinti fra di loro, ma si risolvono in un essere unico, in un solo individuo astratto, che si ritrova, uno e lo stesso, in tutti gl'indi- vidui concreti. Noi possiamo dunque cosi definire l' I- (1) V. o. 32. (2) V. Sappi. B n. VI. V. o. 148. (4) V. o. 18. V. Suppl. B p. l» n. VI. V. carta 32. V. e. 31^5. dea platonica : un individuo astratto (cioè non avente che i carattrri generali della classe), che è presente si- multaneamente in tutti gl'individui, e (he, per questa sua presenza simultarea in molt», pare molti esso stesso, benché in realtà non sia che uno. Quando i due processi per trasformare le cose in Idee si applicano alle cose considerate nella loro successione, si ha la determina- zione dell'Idea come ciò che vi ha di costante e di per- petuo nella natura. Com le Idee sono descritte come db" gli oggetti eterni e immutabili, e opposte alle cose che nascono e periscono, e non sono mai ma continuamente divengono. Ciò vuol dire che l'Idea è l'elemento permanente del divenire, che nel tìu^so continuo dei fe- nomeni le Specie sono stabili, che 1' individuo astratto si ritrova, sempre uno e lo stesso, nella suc'*-essione de- gl* individui concreti (2); e a questo punto di vista la dottrina delle Idee è espressa dalla propos'zione che la forma di ciascuno degli esseri (cioè di ciascuna specie di esseri) é sempre fa stessa {eadem nnmero) (3). Se si fa astrazione dalla loro inerenza nelle cose, si ha il con- cetto delle Idee come paradigmi (4), cioè come modelli a cui la natura si conforma costantemente nelle sue pro- duzioni. E l'aspjtto, jl pili appariscente, della dottrina delle Idee, a cui si ferma l'interprete trascendentalista, ed é co^l che sovratutto sono presentate da Aristotile. Ma che le Idee siano dei semplici oggetti, è altrettanto evidente quando si tiene conto della loro immanenza (l> V. e. 108-109 e 117. (2) V. Suppl. B, n. X (3) V. e. lOi» nota 2. V. e. 126. .li i I' i i. J, vii ;•'! % nelle cose che quando se ne fa astrazione : nel primo caso sono un elemento delle cose (1), o piuttosto le cose stesse considerate astrattamente; nel secondo, ne sono i duplicati. Secondo Aristotile, le Idee non difl*eriscono dalle cose che per la loro eternità (2); sono dei sensibili eterni, come gli dei del volgare sono degli uomini e- terni (3). La loro essenza non differis^ie da quella delle cose; nelle une e ntlle altre il concetto è uno e lo stesso (4). Le fanno {\ platonici) della stessa spec'e che 1 sensibili; non fanno che agrgiurgere la parola aùxó (5). Cosi, per significare che i platonici non ammettono una Idea della casa, Aristotile d cft che non vi ha, secondo essi, una casa oltre (Tiapa) le case part colavi (6); e ob- bietta che, secondo i loro principii, si dovrà ammettere un terzo uomo (oltre 1' uomo sensibile e 1' uomo idea- le), e che, come vi hanno delle entità intermediarie per le grandezze e pei numeri, vi sarà un altro cielo oltre il cielo sensibile e altri animali medi fra gli an'- (1) Le Idee dei generi, e specialmente dei ilue generi supremi (l'Uno e la Dualità indefinita), sono chiamate elementi deijH esseri. V. e. 88-91. (2) V. Met. Un altro carattere ditìerenziale è l'immobilità : cosi, secondo il primo luogo citato, le entità matematiche differiscono dai sensibili perchè eterne ed inamobìli (come le Idaeì, dall3 liee perchè ve ne hanno molte della stessa spacie. Ma probabilmente Aristotile ri- guarda l'immobilità come data implicitamente nell'eternità (perchè la eternità delle Idee platoniche è l'assenza della condizione del tempo). (3) L. 111. II. 16. Met, Elh, yic, Met. mali stessi e gli animali conuttibili (1). Nel periodo pì- tagoreggfaijte si rggiun^e una nuova astrazione a quella per cui si ottiene il concetto geneia'e (o piuttosto il con tenuto dì questo conci tto); si sopprime, cioè, la materia, - e si fa dell'Idra ULa semplice foima. Questo ler^o pro- cesso por ottenerli l'Idea ci mostra d' ima maniera an- cora più evidette ch'essa non è che un' cniità pura- mente obbiettiva. La forma infatti non etiste altrove . ci e mila materia; e in effetto noi sappiamo dal Timeo e da Aristotile che ciò che partecipa DJle Idee è la ma- teria, che es.'-a è il loro substratum o il soggetto di cui si pi edicano, e che l'individuo è un composto della ma- teria e de'l'Idea (2); e siccome la materia per Platine è identica allo spaz'o. Ariste tile ne inferisce anche che le Idee ('ovrrbbiro essrre nello spaz'o (3). Senza dubbio, ^e Platone ammettesse la dottrina de l'identità d« D'essere e del pensiero, nonj-olo le Idee, ma anche le cose fnirmeDali dovrtbbeio essere per lui dei pensieri. E nllora, astraendo il comune dalle cose, unificandolo, contemplando queste cose sub specie aeter- nitatis (secondo il concetto d' Aristotile che le Idee sono dei srnsib li eterni), f-eparando le loro forme dalla materia, siccome le cose sarebbero anche dei pensieri, se ne tirerebbero, non dei semplici oi»'^ett% ma degli oggetti che sarebbero al trmpo stesso dei pensieri. Ma i^xcome Platone noi dice mai che le cose sono anche dei pensieri, e gli uomini pensano generalmente che non sono che delie cose, noi dobbiamo ammettere ch'e- (1) Met. l. III. II. 17-22 e l. Xlll.. II. 7-8. (2) V. e. 132, 141, 149-150. (3) V. e. 155. - m i - a2o - gli divide, su questo soggetto, il punto di vista comune; e perciò che Tldea platonica, tirata dalle cose mediante i processi che abbiamo indicati, non è un oggetto che é al tempo stesso un jensiero, ma un semplice oggetto, che non si distingue dagli ultii, quali gli uomini abi- tualmente se li rappresentano, che perchè è astratto, unico nella sua specie, (terno, e una semplice forma senza materia. Altre prove della semplice obbiettività delle Idee si avranno, esaminando le determinazioni che loro ven- gono attribuite per se stesse, o anche nel loro rapporto con le cose, ma indipendentemente dal processo per cui il loro concetto è ricavato da quello delle cose. Le Idee sono per Platone l'essere o gli €ss£ri (I), e Aristotile le chiama continuamente sostanze (2ì. Questa sostanzialità si vede altrettanto dagli attributi delle sostanze sensibili che vengono loro negati (p. e. quando Platone le chia- ma «l'essenza senza colore, senza figura, impalpabi- le » (3), o quando Aristotile e gli amici delle Idee del 6b/is^a pretendono che sono assolutamenteimmobilì e prive della facoltà di agire e di patire (4)), che da quelli che vengono loro conservati (p. e. quando Platone afferma, V. e. liMMOl. (2) V. Met. ecc. Nel 1. XIV. l. l e IV. 4 e altrove le chiama le soi^lanze immobili; e nel l. 111. VI. 5, 1. VII, Xlll. 8—10 e altrove obbietta che, nell'ipotesi delle Idee, in una sostanza vi saranno più sostanze (perchè una cosa o un'Idea partecipa a più Idee) Fedro 247 e. (.4) V. e. 110-120. contro rinterpretazione degli amici delle Idee, che res- sero vero pensa, vive, ha un'anima e si muove) (1). Essa si vede pure dal loro rapporto con le cose : le Idee sono la realtà, e le cose le immagini e le apparenze (2); eia parusia è assimilata alla presenza di una sostanza ma- teriale in un'altra (3). Nel periodo pitagoreggiante le Idee sono identificate ai numeri— che certamente sono degli oggetti, per quanto V antitesi tra soggetto ed oggetto può applicarsi a delle astrazioni (4) — ; e composte di forma e di materia come le cose. Insieme a queste determinazioni e ale altre che ci mostrano le Idee come semplici oggetti, non ne incontriamo alcuna che ce le mostri erme pensifri. Cosi, siccome al punto di vista comune— che d'altronde è il solo intelligibile— l'essere un oggetto è incompatihile con l'essere un pensiero, non trovando mai in Platone una propos'zione che, in un caso particolare o come principio generale, escluda questa incompatibilità, noi dobbiamo ammettere ch'essa esiste anche per lui, e vedere nelle determ'nazioni delle Idee come degli oggrtn la negazione implcita della dottrina che soùo dei pensieri. Noi non possiamo immaginare altra prova più completa delle precedenti che una proposizione in cui Platone ne- gasse espressamente la dottrina del 'identità dell'essere e del pensiero. E ciò che egli avrebb3 certamente fatto, V. o. (3) V. e. 65 e 70-71. (4) E d'altronde questi numeri a cui s'identificano le Idee, sono essi stessi identificati ai punti che sono i termini delle grandezze, e considerati come gli elementi costitutivi di queste. V. carte, V. Supplem. C. n. II. il. I Fé fosFe venuto dopo Hegel. Ma siccome Platone, e chic- chessia alla sua epoca, ignorava che, fra le pseudo-idee che avrebbero immaginato ì roet fìs'ci, vi sarebbe stata l'identità dell'essere e del pensiero, sarebbe assurdo di cercare in lui questa prova assolutamente completa. E non per tanto noi trovian^o nel l'nrmevide qunìche cosa che vi si avvicina. E la confutazione del'a proposizione di Socrate, quando questi, battuto dalle obbiezioni del filosofo eleate contro la partecipazione, abbandona la realtà degli universali, e fa la supposizione che le specie non sono che dei pensieri, e vov possono esistere altrove che nelle anime^ qw ste parole dinirstrano che la suppo- sizione di Socrate non è l'identità dell'essere e del pen- siero, ma semplicemente il concettualismo. Che dun- que?, dice Parmenide, ciascuno diqnesti pensieri è uno, ma è il pensiero di niente? Ciò èimpossibile È il pensiero di qualche cosa?~Si- Di qualche cosa che esiste o che non esiste ?— Che esiste— Nim è di qualche cosa di uno, che questo pensiero pensa in tutti gli oggetti, come una certa forma reale? Si. E non sarà una Specie questa qualche cesa che si pensa essere una, essendo sempre la stessa in tutti gli oggetti ? Anche questo sembra necessario Ma che? non ò necessario, poiché le altre cose partocipflno alle Specie, o che ogni cosa consti di pensieri e tutto pensi, o che le cose non pen- sino essendo dei pensieri ? » In questo luogo abbiamo la proFOs'zione che le cose sono dei pensieri (o, ciò che è lo stesso, constano di pensieri) presentata come una assurdità, perchè implicante o che tutte le cose pen- sino, o che non pensino mentre sono dei pensieri; e considerata pure come assurda, perchè conducente a que- sta proj^osizioiio, quella— non formulata esplicitamente, ma sottii'tesa nel ragionamento di VELIA (vedasi) che le Specie, essendo dei pensieri, sono al tempo stesso Vuno nei molti negli oggetti reali; e quindi anche la supposi- zione di Socrate, da cui essa è dedotta, che le Specie sono dei pensieri. Che fa infatti VELIA (vedasi) ? Dimostra a Socrate che la proposizione che i concettualisti oppongono alla teoria delle Idee, cioè che esse sono dei pensieri siccome un pen^iero generale ha per oggetto (secondo la mai'iera di argomentare abituale a Platone) un essere generale implica, quantunque il concettuali- sta non lo comprenda, che questi pensieri, a cui egli pretende ridurre gli universali, devono essere al tempo stesso degli uui\en-aU in re; donde la conseguenza assurda che tutto il reale si rihclve in ponsier', e quindi ciò che mostra più palpabilmente la sua assurdità- che le cose o pensano, o sono prive del pensiero essendo pensieri. L'interprete che attribuisce a Platone l'identità dell'essere e del pensiero, alla prova schiacciante contro la sua intf rpretaz one contenuta in questo luogo del VELIA (vedasi), non potrebbe dare che una risposta : cioè che in questo dialogo Platone (o meglio, l'interlocutore che rappresenta il suo pensiero, cioè VELIA (vedasi)) mostra che l'ipotesi delle Idee e tutte le supposizioni che pos- sono farsi sul rapporto tra le Idee e le cose, fra cui quella che l'Idea è Vuno nei molti eh' egli ammette in lutti i suoi scritti, conducono (o sembrano condurre) a del'e conseguenze assurde, e non pertanto egli mantiene tanto la dottrina delle Idee quando quella che un' Idea è presente simultanean ente, una e la tt'ssa, in tutti gli individui della specie; così egli potrebbe mantenere anche la dottrina deiridentità dell'essere e del pensiero, quan- tunque mostri che anche da questa derivano (o piuttosto sembrano derivare; delle assurdità. Ma vi ha fra i due casi una difTcìei za imfortai te. Kr i dobbiamo guardarci dal credere che le obbiezioni di Parmeuide contro le Idee abbiano per Platone lo ^tPF.'-o valore logico che vi troviamo noi stessi. L' obbiezioi e contro la partecipazione, per noi, è perfettamente concludente, mentre quella del luogo di cui ora parliamo, contro la proposizione concettualista di Socrate, è patentemente sofistica, perchè le assurdità che si pretende far derivare da questa pioposizione, non ne derivano che ammassa la validità dei soliti argomenti di Platone per dimostrare resistenza delle Idee. Ma hi\\ va loie di queste due ob- biezioni Platone doveva penseie precisamente il con- trario di nei. La prima, come tutie le altre dirette con- tro le Idee concepite secondo il sistema realista (meno forse quella di l82d-13aa, che sembra dirigere contro l'interpretazione traila tìdcniolisia della sua dottrina), doveva parere a Platone necessariamente sofistica, poi- ché egli mant'ene, malgrado essa, il suo realismo— senza dubbio egli doveva considerarla come fondata sovra una concezione inesatta delle Idee e del lorcf rapporto con le cose, per cui si pretendeva, avrebbe forse detto come Car- tesio, « immaginare ciò che non si può se non inten- dere ; la seconda invece doveva parergli Tunica fra tutte (meno forse Teccezone di cui sopra) che fosse concludente, poiché .l'impiegava, come l’arma più forte di cui potesse avvalersi, e ntro la negazione dei suoi oppositori, cioè il concettualismo. L'assurdo a cui Par- menide riduce la suppoaizione di Socrate, era dunque per Platone realmente un asmrdò; e il seguace dell'in, terpretazione hegelia la gli attribuisce una dottrina ch'e- gli ha condannata, nel modo più esplicito possibile in cui un filosofo possa condannare una dottrina che gli è sconosciuta. Ven^'amo ora al pun*^o che è direttament*^ in qui- s'ione, cioè alla dottrina, non dell'identità dell'essere e del pensiero, ma delT identità dell' essere e del no- afro pensiero, delToggefo conosciuto (le Idee) e della conoscenza. Quand'anche il seguace dell'interpretazione hegeliana potesse provare che Platone ha ammesso la prima dottrina, egli non proverebbe ancora che ha am- masso la seconia : al contrario, provando che non ha ammesso quella, si è provato pure che non ha ammesso questa, essendo evidente, come abbiamo noUtf>j che se le- Idee non sono per se steste dei pensieri, non possono divenire dei nostri pensieri. Ma alle prove precedenti che, dimostrando che le Idee non sono per Platone che dei semplici oggetti, dimostrano pure indirettamente che per lui non può esservi identità fra la conoscenza e l'oggetto conosciuto, noi possiamo aggiungere delle prò. ve dirette. Vi ha prima di tutto la prova negativa, cioè l'assenza di proposizioni in cui Platone affermi aperta- mente quest'identità; e a questo riguardo sono notevoli 1 luoghi in cui parla dei caratteri che distinguono la scienza dall'opinione (1), poiché quest' ident tà, se T a-vesse ammessa, sarebbe stata certamente uno di questi caratteri, la presenza immediata dell'oggetto al soggetto conoscente essendo necessariamente per lo spirito uma- V. Sappi. B cario 3é-35. V. e. 33 in not». V. specialmente Meno. e Tim. . no il t^po supremo della certezza. Tra le prove positive daremo il primo posto ai luoghi numerosi in cui Pla- tone riguarda evidentemente (come farebbe chiunque altro tranne un h'^geliano) la conoscenza e Toggetto co- nosciuto come due cose affatto distinte e separate. Io citerò quelli che mi sembrano più importanti. Sulla fine del Cratilo dice .*,he, se tutto diviene, il bello siesso, il buono s'esso, ecc. non potranno essere conosciuti da alcuno, perché, mentre la potenza cono- scitiva tenterebbe di a't'ngerli, essi diverrebbero altri (difficoltà che non potrebbe aver luogo nella dotirinadel- ridentiià); e mostra che, neiripotesi di Eraclito, non vi sarà né il conoscente (cioè la conoscenza) né il conosciuto (duo cose distinte). Nel Filebo la distinzione tra la conoscenza e l'oggetto conosciuto è affermata quando dice (2) che T intelligt nza e la saggezza non consi- stono che nelle conoscenze intorno all' essere reale (le Idee — mpi xò ov ovico;), perchè « intorno a ciò che non ha alcuna stabilità (il diveuTe) conne po- trebbe esservi in noi qualche cosa di stabile?», ma «lo stabile, il puro, il vero, il sincero non può aver luogo in noi che intorno a ciò che è sempre nello stesso stato, della stessa maniera e seuz'alcuna mescolanza ». Questa distinzione è affermati pure dove si tratta dei quattro generi in cui gli esseri vengono divisi, poiché V in- telligenza, cioè la causa, è un quarto genere oltre i tre primi, e si dice espressamente (4) ch'essa è altra chele (1) Luogo riportato nel Sappi. C0S3 appartenenti a^li altri tre gcaeri (cioè gli esseri, cose e Idee, e il Tiipa; e Vd^mipo^ che ne sono gli ele- menti. Nella R^pabUica a la scienza e il suo oggetto sono rfg lar lati come due cose diverse e correlative, come la «ctv3 e la bevanda, la fame e il cibo, il maggiore e il minore, il doppio e la mrtA, il più ve- loce e il pili tardo, ecc.; e si nega che la scienza (e in generale un correlativo) sia tale quale è l'oggetto a cui si riferisce, p. e. che la pcienza del salubre e del- l'insalubre sia essa stessa salub e e insalubre, e quella del' buono e del cattivo buona e cattiva (mentre è evi- dente vho, nell'ipotesi dell'identità della conoscenza col suo oggetto, la scienza del salubre, essendo il salubre Ptcsso, non potrebbe non essere salubre, e cosi pure qu^^lla del buono buona, ecc.) Nel Carmide Socrate ob- b etta al suo interlocutore che la scienzi è dì qualche offsretto, che e altro che la scienza stessa, p. e. la lo- gisticà è del pari e dell'impari, che sono altri che la logistica, la statica del grave e del leggiero, che sono altri che la statica; e gli dimostra che non è pos- sibile una scienza che abbia se stessa per oggetto (in- tanto, se la conoscenza fosse identica all'oggetto cono- sciuto, la consegU3nza necessaria sarebbe che la scienza non avrebbe per oggetto che se stessa). La scienza, dice Socrate per dimostrare quest'impossibilità, è relativa a Sappi. B carta 100 n. I, e Sappi. C e 247 p. 2» Luogo riportato, in parte, a caria U in nota. 438 e. (4) 166 a-b. (5) 167 0-J68 e. qualche cosa, come il mag^gìore è relativo al minore, Il doppio alla metà, il più al meno, il più grave al più leggiero, ecc. (proposizione che g'à incontrammo» nel luogo della Repubblica]; cosi una scienza che avrebbe se stessa per oggetto sarebbe come un maggiore che fosse maggiore di se stesso, un doppio che fosee il doppio di se stesso, un p'ù che fosse p'ù che se scesso, ecc., con le conseguenze contraddittorie implicate in cia- scuna di queste ipot si. Essa sarebbe pure, aggiunge Socrate, com^> una vieta che vedrebbe se stessa e come un udito che udrebbe se stesso, ciò che supporrebbe che la vista avrebbe calore e Tudito avrebbe voce (confuta- zione che converrebbe perfettamente alla dottrina dell'i- dentità della conoscenza e deiroggctto conosciuto, per- chè secondo questa la conoscenza racchiuderebbe in se stessa il suo oggetto, come, nelle comparazioni di Platone, Tudito la voce e la vista il colore). Si dirà che il Car- mide non ha uno scopo dogmatico, ma è un semplice esercizo dialetii.-o; ma Platone non direbbe, an» he in un esercizio dialettico, delle pr^^posizioni in contraddizione con le proprie dottrine. Nel Sofista 248 lo straniero e- leate (che in questo dialogo rappresenta le dottrino del- l'autore) stabilisce, contro gli amici delle Specie, che il conoscere è un'azione, e Tesser conosciuto una passione, e per conseguenza un movimento (questo conosciuto che, come tale, subisce una passione e un movimento, è la essenza, cioè le Idee) : ciò importa, primo, la distinzione fa i due termini aniitecici, ra^^eotc, cioè lo spirito che conosce, e il paziente, cioè le Idee che sono conosciute; e secondo, che la conoseanza delle Ileo è uà cangia- mento e ha luogo quindi nel t^mpo, mentre essa, secondo la dottrina che si vorrebbe attribuire a Platone, essendo identica al suo oggetto, dovrebbe essere eterna (cioè fuori del tempo) come quest' oggetto stesso. Nel Teeteto (19lc-196b) i pensieri sono rappresentati come delle effigie degli oggetti su tavolette di cera esistenti nelle anime, e fra queste effigie vi sono quelle del cin- que stesso, del sette stesso, del dodici stesso, e in gene- rale dei numeri astratti (che, secondo i principii di Pla- tone, non possono essere che delle Idee, o almeno delle entità matematiche queste, nel periodo pitagoreggiante, si distinguono dalle Idee, ma non sono in sostanza che Idee come le altre, e non differiscono dalle altre che perchè non se ne fanno dei numeri ideali). Questa rap- presentazione implica evidentemente il concetto che il pensiero, anche quando ha per oggetto le Idee, lungi d'identificarsi con la cosa pensata, ne è una semplice immagine. L'esteriorità delle Idee al nostro pensiero è provata pure dalle espressioni, cosi frequenti sovra tutto nel VII della Repubblica, che nel senso proprio deno- tano la percezione visuale, ma che Platone impiega per designare la conoscenza delle Idee; p. e. vedere il bello in so stesso {Rep. ), rivolgere 1' ott'mo nell' anima allo spettacolo dell'ottimo negli esseri (cioè dell'Idea del bene— jò. 532c), dirigere in su l'occhio dell'anima e guar- dare ciò che dà la luce a tutte le cose (cioè ancora l'I- dea del bene i6. 540a), ecc. Quand' anche queste Rep. Conr. 210e,211b, d, e, 212a, Fedo, 82c, Sof. , Meno, 72o, Crai, d, FU, 16d, Tim. 39e, ecc. espressioni volessero inteadersì come indicanti la pre- senza immediata delle Idee al pensiero (come, secondo la credenza naturale, l'oggetto percepito è presente im- mediatamente aUa percezione sennibile) — dottrina che non possiamo attribuire a Platone che quando si tratta della conoscenza primitiva delle Idee in una vita anteriore, resterebbe sempre la distinzione tra lo spirito conoscente e le Idee conosciute, perchè la percezione sensibile, sia secondo il concetto del volgare sia secondo quello del filosofo, implica la dualità di soggetto ed og- getto come due termini opposti e, al di fuori l'uno del- Taitro. Un'altra prova della distinzione fra il pensiero e la conoscenza deiridea e l'Idea stessei sono gli argo- menti per dimostrare l'esistenza delle Idee, tirati dalla scienza e dal concetto . Questi argomenti suppongono che l'Idea è l'oggetto a cui si riferisce la conoscenza scientifica e il concetto, come le coso particolari sono l'oggetto a cui si riferiscono le coaoscenze e i pensieri part'colari: da ciò che il concetto e la conoscenza scientifica si riferiscono a qualche cosa di astratto e ge.- nerale, se ne conclude che vi hanno delle entità astratte e generali. Se Platone ammettesse che il nostro pensiero s'identifica con le Idee, la sua argomentazione, eviden- temente, dovrebbe essere condotta altrimenti: egli do- vrebbe sovratutto fermare, come base della sua argo- Sappi. B, n. Ili, carte 18-19. Aristotile obbietta ad uno di questi argomenti (sembra, il secondo riportato a carta 18) ch3 secondo e^so vi dovrebbero essere Idee anche delle cose paribili (cioè dagl'in iividui), perchè di que - ste esiste ancora un /anfosma (cioè un'immagine nella nostra mente) dopo che essa sono perite, V. M^t, l. I. IX. 2. mentazìone, il princìpio che il pensiero è identico alPes- sere; stabilito questo principio, dall'esistenza di pensieri astratti e generali che è stata sempre considerata come un fatto di coscienza— ne seguirebbe naturalmente quella di esseri astratti e generali. E noi vediamo infatti in Hesrel che la dottrina che è messa in rilievo non è che l'identità deiressore e del pensiero : la realtà degli uni- versali (quantunque non abbia per lui meno importanza) non è stabilita espressamente, ma data implicitamente in questa dottrina; e a molti parrà forse un paradosso che Hegel sia un realista, Aggiunf»iamo infine che l'i- dentità del nostro pensiero con le Idee sarebbe incom- patibile con certe proposizioni di Platone, quantunque non implichino, come le precedenti, la distinzione tra il pensiero e il suo oggetto. Tali sono: La composizione dell'anima dai due elementi nel Timeo — essa ha per iscopo di spiegare la possibilità della conoscenza (cioè in sostanza la coincidenza tra }( pensiero e la realtà), e sarebbe quindi un'ipotesi completamente inutile data l'i- dentità del pensiero col suo oggetto. Il principio am- messo nel Fedone che l'anima, come ogni altra cosa, non può accogliere in sé le Idee opposte -mentre, nella dottrina dell'identità dell'essere e del pensiero, essa com- prenderebbe necessariamente tutti i contrari— .La dottrina del Timeo e delle Leggi che il pensiero é un nnovimento (e si tratta il più spesso del nous, il cui og- getto sono le Idee) — essa implica che il pensiero, a- [Tim. e cfr. SuppL C, IV, ©arte (2; Fedo. l(»d-J06. V. Suppl. B, carte 46-47. V. questo Suppl., I, e. 275. (4; V. Leggi Tim. Cfr. Arist. De an. veritc per oggetto le Idee, è un semplice fenomeno, die si svolge nel tempo; mentre, nell'ipotesi dell'identità del pensiero con l'essere, il pensiero (il vero pensiero, cioè quello che ha per oggetto le Idee) è un'Idea che com- prende in sé tutte le altre, e, per conseguenza, eterna come le altre. Ricordiamo pure la proposizione del Teeteio che il pensiero è un discorso dell'anima con se stessa— essa è incompatibile con l'identità delTesserc e dt 1 pensiero per la stessa ragione che la dottrina pre- cedente— . Tra le prove contro V identità dell' essese e del pensiero (cioè delnostro pensiero) non contiamo l'intuizione delle Idee in una vita anteriore e la reminiscenza, perchè il seguace dell'intei prefazione hegeliana direbbe che sono dei semplici miti\ che noi prendiamo a torto per dottrine reali. Ora, che cosa può opporre quest'interprete alle prove precedenti ? Nessuna affermazione esplicita di Platone, ma solo delle proposizioni che, interpretate più o meno forzatamente, possono riguardarsi come delle allusioni alla dottrina ch'egli pretende attribuirgli. Cosi il luogo del X della Repubblica^ in cui si dice che per conoscere la vera natura dell'anima bisogna guardare alla suay?- losofia, significherà, secondo lui, che « se si vuol ricono- scere IVsserza dell'anima e sollevarsi dalla sua tempo- ranea e mortale manifestazione, si deve filosofare, poi- ché la filosofia sola ha per oggetto 1' eterno, il mondo ideale, che è identico alla natura dell'anima. Teichmuiler Quistione platonica y Ma Platone non dice che l'essenza dell'anima oonsiste nella filosofia, ma sempUoe- luogo del Timeo, che ci esorta a rendere simile l'in- telligenza air intelligibile, per conseguire il fine della vita più perfetta propostaci dagli dei, vorrà due che il fine ultimo dello sviluppo dello spirito e di tutto V es mente ohe qaesta ci dà un indizio di ciò che l'anima è nella sua vera natura, cioè nella sca parte eterna (il XoYtOTixoVi sciolta dall'unione con con le due parti inferiori e ritornata all'eccellenza del suo stato originario (quando contemplava le Idee in compagnia degli deiì. Ecco il luogo in quistione: Né crederemo che 1ale-;ia l'anima nella sua verissima natura da aver molta varietà e disso- miglianza e differenza con se stessa (cioè che sia uncoinpo-ito di parti eterogenee e non qualche cosa di semplice). Non è faci e che sia eterno il composto di molti né formato della più bella com- posizione, come ora ci apparve 1* anima (che ha mostrato compo- sta di tre parti, che hanno fra di loro tendenze contrarie). La detta ragione (la prova precedente dell'immortalità) e le altre provano ohe l'anima è immortale. Ma per conoscere quale essa sia nella verità, non si deve guardarla deformata dalla comunione c^l e irpo e con gli altri mali, quale ora la vediamo; ma quale è, divenata pura (cioè liberata dal corpo e dalle due parti inferi(»ri, e dagli altri mali che derivano dalla comunione con essi), tale bisogn;i guardarla diligentemente con la ragione; e allora si troverà molto più bella, e si conoscerà più chiaramente la giustizia e tutte le altre cose di cui abbiamo parlato. Ora abbiamo detto la verità intorno ad essa, ma quale appare nel presente. Come quelli che vedessero il marino Glauco diffìcilmente potrebbero riconoscere la sua antica natura, perchè le antiche parti del suo corpo sono state le une spezzate, le altre corrose e totalmente sfigurate dalle onde, e se ne sono formate delle nuove di conchiglie, d'alghe e di sassi, sicché più somiglia a una fiera anziché parer tale quale era per natura; cosi noi vediamo l'anima sfigurata da mali innumerevoli. Ma ciò a cui bisogna guardare, o Glaucone, é la saa filosofia (cioè il suo amore del sapere); bisogaa considerare quali cose essa at- tinge, di quali cose ricerca il commercio, come qnella che è affine al divino, immortale e sempre essente (cioè alle Idee— questa af- linità dell'anima, cioè della parte razionale che è la sua vera na- l'i 5i sere sta neiride ntificazfone del soggetto e dell' oggetto, che ha luogo nella conoscenza filosofica. Nella morte filosofica del Fedone, per cui V anima si distacca^ per tura, con le Idee, proverebbe, come nel Fedone^ la sua semplicità), e quale diverrebbe datasi tutta a perseguire un tale oggetto (tutta, perchè si è separata dalle due parti inferiori), ed elevata per questo slancio dal pelago in cui ora è immersa, e scossi i ciot- toli e le conchiglie, che ora ha d'attorno molte e rudi e piene di terra e di sassi, come quella che si pasce di terra nei conviti chia- mati felici (la filosofia ci fa presentire quale diverrebbe 1' anima, ridotta alla sola parte razionale che è la vera essenzza dell'anima, perchè è etema, mentre le altre parti non sono nella sua esistenza che degli accidenti transitori— e datasi tutta quanta alla contem- plazione delle Idee, come nella sua a*»tica natura^ cioè nello stato originarlo da cni è decaduta). E allora potrebbe vedersi la vera na- tura di essa, e se sia multiforme (cioè composta) o uniforme (aem. plice) ed in qual guisa essa stia e come „ Hep, CHIAPPELLI (vedasi) IJ interpretazione panteistica di P/oton«?, Platone dice : Bisogna correggere le rivoluzioni ohe si operano nella nostra testa (quelle del XoytOTtxóv) turbate sin dalla nostra nascita, studiando le armonie e i movimenti dell’universo, e rendere simile (è5o[ioià)oat) ciò che pensa a ciò che è pensato, secondo l'antica natura, e resolo simile, conseguire il fine della vita ottima proposta agli uomini dagli dei e per il presente e per l'avvenire, „ Rendere simile è ben altro che rendere identico; ed è inoltre completamente arbitrario di dare al fine di cui parla Platone il significato hegeliano di momento ultimo del processo eterno dell'anima e dell'universo. Prima Timeo ha detto, è vero, ohe chi si abbandona alle passioni sensuali non può avere che delle opinioni mortali, e diviene perciò egli stesso, pi^ che è pos- sibile, mortale, ma chi è dedito alla scienza, se consegue la verità, è necessario che abbia pensieri divini e immortali, e per- ciò che non perda nessuna parte dell' immortalità, per quanto è possibile alla natura umana di parteciparne. K forse ciò che può trovarsi in tutti gli scritti di Platone di più favorevole all' ini er^iret azione deli' immortalità che vede in essa l' eternarsi quanto è possibile, dal corpo, e pensa essa stessa per se stessa gli esseri stessi per se stessi, si vedrà il vero significato deirimmortalità platonica, cioè il rien- trare deiranima nella sua essenza intima, il suo ritorno airunità primitiva del soggetto e dell'oggetto. Ai luoghi del Convito in cui è quistione dell' immortalità conse- guita per la generazione e per la contemplazione del- r Idea del bel'o, si darà il senso che non vi ha prr del pensiero per la sua identificazione col mondo ideale. Ma questa immortalità metaforica, che consiste nell'avere pensieri immortali, non può essere per Platone, per dir cosi, che una giunta alla vera immortalità, e non può escludere questa, in- segnata in tutto il dialogo e in questo lu<'go stesso, come si vede dalle ultime parole per il presente e per Vavvenire, [Teichmiiller capovolge il vero rapporto tra la morte filosofica e la dottrina dell'immortalità. Egli vede nella seconda un' imma- gine della prima (interpretata com3 un eternarsi del pensiero e nna identificazione di esso col suo oggetto), mentre per Platone è la prima che è un' immagine della seconda. La filosofia, dice Platone, ò un esercitarsi a morire o a vivere come se si fosse morto. Che cosa è, infatti, la morte ? È il distacco dell'anima dal corpo, in modo che l'anima esista essa stessa per se stessa separatamente dal corpo, e il corpo esso stesso per se stesso separatamente dalla anima. Ora il filosofo distacca, quanto più è possibile, l'anima dal cor- po, e aspira a vivere con l'anima sola : infatti egli disdegna i piaceri del corpo, e non prende cura di esso che per quanto vi è costretto dalla necessità; di più egli non fa gran caso della conoscenza dello cose per gli organi dei sensi, ma cerca di conoscerle per la sola ragione, con- templando con l'anima stessa per se stessa le cose stesse per se stesse, cioè le Idee) L'espressione l'anima stessa per se stessa .aOxYj xaO'aO- TT^V e le altre simili che s'incontrano ad ogni tratto dov'è quistione della morte fil>sofica, siccome aOlòg xaO'aOxóv nel linguaggio pla- tonico significa le Idee, farebbero pensare al concetto del seguace dell'interpretazione hegeliana, che la morte filosofica è una sopranfma altra immortalità che la dialettica, e quella che le è comune eoa tutte le altre cose, cioè la permanenza deiridea nel nascere e il perire degrindividu. Senza pressione deU'indiyidaalìtà e un rientrare ^^eU'anima nella saa es- senza intima, cioè nella sua Idea; l'anima stessa per se stessa che pensa gli esseri stessi per se stessi vorrebbe dire, secondo questo concetto, che la conoscenza del mondo ideale non compete all'a- nima come esistenza individuale, ma come Idea. Ma è evidente ohe queste espressioni nel nostro caso non significano che il dualismo di Platone, cioè la sua dottrina animista : l' anima stessa per se stessa vuol dire l'anima sola, distaccata dal corpo, come il corpo stesso per se stesso vuol dire il corpo solo, separato dall'anima. La morte filosofica non è solo un'immagine dell'immortalità, cioè della vita avvenire, ma è ancho una preparazione a questa : essa è infatti una purificazione (xaOapai^), e solo le anime ohe si sono purificate, cioè quelle dei filosofi, saranno ricevute, dopo la loro uscita daleorpo,nel soggiorno degli dei, dove conseguiranno infine ciò che hanno tanto amato quaggiù, vale a dire la sapienza, che non è possibile, per l'ostacolo del corpo, di conseguire in questa vita. Perciò, parlando della morte o catarsi filosofica, Socrate fa l'apo- logia di se stesso, che non è dolente di morire, ma intraprende con buona speranza il viaggio cha gii è imposto, come quegli che ha l'anima preparata, perchè purificata dalla filosofia. V. Fedone 64 a- 69 e e e ir. 80 e-84 b. (1) V. C nvito 206C-212 b. Dopo aver detto che -ii mortale non ottiene l'immortalità che per la generazione (per cui la specie si perpetua), Socrate aggiunge che l'individuo stesso non si conserva che per un processo simile a quello per cui si conserva la specie. Infatti, par tutto il tempo della sua vita, ciascun animale non è mai lo stesso, ma diviene sempre nuovo e sempre perisce e nei peli dubbio, oltre che dei luoghi isolati, il seguace dell' in- terpretazione hegeliana potrà anche invocare in suo ap- e nelle carni e nelle ossa e nel sangue e in una parola in tutto il corpo. Qualche cosa di simile avviene anche nell'anima : le abitu- dini, i costumi, le opinioni, gli appetiti, i piaceri, i dolori, i ti- mori, le conoscenze medesime non persistono mai gli stessi ma nascono e periscono; solamente ciò che nasce è simile a ciò che è perito, sicché sembra Io stesso. Cosi si conserva il mortale, non perchè sia sempre assolutamente lo stesso, come il divino, ma perchè il simile si sostituisce sempre al simile. • Per questo mezzo il mor- tale partecipa all'immortalità, e il corpo e tutte le altre cose; l'immortale altrimenti Secondo il seguace dell'interpretazione hege- liana fra queste altre cose mortali come il corpo bisogna compren- dere anche l'anima, perchè questo processo di sostituzione del si- mile al simile, per cui il mortale si conserva, è applicato da Pla- tone anche all'anima. Ma Platone, che è un animista, cioè am- mette una sostanza anima, un suhstrati^m, distinta dalle sue mo- dificazioni, non può applicare questo precesso che alle modificazioni dell'anima, ma non al loro sttbstrattnn : egli non affermerebbe evi- dentemente che questo si conserva, come il corpo, per un ricambio di sostanza, per cui alle molecole vecchie se ne sostituiscono altre simili. Le parole e tutto le altre cose alludono dunque alle cono- scenze, le abitudini, i costumi, ecc., di cui sopra ha parlato, in una parola alle modificazioni dell'anima, ma non possono alludere all'a- nima stessa. Ciò è confermato dalle ultime parole immortale al' trimenti, oì^\: devono intendersi come una riserva in favore dell'a- nima (Invece di àOavaiov V&XXxi —l'immortale altrimenti—, Teichmiiller legge àSóvaxov S'dcXXiQ— impossibile altrimenti—; ma è la prima lezione che si trova in quasi tutti i codici). Poi Socrate dice (parlando della contemplazione dell' Idea del bello come fine dell'amore) che chi guarda il Bello con quell'occhio con cui esso è visibile, diviene " anch'egli, se altro uomo mai, im- mortate. Ciò significherà, pel seguace dell'interpretazione hegeliana, che l'immortalità platonica consiste nella contempla' pòggio certe proposizioni costanti di Platone, ì^nali Taf- zione del mondo ideale, cioè nella identiticazione dello spirito con esso; e per confermare questo significato, egli potrà anche fondarsi sulla proposizione precedente di Socrate che l'amore è il#desiderio dell'immortalità, concludendone che, poiché Platone assegna come fine all'amore ora l'immortalità e ora la contemplazione del- l'Idea, queste due cose per lui devono essere identiche. Ma il desiderio dell'immortalità in cui Platone fa consistere l'amore, viene appagato per Jui, non con la contemplazione dell' Idea del bellot ma, per quelli che sono fecondi nel corpo, con la generazione, e per quelli che sono fecondi nello spirito, con la perpetuazione del pensiero mediante la tradizione e l' insegnamento, Del resto, dicendo ohe chi comtempla l'Idea del bello diviene immortale, Socrate non afferma che l'immortalità consiste nella contemplazione dell'Idea, ma che ne è una conseguenza; eia ragione per cui ne è una conseguenza, basta a provare che l'immortalità di cui si tratta non ó che quella insegnata dalla re- ligione : chi guarda l'Idea del bello, dice Socrate, siccome si mette in rapporto col vero bello, e non con immagini del bello, partorirà e alimenterà la vera virtù, e non delle immagini della virtù, e perciò diverrà amico di Dio, e immortale, se altro uomo mai, anche lui. K vero però che l'immortalità accordata a chi contempla l'Idea del bello non può essere l'immortalità nel senso ordinario, perchè questa non è un favore che dio d s pensa a chi gli piace» né un premio concesso ai soli virtuosi, ma una necessità inerente alla natura stessa dell'anima (che deve essere senza comi nciamento e senza fine, perchè né potrebbe, come ogni altra cosa, crearsi o annichilarsi, e nemmeno venire da qualche forma della materia o tramutarsi in essa, essendo radicalmente distinta dalla materia) P«r quest'immortalità, che è il privilegio di pochi eletti, non possiamo intendere che l'esenzione dalla metempsicosi e la deificazione, che il Fedone promette ai soli filosofi, e il Timeo a tutti gli uomini che hanno domato le passioni e sono vissuti nella giustizia . GÌ' Indiani chiamano anch' essi immortalità (amrita) lo stato di felicità a cui giungono i santi perfetti, in cui l'anima è liberata completamente dal male ed esente da trasmigra-zioni susseguenti (V. (;olebrooke ^agyisuUu /»7os. dtujV ImU trad. frauQ, pag. 234). finità dell'anima con le Idee (1) (ch'egli interpreterà per un'identità di natura) , e l'immortalità accordata alla Fedone 78 b-80 b e Reiì, 49o b e 611 e, 3/a per Platone essa non è invece che una vaga analogia. Nel Fedone i punti di somiglianza delPanima con le Idee che provano quest'affinità sono: l*" L'anima è invisibile come le Idee, mentre il corpo é visibile. Quando l'anima considera le cose col corpo, cioè per mezzo dei sensi, il corpo la costringe a prendere per oggetto le cose che non sono mai le stesse : allora « vaga essa stessa, si conturba e barcolla come ubbriaca », perchè tali sono le cose con cui é. in rapporto. Quando invece considera le cose per se stessa (aOiT] xaG'aOxi^v), prende per oggetto cloche è sempre allo stesso modo ((baaóxot)^ ^X^^)? ^ allota cessa dal vagare, ed è relativamente a quest'oggetto (cioè alle Idee) sempre la stessa e allo stesso modo (àei xaxà xaOxà x ai woaùxwg), perchè tali sono le cose con cui è in rapporto; e questo stato deiranima si chiama intelligenza. Dunque l'a^iima somiglia più a ciò che è sempre allo stesso modo (woauxCDg cioè alle Idee), e il corpo a ciò che cangia sempre. (Siccome in questo luogo vengono applicate all'anima delle espressioni che per il solito si applicano alle Idee, aùxYj xaG'aOxT^v, xaxà xaOxa, ó)- aaÙXCD^, Il seguace dell'interpretazione hegeliana potrà dire che qui l'ani, ma è identificata alle Idee, perchè, nella conoscenza fìlosofica, il soggetto conoscente s'identifica, per Platone, con l'oggetto conosciuto. Ma è evidente che non si tratta d'altro che dell'opposizione, abituale a Platone v, c^ Vii. p. 15o-tra la mutabilità deiropiiiione che ha per oggetto le cose sensibili, quelle che l'anima considera col corpo e 1' immutabiUtà della scienza— che ha per oggetto le Idee, le cose che Tanima considera per se stessa: l'espressione desi xaxà xaùxòc xai woaùxtog applicata all'ani- ma significa questa specie d'immutabilità, che ha, secondo Platone, dell'af- finità con l'immutabilità assoluta che è propria delle Idee iu quanto ad aÙXTj xaG'aOxr^V, ne abbiamo già parlato in una nota precedente — ). 30 Nell'associazione dell'anima col corpo, quella comanda e questo ubbidisce, Ma é proprio del divino (in cui Platone comprende, come sappiamo, le Idee) di dominare, e del mortale di essere dominato. Dunque l'anima somi- gha più al divino, e il corpo al mortale— Oltre a questi tre punti di somi- glianza tra l'anima e le Idee, Platone accenna anche a un altro indizio della fiola parte razionale, (donde concludrrà che, poiché la ragione è universale o impersonale, Timmortalità appartiene, non airanima individuale, ma all'essenza comune deiranima), e sovratutto certe dottrine erronea- mente attribuitegli, quali Tidentità di Dio o della Ragione con le Idee (per dimostrare la quale si servirà natural- mente degli stessi argomenti dell'interprete teistico, per quanto non sono incompatibili con T immanenza dello Idee) (3), la composizione dell' anima da tutte le Id^e (nel Zm^o intendendo per Vissenza indivisibile e per lo stesso le Idee nella loro totalità), e la proposizione che Tanima è il luogo delle specie, riferitaci da Aristo- tile, e attribuita, anche da qualche suo commentatore, ai platonici. Infine, egli potrà avvalersi di certe espressioni del nostro filosofo, che, prese per se sole e interpretate d'una maniera rigidamente letterale, sembrerebbero supporre la dottrina eh' egli pretende attero affinità: è la tendenza innata dell'anima alla conoscenza dell'universale cioè delle Idee (v. Fedo, 79 d e Jiep, 49o b e 61j e). Questa indica che è affine con esse, secondo il principio che il simile si conosce dal similSuppl. Perchè il seguace deirinterpretazione hegeliana trova cosi semplice che, tra le facoltà dell'anima, la sola ragione Mia unirtnmile ? Unicamente perchè é la dottrina di Hegel e di alcuni altri metafìsici. È evidente che una ragione universale (cioè una e la stessa in tutti gli uomini) è un non senso cosi perfetto che un'immaginazione o una sensibilità o un'emozio- nalità, ecc. unh'ersali. Semplicemente, alcun metafìsico non ha mai parlato di queste. Cfr. il n. IT. Suppl. Filopono ad Arist. De An. lib. I fol. K, U. C6) Cfr, il n. II, e, doó trìbuirgli, quali il termine Xòyo'. (concetti) applicato alle Idee nel Fedone, la frase dello stesso dialogo, in cui si dice che noi troviamo Tesssenza (cioè acquistiamo la conoscenza delle Idee) perché è no- stra, e i termini che in senso tecnico indicano la partecipazione degli oggetti individuali alle Idee, impie- gati qualche volta per denotare il rapporto che ha con esse il soggetto conoscente. Ma è evidente che non sono queste le vere ragioni su cui si fonda la sua in- terpretazione. La vera ragione è che egli ritiene che un sistema come quello di Platone non si comprende che in cui questo luogo è riportato per in tero. Se esistono il Bello, il Buono e ogni essenza tale, e ad essa riferiamo gli oggetti percepiti dai sensi, ad essa che prima ci era presente e che ritroviamo essendo nostra (Onap/ODoav Tipóiepov àvsDpCoxov- XSg l?j|isxépav ouoav)....la nostra anima esisteva prima della nostra na- scita ». Naturalmente la frase in quistione non significa che la remini- scenza : l'essenza è detta nostra^ perchè prima ci era presente^ perchè l'anima, nel suo stato originario, ne godeva come di cosa propria, ne aveva Tintuito permanente. (3) Sof. 248 a: col corpo noi comunicare ( xoiVtóVStv ) con la ge- nesi, con Tanima per la ragione eon l'essenza reale. Rep, 486 e : l'anima cìità^ve partecipare (nexaXr/lsoOat) sufficientemente e perfettamente dell'essere. Ihi4 : le altre arti (le matematiche) che abbiamo detto parr^;- cipate (èiltXa»l3dv«a9at) in qualche modo all'essere. Tim.z^ b: U sole fu creatoafTìnchè gli animali a cui ciò convenisse partecipassero (jiSldaxoO del numero Tutto ciò che può cDncludersi da questi luoghi è che Platone non impiega sempre i termini in quislione nel senso tecnico. Quando dice nel Fedro che ciascun'anima imita il carattere del dio di cui è stata al seguito «per quanto l'uomo può partecipare ( pLSXaax^rv ) di dio », possiamo noi intendere : per quanto dio può esistere nell' uomo come un suo attributo o come un suo pensiero ? ^9 - » >J -1 per analogìa a quello di Hegel col quate effettivamente ha una stretta affioità, e perciò crede necessario di pre- stare al primo i concetti propri del secondo. Ma dopo ciò che abbiamo detto nel capitolo ci sarà f^ci'e di mostrare che il s'stema platonico, non solo si comprende senza i concetti hegeliana, ma si comprende anche me- glio, ed é con essi che sarebbe invece diffìcile a com- prendere. L'opinione che le Idee platoniche sono pensieri si deve certamente, oltre che airintiuenza delT interpreta- zione teistica, a un'inferenza dal sistema hegeliano, in cui la realtà degli universali è presentata come una conseguenza deiridentità dell'essere e del pensiero (vi hanno dei pensieri generali, dunque, il pensiero essendo identico all'essere, questi pensieri generali sono pure degli esseri generali). Da ciò si conclude che la prima delle due dottrine è logicamente connessa con la seconda, e che perciò, trovandosi in Plafone l'una, deve trovarsi in lui anche l'altra. Ma questa ccnclasìone è evidente- mente affrettata. Noi abbiamo visto nel capitolo VII eh'*, a lato dei si-^temi di Schelling e di Hegel, in cui gli a- stratti sono riguardati al tempo stesso come delle realtàe come dei pensieri, vi hanno aliri sistemi realisti, quali quelli di Spinoza e di Taine (senza contare i realisti scolastici), in cui essi sono riguardati unicamente come realià, cioè come entità puramente oggettive. La storia del realismo ci prova dunque che esso è indipendente da'la dottrina dell'identità dell'essere e del pensiero. Ciò è confermato dall'cFame dei motivi di questa forma di metafisica. La lealizzazione degli universali, unita al merodo d-alettico (nel senso che noi diamo a questo ter- mine qaando parliamo di realisvio dialettico), ha per iscopo, come sappiamo, di trasformare il rapporto logico tra princìpio e conseguenza nel rapporto ontologico tra causa ed effetto, per ottenere una nuova applicazione d^l concetto di causalità efficiente. Questo scopo esige che le astrazioni, tra cui il metodo dialettico introduce il rapporto di principii e conseguenze, si considerino come realtà, ma non che si considerino al tempo stesso come pensieri. A questa sp-egazione del mondo a cui mira il realismo dialettico, upì sistemi di Schelling e di Hegel se ne aggiunge un'altra indipendente da essa, e che può riguardarsi come una varietà della metafisica istintiva del nostro spìrito (cioè quella che è l'applicazione spontanea e immediata del concetto di causalità efficiente) : è la spiegazione idealista, cioè l'attività immanente del pensiero elevata a tipo universale del modo essenziale di produzione dei fenomeni. La spiegazione idealista suppone che le cose siano riguardate come rap- presentazioni; e, perchè questa spiegazione sia compati- bile col realismo, bisogna che si vedano nelle cose delle rappresentazioni permanenti di uno spirito eterno ed uni- versale, in modo che la loro qualità di rappresentazioni si concilii in qualche modo con la loro obbiettività. Al- lora si ha l'idealismo obbiettivo. L'idealismo obbiettivo è dunque un' applicazione, non solo del concetto di causalità efficiente (in quanto eleva l'attività del pensiero a tipo universale di causazione), ma anche di quello di cosa in sé : il presupposto da cui esso parte, cioè che le cose sono delle rappresentazioni peraianenti di uno spi- rito eterno ed universale, ha infatti per oggetto di conciliare il risultato della riflessione filosofica che le cose sono rappresentazioni (nel senso lato di questa parola che comprende anche la percezione), con la credenza naturale del genere umano che esse sono degli oggetti perma lenti e di una realtà assolata, cioè indipendente dal sogrgetto percepente. Quando il seguace dell' intee- pretazione hegeliana attribuisce a Platone la dottrina che le Idee sono pensieri, gli attribuisce anche implici- tamente questa dottrina sulla cosa in sé che è il presup- posto della spiegazione idealista (nel senso proprio della parola idealismo, m cui noi naturalmente non Tappi iche- remmo al sistema platonico delle Idee). Ma, mentre nella filosofia antfca vediamo rappresrhtati tutti i tipi di rre- tafisica relativi al semplice concetto di causa efficiente (le tre prime forme dell'antropomorfismo di cui abbiamo parlato nel cap. 2«, Tapriorismo, il realismo dialettico), noi non vi troviamo invece né questa né alcuna delle altre dottrine relative a quello di cosa in sé. È cosi vano di cercare nella filosofia greca l' idealismo obbiettivo (o la dottrina che abbiamo detto esserne il presupposto) come lo sarebbe di cercarvi il panpsichismo o la dottrina delle monadi (nel senso non leibnizinno, cioè di sostanze o forze semplici e inestesp, ma diff'erenti dallo spirito). Ciò è perchè la riflessione scientifica nnn ha distrutto ancora, nel mondo antico, il concetto sponta neo della cosa, che non é che l'otbiettivazionc delle no- stre sensazoni. In tutti i filosofi antichi, in generale, e senz'alcuna eccezir ne, noi non troviamo che il realismo vafura/e, e non mai ii realismo /ra^/brma/o : nella sop- pressione d^lle qualità sensibili nessuno é andato mai al di là degli rtrmisti, e la più parte non giungevano nemmeno sin là. L'idealismo obbiettivo, come tutte le altre dottrine metafisiche relative alla cosa in sé, non si concepisce che nella filosofia moderna, perchè suppone questo punto di vis'a che si è imposto mano mano al pensiero moderno, sino a diventare un luogo comune che le cose, quali noi le percepiamo, non esistono che per la percezione e nella percezione. Uno del fonda- menti dello scetticismo antico è, è vero, il dubbio sulla realtà obbiettiva: ma per cercare di conciliare la rela- tività del mondo esteriore al soggetto conoscente con la sua obbiettività, come fa l'idealismo obbiettivo, o sosti- tuire, come fa il rr^alisuo trasformata, alla realtà sen- sibile un'altra realtà superiore ai sensi, conoscibile 0 inconoscibile, non basta ii semplice dubbio sulla realtà assolata degli oggetti quali noi li percepiamo, ma è necessario che si ammetta già, come una ve- rità incontestabile, che essi, come tali, non esistono che per la percezione, e non sono che relativi al soggetto conoscente. Certamente la relatività dell'oggetto al soggetto percepente, come proposizione dogmatica, non è completamente straniera alla filosofia greca : noi la troviamo, prima dello stesso Platone, nella tesi di Protagora, di cui è evidentemente la base, che l'uomo è la misura di tutte le cose, e che la verità è ciò che pare a ciascuno che sia. Ma la tesi di Protagora, che d’altronde non sembra aver laFciato molti proseliti, ci mostra, per la sua esorbitanza stessa, questo carattere sofistico, nel senso moderno della parola, vale a dire questa assenza evidente di sincerità r2), che vediamo generalmente nelle proposizioni gnoseologiche dei Sofisti (quali, oltre questa di Protagora, quel'a di LEONZIO (vedasi) che non vi ha niente, o se vi ha qualche cosa, è incono- 8 -ibile, o almeno inesprimibile, quella di Eutidemo che ogni attributo conviene egualmente ad ogni soggetto, quella di Licofrone che non ammette alcuna unione Platone Teeteto Arist. MeL Platone Cratilo V. Aritt. Phys. 1. I. II. 15. r*!-^ ^SSSSsSaà Bammmmm demmmm^SÈm ^>«iiBMi»a^— i^flaafca— i^wgBiMM di un soggetto con tin predicato, perchè Tuno non può essere molti, ecc.). Noi ci spif^ghiamo, del resto, perfet- tamente perchè la filosofia antica non abbia mai oltre- passato, in sostanza, il realismo naturale: la dottrina della subbiettività di tutti i dati dei nostri sensi non ha potuto stabilirsi nella filosofia moderna, che perchè èia conseguenza inevitabile del concetto scientifico moderno della materia (semplice ipotesi di alcuni filosofi nelPan- tichità), che la spoglia delle qualità secondarie, la sub- biettività di queste trascinando necessariamente quella delle qualità primarie, che divengono, senza di esse, assolutamente irrappresentabili. Ma, accordato anche che Platone abbia potuto ammettere la dottrina che le Idee sono pensieri, e quindi pure quella, che vi è implicata, che le cose sono rap- presentazioni, resterebbe a mostrare air interpretazione hegeliana come essa possa conciliarsi, negli altri punti, con la dialettica platonica. Essa non attribuisce sempli- cemente a Platone la dottrina che le Idee sono pensieri, e l'altra che, nella conoscenza filosofica, il nostro pen- siero s'identifica con le Idee, ma quella dell'identità del soggetto e dell'oggetto, cioè che è il nostro spirito, nella sua essenza, e non solamente il nostro pensiero specu- lativo, che s'identifica con l'universo, nella sua essenza, vale a dire con la totalità del mondo ideale. Per distin- guere questa terza dottrina dalla feconda, noi suppor- remo che Platone ammetta realmente che le Idee Fono pensieri e che, nell'atto della conoscenza filosofica, questi pensieri sono presenti immediatamente al nostro spirito. V. questo volume Appendice alla parte i, il Saggio di G. , e il stwdio di G. sMÌÌdi Dottrina di Rosmini suWes- senza della materia fase. 1° la nota a pag. 15. cioè noi ne abbiamo coscienza. S'egli non ammettesse che ciò, siccome questi pensieri, quantunque, nella conoscenza filosofica, entrerebbero a far parte della nostra coscienza, esisterebbero per se stessi indipendentemente dalla nostra coscienza, come, nell' ipotesi della percezione immediata, gli aggetti e.-terioii, quantunque, nell'atto della percezione, siano percezioni nottre, esistono per se stessi indipendentemente dalla nostra percezione: cosi in questa dottrina che supponiamo ammessa da Platone, piuttosto che l'identità dell'essere e del pensiero, dovremmo vedere una forma deir intuizione razionale, nella quale come nella visione in Dio dì iMah branche, gli oggetti intuiti, invece che delle realtà puramente obbiettive*! sarebbero dei pensieri. Ma che si accordi o no chela dot- trina di Platone, in questo caso, sarebbe suscettibile di essere chiamata identità dellVs ere e del pensiero (dei noHtro pensiero), ciò che è certo è che non potrebbe af- fatto chiamarsi identità del soggetto e dell' oggetto, né potrebbe vedersi simboleggiata nell'eternità dell'anima, perchè ciò che s'identificherebbe con l'oggetto e che si eternerebbe non sarebbe iUoggetto stesso, cicè lo spirito nella sua essenza, ma un suo atto o fenomeno particolare, il pensiero filosofico. Per poter attribuire a Platone l'identità del soggetto e dell’oggetto e interpretare la ^ua dottrina dell' immortalità dell'anima come 1' eter- nanM del pensiero nella conoscenza filsofica, sarebbe dunque necessario ch'egli avesse ammesso, non solo che le Idee sene pensieri e che questi pensieri divengono, nella conoscenza filosofica, pensieri no.^tri, ma ancora che la conoscenza filosofica costituisce l'essenza del no- stro spirito, e che questa essenza del nostro spirito è identica all'csseiza d( ir universo, cioè a ciò che vi ha in questo di costante e di generale (vale a dire che nella conoscenza filosofica egli avrebbe dovuto riguardare come essenza del nostro spirito, non semplice- mente, come potrebbe supporsi, la coscienza o intuizione che abbiamo delle Idee, ma anche le Idee stesse che in- tuiamo o di cui abbiamo coscienza). E evidente che que- ste due proposizioni sarebbero considerate da tutti come delle assurdità impossibili a trovarsi in un fìlosofo qual- siasi, e che nessuno ardirebbe di attribuirle a Platone, se non si sapesse che sono state insegnate da Hegel e dal suo predecessore Schelling. Ma, per attribuirle a Platone, bisogna vedere se queste proposizioni, che nei due sistemi tedeschi hanno un significato per quanto può dirsi di una proposizione metafìsica che ha un significato, possono averne ancora uno nel sistema platonico. In Hegel la conoscenza filosofica può costi- tuire l'essenza dello spirito, perchè essa è nel suo sistema il termine ultimo della s-rie di Idee che cesti tuiscono lo spirito, e nel termine ultimo di una serie, secondo uno dei principi! della sua dialettica, anzi in generale d'ogni dialettica (nel nostro senso), si ritrovano tutti gli altri termini della serie stessa. Qassta essenza dello spirito poi piò iìeotifica-si on l'essenza di tutto V universo cioè con tutto il mondo ideale, perchè V ultimo termine della serie d'Idee che costituiscono la sfera dello spirito, è pure, secondo Hegel, l'ultimo termine della serie to- tale delle Idee, e deve quindi, per il principio dialettico poc'anzi invocato, comprendere in fé tutto il resto del mondo ideale. Si pretende che anche per Platone la co- noscenza filosofica è r ultimo momento dello sviluppo dello spirito e di quello di tutto l'universo (questo svi- luppo dobbiamo intenderlo nel senso hegeliano, cioè co- me una successione di termini, procedenti l'uno dall'al- tro, e la cui processione e successione non sono che logiche). Ma bisogna vedere se queste parole ultimo mo- mento dello sviluppo dello spirito e ultimo momento dello sviluppo deir universo co\ sottinteso che 1' ultimo mo- mento dello sviluppo dello spirito deve comprendere tutti gli altri momenti dello spirito, e l'ultimo momento dello sviluppo dell'universo tutti gli altri momenti dell'uni- verso, cioè tutte le altre Idee che costituiscono, con esso, l'Idea assoluta bisogna vedere, dico, se queste parole hanno ancora un senso, trasportate dal sistema di Hegel a quello di Platone. Nella dialettica di Platone, come in quella di Hegel, ueirultimo termine d'una serie devono ritrovarsi tutti i t(rmini precedenti della serie stessa: ma può, nella dinlettica di Piatene, esservi, co- me in quella di Hegel, per tutta una sezione del mondo ideale (p. e. lo spirito, l'organismo, ecc.) un termine finale unico, in cui si ritrovico tutte le altri parti di questa sezione ? e per tutto il mondo ideale nel suo in- sieme, un altro termine finale unico, in cui si ritrovino tutte le altre parti del mondo ideale, cicè tutte le altre Idee che costituiscono, con esso, il sistema totale delle Idee ? Questo é possibile nella dialettica hegeliana, per- chè secondo essa vi ha, nello sviluppo delle Idee, oltre a un movimento di espansione, per cui le Idee si scindono e si moHiplicano (passaggio dalla tesi all'antitesi), un movimento susseguente di concentrazione, per cui ritornano all'unità (passaggio dalla tesi e l'antitesi alla sintesi). Ma nella dialettica platonica i on è possibile, perchè in essa le Idee non si sviluppano che dividendosi; il movimento è sempre di scissione, e non \i la mai i movimento contrario, cioè il ritorno all'unità. Alla fine dello sviluppo di una sezion e del mondo ideale, o del mondo ideale nel suo insiem**, non vi ha cosi, per Pla- tone, un termine unico, ma una moltiplicità di termini ri distinti e separati: Tunità non esiste che al puitto di partenza dell'evoluzione, questa consiste in una molti- plicazione progressiva, e al ponto d'arrivo la moltipli- cità è massima. AlFultìmo momento dello sviluppo dello spirito non possiamo dunque trovare, nella dialettica platonica, che le Specie ultime dello spirito, o, se essa si applica, non allo spirito stesso, ma alle sue attività^ le Specie ultime dei fenomeni dello spirito. Che si tratti di una sezione del mondo ideale o di tutto il mondo ideale nel suo complesso, il termine unico che comprende tutti gli altri non può essere per Platone che il più astratto di tutti, e non può comprenderli che virtualmente: i termini più concreti, anche nel senso hegeliano, più ricchi di determioazion', sono i più parti- colari, e questi non possono comprendere che quelli di più in più generali a cui sono subordinati. L' Assoluto, che comprende ogni cosa e in cui tutti i contrari si uni- ficano, non potrebbe essere duuqu»*, nel sistema di Pla- tone, che ridea più astratta, la più povera di determi- nazioni e, per dir ersi, la meno attuale di tutte, cioè quella del Bene o deirEsscre. Se, per una me talora ar- dita, chiamiamo quest'Assoluto Dio (come del resto ha fatto lo stesso Platone), noi possiamo dire, applicando una locuzione di Schellii'g (I), che vi ha nel sistema platonico il Deus iwplicitus^ ma n^n il Deus ixplicitus. Sfar, della flos, alcm, ecc. che riempisce Ir teoria vengono considerate del primo caso del secondo caso in quest'ultimo caso t. II il posto determinato pag. 9, nota, lin. 4 incompatibile non quello inc«mpatibile con quello che riempisse la lesi vengonn considerati del secondo caso l. 4 del primo caso 1. 5 in questo primo caso il posto determinati p. 34 I. 20-21 (e non semplicemente che se ne dal primo (e non semplicemente tf educe) dal primo, che se ne deduce), p. 44 n. 2 R tre gravi spposizioni a tre gravi opposizioni le necessitìi la necessità, dobbiamo sforzarvi dobbiamo sforzarci p. 79 l. 5 quali forme viventi quali forze viventi n. 5 il luogo che riporteremo nella luogo che riporteremo in una nota,.... nota seguente. (noi diremo asiratti) (noi diremmo astratti) gli assiomi gli assiomi delle prime p. 89, nota, 1. 25 e preceduto p. 9J, testo, 1. terzult. —si noti l'analogia tìCiO gli appartiene in non im- esso gli appartiene in non im- porta p. degli astratti ma contemplato p. J17 1. 6 di fatti più particolari p. 129 1. 8-9 dei fatti generati n. teoria nominalista p. 149, n. 1,1.7 luttociò che mi sembra più valido non leggere queste parole senso più ristretto senso più stretto p. i:>9 1. 1 come un'immaginazione come un'immagine ma le direzioni opposte gli oggetti sensibili della prima e proceduto si noti l'analogia o gli porta dagli astratti contemplato di fatti particolari dei fatti generali 1). 358-862 teoria nominalista ma di direzioni opposte gli oggetti visibili (533 b-c) al $ 6^ n. 4° 505 d-e 77 ©-79 a Hep. 519 d I. II. VII. 7, in pini, prino. del gradino in phil prim. p. 231, 1. 8-9 nel gradino 1. 10-11 note / éTtié? elementi delle Idee I due t-lementi^ A n. 2, I. 1 Sof. non è rappresentata 277 b-e l'esistenca AnaL Post. 1. I. V. 6 le Idee •rmine di dimoitrazione Idea dal genere V. g 5° n. 6^ paramento dialettico S 5" n. 4» Sof, 219 a-236 e p. 233, n. 1,1. 1 264 e o seg. p. 244 1. 23 non è presentata p. 249, note, 1. 1 277 b-o p. 253 1. 27 l'esistenza p. 257, nota, 1. 13 Anal. Posi, 1. II. V. 6 p. 258 1. 7 le idee p. 259 1. 1-2 termine dimostrazione p. 2(51 I. 6 Idea del genere p. 278 nota V. § l^-^ n. 6u p. 283 l. 4 puramente deduttivo Met. 1. V. II. 1. 8 CatefU 1. X. 2-5 An. Pcst, l. I. IX. 9 p. 286 n. 3 517 b-o ' p. 300 1. 22-23 la 2> parie p. 315, note, 1. 1 iVW. I. V. II. 1, 8 p. 317, n. 1, l. 1 Cate(f, X. 2-5 n, 3, 1. 1 An. Post, 1, I. II. 9 p. 318 1. 3 ma anche della cosa stessa ma cause della cosa stessa p. 327, n. 2, 1.2 Kth End. 1. I. Vili. 1. 3 Elh, End. Met, Mei. danno più essere hanno più essere p. à34, nota, l. ult. Sappi. (C. Ili) Sappi. Il principio e la caasa Il principio e la causa delle entità più universali dalle entità più universali quintult. cioè che queste che abbiano Episf. e i suoi modi Eth. è che queste S24 «he abbiamo Epist. 44 e suoi modi Eth, p. e 2. pag. o l'estensione a uno più astratto dipendente naturare Dio e della natura propteraque tutte cose nota pure rationis es Schol. pr. 29 dell'essenza di Dio la conslantilieazione da cui le forniamo abbiamo per causa l'una il fenomeno, nei molti; realeà distinte o l'estensione) 1. 16 a uno stalo più astratt»^ p. 379, n. 1,1.2 dipende p. 380, n. 1, 1. penult. naturae p. 383, testo, 1. penult. Dio o della natura proptereaque tufle le cose 1. 7 nota 1 pure p. 392, n. 3,1.2 rationis est p. 394, n. J, 1. 1 Schol., Prop. testo, I. quintult. dall'essenza di Dio la sostantilicazione p. 41 i I. 9 da cui le formiamo l. 14 abbiano per causa p. 423 l. 4-r> l'una, il fenomeno, sestult. nei molti^; p. 431, nota, 1. quartult. realtà distinte p. 436, nota, 1. quintult. n. 2' con pag. 45-46 p. 438, 1. 1 dall'animale, dall'essere vivente deiranimal<% dell'essere vivente — 3:}9 <XUHato dice teinporanietà costituiscono App. alla p. I p. II n«zione astratta dì molli commenti nionimo Met. quando dice, lin. terzult. e p. 441, nota, 1. 3 temporaneità cosi ituiscano App. alla p. I, p. TI p. 448 1. 8 nozione astratta p. 453 l. 24 di molti commenti p. 460, nota, l. 3 monismo p. VII, n., 1. 1 Met^ che ciò che non esisteva prima che ciò che è nato non esisteva della nascita e non esisterà prima della nascita e non esi- plìi è nato dopo la morte sterà più dopo la morte Stob. ult. dei loro sistemi De Coelo Phys. Stob. Ed. ult. Phys. l. II. I. i), ecc. fiuereque 1. 7 ili. 2-4 ectirae Btof. I. 4J4 del loro sistema J)t' Coelo 1. III. 3 Phtis, l. I. VI Slnh, Ed, « Pln/s, ecc. fluireque lecticae n. 3 Pys. Gen et corr. l. J'hys. 1. 1. Vili, Gen, et corr, testo, 1. terzult. nei rapporti di spazio nei loro rapporti di spazio i domini religiosi i dommi religiosi l. 18 questi domini questi dommi n. 1 Stab. Ed, ' Stob. Ed, n. 2 Eth, Eud. Plut. Eth. Eud. 1. VII. I. 11, Plut. De De la, et Osir, ap. 48 Is. et Osir Tutte è uno Tutto è uno p. Top. Top. percorso testo, 1. penult. nella varietà nota, l. 8 secondo Cratilo non leggerlo p. LIT 1. 20 conducesse gli Eleati a negare p. LV 1. 6 o movimento senza causa o del morimenlo senza causa n. 2, 1. 3 <gli Ebati) (gli Eleati) per corso nelle varietà secondo Eraclito nel-cepirsi conducesse a negare Generanl, et cui reni, sappone General, el corrupL 1. quartalt. supporre p. LXV,nota, 1. jO la sankyaf la i-aiscschiUa la sònUt/a^ la coii'esiko note, 1. terzult. Timeo Arist. De Ooe- Timeo, Arist. Ita Coclo lo Nella nuf^-esiìn' il vedanta, 1.18 il yògi Nelle Ipcèiisadi 1. 7 e 8 stflra testo, 1. ult. esplicato fenomeni mecoauici omogenea 1. 18 queste proprietà In questo stato p. CI 1. 20 della concezione meccanico dettu concezione meccanica 1. quiutult. la nostra asserzione la nostra attenzione l.ló-UJ giungendo ai ceatri giungendo ai centri 1. ult. il trasporto del a il trasporto dell'onda si forte a il bisdgno srte è il bisogno Nella voisesdiiha la vedanta l'yogi Negli Vpvnichad aotttra esplicito processi meccanici omogea questa proprietà n questo stato 1. penult, • » un certo grado della cultura a un grado inferiore dello sviluppo della cultura Darwin ha dato Darwin ne ha dato rrilica del giudizio paragf. Crt7ic« rftf/ r/é^/rf/iw p. ex 4-5 non viventi allora non viventi, allora nota che rassomiglia, ai che rassomigli ai terzult. notare di l'attitudine potare l'attitudine jiota ser. 1« anno ^er. 1 • anno L IH l'analogia dalle l'analogia dello p. CXL I. 3-4 ed avventizio; la materia ed avventizio, la materia 1. J esistenza presente la sua esistenza ult. l'uno con l'altro coi cangiamenti con cui coi cangiamenti anteriori con <;ui come il S. Ambrogio come S. Ambrogio dopo esservi riscaldato dopo di esservi riscaldato 1 ha i due ordini tra i due ordini suppongano suppongono differenti dell'animismo differenti dall'animismo rsistenza poesente la sua esistenza l'uno per l'altro ci trova ult. si trova proMemi fìsiologìci problemi biologici Tale, in effetto Tal è in effetto riflettuta; p. e. dall'acqua riflettuta p. e. dall'acqna l. ult. vai(,*esika del Fedoneconvenire, come p. ceni della ragione ammettersi, come domandava: Chi hb, di essi chi che domandava: Chi, sa dirmi chi sono io ? le concezioni Cartesio 1. 4 sulla sostanza l 8 in ultima analisi ult. è immanente perchè di qualunque cosa perchè, qualunque cosa carta 5 pacr. 2. 1. 23 i flutti, la spuma, ecc.; i flutti, la spuma, ecc., e. 6, p. 2., n. 1 nelogismo neologismo vaisechika di Fedone convenire come, detta ragione «ammettersi come nandava sono io ? le concezioni, Carlerio nella sostanza in ottima analisi è immanante quando eisi designano le quando essi designano le Idee, 1. 15 II. I termini n. 2 V. num. III e. 15, p. 1., nota, l. 1 defiotazione o. 17, p. 1., note, 1. 1 Met. terzult. Ad aÙTÓ, oLÒzò xaO'aOxó, la più parte di Aless. Afrod. p. 2, nota, 1. 4 e questi sonu le Idee e. 20, p. 1, testo nel Filebo 1.8 non da capo proporzionata alla vista proporzionato alla vista e. 24, p. 1., 1.8 ha, ma non è ha, ma non è e. 25, p. 1., testo, 1. 4 p'oggetto l'oggetto nota, 1. 4 <lei primi indicati dei luoghi indicati del second, diremo del secondo diremo con causa concausa I. Vili, III. 5. :; quan Idee : 2", I termini V. nota III fi t*toìì azione Met. Ad aOxó, xaO'aOxó, la più alparte di Aless. Aprod, e questi sono Idee Rep. nel Fibbo È perciò Cor. Siccome siccome e. fi belli e in tutti gli oggetti non leggere queste parole p. 2., l. 19 g'jvsjijjisvr^v e. 30, p. 1., 1.4 ciascuno nuovamente in uno p. 2., I. 8-4 nel bue, ecc è 1. 6 risoluzione e. il grande alesso, ecc.) e. è precisamente questa e. vengono proposte o. insomma 1. quintult. coi molti, e. 40, p. 2., 1. 13 generiche e le speciiiche o. prima, ma presente 0. 45, p. 1., 1. 18 della misura Jhid necessario p. 2., 1. 3 di un'Idea 1. 19 non è una connessione neces- non una connessione necessaria saria e. 51, p. 2., nota, 1. 7 significa al tempo stesso significa dunque al tempo ste«<s<» nuovamente in uno nel bue è riduzione il grande stesao) e precisamente questa vengano proposte insom- coi molli, generiche e specifiche prima, presente della scienza V Jbid. 1(B e segg. necestrario deiridea il letture e in tale nasce ? nei lunghi citati il lettore e. 65, p. 2., testo, 1. terzult. e in un tale nasce ? e. nei luoghi citati o. 57, p. 2., 1. 1 la possessione dell'attributo ? possedere un attributo ? nota, 1. 2 (V. IV. 3» B) (V. V. 3° B) e. 58, p. 2., nota, 1.4-5 argomento procedente argomento precedente o. 59, p. 1., 1. 1 Dunque nelle altre Dunque neUe altre cose p. 2., l. 3 né uno né due né una né due o.se fossero simili e dissimili se fossero simili o dissimili àixaXXexxéov àTiaXXaxxéov o. È vero. Affinchè È vero Affinchè queste spiegazioni queste altre spiegazioni e. 81, p. 2., 1. 12 a un soggetto particolare a un oggetto particolare e. dalla prova dalle prove ohe indicano i rapporti ohe indicano il rapporto quintult, non potrebbe esistere non potrebbe esistere veramente pii prezioso nella mescolanza pi'i prezioso nella mescolanza (64c); (64o, d, 65a) ohe esso é la causa della bontà di questa mescolanza o. 99, p. 1., note, 1. ult. III. 3, 4, 7, o. KK), p. 2., testo, l. quintult. Tuttavia Platone non può un mondo di Idee, di entità a- stratte e generali e. Tim. 27 d o. 109, p. 1., l. Il a generalizzare Timeo 28 a e. 114, p. 1., 1. 7 Fedone YVwaOr^oójisvov Fedone Xtoptoxóv e. producono le loro copie producano le loro copie o. 125, p. 1., nota. 1. 18 e i suoi deterivati e i suoi derivati e. 127, p. 2., l. 14 nel concetto comune come nel concetto comune: come e. e perchè noi sogniamo e perchè cosi sogniamo e. 139, p. 2., nota, 1. sestult. dei periodi degli astri . degli altri periodi degli astri e. 142, p. 1., 1. quintult. e si pascono e si pascono poi e. xsxopwiJtiva x£xwpta|iiva o. come le prime come le prime, Platone non può un mondo d'Idee 1. XI. VI. 612 Tim. 22 d di generalizzare Tim(0 29 a Fedone a 78 e 80 b YVt006Yj0Ó|Jl£V0v) — Fedone 28 c-d Xwpoaxov parlato implica, e essenze parlato, implica e le essenze o. tra le cose i numeri tra le cose e i numeri e. 159, p. l., note, 1. quintult. primi degli esseri i primi degli esseri e. MeL MeL delle Idee; è il movimento delle Idee è il movimento I due elementi 1. Il col Dispari e. 16S, p. 1., 1. 14 non leggerlo p. 2., l. 2 propria delle cose e. 170, p. 2., 1. 4 lo Stesso non è né in queste cose l'indefinitezza e. A queste quistioni e. M i principii degli esseri I due elementi coi Dispari proprie delle co^e lo slesso 532533d. 1. 1. VII £ 3 non è né queste cose l'indeterminatezza A questa quistione i principi degli esseri aa oapi-(tale ammettere 1. IX. 16,25 per provare; è niente pag. 24 e'. Bas^il. i una Yè^'soif o immanente e. 188, p. 2., nota, 1. 13-H capitale l. 15 ammette terzult. per provare l. alt. è niente; p. 2., n. l., 1. penult. pag. 24 A ed. Basii di una y^vsoi? e. e imynoncnte e. non è semplicemente com'essi non è semplicemente, com essi dicono, e la perpetuità doll'universo e la perpetuità della forma alt uMo ' dell'universo e. sono ^"'''* 1. 13 più o meno numeroso piii e meno numeroso e, »^ì^*i^n come correlativo come relativo e. 248, p. 1., testo, l. terzult. el ^^ o. ne sistema delle Idee nel sistema delle Idee o. 253, p. l., n. 2, l. l Met. l. XIII. Vili. 8 non leggerlo terzult. formai T^n e. ci è attestato «i ^ attestata E RI t ATA delle cosa matematiche n o potcemmo Met. 9 e. 270, da cui sono limitate di queste tre divisio— a di Platone di Spinoza (4 supplem. C. V la loro vera rt^altà 1 suo posto e. delle cose matematiche e. noi potremmo o. 269, p. ]., n. 1 Met. ., testo, 1. penull. da cui sono limitate Da questo processo non potreb- bero venirne che dei poliedri, per- chè esso non è applicabile, tra i so- lidi, che ai poliedri, tra le superfi- cie, che ai piani, tra le lineo, cho alle ratte : ma siccome per i pla- tonici i corpi erano composti di poliedri regolari, esso rendeva conto sufficientemente delle grandezze reali, di queste tre divisiohi di Platone di Spinoza (4)) o. 28J, p. 1., n. 2 supplem. C. IV e. 285, p. 2., l, ult. e la loro vera realtà e. 28S, p. 1., i. 11 il suo posto 1. 18 ouotien« dlh avanzati contiene più avanzati le Ideej. L'osprossiono le Idea. (L'espressione quintult. non vi ha mai i non vi ha mai il IL REALISMO DIALETTICO Perchè si realizzano le astrazioni ? Spiegazioni correnti e precisazione della quistione. Il realismo, in quanto è una spiegazione del mondo (realismo dialettico), ha lo scopo di identificare il rapporto logico tra il principio e la conseguenza al rapporto ontologico tra la causa efficiente e l’effetto Origine del realismo degti scolastici Il sistema di Hegel Il sistema dì Taine Realismo (realizzazione dei concetti) del Taine » Il suo metodo dialettico (cioè di dedurre i concetti realizzati) L’idea fondamentale di questo sistema è Ti- dentificazione del rapporto tra il principio e la conseguenza a quello tra la causa ef- ficiente e l'effetto 11 sistema di Platone Cenni generali sulla filosofia di Platone. Apriorismo di Platone .... Suo metodo puramente deduttivo Importanza capitale attribuita al metodo; universalità della filosofia e sua si stimatici tà. Affinità del metodo dialettico col metodo matematico Caratteri prepri del metodo dialettico, per cui differisce dal matematico Tutte le altre Idee si deducono da quella del Bene * L'Idea del Bene non è solo il principio logico, ma anche il principio ontologico (la causa produttrice) delle altre Idee, e non ne è il principio ontologico che in quanto ne è il principio logico La deduzione progressiva delle Idee le une dalle altre é una derivazione reale delle Idee che si deducono da quelle da cui si deducono. L'Idea del Bene è la piùgenerale di tutte. Contenuto di quest'Idea Metodo di divisione e gerarchia delle Idee. Teoria* della definizione La dieresi è una deduzione in cui V Idea divisa funge da principio, e le Idee in cui si divide da conseguenza. Come la dieresi è una deduzione, e come si trovino in essa i caratteri distintivi del metodo dialettico di cui al § 12. Il metodo indiretto di VELIA (vedasi) E con questo metodo che deve dimostrarsi il primo principio (cioè l'Idea del Bene) Un'Idea generale non è solo il principio logico, ma anche on/o/o^/ico (la causa), delle Idee più particolari in cui si divide .L'obbiettivazione dei concetti e il metodo dialettico hanno per iscopo l'identificazione del rapporto tra il principio e la conseguenza a quello tra la causa efficiente e l'effetto Il sistema di Spinoza Idea generale della filosofia di Spinoza Il concetto del parallelismo psico-fisico e suoi sviluppi Metodo puramentededuttivo Identità dello sviluppo logico e dello sviluppo ontologico Le cose considerale sua specie aeternitatis L'essere, secondo Spinoza, è una serie di astrazioni realizzate che derivano logicamente e ontologicamente le une dalle altre, in modo che il rapporto tra il principio e la conseguenza é identico con quello tra la causa efficiente e l'effetto. Differenze e omologia fra tutti questi sistemi. Come il realismo dialettico deriva dalla tendenza naturale del nostro spirito da cui derivano tutti gli altri concetti metafisici. NIHIL ORITUR, NIHIL INTERIT Tendenza naturale a supporre che il reale nella sua essenza é immutabile I fisici greci in generale Dottrine di GIRGENTI (vedasi) e d’Anassagora Il sistema degl’atomisti Dottrine dei fisici che ammettevano una sostanza unica. Dottrina di Eraclito della identità dei contrari Dottrina della scuola di VELIA (vedasi) Spiegazioni meccaniche dei fisici in generale Dottrine dei filosofi indiani Dottrine di Bioino e di Telesio. La teoria meccanica (cioè la riduzionedi tutti i fenomeni a quelli meccanici) nella scienza moderna Applicazione della teor'a alla costituzione della materia Ancora della teoria meccanica- Applicaziono ai f< noroeni psichici. Spiegazione meccanica dei fenomeni della vita. Il principio della persistenza delle co nelle stesse proprietà nell'atomismo metafisico, nei sistemi monisti, nel realismo, nel criticismo Dottrine di Herbart e di Corleo Dottrina dell'identità della causa e del r effetto » IL CONCETTO DELL'ANIMA L'animismo (sostantitìcazione deiranima) è il prodotto d'una tendenza naturale dello spirito umano. Le prove della sostanzialità dell' anima. Materialiià dell' ani ma nella forma primitiva dell'animismo, L'animismo è anch'esso un' applicazione del principio dell'immutabilità dell'essenza dellecose Le concezioni moniste si fondano su questo principio egualmente che le dualiste. E per esso che deve spiegarsi anche l'animismo dell'uomo primitivo Il concetto dell'immortalità dell'anima e quello della sua immaterialità sono degli sviluppi naturali della teoria animista. Il substratum, supposto indisponsabile, dei fenomeni psichici non è che il fantasma del corpo La terza forma dell'animismo, cioè la dottrina che la sostanza dello spirito è un fatto psichico permanente che è il substratum di tutti gli altri DOTTRINA DI ROSMINI SULLA SOSTANZA DELL'ANIMA carte IMMANENZA DELLE IDEE PLATONICHE Prove di queat' immaneinza I termini designanti le Idee in generale I termini designanti ciascun'Idea. Il concetto e la conoscenza generale si riferiscono all'Idea. La definizione e la dieresi, che hanno per oggetto le Idee, si riferiscono alle cose considerate d'una maniera generale ed astratta L'Idea è l'universale, ciò che è lo stesso in tatti gl'individui del genere. La TzoLpoDoioi, la [léOegig e le altre espressioni dell'inerenza nelle Idee nelle cose Contenenza reciproca tra le Idee generiche e le Idee specifiche Gli elementi delle Idee sono anche gli elementi delle cose Tutto il reale si risolve nelle Idee L'essere non è fuori del divenire, ma nel divenire stesso. Dij4cusslone degli argomenti contro l' immanenza La sostanzialità delle Idee La distinzione fra le Idee e le cose interpretata come una separazione Le Idee considerate come esemplari a cui le cose non si conformano che approssimativamente Le allegorie del Fedro e del Timeo La testimonianza d'Aristotile IL PITAGORISMO PLATONICO Cenni sulle dottrine dei Pitagorici e sui pitagorismo di Platone in generale )» carte I numeri ideali carte I due elementi La forma e la materia delle Idee La forma e la materia delle cose Le entità matematiche (come intermediarie fra le Idee e le cose) Il pitagorismo nel Timeo e nel Fìlebo Motivi delPevoluzione di Platone verso il pitagorismo. Il pitagorismo nel Timeo (Carattere simbolico della cosmogonia del T/meoesuo significato). Il pitagorismo nel Filébo (il limite e Villimi- tato di questo dialogo) Il pitagorismo nei diseepoli di Platone Le tre dottrine dei platonici sui numeri carta La dottrina di Xenocrate carte La dottrina di Speusippo DOTTRINE DI PLATONE SULL'ANIMA E LA DIVINITÀ NEL LORO RAPPORTO COL SISTEMA DELLE IDEE li'animae suo rapporto con le Idee e eoi fenomeni (l'anima individuale carte Panima cosmica e.). carte L'interpretazione telsti<*a del slistema delle Idee (che le Idee sono i pensieri della divinità creatrice) Le idee e il pensiero (Interpretazione dì Hegel e del Teichmiiller dell'immortalità delPanima e altre dottrine connesse Platone non ammette l'identità dell’essere e del pensiero, e la sua Idea è un' entità puramente obbiettiva.
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